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A^o XIX.
Gennaio-Febbraio 1916.
N. 205-206.
ATENE E ROMA .^asm
' ' Sbullettino della società italiana ^ • 'b ■■ ^ ^
PER la diffusione E L'INCORAGGIAMENTO DEGLI STUDI CLASSICI
Sede centrale: FIRENZF, Piazza S Marco, 2
Direzione dei Builettino
Firenie — 2, Ftazia S. Marco
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Un fascicolo «e parato . . • 1 -
1T7^^~^^
Amministrazione
Viale Principe Eugenio 29, Fireiit.)
■Q
ORAZIO E LA FILOSOFIA POPOLARE
(CON UNA VERSIONE DELLA SATIRA 7^ DEL LlBRO II)
roclii antichi scrittori hanno per la storia del pensiero umano
l' importanza di Orazio : non già come fondatore o assertore di una
determinata dottrina, ma come testimone del movimento spirituale e
intellettuale che agitava il mondo greco-romano in quell'ora in cui
si apprestava a rinnovarlo il Cristianesimo. Siccome alla religione —
o per dir meglio, alla liturgia — ufficiale non corrispondeva una me-
tafisica né una morale determinata, più o meno sentito, più o meno
costante nei singoli, ma diffuso nell'universale, era il bisogno di cer-
care altrove un contenuto che potesse o sostituire o ravvivare quel
mondo di cose eterne e morte. E questo contenuto era chiesto o alle
religioni orientali piene di fascino e di mistero o all'astrologia cal-
daica o alla filosofìa greca, spesso a una miscela di due di loro o di
tre o auche di più di tre, facendosi un guazzabuglio di più religioni
e superstizioni e filosofie. Le dottrine più opposte incrociandosi, coz-
zando fra loro, smussavano i proprii angoli, rinunziavano a questa o
a quella parte delle proprie ideologie, si sbiadivano nel contrasto.
#
* *
In quésto fluttuar di opinioni, fra questo tentennar di coscienze
dovè prendere la sua posizione, cercare la sua norma di vita anche
Orazio. Si è parlato di una sua inclinazione verso il cinismo, vi è
stato chi ha rintracciato nel poeta i segni dell'educazione accade-
mica ricevuta in Atene, si è favoleggiato di una sua conversione
dall'epicureismo allo stoicismo. Queste varie interpretazioni del suo
pensiero dipendono dal peso maggiore o minore che si è dato a questi
Atene e Roma. i
Vineenso Uggard p^ Cj
OJ^rvO ("9
<) a quelli elementi costitutivi del suo eclettismo. Ma il fondo di
questo eclettismo va fuor di dubbio cercato nell'epicureismo, un epi-
cureismo il quale nell'età giovanile del poeta riconobbe più larga
parte all'i^5ov^ i[ èv xiv^^aet comune anche ai Cirenaici e nell'età più
matura fece più larga parte alla i?j5ov^ fj xaTaat7)|iaTtxi^j propria degli
Epicurei.
A determinare questa prevalenza poterono contribuire molte cir-
costanze esteriori : l'educazione prima che Orazio ebbe dal padre, un
figlio di liberti tiratosi su dalla sua povera condizione, parco ed eco-
nomo, che gli inculcò abitudini e precetti di prudenza e di rinunzia;
l'amara lezione di cose che si buscò, quando studente in Atene aveva
dimenticato quelle abitudini e quei precetti per seguire le armi di
Bruto e tornò in patria decisift humilis pennis, confiscatogli come a
ribelle quel poco che il i)adre gli aveva lasciato, sicché dovè pensare
a procacciarsi un pane. E quel pane egli trovò nel far versi e i versi
richiamarono su lui l'attenzione di un poeta giovine e già famoso,
Vergilio. Ora Vergilio, il Vergilio dell' Ecloga sesta, che si volgeva
allora nell'orbita del pensiero epicureo e riveriva come suo maestro e
suo autore l'epicureo Lucrezio, presentò Orazio all'epicureo Mecenate
e lo introdusse in quei circoli di giovani epicurei che sul golfo di
i^apoli facevano capo a Filodemo e alla famiglia dei Pisoni suoi pro-
tettori. Anche oggi il Corpus poetico oraziano, dove splende come
una stella il nome del divino Vergilio e sorprendiamo più d'un mur-
murc della poesia lucreziana, più d'uno spunto del pensiero fìlode-
miano, si apre col nome di Mecenate, si chiude con l'Arte poetica
ad Pisones.
Era dunque un'atmosfera satura di epicureismo quella che il
giovine poeta respirò a pieni polmoni. Ma anche se queste circostanze
esteriori non si fossero date, non è meno certo che nella scelta tra
le due grandi correnti spirituali che prevalevano nllora, quella del
]>ortico che aveva in sé assorbito il cinismo e quella dell'orto, il poeta
sarebbe stato assistito da due fattori interiori i quali l'avrebbero ine-
sorabilmente spinto verso la seconda: voglio dire il temperamento che
egli ebbe finemente aristocratico in opposizione con le origini plebee
anzi servili, e il senso della misura, mentre gli Stoici, secondo la pa-
rola di Lattanzio, affermavano et servis et mullerihun philosophandum
esse e si compiacevano dell'utopia e del paradosso, offendendo il senso
comune o, per dir meglio, quello della società ben pensante di
allora.
L'offesa è chiara, chi ripensi pure a quei Paradoxa ad M. Brutnm
Orazio e la filosofia popolare
con i quali Cicerone divulgò ai contemporanei e ai posteri i capisaldi
della morale stoica. Ce ne sarebbe abbastanza ancor oggi ponr épater
ìe bourgeois I Ricordiamo qualcuna di quelle verità fondamentali :
'La sola bellezza è la bontà' con che si negava l'arte, recando offesa
alla concezione, diremmo noi, ellenica della vita; 'La virtìi è sni38-
ciente alla felicità' con che si nega la esistenza del dolore fisico e
morale ; ' Non e' è diff"erenza di grado tra le colpe e non ce n' è tra
le virtù' con che si nega l'indulgenza e la carità; 'Solo il filosofo
ha la vera libertà e chi non è filosofo è schiavo' con che si afferma
la libertà spirituale ma si nega quella politica; 'Solo il filosofo è ricco'
e così via. A Orazio questa roba dava ai nervi. ' Solo il filosofo ' egli
scrive in una parte ' ha la vera salute Sì, meno quando ha il raffred-
dore' '). 'Il tìh>8ofo ha la vera ricchezza, la vera bellezza, la vera
potenza.... Sì, ma intanto i monelli gli tirano la barba per strada e
frequenta i bagni popolari dove per prenderci il bagno si paga appena
un quadrante' ^). E anche: 'Avete un bel dire che tutte le colpe
sono eguali ; ma quale filosofo sarebbe capace di mettere in croce il
suo schiavo — uno schiavo rappresentava un certo valore — se gli
ha dato l'ordine di jwrtare via il piatto e quello nel portarlo via si
trangugia le spine di pesce rimaste nel piatto e la salsa? A queste
dottrine, quando si viene sul terreno delle realtà, repugnano il buon
senso e il costume' ^).
Repugnavano cioè, ripetiamolo, per il poeta e per i circoli a cui
egli apparteneva : grandi signori di ieri e arrivati, come era Orazio,
di oggi, gente uscita allora dall'affannoso turbine della guerra civile,
Risoluta a non farsi trascinare in un turbine nuovo, venuta in pos-
sesso di una più o meno discreta agiatezza e chiusa tutta nel suo
godimento; tipo loro il bel cavaliere Tibullo, cui del resto tutti i beni
della natura e della fortuna non riu.scivano a liberare dalle melan-
conie dello spleen. Essi erano naturalmente più inclini all'idea di
Epicuro, che non a tutti i popoli sia accessibile la saggezza *) [se-
condo Clemente Alessandrino, la saggezza era per Epicuro monopolio
dei Greci ')]. Dal concetto della virtù, in contrapposizione con l'utopia
') Bpiat. 1, 108. La tirata ironica dovè aver fortuna, se la troviamo raccolta
da Epitteto I 6, .30: NaC • iXk' al |iugat (lou (Séouot. O era un hon mot di vecchia data
contro gli Stoici f
*) Sat. 3, 125 e sgg.
3) Sat. 3, 80 e sgg.
*) Laerzio Diogene X 117.
') Cfr. Slrom. I 15.
Vincemo Ussani
stoica, non volevano disgiungere un certo senso di moderazione, sen-
tenziando con Orazio: insani sapiem nomen ferat, aequm iniqui, ultra
quam nati» est, virtutem si petat ipsam ')• Desideravano insomma, come
Tacito ci racconta esser riuscito ad Agricola, retinere ex sapientia
modum *). Ma coloro che sofifrivano nella pax Romana, sudditi e schiavi,
per tutte le terre rifiorenti dell'impero, non si sentivano proclivi ai
sereni raccoglimenti della dottrina epicurea e più volentieri ascolta-
vano quella predicazione paradossale a cui abbiamo accennato di sopra.
Quella predicazione negava l'arte; ma essi non avevano e, se aves-
sero avuto, non avrebbero capito che cosa valessero statue, quadri,
ori e argenti cesellati, bronzi di Corinto, andando piuttosto in estasi
dinanzi ai duelli gladiatori! che all'entrata dei circhi apparivano di-
segnati in rosso sul muro. Potevano leggermente convenire che la
sola bellezza era la bontà. Essi non conoscevano le gioie della vita
tìsica, le ambizioni soddisfatte, le conquiste dell'intelletto che coro-
nano la radiosa fronte dei pensatori. Cedevano volentieri alla per-
suasione che la felicità stesse in quel bene che pareva accessibile
con la sola volontà: cioè la virtù. Non avevano la libertà politica:
molte volte, schiavi o tìgli di schiavi, non avevano neanche la libertà
personale. Quando l'acquistavano, il problema della vita si presentava
ancora più minaccioso per loro nella forma della disoccupazione. E
abbracciavano volentieri la dottrina banditrice di eguaglianza che la
vera libertà è la libertà dello spirito e il vero imperatore è non già
colui che comanda agli eserciti, ma colui che comanda alle proprie
passioni: passioni, si capisce, che essi erano incapaci di soddisfare
e al cui mancato soddisfacimento cercavano un compenso, come av-
viene, nel disprezzo. D'altra parte Orazio ha un bel chiamar forsen-
nato colui che crocifigge il servo il quale nel portar via da tavola
il piatto trangugia in fretta la spina del pesce. Certo ad ammazzare
si giungeva di rado, ma in una società, come direbbe il Nietzsche,
essenzialmente fondata su la morale dei padroni, le busse erano all'or
dine del giorno. La signora a cui il cane del vicino rompeva il sonno
faceva bastonare cane e padrone ') e lasciava andare, per un ricciolo
fuori di posto, una scudisciata alla schiava che con i capelli scarmi-
gliati e la tunica rimboccata alla vita le accomodava sul capo l'ac-
conciatura turrita *).
1) Epiit. 6, 15-16.
*) Agrio. i.
3) Giovenale VI 415.
*) Giovenale VI 490 e sgg.
Orazio e la filosofia popolare
A questa folla misera e dolente i balsami della consolazione ve-
nivano dispensati da fanatici che discendevano da superiori classi
sociali o che uscivano da lei stessa e da mestieranti ciarlatani che
della propaganda della dottrina facevano speculazione, vivendoci so-
pra. Naturalmente la predicazione stoica non mirava soltanto a loro,
ma dava la scalata anche alle classi superiori della società e perfino
al trono. Il migliorato governo di Augusto fu attribuito da Giuliano
l'Apostatii appunto a Zenone che gli sussurrò all'orecchio jitxpà Ttov
5o-^\).xx{!}w ') e a mano a mano che la nuova dittatura si veniva ricon-
ciliando con le antiche classi politiche tornava di moda Crisippo zòy
TToXtxtxòv èTracvwv ^t'ov ^) ; onde non fu raro incontrare presso il patri-
ziato il filosofo habitué della casa e consigliere, come saranno poi i
confessori, incaricato della educazione dei giovini, confortatore nei
pericoli, assistente al capezzale nelle ore supreme. E non mancarono
tra questi professori di tìlosoUa spiriti nobili e colti, preparati e scal-
triti a tutte le sottigliezze della dialettica e della rettorica. Ma per
gli umili i predicatori del credo stoico sono, come dicevamo, dei
mendicanti per l'anima dei quali la dottrina passava non come attra-
verso un filtro ma come attraverso una fogna. Incolti i capelli e
arrulfata la barba che cade loro sul petto, girano di paese in paese
con una bisaccia, un lacero mantello, un bastone. Facendo concor-
renza agli spacciatori di cerotti, si fermano al mercato, dinanzi alle
basiliche, nei crocicchi popolosi, attaccano discorso col primo che
passa, alzano la voce, qualche altro si avvicina, la conversazione
diventa sermone e omelia. C'è chi ride, c'è chi schiamazza, ma c'è
anche chi getta il tozzo del pane o una manciata di lupini [latratoti
cibos, dice Marziale ')] nella bisaccia, chi fa al profeta errante l'ele-
mosina di un tetto, del quale del resto, come Diogene, si può far a
meno. E il giorno dopo novamente in cammino verso nuovi cieli, nuovi
pubblici — e perchè nof — trufte nuove nobilitando il proprio me-
stiere con gli esempi di Ulisse e di Ercole e la propria nudità mal
coperta con l'autorità di Diogene, Swxpàxir)i; dicevano i ben pensanti,
6 |iatvó(i.£vos che seppe disprezzare la munificenza del Magno Ales-
sandro e, a Roma, con la citazione di Catone Uticense che andava at-
torno a piedi scalzi e in corta toga *).
') Convivium 309 C.
') Plutarco, Stoie. repugn. 2.
3) IV 53.
*) Orazio, Epist. 19, 14.
Vincenzo Ugsani
Le origini di questo movimento popolare nella filosofia erano
antiche. Noi le possiamo seguire fin tra gli orrori e gli errori della
prima età ellenistica, quando i predicatori cinici trovarono un ter-
reno fruttuoso alla loro propaganda in una società che dalle rovine
del passato si lanciava verso una nuova vita, tutta in preda alle
inquietudini proprie delle età di transizione e agli incerti presagi del-
l'avvenire '). Già nella prima metà del terzo secolo contro la loro
immoralità si levava l'epigramma di Leonida di Taranto e la morda-
cità di Menippo *). Ma a mano a mano che le plebi si affacciavano
al limitare della storia, a mano a mano che, rotti prima da Ales-
sandro e poi da Roma i cancelli che dividevano l'Oriente dall'Occi-
dente, una turba multilingue si precipitò nel mondo mediterraneo e
non si volle rassegnare all' idea che ci fosse una differenza tra do-
minatori e dominati, la furia travolgente di quella propaganda venne
crescendo. Lo stato, o meglio le classi sociali che vivevano alla su-
perficie della società, per quella specie di cecità fatale che reude
possibili o meglio impone le grandi crisi della storia, non valutarono
mai nel suo giusto peso il pericolo che moveva da quella predica-
zione, specie di tremuoto covante nel sottosuolo. Combatterono di
buon'ora, a cominciare dal senato-consulto De Bacchanalibus. i mi-
steri, l'astrologia, quelle forme di superstizione e di culto straniero
che parevan attentare alla religione dello stato ; bandirono da Roma
e dall'Italia i filosofi, per così dire, di cartello e ne chiusero al tempo
dell'Impero le scuole, ogni qual volta a furia di sentir parlare di
èXeu&epi'a dello spirito i discendenti delle antiche famiglie senatorie
si atteggiarono a vindici delle agonizzanti libertà politiche e a spre-
giatori dei tiranni che se ti possono togliere la vita, non ti possono
togliere la virtù. Abbandonarono la filosofia popolare e mendicante
a se stessa ; incapaci di colpirla nelle molteplici forme della sua pre-
dicazione, che tra i suoi luoghi comuni ebbe fin anche la guerra ai
filosofi più in vista vituperati come impostori; o meglio non la ab-
bandonarono a se stessa, ma alle comuni misure dei funzionarli di po-
lizia e di giustizia, i quali non scherzavano davvero al momento op-
') Cfr. Wkndland, Die hellenistisch-romische KnHur in ihren heziehuiigeii zu
ludeìitum und Christentiim, 2<^ Aiitl. p. 81.
*) Cfr. Geffckbn, Kynika und rerwandies p. 5.
Orazio e la filosofia popolare
portano, proporzionaudo la repressione all'offesa. Così quando due
Cinici iu pieno teatro predicarono con l'ardire di S. Giovanni contro
l'unione di Tito con la bellissima ebrea Berenice, il primo fu flagel-
lato, il secondo decapitato '). Ma in genere le cose, come abbiam detto,
passavano lisce, e la filosofia popolare seguitava a fermentare nel suo
seno il lievito rivoluzionario che doveva rifare la società.
Alludo al Cristianesimo, giacché coloro che dai pescatori di Ga
lilea ricevettero a propagarla la dottri)ia di Gesù, non differirono in
nulla in quanto all'abito, alla maniera e alla forma della predicazione
da questi moralisti popolari errabondi. Erano anche essi, diciamo
piuttosto, molti di essi, dei fanniilloni girovaghi, contro i quali le
chiese stavano all'erta già quasi nell'età apostolica. La così detta
Dottrina degli Apostoli, una specie di regola per le comunità cri-
stiane compilata nella seconda metà del primo secolo, dà nei cap. 12-13
i precetti che devono essere seguiti nei riguardi loro : ' Chiunque
venga a voi nel nome del Signore, ricevetelo, ma poi esaminatelo e
cercate di conoscere col vostro buon senso se batte via buona o cat-
tiva. Se egli è di passaggio, aiutatelo quanto potete; ma non si deve
trattenere presso di voi piìi di due o per necessità tre giorni. Se
vuole stabilirsi presso di voi e ha un mestiere, lavori e riceva la sua
parte di vitto. Ma se non ha mestiere, guardatevi che non viva in
mezzo a voi un cristiano ozioso. Ma se non vuol fare in questo modo,
fa mercato del nome di Cristo: guardatevi da tale genìa '. Non dun-
que neanche nella predicazione evangelica tutto quello che luceva
era oro, presso a poco come nella propaganda popolare. E propaganda
popolare e propaganda evangelica si scontravano nelle piazze e nelle
vie, si contendevano le anime. Un personaggio di Luciano, Peregrino
Proteo, predicatore cinico, si affilia a una comunità di cristiani, poi
ha una baruff"a con loro, ne esce e si rifa cinico. Un altro Cinico,
Crescente, vedeva, secondo la testimonianza di S. Giustino, nei pre-
dicatori cristiani degli incomodi concorrenti. Per venire ad un esempio
di gran lunga più noto e più vicino all'età di Orazio, gli Atti degli
Apostoli ci presentano S. Paolo che venuto in Atene, dopo essersi
intrattenuto con i Giudei e con i proseliti nella sinagoga, esce nel
mercato e tien discorso con chi gli si presenti. Filosofi stoici ed epi-
curei (filosofi evidentemente di piazza), seguita la narrazione, venivano
in discussione con lui, e e' era chi diceva : ' Che vorrebbe mai dire
questo ciarlatano?' e gli altri: 'Pare che sia banditore di nuove di-
^) Cassio Dione LXVI, 15.
Vincenzo Ussani
vinità'; perchè egli annunziava Gesù e la resurrezione. E così pre-
solo lo portarono all'Areopago dicendo : ' Possiamo sapere qual è la
nuova dottrina di cui vai cianciando ! perchè tu fai sonare alle no-
stre orecchie qualcosa di insueto: noi vogliamo dunque sapere che
è questo '.
E l'apostolo nell'Areopago ove il voto di Atena aveva già as-
solto con civile pietà il matricida Oreste perseguitato dalle Furie,
t«nne il suo celebre discorso cominciando: 'O Ateniesi, io vedo che
voi siete in tutto assai timorosi della divinità. Perchè, passando ed
osservando i vostri sacrarli, trovai anche un altare sul quale era
scritto: Al dio ignoto. Io vengo dunque a rivelarvi colui che voi
onorate senza conoscere '. Paolo fu in Atene tra il 49 e il 50 d. C.
Orbene presso a poco nello stesso tempo cade l'àx|iTj e sotto Nerva
la morte del grande taumaturgo stoico, errabondo come Paolo, Apol-
lonio di Tiana in Cappadocia, che percorse il mondo per restituire il
senso religioso agli uomini immemori della divinità. Strana coinci-
denza. Egli giunse in Atene circa la metà del primo secolo, ne visitò
i santuarii, notò anche egli l'altare innalzato, secondo il suo biografo,
agli dei ignoti e lo ritenne come segno della tradizionale pietà degli
Ateniesi : onde in un suo discorso ne derivò loro l'obbligo di ripa-
rare i sopravvenuti oltraggi contro la religiosità. E in quel discorso
dettò sì delle prescrizioni sul culto delle singole divinità ; ma disse
che il dio unico e altissimo che domina su tutte queste divinità è
un essere di pura essenza spirituale e non dovrebbe essere dunque
onorato con forme cultuali ; ma solo in ispirito *).
Evidentemente, se non fosse stato il nome di Gesù e la resur-
rezione dei morti, dalla bocca di Paolo nulla avrebbero sentito gli
Ateniesi che potesse maravigliar troppo gli uditori passati o futuri
di Apollonio ^).
*
* *
Son venuto allontanandomi dai tempi di Orazio e illustrando i
rapporti tra la predicazione popolare fllosoflca e il Cristianesimo, per
dimostrare la portata di questo movimento, contro il quale, come
abbiam detto, i^on mancava l'autorità politica di servirsi al momento
*) Cfr. NORDBN, Agnostos Theos, p. 47 e sgg.
') Il NORDKN, op. cit. , p. 46, è giunto fino all'ipotesi che il redattore degli
Atti abbia conosciuto lo scritto di Apollonio o un'opera nella qnale questo veniva
riferito con maggiore esattezza che non nel biografo di Apollonio, Filostrato.
Orasio e la Jilosojia popolare
opportuno dello ius coercitionis. Al teinpo di Orazio non si era ancora
a questo e la propaganda dei crocicchi e delle strade si poteva combat-
tere come la combatte Orazio con la satira e l'umorismo investendo,
secondo una tecnica tradizionale che dai tempi della commedia greca
si propaga fino a quelli di Gregorio di Nazianzo, non solo le dottrine
ma anche l'abito, lo oyri\i.<ic, di questi filosofi ').
Il nostro poeta colpisce in pieno i propagandisti mostrandone in
azione la petulanza e la improntitudine specialmente in due satire del
libro secondo, in una delle quali, la terza, un mercante fallito, in un'al-
tra, la settima, uno schiavo del Venosino stesso, di nome Davo, che
era stato ammaestrato dal portinaio di un filosofo, pretendono di fare
non a se stessi ma a lui l'esame di coscienza. E di questo secondo com-
ponimento, che è il i)iù breve dei due, io presento qui un saggio di
traduzione perchè illumini quel che precede e ne sia a vicenda illu-
minato. È la festa dei Saturnali durante la quale era concessa agli
schiavi libertà di parola. Mentre il poeta, che si crede solo, è intento
a leggere, come gli antichi facevano, ad alta voce, lo schiavo, con-
vertito allo stoicismo dal portinaio del filosofastro Crispino, sta aspet-
tando una pausa nella lettura per intervenire d'un tratto a convertire
a sua volta il padrone. — Questi l'ascolta con impazienza crescente,
finché all'ultimo chiede una pietra o uno strale per accopparlo e, non
avendo a portata nessun' arma, lo caccia via minacciandolo di trasfe-
rirlo dal servizio di città a quello della campagna, alla tenuta cioè
di Sabina dove egli teneva già otto servi.
D. (Davo) — (). (Orazio).
D. È permesso ad un servo che ha voglia di parlare
Farsi sentire ? È un pezzo che 8to qui ad ascoltare. —
O. Davof —
D. Sì, Davo, servo devoto a '1 suo signore
E onesto quanto basta per dir : Presto e' non muore ! —
O. Va bene. I padri nostri libertà di parola
Concessero a Decembre. Usane e parla. —
D. Sola
Una parte de gli uomini ostinata ne '1 vizio
Si crogiola e il peccato persegue a precipizio,
La maggioranza ondeggia, ora s'appiglia a i sani
Propositi, a i cattivi presta orecchio domani.
A l'apparir di Prisco spesso si criticava
Che portasse tre anelli ; ma lui si presentava
1) Cfr. Gkfkckkn, op. cit., p. 53.
10 Vinceneo Usaani
Va' altra volta con la sinistra ignnda. Senza
Uii'onibra di carattere trasse la sna esistenza :
Cambiava di toletta ogni ora ; da nn regale
Palagio tntto a nn tratto passava a nn sottosoale,
Di dove a nscire in strada dovrebbe vergognarsi
Il tigliuol d'ano schiavo in via d' impannncciarsi.
La gente adora nn dio delle trasformazioni :
Kgli snbia di molti le persecnzioiii.
A Roma beUimhusto oggi era il suo ideale,
Filosofo ad Alene domani. Meno male
A '1 confronto di tale bestia che s'arrovella
Ora stendendo ed ora lentando la tirella,
Chi è saldo in un sol vizio. Tipo quello scroccone
Di pranzi, Volanerio, che quando con ragione
La gotta le giunture de i diti gli aggranchì,
Si provvide d'un omo, dandogli un tanto a '1 di,
E badava a ingrassarlo, perchè gli raccattasse
I dadi da la tavola e per lui li cacciasse
Ne '1 bossolo... —
O. In giornata spero che finirai
Per spiegarmi a che miri e dirmi con chi l'hai
Con questi rancidumi ^), mal arnese. —
D. Con te
Proprio. —
O. Canaglia, e come? --
D. Tu sei ben quello che
De i virtuosi antichi celebri la fortuna
Modesta e le abitudini, ma se per caso alcuna
Divinità volesse regalarti ad un tratto
I beni che decauti, ti opporresti a '1 baratto :
O perchè tu non pensi che il maggior bene è vera-
mente quello che dici o perchè non sai fiera-
mente il bene difendere. Tu distrigar vorresti
II pie da '1 fango. Invano, che impantanato resti.
In Roma i tuoi sospiri sono per l'aria pura
De i campi e in villa con la maggior disinvoltui»
La città che non hai, levi a '1 cielo. Non v'ha
Invito alcuno a pranzo ? Tu la semplicità
D'nn piatto di legumi celebri e ' A questo modo '
Blateri ' io son davvero contento e me la godo
Che non mi tocca bere per forza'. È da pensare
Che chi ti vuol a pranzo ti ci debba tirare
Con le catene. Invece poni che tardi sia
E già de i primi lumi s'illumini la via
Ma ti giunga nn invito di Mecenate : ' Presto
0 Qnel confvimto tra la costanza e l'incostanza era tra i liioglii coiunni rìella predicazione po-
polare.
Orazio e la filosofia popolare 11
L'olio a le lampe ' ' Siete tutti morti f ' Con questo
Grido tu scappi e Mulvio coi parassiti tuoi
Giù moccoli che occorre tu non risappia poi,
Tornandosene a pancia vuota.
{Orazio prende un'aria interrogativa)
Facciamo il caso
Cile abbia detto: ' Io son schiavo del ventre, è vero; ho il naso
A l'erta, quando spira un odorino buono ;
Sono un disntilaccio, un buono a nulla, sono,
Se non ti basta tanto, anche un freqnentatore
Di bettole. Ma tu simile a me, peggiore
Forse anche, onde la cavi codesta autorità
Di riprendermi in tono di superiorità
E vestir la tna colpa di sjìlendide parole t ' —
Tu mi hai comprato al prezzo di cinquecento sole
Dramme; ma, ci scommetto ch'essere tu non sai
Al par di me filosofo.
(Orazio fa un gesto di minaccia)
Che occhiacci clie mi fai !
Frena la mano e l'ira in fin ch'io ti sciorino
Quello che m'ha insegnato il portier di Crispino. —
Dietro a una puttanella spasima Davo e tu
A l'altrui moglie : quale do i due peccati è più
Degno di croce? — Quando l'arder de '1 sesso reso
M'ha rigido, a '1 chiarore di un lume ben acceso
Una donnetta spoglia riceve su la groppa
De la mia coda gonfia le botte o via galoppa
Su '1 destriero impennato, libidinosamente.
Poi mi licenzia ed io non sotì'io proprio niente
Ne '1 mio buon nome, mentre proprio mi torna eguale
Che un piti ricco o piii bello pisci anche in quel pitale.
Tu getti i distintivi de '1 cavalier romano.
Costume e anello, ascondi la testa ne '1 gabbano
Azzimata e te n'esci di casa, magistrato.
Truccato a sozzo schiavo. Ma che ! non sei truccato.
Sei proprio la tua maschera : ti fanno entrar sgomento :
Tremi entro l'ossa, dove in lotta è lo spavento
Con le tue impure brame. Che differenza fai
Se tu con un contratto l' impegno assunto avrai
Che ti possan le verghe la pelle arroventare.
Che di ferro t'ammazzino, ed esci a passeggiare,
O se ti tocca a stare ben raggomitolato,
Co '1 capo su i ginocchi, dentro lo svergognato
Baule dove t'ebbe rinchiuso la servetta
Che a la padrona il sacco regge? — A '1 marito spetta
De la signora adultera legittimo di morte
Il dritto sovra i due? Penso, a ragion pih forte
Su '1 drudo. Almeno lei non si camuffa e resta
12 Vineeneo Ussani
In casa e »o\ luontaudo sopra a peccar si presta.
Dunque ha di te paura né s'abbandona lei,
Donna, a '1 carnai piacere : tu che un uoni serio sei
T'incollerai la forca? a un si folle signore,
Affiderai sostanze, vita, persona, onore f —
Te l'hai cavata : allora credo che appreso avrai
La cautela e il giudizio. Ma che ! tu cercherai
L'occasion d'un altro spavento, d'nn mortale
Nuovo periglio, o schiavo le tante volte ! O quale
Aninialaccio, dopo che infranto le catene
Fuggì pur una volta, ii ritrovar le viene f
(Orazio fa un gesto di diniegoì
'Io non so d'adnlterii ' dici. E neppure io tento
Per Ercole appropriarmi i servizi d'argento,
Perchè ci ho fior di senno. Ma togli il rischio via
E senza freno in corsa si lancerà la ria
Natura a scapricciarsi. Tn mio padrone che
Tanti padroni e tanto tiranni hai sopra te.
Cose e persone, e vivi per questo in un terrore
Inelìabile e hai d'uopo pili d'un liberatore?
Aggiungi un argomento che meu non pesa : se
Io pago un altro servo che lavori per me.
Voi dite io ho messo il mio scambio, mentre io lo chiamo
Compagno di servaggio : io e te che cosa siamo <
Pensaci : io son tuo servo, tu servi, poverino,
Ad altri, a gli altrui fili docile burattino. —
Nessuno allora è libero f No. La fllosotìa
ft quella che ti dà la vera autonomia,
Ti libera da tutte le paure, la morte
La miseria, la carcere ; ti corazza da forte
Contro le tentazioni, contro l'ambizione
Politica, ti chiude ne l'osservazione
Di te stesso e a la fine una palla ti fu
Liscia e ritonda dove presa alcuna non ha
Lo stimolo esteriore che non vi trova uuUa
Dove aggrapparsi. A vuoto sempre s'avventa su la
Filosofia la sorte. Come tua proprietà
Qualche virtù di queste tu riconosci ? T'ha
Chiesto una putta cinque talenti, ti punzecchia,
Ti mette fuor de l'uscio, ti rovescia una secchia
D'acqua gelata addosso; poi ti manda a chiamare.
B l'ora di potersi davvero liberare
Da l'indegno servaggio. Gridala la parola :
' Io sono un uomo libero'. Ahimè ti muore in gola.
Un tiranno inclemente sta in groppa a '1 tuo pensiero :
Ei restio gli recalcitra ; ma sprona il cavaliere
E lo stanca e lo domina. — Ancora un altro esempio.
Tutto dinoccolato tu resti, a volte, o scempio.
Orazio e la filosojia popolare 13
Dinanzi a un piccioletto quadro di Pausia. Io dritto
Rigido su le punte de 1 piedi un gran conflitto
Di gladiatori ammiro che a '1 muro o in affissione
Appare disegnato co '1 rosso o co '1 carbone.
Il Biondino, Pacione, Baruffa ') in viva giostra
Sembran colpir, parare. Una è la colpa nostra.
Ma Davo è un birbaccione, un perdigiorno, tu
Conoscitore esimio de l'arte che già fu. —
10 son un uom da nulla, se mi lascio tirare
Da una stiacciata calda che fuma : trionfare.
Di', sa la tua grande anima sopra la tentazione
D' un pranzo succulento ? Perchè la devozione
De '1 ventre fa pifi danno a me che son picchiato ?
Come mai te la cavi tanto più a buon mercato
Tu in cerca di quei piatti che per poco non si hanno ?
(Vero è che, mangia e mangia, l'indigestione danno
I banchetti e le gambe tradite ne l'uffizio
A '1 corpo deformato negano il lor servizio)
O forse a l'annottare pe '1 servo gli è peccato
Cangiare con un grappolo la stregghia che ha rubato.
Chi a gli ordini obbedendo de l'ingordigia i suoi
Poderi vende, servo di lei non è ? — C è poi
Da aggiungere anche questo : che tu non hai potere
Di meditare un'ora, di impiegare a dovere
11 tempo ohe t'avanza, che de la tua coscienza
Servo che se la batte, eviti la presenza,
Ora ricorri a '1 sonno, ora ricorri a '1 vino
Per sottrarti a '1 rimorso. Ma invano. È a te vicino
E ti segue e t'incalza compagno tuo ferale
O. Dov' è una pietra ?
D. A farne che cosa ?
O. Ov' è uno strale f
D. O impazzisce <> fa versi.
O. Vattene su l'istante
O la villa sabina ha il nono lavorante.
Vincenzo Ussani.
•) li testo ai vv. 96-97 ha Fulvi Eutubaeque | aut Pacideiani. Ma a me è parso che mi sarei
mantenuto più veramente fedele alla festività dell'originale rendendo i nomi o nomìgnoli, se pure di
gladiatori già morti e celebri, nel loro significato, così come ho fatto, che non conservandoli pedan-
tescamente nella forma latina, muta per noi. E forse lo stesso era da fare per il nome che imme-
diatamente precede di P.ausia, giacché è fuori dubbio che nel v. 95
vel cnm Pausìaca torpes, insane, tabella,
uno stretto rapporto intercede tra il PaitMaca e il torpes. Davo vuol dire che quel pittore di latton-
zoli (Plinio, H. K,, XXXV, 124), ottiene un etletto su Orazio e gli altri suoi ammirateri corrispon-
dente all'etimologia del suo nome (Pausia da Ttauu)'), mentre a lui fa tendere i garretti quel mani-
festo teatrale tutto fuoco e strepito d'armi. Ma il lettore intelligente capirà la mìa esitazione dinanzi
all' alterazione del nome storico dì un contemporaneo dì Apelle che sarebbe diventato, per esem-
pio, Dormiglioso o Sonnacchioso.
QUINTO OKAZIO FLACCO
Wilhelm Sclionax;k in un suo utile libro {Der Horaz- Unterricht. Ein
Beitrag zur Didaktik und Methodik des Lateinischen in der Gyninasial -
prima - Weidmann, 1912, 8", pp. 144), tra le altre cose, ha avuto il merito
di riconoscere all'opera d'Orazio l'importanza di una poesia elevata, gagliarda,
calda, nobilissima. Questo concetto che non si trova affermato esplicitamente
dal critico tedesco in alcun luogo, ma che risulta qua e là dal complesso
del suo volume, non è comune neppur oggi agli studiosi di quel poeta,
nonostante qualche voce che isolatamente si è pur levata per rivendicare
ad Orazio la fama che senza dubbio gli spetta.
Io invero in faccende di questo genere la penserei, né più né meno,
come la pensava un nostro grande critico di questo secolo, il Carducci, il
quale non poteva tenersi dal ridere di compassione ogni qual volta gli si
affacciava al pensiero la Difesa di Dante fatta dal Gozzi contro le insulsag-
gini del Bettinelli, — come se Dante avesse avuto bisogno d'esser difeso! — ;
e che contro colui, il quale parlavagli di un monumento da erigersi a Dante
in Trieste, scattava su, protestando che l'Alighieri non ha bisogno di mo-
numenti, e che il suo genio pensa da sé a rendersi più luminoso e gigante
man mano che i secoli passino e che la civiltà umana si espanda. Lo stesso
sarebbe da dire per Orazio, a proposito del quale basterebbe dare uno sguardo
alla letteratura non pure dell'Italia, ma della Francia, della Germania e di
ogni paese, che vanti originalità di pensiero e ben distinta individualità
letteraria nazionale, per avvedersi della grande influenza che la poesia ora-
ziana ha esercitato in ogni tempo e sott' ogni forma. Poiché Orazio nella
letteratura latina, come ben ha detto il Lejaj' '), appartiene -piò. all'età che
gli successe che a quella che Io precedette; sotto il qual riguardo Orazio
è del tutto moderno, e strettamente affine al nostro modo di pensare e di
sentire; è, in una parola, il più grande precursore e creatore della lirica
nostra soggettiva e sentimentale ; con tale una varietà di aspetti, con tale
un insieme di elementi interni ed esterni, che qui, più che nel caso di qua-
lunque altro autore, tu scorgi l'intimo e robusto legame della personalità
d'(Jrazio con le condizioni dell'età sua e dello stato, preso come individuo,
e quasi un fluire ininterrotto di correnti morali e spirituali dal di fuori al
di dentro di quella personalità e viceversa ; per cui si trova Orazio come
specchio fedelissimo dei suoi tempi e l'età d'Augusto come specchi» non
') Oeuvre» d' Borace - Satire» publiées par Paul Lejay, Paris, 1911. Intro-
dnction, pag. xiii : « nous aiirons plutòt à eonfronter Horace avec les écrivains
de l'àge suivant qu' avec ses devanciers ».
Q II in lo Orazio Fiacco 15-
meu fedele d'Orazio. Se dunque l'opera di esso è l'elaborazione d'un inge-
gno, che sente perpetua su di sé l' imminenza dei fattori sociali e politici,
da lui volontariamente o inconsciamente riprodotti ; se l'opera d' Orazio è
il riflesso d'una coscienza che sì adatta all'ambiente, senza però asservircisi,
e dalla osservazione quotidiana della vita e degli uomini ricava sempre uti-
lissimi argomenti di saggezza e di virtù; se quell'opera è il prodotto orga-
nico d'una serie di sentimenti; se in essa si scorge l'espressione di un si-
stema d'idee, che impronta di sé la materia poetica, coordinandola ad un
fine, e assegnandole un' unità ben compatta di forma e di pensiero; se, in
altri termini, storia, arte e filosofia sono i centri conduttori dell'attività
psichica e intellettuale di quel poeta, come negare alle composizioni d'Orazio
ogni valore di poesia vera e propria ?
Date queste circostanze, non si dovrebbe neppur debolmente sentire il
bisogno di scendere in campo e spezzare una lancia contro la non piccola
moltitudine dei detrattori. Orazio si fa strada da sé. Tuttavia non può dirsi
che in certi casi non valga proprio la pena di mettere in vista, come noi
faremo tra poco, a scopo di curiosità, gli eccessi a cui può giungere una
niente n(m ben disciplinata dalle regole dell'osservazione e dalle esigenze
della critica esatta.
Per i critici del secolo scorso, trnnseat ! Le ricerche scientifiche e i
metodi d'indagine non erano ancora perfetti; molte particolarità non erano
ancora risaltate agli occhi; durava l'opinione che Orazio fosse stato un vile;
e avesse gittato lo scudo, dnndosi vergognosamente alla fuga nella battaglia
di Filippi Ma oggi, fra tanto lume di critica, fra tant* forme diverse di
considerare molte questioni, prima dubbie, oscure, insolubili ; fra tanto fer-
vore di studi rinnovati andar ripetendo che Orazio non è poeta, che nelle
sue odi la poesia manca affatto, ed altre frasi di questo genere!... È vera-
mente un voler esser ciechi e sordi ad ogni costo; contro di che stimo che
sarà bene spendere (lualche parola, non tanto in difesa d'Orazio, che non
ne ha di bisogno, quanso per vedere che razza di critica si faccia oggi da
taluni, e perchè in tal modo mi si offrirà l'occasione di toccare di certe
debolezze di giudizio nel lavoro dello Sclionack.
11 Friedrich '), ultimamente, ha dedicato ad Orazio un articolo, che co-
mincia con un giudizio del Goethe su quel poeta latino : « Il talento poetico
d'Orazio è riconosciuto soltanto per riguardo alla tecnica e alla perfezione
della lingua, cioè a dire per riguardo all' imitazione dei metri greci e della
lingua poetica, ed inoltre ad una spaventosa realtà senza una poesia tutta
propria, specialmente nelle Odi ».
■) Q. Horatltis Flacciia von G. Fhikdkich, in Neiie Julirbiicher f. due klaas..
Alt. ecc. 191,3, XXXI n. XXXII B. 4 heft, pp. 261-268.
16 Umberto Moricca
Questo giudizio, messo così a principio, sembra essere, com' è realmente,
il tema fondamentale e il motivo primario, di cui il Friedrich si servirà per
giustificare in seguito la sua stessa opinione, studiandosi, non senza sforzo,
di consolidarla d'esempi.
E dirà quindi che la prima strofa dell'ode II» del libro II" non è che
prosa in versi : « das ist niehts ah in Verse gebrachte Prosa » ').
Più sotto aflfemierà imperterrito, con l'aria di chi crede d'aver fatto
una trovata, che in Orazio manca addirittura la poesia, ripetendo eviden-
temente il giudizio del Goethe : « Nein, in den Diehtiingen des Horaz fehlt
die Ptiesie ».
A pp. 264-65 sosterrà che Orazio è adatto massimamente alla scuola,
perchè la sua opera è un compendio del suo tempo, e poi in ispecial modo
perchè Orazio non è poeta : « So sind die wenig iim/anf/reichen Werke den
Horaz ein Kompendium seiner Zeit, und daher zum Unterricht besonders geeignet,
auch deshalb geeignet, weil Horaz kein Hichter ist ».
Senonchè non è da credere che il Friedrich abbia destituita d'ogni va-
lore l'opera d'Orazio. Sta bene tutto questo ; ma non bisogna po' poi negar
tutto; qualche cosa bisognerà pur riconoscere al poeta latino!... E il Friedricli
francamente non è in fondo quel critico burbero che sembra ; tanto è vero
che fa grazia al venosino di una lunga serie di buone qualità, ch'egli chiama
Surrogate : buon .«enso, urbanità, finezza di spirito, buon umore e via di-
cendo, eccettuata sempre, ben .s' intende, la facoltà di far della poesia.
A farla breve, Orazio per il oritico tedesco è un elegantissimo corti-
giano; un galantuomo, si direbbe oggi, in guanti gialli, che s'aggira per
la Corte d'Augusto, fa le dovute riverenze, spiattella a tempo e luogo qual-
che odicina graziosa a Mecenate e all'imperatore, ma sempre in sussiego;
dispensa lodi, ottiene ville in dono, e vive in pace col inondo; un uomo
press' a poco sul tipo dell'Aretino e degli altri cortigiani del Cinquecento,
graziosi in farsetto e messi in canzonatura dal Herni.
A dilla schietta, a me sembra, leggendo le pagine del Friedrich, come
se retrocedessi di molti secoli nel tempo ; come se perdessi la nozione del
progresso, e fossi costretto a giudicar le cose dal punto di vista di un molto
lontano passato. Infatti, qual è il metodo del Friedrich ? egli parte da un
pregiudizio antiquato, spiegabilissimo in Goethe, non perdonabile in lui, e
^rd esso continuamente si riferisce.
Anche il nostro Vannucci ') ha detto peste e vituperio d'Orazio ; anche
') Noto intanto che le frasi prosaiche si ritrovano spesso perfino nell' opera
dei più grandi poeti, e che non è sempre la frase che fa l'arto, ma il modo con
«ui è condotto nn organismo poetico, contemplato nel suo insieme. Anche nei
Sepolcri del Foscolo, per citare nn esempio nostrano, occorrono molto spesso pa-
role e forme piti proprie alla prosa ; eppure i Sepoleri rimarranno sempre qnel
«he sono.
*) Vita di Q. Orazio Fiacco.
Quinto Orazio Fiacco 17
il nostro Foscolo ') ha osservato su per giù lo stesso, e cioè che Orazio era
un' iiuiina vile, un' anima venduta, che coltivava la poesia unicamente per
guadagno ; che non ha scritto mai odi belle ; che può soltanto vantare
delle aniicreontee spigliate e vezzosette. Ora questi giudizi, come ho detto,
si spiegano benissimo tanto in Goethe che in Foscolo, in Vannucci e negli
altri. Essi giudicavano Orazio da un punto di vista troppo soggettivo, e per
riguardo all'arte, e per riguardo alla morale. Vi era inoltre per noi la preoc-
cupazione politica: in un tempo di grandi ideali per la libertà italiana non
poteva certo piacere un poeta come Orazio, ohe, dopo aver invano com-
battuto a Filippi per la sua causa, vinto si arrende al vincitore, canta le
lodi di Angusto e dà del pazzo solenne a Labeone '), l'ultimo grande e fle-
rissimo rappresentante del morente idealismo repubblicano.
Il Goethe infine non si è neppur lui reso conto d'Orazio ; si è lasciato
condurre dai preconcetti della critica in voga ; si è mantenuto troppo alla
superficie, e, i)er giunta, ha considerato l'arte del venosino al paragone di
quella ch'egli vagheggiava nella sua mente, e che s' informava al gusto
estetico proprio.
Egli precisamente ha detto che Orazio è un acrobata della forma e
nient' altro ; poiché in lui non vedeva che tecnica e perfezione di lingna, ossia
imitazioni di metri e frasi poetiche senza contenuto, o meglio, parole che
esprimono una realtà che atterrisce; insomma grande lusso e apparato di
forma e d' immagini, vuote affatto o quasi di senso.
Io confesso che in un giudizio di questo genere non veggo molto chiaro,
e che, quando taluno mi parla in simil guisa, io sento il bisogno, che però
non ha sentito il Friedrich, di meditare su quelle frasi, di studiare le cause,
che le abbiano potute suggerire, di conoscere quali giano quelle forme in
Orazio, che esprimono la furchtbare Bealiiiit del Goethe, e di vedere se vi
può essere un carme, che renda una terribile realtà, senza esser poetico nel
seuso proprio della parola, e infine di rileggere e riesaminare una per una
tutte le odi latine, per accertarmi se il Goethe abbia avuto o no ragione
del suo giudizio.
Tutto questo il Friedrich non ha fatto. Non sarà perciò inutile eh' io
mi soffermi a considerare, il più brevemente che potrò, quale veramente sia
r individualità poetica e morale d'Orazio.
E stato detto che la poesia del venosino è un bel mosaico fatto a Roma
d'alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo ') ; che Orazio
') Della poesia lirica, iu Opere complete di U. F., Napoli, Lubrauo, 1887,
p. 167 ; vedi anche la terza delle Lezioni d' Eloquenza, ibid. pp. 466-67. Quanto al
giudizio degli antichi, efr. G. Leopardi, Della fama avuta da Orazio presso gli
antichi, in voi. Ili degli Sludi filologici raccolti e ordinati da P. Pkllkguini «
P. Giordani, Firenze, Le Mounier, 1853, pp. 126-139.
») Sat. I, 3, v. 82 8gg.
') Vedi : Notizie intorno a Didimo Chierico, cap. IX.
Atene e Roma. 2
18 Umberto Moricca
ha imitato i metri greci, e per conseguenza anche il contenuto (né manca
neppur oggi chi si sforzi di mettere a riscontro i frammenti d'Alceo e
di Saffo con i primi versi di alcune odi) j è stato detto che Orazio è in
continua contraddizione con sé stesso ') ; che le odi politiche sono una fal-
sificazione del sentimento ') ; che le odi religiose son fredda ed arida espres
sione d'un' anima più dotta che credente'); che le odi dell'amore e dei
convivii sono l'indizio scandaloso d'un uomo, anzi d'un Epicuri ex greye
porcus *), dato ai piaceri, agli stravizii e ai diletti del vino e della voluttà.
Che Orazio abbia attinto dai Greci non può negarsi. È stato in Atene,
ne ha studiata la letteratura, sì da essere in grado di parlare e di comporre
in quella lingua ') ; quindi ha avuto occasione di rendersi familiari i metri,
di educare l'orecchio a quell'armonia divina, e il pensiero e l'immaginazione
ai concetti filosofici delle varie scuole, che ivi fiorivano, e ai fantasmi della
creazione poetica greca.
Ma questo materiale raccolto e assimilato è da prendersi come la veste,
la forma esteriore, in cui si presenta tutto il complesso della vita intellettuale
intima, soggettiva, originale del poeta. I nomi son sempre o quasi sempre
greci ; ma ciò rispondeva al gusto del tempo; mentre in alcune odi, osserva
ottimamente Giovanni Pascoli "), è tanta vivacità e tanta spontaneità, che mal
possiamo indurci a crederle non originali.
Ad ogni modo, ciò è ormai riconosciuto da tutti ; né sarebbe questo
il luogo di discorrerne. Noi cercheremo piuttosto di vedere se Orazio sia o
no poeta.
E anzitutto è da stabilire in principio che mai s'intenda per poesia;
poiché é noto fin da antico ') non esser buon metodo di critica quello, per
esempio, del Friedrich, di cominciare a discorrere d'un soggetto, senza sa-
pere che cosa esso significhi.
Se dunque per poesia è da intendere generalmente, poiché definizioni
perfette non si danno, la facoltà di porgere, quanto la pittura, rappresen-
tazioni particolari, o, come i logici dicono, le idee concrete, risalendo dal
noto all'ignoto per una serie di rappresentazioni estetiche; di eccitare velo-
cissimamente nel cuore molti e vari affetti caldi ed ingenui, dai quali scappi
il vero ed il bello morale: e questi presentando alla memoria vestiti di splen-
dore e di armonia, fare che siano accolti più facihnente e serbati con piti
amore e più. tenacità nelle menti ') ; se compito della poesia lirica in ispecie
') A. Vannucci, op. cit. Vedi anche Foscolo, op. cit. ecc.
*) Wkissknkels in Schonack, op. cit. p. 41.
'■') Wkissenfels in Schonack, op. cit. p. 45 Hgg.
<) Epiìt. I, 4, V. 16.
5) Sat., I, 10, V. 31 sgg.
") G. Pascoli, Lyra: ' La poesia lirica in Roma ', p. lxix.
') Platone, Fedro, p. 237 o.
*) U. Foscolo, Ragion poetica e, «is/enia generale del carme Le Grazie, in op.
cit. p. 165 sgg.
Quinto Orazio Flocco 19
è di unificare, nella breve durata d'un impeto d'entusiasmo, una quantità
molteplice e varia di fatti, di sentimenti e d'immagini; di accomunare la
materia, che il tempo e le circostanze hanno immensamente disgiunte fra
loro, in modo che tu riviva col poeta la civiltà del passato, o t' esalti alle
particolari passioni ch'egli riproduce; se la poesia infine ha il merito di
raccogliere in una sublime e solenne accensione dello spirito le idee e le
forme onde s' alimentano le arti figurative, e di dare alla mente di chi legge
quel godimento estetico spiiituale, che i Latini chiamavano volvptas, e d' ispi-
rare nell'anima un non so qual dolce ed irresistibile incanto della vita,
nessun poeta è profondamente e veramente più poeta d'Orazio.
Il Friedrich ') osserva che un poeta può essere originale e non essere
un gran poeta o viceversa, intendendo così di sostenere che Orazio è stato
un originale, ma non sommo poeta.
Io credo invece che Orazio sia stato l' uno e l' altro ; poiché, se può
darsi il caso che un poeta sia grande, pur mancando d' originalità, non può
mai altresì avvenire che sia originale senz'essere un poeta, dato natural-
mente ch'egli abbia intelletto e senso d'artista. Anzi più precisamente io
son d' avviso eh' è grande errore il mettere in dubbio 1' esistenza dell'origina-
lità in un'opera qualsiasi, altamente poetica. Un poeta, per quanto attinga da-
gli altri, riesce sempre più o meno originale, perchè è necessità di natura che
vi riesca. Il materiale attinto deve attraversare la sua particolare menta-
lità, e non è possibile che in questo passaggio e in questa rielaborazione
non riceva per spontaneo influsso le impronte dei sentimenti e dei gusti di
lui. Tanto è ciò vero che neppur nelle traduzioni la cosa suole andar liscia
del tutto ; poiché l' inconveniente primario è nella diiìicoltà che il tradut-
tore riesca a spogliarsi della personalità sua stessa, il che vuol dire del-
l'anima propria, e faccia opera obbiettiva di trasportare quanto piìi fedel-
mente gli sia possibile un'opera da un idioma in un altro.
A questo ancora non si é badato abbastanza ; ed ecco le ragioni per
cui si seguita a parlai'e di originalità e d' imitazioni, e si nega o si con-
cede a questo o a quel poeta la gloria di valer qualche cosa.
Lasciamo da parte se Orazio sia stato o no moralmente perfetto. Egli
era di una mente eccellentissima d'artista, eccitabile ad ogni sentimento,
dotato d' una squisitezza di gusto veramente mirabile.
Bruto lo incontra ad Atene, gli parla dei vantaggi e della santità della
repubblica; egli se ne accende, e lo segue sui campi di Filippi.
La battaglia è perduta; si stabilisce il regime monarchico d'Augusto;
ma il nome del popolo romano suona ancora immenso nel mondo. Come ai
tempi di Cicerone, gli eserciti ancora muovono alla conquista nei più lon-
tfini orizzonti ; assoggettano i popoli più fieri ; dettano a loro le proprie
leggi e la propria lingua, e ritornano a Roma raggianti di vittoria e coro-
') 1. cit., p. 263, nota 1».
20 Umberto Morieca
nati d'alloro. Per la città è un'ebbrezza di festa: squillano le trombe, i
guerrieri cantano, le vergini accompagnano in ampio corteggio il trionfo,
che procede verso il Campidoglio.
Dinanzi a tanta vita, a tanta illusione di grandezza e di potenza come
si comporta il poeta? Come diversamente non può.
Labeone *) persiste ancora sdegnosamente nella sua fede repnbblicana,
e rimane in casa, come in segno di lutto, ricusando onori ed ossequi; ma
egli è un giurista, una mente di politico, votato alla repubblica, alla quale
ostinatamente si professa devoto per fierezza d'indole e per segno di protesta
solenne alla tirannide larvata d' una sembianza di libertà ; mentre Orazio è
un'anima gentile, che si lascia sempre facilmente commuovere da tutto ciò
che, contemplato nel suo insieme, le sembri bello ed onesto. Il poeta non
s' incarica di vedere se la forma monarchica sia migliore della repubblicana,
o viceversa; non indaga le cause e le conseguenze storiche e fllosoflche delle
cose; in lui parla non la ragione, ma l'impeto del sentimento.
Egli combatteva a Filippi per la grandezza del popolo romano ; sotto
Augusto lo vede forte, grande e pacifico come lo desiderava, e la sua vo-
lontà è soddisfatta : nuovi trionfi appagano il suo compiacimento estetico,
ed egli canta felice le gesta di Druso (Od. IV, 4) e di Tiberio {Od. IV,
14) ; paragona Augusto agli antichi eroi di Roma (Od. I, 12), o lo celebra
come lo splendido pacificatore del mondo {Oil. IV, 15). In virtii di questa
considerazione Orazio non si contraddice, e la sua lode, come quella di Vir-
gilio e degli altri, all'imperatore non è pura adulazione, come di solitosi
crede, esagerando così la notizia che i poeti servissero alle idee di riforma
disegnate da Augusto.
i< Vogliam credere — dice saggiamente il Pascoli ') — a una parola d'or-
dine data loro da Mecenate o da Augusto ? E come anche a Tibullo t No : era
un sentimento comune, un grande desiderio di pace, che prendeva quelle
sante anime, piene del timore d'uno sfacelo, veduto imminente, poi allon-
tanato bensì ma ancora in vista ». Orazio infatti era pieno di sentimenti
lugubri e di timori per il popolo di Roma: rimprovera ai pompeiani il rin-
novamento della guerra civile {Od. I, 14) ; durante i fatti di Perugia, agli
orrori della battaglia di Antonio ed Ottaviano il suo animo s'infiamma di
sdegno, e sfoga il proprio dolore in un' ode, in cui s' annunzia in tutto lo
splendore il suo genio {Epod. 16) ; Antonio minaccia la potenza di Roma,
ed Orazio predice con magnifica vivacità di rappresentazione poetica all'ef-
') Dopo il riatabilimento del governo d'Augusto, nel Senato continuavano ad
esservi molti attaccati all' indipendenza repubblicana. Labeone, richiesto una volta
del suo parere, disse che, non potendo liberamente tacere, non si dovea indegna-
mente parlare, e sì oppose con coraggio alla sentenzii dell' imperatore ; Ricchi*
Augusto riformò presto il Senato. (Dione, lib. 54).
') Op. cit., p. i.xxiii.
(Juinto Oiasio Fiacco 21
feminato amante di Cleopatra la misera line che gli sovrasta {Od. I, 15) ') ;
il mosti'O fatale, Cleopatra, muore con Antonio; l'impero è salvo, e il poeta
esulta di gioia, esortando gli amici alla danza ed al banchetto (Od. I, 37),
mentre Virgilio da parte sua, con lieve e pur vigorosa mano d' artista, e
con colori intonati a patetica figurazione, intesse e disegna, non senza al-
lusione, io penso, ai due personaggi della storia contemporanea, nel IV li-
bro AtiW Uneide gli amori di Didone e d' Enea, che han termine con la vit-
toria dell'eroe, e quindi con la glorificazione del nome romano, la quale in
forma epica rende quell' entusiasmo medesimo da Orazio scolpito nell' Ode
I, 37.
Il poeta latino è sempre coerente a sé stesso, e 1' opera sua nei rispetti
della politica oft're un'unità di coscienza in ogni modo lodevole. Che se egli
si eleva al sublime, cantando la grandezza di Roma, e l' odio di Giunone
contro la città di Priamo, e vede collocato Augusto alla mensa degli dei
(Od. Ili, 2) ; se cauta che i fati e i numi propizii non dettero mai alla terra
nulla di più grande d'Augusto (Od. IV, 2), che Augusto è potente Dio sulla
terra, come lo è Giove nel cielo (Od. III, 5), che lui devesi onorare e in-
vocare come un dio nelle meuse, congiungendo il suo nome a quello dei Lari
(Od. IV, 5), ciò avviene perchè nel personaggio dell'Imperatore, Orazio ve-
deva incarnato un ideale. In Augusto per lui non era l'u<;mo, ma erano
gli uomini di tutta la città di Roma, di tutte le regioni d'Italia, di tutte
le Provincie dell'Impero; e per un trapasso d'idealizzazione, spontaneo
nella mente d' un artista, dal concreto all' astratto, dalla materia allo spi-
rito, in Augusto era impersonato il nome romano stesso, la sua grandezza
vasta e imponente, l'immortalità e l'eternità sua nel mondo e nei secoli.
Anche Dante, coni' è noto, vide per poco fatta realtà in Arrigo VII il
veltro eh' egli avea prima vagheggiato con niente di pensatore e di profeta.
La lode d'Orazio ad Augusto è dunque l'inno piii bello, più snblime,
più splendido che si sia mai cantato al nome glorioso di Roma : nell' im-
maginazione del poeta non Augusto è il Giove terreno, ma è la terra stessa,
direi quasi, conquistata dai Romani, e che, nell'ebbrezza del trionfo, si fa
leggiera e si ricongiunge col cielo; è la Dea Roma insomma, che ascende
alto, ben alto, e luminosa si asside al banchetto degli Dei.
Per questo rispetto il Carmen swciilare non è mica, come lo definisce
il Friedrich (1. e. pag. 264), ein Wnndir voii Takt uud richtiger Einskht
del poeta.
E invece il suo canto più bello, la sintesi dell'azione augustea, come
ben ha detto il Pascoli, è il riassunto dell'opera del vate: di due vati, anzi.
Orazio fa sentire in questo yiorno solenne anche la voce delV amico estinto, di
1) Noto di sfuggita che 1' intonazione generale dell' Ode e la iiredizioue di
Nereo mi sembra che abbiano un non so che di comune con la canzone all'Italia
del Leopardi, per l'ingrediente poetico della tigura di Siiuonide, che si leva a
celebrare la gloria immortale dei caduti a Maratona.
22 Umberto Morieca
Vergilw, il cantore eroico di Enea vero fondatore di Boma e capostipite della
OKN8 lUUA.
Io non 80 vei-amente se dalle labbra d' un poeta sia mai uscita voce
clie rendesse una fantasia così fervida e vigorosa come quella d'Orazio, che
concepisse con idee di tanta grandezza, e avesse una visione del divino così
limpida, così gigantesca e trascendente i limiti del pensiero umano; o se
mai sia uscita un' apostrofe più poetica di questa : « 0 sole della vita, che
col carro di luce mostri il giorno e lo nascondi, e sempre altro e sempre
lo stesso nasci, possa non illuminare nella tua corsa città più grande del-
l'Urbe Koma » ').
S' è vero che la poesia dei popoli, i quali si trovino al principio della
loro evoluzione letteraria, suona sempre più efficacemente colorita per gra-
vità mista a semplicità d' ispirazione, e per gagliardìa spontanea di conte-
nenza lirica, nessun più grande errore che non riconoscere i caratteri d' un
inno sublime a quest' ode, in cui tu senti, come fu già notato, una voce
lontana e solenne, uu' eco profonda degli axamenta dei sacerdoti antichi.
Numerosi esempi potrebbero qui fornir materia a considerazioni sva-
riate intorno al vigore ed all' elevatezza dell' arte d'Orazio; ma per il no-
stro assunto basterà dare uno sguardo alle prime sei odi del libro terzo.
Ha mai considerato abbastanza il Friedrich la realtà poetica di questo
vero e proprio poema lirico ; la logica dipendenza dei concetti e la strut-
tura architettonica delle forme, che, per quanto interrotte nel passaggio da
un' ode all' altra, tuttavia serbano la continuità del legame intimo delle idee
«he le cementano insieme 9 e come sempre è un oscillare e un avvicendarsi
d'entusiasmi e di precetti, d'immagini e di osservazioni; un'instabilità e
una complessità di toni, un mescolarsi di stile ora didattico ora epico, ora
lirico, ora satirico? ha notato quella caratteristica disunione di parti, nella
quale ha vita 1' armonia ed il chiaroscuro, e quella sintesi necessaria che
tutto unisce, evitando che l' armonia riesca confusa, il che appartiene al
sommo dell'arte? Si è reso conto dell'entusiasmo del poeta, che trasforma
gli avvenimenti in altrettante pitture, diverse fra loro e pur composte in
un tutto organico, in modo che chi legge si rappresenti con rapidità vivace
le immagini e gli affetti che ne derivano ? ha rivolta la sua attenzione al
modo con cui 1' elemento allegorico e simbolico abbraccia con ordine rego-
lare e crescente tutta questa massa di poesia calda e profonda?
Le sei odi, com' è noto, si dividono in due parti di tre odi ciascuna :
nella prima si parla dell' educazione civile e militare ; nella seconda del-
l' educazione religiosa del popolo.
Nella prima parte assistiamo a un concilio degli Dei ; nella seconda
vediamo 1' assalto al cielo, udiamo il discorso di Regolo al Senato. Né mi
sembra che a torto si sia veduto in Quirinus la persona di Cesare ; nella
') La traduzione è del Pascoli, ed io la ho ripresa intera, perchè credo che
non si possa tradurre meglio di così la corrispoudente strofa oraziana.
Quinto Orazio Flocco 23
vittoria sui Giganti la fine delle guerre civili, e nell'episodio di Regolo la
vittoria di Augusto sui nemici esterni, che dovea conchiudersi con la re-
stituzione delle aquile di Crasso.
I concetti si richiamano a vicenda: l'ode V sembra svolgere il motivo
dell' ode II :
dnlce et decorum est prò patria mori !
II rimpianto della degenerazione dei costumi in Od. VI sembra in con-
trasto con 1' ideale di vita, disegnato nelle prime due odi, mentre in fondo
con esse fortemente si congiunge e s' integra per la ripresa del medesimo
motivo nelle ultime strofe : Od. IV, vv. 27 sgg.
sed rustieorum mascula militnm
proles etc.
Bellissima la strofa 11'', che segna quasi il culmine dell' intero poema,
e in cui si compendia maestosamente l' ideale romano :
Stet Capitolium
fnlgens, triumphatisque possit
Roma ferox dare iura Media.
L'armonia intima delle odi è inoltre cosi perfetta, che è da lamentare
che nessuno abbia ancora tentato di metterla in rilievo. La prima ode apre
il poema, vagheggiando la modestia della vita, la serietà dei costumi, il di-
sprezzo del lusso e delle ricchezze, e 1' ode sesta lo conchiude con una splen-
dida invettiva contro gli eccessi dell' ambizione e contro la corruzione dei
costumi, che non può non richiamare il noto canto XV del Paradiso di
Dante.
La seconda ode consiglia all' esercizio delle armi per la difesa della
patria, e 1' ode quinta ha per soggetto i nemici e la vera virtil per la quale si
trionfa. L' ode tei'za, riferendosi naturalmente ai concetti di saggezza espressi
innanzi, indica il modo con cui l'uomo possa pervenire alle sedi degli eterni,
e quivi ricevere il battesimo dell' immortalità, e l' ode quarta prende le
mosse dal favore delle Muse verso Cesare, per discorrere del trionfo di Giove
sui Giganti, della superiorità della forza regolata e sapiente sulla forza
bruta e selvaggia, e per infondere quel sentimento religioso, col quale mas-
simamente si perviene al cielo; per incitare, insomma, il popolo romano, il
quale per la fantasia del poeta ha ormai raggiunto la sua perfetta educa-
zione civile e militare, a combattere per i suoi dei, ad alimentare la fede
nell' anima, e ad elevarsi in tal modo fino a loro, offrendo, come in olo-
causto, il frutto delle sue virtù: le vittorie.
In una parola, esso è un poema dei piìi mirabili che si siano scritti,
d'un' unità ben organata e compatta, d' un' armonia veramente insuperabile
e d'una delicatezza e d'uno splendore d'immagini addirittura superbe.
24 Umberto Moricea
Si ricordi infatti il quadro omerico ') dell'ode seconda: è la furia d'una
battaglia; dalle alte mura nemiche la sposa e la sua vergine figlia osser
vano intanto nel piano il cozzar dei guerrieri, mentre il loro cuore palpita
in affannosa trepidazione, le guance impallidiscono, e dalle labbra tremanti
esala un voto, come un sospiro :
ebeu, ne rndis agminnm
sponsns lacessat regius aspernm
tactii leonem, quem cruenta
per media» rapit ira caedis !
Si pensi ancora all' immagine Aera e solenne di Regolo, che nell' ode
quinta ci si mostra ora in Senato al cospetto del popolo, nel momento di ri-
ferire com' egli abbia visto le insegne dei Romani sospese nei templi dei ne-
mici, e come gli frema il cuore al dubbio che la viltà dei Romani accresca
grandezza a Cartagine *), ed ora ci si scolpisce dinanzi, col plastico rilievo
d'un monumento, in atto ,d' avviarsi al suo doloroso destino, torvamente vol-
gendo gli occhi al suolo, e con lento e vigoroso gesto della mano riraovendo
da sé la vereconda sposa, che chiede solamente di baciarlo, ed i piccoli
nati, che par di vedere attaccarsi ai lembi della toga paterna, ed il popolo,
che lo assiepa intorno e gì' intralcia il cammino.
Che se questa non è poesia veramente divina e più nobile ed alta di
quel che possa umanamente immaginarsi, che cosa crede il Friedrich che
s' abbia à intendere per quel vocabolo ?
11 poema lirico d'Orazio dianzi esaminato, è dunque il compendio del-
l' opera riformatrice d'Augusto, il riflesso legittimo delle idee politiche e
delle condizioni sociali di quel tempo; è l'apoteosi mirabile del nome del
popolo romano (né diversamente Pindaro celebrava le glorie e la nobiltà
della tribù, a cui il vincitore apparteneva, intercalando, come Orazio, am-
monizioni sulla realtà della vita, perchè 1' animo non si volgesse all' amore
delle coue caduche, bensì a quello della virtù, la sola che vinca la morte !) ;
è l'epopea di Virgilio, ridotta alle proporzioni d'un componimento lirico:
che se diversa ha la forma, essa tuttavia convergo al medesimo fine.
Oltre di che non bisogna dimenticare che il contenuto del poema, per
la generalità del suo fine morale, e per l' esattezza delle verità esjrresse,
non appartiene semplicemente al popolo dell' età d'Augusto, ma si estende
a tutti i popoli e a tutti i tempi; onde più s'innalza e si propaga, sino a
divenire umano, universale ed eterno. Orazio infine per siffatto genere di
poema è il più efficace e forse l'unico precursore dell' epica modernamente
intesa e trattata; poiché invero io sento di non poter leggere quelle sei
odi, così ben connesse e commesse fra loro, senza correre col pensiero al
') II., I, 154, T. 291.
*) Od., V, vv. 38 8gg.
O Pudor ! I O magna Carthago, probrusis | Altior Italiae miiiie 1
i^uiiiio Orazio Fiacco 25
f^'a ira del Carducci '). Non può dirsi infatti cbe in questo caso nessun rap-
porto unisca quei due poeti insieme, quantunque ciò sino ad oggi non sia
stato avvertito da cliiccliessia : ed esso piopriameute consiste nel tentativo
comune della riduzione della materia epica agli atteggiamenti, alle forme
ed ai metri della poesia schiettamente lirica.
Che Orazio abbia avuto sempre fisso nella mente il problema dell'edu-
cazione umana non può mettersi menomamente in dubbio. Egli molto prima
eh' entrasse nelle grazie dell' imperatore, ha cominciato la sua carriera poe- ^
tica con la satira, un vero miracolo di queir ingegno, che accoppia un brio
e una gaiezza elegantissima ad una profonda cognizione del cuore.
Senoncbè a questa contemplazione obbiettiva del mondo, che, alimen-
tata da un sistema d' idee filosofiche e pratiche, diventa morale e vede la
felicità nella temperanza delle passioni, si aggiunge il sentimento, sì die
dall'unione di questi due termini opposti, come scintilla da due poli, sgorga
abbondante la lirica, sentimentale ed amorosa ; alla stessa maniera che dal-
l'osservazione dei tempi e dal desiderio di Roma pacifica dominatrice del
mondo abbiam visto nascere la lirica politica.
Epperò, leggendo le odi di Orazio, noi sentiamo in esse tutto un con-
certo di note sempre varie e molteplici, un intersecarsi e un intrecciarsi
di elementi esterni ed interni, obbiettivi e subbiettivi, che, confondendosi
insieme, i)roducono le dolcissime armonie, ond' è eapace la lira multicorde
d' un' anima squisitamente sensibile: l'odio, l'amore, la gelosia, il dispetto,
l'orgoglio della patria, il desiderio della pace, il compianto per la vanità
della vita, il ricordo del passato, il pentimento. Non v' è nessuna vibrazione
del cuore umano, che non riecheggi in quella poesia. Senonchò è stato a
tal proposito rimproverato dal Friedrich (1. e. jìag. 267) ad Orazio la pra-
tica della dottrina epicurea, il famoso mihi vivam che, a giudizio di quel
critico, dovea suonar male agli orecchi di Mecenate.
Nient' affatto ! A mio avviso, il Friedrich, così affermando, corre ri-
schio di non aver capito la natura della poesia d'Orazio; di non aver ca-
pito cioè che il mihi vivam, per essere il nucleo centrale e fondamentale,
su cui s' impernia la filosofia d' Epicuro, no rende ottimamente lo spirito,
in quanto, raijpresentando la vita come attività ridotta all'individuo, e ri-
chiamandola alla riflessione in sé stessa, porta a vedere che cosa essa sia,
e a concliiudere che la temperanza e il dominio dei sensi può solamente
assicurarle la felicità.
') Si ricordi che il Carducci h stato un appassionato studioso di Orazio e
molte odi ne ha tradotte, e molte reminiscenze se ne rinvengono <iua e là nella
sua opera poetica.
26 Umberto Moricea
Dèi resto anche in Virgilio occorrono in più parti accenti, orientati a
questa specie di visione filosofica; anzi, per esempio, nell'egloga VI il com-
pianto dei mali di Pasifae e di Tereo non è in fondo che un inno di lode
alla teoria d'Epicuro. Né peraltro Mecenate stesso ') (e il Friedrich avrebbe
dovuto ricordarlo !) è stato meno epicureo d'Orazio, di Virgilio e d'Ovidio,
per citare i più grandi. Era quello dunque un sistema d'idee che meglio
rispondeva ai bisogni dell' epoca, o che, per lo meno, trovava nelle condi-
zioni politiche la sua più legittima ragione d' essere.
Un'altra accusa che si è rivolta gratuitamente ad Orazio è stata quella
della instabilità, con cui ora egli aderisce alla dottrina stoica, ora all' epi-
curea, in evidente contraddizione con sé stesso.
Ma invero nessuno ha badato che in tutti i grandi artisti le contrad-
dizioni sone state quasi sempre immancabili, perchè essi son così fatti da
risentire con massima finezza i numerosi influssi che vengono dall' esterno,
e da rendere nell' arte i vari momenti di gioia o di tristezza, di buono o
di contrario umore, a cui l'anima va spesso naturalmente soggetta. Anche
nelle poesie del Leopardi, per citare un esempio, vi sono canti che rinne-
gano la virtù, 1' amore, la patria, proclamando la vanità del tutto e la
realtà del dolore e della morte nel mondo; mentre ve ne son di quelli che,
dettati in una diversa circostanza, in cui 1' anima, dopo un conforto, è riu-
scita a diradare in breve tempo ogni nebbia di pessimismo intorno a sé, af-
facciandosi sorridente alla speranza, inneggiano alla santità degli affetti, alla
gioia della vita, alla grandezza dell' Italia, come a beni e8ist€nti e positivi.
Non si é badato infine che l'attuazione di quei due sistemi nella poesia
d'Orazio rende i colori e le attitudini del sentimento del poeta, il quale,
quando si accorge, di mezzo ai suoi languori epicurei, dell'epico squillo di
lina tromba, che annunzi le vittorie romane, o dell' imminenza delle guerre
civili, trova ancora la forza per levarsi in piedi, e dar voce all' invettiva
dei giambi o alla stoica celebrazione della virtù.
Nella lirica del venosino s'alza di frequente la voce che chiede il dolce
abbandono alle delizie dell' amore e dei convivii.
') Cfr. Paui-US Lunderstkdt, De C. Maecenatis fragmentis (Commeutationes
Philologae leuenses, v. IX, fase. I), Lipsiae, in aed. Tciibneri, 1911. Anche Au-
gusto amava talvolta dimeuticarsi delle cure politiche per mezzo di gioie, che gli
facessero alTerrare e godere l'attimo fuggente. Cfr. Svet., Aug., e. 83 sgg. È
troppo noto inoltre il famoso epigramma di Augusto, scoperto dal prof. Hagen di
Berna in un manoscritto bernese del X secolo (Vedi : Fanfulla della Domenica,
An. Ili, n. 14), e del quale i due ultimi versi
non semper gaudere licet : fugit bora : iocemur ;
dìtiìcile est fatis subripuìsse diem
sembrano riecheggiare gli altri non men famosi d'Orazio : Od., I, 11 :
Dum loqxiiniur, fugerit invida
aetas ; carpe diem, qiiam minimum credula postero.
Quinto Orazio Fiacco 27
E si capisce : Orazio era pieno dei ricordi di un passato affannoso :
rivi di sangue erano scorsi sulle campagne d'Italia; lotte civili, guerre
contro i nemici, proscrizioni, esilii, strazi d' ogni genere durante la repub-
blica e ai primi anni dell'impero avevano estenuato l'anima romana. Poi
a questa epoca di confusione era succeduto un periodo di calma, che Orazio
benediceva con la pienezza del cuore, non senza talvolta un presentimento,
come di chi ha molto sofferto, che quelle discordie e quelle stragi potes-
sero da un momento all'altro rinnovarsi. (Od. I, 14; Epod. VII).
Mai come questa volta Orazio riecheggiò nei versi con più eloquente
evidenza la voce del suo secolo. E veramente Augusto era un dio, un Dio-
nisio, che ammansava, un Mercurio, che conciliava : ora le campagne si
ripopolavano d'agricoltori, le famiglie riavevano i loro esuli. In tanta se-
renità Orazio prova un certo senso di stancliezza come suol venire all' anima,
la quale, dopo un periodo di grandi tempeste e di grandi paure, dopo d' es-
sere stata quasi intronata da un immenso frastuono, vede farsi intorno un
regno insolito di pace, sì che, divenuta sicura, s' adagia soavemente nel-
1' oblio.
La primavera ritorna, ed Orazio invita gli amici a ricordarsi della bre-
vità della vita, per trarne motivo a godere ; a profumarsi il capo d' un-
guenti, a inghirlandarlo di mirto e di rose, e a darsi a tutti i piaceri con-
cessi dai lieti giorni e dalle danze di Venere e delle Grazie : poiché la morte
passa, e batte inesorabile alle porte del ricco e del povero, e nelle sedi di
Plutone non sono né banchetti, né amori (Od. I, 4 ; IV, 7 ecc.). Si col-
mino i capaci bicchieri di oblivioso massico ; si spargano dalle conche gli
iinguenti, s' intreccino corone d' appio e di mirto e, bevendo sino alla fol-
lìa (Od. II, 7), si dimentichino le cure guerresche e politiche, si godano
all'ombra d'un platano le armonie dell'eburnea cetra di Lide, perchè pre-
sto avvizziscono i fiori di primavera, presto fuggono la verde età e la bel-
lezza, e sopravviene l'arida canizie, nemica al dolce sonno e agli amori. Se
poi viene l' inverno, e il Soratte biancheggia di neve, e gli alberi scric-
chiolano sotto il peso del ghiaccio, spenga le nostre angosce un bel foco,
il vino, l' amore, la danza, e, finché la giovinezza fiorisce, s' abbiano gli
Dei la cura del resto (Od. I, 9). Chi é saggio beva, goda il presente e non
si affidi al futuro (Od. I, 11). Bacco sradica dall'animo tutti i tristi pen-
sieri, il timore della povertà, della potenza dei re e delle armi nemiche, e
dà anche eloquenza (Od. I, 18; III, 21; Epist. I, 5). La virtù dell' antico
Catone si riscaldava sovente nel vino (Od. III, 21) ; Ennio non s' accingeva
all' opera di cantare le gesta degli eroi senza aver prima bevuto, e Alceo,
sebben feroce in guerra, dopo le battaglie compiacevasi di celebrare nel
canto le dolcezze di Bacco, delle Muse, di Venere e di Lieo, vezzoso pei
neri occhi e pei neri capelli (Od. I, 32).
Orazio volea dimenticare, dimenticare per sempre ! Egli sentiva il peso
dei ricordi ; avea tanto studiato sugli uomini, tanto esercitato il pensiero
nella meditazione intorno al vero valore dell'esistenza ; avea trovato la vita
28 Umberto Moricca
pieim «li «Mire e, per «li pili, di brevissima (liiratii, «)n«]e bramava talvolta
dedicarsi un istante alle gioie, che gliela facessero amare e desiderare. Che,
se non fosse per un vario complesso di differenze notevoli, io quasi ardi-
rei affermare che 1' intonazione di (jnesta parte della poesia d' Orazio si
ripete pressoché intatta nei celebri versi del Carducci :
noi troppo odiammo e sofferimmo : amate !
il mondo è bello e santo è 1' avvenir.
Ciò nondimeno in Orazio la ragione il più delle volte, se non sempre,
prevale sul sentimento, ed anche in mezzo alle gioie egli seguita quasi a
sentirsi infelice.
Su questo insieme di vita allora si effonde come un pallore di malin-
conia ; passa di tanto in tanto, tra l'ebbrezza dei piaceri e lo strepito dei
banchetti, come un brivido di gelo, come un trasalimento che irrigidisce il
riso sulle labbra al poeta, e questo trasforma in una statua immobile e
pensosa.
Egli cerca l' oblio in fondo al bicchiere : vorrebbe non potersi ricordare
di tutto e di tutti (Epist. I, 11, v. 9); a Tivoli sospira come a riposo di
sua stanca vecchiezza, come a tomba delle sue ceneri, e là invita gli amici
a spegner nel vino la tristezza e i travagli della vita {Od. I, 7; II, 6; IV,
3 ; Ep. I, 7) ; poiché per legge inesoranda del fato, di mezzo ai piaceri non
manca mai di sorgere una qualche amarezza e le lacrime si avvicendano al
riso, e lo sconforto alla gioia :
quoniam medio de fonte leporum
snrgit amari aliquid, qnod in iijsis lìoribus angat ')
Orazio ha l' illusione di dimenticare, ma il pensiero della morte gli si
rizza sempre dinanzi alla mente come un fantasma. Si adopera c«m ogni
mezzo ad acquetar le sue cure, nello stesso tempo che vi pensa, senza però
che per questa via riesca a liberarsene del tutto (Od. I, 9; I, 11 ; II, 3 ;
II, 11; III, 12; 29 ecc.); più cerca le compagnie degli amici, e più vede
negli altri l' immagine della vita, e più quindi, di riverbero, trovasi a con-
tatto con sé stesso, come in una desolata solitudine. Anche il Petrarca fug-
giva spaventato dalla sita stanzetta in Valchiusa, perché la calma, costrin-
gendolo alla meditazione di sé stesso, tenea viva, per così «lire, dinanzi al
suo sguartlo l' immagine della propria passione ; ed errava sui monti, nelle
valli, cercando dappertutto un refrigerio, e non sospettando neppur lonta-
namente che il suo male era nell'anima e ch'egli lo portava seco dovunque
Non è però da credere, nel caso d' Orazio, che le situazioni della sua
ricchissima lirica tocchino sempre direttamente di lui, cioè a dire esprimano
sempre fatti, realmente accaduti al poeta, o sentimenti realmente provati.
In massima la sua lirica, come «ibbiam detto, porta con sé un colore
') LucRKTii, T)e rerum natura, Uh. IV, vv. 1125-26 (ediz. Ginssani).
Quinto (hasio Fla^ico 29
(liftuso d' intonazione elegiaca, talvolta anche un po' troppo disperata ; sotto
il quale riguardo 1' opera d' Orazio non può non richiamare 1' esempio del
poema di Lucrezio, anch'esso pervaso, nonostante la fede nella scienza e
in un avvenire migliore, d"" un velo di malinconia intensa, che gli veniva
dal secolo; ma in particolare il poeta dell'età d'Augusto lia inteso stu-
diare e riprodnrre certe situazioni dell' anima. Egli riferisce a sé tutto ; ma
la sua persona è un pretesto ; essa è propriamente l'umanità del suo tempo.
E ubbidendo a tal fine, nella satira li, 7, per esempio, ha tìnto di trovarsi
esposto alle riprensioni del proprio servo, mentre in effetti egli non rap-
presenta che i vizi della maggior parte dei contemporanei.
La rilassatezza, il bisogno del riposo, il desiderio d' un godimento era,
ripeto, la voce dominante dell'epoca; ed Orazio rendeva all'arte i motivi
psicologici ch'egli assimilava dall'esterno e facea propri senza saperlo,
con quella giusta intensità e con quelle particolari attitudini con cui essi
si agitavano nell' ambiente. Uno studio, per esempio, sulle donne d'Orazio
confermerebbe quanto ho detto. Queste non son tutte greche, come dice il
nome, né tutte etère : in loro é la donna com' é stata, com' è e come sarà
sempre, per variare di tempo, di pae.se e di fortuna. Pirra è variabile come
il mare ; Barine è bella, ma perfida, e circondata d' adoratori ; Asterie
piange il marito lontano; Lice lascia piangere sulla soglia vietata l'ama-
tore. Orazio nei suoi poemetti erotici e conviviali ha dato la rappresenta-
zione geniale e perfetta della vila giovanile del mondo greco-romano, la vita
dell'età d'Augusto, che per noi principalmente si compie con la pittura da-
tane da Ovidio, da Properzio e da Tibullo. Il poeta ha tratteggiato la
donna di tutte le condizioni, di tutte le età, di tutte le nature; i vari
)nomenti dell'amore: la gelosia, il rammarico, la riconciliazione, l'ad-
dio : i motivi insomma da farne uno svariato romanzo di costumi, della
stessa importanza che ha, poniamo, il SaUricon di Petronio per l'età di
Nerone '). Il Pascoli ') ha raccomandato al pittore che « ponesse nel bel
mezzo e bene in luce quel grazioso e snello bronzo Praxiteleo, che è il
Nearcho dell'ode vigesinia del libro terzo; il Nearcho che ha il ramo di
palma sotto il piede nudo e lascia tremolare a un poco di vento i capelli
profumati e sparsi sugli omeri ».
Ma quanti altri delicatissimi quadretti non sarebbero da raccomandare
al pittore 1
Si pensi, per un esempio, all'ode ventesima terza del libro primo, ove
Cloe è rappresentata come una vergine timida, che non sa staccarsi dalla
') Che Orazio, come disse il Pascoli (op. cit. p. Lxxi), a fare questa pittura
abbia vinto di molto Luciano e i suoi Dialoghi, non direi. Già per mia regola,
col dovuto rispetto all' insigne critico, io son del parere che i paragoni è sempre
meglio non farli ; ma, dato che si debban fare, io veramente tra Orazio e Lu-
ciano in questo caso non saprei chi scegliere.
') Op. cit., p. LXXI.
30 Umberto 2lorieca
madre, ed assomigliata alla cervetta, la quale smarrì sui monti la madre,
e muove a cercarla, mentre teme d'ogni foglia, mossa dal vento: il cuore
le trema, le ginocchia le tremano, se il vento scuote le fronde della Belva
o le lucertole agitano il rovo 'j.
Si pensi all'ultima strofa dell'ode dodicesima del libro secondo: altro
bronzo veramente prassiteleo quella vergine che, arrossendo tutta nel volto,
o si piega benigna ai baci, o volge indietro la testa e s' allontana per poco,
come per togliersi alle labbra ardenti dell' amatore, mentre alla line è lei
per prima che offre a quello la nivea bianchezza del collo, e gode più essa
a prendere i baci furtivi, che 1' amante a dispensarglieli.
È questa una rappresentazione così squisitamente colta ed espressa che
non ha invero nulla da invidiare a quella, ad esempio, tanto celebre di Ca-
tullo nei versi 19 sgg. del carme LXV.
Tutta questa grazia, questa finissima delicatezza di linee, di sentimenti,
d'immagini; tutto questo spirito leggiero di malinconia, che, come soffio
divino, aleggia, impregnandola, sulla intera lirica d'Orazio, il Friedrich non
comprende, non sente ; onde seguita imperterrito ad affermare che quel-
1' anima non avea quasi affatto un'idea di quello che fosse la poesia, que-
sta fragranza incantevole e sovrumana : « Bei Horas ist nicìiU Poesie. Poe_
»ie, diesen zarten, uberweltlicheii Dvft, veraiand er nicht flilssig zu maehen »
(I. e. pag. 264).
Orazio tuttavia è grande ; e non solamente grande : è anche profondis-
simo ; che la leggerezza di certe odi è soltanto apparente : anzi è da pen-
sare che in esse talvolta il contenuto è più profondo che altrove. Il dia-
logo di Lidia e d'Orazio (Od. Ili, 9) è un vero capolavoro, che non poteva
essere immaginato e condotto se non da un acuto e vasto conoscitore di
anime.
Giusto mi sembra che abbia veduto il Pascoli ') quando ha detto che
«se diciamo leggendo Catullo 'com'è vero', avanti Orazio esclamiamo
' com'è profondo '. Là è la verità aperta a tutti, qua la verità scoperta
dal poeta ».
Si ricordi 1' ode tredicesima del libro primo ; si badi alla verità con cui
egli ritrae, per via d'immagini, lo struggimento furioso dell'amatore che
vede un giovane imprimere il segno del dente sulle labbra della propria
donna !
Si pensi, per citare ancora un esempio (che citarli tutti porterebbe
troppo in lungo), all'ode ventesima ottava del libro primo: una spiaggia
deserta; nello sfondo monti selvosi. Sulla spiaggia il cadavere d' un nau-
frago. Passa, costeggiando, una nave ; dalla nave un uomo vede e ricono-
') Questa similitudine, quautun(nie rielaborata in altro senso, suggerì al no-
stro Ariosto un'ottava di tenerissima dolcezza e di elegantissima fattura. (Or/.
Fur., e. I, vv. 265 sgg.).
') Op. cit., p. LXX.
Quinto Orasio Fiacco 31
sce il morto, che è Archita, il m<atematico, il sapientissimo, a cui s' apri-
vano tutti i misteri, perfino quelli del cielo, e che ora invoca ad un
barcaiolo la pietà di gittargli addosso tre pugni d' arena.
La profondità e la poesia è contenuta appunto nelle parole del noc-
chiero : « hai misurato la terra, il mare, l' arena : ed ora sei qui, nudo,
sulle spiagge del Matino. Che ti giova esserti spinto su su fino agli astri?
eri nato mortale. Anclie Pitagora era addentro nei segreti dell' universo, ed
è morto: tutti moriamo, chi in guerra, chi in mare; vecchi, giovani, tutti! ».
Non sente ([ui dentro il Friedrich 1' affermazione desolata della miseria
delle sorti umane ? non vede in questa scena un preludio a quella poi svolta
nelVAmleto dello Shakespeare, e nel nocchiero un personaggio molto simile
al famoso becchino sboccato e beffardo, il quale osserva, rimestando con la
marra i miseri teschi umani, che l'acqua è la più tremenda dissolvitrice
delle nostre sporche carcasse ? non avverte l' amarezza liricamente sublime
della poesia del Leopardi ') ; la malinconia di alcuni canti del Goethe, dello
Schiller, del Kotzebue ; l'ascetica e mistica rassegnazione delle visioni dei
sentimentalisti inglesi, a cominciare dal Young ; 1' altezza vigorosa di alcune
patetiche odi del Gray ? Non si accorge che tutta questa immensità di pro-
duzioni moderne ha la sua sorgente diretta o indiretta nei poemetti d'Orazio?
Ciò nonostante egli afferma, con una sicurezza che irrita, che non
meno della poesia a Orazio faceva difetto la profondità : Wie der Poesie er-
mangelte Horaz der Tiefe ') !
Né, d' altra parte, superficiale è in Orazio il sentimento religioso che
il più delle volte informa la sua poesia, come mostra di credere lo Scho-
nack (Op. cit. * 31), il quale fa astrazione dalle numerose rappresentazioni
mitologiche, per la ragione che questi accenni alla leggenda degli dei e degli
eroi sono un apparato poetico e non parte viva dell'anima di quel poeta,
e consiglia perciò l' insegnante a non spenderci sopra molto tempo.
Io credo che questo sia bene un gravissimo errore del critico tedesco,
il quale non ha considerato abbastanza il sentimento artistico d' Orazio e
gì' intimi, inscindibili suoi rapporti col sentimento del divino. Orazio non
era un l'eligioso, ma ciò non toglie che sentisse profondamente la religione.
Non vi può essere immaginazione senza qualche religiosità '), nel senso
che la religione può non consistere soltanto nella fede, nella speranza, nel
timore : perfln Lucrezio vede la minaccia del Tartaro, e Virgilio la purifi-
cazione e la candida innocenza dell'età dell'oro. In Orazio anzitutto la reli-
gione è concepita come forza sociale, come parte dominante, parte neces-
') Vedi speoialmeiito : la Ginestra, la Sera del dì di festa, ecc.
*) Op. cit., p. 266. Ivi anche osserva che Orazio in Epod., II, parla della vita
di campagna alla maniera di Virgilio, ma che in fondo si rivela estraneo a quella
vita : altrimenti non si spiegherebbero i numerosi errori di storia naturale, che
(|uivi si rinvengono (e che noi non riusciamo in alcun modo a scoprirvi !).
^) Cfr. Plessis, La poesie latine, p. 328. Paris, 1909. Poirkt, Borace, p. 244.
32 Umberto Moricea
saria dello stato, come il tesoro più prezioso del patiiuionio nazionale, come
moralità, come regola (cfr. Od. Ili, 1-6) ; in secondo luogo non è da cre-
dere, come afferma il Plessis, che la questione si riduce a sapere non se i
versi d'Orazio siano religiosi, ma se sian belli davvero. Non si tratta solo
della forma !
Orazio partecipa intensamente, con l'anima, delja bellezza e dell'entu-
siasmo, suscitato dalla rappresentazione del divino. Anche noi oggi, leggendo
la Bibbia, ci sentiamo, anche se poco credenti, esaltati dinanzi all' au-
sterità patriarcale delle antichissime tribù, e dinanzi allo spettacolo sopran-
naturale del commercio degli uomini col cielo, e dei sacerdoti con Dio. E
sì che in quel monumento non manca davvero la poesia lirica, che in sé con-
centri la vita e il pensiero d'innumerevoli generazioni ! Alla stessa maniera
nella religione pagana.
Come dunque Orazio non aveva una fede politica, la quale fosse una
vera e propria linea direttiva delsuo carattere, ma rispondeva col cuore a
tutte le commozioni della vita civile contemporanea, con 1' entusiasmo d'un
fanciullo che di tutto ride e di tutto piange; così, dinanzi alle forme del
concetto religioso, egli, con la fantasia già disposta all'esaltazione, ritraeva
in plastico rilievo le varie individualità divine, le associava secondo i loro
attributi, le foggiava con la grandezza e la maestosa imponenza suggeri-
tagli dal sentimento di gravità, proprio della (oscieiiza romana, e ne am-
mirava l'insieme, come se fosse un gruppo di monumenti stupendi. Epperò
quello che in sommo grado lo colpiva era 1' apparenza estetica del conte-
nuto religioso ; era la bellezza di quelle forme sintetiche e vigorosamente
superiori, che lo attraevano, trasportandolo in una regione di vera luce e
di vero entusiasmo. Nulla quindi di retorico, nulla di affettato, nulla di
falso !
Giove infatti gli si mostra nella tremenda potenza di scuotere col pe-
sante carro 1' Olimpo, e di scagliare la folgore contro i sacri boschi pro-
fanati (Od. I, 12), o in atto di squarciare col corusco fulmine le nubi, e
di trarre per l'etra i tonanti cavalli e il rapido carro, al cui passaggio trema
la terra, i fiumi, e l' averno ed i confini di Atlante {Od. I, 35).
Venere è una luminosa bellezza, che splende in una nuvola d' incenso,
circondata da Cupido e da un corteggio di Grazie discinte e di Ninfe ; la
Dea che rende amabile la giovinezza {Od. I, 30) ; la potenza d'Amore, che,
dove tocca, avvampa, e al cui passaggio s' arrende ogni arroganza {Od.
Ili, 2C).
Apollo appare con i candidi omeri avvolti di nube {Od. I, 2), o nel-
1' atteggiamento scultoreo di un giovane mirabilmente bello, a cui un alito
d'aria scompiglia le lunghe chiome fluenti {Epod. XV). Bacco è veduto come
il Dio, che cinge le tempia di verdi pampini (Od. ITI, 25), o che trionfa
degli elementi, che piega il corso dei fiumi, che vince i Giganti, e a cui
Cerbero si assoggetta, lievemente battendo la coda, e lambendo con le tre
lingue i piedi e le gambe al Dio (Od. II, 19).
Quinto Orazio Fiacco 33
Apparendo perciò i numi alla fantasia del poeta come una potenza in-
dividuata e concreta, in cui si riassuma razionalmente una serie d'affetti di
una determinata specie, o una serie di forze o di fenomeni naturali ; appa-
rendo come la impersonata bellezza di un concetto pervenuto, mediante un
processo d'idealizzazione, alla sua forma più alta; o, in altri termini, am-
mirando il poeta nella raffigurazione astratta della divinità la perfezione
della bellezza umana, non è da meravigliare ch'egli passi a vedere Augusto,
il grande rappresentante e 1' ottimo custode della romulea gente, nelle at-
titudini d'un Dio, chiamato a regnare in terra dopo Giove (Od. I, 12), e
ad aver preghiere e sacrifici insieme con gli dei tutelari della famiglia (Od.
IV, 5). Gli uomini allora, nella mente d'Orazio, per un fenomeno di rap-
presentazione artistico-estetica si congiungono con i Celesti, e l'ideale po-
litico si compenetra strettamente con l' ideale religioso, sì che il dividerli
l'uno dall'altro riesca opera addirittura imipossibile, e sì ch'essi rendano
in un sentimento comune i caratteri di quel mondo d' idee morali, che Ora-
zio con vera fede di poeta e d' artista alimentò sempre nell' anima e nel
cuore.
Ma non sono queste soltanto le note multiformi della poesia oraziana :
non è solo l' uniformità dell' intonazione malinconica, o la preoccupazione
dei problemi sociali e filosofici che la caratterizza. Oltre di ciò vi è tutta
una serie molteplice di aspetti, che rispondono alle varie capacità dell' in -
gegno. Mirabile è la elastica prontezza, con cui si passa da un tono ad un
altro, percorrendo tutte le gradazioni e gli atteggiamenti, ond' è capace la
natura umana: dall'epico') all'elegiaco'); dal lirico') al comico'); dal
satirico") al drammatico °) e all'idilliaco'). Di notevole poi v' è sopratutto
questo, che anche nelle odi si ripetono di tanto in tanto, sebbene in altra
forma, i motivi degli epodi, delle satire e delle epistole, in modo da dare
all' intera opera d'Orazio il suggello d' una coerenza infallibile di contenuto
e di forma *).
') Od., I, 12 ; I, 15; III, 1-6 ecc.
«) Od., I, 3; I, 24; I, 33; III, 27; IV, 1; IV, 7 ecc.
3) Od., II, 1 ; II, 19 ; III, 14 ; IV, 2 ; IV, 4 ; IV, 14 ecc.
■•) Od., I, 27; II, 4; II, 5; Epod., II, e buona parte delle Satire.
5) Od., I, 5 ; I, 8 ; I, 25 ; I, 29 ; II, 15 ; III, 16 ; IV, 13 ecc.
') Od., 1, 28.
') Od., III, 9.
