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Full text of "Atene e Roma"

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LclCI 

A^o  XIX. 


Gennaio-Febbraio  1916. 


N.  205-206. 


ATENE  E  ROMA  .^asm 

'  '    Sbullettino  della  società  italiana  ^  •  'b  ■■  ^  ^ 

PER  la  diffusione  E  L'INCORAGGIAMENTO  DEGLI  STUDI  CLASSICI 


Sede  centrale:  FIRENZF,  Piazza  S    Marco,  2 


Direzione  dei  Builettino 

Firenie  —  2,  Ftazia  S.  Marco 


llibonamento  annuale.    .  L.  8  - 
Un  fascicolo  «e  parato  .     .  •  1  - 


1T7^^~^^ 


Amministrazione 

Viale  Principe  Eugenio  29,  Fireiit.) 


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ORAZIO  E  LA  FILOSOFIA  POPOLARE 

(CON    UNA    VERSIONE    DELLA    SATIRA    7^    DEL  LlBRO    II) 


roclii  antichi  scrittori  hanno  per  la  storia  del  pensiero  umano 
l' importanza  di  Orazio  :  non  già  come  fondatore  o  assertore  di  una 
determinata  dottrina,  ma  come  testimone  del  movimento  spirituale  e 
intellettuale  che  agitava  il  mondo  greco-romano  in  quell'ora  in  cui 
si  apprestava  a  rinnovarlo  il  Cristianesimo.  Siccome  alla  religione  — 
o  per  dir  meglio,  alla  liturgia  —  ufficiale  non  corrispondeva  una  me- 
tafisica né  una  morale  determinata,  più  o  meno  sentito,  più  o  meno 
costante  nei  singoli,  ma  diffuso  nell'universale,  era  il  bisogno  di  cer- 
care altrove  un  contenuto  che  potesse  o  sostituire  o  ravvivare  quel 
mondo  di  cose  eterne  e  morte.  E  questo  contenuto  era  chiesto  o  alle 
religioni  orientali  piene  di  fascino  e  di  mistero  o  all'astrologia  cal- 
daica o  alla  filosofìa  greca,  spesso  a  una  miscela  di  due  di  loro  o  di 
tre  o  auche  di  più  di  tre,  facendosi  un  guazzabuglio  di  più  religioni 
e  superstizioni  e  filosofie.  Le  dottrine  più  opposte  incrociandosi,  coz- 
zando fra  loro,  smussavano  i  proprii  angoli,  rinunziavano  a  questa  o 
a  quella  parte  delle  proprie  ideologie,  si  sbiadivano  nel  contrasto. 


# 
*  * 


In  quésto  fluttuar  di  opinioni,  fra  questo  tentennar  di  coscienze 
dovè  prendere  la  sua  posizione,  cercare  la  sua  norma  di  vita  anche 
Orazio.  Si  è  parlato  di  una  sua  inclinazione  verso  il  cinismo,  vi  è 
stato  chi  ha  rintracciato  nel  poeta  i  segni  dell'educazione  accade- 
mica ricevuta  in  Atene,  si  è  favoleggiato  di  una  sua  conversione 
dall'epicureismo  allo  stoicismo.  Queste  varie  interpretazioni  del  suo 
pensiero  dipendono  dal  peso  maggiore  o  minore  che  si  è  dato  a  questi 

Atene  e  Roma.  i 


Vineenso   Uggard  p^  Cj 

OJ^rvO    ("9 


<)  a  quelli  elementi  costitutivi  del  suo  eclettismo.  Ma  il  fondo  di 
questo  eclettismo  va  fuor  di  dubbio  cercato  nell'epicureismo,  un  epi- 
cureismo il  quale  nell'età  giovanile  del  poeta  riconobbe  più  larga 
parte  all'i^5ov^  i[  èv  xiv^^aet  comune  anche  ai  Cirenaici  e  nell'età  più 
matura  fece  più  larga  parte  alla  i?j5ov^  fj  xaTaat7)|iaTtxi^j  propria  degli 
Epicurei. 

A  determinare  questa  prevalenza  poterono  contribuire  molte  cir- 
costanze esteriori  :  l'educazione  prima  che  Orazio  ebbe  dal  padre,  un 
figlio  di  liberti  tiratosi  su  dalla  sua  povera  condizione,  parco  ed  eco- 
nomo, che  gli  inculcò  abitudini  e  precetti  di  prudenza  e  di  rinunzia; 
l'amara  lezione  di  cose  che  si  buscò,  quando  studente  in  Atene  aveva 
dimenticato  quelle  abitudini  e  quei  precetti  per  seguire  le  armi  di 
Bruto  e  tornò  in  patria  decisift  humilis  pennis,  confiscatogli  come  a 
ribelle  quel  poco  che  il  i)adre  gli  aveva  lasciato,  sicché  dovè  pensare 
a  procacciarsi  un  pane.  E  quel  pane  egli  trovò  nel  far  versi  e  i  versi 
richiamarono  su  lui  l'attenzione  di  un  poeta  giovine  e  già  famoso, 
Vergilio.  Ora  Vergilio,  il  Vergilio  dell' Ecloga  sesta,  che  si  volgeva 
allora  nell'orbita  del  pensiero  epicureo  e  riveriva  come  suo  maestro  e 
suo  autore  l'epicureo  Lucrezio,  presentò  Orazio  all'epicureo  Mecenate 
e  lo  introdusse  in  quei  circoli  di  giovani  epicurei  che  sul  golfo  di 
i^apoli  facevano  capo  a  Filodemo  e  alla  famiglia  dei  Pisoni  suoi  pro- 
tettori. Anche  oggi  il  Corpus  poetico  oraziano,  dove  splende  come 
una  stella  il  nome  del  divino  Vergilio  e  sorprendiamo  più  d'un  mur- 
murc della  poesia  lucreziana,  più  d'uno  spunto  del  pensiero  fìlode- 
miano,  si  apre  col  nome  di  Mecenate,  si  chiude  con  l'Arte  poetica 
ad  Pisones. 

Era  dunque  un'atmosfera  satura  di  epicureismo  quella  che  il 
giovine  poeta  respirò  a  pieni  polmoni.  Ma  anche  se  queste  circostanze 
esteriori  non  si  fossero  date,  non  è  meno  certo  che  nella  scelta  tra 
le  due  grandi  correnti  spirituali  che  prevalevano  nllora,  quella  del 
]>ortico  che  aveva  in  sé  assorbito  il  cinismo  e  quella  dell'orto,  il  poeta 
sarebbe  stato  assistito  da  due  fattori  interiori  i  quali  l'avrebbero  ine- 
sorabilmente spinto  verso  la  seconda:  voglio  dire  il  temperamento  che 
egli  ebbe  finemente  aristocratico  in  opposizione  con  le  origini  plebee 
anzi  servili,  e  il  senso  della  misura,  mentre  gli  Stoici,  secondo  la  pa- 
rola di  Lattanzio,  affermavano  et  servis  et  mullerihun  philosophandum 
esse  e  si  compiacevano  dell'utopia  e  del  paradosso,  offendendo  il  senso 
comune  o,  per  dir  meglio,  quello  della  società  ben  pensante  di 
allora. 

L'offesa  è  chiara,  chi  ripensi  pure  a  quei  Paradoxa  ad  M.  Brutnm 


Orazio  e  la  filosofia  popolare 


con  i  quali  Cicerone  divulgò  ai  contemporanei  e  ai  posteri  i  capisaldi 
della  morale  stoica.  Ce  ne  sarebbe  abbastanza  ancor  oggi  ponr  épater 
ìe  bourgeois  I  Ricordiamo  qualcuna  di  quelle  verità  fondamentali  : 
'La  sola  bellezza  è  la  bontà'  con  che  si  negava  l'arte,  recando  offesa 
alla  concezione,  diremmo  noi,  ellenica  della  vita;  'La  virtìi  è  sni38- 
ciente  alla  felicità'  con  che  si  nega  la  esistenza  del  dolore  fisico  e 
morale  ;  '  Non  e'  è  diff"erenza  di  grado  tra  le  colpe  e  non  ce  n'  è  tra 
le  virtù'  con  che  si  nega  l'indulgenza  e  la  carità;  'Solo  il  filosofo 
ha  la  vera  libertà  e  chi  non  è  filosofo  è  schiavo'  con  che  si  afferma 
la  libertà  spirituale  ma  si  nega  quella  politica;  'Solo  il  filosofo  è  ricco' 
e  così  via.  A  Orazio  questa  roba  dava  ai  nervi.  '  Solo  il  filosofo  '  egli 
scrive  in  una  parte  '  ha  la  vera  salute  Sì,  meno  quando  ha  il  raffred- 
dore' ').  'Il  tìh>8ofo  ha  la  vera  ricchezza,  la  vera  bellezza,  la  vera 
potenza....  Sì,  ma  intanto  i  monelli  gli  tirano  la  barba  per  strada  e 
frequenta  i  bagni  popolari  dove  per  prenderci  il  bagno  si  paga  appena 
un  quadrante' ^).  E  anche:  'Avete  un  bel  dire  che  tutte  le  colpe 
sono  eguali  ;  ma  quale  filosofo  sarebbe  capace  di  mettere  in  croce  il 
suo  schiavo  —  uno  schiavo  rappresentava  un  certo  valore  —  se  gli 
ha  dato  l'ordine  di  jwrtare  via  il  piatto  e  quello  nel  portarlo  via  si 
trangugia  le  spine  di  pesce  rimaste  nel  piatto  e  la  salsa?  A  queste 
dottrine,  quando  si  viene  sul  terreno  delle  realtà,  repugnano  il  buon 
senso  e  il  costume'  ^). 

Repugnavano  cioè,  ripetiamolo,  per  il  poeta  e  per  i  circoli  a  cui 
egli  apparteneva  :  grandi  signori  di  ieri  e  arrivati,  come  era  Orazio, 
di  oggi,  gente  uscita  allora  dall'affannoso  turbine  della  guerra  civile, 
Risoluta  a  non  farsi  trascinare  in  un  turbine  nuovo,  venuta  in  pos- 
sesso di  una  più  o  meno  discreta  agiatezza  e  chiusa  tutta  nel  suo 
godimento;  tipo  loro  il  bel  cavaliere  Tibullo,  cui  del  resto  tutti  i  beni 
della  natura  e  della  fortuna  non  riu.scivano  a  liberare  dalle  melan- 
conie dello  spleen.  Essi  erano  naturalmente  più  inclini  all'idea  di 
Epicuro,  che  non  a  tutti  i  popoli  sia  accessibile  la  saggezza  *)  [se- 
condo Clemente  Alessandrino,  la  saggezza  era  per  Epicuro  monopolio 
dei  Greci  ')].  Dal  concetto  della  virtù,  in  contrapposizione  con  l'utopia 


')  Bpiat.  1,  108.  La  tirata  ironica  dovè  aver  fortuna,  se  la  troviamo  raccolta 
da  Epitteto  I  6,  .30:  NaC  •  iXk'  al  |iugat  (lou  (Séouot.  O  era  un  hon  mot  di  vecchia  data 
contro  gli  Stoici  f 

*)  Sat.  3,   125  e  sgg. 

3)  Sat.  3,  80  e  sgg. 

*)  Laerzio  Diogene  X  117. 

')  Cfr.  Slrom.  I  15. 


Vincemo  Ussani 


stoica,  non  volevano  disgiungere  un  certo  senso  di  moderazione,  sen- 
tenziando con  Orazio:  insani  sapiem  nomen  ferat,  aequm  iniqui,  ultra 
quam  nati»  est,  virtutem  si  petat  ipsam  ')•  Desideravano  insomma,  come 
Tacito  ci  racconta  esser  riuscito  ad  Agricola,  retinere  ex  sapientia 
modum  *).  Ma  coloro  che  sofifrivano  nella  pax  Romana,  sudditi  e  schiavi, 
per  tutte  le  terre  rifiorenti  dell'impero,  non  si  sentivano  proclivi  ai 
sereni  raccoglimenti  della  dottrina  epicurea  e  più  volentieri  ascolta- 
vano quella  predicazione  paradossale  a  cui  abbiamo  accennato  di  sopra. 
Quella  predicazione  negava  l'arte;  ma  essi  non  avevano  e,  se  aves- 
sero avuto,  non  avrebbero  capito  che  cosa  valessero  statue,  quadri, 
ori  e  argenti  cesellati,  bronzi  di  Corinto,  andando  piuttosto  in  estasi 
dinanzi  ai  duelli  gladiatori!  che  all'entrata  dei  circhi  apparivano  di- 
segnati in  rosso  sul  muro.  Potevano  leggermente  convenire  che  la 
sola  bellezza  era  la  bontà.  Essi  non  conoscevano  le  gioie  della  vita 
tìsica,  le  ambizioni  soddisfatte,  le  conquiste  dell'intelletto  che  coro- 
nano la  radiosa  fronte  dei  pensatori.  Cedevano  volentieri  alla  per- 
suasione che  la  felicità  stesse  in  quel  bene  che  pareva  accessibile 
con  la  sola  volontà:  cioè  la  virtù.  Non  avevano  la  libertà  politica: 
molte  volte,  schiavi  o  tìgli  di  schiavi,  non  avevano  neanche  la  libertà 
personale.  Quando  l'acquistavano,  il  problema  della  vita  si  presentava 
ancora  più  minaccioso  per  loro  nella  forma  della  disoccupazione.  E 
abbracciavano  volentieri  la  dottrina  banditrice  di  eguaglianza  che  la 
vera  libertà  è  la  libertà  dello  spirito  e  il  vero  imperatore  è  non  già 
colui  che  comanda  agli  eserciti,  ma  colui  che  comanda  alle  proprie 
passioni:  passioni,  si  capisce,  che  essi  erano  incapaci  di  soddisfare 
e  al  cui  mancato  soddisfacimento  cercavano  un  compenso,  come  av- 
viene, nel  disprezzo.  D'altra  parte  Orazio  ha  un  bel  chiamar  forsen- 
nato colui  che  crocifigge  il  servo  il  quale  nel  portar  via  da  tavola 
il  piatto  trangugia  in  fretta  la  spina  del  pesce.  Certo  ad  ammazzare 
si  giungeva  di  rado,  ma  in  una  società,  come  direbbe  il  Nietzsche, 
essenzialmente  fondata  su  la  morale  dei  padroni,  le  busse  erano  all'or 
dine  del  giorno.  La  signora  a  cui  il  cane  del  vicino  rompeva  il  sonno 
faceva  bastonare  cane  e  padrone  ')  e  lasciava  andare,  per  un  ricciolo 
fuori  di  posto,  una  scudisciata  alla  schiava  che  con  i  capelli  scarmi- 
gliati e  la  tunica  rimboccata  alla  vita  le  accomodava  sul  capo  l'ac- 
conciatura turrita  *). 


1)  Epiit.   6,   15-16. 

*)  Agrio.   i. 

3)  Giovenale  VI  415. 

*)  Giovenale  VI  490  e  sgg. 


Orazio  e  la  filosofia  popolare 


A  questa  folla  misera  e  dolente  i  balsami  della  consolazione  ve- 
nivano dispensati  da  fanatici  che  discendevano  da  superiori  classi 
sociali  o  che  uscivano  da  lei  stessa  e  da  mestieranti  ciarlatani  che 
della  propaganda  della  dottrina  facevano  speculazione,  vivendoci  so- 
pra. Naturalmente  la  predicazione  stoica  non  mirava  soltanto  a  loro, 
ma  dava  la  scalata  anche  alle  classi  superiori  della  società  e  perfino 
al  trono.  Il  migliorato  governo  di  Augusto  fu  attribuito  da  Giuliano 
l'Apostatii  appunto  a  Zenone  che  gli  sussurrò  all'orecchio  jitxpà  Ttov 
5o-^\).xx{!}w  ')  e  a  mano  a  mano  che  la  nuova  dittatura  si  veniva  ricon- 
ciliando con  le  antiche  classi  politiche  tornava  di  moda  Crisippo  zòy 
TToXtxtxòv  èTracvwv  ^t'ov  ^)  ;  onde  non  fu  raro  incontrare  presso  il  patri- 
ziato il  filosofo  habitué  della  casa  e  consigliere,  come  saranno  poi  i 
confessori,  incaricato  della  educazione  dei  giovini,  confortatore  nei 
pericoli,  assistente  al  capezzale  nelle  ore  supreme.  E  non  mancarono 
tra  questi  professori  di  tìlosoUa  spiriti  nobili  e  colti,  preparati  e  scal- 
triti a  tutte  le  sottigliezze  della  dialettica  e  della  rettorica.  Ma  per 
gli  umili  i  predicatori  del  credo  stoico  sono,  come  dicevamo,  dei 
mendicanti  per  l'anima  dei  quali  la  dottrina  passava  non  come  attra- 
verso un  filtro  ma  come  attraverso  una  fogna.  Incolti  i  capelli  e 
arrulfata  la  barba  che  cade  loro  sul  petto,  girano  di  paese  in  paese 
con  una  bisaccia,  un  lacero  mantello,  un  bastone.  Facendo  concor- 
renza agli  spacciatori  di  cerotti,  si  fermano  al  mercato,  dinanzi  alle 
basiliche,  nei  crocicchi  popolosi,  attaccano  discorso  col  primo  che 
passa,  alzano  la  voce,  qualche  altro  si  avvicina,  la  conversazione 
diventa  sermone  e  omelia.  C'è  chi  ride,  c'è  chi  schiamazza,  ma  c'è 
anche  chi  getta  il  tozzo  del  pane  o  una  manciata  di  lupini  [latratoti 
cibos,  dice  Marziale  ')]  nella  bisaccia,  chi  fa  al  profeta  errante  l'ele- 
mosina di  un  tetto,  del  quale  del  resto,  come  Diogene,  si  può  far  a 
meno.  E  il  giorno  dopo  novamente  in  cammino  verso  nuovi  cieli,  nuovi 
pubblici  —  e  perchè  nof  —  trufte  nuove  nobilitando  il  proprio  me- 
stiere con  gli  esempi  di  Ulisse  e  di  Ercole  e  la  propria  nudità  mal 
coperta  con  l'autorità  di  Diogene,  Swxpàxir)i;  dicevano  i  ben  pensanti, 
6  |iatvó(i.£vos  che  seppe  disprezzare  la  munificenza  del  Magno  Ales- 
sandro e,  a  Roma,  con  la  citazione  di  Catone  Uticense  che  andava  at- 
torno a  piedi  scalzi  e  in  corta  toga  *). 


')  Convivium  309  C. 

')  Plutarco,  Stoie.  repugn.  2. 

3)  IV  53. 

*)  Orazio,  Epist.  19,  14. 


Vincenzo  Ugsani 


Le  origini  di  questo  movimento  popolare  nella  filosofia  erano 
antiche.  Noi  le  possiamo  seguire  fin  tra  gli  orrori  e  gli  errori  della 
prima  età  ellenistica,  quando  i  predicatori  cinici  trovarono  un  ter- 
reno fruttuoso  alla  loro  propaganda  in  una  società  che  dalle  rovine 
del  passato  si  lanciava  verso  una  nuova  vita,  tutta  in  preda  alle 
inquietudini  proprie  delle  età  di  transizione  e  agli  incerti  presagi  del- 
l'avvenire ').  Già  nella  prima  metà  del  terzo  secolo  contro  la  loro 
immoralità  si  levava  l'epigramma  di  Leonida  di  Taranto  e  la  morda- 
cità di  Menippo  *).  Ma  a  mano  a  mano  che  le  plebi  si  affacciavano 
al  limitare  della  storia,  a  mano  a  mano  che,  rotti  prima  da  Ales- 
sandro e  poi  da  Roma  i  cancelli  che  dividevano  l'Oriente  dall'Occi- 
dente, una  turba  multilingue  si  precipitò  nel  mondo  mediterraneo  e 
non  si  volle  rassegnare  all'  idea  che  ci  fosse  una  differenza  tra  do- 
minatori e  dominati,  la  furia  travolgente  di  quella  propaganda  venne 
crescendo.  Lo  stato,  o  meglio  le  classi  sociali  che  vivevano  alla  su- 
perficie della  società,  per  quella  specie  di  cecità  fatale  che  reude 
possibili  o  meglio  impone  le  grandi  crisi  della  storia,  non  valutarono 
mai  nel  suo  giusto  peso  il  pericolo  che  moveva  da  quella  predica- 
zione, specie  di  tremuoto  covante  nel  sottosuolo.  Combatterono  di 
buon'ora,  a  cominciare  dal  senato-consulto  De  Bacchanalibus.  i  mi- 
steri, l'astrologia,  quelle  forme  di  superstizione  e  di  culto  straniero 
che  parevan  attentare  alla  religione  dello  stato  ;  bandirono  da  Roma 
e  dall'Italia  i  filosofi,  per  così  dire,  di  cartello  e  ne  chiusero  al  tempo 
dell'Impero  le  scuole,  ogni  qual  volta  a  furia  di  sentir  parlare  di 
èXeu&epi'a  dello  spirito  i  discendenti  delle  antiche  famiglie  senatorie 
si  atteggiarono  a  vindici  delle  agonizzanti  libertà  politiche  e  a  spre- 
giatori dei  tiranni  che  se  ti  possono  togliere  la  vita,  non  ti  possono 
togliere  la  virtù.  Abbandonarono  la  filosofia  popolare  e  mendicante 
a  se  stessa  ;  incapaci  di  colpirla  nelle  molteplici  forme  della  sua  pre- 
dicazione, che  tra  i  suoi  luoghi  comuni  ebbe  fin  anche  la  guerra  ai 
filosofi  più  in  vista  vituperati  come  impostori;  o  meglio  non  la  ab- 
bandonarono a  se  stessa,  ma  alle  comuni  misure  dei  funzionarli  di  po- 
lizia e  di  giustizia,  i  quali  non  scherzavano  davvero  al  momento  op- 


')  Cfr.  Wkndland,   Die  hellenistisch-romische  KnHur  in   ihren   heziehuiigeii    zu 
ludeìitum  und  Christentiim,  2<^  Aiitl.  p.  81. 

*)  Cfr.  Geffckbn,  Kynika  und   rerwandies  p.  5. 


Orazio  e  la   filosofia  popolare 


portano,  proporzionaudo  la  repressione  all'offesa.  Così  quando  due 
Cinici  iu  pieno  teatro  predicarono  con  l'ardire  di  S.  Giovanni  contro 
l'unione  di  Tito  con  la  bellissima  ebrea  Berenice,  il  primo  fu  flagel- 
lato, il  secondo  decapitato  ').  Ma  in  genere  le  cose,  come  abbiam  detto, 
passavano  lisce,  e  la  filosofia  popolare  seguitava  a  fermentare  nel  suo 
seno  il  lievito  rivoluzionario  che  doveva  rifare  la  società. 

Alludo  al  Cristianesimo,  giacché  coloro  che  dai  pescatori  di  Ga 
lilea  ricevettero  a  propagarla  la  dottri)ia  di  Gesù,  non  differirono  in 
nulla  in  quanto  all'abito,  alla  maniera  e  alla  forma  della  predicazione 
da  questi  moralisti  popolari  errabondi.  Erano  anche  essi,  diciamo 
piuttosto,  molti  di  essi,  dei  fanniilloni  girovaghi,  contro  i  quali  le 
chiese  stavano  all'erta  già  quasi  nell'età  apostolica.  La  così  detta 
Dottrina  degli  Apostoli,  una  specie  di  regola  per  le  comunità  cri- 
stiane compilata  nella  seconda  metà  del  primo  secolo,  dà  nei  cap.  12-13 
i  precetti  che  devono  essere  seguiti  nei  riguardi  loro  :  '  Chiunque 
venga  a  voi  nel  nome  del  Signore,  ricevetelo,  ma  poi  esaminatelo  e 
cercate  di  conoscere  col  vostro  buon  senso  se  batte  via  buona  o  cat- 
tiva. Se  egli  è  di  passaggio,  aiutatelo  quanto  potete;  ma  non  si  deve 
trattenere  presso  di  voi  piìi  di  due  o  per  necessità  tre  giorni.  Se 
vuole  stabilirsi  presso  di  voi  e  ha  un  mestiere,  lavori  e  riceva  la  sua 
parte  di  vitto.  Ma  se  non  ha  mestiere,  guardatevi  che  non  viva  in 
mezzo  a  voi  un  cristiano  ozioso.  Ma  se  non  vuol  fare  in  questo  modo, 
fa  mercato  del  nome  di  Cristo:  guardatevi  da  tale  genìa '.  Non  dun- 
que neanche  nella  predicazione  evangelica  tutto  quello  che  luceva 
era  oro,  presso  a  poco  come  nella  propaganda  popolare.  E  propaganda 
popolare  e  propaganda  evangelica  si  scontravano  nelle  piazze  e  nelle 
vie,  si  contendevano  le  anime.  Un  personaggio  di  Luciano,  Peregrino 
Proteo,  predicatore  cinico,  si  affilia  a  una  comunità  di  cristiani,  poi 
ha  una  baruff"a  con  loro,  ne  esce  e  si  rifa  cinico.  Un  altro  Cinico, 
Crescente,  vedeva,  secondo  la  testimonianza  di  S.  Giustino,  nei  pre- 
dicatori cristiani  degli  incomodi  concorrenti.  Per  venire  ad  un  esempio 
di  gran  lunga  più  noto  e  più  vicino  all'età  di  Orazio,  gli  Atti  degli 
Apostoli  ci  presentano  S.  Paolo  che  venuto  in  Atene,  dopo  essersi 
intrattenuto  con  i  Giudei  e  con  i  proseliti  nella  sinagoga,  esce  nel 
mercato  e  tien  discorso  con  chi  gli  si  presenti.  Filosofi  stoici  ed  epi- 
curei (filosofi  evidentemente  di  piazza),  seguita  la  narrazione,  venivano 
in  discussione  con  lui,  e  e'  era  chi  diceva  :  '  Che  vorrebbe  mai  dire 
questo  ciarlatano?'  e  gli  altri:  'Pare  che  sia  banditore  di  nuove  di- 


^)  Cassio  Dione  LXVI,   15. 


Vincenzo   Ussani 


vinità';  perchè  egli  annunziava  Gesù  e  la  resurrezione.  E  così  pre- 
solo lo  portarono  all'Areopago  dicendo  :  '  Possiamo  sapere  qual  è  la 
nuova  dottrina  di  cui  vai  cianciando  !  perchè  tu  fai  sonare  alle  no- 
stre orecchie  qualcosa  di  insueto:  noi  vogliamo  dunque  sapere  che 
è  questo  '. 

E  l'apostolo  nell'Areopago  ove  il  voto  di  Atena  aveva  già  as- 
solto con  civile  pietà  il  matricida  Oreste  perseguitato  dalle  Furie, 
t«nne  il  suo  celebre  discorso  cominciando:  'O  Ateniesi,  io  vedo  che 
voi  siete  in  tutto  assai  timorosi  della  divinità.  Perchè,  passando  ed 
osservando  i  vostri  sacrarli,  trovai  anche  un  altare  sul  quale  era 
scritto:  Al  dio  ignoto.  Io  vengo  dunque  a  rivelarvi  colui  che  voi 
onorate  senza  conoscere  '.  Paolo  fu  in  Atene  tra  il  49  e  il  50  d.  C. 
Orbene  presso  a  poco  nello  stesso  tempo  cade  l'àx|iTj  e  sotto  Nerva 
la  morte  del  grande  taumaturgo  stoico,  errabondo  come  Paolo,  Apol- 
lonio di  Tiana  in  Cappadocia,  che  percorse  il  mondo  per  restituire  il 
senso  religioso  agli  uomini  immemori  della  divinità.  Strana  coinci- 
denza. Egli  giunse  in  Atene  circa  la  metà  del  primo  secolo,  ne  visitò 
i  santuarii,  notò  anche  egli  l'altare  innalzato,  secondo  il  suo  biografo, 
agli  dei  ignoti  e  lo  ritenne  come  segno  della  tradizionale  pietà  degli 
Ateniesi  :  onde  in  un  suo  discorso  ne  derivò  loro  l'obbligo  di  ripa- 
rare i  sopravvenuti  oltraggi  contro  la  religiosità.  E  in  quel  discorso 
dettò  sì  delle  prescrizioni  sul  culto  delle  singole  divinità  ;  ma  disse 
che  il  dio  unico  e  altissimo  che  domina  su  tutte  queste  divinità  è 
un  essere  di  pura  essenza  spirituale  e  non  dovrebbe  essere  dunque 
onorato  con  forme  cultuali  ;  ma  solo  in  ispirito  *). 

Evidentemente,  se  non  fosse  stato  il  nome  di  Gesù  e  la  resur- 
rezione dei  morti,  dalla  bocca  di  Paolo  nulla  avrebbero  sentito  gli 
Ateniesi  che  potesse  maravigliar  troppo  gli  uditori  passati  o  futuri 
di  Apollonio  ^). 

* 
*  * 

Son  venuto  allontanandomi  dai  tempi  di  Orazio  e  illustrando  i 
rapporti  tra  la  predicazione  popolare  fllosoflca  e  il  Cristianesimo,  per 
dimostrare  la  portata  di  questo  movimento,  contro  il  quale,  come 
abbiam  detto,  i^on  mancava  l'autorità  politica  di  servirsi  al  momento 


*)  Cfr.  NORDBN,  Agnostos  Theos,  p.  47  e  sgg. 

')  Il  NORDKN,  op.  cit. ,  p.  46,  è  giunto  fino  all'ipotesi  che  il  redattore  degli 
Atti  abbia  conosciuto  lo  scritto  di  Apollonio  o  un'opera  nella  qnale  questo  veniva 
riferito  con  maggiore  esattezza  che  non  nel  biografo  di  Apollonio,  Filostrato. 


Orasio  e  la  Jilosojia  popolare 


opportuno  dello  ius  coercitionis.  Al  teinpo  di  Orazio  non  si  era  ancora 
a  questo  e  la  propaganda  dei  crocicchi  e  delle  strade  si  poteva  combat- 
tere come  la  combatte  Orazio  con  la  satira  e  l'umorismo  investendo, 
secondo  una  tecnica  tradizionale  che  dai  tempi  della  commedia  greca 
si  propaga  fino  a  quelli  di  Gregorio  di  Nazianzo,  non  solo  le  dottrine 
ma  anche  l'abito,  lo  oyri\i.<ic,  di  questi  filosofi  '). 

Il  nostro  poeta  colpisce  in  pieno  i  propagandisti  mostrandone  in 
azione  la  petulanza  e  la  improntitudine  specialmente  in  due  satire  del 
libro  secondo,  in  una  delle  quali,  la  terza,  un  mercante  fallito,  in  un'al- 
tra, la  settima,  uno  schiavo  del  Venosino  stesso,  di  nome  Davo,  che 
era  stato  ammaestrato  dal  portinaio  di  un  filosofo,  pretendono  di  fare 
non  a  se  stessi  ma  a  lui  l'esame  di  coscienza.  E  di  questo  secondo  com- 
ponimento, che  è  il  i)iù  breve  dei  due,  io  presento  qui  un  saggio  di 
traduzione  perchè  illumini  quel  che  precede  e  ne  sia  a  vicenda  illu- 
minato. È  la  festa  dei  Saturnali  durante  la  quale  era  concessa  agli 
schiavi  libertà  di  parola.  Mentre  il  poeta,  che  si  crede  solo,  è  intento 
a  leggere,  come  gli  antichi  facevano,  ad  alta  voce,  lo  schiavo,  con- 
vertito allo  stoicismo  dal  portinaio  del  filosofastro  Crispino,  sta  aspet- 
tando una  pausa  nella  lettura  per  intervenire  d'un  tratto  a  convertire 
a  sua  volta  il  padrone.  —  Questi  l'ascolta  con  impazienza  crescente, 
finché  all'ultimo  chiede  una  pietra  o  uno  strale  per  accopparlo  e,  non 
avendo  a  portata  nessun' arma,  lo  caccia  via  minacciandolo  di  trasfe- 
rirlo dal  servizio  di  città  a  quello  della  campagna,  alla  tenuta  cioè 
di  Sabina  dove  egli  teneva  già  otto  servi. 

D.  (Davo)  —  ().  (Orazio). 

D.  È  permesso  ad  un  servo  che  ha  voglia  di  parlare 

Farsi  sentire  ?  È  un  pezzo  che  8to  qui  ad  ascoltare.  — 
O.  Davof  — 

D.  Sì,  Davo,  servo  devoto  a  '1  suo  signore 

E  onesto  quanto  basta  per  dir  :  Presto  e'  non  muore  !    — 
O.  Va  bene.   I  padri  nostri  libertà  di  parola 

Concessero  a  Decembre.  Usane  e  parla.  — 

D.  Sola 

Una  parte  de  gli   uomini  ostinata  ne   '1   vizio 

Si  crogiola  e  il  peccato  persegue  a  precipizio, 

La  maggioranza  ondeggia,  ora  s'appiglia  a  i  sani 

Propositi,  a  i  cattivi  presta  orecchio  domani. 

A  l'apparir  di  Prisco  spesso  si  criticava 

Che  portasse  tre  anelli  ;   ma  lui   si   presentava 


1)  Cfr.  Gkfkckkn,  op.  cit.,  p.   53. 


10  Vinceneo   Usaani 


Va'  altra  volta  con  la  sinistra  ignnda.  Senza 

Uii'onibra  di  carattere  trasse  la  sna  esistenza  : 

Cambiava  di  toletta  ogni  ora  ;  da  nn  regale 

Palagio  tntto  a  nn  tratto  passava  a  nn  sottosoale, 

Di  dove  a  nscire  in  strada  dovrebbe  vergognarsi 

Il  tigliuol  d'ano  schiavo  in  via  d' impannncciarsi. 

La  gente  adora  nn  dio  delle  trasformazioni  : 

Kgli  snbia  di  molti  le  persecnzioiii. 

A  Roma  beUimhusto  oggi  era  il  suo  ideale, 

Filosofo  ad  Alene  domani.  Meno  male 

A  '1  confronto  di  tale  bestia  che  s'arrovella 

Ora  stendendo  ed  ora  lentando  la  tirella, 

Chi  è  saldo  in  un  sol  vizio.  Tipo  quello  scroccone 

Di  pranzi,  Volanerio,  che  quando  con  ragione 

La  gotta  le  giunture  de  i  diti  gli  aggranchì, 

Si  provvide  d'un  omo,  dandogli  un  tanto  a  '1  di, 

E  badava  a  ingrassarlo,  perchè  gli  raccattasse 

I  dadi  da  la  tavola  e  per  lui  li  cacciasse 

Ne  '1  bossolo...  — 

O.  In  giornata  spero  che  finirai 
Per  spiegarmi  a  che  miri  e  dirmi  con  chi  l'hai 
Con  questi  rancidumi  ^),  mal  arnese.  — 

D.  Con  te 
Proprio.  — 

O.  Canaglia,  e  come?   -- 

D.  Tu  sei  ben  quello  che 
De  i  virtuosi  antichi  celebri  la  fortuna 
Modesta  e  le  abitudini,  ma  se  per  caso  alcuna 
Divinità  volesse  regalarti  ad  un  tratto 

I  beni  che  decauti,  ti  opporresti  a  '1  baratto  : 

O  perchè  tu  non  pensi  che  il  maggior  bene  è  vera- 
mente quello  che  dici  o  perchè  non  sai  fiera- 
mente il  bene  difendere.  Tu  distrigar  vorresti 

II  pie  da  '1  fango.   Invano,  che  impantanato  resti. 
In  Roma  i  tuoi  sospiri  sono  per  l'aria  pura 

De  i  campi  e  in  villa  con  la  maggior  disinvoltui» 

La  città  che  non  hai,  levi  a  '1  cielo.  Non  v'ha 

Invito  alcuno  a  pranzo  ?  Tu  la  semplicità 

D'nn  piatto  di  legumi  celebri  e  '  A  questo  modo  ' 

Blateri  '  io  son  davvero  contento  e  me  la  godo 

Che  non  mi  tocca  bere  per  forza'.  È  da  pensare 

Che  chi  ti  vuol  a  pranzo  ti  ci  debba  tirare 

Con  le  catene.  Invece  poni  che  tardi  sia 

E  già  de  i  primi  lumi  s'illumini  la  via 

Ma  ti  giunga  nn  invito  di  Mecenate  :   '  Presto 


0  Qnel  confvimto  tra  la  costanza  e  l'incostanza  era  tra  i  liioglii  coiunni  rìella   predicazione  po- 
polare. 


Orazio  e  la   filosofia  popolare  11 

L'olio  a  le  lampe  '   '  Siete  tutti  morti  f  '  Con  questo 
Grido  tu  scappi  e  Mulvio  coi  parassiti  tuoi 
Giù  moccoli  che  occorre  tu  non  risappia  poi, 
Tornandosene  a  pancia  vuota. 

{Orazio  prende  un'aria  interrogativa) 

Facciamo  il  caso 
Cile  abbia  detto:  '  Io  son  schiavo  del  ventre,  è  vero;  ho  il  naso 
A  l'erta,  quando  spira  un  odorino  buono  ; 
Sono  un  disntilaccio,  un  buono  a  nulla,  sono, 
Se  non  ti  basta  tanto,  anche  un  freqnentatore 
Di  bettole.  Ma  tu  simile  a  me,  peggiore 
Forse  anche,  onde  la  cavi  codesta  autorità 
Di  riprendermi  in  tono  di  superiorità 
E  vestir  la  tna  colpa  di  sjìlendide  parole  t  '  — 
Tu  mi  hai  comprato  al  prezzo  di  cinquecento   sole 
Dramme;  ma,  ci  scommetto  ch'essere  tu  non  sai 
Al  par  di  me  filosofo. 

(Orazio  fa  un  gesto  di  minaccia) 

Che  occhiacci  clie  mi  fai  ! 
Frena  la  mano  e  l'ira  in  fin  ch'io  ti  sciorino 
Quello  che  m'ha  insegnato  il  portier  di  Crispino.   — 
Dietro  a  una  puttanella  spasima  Davo  e  tu 
A  l'altrui  moglie  :  quale  do  i  due   peccati  è  più 
Degno  di  croce?  —   Quando  l'arder  de  '1  sesso  reso 
M'ha  rigido,  a  '1  chiarore  di  un  lume  ben  acceso 
Una  donnetta  spoglia  riceve  su  la  groppa 
De  la  mia  coda  gonfia  le  botte  o  via  galoppa 
Su  '1  destriero  impennato,  libidinosamente. 
Poi  mi  licenzia  ed  io  non  sotì'io  proprio  niente 
Ne  '1  mio  buon  nome,  mentre  proprio  mi  torna  eguale 
Che  un  piti  ricco  o  piii  bello  pisci  anche  in  quel  pitale. 
Tu  getti   i   distintivi  de  '1  cavalier  romano. 
Costume  e  anello,  ascondi  la  testa  ne  '1  gabbano 
Azzimata  e  te  n'esci  di  casa,  magistrato. 
Truccato  a  sozzo  schiavo.  Ma  che  !  non  sei  truccato. 
Sei  proprio  la  tua  maschera  :  ti  fanno  entrar  sgomento  : 
Tremi  entro  l'ossa,  dove  in  lotta  è  lo  spavento 
Con  le  tue  impure  brame.  Che  differenza  fai 
Se  tu  con  un  contratto  l' impegno  assunto  avrai 
Che  ti  possan  le  verghe  la  pelle  arroventare. 
Che  di  ferro  t'ammazzino,  ed  esci  a  passeggiare, 
O  se  ti  tocca  a  stare  ben  raggomitolato, 
Co  '1  capo  su  i  ginocchi,  dentro  lo  svergognato 
Baule  dove  t'ebbe  rinchiuso  la  servetta 
Che  a  la  padrona  il  sacco  regge?  —  A  '1  marito  spetta 
De  la  signora  adultera  legittimo  di  morte 
Il  dritto  sovra  i  due?  Penso,  a  ragion  pih  forte 
Su  '1  drudo.  Almeno  lei  non  si  camuffa  e  resta 


12  Vineeneo   Ussani 


In  casa  e  »o\  luontaudo  sopra  a  peccar  si  presta. 

Dunque  ha  di  te  paura  né  s'abbandona  lei, 

Donna,  a  '1  carnai   piacere  :   tu  che  un  uoni  serio  sei 

T'incollerai  la  forca?  a  un  si  folle  signore, 

Affiderai  sostanze,  vita,  persona,   onore  f  — 

Te  l'hai  cavata  :  allora  credo  che  appreso  avrai 

La  cautela  e  il  giudizio.  Ma  che  !  tu  cercherai 

L'occasion  d'un  altro  spavento,  d'nn  mortale 

Nuovo  periglio,  o  schiavo  le  tante  volte  !  O  quale 

Aninialaccio,  dopo  che  infranto  le  catene 

Fuggì  pur  una  volta,  ii  ritrovar  le  viene  f 

(Orazio  fa  un  gesto  di  diniegoì 

'Io  non  so  d'adnlterii  '  dici.  E  neppure  io  tento 
Per  Ercole  appropriarmi  i  servizi  d'argento, 
Perchè  ci  ho  fior  di  senno.  Ma  togli  il  rischio  via 
E  senza  freno  in  corsa  si  lancerà  la  ria 
Natura  a  scapricciarsi.  Tn  mio  padrone  che 
Tanti  padroni  e  tanto  tiranni  hai  sopra  te. 
Cose  e  persone,  e  vivi  per  questo  in  un  terrore 
Inelìabile  e  hai  d'uopo  pili  d'un  liberatore? 
Aggiungi  un  argomento  che  meu  non  pesa  :  se 
Io  pago  un  altro  servo  che  lavori  per  me. 
Voi  dite  io  ho  messo  il  mio  scambio,  mentre  io  lo  chiamo 
Compagno  di  servaggio  :  io  e  te  che  cosa  siamo  < 
Pensaci  :  io  son  tuo  servo,  tu  servi,  poverino, 
Ad  altri,  a  gli  altrui  fili  docile  burattino.  — 
Nessuno  allora  è  libero  f  No.  La  fllosotìa 
ft  quella  che  ti  dà  la  vera  autonomia, 
Ti  libera  da  tutte  le  paure,  la  morte 
La  miseria,  la  carcere  ;  ti  corazza  da  forte 
Contro  le  tentazioni,  contro  l'ambizione 
Politica,  ti  chiude  ne  l'osservazione 
Di  te  stesso  e  a  la  fine  una  palla  ti  fu 
Liscia  e  ritonda  dove  presa  alcuna  non  ha 
Lo  stimolo  esteriore  che  non  vi  trova  uuUa 
Dove  aggrapparsi.  A  vuoto  sempre  s'avventa  su  la 
Filosofia  la  sorte.  Come  tua  proprietà 
Qualche  virtù  di  queste  tu  riconosci  ?  T'ha 
Chiesto  una  putta  cinque  talenti,  ti  punzecchia, 
Ti  mette  fuor  de  l'uscio,  ti  rovescia  una  secchia 
D'acqua  gelata  addosso;  poi  ti  manda  a  chiamare. 
B  l'ora  di  potersi  davvero  liberare 
Da  l'indegno  servaggio.  Gridala  la  parola  : 
'  Io  sono  un  uomo  libero'.  Ahimè  ti  muore  in  gola. 
Un  tiranno  inclemente  sta  in  groppa  a  '1  tuo  pensiero  : 
Ei  restio  gli  recalcitra  ;  ma  sprona  il  cavaliere 
E  lo  stanca  e  lo  domina.   —  Ancora  un  altro  esempio. 
Tutto  dinoccolato  tu  resti,  a  volte,  o  scempio. 


Orazio  e  la  filosojia  popolare  13 

Dinanzi  a  un  piccioletto  quadro  di  Pausia.   Io  dritto 
Rigido  su  le  punte  de  1  piedi  un  gran  conflitto 
Di  gladiatori  ammiro  che  a  '1  muro  o  in  affissione 
Appare  disegnato  co  '1  rosso  o  co  '1  carbone. 
Il  Biondino,  Pacione,  Baruffa  ')  in  viva  giostra 
Sembran  colpir,  parare.  Una  è  la  colpa  nostra. 
Ma  Davo  è  un  birbaccione,  un  perdigiorno,  tu 
Conoscitore  esimio  de  l'arte  che  già  fu.  — 

10  son  un  uom  da  nulla,  se  mi  lascio  tirare 
Da  una  stiacciata  calda  che  fuma  :  trionfare. 
Di',  sa  la  tua  grande  anima  sopra  la  tentazione 
D'  un  pranzo  succulento  ?  Perchè  la  devozione 

De  '1  ventre  fa  pifi  danno  a  me  che  son  picchiato  ? 

Come  mai  te  la  cavi  tanto  più  a  buon  mercato 

Tu  in  cerca  di  quei  piatti  che  per  poco  non  si  hanno  ? 

(Vero  è  che,  mangia  e  mangia,  l'indigestione  danno 

I  banchetti  e  le  gambe  tradite  ne  l'uffizio 

A  '1  corpo  deformato  negano  il  lor  servizio) 

O  forse  a  l'annottare  pe  '1  servo  gli  è  peccato 

Cangiare  con  un  grappolo  la  stregghia  che  ha  rubato. 

Chi  a  gli  ordini  obbedendo  de  l'ingordigia  i  suoi 

Poderi  vende,  servo  di  lei  non  è  ?    —  C  è  poi 

Da  aggiungere  anche  questo  :  che  tu  non  hai  potere 

Di  meditare  un'ora,  di  impiegare  a  dovere 

11  tempo  ohe  t'avanza,  che  de  la  tua  coscienza 
Servo  che  se  la  batte,  eviti  la  presenza, 

Ora  ricorri  a  '1  sonno,  ora  ricorri  a  '1  vino 

Per  sottrarti  a  '1  rimorso.  Ma  invano.  È  a  te  vicino 

E  ti  segue  e  t'incalza  compagno  tuo  ferale 

O.  Dov'  è  una  pietra  ? 

D.  A  farne  che  cosa  ? 

O.  Ov' è  uno  strale  f 
D.  O  impazzisce  <>  fa  versi. 

O.   Vattene  su  l'istante 
O  la  villa  sabina  ha  il  nono  lavorante. 

Vincenzo  Ussani. 


•)  li  testo  ai  vv.  96-97  ha  Fulvi  Eutubaeque  |  aut  Pacideiani.  Ma  a  me  è  parso  che  mi  sarei 
mantenuto  più  veramente  fedele  alla  festività  dell'originale  rendendo  i  nomi  o  nomìgnoli,  se  pure  di 
gladiatori  già  morti  e  celebri,  nel  loro  significato,  così  come  ho  fatto,  che  non  conservandoli  pedan- 
tescamente nella  forma  latina,  muta  per  noi.  E  forse  lo  stesso  era  da  fare  per  il  nome  che  imme- 
diatamente precede  di  P.ausia,  giacché  è  fuori  dubbio  che  nel  v.  95 

vel  cnm  Pausìaca  torpes,  insane,  tabella, 

uno  stretto  rapporto  intercede  tra  il  PaitMaca  e  il  torpes.  Davo  vuol  dire  che  quel  pittore  di  latton- 
zoli (Plinio,  H.  K,,  XXXV,  124),  ottiene  un  etletto  su  Orazio  e  gli  altri  suoi  ammirateri  corrispon- 
dente all'etimologia  del  suo  nome  (Pausia  da  Ttauu)'),  mentre  a  lui  fa  tendere  i  garretti  quel  mani- 
festo teatrale  tutto  fuoco  e  strepito  d'armi.  Ma  il  lettore  intelligente  capirà  la  mìa  esitazione  dinanzi 
all'  alterazione  del  nome  storico  dì  un  contemporaneo  dì  Apelle  che  sarebbe  diventato,  per  esem- 
pio, Dormiglioso  o  Sonnacchioso. 


QUINTO  OKAZIO  FLACCO 


Wilhelm  Sclionax;k  in  un  suo  utile  libro  {Der  Horaz-  Unterricht.  Ein 
Beitrag  zur  Didaktik  und  Methodik  des  Lateinischen  in  der  Gyninasial  - 
prima  -  Weidmann,  1912,  8",  pp.  144),  tra  le  altre  cose,  ha  avuto  il  merito 
di  riconoscere  all'opera  d'Orazio  l'importanza  di  una  poesia  elevata,  gagliarda, 
calda,  nobilissima.  Questo  concetto  che  non  si  trova  affermato  esplicitamente 
dal  critico  tedesco  in  alcun  luogo,  ma  che  risulta  qua  e  là  dal  complesso 
del  suo  volume,  non  è  comune  neppur  oggi  agli  studiosi  di  quel  poeta, 
nonostante  qualche  voce  che  isolatamente  si  è  pur  levata  per  rivendicare 
ad  Orazio  la  fama  che  senza  dubbio  gli  spetta. 

Io  invero  in  faccende  di  questo  genere  la  penserei,  né  più  né  meno, 
come  la  pensava  un  nostro  grande  critico  di  questo  secolo,  il  Carducci,  il 
quale  non  poteva  tenersi  dal  ridere  di  compassione  ogni  qual  volta  gli  si 
affacciava  al  pensiero  la  Difesa  di  Dante  fatta  dal  Gozzi  contro  le  insulsag- 
gini del  Bettinelli,  —  come  se  Dante  avesse  avuto  bisogno  d'esser  difeso!  — ; 
e  che  contro  colui,  il  quale  parlavagli  di  un  monumento  da  erigersi  a  Dante 
in  Trieste,  scattava  su,  protestando  che  l'Alighieri  non  ha  bisogno  di  mo- 
numenti, e  che  il  suo  genio  pensa  da  sé  a  rendersi  più  luminoso  e  gigante 
man  mano  che  i  secoli  passino  e  che  la  civiltà  umana  si  espanda.  Lo  stesso 
sarebbe  da  dire  per  Orazio,  a  proposito  del  quale  basterebbe  dare  uno  sguardo 
alla  letteratura  non  pure  dell'Italia,  ma  della  Francia,  della  Germania  e  di 
ogni  paese,  che  vanti  originalità  di  pensiero  e  ben  distinta  individualità 
letteraria  nazionale,  per  avvedersi  della  grande  influenza  che  la  poesia  ora- 
ziana ha  esercitato  in  ogni  tempo  e  sott'  ogni  forma.  Poiché  Orazio  nella 
letteratura  latina,  come  ben  ha  detto  il  Lejaj'  '),  appartiene  -piò.  all'età  che 
gli  successe  che  a  quella  che  Io  precedette;  sotto  il  qual  riguardo  Orazio 
è  del  tutto  moderno,  e  strettamente  affine  al  nostro  modo  di  pensare  e  di 
sentire;  è,  in  una  parola,  il  più  grande  precursore  e  creatore  della  lirica 
nostra  soggettiva  e  sentimentale  ;  con  tale  una  varietà  di  aspetti,  con  tale 
un  insieme  di  elementi  interni  ed  esterni,  che  qui,  più  che  nel  caso  di  qua- 
lunque altro  autore,  tu  scorgi  l'intimo  e  robusto  legame  della  personalità 
d'(Jrazio  con  le  condizioni  dell'età  sua  e  dello  stato,  preso  come  individuo, 
e  quasi  un  fluire  ininterrotto  di  correnti  morali  e  spirituali  dal  di  fuori  al 
di  dentro  di  quella  personalità  e  viceversa  ;  per  cui  si  trova  Orazio  come 
specchio  fedelissimo  dei  suoi  tempi    e   l'età   d'Augusto   come  specchi»  non 


')  Oeuvre»  d' Borace  -  Satire»  publiées  par  Paul  Lejay,  Paris,  1911.  Intro- 
dnction,  pag.  xiii  :  «  nous  aiirons  plutòt  à  eonfronter  Horace  avec  les  écrivains 
de  l'àge  suivant  qu'  avec  ses  devanciers  ». 


Q II  in  lo  Orazio  Fiacco  15- 


meu  fedele  d'Orazio.  Se  dunque  l'opera  di  esso  è  l'elaborazione  d'un  inge- 
gno, che  sente  perpetua  su  di  sé  l' imminenza  dei  fattori  sociali  e  politici, 
da  lui  volontariamente  o  inconsciamente  riprodotti  ;  se  l'opera  d' Orazio  è 
il  riflesso  d'una  coscienza  che  sì  adatta  all'ambiente,  senza  però  asservircisi, 
e  dalla  osservazione  quotidiana  della  vita  e  degli  uomini  ricava  sempre  uti- 
lissimi argomenti  di  saggezza  e  di  virtù;  se  quell'opera  è  il  prodotto  orga- 
nico d'una  serie  di  sentimenti;  se  in  essa  si  scorge  l'espressione  di  un  si- 
stema d'idee,  che  impronta  di  sé  la  materia  poetica,  coordinandola  ad  un 
fine,  e  assegnandole  un' unità  ben  compatta  di  forma  e  di  pensiero;  se,  in 
altri  termini,  storia,  arte  e  filosofia  sono  i  centri  conduttori  dell'attività 
psichica  e  intellettuale  di  quel  poeta,  come  negare  alle  composizioni  d'Orazio 
ogni  valore  di  poesia  vera  e  propria  ? 

Date  queste  circostanze,  non  si  dovrebbe  neppur  debolmente  sentire  il 
bisogno  di  scendere  in  campo  e  spezzare  una  lancia  contro  la  non  piccola 
moltitudine  dei  detrattori.  Orazio  si  fa  strada  da  sé.  Tuttavia  non  può  dirsi 
che  in  certi  casi  non  valga  proprio  la  pena  di  mettere  in  vista,  come  noi 
faremo  tra  poco,  a  scopo  di  curiosità,  gli  eccessi  a  cui  può  giungere  una 
niente  n(m  ben  disciplinata  dalle  regole  dell'osservazione  e  dalle  esigenze 
della  critica  esatta. 

Per  i  critici  del  secolo  scorso,  trnnseat  !  Le  ricerche  scientifiche  e  i 
metodi  d'indagine  non  erano  ancora  perfetti;  molte  particolarità  non  erano 
ancora  risaltate  agli  occhi;  durava  l'opinione  che  Orazio  fosse  stato  un  vile; 
e  avesse  gittato  lo  scudo,  dnndosi  vergognosamente  alla  fuga  nella  battaglia 

di   Filippi Ma  oggi,   fra  tanto  lume  di  critica,  fra  tant*  forme  diverse  di 

considerare  molte  questioni,  prima  dubbie,  oscure,  insolubili  ;  fra  tanto  fer- 
vore di  studi  rinnovati  andar  ripetendo  che  Orazio  non  è  poeta,  che  nelle 
sue  odi  la  poesia  manca  affatto,  ed  altre  frasi  di  questo  genere!...  È  vera- 
mente un  voler  esser  ciechi  e  sordi  ad  ogni  costo;  contro  di  che  stimo  che 
sarà  bene  spendere  (lualche  parola,  non  tanto  in  difesa  d'Orazio,  che  non 
ne  ha  di  bisogno,  quanso  per  vedere  che  razza  di  critica  si  faccia  oggi  da 
taluni,  e  perchè  in  tal  modo  mi  si  offrirà  l'occasione  di  toccare  di  certe 
debolezze  di  giudizio  nel  lavoro  dello  Sclionack. 


11  Friedrich  '),  ultimamente,  ha  dedicato  ad  Orazio  un  articolo,  che  co- 
mincia con  un  giudizio  del  Goethe  su  quel  poeta  latino  :  «  Il  talento  poetico 
d'Orazio  è  riconosciuto  soltanto  per  riguardo  alla  tecnica  e  alla  perfezione 
della  lingua,  cioè  a  dire  per  riguardo  all'  imitazione  dei  metri  greci  e  della 
lingua  poetica,  ed  inoltre  ad  una  spaventosa  realtà  senza  una  poesia  tutta 
propria,  specialmente  nelle  Odi  ». 


■)   Q.  Horatltis  Flacciia  von  G.    Fhikdkich,    in    Neiie  Julirbiicher  f.   due   klaas.. 
Alt.  ecc.  191,3,  XXXI  n.  XXXII  B.  4  heft,  pp.  261-268. 


16  Umberto  Moricca 


Questo  giudizio,  messo  così  a  principio,  sembra  essere,  com'  è  realmente, 
il  tema  fondamentale  e  il  motivo  primario,  di  cui  il  Friedrich  si  servirà  per 
giustificare  in  seguito  la  sua  stessa  opinione,  studiandosi,  non  senza  sforzo, 
di  consolidarla  d'esempi. 

E  dirà  quindi  che  la  prima  strofa  dell'ode  II»  del  libro  II"  non  è  che 
prosa  in  versi  :   «  das  ist  niehts  ah  in   Verse  gebrachte  Prosa  »  '). 

Più  sotto  aflfemierà  imperterrito,  con  l'aria  di  chi  crede  d'aver  fatto 
una  trovata,  che  in  Orazio  manca  addirittura  la  poesia,  ripetendo  eviden- 
temente il  giudizio  del  Goethe  :  «  Nein,  in  den  Diehtiingen  des  Horaz  fehlt 
die  Ptiesie  ». 

A  pp.  264-65  sosterrà  che  Orazio  è  adatto  massimamente  alla  scuola, 
perchè  la  sua  opera  è  un  compendio  del  suo  tempo,  e  poi  in  ispecial  modo 
perchè  Orazio  non  è  poeta  :  «  So  sind  die  wenig  iim/anf/reichen  Werke  den 
Horaz  ein  Kompendium  seiner  Zeit,  und  daher  zum  Unterricht  besonders  geeignet, 
auch  deshalb  geeignet,  weil  Horaz  kein  Hichter  ist  ». 

Senonchè  non  è  da  credere  che  il  Friedrich  abbia  destituita  d'ogni  va- 
lore l'opera  d'Orazio.  Sta  bene  tutto  questo  ;  ma  non  bisogna  po'  poi  negar 
tutto;  qualche  cosa  bisognerà  pur  riconoscere  al  poeta  latino!...  E  il  Friedricli 
francamente  non  è  in  fondo  quel  critico  burbero  che  sembra  ;  tanto  è  vero 
che  fa  grazia  al  venosino  di  una  lunga  serie  di  buone  qualità,  ch'egli  chiama 
Surrogate  :  buon  .«enso,  urbanità,  finezza  di  spirito,  buon  umore  e  via  di- 
cendo, eccettuata  sempre,  ben  .s' intende,  la  facoltà  di  far  della  poesia. 

A  farla  breve,  Orazio  per  il  oritico  tedesco  è  un  elegantissimo  corti- 
giano; un  galantuomo,  si  direbbe  oggi,  in  guanti  gialli,  che  s'aggira  per 
la  Corte  d'Augusto,  fa  le  dovute  riverenze,  spiattella  a  tempo  e  luogo  qual- 
che odicina  graziosa  a  Mecenate  e  all'imperatore,  ma  sempre  in  sussiego; 
dispensa  lodi,  ottiene  ville  in  dono,  e  vive  in  pace  col  inondo;  un  uomo 
press'  a  poco  sul  tipo  dell'Aretino  e  degli  altri  cortigiani  del  Cinquecento, 
graziosi  in  farsetto  e  messi  in  canzonatura  dal  Herni. 

A  dilla  schietta,  a  me  sembra,  leggendo  le  pagine  del  Friedrich,  come 
se  retrocedessi  di  molti  secoli  nel  tempo  ;  come  se  perdessi  la  nozione  del 
progresso,  e  fossi  costretto  a  giudicar  le  cose  dal  punto  di  vista  di  un  molto 
lontano  passato.  Infatti,  qual  è  il  metodo  del  Friedrich  ?  egli  parte  da  un 
pregiudizio  antiquato,  spiegabilissimo  in  Goethe,  non  perdonabile  in  lui,  e 
^rd  esso  continuamente  si  riferisce. 

Anche  il  nostro  Vannucci  ')  ha  detto  peste  e  vituperio  d'Orazio  ;  anche 


')  Noto  intanto  che  le  frasi  prosaiche  si  ritrovano  spesso  perfino  nell'  opera 
dei  più  grandi  poeti,  e  che  non  è  sempre  la  frase  che  fa  l'arto,  ma  il  modo  con 
«ui  è  condotto  nn  organismo  poetico,  contemplato  nel  suo  insieme.  Anche  nei 
Sepolcri  del  Foscolo,  per  citare  nn  esempio  nostrano,  occorrono  molto  spesso  pa- 
role e  forme  piti  proprie  alla  prosa  ;  eppure  i  Sepoleri  rimarranno  sempre  qnel 
«he  sono. 

*)  Vita  di  Q.    Orazio   Fiacco. 


Quinto  Orazio  Fiacco  17 


il  nostro  Foscolo  ')  ha  osservato  su  per  giù  lo  stesso,  e  cioè  che  Orazio  era 
un'  iiuiina  vile,  un'  anima  venduta,  che  coltivava  la  poesia  unicamente  per 
guadagno  ;  che  non  ha  scritto  mai  odi  belle  ;  che  può  soltanto  vantare 
delle  aniicreontee  spigliate  e  vezzosette.  Ora  questi  giudizi,  come  ho  detto, 
si  spiegano  benissimo  tanto  in  Goethe  che  in  Foscolo,  in  Vannucci  e  negli 
altri.  Essi  giudicavano  Orazio  da  un  punto  di  vista  troppo  soggettivo,  e  per 
riguardo  all'arte,  e  per  riguardo  alla  morale.  Vi  era  inoltre  per  noi  la  preoc- 
cupazione politica:  in  un  tempo  di  grandi  ideali  per  la  libertà  italiana  non 
poteva  certo  piacere  un  poeta  come  Orazio,  ohe,  dopo  aver  invano  com- 
battuto a  Filippi  per  la  sua  causa,  vinto  si  arrende  al  vincitore,  canta  le 
lodi  di  Angusto  e  dà  del  pazzo  solenne  a  Labeone  '),  l'ultimo  grande  e  fle- 
rissimo  rappresentante  del  morente  idealismo  repubblicano. 

Il  Goethe  infine  non  si  è  neppur  lui  reso  conto  d'Orazio  ;  si  è  lasciato 
condurre  dai  preconcetti  della  critica  in  voga  ;  si  è  mantenuto  troppo  alla 
superficie,  e,  i)er  giunta,  ha  considerato  l'arte  del  venosino  al  paragone  di 
quella  ch'egli  vagheggiava  nella  sua  mente,  e  che  s' informava  al  gusto 
estetico  proprio. 

Egli  precisamente  ha  detto  che  Orazio  è  un  acrobata  della  forma  e 
nient'  altro  ;  poiché  in  lui  non  vedeva  che  tecnica  e  perfezione  di  lingna,  ossia 
imitazioni  di  metri  e  frasi  poetiche  senza  contenuto,  o  meglio,  parole  che 
esprimono  una  realtà  che  atterrisce;  insomma  grande  lusso  e  apparato  di 
forma  e  d' immagini,  vuote  affatto  o  quasi  di  senso. 

Io  confesso  che  in  un  giudizio  di  questo  genere  non  veggo  molto  chiaro, 
e  che,  quando  taluno  mi  parla  in  simil  guisa,  io  sento  il  bisogno,  che  però 
non  ha  sentito  il  Friedrich,  di  meditare  su  quelle  frasi,  di  studiare  le  cause, 
che  le  abbiano  potute  suggerire,  di  conoscere  quali  giano  quelle  forme  in 
Orazio,  che  esprimono  la  furchtbare  Bealiiiit  del  Goethe,  e  di  vedere  se  vi 
può  essere  un  carme,  che  renda  una  terribile  realtà,  senza  esser  poetico  nel 
seuso  proprio  della  parola,  e  infine  di  rileggere  e  riesaminare  una  per  una 
tutte  le  odi  latine,  per  accertarmi  se  il  Goethe  abbia  avuto  o  no  ragione 
del  suo  giudizio. 

Tutto  questo  il  Friedrich  non  ha  fatto.  Non  sarà  perciò  inutile  eh'  io 
mi  soffermi  a  considerare,  il  più  brevemente  che  potrò,  quale  veramente  sia 
r  individualità  poetica  e  morale  d'Orazio. 

E  stato  detto  che  la  poesia  del  venosino  è  un  bel  mosaico  fatto  a  Roma 
d'alcuni  frammenti  di  pietre  preziose  dissotterrate  in  Lesbo  ')  ;  che  Orazio 


')  Della  poesia  lirica,  iu  Opere  complete  di  U.  F.,  Napoli,  Lubrauo,  1887, 
p.  167  ;  vedi  anche  la  terza  delle  Lezioni  d' Eloquenza,  ibid.  pp.  466-67.  Quanto  al 
giudizio  degli  antichi,  efr.  G.  Leopardi,  Della  fama  avuta  da  Orazio  presso  gli 
antichi,  in  voi.  Ili  degli  Sludi  filologici  raccolti  e  ordinati  da  P.  Pkllkguini  « 
P.  Giordani,  Firenze,  Le  Mounier,   1853,  pp.   126-139. 

»)  Sat.  I,  3,  v.  82  8gg. 

')  Vedi  :  Notizie  intorno  a  Didimo   Chierico,  cap.  IX. 

Atene  e  Roma.  2 


18  Umberto  Moricca 


ha  imitato  i  metri  greci,  e  per  conseguenza  anche  il  contenuto  (né  manca 
neppur  oggi  chi  si  sforzi  di  mettere  a  riscontro  i  frammenti  d'Alceo  e 
di  Saffo  con  i  primi  versi  di  alcune  odi)  j  è  stato  detto  che  Orazio  è  in 
continua  contraddizione  con  sé  stesso  ')  ;  che  le  odi  politiche  sono  una  fal- 
sificazione del  sentimento  ')  ;  che  le  odi  religiose  son  fredda  ed  arida  espres 
sione  d'un' anima  più  dotta  che  credente');  che  le  odi  dell'amore  e  dei 
convivii  sono  l'indizio  scandaloso  d'un  uomo,  anzi  d'un  Epicuri  ex  greye 
porcus  *),  dato  ai  piaceri,  agli  stravizii  e  ai  diletti  del  vino  e  della  voluttà. 

Che  Orazio  abbia  attinto  dai  Greci  non  può  negarsi.  È  stato  in  Atene, 
ne  ha  studiata  la  letteratura,  sì  da  essere  in  grado  di  parlare  e  di  comporre 
in  quella  lingua  ')  ;  quindi  ha  avuto  occasione  di  rendersi  familiari  i  metri, 
di  educare  l'orecchio  a  quell'armonia  divina,  e  il  pensiero  e  l'immaginazione 
ai  concetti  filosofici  delle  varie  scuole,  che  ivi  fiorivano,  e  ai  fantasmi  della 
creazione  poetica  greca. 

Ma  questo  materiale  raccolto  e  assimilato  è  da  prendersi  come  la  veste, 
la  forma  esteriore,  in  cui  si  presenta  tutto  il  complesso  della  vita  intellettuale 
intima,  soggettiva,  originale  del  poeta.  I  nomi  son  sempre  o  quasi  sempre 
greci  ;  ma  ciò  rispondeva  al  gusto  del  tempo;  mentre  in  alcune  odi,  osserva 
ottimamente  Giovanni  Pascoli  "),  è  tanta  vivacità  e  tanta  spontaneità,  che  mal 
possiamo  indurci  a  crederle  non  originali. 

Ad  ogni  modo,  ciò  è  ormai  riconosciuto  da  tutti  ;  né  sarebbe  questo 
il  luogo  di  discorrerne.  Noi  cercheremo  piuttosto  di  vedere  se  Orazio  sia  o 
no  poeta. 

E  anzitutto  è  da  stabilire  in  principio  che  mai  s'intenda  per  poesia; 
poiché  é  noto  fin  da  antico  ')  non  esser  buon  metodo  di  critica  quello,  per 
esempio,  del  Friedrich,  di  cominciare  a  discorrere  d'un  soggetto,  senza  sa- 
pere che  cosa  esso  significhi. 

Se  dunque  per  poesia  è  da  intendere  generalmente,  poiché  definizioni 
perfette  non  si  danno,  la  facoltà  di  porgere,  quanto  la  pittura,  rappresen- 
tazioni particolari,  o,  come  i  logici  dicono,  le  idee  concrete,  risalendo  dal 
noto  all'ignoto  per  una  serie  di  rappresentazioni  estetiche;  di  eccitare  velo- 
cissimamente nel  cuore  molti  e  vari  affetti  caldi  ed  ingenui,  dai  quali  scappi 
il  vero  ed  il  bello  morale:  e  questi  presentando  alla  memoria  vestiti  di  splen- 
dore e  di  armonia,  fare  che  siano  accolti  più  facihnente  e  serbati  con  piti 
amore  e  più.  tenacità  nelle  menti  ')  ;  se  compito  della  poesia  lirica  in  ispecie 

')  A.  Vannucci,  op.  cit.  Vedi  anche  Foscolo,  op.  cit.  ecc. 
*)  Wkissknkels  in  Schonack,  op.  cit.  p.  41. 
'■')  Wkissenfels  in  Schonack,  op.  cit.  p.  45  Hgg. 
<)  Epiìt.  I,  4,  V.   16. 
5)  Sat.,  I,  10,  V.   31  sgg. 

")  G.  Pascoli,  Lyra:   '  La  poesia  lirica  in  Roma  ',  p.  lxix. 
')  Platone,  Fedro,  p.  237  o. 

*)  U.  Foscolo,  Ragion  poetica  e,  «is/enia  generale  del  carme  Le  Grazie,  in  op. 
cit.  p.   165  sgg. 


Quinto  Orazio  Flocco  19 


è  di  unificare,  nella  breve  durata  d'un  impeto  d'entusiasmo,  una  quantità 
molteplice  e  varia  di  fatti,  di  sentimenti  e  d'immagini;  di  accomunare  la 
materia,  che  il  tempo  e  le  circostanze  hanno  immensamente  disgiunte  fra 
loro,  in  modo  che  tu  riviva  col  poeta  la  civiltà  del  passato,  o  t' esalti  alle 
particolari  passioni  ch'egli  riproduce;  se  la  poesia  infine  ha  il  merito  di 
raccogliere  in  una  sublime  e  solenne  accensione  dello  spirito  le  idee  e  le 
forme  onde  s'  alimentano  le  arti  figurative,  e  di  dare  alla  mente  di  chi  legge 
quel  godimento  estetico  spiiituale,  che  i  Latini  chiamavano  volvptas,  e  d' ispi- 
rare nell'anima  un  non  so  qual  dolce  ed  irresistibile  incanto  della  vita, 
nessun  poeta  è  profondamente  e  veramente  più  poeta  d'Orazio. 

Il  Friedrich  ')  osserva  che  un  poeta  può  essere  originale  e  non  essere 
un  gran  poeta  o  viceversa,  intendendo  così  di  sostenere  che  Orazio  è  stato 
un  originale,  ma  non  sommo  poeta. 

Io  credo  invece  che  Orazio  sia  stato  l' uno  e  l' altro  ;  poiché,  se  può 
darsi  il  caso  che  un  poeta  sia  grande,  pur  mancando  d'  originalità,  non  può 
mai  altresì  avvenire  che  sia  originale  senz'essere  un  poeta,  dato  natural- 
mente ch'egli  abbia  intelletto  e  senso  d'artista.  Anzi  più  precisamente  io 
son  d'  avviso  eh'  è  grande  errore  il  mettere  in  dubbio  1'  esistenza  dell'origina- 
lità in  un'opera  qualsiasi,  altamente  poetica.  Un  poeta,  per  quanto  attinga  da- 
gli altri,  riesce  sempre  più  o  meno  originale,  perchè  è  necessità  di  natura  che 
vi  riesca.  Il  materiale  attinto  deve  attraversare  la  sua  particolare  menta- 
lità, e  non  è  possibile  che  in  questo  passaggio  e  in  questa  rielaborazione 
non  riceva  per  spontaneo  influsso  le  impronte  dei  sentimenti  e  dei  gusti  di 
lui.  Tanto  è  ciò  vero  che  neppur  nelle  traduzioni  la  cosa  suole  andar  liscia 
del  tutto  ;  poiché  l' inconveniente  primario  è  nella  diiìicoltà  che  il  tradut- 
tore riesca  a  spogliarsi  della  personalità  sua  stessa,  il  che  vuol  dire  del- 
l'anima propria,  e  faccia  opera  obbiettiva  di  trasportare  quanto  piìi  fedel- 
mente gli  sia  possibile  un'opera  da  un  idioma  in  un  altro. 

A  questo  ancora  non  si  é  badato  abbastanza  ;  ed  ecco  le  ragioni  per 
cui  si  seguita  a  parlai'e  di  originalità  e  d' imitazioni,  e  si  nega  o  si  con- 
cede a  questo  o  a  quel  poeta  la  gloria  di  valer  qualche  cosa. 

Lasciamo  da  parte  se  Orazio  sia  stato  o  no  moralmente  perfetto.  Egli 
era  di  una  mente  eccellentissima  d'artista,  eccitabile  ad  ogni  sentimento, 
dotato  d'  una  squisitezza  di  gusto  veramente  mirabile. 

Bruto  lo  incontra  ad  Atene,  gli  parla  dei  vantaggi  e  della  santità  della 
repubblica;  egli  se  ne  accende,  e  lo  segue  sui  campi  di  Filippi. 

La  battaglia  è  perduta;  si  stabilisce  il  regime  monarchico  d'Augusto; 
ma  il  nome  del  popolo  romano  suona  ancora  immenso  nel  mondo.  Come  ai 
tempi  di  Cicerone,  gli  eserciti  ancora  muovono  alla  conquista  nei  più  lon- 
tfini  orizzonti  ;  assoggettano  i  popoli  più  fieri  ;  dettano  a  loro  le  proprie 
leggi  e  la  propria  lingua,  e  ritornano  a  Roma  raggianti  di  vittoria  e  coro- 


')  1.  cit.,  p.  263,  nota  1». 


20  Umberto  Morieca 


nati  d'alloro.  Per  la  città  è  un'ebbrezza  di  festa:  squillano  le  trombe,  i 
guerrieri  cantano,  le  vergini  accompagnano  in  ampio  corteggio  il  trionfo, 
che  procede  verso  il  Campidoglio. 

Dinanzi  a  tanta  vita,  a  tanta  illusione  di  grandezza  e  di  potenza  come 
si  comporta  il  poeta?  Come  diversamente  non  può. 

Labeone  *)  persiste  ancora  sdegnosamente  nella  sua  fede  repnbblicana, 
e  rimane  in  casa,  come  in  segno  di  lutto,  ricusando  onori  ed  ossequi;  ma 
egli  è  un  giurista,  una  mente  di  politico,  votato  alla  repubblica,  alla  quale 
ostinatamente  si  professa  devoto  per  fierezza  d'indole  e  per  segno  di  protesta 
solenne  alla  tirannide  larvata  d'  una  sembianza  di  libertà  ;  mentre  Orazio  è 
un'anima  gentile,  che  si  lascia  sempre  facilmente  commuovere  da  tutto  ciò 
che,  contemplato  nel  suo  insieme,  le  sembri  bello  ed  onesto.  Il  poeta  non 
s' incarica  di  vedere  se  la  forma  monarchica  sia  migliore  della  repubblicana, 
o  viceversa;  non  indaga  le  cause  e  le  conseguenze  storiche  e  fllosoflche  delle 
cose;  in  lui  parla  non  la  ragione,  ma  l'impeto  del  sentimento. 

Egli  combatteva  a  Filippi  per  la  grandezza  del  popolo  romano  ;  sotto 
Augusto  lo  vede  forte,  grande  e  pacifico  come  lo  desiderava,  e  la  sua  vo- 
lontà è  soddisfatta  :  nuovi  trionfi  appagano  il  suo  compiacimento  estetico, 
ed  egli  canta  felice  le  gesta  di  Druso  (Od.  IV,  4)  e  di  Tiberio  {Od.  IV, 
14)  ;  paragona  Augusto  agli  antichi  eroi  di  Roma  (Od.  I,  12),  o  lo  celebra 
come  lo  splendido  pacificatore  del  mondo  {Oil.  IV,  15).  In  virtii  di  questa 
considerazione  Orazio  non  si  contraddice,  e  la  sua  lode,  come  quella  di  Vir- 
gilio e  degli  altri,  all'imperatore  non  è  pura  adulazione,  come  di  solitosi 
crede,  esagerando  così  la  notizia  che  i  poeti  servissero  alle  idee  di  riforma 
disegnate  da  Augusto. 

i<  Vogliam  credere  —  dice  saggiamente  il  Pascoli  ')  —  a  una  parola  d'or- 
dine data  loro  da  Mecenate  o  da  Augusto  ?  E  come  anche  a  Tibullo  t  No  :  era 
un  sentimento  comune,  un  grande  desiderio  di  pace,  che  prendeva  quelle 
sante  anime,  piene  del  timore  d'uno  sfacelo,  veduto  imminente,  poi  allon- 
tanato bensì  ma  ancora  in  vista  ».  Orazio  infatti  era  pieno  di  sentimenti 
lugubri  e  di  timori  per  il  popolo  di  Roma:  rimprovera  ai  pompeiani  il  rin- 
novamento della  guerra  civile  {Od.  I,  14)  ;  durante  i  fatti  di  Perugia,  agli 
orrori  della  battaglia  di  Antonio  ed  Ottaviano  il  suo  animo  s'infiamma  di 
sdegno,  e  sfoga  il  proprio  dolore  in  un'  ode,  in  cui  s'  annunzia  in  tutto  lo 
splendore  il  suo  genio  {Epod.  16)  ;  Antonio  minaccia  la  potenza  di  Roma, 
ed  Orazio  predice  con  magnifica  vivacità  di  rappresentazione  poetica  all'ef- 


')  Dopo  il  riatabilimento  del  governo  d'Augusto,  nel  Senato  continuavano  ad 
esservi  molti  attaccati  all'  indipendenza  repubblicana.  Labeone,  richiesto  una  volta 
del  suo  parere,  disse  che,  non  potendo  liberamente  tacere,  non  si  dovea  indegna- 
mente parlare,  e  sì  oppose  con  coraggio  alla  sentenzii  dell'  imperatore  ;  Ricchi* 
Augusto  riformò  presto  il  Senato.  (Dione,  lib.  54). 

')  Op.  cit.,  p.   i.xxiii. 


(Juinto   Oiasio   Fiacco  21 


feminato  amante  di  Cleopatra  la  misera  line  che  gli  sovrasta  {Od.  I,  15)  ')  ; 
il  mosti'O  fatale,  Cleopatra,  muore  con  Antonio;  l'impero  è  salvo,  e  il  poeta 
esulta  di  gioia,  esortando  gli  amici  alla  danza  ed  al  banchetto  (Od.  I,  37), 
mentre  Virgilio  da  parte  sua,  con  lieve  e  pur  vigorosa  mano  d'  artista,  e 
con  colori  intonati  a  patetica  figurazione,  intesse  e  disegna,  non  senza  al- 
lusione, io  penso,  ai  due  personaggi  della  storia  contemporanea,  nel  IV  li- 
bro AtiW Uneide  gli  amori  di  Didone  e  d'  Enea,  che  han  termine  con  la  vit- 
toria dell'eroe,  e  quindi  con  la  glorificazione  del  nome  romano,  la  quale  in 
forma  epica  rende  quell'  entusiasmo  medesimo  da  Orazio  scolpito  nell'  Ode 
I,   37. 

Il  poeta  latino  è  sempre  coerente  a  sé  stesso,  e  1'  opera  sua  nei  rispetti 
della  politica  oft're  un'unità  di  coscienza  in  ogni  modo  lodevole.  Che  se  egli 
si  eleva  al  sublime,  cantando  la  grandezza  di  Roma,  e  l' odio  di  Giunone 
contro  la  città  di  Priamo,  e  vede  collocato  Augusto  alla  mensa  degli  dei 
(Od.  Ili,  2)  ;  se  cauta  che  i  fati  e  i  numi  propizii  non  dettero  mai  alla  terra 
nulla  di  più  grande  d'Augusto  (Od.  IV,  2),  che  Augusto  è  potente  Dio  sulla 
terra,  come  lo  è  Giove  nel  cielo  (Od.  III,  5),  che  lui  devesi  onorare  e  in- 
vocare come  un  dio  nelle  meuse,  congiungendo  il  suo  nome  a  quello  dei  Lari 
(Od.  IV,  5),  ciò  avviene  perchè  nel  personaggio  dell'Imperatore,  Orazio  ve- 
deva incarnato  un  ideale.  In  Augusto  per  lui  non  era  l'u<;mo,  ma  erano 
gli  uomini  di  tutta  la  città  di  Roma,  di  tutte  le  regioni  d'Italia,  di  tutte 
le  Provincie  dell'Impero;  e  per  un  trapasso  d'idealizzazione,  spontaneo 
nella  mente  d'  un  artista,  dal  concreto  all'  astratto,  dalla  materia  allo  spi- 
rito, in  Augusto  era  impersonato  il  nome  romano  stesso,  la  sua  grandezza 
vasta  e  imponente,   l'immortalità  e  l'eternità  sua  nel  mondo    e   nei  secoli. 

Anche  Dante,  coni'  è  noto,  vide  per  poco  fatta  realtà  in  Arrigo  VII  il 
veltro  eh'  egli  avea  prima  vagheggiato  con  niente  di  pensatore  e  di  profeta. 

La  lode  d'Orazio  ad  Augusto  è  dunque  l'inno  piii  bello,  più  snblime, 
più  splendido  che  si  sia  mai  cantato  al  nome  glorioso  di  Roma  :  nell'  im- 
maginazione del  poeta  non  Augusto  è  il  Giove  terreno,  ma  è  la  terra  stessa, 
direi  quasi,  conquistata  dai  Romani,  e  che,  nell'ebbrezza  del  trionfo,  si  fa 
leggiera  e  si  ricongiunge  col  cielo;  è  la  Dea  Roma  insomma,  che  ascende 
alto,  ben  alto,  e  luminosa  si  asside  al  banchetto  degli  Dei. 

Per  questo  rispetto  il  Carmen  swciilare  non  è  mica,  come  lo  definisce 
il  Friedrich  (1.  e.  pag.  264),  ein  Wnndir  voii  Takt  uud  richtiger  Einskht 
del  poeta. 

E  invece  il  suo  canto  più  bello,  la  sintesi  dell'azione  augustea,  come 
ben  ha  detto  il  Pascoli,  è  il  riassunto  dell'opera  del  vate:  di  due  vati,  anzi. 
Orazio  fa  sentire  in  questo  yiorno  solenne  anche  la  voce  delV  amico  estinto,  di 


1)  Noto  di  sfuggita  che  1'  intonazione  generale  dell'  Ode  e  la  iiredizioue  di 
Nereo  mi  sembra  che  abbiano  un  non  so  che  di  comune  con  la  canzone  all'Italia 
del  Leopardi,  per  l'ingrediente  poetico  della  tigura  di  Siiuonide,  che  si  leva  a 
celebrare  la  gloria  immortale  dei  caduti  a  Maratona. 


22  Umberto  Morieca 


Vergilw,  il  cantore  eroico  di  Enea  vero  fondatore  di  Boma  e  capostipite  della 

OKN8    lUUA. 

Io  non  80  vei-amente  se  dalle  labbra  d' un  poeta  sia  mai  uscita  voce 
clie  rendesse  una  fantasia  così  fervida  e  vigorosa  come  quella  d'Orazio,  che 
concepisse  con  idee  di  tanta  grandezza,  e  avesse  una  visione  del  divino  così 
limpida,  così  gigantesca  e  trascendente  i  limiti  del  pensiero  umano;  o  se 
mai  sia  uscita  un'  apostrofe  più  poetica  di  questa  :  «  0  sole  della  vita,  che 
col  carro  di  luce  mostri  il  giorno  e  lo  nascondi,  e  sempre  altro  e  sempre 
lo  stesso  nasci,  possa  non  illuminare  nella  tua  corsa  città  più  grande  del- 
l'Urbe Koma  »  '). 

S' è  vero  che  la  poesia  dei  popoli,  i  quali  si  trovino  al  principio  della 
loro  evoluzione  letteraria,  suona  sempre  più  efficacemente  colorita  per  gra- 
vità mista  a  semplicità  d' ispirazione,  e  per  gagliardìa  spontanea  di  conte- 
nenza lirica,  nessun  più  grande  errore  che  non  riconoscere  i  caratteri  d'  un 
inno  sublime  a  quest'  ode,  in  cui  tu  senti,  come  fu  già  notato,  una  voce 
lontana  e  solenne,  uu'  eco  profonda  degli    axamenta    dei    sacerdoti   antichi. 

Numerosi  esempi  potrebbero  qui  fornir  materia  a  considerazioni  sva- 
riate intorno  al  vigore  ed  all'  elevatezza  dell'  arte  d'Orazio;  ma  per  il  no- 
stro assunto  basterà  dare  uno  sguardo  alle    prime    sei    odi  del  libro   terzo. 

Ha  mai  considerato  abbastanza  il  Friedrich  la  realtà  poetica  di  questo 
vero  e  proprio  poema  lirico  ;  la  logica  dipendenza  dei  concetti  e  la  strut- 
tura architettonica  delle  forme,  che,  per  quanto  interrotte  nel  passaggio  da 
un'  ode  all'  altra,  tuttavia  serbano  la  continuità  del  legame  intimo  delle  idee 
«he  le  cementano  insieme  9  e  come  sempre  è  un  oscillare  e  un  avvicendarsi 
d'entusiasmi  e  di  precetti,  d'immagini  e  di  osservazioni;  un'instabilità  e 
una  complessità  di  toni,  un  mescolarsi  di  stile  ora  didattico  ora  epico,  ora 
lirico,  ora  satirico?  ha  notato  quella  caratteristica  disunione  di  parti,  nella 
quale  ha  vita  1'  armonia  ed  il  chiaroscuro,  e  quella  sintesi  necessaria  che 
tutto  unisce,  evitando  che  l' armonia  riesca  confusa,  il  che  appartiene  al 
sommo  dell'arte?  Si  è  reso  conto  dell'entusiasmo  del  poeta,  che  trasforma 
gli  avvenimenti  in  altrettante  pitture,  diverse  fra  loro  e  pur  composte  in 
un  tutto  organico,  in  modo  che  chi  legge  si  rappresenti  con  rapidità  vivace 
le  immagini  e  gli  affetti  che  ne  derivano  ?  ha  rivolta  la  sua  attenzione  al 
modo  con  cui  1'  elemento  allegorico  e  simbolico  abbraccia  con  ordine  rego- 
lare e  crescente  tutta  questa  massa  di  poesia  calda  e  profonda? 

Le  sei  odi,  com'  è  noto,  si  dividono  in  due  parti  di  tre  odi  ciascuna  : 
nella  prima  si  parla  dell'  educazione  civile  e  militare  ;  nella  seconda  del- 
l' educazione  religiosa  del  popolo. 

Nella  prima  parte  assistiamo  a  un  concilio  degli  Dei  ;  nella  seconda 
vediamo  1'  assalto  al  cielo,  udiamo  il  discorso  di  Regolo  al  Senato.  Né  mi 
sembra  che  a  torto  si  sia  veduto  in  Quirinus  la  persona   di   Cesare  ;    nella 


')  La  traduzione  è  del  Pascoli,  ed  io  la  ho  ripresa  intera,  perchè  credo  che 
non  si  possa  tradurre  meglio  di  così  la  corrispoudente  strofa  oraziana. 


Quinto  Orazio  Flocco  23 


vittoria  sui  Giganti  la  fine  delle  guerre  civili,  e  nell'episodio  di  Regolo  la 
vittoria  di  Augusto  sui  nemici  esterni,  che  dovea  conchiudersi  con  la  re- 
stituzione delle  aquile  di  Crasso. 

I  concetti  si  richiamano  a  vicenda:  l'ode  V  sembra  svolgere  il  motivo 
dell'  ode  II  : 

dnlce  et  decorum  est  prò  patria  mori  ! 

II  rimpianto  della  degenerazione  dei  costumi  in  Od.  VI  sembra  in  con- 
trasto con  1'  ideale  di  vita,  disegnato  nelle  prime  due  odi,  mentre  in  fondo 
con  esse  fortemente  si  congiunge  e  s' integra  per  la  ripresa  del  medesimo 
motivo  nelle  ultime  strofe  :   Od.  IV,   vv.   27  sgg. 

sed  rustieorum  mascula  militnm 
proles  etc. 

Bellissima  la  strofa  11'',  che  segna  quasi  il  culmine  dell'  intero  poema, 
e  in  cui  si  compendia  maestosamente  l' ideale  romano  : 

Stet  Capitolium 
fnlgens,  triumphatisque  possit 
Roma  ferox  dare  iura  Media. 

L'armonia  intima  delle  odi  è  inoltre  cosi  perfetta,  che  è  da  lamentare 
che  nessuno  abbia  ancora  tentato  di  metterla  in  rilievo.  La  prima  ode  apre 
il  poema,  vagheggiando  la  modestia  della  vita,  la  serietà  dei  costumi,  il  di- 
sprezzo del  lusso  e  delle  ricchezze,  e  1'  ode  sesta  lo  conchiude  con  una  splen- 
dida invettiva  contro  gli  eccessi  dell'  ambizione  e  contro  la  corruzione  dei 
costumi,  che  non  può  non  richiamare  il  noto  canto  XV  del  Paradiso  di 
Dante. 

La  seconda  ode  consiglia  all'  esercizio  delle  armi  per  la  difesa  della 
patria,  e  1'  ode  quinta  ha  per  soggetto  i  nemici  e  la  vera  virtil  per  la  quale  si 
trionfa.  L'  ode  tei'za,  riferendosi  naturalmente  ai  concetti  di  saggezza  espressi 
innanzi,  indica  il  modo  con  cui  l'uomo  possa  pervenire  alle  sedi  degli  eterni, 
e  quivi  ricevere  il  battesimo  dell'  immortalità,  e  l' ode  quarta  prende  le 
mosse  dal  favore  delle  Muse  verso  Cesare,  per  discorrere  del  trionfo  di  Giove 
sui  Giganti,  della  superiorità  della  forza  regolata  e  sapiente  sulla  forza 
bruta  e  selvaggia,  e  per  infondere  quel  sentimento  religioso,  col  quale  mas- 
simamente si  perviene  al  cielo;  per  incitare,  insomma,  il  popolo  romano,  il 
quale  per  la  fantasia  del  poeta  ha  ormai  raggiunto  la  sua  perfetta  educa- 
zione civile  e  militare,  a  combattere  per  i  suoi  dei,  ad  alimentare  la  fede 
nell'  anima,  e  ad  elevarsi  in  tal  modo  fino  a  loro,  offrendo,  come  in  olo- 
causto, il  frutto  delle  sue  virtù:  le  vittorie. 

In  una  parola,  esso  è  un  poema  dei  piìi  mirabili  che  si  siano  scritti, 
d'un' unità  ben  organata  e  compatta,  d' un' armonia  veramente  insuperabile 
e  d'una  delicatezza  e  d'uno  splendore  d'immagini  addirittura  superbe. 


24  Umberto  Moricea 


Si  ricordi  infatti  il  quadro  omerico  ')  dell'ode  seconda:  è  la  furia  d'una 
battaglia;  dalle  alte  mura  nemiche  la  sposa  e   la  sua   vergine  figlia   osser 
vano  intanto  nel  piano  il  cozzar  dei  guerrieri,  mentre  il  loro  cuore  palpita 
in  affannosa  trepidazione,  le  guance  impallidiscono,  e  dalle  labbra  tremanti 
esala  un  voto,  come  un  sospiro  : 

ebeu,  ne  rndis  agminnm 
sponsns  lacessat  regius  aspernm 
tactii  leonem,  quem  cruenta 
per  media»  rapit  ira  caedis  ! 

Si  pensi  ancora  all'  immagine  Aera  e  solenne  di  Regolo,  che  nell'  ode 
quinta  ci  si  mostra  ora  in  Senato  al  cospetto  del  popolo,  nel  momento  di  ri- 
ferire com'  egli  abbia  visto  le  insegne  dei  Romani  sospese  nei  templi  dei  ne- 
mici, e  come  gli  frema  il  cuore  al  dubbio  che  la  viltà  dei  Romani  accresca 
grandezza  a  Cartagine  *),  ed  ora  ci  si  scolpisce  dinanzi,  col  plastico  rilievo 
d'un  monumento,  in  atto  ,d' avviarsi  al  suo  doloroso  destino,  torvamente  vol- 
gendo gli  occhi  al  suolo,  e  con  lento  e  vigoroso  gesto  della  mano  riraovendo 
da  sé  la  vereconda  sposa,  che  chiede  solamente  di  baciarlo,  ed  i  piccoli 
nati,  che  par  di  vedere  attaccarsi  ai  lembi  della  toga  paterna,  ed  il  popolo, 
che  lo  assiepa  intorno  e  gì'  intralcia  il  cammino. 

Che  se  questa  non  è  poesia  veramente  divina  e  più  nobile  ed  alta  di 
quel  che  possa  umanamente  immaginarsi,  che  cosa  crede  il  Friedrich  che 
s'  abbia  à  intendere  per  quel  vocabolo  ? 

11  poema  lirico  d'Orazio  dianzi  esaminato,  è  dunque  il  compendio  del- 
l' opera  riformatrice  d'Augusto,  il  riflesso  legittimo  delle  idee  politiche  e 
delle  condizioni  sociali  di  quel  tempo;  è  l'apoteosi  mirabile  del  nome  del 
popolo  romano  (né  diversamente  Pindaro  celebrava  le  glorie  e  la  nobiltà 
della  tribù,  a  cui  il  vincitore  apparteneva,  intercalando,  come  Orazio,  am- 
monizioni sulla  realtà  della  vita,  perchè  1'  animo  non  si  volgesse  all'  amore 
delle  coue  caduche,  bensì  a  quello  della  virtù,  la  sola  che  vinca  la  morte  !)  ; 
è  l'epopea  di  Virgilio,  ridotta  alle  proporzioni  d'un  componimento  lirico: 
che  se  diversa  ha  la  forma,  essa  tuttavia  convergo  al  medesimo  fine. 

Oltre  di  che  non  bisogna  dimenticare  che  il  contenuto  del  poema,  per 
la  generalità  del  suo  fine  morale,  e  per  l' esattezza  delle  verità  esjrresse, 
non  appartiene  semplicemente  al  popolo  dell'  età  d'Augusto,  ma  si  estende 
a  tutti  i  popoli  e  a  tutti  i  tempi;  onde  più  s'innalza  e  si  propaga,  sino  a 
divenire  umano,  universale  ed  eterno.  Orazio  infine  per  siffatto  genere  di 
poema  è  il  più  efficace  e  forse  l'unico  precursore  dell' epica  modernamente 
intesa  e  trattata;  poiché  invero  io  sento  di  non  poter  leggere  quelle  sei 
odi,  così  ben  connesse  e  commesse  fra  loro,  senza  correre  col   pensiero   al 


')  II.,  I,  154,  T.  291. 
*)  Od.,  V,  vv.  38  8gg. 

O  Pudor  !  I  O  magna  Carthago,  probrusis  |  Altior  Italiae  miiiie  1 


i^uiiiio  Orazio  Fiacco  25 


f^'a  ira  del  Carducci  ').  Non  può  dirsi  infatti  cbe  in  questo  caso  nessun  rap- 
porto unisca  quei  due  poeti  insieme,  quantunque  ciò  sino  ad  oggi  non  sia 
stato  avvertito  da  cliiccliessia  :  ed  esso  piopriameute  consiste  nel  tentativo 
comune  della  riduzione  della  materia  epica  agli  atteggiamenti,  alle  forme 
ed  ai  metri  della  poesia  schiettamente  lirica. 


Che  Orazio  abbia  avuto  sempre  fisso  nella  mente  il  problema  dell'edu- 
cazione umana  non  può  mettersi   menomamente  in  dubbio.  Egli  molto  prima 
eh'  entrasse  nelle  grazie  dell'  imperatore,  ha  cominciato  la  sua  carriera  poe-  ^ 
tica  con  la  satira,  un  vero  miracolo  di  queir  ingegno,  che  accoppia  un  brio 
e  una  gaiezza  elegantissima  ad  una  profonda  cognizione  del  cuore. 

Senoncbè  a  questa  contemplazione  obbiettiva  del  mondo,  che,  alimen- 
tata da  un  sistema  d' idee  filosofiche  e  pratiche,  diventa  morale  e  vede  la 
felicità  nella  temperanza  delle  passioni,  si  aggiunge  il  sentimento,  sì  die 
dall'unione  di  questi  due  termini  opposti,  come  scintilla  da  due  poli,  sgorga 
abbondante  la  lirica,  sentimentale  ed  amorosa  ;  alla  stessa  maniera  che  dal- 
l'osservazione  dei  tempi  e  dal  desiderio  di  Roma  pacifica  dominatrice  del 
mondo  abbiam   visto  nascere  la  lirica  politica. 

Epperò,  leggendo  le  odi  di  Orazio,  noi  sentiamo  in  esse  tutto  un  con- 
certo di  note  sempre  varie  e  molteplici,  un  intersecarsi  e  un  intrecciarsi 
di  elementi  esterni  ed  interni,  obbiettivi  e  subbiettivi,  che,  confondendosi 
insieme,  i)roducono  le  dolcissime  armonie,  ond'  è  eapace  la  lira  multicorde 
d' un' anima  squisitamente  sensibile:  l'odio,  l'amore,  la  gelosia,  il  dispetto, 
l'orgoglio  della  patria,  il  desiderio  della  pace,  il  compianto  per  la  vanità 
della  vita,  il  ricordo  del  passato,  il  pentimento.  Non  v'  è  nessuna  vibrazione 
del  cuore  umano,  che  non  riecheggi  in  quella  poesia.  Senonchò  è  stato  a 
tal  proposito  rimproverato  dal  Friedrich  (1.  e.  jìag.  267)  ad  Orazio  la  pra- 
tica della  dottrina  epicurea,  il  famoso  mihi  vivam  che,  a  giudizio  di  quel 
critico,  dovea  suonar  male  agli  orecchi  di  Mecenate. 

Nient' affatto  !  A  mio  avviso,  il  Friedrich,  così  affermando,  corre  ri- 
schio di  non  aver  capito  la  natura  della  poesia  d'Orazio;  di  non  aver  ca- 
pito cioè  che  il  mihi  vivam,  per  essere  il  nucleo  centrale  e  fondamentale, 
su  cui  s' impernia  la  filosofia  d'  Epicuro,  no  rende  ottimamente  lo  spirito, 
in  quanto,  raijpresentando  la  vita  come  attività  ridotta  all'individuo,  e  ri- 
chiamandola alla  riflessione  in  sé  stessa,  porta  a  vedere  che  cosa  essa  sia, 
e  a  concliiudere  che  la  temperanza  e  il  dominio  dei  sensi  può  solamente 
assicurarle  la  felicità. 


')  Si  ricordi  che  il  Carducci  h  stato  un  appassionato  studioso  di  Orazio  e 
molte  odi  ne  ha  tradotte,  e  molte  reminiscenze  se  ne  rinvengono  <iua  e  là  nella 
sua  opera  poetica. 


26  Umberto  Moricea 


Dèi  resto  anche  in  Virgilio  occorrono  in  più  parti  accenti,  orientati  a 
questa  specie  di  visione  filosofica;  anzi,  per  esempio,  nell'egloga  VI  il  com- 
pianto dei  mali  di  Pasifae  e  di  Tereo  non  è  in  fondo  che  un  inno  di  lode 
alla  teoria  d'Epicuro.  Né  peraltro  Mecenate  stesso ')  (e  il  Friedrich  avrebbe 
dovuto  ricordarlo  !)  è  stato  meno  epicureo  d'Orazio,  di  Virgilio  e  d'Ovidio, 
per  citare  i  più  grandi.  Era  quello  dunque  un  sistema  d'idee  che  meglio 
rispondeva  ai  bisogni  dell'  epoca,  o  che,  per  lo  meno,  trovava  nelle  condi- 
zioni politiche  la  sua  più  legittima  ragione  d'  essere. 

Un'altra  accusa  che  si  è  rivolta  gratuitamente  ad  Orazio  è  stata  quella 
della  instabilità,  con  cui  ora  egli  aderisce  alla  dottrina  stoica,  ora  all'  epi- 
curea, in  evidente  contraddizione  con  sé  stesso. 

Ma  invero  nessuno  ha  badato  che  in  tutti  i  grandi  artisti  le  contrad- 
dizioni sone  state  quasi  sempre  immancabili,  perchè  essi  son  così  fatti  da 
risentire  con  massima  finezza  i  numerosi  influssi  che  vengono  dall'  esterno, 
e  da  rendere  nell'  arte  i  vari  momenti  di  gioia  o  di  tristezza,  di  buono  o 
di  contrario  umore,  a  cui  l'anima  va  spesso  naturalmente  soggetta.  Anche 
nelle  poesie  del  Leopardi,  per  citare  un  esempio,  vi  sono  canti  che  rinne- 
gano la  virtù,  1'  amore,  la  patria,  proclamando  la  vanità  del  tutto  e  la 
realtà  del  dolore  e  della  morte  nel  mondo;  mentre  ve  ne  son  di  quelli  che, 
dettati  in  una  diversa  circostanza,  in  cui  1'  anima,  dopo  un  conforto,  è  riu- 
scita a  diradare  in  breve  tempo  ogni  nebbia  di  pessimismo  intorno  a  sé,  af- 
facciandosi sorridente  alla  speranza,  inneggiano  alla  santità  degli  affetti,  alla 
gioia  della  vita,  alla  grandezza  dell'  Italia,  come  a  beni  e8ist€nti  e  positivi. 
Non  si  é  badato  infine  che  l'attuazione  di  quei  due  sistemi  nella  poesia 
d'Orazio  rende  i  colori  e  le  attitudini  del  sentimento  del  poeta,  il  quale, 
quando  si  accorge,  di  mezzo  ai  suoi  languori  epicurei,  dell'epico  squillo  di 
lina  tromba,  che  annunzi  le  vittorie  romane,  o  dell' imminenza  delle  guerre 
civili,  trova  ancora  la  forza  per  levarsi  in  piedi,  e  dar  voce  all'  invettiva 
dei  giambi  o  alla  stoica  celebrazione  della  virtù. 

Nella  lirica  del  venosino  s'alza  di  frequente  la  voce  che  chiede  il  dolce 
abbandono  alle  delizie  dell'  amore  e  dei  convivii. 


')  Cfr.  Paui-US  Lunderstkdt,  De  C.  Maecenatis  fragmentis  (Commeutationes 
Philologae  leuenses,  v.  IX,  fase.  I),  Lipsiae,  in  aed.  Tciibneri,  1911.  Anche  Au- 
gusto amava  talvolta  dimeuticarsi  delle  cure  politiche  per  mezzo  di  gioie,  che  gli 
facessero  alTerrare  e  godere  l'attimo  fuggente.  Cfr.  Svet.,  Aug.,  e.  83  sgg.  È 
troppo  noto  inoltre  il  famoso  epigramma  di  Augusto,  scoperto  dal  prof.  Hagen  di 
Berna  in  un  manoscritto  bernese  del  X  secolo  (Vedi  :  Fanfulla  della  Domenica, 
An.  Ili,  n.   14),  e  del  quale  i  due  ultimi  versi 

non  semper  gaudere  licet  :  fugit  bora  :  iocemur  ; 
dìtiìcile  est  fatis  subripuìsse  diem 

sembrano  riecheggiare  gli  altri  non  men  famosi  d'Orazio  :   Od.,  I,  11  : 

Dum  loqxiiniur,  fugerit  invida 
aetas  ;  carpe  diem,  qiiam  minimum  credula  postero. 


Quinto   Orazio  Fiacco  27 


E  si  capisce  :  Orazio  era  pieno  dei  ricordi  di  un  passato  affannoso  : 
rivi  di  sangue  erano  scorsi  sulle  campagne  d'Italia;  lotte  civili,  guerre 
contro  i  nemici,  proscrizioni,  esilii,  strazi  d'  ogni  genere  durante  la  repub- 
blica e  ai  primi  anni  dell'impero  avevano  estenuato  l'anima  romana.  Poi 
a  questa  epoca  di  confusione  era  succeduto  un  periodo  di  calma,  che  Orazio 
benediceva  con  la  pienezza  del  cuore,  non  senza  talvolta  un  presentimento, 
come  di  chi  ha  molto  sofferto,  che  quelle  discordie  e  quelle  stragi  potes- 
sero da  un  momento  all'altro  rinnovarsi.   (Od.   I,   14;   Epod.   VII). 

Mai  come  questa  volta  Orazio  riecheggiò  nei  versi  con  più  eloquente 
evidenza  la  voce  del  suo  secolo.  E  veramente  Augusto  era  un  dio,  un  Dio- 
nisio, che  ammansava,  un  Mercurio,  che  conciliava  :  ora  le  campagne  si 
ripopolavano  d'agricoltori,  le  famiglie  riavevano  i  loro  esuli.  In  tanta  se- 
renità Orazio  prova  un  certo  senso  di  stancliezza  come  suol  venire  all'  anima, 
la  quale,  dopo  un  periodo  di  grandi  tempeste  e  di  grandi  paure,  dopo  d' es- 
sere stata  quasi  intronata  da  un  immenso  frastuono,  vede  farsi  intorno  un 
regno  insolito  di  pace,  sì  che,  divenuta  sicura,  s' adagia  soavemente  nel- 
1'  oblio. 

La  primavera  ritorna,  ed  Orazio  invita  gli  amici  a  ricordarsi  della  bre- 
vità della  vita,  per  trarne  motivo  a  godere  ;  a  profumarsi  il  capo  d' un- 
guenti, a  inghirlandarlo  di  mirto  e  di  rose,  e  a  darsi  a  tutti  i  piaceri  con- 
cessi dai  lieti  giorni  e  dalle  danze  di  Venere  e  delle  Grazie  :  poiché  la  morte 
passa,  e  batte  inesorabile  alle  porte  del  ricco  e  del  povero,  e  nelle  sedi  di 
Plutone  non  sono  né  banchetti,  né  amori  (Od.  I,  4  ;  IV,  7  ecc.).  Si  col- 
mino i  capaci  bicchieri  di  oblivioso  massico  ;  si  spargano  dalle  conche  gli 
iinguenti,  s'  intreccino  corone  d'  appio  e  di  mirto  e,  bevendo  sino  alla  fol- 
lìa (Od.  II,  7),  si  dimentichino  le  cure  guerresche  e  politiche,  si  godano 
all'ombra  d'un  platano  le  armonie  dell'eburnea  cetra  di  Lide,  perchè  pre- 
sto avvizziscono  i  fiori  di  primavera,  presto  fuggono  la  verde  età  e  la  bel- 
lezza, e  sopravviene  l'arida  canizie,  nemica  al  dolce  sonno  e  agli  amori.  Se 
poi  viene  l' inverno,  e  il  Soratte  biancheggia  di  neve,  e  gli  alberi  scric- 
chiolano sotto  il  peso  del  ghiaccio,  spenga  le  nostre  angosce  un  bel  foco, 
il  vino,  l' amore,  la  danza,  e,  finché  la  giovinezza  fiorisce,  s' abbiano  gli 
Dei  la  cura  del  resto  (Od.  I,  9).  Chi  é  saggio  beva,  goda  il  presente  e  non 
si  affidi  al  futuro  (Od.  I,  11).  Bacco  sradica  dall'animo  tutti  i  tristi  pen- 
sieri, il  timore  della  povertà,  della  potenza  dei  re  e  delle  armi  nemiche,  e 
dà  anche  eloquenza  (Od.  I,  18;  III,  21;  Epist.  I,  5).  La  virtù  dell' antico 
Catone  si  riscaldava  sovente  nel  vino  (Od.  III,  21)  ;  Ennio  non  s'  accingeva 
all'  opera  di  cantare  le  gesta  degli  eroi  senza  aver  prima  bevuto,  e  Alceo, 
sebben  feroce  in  guerra,  dopo  le  battaglie  compiacevasi  di  celebrare  nel 
canto  le  dolcezze  di  Bacco,  delle  Muse,  di  Venere  e  di  Lieo,  vezzoso  pei 
neri  occhi  e  pei  neri  capelli  (Od.  I,  32). 

Orazio  volea  dimenticare,  dimenticare  per  sempre  !  Egli  sentiva  il  peso 
dei  ricordi  ;  avea  tanto  studiato  sugli  uomini,  tanto  esercitato  il  pensiero 
nella  meditazione  intorno  al  vero  valore  dell'esistenza  ;  avea  trovato  la  vita 


28  Umberto  Moricca 


pieim  «li  «Mire  e,  per  «li  pili,  di  brevissima  (liiratii,  «)n«]e  bramava  talvolta 
dedicarsi  un  istante  alle  gioie,  che  gliela  facessero  amare  e  desiderare.  Che, 
se  non  fosse  per  un  vario  complesso  di  differenze  notevoli,  io  quasi  ardi- 
rei affermare  che  1'  intonazione  di  (jnesta  parte  della  poesia  d' Orazio  si 
ripete  pressoché  intatta  nei  celebri   versi  del  Carducci  : 

noi  troppo  odiammo  e  sofferimmo  :  amate  ! 
il  mondo  è  bello  e  santo  è  1'  avvenir. 

Ciò  nondimeno  in  Orazio  la  ragione  il  più  delle  volte,  se  non  sempre, 
prevale  sul  sentimento,  ed  anche  in  mezzo  alle  gioie  egli  seguita  quasi  a 
sentirsi  infelice. 

Su  questo  insieme  di  vita  allora  si  effonde  come  un  pallore  di  malin- 
conia ;  passa  di  tanto  in  tanto,  tra  l'ebbrezza  dei  piaceri  e  lo  strepito  dei 
banchetti,  come  un  brivido  di  gelo,  come  un  trasalimento  che  irrigidisce  il 
riso  sulle  labbra  al  poeta,  e  questo  trasforma  in  una  statua  immobile  e 
pensosa. 

Egli  cerca  l' oblio  in  fondo  al  bicchiere  :  vorrebbe  non  potersi  ricordare 
di  tutto  e  di  tutti  (Epist.  I,  11,  v.  9);  a  Tivoli  sospira  come  a  riposo  di 
sua  stanca  vecchiezza,  come  a  tomba  delle  sue  ceneri,  e  là  invita  gli  amici 
a  spegner  nel  vino  la  tristezza  e  i  travagli  della  vita  {Od.  I,  7;  II,  6;  IV, 
3  ;  Ep.  I,  7)  ;  poiché  per  legge  inesoranda  del  fato,  di  mezzo  ai  piaceri  non 
manca  mai  di  sorgere  una  qualche  amarezza  e  le  lacrime  si  avvicendano  al 
riso,  e  lo  sconforto  alla  gioia  : 

quoniam  medio  de  fonte  leporum 
snrgit  amari  aliquid,  qnod  in  iijsis  lìoribus  angat  ') 

Orazio  ha  l' illusione  di  dimenticare,  ma  il  pensiero  della  morte  gli  si 
rizza  sempre  dinanzi  alla  mente  come  un  fantasma.  Si  adopera  c«m  ogni 
mezzo  ad  acquetar  le  sue  cure,  nello  stesso  tempo  che  vi  pensa,  senza  però 
che  per  questa  via  riesca  a  liberarsene  del  tutto  (Od.  I,  9;  I,  11  ;  II,  3  ; 
II,  11;  III,  12;  29  ecc.);  più  cerca  le  compagnie  degli  amici,  e  più  vede 
negli  altri  l' immagine  della  vita,  e  più  quindi,  di  riverbero,  trovasi  a  con- 
tatto con  sé  stesso,  come  in  una  desolata  solitudine.  Anche  il  Petrarca  fug- 
giva spaventato  dalla  sita  stanzetta  in  Valchiusa,  perché  la  calma,  costrin- 
gendolo alla  meditazione  di  sé  stesso,  tenea  viva,  per  così  «lire,  dinanzi  al 
suo  sguartlo  l' immagine  della  propria  passione  ;  ed  errava  sui  monti,  nelle 
valli,  cercando  dappertutto  un  refrigerio,  e  non  sospettando  neppur  lonta- 
namente che  il  suo  male  era  nell'anima  e  ch'egli  lo  portava  seco  dovunque 

Non  è  però  da  credere,  nel  caso  d'  Orazio,  che  le  situazioni  della  sua 
ricchissima  lirica  tocchino  sempre  direttamente  di  lui,  cioè  a  dire  esprimano 
sempre   fatti,  realmente  accaduti  al  poeta,  o  sentimenti  realmente  provati. 

In  massima  la  sua  lirica,  come  «ibbiam  detto,  porta  con  sé   un   colore 


')  LucRKTii,  T)e  rerum  natura,  Uh.  IV,  vv.   1125-26  (ediz.  Ginssani). 


Quinto  (hasio  Fla^ico  29 


(liftuso  d'  intonazione  elegiaca,  talvolta  anche  un  po'  troppo  disperata  ;  sotto 
il  quale  riguardo  1'  opera  d'  Orazio  non  può  non  richiamare  1'  esempio  del 
poema  di  Lucrezio,  anch'esso  pervaso,  nonostante  la  fede  nella  scienza  e 
in  un  avvenire  migliore,  d""  un  velo  di  malinconia  intensa,  che  gli  veniva 
dal  secolo;  ma  in  particolare  il  poeta  dell'età  d'Augusto  lia  inteso  stu- 
diare e  riprodnrre  certe  situazioni  dell'  anima.  Egli  riferisce  a  sé  tutto  ;  ma 
la  sua  persona  è  un  pretesto  ;  essa  è  propriamente  l'umanità  del  suo  tempo. 
E  ubbidendo  a  tal  fine,  nella  satira  li,  7,  per  esempio,  ha  tìnto  di  trovarsi 
esposto  alle  riprensioni  del  proprio  servo,  mentre  in  effetti  egli  non  rap- 
presenta che  i  vizi  della  maggior  parte  dei  contemporanei. 

La  rilassatezza,  il  bisogno  del  riposo,  il  desiderio  d'  un  godimento  era, 
ripeto,  la  voce  dominante  dell'epoca;  ed  Orazio  rendeva  all'arte  i  motivi 
psicologici  ch'egli  assimilava  dall'esterno  e  facea  propri  senza  saperlo, 
con  quella  giusta  intensità  e  con  quelle  particolari  attitudini  con  cui  essi 
si  agitavano  nell'  ambiente.  Uno  studio,  per  esempio,  sulle  donne  d'Orazio 
confermerebbe  quanto  ho  detto.  Queste  non  son  tutte  greche,  come  dice  il 
nome,  né  tutte  etère  :  in  loro  é  la  donna  com'  é  stata,  com'  è  e  come  sarà 
sempre,  per  variare  di  tempo,  di  pae.se  e  di  fortuna.  Pirra  è  variabile  come 
il  mare  ;  Barine  è  bella,  ma  perfida,  e  circondata  d' adoratori  ;  Asterie 
piange  il  marito  lontano;  Lice  lascia  piangere  sulla  soglia  vietata  l'ama- 
tore. Orazio  nei  suoi  poemetti  erotici  e  conviviali  ha  dato  la  rappresenta- 
zione geniale  e  perfetta  della  vila  giovanile  del  mondo  greco-romano,  la  vita 
dell'età  d'Augusto,  che  per  noi  principalmente  si  compie  con  la  pittura  da- 
tane da  Ovidio,  da  Properzio  e  da  Tibullo.  Il  poeta  ha  tratteggiato  la 
donna  di  tutte  le  condizioni,  di  tutte  le  età,  di  tutte  le  nature;  i  vari 
)nomenti  dell'amore:  la  gelosia,  il  rammarico,  la  riconciliazione,  l'ad- 
dio :  i  motivi  insomma  da  farne  uno  svariato  romanzo  di  costumi,  della 
stessa  importanza  che  ha,  poniamo,  il  SaUricon  di  Petronio  per  l'età  di 
Nerone  ').  Il  Pascoli  ')  ha  raccomandato  al  pittore  che  «  ponesse  nel  bel 
mezzo  e  bene  in  luce  quel  grazioso  e  snello  bronzo  Praxiteleo,  che  è  il 
Nearcho  dell'ode  vigesinia  del  libro  terzo;  il  Nearcho  che  ha  il  ramo  di 
palma  sotto  il  piede  nudo  e  lascia  tremolare  a  un  poco  di  vento  i  capelli 
profumati  e  sparsi  sugli  omeri  ». 

Ma  quanti  altri  delicatissimi  quadretti  non  sarebbero  da  raccomandare 
al  pittore  1 

Si  pensi,  per  un  esempio,  all'ode  ventesima  terza  del  libro  primo,  ove 
Cloe  è  rappresentata  come  una  vergine  timida,  che   non    sa    staccarsi  dalla 


')  Che  Orazio,  come  disse  il  Pascoli  (op.  cit.  p.  Lxxi),  a  fare  questa  pittura 
abbia  vinto  di  molto  Luciano  e  i  suoi  Dialoghi,  non  direi.  Già  per  mia  regola, 
col  dovuto  rispetto  all'  insigne  critico,  io  son  del  parere  che  i  paragoni  è  sempre 
meglio  non  farli  ;  ma,  dato  che  si  debban  fare,  io  veramente  tra  Orazio  e  Lu- 
ciano in  questo  caso  non  saprei  chi  scegliere. 

')  Op.  cit.,  p.   LXXI. 


30  Umberto  2lorieca 


madre,  ed  assomigliata  alla  cervetta,  la  quale  smarrì  sui  monti  la  madre, 
e  muove  a  cercarla,  mentre  teme  d'ogni  foglia,  mossa  dal  vento:  il  cuore 
le  trema,  le  ginocchia  le  tremano,  se  il  vento  scuote  le  fronde  della  Belva 
o  le  lucertole  agitano  il  rovo  'j. 

Si  pensi  all'ultima  strofa  dell'ode  dodicesima  del  libro  secondo:  altro 
bronzo  veramente  prassiteleo  quella  vergine  che,  arrossendo  tutta  nel  volto, 
o  si  piega  benigna  ai  baci,  o  volge  indietro  la  testa  e  s'  allontana  per  poco, 
come  per  togliersi  alle  labbra  ardenti  dell'  amatore,  mentre  alla  line  è  lei 
per  prima  che  offre  a  quello  la  nivea  bianchezza  del  collo,  e  gode  più  essa 
a  prendere  i  baci  furtivi,  che  1'  amante  a  dispensarglieli. 

È  questa  una  rappresentazione  così  squisitamente  colta  ed  espressa  che 
non  ha  invero  nulla  da  invidiare  a  quella,  ad  esempio,  tanto  celebre  di  Ca- 
tullo nei  versi  19  sgg.  del  carme  LXV. 

Tutta  questa  grazia,  questa  finissima  delicatezza  di  linee,  di  sentimenti, 
d'immagini;  tutto  questo  spirito  leggiero  di  malinconia,  che,  come  soffio 
divino,  aleggia,  impregnandola,  sulla  intera  lirica  d'Orazio,  il  Friedrich  non 
comprende,  non  sente  ;  onde  seguita  imperterrito  ad  affermare  che  quel- 
1' anima  non  avea  quasi  affatto  un'idea  di  quello  che  fosse  la  poesia,  que- 
sta fragranza  incantevole  e  sovrumana  :  «  Bei  Horas  ist  nicìiU  Poesie.  Poe_ 
»ie,  diesen  zarten,  uberweltlicheii  Dvft,  veraiand  er  nicht  flilssig  zu  maehen  » 
(I.   e.   pag.   264). 

Orazio  tuttavia  è  grande  ;  e  non  solamente  grande  :  è  anche  profondis- 
simo ;  che  la  leggerezza  di  certe  odi  è  soltanto  apparente  :  anzi  è  da  pen- 
sare che  in  esse  talvolta  il  contenuto  è  più  profondo  che  altrove.  Il  dia- 
logo di  Lidia  e  d'Orazio  (Od.  Ili,  9)  è  un  vero  capolavoro,  che  non  poteva 
essere  immaginato  e  condotto  se  non  da  un  acuto  e  vasto  conoscitore  di 
anime. 

Giusto  mi  sembra  che  abbia  veduto  il  Pascoli  ')  quando  ha  detto  che 
«se  diciamo  leggendo  Catullo  'com'è  vero',  avanti  Orazio  esclamiamo 
'  com'è  profondo  '.  Là  è  la  verità  aperta  a  tutti,  qua  la  verità  scoperta 
dal  poeta  ». 

Si  ricordi  1'  ode  tredicesima  del  libro  primo  ;  si  badi  alla  verità  con  cui 
egli  ritrae,  per  via  d'immagini,  lo  struggimento  furioso  dell'amatore  che 
vede  un  giovane  imprimere  il  segno  del  dente  sulle  labbra  della  propria 
donna  ! 

Si  pensi,  per  citare  ancora  un  esempio  (che  citarli  tutti  porterebbe 
troppo  in  lungo),  all'ode  ventesima  ottava  del  libro  primo:  una  spiaggia 
deserta;  nello  sfondo  monti  selvosi.  Sulla  spiaggia  il  cadavere  d' un  nau- 
frago. Passa,  costeggiando,  una  nave  ;  dalla  nave  un  uomo  vede  e  ricono- 


')  Questa  similitudine,  quautun(nie  rielaborata  in  altro  senso,  suggerì  al  no- 
stro Ariosto  un'ottava  di  tenerissima  dolcezza  e  di  elegantissima  fattura.  (Or/. 
Fur.,  e.  I,  vv.  265  sgg.). 

')  Op.   cit.,   p.   LXX. 


Quinto  Orasio  Fiacco  31 


sce  il  morto,  che  è  Archita,  il  m<atematico,  il  sapientissimo,  a  cui  s'  apri- 
vano tutti  i  misteri,  perfino  quelli  del  cielo,  e  che  ora  invoca  ad  un 
barcaiolo  la  pietà  di  gittargli  addosso  tre  pugni  d' arena. 

La  profondità  e  la  poesia  è  contenuta  appunto  nelle  parole  del  noc- 
chiero :  «  hai  misurato  la  terra,  il  mare,  l' arena  :  ed  ora  sei  qui,  nudo, 
sulle  spiagge  del  Matino.  Che  ti  giova  esserti  spinto  su  su  fino  agli  astri? 
eri  nato  mortale.  Anclie  Pitagora  era  addentro  nei  segreti  dell'  universo,  ed 
è  morto:  tutti  moriamo,  chi  in  guerra,  chi  in  mare;  vecchi,  giovani,  tutti!  ». 

Non  sente  ([ui  dentro  il  Friedrich  1'  affermazione  desolata  della  miseria 
delle  sorti  umane  ?  non  vede  in  questa  scena  un  preludio  a  quella  poi  svolta 
nelVAmleto  dello  Shakespeare,  e  nel  nocchiero  un  personaggio  molto  simile 
al  famoso  becchino  sboccato  e  beffardo,  il  quale  osserva,  rimestando  con  la 
marra  i  miseri  teschi  umani,  che  l'acqua  è  la  più  tremenda  dissolvitrice 
delle  nostre  sporche  carcasse  ?  non  avverte  l' amarezza  liricamente  sublime 
della  poesia  del  Leopardi  ')  ;  la  malinconia  di  alcuni  canti  del  Goethe,  dello 
Schiller,  del  Kotzebue  ;  l'ascetica  e  mistica  rassegnazione  delle  visioni  dei 
sentimentalisti  inglesi,  a  cominciare  dal  Young  ;  1' altezza  vigorosa  di  alcune 
patetiche  odi  del  Gray  ?  Non  si  accorge  che  tutta  questa  immensità  di  pro- 
duzioni moderne  ha  la  sua  sorgente  diretta  o  indiretta  nei  poemetti  d'Orazio? 

Ciò  nonostante  egli  afferma,   con  una sicurezza   che  irrita,   che    non 

meno  della  poesia  a  Orazio  faceva  difetto  la  profondità  :  Wie  der  Poesie  er- 
mangelte  Horaz  der   Tiefe  ')  ! 

Né,  d'  altra  parte,  superficiale  è  in  Orazio  il  sentimento  religioso  che 
il  più  delle  volte  informa  la  sua  poesia,  come  mostra  di  credere  lo  Scho- 
nack  (Op.  cit.  *  31),  il  quale  fa  astrazione  dalle  numerose  rappresentazioni 
mitologiche,  per  la  ragione  che  questi  accenni  alla  leggenda  degli  dei  e  degli 
eroi  sono  un  apparato  poetico  e  non  parte  viva  dell'anima  di  quel  poeta, 
e  consiglia  perciò  l' insegnante  a  non  spenderci  sopra  molto  tempo. 

Io  credo  che  questo  sia  bene  un  gravissimo  errore  del  critico  tedesco, 
il  quale  non  ha  considerato  abbastanza  il  sentimento  artistico  d'  Orazio  e 
gì'  intimi,  inscindibili  suoi  rapporti  col  sentimento  del  divino.  Orazio  non 
era  un  l'eligioso,  ma  ciò  non  toglie  che  sentisse  profondamente  la  religione. 

Non  vi  può  essere  immaginazione  senza  qualche  religiosità  '),  nel  senso 
che  la  religione  può  non  consistere  soltanto  nella  fede,  nella  speranza,  nel 
timore  :  perfln  Lucrezio  vede  la  minaccia  del  Tartaro,  e  Virgilio  la  purifi- 
cazione e  la  candida  innocenza  dell'età  dell'oro.  In  Orazio  anzitutto  la  reli- 
gione è  concepita  come  forza  sociale,  come  parte   dominante,    parte  neces- 


')  Vedi  speoialmeiito  :  la  Ginestra,  la  Sera  del  dì  di  festa,  ecc. 

*)  Op.  cit.,  p.  266.  Ivi  anche  osserva  che  Orazio  in  Epod.,  II,  parla  della  vita 
di  campagna  alla  maniera  di  Virgilio,  ma  che  in  fondo  si  rivela  estraneo  a  quella 
vita  :  altrimenti  non  si  spiegherebbero  i  numerosi  errori  di  storia  naturale,  che 
(|uivi  si  rinvengono  (e  che  noi  non  riusciamo  in  alcun  modo  a  scoprirvi  !). 

^)  Cfr.  Plessis,   La  poesie  latine,  p.  328.  Paris,  1909.  Poirkt,  Borace,  p.  244. 


32  Umberto  Moricea 


saria  dello  stato,  come  il  tesoro  più  prezioso  del  patiiuionio  nazionale,  come 
moralità,  come  regola  (cfr.  Od.  Ili,  1-6)  ;  in  secondo  luogo  non  è  da  cre- 
dere, come  afferma  il  Plessis,  che  la  questione  si  riduce  a  sapere  non  se  i 
versi  d'Orazio  siano  religiosi,  ma  se  sian  belli  davvero.  Non  si  tratta  solo 
della  forma  ! 

Orazio  partecipa  intensamente,  con  l'anima,  delja  bellezza  e  dell'entu- 
siasmo, suscitato  dalla  rappresentazione  del  divino.  Anche  noi  oggi,  leggendo 
la  Bibbia,  ci  sentiamo,  anche  se  poco  credenti,  esaltati  dinanzi  all'  au- 
sterità patriarcale  delle  antichissime  tribù,  e  dinanzi  allo  spettacolo  sopran- 
naturale del  commercio  degli  uomini  col  cielo,  e  dei  sacerdoti  con  Dio.  E 
sì  che  in  quel  monumento  non  manca  davvero  la  poesia  lirica,  che  in  sé  con- 
centri la  vita  e  il  pensiero  d'innumerevoli  generazioni  !  Alla  stessa  maniera 
nella  religione  pagana. 

Come  dunque  Orazio  non  aveva  una  fede  politica,  la  quale  fosse  una 
vera  e  propria  linea  direttiva  delsuo  carattere,  ma  rispondeva  col  cuore  a 
tutte  le  commozioni  della  vita  civile  contemporanea,  con  1'  entusiasmo  d'un 
fanciullo  che  di  tutto  ride  e  di  tutto  piange;  così,  dinanzi  alle  forme  del 
concetto  religioso,  egli,  con  la  fantasia  già  disposta  all'esaltazione,  ritraeva 
in  plastico  rilievo  le  varie  individualità  divine,  le  associava  secondo  i  loro 
attributi,  le  foggiava  con  la  grandezza  e  la  maestosa  imponenza  suggeri- 
tagli dal  sentimento  di  gravità,  proprio  della  (oscieiiza  romana,  e  ne  am- 
mirava l'insieme,  come  se  fosse  un  gruppo  di  monumenti  stupendi.  Epperò 
quello  che  in  sommo  grado  lo  colpiva  era  1'  apparenza  estetica  del  conte- 
nuto religioso  ;  era  la  bellezza  di  quelle  forme  sintetiche  e  vigorosamente 
superiori,  che  lo  attraevano,  trasportandolo  in  una  regione  di  vera  luce  e 
di  vero  entusiasmo.  Nulla  quindi  di  retorico,  nulla  di  affettato,  nulla  di 
falso  ! 

Giove  infatti  gli  si  mostra  nella  tremenda  potenza  di  scuotere  col  pe- 
sante carro  1'  Olimpo,  e  di  scagliare  la  folgore  contro  i  sacri  boschi  pro- 
fanati (Od.  I,  12),  o  in  atto  di  squarciare  col  corusco  fulmine  le  nubi,  e 
di  trarre  per  l'etra  i  tonanti  cavalli  e  il  rapido  carro,  al  cui  passaggio  trema 
la  terra,  i  fiumi,  e  l' averno  ed  i  confini  di  Atlante  {Od.  I,  35). 

Venere  è  una  luminosa  bellezza,  che  splende  in  una  nuvola  d' incenso, 
circondata  da  Cupido  e  da  un  corteggio  di  Grazie  discinte  e  di  Ninfe  ;  la 
Dea  che  rende  amabile  la  giovinezza  {Od.  I,  30)  ;  la  potenza  d'Amore,  che, 
dove  tocca,  avvampa,  e  al  cui  passaggio  s' arrende  ogni  arroganza  {Od. 
Ili,  2C). 

Apollo  appare  con  i  candidi  omeri  avvolti  di  nube  {Od.  I,  2),  o  nel- 
1'  atteggiamento  scultoreo  di  un  giovane  mirabilmente  bello,  a  cui  un  alito 
d'aria  scompiglia  le  lunghe  chiome  fluenti  {Epod.  XV).  Bacco  è  veduto  come 
il  Dio,  che  cinge  le  tempia  di  verdi  pampini  (Od.  ITI,  25),  o  che  trionfa 
degli  elementi,  che  piega  il  corso  dei  fiumi,  che  vince  i  Giganti,  e  a  cui 
Cerbero  si  assoggetta,  lievemente  battendo  la  coda,  e  lambendo  con  le  tre 
lingue  i  piedi  e  le  gambe  al  Dio  (Od.  II,  19). 


Quinto  Orazio  Fiacco  33 


Apparendo  perciò  i  numi  alla  fantasia  del  poeta  come  una  potenza  in- 
dividuata e  concreta,  in  cui  si  riassuma  razionalmente  una  serie  d'affetti  di 
una  determinata  specie,  o  una  serie  di  forze  o  di  fenomeni  naturali  ;  appa- 
rendo come  la  impersonata  bellezza  di  un  concetto  pervenuto,  mediante  un 
processo  d'idealizzazione,  alla  sua  forma  più  alta;  o,  in  altri  termini,  am- 
mirando il  poeta  nella  raffigurazione  astratta  della  divinità  la  perfezione 
della  bellezza  umana,  non  è  da  meravigliare  ch'egli  passi  a  vedere  Augusto, 
il  grande  rappresentante  e  1'  ottimo  custode  della  romulea  gente,  nelle  at- 
titudini d'un  Dio,  chiamato  a  regnare  in  terra  dopo  Giove  (Od.  I,  12),  e 
ad  aver  preghiere  e  sacrifici  insieme  con  gli  dei  tutelari  della  famiglia  (Od. 
IV,  5).  Gli  uomini  allora,  nella  mente  d'Orazio,  per  un  fenomeno  di  rap- 
presentazione artistico-estetica  si  congiungono  con  i  Celesti,  e  l'ideale  po- 
litico si  compenetra  strettamente  con  l' ideale  religioso,  sì  che  il  dividerli 
l'uno  dall'altro  riesca  opera  addirittura  imipossibile,  e  sì  ch'essi  rendano 
in  un  sentimento  comune  i  caratteri  di  quel  mondo  d' idee  morali,  che  Ora- 
zio con  vera  fede  di  poeta  e  d'  artista  alimentò  sempre  nell'  anima  e  nel 
cuore. 

Ma  non  sono  queste  soltanto  le  note  multiformi  della  poesia  oraziana  : 
non  è  solo  l' uniformità  dell'  intonazione  malinconica,  o  la  preoccupazione 
dei  problemi  sociali  e  filosofici  che  la  caratterizza.  Oltre  di  ciò  vi  è  tutta 
una  serie  molteplice  di  aspetti,  che  rispondono  alle  varie  capacità  dell'  in  - 
gegno.  Mirabile  è  la  elastica  prontezza,  con  cui  si  passa  da  un  tono  ad  un 
altro,  percorrendo  tutte  le  gradazioni  e  gli  atteggiamenti,  ond'  è  capace  la 
natura  umana:  dall'epico')  all'elegiaco');  dal  lirico')  al  comico');  dal 
satirico")  al  drammatico  °)  e  all'idilliaco').  Di  notevole  poi  v' è  sopratutto 
questo,  che  anche  nelle  odi  si  ripetono  di  tanto  in  tanto,  sebbene  in  altra 
forma,  i  motivi  degli  epodi,  delle  satire  e  delle  epistole,  in  modo  da  dare 
all'  intera  opera  d'Orazio  il  suggello  d'  una  coerenza  infallibile  di  contenuto 
e  di   forma  *). 