*) Lo Schonack, a questo proposito, uel suo libro avrebbe potuto manifestare
il desiderio che venisse adoperato, come mezzo utilissimo per lo studio d'Oraeio,
il confronto di qiielle poesie, che, pur appartenendo a generi diversi, più serbino
una spiccata parentela fra loro. Colgo intanto l'occasione per suggerire allo stesso
Schonack quanto sarebbe desiderabile che 1' insegnante mettesse la poesia d' Ora-
zio in rapporto con le produzioni della letteratura classica, oltre che con quelle
della moderna, e facesse, ad esempio, notare agli alunni come per somiglianza
di personaggi, d'azione, d'epìsodii, e per intendimento satirico, la coena Naaidieni
Atene e Roma. '.i
34 Umberto Moriccn
Per esempio, l'allusione maligna contenuta nella chiusa dell'ode ot-
tava del libro terzo ; lo scherno, con cui il poeta sogghigna in faccia a Li-
dia dicendole che più gli amanti non battono alle sue finestre, e che ora
a lei, fatta vecchia, non tocca che piangere in un trivio ed invidiare i
giovani ') ; o biasima a Glori, anch' essa invecchiata, le bizzarrie e le vel-
leità di farsi giovane, e di scherzare anc'oggi, come ai bei tempi, in com-
pagnia di leggiadre vergini, meirrre dovrebbe mettersi piuttosto a filar la
lana ') • o si rallegra della vecchiezza di Lice, che vive gli anni di una
cornacchia perchè i giovani possano deriderla, come una fiaccola incene-
rita ') ; questo scherno, ripeto, non ha nulla di meno amaro e di men pun-
gente che, ad esempio, le invettive degli epodi Vili, XII, e XV.
Moltissime odi *) inoltre son destinate ad esporre le teorie di una vita,
libera da cure di ricchezza, saggia dominatrice delle proprie passioni e con-
tenta del poco, come in Epodo II, e come nella maggior parte delle satire
e delle epistole. E la nota infine dell'apostrofe acre, mordace e stizzosa è
tanto nelle odi che negli epodi, sia che il poeta biasimi il lusso e la cor-
ruzione dell'età d'Augusto"), sia che detesti il rinnovamento delle guerre
civili ') o lo sterminio sanguinoso dei popoli da parte dei tiranni ').
Né deve credersi che questa svariatissima produzione poetica nient' al-
tro sia che il fmtto d' un' obbedienza dimessa e rassegnata alla volontà del-
l' imperatore, o di una cieca riconoscenza ai doni di Mecenate. Orazio, come
vedemmo, aveva un ideale politico : la grandezza di Koma ; e un ideale filo-
sofico : la parsimonia e il dominio delle passioni.
Alla luce di questi principii egli dà libero sfogo al suo cuore con ogni
indipendenza di giudizio, sì che ora di fronte ad Augusto lodi la nobile
morte ") o 1' animo fiero ") di Catone ; ora confessi ") a Mecenate ch'egli è
pronto a restituirgli tutti i doni di lui, se glieli ha concessi a condizione
della satira ottava del libro secondo richiami la coena Trimalchionis del Satiricon
di Petronio; somiglianza che non ho mai visto ricordata in nessuno dei commenti,
oh' io sappia ; mentre il grosso delle note si occupa di lunghe dissertazioni in-
torno al modo con cui è disposta la mensa nel banchetto di Nasidieno, intomo al
numero dei convitati, e intorno al metodo culinario più o meno scientifico, piil o
meno moderno, con cui sou preparate le vivande !
1) Od., I, 25.
') Od., Ili, 15. ■
») Od., IV, 13.
■•) Od., I, 22; I, 38; II, 2; II, 3; II, 10; II, 11; II, 14; II, 16; II, 18;
III, 16; III, 24.
5) Od., II, 15 ; III, 6.
«) Epod., VII.
7) Epod., XVI.
8) Od., I, 12.
») Od., II, 1.
">) EpUt, I, 7.
Quinto Orazio Fiacco 35
che perda la propria indipendenza ') ; senza che però sia venuta mai meno
un istante l'amicizia d'Orazio sia con Augusto, sia col suo grande confidente
ed amico. A proposito di che io non riesco invero a comprendere donde il
Friedrich ') abbia tratto la notizia che negli ultimi anni si raffreddarono le
relazioni amichevoli del poeta con il suo protettore, mentre divennero più
strette e più sincere quelle con Augusto.
Tralasciando alcuni epigrammi affettuosi rivolti da Mecenate ') ad Ora-
zio, basterà ch'io ricordi, contro l'opinione del critico tedesco, la frase ri-
portata da Svetonio, con la quale Mecenate, morendo, raccomandava all' im-
peratore che si ricordasse d'Orazio Fiacco come di lui stesso *); basterà ch'io
ricordi il fatto che Orazio, sopravvissuto di poco a Mecenate, com'egli stesso
avea pi'edetto "), ebbe la sua tomba vicino a quella del suo illustre amico ') ;
e che, se bisogna prestar fede alle parole di Svetonio, il venosino rimase
fino all' ultimo di così liberi sensi che Augusto disse chiaramente in una
lettera, a lui diretta, d' esser preso da corruccio perchè non gli era stata
dedicata ancora nessuna delle satire o dell' epistole, e domandò al poeta se
così faceva per timore che, mostrandoglisi amico, ricevesse dai posteri una
(jualche taccia d'infamia ').
Stando così le cose, la lirica d'Orazio, e con ciò finalmente conchiudo,
non fu opera né d'imitazione pedissequa dei modelli greci, né di servilismo
alla volontà dell' imperatore ; ma fu opera complessa di poesia, eminentemente
nobile, profonda ed ispirata alle condizioni morali e politiche del tempo, in
modo che da essa emerge, con tratti di originalità vivissima, la personalità
artistica del poeta ben distinta da tutte le altre, e destinata dal suo valore
intrinseco, universale ed umano ad una gloria vasta, laminosa, imperitura
nei secoli.
Umberto Mokicca.
■) Cfr. A. Cima, Studi oraziani, pp. 10-16. Milano, 1886. Qualunque sia il
valore della congettura del Cima, sia o no V ^ist., I, 7, un cento horatianus di
episodi!, forse riservati a lavori differenti, rimane tuttavia per me sempre certo
che intenzione d' Orazio era di restituire ogni cosa {cuneta retigno), pur di non
perdere la propria libertà.
2) Op. cit., pp. 267-68.
•) Vedi: Svet., Vita Q. Roratii Flacci.
*) Horatii Flacci, ut mei, esto memor.
5) Od., II, 17.
*) Svet., I. cit. : ' hnmatus et conditus est extremis Esqniliis, insta Mae-
cenatis tnmulnm '.
') Svet., ibid. : ' Irasci me tibi soito, quod non in plerisque eiusmodi scriptis
(qualia sunt Satirae et Epistolae) mecnm potissimum loquaris. An vereris ne apud
posteros infamo tibi sit, quod videaris familiaria nobis esse? '. Fu allora che
Orazio scrisse 1' epistola prima del libro secondo.
36 Recensioni
G. L. Passerini. Il vocabolario paicoliano. In Firenze, G. C. Sansoni editore,
1915: pp. VII-453. L. 5.
Parecchio tempo prima che questo vocabolario mi capitasse alle mani, leg-
gendo in una rivista di giovani battaglieri e ingegnosi una condanna sommaria,
non tanto del modo con cui il compilatore ha lavorato, qaanto del fine stesso
ch'egli s'è proposto, dubitai che la sentenza fosse meno spregiudicata in realtà,
che non fosse in apparenza. Beati quei bravi giovanotti, pensai fra me non senza
un po' di ragionevole invidia, beati quei bravi giovanotti che si godono tutto il
Pascoli alla prima lettnra, senza sentir mai, o quasi, il bisogno di ricorrere a
una spiegazione lessicale sicura e che non faccia perder tempo ! È ben vero, sog-
giungevo tuttavia fra me subito dopo, che il Passerini non avrà mica preteso di
venire in aiuto di intenditori co.<iì rapidi e immediati dell' opera pascoliana ; i
quali pur troppo non debbono poi essere frequentissimi neanche tra i giovanotti
summa spe et animi et ingenii praediti. Tra parentesi dirò che allora io non sospet-
tavo che il Passerini si fosse proposto di provvedere anche « a lettori [del Pa-
scoli] cólti e coltissimi »...; ma, per ripigliare il filo, poiché nel breve annunzio
bibliografico, invece di censure particolari e determinate, salvo un accenno alla
ridondanza della materia, trovavo se non altro riconosciuta, sia pure con una
cert'aria di compatimento ironico, la « precisione sotto -ogni rapporto ammire-
vole » con cui il Passerini, a rincalzo di ciascun vocabolo, riducendo le imban-
digioni pascoliane a un prandium passerinum, ha raccolto tutti i versi del Pascoli
in cui quel vocabolo compare, e polche «lai canto mio non mettevo in dubbio la
precisione di tal riconoscimento, mi persuasi anticipatamente che la fatica passe-
riniana dovesse essere utile, non solo ad aprir comode bandite ai cacciatori di
citazioni, del che infine infine nessuno dovrebbe provar gelosia, ma anche ad age-
volare a molti l'intelligenza dell'opera pascoliana, del che tutti dovremmo provar
piacere. Non già eh' io presuma che basti spianare le difficoltà lessicali per pene-
trare un poeta qualsiasi, ma insomma credo, e creder credo il vero, che, se non
per tutti, certo per i piìl, quelle difficoltà nel Pascoli vi siano e numerose, ben
inteso anche fuori di quei vocaboli che il poeta stesso si diede a quando a quando
cura di spiegarci brevemente. Io almeno ricordo e confesso che molte volte l'in-
toppo d'un vocabolo o d'un significato che ignoravo mi tolse di comprendere a
bella prima questo o quel verso, questo o quel tratto paseoliano, e qualche volta,
riuscite vane le ricerche che io potevo fare, mal mio grado ho dovuto rimaner-
mene nell' ignoranza o nel dubbio. Né io son poi tanto modesto da credere che
quello che è accaduto a me non sia accaduto anche a molti altri. A me dunqne
e senza dubbio a molti altri un vocabolario paseoliano abbastanza accurato, anche
se ridondante, non poteva non riiiscir utile e gradito in ragione dell' utilità, e
certo io in grazia del pregio avrei perdonato di cuore il difetto. Per abbreviarla
— che, se l'ho pigliata larga perchè mi jiremeva di mostrare che al liI)ro del
Passerini io mi sono accostato tutt' altro che mal prevenuto, non c'è ragione
omai di farla anche Inn^a — , per entrar dunque finalmente in media» rei, qnel-
l'annunzlo bibliografico, anziché diffidente, mi rese voglioso del vocabolario pa-
seoliano, e se la voglia non fu subito appagata, non fu colpa mia. Ma come po-
tei avere il desiderato volume, e ammiratone l'aspetto elegante, gettai l'occhio
sulla prima parola dichiarata nella prima pagina (« Abante : in forza d'agget-
tivo, per Abanteo ; da Abante, lat. ^60», re d'Argo, padre di Acrisio, avo di Da-
Pecensioni 37
nae e di Atalante (?!). Pokm. conv., 40, 3: Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti ») *),
debbo dire che rimasi proprio male, come doveva rimanere un romano di duemila
anni fa incespicando nella soglia. Non mi sarei davvero aspettato così nuovo sva-
rione neanche da persona appena tinta di coltura classica. Ma che dico t Basta
leggere il verso del Pascoli, tutt' al piìi insieme con quello che lo precede, e
anche chi non ricordi e non abbia mai saputo che gli Abanti erano gli abitatori
dell' Eubea che, celebri per la loro prodezza, presero parte alla guerra troiana
(Iliade, II, 536 sgg. ; trad. del Monti, v. 707 sgg.), e per ciò appunto soii men-
zionati dal Pascoli nel suo poemetto derivato dalla polla perenne Omerica ; anche,
dico, chi non sappia o non ricordi questo, è subito avvertito che si deve trattare
d'uno dei popoli greci che salparono da Aulide e combatterono sotto Troia, dalla
filza di nomi che nel verso pascoliano precedono la menzione degli Abanti : « gli
eroi venuti con le mille navi, Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti ». Lo svarione
ora dunque assai strano anche in persona che avesse soltanto letto questi due
versi di seguito, così che bisognava proprio credere eh' esso fosse da attribuire a
certa soverchia contìdeuza con cui l'esegeta o vogliam dire lessicografo pasco-
liane doveva essersi, almeno in questo proposito, affidato a qualche dizionario o
altro repertorio simile, senza nenimen darsi la briga di ripensare se la notizia là
pescata e presa pari pari rispondesse o si potesse tirare al senso pih che ovvio
del Inogo, a spiegare il quale essa doveva servire. Ciò non ostante lì per 11 pen-
sai ch'era certo per una disgrazia che il Passerini s'era lasciato andare a una si-
mile distrazione proprio sul bel principio, e m'aifrettai a cercare nel vocabolario
gli altri nomi enumerati nell'endecasillabo. Ma, sebbene non spropositate, neanche
le spiegazioni di questi mi parvero davvero felici. Che c'entrano con l'intendi-
mento del luogo pascoliano le notizie sulle successive stanze dei Dolopi e sulle
loro piraterie nell'Egeo? Peggio ancora: perchè registrare per il singolare di
IStoli sostantivo la forma aggettivale Etolio, e poi I.oerete invece di Looroì Ag-
giungasi che per nessuno di questi popoli, e neanche per i Focei, tra le indica-
zioni geografiche o storiche superflue, si ricorda ciò che solo importava ricordare,
cioè che tali popoli vennero a Troia con Agamennone *) ; e che non è mai rife-
rito accanto all'endecasillabo l'esametro « Locri, Aspledonii, Focei, Cefalleui, Mir-
inidoni, Abanti » della prima redazione italiana di Antielo*): il quale esametro
anche più nettamente dell'endecasillabo ci richiama al catalogo delle navi ome-
rico *). Dovetti dunque conchiudere, questa volta senza esitazioni, che almeno la
precisione non doveva essere il forte del vocabolario passeriniano. Del che, datomi
a esaminare ordinatamente, se non proprio segnitatamente, il volume, non tardai
ad avere innumerevoli e certissime conferme.
Ecco infatti, sempre nella iirima pagina, subito dopo la spiegazione di Ahante
quella di « abbarbagliare » : « abbarbagfliare : abbagliare, lat. caligare. Offender
ij Gli Abaoti lini Pascoli aono menzionati anche altrove : negli stessi F. conti., p. 97, 3 sgg.
« dal suolo degli Abanti ricco di vigne >> (cfr. Om. II., 2, 537|.
2) Iliade. II, vv. 527 (Aotipo'.), 638 (AiTCtìXo'.), 517 (cpmx^ss), 536 ('ApavTSs) = Monti,
691, 854, 678, 707. — I Dolopi son menzionati nelVlliade solo al libro IX, 484 = Monti, 619 ; ma la
sostituzione dei Dolopi ai Mirmidoni della prima redazione di Anticlo dev'essere stata suggerita dal
virgiliano Myrmidomim Dolopumve.
'j V. la Flegrea citata dal Pascoli stesso nelle note aggiunte ai Poemi conviviali e la rivista
Eroica, Aprile-Maggio, 1913, p. 109.
*ì Iliade, II, 511, 631, 684 = Monti, 870, 846, 915.
38 Recensioni
l'altrui vista con luce soverchia » ; e qui, i>rinia della citazione di frinii poemetti
(veramente il Passerini ha lasciato correre Primi Poemi) 63, 5 : « una vetrata a
mezzo il poggio razza ed abbarbaglia», e di Odi e Inni, 206, 5 (94, 16 nell'edi-
zione che ho io ; ed è la prima, proprio come quella da cui cita il Passerini ;
V. p, 442) : « tra un odor di viole giallo ed un grande abbarbagliar di sole », una
citazione arioetesca : Fur. 22, 86. Il Passerini, diciamolo subito, compila anche
qni, com'è suo vezzo, la Crusca; ma nello stesso temjjo s'industria di cancellare
le tracce della compilazione. Il male è che egli difficilmente rinunzia a fare un
certo sfoggio di dottrina ; al che gli par che conferisca mirabilmente, oltre al-
l'immancabile citazione da un nostro classico, anche un pizzico del latino o del
greco che insieme con la citazione trova già beli' e ammannite nei prontuari, ma
non pensa poi se quel pìzzico se la dica più con la pietanza rifatta *). Potrei di-
mostrar questo che all'ermo con abbondanza di esempi, e non soltanto raffrontando
la Crusca, ma non è necessario. Torniamo dunque al nostro abbarbagliare, che ci
aspetta. Chi apra la Crusca a questa voce e veda che l.\ si registra anche l'uso
di « abbarbagliare » e « abbagliare » come verbi neutri (= « Non reggere la vista
al vedere distintamente le cose in leggendo o in far altro » *), insomma, con pa-
role piti alla buona, « restare abbagliato »), comprende subito come c'entri il la-
tino caligare che nel raffazzonamento del Passerini ci sta proprio a pigione '). Ma
invece di servirsi così male della Crusca, era qui, come sempre, il caso che il
vocabolista pensasse con la propria testa, e avrebbe visto facilmente che nessuno
degli usi registrati dal venerabile lessico corrisponde appunto a quello di « abba-
gliare » nei due luoghi del poeta moderno, dal quale il verbo è stato usato asso-
lutamente nel senso di « mandar bagliori ; sfolgoreggiare » : e tanto e nient' altro
era da notare, se pure tal uso appariva degno di nota.
Altre volte però era il caso che il Passerini si rimettesse interamente all' au-
torità, soprattutto quando l'autorità era il Pascoli stesso. Ma no ! Le dichiara-
zioni sobrie e preciso di vocaboli della Lucchesia aggiunte dal poeta ai Canti di
Castelvecohio parvero troppo scarne e disadorne al lessicografo, il quale ha voluto
quasi sempre rimpolparle e imbellettarle, riuscendo spesso a sfigurarle. Ecco qual-
che esempio : « indafarito (C. d. C. 42 [non 481, 1 : °el maggio indafarito). —
Pascoli : indafarato. Pieno di faccende. Passerini : lo stesso che indafarato ; e
dicesi, in Toscana, di Chi è pien di faccende, e cosi carico di lavoro che non sa
da qual parte rifarsi ». Ma quell' aggettivo il Pascoli non l'applica a persona.
Continniamo: « mncido (C. d. C. .50, 2: quell'odor di mucido) — Pascoli: o
muscido : muffa. — Passerini : Odor di stantio, nauseabondo. Quel Savor di pu-
1) Ben è vero che alcnne volte quel pizzico il Passerini lo aggiunge di suo, ma uou jiare che
sempre, neanche allora, l'indovini: p. es. : auletride = auletes; Me (P£r)), lai. robvr ; bica, lat. apex
(qui veramente causa innocente dell' errore fu la Crusca, ultima impressione) ; concinnare, lat. cin-
cinnare : remeggiare, lat. remeare, ecc. AH' opposto poi il Passerini non avverte in niun modo che
alinolo,, aplustre, attrito (consumatot, bure, chiomante. Simo e cento altre voci pascolìane sono latine
prette
2) Io cito dalla Crusca del Manuzzi, che sola ho alla mano. Ma il Passerini, dove ha jwtuto,
ha certo usato anche 1' ultima impressione, come è chiaro da molte coincidenze (v. la nota precedente .
3; La medesima è l' origine d' altre erronee corrispondenze latine date dal Passerini ; p. es. :
« enfiare : lat. tumere, intumescere ; Gontiare, Ingrossare, Empire » e infatti 1' esempio pascoliano i-
di enfiare transitivo; né tocco la citazione di Matteo 'Villani, perchè ivi il verbo enfiare non compa-
risce né transitivo uè intransitivo : 1* occhio del Passerini questa volta nel trasceglier dalla Cnisca la
citazione é trascorso da enfiare a enfiamento.
Becensioni 39
irido che piglìau segoataraento le carni macellate, quando si avviano a corrom-
pere per putredine. Nella Fiera del Buonarroti (3, 2, 8): '* Come quei che son
mucidi pel tanfo Della lor dappocaggine " ». O non è cotesto «n voler far gnaz-
zabiigli a tutti i costi f Odor di viucido varrà dunque, non già odor di mufa^ ma
odor di odor di stantio o odor di savor di putrido ? E che ci ha che fare con « mu-
cido » usato sostantivamente e in senso proprio il mucidi della citazione buonarot-
tiana che la Crusca stessa avverte essere aggettiro con senso metaforico ?
Né si creda che io abbia cercato col lumicino gli esempi più sfavorevoli al
Passerini : esempi come questi che ho presi a caso abbondano nelle 440 pa-
gine del vocabolario. Dove quasi sempre le definizioni dei vocaboli ricchi di usi
o comprendono significati che non compaiono poi nelle citazioni pascoliane, o
trascurano il significato necessario a qualcuna delle citazioni, così che que-
ste, col corredo di schiarimenti siffatti, hanno, direi quasi, l'aria di persone
infagottate con vesti prese a nolo, ora così ampie che vi sguazzano dentro, ora
scarse che tirano da tutti i versi e qua e là devono restare sfibbiate e aperte,
se pure non hanno addirittura Paria di maschere pazzerellone ^). Pih spesso,
anche per i vocaboli di significato più semplice e costante, la definizione è o
insufficiente e generica*) o incerta o come che sia disadatta ') o addirittura onigma-
1) Spigolo da <iualche appunto: « arce: lat. arx, da arcendo al dir di Vairone, o meglio dal
greco dtXpOg (sic), Luogo altissimo, eccelso, Cacume, Vertice: la Sommità delle montagne. È anche
il Luogo munita delle città. Vergilio (Georg. I, 240): .... Kiphaeas.,.. arces », e in tutte le citazioni
pascoliaue arce è = ròcca (l'Acropoli d'Ateue o il Campidoglio) ; cosi veggansi cantoniere, chiaro
j ' chiaro che ' è modo greco : StjXovÓTI, StJXov 6x1 : il Pascoli ha, nelle prose, rinnovati altri modi
greci, che in un vocabolario speciale dovrebbero essere indicati), pilo, piota, vaio ecc. D'altra parte
i si^ificati che, per acenliere qualche esempio tra molti, il Passerini dà sotto arguto, busso, buono,
fare. Invaiare, loto non convengono rispettivamente a l'oemiconv., 147, 6: « \i80 arguto»; C di C,
121, 9 : « il husso dei duri zoccoli » e La C. del Carroccio, 54, 1 : « il busso de' ronconi sul pavi-
mento » (il Pass, vi premette la spiegazione: «busso: e Bosso.... Arboscello.... sempreverde, che si
adopera ecc. ») ; Poemi It., 14, 4: « un rosignnolo io lo voiTei di buono » (' di huono ', soprattutto
con /are e dire, vale anche ' sul serio ' ; Manzoni, Pr. Sp. XI: «quando si tratta d'un affare serio,
vi farò vedere che non sono un ragazzo.... Farò di huono, e ci anderò » ; il Tommaseo ha altresì:
« Corrucciarsi di huono, Innamorarsi di buono ». Il Passerini : « buono : per Bello, Convenevole, Op-
portuno»); C. di C, 92, 6: «No, passeri! sulle sue zolle, no! non fate tanto vicino» (dove il vere-
condo/are non è certo «Raccogliere, Tagliare, e simili»); Primi Poem., 58, 9: «l'uva.... invaia i
chicchi»; O. e I. 32, 16: «lo squillar del loto chiarosonante» (solo il Passerini conosce «Fango,
Creta molliccia, Gora fangosa » che squilli chiarosonante, come se il Pascoli stesso non parlasse ab-
bastanza chiaro e netto in quel luogo, trascurato dal Pass., dei Poemi cùnv. [138, 18 (1* edìz.ì]:
«squillare i doppi flauti di loto»; solo il Passerini conosce Fango ecc. che fiorisca dolcemente, ,iiiuc-
chè delle sette citazioni raccolte dal vocabolista solo la prima risponde alla sua definizione e le ul-
time cinque sì riferiscono tutte al fiore famoso che, secondo Omei-o, toglieva di mente la patria a chi
se ne cibasse).
-) V. p. es. incalcinare (la citazione del Kedi, presa al solito dalla Crusca, ci ha che vedere
come il cavolo a merenda : incalcinare è nel luogo pascoliano la nota operazione a cui si assoggetta
il grano da seminai; Insaccarsi (la definizione ridondante e supertìna nella prima parte, naturalmente
ricalcata sulla Crusca, v insufficiente quando viene al buono. Insaccarsi nel Pascoli non vale soltanto
Tramontare, ma Tramontare tra le nuvole, o, meglio, Nascondersi nella nuvolaglia, scendendo verso U
tramonto); lustrante {lustranti buoi significa, come dice esso il Pascoli in Poemi conv. 34, 2, «che
hanno lustro il pelo», cfr, in lat. niteo, nitens e nitidus); ecc.
^ì V. agone [nel luogo pascoliano vale gara, certame}; cavo («Lacedemone cava», cioè av-
vallata è modo di Omero, IL 2, 581 e Od. 4, 1, che intende, non la città, ma la contrada tra il Tai-
geto e il Parnone* ; carreggiare (non « guidare il carro ; lat. aurigari » e il resto, ma « portare sul
carro»); filetto (i ragazzi fanno a filetto sui muriccinoli o per terra, con un diseguo tracciato col
gesso per tavoliere e sassi per pedine ; ma il Passerini vuol nobilitar tutto, anche i giuochi dai mo-
40 Kecensioni
tira *); e lascio stare l'ambizione di certi fregi e svolazzi di frase appiccicati alle pa-
role più modeste, e che invoglierebbero a rivolgere al nostro vocabolista la pareuesi
paseoliana, o omerica che dir si voglia : Parlami, e narra senza giri il vero. (Un paio
d'esempi, tra parentesi, per non esser sospettato di avventatezza e insieme per non
perder tempo : « coboldo : nome, presso i tedeschi, di ciascnno di qnegli Ksseri che
si immaginano nani e deformi. Spirito folletto». — «Enotrie : della Enotria. Nome
di ciascuno degli antichi abitatori di quell' ultimo lembo d'Italia che fu così de-
nominato da Enotro figlio di Licaone ». Grazioso, non è vero f Grazioso e chiaro.
E pensare che il Passerini subito dopo la civettuola definizione d'Enotrio cita
0. e I., 41, 18 : « por i monti enotri »). Lascio stare altresì le lungaggini e ozio-
saggini jier cui, verbigrazia, si spendono quattordici righe per dilucidare ed esem-
plificare con versi di Dante, d'A. Orvieto o di Maria Pascoli, nientemeno che il
vocabolo antelucano, o, se non altrettante, bene spesso poco di meno in descri-
zioni d'animali o di vegetali generiche e, per così dire, slegate, tolte come sono
di qua e di là, senza che si sia avuta l'avvertenza che almeno comprendessero
quel tratto che, avuto di mira dal Pascoli, solo faceva al caso *). E sì che per
risparmiare incertezze e lungaggini sarebbe bastato più d' una volta che il Pas-
serini ricordasse che il Pascoli nelle note delle sue antologie aveva dato la spie-
gazione lucida e calzante. Ma già il Passerini, anche se l'avesse ricordato, non
si sarebbe, credo, contentato di trascriver quelle spiegazioni semplici e schiette,
e qualche ritocco, tanto per non aver la noia di citar troppo spesso anche «elle
illustrazioni il Pascoli, avrebbe voluto darvelo ad ogni modo, come appunto ha
fatto non solo per le note linguistiche che il poeta raccol.se in servigio de' Canti
di Castelvecchio, ma altresì, e specialmente, per quelle di cui corredò le Canzoni
di re Ernia '). Piuttosto dunque che insistere su questo proposito, non tralascierò
nelli) ; giumella (il Pascoli evidentemente l'nsa, non precisamente nel senso consacrato dei dizionari,
ma in nn senso derivato) ; imperlo (inutili piìi clie mai i commenti) ; omeoteleute (ii Passerini non
si è arrischiato di ricavarne il maschile singolare, che non era poi faccenda scabrosa, anche non co-
noscendo che il Pascoli stesso l' ha usato, per es. in Epos, p. 113 — è ben vero che il Passerini dichiara
di non avere usato gli scritti pascolìani di critica letteraria di proposito ; ma certo ha fatto male,
che anche nelle note di Kpos il Pascoli mette la sua anima. In questo ponto stesso, mentre verilìcavo
Inesattezza della citazione fatta or ora, mi son ricadute sott' occhio queste parole, così vibranti ed
attuali che non mi so tenere dal trascrìverle : « O Roma generosa, non imitata oggi dai potenti che
hanno preso ì tuoi nomi d' impero e non i tuoi modi ! ». Ma è tempo di chiuder la parentesi); scassa
(si direbbe che il Passerini non ha nemmen letto il primo esempio del Pascoli eh' egli cita ; giacché
anche soltanto da quel verso e pezzetto di verso si comprende .subito che siamo in una nave e in
mare, lontano da qualsiasi « Scassata >> e « Tratto di terra sollevato al pie degli alberi per divel'
tarli ecc. »).
^ Un esempio solo, ma sij [iuptoi : « Rumi: appellativo con evidente relazione al lat. ruma
(mamma) e al tempo stesso al gr. ^cófiT) (lat. robiir) adoperato come sinonimo di Koma. GrH. Prole-
taria, 10, 19. E Rumi saranno chiamati.... Si: Bomani. Si: /are e toffrire da forti». È nn piccolo
capolavoro.
-) y. per esempio calandra, balestrucclo-volastruccio, ballerina-cutrettoia (dove la descri-
zione del Bacchi della Lega, non si sa perchè, è si)ezzata in due partì, una per ciascuno dei due si-
nonimi), cappellaccia, tasso barbasse.
=*) V. la spiegazione di cobbola, frigìiare, gkebì, muezzin, uguanno (il Passerini ha lasciato cor-
rere sempre ugnanno) ecc. nelle note di Fior da Fiore, e salcigno, scento, zana ecc. in qnelle di Std
limitare, e confrontale con le spiegazioni del Passerini. Qui basterà confrontare la spiegazione di
frignare: « si dice frignare del lamentare ohe fanno ì bambini, mezzo parlando e piangendo » ; così
r nno, e l'altro: «Fremere sommesso; ma propriamente quel Pianto fìcoso che fanno ì bambini e
che dicesi anche Piagnucolìo, Piagnisteo ; e, per estensione, ogni Suono fastidioso e lamentoso ». C è
proprio bisogno di aggiungere i nomi alle due spiegazioni, per distingnerne la paternità ì
Recensioni 41
d'avvertire ohe le omissioni son forse più numeroso che il Passerini non mostra
di credere nel sno preambolo in forma di lettera al Rava. Più che altro a me-
moria, prescindendo, com'è natnrale, da tutte le opere pascoliane che il Passerini
dichiara di non aver potnto mettere a profitto, noto i seguenti vocaboli che non
compaiono nel vocabolario passeriniano : dbhen che, a ciò e acche (= acciocché),
aguglia (= aquila), alba o albata, albeggiare (= biancheggiare), alzana, ambire
(= girare intorno a), appeziare (legna), arto (= stretto: « erte ed arte vie »),
ascesa, attingere (con le dita le corde dell'arpa), bocca (negli esempi : « Cadeano giù
(i cardi) con le castagne belle e nere in bocca », P. P. 92, 22 sg. ; « avean le
gemme l'uva in bocca », N. P. 25, 11), borro, brentoli (P. P. 30, 5, che il Passe-
rini cita sotto lillatro, attenendosi alla l'edazione poi scartata dal i>oeta), brodiag
(mentre il Passerini cita nagailta, taiga ecc., come anche ambessa, hellelta ecc., senza
però neumieno avvertire che son parole russe o etiopiche), cannello (nel verso :
« E il gran fece il cannello, anzi i cannelli », N. P. 108, 9), chiarosonante, chioc-
cio, cipella, conca {del fonte), delirare (=z uscir dal solco, etimologicamente), dove
del mondo f (= ubi ierrarumì « e chi sa, dov'ora è mai, del mondo? », N. P.,
157, 15), femminella {■= « pollone venuto a piedi dell'albero »), Gandharva, Kin-
nara, lazzeruolo (il Passerini registra azzeruolo e accanto lazzcruolo come voce non
pascoliana), mantiglia, mimmo (« Andiamoci, a mimmi », Myr. 20, 7), mueiatto, mu-
gik, mure (termine marinaresco), novello (degli uccellini), ognuni (così al plurale),
palanca, Piccolino, piccolo e piccino (detti dei parti degli animali : della bodda, del-
l'usignolo e della rondine), pinzana, puntale, rivibrare {un pianto, come auon di
cetra), scollo {del cappuccio), stabbialo (il Passerini registra stabbio e accanto stab-
bialo come voce non pascoliana), staccare (= risaltare), selva (= castagneto, C.
DI C. 115, 1 ; cfr. Fior da Fiore p. 154 : « nei monti Lucchesi si dice « selva »
senz'altro, e s'intende « castagneto »; Limpido rivo, 178: « Non si chiamano
selve, costì i boschi di castagni? »). tribolo (pianta spinosa), ecc. ecc., giacché
non mi sarebbe difficile continuare la lista, che chi sa quanto s' allungherebbe,
chi si sentisse di fare un controllo minuto e accurato ; ma già di queste stesse
parole che ho citate, alcuno certamente poteva e doveva registrare il Passerini,
il quale pur indugia a rivelarci che cosa sia l'incudine e non isdegna di regi-
strare abbondevole e abbuiare e tant' altre parole parimenti peregrine o dubbie. Ma
che piix? Non trascura egli forse persin parecchie di quelle voci o frasi eh' esso
il Pascoli giudicò opportuno di dichiararci nell'appendice dei Canti di Castelvec-
chio 1 '). D' altra parte nel vocalmlario passeriniano non risultano davvero sempre
compinte e precise nemmeno le citazioni pascoliane, e così se ne va anche la sol
lode concessa al compilatore dal recensente della Voce. Per esempio, di riessere,
oltre riè dei C. d. C, si doveva citare risarà degli stessi C. d. C, 188, 19, e
rifu dei P. P., 38, 19, per tralasciar risono di P. V., 140, 12; di toffo, oltre O.
e I., « un toffo di terra » dei P. F., 92, 14: di notturno in senso avverbiale
(Ibant noctnrni di Virg.), oltre Comm. di Card., anche C. d. C. 8, 17 e P. conv.,
30, 8; di sogliare, anche P. conv. 208, 17: di biacco, anche JV. P., 10, 7; di bra-
mito, oltre Messa, 0. e I. 126, 1 ; e così via, che si potrebbe andare avanti per
un pezzo, anche con altre incompiutezze e imprecisioni d'altra specie. Ma in cauda
') accorore = giungere al cuore; collo {portare in); diluvio (termine iTegli uccellatori), /accende,
fradicio, gent^, mannella, pigliare la zeppala, tirare = prendere colle dita il filo. Del resto il Passerini
non re;;istra Kursisiki e — chi lo crederebbe dei lettori del Pascoli l — nemmeno piada.
42 Beceìisioni
venenum. Tutto ciò che ho sin (|ni notato Bon piccolez/.e, auzi un uulla appetto
agli spropositi d'interpretazione da prendersi con le molle che nel vocabolario
passeriniano, come c'era del resto da aspettarsi dalla chiacchierata su Ahanle messa
là in principio per insegna, sono disseminati qua e là, un po' da per tutto. Ve-
diamdue qualcuno. Oli acridi (il Passerini, con peritanza non affatto insolita, non
s'è arrischiato di cavarne il «ingoiare acridio) sarebbero precisamente ♦ Le Kaue
stridule e loquaci » cioè il « lat. acredula ». Questa volta il vocabolista, ridotto
alle congetture, è ricorso al Forcellini, che gli ha messo sott' occhio, col vocabolo
press' a poco somigliante a quello del Pascoli, la notizia che sunt qui putant (acre-
dulam), non avis, sed loquaci» et atridulae ranae genus e««e ; ora, poiché il Pa-
scoli diceva appunto « udivo stridire gli acridi sull'umida zolla », ce n'era
d'avanzo per poter subito stabilire l'equazione acridi — rane. Ma quasi non gli
bastasse scambiare un animaletto per l'altro, il Passerini trasforma anche in ani-
mali le piante, taut'è vero che l'« arraelliuo in fiore » dei Nuovi Poemetti, sotto la
sua magica verga diventa I' armellino o ermellino degli zoologi « uno animale il
quale è piìl moderato, gentile e cortese che sia al mondo ; eh' egli non mangi»
mai alcuna cosa lorda, né mangia mai più d'una volta il di », come suona l'im-
mancabile citazione antica non meno che antica citazione. K senza che ci si allon-
tani dalla botanica, i » cauli con nel gambo rosse chiazze e con bianchi fiorellini
in cima », insomma le cicute che Panthide e Lcchon vanno cogliendo sul monte
tra lulide e Carthaìa, si mutano in cavoli. Sicuro : « canlo (qui il Passerini s'ar-
rischia di risalire al singolare, ma non è sempre vero che audente» fortuna invai !) :
Cavolo, lat. cauli» » e faccio grazia al pazientissimo lettore della solita citazione,
che non occorre proprio ricercare nel Buti, qnand' è così comodo leggerla nella
Crusca. Le fattrici poi (la citazione nel Passerini, come spesso, è inesatta ; il Pa-
scoli ha: «le fattrici non più buone ») invece che, con termine zootecnico ignoto
alla Crusca, ma non agli allevatori, le femmine del bestiame grosso, come, chi
non abbia il capo nel sacco, avvia a comprendere il Pascoli stesso con la nota
che aggiunge a pie di pagina, sono per il Passerini non so decidere se le opera-
trici o le fattoresse : decida chi vuole perdere il suo tempo in quel pottiniccio
ohe è a capo della pag. 156. Infine nella prefazione dei Canti di Caatelvecchio
(« Canti di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che re-
stano » il Passerini scova, io ve la do in mille, nientemeno che un rondino ')
(« per Rondinino. Il Pulcino della rondine, lat. hirundininus » ; il Passerini, non
c'è che dire, ha anche scoperto il latino degno d'appaiarsi col suo rondino !) : una
gemma da regalare alla dovizia lessicale zoologica del Pascoli, mentre da questa
è sottratto bombo che, in Myricae 22, 11 e 23, 1 e in Primi poemetti 217, 7, il
Passerini spiega come equivalente a « Bombito » -), insomma a « Rimbombo, Ron-
1) H Paeserini ha oerto consitlerato, a ano modo, il contesto. Sabito dopo le parole citate, il
Pascoli s'interrompe con la domanda: « Tropj)i ? ». Dnnqne ronriiHÌ dev' essere mascolino. Ma noi ia-
renuuo torto al Passerini, se lo tacciassimo di abituale disattenzione. Attento come di solito, egli
lavorando a questo vocabolario, chi sa per qual disdetta, ha avuto piuttosto l'idea fìssa di fiutar da
per tutto il difficile e il singolare, anche dov' è Ih massima semplicità e pianezza : quindi quel racco-
mandarsi innanzi tutto a tutti gli aiuti esterni iwssibili, col bel risultato di farsi sviare del tutto, e,
fallendogli gli aiuti, quel considerar le cose proprio dal lato che non sarebbe venuto in mente a
nessun altro.
-I Proprio con questo accento ripetuto anche sopra, così che «Sii maledetto, lugubre bombito »
diventa, nella citazione, un beli' endecasillabo : peccato che venga dopo «Sparo che i colli franto
iterarono »; ma è certo errore di stampa (cfr. icore, svédere ecc.).
Becensioni 43
zio », come se, per sospettare altrimenti, iiou bastasse leggere nell' ultimo luogo
ora citato « xtridoìio i bombi intorno ai fior d'acanto, ronzano l'api intorno alle
verbene ». Ma lasciamo il regno animale e vegetale, accennando solo di sfuggita
che il Passerini tenta di compensarlo dei suoi arbitrii arricchendolo imparzial-
mente da un canto d'nna mosca di bronzo {che sarebbe lo « Scarabeo, insetto dell'or-
dine dei coleotteri, d'nn bel color bronzeo brillante, di forma allungata ecc. ecc. » ')
e dall'altro d'una gita (che, verde com'è detta dal Pascoli, dev' esser senza dub-
bio il « Git o Gittaione, lychnis githago ; in Crescenzio :... », senonchè la citazione
ognun sa dove può vederla a tutto suo agio *) ; lasciani dunque il regno animale
e vegetale : ma nessuno speri che il Passerini sia men despota negli altri regni.
Basteranno pochi altri esempi, che ormai m' immagino II lettore stufo e più che
persuaso. Adunque accomodare (« questi due radicchi con altr'erbe amare » iu
P. P. 4, 17) in vece che « preparar per il desinare » significa « preparare, cu-
rare, acconciare a modo le piante, quando s' hanno a porre dentro terra » oppure
« potarle o annestarle »; antelunare («gli nomini vetusti, antelunari », P. oonv.,
13, 12) vale « Che è innanzi al far della luna » ') come risulta chiaro dalla citazione
del Sederini, e soprattutto dall'ultima impressione della Crusca che s'incontra,
parola per parola, col Passerini sia nel definire, sia nel citare ; arala (N. P. 147, 9:
« io sul!' aròla pongo, oltre i sarmenti, i gambi del granturco, abili al fuoco) è
« Aretta, piccola Ara ' *); cotta (P. P. 97, 17 : « O mamma, che il laveggio ora o
le cotte metti all'uncino o sopra i capitoni, da noi li avesti i necci o le ballotte! »)
è « propriamente la breve Sopravvesta di lino bianco con mezze maniche larghe
che i sacerdoti ecc. » — chi se l'immagina la contadina che mette sopra i capi-
toni le sopravveste sacerdotali per cuocere i necci, come appende all' uncino il
laveggio per fare le ballotte? ^) ; — lassare (La C. del Carr. 65, 14 ; « lassando
i snoi ronconi ») sta « per Affaticare, Stancare ; lat. lassare, defatigare >• ; levità
(nelle parole di Festa Ital. : « qnell'Arari di cos) incredibile lenità, che non si
vede da qual parte scorra », le quali son traduzione di qiielle, familiarissime agli
scolari del ginnasio, Arar incredibili lenitale ita ut oculis, in utram parlem fluat,
iudicari non possit ") per il Passerini suona « Levietà (sic , Leggerezza, l'Esser
mite. Mansuetudine, Dolcezza. Lat. lenitas. Il Cavalca:...» (al latino il Passerini,
che pur dimentica o disdegna il Cesare ginnasiale, non rinunzia più che alla ci-
tazione ; non dico però che l'uno e l'altra gli costin fatica a sfoderarli) ; ripieno
(nelle parole di Sul limitare : « la tela in cui l'ordito è il noto e il ripieno è il
nuovo », parole e immagine care al Pascoli, che su per giù contemporaneamente
le ripeteva in un suo poemetto latino ancora inedito : Pecudes, 18 sgg. : sitnt nane,
quae sei», discretis stamima filis [l'ordito] ; quae nescis, radius Ubi mox subtemina [il
1) «0 mi giuoca alla mosca (lì rame o alla pentola», coliambo di Eroda tradotto dal Pascoli,
in Lyra XXXV'I ediz. Crusins, p. 86).
2. i< Gita,... termine hicchese. Porzione, Quantità», Petrocchi, Dizionario.
^ì E sì che il poeta, subito dopo il verso citato, continua : Nacquero sopra le montagne uere,
che ancor la luna non correa su quelle
*ì È termine romagnolo che vien dal lat areola, e non da arula : « Ir<Ma, (Aróla) de t'ùg. : Aiuola
del focolare. Piano del focolare a livello del paWniento o alquanto rilevato su di questo, dove si pon-
gono le legna da ardere » : cosi nel Vocabolario lìomagnolo-Italiano di Antonio Mattioli.
&) Del resto l'aveva avvertito il Pascoli stesso che cotte son « ferri per cuocere cialde, necci e
simili ».
^i Anche neir asclepiadea a! Vitelli il Pascoli ricordò il luogo cesariano i « segnes Arares ambi-
gai tiuminìs », V. 1 .">.
44 Becensioni
ripieno] ducei garrului et presto facies tu pectitie telam) è così inteso dal Passerini,
con parole del resto quasi uguali a quelle della Crusca : « ripieno : quelle diverse
Cose che si adoperano per riempire una cosa vuota, e anche Quel che non serve
a nulla ed fe come un di piii, nn inutile soperchio, nn ingombro » ; la qual defi-
nizione quadra meravigliosamente al ripieno di cui il lettore dev'essersi persuaso
eh' è infarcito tutto codesto vocabolario del Passerini. Ma sono stufo anch'io, e
non aggiungerò altro se non eh' io dubito forte che tintinniare = tintinnire sia
uno sgraziato àjiag XeYótisvov piuttosto passeriniano che pascoliano. Che per appiop-
parlo al Pascoli basti proprio il verso « dove ora il pettirosso tintinnia » ?
Dopo quel che s'è visto insieme, al lettore non è indispensabile, credo, una
conclusione. Tanto, se la volessi fare a modo, non persuaderei certo il Passerini.
Giacché dovrei discutere e revocare in dubbio i principi stessi metodici ai quali
egli informa codeste compilazioni. Se cominciassi dal dire che questi son lavori
modesti i quali non che ripudino ogni fronzolo e belluria, accettano volentieri
tutti quegli espedienti, come segni convenzionali, abbreviazioni ecc., che fanno
risparmiare lo spazio, il Passerini si sentirebbe quasi ofteso ne' suoi gusti sfar-
zosi. Io invece (ed è per questo che mi son tenuto pedestremente e pedantesca-
mente alle osservazioni materiali e incontrovertibili), io vorrei persuaderlo, e così
ottenerne qualche cosa, oltre, naturalmente, l'ascrizione agli « ammonitori e cen-
sori saputelli » della sua opera, come dice Ini nella lettera-prefazione. A me .sta
a cuore la dignità del Pascoli — con le quali parole non voglio dare ad inten-
dere eh' io abbia mai avuto qualche legame col poeta, che vidi solo di sfuggita
sulla cattedra di grammatica latina e greca in Bologna; matant'è: la dignità del
Pascoli mi sta a enore non meno che a qualche suo amico, e non vorrei proprio
ch'egli facesse senza sua colpa eattiva figura accanto al D'Annnnzio e al Carducci,
quando il Passerini raccoglierà in un sol volume, come già divisa di fare, il les-
sico dei tre poeti. Io dunque spero che allora, sentendo in cuor suo nn vago
pentimento d'aver reso col presente vocabolario nn cattivo servizio al Pascoli e per-
sino a se stesso, il nostro vocabolista curerà la parte pascoliana alquanto piti amo-
rosamente, ripulendola almeno dalle macchie piil brutte. Non dico però che anche
così si avrà il vocabolario che il Pascoli merita e che s'augurano i suoi lettori.
Settembre del 1916. ADOLFO GanDIOLIO.
Studi della Scuola Papirologica (R. Accademia Scientifico-letteraria in Milano). I.
Milano. Ulrico Hoepli, 1915, 8».
Con questo volume la Scuola papirologica annessa alla R. Accademia Scienti-
fico-letteraria di Milano inizia le sue pubblicazioni. Sono raccolti in esso i risul-
tati delle dotte indagini compiute nel campo degli studi papirologie! da maestri e
discepoli, in una proficua collaborazione. Il volume è qualcosa di più e di meglio
ohe una ' promessa ', come, con troppa modestia, ha voluto definirlo Attilio De
Marchi nel presentarlo ai lettori : esso è, oltre che una bella allermazione del-
l'attività di questa giovine scuola, un saggio dell'eccellente preparazione paleo-
grafica, storica e filologica dei suoi allievi : esso è tale insomma, da meritare nn
posto cospicuo tra le consimili pubblicazioni.
Pochi sono i papiri inediti e quei pochi così mal conservati, che agli editori
deve essere occorso non isoarso viatico di abnegazione per cimentarsi ad un' im-
presa ardua, per non dir disperata : certo il fervore di neofiti deve averli inco-
Recensioìii 45
raggiati alla paziente fatica. Ricordo, tra i piìi notevoli : un frammento di let-
tera-relazione a nn xó|ir]{, pubblicato dal prof. P. De Francisci — e riprodotto
anche in nitido fac-simile : in esso il prof. U. Pestalozza vedrebbe un accenno
all' iniziazione cristiana e all' eucaristia, ipotesi invero non molto probabile, che
le espressioni sn cui è basata potrebbero piuttosto aver valore generico ; un fram-
mento di lettera privata che il prof. Calderini, per evidenti analogie, ritiene fac-
cia parte della corrisijondenza di Eronino, pubblicata, come è noto, nei Papiri fio-
rentini. Il Calderini stesso ripubblica qui il P. Fay. 204, nel quale ha felicemente
identificato il principio degli 'A^mpwiioi di Ippocrate.
La seconda parte del volume — ' Memorie e note ' — è dedicata a studi e
ricerche intorno a testi papirologici già editi. In questa materia, si sa, nessuno
può pretender mai di dir l'ultima parola e sul materiale già noto c'è sempre qual-
cosa, e spesso molto, da fare. Ora i valenti papirologi milanesi, a corto di nuovo
materiale, hanno avuto campo di esercitare la loro perspicacia e dottrina in una
rielaborazione di materiale già noto, ampliando cioè commenti e illnstrazioni, col-
mando lacune, correggendo inesattezze, proponendo nuove congetture. Il Calderini
si occupa del /'. S. I. 17 — epigrammi sepolcrali : il suo studio, ricco di oppor-
tuni e preziosi raft'ronti, oltre che un erudito commento storico, filologico, este-
tico, metrico dei nuovi epigrammi, si può dire un ottimo contributo alla storia
dell'epigramma funebre greco. Un altro papiro della Soc. Italiana — il n." 120,
florilegio di sentenze — studia il sig. Ezio Amodeo, rintracciando le fonti del-
l'anonima compilazione e dimostrandone i rapporti con le raccolte di detti dei
Sette Sapienti, specialmente con quella di Demetrio Falereo. Nel 1'. S. I. 131 la
signorina Dina Zappa, anziché un frammento di Ehoiai, vedrebbe nn'Alcmeonide
di un poeta ciclico, o piuttosto di questa una tarda imitazione alessandrina. II
Calderini esamina la redazione di un frammento del ' Clitofonte e Leucippe ' di
Achille Tazio (P. Oxyrh., 1250) notevolmente diversa da quella della volgata. E
tra le ' Memorie e note ', prevalentemente intorno a papiri letterari, non man-
cano studi su testi documentari, dovuti alla dottrina d' insigni giuristi : un sin-
tetico scritto del dott. Guglielmo Castelli sulla funzione giuridica del auvsoT(ój o
au(ncapu)v, che compare nei documenti posteriori alla constitntio Antoniniana ; una
nota del De Francisci sul significato e sull' uso dei termini gipXtov e Pi^XiSiov ;
degna di rilievo, dello stesso De Francisci, una felice congettura, che permette-
rebbe di risanare un passo controverso del famoso Indice del Digesto (P. S. I. 5.^),
congettura che sì appoggia su un' espressione parallela dei Testi Basilici.
Eesta ora da accennare al ' Lexicon Suppletorium in Sophoclis fragmenta pa-
pyracea nnnc primum reperta ' compilato, sotto la guida di A. Calderini, dai
discepoli dell'Accademia milanese ; dell'opportunità di tale lavoro, che sarà un
prezioso sussidio per gli studi filologici, non è chi non sia convinto ; qui basti
dire che il lessico è metodicamente concepito, coscienziosamente elaborato e, quel
che è tanto più notevole in un lavoro a cui hau posto mano poco meno che venti
giovani studiosi, condotto con una certa norma di costante uniformità.
Con una raccolta di ' Recensioni e notizie ' di alcune recenti pubblicazioni
papirologiche, dei professori Calderini e De Francisci e del dott. Castelli si chiude .
il volume, che anche sotto l'aspetto tipografico è degno di encomio. Esso inoltre,
per la varietà del suo contenuto, non mancherà dì trovare favorevole accoglienza
anche oltre la cerchia ristretta degli specialisti ; e sarà qnesto non piccolo titolo
di benemerenza per la Scuola di Milano, che della sua prima prova papirologica
può andar giustamente orgogliosa. Teresa Lodi.
46 Reeeimioni
K. Wyss. Die ìlilch im Eultus der Grieche.n und Romer. (Religionsgeschichtliche
Versuche iind Vorarbeiten, heransgegeben von R. WCnsch und L. Dkubner,
XV Bd., 2. Heft). — Giesseu, Topelmann, 1914; pp. 67.
Il latte ha avuto nel culto antico un uso molto largo ed un'importanza molto
grande. L'uno e l'altro vengono studiati dal W. in questo opuscolo condotto con
l'abituale diligenza, che siamo ormai abituati a trovare in questa raccolta.
L'A. preferisce di iniziare il suo studio da alcuni riti romani, nel quali gli
Henibra di trovare meglio conservato il valore primitivo del latte, sebbene qualche
volta egli non riesca perfettamente a separare ciò che fo originario e ciò che, in-
vece, derivò dalla Grecia. Ma, ad ogni modo, il materiale è sempre ordinato con
precisione e chiarezza, e la conclusione fondamentale a cui giunge il W. difficil-
mente potrà essere impugnata. Infatti, egli ritiene con buone ragioni che l'impor-
tanza del latte sia dovuta al fatto che i popoli indoeuropei primitivi davano mag-
gior peso alla produzione di esso che non all'allevamento del bestiame, sicché già
in un'epoca remotissima il latte acquistò valore sacrale.
Anche questo, come tanti altri, è un buon contributo alla conoscenza della
religione antica.
N. Terzaghi.
AAOrPA^IA : SeXtCov tfj? IXXrjvtxfis XaoYpacptxrJf Ixatpeiaj. B', 8-E', f (dal maggio
1911 al luglio 191.5). 'Ev 'AS-iiva;;, 1:no\.z. B. A. SaxsXXapiou.
Come abbiamo fatto per i fascicoli precedenti (v. A. e B. XII 388-90 e XV
48-49), così richiamiamo 1' attenzione degli studiosi sul ricco e vario materiale,
non solo folkloristico, ma di piil campi affini, offerto da questa eccellente rivista,
organo della Società greca di laogratìa. Accanto alle raccolte copiosissime di pro-
verbi, enigmi, scongiuri, formule, novelle, favole, tradizioni, accanto al tesoro
inesausto di canti e distici popolari (rifiorito anche in occasione delle sanguinoso
gnerre balcaniche*, si schieriino una quantità di articoli e monografie, alcune delle
quali riguardano anche pili o meno direttamente l'antichità e più da vicino il
mondo di Bizanzio e la grecità medioevale. Ad. Adamantios compie la sua lunga
e dotta indagine solla Prova dellapurità (B' 521-47 . V 51-147, 390-446). S. Kugeas
inizia una serie di ricerche intorno alla laografìa greca nel medioevo, partendo
dalle notizie demografiche negli scolii di Arethas (850-932), il celebre vescovo di
Cesarea e alunno di Fozio (A' 236-270). Materiale affine ricerca il Kuknlé in Teo-
doro Prodromo (E' 309-32). La desiderata edizione del manoscritto escurialense
del poema di Digenis Akritas ci è offerta, accuratamente illustrata, dal Hesseliug
(r' 537-604). Intorno ai Cai-miua graeca medii aevi di G. Wagner fanno osserva-
zioni il Kukulé (r' 358-81) e lo Xauthodidis (F' 614-21). W. Schultz istituisce in-
teressanti paralleli orientali con enigmi bizantini (A' 353 76), mentre il Kyriakidis
passa in rassegna gli scongiuri e i farmachi popolari contenuti in un ms. del
XVII secolo (A' 377-86). Il Triantaphyllopulos studia le vicende dell' àito'xr,puJts
nell' età bizantina e nella giurisprudenza popolare moderna (E' 239-48). Al campo
antico e bizantino si volge pure iu gran parte 1' indagiue, sempre copiosa e mi-
rabilmente documentata, del direttore della rivista, del Maestro insigne della de-
mopsicologia ellenica, N. G. Politis : ecco gli studi sui Canti popolari bizantini (V
622-652), il piano di Ricerche sulla laografia greca nel medioevo (F' 605-10), la mo-
nografia su L'importanza topografica delle chiese greche per il riconoscimento di templi
antichi (A' 12-21), i ricchi materiali di Toponomastica (A' 372-600 . E' 249-308),
Recensioni 47
per tacere, non perchè meno importanti ma perchè meno interessano i nostri let-
tori classicisti, le numerose indagini di carattere folkloristico.
Come nei fascicoli già annunziati, così anche in questi non mancano alcuni
saggi che escono dal dominio ellenico : proverbi bulgari, canti nuziali rumeni,
proverbi e indovinelliturchi, notizie sulla « festa del latte » presso i Greci di lingua
armena nella Bitinia.
P. E. P.
ATTI DELLA SOCIETÀ
Conforme alla circolare in data 19 decenibre 1915, il 26 decembre u. s. ebbe
luogo I' adunanza generale dei Soci. L' avv. Anibron, anche a nome dei colleghi
Anau e Galardi, lesso la Relazione del collegio dei sindaci, intorno al bilancio con-
suntivo dell'esercizio 1914-15. Dopo breve discnssione ed alcuni schiarimenti del-
l'Economo prof. Stromboli, il bilancio stesso risultò approvato all'unanimità.
L'Assemblea deliberò pure di concorrere al nuovo Prestito Nazionale con parte
del capitale disponibile e di convertire in titoli del medesimo quelli già sottoscritti
nel prestito precedente.
SUPPLEMENTO ALL'ELENCO DEI SOCI-
0. Esengrini nob. Gianandrea, Milano A. Oi'si comm. prof. Paolo, Siracusa
» Savignoni prof. Luigi, Firenze » Stella Marauco Filippo, Lanciano
J. Briscese prof. dr. Rocco, Venosa (Po- » Toesca prof. dr. Firenze
tenza) » Zaiotti Adolfo, Carpenedo (Mestre)
» Mancnso prof. Umberto, Pisa » Zolli prof. Eugenio, Correggio
LIBRI RICEVUTI IN DONO
V. Peloso. Osservazioni sui frammenti delle Georgiche di Nicandro. Napoli, Tip. F.
Giannini, 1915, in-8, p. 18.
P. Fabbri. Evoluzione del ritmo nella prosa latina. (Estr. da « Optimae Litterae »
1915, 2-3). Modena, 1915, in-8, p. 24.
F. Marci. Un caratteristico documento di IyyP''V°C T'^M'OS P*'' '" storia del matrimo-
nio nell'Egitto greco-romano. (Estr. dal « Bollettino dell' Istituto di Diritto-
Romano ». Roma, 1915, in-8, p. 36.
— — La 2)roprietà sacra nel diritto ellenico e l'origine della locazione di cose. (Estr»
dalla « Rivista ital. di sociologia » maggio-agosto, 1915), p. 12.
N. Terzaqhi. Si/nesii Cyrenensis hijmni metrici (Estr. dagli « Atti della R. Accad.
di Napoli », N. S., IV, 1915), p. 6.5-123).
G. Costa. Impero romano e Cristianesimo. (Estr. da « Bilychnis », 1915). Roma,
1915, in-8, p. 49 con 3 tavole.
48 Libri ricevuti in dono
L. Saviononi. La ptirijicazione delle Prelidi. Osservazioui su le statue di danza-
trici di Ercolano. (Eetr. da « Ausonia », Vili, 1913). Eonia, 1915, in-4, p. 46,
con 6 figure.
Aristofane. Le Nuhi, con note di S. Rossi. Ditta Paravia e C, ». u. (1915),
in-16, p. XVI-1P2. L. 3. (BiVdioteca scolastica di scrittori greci, 25).
A. Cai.dbriki. Lettere private dell' Egitto greco-romano. Prolusione ai corsi della
Scuola Papirologica per 1' anno 1915-16. Milano, 1915, in-8, p. 19.
D. COMPARKTTI. Tabelle testamentarie ed altre iscrizioni greche, edite ed illustrate.
Firenze, Tip. Ariani, 1915, in-4, \k 52.
G. ZUCCANTK. Aristotele nella storia della coltura. Milano. Tip. Komitclli, li>15,
in-8, p. .58.
G. PuocACCi. Intorno a un poemello latino di G. Jfaacoli (Cena in Caudiano Ner-
vae). Teramo, Tip. De Carolis, 1915, in-8, p. 19 (Estr. dalla « Rivista Abruz-
zese », 1915, fase. IX).
A. G. Amatucci. Storia della letteratura romana redatta sulle fonti antiche e sui
principali studi critici. Voi. II. Da Augusto al sec. V. Napoli, Perrella, 1916,
iu-8, p. viii-206, L. 2.
ATTILIO DE MARCHI
Un'altra perdita, gravissima, recò alla uostra Società l'auno ora
trascorso, così pieno di lutto e di strazio: la morte del prof, Attilio
De Marchi vicepresidente del Consiglio direttivo fin dal 1907 e pre-
sidente del solerte Comitato Milanese tìn dalla fondazione, dovuta in
massima parte alla sua efficace iniziativa. Egli fu veramente bene-
merito del nostro sodalizio per l'opera costante e amorosa, nei Con-
vegni, nelle cariche sociali, nella collaborazione preziosa al bollettino,
nei suggerimenti e consigli. Gli articoli da Lui offerti all'Atene e
Roma, i graziosi e sugosi volumetti editi dal Comitato Milanese, le « Let-
ture Mylius » sono altrettanti documenti delle sue nobilissime qua-
lità di divulgatore della scienza archeologica e filologica, cui sajieva
pur arrecare più severi contributi, di preferenza negli Atti dell' Isti-
tuto Lombardo, che lo contò fra i suoi membri. Uomo di esemplare
rettitudine, cittadino integerrimo e benefico, insegnante operoso ed
efficace, scrittore elegante ed arguto, lascia vivissimo rimpianto di
sé e incancellabile memoria.
P. E. Pavolini, Direttore. — Giuseppe Santini, Gerente responsabile.
66-916 - Firenze. Tip. Enrico Ariani, Via Gliibellina. 51-53.
Anno XIX.
Marzo-Aprile 1916.
N. 207-208
ATENE B ROMA
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ ITALIANA
PER LA DIFFUSIONE E L'INCORAGGIAMENTO DEGLI STUDI CLASSICI
Sede centrate: FIRENZE, Piazza S. Marco, 2
Direzione del Bullettino Abbonami-nto annuale. . L. 8
Firenze — 2, Fiuta s. Marco Cn fascicolo separato . » 1 -
Amministrazione
Viale Prìncipe Eiurenio 29, Firenie
ATTILIO DE MAKCHI E "ATENE E ROMA"
Di Attilio De Marchi quale scrittore ed erudito, quale maestro,
quale cittadino che dedicò ad altissimi ideali di cultura e di educa-
zione sociale non solo, ma ad opere provvide tanta parte della sua
attività infaticabile, disse con illuminata parola Carlo Pascal, nella
commemorazione, tenutasi la sera del 29 gennaio, per la Sezione mi-
lanese della Società « .\tene e Roma », nella grande sala del Circolo
Filologico, davanti a numeroso e scelto uditorio.
La figura sua nobilissima, rievocata con affetto profondo ed arte
squisita, rivisse nei cuori nostri commossi, mentre ravvisavamo — e
più amaro si faceva il rimpianto — l'anima di Lui grande ed ele-
vata, gentile e buona, e la compostezza serena di quel carattere, che
rivestiva ricche e fervide e generose energie di mente e di cuore.
Sapevamo noi «Iella « Atene e Koma », che l'opera sua assidua
e intensa, consacrata alla nostra associazione, la quale pur rispon-
deva ad una delle piti care idealità del suo spirito, ad una delle at-
titudini più spiccate del suo ingegno, non era tuttavia che una i»arte
piccola della sua molteplice e feconda attività. E fu caro a noi che
questa attività ci venisse rappresentata per intero nella efficace sin-
tesi di Carlo Pascal, ma desiderammo pure i)ercorrere più partico-
larmente la via dei ricordi che riguardano il nostro sodalizio milanese
« ritesserne, per quanto è possibile, la storia. Tale compito si volle
aifìdare a me che non esitai ad assumerlo, non perchè io pensassi
di adempirlo nel modo migliore, ma per il vivissimo desiderio di re-
care un tributo di affetto e di riconoscenza alla venerata memoria
del nostro Presidente. Parve opportuno che queste note apparissero
in questo nostro Bullettino, il cui felice binomio « Atene e Koma »
rappresentò per il nostro Presidente e per noi tutti a Milano, il ti-
Atene e Roma. 1
50 . Oarolina Lanz<mi
tolo e il simbolo dell'associazione intera, simbolo che conserverà sem-
pre la sna alta significazione e non cesserà di parlare agli animi come
ricordo di antiche glorie comuni a due grandi popoli, come monito
di comuni doveri i)er la causa della civiltà nella storia del mondo.
« La Società Italiana per la diffusione e l'incoraggiamento degli
studi classici afferma il suo programma nel titolo del suo Ballettino
Atene e Roma ». Così scriveva il De Marchi nella lettera a stampa,
che nel febbraio del 1902 veniva diffusa in Milano, per la prepara-
zione del Comitato locale, ed era firmata da un primo gruppo di soci.
« Pur consapevoli e coscienti — continuava la lettera — delle
necessità e delle aspirazioni del presente, i soci milanesi sentono quali
radici nel passato abbia la vita nostra e insieme quanto ancora si
possa attingere per l'avvenire allo studio del pensiero, della bellezza,
dell'azione di Grecia e di Roma. Lo dice il diffondersi crescente di
tale studio appunto in quelle terre americane che rappresentano il
flore delle energie pratiche moderne, quasi ad ammonire che non è
nostro pregiudizio tradizionale di stirpe il culto di quel glorioso pas-
sato, che fu pur ragione di nostra gloria e di nostro rinascimento.
Ma perchè vera e larga efficacia vi sia, è necessario che anche fuori
della scuola e de' programmi scolastici, la vita, la letteratura, l'arte
di que' due popoli nelle loro piìi alte e geniali manifestazioni dicano
la parola che le riveli ai diffidenti e ai profani e in tutti destino
un amore intelligente. Per ciò i sottoscritti fanno appello a quanti
nella scuola e fuori della scuola intendono e amano quell'ideale o
mal compreso o ingiustamente combattuto ; che se i mezzi e il fa-
vore non mancheranno, il nostro sodalizio dovrà alimentare in Mi-
lano, fra tanto fervore d'azione, una fiamma di pensiero che ancora
può dar luce e calore intensi ».
Preziose parole ! le quali valsero infatti a svegliare e nutrire la
fiamma che già da più di un decennio risplendeva grande e vivida
nella dotta e gentile Firenze e da poco tempo si era accesa anche
a Koma. E noi, piccolo gruppo di soci milanesi, che avevamo sempre
nell'anima custodito il sacro fuoco, che gli ideali della bellezza, della
scienza e sopra tutti e sopra tutto l'ideale della Patria nostra grande
e potente e non immemore dell'antico imperium, ne avevamo riscal-
dati ed illuminati sempre, accogliemmo con entusiasmo quelle parole
e viva gratitudine sentimmo per l'Uomo che aveva così risposto al
nostro appello e così saputo esprimere le nostre aspirazioni.
E con non minore gratitudine riguardammo ad un venerato
Maestro di filologia ellenica non solo, ma di puro e sereno Ellenismo^
Attilio De Marchi e " Atene e Soma " 51
a Vigilio Inama che, pregato di farsi nostro capo nell'attuazione
del tanto accarezzato disegno — e il De Marchi era fra quelli che
più vivamente ciò desideravano — ci aveva additato il suo disce-
polo : Attilio De Marchi. « Io sono vecchio » — ricordo ch'Egli mi
rispose con quel suo indimenticabile sorriso che gli illuminava tutto
il volto buono, ed era in tanto contrasto con quelle sue parole, per-
chè rivelava l'anima sua sempre giovane, fresca e serena — « io
sono vecchio, ma avete Attilio De Marchi : Egli potrà darvi energia
di azione, oltre che di pensiero ».
L' Inama acconsentì tuttavia di appartenere al nostro Consiglio,
Tutti ricordiamo con quale attenzione affettuosa e devota il nostro
Presidente, insieme con noi, ne ascoltava la parola sapiente, misu-
rata e spesso arguta. Fu un lutto gravissimo per la nostra Società
la morte di Virgilio Inama, e le parole commosse che il De Marchi
pronunciò, commemorandolo innanzi all'assemblea, ne furono l'espres-
sione più profonda ed efficace. Chi avrebbe pensato allora che solo
tre anni dopo Egli lo avrebbe seguito nella tomba ?
Il Comitato di Milano era tutto raccolto e personificato nel suo
Presidente; si può dire senz'altro che il Comitiito era il l'resideiite.
Ogni cura, ogni lavoro Egli prendeva sopra di sé, con attività in-,
tensa e proficua, pari alla serena e tranquilla modestia con cui Egli
dava un aspetto di semplicità, quasi di facilità naturale all'opera sua.
Quando ci radunava a Consiglio, ci attendeva sempre qualche felice
sua proposta o (jualche gradita comunicazione, alla quale plaudivarao
unanimi.
Fu sua l'iniziativa delle piccole pubblicazioni, collo scopo di di-
vulgare la conoscenza dell'antichità classica.
Primi uscirono in luce nel 1908 alcuni idilli scelti di Teocrito,
stampati in elegantissimo volumetto che fu tutto cura del prof. Uberto
Pestalozza, e venne oflerto ai soci nell'occasione del Convegno, tenu-
tosi a Milano. Si ebbero più tardi altri sei volumetti di cui il primo,
Moretum, con testo e traduzione a fronte, fu curato da Carlo Pascal ;
il quinto, Dal libro quinto dell' Antologia Palatina, contiene la ver-
sione poetica di epigrammi scelti e prefazione di Luigi Siciliani. Gli
altri quattro sono opera di Attilio De Marchi e si può dire che essi
hanno tutto il carattere e tutto l'interesse di scritti d'occasione. Il
Piccolo mondo antico raccoglie infatti dai papiri greco-egizi la tradu-
52 Carolina Laniani
ziooe di alcuni documenti della vita antica, ove « la storia non ci
conserva traccie di quelle classi umili e medie che lasciarono così
scarsi ricordi di sé »; il Manuale del candidato, ossia la lettera di
Quinto Tullio Cicerone « de petitione consulatus » fu pubblicata nei
periodo delle ultime elezioni politiche. L'anno passato, un mese dopo
il disastro tellurico che colpì l'Italia nostra, avemmo da Lui il vo-
lumetto intitolato La catastrofe di Pompei nelle lettere di Plinio il
giovane. E ultimi furono, nel maggio scorso, I canti di Tirteo. « Né
in quest'ora di trepida aspettazione » — Egli concludeva nel breve
esordio — « altra voce di Grecia antica potrebbe trovare eco più
forte nel cuore d'ogni Italiano ». E veramente essi l'ebbero e l'hanno
una eco forte negli animi nostri, ed essi ci sono ora cari e .sacri.
anche perchè ci suonano come un saluto augurale, eh' Egli ci abbia
rivolto nel dipartirsi da noi.
*
« *
Nell'aprile del 1908 la nostra città ospitò il terzo Congresso
della Società per gli studi classici, ed alla preparazione di esso il
De Marchi attese con mirabile fervore, sobbarcandosi, secondo la sua
consuetudine, ad una parte grandissima del lavoro. Ed è nota la fe-
lice riuscita di quella simpatica manifestazione, per cui insigni clas-
sicisti, convenuti da ogni parte d'Italia, si trovarono uniti non solo
nei lavori, ma in geniali ritrovi fra le bellezze dell'arte che raccoglie
in sé la nostra Milano, fra le bellezze che la natura profonde sulle
rive del nostro Lario. Fu allora che visitammo la villa Pliniana di
Torno, illustrata da bellissimi esametri, composti per l'occasione da
Eemigio Sabbadini e offerti in dono ai congressisti, e ci spingemmo
fino alla perla del lago, alla ricca Bellagio.
Il Comitato milanese aveva cosi affermata la sua vitalità rigo-
gliosa ed ebbe così, dopo il Congresso, un considerevole incremento
di soci. Esso proseguiva intanto nell'esplicazione dell'opera sua, in-
tesa a diffondere il gusto dei classici. Nello stesso anno 1908 fu te-
nuto dal prof. Uberto Pestalozza un corso di traduzione e commento
di classici greci.
Nel 1911 avemmo da Luigi Siciliani letture di poeti greci, e
nell' anno successivo di poeti latini, nelle migliori versioni italiane,
che dilettarono un numeroso pubblico di soci e di invitati e nuove
simpatie guadagnarono alla nostra associazione.
Ottime e numerose furono le conferenze che, fin dall'anno della
AHilio De Marchi e ■' Atene e Soma " 53
fondazione, rappresentarono per così dire la nota continuativa nel-
l'attività del nostro Comitato e furono in massima parte promosse
dal Presidente. La prima che inaugurò la vita milanese deìVAtene e
h'oma fu tenuta il j>iorno 27 aprile del 1907 da Giacomo Boni, e
trattò di recenti scoperte e scavi del Foro Traiano. Seguì a breve di-
stanza nell'anno stesso quella di Bartolomeo Nogara sulle pitture
murali di lloma antica.
Oi parlarono negli anni successivi Giovanni Patroni di Atene e
suoi monumenti, Ettore Komagnoli di Pindaro, Giovanni Oberziner di
Antichitìi moderne, lo stesso De Marchi di JUrcoIano, del Foro Romano.
A dare nuovo incremento alle conferenze milanesi sopravvenne
intanto la cospicua donazione Mylius, il cui reddito fornì al nostro
Comitato i mezzi per invitare conferenzieri anche da altre città. Si
iniziò così il ciclo delle letture Mylins, delle qnali la prima fu te-
nuta dal Presidente stesso l'8 di aprile del 1910, col titolo Ij oltre-
tomba nella fantasia e nella coscienza Romana, e fu preceduta da pa-
role di ringraziamento e di plauso alla gentildonna che il genialissimo
dono destinava ad onorare la memoria della venerata madre.
La seconda lettura Mylius fu di Gerolamo Vitelli ed ebbe per
argomento Euripide ; la terza di Lucio Mariani trattò dell'espressione
del dolore nell' arte antica.
'Sei 191 1 avemmo due letture : la prima di Ettore Pais, Roma
antica e la genesi dell' Unità Italiana, nel cinquantesimo anniversario
del riscatto nazionale ; la seconda di Emanuele L<)ewy sull' abito
nelVarte greca. Seguirono nel 1912 le conferenze di B. Nogara, di G. 12.
Rizzo sull'jir<( Pacis Augustae, di Carlo Pascal su Agrippina; nel
1913 avemmo Cuma, Pesto, Pompei di Vittorio Spinazzola, Diogene di
(yiuseppe Zuccante, gli Scavi del Palatino di Giacomo Moni; nel 1914
gli Scavi di Ostia di G. Calza, L'Acropoli di Atene e l'arte di Fidia
di Gherardo Gherardini, Ovidio maestro e poeta di abbigliamento mu-
liebre di Ettore Stampini.
Al di fuori delle letture Mylius furono tenute pure altre confe-
renze. Nel 1910 Serafino Ricci parlò delle Niobidi, nel 1911 il De Mar-
chi disse la (conferenza Da Salamina ad Egospotamos, già tenuta a
Firenze nell'occasione del quarto Convegno della nostra Società, e
nel 1912 Egli stesso intrattenne il pubblico dell'« Atene e Roma »
su La Cirenaica nell'età greca e romana. Nel medesimo anno Ettore
Romagnoli lesse le sue traduzioni delle Baccanti, déìVAlceste e del
Ciclope di Euripide.
Le assemblee ordinarie del nostro Comitato furono sempre av-
Carolina Lanzani
vivate (la simpatiche discussioni, promosse dal nostro Presidente <>
da qualche suo discorso geniale, o dotta e importante comunicazione.
Fu trattata così nel 1908 la questione degli scavi di Ercolano : nel
190t) si discusse intorno alla proposta della Commissione Reale pel
ginnasio unico ; nel 1910 intorno alla proposta della Commissione
reale per la riforma della scuola media. Il De Marchi parlò all'as-
semblea del 1911 dello stato degli scavi nella Basilica di S. Lorenzo
e dei problemi topografici e archeologici, relativi ad altri scavi com-
piuti. Nel 1912 si discusse intorno ai programmi governativi per
l'insegnamento del greco. Gli scavi della cappella di S. Aquilino,
annessa alla basilica di S. Lorenzo, furono oggetto di una nuova in-
teressante comunicazione nell'anno 1913, e l'assemblea dell' anno suc-
cessivo 1914 fu intrattenuta da una interessante lettura, La giornata
di iSesto Vibio Sabino, alla fine della quale il De Marchi fu salutato
da un unanime applauso.
Fu questa purtroppo l'ultima volta che la sua dotta ed elegante
parola fu rivolta, in forma di conferenza, al pubblico dell'* Atene
e Roma ». Il 19ir> fu au<!lie per noi anno di attesa e di raccogli-
mento nel pensiero della nostra guerra, ma risuonarono fra noi i
canti di Tirteo, diffusi, come si disse, fra i soci nell'ultimo volumetto
pubblicato dal De Marchi. Non cessò tuttavia il Comitato nostro di
rivolgere l'animo all'incremento degli studi classici, col secondare
l'iniziativa del Presidente, intesa a favorire anche in Milano lo stu-
dio dei papiri greci.
Giunti al termine del nostro resoconto, mentre chiediamo venia
di qualche involontaria omissione, ci giova con vivo compiacimento
riconoscere, come dell'opera di tanti uomini insigni si sia alimentata
la vita del Comitato nostro, sotto gli auspici del Presidente che seppe
trasfondere in esso tanta parte della sua nobile anima e del suo si-
gnorile buon gusto.
E auguriamoci che V Atene e Roma, a cui tante care memorie
sono omai legate, a cui sono sacri i nomi di venerati Maestri, tutti
perennemente vivi, anche gli scomparsi, nei nostri cuori, continui ad
esplicare vigorosamente l'opera sua. E sia essa, così come la vollero
quei Maestri, diretta ai piìx alti ideali della civiltà e della patria, e
sia opera sì di divulgazione e di popolarizzazione, ma anche di rac-
coglimento. Raccoglimento di spiriti eletti cui gli studi professati pon-
gono in diuturno contatto colla bellezza e colla sapienza antica, ma
che pur sentono pulsare vigorosa la vita per tutte le vene di quel-
l'organismo del passato al quale pur sempre apparteniamo, e che, come
Attilio Ve Marchi e "Atene e Boma " 55
per il dono di una trascendentale memoria, percepiscono i rapporti
continui fra le cose che furono e le cose che sono. E venga da essi
non solo la luce del sapere, ma il calore della fede e dell'entusiasmo
che si propaga e trascina e avviva e feconda. E così viva e com-
batta il nostro sodalizio per gli ideali da cui è nato, per sollevare
in alto i cuori, per temprare ai grandi e nobili esempi del passato
le energie della nostra stirpe, per difendere, collo studio dei classici,
il sacrosanto patrimonio del nostro pensiero nazionale, per alimentare
la fede nei grandi destini della Patria coi ricordi ispiratori di gesta
magnanime, e di opera assidua e pertinace. E sia esso per il lavoro
forte, per l'energia ostinata, per la fatica aspra, per la prova ardua,
per la scuola diflBcile; e stia contro il malinteso praticismo e moder-
nismo, che allentando o addirittura spezzando i vincoli col passato,
attenua o sopprime la memoria della stirpe che, come la memoria
nell'individuo, è parte essenziale della psiche e della coscienza dei
popoli. E stia contro ogni deformazione malsana della coscienza e
dell'arte, quando specialmente essa sia vestita di nomi alto-sonanti,
di forme speciose, di teoriche lusingatrici e corrompitrici.
Questi voti nostri e l'opera che ad essi consacreremo, siano
omaggio perenne e tributo d'affetto alla memoria del Presidente fon-
datore del Comitato che vive in questa Sua, in questa nostra Mi-
lano, consapevole sempre dei sublimi ideali del pensiero ed esperta
nella mirabile pazienza del lavoro.
« Ne ignorent semina matrem »; « antiquam exquirite matrem »;
« iuvat integros accedere fontes ». Furono questi i tre motti che il
De Marchi aveva proposto alla nostra scelta per ornarne la tessera
del Comitato riproducente il piìx insigne avanzo Romano della nostra
città, le colonne di S. Lorenzo. La scelta cadde sul primo. Ma essi
ci tornarono tutti e tre alla memoria, e più che mai ci parvero
l'espressione di un programma, quando, raccolti intorno alla sua bara
coperta di violette, sentimmo aleggiare il suo spirito che pareva di-
scorrerci ancora di azione forte e serena, di cose grandi, belle e im-
mortali, nella radiosa giornata con cui finiva questo anno millenove-
cento e quindici pieno di fati.
Carolina Lanzani.
DA MENANDRO ALLA COMMEDIA CLASSICA ITALIANA
La scoperta dei più luughi e notevoli franiiuenti di Meuandro
da noi ora posseduti suscitò dapprima fra gli studiosi una viva coin-
nio/.ioiie.
Il Wilamowitz disse ^) che non si poteva ormai più esitai-e a
ritenere Menandro il maestro di una nuova, geniale sapienza; che
egli. Eschilo della commedia, offriva al ])ubblico non più le bri-
ciole della mensa di (►mero, ma i frutti del giardino della vita. Xon
meno entusiasticamente oe scriveva nel 1907 il Croiset nel Joui-nal
den savanU.
A questi inni entusiastici, che salutavano via via le nuove sco-
perte, tenne dietro la falange degli scritti filologici. Lo studio
della « nuova commedia » riprese pacato e minuto, fino a darne una
specie di inventario storico e artistico nel libro del Tx^grand (Doon-
Tahleaux etc).
La critica in fondo non dovette, conosciuti <o8Ì importanti
brani del gran comico, cambiare strada, né essi contribuirono ad
avviare lo studio del teatro, da Menandro alla fommoflia a soggetto,
verso una più intima oggettività.
Qucd frammenti non solo non si sono pi-estati alla divulgazione
né pure fra le persone colte, ma lasciarono in fine una certa fi'cd-
dezza anche fra i dotti, del che basta a convincerci uno sguardo
alla bibliografia sull'argomento.
In realtà anche le scene più garbate sono assai esili e non pos-
sono sostemere ampi svolgimenti (dei quali Menandro si guarda
bene dal caricarle), e in sostanza, si riducono veramente a un l)el
« cicaleccio » ^). Inoltre vegliamo talora afflosciarsi e scolorirsi quella
stessa comicità che questo teatro, così come è. ci promette.
') Neue JahrbUcher fiir rf. klaim. Allert., l«9!t, p. 1-13.
') Così si esprime il prof. Komaonoli in mi suo articolo uella « Lettura »
(Gennaio 1916\ nel <]nale espone con molta chiarezza le caratteiistiche prinoipali
«Iella « nnov» commedia ».
Da Menandro alla co-mmedia vlasmca italiana 57
Talora i)er esemjiio, i personaggi scherzano su so stessi e si
burlano della propria dappocaggine, che forse il pubblico non ha
rilevato bene da sé ^).
E feruiiiiinoci ora un i)o' sulla comicità del teatro di Menandi-o
per venire poi a quella dei suoi lontanissimi epigoni.
Vi è una prima specie di comicità : quella comicità che risulta
da tutta una sctnia, che è nel nocciolo della situazione.
In Menamlro, a quanto pare, un motivo comune in questo senso
doveva essere il seguente: un [Kjrsonaggio agitato da una forte pas
sione si trova di fronte ad un altro che non lo capis(;e o tìnge di non
capirlo, che è ad ogni modo in uno stato d'animo opposto al suo.
Così, ad esempio. Davo oppresso dall' amore per Plangone si con-
fida a Qeta, che è lontano le mille miglia dal pensare a cose di tal
genere -) ; e Smicrine, vecchio bisbetico, in un momento di somma
irritazione e ansietà, si trova fra Onesimo, che doj)o alte considera-
zioni filosofiche gli lesina ad oncia ad oncia una grande notizia, e
Sofi'one, che alle sue irose interrogazioni risponde citandogli anzi-
tutto un bel verso di Euripide^).
Vi è poi un'altra specie di comicità, ed è quella comicità che
risulta da spunti particolari, da trovate minute, e che è raggiunta
con mezzi, per così dire, esterioi-i.
È stata già notata l'abbondanza di imprecazioni e di impro-
peri, che prodigano ai loro interlocutori non solo i jiersonaggi ira-
condi, ma anche i più pacati. Sono inoltre frequenti le risposte sgar-
bate, gli scatti esageratamente as}>ri. che s<»guono a domande comuni
e innocue, e certe volute ripetizioni di date yiarole *).
Nell'articolo citato il Wilamowitz alludendo in sostanza a que-
sta specie di comicità afferma che essa è per Menandro un accessorio
(« Nebenwerk ») ; e pare che la ritenga un rimasuglio dell'antico
elemento buifonesco. Ciò pensano anche altri. Ma è proprio così, o
non si ti-atta di (jualche cosa di nuovo, o almeno non ha qui quell'an-
tico elemento subita una intima evoluzione ?
' Onesimo (EpUrep. 341 sgg.). (onesto si collega a un'altra caratteristica iloll»
« nuova commedia », di sostituire spesso la descrizione all'azione. (Onesimo altrove
«lesorive 1' agitazione di Carisio).
*) Eroe, in principio.
') Epitrep., .520 sgg.
*) Epitrep., 35 sgg. Aa - oOx sa /.éyEiv... 2//. - XéyE . Aa - XéYw) e 75 sgg. An
- elpipia... 2fi - s'tpyjxsv; 2(iii - oOx -jjxouastj ; sipnjxev).
58 A. Tode»co
Noi distinguiamo nettamente in Menandro due voci, ci sentiamo
una duplice poesia : cioè una vena idillica, sentimentale e arguta,
e insieme uno sforzo di rappresentazione realistica. (Questo studio
realistico è evidente, i)er esempio, nel monologo, con cui comincia la
Samia, nel quale Demea si dilunga in particolari, che in verità non
possono interessare a un uomo inquieto e ansioso come è lui).
I personaggi sono plasmati pei- e>sser visti sotto una o sotto
l'altra luce: raramente 1' una e l'altra si avvicendano sulla stessii
figura, e ciò avviene, se mai, con trapassi bruschi e poco spontanei.
Si può anche dire così : la « nuova commedia » era tutta uno
studio della realtà. Ma, poiché l'azione, o m^lio gli accidenti dram
matici, non procedevano dall'intimo dei personaggi, così la realtà
si sdoppiava nella rappresentazione artistica. Si ebbe la rappre-
sentazione <lella vita interiore delle i)ersoiie, rapi)resentazione che
serbava una certa immobilità idillica, e che, delineata con chiarezza
e finezza, sfumava talora in un tenue lirismo ; e la rappresentazione
della realtà esteriore e del contegno dei personaggi, rappresentazione
tutta materiale, corpulenta, fotografica, animata solo da un certo in-
tento caricaturistico. Di tale rappresentazione esteriore e realistica
fanno le spese per lo più i personaggi umili, i servi. I personaggi
principali in sostanza non agiscono, si sfogano; e quando agiscono
scendono spesso al livello di quegli altri. In questo caso quell'ele-
mento realistico penetra anche in scene di carattere serio. Si tratta
appunto di quegli spunti dei quali abbiamo parlato or ora ; si tratta
altre volte di sfumature diffuse per tutta una scena.
Tutto ciò ci dà r impressione di una nota falsa. Rai-e volte in
fatti quel materiale è vivificato dal tocco di una vera arte, di una
vera genialità, come là dove Demea pi'ende abilmente a tastare
Parmenone su un argomento delicato ^) ; generalmente rimane mate
riale greggio. E rari sono i personaggi tutti esteriorità e le situazioni
fatte solo per ridere, che facciano ridere davvero. Si deve, per esem-
pio, ammirare il garbo e la sobrietà con cui è rappresentato Nicerato
{Samia) , che da buon sacerdote crede ai miracoli imaginati da Demea .
e tiene per certo che il neonato sia stato procreato misteriosamente
da un Dio. Ma il vecchio Smicrine (Epitrep.), che prodiga impreca
zioni a destra e a sinistra, che è, per così dire, la maschera della
') De. — Senti, Parmenone; io non vorrei bastonarti mai a nessnn costo. —
Par. - Bastonarmi ? e che ho fatto? — De. - Tu mi nascondi qualclie cosa : me ne
sono accorto. (Samia, vv. 9.5 sgg.).
Da Menandio alla commedia classica italiana 59
vecchiaia irosa, è lontano dai vecchi di Aristofane quanto è lontano
da Sior Todaro o dai Busteghi. La sua figura è impastata di quella
realtà fredda e bruta, dalla quale Aristofane staccava qua e là de^U
scorci potenti.
Questa re.iltà è la zavorra che tira sempre più in basso il teatro
comico. Piensiamo ai nostri prolifici e prolissi commediografi del
Rinascimento, saltando per un momento Plauto e Terenzio. Eb-
bene, qui noi vediamo risolversi nel senso peggiore il dissidio, che
abbiamo notato in Menandro; in generale non avvertiamo piìi alcun
dissidio, poiché l'influenza della commedia romana non ha fatto se
non abbassare il tono della composizione e in quel certo grigiore di-
laga la riproduzione fotografica della realtà esteriore, la quale par
dilettare grandemente gli autori, che la introducono con certe crude
sghignazzate.
Troppi oramai hanno trattato del teatro classico italiano, e
spesso con grande competenza ; ma e' è ancora il pericolo che taluno
come già qualche vecchio letterato, applicando a quelle commedie il
seguente articolo del suo codice critico : « rappresentazione dei co-
stumi del tempo » lodi troppo quella pedestre, quella povera fatica
da principianti. K la j>assione dei principianti di ritrarre esatta-
mente, minuziosamente gli oggetti in cui si imbattono. Quest' opera
è facile ; e molte sono infatti le commedie italiane di stampo classico.
Ma, si può dirlo quasi per tutte, la finezza acuta e sobria, la dia-
lettica elegante, la leggera sentimentalità di Menandro era fuggita
via, come un profumo, come un vapore ; e si era sconciamente acca-
sciata su sé stessa la chiassosi! . la giovine e feconda musa plautina.
A. TODESCO.
1.4 DONNA NEL SACERDOZIO ROMANO
In alcuni miei precedenti lavori su diversi argomenti spettiinti alle an-
tichità religiose romane, ebbi occasione di intrattenermi più o meno diffu-
Karaente sui singoli sacerdozi femminili di Roma. È mio proposito di esa-
minare in (|uesto articolo i resultati di codesti studi, nel loro complesso, e
di vedere se, astrazione fatta dalle particolari caratteristiche costitutive e
culturali di ciascuno di quei sacerdozi, non si possano scoprire dei caratteri
pili generali comuni a tutti (|iianti, non si possa rintracciare un principio
informatore dal (|nale tutti egualmente appariscano inspirati, non si possa
infine giungere a spiegare la presenza della donna nel sacerdozio romano.
Debbo per altro far precedere un avvertimento alla mia trattay-ione.
Studiare i sacerdozi femminili romani non significa certamente prendere in
esame tutte le molteplici sacerdotesse che Roma vide tra le sue mura nei
dodici secoli di vita repubblicana e imperiale. .Sacerdotesse romane noi doV)-
biamo infatti intendere che siano soltanto «luelle che possan considerarsi
come 1' espressione pura e genuina del genio latino, soltanto <iuelle addette
a quei culti la cui origine e le cui forme furono dovute alla religiositìi del
popolo di R«ma. Non dunque enumereremo fra (|ueste le greche sacerdotesse
di Cerere, che Roma reclutava, per obbedire al responso delle Sibille, dalle
città della Magna Grecia ') ; né le sacerdotesse frigie di Rhea, la Gran
Madre degli Dei, per la stessa ragione chiamate dal Senato a venerare in
Roma la divinità asiatica con le loro orgiastiche processioni ') ; e t^nto
1) Il culto della triade greca di Ueineter, Dionysos e Kore, che divennero
Cere», Liber e Libera, fu consigliato dai libri sibillini ai romani nei primi e
difficili anni di vita repubblicana : un tempio fu votato a nueste divinità nel 496
11. C. e dedicato nel 493. Greche furono le sacerdotesse dì Cerere («ocerdote» pu-
blicae Cereris p. R. Q. : C. I. L. VI 2181, 32443) e la priucipale festa dellii dea,
celebrata in Agosto, il sacrum anniveraarium Cereris, era ordinata secondo il rito
greco. Cosi parla del eulto di Cerere in Roma Cicekonk, prò Balbo, 55 : Suora
Cereris, iudioes, summa maiores nostri religione contici caeiimoniaque voluerunt: quae
cum essent assumpla de Graecia, et per Graecat semper curala siint sacerdoles et Graeca
omnia nominata.... Has sacerdotes video fere aut Neapolitanas aut Velienses fuisse.
Cfr. WissowA, Keligion rind Kultus der Ròmer^, ^ 47.
«) Al culto della Gran Madre degli Dei, accolto ufficialmente in Roma nel 205
a. C. (Vakb. Ung. lai., VI 15), attendevano sacerdoti e sacerdotesse, fra i quali
non potevano inscriversi, almeno tino all' epoca dell' Impero, i cittadini romani.
La Donna nel sacerdozio rotnano 61
meno le egizie sacerdotesse di Iside '). Tutte codeste, accolte in Bonia in
seguito a circostanze speciali e tollerate dall' indulgenza dei governanti, j)iii
che altro per rispondere ai bisogni delle svariate e numerose colonie dei
provinciali di ogni regione che avevano via via preso stanza nella città che
era centro del mondo ed ivi avevano ottenuto di continuare a venerare i
loro dei e a praticarne i riti, tutte codeste, ripeto, sono completamente
estranee alla religione e all' indole romana : e, se è vero che le feste emo-
zionanti, i misteri dei culti orientali attrassero col tempo a sé la gran massa
della popolazione romana e ne guadagnarono la simpatia, non è men vero
che codesti culti peregrini, penetrati ad uno ad uno in Roma silenziosa-
mente, quasi di soppiatto, spesso in momenti di pubblica calamità, a lungo
vi si mantennero appena tollerati e quasi ignorati, finché la società disso-
luta dell'epoca imperiale ad essi si rivolse, desiderosa di trovarvi le emo-
zioni del senso o i rapimenti dell' estasi che invano avrebbe cercato nel
rìgido cerimoniale della vetusta religione dei piidri.
Noi ci ridurremo dunque ii parlare delle sole sacerdotesse dell' antica
Itoma, di quelle che si ccmnettono alla parte veramente originaria ed indi-
gena della religione romana, alla cosiddetta « Religione di Numa » ') : così
soltanto sarà possibile passare da un'analisi ad nna sintesi feconda; sarà
possibile scoprire per quali influssi sociali, psicologici e storici s' introdusse,
presso i romani, la donna nel servizio religioso ufficiale, a venerare gli dei
per la salute del popolo e dello Stato.
La prima sacerdotessa portava il nome di xacerdo» maxima matris Deorum magiiat
Ideae (C. I. L. VI .502). Cfr. Wissowa, Religioifi. * 53.
') Il culto di Iside non fu ufficialmente accolto in Roma che nel 1° sec. del-
l'Impero, dopo contrasti viva<'Ì88Ìmi ed anche fiere persecuzioni : fu portato poi
a sommo onore da Caracalja. Sacerdote» Isidie : vedi C. 1. L. VI .512. 2246 ; IX
1153 ; XII 3224 add. Cfr. Wissowa, Keligion^, i 57. ft appena il caso di far men-
zione di altre sacerdotesse dello stesso genere di cui non abbiamo che vaghe e
sjioradiohe notizie. Così quella /«««(tea, ricordata in un'iscrizione (Dkssau 4166),
appartiene forse ai fanatici addetti in Roma al culto di Mà-Bellona, la divinità
cappadocica riconosciuta ufficialmente forse solo al principio del III^ sec. d. C.
(Wissowa, Religione, § 56). Nei tardi tempi dell' Impero non mancarono in Roma
anche sacerdotesse addette al culto di Ecate, importato probabilmente da Egina,
portanti il nome di hierophanta Heoatae {C. I. L. VI 504. 511. 1675) o hierophan-
tria deae Hecatae (VI 1780), o anche di sacerdos deae Secatae (VI 500).
^) Con questa denominazione suol designarsi appunto la parte originaria ed in-
digena della religione romana, esente da influssi stranieri, cosi italici odetrusclii
come greci od orientali; quell'insieme, insomma, di riti e di credenze la cui isti-
tuzione e organizzazione veniva dalla tradizione antica concentrata nel nome di
Numa Pompilio. Vedi il saggio del Oakter, Religion of Nnma, London 1906.
62 Giulio GiannelU
II.
Alcuni dei siiccrdozi più antichi sono « emanazioni della regalità » ; e
debbono considerarsi come tali tutti quelli le cui funzioni sono, per così
dire, eredità del re, della cui attività religiosa facevano un tempo parte.
Sono di questa specie tutti i sacerdozi femminili di Koma.
La critica moderna ha ormai posto in piena luce questo processo di
decadenza della monarchia romana, per cui al re si sono venuti via via sot-
traendo e attribuzioni e poteri, fino a trasformare, con una evoluzione lenta
e continua, la forma di governo e passare da una costituzione monarchica
a una costituzione repubblicana, senza che vi fosse affatto bisogno di quella
violenta rivoluzione e della drammatica cacciata dei re che la tradizione
racconta '). E questo declinare dell' autorità regia si manifesta parallelamente
in due campi ; nel campo politico, militare e giudiziario ne sono causa i
vari magistrati che, nominati prima dal re per sodisfare alle crescenti esi-
genze dello Stato, si rendono poi da lui indipendenti esautorandolo comple-
tamente ; nel campo religioso è determinato dal costituirsi di sacerdozi, ai
quali il re deve cedere prima le sue funzioni, poi i suoi poteri sacri *).
Originariamente era il re 1' unico sacerdote del minuscolo Stato : a lui
solo spettava di sacrificare agli dei, presso l'ara della Reggia, di implorarli
a nome del popolo. Ma il ve non attendeva da solo a questo ufficio ; 1' as-
sisteva la moglie sua, la regina : e il culto che la coppia coniugale eserci-
tava nell'intimo della Reggia, era un culto di carattere domestico, e i doveri
religiosi della regina altro non erano se non i doveri religiosi di ogni donna
nella primitiva famiglia. Ogni casa ebbe un tempo il suo focolare, ebbe
') La tradizione che spiega con una rivoluzione il cambiamento di governo in
Roma, fu in generale seguita nella storiografia meno recente (per es. dal Momm-
8EN) ed anche da qualche studioso moderno (Schradkr, Reallexicon der indog. Al-
tertumskunde, p. 641): ma in generale si preferisce ora la teoria dell'evolnzione
(vedi De Sanctis, Storia dei Romani, I cap. XI; ììiese, Manuale di storia romana*
(trad. ital.), p. 53 ; Pais, Storia crit. di Roma, passim. Una teoria di conciliazione
è stata proposta dal Costanzi (« Rivista di storia antica » 1904, p. 144 sgg.), il
(|uale giudicherebbe l' instaurazione della Repubblica preparata da un lento esau-
rimento della potestà regia, ma determinata poi dal concorso di qualche azione
meccanica.
-) Deliberatamente distinguo le funzioni dai poteri religiosi del re: questi potè
cedere ad altri sacerdoti da Ini nominati (ai flamini) le prime, senza venire da ciò
per nulla esautorato; come lo fu invece quando un collegio sacerdotale, di origine
probabilmente privata e ìndipendeute dall' autorità regia, quello dei Pontefici, im-
pose al re la propria assistenza, eppoi gradatamente sottrasse alla monarchia quei
poteri che ad essa sola spettavano, assumendosi la prerogativa di eleggere i fla-
mini e le Vestali. Vedi lo studio del Bouché-Leclbrcq, f jet pontifea de V ancienne
Rome, I, cap. I".