')   Od.,  I,   12  ;  I,   15;  III,  1-6  ecc. 

«)  Od.,  I,  3;  I,  24;   I,  33;  III,  27;  IV,  1;  IV,  7  ecc. 

3)  Od.,  II,  1  ;  II,   19  ;  III,  14  ;  IV,  2  ;  IV,  4  ;  IV,  14  ecc. 

■•)  Od.,  I,  27;  II,  4;  II,  5;  Epod.,  II,  e  buona  parte  delle  Satire. 

5)  Od.,  I,  5  ;  I,  8  ;  I,  25  ;  I,  29  ;  II,   15  ;  III,   16  ;  IV,   13  ecc. 

')  Od.,  1,  28. 

')   Od.,  III,  9. 

*)  Lo  Schonack,  a  questo  proposito,  uel  suo  libro  avrebbe  potuto  manifestare 
il  desiderio  che  venisse  adoperato,  come  mezzo  utilissimo  per  lo  studio  d'Oraeio, 
il  confronto  di  qiielle  poesie,  che,  pur  appartenendo  a  generi  diversi,  più  serbino 
una  spiccata  parentela  fra  loro.  Colgo  intanto  l'occasione  per  suggerire  allo  stesso 
Schonack  quanto  sarebbe  desiderabile  che  1'  insegnante  mettesse  la  poesia  d'  Ora- 
zio in  rapporto  con  le  produzioni  della  letteratura  classica,  oltre  che  con  quelle 
della  moderna,  e  facesse,  ad  esempio,  notare  agli  alunni  come  per  somiglianza 
di  personaggi,  d'azione,  d'epìsodii,  e  per  intendimento  satirico,  la  coena  Naaidieni 

Atene  e  Roma.  '.i 


34  Umberto  Moriccn 


Per  esempio,  l'allusione  maligna  contenuta  nella  chiusa  dell'ode  ot- 
tava del  libro  terzo  ;  lo  scherno,  con  cui  il  poeta  sogghigna  in  faccia  a  Li- 
dia dicendole  che  più  gli  amanti  non  battono  alle  sue  finestre,  e  che  ora 
a  lei,  fatta  vecchia,  non  tocca  che  piangere  in  un  trivio  ed  invidiare  i 
giovani  ')  ;  o  biasima  a  Glori,  anch'  essa  invecchiata,  le  bizzarrie  e  le  vel- 
leità di  farsi  giovane,  e  di  scherzare  anc'oggi,  come  ai  bei  tempi,  in  com- 
pagnia di  leggiadre  vergini,  meirrre  dovrebbe  mettersi  piuttosto  a  filar  la 
lana  ')  •  o  si  rallegra  della  vecchiezza  di  Lice,  che  vive  gli  anni  di  una 
cornacchia  perchè  i  giovani  possano  deriderla,  come  una  fiaccola  incene- 
rita ')  ;  questo  scherno,  ripeto,  non  ha  nulla  di  meno  amaro  e  di  men  pun- 
gente che,  ad  esempio,  le  invettive  degli  epodi  Vili,  XII,  e  XV. 

Moltissime  odi  *)  inoltre  son  destinate  ad  esporre  le  teorie  di  una  vita, 
libera  da  cure  di  ricchezza,  saggia  dominatrice  delle  proprie  passioni  e  con- 
tenta del  poco,  come  in  Epodo  II,  e  come  nella  maggior  parte  delle  satire 
e  delle  epistole.  E  la  nota  infine  dell'apostrofe  acre,  mordace  e  stizzosa  è 
tanto  nelle  odi  che  negli  epodi,  sia  che  il  poeta  biasimi  il  lusso  e  la  cor- 
ruzione dell'età  d'Augusto"),  sia  che  detesti  il  rinnovamento  delle  guerre 
civili  ')  o  lo  sterminio  sanguinoso  dei  popoli  da  parte  dei  tiranni  '). 

Né  deve  credersi  che  questa  svariatissima  produzione  poetica  nient' al- 
tro sia  che  il  fmtto  d'  un'  obbedienza  dimessa  e  rassegnata  alla  volontà  del- 
l' imperatore,  o  di  una  cieca  riconoscenza  ai  doni  di  Mecenate.  Orazio,  come 
vedemmo,  aveva  un  ideale  politico  :  la  grandezza  di  Koma  ;  e  un  ideale  filo- 
sofico :  la  parsimonia  e  il  dominio  delle  passioni. 

Alla  luce  di  questi  principii  egli  dà  libero  sfogo  al  suo  cuore  con  ogni 
indipendenza  di  giudizio,  sì  che  ora  di  fronte  ad  Augusto  lodi  la  nobile 
morte  ")  o  1'  animo  fiero  ")  di  Catone  ;  ora  confessi  ")  a  Mecenate  ch'egli  è 
pronto  a  restituirgli  tutti  i  doni  di  lui,  se  glieli   ha  concessi   a  condizione 


della  satira  ottava  del  libro  secondo  richiami  la  coena  Trimalchionis  del  Satiricon 
di  Petronio;  somiglianza  che  non  ho  mai  visto  ricordata  in  nessuno  dei  commenti, 
oh'  io  sappia  ;  mentre  il  grosso  delle  note  si  occupa  di  lunghe  dissertazioni  in- 
torno al  modo  con  cui  è  disposta  la  mensa  nel  banchetto  di  Nasidieno,  intomo  al 
numero  dei  convitati,  e  intorno  al  metodo  culinario  più  o  meno  scientifico,  piil  o 
meno  moderno,  con  cui  sou  preparate  le  vivande  ! 

1)   Od.,  I,  25. 

')   Od.,  Ili,  15.  ■ 

»)  Od.,  IV,  13. 

■•)  Od.,  I,  22;  I,  38;  II,  2;  II,  3;  II,  10;  II,  11;  II,  14;  II,  16;  II,  18; 
III,   16;  III,  24. 

5)  Od.,  II,  15  ;  III,  6. 

«)  Epod.,  VII. 

7)  Epod.,  XVI. 

8)  Od.,  I,  12. 
»)  Od.,  II,  1. 
">)  EpUt,  I,  7. 


Quinto  Orazio  Fiacco  35 


che  perda  la  propria  indipendenza  ')  ;  senza  che  però  sia  venuta  mai  meno 
un  istante  l'amicizia  d'Orazio  sia  con  Augusto,  sia  col  suo  grande  confidente 
ed  amico.  A  proposito  di  che  io  non  riesco  invero  a  comprendere  donde  il 
Friedrich  ')  abbia  tratto  la  notizia  che  negli  ultimi  anni  si  raffreddarono  le 
relazioni  amichevoli  del  poeta  con  il  suo  protettore,  mentre  divennero  più 
strette  e  più  sincere  quelle  con  Augusto. 

Tralasciando  alcuni  epigrammi  affettuosi  rivolti  da  Mecenate  ')  ad  Ora- 
zio, basterà  ch'io  ricordi,  contro  l'opinione  del  critico  tedesco,  la  frase  ri- 
portata da  Svetonio,  con  la  quale  Mecenate,  morendo,  raccomandava  all'  im- 
peratore che  si  ricordasse  d'Orazio  Fiacco  come  di  lui  stesso  *);  basterà  ch'io 
ricordi  il  fatto  che  Orazio,  sopravvissuto  di  poco  a  Mecenate,  com'egli  stesso 
avea  pi'edetto  "),  ebbe  la  sua  tomba  vicino  a  quella  del  suo  illustre  amico  ')  ; 
e  che,  se  bisogna  prestar  fede  alle  parole  di  Svetonio,  il  venosino  rimase 
fino  all'  ultimo  di  così  liberi  sensi  che  Augusto  disse  chiaramente  in  una 
lettera,  a  lui  diretta,  d'  esser  preso  da  corruccio  perchè  non  gli  era  stata 
dedicata  ancora  nessuna  delle  satire  o  dell'  epistole,  e  domandò  al  poeta  se 
così  faceva  per  timore  che,  mostrandoglisi  amico,  ricevesse  dai  posteri  una 
(jualche  taccia  d'infamia  '). 

Stando  così  le  cose,  la  lirica  d'Orazio,  e  con  ciò  finalmente  conchiudo, 
non  fu  opera  né  d'imitazione  pedissequa  dei  modelli  greci,  né  di  servilismo 
alla  volontà  dell'  imperatore  ;  ma  fu  opera  complessa  di  poesia,  eminentemente 
nobile,  profonda  ed  ispirata  alle  condizioni  morali  e  politiche  del  tempo,  in 
modo  che  da  essa  emerge,  con  tratti  di  originalità  vivissima,  la  personalità 
artistica  del  poeta  ben  distinta  da  tutte  le  altre,  e  destinata  dal  suo  valore 
intrinseco,  universale  ed  umano  ad  una  gloria  vasta,  laminosa,  imperitura 
nei  secoli. 

Umberto  Mokicca. 


■)  Cfr.  A.  Cima,  Studi  oraziani,  pp.  10-16.  Milano,  1886.  Qualunque  sia  il 
valore  della  congettura  del  Cima,  sia  o  no  V  ^ist.,  I,  7,  un  cento  horatianus  di 
episodi!,  forse  riservati  a  lavori  differenti,  rimane  tuttavia  per  me  sempre  certo 
che  intenzione  d' Orazio  era  di  restituire  ogni  cosa  {cuneta  retigno),  pur  di  non 
perdere  la  propria  libertà. 

2)  Op.  cit.,  pp.  267-68. 

•)  Vedi:  Svet.,    Vita  Q.   Roratii  Flacci. 

*)  Horatii  Flacci,  ut  mei,  esto  memor. 

5)  Od.,  II,  17. 

*)  Svet.,  I.  cit.  :  '  hnmatus  et  conditus  est  extremis  Esqniliis,  insta  Mae- 
cenatis  tnmulnm  '. 

')  Svet.,  ibid.  :  '  Irasci  me  tibi  soito,  quod  non  in  plerisque  eiusmodi  scriptis 
(qualia  sunt  Satirae  et  Epistolae)  mecnm  potissimum  loquaris.  An  vereris  ne  apud 
posteros  infamo  tibi  sit,  quod  videaris  familiaria  nobis  esse?  '.  Fu  allora  che 
Orazio  scrisse  1'  epistola  prima  del  libro  secondo. 


36  Recensioni 


G.  L.    Passerini.    Il  vocabolario  paicoliano.   In  Firenze,    G.    C.   Sansoni   editore, 
1915:  pp.   VII-453.  L.   5. 

Parecchio  tempo  prima  che  questo  vocabolario  mi  capitasse  alle  mani,  leg- 
gendo in  una  rivista  di  giovani  battaglieri  e  ingegnosi  una  condanna  sommaria, 
non  tanto  del  modo  con  cui  il  compilatore  ha  lavorato,  qaanto  del  fine  stesso 
ch'egli  s'è  proposto,  dubitai  che  la  sentenza  fosse  meno  spregiudicata  in  realtà, 
che  non  fosse  in  apparenza.  Beati  quei  bravi  giovanotti,  pensai  fra  me  non  senza 
un  po'  di  ragionevole  invidia,  beati  quei  bravi  giovanotti  che  si  godono  tutto  il 
Pascoli  alla  prima  lettnra,  senza  sentir  mai,  o  quasi,  il  bisogno  di  ricorrere  a 
una  spiegazione  lessicale  sicura  e  che  non  faccia  perder  tempo  !  È  ben  vero,  sog- 
giungevo tuttavia  fra  me  subito  dopo,  che  il  Passerini  non  avrà  mica  preteso  di 
venire  in  aiuto  di  intenditori  co.<iì  rapidi  e  immediati  dell'  opera  pascoliana  ;  i 
quali  pur  troppo  non  debbono  poi  essere  frequentissimi  neanche  tra  i  giovanotti 
summa  spe  et  animi  et  ingenii  praediti.  Tra  parentesi  dirò  che  allora  io  non  sospet- 
tavo che  il  Passerini  si  fosse  proposto  di  provvedere  anche  «  a  lettori  [del  Pa- 
scoli] cólti  e  coltissimi  »...;  ma,  per  ripigliare  il  filo,  poiché  nel  breve  annunzio 
bibliografico,  invece  di  censure  particolari  e  determinate,  salvo  un  accenno  alla 
ridondanza  della  materia,  trovavo  se  non  altro  riconosciuta,  sia  pure  con  una 
cert'aria  di  compatimento  ironico,  la  «  precisione  sotto  -ogni  rapporto  ammire- 
vole »  con  cui  il  Passerini,  a  rincalzo  di  ciascun  vocabolo,  riducendo  le  imban- 
digioni pascoliane  a  un  prandium  passerinum,  ha  raccolto  tutti  i  versi  del  Pascoli 
in  cui  quel  vocabolo  compare,  e  polche  «lai  canto  mio  non  mettevo  in  dubbio  la 
precisione  di  tal  riconoscimento,  mi  persuasi  anticipatamente  che  la  fatica  passe- 
riniana  dovesse  essere  utile,  non  solo  ad  aprir  comode  bandite  ai  cacciatori  di 
citazioni,  del  che  infine  infine  nessuno  dovrebbe  provar  gelosia,  ma  anche  ad  age- 
volare a  molti  l'intelligenza  dell'opera  pascoliana,  del  che  tutti  dovremmo  provar 
piacere.  Non  già  eh'  io  presuma  che  basti  spianare  le  difficoltà  lessicali  per  pene- 
trare un  poeta  qualsiasi,  ma  insomma  credo,  e  creder  credo  il  vero,  che,  se  non 
per  tutti,  certo  per  i  piìl,  quelle  difficoltà  nel  Pascoli  vi  siano  e  numerose,  ben 
inteso  anche  fuori  di  quei  vocaboli  che  il  poeta  stesso  si  diede  a  quando  a  quando 
cura  di  spiegarci  brevemente.  Io  almeno  ricordo  e  confesso  che  molte  volte  l'in- 
toppo d'un  vocabolo  o  d'un  significato  che  ignoravo  mi  tolse  di  comprendere  a 
bella  prima  questo  o  quel  verso,  questo  o  quel  tratto  paseoliano,  e  qualche  volta, 
riuscite  vane  le  ricerche  che  io  potevo  fare,  mal  mio  grado  ho  dovuto  rimaner- 
mene nell'  ignoranza  o  nel  dubbio.  Né  io  son  poi  tanto  modesto  da  credere  che 
quello  che  è  accaduto  a  me  non  sia  accaduto  anche  a  molti  altri.  A  me  dunqne 
e  senza  dubbio  a  molti  altri  un  vocabolario  paseoliano  abbastanza  accurato,  anche 
se  ridondante,  non  poteva  non  riiiscir  utile  e  gradito  in  ragione  dell'  utilità,  e 
certo  io  in  grazia  del  pregio  avrei  perdonato  di  cuore  il  difetto.  Per  abbreviarla 
—  che,  se  l'ho  pigliata  larga  perchè  mi  jiremeva  di  mostrare  che  al  liI)ro  del 
Passerini  io  mi  sono  accostato  tutt'  altro  che  mal  prevenuto,  non  c'è  ragione 
omai  di  farla  anche  Inn^a  — ,  per  entrar  dunque  finalmente  in  media»  rei,  qnel- 
l'annunzlo  bibliografico,  anziché  diffidente,  mi  rese  voglioso  del  vocabolario  pa- 
seoliano, e  se  la  voglia  non  fu  subito  appagata,  non  fu  colpa  mia.  Ma  come  po- 
tei avere  il  desiderato  volume,  e  ammiratone  l'aspetto  elegante,  gettai  l'occhio 
sulla  prima  parola  dichiarata  nella  prima  pagina  («  Abante  :  in  forza  d'agget- 
tivo, per  Abanteo  ;  da  Abante,  lat.   ^60»,  re  d'Argo,  padre  di  Acrisio,  avo  di  Da- 


Pecensioni  37 


nae  e  di  Atalante  (?!).  Pokm.  conv.,  40,  3:  Locri,  Etoli,  Focei,  Dolopi,  Abanti  »)  *), 
debbo  dire  che  rimasi  proprio  male,  come  doveva  rimanere  un  romano  di  duemila 
anni  fa  incespicando  nella  soglia.  Non  mi  sarei  davvero  aspettato  così  nuovo  sva- 
rione neanche  da  persona  appena  tinta  di  coltura  classica.  Ma  che  dico  t  Basta 
leggere  il  verso  del  Pascoli,  tutt'  al  piìi  insieme  con  quello  che  lo  precede,  e 
anche  chi  non  ricordi  e  non  abbia  mai  saputo  che  gli  Abanti  erano  gli  abitatori 
dell' Eubea  che,  celebri  per  la  loro  prodezza,  presero  parte  alla  guerra  troiana 
(Iliade,  II,  536  sgg.  ;  trad.  del  Monti,  v.  707  sgg.),  e  per  ciò  appunto  soii  men- 
zionati dal  Pascoli  nel  suo  poemetto  derivato  dalla  polla  perenne  Omerica  ;  anche, 
dico,  chi  non  sappia  o  non  ricordi  questo,  è  subito  avvertito  che  si  deve  trattare 
d'uno  dei  popoli  greci  che  salparono  da  Aulide  e  combatterono  sotto  Troia,  dalla 
filza  di  nomi  che  nel  verso  pascoliano  precedono  la  menzione  degli  Abanti  :  «  gli 
eroi  venuti  con  le  mille  navi,  Locri,  Etoli,  Focei,  Dolopi,  Abanti  ».  Lo  svarione 
ora  dunque  assai  strano  anche  in  persona  che  avesse  soltanto  letto  questi  due 
versi  di  seguito,  così  che  bisognava  proprio  credere  eh'  esso  fosse  da  attribuire  a 
certa  soverchia  contìdeuza  con  cui  l'esegeta  o  vogliam  dire  lessicografo  pasco- 
liane  doveva  essersi,  almeno  in  questo  proposito,  affidato  a  qualche  dizionario  o 
altro  repertorio  simile,  senza  nenimen  darsi  la  briga  di  ripensare  se  la  notizia  là 
pescata  e  presa  pari  pari  rispondesse  o  si  potesse  tirare  al  senso  pih  che  ovvio 
del  Inogo,  a  spiegare  il  quale  essa  doveva  servire.  Ciò  non  ostante  lì  per  11  pen- 
sai ch'era  certo  per  una  disgrazia  che  il  Passerini  s'era  lasciato  andare  a  una  si- 
mile distrazione  proprio  sul  bel  principio,  e  m'aifrettai  a  cercare  nel  vocabolario 
gli  altri  nomi  enumerati  nell'endecasillabo.  Ma,  sebbene  non  spropositate,  neanche 
le  spiegazioni  di  questi  mi  parvero  davvero  felici.  Che  c'entrano  con  l'intendi- 
mento del  luogo  pascoliano  le  notizie  sulle  successive  stanze  dei  Dolopi  e  sulle 
loro  piraterie  nell'Egeo?  Peggio  ancora:  perchè  registrare  per  il  singolare  di 
IStoli  sostantivo  la  forma  aggettivale  Etolio,  e  poi  I.oerete  invece  di  Looroì  Ag- 
giungasi che  per  nessuno  di  questi  popoli,  e  neanche  per  i  Focei,  tra  le  indica- 
zioni geografiche  o  storiche  superflue,  si  ricorda  ciò  che  solo  importava  ricordare, 
cioè  che  tali  popoli  vennero  a  Troia  con  Agamennone  *)  ;  e  che  non  è  mai  rife- 
rito accanto  all'endecasillabo  l'esametro  «  Locri,  Aspledonii,  Focei,  Cefalleui,  Mir- 
inidoni,  Abanti  »  della  prima  redazione  italiana  di  Antielo*):  il  quale  esametro 
anche  più  nettamente  dell'endecasillabo  ci  richiama  al  catalogo  delle  navi  ome- 
rico *).  Dovetti  dunque  conchiudere,  questa  volta  senza  esitazioni,  che  almeno  la 
precisione  non  doveva  essere  il  forte  del  vocabolario  passeriniano.  Del  che,  datomi 
a  esaminare  ordinatamente,  se  non  proprio  segnitatamente,  il  volume,  non  tardai 
ad    avere    innumerevoli  e  certissime  conferme. 

Ecco  infatti,  sempre  nella  iirima  pagina,  subito  dopo  la  spiegazione  di  Ahante 
quella  di  «  abbarbagliare  »  :   «  abbarbagfliare  :  abbagliare,  lat.  caligare.  Offender 


ij  Gli  Abaoti  lini  Pascoli  aono  menzionati  anche  altrove  :  negli  stessi  F.  conti.,  p.  97,  3  sgg. 
«  dal  suolo  degli  Abanti  ricco  di  vigne  >>  (cfr.  Om.  II.,  2,  537|. 

2)  Iliade.  II,  vv.  527  (Aotipo'.),  638  (AiTCtìXo'.),  517  (cpmx^ss),  536  ('ApavTSs)  =  Monti, 
691,  854,  678,  707.  —  I  Dolopi  son  menzionati  nelVlliade  solo  al  libro  IX,  484  =  Monti,  619  ;  ma  la 
sostituzione  dei  Dolopi  ai  Mirmidoni  della  prima  redazione  di  Anticlo  dev'essere  stata  suggerita  dal 
virgiliano  Myrmidomim  Dolopumve. 

'j  V.  la  Flegrea  citata  dal  Pascoli  stesso  nelle  note  aggiunte  ai  Poemi  conviviali  e  la  rivista 
Eroica,  Aprile-Maggio,  1913,  p.  109. 

*ì  Iliade,  II,  511,  631,  684  =  Monti,  870,  846,  915. 


38  Recensioni 


l'altrui  vista  con  luce  soverchia  »  ;  e  qui,  i>rinia  della  citazione  di  frinii  poemetti 
(veramente  il  Passerini  ha  lasciato  correre  Primi  Poemi)  63,  5  :  «  una  vetrata  a 
mezzo  il  poggio  razza  ed  abbarbaglia»,  e  di  Odi  e  Inni,  206,  5  (94,  16  nell'edi- 
zione che  ho  io  ;  ed  è  la  prima,  proprio  come  quella  da  cui  cita  il  Passerini  ; 
V.  p,  442)  :  «  tra  un  odor  di  viole  giallo  ed  un  grande  abbarbagliar  di  sole  »,  una 
citazione  arioetesca  :  Fur.  22,  86.  Il  Passerini,  diciamolo  subito,  compila  anche 
qni,  com'è  suo  vezzo,  la  Crusca;  ma  nello  stesso  temjjo  s'industria  di  cancellare 
le  tracce  della  compilazione.  Il  male  è  che  egli  difficilmente  rinunzia  a  fare  un 
certo  sfoggio  di  dottrina  ;  al  che  gli  par  che  conferisca  mirabilmente,  oltre  al- 
l'immancabile citazione  da  un  nostro  classico,  anche  un  pizzico  del  latino  o  del 
greco  che  insieme  con  la  citazione  trova  già  beli'  e  ammannite  nei  prontuari,  ma 
non  pensa  poi  se  quel  pìzzico  se  la  dica  più  con  la  pietanza  rifatta  *).  Potrei  di- 
mostrar questo  che  all'ermo  con  abbondanza  di  esempi,  e  non  soltanto  raffrontando 
la  Crusca,  ma  non  è  necessario.  Torniamo  dunque  al  nostro  abbarbagliare,  che  ci 
aspetta.  Chi  apra  la  Crusca  a  questa  voce  e  veda  che  l.\  si  registra  anche  l'uso 
di  «  abbarbagliare  »  e  «  abbagliare  »  come  verbi  neutri  (=  «  Non  reggere  la  vista 
al  vedere  distintamente  le  cose  in  leggendo  o  in  far  altro  »  *),  insomma,  con  pa- 
role piti  alla  buona,  «  restare  abbagliato  »),  comprende  subito  come  c'entri  il  la- 
tino caligare  che  nel  raffazzonamento  del  Passerini  ci  sta  proprio  a  pigione  ').  Ma 
invece  di  servirsi  così  male  della  Crusca,  era  qui,  come  sempre,  il  caso  che  il 
vocabolista  pensasse  con  la  propria  testa,  e  avrebbe  visto  facilmente  che  nessuno 
degli  usi  registrati  dal  venerabile  lessico  corrisponde  appunto  a  quello  di  «  abba- 
gliare »  nei  due  luoghi  del  poeta  moderno,  dal  quale  il  verbo  è  stato  usato  asso- 
lutamente nel  senso  di  «  mandar  bagliori  ;  sfolgoreggiare  »  :  e  tanto  e  nient'  altro 
era  da  notare,  se  pure  tal  uso  appariva  degno  di  nota. 

Altre  volte  però  era  il  caso  che  il  Passerini  si  rimettesse  interamente  all'  au- 
torità, soprattutto  quando  l'autorità  era  il  Pascoli  stesso.  Ma  no  !  Le  dichiara- 
zioni sobrie  e  preciso  di  vocaboli  della  Lucchesia  aggiunte  dal  poeta  ai  Canti  di 
Castelvecohio  parvero  troppo  scarne  e  disadorne  al  lessicografo,  il  quale  ha  voluto 
quasi  sempre  rimpolparle  e  imbellettarle,  riuscendo  spesso  a  sfigurarle.  Ecco  qual- 
che esempio  :  «  indafarito  (C.  d.  C.  42  [non  481,  1  :  °el  maggio  indafarito).  — 
Pascoli  :  indafarato.  Pieno  di  faccende.  Passerini  :  lo  stesso  che  indafarato  ;  e 
dicesi,  in  Toscana,  di  Chi  è  pien  di  faccende,  e  cosi  carico  di  lavoro  che  non  sa 
da  qual  parte  rifarsi  ».  Ma  quell'  aggettivo  il  Pascoli  non  l'applica  a  persona. 
Continniamo:  «  mncido  (C.  d.  C.  .50,  2:  quell'odor  di  mucido)  —  Pascoli:  o 
muscido  :  muffa.  —  Passerini  :  Odor  di  stantio,  nauseabondo.  Quel  Savor  di  pu- 


1)  Ben  è  vero  che  alcnne  volte  quel  pizzico  il  Passerini  lo  aggiunge  di  suo,  ma  uou  jiare  che 
sempre,  neanche  allora,  l'indovini:  p.  es.  :  auletride  =  auletes;  Me  (P£r)),  lai.  robvr  ;  bica,  lat.  apex 
(qui  veramente  causa  innocente  dell'  errore  fu  la  Crusca,  ultima  impressione)  ;  concinnare,  lat.  cin- 
cinnare :  remeggiare,  lat.  remeare,  ecc.  AH'  opposto  poi  il  Passerini  non  avverte  in  niun  modo  che 
alinolo,,  aplustre,  attrito  (consumatot,  bure,  chiomante.  Simo  e  cento  altre  voci  pascolìane  sono  latine 
prette 

2)  Io  cito  dalla  Crusca  del  Manuzzi,  che  sola  ho  alla  mano.  Ma  il  Passerini,  dove  ha  jwtuto, 
ha  certo  usato  anche  1'  ultima  impressione,  come  è  chiaro  da  molte  coincidenze  (v.  la  nota  precedente  . 

3;  La  medesima  è  l'  origine  d'  altre  erronee  corrispondenze  latine  date  dal  Passerini  ;  p.  es.  : 
«  enfiare  :  lat.  tumere,  intumescere  ;  Gontiare,  Ingrossare,  Empire  »  e  infatti  1'  esempio  pascoliano  i- 
di  enfiare  transitivo;  né  tocco  la  citazione  di  Matteo  'Villani,  perchè  ivi  il  verbo  enfiare  non  compa- 
risce né  transitivo  uè  intransitivo  :  1*  occhio  del  Passerini  questa  volta  nel  trasceglier  dalla  Cnisca  la 
citazione  é  trascorso  da  enfiare  a  enfiamento. 


Becensioni  39 


irido  che  piglìau  segoataraento  le  carni  macellate,  quando  si  avviano  a  corrom- 
pere per  putredine.  Nella  Fiera  del  Buonarroti  (3,  2,  8):  '*  Come  quei  che  son 
mucidi  pel  tanfo  Della  lor  dappocaggine  "  ».  O  non  è  cotesto  «n  voler  far  gnaz- 
zabiigli  a  tutti  i  costi  f  Odor  di  viucido  varrà  dunque,  non  già  odor  di  mufa^  ma 
odor  di  odor  di  stantio  o  odor  di  savor  di  putrido  ?  E  che  ci  ha  che  fare  con  «  mu- 
cido »  usato  sostantivamente  e  in  senso  proprio  il  mucidi  della  citazione  buonarot- 
tiana  che  la  Crusca  stessa  avverte  essere   aggettiro  con  senso  metaforico  ? 

Né  si  creda  che  io  abbia  cercato  col  lumicino  gli  esempi  più  sfavorevoli  al 
Passerini  :  esempi  come  questi  che  ho  presi  a  caso  abbondano  nelle  440  pa- 
gine del  vocabolario.  Dove  quasi  sempre  le  definizioni  dei  vocaboli  ricchi  di  usi 
o  comprendono  significati  che  non  compaiono  poi  nelle  citazioni  pascoliane,  o 
trascurano  il  significato  necessario  a  qualcuna  delle  citazioni,  così  che  que- 
ste, col  corredo  di  schiarimenti  siffatti,  hanno,  direi  quasi,  l'aria  di  persone 
infagottate  con  vesti  prese  a  nolo,  ora  così  ampie  che  vi  sguazzano  dentro,  ora 
scarse  che  tirano  da  tutti  i  versi  e  qua  e  là  devono  restare  sfibbiate  e  aperte, 
se  pure  non  hanno  addirittura  Paria  di  maschere  pazzerellone  ^).  Pih  spesso, 
anche  per  i  vocaboli  di  significato  più  semplice  e  costante,  la  definizione  è  o 
insufficiente  e  generica*)  o  incerta  o  come  che  sia  disadatta  ')  o  addirittura  onigma- 


1)  Spigolo  da  <iualche  appunto:  «  arce:  lat.  arx,  da  arcendo  al  dir  di  Vairone,  o  meglio  dal 
greco  dtXpOg  (sic),  Luogo  altissimo,  eccelso,  Cacume,  Vertice:  la  Sommità  delle  montagne.  È  anche 
il  Luogo  munita  delle  città.  Vergilio  (Georg.  I,  240):  ....  Kiphaeas.,..  arces  »,  e  in  tutte  le  citazioni 
pascoliaue  arce  è  =  ròcca  (l'Acropoli  d'Ateue  o  il  Campidoglio)  ;  cosi  veggansi  cantoniere,  chiaro 
j  '  chiaro  che  '  è  modo  greco  :  StjXovÓTI,  StJXov  6x1  :  il  Pascoli  ha,  nelle  prose,  rinnovati  altri  modi 
greci,  che  in  un  vocabolario  speciale  dovrebbero  essere  indicati),  pilo,  piota,  vaio  ecc.  D'altra  parte 
i  si^ificati  che,  per  acenliere  qualche  esempio  tra  molti,  il  Passerini  dà  sotto  arguto,  busso,  buono, 
fare.  Invaiare,  loto  non  convengono  rispettivamente  a  l'oemiconv.,  147,  6:  «  \i80  arguto»;  C  di  C, 
121,  9  :  «  il  husso  dei  duri  zoccoli  »  e  La  C.  del  Carroccio,  54,  1  :  «  il  busso  de'  ronconi  sul  pavi- 
mento »  (il  Pass,  vi  premette  la  spiegazione:  «busso:  e  Bosso....  Arboscello....  sempreverde,  che  si 
adopera  ecc.  »)  ;  Poemi  It.,  14,  4:  «  un  rosignnolo  io  lo  voiTei  di  buono  »  ('  di  huono  ',  soprattutto 
con /are  e  dire,  vale  anche  '  sul  serio  '  ;  Manzoni,  Pr.  Sp.  XI:  «quando  si  tratta  d'un  affare  serio, 
vi  farò  vedere  che  non  sono  un  ragazzo....  Farò  di  huono,  e  ci  anderò  »  ;  il  Tommaseo  ha  altresì: 
«  Corrucciarsi  di  huono,  Innamorarsi  di  buono  ».  Il  Passerini  :  «  buono  :  per  Bello,  Convenevole,  Op- 
portuno»); C.  di  C,  92,  6:  «No,  passeri!  sulle  sue  zolle,  no!  non  fate  tanto  vicino»  (dove  il  vere- 
condo/are non  è  certo  «Raccogliere,  Tagliare,  e  simili»);  Primi  Poem.,  58,  9:  «l'uva....  invaia  i 
chicchi»;  O.  e  I.  32,  16:  «lo  squillar  del  loto  chiarosonante»  (solo  il  Passerini  conosce  «Fango, 
Creta  molliccia,  Gora  fangosa  »  che  squilli  chiarosonante,  come  se  il  Pascoli  stesso  non  parlasse  ab- 
bastanza chiaro  e  netto  in  quel  luogo,  trascurato  dal  Pass.,  dei  Poemi  cùnv.  [138,  18  (1*  edìz.ì]: 
«squillare  i  doppi  flauti  di  loto»;  solo  il  Passerini  conosce  Fango  ecc.  che  fiorisca  dolcemente,  ,iiiuc- 
chè  delle  sette  citazioni  raccolte  dal  vocabolista  solo  la  prima  risponde  alla  sua  definizione  e  le  ul- 
time cinque  sì  riferiscono  tutte  al  fiore  famoso  che,  secondo  Omei-o,  toglieva  di  mente  la  patria  a  chi 
se  ne  cibasse). 

-)  V.  p.  es.  incalcinare  (la  citazione  del  Kedi,  presa  al  solito  dalla  Crusca,  ci  ha  che  vedere 
come  il  cavolo  a  merenda  :  incalcinare  è  nel  luogo  pascoliano  la  nota  operazione  a  cui  si  assoggetta 
il  grano  da  seminai;  Insaccarsi  (la  definizione  ridondante  e  supertìna  nella  prima  parte,  naturalmente 
ricalcata  sulla  Crusca,  v  insufficiente  quando  viene  al  buono.  Insaccarsi  nel  Pascoli  non  vale  soltanto 
Tramontare,  ma  Tramontare  tra  le  nuvole,  o,  meglio,  Nascondersi  nella  nuvolaglia,  scendendo  verso  U 
tramonto);  lustrante  {lustranti  buoi  significa,  come  dice  esso  il  Pascoli  in  Poemi  conv.  34,  2,  «che 
hanno  lustro  il  pelo»,  cfr,  in  lat.  niteo,  nitens  e  nitidus);  ecc. 

^ì  V.  agone  [nel  luogo  pascoliano  vale  gara,  certame};  cavo  («Lacedemone  cava»,  cioè  av- 
vallata è  modo  di  Omero,  IL  2,  581  e  Od.  4,  1,  che  intende,  non  la  città,  ma  la  contrada  tra  il  Tai- 
geto  e  il  Parnone*  ;  carreggiare  (non  «  guidare  il  carro  ;  lat.  aurigari  »  e  il  resto,  ma  «  portare  sul 
carro»);  filetto  (i  ragazzi  fanno  a  filetto  sui  muriccinoli  o  per  terra,  con  un  diseguo  tracciato  col 
gesso  per  tavoliere  e  sassi  per  pedine  ;    ma  il  Passerini  vuol  nobilitar  tutto,   anche  i  giuochi  dai  mo- 


40  Kecensioni 


tira  *);  e  lascio  stare  l'ambizione  di  certi  fregi  e  svolazzi  di  frase  appiccicati  alle  pa- 
role più  modeste,  e  che  invoglierebbero  a  rivolgere  al  nostro  vocabolista  la  pareuesi 
paseoliana,  o  omerica  che  dir  si  voglia  :  Parlami,  e  narra  senza  giri  il  vero.  (Un  paio 
d'esempi,  tra  parentesi,  per  non  esser  sospettato  di  avventatezza  e  insieme  per  non 
perder  tempo  :  «  coboldo  :  nome,  presso  i  tedeschi,  di  ciascnno  di  qnegli  Ksseri  che 
si  immaginano  nani  e  deformi.  Spirito  folletto».  —  «Enotrie  :  della  Enotria.  Nome 
di  ciascuno  degli  antichi  abitatori  di  quell'  ultimo  lembo  d'Italia  che  fu  così  de- 
nominato da  Enotro  figlio  di  Licaone  ».  Grazioso,  non  è  vero  f  Grazioso  e  chiaro. 
E  pensare  che  il  Passerini  subito  dopo  la  civettuola  definizione  d'Enotrio  cita 
0.  e  I.,  41,  18  :  «  por  i  monti  enotri  »).  Lascio  stare  altresì  le  lungaggini  e  ozio- 
saggini jier  cui,  verbigrazia,  si  spendono  quattordici  righe  per  dilucidare  ed  esem- 
plificare con  versi  di  Dante,  d'A.  Orvieto  o  di  Maria  Pascoli,  nientemeno  che  il 
vocabolo  antelucano,  o,  se  non  altrettante,  bene  spesso  poco  di  meno  in  descri- 
zioni d'animali  o  di  vegetali  generiche  e,  per  così  dire,  slegate,  tolte  come  sono 
di  qua  e  di  là,  senza  che  si  sia  avuta  l'avvertenza  che  almeno  comprendessero 
quel  tratto  che,  avuto  di  mira  dal  Pascoli,  solo  faceva  al  caso  *).  E  sì  che  per 
risparmiare  incertezze  e  lungaggini  sarebbe  bastato  più  d'  una  volta  che  il  Pas- 
serini ricordasse  che  il  Pascoli  nelle  note  delle  sue  antologie  aveva  dato  la  spie- 
gazione lucida  e  calzante.  Ma  già  il  Passerini,  anche  se  l'avesse  ricordato,  non 
si  sarebbe,  credo,  contentato  di  trascriver  quelle  spiegazioni  semplici  e  schiette, 
e  qualche  ritocco,  tanto  per  non  aver  la  noia  di  citar  troppo  spesso  anche  «elle 
illustrazioni  il  Pascoli,  avrebbe  voluto  darvelo  ad  ogni  modo,  come  appunto  ha 
fatto  non  solo  per  le  note  linguistiche  che  il  poeta  raccol.se  in  servigio  de'  Canti 
di  Castelvecchio,  ma  altresì,  e  specialmente,  per  quelle  di  cui  corredò  le  Canzoni 
di  re  Ernia  ').  Piuttosto  dunque  che  insistere  su  questo  proposito,  non  tralascierò 


nelli)  ;  giumella  (il  Pascoli  evidentemente  l'nsa,  non  precisamente  nel  senso  consacrato  dei  dizionari, 
ma  in  nn  senso  derivato)  ;  imperlo  (inutili  piìi  clie  mai  i  commenti)  ;  omeoteleute  (ii  Passerini  non 
si  è  arrischiato  di  ricavarne  il  maschile  singolare,  che  non  era  poi  faccenda  scabrosa,  anche  non  co- 
noscendo che  il  Pascoli  stesso  l' ha  usato,  per  es.  in  Epos,  p.  113  —  è  ben  vero  che  il  Passerini  dichiara 
di  non  avere  usato  gli  scritti  pascolìani  di  critica  letteraria  di  proposito  ;  ma  certo  ha  fatto  male, 
che  anche  nelle  note  di  Kpos  il  Pascoli  mette  la  sua  anima.  In  questo  ponto  stesso,  mentre  verilìcavo 
Inesattezza  della  citazione  fatta  or  ora,  mi  son  ricadute  sott'  occhio  queste  parole,  così  vibranti  ed 
attuali  che  non  mi  so  tenere  dal  trascrìverle  :  «  O  Roma  generosa,  non  imitata  oggi  dai  potenti  che 
hanno  preso  ì  tuoi  nomi  d' impero  e  non  i  tuoi  modi  !  ».  Ma  è  tempo  di  chiuder  la  parentesi);  scassa 
(si  direbbe  che  il  Passerini  non  ha  nemmen  letto  il  primo  esempio  del  Pascoli  eh'  egli  cita  ;  giacché 
anche  soltanto  da  quel  verso  e  pezzetto  di  verso  si  comprende  .subito  che  siamo  in  una  nave  e  in 
mare,  lontano  da  qualsiasi  «  Scassata  >>  e  «  Tratto  di  terra  sollevato  al  pie  degli  alberi  per  divel' 
tarli  ecc.  »). 

^  Un  esempio  solo,  ma  sij  [iuptoi  :  «  Rumi:  appellativo  con  evidente  relazione  al  lat.  ruma 
(mamma)  e  al  tempo  stesso  al  gr.  ^cófiT)  (lat.  robiir)  adoperato  come  sinonimo  di  Koma.  GrH.  Prole- 
taria, 10,  19.  E  Rumi  saranno  chiamati....  Si:  Bomani.  Si:  /are  e  toffrire  da  forti».  È  nn  piccolo 
capolavoro. 

-)  y.  per  esempio  calandra,  balestrucclo-volastruccio,  ballerina-cutrettoia  (dove  la  descri- 
zione del  Bacchi  della  Lega,  non  si  sa  perchè,  è  si)ezzata  in  due  partì,  una  per  ciascuno  dei  due  si- 
nonimi), cappellaccia,  tasso  barbasse. 

=*)  V.  la  spiegazione  di  cobbola,  frigìiare,  gkebì,  muezzin,  uguanno  (il  Passerini  ha  lasciato  cor- 
rere sempre  ugnanno)  ecc.  nelle  note  di  Fior  da  Fiore,  e  salcigno,  scento,  zana  ecc.  in  qnelle  di  Std 
limitare,  e  confrontale  con  le  spiegazioni  del  Passerini.  Qui  basterà  confrontare  la  spiegazione  di 
frignare:  «  si  dice  frignare  del  lamentare  ohe  fanno  ì  bambini,  mezzo  parlando  e  piangendo  »  ;  così 
r  nno,  e  l'altro:  «Fremere  sommesso;  ma  propriamente  quel  Pianto  fìcoso  che  fanno  ì  bambini  e 
che  dicesi  anche  Piagnucolìo,  Piagnisteo  ;  e,  per  estensione,  ogni  Suono  fastidioso  e  lamentoso  ».  C  è 
proprio  bisogno  di  aggiungere  i  nomi  alle  due  spiegazioni,  per  distingnerne  la  paternità  ì 


Recensioni  41 


d'avvertire  ohe  le  omissioni  son  forse  più  numeroso  che  il  Passerini  non  mostra 
di  credere  nel  sno  preambolo  in  forma  di  lettera  al  Rava.  Più  che  altro  a  me- 
moria, prescindendo,  com'è  natnrale,  da  tutte  le  opere  pascoliane  che  il  Passerini 
dichiara  di  non  aver  potnto  mettere  a  profitto,  noto  i  seguenti  vocaboli  che  non 
compaiono  nel  vocabolario  passeriniano  :  dbhen  che,  a  ciò  e  acche  (=  acciocché), 
aguglia  (=  aquila),  alba  o  albata,  albeggiare  (=  biancheggiare),  alzana,  ambire 
(=  girare  intorno  a),  appeziare  (legna),  arto  (=  stretto:  «  erte  ed  arte  vie  »), 
ascesa,  attingere  (con  le  dita  le  corde  dell'arpa),  bocca  (negli  esempi  :  «  Cadeano  giù 
(i  cardi)  con  le  castagne  belle  e  nere  in  bocca  »,  P.  P.  92,  22  sg.  ;  «  avean  le 
gemme  l'uva  in  bocca  »,  N.  P.  25,  11),  borro,  brentoli  (P.  P.  30,  5,  che  il  Passe- 
rini cita  sotto  lillatro,  attenendosi  alla  l'edazione  poi  scartata  dal  i>oeta),  brodiag 
(mentre  il  Passerini  cita  nagailta,  taiga  ecc.,  come  anche  ambessa,  hellelta  ecc.,  senza 
però  neumieno  avvertire  che  son  parole  russe  o  etiopiche),  cannello  (nel  verso  : 
«  E  il  gran  fece  il  cannello,  anzi  i  cannelli  »,  N.  P.  108,  9),  chiarosonante,  chioc- 
cio, cipella,  conca  {del  fonte),  delirare  (=z  uscir  dal  solco,  etimologicamente),  dove 
del  mondo  f  (=  ubi  ierrarumì  «  e  chi  sa,  dov'ora  è  mai,  del  mondo?  »,  N.  P., 
157,  15),  femminella  {■=  «  pollone  venuto  a  piedi  dell'albero  »),  Gandharva,  Kin- 
nara,  lazzeruolo  (il  Passerini  registra  azzeruolo  e  accanto  lazzcruolo  come  voce  non 
pascoliana),  mantiglia,  mimmo  («  Andiamoci,  a  mimmi  »,  Myr.  20,  7),  mueiatto,  mu- 
gik,  mure  (termine  marinaresco),  novello  (degli  uccellini),  ognuni  (così  al  plurale), 
palanca,  Piccolino,  piccolo  e  piccino  (detti  dei  parti  degli  animali  :  della  bodda,  del- 
l'usignolo e  della  rondine),  pinzana,  puntale,  rivibrare  {un  pianto,  come  auon  di 
cetra),  scollo  {del  cappuccio),  stabbialo  (il  Passerini  registra  stabbio  e  accanto  stab- 
bialo come  voce  non  pascoliana),  staccare  (=  risaltare),  selva  (=  castagneto,  C. 
DI  C.  115,  1  ;  cfr.  Fior  da  Fiore  p.  154  :  «  nei  monti  Lucchesi  si  dice  «  selva  » 
senz'altro,  e  s'intende  «  castagneto  »;  Limpido  rivo,  178:  «  Non  si  chiamano 
selve,  costì  i  boschi  di  castagni?  »).  tribolo  (pianta  spinosa),  ecc.  ecc.,  giacché 
non  mi  sarebbe  difficile  continuare  la  lista,  che  chi  sa  quanto  s'  allungherebbe, 
chi  si  sentisse  di  fare  un  controllo  minuto  e  accurato  ;  ma  già  di  queste  stesse 
parole  che  ho  citate,  alcuno  certamente  poteva  e  doveva  registrare  il  Passerini, 
il  quale  pur  indugia  a  rivelarci  che  cosa  sia  l'incudine  e  non  isdegna  di  regi- 
strare abbondevole  e  abbuiare  e  tant'  altre  parole  parimenti  peregrine  o  dubbie.  Ma 
che  piix?  Non  trascura  egli  forse  persin  parecchie  di  quelle  voci  o  frasi  eh'  esso 
il  Pascoli  giudicò  opportuno  di  dichiararci  nell'appendice  dei  Canti  di  Castelvec- 
chio  1  ').  D'  altra  parte  nel  vocalmlario  passeriniano  non  risultano  davvero  sempre 
compinte  e  precise  nemmeno  le  citazioni  pascoliane,  e  così  se  ne  va  anche  la  sol 
lode  concessa  al  compilatore  dal  recensente  della  Voce.  Per  esempio,  di  riessere, 
oltre  riè  dei  C.  d.  C,  si  doveva  citare  risarà  degli  stessi  C.  d.  C,  188,  19,  e 
rifu  dei  P.  P.,  38,  19,  per  tralasciar  risono  di  P.  V.,  140,  12;  di  toffo,  oltre  O. 
e  I.,  «  un  toffo  di  terra  »  dei  P.  F.,  92,  14:  di  notturno  in  senso  avverbiale 
(Ibant  noctnrni  di  Virg.),  oltre  Comm.  di  Card.,  anche  C.  d.  C.  8,  17  e  P.  conv., 
30,  8;  di  sogliare,  anche  P.  conv.  208,  17:  di  biacco,  anche  JV.  P.,  10,  7;  di  bra- 
mito, oltre  Messa,  0.  e  I.  126,  1  ;  e  così  via,  che  si  potrebbe  andare  avanti  per 
un  pezzo,  anche  con  altre  incompiutezze  e  imprecisioni  d'altra  specie.  Ma  in  cauda 


')  accorore  =  giungere  al  cuore;  collo  {portare  in);  diluvio  (termine  iTegli  uccellatori), /accende, 
fradicio,  gent^,  mannella,  pigliare  la  zeppala,  tirare  =  prendere  colle  dita  il  filo.  Del  resto  il  Passerini 
non  re;;istra  Kursisiki  e  —  chi  lo  crederebbe  dei  lettori  del  Pascoli  l  —  nemmeno  piada. 


42  Beceìisioni 

venenum.  Tutto  ciò  che  ho  sin  (|ni  notato  Bon  piccolez/.e,  auzi  un  uulla  appetto 
agli  spropositi  d'interpretazione  da  prendersi  con  le  molle  che  nel  vocabolario 
passeriniano,  come  c'era  del  resto  da  aspettarsi  dalla  chiacchierata  su  Ahanle  messa 
là  in  principio  per  insegna,  sono  disseminati  qua  e  là,  un  po'  da  per  tutto.  Ve- 
diamdue  qualcuno.  Oli  acridi  (il  Passerini,  con  peritanza  non  affatto  insolita,  non 
s'è  arrischiato  di  cavarne  il  «ingoiare  acridio)  sarebbero  precisamente  ♦  Le  Kaue 
stridule  e  loquaci  »  cioè  il  «  lat.  acredula  ».  Questa  volta  il  vocabolista,  ridotto 
alle  congetture,  è  ricorso  al  Forcellini,  che  gli  ha  messo  sott' occhio,  col  vocabolo 
press'  a  poco  somigliante  a  quello  del  Pascoli,  la  notizia  che  sunt  qui  putant  (acre- 
dulam),  non  avis,  sed  loquaci»  et  atridulae  ranae  genus  e««e  ;  ora,  poiché  il  Pa- 
scoli diceva  appunto  «  udivo  stridire  gli  acridi  sull'umida  zolla  »,  ce  n'era 
d'avanzo  per  poter  subito  stabilire  l'equazione  acridi  —  rane.  Ma  quasi  non  gli 
bastasse  scambiare  un  animaletto  per  l'altro,  il  Passerini  trasforma  anche  in  ani- 
mali le  piante,  taut'è  vero  che  l'«  arraelliuo  in  fiore  »  dei  Nuovi  Poemetti,  sotto  la 
sua  magica  verga  diventa  I'  armellino  o  ermellino  degli  zoologi  «  uno  animale  il 
quale  è  piìl  moderato,  gentile  e  cortese  che  sia  al  mondo  ;  eh'  egli  non  mangi» 
mai  alcuna  cosa  lorda,  né  mangia  mai  più  d'una  volta  il  di  »,  come  suona  l'im- 
mancabile citazione  antica  non  meno  che  antica  citazione.  K  senza  che  ci  si  allon- 
tani dalla  botanica,  i  »  cauli  con  nel  gambo  rosse  chiazze  e  con  bianchi  fiorellini 
in  cima  »,  insomma  le  cicute  che  Panthide  e  Lcchon  vanno  cogliendo  sul  monte 
tra  lulide  e  Carthaìa,  si  mutano  in  cavoli.  Sicuro  :  «  canlo  (qui  il  Passerini  s'ar- 
rischia di  risalire  al  singolare,  ma  non  è  sempre  vero  che  audente»  fortuna  invai  !)  : 
Cavolo,  lat.  cauli»  »  e  faccio  grazia  al  pazientissimo  lettore  della  solita  citazione, 
che  non  occorre  proprio  ricercare  nel  Buti,  qnand'  è  così  comodo  leggerla  nella 
Crusca.  Le  fattrici  poi  (la  citazione  nel  Passerini,  come  spesso,  è  inesatta  ;  il  Pa- 
scoli ha:  «le  fattrici  non  più  buone  »)  invece  che,  con  termine  zootecnico  ignoto 
alla  Crusca,  ma  non  agli  allevatori,  le  femmine  del  bestiame  grosso,  come,  chi 
non  abbia  il  capo  nel  sacco,  avvia  a  comprendere  il  Pascoli  stesso  con  la  nota 
che  aggiunge  a  pie  di  pagina,  sono  per  il  Passerini  non  so  decidere  se  le  opera- 
trici o  le  fattoresse  :  decida  chi  vuole  perdere  il  suo  tempo  in  quel  pottiniccio 
ohe  è  a  capo  della  pag.  156.  Infine  nella  prefazione  dei  Canti  di  Caatelvecchio 
(«  Canti di  rondini  e  rondini  e  rondini  che  tornano  e  che  vanno  e  che  re- 
stano »  il  Passerini  scova,  io  ve  la  do  in  mille,  nientemeno  che  un  rondino  ') 
(«  per  Rondinino.  Il  Pulcino  della  rondine,  lat.  hirundininus  »  ;  il  Passerini,  non 
c'è  che  dire,  ha  anche  scoperto  il  latino  degno  d'appaiarsi  col  suo  rondino  !)  :  una 
gemma  da  regalare  alla  dovizia  lessicale  zoologica  del  Pascoli,  mentre  da  questa 
è  sottratto  bombo  che,  in  Myricae  22,  11  e  23,  1  e  in  Primi  poemetti  217,  7,  il 
Passerini  spiega  come  equivalente  a  «  Bombito  »  -),  insomma  a  «  Rimbombo,  Ron- 


1)  H  Paeserini  ha  oerto  consitlerato,  a  ano  modo,  il  contesto.  Sabito  dopo  le  parole  citate,  il 
Pascoli  s'interrompe  con  la  domanda:  «  Tropj)i  ?  ».  Dnnqne  ronriiHÌ  dev' essere  mascolino.  Ma  noi  ia- 
renuuo  torto  al  Passerini,  se  lo  tacciassimo  di  abituale  disattenzione.  Attento  come  di  solito,  egli 
lavorando  a  questo  vocabolario,  chi  sa  per  qual  disdetta,  ha  avuto  piuttosto  l'idea  fìssa  di  fiutar  da 
per  tutto  il  difficile  e  il  singolare,  anche  dov'  è  Ih  massima  semplicità  e  pianezza  :  quindi  quel  racco- 
mandarsi innanzi  tutto  a  tutti  gli  aiuti  esterni  iwssibili,  col  bel  risultato  di  farsi  sviare  del  tutto,  e, 
fallendogli  gli  aiuti,  quel  considerar  le  cose  proprio  dal  lato  che  non  sarebbe  venuto  in  mente  a 
nessun  altro. 

-I  Proprio  con  questo  accento  ripetuto  anche  sopra,  così  che  «Sii  maledetto,  lugubre  bombito  » 
diventa,  nella  citazione,  un  beli' endecasillabo  :  peccato  che  venga  dopo  «Sparo  che  i  colli  franto 
iterarono  »;  ma  è  certo  errore  di  stampa  (cfr.  icore,  svédere  ecc.). 


Becensioni  43 


zio  »,  come  se,  per  sospettare  altrimenti,  iiou  bastasse  leggere  nell'  ultimo  luogo 
ora  citato  «  xtridoìio  i  bombi  intorno  ai  fior  d'acanto,  ronzano  l'api  intorno  alle 
verbene  ».  Ma  lasciamo  il  regno  animale  e  vegetale,  accennando  solo  di  sfuggita 
che  il  Passerini  tenta  di  compensarlo  dei  suoi  arbitrii  arricchendolo  imparzial- 
mente da  un  canto  d'nna  mosca  di  bronzo  {che  sarebbe  lo  «  Scarabeo,  insetto  dell'or- 
dine dei  coleotteri,  d'nn  bel  color  bronzeo  brillante,  di  forma  allungata  ecc.  ecc.  »  ') 
e  dall'altro  d'una  gita  (che,  verde  com'è  detta  dal  Pascoli,  dev'  esser  senza  dub- 
bio il  «  Git  o  Gittaione,  lychnis  githago  ;  in  Crescenzio  :...  »,  senonchè  la  citazione 
ognun  sa  dove  può  vederla  a  tutto  suo  agio  *)  ;  lasciani  dunque  il  regno  animale 
e  vegetale  :  ma  nessuno  speri  che  il  Passerini  sia  men  despota  negli  altri  regni. 
Basteranno  pochi  altri  esempi,  che  ormai   m'  immagino  II  lettore    stufo  e  più  che 

persuaso.  Adunque  accomodare  («  questi  due  radicchi con  altr'erbe  amare  »  iu 

P.  P.  4,  17)  in  vece  che  «  preparar  per  il  desinare  »  significa  «  preparare,  cu- 
rare, acconciare  a  modo  le  piante,  quando  s' hanno  a  porre  dentro  terra  »  oppure 
«  potarle  o  annestarle  »;  antelunare  («gli  nomini  vetusti,  antelunari  »,  P.  oonv., 
13,  12)  vale  «  Che  è  innanzi  al  far  della  luna  »  ')  come  risulta  chiaro  dalla  citazione 
del  Sederini,  e  soprattutto  dall'ultima  impressione  della  Crusca  che  s'incontra, 
parola  per  parola,  col  Passerini  sia  nel  definire,  sia  nel  citare  ;  arala  (N.  P.  147,  9: 
«  io  sul!'  aròla  pongo,  oltre  i  sarmenti,  i  gambi  del  granturco,  abili  al  fuoco)  è 
«  Aretta,  piccola  Ara  '  *);  cotta  (P.  P.  97,  17  :  «  O  mamma,  che  il  laveggio  ora  o 
le  cotte  metti  all'uncino  o  sopra  i  capitoni,  da  noi  li  avesti  i  necci  o  le  ballotte!  ») 
è  «  propriamente  la  breve  Sopravvesta  di  lino  bianco  con  mezze  maniche  larghe 
che  i  sacerdoti  ecc.  »  —  chi  se  l'immagina  la  contadina  che  mette  sopra  i  capi- 
toni le  sopravveste  sacerdotali  per  cuocere  i  necci,  come  appende  all'  uncino  il 
laveggio  per  fare  le  ballotte?  ^)  ;  —  lassare  (La  C.  del  Carr.  65,  14  ;  «  lassando 
i  snoi  ronconi  »)  sta  «  per  Affaticare,  Stancare  ;  lat.  lassare,  defatigare  >•  ;  levità 
(nelle  parole  di  Festa  Ital.  :  «  qnell'Arari  di  cos)  incredibile  lenità,  che  non  si 
vede  da  qual  parte  scorra  »,  le  quali  son  traduzione  di  qiielle,  familiarissime  agli 

scolari  del    ginnasio,  Arar incredibili  lenitale  ita  ut  oculis,  in  utram  parlem  fluat, 

iudicari  non  possit  ")  per  il  Passerini  suona  «  Levietà  (sic  ,  Leggerezza,  l'Esser 
mite.  Mansuetudine,  Dolcezza.  Lat.  lenitas.  Il  Cavalca:...»  (al  latino  il  Passerini, 
che  pur  dimentica  o  disdegna  il  Cesare  ginnasiale,  non  rinunzia  più  che  alla  ci- 
tazione ;  non  dico  però  che  l'uno  e  l'altra  gli  costin  fatica  a  sfoderarli)  ;  ripieno 
(nelle  parole  di  Sul  limitare  :  «  la  tela  in  cui  l'ordito  è  il  noto  e  il  ripieno  è  il 
nuovo  »,  parole  e  immagine  care  al  Pascoli,  che  su  per  giù  contemporaneamente 
le  ripeteva  in  un  suo  poemetto  latino  ancora  inedito  :  Pecudes,  18  sgg.  :  sitnt  nane, 
quae  sei»,  discretis  stamima  filis  [l'ordito]  ;  quae  nescis,  radius  Ubi  mox  subtemina  [il 


1)  «0  mi  giuoca  alla  mosca  (lì  rame  o  alla  pentola»,  coliambo  di  Eroda  tradotto  dal  Pascoli, 
in  Lyra  XXXV'I    ediz.  Crusins,  p.  86). 

2.  i<  Gita,...  termine  hicchese.  Porzione,  Quantità»,  Petrocchi,  Dizionario. 

^ì  E  sì  che  il  poeta,  subito  dopo  il  verso  citato,  continua  :  Nacquero  sopra  le  montagne  uere, 
che  ancor  la  luna  non  correa  su  quelle 

*ì  È  termine  romagnolo  che  vien  dal  lat  areola,  e  non  da  arula  :  «  Ir<Ma,  (Aróla)  de  t'ùg.  :  Aiuola 
del  focolare.  Piano  del  focolare  a  livello  del  paWniento  o  alquanto  rilevato  su  di  questo,  dove  si  pon- 
gono le  legna  da  ardere  »  :  cosi  nel  Vocabolario  lìomagnolo-Italiano  di  Antonio  Mattioli. 

&)  Del  resto  l'aveva  avvertito  il  Pascoli  stesso  che  cotte  son  «  ferri  per  cuocere  cialde,  necci  e 
simili  ». 

^i  Anche  neir  asclepiadea  a!  Vitelli  il  Pascoli  ricordò  il  luogo  cesariano  i  «  segnes  Arares  ambi- 
gai  tiuminìs  »,  V.  1  .">. 


44  Becensioni 


ripieno]  ducei  garrului  et  presto  facies  tu  pectitie  telam)  è  così  inteso  dal  Passerini, 
con  parole  del  resto  quasi  uguali  a  quelle  della  Crusca  :  «  ripieno  :  quelle  diverse 
Cose  che  si  adoperano  per  riempire  una  cosa  vuota,  e  anche  Quel  che  non  serve 
a  nulla  ed  fe  come  un  di  piii,  nn  inutile  soperchio,  nn  ingombro  »  ;  la  qual  defi- 
nizione quadra  meravigliosamente  al  ripieno  di  cui  il  lettore  dev'essersi  persuaso 
eh' è  infarcito  tutto  codesto  vocabolario  del  Passerini.  Ma  sono  stufo  anch'io,  e 
non  aggiungerò  altro  se  non  eh'  io  dubito  forte  che  tintinniare  =  tintinnire  sia 
uno  sgraziato  àjiag  XeYótisvov  piuttosto  passeriniano  che  pascoliano.  Che  per  appiop- 
parlo al  Pascoli  basti  proprio  il  verso  «  dove  ora  il  pettirosso  tintinnia  »  ? 

Dopo  quel  che  s'è  visto  insieme,  al  lettore  non  è  indispensabile,  credo,  una 
conclusione.  Tanto,  se  la  volessi  fare  a  modo,  non  persuaderei  certo  il  Passerini. 
Giacché  dovrei  discutere  e  revocare  in  dubbio  i  principi  stessi  metodici  ai  quali 
egli  informa  codeste  compilazioni.  Se  cominciassi  dal  dire  che  questi  son  lavori 
modesti  i  quali  non  che  ripudino  ogni  fronzolo  e  belluria,  accettano  volentieri 
tutti  quegli  espedienti,  come  segni  convenzionali,  abbreviazioni  ecc.,  che  fanno 
risparmiare  lo  spazio,  il  Passerini  si  sentirebbe  quasi  ofteso  ne'  suoi  gusti  sfar- 
zosi. Io  invece  (ed  è  per  questo  che  mi  son  tenuto  pedestremente  e  pedantesca- 
mente alle  osservazioni  materiali  e  incontrovertibili),  io  vorrei  persuaderlo,  e  così 
ottenerne  qualche  cosa,  oltre,  naturalmente,  l'ascrizione  agli  «  ammonitori  e  cen- 
sori saputelli  »  della  sua  opera,  come  dice  Ini  nella  lettera-prefazione.  A  me  .sta 
a  cuore  la  dignità  del  Pascoli  —  con  le  quali  parole  non  voglio  dare  ad  inten- 
dere eh'  io  abbia  mai  avuto  qualche  legame  col  poeta,  che  vidi  solo  di  sfuggita 
sulla  cattedra  di  grammatica  latina  e  greca  in  Bologna;  matant'è:  la  dignità  del 
Pascoli  mi  sta  a  enore  non  meno  che  a  qualche  suo  amico,  e  non  vorrei  proprio 
ch'egli  facesse  senza  sua  colpa  eattiva  figura  accanto  al  D'Annnnzio  e  al  Carducci, 
quando  il  Passerini  raccoglierà  in  un  sol  volume,  come  già  divisa  di  fare,  il  les- 
sico dei  tre  poeti.  Io  dunque  spero  che  allora,  sentendo  in  cuor  suo  nn  vago 
pentimento  d'aver  reso  col  presente  vocabolario  nn  cattivo  servizio  al  Pascoli  e  per- 
sino a  se  stesso,  il  nostro  vocabolista  curerà  la  parte  pascoliana  alquanto  piti  amo- 
rosamente, ripulendola  almeno  dalle  macchie  piil  brutte.  Non  dico  però  che  anche 
così  si  avrà  il  vocabolario  che  il  Pascoli    merita  e  che  s'augurano  i  suoi    lettori. 

Settembre  del  1916.  ADOLFO   GanDIOLIO. 


Studi  della    Scuola  Papirologica    (R.  Accademia    Scientifico-letteraria  in  Milano).  I. 
Milano.  Ulrico  Hoepli,   1915,  8». 

Con  questo  volume  la  Scuola  papirologica  annessa  alla  R.  Accademia  Scienti- 
fico-letteraria di  Milano  inizia  le  sue  pubblicazioni.  Sono  raccolti  in  esso  i  risul- 
tati delle  dotte  indagini  compiute  nel  campo  degli  studi  papirologie!  da  maestri  e 
discepoli,  in  una  proficua  collaborazione.  Il  volume  è  qualcosa  di  più  e  di  meglio 
ohe  una  '  promessa  ',  come,  con  troppa  modestia,  ha  voluto  definirlo  Attilio  De 
Marchi  nel  presentarlo  ai  lettori  :  esso  è,  oltre  che  una  bella  allermazione  del- 
l'attività di  questa  giovine  scuola,  un  saggio  dell'eccellente  preparazione  paleo- 
grafica, storica  e  filologica  dei  suoi  allievi  :  esso  è  tale  insomma,  da  meritare  nn 
posto  cospicuo  tra  le  consimili  pubblicazioni. 

Pochi  sono  i  papiri  inediti  e  quei  pochi  così  mal  conservati,  che  agli  editori 
deve  essere  occorso  non  isoarso  viatico  di  abnegazione  per  cimentarsi  ad  un'  im- 
presa ardua,  per  non  dir   disperata  :  certo  il  fervore  di  neofiti    deve    averli  inco- 


Recensioìii  45 


raggiati  alla  paziente  fatica.  Ricordo,  tra  i  piìi  notevoli  :  un  frammento  di  let- 
tera-relazione a  nn  xó|ir]{,  pubblicato  dal  prof.  P.  De  Francisci  —  e  riprodotto 
anche  in  nitido  fac-simile  :  in  esso  il  prof.  U.  Pestalozza  vedrebbe  un  accenno 
all'  iniziazione  cristiana  e  all'  eucaristia,  ipotesi  invero  non  molto  probabile,  che 
le  espressioni  sn  cui  è  basata  potrebbero  piuttosto  aver  valore  generico  ;  un  fram- 
mento di  lettera  privata  che  il  prof.  Calderini,  per  evidenti  analogie,  ritiene  fac- 
cia parte  della  corrisijondenza  di  Eronino,  pubblicata,  come  è  noto,  nei  Papiri  fio- 
rentini. Il  Calderini  stesso  ripubblica  qui  il  P.  Fay.  204,  nel  quale  ha  felicemente 
identificato  il  principio  degli  'A^mpwiioi  di  Ippocrate. 

La  seconda  parte  del  volume  —  '  Memorie  e  note  '  —  è  dedicata  a  studi  e 
ricerche  intorno  a  testi  papirologici  già  editi.  In  questa  materia,  si  sa,  nessuno 
può  pretender  mai  di  dir  l'ultima  parola  e  sul  materiale  già  noto  c'è  sempre  qual- 
cosa, e  spesso  molto,  da  fare.  Ora  i  valenti  papirologi  milanesi,  a  corto  di  nuovo 
materiale,  hanno  avuto  campo  di  esercitare  la  loro  perspicacia  e  dottrina  in  una 
rielaborazione  di  materiale  già  noto,  ampliando  cioè  commenti  e  illnstrazioni,  col- 
mando lacune,  correggendo  inesattezze,  proponendo  nuove  congetture.  Il  Calderini 
si  occupa  del  /'.  S.  I.  17  —  epigrammi  sepolcrali  :  il  suo  studio,  ricco  di  oppor- 
tuni e  preziosi  raft'ronti,  oltre  che  un  erudito  commento  storico,  filologico,  este- 
tico, metrico  dei  nuovi  epigrammi,  si  può  dire  un  ottimo  contributo  alla  storia 
dell'epigramma  funebre  greco.  Un  altro  papiro  della  Soc.  Italiana  —  il  n."  120, 
florilegio  di  sentenze  —  studia  il  sig.  Ezio  Amodeo,  rintracciando  le  fonti  del- 
l'anonima compilazione  e  dimostrandone  i  rapporti  con  le  raccolte  di  detti  dei 
Sette  Sapienti,  specialmente  con  quella  di  Demetrio  Falereo.  Nel  1'.  S.  I.  131  la 
signorina  Dina  Zappa,  anziché  un  frammento  di  Ehoiai,  vedrebbe  nn'Alcmeonide 
di  un  poeta  ciclico,  o  piuttosto  di  questa  una  tarda  imitazione  alessandrina.  II 
Calderini  esamina  la  redazione  di  un  frammento  del  '  Clitofonte  e  Leucippe  '  di 
Achille  Tazio  (P.  Oxyrh.,  1250)  notevolmente  diversa  da  quella  della  volgata.  E 
tra  le  '  Memorie  e  note  ',  prevalentemente  intorno  a  papiri  letterari,  non  man- 
cano studi  su  testi  documentari,  dovuti  alla  dottrina  d' insigni  giuristi  :  un  sin- 
tetico scritto  del  dott.  Guglielmo  Castelli  sulla  funzione  giuridica  del  auvsoT(ój  o 
au(ncapu)v,  che  compare  nei  documenti  posteriori  alla  constitntio  Antoniniana  ;  una 
nota  del  De  Francisci  sul  significato  e  sull'  uso  dei  termini  gipXtov  e  Pi^XiSiov  ; 
degna  di  rilievo,  dello  stesso  De  Francisci,  una  felice  congettura,  che  permette- 
rebbe di  risanare  un  passo  controverso  del  famoso  Indice  del  Digesto  (P.  S.  I.  5.^), 
congettura  che  sì  appoggia  su  un'  espressione  parallela  dei  Testi  Basilici. 

Eesta  ora  da  accennare  al  '  Lexicon  Suppletorium  in  Sophoclis  fragmenta  pa- 
pyracea  nnnc  primum  reperta  '  compilato,  sotto  la  guida  di  A.  Calderini,  dai 
discepoli  dell'Accademia  milanese  ;  dell'opportunità  di  tale  lavoro,  che  sarà  un 
prezioso  sussidio  per  gli  studi  filologici,  non  è  chi  non  sia  convinto  ;  qui  basti 
dire  che  il  lessico  è  metodicamente  concepito,  coscienziosamente  elaborato  e,  quel 
che  è  tanto  più  notevole  in  un  lavoro  a  cui  hau  posto  mano  poco  meno  che  venti 
giovani  studiosi,  condotto  con  una  certa  norma  di  costante  uniformità. 

Con  una  raccolta  di  '  Recensioni  e  notizie  '  di  alcune  recenti  pubblicazioni 
papirologiche,  dei  professori  Calderini  e  De  Francisci  e  del  dott.  Castelli  si  chiude  . 
il  volume,  che  anche  sotto  l'aspetto  tipografico  è  degno  di  encomio.  Esso  inoltre, 
per  la  varietà  del  suo  contenuto,  non  mancherà  dì  trovare  favorevole  accoglienza 
anche  oltre  la  cerchia  ristretta  degli  specialisti  ;  e  sarà  qnesto  non  piccolo  titolo 
di  benemerenza  per  la  Scuola  di  Milano,  che  della  sua  prima  prova  papirologica 
può  andar  giustamente  orgogliosa.  Teresa  Lodi. 


46  Reeeimioni 


K.  Wyss.  Die  ìlilch  im  Eultus  der  Grieche.n  und  Romer.  (Religionsgeschichtliche 
Versuche  iind  Vorarbeiten,  heransgegeben  von  R.  WCnsch  und  L.  Dkubner, 
XV  Bd.,  2.  Heft).   —  Giesseu,  Topelmann,  1914;  pp.  67. 

Il  latte  ha  avuto  nel  culto  antico  un  uso  molto  largo  ed  un'importanza  molto 
grande.  L'uno  e  l'altro  vengono  studiati  dal  W.  in  questo  opuscolo  condotto  con 
l'abituale  diligenza,  che  siamo  ormai  abituati  a  trovare  in  questa  raccolta. 

L'A.  preferisce  di  iniziare  il  suo  studio  da  alcuni  riti  romani,  nel  quali  gli 
Henibra  di  trovare  meglio  conservato  il  valore  primitivo  del  latte,  sebbene  qualche 
volta  egli  non  riesca  perfettamente  a  separare  ciò  che  fo  originario  e  ciò  che,  in- 
vece, derivò  dalla  Grecia.  Ma,  ad  ogni  modo,  il  materiale  è  sempre  ordinato  con 
precisione  e  chiarezza,  e  la  conclusione  fondamentale  a  cui  giunge  il  W.  difficil- 
mente potrà  essere  impugnata.  Infatti,  egli  ritiene  con  buone  ragioni  che  l'impor- 
tanza del  latte  sia  dovuta  al  fatto  che  i  popoli  indoeuropei  primitivi  davano  mag- 
gior peso  alla  produzione  di  esso  che  non  all'allevamento  del  bestiame,  sicché  già 
in  un'epoca  remotissima  il  latte  acquistò  valore  sacrale. 

Anche  questo,  come  tanti  altri,  è  un  buon  contributo  alla  conoscenza  della 
religione  antica. 

N.  Terzaghi. 

AAOrPA^IA  :  SeXtCov  tfj?  IXXrjvtxfis  XaoYpacptxrJf  Ixatpeiaj.  B',  8-E',  f  (dal  maggio 
1911  al  luglio  191.5).  'Ev  'AS-iiva;;,  1:no\.z.  B.  A.  SaxsXXapiou. 
Come  abbiamo  fatto  per  i  fascicoli  precedenti  (v.  A.  e  B.  XII  388-90  e  XV 
48-49),  così  richiamiamo  1'  attenzione  degli  studiosi  sul  ricco  e  vario  materiale, 
non  solo  folkloristico,  ma  di  piil  campi  affini,  offerto  da  questa  eccellente  rivista, 
organo  della  Società  greca  di  laogratìa.  Accanto  alle  raccolte  copiosissime  di  pro- 
verbi, enigmi,  scongiuri,  formule,  novelle,  favole,  tradizioni,  accanto  al  tesoro 
inesausto  di  canti  e  distici  popolari  (rifiorito  anche  in  occasione  delle  sanguinoso 
gnerre  balcaniche*,  si  schieriino  una  quantità  di  articoli  e  monografie,  alcune  delle 
quali  riguardano  anche  pili  o  meno  direttamente  l'antichità  e  più  da  vicino  il 
mondo  di  Bizanzio  e  la  grecità  medioevale.  Ad.  Adamantios  compie  la  sua  lunga 
e  dotta  indagine  solla  Prova  dellapurità  (B'  521-47  .  V  51-147,  390-446).  S.  Kugeas 
inizia  una  serie  di  ricerche  intorno  alla  laografìa  greca  nel  medioevo,  partendo 
dalle  notizie  demografiche  negli  scolii  di  Arethas  (850-932),  il  celebre  vescovo  di 
Cesarea  e  alunno  di  Fozio  (A'  236-270).  Materiale  affine  ricerca  il  Kuknlé  in  Teo- 
doro Prodromo  (E'  309-32).  La  desiderata  edizione  del  manoscritto  escurialense 
del  poema  di  Digenis  Akritas  ci  è  offerta,  accuratamente  illustrata,  dal  Hesseliug 
(r'  537-604).  Intorno  ai  Cai-miua  graeca  medii  aevi  di  G.  Wagner  fanno  osserva- 
zioni il  Kukulé  (r'  358-81)  e  lo  Xauthodidis  (F'  614-21).  W.  Schultz  istituisce  in- 
teressanti paralleli  orientali  con  enigmi  bizantini  (A'  353  76),  mentre  il  Kyriakidis 
passa  in  rassegna  gli  scongiuri  e  i  farmachi  popolari  contenuti  in  un  ms.  del 
XVII  secolo  (A'  377-86).  Il  Triantaphyllopulos  studia  le  vicende  dell'  àito'xr,puJts 
nell'  età  bizantina  e  nella  giurisprudenza  popolare  moderna  (E'  239-48).  Al  campo 
antico  e  bizantino  si  volge  pure  iu  gran  parte  1'  indagiue,  sempre  copiosa  e  mi- 
rabilmente documentata,  del  direttore  della  rivista,  del  Maestro  insigne  della  de- 
mopsicologia ellenica,  N.  G.  Politis  :  ecco  gli  studi  sui  Canti  popolari  bizantini  (V 
622-652),  il  piano  di  Ricerche  sulla  laografia  greca  nel  medioevo  (F'  605-10),  la  mo- 
nografia su  L'importanza  topografica  delle  chiese  greche  per  il  riconoscimento  di  templi 
antichi  (A'  12-21),  i  ricchi  materiali   di    Toponomastica  (A'  372-600  .  E'   249-308), 


Recensioni  47 


per  tacere,  non  perchè  meno  importanti  ma  perchè  meno  interessano  i  nostri  let- 
tori classicisti,  le  numerose  indagini  di  carattere  folkloristico. 

Come  nei  fascicoli  già  annunziati,  così  anche  in  questi  non  mancano  alcuni 
saggi  che  escono  dal  dominio  ellenico  :  proverbi  bulgari,  canti  nuziali  rumeni, 
proverbi  e  indovinelliturchi,  notizie  sulla  «  festa  del  latte  »  presso  i  Greci  di  lingua 
armena  nella  Bitinia. 

P.  E.  P. 


ATTI    DELLA   SOCIETÀ 


Conforme  alla  circolare  in  data  19  decenibre  1915,  il  26  decembre  u.  s.  ebbe 
luogo  I'  adunanza  generale  dei  Soci.  L'  avv.  Anibron,  anche  a  nome  dei  colleghi 
Anau  e  Galardi,  lesso  la  Relazione  del  collegio  dei  sindaci,  intorno  al  bilancio  con- 
suntivo dell'esercizio  1914-15.  Dopo  breve  discnssione  ed  alcuni  schiarimenti  del- 
l'Economo prof.  Stromboli,  il  bilancio  stesso  risultò  approvato  all'unanimità. 

L'Assemblea  deliberò  pure  di  concorrere  al  nuovo  Prestito  Nazionale  con  parte 
del  capitale  disponibile  e  di  convertire  in  titoli  del  medesimo  quelli  già  sottoscritti 
nel  prestito  precedente. 


SUPPLEMENTO   ALL'ELENCO  DEI   SOCI- 

0.  Esengrini  nob.  Gianandrea,  Milano  A.  Oi'si  comm.  prof.  Paolo,  Siracusa 

»  Savignoni  prof.  Luigi,   Firenze  »  Stella  Marauco  Filippo,  Lanciano 

J.  Briscese  prof.  dr.  Rocco,  Venosa  (Po-  »  Toesca  prof.  dr.                      Firenze 

tenza)  »  Zaiotti  Adolfo,  Carpenedo  (Mestre) 

»  Mancnso  prof.  Umberto,  Pisa  »  Zolli  prof.  Eugenio,  Correggio 


LIBRI  RICEVUTI  IN  DONO 


V.  Peloso.   Osservazioni  sui  frammenti  delle  Georgiche  di  Nicandro.  Napoli,  Tip.  F. 

Giannini,    1915,  in-8,  p.   18. 
P.  Fabbri.  Evoluzione  del  ritmo  nella  prosa  latina.   (Estr.  da  «  Optimae  Litterae  » 

1915,  2-3).  Modena,  1915,  in-8,  p.  24. 

F.  Marci.    Un  caratteristico  documento  di  IyyP''V°C  T'^M'OS  P*''  '"  storia  del  matrimo- 

nio nell'Egitto  greco-romano.  (Estr.  dal  «  Bollettino  dell'  Istituto  di  Diritto- 
Romano  ».  Roma,   1915,  in-8,  p.  36. 

—  —  La  2)roprietà  sacra  nel  diritto  ellenico  e  l'origine  della  locazione  di  cose.  (Estr» 
dalla  «  Rivista  ital.  di  sociologia  »  maggio-agosto,  1915),  p.   12. 

N.  Terzaqhi.  Si/nesii  Cyrenensis  hijmni  metrici  (Estr.  dagli  «  Atti  della  R.  Accad. 
di  Napoli  »,  N.  S.,  IV,   1915),  p.  6.5-123). 

G.  Costa.  Impero  romano  e  Cristianesimo.  (Estr.    da  «  Bilychnis  »,     1915).  Roma, 

1915,  in-8,  p.  49  con  3  tavole. 


48  Libri  ricevuti  in  dono 


L.  Saviononi.  La  ptirijicazione  delle  Prelidi.  Osservazioui  su  le  statue  di  danza- 
trici di  Ercolano.  (Eetr.  da  «  Ausonia  »,  Vili,  1913).  Eonia,  1915,  in-4,  p.  46, 
con  6  figure. 

Aristofane.  Le  Nuhi,  con  note  di  S.  Rossi.  Ditta  Paravia  e  C,  ».  u.  (1915), 
in-16,  p.  XVI-1P2.  L.  3.  (BiVdioteca  scolastica  di  scrittori  greci,  25). 

A.  Cai.dbriki.  Lettere  private  dell' Egitto  greco-romano.  Prolusione  ai  corsi  della 
Scuola  Papirologica  per  1'  anno  1915-16.  Milano,   1915,  in-8,  p.   19. 

D.  COMPARKTTI.  Tabelle  testamentarie  ed  altre  iscrizioni  greche,  edite  ed  illustrate. 
Firenze,  Tip.  Ariani,   1915,  in-4,  \k  52. 

G.  ZUCCANTK.  Aristotele  nella  storia  della  coltura.  Milano.  Tip.  Komitclli,  li>15, 
in-8,  p.  .58. 

G.  PuocACCi.  Intorno  a  un  poemello  latino  di  G.  Jfaacoli  (Cena  in  Caudiano  Ner- 
vae).  Teramo,  Tip.  De  Carolis,  1915,  in-8,  p.  19  (Estr.  dalla  «  Rivista  Abruz- 
zese »,   1915,  fase.  IX). 

A.  G.  Amatucci.  Storia  della  letteratura  romana  redatta  sulle  fonti  antiche  e  sui 
principali  studi  critici.  Voi.  II.  Da  Augusto  al  sec.  V.  Napoli,  Perrella,  1916, 
iu-8,  p.  viii-206,  L.    2. 


ATTILIO   DE   MARCHI 

Un'altra  perdita,  gravissima,  recò  alla  uostra  Società  l'auno  ora 
trascorso,  così  pieno  di  lutto  e  di  strazio:  la  morte  del  prof,  Attilio 
De  Marchi  vicepresidente  del  Consiglio  direttivo  fin  dal  1907  e  pre- 
sidente del  solerte  Comitato  Milanese  tìn  dalla  fondazione,  dovuta  in 
massima  parte  alla  sua  efficace  iniziativa.  Egli  fu  veramente  bene- 
merito del  nostro  sodalizio  per  l'opera  costante  e  amorosa,  nei  Con- 
vegni, nelle  cariche  sociali,  nella  collaborazione  preziosa  al  bollettino, 
nei  suggerimenti  e  consigli.  Gli  articoli  da  Lui  offerti  all'Atene  e 
Roma,  i  graziosi  e  sugosi  volumetti  editi  dal  Comitato  Milanese,  le  «  Let- 
ture Mylius  »  sono  altrettanti  documenti  delle  sue  nobilissime  qua- 
lità di  divulgatore  della  scienza  archeologica  e  filologica,  cui  sajieva 
pur  arrecare  più  severi  contributi,  di  preferenza  negli  Atti  dell'  Isti- 
tuto Lombardo,  che  lo  contò  fra  i  suoi  membri.  Uomo  di  esemplare 
rettitudine,  cittadino  integerrimo  e  benefico,  insegnante  operoso  ed 
efficace,  scrittore  elegante  ed  arguto,  lascia  vivissimo  rimpianto  di 
sé  e  incancellabile  memoria. 


P.    E.  Pavolini,  Direttore.  —  Giuseppe  Santini,  Gerente  responsabile. 
66-916    -  Firenze.  Tip.  Enrico  Ariani,  Via  Gliibellina.  51-53. 


Anno  XIX. 


Marzo-Aprile  1916. 


N.  207-208 


ATENE  B  ROMA 

BOLLETTINO  DELLA  SOCIETÀ  ITALIANA 

PER  LA  DIFFUSIONE  E  L'INCORAGGIAMENTO  DEGLI  STUDI  CLASSICI 

Sede  centrate:  FIRENZE,  Piazza  S.  Marco,  2 


Direzione  del  Bullettino  Abbonami-nto  annuale.     .  L.  8 

Firenze  —  2,  Fiuta  s.  Marco       Cn  fascicolo  separato        .  »   1  - 


Amministrazione 
Viale  Prìncipe  Eiurenio  29,  Firenie 


ATTILIO  DE  MAKCHI  E  "ATENE  E  ROMA" 


Di  Attilio  De  Marchi  quale  scrittore  ed  erudito,  quale  maestro, 
quale  cittadino  che  dedicò  ad  altissimi  ideali  di  cultura  e  di  educa- 
zione sociale  non  solo,  ma  ad  opere  provvide  tanta  parte  della  sua 
attività  infaticabile,  disse  con  illuminata  parola  Carlo  Pascal,  nella 
commemorazione,  tenutasi  la  sera  del  29  gennaio,  per  la  Sezione  mi- 
lanese della  Società  «  .\tene  e  Roma  »,  nella  grande  sala  del  Circolo 
Filologico,  davanti  a  numeroso  e  scelto  uditorio. 

La  figura  sua  nobilissima,  rievocata  con  affetto  profondo  ed  arte 
squisita,  rivisse  nei  cuori  nostri  commossi,  mentre  ravvisavamo  —  e 
più  amaro  si  faceva  il  rimpianto  —  l'anima  di  Lui  grande  ed  ele- 
vata, gentile  e  buona,  e  la  compostezza  serena  di  quel  carattere,  che 
rivestiva  ricche  e  fervide  e  generose  energie  di  mente  e  di  cuore. 

Sapevamo  noi  «Iella  «  Atene  e  Koma  »,  che  l'opera  sua  assidua 
e  intensa,  consacrata  alla  nostra  associazione,  la  quale  pur  rispon- 
deva ad  una  delle  piti  care  idealità  del  suo  spirito,  ad  una  delle  at- 
titudini più  spiccate  del  suo  ingegno,  non  era  tuttavia  che  una  i»arte 
piccola  della  sua  molteplice  e  feconda  attività.  E  fu  caro  a  noi  che 
questa  attività  ci  venisse  rappresentata  per  intero  nella  efficace  sin- 
tesi di  Carlo  Pascal,  ma  desiderammo  pure  i)ercorrere  più  partico- 
larmente la  via  dei  ricordi  che  riguardano  il  nostro  sodalizio  milanese 
«  ritesserne,  per  quanto  è  possibile,  la  storia.  Tale  compito  si  volle 
aifìdare  a  me  che  non  esitai  ad  assumerlo,  non  perchè  io  pensassi 
di  adempirlo  nel  modo  migliore,  ma  per  il  vivissimo  desiderio  di  re- 
care un  tributo  di  affetto  e  di  riconoscenza  alla  venerata  memoria 
del  nostro  Presidente.  Parve  opportuno  che  queste  note  apparissero 
in  questo  nostro  Bullettino,  il  cui  felice  binomio  «  Atene  e  Koma  » 
rappresentò  per  il  nostro  Presidente  e  per  noi  tutti  a  Milano,  il  ti- 

Atene  e  Roma.  1 


50    .  Oarolina  Lanz<mi 


tolo  e  il  simbolo  dell'associazione  intera,  simbolo  che  conserverà  sem- 
pre la  sna  alta  significazione  e  non  cesserà  di  parlare  agli  animi  come 
ricordo  di  antiche  glorie  comuni  a  due  grandi  popoli,  come  monito 
di  comuni  doveri  i)er  la  causa  della  civiltà  nella  storia  del  mondo. 
«  La  Società  Italiana  per  la  diffusione  e  l'incoraggiamento  degli 
studi  classici  afferma  il  suo  programma  nel  titolo  del  suo  Ballettino 
Atene  e  Roma  ».  Così  scriveva  il  De  Marchi  nella  lettera  a  stampa, 
che  nel  febbraio  del  1902  veniva  diffusa  in  Milano,  per  la  prepara- 
zione del  Comitato  locale,  ed  era  firmata  da  un  primo  gruppo  di  soci. 

«  Pur  consapevoli  e  coscienti  —  continuava  la  lettera  —  delle 
necessità  e  delle  aspirazioni  del  presente,  i  soci  milanesi  sentono  quali 
radici  nel  passato  abbia  la  vita  nostra  e  insieme  quanto  ancora  si 
possa  attingere  per  l'avvenire  allo  studio  del  pensiero,  della  bellezza, 
dell'azione  di  Grecia  e  di  Roma.  Lo  dice  il  diffondersi  crescente  di 
tale  studio  appunto  in  quelle  terre  americane  che  rappresentano  il 
flore  delle  energie  pratiche  moderne,  quasi  ad  ammonire  che  non  è 
nostro  pregiudizio  tradizionale  di  stirpe  il  culto  di  quel  glorioso  pas- 
sato, che  fu  pur  ragione  di  nostra  gloria  e  di  nostro  rinascimento. 
Ma  perchè  vera  e  larga  efficacia  vi  sia,  è  necessario  che  anche  fuori 
della  scuola  e  de'  programmi  scolastici,  la  vita,  la  letteratura,  l'arte 
di  que'  due  popoli  nelle  loro  piìi  alte  e  geniali  manifestazioni  dicano 
la  parola  che  le  riveli  ai  diffidenti  e  ai  profani  e  in  tutti  destino 
un  amore  intelligente.  Per  ciò  i  sottoscritti  fanno  appello  a  quanti 
nella  scuola  e  fuori  della  scuola  intendono  e  amano  quell'ideale  o 
mal  compreso  o  ingiustamente  combattuto  ;  che  se  i  mezzi  e  il  fa- 
vore non  mancheranno,  il  nostro  sodalizio  dovrà  alimentare  in  Mi- 
lano, fra  tanto  fervore  d'azione,  una  fiamma  di  pensiero  che  ancora 
può  dar  luce  e  calore  intensi  ». 

Preziose  parole  !  le  quali  valsero  infatti  a  svegliare  e  nutrire  la 
fiamma  che  già  da  più  di  un  decennio  risplendeva  grande  e  vivida 
nella  dotta  e  gentile  Firenze  e  da  poco  tempo  si  era  accesa  anche 
a  Koma.  E  noi,  piccolo  gruppo  di  soci  milanesi,  che  avevamo  sempre 
nell'anima  custodito  il  sacro  fuoco,  che  gli  ideali  della  bellezza,  della 
scienza  e  sopra  tutti  e  sopra  tutto  l'ideale  della  Patria  nostra  grande 
e  potente  e  non  immemore  dell'antico  imperium,  ne  avevamo  riscal- 
dati ed  illuminati  sempre,  accogliemmo  con  entusiasmo  quelle  parole 
e  viva  gratitudine  sentimmo  per  l'Uomo  che  aveva  così  risposto  al 
nostro  appello  e  così  saputo  esprimere  le  nostre  aspirazioni. 

E  con  non  minore  gratitudine  riguardammo  ad  un  venerato 
Maestro  di  filologia  ellenica  non  solo,  ma  di  puro  e  sereno  Ellenismo^ 


Attilio  De  Marchi  e   "  Atene  e  Soma  "  51 

a  Vigilio  Inama  che,  pregato  di  farsi  nostro  capo  nell'attuazione 
del  tanto  accarezzato  disegno  —  e  il  De  Marchi  era  fra  quelli  che 
più  vivamente  ciò  desideravano  —  ci  aveva  additato  il  suo  disce- 
polo :  Attilio  De  Marchi.  «  Io  sono  vecchio  »  —  ricordo  ch'Egli  mi 
rispose  con  quel  suo  indimenticabile  sorriso  che  gli  illuminava  tutto 
il  volto  buono,  ed  era  in  tanto  contrasto  con  quelle  sue  parole,  per- 
chè rivelava  l'anima  sua  sempre  giovane,  fresca  e  serena  —  «  io 
sono  vecchio,  ma  avete  Attilio  De  Marchi  :  Egli  potrà  darvi  energia 
di  azione,  oltre  che  di  pensiero  ». 

L' Inama  acconsentì  tuttavia  di  appartenere  al  nostro  Consiglio, 
Tutti  ricordiamo  con  quale  attenzione  affettuosa  e  devota  il  nostro 
Presidente,  insieme  con  noi,  ne  ascoltava  la  parola  sapiente,  misu- 
rata e  spesso  arguta.  Fu  un  lutto  gravissimo  per  la  nostra  Società 
la  morte  di  Virgilio  Inama,  e  le  parole  commosse  che  il  De  Marchi 
pronunciò,  commemorandolo  innanzi  all'assemblea,  ne  furono  l'espres- 
sione più  profonda  ed  efficace.  Chi  avrebbe  pensato  allora  che  solo 
tre  anni  dopo  Egli  lo  avrebbe  seguito  nella  tomba  ? 


Il  Comitato  di  Milano  era  tutto  raccolto  e  personificato  nel  suo 
Presidente;  si  può  dire  senz'altro  che  il  Comitiito  era  il  l'resideiite. 
Ogni  cura,  ogni  lavoro  Egli  prendeva  sopra  di  sé,  con  attività  in-, 
tensa  e  proficua,  pari  alla  serena  e  tranquilla  modestia  con  cui  Egli 
dava  un  aspetto  di  semplicità,  quasi  di  facilità  naturale  all'opera  sua. 
Quando  ci  radunava  a  Consiglio,  ci  attendeva  sempre  qualche  felice 
sua  proposta  o  (jualche  gradita  comunicazione,  alla  quale  plaudivarao 
unanimi. 

Fu  sua  l'iniziativa  delle  piccole  pubblicazioni,  collo  scopo  di  di- 
vulgare la  conoscenza  dell'antichità  classica. 

Primi  uscirono  in  luce  nel  1908  alcuni  idilli  scelti  di  Teocrito, 
stampati  in  elegantissimo  volumetto  che  fu  tutto  cura  del  prof.  Uberto 
Pestalozza,  e  venne  oflerto  ai  soci  nell'occasione  del  Convegno,  tenu- 
tosi a  Milano.  Si  ebbero  più  tardi  altri  sei  volumetti  di  cui  il  primo, 
Moretum,  con  testo  e  traduzione  a  fronte,  fu  curato  da  Carlo  Pascal  ; 
il  quinto,  Dal  libro  quinto  dell'  Antologia  Palatina,  contiene  la  ver- 
sione poetica  di  epigrammi  scelti  e  prefazione  di  Luigi  Siciliani.  Gli 
altri  quattro  sono  opera  di  Attilio  De  Marchi  e  si  può  dire  che  essi 
hanno  tutto  il  carattere  e  tutto  l'interesse  di  scritti  d'occasione.  Il 
Piccolo  mondo  antico  raccoglie  infatti  dai  papiri  greco-egizi  la  tradu- 


52  Carolina  Laniani 


ziooe  di  alcuni  documenti  della  vita  antica,  ove  «  la  storia  non  ci 
conserva  traccie  di  quelle  classi  umili  e  medie  che  lasciarono  così 
scarsi  ricordi  di  sé  »;  il  Manuale  del  candidato,  ossia  la  lettera  di 
Quinto  Tullio  Cicerone  «  de  petitione  consulatus  »  fu  pubblicata  nei 
periodo  delle  ultime  elezioni  politiche.  L'anno  passato,  un  mese  dopo 
il  disastro  tellurico  che  colpì  l'Italia  nostra,  avemmo  da  Lui  il  vo- 
lumetto intitolato  La  catastrofe  di  Pompei  nelle  lettere  di  Plinio  il 
giovane.  E  ultimi  furono,  nel  maggio  scorso,  I  canti  di  Tirteo.  «  Né 
in  quest'ora  di  trepida  aspettazione  »  —  Egli  concludeva  nel  breve 
esordio  —  «  altra  voce  di  Grecia  antica  potrebbe  trovare  eco  più 
forte  nel  cuore  d'ogni  Italiano  ».  E  veramente  essi  l'ebbero  e  l'hanno 
una  eco  forte  negli  animi  nostri,  ed  essi  ci  sono  ora  cari  e  .sacri. 
anche  perchè  ci  suonano  come  un  saluto  augurale,  eh'  Egli  ci  abbia 
rivolto  nel  dipartirsi  da  noi. 


* 
«  * 


Nell'aprile  del  1908  la  nostra  città  ospitò  il  terzo  Congresso 
della  Società  per  gli  studi  classici,  ed  alla  preparazione  di  esso  il 
De  Marchi  attese  con  mirabile  fervore,  sobbarcandosi,  secondo  la  sua 
consuetudine,  ad  una  parte  grandissima  del  lavoro.  Ed  è  nota  la  fe- 
lice riuscita  di  quella  simpatica  manifestazione,  per  cui  insigni  clas- 
sicisti, convenuti  da  ogni  parte  d'Italia,  si  trovarono  uniti  non  solo 
nei  lavori,  ma  in  geniali  ritrovi  fra  le  bellezze  dell'arte  che  raccoglie 
in  sé  la  nostra  Milano,  fra  le  bellezze  che  la  natura  profonde  sulle 
rive  del  nostro  Lario.  Fu  allora  che  visitammo  la  villa  Pliniana  di 
Torno,  illustrata  da  bellissimi  esametri,  composti  per  l'occasione  da 
Eemigio  Sabbadini  e  offerti  in  dono  ai  congressisti,  e  ci  spingemmo 
fino  alla  perla  del  lago,  alla  ricca  Bellagio. 

Il  Comitato  milanese  aveva  cosi  affermata  la  sua  vitalità  rigo- 
gliosa ed  ebbe  così,  dopo  il  Congresso,  un  considerevole  incremento 
di  soci.  Esso  proseguiva  intanto  nell'esplicazione  dell'opera  sua,  in- 
tesa a  diffondere  il  gusto  dei  classici.  Nello  stesso  anno  1908  fu  te- 
nuto dal  prof.  Uberto  Pestalozza  un  corso  di  traduzione  e  commento 
di  classici  greci. 

Nel  1911  avemmo  da  Luigi  Siciliani  letture  di  poeti  greci,  e 
nell'  anno  successivo  di  poeti  latini,  nelle  migliori  versioni  italiane, 
che  dilettarono  un  numeroso  pubblico  di  soci  e  di  invitati  e  nuove 
simpatie  guadagnarono  alla  nostra  associazione. 

Ottime  e  numerose  furono  le  conferenze  che,  fin  dall'anno  della 


AHilio  De  Marchi  e  ■'  Atene  e  Soma  "  53 


fondazione,  rappresentarono  per  così  dire  la  nota  continuativa  nel- 
l'attività del  nostro  Comitato  e  furono  in  massima  parte  promosse 
dal  Presidente.  La  prima  che  inaugurò  la  vita  milanese  deìVAtene  e 
h'oma  fu  tenuta  il  j>iorno  27  aprile  del  1907  da  Giacomo  Boni,  e 
trattò  di  recenti  scoperte  e  scavi  del  Foro  Traiano.  Seguì  a  breve  di- 
stanza nell'anno  stesso  quella  di  Bartolomeo  Nogara  sulle  pitture 
murali  di  lloma  antica. 

Oi  parlarono  negli  anni  successivi  Giovanni  Patroni  di  Atene  e 
suoi  monumenti,  Ettore  Komagnoli  di  Pindaro,  Giovanni  Oberziner  di 
Antichitìi  moderne,  lo  stesso  De  Marchi  di  JUrcoIano,  del  Foro  Romano. 

A  dare  nuovo  incremento  alle  conferenze  milanesi  sopravvenne 
intanto  la  cospicua  donazione  Mylius,  il  cui  reddito  fornì  al  nostro 
Comitato  i  mezzi  per  invitare  conferenzieri  anche  da  altre  città.  Si 
iniziò  così  il  ciclo  delle  letture  Mylins,  delle  qnali  la  prima  fu  te- 
nuta dal  Presidente  stesso  l'8  di  aprile  del  1910,  col  titolo  Ij  oltre- 
tomba nella  fantasia  e  nella  coscienza  Romana,  e  fu  preceduta  da  pa- 
role di  ringraziamento  e  di  plauso  alla  gentildonna  che  il  genialissimo 
dono  destinava  ad  onorare  la  memoria  della  venerata  madre. 

La  seconda  lettura  Mylius  fu  di  Gerolamo  Vitelli  ed  ebbe  per 
argomento  Euripide  ;  la  terza  di  Lucio  Mariani  trattò  dell'espressione 
del  dolore  nell'  arte  antica. 

'Sei  191 1  avemmo  due  letture  :  la  prima  di  Ettore  Pais,  Roma 
antica  e  la  genesi  dell'  Unità  Italiana,  nel  cinquantesimo  anniversario 
del  riscatto  nazionale  ;  la  seconda  di  Emanuele  L<)ewy  sull'  abito 
nelVarte  greca.  Seguirono  nel  1912  le  conferenze  di  B.  Nogara,  di  G.  12. 
Rizzo  sull'jir<(  Pacis  Augustae,  di  Carlo  Pascal  su  Agrippina;  nel 
1913  avemmo  Cuma,  Pesto,  Pompei  di  Vittorio  Spinazzola,  Diogene  di 
(yiuseppe  Zuccante,  gli  Scavi  del  Palatino  di  Giacomo  Moni;  nel  1914 
gli  Scavi  di  Ostia  di  G.  Calza,  L'Acropoli  di  Atene  e  l'arte  di  Fidia 
di  Gherardo  Gherardini,  Ovidio  maestro  e  poeta  di  abbigliamento  mu- 
liebre di  Ettore  Stampini. 

Al  di  fuori  delle  letture  Mylius  furono  tenute  pure  altre  confe- 
renze. Nel  1910  Serafino  Ricci  parlò  delle  Niobidi,  nel  1911  il  De  Mar- 
chi disse  la  (conferenza  Da  Salamina  ad  Egospotamos,  già  tenuta  a 
Firenze  nell'occasione  del  quarto  Convegno  della  nostra  Società,  e 
nel  1912  Egli  stesso  intrattenne  il  pubblico  dell'«  Atene  e  Roma  » 
su  La  Cirenaica  nell'età  greca  e  romana.  Nel  medesimo  anno  Ettore 
Romagnoli  lesse  le  sue  traduzioni  delle  Baccanti,  déìVAlceste  e  del 
Ciclope  di   Euripide. 

Le  assemblee   ordinarie  del  nostro  Comitato  furono   sempre  av- 


Carolina  Lanzani 


vivate  (la  simpatiche  discussioni,  promosse  dal  nostro  Presidente  <> 
da  qualche  suo  discorso  geniale,  o  dotta  e  importante  comunicazione. 
Fu  trattata  così  nel  1908  la  questione  degli  scavi  di  Ercolano  :  nel 
190t)  si  discusse  intorno  alla  proposta  della  Commissione  Reale  pel 
ginnasio  unico  ;  nel  1910  intorno  alla  proposta  della  Commissione 
reale  per  la  riforma  della  scuola  media.  Il  De  Marchi  parlò  all'as- 
semblea del  1911  dello  stato  degli  scavi  nella  Basilica  di  S.  Lorenzo 
e  dei  problemi  topografici  e  archeologici,  relativi  ad  altri  scavi  com- 
piuti. Nel  1912  si  discusse  intorno  ai  programmi  governativi  per 
l'insegnamento  del  greco.  Gli  scavi  della  cappella  di  S.  Aquilino, 
annessa  alla  basilica  di  S.  Lorenzo,  furono  oggetto  di  una  nuova  in- 
teressante comunicazione  nell'anno  1913,  e  l'assemblea  dell'  anno  suc- 
cessivo 1914  fu  intrattenuta  da  una  interessante  lettura,  La  giornata 
di  iSesto  Vibio  Sabino,  alla  fine  della  quale  il  De  Marchi  fu  salutato 
da  un  unanime  applauso. 

Fu  questa  purtroppo  l'ultima  volta  che  la  sua  dotta  ed  elegante 
parola  fu  rivolta,  in  forma  di  conferenza,  al  pubblico  dell'*  Atene 
e  Roma  ».  Il  19ir>  fu  au<!lie  per  noi  anno  di  attesa  e  di  raccogli- 
mento nel  pensiero  della  nostra  guerra,  ma  risuonarono  fra  noi  i 
canti  di  Tirteo,  diffusi,  come  si  disse,  fra  i  soci  nell'ultimo  volumetto 
pubblicato  dal  De  Marchi.  Non  cessò  tuttavia  il  Comitato  nostro  di 
rivolgere  l'animo  all'incremento  degli  studi  classici,  col  secondare 
l'iniziativa  del  Presidente,  intesa  a  favorire  anche  in  Milano  lo  stu- 
dio dei  papiri  greci. 

Giunti  al  termine  del  nostro  resoconto,  mentre  chiediamo  venia 
di  qualche  involontaria  omissione,  ci  giova  con  vivo  compiacimento 
riconoscere,  come  dell'opera  di  tanti  uomini  insigni  si  sia  alimentata 
la  vita  del  Comitato  nostro,  sotto  gli  auspici  del  Presidente  che  seppe 
trasfondere  in  esso  tanta  parte  della  sua  nobile  anima  e  del  suo  si- 
gnorile buon  gusto. 

E  auguriamoci  che  V Atene  e  Roma,  a  cui  tante  care  memorie 
sono  omai  legate,  a  cui  sono  sacri  i  nomi  di  venerati  Maestri,  tutti 
perennemente  vivi,  anche  gli  scomparsi,  nei  nostri  cuori,  continui  ad 
esplicare  vigorosamente  l'opera  sua.  E  sia  essa,  così  come  la  vollero 
quei  Maestri,  diretta  ai  piìx  alti  ideali  della  civiltà  e  della  patria,  e 
sia  opera  sì  di  divulgazione  e  di  popolarizzazione,  ma  anche  di  rac- 
coglimento. Raccoglimento  di  spiriti  eletti  cui  gli  studi  professati  pon- 
gono in  diuturno  contatto  colla  bellezza  e  colla  sapienza  antica,  ma 
che  pur  sentono  pulsare  vigorosa  la  vita  per  tutte  le  vene  di  quel- 
l'organismo del  passato  al  quale  pur  sempre  apparteniamo,  e  che,  come 


Attilio  Ve  Marchi  e  "Atene  e  Boma  "  55 


per  il  dono  di  una  trascendentale  memoria,  percepiscono  i  rapporti 
continui  fra  le  cose  che  furono  e  le  cose  che  sono.  E  venga  da  essi 
non  solo  la  luce  del  sapere,  ma  il  calore  della  fede  e  dell'entusiasmo 
che  si  propaga  e  trascina  e  avviva  e  feconda.  E  così  viva  e  com- 
batta il  nostro  sodalizio  per  gli  ideali  da  cui  è  nato,  per  sollevare 
in  alto  i  cuori,  per  temprare  ai  grandi  e  nobili  esempi  del  passato 
le  energie  della  nostra  stirpe,  per  difendere,  collo  studio  dei  classici, 
il  sacrosanto  patrimonio  del  nostro  pensiero  nazionale,  per  alimentare 
la  fede  nei  grandi  destini  della  Patria  coi  ricordi  ispiratori  di  gesta 
magnanime,  e  di  opera  assidua  e  pertinace.  E  sia  esso  per  il  lavoro 
forte,  per  l'energia  ostinata,  per  la  fatica  aspra,  per  la  prova  ardua, 
per  la  scuola  diflBcile;  e  stia  contro  il  malinteso  praticismo  e  moder- 
nismo, che  allentando  o  addirittura  spezzando  i  vincoli  col  passato, 
attenua  o  sopprime  la  memoria  della  stirpe  che,  come  la  memoria 
nell'individuo,  è  parte  essenziale  della  psiche  e  della  coscienza  dei 
popoli.  E  stia  contro  ogni  deformazione  malsana  della  coscienza  e 
dell'arte,  quando  specialmente  essa  sia  vestita  di  nomi  alto-sonanti, 
di  forme  speciose,   di  teoriche  lusingatrici  e  corrompitrici. 

Questi  voti  nostri  e  l'opera  che  ad  essi  consacreremo,  siano 
omaggio  perenne  e  tributo  d'affetto  alla  memoria  del  Presidente  fon- 
datore del  Comitato  che  vive  in  questa  Sua,  in  questa  nostra  Mi- 
lano, consapevole  sempre  dei  sublimi  ideali  del  pensiero  ed  esperta 
nella  mirabile  pazienza  del  lavoro. 

«  Ne  ignorent  semina  matrem  »;  «  antiquam  exquirite  matrem  »; 
«  iuvat  integros  accedere  fontes  ».  Furono  questi  i  tre  motti  che  il 
De  Marchi  aveva  proposto  alla  nostra  scelta  per  ornarne  la  tessera 
del  Comitato  riproducente  il  piìx  insigne  avanzo  Romano  della  nostra 
città,  le  colonne  di  S.  Lorenzo.  La  scelta  cadde  sul  primo.  Ma  essi 
ci  tornarono  tutti  e  tre  alla  memoria,  e  più  che  mai  ci  parvero 
l'espressione  di  un  programma,  quando,  raccolti  intorno  alla  sua  bara 
coperta  di  violette,  sentimmo  aleggiare  il  suo  spirito  che  pareva  di- 
scorrerci ancora  di  azione  forte  e  serena,  di  cose  grandi,  belle  e  im- 
mortali, nella  radiosa  giornata  con  cui  finiva  questo  anno  millenove- 
cento e  quindici  pieno  di  fati. 

Carolina  Lanzani. 


DA  MENANDRO  ALLA  COMMEDIA  CLASSICA  ITALIANA 


La  scoperta  dei  più  luughi  e  notevoli  franiiuenti  di  Meuandro 
da  noi  ora  posseduti  suscitò  dapprima  fra  gli  studiosi  una  viva  coin- 
nio/.ioiie. 

Il  Wilamowitz  disse  ^)  che  non  si  poteva  ormai  più  esitai-e  a 
ritenere  Menandro  il  maestro  di  una  nuova,  geniale  sapienza;  che 
egli.  Eschilo  della  commedia,  offriva  al  ])ubblico  non  più  le  bri- 
ciole della  mensa  di  (►mero,  ma  i  frutti  del  giardino  della  vita.  Xon 
meno  entusiasticamente  oe  scriveva  nel  1907  il  Croiset  nel  Joui-nal 
den  savanU. 

A  questi  inni  entusiastici,  che  salutavano  via  via  le  nuove  sco- 
perte, tenne  dietro  la  falange  degli  scritti  filologici.  Lo  studio 
della  «  nuova  commedia  »  riprese  pacato  e  minuto,  fino  a  darne  una 
specie  di  inventario  storico  e  artistico  nel  libro  del  Tx^grand  (Doon- 
Tahleaux  etc). 

La  critica  in  fondo  non  dovette,  conosciuti  <o8Ì  importanti 
brani  del  gran  comico,  cambiare  strada,  né  essi  contribuirono  ad 
avviare  lo  studio  del  teatro,  da  Menandro  alla  fommoflia  a  soggetto, 
verso  una  più  intima  oggettività. 

Qucd  frammenti  non  solo  non  si  sono  pi-estati  alla  divulgazione 
né  pure  fra  le  persone  colte,  ma  lasciarono  in  fine  una  certa  fi'cd- 
dezza  anche  fra  i  dotti,  del  che  basta  a  convincerci  uno  sguardo 
alla   bibliografia    sull'argomento. 

In  realtà  anche  le  scene  più  garbate  sono  assai  esili  e  non  pos- 
sono sostemere  ampi  svolgimenti  (dei  quali  Menandro  si  guarda 
bene  dal  caricarle),  e  in  sostanza,  si  riducono  veramente  a  un  l)el 
«  cicaleccio  »  ^).  Inoltre  vegliamo  talora  afflosciarsi  e  scolorirsi  quella 
stessa  comicità  che  questo  teatro,  così  come  è.  ci  promette. 


')  Neue  JahrbUcher  fiir  rf.  klaim.  Allert.,   l«9!t,  p.  1-13. 

')  Così  si  esprime  il  prof.  Komaonoli  in  mi  suo  articolo  uella  «  Lettura  » 
(Gennaio  1916\  nel  <]nale  espone  con  molta  chiarezza  le  caratteiistiche  prinoipali 
«Iella  «  nnov»  commedia  ». 


Da  Menandro  alla  co-mmedia  vlasmca  italiana  57 


Talora  i)er  esemjiio,  i  personaggi  scherzano  su  so  stessi  e  si 
burlano  della  propria  dappocaggine,  che  forse  il  pubblico  non  ha 
rilevato  bene  da  sé  ^). 

E  feruiiiiinoci  ora  un  i)o'  sulla  comicità  del  teatro  di  Menandi-o 
per  venire  poi  a  quella  dei  suoi  lontanissimi  epigoni. 

Vi  è  una  prima  specie  di  comicità  :  quella  comicità  che  risulta 
da  tutta  una  sctnia,  che  è  nel  nocciolo  della  situazione. 

In  Menamlro,  a  quanto  pare,  un  motivo  comune  in  questo  senso 
doveva  essere  il  seguente:  un  [Kjrsonaggio  agitato  da  una  forte  pas 
sione  si  trova  di  fronte  ad  un  altro  che  non  lo  capis(;e  o  tìnge  di  non 
capirlo,  che  è  ad  ogni  modo  in  uno  stato  d'animo  opposto  al  suo. 
Così,  ad  esempio.  Davo  oppresso  dall'  amore  per  Plangone  si  con- 
fida a  Qeta,  che  è  lontano  le  mille  miglia  dal  pensare  a  cose  di  tal 
genere  -)  ;  e  Smicrine,  vecchio  bisbetico,  in  un  momento  di  somma 
irritazione  e  ansietà,  si  trova  fra  Onesimo,  che  doj)o  alte  considera- 
zioni filosofiche  gli  lesina  ad  oncia  ad  oncia  una  grande  notizia,  e 
Sofi'one,  che  alle  sue  irose  interrogazioni  risponde  citandogli  anzi- 
tutto un  bel  verso  di  Euripide^). 

Vi  è  poi  un'altra  specie  di  comicità,  ed  è  quella  comicità  che 
risulta  da  spunti  particolari,  da  trovate  minute,  e  che  è  raggiunta 
con  mezzi,  per  così  dire,  esterioi-i. 

È  stata  già  notata  l'abbondanza  di  imprecazioni  e  di  impro- 
peri, che  prodigano  ai  loro  interlocutori  non  solo  i  jiersonaggi  ira- 
condi, ma  anche  i  più  pacati.  Sono  inoltre  frequenti  le  risposte  sgar- 
bate, gli  scatti  esageratamente  as}>ri.  che  s<»guono  a  domande  comuni 
e  innocue,  e  certe  volute  ripetizioni  di  date  yiarole  *). 

Nell'articolo  citato  il  Wilamowitz  alludendo  in  sostanza  a  que- 
sta specie  di  comicità  afferma  che  essa  è  per  Menandro  un  accessorio 
(«  Nebenwerk  »)  ;  e  pare  che  la  ritenga  un  rimasuglio  dell'antico 
elemento  buifonesco.  Ciò  pensano  anche  altri.  Ma  è  proprio  così,  o 
non  si  ti-atta  di  (jualche  cosa  di  nuovo,  o  almeno  non  ha  qui  quell'an- 
tico elemento  subita  una  intima  evoluzione  ? 


'  Onesimo  (EpUrep.  341  sgg.).  (onesto  si  collega  a  un'altra  caratteristica  iloll» 
«  nuova  commedia  »,  di  sostituire  spesso  la  descrizione  all'azione.  (Onesimo  altrove 
«lesorive  1'  agitazione  di  Carisio). 

*)  Eroe,  in  principio. 

')  Epitrep.,  .520   sgg. 

*)  Epitrep.,  35  sgg.  Aa  -  oOx  sa  /.éyEiv...  2//.  -  XéyE  .  Aa  -  XéYw)  e  75  sgg.  An 
-  elpipia...  2fi  -  s'tpyjxsv;  2(iii  -  oOx -jjxouastj  ;  sipnjxev). 


58  A.   Tode»co 


Noi  distinguiamo  nettamente  in  Menandro  due  voci,  ci  sentiamo 
una  duplice  poesia  :  cioè  una  vena  idillica,  sentimentale  e  arguta, 
e  insieme  uno  sforzo  di  rappresentazione  realistica.  (Questo  studio 
realistico  è  evidente,  i)er  esempio,  nel  monologo,  con  cui  comincia  la 
Samia,  nel  quale  Demea  si  dilunga  in  particolari,  che  in  verità  non 
possono  interessare  a  un  uomo  inquieto  e  ansioso  come  è  lui). 

I  personaggi  sono  plasmati  pei-  e>sser  visti  sotto  una  o  sotto 
l'altra  luce:  raramente  1' una  e  l'altra  si  avvicendano  sulla  stessii 
figura,  e  ciò  avviene,  se  mai,  con  trapassi  bruschi  e  poco  spontanei. 

Si  può  anche  dire  così  :  la  «  nuova  commedia  »  era  tutta  uno 
studio  della  realtà.  Ma,  poiché  l'azione,  o  m^lio  gli  accidenti  dram 
matici,  non  procedevano  dall'intimo  dei  personaggi,  così  la  realtà 
si  sdoppiava  nella  rappresentazione  artistica.  Si  ebbe  la  rappre- 
sentazione <lella  vita  interiore  delle  i)ersoiie,  rapi)resentazione  che 
serbava  una  certa  immobilità  idillica,  e  che,  delineata  con  chiarezza 
e  finezza,  sfumava  talora  in  un  tenue  lirismo  ;  e  la  rappresentazione 
della  realtà  esteriore  e  del  contegno  dei  personaggi,  rappresentazione 
tutta  materiale,  corpulenta,  fotografica,  animata  solo  da  un  certo  in- 
tento caricaturistico.  Di  tale  rappresentazione  esteriore  e  realistica 
fanno  le  spese  per  lo  più  i  personaggi  umili,  i  servi.  I  personaggi 
principali  in  sostanza  non  agiscono,  si  sfogano;  e  quando  agiscono 
scendono  spesso  al  livello  di  quegli  altri.  In  questo  caso  quell'ele- 
mento realistico  penetra  anche  in  scene  di  carattere  serio.  Si  tratta 
appunto  di  quegli  spunti  dei  quali  abbiamo  parlato  or  ora  ;  si  tratta 
altre  volte  di  sfumature  diffuse  per  tutta  una  scena. 

Tutto  ciò  ci  dà  r  impressione  di  una  nota  falsa.  Rai-e  volte  in 
fatti  quel  materiale  è  vivificato  dal  tocco  di  una  vera  arte,  di  una 
vera   genialità,    come   là   dove   Demea    pi'ende   abilmente   a   tastare 
Parmenone  su  un  argomento  delicato  ^)  ;  generalmente  rimane  mate 
riale  greggio.  E  rari  sono  i  personaggi  tutti  esteriorità  e  le  situazioni 
fatte  solo  per  ridere,  che  facciano  ridere  davvero.  Si  deve,  per  esem- 
pio, ammirare  il  garbo  e  la  sobrietà  con  cui  è  rappresentato  Nicerato 
{Samia) ,  che  da  buon  sacerdote  crede  ai  miracoli  imaginati  da  Demea . 
e  tiene  per  certo  che  il  neonato  sia  stato  procreato  misteriosamente 
da  un  Dio.  Ma  il  vecchio  Smicrine  (Epitrep.),  che  prodiga  impreca 
zioni  a  destra  e  a  sinistra,  che  è,  per  così  dire,  la  maschera  della 


')  De.  —  Senti,  Parmenone;  io  non  vorrei  bastonarti  mai  a  nessnn  costo.  — 
Par.  -  Bastonarmi  ?  e  che  ho  fatto?  —  De.  -  Tu  mi  nascondi  qualclie  cosa  :  me  ne 
sono  accorto.  (Samia,  vv.  9.5  sgg.). 


Da  Menandio  alla  commedia  classica  italiana  59 

vecchiaia  irosa,  è  lontano  dai  vecchi  di  Aristofane  quanto  è  lontano 
da  Sior  Todaro  o  dai  Busteghi.  La  sua  figura  è  impastata  di  quella 
realtà  fredda  e  bruta,  dalla  quale  Aristofane  staccava  qua  e  là  de^U 
scorci  potenti. 

Questa  re.iltà  è  la  zavorra  che  tira  sempre  più  in  basso  il  teatro 
comico.  Piensiamo  ai  nostri  prolifici  e  prolissi  commediografi  del 
Rinascimento,  saltando  per  un  momento  Plauto  e  Terenzio.  Eb- 
bene, qui  noi  vediamo  risolversi  nel  senso  peggiore  il  dissidio,  che 
abbiamo  notato  in  Menandro;  in  generale  non  avvertiamo  piìi  alcun 
dissidio,  poiché  l'influenza  della  commedia  romana  non  ha  fatto  se 
non  abbassare  il  tono  della  composizione  e  in  quel  certo  grigiore  di- 
laga la  riproduzione  fotografica  della  realtà  esteriore,  la  quale  par 
dilettare  grandemente  gli  autori,  che  la  introducono  con  certe  crude 
sghignazzate. 

Troppi  oramai  hanno  trattato  del  teatro  classico  italiano,  e 
spesso  con  grande  competenza  ;  ma  e'  è  ancora  il  pericolo  che  taluno 
come  già  qualche  vecchio  letterato,  applicando  a  quelle  commedie  il 
seguente  articolo  del  suo  codice  critico  :  «  rappresentazione  dei  co- 
stumi del  tempo  »  lodi  troppo  quella  pedestre,  quella  povera  fatica 
da  principianti.  K  la  j>assione  dei  principianti  di  ritrarre  esatta- 
mente, minuziosamente  gli  oggetti  in  cui  si  imbattono.  Quest'  opera 
è  facile  ;  e  molte  sono  infatti  le  commedie  italiane  di  stampo  classico. 

Ma,  si  può  dirlo  quasi  per  tutte,  la  finezza  acuta  e  sobria,  la  dia- 
lettica elegante,  la  leggera  sentimentalità  di  Menandro  era  fuggita 
via,  come  un  profumo,  come  un  vapore  ;  e  si  era  sconciamente  acca- 
sciata su  sé  stessa  la  chiassosi! .  la  giovine  e  feconda  musa  plautina. 


A.    TODESCO. 


1.4  DONNA  NEL  SACERDOZIO  ROMANO 


In  alcuni  miei  precedenti  lavori  su  diversi  argomenti  spettiinti  alle  an- 
tichità religiose  romane,  ebbi  occasione  di  intrattenermi  più  o  meno  diffu- 
Karaente  sui  singoli  sacerdozi  femminili  di  Roma.  È  mio  proposito  di  esa- 
minare in  (|uesto  articolo  i  resultati  di  codesti  studi,  nel  loro  complesso,  e 
di  vedere  se,  astrazione  fatta  dalle  particolari  caratteristiche  costitutive  e 
culturali  di  ciascuno  di  quei  sacerdozi,  non  si  possano  scoprire  dei  caratteri 
pili  generali  comuni  a  tutti  (|iianti,  non  si  possa  rintracciare  un  principio 
informatore  dal  (|nale  tutti  egualmente  appariscano  inspirati,  non  si  possa 
infine  giungere  a  spiegare  la  presenza  della  donna  nel  sacerdozio   romano. 

Debbo  per  altro  far  precedere  un  avvertimento  alla  mia  trattay-ione. 
Studiare  i  sacerdozi  femminili  romani  non  significa  certamente  prendere  in 
esame  tutte  le  molteplici  sacerdotesse  che  Roma  vide  tra  le  sue  mura  nei 
dodici  secoli  di  vita  repubblicana  e  imperiale.  .Sacerdotesse  romane  noi  doV)- 
biamo  infatti  intendere  che  siano  soltanto  «luelle  che  possan  considerarsi 
come  1'  espressione  pura  e  genuina  del  genio  latino,  soltanto  <iuelle  addette 
a  quei  culti  la  cui  origine  e  le  cui  forme  furono  dovute  alla  religiositìi  del 
popolo  di  R«ma.  Non  dunque  enumereremo  fra  (|ueste  le  greche  sacerdotesse 
di  Cerere,  che  Roma  reclutava,  per  obbedire  al  responso  delle  Sibille,  dalle 
città  della  Magna  Grecia  ')  ;  né  le  sacerdotesse  frigie  di  Rhea,  la  Gran 
Madre  degli  Dei,  per  la  stessa  ragione  chiamate  dal  Senato  a  venerare  in 
Roma   la   divinità   asiatica   con   le   loro  orgiastiche   processioni  ')  ;    e    t^nto 


1)  Il  culto  della  triade  greca  di  Ueineter,  Dionysos  e  Kore,  che  divennero 
Cere»,  Liber  e  Libera,  fu  consigliato  dai  libri  sibillini  ai  romani  nei  primi  e 
difficili  anni  di  vita  repubblicana  :  un  tempio  fu  votato  a  nueste  divinità  nel  496 
11.  C.  e  dedicato  nel  493.  Greche  furono  le  sacerdotesse  dì  Cerere  («ocerdote»  pu- 
blicae  Cereris  p.  R.  Q.  :  C.  I.  L.  VI  2181,  32443)  e  la  priucipale  festa  dellii  dea, 
celebrata  in  Agosto,  il  sacrum  anniveraarium  Cereris,  era  ordinata  secondo  il  rito 
greco.  Cosi  parla  del  eulto  di  Cerere  in  Roma  Cicekonk,  prò  Balbo,  55  :  Suora 
Cereris,  iudioes,  summa  maiores  nostri  religione  contici  caeiimoniaque  voluerunt:  quae 
cum  essent  assumpla  de  Graecia,  et  per  Graecat  semper  curala  siint  sacerdoles  et  Graeca 
omnia  nominata....  Has  sacerdotes  video  fere  aut  Neapolitanas  aut  Velienses  fuisse. 
Cfr.  WissowA,  Keligion  rind  Kultus  der  Ròmer^,  ^  47. 

«)  Al  culto  della  Gran  Madre  degli  Dei,  accolto  ufficialmente  in  Roma  nel  205 
a.  C.  (Vakb.  Ung.  lai.,  VI  15),  attendevano  sacerdoti  e  sacerdotesse,  fra  i  quali 
non  potevano  inscriversi,  almeno  tino  all'  epoca  dell'  Impero,  i  cittadini   romani. 


La  Donna  nel  sacerdozio  rotnano  61 

meno  le  egizie  sacerdotesse  di  Iside  ').  Tutte  codeste,  accolte  in  Bonia  in 
seguito  a  circostanze  speciali  e  tollerate  dall'  indulgenza  dei  governanti,  j)iii 
che  altro  per  rispondere  ai  bisogni  delle  svariate  e  numerose  colonie  dei 
provinciali  di  ogni  regione  che  avevano  via  via  preso  stanza  nella  città  che 
era  centro  del  mondo  ed  ivi  avevano  ottenuto  di  continuare  a  venerare  i 
loro  dei  e  a  praticarne  i  riti,  tutte  codeste,  ripeto,  sono  completamente 
estranee  alla  religione  e  all'  indole  romana  :  e,  se  è  vero  che  le  feste  emo- 
zionanti, i  misteri  dei  culti  orientali  attrassero  col  tempo  a  sé  la  gran  massa 
della  popolazione  romana  e  ne  guadagnarono  la  simpatia,  non  è  men  vero 
che  codesti  culti  peregrini,  penetrati  ad  uno  ad  uno  in  Roma  silenziosa- 
mente, quasi  di  soppiatto,  spesso  in  momenti  di  pubblica  calamità,  a  lungo 
vi  si  mantennero  appena  tollerati  e  quasi  ignorati,  finché  la  società  disso- 
luta dell'epoca  imperiale  ad  essi  si  rivolse,  desiderosa  di  trovarvi  le  emo- 
zioni del  senso  o  i  rapimenti  dell'  estasi  che  invano  avrebbe  cercato  nel 
rìgido  cerimoniale  della  vetusta  religione  dei  piidri. 

Noi  ci  ridurremo  dunque  ii  parlare  delle  sole  sacerdotesse  dell'  antica 
Itoma,  di  quelle  che  si  ccmnettono  alla  parte  veramente  originaria  ed  indi- 
gena della  religione  romana,  alla  cosiddetta  «  Religione  di  Numa  »  ')  :  così 
soltanto  sarà  possibile  passare  da  un'analisi  ad  nna  sintesi  feconda;  sarà 
possibile  scoprire  per  quali  influssi  sociali,  psicologici  e  storici  s'  introdusse, 
presso  i  romani,  la  donna  nel  servizio  religioso  ufficiale,  a  venerare  gli  dei 
per  la  salute  del  popolo  e   dello  Stato. 


La  prima  sacerdotessa  portava  il  nome  di  xacerdo»  maxima  matris  Deorum  magiiat 
Ideae  (C.   I.   L.  VI  .502).  Cfr.   Wissowa,    Religioifi.  *  53. 

')  Il  culto  di  Iside  non  fu  ufficialmente  accolto  in  Roma  che  nel  1°  sec.  del- 
l'Impero, dopo  contrasti  viva<'Ì88Ìmi  ed  anche  fiere  persecuzioni  :  fu  portato  poi 
a  sommo  onore  da  Caracalja.  Sacerdote»  Isidie  :  vedi  C.  1.  L.  VI  .512.  2246  ;  IX 
1153  ;  XII  3224  add.  Cfr.  Wissowa,  Keligion^,  i  57.  ft  appena  il  caso  di  far  men- 
zione di  altre  sacerdotesse  dello  stesso  genere  di  cui  non  abbiamo  che  vaghe  e 
sjioradiohe  notizie.  Così  quella  /«««(tea,  ricordata  in  un'iscrizione  (Dkssau  4166), 
appartiene  forse  ai  fanatici  addetti  in  Roma  al  culto  di  Mà-Bellona,  la  divinità 
cappadocica  riconosciuta  ufficialmente  forse  solo  al  principio  del  III^  sec.  d.  C. 
(Wissowa,  Religione,  §  56).  Nei  tardi  tempi  dell'  Impero  non  mancarono  in  Roma 
anche  sacerdotesse  addette  al  culto  di  Ecate,  importato  probabilmente  da  Egina, 
portanti  il  nome  di  hierophanta  Heoatae  {C.  I.  L.  VI  504.  511.  1675)  o  hierophan- 
tria  deae  Hecatae  (VI  1780),  o  anche  di  sacerdos  deae  Secatae  (VI  500). 

^)  Con  questa  denominazione  suol  designarsi  appunto  la  parte  originaria  ed  in- 
digena della  religione  romana,  esente  da  influssi  stranieri,  cosi  italici  odetrusclii 
come  greci  od  orientali;  quell'insieme,  insomma,  di  riti  e  di  credenze  la  cui  isti- 
tuzione e  organizzazione  veniva  dalla  tradizione  antica  concentrata  nel  nome  di 
Numa  Pompilio.  Vedi  il  saggio  del  Oakter,  Religion  of  Nnma,  London  1906. 


62  Giulio  GiannelU 


II. 

Alcuni  dei  siiccrdozi  più  antichi  sono  «  emanazioni  della  regalità  »  ;  e 
debbono  considerarsi  come  tali  tutti  quelli  le  cui  funzioni  sono,  per  così 
dire,  eredità  del  re,  della  cui  attività  religiosa  facevano  un  tempo  parte. 
Sono  di  questa  specie  tutti  i  sacerdozi  femminili  di  Koma. 

La  critica  moderna  ha  ormai  posto  in  piena  luce  questo  processo  di 
decadenza  della  monarchia  romana,  per  cui  al  re  si  sono  venuti  via  via  sot- 
traendo e  attribuzioni  e  poteri,  fino  a  trasformare,  con  una  evoluzione  lenta 
e  continua,  la  forma  di  governo  e  passare  da  una  costituzione  monarchica 
a  una  costituzione  repubblicana,  senza  che  vi  fosse  affatto  bisogno  di  quella 
violenta  rivoluzione  e  della  drammatica  cacciata  dei  re  che  la  tradizione 
racconta  ').  E  questo  declinare  dell'  autorità  regia  si  manifesta  parallelamente 
in  due  campi  ;  nel  campo  politico,  militare  e  giudiziario  ne  sono  causa  i 
vari  magistrati  che,  nominati  prima  dal  re  per  sodisfare  alle  crescenti  esi- 
genze dello  Stato,  si  rendono  poi  da  lui  indipendenti  esautorandolo  comple- 
tamente ;  nel  campo  religioso  è  determinato  dal  costituirsi  di  sacerdozi,  ai 
quali  il  re  deve  cedere  prima  le  sue  funzioni,  poi  i  suoi  poteri  sacri  *). 

Originariamente  era  il  re  1'  unico  sacerdote  del  minuscolo  Stato  :  a  lui 
solo  spettava  di  sacrificare  agli  dei,  presso  l'ara  della  Reggia,  di  implorarli 
a  nome  del  popolo.  Ma  il  ve  non  attendeva  da  solo  a  questo  ufficio  ;  1'  as- 
sisteva la  moglie  sua,  la  regina  :  e  il  culto  che  la  coppia  coniugale  eserci- 
tava nell'intimo  della  Reggia,  era  un  culto  di  carattere  domestico,  e  i  doveri 
religiosi  della  regina  altro  non  erano  se  non  i  doveri  religiosi  di  ogni  donna 
nella  primitiva  famiglia.    Ogni    casa  ebbe  un    tempo  il  suo  focolare,  ebbe 


')  La  tradizione  che  spiega  con  una  rivoluzione  il  cambiamento  di  governo  in 
Roma,  fu  in  generale  seguita  nella  storiografia  meno  recente  (per  es.  dal  Momm- 
8EN)  ed  anche  da  qualche  studioso  moderno  (Schradkr,  Reallexicon  der  indog.  Al- 
tertumskunde,  p.  641):  ma  in  generale  si  preferisce  ora  la  teoria  dell'evolnzione 
(vedi  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  I  cap.  XI;  ììiese,  Manuale  di  storia  romana* 
(trad.  ital.),  p.  53  ;  Pais,  Storia  crit.  di  Roma,  passim.  Una  teoria  di  conciliazione 
è  stata  proposta  dal  Costanzi  («  Rivista  di  storia  antica  »  1904,  p.  144  sgg.),  il 
(|uale  giudicherebbe  l' instaurazione  della  Repubblica  preparata  da  un  lento  esau- 
rimento della  potestà  regia,  ma  determinata  poi  dal  concorso  di  qualche  azione 
meccanica. 

-)  Deliberatamente  distinguo  le  funzioni  dai  poteri  religiosi  del  re:  questi  potè 
cedere  ad  altri  sacerdoti  da  Ini  nominati  (ai  flamini)  le  prime,  senza  venire  da  ciò 
per  nulla  esautorato;  come  lo  fu  invece  quando  un  collegio  sacerdotale,  di  origine 
probabilmente  privata  e  ìndipendeute  dall'  autorità  regia,  quello  dei  Pontefici,  im- 
pose al  re  la  propria  assistenza,  eppoi  gradatamente  sottrasse  alla  monarchia  quei 
poteri  che  ad  essa  sola  spettavano,  assumendosi  la  prerogativa  di  eleggere  i  fla- 
mini e  le  Vestali.  Vedi  lo  studio  del  Bouché-Leclbrcq,  f jet  pontifea  de  V ancienne 
Rome,  I,  cap.   I". 


La  Donna  nel  sacerdozio  romano  6S 

un  suo  proprio  culto  degli  auteiiati  defunti  e  degli  dei  protettori  della  fii- 
iniglia  ;  a  (juesti  il  patei'  fainiliax  sacrificava  ogni  giorno,  coadiuvato  dalla 
moglie  e  dai  figli  ').  Siffatta  era  la  religione  della  famiglia  reale  di  Roma 
antica,   la  quale  però  pregava  per  il   popolo  tutto. 

Ma  frattanto  gli  dei  nazionali,  gli  dei  indigeni  del  Lazio,  crescevano 
d'  importanza,  aumentavano  le  esigenze  del  culto,  i  riti  divenivano  più  com- 
plessi, e  alla  coppia  reale  sembrò  opportuno  allora  aggiungere  qualche  altro- 
sacerdote,  al  quale  si  potessero  affidare  quelle  funzioni  sacre  cui  il  re  non 
poteva  più  sodisfare.  Così  ebbero  origine  i  «  flamini  »,  ciascuno  dei  quali 
fu  incaricato  di  venerare  con  culto  giornaliero  ed  assiduo  una  divinità  dello 
Stato  ;  e,  come  il  re  era  stato  in  esso  assistito  dalla  regina,  così  il  flamine 
fu  coadiuvato  ora  dalla  propria  moglie,  che  si  chiamò  «  flaminica  ».  Ecco- 
dunque  un   primo  gruppo  di   sacerdotesse  romane  :   le   fUiminicae. 

Ma  alla  regina,  come  alla  massaia  di  ogni  antica  famiglia,  era  riserbato- 
un  altro  compito  geloso  :  a  lei  spettava  di  custodire  il  focolare  domestico, 
che  era  allo  stesso  tempo  il  focolare  pubblico,  il  focolare  dello  Stato.  Or- 
bene, anche  questa  mansione  venne  col  tempo  tolta  alla  regina  :  il  focolare 
domestico  del  re  cessò  di  essere  quello  pubblico,  lo  Stato  ne  volle  uno  per 
proprio  conto  ;  e,  siccome  ad  esso  più  non  jioteva  attendere  la  regina,  si 
nominartmo  al  suo  posto  le  vergini  sacerdotesse.  Ed  ecco  il  secondo  sacer- 
dozio femminile  dello  Stato  romano  :  le  Virgines  Vestales. 

E  intanto  il  fato  della  monarchia  si  compieva  :  tolti  al  re  i  suoi  poteri 
politici  dai  magistrati,  toltegli  le  sue  funzioni  religiose  dai  flamini,  toltigli 
)  poteri  sacri  dal  Collegio  dei  Pontefici,  impostosi  con  1'  autorità  che  era 
andata  via  via  acquistando,  non  restava  di  lui  che  quella  pallida  ombra  che 
doveva  trascinare  la  sua  vita  stentata  per  tanti  secoli  ancora  :  restava  quello 
che  si  continuò  a  chiamare  il  «  Ile  dei  sacrifici  »,  per  esercitai-e  certi  uf- 
fici religiosi  che  si  ritenevano  indissolubilmente  legati  al  titolo  regio.  E  re- 
stava anche  la  moglie  sua,  la  regina,  per  coadiuvarlo  in  essi  :  e  si  chiamò 
regina  sacrorum . 

Questi  i  tre  sacerdozi  femminili  di  Koma,  che  a  ragione  dicemmo  da 
principio  doversi  considerare  un'  emanazione  della  regalità.  Però,  se  la  co- 
mune origine  li  ravvicina  e  rende  presso  che  uguale  per  tutti  e  tre  il  con- 
cetto inspiratore,  che  meglio  cercheremo  di  determinare  nel  seguito  di  questo 
studio,  straordinariamente  diversa  è  invece  1'  importanza  loro  nel  complesso 
organismo  della  religione  ufficiale  di  Roma.  E  così  che  solo  pochissime  volte 
all'  anno  si  vedeva  comparire,  nel  suo  abbigliamento  sacro,  la  Regina  dei 
Sacrifici  ;  e  la  parte  delle  flaminiche  nel  culto  ufficiale  fu  tanto  insignificante 
che,  di  quindici  ch'esse  erano,  una  soltanto,  la  moglie  del  flamine  di  Giove, 
la  faminica   Dialis,   mantenne  sempre  una   parte  veramente  attiva  nelle  fun- 


')  Il  carattere  della   primitiva   religione  domestica   è  magistralmente  tratteg- 
giato (la  KusTKL  DK  CouLANGKS,   La  cité  antique,  1.  P,  cap.  4°. 


<)4  Giulio  GianwìUi 

zioni  religiose  di  Stato.  Ben  diversa  fu  la  sorte  delle  vergini  custodi  del 
fuoco  di  Vesta.  Tanto  sauto,  tanto  geloso  era  il  compito  loro  aflSdato,  tanto 
venerabili  le  rendeva  il  sacrificio  della  imposta  castità,  che  esse  rappresen- 
tarono sempre  agli  occhi  dei  Romani  qualche  cosa  di  sacro  e  di  intangibile, 
e  il  focolare,  oggetto  delle  loro  cure  indefesse,  e  i  pegni  dell'  Impero,  da 
loro  con  vigile  sollecitudine  custoditi  in  segreto,  apparvero  essere  il  centro, 
il  cardine  della  religione  di  Roma,  furono  considerati  come  il  tratto  di 
unione  indispensabile  fra  lo  Stato  e  le  sue  divinità. 

Koi  dobbiamo  ora  esaminare  da  vicino  ciascuno  di  questi  sacerdozi,  tra- 
lasciando quelle  notizie  o  quelle  questioni  di  statistica,  di  cronologia,  di 
pratiche  culturali,  delle  quali  chiunque  potrà  trovare  inforniHzione  nei  ma- 
nuali o  nelle  opere  speciali  che  andremo  via  via  citando,  e  penetrando  invece 
quanto  più  addentro  sia  possibile  il  significato  e  l'essenza  di  ognuno  «li 
essi,  onde  possiamo  poi  di  ((uesta  indagine  usufruire  per  lo  scopo,  già  di- 
chiarato, di  questo  studio. 

III. 

E  volgiamoci  anzitutto  al  più  importante  e  al  più  venerato  di  questi 
sacerdozi,  a  quello  delle  Vestali.  Su  due  punti  dobbiamo  rivolgere  le  nostre 
ricerche  : 

1°)  Chi  sono  e  che  cosa  rappresentano  queste  sacerdotesse?  A  quale 
«oncetto  inspiratore  sono  subordinati  1'  esistenza  e  il  funzionamento  del  loro 
collegio? 

2°)  Come  si  potò  giungere  in  Koma  ad  istituire  un  collegio  di  sacei- 
dotesse  per  la  custodia  del  pubblico  focolare  ? 

In  realtà  sembrerebbe  che  questo  secondo  quesito  dovesse  precedere  al 
primo;  ohe  noi  dovessimo  studiare  prima  l'origine  di  una  istituzione  per 
poi  esaminarne  quei  caratteri  che  più  ci  interessano.  .Ma  le  condizioni  in 
cui  si  trovano  le  nostre  fonti  d'  informazione  ci  obbligano  a  fare  precisa- 
mente il  contrario.  Noi  possiamo,  e  non  senza  difficoltà,  disegnare  un  quadro 
abbastanza  completo  del  sacerdozio  delle  Vestali,  come  esso  appariva  in 
queir  epoca  che  a  noi  è  dato  di  conoscere  sufficientemente  attraverso  la  sto- 
riogra6a  o  gli  scritti  d'erudizione  dei  greci  e  dei  romani:  com'era  cioè  e 
«ome  operava  negli  ultimi  secoli  della  repubblica  e  sotto  l' impero  :  ma  per 
i  tempi  a  questi  anteriori  siamo  costretti  a  procedere  per  ipotesi,  le  quali 
solo  in  tanto  saranno  verosimili  e  probabili  in  quanto  poggeranno  sui  dati 
offertici  dalle  piìi  tarde  condizioni  del  sacerdozio,  a  noi  note,  in  quanto  sa- 
ranno costruite  su  elementi  ancora  esistenti  iii  quel  periodo,  del  quale  ci  è 
giunta  notizia. 

Ai  (juesiti  presentati  nel  primo  punto  può  offrire  una  sufficiente  rispo- 
sta anzitutto  lo  studio  delle  condizioni  giuridiche  delle  Vestali,  poi  l'esame 
<lel   loro   abbigliamento. 

È  noto  che  le  Vestali  non  formavano  un  collegio  sacerdotale  a  sé,  ma. 


La  Donna  nel  sacerdozio  romano  65 

iusieme  coi  flaviine»  e  col  rex  sacrorum,  eran  comprese  nel  Collegio  dei 
Pontefici.  Al  Pontefice  Massimo  spettava  la  scelta  e  1'  elezione  delle  Vestali, 
scelta  legolata  dalle  norme  contenute  in  una  lex  Papia  d'incerta  data,  il  cui 
contenuto  ci  è  però  conservato  da  Gellio  (I  12,  10)  ').  Le  sei  Vestali,  gui- 
date e  maternamente  presiedute  (di  una  gerarchia  vera  e  propria  non  è  affatto 
il  caso  di  parlare)  dalla  più  anziana  di  loro,  la  Virgo  Vestalis  Maxima, 
erano  poi  tutte  quante  ugualmente  soggette  all'autorità  del  Pontefice  Mas- 
simo, il  quale  esercitava  su  di  loro  la  più  stretta  e  rigorosa  sorveglianza. 

Domandiamoci  appunto  ora  in  qual  relazione  stessero  le  ministre  di 
Vesta  col  Pontefice  Massimo  ;  e  teniamo  presente  che  a  lui  solo,  e  non  a 
tutto  il  Collegio  dei  Pontefici,  era  riserbato  il  diritto  di  eleggere,  sorvegliare 
«  punire,  senza  controlli  né  limitazioni  di  sorta,  le  sacerdotesse,  per  tutta 
la  durata  del  loro  servizio  *).  Orbene,  l'opinione,  per  molto  tempo  da  tutti 
condivisa,  che  la  potestà»  che  il  Pontefice  esercitava  sulle  Vestali,  fosse 
quella  stessa  che  il  padre  aveva  sui  figli,  e  che  le  Vestali  dovessero  consi- 
derarsi come  le  filiae  familias  del  popolo  romano,  non  può  oggi  essere  più 
accolta  ')  :  è  invece  di  gran  lunga  da  preferirsi  la  tesi  magistralmente  so- 
stenuta, qualche  tempo  fa,  dallo  Jordan,  che  la  Vestale  rappresenta  non  la 
Jilia  ma  la  mater  familias  nello  Stato  romano  *).  Questa  tesi  si  appoggia  a 
diversi  argomenti  eh'  io  riassumerò  qui  brevemente. 

Nella  famìglia  primitiva  è  la  moglie  che  esercita  il  culto  domestico,  che 
mantiene  il  fuoco  sacro  e  ofifre  i  sacrifici  ai  penati  lì  presso  venerati;  sotto 
Ja  custodia  di  lei  stanno  le  immagini  degli  antenati  e  tutto  ciò  che  la  fa- 
miglia ha  di  più  prezioso  :  e  queste  appunto  sono  le  mansioni  delle  Vestali. 
Non  soltanto  infatti  era  loro  commesso  il  fuoco  sacro  che  perennemente  ar- 
deva nella  aedes  Vestae  del  Foro,  ma,  nello  stesso  tempio,  in  una  specie 
di  edicola   appartata,  nel   cosiddetto  penus    Vestae  '),  stavano   gelosamente 


')  Più  particolari  ìuformazioni  sul  sacerdozio  delle  Vestali  possono  vedersi 
nel  Handhuch  der  riimiachen  Altertiimer  di  Mommsen  e  Marquarut  (Marquakdt, 
Kiim.  Staatsverwaltung,  Bd.  Ili;  trad.  frane,  di  M.  Brissaud)  e  in  WissoWA,  Be- 
ligion  und  Kultua  der  Romer^,  ^  67,  come  pure  negli  appositi  articoli  del  Fauly- 
WissowA  e  del  Diction.  dee  antiqaités  Darkmbkrg-S aglio.  Più  diftasamente  trat- 
tano l'argomento:  Prkuner,  Hestia-Veata,  Tubingen  1864;  Jordan,  Der  Tempel 
der  Vesta  und  dae  Haus  der  restalintien,  Berlin  1886  ;  e  il  mio  saggio:  Il  Sacer- 
dozio delle   Vestali  romane,  Firenze  1913. 

*)  Anche  in  questo  non  tutti  sono  concordi  ;  vedi  per  tanto  il  mio  studio  a 
p.  69  sg.  e  ofr.  Sacchinklli,  in  «  Eiv.  di  Filologia  »,  XXXII,  (1904),  p.  63  sgg. 

')  Questa  tesi  fu  già  sostenuta  dal  Prkunkr,  op.  cit.,  p.  318,  dal  Bouché- 
Lkclekcq,  Lee  pontifes  de  l'ano.  Home,  p.  292,  dal  Marquardt  (trad.  frane.)  I 
p.  378,  dal  Mommsen,  Slrafrecht,  p.  18,  23,  26. 

*)  Vedi  l'opera  già  ricordata  Der  Tempel  der   Vesta,  p.  47  sgg. 

^)  Su  come  e  dove  fosse  situato  il  penus  Vettae  dentro  ì'aedes  del  Foro  non 
sono  concordi  gli  studiosi  ;  sull'  argomento  io  già  inserii  una  nota  in  questo  pe- 
riodico, XVII  (1914),  p.  252  sgg. 

Attne  e  Roma,  2 


66  Hiulio  tìiaunelli 

nascosti  var!  oggetti  misteriosi,  die  oggi  difiiciluiente  possiamo  identificare 
con  sicurezza,  i  pignora  imperii;  e  anche  di  essi  avevan  cura  le  sacerdotesse 
di  Vesta  '). 

La  cerimonia  d'  introduzione  della  giovane  sacerdotessa  nel  Collegio  - 
la  captio  -  riproduceva  esattamente  il  matrimonio  primitivo  eseguito  per 
mezzo  del  ratto,  prima  reale,  poi  simbolico  ').  Infatti  la  vergine  designata 
dalla  sorte  o  volontariamente  offertasi  era  «  presa  »  dal  Pontefice  Massimo, 
mentre  questi  pronunziava  la  nota  formula,  conservataci  da  Gellio  (I  12, 
14)  :  -  Saceidofem  VeKtalem,  quae  sacra  faciat,  quae  ius  sìet  satierdotvm  Vestuleni 
facere  prò  popwlo  romano  Quiritihus,  liti  (juae  optimi  lege  fuit,  ita  te.  Amata, 
oapio  ').  -  La  formula  ricorda  appunto  la  violenta  presa  di  possesso  (capio), 
quale  praticavasi  nel  matrimonio  primitivo  degli    indo-europei    (8t'  ipna^ris). 

Noi  sappiamo  infine  quale  orribile  pena  fosse  riserbata  al  seduttore  di 
una  Vestale  ;  egli  doveva  morire  di  morte  non  meno  crudele  di  quella  che 
attendeva  la  sacerdotessa  colpevole  nel  sepolcro  del  Campo  Scellerato  :  col- 
locato nudo  nel  Foro,  col  collo  in  una  forca,  era  battuto  con  le  verghe 
finché  spirasse  *).  Orbene  questa  terribile  pena  il  Pontefice  poteva  applicare 
senza  che  al  condannato  si  accordasse  il  diritto  della  j>rovoca<«)  ad  popultim  ')  : 

')  Uno  di  questi  oggetti,  che  uuu  sappiamo  da  quando  i^ia  realmente  existito, 
perchè  solo  pochissimi,  e  solo  in  tempi  tardi,  ebbero  agio  di  vederlo,  sembra  fosse 
nn  Palladio,  che  la  tradizione  narrava  come  Enea  avesse  seco  recato  da  Troia,  in- 
sieme ai  Penati.  Fu  sempre  fatto  segno  a  grande  venerazione  :  signum  quo  salr» 
talvi  sumitt  futuri,  dice  di  esso  Cickronk,  Philipp.  XI  10,  24  ;  e  Livio  (XXVI 
27,  14)  lo  chiama  eonditum  in  penetrali  fatale  pignus  romani  imperi.  1  Penati  poi, 
che  pure  qui  sembra  si  conservassero,  consistevano,  secondo  Varronk  (in  Skrvio, 
Aen.,  Ili  148)  in  dei  lapidea  nigilla.  Di  molti  altri  oggetti,  che  gli  eruditi  antichi 
ci  dicono  conservati  nel  penne  (vedine  una  lista  in  Servio,  Aen.,  VII,  188),  riter- 
remo probabile,  per  ragioni  ohe  qui  non  è  il  caso  di  esporre,  1'  esistenza  di  un 
fasoinus  (cfr.  Plinio,  Nat.  Hitt.,  XXVIII  39:  Fascinun qui  deus  inter  xao-a  ro- 
mana a   Vestalibus  colitur). 

')  Il  ricordo  di  questa  originaria  forma  di  connubio  si  mantenne  costante  a 
Roma  (Paul.,  Festi  ep.,  p.  405,  ed.  Thkwrkwk  dk  Ponor)  e  in  Grecia  (Dionys. 
Hai.,  II  30);  cfr.  Rossbach,  Untersuchungen  Uber  die  romische  Ehe  (Stnttffatrt  1S53),. 
p.  213  Bgg.  Sul  ratto  matrimoniale  presso  gli  Indo-Europei  vedi  Schradkr,  Spracli- 
vergleichung  und   Urgeschichte^,  p.  .553  sgg.,  e  Reallexicon,  p.  355. 

')  Quasi  ogni  parola  di  questa  breve  frase  ha  dato  luogo  a  lunghe  discussioni 
su  cui  non  è  qui  il  caso  di  intrattenersi:  a  noi  interessa  solo  Pepite  di  amata,  dato 
dal  Pontefice  alla  fanciulla,  e  che  lasciando  da  parte  ijuanto  dopo  vi  si  favoleggiò, 
attorno,  non  potè  significare  originariamente  che  «  o  mìa  cara,  o  mia  diletta  », 
costituendo  così  un'apostrofe  affettuosa,  quale  il  marito  poteva  rivolgere  alla  sposa, 
all'  atto  delle  nozze.  Vedi  Sacerdozio  delle   Vestali,  p.  54  sgg. 

*)  Fksto,  p.  308:  Prohrum,  Firgiiiis  Vestalie  ut  capite  puniretur,  vir  qui  eam 
inceiitaintset  verberibus  necareiur,  lex  fixa  in  Atrio  Libertatis  cum  multi»  alUx  legihun 
eonsnmpta  est.  Cfr.   Livio,  XXII  57;  Zonara,  VII  8  p.  21  (Boiss.). 

^)  Vedi  MoMMSKN,  Strafrecht,  p.   20. 


Ija  DoHiia  nel  nait'viìoxio  romano 


«7 


e    ilifticoltà,    vìw    molti    huuno  trovato   iiell'  ani  mettere  (jnesta  clausola,    in 
■ontrasto    con    le  norme  elementari    del  diritto  penale  di  Roma   più  antico, 

scompaiono,  (inaiido  si  veda  appunto  in  essa  l'ap- 
plicazione   dell'  antico  diritto    del    marito,    di 
giudicai-e,    con   potere    assoluto   di    vita  e 
di  morte,   la  moglie  adultera  e  il   sedut- 
tore '). 

Allo  stesso  resultato  giungiamo    se 
osserviamo  attentamente,  nelle  sue  va- 
rie   parti  e  nelle  sue  più  notevoli  pe- 
culiarità,  1'  abbigliamento  delle  Vestali, 
in   special  modo  l'acconciatura   del  capo. 
Fino  a  una  trentina  d'anni  fa,  assai  poco 
se    ne    sapeva;    le    notizie    degli    scrittori, 
non  invero  scarse  ma  poco  chiare  e  fra  loro 
contraddittorie,    non    potevano    appoggiarsi     o 
confrontarsi  che  a  qualche  rara  rappresentazione 
Ne   ho  riportati    (jui  due  degli  esempi  più  in- 


Fis    1 


SU  monete  o  su  medaglioni, 
signi  :  un  medaglione  coniato 
in  onore  e  memoria  di  una 
Vestale,  Bellicia  Modesta  -)  : 
e  un  bassorilievo  del  Museo 
Capitolino,  in  cui  è  ripnxlotto 
1'  episodio  leggendario  della 
Vestale  Claudia  Quinta  che. 
per  miracolo  della  dea,  trae 
da  sola  in  secco  la  nave  che 
aveva  trasportato  da  Pessi- 
nunte  ad  (Jstia  la  Gran  Madre 
degli  Dei    ').    (Kig.    1    e  2). 

Ma,  per  nostra  fortuna, 
gli  scavi  del  Foro,  che,  dopo 
il  1880,  misero  alla  luce  i  re- 
sti dell'edifìcio  che  servì  di 
abitazione  alle  Vestali,  ci  fe- 
cero recuperare  anche  un  nu- 
mero notevole  di  statue  di  Vestali  Massime;  essendo  invalsa,  al  tempo  dell'  Im- 
]»ero,  Li  consuetudine  di  dedicare  ad  ogni  Vestale  Massima  defunta  una  sta- 
tua che  ne  conservasse  l'immagine,    mentre    all'epigrafe,   scolpita  Tiella    base, 


MATRIDEVM  ET  NAVI  SALVIAE 
SALVIAE  VOTO  5VSCEPT0 
CLAVDIA      SYNTHTcHE 


D 


Fig.  2 


')  Su   ijuesto   costume    vedi    Mommsen,    Strafrecht,   )).   624   sg.  ;   Dk    Sanctis, 
Sloria  dei  Rom.,   II  p.   79. 

»)  «  Notìzie  Scavi  .,   1883,  tav.  XVIII  U. 
3)  MCr.i,KR-WiEsl.n,F,u,  II  63,  81fi. 


Fig.  4. 


70  Giulio  Oiannelli 


era  aflìdato  di  ricordarne  i  ineriti  e  le  virtù  >).  Delle  statue  che  ora  noi  pos- 
sediamo, e  die  »i  conservano,  alcune  nel  Foro,  (6<,'.  3),  altre  nel  Museo  Na- 
zionale di  Roma,  parecchie  sono  in  condizioui  poco  sodisfacenti,  ma  altre 
ci  sono  giunte  (juasi  intatte  e  ci  offrono  la  possibilitjì  di  studiare,  su  nionunienti 
sicuri    e    indiscutibili,   gli  abiti  e  gli  ornamenti  di  (jueste  sacerdotesse  '). 

La  statua  qui  riprodotta  (flg.  4),  che  ci  è  giunta  in  stato  di  eccellente 
conservazione,  ci  lascia  vedere  in  modo  abbastanza  chiaro  la  complicata  ac- 
conciatura della  testa:  acconciatura  che  le  Vestali  dovevan  sempre  portar- 
ci uando  uscivano  in  pubblico  o  prestavan  servizio  nel  tempio  o  in  altre  sa- 
cre cerimonie.  11  giorno  in  cui  la  fanciulla  veniva  eletta  al  sacerdozio,  le 
si  tagliavano  i  capelli,  che  si  appendevano  in  voto  alla  dea,  a  una  pianta 
di  loto  ')  :  si  trattava  però  di  un  semplice  atto  di  devozione  clie  non  si 
ripeteva  mai  più,  e  le  sacerdotesse  lasciavano  poi  crescere  liberamente  l;i 
loro  capigliatura  ').  Orbene,  di  tutto  ciò  che,  nella  rappresentazione  qui  ri- 
prodotta, si  vede  sovrastare  al  capo,  non  c'è  nulla  di  capelli  veri;  questi 
restavano  distesi  sili  capo,  nascosti  da  tutto  un  altro  apparecchio  che  ora 
descriveremo.  Qualche  ciocca  di  capelli  naturali  si  vede  invece  uscir  fuori 
da  questa  straordinaria  parrucca  presso  agli  orecchi;  e  assai  più  se  ne  ve- 
drebbero, osservando  di  dietro  una  di  queste  teste  "). 

Ecco  ora  come  era  costituita  questa  acconciatura.  La  treccia  di  capelli, 
evidentemente  artefatti,  che  incornicia  la  fronte  della  sacerdotessa,  non  è 
che  la  prima  di  una  serie  di  sei,  rimanendo  le  altre  cinque  coperte  da  un 
econdo  rivestimento.  Queste  sei  trecce,  riunite  insieme  a  formare  una  specie 
di  parrucca,  sono  i  seni-or  Ines,  cioè  la  «  parrucca  a  sei  trecce  »,  e  costitui- 
vano un  abbigliamento  di  cui  le  matrone  dell'  antica  Uonia  non  mancavan 
mai  di  adornarsi,  e  1'  uso  del  quale  era  invece  severamente  vietato  alle  ra- 
gazze e  alle  donne  di  cattivi  costumi  *).  Al  di  sopra  di  questa  acconciatura 
si   vede  quello  che  può  considerarsi  l'ornamento  sacerdotale  per  eccellenza  : 


')  La  lista  ilei  iiiouuiuenti  con  rappresentazioni  di  Vestali  pilo  vedersi  nello 
studio  di  EsTHKR  B.  Van  Dkman,  The  Vaine  of  the  Vesta!  Utaluex  tm  originah. 
«  Amerio.  Journ.  of  Areh.  »,  XII  (1908),  p.  324-342;  la  quale  però  a  torto  nega 
alle  statue  rinvenute  nell'Atrio  ogni  valore  per  risolvere  le  varie  questioni  rela- 
tive all'  abbigliamento. 

*)   Le  dodici  statue  scavate  uoW Atriuni  Veetae  nel   1882-><3  sono   riprodotte  in 
Jordan,   Tempel  iler  Vesta,  tav.   VIII-X  ;  una  tredicesima,  trovata  posteriormente,  i- 
riprodotta  nel  citato  articolo  della  Van  Ukman,  a  p.  340.   lig.   17. 
•     ')   Plinio,  Nat.   Hist.,   VI  44;   Festi  ep.,  p.  40. 

*)  Ciò  credo  aver  potuto  dimostrare  in  Sacerdozio  delle   Vestali,  ]>.  87  sgg. 

*)  Cfr.   quella  segnata  ccd  u°  11   nelle  tavole  annesse  al  libro  dello  JoKDaX. 

"j  Sili  seni  crines  vedi  Fusto,  p.  502.  La  notizia  della  riferita  proibizione  ci  i^ 
conservata  da  Skrvio,  Aeii..  VII  403.  Capere  criiies  equivale  in  I'i-aito,  Mostell.. 
V.  224  sgg.,  ad  «  entrare  in  stato  matrimoniale  ».  \'edi  Rossuach,  Riim.  EUe. 
p.   280  sjTK. 


La  Donno  nel  sacerdozio  romano 


voglio  dire  1'  infiila.  Era  questa  una  fascia  di  laua,  di  color  bianco  e  scar- 
latto, annodata  sulla  testa  a  guisa  di  diadema:  1' infula  delle  Vestali  era 
formata  di  sei  ordini  di  lana  (nella  nostra  statua  è  in  parte  coperta  dal 
mantello  gettato  sul  capo)  ;  e  da  ambedue  i  lati  di  essa  pendevano  due  lar- 
ghi nastri  della  stessa  stoffa,  le  cosiddette  vittae  ').  Mi  preme  far  notare 
come  anche  quella  di  legare  i  capelli  con  siffatte  bende  fosse  in  Konia  con- 
suetudine antica  delle  spose  ').  Finalmente,  quando  la  Vestale  sacrificava 
agli  dei,  doveva  ravvolgersi  il  capo  in  un  mantello,  il  cosiddetto  suffihvlnm, 
le  cui  estremità  erano  riunite  e  trattenute  sul  petto  da  una  grossa  fibbia  : 
<lue8to  sufflbolo,  anch'  esso  probabilmente  di  lana,  corrisponde  esattamente 
al  velo  che  le  fidanzate  portavano  nel  dì  delle  nozze  ').  Tutta  l'acconcia- 
tura della  testa  è  dunque  matronale  ;  come  tale  è  in  generale  1'  uso  di  te- 
nere i  capelli  coperti  o  abbigliati  in  una  maniera  speciale:  e  fu  usanza  dif- 
fusa presso  quasi  tutti  i  popoli  indo-europei  che  la  fanciulla,  che  fino  al  dì 
delle  nozze  aveva  lasciati  sciolti  i  capelli,  da  quel  giorno  li  tenesse  raccolti 
sul  capo  e  coperti  *). 

E  non  meno  matronale  era  1'  abito  indossato  dalle  sacerdotesse  di  Vesta. 
Esso  era  infatti  principalmente  costituito  da  una  bianca  tunica,  la  cosiddetta 
utola  carhasina,  lunga  fino  ai  piedi  :  1'  abito  che  era  appunto  usato  dalle 
spose  ■').  Sotto  al  petto  era  stretto  da  un  cordoncino  di  lana,  annodato  al- 
l' estremità  dal  cosiddetto  «  nodo  d'  Ercole  »  :  come  era  anche  questo,  presso 
parecchi  popoli,   un   costume  della  fidanzata  nel  dì  delle  nozze  '). 

Non  dunque  senza  ragione  affermammo  che  lo  studio  dell'abbigliamento 
delle  Vestali  avrebbe  avuto  valore  essenziale  per  illustrare  la  condizione 
delle  vergini  custodi  del  pubblico  focolare.  L' acconciatura  del  capo  a  loro 


')  Snll' in/ttte  vedi  Fesli  ep.,  p.  80;  Servio,  Aen.,  X  538.  Lo  Jokdan  (Tempel 
der  Vetta,  y.  47  sg.)  volle  a  torto  identificare  i  aeni-crines  con  1'  infula,  nell'  ac- 
conciatura delle  Vestali:  su  tale  questione  vedi  quanto  ebbero  a  scrivere  il  Dua- 
OKNDORFK  in  «  Rhein .  Mus.  »  1896,  p.  287  sgg.,  e  il  WtJscHER-BBCCHi  in  «  Riira. 
Quartalschr.  »   1902,  p.  319  sgg.,  e   cfr.  la  nota  3  a  p.   89  del  mio  studio. 

')  Del  resto  anche  1'  usanza  di  tagliare  alla  Vestale  le  chiome  per  appenderle 
ad  un  arboT  felix,  al  momento  della  captio,  trova  un  significativo  riscontro  in  con- 
suetudini nuziali  di  Grecia  e  di  Roma.  Anche  alla  sposa  greca  infatti  la  vujitfEÙxpia 
taglia  le  chiome  :  e  un  resto  di  tal  costumanza  vede  il  Rossbach,  in  Roma,  nel- 
l'atto di  toccare  alla  sposa  i  capelli  con  \'ha8ta  caelibaris  (Rom.  Ebe,  p.  289). 

')  Alludo  al  rosso  flammettm  {Fegti  ep.,  p.  63)  che  solo  nel  colore  differiva  dal 
bianco  siiffihulum  delle  Vestali  (Fbsto,  p.  .'>22):  cfr.  Rossbach,  Rom.  Ehe,  p.  379 
sgg.;  Draokndorfk,  art.  cit.,  p.   285  sg. 

*)  Dragendorff.,  art.  cit.,  p.  290.  Sull'  uso  del  velo  vedi  ReinaCH,  CuUeti, 
Mytbe»,   Religione.  I*,  p.  299  sgg. 

')  Questo  vestimento  era  infatti  una  specie  di  tunica  recta,  di  cui  dice  Plinio. 

jVrt(.  Hiat.,  Vili  48:   —  Ea  (Tanaquil) prima  iexuii  rectam   tunicam,   qualis   cani 

toga  pura  tirones  induntur  noraeque  nuptae. 

*)   Quod  rie  in  iecto  eolrebat  :  dice  di  questo   Festi  ep.   p.   44. 


72  Giulio  (}iannelli 


imposta  è  quella  stessa  tradizionale  delle  antiche  matrone  ;  completamente 
matronale  è  la  foggia  del  vestire. 

Non  può  esservi  dunque  dubbio  che  il  posto  delle  Vestali  nello  Stat«> 
non  è,  come  da  molti  e  per  molto  tempo  erroneamente  si  credè,  quello  di 
fanciulla  e  di  figlia,  bensì  quello  di  una  mater  familias  che  veglia  e  cura 
il  fuoco  sacro,  I'  acqua,  i  Penati,  come  la  donna  nella  sua  casa.  Allo  Stato 
e  alle  potenze  divine  che  lo  proteggono  la  Vestale  ha  giurato  fedeltà;  e  gli 
abiti  e  gli  ornamenti  eh'  ella  indossa  sono  1'  insegna  non  della  purità  ver- 
ginale, ma  della  castità  e  della  onestà  matronale.  In  tale  condizione  essa  è 
soggetta  al  Pontefice  Massimo  che  esercita  su  di  lei,  a  nome  dello  Stato, 
la  potestas  medesima  che  il  marito  ha  sulla  moglie.  E,  come  moglie,  la  Ve- 
stale appartiene  tutta  alla  sua  nuova  famiglia,  rotto  ogni  legame,  giuridico 
e  religioso,  che  1'  avvinceva  all'  antica. 

Svolto  così  il  primo  punto  della  nostra  trattazione,  dobbiamo  usufruirne 
i  resultati  e  tentar  di  ricostruire  il  progressivo  svolgimento  del  servizio  re- 
ligioso del  focolare  di  Stato,  fino  al  suo  assetto  definitivo. 

Di  un  culto  del  fuoco  perpetuo  non  solo  ritroviamo  oggi  le  tracce  nella 
tradizione  o  nella  storia  di  tutti  i  popoli  della  grande  famiglia  indo-europea, 
ma  sappiamo  che  esso  rappresentò  una  parte  importantissima  nella  religione 
di  popoli,  di  diversissima  civiltà,  come  fra  gli  Jncas  del  Perù  e  gli  Aztechi 
del  Messico;  e  lo  incontriamo  anche  oggi  presso  genti  di  cultura  primitiva, 
come,  per  esempio,  presso  numerose  tribù  dell'Australia  e  dell'Africa  me- 
ridionale ').  Il  fuoco,  così  necessario  alla  vita  quotidiana  e  così  difficile  a 
procurarsi  e  a  custodirsi,  divenne  facilmente  cosa  divina;  così  ogni  fami- 
glia ebbe  un  suo  proprio  focolare  ;  e,  accanto  ai  singoli  fuochi  privati,  ogni 
minuscolo  Stato  ebbe  anche  un  fuoco  pubblico.  Quella  tribù  italica  che, 
durante  le  prime  civiltà  dei  metalli,  venne  a  prender  stanza  attorno  al  colle 
del  Palatino,  raccogliendosi  in  quel  piccolo  nucleo  che  si  chiamò  più  tardi 
la  «  Koma  Quadrata  »,  portava  certo  anch'  essa  con  sé  un  focolare  del  po- 
polo. Però,  mentre  nelle  città  greche,  finché  dura  la  Monarchia,  I'  Restia 
stessa  della  reggia  serve  da  focolare  di  Stato  ^),  la  cosa  è,  almeno  nel  più 
recente  periodo  regio,  un  po'  diversa  in  Roma  :  infatti  1'  aedes  Vestae  e  la 
Regia,  benché  costruiti  vicino  1'  uno  all'altra,  furono  tuttavia  due  edifici  di- 
stinti  tra    loro  ').  Nessuna   fonte  certo  ci  informa  se  le  cose  siano  and.ite 


')  Per  il  culto  del  fuoco  fra  gli  ludo-Europei,  vedi  Schraubr,  Reallexieo» . 
voo.  «Herd»;  cfr.  Fustel  dk  Coulanqks,  CiU  antique,  1.  I  cap.  3.  Un'abbon- 
dante raccolta  di  materiale  folkloriatico  è  in  Frazkr,  The  prytaneum,  the  tempie  of 
Vetta,  the   Vestali,  perpetuai  fires,  «  Journal  of  Philology  »,  XIV  (1895),  p.  14.Ó-172. 

*)  Preunkr,  Hestia- Vesta,  cap.  III.  Che  il  pritaneo  di  Atene  sia  stato  origi- 
nariamente la  casa  del  re  dimostra  anche  Frazer,  art.  cit.,  p.  145  sgg.  Sui  pri- 
tanei  nelle  città  greche  vedi  anche  Farnell,   Cults  of  the  Greek  States,  V  347  sgj;. 

')  Lanciani,  «  Not.  So.  »,  1883,  p.  434  sgg.  ;  Jordan,  «  Bull.  Inst.  »  188tì, 
p.  69  ;  HtlLSEN,  Il  Foro  romano,  p.  158  sgg. 


I 


La  Donna  nel  sacerdozio  romano  73 

egualmeute  in  un  periodo  assai  più  primitivo  della  vita  di  quelle  tribù  :  se 
«•ice  anche  allora  vi  sia  stato  un  pubblico  focolare  distinto  da  quello  del  re. 
Ma  a  questo  punto  ci  soccorre  quanto  abbiamo  concluso  studiando  il  carat- 
tere del  sacerdozio  di  Vesta  e  la  condizione  in  cui  eran  poste  le  sacerdo- 
tesse. Le  Vestali  ci  appariscono  a  sostituire  al  focolare  di  Stato  la  mater 
famUias ;  quale  altra  mater  familias  potevano  esse  rappresentare,  se  non  la 
moglie  del  rex,  che  un  tempo  dovè  custodire  nella  sua  casa  il  focus  publicus, 
ch'era  tutta  una  cosa  col  suo  focolare  domestico?  ') 

Ma,  ad  un  certo  momento,  per  ragioni  non  ben  chiare,  che  la  tradi- 
zione completamente  ignora  e  che  l'indagine  storica  non  riesce  a  identificare 
con  sufficiente  sicurezza,  alla  regina  fu  sottratta  quella  pietosa  e  gelosa  fun- 
zione. Forse  questa  diminuzione  di  venerabilità  della  prima  matrona  dello 
Stato  non  fu  che  la  conseguenza  del  decadere  della  potestà  regia  :  forse  an- 
che questo  culto  stesso  andava  allora  aumentando  la  sua  importanza,  tanto 
che  si  sentì  il  bisogno  di  dargli  un  posto  a  sé  nella  nascente  organizzazione 
religiosa.  Si  può  pensare  che  in  quel  momento  si  sia  identificato  il  culto 
del  fuoco  pubblico  con  quello  di  un'antica  divinità  latina  del  fuoco.  Caca  ): 
con  questo  fatto  anzi  potremmo  considerare  inaugurato  il  vero  e  proprio 
servizio  del  focolare  pubblico  in  Roma.  Fu  allora  necessario  dedicare  alla 
nuova  divinità  dello  Stato  un  santuario  proprio  e  separare  la  sua  ara  da 
quella  domestica  del  re.  Al  servizio  del  nuovo  focolare  non  poteva  più  at- 
tendere la  regina,  sia  perchè  questo  non  trovavasi  più  nella  sua  dimora, 
sia  perchè,  per  1'  accresciuta  importanza  dello  Stato  e  per  1'  avvenuto  di- 
retto collegamento  del  focun  puhlicus  con  una  venerata  divinità,  più  rigorose 
divennero  le  regole  del  servizio  e  troppo  gravi  i  pericoli  per  lo  Stato,  qua- 
lora non  si  fossero  minuziosamente  osservate. 

Fu  allora  che  al  santuario  di  Caca  furono  impiegate  le  Vergini  ').  Ma, 


')  S'  intende  del  resto  facilmente  che  anche  a  Roma  il  focolare  del  re  fosse  il 
looolare  pubblico  ;  così  come  i  Lari  e  i  Penati  dello  Stato  furono  originariamente 
i  Lari  e  i  Penati  del  re.   Vedi  la  citata  dissjirtazioue  del  Frazer,  p.   153. 

*)  Di  questa  Caca  due  sole  volte  si  fa  menzione  nella  letteratura  romana:  in  Ser- 
vio, Aen.,  Vili  190,  e  in  Latt.,  Instit.,  I  20,  36.  Essa,  insieme  col  fratello  Caous, 
fu  delle  divinità  della  prisca  religione  romana,  cui  era  caratteristico  questo  cnlto 
di  coppie  divine  (WissowA,  Religion  und  Kultus^,  p.  161);  il  ReinaCH,  Ctiltea.,  Ili', 
p.  191  sgg.,  crede  invece  che  Caca  e  Caeculue  formassero  in  varie  città  latine  l'an- 
tica coppia  divina  del  focolare,  rimpiazzata  poi  dalla  vergine  Vesta.  L'  esistenza 
di  un  culto  di  Caca  anteriore  a  qnello  di  Vesta  fu  già  sospettata  dal  Prkunkr 
(Hestia-Veata,  p.  386  sgg.)  e  dimostrata  dal  Pais  {Storia  di  Roma.  I  1,  p.  329)  e 
dal  Dk  Sanctis  {Storia  dei  Rom.,   Il  .524    sgg.). 

^)  L'  antichità  delle  Vergini  addette  al  focolare,  oltre  che  dalla  notizia  riferita 
nel  citato  luogo  di  Servio  (Aen.,  Vili  190  e  dalle  obbligazioni  cultuali  di  carat- 
tere primitivo  loro  imposte,  ci  è  attestata  dalle  relazioni  in  cui  queste  sacerdo- 
tesse si  trovavano  col  rex  aacrorum  :  relazioni  che  sono  indubbiamente  l'eredità  del 
tempo  antichissimo  in  cui  il  re    sorvegliava  le  vergini   addette   al    focolare   dello 


74  Giulio  QianneUi 


pur  dovendo  esse  rimaner  tali  per  ragioni  sulle  quali  non  voglio  qui  intratte- 
nermi '),  si  volle  tuttavia  che  rappresentassero  io,  mater  familiaa  dello  Stato. 
Era  necessario  quindi  che  esse  uscissero  dalla  potestà  del  padre  per  entrare 
in  quella  della  divinità  protettrice  di  Roma.  Ma,  non  potendo  questa  divi- 
nità esercitare  direttamente  tale  potestà  su  queste  vergini,  si  dovette  inca- 
ricare di  ciò  un  rappresentante  dello  Stato  :  e  questi  fu  indubbiamente 
prima  il  re,  poi,  tostocliè  al  re  si  tolsero  i  poteri  religiosi,  il  Pontefice  Mas- 
simo, nelle  cui  mani  la  Vestale  passava  allo  stesso  modo  che  entrava  in 
potere  del  marito  la  mater  familias. 

In  progresso  di  tempo,  essendosi  ormai  notevolmente  ingrandita  l'an- 
tica città  quadrata  del  Palatino  e  avendo  a  sé  riunite  le  altre  piccole  co- 
munità annidate  sui  colli  circostanti,  il  centro  di  Koma  fu  spostato  e  tra- 
sportato nella  piccola  valletta  che  corre  tra  il  Palatino  e  il  Campidoglio, 
vale  a  dire  nel  Foro.  Qui  fu  eretta  l'abitazione  reale,  la  Regia,  e,  in  pros- 
simità di  essa,  l'edificio  destinato  a  custodire  il  pubblico  focolare.  E,  quasi 
contemporaneamente,  due  notevoli  cambiamenti  si  verificarono  in  questo 
culto.  L'ara  pubblica  fu  dedicata  a  una  nuova  dea,  una  dea  straniera  che 
solo  da  poco  tempo  i  Latini  avevano  imparato  a  conoscere  e  a  venerare  dai 
Greci  :  Vesta  (la  greca  Bestia)  ;  e  da  allora  le  vergini  sacerdotesse  si  chia- 
marono Vestali  ").  Queste  stesse  che,  fino  allora,  erano  state  in  dipendenza 


Stato  (Servio,  Aen.,  X  228:  Firginen  Vestaleu  certa  die  ihtint  ad  reijem  nacrorum  el 
dicebant  :   Vigilasne  rex  f   Vigila  !} 

')  Lasciando  le  varie  tradizioni  raccolte  dagli  antichi,  di  nessuna  delle  quali 
può  naturalmente  appagarsi  la  moderna  critica  storica,  ba.sterà  ricordare  che  l'im- 
posizione della  castità,  nelle  sue  varie  forme  e  in  grado  più  o  meno  elevato,  è 
diffusissima  nel  campo  religioso,  comnne  anzi,  possiam  dire,  alle  religioni  di  tutti 
i  popoli  e  di  tutti  i  tempi  :  essa  è  originata  dalla  credenza  che  la  castità  confe- 
risca uno  straordinario  potere  a  coloro  che  debbono  essere  «  mediatori  »  fra  l'uomo 
e  la  divinità,  cioè  ai  Sacerdoti,  e  dall'idea  ohe  l'attività  sessuale,  sotto  ogni  forma, 
ingeneri  nell'uomo  quelle  condizioni  di  impurità  e  di  conseguente  debolezza,  che 
lo  renderebbero  disadatto  a  venire  in  contatto  con  le  potenze  divine  (cfr.  il  libro 
del  Fbhrlk,  Die  kuUische  Keusohheit  ini  Altertum,  Giessen  1910,  specialmente  al  cap. 
IV).  Finché  il  colto  del  focolare  era  stato  un  culto  domestico  e  si  esplicava  in 
seno  alla  famiglia,  la  sacerdotessa  che  lo  serviva,  la  regina,  potè  essere  maritata, 
come  maritate  rimasero  sempre  le  altre  sacerdotesse  romane,  le  rtaminiche  :  esse 
infatti  intervenivano  nel  eulto  solo  come  aiutanti  del  marito,  il  vero  sacerdote,  a 
cui  la  cerimonia  matrimoniale  le  aveva  legittimamente  riunite,  espiando  così,  una 
volta  per  sempre,  le  impurità  cagionate  dalla  vita  coniugale  (vedi  su  ciò  Reinach, 
L'origine  du  mariage,  in  Cultes I',  p.  Ili  sgg.).  Quando  invece  il  colto  del  fo- 
colare non  fu  pili  racchiuso  nell'  ambito  della  famiglia  regale,  quando  le  sue  sa- 
cerdotesse non  furono  più  cosa  del  re,  come  già  la  regina,  ma  appartennero  allo 
Stato,  apparve  1'  impossibilità  di  una  loro  unione  sessuale  con  nomini  :  e  si  vol- 
lero allora  pure  da  ogni  contatto  umano. 

*)  Snlla  provenienza  della  dea  Vesta  dalla  Grecia,  cui  è  contràrio,  fra  altri, 
il  WissowA,  Religione,  p.   157,  vedi  Krktschmbr,   KinìeiHuig   in  die  Geschichte  dtr 


La  Doniui  nel  nacerdozio  romano  75 


del  re,  che  le  nominava  e  le  presiedeva,  passarono  ora,  col  decadere  detì- 
nitivo  della  nionarcliia,  sotto  la  piena  autorità  del  Pontefice  Massimo,  men- 
tre gli  ordinamenti  del  Collegio  subivano  ancora  ([ualche  modificazione  o 
trasformazione,  per  cui  il  culto  ufficiale  di  Vesta  assumeva  definitivamente 
quelle  forme  che  rimasero,  nelle  hno  linee  fondamentali,  immutate  per  otto 
secoli. 

IV. 

Consideriamo  ora  di  qual  natura  fo.ssero  gli  incarichi  religiosi  riserbati 
all'  altro  sacerdozio  femminile  romano,  a  quello  delle  flaminicae,  come  si 
chiamavano  le  mogli  dei  flamini. 

Flamiiies  furono  iu  Roma  i  sacerdoti  incaricati  individualmente  del  culto 
d'  una  determinata  divinità  da  cui  prendevano  il  nome  ;  essi  erano  aggre- 
gati al  Collegio  dei  Pontefici,  del  quale  facevan  parte,  come  tutti  i  sacer- 
doti che  noi  abbiamo  designato  da  principio  quali  «  emanazioni  della  rega- 
lità ».  Essi  furono,  almeno  nei  tempi  più  antichi,  in  numero  di  (luindici  ; 
tre  maggiori,  addetti  al  culto  di  Juppiter,  di  Mar^:  e  di  Quiriniis,  e  chiamati 
perciò  Dialix,  Martialis,  Quirinalis,  e  dodici  minori,  incaricati  di  onorare 
divinità  di  più  scarsa  importanza,  tantoché  di  alcune  di  queste  divinitii  e 
dei  loro  sacerdoti  si  era,  in  età  storica,  obliterato  perfino  il  nome  '). 

Ma  questo  sacerdozio  ci  offre  una  particolarità  piena  d'  interesse  :  noi 
troviamo  cioè  che  la  moglie  è  tenuta  ad  assistere  il  nuirito  nelle  operazioni 
del  culto,  al  quale  anzi  non  sono  del  tutto  estranei  neppure  i  figli.  E,  come 
conseguenza  di  ciò,  vediamo  sancite  certe  norme  per  regolare  la  condizione 
coniugale  del  flamine;  stato  coniugale,  che  era  indispensabile  per  ottenere 
il  flaminato,  iu  (juanto  che  siffatta  carica  religiosa  doveva  essere  in  realtà 
ricoperta  non  dal  solo  flamine,  ma  dalla  «  coppia  ttaminica  »,  unita  col  vin- 
colo del  matrimonio.  La  moglie  che,  in  seguito  al  matrimonio  religioso,  è 
entrata  a  far  parte  della  nuova  famiglia,  rompendo  ogni  legame  con  1'  an- 
tica, deve  lasciare  anche  la  propria  religione  domestica,  per  mettersi  tutta 
intiera  nella  religione  del  marito.  Ed  essa  diviene  1'  assistente  di  questo 
presso  il  focolare  domestico;  prega  insieme  col  marito  gli  antenati  di  lui, 
dimenticando  i  propri,  sacrifica  con  lui  ai  Lari  della  famiglia  ').  Siffatta  è 
la  coppia  flamiuica  ;  essa  rappresenta  la  coppia  coniugale  tale  quale  l'antico 
romano  la  concepiva:  la  flaminica  è   unita  al  marito  con  un  vincolo  inspi- 


griech.  Sprache,  Giittingen  1H96,  p.  162  sgg.  ;  Ghupi-k,  (iriech.  Mythol.,  p.  1401 
sgg.  ;  De  Sanctis,   Sloria  dei  Horn.,   II  p.   524. 

')  Snl  flaminato  vedi  1'  art.  fiamen  del  Jullian  in  Dakbmberg-Saglio,  II  2, 
1158  sgg.  e  l'art.  Itamiues  dil  Samter  iu  B.  E.,  VI  24  84  sgg.;  e  Wissowa,  ife- 
ligion^,  p.   504  sgg. 

')  Cfr.  FusTEL  i)K  Ccni.ANGES,   Gite  antique,  \>.  45  sgg. 


7({  Giulio  QiannelU 


rato  alle  più  pure  forme  della  tradizione  ');  essa  non    può  avere  altro  dio' 
e  altro  culto  che  quello  di  suo  marito. 

A  queste  condizioni  dovettero  certo  in  origine  sodisfare  tutte  egual- 
mente le  quindici  coppie  tlaminalì;  ma,  in  tempi  storici,  non  si  parlava  più 
delle  rtaminiclie  minori,  e,  quanto  alle  tre  maggiori,  appena  si  ricordava 
eh'  esistessero  la  flaminica  Martialig  e  la  faminica  Quirinali»  ').  Parte  atti- 
vissima nel  culto  ebbe  invece  la  moglie  del  flamine  di  Giove,  la  flaminica 
Dialis. 

I  suoi  doveri  religiosi  consistevano  però  quasi  unicamente  nell' assistere 
il  marito  nel  culto  di  cui  egli  era  incaricato,  quello  cioè  di  Giove  ')  :  così 
come  nella  primitiva  famiglia  la  moglie  assisteva  il  marito  nel  cult<)  dome- 
stico. La  vita  coniugale  della  flaminica  deve  essere  in  tutto  conforme  alla 
morale  primitiva  della  famiglia;  essa  è  la  donna  e  la  moglie  modello;  non 
esce  di  casa  che  velata  *),  e  i  suoi  abiti  sono  unicamente  di  lana  '),  il  tes- 
suto ordinario  e  familiare  dell'antichità.  Tuttociò  corrisponde  al  carattere 
di  purità  e  di  pietà  religiosa  della  famiglia  primitiva  :  carattere  che  la  fa- 
mìglia perde,  quando  anche  la  religione  del  focolare  e  degli  dei  domestici 
non  esercitò  più  alcuna  influenza.  Sola  rimase  fedele  alla  sacra  tradizione 
la  famiglia  flaminale,  esatta  immagine  nella  classica  Koma  della  coppia  co- 
niugale d'altri  tempi  "). 

II  sacerdozio  flaminale  ci  conserva  dunque,  nella  maniera  più  pura,  le 
forme  della  primitiva  religione  domestica;  e  non  v'è  dubbio  che  in  esso  le 


')  La  tiaminica  doveva  infatti  essere  unita  al  marito  con  nn  matrimonio  con- 
farreato  (Gaius,  I  112:  —  Flamine»  maioret,  id  est  Diales,  Martiales,  Quirinalee,  item 
reges  sacrorum  nlH  ex  farreatis  nati  non  leguntnr  oc  ne  ipsi  quidem  sine  confarrealioni- 
Hacerdotium  habere  possunt.),  con  quel  matrimonio  cioè,  di  cui  1'  atto  religioso,  o 
confarreatio ,  costituiva  veramente  1'  essenza.  Cfr.  De  Marchi,  Il  culto  privato  di 
Roma  antica,  I  p.  148  sg. 

*)  La  loro  esistenza  non  può  negarsi  ;  cosi  Macrobio  {Sat.  Ili  13,  11)  e'  in- 
forma che  fra  i  convitati  alla  cena  di  Lentulo,  —  quo  die  flamen  Marliali»  inau- 
guratus  est,  —  sì  trovava  ipsius  uxor  Publieia  Jiaminica  :  ma  certo  non  abbiani 
ricordo  di  fanzìoni  sacerdotali  a  loro  affidate.  Cfr.  Wissowa,  Religione,  p.  .506 
nota  5. 

')  Per  questo  essa  è  considerata  senz'altro  come  sacerdotessa  di  Giove  ;  Festi 
ep.,  p.  65:  —  Flammeo  vestimento  Flaminica  utebatur,  id  est  Dialis  uxor  et  Joris  sa- 
cerdos.  —  Che  la  flaminica  fosse  «  sacerdotessa  di  Juno  »  fu  erroneamente  att'er- 
mato  da  alcuni  (per  es.  da  Roschkr,  Juno  und  Hera,  p.  63  sgg.)  in  base  ad 
un'affermazione  di  Plutarco  (Quaest  Bom.,  86)  che  dice  della  flaminica  tspàv  t^f 
'Hpaj  fivai  Soxoùaav.  Contro  qnesta  tesi  vedi  .Ici.t.lAN,  art. /amen  in  Darembkrg 
Saglio  ;  Otto  W.,  Juno,  in  «  Philologus  »  LXIV  (1905),  p.  161  sgg.,  e  il  mìo 
stndio  «  Inno  »  in  «  Memorie  del  R.  Ist.  Lombardo  ■>,  voi.  XXII,  fase.  V,  p.  173  sgg. 

*)  .Servio,  Aen.,  IV  137;  cfr.  Festi  ep.,  p.  46. 

•"•)  Servio,  Aen.,  XII  120. 

')  Cfr.  .Ii:i.MAN,  art.  cit.  in  Daremrkrg-Saguo. 


La  donna  nel  sacerdozio  ramavo  77 

funzioni  della  tìamiuica  sono  quelle  stesse  della  mater  familias  presso  l'ara 
privata.  Già  dicemmo  che  i  flamini  erano  stati  creati  a  lato  del  ve  per 
■disimpegnare  quelle  funzioni  religiose  che  prima  a  lui  solo  erano  affidate  e 
ch'egli  compiva  all'altare  della  regia,  assistito  dalla  regina;  possiamo  af- 
fermare dunque  che  anche  le  tìaminiche,  come  le  Vestali,  hanno  preso,  nel 
loro  ministero  religioso,  il  posto  tenuto  una  volta  dalla  regina. 

E  ciò  acquista  sicurezza  ed  evidenza  quando  si  studi  il  sacerdozio  del 
tex  e  della  regina  sacrorttm.  Poiché  è  certo  che  il  rex  sacrorum  è  1'  avanzo 
dell'  antico  re  che  era  stato  un  tempo  il  capo  dello  Stato,  poiché  è  evidente 
«he  le  funzioni  religiose  eh'  egli  esercita,  assistito  dalla  moglie,  in  epoca 
repubblicana,  non  sono  che  il  residuo  dei  larghi  compiti  sacri  a  lui  un  giorno 
risérbati,  è  chiaro  che  le  forme  e  il  carattere  del  culto  amministrato  dalla 
■coppia  regale  in  età  storica  ci  riveleranno  di  qual  tipo  fu  il  primitivo  mi- 
nistero religioso  da  quella  in  origine  esercitato.  Orbene  il  rex  sa,crorum,  at- 
tentamente studiato,  ci  si  rivela  semplicemente  come  un  flamine.  Come  i 
flamini,  infatti,  era  nominato  dal  Ponti/ex  Maximus  ')  e  del  Collegio  dei 
Pontefici  faceva  parte;  era  inaugurato  nei  Comitia  Calata  ')  e  doveva  an- 
■ch'egli  essere  ammogliato  e  il  suo  matrimonio  doveva  essere  stato  celebrato 
■col  sacro  lito  della  confarreatio  ')  :  come  il  flamine  diale,  ebbe  anch'  egli 
una  residenza  ufficiale,  una  nuova  regia,  ove  abitò  insieme  con  la  consorte  ').• 

È  innegabile  dunque  che  il  rex  e  la  regina  sacrorum  sono  una  coppia 
sacerdotale  di  tipo  flaniinale  ')  ;  è  evidente  perciò  che  i  sacerdoti  sostitui- 
tisi al  re,  i  fliiniini,  ne  esercitarono  le  funzioni  sacre  con  quelle  stesse  forme 
<lel  culto  domestico  adottate  dalla  coppia  regale. 


• 


I 


')  DlONYS.   Halic.   V   1,   4. 

»)  Gell.  XV  27,  1  :  cfr.  Livio  XXVII  36,  5,  XL  42,  ». 

»)  Gaius  1  112. 

■*)  Flaminia  aedes,  Jiaminia  domua  ai  chiama  la  casa  del  tlamiue  diale  :  Festi  ep. 
p.  tì3  ;  Skrvio  Aeii.,  II  57;  Vili  63.  La  casa  del  rex  era  posta  in  summa  Sacra 
Via  :  Fbsto,   p.   412. 

'')  Noi  potremmo  chiamare  il  rex  sacrorum  tlamine  di  Janus,  risto  che  egli  re- 
■stò  specialmente  incaricato  del  culto  di  questa  divinità.  Il  9  Gennaio  il  rex  celebra 
1'  Jgonium,  la  prima  festa  dell'  anno,  sacra  ad  Janus  (OviD.,  Fatti,  l  318),  e  a 
questa  divinità  sacrifica  un  montone  nella  Regia  (Vark.,  de  Hng.  lat.,  VI  12).  È 
anche  probabile  che,  a  tutte  le  «  kalendae  »  il  re  otlnsse  un  sacrificio  a  Janns 
nella  Curia  Calahra  (cfr.  WissoWA,  Religione,  p.  103),  donde  egli  indiceva  poi  le 
Nonae  (Servio,  Aen.,  Vili  6.54).  Si  tenga  infine  presente  la  corrispondenza  fra  la 
«orveglianza  rilasciata  al  re  suU'  andamento  del  calendario  e  il  carattere  di  Janus 
come  dio  del  principio,  del  primo  giorno  del  mese  (OviD. ,  Fasti,  I  17.">)  e  quindi 
■del  Calendario. 


78  Giulio  Giannelli 


V. 

Dopo  «.'Ile  iibliiamo  così  partitainente  esaminato  i  tre  sacerdozi  femiiii- 
iiili  romani,  quelli  cioè  della  Regina  dei  sacrifici,  delle  Haniiniclie  e  delle 
Vestali,  torniamo  al  quesito  die  ci  eravamo  proposti  da  principio  :  quiili 
sono  i  caratteri   comuni  che  le  sacerdotesse  romane  ci  presentano  1 

È  anzitutto  interessante  osservare  come  tutte  siano  strettamente,  con- 
nesse, anzi  facciano  addirittura  parte  del  Collegio  dei  Pontefici  :  le  Flami- 
niclie  e  la  Regina  in  (pianto  sono  le  mogli  di  sacerdoti,  membri  essi  stessi 
del  Collegio;  le  Vestali  come  dipendenti,  giuridicamente  e  disciplinarmente, 
dal  Pontefice  Massimo.  Se  esaminiamo  quale  sia  stato  in  Roma  l'ufficio  di 
questo  Collegio,  ci  accorgiamo  eli'  esso  riunì  in  sé  tutta  quanta  1'  attività 
sacerdotale  del  decaduto  rejr.  I  flamini  infatti  e  il  re  dei  sacrifici,  ridotto 
ormai  egli  pure  ad  un  flamine,  esercitano  quelle  che  un  tempo  erano  state 
le  funzicmi  religiose  del  re,  mentre  il  Pontefice  Massimo  se  n'  è  appropriato 
i  poteri.  Or  dunque,  se  l'attività  dell'intiero  collegio  pontificale  non  è  che 
la  continuazione  dell'  attività  religiosa  regale,  è  chiaro  che  in  questa  do- 
.vreino  cercare  l'origine  anche  delle  funzioni  esercitate  dalle  sacerdotesse  ro- 
mane, tutte  appartenenti  a  questo  gruppo  di  sacerdoti. 

Vedemmo  infatti  che  la  coppia  del  rex  e  della  reyina  xaci-oriim  altro 
non  è  se  non  l'avanzo  dell'antica  coppia  reale  la  quale,  all'  ara  domestica, 
sacrificava  agli  dei  in  nome  del  popolo  intiero  ;  e  vedemmo  che  una  fedele 
riproduzione  ne  sono  le  coppie  flaminali,  in  cui  le  funzioni  della  tìaminica 
sono  quelle  stesse  che  la  regina  aveva  esercitato  a  fianco  del  marito,  prima 
che  questi  dovesse  rinunziare  a  venerare  personalmente  quelle  divinità,  ormai 
troppo  cresciute  nell'  adorazione  e  nella  stima  del  popolo,  che  volle  affidata 
ciascuna  di  esse  a  uno  speciale  sacrificatore.  Vedemmo  infine  come  le  Ve- 
stali rappresentino  al  focolare  della  città  la  maler  familias  dello  Stato,  e 
come  la  mater  familias  da  loro  sostituita  non  possa  essere  se  non  la  regina 
che  fu  un  tempo  proposta  alla  custodia  del  regio  focolare,  in  origine  anche 
focus  publicus. 

E  allora  mi  sembra  facile  trarre  da  ciò  la  logica  conclusione:  le  sacer- 
dotesse romane  esercitano  tutte  quelle  finzioni  religiose  che,  in  origine, 
erano  appartenute  alla  regina  come  mater  familias  :  in  part«  in  quanto  essa 
custodiva  il  fuoco  perpetuo  nel  focolare  del  re  (Vestali),  in  parte  in  quanto 
essa  assisteva  il  marito,  quando  egli  sacrificava  alle  divinità  dello  Stato 
(regina  dei  sacrifici  e  flaminiche).  E  il  carattere  delle  funzioni  sacerdotali 
della  regina  è  quello  di  tutte  le  sacerdotesse  di  Roma.  Ma  il  culto  che  la 
coppia  coniugale  esercitò  un  tempo  nell'  interno  della  regia  fu  un  culto  pu- 
ramente domestico  :  tutte  le  funzioni  sacre  della  regina  furono  quelle  stesse, 
e  soltanto  quelle,  della  ma<er/aTOJK«»  nell' antica  religione  privata:  noi  pos- 
siamo   quindi    affermare  che    le  sacerdote.sse    esisterono  in  Roma  in  quanto 


L(i  Donwi  nel  sacerdozio  romano  79 


i-ra  piiiua  «li  loro  esistita  una  mater  familiax  con  funzioni  sacerdotali  ;  e  il 
concetto  che  pose  la  donna  nel  sacerdozio  romano  è  quello  stesso  che  la 
volle  partecipe  della  religione  domestica.  E  di  questa  sola  sono  un  portato 
le  sacerdotesse  romane. 

E  se  pensiamo  che  codeste  sacerdotesse  si  riattaccano  a  (|uello  stadio 
della  religione  romana  che  è  indubitatamente  il  più  antico  e  (|uello  che  diede 
i  caratteri  tVmdamentali  all'ordinamento  dei  culti,  dobbiamo  riconoscere  che 
nella  religione  domestica  sta  il  substrato  vero  della  parte  essenziale  del- 
l'organizzazione religiosa  romana. 

Ed  è  questo  un  fatto  la  cui  importanza  è  di  molto  maggiore  di  quello 
l'he  ad  un  osservatore  superficiale  potrebbe  sembrare. 

L'  ìntima  connessione  della  religione  con  la  famiglia,  1'  istituzione  più 
venerata  presso  i  rudi  agricoltori  del  Lazio,  supplì  ad  una  grave  deficienza 
che  in  quella  avevasi  a  lamentare  ;  alla  mancanza  cioè  di  un  elemento  mo- 
rale, il  quale,  attribuendo  un  valore  etico  ad  ogni  atto  della  vita  umana, 
facendo  balenare  alla  niente  degli  uomini  la  promessa  di  un  premio  o  la 
minaccia  di  un  gastigo,  facesse  della  religione  strumento  di  freno  delle  co- 
scienze e  la  innalzasse  dal  freddo  formalismo  del  culto,  in  cui  essa  sembrò 
tutta  consistere.  Ed  è  cosi  che  due  concetti  totalmente  separati  presso  i  Ro- 
mani, quello  di  religione  e  quello  di  moralità,  vennero  a  riunirsi  tra  loro  ; 
in  quanto  che  trovò  la  religione  la  sua  migliore  applicazione  nella  famiglia, 
i;he  della  legge  morale  romana  fu  1'  espressione  più  diretta  e  più   pura. 

Né  è  a  far  meraviglia  se  (iiiesta  religione,  una  volta  venuta  nelle  mani 
dello  Stato,  divenne  in  suo  potere  uno  strumento  efìicace  di  coesione  e  di 
disciplina  :  tutti  i  cittadini  furono  da  codesta  religione  uniti  fra  loro  come 
già  lo  erano  stati  i  membri  della  familùi  e  della  gens;  e  quelli,  come  già 
«luesti,  videro  in  essa  una  comune  garanzia  della  provvidenza  e  dell'  assi- 
stenza divina.  La  religione  di  Roma  fu  opera  più  di  legislatori  che  di  teo- 
logi, essa  ispirò  nei  cittadini  piuttosto  le  virtù  civili  che  quelle  morali  ; 
ma,  in  compenso,  fu  una  delle  cause  prime  della  potenza  del  popolo  romano. 
Sicché  non  a  torto  Cicerone  proclamava  (de  nat.  deor.,  Il  2)  che,  per  la 
loro  religione,  i  Romani  avevano  vinto  1'  universo  e  che,  se,  sotto  altri 
rispetti,  potevano  essi  apparire  eguali  od  inferiori  ad  nitri  popoli,  nel  culto 
degli  dei  tutti  di  gran   lunga  li   superavano. 


Firen:e,    Liif/lio   19 lù. 

(iiri.IO    GlANNEl.LI. 


LA  BATTAGLIA  DEL  LAGO  REGILLO 


Canto  cantato  nrli.a  Festa  vi  Castore  k  Volluck 
NEQM  Idi   dei.  Quintilk   dell'anno    di    koma  ccccm. 


(«lai  Canti  dell'Antica  Roma, 
di  T.  B.  Macaulav). 


1. 

Sonate,  trombe  di  guerra  ! 

Voi,  littori,  fate  il  passo 
ai  superbi  Caralieri, 

eh'  oggi  per  le  vie  cavalcano. 
E  dal  Fòro  al  Campo  Marzio, 

d'ogni  casa  e  d'ogni  strada 
alle  porte  e  alle  linestre, 

belle  pendano  ghirlande, 
pei  superbi  Cavalieri 

eh'  oggi  per  le  vie  cavalcano  ; 
«he  di  porpora  vestiti 

e  d'  ulivo  incoronati, 
van  sul  bel  destrier  che  1'  unghia 

fiera  batte  sul  terreno. 
Fin  che  scorra  il  giallo  Fiume 

ed  il  Colle  sacro  stia, 
Avran  sempre  un  tale  onore 

i  fieri  Idi  del  Quintile. 
Liete  ha  Marzo  le  Calende, 

e  Decembre  le  sue  None  ; 
ma  i  fieri  Idi  del  Quintile, 

quando  per  le  vie  di  Roma 
cavalcano  i  Cavalieri, 

sono  i  pih  lucenti  giorni. 

II. 

Per  i  due  Grandi  Diòscnri 

celebriam  noi  questa  festa. 
Quei  che  rapidi  a  noi  giuusero 

spronando  dall'oriente. 
Trapassar  1'  ermo  Partenio, 

mosso  in  ondeggiar  di  pini; 
il  Cirreo  tempio,  il  mar  d'Adria, 

il  ceruleo  Appennino. 


Di  là  dove  in  snoni  e  danze 

lor  magioni  antiche  echeggiano  ; 
nella  nobil  Città,  .Sparta, 

eh'  è  una  sola  ed  ha  due  re  ; 
giunsero  al  Lago  Kegillo, 

sotto  la  Porciana  altura, 
nel  paese  Tnsculano 

dove  fu  la  gran  giornata. 

III. 

Dove  un  dì  spaziò  la  strage, 

oggi  son  capanne  e  ovili, 
vigne  son,  campi  di  grano, 

sono  verdi  bei  pomarii. 
Schiaccia  il  porco  la  caduta 

ghianda  dai  tuoi  cerri,  o   Come. 
Presso  il  fonte,  sopra  l'erba 

fuma  al  mietitore  il  pasto. 
L'  amo  il  pescatore  inesca, 

I'  arco  appronta  il  cacciatore. 
Raro  è  il  lor  pensare  ai  forti, 

che  la  terra  qui  dissolve. 
E  pensare  come  in  rabbia 

strìdè  la  tromba  di  guerra  ; 
in  quel  dì,  che  per  i  pésti 

guazzi  lubrici  di  sangue, 
annaspando  s'avvolgevano 

uomini  e  cavalli  ;  e  vennero 
in  un  fier  galoppo  i  lupi, 

In  un  volo  avido  i  corvi 
a  sbranar  carne  di  duci, 

a  scavare  occhi  di  re. 
Come  fitti  i  morti  giacquero 

sotto  la  Porciana  altura  : 


La  hattaglia  del   Lago  lieijillo 


81 


ionie  a  TuncoIii  la  pazza 
fuga  costipò  le  porte  : 

e  come  il  Lago  Regillo 
rilidUì  di  rosse  schiume, 

<|iiamlo  avvenne  che  le  Trenta 
Città  fecer  guerra  :i  Roma. 


(Jhé,  se  in   voi  perdura  ancor» 
1'  odio  ingiusto  pei  Tar<iuinìi, 

qnesto  ammonimento   mandano 
a  voi  le  Trenta  CittA.  : 

Attendete  a  che  le  vostre 
mura  siano  ben  sicure  !  » 


IV. 

Ma  non  tu,  Romano.  Quando 

tocchi  questa  sacra  terra, 
cerca  ben  l'oscura  rupe, 

cni  1'  oscuro  lago  aggira. 
Tu  vedrai  d'  equino  zoccolo 

sulla  selce  impressa  nn'  orma. 
Non  potea  mortai  cavallo 

stampar  tale  strana  iiupronta. 
Ivi  ai  due  Grandi  Diòscuri 

i  tuoi  voti  leva,  e  prega 
■che  ti  facciano  in  battaglia 

e  ne  la  tempesta  salvo. 


VII. 

Disse  allora  il  Consolo  Aulo, 

questa  amara  betta  disse  : 
«  Una  volta  la  ghiandaia 

tal  recò  messaggio  all'aquila; 
—  O  fai  parte  in  questo  nido 

al  mio  amico  1'  avvoltoio, 
o  vien'  fuori  ardita  e   atironta 

le  ghiandaie  a  mortai  guerra. 
Fuori  in  ira  guardò  1'  aquila, 

e  ghiandaia  ed  avvoltoio, 
visti  sol  1'  artiglio  e  il  rostro. 

via  stridendo  dileguarono.  » 


V. 

Qui  per  ultimo  i  Diòscuri 

da  mortali  occhi  fùr  visti, 
oggi  appunto  fanno  cento 

anni  con  novanta  e  tre. 
Era  quell'estate  in  carica 

primo  Console  nn  Virginio. 
Il  secondo  era  Anlo  il  prode, 

della  stirpe  di  Postumio. 
E  l'Araldo  dei  Latini 

venne  altero  a  noi  da  Gabi. 
Egli  venne  dentro  Roma 

per  la  Porta  Orientale. 
E  l'Araldo  dei  Latini 

si  condusse  al  nostro  Fòro. 
-Quivi  disbrigò  il  suo  ufficio, 

ed  aveva  in  man  Io  scettro  ; 

VI. 

«  Senatori,  udite  !  e  voi 
del  buon  popolo  di  Roma  ; 

il  messaggio  che  io  vi  porto 
dèlie  Trenta  Città,  udite. 

Vi  comandan  esse  in  patria 
di  riprendere  i  Tarquinii. 

Atene  e  Roma. 


Vili. 

E  l'Araldo  dei  Latini 

ripartiane  in  fretta  altero. 
E  di   Roma  i  Padri  stanno 

radunati  al  gran  concilio. 
Questo  disse  il  Primo  Console. 

uomo  di  saggezza  e  d'  anni  : 
«  Udite,  Padri  Coscritti, 

tutto  intero  il  pensier  mio. 
Nel  pericolo  supremo 

vuoisi  un  capo  sol  supremo. 
Eleggiamci  un  Dittatore, 

ini  ciascuno  obbedirà. 
Sa  Camerio  come  a  fondo 

d'Aulo  penetra  la  spada  ; 
di  quell'Aulo,   che  ognun   chiama 

1'  uomo  dalle  cento  pugne. 
Eleggiamol  Dittatore, 

per  sei  mesi  Dittatore. 
Non  un  dì  piii  di  sei  mesi. 

come  vuol  1'  antica  legge. 
E  si  scelga  alcuno,  e  faccialo 

Maestro  dei  Cavalieri. 
E  si  elegga  compagnia 

di   ventiquattro  littori  ». 


1 


82 


Manfredo  Vanni 


IX. 

Cor)  fu  dittatore  Aulo, 

1'  uoinu  dalle  conto  pugne. 
K  creava  Ebnzio  Elva 

maBHtro  dei  Cavalieri. 
E  passati  eran  due  giorni, 

quando  allo  spuntar  dell'  iilbii 
lecer  Aulo  e  Ebnzio  fuori 

collocar  le  loro  schiere. 
Ma  lasciato  fu  Sempronio 

Atratino  entro  Città, 
l'.oi  fanciulli  ed  i  piti  vecchi, 

alla  guardia  delle  mura. 
E  presso  il  Lago  Regillo 

fn  sospinto  il  nostro  campo. 
I  Latini  ad  est  un  miglio, 

sotto  la  Porciana  altura. 
Lungi  sopra  colli  e  valli 

la  lor  grande  oste  era  stesa. 
E  dei  loro  mille  fuochi 

rosseggiava  a  notte  il  cielo. 

X. 

Sorse  il  bel  mattino  d'  oro 

sopra  la  Porciana  altura  ; 
i  fieri  Idi  del  Quintile 

sempre  di  piil  chiara  luce  ; 
né  fu  senza  un  turbamento 

che  sorgea  segreto  in  cuore 
anche  dei  più  forti  e  strenui, 

al  veder  tanti  nemici. 
A  trenta  vessilli  un  cinto 

di  sessantaniila  lancie  ! 
Da  ciascuna  bellicosa 

Città  vanto  al  latin  nome, 
la  superba  oste  si  avanza, 

fatai  pasto  ai  cani  e  ai  corvi. 
Dai  vigneti  aurei  di  Sessa, 

dall'  antica  arce  di  Norba  ; 
dalle  bianche  vie  di  Tnscolo, 

sopra  ogni  altra  città  altera  ; 
d'  onde  la  ròcca  di  Vico 

pende  sui  bluastri  Hutti  ; 
dal  quieto  vitreo  Iago 

sotto  gli  alberi  di  Arìcia  ; 
(gli  alberi  alla  cui  fosca  ombra 

regnò  il  ))allido  levita, 


qnei  che  uccise  1'  uccisore, 

e  a  sua  volta  sarà  iiccito)  ; 
dalle  rive  dell'  Cfente 

squallide,  ove  in  giochi  vohnuk 
i  palustri  uccelli,  e  dove 

gravi  i  bufali  si  stanno 
voltolandosi  a  schermire 

i  calori  dell'estate  ; 
dalla  gigantesca  toiTe, 

pih  divina  opra  che  umana, 
d'  onde  Cora  guarda  e  vigila 

la  palude  interminata  ; 
dalla  landa  di  Laurento, 

dove  fra  i  canneti  s'  apre 
il  cignal  sicuro  asilo  ; 

dalle  verdeggianti  rupi, 
d'  onde  in  bianconìvee  spume 

precipita  l'Aniene. 

XI. 

Ed  Aricia  e  Cora  e  Norba, 

con  Velletri  e  Sessa  e  Tuscolo,. 
che  qui  aveano  il  miglior  nerbo,. 

fnron  collocati  a  destra. 
Era  duce  lor  Mamilio 

di  regal  sangue  latino. 
Sulla  testa  gli  risplende 

come  flamma  un  elmo  d'  oro. 
Alto  sopra  un  bel  leardo 

ei  cavalca,  fluttuandogli 
sopra  I'  aurea  armatura 

la  sopravveste  di  porpora  : 
che,  tessuta  nella  bella 

plaga  dove  nasce  il  sole, 
dalle  tue  fanciulle,  o  Siria, 

vaghe  per  la  bruna  fronte, 
trasse  lungi  poi  la  Punica 

nave  sopra  i  mar  del  sud. 

XII. 

E  Laviuio  e  Laurento 

al  sinistro  lato  stanno. 
L'  uno  ha  quei  della  palude, 

I'  altro  qnei  del  littorale. 
Li  comanda  1'  empio  Sesto, 

I'  uomo  ohe  lompì  1'  infamia. 


La  battaglia  del  Layo  Megillo 


83 


Truce  il  volto,  incerto  il  passo 

al  mio  d'i  fatale  oi  viene. 
K  di  strane  visioni 

narrau  eh'  egli  solo  vide. 
K  di  strane  cose  ndite 

eh'  egli  solo  udir  potè. 
Una  luatroual  tìgura 

di  regale  Donna  e  bella, 
bella  ma  nel  volto  pallida 

del  pallore  che  hanno  i  morti, 
Npesso  nelle  insonnie  stagli 

filando  presso  il  suo  letto. 
Ed  in  qiiel  che  trae  la  rócca 

in  sommessa  voce  canta, 
di  romane  case  antiche, 

dì  romane  antiche  guerre. 
Klla  fila  ed  ella  canta 

sino  al  primo  albor  nel  cielo  ; 
■  piando,  il  dito  al  sanguinante 

petto,  in  uno  strido  involasi. 


XIII. 

Ma  pili  fìtte  schiere  al   centro 

han  gli  scudi  dei  nemici. 
E  più  alto  su  dal  centro 

sale  il  grido  della  pugna. 
t;ui  marciavan  Tebro  e  Pedo 

al  comando  di  Tarqninio; 
Ferentino  e  Gabi,  ai  qnali 

dà  la  rupe  e  il  lago  il  nome. 
Qui  dei  Volaci  gli  ausiliarii  ; 

e  in  oscura  torva  schiera 
i  Romani  esuli,  stretti 

tiittì  intorno  al  vecchio  re  : 
a  Taniuinio,  che  fu  in  Roma 

re  col  titol  di  Superbo. 
Kianco  pih  non  è  il  Soratte, 

quando  lunghe  notti  ha  il  verno, 
della  barba  che  a  lui  fluttua 

sulla  maglia  e  la  lorica  ; 
ma  il  suo  cuore  è  forte,  ed  è 

la  sna  mano  non  men  forte. 
Sotto  i  bianchi  sopraccigli 

lampi  ha  1'  ira  ancor  non  spenta  ; 
>;  se  1'  asta  in  pugno  tremagli, 

non  per  gli  anni,  ma  per  1'  odio  ! 


Stretto  al  fianco  gli  era  Tito 
su  <l'  un  bel  cavai  d'Apnlia; 

il  più  giovan  dei  Tarquinii  ; 
per  nn  dei  Tarquinii,  bnono. 

XIV. 

Ecco  d'  ambo  i   lati   i   duci 

danno  il  segno  dell'  assalto  : 
vanno  a  grandi  passi  i  fanti 

colla  lancia  e  collo  scudo  : 
ed  a  tutta  briglia  e  a  sangue 

spronano  i  cavalieri  : 
e  cozzano  i  combattenti 

con  un  gi-au  boato  immenso  : 
e  di  sangue  si  colora 

sotto  la  battaglia  il  suolo. 
Come  nebbia  del  mattino 

sulla  Pontina  palude, 
s'  innalzava  alta  la  polvere 

in  nnbi  alte  di  tempesta. 
E  più  alto  s'  innalzava, 

fuor  dell'  oscnrato  campo, 
nn  clamor  forte  di  buccine, 

un  fragor  dì  scudi  e  spade  ; 
di  precipitanti  squadre 

come  turbini  sul  piano  ; 
e  degli  uccisori  i  gridi, 

e  le  strida  degli  uccisi. 

XV. 

Nelle  prime  file  Sesto 

cavalcava,  altero  il  guardo. 
Di  bnon  cuoio  è  il  corsaletto, 

laminato  a  acciaio  ed  oro. 
Come  1'  aquila  digiuna 

dalla  Digeuziana  rupe 
getta  l'occhio  sull'ambito 

agnelletto  che  saltella 
tutto  solo,  allontanatosi 

dalla  greggia  di  Bandusia  ; 
tale  Erminio  adocchiò  Sesto, 

e  com'  aquila  picmibò, 
il  nero  Austro  cavalcando 

(ad  noni  prode  corsier  prode). 
Nella  destra  ave»  la  spada, 

che  tagliò  sì  bene  il  Ponte  ; 


84 


Manfredo  Vanni 


e  HUll'  eliiiii  la  corona 

ch'egli  iin  di  si  guadagnava 
al  conquisto  di   Fidene, 

gran  rivale  già  di  Koma. 
Guai  all'  amata,  il  cui  amatore 

oggi  gli  attraversi  il  passo  ! 
Como  volta  e  fugge  il  Calabro 

cacciatore,  quando  scorge 
fra  le  canne  i  rotondi  occhi 

della  maculatii  serpe  ; 
così  volta  e  fugge  Sesto 

a  celarsi  nelle  estreme 
file  oscure  di  Lavinio, 

irte  di  cimieri  e  lancie. 


XVI. 

Ma  lontano  a  nord  Ebnzio, 

maestro  dei  Cavalieri, 
mandò  Tubero  di   Norba 

a  far  pasto  agli  avvoltoi. 
Del  feroce  suo  destriero, 

sotto  i  sanguinanti  zoccoli, 
giacque  travolto  calpesto 

Fiacco  agicoltor  di  Sessa. 
Buon  per  lui  se  a  potar  olmi 

fosse  là  rimasto  ancora  ! 
Vide  tal  strage  Mamilio, 

e  il  cimiero  d'  oro  scosse. 
E  tra  il  folto  della  mischia 

contro  Ebnzio  si  precipita. 
<^uesti  con  tal  forza  diede 

a  Mamilio  nello  scudo, 
che  per  poco  il  Tnscolano 

giù  non  traboccò  e  cade. 
A  sna  volta  a  Ebuzio  mena 

sì  ben  assestato  colpo, 
eh'  ove  il  collo  è  giunto  all'  omero 

parte  a  parte  lo  passò. 
Cadde  a  terra  Ebuzio  Elva, 

privo  d'  ogni  senso  e  immoto. 
Ma  di  scudi  una  muraglia 

tosto  gli  sì  alzava  intorno. 
Lo  scostarono  i  suoi  fidi 

alcun  po'  dalla  battaglia. 
Al  vicino  oscnro  lago 

quindi  corsero  i  suoi  fidi. 


Riempiron  gli   elmi,   e  iV  acqn:i 

gli  spruzzar  la  fronte  e  il  voltn 
E  quando  egli  aperse  gli  occhi, 

i  natanti  occhi  alla  luce, 
si  racconta  che  le  prime 

sue  parole   furiin   queste  : 
«  Cari  amici,  dite  :  abbiamo 

vinto...  non  è  vero?  vinto?» 


XVII. 

Nel  frattempo  al  centro  molte 

si  compiano  e  grandi  gesta  : 
che  qui  Aulo  combatteva, 

combatteva  qni  Valerio. 
S'  apri  Aulo  colla  buona 

spada  un  varco  sanguinoso 
verso  dove,  nel  più  fitto 

dei  nemici,  aveva  scòrto 
una  lunga  barba  biancM  : 

quella  di   Tarqninio  re, 
di  Tarqninio  che  fu  in  Roma 

re  col  titol  di  Superbo. 
Lampeggiò  la  spada  d'Anlo 

sulla  testa  di  Tarqninio. 
(Questi  abbandonò  la  lancia, 

ed  abbandonò  le  redini  ; 
E  giti  cadde  come  corpo 

morto  cade  ;  ed  Aulo  allora 
balzò  a  terra  per  finirlo; 

e  dagli  occhi   usciangli   fiainiiir 
Ma  saltò  pili  pronto  Tito 

e  di  sé  fé'  schermo  al  padre. 
E  Latini  duci  allora 

e  Romani  cavalieri 
balzan  essi  pure  a  terra, 

ed  a  piedi  ora  combattono, 
corpo  a  corpo  tutti  intorno 

al  caduto  vecchio  re. 

Primo  Tito  ferì  Ceso 

di  mortale  colpo  in   volto. 
Era  Ceso  della  prode 

Fabia  stirpe  1'  uom  pin  prode. 
Aulo  uccise  Gabio,   il   grande 

sacerdote  di  Giunone  ; 
e  Valerio  abbatté  Giulio, 

della  gran  Romana  c:isa  ; 


La  hattuylia  del  Lago  Reti'Mo 


85 


Giulio  che  lasciava  gli  alti 

{[Ti'adi  sul  Veliano  colle, 
per  seguire  ognor   Tarqiiiiiio 

alla  buona  e  rea  ventura. 
Bene  sta  che  di  Tarqninio 

Giulio  a  sbarra  sia  cadavere. 
TitD  in  un  rabbioso  gemere 

su  Valerio  infuriava. 
E  Valerio  con  un  colpo 

mezzo  svelsegli  il  cimiero. 
Ma  pifi  pronto  Tito  un  forte 

colpo  gli  affondò  nel  jietto. 
Come  antenna  alla  tempesta 

tentennò  Valerio,   e  cadde. 
Cjuanto  pianger  dee  la  patria 

chi  sì  amato  fu  dal  popolo  1 
In  un  alto  grido  dettero 

i   Latini,   e  con   lieve  urto 
ricacciarono  i  Romani 

(li  tre  buone  laneie  indietro. 
Poi  Tarqninio  sollevarono, 

1'  adagiaron  su  uno  scudo. 
K  da  quattro  forti  militi 

fu  portato  ancor  svenuto 
fuor  del  campo  re  Tarqninio, 

eh'  ebbe  il  titol  dì   Superbo. 

XVIII. 
Or  pìh  fiera  ardea  la  pugna 

a  Valerio  morto  intomo  ; 
che  traealo  per  i  piedi 

Tito,  ed  Aulo  per  la  testa. 
Grida  Tito  :    «  Su,  Latini  ! 

i  ribelli  dàn  le  spalle.  » 
Aulo  grida  :  «  Su,  Romani  I 

Saldi  a  vincere  o  a  morire. 
Non  vogliate  che  lasciato 

sia  Valerio  ai  cani  e  ai    corvi. 
Sempre  amò  Valerio  il   giusto, 

e  1'  ingiusto  sempre  odiò. 
Por  le  Tostie  mogli  e  i  vostri 

tigli  ei  cadde  qui   fra  i  primi, 
cjuanto  pianger  dee  la  patria 

chi  sì  amato  fu  dal  popolo  !  » 

XIX. 

Al  conteso  corpo  intorno 
<ii  Valerio  morto,  allora 


dieci  volte  la   battaglia 

il  ruggito  suo  ruggì  ; 
(■ome  sotto  al  tramontami 

rugge  la  foresta  in  fiamme. 
In  un  mareggiare  alterno 

furiosa  andò  la  mìschia  : 
fin  che  pifi  non  visto,  ignotcì 

fu  Valerio  ove  giacesse. 
Che  spezzate  armi  ed   insegne 

là  faceano  un  solo  ammasso. 
E  irrigiditi  cadaveri  ; 

e  morenti  che  con  gemiti 
smaniando  s'attorcevano, 

e  mordevano  la  polvere  ; 
e  cavalli  che  feriti, 

in  un'  angoscia  d'  anelito, 
dibattendosi  scalciavano, 

e  sbuffavan  rosse  schiume  : 
fecer  bene  degno  feretro 

a  un  Consolare  di  Roma. 

XX. 

Verso  nord  il  Dittatore 

guarda  lungamente,  e  fiso. 
Dice  quindi  a  Caio  Cosso, 

capitano  della  Onardia  : 
«  Caio,  fra  i  Romani   tutti 

vanti  tu  la  miglior  vista. 
Guarda,  e  dimmi.  Gifi  lontano, 

nel  gran  turbine  di  polvere, 
che  è  mai  quel  che  s'  avanza 

alla  de.stra  dei  Latini  ?  » 

XXI. 

Gli  rispose  Caio  Cosso  : 

«  Vedo,  e  tristi  cose  io  vedo. 
Le  sue  insegne  altere  Tuscolo 

reca  a  destra  dei  Latini. 
Vedo  i  cavalier  piumati  ; 

e  davanti  oltre  le   lance 
vedo  il  bel  leardo,  e  splendere 

la  sopravveste  di  porpora  : 
e  1'  elmetto  d'  oro  io  vedo, 

che  da  lungi  splende  fiamma. 
'L'ali  1  segni  di  Mamilio, 

il  Latin  prence  Mamilio.  » 


86 


Manfredo  Vanni 


xxir. 

«  Ora  ascolta,  Caio  Costtu  : 

sali  in  groppa  al  tuo  cavallo. 
E  oaralca  a  tatto  sprone, 

come  se  ti  avessi  dietro 
ululanti  tutti  i  lupi 

elle  nutrisce  l'Appennino. 
Dove  a  sud  pugnano  1  nostri, 

là  ti  affretta  ;  e  corri  e  corri 
tino  a  che  non  trovi  Erminio. 

Digli  eh'  egli  venga  e  a  furia.  » 


XXV. 

Si  percosse  Erminio  il  petto. 

ma  non  un  sol  detto  emiHe. 
Colla  man  nervosa  d'Austro 

volpeggiava  la  criniera. 
Poi  d'  un  tratto  diede  d'Austro 

alle  redini  una  scossa. 
Austro  intese,  e  volò  via 

come  una  freccia  dall'  arco. 
Austro  che  il  destrier  più   rapido 

era  dall'Autido  al  Po. 


XXIII. 

Così  disse  Aulo,  e  di   nuovo 

si  cacciò  nell'  aspra  mischi». 
Monto  Caio  Cosso,  e  via 

alla  vita  ed  alla  morte. 
Sotto  1'  unghie  scalpitanti 

del  cavallo  rìsnonavano 
cupi  gli  elmetti  dei  morti  ; 

e  le  pozze  del  rappreso 
sangue  a  schizzi  il  cavaliere 

brnttan  dagli  sproni  all'  elmo. 
Così  giunse  fra  i  Romani 

combattenti  al  mezzodì. 
Contro  quei  del  lìttorale, 

contro  quei  della  palude. 
E  come  alla  falce  il  grano 

giù  cadean  quei  di  Lavinio, 
sotto  il  filo  della  spada 

che  si  ben  difese  il  Ponte. 


XXVI. 

Kimbaldirono  i  Romani, 

cui  gravava  di  sgomento 
lo  svantaggio  della  pugna 

a  Valerio  morto  intorno, 
quando  si  levò  dal  sud 

rallegrante  un  clamoroso  : 
«  Ecco  Erminio  !  giunge  Erminio  ! 

«inei  che  ben  difese  il  Ponte  !  » 

XXVII. 

Tosto  1'  adocchiò  Mamilio, 

e  gli  attraversò  la  strada: 
«  O  Erminio,  da  gran  tempo 

mi  dovevi  un  dì  di  sangue. 
Uno  di  noi  due,  o  Erminio, 

non  vedrà  più  la  sua  casa. 
E  tornare  io  voglio  a  Tuscolo, 

e  tu  vuoi  tornare  a  Roma  !  » 


XXIV. 


xxvni. 


«  Aulo  ti  saluta,  o  Erminio  ! 

E  comandati  di  accorrere 
a  portare  aiuto  al  nostro 

centro,  ov'  è  il   bisogno  grande. 
Il  più  giovin  dei  Tarqninii 

là  combatte,  e  il  Tusculano  ; 
quel  dal  bel  cimier  di  fiamma, 

il  Latin  prence  Mamilio. 
Alle  nostre  schiere  in  fronte 

combatté  Valerio,  e  cadde. 
Aulo  dalle  cento  pugne 

solo  regge  la  giornata  ». 


Cessa  intorno  la  battaglia, 

mentre  a  cozzo  mortai   vengono 
il  Romano  e  il  Tu.scolano, 

il  leardo  ed  il  morello. 
Tale  Erminio  die  a  Mamilio 

forte  un  colpo,  e  mirò  al  petto, 
che  gli  aprì  1'  usbergo,  e  il  ferro 

tutto  addentro  gli  all'ondò. 
Il  purpureo  sangue  a  fiotti 

sgorga  a  lui  sopra  la  porpora. 
E  Mamilio  diede  a   Erminio 

tale  un  colpo,  e  mirò  al  capo, 


La  battaglia  del  Lofio   lietjillo 


.S7 


ohe  gli  infranse  1'  elmo,  e  il  ferro 

tutto  dritto  giù  fendè. 
Caddero  tino  accanto  all'  altro 

iV  nn  sol  tratto  i  due  feroci. 
D'  un  sol  tratto  morti  caddero 

in  un  gran  lago  di  sangue, 
(gualche  tempo  ancora  immoti 

tntt'  intorno  i  combattenti. 

XXIX. 

Via  e  via  coi  fieri  zoccoli 

scalcia  il  buon  leardo,  e  vola  ; 
sgominando  i  combattenti, 

saltando  i  mucchi  dei  morti. 
Trascorrenti  via  le  briglie, 

tutti  sangue  e  schiuma  i  fianchi, 
ei  cercava  le  montagne, 

le  materne  sue  montagne. 
Eran  erti  e  rudi  i  passi, 

gli  ululavan  dietro  i  lupi  ; 
ei  sorvola  il  varco,  turbine, 

e  si  lascia  i  lupi  indietro. 
Fra  i  casali  in  orror  taciti 

il  suo  pie  volante  strepita. 
Tal  precipitò  a  traverso 

alla  gran  porta  di  Tuscolo  : 
e  irrompendone  intilò 

la  contrada  bianca  e  langa  ; 
rasentò  la  torre  e  il  tempio, 

e  la  corsa  sol  fermò 
alla  casa  del  padrone, 

nella  piazza  del  mercato. 
Tosto  I'  attorniò  una  folla 

tntta  pallida  e  tremante 
che  lo  riconobbe,  e  in  urli 

die  di  rabbia  e  di  dolore. 
Onta  feano  al  crin  le  donne, 

rimpiangendo  il  signor  caro. 
Ed  i  vecchi  le  vecchie  armi 

si  oingeauo,  e  via  alle  mura  ! 

XXX. 

Ma  spirante  statua  al  suo 
posto  il  nero  Austro  restò  : 

fiso  a  riguardare  il  volto 
del  caduto  suo  padrone. 


La  corvina  sua  criniera, 

oh'  ogni  dì  la  giovinetta 
bella  Erminia  tutto  amore 

con  palpeggi,  con  carezze 
e  lavava  e  pettinava 

e  attorceva  in  treccie  eguali, 
e  di  nastri  coloriva, 

dei  suoi  nastri  di  fanciulla  ; 
ora  giìl  pendeva  mesta 

sopra  il  caro  suo  padrone, 
che  giaceva,  nella  strage 

e  nel  fango,  steso  morto. 
Con  un  grido  balzò  Tito 

d'Austro  ad  afferrar  le  redini  ; 
i|uando  un  giuro  fa  tremendo 

Aulo,  e  contro  quel  si  avventa  : 
«  Che  di  Sesto  empio  le  furie 

su  di  me  ed  i  miei  trapassino, 
se  mai  un  sol  della  tua  iniqua 

stirpe  il  nero  Austro  cavalchi  I  » 
Quale  sulla  ròcca  alpina 

cade  giù  dal  cielo  il  fulmine, 
tal  la  spada  d'Aulo  venne 

diritta  al  collo  di  Tito. 
Ed  il  rosso  sangue  in  grande 

arco  ed  alto  zampillò. 
Tal  del  ricco  Capuano 

nella  splendida  magione, 
ornamento  del  vestibolo, 

zampilla  alta  la  fontana. 
Ai  Latini  mancar  trepide 

le  ginocchia,  quando  morto 
sopra  il  morto  Erminio  giacque 

il  più  prode  dei  Tarqninii. 

XXXI. 

Aulo  il  Dittatore  intanto 

d' Austro  palpa  la  criniera  ; 
e  il  governo  bene  esplora 

delle  cinghie  e  delle  redini. 
«  Ora  a  noi.  Austro  !  mi  porta 

là  nel  fitto  della  mischia. 
Noi  vendicheremo  insieme 

oggi  il  forte  tuo  signore  !  » 

XXXII. 

Così  disse,  e  più  affibbiava 

strette  al  nero  Austro  le  cinghie. 


88 


Manfredo    Vanni 


Quando  vide  ohe  nna  coppia 

di  regali  Cavalieri 
cavalcava  alla  sua  destra: 

Hi  che  pili  guardò  stupito. 
iSimiliggimi  qual  mai 

nomo  vide  eguali  al  mondo. 
Come  neve   1'  armatura, 

i  destrieri  come  neve. 
Mai  su  incudine  mortale 

fiammeggiò  tale  armatura  ; 
né  mai  tiume  sulla  terra 

tali  abbeverò  destrieri. 

XXXIII. 

Sbigottiane  ognun  che  vide, 

ed  impallidia  ogni  guancia. 
Aulo  il  Dittatore  appena 

trovò  il  varco  alle  parole  : 
«  Qual   è,  dite  il  vostro  nomef 

qual  la  vostra  patria?  dite. 
E  perché  qui  avanti  a  noi, 

a  combattere  per  Bonia?  » 

XXXIV. 

«  Molti  uorai  a  noi  dàn  gli  uomini  ; 

molti  luoghi  abitiam  noi. 
Ben  Siam  noti  in  Samotracia  ; 

in  Cirene  ben  slam  noti. 
Ogni  aurora  il  lieto  Taranto 

per  la  nostra  casa  ha  fiori. 
Le  siracusane  antenne 

il  bel  tempio  nostro  domina. 
Ma  là,  presso  il  forte  Eurota, 

è  la  nostra  cara  patria. 
E  per  il  diritto  siamo 

a  combatter  qui  per  Roma.  » 

XXXV. 

Questa  diedero  risposta 

i  dne  strani  Cavalieri. 
E  finito  il  dir  ciascuno 

abbassava  la  sua  lancia. 
Tutta  la  Romana  schiera 

tosto  lieta  imbaldanziva. 
Ma  sn  quelle  delle   Treutii 

Città  fn  stupore  e  orrore. 


Ed  a  manca  Ardea  piegava, 

e  piegava  a  destra  Cora. 
Aulo  grida  :  «  Dentro,  o  Roma  ! 

nei  nemici  che  già  cedono. 
Dentro  pel  foco  di  Vesta  ! 

Dentro  per  I'  ancil  di  Numa  ! 
Non  la  preda  indugi   alcuno. 

Tutti  al  sangue  !  al  sangue  I  al  sangue  J 
Ecco  stanno  al  nostro  fianco 

oggi  gli  immortali  Dei  !  » 


XXXVI. 

K  le  trombe  allor  squillarono 

fiere  dalla  terra  al  cielo. 
Suon  ben  noto  agli  avvoltoi, 

che  allor  sanno  (]ual  banchetto 
imbandiscono  i   Romani 

stretti  a  dare  la  battaglia. 
E  la  buona  spada  d'Aulo 

ad  uccidere  era  alzata  : 
e  nel  folto  minava 

jVustro,  frana  d'Appennino. 
Ma  piti  massa  fean  di  morti 

quei  dne  strani  Cavalieri  : 
e  dei  due  destrieri  strani 

m.al  seguiva  Austro  la  foga. 
Dietro  ad  essi,  colle  file 

delle  sue  lunghe  ordinanze, 
all'aggiramento  Roma 

si  avanzava  sui  nemici  : 
alte  in  brusco  ondar  le  insegne, 

basse  in  linea  giti  le  daghe. 
Tale  il  Po,  quando  ha  la  piena, 

va  per  il  Celtico  piano  ; 
e  piti  nera  della  notte 

la  procella  sul  mar  d'Adria. 
Per  il  nostro  Dio  Quirino 

quale  mai  gioccmda  vista 
a  vedere  gli  stendardi 

delle  Trenta  Cittil  tutti 
abbassati  or  via  spazzarli 

la  marea  dei  fuggitivi  ! 
Tal,  cessata  la  tempesta, 

l'Adria  suol  ritrar  le  spume  : 
e  i  covoni  nella  piena 
trae  il  rimulinaute  Po. 


La  batia(/lia  del  Lago  licgiUo 


8» 


L'  empio  Sesto  alle  iiioutaKiie 

voltò  prima  il  suo  cavallo  ; 
I'  Lannvio  tosto  fugge, 

tosto  fugge  Ferentiuo. 
Fuor  del  campo,  o  Nomeiitano, 

spronano  i  tuoi  cavalieri  : 
t»<l  i  tuoi  fanti,  o  Velletri, 

lance  e  scudi  gettan  via. 
J,e  tue  insegne,  o  altero  Tuscolo, 

che  non  si  piegaron  mai, 
ora  tra  la  mota  e  il  sangne 

vanno  travolte  e  calpeste. 
Cadde  morto  Flavio  Fausto, 

che  sul  campo  avea  guidato 
le  sue  belle  e  forti  schiere, 

di  là  dove  i  meli  in  iìore 
iiivei  oiideggian  sulle  sponde 

echeggianti  dell'Aniene. 
E  con  lui  Tulio  d'Arpino, 

duce  dei  Volsciani  aiuti  ; 
f  di  Vulso  il  capo  bianco, 

1'  ariciano  gran  profeta  ; 
e  il  tuo  biondo,  o  Mezio  !   amore 

delle  vergini  d'Anzuro. 
E  Nepote  di  Laurento 

cadde,  il  cacciator  di  cervi. 
E  sull'empio  Sesto   ancora 

scese  il  buon  acciar  di  Roma. 
E  moriva  l'empio  Sesto 

nella  polvere  travolto, 
lorae  il  verme  che  è  travolto 

sotto  la  passante  ruota. 
D'  inseguiti  e  inseguitori 

un  sol  mescolato  ammasso. 
E  attraverso  il    varco,  lungi 

via  ruggiva  la  battaglia. 

XXXVII. 

Alla  Porta  Orientale 

stava  .Sempronio  Atratino 
Con  lui  eran  tre  Patrizii, 

tutti  in  lor  seggio  d'  onore  : 
Fabio,  che  quel  giorno  al  campo 

nove  strenui  .ivea  nipoti  ; 
Manlio,  l'anzìan  dei  Dodici 

guardiani  all'aureo  scudo  : 
Sergio,  noto  Ei  gran  Pontefice 

per  scienza  ai  più  lontani 


(non  sinedrio  alcun  d'Etruria 

tal  Pontefice  mai   ebbe). 
Tntt'  intorno  poi  alla  Porta 

e  sull'alto  delle  mura, 
stava  il  popolo  atl'ollato, 

folla  mesta  e  taciturna  : 
giovincelli  e  vecchi  curvi, 

che  portar  non  posson  1'  anni  ; 
e  matrone,  a  cui  le  labbra 

tremano,  e  fancinlle  pallide. 
Dal  chiaror  primo  del  giorno 

sempre  avea  Sempronio  leso 
1'  orecchio  avido  al  precipite 

scalpitio  dall'oriente. 
Già  la  nebbia  della  sera 

si  levava  e  cadea  il   sole, 
quando  ei  vide  che  una  coppia 

di  regali  Cavalieri 
cavalcava  fortemente 

dritta  verso  la  Città. 
Similissimi  qual  mai 

nomo  vide  al  mondo  eguali. 
Rosse  l'armi  eran  di  strage, 

rossi  di  strage  i   destrieri. 

XXXVIII. 

«  Gloria  1   per  il  sacro  Asilo. 

Gloria  I  per  i  sacri  Colli. 
Gloria  !  pel  fuoco  di  Vesta. 

Gloria!  per  l'ancil  di  Nuraa. 
Sulle  sponde  del  Regillo, 

sotto  la  Porciana  altura, 
nel  paese  Tuscolano, 

oggi  Roma  ha  la  vittoria. 
K  domani,  nel  trionfo, 

il  Romano  Dittatore 
porter.^  le  spoglie  opime 

delle  collegate  in  guerra 
contro  lei  Trenta  Città, 

il  sacrario  a  ornar  di  Roma  ». 

XXXIX. 

Dall'  immensa  folla   allora 
forte  un  grido  tal  scoppiava 

che  ne  tremaron  le  torri. 
E  per  tutti  i  quattro  venti 


90 


Manfredo   Vernili  •  La  battaglia  del  Latto  RegilUi 


fu  un  disperdersi  a  gridare  : 

«  Viva  !  La  giornata  è  nostra!  » 
Ma  con  lento  e  regal   passo 

vau  gli  strani  Cavalieri  ; 
né  ohi  vide  nn  tal  sembiante 

osò  chieder  stirpe  o  nome. 
Sempre  in  lento  e  regal  i)a880 

oavalcaron  essi  al  Fòro, 
mentre  sopra  i  lor  cimieri 

da  pinnacoli  e  finestre 
giti  cadeano  fiori  e  lanri 

in  interniinabil  pioggiii. 
Quando  poi  di  Vesta  al  tempio 

ftìr  vicini,  in  pie  balzarono; 
e  lavarono  i  destrieri 

nella  fonte  della  Dea. 
Come  un  vento  vìa  trascorsero. 

e  nessuno  più  li  vide. 

XL. 

Sbigottiva  il  popol  tntto, 

ed  impallidia  ogni  guancia. 
Solo  Sergio  il  gran  Pontefice 

trovò  il  varco  alle  parole  : 
«  Han  per  Roma  combattuto 

oggi  i  buoni  Dei  immortali  ! 
Quelli,  che  devota  Sparta 

prega  :  i  due  grandi  Diòsouri. 
Torna  col  trionfo  il  Duce, 

che  nell'ora  della  pugna 
vide  i  due  grandi  Diòscuri 

tutti  armati  alla  sua  destra. 
Uscirà  salva  la  nave 

dai  marosi  del  libeccio, 
»e  d'  un  tratto  splendati  sulle 

vele  i  due  grandi  Diòscuri. 


Perché  i  lor  destrier   lavarono 

alla  sacra  onda  di  Vesta, 
e  del  tempio  ai  penetrali 

sacri  or  ora  cavalcarono, 
a  me  è  dato  saper  ;  solo 

riferirlo  non  mi  è  dato. 
Noi  di  Vesta  presso  il  tem|)io 

un  sacello  edifichiamo, 
degno,  ai  due  grandi  Diòscuri. 

eh'  oggi  vinsero  per  Roma. 
Quando  il  giro  poi  dell'  anno 

ne  riporti  questo  giorno, 
iguesto  giorno  di  battaglia, 

questo  giorno  di  vittoria, 
(i  fieri  Idi  del   Quintile 

sempre  di  pih  chiara  luce)  : 
per  i  due  grandi    Diòscuri 

si  radnni  tutto  il  popolo 
in  gran  festa  con  corone, 

con  otterte,  suoni  e  canti. 
Alle  port«  e  alle  finestre 

belle  pendano  ghirlande  ; 
sian  chiamati  al  Campo  Marzio 

a  rassegna  i  Cavalieri  : 
e  di  là  ciascun  cavalchi, 

nella  lor  veste  di  porpora, 
delle  trombe  al  gaio  squillo, 

i  superbi  Cavalieri. 
Ciascun  monti  il  suo  destriero, 

e  d'  ulivo  s'  incoroni. 
K  in  solenne  ordine  sfilino 

davanti  al  santo  sacello, 
stanza  ai  due  grandi  Diòscuri, 

eh'  oggi  vinsero  per  Roma.  » 

Manfredo  Vanni  tradusse. 


Becenmoni  91 


A.   KosTAGJii.   l'oeti  alestandrivi,   Torino,  Bocca,   Ullti.  i).   xili-3it8.  L.  5.  (Pìcccila 
Bibliot.  di  Scienze  moderne,  n"  242). 

Apro  a  caso  e  leggo  (p.  t03)  :  «  E  vi  emergono  infatti  (cioè  nell'idillio  di  Teo- 
crito) gli  atteggiamenti  dell'elegia  ;  vi  si  apre  l'orizzonte  dell'epillìo  nella  sna 
varietà  di  combinazioni  e  di  spunti  ;  vi  contlnisce  la  pura  corrente  del  Pelopon- 
neso, suscitata  in  limpidi  epigrammi  da  Auite  di  Tegea  e  mescolatasi,  sembra,  sul 
terreno  stesso  di  Cos  e  delle  isole  circostanti,  con  le  ricche  fonti  di  Asclepiade 
samio  e  di  Leonida  tarentino  ».  E  a  p.  56  sta  scritto  :  «  E  la  gnerra  di  Celesiria 
che,  culminando  nel  274,  fa  a  questa  attività  politico  arringo,  che  anzi  fn  del- 
l'intero momento  storico  l'espressione  pili  eloquente,  e  dalla  quale —  gl'Inni  stessi 
di  Callimaco  collettivamente  s'irradiarono,  mandava  forse  allora,...  gli  ultimi  guizzi 
e  forse  dalle  trascorse  bufere  si  ricomponeva  appena  in  un  equivoco  orizzonte  di 
pace,  o  di  tregua  ».  Tutto  il  grosso  volume  è  scritto  così  :  metafore  filate  per 
righe  e  righe  o  che  s'intrecciano  e  si  accavalcano  le  une  alle  altre  ;  termini  me- 
taforici, a  cui  {■  attribuito  un  aggettivo  che  a  loro  non  conviene  ;  molto  studio 
di  bello  scrivere,  ma  poco  senso  della  proprietà  delle  parole.  Come  può  una  guerra 
dalle  bufere  ricomporsi  in  orizzonte  di  pace  f  o  come  può  ([uesf  orizzonte  chia- 
marsi equivoco  ?  Espressioni  volgari  o  giornalistiche  si  intrecciano  alle  auliche,  con 
poco  vantaggio  dell'unità  stilistica  :  in  un  libro  di  stile  asiano  stuona  un  periodo 
come  questo  (p.  Ili)  ')  :  «  gli  anni  erano  trascorsi  anche  per  Nicla,  che,  cedute  le 
armi,  aveva  mesito  giudizio,  si  era  dato  alle  pratiche  della  sua  professione,  e,  jicr 
colmo  di  acquiescenza,  aveva  preso  moglie  :  una  buona  massaia,  Teogenide  ».  Ac- 
quiescenza a  chi  o  a  che  f  *).  A  questo  stile  mancu  proprio  qi;ella  virtìi  ohe  il 
Croce,  cui  pure  il  Rostagni  ha  letto  e  ammira,  lodava  testé  parlando  di  un  libro 
d'importanza  minore  {Crii.,  XIII,  462)  ;  «  l'urbanità:  quella  urbanità,  quell'a»te»a 
che  non  è  già  semplicemente  il  galateo,  ma....  il  modo  di  scrivere  da  cittadino  e 
non  da  provinciale  ;  e  provinciali  sono  anche  coloro  che  ora  prendono  le  mode  da 
Parigi,  e  si  presentano  sempre  gonfii  di  pathos,  rigurgitanti  d'immagini,  tremendi 
di  sarcasmi,  carichi  di  sottolineature  e  di  sottintesi,  e  non  sanno  piìi  conversare 
come  si  conversa  tra  gente  che  ha  semplicemente  qualcosa  da  narrare  e  qualche 
idea  da  svolgere  ».  Al  Rostagni  manca  proprio  l'urbanità,  s'intende  l'urbanità 
nel  sen.so  che  a  questa  parola  dà  il  Croce,  ed  è  peccato  !  Se  avesse  scritto  piìi 
urbanamente,  sarebbe  riuscito  a  costringere  la  materia  del  libro  in  duecento  in- 
vece che  a  distenderla  in  quattrocento  pagine,  e  avrebbe  evit.lto  che  qualche  let- 
tore, che  pure  le  cose  dette  interessano,  si  tediasse  sì  da  lasciare  a  mezzo  la  let- 
tura. Il  Rostagni,  se  avesse  voluto,  avrebbe  potuto  ;  che  le  otto  appendici,  che 
chiudono  il  libro,  sono  scritte  in  italiano  normale  ;  come  scritti  bene  sono  i  molti 
e  I)Honi  articoli  che  il  Rostagni  ha  publdicato  sinora. 

Ed  fr  strano  che  il  Rostagni,  che  fa  pompa  di  tanta  retorica  di  cattivo  gusto, 
si  sfoghi  poi  a  chiamar  retore  chiunque  non  sia  d'accordo  con  lui.  A  p.  316  egli 
lamenta  la  consueta  aridità  e  convenzionalità  del  metodo  retorico  imperante  in 
questi  studi  filologici.  A  p.  324  si  scaglia  contro  alcuni  studiosi  (tra  i  quali  sarei  an- 

M  II  ^-orsivo  «•  mici 

")  K  lecito  scrivere  in  ìtali,tno  (p.  208)  «dei  /erionu,  dei  TeofrasU),  tiegli  .Stilpone  »?  Aui-be  la 
solando  andare  cìie  l' italiano  lett»^rario  avanti  allo  Z  adopera  pinttosto  fili  che  t,  non  «i  dovrn 
a  nonna  di  •^rainniatica  pinttost^*  dire  «  degli  Zenoni.  tlei  Teofraeti,  degli  Stilponi  »?  Due  pagine  ol' 
tre.  Zenone  e  ì'Ieonte  sono  cldanifiti  *<  i  due  Sideri  dello  stoicismo  ». 


02  Recensioni 


ohe  io),  i-Iie  tiattaroiio  ilei  curattere  e  della  struttura  di  un  uunipoiiimeiitu  puetico 
«  con  metodo  retorico  e  tilolof^ico,  Hcuza  una  visione  profbnilauiente  critica  die  cerchi 
di  cogliere  uell' iiuimo  dell'artista  i  principi!  dell'opera  d'arte.  E  ricnsa  all'ese- 
geta e  al  filologo  il  diritto  di  occuparsi  di  problemi  ohe  appartengono  al  critico 
d'arte:  e  il  critico  d'arte,  cioè  lui,  grida  gioiosamente  (a  p.  304)  :  «  Sono  postele 
leggi  della  concezione  ».  Da  chi  f  e  con  qual  diritto?  Non  certo  dall'artista,  ma 
dal  critico,  che  le  può  al  più  ricevere.  Precede  una  strana  analisi  estetica  dell'inno 
ad  Apollo  di  Callimaco,  che  finisce  ■)  :  «  E  tra  i  due  poli  del  dramma.  Apollo  e 
Cirene,  giustamente  equilibrantUi  mercè  questa  nuova  veduta,  il  sentimento  del 
«cortigiano,  che  vive  nei  favori  del  «  sno  re  »  d'Alessandria  e  che  del  .suo  re  am- 
mira i  vasti  piani  moiiarchiei,  k  per  cercare  accordo  con  l'incorruttibile  aQ'etto  del 
cittadino  che  vuole  il  bene  della  patria  sua  ».  Qual'  altra,  se  non  questa,  è  pes- 
sima retorica  ? 

L'esegesi  è  fortunatamente  in  questo  libro  per  lo  più  molto  migliore  dello 
stile  o  delle  dottrine  estetiche  :  pure  non  mancano  stranezze.  Il  Rostagni  traduce 
i  primi  versi  di  un  epigramma  cosi  :  «  Pioggia  era  e  notte  e,  terzo  travaglio  d'amore, 
il  cammino  ».  Il  testo  greco,  quale  il  Rostagni  l'ha  restituito  egli  stesso  conget- 
turalmente, ha  ;  TsTCS  r,v  xal  vòj  xat  xó  xpiTov  aXyoj  sponi  ot(io£.  Come  mai  àXfO? 
spMTt  può  voler  dire  «  travaglio  di  amore  »  ?  Eppure  il  Rostagni  dichiara  di  non 
trovar  ragione  di  scostarsi  da  questa  lezione.  E  del  resto  la  sua  congettura  pec- 
cherebbe contro  la  proprietà  dei  vocaboli,  anche  se  rispettasse  la  grammatica  ;  o;p.og 
vuol  dire  sì  «  cammino  »  nel  senso  di  «  strada  »  ma  non  in  quello  di  «  viaggio  »,  di 
«  azione  del  camminare  »,  che  si  direbbe  oiti»).. 

E  alla,  diciamo  cosi,  ingenuità  grammaticale  o  all'  improprietà  lessicale  si  ac- 
coppia qui  certa  impreparazione  di  critica  diplomatica.  Il  Rostagni  asserisce  (pa- 
gina 250)  :  «  I  primi  due  versi  sono  nei  codici  :  Tetòs  ■^v  xxi  vùg  xal  xò  xpixov 
vAfoz  spiaxi  ».  Quest'  asserzione  contiene  due  inesattezze.  In  primo  luogo,  l'epi- 
gramma è  conservato  solo  dal  codice  unico  dell'Antologia  Palatina,  che  le  copie 
di  questo  non  contano  ;  in  secondo  luogo,  questo  codice  ha  xpExov  senza  il  xò.  E 
lo  stesso  errore  ricorre  a  p.  248  a  proposito  di  un  altro  epigramma  di  Asclepiade 
al  V.  180  :  «  i  codici,  in  massima,  leggono  ».  L'accordo  di  massima  non  è  difficile 
a  ottenere,  (juando  e' e  una  sola  testimonianza.  Il  Rostagni,  che  ha  pure  studiato 
con  frutto  gli  epigrammi  dell'Antologia,  non  si  e  punto  curato  della  storia  del 
loro  testo  :  che  dire  <li  uno  storico  a  cui  i  documenti  sono  indifferenti  1 

Dobbiamo  forse  dire  che  per  cagion  di  questi  nei  il  libro  sia  da  buttare  vìa? 
Tutt'  altro  :  io  riconosco  cou  gioia  che  esso  in  complesso  e  bnono  e  confesso  di  esser 
grato  al  Rostagni  del  molto  che  ho  imparato  da  lui.  Il  volume  s'intitola  «  Poeti 
alessandrini  »,  e  non  già  p.  e.  «  La  poesia  alessandrina  »  ;  e  il  Rostagni  non  tratta 
infatti  ex  professo  se  non  di  Teocrito,  di  Callimaco  e  della  cerchia  di  Asclepiade. 
ma  su  questi  egli  dice  molto  di  vero.  Meno  importante  mi  pare  l'introduzione, 
nella  qnale  pochi  concetti  giustissimi  appaiono  in  ìnnnmerevoli  variazioni.  Della 
vita  e  dell'arte  di  Teocrito  il  Rostagni  propone  una  nuova  ricostruzione,  at- 
traente per  molti  rispetti;  ma  la  data,  che  egli  sostiene  per  le  Cariti,  mi  pare 
del  tutto  errata.  Le  Cariti  non  possono  essere  state  scritte  dopo  la  vittoria  del 
Longano,  perchè  esse,  a  ogni  modo,  non  sono  state  scritte  dopo  una  vittoria. 
Teocrito  <lice  chiaro  che  lerone  e  i  Siracnsani   si   accingono  alla   guerra  :  i    Sira- 


^)  Il  corsivo  t'  anche  quenta  volta  mio,  e  così  sempre  nel  segnito  della  recensione. 


liecensioiii  93 


elisimi  iinpujiii.iiio  a  mezzo  le  aste  ;  lenme  si  aniia,  e  nulla  più.  Qui  (li  una  vit- 
toria non  si  la  cenno,  seguo  certo  che  uou  c'era  stata  ;  dunque  o  sconfitta  dis- 
simulata o  sosta  incerta  o  principio  di  guerra.  Rimane  1»  scelta  tra  il  274  e  il 
263  ;  al  26n  il  carme  non  spetta.  Parimenti  il  Rostagni  non  riesce  a  provare 
che  1'  Encomio  a  Tolomeo  sia  stato  scritto  (|uando  una  guerra,  secondo  il  Rosta- 
gni  quella  di  Celesiria,  non  era  ancora  coiii]>iiita  ;  i  versi  di  Teocrito,  che  egli 
presenta  tradotti  a  p.  57,  dicono  proprio  il  contrario,  come  aveva  veduto  p.  e. 
il  Beloeh.  È  strano  che  i  vari  errori  dell'autore  siano  per  lo  piii  sbagli  d'inter- 
pretazione ;  egli,  a  forza  di  voler  essere  acuto,  riesce  a  far  dire  ai  testi  il  con- 
trario di  quello  che  essi  veramente  significano.  Questa  tendenza  dell'ingegno  del 
Kostagni  alla  sottigliezza  gli  è  invece  assai  utile  nell'indagine  sul  significato  dei 
Ypicpot  delle  Talisie  ;  e  propendo  a  credere  egli  abbia  ragione  nell'  identificare,  come 
aveva  già  fatto  altri,  il  Licida  di  questo  componimento,  e,  se  non  l'Astacida  di  im  epi- 
gramma callimacheo  almeno  il  Giasone  dell'Altare  con  l'autore  di  quest'  ultimo  carme, 
con  Dosiada  cretese  ;  se  non  l'identificazione,  le  prove  sono  in  gran  parte  nuove. 
Meno  felice  mi  pare  nel  negare  che  la  comicit.à  del  Ciclope  (p.  105)  dipenda  «  da 
un  atteggiamento  di  satira  »;  ma  io  invece  che  con  altri  critici  alla  topica  amo- 
rosa dei  poeti  elegiaci,  penserei  al  nomo  di  Filosseno,  che  metteva  in  iscena  pro- 
prio il  Ciclope. 

Snl  capitolo  secondo,  che  tratta  del  mito  di  Dafni,  è  diffìcile  dare  un  giudizio. 
È  da  concedere  seuz'  altro  al  Rostagni  che  Dafni  fu  originariamente  lo  spirito 
dell'alloro;  ma  quanto  alla  sua  ricostruzione  della  storia  del  mito,  essa  è  sì  assai 
attraente,  tanto  che  a  leggerla  la  prima  volta  si  sarebbe  tentati  di  accettarla  sen- 
z'altro, ma,  a  chi  riscontri  gli  antichi  autori,  apparrà  mal  fondata.  Secondo  lui, 
la  leggenda  originaria,  conservata  solo  in  uno  scolio  virgiliano,  sarebbe  a  nn  di- 
presso questa  :  Dafni  sposa  una  ninfa  ;  questa  gli  è  rapita  da  predoni  :  il  marito 
vaga  in  cerca  di  essa  (p.  182)  «e  scompare  lontano,  in  estranee  contrade,...  finché, 
pieni  i  tempi  il  dio  ritrovi  la  ninfa  e  di  nuovo,  col  suo  avvento,  torni  a  bril- 
lare il  sorriso  delle  cose  ».  Lo  scoliaste  a  Virgilio,  non  già,  per  vero,  com'egli 
cita,  Servio,  ma  V Iiiterpolator  Servii  o  il  commentatore  Danielino,  che  dir  si  vo- 
glia (a  Verg.  Eoi.,  Vili,  68),  dice  tutt' altro:  Dafni,  dopo  aver  cercato  a  lung<i, 
ritrova  la  sposa  presso  Litierse.  Il  Rostagni,  senza  porre  in  guardia  il  lettore, 
cambia  di  suo  arbitrio  la  chinsa,  perchè  risponda  a  vedute  sue  particolari.  Questo 
stesso  scolio  è  citato  a  p.  35.5  (e  qui  certamente  il  Rostagni  ha  ragione),  quale 
uu  riassunto  del  Dafni  o  Litierse  di  Sositeo.  Par  singolare  che  la  stessa  testi- 
monianza sia  adoprata  per  ricostruire  due  leggende  diverse,  qiiand'  anche  qui 
l'inesattezza  sia,  piìi  che  altro,  formale  ;  ma  come  fa  il  Rostagni  a  sapere  che  So- 
siteo ha  per  la  prima  parte  seguito  la  versione  originaria?  Del  resto,  la  rico- 
struzione rostagnìaua  della  leggenda  originaria,  ancorché  fosse  meglio  fondata 
«■liticamente,  mi  parrebbe  mal  sicura  per  un'  altra  ragione  :  la  narrazione  non  ha 
fine  che  appaghi,  che  la  chiusa,  che  le  appicca  il  Rostagni,  è  una  sua  aggiunta 
arbitraria  e  fantastica,  non  suffragata  da  testimonianze,  ma  solo  postulata  in 
grazia  di  vedute  particolari  sull'antica  religione  agraria.  Il  Rostagni  mi  par  troppo 
incline  a  veder  dappertutto  simboli  senza  domandarsi  se  popoli  primitivi  abbiano 
tanta  forza  d' intelletto  (pianta  basti  al  simboleggiare.  Il  vero  è,  secondo  me,  che 
uno  spirito  della  vegetazione  si  chiamò  sì  Dafni,  ma  che  il  Dafni  della  lettera- 
tura è  troppo  posteriore  a  quest'era  e  troppo  mutato  perchè  saperne  possa  aiu- 
tarci   ad     intenderlo.   A   ogni    modo  il   Rostagni    sul    Dafni  più    recente    raccoglie 


«U  Beeensiom 


tanta  copia  «li  materia  e  l'ordina  cosi  bene  che  nessuno  potrà  nenza  danno  fare 
a  meno  di  leg);ere  il  sno  lavorìi. 

Appartiene  alle  pagine  meglio  ringcite  del  volume  lo  studio  su  ÀHclepiade  di 
3»mo  e  la  aoa  scnola  :  il  <  nido  Hamìo  di  poeti  »  è  delineato  in  modo  non  solo 
elegante,  ma  che  risponde  molto  probabilmente  a  verità,  e  le  indagini  sull'arte  di 
Asclepiade  sono  assai  degne  di  rilievo.  Solo  mi  sembra  assai  dubbio  che  Callimaco 
compaia,  come  il  Kostagni  si  esprime,  «  per  pifi  di  una  tracci»  ììhW atmosfera  delle 
isole  asiatiche  ».  Nella  nota  a  p.  240  si  confessa  implicitamente  che  fa  difetto  ogni 
tradizione.  Il  Rostagui  dimentica  troppo  facilment«  ohe  nel  periodo  ellenistico  in- 
llussi  letterari!  non  hanno  per  condizione  necessaria  contatti  personali  :  non  solo 
gli  nomini  ma  anche  i  libri  viaggiavano.  Del  resto  bisogna  concedere  che  anche 
il  Rostagui  non  pare  dar  importanza  a  tali  particolari  '). 

Dell'ultimo  capitolo,  che  tratta  degli  inni  di  Callimaco,  assai  spesso  [lulemiz- 
zando  contro  me,  non  voglio  per  ora  dare  giudizio.  Ho  bisogno  dì  riesaminare  a 
mente  fresca  tutte  le  questioni.  All'unità  di  concezione  almeno  dei  quattro  primi 
inni  credo  anch'  io  e  spero  di  poterla  suffragare  con  altri  elementi,  oltre  ({uelli, 
certo  di  qualche  peso,  recati  dal  Rostagni  ;  ma  però  non  so  ancora  se  essi  spettino 
davvero  al  periodo  tra  il  275  e  il  270.  Mi  riesce  più  facile  credere  che  nell'inno 
ad  Apollo  Callimaco  alluda  alla  contesa  con  Apollonio,  ora  che  il  Rostagni  (Alti 
di  Torino  50,  241  sgg.),  snlla  scorta  di  un  nuovo  documento  ha  mostrato  verosimile 
che  quella  controversia  risalga  a  tempo  piti  uutico  di  (|uel  che  supponevamo,  ma 
una  difficoltà  rimane  nonostante  i  dinieghi  del  Wilamowitz  e  del  Rostagni,  e  con- 
verrà studiare  ancora  una  volta  le  relazioni  tra  gli  Inni  di  Callimaco  e  il  poema 
epico  del  Rodio  '). 

Delle  appendici,  alcune  trattano  molto  bene  punti  secondari  di  storia  lette- 
raria ellenistica  ;  di  quelle  intorno  ai  carmi  figurati  e  a  Dosiada  in  Servio  e  in 
Filargirio  ho  parlato  già  sopra.  La  settima,  assai  importante,  intorno  alla  crono- 
logìa del  dominio  tolemaico  nella  Ionia  ti  connessa  così  strettamente  con  la  que- 
stione della  data  degli  inni  che  anche  su  di  essa  mi  riservo  dì  scrivere  altrove  ; 
posso  dire  tìn  d'ora  che  l'interpretazione  storica  che  il  Rostagni  dà  di  nn  passo 
controverso  dell'elenco  milesio  degli  Stefauofori,  mi  pare  più  persuasiva  di  qnella 
proposta  dal  De  Sauctis.  Ma  fa  sorger  qualche  dubbio  la  parte  attribuita  anche 
nella  ricostruzione  rostaguiana  degli  avvenimenti  al  misterioso  Tolomeo  di  Lisi- 
niace.  L'ultima  appendice  dimostra  essere  l'elegìa  dì  Properzio  sulla  battaglia  dì 
Azio  un'  imitazione  di  Callimaco  ;  io  non  avevo  mai  pensato  altrimeuti. 


Giorgio  Pascjitau. 


')  Ingegnosa  e  convincente  mi  pare  l' interpretazione  die  il  Kostagni  «là  i|i.  210)  itel  titolo  Ai- 
^lOnsia  ili  un  jioetna  di  PoHidippo. 

^)  Non  è  vero  che  sia  ijaestione  vuota  di  senso  chiedere.  «  se  presente  alta  festa  e  rivolto  agli 
astanti,  Callimaco  abtna  raffigurato  eè  stesso  ovvero  nn  araldo  del  tempo  »  {p.  260);  perchè  essa  si- 
gnitica  domandare  in  che  misura  la  forma  letteraria  degli  inni  callìmachei  imiti  i  riti  del  culto  ;  che 
gli  inni  siano  composti  per  la  lettura,  non  mi  era  ignoto,  come  anche  il  Rostagni  sa,  —  f'he  KpiJTSJ 
àsi  '^JeuOTCtt,  dell'  inno  a  Zeus  si  rivolga  piuttosto  contro  uno  scrittore  cretese  che  non  contro  Eve- 
maro  (p.  276),  credo  anch'  io,  tua  io  penserei  piuttosto  allo  pseudo-Epimenide  che  a  Dosiada:  di  ciò 
forse,  altrove. 