La Donna nel sacerdozio romano 6S
un suo proprio culto degli auteiiati defunti e degli dei protettori della fii-
iniglia ; a (juesti il patei' fainiliax sacrificava ogni giorno, coadiuvato dalla
moglie e dai figli '). Siffatta era la religione della famiglia reale di Roma
antica, la quale però pregava per il popolo tutto.
Ma frattanto gli dei nazionali, gli dei indigeni del Lazio, crescevano
d' importanza, aumentavano le esigenze del culto, i riti divenivano più com-
plessi, e alla coppia reale sembrò opportuno allora aggiungere qualche altro-
sacerdote, al quale si potessero affidare quelle funzioni sacre cui il re non
poteva più sodisfare. Così ebbero origine i « flamini », ciascuno dei quali
fu incaricato di venerare con culto giornaliero ed assiduo una divinità dello
Stato ; e, come il re era stato in esso assistito dalla regina, così il flamine
fu coadiuvato ora dalla propria moglie, che si chiamò « flaminica ». Ecco-
dunque un primo gruppo di sacerdotesse romane : le fUiminicae.
Ma alla regina, come alla massaia di ogni antica famiglia, era riserbato-
un altro compito geloso : a lei spettava di custodire il focolare domestico,
che era allo stesso tempo il focolare pubblico, il focolare dello Stato. Or-
bene, anche questa mansione venne col tempo tolta alla regina : il focolare
domestico del re cessò di essere quello pubblico, lo Stato ne volle uno per
proprio conto ; e, siccome ad esso più non jioteva attendere la regina, si
nominartmo al suo posto le vergini sacerdotesse. Ed ecco il secondo sacer-
dozio femminile dello Stato romano : le Virgines Vestales.
E intanto il fato della monarchia si compieva : tolti al re i suoi poteri
politici dai magistrati, toltegli le sue funzioni religiose dai flamini, toltigli
) poteri sacri dal Collegio dei Pontefici, impostosi con 1' autorità che era
andata via via acquistando, non restava di lui che quella pallida ombra che
doveva trascinare la sua vita stentata per tanti secoli ancora : restava quello
che si continuò a chiamare il « Ile dei sacrifici », per esercitai-e certi uf-
fici religiosi che si ritenevano indissolubilmente legati al titolo regio. E re-
stava anche la moglie sua, la regina, per coadiuvarlo in essi : e si chiamò
regina sacrorum .
Questi i tre sacerdozi femminili di Koma, che a ragione dicemmo da
principio doversi considerare un' emanazione della regalità. Però, se la co-
mune origine li ravvicina e rende presso che uguale per tutti e tre il con-
cetto inspiratore, che meglio cercheremo di determinare nel seguito di questo
studio, straordinariamente diversa è invece 1' importanza loro nel complesso
organismo della religione ufficiale di Roma. E così che solo pochissime volte
all' anno si vedeva comparire, nel suo abbigliamento sacro, la Regina dei
Sacrifici ; e la parte delle flaminiche nel culto ufficiale fu tanto insignificante
che, di quindici ch'esse erano, una soltanto, la moglie del flamine di Giove,
la faminica Dialis, mantenne sempre una parte veramente attiva nelle fun-
') Il carattere della primitiva religione domestica è magistralmente tratteg-
giato (la KusTKL DK CouLANGKS, La cité antique, 1. P, cap. 4°.
<)4 Giulio GianwìUi
zioni religiose di Stato. Ben diversa fu la sorte delle vergini custodi del
fuoco di Vesta. Tanto sauto, tanto geloso era il compito loro aflSdato, tanto
venerabili le rendeva il sacrificio della imposta castità, che esse rappresen-
tarono sempre agli occhi dei Romani qualche cosa di sacro e di intangibile,
e il focolare, oggetto delle loro cure indefesse, e i pegni dell' Impero, da
loro con vigile sollecitudine custoditi in segreto, apparvero essere il centro,
il cardine della religione di Roma, furono considerati come il tratto di
unione indispensabile fra lo Stato e le sue divinità.
Koi dobbiamo ora esaminare da vicino ciascuno di questi sacerdozi, tra-
lasciando quelle notizie o quelle questioni di statistica, di cronologia, di
pratiche culturali, delle quali chiunque potrà trovare inforniHzione nei ma-
nuali o nelle opere speciali che andremo via via citando, e penetrando invece
quanto più addentro sia possibile il significato e l'essenza di ognuno «li
essi, onde possiamo poi di ((uesta indagine usufruire per lo scopo, già di-
chiarato, di questo studio.
III.
E volgiamoci anzitutto al più importante e al più venerato di questi
sacerdozi, a quello delle Vestali. Su due punti dobbiamo rivolgere le nostre
ricerche :
1°) Chi sono e che cosa rappresentano queste sacerdotesse? A quale
«oncetto inspiratore sono subordinati 1' esistenza e il funzionamento del loro
collegio?
2°) Come si potò giungere in Koma ad istituire un collegio di sacei-
dotesse per la custodia del pubblico focolare ?
In realtà sembrerebbe che questo secondo quesito dovesse precedere al
primo; ohe noi dovessimo studiare prima l'origine di una istituzione per
poi esaminarne quei caratteri che più ci interessano. .Ma le condizioni in
cui si trovano le nostre fonti d' informazione ci obbligano a fare precisa-
mente il contrario. Noi possiamo, e non senza difficoltà, disegnare un quadro
abbastanza completo del sacerdozio delle Vestali, come esso appariva in
queir epoca che a noi è dato di conoscere sufficientemente attraverso la sto-
riogra6a o gli scritti d'erudizione dei greci e dei romani: com'era cioè e
«ome operava negli ultimi secoli della repubblica e sotto l' impero : ma per
i tempi a questi anteriori siamo costretti a procedere per ipotesi, le quali
solo in tanto saranno verosimili e probabili in quanto poggeranno sui dati
offertici dalle piìi tarde condizioni del sacerdozio, a noi note, in quanto sa-
ranno costruite su elementi ancora esistenti iii quel periodo, del quale ci è
giunta notizia.
Ai (juesiti presentati nel primo punto può offrire una sufficiente rispo-
sta anzitutto lo studio delle condizioni giuridiche delle Vestali, poi l'esame
<lel loro abbigliamento.
È noto che le Vestali non formavano un collegio sacerdotale a sé, ma.
La Donna nel sacerdozio romano 65
iusieme coi flaviine» e col rex sacrorum, eran comprese nel Collegio dei
Pontefici. Al Pontefice Massimo spettava la scelta e 1' elezione delle Vestali,
scelta legolata dalle norme contenute in una lex Papia d'incerta data, il cui
contenuto ci è però conservato da Gellio (I 12, 10) '). Le sei Vestali, gui-
date e maternamente presiedute (di una gerarchia vera e propria non è affatto
il caso di parlare) dalla più anziana di loro, la Virgo Vestalis Maxima,
erano poi tutte quante ugualmente soggette all'autorità del Pontefice Mas-
simo, il quale esercitava su di loro la più stretta e rigorosa sorveglianza.
Domandiamoci appunto ora in qual relazione stessero le ministre di
Vesta col Pontefice Massimo ; e teniamo presente che a lui solo, e non a
tutto il Collegio dei Pontefici, era riserbato il diritto di eleggere, sorvegliare
« punire, senza controlli né limitazioni di sorta, le sacerdotesse, per tutta
la durata del loro servizio *). Orbene, l'opinione, per molto tempo da tutti
condivisa, che la potestà» che il Pontefice esercitava sulle Vestali, fosse
quella stessa che il padre aveva sui figli, e che le Vestali dovessero consi-
derarsi come le filiae familias del popolo romano, non può oggi essere più
accolta ') : è invece di gran lunga da preferirsi la tesi magistralmente so-
stenuta, qualche tempo fa, dallo Jordan, che la Vestale rappresenta non la
Jilia ma la mater familias nello Stato romano *). Questa tesi si appoggia a
diversi argomenti eh' io riassumerò qui brevemente.
Nella famìglia primitiva è la moglie che esercita il culto domestico, che
mantiene il fuoco sacro e ofifre i sacrifici ai penati lì presso venerati; sotto
Ja custodia di lei stanno le immagini degli antenati e tutto ciò che la fa-
miglia ha di più prezioso : e queste appunto sono le mansioni delle Vestali.
Non soltanto infatti era loro commesso il fuoco sacro che perennemente ar-
deva nella aedes Vestae del Foro, ma, nello stesso tempio, in una specie
di edicola appartata, nel cosiddetto penus Vestae '), stavano gelosamente
') Più particolari ìuformazioni sul sacerdozio delle Vestali possono vedersi
nel Handhuch der riimiachen Altertiimer di Mommsen e Marquarut (Marquakdt,
Kiim. Staatsverwaltung, Bd. Ili; trad. frane, di M. Brissaud) e in WissoWA, Be-
ligion und Kultua der Romer^, ^ 67, come pure negli appositi articoli del Fauly-
WissowA e del Diction. dee antiqaités Darkmbkrg-S aglio. Più diftasamente trat-
tano l'argomento: Prkuner, Hestia-Veata, Tubingen 1864; Jordan, Der Tempel
der Vesta und dae Haus der restalintien, Berlin 1886 ; e il mio saggio: Il Sacer-
dozio delle Vestali romane, Firenze 1913.
*) Anche in questo non tutti sono concordi ; vedi per tanto il mio studio a
p. 69 sg. e ofr. Sacchinklli, in « Eiv. di Filologia », XXXII, (1904), p. 63 sgg.
') Questa tesi fu già sostenuta dal Prkunkr, op. cit., p. 318, dal Bouché-
Lkclekcq, Lee pontifes de l'ano. Home, p. 292, dal Marquardt (trad. frane.) I
p. 378, dal Mommsen, Slrafrecht, p. 18, 23, 26.
*) Vedi l'opera già ricordata Der Tempel der Vesta, p. 47 sgg.
^) Su come e dove fosse situato il penus Vettae dentro ì'aedes del Foro non
sono concordi gli studiosi ; sull' argomento io già inserii una nota in questo pe-
riodico, XVII (1914), p. 252 sgg.
Attne e Roma, 2
66 Hiulio tìiaunelli
nascosti var! oggetti misteriosi, die oggi difiiciluiente possiamo identificare
con sicurezza, i pignora imperii; e anche di essi avevan cura le sacerdotesse
di Vesta ').
La cerimonia d' introduzione della giovane sacerdotessa nel Collegio -
la captio - riproduceva esattamente il matrimonio primitivo eseguito per
mezzo del ratto, prima reale, poi simbolico '). Infatti la vergine designata
dalla sorte o volontariamente offertasi era « presa » dal Pontefice Massimo,
mentre questi pronunziava la nota formula, conservataci da Gellio (I 12,
14) : - Saceidofem VeKtalem, quae sacra faciat, quae ius sìet satierdotvm Vestuleni
facere prò popwlo romano Quiritihus, liti (juae optimi lege fuit, ita te. Amata,
oapio '). - La formula ricorda appunto la violenta presa di possesso (capio),
quale praticavasi nel matrimonio primitivo degli indo-europei (8t' ipna^ris).
Noi sappiamo infine quale orribile pena fosse riserbata al seduttore di
una Vestale ; egli doveva morire di morte non meno crudele di quella che
attendeva la sacerdotessa colpevole nel sepolcro del Campo Scellerato : col-
locato nudo nel Foro, col collo in una forca, era battuto con le verghe
finché spirasse *). Orbene questa terribile pena il Pontefice poteva applicare
senza che al condannato si accordasse il diritto della j>rovoca<«) ad popultim ') :
') Uno di questi oggetti, che uuu sappiamo da quando i^ia realmente existito,
perchè solo pochissimi, e solo in tempi tardi, ebbero agio di vederlo, sembra fosse
nn Palladio, che la tradizione narrava come Enea avesse seco recato da Troia, in-
sieme ai Penati. Fu sempre fatto segno a grande venerazione : signum quo salr»
talvi sumitt futuri, dice di esso Cickronk, Philipp. XI 10, 24 ; e Livio (XXVI
27, 14) lo chiama eonditum in penetrali fatale pignus romani imperi. 1 Penati poi,
che pure qui sembra si conservassero, consistevano, secondo Varronk (in Skrvio,
Aen., Ili 148) in dei lapidea nigilla. Di molti altri oggetti, che gli eruditi antichi
ci dicono conservati nel penne (vedine una lista in Servio, Aen., VII, 188), riter-
remo probabile, per ragioni ohe qui non è il caso di esporre, 1' esistenza di un
fasoinus (cfr. Plinio, Nat. Hitt., XXVIII 39: Fascinun qui deus inter xao-a ro-
mana a Vestalibus colitur).
') Il ricordo di questa originaria forma di connubio si mantenne costante a
Roma (Paul., Festi ep., p. 405, ed. Thkwrkwk dk Ponor) e in Grecia (Dionys.
Hai., II 30); cfr. Rossbach, Untersuchungen Uber die romische Ehe (Stnttffatrt 1S53),.
p. 213 Bgg. Sul ratto matrimoniale presso gli Indo-Europei vedi Schradkr, Spracli-
vergleichung und Urgeschichte^, p. .553 sgg., e Reallexicon, p. 355.
') Quasi ogni parola di questa breve frase ha dato luogo a lunghe discussioni
su cui non è qui il caso di intrattenersi: a noi interessa solo Pepite di amata, dato
dal Pontefice alla fanciulla, e che lasciando da parte ijuanto dopo vi si favoleggiò,
attorno, non potè significare originariamente che « o mìa cara, o mia diletta »,
costituendo così un'apostrofe affettuosa, quale il marito poteva rivolgere alla sposa,
all' atto delle nozze. Vedi Sacerdozio delle Vestali, p. 54 sgg.
*) Fksto, p. 308: Prohrum, Firgiiiis Vestalie ut capite puniretur, vir qui eam
inceiitaintset verberibus necareiur, lex fixa in Atrio Libertatis cum multi» alUx legihun
eonsnmpta est. Cfr. Livio, XXII 57; Zonara, VII 8 p. 21 (Boiss.).
^) Vedi MoMMSKN, Strafrecht, p. 20.
Ija DoHiia nel nait'viìoxio romano
«7
e ilifticoltà, vìw molti huuno trovato iiell' ani mettere (jnesta clausola, in
■ontrasto con le norme elementari del diritto penale di Roma più antico,
scompaiono, (inaiido si veda appunto in essa l'ap-
plicazione dell' antico diritto del marito, di
giudicai-e, con potere assoluto di vita e
di morte, la moglie adultera e il sedut-
tore ').
Allo stesso resultato giungiamo se
osserviamo attentamente, nelle sue va-
rie parti e nelle sue più notevoli pe-
culiarità, 1' abbigliamento delle Vestali,
in special modo l'acconciatura del capo.
Fino a una trentina d'anni fa, assai poco
se ne sapeva; le notizie degli scrittori,
non invero scarse ma poco chiare e fra loro
contraddittorie, non potevano appoggiarsi o
confrontarsi che a qualche rara rappresentazione
Ne ho riportati (jui due degli esempi più in-
Fis 1
SU monete o su medaglioni,
signi : un medaglione coniato
in onore e memoria di una
Vestale, Bellicia Modesta -) :
e un bassorilievo del Museo
Capitolino, in cui è ripnxlotto
1' episodio leggendario della
Vestale Claudia Quinta che.
per miracolo della dea, trae
da sola in secco la nave che
aveva trasportato da Pessi-
nunte ad (Jstia la Gran Madre
degli Dei '). (Kig. 1 e 2).
Ma, per nostra fortuna,
gli scavi del Foro, che, dopo
il 1880, misero alla luce i re-
sti dell'edifìcio che servì di
abitazione alle Vestali, ci fe-
cero recuperare anche un nu-
mero notevole di statue di Vestali Massime; essendo invalsa, al tempo dell' Im-
]»ero, Li consuetudine di dedicare ad ogni Vestale Massima defunta una sta-
tua che ne conservasse l'immagine, mentre all'epigrafe, scolpita Tiella base,
MATRIDEVM ET NAVI SALVIAE
SALVIAE VOTO 5VSCEPT0
CLAVDIA SYNTHTcHE
D
Fig. 2
') Su ijuesto costume vedi Mommsen, Strafrecht, )). 624 sg. ; Dk Sanctis,
Sloria dei Rom., II p. 79.
») « Notìzie Scavi ., 1883, tav. XVIII U.
3) MCr.i,KR-WiEsl.n,F,u, II 63, 81fi.
Fig. 4.
70 Giulio Oiannelli
era aflìdato di ricordarne i ineriti e le virtù >). Delle statue che ora noi pos-
sediamo, e die »i conservano, alcune nel Foro, (6<,'. 3), altre nel Museo Na-
zionale di Roma, parecchie sono in condizioui poco sodisfacenti, ma altre
ci sono giunte (juasi intatte e ci offrono la possibilitjì di studiare, su nionunienti
sicuri e indiscutibili, gli abiti e gli ornamenti di (jueste sacerdotesse ').
La statua qui riprodotta (flg. 4), che ci è giunta in stato di eccellente
conservazione, ci lascia vedere in modo abbastanza chiaro la complicata ac-
conciatura della testa: acconciatura che le Vestali dovevan sempre portar-
ci uando uscivano in pubblico o prestavan servizio nel tempio o in altre sa-
cre cerimonie. 11 giorno in cui la fanciulla veniva eletta al sacerdozio, le
si tagliavano i capelli, che si appendevano in voto alla dea, a una pianta
di loto ') : si trattava però di un semplice atto di devozione clie non si
ripeteva mai più, e le sacerdotesse lasciavano poi crescere liberamente l;i
loro capigliatura '). Orbene, di tutto ciò che, nella rappresentazione qui ri-
prodotta, si vede sovrastare al capo, non c'è nulla di capelli veri; questi
restavano distesi sili capo, nascosti da tutto un altro apparecchio che ora
descriveremo. Qualche ciocca di capelli naturali si vede invece uscir fuori
da questa straordinaria parrucca presso agli orecchi; e assai più se ne ve-
drebbero, osservando di dietro una di queste teste ").
Ecco ora come era costituita questa acconciatura. La treccia di capelli,
evidentemente artefatti, che incornicia la fronte della sacerdotessa, non è
che la prima di una serie di sei, rimanendo le altre cinque coperte da un
econdo rivestimento. Queste sei trecce, riunite insieme a formare una specie
di parrucca, sono i seni-or Ines, cioè la « parrucca a sei trecce », e costitui-
vano un abbigliamento di cui le matrone dell' antica Uonia non mancavan
mai di adornarsi, e 1' uso del quale era invece severamente vietato alle ra-
gazze e alle donne di cattivi costumi *). Al di sopra di questa acconciatura
si vede quello che può considerarsi l'ornamento sacerdotale per eccellenza :
') La lista ilei iiiouuiuenti con rappresentazioni di Vestali pilo vedersi nello
studio di EsTHKR B. Van Dkman, The Vaine of the Vesta! Utaluex tm originah.
« Amerio. Journ. of Areh. », XII (1908), p. 324-342; la quale però a torto nega
alle statue rinvenute nell'Atrio ogni valore per risolvere le varie questioni rela-
tive all' abbigliamento.
*) Le dodici statue scavate uoW Atriuni Veetae nel 1882-><3 sono riprodotte in
Jordan, Tempel iler Vesta, tav. VIII-X ; una tredicesima, trovata posteriormente, i-
riprodotta nel citato articolo della Van Ukman, a p. 340. lig. 17.
• ') Plinio, Nat. Hist., VI 44; Festi ep., p. 40.
*) Ciò credo aver potuto dimostrare in Sacerdozio delle Vestali, ]>. 87 sgg.
*) Cfr. quella segnata ccd u° 11 nelle tavole annesse al libro dello JoKDaX.
"j Sili seni crines vedi Fusto, p. 502. La notizia della riferita proibizione ci i^
conservata da Skrvio, Aeii.. VII 403. Capere criiies equivale in I'i-aito, Mostell..
V. 224 sgg., ad « entrare in stato matrimoniale ». \'edi Rossuach, Riim. EUe.
p. 280 sjTK.
La Donno nel sacerdozio romano
voglio dire 1' infiila. Era questa una fascia di laua, di color bianco e scar-
latto, annodata sulla testa a guisa di diadema: 1' infula delle Vestali era
formata di sei ordini di lana (nella nostra statua è in parte coperta dal
mantello gettato sul capo) ; e da ambedue i lati di essa pendevano due lar-
ghi nastri della stessa stoffa, le cosiddette vittae '). Mi preme far notare
come anche quella di legare i capelli con siffatte bende fosse in Konia con-
suetudine antica delle spose '). Finalmente, quando la Vestale sacrificava
agli dei, doveva ravvolgersi il capo in un mantello, il cosiddetto suffihvlnm,
le cui estremità erano riunite e trattenute sul petto da una grossa fibbia :
<lue8to sufflbolo, anch' esso probabilmente di lana, corrisponde esattamente
al velo che le fidanzate portavano nel dì delle nozze '). Tutta l'acconcia-
tura della testa è dunque matronale ; come tale è in generale 1' uso di te-
nere i capelli coperti o abbigliati in una maniera speciale: e fu usanza dif-
fusa presso quasi tutti i popoli indo-europei che la fanciulla, che fino al dì
delle nozze aveva lasciati sciolti i capelli, da quel giorno li tenesse raccolti
sul capo e coperti *).
E non meno matronale era 1' abito indossato dalle sacerdotesse di Vesta.
Esso era infatti principalmente costituito da una bianca tunica, la cosiddetta
utola carhasina, lunga fino ai piedi : 1' abito che era appunto usato dalle
spose ■'). Sotto al petto era stretto da un cordoncino di lana, annodato al-
l' estremità dal cosiddetto « nodo d' Ercole » : come era anche questo, presso
parecchi popoli, un costume della fidanzata nel dì delle nozze ').
Non dunque senza ragione affermammo che lo studio dell'abbigliamento
delle Vestali avrebbe avuto valore essenziale per illustrare la condizione
delle vergini custodi del pubblico focolare. L' acconciatura del capo a loro
') Snll' in/ttte vedi Fesli ep., p. 80; Servio, Aen., X 538. Lo Jokdan (Tempel
der Vetta, y. 47 sg.) volle a torto identificare i aeni-crines con 1' infula, nell' ac-
conciatura delle Vestali: su tale questione vedi quanto ebbero a scrivere il Dua-
OKNDORFK in « Rhein . Mus. » 1896, p. 287 sgg., e il WtJscHER-BBCCHi in « Riira.
Quartalschr. » 1902, p. 319 sgg., e cfr. la nota 3 a p. 89 del mio studio.
') Del resto anche 1' usanza di tagliare alla Vestale le chiome per appenderle
ad un arboT felix, al momento della captio, trova un significativo riscontro in con-
suetudini nuziali di Grecia e di Roma. Anche alla sposa greca infatti la vujitfEÙxpia
taglia le chiome : e un resto di tal costumanza vede il Rossbach, in Roma, nel-
l'atto di toccare alla sposa i capelli con \'ha8ta caelibaris (Rom. Ebe, p. 289).
') Alludo al rosso flammettm {Fegti ep., p. 63) che solo nel colore differiva dal
bianco siiffihulum delle Vestali (Fbsto, p. .'>22): cfr. Rossbach, Rom. Ehe, p. 379
sgg.; Draokndorfk, art. cit., p. 285 sg.
*) Dragendorff., art. cit., p. 290. Sull' uso del velo vedi ReinaCH, CuUeti,
Mytbe», Religione. I*, p. 299 sgg.
') Questo vestimento era infatti una specie di tunica recta, di cui dice Plinio.
jVrt(. Hiat., Vili 48: — Ea (Tanaquil) prima iexuii rectam tunicam, qualis cani
toga pura tirones induntur noraeque nuptae.
*) Quod rie in iecto eolrebat : dice di questo Festi ep. p. 44.
72 Giulio (}iannelli
imposta è quella stessa tradizionale delle antiche matrone ; completamente
matronale è la foggia del vestire.
Non può esservi dunque dubbio che il posto delle Vestali nello Stat«>
non è, come da molti e per molto tempo erroneamente si credè, quello di
fanciulla e di figlia, bensì quello di una mater familias che veglia e cura
il fuoco sacro, I' acqua, i Penati, come la donna nella sua casa. Allo Stato
e alle potenze divine che lo proteggono la Vestale ha giurato fedeltà; e gli
abiti e gli ornamenti eh' ella indossa sono 1' insegna non della purità ver-
ginale, ma della castità e della onestà matronale. In tale condizione essa è
soggetta al Pontefice Massimo che esercita su di lei, a nome dello Stato,
la potestas medesima che il marito ha sulla moglie. E, come moglie, la Ve-
stale appartiene tutta alla sua nuova famiglia, rotto ogni legame, giuridico
e religioso, che 1' avvinceva all' antica.
Svolto così il primo punto della nostra trattazione, dobbiamo usufruirne
i resultati e tentar di ricostruire il progressivo svolgimento del servizio re-
ligioso del focolare di Stato, fino al suo assetto definitivo.
Di un culto del fuoco perpetuo non solo ritroviamo oggi le tracce nella
tradizione o nella storia di tutti i popoli della grande famiglia indo-europea,
ma sappiamo che esso rappresentò una parte importantissima nella religione
di popoli, di diversissima civiltà, come fra gli Jncas del Perù e gli Aztechi
del Messico; e lo incontriamo anche oggi presso genti di cultura primitiva,
come, per esempio, presso numerose tribù dell'Australia e dell'Africa me-
ridionale '). Il fuoco, così necessario alla vita quotidiana e così difficile a
procurarsi e a custodirsi, divenne facilmente cosa divina; così ogni fami-
glia ebbe un suo proprio focolare ; e, accanto ai singoli fuochi privati, ogni
minuscolo Stato ebbe anche un fuoco pubblico. Quella tribù italica che,
durante le prime civiltà dei metalli, venne a prender stanza attorno al colle
del Palatino, raccogliendosi in quel piccolo nucleo che si chiamò più tardi
la « Koma Quadrata », portava certo anch' essa con sé un focolare del po-
polo. Però, mentre nelle città greche, finché dura la Monarchia, I' Restia
stessa della reggia serve da focolare di Stato ^), la cosa è, almeno nel più
recente periodo regio, un po' diversa in Roma : infatti 1' aedes Vestae e la
Regia, benché costruiti vicino 1' uno all'altra, furono tuttavia due edifici di-
stinti tra loro '). Nessuna fonte certo ci informa se le cose siano and.ite
') Per il culto del fuoco fra gli ludo-Europei, vedi Schraubr, Reallexieo» .
voo. «Herd»; cfr. Fustel dk Coulanqks, CiU antique, 1. I cap. 3. Un'abbon-
dante raccolta di materiale folkloriatico è in Frazkr, The prytaneum, the tempie of
Vetta, the Vestali, perpetuai fires, « Journal of Philology », XIV (1895), p. 14.Ó-172.
*) Preunkr, Hestia- Vesta, cap. III. Che il pritaneo di Atene sia stato origi-
nariamente la casa del re dimostra anche Frazer, art. cit., p. 145 sgg. Sui pri-
tanei nelle città greche vedi anche Farnell, Cults of the Greek States, V 347 sgj;.
') Lanciani, « Not. So. », 1883, p. 434 sgg. ; Jordan, « Bull. Inst. » 188tì,
p. 69 ; HtlLSEN, Il Foro romano, p. 158 sgg.
I
La Donna nel sacerdozio romano 73
egualmeute in un periodo assai più primitivo della vita di quelle tribù : se
«•ice anche allora vi sia stato un pubblico focolare distinto da quello del re.
Ma a questo punto ci soccorre quanto abbiamo concluso studiando il carat-
tere del sacerdozio di Vesta e la condizione in cui eran poste le sacerdo-
tesse. Le Vestali ci appariscono a sostituire al focolare di Stato la mater
famUias ; quale altra mater familias potevano esse rappresentare, se non la
moglie del rex, che un tempo dovè custodire nella sua casa il focus publicus,
ch'era tutta una cosa col suo focolare domestico? ')
Ma, ad un certo momento, per ragioni non ben chiare, che la tradi-
zione completamente ignora e che l'indagine storica non riesce a identificare
con sufficiente sicurezza, alla regina fu sottratta quella pietosa e gelosa fun-
zione. Forse questa diminuzione di venerabilità della prima matrona dello
Stato non fu che la conseguenza del decadere della potestà regia : forse an-
che questo culto stesso andava allora aumentando la sua importanza, tanto
che si sentì il bisogno di dargli un posto a sé nella nascente organizzazione
religiosa. Si può pensare che in quel momento si sia identificato il culto
del fuoco pubblico con quello di un'antica divinità latina del fuoco. Caca ):
con questo fatto anzi potremmo considerare inaugurato il vero e proprio
servizio del focolare pubblico in Roma. Fu allora necessario dedicare alla
nuova divinità dello Stato un santuario proprio e separare la sua ara da
quella domestica del re. Al servizio del nuovo focolare non poteva più at-
tendere la regina, sia perchè questo non trovavasi più nella sua dimora,
sia perchè, per 1' accresciuta importanza dello Stato e per 1' avvenuto di-
retto collegamento del focun puhlicus con una venerata divinità, più rigorose
divennero le regole del servizio e troppo gravi i pericoli per lo Stato, qua-
lora non si fossero minuziosamente osservate.
Fu allora che al santuario di Caca furono impiegate le Vergini '). Ma,
') S' intende del resto facilmente che anche a Roma il focolare del re fosse il
looolare pubblico ; così come i Lari e i Penati dello Stato furono originariamente
i Lari e i Penati del re. Vedi la citata dissjirtazioue del Frazer, p. 153.
*) Di questa Caca due sole volte si fa menzione nella letteratura romana: in Ser-
vio, Aen., Vili 190, e in Latt., Instit., I 20, 36. Essa, insieme col fratello Caous,
fu delle divinità della prisca religione romana, cui era caratteristico questo cnlto
di coppie divine (WissowA, Religion und Kultus^, p. 161); il ReinaCH, Ctiltea., Ili',
p. 191 sgg., crede invece che Caca e Caeculue formassero in varie città latine l'an-
tica coppia divina del focolare, rimpiazzata poi dalla vergine Vesta. L' esistenza
di un culto di Caca anteriore a qnello di Vesta fu già sospettata dal Prkunkr
(Hestia-Veata, p. 386 sgg.) e dimostrata dal Pais {Storia di Roma. I 1, p. 329) e
dal Dk Sanctis {Storia dei Rom., Il .524 sgg.).
^) L' antichità delle Vergini addette al focolare, oltre che dalla notizia riferita
nel citato luogo di Servio (Aen., Vili 190 e dalle obbligazioni cultuali di carat-
tere primitivo loro imposte, ci è attestata dalle relazioni in cui queste sacerdo-
tesse si trovavano col rex aacrorum : relazioni che sono indubbiamente l'eredità del
tempo antichissimo in cui il re sorvegliava le vergini addette al focolare dello
74 Giulio QianneUi
pur dovendo esse rimaner tali per ragioni sulle quali non voglio qui intratte-
nermi '), si volle tuttavia che rappresentassero io, mater familiaa dello Stato.
Era necessario quindi che esse uscissero dalla potestà del padre per entrare
in quella della divinità protettrice di Roma. Ma, non potendo questa divi-
nità esercitare direttamente tale potestà su queste vergini, si dovette inca-
ricare di ciò un rappresentante dello Stato : e questi fu indubbiamente
prima il re, poi, tostocliè al re si tolsero i poteri religiosi, il Pontefice Mas-
simo, nelle cui mani la Vestale passava allo stesso modo che entrava in
potere del marito la mater familias.
In progresso di tempo, essendosi ormai notevolmente ingrandita l'an-
tica città quadrata del Palatino e avendo a sé riunite le altre piccole co-
munità annidate sui colli circostanti, il centro di Koma fu spostato e tra-
sportato nella piccola valletta che corre tra il Palatino e il Campidoglio,
vale a dire nel Foro. Qui fu eretta l'abitazione reale, la Regia, e, in pros-
simità di essa, l'edificio destinato a custodire il pubblico focolare. E, quasi
contemporaneamente, due notevoli cambiamenti si verificarono in questo
culto. L'ara pubblica fu dedicata a una nuova dea, una dea straniera che
solo da poco tempo i Latini avevano imparato a conoscere e a venerare dai
Greci : Vesta (la greca Bestia) ; e da allora le vergini sacerdotesse si chia-
marono Vestali "). Queste stesse che, fino allora, erano state in dipendenza
Stato (Servio, Aen., X 228: Firginen Vestaleu certa die ihtint ad reijem nacrorum el
dicebant : Vigilasne rex f Vigila !}
') Lasciando le varie tradizioni raccolte dagli antichi, di nessuna delle quali
può naturalmente appagarsi la moderna critica storica, ba.sterà ricordare che l'im-
posizione della castità, nelle sue varie forme e in grado più o meno elevato, è
diffusissima nel campo religioso, comnne anzi, possiam dire, alle religioni di tutti
i popoli e di tutti i tempi : essa è originata dalla credenza che la castità confe-
risca uno straordinario potere a coloro che debbono essere « mediatori » fra l'uomo
e la divinità, cioè ai Sacerdoti, e dall'idea ohe l'attività sessuale, sotto ogni forma,
ingeneri nell'uomo quelle condizioni di impurità e di conseguente debolezza, che
lo renderebbero disadatto a venire in contatto con le potenze divine (cfr. il libro
del Fbhrlk, Die kuUische Keusohheit ini Altertum, Giessen 1910, specialmente al cap.
IV). Finché il colto del focolare era stato un culto domestico e si esplicava in
seno alla famiglia, la sacerdotessa che lo serviva, la regina, potè essere maritata,
come maritate rimasero sempre le altre sacerdotesse romane, le rtaminiche : esse
infatti intervenivano nel eulto solo come aiutanti del marito, il vero sacerdote, a
cui la cerimonia matrimoniale le aveva legittimamente riunite, espiando così, una
volta per sempre, le impurità cagionate dalla vita coniugale (vedi su ciò Reinach,
L'origine du mariage, in Cultes I', p. Ili sgg.). Quando invece il colto del fo-
colare non fu pili racchiuso nell' ambito della famiglia regale, quando le sue sa-
cerdotesse non furono più cosa del re, come già la regina, ma appartennero allo
Stato, apparve 1' impossibilità di una loro unione sessuale con nomini : e si vol-
lero allora pure da ogni contatto umano.
*) Snlla provenienza della dea Vesta dalla Grecia, cui è contràrio, fra altri,
il WissowA, Religione, p. 157, vedi Krktschmbr, KinìeiHuig in die Geschichte dtr
La Doniui nel nacerdozio romano 75
del re, che le nominava e le presiedeva, passarono ora, col decadere detì-
nitivo della nionarcliia, sotto la piena autorità del Pontefice Massimo, men-
tre gli ordinamenti del Collegio subivano ancora ([ualche modificazione o
trasformazione, per cui il culto ufficiale di Vesta assumeva definitivamente
quelle forme che rimasero, nelle hno linee fondamentali, immutate per otto
secoli.
IV.
Consideriamo ora di qual natura fo.ssero gli incarichi religiosi riserbati
all' altro sacerdozio femminile romano, a quello delle flaminicae, come si
chiamavano le mogli dei flamini.
Flamiiies furono iu Roma i sacerdoti incaricati individualmente del culto
d' una determinata divinità da cui prendevano il nome ; essi erano aggre-
gati al Collegio dei Pontefici, del quale facevan parte, come tutti i sacer-
doti che noi abbiamo designato da principio quali « emanazioni della rega-
lità ». Essi furono, almeno nei tempi più antichi, in numero di (luindici ;
tre maggiori, addetti al culto di Juppiter, di Mar^: e di Quiriniis, e chiamati
perciò Dialix, Martialis, Quirinalis, e dodici minori, incaricati di onorare
divinità di più scarsa importanza, tantoché di alcune di queste divinitii e
dei loro sacerdoti si era, in età storica, obliterato perfino il nome ').
Ma questo sacerdozio ci offre una particolarità piena d' interesse : noi
troviamo cioè che la moglie è tenuta ad assistere il nuirito nelle operazioni
del culto, al quale anzi non sono del tutto estranei neppure i figli. E, come
conseguenza di ciò, vediamo sancite certe norme per regolare la condizione
coniugale del flamine; stato coniugale, che era indispensabile per ottenere
il flaminato, iu (juanto che siffatta carica religiosa doveva essere in realtà
ricoperta non dal solo flamine, ma dalla « coppia ttaminica », unita col vin-
colo del matrimonio. La moglie che, in seguito al matrimonio religioso, è
entrata a far parte della nuova famiglia, rompendo ogni legame con 1' an-
tica, deve lasciare anche la propria religione domestica, per mettersi tutta
intiera nella religione del marito. Ed essa diviene 1' assistente di questo
presso il focolare domestico; prega insieme col marito gli antenati di lui,
dimenticando i propri, sacrifica con lui ai Lari della famiglia '). Siffatta è
la coppia flamiuica ; essa rappresenta la coppia coniugale tale quale l'antico
romano la concepiva: la flaminica è unita al marito con un vincolo inspi-
griech. Sprache, Giittingen 1H96, p. 162 sgg. ; Ghupi-k, (iriech. Mythol., p. 1401
sgg. ; De Sanctis, Sloria dei Horn., II p. 524.
') Snl flaminato vedi 1' art. fiamen del Jullian in Dakbmberg-Saglio, II 2,
1158 sgg. e l'art. Itamiues dil Samter iu B. E., VI 24 84 sgg.; e Wissowa, ife-
ligion^, p. 504 sgg.
') Cfr. FusTEL i)K Ccni.ANGES, Gite antique, \>. 45 sgg.
7({ Giulio QiannelU
rato alle più pure forme della tradizione '); essa non può avere altro dio'
e altro culto che quello di suo marito.
A queste condizioni dovettero certo in origine sodisfare tutte egual-
mente le quindici coppie tlaminalì; ma, in tempi storici, non si parlava più
delle rtaminiclie minori, e, quanto alle tre maggiori, appena si ricordava
eh' esistessero la flaminica Martialig e la faminica Quirinali» '). Parte atti-
vissima nel culto ebbe invece la moglie del flamine di Giove, la flaminica
Dialis.
I suoi doveri religiosi consistevano però quasi unicamente nell' assistere
il marito nel culto di cui egli era incaricato, quello cioè di Giove ') : così
come nella primitiva famiglia la moglie assisteva il marito nel cult<) dome-
stico. La vita coniugale della flaminica deve essere in tutto conforme alla
morale primitiva della famiglia; essa è la donna e la moglie modello; non
esce di casa che velata *), e i suoi abiti sono unicamente di lana '), il tes-
suto ordinario e familiare dell'antichità. Tuttociò corrisponde al carattere
di purità e di pietà religiosa della famiglia primitiva : carattere che la fa-
mìglia perde, quando anche la religione del focolare e degli dei domestici
non esercitò più alcuna influenza. Sola rimase fedele alla sacra tradizione
la famiglia flaminale, esatta immagine nella classica Koma della coppia co-
niugale d'altri tempi ").
II sacerdozio flaminale ci conserva dunque, nella maniera più pura, le
forme della primitiva religione domestica; e non v'è dubbio che in esso le
') La tiaminica doveva infatti essere unita al marito con nn matrimonio con-
farreato (Gaius, I 112: — Flamine» maioret, id est Diales, Martiales, Quirinalee, item
reges sacrorum nlH ex farreatis nati non leguntnr oc ne ipsi quidem sine confarrealioni-
Hacerdotium habere possunt.), con quel matrimonio cioè, di cui 1' atto religioso, o
confarreatio , costituiva veramente 1' essenza. Cfr. De Marchi, Il culto privato di
Roma antica, I p. 148 sg.
*) La loro esistenza non può negarsi ; cosi Macrobio {Sat. Ili 13, 11) e' in-
forma che fra i convitati alla cena di Lentulo, — quo die flamen Marliali» inau-
guratus est, — sì trovava ipsius uxor Publieia Jiaminica : ma certo non abbiani
ricordo di fanzìoni sacerdotali a loro affidate. Cfr. Wissowa, Religione, p. .506
nota 5.
') Per questo essa è considerata senz'altro come sacerdotessa di Giove ; Festi
ep., p. 65: — Flammeo vestimento Flaminica utebatur, id est Dialis uxor et Joris sa-
cerdos. — Che la flaminica fosse « sacerdotessa di Juno » fu erroneamente att'er-
mato da alcuni (per es. da Roschkr, Juno und Hera, p. 63 sgg.) in base ad
un'affermazione di Plutarco (Quaest Bom., 86) che dice della flaminica tspàv t^f
'Hpaj fivai Soxoùaav. Contro qnesta tesi vedi .Ici.t.lAN, art. /amen in Darembkrg
Saglio ; Otto W., Juno, in « Philologus » LXIV (1905), p. 161 sgg., e il mìo
stndio « Inno » in « Memorie del R. Ist. Lombardo ■>, voi. XXII, fase. V, p. 173 sgg.
*) .Servio, Aen., IV 137; cfr. Festi ep., p. 46.
•"•) Servio, Aen., XII 120.
') Cfr. .Ii:i.MAN, art. cit. in Daremrkrg-Saguo.
La donna nel sacerdozio ramavo 77
funzioni della tìamiuica sono quelle stesse della mater familias presso l'ara
privata. Già dicemmo che i flamini erano stati creati a lato del ve per
■disimpegnare quelle funzioni religiose che prima a lui solo erano affidate e
ch'egli compiva all'altare della regia, assistito dalla regina; possiamo af-
fermare dunque che anche le tìaminiche, come le Vestali, hanno preso, nel
loro ministero religioso, il posto tenuto una volta dalla regina.
E ciò acquista sicurezza ed evidenza quando si studi il sacerdozio del
tex e della regina sacrorttm. Poiché è certo che il rex sacrorum è 1' avanzo
dell' antico re che era stato un tempo il capo dello Stato, poiché è evidente
«he le funzioni religiose eh' egli esercita, assistito dalla moglie, in epoca
repubblicana, non sono che il residuo dei larghi compiti sacri a lui un giorno
risérbati, è chiaro che le forme e il carattere del culto amministrato dalla
■coppia regale in età storica ci riveleranno di qual tipo fu il primitivo mi-
nistero religioso da quella in origine esercitato. Orbene il rex sa,crorum, at-
tentamente studiato, ci si rivela semplicemente come un flamine. Come i
flamini, infatti, era nominato dal Ponti/ex Maximus ') e del Collegio dei
Pontefici faceva parte; era inaugurato nei Comitia Calata ') e doveva an-
■ch'egli essere ammogliato e il suo matrimonio doveva essere stato celebrato
■col sacro lito della confarreatio ') : come il flamine diale, ebbe anch' egli
una residenza ufficiale, una nuova regia, ove abitò insieme con la consorte ').•
È innegabile dunque che il rex e la regina sacrorum sono una coppia
sacerdotale di tipo flaniinale ') ; è evidente perciò che i sacerdoti sostitui-
tisi al re, i fliiniini, ne esercitarono le funzioni sacre con quelle stesse forme
<lel culto domestico adottate dalla coppia regale.
•
I
') DlONYS. Halic. V 1, 4.
») Gell. XV 27, 1 : cfr. Livio XXVII 36, 5, XL 42, ».
») Gaius 1 112.
■*) Flaminia aedes, Jiaminia domua ai chiama la casa del tlamiue diale : Festi ep.
p. tì3 ; Skrvio Aeii., II 57; Vili 63. La casa del rex era posta in summa Sacra
Via : Fbsto, p. 412.
'') Noi potremmo chiamare il rex sacrorum tlamine di Janus, risto che egli re-
■stò specialmente incaricato del culto di questa divinità. Il 9 Gennaio il rex celebra
1' Jgonium, la prima festa dell' anno, sacra ad Janus (OviD., Fatti, l 318), e a
questa divinità sacrifica un montone nella Regia (Vark., de Hng. lat., VI 12). È
anche probabile che, a tutte le « kalendae » il re otlnsse un sacrificio a Janns
nella Curia Calahra (cfr. WissoWA, Religione, p. 103), donde egli indiceva poi le
Nonae (Servio, Aen., Vili 6.54). Si tenga infine presente la corrispondenza fra la
«orveglianza rilasciata al re suU' andamento del calendario e il carattere di Janus
come dio del principio, del primo giorno del mese (OviD. , Fasti, I 17.">) e quindi
■del Calendario.
78 Giulio Giannelli
V.
Dopo «.'Ile iibliiamo così partitainente esaminato i tre sacerdozi femiiii-
iiili romani, quelli cioè della Regina dei sacrifici, delle Haniiniclie e delle
Vestali, torniamo al quesito die ci eravamo proposti da principio : quiili
sono i caratteri comuni che le sacerdotesse romane ci presentano 1
È anzitutto interessante osservare come tutte siano strettamente, con-
nesse, anzi facciano addirittura parte del Collegio dei Pontefici : le Flami-
niclie e la Regina in (pianto sono le mogli di sacerdoti, membri essi stessi
del Collegio; le Vestali come dipendenti, giuridicamente e disciplinarmente,
dal Pontefice Massimo. Se esaminiamo quale sia stato in Roma l'ufficio di
questo Collegio, ci accorgiamo eli' esso riunì in sé tutta quanta 1' attività
sacerdotale del decaduto rejr. I flamini infatti e il re dei sacrifici, ridotto
ormai egli pure ad un flamine, esercitano quelle che un tempo erano state
le funzicmi religiose del re, mentre il Pontefice Massimo se n' è appropriato
i poteri. Or dunque, se l'attività dell'intiero collegio pontificale non è che
la continuazione dell' attività religiosa regale, è chiaro che in questa do-
.vreino cercare l'origine anche delle funzioni esercitate dalle sacerdotesse ro-
mane, tutte appartenenti a questo gruppo di sacerdoti.
Vedemmo infatti che la coppia del rex e della reyina xaci-oriim altro
non è se non l'avanzo dell'antica coppia reale la quale, all' ara domestica,
sacrificava agli dei in nome del popolo intiero ; e vedemmo che una fedele
riproduzione ne sono le coppie flaminali, in cui le funzioni della tìaminica
sono quelle stesse che la regina aveva esercitato a fianco del marito, prima
che questi dovesse rinunziare a venerare personalmente quelle divinità, ormai
troppo cresciute nell' adorazione e nella stima del popolo, che volle affidata
ciascuna di esse a uno speciale sacrificatore. Vedemmo infine come le Ve-
stali rappresentino al focolare della città la maler familias dello Stato, e
come la mater familias da loro sostituita non possa essere se non la regina
che fu un tempo proposta alla custodia del regio focolare, in origine anche
focus publicus.
E allora mi sembra facile trarre da ciò la logica conclusione: le sacer-
dotesse romane esercitano tutte quelle finzioni religiose che, in origine,
erano appartenute alla regina come mater familias : in part« in quanto essa
custodiva il fuoco perpetuo nel focolare del re (Vestali), in parte in quanto
essa assisteva il marito, quando egli sacrificava alle divinità dello Stato
(regina dei sacrifici e flaminiche). E il carattere delle funzioni sacerdotali
della regina è quello di tutte le sacerdotesse di Roma. Ma il culto che la
coppia coniugale esercitò un tempo nell' interno della regia fu un culto pu-
ramente domestico : tutte le funzioni sacre della regina furono quelle stesse,
e soltanto quelle, della ma<er/aTOJK«» nell' antica religione privata: noi pos-
siamo quindi affermare che le sacerdote.sse esisterono in Roma in quanto
L(i Donwi nel sacerdozio romano 79
i-ra piiiua «li loro esistita una mater familiax con funzioni sacerdotali ; e il
concetto che pose la donna nel sacerdozio romano è quello stesso che la
volle partecipe della religione domestica. E di questa sola sono un portato
le sacerdotesse romane.
E se pensiamo che codeste sacerdotesse si riattaccano a (|uello stadio
della religione romana che è indubitatamente il più antico e (|uello che diede
i caratteri tVmdamentali all'ordinamento dei culti, dobbiamo riconoscere che
nella religione domestica sta il substrato vero della parte essenziale del-
l'organizzazione religiosa romana.
Ed è questo un fatto la cui importanza è di molto maggiore di quello
l'he ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare.
L' ìntima connessione della religione con la famiglia, 1' istituzione più
venerata presso i rudi agricoltori del Lazio, supplì ad una grave deficienza
che in quella avevasi a lamentare ; alla mancanza cioè di un elemento mo-
rale, il quale, attribuendo un valore etico ad ogni atto della vita umana,
facendo balenare alla niente degli uomini la promessa di un premio o la
minaccia di un gastigo, facesse della religione strumento di freno delle co-
scienze e la innalzasse dal freddo formalismo del culto, in cui essa sembrò
tutta consistere. Ed è cosi che due concetti totalmente separati presso i Ro-
mani, quello di religione e quello di moralità, vennero a riunirsi tra loro ;
in quanto che trovò la religione la sua migliore applicazione nella famiglia,
i;he della legge morale romana fu 1' espressione più diretta e più pura.
Né è a far meraviglia se (iiiesta religione, una volta venuta nelle mani
dello Stato, divenne in suo potere uno strumento efìicace di coesione e di
disciplina : tutti i cittadini furono da codesta religione uniti fra loro come
già lo erano stati i membri della familùi e della gens; e quelli, come già
«luesti, videro in essa una comune garanzia della provvidenza e dell' assi-
stenza divina. La religione di Roma fu opera più di legislatori che di teo-
logi, essa ispirò nei cittadini piuttosto le virtù civili che quelle morali ;
ma, in compenso, fu una delle cause prime della potenza del popolo romano.
Sicché non a torto Cicerone proclamava (de nat. deor., Il 2) che, per la
loro religione, i Romani avevano vinto 1' universo e che, se, sotto altri
rispetti, potevano essi apparire eguali od inferiori ad nitri popoli, nel culto
degli dei tutti di gran lunga li superavano.
Firen:e, Liif/lio 19 lù.
(iiri.IO GlANNEl.LI.
LA BATTAGLIA DEL LAGO REGILLO
Canto cantato nrli.a Festa vi Castore k Volluck
NEQM Idi dei. Quintilk dell'anno di koma ccccm.
(«lai Canti dell'Antica Roma,
di T. B. Macaulav).
1.
Sonate, trombe di guerra !
Voi, littori, fate il passo
ai superbi Caralieri,
eh' oggi per le vie cavalcano.
E dal Fòro al Campo Marzio,
d'ogni casa e d'ogni strada
alle porte e alle linestre,
belle pendano ghirlande,
pei superbi Cavalieri
eh' oggi per le vie cavalcano ;
«he di porpora vestiti
e d' ulivo incoronati,
van sul bel destrier che 1' unghia
fiera batte sul terreno.
Fin che scorra il giallo Fiume
ed il Colle sacro stia,
Avran sempre un tale onore
i fieri Idi del Quintile.
Liete ha Marzo le Calende,
e Decembre le sue None ;
ma i fieri Idi del Quintile,
quando per le vie di Roma
cavalcano i Cavalieri,
sono i pih lucenti giorni.
II.
Per i due Grandi Diòscnri
celebriam noi questa festa.
Quei che rapidi a noi giuusero
spronando dall'oriente.
Trapassar 1' ermo Partenio,
mosso in ondeggiar di pini;
il Cirreo tempio, il mar d'Adria,
il ceruleo Appennino.
Di là dove in snoni e danze
lor magioni antiche echeggiano ;
nella nobil Città, .Sparta,
eh' è una sola ed ha due re ;
giunsero al Lago Kegillo,
sotto la Porciana altura,
nel paese Tnsculano
dove fu la gran giornata.
III.
Dove un dì spaziò la strage,
oggi son capanne e ovili,
vigne son, campi di grano,
sono verdi bei pomarii.
Schiaccia il porco la caduta
ghianda dai tuoi cerri, o Come.
Presso il fonte, sopra l'erba
fuma al mietitore il pasto.
L' amo il pescatore inesca,
I' arco appronta il cacciatore.
Raro è il lor pensare ai forti,
che la terra qui dissolve.
E pensare come in rabbia
strìdè la tromba di guerra ;
in quel dì, che per i pésti
guazzi lubrici di sangue,
annaspando s'avvolgevano
uomini e cavalli ; e vennero
in un fier galoppo i lupi,
In un volo avido i corvi
a sbranar carne di duci,
a scavare occhi di re.
Come fitti i morti giacquero
sotto la Porciana altura :
La hattaglia del Lago lieijillo
81
ionie a TuncoIii la pazza
fuga costipò le porte :
e come il Lago Regillo
rilidUì di rosse schiume,
<|iiamlo avvenne che le Trenta
Città fecer guerra :i Roma.
(Jhé, se in voi perdura ancor»
1' odio ingiusto pei Tar<iuinìi,
qnesto ammonimento mandano
a voi le Trenta CittA. :
Attendete a che le vostre
mura siano ben sicure ! »
IV.
Ma non tu, Romano. Quando
tocchi questa sacra terra,
cerca ben l'oscura rupe,
cni 1' oscuro lago aggira.
Tu vedrai d' equino zoccolo
sulla selce impressa nn' orma.
Non potea mortai cavallo
stampar tale strana iiupronta.
Ivi ai due Grandi Diòscuri
i tuoi voti leva, e prega
■che ti facciano in battaglia
e ne la tempesta salvo.
VII.
Disse allora il Consolo Aulo,
questa amara betta disse :
« Una volta la ghiandaia
tal recò messaggio all'aquila;
— O fai parte in questo nido
al mio amico 1' avvoltoio,
o vien' fuori ardita e atironta
le ghiandaie a mortai guerra.
Fuori in ira guardò 1' aquila,
e ghiandaia ed avvoltoio,
visti sol 1' artiglio e il rostro.
via stridendo dileguarono. »
V.
Qui per ultimo i Diòscuri
da mortali occhi fùr visti,
oggi appunto fanno cento
anni con novanta e tre.
Era quell'estate in carica
primo Console nn Virginio.
Il secondo era Anlo il prode,
della stirpe di Postumio.
E l'Araldo dei Latini
venne altero a noi da Gabi.
Egli venne dentro Roma
per la Porta Orientale.
E l'Araldo dei Latini
si condusse al nostro Fòro.
-Quivi disbrigò il suo ufficio,
ed aveva in man Io scettro ;
VI.
« Senatori, udite ! e voi
del buon popolo di Roma ;
il messaggio che io vi porto
dèlie Trenta Città, udite.
Vi comandan esse in patria
di riprendere i Tarquinii.
Atene e Roma.
Vili.
E l'Araldo dei Latini
ripartiane in fretta altero.
E di Roma i Padri stanno
radunati al gran concilio.
Questo disse il Primo Console.
uomo di saggezza e d' anni :
« Udite, Padri Coscritti,
tutto intero il pensier mio.
Nel pericolo supremo
vuoisi un capo sol supremo.
Eleggiamci un Dittatore,
ini ciascuno obbedirà.
Sa Camerio come a fondo
d'Aulo penetra la spada ;
di quell'Aulo, che ognun chiama
1' uomo dalle cento pugne.
Eleggiamol Dittatore,
per sei mesi Dittatore.
Non un dì piii di sei mesi.
come vuol 1' antica legge.
E si scelga alcuno, e faccialo
Maestro dei Cavalieri.
E si elegga compagnia
di ventiquattro littori ».
1
82
Manfredo Vanni
IX.
Cor) fu dittatore Aulo,
1' uoinu dalle conto pugne.
K creava Ebnzio Elva
maBHtro dei Cavalieri.
E passati eran due giorni,
quando allo spuntar dell' iilbii
lecer Aulo e Ebnzio fuori
collocar le loro schiere.
Ma lasciato fu Sempronio
Atratino entro Città,
l'.oi fanciulli ed i piti vecchi,
alla guardia delle mura.
E presso il Lago Regillo
fn sospinto il nostro campo.
I Latini ad est un miglio,
sotto la Porciana altura.
Lungi sopra colli e valli
la lor grande oste era stesa.
E dei loro mille fuochi
rosseggiava a notte il cielo.
X.
Sorse il bel mattino d' oro
sopra la Porciana altura ;
i fieri Idi del Quintile
sempre di piil chiara luce ;
né fu senza un turbamento
che sorgea segreto in cuore
anche dei più forti e strenui,
al veder tanti nemici.
A trenta vessilli un cinto
di sessantaniila lancie !
Da ciascuna bellicosa
Città vanto al latin nome,
la superba oste si avanza,
fatai pasto ai cani e ai corvi.
Dai vigneti aurei di Sessa,
dall' antica arce di Norba ;
dalle bianche vie di Tnscolo,
sopra ogni altra città altera ;
d' onde la ròcca di Vico
pende sui bluastri Hutti ;
dal quieto vitreo Iago
sotto gli alberi di Arìcia ;
(gli alberi alla cui fosca ombra
regnò il ))allido levita,
qnei che uccise 1' uccisore,
e a sua volta sarà iiccito) ;
dalle rive dell' Cfente
squallide, ove in giochi vohnuk
i palustri uccelli, e dove
gravi i bufali si stanno
voltolandosi a schermire
i calori dell'estate ;
dalla gigantesca toiTe,
pih divina opra che umana,
d' onde Cora guarda e vigila
la palude interminata ;
dalla landa di Laurento,
dove fra i canneti s' apre
il cignal sicuro asilo ;
dalle verdeggianti rupi,
d' onde in bianconìvee spume
precipita l'Aniene.
XI.
Ed Aricia e Cora e Norba,
con Velletri e Sessa e Tuscolo,.
che qui aveano il miglior nerbo,.
fnron collocati a destra.
Era duce lor Mamilio
di regal sangue latino.
Sulla testa gli risplende
come flamma un elmo d' oro.
Alto sopra un bel leardo
ei cavalca, fluttuandogli
sopra I' aurea armatura
la sopravveste di porpora :
che, tessuta nella bella
plaga dove nasce il sole,
dalle tue fanciulle, o Siria,
vaghe per la bruna fronte,
trasse lungi poi la Punica
nave sopra i mar del sud.
XII.
E Laviuio e Laurento
al sinistro lato stanno.
L' uno ha quei della palude,
I' altro qnei del littorale.
Li comanda 1' empio Sesto,
I' uomo ohe lompì 1' infamia.
La battaglia del Layo Megillo
83
Truce il volto, incerto il passo
al mio d'i fatale oi viene.
K di strane visioni
narrau eh' egli solo vide.
K di strane cose ndite
eh' egli solo udir potè.
Una luatroual tìgura
di regale Donna e bella,
bella ma nel volto pallida
del pallore che hanno i morti,
Npesso nelle insonnie stagli
filando presso il suo letto.
Ed in qiiel che trae la rócca
in sommessa voce canta,
di romane case antiche,
dì romane antiche guerre.
Klla fila ed ella canta
sino al primo albor nel cielo ;
■ piando, il dito al sanguinante
petto, in uno strido involasi.
XIII.
Ma pili fìtte schiere al centro
han gli scudi dei nemici.
E più alto su dal centro
sale il grido della pugna.
t;ui marciavan Tebro e Pedo
al comando di Tarqninio;
Ferentino e Gabi, ai qnali
dà la rupe e il lago il nome.
Qui dei Volaci gli ausiliarii ;
e in oscura torva schiera
i Romani esuli, stretti
tiittì intorno al vecchio re :
a Taniuinio, che fu in Roma
re col titol di Superbo.
Kianco pih non è il Soratte,
quando lunghe notti ha il verno,
della barba che a lui fluttua
sulla maglia e la lorica ;
ma il suo cuore è forte, ed è
la sna mano non men forte.
Sotto i bianchi sopraccigli
lampi ha 1' ira ancor non spenta ;
>; se 1' asta in pugno tremagli,
non per gli anni, ma per 1' odio !
Stretto al fianco gli era Tito
su <l' un bel cavai d'Apnlia;
il più giovan dei Tarquinii ;
per nn dei Tarquinii, bnono.
XIV.
Ecco d' ambo i lati i duci
danno il segno dell' assalto :
vanno a grandi passi i fanti
colla lancia e collo scudo :
ed a tutta briglia e a sangue
spronano i cavalieri :
e cozzano i combattenti
con un gi-au boato immenso :
e di sangue si colora
sotto la battaglia il suolo.
Come nebbia del mattino
sulla Pontina palude,
s' innalzava alta la polvere
in nnbi alte di tempesta.
E più alto s' innalzava,
fuor dell' oscnrato campo,
nn clamor forte di buccine,
un fragor dì scudi e spade ;
di precipitanti squadre
come turbini sul piano ;
e degli uccisori i gridi,
e le strida degli uccisi.
XV.
Nelle prime file Sesto
cavalcava, altero il guardo.
Di bnon cuoio è il corsaletto,
laminato a acciaio ed oro.
Come 1' aquila digiuna
dalla Digeuziana rupe
getta l'occhio sull'ambito
agnelletto che saltella
tutto solo, allontanatosi
dalla greggia di Bandusia ;
tale Erminio adocchiò Sesto,
e com' aquila picmibò,
il nero Austro cavalcando
(ad noni prode corsier prode).
Nella destra ave» la spada,
che tagliò sì bene il Ponte ;
84
Manfredo Vanni
e HUll' eliiiii la corona
ch'egli iin di si guadagnava
al conquisto di Fidene,
gran rivale già di Koma.
Guai all' amata, il cui amatore
oggi gli attraversi il passo !
Como volta e fugge il Calabro
cacciatore, quando scorge
fra le canne i rotondi occhi
della maculatii serpe ;
così volta e fugge Sesto
a celarsi nelle estreme
file oscure di Lavinio,
irte di cimieri e lancie.
XVI.
Ma lontano a nord Ebnzio,
maestro dei Cavalieri,
mandò Tubero di Norba
a far pasto agli avvoltoi.
Del feroce suo destriero,
sotto i sanguinanti zoccoli,
giacque travolto calpesto
Fiacco agicoltor di Sessa.
Buon per lui se a potar olmi
fosse là rimasto ancora !
Vide tal strage Mamilio,
e il cimiero d' oro scosse.
E tra il folto della mischia
contro Ebnzio si precipita.
<^uesti con tal forza diede
a Mamilio nello scudo,
che per poco il Tnscolano
giù non traboccò e cade.
A sna volta a Ebuzio mena
sì ben assestato colpo,
eh' ove il collo è giunto all' omero
parte a parte lo passò.
Cadde a terra Ebuzio Elva,
privo d' ogni senso e immoto.
Ma di scudi una muraglia
tosto gli sì alzava intorno.
Lo scostarono i suoi fidi
alcun po' dalla battaglia.
Al vicino oscnro lago
quindi corsero i suoi fidi.
Riempiron gli elmi, e iV acqn:i
gli spruzzar la fronte e il voltn
E quando egli aperse gli occhi,
i natanti occhi alla luce,
si racconta che le prime
sue parole furiin queste :
« Cari amici, dite : abbiamo
vinto... non è vero? vinto?»
XVII.
Nel frattempo al centro molte
si compiano e grandi gesta :
che qui Aulo combatteva,
combatteva qni Valerio.
S' apri Aulo colla buona
spada un varco sanguinoso
verso dove, nel più fitto
dei nemici, aveva scòrto
una lunga barba biancM :
quella di Tarqninio re,
di Tarqninio che fu in Roma
re col titol di Superbo.
Lampeggiò la spada d'Anlo
sulla testa di Tarqninio.
(Questi abbandonò la lancia,
ed abbandonò le redini ;
E giti cadde come corpo
morto cade ; ed Aulo allora
balzò a terra per finirlo;
e dagli occhi usciangli fiainiiir
Ma saltò pili pronto Tito
e di sé fé' schermo al padre.
E Latini duci allora
e Romani cavalieri
balzan essi pure a terra,
ed a piedi ora combattono,
corpo a corpo tutti intorno
al caduto vecchio re.
Primo Tito ferì Ceso
di mortale colpo in volto.
Era Ceso della prode
Fabia stirpe 1' uom pin prode.
Aulo uccise Gabio, il grande
sacerdote di Giunone ;
e Valerio abbatté Giulio,
della gran Romana c:isa ;
La hattuylia del Lago Reti'Mo
85
Giulio che lasciava gli alti
{[Ti'adi sul Veliano colle,
per seguire ognor Tarqiiiiiio
alla buona e rea ventura.
Bene sta che di Tarqninio
Giulio a sbarra sia cadavere.
TitD in un rabbioso gemere
su Valerio infuriava.
E Valerio con un colpo
mezzo svelsegli il cimiero.
Ma pifi pronto Tito un forte
colpo gli affondò nel jietto.
Come antenna alla tempesta
tentennò Valerio, e cadde.
Cjuanto pianger dee la patria
chi sì amato fu dal popolo 1
In un alto grido dettero
i Latini, e con lieve urto
ricacciarono i Romani
(li tre buone laneie indietro.
Poi Tarqninio sollevarono,
1' adagiaron su uno scudo.
K da quattro forti militi
fu portato ancor svenuto
fuor del campo re Tarqninio,
eh' ebbe il titol dì Superbo.
XVIII.
Or pìh fiera ardea la pugna
a Valerio morto intomo ;
che traealo per i piedi
Tito, ed Aulo per la testa.
Grida Tito : « Su, Latini !
i ribelli dàn le spalle. »
Aulo grida : « Su, Romani I
Saldi a vincere o a morire.
Non vogliate che lasciato
sia Valerio ai cani e ai corvi.
Sempre amò Valerio il giusto,
e 1' ingiusto sempre odiò.
Por le Tostie mogli e i vostri
tigli ei cadde qui fra i primi,
cjuanto pianger dee la patria
chi sì amato fu dal popolo ! »
XIX.
Al conteso corpo intorno
<ii Valerio morto, allora
dieci volte la battaglia
il ruggito suo ruggì ;
(■ome sotto al tramontami
rugge la foresta in fiamme.
In un mareggiare alterno
furiosa andò la mìschia :
fin che pifi non visto, ignotcì
fu Valerio ove giacesse.
Che spezzate armi ed insegne
là faceano un solo ammasso.
E irrigiditi cadaveri ;
e morenti che con gemiti
smaniando s'attorcevano,
e mordevano la polvere ;
e cavalli che feriti,
in un' angoscia d' anelito,
dibattendosi scalciavano,
e sbuffavan rosse schiume :
fecer bene degno feretro
a un Consolare di Roma.
XX.
Verso nord il Dittatore
guarda lungamente, e fiso.
Dice quindi a Caio Cosso,
capitano della Onardia :
« Caio, fra i Romani tutti
vanti tu la miglior vista.
Guarda, e dimmi. Gifi lontano,
nel gran turbine di polvere,
che è mai quel che s' avanza
alla de.stra dei Latini ? »
XXI.
Gli rispose Caio Cosso :
« Vedo, e tristi cose io vedo.
Le sue insegne altere Tuscolo
reca a destra dei Latini.
Vedo i cavalier piumati ;
e davanti oltre le lance
vedo il bel leardo, e splendere
la sopravveste di porpora :
e 1' elmetto d' oro io vedo,
che da lungi splende fiamma.
'L'ali 1 segni di Mamilio,
il Latin prence Mamilio. »
86
Manfredo Vanni
xxir.
« Ora ascolta, Caio Costtu :
sali in groppa al tuo cavallo.
E oaralca a tatto sprone,
come se ti avessi dietro
ululanti tutti i lupi
elle nutrisce l'Appennino.
Dove a sud pugnano 1 nostri,
là ti affretta ; e corri e corri
tino a che non trovi Erminio.
Digli eh' egli venga e a furia. »
XXV.
Si percosse Erminio il petto.
ma non un sol detto emiHe.
Colla man nervosa d'Austro
volpeggiava la criniera.
Poi d' un tratto diede d'Austro
alle redini una scossa.
Austro intese, e volò via
come una freccia dall' arco.
Austro che il destrier più rapido
era dall'Autido al Po.
XXIII.
Così disse Aulo, e di nuovo
si cacciò nell' aspra mischi».
Monto Caio Cosso, e via
alla vita ed alla morte.
Sotto 1' unghie scalpitanti
del cavallo rìsnonavano
cupi gli elmetti dei morti ;
e le pozze del rappreso
sangue a schizzi il cavaliere
brnttan dagli sproni all' elmo.
Così giunse fra i Romani
combattenti al mezzodì.
Contro quei del lìttorale,
contro quei della palude.
E come alla falce il grano
giù cadean quei di Lavinio,
sotto il filo della spada
che si ben difese il Ponte.
XXVI.
Kimbaldirono i Romani,
cui gravava di sgomento
lo svantaggio della pugna
a Valerio morto intorno,
quando si levò dal sud
rallegrante un clamoroso :
« Ecco Erminio ! giunge Erminio !
«inei che ben difese il Ponte ! »
XXVII.
Tosto 1' adocchiò Mamilio,
e gli attraversò la strada:
« O Erminio, da gran tempo
mi dovevi un dì di sangue.
Uno di noi due, o Erminio,
non vedrà più la sua casa.
E tornare io voglio a Tuscolo,
e tu vuoi tornare a Roma ! »
XXIV.
xxvni.
« Aulo ti saluta, o Erminio !
E comandati di accorrere
a portare aiuto al nostro
centro, ov' è il bisogno grande.
Il più giovin dei Tarqninii
là combatte, e il Tusculano ;
quel dal bel cimier di fiamma,
il Latin prence Mamilio.
Alle nostre schiere in fronte
combatté Valerio, e cadde.
Aulo dalle cento pugne
solo regge la giornata ».
Cessa intorno la battaglia,
mentre a cozzo mortai vengono
il Romano e il Tu.scolano,
il leardo ed il morello.
Tale Erminio die a Mamilio
forte un colpo, e mirò al petto,
che gli aprì 1' usbergo, e il ferro
tutto addentro gli all'ondò.
Il purpureo sangue a fiotti
sgorga a lui sopra la porpora.
E Mamilio diede a Erminio
tale un colpo, e mirò al capo,
La battaglia del Lofio lietjillo
.S7
ohe gli infranse 1' elmo, e il ferro
tutto dritto giù fendè.
Caddero tino accanto all' altro
iV nn sol tratto i due feroci.
D' un sol tratto morti caddero
in un gran lago di sangue,
(gualche tempo ancora immoti
tntt' intorno i combattenti.
XXIX.
Via e via coi fieri zoccoli
scalcia il buon leardo, e vola ;
sgominando i combattenti,
saltando i mucchi dei morti.
Trascorrenti via le briglie,
tutti sangue e schiuma i fianchi,
ei cercava le montagne,
le materne sue montagne.
Eran erti e rudi i passi,
gli ululavan dietro i lupi ;
ei sorvola il varco, turbine,
e si lascia i lupi indietro.
Fra i casali in orror taciti
il suo pie volante strepita.
Tal precipitò a traverso
alla gran porta di Tuscolo :
e irrompendone intilò
la contrada bianca e langa ;
rasentò la torre e il tempio,
e la corsa sol fermò
alla casa del padrone,
nella piazza del mercato.
Tosto I' attorniò una folla
tntta pallida e tremante
che lo riconobbe, e in urli
die di rabbia e di dolore.
Onta feano al crin le donne,
rimpiangendo il signor caro.
Ed i vecchi le vecchie armi
si oingeauo, e via alle mura !
XXX.
Ma spirante statua al suo
posto il nero Austro restò :
fiso a riguardare il volto
del caduto suo padrone.
La corvina sua criniera,
oh' ogni dì la giovinetta
bella Erminia tutto amore
con palpeggi, con carezze
e lavava e pettinava
e attorceva in treccie eguali,
e di nastri coloriva,
dei suoi nastri di fanciulla ;
ora giìl pendeva mesta
sopra il caro suo padrone,
che giaceva, nella strage
e nel fango, steso morto.
Con un grido balzò Tito
d'Austro ad afferrar le redini ;
i|uando un giuro fa tremendo
Aulo, e contro quel si avventa :
« Che di Sesto empio le furie
su di me ed i miei trapassino,
se mai un sol della tua iniqua
stirpe il nero Austro cavalchi I »
Quale sulla ròcca alpina
cade giù dal cielo il fulmine,
tal la spada d'Aulo venne
diritta al collo di Tito.
Ed il rosso sangue in grande
arco ed alto zampillò.
Tal del ricco Capuano
nella splendida magione,
ornamento del vestibolo,
zampilla alta la fontana.
Ai Latini mancar trepide
le ginocchia, quando morto
sopra il morto Erminio giacque
il più prode dei Tarqninii.
XXXI.
Aulo il Dittatore intanto
d' Austro palpa la criniera ;
e il governo bene esplora
delle cinghie e delle redini.
« Ora a noi. Austro ! mi porta
là nel fitto della mischia.
Noi vendicheremo insieme
oggi il forte tuo signore ! »
XXXII.
Così disse, e più affibbiava
strette al nero Austro le cinghie.
88
Manfredo Vanni
Quando vide ohe nna coppia
di regali Cavalieri
cavalcava alla sua destra:
Hi che pili guardò stupito.
iSimiliggimi qual mai
nomo vide eguali al mondo.
Come neve 1' armatura,
i destrieri come neve.
Mai su incudine mortale
fiammeggiò tale armatura ;
né mai tiume sulla terra
tali abbeverò destrieri.
XXXIII.
Sbigottiane ognun che vide,
ed impallidia ogni guancia.
Aulo il Dittatore appena
trovò il varco alle parole :
« Qual è, dite il vostro nomef
qual la vostra patria? dite.
E perché qui avanti a noi,
a combattere per Bonia? »
XXXIV.
« Molti uorai a noi dàn gli uomini ;
molti luoghi abitiam noi.
Ben Siam noti in Samotracia ;
in Cirene ben slam noti.
Ogni aurora il lieto Taranto
per la nostra casa ha fiori.
Le siracusane antenne
il bel tempio nostro domina.
Ma là, presso il forte Eurota,
è la nostra cara patria.
E per il diritto siamo
a combatter qui per Roma. »
XXXV.
Questa diedero risposta
i dne strani Cavalieri.
E finito il dir ciascuno
abbassava la sua lancia.
Tutta la Romana schiera
tosto lieta imbaldanziva.
Ma sn quelle delle Treutii
Città fn stupore e orrore.
Ed a manca Ardea piegava,
e piegava a destra Cora.
Aulo grida : « Dentro, o Roma !
nei nemici che già cedono.
Dentro pel foco di Vesta !
Dentro per I' ancil di Numa !
Non la preda indugi alcuno.
Tutti al sangue ! al sangue I al sangue J
Ecco stanno al nostro fianco
oggi gli immortali Dei ! »
XXXVI.
K le trombe allor squillarono
fiere dalla terra al cielo.
Suon ben noto agli avvoltoi,
che allor sanno (]ual banchetto
imbandiscono i Romani
stretti a dare la battaglia.
E la buona spada d'Aulo
ad uccidere era alzata :
e nel folto minava
jVustro, frana d'Appennino.
Ma piti massa fean di morti
quei dne strani Cavalieri :
e dei due destrieri strani
m.al seguiva Austro la foga.
Dietro ad essi, colle file
delle sue lunghe ordinanze,
all'aggiramento Roma
si avanzava sui nemici :
alte in brusco ondar le insegne,
basse in linea giti le daghe.
Tale il Po, quando ha la piena,
va per il Celtico piano ;
e piti nera della notte
la procella sul mar d'Adria.
Per il nostro Dio Quirino
quale mai gioccmda vista
a vedere gli stendardi
delle Trenta Cittil tutti
abbassati or via spazzarli
la marea dei fuggitivi !
Tal, cessata la tempesta,
l'Adria suol ritrar le spume :
e i covoni nella piena
trae il rimulinaute Po.
La batia(/lia del Lago licgiUo
8»
L' empio Sesto alle iiioutaKiie
voltò prima il suo cavallo ;
I' Lannvio tosto fugge,
tosto fugge Ferentiuo.
Fuor del campo, o Nomeiitano,
spronano i tuoi cavalieri :
t»<l i tuoi fanti, o Velletri,
lance e scudi gettan via.
J,e tue insegne, o altero Tuscolo,
che non si piegaron mai,
ora tra la mota e il sangne
vanno travolte e calpeste.
Cadde morto Flavio Fausto,
che sul campo avea guidato
le sue belle e forti schiere,
di là dove i meli in iìore
iiivei oiideggian sulle sponde
echeggianti dell'Aniene.
E con lui Tulio d'Arpino,
duce dei Volsciani aiuti ;
f di Vulso il capo bianco,
1' ariciano gran profeta ;
e il tuo biondo, o Mezio ! amore
delle vergini d'Anzuro.
E Nepote di Laurento
cadde, il cacciator di cervi.
E sull'empio Sesto ancora
scese il buon acciar di Roma.
E moriva l'empio Sesto
nella polvere travolto,
lorae il verme che è travolto
sotto la passante ruota.
D' inseguiti e inseguitori
un sol mescolato ammasso.
E attraverso il varco, lungi
via ruggiva la battaglia.
XXXVII.
Alla Porta Orientale
stava .Sempronio Atratino
Con lui eran tre Patrizii,
tutti in lor seggio d' onore :
Fabio, che quel giorno al campo
nove strenui .ivea nipoti ;
Manlio, l'anzìan dei Dodici
guardiani all'aureo scudo :
Sergio, noto Ei gran Pontefice
per scienza ai più lontani
(non sinedrio alcun d'Etruria
tal Pontefice mai ebbe).
Tntt' intorno poi alla Porta
e sull'alto delle mura,
stava il popolo atl'ollato,
folla mesta e taciturna :
giovincelli e vecchi curvi,
che portar non posson 1' anni ;
e matrone, a cui le labbra
tremano, e fancinlle pallide.
Dal chiaror primo del giorno
sempre avea Sempronio leso
1' orecchio avido al precipite
scalpitio dall'oriente.
Già la nebbia della sera
si levava e cadea il sole,
quando ei vide che una coppia
di regali Cavalieri
cavalcava fortemente
dritta verso la Città.
Similissimi qual mai
nomo vide al mondo eguali.
Rosse l'armi eran di strage,
rossi di strage i destrieri.
XXXVIII.
« Gloria 1 per il sacro Asilo.
Gloria I per i sacri Colli.
Gloria ! pel fuoco di Vesta.
Gloria! per l'ancil di Nuraa.
Sulle sponde del Regillo,
sotto la Porciana altura,
nel paese Tuscolano,
oggi Roma ha la vittoria.
K domani, nel trionfo,
il Romano Dittatore
porter.^ le spoglie opime
delle collegate in guerra
contro lei Trenta Città,
il sacrario a ornar di Roma ».
XXXIX.
Dall' immensa folla allora
forte un grido tal scoppiava
che ne tremaron le torri.
E per tutti i quattro venti
90
Manfredo Vernili • La battaglia del Latto RegilUi
fu un disperdersi a gridare :
« Viva ! La giornata è nostra! »
Ma con lento e regal passo
vau gli strani Cavalieri ;
né ohi vide nn tal sembiante
osò chieder stirpe o nome.
Sempre in lento e regal i)a880
oavalcaron essi al Fòro,
mentre sopra i lor cimieri
da pinnacoli e finestre
giti cadeano fiori e lanri
in interniinabil pioggiii.
Quando poi di Vesta al tempio
ftìr vicini, in pie balzarono;
e lavarono i destrieri
nella fonte della Dea.
Come un vento vìa trascorsero.
e nessuno più li vide.
XL.
Sbigottiva il popol tntto,
ed impallidia ogni guancia.
Solo Sergio il gran Pontefice
trovò il varco alle parole :
« Han per Roma combattuto
oggi i buoni Dei immortali !
Quelli, che devota Sparta
prega : i due grandi Diòsouri.
Torna col trionfo il Duce,
che nell'ora della pugna
vide i due grandi Diòscuri
tutti armati alla sua destra.
Uscirà salva la nave
dai marosi del libeccio,
»e d' un tratto splendati sulle
vele i due grandi Diòscuri.
Perché i lor destrier lavarono
alla sacra onda di Vesta,
e del tempio ai penetrali
sacri or ora cavalcarono,
a me è dato saper ; solo
riferirlo non mi è dato.
Noi di Vesta presso il tem|)io
un sacello edifichiamo,
degno, ai due grandi Diòscuri.
eh' oggi vinsero per Roma.
Quando il giro poi dell' anno
ne riporti questo giorno,
iguesto giorno di battaglia,
questo giorno di vittoria,
(i fieri Idi del Quintile
sempre di pih chiara luce) :
per i due grandi Diòscuri
si radnni tutto il popolo
in gran festa con corone,
con otterte, suoni e canti.
Alle port« e alle finestre
belle pendano ghirlande ;
sian chiamati al Campo Marzio
a rassegna i Cavalieri :
e di là ciascun cavalchi,
nella lor veste di porpora,
delle trombe al gaio squillo,
i superbi Cavalieri.
Ciascun monti il suo destriero,
e d' ulivo s' incoroni.
K in solenne ordine sfilino
davanti al santo sacello,
stanza ai due grandi Diòscuri,
eh' oggi vinsero per Roma. »
Manfredo Vanni tradusse.
Becenmoni 91
A. KosTAGJii. l'oeti alestandrivi, Torino, Bocca, Ullti. i). xili-3it8. L. 5. (Pìcccila
Bibliot. di Scienze moderne, n" 242).
Apro a caso e leggo (p. t03) : « E vi emergono infatti (cioè nell'idillio di Teo-
crito) gli atteggiamenti dell'elegia ; vi si apre l'orizzonte dell'epillìo nella sna
varietà di combinazioni e di spunti ; vi contlnisce la pura corrente del Pelopon-
neso, suscitata in limpidi epigrammi da Auite di Tegea e mescolatasi, sembra, sul
terreno stesso di Cos e delle isole circostanti, con le ricche fonti di Asclepiade
samio e di Leonida tarentino ». E a p. 56 sta scritto : « E la gnerra di Celesiria
che, culminando nel 274, fa a questa attività politico arringo, che anzi fn del-
l'intero momento storico l'espressione pili eloquente, e dalla quale — gl'Inni stessi
di Callimaco collettivamente s'irradiarono, mandava forse allora,... gli ultimi guizzi
e forse dalle trascorse bufere si ricomponeva appena in un equivoco orizzonte di
pace, o di tregua ». Tutto il grosso volume è scritto così : metafore filate per
righe e righe o che s'intrecciano e si accavalcano le une alle altre ; termini me-
taforici, a cui {■ attribuito un aggettivo che a loro non conviene ; molto studio
di bello scrivere, ma poco senso della proprietà delle parole. Come può una guerra
dalle bufere ricomporsi in orizzonte di pace f o come può ([uesf orizzonte chia-
marsi equivoco ? Espressioni volgari o giornalistiche si intrecciano alle auliche, con
poco vantaggio dell'unità stilistica : in un libro di stile asiano stuona un periodo
come questo (p. Ili) ') : « gli anni erano trascorsi anche per Nicla, che, cedute le
armi, aveva mesito giudizio, si era dato alle pratiche della sua professione, e, jicr
colmo di acquiescenza, aveva preso moglie : una buona massaia, Teogenide ». Ac-
quiescenza a chi o a che f *). A questo stile mancu proprio qi;ella virtìi ohe il
Croce, cui pure il Rostagni ha letto e ammira, lodava testé parlando di un libro
d'importanza minore {Crii., XIII, 462) ; « l'urbanità: quella urbanità, quell'a»te»a
che non è già semplicemente il galateo, ma.... il modo di scrivere da cittadino e
non da provinciale ; e provinciali sono anche coloro che ora prendono le mode da
Parigi, e si presentano sempre gonfii di pathos, rigurgitanti d'immagini, tremendi
di sarcasmi, carichi di sottolineature e di sottintesi, e non sanno piìi conversare
come si conversa tra gente che ha semplicemente qualcosa da narrare e qualche
idea da svolgere ». Al Rostagni manca proprio l'urbanità, s'intende l'urbanità
nel sen.so che a questa parola dà il Croce, ed è peccato ! Se avesse scritto piìi
urbanamente, sarebbe riuscito a costringere la materia del libro in duecento in-
vece che a distenderla in quattrocento pagine, e avrebbe evit.lto che qualche let-
tore, che pure le cose dette interessano, si tediasse sì da lasciare a mezzo la let-
tura. Il Rostagni, se avesse voluto, avrebbe potuto ; che le otto appendici, che
chiudono il libro, sono scritte in italiano normale ; come scritti bene sono i molti
e I)Honi articoli che il Rostagni ha publdicato sinora.
Ed fr strano che il Rostagni, che fa pompa di tanta retorica di cattivo gusto,
si sfoghi poi a chiamar retore chiunque non sia d'accordo con lui. A p. 316 egli
lamenta la consueta aridità e convenzionalità del metodo retorico imperante in
questi studi filologici. A p. 324 si scaglia contro alcuni studiosi (tra i quali sarei an-
M II ^-orsivo «• mici
") K lecito scrivere in ìtali,tno (p. 208) «dei /erionu, dei TeofrasU), tiegli .Stilpone »? Aui-be la
solando andare cìie l' italiano lett»^rario avanti allo Z adopera pinttosto fili che t, non «i dovrn
a nonna di •^rainniatica pinttost^* dire « degli Zenoni. tlei Teofraeti, degli Stilponi »? Due pagine ol'
tre. Zenone e ì'Ieonte sono cldanifiti *< i due Sideri dello stoicismo ».
02 Recensioni
ohe io), i-Iie tiattaroiio ilei curattere e della struttura di un uunipoiiimeiitu puetico
« con metodo retorico e tilolof^ico, Hcuza una visione profbnilauiente critica die cerchi
di cogliere uell' iiuimo dell'artista i principi! dell'opera d'arte. E ricnsa all'ese-
geta e al filologo il diritto di occuparsi di problemi ohe appartengono al critico
d'arte: e il critico d'arte, cioè lui, grida gioiosamente (a p. 304) : « Sono postele
leggi della concezione ». Da chi f e con qual diritto? Non certo dall'artista, ma
dal critico, che le può al più ricevere. Precede una strana analisi estetica dell'inno
ad Apollo di Callimaco, che finisce ■) : « E tra i due poli del dramma. Apollo e
Cirene, giustamente equilibrantUi mercè questa nuova veduta, il sentimento del
«cortigiano, che vive nei favori del « sno re » d'Alessandria e che del .suo re am-
mira i vasti piani moiiarchiei, k per cercare accordo con l'incorruttibile aQ'etto del
cittadino che vuole il bene della patria sua ». Qual' altra, se non questa, è pes-
sima retorica ?
L'esegesi è fortunatamente in questo libro per lo più molto migliore dello
stile o delle dottrine estetiche : pure non mancano stranezze. Il Rostagni traduce
i primi versi di un epigramma cosi : « Pioggia era e notte e, terzo travaglio d'amore,
il cammino ». Il testo greco, quale il Rostagni l'ha restituito egli stesso conget-
turalmente, ha ; TsTCS r,v xal vòj xat xó xpiTov aXyoj sponi ot(io£. Come mai àXfO?
spMTt può voler dire « travaglio di amore » ? Eppure il Rostagni dichiara di non
trovar ragione di scostarsi da questa lezione. E del resto la sua congettura pec-
cherebbe contro la proprietà dei vocaboli, anche se rispettasse la grammatica ; o;p.og
vuol dire sì « cammino » nel senso di « strada » ma non in quello di « viaggio », di
« azione del camminare », che si direbbe oiti»)..
E alla, diciamo cosi, ingenuità grammaticale o all' improprietà lessicale si ac-
coppia qui certa impreparazione di critica diplomatica. Il Rostagni asserisce (pa-
gina 250) : « I primi due versi sono nei codici : Tetòs ■^v xxi vùg xal xò xpixov
vAfoz spiaxi ». Quest' asserzione contiene due inesattezze. In primo luogo, l'epi-
gramma è conservato solo dal codice unico dell'Antologia Palatina, che le copie
di questo non contano ; in secondo luogo, questo codice ha xpExov senza il xò. E
lo stesso errore ricorre a p. 248 a proposito di un altro epigramma di Asclepiade
al V. 180 : « i codici, in massima, leggono ». L'accordo di massima non è difficile
a ottenere, (juando e' e una sola testimonianza. Il Rostagni, che ha pure studiato
con frutto gli epigrammi dell'Antologia, non si e punto curato della storia del
loro testo : che dire <li uno storico a cui i documenti sono indifferenti 1
Dobbiamo forse dire che per cagion di questi nei il libro sia da buttare vìa?
Tutt' altro : io riconosco cou gioia che esso in complesso e bnono e confesso di esser
grato al Rostagni del molto che ho imparato da lui. Il volume s'intitola « Poeti
alessandrini », e non già p. e. « La poesia alessandrina » ; e il Rostagni non tratta
infatti ex professo se non di Teocrito, di Callimaco e della cerchia di Asclepiade.
ma su questi egli dice molto di vero. Meno importante mi pare l'introduzione,
nella qnale pochi concetti giustissimi appaiono in ìnnnmerevoli variazioni. Della
vita e dell'arte di Teocrito il Rostagni propone una nuova ricostruzione, at-
traente per molti rispetti; ma la data, che egli sostiene per le Cariti, mi pare
del tutto errata. Le Cariti non possono essere state scritte dopo la vittoria del
Longano, perchè esse, a ogni modo, non sono state scritte dopo una vittoria.
Teocrito <lice chiaro che lerone e i Siracnsani si accingono alla guerra : i Sira-
^) Il corsivo t' anche quenta volta mio, e così sempre nel segnito della recensione.
liecensioiii 93
elisimi iinpujiii.iiio a mezzo le aste ; lenme si aniia, e nulla più. Qui (li una vit-
toria non si la cenno, seguo certo che uou c'era stata ; dunque o sconfitta dis-
simulata o sosta incerta o principio di guerra. Rimane 1» scelta tra il 274 e il
263 ; al 26n il carme non spetta. Parimenti il Rostagni non riesce a provare
che 1' Encomio a Tolomeo sia stato scritto (|uando una guerra, secondo il Rosta-
gni quella di Celesiria, non era ancora coiii]>iiita ; i versi di Teocrito, che egli
presenta tradotti a p. 57, dicono proprio il contrario, come aveva veduto p. e.
il Beloeh. È strano che i vari errori dell'autore siano per lo piii sbagli d'inter-
pretazione ; egli, a forza di voler essere acuto, riesce a far dire ai testi il con-
trario di quello che essi veramente significano. Questa tendenza dell'ingegno del
Kostagni alla sottigliezza gli è invece assai utile nell'indagine sul significato dei
Ypicpot delle Talisie ; e propendo a credere egli abbia ragione nell' identificare, come
aveva già fatto altri, il Licida di questo componimento, e, se non l'Astacida di im epi-
gramma callimacheo almeno il Giasone dell'Altare con l'autore di quest' ultimo carme,
con Dosiada cretese ; se non l'identificazione, le prove sono in gran parte nuove.
Meno felice mi pare nel negare che la comicit.à del Ciclope (p. 105) dipenda « da
un atteggiamento di satira »; ma io invece che con altri critici alla topica amo-
rosa dei poeti elegiaci, penserei al nomo di Filosseno, che metteva in iscena pro-
prio il Ciclope.
Snl capitolo secondo, che tratta del mito di Dafni, è diffìcile dare un giudizio.
È da concedere seuz' altro al Rostagni che Dafni fu originariamente lo spirito
dell'alloro; ma quanto alla sua ricostruzione della storia del mito, essa è sì assai
attraente, tanto che a leggerla la prima volta si sarebbe tentati di accettarla sen-
z'altro, ma, a chi riscontri gli antichi autori, apparrà mal fondata. Secondo lui,
la leggenda originaria, conservata solo in uno scolio virgiliano, sarebbe a nn di-
presso questa : Dafni sposa una ninfa ; questa gli è rapita da predoni : il marito
vaga in cerca di essa (p. 182) «e scompare lontano, in estranee contrade,... finché,
pieni i tempi il dio ritrovi la ninfa e di nuovo, col suo avvento, torni a bril-
lare il sorriso delle cose ». Lo scoliaste a Virgilio, non già, per vero, com'egli
cita, Servio, ma V Iiiterpolator Servii o il commentatore Danielino, che dir si vo-
glia (a Verg. Eoi., Vili, 68), dice tutt' altro: Dafni, dopo aver cercato a lung<i,
ritrova la sposa presso Litierse. Il Rostagni, senza porre in guardia il lettore,
cambia di suo arbitrio la chinsa, perchè risponda a vedute sue particolari. Questo
stesso scolio è citato a p. 35.5 (e qui certamente il Rostagni ha ragione), quale
uu riassunto del Dafni o Litierse di Sositeo. Par singolare che la stessa testi-
monianza sia adoprata per ricostruire due leggende diverse, qiiand' anche qui
l'inesattezza sia, piìi che altro, formale ; ma come fa il Rostagni a sapere che So-
siteo ha per la prima parte seguito la versione originaria? Del resto, la rico-
struzione rostagnìaua della leggenda originaria, ancorché fosse meglio fondata
«■liticamente, mi parrebbe mal sicura per un' altra ragione : la narrazione non ha
fine che appaghi, che la chiusa, che le appicca il Rostagni, è una sua aggiunta
arbitraria e fantastica, non suffragata da testimonianze, ma solo postulata in
grazia di vedute particolari sull'antica religione agraria. Il Rostagni mi par troppo
incline a veder dappertutto simboli senza domandarsi se popoli primitivi abbiano
tanta forza d' intelletto (pianta basti al simboleggiare. Il vero è, secondo me, che
uno spirito della vegetazione si chiamò sì Dafni, ma che il Dafni della lettera-
tura è troppo posteriore a quest'era e troppo mutato perchè saperne possa aiu-
tarci ad intenderlo. A ogni modo il Rostagni sul Dafni più recente raccoglie
«U Beeensiom
tanta copia «li materia e l'ordina cosi bene che nessuno potrà nenza danno fare
a meno di leg);ere il sno lavorìi.
Appartiene alle pagine meglio ringcite del volume lo studio su ÀHclepiade di
3»mo e la aoa scnola : il < nido Hamìo di poeti » è delineato in modo non solo
elegante, ma che risponde molto probabilmente a verità, e le indagini sull'arte di
Asclepiade sono assai degne di rilievo. Solo mi sembra assai dubbio che Callimaco
compaia, come il Kostagni si esprime, « per pifi di una tracci» ììhW atmosfera delle
isole asiatiche ». Nella nota a p. 240 si confessa implicitamente che fa difetto ogni
tradizione. Il Rostagui dimentica troppo facilment« ohe nel periodo ellenistico in-
llussi letterari! non hanno per condizione necessaria contatti personali : non solo
gli nomini ma anche i libri viaggiavano. Del resto bisogna concedere che anche
il Rostagui non pare dar importanza a tali particolari ').
Dell'ultimo capitolo, che tratta degli inni di Callimaco, assai spesso [lulemiz-
zando contro me, non voglio per ora dare giudizio. Ho bisogno dì riesaminare a
mente fresca tutte le questioni. All'unità di concezione almeno dei quattro primi
inni credo anch' io e spero di poterla suffragare con altri elementi, oltre ({uelli,
certo di qualche peso, recati dal Rostagni ; ma però non so ancora se essi spettino
davvero al periodo tra il 275 e il 270. Mi riesce più facile credere che nell'inno
ad Apollo Callimaco alluda alla contesa con Apollonio, ora che il Rostagni (Alti
di Torino 50, 241 sgg.), snlla scorta di un nuovo documento ha mostrato verosimile
che quella controversia risalga a tempo piti uutico di (|uel che supponevamo, ma
una difficoltà rimane nonostante i dinieghi del Wilamowitz e del Rostagni, e con-
verrà studiare ancora una volta le relazioni tra gli Inni di Callimaco e il poema
epico del Rodio ').
Delle appendici, alcune trattano molto bene punti secondari di storia lette-
raria ellenistica ; di quelle intorno ai carmi figurati e a Dosiada in Servio e in
Filargirio ho parlato già sopra. La settima, assai importante, intorno alla crono-
logìa del dominio tolemaico nella Ionia ti connessa così strettamente con la que-
stione della data degli inni che anche su di essa mi riservo dì scrivere altrove ;
posso dire tìn d'ora che l'interpretazione storica che il Rostagni dà di nn passo
controverso dell'elenco milesio degli Stefauofori, mi pare più persuasiva di qnella
proposta dal De Sauctis. Ma fa sorger qualche dubbio la parte attribuita anche
nella ricostruzione rostaguiana degli avvenimenti al misterioso Tolomeo di Lisi-
niace. L'ultima appendice dimostra essere l'elegìa dì Properzio sulla battaglia dì
Azio un' imitazione di Callimaco ; io non avevo mai pensato altrimeuti.
Giorgio Pascjitau.
') Ingegnosa e convincente mi pare l' interpretazione die il Kostagni «là i|i. 210) itel titolo Ai-
^lOnsia ili un jioetna di PoHidippo.
^) Non è vero che sia ijaestione vuota di senso chiedere. « se presente alta festa e rivolto agli
astanti, Callimaco abtna raffigurato eè stesso ovvero nn araldo del tempo » {p. 260); perchè essa si-
gnitica domandare in che misura la forma letteraria degli inni callìmachei imiti i riti del culto ; che
gli inni siano composti per la lettura, non mi era ignoto, come anche il Rostagni sa, — f'he KpiJTSJ
àsi '^JeuOTCtt, dell' inno a Zeus si rivolga piuttosto contro uno scrittore cretese che non contro Eve-
maro (p. 276), credo anch' io, tua io penserei piuttosto allo pseudo-Epimenide che a Dosiada: di ciò
forse, altrove.
Recensioni 95
Le orazioni di Lisia tradotte e commentate da Natalk Viankm.o. 'l'orino, Bocca,
1914, p. viii-518, L. 10.
Non un semplice cenuo ora, ma un'attenta dinamina a sno tempo avrebbe me-
ritato su queste colonne il bel volume del Vianello. frutto di studi indubbiamente
luni;hi ed amorosi.
Già infatti sin dal primo apparire del libro la critica rilevò una delle mag-
giori difficoltà dovute incontrare dall' autore, «luetla di una buona preparazione
({iuridica, per la quale è necessario, coni' è noto, ricorrere priucipalmente ad opere
straniere, dove peraltro non riesce sempre facile trovar la risposta ad un «luesito
particolare. Dire che il V. ha superato questa difficoltà non è dire abbastanza ;
Insogna aggiungere ch'egli, propostosi poi, dopo aver percorsa l'aspra via, di ren-
derla piana ed agevole al lettore, è riuscito ottimamente nel suo intento, come
ben si può giudicare osservando il piano generale dell'opera.