Recensioni  95 


Le  orazioni  di  Lisia  tradotte  e  commentate  da  Natalk  Viankm.o.  'l'orino,  Bocca, 

1914,  p.   viii-518,   L.   10. 

Non  un  semplice  cenuo  ora,  ma  un'attenta  dinamina  a  sno  tempo  avrebbe  me- 
ritato su  queste  colonne  il  bel  volume  del  Vianello.  frutto  di  studi  indubbiamente 
luni;hi  ed  amorosi. 

Già  infatti  sin  dal  primo  apparire  del  libro  la  critica  rilevò  una  delle  mag- 
giori difficoltà  dovute  incontrare  dall'  autore,  «luetla  di  una  buona  preparazione 
({iuridica,  per  la  quale  è  necessario,  coni'  è  noto,  ricorrere  priucipalmente  ad  opere 
straniere,  dove  peraltro  non  riesce  sempre  facile  trovar  la  risposta  ad  un  «luesito 
particolare.  Dire  che  il  V.  ha  superato  questa  difficoltà  non  è  dire  abbastanza  ; 
Insogna  aggiungere  ch'egli,  propostosi  poi,  dopo  aver  percorsa  l'aspra  via,  di  ren- 
derla piana  ed  agevole  al  lettore,  è  riuscito  ottimamente  nel  suo  intento,  come 
ben  si  può  giudicare  osservando  il  piano  generale  dell'opera. 

L'  Introduzione  si  apre  con  «  L'uà  pagina  di  storia  greca  >,  con  la  quale,  dice 
l'autore,  «mi  sono  proposto  di  evitare  continue  ripetizioni  nel  corso  dell'opera,  e 
di  portar  qualche  luce  sui  fatti  a  cui  allude  l'oratore».  Vero  è  che  queste  55  pa- 
gine formano  un  quadro  ben  disegnato  e  vivamente  colorito  di  quel  torbido  pe- 
riodo ateniese  che  vii  a  un  dipresso  dalla  morte  di  Pericle  alla  vittoria  di  Trasibulo, 
e  sono  particolarmente  notevoli  per  lo  studio  delle  varie  e  complicate  costituzioni 
che  si  succedettero  nella  città.  Al  termine  di  questo  capitolo,  giudicando  della 
democrazia  ateniese,  l'autore  prende  una  posizione  media  fra  il  Beloch  e  il  Grote, 
sicché,  pur  non  condividendo  l'esagerata  ammirazione  di  questo,  fa  osservare  tut- 
tavia, per  eseiiipio,  che  fu  possibile  nella  democrazia  ateniese  un'opposizione  oli- 
garchica bene  organizzata,  ciò  che  non  accadde  nella  Repubblica  tìorentina,  dove, 
secondo  la  parola  del  Machiavelli,  «  vincendo  il  popolo,  i  nobili  privi  dei  magi- 
strati rimanevano  ».  —  Entro  questa  cornice  storica  il  V.  inquadra,  nel  seguente 
capitoletto  «  Lisia  logografo  »,  la  figura  del  nostro  avvocato  e  s'  intrattiene  snlle 
sue  orazioni,  rilevandone  le  qualità  caratteristiche  ed  i  pregi.  Ma  poiché  le  scrit- 
ture di  Lisia  sono,  coni'  è  naturale,  strettamente  legate  alla  storia  del  diritto  greco, 
il  V.  affronta  nel  terzo  capitolo  dell'  Introduzione  il  tema  «  Diritto  attico  e  am- 
ministrazione della  giustizia  in  Atene  ».  Qui  sulla  scorta  di  numerose  opere  quasi 
tntte  straniere  e  recenti,  egli  ci  dà  una  chiara  informazione  del  diritto  pubblico  e 
])rivato  in  Atene  ai  tempi  di  Lisia,  mostrandoci  altresì  qual  diversa  concezione 
ebbero  sempre  i  Greci  dell'uno  e  dell'altro,  e  istituendo  raffronti  anche  originali 
fra  il  diritto  greco  e  il  romano. 

Tale  l' Introduzione.  Ora,  poiché  ad  essa  si  riallacciano  1  proemi  che  prece- 
dono i  vari  gruppi  di  orazioni,  nei  quali  l'autore  si  sofferma  sn  punti  speciali  o 
controversi  di  diritto,  non  è  chi  non  veda  come  il  lettore  anche  meno  filologo  trovi 
innanzi  a  sé  sgombra  e  facile  la  via  per  giungere  ad  intender  perfettamente  le 
orazioni. 

Dovremmo  ora  dire  della  traduzione  del  V.  ;  ma,  non  essendo  nostro  assunto 
studiarla  da  vicino  in  relazione  alla  tradizione  manoscritta  ed  all'esegesi  anteriore, 
ci  limiteremo  a  ripetere  ciò  che  la  critica  ha  concordemente  affermato,  cioè  che  il 
V.,  trovandosi  dinanzi  ad  un  testo  in  condizioni  deplorevoli,  ha  avuto  il  merito 
di  mostrarsi  prudente,  alieno  dalle  congetture  e  in  generale  dal  mntare  dove  l'er- 
rore non  fosse  dubbio,  e  che,  infine,  ha  saputo  presentarci  in  una  vest*  degna 
questa  bella  prosa  lisiana  cosi   schiettamente  attica. 


W6  Becensiani 


Il  libro  duixjue  del  \'iiiiiell(>,  del  quale  era  doveroso  un  ceuuu  »\\  queste  ci>- 
lonne,  rappresenta  uu  ben  notevole  contribnto  agli  studi  Bull'  oratoria  greca  e  si 
raccomanda  da  sé  a  filologi  e  non  filologi. 

UaKTARO    GINK.VKI-B|,A8I. 


HTTI    DELLA  SOeiETÀ 


SUPPLEMENTO   ALL'ELENCO   DEI    SOCI 

A.  Alteriicca  prof.   Arnaldo,  Milano  A.  Scita    Antonio,    Colognola    ai    Colli 

»    Cerutti  prof.  Giannantonio,  »                                                                    Milano 

»    Craici  dr.   Vincenzo,  »  »    Solmi  prof.   Arrigo                   » 

»    Savj-Lopez  prof.   Paolo  »  »     Stella  Maranca  Filippo           » 


COMITATO  MILANESE. 

Nella  adunanza  generale  del  20  febbraio  u.  s.  fu  eletto,  con  voto  nuanime,  a 
Presidente  della  Sezione,   il  prof.  Carlo  Pascal,  della  R.   Università  di  Pavia. 


LIBRI  RICEVUTI  IN  DONO 


A.  Beltkami.   Sulla  fortuna  del  giambo.   Considerazioni.    Milano,  Tip.   Roniitelli    i- 

C.   1915,   in-8,  p.  36. 
M.  LsNCHANTiN  DK  GuBKRNATis.  Ennio.  Saggio  critico.  Torino,  Bocca,  1915,  iu-lU, 

p.  viii-118.  L.  3. 
DiONis  Chrysostomi.   Oratioues  post  L.  Dindorfium  edidit  Gly  db  Bude.  Voi.  I, 

Teubner,   1916,    in-16,    p.   xii-431   (Bilil.   scriptorum   graec.    et   roraan.   Teub- 

neriana). 
•Sofocle.  Filotiete,  con  note    di    E.  De  Makchi,    s.  a.  (1915),    iu-16,   p.   xiv-15.">. 

L.  2.  (Bibliot.  scolastica  di  scrittori  greci,  n.  24,  Ditta  Paravia). 
1\   Bkrnini.    Sludi  eul   Mimo.    Pisa,  Tip.   Nistri,    1915,   in-8,    p.   160.   (Estr.   dagli 

Annali  della  R.   Scuola  Norni.  Snp.  di  Pisa,  voi.  XXVII). 
T.  Livio.    Il  libro  XXIII  delle  Storie  commentato   da   U.   Moricca.    Torino,    Loe- 

scher,   1915,  in-16,  p.   xxili-176.  h.  2,40. 
F.  BuRR  Marsh.  Some  phases  of  the  probtem  of  provincial  administration  under  the 

Roman  republie  (repr.  from  the  Annnal  Report  of  tlie  Auierican  Historical  As- 

sociation,  I,  p.   111-125).  Washington,   1915. 
M.  Lknchantin  df,  Gubkrnatis.   Il  nuovo  storico  di  Sidone  e  la  dinaotia  degli  Or- 

tagoridi.  (Estr.  dagli   Atti    della   R.  Accad.  delle  Scienze  di   Torino,   voi.    LI. 

p.  290-30.5). 
iJ.   Pack.  Aigeua.  Nota.  (Estr.  dai  Rendiconti  della  R.  Accad.  dei  Lincei,  voi.  XXI\', 

p.  46.5-481). 

P.    E.   Pavoi.i.N'I,   Direttore.   —  Giu8F,ppf,  Santini,   Gerente  reaponsabiU. 

:i7.'<ni6    -  l'irenze.  Tip.  Enrico  Ariani.  Via  Gliibellìna,  51.53. 


Anno  XIX. 


Maggio-Giugno  1916. 


N.  209-210 


ATENE  E  ROMA 

BULLKTTINO  DELLA  SOCIETÀ  ITALIANA 
PER  LA  DIFFUSIONE  E  L'INCORAGGIAMENTO  DEGLI  STUDI  CLASSICI 

Sede  centrale:  FIRENZE,  Piazza  S.  Marco    2, 


Direzione  del  Bullettino 

Fireme  —  2,  Piazza  S.  Marco 


Ablionaiiirnto  annuale. 
Un  fascicolo  separato  . 


L.  8- 
.  .   1 


Amministrazione 

Viale  Prìncipe  Eugenio  29,  Firenze 


FLORO  E  IL  CERTAME  CAPITOLINO 


«  Domiziano  istituì  anche,  in  onore  di  Giove  capitolino,  un  triplice 
certame  quinquennale:  musico,  equestre,  ginnico,  con  un  numero  di  co- 
rone alquanto  maggiore  che  non  sia  ora  costume....  Presiedette  egli  al 
certame  calzato  di  coturni  e  avvolto  in  una  toga  purpurea  alla  foggia 
greca,  adorno  11  capo  di  una  corona  d' oro  con  l' effigie  di  Minerva  ; 
l'assistevano  il  sacerdote  di  Giove  e  il  collegio  dei  sacerdoti  della 
famiglia  Flavia,  vestiti  in  ugual  modo,  se  non  che  nelle  corone  loro 
v'  era  anche  l'effigie  di  lui  »  *).  Risorgeva  così  per  opera  del  '  calvo 
Nerone  ',  in  una  società  che  con  quella  di  Nerone  ha  tanta  analogia 
di  costumi  e  di  tendenze,  la  tradizione  di  quei  certami  di  rito  greco 
che  questi  aveva  trasportati  e  resi  popolari  in  Roma  prima  nei  Ju- 
venalia  e  poi,  con  più  solennità,  nei  Neronia,  a  ostentazione  della  sua 
bravura  di  poeta  e  citaredo,  di  istrione  e  d'auriga;  risorgeva  con 
pompa  di  gran  lunga  maggiore,  che  le  doveva  assicurare  una  vi- 
talità che  non  si  spense  se  non  col  cadere  dell'  impero.  Anche  qui 
imi)ortanza  speciale  ebbe  certo  il  muHÌcum  certamen,  la  gara  di 
musica  e  poesia;  onde  a  contendersi  la  corona  di  quercia  che  l'im- 
peratore di  sua  mano  porgeva  al  vincitore  traevano  a  gara  uomini  il- 
lustri per  altre  vittorie,  o  giovani  o  addirittura  adolescenti  ricchi  d'in- 
gegno e  di  speranze  a  cui  la  vittoria  avrebbe  assicurata  d'un  tratto 
la  gloria  ;  né  temevano  ostacoli  di  terre  o  mari.  Un  tal  Diodoro  ab- 


')  SvETONio,  Domit.  4.  Chi  desiderasse  piìi  particolareggiate  notizie  sui  cer- 
tami capitolini  vegga  la  classica  opera  del  Frikdlandku,  DarslelluHyen  aus  der  Sit- 
tengeschichte  Eoma   II*,  p.  485  sgg. 

Atene  e  Roma.  1 


98  Camillo  torelli 


bandona  la  lontana  Alessandria  per  concorrere  alla  gara  dell' a.  94, 
e  solo  in  grazia  di  un  poco  casto  voto  —  di  cui  lasceremo  la  respon- 
sabilità a  Marziale  IX,  40  —  della  sua  fanciulla  riesce  a  superare 
una  terribile  tempesta.  E  voti  e  sacrifizi  si  facevano  a  R<nna,  nel- 
l'ansia che  si  diffondeva  in  ogni  classe  all'avvicinarsi  della  gara.  Dna 
matrona  di  alto  lignaggio  di  cui  ci  narra  Giovenale  VI,  .38.")  sgg. 
sacrificava  a  Giunone  e  a  Vesta  per  sapere  se  la  quercia  capitolina 
sarebbe  toccata  a  Pollione  citaredo.  '  Avrebbe  ella  potuto  far  di  più 
per  il  marito  malato  ?  per  un  figlioletto  cbe  destasse  preoccupazione 
nei  medici  ?  Ella  stette  avanti  all'  ara,  uè  arrossì  di  velare  il  capo 
per  un  citaredo  ;  e  sopportò  di  ripetere  le  formule  cbe  le  venivano 
suggerite,  e  impallidì  d'ansia  sulle  viscere  dell'agnella  sacrificata  '. 
Pari  all'ansia  dell'attesa,  pari  al  clamore  del  trionfo,  doveva  essere, 
per  chi  avesse  sicura  coscienza  del  proprio  valore,  il  colpo  della  ca- 
duta. E  se  anche  non  paia  ammissibile  che  Stazio  abbia  abbandonato 
Roma  per  il  rammarico  della  sconfitta  sofferta  nel  certame  dell'a.  90  '), 
che  gettava  un'  ombra  sulla  splendida  vittoria  riportata  pochi  mesi 
prima  nella  gara  Albana  —  istituita  anch'essa,  e  annualmente  cele- 
brata da  Domiziano  in  onore  di  Minerva,  la  dea  patrona  della  casa 
Flavia  — ,  certo  è  che  alla  sconfitta  egli  non  seppe  rassegnarsi  mai. 
Anima  candida  in  petto  di  poeta  forzatamente  cortigiano,  egli  chiama 
a  testimoni  del  suo  dolore,  a  cui  il  ricordo  dei  passati  trionfi  sembra 
dare  un  risalto  crudele,  coloro  con  cui  egli  si  raccoglie  a  conversare 
nell' intimità  dei  suoi  sentimenti:  la  moglie  teneramente  diletta,  l'ombra 
del  padre  da  cui  era  stato  sorretto  nei  primi  esperimenti  di  poesia.  Ed  a 
questo  rammenta  la  jirima  corona  guadagnata,  lui  presente,  a  Napoli, 
e  la  vittoria  Albana  di  cui  egli,  immaturamente  morto,  non  aveva 
potuto  gioire  :  sì,  ma  neanche  aveva  visto  il  figlio  sconfitto  :  e  di 
quella  esalta  la  partecipazione  appassionata  alle  gioie  e  ai  dolori  del 
marito.  '  Tu,  mi  stringesti  al  tuo  seno  (juando  sulle  lucide  chiome 
portavo  i  doni  Albani  e  m'adornava  il  sacro  oro  di  Cesare,  e  baci 
anelanti  imprimesti  al  mio  serto;  tu,  quando  il  Campidoglio  fu  ne- 
gato alla  mia  lira,  quasi  vinta  tu  stessa  con  me,  ti  dolevi  di  Giove 
crudele  e  ingrato  '  {Silv.,  Ili,  5,  28  sgg.)  :  ingrato,  che  appunto  la 
poesia  di  Stazio  trattava  le  lodi  di  Giove  ;  cioè  indirettamente,  pos- 
si am  dire,  dell'imperatore,  che  da  Giove  capitolino  riconosceva  la 
propria  salvezza  (Tac,  Hist.  Ili,  44),  e  di  Giove  ha  presso  i  poeti 
del  tempo  le  lodi  e  gli  attributi. 


1)  V.  Giri,  iu  Riv.  di  Filologia,  35  (1897)  p.  446  sgg. 


Floro  e  il  certame  capitolino  99 

Troppo  facile  è  sorridere  della  natura  querula  del  poeta.  Ma 
accenti  simili  di  rammarico  risuonano,  dopo  parecchi  anni  dalla  scon- 
fitta giunta  improvvisa  quando  certa  pareva  la  vittoria,  sulle  labbra 
d'  un  poeta  eh'  era  venuto  fin  dall'Africa,  chiamato  da  un  clamore  di 
fautori,  per  partecipare  anch'  egli,  come  credo,  all'  agone  capitolino 
dell' a.  90.  Lo  racconta  egli  stesso,  in  una  curiosa  prefazione  —  pub- 
blicata solo  nell'a.  1842  di  su  un  codice  di  Bruxelles  —  a  una  decla- 
mazione retorica  sul  tema  '  Vergilius  orator  an  poeta  '.  Mentre  stanco 
dalla  veglia  —  così  narra  —  si  riposava  in  un  tempio  di  Tarragona, 
vide  farglisi  incontro  un  gruppo  di  persone  che,  tornando  da  Koma 
'  ab  urbis  spectaculo  '  verso  la  Spagna  Betica,  erano  stati  dal  li- 
beccio costretti  ad  approdare  a  Tarragona.  Uno  di  essi,  che  crede 
d' aver  visto  altra  volta  Floro,  gli  chiede  chi  sia.  E  Floro  :  '  Hic, 
inquam,  Florum  vides,  fortasse  et  audieris,  si  tamen  in  ilio  orbis  ter- 
rarum  conciliabulo  sub  Domitiano  principe  certamini  nostro  adfuisti  '. 
Ft  Baeticus  '  Tune  es  ',  inquit  '  ex  Africa  quem  summo  consensu 
poposcimus  ?  Invito  quidem  Caesare  et  resistente,  non  quod  tibi  puero 
inviderei,  sed  ne  Africa  coronam  magni  lovis  attiugeret  '.  Quae  cum 
videret  verecunde  agnoscentem,  in  amplexum  effunditur,  et  '  ama  ' 
inquit  '  fautorem  tuum  '.  E  gli  domanda  che  mai  faccia  a  Tarra- 
gona :  perchè  non  si  reca  nella  Betica  ì  perchè  non  torna  a  Roma 
'  ubi  versus  tui  a  lectoribus  concinuntur  et  in  foro  omni  clarissi- 
mus  ille  de  Dacia  triumphus  exsultat  ?  Potesne  cum  hoc  singu- 
lari  ingeuio  tantaque  natura  provincialem  latebram  pati  ?  Nihil  te  ca- 
ritas  urbis,  nihil  ille  te  <  Victor  >  gentium  populus,  nihil  senatus 
movet  '?  Nihil  denique  lux  et  fulgor  felicis  imperi,  qui  in  se  rapit 
atque  convertit  omnium  oculos  hominum  ac  deorura  ?  '  Floro  non  sa 
quasi  che  rispondere,  anch'egli  trova  ciò  strano,  ma  che  non  gli  si 
richiami  la  ferita  d'un  tempo  !  '  Quod  ad  me  pertinet,  ex  ilio  die 
cuius  tu  mihi  testis  es,  postquam  ereptam  manibus  et  capiti 
coronam  meo  vidi,  tota  mens,  totus  animus  resiliit  atque  abhorruit 
ab  illa  civitate,  adeoque  sum  percussus  et  consternatus  ilio  dolore, 
ut  patriae  quoque  meae  oblitus  et  parentum  carissimorum  similis  fu- 
renti huc  et  illuc  vager  per  diversa  terrarum  '.  E,  su  domanda  del- 
l'interlocutore,  gli  narra  i  suoi  viaggi:  ha  visitato  la  Sicilia,  Creta, 
le  Oicladi,  Rodi  e  la  costa  d' Egitto  ;  poi  di  nuovo  l' Italia,  poi  la  Gallia, 
e  di  lì  i  Pirenei  e  la  Spagna  :  a  Tarragona  si  trova  da  cinque  anni, 
e  ci  si  trova  bene  :  illustre  ne  è  l' origine,  buona  e  mite  la  popola- 
zione. Ma,  domanda  il  Betico,  come  vive?  o  il  padre  dall'Africa  lo 
rifornisce  di  danaro  ?  Xo  :  Floro  esercita  la  professione  di  maestro  di 


100  Camillo  Morelli 


scuola:  e  di  questa  professione,  fra  lo  sdegno  e  lo  stupore  dell'amico, 
tesse  l'elogio.  —  Qui  disgraziatamente  il  testo  si  tronca;  ma  è  facile 
supporre  che  indi  s'aprisse  il  varco  a  discorrere  di  un  argomento  tipi- 
camente scolastico,  come  l' oziosissima  questione  '  se  Virgilio  sia 
piuttosto  oratore  che  poeta  '.  E  possiamo  anche  dire  che  Floro  ac- 
cettò l' invito  dell'  amico,  e  si  stabilì  poi  a  Eoma,  aprendovi  forse 
una  scuola  di  retorica  '). 

Poiché  chi  sia  questo  Floro  possiamo  con  sufficiente  sicurezza 
stabilire  :  è  il  retore  che  ci  lasciò  un'  epitome  di  Tito  Livio  che  i 
nostri  padri  ebbero  testo  di  scuola,  è  il  poeta  che  scese  in  tenzone 
scherzosa  con  l'imperatore  Adriano.  Sia  lecito  aggiungere,  agli  ar- 
gomenti assai  più  validi  da  altri  addotti,  anche  questo  :  che  di  co- 
stui varie  poesie  ci  sono  conservate  nell'Antologia  salmasiana,  di  cui 
è  noto  il  colore  spiccatamente  africano,  e  che  africano  è  il  nostro. 
Contro  tali  argomenti  poco  valore  è  da  assegnare  a  una  leggiera  di- 
screpanza dei  nomi  :  lulius  Florus  nel  cod.  Bamb.  (ma  L.  Anueus 
Florus  nel  cod.  Naz.)  della  storia;  P.  Annius  Florus  nel  Verg.  or. 
<in  poeta.  I  prenomi  P.  e  L.  vengono  spesso  scambiati  ;  e  lulius  Flo- 
rus sarà  derivato,  dal  ricordo  di  quel  lulius  Florus  che  fu  amico 
d'Orazio,  come  i)ensa  lo  Schanz,  o  fors' anche  da  confusione  con  l'omo- 
nimo oratore  '  in  eloquentia  Galliarum  princeps  ',  di  cui  parla  Quin- 
tiliano X,  3,  13.  Un  caso  perfettamente  analogo  abbiamo  nell'epiteto 
*  Surculus  '  che  i  codici  più  recenti  aftìbbiano  a  Stazio  per  confusione 
con  Statius  Ursulus  retore  tolosano  (onde  lo  Stazio  tolosano  di  Dante) 
menzionato  da  S.  Girolamo  De  vir.  ili.  a.  2073  =  57  p.  Chr. 

Floro  è  dunque  un  puer  :  come  l'undicenne  L.  Sulpicius  Maxi- 
mus,  uno  dei  52  concorrenti  al  premio  di  poesia  greca  nel  certame 
dell' a.  94,  come  il  tredicenne  L.  Valerius  Pudens  che  fu  coronato  a 
unanimità  di  voti  nel  concorso  di  poesia  latina  dell'  a.  106  ;  ma  non 
tanto  enfant  prodige  quanto  costoro,  se  subito  dopo  la  sconfitta  potè 
mettersi  a  viaggiare  senza  che  il  padre  lo  sovvenisse.  Avrà  dunque 
avuto,  poniamo,  poco  meno  di  vent'anni.  Da  allora  del  tempo  è  pas- 
sato :  i  cinque  anni  di  Tarragona,  e  il  tempo  certo  non  breve  richiesto 
dai  molti  viaggi  :  ma  non  converrà  esagerare  nel  computo,  se  il  Be- 
tico,  sia  pure  per  mibilum,  riconosce  in  lui  i  lineamenti  del  fanciullo 
Floro.  Il  fulgor  felicis  imperi  fa  dunque  pensare,  piuttosto  che  al 
breve  impero  di  Nerva  (96-98),  a  quello  di  Traiano,  ricco  di  glorie 
militari  (cfr.  il  <  vietor  >  tot  gentium  populus,  se  pure  non   sia   frase 


')  V.  HiRZEL,   Der  Dialog,  IT,  p.  64  sgg. 


ì 


Floro  e  il  certame  capitolino  101 

fatta);  e  che  siamo  agli  inizi  dell'impero  può  dediirsi,  mi  sembra, 
anche  dalle  parole  '  in  se  rapii  atqiie  convertit  omnium  ocnlos  ho- 
minuni  ac  decrum  ',  dove  s'aspetterebbe  altrimenti  piuttosto  un  de- 
tinet. 

La  prova  evidente,  a  dir  vero,  si  credeva  di  possederla  nella  men- 
zione del  dacicun  triumphvs  :  il  trionfo,  si  pensava,  celebrato  da  Traiano 
sui  Daci  nell'a.  102.  Era  sfuggita  un'osservazione  del  Friedliinder, 
[op.  tìit.,  p.  ()43),  che  ammetteva  la  possibilità  che  il  carme  di  Floro 
fosse  stato  scritto  a  glorificazione  del  trionfo  dacico  di  Domiziano 
dell' a.  89.  Il  che  è  per  me  sicuro.  Certo  non  bisognerà  dare  ecces- 
sivo peso  all'aborrimento  di  Traiano  per  quanto  sapesse  di  panegirico, 
su  cui  insiste  Plinio  il  giovane,  accorto  panegirista  egli  stesso  :  Pa- 
iicg.  54  '  Tu  procul  a  tui  cultu  ludicras  artes  removisti.  Seria  ergo  te 
carmina  honorque  aeternus  annalium,  non  haec  brevis  et  pudenda 
praedicatio  colit  ;  quin  etiam  tanto  maiore  consensu  in  venerationeni 
tui  theatra  ipsa  consurgent,  quanto  magis  de  te  scaenae  silebunt  ', 
dove  le  scaenae  abbracciano  anche  i  ludi  come  quello  capitolino  (il 
passo  citato  segue,  voluta  antitesi,  subito  dopo  la  descrizione  di 
quanto  accadeva  sotto  Domiziano:  '  Ecquis  iam  locus  niiserae  adula- 
tionis  manebat  ignarus,  cum  laudes  imperatorum  ludis  etiam  et 
commissionibus  celebrarentur,  saltarentur,  atque  in  omne  ludibrium 
effeminatis  vocibus,  modis,  gestibus  frangerentur?)  '  Può  essere,  dico, 
che  Plinio  non  vada  preso  troppo  alla  lettera  ^),  per  quanto  già  sotto 
Nerva  l'aria  dovesse  esser  molto  mutata,  e  l'adulatore  Marziale  pro- 
vasse un'inopinata  nostalgia  della  sua  remota  Bilbilis.  Ma  ]a. provin- 
cialis  latebra  di  cui  parla  il  Betico  non  si  riferirà  certo  soltanto  alla 
vita  materiale,  ma  anche  al  singvlare  ingenium  che  Floro,  in  pro- 
vincia, non  potrebbe  mettere  in  mostra  :  ora,  se  il  trionfo  dacico  fosse 
quello  di  Traiano,  il  carme  sarebbe  stato  scritto  in  provincia;  e  se 
esso  era  potuto  arrivare  sino  a  Roma,  la  latebra  non  sarebbe  piìi  la- 
tebra; nò  riuscirebbe  facile  comprendere  come  la  vita  passata  e  pre- 
sente di  un  poeta  i  cui  versi  recentissimi  erano  così  noti  potesse  es- 
sere del  tutto  ignorata  da  un  ammiratore  quale  il  Betico.  Può  sembrare, 
questa,  argomentazione  faticosa  sopra  un'impressione  soggettiva.  Ma 
aggiungo  :  se  il  dacicus  triumphus  fosse  quello  di  Traiano,  che  senso 


')  Qualche  anno  pifi  tardi  lo  stesso  Plinio,  ep.  Vili,  1,  4,  è  largo  d'incorag- 
giamenti al  poeta  Caninio  Rufo  che  vnole  scrivere  un  poema  greco  sulla  guerra 
dacica. 


102  Camillo  Morelli 


o  cbe  fondamento  avrebbe  l'affermare  che  il  fulgore   del  nuovo   im- 
pero non  ha  attirato  a  sé  gli  occhi  di  Floro? 

Bensì  è  facile  comprendere  come  Floro  potesse  cantare  nel  90 
il  trionfo  dacico  di  Domiziano.  Fresca  era  l' impressione  della  vittoria 
riportata  da  Stazio  nel  marzo  di  quello  stesso  anno  al  certame  d'Alba 
con  una  poesia  celebrante  appunto  questo  trionfo.  L'argomento,  in 
una  gara  in  cui  le  lodi  del  principe  erano  di  rito  (si  ricordi  il  passo 
di  Plinio  or  citato,  e  lo  si  connetta  con  quelle  laudes  capitolini  lovis 
che  Quintiliano  III,  7,  4  dice  perpetua  sacri  certaminis  materia;  Anche 
nei  Neronia,  a  dir  di  Tacito,  Ann.  XVI,  2  si  offriva  '  oratoribus  prae- 
cipua  materia  in  laudem  principis  '),  era  di  per  sé  un  augurio  e  una 
promessa.  Naturale  che  la  sconfìtta  potesse  per  ciò  apparire  a  Floro, 
come  apparve  a  Stazio,  ingiusta;  e  ch'egli  vada  cercando  delle  ra- 
gioni che  in  qualche  modo  la  spieghino.  La  verità  è  che  Domiziano, 
Io  guidasse  la  convinzione  o  il  capriccio,  non  usava  riguardi  ad  al- 
cuno; eppure  Stazio  vantava  titoli  panegiristici  assai  maggiori  che 
Floro.  E  all'invito  dei  fautori  di  questo  Domiziano  seppe  resistere 
cerne  quando,  al  popolo  che  a  una  voce  chiedeva  la  riabilitazione  del 
senatore  Palfurio  Sura  vincitore  nella  gara  d'eloquenza  appunto  di 
un  certame  capitolino,  fece  seccamente  ordinare  il  silenzio  (Suet., 
Dom.  13). 

E  si  comprende  ancora  come  la  vittoriosa  campagna  di  Traiano 
contro  i  Daci  potesse  richiamar  l' attenzione  sopra  il  dacicns  trinm- 
phus  di  Floro,  che  tornava  quindi  d' attualità,  apparendo  quasi  un 
omaggio  indiretto  a  un  imperatore  che  mal  tollerava  gli  elogi  smac- 
cati. Un  indiretto  omaggio  è  fors' anche  nel!' inscenatura  stessa  del 
dialogo.  Esso  ha  luogo  a  Tarragona,  di  cui  sì  tessono  gli  elogi  ;  V  in- 
terloculore  è  un  Baeticus,  vir  pereruditus.  Ora  si  noti  che  Traiano  era 
nativo  della  Betica,  che  1'  amico  suo  e  consulente  letterario  Palfurio 
Sura  era  oriundo  della  Spagna  Tarraconese.  Con  questo  l' azione  e, 
presumibilmente,  la  composizione  del  dialogo  apparisce  fissata  con 
una  certa  approssimazione  circa l'a.  102,  data  del  primo  trionfo  da- 
cico di  Traiano.  Che  sia  questo  l' urbis  spectaculum  da  cui  tornano 
il  Betico  e  i  suoi  compagni  ? 

Floro  ebbe  così  anch'egli,  nell'anno  stesso  in  cui  cadeva  il  quinto 
certame  capitolino,  il  suo  trionfo  ;  e  la  rivincita  gli  avrà  lenita  la 
sconfitta  e,  più  amara  forse  della  sconfitta  stessa,  la  gioia  maligna 
che  altri  ne  aveva  provato.  Poiché  la  premura  del  Betico  a  procla- 
marsi uno  dei  fautori  di  Floro,  e  l'esito  stesso  del  certame,  fanno 
supporre  che  un'opposizione  non  dovesse  esser  mancata.  Questa  a  me 


Floi'o  e  il  certame  capitolino  103 

par  di  sorprendere  nell'epigramma  di  nn  tal  Polliano  (Anth.  Pai.  XI, 
128),  clie  qui  rijwrto  e  mi  provo  di  tradurre. 

Eì  |ir,  xot'P"'  <I'?-(Bpe,  •(S'ioiiir^'/  SaxxyXos  r,       Se  io  non  godo,  o  Floro,  potessi  io   di- 
-lO'J;  I  sì;  xù)v  aiòv  xojxcov  TiBv  xaxaxsLvo-  ventare  un  dattilo  o  un  altro  di  code- 

(isvcov.  sti  piedi  che  tu  torturi. 

Xa'.pco,  VY)  xèv   xXfjpov   ov  siixJ./pvja»?   èv      Godo  :  te  lo  giuni  per  quella  felice  vo- 
a8->.o'.;  I  (o{  iTspi  y^oipBia^  xoù  oxsiyavou  tazione  che  tu  conseguisti  nelle  gare 

(ispiSos.  come    (se    tu    avessi    gareggiato)    per 

la  parte  porcina  della  corona. 
'ì'oifàp  *àpast,  «tXùpe,  xat   sù8"j|ìo;   nàXi      Perciò  fatti  coraggio,  o    Floro,    e  tenta 
vivou-  I  oOxo)  vix^axt  x-/l  BóXi^ov  Siivaoai.  un'altra  volta  :  a  questo  modo  tu  puoi 

sperare  di  vincere  anclie   nella  lunga 
corsa. 

rolliano  La  nome  romano,  come  Floro  ;  possiara  dunque  supporre 
che  vivesse  a  Roma.  È  posteriore  a  Lucillio,  1'  epigrammista  famoso 
dell'  età  neroniana,  cL'  egli  imita  (cfr.  A.  P.  XI,  130-132).  Altri  dati 
biografici  non  ci  sono  forniti  dai  cinque  epigrammi  che  l' antologia 
Palatina  ci  conserva  di  lui.  I  Polliani  di  cui  abbiamo  menzione  si 
contan  sulle  dita  :  ma  è  notevole  che  i  due  in  cui  possiamo  sospet 
tare  un'attività  o  una  attitudine  letteraria  cadono  appunto  in  questa 
età.  L'uno  è  il  giovane  marito  a  cui  Plutarco  dedicò  i  suol  coniu- 
galla  praecepta  :  ed  è  giovane  di  età  matura  alla  filosofìa  (e.  48),  che 
deve  dividere  con  la  sposa  '  i  frutti  che  le  Muse  producono  e  lar- 
giscono a  coloro  che  tengono  in  gran  conto  la  dottrina  e  la  filosofia  ' 
(e.  50 1:  l'altro  ci  è  noto  da  un  epigramma  di  Ammiano,  poeta  greco 
imitatore  anch'esso  di  Lucillio  (cfr.  A.  P.,  XI,  98  (attribuito  però  an- 
che a  Nicarco),  -v  308;  157  -v  142),  che  visse  in  questo  torno  di  tempo  '). 
'  Chi  ha  ucciso  la  madre,  chi  il  padre,  chi  il  fratello  :  Polliano,  primo 
dopo  Edipo,  tutti  e  tre  '  (A.  P.,  XI,  228).  Che  si  tratti  qui  di  un 
volgare  omicida?  Può  essere;  ma  più  arguto  apparirebbe  un  friz/.o 
contro  un  poeta,  argomento  frequentissimo  degli  epigrammi  irrisorii. 
Polliano  avrebbe  commesso  una  così  orribile  strage....  in  qualche  sua 
poesia;  e  l'avrebbe  commessa  pressappoco  come  l'oraziano    turgidus 


I 


')  Cfr.  Jacobs,  Anth.  graeoa,  XIII  (Lipsiae  a.  1814)  p.  840  ;  Reitzenstein,  iu 
Paiily-Wiss.,  1,  p.  1845.  Come  Lucillio,  Ammiano  dovette  vivere,  almeno  per  del 
tempo,  a  Roma,  se  il  Fiacco  retore  ch'egli  canzona  (A.  P.,  XI,  146)  è  lo  stesso 
schernito  da  Lucillio  {ib.  148)  ;  ma  forse  si  tratta  dì  pura  e  semplice  imitazione. 
Parecchie  delle  sue  persone  hanno  nome  romano.  Un  suo  epigramma  (ib.  226)  fu 
tradotto  da  Marziale,  o  viceversa  :  cosi  vicini  di  tempo  e  stretti  dal  vincolo  del- 
l'imitazione, e  verosimile  che  i  due  poeti  fossero  anche  vicini  di  luogo. 


104  Camillo  Morelli 


AlpinuH  iugulai  duni  Memnona  (si  confronti  ancbe  l'analogo  FuriuK 
hibernas  eana  nive  conspuet  Alpex  ').  Una  mancanza  di  buon  gusto 
sul  genere  di  quella  rimproveratagli  da  Ammiano  non  ci  stupirebbe 
troppo  in  Polliano  :  l'epigramma  contro  Floro,  fiacco  anclie  nella  ca- 
scante andatura  spondaica  degli  esametri  a  cesura  uniforme  (se  pure  non 
si  debba  veder  qui  scimmiottato,  come  volle  taluno,  il  ritmo  monotono^ 
dei  versi  di  Floro),  sa  piìi  di  fiele  che  di  sale;  la  cultura  del  poeta 
è  così  malsicura  cbe  in  un  altro  epigramma  (^1.  P.,  XVI,  150)  arriva 
a  confondere  Polignoto  con  Policleto  ;  egli,  cbe  se  la  prende  con  un 
cattivo  poeta,  cbe  dice  ispirato  dalle  Erinni  (XI,  127  ;  cfr.  ancbe  130),^ 
meriterebbe  un'eguale  critica.  E,  cane  cbe  morde,  gli  altri  cani  lo  mor- 
dono. Vorremo  ora  pensare  cbe  l'amico  di  Plutarco,  il  canzonato  da 
Ammiano,  il  canzonatore  di  Floro,  si  riducano  a  una  sola  persona  ? 
L'ipotesi  parrà  troppo  audace:  noi  ci  contenteremo  di  ritener  vero- 
simile die  quest'  ultimo  si  possa  identificare  con  l' uno  o  1'  altro  dei 
primi  due.  A  ogni  modo,  poiché  nessun  altro  Floro  conosciamo  cbe 
abbia  preso  parte  a  una  gara  di  poesia,  l' identificazione  del  Floro  di 
Polliano  con  l'autore  del  daeicus  triumphtis  apparisce  di  per  sé  assai 
probabile.  Vorrei  ancbe  notare,  se  non  potesse  parere  superflua  sot- 
tigliezza, clie  Polliano,  parlando  dei  rituii  usati  da  Floro,  stabilisce 
una  distinzione  fra  il  dattilo  —  il  piede  epico  per  eccellenza  —  e 
gli  altri  piedi  ;  e  il  Betico  distingue  pure  dai  versus  cbe  a  lectoribus 
concinuntur,  i  quali  saranno  stati  di  vario  metro,  il  daeicus  triumphus, 
d'argomento  epico  e  quindi  quasi  certamente  scritto  in  esametri  dat- 
tilici. Riceve  così  inaspettato,  e  sarei  per  dire  immeritato  suffragio 
un'  antica  congettura  del  Fabricius  ^),  la  quale  mancava  naturalmente 
di  base  quando  ancora  non  si  conoscevano  le  circostanze  rivelateci 
dal  Verg.  or.  an  poeta.  E  un  po'  più  cbiaro  risulta  il  senso  dell'epi- 
gramma, uno  dei  piìi  tormentati  dai  commentatori  ^).  Quasi  tutti  in- 
tendevano cbe  Floro  avesse  in  eft'etto  riportata  la  vittoria  :  unica  ec- 
cezione il  Grozio,  die,  guardingo,  parafrasa  i  vv.  3-4  piìi  che  non  li 
traduca  :  '  ni  tibi  de  tali  certamine  gratulor,  etsi  Contigerit  meritis 
nulla   corona    tuis  '.  In   verità   il  consiglio  '  fatti  coraggio  '    sembra 


')  In  altro  senso  dice  Lucillio  (ib.  131)  cbe  né  il  diinvio  né  Fetonte  uccisero 
mai  tanti  uomini  quanti  il  poeta  Potamene  e  il  cliirurgo  Ermogene.  Cfr.  anche  Am- 
miano, ib.   188. 

')  Bibl.   Graeoa,  voi.  IV  (Hamburgi  1795)  p.  492. 

')  V.  i  vari  tentativi  d'interpretazione  raccolti  nell'ediz.  del  DObner,  nota  a 
XI,  128. 


Floro  e  il  certame  ciipitoliiio  105 


uu'  ironica  consolazione  per  la  sconfitta.  Come  piena  di  crudele  ironia 
è  la  gioia  che  aft'erma  d'aver  provato  Polliano  :  a  intender  la  quale 
giova  ricordare  che  Floro,  appoggiato  da'  suoi  fautori,  affermava  ch'egli 
aveva  in  realtà  vinto,  e  che  solo  per  ingiustizia  gli  era  stata  erepta 
capiti  corona.  E  Floro  gli  presenta  le  sue  congratulazioni  :  '  È  una 
bella  vittoria  davvero  la  tua  (c'è  veramente  un  ma:  che  tu....  non 
l'hai  riportata)  :  ma  ad  ogni  modo,  se  questo  si  chiama  vincere,  fatti 
coraggio  e  tenta  ancora:  con  questo  sistema,  potrai  vincere  quante 
gare  vuoi  :  anche  la  più  difficile  di  tutte,  la  corsa  lunga.  Te  l'auguro: 
chi  si  contenta....  ' 

Un  punto  rimane  pur  troppo  oscuro:  ed  è  forse  la  chiave  del- 
l'epigramma. Come  s'  ha  da  intendere  quella /«s/tee  votazione  f  In  senso 
ironico?  Allora  potrebb' essere  che  i  giudici,  piegandosi  al  volere  di 
Domiziano,  avessero  negato  il  loro  voto  a  Floro.  In  senso  proprio  ? 
Allora  i  giudici  avrebbero  sì  dato  voto  favorevole,  ma  Domiziano, 
arbitro  supremo,  avrebbe  posto  il  suo  veto.  Il  dubbio  aggiunge  na- 
turalmente nuova  ombra  all' oscuri  ssimo  verso  seguente,  dove  la  stessa 
sintassi  è  incerta.  Nella  interpretazione  del  Diibner  '  sicut  de  por- 
(icllaria  coronae  tuae  parte  '  si  ammetterebbe  una  costruzione  yai'pu) 
Tiept  Ttvo;  di  cui  non  trovo  esempio,  ed  oscuro  rimane  il  sicut.  Peggio 
che  contorta  è  la  costruzione  proposta  dal  Boissonade,  Ttepl  axe^àvou 
WS  Tiepl  •/fiipe'.xq  |i£p:'Soi;.  Come  io  costruisca  apparirà  dalla  mia  ver- 
sione. Ma  come  spiegare  la  '  parte  porcina  della  corona  '  ?  Ci  fu  chi 
accolse  la  lezione  di  Plauude  ')  -/rfiziocc,  :  ma  si  potrebbe  capire  un 
'  godo  della  vedova  corona  '  (cioè  della  corona  che  non  ti  è  toccata), 
non  '  della  vedova  parte  della  corona  '  ;  e  s'  ammetterebbe  sempre  il 
costrutto  x«''p<»>  Ttept  -ctvo;.  Sta  di  fatto  che  il  cod.  Palatino  —  l'au- 
torità massima  —  legge,  senza  ombra  di  rasura,  -/apsia;.  Si  potrebbe 
pensare  che,  come  il  y^dtpoq  (porcellino)  veniva  immolato  nei  sacrifici 
di  minore  importanza,  cosi  Floro  avesse  dovuto  contentarsi  della  parte 
inferiore,  cioè  del  secondo  posto  (cum  honore  discessit  dice  l'epigrafe 
del  fanciullo  Q.  Sulpicio  Massimo  [Dessau,  Inscr.  lai.  sci.  5177]  :  c'era 
dunque  una  specie  di  graduatoria)  ;  oppure,  poiché  la  corona  era  di 
quercia,  che  a  Floro  non  fosse  toccata  di  essa  che  la  parte  riserbata 
ai  porci:  ad  altri  le  fronde,  a  lui  (metaforicamente,   s'intende)....   le 


^)  Che  Planude  così  leggesse  arguisco  dall'ediz.  principe  dell'  antologia  pla- 
iiudea  curata  dal  Lascaris  (Firenze  1494).  II  desiderio  di  assicurarmi  della  lezione 
dell'autografo  di  Plannde  (Marciano  481)  non  potrà  essere  esandito,  come  mi  co- 
munica il  dr.  Coggiola  bibliotecario  della  Marciana,  che  a  guerra  finita. 


106  Camillo  Morelli  -  Floro  e  il  certame  capitolino 


ghiande;  o  si  potrebbe  infine  veder  qui  un'allusione,  chi  sa  come 
applicata,  al  proverbio  •^  bc,  xyjv  'AO-y|Vàv  (confronta  il  latino  sus  Mi' 
nervam),  che  Teocrito  V,  23,  spiega  ò;  tiox'  'AO-Tjvaiav  Iptv  f/ptae:  Floro 
avrebbe  avuto  nel  certame  la  stessa  sorte  cbe  toccò  al  porco  sceso 
in  gara  con  Atena.  ]\Ia  son  tutti  tentativi  in  cui  mi  riesce  d'ammi- 
rare più  la  mia  abnegazione  che  l' acume  ;  né  so  se  possa  a])parire 
comoda  soluzione  il  supporre  che  Polliano  voglia  accennare  a  qualche 
circostanza  speciale,  a  noi  ignota,  della  gara.  Altri  vedrà;  e,  novello 
Edipo,  saprà  forse,  come  m'auguro,  trovar  facile  spiegazione  a  questa 
sfinge,  su  cui  gioverà  almeno  aver  richiamato  l' attenzione.  E  non 
sarà  inutile,  a  intendere  il  piccolo  pettegolezzo  letterario  di  questi 
tempi,  aver  lumeggiato  un  po'  la  figura  di  codesto  generoso  Polliano, 
cosi  pronto  a  lanciare  il  suo  dardo  sul  collega  —  rivale,  forse  !  — 
caduto,  così  pieno  di  giusto  sdegno  contro  i  cattivi  poeti,  e  così  cat- 
tivo poeta  egli  stesso. 

Camillo  Mokelli. 


Oggetti  d'arte  neoclassica,  creduti  antichi 


Tra  i  monumenti  erratici,  dei  musei  e  del  commercio  antiquario, 
accanto  alle  falsificazioni  «  arclieologicbe  »  più  o  meno  abili,  quasi 
sempre  importanti  per  la  storia  della  nostra  disciplina,  vi  sono  la- 
vori originali,  della  rinascita  o  del  secolo  scorso,  cbe  presentano 
spontaneamente  alcuni  caratteri  artistici  affini  a  quelli  antichi,  tanto 
affini  da  far  dubitare  della  loro  origine.  Ciò  diventa  sempre  i)iìi  dif- 
ficile, con  il  graduale  sviluppo  degli  studi  che,  raggruppando  i  ma- 
nufatti dell'antichità,  ci  fa  conoscere  lo  stile  e  la  tecnica  di  ciascuna 
serie  e  i  rapporti  che  intercedono  tra  i  vari  gruppi;  ma  poiché  due 
casi  recenti  mostrano  come,  tuttora,  archeologi  di  valore  riconosciuto 
possono  esser  tratti  in  inganno  da  quelle  produzioni  che  rappresen- 
tano l'applicazione  della  nascente  archeologia  all'arte  industriale, 
credo  opportuno,  pigliando  occasione  da  questi,  di  dare  un  saggio 
del  metodo  da  seguire  i)er  difenderci,  anche  da  questo  lato,  contro 
l'insidia  di  speculatori  poco  scrupolosi.  Mentre  per  le  opere  di  fal- 
sari moderni,  la  questione  è  oggimai  principalmente  nell'esame  delle 
singolarità  tecniche  ')  e  delle  modificazioni  chimiche  e  fisiche,  recate 
agli  oggetti  da  agenti  esterni,  qui  è  soltanto  l'analisi  stilistica  che 
può  mettere  in  evidenza  i  caratteri  differenziali,  aiutandoci  cosi  in- 
direttamente a  meglio  conoscere  le  opere  antiche  affini,  e  illustran- 
doci fatti  recenti  che  non  sono  per  noi  senza  importanza. 

I. 

Kilievo  cilindrico  in  terra  cotta,  fig.  1;  Museo  Nazionale  Romano, 
esposto  nel  terzo  scomparto  dell'  «  Antiquarium  »  {Bull,  d'arte  del 
Ministero  d.  P.  I.  VII,  1913  p.  167-169,  fig.  12.  Alinari  30181) 
—  altezza  cm.  67,  diametro  alla  bocca  ca.  era.  59  —  apertura  supe- 
riore 32,5  —  profondità  delle  costolature  interne,  nella  parte   supe- 


')  Vedi  FURTWANGLKR,  Aeuere  FaUchuìKjen. 


108 


Carlo  AUnssati 


rioré  8,5  —  spessore  della  parete  ca.  1,5  —  altezza  del  rilievo  ca. 
cm.  5  —  altezza  delle  figure  57  (misurate  alla  punta  delle  ali).  Ac- 
quistato come  proveniente  da  Palestrina  '■)  e  pubblicato  da  E.  Pari- 
beni  come  puteale  antico. 


iloraa.  Museo  delle  Terme. 


Le  dimensioni,  specialmente  l'esiguo  diametro  della   bocca  e    il 
debole    spessore,    la    forma    esattamente   cilindrica  e  la  collocazione 


i)  Nell'inverno  1911-12  fu  offerto  al  direttore  del  museo  Gregoriano  Etrusco, 
da  certo  Signor  S.  A.  Gillt,  maestro  elementare,  che  gliene  mostrò  i  frammenti 
in  un  locale  semibuio.  11  prof.  Nooara,  stante  anche  la  mancanza  di  fondi,  per 
l'acquisto  da  parte  del  Vaticano,  non  volle  nèppur  esaminarlo  e  consigliò  al  Gilli 
di  rivolgersi  presso  la  Direzione  del  Museo  delle  Terme. 


Oggetti  d'  nite  iicochinsica^  creduti  antichi 


109 


delle  figure,  escludono  che  si  tratti  di  un  puteale.  Quelli  antichi  di 
terracotta  ')  che  conosciamo,  sono  per  lo  piìi  conici  o  sempre  raffor- 
zati alla  base  da  una  parte  espansa,  e,  quando  hanno  una  decora- 
zione, questa  è  posta  in  un  fregio  assai  in  alto  sotto  la  bocca;  non 
dove  i  passanti  usano  poggiarsi  co'  piedi.  Si  tratta,  con  ogni  proba- 
bilità, di  un  grande  vaso  da  giardino  o  da  terrazza,  oppure  di  un 
pezzo  di  stufa  cilindrica,  come 
<'e  ne  rimangono  appunto  della 
fine  del  sec.  XVIIl  o  del  prin- 
cipio del  XIX  ^).  La  forma  si 
adatta  ai  due  usi  e  i  terra- 
cotta! ne  avranno  tratto,  come 
sogliono,  tutto  l'utile  possibile. 
Senza  dubbio,  però,  il  modello 
era  stato  eseguito  come  parte 
intermedia  d'una  struttura  ; 
ce  ne  persuadono  la  sporgenza 
da  incassare,  di  3  cm.,  sotto 
il  fregio,  e  la  fascia  rustica 
che  limita  l'apertura  superiore, 
la  quale  con  la  sporgenza  del 
listello,  forma  una  incassatura 
di  12  mm.  circa,  rafforzata  dalle 
nervature  interne,  che  hanno 
la  funzione  di  sostenere  un 
pezzo  aggiunto. 

Chi  ha  qualche  famiglia 
ritàconl'arte  del  primo  Impero, 

ne  coglie  qui  i  caratteri  a  prima  vista.  Benché  il  Paribeni  non  accenni 
ad  alcun  termine  cronologico,  è  evidente  che  pone  il  rilievo  tra  le 
riproduzioni  fittili  di  opere  neoattiche  intorno  all'ultimo  secolo  avanti 
l'era  nostra,  le  cosiddette  «  terrecotte  Campana  »  %  uè  sapremmo  tro- 


i-ig. 


Da  Percicr  e  Fontaine. 


')  Cfr.  ad  es.  i  due  di  Pompei  :  H.  voN  Rohdkn,  Die  antiken  Terracotten  I, 
tav.  XXVII,  j>.  40  e  42  ;  Guida  Bnesch  nti.  757  e  760  —  per  la  modanatura  degli 
esemplari  marmorei:  F.  Hauser,  2ieuattischen  Reliefs,  p.   11.5. 

')  Cfr.  iiu»  stile  Louis  XVI,  in  forma  di  ara  rotonda;  Lehnkrt,  Geìchiehte 
de»  Kunatgewerhes,  II,  p.  273,  fig.  191  — •  Il  nostro  pezzo  corrisponde  alla  parte,  so- 
vrapposta al  fornello,  per  cui  passa  il  tubo  di  scarico.  L'  interno  è  assai  anne- 
rito, come  per  fuliggine. 

')  Cfr.   Dki.brCck,  1.  e. 


110  Carlo  Albizeati 


vare  affinità,  e  reminiscenze  con  alcun'altra  serie  di  monumenti.  E  ve- 
ramente datano  dal  tempo  della  scuola  di  Canova  le  migliori  imita- 
zioni di  rilievi  neoattici  ').  Qui  però  le  reminiscenze  sono  poche  e  con- 
fuse, le  singolarità  del  costume  e  della  decorazione,  inconcepibili  per 
un  artefice  antico. 

Nella  composizione  del  fregio,  con  le  cinque  figure  che  sembrano 
darsi  la  mano,  v'  è  forse  la  reminiscenza  di  un  Hekataion  *)  come  pure 
nella  profonda  frastagliatura  del  chitone,  che  ricorda  lontanamente 
il  drappeggio  arcaistico  a  coda  di  rondine,  spesso  adoperata  dagli 
intagliatori  per  i  mobili  «  Empire  »  ^).  A  partire  dal  IV  sec.  a. 
Or.  *)  tutti  i  compositori  di  decorazioni  d'arte  classica  o  classicheg- 
giante hanno  sentito  l'efficacia  stilistica  della  simmetria  arcaica 
che  subordina  la  figura  all'  insieme,  trasformandola  nel  ritmo  d' un 
motivo  ornamentale.  Queste  figure  femminili  poste  di  fronte  con 
le  mani  abbassate  parallele  alle  falde  del  drappeggio,  sono  già 
usate  in  Apulia  per  decorazioni  architettoniche  verso  la  metà  del 
IV  secolo  ").  Le  ritroviamo  poi  nelle  terrecotte  «  Campana  »  e  in  pit- 


M  Cfr.  Hauser,  1.  e,  p.  81. 

^)  Cfr.  Hauser,  1.  e,  p.  42.  Esempi  :  S.  Reinach,  Eéperloire  dts  reliefs,  II, 
20,  150,  —  301,   6. 

')  Lehnkrt,  1.  e,  II,  p.  352  tìg.  273  —  quattro  cariatidi  di  libreria  in  forma 
di  erme  drappeggiate. 

*)  Cfr.  FuRTVVANQLKK,  Abhandl.  d.  koii.  bayer.  Akad.  e).  I  XX  3,  p.  533  sgg. 
L'opinione  ivi  esposta  che  l'arcaismo  abbia  carattere  religioso,  meschina  reazione 
contro  la  vei-a  arte  sacra  dei  grandi  maestri,  è  infirmata  dal  fatto  che  nessnn  mo- 
numento sacro  importante  appartiene  a  questo  indirizzo.  Tracce  di  arcaismo  ne 
troviamo  già  nella  pittura  vascolare  del  V  sec.  di  stile  bello  grandioso,  cito  il  vaso 
di  Troiloa  al  Vaticano  Helbig^  n.  517  (Museiim  Gregor.  II,  tav.  22,  1)  che  rappre- 
senta lina  serie  ove  il  drappeggio  arcaico  e  disposato  ai  più  bei  profili  polignotei. 
Non  abbiamo  dunque  che  la  ricerca  e,  in  certo  modo,  l'accentuazione  dei  ritmi 
decorativi  stupendamente  sviluppati  nei  motivi  del  VI  secolo.  Il  fenomeno,  arti- 
sticamente, ha  ben  altra  portata  e  ritorna  tutte  le  volte  che  l'arte  greca  diventa 
fonte  di  ispirazione  per  i  compositori.  (L'attribuzione  a  Kallimachos  della  produ- 
zione più  antica  è  validamente  confutata  da  Amelung,  Helbig'  I  p.  432  .sg.)  Tut  • 
f  altro  carattere  ha  invece  la  produzione  tardiva  delle  anfore  pauatenaiche,  posta 
in  rapporto  dallo  Hauser  (Neuatt.  Bel.)  con  l'arte  arcaistica,  ove  riscontriamo  lo 
stesso  tradizionalismo  di  «  protocollo  »  che  si  ritrova  ad  esempio  nella  millenna- 
ria  produzione  delle  bulle  papali  o  in  quella  fase  lunghissima  dello  zecchino  ve- 
neto da  Giovanni  Dandolo  a  Francesco  I  d'Austria. 

^)  Cfr.  il  fregio  sul  basamento  dell'edicola  funebre  sull'anfora  ruvese  di  Niobe, 
Heyckhamn,  Vatentamml.  d.  Museo  NazUm.  zu  Neapel,  n.  3246.  —  È  Ja  stessa  ten- 
denza che  si  manifesta  nelle  opere  contemporaneo  d'  incisori  etruschi  e  latini. 
Così  ad  esempio  il  fregio  di  sfingi  affrontate  con  ali  terminate  a  voluta  e  di  medio 


r 


I 


Oggetti  tV arte  neoclassica,  creduti  antichi  111 

ture  architettoniche  pompeiane  del  terzo  stile  *).  Percier  e  Fontaine, 
i  capiscuola  dello  stile  Empire,  che  lavorano  direttamente  sn  motivi 
antichi  con  uno  stupendo  eclettismo  fatto  d'ignoranza  archeologica 
e  di  gusto  squisito,  veri  eredi  in  questo  degli  antichi  maestri,  pre- 
dilessero il  motivo  della  figura  alata  di  fronte  per  lo  piìi  con  drap- 
peggio arcaistico  e  1'  usarono  specialmente  a  sostenere  i  festoni  nei 
loro  fregi  -).  Possiam  cogliere  la  derivazione  d'  una  formella  da  cas- 
setto (tig.  3)  da  un  pannello  di  cimasa  neoattica  (fig.  4)  e  possiamo 
veder  le  figure  di  Hekate,  rialzate  con  l'aggiunta  delle  ali,  divenute 
sostegni  d'un  candelabro  da  appendere,  e  composta  in  guisa  identica 
a  quella  del  nostro  cilindro  di  terracotta  (tìg.  2)  dove  il  leggero  adatta- 
mento del  motivo  con  i  tirsi  sostituiti  alle  fiaccole  ci  fa  sentire  lo  stu- 
dio diretto  delle  tavole  dei  due  architetti  francesi  che  fecero  testo  per 
lungo  tempo  in  tutte  le  scuole  di  disegno  ornamentale.  Esempi  di 
figure  allegoriche  in  rilievo,  collocate  di  fronte  intorno  ad  un  fusto  ci- 
lindrico ne  abbiamo  pure  in  quella  specie  di  «  coliimna  caelata  »  che 
disegnarono  gli  stessi  autori  per  le  decorazioni  posticce  delle  feste 
imperiali  nel   1804  '). 

La  foggia  del  chitonisco,  per  la  collocazione  della  cintura,  che 
qui  solleva  il  seno,  e  per  il  lungo  apoptigma,  ci  ricorda,  alquanto 
esagerata,  la  moda  ellenistica  *}  da  cui  s' ispirarono  i  disegnatori  di 
figurini  francesi  del  primo  ottocento.  La  parte  che  risponde  alla  gonna 
è  tagliata  sulle  gambe  fino  a  metà  della  coscia,  non  già  rialzata  dal 
rimbocco  come  vuole  il  Paribeni,  mentre  le  falde  sui  fianchi  toccano 


in  testa  sulla  lista  Ficoroni,  Helbio,  Fiihrer'  n.  17.52  (ivi  la  bibliografia  più  com- 
pleta). 

')  Ad  es.  Mau,  Wandmalerei  in  Pompei  tav.  V-VI  —  il  tipo  si  ritrova  iu 
Roma  anche  nell'età  degli  Antonini  ;  cfr.  gli  stucchi  della  tomba  dei  Pancratii 
sulla  via  Latina,  Gusman,  L'art  ieeoratif  de  Rome  tav.  4.5  (negli  angoli  delle  spec- 
chiature, sulla  volta). 

')  Percier  et  Fontaine,  Becueil  de  decoraliona  d' interieur,  Paris  1812,  tav.  1, 
2,  4  (sopra  lesene,  ai  capi  del  festoni)  —  tav.  19  (alternate  da  cigni  nel  motivo 
della  ghirlanda)  —  mezze  figure  uscenti  da  un  germoglio  d'  acanto  in  un  fregio 
cilindrico  :  tripode  33  —  zuppiera  34,1  —  «samovar»  34,2  —  tavolino  39,8  — 
Ispirate  da  pitture  pompeiane  le  mezze  figure  alate  poste  come  acroterl  in  una 
composizione  da  parete,  che  riproduce  le  caratteristiche  del  terzo  stile  cfr.  Mau,  1.  c, 
tav.  7.  —  Non  ho  potuto  vedere  lo  studio  di  Ledoux  e  Kraft  su  Percier  e  Fon- 
taine né  il  libro  di  Lafond,  Le  mohilier  de  la  Revolution  et  de  l'  Empire. 

')  Figure  di  Virtns  e  Vittorie  nella  tribuna,  per  la  distribuzione  delle  aquile  ; 
FouCHÉ,  Pkrcibr  et  Fontaine,  p.  45  da  :  Sacre  et  oouronnement  de  Napoleou,  Pa- 
ris 1807. 

*)  Cfr.  W.  Amelung,  in  Pauli-Wissowa,  Realeneyclopddie  III,  2  p.  2321  seg. 


112 


Vario  Albiszati 


il  suolo  terminando  a  punta  ;  goffa  maniera  di  accentuare  la  linea  del 
motivo  arcaistico,  che  rivela  un    disegnatore  provinciale    e    tardivo. 


Fig.  3  —  Ba  Percier  e  Fontaine. 


Assurda  è  l'orlatura  a  fettuccia  sulla  piega  dell'apoptigma  che  uni- 
sce le  coccbe  sulla  sprilla,  dove  il  chitone  dovrebbe  essere  allacciato 

dalla  fibula.  Riconosciamo 
senza  fatica  la  scollatura 
rotonda  d'un  corpetto  mo- 
derno. 

L'acconciatura  arieg- 
gia   un    tipo    ellenistico, 
noto  specialmente  per  al- 
^  cuni  simulacri  di  giovani 

I         ^Ift^Hfttl'  *^^^'  *^^^  ^^^  ^  ^^^  ^^  ^^' 

'  -  -ÌHHB^^^^K.  pqj^  ay    Qj.  .  1)^  i  capelli 

divisi  sulla  fronte  s'an- 
nodano sopra  1'  occipite 
con  delle  ciocche  allen- 
tate a  festone  sopra  le 
orecchie  e  due  grandi  ric- 
cioli che  scendono  sul 
collo. 

La    pannocchia    del 
tirso,    una    pigna    mala 
Fig.  4  -  Parigi.  Mns.  del  Louvre.  mente   Stilizzata   con   un 

reticolato  a  losanghe  i)unteggiate,  non  ha   riscontro  che  in    qualche 
pittura  di  vaso  italioto,  pubblicata,  appunto  in  questa  età,  su  libri  ove 


1)  Ad  es.  l'Afrodite  accoccolata  dì  Doidal8a8  ;  cfr.  anche  Reinach,  Recueil  de 
téles  antiqties  tav.  188  e  190.  Tipo  solito  nelle  deeoraz.  di  Pkrcier  e  Font.  :  cfr. 
le  sfìngi,  1.  e,  tav.  10  o  tav.  29  (poltrona  ispirata  direttamente  dalle  sedie  mar- 
moree romane  del  Museo  del  Louvre,  Gisman,  1.  e,  tav.  77-78). 


Oggetti  d'  arte  iteoclassica,  creduti  antichi 


113 


i  disegnatori  cercavano  motivi  da  copiare  '■).  Nelle  terrecotte  di  tipo 
neoattico  v'è  solamente,  in  cima  all'asta,  il  ciuffo  d' edera  di  ben 
altro  effetto  artistico. 

La  tecnica  del  modellare  è  identica  nelle  buone  figure  decora- 
tive della  prima  metà  del  XIX  sec,  lavorate  da  artefici  che  uscivano 
tutti  dalle  medesime  scuole  ;  corretta,  ripulita,  e,  direi  quasi,  lec- 
cata. Mi  valgo  per  il  confronto  di  quattro  pezzi  della  stessa  produ- 
zione eli'  io  rinvenni  nel  magazzino  del  Museo  Gregoriano  Etrusco  ')  : 
due  frammenti  di  fregio,  un'antefissa, 
una  testa  di  Giove  (parte  di  mo- 
dello). Anclie  queste  furon  comperate 
per  antiche,  nei  primi  decenni  d'esi- 
stenza del  Museo,  e  rimasero  a  lungo 
«sposte.  Il  n.  327  (pezzo  di  cami- 
netto), con  quel  goffo  germoglio  d'a- 
canto che  ricorda  il  giglio  araldico, 
fu  anche  pubblicato  nel  Museum 
Gregorianum  (1,  tav.  XXXVII,  1). 
L'identità  dello  stile  si  stabilisce 
agevolmente  se  guardiamo  le  forme 
dei  visi  trattate  geometricamente  in 
superflci  levigate,  con  bruschi  tra- 
passi, che  ci  richiamano  lo  stile  delle 
jCopie  romane  di  sculture  greche  del 
gran  secolo  e  i  ritratti  imperiali  da 
Traiano  ad  Antonino,  fonti  precipue 
della  scoltura  neoclassica  che  ne  esa- 
gerò i  difetti.  L'occhio  tagliato  a  mandorla,  quasi  senza  spessore,  è  chiuso 
tra  due  listelli  a  spigolo  vivo  che  riproducon  le  palpebre  ;  una  du- 
rezza quasi  arcaica  segna  le  sporgenze  orbitali  e  il  contorno  delle 
labbra.  Identico  il  trattamento  delle  capigliature,  modellate  a  masse 
ondulate  con  forte  rilievo  e  ripassate  a  stecca  con  linee  più  brevi, 
che  ne  seguono  il  contorno  e  terminate  da  riccioli  arcaizzanti,  a  chioc- 
cioletta.  Si  confrontino  specialmente    le    ciocche    sugli  orecchi  della 


rig.  5.  —  Milano.  BibL  Ambrosiana. 


1)  Pigna  del  tirso  divisa  a  losanghe  punteggiate  ;  Millin,  Peintures  de  vases 
antiques  II,  68  (vaso  lucano  al  Louvre)  —  e  sul  grande  cratere  apulo  del  principio 
del  IV  sec.  Gerhard,  Apuliaohe   Vaaenbilder,  tav.  XV,  Furtw.  3257. 

')  Cfr.  Hklbiq,  Fuhrer^,  1,  p.  86  «  die  preziose  Ausflihrung  der  Haare  »  a  pro- 
,p08ito  del  Perseo  Vaticano. 


Atene  e  Roma. 


114  Carlo  Albizzati 


testa  di  Giove  e  le  barbe  delle  maschere  sileniche  ').  È  un  preziosi- 
smo che  diede  splendidi  effetti  in  mano  al  Canova  :  pensiamo  «  Amore 
e  Psiche  »  di  Oadenabbia  ').  Notevole,  rispetto  alla  cronologia,  è  il 
fregio,  per  quel  punto  che  s'abbranca  alle  corna  del  Capro,  arieg- 
giante  già  certi  cartoni  e  «  vignettes  »  dello  Schwind  ^).  I  lineamenti 
dei  visi  femminili,  di  una  correttezza  un  po'  convenzionale  e  il  drap- 
peggio duro  e  d'una  simmetria  quasi  eguale,  riproducono  lo  stile 
stereotipato  della  scoltura  neoclassica  più  tarda  ;  così,  quando  non 
calcarono  l'antico,  la  ripiallarono  il  Pistrucci,  il  Galli,  il  Sola,  e  an- 
che un  po'  il  Tenerani  ^). 

Nelle  «  Vittorie  »  delle  decorazioni  napoleoniche,  possiamo  ri- 
scontrare anche  il  trattamento  delle  ali  con  le  penne  divise  a  piccoli 
ciuffi  uncinati  e  modellate  in  una  guisa  tutta  moderna  '').  Sgraziato 
alquanto  è  solamente  il  nudo  delle  gambe,  specialmente  nell'attacco 
delle  caviglie,  che  appaiono  distorte  e  nel  brutto  rigonfiarsi  dei  pol- 
pacci. 

Il  lavoro  è  ripassato  minuziosamente  a  stecco,  con  un  ritocco 
duro  che  segna  i  particolari  con  degli  spigoli  vivi,  fuorché  nel  viso 
delle  figure,  e  fa  un  penoso  contrasto  col  delicato  rilievo  di  questi, 
un  po'  sfumato  dal  calco.  Le  antiche  terrecotte,  del  periodo  a  cui 
accennammo,  sono  specialmente  caratteristiche  per  la  stanchezza  dello 
stampo  che,  facendo  sentire  l'abbozzo,  nulla  toglie  all'insieme  inquanto 
alla  forza  dell'originale,  che  qui  si  perde  nella  cincischiatura  me- 
diocre delle  piccole  cose.  Questa  maniera  di  lavorare  dura  ancora, 
presso  i  figurinai  napoletani,  in  quelle  riduzioni  di  statue  celebri, 
alte  circa  20  centimetri,  che  si  vendono  per  qualche  lira. 


^)  Queste  maschere  sileniche  hanno  l' identico  carattere  di  quella  del  meda- 
glione nel  fregio  della  lunetta,  Percikr  et  Font.  1.  e,  tav.  62. 

»)  Cfr.  O.  Weigmann,  Schwind,  tav.  72,  2  —  tav.  da  143  a  1.52  —  tav.  496. 

')  Da  un  armadio  per  libri  proveniente  da  casa  Beccaria,  ora  nella  biblioteca 
Ambrosiana  dì  Milano.  Debbo  la  riproduzione  alla  cortesia  del  prefetto  Mone.  Luigi 
Gramatìca. 

*)  FoucHÉ,  PuRCiKR  et  FONTAiNK,  p.  52  —  (Le  vittorie  nel  fregio  della  volta) 
—  Lkhnbrt,  1.  e.  II,  p.  367,  (sullo  stibolate  delle  colonne  del  letto)  —  Fkkrari, 
Lo  stucco,  tav.  205,  2  —  (Soffitto  del  palazzo  reale  di  Milano)  —  W  H.  Wakd, 
The  arohiteoture  of  the  Renaissance  in  France,  p.  482  tìg.  552  (pilastri  ai  lati  del 
camino)  —  per  la  forma  tozza  delle  ali,  che  qui  son  troppo  piccole  rispetto  alle 
figure,  cfr.  piuttosto  i  leogrili  del  candelabro  dì  bronzo  di  Beauvallet,  Lkhnbrt, 
1.  e.,  p.  378,  fig.  300. 

^)  Un  esempio  notevolmente  simile  l' abbiamo  in  questa  piccola  erma  di  bronzo 
dorato  ov'è  tal  quale  anche  l'acconciatura,  tranne  l'aggiunta  del  nodo  ispirato 
dall'  «  Apollo  di  Belvedere  ». 


Oggetti  d' arte  neoclassica,  creduti  antichi 


115 


L'unico  elemento  decorativo,  la  fascetta  con  un  tìlo  di  grosse  perle 
nel  mezzo,  che  chiude  il  fregio  superiormente,  ha    carattere    pretta- 


>*1 


I 


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Fig.  7  —  Roma,  Vaticano. 


mente  neoclassico  per  la  sua  col- 
locazione isolata  e  per  la  ma- 
niera di  segnarne  il  profilo  come 
un  cordoncino  tra  due  listelli  alti 
ciascuno  la  metà  di  esso. 

L'uso  di  questo  motivo,  sem- 
pre di  proporzioni  assai  minori 
e  senza  questi  listelli,  fu  limita- 
tissimo in  antico  e  quasi  usato 
esclusivamente  da  orafi  e  da  to- 
rcati. Lo  troviamo  nelle  filigrane 
già  nel  VII  *)  e  sulle  monete  dal 


Fig.  8.  —  Roma,  Vaticano. 


')  Specialmente  nei  gioielli  d'argento  di  fattura  pih  robusta  fuso  in  nn  sol 
pezzo  saldato  sulle  parti  laminate.  Cfr.  Studi  e  materiali  II  pag.  123  fig.  100  e 
101  (orecchini)  e  grandi  fibule  d'argento  non  edite. 


IKi  Cario  Albiisati 


VI  sec.  a.  Cr.  in  poi  *),  sull'orlo  e  sulle  anse  del  vasellame  decorato 
di  bronzo  dal  VI  secolo  a  tutta  l'età  ellenistica,  che  ce  ne  lasciò 
gli  esempi  migliori  sui  grandi  vasi  marmorei  di  tipo  neoattico  *)  come 
consueto  ornamento  del  labbro,  ove  gli  altri  motivi  affini  dell'archi- 
tettura, come  la  vitta  e  1'  astragalo  avrebbero  disturbato  l'occhio  che 
richiedeva  un  ornato  piil  fine  e  compatto.  In  rarissimi  casi  nell'età 
romana  sostituisce  la  vitta  sugli  spigoli  della  basetta  triangolare  ') 
e  solamente  per  eccezione  in  modanature  sovraccariche  di  motivi 
fu  alternato  dall'astragalo  e  ai  diversi  tipi  del  kymation  ^).  Non 
ignoto  ai  maestri  della  Rinascita,  ebbe  gran  voga  nel  primo  periodo 
dell'arte  neoclassica  (stile  Luigi  XVI)  specialmente  per  mobili  e  ar- 
genterie '");  scomparì  quasi  del  tutto  dalla  scuola  dotta  dei  grandi 
decoratori  napoleonici  °)  e  lo  ritroviamo  per  lo  più  in  Italia  come 
motivo  autonomo  in  decorazioni  architettoniche.   L'  esempio  migliore 


'■)  Sopratntto  nella  monetazione  sìceliota  ed  italiota  di  modulo  largo  che  co- 
mincia relativamente  piìi  tardi.  In  Grecia  1' nso  ne  è  assai  più  scarso.  In  Atene, 
jid  esempio,  non  si  riscontra  prima  della  fine  del  III  sec.  a.  Cr. 

')  Tipi  descritti  in  Hauser,  1.  e,  p.  113  segg.  —  cfr.  Gusmas,  1.  e,  tav.  17-91 

—  e  i  vasi  romani  decorativi  7-64-141  —  cinerari  49-87,2. 

')  Per  il  tipo  cfr.   Hauser,  1.  e.,  p.   117. 

*)  Cfr.  le  basette  Gusman,  1.  e.  145,  —  sotto  la  gola,  rovesciata  tagliata  a 
«trigili,  dell'ara  tav.  168.  Nei  profili  dell'architrave  jonico  delle  terme  di  Caraoalla 
tav.  176.  —  Motivo  intermedio  fra  la  vitta  e  il  filo  di  perle  è  quello  del  finto 
epistilio  sopra  il  fregio  del  sarcofago  123  (2"  sec).  Simile  per  il  tipo  (perle  in- 
cassate tra  due  listelli)  al  fregio  del  tempietto  funebre  nel  rilievo  degli  Haterii, 
ove  non  è  se  non  una  incongruenza  del  rozzo  artefice  che  1'  ha  collocato  in  luogo 
dell'ovolo  ;  sul  cippo  di  Volusius,  Gusman,  1.  e,  tav.  57  (ivi  la  bibliografia  ante- 
riore) —  sembra  fiancheggiare  le  lesene  che  sono  invece  due  «  gole  »  poste  a  mo' 
di  cornici.  Intorno  alle  specchiature  del  soffitto  nella  tomba  dei  Pancratii  sulla 
via  Latina  i  globetti  non  sono  che  un  semplice  abbozzo  dei  kymatia  a  foglioliue 
o  ad  ovoletti  dei  tipi  piti  fini  (Stucchi  della  Farnesina  Gusman,  tav.  72-73-74  1°  sec. 

—  tombe  della  via  Latina  :  (l"-2''  sec.)  ivi  tav.  50,  Valerli,  (2"  sec.)  85-86  Anicii. 

^)  Ricorderò  anzitutto  gli  stipi  del  medagliere  Vaticano  disegnati  dal  Vala- 
DIEK  verso  il  1783,  incisione  della  R.  Calcografia  n.  1377  ;  cfr.  Legrì5lle  nella  in- 
trodnzione  storica  Pistolksi,  Il  Vaticano  descritto,  III,  tav.  61  p.  178  a  C.  Sera- 
fini, Monete  e  bulle  plumbee  p.  XXXVI  nota  1.  Sono  collocate  sull'orlo  delle  «  cou- 
soles  »  come  nelle  grandi  mense  di  bronzo  e  granito,  pure  del  tempo  di  Pio  VI, 
nella  sala  Sistina  della  biblioteca  :  Altri  esempi  :  Lehnbrt,  1.  e,  Louis  XVI,  p.  301, 
fig.  229  (vaso  di  porcellana)  —  323,  250  (brocchetta  d'argento)  —  325,  253  (id.) 

—  330,  250  (medaglioni    di    stucco)    —    332,    260  (console)  —  Empire  :  388,   311 
(vaso  di  peltro). 

*)  L'unico  esempio  nel  Becueil  di  Percibr  e  Font.  tav.  9  ;  incassato  tra  due 
listelli,  come  cornicetta  dei  medaglioni,  nel  fregio  del  camino. 


I 


Oggetti  diarie  neoclassica,  creduti  antichi  117 

ci  è  dato  dai  rilievi  funebri  di  Canova,  ov'è  l'unico  ornamento  per 
le  cornici  del  frontone  '). 

La  data  del  nostro  rilievo,  appartenente  a  quella  produzione,  in 
cui  appaiono  già  notevoli  gli  influssi  del  romanticismo,  si  può  collocare 
all' incirca  tra  il  1825  e  il  1850,  tenendo  conto  che  il  gusto  neoclas- 
sico, specialmente  nelle  terracotte  da  giardino,  mantiene  tuttora  qual- 
che traccia.  Per  la  tecnica  e  il  colore  roseo  della  creta  tanto  il  rilievo 
dell'  «  Antiquarium  »  quanto  i  pezzi  del  Gregoriano  sembrano  da 
attribuirsi  ad  una  stessa  ofBeiua,  romana  o,  tntt'al  più,  napoletana. 

Rivendicato  all'età  sua,  questo  monumento  conserva  delle  attrat- 
tive di  classica  bellezza  e  di  grazia  sapiente.  Solamente  veri  artisti, 
arguti  assimilatori  dello  spirito  classico,  poterono  trarre  dall'antico 
un'ispirazione  così  fresca  e  vivace.  È  rimasta  tra  noi  sopra  lo  stile 
napoleonico  una  poco  giusta  opinióne,  conflata  dai  pregiudizi  dell'età 
romantica  goticheggiante,  quali  espresse,  con  autorità  di  caposcuola, 
Victor  Hugo,  nelle  prime  pagine  di  N'otre  Dame.  L'arte  del  primo 
impero,  con  tutti  i  suoi  pregi  e  i  suoi  difetti,  palesa,  in  ogni  sorte 
di  opere,  grandiosi  caratteri  di  forza  e  di  originalità,  coerenti  alla 
gesta  titanica  che  la  produsse.  Da  Canova  a  Ingres,  da  Pichler  e 
Manfredini  a  Bodoni  e  Didot,  da  Fontaine  e  Perder  fino  alla  turba, 
anonima  di  cesellatori  e  di  ebanisti  che  lavorarono  a  migliaia  le  pen- 
dole, i  vasi,  i  mobili  tanto  cari  ai  nostri  bisnonni,  è  una  fioritura 
stupenda  di  ritmi  e  di  motivi,  una  maestosa  rinascita  classica  eh'  è 
pur  l'ultima  grande  epoca  d'arte  collettiva  in  Europa  '). 

Chi  parla  d'accademismo,  mostra  incapacità  di  comprenderne  lo 
spirito  e  gli  intenti.  I  pedanteschi  pasticci  neogotici  e  neogreci,  fatti 
di  calchi  male  accozzati,  nei  decenni  che  seguirono  il  tramonto  del 
Grande,  ci  bastano  per  vedere  di  quanto  la  reazione  fu  meschina  in 
confronto. 


1)  Cfr.  V.  Malamani,  Canova,  tev.  a  p.  110  (stele  del  Volpato)  —  111  (Sonza 
Holstein)  figg.  a  p.  179  (Mellerio)  —  Sulletiino  d'arte,  VI,  p.  1 11,  stele  di  scuola 
canoviana,  circa  del  1820. 

')  Cfr.  FoucHK,  1.  e,  p.  111.  Troppo  unilaterale  il  K.  nel  voler  limitare  alla 
Francia  e  quasi  ai  dne  artisti  ch'egli  fa  soggetto  del  suo  studio  la  produzione 
che  nasceva  spontanea  anche  in  Italia,  dove  l'archeologia,  nascendo,  suscitò  il  neo- 
classico in  ogni  maniera  di  arte. 


118 


Carlo  Aìbizsati 


II. 


Figurina  di  bronzo  fig  9.  —  alta  cm.  27  —  lunga  26  -  larga  10 
—  lavoro  francese  dell'epoca  di  Napoleone  III,  messa  in  vendita  ad 
Atene,  verso  il  1910,  come  antica  e  proveniente  da  Milo  *). 


Fig.  9.  —  Uià  in  Atene  nel  commercio  antiquario.  Per  gentile  concesaione  della  redaz.  di  «  Ausonia  >». 

Fu  pubblicata  da  G.  Bendinelli  '),  come  «  importantissima  opera 
d'arte  classica    inedita  »  del  III  sec.  a.  Or.,  e  identificata   quale  ri- 

')  Più  tardi  fu  Teduta  presso  un  noto  antiquario  italiano.  Ho  notato  cbe  fra 
Atene  e  Parigi  fauno  la  spola  tutte  le  piccole  porcherie  del  commercio  antiquario 
di  terza  qualità.  Nelle  botteghe  d'antiquari  del  «  Palais  Royal  »  mi  vennero  of- 
ferte le  stesse  falsificazioni  che  avevo  veduto  qualche  anno  prima  in  quelle  della 
ò8òg  'EpfioO. 

«)  Ausonia,  VI,  p.  88-100,  fig.  1-2  e  tav.  5. 


Ogyetti  d'arte  neoclassica,  creduti  antichi 


119 


tratto  di  Saffo  per  la  corona  di  rose  e  per  gli  attributi  del  volume  e 
del  calamo,  di  cui  rimangono  tracce  ;  il  bronzista  francese  volle  pro- 
babilmente rappresentare  la  personificazione  della  poesia.  Le  propor- 
zioni (la  profondità  è  un  terzo  circa  della  lunghezza)  indicano  che  la 
figura  era  collocata  in  modo  da  vedersi  specialmente  da  un  lato  ; 
simili  pezzi  si  riscontrano  negli  orologi  a  pendolo  da  caminetto  del 


■A 

I 


Fig.  10.  —  Dal  «  Petit  conrrier  des  dfime$»,  ir>  (iici'iniire  J(S47. 

tipo  ben  noto,  con  il  quadrante  fiancheggiato  da  due  statuette  se- 
dute. La  grossa  falda  del  maatello,  che  scende  dietro  le  reni  in 
modo  staticamente  assurdo,  non  ha  che  la  funzione  di  reggere  il  ci- 
lindro adagiato  che  contiene  il  meccanismo.  Siamo  in  pieno  stile  del 
secondo  impero  e  non  v'  è  più  neppure  quel  tanto  di  reminiscenze 
dell'antico  che  potrebbe  trarci  in  inganno  dinanzi  ad  un  lavoro  del- 
l'età canoviaua. 

Il  viso  aflftlato  dalle  guance  sottili  e  con  i  grandi  occhi  pensosi 


120  Carlo  Albizzati 


e  malinconici,  ci  fa  riconoscere  Ja  sorella  delle  signore  eleganti  dei 
figurini  di  Jules  David.  La  figura  a  sinistra  sul  foglio  di  mode  del 
1852  riprod.  in  Lehnert,  Geschichte  d.  Kunstgewerbes  II,  p.  460  si 
direbbe,  per  la  testa,  il  modello  del  bronzo,  ov'  è  eguale  pure  1'  ac- 
conciatura, almeno  in  quanto  il  modellatore  ne  La  accennato,  e,  cioè,^ 
la  discriminatura  dei  capelli,  raccolti  in  due  masse  sopra  le  tempie 
e  i  due  grossi  riccioli  che  scendono  sul  collo.  Identica  la  pretesa 
classicheggiante  della  corona,  che  nel  figurino  è  di  un  lauro  ;  v'  è 
un  po'  di  gusto  del  vecchio  Castellani  in  questa  moda  di  diademi 
classici.  Il  raffronto  è  anche  più  persuasivo  se  guardiamo  le  due 
«  coilfures  »  (fig.  11-12)  ma  specialmente  la  seconda,  (cfr.  Ausonia 
1.  e,  veduta  posteriore)  tratta  da  un  foglio  del  «  FoUet  »  che  io  non 
posso  esattamente  datare  non  essendomi  accessibile  la  collezione  del 
periodico,  ma  che  per  la  foggia  dalla  crinolina  e  delle  scollature  non 
può  essere  anteriore  al  55  né  di  molto  posteriore  al  60.  Il  profilo 
greco  convenzionale,  armonizzato  con  le  fattezze  romantiche,  è  quello 
che  tutti  conoscono  dai  punzoni  di  monete  della  seconda  Repubblica, 
incisi  da  Ondine  per  l'emissione  del  1849  '). 

La  posa,  con  le  gambe  accavallate,  il  busto  inchinato  in  avanti, 
la  testa  reclinata  da  un  lato  con  il  mento  che  quasi  tocca  il  petto, 
il  gesto  stesso  delle  mani  (con  la  sinistra  reca  il  rotolo  verso  il  cuore 
e  lascia  cadere  la  destra  che  tiene  il  calamo,  o,  come  direbbe  un 
artista  moderno,  lo  stilo,  con  istudiata  negligenza)  ha  quella  teatra- 
lità un  po'  caricata  delle  misses  sentimentali  di  figurini  di  mode  del 
tempo  di  Luigi  Filippo,  l'età  della  «  elegantissima  musoneria  »  sa- 
tireggiata dal  Giusti  -).  Alla  stessa  scuola  di  disegnatori  ha  impa- 
rato lo  stadio  di  figura  anche  l'autore  del  figurino  che  riproduco.  Ac- 
canto alla  «  castellana  »  ispirata  dalle  «  vignettes  »  dei  romanzi  di 
Walter  Scott  egli  ha  posto  una  musa  nell'  identica  posa  di  quella  di 
bronzo.  Ci  basta  confrontare  la  dignità  e  la  semplicità  delle  muse 
ellenistiche,  tanto  della  statuaria  che  della  coroplastica,  per  vedere 
quanto  siamo  lontani  da  quel  pathos  che  il  chiarissimo  autore  si 
compiacque  illustrarci  con  tanta  dottrina  ^). 

Il  modo  scorretto  e  trascurato  di  trattare  il  drappeggio  e  la  ca- 
pigliatura, è  quello  appunto  delle  «  parures  »  da  caminetto  di  Froment 


')  Fr.  Lenormant  Monnaies  et  medailles  p.  316. 

*)  La  Scrina. 

3)  1.  e,  p.  91  e  94. 


Oggetti  d'arte  neoclassica,  creduti  antichi 


121 


Maurice  *)  e  delle  argenterie  di  Christoflie  ')  che,  uscito  dalla  rea- 
zione romantica  al  modellare  neoclassico,  si  mantenne  anche  più  tardi 
nell'arte  industriale  ^)  ed  è  tuttora  peculiare  allo  stile  dignitoso  dei 
disegnatori  di  «  avvisi  reclame  »  e  dei  modellatori  di  «  bronzi  arti- 
stici »  d'antimonio. 


Fig.  11 
Dal  «  Petit  courrier  »,  1852. 


Fig,  12.  —  Da  una  stampa 
del  Follet  verso  il  1855. 


L' ignoranza  antiquaria  del  bronzista,  ci  si  rivela  quasi  comica- 
mente in  quell'orribile  poggiapiedi  %  ove  la  figura  è  seduta,  con  le 
goflfe  zampe  leonine  collocate  sulle  bisettrici  degli  angoli,  secondo  la 
tecnica  dei  candelabri  e  delle  «  pendules  »  di  pretese  «  pompeiane  ». 
Sotto  il  sedile,  segrinato  da  un  tratteggio  verticale,  quell'ibrido  or- 
namento in  forma  di  un  asse  di  cuori,  che  ricorda  ad  un  tempo  la 
conchiglia  barocca  e  la  palmetta  neoclassica,  è  figlio  della  famiglia 
di  cimase  e  cimasette  che  tutti  i  fabbricanti  di  mobili  a  buon  mer- 
cato attaccano  da  cinquant'anni  sulle  sedie  del  buon  stile  borghese  ''). 

Riassumendo:  l'esecuzione  mediocre,  l'espressione  anzi  che  no 
volgaruccia  e  da  manichino,  rivelano  la  produzione   a   buon  prezzo 


')  Lehnert,  1.  e,  p.  496 

«)  ivi,  p.  498. 

')  Cfr.  ad  esemplo  le  porcellane  inglesi  del  1873  iu  Lehnert,  II,  p.  571. 

*)  Somiglia  infatti  ai  poggiapiedi  che  vediamo  in  monumenti  del  IV  e  III 
sec.  av.  Cr.  ove  però  la  parte  decorata  è  posta  sui  lati  e  i  sostegni  sono  sempre 
paralleli  a  quelli  minori  (cfr.  ad  esempio  per  i  vasi  apuli  FurtwSnqler-Hauser- 
Reichhold,  Griechische  Vasenmalerei  tav.  88  —  simile,  tranne  la  maggiore  lar- 
ghezza, quello  collocato  dinanzi  al  letto  nelle  urne  cinerarie  etrusche  della  stessa 
età  —  ad  es.  il  sarcofago  fittile  di  Tosoanella  con  Adone  morente,  Museum  Gre- 
gorianum,  I,  tav.  CXIII  ;  Helbig,  PUhrer,  n.   442. 

')  Vedi  le  sedie  di  Lanneau  in  Lehnert,  p.  458,  fig.  365  e  366. 


122  Carlo  Alhixxati  •  Oggetti  diarie  neoclassica  creduti  antichi 

dei  salotti  di  provincia  e  che  possiam  vedere  per  tatto  a  Parigi  nelle 
botteghe  di  «  bric-à-brac  ».  È  ben  lungi  quella  finezza  di  stecca  e 
di  ceselli  che,  nel  pessimo  gusto  di  quest'epoca,  ispirò  al  genio  di 
Zola  una  potente  visione  di  lusso  e  di  lussuria:  il  letto  di  Nana  '). 

• 

In  questo  mio  scritto  ho  voluto  mostrare  quanto  sia  utile  com- 
plemento di  cultura,  per  un  archeologo,  la  conoscenza  di  quella  pro- 
duzione artistica,  d'età  recente,  che  cercò  d' ispirarsi  al  mondo  clas- 
sico. Ciò  sanno  e  mettono  in  pratica,  a  modo  loro,  assai  meglio  di 
noi,  i  commercianti  di  antichità. 

Roma,  ottobre  1915. 

Carlo  Albizzati. 


')  Nana,  cap.  XII. 


L'ARTE  DI  PLAUTO 


1) 


Nella  vita  dell'antica  Roma,  il  secolo  III  a.  C.  lia  speciale  importanza. 
L'  Urbe  da  un  canto,  prostrata  Cartagine,  si  assicura  la  potenza  nel  Medi- 
terraneo occidentale  —  dall'altro,  datasi  all'  imitazione  del  maturo  popolo 
ellenico,  inizia  quel  cammino  letterario  che,  per  la  spaziosa  via  della  Re- 
pubblica, condurrà  alle  alte  vette  dell'  Impero. 

Tra  le  forme  letterarie  latine  che  allora  si  ordinarono,  notevolissima 
è  la  Commedia.  Fin  lì,  i  bellicosi  e  agresti  popoli  Italici  s'eran  contentati 
de'  giochi  fescennini  —  rozzi  contrasti  in  versi,  salaci  botte  e  risposte  con- 
tadinesche :  delle  atellane  —  brevi  rappresentazioni  poetico-mimiche,  accom- 
pagnate da  musica  :  delle  sature  —  specie  di  commedie  dell'  arte  con  ma- 
schere di  tipi  fissi  ')  :  de'  viimi,  specie  di  caricature  sceniche. 

Circa  il  240/514,  un  cólto  liberto  ellenico,  Livio  Andronico  —  maestro 
della  sua  lingua  a'  figli  de'  patrizi  —  cominciò  a  difibndere  in  traduzioni  o 
riduzioni  latine  opere  teatrali  del  suo  popolo  :  come  avea  fatto  dell'  Odissea, 
rendendola  pe'  suoi  allievi  in  versi  saturni. 

Così,  in  Roma  anche  il  teatro  fu  preso  dall'arte  greca.  L'opera  tras- 
latrice  di  Andronico  fu  continuata  dal  campano  Gneo  Nevio  —  legionario 
nella  prima  guerra  punica  — ,  del  quale  non  possediamo  alcuna  opera  in- 
tera :  sappiamo  che  tentò  di  lanciare  dalla  scena  strali  satirici  contro  illu- 
stri contemporanei  —  persin  contro  i  Metelli  e  Scipione  l'Africano  —  e  che 
ciò  lo  condusse  prima  in  prigione  poi  in  esilio.  Giacché  egli  romanizzò  gli 
esemplari  ellenici  prescelti  :  che  talvolta  poi  eran  —  per  un  sol  lavoro  — 
più  d'uno,  cuciti  o  intrecciati  (contaminati,  latinamente). 

Gli  italici  grecheggianti  nel  teatro  comico  —  fra  i  quali  Quinto  Ennio 
—   imitaron  d'Eliade  la  Commedia  nuova  (Monandro,  Filemone,  Difllo,  Demo- 


i 


')  Questo  scritto  sarà  proemio  a  una  mia  nuova  traduzione  —  in  versi  polimetri 
—  di  XII  Commedie  di  Plauto,  nella  Collana  GV  Immortali,  diretta  da  Luigi  Luz- 
zattì  e  Ferdinando  Martini  (Milano,  Istitiito  Editoriale  Italiano).  Di  essa,  usciron 
già  le  due  commedie  La  Pignatta  e  I  due  Menemmi,  iu  supplemento  teatrale  della 
rassegna  milanese  Gli  Avvenimenti  (anno  II,  n.  14  e  n.  18),  e  qualche  scena  di  Le 
tre  monete,  nella  rassegna  Brixia  (anno  II,  n.  26). 

•)  Maceus,  scioccolone  zotico  e  donnaiolo,  pronto  a  dar  botte  e  a  prenderne  : 

Pappus,  vecchio   zimbello,  tirchio  e  vanesio  :   Buceo,  mangione  e  parolaio  :  Dossen- 

nus,  gobbo  scaltro,  arguto  e  galante.   È  noto,  che  nel   primo  si  vuole  scorgere  il 

progenitore  di  Pulcinella,  nel  secondo  di   Pantalone,  nel  terzo  di  Arlecchino,  nel 

uarto  del  Dottore. 


124  Arnaldo  AUerocca 


filo  ecc.),  pittura  impersonale  di  tipi  e  fatti  quotidiani  :  non  la  vecchia  ari- 
stofanesca, staffllatrice  personale,  abbandonata  in  Grecia  pe'  suoi  eccessi,  e 
non  adatta  a'  gravi  cittadini  della  prisca  Roma,  per  la  troppa  libertà  della 
satira,  spesso  lesiva  di  glorie  e  istituzioni  nazionali  ').  Commedia  di  ca- 
rattere, dagli  elementi  numerabili,  ma  dalle  combinazioni  innumerevoli  ')  : 
specchio  della  frivola  vita  d'  Eliade  al  vespro  della  libera  potenza.  Affac- 
cendarsi di  cortigiane  furbe,  di  giovani  scapestrati,  di  mariti  e  genitori  non 
di  rado  balordi  o  corrotti,  di  lenoni  senza  scrupoli,  di  soldati  fanfaroni,  di 
servi  scaltri,  che  tengon  il  sacco  a'  padroncini,  per  lo  più  a'  danni  di  vecchi 
moralisti  e  taccagni....  Donde  ^  e  da  storie  d'amori  contrastati  • —  gran 
viluppi,  risolti  spesso  da  jierdoni  insperati  o  da  riconoscimenti  improv- 
visi '). 

Trapiantata  in  Roma  traverso  la  Magna  Grecia,  essa  andò  man  mano 
riflettendo  —  sino  a  Terenzio  —  sempre  più  anche  lati  comici  dell'  Urbe  : 
ma  serbò  la  scena  e  le  persone  elleniche,  forse  ammaestrata  dalle  sventure 
di  Nevio  e  ammonita  dalla  severità  romana  ufficiale  *).  Di  qui,  il  nome  di 
commedia  Palliata,  dal  pallio,  la  tradizionale  sopravveste  greca. 

Con  quali  differenze  d'arte  s'imitasse,  non  può  ben  dirsi  perchè  de'  mo- 
delli —  anche  dopo  le  recenti  scoperte  —  abbiam  solo  più  o  meno  lunghi 
frammenti  :  certo,  se  non  altro,  con  tutte  quelle  che  sono  fra  la  grecità  de- 
cadente e  la  romanità  primitiva. 

«  Le  tre  generazioni  di  poeti,  che  si  avvicendarono  a  propagare  e  di- 
fendere il  dogma  dell'  imitazione  ellenica  come  unica  norma  e  mèta  dell'arte. 


')  «  La  nuova  commedia  ateniese era  la  più  vicina  e  la  sola  ancor  viva  sui 

teatri  greci  del  sesto  secolo  »  (Enrico  Cocchia,  Saggi  Filologici  -  voi.  II,  Napoli, 
1902,  pag.    168). 

«  Le  commedie  d'Aristofane  non  potevano  trapiantarsi  ad  altro  popolo  e  ad 
altro  tempo  :  vive  d'attualità,  dovevan  esser  date  solo  a'  coiripatrioti  e  a'  contem- 
poranei dell'autore.  Quelle  di  Meiiandro,  invece,  co'  loro  personaggi  tipici  e  con 
la  loro  portata  umana,  si  prestavan  facilmente  al  trapianto.  Se  si  aggiunge  che 
le  opere  della  Commedia  Nuova  eran  tutte  recenti  quando  apparve  Livio  Andronico, 
ai  capirà  subito  come  questi  —  seguito  da  altri  parecchi  —  si  sia  messo  a  ripro- 
durre pel  pubblico  romano  commedie  di  tal  periodo  »  (Philippe  Fabia,  Introduetion 
al  Théatre  Latin  -  Extraits  -  Paris,  1913,  pag.  3). 

*)  Ne  ha  esposto  i  caratteri,  con  arguta  dottrina,  Ettore  Romagnoli,  nella 
rassegna  La  Lettura,  anno  XVI,  u.  1.  Nel  suo  articolo,  intitolato  Menandro,  si  parla 
anche  degl'  intrecci  e  della  tecnica,  con  esempi  tradotti  e  con  illustrazioni  figurate. 

')  Non  m' indugio  nell'esame  de'  tipi,  perchè  l'han  fatto  assai  bene  altri  molti  : 
da  noi,  per  esempio,  il  Romagnoli  in  Menandro  cit.  e  (per  l'origine  di  alcuni 
nella  commedia  in  genere)  nelV Introduzione  alle  Commedie  d' Aristofane  tradotte  (Mi- 
lano, 1915)  —  e  1'  iugiustamente  quasi  dimenticato  Atto  Vannucci,  discorrendo 
proprio  di  Plauto  {Studi  storici  e  morali  sulla  Letteratura  Latina,  Torino,  1871, 
pagg.  59  sgg.)  :  all'estero  il  Ribbeck,  il  Mayer  (Maurizio),  il  Bertin,  lo  Cha- 
LANDON,  il  Benoist,  il  Fabia  eco. 

■*)  Cfr.  CiCERONB,   De  Republica,  IV,  18,  11. 


L'arte  di  Piatito  125 


secondarono  in  misura  diversa  questo  concetto.  Gli  antesignani  della  grande 
riforma  lasciarono  in  generale  libero  corso  alle  tendenze  dello  spirito  nazio- 
nale ;  ma  o  videro  sopraffatto  il  naturale  vigore  dell'  ingegno  dalla  insuffi- 
cienza della  tecnica,  oppure,  perfezionando  in  modo  meraviglioso  lo  strumento 
artistico  dell'espressione,  si  mostrarono  troppo  condiscendenti  al  gusto  del 
pubblico  nella  eccessiva  libertà  dell'arguzia  e  del  metro  »  ').  Di  questi  ul- 
timi, è  1'  umbro  (allora  :  oggi  sarebbe  romagnolo)  Tito  Maccio  Plauto  '), 
la  cui  opera  culmina  iiroprio  durante  la  seconda  guerra  punica  :  il  re  della 
palliata,  il  più  gran  comico  latino,  il  terzo  —  in  ordine  di  tempo  —  note- 
vole scrittore  delle  Origini  letterarie  latine,  il  primo  del  quale  ci  restin  la- 
vori interi,  «  il  solo  dal  quale  prende  il  suo  corso  regolare  la  letteratura 
romana  quale  l'abbiamo  »,  quegli  che  è  «.  come  un  gran  monumento  sor- 
gente quasi  intero  in  deserta  campagna,  attorniato  da  pochi  frantumi  degli 
edifizi  fabbricativi  avanti»  ^). 

Della  sua  vita,  sappiamo  ch'egli  nacque  a  Sarsina  ')  —  in  terra  che 
oggi  è  del  Cesenate  —  tra  il  256/498  e  il  251/503,  e  che  morì  a  Roma  —  ove 
probabilmente  dimorò  la  più  gran  parte  de'  suoi  anni  —  nel  184/570.  Il  resto 
Si'  dice:  cioè,  che  abbia  avuto  alterne  vicende  di  rovesci  e  fortune,  da  at- 
tore o  attrezzista  o  impresario  di  teatro,  a  mercante,  a  schiavo  per  debiti, 
a  libero  e  agiato  e  preferito  commediografo  :  che  in  schiavitù  sì  sia  ridotto 
a  girar  la  macina  d'un  mulino  :  che  dalla  triste  condizione  si  sia  tolto  col 


')  Enrico  Cocchia,  Introduzione  storica  alio  studio  della  Letteratura  Latina, 
Bari,  1915,  pag.   112. 

')  Non  desidero  fermarmi  su  la  questione  del  Tito  Moccio  —  sostenuto  dal 
RiTSCHL  (Farerga  zu  Plautus  und  Terenz,  Lipsia,  1845)  sul  ms.  Ambrosiano,  e  del 
Marco  Accio,  che  da  noi  ebbe  massimi  difensori  il  Vallavui  (Avimadcersiones  in  dis- 
sertationem  Friderici  Eitnchelii  «De  Plauti  poUtae  nominibus  »,  Torino,  1866)  e  il 
Cocchia  (vari  scritti  in  Saggi  Filologici  ;  citt.).  Francamente,  non  vedo  nella  di- 
sputa grande  importanza.  Né,  d'  altra  parte,  mi  persuade  il  mezzo  termine  del 
Leo  {Plautinische  Forschungen  -  li  ediz.,  Berlin,  1912),  pel  quale  Macciua  sarebbe 
soprannome  venuto  al  Poeta  per  la  sua  perizia  d'attore  nella  maschera  di  Mac- 
cus.  —  Quanto  al  nome  Plauto,  sembra  da  riportarsi  all'aggettivo  plotus,  dai 
piedi  larghi  (cfr.  1'  italiano  piota),  qualità  che  dicono  comune  agli  Umbri  e  che  in 
tal  caso  qui  andrebbe  riportata  al  capostipite  de'  Plauti.  In  alcuni  codici  si  trova 
anche  Asinius,  che  secondo  il  Ritschl  sarebbe  corruzione  di  Sarsinaa,  secondo  il 
Lessino  soprannome  di  scherno,  secondo  il  Meursio  soprannome  pel  suo  asinesco 
ufficio  nel  mulino,  secondo  il  Cocchia  matronimico. 

')  Vannucci,  op.  cit.,  pag.  56. 

■*)  Metropoli  degli  Umbri,  al  principio  dell'alto  corso  del  fiume  Sapis  (Savio). 
Diede  gli  abitanti  a  Cortona  e  a  Perugia  :  dopo  P  invasione  celtica  nella  valle 
padana,  fu  limite  apenninico  settentrionale  degli  Umbri  (v.  Cocchia,  op.  cit., 
183,  185)  :  divenne  romana  nel  266/488,  cioè  qualche  anno  avanti  la  nascita  di 
Plauto.  Como  non  piti  umbra  6  nominata  dal  Poeta  in  un  golfo  bisticcio  {Gli  Spi- 
riti, V.  770  del  testo). 


126  A  rnaldo  A  Iterocea 


guadagno  di  fortunate  commedie,  tra  le  quali  una  intitolata,  giusto,  Lo 
schiavo  per  debiti.... 

Scrisse  moltissimo  :  quanto,  non  sappiam  preciso.  Dalle  130  commedie 
che  gli  attribuisce  Aulo  Gelilo  '),  alle  20  e  frammenti  che  possediamo,  c'è 
posto  per  le  21  sicure  —  che  sarebbero  le  rimasteci  ')  e  II  baule  (Vidularia), 
del  quale  restaji  pezzi  —  e  le  19  probabili  ')  classificate  da  Varrone  ')  : 
per  le  25  di  Elio  Stilone  ")  :  per  le  100  d'altri  °).  Cagioni  dell'incertezza  : 
il  tempo  trascorso  —  l' immediato  passaggio  in  dominio  pubblico  delle  com- 
medie scritte  per  incarico  degli  Edili  in  feste  pubbliche,  o  di  famiglie  in 
cerimonie  funebri,  e  da'  richiedenti  comperate  —  la  falsa  attribuzione  di 
lavori  altrui,  per  opera  d'  impresari  desiderosi  d'ottener  la  piena  di  spet- 
tatori che  solo  Plauto  richiamava  '). 

Le  sue  palliate  hanno  il  solito  meccanismo  poetico-musicale  :  parti  re- 
citate (deverbia)  e  parti  cantate  o  modulate  con  accompagnamento  musicale 
(cantica)  :  con  monologhi,  duetti,  terzetti  ecc.  :  una  specie,  insomma  delle 
nostre  operette. 


Innanzi  a  tanta  fortuna,  una  domanda  sorge  spontanea  :  è  proprio  un 
grande,  Plauto? 

Ecco  :  per  raiSnati  lettori  del  secolo  XX,  la  risposta  non  è  facile.  «  Per 
Plauto  una  commedia  è  sovra  tutto  non  un'opera  d'arte,   ma  uno  spetta- 


1)  Noci.  Attic,  III,  3,   11. 

*)  Anfitrione  (Ampliitruo)  —  Gli  Asini  (Annaria)  —  La  Pignatta  (Aulularia) 
—  I  Prigionieri  (Captiui)  —  Tonchio  {Curculio)  —  Casina  (Catino)  —  La  cassetta 
(Cistellaria)  —  L'Arruffa  (Epidlcus)  —  Le  Bacchidi  (Bacchidea)  —  Gli  Spiriti  (Mo- 
atellaria)  —  I  due  Menemnii  (Menaechmi)  —  Il  Fanfarone  (Miles  glorioau»)  —  Il  mer- 
cante (Mercator)  —  Trappolone  (Pseudolus)  —  Il  Cartaginese  {Poenulus)  —  Il  Per- 
siano (Persa)  —  La  gomena  (Budens)  —  Stico  (Stiohus)  —  Le  tre  monete  (Trinum- 
mue)  —  Il  Terribile  (Truculentus). 

^)  Savalobeso  :  Il  Panciapiena  (Saturio)  —  Lo  schiavo  per  debiti  (Addictu»)  — 
Beozia  (Boeotia)  —  Lo  staffile  (Neruolaria)  —  Lo  stretto  (Freium)  —  I  tre  d'un 
parto  (Trigemini)  —  La  staffa,  oppure  II  carro  (Aatraià)  —  Il  parassito  pigro 
(Paraaitus  piger)  —  Il  parassito  medico  (Parasitua  medicus)  —  La  morte  comune 
(Commorienies)  —  L'anello  (Condalium)  —  I  dne  ruffiani  (Gemini  lenonea)  —  L'n- 
snriera  (Feneratrix)  —  La  rottura  (f  —  Friuolaria)  —  Il  SeccUiaro  (Sitellitergnt)  — 
I  fuggiaschi  (Fugitiui)  —  Poco  di  buono,  oppure  L'assaggio  (Caciation  opp.  Coei- 
atrio)  —  Il  brolo  (Hortulus)  —  L'artimone,  opp.  Artemone  (?  Artemo). 

*)  Gellio,  op.  cit.,  Ili,  3,  3. 

=)  Id.,  ibid.,  Ili,  3,  11. 

*)  Servio,  Praef.  ad  Aen. 

')  EuGìiNK  Bbnoist  (Nolice  aur  Piante,  prem.  ai  Moroeaux  ehoiaia,  Paris,  1894, 
pag.  XXIV)  sospetta  che  alcune  l'autore  stesso  abbia  ripudiate,  perchè  scritte  per 
commissioni  urgenti,  e  quindi  troppo  tirate  vi». 


L'arte  di  Plauto  127 


colo  »  ')  :  donde,  disarmonìe  di  struttura  (largo  svolgimento  di  tratti  buffi, 
scarso  di  altri),  lungaggini  inutili,  ripetizioni,  contraddizioni,  goffaggini,  in- 
genuità di  mezzi  (motti  di  spirito  che  sono  spesso  puerili  giochi  di  parole,  cul- 
mini del  comico  procurati  a  volte  con  parapiglia  e  sbataccliiamenti  da  teatro 
di  burattini,  con  lazzi  da  pagliacci),  soluzioni  finali  non  di  rado  tirate  via 
giusto  per  terminare....  ').  «Il  grande  scopo  di  Plauto  è  di  fare  ridere  la 
moltitudine  che  trae  in  folla  ad  udirlo,  e  per  conseguire  questo  intento  non 
perdona  a  scherzi  né  si  guarda  anche  di  sacrificare  il  decoro  dell'arte  »  '). 
Ma,  siamo  giusti  :  quante  —  anche  fortunate  —  pièces  moderne  non  hanno 
—  dopo  veutun  secolo  !  —  di  tali  o  simili  difetti  (sia  pure  in  minor  grado 
o  numero),  senza  i  pregi  del  Sarsinate  *J  ì 

I  difetti  si  comprendono,  se  si  pensa  —  oltre  che  all'  imperfezion  dei 
modelli  —  al  tempo  e  al  luogo  in  cui  egli  scrisse,  e  alla  società  che  l'ap- 
plaudiva, gì'  ispidi  contemporanei  di  Catone  :  e,  sovra  tutto,  se  si  conosce 
l' indole  del  popolo  romano,  sotto  certi  aspetti  uguale  ancora.  Lo  spirito 
de'  romani  è  qualcosa  di  maraviglioso  e  di  stucchevole  insieme.  Ricco  di 
buffonaggine,  scarso  di  humour,  facile  all'esagerazione,  negato  alla  misura, 
vi  strappa  a  tratti  la  risata  omerica,  e  a  lungo  andare  vi  noia,  e  può  per- 
sino irritarvi.  Prontissimo  a  coglier  il  lato  ridicolo,  non  di  rado  vi  rivolta 
coli'  osservarlo  fuor  d'ora,  magari  guastandovi  un  momento  serio  che  era 
per  commovervi.  Sovrano  nel  descrivere  plasticamente,  nel  narrare  sceni- 
camente, è  proclive  a  spinger  tropp'oltre  il  senso  mimico  e  la  vivezza,  im- 
pedendovi quelle  pause  che  si  desiderano  anche  nel  riso.  Disposto  per  na- 
tura alla  spacconata,  si  compiace  de'  tipi  rumorosi,  e  ve  li  sbatte  sul  naso. 
Naturalmente  ironico,  smonta  con  disinvoltura  comicissima  i  falsi  valori  : 
ma,  se  piglia  a  tartassare  col  ridicolo,  non  lascia  più  finché  non  ha  di- 
strutto :  e  allora  divien  anche  feroce,  traendo  il  comico  persin  dalla  scia- 
gura, dimenticando  la  sua  consueta  innegabile  bonomìa  °).  Senza  dubbio, 
tutto  ciò  in  Plauto  è  accentuato  da  primitiva  rozzezza  :  ma,  il  persistere  dei 
caratteri  fondamentali  anche  nel  romano  d'oggi,  ci  mostra  qualità  immanenti. 
Vi  son  ancora  in  Roma  teatrini  popolari,  ove  si  recitano  specie  di  com- 
mediole  dell'arte  in  dialetto,  nelle  quali  vi  par  di  vedere  cattive  riduzioni 


*)  Fabia,  op.  cit.,  pag.  26. 

^)  Quella  «  teonicuccia  scenica  »,  quei  «  mezzucci  »,  quella  «  prolissità,  »  e 
«pesantezza»,  quella  «convenzione»,  che  il  Romagnoli  (op.  cit.)  trova  anche 
nel  teatro  menaudrèo,  sfatando  pregiudizi  a  favore  di  esso,  scusabili  prima  di  re- 
centi scoperte. 

')  Vannucci,  op.  cit.,  pag.  71. 

*)  Opportunamente  il  Romagnoli  (op.  cit.)  a  proposito  di  Monandro  pensa 
alle  poehades  francesi  d'oggi. 

')  Vedi,  p.  es.,  l'allusione  (quasi  certa)  a  Nevio  carcerato,  in  II  Fanfarone, 
atto  II,  so.  2*,  vv.  211-212  del  testo,  e  ai  Campani  domati,  in  Le  tre  monete,  II, 
4»,  545-546  del  testo. 


128  Arnaldo  Alterocca 


plautine:  ne'  modi  del  comico,  nel  meccanismo,  ne'  tipi!  E  Plauto,  sebben 
provinciale  di  nascita,  a  Roma  visse  tanto  da  imbeversi  tutto  della  vita  sua  : 
e  l'esistenza  fortunosa  che  condusse  gli  fu  ottimo  esercizio  allo  studio  del 
vero.  Giacché,  pur  sotto  nomi  e  abiti  greci  —  e  pur  senza  incorrere  in 
audacie  che  gli  sarebbero  costate  care  —  egli  coglie  volentieri  l'occasione 
per  figurare  a  tratti,  in  sostanza,  la  società  romana  d'allora  :  talvolta,  anzi, 
con  allusioni  nemmen  troppo  timide.  E  quando  ritrae  dal  vero,  è  proprio 
un  artista  come  ce  ne  son  pochi.  Non  si  può  affermare  eh'  ei  sia  un  com- 
piuto flgurator  di  caratteri  ')  :  che  quella  manìa  dell'esagerazione  e  della 
buffonaggine  a  ogni  costo  lo  danneggia  anche  in  ciò.  Un  giudizio  certo  su  la 
sua  maggiore  o  minore  originalità  ci  è  vietato  dalla  deficienza  de'  modelli 
ellenici  :  ma  è  lecito  credere  ch'egli  molto  derivasse  negl'intrecci  e  nella  sa- 
goma de'  caratteri,  molto  desse  del  suo  alla  coloritura  d'uomini  e  di  cose  : 
la  quale  è  a  volte  così  viva,  così  efficace,  da  precorrere  —  senza  timore 
d'esser  facilmente  superata  —  il  cosidetto  naturalismo  moderno.  In  altri 
termini,  egli  avrebbe  romanizzato  le  figure  e  le  vicende  degli  originali,  sia 
addirittura  introducendo  scenette  proprie  dell'  Urbe  (come  nella  famosa 
chiacchierata  del  Trovarobe  nell'atto  IV  del  Tonchio),  sia  modificando  la 
pittura  imitata  con  sfumature  e  con  tratti  propri  dell'  indole  e  della  vita 
romana  (senza  curar  l'accordo  colle  linee  principali,  per  libero  sfogo  del- 
l' italico  suo  spirito  d'osservazione  e  dell'  italica  sua  mordacità),  sia  tor- 
cendo spesso  l'arguzia  a  buffonata,  meglio  gradita  al  suo  pubblico.  Il  che 
è  inrozzimento  de'  modelli,  ma  affinamento  della  grossolana  arte  comica  la- 
ziale precedente.  «  La  vivacità  inesauribile  del  dialogo,  l'energica  rapidità 
dell'azione,  il  senso  immediato  della  vita  e  gli  accentuati  contrasti  dei  carat- 
teri son  tutte  virtù  derivate  alla  commedia  plautina  dal  genio  della  razza  »  ')  : 
alle  quali  non  voglio  aggiungere,  come  fu  detto,  il  frequente  moraleggiare  — 
specie  nelle  sentenze  e  in  taluni  scioglimenti  — ,  perchè  ormai  lo  conosciamo 
anche  in  Monandro,  e  perchè  non  credo  molto  all'efficacia  educativa  di  pre- 
dicozzi e  di  finali  abborracciati,  tra  e  dopo  fila  volentieri  e  vivacemente  su- 
diciotte  ^). 

E  vero,  qui  «  per  originalità  si  deve  intendere  l'espressione  artistica, 
conseguita  con  lo  studio  degli  esemplari  greci,  d'un  contenuto  schiettamente 
italico  »  ').  Peraltro,  la  differenza  d'opinione  fra  critici  valorosi  e  autore- 


*)  Anche  in  Menandro  «  vero  studio  di  cartitteri  nel  significato  moderno,  non 
e'  è.  Ci  sono  variazioni  di  tipi  convenzionali,  fissati  non  solo  dalla  tradizione  sce- 
nica, ma  anche    dalla    tradizione    letteraria Non  la  vita,  ma  un  angolo    della 

vita,  una  certa  categoria  di  persone  e  di  situazioni  di  più  ovvia  comicità esa- 
gerata e  ridotta  a  tipo  »  (Romagnoli,  op.  cit.). 

*)  Cocchia,  op.  cit.,  pagg.  139-140. 

')  V.,  a  ogni  modo,  l'interessante  parallelo  che  il  Vanndcci  (op.  cit.,  pagg.  73- 
74)  istituisce  fra  l'opera  di  Plauto  e  l'apostolato  del  contemporaneo  Catone. 

*)  A.  G.  Amatucci,  Storia  della  Letteratura  Romana,  voi.  I,  Napoli,  1912, 
pag.  85. 


L'arte  dì  Plmito  129 


voli,  e  la  deficienza  de'  termini  di  confronto,  lian  da  farci  molto  guardinghi 
in  proposito —  È  bene  rammentare  col  Fabia  che  «  i  poeti  della  lìalliata 
non  si  son  mai  dati  per  altro  che  per  traduttori  »,  ed  è  canto  accontentarsi 
di  dire  con  lui  che  Plauto  «  è  originale,  per  quanto  poteva  essere  un  au- 
tore di  palliate  »  ")  :  non  senza  riconoscere  col  Benoist,  che  originalità  in  un 
«•erto  senso  può  chiamarsi  anche  il  personale  criterio  nello  scegliere  e  nel 
connettei'e  pezzi  altrui  ')  —  sebben  l'unione  (come  altri  notò)  qui  sia  resa 
più  facile  dalla  simiglianza  monotona  de'  molti  modelli  '). 


Se  vario  fu  —  e  può  essere  —  il  giudizio  su  l'arte  di  Plauto  in  ge- 
nere, quasi  tutti  invece  l'ammiraron  e  l'ammiran  per  la  ricchezza  e  la  pa- 
dronanza dello  strumento  linguistico,  e  per  l' inesauribilità  de'  metri  feste- 
volissimi :  per  aver  egli  «  d'acchito,  con  un  colpo  di  genio,  dato  alla  lingua 
e  alla  poesia  quella  pieghevolezza  e  quella  vivacità  che  in  lui  troviamo  »  *). 

La  versificazione  plautina,  sebben  calcata  su  schemi  ellenici,  ha  sue 
speciali  difficoltà  sia  pel  rapido  trapianto  da  lingua  provetta  nell'arte  a  lin- 
gua —  dirò  —  principiante,  sia  per  le  oscillazioni  iirosodiche  d'una  parlata 
che  tanti  elementi  accoglie  familiari  e  popolari,  con  pronunzia  spesso  non 
uguale  alla  cólta. 

Così,  essa  fu  per  secoli  un  enigma  :  da  antichi  come  Cicerone  e  Ora- 
zio, che  ci  notaron  debolezze  e  irregolarità  ad  essi  non  spiegabili  —  a  me- 
dievali come  Prisciano,  che  preferiron  credere  le  commedie  scritte  addirit- 
tura in  prosa  —  a  umanisti,  che  ci  videro  un  caos.  Cominciò  a  trovar  qualche 
filo  nel  secolo  XVII  il  Bentley,  seguito  fra  il  XVIII  e  il  XIX  dal  Reitz  e  dallo 
Hermann  :  finché  —  dopo  gì'  ingegnosi  tentativi  del  Bothe  e  del  Lindemann 

—  in  pieno  secolo  XIX  venne  il  salvator  di  Plauto  (come  lo  chiamarono), 
cioè  il  tedesco  Federico  Ritschl.  Discusso  e  avversato  (anche  per  la  sua  in- 
temperanza) da  valorosi  quali  il  Weise,  il  Geppert,  lo  Studemund,  ma  se- 
guito da  discepoli  quali  il  Fleckeisen,  il  Brix,  il  Wagner,  il  Gotz,  lo  SchòH 

—  egli  giunse  a  scioglier  l'enigma  quasi  per  intero,  lasciando,  sì,  dubbi  non 
pochi  né  lievi,  ma  dando  in  ogni  modo  la  chiave  del  problema  e  la  solu- 
zione della  maggior  parte  de'  quesiti.  Vicende  e  argomenti  sui  quali  non  è 
qui  il  caso  d'  indugiarsi,  perché  noti  agli  studiosi,  e  accessibili  —  a  chi  vo- 
glia —  in  opere  ormai  classiche:  de'  suddetti,  del  Corssen,  del  Miiller, 
dello  Spengel  e  d'altri.  Qui  è  bene  rammentare  come  in  Plauto  la  ricchezza 
«  la  varietà  de'  metri  superino  di  gran  lunga  quelle  d'ogni  altro  comico 
greco  o  latino  conosciuto.  Egli,  anche  quando  segue  da  vicino  nella  stesura 


')  Op.  cit.,  pag.  26. 
*)  Op.  cit.,  pag.  XXIII. 
')  Romagnoli,  op.  cit. 
*)  Benoist,  op.  cit.,  pagg. 


Atene  e  Roma. 


180  Arnaldo  Alterocca 


gli  esemplari  ellenici,  guida  peraltro  a  modo  suo  l' intreccio  metrico  —  dar 
monologhi  a'  dialoghi  —  secondo  gli  par  meglio  per  l'eflfetto  scenico  nella 
sua  lingua,  e  secondo  il  rapporto  colla  musica  che  a  tratti  doveva  accom- 
pagnar le  parole.  Da  ciò  un  brio  una  agilità  una  festevolezza  incredibili, 
che  si  posson  gustare  a  fondo  nel  testo  latino,  ma  che  è  fatale  perder  in 
parte  in  qualsiasi  moderna  traduzione. 

Nella  lingua  e  nello  stile,  Plauto  è  veramente  un  gran  signore,  pronto 
e  prodigo  in  maniera  stupenda,  nelle  sfumature  di  parola  e  di  modo,  nel- 
l'espressione del  suono,  nel  non  conoscer  diflBcoltà  a  dir  quello  che  vuole  : 
così  immedesimato  della  vita  linguistica,  che  quando  non  trova  crea,  spi- 
gliatissimo.  Non  per  nulla  Cicerone  lo  designò  perfetto  '),  e  Aulo  Gellio  lasciò 
scritto  «  Plauto,  il  principe  della  lingua  e  dell'eleganza  latina  »,  «  il  pid 
elegante  »,  «  onor  della  lingua  latina  »  '),  e  Varrone  «  ne'  dialoghi,  Plauto 
ha  la  palma  »  '),  e  Lucio  Elio  Stilone  «  se  le  Muse  volessero  parlar  latino, 
userebbero  la  lingua  di  Plauto  »  *),  e  Orazio  stesso  lo  accostò  al  greco  Epi- 
carmo,  pur  con  un  «  si  dice  »  ^).  E  nel  giudizio  concordano  Plinio,  Frontone, 
Diomede,  Girolamo,  Claudiano  Mamerto,  ecc.  Liberissimo  —  di  quella  libertà 
poderosa  che  da  noi  immortalò  il  Cellini  —  egli  è  nella  sintassi.  C'è,  si  può 
dire,  una  sintassi  plautina,  la  quale  ha  per  principio  la  massima  disinvol- 
tura: quindi  anacoluti  audaci,  a  volte  addirittura  ribelli:  quindi  periodare 
svolgentesi  in  mille  snodatissime  guise  :  quindi  gradazioni  ed  evoluzioni 
che  seguon  assai  bene  i  moti  dell'animo.  Sua  mèta  è  rendere  fedelmente 
il  discorso  dal  vero,  dalla  vita  quotidiana.  E  tutto  egli  subordina  a  ciò: 
donde  anche  eccessi  —  donde,  p.  es.,  ripetizioni  in  numero  strabocchevole, 
quasi  di  chi  sempre  improvvisi,  senza  il  minimo  pen.siero  di  far  arte  lette- 
raria. Forse,  a  lungo  andare,  si  formò  in  lui  una  specie  di  j>osa  della  non- 
curanza retorica,  come  accade  spesso  agli  autori  fortunati,  che  tìniscon  a  in- 
sister troppo  — -  calcando  —  su'  caratteri  propri.  È  certo,  peraltro,  che  Plauto 
trascurò  il  lavoro  della  lima:  anche  per  la  fretta  del  guadagno.  Lo  affermò, 
un  secolo  e  mezzo  dopo,  Orazio,  con  un  po'  d'esagerazione,  per  i]uella  an- 
tipatìa ch'egli  ebbe  sempre  pel  Sarsinate  : 

Ha  smania  di  far  soldi,  e  non  si  cura 
d'altro,  cammini  la  commedia  o  no  '■). 

E  ce  n'accorgiamo  anche  noi,  pur  senz'avere  la  ìncontentabilit-à  d'  Ora- 
zio.... 


')  De  Orai.,  Ili,   12,  45. 

*)  Op.  cit.,  VII,   17,  4  ;  I,  7,   17  ;   XIX,  8,  fi. 

')  Sai.  Menipp.,   Parmeno. 

*)  Sec.  Varrone  (v.  Quintiliano,  Inst.   Orai.,  X,  I,  99). 

^)  Epist.,  II,   1,   58  :  passo  inteso  variamente. 

«)  EpisU,  II,   1,   17.-j-l7tì. 


J 


L'arie  di  Plauto  131 


Non  tutti  —  dicevo —  furon  d' accordo  uel  giudizio  su  l'artista.  Molto 
benevolo  è  un  antico  epigramma  : 

Finito  Plauto,  la  commedia  lagrima  : 
vota  è  la  scena:  riso,  gioia,  scherzo 
piangono,  insieme,   e  metri   innumerevoli  ') 

La  fama  sua  toccò  l'apogeo  nel  secolo  II  a.  C.  Cominciò  a  diminuire 
nel  I,  avendo  la  disciplina  ellenica  dati  ormai  per  intero  i  suoi  frutti:  donde 
il  composto  grecismo  di  Terenzio.  Il  curioso  è  vedere  proprio  agli  antipodi 
—  in  quel  secolo  —  due  giudici  ambedue  fini  e  competenti  :  Cicerone  e 
Orazio.  Cicerone  chiama  il  Sarsinate  modello  di  «  giocosità  elegante,  urbana, 
ingegnosa,  briosa  »  ')  :  Orazio  in  pifi  luoghi  ne  parla  male,  e  così  lo  schiaccia 
nell'epistola  dell'Arte  Poetica  : 

Ma  di  Plauto,  i  vostri  avi  lodarono 
metri  e  facezie  con  troppa  bontà 
'stoltezza,  direi  quasi),  s'io  e  voi 
sappiara  distinguer  be'  niotti  da  lazzi 
e  scandere  e  sentire  i  versi  giusti  '). 

Al  solito,  l'equo  andrebbe  cercato  nel  mezzo.  Ma  che  Plauto  indulga 
troppo  alla  volgarità,  quest'  è  vero  :  volgarità  che  talvolta  lo  spinge  al  grot- 
tesco. Forse,  lo  peggiorò  il  favor  popolare,  del  quale  lo  sappiamo  orgoglioso  e 
sollecito  *),  e  che  fu  tale,  da  far  poi  attribuire  a  lui  molte  commedie  non  sue. 
Non  dimentichiamo,  però,  che  un'opera  teatrale  mal  si  giudica  nello  scritto, 
e  a  gran  distanza  di  tempo,  e  con  grandi  differenze  di  gusto.  Anch'oggi, 
trionfan  su  la  scena  certe  reviies  e  certe  pochades  che,  mentre  le  vediamo  e 
le  ascoltiamo,  ci  divertono,  ma  se  le  rileggiamo  a  casa,  ci  dan  quasi  fa- 
stidio, perchè  non  vediam  più  la  mimica,  non  udiam  più  la  musichetta  che 
nascondeva  le  mende.  Del  resto,  in  un  uomo  di  bassi  natali  e  vissuto  ac- 
canto  più   al   popolo   che   al   ceto  migliore,  la  poca    finezza   non  è   strana. 


')  Secondo  alcuni  di  Plauto  stesso,  secondo  altri  no.  Molti,  invece  che  innu- 
merevoU,  intendono  aritmici.  Ma  questa  interpretazione  mi  pare  in  troppo  stridente 
contrasto  col  tono  dell'epigramma. 

*)  De  Off.,  I,  29,  104.  Cfr.   Brut.,   15;  De  Orat.,  Ili,  12;   Cat.  mal.,  14. 

')  Epitt.,  II,  3,  270  sgg.  In  Orazio  parlava  —  si  ricordi  —  il  ratlìnato  augu- 
stèo,  aborrente  da  tutte  le  arcaiche  rozzezze. 

*)  L'  abbiam  sentito  noi  gridare,  il  popolo, 

per  ottenere  commedie  di  Plauto 
dice  nel  prologo  della  Casina  :  se  proprio  è  suo. 


132  Arnaldo  AUerocca  -  L'arte  di  Flauto 


Della  società,  Plauto  conosceva  in  ispecie  Io  strato  inferiore:  si  rivela 
spesso  in  lui  il  già  plebeo  e  il  temporaneo  servo:  non  foss'altro,  nella 
compassione  pe'  dolori  degli  schiavi,  che  sa  di  solidarietà  e  che  a  volte  com- 
move. Commove,  sì,  perchè  Plauto,  quand'occorre,  sa  esser  efficace  anche 
ih  tratti  seri  (come  tutt' i  veri  artisti  del  riso),  e  persino  in  quasi  epici  ') 
e  drammatici  ')  ! 

Troppo  frequente  è  in  lui  l'oscenità  :  alla  quale  ei  fa  così  il  callo, 
che  in  principio  e  in  fine  di  I  Prigionieri  vanta  pulitissima  —  e  atta  a  render 
migliori  anche  i  già  buoni,  e  rara  nella  sua  castigatezza  —  quella  commedia, 
nella  quale  è  qualche  gioco  di  parole  di  sconcio  innaturale,  e  qualcuno  di 
naturale  ma  superfluo  !  Anche  qui,  però,  bisogna  ricordarsi  del  tempo,  e  del 
gusto  pagano,  in  fatto  di  morale  assai  men  sensibile  del  nostro.... 


Quasi  tramontato  nel  Medio  Evo,  Plauto  risorse  a  gran  voga  (tra  for- 
tunate scoperte  di  codici)  nel  Rinascimento,  in  mille  imitazioni  per  le  po- 
vere scene  del  combattuto  volgare.  E  trova  ammiratori  fervidi  in  quasi 
tutt'i  moderni:  basta  dire  che  il  Lessing  proclamò  I  Prigionieri  «  il  più  bel 
dramma  che  mai  sia  stato  rappresentato  »  '),  avvertendo  però  che  a  tal  giu- 
dizio egli  è  guidato  anche  da  considerazioni  d' indole  morale. 

Tu  realtà,  Plauto  non  è  né  un  grande  creatore  ne  un  grande  costrut- 
tore. E  uno  sbozzatore  potente  che,  negli  scorci  audaci  e  nelle  asimmetrie, 
negli  eccessi  e  ne'  maucamenti,  ha  tutt'i  difetti  de'  primitivi.  Ma  de' pri- 
mitivi ha  la  sincerità,  che  neppur  la  costante  imitazione  valse  a  soffocare. 
Ma  è  il  primo  compiuto  rappresentante  dello  spirito  comico  italico  ne'  suoi 
pregi  e  nelle  sue  mende,  1'  iniziatore  d'una  via  che  —  ampliandosi  e  aggiu- 
standosi —  porterà  (unica,  forse,  intatta  dell'arte  neolatina  nostra  fra  tante 
mistioni  d'oltralpe  e  d'oltremare)  al  Pulci,  al  Berni,  al  Tassoni,  al  Guada- 
gnoli,  al  Giusti,  al  Porta,  al  Belli,  al  Pascarella.  Ma  è  un  parlatore  affa- 
scinante, un  verseggiatore  pieno  d'  agilità  e  ricco  di  gamme  musicali  inau- 
dite. Ma  l'opera  sua  è  una  gran  raccolta  di  materiale  non  finito  di  la- 
vorare, cui  attingeranno  per  secoli  e  secoli  in  ogni  paese,  fuori  d' Italia 
da  mediocri  e  grandi  a  colossi  come  lo  Shakespeare  e  il  Molière,  in  Italia 
dal  Machiavelli  al  Gelli  al  Divizi  al  Trissino  al  Giannotti  al  Firenzuola  al 
Bentivoglio  al  Dolce  a  Lorenzino  de'  Medici  al  Domenichi  al  Lasca  al  Cec- 
chi  all'Ariosto  al  Della  Porta  e  perfino  —  si  direbbe  —  al  Goldoni.... 

Arnaldo  Alterocca. 

M  Es.,   Anfitrione,  I,   1>,  219-241  del   testo. 

')  Ess.,  Il  Fanfarone,  II,  4»,  372  sgg.   del   testo  —   /  Prigionieri,    III,    5».   e 
assi  m  . 

^)  Kritik  iiber  die  Gefangenen  dee   Plautiis. 


BACOHILIDE    X    (XI) 


Gli  elementi  realistici  dell'ode,  come  ce  li  presenta  il  poeta,  sono  que- 
sti. Alessidamo,  giovane  di  Metaponto,  figlio  di  Faisco,  ha  riportato  una 
splendida  vittoria  nella  lotta  dei  giuochi  pitici,  che  si  celebravano  a  Pito 
(Delfi)  ed  erano  sacri  ad  Apollo,  figlio  di  Latona.  Un'altra  volta  Alessi- 
damo era  stato  vicino  a  ottenere  la  corona  d'olivo,  cioè  il  primo  premio, 
nelle  maggiori  gare  d'  Olimpia,  ma  quella  volta  il  premio  gli  fu  strappato 
di  mano  per  una  causa  che  non  ci  è  ben  chiara  :  il  verso  che  ci  poteva 
illuminare  su  questo,  è  perduto  ;  ma  se  è  vera  la  restituzione  che  ho  se- 
guito nel  tradurre,  il  giovinetto  fu,  come  oggi  diremmo,  squalificato.  Ora 
la  cosa  è  andata  molto  meglio  :  Apollo,  il  dio  solare,  l' ha  accolto  con  be- 
nigno sguardo,  e  Artemide,  la  sua  divina  sorella,  la  protettrice  di  Meta- 
ponto, la  dea  che  ha  un  tempio  venerato  su  le  rive  del  Casa  (Basente),  lo 
ha  fatto  primo  su  tutti. 

In  questo  metallo,  non  certo  prezioso,  ma  forbito  dall'arte  del  poeta, 
è  incastonata  la  splendida  gemma  del  mito.  Le  figlie  di  Prete  andarono 
al  tempio  di  Era  e  si  vantarono  che  il  loro  padre  era  più  ricco  e  potente 
della  moglie  di  Zeus.  La  dea,  sdegnata,  gettò  nei  loro  petti  una  tremenda 
follia  e  le  cacciò  fuori  dalle  loro  case,  lontano  da  Tirinto.  Qui  il  poeta 
sembra  domandarsi  :  perchè  da  Tirinto  e  non  da  Argo,  la  città  degli  avi  ? 
Pertanto  si  rifa  più  indietro,  con  un  fare  che  ricorda  quello  di  Pindaro  e 
che  è  un'andare  a  ritroso  nel  tempo,  un  immergersi  sempre  più  profonda- 
mente nel  mito.  Dunque  in  Argo  regnavano  due  fratelli,  Preto  e  Acrisio, 
figli  di  Abante  e  nipoti  di  Linceo  e  di  Danao.  Per  un  futile  motivo  scoppiò 
una  fiera  discordia  tra  i  fratelli,  e  il  popolo,  che  parteggiava  per  l'uno  o 
per  l'altro,  cadeva  in  battaglie  civili.  Si  convenne  di  levare  a  sorte  chi 
dei  due  doveva  emigrare.  La  sorte  designò  Preto,  che,  con  gli  amici, 
andò  ad  abitare  una  terra  dove  i  Ciclopi  fondarono  una  città  che  fu  Ti- 
rinto. Di  qui  si  lanciarono  alla  fuga  le  vergini  folli.  11  padre,  disperato, 
le  seguì  ;  giunto  alla  corrente  del  Luso,  in  Arcadia,  invocò  Artemide  e  que- 
sta intercesse  per  lui  da  Era,  e  le  fanciulle  rinsavirono.  Un  tempio  sorse 
il  ricordare  la  grazia. 

Come  si  vede,  Artemide  è  il  legame  ideale  (un  po'  tenue  invero)  tra  le 
due  parti  dell'ode,  la  realtà  e  il  mito  :  essa  è  onorata  di  culto  particolare 
a  Metaponto  come  a  Tirinto,  essa  intercede  la  vittoria  per  Alessidamo  come 
la  ragione  per  le  figlie  di  Preto.  E  domina  in  tutta  l'ode.  Ma  non  è  la  dea. 
collerica  e  vendicativa  della  V  :  qui  è  umana,  mite,  pietosa. 


134  Dario  ArfelU 


Ad  Alessidamo  di  Metaponto 

GIOVINETTO    VINCITORE    NELLA    LOTTA    DEI    GIUOCHI    PITICI. 

iStrofe  1  Vittoria,  dispensiera  di  dolcezze, 

il  padre  ouuii)otente 

ti  concesse  un  supremo,  eterno  onore. 
Neil'  Olimpo  fulgente 
tu  siedi  accanto  a  Giove 
e  decreti  il  trionfo  del  valore 
agli  dei  ed  agli  nomini. 
Figlia  di  Stige,  dalla  folta  chioma 
e  dai  retti  giudizi,  sii  benigna  ! 
Ecco,  per  grazia  tua  canti  e  tripud 
di  giovani  gagliardi 
empiono  la  divina  Metaponto 
celebrando  la  pitica  vittoria 
del  mirabile  tìglio  di  Faisco. 

Anlhtrofe  1  II  figlio  della  splendida  Latona, 

nato  a  Delo,  l'accolse 
con  dolce  sguardo  :  un  nembo  di  corone 
piovve  intorno  Alessìdamo, 
nella  valle  di  Cirra, 
in  premio  della  lotta  vigorosa 
che  trionfa  su  tutto. 
In  questo  giorno  non  lo  vide  il  sole 
cadere  a  terra.  E  giuro  che  al  divino 
piano  del  santo  Pelope,  lunghesso 
il  bel  corso  d'  Alfeo, 
se  nessun  deviava  la  giustizia 
dal  suo  retto  cammiuo,  egli  sarebbe 
tornato  alla  sua  patria,  alla  pianura 

Epodo  1  nutrice  di  giovenche,  incoronato 

del  verde  olivo,  eh' è  comune  a  tutti. 

Nessuna  mala  frode 

condusse  il  giovinetto  ad  artifizi, 

nella  bella  contrada  ; 

ma  cosi  volle  un  dio 

o  la  mente  fallace  dei  mortali 

gli  strappò  dalle  mani  l'alto  premio. 

Ora  la  eaeciatrice 

dalla  conocchia  d'oro, 

la  mite  arciera,   Artemide, 

gli  ha  donato  una  splendida  vittoria.   — 

Un  giorno  l'Abantiade,  con  le  vaghe 

figlie,  le  eresse  un  supplicato  altare. 


JBacehilide  X  {XI) 


135 


.Sli-ofe  S 


Anlisti'ofe  t' 


Epodo  3 


L'onuipoteuza  d'Era  area  domato 

la  mente  delle  vergini 

col  duro  giogo  d'un  fatai  delirio, 

e  le  aveva  cacciate 

dalle  case  del  padre. 

Con  l'anima  fanciulla  erano  andate 

al  tempio  della  dea 

dal  purpureo  cinto,  e  si  vantarono 

che  il  loro  padre  superava  molto 

la  bionda  sposa  del  superbo  Giove 

in  ricchezza  e  potenza. 

La  dea,  sdegnata,   suscitò  nel  loro 

petto  una  strana  furia.   Abbandonata 

la  città  di  Tirinto,  e  le  sue  strade, 

aperte  dagli  dei,  esse  fuggivano, 

mandando  nrli  terribili, 

su  jjei  monti  selvosi.  —  Già  da  dieci 

anni  gì'  invitti  eroi 

dallo  scudo  di  bronzo, 

lasciata  la  divina  Argo,  abitavano 

con  l'amato  signore. 

Poiché  tra  i  due  fratelli,  Preto  e  Acrisio, 

da  piccola  cagione  era  scoppiata 

nna  grande,  implacabile  contesa. 

Il  popolo  cadeva 

in  feroci  vendette  e  in  pugne  amare  ; 

onde  pregò  i  due  tìgli  d'Abante 

di  trarre  a  sorte  le  campagne  fertili  ; 

il  minore  fondasse  poi  Tirinto, 

prima  che  si  piombasse  in  gran  rovina. 

Anche  Giove  Cronide 

volea  por  fine  agli  esecrandi  mali, 

per  onorar  la  stirpe 

di  Danao  o  di  Linceo 

domator  di  cavalli.  Allora  vennero 

i  superbi  Ciclopi  ed  innalzarono 

le  bellissime  mura 

dell'  inclita  città, 

ove  gl'illustri  eroi, 

lasciata  la  famosa  Argo,  nutrice 

di  cavalli,  vivevan  come  dei.  — 

E  di  qui  si  lanciarono  alla  fuga 


Strofe  3 


le  giovinette  dai  capelli  azzurri, 
'  figlie  di  Preto.  Il  padre, 
straziato  dal  dolore,  ebbe  uno  strano 
pensiero  e  fu  sul  pnnto 


136  Dario  Arfelli  -  BaocMUde  X  (XI) 

di  cacciarsi  nel  petto 

una  spada  a  due  tagli.  Ma  i  lancieri 

lo  tennero  con  dolci 

parole  e  con  la  forza  delle  braccia. 

Tredici  mesi  interi  le  fanciulle 

vagarono  per  selve  tenebrose, 

fuggendo  nell'Arcadia, 

madre  di  greggi.  Quando   il  padre  giunse 

alla  corrente  limpida  del  Luso, 

lavò  le  membra  ed  invocò  la  dea 

Antistrofe  3  dai  grandi  occhi,  la  figlia  di  Latona 

dal  purpureo  velo, 
tese  le  mani  allo  splendor  del  sole, 
dai  veloci  cavalli  : 
«  Libera  le  mie  iìglie 
dal  misero  furor  della  demenza, 
ed  io  t'  immolerò 

venti  rosse  giovenche,  nuove  al  giogo  ». 
La  cacciatrice,  figlia  del  buon  padre, 
ascoltò  le  sue  preci,  vinse  Era, 
guarì  dall'empia  furia 
le  vergini  fiorite  di  boccioli. 
Queste  le  alzarou  tosto  un  tempio  e  nii'ara, 
la  bagnarou  col  sangue  delle  vittime. 

Epodo  :i  vi  condussero  i  cori  delle  donne.   — 

Di  qui  venisti  coi  guerrieri  Achei 
alla  città  nutrice 

di  cavalli  ;  tu  stai  con  la  Fortuna 
in  Metaponto,  aurea 
signora  delle  genti. 

E  gli  avi  che  ti  crebbero  un  boschetto 
sacro,  lungo  le  belle  acque  del  Casa, 
al  tempo  di  re  Priamo, 
per  voler  dei  Beati, 
distrussero  la  forte 

città  coi  grandi  Atridi  aspri  di  bronzo. 
Il  giusto  troverà  in  ogni  tempo 
infinite  le  glorie  degli  Achei. 

Tratl.   Dario  Arfelli. 


Eecensioìiì 


137 


C.  Valerio  Catullo.  Epitalamio  per  le  nozie  di  Teiide  e  di  Peleo  (Canne  LXIV). 
Commento  e  traduzione  poetica  di  Tito  Gironi.  Ditta  G.  B.  Paravia,  Toriuo, 
11U5.  L.   1. 

Acconcio,  diciamolo  subito,  il  commento,  fatto  com'è  in  servizio  degli  sco- 
lari, e  veramente  pregevole  la  traduzione  sia  per  la  fedeltà  air  originale  sìa  per 
la  fluidità  della  forma  poetica  :  concordia  rara  nei  traduttori  in  verso,  ai  piìl 
de'  qnali  io  sarei  tentato  di  attagliare  quel  malizioso  pentametro  d'Ovidio  «  Lis  est 
onm  forma  magna  pudicitiae  ».  Quindi  è  che,  sebbene  entri  in  gara  con  fìtta  schiera 
di  campioni  —  sedici  ne  enumerò  il  Romizi  e  quattro  ne  aggiunge  il  Pascal  (Ca- 
tullo, I  carmi,  p.  108;,  ma  ve  ne  sono  anche  altri,  e  tra  questi  uno  dì  prim'or- 
dine  :  il  Nardozzi  *)  — ,  nondimeno  il  traduttore  recentissimo,  anche  dove  non  ha, 
come  gli  riesce  spesso  di  avere,  il  vantaggio  e  la  palma,  non  però  rimane  mai 
troppo  inferiore  al  paragone  pur  dei  migliori.  Perchè  il  lettore  stesso  faccia  il 
confronto  col  testo  (vv.  213-228),  riporterò  qui  una  ventina  dì  versi  scelta  dalla 
versione  del  Gironi  con  accanto  il  tratto  corrispondente  della  versione  del  Nar- 
dozzi, ultimo  lavoro  di  «piell' elegantissimo  traduttore  : 


Fama  è  che  Egeo,  tìilaiido  il  figliii  ai  veuti, 
allor  che  quegli  al)handonò  le  mura 
de  la  vergine  Dea,  tali  al  garzone 
moniti  tiesse  ne  l'abbraceio  :  «  O  figlio, 
unico  figlio,  a  me  di  lunga  vita 
giocondo  più,  clie  a  dubl)i  casi  or  ileggio 
mandare  incontro,  or  che  mi  fosti  reso 
ne  l'estremo  coufiu  de  la  vecchiezza  ; 
poiché  il  mio  fato  e  il  tuo  valore  indomito 
ti  rapiscono  a  me  che  non  vorrei, 
e  questi   occhi  languenti  anco  non  sazi 
ho  del  tuo  caro  viso;  io  no,  con  lieto 
cor  non  ti  Liscerò,  né  insegne  avrai 
tu  di  lieta  fortuna.  Alzerò  prima 
le  mie  querele,  aspergerò  di  terra 
la  mìa  canìzie  e  di  lurida  polve; 
indi  vele  abbrunate  a  le  vaganti 
antenne  ap]»enderò,  sicché  dimostri, 
d'atra  ferrugìn  tinto,  il  lino  ibero 
il  mio  pianto  e  le  ardenti  ansie  del  core....  ». 

(Gironi,  p.  41). 


Fama  è  che  un  tempo  Egeo  (quando  commise 
A  i  venti  il  figlio,  che  sciogliea  da  i  lidi 
Sacri  a  Minerva)  piangendo  e  abbracciando 
Il  giovinetto,  gli  facesse  tali 
Comandamenti:  o  tìglio  unico  mio, 
A  me  pili  caro  de  la  lunga  vita, 
XTuico  figlio  mio,  che  a  me  renduto 
Or  ora  in  su  l' estremo  de  la  mia 
Vecchiezza,  incontro  a  perigliosi  eventi 
iland'iT  m' ò  forza,  poi  che  la  nemica 
Mia  fortuna,  e  il  magnanimo  tuo  cuore 
Ti  toglie,  oiraè!  contro  mia  voglia,  a  questi 
Miei  languidi  occhi  già  non  ancor  sazil 
Di  sempre  vagheggiar  le  tue  fattezze 
Dolcissime,  non  io  gioioso  in  core 
Vo'  staccarmi  da  te,  uè  vo'  che  teco 
Porti  alcun  segno  di  fortuna  allegia, 
Ma  prima  vo'  con  lunghe  querimonie 
Sfogar  la  piena  de  '1  dolor,  ma  {irima 
Vo'  imbrattare  di  polvere  e  di  terra 
La  mia  canizie,  ed  una  mortuale 
Insegna  io  poscia  su  l'ondivagant© 
Albero  appenderò:  così  l'Ibera 
Vela  cosparsa  di  color  ferrigno, 
Pah  si,  o  figUuol  mio,  l'immenso  duolo 
Che  81  cocente  mi  divampa  in  core. 

(Xardozzi,  p.  22(3  sgg.). 


È  diftìcile  negare  che  il  Gironi,  senza  che  per  la  schietta  fattura  del  verso 
scapiti  quasi  mai  nel  confronto,  n'  esca  poi  vincitore  quanto  all'esatta  sobrietà 
dell' interpretazione.   E  il  medesimo  vedremmo,  se  allargassimo  le   citazioni. 

Tuttavia,  trascurando  le  minuzie,  come  l'accentuazione  inconsueta  a  cui  è  pie- 
gato il  grido  bacchico  evoè  nei  versi  88  sg.   che  sembrano    chiedere    la    pronunzia 


1)   Le  Georgiche  di  Virgiuo  tradotte  da  Antonio  Xardozzi.  Secomla  edizione  migliorata  ed  ac- 
cresciuta con  la  versione  di  Teti  e  Peleo  di  Catullo,  Imola,  18y4. 


138  Becensioni 


eròe,  moverei  qui  in  line  al  Gironi  anche  un  appunto,  perchè  egli,  mustramlosi 
troppo  ligio  a  scrupoli  scolastici  in  nn  lavoro  che  è  anche  artistico,  ha  omesso  di 
tradurre  i  vv.  377-.382  e  404-406  doli'  originale,  che  non  sono  inline  più  scabrosi 
di  cert' altri,  poniamo,  del  Giorno  pariniano,  che  pure  si  pone  intero  nelle  mani 
degli  scolari  e  scolare  ginnasiali  senza  timore,  e  certo  senza  rischio,  di  ammalizzirli. 
Del  resto  il  libretto  del  Gironi,  se  ci  ruba  una  diecina  di  versi  catulliani,  ci  attiene 
poi  anche  piìi  di  quel  che  promette  nel  frontispizio,  in  quanto  che  aggiunge  in 
appendice,  per  comodo  di  chi  volesse  istituire  nn  parallelo,  la  versione,  sempre  in 
Itegli  endecasillabi,  dell' eroide  X*  {Arianna  a  Teseo)  di  Ovidio. 

Adolfo  Gandiglio. 

GicsBPPK  Procacci,  ^'ote  a  due  poemeUi  latini  di  Giovanni  l'aecoU  (Veianiun-l'hi- 
dyle).  Assisi,  1914  —  Id.  Il  Laureolua  di  G.  P.  Assisi,  1915  —  Id.  Intorno  ad 
un  poemetto  latino  di  G.  P.  (Cena  in  Candiano  Nervae).  Teramo,  1915.  —  Id. 
Il  «  Sermo  »  di  G.  P.  San  Marino,  1915. 

Se  v'è  qnalcuuo  che  strapazza  il  Pascoli,  mentre  professa  di  volerne  agevo- 
lare la  lettura  anche  a  lettori  colti  e  coltissimi,  non  mancano,  la  Dio  mercè,  stu- 
diosi di  coscienza  che,  pur  con  propositi  piti  modesti,  varino  compiendo  opera  ve- 
ramente meritoria  di  interpetri  e  di  divulgatori  del  dolce  e  dotto  poeta.  Non  è 
molto,  a  mettere  in  evidenza  un  elemento  essenziale  dell'ispirazione  pascoliana,  Nina 
Rimbocchi  ha  dedicato  un'analisi  densa  di  notizie  e  di  osservazioni  che  dissipano 
anche  parecchie  delle  oscurità  e  incertezze  in  cui  necessariamente  qua  e  là  intoppa 
il  lettore  non  romagnolo  sia  delle  Myricae  e  dei  Canti  di  Castelvecchio  sia  dei  Primi 
e  Nuovi  Poemetti  ("  La  «  Romagna  »  nell'opera  di  Giovanni  Pascoli  "  nella  rivista 
La  liomagna,  Febbraio  1914  —  Gennaio-Febbraio  1915),  e  proprio  di  questi  giorni 
è  uscita,  indirizzata  ai  giovani  ma  certo  utile  anche  agli  altri,  la  prima  parte  d'un 
accurato,  se  uon  perfetto,  Dizionarietto  pascoliano  di  L.  M.  Capelli  (Livorno,  Giusti, 
1916).  Né  solo  all'opera  italiana  del  nostro  poeta,  bensì  anche  a  quella  latin»  assai 
meno  nota,  anzi  in  parte  ancora  aft'atto  ignota,  benché  non  meno  mirabile,  si  ven- 
gono sempre  iiiii  di  proposito  rivolgendo  le  cure  degli  illustratori.  Primo  Vincenzo 
Santoro  Di  Vita,  in  una  serie  di  articoli  pubblicata  nel  Fanfulla  della  Domenica  del 
1912,  prese  ad  esporre  non  senza  buone  considerazioni  e  confronti  il  soggetto  di 
vari  poemetti  del  Pascoli  premiati  nella  gara  di  Amsterdam  :  del  Veianius,  della 
Castanea,  dei  Sosii  fratres  hibliopolae.  Senoncliè  negli  anni  seguenti,  invece  di  pro- 
seguire con  la  stessa  alacrità  la  divulgazione  degli  altri  poemetti  pascoliani  editi 
negli  opuscoli  dell'Accademia  olandese,  il  Santoro,  eh'  io  almen  sappia,  non  diede 
al  Fanfulla  se  non  alcune  noterelle  al  «  Ceniurio  »  (1914,  n.  31)  che  additano  una 
derivazione  assai  probabile  dall'Heine,  e  poi  una  garbata  esposizione  della  PAirfi/''" 
(1915,  n.  1),  del  quale  idillio  spiace  soltanto  che  non  sia  stato  inteso  a  dovere, 
per  un  curioso,  se  uon  inescusabile,  abbaglio,  l'ultimo  verso,  dove  fusum  non  è 
certo  sostantivo.  Intanto  il  compianto  Della  Torre  aveva  già  dato  fuori  le  sue 
versioni  del  Centuria  e  della  Pomponia  Graecina,  l'una  e  l'altra  arricchite  di  ampie 
e  solide  illustrazioni  critiche  di  quei  due  capolavori,  oltre  che  di  minuziose  <•  co- 
piose note  esegetiche  (v.  il  nostro  Ballettino,  1913,  371  sgg.,  e  1914,  55  sgg.),  e, 
poco  dopo  la  pubblicazione  dei  due  opuscoli  del  Della  Torre,  aveva  già  intrapreso 
l'esame  ordinato  dei  poemetti  latini  del  Pascoli  finora  conosciuti,  rifacendosi  dai 
pili  antichi,  cioè  del   Veianius  e  dalla  Phidyle,  un  giovane  e  valente  cultore  degli 


Eecensioni  139 


gtiidi  classici;  voglio  dire  Giuseppe  Procacci.  Ai  lettori  di  questo  Bullettino,  che 
del  Procacci  hanno  certo  gustato  il  recente  articolo  sul  Iiigurlha,  non  sarà,  credo, 
discaro  ch'io  indichi  loro  le  altre  illustrazioni  pubblicate  dal  medesimo  studioso 
in  altri  periodici,  cioè  del  Laui-eolus  (apparsa  nel  periodico  Italia  a  breve  inter- 
vallo dalle  Note  sul  Veiaiiius  e  la  PhidijU  :  1914,  nn.  4-5  —  1915,  n.  7),  della  Cena 
in  Caudiano  Nervae  (nella  liivieta  Abruzzese,  1915;  fase.  IX),  infine  del  Sermo  (nella 
rivista  Humanitas,  Novembre  del  1915).  È  chiaro,  avendo  veduto  la  luce  il  Veianius 
nel  1892,  la  Phìdyle  il  Laureolus  e  il  /Scrino  nel  1894,  la  Cena  nel  1896  e  il  Iw- 
gnrtha  nell'anno  seguente,  che  il  Procacci  tien  dietro  quasi  passo  passo  allo  svol- 
gimento cronologico  dei  poemata  narrativi  pascoliani,  trascurando,  almeno  per  il 
momento,  quelli  didascalici  o  georgici  che  voglian  dirsi  {Myrmedon  del  1895  e  Ca- 
stanea  del  1896)  ;  e,  come  so  eh'  è  prossimo  a  uscire  nn  suo  studio  sul  Reditus 
Augusti,  poemetto  contemporaneo  del  Iwgurtha,  così  è  da  sperare  eh'  egli  via  via 
conduca  a  fine  l'esame  di  tutti  i  poemata  fino  alla  Thallusa.  I  saggi  già  da  lui 
messi  al  pubblico  sono  arra  eh'  egli  assolverà  il  suo  compito  recando  non  piccolo 
giovamento  alla  conoscenza  della  grande  poesia  latina  del  Pascoli  ;  giacché  al  Pro- 
cacci, come  è  guida  sicura  la  sua  familiarità  e  con  la  letteratura  latina  e  con 
1'  opera  italiana  del  nostro  poeta,  così  non  difetta  finezza  di  giudizio  e  di  gusto. 
Tal  contemperanza  di  doti  appare  in  ciascuno  degli  articoli  che  ho  qui  annunziati, 
dove  la  ricerca  dei  raftronti  con  gli  antichi  o  con  le  poesie  italiane  dello  stesso  Pa- 
scoli non  è  curiosità  indiscreta  e  sterile,  ma  sempre  mezzo  a  penetrar  nello  svol- 
gimento dei  motivi,  delle  note,  delle  tendenze  \nii  proprie  della  isiìirazione,  del- 
l'arte e  dell' anima  paseoliana.  Né  rileva  proprio  nulla  per  le  conclusioni  generali 
a  cui  mira  il  Procacci,  se  avvenga  che  qualche  particolare  minimo  e  incidentale 
possa  aijparire  non  esatto  del  tutto  a  chi  sappia  già  qualche  cosa  dei  poemata  del 
Pascoli  tuttavia  inediti,  come,  \)ev  esempio,  l'affermazione  che  «  la  materia  del 
Veiaìiius  non  ha  così  ampio  sviluppo  (come  quella  della  Phìdìjle)  nelle  poesie  po- 
steriori del  Pascoli  »  :  la  quale  affermazione  sarebbe  forse  un  po'  attenuata,  se  il 
Procacci  avesse  potuto  conoscere  non  solo  il  titolo,  eh'  egli  ha  certamente  visto 
nel  nutrito  volume  sul  Pascoli  del  Bulferetti  (Milano,  Libreria  Editrice  Milanese, 
1914;  p.  12),  ma  anche  la  tela  e  la  condotta  dei  Gladiatoies,  il  piti  lungo  di  tntti 
1  poemetti  latini  del  Pascoli,  composto  subito  dopo  il  Veianius,  ma  non  fatto  mai  di 
pubblica  ragione.  A  proposito  di  quel  poi-ma  dirò  anche,  se  non  paia  indiscrezione,  che 
in  esso  appnnto  già  si  legge  quella  similitudine  che,  ripetuta,  salvo  pochi  ritocchi 
di  forma,  nel  Sermo,  è  il  germe  della  celebre  poesia  dei  Primi  Poemetti  intitolata  : 

/  due  fanciulli  '). 

Adolfo  Gandkìlio. 


*)  Aggiungo  qui  —  solo  perchè  chiamato  nomìnataniente  in  cansa,  con  parole  del  reeto  che  ob- 
hligauo  la  mia  gratitudine  ~  che  non  tutti  1  ratlronti  trascelti  dal  Procacci  in  una  nota  del  suo  primo 
articolo  (p.  8  dell' estratto)  al  fine  di  esempliflcare  ciò  che  io  avevo  asserito  in  questo  7(M;(e((mo  (n.  165- 
lti6,  col.  270)  sulle  nioltiasime  derivazioni  nella  Phidyle  dai  trattatisti  latini  di  agricoltura,  sono  pro- 
prio i  pili  evidenti  e  appropriati.  Certo,  per  esempio,  coi  versi  132-133  dell'  idillio  {Quid,  quod  fur- 
cìllas  hìberno  in  teda  reductas  tempore,  reppererit  sudo  modo  vere  labantis  ?)  &iizic}iè  CA' 
TONE  De  agr.  37  :  «  ridicas  et  palos,  quos  pridie  in  tecfo  posuerìs,  siccos  dolatOy  faeulas  facito  ecc.  >>, 
che  son  le  faccende  a  cui  può  attendere  il  contadino  nelle  notti  Invernali,  per  hiemem  lucubratione 
(v.  anche  Viro.,  Georg.  I,  291  sg.),  è  da  confrontare  Varrone  Rer.  rust.  I,  8,  6:  «  dominus  Hmul  ae 
vidit  occipitium  vindemiatori»,  fureillas  reducit  Inbernatum  in  tecta,  ut  line  aumptu  ìia- 
rum  opera  altero  anno  uti  possit.  hac  consuetudine  in  Italia  utuntur  Reatini  y*,  dove  abbiamo  concor- 
danza perfetta  non  solo  di  parole,  ma  pur  di  sostanza,  e  per  di  piii  si  tratta  di  costumanze  della  Sa- 
bina, il  paese  appunto  di  Vhidìjle. 


: 


140  Eecensioni 


A.  G.  Amatucci.  Storia  della  letteratura  romana.  II.  Da  Angusto  al  see.  V.  Napoli, 
F.  Perrella  editore,  pp.  VlII-206,  L.  2. 

Questo  volume,  di  cui  i  lettori  dell'^^ewe  e  Roma  poterono  già  vedere  un  saggio 
nel  fascicolo  di  Luglio  e  Agosto  del  1913,  col.  213  sgg.,  esce  a  non  breve  inter- 
vallo dal  volume  I  (pubblicato  nel  1912),  perchè  l'Autore  ha  voluto  «  rivederlo 
tutto  intero,  non  risparmiando  cura  alcuna  »,  com'egli  dichiara  nell'Avvertenza. 
Naturalmente  l' intonazione,  i  caratteri  fondamentali  e  l'aspetto  esteriore  dell'opera 
sono  rimasti  gli  stessi:  il  pensiero  dell'Amatucci,  partito  dalla  convinzione  che 
nella  letteratura  latina  entrano  molti  elementi  italici,  e  forte  del  giudizio  cice- 
roniano che  i  Bomani  migliorarono  ciò  che  presero  dai  Greci,  viene  culminando 
nell'ali'ermazione  che  la  letteratura  romana  «  diede  il  primo  grande,  forte,  dura- 
turo impulso  alla  trasformazione  del  civis  antico  nell'uomo  moderno  »,  ed  «  è  per 
questo  la  letteratura  che  ha  esercitato  maggiore  influenza  nelle  sorti  dell'umanità  » 
(p.  7).  Il  sentimento  della  humaiiitas  germogliato  dal  patriottismo,  sentimento  ma- 
teriato di  ansie  e  di  speranze,  si  riflette  nella  letteratura  del  periodo  aureo  (Vir- 
gilio è  il  «primo  poeta  dei  tempi  nuovi»),  la  quale  compie  la  romanizzazione  dei 
generi  letterari  presi  dalla  Grecia,  e  suggerisce  ad  Augusto  i  nuovi  ideali  religiosi 
e  civili  per  l'assetto  politico  dell'impero.  Dopo  Augusto  il  governo  dispotico  an- 
nienta l'attività  del  civis;  e  l'uomo,  concentrato  in  se  stesso,  sente  aumentare  i  bi- 
sogni dello  spirito,  che  la  civiltà  classica  da  sola  non  basta  più  ad  appagare 
(p.  112):  da  ciò  il  diverso  atteggiamento  degli  animi,  l'incertezza  del  pensiero  e 
l'indeterminatezza  della  forma^  che  caratterizza  questo  periodo  di  transizione,  il 
quale,  attraverso  lo  sforzo  per  trovare  un  ideale  novello  che  rischiari  la  vita  e 
l'arte,  prepara  la  fusione  del  pensiero  romano  col  pensiero  cristiano  (p.  173). 

Questi  sono  i  concetti  generali  dell'opera,  senza  dubbio  attraentissimi  ed  in 
gran  parte  profondamente  giusti:  era  tempo  ormai  che  qnalcheduno  osasse  di 
esprimere  un'opinione  propria  sui  caratteri,  le  qualità  e  l'importanza  della  let- 
teratura romana,  affrontando  coi  documenti  alla  mano  le  att'ermazioni  della  critica 
tedesca,  la  quale  ha  sempre  dimostrato  una  forte  tendenza  a  svalutare  le  creazioni 
del  pensiero  e  dell'arte  romana.  Non  dirò  con  questo  che  tutte  le  conclusioni  del 
valoroso  Autore  giungano  egualmente  a  persuaderci.  Pochi  vorranno  credere,  per 
esempio,  che  gli  scrittori  dell'età  augustea  ispirassero  l'opera  politica  dell'impe- 
ratore; né  vien  confutata  abbastanza  la  «diceria  di  antichi  grammatici»,  che  è 
poi  l'opinione  comune  accettata  anche  dal  Norden,  secondo  la  quale  Ottaviano  si 
sarebbe  circondato  dei  letterati  migliori  per  farli  servire  al  suo  programuìa  di  re- 
staurazione civile.  Forse  in  questo  caso  la  via  di  mezzo  è  proprio  la  pili  giusta: 
la  corte  e  la  letteratura  furono  certo  l'uua  all'altra  di  reciproco  giovamento,  ma 
né  la  ragione  dì  stato  dipendeva  dall'inno  del  poeta,  né  questo  si  peritava  di  al-* 
zare  il  suo  volo  oltre  l'aere  crasso  in  cui  si  aggirava  il  calcolo  politico  del  suc- 
cessore di  Cesare.  Del  resto  dovremmo  ripetere  per  questo  volume  qualcuna  delle 
osservazioni  che  il  Prof.  Eamoriuo,  con  la  sua  solita  competenza  ed  imparzialità, 
rivolse  al  precedente  i)  :  il  desiderio  di  controbattere  la  critica  alemanna  e  il  di- 
segno nobilissimo  di  tratteggiare  vivamente  lo  sfondo  italico  della  letteratura  ro- 
mana conducono  talora  a  concezioni    che    non  rispondono  pienamente  alla    realtà 


^)  Il  nazionalismo  negli  studi  dell'antichità  romana  ih  Atene  e  Jiotna,  XV,  160-Cl-t2,  col.  144  sgg. 


L'eeensioni  141 


delle  cose  ')  ;  ma  sono  mende  le  quali  si  fauno  facilmente  perdonare  per  lo  spirito 
profondamente  italiano,  che  informa  tutto  il  libro  e  scende  a  vibrare  nell'anima 
del  lettore. 

Non  posso  però  tacere  che  sulla  fine  l'opera  appare  alquanto  monca.  L'Ama- 
tucci non  parla  affatto  dei  cristiani,  perchè,  egli  dice,  questa  «  nuova  fiorente  let- 
teratura non  si  può  intendere  senza  uno  studio  profondo  del  pensiero  cristiano 
pur  ne'  suoi  precedenti.  Essa  va  dunque  trattata  a  parte  »  (p.  198).  Non  so  se  egli 
si  proponga  di  scrivere  un  IH  volume  sulla  letteratura  cristiana  :  certamente  non 
gliene  manca  la  preparazione  e  la  competenza,  come  si  vede  dal  modo  in  cui 
tratta  la  fusione  tra  il  pensiero  classico  e  l'ideile  cristiano;  ma  intanto,  se  puro 
egli  scriverà  il  III  volume,  questo,  per  molte  ragioni,  non  potrà  entrare  nell'uso 
comune  de'  licei,  e  si  perpetuerà,  anzi  si  accentuerà  quella  lacuna  che  giustamente 
si  lamenta  nella  nostra  coltura  nazionale.  La  letteratura  dell'ultimo  secolo  del- 
l'impero è  importantissima  sia  per  se  stessa,  perchè  costituisce  veramente  una  fio- 
ritura nuova,  che  si  apre  con  Ausonio  ed  allunga  le  sue  propaggini  per  tutto  il 
medio  evo,  sia  per  la  storia  nazionale  ed  universale,  perchè  ci  presenta  tutte  le 
trasformazioni  e  le  transazioni  fra  il  paganesimo  e  il  cristianesimo,  fra  il  nazio- 
nalismo classico  e  la  procellosa  universalità  medievale,  fra  Jina  moltitudine  cao- 
tica di  elementi  etnici  e  ideali,  che  vengono  ad  urtare  e  a  fondersi  scambievol- 
mente. Si  tratta  di  nn'epoca  storica  e  letteraria  che  ci  riguarda  molto  da  vicino, 
come  quella  in  cui  avviene  il  passaggio  dall'antica  all'  Italia  di  mezzo,  e  molte 
cose  ha  da  insegnarci  specialmente  in  quest'ora  terribile,  che  matura  nuovi  de- 
stini all'umanità. 

E  gli  scrittori  di  questo  periodo  hanno  bisogno  di  essere  studiati  insieme,  senza 
preconcetto  e  senza  distinzione  fra  pagani  e  cristiani,  perchè  Io  studio  degli  uni 
serve  all'intendimento  degli  altri,  e  non  è  raro  il  caso  che,  come  i  cristiani  at- 
tingono abbondantemente  dai  classici,  così  i  pagani  prendano  spiriti  e  immagini 
dal  cristianesimo.  Ma  l'Amatucci  ha  parlato  piuttosto  poco  e  forse  non  sempre 
giustamente  ambe  dei  pagani  di  questa  età:  «  scrittore  egualmente  elegante  » 
chiama  Eutilio  in  confronto  di  Claudiano,  mentre  Rutilio  è  sì  importante  per  il 
contenuto  e  pregevole  per  la  sincerità  del  sentimento,  ma  resta  ben  lontano  dalle 
bellezze  formali  e  dagli  alti  concetti  che  s'  incontrano  nel  cantore  di  Proserpìna 
e  di  Stilicone.  Ammettiamo  pure  che  Claudiano  sia  ricorcato  ;  ma  i)erchè  l'Autore 
afferma  :  egli  «  ha  avuto,  a  parer  nostro,  da  antichi  e  moderni  lodi  superiori 
a'  suoi  meriti  reali  »?  L'Amatucci  sa  che  ben  pochi  scrittori  sono  stati  imitati  da 
sommi  ingegni  con  la  stessa  fortuna  di  Claudiano,  da  cui  il  Poliziano  ha  para- 
frasato molte  delle  sue  cose  più  belle,  e  l'Ariosto  e  il  Tasso  hanno  preso  lo  spunto 
di  immagini  e  creazioni  divine  :  non  gli  pare  che  questo  ridondi  tutto  ad  onore 
del  poeta  e  dell'arte  sua?  Anche  il  diseguo  ed  i  caratteri  almeno  de  De  rapiu 
Froaerpinae  avrebbero  potuto  essere  accennati  :  ci  dà  dei  sunti  così  utili  ed  oppor- 
tuni per  le  opere  delle  età  precedenti  !  perchè  nulla  di  questa  ? 

Sarebbe  pertanto,  a  mio  parere,  desiderabile  che  il  chiaro  Autore  in  una  se- 
conda edizione,  che  auguriamo  prossima,  ampliasse  gli  tiltimi  capitoli  del  II  vo- 
lume ed  aggiungesse  ciò  che  vi  manca.  Tuttavia,  anche  così  com'è,  questo  bel  libro 
merita  la  migliore  fortuna,  perchè  è  un  testo  ottimo  i)or  la  gioventìi,  che  vi  tro- 
ll Per  esempio  è  forse  troppo  afttìrmaro  che  «  la  letteratura  romana  dal  I  al  V  secolo  è  l'espres- 
sione del  pensiero  italico....  »,  perchè  proprio  in  questo  periodo  si  compie  la  irresistibile  invasione  di 
elementi  stranieri 


142  Eecensioni 


vera  sano  aliiueuto  per  la  formiizione  di  una  coltura  e  di  un  carattere  italiani, 
ed  è  non  meno  ntile  per  le  sue  note  illustrative  e  bibliogratiche  alla  comune  degli 
studiosi,  fra  i  quali  era  fortemente  sentito  il  bisogno  di  una  guida  facile  ed  ac- 
cessibile a  tutti. 

Aprile  del  1918. 

P.  Fabbri. 


G.  Sanna.  La  Cicilia  del  Mediterraneo.  Voi.  I,  dai  tempi  più  antichi  all'anno  887 
d.  C.  —  Napoli,  Casella,  191B;  pp.   VII-401. 

£  un  libro  modestamente  destinato  alle  scuole  medie  italiane,  e,  per  quanti) 
ne  sieno  state  fatte  delle  tirature  speciali  ad  uso  dei  Ginnasi,  particolarmente  «kIì 
Istituti  Tecnici.  Tuttavia,  anzi,  direi  quasi,  appunto  per  rjuesta  ragione,  è  ben 
che  ne  sia  fatto  un  cenno  anche  su  queste  colonne,  dato  il  carattere  speciale  che 
esso  ha  e  che  lo  rende  altamente  benemerito  della  scuola  e  della  cultura.  Anzi- 
tutto mi  preme  di  rilevare  il  pregio  suo  jnù  immediatamente  notevole:  è  un  libro 
scritto  bene,  in  un  ottimo  italiano,  con  una  forma  limpida  e  scorrevole,  come  di 
rado  si  trova  in  volumi  del  genere,  i  quali  risentono  più  o  meno  la  fretta  del 
compilatore  e  la  non  completa  fusione  delle  fonti  onde  egli  si  è  servito.  Invece 
il  S.  ha  scritto  delle  pagine  che  si  leggono  tutte  di  un  fiato,  e  che  rendono  pia- 
cevole l'opera  sua  anche  a  chi,  ahimè  !,  da  troppo  lunghi  anni  ha  abbandonato  i 
banchi  scolastici. 

A  questo  bisogna  aggiungere  un  altro  pregio  non  piccolo.  L'  A.  non  ha  fatto 
una  delle  solite  compilazioni,  che,  in  fondo,  non  sono  se  non  una  filza  più  o  meno 
lunga  di  fatterelli  e  di  aneddoti,  tra  i  quali  chi  legge  non  riesce  a  raccapezzare 
il  filo  conduttore  e  quell'intimo  legame  storico,  senza  del  quale  i  fatti,  presi  a  sé, 
non  dicono  proprio  nulla,  e  non  significano  niente.  Egli  presenta  qui  un  vero  e 
proprio  sistema  storico,  nel  quale  i  fatti,  collegati  a  grandi  linee  tra  loro,  sono 
poi  tutti  disposti  in  maniera  da  mirare  alla  dimostrazione  del  modo  in  cui  è  sorta, 
si  è  sviluppata,  è  finalmente  decaduta  la  grande  civiltà  del  Mediterraneo,  e  s]>e- 
cialmente  della  Grecia  prima  e  di  Roma  poi.  E,  per  far  capire  nella  sua  interezza 
tutta  questa  meravigliosa  Civiltà,  l'A.  non  parla  soltanto  delle  guerre  fatte  e  delle 
vittorie  o  delle  sconfitte  riportate  o  subite  dai  popoli  la  cui  vita  rientra  nel  qua- 
dro eh'  egli  ha  composto,  ma  espone  anche  le  tracce  della  loro  vita  spirituale, 
nella  sua  duplice  manifestazione  di  letteratura  e  di  arte  figurata.  Questo  è  per 
me  il  lato  piìi  bello  del  libro,  nel  quale  quanto  di  meglio  hanno  prodotto  nel 
campo  letterario  ed  artistico  tutti  i  popoli  del  bacino  del  Mediterraneo  è  saga- 
cemente illustrato  e  precisamente  esposto.  Anche  se  qua  e  là  si  può  dissentire  nei 
giudizi  espressi  su  qualche  opera  e  qualche  autore  antico  ;  anche  se  —  non  fre- 
quentemente, però  —  è  dato  di  rilevare  alcuni  veri  e  propri  errori  di  apprezza- 
mento e  di  fatto  ;  tuttavia,  come  sintesi,  e  specialmente  come  sintesi  destinata  a 
mostrare  la  coordinazione  di  tutti  gli  elementi  di  vita  e  di  civiltà  in  una  linea 
evolutiva  che  procede  diritta  dal  principio  alla  fine,  non  si  potrebbe  desiderare 
di  meglio.  .Appunto  per  questa  ragione  ho  voluto  mettere  in  rilievo  i  pregi  del 
libro  :  se  tutti  quelli  destinati  alle  nostre  scuole  non  classiche  facessero  tanto  bene 
e  giovassero  attrettanto  alla  conoscenza  della  vita  classica,  il  classicismo  potrebbe 
dire  di  aver  fatto  un  buon  passo  innanzi  e  di  aver  vinto  una  bella  vittoria.  Il  S. 
ha  .scritto  delle  pagine  ottime,  ({uando  ha  parlato  della  civiltà  Greca  e  Romana, 


Eeeensioni  143 


e  quando  ha  narrato  ]a  sna  trasformazione  soprattutto  per  impulso  del  Cristiane- 
simo, del  quale  mette  in  luce  i  principi  ed  i  caratteri  (forse  con  po'  troppo  di  spi- 
rito alla  Renan  '.}. 

È  per  questo  che  il  volume,  destinato  alle  scuole,  meriterebbe  invece  uua  i)i{i 
ampia  ditì'usione,  specialmente  tra  lo  persone  più  o  meno  colte,  non  nutrite  di 
studi  classici.  Sarebbe  la  sua  fortuna  davvero  meritata. 

Nella  prossima  edizione,  che  auguro  venga  fatta  a  breve  scadenza,  sarelibe 
opportuno  che  venissero  introdotte  due  modificazioni.  Ho  già  detto  di  sopra  che 
il  S.  si  preoccupa  specialmente,  per  dir  cosi,  della  linea  degli  avvenimenti.  E  fa 
benissimo.  Ma  per  questo  trascura  un  po'  troppo  la  parte  leggendaria  ed  aneddo- 
tica della  storia.  La  quale  h  pur  necessaria  in  un  libro  che  deve  andar  per  le 
mani  degli  scolari,  e  potrebbe  del  resto  venir  facilmente  introdotta  sotto  forma 
di  note  o  con  distinzione  di  carattere  tipografico.  Ne  guadagnerebbe  così  anche 
la  completezza  della  esposizione,  che,  accanto  all'elemento  di  fatto  inchiderebb© 
anche  quello  meno  ponderabile,  ma  sempre  importante,  che  è  dato  dalla  tradizione. 
In  secondo  luogo  occorre  che  la  prossima  edizione  sia  corredata  di  molte  figure 
e  di  carte  geografiche,  che  ora  mancano  affatto.  In  un  libro  riassuntivo  non  si  può 
parlare  d'arte  che  per  via  di  brevissimi  accenni,  i  quali  non  possono  dare  la  luce 
che  meritano  le  opere  onde  si  discorre.  Le  figure  valgono  assai  più  di  un  cenno 
o  di  una  descrizione,  e,  quel  eh' è  meglio,  servono  ad  imprimere  nella  mente  di 
chi  legge,  in  maniera  indelebile,  l'immagine  di  quel  che  di  bello  e  di  grande  l'arte, 
soi)rattutto  quella  classica,  ha  prodotto. 


N.  Terzaghi 


LIBRI  RICEVUTI  IN  DONO 


Pubblicazioni  dell'  «  Atene  e  Roma  »,  Seziono  di  Milano  :  C.  Pascal.  Jttilio  De 
2Iarchi.  Segue  uua  bibliografia  degli  scritti  del  Dk  Marchi  composta  dal  prof. 
A.  Calderini,  1916,  iu-8,  p.  42.  L.  1. 

G.  Zuccantk.  /  Cirenaici,  1916,  in-8,  p.  40.  L.   1. 

P.  Savi-Lopez.  Il  ritorno  degli  dei,  1916,  iu-8,  p.  29.  L.  1. 

«  Bibliotheca  Scriptorum  Graecorum  »  pubblicata  dalla  ditta  G.  B.  Paravia  :  Eu- 
ripide.  Gli  Eraclidi  comment.  da  G.  Ammendola,  p.  126.  L.  1,80. 

EuRiPiDis.  Andromache  curante  Josepho  Ammendola,  p.   50.   L.  0,60. 

Euripide.  Andromaca  comment.  da  G.  Ammendola,  p.  153.  L.  2. 

SoPHOCLis.   Philoctetes  curante  H.  De  Marchi,  p.  76.  L.  0,80. 

E.  Cocchia.  Il  ritmo  del  discorso  studiato  in  rapporto  alla  pronuncia  e  alla  lettura 
dei  versi  classici.  (Estr.  dall'  «  Athenaeum  »,   1916,  fase.  II).  Pavia,  1916,  p.  38. 

—  —  Jl  ritmo  del  discorso  studiato  in  rapporto  col  fenomeno  della  distrazione  omerica, 
della  legge  di  posizione  e  della  evoluzione  dei  suoni.  (Estr.  dalle  Memorie  della 
R.  Accad.  di  Napoli,  N.  S.  voi.  V.,  p.  153-216),  Napoli,   1916. 

Uè  Vallanriano  praemio  adiudicando  liiteris  latinis  in  quadriennium  Ì911-1914  pro- 
posito scripsit  H.  Stampini.  Torino,  Bona,  1916,  in-8,  p.  7. 

In  honorem  l'auli  Boselli  scripsit  H.  Stampini.  —  Honori  Pauii  Boselli  gloriae  terre- 
slris  exercitus  maritimae  atque  aeriae  classium  prò  patria  pugnantium  D  scripsit 
H.  Stampini. 


144  Libri  ricevuti  in   dono 


O.  Caiati.  Una  nuora  ipotesi  sulle  origini  dell'incendio  neroniano.  (Estr.  dalla  «  Ri- 
vista d'Italia  »,  Maggio,  1916,  p.  705-728). 

G.  Ammkndola.  Andromaca  sposa  e  madre  in  due  tragedie  di  Euripide.  (Estr.  da 
«  Humanitas  »,  Rassegna  della  Rep.  di  S.  Marino,  II,  5),   3  916,  p.   7. 

C.  Pascal.  Commemorazione  di  Giovanni  Canna.  (Estr.  dal  «  Rendiconti  del  R.  Istit. 
Lorab.  »,  voi.  XLIX,  p.  409-427).  Milano,  1916. 

Il  discorso  (i'iPKRiDE  in  onore  dei  caduti  nella  guerra  Lamiaca  trad.  per  la  i)riiua 
volta  in  ital.  da  L.  Lkvi.  A^enezia,  G.  Fuga,  1916,  in-8  gr.,  p.  23.  L.  1,50. 
[Si  vende  a  benefìcio  del  Comitato  per  gli  Irredenti]. 

G.  Bellissima.  Aulo  Gellio  cowpendiatore  di  T.  Livio  ?  Siena,  Tip.  F.iì.  S.  Bernar- 
dino, 1916,  in-8,  p.   13. 

—  —  Per  la  partecipazione  degli  alunni  del  li.   Liceo  di  Siena  al   Prestito  Nazionale 

del  1916.  Siena,   1916,  in-8,  p.   10. 

—  —  Le  monete  consolari  esistenti  nel  Museo  dei  Fisiocrilici .  I.  Prospetti.  (Estr.  da- 

gli Atti  della  R.  Acoad.  dei  Fisioeritici).  Siena,  1916,  in-8,  p.  17. 
G.  Ammkndola.  V Andromaca  di  Euripide  [traduzione].  Como,  Tip.  Longatti,  1915, 

in-8,  p.  22. 
G.  Patroni.  Antropologia  e  storia  antica  ;  a  proposito  di  due  libri  recenti.  (Estr.  dai 

«  Rendiconti  della  R.  Aecad.  dei  Lincei»,  voi.  XXIV,  7-8).   Roma,  1916,  p.  46. 
■^  Atilius  Dr-Marchi.  Disticha.  Milano,   1915,  in-8,  p.  12. 
G.  Costa.  Ancora  sulla  Lavdatio  Turiae.  (Estr.   dal  «  BuUettino  della    Comm.  Ar- 

cheol.  Coniun.,   1915).  Roma,  Loescher,  1916,  in-8,  p.  40,  con  una  tavola. 
\V.  A.  Oldfather.   Ivscrijìtions  front  Locris.  (Repr.  from   «  The  Aiuerican  Journal 

of  Archeol.  »,  Second  Series,  Voi.  XIX,   1915,  p.  320-339). 

The  Varus  Episode.  (Repr.  from  «  The  Classical  Journal  »,  XI,  1916,  p.  226-36). 

G.  Glotz.  Le  droit  des  gens  dans  l'antiquité  grecque.   (Mémoires  de  l'Académie  des 

Inscriptions  et  Belles-Lettres).  Paris,   1915,   in-4,  p.   17. 
Ed.  Cuq.    Une   statistique   de   locaux   affectés   à    Vhabitation  dans  la  Eome  imperiale. 

(ibid.),  Paris,  1915,  in-4,  p.  61. 


Date  le  difficili  condizioni  del  lavoro  tipografico,  anche 
questo  fascicolo  esce  con  molto  ritardo.  —  I  nostri  soci  ed 
abbonati  ci  terranno  conto  di  avere  sinora  mantenuto  inva- 
riato il  numero  delle  pagine,  nonostante  l'enorme  aumento 
nel  prezzo  della  carta.  Forse  saremo  costretti  ad  una  qiial- 
che  riduzione  nei  fascicoli  successivi. 

LA  DIREZIONE. 


P.    E.  Pavolini,  Direttore.  —  Giuseppe  Santini,   Gerente  responsabile. 
600-91G    -  Firenze,  Tip.  Enrico  Ariani,  Via  Ghibellina,  51-53. 


Anno  XIX. 


Luglio-Agosto-Settembre  1916. 


N.  211-212  213 


Al^ENE  E  ROMA 

BULLETTINO  DELLA  SOCIETÀ  ITALIANA 

PER  LA  DIFFUSIONE  E  L'INCORAGGIAMENTO  DEGLI  STUDI  CLASSICI 

Sede  centrale:  FIRENZE,  Piazza  S.  Marco,    2 


Direzione  del  Bullettino  Abbonamfnto  annuale.     .  L.  8  — 

FIrenie  -  2,  Piaiza  8.  Mnroo       D"  fascicolo  separato        .  .   1  — 


Amministrazione 

Viale  Principe  Eugenio  29,  FIrente 


L'  ORIGINE  BEL  '  NURAGHE  '  SARDO 

E  LE  RELAZIONI  DELLA  SARDEGNA  CON  L'ORIENTE 


I  lettori  di  questo  Bullettino  non  avranno  certo  dimenticato  il 
bell'articolo  di  G.  G.  Porro  intorno  a,gV  Influssi  dell'oriente  preellenico 
sulla  civiltà  primitiva  della  Sardegna  M.  Caduto  gloriosamente  per  la 
patria,  l'autore  non  potè  vederlo  pubblicato,  ne  io  ebbi  la  consolazione 
di  poter  manifestare  al  giovane  collega  il  mio  compiacimento  pel  suo 
eccellente  lavoro,  e  insieme  di  poter  richiamare  la  sua  attenzione  so- 
pra qiuilcbe  punto  che  aveva  bisogno  di  essere  approfondito  e  chia- 
rito. E  il  mio  compiacimento  per  lo  scritto  del  Porro  era  ed  è  tut- 
t'altro  che  impersonale;  poiché  io  vedevo  in  quello  fruttificare  per 
gran  parte  la  semenza  d' idee  da  me  gettata  (specialmente  nella  me- 
moria su  Nora)  intorno  ai  piìi  ardui  problemi  della  preistoria  sarda 
ed  ai  rapporti  dell'isola  con  l'oriente;  e  vedevo  un  giovane,  che  pur 
non  era  stato  alla  mia  scuola,  dopo  avere  coscenziosamente  studiato 
l'argomento,  trovare  che  «  ancor  oggi  »  dopo  tanti  anni,  le  soluzioni 
da  me  proposte  si  presentano  come  «  le  più  giuste  ».  Lealtà  ignota 
agl'invidiosi  d'ogni  età  ed  a  taluni  '  arrivisti  '  modernissimi. 

Non  del  tutto  esatto  è  però  il  posto  assegnatomi  dal  Porro  tra 
i  fautori  della  tesi  che  i  Shardana  «  non  fossero  altri  che  i  Proto- 
sardi ».  Senza  dubbio,  io  ammetto  che  alla  spedizione  contro  l'Egitto 
prendessero  parte  gli  abitanti  dell'isola  di  Sardegna,  che  già  dove- 
vano avere  sviluppata  una  civiltà  con  caratteri  propri;  ma  ammetto 
pure  che  a  costituire  questa  civiltà  contribuissero  elementi  etnici 
venuti  dall'oriente;  anzi  ammetto  perfino  che  questi  elementi   etnici 


1)  Cfr.   A.  e  B.,  XVIII,   1915,  pag.   145  sgg. 

Atene  e  Rorna. 


146  <?.  Patroni 


(che  non  è  necessario  credere  numerosi,  né  arrivati  tutti  in  una  volta, 
così  come  né  l'una  cosa  né  l'altra  sono  necessarie  per  gli  Etruschi) 
portassero  essi  dall'oriente  il  nome  di  Shardana,  lasciando  tracce  di 
sé  nei  paesi  d'origine  e  lungo  la  via,  e  formando  un  parallelo,  o  se 
si  vuol  meglio  un  precedente,  dei  Tirreni-Etruschi  ').  Siccome  ix)i 
tale  infiltrazione,  affatto  preistorica,  avrebbe  avuto  luogo  prima  delle 
guerre  contro  l' Egitto  (sec.  XIII-XII  a.  C.)  e  con  esse  non  avrebbe 
il  minimo  rapporto,  così  questo  fatto  storico  non  ha  per  me  in  al- 
cun modo  la  importanza  che  ha  per  i  sostenitori  di  altre  tesi,  p.  es. 
per  coloro  che  fanno  arrivare  i  Shardana  in  Sardegna  dopo  le  guerre 
egizie,  ovvero  per  quegli  altri,  i  quali  delle  probabilità  che  i  Sbar- 
dana combattenti  in  Egitto  fossero  appunto  i  Sardi  isolani,  si  val- 
gono per  accentuare  il  carattere  occidentale  della  civiltà  di  Sardegna. 
Sebbene,  quindi,  nel  valutare  i  rapporti  tra  la  Sardegna  e  l'an- 
tico oriente,  io  adoperassi,  come  riconosce  il  Porro,  parole  «misurate», 
tuttavia  quelle  relazioni  io  credevo  e  credo  piti  intense  e  più  fonda- 
mentali per  le  origini  stesse  della  singolare  civiltà  dei  nuraghi,  che 
il  Porro  medesimo  non  abbia  ammesso.  Credo  anzi  che  lo  stesso  edi- 
ficio nuragico  sia  d'origine  orientale,  e  che  la  spiegazione  della  ge- 
nesi del  nuraghe,  sostituita  oggi,  dopo  la  luce  apportata  dai  benemeriti 
ricercatori  Taramelli  e  Nissardi,  a  quella  erronea  del  Pinza,  sia  da 
dichiarare  essa  medesima  oltrepassata  ed  inesatta.  Dimostrare  ciò,  è 
lo  scopo  di  questo  scritto. 

* 
*  * 

La  genesi  del  nuraghe  é  oggi  spiegata,  come  diceva  il  Porro, 
mediante  l' ipotesi  della  discendenza  di  esso  «  dalla  capanna  circolare 
neolitica,  coperta  di  rami  e  di  frasche  ».  Qui  però  il  valente  giovane 
si  espresse  poco  chiaramente,  come  accade  spesso  a  chi  riassume  ma- 
teria a  lui  nota,  ed  é  tratto  a  supporre  in  altri  egual  notizia  delle 
cose,  sì  che  possano  bastare  cenni  anche  imperfetti.  Ma  i  lettori  non 
archeologi  o  non  versati  nella  materia  avranno  anche  potuto  credere 
che  la  capanna  madre  del  nuraghe  sia  supposta  già  con  pareti  di 
pietra,  cilindriche,  e  soltanto  coperta  di  rami  e  di  frasche;  sicché 
tutta  la  novità  del  tipo  si  ridurrebbe  alla  sostituzione  della  copertura, 
alla  trasformazione  di  un  tetto  rotondo  in  una  cupola  ottenuta  per 
aggetto  progressivo  dei  filari  di  pietre  soprapposti.  Una  tal  capanna 
non  esiste,  o  non  é  quella  del  neolitico  europeo  e  mediterraneo;  me- 


')  Nora,  colonia  fenicia  in  Sardegna,  in  Mon.  dei  Lincei,  XIV,  col.  1.50,  in  nota. 


I/orlgine  del  '  Nuraghe^  Sardo  e  le  relazioni  della  Sardegna  con  Variente  147 

glio  sarebbe  stato  dire  «  costruita  »  anziché  «  coperta  ».  Ma  perchè 
la  cosa  sia  più  chiara,  sarà  utile  esporre  più  ampiamente,  con  le  pa- 
role del  Taramelli,  cui  il  Porro  rimandava  in  nota,  la  teoria  che  qui 
mi  propongo  di  mostrare  errata. 

«  [Il  nuraghe]  nasce  direttamente  dalla  capanna  di  frasche  e  di 
«  fango,  dalla  capanna  di  pali  rotonda,  tipica  delle  popolazioni  primi- 
«  tive,  rotonda  perchè  ha  per  centro  il  focolare,  con  alta  copertura, 
«  forata  nel  centro,  con  volta  ottenuta  dal  graduale  restringersi  del 
«  frascame.  Da  questo  motivo  fondamentale  ha  nascita  il  nuraghe, 
«  che  ne  è  la  tranformazione  diretta  ed  è  prova  di  ardimento  costrut- 
«  tivo,  oltre  che  della  coesione  disciplinata  della  famiglia  che  lo  ha 
«  costrutto.  A  questo  stadio  architettonico  la  gente  di  Sardegna  giunse 
«  prima,  giunse  forse  sola  fra  le  genti  del  Mediterraneo,  mentre  in- 
«  vece  presso  le  genti  preistoriche  della  Grecia,  di  Greta  e  della  Si- 
«  cilia  si  continuarono  le  costruzioni  delle  capanne  modeste....  »  ') 
(cioè  di  pali  e  frasche). 

Ecco  ora,  di  contro  a  questa  teoria,  la  mia  tesi: 

il  nuraghe  sardo  non  deriva  dalla  capanna  preistorica  (neoli- 
tica) europeo-mediterranea  di  pali  e  frasche,  bensì  dalla  capanna  co- 
nica di  mattoni  crudi,  d'origine  asiana  (caldea),  trasferita  in  Sar- 
degna dalle  spiagge  dell'Egeo,  ove  essa  è  rappresentata  in  strati 
premicenei. 


* 


Non  è  necessario  spendere  molte  parole  nella  confutazione  della 
teoria  che  deriva  il  nuraghe  sardo  dalla  capanna  di  pali  e  frasche. 
Potrei  anzi  entrare  direttamente  nella  dimostrazione  della  mia  tesi. 
Tuttavia  non  credo  del  tutto  inutile  accennare  brevemente  che,  an- 
che senza  la  mia  nuova  teoria,  ed  anche  se  non  fosse  possibile  arri- 
vare oggi  ad  una  teoria  fondata,  non  mancano  diflflcoltà  intrinseche, 
le  quali  costringerebbero  ad  andar  molto  ma  molto  adagio  nell'accet- 
tare  la  derivazione  suggerita  dal  Taramelli.  Si  potrebbe  anzitutto 
domandare  perchè  mai  la  sola  Sardegna  avrebbe  data  della  capanna 
di  pali  e  frasche  una  così  esageratamente  ingrandita  e  appesantita 
traduzione  lapidea,  com'è  il  nuraghe.  Che  altro  è  conservare  e  svi- 
luppare un  tipo  ricevuto,  altro  è  crearlo.  È  facile,  o  non  difìBcile,  in- 
dicare le  ragioni  per  cui  la  Sardegna  si  attenne    sostanzialmente  al 


')  A.  Taramklli  e  F.  Nissardi,  L'altipiano  della  Giara  di  Geaturi,    in    Mon. 
dei  Lincei,  XVIII,  col.   ]14.  Il  corsivo  non  è  dell'antore. 


148  O.  Patroni 


tipo  primitivo  della  casa  rotonda  monocellulare,  portandolo  allo  svi- 
luppo massimo  di  torre  con  cupola  e  con  particolari  complicati;  e  in- 
vece non  accettò  i  tipi  i)rogrediti  della  casa  orientale  e  mediterranea, 
né  quello  a  megaron,  ne  quelli  che,  pur  non  avendo  una  sala  pre- 
ponderante, hanno  in  comune  col  tipo  rappresentato  a  Troia,  Tirinto 
e  Micene,  e  con  altri  tipi  orientali  ed  egizi,  la  corte  intorno  a  cui 
si  distribuiscono  le  stanze  (come  nei  palazzi  minoici,  di  tipo  diverso 
da  quelli  a  megaron).  E  ben  si  può  consentire  col  Taramelli  e  col 
Porro,  che  la  ragione  probabile  di  questo  mancato  accoglimento  dei 
tipi  rettangolari  piìi  sviluppati,  da  parte  dei  Protosardi,  «  è  da  ricer- 
«  carsi  nella  loro  costituzione  sociale,  nella  mancanza  di  unità  in- 
«  tema  e  nella  scarsa  sicurezza  delle  spiagge,  formanti  un  ambiente 
«  in  contrasto  con  la  serena  tranquillità  cretese,  quale  ci  appare  dai 
«  vasti  palazzi  regali,  non  troppo  saldamente  difesi,  dalle  ville  fidu- 
«  ciosamente  erette  a  breve  distanza  dal  mare».  Ma  quando  noi  avremo 
approvato  il  contenuto  di  questo  periodo,  ci  saremo  si  reso  conto  del 
persistere  del  nuraghe,  non  già  dell'origine  di  esso. 

Ancor  più  grave  è  forse  un'altra  obbiezione.  Il  Taramelli,  di  cui 
non  per  nulla  abbiamo  voluto  riferire  le  parole,  ammette  che  la  ca- 
panna di  pali  e  frasche,  precorritrice  e  madre  del  nuraghe,  avesse 
uh'  «  alta  copertura  ».  Ma  noi  di  ciò  non  sappiamo  nulla  ;  i  dati 
della  etnografia  indicano  l'esistenza  di  capanne  di  materiale  leggero 
tanto  di  forma  alta,  quanto  di  forma  bassa,  come  quelle  dei  Waganda, 
e  perfino  emisferiche  o  ancor  più  schiacciate,  come  quelle  dei  Cafri. 
Chi  ci  dice  che  in  Sardegna  esse  abbiano  avuto  la  forma  alta?  Le 
capanne  neolitiche  europeo-mediterranee  erano  anzi  semisotterranee, 
e  la  loro  copertura  si  presume  bassa  e  non  alta,  come  si  può  desu- 
mere dai  fondi  che  ne  avanzano.  Che  se  poi  si  fosse  trattato  di  ca- 
panne tutte  piantate  sopra  il  suolo,  esse  non  potevano  essere  sostan- 
zialmente diverse  da  quelle  della  prima  età  del  ferro,  di  cui  abbiamo 
imitazioni  contemporanee  nelle  ben  note  urne  a  capanna  italiane.  E 
queste  sono  a  tetto  basso  o  bassissimo,  specialmente  poi  nella  forma 
testudinata  (che  sola,  e  non  la  fastigiata,  poteva  servir  di  modello  a 
una  cupola).  iSi  veda  l'urna  a  cai)anna  di  Vetulonia  del  Museo  di  Fi- 
renze, notissima  e  riprodotta  dal  Milani  fin  dalla  prima  edizione  del 
suo  Museo  topografico  dell'  Etruria.  Analoghe  sono  due  urne  fittili  a 
capanna  di  Festo  (Creta).  Aggiungi  poi  che  il  clima  della  Sardegna, 
tormentata  da  venti  fortissimi,  avrebbe  consigliato,  se  mai,  di  spro- 
fondare del  tutto  le  capanne  nel  suolo,  o  di  costruirle  più  basse  che 
fosse  possibile,  a  meno  di  non  volerle  vedere  balzare  in  aria  più  volte 


L'origine  del  'Nuraghe  '  Sardo  e  le  relazioni  della  Sardegna  con  l'oriente  149 

all'anno  a  guisa  di  cervi  volanti.  Basso  e  non  alto  è  pare  il  tetto 
delle  capanne-ricovero  dei  pastori  laziali,  che  ci  conservano  il  tipo 
preistorico,  mentre  si  trova  qualche  indicazione  di  tetto  alto  e  molto 
spiovente  nelle  urne  a  capanna  della  Germania,  e  si  può  ragione- 
volmente presumere  una  più  alta  forma  di  copertura  nei  paesi  dal- 
l'inverno nevoso,  ciò  che  non  è  certo  il  caso  della  Sardegna.  Per 
concludere  su  questo  punto,  non  vi  è  nessuna  ragione  tectonica  che 
obblighi  il  costruttore  di  capanne  di  pali  e  frasche  a  tenere  alto  il 
tetto  ;  e  presumere  che  lo  facessero  proprio  i  Protosardi,  per  poter 
da  così  fatte  capanne  derivare  i  nuraghi,  è  una  petizione  di  principio 
contraria  ad  ogni  dato  attendibile. 

* 
«  » 

Se  nulla  fosse  rimasto  ad  attestarci  uno  stadio  di  sviluppo  re- 
motissimo, anteriore  al  nuraghe,  della  casa  rotonda  monocellulare  a 
cupola,  e  se  quindi  fossimo  costretti  a  contentarci  d'ipotesi  tratte  da 
tutto  il  resto  delle  nostre  cognizioni,  io  credo  che  pur  sempre  noi 
potremmo  ritenere  assai  fondata  l'ipotesi  da  me  enunciata.  Lo  svi- 
luppo delle  costruzioni  a  tholos  nel  bacino  egeo  conduce  inevitabil- 
mente dalla  Sardegna  verso  l'oriente;  che  non  è  ammissibile  una  as- 
soluta indipendenza  delle  due  manifestazioni  simili,  quantunque  deb- 
basi  ammettere  che,  dai  medesimi  germi  primitivi,  siansi  avute  due 
evoluzioni  in  parte  divergenti,  e  ciò  specialmente  per  quel  che  con- 
cerne lo  scopo  delle  costruzioni,  nell'Egeo  destinate  ai  defunti  per 
tomba,  in  Sardegna  ai  vivi  per  abitazione  fortificata  e  vedetta.  Più 
che  legittimo  è  poi  il  postulare  per  quello  stadio  remotissimo  di  tali 
costruzioni,  da  cui  si  spiccò  il  ramo  delle  tholoi  egee  e  quello  dei  nu- 
raghi sardi,  un  materiale  più  primitivo,  ma  nel  quale  si  potè  ottenere, 
col  medesimo  metodo  applicato  dipoi  alle  pietre  squadrate,  il  mede- 
simo effetto  della  cupola  chiudentesi  a  poco  a  poco  per  il  progressivo 
aggetto  dei  filari  sovrapposti  ')  ;  e  questo  materiale  non  poteva  essere 
se  non  il  mattone  d'argilla  seccato  al  sole,  di  cui  in  età  preellenica 
son  fatte  le  mura  dei  megara,  allo  stesso  modo  che  più  tardi,  in  età 
classica,  son  fatte  di  pietra  e  di  marmo  le  mura  dei  templi  e  poi 
d'altri  edifìci.  Ma  una  tal  forma  di  casa  o  capanna,  a  cupola  conica 
di  mattoni  crudi,  deve  esser  nata  senza  dubbio  in  paesi  privi  o  po- 


')  Ciò  ohe  non  è  della  capanna  <U  pali  e  frasche  :  il  «  graduale  restringersi 
del  frascame  »,  che  si  legge  nel  periodo  del  Taramelli  dianzi  citato,  non  6  che  illu- 
sione fraseologica.  Il  frascame  si  restringe  si,  ma  sopra  l'ossatnra  di  legno  che 
ha  già  la  forma  del  tetto. 


150  G.  Patroni 


verissimi  d'alberi,  dove  l'uomo,  non  potendo  altrimenti  costruirsi  un 
tetto,  si  vide  forzato  ad  ingegnarsi  di  «oprire  il  suo  abituro  col  me- 
desimo materiale  delle  pareti,  e  fu  spinto  così  a  quella  meravigliosa 
invenzione  della  cupola  e  dell'edificio  unitario,  che  di  evoluzione  in 
evoluzione  doveva  poi  condurre  alle  somme  creazioni  artistiche  del 
Pantheon,  di  Santa  Sofia,  di  S.  M.  del  Fiore  e  di  S.  Pietro.  Noi 
siamo  dunque  indotti  a  cercare  la  patria  di  questa  forma  primitiva  in 
una  delle  due  terre-madri  della  civiltà,  l' Egitto  o  la  Caldea,  che  sono 
entrambe  o  povere  o  prive  di  alberi,  e  che  entrambe  offrono  da 
tempo  immemorabile,  nel  limo  che  forma  il  suolo  della  valle  del  Nilo 
o  della  bassa  valle  dell'  Eufrate,  il  materiale  per  le  abitazioni  dei  ])0- 
veri.  Ancor  oggi  queste  sono  di  fango  più  o  meno  preparato,  che  si 
ottiene  in  sostanza,  come  nella  remota  antichità,  tagliando  a  fette  il 
terreno  e  sovrapponendo  poi  queste  fette,  alquanto  essiccate,  per  for- 
marne le  pareti.  Se  non  che  in  Egitto  si  trova  fin  da  età  primitiva 
la  forma  d'abitazione  a  stanza  rettangolare,  come  hanno  dimostrato 
tra  gli  altri  gli  scavi  di  Abydos;  e  forse  contribuì  a  ciò  la  possibi- 
lità che  hanno  oggi  i  fellahs  e  che  ebbero  sempre  gli  antichi  Egizi, 
di  procurarsi  almeno  dei  nervi  di  palma  per  farne  soffitto  alla  stanza, 
rivestendoli  poi  di  terra  battuta.  E,  per  esclusione,  non  resta  ormai 
che  la  Oaldea,  ben  nota  anche  altrimenti  come  patria  della  struttura 
a  cupola,  e  dove  non  si  trovava  alcun  albero,  nemmeno  la  palma. 

È  vero  che  la  Caldea,  l'Assiria  sua  discepola  e  le  altre  archi- 
tetture asiane  che  ne  derivano,  conobbero  poi  (seconda  invenzione 
importante  e  gran  passo  sulla  via  dello  sviluppo)  la  vera  cupola  emi- 
sferica, distinta  tettonicamente  dalla  parete.  Ed  è  vero  pure,  quindi, 
che  i  popoli  che,  piti  tardi,  nel  bacino  occidentale  del  Mediterraneo, 
costruirono  tholoi  funerarie  attenendosi  al  sistema  della  falsa  cupola 
ad  aggetto,  e  mostrando  anzi  di  non  conoscere  la  vera  cupola  (come 
gli  Etruschi),  manifestano  per  ciò  stesso  che  la  loro  arte  non  profonda 
pili  radici  vive  nel  snolo  asiano,  ma  deriva,  quale  ramificazione  se- 
condaria, dal  submiceneo.  Se  non  che,  quanto  si  può  legittimamente 
dedurre  in  periodi  posteriori  per  l'architettura  mediterranea  in  pietra 
già  sviluppata,  non  regge  per  i  periodi  più  remoti  che  adoperavano 
il  materiale  primitivo.  È  certo  infatti  che  anche  i  Caldei,  prima  della 
vera  vòlta  a  cunei  e  della  vera  cupola  emisferica,  distinta  dalle  pa- 
reti verticali,  dovettero  conoscere  la  cupola  conica  ad  aggetto,  che 
sale  dal  suolo  in  profilo  continuo,  e  la  falsa  vòlta.  Quest'ultima  anzi 
è  stata  perfino  ritrovata  in  sitn  dove  le  circostanze  ne  hanno  per- 
messo la  conservazione,  in  tombe  di  Muqejer,  l'antica  Ur,    e    in  un 


Vorigine  del  '  Nuraghe  '  Sardo  e  le  relaxioni  della  Sardegna  con  l'oriente  151 

canale  di  Bl  Hibba.  Nulla  perciò  si  oppone  all'ipotesi  che,  in  un 
tempo  remotissimo  e  anteriore  all'  invenzione  della  vera  vòlta  e  della 
cupola  emisferica,  nascesse  in  Caldea,  e  di  là  si  propagasse  sul  Medi- 
terraneo attraverso  l'Asia  anteriore,  la  cupola  conica  di  mattoni  crudi. 

Fin  qui  difendo  la  mia  ipotesi  come  tale;  ma    confido   promuo- 
verla al  grado  di  teoria,  dimostrando: 

1°  che  la  cupola  conica  di  mattoni  crudi  fu  effettivamente  usata 
come  abitazione  nella  Mesopotamia  antica  ; 

2°  che  essa  persiste  tuttora  almeno  in  regioni  limitrofe; 

3°  che  capanne  rotonde  del  medesimo  tipo  e  materiale,  a  guisa 
di  piccoli  o  embrionali  nuraghi,  sono  rappresentate  nel  bacino  del- 
l'Egeo, in  strati  premicenei. 


Il  bassorilievo  di  Kujungik  (Ninive),  che  qui  riproduciamo  'j,  rap- 
presenta un  gruppo  di  case  (fig.  1)  che  si  può  dire  un  campionario 
delle  maniere  di  costruire  usate 
dagli  Assiri.  Vi  troviamo  coper- 
ture piane,  a  terrazzo,  che  da 
quanto  si  conosce  dell'architet- 
tura assira  è  presumibile  ricopris- 
sero piuttosto  una  vòlta  a  botte 
in  mattoni,  anziché  un  sofiStto  di 
legno.  Vi  troviamo  la  nota  cu- 
pola emisferica  della  Caldea  e  del- 
l' Assiria,  che  qui  non  e'  interessa 
in  modo  particolare.  E  vi  troviamo 
infine,  al  fondo  del  gruppo,  le  alte 
cupole  coniche,  foi'ma  primitiva  e 
anteriore  alla  invenzione  della 
vera  cupola,  rimasta  però  sempre 
in  uso  nei  villaggi  poveri,  sino  ai 
nostri  giorni.  Queste  cupole  do- 
vevano essere,  come  tutti  gli  al- 
tri edifici  assiri,  di  mattoni  crudi; 
ed  erano  così  alte  perchè  la  chiù-  ^''"-  ^  ~  J^iu^v,,  ,ii  KujHnjiik  (Ninive). 

sura  si  otteneva   per  aggetto   progressivo  dei  filari  sovrapposti,  cioè 
facendo  sporgere  un  poco  il  filare  superiore  su  l'inferiore,  verso  l'in- 


Layard,  The  Momtments  of  Niniveh,  serie  II,  t.av.  17. 


152  G.  Patroni 


terno,  in  modo  che  il  cielo  della  capanna  o  casa  s'andasse  restrin- 
gendo. È  chiaro  che  con  tale  sistema  la  chiusura  viene  portata  assai 
in  alto;  né  si  possono  ottenere  cupole  emisferiche,  perchè  lo  sporto 
di  ciascun  filare  su  l'inferiore  sarebbe  eccessivo,  a  tutto  danno  del- 
l'equilibrio, e  la  cupola  rovinerebbe.  Qui  l'altezza  non  è  arbitraria, 
come,  nelle  costruzioni  di  pali  e  frasche,  ma  è  necessità  teetonica. 

Il  nostro  rilievo  ci  mostra  il  villaggio  in  un  paese  ondulato  di 
dossi  e  con  piante  d'alto  fusto.  È  noto  che  l'Assiria  non  è  più  così 
piatta  e  nuda  come  la  bassa  valle  dell'  Eufrate,  ma,  spostando  il 
proprio  centro  sul  Tigri,  costituisce  come  una  soglia  di  passaggio 
dall'antestante  bassura  caldea  alla  retrostante  regione  montuosa.  Vi 
sono  perciò  ed  alberi  e  pietre.  Tuttavia  è  del  pari  notissimo  che  gli 
Assiri  furono  talmente  dipendenti  dall'arte  caldea  e  così  pigri  e  ne- 
ghittosi nello  sfruttare  le  ricchezze  del  proprio  suolo,  da  essersi  at- 
tenuti sempre  al  medesimo  materiale  caldeo,  il  mattone  crudo,  ed  ai 
medesimi  sistemi  di  costruzione  a  vòlta  ed  a  cupola.  Sicché  non  può 
dubitarsi  che  anche  la  forma  primitiva  della  cupola  ad  aggetto  in 
mattoni  non  provenisse  dalla  Caldea.  Altre  forme  ed  altro  materiale 
ci  aspetteremmo  se  si  trattasse  d'una  costruzione  indigena  o  prove- 
niente dal  nord.  Tutto  ciò  è  così  comunemente  ammesso,  che  gli  orien- 
talisti e  gli  autori  di  storie  generali  dell'arte  si  valgono  appunto  di 
questo  bassorilievo  per  dimostrare  i  tipi  di  costruzione  dell'Assiria 
e  della  Caldea. 

Se  poi  vogliamo  vedere  da  vicino  come  fossero  costruite  queste 
capanne,  di  cui  il  rilievo  di  Kujungik  ci  fornisce  lo  schema  o  pro- 
filo, non  abbiamo  che  a  dare  un'occhiata  alla  flg.  2,  che  riproduce 
la  fotografia  di  un  villaggio  attuale  del  Curdistau.  E  così  rimane 
provata  la  persistenza  del  tipo  ;  anzi  una  identità  veramente  sorpren- 
dente. È  perfino  riconoscibile  in  talune  di  queste  capanne,  quantunque 
sbocconcellata,  la  sagoma  terminale  superiore  a  guisa  di  bottone  d'un 
berretto  conico  o  pileo  '),  che  offre  il  rilievo  ninivita.  Negli  zoc- 
coli di  pietra,  negli  stipiti  di  massi  squadrati  sovrapposti  e  negli  ar- 
chitravi monolitici,  che  qua  e  là  ricorrono  in  queste  capanne  curde, 
costruite  i)el  resto  in  mattoni  seccati  al  sole,  si  coglie  allo  stadio  ini- 
ziale il  processo  di  trasformazione,  la  sostituzione  della  pietra  al  ma- 
teriale originario,  che  avvia  la  capanna  conica  a  divenire  un  piccolo 
nuraghe  semjdice. 


')  Tale  si  presenta  in  profilo  ;  ma  trattasi  di  un  cercine  che  circonda   il  foro 
praticato  nella  sommità  della  cupola. 


Vorigine  del  'Nuraghe  '  Sardo  e  le  relaeioni  della  Sardegna  con  Voriente  153 

E  se  il  viaggio  tlalla  Caldea  o  dal  Cnrdistan  alla  Sardegna  sem- 
brasse un  po'  lungo,  ecco  piìi  che  a  mezza  strada,  nel  bacino  del- 
l'Egeo, avanzi  di  capanne  preistoriche  rotonde,  con  zoccolo  di  pietra 
e  con  pareti  di  mattoni  crudi  che  si  andavano  chiudendo  a  cupola. 
Le  flgg.  3  e  4  danno  due  vedute  di  una  di  tali  capanne,  trovate  ne- 
gli scavi  di  Orcomeno  ed  appartenenti  al  piìi  profondo  degli  strati 
premicenei,  che  senza  dubbio  risale  al  III  millennio  avanti  l'èra  no- 
stra ').  L'una  ci  presenta  lo  zoccolo  ancora  ricoperto    dagli    avanzi 


Fig.  -  —  Villaggio  del  Cui'di.stau. 

delle  pareti  in  mattoni  ;  l'altra  il  medesimo  zoccolo  posto  a  nudo. 
Altre  capanne  dello  stesso  strato  di  Orcomeno  presentarono  parecchi 
filari  di  mattoni  crudi,  che  danno  già  buona  parte  del  profilo  in  al- 
tezza; e  chi  osservi  le  ricostruzioni  grafiche  dalle  cupole,  proposte 
dal  Bulle,  non  potrà  non  riconoscere  la  grande  affinità  di  queste  abi- 
tazioni ai  nuraghi  più  semplici. 

È  da  notare  che  lo  strato  archeologico  di  Orcomeno  immediata- 
mente superiore  a  quello  delle  capanne  a  tholos,  ma   ancora   premi- 


1)  BuLLK,  OrchomenoH,  I  :  die  alteren  Aneiedelungstchichten  ;  in  Abhandl.  d.  phi- 
l08.  -  philol.  Klaase  d.  K.  iaijerisehen  Jkademie  d.  Wiasensch.,  XXIV,  parte  2^  (1907). 
Le  nostre  figg.  sono  tolte  dalla  tav.  XI'  dell'opera. 


154 


G.  Patroni 


ceneo,  dà  tipi  ellittici;  ed  anche  di  questi  si  trova  l'eco  occidentale 
nei  talayots  e  nelle  navetas  delle  Baleari,  e  sporadicamente  nella 
stessa  Sardegna;  il  che  conferma  sempre  piìJ  la  provenienza  del 
tipo  costruttivo  sviluppato  poi  nel  bacino  occidentale,  dal  bacino 
orientale,  ove  lo  troviamo  appunto,  con  la  funzione  d'abitazione,  in 
quello  stadio  primitivo  da  cui  si  dipartono  i  due  sviluppi  divergenti  : 
lo  sviluppo  egeo  in  tholoi  funerarie,  che  conservarono  ritualmente  il 


Fis 


lìesti  di  caijaiiiia  cou  cupola  i\\  mattoni  a  Orcoiiieno. 


primitivo  tipo  della  casa,  mentre  l'abitazione  stessa  assumeva  altri 
tipi;  e  lo  sviluppo  sardo-occidentale,  in  cui  s'insistè  nella  primitiva 
funzione  del  tipo,  consolidandolo  mediante  la  traduzione  lapidea  e 
ampliandolo  nei  soli  modi  possibili,  con  la  creazione  di  nicchie  pra- 
ticate nello  spessore  delle  pareti,  e  di  una  camera  sovrapposta  alla 
cupola  terrena. 


Ma,  senza  lasciarci  distrarre  da  argomenti  concomitanti  e  da 
soggetti  aifini,  che  ci  trarrebbero  troppo  in  lungo,  fermiamoci  a  con- 
siderare la  teoria  del  Bulle  intorno  alla  casa  primitiva  monocellulare 
a  cupola  conica  costruita  per  aggetto.  Il  Bulle  ha  i  due  non  piccoli 
meriti  di  aver  riconosciuto  il  rapporto  fra   il  tipo  delle   capanne   di 


L^ orìgine  del  '  Nuraghe^  Sardo  e  le  reiasioni  della  Sardegna  con  l'oriente  155 


Orconieno  e  i  nuraghi  sardi,  e  di  aver  indagato  sufficientemente,  ad 
illustrazione  di  quel  tipo  primitivo,  il  campo  etnograftco.  Ma  o  la 
scarsa  diffusione  che  forse  la  sua  memoria  ha  avuto  in  Italia,  o  i 
gravi  errori  di  principio  e  le  gravissime  lacune  nel  campo  dell'ar- 
cheologia orientale  e  dell'  egittologia,  che  inficiano  la  sua  teoria,  hanno 
finora  impedito  agli  studiosi  di  cose  sarde  il  trarre  profitto  delle  sco- 
perte di  Orcomeno. 


Fi>l.  4  —  Zoccolo  della,  capanna  qui  a  fronte,  messo  a  nudo. 

11  Bulle  non  ha  veramente  una  teoria  chiara,  nettamente  formu- 
lata; anzi  la  sua  esposizione  è  parecchio  confusa.  Ma  dall'insieme 
possono  ricavarsi  i  seguenti  punti  : 

1°  La  capanna  a  cupola  conica  di  mattoni  crudi  è  in  fondo 
la  stessa  cosa  della  capanna  di  frasche  rivestita  d'argilla.  Si  ottenne 
dando  al  rivestimento  un  grande  spessore  in  modo  da  farne  una  vera 
cupola  di  terra  argillosa  ;  poi  si  pensò  di  fare  a  meno  dell'anima  di 
legno,  giacché  le  curve  costruttive,  che  nel  legno  si  producono  spon- 
taneamente, insegnarono  le  condizioni  statiche  per  la  costruzione 
d'una  cupola  libera  in  argilla. 

2"  La  capanna  a  cupola  conica  di  mattoni  crudi  è  invenzione 
d'un  popolo  settentrionale,  destinata  a  jìroteggere  dal  freddo  e  dalla 
pioggia.  Essa  viene  dal  nord,  almeno  nel  territorio  greco. 


156  O.  Fatronl 


3"  Per  gli  altri  territori  il  Bulle  non  vede  nulla  di  cliiaro 
nella  distribuzione  geografica,  e,  senza  esprimersi  decisamente,  am- 
mette una  origine  poligenistica  del  tipo. 

Sarà  facile  confutare  questi  punti  di  teoria,  di  cui  ogni  propo- 
sizione, e  si  può  dire  ogni  parola,  contiene  un  cumulo  d'errori. 

• 
•  * 

Nel  primo  punto  si  trova  un  concetto  dell'evoluzione  arretrato 
ed  inesatto,  che  non  può  condurre  se  non  all'errore.  Il  concetto  di 
una  evoluzione  lenta  iiniforme  e  graduale  è  oggi  abbandonato  per- 
fino dai  biologi,  dai  quali  lo  hanno  preso  in  prestito  le  altre  scienze  ; 
predominano  oggi  le  teorie  del  De  Vries,  che  concepiscono  1'  evolu- 
zione come  un'alternanza  di  rapide  mutazioni,  costituenti  un  salto, 
con  lunghi  periodi  di  sosta;  ovvero  la  formula  del  Giard,  che  am- 
mette una  lenta  preparazione  latente,  ma  pur  sempre  una  brusca  ap- 
parizione della  nuova  forma.  Ed  io  credo  fermamente  che  tali  con- 
cetti, ed  anche  la  loro  applicazione  ad  altre  scienze  affini  alle  natu- 
rali, costituiscano  un  progresso.  Ma  in  architettura  non  v'è  nemmeno 
bisogno  della  biologia,  perchè  abbiamo  da  fare  con  una  condizione 
cui  le  altre  arti  ed  industrie  sono  infinitamente  meno  soggette,  cioè 
con  la  statica:  e  questa  condizione,  che  è  diversissima  da  un  mate- 
riale all'altro,  costringe,  nell'adozione  di  un  nuovo  materiale,  a  mu- 
tazioni rapidissime  e  radicali,  costituenti  un  salto.  Quando  si  passò 
dalla  colonna  e  dall'architrave  ligneo  a  quelli  lapidei,  si  mutarono  di 
colpo  le  proporzioni  e  i  moduli,  esagerandosi  anzi  nelle  resistenze 
mediante  le  forme  tozze,  i  grandi  spessori  e  la  disposizione  picno- 
stila. 

Non  vi  è  dunque  proprio  nessun  bisogno  di  ammettere  il  pas- 
saggio alla  cupola  d'argilla  mediante  la  pratica  di  un  enorme  rive- 
stimento della  capanna  di  pali  e  frasche  ;  pratica  che  non  esiste  né 
presso  i  popoli  antichi  né  presso  i  selvaggi  moderni,  ove  i  rivesti- 
menti son  sempre  relativamente  sottili  e  lontanissimi  dal  poter  reg- 
gersi da  sé  senza  lo  scheletro  di  legno.  Rivestimenti  di  un  certo 
spessore  non  ricorrono  se  non  a  guisa  di  zoccolo  o  muretto,  nella  parte 
bassa  che  costituisce  il  tamburo  della  cupola,  non  mai  nella  parte 
alta,  che  é  la  cupola  propriamente  detta.  Erronea  quanto  mai  è  la 
interpretazione  delle  capanne  dei  negri  Scilluck,  che  abitano  sul  Nilo 
azzurro,  come  una  forma  di  passaggio.  Queste  capanne  sono  simili 
ad  un  mezzo  uovo,  con  la  parte  inferiore  d'argilla  e  la  superiore  di 


L^origine  del  '  Jittraghe  '  Sardo  e  le  relazioni  della  Sardegna  con  l'oriente  157 


giunchi  piegati  a  cupola  *):  esse  sono  soltanto  una  forma  ibrida  o 
mista,  e  provano  invece  che  tra  la  muratura  e  la  costruzione  di  ma- 
teriali leggeri  v'è  opposizione,  e  che  la  cupola  d'opera  muraria  non 
ha  discendenza  dalla  costruzione  leggera  in  materie  vegetali  ma  è  un 
nuovo  germoglio,  un'altra  forma  originale  e  primitiva.  Qui  come  al- 
trove sono  impossibili  gli  sviluppi  concepiti  secondo  quel  gretto  ma- 
terialismo meccanico  che  predomina  in  tanta  parte  della  piìi  recente 
scienza  tedesca  :  una  cupola  che  sia  anch'essa  muro,  costruita  cioè 
d'elementi  di  opera  muraria  o  pietre  (i  mattoni,  crudi  o  cotti,  non 
sono  che  pietre  artificiali)  non  nasce  meccanicamente  dalle  costruzioni 
leggere,  anzi  non  nasce  punto,  se  prima  l'uomo  non  ha  concepito 
l'idea  d'una  tal  cupola.  E  questo  è  un  lampo  di  genio,  una  vera  in- 
venzione cui  non  e'  è  passaggio  graduale  che  sia  capace  di  condurre. 
Il  primo  punto  s'infrange  già  assai  miseramente  contro  l'inesi- 
stenza della  supposta  fase  di  transizione;  ma  non  sarà  forse  inutile 
osservare  brevemente  che  non  manca  soltanto  la  base  di  fatto,  bensì 
anche  la  base  logica  dell'  ipotesi.  Come  mai  la  pratica  della  costru- 
zione in  un  dato  materiale  può  insegnare  le  leggi  statiche  di  un  al- 
tro materiale^),  se  queste  sono  differenti?  L'idea  del  Bulle  sembra 
derivata  dall'ipotesi  di  alcuni  etnografi,  che  la  invenzione  della  ce- 
ramica sia  nata  dall'industria  dei  panieri  di  vimini,  i  quali  si  sareb- 
bero foderati  d'argilla  per  renderli  atti  a  contener  liquidi,  e  poi,  bru- 
ciatosi per  caso  uno  di  questi  panieri,  si  sarebbe  riconosciuto  che 
la  cottura  faceva  perdere  all'argilla  la  proprietà  plastica,  e  che  si 
potevano  ottenere  direttamente  vasi.  Ma  qui  c'è  un  fondamento  lo- 
gico, perchè  si  giustifica  il  nuovo  procedimento  della  cottura,  e  c'è 
anche  un  principio  di  prova  o  indizio,  )iella  decorazione  dei  più  an- 
tichi vasi,  che  ricorda  i  motivi  dell'intreccio  di  vimini.  Ben  diver- 
samente stanno  le  cose  per  la  capanna,  dove  la  cupola  libera  non  è 
una  calotta  d'argilla  modellata,  né  cotta  né  cruda,  ma  un'opera  di 
muratura  a  piccoli  elementi,  in  cui  il  materiale  precedentemente  ado- 
perato non  ha  lasciato  nessun  residuo,  neanche  scaduto  ad  elemento 
decorativo.  L'ipotesi  del  Bulle  potrebbe  aspirare  a  una  modesta  proba- 
bilità, solo  quando  essa  fosse  capace  di  spiegarci  addirittura  la  inven- 
zione dell'opera  muraria  e  di  tutt'  i  suoi  procedimenti.  Ma  se  invece 
prima  di  far  cupole  si  alzarono  muri  e  muretti,  come  non  ammettere 


')  Junker,  ReUen  in  Jfrika,  I,  iig.  a  pag.  244. 

^)  Come  abbiamo  visto,  nei  materiali  leggeri  si  hanno  anclie  forme  irreduci- 
bili il  quello  della  cupola  ad  aggetto. 


158  G.  Patroni 


cbe  appunto  nell'esercizio  dell'arte  muraria  s'impararono  le  leggi  di 
equilibrio  delle  pietre  o  mattoni  ?  Come  separare  la  invenzione  della 
cupola  ad  aggetto  da  quella  aflSne  e  parallela  della  vòlta  ad  aggetto, 
alla  quale  nessun  appiglio  davano  le  capanne  di  pali  e  frasche,  bensì 
l'arte  del  muratore  ?  È  chiaro  che  l'una  e  l'altra  non  sono  invenzioni 
di  costruttori  in  pali  e  frasche,  ma  proprio  di  muratori. 

La  discussione  un  po'  più  ampia,  pur  nella  sua  rapidità,  di  que- 
sto primo  punto,  abbrevierà  quella  degli  altri  due.  Poiché  è  ormai 
chiaro  che  anche  rispetto  a  questi  fu  grave  errore  di  metodo  iden- 
tificare, o  quasi,  le  capanne  a  cupola  conica  con  quelle  rotonde  di 
materiali  leggeri.  Queste  ultime  sono  una  forma  indifferenziata  e  dif- 
fusissima; le  prime  sono  una  forma  molto  differenziata  e  di  assai 
minor  diffusione.  Costruttori  in  pali  e  frasche  furono  e  sono  quasi 
tutti  i  popoli;  muratori,  nei  primordi  dell'incivilimento  umano,  fu- 
rono ben  pochi.  Onde  la  assai  maggiore  probabilità  a  priori  che  una 
forma  simile,  proveniente  da  un'arte  specializzata  e  poco  comune,  sia 
stata  inventata  una  volta  sola  in  un  solo  luogo,  e  di  là  siasi  dif- 
fusa. Per  risolvere  il  problema  era  ed  è  necessario  l'esame  della  di- 
stribuzione geografica  del  tipo,  e  così  passiamo  al  2"  e  3°  punto  ')• 


Si  fa  presto  a  demolire  il  2"  punto  della  teoria   del    Bulle.  Ba- 
sterà osservare  che  esso  deriva  in  parte  da  preconcetti  degni  tutt'al 


')  Ammettendo,  con  me,  che  la  cupola  conica  sia  nna  nuova  invenzione  e  non 
discenda  dalle  capanne  di  pali  e  frasche,  non  si  è  punto  costretti  a  disconoscere 
che  runa  conservi  all'ingrosso  il  tipo  dell'altra;  che  anzi  ciò  è  cosa  evidente  e 
normale  nelle  sostituzioni  d'un  materiale  all'altro.  Il  marmoreo  Partenone  con- 
serva pure  il  tipo  nato  in  nna  costruzione  mista  di  zoccoli  di  pietra,  mattoni  e 
battuto  d'argilla  con  ossature  e  sostegni  lignei.  Dove  l'esigenza  si  limita  all'aspetto 
esterno,  come  accade  talora  nel  campo  della  religione,  si  ha  una  sostanziale  iden- 
tità tipologica  di  forme  costruttivamente  diverse,  e  si  può  concludere  o  ragionare 
in  base  a  tale  identità  ma  limitatamentti  a  quel  campo.  11  tempio  di  Vesta  a  Roma 
e  il  «  tesoro  d'Atreo  »  a  Micene  vogliono  entrambi  rammentare  l'antichissima  ca- 
panna straminea  e  sono  in  fondo  la  stessa  cosa.  Sta  bene  ;  ma  non  costruttivamente .' 
Nella  storia  dello  sviluppo  delle  forme,  in  ispeoie  per  l'architettura,  e  nei  rai)porti 
etnografici,  ciò  che  conta  non  è  tanto  l'aspetto  esterno,  la  linea  (che  è  piuttosto 
attinente  alla  funzione)  quanto  la  ttruttura  e  in  genere  la  ragion  tecnica,  anima 
interiore  del  manufatto.  E  perù  bisogna  diffidare  degli  abnsi  di  quella  che  io  chia- 
mai «  tipologia  della  pura  linea  ».  La  capanna  a  cupola  conica  di  mattoni  crudi 
conserva,  si,  in  certa  misura,  il  tipo  di  alcune  capanne  rotonde  di  materiale  leg- 
gero, che  la  precedettero;  ma  ciò  non  toglie  che  costruttivamente  sia  cosa  affatto 
nuova. 


L'origine  del  '  Nuraghe  '  Sardo  e  le  relazioni  dtlla  Sardegna  con  Variente  159 

più  di  quegli  storici  che  si  contentano  di  almaiiaccazioni  sui  testi  '), 
ma  afì'atto  indegni  del  cultore  d'una  scienza  di  fatti  positivi;  e  per 
altra  parte,  dal  non  aver  apprezzato  (ioine  si  conveniva  la  presenza 
nel  Sudan  di  capanne  simili  a  quelle  di  Orcomeno,  e  delle  quali  il 
Bulle  crede  potersi  sbrigare  come  d'un  fenomeno  sporadico  limitato  a 
territorio  poco  esteso.  Del  resto  non  sembra  nemmeno  vero  che  una 
cupola  di  mattoni  crudi  resista  all'  intemperie  meglio  di  una  capanna 
di  pali  e  frasche  ben  rivestita  d'argilla,  né  che  sia  più  calda.  A  Orco- 
meno stessa  furono  constatate  riparazioni  necessitate  da  guasti  prodotti 
dalle  piogge,  che  facilmente  spappolano  il  mattone  crudo.  Le  capanne 
a  cupola  mancano  affatto  nel  continente  europeo  centrale  e  setten- 
trionale. L'anno  dopo  la  memoria  del  Bulle  su  Orcomeno,  si  pub- 
blicò quella  dello  Tsoundas  su  le  stazioni  preistoriche  della  Tessa- 
glia ^);  e  quivi  non  solo  non  si  ebbe  traccia  di  capanne  rotonde  a 
cupola  di  mattoni,  ma  si  trovò  che  i  mattoni  non  erano  punto  ado- 
perati. Le  abitazioni  preistoriche  della  Tessaglia  sono  di  pianta  ret- 
tangolare, costruite  di  muretti  in  pietra  o  di  canne  rivestite  d'ar- 
gilla; frammenti  del  rivestimento  di  tali  più  antiche  capanne,  neoli- 
tiche, si  presentano  piani,  e  con  finali  orizzontali  ed  obliqui,  auto- 
rizzando la  ricostruzione  ideale  di  capanne  a  tetto  disjìluviato.  A 
Sesklo  apparvero  anche  fondi  di  capanne  come  quelli  del  continente 
europeo  e  della  nostra  penisola;  ma  queste  forme  rotonde  di  capanna 
semisotterranea  non  si  trasformarono  in  cupole  libere  ne  in  Tessaglia, 
né  in  Italia,  né  nel  resto  d'Europa.  Così  stando  le  cose  è  forza  ri- 
conoscere che  le  cupole  di  Orcomeno  non  vengono  dal  nord,  ma 
dalla  tanto  vicina  spiaggia  egea,  e,  attraverso  l'Egeo,  dall'oriente. 
Non  è  necessario  che  questa  corrente  passasse  per  Creta,  e  qui  ha 
ragione  il  Bulle  di  opporsi  al  pancretismo  :  potè  passare  per  l'P^geo 
settentrionale,  suppergiù  per  la  stessa  zona  che  congiunge  Troia  a  Ti- 
rinto  mediante  l'architettura  a  megaron,  in  opposizione  a  Creta.   Le 


')  «  Dass  der  Stainm,  der  Orchomenos  zuerst  besiedelte,  die  Lehmkuppelhiiiiser 
als  ansgebildeteii  Bautypus  fertig  mitbrachte,  lehrt  unser  Ausgrabungsbefund. 
Da8S  dieser  Stamm  von  Norden  gekommen  war,  steht  nach  alien  Vorstellungen, 
die  wir  dnrch  dio  Ueberlieferung  iiber  die  griechische  Friihgesohichte  erhalten, 
ausser  Zweifel  »  (o.  e,  pag.  43).  E  pensare  che  il  Bulle  ritiene  che  gli  abitanti 
promicenei  del  II  strato  di  Orcomeno,  a  capanne  ellittiche  e  semiellittiche,  non 
fossero  i  discendenti  diretti  di  quelli  dol  I  strato,  a  capanne  rotonde!  Come  dun- 
que può  esser  tanto  sicuro  che  le  tradizioni  si  riferiscano  anche  a  quei  primissimi, 
clie  non  avrebbero  avuto  prole  diretta  f 

')  Tsot'NDAS,  At  zpoiaTopixaì  à-/ipoTCÓXstc  Atiii^viou  xat  SsaxXou,  Atene,   1908. 


160 


Q.  Patroni 


¥ 


Fig.  5  —  Casa  egìzia  con  gr^.nai 
(l)ittuia  tombale). 


due  urne  a  capanna  di  Festo,  dal  tetto  basso,  non  sono  certo  imita- 
zioni di  cupole  coniche. 

Quanto  alle  capanne  a  cupola  di  mattoni  crudi  del  Sudan,  il 
loro  territorio  non  è  poi  tanto  piccolo,  il  che  lo  stesso  Bulle,  con- 
traddicendosi, riconosce  in  altro  luogo  della  sua  memoria  ').  Egli 
ha  poi  interamente  dimenticato  1'  Egitto,    ove  la   stessa    costruzione 

si  usò  per  i  granai  (flg.  5),  che, 
com'è  noto,  conservano  spesso  forme 
disusate  di  abitazione  ').  E  ciò  è 
tauto  più  importante,  in  quanto 
anche  presso  le  tribù  del  Sudan 
queste  costruzioni  sono  in  deca- 
denza, sostituite  da  pareti  retti- 
linee con  tetto  di  legno,  e  solo  i  più 
antichi  viaggiatori,  come  il  Barth  '), 
riferiscono  che  i  Mussgu  adopera- 
vano quelle  capanne  per  abitazione  durante  l'inverno,  nelle  altre  sta- 
gioni invece  se  ne  servivano  soltanto  come  granai.  Lo  stesso  Bulle  ri- 
corda nelle  aggiunte  (pag.  125)  le  vedute  di  villaggi  dei  Mundan,  pub- 
blicate ne  L' Illustration  del  20  aprile  1907,  ove  si  vedono  tutt' intorno 
torri  rotonde  e  all'  interno,  più  alti  di  tutti  gli  altri  edifici,  grandi 
granai,  costruiti  iiroprio  col  sistema  delle  capanne  d'Orcomeno.  Per 
chi  ha  notizia  dei  granai  egizi,  questo  fatto  è  assai  più  importante 
«he  non  abbia  potuto  riconoscere  il  Bulle:  poiché  qui  si  ha  un  dif- 
ferenziamento analogo  a  quello  dell'antico  Elgitto,  con  la  sola  diver- 
sità che  anche  le  case  dei  Mundan  sono  rotonde,  però  a  torre  e  non 
a,  cupola.  Siccome  in  Egitto  apparisce  fin  da  tempi  antichissimi  l'a- 
bitazione rettangolare,  né  la  cupola  ebbe  avvenire  nella  valle  del 
Nilo,  si  dovrebbe  ammettere  che  vi  fu  una  corrente  straniera,  pro- 
veniente dall'  Asia  attraverso  1'  Arabia  e  il  Mar  Eosso,  che  portò 
<iuella  forma,  forse  ancora  indifferenziata  come  presso  i  Mussgu,   la 


■)  Pag.  43,  uota  3  :  « auf  ein  verhiiltnissmiissig  kleines  Gebiet  beschriiukt  » 

Cfr.  pag.  38:  «  —  gehoren  zu  eiuer  grosseu  Grappe  afrikanischer  Erdbauten  ». 
Pel  Sndan,  nel  primo  di  questi  luoghi,  si  ammette  ciime  causa  della  creazione  del 
tipo  la  scarsezza  del  loglio  ;  il  che  io  riferisco  alla  vera  jiatria,  la  Caldea,  veden- 
dovi pel  Sudan  solo  il  motivo  della  persistenza. 

')  Maspkro,   L'archeologie  egi/ptienne,   Parigi,    1907  ;   Knuslije^ch.    in   Bildeni^  I' 
■(SCH.\El''Kii),   tnv.    12,   n.   4. 

3)  llcimi  ;«   Jfrika,  111,   pag.   222. 


à 


L'origine  del  '  Kuraghe'  Sardo  e  le  relaaioìii  della  Sardegna  con  Voriente  161 

quale  fu  adottata  dagli  Egizi  come  granaio.  Questa  corrente  deve 
porsi  in  linea  coi  costruttori  di  cupole  del  Sudan,  sino  ad  un  punto 
da  cui  si  potè  avere  la  diffusione  divergente  verso  l' Egitto  a  nord 
e  verso  il  lago  Ciad  a  ovest.  Un  tal  punto  va  cercato  nei  paesi  a 
sud  dell'Egitto,  e  si  trova  approssimativamente  nella  regione  di  Fa- 
scioda,  onde  il  corso  del  Nilo  bianco  (Babr-el-Abiad)  risale  verso 
occidente  e  per  mezzo  del  Balir-el-Gazal  e  poi  del  Babr-el-Arab  va 
quasi  a  raggiungere  le  sorgenti  dello  Sciari,  che  va  a  finire  nel  lago 
Ciad.  Che  spostamenti  etnici  avvenissero  lungo  questa  via  naturale 
segnata  dal  corso  dei  fiumi  (meno  gli  spazi  resi  impervii  da  paludi  e 
fitte  foreste,  cui  si  girava  attorno),  è  provato  dal  fatto  che  i  Macari, 
prihcipalissimi  tra  i  costruttori  sudanesi  di  capanne  a  cupola  di  mat- 
toni, ed  aventi  oggi  sede  sulle  rive  del  lago  Ciad,  abitavano  un  tempo 
sul  medio  corso  dello  Sciari.  Chi  dunque  tenga  conto  della  diffusione 
di  quel  tipo  di  costruzione  in  Egitto,  ove  esso  era  usato  come  gra- 
naio, riconoscerà  nella  regione  del  lago  Ciad  non  un  territorio  limi- 
tato di  origine  indipendente,  e  nemmeno  un  centro  di  diffusione  (che 
questa  manca  in  altre  direzioni),  bensì  un  punto  d'arrivo  e  di  sosta. 
Nei  paesi  a  sud  dell'  Egitto,  il  tipo  dovè  giungere  attraverso  lo  stretto 
di  Bab-elMandeb,  che  fu  sempre  una  grande  via  di  scambi  e  di  mi- 
grazioni fin  da  età  preistorica,  probabilmente  lungo  le  coste  orientale 
e  meridionale  dell'Arabia.  Del  resto,  bastava  il  passaggio  di  poche 
famiglie  che  insegnassero  la  costruzione  a  cupola  ad  una  qualche 
tribù  africana  che  la  diffuse.  Così  anche  da  questa  parte  le  vie  na- 
turali ci  riconducono  all'Asia,  al  golfo  Persico  e  alla  bassa  valle 
dell'  Eufrate,  vera  madre  delle  cupole.  La  diramazione  sudanese  sem- 
bra affatto  indipendente  dalla  mediterranea; 

Esaminando  ora  come  si  comporti  il  tipo  delle  cupole  ad  aggetto 
nel  Mediterraneo,  notiamo  anzitutto  che  esso  si  estende  verso  l'oc- 
cidente, ove  però,  conservando  la  funzione  principale  di  abitazione, 
muta  il  materiale  dal  mattone  crudo  alla  pietra,  sia  che  questo  mu- 
tamento avvenisse  presto,  in  epoca  preistorica,  e  che  monumenti  di 
quest'epoca  ci  si  conservino,  come  in  Sardegna  e  nelle  Baleari  ;  sia 
«he  prodotti  più  recenti  e  ancora  in  uso  ci  conservino  solo  la  tradi- 
zione d'un'arte  senza  dubbio  antichissima,  come  nei  truddhi  delle 
Puglie.  Lo  stesso  persistere  dell'uso  di  cupole  per  abitazione  (mentre 
nel  bacino  dell'  Egeo,  mutandosi  il  materiale  in  pietra,  il  tipo  assume 
esclusivamente  l'uso  di  tomba  ed  è  mantenuto  dalla  tradizione  reli- 
giosa e  non  già  dalle  abitudini  dei  viventi)  dimostra  che  la  difl^u- 
sione  del  tipo  in  occidente  risale  a  quell'età  primitiva,  quando  esso 

Atene  e  Roma.  2 


162  O.  Patroni 


serviva  di  capanna  ed  era  rappresentato  nel  primitivo  materiale,  il 
mattone  crudo,  come  ad  Orcomeno. 

La  stessa  situazione  geografica  dei  truddhi  pugliesi,  localizzati 
principalmente  ad  Alberobello  e  nella  selva  di  Fasano,  paesi  non 
lontani  dalla  costa  adriatica,  dimostra  che  la  tradizione  delle  capanne 
a  cupola  è  straniera  allo  sviluppo  delle  abitazioni  preistoriche  della 
penisola  ;  che  vi  prese  piede  solo  in  una  zona  limitata,  rivolta  al- 
l'oriente, della  parte  più  meridionale  d'Italia;  che  vi  proveniva,  per 
via  di  mare,  dalla  zona  dell'  Egeo  settentrionale,  di  cui  ci  restano  le 
chiare  testimonianze  fornite  dagli  scavi  di  Orcomeno  *). 

Xel  bacino  occidentale  troviamo  poi  le  regine  delle  costruzioni 
a  cupola  in  pietia  :  la  Sardegna  e  le  Baleari.  A  una  origine  indi- 
pendente si  potrebbe  pensare   se   queste  isole  fossero    in  tutt'  altra 


')  Troppo  sbrigativa  è  la  negazione  di  ogni  rapporto  fra  truddhi  o  trulli  e 
nuraghi  opposta  dal  Gkrvasio  (7  dolmen  e  la  civiltà  del  bronzo  nelle  Puglie,  Bari 
1913,  voi.  XIII  della  serie  Documenti  e  Monografie  della  Comm.  provinciale  di  Ar- 
cheol.  e  Storia  patria  di  Sari,  p.  337:  «I  trulli  sono  tutti  ujoderni....  ;  la  forma 
abituale  risponde  a  quella  di  una  semplice  capanna  conica  fatta  con  lastre  calcaree 
di  scarse  dimensioni  (chiancarelle).  Il  nuraghe  invece  è  un  enorme  torrione,  co- 
struito con  massi  rozzi  e  con  tecnica  megalitica »).  Sta  il  fatto  che  entro  due 

specchie  di  Terra  d'  Otranto  (monumenti  senza  dubbio  preistorici,  che  parrebbero 
nuclei  d'abitazioni  con  difese  comuni,  distribuiti  inoltre  secondo  un  disegno  di  di- 
fesa territoriale  in  modo  analogo  ai  nuraghi)  furono  riconosciuti  dal  De  Giorgi 
muri  circolari  di  pietre  a  secco,  appartenenti  a  costruzioni  del  tipo  dei  truddhi 
moderni  (De  Giorgi,  Le  specchie  in  Terra  d'  Otranto,  Lecco  1905,  in  Archivio  Storico 
Salentino,  voi.  II,  p.  38  e  46  ;  cfr.  l'ojjera  postuma  di  A.  Jatta,  La  Puglia  preimo- 
rica,  voi.  XIV  della  serie  Docum.  e  Monograf.  citata,  pag.  221  :  è  peraltro  da  ri- 
tenere erronea  la  confusione  fatta  da  quest'  ultimo  autore  e  da  qualche  altro,  delle 
specchie  con  1  posteriori  castellieri  che  ricordano  quelli  dell'Istria  e  della  Bosnia, 
e  non  soltanto  questi  ;  come  non  soltanto  nell'  età  del  ferro  si  ebbero  influenze  e 
migrazioni  dalla  sponda  opposta  dell'  Adriatico  alle  Puglie).  D'altra  parte  gi.à  il 
Mackenzik  suijpose  giustamente  una  fase  prenuragioa  (meglio  protonuragiea)  du- 
rante la  quale  si  sarebbero  avute  in  Sardegna  capanne  di  pietra  rudimentali  (perciò 
analoghe  ai  truddhi  e  ad  altre  costruzioni  adatto  simili)  e  dolmens  (Papere  of  the 
British  School  at  Rome,  V,  1910,  pagg.  129  e  135-6).  Accurato  studio  e  indagini 
speciali  meriterebbero  tali  capanne  paleosarde,  di  cui  8i)e8So  si  riconoscono  avanzi 
riuniti  a  guisa  di  villaggio  attorno  a  un  nuraghe;  sebbene,  naturalmente,  vi  sia 
poca  speranza  d'imbattersi  in  un  gruppo  delle  più  antiche.  Ad  ogni  modo  sap- 
piamo davvero  troppo  poco  dei  truddhi  preistorici  attinenti  alle  specohie,  per  poter 
riconoscere  se  la  introduzione  di  questi  tipi  fu  nelle  Puglie  contemporanea  o  an- 
teriore a  quella  che  ebbe  luogo  in  Sardegna.  Ma  se  il  tipo  fosse  giunto  nelle 
Puglie  in  ritardo,  passando  attraverso  il  continente  greco  e  quindi  traversando 
l'Adriatico,  ciò  attesterebbe  almeno  la  direzione  del  movimento,  che  sarebbe 
perdurato. 


L'origine  del  '  Nuraghe  '  Sardo  e  le  relazioni  della  Sardegna  con  l'oriente  163 

parte  del  mondo,  fuori  e  lontanissime  dal  Mediterraneo,  e  se  vi  tro- 
vassimo gli  stadi  di  transizione  :  cupole  di  mattoni  crudi,  cupole  con 
zoccoli  stipiti  e  architravi  di  pietra,  infine  nnragbi  o  ialayots.  Allo 
stato  delle  cose,  e  viste  le  relazioni  che  ogni  giorno  piti  si  vanno 
accertando  tra  il  bacino  occidentale  e  quello  orientale  del  Mediter- 
raneo, non  si  possono  staccare  i  nnraghi  e  i  talayots  dalle  capanne 
d'  Orcomeno.  Queste  ci  rappresentano  senza  dubbio  un  momento  ed 
nn  luogo  più  vicino  all'origine  del  tipo  ;  in  Sardegna  e  nelle  Baleari  il 
materiale  primitivo  dovè  subire  rapidamente  quella  totale  sostituzione 
con  le  eccellenti  pietre  fornite  in  tanta  abbondanza  dal  suolo,  alla  quale 
già  si  erano  parzialmente  avviati  i  costruttori  di  Orcomeno  ;  e  la  ra- 
pidità di  questo  processo  tanto  meglio  si  spiega,  quanta  maggior  parte 
della  evoluzione  si  era  compiuta  non  già  in  ntu,  ma  altrove. 

La  Sardegna  e  le  Baleari  sono  isole,  e  i  germi  in  parte  svilui)- 
pati  in  altro  bacino  mediterraneo  non  vi  potevano  pervenire  se  non 
per  via  marittima.  Ma  tutt' intorno  alle  coste  del  bacino  occidentale 
abbiamo  costruzioni  affini,  non  sempre  richiamate  interamente  a  pro- 
posito, perchè  in  gran  parte  di  altra  destinazione,  funebre  e  religiosa; 
non  già  che  l'uso  o  funzione  di  una  forma  abbia  importanza  di  per 
sé,  ma  perchè  in  questo  caso  si  fondono  e  s'intrecciano  in  questi 
monumenti  funebri  e  religiosi  elementi  diversi,  tradizioni  megalitiche 
o  dolmeniche,  apporti  della  civiltà  premicenea  delle  Cicladi  con  le 
sue  tombe  a  forno,  svilui)po  e  determinazione  come  tomba  della  tho- 
los  sotterranea  micenea  di  pietre  a  corsi  restringentisi.  Quest'ultimo 
tipo  è  dunque,  in  occidente,  d' importazione  micenea  o  submicenea, 
ed  in  Italia  si  riconnette  princiijalmente  all'arte  etrusca.  Apparten- 
gono invece  alla  linea  di  sviluppo  che  noi  studiamo  le  sole  case  mo- 
nocellulari a  cupola  libera,  che  sono  di  origine  non  già  micenea  o 
submicenea,  ma  premicenea,  e  che  nemmeno  si  riferiscono  determi- 
natamente alla  civiltà  delle  Cicladi  e  alle  tombe  a  forno  (nelle  quali 
si  potè  voler  imitare  una  qualunque  capanna  rotonda,  ed  è  anzi  certo 
che  non  si  volle  imitare  l'alta  cupola  conica),  ma  spettano  ad  altra 
corrente,  di  cui  riconosciamo  in  Orcomeno  una  tappa  importante. 

Pili  rettamente  sono  ravvicinati  ai  nuraghi  e  ai  talayots  le  «  ca- 
selle »  della  Liguria  italiana  e  i  cabanons  della  francese  ;  essi  si  tro- 
vano suppergiù  nella  condizione  dei  truddhi,  sono  abitazioni  e  rap- 
presentano una  tradizione  vetustissima  ').  In  ragione  della  costruzione 


')  In  alcuni  cabanons  si  rinvennero   materiali    riferiti    all'eneolitico  :    CB.    du 
XlIIe  Congrès  d' Anthrop.  et  d'^Archéol.  préhistor.,  Monaco  1907,  pag.  250  sgg. 


164  O.  Patroni 


assai  più  leggera,  la  cupola  vi  si  è  talora  modificata  in  ripiani  a 
gradino  o  è  stata  addirittura  sostituita  dal  tetto  piano;  giacché  per 
reggere  cupole  massicce  di  pietra  costruite  ad  aggetto  e  senza  ce- 
mento occorrono  appunto  gli  enormi  muraglioni  dei  nuraghi,  e  la 
possibilità  e  convenienza  di  eseguirli.  Il  sistema  potè  propagarsi  fra 
gli  anticlii  popoli  alpini,  e  mantenersi  dove  ragioni  speciali  (località 
prossime  ai  ghiacciai,  povere  di  legno  e  ricche  di  pietra)  hanno  con- 
tribuito alla  persistenza.  In  tal  modo  potrebbero  forse  spiegarsi  le 
capanne  a  cupola  di  pietre  usate  da  cacciatori  e  pastori  presso  il 
passo  Bernina,  a  Sassai  Massone  '),  se  pure  non  trattasi  di  uno  di 
quei  fatti  di  convergenza  che  talora,  isolatamente,  si  producono  a 
distanza  di  tempo  e  di  luogo  e  non  si  possono  escludere  in  modo 
assoluto. 

L'insieme  delle  costruzioni  rotonde  e  subrotonde,  megalitiche  o 
pseudomegalitiche,  del  bacino  occidentale  mediterraneo,  anche  com- 
prendendovi quelle  che  non  appartengono  alla  pura  tradizione  della 
capanna  monocellulare  con  cupola  ad  aggetto  (sesi  di  Pantelleria, 
couchetH  o  choucha  della  Tunisia,  ecc.)  non  ha  l'aria  di  provenire  dal- 
l' interno  delle  terre  occidentali,  bensì  di  costituire  un  mondo  ma- 
rittimo e  marinaro.  È  possibile  che  relazioni  della  Sardegna  o  delle 
Baleari  con  le  spiagge  circonvicine  abbiano  contribuito  a  mantenere 
o  a  sviluppare  la  tradizione  di  tali  costruzioni,  ma  è  del  tutto  inve- 
rosimile che  queste  isole  creassero  il  tipo;  che  anzi  esso  non  è  pas- 
sato nemmeno  dall'una  alle  altre  di  quelle  isole,  giacché  in  Sardegna 
si  ha  il  tipo  circolare,  con  qualche  rarissima  eccezione,  e  nelle  Ba- 
leari predomina  il  tipo  ellittico,  con  altre  peculiaretà.  Ora  gli  scavi 
di  Orcomeno  c'insegnano  appunto  che  nella  preistoria  mediterranea 
i  due  tipi  sono  ben  distinti,  e  rappresentati  da  stratificazioni  ar- 
cheologiche all'atto  separate  e  sovrapposte.  Ciò  che  le  stratificazioni 
di  Orcomeno  danno  nel  senso  dell'  altezza,  la  Sardegna  e  le  Baleari 
replicano  nel  senso  dell'estensione  geografica,  e  provano  che  lo  svi- 
luppo delle  loro  architetture  è  dovuto  a  germi  portati  da  una  cor- 
rente che  andava  dall'oriente  all'occidente,  e  che  toccò  prima  la  Sar- 


')  Bulle,  o.  c,  tav.  XII,  2.  Cfr.  i  cabanons  affatto  simili  del  Col  Ferrier, 
ISSKL,  Liguria  prei»torica,  1908,  p.  613,  lig.  264.  Cilecche  sia  di  ciò,  le  costruzioni 
delle  terre  liguri  non  hanno  radici  nel  retroterra:  sono  venute  dal  mare,  e  senza 
dubbio  dall'oriente,  che  Marsiglia  e  Genova  sono  ancor  oprgi  ciò  che  la  natura  le 
ha  fatte,  teste  di  linea  occidentali  della  navigazione  mediterranea  nel  senso  dei 
paralleli. 


L'origine  del  '  Nuraghe  '  Sardo  e  le  relazioni  della  Sardegna  con  V oriente  165 


degna  recandovi  il  germe  rappresentato  dal  primo  strato  d'Orcomeuo, 
poi  le  Baleari  recandovi  quello  del  secondo  strato. 

Fuori  del  Mediterraneo,  vi  è  una  sola  regione  dell'estremo  occi- 
dente europeo,  dove  le  cupole  di  mattoni  d'argilla  appariscono  dal- 
l'antichità sino  alla  nostra  epoca,  e  cioè  le  isole  britanniche,  ove 
queste  abitazioni  sono  dette  beehive  honses  (case  ad  alveari).  Alcuni 
esemplari  di  queste  case  o  capanne  presentano  lo  zoccolo  di  pietra, 
come  quelle  di  Orcomeno  e  del  Curdistan  *).  Anche  qui,  se  si  trattasse 
di  un  luogo  lontanissimo  e  senza  possibilità  di  rapporti,  come  po- 
trebbero essere  le  Filippine  o  le  Antille,  sarebbe  autorizzata  l' ipo- 
tesi di  un  centro  separato  d'origine  del  tipo.  Ma  la  via  costiera  del 
mare  esterno  è  tanto  nota  agli  archeologi  ed  agli  storici,  ed  è  così 
certo  che  il  cabotaggio  da  scalo  a  scalo  vi  fu  esercitato  in  epoca 
antichissima,  ben  innanzi  ai  viaggi  d'Imilcone  e  di  Pitea  maasaliota 
(quando  ancora  la  massa  di  terre  continentali  era  impervia),  che  bene 
ha  fatto  il  Mackenzie  ')  a  porre  in  rapporto  tali  costruzioni  con  le 
tholoi  mediterranee.  Solo  bisogna  intendere  che  il  rapporto  con  le 
tholoi  è  generico  e  poco  concludente  :  quello  specifico  si  ha  soltanto 
con  la  tradizione  delle  capanne  monocellulari  rotonde  dalla  cupola  co- 
nica ad  aggetto,  che  costituisce  fra  le  tholoi  uno  speciale  ramo  ed  è 
propagata  da  una  particolare  corrente.  Né  il  senso  di  questa  corrente 
può,  nel  caso  delle  isole  britanniche,  lasciar  luogo  a  dubbi:  che 
troppo  evidentemente  esse  sono,  come  la  regione  del  Iago  Ciad,  un 
termine  d'arrivo  e  non  un  punto  di  partenza. 

Credo,  ormai,  d'aver  mostrato  che  la  diffusione  del  tipo  d'abita- 
zione testé  definito,  e  cui  si  riconduce  il  nuraghe  sardo,  ebbe  luogo 
sopra  una  linea  di  navigazione  che  dall'  Egeo  conduce,  per  la  nota 
via  della  costa  atlantica,  sino  alle  estreme  isole  occidentali  d'Europa. 
Se  vogliamo  contentarci  di  questa  via  marittima,  non  si  può  fare  a 
meno  di  cercare  il  punto  di  partenza  nel  Mediterraneo;  se  entro  il 
Mediterraneo  vogliamo  determinarlo,  non  si  può  fare  a  meno  di  se- 
gnarlo nell'Egeo.  Per  quanto  concerne  la  via  mediterraneo-atlantica, 
il  nostro  tipo  di  capanna  a  cupola  si  palesa  di  origine  orientale. 

Se  non  che  la  esistenza  del  medesimo  tipo  in  Africa,  su  una  li- 
nea di  diffusione  separata   da   quella   mediterranea  per  gl'interposti 


')  MoNTBLius,  in  Jrohiv  filr  Anthropologie,  XXIII,  1895,  pag.  461,  tig.  34; 
id.,  Orient  utid  Europa,  pag.  185,  flg.  247  (esemplari  delle  Ebridi)  ;  cfr.  Issel,  Li- 
guria preistorica,  pag.  618,  fig.  267. 

')  Notes  OH  eerlains  structures  of  archaic  type  ecc.,  in  Proceedings  of  the  Soeiety 
of  Antiquaries  of  Scotlanct,  XXXVIII,  Edinibnrgo  1904. 


166  (i-  l'aironi 


grandi  deserti  libico  e  sahariano,  e  che  lo  studio  delle  vie  naturali 
conduce  a  un  punto  di  partenza  asiano-mesopotamico,  deve  indurre 
ad  ammettere  che  quello  che  sembra  punto  di  partenza  per  la  via 
marittima,  deve  essere  piuttosto  tappa  di  un  cammino  che  partendo 
dalla  medesima  fonte,  in  senso  divergente  dalla  diramazione  sudanese, 
condusse  attraverso  l'Asia  anteriore  su  le  spiagge  dell'Egeo. 

Veramente  avrebbe  potuto  vederci  più  chiaro  anche  il  Bulle, 
se,  per  una  dimenticanza  veramente  imperdonabile  *),  non  avesse 
trascurato  il  bassorilievo  ninivita  già  da  noi  rammentato,  e  non  si 
fosse  ridotto  a  postulare  la  persistenza  di  una  tradizione  antichissima 
(àie  Mrdischen  Hiltten  aus  Mesopotamien  sind  den  orchomenifichen  so 
àhnlich,  dass  wir  vielleicht  (anche  forse  ?!  )  eine  ununterbrochene  Tra- 
dition  aus  der  dltesten  Zeit  fiir  sie  voraussetzen  diir/en),  là  dov'era 
il  caso  non  già  di  postulare,  bensì  di  documentare.  L'attuale  Curdi 
stan,  l'Assiria  e  la  Caldea  formano  un  solo  poderosissimo  blocco,  con 
cui  non  può  competere  nessuna  regione  al  mondo.  Studiando  la  dif- 
fusione delle  forme  con  indirizzo  naturalistico,  noi  dobbiamo  appli- 
care il  criterio  biogeografico,  che  là  dove  una  forma  si  trova  più 
compatta,  ivi  siamo  vicini  al  centro  d'origine  e  di  dift'usione.  Con 
questo  criterio  gli  archeologi  determinarono  e  determinano  fabbriche 
industriali  e  scuole  artistiche,  anche  senza  rendersi  conto  di  applicare 
un  criterio  biologico;  sarà  dunque  lecito  riconoscere  nella  Caldea  il 
vero  centro  d'origine  della  capanna  conica  con  cupola  di  mattoni 
crudi  ottenuta  per  aggetto  progressivo,  tanto  più  che  questo  risul- 
tato s'impone  non  solo  per  tutte  le  altre  circostanze,  ma  anche  pel 
convergere  delle  due  grandi  correnti  di  diffusione  del  tipo  verso  la 
valle  dell'Eufrate. 

Queste  correnti  non  erano  propriamente  e  sempre  costituite  da 
migrazioni,  ne  quando  ciò  avveniva  è  necessario  ammettere  sposta- 
menti di  interi  popoli  numerosi.  Erano  principi  d'arte  che  si  diffon- 
devano da  una  tribù  ad  altra  vicina,  da  questa  a  due  o  tre  tappe 
di  distanza,  e  per  le  vie  di  mare  a  due  o  tre  scali,  per  mezzo  di 
gente  che  si  spostava  per  ragioni  di  commercio.  Il  quale,  nelle  età 
primitive,  sarà  avvenuto  da  tappa  a  tappa  e  da  scalo  a  scalo  per 
cabotaggio,  non  già  per  navigazione  di  lungo  corso.  Dal  modo  come 


1)  Già  il  non  interrogare  l'arte  assiro-caldea  in  una  questione  di  cupole,  e 
quando  dalla  ricerca  etnografica  si  è  stati  condotti  in  Mesopotamia,  è  come,  in  una  ri- 
cerca su  le  saghe  troiane,  dimenticare  1'  Iliade  d'  Omero.  Ma  poi  il  coutorno  degli 
editìci  assiro-caldei  è  riprodotto  anche  in  manuali  preparati  dal  punto  di  vista 
dell'arte  classica  (Sybel,    ìVeltgeach.  d.  Kiinst^,  p.   16)  ! 