L' Introduzione si apre con « L'uà pagina di storia greca >, con la quale, dice
l'autore, «mi sono proposto di evitare continue ripetizioni nel corso dell'opera, e
di portar qualche luce sui fatti a cui allude l'oratore». Vero è che queste 55 pa-
gine formano un quadro ben disegnato e vivamente colorito di quel torbido pe-
riodo ateniese che vii a un dipresso dalla morte di Pericle alla vittoria di Trasibulo,
e sono particolarmente notevoli per lo studio delle varie e complicate costituzioni
che si succedettero nella città. Al termine di questo capitolo, giudicando della
democrazia ateniese, l'autore prende una posizione media fra il Beloch e il Grote,
sicché, pur non condividendo l'esagerata ammirazione di questo, fa osservare tut-
tavia, per eseiiipio, che fu possibile nella democrazia ateniese un'opposizione oli-
garchica bene organizzata, ciò che non accadde nella Repubblica tìorentina, dove,
secondo la parola del Machiavelli, « vincendo il popolo, i nobili privi dei magi-
strati rimanevano ». — Entro questa cornice storica il V. inquadra, nel seguente
capitoletto « Lisia logografo », la figura del nostro avvocato e s' intrattiene snlle
sue orazioni, rilevandone le qualità caratteristiche ed i pregi. Ma poiché le scrit-
ture di Lisia sono, coni' è naturale, strettamente legate alla storia del diritto greco,
il V. affronta nel terzo capitolo dell' Introduzione il tema « Diritto attico e am-
ministrazione della giustizia in Atene ». Qui sulla scorta di numerose opere quasi
tntte straniere e recenti, egli ci dà una chiara informazione del diritto pubblico e
])rivato in Atene ai tempi di Lisia, mostrandoci altresì qual diversa concezione
ebbero sempre i Greci dell'uno e dell'altro, e istituendo raffronti anche originali
fra il diritto greco e il romano.
Tale l' Introduzione. Ora, poiché ad essa si riallacciano 1 proemi che prece-
dono i vari gruppi di orazioni, nei quali l'autore si sofferma sn punti speciali o
controversi di diritto, non è chi non veda come il lettore anche meno filologo trovi
innanzi a sé sgombra e facile la via per giungere ad intender perfettamente le
orazioni.
Dovremmo ora dire della traduzione del V. ; ma, non essendo nostro assunto
studiarla da vicino in relazione alla tradizione manoscritta ed all'esegesi anteriore,
ci limiteremo a ripetere ciò che la critica ha concordemente affermato, cioè che il
V., trovandosi dinanzi ad un testo in condizioni deplorevoli, ha avuto il merito
di mostrarsi prudente, alieno dalle congetture e in generale dal mntare dove l'er-
rore non fosse dubbio, e che, infine, ha saputo presentarci in una vest* degna
questa bella prosa lisiana cosi schiettamente attica.
W6 Becensiani
Il libro duixjue del \'iiiiiell(>, del quale era doveroso un ceuuu »\\ queste ci>-
lonne, rappresenta uu ben notevole contribnto agli studi Bull' oratoria greca e si
raccomanda da sé a filologi e non filologi.
UaKTARO GINK.VKI-B|,A8I.
HTTI DELLA SOeiETÀ
SUPPLEMENTO ALL'ELENCO DEI SOCI
A. Alteriicca prof. Arnaldo, Milano A. Scita Antonio, Colognola ai Colli
» Cerutti prof. Giannantonio, » Milano
» Craici dr. Vincenzo, » » Solmi prof. Arrigo »
» Savj-Lopez prof. Paolo » » Stella Maranca Filippo »
COMITATO MILANESE.
Nella adunanza generale del 20 febbraio u. s. fu eletto, con voto nuanime, a
Presidente della Sezione, il prof. Carlo Pascal, della R. Università di Pavia.
LIBRI RICEVUTI IN DONO
A. Beltkami. Sulla fortuna del giambo. Considerazioni. Milano, Tip. Roniitelli i-
C. 1915, in-8, p. 36.
M. LsNCHANTiN DK GuBKRNATis. Ennio. Saggio critico. Torino, Bocca, 1915, iu-lU,
p. viii-118. L. 3.
DiONis Chrysostomi. Oratioues post L. Dindorfium edidit Gly db Bude. Voi. I,
Teubner, 1916, in-16, p. xii-431 (Bilil. scriptorum graec. et roraan. Teub-
neriana).
•Sofocle. Filotiete, con note di E. De Makchi, s. a. (1915), iu-16, p. xiv-15.">.
L. 2. (Bibliot. scolastica di scrittori greci, n. 24, Ditta Paravia).
1\ Bkrnini. Sludi eul Mimo. Pisa, Tip. Nistri, 1915, in-8, p. 160. (Estr. dagli
Annali della R. Scuola Norni. Snp. di Pisa, voi. XXVII).
T. Livio. Il libro XXIII delle Storie commentato da U. Moricca. Torino, Loe-
scher, 1915, in-16, p. xxili-176. h. 2,40.
F. BuRR Marsh. Some phases of the probtem of provincial administration under the
Roman republie (repr. from the Annnal Report of tlie Auierican Historical As-
sociation, I, p. 111-125). Washington, 1915.
M. Lknchantin df, Gubkrnatis. Il nuovo storico di Sidone e la dinaotia degli Or-
tagoridi. (Estr. dagli Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, voi. LI.
p. 290-30.5).
iJ. Pack. Aigeua. Nota. (Estr. dai Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, voi. XXI\',
p. 46.5-481).
P. E. Pavoi.i.N'I, Direttore. — Giu8F,ppf, Santini, Gerente reaponsabiU.
:i7.'<ni6 - l'irenze. Tip. Enrico Ariani. Via Gliibellìna, 51.53.
Anno XIX.
Maggio-Giugno 1916.
N. 209-210
ATENE E ROMA
BULLKTTINO DELLA SOCIETÀ ITALIANA
PER LA DIFFUSIONE E L'INCORAGGIAMENTO DEGLI STUDI CLASSICI
Sede centrale: FIRENZE, Piazza S. Marco 2,
Direzione del Bullettino
Fireme — 2, Piazza S. Marco
Ablionaiiirnto annuale.
Un fascicolo separato .
L. 8-
. . 1
Amministrazione
Viale Prìncipe Eugenio 29, Firenze
FLORO E IL CERTAME CAPITOLINO
« Domiziano istituì anche, in onore di Giove capitolino, un triplice
certame quinquennale: musico, equestre, ginnico, con un numero di co-
rone alquanto maggiore che non sia ora costume.... Presiedette egli al
certame calzato di coturni e avvolto in una toga purpurea alla foggia
greca, adorno 11 capo di una corona d' oro con l' effigie di Minerva ;
l'assistevano il sacerdote di Giove e il collegio dei sacerdoti della
famiglia Flavia, vestiti in ugual modo, se non che nelle corone loro
v' era anche l'effigie di lui » *). Risorgeva così per opera del ' calvo
Nerone ', in una società che con quella di Nerone ha tanta analogia
di costumi e di tendenze, la tradizione di quei certami di rito greco
che questi aveva trasportati e resi popolari in Roma prima nei Ju-
venalia e poi, con più solennità, nei Neronia, a ostentazione della sua
bravura di poeta e citaredo, di istrione e d'auriga; risorgeva con
pompa di gran lunga maggiore, che le doveva assicurare una vi-
talità che non si spense se non col cadere dell' impero. Anche qui
imi)ortanza speciale ebbe certo il muHÌcum certamen, la gara di
musica e poesia; onde a contendersi la corona di quercia che l'im-
peratore di sua mano porgeva al vincitore traevano a gara uomini il-
lustri per altre vittorie, o giovani o addirittura adolescenti ricchi d'in-
gegno e di speranze a cui la vittoria avrebbe assicurata d'un tratto
la gloria ; né temevano ostacoli di terre o mari. Un tal Diodoro ab-
') SvETONio, Domit. 4. Chi desiderasse piìi particolareggiate notizie sui cer-
tami capitolini vegga la classica opera del Frikdlandku, DarslelluHyen aus der Sit-
tengeschichte Eoma II*, p. 485 sgg.
Atene e Roma. 1
98 Camillo torelli
bandona la lontana Alessandria per concorrere alla gara dell' a. 94,
e solo in grazia di un poco casto voto — di cui lasceremo la respon-
sabilità a Marziale IX, 40 — della sua fanciulla riesce a superare
una terribile tempesta. E voti e sacrifizi si facevano a R<nna, nel-
l'ansia che si diffondeva in ogni classe all'avvicinarsi della gara. Dna
matrona di alto lignaggio di cui ci narra Giovenale VI, .38.") sgg.
sacrificava a Giunone e a Vesta per sapere se la quercia capitolina
sarebbe toccata a Pollione citaredo. ' Avrebbe ella potuto far di più
per il marito malato ? per un figlioletto cbe destasse preoccupazione
nei medici ? Ella stette avanti all' ara, uè arrossì di velare il capo
per un citaredo ; e sopportò di ripetere le formule cbe le venivano
suggerite, e impallidì d'ansia sulle viscere dell'agnella sacrificata '.
Pari all'ansia dell'attesa, pari al clamore del trionfo, doveva essere,
per chi avesse sicura coscienza del proprio valore, il colpo della ca-
duta. E se anche non paia ammissibile che Stazio abbia abbandonato
Roma per il rammarico della sconfitta sofferta nel certame dell'a. 90 '),
che gettava un' ombra sulla splendida vittoria riportata pochi mesi
prima nella gara Albana — istituita anch'essa, e annualmente cele-
brata da Domiziano in onore di Minerva, la dea patrona della casa
Flavia — , certo è che alla sconfitta egli non seppe rassegnarsi mai.
Anima candida in petto di poeta forzatamente cortigiano, egli chiama
a testimoni del suo dolore, a cui il ricordo dei passati trionfi sembra
dare un risalto crudele, coloro con cui egli si raccoglie a conversare
nell' intimità dei suoi sentimenti: la moglie teneramente diletta, l'ombra
del padre da cui era stato sorretto nei primi esperimenti di poesia. Ed a
questo rammenta la jirima corona guadagnata, lui presente, a Napoli,
e la vittoria Albana di cui egli, immaturamente morto, non aveva
potuto gioire : sì, ma neanche aveva visto il figlio sconfitto : e di
quella esalta la partecipazione appassionata alle gioie e ai dolori del
marito. ' Tu, mi stringesti al tuo seno (juando sulle lucide chiome
portavo i doni Albani e m'adornava il sacro oro di Cesare, e baci
anelanti imprimesti al mio serto; tu, quando il Campidoglio fu ne-
gato alla mia lira, quasi vinta tu stessa con me, ti dolevi di Giove
crudele e ingrato ' {Silv., Ili, 5, 28 sgg.) : ingrato, che appunto la
poesia di Stazio trattava le lodi di Giove ; cioè indirettamente, pos-
si am dire, dell'imperatore, che da Giove capitolino riconosceva la
propria salvezza (Tac, Hist. Ili, 44), e di Giove ha presso i poeti
del tempo le lodi e gli attributi.
1) V. Giri, iu Riv. di Filologia, 35 (1897) p. 446 sgg.
Floro e il certame capitolino 99
Troppo facile è sorridere della natura querula del poeta. Ma
accenti simili di rammarico risuonano, dopo parecchi anni dalla scon-
fitta giunta improvvisa quando certa pareva la vittoria, sulle labbra
d' un poeta eh' era venuto fin dall'Africa, chiamato da un clamore di
fautori, per partecipare anch' egli, come credo, all' agone capitolino
dell' a. 90. Lo racconta egli stesso, in una curiosa prefazione — pub-
blicata solo nell'a. 1842 di su un codice di Bruxelles — a una decla-
mazione retorica sul tema ' Vergilius orator an poeta '. Mentre stanco
dalla veglia — così narra — si riposava in un tempio di Tarragona,
vide farglisi incontro un gruppo di persone che, tornando da Koma
' ab urbis spectaculo ' verso la Spagna Betica, erano stati dal li-
beccio costretti ad approdare a Tarragona. Uno di essi, che crede
d' aver visto altra volta Floro, gli chiede chi sia. E Floro : ' Hic,
inquam, Florum vides, fortasse et audieris, si tamen in ilio orbis ter-
rarum conciliabulo sub Domitiano principe certamini nostro adfuisti '.
Ft Baeticus ' Tune es ', inquit ' ex Africa quem summo consensu
poposcimus ? Invito quidem Caesare et resistente, non quod tibi puero
inviderei, sed ne Africa coronam magni lovis attiugeret '. Quae cum
videret verecunde agnoscentem, in amplexum effunditur, et ' ama '
inquit ' fautorem tuum '. E gli domanda che mai faccia a Tarra-
gona : perchè non si reca nella Betica ì perchè non torna a Roma
' ubi versus tui a lectoribus concinuntur et in foro omni clarissi-
mus ille de Dacia triumphus exsultat ? Potesne cum hoc singu-
lari ingeuio tantaque natura provincialem latebram pati ? Nihil te ca-
ritas urbis, nihil ille te < Victor > gentium populus, nihil senatus
movet '? Nihil denique lux et fulgor felicis imperi, qui in se rapit
atque convertit omnium oculos hominum ac deorura ? ' Floro non sa
quasi che rispondere, anch'egli trova ciò strano, ma che non gli si
richiami la ferita d'un tempo ! ' Quod ad me pertinet, ex ilio die
cuius tu mihi testis es, postquam ereptam manibus et capiti
coronam meo vidi, tota mens, totus animus resiliit atque abhorruit
ab illa civitate, adeoque sum percussus et consternatus ilio dolore,
ut patriae quoque meae oblitus et parentum carissimorum similis fu-
renti huc et illuc vager per diversa terrarum '. E, su domanda del-
l'interlocutore, gli narra i suoi viaggi: ha visitato la Sicilia, Creta,
le Oicladi, Rodi e la costa d' Egitto ; poi di nuovo l' Italia, poi la Gallia,
e di lì i Pirenei e la Spagna : a Tarragona si trova da cinque anni,
e ci si trova bene : illustre ne è l' origine, buona e mite la popola-
zione. Ma, domanda il Betico, come vive? o il padre dall'Africa lo
rifornisce di danaro ? Xo : Floro esercita la professione di maestro di
100 Camillo Morelli
scuola: e di questa professione, fra lo sdegno e lo stupore dell'amico,
tesse l'elogio. — Qui disgraziatamente il testo si tronca; ma è facile
supporre che indi s'aprisse il varco a discorrere di un argomento tipi-
camente scolastico, come l' oziosissima questione ' se Virgilio sia
piuttosto oratore che poeta '. E possiamo anche dire che Floro ac-
cettò l' invito dell' amico, e si stabilì poi a Eoma, aprendovi forse
una scuola di retorica ').
Poiché chi sia questo Floro possiamo con sufficiente sicurezza
stabilire : è il retore che ci lasciò un' epitome di Tito Livio che i
nostri padri ebbero testo di scuola, è il poeta che scese in tenzone
scherzosa con l'imperatore Adriano. Sia lecito aggiungere, agli ar-
gomenti assai più validi da altri addotti, anche questo : che di co-
stui varie poesie ci sono conservate nell'Antologia salmasiana, di cui
è noto il colore spiccatamente africano, e che africano è il nostro.
Contro tali argomenti poco valore è da assegnare a una leggiera di-
screpanza dei nomi : lulius Florus nel cod. Bamb. (ma L. Anueus
Florus nel cod. Naz.) della storia; P. Annius Florus nel Verg. or.
<in poeta. I prenomi P. e L. vengono spesso scambiati ; e lulius Flo-
rus sarà derivato, dal ricordo di quel lulius Florus che fu amico
d'Orazio, come i)ensa lo Schanz, o fors' anche da confusione con l'omo-
nimo oratore ' in eloquentia Galliarum princeps ', di cui parla Quin-
tiliano X, 3, 13. Un caso perfettamente analogo abbiamo nell'epiteto
* Surculus ' che i codici più recenti aftìbbiano a Stazio per confusione
con Statius Ursulus retore tolosano (onde lo Stazio tolosano di Dante)
menzionato da S. Girolamo De vir. ili. a. 2073 = 57 p. Chr.
Floro è dunque un puer : come l'undicenne L. Sulpicius Maxi-
mus, uno dei 52 concorrenti al premio di poesia greca nel certame
dell' a. 94, come il tredicenne L. Valerius Pudens che fu coronato a
unanimità di voti nel concorso di poesia latina dell' a. 106 ; ma non
tanto enfant prodige quanto costoro, se subito dopo la sconfitta potè
mettersi a viaggiare senza che il padre lo sovvenisse. Avrà dunque
avuto, poniamo, poco meno di vent'anni. Da allora del tempo è pas-
sato : i cinque anni di Tarragona, e il tempo certo non breve richiesto
dai molti viaggi : ma non converrà esagerare nel computo, se il Be-
tico, sia pure per mibilum, riconosce in lui i lineamenti del fanciullo
Floro. Il fulgor felicis imperi fa dunque pensare, piuttosto che al
breve impero di Nerva (96-98), a quello di Traiano, ricco di glorie
militari (cfr. il < vietor > tot gentium populus, se pure non sia frase
') V. HiRZEL, Der Dialog, IT, p. 64 sgg.
ì
Floro e il certame capitolino 101
fatta); e che siamo agli inizi dell'impero può dediirsi, mi sembra,
anche dalle parole ' in se rapii atqiie convertit omnium ocnlos ho-
minuni ac decrum ', dove s'aspetterebbe altrimenti piuttosto un de-
tinet.
La prova evidente, a dir vero, si credeva di possederla nella men-
zione del dacicun triumphvs : il trionfo, si pensava, celebrato da Traiano
sui Daci nell'a. 102. Era sfuggita un'osservazione del Friedliinder,
[op. tìit., p. ()43), che ammetteva la possibilità che il carme di Floro
fosse stato scritto a glorificazione del trionfo dacico di Domiziano
dell' a. 89. Il che è per me sicuro. Certo non bisognerà dare ecces-
sivo peso all'aborrimento di Traiano per quanto sapesse di panegirico,
su cui insiste Plinio il giovane, accorto panegirista egli stesso : Pa-
iicg. 54 ' Tu procul a tui cultu ludicras artes removisti. Seria ergo te
carmina honorque aeternus annalium, non haec brevis et pudenda
praedicatio colit ; quin etiam tanto maiore consensu in venerationeni
tui theatra ipsa consurgent, quanto magis de te scaenae silebunt ',
dove le scaenae abbracciano anche i ludi come quello capitolino (il
passo citato segue, voluta antitesi, subito dopo la descrizione di
quanto accadeva sotto Domiziano: ' Ecquis iam locus niiserae adula-
tionis manebat ignarus, cum laudes imperatorum ludis etiam et
commissionibus celebrarentur, saltarentur, atque in omne ludibrium
effeminatis vocibus, modis, gestibus frangerentur?) ' Può essere, dico,
che Plinio non vada preso troppo alla lettera ^), per quanto già sotto
Nerva l'aria dovesse esser molto mutata, e l'adulatore Marziale pro-
vasse un'inopinata nostalgia della sua remota Bilbilis. Ma ]a. provin-
cialis latebra di cui parla il Betico non si riferirà certo soltanto alla
vita materiale, ma anche al singvlare ingenium che Floro, in pro-
vincia, non potrebbe mettere in mostra : ora, se il trionfo dacico fosse
quello di Traiano, il carme sarebbe stato scritto in provincia; e se
esso era potuto arrivare sino a Roma, la latebra non sarebbe piìi la-
tebra; nò riuscirebbe facile comprendere come la vita passata e pre-
sente di un poeta i cui versi recentissimi erano così noti potesse es-
sere del tutto ignorata da un ammiratore quale il Betico. Può sembrare,
questa, argomentazione faticosa sopra un'impressione soggettiva. Ma
aggiungo : se il dacicus triumphus fosse quello di Traiano, che senso
') Qualche anno pifi tardi lo stesso Plinio, ep. Vili, 1, 4, è largo d'incorag-
giamenti al poeta Caninio Rufo che vnole scrivere un poema greco sulla guerra
dacica.
102 Camillo Morelli
o cbe fondamento avrebbe l'affermare che il fulgore del nuovo im-
pero non ha attirato a sé gli occhi di Floro?
Bensì è facile comprendere come Floro potesse cantare nel 90
il trionfo dacico di Domiziano. Fresca era l' impressione della vittoria
riportata da Stazio nel marzo di quello stesso anno al certame d'Alba
con una poesia celebrante appunto questo trionfo. L'argomento, in
una gara in cui le lodi del principe erano di rito (si ricordi il passo
di Plinio or citato, e lo si connetta con quelle laudes capitolini lovis
che Quintiliano III, 7, 4 dice perpetua sacri certaminis materia; Anche
nei Neronia, a dir di Tacito, Ann. XVI, 2 si offriva ' oratoribus prae-
cipua materia in laudem principis '), era di per sé un augurio e una
promessa. Naturale che la sconfìtta potesse per ciò apparire a Floro,
come apparve a Stazio, ingiusta; e ch'egli vada cercando delle ra-
gioni che in qualche modo la spieghino. La verità è che Domiziano,
Io guidasse la convinzione o il capriccio, non usava riguardi ad al-
cuno; eppure Stazio vantava titoli panegiristici assai maggiori che
Floro. E all'invito dei fautori di questo Domiziano seppe resistere
cerne quando, al popolo che a una voce chiedeva la riabilitazione del
senatore Palfurio Sura vincitore nella gara d'eloquenza appunto di
un certame capitolino, fece seccamente ordinare il silenzio (Suet.,
Dom. 13).
E si comprende ancora come la vittoriosa campagna di Traiano
contro i Daci potesse richiamar l' attenzione sopra il dacicns trinm-
phus di Floro, che tornava quindi d' attualità, apparendo quasi un
omaggio indiretto a un imperatore che mal tollerava gli elogi smac-
cati. Un indiretto omaggio è fors' anche nel!' inscenatura stessa del
dialogo. Esso ha luogo a Tarragona, di cui sì tessono gli elogi ; V in-
terloculore è un Baeticus, vir pereruditus. Ora si noti che Traiano era
nativo della Betica, che 1' amico suo e consulente letterario Palfurio
Sura era oriundo della Spagna Tarraconese. Con questo l' azione e,
presumibilmente, la composizione del dialogo apparisce fissata con
una certa approssimazione circa l'a. 102, data del primo trionfo da-
cico di Traiano. Che sia questo l' urbis spectaculum da cui tornano
il Betico e i suoi compagni ?
Floro ebbe così anch'egli, nell'anno stesso in cui cadeva il quinto
certame capitolino, il suo trionfo ; e la rivincita gli avrà lenita la
sconfitta e, più amara forse della sconfitta stessa, la gioia maligna
che altri ne aveva provato. Poiché la premura del Betico a procla-
marsi uno dei fautori di Floro, e l'esito stesso del certame, fanno
supporre che un'opposizione non dovesse esser mancata. Questa a me
Floi'o e il certame capitolino 103
par di sorprendere nell'epigramma di nn tal Polliano (Anth. Pai. XI,
128), clie qui rijwrto e mi provo di tradurre.
Eì |ir, xot'P"' <I'?-(Bpe, •(S'ioiiir^'/ SaxxyXos r, Se io non godo, o Floro, potessi io di-
-lO'J; I sì; xù)v aiòv xojxcov TiBv xaxaxsLvo- ventare un dattilo o un altro di code-
(isvcov. sti piedi che tu torturi.
Xa'.pco, VY) xèv xXfjpov ov siixJ./pvja»? èv Godo : te lo giuni per quella felice vo-
a8->.o'.; I (o{ iTspi y^oipBia^ xoù oxsiyavou tazione che tu conseguisti nelle gare
(ispiSos. come (se tu avessi gareggiato) per
la parte porcina della corona.
'ì'oifàp *àpast, «tXùpe, xat sù8"j|ìo; nàXi Perciò fatti coraggio, o Floro, e tenta
vivou- I oOxo) vix^axt x-/l BóXi^ov Siivaoai. un'altra volta : a questo modo tu puoi
sperare di vincere anclie nella lunga
corsa.
rolliano La nome romano, come Floro ; possiara dunque supporre
che vivesse a Roma. È posteriore a Lucillio, 1' epigrammista famoso
dell' età neroniana, cL' egli imita (cfr. A. P. XI, 130-132). Altri dati
biografici non ci sono forniti dai cinque epigrammi che l' antologia
Palatina ci conserva di lui. I Polliani di cui abbiamo menzione si
contan sulle dita : ma è notevole che i due in cui possiamo sospet
tare un'attività o una attitudine letteraria cadono appunto in questa
età. L'uno è il giovane marito a cui Plutarco dedicò i suol coniu-
galla praecepta : ed è giovane di età matura alla filosofìa (e. 48), che
deve dividere con la sposa ' i frutti che le Muse producono e lar-
giscono a coloro che tengono in gran conto la dottrina e la filosofia '
(e. 50 1: l'altro ci è noto da un epigramma di Ammiano, poeta greco
imitatore anch'esso di Lucillio (cfr. A. P., XI, 98 (attribuito però an-
che a Nicarco), -v 308; 157 -v 142), che visse in questo torno di tempo ').
' Chi ha ucciso la madre, chi il padre, chi il fratello : Polliano, primo
dopo Edipo, tutti e tre ' (A. P., XI, 228). Che si tratti qui di un
volgare omicida? Può essere; ma più arguto apparirebbe un friz/.o
contro un poeta, argomento frequentissimo degli epigrammi irrisorii.
Polliano avrebbe commesso una così orribile strage.... in qualche sua
poesia; e l'avrebbe commessa pressappoco come l'oraziano turgidus
I
') Cfr. Jacobs, Anth. graeoa, XIII (Lipsiae a. 1814) p. 840 ; Reitzenstein, iu
Paiily-Wiss., 1, p. 1845. Come Lucillio, Ammiano dovette vivere, almeno per del
tempo, a Roma, se il Fiacco retore ch'egli canzona (A. P., XI, 146) è lo stesso
schernito da Lucillio {ib. 148) ; ma forse si tratta dì pura e semplice imitazione.
Parecchie delle sue persone hanno nome romano. Un suo epigramma (ib. 226) fu
tradotto da Marziale, o viceversa : cosi vicini di tempo e stretti dal vincolo del-
l'imitazione, e verosimile che i due poeti fossero anche vicini di luogo.
104 Camillo Morelli
AlpinuH iugulai duni Memnona (si confronti ancbe l'analogo FuriuK
hibernas eana nive conspuet Alpex '). Una mancanza di buon gusto
sul genere di quella rimproveratagli da Ammiano non ci stupirebbe
troppo in Polliano : l'epigramma contro Floro, fiacco anclie nella ca-
scante andatura spondaica degli esametri a cesura uniforme (se pure non
si debba veder qui scimmiottato, come volle taluno, il ritmo monotono^
dei versi di Floro), sa piìi di fiele che di sale; la cultura del poeta
è così malsicura cbe in un altro epigramma (^1. P., XVI, 150) arriva
a confondere Polignoto con Policleto ; egli, cbe se la prende con un
cattivo poeta, cbe dice ispirato dalle Erinni (XI, 127 ; cfr. ancbe 130),^
meriterebbe un'eguale critica. E, cane cbe morde, gli altri cani lo mor-
dono. Vorremo ora pensare cbe l'amico di Plutarco, il canzonato da
Ammiano, il canzonatore di Floro, si riducano a una sola persona ?
L'ipotesi parrà troppo audace: noi ci contenteremo di ritener vero-
simile die quest' ultimo si possa identificare con l' uno o 1' altro dei
primi due. A ogni modo, poiché nessun altro Floro conosciamo cbe
abbia preso parte a una gara di poesia, l' identificazione del Floro di
Polliano con l'autore del daeicus triumphtis apparisce di per sé assai
probabile. Vorrei ancbe notare, se non potesse parere superflua sot-
tigliezza, clie Polliano, parlando dei rituii usati da Floro, stabilisce
una distinzione fra il dattilo — il piede epico per eccellenza — e
gli altri piedi ; e il Betico distingue pure dai versus cbe a lectoribus
concinuntur, i quali saranno stati di vario metro, il daeicus triumphus,
d'argomento epico e quindi quasi certamente scritto in esametri dat-
tilici. Riceve così inaspettato, e sarei per dire immeritato suffragio
un' antica congettura del Fabricius ^), la quale mancava naturalmente
di base quando ancora non si conoscevano le circostanze rivelateci
dal Verg. or. an poeta. E un po' più cbiaro risulta il senso dell'epi-
gramma, uno dei piìi tormentati dai commentatori ^). Quasi tutti in-
tendevano cbe Floro avesse in eft'etto riportata la vittoria : unica ec-
cezione il Grozio, die, guardingo, parafrasa i vv. 3-4 piìi che non li
traduca : ' ni tibi de tali certamine gratulor, etsi Contigerit meritis
nulla corona tuis '. In verità il consiglio ' fatti coraggio ' sembra
') In altro senso dice Lucillio (ib. 131) cbe né il diinvio né Fetonte uccisero
mai tanti uomini quanti il poeta Potamene e il cliirurgo Ermogene. Cfr. anche Am-
miano, ib. 188.
') Bibl. Graeoa, voi. IV (Hamburgi 1795) p. 492.
') V. i vari tentativi d'interpretazione raccolti nell'ediz. del DObner, nota a
XI, 128.
Floro e il certame ciipitoliiio 105
uu' ironica consolazione per la sconfitta. Come piena di crudele ironia
è la gioia che aft'erma d'aver provato Polliano : a intender la quale
giova ricordare che Floro, appoggiato da' suoi fautori, affermava ch'egli
aveva in realtà vinto, e che solo per ingiustizia gli era stata erepta
capiti corona. E Floro gli presenta le sue congratulazioni : ' È una
bella vittoria davvero la tua (c'è veramente un ma: che tu.... non
l'hai riportata) : ma ad ogni modo, se questo si chiama vincere, fatti
coraggio e tenta ancora: con questo sistema, potrai vincere quante
gare vuoi : anche la più difficile di tutte, la corsa lunga. Te l'auguro:
chi si contenta.... '
Un punto rimane pur troppo oscuro: ed è forse la chiave del-
l'epigramma. Come s' ha da intendere quella /«s/tee votazione f In senso
ironico? Allora potrebb' essere che i giudici, piegandosi al volere di
Domiziano, avessero negato il loro voto a Floro. In senso proprio ?
Allora i giudici avrebbero sì dato voto favorevole, ma Domiziano,
arbitro supremo, avrebbe posto il suo veto. Il dubbio aggiunge na-
turalmente nuova ombra all' oscuri ssimo verso seguente, dove la stessa
sintassi è incerta. Nella interpretazione del Diibner ' sicut de por-
(icllaria coronae tuae parte ' si ammetterebbe una costruzione yai'pu)
Tiept Ttvo; di cui non trovo esempio, ed oscuro rimane il sicut. Peggio
che contorta è la costruzione proposta dal Boissonade, Ttepl axe^àvou
WS Tiepl •/fiipe'.xq |i£p:'Soi;. Come io costruisca apparirà dalla mia ver-
sione. Ma come spiegare la ' parte porcina della corona ' ? Ci fu chi
accolse la lezione di Plauude ') -/rfiziocc, : ma si potrebbe capire un
' godo della vedova corona ' (cioè della corona che non ti è toccata),
non ' della vedova parte della corona ' ; e s' ammetterebbe sempre il
costrutto x«''p<»> Ttept -ctvo;. Sta di fatto che il cod. Palatino — l'au-
torità massima — legge, senza ombra di rasura, -/apsia;. Si potrebbe
pensare che, come il y^dtpoq (porcellino) veniva immolato nei sacrifici
di minore importanza, cosi Floro avesse dovuto contentarsi della parte
inferiore, cioè del secondo posto (cum honore discessit dice l'epigrafe
del fanciullo Q. Sulpicio Massimo [Dessau, Inscr. lai. sci. 5177] : c'era
dunque una specie di graduatoria) ; oppure, poiché la corona era di
quercia, che a Floro non fosse toccata di essa che la parte riserbata
ai porci: ad altri le fronde, a lui (metaforicamente, s'intende).... le
^) Che Planude così leggesse arguisco dall'ediz. principe dell' antologia pla-
iiudea curata dal Lascaris (Firenze 1494). II desiderio di assicurarmi della lezione
dell'autografo di Plannde (Marciano 481) non potrà essere esandito, come mi co-
munica il dr. Coggiola bibliotecario della Marciana, che a guerra finita.
106 Camillo Morelli - Floro e il certame capitolino
ghiande; o si potrebbe infine veder qui un'allusione, chi sa come
applicata, al proverbio •^ bc, xyjv 'AO-y|Vàv (confronta il latino sus Mi'
nervam), che Teocrito V, 23, spiega ò; tiox' 'AO-Tjvaiav Iptv f/ptae: Floro
avrebbe avuto nel certame la stessa sorte cbe toccò al porco sceso
in gara con Atena. ]\Ia son tutti tentativi in cui mi riesce d'ammi-
rare più la mia abnegazione che l' acume ; né so se possa a])parire
comoda soluzione il supporre che Polliano voglia accennare a qualche
circostanza speciale, a noi ignota, della gara. Altri vedrà; e, novello
Edipo, saprà forse, come m'auguro, trovar facile spiegazione a questa
sfinge, su cui gioverà almeno aver richiamato l' attenzione. E non
sarà inutile, a intendere il piccolo pettegolezzo letterario di questi
tempi, aver lumeggiato un po' la figura di codesto generoso Polliano,
cosi pronto a lanciare il suo dardo sul collega — rivale, forse ! —
caduto, così pieno di giusto sdegno contro i cattivi poeti, e così cat-
tivo poeta egli stesso.
Camillo Mokelli.
Oggetti d'arte neoclassica, creduti antichi
Tra i monumenti erratici, dei musei e del commercio antiquario,
accanto alle falsificazioni « arclieologicbe » più o meno abili, quasi
sempre importanti per la storia della nostra disciplina, vi sono la-
vori originali, della rinascita o del secolo scorso, cbe presentano
spontaneamente alcuni caratteri artistici affini a quelli antichi, tanto
affini da far dubitare della loro origine. Ciò diventa sempre i)iìi dif-
ficile, con il graduale sviluppo degli studi che, raggruppando i ma-
nufatti dell'antichità, ci fa conoscere lo stile e la tecnica di ciascuna
serie e i rapporti che intercedono tra i vari gruppi; ma poiché due
casi recenti mostrano come, tuttora, archeologi di valore riconosciuto
possono esser tratti in inganno da quelle produzioni che rappresen-
tano l'applicazione della nascente archeologia all'arte industriale,
credo opportuno, pigliando occasione da questi, di dare un saggio
del metodo da seguire i)er difenderci, anche da questo lato, contro
l'insidia di speculatori poco scrupolosi. Mentre per le opere di fal-
sari moderni, la questione è oggimai principalmente nell'esame delle
singolarità tecniche ') e delle modificazioni chimiche e fisiche, recate
agli oggetti da agenti esterni, qui è soltanto l'analisi stilistica che
può mettere in evidenza i caratteri differenziali, aiutandoci cosi in-
direttamente a meglio conoscere le opere antiche affini, e illustran-
doci fatti recenti che non sono per noi senza importanza.
I.
Kilievo cilindrico in terra cotta, fig. 1; Museo Nazionale Romano,
esposto nel terzo scomparto dell' « Antiquarium » {Bull, d'arte del
Ministero d. P. I. VII, 1913 p. 167-169, fig. 12. Alinari 30181)
— altezza cm. 67, diametro alla bocca ca. era. 59 — apertura supe-
riore 32,5 — profondità delle costolature interne, nella parte supe-
') Vedi FURTWANGLKR, Aeuere FaUchuìKjen.
108
Carlo AUnssati
rioré 8,5 — spessore della parete ca. 1,5 — altezza del rilievo ca.
cm. 5 — altezza delle figure 57 (misurate alla punta delle ali). Ac-
quistato come proveniente da Palestrina '■) e pubblicato da E. Pari-
beni come puteale antico.
iloraa. Museo delle Terme.
Le dimensioni, specialmente l'esiguo diametro della bocca e il
debole spessore, la forma esattamente cilindrica e la collocazione
i) Nell'inverno 1911-12 fu offerto al direttore del museo Gregoriano Etrusco,
da certo Signor S. A. Gillt, maestro elementare, che gliene mostrò i frammenti
in un locale semibuio. 11 prof. Nooara, stante anche la mancanza di fondi, per
l'acquisto da parte del Vaticano, non volle nèppur esaminarlo e consigliò al Gilli
di rivolgersi presso la Direzione del Museo delle Terme.
Oggetti d' nite iicochinsica^ creduti antichi
109
delle figure, escludono che si tratti di un puteale. Quelli antichi di
terracotta ') che conosciamo, sono per lo piìi conici o sempre raffor-
zati alla base da una parte espansa, e, quando hanno una decora-
zione, questa è posta in un fregio assai in alto sotto la bocca; non
dove i passanti usano poggiarsi co' piedi. Si tratta, con ogni proba-
bilità, di un grande vaso da giardino o da terrazza, oppure di un
pezzo di stufa cilindrica, come
<'e ne rimangono appunto della
fine del sec. XVIIl o del prin-
cipio del XIX ^). La forma si
adatta ai due usi e i terra-
cotta! ne avranno tratto, come
sogliono, tutto l'utile possibile.
Senza dubbio, però, il modello
era stato eseguito come parte
intermedia d'una struttura ;
ce ne persuadono la sporgenza
da incassare, di 3 cm., sotto
il fregio, e la fascia rustica
che limita l'apertura superiore,
la quale con la sporgenza del
listello, forma una incassatura
di 12 mm. circa, rafforzata dalle
nervature interne, che hanno
la funzione di sostenere un
pezzo aggiunto.
Chi ha qualche famiglia
ritàconl'arte del primo Impero,
ne coglie qui i caratteri a prima vista. Benché il Paribeni non accenni
ad alcun termine cronologico, è evidente che pone il rilievo tra le
riproduzioni fittili di opere neoattiche intorno all'ultimo secolo avanti
l'era nostra, le cosiddette « terrecotte Campana » % uè sapremmo tro-
i-ig.
Da Percicr e Fontaine.
') Cfr. ad es. i due di Pompei : H. voN Rohdkn, Die antiken Terracotten I,
tav. XXVII, j>. 40 e 42 ; Guida Bnesch nti. 757 e 760 — per la modanatura degli
esemplari marmorei: F. Hauser, 2ieuattischen Reliefs, p. 11.5.
') Cfr. iiu» stile Louis XVI, in forma di ara rotonda; Lehnkrt, Geìchiehte
de» Kunatgewerhes, II, p. 273, fig. 191 — • Il nostro pezzo corrisponde alla parte, so-
vrapposta al fornello, per cui passa il tubo di scarico. L' interno è assai anne-
rito, come per fuliggine.
') Cfr. Dki.brCck, 1. e.
110 Carlo Albizeati
vare affinità, e reminiscenze con alcun'altra serie di monumenti. E ve-
ramente datano dal tempo della scuola di Canova le migliori imita-
zioni di rilievi neoattici '). Qui però le reminiscenze sono poche e con-
fuse, le singolarità del costume e della decorazione, inconcepibili per
un artefice antico.
Nella composizione del fregio, con le cinque figure che sembrano
darsi la mano, v' è forse la reminiscenza di un Hekataion *) come pure
nella profonda frastagliatura del chitone, che ricorda lontanamente
il drappeggio arcaistico a coda di rondine, spesso adoperata dagli
intagliatori per i mobili « Empire » ^). A partire dal IV sec. a.
Or. *) tutti i compositori di decorazioni d'arte classica o classicheg-
giante hanno sentito l'efficacia stilistica della simmetria arcaica
che subordina la figura all' insieme, trasformandola nel ritmo d' un
motivo ornamentale. Queste figure femminili poste di fronte con
le mani abbassate parallele alle falde del drappeggio, sono già
usate in Apulia per decorazioni architettoniche verso la metà del
IV secolo "). Le ritroviamo poi nelle terrecotte « Campana » e in pit-
M Cfr. Hauser, 1. e, p. 81.
^) Cfr. Hauser, 1. e, p. 42. Esempi : S. Reinach, Eéperloire dts reliefs, II,
20, 150, — 301, 6.
') Lehnkrt, 1. e, II, p. 352 tìg. 273 — quattro cariatidi di libreria in forma
di erme drappeggiate.
*) Cfr. FuRTVVANQLKK, Abhandl. d. koii. bayer. Akad. e). I XX 3, p. 533 sgg.
L'opinione ivi esposta che l'arcaismo abbia carattere religioso, meschina reazione
contro la vei-a arte sacra dei grandi maestri, è infirmata dal fatto che nessnn mo-
numento sacro importante appartiene a questo indirizzo. Tracce di arcaismo ne
troviamo già nella pittura vascolare del V sec. di stile bello grandioso, cito il vaso
di Troiloa al Vaticano Helbig^ n. 517 (Museiim Gregor. II, tav. 22, 1) che rappre-
senta lina serie ove il drappeggio arcaico e disposato ai più bei profili polignotei.
Non abbiamo dunque che la ricerca e, in certo modo, l'accentuazione dei ritmi
decorativi stupendamente sviluppati nei motivi del VI secolo. Il fenomeno, arti-
sticamente, ha ben altra portata e ritorna tutte le volte che l'arte greca diventa
fonte di ispirazione per i compositori. (L'attribuzione a Kallimachos della produ-
zione più antica è validamente confutata da Amelung, Helbig' I p. 432 .sg.) Tut •
f altro carattere ha invece la produzione tardiva delle anfore pauatenaiche, posta
in rapporto dallo Hauser (Neuatt. Bel.) con l'arte arcaistica, ove riscontriamo lo
stesso tradizionalismo di « protocollo » che si ritrova ad esempio nella millenna-
ria produzione delle bulle papali o in quella fase lunghissima dello zecchino ve-
neto da Giovanni Dandolo a Francesco I d'Austria.
^) Cfr. il fregio sul basamento dell'edicola funebre sull'anfora ruvese di Niobe,
Heyckhamn, Vatentamml. d. Museo NazUm. zu Neapel, n. 3246. — È Ja stessa ten-
denza che si manifesta nelle opere contemporaneo d' incisori etruschi e latini.
Così ad esempio il fregio di sfingi affrontate con ali terminate a voluta e di medio
r
I
Oggetti tV arte neoclassica, creduti antichi 111
ture architettoniche pompeiane del terzo stile *). Percier e Fontaine,
i capiscuola dello stile Empire, che lavorano direttamente sn motivi
antichi con uno stupendo eclettismo fatto d'ignoranza archeologica
e di gusto squisito, veri eredi in questo degli antichi maestri, pre-
dilessero il motivo della figura alata di fronte per lo piìi con drap-
peggio arcaistico e 1' usarono specialmente a sostenere i festoni nei
loro fregi -). Possiam cogliere la derivazione d' una formella da cas-
setto (tig. 3) da un pannello di cimasa neoattica (fig. 4) e possiamo
veder le figure di Hekate, rialzate con l'aggiunta delle ali, divenute
sostegni d'un candelabro da appendere, e composta in guisa identica
a quella del nostro cilindro di terracotta (tìg. 2) dove il leggero adatta-
mento del motivo con i tirsi sostituiti alle fiaccole ci fa sentire lo stu-
dio diretto delle tavole dei due architetti francesi che fecero testo per
lungo tempo in tutte le scuole di disegno ornamentale. Esempi di
figure allegoriche in rilievo, collocate di fronte intorno ad un fusto ci-
lindrico ne abbiamo pure in quella specie di « coliimna caelata » che
disegnarono gli stessi autori per le decorazioni posticce delle feste
imperiali nel 1804 ').
La foggia del chitonisco, per la collocazione della cintura, che
qui solleva il seno, e per il lungo apoptigma, ci ricorda, alquanto
esagerata, la moda ellenistica *} da cui s' ispirarono i disegnatori di
figurini francesi del primo ottocento. La parte che risponde alla gonna
è tagliata sulle gambe fino a metà della coscia, non già rialzata dal
rimbocco come vuole il Paribeni, mentre le falde sui fianchi toccano
in testa sulla lista Ficoroni, Helbio, Fiihrer' n. 17.52 (ivi la bibliografia più com-
pleta).
') Ad es. Mau, Wandmalerei in Pompei tav. V-VI — il tipo si ritrova iu
Roma anche nell'età degli Antonini ; cfr. gli stucchi della tomba dei Pancratii
sulla via Latina, Gusman, L'art ieeoratif de Rome tav. 4.5 (negli angoli delle spec-
chiature, sulla volta).
') Percier et Fontaine, Becueil de decoraliona d' interieur, Paris 1812, tav. 1,
2, 4 (sopra lesene, ai capi del festoni) — tav. 19 (alternate da cigni nel motivo
della ghirlanda) — mezze figure uscenti da un germoglio d' acanto in un fregio
cilindrico : tripode 33 — zuppiera 34,1 — «samovar» 34,2 — tavolino 39,8 —
Ispirate da pitture pompeiane le mezze figure alate poste come acroterl in una
composizione da parete, che riproduce le caratteristiche del terzo stile cfr. Mau, 1. c,
tav. 7. — Non ho potuto vedere lo studio di Ledoux e Kraft su Percier e Fon-
taine né il libro di Lafond, Le mohilier de la Revolution et de l' Empire.
') Figure di Virtns e Vittorie nella tribuna, per la distribuzione delle aquile ;
FouCHÉ, Pkrcibr et Fontaine, p. 45 da : Sacre et oouronnement de Napoleou, Pa-
ris 1807.
*) Cfr. W. Amelung, in Pauli-Wissowa, Realeneyclopddie III, 2 p. 2321 seg.
112
Vario Albiszati
il suolo terminando a punta ; goffa maniera di accentuare la linea del
motivo arcaistico, che rivela un disegnatore provinciale e tardivo.
Fig. 3 — Ba Percier e Fontaine.
Assurda è l'orlatura a fettuccia sulla piega dell'apoptigma che uni-
sce le coccbe sulla sprilla, dove il chitone dovrebbe essere allacciato
dalla fibula. Riconosciamo
senza fatica la scollatura
rotonda d'un corpetto mo-
derno.
L'acconciatura arieg-
gia un tipo ellenistico,
noto specialmente per al-
^ cuni simulacri di giovani
I ^Ift^Hfttl' *^^^' *^^^ ^^^ ^ ^^^ ^^ ^^'
' - -ÌHHB^^^^K. pqj^ ay Qj. . 1)^ i capelli
divisi sulla fronte s'an-
nodano sopra 1' occipite
con delle ciocche allen-
tate a festone sopra le
orecchie e due grandi ric-
cioli che scendono sul
collo.
La pannocchia del
tirso, una pigna mala
Fig. 4 - Parigi. Mns. del Louvre. mente Stilizzata con un
reticolato a losanghe i)unteggiate, non ha riscontro che in qualche
pittura di vaso italioto, pubblicata, appunto in questa età, su libri ove
1) Ad es. l'Afrodite accoccolata dì Doidal8a8 ; cfr. anche Reinach, Recueil de
téles antiqties tav. 188 e 190. Tipo solito nelle deeoraz. di Pkrcier e Font. : cfr.
le sfìngi, 1. e, tav. 10 o tav. 29 (poltrona ispirata direttamente dalle sedie mar-
moree romane del Museo del Louvre, Gisman, 1. e, tav. 77-78).
Oggetti d' arte iteoclassica, creduti antichi
113
i disegnatori cercavano motivi da copiare '■). Nelle terrecotte di tipo
neoattico v'è solamente, in cima all'asta, il ciuffo d' edera di ben
altro effetto artistico.
La tecnica del modellare è identica nelle buone figure decora-
tive della prima metà del XIX sec, lavorate da artefici che uscivano
tutti dalle medesime scuole ; corretta, ripulita, e, direi quasi, lec-
cata. Mi valgo per il confronto di quattro pezzi della stessa produ-
zione eli' io rinvenni nel magazzino del Museo Gregoriano Etrusco ') :
due frammenti di fregio, un'antefissa,
una testa di Giove (parte di mo-
dello). Anclie queste furon comperate
per antiche, nei primi decenni d'esi-
stenza del Museo, e rimasero a lungo
«sposte. Il n. 327 (pezzo di cami-
netto), con quel goffo germoglio d'a-
canto che ricorda il giglio araldico,
fu anche pubblicato nel Museum
Gregorianum (1, tav. XXXVII, 1).
L'identità dello stile si stabilisce
agevolmente se guardiamo le forme
dei visi trattate geometricamente in
superflci levigate, con bruschi tra-
passi, che ci richiamano lo stile delle
jCopie romane di sculture greche del
gran secolo e i ritratti imperiali da
Traiano ad Antonino, fonti precipue
della scoltura neoclassica che ne esa-
gerò i difetti. L'occhio tagliato a mandorla, quasi senza spessore, è chiuso
tra due listelli a spigolo vivo che riproducon le palpebre ; una du-
rezza quasi arcaica segna le sporgenze orbitali e il contorno delle
labbra. Identico il trattamento delle capigliature, modellate a masse
ondulate con forte rilievo e ripassate a stecca con linee più brevi,
che ne seguono il contorno e terminate da riccioli arcaizzanti, a chioc-
cioletta. Si confrontino specialmente le ciocche sugli orecchi della
rig. 5. — Milano. BibL Ambrosiana.
1) Pigna del tirso divisa a losanghe punteggiate ; Millin, Peintures de vases
antiques II, 68 (vaso lucano al Louvre) — e sul grande cratere apulo del principio
del IV sec. Gerhard, Apuliaohe Vaaenbilder, tav. XV, Furtw. 3257.
') Cfr. Hklbiq, Fuhrer^, 1, p. 86 « die preziose Ausflihrung der Haare » a pro-
,p08ito del Perseo Vaticano.
Atene e Roma.
114 Carlo Albizzati
testa di Giove e le barbe delle maschere sileniche '). È un preziosi-
smo che diede splendidi effetti in mano al Canova : pensiamo « Amore
e Psiche » di Oadenabbia '). Notevole, rispetto alla cronologia, è il
fregio, per quel punto che s'abbranca alle corna del Capro, arieg-
giante già certi cartoni e « vignettes » dello Schwind ^). I lineamenti
dei visi femminili, di una correttezza un po' convenzionale e il drap-
peggio duro e d'una simmetria quasi eguale, riproducono lo stile
stereotipato della scoltura neoclassica più tarda ; così, quando non
calcarono l'antico, la ripiallarono il Pistrucci, il Galli, il Sola, e an-
che un po' il Tenerani ^).
Nelle « Vittorie » delle decorazioni napoleoniche, possiamo ri-
scontrare anche il trattamento delle ali con le penne divise a piccoli
ciuffi uncinati e modellate in una guisa tutta moderna ''). Sgraziato
alquanto è solamente il nudo delle gambe, specialmente nell'attacco
delle caviglie, che appaiono distorte e nel brutto rigonfiarsi dei pol-
pacci.
Il lavoro è ripassato minuziosamente a stecco, con un ritocco
duro che segna i particolari con degli spigoli vivi, fuorché nel viso
delle figure, e fa un penoso contrasto col delicato rilievo di questi,
un po' sfumato dal calco. Le antiche terrecotte, del periodo a cui
accennammo, sono specialmente caratteristiche per la stanchezza dello
stampo che, facendo sentire l'abbozzo, nulla toglie all'insieme inquanto
alla forza dell'originale, che qui si perde nella cincischiatura me-
diocre delle piccole cose. Questa maniera di lavorare dura ancora,
presso i figurinai napoletani, in quelle riduzioni di statue celebri,
alte circa 20 centimetri, che si vendono per qualche lira.
^) Queste maschere sileniche hanno l' identico carattere di quella del meda-
glione nel fregio della lunetta, Percikr et Font. 1. e, tav. 62.
») Cfr. O. Weigmann, Schwind, tav. 72, 2 — tav. da 143 a 1.52 — tav. 496.
') Da un armadio per libri proveniente da casa Beccaria, ora nella biblioteca
Ambrosiana dì Milano. Debbo la riproduzione alla cortesia del prefetto Mone. Luigi
Gramatìca.
*) FoucHÉ, PuRCiKR et FONTAiNK, p. 52 — (Le vittorie nel fregio della volta)
— Lkhnbrt, 1. e. II, p. 367, (sullo stibolate delle colonne del letto) — Fkkrari,
Lo stucco, tav. 205, 2 — (Soffitto del palazzo reale di Milano) — W H. Wakd,
The arohiteoture of the Renaissance in France, p. 482 tìg. 552 (pilastri ai lati del
camino) — per la forma tozza delle ali, che qui son troppo piccole rispetto alle
figure, cfr. piuttosto i leogrili del candelabro dì bronzo di Beauvallet, Lkhnbrt,
1. e., p. 378, fig. 300.
^) Un esempio notevolmente simile l' abbiamo in questa piccola erma di bronzo
dorato ov'è tal quale anche l'acconciatura, tranne l'aggiunta del nodo ispirato
dall' « Apollo di Belvedere ».
Oggetti d' arte neoclassica, creduti antichi
115
L'unico elemento decorativo, la fascetta con un tìlo di grosse perle
nel mezzo, che chiude il fregio superiormente, ha carattere pretta-
>*1
I
,^»f^:
M«PV^!
i-'l;;.
Fig. 7 — Roma, Vaticano.
mente neoclassico per la sua col-
locazione isolata e per la ma-
niera di segnarne il profilo come
un cordoncino tra due listelli alti
ciascuno la metà di esso.
L'uso di questo motivo, sem-
pre di proporzioni assai minori
e senza questi listelli, fu limita-
tissimo in antico e quasi usato
esclusivamente da orafi e da to-
rcati. Lo troviamo nelle filigrane
già nel VII *) e sulle monete dal
Fig. 8. — Roma, Vaticano.
') Specialmente nei gioielli d'argento di fattura pih robusta fuso in nn sol
pezzo saldato sulle parti laminate. Cfr. Studi e materiali II pag. 123 fig. 100 e
101 (orecchini) e grandi fibule d'argento non edite.
IKi Cario Albiisati
VI sec. a. Cr. in poi *), sull'orlo e sulle anse del vasellame decorato
di bronzo dal VI secolo a tutta l'età ellenistica, che ce ne lasciò
gli esempi migliori sui grandi vasi marmorei di tipo neoattico *) come
consueto ornamento del labbro, ove gli altri motivi affini dell'archi-
tettura, come la vitta e 1' astragalo avrebbero disturbato l'occhio che
richiedeva un ornato piil fine e compatto. In rarissimi casi nell'età
romana sostituisce la vitta sugli spigoli della basetta triangolare ')
e solamente per eccezione in modanature sovraccariche di motivi
fu alternato dall'astragalo e ai diversi tipi del kymation ^). Non
ignoto ai maestri della Rinascita, ebbe gran voga nel primo periodo
dell'arte neoclassica (stile Luigi XVI) specialmente per mobili e ar-
genterie '"); scomparì quasi del tutto dalla scuola dotta dei grandi
decoratori napoleonici °) e lo ritroviamo per lo più in Italia come
motivo autonomo in decorazioni architettoniche. L' esempio migliore
'■) Sopratntto nella monetazione sìceliota ed italiota di modulo largo che co-
mincia relativamente piìi tardi. In Grecia 1' nso ne è assai più scarso. In Atene,
jid esempio, non si riscontra prima della fine del III sec. a. Cr.
') Tipi descritti in Hauser, 1. e, p. 113 segg. — cfr. Gusmas, 1. e, tav. 17-91
— e i vasi romani decorativi 7-64-141 — cinerari 49-87,2.
') Per il tipo cfr. Hauser, 1. e., p. 117.
*) Cfr. le basette Gusman, 1. e. 145, — sotto la gola, rovesciata tagliata a
«trigili, dell'ara tav. 168. Nei profili dell'architrave jonico delle terme di Caraoalla
tav. 176. — Motivo intermedio fra la vitta e il filo di perle è quello del finto
epistilio sopra il fregio del sarcofago 123 (2" sec). Simile per il tipo (perle in-
cassate tra due listelli) al fregio del tempietto funebre nel rilievo degli Haterii,
ove non è se non una incongruenza del rozzo artefice che 1' ha collocato in luogo
dell'ovolo ; sul cippo di Volusius, Gusman, 1. e, tav. 57 (ivi la bibliografia ante-
riore) — sembra fiancheggiare le lesene che sono invece due « gole » poste a mo'
di cornici. Intorno alle specchiature del soffitto nella tomba dei Pancratii sulla
via Latina i globetti non sono che un semplice abbozzo dei kymatia a foglioliue
o ad ovoletti dei tipi piti fini (Stucchi della Farnesina Gusman, tav. 72-73-74 1° sec.
— tombe della via Latina : (l"-2'' sec.) ivi tav. 50, Valerli, (2" sec.) 85-86 Anicii.
^) Ricorderò anzitutto gli stipi del medagliere Vaticano disegnati dal Vala-
DIEK verso il 1783, incisione della R. Calcografia n. 1377 ; cfr. Legrì5lle nella in-
trodnzione storica Pistolksi, Il Vaticano descritto, III, tav. 61 p. 178 a C. Sera-
fini, Monete e bulle plumbee p. XXXVI nota 1. Sono collocate sull'orlo delle « cou-
soles » come nelle grandi mense di bronzo e granito, pure del tempo di Pio VI,
nella sala Sistina della biblioteca : Altri esempi : Lehnbrt, 1. e, Louis XVI, p. 301,
fig. 229 (vaso di porcellana) — 323, 250 (brocchetta d'argento) — 325, 253 (id.)
— 330, 250 (medaglioni di stucco) — 332, 260 (console) — Empire : 388, 311
(vaso di peltro).
*) L'unico esempio nel Becueil di Percibr e Font. tav. 9 ; incassato tra due
listelli, come cornicetta dei medaglioni, nel fregio del camino.
I
Oggetti diarie neoclassica, creduti antichi 117
ci è dato dai rilievi funebri di Canova, ov'è l'unico ornamento per
le cornici del frontone ').
La data del nostro rilievo, appartenente a quella produzione, in
cui appaiono già notevoli gli influssi del romanticismo, si può collocare
all' incirca tra il 1825 e il 1850, tenendo conto che il gusto neoclas-
sico, specialmente nelle terracotte da giardino, mantiene tuttora qual-
che traccia. Per la tecnica e il colore roseo della creta tanto il rilievo
dell' « Antiquarium » quanto i pezzi del Gregoriano sembrano da
attribuirsi ad una stessa ofBeiua, romana o, tntt'al più, napoletana.
Rivendicato all'età sua, questo monumento conserva delle attrat-
tive di classica bellezza e di grazia sapiente. Solamente veri artisti,
arguti assimilatori dello spirito classico, poterono trarre dall'antico
un'ispirazione così fresca e vivace. È rimasta tra noi sopra lo stile
napoleonico una poco giusta opinióne, conflata dai pregiudizi dell'età
romantica goticheggiante, quali espresse, con autorità di caposcuola,
Victor Hugo, nelle prime pagine di N'otre Dame. L'arte del primo
impero, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, palesa, in ogni sorte
di opere, grandiosi caratteri di forza e di originalità, coerenti alla
gesta titanica che la produsse. Da Canova a Ingres, da Pichler e
Manfredini a Bodoni e Didot, da Fontaine e Perder fino alla turba,
anonima di cesellatori e di ebanisti che lavorarono a migliaia le pen-
dole, i vasi, i mobili tanto cari ai nostri bisnonni, è una fioritura
stupenda di ritmi e di motivi, una maestosa rinascita classica eh' è
pur l'ultima grande epoca d'arte collettiva in Europa ').
Chi parla d'accademismo, mostra incapacità di comprenderne lo
spirito e gli intenti. I pedanteschi pasticci neogotici e neogreci, fatti
di calchi male accozzati, nei decenni che seguirono il tramonto del
Grande, ci bastano per vedere di quanto la reazione fu meschina in
confronto.
1) Cfr. V. Malamani, Canova, tev. a p. 110 (stele del Volpato) — 111 (Sonza
Holstein) figg. a p. 179 (Mellerio) — Sulletiino d'arte, VI, p. 1 11, stele di scuola
canoviana, circa del 1820.
') Cfr. FoucHK, 1. e, p. 111. Troppo unilaterale il K. nel voler limitare alla
Francia e quasi ai dne artisti ch'egli fa soggetto del suo studio la produzione
che nasceva spontanea anche in Italia, dove l'archeologia, nascendo, suscitò il neo-
classico in ogni maniera di arte.
118
Carlo Aìbizsati
II.
Figurina di bronzo fig 9. — alta cm. 27 — lunga 26 - larga 10
— lavoro francese dell'epoca di Napoleone III, messa in vendita ad
Atene, verso il 1910, come antica e proveniente da Milo *).
Fig. 9. — Uià in Atene nel commercio antiquario. Per gentile concesaione della redaz. di « Ausonia >».
Fu pubblicata da G. Bendinelli '), come « importantissima opera
d'arte classica inedita » del III sec. a. Or., e identificata quale ri-
') Più tardi fu Teduta presso un noto antiquario italiano. Ho notato cbe fra
Atene e Parigi fauno la spola tutte le piccole porcherie del commercio antiquario
di terza qualità. Nelle botteghe d'antiquari del « Palais Royal » mi vennero of-
ferte le stesse falsificazioni che avevo veduto qualche anno prima in quelle della
ò8òg 'EpfioO.
«) Ausonia, VI, p. 88-100, fig. 1-2 e tav. 5.
Ogyetti d'arte neoclassica, creduti antichi
119
tratto di Saffo per la corona di rose e per gli attributi del volume e
del calamo, di cui rimangono tracce ; il bronzista francese volle pro-
babilmente rappresentare la personificazione della poesia. Le propor-
zioni (la profondità è un terzo circa della lunghezza) indicano che la
figura era collocata in modo da vedersi specialmente da un lato ;
simili pezzi si riscontrano negli orologi a pendolo da caminetto del
■A
I
Fig. 10. — Dal « Petit conrrier des dfime$», ir> (iici'iniire J(S47.
tipo ben noto, con il quadrante fiancheggiato da due statuette se-
dute. La grossa falda del maatello, che scende dietro le reni in
modo staticamente assurdo, non ha che la funzione di reggere il ci-
lindro adagiato che contiene il meccanismo. Siamo in pieno stile del
secondo impero e non v' è più neppure quel tanto di reminiscenze
dell'antico che potrebbe trarci in inganno dinanzi ad un lavoro del-
l'età canoviaua.
Il viso aflftlato dalle guance sottili e con i grandi occhi pensosi
120 Carlo Albizzati
e malinconici, ci fa riconoscere Ja sorella delle signore eleganti dei
figurini di Jules David. La figura a sinistra sul foglio di mode del
1852 riprod. in Lehnert, Geschichte d. Kunstgewerbes II, p. 460 si
direbbe, per la testa, il modello del bronzo, ov' è eguale pure 1' ac-
conciatura, almeno in quanto il modellatore ne La accennato, e, cioè,^
la discriminatura dei capelli, raccolti in due masse sopra le tempie
e i due grossi riccioli che scendono sul collo. Identica la pretesa
classicheggiante della corona, che nel figurino è di un lauro ; v' è
un po' di gusto del vecchio Castellani in questa moda di diademi
classici. Il raffronto è anche più persuasivo se guardiamo le due
« coilfures » (fig. 11-12) ma specialmente la seconda, (cfr. Ausonia
1. e, veduta posteriore) tratta da un foglio del « FoUet » che io non
posso esattamente datare non essendomi accessibile la collezione del
periodico, ma che per la foggia dalla crinolina e delle scollature non
può essere anteriore al 55 né di molto posteriore al 60. Il profilo
greco convenzionale, armonizzato con le fattezze romantiche, è quello
che tutti conoscono dai punzoni di monete della seconda Repubblica,
incisi da Ondine per l'emissione del 1849 ').
La posa, con le gambe accavallate, il busto inchinato in avanti,
la testa reclinata da un lato con il mento che quasi tocca il petto,
il gesto stesso delle mani (con la sinistra reca il rotolo verso il cuore
e lascia cadere la destra che tiene il calamo, o, come direbbe un
artista moderno, lo stilo, con istudiata negligenza) ha quella teatra-
lità un po' caricata delle misses sentimentali di figurini di mode del
tempo di Luigi Filippo, l'età della « elegantissima musoneria » sa-
tireggiata dal Giusti -). Alla stessa scuola di disegnatori ha impa-
rato lo stadio di figura anche l'autore del figurino che riproduco. Ac-
canto alla « castellana » ispirata dalle « vignettes » dei romanzi di
Walter Scott egli ha posto una musa nell' identica posa di quella di
bronzo. Ci basta confrontare la dignità e la semplicità delle muse
ellenistiche, tanto della statuaria che della coroplastica, per vedere
quanto siamo lontani da quel pathos che il chiarissimo autore si
compiacque illustrarci con tanta dottrina ^).
Il modo scorretto e trascurato di trattare il drappeggio e la ca-
pigliatura, è quello appunto delle « parures » da caminetto di Froment
') Fr. Lenormant Monnaies et medailles p. 316.
*) La Scrina.
3) 1. e, p. 91 e 94.
Oggetti d'arte neoclassica, creduti antichi
121
Maurice *) e delle argenterie di Christoflie ') che, uscito dalla rea-
zione romantica al modellare neoclassico, si mantenne anche più tardi
nell'arte industriale ^) ed è tuttora peculiare allo stile dignitoso dei
disegnatori di « avvisi reclame » e dei modellatori di « bronzi arti-
stici » d'antimonio.
Fig. 11
Dal « Petit courrier », 1852.
Fig, 12. — Da una stampa
del Follet verso il 1855.
L' ignoranza antiquaria del bronzista, ci si rivela quasi comica-
mente in quell'orribile poggiapiedi % ove la figura è seduta, con le
goflfe zampe leonine collocate sulle bisettrici degli angoli, secondo la
tecnica dei candelabri e delle « pendules » di pretese « pompeiane ».
Sotto il sedile, segrinato da un tratteggio verticale, quell'ibrido or-
namento in forma di un asse di cuori, che ricorda ad un tempo la
conchiglia barocca e la palmetta neoclassica, è figlio della famiglia
di cimase e cimasette che tutti i fabbricanti di mobili a buon mer-
cato attaccano da cinquant'anni sulle sedie del buon stile borghese '').
Riassumendo: l'esecuzione mediocre, l'espressione anzi che no
volgaruccia e da manichino, rivelano la produzione a buon prezzo
') Lehnert, 1. e, p. 496
«) ivi, p. 498.
') Cfr. ad esemplo le porcellane inglesi del 1873 iu Lehnert, II, p. 571.
*) Somiglia infatti ai poggiapiedi che vediamo in monumenti del IV e III
sec. av. Cr. ove però la parte decorata è posta sui lati e i sostegni sono sempre
paralleli a quelli minori (cfr. ad esempio per i vasi apuli FurtwSnqler-Hauser-
Reichhold, Griechische Vasenmalerei tav. 88 — simile, tranne la maggiore lar-
ghezza, quello collocato dinanzi al letto nelle urne cinerarie etrusche della stessa
età — ad es. il sarcofago fittile di Tosoanella con Adone morente, Museum Gre-
gorianum, I, tav. CXIII ; Helbig, PUhrer, n. 442.
') Vedi le sedie di Lanneau in Lehnert, p. 458, fig. 365 e 366.
122 Carlo Alhixxati • Oggetti diarie neoclassica creduti antichi
dei salotti di provincia e che possiam vedere per tatto a Parigi nelle
botteghe di « bric-à-brac ». È ben lungi quella finezza di stecca e
di ceselli che, nel pessimo gusto di quest'epoca, ispirò al genio di
Zola una potente visione di lusso e di lussuria: il letto di Nana ').
•
In questo mio scritto ho voluto mostrare quanto sia utile com-
plemento di cultura, per un archeologo, la conoscenza di quella pro-
duzione artistica, d'età recente, che cercò d' ispirarsi al mondo clas-
sico. Ciò sanno e mettono in pratica, a modo loro, assai meglio di
noi, i commercianti di antichità.
Roma, ottobre 1915.
Carlo Albizzati.
') Nana, cap. XII.
L'ARTE DI PLAUTO
1)
Nella vita dell'antica Roma, il secolo III a. C. lia speciale importanza.
L' Urbe da un canto, prostrata Cartagine, si assicura la potenza nel Medi-
terraneo occidentale — dall'altro, datasi all' imitazione del maturo popolo
ellenico, inizia quel cammino letterario che, per la spaziosa via della Re-
pubblica, condurrà alle alte vette dell' Impero.
Tra le forme letterarie latine che allora si ordinarono, notevolissima
è la Commedia. Fin lì, i bellicosi e agresti popoli Italici s'eran contentati
de' giochi fescennini — rozzi contrasti in versi, salaci botte e risposte con-
tadinesche : delle atellane — brevi rappresentazioni poetico-mimiche, accom-
pagnate da musica : delle sature — specie di commedie dell' arte con ma-
schere di tipi fissi ') : de' viimi, specie di caricature sceniche.
Circa il 240/514, un cólto liberto ellenico, Livio Andronico — maestro
della sua lingua a' figli de' patrizi — cominciò a difibndere in traduzioni o
riduzioni latine opere teatrali del suo popolo : come avea fatto dell' Odissea,
rendendola pe' suoi allievi in versi saturni.
Così, in Roma anche il teatro fu preso dall'arte greca. L'opera tras-
latrice di Andronico fu continuata dal campano Gneo Nevio — legionario
nella prima guerra punica — , del quale non possediamo alcuna opera in-
tera : sappiamo che tentò di lanciare dalla scena strali satirici contro illu-
stri contemporanei — persin contro i Metelli e Scipione l'Africano — e che
ciò lo condusse prima in prigione poi in esilio. Giacché egli romanizzò gli
esemplari ellenici prescelti : che talvolta poi eran — per un sol lavoro —
più d'uno, cuciti o intrecciati (contaminati, latinamente).
Gli italici grecheggianti nel teatro comico — fra i quali Quinto Ennio
— imitaron d'Eliade la Commedia nuova (Monandro, Filemone, Difllo, Demo-
i
') Questo scritto sarà proemio a una mia nuova traduzione — in versi polimetri
— di XII Commedie di Plauto, nella Collana GV Immortali, diretta da Luigi Luz-
zattì e Ferdinando Martini (Milano, Istitiito Editoriale Italiano). Di essa, usciron
già le due commedie La Pignatta e I due Menemmi, iu supplemento teatrale della
rassegna milanese Gli Avvenimenti (anno II, n. 14 e n. 18), e qualche scena di Le
tre monete, nella rassegna Brixia (anno II, n. 26).
•) Maceus, scioccolone zotico e donnaiolo, pronto a dar botte e a prenderne :
Pappus, vecchio zimbello, tirchio e vanesio : Buceo, mangione e parolaio : Dossen-
nus, gobbo scaltro, arguto e galante. È noto, che nel primo si vuole scorgere il
progenitore di Pulcinella, nel secondo di Pantalone, nel terzo di Arlecchino, nel
uarto del Dottore.
124 Arnaldo AUerocca
filo ecc.), pittura impersonale di tipi e fatti quotidiani : non la vecchia ari-
stofanesca, staffllatrice personale, abbandonata in Grecia pe' suoi eccessi, e
non adatta a' gravi cittadini della prisca Roma, per la troppa libertà della
satira, spesso lesiva di glorie e istituzioni nazionali '). Commedia di ca-
rattere, dagli elementi numerabili, ma dalle combinazioni innumerevoli ') :
specchio della frivola vita d' Eliade al vespro della libera potenza. Affac-
cendarsi di cortigiane furbe, di giovani scapestrati, di mariti e genitori non
di rado balordi o corrotti, di lenoni senza scrupoli, di soldati fanfaroni, di
servi scaltri, che tengon il sacco a' padroncini, per lo più a' danni di vecchi
moralisti e taccagni.... Donde ^ e da storie d'amori contrastati • — gran
viluppi, risolti spesso da jierdoni insperati o da riconoscimenti improv-
visi ').
Trapiantata in Roma traverso la Magna Grecia, essa andò man mano
riflettendo — sino a Terenzio — sempre più anche lati comici dell' Urbe :
ma serbò la scena e le persone elleniche, forse ammaestrata dalle sventure
di Nevio e ammonita dalla severità romana ufficiale *). Di qui, il nome di
commedia Palliata, dal pallio, la tradizionale sopravveste greca.
Con quali differenze d'arte s'imitasse, non può ben dirsi perchè de' mo-
delli — anche dopo le recenti scoperte — abbiam solo più o meno lunghi
frammenti : certo, se non altro, con tutte quelle che sono fra la grecità de-
cadente e la romanità primitiva.
« Le tre generazioni di poeti, che si avvicendarono a propagare e di-
fendere il dogma dell' imitazione ellenica come unica norma e mèta dell'arte.
') « La nuova commedia ateniese era la più vicina e la sola ancor viva sui
teatri greci del sesto secolo » (Enrico Cocchia, Saggi Filologici - voi. II, Napoli,
1902, pag. 168).
« Le commedie d'Aristofane non potevano trapiantarsi ad altro popolo e ad
altro tempo : vive d'attualità, dovevan esser date solo a' coiripatrioti e a' contem-
poranei dell'autore. Quelle di Meiiandro, invece, co' loro personaggi tipici e con
la loro portata umana, si prestavan facilmente al trapianto. Se si aggiunge che
le opere della Commedia Nuova eran tutte recenti quando apparve Livio Andronico,
ai capirà subito come questi — seguito da altri parecchi — si sia messo a ripro-
durre pel pubblico romano commedie di tal periodo » (Philippe Fabia, Introduetion
al Théatre Latin - Extraits - Paris, 1913, pag. 3).
*) Ne ha esposto i caratteri, con arguta dottrina, Ettore Romagnoli, nella
rassegna La Lettura, anno XVI, u. 1. Nel suo articolo, intitolato Menandro, si parla
anche degl' intrecci e della tecnica, con esempi tradotti e con illustrazioni figurate.
') Non m' indugio nell'esame de' tipi, perchè l'han fatto assai bene altri molti :
da noi, per esempio, il Romagnoli in Menandro cit. e (per l'origine di alcuni
nella commedia in genere) nelV Introduzione alle Commedie d' Aristofane tradotte (Mi-
lano, 1915) — e 1' iugiustamente quasi dimenticato Atto Vannucci, discorrendo
proprio di Plauto {Studi storici e morali sulla Letteratura Latina, Torino, 1871,
pagg. 59 sgg.) : all'estero il Ribbeck, il Mayer (Maurizio), il Bertin, lo Cha-
LANDON, il Benoist, il Fabia eco.
■*) Cfr. CiCERONB, De Republica, IV, 18, 11.
L'arte di Piatito 125
secondarono in misura diversa questo concetto. Gli antesignani della grande
riforma lasciarono in generale libero corso alle tendenze dello spirito nazio-
nale ; ma o videro sopraffatto il naturale vigore dell' ingegno dalla insuffi-
cienza della tecnica, oppure, perfezionando in modo meraviglioso lo strumento
artistico dell'espressione, si mostrarono troppo condiscendenti al gusto del
pubblico nella eccessiva libertà dell'arguzia e del metro » '). Di questi ul-
timi, è 1' umbro (allora : oggi sarebbe romagnolo) Tito Maccio Plauto '),
la cui opera culmina iiroprio durante la seconda guerra punica : il re della
palliata, il più gran comico latino, il terzo — in ordine di tempo — note-
vole scrittore delle Origini letterarie latine, il primo del quale ci restin la-
vori interi, « il solo dal quale prende il suo corso regolare la letteratura
romana quale l'abbiamo », quegli che è «. come un gran monumento sor-
gente quasi intero in deserta campagna, attorniato da pochi frantumi degli
edifizi fabbricativi avanti» ^).
Della sua vita, sappiamo ch'egli nacque a Sarsina ') — in terra che
oggi è del Cesenate — tra il 256/498 e il 251/503, e che morì a Roma — ove
probabilmente dimorò la più gran parte de' suoi anni — nel 184/570. Il resto
Si' dice: cioè, che abbia avuto alterne vicende di rovesci e fortune, da at-
tore o attrezzista o impresario di teatro, a mercante, a schiavo per debiti,
a libero e agiato e preferito commediografo : che in schiavitù sì sia ridotto
a girar la macina d'un mulino : che dalla triste condizione si sia tolto col
') Enrico Cocchia, Introduzione storica alio studio della Letteratura Latina,
Bari, 1915, pag. 112.
') Non desidero fermarmi su la questione del Tito Moccio — sostenuto dal
RiTSCHL (Farerga zu Plautus und Terenz, Lipsia, 1845) sul ms. Ambrosiano, e del
Marco Accio, che da noi ebbe massimi difensori il Vallavui (Avimadcersiones in dis-
sertationem Friderici Eitnchelii «De Plauti poUtae nominibus », Torino, 1866) e il
Cocchia (vari scritti in Saggi Filologici ; citt.). Francamente, non vedo nella di-
sputa grande importanza. Né, d' altra parte, mi persuade il mezzo termine del
Leo {Plautinische Forschungen - li ediz., Berlin, 1912), pel quale Macciua sarebbe
soprannome venuto al Poeta per la sua perizia d'attore nella maschera di Mac-
cus. — Quanto al nome Plauto, sembra da riportarsi all'aggettivo plotus, dai
piedi larghi (cfr. 1' italiano piota), qualità che dicono comune agli Umbri e che in
tal caso qui andrebbe riportata al capostipite de' Plauti. In alcuni codici si trova
anche Asinius, che secondo il Ritschl sarebbe corruzione di Sarsinaa, secondo il
Lessino soprannome di scherno, secondo il Meursio soprannome pel suo asinesco
ufficio nel mulino, secondo il Cocchia matronimico.
') Vannucci, op. cit., pag. 56.
■*) Metropoli degli Umbri, al principio dell'alto corso del fiume Sapis (Savio).
Diede gli abitanti a Cortona e a Perugia : dopo P invasione celtica nella valle
padana, fu limite apenninico settentrionale degli Umbri (v. Cocchia, op. cit.,
183, 185) : divenne romana nel 266/488, cioè qualche anno avanti la nascita di
Plauto. Como non piti umbra 6 nominata dal Poeta in un golfo bisticcio {Gli Spi-
riti, V. 770 del testo).
126 A rnaldo A Iterocea
guadagno di fortunate commedie, tra le quali una intitolata, giusto, Lo
schiavo per debiti....
Scrisse moltissimo : quanto, non sappiam preciso. Dalle 130 commedie
che gli attribuisce Aulo Gelilo '), alle 20 e frammenti che possediamo, c'è
posto per le 21 sicure — che sarebbero le rimasteci ') e II baule (Vidularia),
del quale restaji pezzi — e le 19 probabili ') classificate da Varrone ') :
per le 25 di Elio Stilone ") : per le 100 d'altri °). Cagioni dell'incertezza :
il tempo trascorso — l' immediato passaggio in dominio pubblico delle com-
medie scritte per incarico degli Edili in feste pubbliche, o di famiglie in
cerimonie funebri, e da' richiedenti comperate — la falsa attribuzione di
lavori altrui, per opera d' impresari desiderosi d'ottener la piena di spet-
tatori che solo Plauto richiamava ').
Le sue palliate hanno il solito meccanismo poetico-musicale : parti re-
citate (deverbia) e parti cantate o modulate con accompagnamento musicale
(cantica) : con monologhi, duetti, terzetti ecc. : una specie, insomma delle
nostre operette.
Innanzi a tanta fortuna, una domanda sorge spontanea : è proprio un
grande, Plauto?
Ecco : per raiSnati lettori del secolo XX, la risposta non è facile. « Per
Plauto una commedia è sovra tutto non un'opera d'arte, ma uno spetta-
1) Noci. Attic, III, 3, 11.
*) Anfitrione (Ampliitruo) — Gli Asini (Annaria) — La Pignatta (Aulularia)
— I Prigionieri (Captiui) — Tonchio {Curculio) — Casina (Catino) — La cassetta
(Cistellaria) — L'Arruffa (Epidlcus) — Le Bacchidi (Bacchidea) — Gli Spiriti (Mo-
atellaria) — I due Menemnii (Menaechmi) — Il Fanfarone (Miles glorioau») — Il mer-
cante (Mercator) — Trappolone (Pseudolus) — Il Cartaginese {Poenulus) — Il Per-
siano (Persa) — La gomena (Budens) — Stico (Stiohus) — Le tre monete (Trinum-
mue) — Il Terribile (Truculentus).
^) Savalobeso : Il Panciapiena (Saturio) — Lo schiavo per debiti (Addictu») —
Beozia (Boeotia) — Lo staffile (Neruolaria) — Lo stretto (Freium) — I tre d'un
parto (Trigemini) — La staffa, oppure II carro (Aatraià) — Il parassito pigro
(Paraaitus piger) — Il parassito medico (Parasitua medicus) — La morte comune
(Commorienies) — L'anello (Condalium) — I dne ruffiani (Gemini lenonea) — L'n-
snriera (Feneratrix) — La rottura (f — Friuolaria) — Il SeccUiaro (Sitellitergnt) —
I fuggiaschi (Fugitiui) — Poco di buono, oppure L'assaggio (Caciation opp. Coei-
atrio) — Il brolo (Hortulus) — L'artimone, opp. Artemone (? Artemo).
*) Gellio, op. cit., Ili, 3, 3.
=) Id., ibid., Ili, 3, 11.
*) Servio, Praef. ad Aen.
') EuGìiNK Bbnoist (Nolice aur Piante, prem. ai Moroeaux ehoiaia, Paris, 1894,
pag. XXIV) sospetta che alcune l'autore stesso abbia ripudiate, perchè scritte per
commissioni urgenti, e quindi troppo tirate vi».
L'arte di Plauto 127
colo » ') : donde, disarmonìe di struttura (largo svolgimento di tratti buffi,
scarso di altri), lungaggini inutili, ripetizioni, contraddizioni, goffaggini, in-
genuità di mezzi (motti di spirito che sono spesso puerili giochi di parole, cul-
mini del comico procurati a volte con parapiglia e sbataccliiamenti da teatro
di burattini, con lazzi da pagliacci), soluzioni finali non di rado tirate via
giusto per terminare.... '). «Il grande scopo di Plauto è di fare ridere la
moltitudine che trae in folla ad udirlo, e per conseguire questo intento non
perdona a scherzi né si guarda anche di sacrificare il decoro dell'arte » ').
Ma, siamo giusti : quante — anche fortunate — pièces moderne non hanno
— dopo veutun secolo ! — di tali o simili difetti (sia pure in minor grado
o numero), senza i pregi del Sarsinate *J ì
I difetti si comprendono, se si pensa — oltre che all' imperfezion dei
modelli — al tempo e al luogo in cui egli scrisse, e alla società che l'ap-
plaudiva, gì' ispidi contemporanei di Catone : e, sovra tutto, se si conosce
l' indole del popolo romano, sotto certi aspetti uguale ancora. Lo spirito
de' romani è qualcosa di maraviglioso e di stucchevole insieme. Ricco di
buffonaggine, scarso di humour, facile all'esagerazione, negato alla misura,
vi strappa a tratti la risata omerica, e a lungo andare vi noia, e può per-
sino irritarvi. Prontissimo a coglier il lato ridicolo, non di rado vi rivolta
coli' osservarlo fuor d'ora, magari guastandovi un momento serio che era
per commovervi. Sovrano nel descrivere plasticamente, nel narrare sceni-
camente, è proclive a spinger tropp'oltre il senso mimico e la vivezza, im-
pedendovi quelle pause che si desiderano anche nel riso. Disposto per na-
tura alla spacconata, si compiace de' tipi rumorosi, e ve li sbatte sul naso.
Naturalmente ironico, smonta con disinvoltura comicissima i falsi valori :
ma, se piglia a tartassare col ridicolo, non lascia più finché non ha di-
strutto : e allora divien anche feroce, traendo il comico persin dalla scia-
gura, dimenticando la sua consueta innegabile bonomìa °). Senza dubbio,
tutto ciò in Plauto è accentuato da primitiva rozzezza : ma, il persistere dei
caratteri fondamentali anche nel romano d'oggi, ci mostra qualità immanenti.
Vi son ancora in Roma teatrini popolari, ove si recitano specie di com-
mediole dell'arte in dialetto, nelle quali vi par di vedere cattive riduzioni
*) Fabia, op. cit., pag. 26.
^) Quella « teonicuccia scenica », quei « mezzucci », quella « prolissità, » e
«pesantezza», quella «convenzione», che il Romagnoli (op. cit.) trova anche
nel teatro menaudrèo, sfatando pregiudizi a favore di esso, scusabili prima di re-
centi scoperte.
') Vannucci, op. cit., pag. 71.
*) Opportunamente il Romagnoli (op. cit.) a proposito di Monandro pensa
alle poehades francesi d'oggi.
') Vedi, p. es., l'allusione (quasi certa) a Nevio carcerato, in II Fanfarone,
atto II, so. 2*, vv. 211-212 del testo, e ai Campani domati, in Le tre monete, II,
4», 545-546 del testo.
128 Arnaldo Alterocca
plautine: ne' modi del comico, nel meccanismo, ne' tipi! E Plauto, sebben
provinciale di nascita, a Roma visse tanto da imbeversi tutto della vita sua :
e l'esistenza fortunosa che condusse gli fu ottimo esercizio allo studio del
vero. Giacché, pur sotto nomi e abiti greci — e pur senza incorrere in
audacie che gli sarebbero costate care — egli coglie volentieri l'occasione
per figurare a tratti, in sostanza, la società romana d'allora : talvolta, anzi,
con allusioni nemmen troppo timide. E quando ritrae dal vero, è proprio
un artista come ce ne son pochi. Non si può affermare eh' ei sia un com-
piuto flgurator di caratteri ') : che quella manìa dell'esagerazione e della
buffonaggine a ogni costo lo danneggia anche in ciò. Un giudizio certo su la
sua maggiore o minore originalità ci è vietato dalla deficienza de' modelli
ellenici : ma è lecito credere ch'egli molto derivasse negl'intrecci e nella sa-
goma de' caratteri, molto desse del suo alla coloritura d'uomini e di cose :
la quale è a volte così viva, così efficace, da precorrere — senza timore
d'esser facilmente superata — il cosidetto naturalismo moderno. In altri
termini, egli avrebbe romanizzato le figure e le vicende degli originali, sia
addirittura introducendo scenette proprie dell' Urbe (come nella famosa
chiacchierata del Trovarobe nell'atto IV del Tonchio), sia modificando la
pittura imitata con sfumature e con tratti propri dell' indole e della vita
romana (senza curar l'accordo colle linee principali, per libero sfogo del-
l' italico suo spirito d'osservazione e dell' italica sua mordacità), sia tor-
cendo spesso l'arguzia a buffonata, meglio gradita al suo pubblico. Il che
è inrozzimento de' modelli, ma affinamento della grossolana arte comica la-
ziale precedente. « La vivacità inesauribile del dialogo, l'energica rapidità
dell'azione, il senso immediato della vita e gli accentuati contrasti dei carat-
teri son tutte virtù derivate alla commedia plautina dal genio della razza » ') :
alle quali non voglio aggiungere, come fu detto, il frequente moraleggiare —
specie nelle sentenze e in taluni scioglimenti — , perchè ormai lo conosciamo
anche in Monandro, e perchè non credo molto all'efficacia educativa di pre-
dicozzi e di finali abborracciati, tra e dopo fila volentieri e vivacemente su-
diciotte ^).
E vero, qui « per originalità si deve intendere l'espressione artistica,
conseguita con lo studio degli esemplari greci, d'un contenuto schiettamente
italico » '). Peraltro, la differenza d'opinione fra critici valorosi e autore-
*) Anche in Menandro « vero studio di cartitteri nel significato moderno, non
e' è. Ci sono variazioni di tipi convenzionali, fissati non solo dalla tradizione sce-
nica, ma anche dalla tradizione letteraria Non la vita, ma un angolo della
vita, una certa categoria di persone e di situazioni di più ovvia comicità esa-
gerata e ridotta a tipo » (Romagnoli, op. cit.).
*) Cocchia, op. cit., pagg. 139-140.
') V., a ogni modo, l'interessante parallelo che il Vanndcci (op. cit., pagg. 73-
74) istituisce fra l'opera di Plauto e l'apostolato del contemporaneo Catone.
*) A. G. Amatucci, Storia della Letteratura Romana, voi. I, Napoli, 1912,
pag. 85.
L'arte dì Plmito 129
voli, e la deficienza de' termini di confronto, lian da farci molto guardinghi
in proposito — È bene rammentare col Fabia che « i poeti della lìalliata
non si son mai dati per altro che per traduttori », ed è canto accontentarsi
di dire con lui che Plauto « è originale, per quanto poteva essere un au-
tore di palliate » ") : non senza riconoscere col Benoist, che originalità in un
«•erto senso può chiamarsi anche il personale criterio nello scegliere e nel
connettei'e pezzi altrui ') — sebben l'unione (come altri notò) qui sia resa
più facile dalla simiglianza monotona de' molti modelli ').
Se vario fu — e può essere — il giudizio su l'arte di Plauto in ge-
nere, quasi tutti invece l'ammiraron e l'ammiran per la ricchezza e la pa-
dronanza dello strumento linguistico, e per l' inesauribilità de' metri feste-
volissimi : per aver egli « d'acchito, con un colpo di genio, dato alla lingua
e alla poesia quella pieghevolezza e quella vivacità che in lui troviamo » *).
La versificazione plautina, sebben calcata su schemi ellenici, ha sue
speciali difficoltà sia pel rapido trapianto da lingua provetta nell'arte a lin-
gua — dirò — principiante, sia per le oscillazioni iirosodiche d'una parlata
che tanti elementi accoglie familiari e popolari, con pronunzia spesso non
uguale alla cólta.
Così, essa fu per secoli un enigma : da antichi come Cicerone e Ora-
zio, che ci notaron debolezze e irregolarità ad essi non spiegabili — a me-
dievali come Prisciano, che preferiron credere le commedie scritte addirit-
tura in prosa — a umanisti, che ci videro un caos. Cominciò a trovar qualche
filo nel secolo XVII il Bentley, seguito fra il XVIII e il XIX dal Reitz e dallo
Hermann : finché — dopo gì' ingegnosi tentativi del Bothe e del Lindemann
— in pieno secolo XIX venne il salvator di Plauto (come lo chiamarono),
cioè il tedesco Federico Ritschl. Discusso e avversato (anche per la sua in-
temperanza) da valorosi quali il Weise, il Geppert, lo Studemund, ma se-
guito da discepoli quali il Fleckeisen, il Brix, il Wagner, il Gotz, lo SchòH
— egli giunse a scioglier l'enigma quasi per intero, lasciando, sì, dubbi non
pochi né lievi, ma dando in ogni modo la chiave del problema e la solu-
zione della maggior parte de' quesiti. Vicende e argomenti sui quali non è
qui il caso d' indugiarsi, perché noti agli studiosi, e accessibili — a chi vo-
glia — in opere ormai classiche: de' suddetti, del Corssen, del Miiller,
dello Spengel e d'altri. Qui è bene rammentare come in Plauto la ricchezza
« la varietà de' metri superino di gran lunga quelle d'ogni altro comico
greco o latino conosciuto. Egli, anche quando segue da vicino nella stesura
') Op. cit., pag. 26.
*) Op. cit., pag. XXIII.
') Romagnoli, op. cit.
*) Benoist, op. cit., pagg.
Atene e Roma.
180 Arnaldo Alterocca
gli esemplari ellenici, guida peraltro a modo suo l' intreccio metrico — dar
monologhi a' dialoghi — secondo gli par meglio per l'eflfetto scenico nella
sua lingua, e secondo il rapporto colla musica che a tratti doveva accom-
pagnar le parole. Da ciò un brio una agilità una festevolezza incredibili,
che si posson gustare a fondo nel testo latino, ma che è fatale perder in
parte in qualsiasi moderna traduzione.
Nella lingua e nello stile, Plauto è veramente un gran signore, pronto
e prodigo in maniera stupenda, nelle sfumature di parola e di modo, nel-
l'espressione del suono, nel non conoscer diflBcoltà a dir quello che vuole :
così immedesimato della vita linguistica, che quando non trova crea, spi-
gliatissimo. Non per nulla Cicerone lo designò perfetto '), e Aulo Gellio lasciò
scritto « Plauto, il principe della lingua e dell'eleganza latina », « il pid
elegante », « onor della lingua latina » '), e Varrone « ne' dialoghi, Plauto
ha la palma » '), e Lucio Elio Stilone « se le Muse volessero parlar latino,
userebbero la lingua di Plauto » *), e Orazio stesso lo accostò al greco Epi-
carmo, pur con un « si dice » ^). E nel giudizio concordano Plinio, Frontone,
Diomede, Girolamo, Claudiano Mamerto, ecc. Liberissimo — di quella libertà
poderosa che da noi immortalò il Cellini — egli è nella sintassi. C'è, si può
dire, una sintassi plautina, la quale ha per principio la massima disinvol-
tura: quindi anacoluti audaci, a volte addirittura ribelli: quindi periodare
svolgentesi in mille snodatissime guise : quindi gradazioni ed evoluzioni
che seguon assai bene i moti dell'animo. Sua mèta è rendere fedelmente
il discorso dal vero, dalla vita quotidiana. E tutto egli subordina a ciò:
donde anche eccessi — donde, p. es., ripetizioni in numero strabocchevole,
quasi di chi sempre improvvisi, senza il minimo pen.siero di far arte lette-
raria. Forse, a lungo andare, si formò in lui una specie di j>osa della non-
curanza retorica, come accade spesso agli autori fortunati, che tìniscon a in-
sister troppo — - calcando — su' caratteri propri. È certo, peraltro, che Plauto
trascurò il lavoro della lima: anche per la fretta del guadagno. Lo affermò,
un secolo e mezzo dopo, Orazio, con un po' d'esagerazione, per i]uella an-
tipatìa ch'egli ebbe sempre pel Sarsinate :
Ha smania di far soldi, e non si cura
d'altro, cammini la commedia o no '■).
E ce n'accorgiamo anche noi, pur senz'avere la ìncontentabilit-à d' Ora-
zio....
') De Orai., Ili, 12, 45.
*) Op. cit., VII, 17, 4 ; I, 7, 17 ; XIX, 8, fi.
') Sai. Menipp., Parmeno.
*) Sec. Varrone (v. Quintiliano, Inst. Orai., X, I, 99).
^) Epist., II, 1, 58 : passo inteso variamente.
«) EpisU, II, 1, 17.-j-l7tì.
J
L'arie di Plauto 131
Non tutti — dicevo — furon d' accordo uel giudizio su l'artista. Molto
benevolo è un antico epigramma :
Finito Plauto, la commedia lagrima :
vota è la scena: riso, gioia, scherzo
piangono, insieme, e metri innumerevoli ')
La fama sua toccò l'apogeo nel secolo II a. C. Cominciò a diminuire
nel I, avendo la disciplina ellenica dati ormai per intero i suoi frutti: donde
il composto grecismo di Terenzio. Il curioso è vedere proprio agli antipodi
— in quel secolo — due giudici ambedue fini e competenti : Cicerone e
Orazio. Cicerone chiama il Sarsinate modello di « giocosità elegante, urbana,
ingegnosa, briosa » ') : Orazio in pifi luoghi ne parla male, e così lo schiaccia
nell'epistola dell'Arte Poetica :
Ma di Plauto, i vostri avi lodarono
metri e facezie con troppa bontà
'stoltezza, direi quasi), s'io e voi
sappiara distinguer be' niotti da lazzi
e scandere e sentire i versi giusti ').
Al solito, l'equo andrebbe cercato nel mezzo. Ma che Plauto indulga
troppo alla volgarità, quest' è vero : volgarità che talvolta lo spinge al grot-
tesco. Forse, lo peggiorò il favor popolare, del quale lo sappiamo orgoglioso e
sollecito *), e che fu tale, da far poi attribuire a lui molte commedie non sue.
Non dimentichiamo, però, che un'opera teatrale mal si giudica nello scritto,
e a gran distanza di tempo, e con grandi differenze di gusto. Anch'oggi,
trionfan su la scena certe reviies e certe pochades che, mentre le vediamo e
le ascoltiamo, ci divertono, ma se le rileggiamo a casa, ci dan quasi fa-
stidio, perchè non vediam più la mimica, non udiam più la musichetta che
nascondeva le mende. Del resto, in un uomo di bassi natali e vissuto ac-
canto più al popolo che al ceto migliore, la poca finezza non è strana.
') Secondo alcuni di Plauto stesso, secondo altri no. Molti, invece che innu-
merevoU, intendono aritmici. Ma questa interpretazione mi pare in troppo stridente
contrasto col tono dell'epigramma.
*) De Off., I, 29, 104. Cfr. Brut., 15; De Orat., Ili, 12; Cat. mal., 14.
') Epitt., II, 3, 270 sgg. In Orazio parlava — si ricordi — il ratlìnato augu-
stèo, aborrente da tutte le arcaiche rozzezze.
*) L' abbiam sentito noi gridare, il popolo,
per ottenere commedie di Plauto
dice nel prologo della Casina : se proprio è suo.
132 Arnaldo AUerocca - L'arte di Flauto
Della società, Plauto conosceva in ispecie Io strato inferiore: si rivela
spesso in lui il già plebeo e il temporaneo servo: non foss'altro, nella
compassione pe' dolori degli schiavi, che sa di solidarietà e che a volte com-
move. Commove, sì, perchè Plauto, quand'occorre, sa esser efficace anche
ih tratti seri (come tutt' i veri artisti del riso), e persino in quasi epici ')
e drammatici ') !
Troppo frequente è in lui l'oscenità : alla quale ei fa così il callo,
che in principio e in fine di I Prigionieri vanta pulitissima — e atta a render
migliori anche i già buoni, e rara nella sua castigatezza — quella commedia,
nella quale è qualche gioco di parole di sconcio innaturale, e qualcuno di
naturale ma superfluo ! Anche qui, però, bisogna ricordarsi del tempo, e del
gusto pagano, in fatto di morale assai men sensibile del nostro....
Quasi tramontato nel Medio Evo, Plauto risorse a gran voga (tra for-
tunate scoperte di codici) nel Rinascimento, in mille imitazioni per le po-
vere scene del combattuto volgare. E trova ammiratori fervidi in quasi
tutt'i moderni: basta dire che il Lessing proclamò I Prigionieri « il più bel
dramma che mai sia stato rappresentato » '), avvertendo però che a tal giu-
dizio egli è guidato anche da considerazioni d' indole morale.
Tu realtà, Plauto non è né un grande creatore ne un grande costrut-
tore. E uno sbozzatore potente che, negli scorci audaci e nelle asimmetrie,
negli eccessi e ne' maucamenti, ha tutt'i difetti de' primitivi. Ma de' pri-
mitivi ha la sincerità, che neppur la costante imitazione valse a soffocare.
Ma è il primo compiuto rappresentante dello spirito comico italico ne' suoi
pregi e nelle sue mende, 1' iniziatore d'una via che — ampliandosi e aggiu-
standosi — porterà (unica, forse, intatta dell'arte neolatina nostra fra tante
mistioni d'oltralpe e d'oltremare) al Pulci, al Berni, al Tassoni, al Guada-
gnoli, al Giusti, al Porta, al Belli, al Pascarella. Ma è un parlatore affa-
scinante, un verseggiatore pieno d' agilità e ricco di gamme musicali inau-
dite. Ma l'opera sua è una gran raccolta di materiale non finito di la-
vorare, cui attingeranno per secoli e secoli in ogni paese, fuori d' Italia
da mediocri e grandi a colossi come lo Shakespeare e il Molière, in Italia
dal Machiavelli al Gelli al Divizi al Trissino al Giannotti al Firenzuola al
Bentivoglio al Dolce a Lorenzino de' Medici al Domenichi al Lasca al Cec-
chi all'Ariosto al Della Porta e perfino — si direbbe — al Goldoni....
Arnaldo Alterocca.
M Es., Anfitrione, I, 1>, 219-241 del testo.
') Ess., Il Fanfarone, II, 4», 372 sgg. del testo — / Prigionieri, III, 5». e
assi m .
^) Kritik iiber die Gefangenen dee Plautiis.
BACOHILIDE X (XI)
Gli elementi realistici dell'ode, come ce li presenta il poeta, sono que-
sti. Alessidamo, giovane di Metaponto, figlio di Faisco, ha riportato una
splendida vittoria nella lotta dei giuochi pitici, che si celebravano a Pito
(Delfi) ed erano sacri ad Apollo, figlio di Latona. Un'altra volta Alessi-
damo era stato vicino a ottenere la corona d'olivo, cioè il primo premio,
nelle maggiori gare d' Olimpia, ma quella volta il premio gli fu strappato
di mano per una causa che non ci è ben chiara : il verso che ci poteva
illuminare su questo, è perduto ; ma se è vera la restituzione che ho se-
guito nel tradurre, il giovinetto fu, come oggi diremmo, squalificato. Ora
la cosa è andata molto meglio : Apollo, il dio solare, l' ha accolto con be-
nigno sguardo, e Artemide, la sua divina sorella, la protettrice di Meta-
ponto, la dea che ha un tempio venerato su le rive del Casa (Basente), lo
ha fatto primo su tutti.
In questo metallo, non certo prezioso, ma forbito dall'arte del poeta,
è incastonata la splendida gemma del mito. Le figlie di Prete andarono
al tempio di Era e si vantarono che il loro padre era più ricco e potente
della moglie di Zeus. La dea, sdegnata, gettò nei loro petti una tremenda
follia e le cacciò fuori dalle loro case, lontano da Tirinto. Qui il poeta
sembra domandarsi : perchè da Tirinto e non da Argo, la città degli avi ?
Pertanto si rifa più indietro, con un fare che ricorda quello di Pindaro e
che è un'andare a ritroso nel tempo, un immergersi sempre più profonda-
mente nel mito. Dunque in Argo regnavano due fratelli, Preto e Acrisio,
figli di Abante e nipoti di Linceo e di Danao. Per un futile motivo scoppiò
una fiera discordia tra i fratelli, e il popolo, che parteggiava per l'uno o
per l'altro, cadeva in battaglie civili. Si convenne di levare a sorte chi
dei due doveva emigrare. La sorte designò Preto, che, con gli amici,
andò ad abitare una terra dove i Ciclopi fondarono una città che fu Ti-
rinto. Di qui si lanciarono alla fuga le vergini folli. 11 padre, disperato,
le seguì ; giunto alla corrente del Luso, in Arcadia, invocò Artemide e que-
sta intercesse per lui da Era, e le fanciulle rinsavirono. Un tempio sorse
il ricordare la grazia.
Come si vede, Artemide è il legame ideale (un po' tenue invero) tra le
due parti dell'ode, la realtà e il mito : essa è onorata di culto particolare
a Metaponto come a Tirinto, essa intercede la vittoria per Alessidamo come
la ragione per le figlie di Preto. E domina in tutta l'ode. Ma non è la dea.
collerica e vendicativa della V : qui è umana, mite, pietosa.
134 Dario ArfelU
Ad Alessidamo di Metaponto
GIOVINETTO VINCITORE NELLA LOTTA DEI GIUOCHI PITICI.
iStrofe 1 Vittoria, dispensiera di dolcezze,
il padre ouuii)otente
ti concesse un supremo, eterno onore.
Neil' Olimpo fulgente
tu siedi accanto a Giove
e decreti il trionfo del valore
agli dei ed agli nomini.
Figlia di Stige, dalla folta chioma
e dai retti giudizi, sii benigna !
Ecco, per grazia tua canti e tripud
di giovani gagliardi
empiono la divina Metaponto
celebrando la pitica vittoria
del mirabile tìglio di Faisco.
Anlhtrofe 1 II figlio della splendida Latona,
nato a Delo, l'accolse
con dolce sguardo : un nembo di corone
piovve intorno Alessìdamo,
nella valle di Cirra,
in premio della lotta vigorosa
che trionfa su tutto.
In questo giorno non lo vide il sole
cadere a terra. E giuro che al divino
piano del santo Pelope, lunghesso
il bel corso d' Alfeo,
se nessun deviava la giustizia
dal suo retto cammiuo, egli sarebbe
tornato alla sua patria, alla pianura
Epodo 1 nutrice di giovenche, incoronato
del verde olivo, eh' è comune a tutti.
Nessuna mala frode
condusse il giovinetto ad artifizi,
nella bella contrada ;
ma cosi volle un dio
o la mente fallace dei mortali
gli strappò dalle mani l'alto premio.
Ora la eaeciatrice
dalla conocchia d'oro,
la mite arciera, Artemide,
gli ha donato una splendida vittoria. —
Un giorno l'Abantiade, con le vaghe
figlie, le eresse un supplicato altare.
JBacehilide X {XI)
135
.Sli-ofe S
Anlisti'ofe t'
Epodo 3
L'onuipoteuza d'Era area domato
la mente delle vergini
col duro giogo d'un fatai delirio,
e le aveva cacciate
dalle case del padre.
Con l'anima fanciulla erano andate
al tempio della dea
dal purpureo cinto, e si vantarono
che il loro padre superava molto
la bionda sposa del superbo Giove
in ricchezza e potenza.
La dea, sdegnata, suscitò nel loro
petto una strana furia. Abbandonata
la città di Tirinto, e le sue strade,
aperte dagli dei, esse fuggivano,
mandando nrli terribili,
su jjei monti selvosi. — Già da dieci
anni gì' invitti eroi
dallo scudo di bronzo,
lasciata la divina Argo, abitavano
con l'amato signore.
Poiché tra i due fratelli, Preto e Acrisio,
da piccola cagione era scoppiata
nna grande, implacabile contesa.
Il popolo cadeva
in feroci vendette e in pugne amare ;
onde pregò i due tìgli d'Abante
di trarre a sorte le campagne fertili ;
il minore fondasse poi Tirinto,
prima che si piombasse in gran rovina.
Anche Giove Cronide
volea por fine agli esecrandi mali,
per onorar la stirpe
di Danao o di Linceo
domator di cavalli. Allora vennero
i superbi Ciclopi ed innalzarono
le bellissime mura
dell' inclita città,
ove gl'illustri eroi,
lasciata la famosa Argo, nutrice
di cavalli, vivevan come dei. —
E di qui si lanciarono alla fuga
Strofe 3
le giovinette dai capelli azzurri,
' figlie di Preto. Il padre,
straziato dal dolore, ebbe uno strano
pensiero e fu sul pnnto
136 Dario Arfelli - BaocMUde X (XI)
di cacciarsi nel petto
una spada a due tagli. Ma i lancieri
lo tennero con dolci
parole e con la forza delle braccia.
Tredici mesi interi le fanciulle
vagarono per selve tenebrose,
fuggendo nell'Arcadia,
madre di greggi. Quando il padre giunse
alla corrente limpida del Luso,
lavò le membra ed invocò la dea
Antistrofe 3 dai grandi occhi, la figlia di Latona
dal purpureo velo,
tese le mani allo splendor del sole,
dai veloci cavalli :
« Libera le mie iìglie
dal misero furor della demenza,
ed io t' immolerò
venti rosse giovenche, nuove al giogo ».
La cacciatrice, figlia del buon padre,
ascoltò le sue preci, vinse Era,
guarì dall'empia furia
le vergini fiorite di boccioli.
Queste le alzarou tosto un tempio e nii'ara,
la bagnarou col sangue delle vittime.
Epodo :i vi condussero i cori delle donne. —
Di qui venisti coi guerrieri Achei
alla città nutrice
di cavalli ; tu stai con la Fortuna
in Metaponto, aurea
signora delle genti.
E gli avi che ti crebbero un boschetto
sacro, lungo le belle acque del Casa,
al tempo di re Priamo,
per voler dei Beati,
distrussero la forte
città coi grandi Atridi aspri di bronzo.
Il giusto troverà in ogni tempo
infinite le glorie degli Achei.
Tratl. Dario Arfelli.
Eecensioìiì
137
C. Valerio Catullo. Epitalamio per le nozie di Teiide e di Peleo (Canne LXIV).
Commento e traduzione poetica di Tito Gironi. Ditta G. B. Paravia, Toriuo,
11U5. L. 1.
Acconcio, diciamolo subito, il commento, fatto com'è in servizio degli sco-
lari, e veramente pregevole la traduzione sia per la fedeltà air originale sìa per
la fluidità della forma poetica : concordia rara nei traduttori in verso, ai piìl
de' qnali io sarei tentato di attagliare quel malizioso pentametro d'Ovidio « Lis est
onm forma magna pudicitiae ». Quindi è che, sebbene entri in gara con fìtta schiera
di campioni — sedici ne enumerò il Romizi e quattro ne aggiunge il Pascal (Ca-
tullo, I carmi, p. 108;, ma ve ne sono anche altri, e tra questi uno dì prim'or-
dine : il Nardozzi *) — , nondimeno il traduttore recentissimo, anche dove non ha,
come gli riesce spesso di avere, il vantaggio e la palma, non però rimane mai
troppo inferiore al paragone pur dei migliori. Perchè il lettore stesso faccia il
confronto col testo (vv. 213-228), riporterò qui una ventina dì versi scelta dalla
versione del Gironi con accanto il tratto corrispondente della versione del Nar-
dozzi, ultimo lavoro di «piell' elegantissimo traduttore :
Fama è che Egeo, tìilaiido il figliii ai veuti,
allor che quegli al)handonò le mura
de la vergine Dea, tali al garzone
moniti tiesse ne l'abbraceio : « O figlio,
unico figlio, a me di lunga vita
giocondo più, clie a dubl)i casi or ileggio
mandare incontro, or che mi fosti reso
ne l'estremo coufiu de la vecchiezza ;
poiché il mio fato e il tuo valore indomito
ti rapiscono a me che non vorrei,
e questi occhi languenti anco non sazi
ho del tuo caro viso; io no, con lieto
cor non ti Liscerò, né insegne avrai
tu di lieta fortuna. Alzerò prima
le mie querele, aspergerò di terra
la mìa canìzie e di lurida polve;
indi vele abbrunate a le vaganti
antenne ap]»enderò, sicché dimostri,
d'atra ferrugìn tinto, il lino ibero
il mio pianto e le ardenti ansie del core.... ».
(Gironi, p. 41).
Fama è che un tempo Egeo (quando commise
A i venti il figlio, che sciogliea da i lidi
Sacri a Minerva) piangendo e abbracciando
Il giovinetto, gli facesse tali
Comandamenti: o tìglio unico mio,
A me pili caro de la lunga vita,
XTuico figlio mio, che a me renduto
Or ora in su l' estremo de la mia
Vecchiezza, incontro a perigliosi eventi
iland'iT m' ò forza, poi che la nemica
Mia fortuna, e il magnanimo tuo cuore
Ti toglie, oiraè! contro mia voglia, a questi
Miei languidi occhi già non ancor sazil
Di sempre vagheggiar le tue fattezze
Dolcissime, non io gioioso in core
Vo' staccarmi da te, uè vo' che teco
Porti alcun segno di fortuna allegia,
Ma prima vo' con lunghe querimonie
Sfogar la piena de '1 dolor, ma {irima
Vo' imbrattare di polvere e di terra
La mia canizie, ed una mortuale
Insegna io poscia su l'ondivagant©
Albero appenderò: così l'Ibera
Vela cosparsa di color ferrigno,
Pah si, o figUuol mio, l'immenso duolo
Che 81 cocente mi divampa in core.
(Xardozzi, p. 22(3 sgg.).
È diftìcile negare che il Gironi, senza che per la schietta fattura del verso
scapiti quasi mai nel confronto, n' esca poi vincitore quanto all'esatta sobrietà
dell' interpretazione. E il medesimo vedremmo, se allargassimo le citazioni.
Tuttavia, trascurando le minuzie, come l'accentuazione inconsueta a cui è pie-
gato il grido bacchico evoè nei versi 88 sg. che sembrano chiedere la pronunzia
1) Le Georgiche di Virgiuo tradotte da Antonio Xardozzi. Secomla edizione migliorata ed ac-
cresciuta con la versione di Teti e Peleo di Catullo, Imola, 18y4.
138 Becensioni
eròe, moverei qui in line al Gironi anche un appunto, perchè egli, mustramlosi
troppo ligio a scrupoli scolastici in nn lavoro che è anche artistico, ha omesso di
tradurre i vv. 377-.382 e 404-406 doli' originale, che non sono inline più scabrosi
di cert' altri, poniamo, del Giorno pariniano, che pure si pone intero nelle mani
degli scolari e scolare ginnasiali senza timore, e certo senza rischio, di ammalizzirli.
Del resto il libretto del Gironi, se ci ruba una diecina di versi catulliani, ci attiene
poi anche piìi di quel che promette nel frontispizio, in quanto che aggiunge in
appendice, per comodo di chi volesse istituire nn parallelo, la versione, sempre in
Itegli endecasillabi, dell' eroide X* {Arianna a Teseo) di Ovidio.
Adolfo Gandiglio.
GicsBPPK Procacci, ^'ote a due poemeUi latini di Giovanni l'aecoU (Veianiun-l'hi-
dyle). Assisi, 1914 — Id. Il Laureolua di G. P. Assisi, 1915 — Id. Intorno ad
un poemetto latino di G. P. (Cena in Candiano Nervae). Teramo, 1915. — Id.
Il « Sermo » di G. P. San Marino, 1915.
Se v'è qnalcuuo che strapazza il Pascoli, mentre professa di volerne agevo-
lare la lettura anche a lettori colti e coltissimi, non mancano, la Dio mercè, stu-
diosi di coscienza che, pur con propositi piti modesti, varino compiendo opera ve-
ramente meritoria di interpetri e di divulgatori del dolce e dotto poeta. Non è
molto, a mettere in evidenza un elemento essenziale dell'ispirazione pascoliana, Nina
Rimbocchi ha dedicato un'analisi densa di notizie e di osservazioni che dissipano
anche parecchie delle oscurità e incertezze in cui necessariamente qua e là intoppa
il lettore non romagnolo sia delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio sia dei Primi
e Nuovi Poemetti (" La « Romagna » nell'opera di Giovanni Pascoli " nella rivista
La liomagna, Febbraio 1914 — Gennaio-Febbraio 1915), e proprio di questi giorni
è uscita, indirizzata ai giovani ma certo utile anche agli altri, la prima parte d'un
accurato, se uon perfetto, Dizionarietto pascoliano di L. M. Capelli (Livorno, Giusti,
1916). Né solo all'opera italiana del nostro poeta, bensì anche a quella latin» assai
meno nota, anzi in parte ancora aft'atto ignota, benché non meno mirabile, si ven-
gono sempre iiiii di proposito rivolgendo le cure degli illustratori. Primo Vincenzo
Santoro Di Vita, in una serie di articoli pubblicata nel Fanfulla della Domenica del
1912, prese ad esporre non senza buone considerazioni e confronti il soggetto di
vari poemetti del Pascoli premiati nella gara di Amsterdam : del Veianius, della
Castanea, dei Sosii fratres hibliopolae. Senoncliè negli anni seguenti, invece di pro-
seguire con la stessa alacrità la divulgazione degli altri poemetti pascoliani editi
negli opuscoli dell'Accademia olandese, il Santoro, eh' io almen sappia, non diede
al Fanfulla se non alcune noterelle al « Ceniurio » (1914, n. 31) che additano una
derivazione assai probabile dall'Heine, e poi una garbata esposizione della PAirfi/''"
(1915, n. 1), del quale idillio spiace soltanto che non sia stato inteso a dovere,
per un curioso, se uon inescusabile, abbaglio, l'ultimo verso, dove fusum non è
certo sostantivo. Intanto il compianto Della Torre aveva già dato fuori le sue
versioni del Centuria e della Pomponia Graecina, l'una e l'altra arricchite di ampie
e solide illustrazioni critiche di quei due capolavori, oltre che di minuziose <• co-
piose note esegetiche (v. il nostro Ballettino, 1913, 371 sgg., e 1914, 55 sgg.), e,
poco dopo la pubblicazione dei due opuscoli del Della Torre, aveva già intrapreso
l'esame ordinato dei poemetti latini del Pascoli finora conosciuti, rifacendosi dai
pili antichi, cioè del Veianius e dalla Phidyle, un giovane e valente cultore degli
Eecensioni 139
gtiidi classici; voglio dire Giuseppe Procacci. Ai lettori di questo Bullettino, che
del Procacci hanno certo gustato il recente articolo sul Iiigurlha, non sarà, credo,
discaro ch'io indichi loro le altre illustrazioni pubblicate dal medesimo studioso
in altri periodici, cioè del Laui-eolus (apparsa nel periodico Italia a breve inter-
vallo dalle Note sul Veiaiiius e la PhidijU : 1914, nn. 4-5 — 1915, n. 7), della Cena
in Caudiano Nervae (nella liivieta Abruzzese, 1915; fase. IX), infine del Sermo (nella
rivista Humanitas, Novembre del 1915). È chiaro, avendo veduto la luce il Veianius
nel 1892, la Phìdyle il Laureolus e il /Scrino nel 1894, la Cena nel 1896 e il Iw-
gnrtha nell'anno seguente, che il Procacci tien dietro quasi passo passo allo svol-
gimento cronologico dei poemata narrativi pascoliani, trascurando, almeno per il
momento, quelli didascalici o georgici che voglian dirsi {Myrmedon del 1895 e Ca-
stanea del 1896) ; e, come so eh' è prossimo a uscire nn suo studio sul Reditus
Augusti, poemetto contemporaneo del Iwgurtha, così è da sperare eh' egli via via
conduca a fine l'esame di tutti i poemata fino alla Thallusa. I saggi già da lui
messi al pubblico sono arra eh' egli assolverà il suo compito recando non piccolo
giovamento alla conoscenza della grande poesia latina del Pascoli ; giacché al Pro-
cacci, come è guida sicura la sua familiarità e con la letteratura latina e con
1' opera italiana del nostro poeta, così non difetta finezza di giudizio e di gusto.
Tal contemperanza di doti appare in ciascuno degli articoli che ho qui annunziati,
dove la ricerca dei raftronti con gli antichi o con le poesie italiane dello stesso Pa-
scoli non è curiosità indiscreta e sterile, ma sempre mezzo a penetrar nello svol-
gimento dei motivi, delle note, delle tendenze \nii proprie della isiìirazione, del-
l'arte e dell' anima paseoliana. Né rileva proprio nulla per le conclusioni generali
a cui mira il Procacci, se avvenga che qualche particolare minimo e incidentale
possa aijparire non esatto del tutto a chi sappia già qualche cosa dei poemata del
Pascoli tuttavia inediti, come, \)ev esempio, l'affermazione che « la materia del
Veiaìiius non ha così ampio sviluppo (come quella della Phìdìjle) nelle poesie po-
steriori del Pascoli » : la quale affermazione sarebbe forse un po' attenuata, se il
Procacci avesse potuto conoscere non solo il titolo, eh' egli ha certamente visto
nel nutrito volume sul Pascoli del Bulferetti (Milano, Libreria Editrice Milanese,
1914; p. 12), ma anche la tela e la condotta dei Gladiatoies, il piti lungo di tntti
1 poemetti latini del Pascoli, composto subito dopo il Veianius, ma non fatto mai di
pubblica ragione. A proposito di quel poi-ma dirò anche, se non paia indiscrezione, che
in esso appnnto già si legge quella similitudine che, ripetuta, salvo pochi ritocchi
di forma, nel Sermo, è il germe della celebre poesia dei Primi Poemetti intitolata :
/ due fanciulli ').
Adolfo Gandkìlio.
*) Aggiungo qui — solo perchè chiamato nomìnataniente in cansa, con parole del reeto che ob-
hligauo la mia gratitudine ~ che non tutti 1 ratlronti trascelti dal Procacci in una nota del suo primo
articolo (p. 8 dell' estratto) al fine di esempliflcare ciò che io avevo asserito in questo 7(M;(e((mo (n. 165-
lti6, col. 270) sulle nioltiasime derivazioni nella Phidyle dai trattatisti latini di agricoltura, sono pro-
prio i pili evidenti e appropriati. Certo, per esempio, coi versi 132-133 dell' idillio {Quid, quod fur-
cìllas hìberno in teda reductas tempore, reppererit sudo modo vere labantis ?) &iizic}iè CA'
TONE De agr. 37 : « ridicas et palos, quos pridie in tecfo posuerìs, siccos dolatOy faeulas facito ecc. >>,
che son le faccende a cui può attendere il contadino nelle notti Invernali, per hiemem lucubratione
(v. anche Viro., Georg. I, 291 sg.), è da confrontare Varrone Rer. rust. I, 8, 6: « dominus Hmul ae
vidit occipitium vindemiatori», fureillas reducit Inbernatum in tecta, ut line aumptu ìia-
rum opera altero anno uti possit. hac consuetudine in Italia utuntur Reatini y*, dove abbiamo concor-
danza perfetta non solo di parole, ma pur di sostanza, e per di piii si tratta di costumanze della Sa-
bina, il paese appunto di Vhidìjle.
:
140 Eecensioni
A. G. Amatucci. Storia della letteratura romana. II. Da Angusto al see. V. Napoli,
F. Perrella editore, pp. VlII-206, L. 2.
Questo volume, di cui i lettori dell'^^ewe e Roma poterono già vedere un saggio
nel fascicolo di Luglio e Agosto del 1913, col. 213 sgg., esce a non breve inter-
vallo dal volume I (pubblicato nel 1912), perchè l'Autore ha voluto « rivederlo
tutto intero, non risparmiando cura alcuna », com'egli dichiara nell'Avvertenza.
Naturalmente l' intonazione, i caratteri fondamentali e l'aspetto esteriore dell'opera
sono rimasti gli stessi: il pensiero dell'Amatucci, partito dalla convinzione che
nella letteratura latina entrano molti elementi italici, e forte del giudizio cice-
roniano che i Bomani migliorarono ciò che presero dai Greci, viene culminando
nell'ali'ermazione che la letteratura romana « diede il primo grande, forte, dura-
turo impulso alla trasformazione del civis antico nell'uomo moderno », ed « è per
questo la letteratura che ha esercitato maggiore influenza nelle sorti dell'umanità »
(p. 7). Il sentimento della humaiiitas germogliato dal patriottismo, sentimento ma-
teriato di ansie e di speranze, si riflette nella letteratura del periodo aureo (Vir-
gilio è il «primo poeta dei tempi nuovi»), la quale compie la romanizzazione dei
generi letterari presi dalla Grecia, e suggerisce ad Augusto i nuovi ideali religiosi
e civili per l'assetto politico dell'impero. Dopo Augusto il governo dispotico an-
nienta l'attività del civis; e l'uomo, concentrato in se stesso, sente aumentare i bi-
sogni dello spirito, che la civiltà classica da sola non basta più ad appagare
(p. 112): da ciò il diverso atteggiamento degli animi, l'incertezza del pensiero e
l'indeterminatezza della forma^ che caratterizza questo periodo di transizione, il
quale, attraverso lo sforzo per trovare un ideale novello che rischiari la vita e
l'arte, prepara la fusione del pensiero romano col pensiero cristiano (p. 173).
Questi sono i concetti generali dell'opera, senza dubbio attraentissimi ed in
gran parte profondamente giusti: era tempo ormai che qnalcheduno osasse di
esprimere un'opinione propria sui caratteri, le qualità e l'importanza della let-
teratura romana, affrontando coi documenti alla mano le att'ermazioni della critica
tedesca, la quale ha sempre dimostrato una forte tendenza a svalutare le creazioni
del pensiero e dell'arte romana. Non dirò con questo che tutte le conclusioni del
valoroso Autore giungano egualmente a persuaderci. Pochi vorranno credere, per
esempio, che gli scrittori dell'età augustea ispirassero l'opera politica dell'impe-
ratore; né vien confutata abbastanza la «diceria di antichi grammatici», che è
poi l'opinione comune accettata anche dal Norden, secondo la quale Ottaviano si
sarebbe circondato dei letterati migliori per farli servire al suo programuìa di re-
staurazione civile. Forse in questo caso la via di mezzo è proprio la pili giusta:
la corte e la letteratura furono certo l'uua all'altra di reciproco giovamento, ma
né la ragione dì stato dipendeva dall'inno del poeta, né questo si peritava di al-*
zare il suo volo oltre l'aere crasso in cui si aggirava il calcolo politico del suc-
cessore di Cesare. Del resto dovremmo ripetere per questo volume qualcuna delle
osservazioni che il Prof. Eamoriuo, con la sua solita competenza ed imparzialità,
rivolse al precedente i) : il desiderio di controbattere la critica alemanna e il di-
segno nobilissimo di tratteggiare vivamente lo sfondo italico della letteratura ro-
mana conducono talora a concezioni che non rispondono pienamente alla realtà
^) Il nazionalismo negli studi dell'antichità romana ih Atene e Jiotna, XV, 160-Cl-t2, col. 144 sgg.
L'eeensioni 141
delle cose ') ; ma sono mende le quali si fauno facilmente perdonare per lo spirito
profondamente italiano, che informa tutto il libro e scende a vibrare nell'anima
del lettore.
Non posso però tacere che sulla fine l'opera appare alquanto monca. L'Ama-
tucci non parla affatto dei cristiani, perchè, egli dice, questa « nuova fiorente let-
teratura non si può intendere senza uno studio profondo del pensiero cristiano
pur ne' suoi precedenti. Essa va dunque trattata a parte » (p. 198). Non so se egli
si proponga di scrivere un IH volume sulla letteratura cristiana : certamente non
gliene manca la preparazione e la competenza, come si vede dal modo in cui
tratta la fusione tra il pensiero classico e l'ideile cristiano; ma intanto, se puro
egli scriverà il III volume, questo, per molte ragioni, non potrà entrare nell'uso
comune de' licei, e si perpetuerà, anzi si accentuerà quella lacuna che giustamente
si lamenta nella nostra coltura nazionale. La letteratura dell'ultimo secolo del-
l'impero è importantissima sia per se stessa, perchè costituisce veramente una fio-
ritura nuova, che si apre con Ausonio ed allunga le sue propaggini per tutto il
medio evo, sia per la storia nazionale ed universale, perchè ci presenta tutte le
trasformazioni e le transazioni fra il paganesimo e il cristianesimo, fra il nazio-
nalismo classico e la procellosa universalità medievale, fra Jina moltitudine cao-
tica di elementi etnici e ideali, che vengono ad urtare e a fondersi scambievol-
mente. Si tratta di nn'epoca storica e letteraria che ci riguarda molto da vicino,
come quella in cui avviene il passaggio dall'antica all' Italia di mezzo, e molte
cose ha da insegnarci specialmente in quest'ora terribile, che matura nuovi de-
stini all'umanità.
E gli scrittori di questo periodo hanno bisogno di essere studiati insieme, senza
preconcetto e senza distinzione fra pagani e cristiani, perchè Io studio degli uni
serve all'intendimento degli altri, e non è raro il caso che, come i cristiani at-
tingono abbondantemente dai classici, così i pagani prendano spiriti e immagini
dal cristianesimo. Ma l'Amatucci ha parlato piuttosto poco e forse non sempre
giustamente ambe dei pagani di questa età: « scrittore egualmente elegante »
chiama Eutilio in confronto di Claudiano, mentre Rutilio è sì importante per il
contenuto e pregevole per la sincerità del sentimento, ma resta ben lontano dalle
bellezze formali e dagli alti concetti che s' incontrano nel cantore di Proserpìna
e di Stilicone. Ammettiamo pure che Claudiano sia ricorcato ; ma i)erchè l'Autore
afferma : egli « ha avuto, a parer nostro, da antichi e moderni lodi superiori
a' suoi meriti reali »? L'Amatucci sa che ben pochi scrittori sono stati imitati da
sommi ingegni con la stessa fortuna di Claudiano, da cui il Poliziano ha para-
frasato molte delle sue cose più belle, e l'Ariosto e il Tasso hanno preso lo spunto
di immagini e creazioni divine : non gli pare che questo ridondi tutto ad onore
del poeta e dell'arte sua? Anche il diseguo ed i caratteri almeno de De rapiu
Froaerpinae avrebbero potuto essere accennati : ci dà dei sunti così utili ed oppor-
tuni per le opere delle età precedenti ! perchè nulla di questa ?
Sarebbe pertanto, a mio parere, desiderabile che il chiaro Autore in una se-
conda edizione, che auguriamo prossima, ampliasse gli tiltimi capitoli del II vo-
lume ed aggiungesse ciò che vi manca. Tuttavia, anche così com'è, questo bel libro
merita la migliore fortuna, perchè è un testo ottimo i)or la gioventìi, che vi tro-
ll Per esempio è forse troppo afttìrmaro che « la letteratura romana dal I al V secolo è l'espres-
sione del pensiero italico.... », perchè proprio in questo periodo si compie la irresistibile invasione di
elementi stranieri
142 Eecensioni
vera sano aliiueuto per la formiizione di una coltura e di un carattere italiani,
ed è non meno ntile per le sue note illustrative e bibliogratiche alla comune degli
studiosi, fra i quali era fortemente sentito il bisogno di una guida facile ed ac-
cessibile a tutti.
Aprile del 1918.
P. Fabbri.
G. Sanna. La Cicilia del Mediterraneo. Voi. I, dai tempi più antichi all'anno 887
d. C. — Napoli, Casella, 191B; pp. VII-401.
£ un libro modestamente destinato alle scuole medie italiane, e, per quanti)
ne sieno state fatte delle tirature speciali ad uso dei Ginnasi, particolarmente «kIì
Istituti Tecnici. Tuttavia, anzi, direi quasi, appunto per rjuesta ragione, è ben
che ne sia fatto un cenno anche su queste colonne, dato il carattere speciale che
esso ha e che lo rende altamente benemerito della scuola e della cultura. Anzi-
tutto mi preme di rilevare il pregio suo jnù immediatamente notevole: è un libro
scritto bene, in un ottimo italiano, con una forma limpida e scorrevole, come di
rado si trova in volumi del genere, i quali risentono più o meno la fretta del
compilatore e la non completa fusione delle fonti onde egli si è servito. Invece
il S. ha scritto delle pagine che si leggono tutte di un fiato, e che rendono pia-
cevole l'opera sua anche a chi, ahimè !, da troppo lunghi anni ha abbandonato i
banchi scolastici.
A questo bisogna aggiungere un altro pregio non piccolo. L' A. non ha fatto
una delle solite compilazioni, che, in fondo, non sono se non una filza più o meno
lunga di fatterelli e di aneddoti, tra i quali chi legge non riesce a raccapezzare
il filo conduttore e quell'intimo legame storico, senza del quale i fatti, presi a sé,
non dicono proprio nulla, e non significano niente. Egli presenta qui un vero e
proprio sistema storico, nel quale i fatti, collegati a grandi linee tra loro, sono
poi tutti disposti in maniera da mirare alla dimostrazione del modo in cui è sorta,
si è sviluppata, è finalmente decaduta la grande civiltà del Mediterraneo, e s]>e-
cialmente della Grecia prima e di Roma poi. E, per far capire nella sua interezza
tutta questa meravigliosa Civiltà, l'A. non parla soltanto delle guerre fatte e delle
vittorie o delle sconfitte riportate o subite dai popoli la cui vita rientra nel qua-
dro eh' egli ha composto, ma espone anche le tracce della loro vita spirituale,
nella sua duplice manifestazione di letteratura e di arte figurata. Questo è per
me il lato piìi bello del libro, nel quale quanto di meglio hanno prodotto nel
campo letterario ed artistico tutti i popoli del bacino del Mediterraneo è saga-
cemente illustrato e precisamente esposto. Anche se qua e là si può dissentire nei
giudizi espressi su qualche opera e qualche autore antico ; anche se — non fre-
quentemente, però — è dato di rilevare alcuni veri e propri errori di apprezza-
mento e di fatto ; tuttavia, come sintesi, e specialmente come sintesi destinata a
mostrare la coordinazione di tutti gli elementi di vita e di civiltà in una linea
evolutiva che procede diritta dal principio alla fine, non si potrebbe desiderare
di meglio. .Appunto per questa ragione ho voluto mettere in rilievo i pregi del
libro : se tutti quelli destinati alle nostre scuole non classiche facessero tanto bene
e giovassero attrettanto alla conoscenza della vita classica, il classicismo potrebbe
dire di aver fatto un buon passo innanzi e di aver vinto una bella vittoria. Il S.
ha .scritto delle pagine ottime, ({uando ha parlato della civiltà Greca e Romana,
Eeeensioni 143
e quando ha narrato ]a sna trasformazione soprattutto per impulso del Cristiane-
simo, del quale mette in luce i principi ed i caratteri (forse con po' troppo di spi-
rito alla Renan '.}.
È per questo che il volume, destinato alle scuole, meriterebbe invece uua i)i{i
ampia ditì'usione, specialmente tra lo persone più o meno colte, non nutrite di
studi classici. Sarebbe la sua fortuna davvero meritata.
Nella prossima edizione, che auguro venga fatta a breve scadenza, sarelibe
opportuno che venissero introdotte due modificazioni. Ho già detto di sopra che
il S. si preoccupa specialmente, per dir cosi, della linea degli avvenimenti. E fa
benissimo. Ma per questo trascura un po' troppo la parte leggendaria ed aneddo-
tica della storia. La quale h pur necessaria in un libro che deve andar per le
mani degli scolari, e potrebbe del resto venir facilmente introdotta sotto forma
di note o con distinzione di carattere tipografico. Ne guadagnerebbe così anche
la completezza della esposizione, che, accanto all'elemento di fatto inchiderebb©
anche quello meno ponderabile, ma sempre importante, che è dato dalla tradizione.
In secondo luogo occorre che la prossima edizione sia corredata di molte figure
e di carte geografiche, che ora mancano affatto. In un libro riassuntivo non si può
parlare d'arte che per via di brevissimi accenni, i quali non possono dare la luce
che meritano le opere onde si discorre. Le figure valgono assai più di un cenno
o di una descrizione, e, quel eh' è meglio, servono ad imprimere nella mente di
chi legge, in maniera indelebile, l'immagine di quel che di bello e di grande l'arte,
soi)rattutto quella classica, ha prodotto.
N. Terzaghi
LIBRI RICEVUTI IN DONO
Pubblicazioni dell' « Atene e Roma », Seziono di Milano : C. Pascal. Jttilio De
2Iarchi. Segue uua bibliografia degli scritti del Dk Marchi composta dal prof.
A. Calderini, 1916, iu-8, p. 42. L. 1.
G. Zuccantk. / Cirenaici, 1916, in-8, p. 40. L. 1.
P. Savi-Lopez. Il ritorno degli dei, 1916, iu-8, p. 29. L. 1.
« Bibliotheca Scriptorum Graecorum » pubblicata dalla ditta G. B. Paravia : Eu-
ripide. Gli Eraclidi comment. da G. Ammendola, p. 126. L. 1,80.
EuRiPiDis. Andromache curante Josepho Ammendola, p. 50. L. 0,60.
Euripide. Andromaca comment. da G. Ammendola, p. 153. L. 2.
SoPHOCLis. Philoctetes curante H. De Marchi, p. 76. L. 0,80.
E. Cocchia. Il ritmo del discorso studiato in rapporto alla pronuncia e alla lettura
dei versi classici. (Estr. dall' « Athenaeum », 1916, fase. II). Pavia, 1916, p. 38.
— — Jl ritmo del discorso studiato in rapporto col fenomeno della distrazione omerica,
della legge di posizione e della evoluzione dei suoni. (Estr. dalle Memorie della
R. Accad. di Napoli, N. S. voi. V., p. 153-216), Napoli, 1916.
Uè Vallanriano praemio adiudicando liiteris latinis in quadriennium Ì911-1914 pro-
posito scripsit H. Stampini. Torino, Bona, 1916, in-8, p. 7.
In honorem l'auli Boselli scripsit H. Stampini. — Honori Pauii Boselli gloriae terre-
slris exercitus maritimae atque aeriae classium prò patria pugnantium D scripsit
H. Stampini.
144 Libri ricevuti in dono
O. Caiati. Una nuora ipotesi sulle origini dell'incendio neroniano. (Estr. dalla « Ri-
vista d'Italia », Maggio, 1916, p. 705-728).
G. Ammkndola. Andromaca sposa e madre in due tragedie di Euripide. (Estr. da
« Humanitas », Rassegna della Rep. di S. Marino, II, 5), 3 916, p. 7.
C. Pascal. Commemorazione di Giovanni Canna. (Estr. dal « Rendiconti del R. Istit.
Lorab. », voi. XLIX, p. 409-427). Milano, 1916.
Il discorso (i'iPKRiDE in onore dei caduti nella guerra Lamiaca trad. per la i)riiua
volta in ital. da L. Lkvi. A^enezia, G. Fuga, 1916, in-8 gr., p. 23. L. 1,50.
[Si vende a benefìcio del Comitato per gli Irredenti].
G. Bellissima. Aulo Gellio cowpendiatore di T. Livio ? Siena, Tip. F.iì. S. Bernar-
dino, 1916, in-8, p. 13.
— — Per la partecipazione degli alunni del li. Liceo di Siena al Prestito Nazionale
del 1916. Siena, 1916, in-8, p. 10.
— — Le monete consolari esistenti nel Museo dei Fisiocrilici . I. Prospetti. (Estr. da-
gli Atti della R. Acoad. dei Fisioeritici). Siena, 1916, in-8, p. 17.
G. Ammkndola. V Andromaca di Euripide [traduzione]. Como, Tip. Longatti, 1915,
in-8, p. 22.
G. Patroni. Antropologia e storia antica ; a proposito di due libri recenti. (Estr. dai
« Rendiconti della R. Aecad. dei Lincei», voi. XXIV, 7-8). Roma, 1916, p. 46.
■^ Atilius Dr-Marchi. Disticha. Milano, 1915, in-8, p. 12.
G. Costa. Ancora sulla Lavdatio Turiae. (Estr. dal « BuUettino della Comm. Ar-
cheol. Coniun., 1915). Roma, Loescher, 1916, in-8, p. 40, con una tavola.
\V. A. Oldfather. Ivscrijìtions front Locris. (Repr. from « The Aiuerican Journal
of Archeol. », Second Series, Voi. XIX, 1915, p. 320-339).
The Varus Episode. (Repr. from « The Classical Journal », XI, 1916, p. 226-36).
G. Glotz. Le droit des gens dans l'antiquité grecque. (Mémoires de l'Académie des
Inscriptions et Belles-Lettres). Paris, 1915, in-4, p. 17.
Ed. Cuq. Une statistique de locaux affectés à Vhabitation dans la Eome imperiale.
(ibid.), Paris, 1915, in-4, p. 61.
Date le difficili condizioni del lavoro tipografico, anche
questo fascicolo esce con molto ritardo. — I nostri soci ed
abbonati ci terranno conto di avere sinora mantenuto inva-
riato il numero delle pagine, nonostante l'enorme aumento
nel prezzo della carta. Forse saremo costretti ad una qiial-
che riduzione nei fascicoli successivi.
LA DIREZIONE.
P. E. Pavolini, Direttore. — Giuseppe Santini, Gerente responsabile.
600-91G - Firenze, Tip. Enrico Ariani, Via Ghibellina, 51-53.
Anno XIX.
Luglio-Agosto-Settembre 1916.
N. 211-212 213
Al^ENE E ROMA
BULLETTINO DELLA SOCIETÀ ITALIANA
PER LA DIFFUSIONE E L'INCORAGGIAMENTO DEGLI STUDI CLASSICI
Sede centrale: FIRENZE, Piazza S. Marco, 2
Direzione del Bullettino Abbonamfnto annuale. . L. 8 —
FIrenie - 2, Piaiza 8. Mnroo D" fascicolo separato . . 1 —
Amministrazione
Viale Principe Eugenio 29, FIrente
L' ORIGINE BEL ' NURAGHE ' SARDO
E LE RELAZIONI DELLA SARDEGNA CON L'ORIENTE
I lettori di questo Bullettino non avranno certo dimenticato il
bell'articolo di G. G. Porro intorno a,gV Influssi dell'oriente preellenico
sulla civiltà primitiva della Sardegna M. Caduto gloriosamente per la
patria, l'autore non potè vederlo pubblicato, ne io ebbi la consolazione
di poter manifestare al giovane collega il mio compiacimento pel suo
eccellente lavoro, e insieme di poter richiamare la sua attenzione so-
pra qiuilcbe punto che aveva bisogno di essere approfondito e chia-
rito. E il mio compiacimento per lo scritto del Porro era ed è tut-
t'altro che impersonale; poiché io vedevo in quello fruttificare per
gran parte la semenza d' idee da me gettata (specialmente nella me-
moria su Nora) intorno ai piìi ardui problemi della preistoria sarda
ed ai rapporti dell'isola con l'oriente; e vedevo un giovane, che pur
non era stato alla mia scuola, dopo avere coscenziosamente studiato
l'argomento, trovare che « ancor oggi » dopo tanti anni, le soluzioni
da me proposte si presentano come « le più giuste ». Lealtà ignota
agl'invidiosi d'ogni età ed a taluni ' arrivisti ' modernissimi.
Non del tutto esatto è però il posto assegnatomi dal Porro tra
i fautori della tesi che i Shardana « non fossero altri che i Proto-
sardi ». Senza dubbio, io ammetto che alla spedizione contro l'Egitto
prendessero parte gli abitanti dell'isola di Sardegna, che già dove-
vano avere sviluppata una civiltà con caratteri propri; ma ammetto
pure che a costituire questa civiltà contribuissero elementi etnici
venuti dall'oriente; anzi ammetto perfino che questi elementi etnici
1) Cfr. A. e B., XVIII, 1915, pag. 145 sgg.
Atene e Rorna.
146 <?. Patroni
(che non è necessario credere numerosi, né arrivati tutti in una volta,
così come né l'una cosa né l'altra sono necessarie per gli Etruschi)
portassero essi dall'oriente il nome di Shardana, lasciando tracce di
sé nei paesi d'origine e lungo la via, e formando un parallelo, o se
si vuol meglio un precedente, dei Tirreni-Etruschi '). Siccome ix)i
tale infiltrazione, affatto preistorica, avrebbe avuto luogo prima delle
guerre contro l' Egitto (sec. XIII-XII a. C.) e con esse non avrebbe
il minimo rapporto, così questo fatto storico non ha per me in al-
cun modo la importanza che ha per i sostenitori di altre tesi, p. es.
per coloro che fanno arrivare i Shardana in Sardegna dopo le guerre
egizie, ovvero per quegli altri, i quali delle probabilità che i Sbar-
dana combattenti in Egitto fossero appunto i Sardi isolani, si val-
gono per accentuare il carattere occidentale della civiltà di Sardegna.
Sebbene, quindi, nel valutare i rapporti tra la Sardegna e l'an-
tico oriente, io adoperassi, come riconosce il Porro, parole «misurate»,
tuttavia quelle relazioni io credevo e credo piti intense e più fonda-
mentali per le origini stesse della singolare civiltà dei nuraghi, che
il Porro medesimo non abbia ammesso. Credo anzi che lo stesso edi-
ficio nuragico sia d'origine orientale, e che la spiegazione della ge-
nesi del nuraghe, sostituita oggi, dopo la luce apportata dai benemeriti
ricercatori Taramelli e Nissardi, a quella erronea del Pinza, sia da
dichiarare essa medesima oltrepassata ed inesatta. Dimostrare ciò, è
lo scopo di questo scritto.
*
* *
La genesi del nuraghe é oggi spiegata, come diceva il Porro,
mediante l' ipotesi della discendenza di esso « dalla capanna circolare
neolitica, coperta di rami e di frasche ». Qui però il valente giovane
si espresse poco chiaramente, come accade spesso a chi riassume ma-
teria a lui nota, ed é tratto a supporre in altri egual notizia delle
cose, sì che possano bastare cenni anche imperfetti. Ma i lettori non
archeologi o non versati nella materia avranno anche potuto credere
che la capanna madre del nuraghe sia supposta già con pareti di
pietra, cilindriche, e soltanto coperta di rami e di frasche; sicché
tutta la novità del tipo si ridurrebbe alla sostituzione della copertura,
alla trasformazione di un tetto rotondo in una cupola ottenuta per
aggetto progressivo dei filari di pietre soprapposti. Una tal capanna
non esiste, o non é quella del neolitico europeo e mediterraneo; me-
') Nora, colonia fenicia in Sardegna, in Mon. dei Lincei, XIV, col. 1.50, in nota.
I/orlgine del ' Nuraghe^ Sardo e le relazioni della Sardegna con Variente 147
glio sarebbe stato dire « costruita » anziché « coperta ». Ma perchè
la cosa sia più chiara, sarà utile esporre più ampiamente, con le pa-
role del Taramelli, cui il Porro rimandava in nota, la teoria che qui
mi propongo di mostrare errata.
« [Il nuraghe] nasce direttamente dalla capanna di frasche e di
« fango, dalla capanna di pali rotonda, tipica delle popolazioni primi-
« tive, rotonda perchè ha per centro il focolare, con alta copertura,
« forata nel centro, con volta ottenuta dal graduale restringersi del
« frascame. Da questo motivo fondamentale ha nascita il nuraghe,
« che ne è la tranformazione diretta ed è prova di ardimento costrut-
« tivo, oltre che della coesione disciplinata della famiglia che lo ha
« costrutto. A questo stadio architettonico la gente di Sardegna giunse
« prima, giunse forse sola fra le genti del Mediterraneo, mentre in-
« vece presso le genti preistoriche della Grecia, di Greta e della Si-
« cilia si continuarono le costruzioni delle capanne modeste.... » ')
(cioè di pali e frasche).
Ecco ora, di contro a questa teoria, la mia tesi:
il nuraghe sardo non deriva dalla capanna preistorica (neoli-
tica) europeo-mediterranea di pali e frasche, bensì dalla capanna co-
nica di mattoni crudi, d'origine asiana (caldea), trasferita in Sar-
degna dalle spiagge dell'Egeo, ove essa è rappresentata in strati
premicenei.
*
Non è necessario spendere molte parole nella confutazione della
teoria che deriva il nuraghe sardo dalla capanna di pali e frasche.
Potrei anzi entrare direttamente nella dimostrazione della mia tesi.
Tuttavia non credo del tutto inutile accennare brevemente che, an-
che senza la mia nuova teoria, ed anche se non fosse possibile arri-
vare oggi ad una teoria fondata, non mancano diflflcoltà intrinseche,
le quali costringerebbero ad andar molto ma molto adagio nell'accet-
tare la derivazione suggerita dal Taramelli. Si potrebbe anzitutto
domandare perchè mai la sola Sardegna avrebbe data della capanna
di pali e frasche una così esageratamente ingrandita e appesantita
traduzione lapidea, com'è il nuraghe. Che altro è conservare e svi-
luppare un tipo ricevuto, altro è crearlo. È facile, o non difìBcile, in-
dicare le ragioni per cui la Sardegna si attenne sostanzialmente al
') A. Taramklli e F. Nissardi, L'altipiano della Giara di Geaturi, in Mon.
dei Lincei, XVIII, col. ]14. Il corsivo non è dell'antore.
148 O. Patroni
tipo primitivo della casa rotonda monocellulare, portandolo allo svi-
luppo massimo di torre con cupola e con particolari complicati; e in-
vece non accettò i tipi i)rogrediti della casa orientale e mediterranea,
né quello a megaron, ne quelli che, pur non avendo una sala pre-
ponderante, hanno in comune col tipo rappresentato a Troia, Tirinto
e Micene, e con altri tipi orientali ed egizi, la corte intorno a cui
si distribuiscono le stanze (come nei palazzi minoici, di tipo diverso
da quelli a megaron). E ben si può consentire col Taramelli e col
Porro, che la ragione probabile di questo mancato accoglimento dei
tipi rettangolari piìi sviluppati, da parte dei Protosardi, « è da ricer-
« carsi nella loro costituzione sociale, nella mancanza di unità in-
« tema e nella scarsa sicurezza delle spiagge, formanti un ambiente
« in contrasto con la serena tranquillità cretese, quale ci appare dai
« vasti palazzi regali, non troppo saldamente difesi, dalle ville fidu-
« ciosamente erette a breve distanza dal mare». Ma quando noi avremo
approvato il contenuto di questo periodo, ci saremo si reso conto del
persistere del nuraghe, non già dell'origine di esso.
Ancor più grave è forse un'altra obbiezione. Il Taramelli, di cui
non per nulla abbiamo voluto riferire le parole, ammette che la ca-
panna di pali e frasche, precorritrice e madre del nuraghe, avesse
uh' « alta copertura ». Ma noi di ciò non sappiamo nulla ; i dati
della etnografia indicano l'esistenza di capanne di materiale leggero
tanto di forma alta, quanto di forma bassa, come quelle dei Waganda,
e perfino emisferiche o ancor più schiacciate, come quelle dei Cafri.
Chi ci dice che in Sardegna esse abbiano avuto la forma alta? Le
capanne neolitiche europeo-mediterranee erano anzi semisotterranee,
e la loro copertura si presume bassa e non alta, come si può desu-
mere dai fondi che ne avanzano. Che se poi si fosse trattato di ca-
panne tutte piantate sopra il suolo, esse non potevano essere sostan-
zialmente diverse da quelle della prima età del ferro, di cui abbiamo
imitazioni contemporanee nelle ben note urne a capanna italiane. E
queste sono a tetto basso o bassissimo, specialmente poi nella forma
testudinata (che sola, e non la fastigiata, poteva servir di modello a
una cupola). iSi veda l'urna a cai)anna di Vetulonia del Museo di Fi-
renze, notissima e riprodotta dal Milani fin dalla prima edizione del
suo Museo topografico dell' Etruria. Analoghe sono due urne fittili a
capanna di Festo (Creta). Aggiungi poi che il clima della Sardegna,
tormentata da venti fortissimi, avrebbe consigliato, se mai, di spro-
fondare del tutto le capanne nel suolo, o di costruirle più basse che
fosse possibile, a meno di non volerle vedere balzare in aria più volte
L'origine del 'Nuraghe ' Sardo e le relazioni della Sardegna con l'oriente 149
all'anno a guisa di cervi volanti. Basso e non alto è pare il tetto
delle capanne-ricovero dei pastori laziali, che ci conservano il tipo
preistorico, mentre si trova qualche indicazione di tetto alto e molto
spiovente nelle urne a capanna della Germania, e si può ragione-
volmente presumere una più alta forma di copertura nei paesi dal-
l'inverno nevoso, ciò che non è certo il caso della Sardegna. Per
concludere su questo punto, non vi è nessuna ragione tectonica che
obblighi il costruttore di capanne di pali e frasche a tenere alto il
tetto ; e presumere che lo facessero proprio i Protosardi, per poter
da così fatte capanne derivare i nuraghi, è una petizione di principio
contraria ad ogni dato attendibile.
*
« »
Se nulla fosse rimasto ad attestarci uno stadio di sviluppo re-
motissimo, anteriore al nuraghe, della casa rotonda monocellulare a
cupola, e se quindi fossimo costretti a contentarci d'ipotesi tratte da
tutto il resto delle nostre cognizioni, io credo che pur sempre noi
potremmo ritenere assai fondata l'ipotesi da me enunciata. Lo svi-
luppo delle costruzioni a tholos nel bacino egeo conduce inevitabil-
mente dalla Sardegna verso l'oriente; che non è ammissibile una as-
soluta indipendenza delle due manifestazioni simili, quantunque deb-
basi ammettere che, dai medesimi germi primitivi, siansi avute due
evoluzioni in parte divergenti, e ciò specialmente per quel che con-
cerne lo scopo delle costruzioni, nell'Egeo destinate ai defunti per
tomba, in Sardegna ai vivi per abitazione fortificata e vedetta. Più
che legittimo è poi il postulare per quello stadio remotissimo di tali
costruzioni, da cui si spiccò il ramo delle tholoi egee e quello dei nu-
raghi sardi, un materiale più primitivo, ma nel quale si potè ottenere,
col medesimo metodo applicato dipoi alle pietre squadrate, il mede-
simo effetto della cupola chiudentesi a poco a poco per il progressivo
aggetto dei filari sovrapposti ') ; e questo materiale non poteva essere
se non il mattone d'argilla seccato al sole, di cui in età preellenica
son fatte le mura dei megara, allo stesso modo che più tardi, in età
classica, son fatte di pietra e di marmo le mura dei templi e poi
d'altri edifìci. Ma una tal forma di casa o capanna, a cupola conica
di mattoni crudi, deve esser nata senza dubbio in paesi privi o po-
') Ciò ohe non è della capanna <U pali e frasche : il « graduale restringersi
del frascame », che si legge nel periodo del Taramelli dianzi citato, non 6 che illu-
sione fraseologica. Il frascame si restringe si, ma sopra l'ossatnra di legno che
ha già la forma del tetto.
150 G. Patroni
verissimi d'alberi, dove l'uomo, non potendo altrimenti costruirsi un
tetto, si vide forzato ad ingegnarsi di «oprire il suo abituro col me-
desimo materiale delle pareti, e fu spinto così a quella meravigliosa
invenzione della cupola e dell'edificio unitario, che di evoluzione in
evoluzione doveva poi condurre alle somme creazioni artistiche del
Pantheon, di Santa Sofia, di S. M. del Fiore e di S. Pietro. Noi
siamo dunque indotti a cercare la patria di questa forma primitiva in
una delle due terre-madri della civiltà, l' Egitto o la Caldea, che sono
entrambe o povere o prive di alberi, e che entrambe offrono da
tempo immemorabile, nel limo che forma il suolo della valle del Nilo
o della bassa valle dell' Eufrate, il materiale per le abitazioni dei ])0-
veri. Ancor oggi queste sono di fango più o meno preparato, che si
ottiene in sostanza, come nella remota antichità, tagliando a fette il
terreno e sovrapponendo poi queste fette, alquanto essiccate, per for-
marne le pareti. Se non che in Egitto si trova fin da età primitiva
la forma d'abitazione a stanza rettangolare, come hanno dimostrato
tra gli altri gli scavi di Abydos; e forse contribuì a ciò la possibi-
lità che hanno oggi i fellahs e che ebbero sempre gli antichi Egizi,
di procurarsi almeno dei nervi di palma per farne soffitto alla stanza,
rivestendoli poi di terra battuta. E, per esclusione, non resta ormai
che la Oaldea, ben nota anche altrimenti come patria della struttura
a cupola, e dove non si trovava alcun albero, nemmeno la palma.
È vero che la Caldea, l'Assiria sua discepola e le altre archi-
tetture asiane che ne derivano, conobbero poi (seconda invenzione
importante e gran passo sulla via dello sviluppo) la vera cupola emi-
sferica, distinta tettonicamente dalla parete. Ed è vero pure, quindi,
che i popoli che, piti tardi, nel bacino occidentale del Mediterraneo,
costruirono tholoi funerarie attenendosi al sistema della falsa cupola
ad aggetto, e mostrando anzi di non conoscere la vera cupola (come
gli Etruschi), manifestano per ciò stesso che la loro arte non profonda
pili radici vive nel snolo asiano, ma deriva, quale ramificazione se-
condaria, dal submiceneo. Se non che, quanto si può legittimamente
dedurre in periodi posteriori per l'architettura mediterranea in pietra
già sviluppata, non regge per i periodi più remoti che adoperavano
il materiale primitivo. È certo infatti che anche i Caldei, prima della
vera vòlta a cunei e della vera cupola emisferica, distinta dalle pa-
reti verticali, dovettero conoscere la cupola conica ad aggetto, che
sale dal suolo in profilo continuo, e la falsa vòlta. Quest'ultima anzi
è stata perfino ritrovata in sitn dove le circostanze ne hanno per-
messo la conservazione, in tombe di Muqejer, l'antica Ur, e in un
Vorigine del ' Nuraghe ' Sardo e le relaxioni della Sardegna con l'oriente 151
canale di Bl Hibba. Nulla perciò si oppone all'ipotesi che, in un
tempo remotissimo e anteriore all' invenzione della vera vòlta e della
cupola emisferica, nascesse in Caldea, e di là si propagasse sul Medi-
terraneo attraverso l'Asia anteriore, la cupola conica di mattoni crudi.
Fin qui difendo la mia ipotesi come tale; ma confido promuo-
verla al grado di teoria, dimostrando:
1° che la cupola conica di mattoni crudi fu effettivamente usata
come abitazione nella Mesopotamia antica ;
2° che essa persiste tuttora almeno in regioni limitrofe;
3° che capanne rotonde del medesimo tipo e materiale, a guisa
di piccoli o embrionali nuraghi, sono rappresentate nel bacino del-
l'Egeo, in strati premicenei.
Il bassorilievo di Kujungik (Ninive), che qui riproduciamo 'j, rap-
presenta un gruppo di case (fig. 1) che si può dire un campionario
delle maniere di costruire usate
dagli Assiri. Vi troviamo coper-
ture piane, a terrazzo, che da
quanto si conosce dell'architet-
tura assira è presumibile ricopris-
sero piuttosto una vòlta a botte
in mattoni, anziché un sofiStto di
legno. Vi troviamo la nota cu-
pola emisferica della Caldea e del-
l' Assiria, che qui non e' interessa
in modo particolare. E vi troviamo
infine, al fondo del gruppo, le alte
cupole coniche, foi'ma primitiva e
anteriore alla invenzione della
vera cupola, rimasta però sempre
in uso nei villaggi poveri, sino ai
nostri giorni. Queste cupole do-
vevano essere, come tutti gli al-
tri edifici assiri, di mattoni crudi;
ed erano così alte perchè la chiù- ^''"- ^ ~ J^iu^v,, ,ii KujHnjiik (Ninive).
sura si otteneva per aggetto progressivo dei filari sovrapposti, cioè
facendo sporgere un poco il filare superiore su l'inferiore, verso l'in-
Layard, The Momtments of Niniveh, serie II, t.av. 17.
152 G. Patroni
terno, in modo che il cielo della capanna o casa s'andasse restrin-
gendo. È chiaro che con tale sistema la chiusura viene portata assai
in alto; né si possono ottenere cupole emisferiche, perchè lo sporto
di ciascun filare su l'inferiore sarebbe eccessivo, a tutto danno del-
l'equilibrio, e la cupola rovinerebbe. Qui l'altezza non è arbitraria,
come, nelle costruzioni di pali e frasche, ma è necessità teetonica.
Il nostro rilievo ci mostra il villaggio in un paese ondulato di
dossi e con piante d'alto fusto. È noto che l'Assiria non è più così
piatta e nuda come la bassa valle dell' Eufrate, ma, spostando il
proprio centro sul Tigri, costituisce come una soglia di passaggio
dall'antestante bassura caldea alla retrostante regione montuosa. Vi
sono perciò ed alberi e pietre. Tuttavia è del pari notissimo che gli
Assiri furono talmente dipendenti dall'arte caldea e così pigri e ne-
ghittosi nello sfruttare le ricchezze del proprio suolo, da essersi at-
tenuti sempre al medesimo materiale caldeo, il mattone crudo, ed ai
medesimi sistemi di costruzione a vòlta ed a cupola. Sicché non può
dubitarsi che anche la forma primitiva della cupola ad aggetto in
mattoni non provenisse dalla Caldea. Altre forme ed altro materiale
ci aspetteremmo se si trattasse d'una costruzione indigena o prove-
niente dal nord. Tutto ciò è così comunemente ammesso, che gli orien-
talisti e gli autori di storie generali dell'arte si valgono appunto di
questo bassorilievo per dimostrare i tipi di costruzione dell'Assiria
e della Caldea.
Se poi vogliamo vedere da vicino come fossero costruite queste
capanne, di cui il rilievo di Kujungik ci fornisce lo schema o pro-
filo, non abbiamo che a dare un'occhiata alla flg. 2, che riproduce
la fotografia di un villaggio attuale del Curdistau. E così rimane
provata la persistenza del tipo ; anzi una identità veramente sorpren-
dente. È perfino riconoscibile in talune di queste capanne, quantunque
sbocconcellata, la sagoma terminale superiore a guisa di bottone d'un
berretto conico o pileo '), che offre il rilievo ninivita. Negli zoc-
coli di pietra, negli stipiti di massi squadrati sovrapposti e negli ar-
chitravi monolitici, che qua e là ricorrono in queste capanne curde,
costruite i)el resto in mattoni seccati al sole, si coglie allo stadio ini-
ziale il processo di trasformazione, la sostituzione della pietra al ma-
teriale originario, che avvia la capanna conica a divenire un piccolo
nuraghe semjdice.
') Tale si presenta in profilo ; ma trattasi di un cercine che circonda il foro
praticato nella sommità della cupola.
Vorigine del 'Nuraghe ' Sardo e le relaeioni della Sardegna con Voriente 153
E se il viaggio tlalla Caldea o dal Cnrdistan alla Sardegna sem-
brasse un po' lungo, ecco piìi che a mezza strada, nel bacino del-
l'Egeo, avanzi di capanne preistoriche rotonde, con zoccolo di pietra
e con pareti di mattoni crudi che si andavano chiudendo a cupola.
Le flgg. 3 e 4 danno due vedute di una di tali capanne, trovate ne-
gli scavi di Orcomeno ed appartenenti al piìi profondo degli strati
premicenei, che senza dubbio risale al III millennio avanti l'èra no-
stra '). L'una ci presenta lo zoccolo ancora ricoperto dagli avanzi
Fig. - — Villaggio del Cui'di.stau.
delle pareti in mattoni ; l'altra il medesimo zoccolo posto a nudo.
Altre capanne dello stesso strato di Orcomeno presentarono parecchi
filari di mattoni crudi, che danno già buona parte del profilo in al-
tezza; e chi osservi le ricostruzioni grafiche dalle cupole, proposte
dal Bulle, non potrà non riconoscere la grande affinità di queste abi-
tazioni ai nuraghi più semplici.
È da notare che lo strato archeologico di Orcomeno immediata-
mente superiore a quello delle capanne a tholos, ma ancora premi-
1) BuLLK, OrchomenoH, I : die alteren Aneiedelungstchichten ; in Abhandl. d. phi-
l08. - philol. Klaase d. K. iaijerisehen Jkademie d. Wiasensch., XXIV, parte 2^ (1907).
Le nostre figg. sono tolte dalla tav. XI' dell'opera.
154
G. Patroni
ceneo, dà tipi ellittici; ed anche di questi si trova l'eco occidentale
nei talayots e nelle navetas delle Baleari, e sporadicamente nella
stessa Sardegna; il che conferma sempre piìJ la provenienza del
tipo costruttivo sviluppato poi nel bacino occidentale, dal bacino
orientale, ove lo troviamo appunto, con la funzione d'abitazione, in
quello stadio primitivo da cui si dipartono i due sviluppi divergenti :
lo sviluppo egeo in tholoi funerarie, che conservarono ritualmente il
Fis
lìesti di caijaiiiia cou cupola i\\ mattoni a Orcoiiieno.
primitivo tipo della casa, mentre l'abitazione stessa assumeva altri
tipi; e lo sviluppo sardo-occidentale, in cui s'insistè nella primitiva
funzione del tipo, consolidandolo mediante la traduzione lapidea e
ampliandolo nei soli modi possibili, con la creazione di nicchie pra-
ticate nello spessore delle pareti, e di una camera sovrapposta alla
cupola terrena.
Ma, senza lasciarci distrarre da argomenti concomitanti e da
soggetti aifini, che ci trarrebbero troppo in lungo, fermiamoci a con-
siderare la teoria del Bulle intorno alla casa primitiva monocellulare
a cupola conica costruita per aggetto. Il Bulle ha i due non piccoli
meriti di aver riconosciuto il rapporto fra il tipo delle capanne di
L^ orìgine del ' Nuraghe^ Sardo e le reiasioni della Sardegna con l'oriente 155
Orconieno e i nuraghi sardi, e di aver indagato sufficientemente, ad
illustrazione di quel tipo primitivo, il campo etnograftco. Ma o la
scarsa diffusione che forse la sua memoria ha avuto in Italia, o i
gravi errori di principio e le gravissime lacune nel campo dell'ar-
cheologia orientale e dell' egittologia, che inficiano la sua teoria, hanno
finora impedito agli studiosi di cose sarde il trarre profitto delle sco-
perte di Orcomeno.
Fi>l. 4 — Zoccolo della, capanna qui a fronte, messo a nudo.
11 Bulle non ha veramente una teoria chiara, nettamente formu-
lata; anzi la sua esposizione è parecchio confusa. Ma dall'insieme
possono ricavarsi i seguenti punti :
1° La capanna a cupola conica di mattoni crudi è in fondo
la stessa cosa della capanna di frasche rivestita d'argilla. Si ottenne
dando al rivestimento un grande spessore in modo da farne una vera
cupola di terra argillosa ; poi si pensò di fare a meno dell'anima di
legno, giacché le curve costruttive, che nel legno si producono spon-
taneamente, insegnarono le condizioni statiche per la costruzione
d'una cupola libera in argilla.
2" La capanna a cupola conica di mattoni crudi è invenzione
d'un popolo settentrionale, destinata a jìroteggere dal freddo e dalla
pioggia. Essa viene dal nord, almeno nel territorio greco.
156 O. Fatronl
3" Per gli altri territori il Bulle non vede nulla di cliiaro
nella distribuzione geografica, e, senza esprimersi decisamente, am-
mette una origine poligenistica del tipo.
Sarà facile confutare questi punti di teoria, di cui ogni propo-
sizione, e si può dire ogni parola, contiene un cumulo d'errori.
•
• *
Nel primo punto si trova un concetto dell'evoluzione arretrato
ed inesatto, che non può condurre se non all'errore. Il concetto di
una evoluzione lenta iiniforme e graduale è oggi abbandonato per-
fino dai biologi, dai quali lo hanno preso in prestito le altre scienze ;
predominano oggi le teorie del De Vries, che concepiscono 1' evolu-
zione come un'alternanza di rapide mutazioni, costituenti un salto,
con lunghi periodi di sosta; ovvero la formula del Giard, che am-
mette una lenta preparazione latente, ma pur sempre una brusca ap-
parizione della nuova forma. Ed io credo fermamente che tali con-
cetti, ed anche la loro applicazione ad altre scienze affini alle natu-
rali, costituiscano un progresso. Ma in architettura non v'è nemmeno
bisogno della biologia, perchè abbiamo da fare con una condizione
cui le altre arti ed industrie sono infinitamente meno soggette, cioè
con la statica: e questa condizione, che è diversissima da un mate-
riale all'altro, costringe, nell'adozione di un nuovo materiale, a mu-
tazioni rapidissime e radicali, costituenti un salto. Quando si passò
dalla colonna e dall'architrave ligneo a quelli lapidei, si mutarono di
colpo le proporzioni e i moduli, esagerandosi anzi nelle resistenze
mediante le forme tozze, i grandi spessori e la disposizione picno-
stila.
Non vi è dunque proprio nessun bisogno di ammettere il pas-
saggio alla cupola d'argilla mediante la pratica di un enorme rive-
stimento della capanna di pali e frasche ; pratica che non esiste né
presso i popoli antichi né presso i selvaggi moderni, ove i rivesti-
menti son sempre relativamente sottili e lontanissimi dal poter reg-
gersi da sé senza lo scheletro di legno. Rivestimenti di un certo
spessore non ricorrono se non a guisa di zoccolo o muretto, nella parte
bassa che costituisce il tamburo della cupola, non mai nella parte
alta, che é la cupola propriamente detta. Erronea quanto mai è la
interpretazione delle capanne dei negri Scilluck, che abitano sul Nilo
azzurro, come una forma di passaggio. Queste capanne sono simili
ad un mezzo uovo, con la parte inferiore d'argilla e la superiore di
L^origine del ' Jittraghe ' Sardo e le relazioni della Sardegna con l'oriente 157
giunchi piegati a cupola *): esse sono soltanto una forma ibrida o
mista, e provano invece che tra la muratura e la costruzione di ma-
teriali leggeri v'è opposizione, e che la cupola d'opera muraria non
ha discendenza dalla costruzione leggera in materie vegetali ma è un
nuovo germoglio, un'altra forma originale e primitiva. Qui come al-
trove sono impossibili gli sviluppi concepiti secondo quel gretto ma-
terialismo meccanico che predomina in tanta parte della piìi recente
scienza tedesca : una cupola che sia anch'essa muro, costruita cioè
d'elementi di opera muraria o pietre (i mattoni, crudi o cotti, non
sono che pietre artificiali) non nasce meccanicamente dalle costruzioni
leggere, anzi non nasce punto, se prima l'uomo non ha concepito
l'idea d'una tal cupola. E questo è un lampo di genio, una vera in-
venzione cui non e' è passaggio graduale che sia capace di condurre.
Il primo punto s'infrange già assai miseramente contro l'inesi-
stenza della supposta fase di transizione; ma non sarà forse inutile
osservare brevemente che non manca soltanto la base di fatto, bensì
anche la base logica dell' ipotesi. Come mai la pratica della costru-
zione in un dato materiale può insegnare le leggi statiche di un al-
tro materiale^), se queste sono differenti? L'idea del Bulle sembra
derivata dall'ipotesi di alcuni etnografi, che la invenzione della ce-
ramica sia nata dall'industria dei panieri di vimini, i quali si sareb-
bero foderati d'argilla per renderli atti a contener liquidi, e poi, bru-
ciatosi per caso uno di questi panieri, si sarebbe riconosciuto che
la cottura faceva perdere all'argilla la proprietà plastica, e che si
potevano ottenere direttamente vasi. Ma qui c'è un fondamento lo-
gico, perchè si giustifica il nuovo procedimento della cottura, e c'è
anche un principio di prova o indizio, )iella decorazione dei più an-
tichi vasi, che ricorda i motivi dell'intreccio di vimini. Ben diver-
samente stanno le cose per la capanna, dove la cupola libera non è
una calotta d'argilla modellata, né cotta né cruda, ma un'opera di
muratura a piccoli elementi, in cui il materiale precedentemente ado-
perato non ha lasciato nessun residuo, neanche scaduto ad elemento
decorativo. L'ipotesi del Bulle potrebbe aspirare a una modesta proba-
bilità, solo quando essa fosse capace di spiegarci addirittura la inven-
zione dell'opera muraria e di tutt' i suoi procedimenti. Ma se invece
prima di far cupole si alzarono muri e muretti, come non ammettere
') Junker, ReUen in Jfrika, I, iig. a pag. 244.
^) Come abbiamo visto, nei materiali leggeri si hanno anclie forme irreduci-
bili il quello della cupola ad aggetto.
158 G. Patroni
cbe appunto nell'esercizio dell'arte muraria s'impararono le leggi di
equilibrio delle pietre o mattoni ? Come separare la invenzione della
cupola ad aggetto da quella aflSne e parallela della vòlta ad aggetto,
alla quale nessun appiglio davano le capanne di pali e frasche, bensì
l'arte del muratore ? È chiaro che l'una e l'altra non sono invenzioni
di costruttori in pali e frasche, ma proprio di muratori.
La discussione un po' più ampia, pur nella sua rapidità, di que-
sto primo punto, abbrevierà quella degli altri due. Poiché è ormai
chiaro che anche rispetto a questi fu grave errore di metodo iden-
tificare, o quasi, le capanne a cupola conica con quelle rotonde di
materiali leggeri. Queste ultime sono una forma indifferenziata e dif-
fusissima; le prime sono una forma molto differenziata e di assai
minor diffusione. Costruttori in pali e frasche furono e sono quasi
tutti i popoli; muratori, nei primordi dell'incivilimento umano, fu-
rono ben pochi. Onde la assai maggiore probabilità a priori che una
forma simile, proveniente da un'arte specializzata e poco comune, sia
stata inventata una volta sola in un solo luogo, e di là siasi dif-
fusa. Per risolvere il problema era ed è necessario l'esame della di-
stribuzione geografica del tipo, e così passiamo al 2" e 3° punto ')•
Si fa presto a demolire il 2" punto della teoria del Bulle. Ba-
sterà osservare che esso deriva in parte da preconcetti degni tutt'al
') Ammettendo, con me, che la cupola conica sia nna nuova invenzione e non
discenda dalle capanne di pali e frasche, non si è punto costretti a disconoscere
che runa conservi all'ingrosso il tipo dell'altra; che anzi ciò è cosa evidente e
normale nelle sostituzioni d'un materiale all'altro. Il marmoreo Partenone con-
serva pure il tipo nato in nna costruzione mista di zoccoli di pietra, mattoni e
battuto d'argilla con ossature e sostegni lignei. Dove l'esigenza si limita all'aspetto
esterno, come accade talora nel campo della religione, si ha una sostanziale iden-
tità tipologica di forme costruttivamente diverse, e si può concludere o ragionare
in base a tale identità ma limitatamentti a quel campo. 11 tempio di Vesta a Roma
e il « tesoro d'Atreo » a Micene vogliono entrambi rammentare l'antichissima ca-
panna straminea e sono in fondo la stessa cosa. Sta bene ; ma non costruttivamente .'
Nella storia dello sviluppo delle forme, in ispeoie per l'architettura, e nei rai)porti
etnografici, ciò che conta non è tanto l'aspetto esterno, la linea (che è piuttosto
attinente alla funzione) quanto la ttruttura e in genere la ragion tecnica, anima
interiore del manufatto. E perù bisogna diffidare degli abnsi di quella che io chia-
mai « tipologia della pura linea ». La capanna a cupola conica di mattoni crudi
conserva, si, in certa misura, il tipo di alcune capanne rotonde di materiale leg-
gero, che la precedettero; ma ciò non toglie che costruttivamente sia cosa affatto
nuova.
L'origine del ' Nuraghe ' Sardo e le relazioni dtlla Sardegna con Variente 159
più di quegli storici che si contentano di almaiiaccazioni sui testi '),
ma afì'atto indegni del cultore d'una scienza di fatti positivi; e per
altra parte, dal non aver apprezzato (ioine si conveniva la presenza
nel Sudan di capanne simili a quelle di Orcomeno, e delle quali il
Bulle crede potersi sbrigare come d'un fenomeno sporadico limitato a
territorio poco esteso. Del resto non sembra nemmeno vero che una
cupola di mattoni crudi resista all' intemperie meglio di una capanna
di pali e frasche ben rivestita d'argilla, né che sia più calda. A Orco-
meno stessa furono constatate riparazioni necessitate da guasti prodotti
dalle piogge, che facilmente spappolano il mattone crudo. Le capanne
a cupola mancano affatto nel continente europeo centrale e setten-
trionale. L'anno dopo la memoria del Bulle su Orcomeno, si pub-
blicò quella dello Tsoundas su le stazioni preistoriche della Tessa-
glia ^); e quivi non solo non si ebbe traccia di capanne rotonde a
cupola di mattoni, ma si trovò che i mattoni non erano punto ado-
perati. Le abitazioni preistoriche della Tessaglia sono di pianta ret-
tangolare, costruite di muretti in pietra o di canne rivestite d'ar-
gilla; frammenti del rivestimento di tali più antiche capanne, neoli-
tiche, si presentano piani, e con finali orizzontali ed obliqui, auto-
rizzando la ricostruzione ideale di capanne a tetto disjìluviato. A
Sesklo apparvero anche fondi di capanne come quelli del continente
europeo e della nostra penisola; ma queste forme rotonde di capanna
semisotterranea non si trasformarono in cupole libere ne in Tessaglia,
né in Italia, né nel resto d'Europa. Così stando le cose è forza ri-
conoscere che le cupole di Orcomeno non vengono dal nord, ma
dalla tanto vicina spiaggia egea, e, attraverso l'Egeo, dall'oriente.
Non è necessario che questa corrente passasse per Creta, e qui ha
ragione il Bulle di opporsi al pancretismo : potè passare per l'P^geo
settentrionale, suppergiù per la stessa zona che congiunge Troia a Ti-
rinto mediante l'architettura a megaron, in opposizione a Creta. Le
') « Dass der Stainm, der Orchomenos zuerst besiedelte, die Lehmkuppelhiiiiser
als ansgebildeteii Bautypus fertig mitbrachte, lehrt unser Ausgrabungsbefund.
Da8S dieser Stamm von Norden gekommen war, steht nach alien Vorstellungen,
die wir dnrch dio Ueberlieferung iiber die griechische Friihgesohichte erhalten,
ausser Zweifel » (o. e, pag. 43). E pensare che il Bulle ritiene che gli abitanti
promicenei del II strato di Orcomeno, a capanne ellittiche e semiellittiche, non
fossero i discendenti diretti di quelli dol I strato, a capanne rotonde! Come dun-
que può esser tanto sicuro che le tradizioni si riferiscano anche a quei primissimi,
clie non avrebbero avuto prole diretta f
') Tsot'NDAS, At zpoiaTopixaì à-/ipoTCÓXstc Atiii^viou xat SsaxXou, Atene, 1908.
160
Q. Patroni
¥
Fig. 5 — Casa egìzia con gr^.nai
(l)ittuia tombale).
due urne a capanna di Festo, dal tetto basso, non sono certo imita-
zioni di cupole coniche.
Quanto alle capanne a cupola di mattoni crudi del Sudan, il
loro territorio non è poi tanto piccolo, il che lo stesso Bulle, con-
traddicendosi, riconosce in altro luogo della sua memoria '). Egli
ha poi interamente dimenticato 1' Egitto, ove la stessa costruzione
si usò per i granai (flg. 5), che,
com'è noto, conservano spesso forme
disusate di abitazione '). E ciò è
tauto più importante, in quanto
anche presso le tribù del Sudan
queste costruzioni sono in deca-
denza, sostituite da pareti retti-
linee con tetto di legno, e solo i più
antichi viaggiatori, come il Barth '),
riferiscono che i Mussgu adopera-
vano quelle capanne per abitazione durante l'inverno, nelle altre sta-
gioni invece se ne servivano soltanto come granai. Lo stesso Bulle ri-
corda nelle aggiunte (pag. 125) le vedute di villaggi dei Mundan, pub-
blicate ne L' Illustration del 20 aprile 1907, ove si vedono tutt' intorno
torri rotonde e all' interno, più alti di tutti gli altri edifici, grandi
granai, costruiti iiroprio col sistema delle capanne d'Orcomeno. Per
chi ha notizia dei granai egizi, questo fatto è assai più importante
«he non abbia potuto riconoscere il Bulle: poiché qui si ha un dif-
ferenziamento analogo a quello dell'antico Elgitto, con la sola diver-
sità che anche le case dei Mundan sono rotonde, però a torre e non
a, cupola. Siccome in Egitto apparisce fin da tempi antichissimi l'a-
bitazione rettangolare, né la cupola ebbe avvenire nella valle del
Nilo, si dovrebbe ammettere che vi fu una corrente straniera, pro-
veniente dall' Asia attraverso 1' Arabia e il Mar Eosso, che portò
<iuella forma, forse ancora indifferenziata come presso i Mussgu, la
■) Pag. 43, uota 3 : « auf ein verhiiltnissmiissig kleines Gebiet beschriiukt »
Cfr. pag. 38: « — gehoren zu eiuer grosseu Grappe afrikanischer Erdbauten ».
Pel Sndan, nel primo di questi luoghi, si ammette ciime causa della creazione del
tipo la scarsezza del loglio ; il che io riferisco alla vera jiatria, la Caldea, veden-
dovi pel Sudan solo il motivo della persistenza.
') Maspkro, L'archeologie egi/ptienne, Parigi, 1907 ; Knuslije^ch. in Bildeni^ I'
■(SCH.\El''Kii), tnv. 12, n. 4.
3) llcimi ;« Jfrika, 111, pag. 222.
à
L'origine del ' Kuraghe' Sardo e le relaaioìii della Sardegna con Voriente 161
quale fu adottata dagli Egizi come granaio. Questa corrente deve
porsi in linea coi costruttori di cupole del Sudan, sino ad un punto
da cui si potè avere la diffusione divergente verso l' Egitto a nord
e verso il lago Ciad a ovest. Un tal punto va cercato nei paesi a
sud dell'Egitto, e si trova approssimativamente nella regione di Fa-
scioda, onde il corso del Nilo bianco (Babr-el-Abiad) risale verso
occidente e per mezzo del Balir-el-Gazal e poi del Babr-el-Arab va
quasi a raggiungere le sorgenti dello Sciari, che va a finire nel lago
Ciad. Che spostamenti etnici avvenissero lungo questa via naturale
segnata dal corso dei fiumi (meno gli spazi resi impervii da paludi e
fitte foreste, cui si girava attorno), è provato dal fatto che i Macari,
prihcipalissimi tra i costruttori sudanesi di capanne a cupola di mat-
toni, ed aventi oggi sede sulle rive del lago Ciad, abitavano un tempo
sul medio corso dello Sciari. Chi dunque tenga conto della diffusione
di quel tipo di costruzione in Egitto, ove esso era usato come gra-
naio, riconoscerà nella regione del lago Ciad non un territorio limi-
tato di origine indipendente, e nemmeno un centro di diffusione (che
questa manca in altre direzioni), bensì un punto d'arrivo e di sosta.
Nei paesi a sud dell' Egitto, il tipo dovè giungere attraverso lo stretto
di Bab-elMandeb, che fu sempre una grande via di scambi e di mi-
grazioni fin da età preistorica, probabilmente lungo le coste orientale
e meridionale dell'Arabia. Del resto, bastava il passaggio di poche
famiglie che insegnassero la costruzione a cupola ad una qualche
tribù africana che la diffuse. Così anche da questa parte le vie na-
turali ci riconducono all'Asia, al golfo Persico e alla bassa valle
dell' Eufrate, vera madre delle cupole. La diramazione sudanese sem-
bra affatto indipendente dalla mediterranea;
Esaminando ora come si comporti il tipo delle cupole ad aggetto
nel Mediterraneo, notiamo anzitutto che esso si estende verso l'oc-
cidente, ove però, conservando la funzione principale di abitazione,
muta il materiale dal mattone crudo alla pietra, sia che questo mu-
tamento avvenisse presto, in epoca preistorica, e che monumenti di
quest'epoca ci si conservino, come in Sardegna e nelle Baleari ; sia
«he prodotti più recenti e ancora in uso ci conservino solo la tradi-
zione d'un'arte senza dubbio antichissima, come nei truddhi delle
Puglie. Lo stesso persistere dell'uso di cupole per abitazione (mentre
nel bacino dell' Egeo, mutandosi il materiale in pietra, il tipo assume
esclusivamente l'uso di tomba ed è mantenuto dalla tradizione reli-
giosa e non già dalle abitudini dei viventi) dimostra che la difl^u-
sione del tipo in occidente risale a quell'età primitiva, quando esso
Atene e Roma. 2
162 O. Patroni
serviva di capanna ed era rappresentato nel primitivo materiale, il
mattone crudo, come ad Orcomeno.
La stessa situazione geografica dei truddhi pugliesi, localizzati
principalmente ad Alberobello e nella selva di Fasano, paesi non
lontani dalla costa adriatica, dimostra che la tradizione delle capanne
a cupola è straniera allo sviluppo delle abitazioni preistoriche della
penisola ; che vi prese piede solo in una zona limitata, rivolta al-
l'oriente, della parte più meridionale d'Italia; che vi proveniva, per
via di mare, dalla zona dell' Egeo settentrionale, di cui ci restano le
chiare testimonianze fornite dagli scavi di Orcomeno *).
Xel bacino occidentale troviamo poi le regine delle costruzioni
a cupola in pietia : la Sardegna e le Baleari. A una origine indi-
pendente si potrebbe pensare se queste isole fossero in tutt' altra
') Troppo sbrigativa è la negazione di ogni rapporto fra truddhi o trulli e
nuraghi opposta dal Gkrvasio (7 dolmen e la civiltà del bronzo nelle Puglie, Bari
1913, voi. XIII della serie Documenti e Monografie della Comm. provinciale di Ar-
cheol. e Storia patria di Sari, p. 337: «I trulli sono tutti ujoderni.... ; la forma
abituale risponde a quella di una semplice capanna conica fatta con lastre calcaree
di scarse dimensioni (chiancarelle). Il nuraghe invece è un enorme torrione, co-
struito con massi rozzi e con tecnica megalitica »). Sta il fatto che entro due
specchie di Terra d' Otranto (monumenti senza dubbio preistorici, che parrebbero
nuclei d'abitazioni con difese comuni, distribuiti inoltre secondo un disegno di di-
fesa territoriale in modo analogo ai nuraghi) furono riconosciuti dal De Giorgi
muri circolari di pietre a secco, appartenenti a costruzioni del tipo dei truddhi
moderni (De Giorgi, Le specchie in Terra d' Otranto, Lecco 1905, in Archivio Storico
Salentino, voi. II, p. 38 e 46 ; cfr. l'ojjera postuma di A. Jatta, La Puglia preimo-
rica, voi. XIV della serie Docum. e Monograf. citata, pag. 221 : è peraltro da ri-
tenere erronea la confusione fatta da quest' ultimo autore e da qualche altro, delle
specchie con 1 posteriori castellieri che ricordano quelli dell'Istria e della Bosnia,
e non soltanto questi ; come non soltanto nell' età del ferro si ebbero influenze e
migrazioni dalla sponda opposta dell' Adriatico alle Puglie). D'altra parte gi.à il
Mackenzik suijpose giustamente una fase prenuragioa (meglio protonuragiea) du-
rante la quale si sarebbero avute in Sardegna capanne di pietra rudimentali (perciò
analoghe ai truddhi e ad altre costruzioni adatto simili) e dolmens (Papere of the
British School at Rome, V, 1910, pagg. 129 e 135-6). Accurato studio e indagini
speciali meriterebbero tali capanne paleosarde, di cui 8i)e8So si riconoscono avanzi
riuniti a guisa di villaggio attorno a un nuraghe; sebbene, naturalmente, vi sia
poca speranza d'imbattersi in un gruppo delle più antiche. Ad ogni modo sap-
piamo davvero troppo poco dei truddhi preistorici attinenti alle specohie, per poter
riconoscere se la introduzione di questi tipi fu nelle Puglie contemporanea o an-
teriore a quella che ebbe luogo in Sardegna. Ma se il tipo fosse giunto nelle
Puglie in ritardo, passando attraverso il continente greco e quindi traversando
l'Adriatico, ciò attesterebbe almeno la direzione del movimento, che sarebbe
perdurato.
L'origine del ' Nuraghe ' Sardo e le relazioni della Sardegna con l'oriente 163
parte del mondo, fuori e lontanissime dal Mediterraneo, e se vi tro-
vassimo gli stadi di transizione : cupole di mattoni crudi, cupole con
zoccoli stipiti e architravi di pietra, infine nnragbi o ialayots. Allo
stato delle cose, e viste le relazioni che ogni giorno piti si vanno
accertando tra il bacino occidentale e quello orientale del Mediter-
raneo, non si possono staccare i nnraghi e i talayots dalle capanne
d' Orcomeno. Queste ci rappresentano senza dubbio un momento ed
nn luogo più vicino all'origine del tipo ; in Sardegna e nelle Baleari il
materiale primitivo dovè subire rapidamente quella totale sostituzione
con le eccellenti pietre fornite in tanta abbondanza dal suolo, alla quale
già si erano parzialmente avviati i costruttori di Orcomeno ; e la ra-
pidità di questo processo tanto meglio si spiega, quanta maggior parte
della evoluzione si era compiuta non già in ntu, ma altrove.
La Sardegna e le Baleari sono isole, e i germi in parte svilui)-
pati in altro bacino mediterraneo non vi potevano pervenire se non
per via marittima. Ma tutt' intorno alle coste del bacino occidentale
abbiamo costruzioni affini, non sempre richiamate interamente a pro-
posito, perchè in gran parte di altra destinazione, funebre e religiosa;
non già che l'uso o funzione di una forma abbia importanza di per
sé, ma perchè in questo caso si fondono e s'intrecciano in questi
monumenti funebri e religiosi elementi diversi, tradizioni megalitiche
o dolmeniche, apporti della civiltà premicenea delle Cicladi con le
sue tombe a forno, svilui)po e determinazione come tomba della tho-
los sotterranea micenea di pietre a corsi restringentisi. Quest'ultimo
tipo è dunque, in occidente, d' importazione micenea o submicenea,
ed in Italia si riconnette princiijalmente all'arte etrusca. Apparten-
gono invece alla linea di sviluppo che noi studiamo le sole case mo-
nocellulari a cupola libera, che sono di origine non già micenea o
submicenea, ma premicenea, e che nemmeno si riferiscono determi-
natamente alla civiltà delle Cicladi e alle tombe a forno (nelle quali
si potè voler imitare una qualunque capanna rotonda, ed è anzi certo
che non si volle imitare l'alta cupola conica), ma spettano ad altra
corrente, di cui riconosciamo in Orcomeno una tappa importante.
Pili rettamente sono ravvicinati ai nuraghi e ai talayots le « ca-
selle » della Liguria italiana e i cabanons della francese ; essi si tro-
vano suppergiù nella condizione dei truddhi, sono abitazioni e rap-
presentano una tradizione vetustissima '). In ragione della costruzione
') In alcuni cabanons si rinvennero materiali riferiti all'eneolitico : CB. du
XlIIe Congrès d' Anthrop. et d'^Archéol. préhistor., Monaco 1907, pag. 250 sgg.
164 O. Patroni
assai più leggera, la cupola vi si è talora modificata in ripiani a
gradino o è stata addirittura sostituita dal tetto piano; giacché per
reggere cupole massicce di pietra costruite ad aggetto e senza ce-
mento occorrono appunto gli enormi muraglioni dei nuraghi, e la
possibilità e convenienza di eseguirli. Il sistema potè propagarsi fra
gli anticlii popoli alpini, e mantenersi dove ragioni speciali (località
prossime ai ghiacciai, povere di legno e ricche di pietra) hanno con-
tribuito alla persistenza. In tal modo potrebbero forse spiegarsi le
capanne a cupola di pietre usate da cacciatori e pastori presso il
passo Bernina, a Sassai Massone '), se pure non trattasi di uno di
quei fatti di convergenza che talora, isolatamente, si producono a
distanza di tempo e di luogo e non si possono escludere in modo
assoluto.
L'insieme delle costruzioni rotonde e subrotonde, megalitiche o
pseudomegalitiche, del bacino occidentale mediterraneo, anche com-
prendendovi quelle che non appartengono alla pura tradizione della
capanna monocellulare con cupola ad aggetto (sesi di Pantelleria,
couchetH o choucha della Tunisia, ecc.) non ha l'aria di provenire dal-
l' interno delle terre occidentali, bensì di costituire un mondo ma-
rittimo e marinaro. È possibile che relazioni della Sardegna o delle
Baleari con le spiagge circonvicine abbiano contribuito a mantenere
o a sviluppare la tradizione di tali costruzioni, ma è del tutto inve-
rosimile che queste isole creassero il tipo; che anzi esso non è pas-
sato nemmeno dall'una alle altre di quelle isole, giacché in Sardegna
si ha il tipo circolare, con qualche rarissima eccezione, e nelle Ba-
leari predomina il tipo ellittico, con altre peculiaretà. Ora gli scavi
di Orcomeno c'insegnano appunto che nella preistoria mediterranea
i due tipi sono ben distinti, e rappresentati da stratificazioni ar-
cheologiche all'atto separate e sovrapposte. Ciò che le stratificazioni
di Orcomeno danno nel senso dell' altezza, la Sardegna e le Baleari
replicano nel senso dell'estensione geografica, e provano che lo svi-
luppo delle loro architetture è dovuto a germi portati da una cor-
rente che andava dall'oriente all'occidente, e che toccò prima la Sar-
') Bulle, o. c, tav. XII, 2. Cfr. i cabanons affatto simili del Col Ferrier,
ISSKL, Liguria prei»torica, 1908, p. 613, lig. 264. Cilecche sia di ciò, le costruzioni
delle terre liguri non hanno radici nel retroterra: sono venute dal mare, e senza
dubbio dall'oriente, che Marsiglia e Genova sono ancor oprgi ciò che la natura le
ha fatte, teste di linea occidentali della navigazione mediterranea nel senso dei
paralleli.
L'origine del ' Nuraghe ' Sardo e le relazioni della Sardegna con V oriente 165
degna recandovi il germe rappresentato dal primo strato d'Orcomeuo,
poi le Baleari recandovi quello del secondo strato.
Fuori del Mediterraneo, vi è una sola regione dell'estremo occi-
dente europeo, dove le cupole di mattoni d'argilla appariscono dal-
l'antichità sino alla nostra epoca, e cioè le isole britanniche, ove
queste abitazioni sono dette beehive honses (case ad alveari). Alcuni
esemplari di queste case o capanne presentano lo zoccolo di pietra,
come quelle di Orcomeno e del Curdistan *). Anche qui, se si trattasse
di un luogo lontanissimo e senza possibilità di rapporti, come po-
trebbero essere le Filippine o le Antille, sarebbe autorizzata l' ipo-
tesi di un centro separato d'origine del tipo. Ma la via costiera del
mare esterno è tanto nota agli archeologi ed agli storici, ed è così
certo che il cabotaggio da scalo a scalo vi fu esercitato in epoca
antichissima, ben innanzi ai viaggi d'Imilcone e di Pitea maasaliota
(quando ancora la massa di terre continentali era impervia), che bene
ha fatto il Mackenzie ') a porre in rapporto tali costruzioni con le
tholoi mediterranee. Solo bisogna intendere che il rapporto con le
tholoi è generico e poco concludente : quello specifico si ha soltanto
con la tradizione delle capanne monocellulari rotonde dalla cupola co-
nica ad aggetto, che costituisce fra le tholoi uno speciale ramo ed è
propagata da una particolare corrente. Né il senso di questa corrente
può, nel caso delle isole britanniche, lasciar luogo a dubbi: che
troppo evidentemente esse sono, come la regione del Iago Ciad, un
termine d'arrivo e non un punto di partenza.
Credo, ormai, d'aver mostrato che la diffusione del tipo d'abita-
zione testé definito, e cui si riconduce il nuraghe sardo, ebbe luogo
sopra una linea di navigazione che dall' Egeo conduce, per la nota
via della costa atlantica, sino alle estreme isole occidentali d'Europa.
Se vogliamo contentarci di questa via marittima, non si può fare a
meno di cercare il punto di partenza nel Mediterraneo; se entro il
Mediterraneo vogliamo determinarlo, non si può fare a meno di se-
gnarlo nell'Egeo. Per quanto concerne la via mediterraneo-atlantica,
il nostro tipo di capanna a cupola si palesa di origine orientale.
Se non che la esistenza del medesimo tipo in Africa, su una li-
nea di diffusione separata da quella mediterranea per gl'interposti
') MoNTBLius, in Jrohiv filr Anthropologie, XXIII, 1895, pag. 461, tig. 34;
id., Orient utid Europa, pag. 185, flg. 247 (esemplari delle Ebridi) ; cfr. Issel, Li-
guria preistorica, pag. 618, fig. 267.
') Notes OH eerlains structures of archaic type ecc., in Proceedings of the Soeiety
of Antiquaries of Scotlanct, XXXVIII, Edinibnrgo 1904.
166 (i- l'aironi
grandi deserti libico e sahariano, e che lo studio delle vie naturali
conduce a un punto di partenza asiano-mesopotamico, deve indurre
ad ammettere che quello che sembra punto di partenza per la via
marittima, deve essere piuttosto tappa di un cammino che partendo
dalla medesima fonte, in senso divergente dalla diramazione sudanese,
condusse attraverso l'Asia anteriore su le spiagge dell'Egeo.
Veramente avrebbe potuto vederci più chiaro anche il Bulle,
se, per una dimenticanza veramente imperdonabile *), non avesse
trascurato il bassorilievo ninivita già da noi rammentato, e non si
fosse ridotto a postulare la persistenza di una tradizione antichissima
(àie Mrdischen Hiltten aus Mesopotamien sind den orchomenifichen so
àhnlich, dass wir vielleicht (anche forse ?! ) eine ununterbrochene Tra-
dition aus der dltesten Zeit fiir sie voraussetzen diir/en), là dov'era
il caso non già di postulare, bensì di documentare. L'attuale Curdi
stan, l'Assiria e la Caldea formano un solo poderosissimo blocco, con
cui non può competere nessuna regione al mondo. Studiando la dif-
fusione delle forme con indirizzo naturalistico, noi dobbiamo appli-
care il criterio biogeografico, che là dove una forma si trova più
compatta, ivi siamo vicini al centro d'origine e di dift'usione. Con
questo criterio gli archeologi determinarono e determinano fabbriche
industriali e scuole artistiche, anche senza rendersi conto di applicare
un criterio biologico; sarà dunque lecito riconoscere nella Caldea il
vero centro d'origine della capanna conica con cupola di mattoni
crudi ottenuta per aggetto progressivo, tanto più che questo risul-
tato s'impone non solo per tutte le altre circostanze, ma anche pel
convergere delle due grandi correnti di diffusione del tipo verso la
valle dell'Eufrate.
Queste correnti non erano propriamente e sempre costituite da
migrazioni, ne quando ciò avveniva è necessario ammettere sposta-
menti di interi popoli numerosi. Erano principi d'arte che si diffon-
devano da una tribù ad altra vicina, da questa a due o tre tappe
di distanza, e per le vie di mare a due o tre scali, per mezzo di
gente che si spostava per ragioni di commercio. Il quale, nelle età
primitive, sarà avvenuto da tappa a tappa e da scalo a scalo per
cabotaggio, non già per navigazione di lungo corso. Dal modo come
1) Già il non interrogare l'arte assiro-caldea in una questione di cupole, e
quando dalla ricerca etnografica si è stati condotti in Mesopotamia, è come, in una ri-
cerca su le saghe troiane, dimenticare 1' Iliade d' Omero. Ma poi il coutorno degli
editìci assiro-caldei è riprodotto anche in manuali preparati dal punto di vista
dell'arte classica (Sybel, ìVeltgeach. d. Kiinst^, p. 16) !
L''origine del ' Nuraghe ' Sardo e le reiasioni della Sardegna con l'oriente 167
si presenta la distribuzione del tipo, disteso per lunghe linee, ma
senza grande espansione in vaste terre e per ogni senso (tranne nel
paese d'origine, la Mesopotamia) si può dedurre che queste linee non
fossero in fondo altra cosa se non le vie dei più antichi commerci.
È certo necessario che alle tappe o scali successivi giungessero uo-
mini esperti nell'arte delle cupole ; ma a ciò bastava qualche fami-
glia, né si può escludere che occidentali pur essi navigatori, come
i Sardi, andassero incontro ai navigatori del bacino orientale fino a
tre o quattro scali, e talora alcuni si fermassero in quei paesi, e poi
in parte ne tornassero dopo aver appresa un'arte o una tecnica che
poi diffondevano nella loro isola.