L''origine  del  '  Nuraghe  '  Sardo  e  le  reiasioni  della  Sardegna  con  l'oriente  167 

si  presenta  la  distribuzione  del  tipo,  disteso  per  lunghe  linee,  ma 
senza  grande  espansione  in  vaste  terre  e  per  ogni  senso  (tranne  nel 
paese  d'origine,  la  Mesopotamia)  si  può  dedurre  che  queste  linee  non 
fossero  in  fondo  altra  cosa  se  non  le  vie  dei  più  antichi  commerci. 
È  certo  necessario  che  alle  tappe  o  scali  successivi  giungessero  uo- 
mini esperti  nell'arte  delle  cupole  ;  ma  a  ciò  bastava  qualche  fami- 
glia, né  si  può  escludere  che  occidentali  pur  essi  navigatori,  come 
i  Sardi,  andassero  incontro  ai  navigatori  del  bacino  orientale  fino  a 
tre  o  quattro  scali,  e  talora  alcuni  si  fermassero  in  quei  paesi,  e  poi 
in  parte  ne  tornassero  dopo  aver  appresa  un'arte  o  una  tecnica  che 
poi  diffondevano  nella  loro  isola. 

Come  avvenisse  la  trasformazione  della  piccola  capanna  nel 
grande  e  talora  grandioso  nuraghe,  è  stato  già  abbastanza  chiarito 
sia  per  la  ragione  tecnica  addotta  dal  Bulle  (necessità  di  robusti  muri 
per  sostenere  la  massiccia  cupola  tutta  di  pietre  :  opportunità  di  ser- 
virsi dello  spessore  per  aumentare  le  comodità  della  casa  monocel- 
lulare, aprendo  nicchie,  praticando  scale  d'accesso  al  piano  superiore, 
ecc.,  il  che  invitava  a  rendere  sempre  piti  robusta  la  costruzione) 
sia  per  quella  sociale  addotta  dal  Taramelli.  Il  nuraghe  non  è  la  casa 
comune,  bensì  la  fortezza  e  torre  di  vedetta  del  villaggio:  vi  avrà 
abitato  il  capo,  ma  con  l'obbligo  di  darvi  asilo  alle  persone  ed  ai 
beni,  verso  l'obbligo  corrispettivo  di  fornire  gli  armati  per  la  difesa 
del  fortilizio  e  pel  servizio  di  scolta;  e  ciascun  capo  di  villaggio 
doveva  procedere  d'accordo  con  gli  altri  capi  di  villaggio  della  me- 
desima tribìi  o  popolo,  organizzando,  sotto  il  comando  dei  capi  po- 
litici di  questa  tribii  o  popolo,  l'insieme  dei  nuraghi  nella  maniera 
più  confacente  alla  difesa  del  territorio  della  tribù  medesima.  Dato 
questo  frazionamento,  era  molto  più  opportuno  attenersi  al  tipo  mo- 
nocellulare e  svilupparlo  al  massimo  grado.  Un  capo  o  re  così  po- 
tente e  così  esclusivo  da  potersi  costruire  un  palazzo  riccamente 
ornato  e  mvmirlo  di  una  così  poderosa  muraglia  come  a  Tirinto,  in 
Sardegna  non  vi  fu  mai  ;  viceversa  la  società  micenea  non  conobbe 
sottocapi,  ciascuno  dei  quali  potesse  disporre  di  un  grandioso  tor- 
rione per  abitazione  della  propria  famiglia  e  per  difesa  del  territorio. 

Non  è  invece  chiarita  la  ragione  della  rapida  sostituzione  del 
materiale  primitivo,  cioè  dei  mattoni  crudi,  con  la  pietra,  che  avvenne 
nel  bacino  occidentale  del  Mediterraneo.  Io  credo  che  essa  sia  la  se- 
guente: che  cioè  quel  tipo  a  cupola,  proveniente  dall'oriente,  si  è 
incontrato  in  occidente  con  uno  speciale  sviluppo,  già  avvenutovi, 
dei  monumenti  megalitici.  Questi  c'erano  in  Sardegna  prima  dei  nu- 


168  O.   Patroni  -  L'origine  del  'Nuraghe  '  Sardo  ecc. 

raghi,  e  si  continuarono  a  produrre  accanto  ad  essi,  in  tii)i  evoluti 
(«  tombe  di  giganti  »).  Il  paese  dei  truddhi  è  un  paese  di  monumenti 
megalitici,  di  dolmens  e  menhirs;  e  già  altri  hanno  osservato  la  con- 
comitanza di  cabanons  e  di  dolmens.  Gli  occidentali,  ricevendo  il  tipo 
della  cupola  ad  aggetto,  erano  già  costruttori  in  pietra,  almeno  li- 
mitatamente alle  tombe  e  a  qualche  edificio  religioso;  essi  adunque 
eseguirono  in  pietra  la  costruzione  a  cupola,  la  quale  del  resto  già 
comin<5Ìava  ad  ammettere  parzialmente  l'uso  del  materiale  lapideo, 
come  mostrano  le  capanne  di  Orcomeno.  Non  mi  pare  che  tolga  va- 
lore a  questa  spiegazione  il  fatto  che,  per  qualche  ragione  speciale 
che  ora  non  saprei  indicare,  le  beehive  houses  delle  isole  britanniche 
non  abbiano  subito  la  completa  sostituzione  del  materiale,  continuando 
invece  ad  esser  coperte  di  cupola  d'argilla  sino  ai  nostri  giorni. 

PaTÌa,  aprile  del  1916. 

G.  Patroni. 


ASPETTI  DELL'ARTE  IN  ETRURIA 


Il  fenomeno  artistico  in  Etruria  è  una  conseguenza  del  fenomeno 
artistico  in  Grecia.  L'arte  greca  e  l'arte  etrusca  si  svolgono,  è  vero,  in 
correnti  parallele,  ma  un  esame,  an(!be  non  approfondito,  dei  loro  pro- 
dotti ci  induce  a  giudicare  l'arte  in  Etruria  come  un  riflesso  diretto 
della  luce  cbe  si  effonde  dall'oriente  ellenico,  riflesso  pivi  o  meno  lu- 
minoso che,  talora,  assume  bagliori  suoi  propri.  I  peculiari  aspetti, 
innegabili  nell'arte  etrusca,  hanno  la  loro  ragione  di  essere  non  solo 
nel  complesso  di  credenze  e  di  riti  religiosi  e  funerari,  di  ricordi 
atavici  della  stirpe,  di  metodi  di  vita  civile,  di  rapporti  pacifici  od 
ostili  con  altre  genti,  e  dentro  e  fuori  della  penisola,  ma  anche 
nelle  specifiche  condizioni  del  suolo  dagli  Etruschi  colonizzato  ed 
abitato.  La  Grecia  dà  l'impulso  animatore,  la  Etruria  riceve  tale  im- 
pulso e  pedissequa  vi  si  uniforma,  talora,  con  ogni  verisimiglianza, 
lasciando  operare  artefici  ellenici  immigrati,  ma  adatta,  quasi  sempre, 
i  mezzi  e  le  forme  di  arte  importata  ai  propri  intenti,  alle  proprie 
esigenze  di  vita.  Così,  con  schietta  impronta  ellenica  per  quel  che 
concerne  il  repertorio  delle  forme  decorative  e  la  espressione  delle 
forme  umane,  l'arte  etrusca  ha  in  se  qualche  cosa  di  peculiare  che 
varia  secondo  e  le  età  e  i  luoghi  e  i  vari  generi  di  monumenti. 

Ma,  e  questo  avviene  specialmente  nella  plastica  a  tutto  tondo  e 
nel  rilievo,  non  è  sempre  facile,  e  alcune  volte  è  impossibile,  saper 
distinguere  quello  che  è  veramente  ellenico  da  quello  che  è  dovuto 
ad  imitazione  etrusca.  Così,  per  esempio,  è  arduo  decidere  se  sia  si- 
cura la  attribuzione  a  mani  elleniche  di  bronzi  come  la  lupa  del  Cam- 
pidoglio *),  la  Chimera  di  Arezzo  ^),  se  veramente  l'insigne  bronzetto, 
dello  Aiace  suicida  da  Populonia  ')  possa  essere  ascritto  ad  un  artefice 
greco  e  se,  infine,  i  bronzi  e  gli  argenti  di  Castello  San  Mariano  nel 


1)  MiCHABMS  e  Della  Seta,  fig.  345;  Brunn  e  Bruckmann,  n.  318. 
')  Martha,  fig.  208  ;  Milani,  t.  25  ;  Brunn  e  Bruckmann,  n.  319. 
')  Bollettino  d'Arte,  1908,  p.  361  (Milani). 


170  Pericle  Ihicati 


perugino  ')  ed  il  bronzeo  carro  di  Monte  Leone  presso  Spoleto  ')  pos- 
sano far  parte  del  patrimonio  artistico  veramente  etrusco  piuttosto 
che  jonico. 

Ed  è  d'altra  parte  degno  di  nota  che,  essenzialmente  nel  periodo 
dell'arcaismo,  l'arte  che  si  esplica  in  Etruria  ha  caratteri  che  iden- 
tici si  riscontrano  in  monumenti  usciti  alla  luce  da  altre  località 
non  etrusche  dell'  Italia  centrale.  Così,  per  esempio,  le  oreficerie  dei 
tumuli  vetuloniesi  e  gli  oggetti  preziosi  della  tomba  Regolini  Ga- 
lassi  di  Cervetri  ^)  palesano  eguaglianza  perfetta  di  stile  con  mate- 
riale uscito  dalla  latina  Preneste,  alludo  alle  tombe  Barberini  *),  Ca- 
stellani ^),  Bernardini  ^),  e  dalla  necropoli  della  greca  Cuma  '').  Così, 
per  esempio,  alle  terrecotte  templari  ceretane  scavate  nel  1869  *) 
corrispondono  le  terrecotte  della  falisca  Faleri  °),  della  latina  Lanu- 
vium  "),  della  volsca  Satricum  "),  della  campana  Capna  '^).  Unità  di 
stile  in  questi  monumenti  che  presuppone  un  solo  aspetto  di  vita 
civile  presso  le  popolazioni  italiche  del  centro  occidentale  della  pe- 
nisola, popolazioni  non  completamente  ellenizzate  come  quelle  delle 
coste  italiane  del  mezzogiorno  e  siciliane,  non  così  staccate  dal  mondo 
ellenico  come  quelle  del  versante  orientale  della  penisola  e  della  valle 
del  Po  e  del  Veneto. 


1)  Martha,  fig.  347  ;  Micbaelis  e  Dki.la  Seta,  fig.  293,  e  Antike  Denhmà- 
ler,  II  t.  15-16  e  Roemische  MUteilungen,  1894,  p.  253  e  segg.  (Petersen)  ;  Brunn 
e  BiiUCKMANN,  t.  588-589. 

')  Brunn  e  Bruckmann,  t.  586-587. 

2)  Martha,  fig.  102  e  103  ;  si  v.  la  recentissima  pubblicazione  del  materiale  di 
questa  tomba  nella  ricchissima  opera  di  Pinza  U.,  Etnografia  etrusoo-laziale,  1915. 

*)  Della  Seta,  Bollettino  d'Arte,  III,   1909,  p.   161  e  segg. 

^)  Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  Vili,  t.  XXVI;  Annali  dell' Instituio  ecc., 
1866,  t.  G  e  H. 

«)  Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  X,  t.  XXXI-XXXII  ;  XI,  t.  II. 

')  Monumenti  della  B.  Accademia  dei  Lincei,  XIII,  p.  228  e  segg.,  fig.  7  e  segg. 
(Pellegrini). 

*)  WiKGAND,  Terree  cuitea  architecturalei  d' Italie,  in  La  Gliptothèque  Ny-CarU- 
berg,  t.  170  e  segg. 

')  Quasi  tutte  inedite  ;  l'acroterio  del  tempio  di  Mercvirio  è  edito  da  Della 
Seta,  Religione  e  arte  figurata,  fig.  129  e  da  Rizzo  in  Bullettino  archeologico  comu- 
nale,  1910,  t.   13. 

1»)  Notitie  degli  Scavi,  1889,  p.  247,  1895,  p.  46  ;  FurtwXnglkr,  Meistem-ei-ke  der 
griechiachen  Plaatik,  fig.  32. 

1')  Quasi  tutte  inedite  ;  per  il  poco  edito  si  veda  Mélange»  d'archeologie  et  d'hi- 
atoire,  XVI,   1896,  t.   1-4  (Graillot). 

")  KocH,  Dachterrakotten  aua   Campanien,  t.  V  e  segg. 


Aspetti  dell'arte  in  Etruria  171 

Ma  tra  questi  popoli  dell'Italia  centrale  non  già  i  Falisci  o  i 
Volsci  o  1  Latini,  Eoma  era  ancora  un  borgo  di  guerrieri  agricoltori  ; 
ma  gli  Etruschi,  i  nobili  Etruschi  soli  potevano  avere  continui  rap- 
porti e  coi  Greci  civilizzatori  e  coi  Fenici  mediatori  industri  di  ci- 
viltà, potevano  attrarre  a  sé  e  gli  unì  e  gli  altri.  Di  arte  etrusca  si 
deve  parlare  in  questo  periodo  arcaico  e  tale  denominazione  meglio 
può  soddisfarci  che  quella  di  arte  del  centro  d' Italia  del  versante  oc- 
cidentale. E,  come  al  mare  che  bagna  le  coste  di  tale  versante  è 
conservato  il  nome  di  Tirreno,  nome  che  ricorda  le  vetuste  popola- 
zioni della  odierna  Toscana,  quasi  a  significare  il  primato,  che  esse 
tennero  nel  campo  della  civiltà  sulle  altre  popolazioni  vicine  prima 
del  predominio  romano,  e  come  ricordo  della  navigazione  riserbata, 
tra  gli  altri  popoli  italici,  prima  che  a  Roma,  esclusivamente  agli 
Etruschi,  così  quest'arte  arcaica,  che  impronta  del  suo  carattere  anche 
la  piccola,  ma  fiera  Boma  dei  tempi  leggendari  dei  re  e  della  repub- 
blica primitiva,  è  giusto,  è  doveroso  che  sia  giudicata  come  patri- 
monio essenziale  degli  Etruschi.  I  quali  adunque,  rispetto  alle  altre 
stirpi  a  loro  sottomesse  o  con  loro  confinanti,  debbono  essere  con- 
siderati come  precipuo  fattore,  continuamente  attivo,  di  progresso 
civile,  gli  Etruschi  che,  ricevendo  elementi  numerosi  ed  importanti 
di  civiltà  superiori,  riescirono  ad  elaborarli  e  a  foggiare  con  essi  un 
aspetto  peculiare  di  cultura,  la  quale  divenne  comune  alle  genti  vi- 
cine e  della  quale  trassero  vantaggio,  sia  pur  mediatamente  ed  in 
ritardo,  anche  le  rudi  popolazioni  delle  alte  valli  dell'Appennino  e 
della  pianura  padana.  Mediatori  adunque  di  un'arte,  che  porzione  sì 
grande  è  della  vita  civile  di  un  popolo,  furono  gli  Etruschi  nella  pe- 
nisola nostra;  ma  tale  mediazione  non  è  paragonabile  a  quella  dei 
Fenici,  che  solamente  importarono  prodotti,  in  cui  niuna  impronta 
di  originalità  esiste  ed  in  cui  è  tutta  una  contaminazione  dei  motivi 
di  arte  dell'oriente.  Anzi  gli  Etruschi,  più  che  mediatori,  furono  ci- 
vilizzatori, perchè  nella  loro  attività  artistica,  pur  cercando  di  mo- 
dellarsi a  quanto  l'arte  ellenica  riesciva  ad  esprimere  con  mirabile, 
continua  tendenza  alla  perfezione,  resero  essi  palese  un  carattere 
proprio  e,  anche  là  dove  la  esecuzione  è  sciatta  ed  inabile,  vi  è  sempre 
qualche  cosa  di  sentito,  di  vivace  che  è  ben  lontano  da  una  imita- 
zione freddamente  meccanica. 


L' influsso  benefico  della  Grecia  sulle  coste  della  Toscana  si  iniziò 
in  modo  continuo  e  diretto  fin  da  quando  la  Sicilia  e  l'Italia  meri- 


172  Pericle  Ducati 


dionale  cominciarono  a  diventare  per  gì'  intraprendenti  navigatori 
greci  uno  dei  campi  preferiti  di  colonizzazione.  Siamo  ai  primordi 
dell'arte  greca.  Quest'arte  iniziava  il  suo  sviluppo  da  forme  geome- 
triche, primitive  in  un  suolo  che  già  era  stato  letificato  per  lun- 
ghissima serie  di  anni  dall'arte  cretese-micenea,  lussureggiante  per 
ricchezza  di  materiali,  per  ampiezza  e  grandiosità  di  costruzioni, 
fantastica  nelle  scene  figurate  e  nella  ornamentazione,  per  la  spre- 
giudicata vivacità  compositiva,  per  l'arditezza  di  motivi,  per  la  pre- 
dilezione di  forme  non  comuni,  e  talora  strane  ed  innaturali,  abba- 
gliante per  i  contrasti  fortissimi  di  vivaci  colori  e  per  il  fulvo  oro 
regalmente  profuso.  Si  sviluppava  questa  nuova  arte  dell'Egeo  presso 
un  popolo  giovane,  in  cui  si  risvegliavano  imperiose  energie  di  vita, 
realisticamente  industriosa  come  presso  i  Fenici,  ma  nel  tempo  stesso 
idealmente  spirituale.  E  questo  sviluppo  avveniva  nelle  primissime 
fasi  a  contatto  ed  anche  sotto  un  relativo  influsso  della  millenaria 
jeratica  arte  degli  Egizii  e  contemporaneamente  alla  bastarda  produ- 
zione commerciale  dei  Fenici. 

Anche  i  primitivi  documenti  di  quest'arte  ellenica  riescirono  a 
sprigionare  nelle  popolazioni  delle  coste  del  Tirreno  la  scintilla  ani- 
matrice di  un'arte,  nelle  cui  prime  manifestazioni  possiamo  scorgere 
chiaro  l'influsso  d'oltremare. 

Non  è  qui  luogo  di  fare  ampio  cenno  della  complessa  ed  ancor 
fieramente  dibattuta  questione  della  provenienza  degli  Etruschi  :  co- 
stituiscano essi,  come  alcuni  sostengono,  una  popolazione  cognata 
colle  altre  dell'Italia  centrale  e  con  le  altre  venuta  giù  dalle  Alpi 
assai  prima  della  civiltà  convenzionalmente  detta  del  ferro;  siano 
essi  invece  di  razza  diversa  e  siano  o  discesi  per  via  di  terra  o, 
come  è  in  maggioranza  supposto,  giunti  per  via  di  mare,  e  vi  può 
sempre  essere  divergenza  sulla  età  o  di  questa  discesa  o  di  questo 
passaggio  e  sul  luogo  primitivo  di  origine;  siano  essi  Etruschi  infine, 
come  è  anche  il  mio  modesto  avviso  '),  il  risultato  della  fusione  con 
le  preesistenti  popolazioni  italiche  di  schiere  di  Tirseni  approdati 
alle  coste  tirreniche  dal  bacino  settentrionale  dell'  Egeo,  certo  è  che, 
nella  regione  ove  gli  Etruschi  vissero,  vediamo  svolgersi  un'arte  che 
dagli  incunaboli  delle  forme  geometriche  si  solleva  a  grado  a  grado, 
come  l'arte  ellenica,  ad  espressioni  più  alte,  in  cui  pure  nobilmente 
signoreggia  la  figura  umana.  Ma,  mentre  in  Grecia  prima  era  brillata 


>)  Rimando  a  G.  Korte  iu  Pauly  e  Wissowa,  Real-Eneyclopadie  der  Altertumè- 
wissenscha/t,   VII,  p.  735. 


Aspetti  deWarte  in  Etniria  173 

per  tempo  sì  lungo  possente  luce  di  civiltà,  nell'Italia  centrale  l'arte 
novella  degli  Etruschi  appoggiavasi  ad  un  lungo  passato,  nel  quale 
i  primi  abitanti  della  regione,  selvaggiamente  vivendo,  a  poco  a  poco, 
sia  pure  col  trasmutar  di  stirpi,  avevano  cambiato  1'  uso  delle  armi 
di  pietra  con  quello  delle  armi  di  rame  e  di  bronzo,  paghi  di  una 
rudimentale  arte  decorativa  api)licata  al  rozzo  vasellame,  ai  rozzi  ar- 
nesi di  uso  domestico,  non  ricevendo  nella  loro  tenebrosa  vita  che 
scarsissimi,  assai  mediati  sprazzi  di  luce  dal  luminoso  oriente. 

linde  è  anche  la  primitiva  arte  geometrica  dell'Italia  centrale; 
sia  che  debba  essere  ascritta,  come  taluni  credono,  alle  popolazioni 
pre  etnische  o  non  etrusche,  sia  che  di  essa,  come  io  suppongo, 
anche  gli  Etruschi  fossero  partecipi.  Tale  rudezza  ci  appare  in  modo 
speciale  nei  graffiti  sui  vasi  fittili,  in  cui  signoreggia  la  decorazione 
essenzialmente  lineare,  che  costituisce  in  Grecia  lo  stile  del  Dipylon, 
in  Italia  lo  stile  di  Villanova,  denominazioni  di  due  fenomeni  arti- 
stici paralleli  desunte  da  specifiche  località,  ma  che  hanno  conven- 
zionalmente assunto  una  molto  più  ampia,  più  generica  significazione. 
In  questo  stadio  culturale  dell'arte  geometrica  italico-etrusca  si  os- 
servano mantenuti  alcuni  tipi  di  oggetti  senza  dubbio  richiamanti 
una  civiltà  già  tramontata,  la  civiltà  pre-ellenica;  alludo  alle  armi  di 
offesa,  daghe  e  pugnali,  e  di  difesa,  elmi,  nei  quali  ultimi  si  è  voluto 
riconoscere  un  elemento  importato  dai  primi  Tirseni  sulle  coste  ita- 
liche. Ma  dalla  mediocrità  di  questa  arte  geometrica  si  sollevano  ta- 
lora alcuni  monumenti  o  in  metallo,  bronzo  od  oro,  o  di  pittura,  vasi 
dipinti,  che  per  la  maggiore  abilità  di  sintassi  compositiva  e  di  ac- 
curatezza nel  rendimento  dei  motivi  più  si  avvicinano  a  quanto  era 
prodotto  in  Grecia,  pur  serbando  un  accentuato  carattere  locale, 
etrusco  certamente,  ma  né  umbro,  né  latino.  La  pettiera  aurea  della 
tomba  del  guerriero  di  Oorneto  '),  la  sedia  bronzea  della  tomba  Bar- 
berini di  Preneste  °),  il  vaso  dipinto  del  sepolcreto  visentino  delle 
Bucacce  ^)  sono  monumenti  tipici  di  tal  genere  in  cui  appaiono  già 
le  foruie  dell'uomo  o  del  volatile  schematicamente  espresse,  mode- 
stissima promessa  di  fulgido  avvenire.  Né  si  debbono  tacere  i  primi 
tentativi  di  plastica  :  le  figurine  mostruosamente  bambinesche  attac- 
cate all'ossuario  villanoviano  di  Monte  Scudaio  *),  in  cui  permangono  le 


^)  Martha,   Kg.  78  ;   Monumenti  dell' Instiluto  archeologico,  X,  t.  X,  b,   2. 
')   PoULSE.v,   Der  Orient  nnd  die  friihgriechische  Kunnt,  tìg.   152. 
')  Monumenti  della  li.  Accademia  dei  Lincei,  XXI,  1913,  tavola  a  colori  (E.  Galli) 
*)  Milani,  t.   76. 


174  Pericle  Ducati 


croci  uncinate  geometriche,  hanno  una  fratellanza  innegabile  con  gli 
abbozzi  dei  primitivi  coroplasti  del  mondo  ellenico. 

Alla  fase  geometrica  subentra  la  fase  orientalizzante,  coincidente 
a  un  di  presso  col  secolo  VII.  Ed  è  una  ondata  assai  più  ampia  di  ci- 
viltà che  si  riversa  sulle  coste  tirreniche.  Anche  ora  è  notevole  il 
mantenimento  presso  gli  Etruschi  di  qualche  carattere  dello  scom- 
parso mondo  pre-ellenico  :  le  forme  di  tombe  a  tholos  di  Quinto  Fio- 
rentino '),  di  Casal  Marittimo  "),  del  Diavolino  a  Vetulonia  ')  ci  sem- 
brano una  derivazione  dalle  tholoi  di  Micene  *)  e  di  Orcomeno  ^);  la 
ricchezza  di  oggetti,  tra  cui  risplendono  le  abbondanti  oreficerie  de- 
poste come  corredo  funebre  in  tombe,  certo  di  nobilissime  famiglie, 
ci  fanno  ricordare  gli  abbaglianti  corredi  funebri  principeschi  del  ))e- 
ribolos  di  Micene  *).  Grandiosità  e  fastosità  si  accompagnano  a 
questo  nuovo  impulso  di  vita  artistica,  che  ripeteva  le  sue  origini 
dall'  oriente,  ove  erano  rimaste  vive  le  tradizioni  della  scomparsa 
civiltà  del  bacino  dell'Egeo;  grandiosità  e  fastosità  spiegabilissime 
presso  questi  Etruschi  imbevuti  della  cultura  greca,  senza  tuttavia 
che  questa  venisse  ad  afiinare  il  loro  gusto,  ad  attutire  le  smodate, 
grossolane  tendenze  ad  un  lusso  abbagliante.  Fenomeno  questo  che 
vediamo  ripetersi  in  altre  terre,  ove  penetrò  la  civiltà  ellenica;  così 
nelle  colonie  del  Chersoneso  Taurico  coi  tumuli  semi-barbarici  ricolmi 
di  oreficerie,  che  scendono  giù  nello  inoltratissimo  secolo  IV  a.  C 

Nell'uso  delle  maschere  bronzee  dei  primitivi  cinerari  canòpici 
di  Chiusi  ')  pare  mantenuto  un  ricordo  delle  maschere  auree  di  Mi- 
cene *),  e  qui  pure  si  avverte  la  conservazione  di  un  altro  elemento 
della  scomparsa  civiltà  pre-ellenica,  eco  lontana,  parallela  ad  altre 
risonanze  ancor  i)iù  tarde  della  medesima  civiltà  presso  popolazioni 
più  barbariche  e  più  settentrionali.  Ed  il  retaggio  di  schemi  e  di  forme 
dell'arte  pre-ellenica  si  avverte  conservato  anche  nelle  oreficerie  e 
negli  avori  con  la  spiccata  predilezione  pel  mondo  animale;  ma  tutto 
ciò  è  dovuto  alla  mediazione  dell'arte  orientalizzante  veramente  elle- 
nica,   in  cui  vigorosamente   riviveva  il  già    lontano   passato  cretese- 


')  MoNTELius,   La  civilisatioH  primitive  en  Italie,  II,   t.   166. 

*)  Milani,  t.  124. 

3)  Milani,  t.  122. 

*)  Eiz/.o,  tig.   103-109. 

=)  Rizzo,  flg.  110. 

*)  Rizzo,  figg.  81  e  segg. 

')  Martha,  tìg.  224;  Milani,  t.  83,  1. 

»)  Rizzo,  flg.  84. 


Aspetti  dell'arte  in  Etrttria  175 

miceneo.  Così,  monumenti  come  la  pisside  eburnea  della  tomba  della 
Pania  presso  Chiusi  ')  e  l'altra  pure  chi  asina  del  Museo  del  Lou- 
vre '),  e  per  la  sagoma  e  per  il  metodo  decorativo  a  zone  con  fregi 
zoomorfl  si  riallacciano,  attraverso  lavori  greci,  a  prodotti  micenei, 
ad  opere  come  la   pisside,   pure  eburnea,   della  tholos  di   Menidi  ^). 

Agli  incunaboli  di  arte  maggiore  figurata  della  Grecia  corrispon- 
dono le  primitive  opere,  purtroppo  non  frequenti,  di  arte  pure  mag- 
giore, iiresso  gli  Etruschi.  Nei  frammenti  plastici  di  morbida  arenaria 
del  tumulo  della  Pietrera  a  Vetulonia  ^ì,  con  la  rigida  tecnica  lignea 
a  forti  incisioni,  a  bruschi  passaggi  delle  varie  parti  del  corpo,  nei 
tre  bronzetti  di  guerrieri  del  deposito  di  Broglio  in  Val  di  Chiana  ') 
dai  duri  movimenti  e  dalle  proporzioni  esageratamente  sottili,  nel 
bronzetto  di  donna,  pure  di  Broglio  "),  saldamente  esibito  di  fronte  con 
la  lunga  veste  che,  simile  ad  una  cappa  di  piombo,  le  avvolge  il  corpo, 
si  osservano  i  caratteri  in  modo  fedele  mantenuti  di  primitive  e  no- 
tissime opere  arcaiche  elleniche  ;  cioè  della  numerosa  serie  dei  cosid- 
detti kouroi  od  ApoUini  ^)  e  delle  statue  come  quella  dedicata  da 
Nicandre  in  Delo  *).  Le  stele  rozzamente  graffite  di  Aule  Pheluske 
di  Vetulonia  ')  e  di  Monte  Gualandro  '°)  sono  apparizioni  parallele 
alle  stele  primitive  della  patèla  di  Prinià  in  Creta  "),  mentre  il  fre- 
gio del  tempio  A,  pure  di  Prinià  '^),  coi  cavalieri  minuscoli  su  gigan- 
teschi cavalli  dalle  altissime  zampe,  vivamente  richiama  le  figure 
dipinte  nella  parete  di  fondo  della  tomba  Campana  a  Veio  "). 

Jonica  deve  essere  denominata  la  fase  arcaica  dell'arte  etrusca 
che  coincide  col  secolo  VI.  Quasi  si  identifica  e  si  confonde  il  fe- 
nomeno artistico  e  in  Etruria  e  in    Grecia,  né  mai  come    in    questo 


')  Milani,  t.  81,  3  ;   Monumenti  dell'  Instituto  archeologico,  X,  t.  XXXIX. 

')  Moìutments  et  Mémoirea  Plot,  IX,  t.  I,  p.  5  e  segg.  (CoUignou). 

3)  Peurot  e  Chipiez,  Histoire  de  l'art  dans  l'anliquite',  VI,  fig.  406  e  407. 

*)  Milani,  t.   69. 

=)  Martha,  flg.  341  ;  Milani,  t.  78. 

''■)  Martha,  tìg.  217  ;  Milani,  t.  78. 

')  Es.  la  statua    funeraria    tla  Teuea,    MiCHAklis   e   Della    Seta,  fig.   2'J8  ; 
Bkunn  e  Bruckmanx,  t.  1. 

*)  Michaklis  e  Della  Skta,  fig.  300  ;  Brunn  e  Bruckmann,  t.  57,  a. 

S)  Milani,  t.  68. 

1»)  Milani,  Italici  ed  Etruschi,  1909,  t.   14,  fig.  63. 
'1)  Bollettino  d'Arte,  1908,  p.  447  e  seg.,   tìg.  5  e  6  (Pernier). 
>*)  Annuario    della    R.    Scuola    Italiana    d'Atene,  I,   1914,  p.   51   e  seg.,  tìg.  19 
(Pernier). 

'=)  MiCHAELis  e  Della  Seta,  fig.  732  ;  Martha,  flg.  282,  283,  284. 


176  Pericle  Dvcati 


secolo  VI  la  produzione  artistica  ritrovata  in  Etruria  e  all'Etruria 
dovuta,  assume  così  alto  valore.  Questo  benefico  contatto  col  mondo 
jonico,  di  continuo  mantenutosi  anche  nella  fase  precedente,  ora  s' in- 
tensifica né  s'interrompe  anche  quando  tra  Greci  ed  Etruschi  sor- 
gono rapporti  ostili. 

Ai  Focesi  pare  che  spetti  nella  prima  metà  del  sec.  VI  in  prin- 
cipal  modo  questa  ellenizzazione  della  Etruria,  ma  non  si  debbono 
escludere  anche  altre  genti  joniche,  le  quali  dovettero  subentrare  ai 
Eocesi  dopo  la  fiera  lotta  sostenuta  da  questi  contro  Cartaginesi  ed 
Etruschi.  Ed  è  ben  verisimile  che  non  solo  prodotti  ellenici  venissero 
in  questo  secolo  a  mantenere  florida  l'attività  artistica  degli  Etruschi, 
ma  che  immigrassero  nelle  città  lucumoniche  artefici  greci.  Proba- 
bilmente la  conquista  persiana  della  Jonia  fu  una  delle  cause  di  tale 
immigrazione. 

Pure  carattere  ellenico  posseggono  alcune  serie  di  oggetti,  tanto 
che  può  esserci  questione  se  essi  debbano  ritenersi  importati  dalla 
Orecia  o,  meglio,  come  credo,  esegniti  da  mani  greche  nella  Etruria 
stessa.  Adduco  la  serie  di  vasi  fittili  dipinti,  tutte  idrie,  denominati 
ceretani  del  luogo  ove  esclusivamente  si  rinvengono  M;  adduco  la 
serie  di  anelli  aurei  con  castone  figurato  provenienti  da  Vaici,  da 
Cervetri  e  dalla  Sardegna  ^).  Aggiungo  che  incerto  è  tuttora  il  giu- 
dizio su  alcuni  bronzi  figurati,  come  i  carri  di  Perugia  e  di  Monte 
Leone,  come  le  laminette  di  Bomarzo  ^j.  Ma  gli  artisti  ellenici  in 
Etruria  si  adattano  alle  varie  esigenze  del  popolo  presso  cui  lavo- 
rano e  nel  quale  ben  presto  trovano  seguaci  ed  imitatori. 

Nel  tempio  etrusco  del  secolo  VI  e  dei  primi  decenni  del  succes- 
sivo secolo  si  ha  una  curiosa  documentazione  di  arcaismo  in  ritardo  ; 
come  nella  fase  anteriore  le  tombe  a  tholos  vivamente  ricordano  la 
scomparsa  civiltà  cretese-micenea,  così  ora  i  templi,  con  la  ossatura 
lignea  rivestita  di  terrecotte  policrome  decorative,  richiamano  una  età 
già  trascorsa  per  la  Grecia  e  di  cui  un  ricordo  si  mantenne  per  lun- 
ghissima serie  di  anni  nella  parziale  conservazione  del  legno  nello 
Heraion  di  Olimpia  *)  e  nel  tempio  di  Thermos  della  semibarbarica 
Etolia  '). 


')  Si  V.  Pkrrot  e  Chipiez,  Histoire  de  l'art  dana  l'antiquilé,  IX,  p.  517  e  segg. 
»)  FuRTWANGi.ER,  Die  antiken  Gemmen,  III,  p.  84  e  seg.  ;  Perrot  e  Chipikz, 
■op.  cit.,  IX,  p.   36  e  segg. 

';  Antike  Deiikiniiler,  I,  t.  21. 

*)  MiCHAEUS  e  Della  Seta,  fig.   265-269. 

^)  MicilAELis  e  Della  Seta,  fig.  270  e  286. 


Aspetti  dell'arte  in  Etruria  177 

Già  nel  secolo  VI  nei  santuari  della  Grecia,  non  solo  ai  templi 
col  rivestimento  di  terracotta,  ma  a  quelli  costruiti  con  roccia  locale, 
sia  nel  loro  insieme  architettonico  che  nella  loro  decorazione  figu- 
rata, cominciano  ad  essere  sostituiti  edifizi  di  nobile  marmo;  in  Etru- 
ria invece  il  vieto  sistema  di  architettura  è  conservato  e  permane, 
come  vedremo,  per  molto  tempo  ancora.  E  gli  edifizi  sacri  acquistano 
un  aspetto  peculiare;  di  fronte  all'armonia,  alla  snellezza,  alla  ele- 
ganza delle  costruzioni  elleniche  risalta  la  pesantezza,  direi  provin- 
ciale, dei  piccoli  variopinti  templi  della  Etruria. 

Vario  è  l' adattamento  dell'  arte  ellenica  nei  vari  centri  della 
Etruria,  in  ciascuno  dei  quali  prevalgono  determinate  forme  e  deter- 
minati generi  monumentali;  ma  dovunque  l'arte  jonica  ci  palesa  lo 
stile  suo,  attraente  nel  mosso  arcaismo,  elegante  nella  ricchezza 
dei  particolari,  molle  anche  nelle  scene  di  grande  vigore  ed  espri- 
mente forme  umane,  talora  massiccie  e  pesanti,  talora  snelle  e  ner- 
vose. Nei  tripodi  a  verghette  di  Vulci  '),  nei  sarcofagi  di  terracotta 
di  Oervetri  ^),  nei  cippi  e  nelle  urne  di  morbida  arenaria  a  rilievo 
di  Chiusi  ^),  nei  buccheri  a  rilievo  pure  di  Chiusi  ^),  nelle  lastre  fit- 
tili dipinte  da  tombe  a  camera  ceretane  ^),  nelle  pitture  degli  ipogei 
di  Corneto  ^),  nelle  stele  e  nei  cippi  funebri  dei  territori  volterrano 
e  fiesolano  '),  vi  è  una  sola  intonazione  di  arte  jonica,  vi  è  un  com- 
pleto adattamento  di  quest'arte  agli  usi  locali,  poiché  è  impossibile 
trovare  monumenti  di  tale  genere  in  Grecia,  a  meno  che  non  si  tratti 
di  oggetti  importati,  come  pel  frammento  di  tripode  dell'Acropoli  di 
Atene  *)  ;  sono  tutti  monumenti  specifici,  peculiari,  caratteristici  della 


')  Es.  Martha,  fig.  361  ;  Monumenti  della  II.  Accademia  dei  Lincei,  VII,  p.  289 
e  segg.,  t.  VIII-IX  (Savignoni). 

*)  Martha,  fig.  202  ;  Michaelis  e  Della  Skta,  fig.  751  e  752  ;  Monumenti 
della  B.  Accademia  dei  Lincei,  VIII,  t.  Vili,  p.  521  e  segg.  (Savignoni). 

')  Martha,  fig.  187,  236,  237;  Milani,  t.  80. 

*)  Martha,  tig.  301,  322  ;  Michaklis  e  Della  Seta,  flg.  750  ;  Milani, 
t.  1718. 

^)  Martha,  tav.  IV  (al  Louvre)  ;  Journal  of  Hellenic  Studies,  X,  1889,  t.  7 
(al  Museo  Britannico). 

*)  Antike  Denkmaler,  II,  t.  41  (tomba  dei  Tori),  t.  42  (tomba  delle  Leonesse); 
Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  XI,  t.  XXV-XXVI  (tomba  degli  Auguri),  XII, 
t.  XIIl-XIV  (tomba  della  Caccia  e  della  Pesca). 

')  Martha,  fig.  165  ;  Michaklis  e  Della  Seta,  fig.  753  e  754  ;  Milani, 
t.  75  e  t.  116  ;  Galli  E.,  Fiesole,   Gli  Scavi,  il  Museo  civico,  fig.  33  e  34. 

')  De  Eidder,  Catalogue  dei  bronzea  trouvés  sur  V Aoropole  d'Athènei,  1896, 
t.  5,  n.  760  ;  Monumenti  della  B.  Accademia  dei  Lincei,  VII,  t.  IX,  1  ;  Perrot  e 
Chipiez,  op.  cit..  Vili,  fig.  345. 

Atene  e  liovta.  3 


178  Pericle  Ducati 


sola  Etruria  e,  anche  là  dove  lo  stile  delle  figure  e  degli  ornati  è 
attinto  dalla  Grecia,  qualche  cosa  palesa  il  carattere  indigeno.  Così, 
per  esempio,  nella  pittura  della  tomba  degli  Auguri  il  crudele  giuoco 
a  cui  è  soggetto,  per  parte  di  un  personaggio  mascherato,  un  infelice 
con  la  testa  insaccata,  è  un  tratto  della  ferocia  dei  costumi  pretta- 
mente locali. 

E  l'attività  degli  Etruschi  si  esercita  in  prodotti  di  arte  essen- 
zialmente industriale,  nella  fabbrica  di  utensili,  in  cui  la  decorazione 
a  figura  umana  è  un  semplice  accessorio,  sebbene  necessario;  così 
menziono  gli  specchi  bronzei  figurati,  che  al  finire  di  questa  fase  co- 
minciano ad  essere  eseguiti  dagli  Etruschi  ed  anche  dai  Greci  per 
gli  Etruschi  stessi  '),  mentre  non  hanno  posto  nell'ambiente  di  cul- 
tura ellenica.  Comincia  infine  a  costituirsi  quella  superiorità  indu- 
striale in  alcuni  lavori  di  metallo,  superiorità  attestata  da  fonti 
scritte  ^)  e  comprovata,  anche  per  questa  fase  di  arte,  dal  citato 
frammento  dell'Acropoli  di  Atene. 

E  per  tutto  il  secolo  V  si  ha  la  fase  attica,  l'ultima  dell'arcaismo 
per  la  Etruria.  Già  la  forte  infiltrazione  dell'arte  attica  si  avverte 
nella  seconda  metà  del  secolo  precedente  con  la  presenza  di  nume- 
rosissimi prodotti  di  ceramica  ateniese  importati  in  Italia  ;  tra  di  essi 
il  cimelio  piti  prezioso  è  senza  dubbio  il  vaso,  che  dall' inesauril)ile 
suolo  di  Chiusi  trasse  alla  luce  Alessandro  Frangois,  dal  quale  è  ora 
denominato  ').  Ma  lo  stile  espresso  nelle  particolareggiate  scene  che 
costituiscono  di  questo  vaso  una  vera  bibbia  ellenica  figurata,  è  lo 
stile  proprio  della  Atene  dell'età  di  Pisistrato,  lo  stile  jonico.  Invece 
è  nel  secolo  V  che  Atene  primeggia,  come  nella  letteratura  così  nel- 
l'arte, improntando  tutto  di  sé  quel  meraviglioso  secolo,  iniziatosi 
con  la  radiosità  della  balda  difesa  contro  l'invasore,  tramontato  coi 
tristi  frutti  di  una  lunga  e  rovinosa  guerra  fratricida. 

La  produzione  ceramica  attica,  che  nello  scorcio  del  sec.  VI  e 
nei  primi  decenni  del  secolo  successivo  si  riversava  a  flotti  nei  vari 
scali  del  Tirreno  ed  andava  ad  abbellirò  e  a  nobilitare  le  tombe 
etrusche,  fu  il  più  valido,  energico  stimolo  benefico  ai  progressi  del- 
l'arte nelP  Italia  centrale.  Se  non  che,  mentre  nell'Attica  e  nella  Grecia 
tutta,  in  questo  periodo,  i  progressi  formali  sono  veramente  mirabili 


')  Somische  Mitteilungen,  XXVII,  p.  243  e  segg.   (Ducati). 
')  Ateneo,  I,  p.  28,  b  ;  XV,  p.  700,  e  ;  si  cfr.  Sefocle,  Aiace,  v.  16  e  seg. 
2)  Milani,  t.  41  ;  Furtwanqler  e  Ekichhold,  Die   griechiache  Vasenmalerei, 
t.  1-3  e  11-12;  Pbrrot  e  Chipibz,  op.  cit.,  X,  fig.  93-110. 


I 


Aspetti  deWarte  in  Etruria  179 

e  nel  corso  di  pochi  anni  sono  infranti  i  ceppi  dell'arcaismo  e  l'arte 
si  slancia  ad  altezze  insuperate  ed  insviperabili,  in  febbrile  tensione 
verso  il  più  divino  ideale  ;  in  Etruria  invece  rimane  solo  lo  impulso 
dello  stile  cosiddetto  severo  dei  tempi  delle  guerre  i)ersiane  e,  fin  verso 
la  fine  del  meraviglioso  secolo,  l'arte,  arretrata,  s'irrigidisce,  si  sche- 
matizza in  viete  forme  e  perde  l'anteriore  vivacità,  sia  pure  arcaica. 
E  vi  è  anche  un  relativo  ristagno  nella  produzione  artistica,  sintomo 
eloquente  della  prossima  decadenza  e  del  successivo  sfacelo  del  po- 
polo etrusco. 

È  in  special  modo  nella  pittura  funeraria  che  possiamo  avvertire 
questo  illanguidirsi  delle  forze  artistiche.  Dalle  tombe  tarquiniesi  del 
Citaredo  ')  e  del  Triclinio  ^),  avvivate  nella  loro  tetraggine  mortuaria 
da  pitture  con  mosse  scene  di  danza,  con  forme  ivmane  nervosamente 
contorte,  attraverso  le  pitture  chiusine,  esibenti  scene  di  giuochi  fu- 
nebri '),  e  la  tomba  della  Pulcella  pure  di  Corneto  ■*),  in  cui  è  già 
una  incipiente  freddezza,  si  perviene  alla  tomba  tarquiniese  Quer- 
ciola  ^),  in  cui  le  figure  danzanti  hanno  perduto  la  loro  primitiva, 
vivacissima  agitazione  ed  hanno  assunto  una  compostezza  piti  che 
misurata,  rigida.  Sembrano  rallentati  i  rapporti  benefici  con  la  Grecia, 
la  cui  arte,  balda  e  forte,  cammina  a  gran  passi  lungo  l'ascesa  del 
progresso;  invece  l'arte  etrusca  a  stento  e  a  rilento  sembra  che  fa- 
ticosamente si  indugi  sulle  orme  elleniche  nella  diffìcile  salita. 

Questo  ritardo  nella  potenzialità  artistica  degli  Etruschi  è  anche 
avvertibile  nei  jjrodotti  di  arte  applicata  alle  industrie,  nei  candelabri, 
per  esempio,  e  negli  specchi.  Così  lo  splendido  lampadario  bronzeo 
di  Cortona  *)  può  trarre  in  inganno  con  la  sua  apparenza  arcaica, 
anzi  jonica  ;  ma  un  esame  più  attento  ci  induce  a  giudicarlo  come 
frutto  di  un'arte  arretrata,  sì  da  non  poterlo  ascrivere  ad  età  ante- 
riore al  450.  Come  esempi  della  plastica  possono  essere  citati  alcuni 
monumenti    di    arte    chiusina.   "tfella  urna   bisoma    di    alabastro   da 


')  Martha,  tig.  288-290;  Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  VI-VII,  t.  LXXIX. 

*)  Martha,  fig.  263  e  264  ;  Michaelis  e  Della  Seta,  fig.  736  ;  Monumenti 
dell'  Instituto  archeologico,  I,  t.  XXXII. 

')  Monumenti  dell'  Instituto  archeologico,  V,  t.  XIV-XVII,  t.  XXXII-XXXIV  ; 
Inohirami,  Museo  etrusco  chiusino,  t.  122-123  ;  Martha,  fig.  265,  278  (tomba  della 
Scimmia),  fig.  291  (tomba  Casuccini). 

*)  Antike  Denkmaler,  II,  t.  43. 

^)  Michaklis  e  Della  Seta,  fig.  737;  Monumenti  dell' Instituto  archeologico, 
I,  t.  XXXIII. 

«)  Martha,  fig.  368  ;  Briinn  e  Bruckmann,  n.  666. 


180  Pericle  Ducati 


Città  della  Pieve  ')  aleggia  nel  volto  della  sposa  seduta  un  insipido 
sorriso,  eco  già  lontana  del  sorriso  arcaico  di  molte  delle  statue  di 
giovani  donne  dell'Acropoli  ateniese;  nelle  forme  piatte  del  possente 
petto,  sommariamente  modellato,  dello  sposo,  nel  trattamento  rigido 
a  pieghe  parallele  del  panneggio  si  manifesta  la  inabilità  dello  scul- 
tore. Nel  gruppo  funerario  di  Cliianciano  del  defunto  e  della  Parca'), 
nella  statua  cineraria  pure  di  Cliianciano  ^)  della  donna  col  bambino 
in  grembo,  è  nei  tratti  tuttora  arcaici  del  volto  quella  severità  clie 
ci  fa  ricordare  la  produzione  plastica  ellenica,  insignita  in  special 
modo  dai  marmi  del  tempio  di  Zeus  in  Oliinpia  *),  quella  severità  so- 
lenne, sdegnosa  nella  sua  mestizia  che  impronta  di  sé  molte  opere 
seriori  degli  Etruschi. 

Nel  cammino  dell'arte  etrusca  queste  prime  quattro  fasi,  geome- 
trica, orientalizzante,  jonica,  attica,  vengono  a  costituire  un  lungo 
periodo  in  cui,  ininterrottamente  e  sempre  in  misura  non  piccola, 
talora  in  misura  assai  grande,  fu  assoggettata  la  Etruria  al  diretto 
influsso  dell'arte  greca.  Questo  periodo,  che  comprende  i  secoli  della 
colonizzazione  e  della  massima  espansione  politica  del  popolo  etrusco, 
a  mio  avviso,  può  essere  designato  come  il  periodo  ellenizzante.  Ma  già 
verso  la  fine  sua  si  comincia  ad  avvertire  il  decadimento,  decadimento 
che  si  rispecchia,  come  si  è  visto,  nella  diminuita  corrente  di  arte 
greca  civilizzatrice  e  nel  ritardato  progresso  e  nella  rallentata  atti- 
vità artistica;  già  la  Etruria  comincia  ad  essere  minacciata,  a  set- 
tentrione dalle  orde  barbariche  dei  Celti,  a  mezzogiorno  dalla  città 
guerriera  avviata  ai  più  alti  destini,  da  Roma  che,  espugnata  Fidene, 
si  prepara  alla  lotta  contro  il  primo  baluardo  etrusco,  la  città  di 
Veio. 


Il  secondo  periodo  di  arte  nazionale  comprende  il  tempo  della  fiera 
e  ripetuta  lotta  contro  Celti  e  contro  Romani,  il  tempo  del  pieno 
asservimento  della  Etruria  a  Roma,  lo  sfacelo  della  nazione  etrusca. 
In  esso  periodo  si  possono  distinguere  due  fasi  :  la  prima,  veramente 
etrusca,  che  coincide  col  secolo  IV  e  che  abbraccia  gli  anni  che  cor- 
rono dalla  guerra  di  Veio  alla  battaglia  di  Sentino,  dal  primo  cozzo 
tra  Roma  e  la  Etruria  alla  piena  vittoria  della  fatale    città;    la    se- 

')  Martha,  fig.  233;  Milani,  t.  85. 

*)  Milani,  t.  86. 

')  Milani,  t.  87,  1. 

■•)  Michaklis  e  Dklla  Seta,  fig.  362-36.'>. 


Aspetti  dell'arte  in   Etruria  181 

concia  fase,  etruscoroniana,  che  perviene  sino  alla  età  di  Siila,  a 
quando  cioè  l'arte  ellenistica,  sviluppatasi  nei  vari  centri  dello  smem- 
brato impero  di  Alessandro  Magno,  trova  in  Roma  il  centro  suo 
massimo  e  si  assoggetta  ai  servizi  della  città  dominatrice. 

Col  secolo  IV  cominciano  a  fare  la  loro  regolare  apparizione  nei 
monumenti  funebri  le  paurose  visioni  dell'oltretomba,  delle  cupe, 
truci,  orride  immagini  demoniche  con  tratti  o  schifosi  o  mostruosi, 
espressioni  artistiche  del  sentimento  superstizioso  di  cui  è  forte- 
mente imbevuta  la  Etruria  della  decadenza  e  che  contrastano  con  la 
composta  serenità  delle  scene  funerarie  presso  i  Greci.  Nel  tempo 
stesso,  ed  è  altro  segno  di  decadenza,  si  avverte  l'accentuazione  assai 
grande,  esagerata  delle  esimie  qualità,  delle  alte  condizioni  sociali 
dei  defunti  nei  monumenti  funebri,  quasi  ad  esprimere  il  desiderio 
di  prolungare  oltre  la  breve  vita  ciò  che  della  umanità  è  transitorio 
e  caduco.  Questo  ci  appalesano  alcune  pitture  di  tombe  ;  cito  tra  le 
più  insigni  quelle  della  tomba  dei  Velli  ad  Orvieto  ')  con  la  glori- 
ficazione del  defunto  nella  reggia  del  dio  degli  Inferi,  le  altre  della 
tomba  dell'Orco  a  Corneto  ^)  con  la  spaventosa  visione  di  esseri  in- 
fernali. Più  recente,  e  forse  della  seconda  metà  del  secolo  IV,  giudico 
i  dipinti  della  tomba  Prangois  di  Vulci  ^),  in  cui  le  scene  del  mondo 
epico  ellenico,  etruschizzate  dalla  intrusione  di  spaventose  forme  de- 
moniche, si  avvicendano  a  scene  desunte  dai  ricordi  leggendari  o  sto- 
rici veramente  etruschi,  scene  da  cui  vivido  emana  un  sentimento 
di  rancore,  di  dispetto  contro  la  possente  nemica  dell'  Etruria,  cioè 
Koma.  In  tutte  queste  opere  pittoriche,  in  confronto  con  le  altre  del 
secolo  V  si  scorge  non  solo  un  progresso  stilistico,  ma  una  diligenza 
maggiore  di  esecuzione:  è  quasi  una  rinascita  di  arte,  un  novello 
vigore  con  caratteri  di  emancipazione  dalla  Grecia  per  quanto  con- 
cerne il  contenuto.  Forse  tutto  si  deve  allo  sforzo  di  difesa  contro 
i  nemici  che  cominciano  a  sgretolare  la  compagine  della  nazione  etrusca 
e  al  conseguente  risvegliarsi  del  sentimento  nazionale.   Ma,    rispetto 


')  CoNESTABir.K,  Pitture  murali  a  frésco  e  suppellettili  etrusohe  scoperte  presso 
Orvieto,  1865,  t.  5-11  ;  riproduzioni  parziali  in  Martha,  fig.  266,  279,  281,  292, 
e  in  MiCHAELis  e  Della  Seta,  fig.  739  e  740. 

*)  Monumenti  dell'  Instituto  archeologico,  IX,  t.  XIV-XV,  e;  riproduzioni  par- 
ziali in  Martha,  fig.  268,  271  e  in  Michaelis  e  Della  Seta,  fig.  741. 

")  Monumenti  dell' Jnstituto  archeoloyico,  VI,  t.  XXXI-XXXII  ;  riproduzioni  par- 
ziali in  Martha,  fig.  172,  269,  270,  274,  277,  e  in  Michaelis  e  Della  Seta, 
fig.  742  e  743  ;  la  pubblicazione  esatta  è  in  Garrucci,  Tavole  fotografiche  delle 
pitture  vulcenti,  staccate  da  un  ipogeo  etrusco  presso  Ponte  alla  Badia,   1866. 


182  Pericle  Ducati 


a  quanto  produce  la  Grecia,  la  Etruria  è  sempre  in  ritardo  :  le  pit- 
ture suddette  richiamano,  per  lo  stile,  monumenti  greci  della  seconda 
metà  del  secolo  V  ;  così  nella  amazzonomacbia  dipinta  a  tempera  nel 
sarcofago  tarquiniese  di  Firenze  ')  è  una  tarda  eco  delle  composi- 
zioni della  scuola  polignotea;  così  in  un  gruppo  plastico  funerario 
di  Chiusi  con  la  figura  del  defunto  circondata  da  ben  cinque  servi 
infernali  *),  si  hanno  forme  tuttora  rigide  e  nei  volti  e  nel  nudo  e 
nel  panneggiamento,  mentre  il  viso  del  defunto  acquista  già  carat- 
teri fisionomici  che  preannunziano  i  naturalistici  ritratti  dell'arte  po- 
steriore ;  fcosì  nel  noto  bronzo  detto  il  Marte  di  Todi  ')  si  ha  uno 
schema,  un  trattamento  del  corpo  e  del  volto  che  richiamano  produ- 
zioni plastiche  elleniche  della  metà  all'  incirca  del  medesimo  secolo 
V  ;  così  nella  famosa  cista  Ficoroni  prenestiua  *),  ma  che  appartiene 
all'ambiente  di  cultura  etrusca,  chiari  sono  gli  accenti  dell'arte  greca, 
quale  ci  è  nota  da  pitture  ceramiche  attiche  della  seconda  metà  del 
secolo  V. 

Allo  scorcio  infine  di  questa  fase  artistica  mi  pare  che  debbano 
risalire  le  terrecotte  del  tempio  di  Apollo  a  Faleri  :  due  torsi  gio- 
vanili ^)  ci  testificano  il  supremo  grado  di  eccellenza  raggiunto  in 
Etruria  della  ceroplastica.  L' impulso  anche  in  tal  caso  è  dovuto  alla 
introduzione  di  elementi  stranieri  ed  io  suppongo  che  coroplasti  el- 
lenici, specificatamente  attici,  della  seconda  metà  del  secolo  IV,  la 
propria  attività  artistica,  già  indirizzata  nella  madre  patria  a  pla- 
smare mirabili  statuette,  specialmente  muliebri,  abbiano  essi  appli- 
cata, obbedendo  alle  esigenze  del  paese  in  cui  immigravano,  a  fog- 
giare statue  di  maggiori  proporzioni  per  il  vieto  adornamento  fittile 
di  templi,  tuttora  in  legno  e  in  terracotta.  Impeccabilmente  attico  è 
lo  stile  nei  due  torsi  di  Faleri  ed  il  distacco  dal  complesso  della 
produzione  essenzialmente  etrusca,  anche  da  quella  fittile  dei  tempi 
posteriori,  per  me  non  può  essere  soggetto  a  dubbi.  In  una  di  que- 
ste due  figure  efebiche  si  ha  l'ampia  e  ondulata  chioma  circondante 
il  volto  pieno  :  innegabile  è  la  parentela  con  le  tipiche  teste  di  Ales- 
sandro Magno.  In  tal  modo  queste  terrecotte  falische  stanno  alla  so- 


•)  Milani,  t.  52  ;  Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  IX,  t.  LX;  riprodnzione 
parziale  è  in  Michaklis  e  Dklla  Skta,  fig.  744. 

*)  Martha,  ttg.  234. 

3)  Martha,  fig.  210  ;  Brunn  e  Brcckmann,   t.  667-668. 

■•)  MiCHAELis  e  Della  Seta,  fig.  486  e  tìg.  746. 

^>)  Dkonna,  £«8  slatues  en  terre-cuite  dans  l'antiquité,  Sieile,  Grand-Grece  ecc. 
fig.  5  e  6. 


As2)etti  dell'arte  in  Etruria  183 

glia  dell'ultima  fase  artistica  degli  Etruschi,  della  fase  contemporanea 
a  quel  multiforme  e  complesso  fenomeno  che  fu  l'arte  ellenistica 
iniziatasi  con  la  eroica  figura  del  grande  Macedone. 

Ma  in  quest'ultima  fase,  come  diversamente  ci  si  presentano  e 
Grecia  e  Etruria  !  Di  fronte  all'arte  nuova  ellenistica,  in  cui  è  av- 
venuto il  pieno  connubio,  che  già  si  avverte  nel  Mausoleo  di  Alicar- 
nasso  '),  tra  la  eccellenza  ellenica  formale  e  concettuale  e  la  pom- 
posa grandiosità  dell'oriente  con  peculiari  aspetti  architettonici,  arte 
nuova  in  cui  la  passione  di  Scopa,  la  soavità  di  Prassitele  degene- 
rano in  concitazione,  in  posa  teatrale,  in  grazia  ricercata  e  leziosa, 
in  cui  l' idealismo  cede  luogo  al  più  crudo  realismo,  in  cui  pare  che 
scopo  supremo  sia  di  eccitare  nello  spettatore,  mediante  elaborati 
mezzi  tecnici,  la  meraviglia,  la  curiosità,  la  fantasia  ;  di  fronte  a 
questa  arte  ellenistica  quella  etrusca  degli  ultimi  tempi  sorprende 
con  la  sua  mediocrità  di  forme  e  di  concetti  del  tutto  provinciale. 

La  pittura  funeraria  è  in  pieno  dissolvimento;  dalle  tombe  Cam- 
panari di  Vulci  *),  del  Cardinale  ^)  e  del  Tifone  '')  a  Corneto  e  da 
quella  di  Bomarzo  ^)  discendiamo  giù  alla  pittura  tarquiniese  Bru- 
schi '^)  ;  in  essa  le  forme  e  la  composizione,  improntate  di  tanta  me- 
schinità, mal  corrispondono  al  contenuto  di  trionfale  passaggio  di 
anime  nello  Averno.  Le  stucchevoli  serie  di  urne  funerarie  di  Vol- 
terra, di  Chiusi,  di  Perugia  '')  con  la  consueta  figura  sdraiata  sul  co- 
perchio dell'obeso  Etrusco  o  della  insipida  dama  agghindata,  assu- 
mono per  noi  importanza  speciale  solo  per  quanto  vi  è  in  esse  rap- 
presentato a  rilievo  :  scene  o  d' indole  funeraria  o  di  carattere  locale, 
oppure  scene  desunte,  con  intrusioni  arbitrarie  o  con  interpretazioni 
errate,  dal  repertorio  di  leggende  elleniche  ;  spesso  niun  rapporto 
apparente  esse  hanno  con  lo  scopo  funerario  del  monumento  se  non 
per  la  presenza,  regolarissima,  di  esseri  demonici,  delle  Lase. 

Perdura  tuttora  il  tipo  di  tempio  di  così  vieto  carattere,  con  la 


')  MiCHAKLis  e  Della  Seta,  fig.  507-511. 

*)  Monumenti  dell'  Instituto  archeologico,  II,  t.  LIII-LIV. 

■')  MiCALi,  Monumenti  per  servire  alla  Storia  degli  antichi  popoli  italiani,  t.  «i5-66  ; 
riproduzione  parziale  è  in  Martha,  fig.  267. 

*)  Monumenti  dell' Instituto  archeologico,  II,  t.  III-V;  riproduzione  parziale  è  in 
Martha,  fig.  280. 

^)  Martha,  fig.  273. 

")  Monumenti  dell'  Instituto  archeologico,  Vili,  t.  XXXVI. 

')  Si  vedano  v.iri  esempi  in  Martha,  fig.  8,  135,  155,  174,  195,  247,  252,  253, 
in  MiCHAELis  e  Della  Seta,  fig.  757  ;  in  Milani,  t.  53-56. 


184  Pericle  Ducati 


ossatura  lignea  ed  il  rivestimento  in  terracotta;  permanenza  questa 
che  costituisce  un  assai  curioso  anacronismo  in  confronto  con  ciò  che 
produceva  l'arte  ellenistica  contemporanea,  in  confronto  anche  colle 
costruzioni  che  s'innalzavano  a  Roma  e  nel  Lazio,  ove  all'influsso 
del  mondo  culturale  etrusco  va  sostituendosi,  sempre  più  forte,  il 
diretto  influsso  dell'ellenismo. 

Ma  è  agevole  trovare  una  ragione  di  questo  immiserirsi  dell'arte 
qualora  si  pensi  allo  sfacelo  politico  ed  economico,  e  però  anche  mo- 
rale, della  Etruria,  al  suo  pieno  asservimento  a  Roma.  E  tale  arte, 
anche  con  elementi  veramente  romani,  continua  a  vegetare  fin  verso 
la  metà  del  sec.  I  av.  C. 

Vi  è  ancora  qualche  sprazzo  di  luce  in  così  generale  meschinità 
e  l'arte  etrusca  si  diifonde^  tuttora  benefica,  in  luoghi  montuosi  e  se- 
gregati. E  le  migliori  opere  che  noi  possediamo  sono  dovute  alla  co- 
roplastica,  sia  di  carattere  sacro,  sia  di  carattere  funerario.  Vedemmo 
come  alla  fine  del  sec.  IV  si  avverta  una  rinascita  nell'arte  della 
terracotta,  rinascita  che  io  non  sono  alieno  dall'ascrivere  ad  artefici 
greci  immigrati.  I  vecchi,  venerandi  santuari  adorni  di  terrecotte  di 
arte  jonica  sono  rinnovati,  ricostruiti  appunto  per  questo  novello 
impulso  venuto  dalla  Grecia,  e  sorgono  in  questa  ultima  fase  di  arte 
etrusca  anche  nuovi  edifizi  sacri.  Faleri  '),  Vetulonia  *),  Bolsena  ^), 
Vulci  *),  Talamone  %  Fiesole  *'),  Luui  '')  hanno  offerto  residui  preziosi 
di  decorazioni  figurata  ed  architettonica  ;  dalle  montagne  delle  Mar- 
che provengono  i  fregi  di  Civita  Alba  *),  da  Via  San  Gregorio  a 
Eoma  ")  sono  uscite  alla  luce  terrecotte  policrome  ultime  per  età 
nella  serie  numerosa  e  che  tuttavia  hanno,  pel  contenuto,  carattere 
pili  specificamente  romano.  Manifesto  è  dovunque  l'influsso  dell'agi- 
tata, commossa  arte  ellenistica,  quale  in  special  modo  si  svolse  alla 
corte  degli  Attalidi.  Ma,  mentre  in  queste  terrecotte  è  la  impronta 
del  barocco  ellenistico,  in  altre  opere  si  manifestano  altre  tendenze 
dell'ellenismo. 


1)  Materiale  inedito  tuttora  ;  si  veda  intanto  Weege  in  Hklbig,   Fiihrer  durch 
die  Sammlungen  klassischer  AltertUmer  in  Som,  II,  1913,  p.  338  e  segg. 
*)  Milani,  t.  71,  2. 
>)  Milani,  t.  93  e  94. 
*)  Milani,  t.  108. 
')  Milani,  t.  104  e  105,  1. 
«)  Galli  E.,  op.  cit.,  fig.  126. 

')  Milani,  t.  100  e  Monumenti  seelti  del  S.  Museo  archeologico  di  Firenze,  t.  7-8. 
8)  Notizie  degli  Soavi,  1897,  p.  283  e  segg.  ;  1903,  p.   177  e  segg.  (Brizio). 
')  Dkonna,  op.  cit.,  fig.   9-14. 


Aspetti  dell'arte  in  Elruria  185 

La  tendenza  a  rappresentazioni  di  genere  ci  è  testificata,  per 
esempio,  da  tre  bronzi,  due  del  Vaticano  '),  il  terzo  di  Leida  ')  che 
rappresentano  fanciulli  con  la  bulla  al  collo  ;  di  essi  due  scherzano 
con  volatili.  Ma  queste  figure  sono  di  esecuzione  goffa  ed  inabile; 
quale  inferiorità  rispetto  a  creazioni  ellenistiche  come  il  bambino  con 
l'oca  di  Boethos  di  Calcedone  ^)!  Nella  Parca  di  sarcofago  perugino  *) 
0,  meglio,  nella  testa  di  Parca  di  una  terracotta  architettonica  di 
Firenze  '"ì  si  hanno  quei  tratti  laidi,  ripugnanti  di  vecchia  grinzosa 
e  deforme  che  tanto  si  compiaceva  di  ritrarre  la  scultura  ellenistica  ; 
celebre  è  la  vecchia  ubbriaca  di  Mirone  di  Tebe  "). 

Così  l'abile  verismo,  privo  di  ogni  idealità,  che  è  carattere  del- 
l'arte ellenistica  del  ritratto,  ci  si  manifesta  in  opere  etrusche  ;  in- 
signe esempio  è  l'Arringatore  del  Lago  Trasimeno  '),  il  quale,  piti 
che  preannunziare  la  serie  dei  ritratti  romani,  mi  pare  che  rientri 
nella  serie  stessa  e  che  debba  ascriversi  già  agli  anni  della  salda, 
incontrasta  romanizzazione  della  Etruria.  Non  già  alla  Etruria  spos- 
sata e  corrotta,  ma  alla  Etruria  in  certo  qual  modo  rinvigorita  dalle 
stirpi  di  Eoma  credo  che  appartenga  l'Arringatore,  Aulo  Metello,  dal 
cui  aspetto  traspare  la  forza  cosciente,  la  calma  fermezza  di  un  Ro- 
mano. Eealisnio  mirabile  è  in  una  urna  fittile  volterrana  ')  in  due 
teste  di  sposi  dai  tratti  volgari  e  grossolani  ;  eleganza  ricercata,  posa 
ambiziosa  hanno  le  matrone  Larthia  Scianti  ^)  e  Thanunia  Scianti  "") 
espresse  in  terracotta  in  due  sarcofagi  chiusini.  Del  resto  l'aspetto 
dignitoso,  solenne,  che  si  nota  anche  in  alcune  urne  perugine  dei 
Volumni  "),  è  pure  comune  alle  rappresentazioni  di  sarcofagi  di  Chiusi, 
di  Vnlci,  di  Toscanella  con  scene  di    addio   supremo  '*),  di    viaggio 


')  Martha,  flg.  342  ;  Micali,  Monumenti  per  servire   alla   storia   degli    antichi 
popoli  italiani.  III,  t.  44. 

»)  Martha,  fig.  343. 

')  MiCHAKLis  e  Dki.la  Srta,  fig.  645. 

*)  Annali  dell'  Instituto,   1860,  t.  N. 

5)  Milani,  t.  46,  2. 

^)  MicHABLis,  e  Della  Skta,  fig.  646. 

')  Martha,  fig.  261;    Michaelis  e  Della    Seta,  fig.  758;   Milani,  t.  27; 
Brunn  e  Bruckman.v,  t.  320. 

8)  Martha,  fig.  240. 

')  Milani,  t.  51  ;  Monumenti  dell' Instituto,  XI,  t.  I. 
">;  Martha,  fig.  241  ;  Walters,  History  of  ancient  pottery,  II,  t.  60. 
'■)  Martha,  fig.  242,   243. 
12)  Martha,  fig.  245  (da  Vaici),  fig.  248  (da  Chiusi). 


186  Pericle  Bucati 


pomposo  agli  Inferi  ');  ivi  la  figura  umana  maschile  assume  la  di- 
gnità del  eivis  romamis.  In  questi  sarcofagi,  insieme  con  le  urne 
precursori  dei  sarcofagi  romani  dell'  impero,  sono  adunque  incline  ad 
avvertire,  come  nello  Arringatore,  la  presenza  di  specifici  elementi 
romani. 

Siamo  alla  fine  dell'arte  e  però  della  civiltà  etrusca  e  già  si  nota 
l'opera  di  Eoma  unificatrice  delle  varie  stirpi  italiche  assoggettate 
ed  ora  cementate  e  fuse  in  un  popolo  solo  con  un  solo  patrimonio 
di  religione,  di  civiltà  e  con  1'  uso  di  un  solo  linguaggio,  quello  di 
Koma.  Il  teatro  di  Fiesole  ')  sulla  collina  aprica  ed  amena,  da  cui 
spazia  lo  sguardo  su  tanta  parte  dell'antico  paese  etrusco,  è  uno  dei 
primi,  più  cospicui  e  piìi  chiari  esempi  del  mutato  aspetto  di  cul- 
tura :  esso  infatti  appartiene  all'età  di  Siila  ed  è  dovuto,  senza  dub- 
bio alcuno,  ai  veterani  dedotti  dal  crudele  dittatore  nell'antica  città 
etrusca,  ben  presto  trasformata  da  loro  in  città  romana.  A  Eoma  si 
accentra  il  movimento  di  civiltà  e  a  fiotti  vi  si  riversano  dalle  lus- 
sureggianti sedi  dell'oriente  ellenistico  le  correnti  di  pensiero  e  di 
attività,  e  letteraria  ed  artistica.  In  Roma  imperiale  si  esplica  una 
nuova  arte,  derivata  dalla  ellenistica  ed  assumente  un  carattere  pili 
adatto  alla  grande  dominatrice,  col  fine  di  renderle  gloria  e  di  eter- 
narla nei  secoli.  Da  Roma  si  espandono  nel  vasto  impero  gì'  impulsi 
piìi  o  meno  vividi  che  valgono  a  creare  opere  artistiche,  di  carattere 
romano  con  impronte  locali,  fin  nelle  più  remote  provincie. 

Dopo  un  lungo  cammino  di  più  sette  secoli  l'arte  etrusca  emet- 
teva gli  ultimi  fiochi  suoni  di  vita:  la  fine  del  popolo  etrusco  se- 
gnava la  fine  dell'arte  sua.  La  quale  costituisce  un  patrimonio  tut- 
t'altro  che  spregevole  per  il  nostro  paese;  poiché,  specialmente  nel 
primo  suo  iieriodo,  essa  è  fattore  massimo  di  civiltà  per  le  regioni 
centrali  e  settentrionali  della  penisola,  per  Roma  stessa.  Quest'arte 
che  ricevette  e  trasfuse  nelle  rudi  popolazioni  italiche  quanto  di  lu- 
minoso si  irraggiava  dalla  Grecia,  potè  e  sei>pe  adattare  gli  schemi 
e  le  formule  apprese  ad  esigenze  speciali,  a  quanto  era  patrimonio 
peculiare  della  nazione,  e  potè  talora  comunicare  ed  imporre  tali 
adattamenti  alle  stirpi  non  etrusche,  e  seppe  talora  esprimere  con 
vigorosi  accenti  quanto  era  insito  nell'anima  del  popolo.  L'arte  greca 
decadde  o,  meglio,  si  trasformò  in  arte  imperiale  romana;  l'arte  etru- 


')  Mautha,  tig.   246  (è  il  Sarcofago   vulcente    citato    uella  nota  precedente)  ; 
MtiBeum  Gregoriantim,   I,  t.  97,  9  (da  Toscauella). 

')  MicHAELis  e  Della  Seta,  fig.  930;  E.  Galli,  op.  eit.,  fig.  16-26. 


Aspetti  dell'arte  in  Etruria  187 

sca  invece  perì,  assorbita  intieramente  da  Roma.  Ma,  dopo  i  secoli 
di  barbarie,  dal  snolo  di  Grecia  più  non  rampollò  una  nuova  vigo- 
rosa forma  di  arte  ;  tutto  intristì,  e  per  sempre,  nelle  spettrali  forme 
bizantine,  in  cui  il  bagliore  dell'oro  fa  vieppiù  risaltare  la  povertà 
concettuale  e  la  debolezza  esecutiva.  Dal  suolo  invece  della  Toscana, 
ed  anche  i  ricordi  atavici  dell'antica  Etruria  civilizzatrice  dovettero 
contribuire,  sbocciò,  fiore  purissimo  ed  olezzante,  l'arte  toscana  della 
rinascenza  ed  i  toscani  Giotto  di  Bondone  e  Nicola  Pisano  seppero 
far  sprigionare  nell'arte,  sino  allora  timidamente  astretta  alle  rigide 
formule  del  passato,  una  scintilla  animatrice.  Fu  lo  inizio  di  quel 
sacro  ardore,  per  cui  mirabili  tempre  di  artisti,  con  la  mente  piena 
di  fervido  entusiasmo  per  le  nobili  e  venerande  reliquie  di  Grecia, 
di  Etruria,  di  Eoma,  col  cuore  ricolmo  di  pia  religione  per  il  Dio  re- 
dentore, procurarono  alla  nostra  Italia  invidiata  gloria  immortale. 

Pericle  Ducati. 


Avvertenza.  —  Questo  scritto  costituisce  la  prolusione  al  corso  ufficiale  di 
Archeologia  da  me  letta  nella  R.  Università  di  Torino  il  giorno  27  gennaio  1916. 
Naturalmente  ho  omesso  quanto  di  occasionale  fu  detto  da  me  in  quella  circo- 
stanza, il  saluto  cioè  ai  Colleghi  e  alla  studentesca,  il  ricordo  del  mio  predeces- 
sore nella  cattedra  torinese,  dell'  insigne  professore  Giulio  Emanuele  Eizzo,  ora 
degnamente  succeduto  al  senatore  De  Petra  nella  Università  di  Napoli. 

Avverto  poi  che,  nelle  note  bibliografiche,  per  maggior  comodità  dei  lettori, 
ho  preferito  restringermi,  per  quanto  mi  è  stato  possibile,  alla  citazione  di  poche 
opero  fondamentali  e  cioè  :  Bbunn  e  Bruckmann,  Denkmaler  griechieoher  und  rS- 
mischer  Sculptur,  1888  e  segg.  —  Martha,  L'art  étrusque,  1889  —  Milani,  Il  B.  Mu- 
seo Archeologico  di  Firenze,  1912  —  Rizzo  G.  E.,  Storia  dell'arte  classica,  p.  1-266, 
1913-14  (finora  sono  usciti  9  fascicoli)  —  Michaklis,  Manuale  di  Storia  dell'Arte 
di  A.  Springer,  Arte  Antica,  trad.  di  A.  Della  Seta,  1910.  Purtroppo,  essendo 
solo  iniziata  la  opera  del  Rizzo,  ho  dovuto  ricorrere,  per  la  citazione  di  rappre- 
sentazioni di  monumenti  assai  noti,  a  questa  ultima  opera  straniera,  deplorando 
che  in  Italia  non  vi  sia  ancora  una  Storia  dell'arte  antica  ed  augurando  che  ben 
presto  possa  essere  compiuta  quella  lodevolissima  del  Rizzo. 


NOTE  DI  LETTERATURA  OMERICA 


Il  vecchio  problema  omerico,  che  rimane  sempre  fresco  e  sempre  enig- 
matico davanti  a  noi,  non  ha  perso  nulla  della  sua  attualità  nemmeno  in 
mezzo  al  fragore  dell'  immane  guerra  a  cui  ci  è  toccato  in  sorte  di  assistere. 
La  cosiddetta  conflagrazione  europea  stava  per  scoppiare,  quando  Erich 
Bethe  pubblicò  il  primo  volume  dell'opera  sua,  volume  destinato  in  realtà 
a  segnare  una  nuova  tappa  nel  cammino  che  la  filologia  classica  ha  percorso 
a  cominciare  dal  1795,  nel  quale  anno  furono  editi  i  Prolegomena  ad  Home- 
rum  del  Wolf  ').  La  guerra  tocca  ormai  tutto  il  nostro  vecchio  continente, 
e,  dal  settentrione  di  Europa,  recando  inoppugnabilmente  chiaro  il  suggello 
della  scuola  e  delle  tendenze  da  cui  è  nato,  ecco  ci  viene  un  nuovo  libro, 
che  pensa  di  dar  fondo  al  problema  annoso  della  composizione  e  delle  fonti 
dell' JKade'). 

Di  questo  libro  ho  intenzione  di  occuparmi  qui,  discutendone  con  una 
certa  ampiezza  i  procedimenti  ed  i  resultati,  soprattutto  perchè  tale  esame 
coinvolge  anche  quello  di  un  metodo,  che  sembrava  ormai  sorpassato,  ed 
invece  torna  ogni  tanto  e  quasi  periodicamente  a  far  mostra  di  sé,  non  riu- 
scendo, in  ultima  analisi,  che  a  far  subire  una  sosta  all'indagine,  senza  nem- 
meno la  più  lontana  speranza  di  valere  a  far  pronunziare  quando  che  sia 
la  parola  finale. 

Per  spiegarmi  con  più  chiarezza,  occorre  fissar  di  nuovo  —  ed  in  queste 
Note  V  ho  ormai  fatto  più  volte  —  quali  siano  i  punti  fermi,  per  così  dire, 
ed  i  capisaldi  sui  quali  tutto  quanto  il  problema  omerico  può  fissarsi. 
Essi  sono,  in  sostanza,  due  :  infatti,  o  si  considerano  i  poemi  nel  loro  di- 
venire, o  si  considerano  nella  loro  forma  attuale.  Nel  primo  caso  noi  fac- 
ciamo come  chi,  entrando  in  una  fonderia,  pesa  e  studia  la  qualità  dei  vari 
metalli  occorrenti  per  produrre  una  statua,  senza  preoccuparsi  né  della  forma 
in  cui  i  metalli  dovranno  essere  gettati,  né  della  statua,  quale  fu  ideata 
dalla  mente  dell'artista.  Anche  questa  è  cosa  necessaria,  e  che  può  servire 
a  spiegarci,  mettiamo,  il  colore,  la  pastosità,  qualche  altro  carattere  esterno 
del  metallo  divenuto  opera  d'arte;  ma  non  vale  certamente  a  renderci  conto 
né  dell'arte  dello  scultore  né  dell'opera  considerata  in  sé  e  nel  suo  com- 
plesso. Nel  secondo  caso,  invece,  noi  partiamo  dall'esame  dell'opera  d'arte. 


1)  E.  Bbthk,  Homer,  l  Ilias;  Leipzig  und  Berlin,  Teubner,  1914.  Ne  ho  parlato 
brevemente  in  Boll,  di  FU.  class.,  XXI,  149. 

*)  De  Iliadis  fontibus  et  composiiione  scripsit  Matthakus  Valkton  ;  Lngduni 
Batavorum  apd.  E.  I.   Brill,  1915.   Cf.   Boll,   di  FU.  elafe.,  XXIII,  4  ss. 


Note  di  letteratura  omerica  189 

cerchiamo  di  spiegarla  nei  suoi  vari  particolari  riuniti  in  un  tutto,  e,  in 
seguito,  dopo  di  aver  cercato  di  capire  come  essi  tutti  concorrano  alla  sua 
bellezza,  vediamo  o  cerchiamo  ritrovare  in  qual  misura  tutte  le  circostanze 
esteriori  hanno  concorso  ad  essa. 

Nell'esame  della  questione  omerica,  oggi,  per  fortuna  nostra,  si  segue 
il  secondo  metodo,  e  dico  per  fortuna  nostra,  giacché  ormai  par  chiaro  che 
il  seguire,  come  fossero  una  semplice  ed  inscindibile  unità,  i  vari  elementi 
singoli  (come  sarebbero  gli  eroi,  gli  dei,  le  armi,  la  casa,  il  culto  e  via  di- 
cendo) può,  sì,  mettere  in  evidenza  disiecta  membra  poetae,  ma  non  ci  dà 
la  visione  della  poesia,  né  ci  fa  capire  come  questa  sia  divenuta  e  sia  tale. 
Gli  studiosi  più  illustri,  oggi,  hanno  abbandonato  l'analisi  disgregatrice  in 
seguito  alla  quale  non  è  più  possibile  fare  alcun  lavoro  di  sintesi,  per  se- 
guire un  procedimento  inverso,  consistente,  per  dirla  in  parole  povere,  nel 
vedere  o  nel  tentar  di  vedere  come  i  vari  elementi  si  combinino  nei  poemi 
omerici,  e  come  il  poeta  dell'  Iliade  (per  prender  questo  solo  poema,  il 
quale  in  questo  momento  più  c'interessa)  abbia  fuso  quanto  di  tradizioni, 
di  storia,  di  leggende  trovava  innanzi  a  sé  per  formare  l'opera  d'arte,  che, 
così  com'è,  é  ammirevole  ed  ammirata;  se,  invece,  la  sminuzziamo  e  la 
disgreghiamo,  diventa  un  abito  di  Arlecchino,  senza  forma  sua  propria  e 
senza  colore  deciso. 

Il  punto  fondamentale  è  ancora  uno:  Dinnanzi  ai  nostri  animi,  di  fronte 
alla  nostra  mente  1'  Iliade  è  un  poema  ?  0,  in  altre  parole,  sentiamo  noi  in 
essa  un'  idea  fondamentale  che  tutta  la  pervade  e  la  percorre  da  un  capo  al- 
l'alfro  ;  ovvero  la  sua  lettura  ci  fa  1'  impressione  di  una  serie  di  capitoli 
staccati  ed  accozzati  alla  meglio,  messi  insieme  quasi  a  caso,  e  fusi  cosi, 
per  l'opera  anonima  del  tempo,  o  di  uomini  altrettanto  anonimi,  i  quali  si 
divertirono  ad  accrescere  con  i  fantasmi  poetici  e  con  le  narrazioni  epiche 
di  altri,  quello  che  essi  stessi  avevano  trovato  (la  parola  è  iu  sé  adatta, 
per  chi  ami  paragonare  l'attività  dei  rapsodi  e  degli  aedi  omerici,  con  quella 
dei  trovatori  medievali)  o  quello  che  essi  avevano  raccolto  dalle  tradizioni 
e  dai  canti  epici  più  antichi  ? 

Di  fronte  a  questa  domanda,  stanno,  a  guisa  di  risposta,  due  fatti  inop- 
pugnabili :  1°  che  noi  possiamo  prendere  due  o  tre  o  dieci  analisi  disgrega- 
ti ici  deW  Iliade,  fatte  in  tempi  diversi  e  da  uomini  diversi  e  pur  tutti  ani- 
mati dall'unico  intendimento  di  scoprire  la  via  ed  i  modi  per  cui  V  Iliade 
stessa  fu  composta,  e  non  ne  troveremo  alcuna  che  possa  combinarsi  o  adat- 
tarsi ad  un'altra;  segno,  questo,  evidente  che  in  tutte  le  analisi  ha  troppa 
prevalenza  l'elemento  soggettivo,  il  quale,  appunto  per  esser  tale,  non  dà 
garanzia  di  obiettività  e  di  serenità  degne  del  nome  di  scienza;  2"  che,  dopo 
aver  letto  ed  esaminato  queste  singole  analisi,  noi  ci  troviamo  tra  le  mani 
dei  mozziconi,  dei  frammenti,  dei  rattoppi,  ma  il  poema  è  sparito  —  mentre 
invece,  esso  è  sempre  fermo  ed  intatto  da  un'  altra  parte,  quasi  ad  irridere 
la  vanità  degli  sforzi  umani,  come  un  antico  e  venerfindo  e  meraviglioso 
monumento,   i  cui    pezzi    staccati    si    può    dire    non  abbiano    alcun   valore, 


190  ^-   Terzaghi 


mentre  dalla  loro  unione  nasce  un'opera  d'arte  che  non  si  sottrae  alla  no- 
stra avida  ammirazione. 

Ora,  è  naturalmente  giustificato  e  legittimo  il  desiderio,  anzi,  per  la  cu- 
riosità e  per  la  volontà  di  sapere  che  è  propria  della  scienza,  il  bisogno 
di  ricercare  e  possibilmente  di  scoprire  in  che  modo  e  per  quali  vie  un 
poema  sia  sorto,  si  sia  sviluppato,  abbia  preso  forma  definitiva  prima  nella 
mente  e  poi  nell'opera  del  suo  autore.  Ed  è,  quindi,  anclie  naturale  e  giu- 
stificato che  si  tenti  di  mettere  in  luce  quali  sono  i  vari,  sia  pure  dispara- 
tissimi,  elementi  di  cui  l'autore  si  è  servito,  e  che  han  dato,  per  così  dire, 
il  substrato  primo,  la  materia  grezza  per  l'opera  d'arte.  Per  queste  ragioni 
è  giusto  ed  anche  doveroso  ricercare  le  fonti  dei  grandi  poemi,  i  quali 
ogni  tanto,  se  pure  di  rado,  vengono  ad  allietare  la  vita  umana  con  un 
soffio  quasi  divino,  che  sembra  trascendere  ogni  nostra  possibilità  materiale. 
Ed  è  anche  legittimo  che,  tra  i  compiti  della  critica  filologica,  vi  sia  quello 
di  scindere  e  separare  tutti  i  possibili  vari  elementi  onde  quei  poemi  sono 
composti.  Ma,  si  badi  bene,  questa  è  opera  analitica,  senza  essere  —  e  che, 
anzi,  non  deve  nemmeno  aver  la  più  lontana  pretesa  di  essere  • —  ricostrul- 
tiva.  In  altre  parole:  libri,  come  quello  del  Rajna  sulle  fonti  dell' Ortentio 
Furioso,  segnano  una  tappa  importantissima  nel  cammino  scientifico  della 
filologia;  ma,  se  da  un'analisi  come  quella,  o  come  altre  che  si  potrebbero 
fare  e  si  sono  fatte,  sopra  VEiieide,  sopra  la  Gertisalemme  Liberata,  sopra  la 
lyivina  Commedia,  sopra  il  Faust  e  via  discorrendo,  si  volesse  arrivare  a  ri- 
costruzioni piccole  o  grandi  di  poemi  e  poemetti  e  poemini  già  prima  disgre- 
gati dall'Ariosto,  da  Dante,  dal  Tasso,  dal  Goethe,  si  farebbe  cosa,  più  che 
inutile,  pazzesca  addirittura.  Ancora  :  si  può  e  si  deve  tener  conto  del  vec- 
chio principio  epicureo,  divenuto  ormai  assioma  nella  scienza,  che  gignitur  de 
niMlo  nihilum,  e  che,  quindi,  per  rimanere  nel  caso  nostro,  ogni  opera  di 
poesia  deve  avere  i  suoi  precedenti  ;  ma  non  si  può  in  alcun  modo  fare 
astrazione  da  quella  che  è  la  realtà,  per  la  quale  noi  ci  troviamo  davanti 
dei  poemi  complessi  e  formati  e  guidati  da  cima  a  fondo  da  un'  idea  do- 
minante, e  non,  per  così  dire,  delle  antologie,  e  cioè  delle  raccolte  fram- 
mentarie di  roba  morta.  Cosi,  noi  possiamo  ben  ritenere  che  libri  come 
quello  del  Miilder  ')  siano  —  almeno  fino  ad  un  certo  segno  (e  questo  va 
detto  proprio  del  libro  or  citato,  che  non  manca  di  pecche  e  di  preconcetti) 
—  necessari;  ma,  oggi  come  oggi,  dopo,  cioè,  che  noi  conosciamo  abba- 
stanza bene  in  qual  modo  sieno  formati  tutti  i  nostri  maggiori  poemi  e 
dopo  che  non  ci  è  più  possibile  di  astrarre  dall'opera  poetica  1'  elemento 
creatore  dell'uomo  ;  oggi,  dico,  riesce  quasi  inconcepibile  che  alcuno  si 
metta  sul  serio  a  spezzettare  l' Iliade,  non  ne'  suoi  elementi  costitutivi  ori- 
ginari, quali  potrebbero  essere  le  varie  tradizioni  e  leggende,  ma  nei  suoi 
versi,  pretendendo  di  giudicare  con  sicurezza  quale  appartenga  ad  uno  e 
quale  ad  un  altro  poemetto  più  antico.  E,  insomma,  la  ricetta  del   '  prendi 


')  Die  Ilias  u.  ìhre  Quellen,  Berlin,  Weìdmann,   1910. 


Note  di  letteratura  omerioa  191 

questo  e  questo,  rimescola  e  servi  caldo  ',  con  la  quale  si  potrà  forse  arri- 
vare a  comporre  qualche  mediocre  piatto  di  cucina;  ma  un  poema,  non  si 
fa  davvero.  O,  altrimenti,  tutti  potrebbero  essere  poeti  epici  —  e  di  che 
modo!  —  mentre,  al  contrario....  un'altra  Iliade  non  l'ha  mai  fatta  nes- 
suno. 


Tutto  quel  che  ho  detto  fin  qui,  e  non  vorrei  apparisse  come  una  inu- 
tile chiacchierata,  deve  servire  a  spiegare  il  mio  giudizio  sul  libro  del  Va- 
leton,  libro  recentissimo  in  apparenza,  ma  non  in  sostanza,  che  esso  risulta 
dall'  insieme  di  varie  memorie  già  pubblicate  sulla  Mnemosyne  dal  1912  in 
poi,  e  raccolte  ora  in  volume. 

Il  Valeton  ha  spinto  fino  all'eccesso,  vorrei  quasi  dire  fino  all'esaspe- 
razione, la  ricerca  esteriore  e  puramente  formale  delle  fonti,  con  una  con- 
sequenziarietii,  con  una  affannosa  bramosia  di  logica,  di  fronte  alla  quale 
possiamo  bene  affermare  che  non  resisterebbe  la  più  solida  compagine  del 
più  unitariamente  ben  costruito  poema  che  potesse  essere  uscito  dalla  mente 
e  dalla  penna  di  un  uomo.  Se  noi  badiamo  bene  ai  cardini  del  suo  studio, 
possiamo  dire  che  essi  sono  due  :  1°  l' Ilìade  è  un  conglomerato  meccanico 
di  elementi  disparatissimi,  messi  insieme  da  varie  persone;  2°  tutto  il  sub- 
strato del  poema  è  greco  del  continente  ellenico,  e  trasportato  poi  ideal- 
mente in  terra  ionico-asiatica. 

Cominciamo  da  questo  secondo  punto,  giacché  in  esso  c'è  sicuramente 
qualche  cosa,  o  molto,  di  vero.  Naturalmente,  non  si  discute  degli  eroi,  i 
quali  hanno  nel  poema  parte  principalissima,  e  sono  scelti  e  dipinti  come 
Greci,  quali  Agamennone,  Achille,  Menelao,  Ulisse,  Nestore  e  via  di  discor- 
rendo. Si  tratta  piuttosto  di  Ettore,  di  Paride  e  degli  altri  che  contro  i 
Greci  combattono.  Ora,  sono  già  molti  anni  dacché  il  Cauer,  che  non  fu 
il  primo  e  non  sarà  l'ultimo  della  serie,  ha,  nelle  sue  Questioni  fondamen- 
tali della  critica  omerica,  messo  in  evidenza  come  tutta  la  lotta  intorno  a 
Troia,  poeticamente  descritta  nell'  Iliade,  serbi  l'eco  di  lotte  avvenute  in 
Grecia  e  di  canti  nati  da  esse,  adattati  a  nuove  circostanze,  a  nuovi  fatti 
storici.  Ammettere  senz'altro  che  un  poema  come  l' Iliade  non  abbia,  per 
dir  così,  dei  '  precedenti  ',  sia  storici  sia  letterari,  sarebbe  quasi  una  paz- 
zia, e  basterebbero  a  tenercene  lontani  l'episodio  tebano  di  Tideo  nel  V  e 
quello  di  Meleagro  nel  IX  libro.  Perciò  occorre  essere  ragionevoli  e  non 
chiudere  gli  occhi  davanti  all'evidenza,  la  quale  ci  porta,  press'a  poco, 
a  conclusioni  di  questo  genere  :  I  Greci,  trasmigrati,  o  per  necessità 
colonizzatrice  o  per  la  spinta  di  altre  popolazioni  le  quali  li  cacciarono 
dalle  loro  sedi,  nell'Asia,  vi  recarono,  altre  alla  loro  civiltà,  alla  loro  re- 
ligione, alle  loro  armi,  anche  un  patrimonio  di  canti  sorto,  formato  ed 
accresciuto  dal  ricordo  di  precedenti  imprese  (non  dobbiamo  diuienticare 
che  il  canto  epico  é  niente  altro  che  la  storia  ideale  di  un'epoca  passata, 
in  cui  gli  avvenimenti  non  si  scrivevano  né  si   catalogavano   come   in   età 


192  N.   TerzagU 


più  progredite),  ed  alimentato  dal  culto  religioso  prestato  agli  dei  patrii 
ed  agli  eroi,  cui  si  attribuivano  onori  divini.  Questo  patrimonio  si  accrebbe 
per  forza  naturale  delle  cose,  allorché  dovendosi  compiere,  e  non  certo  per 
vie  pacifiche,  la  conquista  delle  isole  e  del  litorale  d'Asia,  nuove,  e,  dati 
i  tempi,  relativamente  grandiose  imprese  si  vennero  ad  aggiungere  al  ricordo 
delle  antiche.  E,  come  sempre  è  avvenuto  e  vediamo  avvenire  anche  oggi, 
non  ostante  la  rigidità  della  cronaca  fissata  per  mille  modi  e  con  mille 
mezzi,  i  maggiori  fatti  si  attribuirono  agli  eroi  più  antichi,  i  quali  cosi  eb- 
bero non  solo  accresciuta  la  loro  fama  e  la  loro  gloria,  ma  si  trovarono 
trasportati  in  tempi  e  luoghi  coi  quali  essi  in  realtà  non  avevano  origina- 
riamente nulla  a  che  fare.  Questa  spiegazione,  che  per  troppe  e  troppo  evi- 
denti ragioni  non  posso  qui  sviluppare,  serve  ottimamente  a  renderei  conto 
di  moltissime  difficoltà,  e  ad  eliminarle,  come  l'arcaizzazione  voluta  di  molte 
parti  dell'  Iliade,  i  fenomeni  dell'eolismo  nella  lingua,  le  contraddizioni  e 
le  ripetizioni,  che  non  di  rado  si  incontrano,  ed  altre  ancora  su  cui  è  inu- 
tile di  insistere  pel  momento  '). 

Ma,  ad  ogni  modo,  una  lotta  fra  Greci  ed  Asiatici,  in  Asia,  dovette 
esservi,  e,  a  quel  che  posso  vedere,  viene  oggi  ammessa  da  tutti  quegli 
studiosi  i  quali  non  confondono  la  scienza  con  la  fantasia,  o,  meglio,  con 
la  fantisticheria,  anche  se  —  come  fa  il  Valeton,  al  quale  l'archeologia  pare 
che  non  importi  nulla,  poiché  non  se  ne  serve  affatto,  mentre,  al  contrario, 
per  lo  studio  dei  poemi  omerici  non  è  ancora  sfruttala  in  quel  grado  che 
inerita  —  non  vogliamo  prestare  eccessiva  fede  all'  incendio  di  Troia  ed 
alla  città  bruciata  del  VI  strato  di  Hissarlik.  Ed  è  naturale  e  logica  con- 
seguenza di  tutto  ciò,  che  di  fronte  ai  Greci,  colonizzatori  invasori  e  con- 
quistatori, ci  fossero  dei  Troiani,  i  quali  dovevano  tener  loro  testa,  e  di- 
fendere il  loro  territorio,  la  loro  città,  le  loro  case,  con  tutta  quella  forza 
che  è  data  dalla  necessità  della  difesa.  E  vero:  Ettore,  '  colui  che  tiene  ', 
è  un  nome  parlante,  potendo  significare  anche  '  colui  che  resiste  '.  Ma  che 
perciò?  0  che  una  città  assalita  ed  assediata  non  avrà  avuto,  in  quei  tempi, 
come  ai  giorni  nostri,  uno  che  provvedesse  alla  sua  difesa  ed  alla  sua  re- 
sistenza 1  Nella  migliore  e  più  larga  ipotesi,  noi  possiamo  soltanto  conce- 
dere che  all'eroe  locale  sia  stato  dato  un  nome  greco;  se  vogliamo  poi  an- 
che spingerci  all'estremo  limite  delle  concessioni,  potremo  dire  che  imprese 
e  leggende  riferite  ad  un  Elleno  sieno  state,  per  esprimerci  così,  riversate 
su  di  un  Frigio.  Ma  tutto  questo  non  toglie  né  aggiunge  nulla  al  fatto  sto- 
rico, da  cui  il  poema  di  Troia  ha  avuto  il  suo  movente  ed  il  suo  spunto. 
La  più  bella  riprova  di  questo  si  ha  nel  personaggio  di  Paride.  Il  suo  nome, 
nel  dialetto  frigio,  significava  '  il  lottatore  '  :  era  quindi  un  equivalente  del 


')  Il  fondamento  storico  dell'  Iliade,  pur  con  qualche  esagerazione,  è  ora  di- 
mostrato convincentemente  da  W.  Lkaf,  Bomer  and  Histoiy  (London,  Macmillan, 
1915),  ottimo  libro,  le  cui  conclusioni  —  che  mi  dispiace  di  non  poter  discutere 
qni  —  meriteranno  senza  dubbio  di  venire  in  buona  parte  accettate  dalla  critica. 


Note  di  letteratura  omerica  193 

nome  greco  di  Alessandro,  ed  ambedue  i  nomi  si  trovano  usati  promiscua- 
mente neW Iliade  e,  dopo,  in  tutta  la  letteratura  greca.  Ora  è  giusto  osservare, 
come  fa  il  Valeton,  che  in  Pai-ide  sono  come  chi  dicesse  presi  due  perso- 
naggi, uno  molle  e  l'altro  valoroso  guerriero,  uno  fiacco  d'animo  e  di  corpo, 
e  l'altro  fiero  e  pronto  a  combattere.  Ma  di  qui  a  concludere  che  Alessan- 
dro sia  un  eroe  originariamente  greco,  ci  corre,  e  ci  corre  assai.  Poiché  non 
si  tien  conto  di  due  fatti,  uno  dato  dalla  ragione  poetica  prima  delV Iliade, 
l'altro  dal  suo  svolgimento  e  dalla  sua  motivazione  artistica. 

Infatti,  Vlliade,  che  è  un  poema  di  epiche  gesta  e  non  una  storia  in 
versi,  parte  da  un  presupposto,  che  non  ha  nulla  in  comune  con  la  realtà 
degli  avvenimenti.  Questi  avevano  come  spinta  la  colonizzazione  e  la  con- 
quista di  nuove  terre  ;  l' Iliade,  invece,  che  tutto,  anche  la  storia,  tra- 
sporta nel  campo  della  più  alta  ed  alata  fantasia,  ha  come  base  una  leg- 
genda, il  ratto  di  Elena,  nella  quale  però  non  possiamo  non  vedere  un 
reale  accenno  storico  alle  relazioni  che,  già  fin  da  tempo  antico,  dovevano 
passare  tra  Greci  ed  Orientali,  relazioni  soprattutto  di  commerci  e  di  scambi 
fra  le  due  regioni,  separate  dal  mare.  Ora,  colui  che  —  nel  poema  e  nella 
tradizione,  si  badi  bene,  non  nella  storia  —  rapisce  una  donna,  e  la  rapi- 
sce attraendola  col  miraggio  dell'oro  e  della  ricchezza,  doveva,  di  fronte  ai 
conquistatori,  che  fornivano  una  rude  bisogna  piena  di  pericoli  e  di  mi- 
seria, apparire  come  un  essere  molle  ed  effeminato.  E,  come  tale,  può  ben 
egli  aver  difeso  strenuamente  il  suo  paese,  può  bene  aver  lottato  con  tutto 
il  suo  vigore  e  con  tutta  la  sua  forza  :  il  suo  '  tipo  '  era  ormai  fisso,  e  non 
poteva  non  sostituirsi  alla  realtà  ;  era  come  una  caricatura  ben  riuscita,  la 
quale  non  si  scompagna  mai.  neppure  quando  meno  si  adatta,  dall'uomo  al 
quale  si  riferisce. 

In  secondo  luogo,  poi.  Paride,  nel  poema,  si  sveglia  e  si  eccita  alla 
lotta,  sì,  ma  dopo  qualche  spinta  esteriore,  o  divina,  od  umana,  e  basti  ri- 
cordare le  fiere  parole  rivoltegli  da  Ettore  al  principio  del  III  libro.  Ab- 
biamo, per  conseguenza,  una  ragione  di  contrasto  poetico,  una  necessaria 
propaggine  del  presupposto  fondamentale  dell'  Iliade,  perchè  Paride  debba 
avere  quella  specie  di  doppio  carattere;  ma  non  v' è  davvero  causa  alcuna 
perchè  noi  siamo  tenuti  a  considerare  Alessandro  come  un  eroe  greco,  male 
adattato  a  sostenere  una  parte  non  sua. 

Né  può  essere  una  obiezione  a  quanto  ho  detto  fin  qui,  ciò  che  si  è 
soliti  chiamare  il  patriottismo  di  Ettore  ;  né  si  può  considerare  come  con- 
traria istanza  il  fatto  che  i  Troiani,  sotto  la  guida  di  lui,  riescono  perfino 
a  vincere  ed  a  sconfiggere  i  Greci,  con  uno  scacco  dell'orgoglio  patriottico 
dei  Greci  conquistatori.  Il  sentimento  patrio  era  nutrito  profondamente  dal 
cantore  AelV  Iliade,  e  tutto  lo  dimostra:  a  noi,  perciò,  non  resta  che  am- 
mirare la  sua  serena  obiettività,  che  ad  un  poema  di  lotte  non  volle  sosti- 
tuita una  '  passeggiata  militare  '  da  cui  nessuna  delle  sue  figure  avrebbe 
tratto  rilievo,  e  nell'alterna  vicenda  delle  sconfitte  e  delle  vittorie  trovò 
la  via  per  fare  apparir  più  grande  la  vittoria  finale  del  suo   popolo,    dopo 

Atene  e  Ruma.  4 


194  N.   Tereaghi 


che  1'  '  eroe  che  resiste  ',  Ettore,  fu  abbattuto  da  Achille,    ed  il  più   forte 
greco  si  dimostrò  superiore  al  più  forte  troiano. 


Questi  sono  alcuni  elementi  di  giudizio  (portarli  tutti  richiederebbe  un 
volume)  per  rifiutare  la  tesi  del  Valetou  ;  ma  non  posso  tacere  di  un  altro 
che  ha  la  massima  importanza  :  gli  dei. 

Il  Valeton,  come  si  è  detto,  ritiene  che  tutto  quanto  ha  rapporto  al- 
l' Iliade  sia  originariamente  greco  ;  per  lui,  quindi,  non  c'è  possibilità  di 
distinzione  e  di  separazione  fra  Grecia  ed  Asia.  Cosi  fa  anche  rispetto  agli 
dei,  i  quali,  anzi,  gli  sembrano  costituire  una  prova  della  sua  tesi.  Apollo 
è  dalla  parte  dei  Troiani?  Vuol  dire  che  questi  Troiani  non  sono  se  non 
Greci  travestiti.  Zeus  difende  e  sostiene  ora  gli  uni  ora  gli  altri?  Lo  fa 
perchè  in  verità  erano  tutti  Elleni,  e  la  lotta  intorno  a  Troia  non  è  che 
un  pretesto  che  serve  a  travestire  lotte  locali  elleniche.  Atena  è  la  più  ac- 
canita odiatrice  dei  Troiani,  e  pure  essa  è  da  loro  onorata,  ed  apparisce 
come  la  loro  propria  divinità,  p.  es.  nel  VI  libro?  La  risposta  a  questa  do- 
manda è  perfettamente  analoga  a  quelle  precedenti.  Ora,  io  vorrei  sapere 
quel  che  risponderebbe  il  Valeton  a  chi  gli  facesse  notare  che  Giove  e 
Zeus  sono  due  divinità  eguali  e  par  diverse  ;  quel  che  risponderebbe  a  chi 
osservasse  che  Giove  si  chiama  Zeus  presso  i  tardi  scrittori  greci,  e,  vice- 
versa. Zeus  viene  nominato  Tuppiter  presso  quelli  romani  ;  ancora,  quel  che 
risponderebbe  a  chi  gli  obiettasse  il  conguagliamento  che,  tra  dei  ellenici 
e  barbari,  ha  fatto  Erodoto.  In  fondo,  il  fenomeno  è  semplicissimo,  e  rappre- 
senta il  più  elementare  processo  onde  si  arriva  ad  uno  stato  quasi  di  ge- 
neralizzazione nella  religione  del  mondo  antico  :  due  divinità  hanno  caratteri 
simili  ;  così  avviene  che  (forse  anche  per  quel  concetto  della  propria  supe- 
riorità di  cui  si  può  dire  che  nessun  popolo  antico  —  e  soprattutto  i  Greci 
prima,  i  Romani  poi  —  fosse  privo)  quelle  si  fondano  e  di  due  se  ne  faccia 
una  sola.  Questa  non  è  certo  una  scoperta  nuova,  ma  La  ormai  la  barba 
bianca,  e,  con  un  po'  di  buona  volontà,  al  Valeton  non  sarebbero  man- 
cate fonti  di  informazioni  in  proposito  ').  Ma  od  ogni  modo,  tutto  ciò  di- 
mostra quanto  sia  pericoloso  farsi  guidare  da  un  preconcetto,  e,  special- 
mente, quanto  poco  giovi,  e  produca  anzi  danno,  il  costruire  sopra  ipotesi. 

Poiché  in  tutte  le  scienze,  ma  in  particolar  modo  in  quelle  storiche  ed 
in  quelle  filologiche  l'ipotesi  è  ammessa  e  legittima,  ma  purché  si  arrivi 
sino  ad  essa  ;  oltre  non  si  può  andare.  L' ipotesi  è  una  induzione  che  deve 
nascere  da  un  cumulo  di  prove,  o  per  lo  meuo  di  induzioni  probabili,  ed  una 
volta  che  sieno  raggiunte  e  pronunziate  occorre  fermarsi,  se  non  si  vuol  scri- 
vere dei  romanzi  o  delle  novelle,  che  possono  riuscir  divertenti,  ma  non 
costituiscono  più  materia  di  utile  discussione.  Invece  il  nostro   autore   par 


^)  Cf.,  tra  i  più  recenti  lavori  in  proposito,  quello   di    Erik  Hedén,    Home- 
rieche  GoUerstudien,  Uppsala  X912  :  per  Zeus,  p.  es.,  a  p.  57. 


Note  di  letteratura  omerica  195 


quasi  si  diverta  a  formulare  una  ipotesi,  e  poi,  non  so  se  per  propria  sug- 
gestione o  per  una  specie  di  mancanza  di  prospettiva  scientifica,  costruisce 
su  di  essa,  quasi  fosse  una  realtà  incontrovertibile,  arrivando  ad  altre  ipo- 
tesi elle  gli  spianano  il  cammino   per   procedere   oltre    imperterrito   fino   a 
che....  ma,  fino  a  che  si  arriva  al   suo   sminuzzamento   dell'iliade   in   una 
quantitil  di  canti  e  cantini  e  cantucci,  i  quali    poi  si  sarebbero   fusi   come 
dio  vuole,  alla  meglio,  fino  a  formare,  per  opere  molte  e  diverse   di  gente 
varia,  la  nostra  Iliade,  opera  di  mosaico,  composta  a  tasselli  variopinti,  ori- 
ginariamente staccati  e  tali  da  non  aver  nulla  di  comune  l'uno  con  l'altro. 
Così  siamo  arrivati  a  quello  clie  poco  sopra  (p.  191)  chiamavo  il  primo 
cardine  del  libro  del  Valeton,  cardine  pel  quale    egli    si   estende    assai   in 
tutto    il    volume,    e   che   tenta  di  difendere  in  ultimo,  nell'epilogo,    contro 
tutte  lo  obiezioni  che  sono  state  fatte  e  si  fanno  tuttavia  da  coloro  i  quali 
ad  un'opera  musiva  nell'  Iliade  non  hanno  mai  creduto.  Ad  ogni  modo,  io 
non  posso  più  qui  esaminare   particolarmente   tutte  le   ipotesi   del  Valeton 
(anche  la  sua  costruzione  deW AcMUeide  poggia  su  di  una  ipotesi,  poiché,  come 
egli  scrive  a  p.  245  '  multo  vero    similius  est  ut  poeta   qui  Achillis   Iram 
mente  conceperit  satis  habuerit  hoc  argumentum  enarrare,  quam  ut  animum 
induxerit  totius  belli  addere  imaginem  quae  cum  ilio  ne  iipte  quidem  com- 
poni posset  ')  ;  e  basta,    credo,  aver    dimostrato  quanto  sia    fallace   la    sua 
teoria  del  fondamento  ellenico,  per  risparmiarmi  molte  parole.  Basterà  dire 
che  il  nostro  dotto  ritiene  fermamente  come  nell'  Iliade  nostra  debba  porsi 
a  base  una  Achilleide,  tutta  riunita,  stretta  e  conseguente  a  se  stessa;  un  capi- 
tolo di  cronaca,  insomma,  non  un  poema  epico.  E,  naturalmente,  guai  a  tutto 
ciò  che  può,  sì,  rispondere  a  ragioni  poetiche  od  artistiche  in  genere,    ma 
non  risponde  alla  più  rigorosa  logica  che  sia  mai  uscita  dalla  mente  di  fab- 
bricatori di  sillogismi  !  Anche  qui  mi  contento  di  un  solo  esempio,  perchè.... 
ah  uno  disce  omnes.   Nel  IX  libro  allorché  i  Greci  scoraggiati,   battuti,  giunti 
ormai  sull'orlo  dell'estremo  pericolo,  si  risolvono  ad  inviare  messi  ad  Achille 
per  indurlo  a  ritornare  a  combattere  e  ad  aiutarli   a    respingere  i   Troiani 
incalzanti,  Achille  rifiuta  :   rifiuta  tutti  i  doni  e  le  proposte  onorevolissime 
di  pace  che  Agamennone  gli  fa  fare  per  mezzo  di  Ulisse  di  Aiace  e  di  Fenice, 
e  minaccia,  anzi,  di  ripartire  il  giorno  dopo  per  la  patria  Ftia.  Ora,  tutto 
questo  è  assolutamente  necessario  per  il  poema,  e  lo  ha  veduto   così  bene 
il  Bethe  *),  che  posso  risparmiarmi  una  lunga  dimostrazione.  Basti  dire  che 
Achille  qui  non    può    riconciliarsi    con    Agamennone,  perchè  gli  manca    la 
spinta  ad  andare  contro  i  Troiani,   spinta  la  quale   verrà  solamente  da  un 
fatto  esterno,  che  agisca  su  di  lui  a  guisa  di  molla  :   la  morte  di  Patroclo. 
Ciò  è  congegnato  così  bene,  e  così  indissolubilmente  in  tutte  le  sue  parti, 
che,  come  è  noto,  tutti  i  tentativi    fatti   per  riuscire    ad    una  possibile  di- 
sgregazione sono  andati  ad  infrangersi  contro    la    realtà   del   poema,    come 
onde  sopra  uno  scoglio. 

')  I.   e,   77  8. 


196  N.   Terzaghi 


11  Valeton  è  di  parere  opposto:  egli  ritiene  che  Acliille,  dopo  l'amba- 
sceria del  IX  libro  debba  riconciliarsi  con  Agamennone  e  coi  Greci.  È  una 
pura  ipotesi,  ma  basta  al  suo  autore  per  eonstruirci  sopra  la  sua  Aehil- 
leide  e,  soprattutto,  per  scinderne  gli  elementi  non  conformi,  e  per  tenere 
assolutamente  distinto  da  essa  un  altro  canto,  la  Patroclea,  E  il  poema! 
Che  importa  di  esso  al  dotto  olandese?  Nulla  :  se  il  poema  non  corrisponde 
agli  schemi  logici  del  critico,  egli  pensa,  a  morte  il  poema  !  Già,  ma  in- 
tanto esso  è  lì  sempre  forte  e  sempre  robusto,  e,  come  una  quercia  non  è 
abbattuta  da  un  fulmine,  così  esso  non  si  lascia  abbattere  dai  colpi  di  ascia 
o  di  piccone  che,  contro  la  sua  solida  struttura,  tirano  i  moderni  critici. 

Ad  ogni  modo,  ([uesta  volta  il  Valeton  ha  voluto  dare  la  prova,  di- 
ciamo così,  materiale  del  valore  delle  sue  costruzioni,  poiché  in  un  lungo 
«xciirsiig  ha  pubblicato  il  testo  della  sua  Achilleide,  quale  gli  sembra  nasca 
dall'esame  che  ha  fatto  dell'  Iliade.  E  la  prova  è  semplicemente  disastrosa 
per  la  sua  teoria.  Con  varie  omissioni  e  trasposizioni,  egli  fa  finire  il  suo 
(dico  suo  con  intenzione,  perchè  non  ha  certo  nulla  a  che  fare  con  Omero) 
poemetto  al  libro  XIX  v.  276,  dopo  aver  compreso  nell'ultima  parte  quasi 
tutto  questo  libro  (dal  v.  40  in  poi),  preceduto  dalla  fine  del  libro  IX.  Ora, 
tutto  è  bene  quel  che  fluisce  bene,  dice  il  proverbio,  ed  è  piacevole  che 
un  poema  d'ira  e  di  violenza  finisca  con  un  bel  banchetto,  annunziato  al 
termine  di  una  assemblea  nella  quale  da  tutte  le  parti  si  sono  sentite  pa- 
role di  pace  e  di  affetto  e  di  reverenza  reciproca.  Ma  il  guaio  è  che,  pro- 
prio nelle  ultime  parole  di  Achille  e'  è  il  tarlo  roditore  della  teoria  vale- 
toniana.  L'eroe  dice  (vv.  270-274)  :  «  0  padre  Zeus,  oh  !  che  tu  dai  grandi 
mali  agli  uomini  !  Mai  1'  Atride  avrebbe  suscitato  tanta  ira  nel  mio  petto, 
né,  ribelle  agli  ammonimenti,  avrebbe  condotto  via  la  fanciulla  (Briseide) 
contro  la  mia  volontà  —  ma  Zeus  volle  ohe  la  morte  toccasse  a 
molti  Achei».  Ora,  io  domando  come  si  possa  non  voler  vedere  che 
queste  parole  e  specialmente  le  ultime,  sono  indissolubili  dalla  morte  di 
Patroclo.  Perchè  il  poeta  non  lo  dice?  È  vero:  ma  non  abbiamo,  noi,  noi, 
intendo  dire,  tardi  interpreti  di  un'  opera  d'  arte,  il  dovere  di  intenderne 
le  profonde  bellezze,  quei  tocchi  delicati  che  danno  il  valore  alla  poesia  ? 
E,  del  resto,  che  forse  il  poeta  ha  1'  obbligo  di  sciorinar  davanti  ai  nostri 
occhi,  e  di  diluire  per  il  comodo  della  nostra  ottusa  intelligenza  tutto  ciò 
che  deve  costituire  il  volo  della  sua  fantasia,  quello  speciale  lirismo,  per 
cui  un  sentimento  vien  solo  accennato,  ed  é  tanto  più  vero  e  profondo 
quanto  meno  appare  alla  superficie  della  parola  fredda,  quale  è  scritta 
sulla  carta?  Achille  accenna  solamente,  non  v'ha  dubbio:  ma  basta  l'ac- 
cenno per  richiamare  tutta  la  sua  ribellione  ingiustificata  del  libro  IX,  ba- 
sta a  richiamare  i  disastci  ricevuti  dai  Greci,  prima  e  dopo  1'  ambasceria, 
basta  soprattutto,  a  farci  pensare  alla  sorte  infelice  di  Patroclo.  Se  Achille 
avesse  nominato  il  suo  giovane  caro  compagno  avrebbe  forse  potuto  susci- 
tare una  nuova  commozione  in  noi  ;  ma,  non  nominandolo,  suscita  ben  più, 
poiché  noi,  dietro  le  sue  poche  parole  —  la  morte  che  tocca  a  molti  Achei 


Note  di  letteratura  omerica  197 

—  leggiamo  tutto  il  suo  dolore,  che  è  così  grande  da  non  trovare  la  espres- 
sione più  giusta,  che  è  pudibondo  e  si  astiene  dal  mostrarsi  in  pubblico, 
per  quel  rispetto  di  sé  e  per  quella  verecondia  di  cui  non  sono  mai  privi 
i  grandi  sentimenti.  —  Orbene,  se  queste  parole,  che  abbiamo  qui  analiz- 
zate, si  possono  riferire  a  Patroclo  ;  se  in  esse  v'  è  un  accenno  a  resipi- 
scenza da  parte  di  Achille  solo  in  seguito  ad  un  grande  fatto,  che  ha  mu- 
tato le  sue  idee  ed  il  suo  modo  di  sentire,  noi  abbiamo  la  necessità  di  riu- 
nire 1'  Achilkide  con  la  Patroclea,  di  rifare,  in  una  parola,  V Iliade.  Davanti 
alla  disgregazione  fallace,  le  diverse  parti  disciolte  si  ricercano  e  si  riuni- 
scono a  dispetto  di  tutto.  Qual  più  bella  prova  vogliamo  della  inutilità  e 
del  danno  di,  non  costruzioni,  ma  vere  distruzioni,  come  quella  del  Valeton? 


Conclusione,  che  è  l'ora  di  formularla  :  Tutti  noi,  quanti  studiano  l'an- 
tichità, non  per  amore  nostro,  e  cioè  di  quello  che  vogliamo  vedere  nel  pen- 
siero e  nell'animo  dei  poeti  antichi,  ma  per  la  pura  e  disinteressata  ricerca  del 
vero,  e  per  seguire  nel  suo  sviluppo  e  nella  sua  genesi  il  pensiero  antico; 
tutti  noi,  dunque,  abbiamo  il  diritto,  e  talvolta  anche  il  dovere,  di  cercare 
e  di  studiare  tutte  le  vie  e  tutti  i  modi  pei  quali  un'opera  d'arte  si  è  for- 
mata. Così,  per  Omero,  nessuno  contesta  l'utilità  di  ricercare  e,  possibil- 
mente, di  ritrovare  gli  elementi  vari  onde  sono  composti  i  poemi  che  vanno 
sotto  il  suo  nome.  Ma  abbiamo  l'obbligo  di  rispettare  l'opera  d'arte.  Ora, 
poiché  dopo  oltre  120  anni  di  studio  incessante  ed  ininterrotto  V  Iliade  come 
opera  d'arte  è  sempre  lo  stesso  meraviglioso  poema  ;  poiché  tutte  le  distru- 
zioni su  di  essa  esercitate  non  hanno  valso  a  distruggerla  ;  poiché  tutti  i 
tentativi  per  farle  dire  cosa  diversa  e  parlare  lingiiaggio  differente,  da  ciò 
che  dice  e  parla,  sono  caduti  nel  nulla  ;  a  noi  incombe  il  dovere  di  stu- 
diare l' Iliade  anzitutto  come  opera  d'arte,  o,  se  più  piace,  in  luogo  di  an- 
dare a  caccia  di  incongruenze  e  di  contraddizioni,  dobbiamo  cercar  di  vedere 
e  di  spiegare  le  ragioni  artistiche  della  sua  forma,  tal  quale  è  giunta  a  noi. 
Con  questo,  naturalmente,  non  si  esclude  né  si  uccide  lo  studio  della  co- 
siddetta questione  omerica,  ma  solamente  si  sposta  e  si  divide  :  altra  cosa, 
infatti,  é  la  genesi  remota  dei  poemi  omerici  e  l'esatta  comprensione  di  tutti 
i  suoi  elementi  costitutivi  e  fondamentali,  altra  cosa  è  l' interpretazione  del- 
l'opera d'arte  in  sé  e  quale  ci  é  giunta;  come  sono  due  cose  diverse  le 
fonti  dell'  Orlando  Furioso  —  torno  volentieri  su  di  un  esempio  celebre  per 
merito  e  vanto  di  Pio  llajna  —  e  1'  Orlando  stesso.  Né  pure  si  esclude  la 
possibilità  di  qualche  più  o  meno  grande  interpolazione  o  lacuna  nei  poemi 
omerici,  come  non  si  escludono  per  nessuna  opera  antica,  giacché  questo 
sarebbe  un  apriorismo  condannabile  come  ogni  forma  aprioristica,  e  perciò 
lontana  dall'assennata  ragionevolezza  che  deve  esser  propria  della  critica. 
Ma  per  studiare  le  '  fonti  '  dell'  Iliade  occorre  ancora  percorrere  un  lungo 
cammino,   le  cui  tappe    sono    segnate   da    tutta  la  nostra  ignoranza  in   una 


198  N.   Terzaghi  -  Note  di  letteratura  omerica 


quantità  di  campi,  a  dissodare  i  quali  mancano  talvolta  perfino  gli  stru- 
menti adatti.  E  bisogna  pur  pensare  che,  anche  allorquando  la  composi- 
zione dell'  Iliade  potesse,  ciò  che  non  è  facile  prevedere,  non  aver  più  se- 
greti per  noi,  non  saremo  mai  autorizzati,  né  per  il  nostro  comodo,  né  per 
il  nostro  piacere,  a  distruggere  l' Iliade.  Giacché,  intanto,  questa  esiste, 
mentre  le  contrarie  istanze  dei  critici  nascono  e  vivono  1'  espace  dUin  matitt, 
senza  essere  delle  rose,  se  non  perchè  hanno  molte  spine  '). 

Napoli,  Pasqua  del  1916. 

N.  Tebzaghi. 


')  Su  di  una  particolare  questione,  divenuta  interessante  in  seguito  a  recenti 
dispute,  il  Valeton  non  pare  abbia  un'  idea  ben  formata  :  intendo  accennare  al 
problema  se  1'  Iliade  riferisca  fatti  dell'  inizio  o  della  tìue  della  guerra,  e  se  la  sua 
cronologia  possa  restringersi  ai  pochi  giorni  voluti  dal  van  Leeuwen  o  no.  Ma 
riguardo  a  questo  argomento,  è  sperabile  che  nessuno  abbia  trascurato  di  leggere 
il  lavoro  recentissimo  dello  Zuretti  (L'assedio  decenne  e  la  cronologia  dell'  Iliade, 
in  Nuova  Antologia  1916,  189  ss.),  che  combatte  vigorosamente  la  teoria  del  van 
Lbeuwen.  —  Chiudo  facendo  un'altra  osservazione.  II  Valeton,  nella  sua  rico- 
struzione deW Achilleide  usa  continuamente  e  conseguentemente  il  digamma,  ma 
senza  curarsi  affatto  della  difficoltà  che  ciò  produce  riguardo  alla  special  forma 
vulgata  del  dialetto  omerico.  Qaesto  è  causa  di  una  incongruenza  e  di  una  contrad- 
dizione che  può  valere  dal  suo  punto  di  vista  della  composizione  meccanica  e  mu- 
siva del  poema,  ma,  nello  stesso  tempo,  è  completamente  contro  di  lui.  —  Nel 
testo,  poi,  scritto  in  latino  generalmente  corretto  ma,  pur  troppo,  abbondante  di 
errori  di  stampa,  si  ha  spesso  una  curiosissima  forma  di  accentuazione  delle  pa- 
role greche,  la  quale  non  ho  potuto  capire  se  sia  da  imputarsi  al  proto,  od  a  quale 
criterio  altrimenti  risponda  (àYXV*X''i't*'-)  ver|X'J8sj,  àvxp  eto.  etc.). 


IL  PENTAMETRO,  GHIRLANDA  ALBANA 

(Carducci,  Ragioni  metriche,  v.  8) 


Perchè  il  Carducci  nel  complimento  poetico  o,  come  lo  definì  il  Croce, 
scherzo  letterario  in  lode  della  giunonia  bellezza  di  Adele  Mai  assomigli  il 
pentametro  a  «  ghirlanda  albana  »,  non  sembra  che  abbiano  ben  compreso 
i  commentatori,  che,  esponendo  il  componimento  carducciano,  hanno  voluto 
spiegare  anche  quel  tratto  certo  non  immeritevole  di  spiegazione.  Rileg- 
giamo dunque  innanzi  tutto  i  distici  che  qui  e'  importano  : 

Scarso,  o  nipote  di  Eea,  l'endecasìllabo  ha  il  passo 
a  misurare  i  clivi  de  le  bellezze  vostre  : 

solo  co  '1  pie  trionfale  l'eroico  esametro  paote 
scander  la  via  sacra  de  le  Innate  spalle. 

Da  l'arce  capitolina  de  '1  collo  fidiaco  molle 
il  pentametro  pender,  ghirlanda  albana,  deve. 

(vv.  3-8) 

Ed  ecco  la  nota  che  Demetrio  Ferrari,  più  diffuso  che  gli  altri  illu- 
stratori, appone  all'ultimo  verso  ora  riferito,  nel  suo  noto  e  voluminoso 
Saggio  di  interpretazione  delle  Odi  barbare,  p.  457:  «  1\  pentametro....  altei-- 
nato,  nel  distico  elegiaco,  con  l'esametro,  serviva  con  la  doppia  sua  pausa 
a  rompere  la  gagliardia  del  verso  eroico,  e  perciò  il  poeta  lo  chiama  molle 
e  dice  che  deve  pendere,  derivare  dall'arce  capitolina  dei  collo  fidiaco,  cioè 
deve  unirsi  coll'esametro  a  cantare  il  bel  collo  di  Clelia,  degno  dello  scal- 
pello di  Fidia  e  che  si  erge  maestoso  come  la  rocca  del  Campidoglio  a  Róma. 
Così  il  pentametro  è  l'ornamento,  la  ghirlanda  albana  dell'esametro,  a  quel 
modo  che  i  monti  Albani  o  Laziali  coronano  il  Campidoglio,  ossia  Roma, 
a  sud-est  ».  Quanto  poi  agli  altri  illustratori,  in  tal  proposito  o  tacciono 
(tra  questi  ')  anche  1'  AUan,  che  nel  suo   Dizionario   delle   voci   delle  forme 


')  II.  M.  Capelli,  Dizionarietto  carducciano,  Livorno,  1913,  2*  ediz.,  e  6.  L. 
Passerini,  Il  vocabolario  carducciano,  Firenze,  1916.  Il  secondo  di  questi  due  vo- 
cabolisti cita  por  altro  il  distico  «  Da  l'arce  capitolina  eco.  »,  dove  dà  del  pen- 
tametro la  definizione  «  Verso  della  poesia  greca  e  latina  misurato  di  cinque  piedi  ». 
Nulla  infine  trova  da  annotare  in  Ragioni  metriche  A.  Mbozzi,  Il  Carducci  uma- 
nista, Sansepolcro,   1914. 


200  Adolfo  Gandiglio 


e  dei  versi  notevoli  contenuti  nelle  Odi  barbare  e  in  Mime  e  ritmi  registra 
bensì  «Albana»  rimandando  a  •<  G)tirlanda  albana»,  ma  poi  dimentica  il 
rimando  e  salta  a  pie  pari  da  «  Ghiaccia  »  a  «  Ghirlandare  »),  o  si  conten- 
tano fiduciosamente  della  spiegazione  del  Ferrari,  come  fanno  i  commenta- 
tori dell'edizione  popolare  illustrata  delle  opere  carducciane  procurata  dallo 
Zanichelli,  i  quali  ripetono  :  «  ghirlanda  albana  —  come  i  monti  Albani 
e  (sic)  Laziali  coronano  il  Campidoglio  ».  Solamente  gli  autori  dell'  altro 
Dizionario  carducciano  pubblicato  dal  Barbèra,  E.  Liguori  e  A.  Pelli,  si 
discostano  dal  Ferrari,  quando  annotano  :  «  Albano  —  di  Alba,  città  che 
secondo  la  leggenda  fu  madrepatria  di  Roma  ;  onde  albano  significa  anche 
romano  »  ;  se  non  che  ognun  vede  che  la  nuova  spiegazione  non  tenta  nem- 
meno di  spiegar  nulla,  perchè,  dato  e  non  concesso  che  nel  suo  pentametro 
il  Carducci  dicesse  albana  invece  di  romana,  resta  tuttavia  inappagato  il 
nostro  legittimo  desiderio  di  sapere  quel  che  più  rileva,  cioè  che  cosa  mai 
significherebbero  in  sé  e  in  rapporto  col  resto  del  distico  carducciano  le 
parole  «  ghirlanda  romana  ». 

Torniamo  dunque  alla  spiegazione  del  Ferrari  che  sola  mette  conto  di 
discutere,  come  quella  che  si  studia  di  serbare  la  convenienza  intrinseca  col 
passo  dell'autore.  Ebbene  io  trovo  già  alquanto  strano  che  si  affermi  che  i 
monti  Albani  coronano  il  Campidoglio  o  Roma  che  dir  si  voglia  —  a  sud- 
est aggiungeva  il  Ferrari  illudendosi  di  conciliare  l' immagine  dalla  ghirlanda 
con  l'esattezza  topografica  ;  ma  non  per  nulla  quella  limitazione  diede  noia 
ai  commentatori  della  così  detta  edizione  popolare,  che  infatti  la  soppressero 
lasciando  campeggiare  indisturbato  il  verbo  '  coronare  '.  Certo  il  Carducci 
nella  safiBca  Dinanzi  alle  terme  di  Caracalla  vede  i  monti  Albani  chiudere 
lo  sfondo  del  paesaggio  romano  : 

....  in  fondo  stanno  i  monti  albaui 
bianchi  di  neve. 

Ma  e'  è  di  più  :  il  Carducci,  come  abbiam  visto,  nel  distico  su  riferito  dice 
che  «  da  l'arce  capitolina  de  '1  collo  fidiaco  »  ch'egli  affascinato  ammira  ed 
esalta  «  molle  il  pentametro  pender,  ghirlanda  albana,  deve  ».  Ora,  benché 
io  sia  disposto  a  concedere  che  nel  componimento  carducciano,  forse  troppo 
assolutamente,  ma  certo  non  senza  qualche  fondamento  giudicato  d' assez 
mauvais  goùt  e  d'uno  spiacevole  7Jeda»itJ«?»e  musqué  dal  Jeanroy  '),  non  man- 
chi qua  e  là  certo  affastellamento  d' immagini  che  rasenta  il  barocco,  pure 
non  posso  persuadermi  che  quel  '  molle  '  (==  mollemente)  e  soprattutto  quel 


')  Quel  che  almeno  a  me  più  apiace  in  Ragioni  metriche  è  tutta  quella  gran- 
diosità di  ricordi  romani,  così  altamente  rivissuta  ed  espressa  dal  nostro  poeta 
nelle  altre  odi  barbare,  e  questa  volta  scomodata  per  sciorinar  madrigali  a  nna  si- 
gnora, e  lasciamo  andare  ch'era  una  mima.  Vien  fatto  di  dire:  Ma  che  eroico  esa- 
metro !  Qui  non  ci  ha  che  fare  se  non  l'esametro  che  con  le  dita  leggiere  ed  esperte 
scandeva  il  Goethe  sulle  spalle  di  Faustina  palpitante  nell'amplesso.    Ma   non    si 


Il  Pentametro,  Ghirìunda  Albana  201 

'  pendere  '  detto  del  pentametro  non  debb.-!,  non  che  disdire,  convenire 
strettamente  alla  '  ghirlanda  albana  '  che  il  Carducci  aveva  nella  mente  e 
di  cui  egli  fece,  con  l'aderenza  immediata  del  costrutto  apposito  sostituito 
al  giro  comparativo,  tutt'una  cosa  col  pentametro.  Anzi,  pur  senza  confron- 
tare l'ultimo  verso  della  medesima  elegìola,  che  per  l'atteggiamento  ideale 
e  verbale  si  può  dir  veramente  gemello  del  verso  in  cui  il  pentametro  è 
assomigliato  a  ghirlanda  albana  («corona  aurea  di  stelle  fulga  l'asclepiadea  », 
dove  non  è  chi  non  veda,  che  all'esclepiadea  è  prestato  il  fulgore  perchè 
alla  fantasia  del  poeta  essa  si  è  convertita  in  uno  scintillante  diadema  stel- 
lare), pur  considerando,  dico,  la  cosa  in  se  stessa,  si  comprende  facilmente 
che  il  pentametro  può  pendere  solo  in  quanto  si  concreta  o,  se  si  vuole, 
si  materializza  in  una  ghirlanda,  che  dev'essere  dunque  tale  da  poter  pen- 
dere ossia  essere  appesa,  come  appuìito  sono  tutte  le  ghirlande,  se  già  non 
le  siano  ghirlande....  di  monti.  Provatevi  del  resto,  sforzandovi  di  astrarre 
dalla  violenza  che  fareste  al  metro,  a  incastrare  nel  verso  carducciano  un 
'  ghirlanda  dei  monti  Albani  '  oppure  un  '  simile  alla  ghirlanda  dei  monti 
Albani  ',  al  posto  della  serrata  apposizione,  e  ditemi  un  po'  se  la  stonatura 
con  «  pender  »  non  risalta  stridente. 