Come avvenisse la trasformazione della piccola capanna nel
grande e talora grandioso nuraghe, è stato già abbastanza chiarito
sia per la ragione tecnica addotta dal Bulle (necessità di robusti muri
per sostenere la massiccia cupola tutta di pietre : opportunità di ser-
virsi dello spessore per aumentare le comodità della casa monocel-
lulare, aprendo nicchie, praticando scale d'accesso al piano superiore,
ecc., il che invitava a rendere sempre piti robusta la costruzione)
sia per quella sociale addotta dal Taramelli. Il nuraghe non è la casa
comune, bensì la fortezza e torre di vedetta del villaggio: vi avrà
abitato il capo, ma con l'obbligo di darvi asilo alle persone ed ai
beni, verso l'obbligo corrispettivo di fornire gli armati per la difesa
del fortilizio e pel servizio di scolta; e ciascun capo di villaggio
doveva procedere d'accordo con gli altri capi di villaggio della me-
desima tribìi o popolo, organizzando, sotto il comando dei capi po-
litici di questa tribii o popolo, l'insieme dei nuraghi nella maniera
più confacente alla difesa del territorio della tribù medesima. Dato
questo frazionamento, era molto più opportuno attenersi al tipo mo-
nocellulare e svilupparlo al massimo grado. Un capo o re così po-
tente e così esclusivo da potersi costruire un palazzo riccamente
ornato e mvmirlo di una così poderosa muraglia come a Tirinto, in
Sardegna non vi fu mai ; viceversa la società micenea non conobbe
sottocapi, ciascuno dei quali potesse disporre di un grandioso tor-
rione per abitazione della propria famiglia e per difesa del territorio.
Non è invece chiarita la ragione della rapida sostituzione del
materiale primitivo, cioè dei mattoni crudi, con la pietra, che avvenne
nel bacino occidentale del Mediterraneo. Io credo che essa sia la se-
guente: che cioè quel tipo a cupola, proveniente dall'oriente, si è
incontrato in occidente con uno speciale sviluppo, già avvenutovi,
dei monumenti megalitici. Questi c'erano in Sardegna prima dei nu-
168 O. Patroni - L'origine del 'Nuraghe ' Sardo ecc.
raghi, e si continuarono a produrre accanto ad essi, in tii)i evoluti
(« tombe di giganti »). Il paese dei truddhi è un paese di monumenti
megalitici, di dolmens e menhirs; e già altri hanno osservato la con-
comitanza di cabanons e di dolmens. Gli occidentali, ricevendo il tipo
della cupola ad aggetto, erano già costruttori in pietra, almeno li-
mitatamente alle tombe e a qualche edificio religioso; essi adunque
eseguirono in pietra la costruzione a cupola, la quale del resto già
comin<5Ìava ad ammettere parzialmente l'uso del materiale lapideo,
come mostrano le capanne di Orcomeno. Non mi pare che tolga va-
lore a questa spiegazione il fatto che, per qualche ragione speciale
che ora non saprei indicare, le beehive houses delle isole britanniche
non abbiano subito la completa sostituzione del materiale, continuando
invece ad esser coperte di cupola d'argilla sino ai nostri giorni.
PaTÌa, aprile del 1916.
G. Patroni.
ASPETTI DELL'ARTE IN ETRURIA
Il fenomeno artistico in Etruria è una conseguenza del fenomeno
artistico in Grecia. L'arte greca e l'arte etrusca si svolgono, è vero, in
correnti parallele, ma un esame, an(!be non approfondito, dei loro pro-
dotti ci induce a giudicare l'arte in Etruria come un riflesso diretto
della luce cbe si effonde dall'oriente ellenico, riflesso pivi o meno lu-
minoso che, talora, assume bagliori suoi propri. I peculiari aspetti,
innegabili nell'arte etrusca, hanno la loro ragione di essere non solo
nel complesso di credenze e di riti religiosi e funerari, di ricordi
atavici della stirpe, di metodi di vita civile, di rapporti pacifici od
ostili con altre genti, e dentro e fuori della penisola, ma anche
nelle specifiche condizioni del suolo dagli Etruschi colonizzato ed
abitato. La Grecia dà l'impulso animatore, la Etruria riceve tale im-
pulso e pedissequa vi si uniforma, talora, con ogni verisimiglianza,
lasciando operare artefici ellenici immigrati, ma adatta, quasi sempre,
i mezzi e le forme di arte importata ai propri intenti, alle proprie
esigenze di vita. Così, con schietta impronta ellenica per quel che
concerne il repertorio delle forme decorative e la espressione delle
forme umane, l'arte etrusca ha in se qualche cosa di peculiare che
varia secondo e le età e i luoghi e i vari generi di monumenti.
Ma, e questo avviene specialmente nella plastica a tutto tondo e
nel rilievo, non è sempre facile, e alcune volte è impossibile, saper
distinguere quello che è veramente ellenico da quello che è dovuto
ad imitazione etrusca. Così, per esempio, è arduo decidere se sia si-
cura la attribuzione a mani elleniche di bronzi come la lupa del Cam-
pidoglio *), la Chimera di Arezzo ^), se veramente l'insigne bronzetto,
dello Aiace suicida da Populonia ') possa essere ascritto ad un artefice
greco e se, infine, i bronzi e gli argenti di Castello San Mariano nel
1) MiCHABMS e Della Seta, fig. 345; Brunn e Bruckmann, n. 318.
') Martha, fig. 208 ; Milani, t. 25 ; Brunn e Bruckmann, n. 319.
') Bollettino d'Arte, 1908, p. 361 (Milani).
170 Pericle Ihicati
perugino ') ed il bronzeo carro di Monte Leone presso Spoleto ') pos-
sano far parte del patrimonio artistico veramente etrusco piuttosto
che jonico.
Ed è d'altra parte degno di nota che, essenzialmente nel periodo
dell'arcaismo, l'arte che si esplica in Etruria ha caratteri che iden-
tici si riscontrano in monumenti usciti alla luce da altre località
non etrusche dell' Italia centrale. Così, per esempio, le oreficerie dei
tumuli vetuloniesi e gli oggetti preziosi della tomba Regolini Ga-
lassi di Cervetri ^) palesano eguaglianza perfetta di stile con mate-
riale uscito dalla latina Preneste, alludo alle tombe Barberini *), Ca-
stellani ^), Bernardini ^), e dalla necropoli della greca Cuma ''). Così,
per esempio, alle terrecotte templari ceretane scavate nel 1869 *)
corrispondono le terrecotte della falisca Faleri °), della latina Lanu-
vium "), della volsca Satricum "), della campana Capna '^). Unità di
stile in questi monumenti che presuppone un solo aspetto di vita
civile presso le popolazioni italiche del centro occidentale della pe-
nisola, popolazioni non completamente ellenizzate come quelle delle
coste italiane del mezzogiorno e siciliane, non così staccate dal mondo
ellenico come quelle del versante orientale della penisola e della valle
del Po e del Veneto.
1) Martha, fig. 347 ; Micbaelis e Dki.la Seta, fig. 293, e Antike Denhmà-
ler, II t. 15-16 e Roemische MUteilungen, 1894, p. 253 e segg. (Petersen) ; Brunn
e BiiUCKMANN, t. 588-589.
') Brunn e Bruckmann, t. 586-587.
2) Martha, fig. 102 e 103 ; si v. la recentissima pubblicazione del materiale di
questa tomba nella ricchissima opera di Pinza U., Etnografia etrusoo-laziale, 1915.
*) Della Seta, Bollettino d'Arte, III, 1909, p. 161 e segg.
^) Monumenti dell' Instituto archeologico, Vili, t. XXVI; Annali dell' Instituio ecc.,
1866, t. G e H.
«) Monumenti dell' Instituto archeologico, X, t. XXXI-XXXII ; XI, t. II.
') Monumenti della B. Accademia dei Lincei, XIII, p. 228 e segg., fig. 7 e segg.
(Pellegrini).
*) WiKGAND, Terree cuitea architecturalei d' Italie, in La Gliptothèque Ny-CarU-
berg, t. 170 e segg.
') Quasi tutte inedite ; l'acroterio del tempio di Mercvirio è edito da Della
Seta, Religione e arte figurata, fig. 129 e da Rizzo in Bullettino archeologico comu-
nale, 1910, t. 13.
1») Notitie degli Scavi, 1889, p. 247, 1895, p. 46 ; FurtwXnglkr, Meistem-ei-ke der
griechiachen Plaatik, fig. 32.
1') Quasi tutte inedite ; per il poco edito si veda Mélange» d'archeologie et d'hi-
atoire, XVI, 1896, t. 1-4 (Graillot).
") KocH, Dachterrakotten aua Campanien, t. V e segg.
Aspetti dell'arte in Etruria 171
Ma tra questi popoli dell'Italia centrale non già i Falisci o i
Volsci o 1 Latini, Eoma era ancora un borgo di guerrieri agricoltori ;
ma gli Etruschi, i nobili Etruschi soli potevano avere continui rap-
porti e coi Greci civilizzatori e coi Fenici mediatori industri di ci-
viltà, potevano attrarre a sé e gli unì e gli altri. Di arte etrusca si
deve parlare in questo periodo arcaico e tale denominazione meglio
può soddisfarci che quella di arte del centro d' Italia del versante oc-
cidentale. E, come al mare che bagna le coste di tale versante è
conservato il nome di Tirreno, nome che ricorda le vetuste popola-
zioni della odierna Toscana, quasi a significare il primato, che esse
tennero nel campo della civiltà sulle altre popolazioni vicine prima
del predominio romano, e come ricordo della navigazione riserbata,
tra gli altri popoli italici, prima che a Roma, esclusivamente agli
Etruschi, così quest'arte arcaica, che impronta del suo carattere anche
la piccola, ma fiera Boma dei tempi leggendari dei re e della repub-
blica primitiva, è giusto, è doveroso che sia giudicata come patri-
monio essenziale degli Etruschi. I quali adunque, rispetto alle altre
stirpi a loro sottomesse o con loro confinanti, debbono essere con-
siderati come precipuo fattore, continuamente attivo, di progresso
civile, gli Etruschi che, ricevendo elementi numerosi ed importanti
di civiltà superiori, riescirono ad elaborarli e a foggiare con essi un
aspetto peculiare di cultura, la quale divenne comune alle genti vi-
cine e della quale trassero vantaggio, sia pur mediatamente ed in
ritardo, anche le rudi popolazioni delle alte valli dell'Appennino e
della pianura padana. Mediatori adunque di un'arte, che porzione sì
grande è della vita civile di un popolo, furono gli Etruschi nella pe-
nisola nostra; ma tale mediazione non è paragonabile a quella dei
Fenici, che solamente importarono prodotti, in cui niuna impronta
di originalità esiste ed in cui è tutta una contaminazione dei motivi
di arte dell'oriente. Anzi gli Etruschi, più che mediatori, furono ci-
vilizzatori, perchè nella loro attività artistica, pur cercando di mo-
dellarsi a quanto l'arte ellenica riesciva ad esprimere con mirabile,
continua tendenza alla perfezione, resero essi palese un carattere
proprio e, anche là dove la esecuzione è sciatta ed inabile, vi è sempre
qualche cosa di sentito, di vivace che è ben lontano da una imita-
zione freddamente meccanica.
L' influsso benefico della Grecia sulle coste della Toscana si iniziò
in modo continuo e diretto fin da quando la Sicilia e l'Italia meri-
172 Pericle Ducati
dionale cominciarono a diventare per gì' intraprendenti navigatori
greci uno dei campi preferiti di colonizzazione. Siamo ai primordi
dell'arte greca. Quest'arte iniziava il suo sviluppo da forme geome-
triche, primitive in un suolo che già era stato letificato per lun-
ghissima serie di anni dall'arte cretese-micenea, lussureggiante per
ricchezza di materiali, per ampiezza e grandiosità di costruzioni,
fantastica nelle scene figurate e nella ornamentazione, per la spre-
giudicata vivacità compositiva, per l'arditezza di motivi, per la pre-
dilezione di forme non comuni, e talora strane ed innaturali, abba-
gliante per i contrasti fortissimi di vivaci colori e per il fulvo oro
regalmente profuso. Si sviluppava questa nuova arte dell'Egeo presso
un popolo giovane, in cui si risvegliavano imperiose energie di vita,
realisticamente industriosa come presso i Fenici, ma nel tempo stesso
idealmente spirituale. E questo sviluppo avveniva nelle primissime
fasi a contatto ed anche sotto un relativo influsso della millenaria
jeratica arte degli Egizii e contemporaneamente alla bastarda produ-
zione commerciale dei Fenici.
Anche i primitivi documenti di quest'arte ellenica riescirono a
sprigionare nelle popolazioni delle coste del Tirreno la scintilla ani-
matrice di un'arte, nelle cui prime manifestazioni possiamo scorgere
chiaro l'influsso d'oltremare.
Non è qui luogo di fare ampio cenno della complessa ed ancor
fieramente dibattuta questione della provenienza degli Etruschi : co-
stituiscano essi, come alcuni sostengono, una popolazione cognata
colle altre dell'Italia centrale e con le altre venuta giù dalle Alpi
assai prima della civiltà convenzionalmente detta del ferro; siano
essi invece di razza diversa e siano o discesi per via di terra o,
come è in maggioranza supposto, giunti per via di mare, e vi può
sempre essere divergenza sulla età o di questa discesa o di questo
passaggio e sul luogo primitivo di origine; siano essi Etruschi infine,
come è anche il mio modesto avviso '), il risultato della fusione con
le preesistenti popolazioni italiche di schiere di Tirseni approdati
alle coste tirreniche dal bacino settentrionale dell' Egeo, certo è che,
nella regione ove gli Etruschi vissero, vediamo svolgersi un'arte che
dagli incunaboli delle forme geometriche si solleva a grado a grado,
come l'arte ellenica, ad espressioni più alte, in cui pure nobilmente
signoreggia la figura umana. Ma, mentre in Grecia prima era brillata
>) Rimando a G. Korte iu Pauly e Wissowa, Real-Eneyclopadie der Altertumè-
wissenscha/t, VII, p. 735.
Aspetti deWarte in Etniria 173
per tempo sì lungo possente luce di civiltà, nell'Italia centrale l'arte
novella degli Etruschi appoggiavasi ad un lungo passato, nel quale
i primi abitanti della regione, selvaggiamente vivendo, a poco a poco,
sia pure col trasmutar di stirpi, avevano cambiato 1' uso delle armi
di pietra con quello delle armi di rame e di bronzo, paghi di una
rudimentale arte decorativa api)licata al rozzo vasellame, ai rozzi ar-
nesi di uso domestico, non ricevendo nella loro tenebrosa vita che
scarsissimi, assai mediati sprazzi di luce dal luminoso oriente.
linde è anche la primitiva arte geometrica dell'Italia centrale;
sia che debba essere ascritta, come taluni credono, alle popolazioni
pre etnische o non etrusche, sia che di essa, come io suppongo,
anche gli Etruschi fossero partecipi. Tale rudezza ci appare in modo
speciale nei graffiti sui vasi fittili, in cui signoreggia la decorazione
essenzialmente lineare, che costituisce in Grecia lo stile del Dipylon,
in Italia lo stile di Villanova, denominazioni di due fenomeni arti-
stici paralleli desunte da specifiche località, ma che hanno conven-
zionalmente assunto una molto più ampia, più generica significazione.
In questo stadio culturale dell'arte geometrica italico-etrusca si os-
servano mantenuti alcuni tipi di oggetti senza dubbio richiamanti
una civiltà già tramontata, la civiltà pre-ellenica; alludo alle armi di
offesa, daghe e pugnali, e di difesa, elmi, nei quali ultimi si è voluto
riconoscere un elemento importato dai primi Tirseni sulle coste ita-
liche. Ma dalla mediocrità di questa arte geometrica si sollevano ta-
lora alcuni monumenti o in metallo, bronzo od oro, o di pittura, vasi
dipinti, che per la maggiore abilità di sintassi compositiva e di ac-
curatezza nel rendimento dei motivi più si avvicinano a quanto era
prodotto in Grecia, pur serbando un accentuato carattere locale,
etrusco certamente, ma né umbro, né latino. La pettiera aurea della
tomba del guerriero di Oorneto '), la sedia bronzea della tomba Bar-
berini di Preneste °), il vaso dipinto del sepolcreto visentino delle
Bucacce ^) sono monumenti tipici di tal genere in cui appaiono già
le foruie dell'uomo o del volatile schematicamente espresse, mode-
stissima promessa di fulgido avvenire. Né si debbono tacere i primi
tentativi di plastica : le figurine mostruosamente bambinesche attac-
cate all'ossuario villanoviano di Monte Scudaio *), in cui permangono le
^) Martha, Kg. 78 ; Monumenti dell' Instiluto archeologico, X, t. X, b, 2.
') PoULSE.v, Der Orient nnd die friihgriechische Kunnt, tìg. 152.
') Monumenti della li. Accademia dei Lincei, XXI, 1913, tavola a colori (E. Galli)
*) Milani, t. 76.
174 Pericle Ducati
croci uncinate geometriche, hanno una fratellanza innegabile con gli
abbozzi dei primitivi coroplasti del mondo ellenico.
Alla fase geometrica subentra la fase orientalizzante, coincidente
a un di presso col secolo VII. Ed è una ondata assai più ampia di ci-
viltà che si riversa sulle coste tirreniche. Anche ora è notevole il
mantenimento presso gli Etruschi di qualche carattere dello scom-
parso mondo pre-ellenico : le forme di tombe a tholos di Quinto Fio-
rentino '), di Casal Marittimo "), del Diavolino a Vetulonia ') ci sem-
brano una derivazione dalle tholoi di Micene *) e di Orcomeno ^); la
ricchezza di oggetti, tra cui risplendono le abbondanti oreficerie de-
poste come corredo funebre in tombe, certo di nobilissime famiglie,
ci fanno ricordare gli abbaglianti corredi funebri principeschi del ))e-
ribolos di Micene *). Grandiosità e fastosità si accompagnano a
questo nuovo impulso di vita artistica, che ripeteva le sue origini
dall' oriente, ove erano rimaste vive le tradizioni della scomparsa
civiltà del bacino dell'Egeo; grandiosità e fastosità spiegabilissime
presso questi Etruschi imbevuti della cultura greca, senza tuttavia
che questa venisse ad afiinare il loro gusto, ad attutire le smodate,
grossolane tendenze ad un lusso abbagliante. Fenomeno questo che
vediamo ripetersi in altre terre, ove penetrò la civiltà ellenica; così
nelle colonie del Chersoneso Taurico coi tumuli semi-barbarici ricolmi
di oreficerie, che scendono giù nello inoltratissimo secolo IV a. C
Nell'uso delle maschere bronzee dei primitivi cinerari canòpici
di Chiusi ') pare mantenuto un ricordo delle maschere auree di Mi-
cene *), e qui pure si avverte la conservazione di un altro elemento
della scomparsa civiltà pre-ellenica, eco lontana, parallela ad altre
risonanze ancor i)iù tarde della medesima civiltà presso popolazioni
più barbariche e più settentrionali. Ed il retaggio di schemi e di forme
dell'arte pre-ellenica si avverte conservato anche nelle oreficerie e
negli avori con la spiccata predilezione pel mondo animale; ma tutto
ciò è dovuto alla mediazione dell'arte orientalizzante veramente elle-
nica, in cui vigorosamente riviveva il già lontano passato cretese-
') MoNTELius, La civilisatioH primitive en Italie, II, t. 166.
*) Milani, t. 124.
3) Milani, t. 122.
*) Eiz/.o, tig. 103-109.
=) Rizzo, flg. 110.
*) Rizzo, figg. 81 e segg.
') Martha, tìg. 224; Milani, t. 83, 1.
») Rizzo, flg. 84.
Aspetti dell'arte in Etrttria 175
miceneo. Così, monumenti come la pisside eburnea della tomba della
Pania presso Chiusi ') e l'altra pure chi asina del Museo del Lou-
vre '), e per la sagoma e per il metodo decorativo a zone con fregi
zoomorfl si riallacciano, attraverso lavori greci, a prodotti micenei,
ad opere come la pisside, pure eburnea, della tholos di Menidi ^).
Agli incunaboli di arte maggiore figurata della Grecia corrispon-
dono le primitive opere, purtroppo non frequenti, di arte pure mag-
giore, iiresso gli Etruschi. Nei frammenti plastici di morbida arenaria
del tumulo della Pietrera a Vetulonia ^ì, con la rigida tecnica lignea
a forti incisioni, a bruschi passaggi delle varie parti del corpo, nei
tre bronzetti di guerrieri del deposito di Broglio in Val di Chiana ')
dai duri movimenti e dalle proporzioni esageratamente sottili, nel
bronzetto di donna, pure di Broglio "), saldamente esibito di fronte con
la lunga veste che, simile ad una cappa di piombo, le avvolge il corpo,
si osservano i caratteri in modo fedele mantenuti di primitive e no-
tissime opere arcaiche elleniche ; cioè della numerosa serie dei cosid-
detti kouroi od ApoUini ^) e delle statue come quella dedicata da
Nicandre in Delo *). Le stele rozzamente graffite di Aule Pheluske
di Vetulonia ') e di Monte Gualandro '°) sono apparizioni parallele
alle stele primitive della patèla di Prinià in Creta "), mentre il fre-
gio del tempio A, pure di Prinià '^), coi cavalieri minuscoli su gigan-
teschi cavalli dalle altissime zampe, vivamente richiama le figure
dipinte nella parete di fondo della tomba Campana a Veio ").
Jonica deve essere denominata la fase arcaica dell'arte etrusca
che coincide col secolo VI. Quasi si identifica e si confonde il fe-
nomeno artistico e in Etruria e in Grecia, né mai come in questo
') Milani, t. 81, 3 ; Monumenti dell' Instituto archeologico, X, t. XXXIX.
') Moìutments et Mémoirea Plot, IX, t. I, p. 5 e segg. (CoUignou).
3) Peurot e Chipiez, Histoire de l'art dans l'anliquite', VI, fig. 406 e 407.
*) Milani, t. 69.
=) Martha, flg. 341 ; Milani, t. 78.
''■) Martha, tìg. 217 ; Milani, t. 78.
') Es. la statua funeraria tla Teuea, MiCHAklis e Della Seta, fig. 2'J8 ;
Bkunn e Bruckmanx, t. 1.
*) Michaklis e Della Skta, fig. 300 ; Brunn e Bruckmann, t. 57, a.
S) Milani, t. 68.
1») Milani, Italici ed Etruschi, 1909, t. 14, fig. 63.
'1) Bollettino d'Arte, 1908, p. 447 e seg., tìg. 5 e 6 (Pernier).
>*) Annuario della R. Scuola Italiana d'Atene, I, 1914, p. 51 e seg., tìg. 19
(Pernier).
'=) MiCHAELis e Della Seta, fig. 732 ; Martha, flg. 282, 283, 284.
176 Pericle Dvcati
secolo VI la produzione artistica ritrovata in Etruria e all'Etruria
dovuta, assume così alto valore. Questo benefico contatto col mondo
jonico, di continuo mantenutosi anche nella fase precedente, ora s' in-
tensifica né s'interrompe anche quando tra Greci ed Etruschi sor-
gono rapporti ostili.
Ai Focesi pare che spetti nella prima metà del sec. VI in prin-
cipal modo questa ellenizzazione della Etruria, ma non si debbono
escludere anche altre genti joniche, le quali dovettero subentrare ai
Eocesi dopo la fiera lotta sostenuta da questi contro Cartaginesi ed
Etruschi. Ed è ben verisimile che non solo prodotti ellenici venissero
in questo secolo a mantenere florida l'attività artistica degli Etruschi,
ma che immigrassero nelle città lucumoniche artefici greci. Proba-
bilmente la conquista persiana della Jonia fu una delle cause di tale
immigrazione.
Pure carattere ellenico posseggono alcune serie di oggetti, tanto
che può esserci questione se essi debbano ritenersi importati dalla
Orecia o, meglio, come credo, esegniti da mani greche nella Etruria
stessa. Adduco la serie di vasi fittili dipinti, tutte idrie, denominati
ceretani del luogo ove esclusivamente si rinvengono M; adduco la
serie di anelli aurei con castone figurato provenienti da Vaici, da
Cervetri e dalla Sardegna ^). Aggiungo che incerto è tuttora il giu-
dizio su alcuni bronzi figurati, come i carri di Perugia e di Monte
Leone, come le laminette di Bomarzo ^j. Ma gli artisti ellenici in
Etruria si adattano alle varie esigenze del popolo presso cui lavo-
rano e nel quale ben presto trovano seguaci ed imitatori.
Nel tempio etrusco del secolo VI e dei primi decenni del succes-
sivo secolo si ha una curiosa documentazione di arcaismo in ritardo ;
come nella fase anteriore le tombe a tholos vivamente ricordano la
scomparsa civiltà cretese-micenea, così ora i templi, con la ossatura
lignea rivestita di terrecotte policrome decorative, richiamano una età
già trascorsa per la Grecia e di cui un ricordo si mantenne per lun-
ghissima serie di anni nella parziale conservazione del legno nello
Heraion di Olimpia *) e nel tempio di Thermos della semibarbarica
Etolia ').
') Si V. Pkrrot e Chipiez, Histoire de l'art dana l'antiquilé, IX, p. 517 e segg.
») FuRTWANGi.ER, Die antiken Gemmen, III, p. 84 e seg. ; Perrot e Chipikz,
■op. cit., IX, p. 36 e segg.
'; Antike Deiikiniiler, I, t. 21.
*) MiCHAEUS e Della Seta, fig. 265-269.
^) MicilAELis e Della Seta, fig. 270 e 286.
Aspetti dell'arte in Etruria 177
Già nel secolo VI nei santuari della Grecia, non solo ai templi
col rivestimento di terracotta, ma a quelli costruiti con roccia locale,
sia nel loro insieme architettonico che nella loro decorazione figu-
rata, cominciano ad essere sostituiti edifizi di nobile marmo; in Etru-
ria invece il vieto sistema di architettura è conservato e permane,
come vedremo, per molto tempo ancora. E gli edifizi sacri acquistano
un aspetto peculiare; di fronte all'armonia, alla snellezza, alla ele-
ganza delle costruzioni elleniche risalta la pesantezza, direi provin-
ciale, dei piccoli variopinti templi della Etruria.
Vario è l' adattamento dell' arte ellenica nei vari centri della
Etruria, in ciascuno dei quali prevalgono determinate forme e deter-
minati generi monumentali; ma dovunque l'arte jonica ci palesa lo
stile suo, attraente nel mosso arcaismo, elegante nella ricchezza
dei particolari, molle anche nelle scene di grande vigore ed espri-
mente forme umane, talora massiccie e pesanti, talora snelle e ner-
vose. Nei tripodi a verghette di Vulci '), nei sarcofagi di terracotta
di Oervetri ^), nei cippi e nelle urne di morbida arenaria a rilievo
di Chiusi ^), nei buccheri a rilievo pure di Chiusi ^), nelle lastre fit-
tili dipinte da tombe a camera ceretane ^), nelle pitture degli ipogei
di Corneto ^), nelle stele e nei cippi funebri dei territori volterrano
e fiesolano '), vi è una sola intonazione di arte jonica, vi è un com-
pleto adattamento di quest'arte agli usi locali, poiché è impossibile
trovare monumenti di tale genere in Grecia, a meno che non si tratti
di oggetti importati, come pel frammento di tripode dell'Acropoli di
Atene *) ; sono tutti monumenti specifici, peculiari, caratteristici della
') Es. Martha, fig. 361 ; Monumenti della II. Accademia dei Lincei, VII, p. 289
e segg., t. VIII-IX (Savignoni).
*) Martha, fig. 202 ; Michaelis e Della Skta, fig. 751 e 752 ; Monumenti
della B. Accademia dei Lincei, VIII, t. Vili, p. 521 e segg. (Savignoni).
') Martha, fig. 187, 236, 237; Milani, t. 80.
*) Martha, tig. 301, 322 ; Michaklis e Della Seta, flg. 750 ; Milani,
t. 1718.
^) Martha, tav. IV (al Louvre) ; Journal of Hellenic Studies, X, 1889, t. 7
(al Museo Britannico).
*) Antike Denkmaler, II, t. 41 (tomba dei Tori), t. 42 (tomba delle Leonesse);
Monumenti dell' Instituto archeologico, XI, t. XXV-XXVI (tomba degli Auguri), XII,
t. XIIl-XIV (tomba della Caccia e della Pesca).
') Martha, fig. 165 ; Michaklis e Della Seta, fig. 753 e 754 ; Milani,
t. 75 e t. 116 ; Galli E., Fiesole, Gli Scavi, il Museo civico, fig. 33 e 34.
') De Eidder, Catalogue dei bronzea trouvés sur V Aoropole d'Athènei, 1896,
t. 5, n. 760 ; Monumenti della B. Accademia dei Lincei, VII, t. IX, 1 ; Perrot e
Chipiez, op. cit.. Vili, fig. 345.
Atene e liovta. 3
178 Pericle Ducati
sola Etruria e, anche là dove lo stile delle figure e degli ornati è
attinto dalla Grecia, qualche cosa palesa il carattere indigeno. Così,
per esempio, nella pittura della tomba degli Auguri il crudele giuoco
a cui è soggetto, per parte di un personaggio mascherato, un infelice
con la testa insaccata, è un tratto della ferocia dei costumi pretta-
mente locali.
E l'attività degli Etruschi si esercita in prodotti di arte essen-
zialmente industriale, nella fabbrica di utensili, in cui la decorazione
a figura umana è un semplice accessorio, sebbene necessario; così
menziono gli specchi bronzei figurati, che al finire di questa fase co-
minciano ad essere eseguiti dagli Etruschi ed anche dai Greci per
gli Etruschi stessi '), mentre non hanno posto nell'ambiente di cul-
tura ellenica. Comincia infine a costituirsi quella superiorità indu-
striale in alcuni lavori di metallo, superiorità attestata da fonti
scritte ^) e comprovata, anche per questa fase di arte, dal citato
frammento dell'Acropoli di Atene.
E per tutto il secolo V si ha la fase attica, l'ultima dell'arcaismo
per la Etruria. Già la forte infiltrazione dell'arte attica si avverte
nella seconda metà del secolo precedente con la presenza di nume-
rosissimi prodotti di ceramica ateniese importati in Italia ; tra di essi
il cimelio piti prezioso è senza dubbio il vaso, che dall' inesauril)ile
suolo di Chiusi trasse alla luce Alessandro Frangois, dal quale è ora
denominato '). Ma lo stile espresso nelle particolareggiate scene che
costituiscono di questo vaso una vera bibbia ellenica figurata, è lo
stile proprio della Atene dell'età di Pisistrato, lo stile jonico. Invece
è nel secolo V che Atene primeggia, come nella letteratura così nel-
l'arte, improntando tutto di sé quel meraviglioso secolo, iniziatosi
con la radiosità della balda difesa contro l'invasore, tramontato coi
tristi frutti di una lunga e rovinosa guerra fratricida.
La produzione ceramica attica, che nello scorcio del sec. VI e
nei primi decenni del secolo successivo si riversava a flotti nei vari
scali del Tirreno ed andava ad abbellirò e a nobilitare le tombe
etrusche, fu il più valido, energico stimolo benefico ai progressi del-
l'arte nelP Italia centrale. Se non che, mentre nell'Attica e nella Grecia
tutta, in questo periodo, i progressi formali sono veramente mirabili
') Somische Mitteilungen, XXVII, p. 243 e segg. (Ducati).
') Ateneo, I, p. 28, b ; XV, p. 700, e ; si cfr. Sefocle, Aiace, v. 16 e seg.
2) Milani, t. 41 ; Furtwanqler e Ekichhold, Die griechiache Vasenmalerei,
t. 1-3 e 11-12; Pbrrot e Chipibz, op. cit., X, fig. 93-110.
I
Aspetti deWarte in Etruria 179
e nel corso di pochi anni sono infranti i ceppi dell'arcaismo e l'arte
si slancia ad altezze insuperate ed insviperabili, in febbrile tensione
verso il più divino ideale ; in Etruria invece rimane solo lo impulso
dello stile cosiddetto severo dei tempi delle guerre i)ersiane e, fin verso
la fine del meraviglioso secolo, l'arte, arretrata, s'irrigidisce, si sche-
matizza in viete forme e perde l'anteriore vivacità, sia pure arcaica.
E vi è anche un relativo ristagno nella produzione artistica, sintomo
eloquente della prossima decadenza e del successivo sfacelo del po-
polo etrusco.
È in special modo nella pittura funeraria che possiamo avvertire
questo illanguidirsi delle forze artistiche. Dalle tombe tarquiniesi del
Citaredo ') e del Triclinio ^), avvivate nella loro tetraggine mortuaria
da pitture con mosse scene di danza, con forme ivmane nervosamente
contorte, attraverso le pitture chiusine, esibenti scene di giuochi fu-
nebri '), e la tomba della Pulcella pure di Corneto ■*), in cui è già
una incipiente freddezza, si perviene alla tomba tarquiniese Quer-
ciola ^), in cui le figure danzanti hanno perduto la loro primitiva,
vivacissima agitazione ed hanno assunto una compostezza piti che
misurata, rigida. Sembrano rallentati i rapporti benefici con la Grecia,
la cui arte, balda e forte, cammina a gran passi lungo l'ascesa del
progresso; invece l'arte etrusca a stento e a rilento sembra che fa-
ticosamente si indugi sulle orme elleniche nella diffìcile salita.
Questo ritardo nella potenzialità artistica degli Etruschi è anche
avvertibile nei jjrodotti di arte applicata alle industrie, nei candelabri,
per esempio, e negli specchi. Così lo splendido lampadario bronzeo
di Cortona *) può trarre in inganno con la sua apparenza arcaica,
anzi jonica ; ma un esame più attento ci induce a giudicarlo come
frutto di un'arte arretrata, sì da non poterlo ascrivere ad età ante-
riore al 450. Come esempi della plastica possono essere citati alcuni
monumenti di arte chiusina. "tfella urna bisoma di alabastro da
') Martha, tig. 288-290; Monumenti dell' Instituto archeologico, VI-VII, t. LXXIX.
*) Martha, fig. 263 e 264 ; Michaelis e Della Seta, fig. 736 ; Monumenti
dell' Instituto archeologico, I, t. XXXII.
') Monumenti dell' Instituto archeologico, V, t. XIV-XVII, t. XXXII-XXXIV ;
Inohirami, Museo etrusco chiusino, t. 122-123 ; Martha, fig. 265, 278 (tomba della
Scimmia), fig. 291 (tomba Casuccini).
*) Antike Denkmaler, II, t. 43.
^) Michaklis e Della Seta, fig. 737; Monumenti dell' Instituto archeologico,
I, t. XXXIII.
«) Martha, fig. 368 ; Briinn e Bruckmann, n. 666.
180 Pericle Ducati
Città della Pieve ') aleggia nel volto della sposa seduta un insipido
sorriso, eco già lontana del sorriso arcaico di molte delle statue di
giovani donne dell'Acropoli ateniese; nelle forme piatte del possente
petto, sommariamente modellato, dello sposo, nel trattamento rigido
a pieghe parallele del panneggio si manifesta la inabilità dello scul-
tore. Nel gruppo funerario di Cliianciano del defunto e della Parca'),
nella statua cineraria pure di Cliianciano ^) della donna col bambino
in grembo, è nei tratti tuttora arcaici del volto quella severità clie
ci fa ricordare la produzione plastica ellenica, insignita in special
modo dai marmi del tempio di Zeus in Oliinpia *), quella severità so-
lenne, sdegnosa nella sua mestizia che impronta di sé molte opere
seriori degli Etruschi.
Nel cammino dell'arte etrusca queste prime quattro fasi, geome-
trica, orientalizzante, jonica, attica, vengono a costituire un lungo
periodo in cui, ininterrottamente e sempre in misura non piccola,
talora in misura assai grande, fu assoggettata la Etruria al diretto
influsso dell'arte greca. Questo periodo, che comprende i secoli della
colonizzazione e della massima espansione politica del popolo etrusco,
a mio avviso, può essere designato come il periodo ellenizzante. Ma già
verso la fine sua si comincia ad avvertire il decadimento, decadimento
che si rispecchia, come si è visto, nella diminuita corrente di arte
greca civilizzatrice e nel ritardato progresso e nella rallentata atti-
vità artistica; già la Etruria comincia ad essere minacciata, a set-
tentrione dalle orde barbariche dei Celti, a mezzogiorno dalla città
guerriera avviata ai più alti destini, da Roma che, espugnata Fidene,
si prepara alla lotta contro il primo baluardo etrusco, la città di
Veio.
Il secondo periodo di arte nazionale comprende il tempo della fiera
e ripetuta lotta contro Celti e contro Romani, il tempo del pieno
asservimento della Etruria a Roma, lo sfacelo della nazione etrusca.
In esso periodo si possono distinguere due fasi : la prima, veramente
etrusca, che coincide col secolo IV e che abbraccia gli anni che cor-
rono dalla guerra di Veio alla battaglia di Sentino, dal primo cozzo
tra Roma e la Etruria alla piena vittoria della fatale città; la se-
') Martha, fig. 233; Milani, t. 85.
*) Milani, t. 86.
') Milani, t. 87, 1.
■•) Michaklis e Dklla Seta, fig. 362-36.'>.
Aspetti dell'arte in Etruria 181
concia fase, etruscoroniana, che perviene sino alla età di Siila, a
quando cioè l'arte ellenistica, sviluppatasi nei vari centri dello smem-
brato impero di Alessandro Magno, trova in Roma il centro suo
massimo e si assoggetta ai servizi della città dominatrice.
Col secolo IV cominciano a fare la loro regolare apparizione nei
monumenti funebri le paurose visioni dell'oltretomba, delle cupe,
truci, orride immagini demoniche con tratti o schifosi o mostruosi,
espressioni artistiche del sentimento superstizioso di cui è forte-
mente imbevuta la Etruria della decadenza e che contrastano con la
composta serenità delle scene funerarie presso i Greci. Nel tempo
stesso, ed è altro segno di decadenza, si avverte l'accentuazione assai
grande, esagerata delle esimie qualità, delle alte condizioni sociali
dei defunti nei monumenti funebri, quasi ad esprimere il desiderio
di prolungare oltre la breve vita ciò che della umanità è transitorio
e caduco. Questo ci appalesano alcune pitture di tombe ; cito tra le
più insigni quelle della tomba dei Velli ad Orvieto ') con la glori-
ficazione del defunto nella reggia del dio degli Inferi, le altre della
tomba dell'Orco a Corneto ^) con la spaventosa visione di esseri in-
fernali. Più recente, e forse della seconda metà del secolo IV, giudico
i dipinti della tomba Prangois di Vulci ^), in cui le scene del mondo
epico ellenico, etruschizzate dalla intrusione di spaventose forme de-
moniche, si avvicendano a scene desunte dai ricordi leggendari o sto-
rici veramente etruschi, scene da cui vivido emana un sentimento
di rancore, di dispetto contro la possente nemica dell' Etruria, cioè
Koma. In tutte queste opere pittoriche, in confronto con le altre del
secolo V si scorge non solo un progresso stilistico, ma una diligenza
maggiore di esecuzione: è quasi una rinascita di arte, un novello
vigore con caratteri di emancipazione dalla Grecia per quanto con-
cerne il contenuto. Forse tutto si deve allo sforzo di difesa contro
i nemici che cominciano a sgretolare la compagine della nazione etrusca
e al conseguente risvegliarsi del sentimento nazionale. Ma, rispetto
') CoNESTABir.K, Pitture murali a frésco e suppellettili etrusohe scoperte presso
Orvieto, 1865, t. 5-11 ; riproduzioni parziali in Martha, fig. 266, 279, 281, 292,
e in MiCHAELis e Della Seta, fig. 739 e 740.
*) Monumenti dell' Instituto archeologico, IX, t. XIV-XV, e; riproduzioni par-
ziali in Martha, fig. 268, 271 e in Michaelis e Della Seta, fig. 741.
") Monumenti dell' Jnstituto archeoloyico, VI, t. XXXI-XXXII ; riproduzioni par-
ziali in Martha, fig. 172, 269, 270, 274, 277, e in Michaelis e Della Seta,
fig. 742 e 743 ; la pubblicazione esatta è in Garrucci, Tavole fotografiche delle
pitture vulcenti, staccate da un ipogeo etrusco presso Ponte alla Badia, 1866.
182 Pericle Ducati
a quanto produce la Grecia, la Etruria è sempre in ritardo : le pit-
ture suddette richiamano, per lo stile, monumenti greci della seconda
metà del secolo V ; così nella amazzonomacbia dipinta a tempera nel
sarcofago tarquiniese di Firenze ') è una tarda eco delle composi-
zioni della scuola polignotea; così in un gruppo plastico funerario
di Chiusi con la figura del defunto circondata da ben cinque servi
infernali *), si hanno forme tuttora rigide e nei volti e nel nudo e
nel panneggiamento, mentre il viso del defunto acquista già carat-
teri fisionomici che preannunziano i naturalistici ritratti dell'arte po-
steriore ; fcosì nel noto bronzo detto il Marte di Todi ') si ha uno
schema, un trattamento del corpo e del volto che richiamano produ-
zioni plastiche elleniche della metà all' incirca del medesimo secolo
V ; così nella famosa cista Ficoroni prenestiua *), ma che appartiene
all'ambiente di cultura etrusca, chiari sono gli accenti dell'arte greca,
quale ci è nota da pitture ceramiche attiche della seconda metà del
secolo V.
Allo scorcio infine di questa fase artistica mi pare che debbano
risalire le terrecotte del tempio di Apollo a Faleri : due torsi gio-
vanili ^) ci testificano il supremo grado di eccellenza raggiunto in
Etruria della ceroplastica. L' impulso anche in tal caso è dovuto alla
introduzione di elementi stranieri ed io suppongo che coroplasti el-
lenici, specificatamente attici, della seconda metà del secolo IV, la
propria attività artistica, già indirizzata nella madre patria a pla-
smare mirabili statuette, specialmente muliebri, abbiano essi appli-
cata, obbedendo alle esigenze del paese in cui immigravano, a fog-
giare statue di maggiori proporzioni per il vieto adornamento fittile
di templi, tuttora in legno e in terracotta. Impeccabilmente attico è
lo stile nei due torsi di Faleri ed il distacco dal complesso della
produzione essenzialmente etrusca, anche da quella fittile dei tempi
posteriori, per me non può essere soggetto a dubbi. In una di que-
ste due figure efebiche si ha l'ampia e ondulata chioma circondante
il volto pieno : innegabile è la parentela con le tipiche teste di Ales-
sandro Magno. In tal modo queste terrecotte falische stanno alla so-
•) Milani, t. 52 ; Monumenti dell' Instituto archeologico, IX, t. LX; riprodnzione
parziale è in Michaklis e Dklla Skta, fig. 744.
*) Martha, ttg. 234.
3) Martha, fig. 210 ; Brunn e Brcckmann, t. 667-668.
■•) MiCHAELis e Della Seta, fig. 486 e tìg. 746.
^>) Dkonna, £«8 slatues en terre-cuite dans l'antiquité, Sieile, Grand-Grece ecc.
fig. 5 e 6.
As2)etti dell'arte in Etruria 183
glia dell'ultima fase artistica degli Etruschi, della fase contemporanea
a quel multiforme e complesso fenomeno che fu l'arte ellenistica
iniziatasi con la eroica figura del grande Macedone.
Ma in quest'ultima fase, come diversamente ci si presentano e
Grecia e Etruria ! Di fronte all'arte nuova ellenistica, in cui è av-
venuto il pieno connubio, che già si avverte nel Mausoleo di Alicar-
nasso '), tra la eccellenza ellenica formale e concettuale e la pom-
posa grandiosità dell'oriente con peculiari aspetti architettonici, arte
nuova in cui la passione di Scopa, la soavità di Prassitele degene-
rano in concitazione, in posa teatrale, in grazia ricercata e leziosa,
in cui l' idealismo cede luogo al più crudo realismo, in cui pare che
scopo supremo sia di eccitare nello spettatore, mediante elaborati
mezzi tecnici, la meraviglia, la curiosità, la fantasia ; di fronte a
questa arte ellenistica quella etrusca degli ultimi tempi sorprende
con la sua mediocrità di forme e di concetti del tutto provinciale.
La pittura funeraria è in pieno dissolvimento; dalle tombe Cam-
panari di Vulci *), del Cardinale ^) e del Tifone '') a Corneto e da
quella di Bomarzo ^) discendiamo giù alla pittura tarquiniese Bru-
schi '^) ; in essa le forme e la composizione, improntate di tanta me-
schinità, mal corrispondono al contenuto di trionfale passaggio di
anime nello Averno. Le stucchevoli serie di urne funerarie di Vol-
terra, di Chiusi, di Perugia '') con la consueta figura sdraiata sul co-
perchio dell'obeso Etrusco o della insipida dama agghindata, assu-
mono per noi importanza speciale solo per quanto vi è in esse rap-
presentato a rilievo : scene o d' indole funeraria o di carattere locale,
oppure scene desunte, con intrusioni arbitrarie o con interpretazioni
errate, dal repertorio di leggende elleniche ; spesso niun rapporto
apparente esse hanno con lo scopo funerario del monumento se non
per la presenza, regolarissima, di esseri demonici, delle Lase.
Perdura tuttora il tipo di tempio di così vieto carattere, con la
') MiCHAKLis e Della Seta, fig. 507-511.
*) Monumenti dell' Instituto archeologico, II, t. LIII-LIV.
■') MiCALi, Monumenti per servire alla Storia degli antichi popoli italiani, t. «i5-66 ;
riproduzione parziale è in Martha, fig. 267.
*) Monumenti dell' Instituto archeologico, II, t. III-V; riproduzione parziale è in
Martha, fig. 280.
^) Martha, fig. 273.
") Monumenti dell' Instituto archeologico, Vili, t. XXXVI.
') Si vedano v.iri esempi in Martha, fig. 8, 135, 155, 174, 195, 247, 252, 253,
in MiCHAELis e Della Seta, fig. 757 ; in Milani, t. 53-56.
184 Pericle Ducati
ossatura lignea ed il rivestimento in terracotta; permanenza questa
che costituisce un assai curioso anacronismo in confronto con ciò che
produceva l'arte ellenistica contemporanea, in confronto anche colle
costruzioni che s'innalzavano a Roma e nel Lazio, ove all'influsso
del mondo culturale etrusco va sostituendosi, sempre più forte, il
diretto influsso dell'ellenismo.
Ma è agevole trovare una ragione di questo immiserirsi dell'arte
qualora si pensi allo sfacelo politico ed economico, e però anche mo-
rale, della Etruria, al suo pieno asservimento a Roma. E tale arte,
anche con elementi veramente romani, continua a vegetare fin verso
la metà del sec. I av. C.
Vi è ancora qualche sprazzo di luce in così generale meschinità
e l'arte etrusca si diifonde^ tuttora benefica, in luoghi montuosi e se-
gregati. E le migliori opere che noi possediamo sono dovute alla co-
roplastica, sia di carattere sacro, sia di carattere funerario. Vedemmo
come alla fine del sec. IV si avverta una rinascita nell'arte della
terracotta, rinascita che io non sono alieno dall'ascrivere ad artefici
greci immigrati. I vecchi, venerandi santuari adorni di terrecotte di
arte jonica sono rinnovati, ricostruiti appunto per questo novello
impulso venuto dalla Grecia, e sorgono in questa ultima fase di arte
etrusca anche nuovi edifizi sacri. Faleri '), Vetulonia *), Bolsena ^),
Vulci *), Talamone % Fiesole *'), Luui '') hanno offerto residui preziosi
di decorazioni figurata ed architettonica ; dalle montagne delle Mar-
che provengono i fregi di Civita Alba *), da Via San Gregorio a
Eoma ") sono uscite alla luce terrecotte policrome ultime per età
nella serie numerosa e che tuttavia hanno, pel contenuto, carattere
pili specificamente romano. Manifesto è dovunque l'influsso dell'agi-
tata, commossa arte ellenistica, quale in special modo si svolse alla
corte degli Attalidi. Ma, mentre in queste terrecotte è la impronta
del barocco ellenistico, in altre opere si manifestano altre tendenze
dell'ellenismo.
1) Materiale inedito tuttora ; si veda intanto Weege in Hklbig, Fiihrer durch
die Sammlungen klassischer AltertUmer in Som, II, 1913, p. 338 e segg.
*) Milani, t. 71, 2.
>) Milani, t. 93 e 94.
*) Milani, t. 108.
') Milani, t. 104 e 105, 1.
«) Galli E., op. cit., fig. 126.
') Milani, t. 100 e Monumenti seelti del S. Museo archeologico di Firenze, t. 7-8.
8) Notizie degli Soavi, 1897, p. 283 e segg. ; 1903, p. 177 e segg. (Brizio).
') Dkonna, op. cit., fig. 9-14.
Aspetti dell'arte in Elruria 185
La tendenza a rappresentazioni di genere ci è testificata, per
esempio, da tre bronzi, due del Vaticano '), il terzo di Leida ') che
rappresentano fanciulli con la bulla al collo ; di essi due scherzano
con volatili. Ma queste figure sono di esecuzione goffa ed inabile;
quale inferiorità rispetto a creazioni ellenistiche come il bambino con
l'oca di Boethos di Calcedone ^)! Nella Parca di sarcofago perugino *)
0, meglio, nella testa di Parca di una terracotta architettonica di
Firenze '"ì si hanno quei tratti laidi, ripugnanti di vecchia grinzosa
e deforme che tanto si compiaceva di ritrarre la scultura ellenistica ;
celebre è la vecchia ubbriaca di Mirone di Tebe ").
Così l'abile verismo, privo di ogni idealità, che è carattere del-
l'arte ellenistica del ritratto, ci si manifesta in opere etrusche ; in-
signe esempio è l'Arringatore del Lago Trasimeno '), il quale, piti
che preannunziare la serie dei ritratti romani, mi pare che rientri
nella serie stessa e che debba ascriversi già agli anni della salda,
incontrasta romanizzazione della Etruria. Non già alla Etruria spos-
sata e corrotta, ma alla Etruria in certo qual modo rinvigorita dalle
stirpi di Eoma credo che appartenga l'Arringatore, Aulo Metello, dal
cui aspetto traspare la forza cosciente, la calma fermezza di un Ro-
mano. Eealisnio mirabile è in una urna fittile volterrana ') in due
teste di sposi dai tratti volgari e grossolani ; eleganza ricercata, posa
ambiziosa hanno le matrone Larthia Scianti ^) e Thanunia Scianti "")
espresse in terracotta in due sarcofagi chiusini. Del resto l'aspetto
dignitoso, solenne, che si nota anche in alcune urne perugine dei
Volumni "), è pure comune alle rappresentazioni di sarcofagi di Chiusi,
di Vnlci, di Toscanella con scene di addio supremo '*), di viaggio
') Martha, flg. 342 ; Micali, Monumenti per servire alla storia degli antichi
popoli italiani. III, t. 44.
») Martha, fig. 343.
') MiCHAKLis e Dki.la Srta, fig. 645.
*) Annali dell' Instituto, 1860, t. N.
5) Milani, t. 46, 2.
^) MicHABLis, e Della Skta, fig. 646.
') Martha, fig. 261; Michaelis e Della Seta, fig. 758; Milani, t. 27;
Brunn e Bruckman.v, t. 320.
8) Martha, fig. 240.
') Milani, t. 51 ; Monumenti dell' Instituto, XI, t. I.
">; Martha, fig. 241 ; Walters, History of ancient pottery, II, t. 60.
'■) Martha, fig. 242, 243.
12) Martha, fig. 245 (da Vaici), fig. 248 (da Chiusi).
186 Pericle Bucati
pomposo agli Inferi '); ivi la figura umana maschile assume la di-
gnità del eivis romamis. In questi sarcofagi, insieme con le urne
precursori dei sarcofagi romani dell' impero, sono adunque incline ad
avvertire, come nello Arringatore, la presenza di specifici elementi
romani.
Siamo alla fine dell'arte e però della civiltà etrusca e già si nota
l'opera di Eoma unificatrice delle varie stirpi italiche assoggettate
ed ora cementate e fuse in un popolo solo con un solo patrimonio
di religione, di civiltà e con 1' uso di un solo linguaggio, quello di
Koma. Il teatro di Fiesole ') sulla collina aprica ed amena, da cui
spazia lo sguardo su tanta parte dell'antico paese etrusco, è uno dei
primi, più cospicui e piìi chiari esempi del mutato aspetto di cul-
tura : esso infatti appartiene all'età di Siila ed è dovuto, senza dub-
bio alcuno, ai veterani dedotti dal crudele dittatore nell'antica città
etrusca, ben presto trasformata da loro in città romana. A Eoma si
accentra il movimento di civiltà e a fiotti vi si riversano dalle lus-
sureggianti sedi dell'oriente ellenistico le correnti di pensiero e di
attività, e letteraria ed artistica. In Roma imperiale si esplica una
nuova arte, derivata dalla ellenistica ed assumente un carattere pili
adatto alla grande dominatrice, col fine di renderle gloria e di eter-
narla nei secoli. Da Roma si espandono nel vasto impero gì' impulsi
piìi o meno vividi che valgono a creare opere artistiche, di carattere
romano con impronte locali, fin nelle più remote provincie.
Dopo un lungo cammino di più sette secoli l'arte etrusca emet-
teva gli ultimi fiochi suoni di vita: la fine del popolo etrusco se-
gnava la fine dell'arte sua. La quale costituisce un patrimonio tut-
t'altro che spregevole per il nostro paese; poiché, specialmente nel
primo suo iieriodo, essa è fattore massimo di civiltà per le regioni
centrali e settentrionali della penisola, per Roma stessa. Quest'arte
che ricevette e trasfuse nelle rudi popolazioni italiche quanto di lu-
minoso si irraggiava dalla Grecia, potè e sei>pe adattare gli schemi
e le formule apprese ad esigenze speciali, a quanto era patrimonio
peculiare della nazione, e potè talora comunicare ed imporre tali
adattamenti alle stirpi non etrusche, e seppe talora esprimere con
vigorosi accenti quanto era insito nell'anima del popolo. L'arte greca
decadde o, meglio, si trasformò in arte imperiale romana; l'arte etru-
') Mautha, tig. 246 (è il Sarcofago vulcente citato uella nota precedente) ;
MtiBeum Gregoriantim, I, t. 97, 9 (da Toscauella).
') MicHAELis e Della Seta, fig. 930; E. Galli, op. eit., fig. 16-26.
Aspetti dell'arte in Etruria 187
sca invece perì, assorbita intieramente da Roma. Ma, dopo i secoli
di barbarie, dal snolo di Grecia più non rampollò una nuova vigo-
rosa forma di arte ; tutto intristì, e per sempre, nelle spettrali forme
bizantine, in cui il bagliore dell'oro fa vieppiù risaltare la povertà
concettuale e la debolezza esecutiva. Dal suolo invece della Toscana,
ed anche i ricordi atavici dell'antica Etruria civilizzatrice dovettero
contribuire, sbocciò, fiore purissimo ed olezzante, l'arte toscana della
rinascenza ed i toscani Giotto di Bondone e Nicola Pisano seppero
far sprigionare nell'arte, sino allora timidamente astretta alle rigide
formule del passato, una scintilla animatrice. Fu lo inizio di quel
sacro ardore, per cui mirabili tempre di artisti, con la mente piena
di fervido entusiasmo per le nobili e venerande reliquie di Grecia,
di Etruria, di Eoma, col cuore ricolmo di pia religione per il Dio re-
dentore, procurarono alla nostra Italia invidiata gloria immortale.
Pericle Ducati.
Avvertenza. — Questo scritto costituisce la prolusione al corso ufficiale di
Archeologia da me letta nella R. Università di Torino il giorno 27 gennaio 1916.
Naturalmente ho omesso quanto di occasionale fu detto da me in quella circo-
stanza, il saluto cioè ai Colleghi e alla studentesca, il ricordo del mio predeces-
sore nella cattedra torinese, dell' insigne professore Giulio Emanuele Eizzo, ora
degnamente succeduto al senatore De Petra nella Università di Napoli.
Avverto poi che, nelle note bibliografiche, per maggior comodità dei lettori,
ho preferito restringermi, per quanto mi è stato possibile, alla citazione di poche
opero fondamentali e cioè : Bbunn e Bruckmann, Denkmaler griechieoher und rS-
mischer Sculptur, 1888 e segg. — Martha, L'art étrusque, 1889 — Milani, Il B. Mu-
seo Archeologico di Firenze, 1912 — Rizzo G. E., Storia dell'arte classica, p. 1-266,
1913-14 (finora sono usciti 9 fascicoli) — Michaklis, Manuale di Storia dell'Arte
di A. Springer, Arte Antica, trad. di A. Della Seta, 1910. Purtroppo, essendo
solo iniziata la opera del Rizzo, ho dovuto ricorrere, per la citazione di rappre-
sentazioni di monumenti assai noti, a questa ultima opera straniera, deplorando
che in Italia non vi sia ancora una Storia dell'arte antica ed augurando che ben
presto possa essere compiuta quella lodevolissima del Rizzo.
NOTE DI LETTERATURA OMERICA
Il vecchio problema omerico, che rimane sempre fresco e sempre enig-
matico davanti a noi, non ha perso nulla della sua attualità nemmeno in
mezzo al fragore dell' immane guerra a cui ci è toccato in sorte di assistere.
La cosiddetta conflagrazione europea stava per scoppiare, quando Erich
Bethe pubblicò il primo volume dell'opera sua, volume destinato in realtà
a segnare una nuova tappa nel cammino che la filologia classica ha percorso
a cominciare dal 1795, nel quale anno furono editi i Prolegomena ad Home-
rum del Wolf '). La guerra tocca ormai tutto il nostro vecchio continente,
e, dal settentrione di Europa, recando inoppugnabilmente chiaro il suggello
della scuola e delle tendenze da cui è nato, ecco ci viene un nuovo libro,
che pensa di dar fondo al problema annoso della composizione e delle fonti
dell' JKade').
Di questo libro ho intenzione di occuparmi qui, discutendone con una
certa ampiezza i procedimenti ed i resultati, soprattutto perchè tale esame
coinvolge anche quello di un metodo, che sembrava ormai sorpassato, ed
invece torna ogni tanto e quasi periodicamente a far mostra di sé, non riu-
scendo, in ultima analisi, che a far subire una sosta all'indagine, senza nem-
meno la più lontana speranza di valere a far pronunziare quando che sia
la parola finale.
Per spiegarmi con più chiarezza, occorre fissar di nuovo — ed in queste
Note V ho ormai fatto più volte — quali siano i punti fermi, per così dire,
ed i capisaldi sui quali tutto quanto il problema omerico può fissarsi.
Essi sono, in sostanza, due : infatti, o si considerano i poemi nel loro di-
venire, o si considerano nella loro forma attuale. Nel primo caso noi fac-
ciamo come chi, entrando in una fonderia, pesa e studia la qualità dei vari
metalli occorrenti per produrre una statua, senza preoccuparsi né della forma
in cui i metalli dovranno essere gettati, né della statua, quale fu ideata
dalla mente dell'artista. Anche questa è cosa necessaria, e che può servire
a spiegarci, mettiamo, il colore, la pastosità, qualche altro carattere esterno
del metallo divenuto opera d'arte; ma non vale certamente a renderci conto
né dell'arte dello scultore né dell'opera considerata in sé e nel suo com-
plesso. Nel secondo caso, invece, noi partiamo dall'esame dell'opera d'arte.
1) E. Bbthk, Homer, l Ilias; Leipzig und Berlin, Teubner, 1914. Ne ho parlato
brevemente in Boll, di FU. class., XXI, 149.
*) De Iliadis fontibus et composiiione scripsit Matthakus Valkton ; Lngduni
Batavorum apd. E. I. Brill, 1915. Cf. Boll, di FU. elafe., XXIII, 4 ss.
Note di letteratura omerica 189
cerchiamo di spiegarla nei suoi vari particolari riuniti in un tutto, e, in
seguito, dopo di aver cercato di capire come essi tutti concorrano alla sua
bellezza, vediamo o cerchiamo ritrovare in qual misura tutte le circostanze
esteriori hanno concorso ad essa.
Nell'esame della questione omerica, oggi, per fortuna nostra, si segue
il secondo metodo, e dico per fortuna nostra, giacché ormai par chiaro che
il seguire, come fossero una semplice ed inscindibile unità, i vari elementi
singoli (come sarebbero gli eroi, gli dei, le armi, la casa, il culto e via di-
cendo) può, sì, mettere in evidenza disiecta membra poetae, ma non ci dà
la visione della poesia, né ci fa capire come questa sia divenuta e sia tale.
Gli studiosi più illustri, oggi, hanno abbandonato l'analisi disgregatrice in
seguito alla quale non è più possibile fare alcun lavoro di sintesi, per se-
guire un procedimento inverso, consistente, per dirla in parole povere, nel
vedere o nel tentar di vedere come i vari elementi si combinino nei poemi
omerici, e come il poeta dell' Iliade (per prender questo solo poema, il
quale in questo momento più c'interessa) abbia fuso quanto di tradizioni,
di storia, di leggende trovava innanzi a sé per formare l'opera d'arte, che,
così com'è, é ammirevole ed ammirata; se, invece, la sminuzziamo e la
disgreghiamo, diventa un abito di Arlecchino, senza forma sua propria e
senza colore deciso.
Il punto fondamentale è ancora uno: Dinnanzi ai nostri animi, di fronte
alla nostra mente 1' Iliade è un poema ? 0, in altre parole, sentiamo noi in
essa un' idea fondamentale che tutta la pervade e la percorre da un capo al-
l'alfro ; ovvero la sua lettura ci fa 1' impressione di una serie di capitoli
staccati ed accozzati alla meglio, messi insieme quasi a caso, e fusi cosi,
per l'opera anonima del tempo, o di uomini altrettanto anonimi, i quali si
divertirono ad accrescere con i fantasmi poetici e con le narrazioni epiche
di altri, quello che essi stessi avevano trovato (la parola è iu sé adatta,
per chi ami paragonare l'attività dei rapsodi e degli aedi omerici, con quella
dei trovatori medievali) o quello che essi avevano raccolto dalle tradizioni
e dai canti epici più antichi ?
Di fronte a questa domanda, stanno, a guisa di risposta, due fatti inop-
pugnabili : 1° che noi possiamo prendere due o tre o dieci analisi disgrega-
ti ici deW Iliade, fatte in tempi diversi e da uomini diversi e pur tutti ani-
mati dall'unico intendimento di scoprire la via ed i modi per cui V Iliade
stessa fu composta, e non ne troveremo alcuna che possa combinarsi o adat-
tarsi ad un'altra; segno, questo, evidente che in tutte le analisi ha troppa
prevalenza l'elemento soggettivo, il quale, appunto per esser tale, non dà
garanzia di obiettività e di serenità degne del nome di scienza; 2" che, dopo
aver letto ed esaminato queste singole analisi, noi ci troviamo tra le mani
dei mozziconi, dei frammenti, dei rattoppi, ma il poema è sparito — mentre
invece, esso è sempre fermo ed intatto da un' altra parte, quasi ad irridere
la vanità degli sforzi umani, come un antico e venerfindo e meraviglioso
monumento, i cui pezzi staccati si può dire non abbiano alcun valore,
190 ^- Terzaghi
mentre dalla loro unione nasce un'opera d'arte che non si sottrae alla no-
stra avida ammirazione.
Ora, è naturalmente giustificato e legittimo il desiderio, anzi, per la cu-
riosità e per la volontà di sapere che è propria della scienza, il bisogno
di ricercare e possibilmente di scoprire in che modo e per quali vie un
poema sia sorto, si sia sviluppato, abbia preso forma definitiva prima nella
mente e poi nell'opera del suo autore. Ed è, quindi, anclie naturale e giu-
stificato che si tenti di mettere in luce quali sono i vari, sia pure dispara-
tissimi, elementi di cui l'autore si è servito, e che han dato, per così dire,
il substrato primo, la materia grezza per l'opera d'arte. Per queste ragioni
è giusto ed anche doveroso ricercare le fonti dei grandi poemi, i quali
ogni tanto, se pure di rado, vengono ad allietare la vita umana con un
soffio quasi divino, che sembra trascendere ogni nostra possibilità materiale.
Ed è anche legittimo che, tra i compiti della critica filologica, vi sia quello
di scindere e separare tutti i possibili vari elementi onde quei poemi sono
composti. Ma, si badi bene, questa è opera analitica, senza essere — e che,
anzi, non deve nemmeno aver la più lontana pretesa di essere • — ricostrul-
tiva. In altre parole: libri, come quello del Rajna sulle fonti dell' Ortentio
Furioso, segnano una tappa importantissima nel cammino scientifico della
filologia; ma, se da un'analisi come quella, o come altre che si potrebbero
fare e si sono fatte, sopra VEiieide, sopra la Gertisalemme Liberata, sopra la
lyivina Commedia, sopra il Faust e via discorrendo, si volesse arrivare a ri-
costruzioni piccole o grandi di poemi e poemetti e poemini già prima disgre-
gati dall'Ariosto, da Dante, dal Tasso, dal Goethe, si farebbe cosa, più che
inutile, pazzesca addirittura. Ancora : si può e si deve tener conto del vec-
chio principio epicureo, divenuto ormai assioma nella scienza, che gignitur de
niMlo nihilum, e che, quindi, per rimanere nel caso nostro, ogni opera di
poesia deve avere i suoi precedenti ; ma non si può in alcun modo fare
astrazione da quella che è la realtà, per la quale noi ci troviamo davanti
dei poemi complessi e formati e guidati da cima a fondo da un' idea do-
minante, e non, per così dire, delle antologie, e cioè delle raccolte fram-
mentarie di roba morta. Cosi, noi possiamo ben ritenere che libri come
quello del Miilder ') siano — almeno fino ad un certo segno (e questo va
detto proprio del libro or citato, che non manca di pecche e di preconcetti)
— necessari; ma, oggi come oggi, dopo, cioè, che noi conosciamo abba-
stanza bene in qual modo sieno formati tutti i nostri maggiori poemi e
dopo che non ci è più possibile di astrarre dall'opera poetica 1' elemento
creatore dell'uomo ; oggi, dico, riesce quasi inconcepibile che alcuno si
metta sul serio a spezzettare l' Iliade, non ne' suoi elementi costitutivi ori-
ginari, quali potrebbero essere le varie tradizioni e leggende, ma nei suoi
versi, pretendendo di giudicare con sicurezza quale appartenga ad uno e
quale ad un altro poemetto più antico. E, insomma, la ricetta del ' prendi
') Die Ilias u. ìhre Quellen, Berlin, Weìdmann, 1910.
Note di letteratura omerioa 191
questo e questo, rimescola e servi caldo ', con la quale si potrà forse arri-
vare a comporre qualche mediocre piatto di cucina; ma un poema, non si
fa davvero. O, altrimenti, tutti potrebbero essere poeti epici — e di che
modo! — mentre, al contrario.... un'altra Iliade non l'ha mai fatta nes-
suno.
Tutto quel che ho detto fin qui, e non vorrei apparisse come una inu-
tile chiacchierata, deve servire a spiegare il mio giudizio sul libro del Va-
leton, libro recentissimo in apparenza, ma non in sostanza, che esso risulta
dall' insieme di varie memorie già pubblicate sulla Mnemosyne dal 1912 in
poi, e raccolte ora in volume.
Il Valeton ha spinto fino all'eccesso, vorrei quasi dire fino all'esaspe-
razione, la ricerca esteriore e puramente formale delle fonti, con una con-
sequenziarietii, con una affannosa bramosia di logica, di fronte alla quale
possiamo bene affermare che non resisterebbe la più solida compagine del
più unitariamente ben costruito poema che potesse essere uscito dalla mente
e dalla penna di un uomo. Se noi badiamo bene ai cardini del suo studio,
possiamo dire che essi sono due : 1° l' Ilìade è un conglomerato meccanico
di elementi disparatissimi, messi insieme da varie persone; 2° tutto il sub-
strato del poema è greco del continente ellenico, e trasportato poi ideal-
mente in terra ionico-asiatica.
Cominciamo da questo secondo punto, giacché in esso c'è sicuramente
qualche cosa, o molto, di vero. Naturalmente, non si discute degli eroi, i
quali hanno nel poema parte principalissima, e sono scelti e dipinti come
Greci, quali Agamennone, Achille, Menelao, Ulisse, Nestore e via di discor-
rendo. Si tratta piuttosto di Ettore, di Paride e degli altri che contro i
Greci combattono. Ora, sono già molti anni dacché il Cauer, che non fu
il primo e non sarà l'ultimo della serie, ha, nelle sue Questioni fondamen-
tali della critica omerica, messo in evidenza come tutta la lotta intorno a
Troia, poeticamente descritta nell' Iliade, serbi l'eco di lotte avvenute in
Grecia e di canti nati da esse, adattati a nuove circostanze, a nuovi fatti
storici. Ammettere senz'altro che un poema come l' Iliade non abbia, per
dir così, dei ' precedenti ', sia storici sia letterari, sarebbe quasi una paz-
zia, e basterebbero a tenercene lontani l'episodio tebano di Tideo nel V e
quello di Meleagro nel IX libro. Perciò occorre essere ragionevoli e non
chiudere gli occhi davanti all'evidenza, la quale ci porta, press'a poco,
a conclusioni di questo genere : I Greci, trasmigrati, o per necessità
colonizzatrice o per la spinta di altre popolazioni le quali li cacciarono
dalle loro sedi, nell'Asia, vi recarono, altre alla loro civiltà, alla loro re-
ligione, alle loro armi, anche un patrimonio di canti sorto, formato ed
accresciuto dal ricordo di precedenti imprese (non dobbiamo diuienticare
che il canto epico é niente altro che la storia ideale di un'epoca passata,
in cui gli avvenimenti non si scrivevano né si catalogavano come in età
192 N. TerzagU
più progredite), ed alimentato dal culto religioso prestato agli dei patrii
ed agli eroi, cui si attribuivano onori divini. Questo patrimonio si accrebbe
per forza naturale delle cose, allorché dovendosi compiere, e non certo per
vie pacifiche, la conquista delle isole e del litorale d'Asia, nuove, e, dati
i tempi, relativamente grandiose imprese si vennero ad aggiungere al ricordo
delle antiche. E, come sempre è avvenuto e vediamo avvenire anche oggi,
non ostante la rigidità della cronaca fissata per mille modi e con mille
mezzi, i maggiori fatti si attribuirono agli eroi più antichi, i quali cosi eb-
bero non solo accresciuta la loro fama e la loro gloria, ma si trovarono
trasportati in tempi e luoghi coi quali essi in realtà non avevano origina-
riamente nulla a che fare. Questa spiegazione, che per troppe e troppo evi-
denti ragioni non posso qui sviluppare, serve ottimamente a renderei conto
di moltissime difficoltà, e ad eliminarle, come l'arcaizzazione voluta di molte
parti dell' Iliade, i fenomeni dell'eolismo nella lingua, le contraddizioni e
le ripetizioni, che non di rado si incontrano, ed altre ancora su cui è inu-
tile di insistere pel momento ').
Ma, ad ogni modo, una lotta fra Greci ed Asiatici, in Asia, dovette
esservi, e, a quel che posso vedere, viene oggi ammessa da tutti quegli
studiosi i quali non confondono la scienza con la fantasia, o, meglio, con
la fantisticheria, anche se — come fa il Valeton, al quale l'archeologia pare
che non importi nulla, poiché non se ne serve affatto, mentre, al contrario,
per lo studio dei poemi omerici non è ancora sfruttala in quel grado che
inerita — non vogliamo prestare eccessiva fede all' incendio di Troia ed
alla città bruciata del VI strato di Hissarlik. Ed è naturale e logica con-
seguenza di tutto ciò, che di fronte ai Greci, colonizzatori invasori e con-
quistatori, ci fossero dei Troiani, i quali dovevano tener loro testa, e di-
fendere il loro territorio, la loro città, le loro case, con tutta quella forza
che è data dalla necessità della difesa. E vero: Ettore, ' colui che tiene ',
è un nome parlante, potendo significare anche ' colui che resiste '. Ma che
perciò? 0 che una città assalita ed assediata non avrà avuto, in quei tempi,
come ai giorni nostri, uno che provvedesse alla sua difesa ed alla sua re-
sistenza 1 Nella migliore e più larga ipotesi, noi possiamo soltanto conce-
dere che all'eroe locale sia stato dato un nome greco; se vogliamo poi an-
che spingerci all'estremo limite delle concessioni, potremo dire che imprese
e leggende riferite ad un Elleno sieno state, per esprimerci così, riversate
su di un Frigio. Ma tutto questo non toglie né aggiunge nulla al fatto sto-
rico, da cui il poema di Troia ha avuto il suo movente ed il suo spunto.
La più bella riprova di questo si ha nel personaggio di Paride. Il suo nome,
nel dialetto frigio, significava ' il lottatore ' : era quindi un equivalente del
') Il fondamento storico dell' Iliade, pur con qualche esagerazione, è ora di-
mostrato convincentemente da W. Lkaf, Bomer and Histoiy (London, Macmillan,
1915), ottimo libro, le cui conclusioni — che mi dispiace di non poter discutere
qni — meriteranno senza dubbio di venire in buona parte accettate dalla critica.
Note di letteratura omerica 193
nome greco di Alessandro, ed ambedue i nomi si trovano usati promiscua-
mente neW Iliade e, dopo, in tutta la letteratura greca. Ora è giusto osservare,
come fa il Valeton, che in Pai-ide sono come chi dicesse presi due perso-
naggi, uno molle e l'altro valoroso guerriero, uno fiacco d'animo e di corpo,
e l'altro fiero e pronto a combattere. Ma di qui a concludere che Alessan-
dro sia un eroe originariamente greco, ci corre, e ci corre assai. Poiché non
si tien conto di due fatti, uno dato dalla ragione poetica prima delV Iliade,
l'altro dal suo svolgimento e dalla sua motivazione artistica.
Infatti, Vlliade, che è un poema di epiche gesta e non una storia in
versi, parte da un presupposto, che non ha nulla in comune con la realtà
degli avvenimenti. Questi avevano come spinta la colonizzazione e la con-
quista di nuove terre ; l' Iliade, invece, che tutto, anche la storia, tra-
sporta nel campo della più alta ed alata fantasia, ha come base una leg-
genda, il ratto di Elena, nella quale però non possiamo non vedere un
reale accenno storico alle relazioni che, già fin da tempo antico, dovevano
passare tra Greci ed Orientali, relazioni soprattutto di commerci e di scambi
fra le due regioni, separate dal mare. Ora, colui che — nel poema e nella
tradizione, si badi bene, non nella storia — rapisce una donna, e la rapi-
sce attraendola col miraggio dell'oro e della ricchezza, doveva, di fronte ai
conquistatori, che fornivano una rude bisogna piena di pericoli e di mi-
seria, apparire come un essere molle ed effeminato. E, come tale, può ben
egli aver difeso strenuamente il suo paese, può bene aver lottato con tutto
il suo vigore e con tutta la sua forza : il suo ' tipo ' era ormai fisso, e non
poteva non sostituirsi alla realtà ; era come una caricatura ben riuscita, la
quale non si scompagna mai. neppure quando meno si adatta, dall'uomo al
quale si riferisce.
In secondo luogo, poi. Paride, nel poema, si sveglia e si eccita alla
lotta, sì, ma dopo qualche spinta esteriore, o divina, od umana, e basti ri-
cordare le fiere parole rivoltegli da Ettore al principio del III libro. Ab-
biamo, per conseguenza, una ragione di contrasto poetico, una necessaria
propaggine del presupposto fondamentale dell' Iliade, perchè Paride debba
avere quella specie di doppio carattere; ma non v' è davvero causa alcuna
perchè noi siamo tenuti a considerare Alessandro come un eroe greco, male
adattato a sostenere una parte non sua.
Né può essere una obiezione a quanto ho detto fin qui, ciò che si è
soliti chiamare il patriottismo di Ettore ; né si può considerare come con-
traria istanza il fatto che i Troiani, sotto la guida di lui, riescono perfino
a vincere ed a sconfiggere i Greci, con uno scacco dell'orgoglio patriottico
dei Greci conquistatori. Il sentimento patrio era nutrito profondamente dal
cantore AelV Iliade, e tutto lo dimostra: a noi, perciò, non resta che am-
mirare la sua serena obiettività, che ad un poema di lotte non volle sosti-
tuita una ' passeggiata militare ' da cui nessuna delle sue figure avrebbe
tratto rilievo, e nell'alterna vicenda delle sconfitte e delle vittorie trovò
la via per fare apparir più grande la vittoria finale del suo popolo, dopo
Atene e Ruma. 4
194 N. Tereaghi
che 1' ' eroe che resiste ', Ettore, fu abbattuto da Achille, ed il più forte
greco si dimostrò superiore al più forte troiano.
Questi sono alcuni elementi di giudizio (portarli tutti richiederebbe un
volume) per rifiutare la tesi del Valetou ; ma non posso tacere di un altro
che ha la massima importanza : gli dei.
Il Valeton, come si è detto, ritiene che tutto quanto ha rapporto al-
l' Iliade sia originariamente greco ; per lui, quindi, non c'è possibilità di
distinzione e di separazione fra Grecia ed Asia. Cosi fa anche rispetto agli
dei, i quali, anzi, gli sembrano costituire una prova della sua tesi. Apollo
è dalla parte dei Troiani? Vuol dire che questi Troiani non sono se non
Greci travestiti. Zeus difende e sostiene ora gli uni ora gli altri? Lo fa
perchè in verità erano tutti Elleni, e la lotta intorno a Troia non è che
un pretesto che serve a travestire lotte locali elleniche. Atena è la più ac-
canita odiatrice dei Troiani, e pure essa è da loro onorata, ed apparisce
come la loro propria divinità, p. es. nel VI libro? La risposta a questa do-
manda è perfettamente analoga a quelle precedenti. Ora, io vorrei sapere
quel che risponderebbe il Valeton a chi gli facesse notare che Giove e
Zeus sono due divinità eguali e par diverse ; quel che risponderebbe a chi
osservasse che Giove si chiama Zeus presso i tardi scrittori greci, e, vice-
versa. Zeus viene nominato Tuppiter presso quelli romani ; ancora, quel che
risponderebbe a chi gli obiettasse il conguagliamento che, tra dei ellenici
e barbari, ha fatto Erodoto. In fondo, il fenomeno è semplicissimo, e rappre-
senta il più elementare processo onde si arriva ad uno stato quasi di ge-
neralizzazione nella religione del mondo antico : due divinità hanno caratteri
simili ; così avviene che (forse anche per quel concetto della propria supe-
riorità di cui si può dire che nessun popolo antico — e soprattutto i Greci
prima, i Romani poi — fosse privo) quelle si fondano e di due se ne faccia
una sola. Questa non è certo una scoperta nuova, ma La ormai la barba
bianca, e, con un po' di buona volontà, al Valeton non sarebbero man-
cate fonti di informazioni in proposito '). Ma od ogni modo, tutto ciò di-
mostra quanto sia pericoloso farsi guidare da un preconcetto, e, special-
mente, quanto poco giovi, e produca anzi danno, il costruire sopra ipotesi.
Poiché in tutte le scienze, ma in particolar modo in quelle storiche ed
in quelle filologiche l'ipotesi è ammessa e legittima, ma purché si arrivi
sino ad essa ; oltre non si può andare. L' ipotesi è una induzione che deve
nascere da un cumulo di prove, o per lo meuo di induzioni probabili, ed una
volta che sieno raggiunte e pronunziate occorre fermarsi, se non si vuol scri-
vere dei romanzi o delle novelle, che possono riuscir divertenti, ma non
costituiscono più materia di utile discussione. Invece il nostro autore par
^) Cf., tra i più recenti lavori in proposito, quello di Erik Hedén, Home-
rieche GoUerstudien, Uppsala X912 : per Zeus, p. es., a p. 57.
Note di letteratura omerica 195
quasi si diverta a formulare una ipotesi, e poi, non so se per propria sug-
gestione o per una specie di mancanza di prospettiva scientifica, costruisce
su di essa, quasi fosse una realtà incontrovertibile, arrivando ad altre ipo-
tesi elle gli spianano il cammino per procedere oltre imperterrito fino a
che.... ma, fino a che si arriva al suo sminuzzamento dell'iliade in una
quantitil di canti e cantini e cantucci, i quali poi si sarebbero fusi come
dio vuole, alla meglio, fino a formare, per opere molte e diverse di gente
varia, la nostra Iliade, opera di mosaico, composta a tasselli variopinti, ori-
ginariamente staccati e tali da non aver nulla di comune l'uno con l'altro.
Così siamo arrivati a quello clie poco sopra (p. 191) chiamavo il primo
cardine del libro del Valeton, cardine pel quale egli si estende assai in
tutto il volume, e che tenta di difendere in ultimo, nell'epilogo, contro
tutte lo obiezioni che sono state fatte e si fanno tuttavia da coloro i quali
ad un'opera musiva nell' Iliade non hanno mai creduto. Ad ogni modo, io
non posso più qui esaminare particolarmente tutte le ipotesi del Valeton
(anche la sua costruzione deW AcMUeide poggia su di una ipotesi, poiché, come
egli scrive a p. 245 ' multo vero similius est ut poeta qui Achillis Iram
mente conceperit satis habuerit hoc argumentum enarrare, quam ut animum
induxerit totius belli addere imaginem quae cum ilio ne iipte quidem com-
poni posset ') ; e basta, credo, aver dimostrato quanto sia fallace la sua
teoria del fondamento ellenico, per risparmiarmi molte parole. Basterà dire
che il nostro dotto ritiene fermamente come nell' Iliade nostra debba porsi
a base una Achilleide, tutta riunita, stretta e conseguente a se stessa; un capi-
tolo di cronaca, insomma, non un poema epico. E, naturalmente, guai a tutto
ciò che può, sì, rispondere a ragioni poetiche od artistiche in genere, ma
non risponde alla più rigorosa logica che sia mai uscita dalla mente di fab-
bricatori di sillogismi ! Anche qui mi contento di un solo esempio, perchè....
ah uno disce omnes. Nel IX libro allorché i Greci scoraggiati, battuti, giunti
ormai sull'orlo dell'estremo pericolo, si risolvono ad inviare messi ad Achille
per indurlo a ritornare a combattere e ad aiutarli a respingere i Troiani
incalzanti, Achille rifiuta : rifiuta tutti i doni e le proposte onorevolissime
di pace che Agamennone gli fa fare per mezzo di Ulisse di Aiace e di Fenice,
e minaccia, anzi, di ripartire il giorno dopo per la patria Ftia. Ora, tutto
questo è assolutamente necessario per il poema, e lo ha veduto così bene
il Bethe *), che posso risparmiarmi una lunga dimostrazione. Basti dire che
Achille qui non può riconciliarsi con Agamennone, perchè gli manca la
spinta ad andare contro i Troiani, spinta la quale verrà solamente da un
fatto esterno, che agisca su di lui a guisa di molla : la morte di Patroclo.
Ciò è congegnato così bene, e così indissolubilmente in tutte le sue parti,
che, come è noto, tutti i tentativi fatti per riuscire ad una possibile di-
sgregazione sono andati ad infrangersi contro la realtà del poema, come
onde sopra uno scoglio.
') I. e, 77 8.
196 N. Terzaghi
11 Valeton è di parere opposto: egli ritiene che Acliille, dopo l'amba-
sceria del IX libro debba riconciliarsi con Agamennone e coi Greci. È una
pura ipotesi, ma basta al suo autore per eonstruirci sopra la sua Aehil-
leide e, soprattutto, per scinderne gli elementi non conformi, e per tenere
assolutamente distinto da essa un altro canto, la Patroclea, E il poema!
Che importa di esso al dotto olandese? Nulla : se il poema non corrisponde
agli schemi logici del critico, egli pensa, a morte il poema ! Già, ma in-
tanto esso è lì sempre forte e sempre robusto, e, come una quercia non è
abbattuta da un fulmine, così esso non si lascia abbattere dai colpi di ascia
o di piccone che, contro la sua solida struttura, tirano i moderni critici.
Ad ogni modo, ([uesta volta il Valeton ha voluto dare la prova, di-
ciamo così, materiale del valore delle sue costruzioni, poiché in un lungo
«xciirsiig ha pubblicato il testo della sua Achilleide, quale gli sembra nasca
dall'esame che ha fatto dell' Iliade. E la prova è semplicemente disastrosa
per la sua teoria. Con varie omissioni e trasposizioni, egli fa finire il suo
(dico suo con intenzione, perchè non ha certo nulla a che fare con Omero)
poemetto al libro XIX v. 276, dopo aver compreso nell'ultima parte quasi
tutto questo libro (dal v. 40 in poi), preceduto dalla fine del libro IX. Ora,
tutto è bene quel che fluisce bene, dice il proverbio, ed è piacevole che
un poema d'ira e di violenza finisca con un bel banchetto, annunziato al
termine di una assemblea nella quale da tutte le parti si sono sentite pa-
role di pace e di affetto e di reverenza reciproca. Ma il guaio è che, pro-
prio nelle ultime parole di Achille e' è il tarlo roditore della teoria vale-
toniana. L'eroe dice (vv. 270-274) : « 0 padre Zeus, oh ! che tu dai grandi
mali agli uomini ! Mai 1' Atride avrebbe suscitato tanta ira nel mio petto,
né, ribelle agli ammonimenti, avrebbe condotto via la fanciulla (Briseide)
contro la mia volontà — ma Zeus volle ohe la morte toccasse a
molti Achei». Ora, io domando come si possa non voler vedere che
queste parole e specialmente le ultime, sono indissolubili dalla morte di
Patroclo. Perchè il poeta non lo dice? È vero: ma non abbiamo, noi, noi,
intendo dire, tardi interpreti di un' opera d' arte, il dovere di intenderne
le profonde bellezze, quei tocchi delicati che danno il valore alla poesia ?
E, del resto, che forse il poeta ha 1' obbligo di sciorinar davanti ai nostri
occhi, e di diluire per il comodo della nostra ottusa intelligenza tutto ciò
che deve costituire il volo della sua fantasia, quello speciale lirismo, per
cui un sentimento vien solo accennato, ed é tanto più vero e profondo
quanto meno appare alla superficie della parola fredda, quale è scritta
sulla carta? Achille accenna solamente, non v'ha dubbio: ma basta l'ac-
cenno per richiamare tutta la sua ribellione ingiustificata del libro IX, ba-
sta a richiamare i disastci ricevuti dai Greci, prima e dopo 1' ambasceria,
basta soprattutto, a farci pensare alla sorte infelice di Patroclo. Se Achille
avesse nominato il suo giovane caro compagno avrebbe forse potuto susci-
tare una nuova commozione in noi ; ma, non nominandolo, suscita ben più,
poiché noi, dietro le sue poche parole — la morte che tocca a molti Achei
Note di letteratura omerica 197
— leggiamo tutto il suo dolore, che è così grande da non trovare la espres-
sione più giusta, che è pudibondo e si astiene dal mostrarsi in pubblico,
per quel rispetto di sé e per quella verecondia di cui non sono mai privi
i grandi sentimenti. — Orbene, se queste parole, che abbiamo qui analiz-
zate, si possono riferire a Patroclo ; se in esse v' è un accenno a resipi-
scenza da parte di Achille solo in seguito ad un grande fatto, che ha mu-
tato le sue idee ed il suo modo di sentire, noi abbiamo la necessità di riu-
nire 1' Achilkide con la Patroclea, di rifare, in una parola, V Iliade. Davanti
alla disgregazione fallace, le diverse parti disciolte si ricercano e si riuni-
scono a dispetto di tutto. Qual più bella prova vogliamo della inutilità e
del danno di, non costruzioni, ma vere distruzioni, come quella del Valeton?
Conclusione, che è l'ora di formularla : Tutti noi, quanti studiano l'an-
tichità, non per amore nostro, e cioè di quello che vogliamo vedere nel pen-
siero e nell'animo dei poeti antichi, ma per la pura e disinteressata ricerca del
vero, e per seguire nel suo sviluppo e nella sua genesi il pensiero antico;
tutti noi, dunque, abbiamo il diritto, e talvolta anche il dovere, di cercare
e di studiare tutte le vie e tutti i modi pei quali un'opera d'arte si è for-
mata. Così, per Omero, nessuno contesta l'utilità di ricercare e, possibil-
mente, di ritrovare gli elementi vari onde sono composti i poemi che vanno
sotto il suo nome. Ma abbiamo l'obbligo di rispettare l'opera d'arte. Ora,
poiché dopo oltre 120 anni di studio incessante ed ininterrotto V Iliade come
opera d'arte è sempre lo stesso meraviglioso poema ; poiché tutte le distru-
zioni su di essa esercitate non hanno valso a distruggerla ; poiché tutti i
tentativi per farle dire cosa diversa e parlare lingiiaggio differente, da ciò
che dice e parla, sono caduti nel nulla ; a noi incombe il dovere di stu-
diare l' Iliade anzitutto come opera d'arte, o, se più piace, in luogo di an-
dare a caccia di incongruenze e di contraddizioni, dobbiamo cercar di vedere
e di spiegare le ragioni artistiche della sua forma, tal quale è giunta a noi.
Con questo, naturalmente, non si esclude né si uccide lo studio della co-
siddetta questione omerica, ma solamente si sposta e si divide : altra cosa,
infatti, é la genesi remota dei poemi omerici e l'esatta comprensione di tutti
i suoi elementi costitutivi e fondamentali, altra cosa è l' interpretazione del-
l'opera d'arte in sé e quale ci é giunta; come sono due cose diverse le
fonti dell' Orlando Furioso — torno volentieri su di un esempio celebre per
merito e vanto di Pio llajna — e 1' Orlando stesso. Né pure si esclude la
possibilità di qualche più o meno grande interpolazione o lacuna nei poemi
omerici, come non si escludono per nessuna opera antica, giacché questo
sarebbe un apriorismo condannabile come ogni forma aprioristica, e perciò
lontana dall'assennata ragionevolezza che deve esser propria della critica.
Ma per studiare le ' fonti ' dell' Iliade occorre ancora percorrere un lungo
cammino, le cui tappe sono segnate da tutta la nostra ignoranza in una
198 N. Terzaghi - Note di letteratura omerica
quantità di campi, a dissodare i quali mancano talvolta perfino gli stru-
menti adatti. E bisogna pur pensare che, anche allorquando la composi-
zione dell' Iliade potesse, ciò che non è facile prevedere, non aver più se-
greti per noi, non saremo mai autorizzati, né per il nostro comodo, né per
il nostro piacere, a distruggere l' Iliade. Giacché, intanto, questa esiste,
mentre le contrarie istanze dei critici nascono e vivono 1' espace dUin matitt,
senza essere delle rose, se non perchè hanno molte spine ').
Napoli, Pasqua del 1916.
N. Tebzaghi.
') Su di una particolare questione, divenuta interessante in seguito a recenti
dispute, il Valeton non pare abbia un' idea ben formata : intendo accennare al
problema se 1' Iliade riferisca fatti dell' inizio o della tìue della guerra, e se la sua
cronologia possa restringersi ai pochi giorni voluti dal van Leeuwen o no. Ma
riguardo a questo argomento, è sperabile che nessuno abbia trascurato di leggere
il lavoro recentissimo dello Zuretti (L'assedio decenne e la cronologia dell' Iliade,
in Nuova Antologia 1916, 189 ss.), che combatte vigorosamente la teoria del van
Lbeuwen. — Chiudo facendo un'altra osservazione. II Valeton, nella sua rico-
struzione deW Achilleide usa continuamente e conseguentemente il digamma, ma
senza curarsi affatto della difficoltà che ciò produce riguardo alla special forma
vulgata del dialetto omerico. Qaesto è causa di una incongruenza e di una contrad-
dizione che può valere dal suo punto di vista della composizione meccanica e mu-
siva del poema, ma, nello stesso tempo, è completamente contro di lui. — Nel
testo, poi, scritto in latino generalmente corretto ma, pur troppo, abbondante di
errori di stampa, si ha spesso una curiosissima forma di accentuazione delle pa-
role greche, la quale non ho potuto capire se sia da imputarsi al proto, od a quale
criterio altrimenti risponda (àYXV*X''i't*'-) ver|X'J8sj, àvxp eto. etc.).
IL PENTAMETRO, GHIRLANDA ALBANA
(Carducci, Ragioni metriche, v. 8)
Perchè il Carducci nel complimento poetico o, come lo definì il Croce,
scherzo letterario in lode della giunonia bellezza di Adele Mai assomigli il
pentametro a « ghirlanda albana », non sembra che abbiano ben compreso
i commentatori, che, esponendo il componimento carducciano, hanno voluto
spiegare anche quel tratto certo non immeritevole di spiegazione. Rileg-
giamo dunque innanzi tutto i distici che qui e' importano :
Scarso, o nipote di Eea, l'endecasìllabo ha il passo
a misurare i clivi de le bellezze vostre :
solo co '1 pie trionfale l'eroico esametro paote
scander la via sacra de le Innate spalle.
Da l'arce capitolina de '1 collo fidiaco molle
il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.
(vv. 3-8)
Ed ecco la nota che Demetrio Ferrari, più diffuso che gli altri illu-
stratori, appone all'ultimo verso ora riferito, nel suo noto e voluminoso
Saggio di interpretazione delle Odi barbare, p. 457: « 1\ pentametro.... altei--
nato, nel distico elegiaco, con l'esametro, serviva con la doppia sua pausa
a rompere la gagliardia del verso eroico, e perciò il poeta lo chiama molle
e dice che deve pendere, derivare dall'arce capitolina dei collo fidiaco, cioè
deve unirsi coll'esametro a cantare il bel collo di Clelia, degno dello scal-
pello di Fidia e che si erge maestoso come la rocca del Campidoglio a Róma.
Così il pentametro è l'ornamento, la ghirlanda albana dell'esametro, a quel
modo che i monti Albani o Laziali coronano il Campidoglio, ossia Roma,
a sud-est ». Quanto poi agli altri illustratori, in tal proposito o tacciono
(tra questi ') anche 1' AUan, che nel suo Dizionario delle voci delle forme
') II. M. Capelli, Dizionarietto carducciano, Livorno, 1913, 2* ediz., e 6. L.
Passerini, Il vocabolario carducciano, Firenze, 1916. Il secondo di questi due vo-
cabolisti cita por altro il distico « Da l'arce capitolina eco. », dove dà del pen-
tametro la definizione « Verso della poesia greca e latina misurato di cinque piedi ».
Nulla infine trova da annotare in Ragioni metriche A. Mbozzi, Il Carducci uma-
nista, Sansepolcro, 1914.
200 Adolfo Gandiglio
e dei versi notevoli contenuti nelle Odi barbare e in Mime e ritmi registra
bensì «Albana» rimandando a •< G)tirlanda albana», ma poi dimentica il
rimando e salta a pie pari da « Ghiaccia » a « Ghirlandare »), o si conten-
tano fiduciosamente della spiegazione del Ferrari, come fanno i commenta-
tori dell'edizione popolare illustrata delle opere carducciane procurata dallo
Zanichelli, i quali ripetono : « ghirlanda albana — come i monti Albani
e (sic) Laziali coronano il Campidoglio ». Solamente gli autori dell' altro
Dizionario carducciano pubblicato dal Barbèra, E. Liguori e A. Pelli, si
discostano dal Ferrari, quando annotano : « Albano — di Alba, città che
secondo la leggenda fu madrepatria di Roma ; onde albano significa anche
romano » ; se non che ognun vede che la nuova spiegazione non tenta nem-
meno di spiegar nulla, perchè, dato e non concesso che nel suo pentametro
il Carducci dicesse albana invece di romana, resta tuttavia inappagato il
nostro legittimo desiderio di sapere quel che più rileva, cioè che cosa mai
significherebbero in sé e in rapporto col resto del distico carducciano le
parole « ghirlanda romana ».
Torniamo dunque alla spiegazione del Ferrari che sola mette conto di
discutere, come quella che si studia di serbare la convenienza intrinseca col
passo dell'autore. Ebbene io trovo già alquanto strano che si affermi che i
monti Albani coronano il Campidoglio o Roma che dir si voglia — a sud-
est aggiungeva il Ferrari illudendosi di conciliare l' immagine dalla ghirlanda
con l'esattezza topografica ; ma non per nulla quella limitazione diede noia
ai commentatori della così detta edizione popolare, che infatti la soppressero
lasciando campeggiare indisturbato il verbo ' coronare '. Certo il Carducci
nella safiBca Dinanzi alle terme di Caracalla vede i monti Albani chiudere
lo sfondo del paesaggio romano :
.... in fondo stanno i monti albaui
bianchi di neve.
Ma e' è di più : il Carducci, come abbiam visto, nel distico su riferito dice
che « da l'arce capitolina de '1 collo fidiaco » ch'egli affascinato ammira ed
esalta « molle il pentametro pender, ghirlanda albana, deve ». Ora, benché
io sia disposto a concedere che nel componimento carducciano, forse troppo
assolutamente, ma certo non senza qualche fondamento giudicato d' assez
mauvais goùt e d'uno spiacevole 7Jeda»itJ«?»e musqué dal Jeanroy '), non man-
chi qua e là certo affastellamento d' immagini che rasenta il barocco, pure
non posso persuadermi che quel ' molle ' (== mollemente) e soprattutto quel
') Quel che almeno a me più apiace in Ragioni metriche è tutta quella gran-
diosità di ricordi romani, così altamente rivissuta ed espressa dal nostro poeta
nelle altre odi barbare, e questa volta scomodata per sciorinar madrigali a nna si-
gnora, e lasciamo andare ch'era una mima. Vien fatto di dire: Ma che eroico esa-
metro ! Qui non ci ha che fare se non l'esametro che con le dita leggiere ed esperte
scandeva il Goethe sulle spalle di Faustina palpitante nell'amplesso. Ma non si
Il Pentametro, Ghirìunda Albana 201
' pendere ' detto del pentametro non debb.-!, non che disdire, convenire
strettamente alla ' ghirlanda albana ' che il Carducci aveva nella mente e
di cui egli fece, con l'aderenza immediata del costrutto apposito sostituito
al giro comparativo, tutt'una cosa col pentametro. Anzi, pur senza confron-
tare l'ultimo verso della medesima elegìola, che per l'atteggiamento ideale
e verbale si può dir veramente gemello del verso in cui il pentametro è
assomigliato a ghirlanda albana («corona aurea di stelle fulga l'asclepiadea »,
dove non è chi non veda, che all'esclepiadea è prestato il fulgore perchè
alla fantasia del poeta essa si è convertita in uno scintillante diadema stel-
lare), pur considerando, dico, la cosa in se stessa, si comprende facilmente
che il pentametro può pendere solo in quanto si concreta o, se si vuole,
si materializza in una ghirlanda, che dev'essere dunque tale da poter pen-
dere ossia essere appesa, come appuìito sono tutte le ghirlande, se già non
le siano ghirlande.... di monti. Provatevi del resto, sforzandovi di astrarre
dalla violenza che fareste al metro, a incastrare nel verso carducciano un
' ghirlanda dei monti Albani ' oppure un ' simile alla ghirlanda dei monti
Albani ', al posto della serrata apposizione, e ditemi un po' se la stonatura
con « pender » non risalta stridente.