Solo  dunque  l'impressione  monca  di  chi  s'è  impigliato  nell'epiteto  di 
«  albana  »  che  vien  subito  dopo  alla  menzione  dell'  arce  capitolina,  prece- 
dendo di  poco  alla  menzione  dei  colli  preìiestini  (v.  10),  potè  far  pensare  a 
un'altra  particolarità  del  paesaggio  laziale  nascosta  in  quell'epiteto.  Ben  è 
vero  che  il  Ferrari  s'industria  insieme  di  torcere  a  suo  modo  il  senso  di 
tutto  il  distico  carducciano.  Ma  mi  perdoni  l'egregio  e  laborioso  commen- 
tatore, se  qui  non  mi  sento  di  seguirlo  in  que'  suoi  quasi  arzigogoli.  Pen- 
dere varrebbe  quanto  '  derivare  '  ì  II  pentametro  sarebbe  la  ghirlanda  del- 
l'esametro 9  E  chi  ci  si  raccapezza  più?  Il  fatto  è  che  nel  distico  «  pendere  * 
vuol  dire  proprio  pendere,  e  che  il  pentametro  vi  è  raffigurato  come  un  or- 
namento che  deve  scender  giù  dal  collo  della  formosissima  donna,  ossia 
come  un  omaggio  reso  alla  superba  bellezza  della  Mai  dal  poeta  sdegnoso 
dell'usata  poesia  e  vago  delle  forme  e  dei  fantasmi  antichi,  allo  stesso  modo 
che  prima  l'esametro  e  poi  l'alcaica  e  l'asclepiadea.  È  dunque  fuor  di  dubbio 
che  anche  con  la  sua  ghirlanda  il  Carducci  non  intese  nuU'altro  se  non 
proprio  una  ghirlanda.  Né  manca  negli  antichi  il  ricordo  di  ghirlande  al- 
bane.  Tali  furono  infatti  e  la  ghirlanda  di  cui  si  coronavano  i  generali  ro- 
mani che,  non  avendo  ottenuto  il  trionfo  solenne  per  la  Via  Sacra  al  Cam- 
pidoglio, si  consolavano  celebrando  il  così  detto   trionfo  albano   su   Monte 


deve  dimenticare  che  tutta  1'  intonazione  del  componimento  è  semiseria  ;  nel  qnal 
proposito  già  altra  volta  io  notai  la  bizzarria  di  quello  sfratto  iutimato  al  '  set- 
tenario vile  ' proprio  con  un  doppio  settenario.  E  non  sarebbe  inopportuno  in- 
dagare il  perchè  probabile  del  titolo  stesso  Ragioni  metriche  che,  o  io  m' inganno, 
non  risalta  assai  chiaro  dalla  poesia  ;  ma  di  ciò,  se  mai  altrove,  o,  meglio,  altri 
più  informato. 


202  Adolfo  Oandifilio 


Cavo  {mons  Albanus),  e  quella  d'oro  in  foggia  di  ramoscelli  d'olivo  —  Al- 
bana dona,  come  dice  Stazio  gloriandosene  —  di  cui  poi  si  fregiarono  nei 
Quinquatri  albani  i  vincitori  delle  annuali  gare  poetiche  istituite  nella  sua 
villa  d'Alba  dall'imperatore  Domiziano.  Quale  poi  delle  due  il  Carducci 
abbia  avuto  in  mente,  può  sembrare  incerto  a  stabilire.  Che,  potendosi  cosi 
l'una  come  l'altra  contrapporre  a  ghirlanda  più  magnifica  e  più  celebre  — 
la  prima  alla  laurea  dei  giusti  trionfatori  e  la  seconda  a  quella  intrecciata 
di  fronde  di  quercia  degli  agoni  capitolini  — ,  possono  tutt'e  due  apparire 
adatte  del  pari  a  simboleggiare  la  minor  dignità  del  pentametro  rispetto  al- 
l'esametro. Ne  si.  vuol  negare  che  il  poeta  abbia  potuto  confondere  insieme 
l'una  e  l'altra  in  un  ricordo  vago.  Ma  chi  pon  mente  ch'egli  per  significare 
la  maestà  dell'esametro  è  già  ricorso  alle  immagini  delle  pompe  trionfali  su 
per  il  clivo  capitolino,  è  condotto  a  credere  che  nei  versi  successivi  sul 
pentametro  la  ghirlanda  albana  sia  proprio  quella  del  trionfo,  per  dir  così, 
di  consolazione,  cioè  della  cerimonia  che  riproduceva,  solo  con  meno  di  so- 
lennità e  di  gloria,  il  vero  trionfo,  a  quel  modo  che  il  pentametro  non  è 
se  non  un  esametro  minore  per  le  catalessi  che  raccorciano,  nel  mezzo  e 
nella  fine,  due  de'  sei  piedi  ond'esso  consta  come  l'esametro  ').  E  l'acco- 
stamento del  trionfo  minore  al  maggiore  è  tanto  più  naturale,  in  quanto  il 
Carducci  ne'  suoi  versi  ricorda  l'esametro  non  già  quale  forma  indipendente 
e  a  sé,  come  sembrano  credere  i  commentatori,  bensì  soltanto  qual  parte 
del  distico  elegiaco  ;  tant'  è  vero  che  ai  due  versi  antichi  è  contrapposto, 
delle  forme  metriche  nostrali,  il  solo  endecasillabo,  a  quel  modo  che  poi 
il  settenario  alla  strofe  alcaica  e  l'ottonario  alla  asclepliadea.  Inoltre  qual- 
cuno potrebbe  anche  ravvisare  una  tal  quale  maggior  convenienza  col  ca- 
rattere di  mollezza  che  anche  il  Carducci  attribuisce  al  pentametro,  nell'ac- 
cenno appunto  alla  ghirlanda  dei  trionfatori,  o  pseudotrionfatori,  albani, 
che  fu,  almeno  in  origine,  come  ci  è  attestato  da  Valerio  Massimo,  da  Plinio 
e  da  Feste,  di  fronde  di  mirto,  come  la  ghirlanda  ')  che  gli  ovanti  appen- 
devano nel  tempio  di  Giove  capitolino  —  e  non  è  forse  fuor  di  proposito 
ricordare  che  talvolta,  come  fece  Marco  Marcello  (Livio  XXVI,  21,  6),  i  ge- 
nerali romani,  prima  di  celebrar  l'ovazione,  trionfavano  appunto  nel  monte 
Albano.  Se  non  che  è  da  avvertire  che  nel  distico  carducciano,  che  secondo 
l'anteriore  redazione  stampata  sonava 

Da  l'arce  capitolina  del  bel  fidiaco  collo 
pender,  ghirlanda  albana,  il  pentametro  deve 


')  V.  per  questa  e  per  molte  altre  cose  la  bella  memoria  del  Ra.81  :  Ge»i«««  del 
pentametro  e  caratteri  del  pentametro  latino  In  Atti  del  Reale  Istituto  Veneto  di  icienze, 
lettere  ed  arti,  1911-912,  p.   1227  sgg. 

*)  Alle  vittorie  facili  e  incruente,  argomentava  Geluo  {N.  A.,  V,  6),  aptam 
esse  Veneris  frondem  crediderunt,  quod  non  Martiut  sed  quasi  Venerine  quidam  trinm- 
phus  foret. 


Il  Pentametro,  Ghirlanda  Albana  203 

«  molle  »  fu  aggiunto  solo  nelle  correzioni  posteriori  ')  :  aggiunta  del  resto 
veramente  felice,  anche  perchè  rinnova,  forse  inconsapevolmente,  l'epiteto 
con  cui  si  trova  congiunto  il  nome  di  '  pentametro  '  la  prima  volta  che 
questo  compare  in  iscrittore  greco,   voglio  dire  in  Ermesianatte  :    «  (laXaxoO 

7t£Via|iÌTpOU    ». 

Adolfo  Gandiglio. 


')  V.  lo  studio  geniale  di  G.  B.  Menegazzi  Su  le  oorreiioni  alle  odi  barbare, 
Aquila,  1900,  p.  62  (ripubblicato  dall'A.  uel  volume  La  nube  e  il  lampo,  Modena, 
1911).  Nel  distico  di  cui  ho  qui  trattato,  le  correzioni,  oltre  a  rimediare  ai  difetti 
iudicati  sottilmente,  come  sempre,  dal  Menegazzi  e  a  togliere  anche  il  cacemphaton 
'  fidiaco  collo  ',  attenuano  alcun  poco  la  conformità  di  andamento,  che  ho  più  so- 
pra notata  tra  il  pentametro  di  questo  distico  e  quello  del  distico  ultimo  della 
poesia,  e  che  nel  primo  getto  era  troppo  spiccata. 


UNA  NUOVA  EDIZIONE  DELLE  EPISTOLE  DI  SENECA 


'  Intelleyo,  Lucili,  itoti  emendavi  me  tantum,  sed  transfigurari '  Queste 

memorande  parole,  che  Lucio  Anneo  Seneca  scriveva  al  suo  giovane  amico 
dopo  d'essersi  ritirato  dalla  corte  di  Nerone  e  distaccato  '  non  tantum  ab 
hominibiis  sed  a  rebus  ',  non  intempestivamente  potremmo  immaginare  ora 
ripetute  in  altro  senso  dallo  spirito  di  lui,  cioè  a  proposito  della  novissima 
edizione  del  celebre  libro  al  quale  anch'esse  appartengono  {Hp.  1,  6)  :  o  tut- 
t'al  più  sarebbe  da  appuntare  loro  soltanto  una  lieve  iperbole,  del  genere 
di  quelle  onde  cosi  spesso  si  compiacque  l' immaginoso  scrittore  spagnolo. 
In  verità  non  difettavano  finora  buone  edizioni  dell'  Epistole  morali  di  Se- 
neca a  Lucilio  —  pregevolissima  sopra  le  altre  l'ultima  teubneriana  di  Otto 
Hense  —  grazie  all'antichità  e  alla  prestanza  dei  codici  adoperati  ed  in  pari 
tempo  alle  cure  intelligenti  di  più  generazioni  di  studiosi.  Ma  il  volume  che 
ora  annunziamo  ')  ci  presenta  il  testo  di  (juelle,  se  non  propriamente  tras- 
figurato, certo  molto  emendato  in  confronto  dell'edizioni  precedenti,  e 
reso  assai  più  sicuro  nella  lezione  di  molti  luoghi. 

Sia  lecito  in  questa  occasione  ripetere  un  motto  pindarico  :  5nav  eOpóvTo; 
spYov  {01.  XIII,  17).  Il  prof.  Achille  Beltrami  della  R.  Università  di  Ge- 
nova ha  avuto  la  fortuna  invidiabile  —  che  non  è  mai,  in  questi  casi,  la 
cieca  e  capricciosa  aùxofiaxEa  dei  Greci,  sì  piuttosto  la,  fortuna  respiciens  dei 
Romani,  benigna  a  chi  la  ricerchi  e  ne  sia  degno  —  d' imbattersi  in  un  co- 
dice di  antichità  ragguardevole  e  di  singolare  eccellenza,  indipendente  da 
quelli  già  conosciuti  e  non  mai  messo  a  profitto  per  alcuna  edizione  del- 
l'epistolario di  Seneca  ^).  Esso  si  conserva  nella  civica  Biblioteca  Queriniana 
di  Brescia,  colla  segnatura  B.  II.  6,  e  porta  il  numero  22  nella  serie  dei 
codici  da  essa  posseduti  di  scrittori  classici  latini,  dei  quali  lo  stesso  Bel- 
trami, nativo  appunto  di  quella  città,  diede  in  luce  un  accurato  indice  nel 
volume  XIV  degli  Studi  italiani  di  filologia  classica  di  Girolamo  Vitelli,  sin- 
golarmente benemeriti,  come  ognun  sa,  per  aver  resi  di  pubblica  ragione  in- 
dici e  cataloghi  di  manoscritti  greci  e  latini  esistenti  in  biblioteche  minori 
e  anche  maggiori  d'Italia.  Tra  i  quarantaquattro  codici  di  quella  silloge, 
provenienti  in  buona  parte  dal  lascito  del  famoso  cardinale  veneziano  An- 


')  L.  Annaei  Senecae  ad  Lucilium  Epistularum  moralium  libro»  I-XIII  ad  codi- 
cem  praecipue  Quirinianum  recensuit  Achillbs  Bkltrami.  —  Brixiae,  typis  P.  Apol- 
lonii  et  s.,   1916;  8°,  pp.  XLViii-402. 

*)  Ciò  può  spiegarsi  anche  col  fatto  che  il  catalogo  della  biblioteca  ne  asse- 
gnava erroneamente  la  data  al  secolo  decimoquarto. 


lina  nuova  edizione  delle  Epistole  di  Seneca  206 

gelo  Maria  Queriiii  (1680-1755),  che  fu  per  lunghi  anni  vescovo  di  Brescia, 
ve  ne  sono  taluni  di  qualche  pregio  e  non  trascurabili  dalla  critica,  quali 
due  o  tre  dell'  Epistole  di  Cicerone,  uno  del  JJe  agrìouUura  di  Palladio,  dei 
quali  notò  le  varianti  il  Beltranii  nella  sua  prefazione,  e  il  codice  di  Ca- 
tullo su  cui  ha  dissertato  recentemente  il  ch.mo  prof.  Ettore  Stampini,  ri- 
levandone l'importanza,  negli  J.*ft  della  B.  Accademia  delle  Scienze  di  To- 
rino (voi.  LI,  disp.  2"  e  3^,  1915-16).  Ma  il  vero  cimelio  è  senza  dubbio  il 
codice  che  contiene  le  Epistole  di  Seneca  fino  alla  120'  non  compiuta  (ter- 
mina infatti  colle  parole  meum  esse  [sic]  asperum  est  del  5  12,  e  mancano 
quindi  anche  le  ultime  quattro  epistole  a  compiere  il  ventesimo  libro),  e 
che  il  Beltrami,  dopo  averlo  fatto  oggetto  d'attento  studio  in  alcuni  arti- 
coli comparsi  sulla  Bivista  di  Filologia  e  d' Istruzione  Classica  (a.  XLI-XLII, 
1913-14),  giustamente  stimò  opportuno  di  togliere  a  fondamento  d'una  nuova 
recensione  del  testo.  Forse,  ove  si  fosse  conservato  l'ultimo  quaderno  del 
codice,  dalla  cui  perdita  procede  la  già  indicata  lacuna,  una  qualche  nota 
sulla  fine,  secondo  l'uso,  avrebbe  fatto  conoscere,  non  solamente  quando  e 
come  e  donde  venisse  il  prezioso  libro  ad  arricchire  la  Queriniana,  ma  al- 
tresì a  quale  data  dovesse  ricondursi  l'origine  sua.  Tuttavia  i  caratteri  pa- 
leografici (cioè  la  scrittura  spesso  continua  o  quasi,  la  mistura,  in  essa,  di 
elementi  carolini  ed  insulari,  inoltre  la  forma  arcaica  di  alcune  lettere)  in- 
sieme con  più  altri  indizi,  diligentemente  esposti  dal  Beltrami  e  nei  citati 
articoli  e  nella  sua  Praefatio  elegantemente  scritta  ih  latino,  hanno  permesso 
di  stabilire  ch'esso  non  deve  ritenersi  posteriore  al  secolo  decimo  ;  e  forse 
anche  potrebbe  farsi  risalire  alla  seconda  metà  del  secolo  nono,  giusta  l'au- 
torevole opinione  di  esperti  paleografi  e  in  particolare  del  prof.  Carlo  Ci- 
polla, il  quale  ha  confermato,  d'altra  parte,  la  supposizione  fatta  dal  Bel- 
trami che  in  origine  esso  appartenesse  ai  codici  del  famoso  monastero  di 
San  Colombano  di  Bobbio. 

Non  pochi  altri  manoscritti  delle  Epìstole  di  Seneca  a  Lucilio  risalgono 
parimenti  ai  secoli  dell'alto  medio  evo  :  né  ciò  fa  meraviglia,  se  si  pensi 
alla  grande  popolarità  di  cui  godè,  per  ovvie  ragioni,  la  figura  e  l'opera 
di  Seneca  morale  presso  i  clerici  di  quel  tempo.  Sappiamo,  p.  es.,  da  un'an- 
tica cronaca  di  Montecassino  che  Desiderio  re  dei  Longobardi  ordinava 
espressamente  ai  monaci  di  trascrivere  gli  scritti  di  lui;  e  qualche  esem- 
plare di  questi  non  manca  mai  di  comparire  nei  cataloghi  di  antiche  biblio- 
teche claustrali.  Lo  scrittore  di  cui  Tertulliano  aveva  detto  Seneca  saepe 
noster  e  al  quale  conferiva  come  un'aureola  di  santità  il  carteggio  con  l'apo- 
stolo san  Paolo  —  ormai  da  gran  tempo  riconosciuto  apocrifo,  ma  al- 
lora non  sospettato  anche  in  grazia  degli  accenni  di  san  Girolamo  e  di  san- 
t'Agostino —  fu  tra  i  prosatori  antichi,  come  Virgilio  tra  i  poeti,  riverito 
e  ammirato  e  amato  dai  cristiani,  per  la  grande  conformità  colle  idee  e  coi 
sentimenti  da  loro  professati,  poco  meno  che  se  fosse  uno  dei  loro  santi 
padri.  Quella  sua  morale  fortificante,  non  solamente  alta  e  pura,  sì  anche 
ascetica  e  mistica,  che  insegna  a  fuggire  il  mondo  colle    sue   fallacie,    che 


206  Carlo  Laudi 


raccomanda  l'esame  di  coscienza  e  la  serena  contemplazione  della  morte, 
che  considera  milizia  sulla  terra  la  vita  dell'uomo,  temperando  di  caritate- 
vole indulgenza  l'austerità  della  virtù  stoica,  e  proclama  vera  patria  il  cielo, 
e  nel  servire  a  Dio  pone  l' intima  essenza  della  libertà  e  della  felicità  umana, 
spesso  in  modo  da  ricordare  le  pagine  più  sublimi  delle  Confessioni  di  san- 
t'Agostino e  del  Pensieri  del  Pascal,  doveva  necessariamente  fare  profonda 
impressione  su  quegli  spiriti  credenti  e  riuscir  loro  bene  accetta  e  ritrovare 
tra  essi  ammiratori  fervidi  e  devoti  ;  press'a  poco  com'era  avvenuto  nello 
stesso  primo  secolo,  allorché  Quintiliano  si  doleva  ch'egli  fosse  quasi  1'  u- 
nico  autore  che  andasse  per  le  mani  dei  giovani  (/.  O.  X  1,  125).  Ma  basti 
di  ciò,  anche  perchè  i  lettori  di  questo  BuUettino  certamente  ricordano  la 
finissima  analisi  che  Vincenzo  Ussani  presentò  loro,  tre  anni  addietro,  della 
figura  morale  del  cordovese  lumeggiando  nella  loro  importanza  storica  il 
pensiero  e  gl'ideali  che  informano  le  scritture  di  lui  ').  Tra  le  quali,  senza 
dubbio,  principem  obtinent  loeum  i  venti  libri  delle  lettere  a  Lucilio,  vero 
capolavoro,  la  cui  lettura  affascina  e  incatena  anche  noi  moderni,  attratti 
non  meno  dalla  nobile  elevatezza  dei  fini  e  dall'abbondanza  e  varietà  dei 
soggetti  e  delle  osservazioni  psicologiche,  che  dal  calore  dei  convincimenti  e 
dall'efBcacia  mirabile  dello  stile  nervoso,  incisivo,  modernamente  spigliato. 
Tanto  più,  dunque,  dobbiamo  allietarci  della  scoperta  che  permette  di  re- 
stituire, per  buona  parte,  alla  nativa  purezza  il  testo  senecheo. 

Nel  Bumero  dei  manoscritti  che  ci  hanno  tramandato  questo  così  in- 
teressante epistolario  filosofico  il  codice  Queriniano  —  dal  nuovo  editore 
designato  colla  sigla  Q  —  eccelle  invero  per  molteplici  titoli.  Intanto  è  da 
avvertire  che,  mentre  la  più  antica  tradizione  manoscritta  dei  primi  tredici 
libri  (epp.  1-88),  com'è  noto,  si  presenta  interamente  distinta  da  quella  dei 
rimanenti  sette  (epp.  89-124),  e  soltanto  nei  manoscritti  del  secolo  duodecimo 
e  posteriori  si  trovano  riuniti  tutti  i  venti  libri  superstiti  (è  anche  noto  che 
Aulo  Gelilo  cita  alcuni  passi  d'un  ventiduesimo  libro),  invece  il  codice  bre- 
sciano comprende  l'intera  raccolta  delle  Epistole,  colla  sola  lacuna  sulla 
fine  di  cui  si  è  già  fatto  cenno.  Esso  è  insomma  l'unico  codice  antico  che 
tramandi  riuniti  ambedue  i  volumi  delle  Epistole:  fatto  che  non  solamente 
per  la  storia  del  testo  è  di  notevole  importanza. 

Inoltre  il  Queriniano,  mentre  offre  continue  e  talvolta  sorprendenti 
rassomiglianze  specialmente  con  l'autorevole  codice  Laurenziano  suo  contem- 
poraneo che  contiene  le  prime  65  epistole,  d'altra  parte  conferma  non  po- 
che lezioni  finora  conosciute  soltanto  da  codici  relativamente  recenti.  Citia- 
mone alcune  :  Ep.  74,  8  multas  habere  cupimus  maniis,  modo  in  liane  partem, 
modo  in  illam  respicimus  (le  parole  modo  in  hanc  partem  mancano  nei  mi- 
gliori mss.);  —  Ep.  81,  21  nemo  sibi  gratus  est,  qui  alteri  non  fuit.  Hoc 
me  putas  dicere  :  qui  ingratus  est  miser  erit  ?  (anche  qui  i  codici  migliori  omet- 
tono le  parole  da  qui  alteri   a    ingratus  est)  ;  -    Ep.   83,   2   quid  facturi  si- 


1)  V.   UssAJJi,   Seneca,  in  Atene  e  Roma,  a.  XVI,  1913,  pp.   1  ss.,   84  ss. 


Una  nuova  edisione  delle  epistole  di  Seneca  207 

mus  cogitamtis,  et  id  raro  ;  quid  fecerimus,  non  eogitamus  (nei  codd.  migliori 
le  sole  prime  quattro  parole).  Analogamente  in  più  altri  luoghi.  Da  ciò 
apparisce  quanto  fosse  nel  vero  Otto  Hense  accordando  ricetto  nella  propria 
edizione  ad  alquante  lezioni  dei  codici  cosiddetti  deteriori  (indicati  colla 
solita  sigla  s),  e  facendo  voti  che  potessero  un  giorno  venir  convalidate 
dall'autorità  di  qualche  codice  più  antico. 

Ma  soprattutto  Q  va  segnalato  per  una  cospicua  suppellettile  di  lezioni 
interamente  nuove,  le  quali  ristabiliscono  in  modo  definitivo  varii  luoghi 
o  mutili  o  guasti,  talora  avvalorando  congetture  proposte  dai  dotti.  Tale  è, 
ad  esempio,  il  caso  di  Ep.  7,  5  plagis  agatur  (così  già  il  Rossbach)  ;  — 
Ep.  42,  2  nequitia  est  (Hense);  —  Ep.  70,  15  possimus  (Erasmo);  —  Ep.  71, 
21  iacere  in  convivio  makim  est,  lacere  in  eeuleo  bonum  est  (Wolters)  ;  — 
Ep.  87,  13  His  respondebimiis  (Koch).  Più  notevoli  i  seguenti  supplementi, 
indicati  dalle  parole  spazieggiate:  Ep.  71,  7  Hoc  nemo  praestabit  nisi  qui 
omnia  prior  ipse  {priori  se  Q)  contetnpserit,  nisi  qui  omnia  exaequaverit ; 
—  Ep.  72,  3  Non  cum  vacaveris,  philosophandum  est,  sed  ut  philosopheris 
vacandum  est;  ■ —  Ep.  76,  20  inventus  est,  qui  divitias  proiceret, 
inventus  est,  qui  flammis  manus  imponeret  ;  —  Ep.  82,  11  laudatur  non 
exilium,  sed  ille  Butilius,  qui  fortiore  vultu  in  exilium  Ut  quam  mi- 
sisset ;  —  Ep.  87,  26  si  aurum  ex  urna  sustuleris,  non  ideo  sustuleris  , 
quia  illic  et  vipera  est.  Ognun  vede  quanto  si  avvantaggi  il  testo  per  simili 
restituzioni,  s*gnatamente  quando  si  tratti  di  colmare  lacune  dovute  per  lo 
più  all'  Iwmoeoteleuton ,  talvolta  nemmeno  sospettate  dai  critici. 

Riconosciuta  pertanto  la  condizione  di  primato  in  cui  si  trova  il  codice 
Q  rispetto  agli  altri  dell'  Epistole  di  Seneca,  era  legittimo  ch'esso  venisse 
tolto  a  principale  fondamento  d'una  nuova  recensione,  come  ha  fatto  il 
Beltrami.  Il  quale,  dal  canto  suo,  ha  saputo  assolvere  l'ufficio  di  editore 
con  la  più  scrupolosa  coscienziosità  e  con  illuminata  sagacia,  apportando 
notevoli  contributi  all'emendazione  (prese  le  mosse  più  e  più  volte,  ma  non 
sempre,  dai  dati  di  Q)  ed  anche  all'ermeneutica  mediante  la  discussione  di 
molti  passi  nell'apparato  critico  a  pie  di  pagina,  discussione  forzatamente 
contenuta  nei  limiti  della  più  ristretta  brevità,  ma  sempre  lucida  e  succosa 
e  generalmente,  crediamo,  tale  da  doversi  consentire  nelle  sue  conclusioni  '). 
In  complesso,  come  risulta  dall'  Index  finale,  sono  oltre  400  le  varianti  della 
nuova  edizione  dall'ultima  del  Hense:  benché  sia  palese  che  il  Beltrami  ha 
studiosamente  cercato  di  attenersi    fedele  al  principio  di   preferire  ad  ogni 


')  Indichiamo  qui  alcune  delle  congetture  del  B.  stesso,  accolte  nel  testo,  a 
giudizio  nostro  più  probabili  :  Ep.  1,  5  Da  hominem  moderatum  :  eat  est  (con  lieve 
modificazione  delle  parole  de  komine  moderato,  che  solo  Q  interpone  tra  superesl  e 
sat  eat)  ;  3,  1  privo  (inv.  di  priore)  ;  15,  8  media  oris  ini  habeat  ;  20,  11  Neo  ego, 
Epicuree,  an  gulosus  iste  pauper  ;  22,  11  honesia  libi  suadebunt  ;  45,  2  vellem —  non 
magin  contilinm  tiiihi  ;  73,  6  nihil  in  meum  honorem  diseriptio  sit  ;  74,  33  quemadmo- 
dum  in  corporibws  insigua  languoris  [om.  signa]  praecun-unt  ;   86,  14  «idi  illi  arborum 


208  Oarh  Laudi 


congettura  la  lezione  del  suo  e  degli  altri  codici  optimae  notae.  Forse,  in 
alcuni  luoghi,  taluno  accondiscenderebbe  più  volentieri  alla  critica  conget- 
turale ;  a  me,  p.  es.,  pare  che  in  Ep.  59,  2  l'emendamento  proposto  dal 
Constans  sui»  bonie' viribitsque  fidentes  (in  Mélanges  Boissier,  Parigi  1903, 
p.  134)  sia  preferibile  alla  lezione  tradizionale  suis  boni»  veriaque  fidente»'). 
Ma  in  generale  è  commendevole  la  prudenza  del  Beltrami,  sorretta  dalla 
sua  molta  perizia  della  lingua  e  dello  stile  di  Seneca. 

Adornano  il  volume,  impresso  con  degna  eleganza  e  nitidezza  di  tipi, 
quattro  tavole  riproducenti  in  fototipia  altrettante  pagine  del  codice,  sia 
come  saggio  della  scrittura,  sia  come  testimonianza  di  lezioni  nuove  e  par- 
ticolarmente importanti. 

Mentre  attendiamo  con  vivo  desiderio  il  compimento  dell'opera  così 
lodevolmente  assuntasi  dal  Beltrami  e  condotta  innanzi  a  prezzo  di  lunghe 
e  gravi  fatiche,  delle  quali  è  visibile  la  traccia  in  ogni  pagina  del  volume, 
non  sembri  inopportuno  dar  luogo  qui  ad  un'avvertenza  d'indole  generale, 
suggerita  dall'occasione  stessa.  Si  è  fatto  un  gran  parlare  in  Italia,  nel  vol- 
gere degli  ultimi  tempi,  per  ragioni  troppo  ovvie  e  troppo  note  perchè  oc- 
corra ripeterle  qui,  della  convenienza  di  sostituire  edizioni  nostrane  dei 
classici  greci  e  latini  a  quelle  che  ci  solevano  venire  d'oltralpe,  segnatamente 
per  l'uso  scolastico  :  e  diverse  iniziative,  forse  anche  più  numerose  che  non 
fosse  desiderabile,  sono  già  state  o  avviate  o  annunziate  a  tal  fine.  Ma  giu- 
stamente ebbe  ad  ammonire,  a  scanso  di  pericolose  illusioni,  una  voce  auto- 


triinum  et  quadrivmm  fastidienti  fructus  fruciua  autumno  deponere —  Più  spesso  l'edi- 
tore aocenua  iu  nota  all'emendazione,  come  nei  luoghi  seguenti:  Ep.  5,  4,;  13,  13; 
15,  4  ;  21,  10  ;  33,  5  ;  48,  8  ;  54,  6  ;  58,  31  ;  59,  16  ;  69,  4  ;  74,  9.  Nel  luogo 
difficile  e  controverso  di  Ep.  68,  11  (p.  236,  10)  ha  fatto  bene  il  B.,  come  altrove, 
a  ritornare  alla  vulgata,  leggendo  e  interpretando  cuius  turbae  (  =  i«,  cui  in  turba) 
par  esse  non  possum,  plus  habet  (subaudi  fateor)  gratiae  ;  se  non  che  a  quel  cuiu» 
turbae,  dato  da  Q,  sembra  preferibile  la  lezione  del  cod.  p  citi  in  turba. 

')  Sia  lecito  qui  riferire  qualche  osservazioncella  affacciatamisi  nel  leggere. 
A  Ep.  54,  7  (p.  174,  17  s.)  dice  Seneca  della  propria  impassibilità  dinanzi  al  pen- 
siero della  morte  prossima  :  '  non  trepidabo  ad  extrema,  iam  praeparatus  sum,  nihil 
cogito  de  die  tato  '.  Quest'ultimo  epiteto  poco  soddisfa  (se  non  s'  ha  da  intendere  '  il 
giorno  senza  notte  ',  come  totum  diem  in  Ep.  79,  12,  p.  307,  24)  e  il  Koch  pro- 
poneva de  die  ultimo  :  forse  de  die  noto  ?  —  Ep.  58,  17  (p.  188,  23)  '  Quid  ergo 
hoc  est  f  '  {homo  est  f  Q).  Il  dubbio  espresso  in  nota  dal  B.,  an  homo  poetice  prò  iste 
soripserit  Seneca,  —  forse  pensando  alla  menzione  che  precede  di  Omero  —  sembra 
doversi  escludere  :  con  hoc  si  allude  certamente  al  secondo  signi  Acato  di  xò  òv  se- 
condo Platone,  e  la  risposta  è  '  deus  scilicet  maior  et  potentior  cunctis  '  (il  demiurgo 
platonico).  —  Ep.  71,  14  (p.  250,21):  invece  di  speraret  forse  meglio  spectaretl 
—  Ep.  88,  39  (p.  381,  11  s.)  '  annales  ecolvam  omnium  gentium  et  quis  primus  car- 
mina scripserit  quaeram  ?  '  Manca  quaeram  in  Q  e  a  ragione  dubita  il  B.  n«m  ^>Mt- 
riniani  scriptura  retineri  possit,  et  omisso  ante  quis,  che  sarebbe  quindi  in  dipen- 
denza da  annales  evolvam.  Invece  di  espungere  et,  sarà  da  correggere  ecquis  (et. 
Ep.  7,  12)? 


Una  nriova  edizione  delle  Epistole  di  Seneca  209 

revole  molto  familiare  e  cara  ai  lettori  di  Atene  e  Roma  che,  se  è  relati- 
vamente facile  cosa  provvedere  ai  bisogni  della  scuola  in  modo  da  eman- 
ciparsi dalla  servitù  forestiera,  non  sarà  altrettanto  facile  compiere  ojjera 
lodevole  e  fruttuosa  in  questo  stesso  campo,  e  soprattutto  degna  del  nome 
italiano,  ove  non  si  pensi  sul  serio  anche  da  noi  a  preparare  edizioni  scien- 
tifiche e  critiche  dei  classici:  incominciando,  com'è  naturale,  dal  compul- 
sare e  collazionare  membrane  e  stampe  antiche  e  non  rifuggendo  da  ogni 
cura  necessaria  all'  intento  con  la  dovuta  preparazione  metodica.  La  possi- 
bilità di  far  questo,  come  si  vede,  non  manca  :  perchè,  se  non  altro,  i  te- 
nsori giacenti  nelle  nostre  biblioteche,  specialmente  nelle  minori,  sono  ben 
lungi  dall'essere  conosciuti  e  studiati  a  dovere.  Rara  fortuna  sarà  1'  incon- 
trarsi in  codici  così  importanti  come  il  Queriniano  di  Seneca  o  come  l' le- 
sino delle  opere  minori  di  Tacito,  fatto  conoscere  poco  fa  dall' Annibaldi  ; 
ma  che  qualche  frutto  possa  ricavarsi  talvolta  anche  da  materiale  mano- 
scritto d'età  più  recente,  per  avventura  trascurato  o  mal  noto,  lo  conferma 
ciò  che  fu  riferito  innanzi.  Ad  ogni  modo  ognuno  vorrà  aderire,  crediamo, 
■&1  voto  testé  formulato  dal  prof.  Ettore  Stampini  nel  presentare  appunto 
il  volume  di  cui  parliamo  all'Accademia  delle  Scienze  di  Torino  ')  :  cioè 
■che  «  in  Italia  non  si  metta  mano  a  pubblicare  testi  così  detti  critici  dei 
classici  greci  e  latini,  se  non  per  dare  edizioni  in  cui  sia,  come  in  questa 
■del  Beltrami,  anche  se  in  proporzioni  più  modeste  e  ristrette,  il  risultato 
di  un  lavoro  proprio,  di  ricerche,  confronti,  congetture  proprie,  che  non 
siano  già,  per  contriirio,  semplici  riproduzioni,  come  pur  troppo  è  già  av- 
venuto, di  edizioni  straniere,  con  pochissima  o  anche  nessuna  traccia  di  un 
vero  nuovo  lavoro  personale  e  con  poco  decoro  degli  studi  italiani». 

Del  pari,  e  per  la  stessa  ragione,  ognuno  vorrà  tributare  un  ben  meri- 
tato plauso  alla  preclara  munificenza  dell'  Ateneo  Bresciano,  che  volle  as- 
sumersi le  spese  della  costosa  pubblicazione  :  il  cui  apparire  «  in  Italia  nel- 
l'anno di  guerra  non  è  senza  fato,  mentre  si  combatte  una  lotta  ispirata 
alle  più  alte  speranze  di  vittoria  latina  »,  come  scriveva  l'anonimo  recen- 
sore di  un  giornale  milanese  '),  dando  lode  ad  Achille  Beltrami  d'avere  col 
suo  Seneca  Queriniano  «  fatta  magnificamente  opera  d' italiano  non  meno 
che  di  filologo  »,  e  aggiungendo  che  «  l'opera  si  integra,  in  questo  signi- 
ficato, del  nome  di  Brescia  :  di  Brescia,  sentinella  d'  Italia  oggi  più  che 
mai,  che  sa  dare  armi  per  la  guerra  latina,  danaro  per  un'opera  romana, 
e  animo  e  fede  pari  all'uno  e  all'altro  compito  ».  Generose  parole  che  non 
dispiacerà  certo  veder  qui  registrate.  All'Ateneo  Bresciano  fu  quindi  degna- 
mente dedicata  dal  Beltrami  questa  sua  nobile  e  memorabile  fatica,  dalla 
quale  ridonderà  onore  all'uno  e  all'altro  con  soddisfazione  degli  studiosi  e 
in  particolar  modo  degli  amatori  di  Seneca. 

Carlo  Landi. 


1)  V.   Boll.    Uff.   d.   Min.  d.   P.  /.,  a.  XLIII,   1916,  v.  II,  p.   1179. 
')   Corriere  della  Sera,    li   Giugno   1916. 
Atene  e  Jioma. 


210  Recensioni 


Luciano.  Il  Peccatore  e  alcuni  dialoghi  dei  morti  commentati  da  Ferruccio  Ca- 
LONOHi  (Graecia  Capta  IX).  Palermo,  Saiidron  (».  d.  ma  1916).  pp.  iii-214. 
L.   1,90. 

Non'  sarà  mai  abbastanza  lodata  la  tendenza,  che  qui  in  Italia,  dove  forse  i 
maestri  delle  scuole  medie  sono  meno  legati  da  un  canone  imposto,  si  fa  ormai 
strada  più  che  in  ogni  altro  paese,  ad  allargare  la  cerchia  delle  letture  scolastiche;^ 
ne  consegue  un  gran  bene  sia  per  i  maestri  sia  per  gli  scolari  :  <iuelli  non  smus- 
sano lo  spirito,  come  capita  a  chi  sia  obbligato  a  leggere  e  spiegare  sempre  lo 
stesso  libro  ;  questi  ricevono  un  insegnamento  più  vivo  e  piti  fresco.  Il  commenta 
del  Calonghi  al  Pescatore  non  ha  antecessori  né  tra  noi  né,  si  può  dire,  altrove  r 
va  data  lode  della  scelta  all'autore,  che  il  Pescatore  è  tra  le  operette  di  Luciano- 
una  delle  più  briose,  e  del  modo  seguito  nel  commentare.  Il  Calonghi,  postosi  di- 
nanzi al  suo  testo,  ha  domandato  con  tntta  sincerità  a  se  stesso  che  cosa  potesse 
a  prima  giunta  far  difficoltà  a  un  lettore  provetto  come  lui  e  che  cosa  a  un  prin- 
cipiante, come  sono  gli  scolari  a  cui  il  libro  è  destinato,  e  non  ha  cessato  dal  ri- 
cercare, sinché  non  ha  trovato  risposta  alle  une  e  alle  altre  domande.  Il  contri- 
buto, dunque,  di  lavoro  personale  è  qui  molto  maggiore  che  non  soglia  nei  com- 
menti a  testi  più  letti,  per  lo  più  compilazioni,  non  sempre  fatte  con  gusto,  da- 
altri  commenti  scritti  por  iscuole  spesso  di  altro  paese.  Qui  non  è  così  :  l'esegesi 
del  Calonghi  ha  il  pregio  dell'  immediatezza.  È  da  approvare  la  molta  cura  che 
egli  mette  nel  rilevare  il  nesso  dei  pensieri,  inconsueta  nei  commenti  scolastici,  e^ 
come  chi  scrive,  sa  per  triste  esperienza,  anche  nella  scuola,  dove  spesso  si  spiega 
ogni  capitolo  per  sé,  ogni  frase  per  sé  senza  pensare  al  complesso.  Nel  Calonghi- 
abbonda  il  senso  per  l'humour,  che  anima  la  prosa  lucianea,  sicché  gli  scherzi  non 
trovano  mai  in  Ini  un  esegeta  pedantesco,  ma  un  interprete  che  ne  penetra  sem- 
pre lo  spìrito.  Vivo  é  in  lui  anche  il  senso  di  ciò  che  nel  modo  di  esprimersi  di 
Luciano  é  meno  ovvio,  e  parr.à  agli  scolari  anche  meno  di  qnel  che  sia:  in  questi 
casi  il  Calonghi  spiana  abilmente  la  via  al  giovane  lettore,  traducendo  lui  la  frase 
difficile  ma  in  modo  tale  ohe  gli  scolari  non  siano  dispensati  dal  rendersene  conto, 
solo  che  il  maestro  faccia  il  suo  dovere.  E  non  mancano  accenni  o  alla  gramma- 
tica scolastica  o  al  modo  più  comune  di  esprimere  quello  stesso  pensiero,  che  li 
agevolino  in  tale  lavoro.  Non  mi  par  da  biasimare  che  il  Calonghi  non  rifugga 
talvolta  dall' indicare  quale  presente  corrisponda  a  una  forma  verbale  un  po'  dif- 
ficile del  suo  testo  :  gli  scolari  rimangono  scolari,  e,  se  non  si  sentono  un  po'  aiu- 
tati, si  disgustano  della  fatica. 

Sia  consentita  qualche  osservazione  ad  alcuni  passi  :  cap.  3  vùv  oOv  sxaxi  frj- 
[locTtBV  XTEVSITS  (is.  Il  C.  osscrva  che  queste  parole  sono  tratte  pure  (cioè  come  le 
precedenti,  poste  in  bocca  a  Platone)  da  un  passo  di  Euripide  a  noi  sconoscinto. 
Lo  scolaro,  che  é  sempre  ignaro  di  metrica  e  che  non  può  accorgersi  che  Ixaxi  è 
poetico  si  domanderà,  come  mai  si  sappia  ciò  ;  forse  occorreva  dir  chiaro  che  quelle 
parole  formano  un  trimetro  e  richiamarsi  a  quelle  che  subito  seguono  e  che  pro- 
vano doversi  esse  attribuire  ad  Euripide.  Nella  pagina  seguente  il  C.  dice  che  ad 
Aristotele  «  si  attribuisce  il  detto  proverbiale  :  «  Amicus  Plato  sed  magis  amica  re- 
ritae  ».  Non  solo  gli  attribuisce,  ma  è  suo,  o  almeno  quell'apoftegma  riproduce  in 
forma  più  arguta  quel  che  il  filosofo  aveva  detto  nel  primo  libro  dell'etica  nico- 
machea,  dove  confessa  che  gli  riesce  grave  di  polemizzare  contro   la   teoria   delle- 


Recensioni  211 


idee  5ià  xò  cpfXouj  av5paj  EÌoa^afeiv  xà  Et8v].  Ma  bì  ripiglia  soggiungendo  che,  per 
KiUvare  la  verità,  bisogna  sobbarcarsi  anche  a  ([iiesto  :  perchè,  essendo  tutt' e  due 
cari,  la  verità  e  l'amico,  si  deve  aver  più  riguardo  a  <)uella  :  àficpotv  yàp  ovxotv 
cptXoiv  òoiov  ;tpoxi|iàv  xrjv  àXi^S-eiav.  Al  principio  del  cap.  7,  dove  Luciano  si  fa  rim- 
proverare da  Platone  di  aver  parlato  a  ino'  de'  retori,  non  sarebbe  forse  stato  inop- 
portuno di  mettere  in  luce  che  il  Socrate  dei  dialoghi  platonici  deve  spesso  far  fronte 
Il  lunghe  tirate  dei  sofisti,  stanchi  della  lentezza  del  procedimento  per  domanda 
e  risposta,  coscienti  di  quanto  in  esso  fossero  inferiori  all'avversario  e  desiderosi 
di  far  figura.  L'osservazione  sarebbe  stata  bene  a  posto  anche  perchè  il  C.  poche 
righe  più  sotto  rileva  bene  come  Laciano  imiti  certe  particolarità  del  periodare 
platonico.  —  Non  direi  con  il  Calonghi  (cap.  7),  che  Socrate  «  è  <|ui  abbastanza 
ameno,  poiché  si  cura  del  giudizio  del  volgo,  cosa  che  nel  Critone  platonico  e  al- 
trove aveva  assai  biasimata  ».  Egli  aborre  per  sé  stessa  l'azione  ingiusta  di  pone 
uno  a  morte  senza  processo,  e  non  vuol  dare  giusta  ragione  —  che  la  parola  à^cpfiat. 
non  è  sempre  da  intendere  come  pretesto,  come  mostrano  anche  i  vocabolari  — 
;i  chi  voglia  biasimarlo  — . 

Al  cap.  29,  il  parlare  a  proposito  della  filosotìa,  di  un  porto  sicuro,  nel  quale 
chi  aspira  alla  felicità,  si  rifugia  sfuggendo  alle  burrasche  della  vita  attiva  pare  al 
C.  «  poetico  »  ;  certo  con  ragione,  ma  occorreva  aggiungere  che  Luciano  riproduce 
qui  il  tono  e  le  parole  non  di  poeti  ma  di  filosoti,  di  Epicuro  e  dei  suoi  in  ispe- 
cie,  che  non  si  stancano  mai  di  promettere  ai  loro  adepti  aectiruvi  portum.  —  Cap. 
45,  nella  bisaccia  del  cinico  si  trovano  oro  e  unguento  e  uno  specchio  e  dadi  e 
anche  un  coltelluccio  per  sacrifìci.  A  che  il  coltello?  Poiché  non  s'intende,  le  pa- 
role secondo  il  Fritzsche  e  il  Calonghi  «sono  da  espungersi  come  uno  scolio». 
Scolio  a  che?  Ed  espungere  parole  di  cui  non  s'intende  il  senso,  è  canone  critico 
pessimo.  Che  il  coltello  non  sia  nominato  dallo  scoliaste,  mostra  soltanto  che  egli 
rimaneva  imbarazzato  dinanzi  ad  esso  come  noi  moderni  ;  forse  serviva  a  tagliar 
via  la  carne  delle  vittime.  Per  i  Greci  del  periodo  classico,  che  si  nutrivano,  com'è 
noto,  di  pesce  e  vegetali,  il  sacrificio  era  l'occasione  unica  di  mangiar  carne  ;  il 
Cinico,  ghiotto  e  ladro,  staccav.a  un  pezzo  di  carne  e  se  lo  portava  via.  Altri  trovi 
di  meglio. 

Il  commento  contiene  moltissime  illustrazioni:  basta  che  sia  nominato  un  edi- 
ficio o  un  luogo,  perchè  una  vignetta  ce  lo  mostri  ;  basta  che  sia  nominato  un  fi- 
losofo, perchè  ne  sia  riprodotto  il  busto.  Qui  occorreva  notare  per  il  lettore  non 
pratico  che  almeno  di  Pitagora  noi  non  conosciamo  le  fattezze  vere,  che  il  busto 
non  riproduce  se  non  un  tipo  ideale.  E  in  genere  le  illustrazioni  non  paiono  di 
grande  utilità  ad  intendere  il  mondo  comico  creato  da  Luciano.  Ma,  poiché  esse 
possono  allettare  qualcuno  di  piìi  a  comprare  il  libro,  che  è  utile,  poiché,  bellis- 
sime come  sono,  non  ne  hanno  alzato  di  molto  il  prezzo,  ben  vengano  le  illustra- 
zioni ! 

L'  introduzione,  su  vita  e  scritti  di  Luciano,  è  garbata  :  il  buon  senso  con- 
genito impedisce  al  C.  dì  attribuire  all'umorista  intenti  troppo  profondi.  Il  suo 
giudizio  su  di  luì  mi  pare  ispirato  a  un  buon  senso  sovrano. 

Sulla  necessità  e  sull'utilità  dell'  appendice  critica  non  mi  arrischio  a  pronnn- 
eiarmi.  Essa  consiste  nel  confronto  minuto  dell'edizione  del  Jacobitz  con  quella 
del  Fritzsche.  Il  Calonghi  non  ci  fa  neppnr  grazia  delle  vocali  elise  o  scritte,  come 
se  questa  distinzione  importasse  altro  che  a  stabilire  le  predilezioni  personali  del- 
l'editore:  che  i  manoscritti  mostrano  come  tali  minuzie  dipendano  in  essi  solo  dal 


212  Recensioni 


capriccio  o  dall'istruzione  scolastica  dell'amannense,  e  le  epi^rati  fanuo  vedere 
come  gli  antichi  stessi  fossero  assai  Inconsegaenti.  E  poi,  a  chi  e  a  che  giova  con- 
frontare edizioni,  che  non  possono  avere  antorità  diplomaticaf  Non  certo  agli  sco- 
lari, e  i  professori,  se  si  vorranno  occupare  della  critica  di  Luciano,  dovranno  bene 
risalire  alle  lezioni  dei  mas.  Il  Calonghi  aggiunge,  è  vero,  spesso  le  ragioni  per 
cui  preferisce  una  lezione,  ma  non  sempre;  e  poi,  anche  queste  spiegazioni  hanno 
scarso  valore  per  chi  non  conosce  il  fondamento  critico  del  testo.  E  serve  men 
che  a  nulla  nominare  qua  e  là  la  sigla  di  un  nis.,  senza  informare  della  sua  au- 
torità e  delle  sue  relazioni  con  altri  codici. 

Il  commento  ai  Dialoghi  dei  Morti  sarà  certo  costato  al  Calonghi  meno  fatica 
«he  quello  al  Pescatore.  Quel  che  ne  ho  visto,  mi  pare  accorto  e  garbato.  Ed  è 
forse  bene  che  sia  aggiunta  al  Pescatore  nello  stesso  volume  una  scelta  abbondante 
dell'operetta  dì  Luciano  più  letta  nelle  scuole  :  forse  qualche  maestro  adotterà  il 
libro  quale  testo  per  i  dialoghi,  con  1'  intento  di  invogliare  lo  scolaro  a  leggere 
per  conto  suo  anche  l'altra  operetta.  Scolari  di  liceo,  che  leggono  volentieri  a  casa 
qualche  libro  divertente,  sia  pur  greco,  purché  qualcuno  alleggerisca  loro  la  fatica, 
«e  ne  trovano  lu  Italia,  sebbene  non  molti,  pure  piti  che  non  credano  i  pessimisti  ; 
il  volume  del  Calonghi  si  può  raccomandare  con  piena  coscienza  per  uso  degli  sco- 
lari e  di  chiunque  voglia  leggere  un'  operetta  di  Luciano. 

Giorgio  Pasquali. 

HORAT.  epist.  II,   1,  256. 

«  Se  avessi  tanta  potenza  d'ingegno  quanto  desiderio,  piuttosto  che  com- 
porre sermoni  che  radon  la  terra,  canterei  le  guerre  vinte  sotto  i  tuoi  auspici  e  il 
Oiano  chiuso 

«(  /ormidatam  Parthi»  te  principe  llomam  >. 

Il  verso,  singolare  nel  ritmo  perchè  composto  tutto,  fuorché  nel  quinto  piede,  di 
spondei,  per  questo  rispetto  e  per  la  costruzione  sintattica  e  per  la  distribuzione 
■delle  parole  nel  metro  è  il  perfetto  gemello  del  famigerato 

0  /ortunatam  natam  me  comtvle  liomam 

È  inverosimile  ohe  Orazio  abbia  preso  sul  serio  uu  carme  e  una  frase  che  tutti, 
anche  i  piti  zelanti  fautori  di  Cicerone,  erano  di  accordo  nel  deridere.  I  due  versi, 
■ognuno  con  un  solo  dattilo,  hanno  aspetto  arcaico,  che  non  si  accorda  coi  canoni 
di  arte  seguiti  da  Orazio.  Dunque,  tutt'  e  due  i  poeti  imitano  un  passo  celebre 
di  un  classico  ;  di  chi  se  non  di  Ennio  ?  Questi  ebbe  spesso  occasione  di  parlare 
■di  consoli.  Cicerone  lo  ammirò  assai,  tant'  è  vero  che  lo  cita  a  ogni  pie  .sospinto  ; 
Orazio  ne  ha  detto  spesso  male,  ma  in  quel  modo  in  cui  un  critico  fine  osa  muo- 
vere rimproveri  a  uno  scrittore  antico  celebre,  senza  che  intenda  di  metterne  in 
■dubbio  il  valore  e  1'  autorità.  Né  questa  é  la  sola  imitazione  enniana  in  Orazio. 

G.  P. 


P.  E.  Pavolini,  Direttore.  —  Giuseppe  Santini,  Gerente  responsabile. 
686^916    -  Firenze,  Tip.  Enrico  Ariani,  Via  Ghibellina.  51-53. 


I 


/^   n.     '^ 


Anno  XIX. 


Ottobre-Novembre  Dicembre  1916. 


N.  214-215-216 


AtENE  E  ROMA 


V 


V 


\)^ 


.o 


BULLETTINO  DELLA  SOCIETÀ  ITALIANA 


PER  LA  DIFFUSIONE  E  L'INCORAGGIAMENTO  DEGLI  STUDI  CLASSICI 
Sede  centrale:  FIRENZE,  Piazza  S.  Marco,    2 


Direzione  del  Bullettino 

Firenze  —  2,  Fiaua  8.  Uarco 


Alilionanunto  annuale. 
Un  fascicolo  Mparato  . 


i--  8  —  Amministrazione 

»   I  —    Tiale  Principe  Eugenio  29,  Firenze 


ROMA  E  GALLIA 

(A  proposito  di  un  1500°  anniversario) 


Il  22  settembre  del  410  è  giorno  che  non  dimenticano  gli  spiriti  i 
quali  vivono  in  istretta  comunione  con  Roma  :  in  una  cerchia  più 
larga  non  avrebbe  dovuto  passare  inosservato  quest'anno,  quando  ne  è 
ricorso  il  millesimo  cinqueccntesimo  anniversario,  mentre,  a  tanta  di- 
stanza di  tempo  per  noi  eflmeri,  la  città  immortale  come  la  Morte 
ritenta  le  vie  dell'antica  grandezza. 

In  quel  giorno  memorabile  nella  storia  della  poesia  latùia,  scor- 
tato dagli  amici,  giungeva  alle  porte  dell'  Urbe  un  uomo  che,  di 
origine  gallica,  aveva  in  Roma  percorsa  la  carriera  dei  pubblici  uiHci, 
pervenendo  nel  412  al  posto,  consjìicuo  in  corte  e  nel  governo,  di  tua- 
rjister  officiontm,  nel  411  a  quello  di  prarfcctiis  vrhis.  Egli  ci  racconta 
che  a  stento  potè  sciogliersi  dall'abbraccio  dell'amata  città  ;  che  prima 
di  lasciarla  ne  baciò  pili  volte  in  un  impeto  di  devozione  le  porte, 
che  dovè  far  forza  ai  suoi  piedi  reluttanti  perchè  varcassero  la  sacra 
soglia,  che  dell'abbandono  chiese  venia  fra  le  lacrime  alla  dea  Roma, 
e  le  sciolse  allora  quel  suo  inno  che  è  giunto  a  noi,  voce  insieme 
di  rammarico  e  di  fede,  dove  nell'alveo  sonoro  dei  distici  classici 
corre  1'  onda  lunare  di  un  sentimento  romantico. 

Perchè  dunque  Rutilio  Xamaziano  lasciava  Roma,  lasciava  l'Ita- 
lia ?  Ragioni  pratiche  sì,  ma  un  sentimento  anche  romantico  lo  ri- 
chiamavano in  patria  dopo  lunga  assenza  : 


Ma  la  fortuna  mia  vieu  da  le  amate 

Prode  divelta  :  de  la  Gallia  il  suolo 

Grida  a  '1  suo  cittadino.  Ahi  !   guerre  senza 

Tregua  gli  han  tolto  ogni  bellezza   —  è  vero  — 

Jla  più  deserto  egli  &,  piti  che  io  1'  adori, 


LUIGI  AL L: 


I. 


Atene  e  Roma, 


214  Vincenzo  Ussani 


Mi  è  forza.   Meno  il  biasimo  ti  morde, 
Se  a  la  tua  patria  volgi  tu  le  spalle 
Ne  i  dì  scevri  di  cure  :  a  i  giorni  invece 
De  la  sventura  pubblica  la  fede 
Non  può  sottrarsi  de  '1  privato.  Ondo  io 
A  i  tetti  de  i  miei  avi  oggi  l' offerta 
Debbo  de  le  mìe  lacrime  presenti. 
Utile  il  sacrificio  è  che  sì  compie 
Ove  il  duol  lo  sollecita.  Sarei 
Empio,  se  ancor  mi  nascondessi  i  danni 
Lunghi  che  il  mìo  tardar  moltiplicava 
Rinviando  i  soccorsi.  È  tempo  ornmi 
Per  le  terre  dolenti,  ondo  gì'  incendi 
Fòr  strazio,  alzar  mi.seri  alberghi  almeno 
Di  mandriani.  Oh  !  se  scioglicauo  i  mici 
Corbezzoli  la  lingua  e  le  fontane  ! 
Con  lor  giuste  rampogno  il  tardar  mio 
Afliettare  poteau,  poteano  a  '1  corso 
De  la  mia  nostalgia  tender  la  vela. 

Per  iuteudere  bene,  noi  dobbiamo  i-ii^uscitare  agli  occhi  della 
mente  no.stra  lo  stato  in  cui  ver.sava  la  Gallia  al  lìrincipio  del  secolo 
quinto.  Le  vittorie  di  Costantino,  di  Giuliano  l'Apostata,  dì  Teodo- 
sio il  Grande  avevano  reciso  più  volte,  ma  invano,  nel  secolo  quarto, 
le  teste  ingorde  dell'  idra  la  quale  .stringeva  nelle  sue  spire  minac 
ciose  r  impero.  Dalla  matrice  inesausta  della  barbarie  nuovi  orribili 
parti  di  armi  e  di  armati  ripullulavano  senza  posa  su  la  riva  sinistra 
del  Reno.  Orde  di  Suevi,  di  Vandali,  di  Burgundi,  di  Alani  passavano 
il  fiume  a  Magonza  nell'  ultimo  giorno  del  400.  Impotenti  a  tenere  il 
paese  e  a  stabilirvi  un  governo  stabile  e  sicuro,  gli  aggressori  furono 
forti  abbastanza  per  sjiargere  tra  le  Alpi,  i  Pirenei  e  rC)ceano  i  semi 
della  distruzione  e  della  morte  ^).  Ancora  S.  Girolamo  i)iangeva  i  segni 
di  quella  raffica  e  nel  412  i  Visigoti,  sotto  il  comando  di  Ataulfo,  sue 
cesso  ad  Alarico,  dall'  Italia  passavano  in  Gallia,  e  a  Xarbona  nel  414 
il  re  goto,  a  crescer  lustro  alla  sua  signoria,  sposava  la  mal  tolta 
Galla  Placidia,  la  bella  figliuola  di  Teodosio,  il  cui  nome  è  così 
strettamente  legato  alle  memorie  di  Ravenna  e  a  quelle  della  basilica 
Ostiense.  Ma  non  cessavano  per  questo  le  ostilità  più  o  meno  palesi, 
più  o  meno  latenti  con  l' impero,  le  quali  portarono  a  un  blocco  delle 
coste  galliche  che  costrinse  finalmente  i  barbari  a  sgombrare  il  paesi- 
passando  in  Spagna.  Successe  per  la  Gallia  un  periodo  di  relativa 
tranquillità. 


1)  Cfr.  S.  Girolamo,   Epist.  123,   IC. 


Boma  e  GalUa 


215 


Il  litoruo  duutiue  di  Kutilio  uei  suoi  paesi  avveniva  verameute  per 
carità  di  patria  dopo  un  decennio  di  terribili  lutti  per  i  Celtoromani. 
In  che  modo  questi  lutti  egli  abbia  tentato  di  consolare  e  di  riparare 
non  sappiamo.  Anzi  addii-ittura  non  sappiamo  più  nulla  di  lui,  se 
pure  egli  non  fa  una  persona  stessa  con  quel  Kutilio,  a  cui  è  dedicato 
Il  piagnone  {Qiicrulus),  commedia  gallolatina  di  salotto  imitata  dal 
plebeo  teatro  plautino. 


Koma  per  Rutilio  non  è  solo  città,  ma  dea.  Questa  deificazione, 
allora  comunemente  ricevuta,  dell'  T'rbe  è  propriamente  di  origine 
greco-orientale,  e  deve  forse  ricondursi  nella  sua  genesi  ultima  a 
queir  animismo  cui  si  devono  le  divine  personificazioni  e  i  culti  degli 
elementi  e  delle  forze  naturali.  Da  Koma-città  a  Roma-idea,  da 
Roma-idea  a  Roma-nume,  cui,  pare,  il  primo  tempio  fu  eretto  a 
Smirne  nel  195  a.  C.  E  questo  nume  acquista  nel  mondo  degli  dei, 
dinanzi  alla  devozione  venerabonda  degli  uomini,  consistenza  così 
solidamente  reale  che,  agli  inizi  dell'  impero.  Augusto  per  sentimento 
o  per  calcolo  non  accettava  si  alzassero  templi  intitolati  a  lui, 
se  non  fossero  nello  stesso  tempo  intitolati  anche  a  Roma.  As- 
sociato al  culto  imperiale,  il  nuovo  nume  finisce  per  associarsi 
addirittura  alla  dea  che  attraverso  Enea  suo  discendente  è  la  mi- 
tica fondatrice  dell'  impero.  All'  estremità  orientale  del  Foro,  sul 
versante  della  A'^elia  sorse  per  opera  di  Adriano  il  temi)io  di  Te- 
nere e  di  Roma.  ]\Ia  nella  fantasia  e  nella  devozione  del  popolo  fra  le 
due  divinità  Roma  è  la  dominante.  Nel  museo  del  Laterano  è  conser- 
vato un  bassorilievo  pertinente  al  mausoleo  degli  Haterii  che  figura 
r  accompagnamento  funebre  d'uno  di  loro.  Si  vedono  l'un  dopò 
l'altro  da  destra  a  sinistra  succedere  il  tempio  di  Giove  Statore, 
l'arco  di  Tito,  un  altro  arco  sormontato  da  una  quadriga,  il  Colosseo, 
un  altro  arco  ancora.  Sotto  le  volte  degli  archi  appaiono  gli  dei  i  cui 
templi  sono  nei  pressi  della  Via  Sacra,  e  lo  scultore  immagina  se  ne 
siano  scostati  ])er  assistere  ai  funerali.  Orbene,  sotto  l'arco  di  Tito 
il  tempio  di  Venere  e  Roma  è  rappresentato  da  una  sola  imma- 
gine, Roma. 

A  Roma  dea,  poiché  la  carità  di  lei  lotta  nella  sua  anima  dolente 
con  la  carità  della  patria,  si  rivolge  dunque  nell'ora  amara  della 
partenza  il  buon  amatore,  e  la  saluta  nume  turrito  come  le  dee  po- 
liadi  con  gli  epiteti  che  si  rivolgevano  alla  Gran  ^ladre,  la  Terra, 
madre  degli  nomini,  madre  degli  dei  ;  ne  paragona  i  benefici  con  quelli 


216  Viticenso  i'ssani 


che  sul  mondo  sj)ai'ge  la  divinità  paredra  della  Terra,  il  Hole  invitto, 
venuto  anche  esso  dall'Asia  madre  dei  numi  per  opera  di  Eliogabalo 
e  di  Aureliano.  Il  Sole,  il  "Sole  stesso  in  quei  tempi  di  enoteismo  solare 
sembra  famulo  di  Roma  al  poeta,  poiché  sorge  dai  suoi  dominii  e  tra- 
monta in  essi.  E,  come  la  Terra  e  come  il  Sole,  anche  Roma  comi)ie 
nell'economia  dell'universo  una  sua  funzione  provvidenziale  e  uni- 
versale : 

quanto  incontro  a  i  poli 

Avanzò  la  natura,  e  seminava 

La  vita,  tanto  a  '1  tuo  valor  la  terra 

S'  aperse.  Tu  di  nazioni  opposte 

Una  patria  facevi  e  fu  fortuna 

La  sua  sconfitta  a  chi  vivea  selvaggio. 

Che  il  tuo  regno  ne  venne  e  cifrivi  a  i  vinti 

Tu  1'  uso  eguale  de  le  leggi  espresse 

Da  '1  grembo  tuo,  foggiando  in  una  sola 

Città  quel  ch'era  un  mondo. 

E  fermiamoci  un  momento  qui.  al  famoso  urhem  fccisti  quod 
priìis  orììis  erat  ;  dove  gli  studiosi  della  tecnica  osservano  il  bisticcio 
verbale  tirbcm-orlìis  sapientemente  distribuito  nelle  due  parti  del  verso 
e  i  commentatori  eruditamente  ricordano  che  sotto  l' immagine  poe- 
tica è  adombrato  il  fatto  storico  della  concessione  della  cittadinanza 
romana  fatta  sotto  i  Severi  a  tutti  i  liberi,  abitanti  dell'  impero.  Ma 
è  evidente  che  bisticcio  verbale  e  allusione  sono  ali"  arte  come  il 
plinto  onde  si  slancia  alata  la  Vittoria.  L'uso  eguale  del  vroprium  iiis 
concesso  da  Roma  ai  conquistati  non  esaurisce  e  non  limita  la  sua 
opera  unificatrice  e  assimilatrice  del  mondo  ;  ma  ne  è  appena  un 
punto  più  appariscente  e,  quasi  direi,  il  suggello  esteriore  di  un 
agir  lento  che  investe  tutte  le  forme  materiali  e  sociali  della  vita  e 
culmina  nel  sentimento  :  onde  al  poeta  gallo  che  si  allontana  da 
Roma  per  nostalgia  della  patria  messa  a  ferro  e  a  fuoco  dalla  inva- 
sione barbarica,  per  un'  altra  nostalgia,  la  nostalgia  della  città 
madre,  tutto  il  cuore  duole  : 

Felice 
Io  vivrò  sopra  ogni  speranza,  quando 
Ti  degni  tu  di  ricordarmi,  o  eh'  io 
Debba  la  vita  mia  comporre  in  pace 
Ne  '1  suolo  de  i  mici  padri  o  che  sia  dato 
A  gli  occhi  miei  di  rivederti  ancora. 

Sono  queste  le  parole  con  le  quali  Rutilio  in  lacrime  chiude  il 
suo  commiato  dalla   città-dea   e  dagli  amici,   e  parte  alla  volta   di 


Boma  e  GalUa  217 


Ostia  (love  s' imbarclierù  pel  suo  paese  :  Ostia,  dove  —  egli  ricorda  — 
sbarcò  la  prima  volta  un  altro  sti-auiero,  Enea.  E  potrù  parere  ad 
alcuno  che  io  mi  sia  affrettato  troppo  a  congiuugere  principio  e  fine 
della  bellissima  prece  ;  ma  costui  risalga  al  testo  o  alle  sue  tradu- 
zioni').  Easti  qui  dire  che  gli  accenti  e  i  sensi  di  ammirazione  più 
viva  il  poeta  trova  e  prova  non  per  la  potenza  di  Roma,  ma  sì  per 
la  sua  originalità  e  per  la  sua  giustizia  :  per  la  sua  giustizia  onde  ella 

Giunse  a  le  vette  de  '1  poter,  scegliendo 
Giuste  cause  a  le  guerre  e  mite  in  pace 

per  la  sua  originalità —  scandolezza  tevi ,  o  detrattori  —  nell'arte,  dove 
ai  capilavori  del  miracolo  greco  pare  a  Rutilio  possano  ben  contrap- 
porsi quelle  opere  dell'architettura  romana  che  la  Grecia  celebi"e- 
rebbe  come  di  giganti  :  archi  trionfali  e  templi  e  acquedotti  e  terme 
e  portici  che  stringono  nelle  loro  braccia  interi  parchi  prigioni. 


Naturalmente  questi  sentimenti  non  erano  peculiari  di  Rutilio 
Xamaziano.  Essi  si  trovano  affermati  qua  e  là  sparsamente  in  un 
gran  numero  di  scrittori  che  ci  testimoniano  di  una  medesima  fede 
largamente  diffusa  e  professata.  La  romanità  sentita  come  equiva- 
lente di  ìimanità  è,  per  esempio,  in  un  poeta  di  opposti  cieli  venuto 
a  vivere  alla  medesima  corte  di  Onorio,  Claudio  Claudiano  : 

Questa  è  colei  che  sola  accolse  i  vinti 
Ne  '1  grembo  suo,  che  prodigò  le  sue 
Cure  a  ohi  porta  il  uome  d'  uomo,  madre 
Più  che  signora,  e  eittadiui  chiama 
Quei  che  domava,  e  strinse  in  amoroso 
Nodo  mondi  lontani.  A  i  sensi  suoi 
Pacifici  dee  1'  uom  che,  ove  straniero 
II  piede  ei  volga,  in  patria  sua  gli  sembri 
Vivere  *;. 


')  Una  mia  della  Preghiera  a  Roma  vide  la  luce  in  Atene  e  Roma  XII  col. 
247  e  sgg.  Se  dovessi  ristamparla  oggi,  scriverei  con  lettera  maiuscola  il  nome  del 
sole  le  due  volte  che  ricorre  alla  col.  247. 

')  Cfr.  De  land.  Stil.  Ili  150  e  sgg.  E  la  somiglianza  tra  i  due  poeti  si  cou- 
serva  così  stretta  nei  versi  seguenti  di  Claudiauo  che  il  nostro  Pascal  fu  indotto 
a  ravvisare  una  fonte  comune  ad  ambedue  nella  orazione  di  Elio  Aristide  Eìj 
'Pa)|jf»iv.  Piti  semplicemente  io  vorrei  dire  che  quei  sentimenti  religiosi  risalgono 
ai  tempi  del  celebre  sofista. 


218  Vincenzo  V ssani 


Quello  che  La  reso  celebre  e  ammirata  la  prece  del  22  settem- 
bre 41G  è  la  sua  concettosità  nobile  e  arguta,  più  ancora  il  mistico 
senso  sacerdotale  che  l'anima,  la  penetra,  la  trascende,  passa  inaffer- 
rabile dietro  i  veli  delle  parole  come  un'  acqua  cbe  fluisca  invisibile 
dietro  i  veli  dei  bosclii  in  una  notte  d'argento. 

Ma  la  commozione  di  chi  legge  quel  canto  profonda  sempre,  più 
profonda  è  quest'  oggi  se  chi  legge  ripensa  chi  fu  che  scrisse  :  un 
Gallo  cioè  che  era  stato  a  Roma  pracfcctus  iiflis  sotto  Onorio,  figlio 
di  un  altro  Gallo  che  fu  pure  a  sua  volta  gran  dignitario  di  corte  e 
prefetto  della  città  e  console.  Quando  poi  Lacanio,  così  si  chiamava 
il  padre  di  Rutilìo,  aveva  tenuto  il  governo  di  To.scana  e  Umbria, 
della  dolce  terra  aveva  portato  con  sé  incancellabile  il  ricordo.  2sè 
diversamente  di  lui  gli  amministrati  che  gli  avevano  alzato  nel  foro 
di  Pisa  una  statua  in  segno  di  mutuo  affetto  e  di  eterna  gratitudine 
e  si  stringevano  con  amoroso  zelo  intorno  a  Rutilio,  quando,  nella 
seconda  metà  di  ottobre,  nel  suo  viaggio  egli  fece  lina  lunga  sosta  là 
a  prendere  commiato  dalla  cara  immagine  paterna.  Non  siano  in- 
grati questi  ricordi  dell'autunno  416  millecinquecento  anni  dopo,  in 
quest'  autunno  del  1916. 

Se  la  Francia  cristiana  si  vantò  di  essere  la  figlia  primogenita 
della  Chiesa  romana,  Edui  ed  Arverni  si  vantarono  d'essere  fratelli 
e  consanguinei  del  pojiolo  Romano  '),  e  la  Gallia  i)agana  fu  veramente 
tra  le  provincie  dell'  impero  la  figlia  prediletta  e  la  fedele  di  Roma. 
La  storiografia  romantica  si  compiacque  certo  di  elevare  e  magni- 
ficare di  fronte  alhi  figura  di  Cesare  conquistatore  quella  di  Yercinge- 
torige  '  giovine  di  antica  famiglia  arverna,  caldo  patrioto,  inacces- 
sibile alle  seduzioni  '  e  deplorò  i  ti-entanovemila  duecento  Biturigi 
passati  per  la  spada  ad  Avarico,  1  capi  delle  tribù  flagellati  e  de- 
collati, le  mani  tronche  dei  prigionieri  ^),  mentre  poi  trovava  da  giusti- 
ficare i  conquistatori  d'America  che  '  molti  mali  apportarono  a  genti 
disgiunte  da  oceano  infinito,  ma  recarono  loro  pure  molte  comodità 
ed  utili  discipline  ed  arti  dilettevoli,  per  le  quali  dalla  vita  selvaggia 
si  ridussero  a  mansueti  costumi  "  ^)  :  tanto  valgono  il  partito  preso 
e  la  convinzione  religiosa  a  perturbare  e  sovvertire  i  giudizi  .anche  di 
nomini  probi  !  Ma  l' impero  romano  pareva  agli  occhi  dei  contempora- 
nei di  Cesare  come  la  conclusione  provvidenziale  della  storia  umana  ^) 


1)  Cfr.  Cesare  B.  G.  I  33,  Lucano  I  427  e  la  nota  del  Lej.w  arf  locwm. 
*)  Cfr.  Cantù,  Storia  degli  Italiani,  Napoli  1857,  toI.  I  p.  528-529. 
3)  Cfr.  P.  Verri,  Notti  romane,  Firenze  1837,  tomo  II  p.  287. 
*)  Cfr.  C.  JuLLiAN,  Histoire  (fé  la  Gaule,  IV  p.  7. 


Boma  e  Gallia  219 


k 


né  è  da  credere  che  la  inorale  di  conquista  praticata  dai  Romani 
fosse  più  sanguinosa  e  barbara  di  quella  che  praticavano  le  disperse 
tribù  galliche  in  continua  lotta  ira  loro\). 

Certo  è  che,  scoppiata  la  guerra  civile  tra  Pompeo  e  Cesare,  i 
Galli  ancor  sanguinanti  dalle  recenti  ferite,  non  colsero  l'occasione 
che  si  presentava  loro  quanto  mai  propizia,  della  rivolta  contro  Konia 
e  della  vendetta  contro  il  conquistatore  :  presero  invece  le  armi  per 
colui  che  li  aveva  domati.  Il  Julliau  da  me  di  sopra  citato  ne  investiga 
le  ragioni,  restando  insoddisfatto  della  ricei'ca  -).  Io  penso  che  la 
verità  è  forse  proprio  quella  indicata  da  un  altro  Francese,  che  cioè 
i  Galli  la  cui  facilità  ad  essere  assimilati  era  così  grande  da  aver  dato 
essi  origine  a  così  gran  numero  di  nazioni  meticcie  ^)  non  perderono 
ma  acquistarono  per  opera  di  Koma  la  coscienza  della  propria  unità 
nazionale''),  quando,  pacificato  il  paese,  le  così  dette  Tres  Oalliac 
formarono  una  unità  amministrativa  con  una  dieta  regionale,  con- 
vocata annualmente  in  Lione  Kalendis  Augustis  a  discutere  dei 
comuni  interessi,  e  il  capo  di  quest'  amministrazione  autonoma  cele- 
brava in  qualità  di  saccrdos  ad  templiim  Romae  et  Augusti  ad  con- 
fuentcs  Araris  et  Rhodatii  :  sacerdote  cioè  di  Augusto-Mercurio,  so- 
stituito nel  culto  al  dio  celtico  Lug^).  Che  il  dominio  romano  i)ur  cou 
le  sue  deviazioni  e  i  suoi  errori  non  abbia  in  Gallia  schiantato  le  po- 
polazioni indigene  dalle  radici  come  fecero  in  tanto  più  tarda  età  sotto 
altro  cielo  gli  scopritori  dell'America,  lo  dimostra  in  modo  eloquente 
la  caratteristica  dei  Celti  quale  ci  è  data  dall'antico  Catone  presso 
Carisio  <■')  :  pleraque  Gallia  diias  res  industriosissime  jyersequitur,  rem 
militarem  et  argute  loqiii,  il  mestiere  delle  armi  cioè  e  la  causerie  spi- 
rituelle,  precisamente  come  oggi,  dopo  non  solo  la  conquista  romana, 
ma  anclie  la  germanica.  Xel  medesimo  senso  parla  la  somiglianza  di 


')  S.  Girolamo  (ddr.  lovin.,  II,  7)  racconta  di  aver  visto  ancora  in  Gallia 
(Ielle  popolazioni  antropofaghe. 

2)  Cfr.  op.  cit.,  IV  p.   23. 

2)  Cfr.  JuLi.iAN,  op.  cit.,  I  p.   219. 

■•)  Cfr.  PicnoN,  Étiides  sur  Vhisloire  de  la  litli-ratnre  laiive  datis  les  Gaules 
(Les  deniiers  écrivaina  profanes),  p.  27.  Questa  osservazione  fa  cadere  seuz'  altro  il 
giudizio  del  Cai'kr  in  Palaestra  vltae  (p.  93  della  traduzione  del  nostro  Pavolini) 
che  addita  nei  Galli  di  Vercingetorige  gli  assertori  di  una  causa  nazionale. 

5)  Cfr.  LoTii,  Sevue  archeol.,  XXIV,  p.  226  sgg. 

'')  Cfr.  Kkil,  Gramm.  lai.,  I  p.  202.  Trattiiudosi  di  Catone  l'antico,  col 
JuLi.iAN  (Hieloire  de  la  Gaiile,  I  p.  346)  io  veggo  nelle  parole  di  Catone  una  ca- 
ratteristica dei  Celti  e  non,  come  fa  lo  Juxo  (Geographie  ìtnd  politische  Geschichte 
dee  Mass.   Jltei-tums  p.  521),  dei  Celtoromani. 


220  Vincenzo  Ussani  -  Eoma  e  Gallia 

lineameuti  notata  dagli  archeologi  tra  il  Gallo  che  uccide  sua  moglie, 
oggi  nel  Museo  delle  Terme  in  Roma,  e  i  moderni  Francesi. 

Premio  di  una  obbedienza  ormai  centenaria,  ai  Galloromani  primi 
fra  i  transalpini  fu  concesso  di  sedere  in  senato  e  nella  tavola  di 
bronzo  di  Lione  che  ci  ha  conservato  le  parole  onde  l' imperatore 
Claudio  confortava  la  sua  proposta  di  ammissione  dei  Galli  a  quel- 
l'assemblea di  re,  è  deposto  il  più  antico  attestato  della  loro  fede  :  '  Se 
qualcuno  fa  osservazione  a  ciò  che  per  dieci  anni  essi  guerreggiarono 
contro  il  divo  Giulio,  quegli  dovrebbe  pur  contrapporre  la  fede  incon- 
cussa di  cento  anni  e  la  devozione  più  che  sperimentata  in  molti 
nostri  diflacili  momenti  '.  E,  dopo  Claudio,  l' opera  assidua  di  roma- 
nizzauiento  veniva  assiduamente  proseguita  con  la  fondazione  di  co- 
lonie e  di  scuole,  tra  le  quali  già  prima  sotto  il  regno  di  Tiberio  era 
sorta  a  gran  fama  quella  diAutun,  poi  s'aprirono  quelle  di  Reims,  di 
Narbona,  di  Tolosa,  di  Bordeaux,  ma  soprattutto  con  un'  ammini- 
strazione benefica  e  provvida,  cui  rispondeva  da  parte  dei  governati 
un  ci'escente  lealismo.  Il  primo  taurobolio  di  rito  frigio  prò  salute 
prineipis  et  domus  Augustae  di  cui  sia  nota  a  noi  la  data,  fu  offerto 
alla  Gran  Madre  Idea  sul  Vaticano  di  Lione  il  9  decembre  ICO  col 
simbolico  sacrificio  del  montone  e  del  toro  per  la  salute  di  Antonino 
e  dei  suoi  figli  ^).  Il  terzo  secolo  fu  poi  secolo  di  guerre  civili  ed 
esterne;  ma  subito  dopo  quelle  devastazioni  si  volgono  amoro.se  alla 
Gallia  le  cure  degli  imperatori  del  secolo  quarto,  Costanzo  Cloro, 
Costantino,  Giuliano,  Graziano;  e  la  Gallia  la  quale  rifiorisce  sotto 
quelle  cure,  risponde  con  la  letteratura  dei  panegiristi,  che  sono  tutta 
o  quasi  l'eloquenza  pagana  di  quella  età,  così  poco  remota  dalla 
data  da  cui  abbiamo  preso  le  mosse,  del  22  settembre  416. 

Vincenzo  Ussani. 


')  Cfr.  Graillot,  Le  eulte  de  Cybèle,  p.  451. 


IL  '  REDITUS  AUGUSTI  '  DI  GIOVANNI  PASCOLI 


Nell'anno  24  a.  C,  dopo  un'aspra  guerra  col  fiero  popolo  dei 
Caatabri,  Angusto  tornava  in  Roma  vincitore;  tornava,  circon- 
fuso di  una  luce  di  gloriosa  leggeuda,  da  regioni  lontane,  dopo  una 
spedizione  lunga  e  difficile  durante  la  quale  il  popolo  aveva  trepi- 
dato per  la  salute  dell'imperatore.  E  la  folla  si  accalcava  gaia  e  fe- 
stante per  le  vie  di  Roma,  a  salutare  e  acclamare  il  reduce  trion- 
fatore. Il  poemetto  del  Pascoli,  cbe  ottenne  il  premio  aureo  nel  con- 
corso lioeufftiano  del  1897  e  fu  dall'autore  dedicato,  con  pensiero  di 
gratitudine,  a  Felice  Barnabei  «  antiquitatis  nostrae  litterate  peri- 
tus  ')  ■»,  ci  conduce  fin  dal  principio  in  mezzo  a  quella  moltitudine, 
rappresentandone  con  efficaci  scorci  e  con  brevi  tratti  dialogici  il 
vario  e  vivace  movimento,  facendo  spiccare  in  essa,  fin  dalle  prime 
parole,  la  figura  di  un  curioso  ed  arguto  osservatore,  di  Orazio 

«  'Q  Sso'i  caoos  ix'-^S-  ^1"'  quaiidoqno  extrah.ir  ?  heia 

hoc  ago  !  formicae  nnraeroque  inodoque  carentes.       (w.  1-2) 

Le  parole  e  le  immagini  di  uno  dei  più  geniali  idilli  teocritei.  Le 
Siracusane  ^),  rifioriscono  spontanee  sulle  labbra  del  dotto  poeta  di 
Venosa  cbe  in  mezzo  alla  folla  è  premuto  ed  urtato  da  ogni  parte 
e  riesce  a  stento  a  farsi  largo.  Accompagnato  da  un  servo,  egli  si 
avvia  con  gran  fatica  verso  il  foro 

per  piena  papello 
ojnuia,  per  plateas  pedibnsqne  rotisque  sonantes.       (vv.  9-10) 


')  Queste  parole  della  dedica  ne  richiamano  altre  che  si  leggono  nella  nota 
introduttiva  al  Carmen  Saeculare  in  Lyra',  Livorno,  Giusti,   1899,  p.  290. 

*)  Il  primo  verso  riferisce  nella  loro  forma  originale  alcune  parole  di  Teocrito  ; 
quello  che  seguono  souo  quasi  uua  traduzione  dei  due  vv.  44-45  dell'idillio  XV 
di  Teocrito 

Ttùij  xaì  TzÓY.a.  xoùio  nepiaai 

XpT]  TÒ  xaxóv  ;  jiópiiaxE?  àvo(pi5|ioi  xal  àjistpot. 

Atene  e  Roma,  2 


I 


222  Giuseppe  Frocacci 


L'ispirazione  teocritea  di  quella  che  potrebbe  dirsi  la  parte  intro- 
duttiva del  ijoemetto  (vv.  1-20)  è  evidente  e  il  Pascoli  stesso  ce 
l'attesta  in  una  nota  j)remessa  al  canne.  Ma  gli  elementi  derivanti 
dall'  idillio  di  Teocrito  sono  così  profondamente  rielaborati  e  quasi 
assorbiti  nella  concezione  del  poeta  nostro  che  le  frasi  di  Prassinoe  e 
della  vecchia  non  stuonano  affatto  in  bocca  ad  Orazio  né  ci  fanno 
1'  impressione  di  un  intarsio  sapiente  voluto  per  ostentare  una  certa 
preziosità  di  erudito;  anzi  la  reminiscenza  dotta  acquista,  nel  soli- 
loquio di  Orazio  e  nel  suo  dialogo  col  pxier,  un  sapore  di  arguzia  e 
di  amabilità,  un  carattere  di  fine  eleganza  ben  conveniente  all'indole 
ed  tAXVurhanHas  dell'amico  di  Augusto  e  di  Mecenate  'j.  Orazio,  ora 
ripetendo  fra  se  e  sé,  ora  dicendo  a  voce  alta  quelle  parole  del  poeta 
greco  che  l'addensarsi  della  moltitudine  gli  ricorda  e  gli  suggerisce, 
si  avanza  «  luctans  in  arcto  »  senza  perder  d'occhio  il  servo  che  lo 
segue,  incalzato  e  sbattuto  anch'egli  dal  rifluire  di  quella  immensa 
fiumana  ;  pensa  in  cuor  suo  che,  quantunque  piccolo,  egli  è  sempre 
troppo  grosso  per  poter  sguisciare  in  mezzo  alla  folla.  Gli  riforna 
in  mente  il  piacevole  motteggiare  di  Augusto,  che  era  solito  pun- 
gerlo con  garbo  alludendo  alla  grandezza  dei  lihelìi  in  confronto  con 
quella  del  «  corpuscnlum  »  del  loro  autore.  Sarebbe  bene  davvero 
—  riflette  argutamente  il  Venosino  —  che  io  fossi  piccolo  come  i 
miei  libelli;  almeno  potrei,  in  questa  confusione,  trarmi  d'impaccio 
pivi  facilmente.  La  frase  si  chiarisce  ricordando  un  passo  di  una  let- 
tera dell'imperatore  ad  Orazio  riportato  da  Svetonio  ^);  particolare 
curioso  più  che  significativo,  riferito  da  buon  biografo  animi  causa, 
di  cui  il  Pascoli  sa  fare  viva  sostanza  di  poesia  aggiungendo  con 
esso  un  tratto  efììcacissimo  alla  figura  del  poeta  che  egli  ci  delinea 

at  nihil  est,  labor  aut  quoti  uon  perfeceiit  iisiis 

(luraque  tciiiptando  ceperunt  Pergania  Grai.       (vv.   17-18 1. 

conclude  il  poeta  di  Venosa;  e  la  frase  solenne  acquista,  detta  da 
lui  in  quel  momento,  un  carattere  di  bonario  umorismo,  ben  diverso 


')  Additerò  in  nota  i  riscontri  verbali  :  le  parole  greche  dei  vv.  3  e  20  sono 
tolto  dai  vv.  52  e  67  del  citato  idillio  di  Tkockito  ;  per  i  vv.  6,  16  e  17-18  cfr. 
Tkockito  vv.  148,  72-73  e  61  62  dello  stesso  carme. 

2)  Cfr.  SvKTOXin,  Vita  di  Orazio,  ed.  Roth,  Lipsia,  1904,  p.  298,  che  illustra 
i  vv.  12-15,  ed  anche,  a  questo  proposito,  Orazio,  EpiH.  I,  20,  24;  l'espressione 
«  o  me  felicem  staturae  »  dei  vv..  11-12  ricorda  il  cerehri  fcìicem  oraziano.  Semi.  I, 
9,  11-12.  L'accenno  al  triplex  lolumen  che  Augusto  potrà  presto  lodare  (v.  15}  si  ri- 
ferisce alla  pubblicazione  complessiva  e  definitiva  dei  primi  tre  libri  delle  odi  che 
avvenne  appunto,  come  è  noto,  nell'anno  23. 


Il  '  L'ediUls  Jugusti  '  di  Giovanni  Pascoli  223 

da  quello  che  le  aveva  infuso  Teocrito  attribuendolo  alla  vecchia  in- 
terlocutrice delle  due  Siracusane.  Accorgendosi  di  non  poter  avan- 
zare di  pili  Orazio  si  ferma,  avendo  accanto  il  servo,  e  osserva  si- 
lenziosamente, tutto  raccolto  in  se  stesso,  come  un  viandante  che 
percorra  di  notte  una  strada  di  campagna  senza  ascoltare  altro  che 
l'eco  dei  propri  passi  o  il  suono  della  sua  voce  che  si  perde  nel  si- 
lenzio notturno,  poi  ad  un  tratto  si  fermi  per  riposarsi  sotto  un  al- 
bero, mentre  si  leva  dai  prati  il  gran  coro  dei  grilli  e  delle  rane. 
Xon  oserei  dire  che  la  similitudine,  la  quale  si  estende  per  parecchi 
versi,  appaia  molto  naturale  e  conveniente,  perchè  non  vedo  quale 
rapporto  i)ossa  esservi  fra  il  sonno,  pieno  di  abbandono  oblioso,  del 
viandante  stanco,  durante  la  notte,  ed  il  sostare  di  Orazio  attonito 
e  quasi  smarrito  nel  frastuono  della  folla:  ma  i  bellissimi  versi  hanno 
tanta  soavità  di  armonie  e  di  suoni  da  farci  dimenticare  quello  che  vi 
è  nella  comparazione  di  studiato  e  quasi  di  artificioso.  Non  sono 
rare,  nei  poemata  pascoliani,  similitudini  di  questo  genere  che  si 
svolgono  con  abbondanza  di  elementi  descrittivi  :  si  direbbe  che  il 
poeta  distogliendo  per  un  istante  la  mente  e  lo  sguardo  da  ciò  che 
narra  o  rievoca,  si  immerga  talora  nella  contemplazione  dei  piìi  vari 
e  fuggevoli  aspetti  della  natura,  accogliendone  nell'animo  le  voci 
tenui  e  segrete.  Nulla,  anche  in  questi  versi  del  Reditus  Avgusti,  di 
letterario  o  di  vieto,  ma  immagini  di  spontanea  e  immediata  vivezza. 
Basta  rileggerne  alcuni 

tura  fractos  cropitns  acrednla  vibrat  adanres, 

et  tenui  locusta  quatit  vertigine  sistrum 

et  ciilices  auras  snbtili  murmuie  pnngunt  : 

nec  cessant  ranae  rixis  resouare  x>aludem 

uec.  longo  latrare  eanes  nec  rninpero  bufo 

turgidus  ignoto  liquidas  a  caespito  bullas.        (vv,  28-33; 

Nelle  parole  dell'antica  lingua  di  Eoma  il  poeta  mostra  già  di  sapere 
infondere  nuova  virtìi  espressiva.  Tutto  qui  è  pascoliano,  nella  con- 
cezione e  nella  forma  ;  mentre  le  ore  notturne  trascorrono  lente  e 
quiete  giunge  da  lontano  il  latrato  di  un  cane,  sibilano  le  zanzare, 
«  l'acri  zanzare  »  (Canti  di  Castel  vecchio  —  Il  Ciocco),  si  sente  il  gra- 
cidare delle  rane  e  lo  stridulo  verso  dei  grilli.  Sono  gli  echi  e  le  im- 
magini che  il  Pascoli  rievocava,  tornando  col  pensiero  alle  notti  della 
sua  Eomagna: 

lidia  tra  i  fieni  allora  allor  falciati 

de'  grilli  il  verso  che  perpetuo  trema, 

udiva  dalle  rane  dei  fossati 

un  lungo  interminabile  poema. 


224  Giuseppe  Procacci 


Sono  le  voci  e  i  fantasmi  dei  Primi  poemetti  e  dei  Canti  di  Castel- 
vecchio  *). 

Ma  Orazio  si  ridesta  ben  presto  dalla  sua  meditazione.  Isel 
brusio  della  moltitudine  cbe  lo  circonda  s'intrecciano  animatamente  i 
dialoghi  e  le  esclamazioni  ammirative  degli  uni  si  confondono  con 
le  proteste  vivaci,  con  le  interruzioni  rumorose  degli  altri.  Un  Grae- 
culus  accenna,  con  gran  lusso  di  erudizione,  al  ritoi'no  di  Augusto 
dalla  Spagna  paragonandolo  a  quello  di  Ercole,  dopo  la  famosa  im- 
presa contro  Gerione  ^).  Né  vale  cbe  Aulo,  un  xìropola,  lo  rimbecchi 
e  lo  inviti  a  tacere;  tutti  pendono  dalle  labbra  dello  straniero  il 
quale,  introducendo  nel  suo  discorso  qualche  parola  greca  %  celebra 
l'imperatore  che  rientra  nell'  Urbe 

laiidis  aveus  tantum  uec  tantum  prodigus  aevi.       (v.  52) 

Nella  gran  massa  indistinta  del  poi>olo  il  Pascoli  sa  rilevare  con 
pochi,  ma  genialissimi  tocchi  altre  figurine:  la  cojoa,  curiosa  e  un 
po'  ambiziosa,  il  popolano  che  s'infastidisce  dello  strepito  e  del  cica- 
leccio continuo,  il  bene  informato  che  divulga  le  notizie  sulla  ma- 
lattia del  i^rincipe,  con  particolari  probabilmente  di  sua  invenzione 
e,  quasi  per  avvalorare  le  sue  parole,  usa,  per  male,  il  rapide  che 
Augusto,  secondo  la  testimonianza  di  Svetonio  *),  «  ponebat  assidue  » 
nei  suoi  discorsi.  Il  ricordo  erudito  è  divenuto,  anche  qui,  elemento 
nuovo  e  vitale  della  figurazione  artistica;  ancora  una  volta,  dirò  con 
frase  pascoliana,  la  pietruzza  scabra  e  grigia  si  trasforma,  nelle  mani 
dell'artefice  mirabile,  in  gemma  iridescente  e  preziosa  '"). 


')  Cfr.  Itomagna  in  Myricae-liicordi.  È  ricordata  da  Cicerone  (De  divin.  I,  8, 
Vacredula  ohe  «  matutinis  vocibns  instat  »,  ma  non  sì  sa  precisamente  di  che  ani- 
male si  tratti.  II  Pascoli  al  v.  28  vuol  indicare,  credo,  con  questo  nome,  il  grillo, 

(cfr.  «  le  rare  tremule  tirate  |  che  fanno  i  grilli  »  ne  La  sementa,  Sei  campi  I)  : 

«  piccoli  crepiti  o  stiocchi  »  egli  attribuisce  anche  allo  sgricciolo  {Canti  di  Caetel- 
vecohio  —  L'uccellino  del  freddo).  Per  il  v.  29  ricorderò  dei  Poemi  Conviviali,  L'al- 
bergo « e  qualche  cavalletta  |  che  scuote  il  suo  campanellino  invano  »)  «  —  don- 
dolano appena  |  le  cavallette  il  lor  campanellino  »  ;  per  l'accenno  al  rospo  dei 
vv.  32-33  II  poeta  solitario  nei  Canti  di  Castelvecchio.  «  E  pare  una  tremula  bolla  | 
tra  l'odoro  acuto  del  fieno  ». 

*)  A  riscontro  del  v.  38  è  da  ricordare  Orazio  (Serm.  I,  5,  101;  Carni.  IV, 
8,  29-30)  ;  per  l'allnsioue  all'  impresa  di  Ercole  (vv.  39-41)  cfr.  Virgilio,  Eneide 
VII,  661-663  e  Vili,  202-204  :  Orazio,   Carm.  Ili,   14,  1. 

')  Cfr.  V.  50  e  A.  Gandiglio,  La  poesia  lat.  di  Giovanni  Pascoli  in  Alene  e 
Roma,  XV,  n.  165-166  (sett-ott.  1912),  col.  271. 

*)  Cfr.  la  vita  di  Augusto  ^  87.  11  riscontro  fu  già  avvertito  dal  Gandiglio 
nell'art,  cit.,  1.  cit.,  n.  2. 

5)  Myricak,  Le  gioie  del  poeta  —  Contrasto  II. 


Il  '  Eeditiis  Angusti  '  di  Giovanni  Pascoli  225 

Il  corteo  del  trioufatore  si  avanza  mentre  la  folla  ondeggia  e  si 
addensa  e  tutti  spingono  i  vicini  per  farsi  innanzi  ad  ammirare  e 
a  commentare;  incedono  le  matrone  col  capo  adorno  delle  vittae  e 
in  mezzo  ad  esse  Livia,  la  moglie,  Ottavia,  la  sorella  dell'imperatore, 
la  madre  di  Marcello.  La  scena  che  il  Pascoli  dipinge  diviene  qui 
più  mossa  e  più  colorita;  le  frasi  di  plauso  e  di  risentimento,  le  al- 
lusioni, qualche  volta  un  po'  maliziose,  agli  incidenti  inevitabili  in 
tanta  ressa,  l'affannarsi  di  quelli  che  dopo  aver   veduto  a  loro  agio 

iingnibns  insistunt  visori  deiudo,  quod  ante.       (v.  61) 

echeggiano  in  questa  parte  del  poemetto  con  tanta  varietà  di  toni  e 
con  tanta  freschezza  di  colorito,  cui  corrisponde  nel  verso  la  varietà 
degli  accenti  e  delle  pause,  che  io  non  saprei  trovare  da  paragonarle, 
nella  i)oesia  classica,  se  non  l' idillio  di  Teocrito  e  alcuni  dialoghi 
delle  più  argute  satire  oraziane.  Per  comprenderla  pienamente  giova 
richiamare  l'ode  quattordicesima  del  terzo  libro  di  Orazio,  che  diede 
al  poeta  l' idea  prima  del  carme,  col  quale  ha  una  perfetta  corrispon- 
denza; le  note  che  il  Pascoli,  nella  Lyra  '■),  appose  a  quell'ode  ci 
confermano  in  tale  opinione  dimostrandoci,  con  un  nuovo  esempio, 
che  molti  dei  poiimata  sono  stati  appunto  concepiti  nei  lunghi  e  amo- 
rosi studi  sulla  lirica  di  Orazio  'j.  Sempre,  in  quella  mirabile  anto- 
logia, noi  sentiamo  che  l'autore,  dopo  aver  dichiarato  e  ricostruito 
con  sicura  dottrina  di  filologo,  rievoca  i  sogni  ed  i  fantasmi  del  mondo 
antico  e  si  compiace  di  rivivere  in  esso  con  anima  di  poeta.  Egli  in- 
titola l'ode  oraziana  II  ritorno  e  così  ne  spiega  l' ispirazione  :  «  Il 
poeta  è  in  mezzo  alla  folla  che  aspetta  Cesare,  reduce  dell' Hispania. 
Comparisce  in  tanto  Livia,  la  moglie,  Ottavia,  la  sorella,  che  devono 
andare  incontro  al  marito  e  fratello.  Con  loro  viene  un  corteo  di  ma- 
trone :  le  madri  dei  guerrieri  che  tornano  e  delle  loro  spose.  È  un 
momento  di  grande  ondeggiamento  nella  folla,  poiché  tutti  si  spin- 
gono per  vedere  le  illustri  matrone.  Suonano  parole  qua  e  là  dispet- 
tose ed  equivoche,  di  chi  si  sente  urtato  e  pestato.  Il  poeta  rimpro- 
vera la  gente  che  ha  attorno  scherzando  anch'esso  e  tutto  lieto  ordina 
il  banchetto  »  (Lyra'',  p.  284).  In  queste  parole  sono  già  tutti  gli 
elementi  della  rapida  e  colorita  descrizione. 

«  Quae  nuuo  nova  turba?  »  «  Quid  istiuc 

truditis?  »   «  Adveniiint  matrouae  ».  «  Conspice  cunctas 


ij  /.)/)•««,  pp.  284-286. 

*)  Cfr.  Gandiglio,  art.  cit.,  col.  264. 


226  Giuseppe  Frocaeci 


vittatas  »  «  Miilioriie  est  au  dea?  »   «  LU'ia  *   «  Gaudet 

niniirum  natiim  mox  coiuplexura  tribuiium  ». 

«  At  soror  Angusti  me  detinct,  ut  pia  !  »  «  Matrera 

Marcelli,  quaeso,  uionstres  ».   «Ibi  lulia  (iiostinf): 

interior  sedet  buie  Octavia  ».  «  Di  tibi  multa, 

di  nato  bona  multa  tuo».   «  Carum  caput!...  »  ').       (vr.  53-60) 

Dall'  iuvocazione  o  jìlehs  del  primo  verso  dell'ode  il  Pascoli  de- 
duce che  Orazio  immagina  di  essere  in  mezzo  al  popolo  e  annotando 
le  singole  frasi  mette  in  rilievo,  con  quel  suo  modo  acuto  ed  arguto, 
quali  dovettero  essere  le  immagini  che  il  vario  agitarsi  della  folla 
suggerì  al  poeta  di  Eoma.  Illustrando  i  versi  tanto  torturati 

vos  o  pneri  et  pnellae 
lam  virnni  expertae,  male  nominatis 
Farcite  verbis.       (vv.   10-12) 

egli  scrive  «  Quid  ist  feri  tumultus  ?  dice  qualcuno.  E  tumultus  può 
valere  guerra  repentina.  Ecco  un  verbum  male  nominatum,  Suauvufiov. 
Imagino  anche  che  qualcun  altro,  o  meglio  qualcun' altra,  dica,  di 
tra  la  ressa,  le  parole  di  Cesare  assalito  dai  congiurati.  Ista  quidem 
vis  est.  E  ognuno  comprende  quali  sensi  possa  avere  vis  :  donde  lo 
scherzoso  oxymoron  di  puellae  Tarn  virum  expertae  »  {Lyra^,  p.  285). 
Le  due  espressioni  che  il  poeta  attribuisce  qui  a  due  cittadini,  for- 
mano, lievemente  modificate,  uno  dei  versi  (v.  64)  del  Reditus  Augusti 
e  le  preparano,  per  così  dire,  alcune  altre,  vive  di  schiettezza  popo- 
laresca, in  cui  è  tutto  l'umorismo  deWoxymoroii  di  Orazio.  «  Leni- 
ter  o!  »,  «  State  »,  «  Ne  nos  contundite  »  si  sente  gridare  tra  la 
moltitudine;  qualcuno,  che  non  sa  resistere  alla  tentazione,  si  lascia 
andare  a  scherzi  troppo  confidenziali  verso  qualche  spettatrice  e  ne 
è  rimproverato. 

« Procacia 

hoc  est  et  uimis  audacis...    ».       (vv.   62-63) 

Ma  con  la  maggior  disinvoltura  risponde  pronto  e  scherzando  : 
«  Bona,  numquid  ademi  ?  »  (v.  63).  Già  nelle  note  all'ode  il  Pascoli 
aveva  osservato  che  l' idea  di  questo  chiacchiericcio  è  presa  dalle 
Adoniazousai  di  Teocr.  dove  si  parla  così  spesso   di  S^Xo;  »    {Lijru-, 


')  Cfr.  i  vv.  7-10  dell'  ode  di  Orazio  giil  ricordata  ;  anche  carum  caput  è  modo 
oraziano  (vedi  p.  es.  Carm.  I,  24,  2).  Per  l'espressione  Mulienie  est  an  (tea  del  v.  55 
osserverò  che  essa  6  omerica  (K,  228)  e  si  ritrova  poi  anche  iu  Virgilio  {Aen.  I, 
328-329);  «divat  oppur  donna  f»  tradnsse  il  Pascoli  stesso  da  Omero  (cfr.  Siti 
limitare,  Palermo,  Sandron,  1902,  introd.  p.  \), 


Il   '  Eeditìis  Augusii  '  di  Oiovainii  Pascoli  227 

1.  cit.);  aveva  cioè  richiamato  a  proposito  del  carme  oraziano  lo  squi- 
sito idillio  del  poeta  greco,  associando  i  due  exemplaria  dai  quali 
doveva  derivare,  limpido  e  fresco,  il  dialogo  del  poemetto,  svolgen- 
done accenni  e  situazioni  con  arte  emula  di  quella  degli  antichi.  Ili- 
costruendo  e  divinando  la  scena  del  ritorno  egli  vede  in  alcuni  mo- 
vimenti dell'Ode  di  Orazio  allusioni  alle  ])arlate  di  vari  personaggi  e 
le  determina  con  mirabile  acume,  interpretando  con  finezza  suggestiva 
e  con  profonda  originalità  tutta  la  poesia.  Così  nel  «  vos,  o  pueri  et 
puellae  »  del  v.  10  sente  il  poeta  romano  che  «  si  rivolge  alla  turba 
impaziente  e  fremente»  (Lt/ra;  1.  cit.):  l'ipotesi,  rapidamente  esposta 
in  una  nota  esplicativa,  diviene,  nel  Beditus  Avf/ustl,  il  discorso  di 
Orazio  stesso  che  rimprovera  con  bonaria  cordialità  e  rassicura  i  vi- 
cini, quasi  per  allontanare  dagli  animi  la  nube  che  li  aveva  offuscati 
nell'udire  ripetute  le  estreme  parole  di  Cesare,  nel  sentir  pronunziare 
quel  «  tumultus  »  di  cattivo  augurio  davvero  in  mezzo  a  tanta  le- 
tizia. Non  più  timori  di  perturbazioni  o  di  violenze,  ora  che  Cesare 
ritorna  per  pacificare  gli  spiriti,  per  governare  fra  la  concordia  di 
tutti. 

istis  (omeri  habeiit)  inouiti  iaiu  p.arcite  verbis. 
qui3  caecos  tiniet  Augusto  reileunte  tuuiultns? 
quisve  mori  per  vim  nietiiìt  te  principe,  Caesar  ?  ').       (vv.   G7-69) 

Il  poeta  del  Carmen  saeculare  vede  iniziarsi  un'  età  di  pace  ope- 
rosa e  feconda,  vede  acquietarsi  gli  odi  ciechi  e  feroci  al  ritornare 
dell'uomo  che  ha  saputo  conquistare  la  vittoria  sui  ribelli  e  saitrà 
dare,  con  la  saggezza  degli  ordinamenti  civili,  la  tranquillità  al  mondo 
romano,  impedendo  il  dominio  della  vis.  Questa  medesima  parola  usa 
Orazio,  rivolgendosi  alle  fanciulle,  con  sottile  malizia  ^)  ;  ed  il  con- 
trasto con  la  solennità  dell'intonazione  dei  versi  che  seguono  le  ag- 
giunge efficacia  e  sapore,  ra|)presentando  al  vivo  la  figura  del  Veno- 
sino,  cui  la  meraviglia  e  la  commozione  del  momento  non  diminui- 
scono l'abituale  squisito  umorismo. 

Orazio  si  allontana  rapidamente  liberandosi  dalla  ressa  e  si  avvia 
verso  casa.  Calano  le  prime  ombre  della  sera  e,  mentre  le  vie  risuo- 
nano ancora  di  j)assi  e    di    grida,   tutti    rientrano   nelle  loro  case   a 


')  Per  lo  imitazioui  formali  si  possono  ricordare  i  vv.  11-12  o  14-16  ili  Ora- 
zio ;  «  pnerique  puellaeque  »  (v.  65)  è  puro  iuvocazioue  comune  ad  Orazio  ed  al 
Pascoli. 

*)  Cfr.   poco  prima  il  v.   66. 


228  Giuseppe  Procacci 


poco  a  poco,  come  tanti  rondinotti  clie  tornino  all'albergo,    nel  nido 
pendiilo  sotto  un  cornicione 

\\t  hirundinis  alta 

sub  trabe  clamosos  nidiis  bibit  ordine  pullos.       (vv.  75-76) 

Non  c'è  bisogno  di  far  notare  la  grazia  e  la  felice  novità,  tutta 
pascoliana  anch'essa,  di  quest'immagine  che  ci  richiama,  con  la  ge- 
niale arditezza  del  Mbit  e  con  la  bellezza  espressiva  del  clamosos, 
quelle  pagine  del  poeta,  da  Myricae  ai  Nuovi  Poemetti,  in  cui  la 
poesia  dei  piccoli  esseri  alati  ha  trovato  gli  accenti  pifi  sublimi  e 
più  puri.  La  sera,  che  si  fa  sempre  piti  buia,  persuade  tutti  a  rac- 
cogliersi intorno  al  focolare,  presso  le  statuette  dei  Lari,  dinanzi  a 
una  cena  abbondante  per  la  munificenza  dell'imperatore  che  ha  cu- 
rato la  distribuzione  di  un  congitis  ai  cittadini.  Anche  questo  parti- 
colare ha  il  suo  riscontro  nella  prima  delle  note  all'ode  «  Herculis 
ritu  »  di  Orazio;  in  essa  infatti  il  Pascoli  ricorda  una  frase  del  Mo- 
nnm  Ancyr.  (Ili,  10)  relativa  alla  larghezza  di  Augusto  e  aggiunge 
(Lyra^,  p.  284)  :  «  Dopo  avere  assistito  al  corteo,  dopo  aver  plaudito 
il  reduce,  ogni  famiglia  poteva  celebrare  il  suo  festino  ;  poiché  ai 
poveri  pensava  la  liberalità  del  vincitore  ».  Orazio,  secondo  la  sua 
abitudine  (cfr.  Serm.  I,  9,  2  e  il  v.  112  del  poemetto)  «  secum  me- 
ditatur  multa  »  :  il  suo  pensiero  ricorre  alla  funesta  giornata  di  Fi- 
lippi, ai  tristi  presagi  che  allora  si  poterono  fare  sulle  sorti  future 
di  Eoma,  alla  quiete  presente  che,  per  il  contrasto  stesso,  appare 
tanto  più  lieta.  Ma  le  memorie  del  passato  lo  riconducono  quasi  invo- 
lontariamente agli  anni  della  giovinezza  fuggita  troppo  presto  ;  egli 
oramai  è  giunto  a  quell'età  in  cui  il  rimpianto  degli  anni  giovanili 
comincia  a  farsi  sentire  vivo  e  accorato  e,  coli'  illanguidirsi  delle 
forze,  col  dileguare  dei  sogni  e  delle  fantasie,  l'uomo  comincia  ad  ac- 
corgersi di  perdere  lentamente  la  parte  migliore  dell'  essere  suo.  j^el- 
l'ode  oraziana,  che  più  volte  ho  ricordata,  dopo  le  prime  tre  strofe 
tutte  animate  e  direi  quasi  vibranti  della  gioia  del  trionfo,  nelle 
quali  il  poeta  sembra  rivolgersi  spesso  ai  suoi  concittadini  che  hanno 
con  lui  ammirato  ed  acclamato  il  reduce  vittorioso,  se  ne  hanno  altre 
quattro,  tutte  soggettive  nella  loro  tenue  melanconia,  in  cui  Orazio 
sotto  il  peso  delle  atrae  curae  rammenta  il  tempo  sereno  dell'amore 
e  della  spensieratezza,  consule  Fianco.  Egli  vuole,  è  vero,  allontanare 
da  sé  ogni  pensiero  molesto  o  tormentoso  e,  nella  gioia  comune,  vuole 
incoronarsi  di  fiori  concedendosi,  con  la  sua  Neera,  un'ora  di  oblio  ; 
ma  una  profonda  tristezza  lo  assale   quando   riflette  che  i  suoi    ca- 


Il  '  Jìeditus  Angusti  '  di  Giovanni  l'afuoli  229 

pelli  sono  imbiancati,  die    l^^eera    potrebbe   forse   mancargli,  che   la 
giovinezza  fervida  e  tumultuosa  ò  oramai  finita  per  lui  : 

I>cnit  albosceus  animo»  capilliis 
Litium  et  rixae  cin>iilos  protorvao  ; 
Non  ego  hoc  ferrem  calidus  iu venta 

Coneulo  Fianco  ')        (vv.   25-28) 

Anche  il  Eeditus  Angusti  ci  si  presenta  diviso  in  due  parti;  la 
seconda,  più  breve  (vv.  78-127),  che  ci  descrive  i  preparativi  del  coìi- 
vivium  adventichim,  rende  mirabilmente  lo  spirito  delle  ultime  strofe 
oraziane,  rivivendone  la  delicata  mestizia  alla  quale  si  accompagna 
un  senso  che  direi  di  epicureismo  temperato  e  gentile,  come  se  il 
Pascoli  dopo  averci  fatto  assistere,  insieme  col  poeta  antico,  in  mezzo 
alla  folla  dell'  Urbe,  allo  spettacolo  di  quel  glorioro  ritorno,  si  ab- 
bandonasse con  lui  alla  «  dolcezza  amara  »  delle  più  care  memorie. 
Non  son  jiiù  quello  di  un  tempo  —  dice  fra  sé  e  se  Orazio,  ricor- 
dando la  battaglia  di  Filippi  che  gli  fa  rievocare  i  giorni  trascorsi 
fra  lo  strepito  delle  armi. 

qni  fuit  ille  dies  !  qnaitum,  nisi  fallor,  ab  ilio 
mox  adei'it  lustriim,  mihi  nuper  coudidit  aetas 
octavnm,  capitique  nives  inspei'git  ed  acri 
nescio  quid  glaciat  seusim  mihi  flamine  menteui. 
non  sum  qualia  erara  quam  vellom  piane  per  illam 
militiam  reddi,  calidns  te  consnle,  Plance, 
agminibus  lentia  properis  et  pellibus,  armis 
inpiger  et  litnis  !  ^)  (vv.   85-92) 

Tutti  sono  in  festa  e  godono  coi  loro  cari  la  gioia  di  quel  giorno; 
egli  è  solo  e  la  solitudine  lo  rattrista  di  più,  mentre  le  ombre  della 
sera  lo  avvolgono,  nel  tumulto  delle  rimembranze  meste  e  soavi. 
Anche  Orazio  non  rinunzierà  al  banchetto  gaio  e  sontuoso,  per  fe- 
steggiare Augusto,  ma  specialmente  per  dimenticare,  per  quietare  il 
suo  intimo  affanno,  dà  ordini  al  servo  perchè  compri  vino  e  profumi 


1)  Nella  nota  della  I.yra  che  riassiime  il  contenuto  dell'ode  (p.  284  ed.  cit.) 
questo  concetto  è  espresso  dal  Pascoli  là  dove  dice  che  «  la  letizia  in  fine  sembra 
chiudersi  con  un  sospiro»;  e  piìi  giti  avverte:  «L'anno  di  Planco  è  l'anno  di 
Philippi.  Il  Poeta,  ringiovanendo  dalla  gioia,  trova  i  ricordi  della  sna  giovinezza 
e  se  ne  stacca  subito,  un  poco  mestamente  ».  Cfr.  pure  il  commentario  che  pre- 
cede la  I.yra  p.  LXXVIII. 

')  Per  lo  reminiscenze  oraziane  di  questi  versi  v.  anche  Carm.  II,  4,  23  24; 
II,  1,   18-19;  IV,   1,  3. 

Atene  e  Roma.  3 


230  Giuseppe  Procacci 


i  imor,  atque  notae  refer  interioris  ab  horreis 
Sulpiciis  (cavo  det  jiio  vino  vorba  !)  lagenam  ; 
uuguentumque  petas.  (vv.  94-96) 

Motivo  oraziano  ancUe  questo  '),  ma  rinnovato  e  riespresso  con 
grande  squisitezza  d'arte,  con  sicura  intuizione  della  vita  e  dell'a- 
nima romana.  A  che  scopo  —  riflette  ancora  il  Venosino  —  far  tanti 
preparativi  ?  Il  mio  focolare  rimarrà  deserto,  il  banchetto  sarà  silen- 
zioso e  malinconico. 

ecquiel  iti  unguentis  caelcbs  sortìsvo  laborem  ?       (v.   100) 

Perchè  non  invitare  qualcuna  delle  amiche  degli  anni  migliori? 
Le  corone  che  il  servo  acquisterà  da  Glicera,  la  coronaria  ^),  saranno 
bell'ornamento  di  una  fronte  candida,  di  una  chioma  bruna  o  bionda. 
Il  pensiero  di  Orazio  corre  subito  a  Neera,  l'amica  dei  i)rimi  anni 
di  giovinezza,  quella  che  tante  volte,  stringendolo  fra  le  braccia,  in 
una  limpida  notte  di  luna,  gli  aveva  sussurrato  parole  di  amore,  gli 
aveva  giurata  fede  eterna;  volubile  e  ingannatrice  spesso,  ma  pur 
sempre  amata  ').  Egli  incarica  il  servo  di  andare  alla  casa  di  Neera 
a  dirle  che  si  affretti;  il  poeta  l'attenderà  in  casa;  non  occorre  che 
perda  tempo  ad  abbigliarsi;  prenda  soltanto  la  cetra 

«  .      .     .     .     compio  uihil  est  opus,  opperiar si 

iauitor  aut attende,  imer si  ianltor  aut  si 

ipsa  negat,  noli  nimius  clamare  :  facesse  ».       (vv.   104-106) 

In  queste  rapide  frasi,  in  queste  reticenze  significative  è  lo  scon- 
forto intimo  di  Orazio  che  teme  un  rifiuto  da  parte  di  Neera  e,  dopo 
che  il  servo  si  è  allontanato,  rimane  muto  e  pensoso.  Gli  ritornano 
alla  memoria  i  colloqui  d'un  tempo  e  la  Neera  d'allora  («  Neaera  illa 
prior  »  (vv.  107-108))  con  i  suoi  abbandoni  deliziosi,  con  la  sua  ap- 
passionata tenerezza,  con  le  gelosie  e  le  infedeltà  che  ispiravsino  al 
suo  poeta  i  bei  canti  d'amore.  Orazio  non  era  ricco  allora,    ma    l'ar- 


^)  Si  possono  porre  a  riscontro  i  vv.  17-20  dell'ode  Herculis  ritu  ;  per  alcune 
espressioni  dei  vv.  94-96  del  Pascoli  anche  Sei-ni.  I,  10,  92  («  i  puer  »  che  ritro- 
viamo al  V.  102  del  poemetto)  :  Carni.  II,  3,  8  «  interiore  nota  Falerni  »  ;  Carm. 
IV,  12,   18. 

*)  Slephanepolis  la  chiama  il  Pascoli  ricordando  certamente  il  nome  che,  per 
testimonianza  di  Plinio  {N.  H.  XXXV,  40)  fu  dato  in  Atene  a  un  quadro  di  Pausia 
(comprato  poi  da  LncuUo)  nel  quale  il  pittore  aveva  rappresentato  Glicera,  donna 
da  lui  amata,  che  secondo  le  parole  di  Plinio  —  «  venditando  eorouas  sustenta- 
verat  paupertatem  ». 

")  È  da  rammentare  l'epodo  XV  di  Orazio. 


Il  '  Beditus  Aìigusti  '  di  Giovanni  Pascoli  231 

dorè  della  giovinezz.a  gli  rendeva  agile  la  fantasia,  vigorose  le  mem- 
bra e  Xeera  lo  amava:  ora  invece^...  Da  un'altra  strofe  dell'ode  per 
il  ritorno  di  Augusto  (vv.  21-24)  il  Pascoli  La  fatto  balzare,  deli- 
neandola sicuramente,  una  scena  in  cui  non  so  se  debba  ammi- 
rarsi di  più  la  perfezione  formale  o  l'aciime  psicologico  che  lo  scrit- 
tore dimostra  nel  rivelarci  la  segreta  malinconia  di  quell'anima  di 
poeta,  presa  dai  ricordi  di  amori  e  di  gioie  lontane.  Alcuni  tratti  ne 
aveva  già  segnati  il  Pascoli  nel  commento  della  Lyra,  riassumendo 
l'intera  ode  {Li/ra^,  p.  284)  «  'Vai  ragazzo,  e  chiamala:  dille  che 
si  spicci  e  s'annodi  appena  i  capelli.  E  se  il  ianitor,  maledetto  !  fa- 
cesse ostacolo....  vientene  via.  I  capelli  cominciano  a  imbiancare  e 
l'animo  non  è  più  quello  dell'anno  di  Planco  '  »'.  Il  servo  ritorna  e 
riferisce  che  Neera  non  verrà  ;  così  il  poeta  si  rassegna  a  pranzar 
solo  e  per  ingannare  l'attesa  si  fa  portare  le  tahulae,  tutto  intento 
ad  una  delle  sue  nngae.  È  l'ode  per  il  reduce  vittorioso  alla  quale 
darà  argomento  lo  spettacolo  ammirato  poco  i)rima  per  la  via,  e  in 
essa  effonderà  tutto  il  suo  sentimento  di  Romano,  lieto  e  superbo  per 
il  ritorno  del  grande  imperatore.  Ma  le  piccole  miserie,  le  preoccu- 
pazioni della  sua  vita  di  scrittore  non  gli  danno  tregua.  Le  esigenze 
dei  Sosii,  i  desideri  di  Augusto  '),  tutte  le  cure  quotidiane  che  de- 
rivano dalla  fama  e  dall'amicizia  dei  grandi,  lo  tormentano  senza 
posa;  scrive  lentamente,  cancella  con  lo  stilo  il  già  scritto,  riscrive 
ancora  e  solo  dopo  molto  tempo  verga  con  un  sospiro  le  due  ultime 
parole  dell'ode,  consule  Fianco.  Ha  finito  appena  quando  ode  bussare 
leggermente  alla  porta  ;  poi  il  fruscio  di  una  veste,  il  tintinnio  delle 
corde  di  una  cetra  ed  appare  sulla  soglia  «  in  nodum  religata  co- 
mam  »,  fiorente  di  giovinezza  ideerà  che  viene  ad  allietare  il  banchetto 
dell'amico.  Ha  voluto  giungere  inaspettata  e  desiderata  ed  amabilmente 
si  compiace  della  lieta  meraviglia  di  Orazio 

«  Me  tibi  deesse  meo  potuisti  credere  vati  t 
quid  niuttis  ?  istura  nieii  exhorrere  capillnm  t 
perpetuo  gaudes  aetatis  flore  poeta  ».       (vv.   125-127) 

Così  nella  casa  del  celibe  si  diffonderà  un  sorriso  e  un  profumo 
di  giovinezza  e  festeggiando  il  giorno  solenne,  ora  veramente  festus 


')  Nel  passo  della  Vita  di  Orazio  svetoniaua,  che  sopra  lio  citato,  si  leggono 
fra  le  parole  ivi  riferite  della  lettera  di  Augusto  al  poeta  le  seguenti  «  ut  circni- 
tus  volurainis  tui  sit  ÒYXtoSéa-caxos  aicut  est  vontriculi  tni  »  che  ispirarono  indub- 
biamente al  Pascoli  il  v.   114. 

nonne  librnra  Caesar  tems  òYXttìSéoTepOV  optat  ? 


232  Giuseppe  Procacci 


aiicLe  per  lui,  egli  potrà  rivivere  «  il  caro  tempo  giovanil  »  con  l' il- 
lusione che  durino  ancora  per  lui  le  gioie  e  le  ebbrezze  dell'età  spen- 
sierata e  gioconda. 

Nel  gruppo  dei  poemetti  del  Pascoli  che  sono  stati  detti  del  ciclo 
oraziano  il  Beditus  Augusti  ha  una  particolare  importanza.  Come  nel 
Veianius  e  nella  Phidijle  il  poeta  ci  aveva  delineata  la  figura  di  Ora- 
zio nel  quieto  ritiro  della  Sabina,  come  nella  Cena  di  Caudiano  Nerva 
ce  l'aveva  presentata  in  mezzo  ai  lieti  conversari  del  triclinio  facen- 
doci presentire  in  lui,  nel  colloquio  con  Virgilio,  il  sacro  vate  della 
gloria  e  della  grandezza  di  lioma,  così  in  questo  carme  l' immagine 
di  lui  ci  appare  più  nettamente  delineata  tra  la  folla  varia  e  chias- 
sosa e  nell'operosa  -solitudine  della  casa  in  cui  si  raccoglie  a  scrivere 
e  a  meditare.  L'arguzia  sottile  e  la  malinconia  sospirosa  che  furono 
nel  fondo  dello  spirito  di  Orazio  e  che  spesso  si  uniscono  nelle  odi, 
quando  il  rimpianto  delle  gioie  godute  e  la  letizia  dell'ora  che  fugge 
non  si  compongano  in  un  equilibrio  della  fantasia  e  dei  sensi  gover- 
nato da  norme  di  una  filosofia  serena  e  un  po'  scettica,  si  avvicen- 
dano nei  versi  del  Pascoli  mostrandoci  con  quanta  profondità  egli 
abbia  compresa  e  rivissuta  l'opera  del  poeta  di  Koma.  Sarebbe  peg- 
gio che  inutile  insistere  con  una  ricerca  minuta  sulle  coincidenze 
singole  dei  versi  e  delle  frasi  ');  accostandosi  all'opera  antica  il  Pa- 
scoli ha  sentito  mirabilmente  in  ogni  espressione  la  vita  ideale  e 
l'efficacia  ritmica  che  l'artista  seppe  infondervi  e  facendo  suoi  tutti 
quegli  aparsi  elementi  li  ha  irradiati,  nell'armonia  di  un'altra  opera 
d'arte,  d'una  luce  nuova.  Nei  poeniata  posteriori  egli  amerà  piuttosto 
rievocare  le  figure  dei  suoi  prediletti  poeti  in  qualche  momento  par- 
ticolare della  loro  vita,  volgendo  a  questa  rievocazione  tutta  la  sua 
virtù  intuitiva  e  la  sua  forza  fantastica,  o  indagare  i  palpiti  ed  i  mi- 
steri dell'anima  antica,  di  quell'età  specialmente  che  vide  diffondersi 
nel  mondo  romano  il  raggio  di  una  fede  nuova,  il  cristianesimo;  sor- 
prenderà in  Catullo  ed  in  Orazio  non  meno  che  nel  centurione  e  nel- 
l'umile schiava  aspirazioni  profonde,  sogni  intirai  e  cari  che  ridestano 
nel  cuore  un'eco  lunga  e  sommessa.  Ma,  nell'allargarsi  della  conce- 
zione pascoliana  ad  argomenti  di  più  alta  umanità,  l'elemento  descrit- 


')  Mi  limiterò  a  riconlaro  aucora  qualche  raffronto  ytei  completare  le  notiitie 
già  date  su  alcune  analogie  d'immagini  e  di  situazioni.  Cfr.  vv.  19  20  con  Epiai.  I, 
1,  32;  vv:  41-42  con  Sei-ni.  1,  5,  12-13;  v.  45  con  Sevm.  I,  4,  37;  r.  100  con 
Carni.  Ili,  8  1  sgg.;  v.  109  con  Epod.  XV,  1;  v.  119  con  Serm.  I,  10,  71-72; 
V.   124  con  Carm.   I,  5,  4. 


Il  '  Meditus  Augusti  '   (7i   Giovanni  Pascoli  233 

tivo  e  la  vis  comica  di  sapore  oraziano  e  i)lautino  '),  cLe  ^louiinano 
nella  prima  parte  del  Beditiis  Angusti,  vanno  scomparendo  quasi  del 
tutto.  Tanto  più  significativo  dunque  ci  si  manifesta  questo  carme 
in  cui  la  vivacità  del  dialogo  si  accoppia  così  spontaneamente  all'in- 
tensità dell'analisi  psicologica  ;  dopo  il  tumulto  dei  plausi  e  delle 
voci,  reso  con  tocchi  di  una  singolare  evidenza  realistica,  la  mesta 
poesia  dei  ricordi  che  occupano  l'anima  di  Orazio  ispira  al  Pascoli 
versi  bellissimi  e  malinconicamente  suggestivi.  Si  raccolgono  così  nel 
poemetto  clementi  diversi  che  attestano  quanta  sia  la  varietà  delle 
forme  e  dei  modi  dell'artista  mirabile,  quanta  la  pieghevolezza  e  la 
«  curiosa  felicitas  »  del  suo  verso  latino.  Piìi  vicino  tuttavia  allo  spi- 
rito del  poeta  l'argomento  della  seconda  parte  del  carme,  in  cui 
Orazio  non  sorride  né  motteggia,  ma,  lontano  dai  rumori  della  folla, 
ripensa  con  rimpianto  sincero  al  «  suo  buon  tempo  »  o  con  le  parole 
del  rimpianto  termina  l'ode  per  la  gloria  di  Cesare;  e  accanto  ad 
Orazio  incera,  tenera  e  lusinghevole,  fulgida  ancora  di  bellezza  nella 
semplicità  dell'acconciatura,  è  come  l'immagine  vivente  dell'età  più 
serena,  ai  sogni  e  ai  palpiti  della  quale  essa  richiamerà  per  poco  il 
suo  poeta. 

Giuseppe  Peocacci. 


')  Sono  tla  ricordare  le  giuste  osaervanioui  tlel  Gandigi.io  nell'art,  cit.  {Alene 
e  Roma,  sett.-ott.  1912,  n.   165-166,  coli.   264  265). 


'  AMICUS  PLATO,  SED  MAGIS  AMICA  VERITAS  ' 


In  questa  stessa  rivista  (sopra  i).  210)  io  ho  ricordato  che  il 
motto  amiciis  Plato,  ned  magis  amica  veritas  deriva  proprio  da  Ari- 
stotele, il  quale  in  principio  della  sua  critica  della  dottrina  delle 
idee  si  fa  quasi  scrupolo  di  combattere  la  concezione  ontologica  dei 
xai)-'  SXou  per  riguardo  al  suo  creatore,  Platone,  o,  com'egli  si  esprime, 
Sta  -co  (pi'Xou;  SvSpa?  eìaayayetv  xà  d5r)  ;  ma  si  rinfranca  riflettendo  che 
per  salvare  la  verità,  specie  quando  si  è  filosofi,  si  ha  il  dovere  di 
distruggere  anche  le  cose  di  famiglia,  le  cose  proprie,  e  che,  quindi, 
pur  essendo  tutt'  e  due  amici  V  amico  e  la  verità,  pietà  vuole  che  si 
tributi  maggiore  onore  a  questa:  eth.  Nic.  I  1096  a  14  5ó^£:e  5' 5v 
Tau?  péXtiov  efvat  xal  SeTv  lui  awir^pioc  ye  xf;?  à?.rjO-£iag  xal  xà  oìxeìa  àwai- 
pslv,  SXkiùi  x£  xal  cptXoaó^ou;  Svxaj-  à[iq)oTv  yàp  Svxotv  cpiXotv  Satov  Tipoxt- 
(jiav  x^v  àXT(^£cav.  Il  passo,  d'  altronde  notissimo,  è  importante  anche 
perchè  Aristotele  si  considera  qui  ancor  membro  della  scuola  o,  per 
dirlo  con  il  termine  antico,  che  corrisponde  meglio  al  linguaggio  te- 
nuto qui  dal  filosofo,  della  famiglia  platonica. 

È  legittimo  chiedersi  chi  abbia  dato  al  passo  aristotelico  la  forma 
arguta  e  concettosa  nella  quale  questa  sentenza  è  per  lo  piìi  citata. 
Nei  repertori  di  frasi  celebri  *)  si  suole  rispondere  che  fu  Ammonio; 
e  la  risposta  è  giusta,  pur  che  s' intenda  che  quella  forma  compare, 
la  prima  volta  per  noi,  nella  vita  di  Aristotele,  xxx'  'Ajji|jiwvìov  che  in 
verità  non  ha  nulla  che  fare  con  lo  scolaro  di  Proclo,  'A[ji(jiwvtos  'Ep- 
\itiou  e  non  è  del  V  secolo,  ma  posteriore.  Il  pseudo-Ammonio 
(p.  438,  25  sgg.  nell'edizione  Kose  dei  frammenti  di  Aristotele)  cerca 
di  scagionare  Aristotele  dall'  accusa  di  aver  mancato  di  pietà  verso 
Platone,  mostrando  che  proprio  questi  gli  aveva  dato  esempio  insigne 
di  libertà  di  spirito  verso  i  propri  maestri,  raccomandando  di  curarsi 
della  verità  più  che  di  qualunque  altra  cosa  :  ei  5è  xal  aùxw  X(ò  IlXà- 
xtóvo  àvziké^tt.,  oùSàv  àioTzow  xal  èv  xouxoi?  yàp  xà  xoO  IlXàxwvo;  cppov£t" 
aùxoO  Y^P  l'^T^t  Xóyo;,  5xt  jxàXXov  Sei  zfjC,  àXTj9^{ai;  cppovx:^£iv  f;:i£p   SXXon 


')  Cito  solo  il  più  faraosO;  che  è  por  lo  più  la  fonte  di  tutti  gli  altri  :  BCCH- 
MANN,   Geflugeìte  Tfor/e'»,  p.  372. 