Solo dunque l'impressione monca di chi s'è impigliato nell'epiteto di
« albana » che vien subito dopo alla menzione dell' arce capitolina, prece-
dendo di poco alla menzione dei colli preìiestini (v. 10), potè far pensare a
un'altra particolarità del paesaggio laziale nascosta in quell'epiteto. Ben è
vero che il Ferrari s'industria insieme di torcere a suo modo il senso di
tutto il distico carducciano. Ma mi perdoni l'egregio e laborioso commen-
tatore, se qui non mi sento di seguirlo in que' suoi quasi arzigogoli. Pen-
dere varrebbe quanto ' derivare ' ì II pentametro sarebbe la ghirlanda del-
l'esametro 9 E chi ci si raccapezza più? Il fatto è che nel distico « pendere *
vuol dire proprio pendere, e che il pentametro vi è raffigurato come un or-
namento che deve scender giù dal collo della formosissima donna, ossia
come un omaggio reso alla superba bellezza della Mai dal poeta sdegnoso
dell'usata poesia e vago delle forme e dei fantasmi antichi, allo stesso modo
che prima l'esametro e poi l'alcaica e l'asclepiadea. È dunque fuor di dubbio
che anche con la sua ghirlanda il Carducci non intese nuU'altro se non
proprio una ghirlanda. Né manca negli antichi il ricordo di ghirlande al-
bane. Tali furono infatti e la ghirlanda di cui si coronavano i generali ro-
mani che, non avendo ottenuto il trionfo solenne per la Via Sacra al Cam-
pidoglio, si consolavano celebrando il così detto trionfo albano su Monte
deve dimenticare che tutta 1' intonazione del componimento è semiseria ; nel qnal
proposito già altra volta io notai la bizzarria di quello sfratto iutimato al ' set-
tenario vile ' proprio con un doppio settenario. E non sarebbe inopportuno in-
dagare il perchè probabile del titolo stesso Ragioni metriche che, o io m' inganno,
non risalta assai chiaro dalla poesia ; ma di ciò, se mai altrove, o, meglio, altri
più informato.
202 Adolfo Oandifilio
Cavo {mons Albanus), e quella d'oro in foggia di ramoscelli d'olivo — Al-
bana dona, come dice Stazio gloriandosene — di cui poi si fregiarono nei
Quinquatri albani i vincitori delle annuali gare poetiche istituite nella sua
villa d'Alba dall'imperatore Domiziano. Quale poi delle due il Carducci
abbia avuto in mente, può sembrare incerto a stabilire. Che, potendosi cosi
l'una come l'altra contrapporre a ghirlanda più magnifica e più celebre —
la prima alla laurea dei giusti trionfatori e la seconda a quella intrecciata
di fronde di quercia degli agoni capitolini — , possono tutt'e due apparire
adatte del pari a simboleggiare la minor dignità del pentametro rispetto al-
l'esametro. Ne si. vuol negare che il poeta abbia potuto confondere insieme
l'una e l'altra in un ricordo vago. Ma chi pon mente ch'egli per significare
la maestà dell'esametro è già ricorso alle immagini delle pompe trionfali su
per il clivo capitolino, è condotto a credere che nei versi successivi sul
pentametro la ghirlanda albana sia proprio quella del trionfo, per dir così,
di consolazione, cioè della cerimonia che riproduceva, solo con meno di so-
lennità e di gloria, il vero trionfo, a quel modo che il pentametro non è
se non un esametro minore per le catalessi che raccorciano, nel mezzo e
nella fine, due de' sei piedi ond'esso consta come l'esametro '). E l'acco-
stamento del trionfo minore al maggiore è tanto più naturale, in quanto il
Carducci ne' suoi versi ricorda l'esametro non già quale forma indipendente
e a sé, come sembrano credere i commentatori, bensì soltanto qual parte
del distico elegiaco ; tant' è vero che ai due versi antichi è contrapposto,
delle forme metriche nostrali, il solo endecasillabo, a quel modo che poi
il settenario alla strofe alcaica e l'ottonario alla asclepliadea. Inoltre qual-
cuno potrebbe anche ravvisare una tal quale maggior convenienza col ca-
rattere di mollezza che anche il Carducci attribuisce al pentametro, nell'ac-
cenno appunto alla ghirlanda dei trionfatori, o pseudotrionfatori, albani,
che fu, almeno in origine, come ci è attestato da Valerio Massimo, da Plinio
e da Feste, di fronde di mirto, come la ghirlanda ') che gli ovanti appen-
devano nel tempio di Giove capitolino — e non è forse fuor di proposito
ricordare che talvolta, come fece Marco Marcello (Livio XXVI, 21, 6), i ge-
nerali romani, prima di celebrar l'ovazione, trionfavano appunto nel monte
Albano. Se non che è da avvertire che nel distico carducciano, che secondo
l'anteriore redazione stampata sonava
Da l'arce capitolina del bel fidiaco collo
pender, ghirlanda albana, il pentametro deve
') V. per questa e per molte altre cose la bella memoria del Ra.81 : Ge»i««« del
pentametro e caratteri del pentametro latino In Atti del Reale Istituto Veneto di icienze,
lettere ed arti, 1911-912, p. 1227 sgg.
*) Alle vittorie facili e incruente, argomentava Geluo {N. A., V, 6), aptam
esse Veneris frondem crediderunt, quod non Martiut sed quasi Venerine quidam trinm-
phus foret.
Il Pentametro, Ghirlanda Albana 203
« molle » fu aggiunto solo nelle correzioni posteriori ') : aggiunta del resto
veramente felice, anche perchè rinnova, forse inconsapevolmente, l'epiteto
con cui si trova congiunto il nome di ' pentametro ' la prima volta che
questo compare in iscrittore greco, voglio dire in Ermesianatte : « (laXaxoO
7t£Via|iÌTpOU ».
Adolfo Gandiglio.
') V. lo studio geniale di G. B. Menegazzi Su le oorreiioni alle odi barbare,
Aquila, 1900, p. 62 (ripubblicato dall'A. uel volume La nube e il lampo, Modena,
1911). Nel distico di cui ho qui trattato, le correzioni, oltre a rimediare ai difetti
iudicati sottilmente, come sempre, dal Menegazzi e a togliere anche il cacemphaton
' fidiaco collo ', attenuano alcun poco la conformità di andamento, che ho più so-
pra notata tra il pentametro di questo distico e quello del distico ultimo della
poesia, e che nel primo getto era troppo spiccata.
UNA NUOVA EDIZIONE DELLE EPISTOLE DI SENECA
' Intelleyo, Lucili, itoti emendavi me tantum, sed transfigurari ' Queste
memorande parole, che Lucio Anneo Seneca scriveva al suo giovane amico
dopo d'essersi ritirato dalla corte di Nerone e distaccato ' non tantum ab
hominibiis sed a rebus ', non intempestivamente potremmo immaginare ora
ripetute in altro senso dallo spirito di lui, cioè a proposito della novissima
edizione del celebre libro al quale anch'esse appartengono {Hp. 1, 6) : o tut-
t'al più sarebbe da appuntare loro soltanto una lieve iperbole, del genere
di quelle onde cosi spesso si compiacque l' immaginoso scrittore spagnolo.
In verità non difettavano finora buone edizioni dell' Epistole morali di Se-
neca a Lucilio — pregevolissima sopra le altre l'ultima teubneriana di Otto
Hense — grazie all'antichità e alla prestanza dei codici adoperati ed in pari
tempo alle cure intelligenti di più generazioni di studiosi. Ma il volume che
ora annunziamo ') ci presenta il testo di (juelle, se non propriamente tras-
figurato, certo molto emendato in confronto dell'edizioni precedenti, e
reso assai più sicuro nella lezione di molti luoghi.
Sia lecito in questa occasione ripetere un motto pindarico : 5nav eOpóvTo;
spYov {01. XIII, 17). Il prof. Achille Beltrami della R. Università di Ge-
nova ha avuto la fortuna invidiabile — che non è mai, in questi casi, la
cieca e capricciosa aùxofiaxEa dei Greci, sì piuttosto la, fortuna respiciens dei
Romani, benigna a chi la ricerchi e ne sia degno — d' imbattersi in un co-
dice di antichità ragguardevole e di singolare eccellenza, indipendente da
quelli già conosciuti e non mai messo a profitto per alcuna edizione del-
l'epistolario di Seneca ^). Esso si conserva nella civica Biblioteca Queriniana
di Brescia, colla segnatura B. II. 6, e porta il numero 22 nella serie dei
codici da essa posseduti di scrittori classici latini, dei quali lo stesso Bel-
trami, nativo appunto di quella città, diede in luce un accurato indice nel
volume XIV degli Studi italiani di filologia classica di Girolamo Vitelli, sin-
golarmente benemeriti, come ognun sa, per aver resi di pubblica ragione in-
dici e cataloghi di manoscritti greci e latini esistenti in biblioteche minori
e anche maggiori d'Italia. Tra i quarantaquattro codici di quella silloge,
provenienti in buona parte dal lascito del famoso cardinale veneziano An-
') L. Annaei Senecae ad Lucilium Epistularum moralium libro» I-XIII ad codi-
cem praecipue Quirinianum recensuit Achillbs Bkltrami. — Brixiae, typis P. Apol-
lonii et s., 1916; 8°, pp. XLViii-402.
*) Ciò può spiegarsi anche col fatto che il catalogo della biblioteca ne asse-
gnava erroneamente la data al secolo decimoquarto.
lina nuova edizione delle Epistole di Seneca 206
gelo Maria Queriiii (1680-1755), che fu per lunghi anni vescovo di Brescia,
ve ne sono taluni di qualche pregio e non trascurabili dalla critica, quali
due o tre dell' Epistole di Cicerone, uno del JJe agrìouUura di Palladio, dei
quali notò le varianti il Beltranii nella sua prefazione, e il codice di Ca-
tullo su cui ha dissertato recentemente il ch.mo prof. Ettore Stampini, ri-
levandone l'importanza, negli J.*ft della B. Accademia delle Scienze di To-
rino (voi. LI, disp. 2" e 3^, 1915-16). Ma il vero cimelio è senza dubbio il
codice che contiene le Epistole di Seneca fino alla 120' non compiuta (ter-
mina infatti colle parole meum esse [sic] asperum est del 5 12, e mancano
quindi anche le ultime quattro epistole a compiere il ventesimo libro), e
che il Beltrami, dopo averlo fatto oggetto d'attento studio in alcuni arti-
coli comparsi sulla Bivista di Filologia e d' Istruzione Classica (a. XLI-XLII,
1913-14), giustamente stimò opportuno di togliere a fondamento d'una nuova
recensione del testo. Forse, ove si fosse conservato l'ultimo quaderno del
codice, dalla cui perdita procede la già indicata lacuna, una qualche nota
sulla fine, secondo l'uso, avrebbe fatto conoscere, non solamente quando e
come e donde venisse il prezioso libro ad arricchire la Queriniana, ma al-
tresì a quale data dovesse ricondursi l'origine sua. Tuttavia i caratteri pa-
leografici (cioè la scrittura spesso continua o quasi, la mistura, in essa, di
elementi carolini ed insulari, inoltre la forma arcaica di alcune lettere) in-
sieme con più altri indizi, diligentemente esposti dal Beltrami e nei citati
articoli e nella sua Praefatio elegantemente scritta ih latino, hanno permesso
di stabilire ch'esso non deve ritenersi posteriore al secolo decimo ; e forse
anche potrebbe farsi risalire alla seconda metà del secolo nono, giusta l'au-
torevole opinione di esperti paleografi e in particolare del prof. Carlo Ci-
polla, il quale ha confermato, d'altra parte, la supposizione fatta dal Bel-
trami che in origine esso appartenesse ai codici del famoso monastero di
San Colombano di Bobbio.
Non pochi altri manoscritti delle Epìstole di Seneca a Lucilio risalgono
parimenti ai secoli dell'alto medio evo : né ciò fa meraviglia, se si pensi
alla grande popolarità di cui godè, per ovvie ragioni, la figura e l'opera
di Seneca morale presso i clerici di quel tempo. Sappiamo, p. es., da un'an-
tica cronaca di Montecassino che Desiderio re dei Longobardi ordinava
espressamente ai monaci di trascrivere gli scritti di lui; e qualche esem-
plare di questi non manca mai di comparire nei cataloghi di antiche biblio-
teche claustrali. Lo scrittore di cui Tertulliano aveva detto Seneca saepe
noster e al quale conferiva come un'aureola di santità il carteggio con l'apo-
stolo san Paolo — ormai da gran tempo riconosciuto apocrifo, ma al-
lora non sospettato anche in grazia degli accenni di san Girolamo e di san-
t'Agostino — fu tra i prosatori antichi, come Virgilio tra i poeti, riverito
e ammirato e amato dai cristiani, per la grande conformità colle idee e coi
sentimenti da loro professati, poco meno che se fosse uno dei loro santi
padri. Quella sua morale fortificante, non solamente alta e pura, sì anche
ascetica e mistica, che insegna a fuggire il mondo colle sue fallacie, che
206 Carlo Laudi
raccomanda l'esame di coscienza e la serena contemplazione della morte,
che considera milizia sulla terra la vita dell'uomo, temperando di caritate-
vole indulgenza l'austerità della virtù stoica, e proclama vera patria il cielo,
e nel servire a Dio pone l' intima essenza della libertà e della felicità umana,
spesso in modo da ricordare le pagine più sublimi delle Confessioni di san-
t'Agostino e del Pensieri del Pascal, doveva necessariamente fare profonda
impressione su quegli spiriti credenti e riuscir loro bene accetta e ritrovare
tra essi ammiratori fervidi e devoti ; press'a poco com'era avvenuto nello
stesso primo secolo, allorché Quintiliano si doleva ch'egli fosse quasi 1' u-
nico autore che andasse per le mani dei giovani (/. O. X 1, 125). Ma basti
di ciò, anche perchè i lettori di questo BuUettino certamente ricordano la
finissima analisi che Vincenzo Ussani presentò loro, tre anni addietro, della
figura morale del cordovese lumeggiando nella loro importanza storica il
pensiero e gl'ideali che informano le scritture di lui '). Tra le quali, senza
dubbio, principem obtinent loeum i venti libri delle lettere a Lucilio, vero
capolavoro, la cui lettura affascina e incatena anche noi moderni, attratti
non meno dalla nobile elevatezza dei fini e dall'abbondanza e varietà dei
soggetti e delle osservazioni psicologiche, che dal calore dei convincimenti e
dall'efBcacia mirabile dello stile nervoso, incisivo, modernamente spigliato.
Tanto più, dunque, dobbiamo allietarci della scoperta che permette di re-
stituire, per buona parte, alla nativa purezza il testo senecheo.
Nel Bumero dei manoscritti che ci hanno tramandato questo così in-
teressante epistolario filosofico il codice Queriniano — dal nuovo editore
designato colla sigla Q — eccelle invero per molteplici titoli. Intanto è da
avvertire che, mentre la più antica tradizione manoscritta dei primi tredici
libri (epp. 1-88), com'è noto, si presenta interamente distinta da quella dei
rimanenti sette (epp. 89-124), e soltanto nei manoscritti del secolo duodecimo
e posteriori si trovano riuniti tutti i venti libri superstiti (è anche noto che
Aulo Gelilo cita alcuni passi d'un ventiduesimo libro), invece il codice bre-
sciano comprende l'intera raccolta delle Epistole, colla sola lacuna sulla
fine di cui si è già fatto cenno. Esso è insomma l'unico codice antico che
tramandi riuniti ambedue i volumi delle Epistole: fatto che non solamente
per la storia del testo è di notevole importanza.
Inoltre il Queriniano, mentre offre continue e talvolta sorprendenti
rassomiglianze specialmente con l'autorevole codice Laurenziano suo contem-
poraneo che contiene le prime 65 epistole, d'altra parte conferma non po-
che lezioni finora conosciute soltanto da codici relativamente recenti. Citia-
mone alcune : Ep. 74, 8 multas habere cupimus maniis, modo in liane partem,
modo in illam respicimus (le parole modo in hanc partem mancano nei mi-
gliori mss.); — Ep. 81, 21 nemo sibi gratus est, qui alteri non fuit. Hoc
me putas dicere : qui ingratus est miser erit ? (anche qui i codici migliori omet-
tono le parole da qui alteri a ingratus est) ; - Ep. 83, 2 quid facturi si-
1) V. UssAJJi, Seneca, in Atene e Roma, a. XVI, 1913, pp. 1 ss., 84 ss.
Una nuova edisione delle epistole di Seneca 207
mus cogitamtis, et id raro ; quid fecerimus, non eogitamus (nei codd. migliori
le sole prime quattro parole). Analogamente in più altri luoghi. Da ciò
apparisce quanto fosse nel vero Otto Hense accordando ricetto nella propria
edizione ad alquante lezioni dei codici cosiddetti deteriori (indicati colla
solita sigla s), e facendo voti che potessero un giorno venir convalidate
dall'autorità di qualche codice più antico.
Ma soprattutto Q va segnalato per una cospicua suppellettile di lezioni
interamente nuove, le quali ristabiliscono in modo definitivo varii luoghi
o mutili o guasti, talora avvalorando congetture proposte dai dotti. Tale è,
ad esempio, il caso di Ep. 7, 5 plagis agatur (così già il Rossbach) ; —
Ep. 42, 2 nequitia est (Hense); — Ep. 70, 15 possimus (Erasmo); — Ep. 71,
21 iacere in convivio makim est, lacere in eeuleo bonum est (Wolters) ; —
Ep. 87, 13 His respondebimiis (Koch). Più notevoli i seguenti supplementi,
indicati dalle parole spazieggiate: Ep. 71, 7 Hoc nemo praestabit nisi qui
omnia prior ipse {priori se Q) contetnpserit, nisi qui omnia exaequaverit ;
— Ep. 72, 3 Non cum vacaveris, philosophandum est, sed ut philosopheris
vacandum est; ■ — Ep. 76, 20 inventus est, qui divitias proiceret,
inventus est, qui flammis manus imponeret ; — Ep. 82, 11 laudatur non
exilium, sed ille Butilius, qui fortiore vultu in exilium Ut quam mi-
sisset ; — Ep. 87, 26 si aurum ex urna sustuleris, non ideo sustuleris ,
quia illic et vipera est. Ognun vede quanto si avvantaggi il testo per simili
restituzioni, s*gnatamente quando si tratti di colmare lacune dovute per lo
più all' Iwmoeoteleuton , talvolta nemmeno sospettate dai critici.
Riconosciuta pertanto la condizione di primato in cui si trova il codice
Q rispetto agli altri dell' Epistole di Seneca, era legittimo ch'esso venisse
tolto a principale fondamento d'una nuova recensione, come ha fatto il
Beltrami. Il quale, dal canto suo, ha saputo assolvere l'ufficio di editore
con la più scrupolosa coscienziosità e con illuminata sagacia, apportando
notevoli contributi all'emendazione (prese le mosse più e più volte, ma non
sempre, dai dati di Q) ed anche all'ermeneutica mediante la discussione di
molti passi nell'apparato critico a pie di pagina, discussione forzatamente
contenuta nei limiti della più ristretta brevità, ma sempre lucida e succosa
e generalmente, crediamo, tale da doversi consentire nelle sue conclusioni ').
In complesso, come risulta dall' Index finale, sono oltre 400 le varianti della
nuova edizione dall'ultima del Hense: benché sia palese che il Beltrami ha
studiosamente cercato di attenersi fedele al principio di preferire ad ogni
') Indichiamo qui alcune delle congetture del B. stesso, accolte nel testo, a
giudizio nostro più probabili : Ep. 1, 5 Da hominem moderatum : eat est (con lieve
modificazione delle parole de komine moderato, che solo Q interpone tra superesl e
sat eat) ; 3, 1 privo (inv. di priore) ; 15, 8 media oris ini habeat ; 20, 11 Neo ego,
Epicuree, an gulosus iste pauper ; 22, 11 honesia libi suadebunt ; 45, 2 vellem — non
magin contilinm tiiihi ; 73, 6 nihil in meum honorem diseriptio sit ; 74, 33 quemadmo-
dum in corporibws insigua languoris [om. signa] praecun-unt ; 86, 14 «idi illi arborum
208 Oarh Laudi
congettura la lezione del suo e degli altri codici optimae notae. Forse, in
alcuni luoghi, taluno accondiscenderebbe più volentieri alla critica conget-
turale ; a me, p. es., pare che in Ep. 59, 2 l'emendamento proposto dal
Constans sui» bonie' viribitsque fidentes (in Mélanges Boissier, Parigi 1903,
p. 134) sia preferibile alla lezione tradizionale suis boni» veriaque fidente»').
Ma in generale è commendevole la prudenza del Beltrami, sorretta dalla
sua molta perizia della lingua e dello stile di Seneca.
Adornano il volume, impresso con degna eleganza e nitidezza di tipi,
quattro tavole riproducenti in fototipia altrettante pagine del codice, sia
come saggio della scrittura, sia come testimonianza di lezioni nuove e par-
ticolarmente importanti.
Mentre attendiamo con vivo desiderio il compimento dell'opera così
lodevolmente assuntasi dal Beltrami e condotta innanzi a prezzo di lunghe
e gravi fatiche, delle quali è visibile la traccia in ogni pagina del volume,
non sembri inopportuno dar luogo qui ad un'avvertenza d'indole generale,
suggerita dall'occasione stessa. Si è fatto un gran parlare in Italia, nel vol-
gere degli ultimi tempi, per ragioni troppo ovvie e troppo note perchè oc-
corra ripeterle qui, della convenienza di sostituire edizioni nostrane dei
classici greci e latini a quelle che ci solevano venire d'oltralpe, segnatamente
per l'uso scolastico : e diverse iniziative, forse anche più numerose che non
fosse desiderabile, sono già state o avviate o annunziate a tal fine. Ma giu-
stamente ebbe ad ammonire, a scanso di pericolose illusioni, una voce auto-
triinum et quadrivmm fastidienti fructus fruciua autumno deponere — Più spesso l'edi-
tore aocenua iu nota all'emendazione, come nei luoghi seguenti: Ep. 5, 4,; 13, 13;
15, 4 ; 21, 10 ; 33, 5 ; 48, 8 ; 54, 6 ; 58, 31 ; 59, 16 ; 69, 4 ; 74, 9. Nel luogo
difficile e controverso di Ep. 68, 11 (p. 236, 10) ha fatto bene il B., come altrove,
a ritornare alla vulgata, leggendo e interpretando cuius turbae ( = i«, cui in turba)
par esse non possum, plus habet (subaudi fateor) gratiae ; se non che a quel cuiu»
turbae, dato da Q, sembra preferibile la lezione del cod. p citi in turba.
') Sia lecito qui riferire qualche osservazioncella affacciatamisi nel leggere.
A Ep. 54, 7 (p. 174, 17 s.) dice Seneca della propria impassibilità dinanzi al pen-
siero della morte prossima : ' non trepidabo ad extrema, iam praeparatus sum, nihil
cogito de die tato '. Quest'ultimo epiteto poco soddisfa (se non s' ha da intendere ' il
giorno senza notte ', come totum diem in Ep. 79, 12, p. 307, 24) e il Koch pro-
poneva de die ultimo : forse de die noto ? — Ep. 58, 17 (p. 188, 23) ' Quid ergo
hoc est f ' {homo est f Q). Il dubbio espresso in nota dal B., an homo poetice prò iste
soripserit Seneca, — forse pensando alla menzione che precede di Omero — sembra
doversi escludere : con hoc si allude certamente al secondo signi Acato di xò òv se-
condo Platone, e la risposta è ' deus scilicet maior et potentior cunctis ' (il demiurgo
platonico). — Ep. 71, 14 (p. 250,21): invece di speraret forse meglio spectaretl
— Ep. 88, 39 (p. 381, 11 s.) ' annales ecolvam omnium gentium et quis primus car-
mina scripserit quaeram ? ' Manca quaeram in Q e a ragione dubita il B. n«m ^>Mt-
riniani scriptura retineri possit, et omisso ante quis, che sarebbe quindi in dipen-
denza da annales evolvam. Invece di espungere et, sarà da correggere ecquis (et.
Ep. 7, 12)?
Una nriova edizione delle Epistole di Seneca 209
revole molto familiare e cara ai lettori di Atene e Roma che, se è relati-
vamente facile cosa provvedere ai bisogni della scuola in modo da eman-
ciparsi dalla servitù forestiera, non sarà altrettanto facile compiere ojjera
lodevole e fruttuosa in questo stesso campo, e soprattutto degna del nome
italiano, ove non si pensi sul serio anche da noi a preparare edizioni scien-
tifiche e critiche dei classici: incominciando, com'è naturale, dal compul-
sare e collazionare membrane e stampe antiche e non rifuggendo da ogni
cura necessaria all' intento con la dovuta preparazione metodica. La possi-
bilità di far questo, come si vede, non manca : perchè, se non altro, i te-
nsori giacenti nelle nostre biblioteche, specialmente nelle minori, sono ben
lungi dall'essere conosciuti e studiati a dovere. Rara fortuna sarà 1' incon-
trarsi in codici così importanti come il Queriniano di Seneca o come l' le-
sino delle opere minori di Tacito, fatto conoscere poco fa dall' Annibaldi ;
ma che qualche frutto possa ricavarsi talvolta anche da materiale mano-
scritto d'età più recente, per avventura trascurato o mal noto, lo conferma
ciò che fu riferito innanzi. Ad ogni modo ognuno vorrà aderire, crediamo,
■&1 voto testé formulato dal prof. Ettore Stampini nel presentare appunto
il volume di cui parliamo all'Accademia delle Scienze di Torino ') : cioè
■che « in Italia non si metta mano a pubblicare testi così detti critici dei
classici greci e latini, se non per dare edizioni in cui sia, come in questa
■del Beltrami, anche se in proporzioni più modeste e ristrette, il risultato
di un lavoro proprio, di ricerche, confronti, congetture proprie, che non
siano già, per contriirio, semplici riproduzioni, come pur troppo è già av-
venuto, di edizioni straniere, con pochissima o anche nessuna traccia di un
vero nuovo lavoro personale e con poco decoro degli studi italiani».
Del pari, e per la stessa ragione, ognuno vorrà tributare un ben meri-
tato plauso alla preclara munificenza dell' Ateneo Bresciano, che volle as-
sumersi le spese della costosa pubblicazione : il cui apparire « in Italia nel-
l'anno di guerra non è senza fato, mentre si combatte una lotta ispirata
alle più alte speranze di vittoria latina », come scriveva l'anonimo recen-
sore di un giornale milanese '), dando lode ad Achille Beltrami d'avere col
suo Seneca Queriniano « fatta magnificamente opera d' italiano non meno
che di filologo », e aggiungendo che « l'opera si integra, in questo signi-
ficato, del nome di Brescia : di Brescia, sentinella d' Italia oggi più che
mai, che sa dare armi per la guerra latina, danaro per un'opera romana,
e animo e fede pari all'uno e all'altro compito ». Generose parole che non
dispiacerà certo veder qui registrate. All'Ateneo Bresciano fu quindi degna-
mente dedicata dal Beltrami questa sua nobile e memorabile fatica, dalla
quale ridonderà onore all'uno e all'altro con soddisfazione degli studiosi e
in particolar modo degli amatori di Seneca.
Carlo Landi.
1) V. Boll. Uff. d. Min. d. P. /., a. XLIII, 1916, v. II, p. 1179.
') Corriere della Sera, li Giugno 1916.
Atene e Jioma.
210 Recensioni
Luciano. Il Peccatore e alcuni dialoghi dei morti commentati da Ferruccio Ca-
LONOHi (Graecia Capta IX). Palermo, Saiidron (». d. ma 1916). pp. iii-214.
L. 1,90.
Non' sarà mai abbastanza lodata la tendenza, che qui in Italia, dove forse i
maestri delle scuole medie sono meno legati da un canone imposto, si fa ormai
strada più che in ogni altro paese, ad allargare la cerchia delle letture scolastiche;^
ne consegue un gran bene sia per i maestri sia per gli scolari : <iuelli non smus-
sano lo spirito, come capita a chi sia obbligato a leggere e spiegare sempre lo
stesso libro ; questi ricevono un insegnamento più vivo e piti fresco. Il commenta
del Calonghi al Pescatore non ha antecessori né tra noi né, si può dire, altrove r
va data lode della scelta all'autore, che il Pescatore è tra le operette di Luciano-
una delle più briose, e del modo seguito nel commentare. Il Calonghi, postosi di-
nanzi al suo testo, ha domandato con tntta sincerità a se stesso che cosa potesse
a prima giunta far difficoltà a un lettore provetto come lui e che cosa a un prin-
cipiante, come sono gli scolari a cui il libro è destinato, e non ha cessato dal ri-
cercare, sinché non ha trovato risposta alle une e alle altre domande. Il contri-
buto, dunque, di lavoro personale è qui molto maggiore che non soglia nei com-
menti a testi più letti, per lo più compilazioni, non sempre fatte con gusto, da-
altri commenti scritti por iscuole spesso di altro paese. Qui non è così : l'esegesi
del Calonghi ha il pregio dell' immediatezza. È da approvare la molta cura che
egli mette nel rilevare il nesso dei pensieri, inconsueta nei commenti scolastici, e^
come chi scrive, sa per triste esperienza, anche nella scuola, dove spesso si spiega
ogni capitolo per sé, ogni frase per sé senza pensare al complesso. Nel Calonghi-
abbonda il senso per l'humour, che anima la prosa lucianea, sicché gli scherzi non
trovano mai in Ini un esegeta pedantesco, ma un interprete che ne penetra sem-
pre lo spìrito. Vivo é in lui anche il senso di ciò che nel modo di esprimersi di
Luciano é meno ovvio, e parr.à agli scolari anche meno di qnel che sia: in questi
casi il Calonghi spiana abilmente la via al giovane lettore, traducendo lui la frase
difficile ma in modo tale ohe gli scolari non siano dispensati dal rendersene conto,
solo che il maestro faccia il suo dovere. E non mancano accenni o alla gramma-
tica scolastica o al modo più comune di esprimere quello stesso pensiero, che li
agevolino in tale lavoro. Non mi par da biasimare che il Calonghi non rifugga
talvolta dall' indicare quale presente corrisponda a una forma verbale un po' dif-
ficile del suo testo : gli scolari rimangono scolari, e, se non si sentono un po' aiu-
tati, si disgustano della fatica.
Sia consentita qualche osservazione ad alcuni passi : cap. 3 vùv oOv sxaxi frj-
[locTtBV XTEVSITS (is. Il C. osscrva che queste parole sono tratte pure (cioè come le
precedenti, poste in bocca a Platone) da un passo di Euripide a noi sconoscinto.
Lo scolaro, che é sempre ignaro di metrica e che non può accorgersi che Ixaxi è
poetico si domanderà, come mai si sappia ciò ; forse occorreva dir chiaro che quelle
parole formano un trimetro e richiamarsi a quelle che subito seguono e che pro-
vano doversi esse attribuire ad Euripide. Nella pagina seguente il C. dice che ad
Aristotele « si attribuisce il detto proverbiale : « Amicus Plato sed magis amica re-
ritae ». Non solo gli attribuisce, ma è suo, o almeno quell'apoftegma riproduce in
forma più arguta quel che il filosofo aveva detto nel primo libro dell'etica nico-
machea, dove confessa che gli riesce grave di polemizzare contro la teoria delle-
Recensioni 211
idee 5ià xò cpfXouj av5paj EÌoa^afeiv xà Et8v]. Ma bì ripiglia soggiungendo che, per
KiUvare la verità, bisogna sobbarcarsi anche a ([iiesto : perchè, essendo tutt' e due
cari, la verità e l'amico, si deve aver più riguardo a <)uella : àficpotv yàp ovxotv
cptXoiv òoiov ;tpoxi|iàv xrjv àXi^S-eiav. Al principio del cap. 7, dove Luciano si fa rim-
proverare da Platone di aver parlato a ino' de' retori, non sarebbe forse stato inop-
portuno di mettere in luce che il Socrate dei dialoghi platonici deve spesso far fronte
Il lunghe tirate dei sofisti, stanchi della lentezza del procedimento per domanda
e risposta, coscienti di quanto in esso fossero inferiori all'avversario e desiderosi
di far figura. L'osservazione sarebbe stata bene a posto anche perchè il C. poche
righe più sotto rileva bene come Laciano imiti certe particolarità del periodare
platonico. — Non direi con il Calonghi (cap. 7), che Socrate « è <|ui abbastanza
ameno, poiché si cura del giudizio del volgo, cosa che nel Critone platonico e al-
trove aveva assai biasimata ». Egli aborre per sé stessa l'azione ingiusta di pone
uno a morte senza processo, e non vuol dare giusta ragione — che la parola à^cpfiat.
non è sempre da intendere come pretesto, come mostrano anche i vocabolari —
;i chi voglia biasimarlo — .
Al cap. 29, il parlare a proposito della filosotìa, di un porto sicuro, nel quale
chi aspira alla felicità, si rifugia sfuggendo alle burrasche della vita attiva pare al
C. « poetico » ; certo con ragione, ma occorreva aggiungere che Luciano riproduce
qui il tono e le parole non di poeti ma di filosoti, di Epicuro e dei suoi in ispe-
cie, che non si stancano mai di promettere ai loro adepti aectiruvi portum. — Cap.
45, nella bisaccia del cinico si trovano oro e unguento e uno specchio e dadi e
anche un coltelluccio per sacrifìci. A che il coltello? Poiché non s'intende, le pa-
role secondo il Fritzsche e il Calonghi «sono da espungersi come uno scolio».
Scolio a che? Ed espungere parole di cui non s'intende il senso, è canone critico
pessimo. Che il coltello non sia nominato dallo scoliaste, mostra soltanto che egli
rimaneva imbarazzato dinanzi ad esso come noi moderni ; forse serviva a tagliar
via la carne delle vittime. Per i Greci del periodo classico, che si nutrivano, com'è
noto, di pesce e vegetali, il sacrificio era l'occasione unica di mangiar carne ; il
Cinico, ghiotto e ladro, staccav.a un pezzo di carne e se lo portava via. Altri trovi
di meglio.
Il commento contiene moltissime illustrazioni: basta che sia nominato un edi-
ficio o un luogo, perchè una vignetta ce lo mostri ; basta che sia nominato un fi-
losofo, perchè ne sia riprodotto il busto. Qui occorreva notare per il lettore non
pratico che almeno di Pitagora noi non conosciamo le fattezze vere, che il busto
non riproduce se non un tipo ideale. E in genere le illustrazioni non paiono di
grande utilità ad intendere il mondo comico creato da Luciano. Ma, poiché esse
possono allettare qualcuno di piìi a comprare il libro, che è utile, poiché, bellis-
sime come sono, non ne hanno alzato di molto il prezzo, ben vengano le illustra-
zioni !
L' introduzione, su vita e scritti di Luciano, è garbata : il buon senso con-
genito impedisce al C. dì attribuire all'umorista intenti troppo profondi. Il suo
giudizio su di luì mi pare ispirato a un buon senso sovrano.
Sulla necessità e sull'utilità dell' appendice critica non mi arrischio a pronnn-
eiarmi. Essa consiste nel confronto minuto dell'edizione del Jacobitz con quella
del Fritzsche. Il Calonghi non ci fa neppnr grazia delle vocali elise o scritte, come
se questa distinzione importasse altro che a stabilire le predilezioni personali del-
l'editore: che i manoscritti mostrano come tali minuzie dipendano in essi solo dal
212 Recensioni
capriccio o dall'istruzione scolastica dell'amannense, e le epi^rati fanuo vedere
come gli antichi stessi fossero assai Inconsegaenti. E poi, a chi e a che giova con-
frontare edizioni, che non possono avere antorità diplomaticaf Non certo agli sco-
lari, e i professori, se si vorranno occupare della critica di Luciano, dovranno bene
risalire alle lezioni dei mas. Il Calonghi aggiunge, è vero, spesso le ragioni per
cui preferisce una lezione, ma non sempre; e poi, anche queste spiegazioni hanno
scarso valore per chi non conosce il fondamento critico del testo. E serve men
che a nulla nominare qua e là la sigla di un nis., senza informare della sua au-
torità e delle sue relazioni con altri codici.
Il commento ai Dialoghi dei Morti sarà certo costato al Calonghi meno fatica
«he quello al Pescatore. Quel che ne ho visto, mi pare accorto e garbato. Ed è
forse bene che sia aggiunta al Pescatore nello stesso volume una scelta abbondante
dell'operetta dì Luciano più letta nelle scuole : forse qualche maestro adotterà il
libro quale testo per i dialoghi, con 1' intento di invogliare lo scolaro a leggere
per conto suo anche l'altra operetta. Scolari di liceo, che leggono volentieri a casa
qualche libro divertente, sia pur greco, purché qualcuno alleggerisca loro la fatica,
«e ne trovano lu Italia, sebbene non molti, pure piti che non credano i pessimisti ;
il volume del Calonghi si può raccomandare con piena coscienza per uso degli sco-
lari e di chiunque voglia leggere un' operetta di Luciano.
Giorgio Pasquali.
HORAT. epist. II, 1, 256.
« Se avessi tanta potenza d'ingegno quanto desiderio, piuttosto che com-
porre sermoni che radon la terra, canterei le guerre vinte sotto i tuoi auspici e il
Oiano chiuso
«( /ormidatam Parthi» te principe llomam >.
Il verso, singolare nel ritmo perchè composto tutto, fuorché nel quinto piede, di
spondei, per questo rispetto e per la costruzione sintattica e per la distribuzione
■delle parole nel metro è il perfetto gemello del famigerato
0 /ortunatam natam me comtvle liomam
È inverosimile ohe Orazio abbia preso sul serio uu carme e una frase che tutti,
anche i piti zelanti fautori di Cicerone, erano di accordo nel deridere. I due versi,
■ognuno con un solo dattilo, hanno aspetto arcaico, che non si accorda coi canoni
di arte seguiti da Orazio. Dunque, tutt' e due i poeti imitano un passo celebre
di un classico ; di chi se non di Ennio ? Questi ebbe spesso occasione di parlare
■di consoli. Cicerone lo ammirò assai, tant' è vero che lo cita a ogni pie .sospinto ;
Orazio ne ha detto spesso male, ma in quel modo in cui un critico fine osa muo-
vere rimproveri a uno scrittore antico celebre, senza che intenda di metterne in
■dubbio il valore e 1' autorità. Né questa é la sola imitazione enniana in Orazio.
G. P.
P. E. Pavolini, Direttore. — Giuseppe Santini, Gerente responsabile.
686^916 - Firenze, Tip. Enrico Ariani, Via Ghibellina. 51-53.
I
/^ n. '^
Anno XIX.
Ottobre-Novembre Dicembre 1916.
N. 214-215-216
AtENE E ROMA
V
V
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.o
BULLETTINO DELLA SOCIETÀ ITALIANA
PER LA DIFFUSIONE E L'INCORAGGIAMENTO DEGLI STUDI CLASSICI
Sede centrale: FIRENZE, Piazza S. Marco, 2
Direzione del Bullettino
Firenze — 2, Fiaua 8. Uarco
Alilionanunto annuale.
Un fascicolo Mparato .
i-- 8 — Amministrazione
» I — Tiale Principe Eugenio 29, Firenze
ROMA E GALLIA
(A proposito di un 1500° anniversario)
Il 22 settembre del 410 è giorno che non dimenticano gli spiriti i
quali vivono in istretta comunione con Roma : in una cerchia più
larga non avrebbe dovuto passare inosservato quest'anno, quando ne è
ricorso il millesimo cinqueccntesimo anniversario, mentre, a tanta di-
stanza di tempo per noi eflmeri, la città immortale come la Morte
ritenta le vie dell'antica grandezza.
In quel giorno memorabile nella storia della poesia latùia, scor-
tato dagli amici, giungeva alle porte dell' Urbe un uomo che, di
origine gallica, aveva in Roma percorsa la carriera dei pubblici uiHci,
pervenendo nel 412 al posto, consjìicuo in corte e nel governo, di tua-
rjister officiontm, nel 411 a quello di prarfcctiis vrhis. Egli ci racconta
che a stento potè sciogliersi dall'abbraccio dell'amata città ; che prima
di lasciarla ne baciò pili volte in un impeto di devozione le porte,
che dovè far forza ai suoi piedi reluttanti perchè varcassero la sacra
soglia, che dell'abbandono chiese venia fra le lacrime alla dea Roma,
e le sciolse allora quel suo inno che è giunto a noi, voce insieme
di rammarico e di fede, dove nell'alveo sonoro dei distici classici
corre 1' onda lunare di un sentimento romantico.
Perchè dunque Rutilio Xamaziano lasciava Roma, lasciava l'Ita-
lia ? Ragioni pratiche sì, ma un sentimento anche romantico lo ri-
chiamavano in patria dopo lunga assenza :
Ma la fortuna mia vieu da le amate
Prode divelta : de la Gallia il suolo
Grida a '1 suo cittadino. Ahi ! guerre senza
Tregua gli han tolto ogni bellezza — è vero —
Jla più deserto egli &, piti che io 1' adori,
LUIGI AL L:
I.
Atene e Roma,
214 Vincenzo Ussani
Mi è forza. Meno il biasimo ti morde,
Se a la tua patria volgi tu le spalle
Ne i dì scevri di cure : a i giorni invece
De la sventura pubblica la fede
Non può sottrarsi de '1 privato. Ondo io
A i tetti de i miei avi oggi l' offerta
Debbo de le mìe lacrime presenti.
Utile il sacrificio è che sì compie
Ove il duol lo sollecita. Sarei
Empio, se ancor mi nascondessi i danni
Lunghi che il mìo tardar moltiplicava
Rinviando i soccorsi. È tempo ornmi
Per le terre dolenti, ondo gì' incendi
Fòr strazio, alzar mi.seri alberghi almeno
Di mandriani. Oh ! se scioglicauo i mici
Corbezzoli la lingua e le fontane !
Con lor giuste rampogno il tardar mio
Afliettare poteau, poteano a '1 corso
De la mia nostalgia tender la vela.
Per iuteudere bene, noi dobbiamo i-ii^uscitare agli occhi della
mente no.stra lo stato in cui ver.sava la Gallia al lìrincipio del secolo
quinto. Le vittorie di Costantino, di Giuliano l'Apostata, dì Teodo-
sio il Grande avevano reciso più volte, ma invano, nel secolo quarto,
le teste ingorde dell' idra la quale .stringeva nelle sue spire minac
ciose r impero. Dalla matrice inesausta della barbarie nuovi orribili
parti di armi e di armati ripullulavano senza posa su la riva sinistra
del Reno. Orde di Suevi, di Vandali, di Burgundi, di Alani passavano
il fiume a Magonza nell' ultimo giorno del 400. Impotenti a tenere il
paese e a stabilirvi un governo stabile e sicuro, gli aggressori furono
forti abbastanza per sjiargere tra le Alpi, i Pirenei e rC)ceano i semi
della distruzione e della morte ^). Ancora S. Girolamo i)iangeva i segni
di quella raffica e nel 412 i Visigoti, sotto il comando di Ataulfo, sue
cesso ad Alarico, dall' Italia passavano in Gallia, e a Xarbona nel 414
il re goto, a crescer lustro alla sua signoria, sposava la mal tolta
Galla Placidia, la bella figliuola di Teodosio, il cui nome è così
strettamente legato alle memorie di Ravenna e a quelle della basilica
Ostiense. Ma non cessavano per questo le ostilità più o meno palesi,
più o meno latenti con l' impero, le quali portarono a un blocco delle
coste galliche che costrinse finalmente i barbari a sgombrare il paesi-
passando in Spagna. Successe per la Gallia un periodo di relativa
tranquillità.
1) Cfr. S. Girolamo, Epist. 123, IC.
Boma e GalUa
215
Il litoruo duutiue di Kutilio uei suoi paesi avveniva verameute per
carità di patria dopo un decennio di terribili lutti per i Celtoromani.
In che modo questi lutti egli abbia tentato di consolare e di riparare
non sappiamo. Anzi addii-ittura non sappiamo più nulla di lui, se
pure egli non fa una persona stessa con quel Kutilio, a cui è dedicato
Il piagnone {Qiicrulus), commedia gallolatina di salotto imitata dal
plebeo teatro plautino.
Koma per Rutilio non è solo città, ma dea. Questa deificazione,
allora comunemente ricevuta, dell' T'rbe è propriamente di origine
greco-orientale, e deve forse ricondursi nella sua genesi ultima a
queir animismo cui si devono le divine personificazioni e i culti degli
elementi e delle forze naturali. Da Koma-città a Roma-idea, da
Roma-idea a Roma-nume, cui, pare, il primo tempio fu eretto a
Smirne nel 195 a. C. E questo nume acquista nel mondo degli dei,
dinanzi alla devozione venerabonda degli uomini, consistenza così
solidamente reale che, agli inizi dell' impero. Augusto per sentimento
o per calcolo non accettava si alzassero templi intitolati a lui,
se non fossero nello stesso tempo intitolati anche a Roma. As-
sociato al culto imperiale, il nuovo nume finisce per associarsi
addirittura alla dea che attraverso Enea suo discendente è la mi-
tica fondatrice dell' impero. All' estremità orientale del Foro, sul
versante della A'^elia sorse per opera di Adriano il temi)io di Te-
nere e di Roma. ]\Ia nella fantasia e nella devozione del popolo fra le
due divinità Roma è la dominante. Nel museo del Laterano è conser-
vato un bassorilievo pertinente al mausoleo degli Haterii che figura
r accompagnamento funebre d'uno di loro. Si vedono l'un dopò
l'altro da destra a sinistra succedere il tempio di Giove Statore,
l'arco di Tito, un altro arco sormontato da una quadriga, il Colosseo,
un altro arco ancora. Sotto le volte degli archi appaiono gli dei i cui
templi sono nei pressi della Via Sacra, e lo scultore immagina se ne
siano scostati ])er assistere ai funerali. Orbene, sotto l'arco di Tito
il tempio di Venere e Roma è rappresentato da una sola imma-
gine, Roma.
A Roma dea, poiché la carità di lei lotta nella sua anima dolente
con la carità della patria, si rivolge dunque nell'ora amara della
partenza il buon amatore, e la saluta nume turrito come le dee po-
liadi con gli epiteti che si rivolgevano alla Gran ^ladre, la Terra,
madre degli nomini, madre degli dei ; ne paragona i benefici con quelli
216 Viticenso i'ssani
che sul mondo sj)ai'ge la divinità paredra della Terra, il Hole invitto,
venuto anche esso dall'Asia madre dei numi per opera di Eliogabalo
e di Aureliano. Il Sole, il "Sole stesso in quei tempi di enoteismo solare
sembra famulo di Roma al poeta, poiché sorge dai suoi dominii e tra-
monta in essi. E, come la Terra e come il Sole, anche Roma comi)ie
nell'economia dell'universo una sua funzione provvidenziale e uni-
versale :
quanto incontro a i poli
Avanzò la natura, e seminava
La vita, tanto a '1 tuo valor la terra
S' aperse. Tu di nazioni opposte
Una patria facevi e fu fortuna
La sua sconfitta a chi vivea selvaggio.
Che il tuo regno ne venne e cifrivi a i vinti
Tu 1' uso eguale de le leggi espresse
Da '1 grembo tuo, foggiando in una sola
Città quel ch'era un mondo.
E fermiamoci un momento qui. al famoso urhem fccisti quod
priìis orììis erat ; dove gli studiosi della tecnica osservano il bisticcio
verbale tirbcm-orlìis sapientemente distribuito nelle due parti del verso
e i commentatori eruditamente ricordano che sotto l' immagine poe-
tica è adombrato il fatto storico della concessione della cittadinanza
romana fatta sotto i Severi a tutti i liberi, abitanti dell' impero. Ma
è evidente che bisticcio verbale e allusione sono ali" arte come il
plinto onde si slancia alata la Vittoria. L'uso eguale del vroprium iiis
concesso da Roma ai conquistati non esaurisce e non limita la sua
opera unificatrice e assimilatrice del mondo ; ma ne è appena un
punto più appariscente e, quasi direi, il suggello esteriore di un
agir lento che investe tutte le forme materiali e sociali della vita e
culmina nel sentimento : onde al poeta gallo che si allontana da
Roma per nostalgia della patria messa a ferro e a fuoco dalla inva-
sione barbarica, per un' altra nostalgia, la nostalgia della città
madre, tutto il cuore duole :
Felice
Io vivrò sopra ogni speranza, quando
Ti degni tu di ricordarmi, o eh' io
Debba la vita mia comporre in pace
Ne '1 suolo de i mici padri o che sia dato
A gli occhi miei di rivederti ancora.
Sono queste le parole con le quali Rutilio in lacrime chiude il
suo commiato dalla città-dea e dagli amici, e parte alla volta di
Boma e GalUa 217
Ostia (love s' imbarclierù pel suo paese : Ostia, dove — egli ricorda —
sbarcò la prima volta un altro sti-auiero, Enea. E potrù parere ad
alcuno che io mi sia affrettato troppo a congiuugere principio e fine
della bellissima prece ; ma costui risalga al testo o alle sue tradu-
zioni'). Easti qui dire che gli accenti e i sensi di ammirazione più
viva il poeta trova e prova non per la potenza di Roma, ma sì per
la sua originalità e per la sua giustizia : per la sua giustizia onde ella
Giunse a le vette de '1 poter, scegliendo
Giuste cause a le guerre e mite in pace
per la sua originalità — scandolezza tevi , o detrattori — nell'arte, dove
ai capilavori del miracolo greco pare a Rutilio possano ben contrap-
porsi quelle opere dell'architettura romana che la Grecia celebi"e-
rebbe come di giganti : archi trionfali e templi e acquedotti e terme
e portici che stringono nelle loro braccia interi parchi prigioni.
Naturalmente questi sentimenti non erano peculiari di Rutilio
Xamaziano. Essi si trovano affermati qua e là sparsamente in un
gran numero di scrittori che ci testimoniano di una medesima fede
largamente diffusa e professata. La romanità sentita come equiva-
lente di ìimanità è, per esempio, in un poeta di opposti cieli venuto
a vivere alla medesima corte di Onorio, Claudio Claudiano :
Questa è colei che sola accolse i vinti
Ne '1 grembo suo, che prodigò le sue
Cure a ohi porta il uome d' uomo, madre
Più che signora, e eittadiui chiama
Quei che domava, e strinse in amoroso
Nodo mondi lontani. A i sensi suoi
Pacifici dee 1' uom che, ove straniero
II piede ei volga, in patria sua gli sembri
Vivere *;.
') Una mia della Preghiera a Roma vide la luce in Atene e Roma XII col.
247 e sgg. Se dovessi ristamparla oggi, scriverei con lettera maiuscola il nome del
sole le due volte che ricorre alla col. 247.
') Cfr. De land. Stil. Ili 150 e sgg. E la somiglianza tra i due poeti si cou-
serva così stretta nei versi seguenti di Claudiauo che il nostro Pascal fu indotto
a ravvisare una fonte comune ad ambedue nella orazione di Elio Aristide Eìj
'Pa)|jf»iv. Piti semplicemente io vorrei dire che quei sentimenti religiosi risalgono
ai tempi del celebre sofista.
218 Vincenzo V ssani
Quello che La reso celebre e ammirata la prece del 22 settem-
bre 41G è la sua concettosità nobile e arguta, più ancora il mistico
senso sacerdotale che l'anima, la penetra, la trascende, passa inaffer-
rabile dietro i veli delle parole come un' acqua cbe fluisca invisibile
dietro i veli dei bosclii in una notte d'argento.
Ma la commozione di chi legge quel canto profonda sempre, più
profonda è quest' oggi se chi legge ripensa chi fu che scrisse : un
Gallo cioè che era stato a Roma pracfcctus iiflis sotto Onorio, figlio
di un altro Gallo che fu pure a sua volta gran dignitario di corte e
prefetto della città e console. Quando poi Lacanio, così si chiamava
il padre di Rutilìo, aveva tenuto il governo di To.scana e Umbria,
della dolce terra aveva portato con sé incancellabile il ricordo. 2sè
diversamente di lui gli amministrati che gli avevano alzato nel foro
di Pisa una statua in segno di mutuo affetto e di eterna gratitudine
e si stringevano con amoroso zelo intorno a Rutilio, quando, nella
seconda metà di ottobre, nel suo viaggio egli fece lina lunga sosta là
a prendere commiato dalla cara immagine paterna. Non siano in-
grati questi ricordi dell'autunno 416 millecinquecento anni dopo, in
quest' autunno del 1916.
Se la Francia cristiana si vantò di essere la figlia primogenita
della Chiesa romana, Edui ed Arverni si vantarono d'essere fratelli
e consanguinei del pojiolo Romano '), e la Gallia i)agana fu veramente
tra le provincie dell' impero la figlia prediletta e la fedele di Roma.
La storiografia romantica si compiacque certo di elevare e magni-
ficare di fronte alhi figura di Cesare conquistatore quella di Yercinge-
torige ' giovine di antica famiglia arverna, caldo patrioto, inacces-
sibile alle seduzioni ' e deplorò i ti-entanovemila duecento Biturigi
passati per la spada ad Avarico, 1 capi delle tribù flagellati e de-
collati, le mani tronche dei prigionieri ^), mentre poi trovava da giusti-
ficare i conquistatori d'America che ' molti mali apportarono a genti
disgiunte da oceano infinito, ma recarono loro pure molte comodità
ed utili discipline ed arti dilettevoli, per le quali dalla vita selvaggia
si ridussero a mansueti costumi " ^) : tanto valgono il partito preso
e la convinzione religiosa a perturbare e sovvertire i giudizi .anche di
nomini probi ! Ma l' impero romano pareva agli occhi dei contempora-
nei di Cesare come la conclusione provvidenziale della storia umana ^)
1) Cfr. Cesare B. G. I 33, Lucano I 427 e la nota del Lej.w arf locwm.
*) Cfr. Cantù, Storia degli Italiani, Napoli 1857, toI. I p. 528-529.
3) Cfr. P. Verri, Notti romane, Firenze 1837, tomo II p. 287.
*) Cfr. C. JuLLiAN, Histoire (fé la Gaule, IV p. 7.
Boma e Gallia 219
k
né è da credere che la inorale di conquista praticata dai Romani
fosse più sanguinosa e barbara di quella che praticavano le disperse
tribù galliche in continua lotta ira loro\).
Certo è che, scoppiata la guerra civile tra Pompeo e Cesare, i
Galli ancor sanguinanti dalle recenti ferite, non colsero l'occasione
che si presentava loro quanto mai propizia, della rivolta contro Konia
e della vendetta contro il conquistatore : presero invece le armi per
colui che li aveva domati. Il Julliau da me di sopra citato ne investiga
le ragioni, restando insoddisfatto della ricei'ca -). Io penso che la
verità è forse proprio quella indicata da un altro Francese, che cioè
i Galli la cui facilità ad essere assimilati era così grande da aver dato
essi origine a così gran numero di nazioni meticcie ^) non perderono
ma acquistarono per opera di Koma la coscienza della propria unità
nazionale''), quando, pacificato il paese, le così dette Tres Oalliac
formarono una unità amministrativa con una dieta regionale, con-
vocata annualmente in Lione Kalendis Augustis a discutere dei
comuni interessi, e il capo di quest' amministrazione autonoma cele-
brava in qualità di saccrdos ad templiim Romae et Augusti ad con-
fuentcs Araris et Rhodatii : sacerdote cioè di Augusto-Mercurio, so-
stituito nel culto al dio celtico Lug^). Che il dominio romano i)ur cou
le sue deviazioni e i suoi errori non abbia in Gallia schiantato le po-
polazioni indigene dalle radici come fecero in tanto più tarda età sotto
altro cielo gli scopritori dell'America, lo dimostra in modo eloquente
la caratteristica dei Celti quale ci è data dall'antico Catone presso
Carisio <■') : pleraque Gallia diias res industriosissime jyersequitur, rem
militarem et argute loqiii, il mestiere delle armi cioè e la causerie spi-
rituelle, precisamente come oggi, dopo non solo la conquista romana,
ma anclie la germanica. Xel medesimo senso parla la somiglianza di
') S. Girolamo (ddr. lovin., II, 7) racconta di aver visto ancora in Gallia
(Ielle popolazioni antropofaghe.
2) Cfr. op. cit., IV p. 23.
2) Cfr. JuLi.iAN, op. cit., I p. 219.
■•) Cfr. PicnoN, Étiides sur Vhisloire de la litli-ratnre laiive datis les Gaules
(Les deniiers écrivaina profanes), p. 27. Questa osservazione fa cadere seuz' altro il
giudizio del Cai'kr in Palaestra vltae (p. 93 della traduzione del nostro Pavolini)
che addita nei Galli di Vercingetorige gli assertori di una causa nazionale.
5) Cfr. LoTii, Sevue archeol., XXIV, p. 226 sgg.
'') Cfr. Kkil, Gramm. lai., I p. 202. Trattiiudosi di Catone l'antico, col
JuLi.iAN (Hieloire de la Gaiile, I p. 346) io veggo nelle parole di Catone una ca-
ratteristica dei Celti e non, come fa lo Juxo (Geographie ìtnd politische Geschichte
dee Mass. Jltei-tums p. 521), dei Celtoromani.
220 Vincenzo Ussani - Eoma e Gallia
lineameuti notata dagli archeologi tra il Gallo che uccide sua moglie,
oggi nel Museo delle Terme in Roma, e i moderni Francesi.
Premio di una obbedienza ormai centenaria, ai Galloromani primi
fra i transalpini fu concesso di sedere in senato e nella tavola di
bronzo di Lione che ci ha conservato le parole onde l' imperatore
Claudio confortava la sua proposta di ammissione dei Galli a quel-
l'assemblea di re, è deposto il più antico attestato della loro fede : ' Se
qualcuno fa osservazione a ciò che per dieci anni essi guerreggiarono
contro il divo Giulio, quegli dovrebbe pur contrapporre la fede incon-
cussa di cento anni e la devozione più che sperimentata in molti
nostri diflacili momenti '. E, dopo Claudio, l' opera assidua di roma-
nizzauiento veniva assiduamente proseguita con la fondazione di co-
lonie e di scuole, tra le quali già prima sotto il regno di Tiberio era
sorta a gran fama quella diAutun, poi s'aprirono quelle di Reims, di
Narbona, di Tolosa, di Bordeaux, ma soprattutto con un' ammini-
strazione benefica e provvida, cui rispondeva da parte dei governati
un ci'escente lealismo. Il primo taurobolio di rito frigio prò salute
prineipis et domus Augustae di cui sia nota a noi la data, fu offerto
alla Gran Madre Idea sul Vaticano di Lione il 9 decembre ICO col
simbolico sacrificio del montone e del toro per la salute di Antonino
e dei suoi figli ^). Il terzo secolo fu poi secolo di guerre civili ed
esterne; ma subito dopo quelle devastazioni si volgono amoro.se alla
Gallia le cure degli imperatori del secolo quarto, Costanzo Cloro,
Costantino, Giuliano, Graziano; e la Gallia la quale rifiorisce sotto
quelle cure, risponde con la letteratura dei panegiristi, che sono tutta
o quasi l'eloquenza pagana di quella età, così poco remota dalla
data da cui abbiamo preso le mosse, del 22 settembre 416.
Vincenzo Ussani.
') Cfr. Graillot, Le eulte de Cybèle, p. 451.
IL ' REDITUS AUGUSTI ' DI GIOVANNI PASCOLI
Nell'anno 24 a. C, dopo un'aspra guerra col fiero popolo dei
Caatabri, Angusto tornava in Roma vincitore; tornava, circon-
fuso di una luce di gloriosa leggeuda, da regioni lontane, dopo una
spedizione lunga e difficile durante la quale il popolo aveva trepi-
dato per la salute dell'imperatore. E la folla si accalcava gaia e fe-
stante per le vie di Roma, a salutare e acclamare il reduce trion-
fatore. Il poemetto del Pascoli, cbe ottenne il premio aureo nel con-
corso lioeufftiano del 1897 e fu dall'autore dedicato, con pensiero di
gratitudine, a Felice Barnabei « antiquitatis nostrae litterate peri-
tus ') ■», ci conduce fin dal principio in mezzo a quella moltitudine,
rappresentandone con efficaci scorci e con brevi tratti dialogici il
vario e vivace movimento, facendo spiccare in essa, fin dalle prime
parole, la figura di un curioso ed arguto osservatore, di Orazio
« 'Q Sso'i caoos ix'-^S- ^1"' quaiidoqno extrah.ir ? heia
hoc ago ! formicae nnraeroque inodoque carentes. (w. 1-2)
Le parole e le immagini di uno dei più geniali idilli teocritei. Le
Siracusane ^), rifioriscono spontanee sulle labbra del dotto poeta di
Venosa cbe in mezzo alla folla è premuto ed urtato da ogni parte
e riesce a stento a farsi largo. Accompagnato da un servo, egli si
avvia con gran fatica verso il foro
per piena papello
ojnuia, per plateas pedibnsqne rotisque sonantes. (vv. 9-10)
') Queste parole della dedica ne richiamano altre che si leggono nella nota
introduttiva al Carmen Saeculare in Lyra', Livorno, Giusti, 1899, p. 290.
*) Il primo verso riferisce nella loro forma originale alcune parole di Teocrito ;
quello che seguono souo quasi uua traduzione dei due vv. 44-45 dell'idillio XV
di Teocrito
Ttùij xaì TzÓY.a. xoùio nepiaai
XpT] TÒ xaxóv ; jiópiiaxE? àvo(pi5|ioi xal àjistpot.
Atene e Roma, 2
I
222 Giuseppe Frocacci
L'ispirazione teocritea di quella che potrebbe dirsi la parte intro-
duttiva del ijoemetto (vv. 1-20) è evidente e il Pascoli stesso ce
l'attesta in una nota j)remessa al canne. Ma gli elementi derivanti
dall' idillio di Teocrito sono così profondamente rielaborati e quasi
assorbiti nella concezione del poeta nostro che le frasi di Prassinoe e
della vecchia non stuonano affatto in bocca ad Orazio né ci fanno
1' impressione di un intarsio sapiente voluto per ostentare una certa
preziosità di erudito; anzi la reminiscenza dotta acquista, nel soli-
loquio di Orazio e nel suo dialogo col pxier, un sapore di arguzia e
di amabilità, un carattere di fine eleganza ben conveniente all'indole
ed tAXVurhanHas dell'amico di Augusto e di Mecenate 'j. Orazio, ora
ripetendo fra se e sé, ora dicendo a voce alta quelle parole del poeta
greco che l'addensarsi della moltitudine gli ricorda e gli suggerisce,
si avanza « luctans in arcto » senza perder d'occhio il servo che lo
segue, incalzato e sbattuto anch'egli dal rifluire di quella immensa
fiumana ; pensa in cuor suo che, quantunque piccolo, egli è sempre
troppo grosso per poter sguisciare in mezzo alla folla. Gli riforna
in mente il piacevole motteggiare di Augusto, che era solito pun-
gerlo con garbo alludendo alla grandezza dei lihelìi in confronto con
quella del « corpuscnlum » del loro autore. Sarebbe bene davvero
— riflette argutamente il Venosino — che io fossi piccolo come i
miei libelli; almeno potrei, in questa confusione, trarmi d'impaccio
pivi facilmente. La frase si chiarisce ricordando un passo di una let-
tera dell'imperatore ad Orazio riportato da Svetonio ^); particolare
curioso più che significativo, riferito da buon biografo animi causa,
di cui il Pascoli sa fare viva sostanza di poesia aggiungendo con
esso un tratto efììcacissimo alla figura del poeta che egli ci delinea
at nihil est, labor aut quoti uon perfeceiit iisiis
(luraque tciiiptando ceperunt Pergania Grai. (vv. 17-18 1.
conclude il poeta di Venosa; e la frase solenne acquista, detta da
lui in quel momento, un carattere di bonario umorismo, ben diverso
') Additerò in nota i riscontri verbali : le parole greche dei vv. 3 e 20 sono
tolto dai vv. 52 e 67 del citato idillio di Tkockito ; per i vv. 6, 16 e 17-18 cfr.
Tkockito vv. 148, 72-73 e 61 62 dello stesso carme.
2) Cfr. SvKTOXin, Vita di Orazio, ed. Roth, Lipsia, 1904, p. 298, che illustra
i vv. 12-15, ed anche, a questo proposito, Orazio, EpiH. I, 20, 24; l'espressione
« o me felicem staturae » dei vv.. 11-12 ricorda il cerehri fcìicem oraziano. Semi. I,
9, 11-12. L'accenno al triplex lolumen che Augusto potrà presto lodare (v. 15} si ri-
ferisce alla pubblicazione complessiva e definitiva dei primi tre libri delle odi che
avvenne appunto, come è noto, nell'anno 23.
Il ' L'ediUls Jugusti ' di Giovanni Pascoli 223
da quello che le aveva infuso Teocrito attribuendolo alla vecchia in-
terlocutrice delle due Siracusane. Accorgendosi di non poter avan-
zare di pili Orazio si ferma, avendo accanto il servo, e osserva si-
lenziosamente, tutto raccolto in se stesso, come un viandante che
percorra di notte una strada di campagna senza ascoltare altro che
l'eco dei propri passi o il suono della sua voce che si perde nel si-
lenzio notturno, poi ad un tratto si fermi per riposarsi sotto un al-
bero, mentre si leva dai prati il gran coro dei grilli e delle rane.
Xon oserei dire che la similitudine, la quale si estende per parecchi
versi, appaia molto naturale e conveniente, perchè non vedo quale
rapporto i)ossa esservi fra il sonno, pieno di abbandono oblioso, del
viandante stanco, durante la notte, ed il sostare di Orazio attonito
e quasi smarrito nel frastuono della folla: ma i bellissimi versi hanno
tanta soavità di armonie e di suoni da farci dimenticare quello che vi
è nella comparazione di studiato e quasi di artificioso. Non sono
rare, nei poemata pascoliani, similitudini di questo genere che si
svolgono con abbondanza di elementi descrittivi : si direbbe che il
poeta distogliendo per un istante la mente e lo sguardo da ciò che
narra o rievoca, si immerga talora nella contemplazione dei piìi vari
e fuggevoli aspetti della natura, accogliendone nell'animo le voci
tenui e segrete. Nulla, anche in questi versi del Reditus Avgusti, di
letterario o di vieto, ma immagini di spontanea e immediata vivezza.
Basta rileggerne alcuni
tura fractos cropitns acrednla vibrat adanres,
et tenui locusta quatit vertigine sistrum
et ciilices auras snbtili murmuie pnngunt :
nec cessant ranae rixis resouare x>aludem
uec. longo latrare eanes nec rninpero bufo
turgidus ignoto liquidas a caespito bullas. (vv, 28-33;
Nelle parole dell'antica lingua di Eoma il poeta mostra già di sapere
infondere nuova virtìi espressiva. Tutto qui è pascoliano, nella con-
cezione e nella forma ; mentre le ore notturne trascorrono lente e
quiete giunge da lontano il latrato di un cane, sibilano le zanzare,
« l'acri zanzare » (Canti di Castel vecchio — Il Ciocco), si sente il gra-
cidare delle rane e lo stridulo verso dei grilli. Sono gli echi e le im-
magini che il Pascoli rievocava, tornando col pensiero alle notti della
sua Eomagna:
lidia tra i fieni allora allor falciati
de' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
224 Giuseppe Procacci
Sono le voci e i fantasmi dei Primi poemetti e dei Canti di Castel-
vecchio *).
Ma Orazio si ridesta ben presto dalla sua meditazione. Isel
brusio della moltitudine cbe lo circonda s'intrecciano animatamente i
dialoghi e le esclamazioni ammirative degli uni si confondono con
le proteste vivaci, con le interruzioni rumorose degli altri. Un Grae-
culus accenna, con gran lusso di erudizione, al ritoi'no di Augusto
dalla Spagna paragonandolo a quello di Ercole, dopo la famosa im-
presa contro Gerione ^). Né vale cbe Aulo, un xìropola, lo rimbecchi
e lo inviti a tacere; tutti pendono dalle labbra dello straniero il
quale, introducendo nel suo discorso qualche parola greca % celebra
l'imperatore che rientra nell' Urbe
laiidis aveus tantum uec tantum prodigus aevi. (v. 52)
Nella gran massa indistinta del poi>olo il Pascoli sa rilevare con
pochi, ma genialissimi tocchi altre figurine: la cojoa, curiosa e un
po' ambiziosa, il popolano che s'infastidisce dello strepito e del cica-
leccio continuo, il bene informato che divulga le notizie sulla ma-
lattia del i^rincipe, con particolari probabilmente di sua invenzione
e, quasi per avvalorare le sue parole, usa, per male, il rapide che
Augusto, secondo la testimonianza di Svetonio *), « ponebat assidue »
nei suoi discorsi. Il ricordo erudito è divenuto, anche qui, elemento
nuovo e vitale della figurazione artistica; ancora una volta, dirò con
frase pascoliana, la pietruzza scabra e grigia si trasforma, nelle mani
dell'artefice mirabile, in gemma iridescente e preziosa '").
') Cfr. Itomagna in Myricae-liicordi. È ricordata da Cicerone (De divin. I, 8,
Vacredula ohe « matutinis vocibns instat », ma non sì sa precisamente di che ani-
male si tratti. II Pascoli al v. 28 vuol indicare, credo, con questo nome, il grillo,
(cfr. « le rare tremule tirate | che fanno i grilli » ne La sementa, Sei campi I) :
« piccoli crepiti o stiocchi » egli attribuisce anche allo sgricciolo {Canti di Caetel-
vecohio — L'uccellino del freddo). Per il v. 29 ricorderò dei Poemi Conviviali, L'al-
bergo « e qualche cavalletta | che scuote il suo campanellino invano ») « — don-
dolano appena | le cavallette il lor campanellino » ; per l'accenno al rospo dei
vv. 32-33 II poeta solitario nei Canti di Castelvecchio. « E pare una tremula bolla |
tra l'odoro acuto del fieno ».
*) A riscontro del v. 38 è da ricordare Orazio (Serm. I, 5, 101; Carni. IV,
8, 29-30) ; per l'allnsioue all' impresa di Ercole (vv. 39-41) cfr. Virgilio, Eneide
VII, 661-663 e Vili, 202-204 : Orazio, Carm. Ili, 14, 1.
') Cfr. V. 50 e A. Gandiglio, La poesia lat. di Giovanni Pascoli in Alene e
Roma, XV, n. 165-166 (sett-ott. 1912), col. 271.
*) Cfr. la vita di Augusto ^ 87. 11 riscontro fu già avvertito dal Gandiglio
nell'art, cit., 1. cit., n. 2.
5) Myricak, Le gioie del poeta — Contrasto II.
Il ' Eeditiis Angusti ' di Giovanni Pascoli 225
Il corteo del trioufatore si avanza mentre la folla ondeggia e si
addensa e tutti spingono i vicini per farsi innanzi ad ammirare e
a commentare; incedono le matrone col capo adorno delle vittae e
in mezzo ad esse Livia, la moglie, Ottavia, la sorella dell'imperatore,
la madre di Marcello. La scena che il Pascoli dipinge diviene qui
più mossa e più colorita; le frasi di plauso e di risentimento, le al-
lusioni, qualche volta un po' maliziose, agli incidenti inevitabili in
tanta ressa, l'affannarsi di quelli che dopo aver veduto a loro agio
iingnibns insistunt visori deiudo, quod ante. (v. 61)
echeggiano in questa parte del poemetto con tanta varietà di toni e
con tanta freschezza di colorito, cui corrisponde nel verso la varietà
degli accenti e delle pause, che io non saprei trovare da paragonarle,
nella i)oesia classica, se non l' idillio di Teocrito e alcuni dialoghi
delle più argute satire oraziane. Per comprenderla pienamente giova
richiamare l'ode quattordicesima del terzo libro di Orazio, che diede
al poeta l' idea prima del carme, col quale ha una perfetta corrispon-
denza; le note che il Pascoli, nella Lyra '■), appose a quell'ode ci
confermano in tale opinione dimostrandoci, con un nuovo esempio,
che molti dei poiimata sono stati appunto concepiti nei lunghi e amo-
rosi studi sulla lirica di Orazio 'j. Sempre, in quella mirabile anto-
logia, noi sentiamo che l'autore, dopo aver dichiarato e ricostruito
con sicura dottrina di filologo, rievoca i sogni ed i fantasmi del mondo
antico e si compiace di rivivere in esso con anima di poeta. Egli in-
titola l'ode oraziana II ritorno e così ne spiega l' ispirazione : « Il
poeta è in mezzo alla folla che aspetta Cesare, reduce dell' Hispania.
Comparisce in tanto Livia, la moglie, Ottavia, la sorella, che devono
andare incontro al marito e fratello. Con loro viene un corteo di ma-
trone : le madri dei guerrieri che tornano e delle loro spose. È un
momento di grande ondeggiamento nella folla, poiché tutti si spin-
gono per vedere le illustri matrone. Suonano parole qua e là dispet-
tose ed equivoche, di chi si sente urtato e pestato. Il poeta rimpro-
vera la gente che ha attorno scherzando anch'esso e tutto lieto ordina
il banchetto » (Lyra'', p. 284). In queste parole sono già tutti gli
elementi della rapida e colorita descrizione.
« Quae nuuo nova turba? » « Quid istiuc
truditis? » « Adveniiint matrouae ». « Conspice cunctas
ij /.)/)•««, pp. 284-286.
*) Cfr. Gandiglio, art. cit., col. 264.
226 Giuseppe Frocaeci
vittatas » « Miilioriie est au dea? » « LU'ia * « Gaudet
niniirum natiim mox coiuplexura tribuiium ».
« At soror Angusti me detinct, ut pia ! » « Matrera
Marcelli, quaeso, uionstres ». «Ibi lulia (iiostinf):
interior sedet buie Octavia ». « Di tibi multa,
di nato bona multa tuo». « Carum caput!... » '). (vr. 53-60)
Dall' iuvocazione o jìlehs del primo verso dell'ode il Pascoli de-
duce che Orazio immagina di essere in mezzo al popolo e annotando
le singole frasi mette in rilievo, con quel suo modo acuto ed arguto,
quali dovettero essere le immagini che il vario agitarsi della folla
suggerì al poeta di Eoma. Illustrando i versi tanto torturati
vos o pneri et pnellae
lam virnni expertae, male nominatis
Farcite verbis. (vv. 10-12)
egli scrive « Quid ist feri tumultus ? dice qualcuno. E tumultus può
valere guerra repentina. Ecco un verbum male nominatum, Suauvufiov.
Imagino anche che qualcun altro, o meglio qualcun' altra, dica, di
tra la ressa, le parole di Cesare assalito dai congiurati. Ista quidem
vis est. E ognuno comprende quali sensi possa avere vis : donde lo
scherzoso oxymoron di puellae Tarn virum expertae » {Lyra^, p. 285).
Le due espressioni che il poeta attribuisce qui a due cittadini, for-
mano, lievemente modificate, uno dei versi (v. 64) del Reditus Augusti
e le preparano, per così dire, alcune altre, vive di schiettezza popo-
laresca, in cui è tutto l'umorismo deWoxymoroii di Orazio. « Leni-
ter o! », « State », « Ne nos contundite » si sente gridare tra la
moltitudine; qualcuno, che non sa resistere alla tentazione, si lascia
andare a scherzi troppo confidenziali verso qualche spettatrice e ne
è rimproverato.
« Procacia
hoc est et uimis audacis... ». (vv. 62-63)
Ma con la maggior disinvoltura risponde pronto e scherzando :
« Bona, numquid ademi ? » (v. 63). Già nelle note all'ode il Pascoli
aveva osservato che l' idea di questo chiacchiericcio è presa dalle
Adoniazousai di Teocr. dove si parla così spesso di S^Xo; » {Lijru-,
') Cfr. i vv. 7-10 dell' ode di Orazio giil ricordata ; anche carum caput è modo
oraziano (vedi p. es. Carm. I, 24, 2). Per l'espressione Mulienie est an (tea del v. 55
osserverò che essa 6 omerica (K, 228) e si ritrova poi anche iu Virgilio {Aen. I,
328-329); «divat oppur donna f» tradnsse il Pascoli stesso da Omero (cfr. Siti
limitare, Palermo, Sandron, 1902, introd. p. \),
Il ' Eeditìis Augusii ' di Oiovainii Pascoli 227
1. cit.); aveva cioè richiamato a proposito del carme oraziano lo squi-
sito idillio del poeta greco, associando i due exemplaria dai quali
doveva derivare, limpido e fresco, il dialogo del poemetto, svolgen-
done accenni e situazioni con arte emula di quella degli antichi. Ili-
costruendo e divinando la scena del ritorno egli vede in alcuni mo-
vimenti dell'Ode di Orazio allusioni alle ])arlate di vari personaggi e
le determina con mirabile acume, interpretando con finezza suggestiva
e con profonda originalità tutta la poesia. Così nel « vos, o pueri et
puellae » del v. 10 sente il poeta romano che « si rivolge alla turba
impaziente e fremente» (Lt/ra; 1. cit.): l'ipotesi, rapidamente esposta
in una nota esplicativa, diviene, nel Beditus Avf/ustl, il discorso di
Orazio stesso che rimprovera con bonaria cordialità e rassicura i vi-
cini, quasi per allontanare dagli animi la nube che li aveva offuscati
nell'udire ripetute le estreme parole di Cesare, nel sentir pronunziare
quel « tumultus » di cattivo augurio davvero in mezzo a tanta le-
tizia. Non più timori di perturbazioni o di violenze, ora che Cesare
ritorna per pacificare gli spiriti, per governare fra la concordia di
tutti.
istis (omeri habeiit) inouiti iaiu p.arcite verbis.
qui3 caecos tiniet Augusto reileunte tuuiultns?
quisve mori per vim nietiiìt te principe, Caesar ? '). (vv. G7-69)
Il poeta del Carmen saeculare vede iniziarsi un' età di pace ope-
rosa e feconda, vede acquietarsi gli odi ciechi e feroci al ritornare
dell'uomo che ha saputo conquistare la vittoria sui ribelli e saitrà
dare, con la saggezza degli ordinamenti civili, la tranquillità al mondo
romano, impedendo il dominio della vis. Questa medesima parola usa
Orazio, rivolgendosi alle fanciulle, con sottile malizia ^) ; ed il con-
trasto con la solennità dell'intonazione dei versi che seguono le ag-
giunge efficacia e sapore, ra|)presentando al vivo la figura del Veno-
sino, cui la meraviglia e la commozione del momento non diminui-
scono l'abituale squisito umorismo.
Orazio si allontana rapidamente liberandosi dalla ressa e si avvia
verso casa. Calano le prime ombre della sera e, mentre le vie risuo-
nano ancora di j)assi e di grida, tutti rientrano nelle loro case a
') Per lo imitazioui formali si possono ricordare i vv. 11-12 o 14-16 ili Ora-
zio ; « pnerique puellaeque » (v. 65) è puro iuvocazioue comune ad Orazio ed al
Pascoli.
*) Cfr. poco prima il v. 66.
228 Giuseppe Procacci
poco a poco, come tanti rondinotti clie tornino all'albergo, nel nido
pendiilo sotto un cornicione
\\t hirundinis alta
sub trabe clamosos nidiis bibit ordine pullos. (vv. 75-76)
Non c'è bisogno di far notare la grazia e la felice novità, tutta
pascoliana anch'essa, di quest'immagine che ci richiama, con la ge-
niale arditezza del Mbit e con la bellezza espressiva del clamosos,
quelle pagine del poeta, da Myricae ai Nuovi Poemetti, in cui la
poesia dei piccoli esseri alati ha trovato gli accenti pifi sublimi e
più puri. La sera, che si fa sempre piti buia, persuade tutti a rac-
cogliersi intorno al focolare, presso le statuette dei Lari, dinanzi a
una cena abbondante per la munificenza dell'imperatore che ha cu-
rato la distribuzione di un congitis ai cittadini. Anche questo parti-
colare ha il suo riscontro nella prima delle note all'ode « Herculis
ritu » di Orazio; in essa infatti il Pascoli ricorda una frase del Mo-
nnm Ancyr. (Ili, 10) relativa alla larghezza di Augusto e aggiunge
(Lyra^, p. 284) : « Dopo avere assistito al corteo, dopo aver plaudito
il reduce, ogni famiglia poteva celebrare il suo festino ; poiché ai
poveri pensava la liberalità del vincitore ». Orazio, secondo la sua
abitudine (cfr. Serm. I, 9, 2 e il v. 112 del poemetto) « secum me-
ditatur multa » : il suo pensiero ricorre alla funesta giornata di Fi-
lippi, ai tristi presagi che allora si poterono fare sulle sorti future
di Eoma, alla quiete presente che, per il contrasto stesso, appare
tanto più lieta. Ma le memorie del passato lo riconducono quasi invo-
lontariamente agli anni della giovinezza fuggita troppo presto ; egli
oramai è giunto a quell'età in cui il rimpianto degli anni giovanili
comincia a farsi sentire vivo e accorato e, coli' illanguidirsi delle
forze, col dileguare dei sogni e delle fantasie, l'uomo comincia ad ac-
corgersi di perdere lentamente la parte migliore dell' essere suo. j^el-
l'ode oraziana, che più volte ho ricordata, dopo le prime tre strofe
tutte animate e direi quasi vibranti della gioia del trionfo, nelle
quali il poeta sembra rivolgersi spesso ai suoi concittadini che hanno
con lui ammirato ed acclamato il reduce vittorioso, se ne hanno altre
quattro, tutte soggettive nella loro tenue melanconia, in cui Orazio
sotto il peso delle atrae curae rammenta il tempo sereno dell'amore
e della spensieratezza, consule Fianco. Egli vuole, è vero, allontanare
da sé ogni pensiero molesto o tormentoso e, nella gioia comune, vuole
incoronarsi di fiori concedendosi, con la sua Neera, un'ora di oblio ;
ma una profonda tristezza lo assale quando riflette che i suoi ca-
Il ' Jìeditus Angusti ' di Giovanni l'afuoli 229
pelli sono imbiancati, die l^^eera potrebbe forse mancargli, che la
giovinezza fervida e tumultuosa ò oramai finita per lui :
I>cnit albosceus animo» capilliis
Litium et rixae cin>iilos protorvao ;
Non ego hoc ferrem calidus iu venta
Coneulo Fianco ') (vv. 25-28)
Anche il Eeditus Angusti ci si presenta diviso in due parti; la
seconda, più breve (vv. 78-127), che ci descrive i preparativi del coìi-
vivium adventichim, rende mirabilmente lo spirito delle ultime strofe
oraziane, rivivendone la delicata mestizia alla quale si accompagna
un senso che direi di epicureismo temperato e gentile, come se il
Pascoli dopo averci fatto assistere, insieme col poeta antico, in mezzo
alla folla dell' Urbe, allo spettacolo di quel glorioro ritorno, si ab-
bandonasse con lui alla « dolcezza amara » delle più care memorie.
Non son jiiù quello di un tempo — dice fra sé e se Orazio, ricor-
dando la battaglia di Filippi che gli fa rievocare i giorni trascorsi
fra lo strepito delle armi.
qni fuit ille dies ! qnaitum, nisi fallor, ab ilio
mox adei'it lustriim, mihi nuper coudidit aetas
octavnm, capitique nives inspei'git ed acri
nescio quid glaciat seusim mihi flamine menteui.
non sum qualia erara quam vellom piane per illam
militiam reddi, calidns te consnle, Plance,
agminibus lentia properis et pellibus, armis
inpiger et litnis ! ^) (vv. 85-92)
Tutti sono in festa e godono coi loro cari la gioia di quel giorno;
egli è solo e la solitudine lo rattrista di più, mentre le ombre della
sera lo avvolgono, nel tumulto delle rimembranze meste e soavi.
Anche Orazio non rinunzierà al banchetto gaio e sontuoso, per fe-
steggiare Augusto, ma specialmente per dimenticare, per quietare il
suo intimo affanno, dà ordini al servo perchè compri vino e profumi
1) Nella nota della I.yra che riassiime il contenuto dell'ode (p. 284 ed. cit.)
questo concetto è espresso dal Pascoli là dove dice che « la letizia in fine sembra
chiudersi con un sospiro»; e piìi giti avverte: «L'anno di Planco è l'anno di
Philippi. Il Poeta, ringiovanendo dalla gioia, trova i ricordi della sna giovinezza
e se ne stacca subito, un poco mestamente ». Cfr. pure il commentario che pre-
cede la I.yra p. LXXVIII.
') Per lo reminiscenze oraziane di questi versi v. anche Carm. II, 4, 23 24;
II, 1, 18-19; IV, 1, 3.
Atene e Roma. 3
230 Giuseppe Procacci
i imor, atque notae refer interioris ab horreis
Sulpiciis (cavo det jiio vino vorba !) lagenam ;
uuguentumque petas. (vv. 94-96)
Motivo oraziano ancUe questo '), ma rinnovato e riespresso con
grande squisitezza d'arte, con sicura intuizione della vita e dell'a-
nima romana. A che scopo — riflette ancora il Venosino — far tanti
preparativi ? Il mio focolare rimarrà deserto, il banchetto sarà silen-
zioso e malinconico.
ecquiel iti unguentis caelcbs sortìsvo laborem ? (v. 100)
Perchè non invitare qualcuna delle amiche degli anni migliori?
Le corone che il servo acquisterà da Glicera, la coronaria ^), saranno
bell'ornamento di una fronte candida, di una chioma bruna o bionda.
Il pensiero di Orazio corre subito a Neera, l'amica dei i)rimi anni
di giovinezza, quella che tante volte, stringendolo fra le braccia, in
una limpida notte di luna, gli aveva sussurrato parole di amore, gli
aveva giurata fede eterna; volubile e ingannatrice spesso, ma pur
sempre amata '). Egli incarica il servo di andare alla casa di Neera
a dirle che si affretti; il poeta l'attenderà in casa; non occorre che
perda tempo ad abbigliarsi; prenda soltanto la cetra
« . . . . compio uihil est opus, opperiar si
iauitor aut attende, imer si ianltor aut si
ipsa negat, noli nimius clamare : facesse ». (vv. 104-106)
In queste rapide frasi, in queste reticenze significative è lo scon-
forto intimo di Orazio che teme un rifiuto da parte di Neera e, dopo
che il servo si è allontanato, rimane muto e pensoso. Gli ritornano
alla memoria i colloqui d'un tempo e la Neera d'allora (« Neaera illa
prior » (vv. 107-108)) con i suoi abbandoni deliziosi, con la sua ap-
passionata tenerezza, con le gelosie e le infedeltà che ispiravsino al
suo poeta i bei canti d'amore. Orazio non era ricco allora, ma l'ar-
^) Si possono porre a riscontro i vv. 17-20 dell'ode Herculis ritu ; per alcune
espressioni dei vv. 94-96 del Pascoli anche Sei-ni. I, 10, 92 (« i puer » che ritro-
viamo al V. 102 del poemetto) : Carni. II, 3, 8 « interiore nota Falerni » ; Carm.
IV, 12, 18.
*) Slephanepolis la chiama il Pascoli ricordando certamente il nome che, per
testimonianza di Plinio {N. H. XXXV, 40) fu dato in Atene a un quadro di Pausia
(comprato poi da LncuUo) nel quale il pittore aveva rappresentato Glicera, donna
da lui amata, che secondo le parole di Plinio — « venditando eorouas sustenta-
verat paupertatem ».
") È da rammentare l'epodo XV di Orazio.
Il ' Beditus Aìigusti ' di Giovanni Pascoli 231
dorè della giovinezz.a gli rendeva agile la fantasia, vigorose le mem-
bra e Xeera lo amava: ora invece^... Da un'altra strofe dell'ode per
il ritorno di Augusto (vv. 21-24) il Pascoli La fatto balzare, deli-
neandola sicuramente, una scena in cui non so se debba ammi-
rarsi di più la perfezione formale o l'aciime psicologico che lo scrit-
tore dimostra nel rivelarci la segreta malinconia di quell'anima di
poeta, presa dai ricordi di amori e di gioie lontane. Alcuni tratti ne
aveva già segnati il Pascoli nel commento della Lyra, riassumendo
l'intera ode {Li/ra^, p. 284) « 'Vai ragazzo, e chiamala: dille che
si spicci e s'annodi appena i capelli. E se il ianitor, maledetto ! fa-
cesse ostacolo.... vientene via. I capelli cominciano a imbiancare e
l'animo non è più quello dell'anno di Planco ' »'. Il servo ritorna e
riferisce che Neera non verrà ; così il poeta si rassegna a pranzar
solo e per ingannare l'attesa si fa portare le tahulae, tutto intento
ad una delle sue nngae. È l'ode per il reduce vittorioso alla quale
darà argomento lo spettacolo ammirato poco i)rima per la via, e in
essa effonderà tutto il suo sentimento di Romano, lieto e superbo per
il ritorno del grande imperatore. Ma le piccole miserie, le preoccu-
pazioni della sua vita di scrittore non gli danno tregua. Le esigenze
dei Sosii, i desideri di Augusto '), tutte le cure quotidiane che de-
rivano dalla fama e dall'amicizia dei grandi, lo tormentano senza
posa; scrive lentamente, cancella con lo stilo il già scritto, riscrive
ancora e solo dopo molto tempo verga con un sospiro le due ultime
parole dell'ode, consule Fianco. Ha finito appena quando ode bussare
leggermente alla porta ; poi il fruscio di una veste, il tintinnio delle
corde di una cetra ed appare sulla soglia « in nodum religata co-
mam », fiorente di giovinezza ideerà che viene ad allietare il banchetto
dell'amico. Ha voluto giungere inaspettata e desiderata ed amabilmente
si compiace della lieta meraviglia di Orazio
« Me tibi deesse meo potuisti credere vati t
quid niuttis ? istura nieii exhorrere capillnm t
perpetuo gaudes aetatis flore poeta ». (vv. 125-127)
Così nella casa del celibe si diffonderà un sorriso e un profumo
di giovinezza e festeggiando il giorno solenne, ora veramente festus
') Nel passo della Vita di Orazio svetoniaua, che sopra lio citato, si leggono
fra le parole ivi riferite della lettera di Augusto al poeta le seguenti « ut circni-
tus volurainis tui sit ÒYXtoSéa-caxos aicut est vontriculi tni » che ispirarono indub-
biamente al Pascoli il v. 114.
nonne librnra Caesar tems òYXttìSéoTepOV optat ?
232 Giuseppe Procacci
aiicLe per lui, egli potrà rivivere « il caro tempo giovanil » con l' il-
lusione che durino ancora per lui le gioie e le ebbrezze dell'età spen-
sierata e gioconda.
Nel gruppo dei poemetti del Pascoli che sono stati detti del ciclo
oraziano il Beditus Augusti ha una particolare importanza. Come nel
Veianius e nella Phidijle il poeta ci aveva delineata la figura di Ora-
zio nel quieto ritiro della Sabina, come nella Cena di Caudiano Nerva
ce l'aveva presentata in mezzo ai lieti conversari del triclinio facen-
doci presentire in lui, nel colloquio con Virgilio, il sacro vate della
gloria e della grandezza di lioma, così in questo carme l' immagine
di lui ci appare più nettamente delineata tra la folla varia e chias-
sosa e nell'operosa -solitudine della casa in cui si raccoglie a scrivere
e a meditare. L'arguzia sottile e la malinconia sospirosa che furono
nel fondo dello spirito di Orazio e che spesso si uniscono nelle odi,
quando il rimpianto delle gioie godute e la letizia dell'ora che fugge
non si compongano in un equilibrio della fantasia e dei sensi gover-
nato da norme di una filosofia serena e un po' scettica, si avvicen-
dano nei versi del Pascoli mostrandoci con quanta profondità egli
abbia compresa e rivissuta l'opera del poeta di Koma. Sarebbe peg-
gio che inutile insistere con una ricerca minuta sulle coincidenze
singole dei versi e delle frasi '); accostandosi all'opera antica il Pa-
scoli ha sentito mirabilmente in ogni espressione la vita ideale e
l'efficacia ritmica che l'artista seppe infondervi e facendo suoi tutti
quegli aparsi elementi li ha irradiati, nell'armonia di un'altra opera
d'arte, d'una luce nuova. Nei poeniata posteriori egli amerà piuttosto
rievocare le figure dei suoi prediletti poeti in qualche momento par-
ticolare della loro vita, volgendo a questa rievocazione tutta la sua
virtù intuitiva e la sua forza fantastica, o indagare i palpiti ed i mi-
steri dell'anima antica, di quell'età specialmente che vide diffondersi
nel mondo romano il raggio di una fede nuova, il cristianesimo; sor-
prenderà in Catullo ed in Orazio non meno che nel centurione e nel-
l'umile schiava aspirazioni profonde, sogni intirai e cari che ridestano
nel cuore un'eco lunga e sommessa. Ma, nell'allargarsi della conce-
zione pascoliana ad argomenti di più alta umanità, l'elemento descrit-
') Mi limiterò a riconlaro aucora qualche raffronto ytei completare le notiitie
già date su alcune analogie d'immagini e di situazioni. Cfr. vv. 19 20 con Epiai. I,
1, 32; vv: 41-42 con Sei-ni. 1, 5, 12-13; v. 45 con Sevm. I, 4, 37; r. 100 con
Carni. Ili, 8 1 sgg.; v. 109 con Epod. XV, 1; v. 119 con Serm. I, 10, 71-72;
V. 124 con Carm. I, 5, 4.
Il ' Meditus Augusti ' (7i Giovanni Pascoli 233
tivo e la vis comica di sapore oraziano e i)lautino '), cLe ^louiinano
nella prima parte del Beditiis Angusti, vanno scomparendo quasi del
tutto. Tanto più significativo dunque ci si manifesta questo carme
in cui la vivacità del dialogo si accoppia così spontaneamente all'in-
tensità dell'analisi psicologica ; dopo il tumulto dei plausi e delle
voci, reso con tocchi di una singolare evidenza realistica, la mesta
poesia dei ricordi che occupano l'anima di Orazio ispira al Pascoli
versi bellissimi e malinconicamente suggestivi. Si raccolgono così nel
poemetto clementi diversi che attestano quanta sia la varietà delle
forme e dei modi dell'artista mirabile, quanta la pieghevolezza e la
« curiosa felicitas » del suo verso latino. Piìi vicino tuttavia allo spi-
rito del poeta l'argomento della seconda parte del carme, in cui
Orazio non sorride né motteggia, ma, lontano dai rumori della folla,
ripensa con rimpianto sincero al « suo buon tempo » o con le parole
del rimpianto termina l'ode per la gloria di Cesare; e accanto ad
Orazio incera, tenera e lusinghevole, fulgida ancora di bellezza nella
semplicità dell'acconciatura, è come l'immagine vivente dell'età più
serena, ai sogni e ai palpiti della quale essa richiamerà per poco il
suo poeta.
Giuseppe Peocacci.
') Sono tla ricordare le giuste osaervanioui tlel Gandigi.io nell'art, cit. {Alene
e Roma, sett.-ott. 1912, n. 165-166, coli. 264 265).
' AMICUS PLATO, SED MAGIS AMICA VERITAS '
In questa stessa rivista (sopra i). 210) io ho ricordato che il
motto amiciis Plato, ned magis amica veritas deriva proprio da Ari-
stotele, il quale in principio della sua critica della dottrina delle
idee si fa quasi scrupolo di combattere la concezione ontologica dei
xai)-' SXou per riguardo al suo creatore, Platone, o, com'egli si esprime,
Sta -co (pi'Xou; SvSpa? eìaayayetv xà d5r) ; ma si rinfranca riflettendo che
per salvare la verità, specie quando si è filosofi, si ha il dovere di
distruggere anche le cose di famiglia, le cose proprie, e che, quindi,
pur essendo tutt' e due amici V amico e la verità, pietà vuole che si
tributi maggiore onore a questa: eth. Nic. I 1096 a 14 5ó^£:e 5' 5v
Tau? péXtiov efvat xal SeTv lui awir^pioc ye xf;? à?.rjO-£iag xal xà oìxeìa àwai-
pslv, SXkiùi x£ xal cptXoaó^ou; Svxaj- à[iq)oTv yàp Svxotv cpiXotv Satov Tipoxt-
(jiav x^v àXT(^£cav. Il passo, d' altronde notissimo, è importante anche
perchè Aristotele si considera qui ancor membro della scuola o, per
dirlo con il termine antico, che corrisponde meglio al linguaggio te-
nuto qui dal filosofo, della famiglia platonica.
È legittimo chiedersi chi abbia dato al passo aristotelico la forma
arguta e concettosa nella quale questa sentenza è per lo piìi citata.
Nei repertori di frasi celebri *) si suole rispondere che fu Ammonio;
e la risposta è giusta, pur che s' intenda che quella forma compare,
la prima volta per noi, nella vita di Aristotele, xxx' 'Ajji|jiwvìov che in
verità non ha nulla che fare con lo scolaro di Proclo, 'A[ji(jiwvtos 'Ep-
\itiou e non è del V secolo, ma posteriore. Il pseudo-Ammonio
(p. 438, 25 sgg. nell'edizione Kose dei frammenti di Aristotele) cerca
di scagionare Aristotele dall' accusa di aver mancato di pietà verso
Platone, mostrando che proprio questi gli aveva dato esempio insigne
di libertà di spirito verso i propri maestri, raccomandando di curarsi
della verità più che di qualunque altra cosa : ei 5è xal aùxw X(ò IlXà-
xtóvo àvziké^tt., oùSàv àioTzow xal èv xouxoi? yàp xà xoO IlXàxwvo; cppov£t"
aùxoO Y^P l'^T^t Xóyo;, 5xt jxàXXov Sei zfjC, àXTj9^{ai; cppovx:^£iv f;:i£p SXXon
') Cito solo il più faraosO; che è por lo più la fonte di tutti gli altri : BCCH-
MANN, Geflugeìte Tfor/e'», p. 372.
' Amietis Plato, sed magis amica veritas ' 235
xtvi;. E qni, a confortare di prove la sua asserzione il pseudo- Ammo-
nio cita due passi, desunti secondo lui letteralmente dal testo plato-
nico. Il secondo è : SwxpàTOU? [lèv èti' èXt'Yov cppovitaxlov, i^s 5' àX^jO-efa;
uoXó, ed è davvero un luogo del Fedone, tradotto però di greco clas-
sico in bizantino: Socrate invita Cebete e Simmia (p. 91 bc) a di-
scutere le sue opinioni senza rispetti umani, qjitxpòv cppovxi'aavts? Sw-
xpàxo'jc;, TfjS Sa àXrjtì-efa; noXù jiàXXov, « dandovi poco pensiero di Socrate
ma della verità molto più ». Il primo è, corno sembra scrivano i ma-
noscritti '), cp'Xo; [làv Swxpàxrjg, àXXà [iSXkov cpiÀxàxvj fj àÀYjò^eta. Queste
parole, è quasi inutile il dirlo, non si trovano in nessun' opera plato-
nica ; si vede chiaro che nella tradizione scolastica il passo dell' Etica
si era condensato in un apoftegma e questo era stato messo in bocca
non piti ad Aristotele ma a Platone, e riferito al maestro di questo.
La forma della frase è nello pseudo- Ammonio^ scorretta, che si
aspetterebbe non |iàX?vOv cpiXxàTrj malT^iacére^ o [xàXXov <^Ckf\ o cptXxépa.
Benché la scorrettezza mostri che lo pseudo-Ammonio non ha foggiato
egli la frase, pure essa non può essere molto più antica. La vita
pseudoAmmouiaua è similissima a un' altra che si suol chiamare
Marciana, perchè conservata, a quel che pare, soltanto in un codice
Marciano, che contiene del resto anche l'Ammoniana, tramandata però
anche in altri mss. : le due vite compilano indipendentemente l'una
dall' altra ^) le stesse fonti, con più senno la Marciana, più trascura-
tamente l'Ammoniana. Ora la Marciana cita sì il passo del Fedone,
ma nel posto che nell'Ammoniana è occupato dall' apoftegma, inse-
risce (p. 432, 12 Rose), modificandoli, anzi guastandoli, altri due passi
di Platone, l'uno del Critone (p. 46 b) Eywye oùSevl àXXw 7xpó{)-u[Jiós £?ixt ,a
Txei^atì-at i^ X(T) Xóyw le, Sv |xot Xoytì^ofjiévf;) péXxtaxo? xaxa^at'vrjxac, « io non .^ Q<^4v^'V^
sono disposto a dar retta se non a quel ragionamento che, rifletten-
dovi sopra, mi sembri il migliore », e uno del primo Alcibiade (p. 114e)
eE |iTj ab aa'jxoù Xéyovxo; àxouTj?, àXXou Xéyovxo; |xtj Titaxe'jaTj;, « se tu non
oda te stesso a dirlo, non dar retta quand' altri lo dica » '). Dunque
1' apoftegma dell'Ammoniana mancava ancora nella fonte comune di
■) Essi sono noti imperfettamente : oltre all' apparato del Rose, uso di col-
lazioni del HussE, Herm., XXVIII, 1893, 253.
*) Il Busse {ihd., p. 252 sgg.) sosteneva che l'Ammoniana 6 compilata di
sulla Marciana, ma a torto, perchè quella dà correttamente una citazione che in
questa è spezzata in due : Leo, ISiographie, 53'.
') Ho conservato allo citazioni Ja forma che hanno nella vita Marciana; So-
crate esigo da Alcibiade che non creda so non alle dichiarazioui che egli stesso
farà, costretto dal ragionamento.
236 Gioryio Pasquali
questa e della Marciana. Ma questa fonte è essa stessa assai tarda :
il Busse ha mostrato che, mentre le notizie intorno alla vita di
Aristotele risalgono per lo più ad Andronico di Rodi, Peri|)atetico
del primo sec. av. (J., tutto quel che si narra qui intorno alle rela-
zioni tra Aristotele e Platone deriva dalla perduta vita aristote-
lica di Olimpiodoro il Giovane, come mostrano numerosi riscontri
con altre opere di Olimpiodoro conservate, commenti ad Aristotele e
Platone '). Appunto i passi del Fedone e del primo Alcibiade tra-
scritti dianzi ricorrono tali e quali nel commento di Olimpiodoro al
Gorgia (p. 391), proprio in un excursus che vuol mostrare che le re-
lazioni tra Aristotele e Platone rimasero sempre amichevoli. La coin-
cidenza non può esser fortuita, perchè nello stesso excursus sono ci-
tati anche i celebri versi di Aristotele ad Eudemo, che ricorrono
pure nella Marciana e in forma più completa nell' Ammoniana ^).
Olimpiodoro visse nella seconda metà del sesto secolo : non sarà
quindi troppo ardito supporre che soltanto posteriormente a questo
tempo il passo dell' etica nicomachea, ridotto in -forma di apoftegma,
fu attribuito a Platone e riferito a Socrate.
Il Biichmann, che non conosce altro che la vita Ammoniana,
par considerare il passo del Fedone qual fonte dell' apoftegma,
forse non per altro che perch' essi stanno 1' uno accosto all' altro
in quella biografia^ e il primo è autentico ed antico, il secondo re-
cente e suppositizio. Con pari ragione e con pari torto avrebbe po-
tuto citare i passi del Critone e del primo Alcibiade, se avesse avuto
presente la Marciana e Olimpiodoro. La somiglianza è solo nel con-
cetto, che si ritrova molte volte in bocca al Socrate platonico, inteso
sempre a combattere Xòyoi e non persone. La forma di tatti questi
passi è del tutto diversa, poiché manca qualsiasi accenno alla ^iX{a.
Amicus Plato, si dovrebbe fin qui conchiudere, non ha addentellati
nel Platone autentico.
Eppure si può forse provare che Aristotele in quel passo del-
l' Etica ripiglia un motivo della Eepubblica. In principio del decimo
libro Platone si sforza per bocca del suo Socrate di persuadere gli
interlocutori che la poesia mimetica, esprimendo una forma infe-
riore di conoscenza e riuscendo per ciò appunto nociva, dev' essere
sbandita dalla città ideale. Ma nell' accingersi alla dimostrazione
') Cfr. BusSK, ibd., pp. 262 sgg. e specie pp. 268 sgg., p. 273.
*) Appunto questa citazione è servita al Leo a stabilire 1' indipendenza del-
l'Ammouiana dulia Marciana.
' Amicìifi Flato, sed magis amica veritas ' 237
egli confessa che 1' amicizia o il rispetto, che sin da fanciullo egli
ha sempre sentito per Omero, considerato da lui padre primo e vero
della tragedia, gli impedisce quasi di parlare. Pure anch' egli, come
Aristotele, si fa coraggio riflettendo che a nessun uomo, per quanto
caro, si deve tributare più onore che alla verità: X 505 ed f/Y)iéov
v.T.'.zoi cpiX(a yé z'.c, \i.z xal aJSi? ex nxiòòc, l-^Quace. mpi '0(i.Y,pou ànoxwXuet
^éyety...." àXX' oò yàp Tipo ye x^? àX-q^tìoc^ xi\xt^xìoì àvr'p. Le parole si cor-
rispondono così appuntino con quelle di Aristotele che la somiglianza
non può esser fortuita. E gli scolari del primo Peripato, che si sen-
tiva ancora stretto da legami saldi con P Accademia, dell' opera più
celebro del maestro del loro maestro e proprio dei capitoli dai quali
deriva e contro i quali si appunta la teoria aristotelica dell' arte '),
avrà avuto sufficiente pratica per non lasciarsi sfuggire 1' allusione,
tanto più che paradossi, come quelli sostenuti qui contro la parte as
segnata nel!' educazione allo studio di Omero, restano come confìtti
nella memoria. Con quest' allusione Aristotele avrà appunto voluto
mostrare che proprio il suo maestro, contro cui egli si trovava ora
costretto a combattere, gli aveva dato esempio insigne di indipen-
denza di giudizio rispetto a un grande del passato meritamente ri-
verito e amato. Di malignità, o anche solo di malizia innocente, nel
luogo aristotelico non trovo nulla, quantunque sappia bene come gli
scherzi di Aristotele su colleghi e confratelli siano di solito più spi-
ritosi che caritatevoli.
Giorgio Pasquali.
') V. ia ispecio i! cap. XXV della Poetica, p. 1460 b 5 sgg.
Atene e Roma.
L'INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO
DELLE ANTICHITÀ POMPEIANE
E per compiersi un decennio, dacché presso la Facoltà di filosofia e
lettere della R. TJuiversità di Napoli venne istituita la cattedra di Antichità
Pompeiane. Da alcuni segni, die mi è stato dato di osservare, rilevo che
della natura e della importanza di un siffatto insegnamento non si ha an-
cora presso di noi quell'esatto concetto, che dopo il rinnovamento degli
studii concernenti l'anticliità classica si sareljbe dovuto aspettare. E dicendo
presso di noi, iutendo di alludere, non ai giovani, che assai volentieri fre-
<lueiitano quella cattedra, ma alle sfere dirigenti e in generale a, quanti mi-
litano nel campo della coltura, classica in ispecie. Avendo avuto l'onore
d'inaugurare nell'Università italiana l'insegnamento delle Antichità pom-
peiane, credo doveroso e opportuno chiarirne la portata e gli scopi, come
pure il posto, che ad esso compete nella cerchia delle discipline claesiche,
affinchè non sia ritenuto per una mera superfetazione scientifica o, tutt'al
più, per un insegnamento assai limitato. E nel senso appunto di un inse-
gnamento limitato non ha mancato di manifestare il suo giudizio qualche
collega universitario, facendo così non piccolo torto al suo ingegno e alla
sua dottrina !
Premetto un breve cenno storico. Sin dal 1901 Alessandro Chiappelli.
preside, proponeva alla Facoltà di fllosofla e lettere della E. Università di
Napoli che l'incarico delle esercitazioni pratiche di archeologia a me affi-
dato sin dal 1883 fosse convertito in cattedra di Antichità pompeiane, e
che io fossi designato ad occuparla col grado di straordinario. La Facoltà
fece sua la proposta del Chiappelli, e il Consiglio Superiore di Pubblica
Istruzione l'accolse non solo nella parte concernente la questione di massima,
ma altresì in quella che riguardava la designazione della persona. Ma il mi-
nistro del tempo, on. Nunzio Nasi, non credette di dar corso al relativo
Decreto. Negli anni successivi la Facoltà napoletana non mancò di rinno-
vare il voto, lasciando però da parte qualunque designazione di persona <•
invitando l'ou. Ministero a bandire il concorso. Non prima del 1906 il voto
della Facoltà, trasmesso e validamento sostenuto dal rettore, Carlo Fadda,
venne accolto dal Ministro on. Paolo Boselli, il quale dispose che si bandisse
il concorso. Così, per il tenace proposito della Facoltà e per la larga com-
prensione delle esigenze della coltura nazionale nel Ministro Boselli, la cat-
tedra di Antichità pompeiane fu istituita nell' Università italiana.
Ma quale la portata, quali gli scopi di un tale insegnamento ? Non
rientra esso in quello dell'archeologia nell'accezione più larga della parola
L'insegnamento universitario delle antichità pompeiane 239
e nell'altro delle Antichità greche e romane? Certo Pompei e le città com-
pagne di sventura costituiscono una bella e ricca provincia dell'archeologia,
e il pouipeiauista non può non essere un archeologo ; ma, se l'archeologia
studia Pompei nei singoli monumenti, il contenuto di Pompei sorpassa di
molto l'ambito della indagine archeologica. L'edifìcio, la statua, il dipinto,
la suppellettile pompeiana sono messi e studiati dall'archeologo nella serie
rispettiva, avulsi quasi dal loro luogo di origine, che è poi in fondo il fe-
nomeno scientifico di maggiore interesse, poiché di ediflcii, di statue, di di-
pinti e di suppellettile varia, fortunatamente, non v' ha penuria nel mondo
greco-romano. Dicasi lo stesso dell' insegnamento delle Antichità classiche
rispetto a Pompei : la vita pubblica e i)rivata jjompeiana rifluisce, è vero,
nella vita pubblica e privata antica, che è l'oggetto dello studio di quella
disciplina, la quale s'intitola delle Antichità greche e romane ; però questa
naturalmente prescinde dall'ambiente, iu cui si svolse una vita più antica
e non meno degna di studio. Eapporti piìi o meno estesi hanno con Pompei
altre discipline appartenenti alla scienza dell'antichità, quali la storia an-
tica, la numismatica, la mitologia, la filologia e la glottologia. Già da questi
nioltei>lici contatti con tutta la enciclopedia classica si può desùmere la
estensione dell' insegnamento delle Antichità pompeiane.
Pompei è un angolo del mondo antico, a noi miracolosamente pervenuto
quale era nella seconda metà del I secolo d. Cr. Il miracolo fu operato dal
Vesuvio, che, coprendo di lapillo e di cenere un tratto della Campania, sot-
trasse non pochi centri abitati alle ingiurie e alle trasformazioni degli uo-
mini e del tempo. Ed ecco che parte del contenuto di Pompei e delle altre
città sepolte dalla eruzione Vesuviana dell'anno 79 d. Cr. esce dall'orbita
dell'archeologo e dello storico, e entra nel campo del naturalista. Come seguì
la eruzione? In qual mese avvenne e quanto durò? Il modo del seppelli-
mento fu lo stesso così pei paesi posti a mezzogiorno e ad oriente del Ve-
suvio come per quelli situati a ponente? Quali effetti ebbe quella confla-
grazione sulla forma del monte e sulla configurazione della contrada? Come
si comportò il mare e quale modificazione subì il lido di quel seno, che
Seneca chiamò amoennsì Fu davvero la prima eruzione Vesuviana quella
del 79 ovvero il Vesuvio è monte ignivomo da tempo immemorabile? È
questa una serie di quesiti, ai quali l'archeologo o lo storico non può ri-
spondere, ma deve potervi rispondere il pompeianista, la cui competenza
si addentra anche nello studio dei fenomeni che produssero, accompagna-
rono e seguirono quella terribile convulsione tellurica. Non basta esser buon
filologo per intendere appieno le celebri lettere di Plinio il giovine relative
alla eruzione Vesuviana ; ma è necessario conoscere quel fenomeno in tutte
le sue manifestazioni e in tutti i suoi effetti, perchè la importante testi-
monianza Pliniana dia e riceva a sua volta lume. Se il compianto collega
prof. Attilio de Marchi avesse preso consiglio dai competenti, avrebbe di
certo evitato più di un errore nella sua versione italiana di quelle lettere !
L'eruzione Vesuviana dell'aprile del 1906, che fu un'immagine assai sbiadita
240 Antonio Sogliaìw
di quella dell'anno 79, mi persuase che Plinio il giovine, lungi dall'esage-
rare, sia rimasto al di sotto del vero nella desciizione dell'immane feno-
meno. Né si arrestano qui le nozioni di cose naturali, che rientrano nel
corredo scientifico del ponipeianista : il colle di lava preistorica, sul quale
la città venne edificata — se formato da colata lavica o sia un antichissimo
cratere colmato —, la formazione geologica della valle del Samo, il corso
del Sarno, a cui Strabone attribuisce una notevole importanza nella storia
di Pompei, il materiale di costruzione e di pavimentazione della città, il
materiale delle macchine agrarie costituiscono problemi, che non sono nel-
l'orbita, nella quale si muove l'archeologo, il filologo e lo storico.
Ma se Pompei è un angolo intatto del mondo antico, essa è perciò nn
frammento di vita antica vissuta. Tutte dunque le manifestazioni della vita
romana del I secolo imperiale, dal tempio al termopolio, dai teatri e dall'an-
fiteatro ai giocattoli dei bambini, dalla statua prefidiaca o policletea alla
statuetta del Zar o del dio penate, dal dipinto di soggetto mitologico alle
scene del foro, dalle reminiscenze letterarie alle quietanze rilasciate all'usu-
raio, dal verso tibulliananiente ispir.ato alla parola oscena, tutte, dico, le
manifestazioni della vita romana, comprese le arti meccaniche e la ricca e
svariata suppellettile, ricadono sotto l'osservazione e lo studio del pom-
peianista. Deve questi esser pronto così a dare il suo giudizio sulla statua
o dipinto o suppellettile o moneta, che la zappa rimette a luce, come a
leggere le iscrizioni lapidarie ovvero dipinte o graffite sui muri e sulle an-
fore. Siffatto sbaraglio fa distinguere il pompeianista dai ciceroni di buona
o cattiva lega, dei quali la nostra terra purtroppo abbonda.
Una delle principali manifestazioni della vita è la lingua : in Pompei
romanizzata si parlavfino tre lingue, la latina, lingua ufficiale, il dialetto
osco indigeno e la lingua greca parlata dalla gente colta e dai non pochi
greci, che per ragioni di commercio vi affluivano. Orbene il volgare latino
ci è conservato nelle numerose iscrizioni graffite sui muri pompeiani. Certo
il glottologo non manca di spigolare nel IV volume del Corpun Inscriptionum
Laiinarum ; ma una trattazione sistematica della fonetica e della morfologia
del latino volgare di Pompei non può, né deve sottrarsi allo studio del
pompeianista. Se oggi la scienza possiede un eccellente trattato sulla fone-
tica delle iscrizioni parietarie pompeiane, è merito non piccolo di un an-
tico alunno della scuola universitaria di Napoli ') ; e se oggi in questa stessa
scuola la fonetica e la morfologia del latino volgare di Pompei sono oggetto
di corsi, introduttivi allo studio del neo-latino, ciò si deve allo insegna-
mento delle Antichità pompeiane.
Pompei non è nel gran mondo greco romano che un punto, il quale
appena si troverebbe segnato negli antichi itinerari! e presso qualche antico
') WiCK F. C, La fonetica delle hcrhioni parietarie pompeiave specialmente in
quanto risenta dell'osco e accenni alla evoluzione romama iti Atti della Reale Acca-
demia ili Archeoloofia, Lettere e Belle Arti di N.apoli, voi. XXIII, 1905.
L' insegnamento univernitario delle antichità pompeiane 241
geografo; ma, poiché il destino lia voluto che fosse a noi conservata quale
essa si addoiinentò nell'anno 79 d. Cr., è stretto dovere scientifico l'inda-
garne la missione storica; il qual compito può bene sfuggire allo storico,
non però al ponipeianista, che desumerà quella missione dallo studio di
tutta la vita della fiorente quanto sventurata cittadina.
Xon pochi si sono occupati della donna nell'antichità, fondando l'inda-
gine sui dati offerti dagli scrittori; ma la ricerca deve riuscire necessaria-
mente incompiuta, quando manchi la precisa conoscenza dell'ambiente, nel
quale la donna si moveva. Una siffatta conoscenza d'ambiente si ha in Pom-
pei, dove lo studioso può bene intuire qual fosso l'atteggiamento della co-
scienza morale delhi donna rispetto al mondo che la circondava. La casa
pomjjeiaua ci spiega il perchè la famiglia italica è così profondamente di-
versa dalla greca e perchè nella ^j/h antica storia ellenica cerchiamo invano
quel tipo di donna che è caratteristico della storia romana, sia nella sua piena
realtà, sia circonfuso dall'aureola della leggenda '). La coscienza morale della
donna antica studiata in Pompei è un tenia, del quale il pompeianista non
deve disinteressarsi nel corso del suo insegnamento universitario.
Della civiltà, della coltura e dell'arte ellenistica Pompei può conside-
rarsi come l'unico testimonio superstite in occidente. È pur vero che i mo-
numenti dell'urbe ci conservano cospicue trficce dell'ellenismo, da cui fu
pervasa la romanità; ma Pompei ci offre tutto un insieme, che solo trova
riscontro nei centri ellenistici dell'oriente. E qui il campo dell' indagine
pompeiana si allarga, e l'architettura e la decorazione murale trovano i loro
prototipi in Alessandria, Antiochia, Pergamo, Priene, Delo. Il momento el-
lenistico di Pompei coincide con la dominazione sannitica, e senza dubbio
è il momento piìi importante nella storia della città. Ma i Sanniti, benché
attratti nell'orbita della coltura e dell'arte ellenistica, non rinunziarono alla
loro nazionalità, e imposero la loro lingua. Ora un notevole contributo alla
epigraiìa osco sannitica vien dato da Pompei ; e se del frammentario dialetto
osco ci è pervenuto un bel periodo j^ieno e armonioso, come appunto lo
giudica un insigne Maestro ''), esso è da ricercare in una nota iscrizione
osca pompeiana. La lingua osco-sannitica, che fu la lingua di Pompei in-
nanzi alla sna romanizzazione, e la costituzione politica stabilitavi dai San-
niti sono parti essenziali dell'insegnamento delle Antichità pompeiane; e
sono lieto di potere affermare che nell'anno accademico 1911-12 dettai un
corso sul dialetto osco, mettendo a profitto il materiale epigrafico pompeiano;
al qual corso va riannodata la mia indagine « Sanniti e Osci » pubblicata
nei Bendiconti della Keale Accademia dei Lincei ').
Ma i Sanniti, discendendo dai loro monti al piano, che essi chiamarono
') Patkoxi G., L'origine della domus in Rendiconti della Eeale Accademia del
Lincei, voi. XI, 1902, p. 506.
fascicolo di luglio 19H, pag. 21.
3) Voi. XXI, 1912, pag. 206 e sgg.
242 A. So(iliano - L'inseffnamento universitario delle antichità pompeiane
Campania, trovarono ntW Hinterland una fiorente civiltà, la civiltà etrusca.
Furono gli Etruschi, che trasformarono i centri abitati dell' Opicia in città
vere e proprie mediante il rito politico-religioso della {imtfazioue; furou gli
Etruschi che introdussero in occidente il tipo dell' atrium, quale Pompei ci
conserva; furono gli Etruschi che stabilirono iu Pompei una tradizione edi-
lizia, con la quale venne a cozzare e a contaminarsi la tradizione architet-
tonica greca. Il periodo etrusco di Pompei è stato messo in rilievo dagli
studiosi, che a quelle rovine dedicarono la loro vita ; e 1' insegnamento delle
Antichità pompeiane, tenendone il dovuto conto, inizia i giovani nello studio
di quella civiltà, a cni tanto deve la civiltà romana.
Finalmente le origini di Pompei si connettono con l'antichissima storia
della Campania, dalla quale deve prender le mosse chi ne voglia trattare,
indugiandosi a preferenza sulle antichissime necropoli della valle del Saruo.
In riguardo dunque alla portata dell' insegnamento delle Antichità pom-
peiane, dopo quanto ho detto, non credo che si possa ancor parlare d'inse-
gnamento limitato. Né meno evidente risulta lo scopo di un tale insegna-
mento, che si propone di mettere i giovani in un immediato contatto col
mondo antico, e più precisamente con la piccola vita quotidiana del mondo
antico. La poesia di Orazio e i monumenti di Roma sono troppo grandi e
troppo alieni dalle cose nostre per animarsi a vera attualità: con Pompei
invece risorge la vita antica di ogni giorno; tocchiamo quasi con mano quelle
epoche remote, vediamo coi nostri proprii occhi come si trafficava, come si
beveva, come si scherzava, e non possiamo non esclamare: son questi i
nostri padri ! La nostra non è che la continuazione di quella vita, che nelle
opere della letteratura e dell'arte appare tanto diversa ! E non è forse que-
sto >in risultato di tanta importanza da meritare una particolare esegesi nel
coordinamento delle discipline relative all'antichità classica? Nella istituzione
della cattedra di Antichità pompeiane l' Italia ha precorso — e Dio ne sia
lodato ! — la dotta Germania, dove, salvo lezioni sporadiche intorno ad
argomenti pompeiani, un vero e proprio insegnamento su Pompei non esiste.
Né vale obiettare che colà non esiste, perchè la Germania non possiede una
Pompei : coi mezzi attuali di riproduzione e con tutte le risorse, di cui la
scienza tedesca dispone, una cattedra di Antichità pompeiane in Germania
è tutt'altro che inimmaginabile.
Concludendo, la mente del pompeianista dev'essere la lente che riuni.sca
in un fascio i raggi luminosi della vita antica e riverberandoli sulla mente
degli alunni la bruci di santo ardore per l'antichità classica.
Ma chi ha l'onore di essere professore di Antichità pompeiane compie
poi il suo dovere nel modo che l'esposizione fatta esigo? A questa domanda,
quanto naturale nel lettore, altrettanto imbarazzante per me, lascio che ri-
spondano i giovani, che frequentano i miei corsi, i colleghi che prendono
parte alla commissione d'esame e i registri delle lezioni. Questo solo aft'ermo,
che al concorso del 1906 mi presentai con una preparazione di trentaquat-
tro anni.
Napoli, agosto 1916. Antonio Sogi.iano.
CENNI SUGLI STUDI CLASSICI IN EUSSIA ''
Dalla Cliiesa venne il primo incitamento e il primo aiuto ad intro-
durre in Russia le lingue classiche e innanzi tutto, si comprende, la lingua
greca. Dapprima si lessero e tradussero i libri ecclesiastici, scritti origina-
riamente in greco. Le invasioni mongole però arrestarono questi studi, e
tino al secolo XVIII la scienza si può dire quasi perfettamente scomparsa
il al le terre russe.
Una prima notizia sicura sugli studi di letteratura teologion greca tro-
viamo in una « Cronaca » (Liétopis) dell' XI secolo, in cui si racconta che
il principe larosldv aveva radunato molti copisti e aveva tradotto molti li-
bri dal greco in antico slavo.
Un contemporaneo di laroslav, il metropolita Ilarione, nel suo discorso
« Su la legge della carità » rivela tracce manifeste di conoscenza della re-
torica greca.
Dalle prediche di Cirillo Turóvsky (XII secolo) si vede eh' egli cono-
sceva gli oratori greci cristiani. Nello stesso secolo il principe di Cernfgov
Nicola Sviatóscia (tll42) tradusse dal greco tre opuscoli.
Della conoscenza della lingua latina in Russia nel secolo XIII si ha
testimonianza nel Viaggio del francescano Plano Carpini ; né mancano, in
quei tempi lontani, alcune altre interessanti notizie sugli studi classici.
Per esempio, un viaggiatore russo del secolo XIV s'incontrò in Grecia con
alcuni concittadini di Nóvgorod, i quali trascrivevano, nel monastero di
Studion, le sacre scritture.
Nel secolo XV la conoscenza del greco fece qualche progresso in grazia
del matrimonio di Giovanni III con Sofia Paleologa. Il latino invece era
ancora poco conosciuto.
') Questo saggio fu letto dall'autore, e formf) oggetto di discussione, nel Se-
minario di Filologia classica del i)rof. N. Festa, presso 1' Universitìl di Roma. Si
pubblica qui con qualche aggiunta ricavata dagli scarsi cenni contenuti nell'opera
di J. E. Sandys, A Bialory of Classioal SoholaraMp, IH (1908) pp. 384-388.
L' autore è spiacente di aver dovuto, per difetto di materiali, dare forma
eccessivamente schematica a molti argomenti che avrolibero meritato maggiore
sviluppo, come puro di avere per parecchi dei letterati russi citati, offerto una
bibliografia talvolta incompleta, essendosi dovuto afKdare quasi esclusivamente
alla propria memoria, aiutata soltanto da un articolo del prof. A. I. Mai.éin
neW Enciclopedia russa di Brokhaus e Eufron, voi. LV, 813-816.
244 T. Savcenko
Per il secolo XVI abbiamo questa notizia: che nel 1518 l'ambascia-
tore russo parlava in latino coli' imperatore Massimiliano. Nello stesso
tempo si svolgeva in Russia l'attività letteraria <li Massimo Greco, il quale
aveva come collaboratori dei russi, fra cui anche il noto principe Kurbsky.
Quest'ultimo tradusse dal greco Giovanni Crisostomo e lo storico Eusebio.
Egli conosceva anche il latino, che diceva di avere imparato con molta
fatica.
Grande influenza sullo studio delle lingue classiclie ebbe poi la dittii-
sioue delle scuole supeiioii nel secolo XVIT, specialmente nella Russia me-
ridionale. Qui lo studio del greco e del latino era obbligatorio ; tutte le
materie, fuori del catechismo e della grammatica slava, si insegnavano in
latino. Gli allievi parlavano questa lingua tanto durante le lezioni quanto
nelle ricreazioni: per uno sbaglio di latino, o per l'intrusione di una jìarolfi
russa, v'erano gravi punizioni. Uno studente dell'Accademia di Kiev, Epi-
fàni Slavinétzky, tradusse i primi libri delle Storie di Tucidide e il pane-
girico di Plinio a Traiano.
)a, Kiev gli studf letterari passarono anche a Mosca. Nel 1679 fu
fondata la prima scuola governativa con l' insegnamento della lingua greca,
e nel 1685 l'Accademia slavo-latino-greca. Anche nel secolo XVIII questa
Accademia era il maggiore istituto per le lingue classiche in tutta la Rus-
sia, sebbene vi si trattassero principalmente questioni teologiche ed eliche.
Questa celebre Accademia diede all' Università di Mosca i primi professori
di letterature classiche, N. Popóvsky e A. Bàrsov. Nella università moltis-
sime lezioni erano fiitte in lingua latina.
Efir-4iriLiua_di^Pietro il Grande furono tradotti Q^urzio, Epitetto, l'Iliade
di Omero; e quindi si ebbero traduzioni anche di Oraziiv-iCirgil'Oj Esopo.
Nel 1768 Caterina II destinò la somma, enorme per queF-iémpi, di
5000 rubli alle traduzioni dalle lingue straniere ; e più degli «altri esplica-
rono la loro attività i traduttori dalle lingue classiche.
Nel secolo XIX, sotto il regno dell' imperatore Alessandro I, ebbero
grande influenza, dopo la guerra con la Francia, i rapporti con la Germa-
nia, e specialmente con scienziati quali Fr. A. Wolf e Winkelmann.
Il conte S. S. Uvàrov, uno dei più grandi cultori e ammiratori del
mondo antico, in quest' epoca scrisse alcune opere intorno alla letteratura e
alla religione greca. Quando, poi, egli fu ministro dell'Istruzione pubblica
(1833-1849), vennero compilate grammatiche greche e latine, veramente pre-
gevoli per quel tempo, e dizionari per uso dei ginnasi-licei. Come prodotto
di questi tempi così favorevoli al classicismo, uscirono molte traduzioni, fra
le quali le più interessanti sono: I classici greci di Martynov {26 voli.), Le
vite di Plutarco del Destuuis, V Iliade tradotta dallo Gniédic. In questo tempo
furono anche edite opere di archeologia come II viayyio in Tauride di Mu-
raviév-Apóstol, il libro di Stempkóvsky « Ricerche sulla situazione delle
antiche colonie greche del Ponto Eusino » (Pietr. 1826), non contando le
opere degli accademici stranieri, come Keller, Koeppen, Blaramberg.
Cenni sugli studi classici in Eussia 245
Assai notevole influenza sugli scienziati e professori delle università
russe ebbero le opere degli eruditi tedeschi A. Biickli, K. 0. Miiller, Fr.
llitschl.
Nell'università di Mosca (fondata nel 1755) R. T. Tiiakovsky (1785-
1820), ch'era stato alla scuola di C. G. Hejne a Gottinga, produsse un^ edi-
zione di FedxiLe^una dissertazione ^latlna^aul Djtir»iMbo-(l806). D. L. Krin-
kov (l509-1845), aluniio del Morgensteru, del Francke e del Nene a Uòrpat
e del Boeckh a Berlino, pubblicò studi sull'età di Q. Curzio e sull'elemento
tragico in Tacito, oltre un' edizione AeìVÀgncola,_ è lasciò "ùn^^era sùTTé
differenz(r~ongìnarie frìPpàtf fzT è"prél)er nella religione romana (pubblicata
postuma in Lipsia, 1849, sotto lo pseudonimo di Dr. Pellegrino). Uno dei
primi che udirono in Germania le conferenze di Bockh, Lachmann, Schol-
ling, fu P. M. Leóntiev, il quale viaggiò anche per tutta l'Italia. Dopo il suo
ritorno a Mosca, gli fu aflBdata la cattedra di letteratura latina in quella
Università, dove ricevette il grado di « magister » per il suo lavoro II
culto di Zeus nella Grecia antica. Non dimenticano i filologi russi un altro
lavoro di Leóntiev : la edizione da lui curata dei 5 volumi dei Propylaea,
raccolta di articoli sulle antichità classiche (Mosca, 1855-57; 2» ediz. ivi,
1869). Egli stesso vi pubblicò vari articoli come Uno sguardo storico alla
Grecia antica; Venere di Tauride; Differente tra gli stili nell'arte greca.
Vi comparvero anche i lavori dei professori Blagovjés^ensky e Kriukov-
sulla lettetatma-Jatina, del prof. Kudriavzzev su Tacito e sulla letteratura
greca, del prof. Ktìtorga sulla sfória greca, e dePprÓf. Katkóv sulla fllo-
sofla greca.
Nei Propylaea cominciò la sua celebre traduzione di Platone il prof. Kilr-
pov dell'Accademia ecclesiastica di Pietrogrado ; ad essi collaborò pure uno
dei primi bizantinisti russi, il prof. A. Ménscikov.
Neil' anno 1865 P. M. Leóntiev divenne coeditore del giornale quoti-
diano « Moskóvskia Viédomosti ». Per mezzo di questo giornale egli favorì
molto la riforma ginnasiale, la quale fu compiuta dal ministro conte D. A.
Tolstoj nell'anno 1871. Il ministro Tolstoj pensava che la salvezza della
gioventù dalla « piaga materialista » potesse solo aspettarsi dallo studio
degli scrittori antichi, e perciò intensificò l' insegnamento del greco e del
latino nei ginnasi-licei ').
') Alcuni anni fa il generale Vannóvsky, Ministro della Istruzione Pubblica,
introdusse un' altra riforma, per la quale il latino restò obbligatorio solo nelle
classi dalla 3' all' 8* (dalla 3* ginnasiale alla 3» liceo), e il greco divenne solo
facoltativo (anche a richiesta di un solo alnuno) e soltanto nel liceo. Rimane
tuttavia l'obbligo della jjrova speciale di latino per 1' ammissione a tutte le fa-
coltil universitarie per i provenienti dalle scuole reali o tecniche, ed è altresì
obbligatoria la prova di greco per i candidati alla facoltà di lettere, che non
abbiano fatto il corso regolare di greco.
Atene e Koma. 5
246 T. Savcenko
Secondo la nuova legge solo gli allievi dei ginnasi elassici- ebbero il
diritto di entrare nell' Università. Lo stesso ministro fondò l' Istituto sto-
rico-filologico di Pietrogrado e nel 1877 quello di Niégin (vicino a Kiev), con
programma universitario, allo scopo di preparare professori di lingue clas-
siche per il liceo. Allo stesso scopo mirava il seminario filologico russo a
Lipsia (1875), che durò solo pochi anni.
Il nuovo impulso dato in tal modo agli studi classici diede origine a
molte pubblicazioni, non soltanto di manuali tradotti da altre lingue. S'ini-
ziarono serie di scrittori classici greci e latini con note e glossari russi,
per esempio i « Classici romani » di Volf e la « Collezione illustrata di
classici greci e roni ànT » di_ L^_GheÓEglifi.Ygkx-fi- S* - J»ifln Stein.
Uno dei collaboratori del conte D. A. Tolstoj fu A. I. Gheórghievsky.
In seguito ad una missione compiuta in Germania nel 1871, per lo studi»
dei sistemi di educazione classica e tecnica, egli si formò la convinzione
clie la base dell'insegnamento e della cultura dovesse essere classica. Seconda
tali idee fondò nel 1874 a Pietrogrado la « Società di filologia classica e
pedagogia », con diramazioni nelle diverse città (attualmente, è rimasta la
sola sezione di Kiev).
Prima ancora era sorta la società archeologica di Mosca (1864), la
quale riusci presto a organizzare parecchi congressi archeologici, tenuti in
epoche diverse in varie città russe. I soci più attivi ne furono il conte
A. S. Uvàrov, C. C. Goerz, A. A. Kotliarévsky ; il prof. Kalacióv fondò a
Pietrogrado nel 1877 l'Istituto archeologico per la preparazione degli ar-
cheologi, paleografi ed archivisti. In seguito fu fondiito un simile istituto
anche a Mosca ; mentre per gli studi bizantini il famoso bizantinista F. I.
Uspiénsky riuscì nel 1894 a far aprire dal governo russo un Istituto a Co-
stantinopoli, istituto eh' egli ha poi sempre diretto.
Nello stesso tempo le università russe svolgevano una feconda attività
a prò degli studi classici. In quella di Mosca, oltre ai già nominati Tim-
kovsky, e Krinkov e Temkiev, spiegarono la loro attività C. C. Goerz
(1830-1883), uno dei primissimi professori di archeologia in Russia, autore
di scritti sulla penisola di Taman, sull'Italia e la Sicilia, e sulle scoperte
dello Schliemann; e il celebre latinista G. A^^_JvflnayJl 826 0:^1) che pub^
blicò traduzioni eccellentt Si~autQrì lafìni, scrisse un'opera su Cicerone e
i^ol'contemporariei^ e tfaSasse Io scritto m Pln toircò'jDfi facie in orbe liinae
e 1' « lutfòduzìone armonica » attribuita a Euclide. Ma presto prevalse su
tutte le altre università russe quella di Pietrogrado (fondata nel 1819). Sono
da ricordare i principali lavori del professore M. S. Kùtorga (1809-1886) :
De tribubus Atticis eorumque ctitn regni partibus nexu (1832) ; Storia della
repubblica ateniese dall' uccisione di Ipparco fino alla morte di Milziade
(Pietr. 1848) ; Die Ansichten des Dikiiarchos ilber den Ursprunfi der Geselìschaft
e JBeitràge xur UrMdrung der vier àltesten, attischen Phyìen (in Bulleiin de la
classe des sciences de St. Petersbourg, v. Vili, 1850-1) ; Bicerche critiche sulla
legislazione di Clistene AUìneonide (Propilei, v. TU, Mosca 1853) ; le guerre
Cenni sn(ili sludi elassici in Russia 247
Persiane (Mém. Acad. des Inscr. et Belles-Lettres, VII, 1861) ; Essai Mstorique
sur les trapézites {Compie renda de l'Acad. des sciences morales et politiques,
1859) ; Mcmoire sur le parti persan dans la Grece ancienne e Mémoires sta-
le procès de Thémistocle {Mém. Acad. des Inscr. et Belles-Lettres, 1860); La
lotta della democrazia e delV aristocrazia nelle antiche repubbliche greche
{Bnssk;/ Viéstnik, 1875, 11).
Dall' università di Pietrogrado uscì anche il valente avclieologo K. J.
liiigebil; oriundo germanico (1830-1888), autore della dissertazione ÌJéYe-
nere Coliade Geneti/llide (1859) e d' importanti studi sull'ostracismo e sulla
costituzione di Atene, oltre die di iiuaedizion^_dxjCorneluO>fepote.
Il celebre F. F. Sokolóv (morto qualche anno fa) ha lasciato una~grande
«scuola» di filologi. Egli primo in Russia stabilì su solide basì l'epigrafia
greca, e grazie alle sue premure si cominciò a mandare iu Grecia alcuni
giovani per studi di perfezionamento e per ricerche archeologiche. Come
molti russi, egli amava poco lo scrivere, ma già fin dal 1865, in età di
24 anni, aveva presentato per il titolo di « magister » la sua dissertazione:
Bicerche critiche intorno al periodo della pili antica storia sicula (1865).
I più importanti articoli di Sokolóv furono pubblicati nel Giornale del Mi-
nistero dell' Istruzione Bubblica {G. M. I. B., 1897-1907) e tradotti poi in
tedesco nel giornale Elio, 1903-1907. Sono i seguenti: Note sulle liste dei
tributi degli alleati di Atene (Lavori del 2" Congresso archeologico, 1876, I);
Alessandro, figlio di Cratero ; Belle Iscrizioni Iliache; La battaglia presso Kos;
Le feste annuali di Pilo e di Nemea; L'Arconte Antipatro; XIsvxvixovTaETia ;
Le assemblee popolari in Elolia; I quattro consigli; Il tributo degli alleati
Lacedemoni.
Fra gli allievi di Sokolóv il più conosciuto è V. V._Làtiscex — attuale
ordinario « Accademico », socio della Commissione Imperiale archeologica e
direttore dell' Istituto storico-filologico in Fìetrogrado. Dei moltissimi suoi
lavori sono specialmente pregiati i seguenti : Su alcuni calendari eolici e do-
rici (1883) ; Bicerche sulla storia e sulV organizzazione dello stato di Olbia
(1887) ; Inscriptiones antiquae orae septentrionaMs_^Qiìli.JEku^ et
Latinae (1885-1890) ; J^pggjMj»cLe-«»rT»r«ai}» C'V.a raccolta delle iscrizioni anti-
che greche e latine della Costa settentrionale dèr~Mar' Nenr: (Zap. Klassice-
skavo Otdfén'HrcBeoi. (ibs'cesfva) ; Studi epigrafici (nel &. M. I. B.) ; Sulla
storia delle ricerche archeologiche nella Bussia meridionale (Zap. Odesskavo
Obs'c. Istorii e Drevn.) ; Notizie degli antichi scrittori greci e latini sulla
Scizia e sid Caucaso (Zap. Klass. Otdieleuia archeol. Obs'c. 1904). In questi
ultimi anni egli ai occupa principalmente di letteratura bizantina.
Notissimo è anche P. V. Nikitin, già vice-presidente della Accademia
Imperialo delle scienze in Pietrogrado, ed ex-professore e rettore di diversi
Istituti superiori in Kussia, morto nel maggio di quest' anno. La sua dis-
sertazione pel conferimento del titolo di « magister » ebbe per argomento
I fondamenti della critica del testo delle poesie eoliche di Teocrito (Kiev, 1876).
Nel 1882 uscì un' altra opera capitale di Nikitiu, Ber la storia delle gare
248 T. Saveenko
drammatiche ateniesi, Aa, lui condotta su materiale epigrafico. Degli altri
suoi lavori offrono grande interesse quelli pubblicati iu divergi anni nel
Giornale del Ministero dell' Istrugioìie Pubblica, su Eschilo (1876), sulla Me-
dea di Euripide (1880), su Sofocle (1886), su Aristofane, Senofonte, Pla-
tone, Plutarco.
Egualmente celebre è Tb. T. Zielinsky, il quale compì i suoi studi
nel Seminario russo di Lipsia, dove conseguì il dottorato presentando lo
scritto : Die letzten Jahre des zweiten puniscJien Krieges. Lavorò poi anche a
Monaco e a Vienna, e passò due anni in Italia e in Grecia. Dapprima si
occupò soprattutto dell' antica commedia greca, e specialmente dell' attica,
intorno a cui ha scritto lavori in russo, iu tedesco e in latino: Dei sintagmi
nelVantiea commedia greca (P. 1883) ; De lege Antimacliea scaeniea (P. 1884) ;
Dello stile dorico e Jonico nella commedia attica antica; Die Gliederung der
altattischcn Komiidie (Zpz. 1885); Die Màrchenkomodie in Athen (P. 3 885);
Quaestioìies comicae (P. 1887) ; Die Schlacht bei Cirta und die Chronologie
von 203/202 (1888) ; una edizione critica del testo di Sofocle {G. M. 1. P.
1892); Die Antike und wi'r (1905) ; Oje*i"oi»iJ£and«XJÉiUi/«A)/utj«feji<.' (1912)i_,
Das Klauselgesets in Giceros lìeden (Philologus 1914). Si può giustamente
.afferra arè'clJìe nessun dotto lia fatto tanto per diffondere in Russia la cono-
scenza del mondo classico e il culto del suo pensiero quanto Zielinsky,
soprattutto colla sua celebre opera Dalla vita delle idee.
Altri rinomati scrittori (allievi di T. Sokolóv) sono A. V. Nikitsky e
N. I. Novosàdsky. Il primo ha studiato in Grecia e specialmente l'epigrafia
greca, pubblicando, tra 1' altro: De iscrisioni di Delfo (G. M. I. P. 1884, 11);
Iscrizioni della Loeridc occidentale {ih. 1884, 12) ; Epigrafia greca (1892
Odessa); Studi epigrafici Delfi^ci (1894-5 Odessa). Il secondo ebbe pure nel
1884 una missione biennale in Grecia, dove studiò 1' epigrafia e le antichità
religiose e politiche della Grecia antica e pubblicò vari lavori iu questo
stesso campo: Sulla questione del culto d' Iside (G. M. I. P. 1885); Kotito
(1886); De inscriptione Lebadice nuper inventa (Mitt. d. deutsch. ardi. In-
stit., 1885); Inscriptiones cretenses (Univ. Isviest. di Vars., 1886); Sul culto
delle reliquie pi-esso gli antichi greci (ib. 1889); / Misteri di Uleusi (P. 1887).
Fra gli allievi di T. Sokolóv sono inoltre da ricordare S. A. Zébelev
("Axattó (1903) opera ricchissima e fondamentale intorno alla costituzione
politica della Grecia nel periodo della dominazione romana), D. X. Korolkóv
e V. K. lernstedt (1854-1902). Opere princii)ali di quest'ultimo sonoT^S^
Servazi'oni critichi' su Svetonio (G. M. I. P. 1876, 10); Observationes Anti-
phonteae {ib. 1878) : »S»//e basi del testo di Andocide, Iseo, Dinarco, Antifonte
e Licurgo (1879) ; Frammenti Porfiriani delle commedie attiche (Zap. Ist. Fil.
Pac. di Pietr., v. XXVI, 1892); Osservazioni su Anacreonie {ih. 1896); 3 ar-
ticoli su Tucidide (1894-7) ; De favole di Esopo a Mosca e a Dresda. Tutti
i suoi lavori sono scritti in russo, eccetto un piccolo articolo su Svetonift—
{Rerrnes XXIV). Né vanno taciuti i nomi di Augusto Nauck e Luciano
Uiiller, che, per quanto stranieri, lavorarono e insegnarono in Russia.
Cenni su(/1i sitidi classici in Bussia 249
Per tutto ciò elle riguarda Io studio della letteratura, lingua ed epi-
grafia latina in Russia, ebbe grandissima influenza il prof. G. V. Poniià-
lovsky (nato nel 1845). Tra i suoi allievi sono più stimati I. A. Scebór,
"I. ì. Cliolodniilk fnìCrto recentemente), M. N. Krasceufnnikov, M. I. Ro^
""stSvzev, G'. E. Séngher, A. I. Maléin, N. A. Ghelbig!
I lavori_principali di Poiniiilorsky sono: M. T. Varroìie__M£atiiio e la
satira Menippea (P. ISfi!)): Carenila ilcllc ìkci-ì:ìo}iì ijrrcìic e latine del Caii-
caso (Pietr. l&Sll : lì tempio di l)i<ni<i Ti/miitc (1874); hirentario del tem-
pio di Nemi (Pietr. 1876); Alcìinv ixeyizimii lutine iiidlite {!'. l«7ft}; Sco-
perte archeologiche a Poitiers (P. 1886); Biccrcìw !<iii voiijiiii ì-ii»tniii)-iiciinaiiiei
(1886). Egli ha scritto inoltre parecchie vite di sunti, molte tiadiizioni td
articoli nel O. M. I. P. A festeggiare il suo giubileo (1897), i suoi disce-
poli pubblicarono un Yohime di Commentaiiones philologicae, ornato del suo
ritratto.
Suo collaboratore nell' Università di Pietrogrado fu N. M. Blagovi'es'cen-
sky (1821-1891) al quale dobbiamo : De carminihus convivalibus eornmqve in
vetustissima Pomanorum Tdstoria condenda momento (Pietr. 1854) ; Dei par-
titi letterari in Homa nel secolo (7'_1 ik/ukìo (P. 1855) ; <>r(i:io e il ■.'«o tempo
(Pietr. 1864, 2. ed. 1878); Persio, scrittore romano di satire (Ihissk. Viestu.,
1866, voi. X); Traduzione (tèUe Satire di Oiorenide (1873); La sidira romana
Fra i più fervidi cultori dell' antichità classica va annoverato il pro-
fessor Modéstov, V. I. (n. 1839), che si rivelò esimio latinista fin dalla
sua dis'sertazTóne di « niagister » (1864) Su Tacito e le sue opere, segiiìta, a
distanza di quattro anni, da Za scritiuraneljieriododei Ee Bomani (trad,..
ted. Beri. 1871) che gli valse il titolo di dottore. Egli per primo ha dato
alla Russia una storia scientifica della letteratura latina (1873). Fra i nu-
merosi suoi lavori sono specialmente da ricordare la traduzione di Tacito,
gli articoli sulla pronuncia e lettura del greco (tradofO in Hngii;i sierii nel
periodico 'H tfùoiz 1893) ; il volume Odi e satire scelte di Orazio (Pietr.
1889-93) ; la traduzione dall' edizione latina dell'Etica di B. Spinoza. Molto
tempo egli visse in Roma e frutto di questa lunga dimora sono le opere
L'Italia moderna (Istoriccsky Viestnik 1893), La vita scientifica in Poma
(1892); Introduction à V histoire romaine (Pietr. 1902); De Sicnlorum ori-
gine quatemis ex veterum testimoniis et ex archaelogicis atque anthropologicis
documentis apparet (P. 1898).
Ci rimane ancora qualcosa da dire sulle università minori. In quella
di Kazan (fondata nel 1804) D. T. Bieliaev (1846-1901) si occupò del-
l' ' Iato nell' Odissea ' e dello opinioni politiche e religiose di Euripide, ma
è specialmente noto per la sua opera Byzantina. Nell'università di Odessa
(fondata nel 1865) L. F. Voevodsky (1846-1901) si dedicò a studi su Omero
e sulla mitologia greca primitiva. In quella di Kharkov (fondata nel 1804)
I. I. Kronebevg (1788-1838) oriundo germanico, autore di un dizionario
latino-russo, che ebbe sei edizioni dal 1819 al 1860, pubblicò anche un
250 T. Savcenko
compendio di Auticliità romane, edizioni di Sallastio, Cicerone prò lege
Manilia, Orazio Epistola ad ^«^««^m™, ^ .^yjjijihnfialla critica di Persio,
oltre a numerosi articoli di letteratura e d'arte.
Facciamo seguire i nomi e le opere dei più insigni cultori moderni di
filologia classica in Kussia :
I. A. Scebor nato nel 1848 in Boemia. Nel 1868 fu studente dell'Uni-
versità di Pietrogrado e nel 1877 professore straordinario. Si occupò molto
di Orazio e pubblicò una edizione di questo poeta con note e biografìa
(Pietr. 1890). Dal 1883 fino al 1893 ha stampato nel G. M. I. F. e nei
Filologhicescom Obosriénii molte note critico-esegetiche su Plauto, Catullo,,.
Virgilio, Properzio.
V Cholodniàk I. I. (n. 1857) dedicò molti anni al volume Carmina sepul-
cralia latina (Pietr. 1897) in cui raccolse tutti gli epitaffi latini composti
in versi. Di ricerche affini si occupa il suo libro Su alcuni tipi di epitaffìi
metrici latini. Oltre alla sua dissertazione per il titolo di « magister » su
Iio sviluppo della flessione del genitivo singolare nei nomi latini in -a, -e, -o
(Pietr. 1888) è notevole la edizione del grammatico Censorino e le bellis-
sime traduzioni di Properzio (G. il. I. P. 1886), dei Menaeclimi e dei Mi-
les gloriosus di Plauto (i6. 1887), di Lucrezio (1901), di Seneca e Petronio
(Filol. Obosr. 1899-1900).
Rostóvzev M. I._ (u. 1870), attualmente professore nell'Università di
PietrogradoTTu dal 1895 al 1898 'inviato in missione scientiiìca all'estero,
principalmente in Italia. Suoi lavori principali sono : Le guerre diCsss££.^
in Gallia, Germania e Britannia (Pietr. 1894); Storia aèl demànio pubblico
'^neUìimpero romano (Pietr. 1890) ; Étude sur les plombes aniiques (Berne nu-'
mism. 1897-99); Sugli ultimi scavi di Pompei (<?. M. I. P. 1893); Die
hellenistisch-romische Architekturlandschaft (Mitt. deutsch. ardi. Inst., v. XXVI,
1911); L'antica pittura ornameìitale nella liussia meridionale (P. 1914).
Attualmente nell' Università di Pietrogrado insegnano come liberi do-
centi il prof. A. I. Maléin, che si occupa soprattutto dei poeti elegiaci la-
tini e della letteratura ecclesiastica inedioevale, ed i jjrofessori Eug. .M.
Pridik e conte I. I. Tolstói, i quali hanno esidicato finora la loro attività
principalmente nel campo della letteratura e storia greca.
M. N. Krasceninnikov (n. 1865) professore nell' Università di Dorpat.
Il suo primo lavoro Tnipòrtante fu la dissertazione di « magister » : Sacer-
doti e sacerdotesse ìnunicijìdli roniani. Dopo /5 iiiiiii di s<)ggij)rno in JtaUa
■pubblicò: Gli Aucui^l(dl_i- hi uui'jisìrtilirni sacrdlc.
Il prof. G. P. Zeretelli iuii h' cssii (1( 11' l'iiiversità di Dorpat ha pubbli-
cato pochi anni fa una dotta opera sulle Abbreriaxioni nella scrittura greca.
Con T. E. Kórs si apre la serie dei filologi di Mosca. Dal 1883 pro-
fessore di letteratura latina in quella università, è pur celebre come glot-
tologo nel campo delle liugue indo-europee e asiatiche e della letteratura
europea comparata. Tra i molti suoi lavori ricorderemo : Le specie delle di-
pendente relative. Un capitolo di sintassi comparata (1877) ; Pel verso saturnio.
Cenni sugli studi classici in livssia 251
I suoi allievi si occupano principalmente di ricerclie grammaticali e
metriche; citiamo fra gli altri: Gniscka A. A., Pokróvsky M. M., Sobo-
lévsky C. I., Denisov J. A. ; e 1 liberi docenti Rozdéstvensky S. V. e De-
ratàni N. F. Dall'Università di Mosca uscirono anche dotti quali Zvietilev
<5. V. e èvi'uz A. N. Lo ZvietAev fu il primo a dare un' edizione scien-
tifica (ielle iscriziiiiii oselle: S';///()(/c ììls-criptioìltlìli oscanim (Pietr. - 1878) ;
inoltre : Jiiscripiiuius lidliuc mediac dialeclicae (Lps. 1885) ; Inscriptiones
Italiae inferioris dialecticae in usum praecipue academicum (Mosca 1886) ;
Fra i numerosi scritti di A. N. èvàrz ricorderemo: Le Orazioni olimpiache
di Demostene (1873); La orazione d' Iperide per Eusenippo (1875); Sulla
costituzione puhhlica ateniese (1891 ; dissertazione dott.) ; T nuovi frammenti
delle orazioni di Iperide (1892) ; La XXII orazione di Lisia e la sua nuova
interpretazione (1894); Sulla data della Politica di Aristotele. Egli lia pure
pubblicato vari lavori sulla storia dell' arte antica.
Neil' Università di Kiev insegnano anche adesso I. A. Kulakóvsky e
A. I. Sónny. Il primo (u. 1855), dopo una missione all' estero, cominciò
3all881 aT insegnare all' Università. I suoi lavori più importanti sono : La
divisione delle terre fra i veterani e le colonie militari neW impero romano
(1881); Le confraternite di Boma antica (1882); Leggende sulla fondazione
di Boma (188S). Inoltre: La Politeia degli Ateniesi (Isvnfniv. di Kiev
1»»l) '~^vctonio e la sua biografia dei Cesari Jib.y^ I governatori delle
Provincie romane (ib. 1882) ;" Ji-p^' antico periodo delV impero romano
"^757 1884). " ""
A. I. Sonnj- (n. 1861) fu allievo del seminario filologico russo di Lip-
sia. Conseguì i gradi di « magister » e di « dottore » di letteratura greca
con i lavori: De Massiliensium rebus (1887) e Ad Dionem Chrysostomum
analecta (Kiev 1896). Studiò lungamente gli antichi proverbi latini e i ri-
sultati delle sue ricerche pubblicò nell' Archiv fiir lateinische Lexicographie
{1895) e nel Filologhicescom Obosriénii (v. XVI, 1899).
Fra i liberi docenti dell' Università di Kiev meritano menzione V. I.
Petr per i suoi scritti sulla musica antica, A. V. P. Klingher, A. I. Pospischil
professore ordinario nell' Università di Chàrkov e V. P. Buséskul, il quale
ha scritto parecchie opere sulla storia greca, per esempio: Perikles (1899);
La Politeia ateniese di Aristotele, come fonte per la storia dell' organizzazione
politica di Atene fino al V secolo.
(ir. V. N^t'i'stìil- insegna anche come ordinario nell'Università di Charkov;
egli per primo ha scritto in russo lavori scientifici sulla grammatica storica
della lingua latina e sulle antichità romane: Esposizione genetica della fone-
tica e morfologia della lingua latina con un breve riassunto dei dialetti osco
€ umbro (1878); Schizzo delle antichità politiche romane (1894, 6, 7. Charcov
Univ. Isviéstia).
Neil' TLwrygraTfjìr- (jj Viiraayiji iiigBprnann G. I. Viéchov e P. N. Cerniàev,
profondo conoscitore di Terenzicì, Anche la cattedra di letteratura "gieca in
<ì iieIT*~UBÌvor6ttà_^ illuBtjat» da due valorosi professori: A. M. Pridik che
252 r. Savcenko - Cenni sugli studi classici in Russia
ha scritto De Gei iìisulae rebus (1892) e La sesta orazione d'Iseo; e A. F.
Somiónov, che ha pubblicato molti lavori, specialmente sui poeti greci.
In Odessa insegnarono A. N. Derevfzky, 0. A. Basiner (Ludi saeou-
lares, Varsavia, 1901), oltre il Voevódsky già nominato.
Fra i professori di Kasiin, T. G. Mis'cenko ci ha dato splendide tra-
duzioni in russo di Erodoto, Polibio, Strabene e Tucidide e si è partico-
larmente occupato della questione della Scixia di Erodoto.
D. I. Naguievsky, studioso di Giovenale, recentemente ha stampato due
volumi sulla letteratura latina.
Gli scritti di tutti questi scienziati si pubblicano nei Zapiski o Isviéstia
delle università ; nel Giornale del Ministero della Istruzione Pubblica dal
1873 in poi (Redattori : Ui'idlov e Zébelev) ; nelle riviste speciali di filolo-
gia classica, come Vllermes (Redattori : Zzybùlsky e Malein), Filologhiceskoe
Ohosrienie (dal 1891), FilologMceskia Zapiski, ArcheologMceskia Isviéstia e
Zamietki, Zapiski Biisskavo Archeologhiceskavo Obs'cesiva. Agli studi bizan-
tini è specialmente dedicata la rivista Vyzantisky Vremennik, ma molti lavori
trovano pur posto negli Isviéstia Busskavo Archeologhiceskavo Istituta (1896).
Roma, Maggio 1916.
T. Savcenko.
Ad Orazio, Epist. Il, 1, 256. — Che il verso così solenne « Et formi-
datam Parthis te imncipe Bomam », Orazio lo abbia imitato da Ennio, non
si potrebbe gratuitamente negare a priori, come, d'altra parte, e a for-
iiori, non si potrebbe neppure affermare senza addurre testimonianze
esplicite o almeno argomenti probabili. È merito dello scrittore della breve
Comunicazione alla Atene e lìoma (v. num. prec. p. 212), firmata colle
iniziali G. P., di aver notata la perfetta corrispondenza metrica e ritmica
di questo verso ') con l' altro famigerato, attribuito universalmente a Cice-
rone, « O fortunatam ndtam me consule Bomam .' » '). Ma, pur escluso, come
inverosimile, « clie Orazio abbia preso sul serio un carme e una frase che
tutti, anche i più zelanti fautori di Cicerone, erano d' accordo nel deri-
dere », arguire subito, che « tutt' e due i poeti imitano un passo celebre di
un classico; di chi se non di Ennio?», è un correr troppo. E per vero
non è del tutto esatto il dire, che « i due versi, ognuno con un solo dat-
tilo, hanno aspetto arcaico, che non si accorda coi canoni di arte seguiti
da Orazio ». Anzi tutto osservo, per incidente, che, se mai, questa obie-
zione dovrebbe valere soltanto contro Orazio, non contro « tutt' e due i
poeti » e quindi non anche contro Cicerone. Ma non vale nejjpure contro
Orazio : non voglio ora fare una statistica dei vari schemi esametrici negli
scritti di Orazio sermoni propiora e jyer humiim repentia (satire ed epistole),
') Il G. P. dice questo verao « perfetto gemello » dell'altro anche per la « co-
struzione sintattica », ma ciò, a rigore, non è, perché nel verso oraziano l'accu-
sativo dipende dal precedente dicere, mentre nell'altro verso l'accusativo è deter-
minato dalla esclamaziono.
*) In un recente articolo AeW AtTienaeum (IV, 3 ; luglio 1916, p. 309 sgg. :
« Un verso di Cicerone ») Caklo Pascai-, prendendo le mosse da un' ipotesi del
Pascoli, sospetta che la forma originaria del verso fosse: « -■=^. 0 fortunatam me
consule Romam ! », ritenendo col Pascoli, che natam sia nua maliziosa geminazione
delle ultime dne sillahe precedenti, trovandosi quel verso nella invettiva di Sal-
lustio contro Cicerone, mentre in quella di Cicerone contro Sallustio, dove pure
si cita il verso, il natam manca: alla difficoltà, che sorgerebbe dal fatto che il
verso tutto intiero, con natam, b ricordato, come di Cicerone, da Quintiliano in
dne laoghi (IX, 4, 41 ; XI, 1, 24) e da Giovenale (X, 122), il Pascal obietta che,
quantunque l' invettiva sallustiaua, corno piire quella ciceroniana, sia apocrifa,
tuttavia ambedue sono abbastanza auticlie e dagli antichi ritenute genuine, e che
cosi Quintiliano come Giovenale avrebbero presa la citazione appunto dalla invet-
tiva contro Cicerone : il verso poi, diffusosi in tal forma, era naturale che così
venisse citato anche da altri, come, per es., dal grammatico Diomede (II, p. 466,
1 Keil).
254 Pietro Rasi
ma mi basta qui di notare, per es., il primo verso delle satire {Qui fit,
Maecenas, vt nemo, qiiam sibi sortem e, poco dopo, Conieiitus vivai, landet
diversa sequentes) e, nella epistola stessa, in cui si trova il verso incrimi-
nato, cioè nella I del libro II, i versi 8 (Componiint, agros adsiynant, op-
pida conduni), 46 (Paulatiìn vello, et demo vnum, demo eliam unum), ecc. ecc.,
per provare e concludere, che esametri « con un solo dattilo » se ne tro-
vano anche altrove in Orazio e non contraddicono quindi ai « canoni di
arte » da lui seguiti. Che simili versi sieno più rari di altri, dove ijrcvale,
specialmente presso i poeti classici, una elegante mescolanza e varietà di
piedi dattilici e spondaici, è certamente vero ; ma con ciò non si deve,
senza piìi, aflermare, eh' essi abbiano « carattere arcaico » '). Ed è altret-
tanto vero che, come coli' abbondanza dei dattili si vuole raggiungere un
effetto stilistico, e propriamente descrittivo, ad indicare sveltezza e rapi-
dità (basti ricordare il notissimo virgiliano Qìiadrupedante putrem sonitu
quatit ungula camptim), così, per converso, con l'abbondanza degli spondei
si mira ad ottenere un effetto di stile lento e grave (si ricordi anche qui
il pur notissimo virgiliano : Jlli inter sese magna vi bracchia tollunt). Se,
come non v' ha dubbio, sarà sempre brutto e risibile il verso O fortuna-
iam natam me consule llomam ! per via, unicamente, di quel pretensioso
e cacofonico omeoteleuto, come mai con questo si potrà confrontare e met-
tere a paro l'altro così sonante e maestoso e pregnante di significato Et
formidatam Partliis te principe Jxomam, dove non sai appunto, se più tu
debba gustare e ammirare la perfetta e robusta costruzione metrica e ritmica
ola grandiosità del concetto? Né è questo il solo verso, in cui la Jlfusa j)e-
destris del Venosino sa, all' occorrenza, tollere vocem, assumendo il tono di
un vero poeta epico, « cui.... sit os magna sonaturum » : sono dello stesso
genere, oltre altri della medesima eijistola e specialmente quelli dell'esor-
dio (Cum tot sustineas ecc.), i versi che precedono quello in questione e ai
quali questo appunto serve di chiusa con un magnifico e superbo crescendo
(«. res componere gesta» — Terrarìimque silus et flumina dicere et arces —
') Mi riferisco a quanto già ebbi altre volte occasione eli notare presso i poeti
elegiaci principi in De eleyiae Latinae composiiione et forma. Patav. 1894, dove dei
sedici BcUeiui osaraetrici è constatato, che lo schema sass occnpa, in media, il
dodicesimo posto con la perceutnale del 3,64 (v. p. 130 e sgg.). E analoga-
mente rilevai per poeti di molto posteriori (per Rutilio Naraaziano la forma ssss
è la XI : V. In Claudii RutilU NamatiaiU de reditu suo libros adnotationes melricae,
in Eie. di Filologia, 1897, fase. II, p. 169 sgg. : spec. p. 17.5 sgg. ; per S. Enno-
dio, che amava molto la gravitas spondaica, è la IV nel metro elegiaco: v. Del-
l' arte melrica di Magno Fel. Ennodio, Vescovo di Pavia [/ Parie : Distico elegiaco],
in Bollett. della Soc. Pavese di Storia Patria, 1902, fase. I-II, p. 87 sgg. : spec.
p. 96 sgg. ; e, di poco inferiore, la VI, nel metro eroico: v. Dell'arte melrica ecc.:
P. II: Metro eroico e lirico, iu Bollett. cit., 1904, fase, li, p. 153 sgg. : spec.
p. 157 sgg.).
Ad Orazio, Ep. Il, 1, 256. 255
Moniibus impositas et barbara ref/na tnisque — Auspiciis tottim confecta ducila
per orhem — Claustraque custodem pacis cohibentia laimni — Et formidatam
Parthis te principe Bomam ») ; e così pure quelli della satira I del li-
bro II (v. 12 sgg. : « cupiduin, pater opthne, vircs — Defieiiint : ncque
enini quivis Iwrrentia pilis — Af/mina nec fracta pereuntes cuspide Oallos —
Aut labentis equo describat vulnera Partili »), ecc. ecc. E se guardiamo pure
alla Muna hjrica di Orazio, chi non sente una intonazione epica, qua e là,
anche in molte odi, per es., in quelle specialmente del ciclo romano, e per-
fino in qualche epodo, come in quello che comincia con il magnifico esor-
dio : Altera iam tcriiur bellis civilibus aetas, ecc ì
Lasciamo adunque il suo verso {uìiicuique suum !) ad Orazio, di cui esso
è ben degno, come sarebbe pur degnissimo di Virgilio o di qualche altro
poeta epico ; né una ragione di carattere metrico (la quale, del resto, ab-
biamo visto non essere consistente) potrà farlo apparire men bello (anzi la
costruzione stessa metrica concorre, qui, ad accrescerne la bellezza) o men che
genuino veramente, come, al contrario, tenuto conto o no della ragione me-
trica, nessuno potrà mai ammirare di certo la bellezza del « suo gemello ».
E non appaiamo inoltre il poeta Orazio, ben meritevole, « cui... des
nominis hnius honorem », con un semplice versificatore, quale era Cice-
rone....
Ancora : ammesso pure, che Ennio abbia avuto « spesso occasione di
parlare di consoli », come mai, per fermarci al solo verso oraziano, si spie-
gherebbe in questo la presenza delle parole « Parthis » e « principe » ?. . . :
il verso avrebbe dovuto essere stato ben rimaneggiato e mutato da qtiello
che doveva essere nel preteso modello enniano.... E infine è egli ammissi-
bile, che, se questo modello fosse realmente esistito, nessuno degli antichi
(che pur conoscevano, e come !, le opere enuiane) non se ne fosse accorto
così pel verso di Cicerone come i)er quello di Orazio, e non ne avesse
quindi fatto cenno? E notisi che si sarebbe trattato « di un passo celebre
di un classico » e che questo classico avrebbe dovuto essere niun altri
che Ennio....
Padova, ottobre 1916.
PiETKO Kasi.
PER UNA RECENSIONE
A Giorgio Pasquali è piaciuto di (laro in questa rivista (anno XIX, fase. Marzo-
Aprile, pp. 91-4) una recensione del mio libro Poeti alesiandrini. A poche e futili
osservazioni di greco, che dimostrerò essenzialmente erronee, egli ha fatto prece-
dere un lungo discorso col quale si è proposto di condannare dell'opera mia, an-
zitutto, la lingua lo stile gli intendimenti '). Ma non si 6 accorto che si poneva
da un punto di vista criticamente falso o pedantesco, togliendosi ogni diritto ad
essere ascoltato in tale materia e, ad un tempo, scoprendo le profondità non ver-
tiginose de' suol concetti estetici. Per lui lo stilo è un addobbo che può essere
mutato a piacimento ; egli non si è chiesto se quella espressione, da lui incrimi-
nata, non corrisponda per avventura alle intuizioni e all'animo dello scrittore ;
se qnoUo stile non s'imponga, in massima, a un libro che, non essendo di pura filo-
logia, non può né deve essere scritto nel gergo filologico d'ogni paese, caro ai
Pasquali. E non si è chiesto tutto ciò perchè, sebbene a nn certo punto, con una
citazione di Benedetto Croce, dia a intendere di conoscere il movimento critico e
filosofico moderno, ha invece nel gindicare di letteratura e di storia metodi che
mi paiono rudimentali, e che, certamente, oltre a falsare il suo apprezzamento
stilistico, gli fanno misconoscere la natura, il carattere, l'essenza dell'opera che
recensisco.
Ma passino ancora, per sé stessi, i metodi, sui quali la ristrettezza dello spazio
mi vieta di indugiarmi, e nei quali il P. potrebbe appellarsi a disparità di idee :
prudenza però, equitii, opportunità scientifica avrebbero richiesto che egli avesse
nozione di quegli altri metodi a cui il mio libro è informato e dei quali egli di-
scorre. Ma non è così. Si legga questo brano, culminante : « Ed è strano che il
Rostagui, che fa pompa di tanta retorica di cattivo gusto, si sfoghi poi a chiamar
retore chiunque non sia d'accordo con lui. A p. 316 egli lamenta la consueta ari-
dità e convenzionalità del metodo retorico imperante in questi studi filologici.
A p. 324 si scaglia contro alcuni studiosi (tra i qnali sarei anche io [è, ò certa-
mente]) che trattarono del carattere e della struttura di un componimento poetico
' con metodo retorico e filologico, senza una visione profondamente critica che
cerchi di cogliere nell'animo dell'artista i principi dell'opera d'arte'. E ricusa
all'esegeta e al filologo il diritto di occuparsi di prohlemi che appartengono al
critico d'arte: o il critico d'arte, cioà lui, grida gioiosamente (a p. 304): * Sono
poste le leggi della concezione '. Da chi e con qual diritto? Non certo dall'artista,
ma dal critico che le può al piti ricovero [sublime ! tanto più in questa forma
1) Quanto alla grammatica, si è contentato di darmi iTna noia lezione ; ma bast-a ad asBicarargli
autorità e fede anche per il resto. « È lecito scrivere in italiano ' dei Zenone, dei Teofrasto, degli
Stilpone ' ? .... non si dovrà a norma di grammatica piuttosto dire ' degli Zenon:, dei Teofrasti, degli
Stilponi ' ? » — Dunque, d'ora innanzi dovremo dire ' i Danti, i Petrarchi ' non * i Dante, i Petrarca '.
come ci insegnavano le Grammatiche, ad es., il Fornaciari, secondo cui (vedi stranezze!) i nomi di
quella fatta erano invariabili al plurale, tranne I terminanti in o, i quali soli polevatw, volendo, es-
sere declinati (es. gli Ariosti, l Tassi).
Per una recensione 257
che significa il contrario di ciò che il recensente vorrebbe dire]. Precede una
strana analisi estetica dell' inno ad Ai)olIo di Callimaco. — Qual'altra [sic] se non
questa è i)essinia retorica? ».
Di qui si ricavano due conclusioni :
1) Che il Pasquali non ha effettivamente alcuna idea di cif) che sia ai giorni
nostri critica letteraria od artistica.
2) Che si permette di giudicare — non senza acerbità da parte sna e non
senza sorpresa degli intenditori — in materia che non conosce.
Nel mio libro non avevo fatto dichiarazioni preliminari sulla forma di critica
da me coltivata; e perchè non era giusto supporre l'ignoranza di queste cose; e
perchè credevo lecito, per quanto poco usato, applicare allo studio delle lettera-
ture antiche quei metodi che si adoperano orm.ai largamente nella letteratura ita-
liana e nelle letterature moderne e che derivano da un generalo e imprescindibile
rinnovamento del pensiero critico : rinnovamento il quale, movendo dal Vico e
dal Foscolo, culmina in Francesco De Sanctis. Costretto però in alcune questioni
particolari ad avvertire il mio dissidio verso i metodi che si ritengono oltrepas-
sati, mi ero servito, a designarli, delle denominazioni usate universalmente nelle
moderno dottrine dell'arte: critica l'eiorica o formale o pedantesca, come si è detto
specie da Francesco De Sanctis in poi. Il P. se n' è adontato ; ha raccolto, con
cura degna di miglior giudizio, quello frasi che non intendeva ; ha creduto di
ritorcere un colpo attaccando come retorico il mio stile e facendo le beffe intorno
a quelle frasi medesime o ad altre analoghe, le quali il caso, assistito dalla sua
ingenuità, gli ha fatto scegliere tra le più usitate o innocue di desanctisiaua pu-
rezza. Ahimè! Io non so quali stregonerie gli sarà sembrato di scorgere in qnella
« visione profondamente critica, ecc. ecc. », nonché in quelle « leggi della conce-
zione » o nelle varie « analisi estetiche » di cui è composto il libro, iiarticolar-
meute in quella dell'inno ad Apollo, che gli è sembrata strana. Ma bene so che
con questa preparazione egli non poteva giudicare ne poteva concludere: «L'ese-
gesi (!) è fortunatamente in questo libro i)er lo più molto migliore dello stile e
delle dottrine estetiche ». Dottrine estetiche? Quali? dove? E comprende egli bene
che cosa sieno dottrine estetiche ? E dove e come, se mai, le ha egli esaminate f
Il P., che ha un culto cosi severo dell'onestà scientifica, nell'estetica si crede le-
cite le maggiori audacie. « Che dire di uno storico a cui i documenti sono indif-
ferenti ? »
Dopo ciò, non pensi il mio recensore che io faccia getto dell'esegesi, dell'eiii-
grafia, della diplomatica ecc. ecc., alle quali, anzi, tengo come a una gran parte
di me f^tesso, e senza le quali il mio libro, come ogni altro, sarebbe costruito
sulla sabbia. — E lo seguo su questo nuovo terreno. Gli appunti che egli mi fa,
per questa parte, si riferiscono tutti ad un unico verso (anzi, un verso e un iiezzo)
di Asclepiade, ma offrono modo al suo equilibrato raziocinio di applicarmi le più
ampie qualifiche. Il testo che io ho dato è qui : 'rstij ■^v v.a.l vùg, ocai xò Tpitov àXyoj
spttìxi|ot|iòj... Il P. per prima cosa trova una violazione di grammatica nella lezione
àX^os iptOTt, che io ho tradotto italianamente « travaglio di amore ». Ora, se anche
l'appunto fosse giusto, sarebbe stato doveroso rivolgerlo non tanto contro me, quanto
contro tutta una tradizione che ha accettato come vulgata quella lezione: e ricor-
darsi che recentemente auche il Crònert, nella nuova edizione del Pas.'iow, ha creduto
di accoglierla per uno speciale significato della parola SX^oj (significato cui alludo
anch' io nel mio volume p. 196). Ma volentieri io mi addosso tutto sulle mie spalle :
258 Avf/uslo liostagni
perchè vedere qui un errore di grammatica è iiu non vedere molto a fondo nella
grammatica. Infatti l'uso del dativo per il genitivo in casi consimili è molto ditt'uso
nelle varie lingue indoeuropee ed anche nel greco, come dimostrano molti esempii,
riferiti persino (a nou cercare piti lontano) nel manuale del Brugmann, p. 460
(4° ed.): ed è uso pifi che mai consentaneo alla parola àXyos, dove al concetto
espresso cól complemento di specificazione o di appartenenza si sostituisce facilmente
il concetto di coramodo. Che se il P., piti che del dativo in so stesso, si offende
dello astratto spwxi ed inclina per lo èp&VTi proposto dallo Schneider, io non so
che dirgli se non consigliarlo di non impacciarsi più di poesia. — L' altra osser-
vazione si riferisco alla parola oì|Jioj, che è congettura mia in luogo dello insoste-
nibile olvoj e che traduco « cammino ». Leva la voce il P., additandovi un pec-
cato contro la proprietà dei vocaboli : « oTnog vuol dire sì ' cammino ' nel senso
di ' strada ', ma non in quello di ' viaggio ', dì ' azione del camminare ' che si
direbbe o'i|i7j . . » (con duo puntini in fine, ad indicare che il torrente dell'erudi-
zione a mala pena si è fermato). Io non so se il P. creda che tutti debbano get-
tarsi a terra quando egli sentenzia. Ma io sono un po' indiscreto, e trovo che la
sua affermazione è radicalmente falsa in entrambe le parti. È falso che oTiicj non
voglia anche dire « cammino =r viaggio » : poiché in questo senso lo adopera, a
non dire d' altri, Pindaro Olymp., Vili, 69 àv xitpaaiv iraEStav i.Ksd'ifli.xto y'JÌoi{
vóoTOv éxS'taxov xal àxi|ioTépav YXiBoaav xai iTttxpucpov ol]io'/, sia che si intenda, conjo
ben nota il Boeckh, «camraìn di nostra vita », sia, come parafrasano gli scoliasti
antichi (p. 239- Dr.), ^àSiona xpucptov xai à!i:appvj3(aaxov. (Ma Pindaro — dicono —
non sapeva il greco. — Ecco, io ho tuttavia il debole di credere, in ciò, piìi a
Pindaro che a Pasquali^. Tanto pifi poi è falso che «viaggio», « azione del cam-
minare», si debba dire oi|ir) : giacché di ot|j.rj noi sappiamo questo solo, da Snida
ed Esichio, che equivale ad o"|ioj e ad 48ó;, cioè proprio il contrario : e, quanto
agli scrittori superstiti, non l'adoperano neanche in questo senso, ma solo in quello
di canto, di procedimento dei racconti o dei canti. Che se il P. ha dedotto l' idea
di « azione del camminare » da questo significato di procedimento dei canti ecc.,
è da osservare che il medesimo identico significato ha spessissimo 01(105.
E qui un po' di morale. Non aveva il P. nulla di meglio su cui dare saggio
della sua sottile perizia nella grammatica e nel lessico t Proprio si direbbe di no.
Eppure da queste sue osservazioni (le quali, se anche fossero giuste, che non è, non
intaccherebbero davvero un ' grosso volume ' fondato sull' interpretazione di testi
difficili e snlla conoscenza di un vasto materiale letterario, storico, epigrafico) si
crede autorizzato a rimproverarmi « la, diciamo così, ingenuità grammaticale » e
« 1' improprietà lessicale ». E non s'accorge che questo modo di giudicare, aggiunto
a quel giuoco di prestigio pel quale le violazioni contro la grammatica ecc. di-
ventano « nei » per ridiventare « errori » e il « retorico » diventa « elegante » e
il « tedioso » « attraente », rivela non altro se non le sue caratteristiche fonda-
mentali, di lui Pasquali : la sproporzione fra gli intenti e i mezzi ; la tendenza a
gonfiare le piccole cose per poca capacità di comprendere le grandi, a far valere il
caso particolare e minuzioso — che solo gli è afferrabile — per il generale e l'as-
soluto, che gli è, nella sua vera natura, inafferrabile. E meno male quando quel
particolare è esatto ! Ma anche nei particolari il cieco affidamento nella propria
erudizione (come abbiamo piti volte dovuto notare), facendogli troppo presumere
dell' ignoranza altrui, lo lascia cadere non di rado iu non lievi errori.
Con le stesse disposizioni e con le stesse ragioni e sempre parlando del me-
Per una recensione 259
desiino verso il P. mi nnfacc'a « certa impreparazione diplomatica». Nel riferire
il testo greco sopra citato, avevo scritto : « i due versi sono noi codici (segue il
testo) ». Due inesattezze trova il recensente : clic 1' epigramma è conservato solo
dal codice unico dell'Antologia Palatina (grazio dell' insegnamento peregrino) e
che questo codice ha xpitov senza il xó. Orbene, le dne mie inesattezze si risol-
vono in nua mancanza dì acume da parte del contraddittore : se ho parlato,
compendiosamente, come al mio scopo bastava, di codici, 6 perchè alludevo al Pa-
latino e agli apografi, e so ho scritto za, è perchè il xó, mancando nel Palatino,
era suggerito appunto dagli apografi. Lo stesso dicasi dell' altro caso accennato
dal recensore. — Copiare distesamente l'apparato critico dello Stadtmneller era
più prudente, nevvero ? ed era da diplomatico perfetto? 0 quanta species !
Finita la tortura di Asclepiade, il P. tratta di questioni varie, cronologiche
e storiografiche, nello quali si presenta, 8uo more, depositario del ' vero ' e del
' certo '. Io, poveretto, quando pure mi sono incontrato con lo sue verità non
credevo di aver espresso altro che umili probabilità. Tanto meglio : sarò ora più
tranquillo. — Della questione delle Cariti non voglio discutere ancora una volta,
perchè non amo insistere su argomenti ohe, astrattamente intesi, ognuno stirao-'
chia a sua posta per tutti i versi. Solo dico che l'obiezione del P. era già pre-
vista nel mio libro e sorpassata. — Per l'Encomio di Toleme il P. mi ammonisce
di aver fatto dire a Teocrito il contrario di quello che dice, e afferma che i miei
« vari errori », cioò tutti i surriferiti errori suoi, sono per lo piti errori di in-
terpretazione : ma intanto comincia col farmi dire egli stesso qualcosa di diverso
da qnello che ho detto : perchè né nel testo né nelle note ho afi'ermato che l'en-
comio fosse composto quando la Guerra di Celesiria non era ancora compiuta ;
non m' importava di determinarlo : ho sostenuto e sostengo cho dal v. 97 non si
deduce vecessariamente che l'encomio fosse composto a pace conclusa e che, se mai,
se ne dovrebbe piuttosto dedurre il contrario. Il P. ha il dovere di ribattere le
argomentazioni storiche che ho portato e delle qnali non si è probabilmente curato.
Un abbaglio ancora più grave ha preso il dotto contraddittore in ciò che si
riferisce al mito di Dafni, su cui spreca quasi una pagina piena zeppa di confu-
sioni. Il mio errore consisterebbe nell'essermi valso della medesima testimonianza
di Servio (anzi, del Servio Danielino, com' egli opportunamente m' insegna) tanto
per ricostruire la forma originaria del mito, quanto per rappresentare la elabora-
zione artistica fattane da Sositco. Oh, meraviglia ! Lo scolio serviano è un rias-
sunto del dramma di Sositeo, e questo dramma ci serve, astrattine quei par-
ticolari che sono frutto dell' elaborazione artistica (ecco qui il « cambiamento
arbitrario che io faccio della chiusa, senza porre in guardia il lettore » : in realtà
ho avvertito e spiegato tutto il procedimento nella n. 17 a p. 184), a delineare la
forma popolare e originaria della leggenda: forma originaria la quale non è monca,
né fondata solo sulla testimonianza dello Ps.-Servio, come dice il P. ma anche
sulle altre testimonianze che ho citate. Io non vedo come il P. possa mettersi allo
studio di qualche mito, se s' illude di conoscerò lo forme originarie per altra via
che per quella da me battuta, e di non valersi di « vedute sue particolari » sulla
religione agraria o su ohe altro si vuole. Senza veduto particolari, egregio mio
contraddittore, non ci si occupa, non puro di formo originarie, ma né di critica,
né di storia.
Degli Inni di Callimaco il P. non ha creduto di poter discutere, per ora. In-
tanto, sono lieto ohe all' unità di concezione dei quattro inni, da me dimostrata
I
260 Awjusto Eostagni
(se non erro) per la prima volta, dica dì credere anche lui adesso : tanto più che
è teoria nn po' ardita e non da tutti accettabile, né facilmente prevertnta. Non
si capisce se egli ci credesse già prima. Dalle Qitaestionea eallimaeheae (Gottin-
gen 1913) si direbbe di no. Ma il P. ama le confidenze intime : come quella che
orna ed Incorona la chiusa della sua recensione : « L'ultima appendice dimostra
essere l'elegia di Properzio sulla battaglia di Azio un' imitazione di Callimaco
[inno II] : io non avevo mai pensato altrimenti ». Che ne pare al cortese lettore ?
Il Pasquali (bontà sua) ha riconosciuto con gioia che il mio libro non è da
buttar via e che vi ha imparato molto portin lui. Io con rammarico debbo con-
cludere che, quanto a me, non ho potuto imparare altrettanto dalle sue osser-
vazioni.
Settembre 1916.
Augusto Rostagni.
Io persisto a credere che tra le analisi estetiche del Rostagni dall' un lato e
i giudizi del De Sanotis e le dottrine del Croce dall'altro corra tanta differenza
quanta tra il fumo e la luce. E mi permetto di trovare incomprensibili asserzioni
come quella che nell'inno di Callimaco ad Apollo « i due poli del dramma, Apollo
o Cirene, giustamente si equilibrino mercè la nuova veduta » del critico. Anzi sono
convinto che di espressioni e concezioni di tal genere il De Sanctis avrebbe sor-
riso, come sono corto che ne sorriderà il Croce, osservando con rassegnata malin-
conia le trasformazioni singolari che dottrine serie possono subire.
E a me pare che il Rostagni, nonostante i suoi dinieghi, proijrio in questa
replica, faccia allegramente getto della critica diplomatica, se pure non anche
del buon senso, là dove dichiara di aver citato non il ms. unico dell'Antologia,
ma le copio dì esso, e questo quanto a una parola elio non è nel ms., ma nelle
copie, che è stata cioè aggiunta sia pure con ragione ma per congettura. E
mi domando invano quale diritto abbia di applicare ad altri Vo quanta specie»
chi considera accordo dei manoscritti l'accordo delle copie contro l'originale con-
servato. Ognun vede quali mirabili conseguenze deriverebbero dall'applicazione di
questo nuovo principio alla vita cotidiaua, p. e. a controversie testamentarie.
Io persisto a credere, nonostante l'autorità del Fornaciarì, che i Teofrasto e
gli SUlpone suonino male all'orecchio di chiunque abbia succhiato l'italiano con
il latte materno, che gli Zenone paiano a ogni Toscano un lombardismo o un
piemontesierao.
E non mi riesce nemmeno di apprezzar sempre le ragioni storiche di chi in un
passo deW Encomio di Tolomeo, dov'è detto che « nessun nemico, passato il Nilo
ricco di mostri, inalzò pedone il grido di guerra nei villaggi non suoi o dalla nave
veloce balzò armato sul lido, terribile ai buoi degli Egizi », scorge un'allusione
al fatto che orde di stranieri si erano sì sfrenato nelle campagne egizie, ma ne
erano state terrìbilmente punite dal Filadelfo. Che altro se non questo, è far dire
ai testi il contrario dì ciò che signiticanof E il Rostagni, per agevolarsi la dimo-
strazione, ha (a p. 57) tradotto come se nel testo stessero presenti invece che
aoristi, ha cioè ristretto arbitrariamente al presente quel che Teocrito asserisce
del passato, vale a dire di tutto il regno del Filadelfo.
Per una recensione 261
E reputo ancora illecito il procedimento di chi, mentre asserisce di volere
ricostruire nna narrazione « nella sua forma semplice, primitiva, prescindendo
dalle particolarità e dalle aggiunte dei singoli scrittori », appicca, senza porre
in guardia esplicitamente il lettore, a questa narrazione una chiusa, il ricupero
della ninfa a primavera, che non si accorda con nessuna delle testimonianze.
Quanto alla grammatica fe mio dovere strettissimo riconoscere che la mia os-
servazione su oT(xoj era erronea e che il Eostagni su questo punto ha ragione contro
me e diritto di dolersi di me. Ma non per ciò mi sembra piii accettabile uè la sua
traduzione né il ano testo dell'epigramma di Asclepiade : « Pioggia era e vento e,
terzo travaglio d'amore, il cammino ». Chiunque legga qnesto parole, devo neces-
sariamente intendere la pioggia, la notte e il cammino sieno travagli amorosi.
Ora io purtroppo non possiedo, come il Kostagni, lettere di franchigia che mi
diano autorità dì giudicar di poesia, proibendolo contemporaneamente ad altri,
ma ardisco trovare maldestro e ridicolo il chiamar travagli amorosi la pioggia,
la notte e il cammino. E in « travagli d'amore » non mi riesce di trovar nulla
di simile a quei genitivi che nel manuale di Brugmann-Thnmb sono raccolti a
p. 4G1 ^). Ma intendiamo pure che « travagli d'amore » volesse dire pene per
l'amore, come spiega il Eostagni nella sua replica, dove fa capolino quel con-
cetto di comodo, che a me in « travagli d'amore » non riesce scorgere, e consi-
deriamo il testo greco. A me par debole e borghese che Asclepiade chiami dolori
per l'amore la pioggia, la notte e il cammino ; sembra strano, oltre a tutto, che
la notte e la pioggia, che rendon grave la strada, siano messi alla pari di questa ;
sicché non mi perito a preferire dall'un lato la lezione del manoscritto oTvoj a o!(iO{,
che notte, pioggia e il vino bevuto sconsigliano il poeta dall'andare in giro, e a
credere dall'altro canto corrotto almeno Ipcoxt. È gratuita la supposizione che io
voglia leggere Èpùivct.
A quelle che a me sombrano facezie non urbane o addirittura scortesie, sento
dì non dover rispondere, come non rispondo ad altri che tenta colpirmi nell'onore
senza nominarmi.
Novembre 1916.
GioRoio Pasquali.
^) Alla p. 460 che egli cita, non rai riesce di trovar nulla che faccia al caso.
262 Recensioni
F. Ramorino, Il libro di letture per la III classe del ginnasio, Firenze, Barbèra,
pp. lv-396. L. 2,80.
La feconda attività di F. Ramorino ci La dato anche (questo indovinatissimo
volume, che è il secondo di una compiuta serio di sillogi pubblicata dal Barbara
per lo studio degli autori latini nel ginnasio. Vi è raccolto il meglio degli scrit-
tori che sogliousi studiare nella terza classe, in modo che i giovani possano fa-
cilmente acquistare un concetto adeguato delle oxiere, e nello stes.so tempo abbondi
la materia per variare le letture da un anno all' altro. Così nelle Memorie di Co-
sare de bello Gallico ci si offrono interi i libri primo e terzo, a cui sì intercalano
e si aggiungono i passi piti importanti di tutti gli altri libri con tale connessione,
che basta leggere 1' indico per vedere come in uno speccliio tutta la trama del
racconto cesariano, la quale si riempie nel testo e nelle note con l'argomento di
ciascun libro e col riassunto delle parti tralasciate. Le lettere di Cicerone sono di-
stribuite a gruppi secondo i destinatari (persone di famiglia, amici, personaggi
Ijolitici) e ordinate cronologicamente, con 1' indicazione, a pie di pagina, dell'anno
in cui furono scritte e degli avvenimenti ai quali si riferiscono. Anche nel com-
mento dei poeti elegiaci il Kamorino cerca di tener sveglia l'attenzione degli sco-
lari con cenni frequentissimi, che mettono in rilievo ogni rapporto fra la vita del
poeta e I' oggetto della sua ispirazione ; onde risalta subito il carattere pacifico
e bucolico di Tibullo e l'estro multiforme di Ovidio, che passa dalla spensiera-
tezza del Canzoniere (Amores) alla solennità ieratica dei Fasti •) e alle querimonie
desolate delle Meste lUoordame (Tristiu). « Giova sollevar presto il giovano lettore
dalle superate difficoltà grammaticali all' interesse delle cose dette, del sentimento
che le ispira, della personalità di ohi scrive, del momento in cui scrive », dice
giustamente l'esimio latinista a p. iv, dimostrandoci poi con l'esempio come si
metta in pratica quest'aureo principio. Il volume termina con una scelta di brani
tratti dai Fatti e detti memorabili di Val. Massimo, i quali sono destinati all'eser-
cizio di traduzione domestica e di lettura all' impronto nella classe.
I passi di Val. Massimo, tre Epistole dal Ponto di Ovidio e il settimo libro
della guerra gallica sono senza note, ciò che torna assai opportuno quando si vuol
vedere quel che sono capaci di fare i giovani posti direttamente e senza aiuto alle
prese col testo. Una ben intesa larghezza invece, senza però nulla di ozioso, pre-
senta il commento generale delle altre parti, il quale mira non a risparmiare la
fatica della versione agli scolari svogliati, ma ad « aiutare i volenterosi a capire
i legami delle idee e a facilitare la via di tradur bene ». Le notizie che il
Kamorino dà per 1' intelligenza del testo, sulla vita degli autori, snlla prosodia
e sulla metrica, mentre si informano alla massima brevità e semplicità, non tra-
scurano il progresso del sapere e i nuovi trovati della critica. Egli, per esempio,
non si perita dì offrire ai piccoli allievi della terza classe giunasiale la recentis-
sima teoria intorno alla struttura del pentametro, esposta nel 1912 contemporanea-
mente da Lui nella prima edizione della sua Grammatica latina (p. 322) e dal Rasi
in Genesi del Pentametro e caratteri del Pentametro latino, secondo la qual teoria il
^) Molto opportunamente hì fa aucUe sapere ai giovanetti che i sei libri dei Fatti corrispondono
ai primi 8ei mesi dell'anno, es-seudo nel I 1. celebrate le feste di gennaio, nel II qnelle di febbraio ecc.
Recensioni 263
pentametro è nato dalla ripetizione di un mezzo esametro a cesura semiquinaria.
Se nell'esametro
Viribus illa minor || nec tiabendis utilis armis
facciamo il ritornello della prima parte semiquiuaria, abbiamo senz' altro il ritmo
del pentametro :
Tiribus illa minor || viribvs illa minor ;
divenuto il pentamentro un verso per sé medesimo, fu ammesso nella prima parte
l'uso degli spondei in luogo dei dattili. Ognun vede elio la nuova spiegazione,
seientiflcamente vera, come quella che si ispira all'evoluzione musicale dei metri,
non è meno semplice e Intelligibile di tante barocche definizioni ripugnanti alla
realtà della cosa.
Concludiamo augurando alla silloge del Ramoriiio la miglioro fortuna, che
essa merita anche per la non mai smentita accuratezza del testo latino e per le
nitide illustrazioni, parecchie disegnate artisticamente, le quali sono collocate
sempre al loro posto, in modo da riuscire di aiuto immediato alla comprensione
<lei passi e alle notizie del commento.
Lucca, 18 ottobre ]916.
Paolo Fabbri.
ATTI DELLA SOeiETà
Nell'adunanza generalo dei soci del 25 giugno 1916, previa discussione e ap-
provazione del bilancio preventivo, secondo lo schema anticipatamente comunicato,
si procede alla elezione di un Vicepresidente e di cinque consiglieri. Oltre ai soci
presenti, presero parte alla votazione per mezzo di scheda inviata in tempo iitile,
1 soci: Barbèra, Bastogi C, Bastogi G., Brugnola, Calonghi, Ciardi-Duprè, Dalla
Vedova, De Stefani, Laudi, Lattea, Paulucci de' Calboli, Pavolini, Poggi, Rasi,
.Samama, Soliani, Stromboli B., Villari.
Dallo spoglio dei voti resultarono eletti : a V. Presidente il prof. L. E. De
Stefani; a Consiglieri : il prof. G. Calò, l'avv. L. Casini, i professori P. E. Pa-
volini, Ij. Peunier ed E. Pistelli.
Nell'adunanza generalo dei soci del 31 decembre 1916 fu discusso e appro-
vato il bilancio consuntivo, previa lettura della Relazione dei Sindaci revisori.
Per iniziativa della nostra Società ebbe luogo, il 27 decembre, un Convegno
di Editori, di rappresentanti di Accademie e di Facoltà letterarie per addivenire
alla costituzione di un « Comitato Italiano per le edizioni nazionali di testi clas-
sici » e per lo studio di questioni affini. Della importante riunione e delle delibe-
razioni che vi furono prese daremo ampia notizia nel prossimo fascicolo.
Il 22 settembre scorso moriva a Bolzauo, in seguito alle ferite ripor-
tate in uno scontro in cui, dopo eroica resistenza, era caduto prigioniero,
il nostro socio Dott. CAMILLO MORELLI, professore nel Liceo Militare di
Roma e sottotenente degli Alpini.
Nato a Teglio (Valtellina) il 10 luglio 1885 Lo avemmo, dopo il primo
anno universitario passato a Bologna, per quattro anni al nostro Istituto
di Studi Superiori, dove si laureò nel luglio del 1907 e dove conseguì il
diploma di perfezionamento nel giugno del 1909, dopo aver seguito, durante
il 1908, i corsi di Gottinga. Del Liceo annesso al Collegio Militare di Roma
fu insegnante diligentissimo ed efficace, dal 1910 in poi. Con Camillo
Morelli sparisce una delle migliori speranze della giovane scuola dei lati-
nisti italiani. In Lui si fondevano, in rara armonia, le doti del letterato
elegante e del poeta-umanista con quelle del filologo educato alla critica
severa, all' indagine minuta ed esatta. Tre suoi poemetti. Pascila monta-
nina (1911), Inquilimts urbis (1913), Ptieri ludentes (1915) ebbero il plauso
dei giudici di Amsterdam; mentre i suoi già numerosi lavori di filologia
latina ') gli assicuravano un posto cospicuo tra gli studiosi e stavano per
aprirgli le porte dell' università.
Con profondo rimpianto deponiamo un fiore sulla tomba che ha in-
ghiottito tante nobili e care promesse ; tomba oggi ancora in terra straniera,
ma consacrata italiana dal sangue dei nostri figli e dei nostri fratelli.
P. E. P.
1) Li segnamo qui, in ordine cronologico :
1, Qttaestiones in Mari. Capellam (SIFC, v. 17 ; fu la sua tesi di laurea). — 2. ^Epitalamio
nella tarda poesia latina (ivi, v. 18). — 3. J trattati di grammatica e retorica del cod, ca»anat. i086
(Rendic. Lincei, 1910}. — 4. L'elegia di Ovidio in morte di Tibullo (A.t. e Roma, 1910). -- 5. Not^
sulla Copa (SIFC, t, 19|. — 6. Studia in seros latinos poeta» (ivi). — 7. Apuleiana (ivi, v. 20 e 21). —
8. Frv^tula (ivi), v. 21). — 9. Nota sul Moretura (Rendic. Lincei, 1914). — 10. Nerone poeta e i poet*
intorno a Nerone (Athenaeum. aprile (1914). — 11. L'autore del cosi detto Poema ultimum (Dìdascal.
ITbaldi, 1914). — 12. Floro e il certame capitolino (At. e Roma, maggio-gingno 1916; il suo ultimo
scritto). — 13. Sulle traccio del romanzo e della novella (postumo ; in corso di stampa in SIFC
V. XXII).
P. E. Pavolini, Direttore, — Giuseppr Santini, Gerente responsabile,
44-917 - Firenze, Tip. Enrico Ariani^ Via Ghibellina, 51-53.
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PA Atene e Roma
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anno 19
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