'  Amietis  Plato,  sed  magis  amica  veritas  '  235 

xtvi;.  E  qni,  a  confortare  di  prove  la  sua  asserzione  il  pseudo- Ammo- 
nio cita  due  passi,  desunti  secondo  lui  letteralmente  dal  testo  plato- 
nico. Il  secondo  è  :  SwxpàTOU?  [lèv  èti'  èXt'Yov  cppovitaxlov,  i^s  5'  àX^jO-efa; 
uoXó,  ed  è  davvero  un  luogo  del  Fedone,  tradotto  però  di  greco  clas- 
sico in  bizantino:  Socrate  invita  Cebete  e  Simmia  (p.  91  bc)  a  di- 
scutere le  sue  opinioni  senza  rispetti  umani,  qjitxpòv  cppovxi'aavts?  Sw- 
xpàxo'jc;,  TfjS  Sa  àXrjtì-efa;  noXù  jiàXXov,  «  dandovi  poco  pensiero  di  Socrate 
ma  della  verità  molto  più  ».  Il  primo  è,  corno  sembra  scrivano  i  ma- 
noscritti '),  cp'Xo;  [làv  Swxpàxrjg,  àXXà  [iSXkov  cpiÀxàxvj  fj  àÀYjò^eta.  Queste 
parole,  è  quasi  inutile  il  dirlo,  non  si  trovano  in  nessun' opera  plato- 
nica ;  si  vede  chiaro  che  nella  tradizione  scolastica  il  passo  dell'  Etica 
si  era  condensato  in  un  apoftegma  e  questo  era  stato  messo  in  bocca 
non  piti  ad  Aristotele  ma  a  Platone,  e  riferito  al  maestro  di  questo. 
La  forma  della  frase  è  nello  pseudo- Ammonio^  scorretta,  che  si 
aspetterebbe  non  |iàX?vOv  cpiXxàTrj  malT^iacére^  o  [xàXXov  <^Ckf\  o  cptXxépa. 
Benché  la  scorrettezza  mostri  che  lo  pseudo-Ammonio  non  ha  foggiato 
egli  la  frase,  pure  essa  non  può  essere  molto  più  antica.  La  vita 
pseudoAmmouiaua  è  similissima  a  un'  altra  che  si  suol  chiamare 
Marciana,  perchè  conservata,  a  quel  che  pare,  soltanto  in  un  codice 
Marciano,  che  contiene  del  resto  anche  l'Ammoniana,  tramandata  però 
anche  in  altri  mss.  :  le  due  vite  compilano  indipendentemente  l'una 
dall'  altra  ^)  le  stesse  fonti,  con  più  senno  la  Marciana,  più  trascura- 
tamente l'Ammoniana.  Ora  la  Marciana  cita  sì  il  passo  del  Fedone, 
ma  nel  posto  che  nell'Ammoniana  è  occupato  dall'  apoftegma,  inse- 
risce (p.  432,  12  Rose),  modificandoli,  anzi  guastandoli,  altri  due  passi 
di  Platone,  l'uno  del  Critone  (p.  46 b)  Eywye  oùSevl  àXXw  7xpó{)-u[Jiós  £?ixt  ,a 

Txei^atì-at  i^  X(T)  Xóyw  le,  Sv  |xot  Xoytì^ofjiévf;)  péXxtaxo?  xaxa^at'vrjxac,  «  io  non  .^  Q<^4v^'V^ 
sono  disposto  a  dar  retta  se  non  a  quel  ragionamento  che,  rifletten- 
dovi sopra,  mi  sembri  il  migliore  »,  e  uno  del  primo  Alcibiade  (p.  114e) 
eE  |iTj  ab  aa'jxoù  Xéyovxo;  àxouTj?,  àXXou  Xéyovxo;  |xtj  Titaxe'jaTj;,  «  se  tu  non 
oda  te  stesso  a  dirlo,  non  dar  retta  quand'  altri  lo  dica  »  ').  Dunque 
1'  apoftegma  dell'Ammoniana  mancava  ancora  nella  fonte  comune  di 


■)  Essi  sono  noti  imperfettamente  :  oltre  all'  apparato  del  Rose,  uso  di  col- 
lazioni del  HussE,  Herm.,  XXVIII,   1893,  253. 

*)  Il  Busse  {ihd.,  p.  252  sgg.)  sosteneva  che  l'Ammoniana  6  compilata  di 
sulla  Marciana,  ma  a  torto,  perchè  quella  dà  correttamente  una  citazione  che  in 
questa  è  spezzata  in  due  :  Leo,  ISiographie,  53'. 

')  Ho  conservato  allo  citazioni  Ja  forma  che  hanno  nella  vita  Marciana;  So- 
crate esigo  da  Alcibiade  che  non  creda  so  non  alle  dichiarazioui  che  egli  stesso 
farà,  costretto  dal  ragionamento. 


236  Gioryio  Pasquali 


questa  e  della  Marciana.  Ma  questa  fonte  è  essa  stessa  assai  tarda  : 
il  Busse  ha  mostrato  che,  mentre  le  notizie  intorno  alla  vita  di 
Aristotele  risalgono  per  lo  più  ad  Andronico  di  Rodi,  Peri|)atetico 
del  primo  sec.  av.  (J.,  tutto  quel  che  si  narra  qui  intorno  alle  rela- 
zioni tra  Aristotele  e  Platone  deriva  dalla  perduta  vita  aristote- 
lica di  Olimpiodoro  il  Giovane,  come  mostrano  numerosi  riscontri 
con  altre  opere  di  Olimpiodoro  conservate,  commenti  ad  Aristotele  e 
Platone  ').  Appunto  i  passi  del  Fedone  e  del  primo  Alcibiade  tra- 
scritti dianzi  ricorrono  tali  e  quali  nel  commento  di  Olimpiodoro  al 
Gorgia  (p.  391),  proprio  in  un  excursus  che  vuol  mostrare  che  le  re- 
lazioni tra  Aristotele  e  Platone  rimasero  sempre  amichevoli.  La  coin- 
cidenza non  può  esser  fortuita,  perchè  nello  stesso  excursus  sono  ci- 
tati anche  i  celebri  versi  di  Aristotele  ad  Eudemo,  che  ricorrono 
pure  nella  Marciana  e  in  forma  più  completa  nell' Ammoniana  ^). 
Olimpiodoro  visse  nella  seconda  metà  del  sesto  secolo  :  non  sarà 
quindi  troppo  ardito  supporre  che  soltanto  posteriormente  a  questo 
tempo  il  passo  dell'  etica  nicomachea,  ridotto  in  -forma  di  apoftegma, 
fu  attribuito  a  Platone  e  riferito  a  Socrate. 

Il  Biichmann,  che  non  conosce  altro  che  la  vita  Ammoniana, 
par  considerare  il  passo  del  Fedone  qual  fonte  dell'  apoftegma, 
forse  non  per  altro  che  perch'  essi  stanno  1'  uno  accosto  all'  altro 
in  quella  biografia^  e  il  primo  è  autentico  ed  antico,  il  secondo  re- 
cente e  suppositizio.  Con  pari  ragione  e  con  pari  torto  avrebbe  po- 
tuto citare  i  passi  del  Critone  e  del  primo  Alcibiade,  se  avesse  avuto 
presente  la  Marciana  e  Olimpiodoro.  La  somiglianza  è  solo  nel  con- 
cetto, che  si  ritrova  molte  volte  in  bocca  al  Socrate  platonico,  inteso 
sempre  a  combattere  Xòyoi  e  non  persone.  La  forma  di  tatti  questi 
passi  è  del  tutto  diversa,  poiché  manca  qualsiasi  accenno  alla  ^iX{a. 
Amicus  Plato,  si  dovrebbe  fin  qui  conchiudere,  non  ha  addentellati 
nel  Platone  autentico. 

Eppure  si  può  forse  provare  che  Aristotele  in  quel  passo  del- 
l' Etica  ripiglia  un  motivo  della  Eepubblica.  In  principio  del  decimo 
libro  Platone  si  sforza  per  bocca  del  suo  Socrate  di  persuadere  gli 
interlocutori  che  la  poesia  mimetica,  esprimendo  una  forma  infe- 
riore di  conoscenza  e  riuscendo  per  ciò  appunto  nociva,  dev'  essere 
sbandita    dalla    città    ideale.    Ma   nell' accingersi   alla   dimostrazione 


')  Cfr.  BusSK,  ibd.,  pp.  262  sgg.  e  specie  pp.  268  sgg.,  p.  273. 
*)  Appunto  questa  citazione  è  servita  al  Leo  a  stabilire  1'  indipendenza  del- 
l'Ammouiana  dulia  Marciana. 


'  Amicìifi  Flato,  sed  magis  amica  veritas  '  237 

egli  confessa  che  1'  amicizia  o  il  rispetto,  che  sin  da  fanciullo  egli 
ha  sempre  sentito  per  Omero,  considerato  da  lui  padre  primo  e  vero 
della  tragedia,  gli  impedisce  quasi  di  parlare.  Pure  anch' egli,  come 
Aristotele,  si  fa  coraggio  riflettendo  che  a  nessun  uomo,  per  quanto 
caro,  si  deve  tributare  più  onore  che  alla  verità:  X  505 ed  f/Y)iéov 
v.T.'.zoi  cpiX(a  yé  z'.c,  \i.z  xal  aJSi?  ex  nxiòòc,  l-^Quace.  mpi  '0(i.Y,pou  ànoxwXuet 
^éyety...."  àXX'  oò  yàp  Tipo  ye  x^?  àX-q^tìoc^  xi\xt^xìoì  àvr'p.  Le  parole  si  cor- 
rispondono così  appuntino  con  quelle  di  Aristotele  che  la  somiglianza 
non  può  esser  fortuita.  E  gli  scolari  del  primo  Peripato,  che  si  sen- 
tiva ancora  stretto  da  legami  saldi  con  P  Accademia,  dell'  opera  più 
celebro  del  maestro  del  loro  maestro  e  proprio  dei  capitoli  dai  quali 
deriva  e  contro  i  quali  si  appunta  la  teoria  aristotelica  dell'  arte  '), 
avrà  avuto  sufficiente  pratica  per  non  lasciarsi  sfuggire  1'  allusione, 
tanto  più  che  paradossi,  come  quelli  sostenuti  qui  contro  la  parte  as 
segnata  nel!'  educazione  allo  studio  di  Omero,  restano  come  confìtti 
nella  memoria.  Con  quest'  allusione  Aristotele  avrà  appunto  voluto 
mostrare  che  proprio  il  suo  maestro,  contro  cui  egli  si  trovava  ora 
costretto  a  combattere,  gli  aveva  dato  esempio  insigne  di  indipen- 
denza di  giudizio  rispetto  a  un  grande  del  passato  meritamente  ri- 
verito e  amato.  Di  malignità,  o  anche  solo  di  malizia  innocente,  nel 
luogo  aristotelico  non  trovo  nulla,  quantunque  sappia  bene  come  gli 
scherzi  di  Aristotele  su  colleghi  e  confratelli  siano  di  solito  più  spi- 
ritosi che  caritatevoli. 

Giorgio  Pasquali. 


')  V.  ia  ispecio  i!  cap.  XXV  della  Poetica,  p.   1460  b  5  sgg. 


Atene  e  Roma. 


L'INSEGNAMENTO  UNIVERSITARIO 

DELLE  ANTICHITÀ  POMPEIANE 


E  per  compiersi  un  decennio,  dacché  presso  la  Facoltà  di  filosofia  e 
lettere  della  R.  TJuiversità  di  Napoli  venne  istituita  la  cattedra  di  Antichità 
Pompeiane.  Da  alcuni  segni,  die  mi  è  stato  dato  di  osservare,  rilevo  che 
della  natura  e  della  importanza  di  un  siffatto  insegnamento  non  si  ha  an- 
cora presso  di  noi  quell'esatto  concetto,  che  dopo  il  rinnovamento  degli 
studii  concernenti  l'anticliità  classica  si  sareljbe  dovuto  aspettare.  E  dicendo 
presso  di  noi,  iutendo  di  alludere,  non  ai  giovani,  che  assai  volentieri  fre- 
<lueiitano  quella  cattedra,  ma  alle  sfere  dirigenti  e  in  generale  a,  quanti  mi- 
litano nel  campo  della  coltura,  classica  in  ispecie.  Avendo  avuto  l'onore 
d'inaugurare  nell'Università  italiana  l'insegnamento  delle  Antichità  pom- 
peiane, credo  doveroso  e  opportuno  chiarirne  la  portata  e  gli  scopi,  come 
pure  il  posto,  che  ad  esso  compete  nella  cerchia  delle  discipline  claesiche, 
affinchè  non  sia  ritenuto  per  una  mera  superfetazione  scientifica  o,  tutt'al 
più,  per  un  insegnamento  assai  limitato.  E  nel  senso  appunto  di  un  inse- 
gnamento limitato  non  ha  mancato  di  manifestare  il  suo  giudizio  qualche 
collega  universitario,  facendo  così  non  piccolo  torto  al  suo  ingegno  e  alla 
sua  dottrina  ! 

Premetto  un  breve  cenno  storico.  Sin  dal  1901  Alessandro  Chiappelli. 
preside,  proponeva  alla  Facoltà  di  fllosofla  e  lettere  della  E.  Università  di 
Napoli  che  l'incarico  delle  esercitazioni  pratiche  di  archeologia  a  me  affi- 
dato sin  dal  1883  fosse  convertito  in  cattedra  di  Antichità  pompeiane,  e 
che  io  fossi  designato  ad  occuparla  col  grado  di  straordinario.  La  Facoltà 
fece  sua  la  proposta  del  Chiappelli,  e  il  Consiglio  Superiore  di  Pubblica 
Istruzione  l'accolse  non  solo  nella  parte  concernente  la  questione  di  massima, 
ma  altresì  in  quella  che  riguardava  la  designazione  della  persona.  Ma  il  mi- 
nistro del  tempo,  on.  Nunzio  Nasi,  non  credette  di  dar  corso  al  relativo 
Decreto.  Negli  anni  successivi  la  Facoltà  napoletana  non  mancò  di  rinno- 
vare il  voto,  lasciando  però  da  parte  qualunque  designazione  di  persona  <• 
invitando  l'ou.  Ministero  a  bandire  il  concorso.  Non  prima  del  1906  il  voto 
della  Facoltà,  trasmesso  e  validamento  sostenuto  dal  rettore,  Carlo  Fadda, 
venne  accolto  dal  Ministro  on.  Paolo  Boselli,  il  quale  dispose  che  si  bandisse 
il  concorso.  Così,  per  il  tenace  proposito  della  Facoltà  e  per  la  larga  com- 
prensione delle  esigenze  della  coltura  nazionale  nel  Ministro  Boselli,  la  cat- 
tedra di  Antichità  pompeiane  fu  istituita  nell'  Università  italiana. 

Ma  quale  la  portata,  quali  gli  scopi  di  un  tale  insegnamento  ?  Non 
rientra  esso  in  quello  dell'archeologia  nell'accezione  più  larga  della  parola 


L'insegnamento  universitario  delle  antichità  pompeiane  239 

e  nell'altro  delle  Antichità  greche  e  romane?  Certo  Pompei  e  le  città  com- 
pagne di  sventura  costituiscono  una  bella  e  ricca  provincia  dell'archeologia, 
e  il  pouipeiauista  non  può  non  essere  un  archeologo  ;  ma,  se  l'archeologia 
studia  Pompei  nei  singoli  monumenti,  il  contenuto  di  Pompei  sorpassa  di 
molto  l'ambito  della  indagine  archeologica.  L'edifìcio,  la  statua,  il  dipinto, 
la  suppellettile  pompeiana  sono  messi  e  studiati  dall'archeologo  nella  serie 
rispettiva,  avulsi  quasi  dal  loro  luogo  di  origine,  che  è  poi  in  fondo  il  fe- 
nomeno scientifico  di  maggiore  interesse,  poiché  di  ediflcii,  di  statue,  di  di- 
pinti e  di  suppellettile  varia,  fortunatamente,  non  v'  ha  penuria  nel  mondo 
greco-romano.  Dicasi  lo  stesso  dell'  insegnamento  delle  Antichità  classiche 
rispetto  a  Pompei  :  la  vita  pubblica  e  i)rivata  jjompeiana  rifluisce,  è  vero, 
nella  vita  pubblica  e  privata  antica,  che  è  l'oggetto  dello  studio  di  quella 
disciplina,  la  quale  s'intitola  delle  Antichità  greche  e  romane  ;  però  questa 
naturalmente  prescinde  dall'ambiente,  iu  cui  si  svolse  una  vita  più  antica 
e  non  meno  degna  di  studio.  Eapporti  piìi  o  meno  estesi  hanno  con  Pompei 
altre  discipline  appartenenti  alla  scienza  dell'antichità,  quali  la  storia  an- 
tica, la  numismatica,  la  mitologia,  la  filologia  e  la  glottologia.  Già  da  questi 
nioltei>lici  contatti  con  tutta  la  enciclopedia  classica  si  può  desùmere  la 
estensione  dell'  insegnamento  delle  Antichità  pompeiane. 

Pompei  è  un  angolo  del  mondo  antico,  a  noi  miracolosamente  pervenuto 
quale  era  nella  seconda  metà  del  I  secolo  d.  Cr.  Il  miracolo  fu  operato  dal 
Vesuvio,  che,  coprendo  di  lapillo  e  di  cenere  un  tratto  della  Campania,  sot- 
trasse non  pochi  centri  abitati  alle  ingiurie  e  alle  trasformazioni  degli  uo- 
mini e  del  tempo.  Ed  ecco  che  parte  del  contenuto  di  Pompei  e  delle  altre 
città  sepolte  dalla  eruzione  Vesuviana  dell'anno  79  d.  Cr.  esce  dall'orbita 
dell'archeologo  e  dello  storico,  e  entra  nel  campo  del  naturalista.  Come  seguì 
la  eruzione?  In  qual  mese  avvenne  e  quanto  durò?  Il  modo  del  seppelli- 
mento fu  lo  stesso  così  pei  paesi  posti  a  mezzogiorno  e  ad  oriente  del  Ve- 
suvio come  per  quelli  situati  a  ponente?  Quali  effetti  ebbe  quella  confla- 
grazione sulla  forma  del  monte  e  sulla  configurazione  della  contrada?  Come 
si  comportò  il  mare  e  quale  modificazione  subì  il  lido  di  quel  seno,  che 
Seneca  chiamò  amoennsì  Fu  davvero  la  prima  eruzione  Vesuviana  quella 
del  79  ovvero  il  Vesuvio  è  monte  ignivomo  da  tempo  immemorabile?  È 
questa  una  serie  di  quesiti,  ai  quali  l'archeologo  o  lo  storico  non  può  ri- 
spondere, ma  deve  potervi  rispondere  il  pompeianista,  la  cui  competenza 
si  addentra  anche  nello  studio  dei  fenomeni  che  produssero,  accompagna- 
rono e  seguirono  quella  terribile  convulsione  tellurica.  Non  basta  esser  buon 
filologo  per  intendere  appieno  le  celebri  lettere  di  Plinio  il  giovine  relative 
alla  eruzione  Vesuviana  ;  ma  è  necessario  conoscere  quel  fenomeno  in  tutte 
le  sue  manifestazioni  e  in  tutti  i  suoi  effetti,  perchè  la  importante  testi- 
monianza Pliniana  dia  e  riceva  a  sua  volta  lume.  Se  il  compianto  collega 
prof.  Attilio  de  Marchi  avesse  preso  consiglio  dai  competenti,  avrebbe  di 
certo  evitato  più  di  un  errore  nella  sua  versione  italiana  di  quelle  lettere  ! 
L'eruzione  Vesuviana  dell'aprile  del  1906,  che  fu  un'immagine  assai  sbiadita 


240  Antonio  Sogliaìw 


di  quella  dell'anno  79,  mi  persuase  che  Plinio  il  giovine,  lungi  dall'esage- 
rare,  sia  rimasto  al  di  sotto  del  vero  nella  desciizione  dell'immane  feno- 
meno. Né  si  arrestano  qui  le  nozioni  di  cose  naturali,  che  rientrano  nel 
corredo  scientifico  del  ponipeianista  :  il  colle  di  lava  preistorica,  sul  quale 
la  città  venne  edificata  —  se  formato  da  colata  lavica  o  sia  un  antichissimo 
cratere  colmato  —,  la  formazione  geologica  della  valle  del  Samo,  il  corso 
del  Sarno,  a  cui  Strabone  attribuisce  una  notevole  importanza  nella  storia 
di  Pompei,  il  materiale  di  costruzione  e  di  pavimentazione  della  città,  il 
materiale  delle  macchine  agrarie  costituiscono  problemi,  che  non  sono  nel- 
l'orbita, nella  quale  si  muove  l'archeologo,  il  filologo  e  lo  storico. 

Ma  se  Pompei  è  un  angolo  intatto  del  mondo  antico,  essa  è  perciò  nn 
frammento  di  vita  antica  vissuta.  Tutte  dunque  le  manifestazioni  della  vita 
romana  del  I  secolo  imperiale,  dal  tempio  al  termopolio,  dai  teatri  e  dall'an- 
fiteatro ai  giocattoli  dei  bambini,  dalla  statua  prefidiaca  o  policletea  alla 
statuetta  del  Zar  o  del  dio  penate,  dal  dipinto  di  soggetto  mitologico  alle 
scene  del  foro,  dalle  reminiscenze  letterarie  alle  quietanze  rilasciate  all'usu- 
raio, dal  verso  tibulliananiente  ispir.ato  alla  parola  oscena,  tutte,  dico,  le 
manifestazioni  della  vita  romana,  comprese  le  arti  meccaniche  e  la  ricca  e 
svariata  suppellettile,  ricadono  sotto  l'osservazione  e  lo  studio  del  pom- 
peianista.  Deve  questi  esser  pronto  così  a  dare  il  suo  giudizio  sulla  statua 
o  dipinto  o  suppellettile  o  moneta,  che  la  zappa  rimette  a  luce,  come  a 
leggere  le  iscrizioni  lapidarie  ovvero  dipinte  o  graffite  sui  muri  e  sulle  an- 
fore. Siffatto  sbaraglio  fa  distinguere  il  pompeianista  dai  ciceroni  di  buona 
o  cattiva  lega,  dei  quali  la  nostra  terra  purtroppo  abbonda. 

Una  delle  principali  manifestazioni  della  vita  è  la  lingua  :  in  Pompei 
romanizzata  si  parlavfino  tre  lingue,  la  latina,  lingua  ufficiale,  il  dialetto 
osco  indigeno  e  la  lingua  greca  parlata  dalla  gente  colta  e  dai  non  pochi 
greci,  che  per  ragioni  di  commercio  vi  affluivano.  Orbene  il  volgare  latino 
ci  è  conservato  nelle  numerose  iscrizioni  graffite  sui  muri  pompeiani.  Certo 
il  glottologo  non  manca  di  spigolare  nel  IV  volume  del  Corpun  Inscriptionum 
Laiinarum  ;  ma  una  trattazione  sistematica  della  fonetica  e  della  morfologia 
del  latino  volgare  di  Pompei  non  può,  né  deve  sottrarsi  allo  studio  del 
pompeianista.  Se  oggi  la  scienza  possiede  un  eccellente  trattato  sulla  fone- 
tica delle  iscrizioni  parietarie  pompeiane,  è  merito  non  piccolo  di  un  an- 
tico alunno  della  scuola  universitaria  di  Napoli  ')  ;  e  se  oggi  in  questa  stessa 
scuola  la  fonetica  e  la  morfologia  del  latino  volgare  di  Pompei  sono  oggetto 
di  corsi,  introduttivi  allo  studio  del  neo-latino,  ciò  si  deve  allo  insegna- 
mento delle  Antichità  pompeiane. 

Pompei  non  è  nel  gran  mondo  greco  romano  che  un  punto,  il  quale 
appena  si  troverebbe  segnato  negli  antichi  itinerari!  e  presso  qualche  antico 


')  WiCK  F.  C,  La  fonetica  delle  hcrhioni  parietarie  pompeiave  specialmente  in 
quanto  risenta  dell'osco  e  accenni  alla  evoluzione  romama  iti  Atti  della  Reale  Acca- 
demia ili  Archeoloofia,  Lettere  e  Belle  Arti  di  N.apoli,  voi.  XXIII,   1905. 


L' insegnamento  univernitario  delle  antichità  pompeiane  241 


geografo;  ma,  poiché  il  destino  lia  voluto  che  fosse  a  noi  conservata  quale 
essa  si  addoiinentò  nell'anno  79  d.  Cr.,  è  stretto  dovere  scientifico  l'inda- 
garne la  missione  storica;  il  qual  compito  può  bene  sfuggire  allo  storico, 
non  però  al  ponipeianista,  che  desumerà  quella  missione  dallo  studio  di 
tutta  la  vita  della  fiorente  quanto  sventurata  cittadina. 

Xon  pochi  si  sono  occupati  della  donna  nell'antichità,  fondando  l'inda- 
gine sui  dati  offerti  dagli  scrittori;  ma  la  ricerca  deve  riuscire  necessaria- 
mente incompiuta,  quando  manchi  la  precisa  conoscenza  dell'ambiente,  nel 
quale  la  donna  si  moveva.  Una  siffatta  conoscenza  d'ambiente  si  ha  in  Pom- 
pei, dove  lo  studioso  può  bene  intuire  qual  fosso  l'atteggiamento  della  co- 
scienza morale  delhi  donna  rispetto  al  mondo  che  la  circondava.  La  casa 
pomjjeiaua  ci  spiega  il  perchè  la  famiglia  italica  è  così  profondamente  di- 
versa dalla  greca  e  perchè  nella  ^j/h  antica  storia  ellenica  cerchiamo  invano 
quel  tipo  di  donna  che  è  caratteristico  della  storia  romana,  sia  nella  sua  piena 
realtà,  sia  circonfuso  dall'aureola  della  leggenda  ').  La  coscienza  morale  della 
donna  antica  studiata  in  Pompei  è  un  tenia,  del  quale  il  pompeianista  non 
deve  disinteressarsi   nel  corso  del  suo  insegnamento  universitario. 

Della  civiltà,  della  coltura  e  dell'arte  ellenistica  Pompei  può  conside- 
rarsi come  l'unico  testimonio  superstite  in  occidente.  È  pur  vero  che  i  mo- 
numenti dell'urbe  ci  conservano  cospicue  trficce  dell'ellenismo,  da  cui  fu 
pervasa  la  romanità;  ma  Pompei  ci  offre  tutto  un  insieme,  che  solo  trova 
riscontro  nei  centri  ellenistici  dell'oriente.  E  qui  il  campo  dell'  indagine 
pompeiana  si  allarga,  e  l'architettura  e  la  decorazione  murale  trovano  i  loro 
prototipi  in  Alessandria,  Antiochia,  Pergamo,  Priene,  Delo.  Il  momento  el- 
lenistico di  Pompei  coincide  con  la  dominazione  sannitica,  e  senza  dubbio 
è  il  momento  piìi  importante  nella  storia  della  città.  Ma  i  Sanniti,  benché 
attratti  nell'orbita  della  coltura  e  dell'arte  ellenistica,  non  rinunziarono  alla 
loro  nazionalità,  e  imposero  la  loro  lingua.  Ora  un  notevole  contributo  alla 
epigraiìa  osco  sannitica  vien  dato  da  Pompei  ;  e  se  del  frammentario  dialetto 
osco  ci  è  pervenuto  un  bel  periodo  j^ieno  e  armonioso,  come  appunto  lo 
giudica  un  insigne  Maestro  ''),  esso  è  da  ricercare  in  una  nota  iscrizione 
osca  pompeiana.  La  lingua  osco-sannitica,  che  fu  la  lingua  di  Pompei  in- 
nanzi alla  sna  romanizzazione,  e  la  costituzione  politica  stabilitavi  dai  San- 
niti sono  parti  essenziali  dell'insegnamento  delle  Antichità  pompeiane;  e 
sono  lieto  di  potere  affermare  che  nell'anno  accademico  1911-12  dettai  un 
corso  sul  dialetto  osco,  mettendo  a  profitto  il  materiale  epigrafico  pompeiano; 
al  qual  corso  va  riannodata  la  mia  indagine  «  Sanniti  e  Osci  »  pubblicata 
nei  Bendiconti  della  Keale  Accademia  dei  Lincei  '). 

Ma  i  Sanniti,  discendendo  dai  loro  monti  al  piano,  che  essi  chiamarono 


')  Patkoxi  G.,  L'origine  della  domus  in  Rendiconti  della  Eeale  Accademia  del 
Lincei,   voi.   XI,    1902,  p.   506. 

fascicolo  di  luglio  19H,  pag.  21. 

3)  Voi.  XXI,   1912,  pag.  206  e  sgg. 


242     A.  So(iliano  -  L'inseffnamento  universitario  delle  antichità  pompeiane 

Campania,  trovarono  ntW  Hinterland  una  fiorente  civiltà,  la  civiltà  etrusca. 
Furono  gli  Etruschi,  che  trasformarono  i  centri  abitati  dell' Opicia  in  città 
vere  e  proprie  mediante  il  rito  politico-religioso  della  {imtfazioue;  furou  gli 
Etruschi  che  introdussero  in  occidente  il  tipo  dell'  atrium,  quale  Pompei  ci 
conserva;  furono  gli  Etruschi  che  stabilirono  iu  Pompei  una  tradizione  edi- 
lizia, con  la  quale  venne  a  cozzare  e  a  contaminarsi  la  tradizione  architet- 
tonica greca.  Il  periodo  etrusco  di  Pompei  è  stato  messo  in  rilievo  dagli 
studiosi,  che  a  quelle  rovine  dedicarono  la  loro  vita  ;  e  1'  insegnamento  delle 
Antichità  pompeiane,  tenendone  il  dovuto  conto,  inizia  i  giovani  nello  studio 
di  quella  civiltà,  a  cni  tanto  deve  la  civiltà  romana. 

Finalmente  le  origini  di  Pompei  si  connettono  con  l'antichissima  storia 
della  Campania,  dalla  quale  deve  prender  le  mosse  chi  ne  voglia  trattare, 
indugiandosi  a  preferenza  sulle  antichissime  necropoli  della  valle  del  Saruo. 

In  riguardo  dunque  alla  portata  dell'  insegnamento  delle  Antichità  pom- 
peiane, dopo  quanto  ho  detto,  non  credo  che  si  possa  ancor  parlare  d'inse- 
gnamento limitato.  Né  meno  evidente  risulta  lo  scopo  di  un  tale  insegna- 
mento, che  si  propone  di  mettere  i  giovani  in  un  immediato  contatto  col 
mondo  antico,  e  più  precisamente  con  la  piccola  vita  quotidiana  del  mondo 
antico.  La  poesia  di  Orazio  e  i  monumenti  di  Roma  sono  troppo  grandi  e 
troppo  alieni  dalle  cose  nostre  per  animarsi  a  vera  attualità:  con  Pompei 
invece  risorge  la  vita  antica  di  ogni  giorno;  tocchiamo  quasi  con  mano  quelle 
epoche  remote,  vediamo  coi  nostri  proprii  occhi  come  si  trafficava,  come  si 
beveva,  come  si  scherzava,  e  non  possiamo  non  esclamare:  son  questi  i 
nostri  padri  !  La  nostra  non  è  che  la  continuazione  di  quella  vita,  che  nelle 
opere  della  letteratura  e  dell'arte  appare  tanto  diversa  !  E  non  è  forse  que- 
sto >in  risultato  di  tanta  importanza  da  meritare  una  particolare  esegesi  nel 
coordinamento  delle  discipline  relative  all'antichità  classica?  Nella  istituzione 
della  cattedra  di  Antichità  pompeiane  l' Italia  ha  precorso  —  e  Dio  ne  sia 
lodato  !  —  la  dotta  Germania,  dove,  salvo  lezioni  sporadiche  intorno  ad 
argomenti  pompeiani,  un  vero  e  proprio  insegnamento  su  Pompei  non  esiste. 
Né  vale  obiettare  che  colà  non  esiste,  perchè  la  Germania  non  possiede  una 
Pompei  :  coi  mezzi  attuali  di  riproduzione  e  con  tutte  le  risorse,  di  cui  la 
scienza  tedesca  dispone,  una  cattedra  di  Antichità  pompeiane  in  Germania 
è  tutt'altro  che  inimmaginabile. 

Concludendo,  la  mente  del  pompeianista  dev'essere  la  lente  che  riuni.sca 
in  un  fascio  i  raggi  luminosi  della  vita  antica  e  riverberandoli  sulla  mente 
degli  alunni  la  bruci  di  santo  ardore  per  l'antichità  classica. 

Ma  chi  ha  l'onore  di  essere  professore  di  Antichità  pompeiane  compie 
poi  il  suo  dovere  nel  modo  che  l'esposizione  fatta  esigo?  A  questa  domanda, 
quanto  naturale  nel  lettore,  altrettanto  imbarazzante  per  me,  lascio  che  ri- 
spondano i  giovani,  che  frequentano  i  miei  corsi,  i  colleghi  che  prendono 
parte  alla  commissione  d'esame  e  i  registri  delle  lezioni.  Questo  solo  aft'ermo, 
che  al  concorso  del  1906  mi  presentai  con  una  preparazione  di  trentaquat- 
tro anni. 

Napoli,  agosto  1916.  Antonio  Sogi.iano. 


CENNI  SUGLI  STUDI  CLASSICI  IN  EUSSIA  '' 


Dalla  Cliiesa  venne  il  primo  incitamento  e  il  primo  aiuto  ad  intro- 
durre in  Russia  le  lingue  classiche  e  innanzi  tutto,  si  comprende,  la  lingua 
greca.  Dapprima  si  lessero  e  tradussero  i  libri  ecclesiastici,  scritti  origina- 
riamente in  greco.  Le  invasioni  mongole  però  arrestarono  questi  studi,  e 
tino  al  secolo  XVIII  la  scienza  si  può  dire  quasi  perfettamente  scomparsa 
il  al  le  terre  russe. 

Una  prima  notizia  sicura  sugli  studi  di  letteratura  teologion  greca  tro- 
viamo in  una  «  Cronaca  »  (Liétopis)  dell'  XI  secolo,  in  cui  si  racconta  che 
il  principe  larosldv  aveva  radunato  molti  copisti  e  aveva  tradotto  molti  li- 
bri dal  greco  in  antico  slavo. 

Un  contemporaneo  di  laroslav,  il  metropolita  Ilarione,  nel  suo  discorso 
«  Su  la  legge  della  carità  »  rivela  tracce  manifeste  di  conoscenza  della  re- 
torica greca. 

Dalle  prediche  di  Cirillo  Turóvsky  (XII  secolo)  si  vede  eh'  egli  cono- 
sceva gli  oratori  greci  cristiani.  Nello  stesso  secolo  il  principe  di  Cernfgov 
Nicola  Sviatóscia  (tll42)  tradusse  dal  greco  tre  opuscoli. 

Della  conoscenza  della  lingua  latina  in  Russia  nel  secolo  XIII  si  ha 
testimonianza  nel  Viaggio  del  francescano  Plano  Carpini  ;  né  mancano,  in 
quei  tempi  lontani,  alcune  altre  interessanti  notizie  sugli  studi  classici. 
Per  esempio,  un  viaggiatore  russo  del  secolo  XIV  s'incontrò  in  Grecia  con 
alcuni  concittadini  di  Nóvgorod,  i  quali  trascrivevano,  nel  monastero  di 
Studion,  le  sacre  scritture. 

Nel  secolo  XV  la  conoscenza  del  greco  fece  qualche  progresso  in  grazia 
del  matrimonio  di  Giovanni  III  con  Sofia  Paleologa.  Il  latino  invece  era 
ancora  poco  conosciuto. 


')  Questo  saggio  fu  letto  dall'autore,  e  formf)  oggetto  di  discussione,  nel  Se- 
minario di  Filologia  classica  del  i)rof.  N.  Festa,  presso  1'  Universitìl  di  Roma.  Si 
pubblica  qui  con  qualche  aggiunta  ricavata  dagli  scarsi  cenni  contenuti  nell'opera 
di  J.  E.  Sandys,  A  Bialory  of  Classioal  SoholaraMp,  IH  (1908)  pp.  384-388. 

L'  autore  è  spiacente  di  aver  dovuto,  per  difetto  di  materiali,  dare  forma 
eccessivamente  schematica  a  molti  argomenti  che  avrolibero  meritato  maggiore 
sviluppo,  come  puro  di  avere  per  parecchi  dei  letterati  russi  citati,  offerto  una 
bibliografia  talvolta  incompleta,  essendosi  dovuto  afKdare  quasi  esclusivamente 
alla  propria  memoria,  aiutata  soltanto  da  un  articolo  del  prof.  A.  I.  Mai.éin 
neW  Enciclopedia  russa  di  Brokhaus  e  Eufron,  voi.  LV,  813-816. 


244  T.   Savcenko 


Per  il  secolo  XVI  abbiamo  questa  notizia:  che  nel  1518  l'ambascia- 
tore russo  parlava  in  latino  coli'  imperatore  Massimiliano.  Nello  stesso 
tempo  si  svolgeva  in  Russia  l'attività  letteraria  <li  Massimo  Greco,  il  quale 
aveva  come  collaboratori  dei  russi,  fra  cui  anche  il  noto  principe  Kurbsky. 
Quest'ultimo  tradusse  dal  greco  Giovanni  Crisostomo  e  lo  storico  Eusebio. 
Egli  conosceva  anche  il  latino,  che  diceva  di  avere  imparato  con  molta 
fatica. 

Grande  influenza  sullo  studio  delle  lingue  classiclie  ebbe  poi  la  dittii- 
sioue  delle  scuole  supeiioii  nel  secolo  XVIT,  specialmente  nella  Russia  me- 
ridionale. Qui  lo  studio  del  greco  e  del  latino  era  obbligatorio  ;  tutte  le 
materie,  fuori  del  catechismo  e  della  grammatica  slava,  si  insegnavano  in 
latino.  Gli  allievi  parlavano  questa  lingua  tanto  durante  le  lezioni  quanto 
nelle  ricreazioni:  per  uno  sbaglio  di  latino,  o  per  l'intrusione  di  una  jìarolfi 
russa,  v'erano  gravi  punizioni.  Uno  studente  dell'Accademia  di  Kiev,  Epi- 
fàni  Slavinétzky,  tradusse  i  primi  libri  delle  Storie  di  Tucidide  e  il  pane- 


girico di  Plinio  a  Traiano. 


)a,  Kiev  gli  studf  letterari  passarono  anche  a  Mosca.  Nel  1679  fu 
fondata  la  prima  scuola  governativa  con  l' insegnamento  della  lingua  greca, 
e  nel  1685  l'Accademia  slavo-latino-greca.  Anche  nel  secolo  XVIII  questa 
Accademia  era  il  maggiore  istituto  per  le  lingue  classiche  in  tutta  la  Rus- 
sia, sebbene  vi  si  trattassero  principalmente  questioni  teologiche  ed  eliche. 
Questa  celebre  Accademia  diede  all'  Università  di  Mosca  i  primi  professori 
di  letterature  classiche,  N.  Popóvsky  e  A.  Bàrsov.  Nella  università  moltis- 
sime lezioni  erano  fiitte  in  lingua  latina. 

Efir-4iriLiua_di^Pietro  il  Grande  furono  tradotti  Q^urzio,  Epitetto,  l'Iliade 
di  Omero;   e  quindi  si  ebbero  traduzioni  anche  di  Oraziiv-iCirgil'Oj   Esopo. 

Nel  1768  Caterina  II  destinò  la  somma,  enorme  per  queF-iémpi,  di 
5000  rubli  alle  traduzioni  dalle  lingue  straniere  ;  e  più  degli  «altri  esplica- 
rono la  loro  attività  i  traduttori  dalle  lingue  classiche. 

Nel  secolo  XIX,  sotto  il  regno  dell'  imperatore  Alessandro  I,  ebbero 
grande  influenza,  dopo  la  guerra  con  la  Francia,  i  rapporti  con  la  Germa- 
nia, e  specialmente  con  scienziati  quali  Fr.  A.   Wolf  e  Winkelmann. 

Il  conte  S.  S.  Uvàrov,  uno  dei  più  grandi  cultori  e  ammiratori  del 
mondo  antico,  in  quest'  epoca  scrisse  alcune  opere  intorno  alla  letteratura  e 
alla  religione  greca.  Quando,  poi,  egli  fu  ministro  dell'Istruzione  pubblica 
(1833-1849),  vennero  compilate  grammatiche  greche  e  latine,  veramente  pre- 
gevoli per  quel  tempo,  e  dizionari  per  uso  dei  ginnasi-licei.  Come  prodotto 
di  questi  tempi  così  favorevoli  al  classicismo,  uscirono  molte  traduzioni,  fra 
le  quali  le  più  interessanti  sono:  I  classici  greci  di  Martynov  {26  voli.),  Le 
vite  di  Plutarco  del  Destuuis,  V  Iliade  tradotta  dallo  Gniédic.  In  questo  tempo 
furono  anche  edite  opere  di  archeologia  come  II  viayyio  in  Tauride  di  Mu- 
raviév-Apóstol,  il  libro  di  Stempkóvsky  «  Ricerche  sulla  situazione  delle 
antiche  colonie  greche  del  Ponto  Eusino  »  (Pietr.  1826),  non  contando  le 
opere  degli  accademici  stranieri,  come  Keller,  Koeppen,  Blaramberg. 


Cenni  sugli  studi  classici  in  Eussia  245 


Assai  notevole  influenza  sugli  scienziati  e  professori  delle  università 
russe  ebbero  le  opere  degli  eruditi  tedeschi  A.  Biickli,  K.  0.  Miiller,  Fr. 
llitschl. 

Nell'università  di  Mosca  (fondata  nel  1755)  R.  T.  Tiiakovsky  (1785- 
1820),  ch'era  stato  alla  scuola  di  C.  G.  Hejne  a  Gottinga,  produsse  un^ edi- 
zione di  FedxiLe^una  dissertazione ^latlna^aul  Djtir»iMbo-(l806).  D.  L.  Krin- 
kov  (l509-1845),  aluniio  del  Morgensteru,  del  Francke  e  del  Nene  a  Uòrpat 
e  del  Boeckh  a  Berlino,  pubblicò  studi  sull'età  di  Q.  Curzio  e  sull'elemento 
tragico  in  Tacito,  oltre  un'  edizione  AeìVÀgncola,_  è  lasciò  "ùn^^era  sùTTé 
differenz(r~ongìnarie  frìPpàtf fzT  è"prél)er  nella  religione  romana  (pubblicata 
postuma  in  Lipsia,  1849,  sotto  lo  pseudonimo  di  Dr.  Pellegrino).  Uno  dei 
primi  che  udirono  in  Germania  le  conferenze  di  Bockh,  Lachmann,  Schol- 
ling,  fu  P.  M.  Leóntiev,  il  quale  viaggiò  anche  per  tutta  l'Italia.  Dopo  il  suo 
ritorno  a  Mosca,  gli  fu  aflBdata  la  cattedra  di  letteratura  latina  in  quella 
Università,  dove  ricevette  il  grado  di  «  magister  »  per  il  suo  lavoro  II 
culto  di  Zeus  nella  Grecia  antica.  Non  dimenticano  i  filologi  russi  un  altro 
lavoro  di  Leóntiev  :  la  edizione  da  lui  curata  dei  5  volumi  dei  Propylaea, 
raccolta  di  articoli  sulle  antichità  classiche  (Mosca,  1855-57;  2»  ediz.  ivi, 
1869).  Egli  stesso  vi  pubblicò  vari  articoli  come  Uno  sguardo  storico  alla 
Grecia  antica;  Venere  di  Tauride;  Differente  tra  gli  stili  nell'arte  greca. 
Vi  comparvero  anche  i  lavori  dei  professori  Blagovjés^ensky  e  Kriukov- 
sulla  lettetatma-Jatina,  del  prof.  Kudriavzzev  su  Tacito  e  sulla  letteratura 


greca,  del  prof.  Ktìtorga  sulla  sfória  greca,  e  dePprÓf.  Katkóv  sulla  fllo- 
sofla  greca. 

Nei  Propylaea  cominciò  la  sua  celebre  traduzione  di  Platone  il  prof.  Kilr- 
pov  dell'Accademia  ecclesiastica  di  Pietrogrado  ;  ad  essi  collaborò  pure  uno 
dei  primi  bizantinisti  russi,  il  prof.   A.  Ménscikov. 

Neil'  anno  1865  P.  M.  Leóntiev  divenne  coeditore  del  giornale  quoti- 
diano «  Moskóvskia  Viédomosti  ».  Per  mezzo  di  questo  giornale  egli  favorì 
molto  la  riforma  ginnasiale,  la  quale  fu  compiuta  dal  ministro  conte  D.  A. 
Tolstoj  nell'anno  1871.  Il  ministro  Tolstoj  pensava  che  la  salvezza  della 
gioventù  dalla  «  piaga  materialista  »  potesse  solo  aspettarsi  dallo  studio 
degli  scrittori  antichi,  e  perciò  intensificò  l' insegnamento  del  greco  e  del 
latino  nei  ginnasi-licei  '). 


')  Alcuni  anni  fa  il  generale  Vannóvsky,  Ministro  della  Istruzione  Pubblica, 
introdusse  un'  altra  riforma,  per  la  quale  il  latino  restò  obbligatorio  solo  nelle 
classi  dalla  3'  all'  8*  (dalla  3*  ginnasiale  alla  3»  liceo),  e  il  greco  divenne  solo 
facoltativo  (anche  a  richiesta  di  un  solo  alnuno)  e  soltanto  nel  liceo.  Rimane 
tuttavia  l'obbligo  della  jjrova  speciale  di  latino  per  1'  ammissione  a  tutte  le  fa- 
coltil  universitarie  per  i  provenienti  dalle  scuole  reali  o  tecniche,  ed  è  altresì 
obbligatoria  la  prova  di  greco  per  i  candidati  alla  facoltà  di  lettere,  che  non 
abbiano  fatto  il  corso  regolare  di  greco. 

Atene  e  Koma.  5 


246  T.   Savcenko 


Secondo  la  nuova  legge  solo  gli  allievi  dei  ginnasi  elassici-  ebbero  il 
diritto  di  entrare  nell'  Università.  Lo  stesso  ministro  fondò  l' Istituto  sto- 
rico-filologico di  Pietrogrado  e  nel  1877  quello  di  Niégin  (vicino  a  Kiev),  con 
programma  universitario,  allo  scopo  di  preparare  professori  di  lingue  clas- 
siche per  il  liceo.  Allo  stesso  scopo  mirava  il  seminario  filologico  russo  a 
Lipsia  (1875),  che  durò  solo  pochi  anni. 

Il  nuovo  impulso  dato  in  tal  modo  agli  studi  classici  diede  origine  a 
molte  pubblicazioni,  non  soltanto  di  manuali  tradotti  da  altre  lingue.  S'ini- 
ziarono serie  di  scrittori  classici  greci  e  latini  con  note  e  glossari  russi, 
per  esempio  i  «  Classici  romani  »  di  Volf  e  la  «  Collezione  illustrata  di 
classici  greci  e  roni ànT »  di_ L^_GheÓEglifi.Ygkx-fi- S* - J»ifln Stein. 

Uno  dei  collaboratori  del  conte  D.  A.  Tolstoj  fu  A.  I.  Gheórghievsky. 
In  seguito  ad  una  missione  compiuta  in  Germania  nel  1871,  per  lo  studi» 
dei  sistemi  di  educazione  classica  e  tecnica,  egli  si  formò  la  convinzione 
clie  la  base  dell'insegnamento  e  della  cultura  dovesse  essere  classica.  Seconda 
tali  idee  fondò  nel  1874  a  Pietrogrado  la  «  Società  di  filologia  classica  e 
pedagogia  »,  con  diramazioni  nelle  diverse  città  (attualmente,  è  rimasta  la 
sola  sezione  di  Kiev). 

Prima  ancora  era  sorta  la  società  archeologica  di  Mosca  (1864),  la 
quale  riusci  presto  a  organizzare  parecchi  congressi  archeologici,  tenuti  in 
epoche  diverse  in  varie  città  russe.  I  soci  più  attivi  ne  furono  il  conte 
A.  S.  Uvàrov,  C.  C.  Goerz,  A.  A.  Kotliarévsky  ;  il  prof.  Kalacióv  fondò  a 
Pietrogrado  nel  1877  l'Istituto  archeologico  per  la  preparazione  degli  ar- 
cheologi, paleografi  ed  archivisti.  In  seguito  fu  fondiito  un  simile  istituto 
anche  a  Mosca  ;  mentre  per  gli  studi  bizantini  il  famoso  bizantinista  F.  I. 
Uspiénsky  riuscì  nel  1894  a  far  aprire  dal  governo  russo  un  Istituto  a  Co- 
stantinopoli, istituto  eh'  egli  ha  poi  sempre  diretto. 

Nello  stesso  tempo  le  università  russe  svolgevano  una  feconda  attività 
a  prò  degli  studi  classici.  In  quella  di  Mosca,  oltre  ai  già  nominati  Tim- 
kovsky,  e  Krinkov  e  Temkiev,  spiegarono  la  loro  attività  C.  C.  Goerz 
(1830-1883),  uno  dei  primissimi  professori  di  archeologia  in  Russia,  autore 
di  scritti  sulla  penisola  di  Taman,  sull'Italia  e  la  Sicilia,  e  sulle  scoperte 
dello  Schliemann;  e  il  celebre  latinista  G.  A^^_JvflnayJl 826 0:^1)  che  pub^ 
blicò  traduzioni  eccellentt  Si~autQrì  lafìni,  scrisse  un'opera  su  Cicerone  e 
i^ol'contemporariei^  e  tfaSasse  Io  scritto  m  Pln toircò'jDfi  facie  in  orbe  liinae 
e  1'  «  lutfòduzìone  armonica  »  attribuita  a  Euclide.  Ma  presto  prevalse  su 
tutte  le  altre  università  russe  quella  di  Pietrogrado  (fondata  nel  1819).  Sono 
da  ricordare  i  principali  lavori  del  professore  M.  S.  Kùtorga  (1809-1886)  : 
De  tribubus  Atticis  eorumque  ctitn  regni  partibus  nexu  (1832)  ;  Storia  della 
repubblica  ateniese  dall' uccisione  di  Ipparco  fino  alla  morte  di  Milziade 
(Pietr.  1848)  ;  Die  Ansichten  des  Dikiiarchos  ilber  den  Ursprunfi  der  Geselìschaft 
e  JBeitràge  xur  UrMdrung  der  vier  àltesten,  attischen  Phyìen  (in  Bulleiin  de  la 
classe  des  sciences  de  St.  Petersbourg,  v.  Vili,  1850-1)  ;  Bicerche  critiche  sulla 
legislazione  di  Clistene  AUìneonide  (Propilei,  v.  TU,  Mosca  1853)  ;  le  guerre 


Cenni  sn(ili  sludi  elassici  in  Russia  247 

Persiane  (Mém.  Acad.  des  Inscr.  et  Belles-Lettres,  VII,  1861)  ;  Essai  Mstorique 
sur  les  trapézites  {Compie  renda  de  l'Acad.  des  sciences  morales  et  politiques, 
1859)  ;  Mcmoire  sur  le  parti  persan  dans  la  Grece  ancienne  e  Mémoires  sta- 
le procès  de  Thémistocle  {Mém.  Acad.  des  Inscr.  et  Belles-Lettres,  1860);  La 
lotta  della  democrazia  e  delV  aristocrazia  nelle  antiche  repubbliche  greche 
{Bnssk;/   Viéstnik,   1875,   11). 

Dall'  università  di  Pietrogrado  uscì  anche  il  valente  avclieologo  K.  J. 
liiigebil;  oriundo  germanico  (1830-1888),  autore  della  dissertazione  ÌJéYe- 
nere  Coliade  Geneti/llide  (1859)  e  d'  importanti  studi  sull'ostracismo  e  sulla 
costituzione  di  Atene,  oltre  die  di  iiuaedizion^_dxjCorneluO>fepote. 

Il  celebre  F.  F.  Sokolóv  (morto  qualche  anno  fa)  ha  lasciato  una~grande 
«scuola»  di  filologi.  Egli  primo  in  Russia  stabilì  su  solide  basì  l'epigrafia 
greca,  e  grazie  alle  sue  premure  si  cominciò  a  mandare  iu  Grecia  alcuni 
giovani  per  studi  di  perfezionamento  e  per  ricerche  archeologiche.  Come 
molti  russi,  egli  amava  poco  lo  scrivere,  ma  già  fin  dal  1865,  in  età  di 
24  anni,  aveva  presentato  per  il  titolo  di  «  magister  »  la  sua  dissertazione: 
Bicerche  critiche  intorno  al  periodo  della  pili  antica  storia  sicula  (1865). 
I  più  importanti  articoli  di  Sokolóv  furono  pubblicati  nel  Giornale  del  Mi- 
nistero dell'  Istruzione  Bubblica  {G.  M.  I.  B.,  1897-1907)  e  tradotti  poi  in 
tedesco  nel  giornale  Elio,  1903-1907.  Sono  i  seguenti:  Note  sulle  liste  dei 
tributi  degli  alleati  di  Atene  (Lavori  del  2"  Congresso  archeologico,  1876,  I); 
Alessandro,  figlio  di  Cratero  ;  Belle  Iscrizioni  Iliache;  La  battaglia  presso  Kos; 
Le  feste  annuali  di  Pilo  e  di  Nemea;  L'Arconte  Antipatro;  XIsvxvixovTaETia ; 
Le  assemblee  popolari  in  Elolia;  I  quattro  consigli;  Il  tributo  degli  alleati 
Lacedemoni. 

Fra  gli  allievi  di  Sokolóv  il  più  conosciuto  è  V.  V._Làtiscex — attuale 
ordinario  «  Accademico  »,  socio  della  Commissione  Imperiale  archeologica  e 
direttore  dell'  Istituto  storico-filologico  in  Fìetrogrado.  Dei  moltissimi  suoi 
lavori  sono  specialmente  pregiati  i  seguenti  :  Su  alcuni  calendari  eolici  e  do- 
rici (1883)  ;  Bicerche  sulla  storia  e  sulV  organizzazione  dello  stato  di  Olbia 
(1887)  ;    Inscriptiones    antiquae  orae  septentrionaMs_^Qiìli.JEku^  et 

Latinae  (1885-1890)  ;  J^pggjMj»cLe-«»rT»r«ai}»  C'V.a  raccolta  delle  iscrizioni  anti- 
che greche  e  latine  della  Costa  settentrionale  dèr~Mar'  Nenr:  (Zap.  Klassice- 
skavo  Otdfén'HrcBeoi.  (ibs'cesfva)  ;  Studi  epigrafici  (nel  &.  M.  I.  B.)  ;  Sulla 
storia  delle  ricerche  archeologiche  nella  Bussia  meridionale  (Zap.  Odesskavo 
Obs'c.  Istorii  e  Drevn.)  ;  Notizie  degli  antichi  scrittori  greci  e  latini  sulla 
Scizia  e  sid  Caucaso  (Zap.  Klass.  Otdieleuia  archeol.  Obs'c.  1904).  In  questi 
ultimi  anni  egli  ai  occupa  principalmente  di  letteratura  bizantina. 

Notissimo  è  anche  P.  V.  Nikitin,  già  vice-presidente  della  Accademia 
Imperialo  delle  scienze  in  Pietrogrado,  ed  ex-professore  e  rettore  di  diversi 
Istituti  superiori  in  Kussia,  morto  nel  maggio  di  quest'  anno.  La  sua  dis- 
sertazione pel  conferimento  del  titolo  di  «  magister  »  ebbe  per  argomento 
I  fondamenti  della  critica  del  testo  delle  poesie  eoliche  di  Teocrito  (Kiev,  1876). 
Nel  1882  uscì  un'  altra   opera   capitale  di  Nikitiu,    Ber  la  storia  delle  gare 


248  T.  Saveenko 


drammatiche  ateniesi,  Aa,  lui  condotta  su  materiale  epigrafico.  Degli  altri 
suoi  lavori  offrono  grande  interesse  quelli  pubblicati  iu  divergi  anni  nel 
Giornale  del  Ministero  dell' Istrugioìie  Pubblica,  su  Eschilo  (1876),  sulla  Me- 
dea di  Euripide  (1880),  su  Sofocle  (1886),  su  Aristofane,  Senofonte,  Pla- 
tone, Plutarco. 

Egualmente  celebre  è  Tb.  T.  Zielinsky,  il  quale  compì  i  suoi  studi 
nel  Seminario  russo  di  Lipsia,  dove  conseguì  il  dottorato  presentando  lo 
scritto  :  Die  letzten  Jahre  des  zweiten  puniscJien  Krieges.  Lavorò  poi  anche  a 
Monaco  e  a  Vienna,  e  passò  due  anni  in  Italia  e  in  Grecia.  Dapprima  si 
occupò  soprattutto  dell'  antica  commedia  greca,  e  specialmente  dell'  attica, 
intorno  a  cui  ha  scritto  lavori  in  russo,  iu  tedesco  e  in  latino:  Dei  sintagmi 
nelVantiea  commedia  greca  (P.  1883)  ;  De  lege  Antimacliea  scaeniea  (P.  1884)  ; 
Dello  stile  dorico  e  Jonico  nella  commedia  attica  antica;  Die  Gliederung  der 
altattischcn  Komiidie  (Zpz.  1885);  Die  Màrchenkomodie  in  Athen  (P.  3  885); 
Quaestioìies  comicae  (P.  1887)  ;  Die  Schlacht  bei  Cirta  und  die  Chronologie 
von  203/202  (1888)  ;  una  edizione  critica  del  testo  di  Sofocle  {G.  M.  1.  P. 
1892);  Die  Antike  und  wi'r  (1905)  ;  Oje*i"oi»iJ£and«XJÉiUi/«A)/utj«feji<.' (1912)i_, 
Das  Klauselgesets  in  Giceros  lìeden  (Philologus  1914).  Si  può  giustamente 
.afferra arè'clJìe  nessun  dotto  lia  fatto  tanto  per  diffondere  in  Russia  la  cono- 
scenza del  mondo  classico  e  il  culto  del  suo  pensiero  quanto  Zielinsky, 
soprattutto  colla  sua  celebre  opera  Dalla  vita  delle  idee. 

Altri  rinomati  scrittori  (allievi  di  T.  Sokolóv)  sono  A.  V.  Nikitsky  e 
N.  I.  Novosàdsky.  Il  primo  ha  studiato  in  Grecia  e  specialmente  l'epigrafia 
greca,  pubblicando,  tra  1'  altro:  De  iscrisioni  di  Delfo  (G.  M.  I.  P.  1884,  11); 
Iscrizioni  della  Loeridc  occidentale  {ih.  1884,  12)  ;  Epigrafia  greca  (1892 
Odessa);  Studi  epigrafici  Delfi^ci  (1894-5  Odessa).  Il  secondo  ebbe  pure  nel 
1884  una  missione  biennale  in  Grecia,  dove  studiò  1' epigrafia  e  le  antichità 
religiose  e  politiche  della  Grecia  antica  e  pubblicò  vari  lavori  iu  questo 
stesso  campo:  Sulla  questione  del  culto  d' Iside  (G.  M.  I.  P.  1885);  Kotito 
(1886);  De  inscriptione  Lebadice  nuper  inventa  (Mitt.  d.  deutsch.  ardi.  In- 
stit.,  1885);  Inscriptiones  cretenses  (Univ.  Isviest.  di  Vars.,  1886);  Sul  culto 
delle  reliquie  pi-esso  gli  antichi  greci  (ib.  1889);  /  Misteri  di  Uleusi  (P.  1887). 

Fra  gli  allievi  di  T.  Sokolóv  sono  inoltre  da  ricordare  S.  A.  Zébelev 
("Axattó  (1903)  opera  ricchissima  e  fondamentale  intorno  alla  costituzione 
politica  della  Grecia  nel  periodo  della  dominazione  romana),  D.  X.  Korolkóv 
e  V.  K.  lernstedt  (1854-1902).  Opere  princii)ali  di  quest'ultimo  sonoT^S^ 
Servazi'oni  critichi'  su  Svetonio  (G.  M.  I.  P.  1876,  10);  Observationes  Anti- 
phonteae  {ib.  1878)  :  »S»//e  basi  del  testo  di  Andocide,  Iseo,  Dinarco,  Antifonte 
e  Licurgo  (1879)  ;  Frammenti  Porfiriani  delle  commedie  attiche  (Zap.  Ist.  Fil. 
Pac.  di  Pietr.,  v.  XXVI,  1892);  Osservazioni  su  Anacreonie  {ih.  1896);  3  ar- 
ticoli su  Tucidide  (1894-7)  ;  De  favole  di  Esopo  a  Mosca  e  a  Dresda.  Tutti 
i  suoi  lavori  sono  scritti  in  russo,  eccetto  un  piccolo  articolo  su  Svetonift— 
{Rerrnes  XXIV).  Né  vanno  taciuti  i  nomi  di  Augusto  Nauck  e  Luciano 
Uiiller,  che,  per  quanto  stranieri,  lavorarono  e  insegnarono  in  Russia. 


Cenni  su(/1i  sitidi  classici  in  Bussia  249 

Per  tutto  ciò  elle  riguarda  Io  studio    della    letteratura,    lingua  ed  epi- 
grafia latina  in  Russia,  ebbe    grandissima    influenza  il  prof.  G.   V.   Poniià- 
lovsky  (nato  nel  1845).    Tra  i  suoi  allievi  sono   più   stimati  I.  A.  Scebór, 
"I.  ì.  Cliolodniilk    fnìCrto  recentemente),    M.  N.  Krasceufnnikov,    M.  I.  Ro^ 

""stSvzev,   G'.   E.   Séngher,   A.   I.   Maléin,   N.   A.   Ghelbig! 

I  lavori_principali  di  Poiniiilorsky  sono:  M.  T.  Varroìie__M£atiiio  e  la 
satira  Menippea  (P.  ISfi!)):  Carenila  ilcllc  ìkci-ì:ìo}iì  ijrrcìic  e  latine  del  Caii- 
caso  (Pietr.  l&Sll  :  lì  tempio  di  l)i<ni<i  Ti/miitc  (1874);  hirentario  del  tem- 
pio di  Nemi  (Pietr.  1876);  Alcìinv  ixeyizimii  lutine  iiidlite  {!'.  l«7ft};  Sco- 
perte archeologiche  a  Poitiers  (P.  1886);  Biccrcìw  !<iii  voiijiiii  ì-ii»tniii)-iiciinaiiiei 
(1886).  Egli  ha  scritto  inoltre  parecchie  vite  di  sunti,  molte  tiadiizioni  td 
articoli  nel  O.  M.  I.  P.  A  festeggiare  il  suo  giubileo  (1897),  i  suoi  disce- 
poli pubblicarono  un  Yohime  di  Commentaiiones  philologicae,  ornato  del  suo 
ritratto. 

Suo  collaboratore  nell'  Università  di  Pietrogrado  fu  N.  M.  Blagovi'es'cen- 
sky  (1821-1891)  al  quale  dobbiamo  :  De  carminihus  convivalibus  eornmqve  in 
vetustissima  Pomanorum  Tdstoria  condenda  momento  (Pietr.  1854)  ;  Dei  par- 
titi letterari  in  Homa  nel  secolo  (7'_1  ik/ukìo  (P.  1855)  ;  <>r(i:io  e  il  ■.'«o  tempo 
(Pietr.  1864,  2.  ed.  1878);  Persio,  scrittore  romano  di  satire  (Ihissk.  Viestu., 
1866,  voi.  X);  Traduzione  (tèUe  Satire  di  Oiorenide  (1873);  La  sidira  romana 

Fra  i  più  fervidi  cultori  dell'  antichità  classica  va  annoverato  il  pro- 
fessor Modéstov,  V.  I.  (n.  1839),  che  si  rivelò  esimio  latinista  fin  dalla 
sua  dis'sertazTóne  di  «  niagister  »  (1864)  Su  Tacito  e  le  sue  opere,  segiiìta,  a 
distanza  di  quattro  anni,  da  Za  scritiuraneljieriododei  Ee  Bomani  (trad,.. 
ted.  Beri.  1871)  che  gli  valse  il  titolo  di  dottore.  Egli  per  primo  ha  dato 
alla  Russia  una  storia  scientifica  della  letteratura  latina  (1873).  Fra  i  nu- 
merosi suoi  lavori  sono  specialmente  da  ricordare  la  traduzione  di  Tacito, 
gli  articoli  sulla  pronuncia  e  lettura  del  greco  (tradofO  in  Hngii;i  sierii  nel 
periodico  'H  tfùoiz  1893)  ;  il  volume  Odi  e  satire  scelte  di  Orazio  (Pietr. 
1889-93)  ;  la  traduzione  dall'  edizione  latina  dell'Etica  di  B.  Spinoza.  Molto 
tempo  egli  visse  in  Roma  e  frutto  di  questa  lunga  dimora  sono  le  opere 
L'Italia  moderna  (Istoriccsky  Viestnik  1893),  La  vita  scientifica  in  Poma 
(1892);  Introduction  à  V  histoire  romaine  (Pietr.  1902);  De  Sicnlorum  ori- 
gine quatemis  ex  veterum  testimoniis  et  ex  archaelogicis  atque  anthropologicis 
documentis  apparet  (P.   1898). 

Ci  rimane  ancora  qualcosa  da  dire  sulle  università  minori.  In  quella 
di  Kazan  (fondata  nel  1804)  D.  T.  Bieliaev  (1846-1901)  si  occupò  del- 
l' '  Iato  nell'  Odissea  '  e  dello  opinioni  politiche  e  religiose  di  Euripide,  ma 
è  specialmente  noto  per  la  sua  opera  Byzantina.  Nell'università  di  Odessa 
(fondata  nel  1865)  L.  F.  Voevodsky  (1846-1901)  si  dedicò  a  studi  su  Omero 
e  sulla  mitologia  greca  primitiva.  In  quella  di  Kharkov  (fondata  nel  1804) 
I.  I.  Kronebevg  (1788-1838)  oriundo  germanico,  autore  di  un  dizionario 
latino-russo,    che   ebbe    sei    edizioni    dal    1819  al  1860,  pubblicò  anche  un 


250  T.   Savcenko 


compendio  di  Auticliità  romane,  edizioni  di  Sallastio,  Cicerone  prò  lege 
Manilia,  Orazio  Epistola  ad  ^«^««^m™,  ^  .^yjjijihnfialla  critica  di  Persio, 
oltre  a  numerosi  articoli  di  letteratura  e  d'arte. 

Facciamo  seguire  i  nomi  e  le  opere  dei  più  insigni  cultori  moderni  di 
filologia  classica  in  Kussia  : 

I.  A.  Scebor  nato  nel  1848  in  Boemia.  Nel  1868  fu  studente  dell'Uni- 
versità di  Pietrogrado  e  nel  1877  professore  straordinario.  Si  occupò  molto 
di  Orazio  e  pubblicò  una  edizione  di  questo  poeta  con  note  e  biografìa 
(Pietr.  1890).  Dal  1883  fino  al  1893  ha  stampato  nel  G.  M.  I.  F.  e  nei 
Filologhicescom  Obosriénii  molte  note  critico-esegetiche  su  Plauto,  Catullo,,. 
Virgilio,  Properzio. 
V  Cholodniàk  I.  I.  (n.  1857)  dedicò  molti  anni  al  volume  Carmina  sepul- 

cralia  latina  (Pietr.  1897)  in  cui  raccolse  tutti  gli  epitaffi  latini  composti 
in  versi.  Di  ricerche  affini  si  occupa  il  suo  libro  Su  alcuni  tipi  di  epitaffìi 
metrici  latini.  Oltre  alla  sua  dissertazione  per  il  titolo  di  «  magister  »  su 
Iio  sviluppo  della  flessione  del  genitivo  singolare  nei  nomi  latini  in  -a,  -e,  -o 


(Pietr.  1888)  è  notevole  la  edizione  del  grammatico  Censorino  e  le  bellis- 
sime traduzioni  di  Properzio  (G.  il.  I.  P.  1886),  dei  Menaeclimi  e  dei  Mi- 
les  gloriosus  di  Plauto  (i6.  1887),  di  Lucrezio  (1901),  di  Seneca  e  Petronio 
(Filol.   Obosr.   1899-1900). 

Rostóvzev  M.  I._  (u.   1870),    attualmente   professore   nell'Università   di 


PietrogradoTTu  dal  1895  al  1898 'inviato  in  missione  scientiiìca  all'estero, 
principalmente  in  Italia.  Suoi  lavori  principali  sono  :  Le  guerre  diCsss££.^ 
in  Gallia,  Germania  e  Britannia  (Pietr.  1894);  Storia  aèl  demànio  pubblico 
'^neUìimpero  romano  (Pietr.  1890)  ;  Étude  sur  les  plombes  aniiques  (Berne  nu-' 
mism.  1897-99);  Sugli  ultimi  scavi  di  Pompei  (<?.  M.  I.  P.  1893);  Die 
hellenistisch-romische  Architekturlandschaft  (Mitt.  deutsch.  ardi.  Inst.,  v.  XXVI, 
1911);  L'antica  pittura  ornameìitale  nella  liussia  meridionale  (P.   1914). 

Attualmente  nell'  Università  di  Pietrogrado  insegnano  come  liberi  do- 
centi il  prof.  A.  I.  Maléin,  che  si  occupa  soprattutto  dei  poeti  elegiaci  la- 
tini e  della  letteratura  ecclesiastica  inedioevale,  ed  i  jjrofessori  Eug.  .M. 
Pridik  e  conte  I.  I.  Tolstói,  i  quali  hanno  esidicato  finora  la  loro  attività 
principalmente  nel  campo  della  letteratura  e  storia  greca. 

M.  N.  Krasceninnikov  (n.  1865)  professore  nell'  Università  di  Dorpat. 
Il  suo  primo  lavoro  Tnipòrtante  fu  la  dissertazione  di  «  magister  »  :  Sacer- 
doti e  sacerdotesse    ìnunicijìdli    roniani.    Dopo   /5  iiiiiii    di    s<)ggij)rno  in  JtaUa 

■pubblicò:    Gli  Aucui^l(dl_i-   hi    uui'jisìrtilirni    sacrdlc. 

Il  prof.  G.  P.  Zeretelli  iuii  h' cssii  (1(  11' l'iiiversità  di  Dorpat  ha  pubbli- 
cato pochi  anni  fa  una  dotta  opera  sulle  Abbreriaxioni  nella  scrittura  greca. 

Con  T.  E.  Kórs  si  apre  la  serie  dei  filologi  di  Mosca.  Dal  1883  pro- 
fessore di  letteratura  latina  in  quella  università,  è  pur  celebre  come  glot- 
tologo nel  campo  delle  liugue  indo-europee  e  asiatiche  e  della  letteratura 
europea  comparata.  Tra  i  molti  suoi  lavori  ricorderemo  :  Le  specie  delle  di- 
pendente relative.  Un  capitolo  di  sintassi  comparata  (1877)  ;  Pel  verso  saturnio. 


Cenni  sugli  studi  classici  in  livssia  251 

I  suoi  allievi  si  occupano  principalmente  di  ricerclie  grammaticali  e 
metriche;  citiamo  fra  gli  altri:  Gniscka  A.  A.,  Pokróvsky  M.  M.,  Sobo- 
lévsky  C.  I.,  Denisov  J.  A.  ;  e  1  liberi  docenti  Rozdéstvensky  S.  V.  e  De- 
ratàni  N.  F.  Dall'Università  di  Mosca  uscirono  anche  dotti  quali  Zvietilev 
<5.  V.  e  èvi'uz  A.  N.  Lo  ZvietAev  fu  il  primo  a  dare  un'  edizione  scien- 
tifica (ielle  iscriziiiiii  oselle:  S';///()(/c  ììls-criptioìltlìli  oscanim  (Pietr.  - 1878)  ; 
inoltre  :  Jiiscripiiuius  lidliuc  mediac  dialeclicae  (Lps.  1885)  ;  Inscriptiones 
Italiae  inferioris  dialecticae  in  usum  praecipue  academicum  (Mosca  1886)  ; 
Fra  i  numerosi  scritti  di  A.  N.  èvàrz  ricorderemo:  Le  Orazioni  olimpiache 
di  Demostene  (1873);  La  orazione  d' Iperide  per  Eusenippo  (1875);  Sulla 
costituzione  puhhlica  ateniese  (1891  ;  dissertazione  dott.)  ;  T  nuovi  frammenti 
delle  orazioni  di  Iperide  (1892)  ;  La  XXII  orazione  di  Lisia  e  la  sua  nuova 
interpretazione  (1894);  Sulla  data  della  Politica  di  Aristotele.  Egli  lia  pure 
pubblicato  vari  lavori  sulla  storia  dell'  arte  antica. 

Neil'  Università  di  Kiev  insegnano  anche  adesso  I.  A.  Kulakóvsky  e 
A.  I.  Sónny.  Il  primo  (u.  1855),  dopo  una  missione  all'  estero,  cominciò 
3all881  aT  insegnare  all'  Università.  I  suoi  lavori  più  importanti  sono  :  La 
divisione  delle  terre  fra  i  veterani  e  le  colonie  militari  neW impero  romano 
(1881);  Le  confraternite  di  Boma  antica  (1882);  Leggende  sulla  fondazione 
di  Boma  (188S).  Inoltre:  La  Politeia  degli  Ateniesi  (Isvnfniv.  di  Kiev 
1»»l)  '~^vctonio  e  la  sua  biografia  dei  Cesari  Jib.y^  I  governatori  delle 
Provincie  romane  (ib.  1882)  ;"  Ji-p^'  antico  periodo  delV  impero  romano 
"^757 1884).  "  "" 

A.  I.  Sonnj-  (n.  1861)  fu  allievo  del  seminario  filologico  russo  di  Lip- 
sia. Conseguì  i  gradi  di  «  magister  »  e  di  «  dottore  »  di  letteratura  greca 
con  i  lavori:  De  Massiliensium  rebus  (1887)  e  Ad  Dionem  Chrysostomum 
analecta  (Kiev  1896).  Studiò  lungamente  gli  antichi  proverbi  latini  e  i  ri- 
sultati delle  sue  ricerche  pubblicò  nell'  Archiv  fiir  lateinische  Lexicographie 
{1895)  e  nel  Filologhicescom  Obosriénii  (v.  XVI,   1899). 

Fra  i  liberi  docenti  dell'  Università  di  Kiev  meritano  menzione  V.  I. 
Petr  per  i  suoi  scritti  sulla  musica  antica,  A.  V.  P.  Klingher,  A.  I.  Pospischil 
professore  ordinario  nell'  Università  di  Chàrkov  e  V.  P.  Buséskul,  il  quale 
ha  scritto  parecchie  opere  sulla  storia  greca,  per  esempio:  Perikles  (1899); 
La  Politeia  ateniese  di  Aristotele,  come  fonte  per  la  storia  dell'  organizzazione 
politica  di  Atene  fino  al  V  secolo. 

(ir.  V.  N^t'i'stìil- insegna  anche  come  ordinario  nell'Università  di  Charkov; 
egli  per  primo  ha  scritto  in  russo  lavori  scientifici  sulla  grammatica  storica 
della  lingua  latina  e  sulle  antichità  romane:  Esposizione  genetica  della  fone- 
tica e  morfologia  della  lingua  latina  con  un  breve  riassunto  dei  dialetti  osco 
€  umbro  (1878);  Schizzo  delle  antichità  politiche  romane  (1894,  6,  7.  Charcov 
Univ.   Isviéstia). 

Neil'  TLwrygraTfjìr- (jj  Viiraayiji  iiigBprnann  G.  I.  Viéchov  e  P.  N.  Cerniàev, 
profondo  conoscitore  di  Terenzicì,  Anche  la  cattedra  di  letteratura  "gieca  in 
<ì iieIT*~UBÌvor6ttà_^  illuBtjat»  da  due  valorosi  professori:    A.  M.   Pridik  che 


252  r.   Savcenko  -  Cenni  sugli  studi  classici  in  Russia 

ha  scritto  De  Gei  iìisulae  rebus  (1892)  e  La  sesta  orazione  d'Iseo;  e  A.  F. 
Somiónov,  che  ha  pubblicato  molti  lavori,  specialmente  sui  poeti  greci. 

In  Odessa  insegnarono  A.  N.  Derevfzky,  0.  A.  Basiner  (Ludi  saeou- 
lares,  Varsavia,    1901),  oltre  il  Voevódsky  già  nominato. 

Fra  i  professori  di  Kasiin,  T.  G.  Mis'cenko  ci  ha  dato  splendide  tra- 
duzioni in  russo  di  Erodoto,  Polibio,  Strabene  e  Tucidide  e  si  è  partico- 
larmente occupato  della  questione  della  Scixia  di  Erodoto. 

D.  I.  Naguievsky,  studioso  di  Giovenale,  recentemente  ha  stampato  due 
volumi  sulla  letteratura  latina. 

Gli  scritti  di  tutti  questi  scienziati  si  pubblicano  nei  Zapiski  o  Isviéstia 
delle  università  ;  nel  Giornale  del  Ministero  della  Istruzione  Pubblica  dal 
1873  in  poi  (Redattori  :  Ui'idlov  e  Zébelev)  ;  nelle  riviste  speciali  di  filolo- 
gia classica,  come  Vllermes  (Redattori  :  Zzybùlsky  e  Malein),  Filologhiceskoe 
Ohosrienie  (dal  1891),  FilologMceskia  Zapiski,  ArcheologMceskia  Isviéstia  e 
Zamietki,  Zapiski  Biisskavo  Archeologhiceskavo  Obs'cesiva.  Agli  studi  bizan- 
tini è  specialmente  dedicata  la  rivista  Vyzantisky  Vremennik,  ma  molti  lavori 
trovano  pur  posto  negli  Isviéstia  Busskavo  Archeologhiceskavo  Istituta  (1896). 

Roma,  Maggio  1916. 

T.  Savcenko. 


Ad  Orazio,  Epist.  Il,  1,  256.  —  Che  il  verso  così  solenne  «  Et  formi- 
datam  Parthis  te  imncipe  Bomam  »,  Orazio  lo  abbia  imitato  da  Ennio,  non 
si  potrebbe  gratuitamente  negare  a  priori,  come,  d'altra  parte,  e  a  for- 
iiori,  non  si  potrebbe  neppure  affermare  senza  addurre  testimonianze 
esplicite  o  almeno  argomenti  probabili.  È  merito  dello  scrittore  della  breve 
Comunicazione  alla  Atene  e  lìoma  (v.  num.  prec.  p.  212),  firmata  colle 
iniziali  G.  P.,  di  aver  notata  la  perfetta  corrispondenza  metrica  e  ritmica 
di  questo  verso  ')  con  l' altro  famigerato,  attribuito  universalmente  a  Cice- 
rone, «  O  fortunatam  ndtam  me  consule  Bomam  .'  »  ').  Ma,  pur  escluso,  come 
inverosimile,  «  clie  Orazio  abbia  preso  sul  serio  un  carme  e  una  frase  che 
tutti,  anche  i  più  zelanti  fautori  di  Cicerone,  erano  d'  accordo  nel  deri- 
dere »,  arguire  subito,  che  «  tutt'  e  due  i  poeti  imitano  un  passo  celebre  di 
un  classico;  di  chi  se  non  di  Ennio?»,  è  un  correr  troppo.  E  per  vero 
non  è  del  tutto  esatto  il  dire,  che  «  i  due  versi,  ognuno  con  un  solo  dat- 
tilo, hanno  aspetto  arcaico,  che  non  si  accorda  coi  canoni  di  arte  seguiti 
da  Orazio  ».  Anzi  tutto  osservo,  per  incidente,  che,  se  mai,  questa  obie- 
zione dovrebbe  valere  soltanto  contro  Orazio,  non  contro  «  tutt'  e  due  i 
poeti  »  e  quindi  non  anche  contro  Cicerone.  Ma  non  vale  nejjpure  contro 
Orazio  :  non  voglio  ora  fare  una  statistica  dei  vari  schemi  esametrici  negli 
scritti  di  Orazio  sermoni  propiora  e  jyer  humiim  repentia  (satire  ed  epistole), 


')  Il  G.  P.  dice  questo  verao  «  perfetto  gemello  »  dell'altro  anche  per  la  «  co- 
struzione sintattica  »,  ma  ciò,  a  rigore,  non  è,  perché  nel  verso  oraziano  l'accu- 
sativo dipende  dal  precedente  dicere,  mentre  nell'altro  verso  l'accusativo  è  deter- 
minato dalla  esclamaziono. 

*)  In  un  recente  articolo  AeW AtTienaeum  (IV,  3  ;  luglio  1916,  p.  309  sgg.  : 
«  Un  verso  di  Cicerone  »)  Caklo  Pascai-,  prendendo  le  mosse  da  un'  ipotesi  del 
Pascoli,  sospetta  che  la  forma  originaria  del  verso  fosse:  «  -■=^.  0  fortunatam  me 
consule  Romam  !  »,  ritenendo  col  Pascoli,  che  natam  sia  nua  maliziosa  geminazione 
delle  ultime  dne  sillahe  precedenti,  trovandosi  quel  verso  nella  invettiva  di  Sal- 
lustio contro  Cicerone,  mentre  in  quella  di  Cicerone  contro  Sallustio,  dove  pure 
si  cita  il  verso,  il  natam  manca:  alla  difficoltà,  che  sorgerebbe  dal  fatto  che  il 
verso  tutto  intiero,  con  natam,  b  ricordato,  come  di  Cicerone,  da  Quintiliano  in 
dne  laoghi  (IX,  4,  41  ;  XI,  1,  24)  e  da  Giovenale  (X,  122),  il  Pascal  obietta  che, 
quantunque  l' invettiva  sallustiaua,  corno  piire  quella  ciceroniana,  sia  apocrifa, 
tuttavia  ambedue  sono  abbastanza  auticlie  e  dagli  antichi  ritenute  genuine,  e  che 
cosi  Quintiliano  come  Giovenale  avrebbero  presa  la  citazione  appunto  dalla  invet- 
tiva contro  Cicerone  :  il  verso  poi,  diffusosi  in  tal  forma,  era  naturale  che  così 
venisse  citato  anche  da  altri,  come,  per  es.,  dal  grammatico  Diomede  (II,  p.  466, 
1   Keil). 


254  Pietro  Rasi 


ma  mi  basta  qui  di  notare,  per  es.,  il  primo  verso  delle  satire  {Qui  fit, 
Maecenas,  vt  nemo,  qiiam  sibi  sortem  e,  poco  dopo,  Conieiitus  vivai,  landet 
diversa  sequentes)  e,  nella  epistola  stessa,  in  cui  si  trova  il  verso  incrimi- 
nato, cioè  nella  I  del  libro  II,  i  versi  8  (Componiint,  agros  adsiynant,  op- 
pida  conduni),  46  (Paulatiìn  vello,  et  demo  vnum,  demo  eliam  unum),  ecc.  ecc., 
per  provare  e  concludere,  che  esametri  «  con  un  solo  dattilo  »  se  ne  tro- 
vano anche  altrove  in  Orazio  e  non  contraddicono  quindi  ai  «  canoni  di 
arte  »  da  lui  seguiti.  Che  simili  versi  sieno  più  rari  di  altri,  dove  ijrcvale, 
specialmente  presso  i  poeti  classici,  una  elegante  mescolanza  e  varietà  di 
piedi  dattilici  e  spondaici,  è  certamente  vero  ;  ma  con  ciò  non  si  deve, 
senza  piìi,  aflermare,  eh'  essi  abbiano  «  carattere  arcaico  »  ').  Ed  è  altret- 
tanto vero  che,  come  coli' abbondanza  dei  dattili  si  vuole  raggiungere  un 
effetto  stilistico,  e  propriamente  descrittivo,  ad  indicare  sveltezza  e  rapi- 
dità (basti  ricordare  il  notissimo  virgiliano  Qìiadrupedante  putrem  sonitu 
quatit  ungula  camptim),  così,  per  converso,  con  l'abbondanza  degli  spondei 
si  mira  ad  ottenere  un  effetto  di  stile  lento  e  grave  (si  ricordi  anche  qui 
il  pur  notissimo  virgiliano  :  Jlli  inter  sese  magna  vi  bracchia  tollunt).  Se, 
come  non  v'  ha  dubbio,  sarà  sempre  brutto  e  risibile  il  verso  O  fortuna- 
iam  natam  me  consule  llomam  !  per  via,  unicamente,  di  quel  pretensioso 
e  cacofonico  omeoteleuto,  come  mai  con  questo  si  potrà  confrontare  e  met- 
tere a  paro  l'altro  così  sonante  e  maestoso  e  pregnante  di  significato  Et 
formidatam  Partliis  te  principe  Jxomam,  dove  non  sai  appunto,  se  più  tu 
debba  gustare  e  ammirare  la  perfetta  e  robusta  costruzione  metrica  e  ritmica 
ola  grandiosità  del  concetto?  Né  è  questo  il  solo  verso,  in  cui  la  Jlfusa  j)e- 
destris  del  Venosino  sa,  all'  occorrenza,  tollere  vocem,  assumendo  il  tono  di 
un  vero  poeta  epico,  «  cui....  sit  os  magna  sonaturum  »  :  sono  dello  stesso 
genere,  oltre  altri  della  medesima  eijistola  e  specialmente  quelli  dell'esor- 
dio (Cum  tot  sustineas  ecc.),  i  versi  che  precedono  quello  in  questione  e  ai 
quali  questo  appunto  serve  di  chiusa  con  un  magnifico  e  superbo  crescendo 
(«. res  componere  gesta»  —  Terrarìimque  silus  et  flumina  dicere  et  arces  — 


')  Mi  riferisco  a  quanto  già  ebbi  altre  volte  occasione  eli  notare  presso  i  poeti 
elegiaci  principi  in  De  eleyiae  Latinae  composiiione  et  forma.  Patav.  1894,  dove  dei 
sedici  BcUeiui  osaraetrici  è  constatato,  che  lo  schema  sass  occnpa,  in  media,  il 
dodicesimo  posto  con  la  perceutnale  del  3,64  (v.  p.  130  e  sgg.).  E  analoga- 
mente rilevai  per  poeti  di  molto  posteriori  (per  Rutilio  Naraaziano  la  forma  ssss 
è  la  XI  :  V.  In  Claudii  RutilU  NamatiaiU  de  reditu  suo  libros  adnotationes  melricae, 
in  Eie.  di  Filologia,  1897,  fase.  II,  p.  169  sgg.  :  spec.  p.  17.5  sgg.  ;  per  S.  Enno- 
dio,  che  amava  molto  la  gravitas  spondaica,  è  la  IV  nel  metro  elegiaco:  v.  Del- 
l' arte  melrica  di  Magno  Fel.  Ennodio,  Vescovo  di  Pavia  [/  Parie  :  Distico  elegiaco], 
in  Bollett.  della  Soc.  Pavese  di  Storia  Patria,  1902,  fase.  I-II,  p.  87  sgg.  :  spec. 
p.  96  sgg.  ;  e,  di  poco  inferiore,  la  VI,  nel  metro  eroico:  v.  Dell'arte  melrica  ecc.: 
P.  II:  Metro  eroico  e  lirico,  iu  Bollett.  cit.,  1904,  fase,  li,  p.  153  sgg.  :  spec. 
p.  157  sgg.). 


Ad  Orazio,  Ep.   Il,   1,   256.  255 

Moniibus  impositas  et  barbara  ref/na  tnisque  —  Auspiciis  tottim  confecta  ducila 
per  orhem  —  Claustraque  custodem  pacis  cohibentia  laimni  —  Et  formidatam 
Parthis  te  principe  Bomam  »)  ;  e  così  pure  quelli  della  satira  I  del  li- 
bro II  (v.   12   sgg.  :   « cupiduin,    pater  opthne,  vircs  —  Defieiiint  :  ncque 

enini  quivis  Iwrrentia  pilis  —  Af/mina  nec  fracta  pereuntes  cuspide  Oallos  — 
Aut  labentis  equo  describat  vulnera  Partili  »),  ecc.  ecc.  E  se  guardiamo  pure 
alla  Muna  hjrica  di  Orazio,  chi  non  sente  una  intonazione  epica,  qua  e  là, 
anche  in  molte  odi,  per  es.,  in  quelle  specialmente  del  ciclo  romano,  e  per- 
fino in  qualche  epodo,  come  in  quello  che  comincia  con  il  magnifico  esor- 
dio :   Altera  iam  tcriiur  bellis  civilibus  aetas,  ecc ì 

Lasciamo  adunque  il  suo  verso  {uìiicuique  suum  !)  ad  Orazio,  di  cui  esso 
è  ben  degno,  come  sarebbe  pur  degnissimo  di  Virgilio  o  di  qualche  altro 
poeta  epico  ;  né  una  ragione  di  carattere  metrico  (la  quale,  del  resto,  ab- 
biamo visto  non  essere  consistente)  potrà  farlo  apparire  men  bello  (anzi  la 
costruzione  stessa  metrica  concorre,  qui,  ad  accrescerne  la  bellezza)  o  men  che 
genuino  veramente,  come,  al  contrario,  tenuto  conto  o  no  della  ragione  me- 
trica, nessuno  potrà  mai  ammirare  di  certo  la  bellezza  del  «  suo  gemello  ». 

E  non  appaiamo  inoltre  il  poeta  Orazio,  ben  meritevole,  «  cui...  des 
nominis  hnius  honorem  »,  con  un  semplice  versificatore,  quale  era  Cice- 
rone.... 

Ancora  :  ammesso  pure,  che  Ennio  abbia  avuto  «  spesso  occasione  di 
parlare  di  consoli  »,  come  mai,  per  fermarci  al  solo  verso  oraziano,  si  spie- 
gherebbe in  questo  la  presenza  delle  parole  «  Parthis  »  e  «  principe  »  ?. . .  : 
il  verso  avrebbe  dovuto  essere  stato  ben  rimaneggiato  e  mutato  da  qtiello 
che  doveva  essere  nel  preteso  modello  enniano....  E  infine  è  egli  ammissi- 
bile, che,  se  questo  modello  fosse  realmente  esistito,  nessuno  degli  antichi 
(che  pur  conoscevano,  e  come  !,  le  opere  enuiane)  non  se  ne  fosse  accorto 
così  pel  verso  di  Cicerone  come  i)er  quello  di  Orazio,  e  non  ne  avesse 
quindi  fatto  cenno?  E  notisi  che  si  sarebbe  trattato  «  di  un  passo  celebre 
di  un  classico  »  e  che  questo  classico  avrebbe  dovuto  essere  niun  altri 
che  Ennio.... 

Padova,  ottobre  1916. 

PiETKO  Kasi. 


PER  UNA  RECENSIONE 


A  Giorgio  Pasquali  è  piaciuto  di  (laro  in  questa  rivista  (anno  XIX,  fase.  Marzo- 
Aprile,  pp.  91-4)  una  recensione  del  mio  libro  Poeti  alesiandrini.  A  poche  e  futili 
osservazioni  di  greco,  che  dimostrerò  essenzialmente  erronee,  egli  ha  fatto  prece- 
dere un  lungo  discorso  col  quale  si  è  proposto  di  condannare  dell'opera  mia,  an- 
zitutto, la  lingua  lo  stile  gli  intendimenti  ').  Ma  non  si  6  accorto  che  si  poneva 
da  un  punto  di  vista  criticamente  falso  o  pedantesco,  togliendosi  ogni  diritto  ad 
essere  ascoltato  in  tale  materia  e,  ad  un  tempo,  scoprendo  le  profondità  non  ver- 
tiginose de'  suol  concetti  estetici.  Per  lui  lo  stilo  è  un  addobbo  che  può  essere 
mutato  a  piacimento  ;  egli  non  si  è  chiesto  se  quella  espressione,  da  lui  incrimi- 
nata, non  corrisponda  per  avventura  alle  intuizioni  e  all'animo  dello  scrittore  ; 
se  qnoUo  stile  non  s'imponga,  in  massima,  a  un  libro  che,  non  essendo  di  pura  filo- 
logia, non  può  né  deve  essere  scritto  nel  gergo  filologico  d'ogni  paese,  caro  ai 
Pasquali.  E  non  si  è  chiesto  tutto  ciò  perchè,  sebbene  a  nn  certo  punto,  con  una 
citazione  di  Benedetto  Croce,  dia  a  intendere  di  conoscere  il  movimento  critico  e 
filosofico  moderno,  ha  invece  nel  gindicare  di  letteratura  e  di  storia  metodi  che 
mi  paiono  rudimentali,  e  che,  certamente,  oltre  a  falsare  il  suo  apprezzamento 
stilistico,  gli  fanno  misconoscere  la  natura,  il  carattere,  l'essenza  dell'opera  che 
recensisco. 

Ma  passino  ancora,  per  sé  stessi,  i  metodi,  sui  quali  la  ristrettezza  dello  spazio 
mi  vieta  di  indugiarmi,  e  nei  quali  il  P.  potrebbe  appellarsi  a  disparità  di  idee  : 
prudenza  però,  equitii,  opportunità  scientifica  avrebbero  richiesto  che  egli  avesse 
nozione  di  quegli  altri  metodi  a  cui  il  mio  libro  è  informato  e  dei  quali  egli  di- 
scorre. Ma  non  è  così.  Si  legga  questo  brano,  culminante  :  «  Ed  è  strano  che  il 
Rostagui,  che  fa  pompa  di  tanta  retorica  di  cattivo  gusto,  si  sfoghi  poi  a  chiamar 
retore  chiunque  non  sia  d'accordo  con  lui.  A  p.  316  egli  lamenta  la  consueta  ari- 
dità e  convenzionalità  del  metodo  retorico  imperante  in  questi  studi  filologici. 
A  p.  324  si  scaglia  contro  alcuni  studiosi  (tra  i  qnali  sarei  anche  io  [è,  ò  certa- 
mente]) che  trattarono  del  carattere  e  della  struttura  di  un  componimento  poetico 
'  con  metodo  retorico  e  filologico,  senza  una  visione  profondamente  critica  che 
cerchi  di  cogliere  nell'animo  dell'artista  i  principi  dell'opera  d'arte'.  E  ricusa 
all'esegeta  e  al  filologo  il  diritto  di  occuparsi  di  prohlemi  che  appartengono  al 
critico  d'arte:  o  il  critico  d'arte,  cioà  lui,  grida  gioiosamente  (a  p.  304):  *  Sono 
poste  le  leggi  della  concezione  '.  Da  chi  e  con  qual  diritto?  Non  certo  dall'artista, 
ma  dal  critico  che  le  può  al  piti    ricovero    [sublime  !  tanto    più    in  questa    forma 


1)  Quanto  alla  grammatica,  si  è  contentato  di  darmi  iTna  noia  lezione  ;  ma  bast-a  ad  asBicarargli 
autorità  e  fede  anche  per  il  resto.  «  È  lecito  scrivere  in  italiano  '  dei  Zenone,  dei  Teofrasto,  degli 
Stilpone  '  ? ....  non  si  dovrà  a  norma  di  grammatica  piuttosto  dire  '  degli  Zenon:,  dei  Teofrasti,  degli 
Stilponi  '  ?  »  —  Dunque,  d'ora  innanzi  dovremo  dire  '  i  Danti,  i  Petrarchi  '  non  *  i  Dante,  i  Petrarca  '. 
come  ci  insegnavano  le  Grammatiche,  ad  es.,  il  Fornaciari,  secondo  cui  (vedi  stranezze!)  i  nomi  di 
quella  fatta  erano  invariabili  al  plurale,  tranne  I  terminanti  in  o,  i  quali  soli  polevatw,  volendo,  es- 
sere declinati  (es.  gli  Ariosti,  l  Tassi). 


Per  una  recensione  257 


che  significa  il  contrario  di  ciò  che  il  recensente  vorrebbe  dire].  Precede  una 
strana  analisi  estetica  dell'  inno  ad  Ai)olIo  di  Callimaco.  —  Qual'altra  [sic]  se  non 
questa  è  i)essinia  retorica?  ». 

Di  qui  si  ricavano  due  conclusioni  : 

1)  Che  il  Pasquali  non  ha  effettivamente  alcuna  idea  di  cif)  che  sia  ai  giorni 
nostri  critica  letteraria  od  artistica. 

2)  Che  si  permette  di  giudicare  —  non  senza  acerbità  da  parte  sna  e  non 
senza  sorpresa  degli  intenditori  —  in  materia  che  non  conosce. 

Nel  mio  libro  non  avevo  fatto  dichiarazioni  preliminari  sulla  forma  di  critica 
da  me  coltivata;  e  perchè  non  era  giusto  supporre  l'ignoranza  di  queste  cose;  e 
perchè  credevo  lecito,  per  quanto  poco  usato,  applicare  allo  studio  delle  lettera- 
ture antiche  quei  metodi  che  si  adoperano  orm.ai  largamente  nella  letteratura  ita- 
liana e  nelle  letterature  moderne  e  che  derivano  da  un  generalo  e  imprescindibile 
rinnovamento  del  pensiero  critico  :  rinnovamento  il  quale,  movendo  dal  Vico  e 
dal  Foscolo,  culmina  in  Francesco  De  Sanctis.  Costretto  però  in  alcune  questioni 
particolari  ad  avvertire  il  mio  dissidio  verso  i  metodi  che  si  ritengono  oltrepas- 
sati, mi  ero  servito,  a  designarli,  delle  denominazioni  usate  universalmente  nelle 
moderno  dottrine  dell'arte:  critica  l'eiorica  o  formale  o  pedantesca,  come  si  è  detto 
specie  da  Francesco  De  Sanctis  in  poi.  Il  P.  se  n'  è  adontato  ;  ha  raccolto,  con 
cura  degna  di  miglior  giudizio,  quello  frasi  che  non  intendeva  ;  ha  creduto  di 
ritorcere  un  colpo  attaccando  come  retorico  il  mio  stile  e  facendo  le  beffe  intorno 
a  quelle  frasi  medesime  o  ad  altre  analoghe,  le  quali  il  caso,  assistito  dalla  sua 
ingenuità,  gli  ha  fatto  scegliere  tra  le  più  usitate  o  innocue  di  desanctisiaua  pu- 
rezza. Ahimè!  Io  non  so  quali  stregonerie  gli  sarà  sembrato  di  scorgere  in  qnella 
«  visione  profondamente  critica,  ecc.  ecc.  »,  nonché  in  quelle  «  leggi  della  conce- 
zione »  o  nelle  varie  «  analisi  estetiche  »  di  cui  è  composto  il  libro,  iiarticolar- 
meute  in  quella  dell'inno  ad  Apollo,  che  gli  è  sembrata  strana.  Ma  bene  so  che 
con  questa  preparazione  egli  non  poteva  giudicare  ne  poteva  concludere:  «L'ese- 
gesi (!)  è  fortunatamente  in  questo  libro  i)er  lo  più  molto  migliore  dello  stile  e 
delle  dottrine  estetiche  ».  Dottrine  estetiche?  Quali?  dove?  E  comprende  egli  bene 
che  cosa  sieno  dottrine  estetiche  ?  E  dove  e  come,  se  mai,  le  ha  egli  esaminate  f 
Il  P.,  che  ha  un  culto  cosi  severo  dell'onestà  scientifica,  nell'estetica  si  crede  le- 
cite le  maggiori  audacie.  «  Che  dire  di  uno  storico  a  cui  i  documenti  sono  indif- 
ferenti ?  » 

Dopo  ciò,  non  pensi  il  mio  recensore  che  io  faccia  getto  dell'esegesi,  dell'eiii- 
grafia,  della  diplomatica  ecc.  ecc.,  alle  quali,  anzi,  tengo  come  a  una  gran  parte 
di  me  f^tesso,  e  senza  le  quali  il  mio  libro,  come  ogni  altro,  sarebbe  costruito 
sulla  sabbia.  —  E  lo  seguo  su  questo  nuovo  terreno.  Gli  appunti  che  egli  mi  fa, 
per  questa  parte,  si  riferiscono  tutti  ad  un  unico  verso  (anzi,  un  verso  e  un  iiezzo) 
di  Asclepiade,  ma  offrono  modo  al  suo  equilibrato  raziocinio  di  applicarmi  le  più 
ampie  qualifiche.  Il  testo  che  io  ho  dato  è  qui  :  'rstij  ■^v  v.a.l  vùg,  ocai  xò  Tpitov  àXyoj 
spttìxi|ot|iòj...  Il  P.  per  prima  cosa  trova  una  violazione  di  grammatica  nella  lezione 
àX^os  iptOTt,  che  io  ho  tradotto  italianamente  «  travaglio  di  amore  ».  Ora,  se  anche 
l'appunto  fosse  giusto,  sarebbe  stato  doveroso  rivolgerlo  non  tanto  contro  me,  quanto 
contro  tutta  una  tradizione  che  ha  accettato  come  vulgata  quella  lezione:  e  ricor- 
darsi che  recentemente  auche  il  Crònert,  nella  nuova  edizione  del  Pas.'iow,  ha  creduto 
di  accoglierla  per  uno  speciale  significato  della  parola  SX^oj  (significato  cui  alludo 
anch'  io  nel  mio  volume  p.  196).  Ma  volentieri  io  mi  addosso  tutto  sulle  mie  spalle  : 


258  Avf/uslo  liostagni 


perchè  vedere  qui  un  errore  di  grammatica  è  iiu  non  vedere  molto  a  fondo  nella 
grammatica.  Infatti  l'uso  del  dativo  per  il  genitivo  in  casi  consimili  è  molto  ditt'uso 
nelle  varie  lingue  indoeuropee  ed  anche  nel  greco,  come  dimostrano  molti  esempii, 
riferiti  persino  (a  nou  cercare  piti  lontano)  nel  manuale  del  Brugmann,  p.  460 
(4°  ed.):  ed  è  uso  pifi  che  mai  consentaneo  alla  parola  àXyos,  dove  al  concetto 
espresso  cól  complemento  di  specificazione  o  di  appartenenza  si  sostituisce  facilmente 
il  concetto  di  coramodo.  Che  se  il  P.,  piti  che  del  dativo  in  so  stesso,  si  offende 
dello  astratto  spwxi  ed  inclina  per  lo  èp&VTi  proposto  dallo  Schneider,  io  non  so 
che  dirgli  se  non  consigliarlo  di  non  impacciarsi  più  di  poesia.  —  L'  altra  osser- 
vazione si  riferisco  alla  parola  oì|Jioj,  che  è  congettura  mia  in  luogo  dello  insoste- 
nibile olvoj  e  che  traduco  «  cammino  ».  Leva  la  voce  il  P.,  additandovi  un  pec- 
cato contro  la  proprietà  dei  vocaboli  :  «  oTnog  vuol  dire  sì  '  cammino  '  nel  senso 
di  '  strada  ',  ma  non  in  quello  di  '  viaggio  ',  dì  '  azione  del  camminare  '  che  si 
direbbe  o'i|i7j  . .  »  (con  duo  puntini  in  fine,  ad  indicare  che  il  torrente  dell'erudi- 
zione a  mala  pena  si  è  fermato).  Io  non  so  se  il  P.  creda  che  tutti  debbano  get- 
tarsi a  terra  quando  egli  sentenzia.  Ma  io  sono  un  po'  indiscreto,  e  trovo  che  la 
sua  affermazione  è  radicalmente  falsa  in  entrambe  le  parti.  È  falso  che  oTiicj  non 
voglia  anche  dire  «  cammino  =r  viaggio  »  :  poiché  in  questo  senso  lo  adopera,  a 
non  dire  d'  altri,  Pindaro  Olymp.,  Vili,  69  àv  xitpaaiv  iraEStav  i.Ksd'ifli.xto  y'JÌoi{ 
vóoTOv  éxS'taxov  xal  àxi|ioTépav  YXiBoaav  xai  iTttxpucpov  ol]io'/,  sia  che  si  intenda,  conjo 
ben  nota  il  Boeckh,  «camraìn  di  nostra  vita  »,  sia,  come  parafrasano  gli  scoliasti 
antichi  (p.  239-  Dr.),  ^àSiona  xpucptov  xai  à!i:appvj3(aaxov.  (Ma  Pindaro  —  dicono  — 
non  sapeva  il  greco.  —  Ecco,  io  ho  tuttavia  il  debole  di  credere,  in  ciò,  piìi  a 
Pindaro  che  a  Pasquali^.  Tanto  pifi  poi  è  falso  che  «viaggio»,  «  azione  del  cam- 
minare», si  debba  dire  oi|ir)  :  giacché  di  ot|j.rj  noi  sappiamo  questo  solo,  da  Snida 
ed  Esichio,  che  equivale  ad  o"|ioj  e  ad  48ó;,  cioè  proprio  il  contrario  :  e,  quanto 
agli  scrittori  superstiti,  non  l'adoperano  neanche  in  questo  senso,  ma  solo  in  quello 
di  canto,  di  procedimento  dei  racconti  o  dei  canti.  Che  se  il  P.  ha  dedotto  l' idea 
di  «  azione  del  camminare  »  da  questo  significato  di  procedimento  dei  canti  ecc., 
è  da  osservare  che  il  medesimo  identico  significato  ha  spessissimo  01(105. 

E  qui  un  po'  di  morale.  Non  aveva  il  P.  nulla  di  meglio  su  cui  dare  saggio 
della  sua  sottile  perizia  nella  grammatica  e  nel  lessico  t  Proprio  si  direbbe  di  no. 
Eppure  da  queste  sue  osservazioni  (le  quali,  se  anche  fossero  giuste,  che  non  è,  non 
intaccherebbero  davvero  un  '  grosso  volume  '  fondato  sull'  interpretazione  di  testi 
difficili  e  snlla  conoscenza  di  un  vasto  materiale  letterario,  storico,  epigrafico)  si 
crede  autorizzato  a  rimproverarmi  «  la,  diciamo  così,  ingenuità  grammaticale  »  e 
«  1'  improprietà  lessicale  ».  E  non  s'accorge  che  questo  modo  di  giudicare,  aggiunto 
a  quel  giuoco  di  prestigio  pel  quale  le  violazioni  contro  la  grammatica  ecc.  di- 
ventano «  nei  »  per  ridiventare  «  errori  »  e  il  «  retorico  »  diventa  «  elegante  »  e 
il  «  tedioso  »  «  attraente  »,  rivela  non  altro  se  non  le  sue  caratteristiche  fonda- 
mentali, di  lui  Pasquali  :  la  sproporzione  fra  gli  intenti  e  i  mezzi  ;  la  tendenza  a 
gonfiare  le  piccole  cose  per  poca  capacità  di  comprendere  le  grandi,  a  far  valere  il 
caso  particolare  e  minuzioso  —  che  solo  gli  è  afferrabile  —  per  il  generale  e  l'as- 
soluto, che  gli  è,  nella  sua  vera  natura,  inafferrabile.  E  meno  male  quando  quel 
particolare  è  esatto  !  Ma  anche  nei  particolari  il  cieco  affidamento  nella  propria 
erudizione  (come  abbiamo  piti  volte  dovuto  notare),  facendogli  troppo  presumere 
dell'  ignoranza  altrui,  lo  lascia  cadere  non  di  rado    iu  non  lievi  errori. 

Con  le  stesse  disposizioni  e  con  le  stesse  ragioni  e  sempre    parlando  del  me- 


Per  una  recensione  259 


desiino  verso  il  P.  mi  nnfacc'a  «  certa  impreparazione  diplomatica».  Nel  riferire 
il  testo  greco  sopra  citato,  avevo  scritto  :  «  i  due  versi  sono  noi  codici  (segue  il 
testo)  ».  Due  inesattezze  trova  il  recensente  :  clic  1'  epigramma  è  conservato  solo 
dal  codice  unico  dell'Antologia  Palatina  (grazio  dell'  insegnamento  peregrino)  e 
che  questo  codice  ha  xpitov  senza  il  xó.  Orbene,  le  dne  mie  inesattezze  si  risol- 
vono  in  nua  mancanza  dì  acume  da  parte  del  contraddittore  :  se   ho  parlato, 

compendiosamente,  come  al  mio  scopo  bastava,  di  codici,  6  perchè  alludevo  al  Pa- 
latino e  agli  apografi,  e  so  ho  scritto  za,  è  perchè  il  xó,  mancando  nel  Palatino, 
era  suggerito  appunto  dagli  apografi.  Lo  stesso  dicasi  dell'  altro  caso  accennato 
dal  recensore.  —  Copiare  distesamente  l'apparato  critico  dello  Stadtmneller  era 
più  prudente,  nevvero  ?  ed  era  da  diplomatico  perfetto?  0  quanta  species  ! 

Finita  la  tortura  di  Asclepiade,  il  P.  tratta  di  questioni  varie,  cronologiche 
e  storiografiche,  nello  quali  si  presenta,  8uo  more,  depositario  del  '  vero  '  e  del 
'  certo  '.  Io,  poveretto,  quando  pure  mi  sono  incontrato  con  lo  sue  verità  non 
credevo  di  aver  espresso  altro  che  umili  probabilità.  Tanto  meglio  :  sarò  ora  più 
tranquillo.  —  Della  questione  delle  Cariti  non  voglio  discutere  ancora  una  volta, 
perchè  non  amo  insistere  su  argomenti  ohe,  astrattamente  intesi,  ognuno  stirao-' 
chia  a  sua  posta  per  tutti  i  versi.  Solo  dico  che  l'obiezione  del  P.  era  già  pre- 
vista nel  mio  libro  e  sorpassata.  —  Per  l'Encomio  di  Toleme  il  P.  mi  ammonisce 
di  aver  fatto  dire  a  Teocrito  il  contrario  di  quello  che  dice,  e  afferma  che  i  miei 
«  vari  errori  »,  cioò  tutti  i  surriferiti  errori  suoi,  sono  per  lo  piti  errori  di  in- 
terpretazione :  ma  intanto  comincia  col  farmi  dire  egli  stesso  qualcosa  di  diverso 
da  qnello  che  ho  detto  :  perchè  né  nel  testo  né  nelle  note  ho  afi'ermato  che  l'en- 
comio fosse  composto  quando  la  Guerra  di  Celesiria  non  era  ancora  compiuta  ; 
non  m'  importava  di  determinarlo  :  ho  sostenuto  e  sostengo  cho  dal  v.  97  non  si 
deduce  vecessariamente  che  l'encomio  fosse  composto  a  pace  conclusa  e  che,  se  mai, 
se  ne  dovrebbe  piuttosto  dedurre  il  contrario.  Il  P.  ha  il  dovere  di  ribattere  le 
argomentazioni  storiche  che  ho  portato  e  delle  qnali  non  si  è  probabilmente  curato. 

Un  abbaglio  ancora  più  grave  ha  preso  il  dotto  contraddittore  in  ciò  che  si 
riferisce  al  mito  di  Dafni,  su  cui  spreca  quasi  una  pagina  piena  zeppa  di  confu- 
sioni. Il  mio  errore  consisterebbe  nell'essermi  valso  della  medesima  testimonianza 
di  Servio  (anzi,  del  Servio  Danielino,  com'  egli  opportunamente  m' insegna)  tanto 
per  ricostruire  la  forma  originaria  del  mito,  quanto  per  rappresentare  la  elabora- 
zione artistica  fattane  da  Sositco.  Oh,  meraviglia  !  Lo  scolio  serviano  è  un  rias- 
sunto del  dramma  di  Sositeo,  e  questo  dramma  ci  serve,  astrattine  quei  par- 
ticolari che  sono  frutto  dell'  elaborazione  artistica  (ecco  qui  il  «  cambiamento 
arbitrario  che  io  faccio  della  chiusa,  senza  porre  in  guardia  il  lettore  »  :  in  realtà 
ho  avvertito  e  spiegato  tutto  il  procedimento  nella  n.  17  a  p.  184),  a  delineare  la 
forma  popolare  e  originaria  della  leggenda:  forma  originaria  la  quale  non  è  monca, 
né  fondata  solo  sulla  testimonianza  dello  Ps.-Servio,  come  dice  il  P.  ma  anche 
sulle  altre  testimonianze  che  ho  citate.  Io  non  vedo  come  il  P.  possa  mettersi  allo 
studio  di  qualche  mito,  se  s' illude  di  conoscerò  lo  forme  originarie  per  altra  via 
che  per  quella  da  me  battuta,  e  di  non  valersi  di  «  vedute  sue  particolari  »  sulla 
religione  agraria  o  su  ohe  altro  si  vuole.  Senza  veduto  particolari,  egregio  mio 
contraddittore,  non  ci  si  occupa,  non  puro  di  formo  originarie,  ma  né  di  critica, 
né  di  storia. 

Degli  Inni  di  Callimaco  il  P.  non  ha  creduto  di  poter  discutere,  per  ora.  In- 
tanto, sono  lieto  ohe    all'  unità  di  concezione  dei  quattro  inni,  da  me  dimostrata 


I 


260  Awjusto  Eostagni 


(se  non  erro)  per  la  prima  volta,  dica  dì  credere  anche  lui  adesso  :  tanto  più  che 
è  teoria  nn  po'  ardita  e  non  da  tutti  accettabile,  né  facilmente  prevertnta.  Non 
si  capisce  se  egli  ci  credesse  già  prima.  Dalle  Qitaestionea  eallimaeheae  (Gottin- 
gen  1913)  si  direbbe  di  no.  Ma  il  P.  ama  le  confidenze  intime  :  come  quella  che 
orna  ed  Incorona  la  chiusa  della  sua  recensione  :  «  L'ultima  appendice  dimostra 
essere  l'elegia  di  Properzio  sulla  battaglia  di  Azio  un'  imitazione  di  Callimaco 
[inno  II]  :  io  non  avevo  mai  pensato  altrimenti  ».  Che  ne  pare  al  cortese  lettore  ? 
Il  Pasquali  (bontà  sua)  ha  riconosciuto  con  gioia  che  il  mio  libro  non  è  da 
buttar  via  e  che  vi  ha  imparato  molto  portin  lui.  Io  con  rammarico  debbo  con- 
cludere che,  quanto  a  me,  non  ho  potuto  imparare  altrettanto  dalle  sue  osser- 
vazioni. 

Settembre  1916. 

Augusto  Rostagni. 


Io  persisto  a  credere  che  tra  le  analisi  estetiche  del  Rostagni  dall'  un  lato  e 
i  giudizi  del  De  Sanotis  e  le  dottrine  del  Croce  dall'altro  corra  tanta  differenza 
quanta  tra  il  fumo  e  la  luce.  E  mi  permetto  di  trovare  incomprensibili  asserzioni 
come  quella  che  nell'inno  di  Callimaco  ad  Apollo  «  i  due  poli  del  dramma,  Apollo 
o  Cirene,  giustamente  si  equilibrino  mercè  la  nuova  veduta  »  del  critico.  Anzi  sono 
convinto  che  di  espressioni  e  concezioni  di  tal  genere  il  De  Sanctis  avrebbe  sor- 
riso, come  sono  corto  che  ne  sorriderà  il  Croce,  osservando  con  rassegnata  malin- 
conia le  trasformazioni  singolari  che  dottrine  serie  possono  subire. 

E  a  me  pare  che  il  Rostagni,  nonostante  i  suoi  dinieghi,  proijrio  in  questa 
replica,  faccia  allegramente  getto  della  critica  diplomatica,  se  pure  non  anche 
del  buon  senso,  là  dove  dichiara  di  aver  citato  non  il  ms.  unico  dell'Antologia, 
ma  le  copio  dì  esso,  e  questo  quanto  a  una  parola  elio  non  è  nel  ms.,  ma  nelle 
copie,  che  è  stata  cioè  aggiunta  sia  pure  con  ragione  ma  per  congettura.  E 
mi  domando  invano  quale  diritto  abbia  di  applicare  ad  altri  Vo  quanta  specie» 
chi  considera  accordo  dei  manoscritti  l'accordo  delle  copie  contro  l'originale  con- 
servato. Ognun  vede  quali  mirabili  conseguenze  deriverebbero  dall'applicazione  di 
questo  nuovo  principio  alla  vita  cotidiaua,  p.  e.  a  controversie  testamentarie. 

Io  persisto  a  credere,  nonostante  l'autorità  del  Fornaciarì,  che  i  Teofrasto  e 
gli  SUlpone  suonino  male  all'orecchio  di  chiunque  abbia  succhiato  l'italiano  con 
il  latte  materno,  che  gli  Zenone  paiano  a  ogni  Toscano  un  lombardismo  o  un 
piemontesierao. 

E  non  mi  riesce  nemmeno  di  apprezzar  sempre  le  ragioni  storiche  di  chi  in  un 
passo  deW Encomio  di  Tolomeo,  dov'è  detto  che  «  nessun  nemico,  passato  il  Nilo 
ricco  di  mostri,  inalzò  pedone  il  grido  di  guerra  nei  villaggi  non  suoi  o  dalla  nave 
veloce  balzò  armato  sul  lido,  terribile  ai  buoi  degli  Egizi  »,  scorge  un'allusione 
al  fatto  che  orde  di  stranieri  si  erano  sì  sfrenato  nelle  campagne  egizie,  ma  ne 
erano  state  terrìbilmente  punite  dal  Filadelfo.  Che  altro  se  non  questo,  è  far  dire 
ai  testi  il  contrario  dì  ciò  che  signiticanof  E  il  Rostagni,  per  agevolarsi  la  dimo- 
strazione, ha  (a  p.  57)  tradotto  come  se  nel  testo  stessero  presenti  invece  che 
aoristi,  ha  cioè  ristretto  arbitrariamente  al  presente  quel  che  Teocrito  asserisce 
del  passato,  vale  a  dire  di  tutto  il  regno  del  Filadelfo. 


Per  una  recensione  261 


E  reputo  ancora  illecito  il  procedimento  di  chi,  mentre  asserisce  di  volere 
ricostruire  nna  narrazione  «  nella  sua  forma  semplice,  primitiva,  prescindendo 
dalle  particolarità  e  dalle  aggiunte  dei  singoli  scrittori  »,  appicca,  senza  porre 
in  guardia  esplicitamente  il  lettore,  a  questa  narrazione  una  chiusa,  il  ricupero 
della  ninfa  a  primavera,  che  non  si  accorda  con  nessuna  delle  testimonianze. 

Quanto  alla  grammatica  fe  mio  dovere  strettissimo  riconoscere  che  la  mia  os- 
servazione su  oT(xoj  era  erronea  e  che  il  Eostagni  su  questo  punto  ha  ragione  contro 
me  e  diritto  di  dolersi  di  me.  Ma  non  per  ciò  mi  sembra  piii  accettabile  uè  la  sua 
traduzione  né  il  ano  testo  dell'epigramma  di  Asclepiade  :  «  Pioggia  era  e  vento  e, 
terzo  travaglio  d'amore,  il  cammino  ».  Chiunque  legga  qnesto  parole,  devo  neces- 
sariamente intendere  la  pioggia,  la  notte  e  il  cammino  sieno  travagli  amorosi. 
Ora  io  purtroppo  non  possiedo,  come  il  Kostagni,  lettere  di  franchigia  che  mi 
diano  autorità  dì  giudicar  di  poesia,  proibendolo  contemporaneamente  ad  altri, 
ma  ardisco  trovare  maldestro  e  ridicolo  il  chiamar  travagli  amorosi  la  pioggia, 
la  notte  e  il  cammino.  E  in  «  travagli  d'amore  »  non  mi  riesce  di  trovar  nulla 
di  simile  a  quei  genitivi  che  nel  manuale  di  Brugmann-Thnmb  sono  raccolti  a 
p.  4G1  ^).  Ma  intendiamo  pure  che  «  travagli  d'amore  »  volesse  dire  pene  per 
l'amore,  come  spiega  il  Eostagni  nella  sua  replica,  dove  fa  capolino  quel  con- 
cetto di  comodo,  che  a  me  in  «  travagli  d'amore  »  non  riesce  scorgere,  e  consi- 
deriamo il  testo  greco.  A  me  par  debole  e  borghese  che  Asclepiade  chiami  dolori 
per  l'amore  la  pioggia,  la  notte  e  il  cammino  ;  sembra  strano,  oltre  a  tutto,  che 
la  notte  e  la  pioggia,  che  rendon  grave  la  strada,  siano  messi  alla  pari  di  questa  ; 
sicché  non  mi  perito  a  preferire  dall'un  lato  la  lezione  del  manoscritto  oTvoj  a  o!(iO{, 
che  notte,  pioggia  e  il  vino  bevuto  sconsigliano  il  poeta  dall'andare  in  giro,  e  a 
credere  dall'altro  canto  corrotto  almeno  Ipcoxt.  È  gratuita  la  supposizione  che  io 
voglia  leggere  Èpùivct. 

A  quelle  che  a  me  sombrano  facezie  non  urbane  o  addirittura  scortesie,  sento 
dì  non  dover  rispondere,  come  non  rispondo  ad  altri  che  tenta  colpirmi  nell'onore 
senza  nominarmi. 

Novembre  1916. 

GioRoio  Pasquali. 


^)  Alla  p.  460  che  egli  cita,  non  rai  riesce  di  trovar  nulla  che  faccia  al  caso. 


262  Recensioni 


F.  Ramorino,  Il  libro  di  letture   per  la  III  classe   del   ginnasio,  Firenze,  Barbèra, 
pp.  lv-396.  L.  2,80. 

La  feconda  attività  di  F.  Ramorino  ci  La  dato  anche  (questo  indovinatissimo 
volume,  che  è  il  secondo  di  una  compiuta  serio  di  sillogi  pubblicata  dal  Barbara 
per  lo  studio  degli  autori  latini  nel  ginnasio.  Vi  è  raccolto  il  meglio  degli  scrit- 
tori che  sogliousi  studiare  nella  terza  classe,  in  modo  che  i  giovani  possano  fa- 
cilmente acquistare  un  concetto  adeguato  delle  oxiere,  e  nello  stes.so  tempo  abbondi 
la  materia  per  variare  le  letture  da  un  anno  all'  altro.  Così  nelle  Memorie  di  Co- 
sare de  bello  Gallico  ci  si  offrono  interi  i  libri  primo  e  terzo,  a  cui  sì  intercalano 
e  si  aggiungono  i  passi  piti  importanti  di  tutti  gli  altri  libri  con  tale  connessione, 
che  basta  leggere  1'  indico  per  vedere  come  in  uno  speccliio  tutta  la  trama  del 
racconto  cesariano,  la  quale  si  riempie  nel  testo  e  nelle  note  con  l'argomento  di 
ciascun  libro  e  col  riassunto  delle  parti  tralasciate.  Le  lettere  di  Cicerone  sono  di- 
stribuite a  gruppi  secondo  i  destinatari  (persone  di  famiglia,  amici,  personaggi 
Ijolitici)  e  ordinate  cronologicamente,  con  1'  indicazione,  a  pie  di  pagina,  dell'anno 
in  cui  furono  scritte  e  degli  avvenimenti  ai  quali  si  riferiscono.  Anche  nel  com- 
mento dei  poeti  elegiaci  il  Kamorino  cerca  di  tener  sveglia  l'attenzione  degli  sco- 
lari con  cenni  frequentissimi,  che  mettono  in  rilievo  ogni  rapporto  fra  la  vita  del 
poeta  e  I'  oggetto  della  sua  ispirazione  ;  onde  risalta  subito  il  carattere  pacifico 
e  bucolico  di  Tibullo  e  l'estro  multiforme  di  Ovidio,  che  passa  dalla  spensiera- 
tezza del  Canzoniere  (Amores)  alla  solennità  ieratica  dei  Fasti  •)  e  alle  querimonie 
desolate  delle  Meste  lUoordame  (Tristiu).  «  Giova  sollevar  presto  il  giovano  lettore 
dalle  superate  difficoltà  grammaticali  all'  interesse  delle  cose  dette,  del  sentimento 
che  le  ispira,  della  personalità  di  ohi  scrive,  del  momento  in  cui  scrive  »,  dice 
giustamente  l'esimio  latinista  a  p.  iv,  dimostrandoci  poi  con  l'esempio  come  si 
metta  in  pratica  quest'aureo  principio.  Il  volume  termina  con  una  scelta  di  brani 
tratti  dai  Fatti  e  detti  memorabili  di  Val.  Massimo,  i  quali  sono  destinati  all'eser- 
cizio di  traduzione  domestica  e  di  lettura  all'  impronto  nella  classe. 

I  passi  di  Val.  Massimo,  tre  Epistole  dal  Ponto  di  Ovidio  e  il  settimo  libro 
della  guerra  gallica  sono  senza  note,  ciò  che  torna  assai  opportuno  quando  si  vuol 
vedere  quel  che  sono  capaci  di  fare  i  giovani  posti  direttamente  e  senza  aiuto  alle 
prese  col  testo.  Una  ben  intesa  larghezza  invece,  senza  però  nulla  di  ozioso,  pre- 
senta il  commento  generale  delle  altre  parti,  il  quale  mira  non  a  risparmiare  la 
fatica  della  versione  agli  scolari  svogliati,  ma  ad  «  aiutare  i  volenterosi  a  capire 
i  legami  delle  idee  e  a  facilitare  la  via  di  tradur  bene  ».  Le  notizie  che  il 
Kamorino  dà  per  1'  intelligenza  del  testo,  sulla  vita  degli  autori,  snlla  prosodia 
e  sulla  metrica,  mentre  si  informano  alla  massima  brevità  e  semplicità,  non  tra- 
scurano il  progresso  del  sapere  e  i  nuovi  trovati  della  critica.  Egli,  per  esempio, 
non  si  perita  dì  offrire  ai  piccoli  allievi  della  terza  classe  giunasiale  la  recentis- 
sima teoria  intorno  alla  struttura  del  pentametro,  esposta  nel  1912  contemporanea- 
mente da  Lui  nella  prima  edizione  della  sua  Grammatica  latina  (p.  322)  e  dal  Rasi 
in  Genesi  del  Pentametro  e  caratteri  del  Pentametro  latino,  secondo  la  qual  teoria  il 


^)  Molto  opportunamente  hì  fa  aucUe  sapere  ai  giovanetti  che  i  sei  libri  dei  Fatti  corrispondono 
ai  primi  8ei  mesi  dell'anno,  es-seudo  nel  I  1.  celebrate  le  feste  di  gennaio,  nel  II  qnelle  di  febbraio  ecc. 


Recensioni  263 


pentametro  è  nato   dalla   ripetizione  di  un  mezzo  esametro  a  cesura  semiquinaria. 
Se  nell'esametro 

Viribus  illa  minor  ||  nec  tiabendis  utilis  armis 

facciamo  il  ritornello  della  prima  parte  semiquiuaria,  abbiamo  senz'  altro  il  ritmo 

del  pentametro  : 

Tiribus  illa  minor  ||  viribvs  illa  minor  ; 

divenuto  il  pentamentro  un  verso  per  sé  medesimo,  fu  ammesso  nella  prima  parte 

l'uso   degli    spondei  in  luogo  dei  dattili.  Ognun   vede    elio  la  nuova    spiegazione, 

seientiflcamente  vera,  come  quella  che  si  ispira  all'evoluzione  musicale  dei  metri, 

non  è  meno  semplice  e  Intelligibile  di  tante   barocche   definizioni   ripugnanti   alla 

realtà  della  cosa. 

Concludiamo    augurando    alla    silloge  del  Ramoriiio  la  miglioro  fortuna,    che 

essa  merita  anche  per  la  non  mai    smentita    accuratezza  del  testo  latino  e  per  le 

nitide    illustrazioni,    parecchie    disegnate    artisticamente,  le  quali    sono    collocate 

sempre  al  loro   posto,  in  modo  da  riuscire  di  aiuto    immediato  alla  comprensione 

<lei  passi  e  alle  notizie  del  commento. 

Lucca,  18  ottobre  ]916. 

Paolo  Fabbri. 


ATTI   DELLA  SOeiETà 


Nell'adunanza  generalo  dei  soci  del  25  giugno  1916,  previa  discussione  e  ap- 
provazione del  bilancio  preventivo,  secondo  lo  schema  anticipatamente  comunicato, 
si  procede  alla  elezione  di  un  Vicepresidente  e  di  cinque  consiglieri.  Oltre  ai  soci 
presenti,  presero  parte  alla  votazione  per  mezzo  di  scheda  inviata  in  tempo  iitile, 
1  soci:  Barbèra,  Bastogi  C,  Bastogi  G.,  Brugnola,  Calonghi,  Ciardi-Duprè,  Dalla 
Vedova,  De  Stefani,  Laudi,  Lattea,  Paulucci  de'  Calboli,  Pavolini,  Poggi,  Rasi, 
.Samama,  Soliani,  Stromboli  B.,  Villari. 

Dallo  spoglio  dei  voti  resultarono  eletti  :  a  V.  Presidente  il  prof.  L.  E.  De 
Stefani;  a  Consiglieri  :  il  prof.  G.  Calò,  l'avv.  L.  Casini,  i  professori  P.  E.  Pa- 
volini, Ij.  Peunier  ed  E.  Pistelli. 


Nell'adunanza   generalo   dei   soci  del  31  decembre   1916    fu   discusso  e  appro- 
vato il  bilancio  consuntivo,  previa  lettura  della  Relazione  dei  Sindaci  revisori. 


Per  iniziativa  della  nostra  Società  ebbe  luogo,  il  27  decembre,  un  Convegno 
di  Editori,  di  rappresentanti  di  Accademie  e  di  Facoltà  letterarie  per  addivenire 
alla  costituzione  di  un  «  Comitato  Italiano  per  le  edizioni  nazionali  di  testi  clas- 
sici »  e  per  lo  studio  di  questioni  affini.  Della  importante  riunione  e  delle  delibe- 
razioni che  vi  furono  prese  daremo  ampia  notizia  nel  prossimo  fascicolo. 


Il  22  settembre  scorso  moriva  a  Bolzauo,  in  seguito  alle  ferite  ripor- 
tate in  uno  scontro  in  cui,  dopo  eroica  resistenza,  era  caduto  prigioniero, 
il  nostro  socio  Dott.  CAMILLO  MORELLI,  professore  nel  Liceo  Militare  di 
Roma  e  sottotenente  degli  Alpini. 

Nato  a  Teglio  (Valtellina)  il  10  luglio  1885  Lo  avemmo,  dopo  il  primo 
anno  universitario  passato  a  Bologna,  per  quattro  anni  al  nostro  Istituto 
di  Studi  Superiori,  dove  si  laureò  nel  luglio  del  1907  e  dove  conseguì  il 
diploma  di  perfezionamento  nel  giugno  del  1909,  dopo  aver  seguito,  durante 
il  1908,  i  corsi  di  Gottinga.  Del  Liceo  annesso  al  Collegio  Militare  di  Roma 
fu  insegnante  diligentissimo  ed  efficace,  dal  1910  in  poi.  Con  Camillo 
Morelli  sparisce  una  delle  migliori  speranze  della  giovane  scuola  dei  lati- 
nisti italiani.  In  Lui  si  fondevano,  in  rara  armonia,  le  doti  del  letterato 
elegante  e  del  poeta-umanista  con  quelle  del  filologo  educato  alla  critica 
severa,  all'  indagine  minuta  ed  esatta.  Tre  suoi  poemetti.  Pascila  monta- 
nina (1911),  Inquilimts  urbis  (1913),  Ptieri  ludentes  (1915)  ebbero  il  plauso 
dei  giudici  di  Amsterdam;  mentre  i  suoi  già  numerosi  lavori  di  filologia 
latina  ')  gli  assicuravano  un  posto  cospicuo  tra  gli  studiosi  e  stavano  per 
aprirgli  le  porte  dell'  università. 

Con  profondo  rimpianto  deponiamo  un  fiore  sulla  tomba  che  ha  in- 
ghiottito tante  nobili  e  care  promesse  ;  tomba  oggi  ancora  in  terra  straniera, 
ma  consacrata  italiana  dal  sangue  dei  nostri  figli  e  dei  nostri  fratelli. 

P.  E.  P. 


1)  Li  segnamo  qui,  in  ordine  cronologico  : 

1,  Qttaestiones  in  Mari.  Capellam  (SIFC,  v.  17  ;  fu  la  sua  tesi  di  laurea).  —  2.  ^Epitalamio 
nella  tarda  poesia  latina  (ivi,  v.  18).  —  3.  J  trattati  di  grammatica  e  retorica  del  cod,  ca»anat.  i086 
(Rendic.  Lincei,  1910}.  —  4.  L'elegia  di  Ovidio  in  morte  di  Tibullo  (A.t.  e  Roma,  1910).  --  5.  Not^ 
sulla  Copa  (SIFC,  t,  19|.  —  6.  Studia  in  seros  latinos  poeta»  (ivi).  —  7.  Apuleiana  (ivi,  v.  20  e  21).  — 
8.  Frv^tula  (ivi),  v.  21).  —  9.  Nota  sul  Moretura  (Rendic.  Lincei,  1914).  —  10.  Nerone  poeta  e  i  poet* 
intorno  a  Nerone  (Athenaeum.  aprile  (1914).  —  11.  L'autore  del  cosi  detto  Poema  ultimum  (Dìdascal. 
ITbaldi,  1914).  —  12.  Floro  e  il  certame  capitolino  (At.  e  Roma,  maggio-gingno  1916;  il  suo  ultimo 
scritto).  —  13.  Sulle  traccio  del  romanzo  e  della  novella  (postumo  ;  in  corso  di  stampa  in  SIFC 
V.  XXII). 


P.  E.  Pavolini,  Direttore,  —  Giuseppr  Santini,   Gerente  responsabile, 
44-917    -  Firenze,  Tip.  Enrico  Ariani^  Via  Ghibellina,  51-53. 


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