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Full text of "Atti della Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo."

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FOR. THE PEOPLE 
FOR EDVCATION 
FOR SCIENCE 


OF 
THE AMERICAN MUSEUM 
OF 
NATURAL HISTORY 


BY GIFT OF 


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DELLA 


REALE ACCADEMIA 


DI 


SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI 


DI PALERMO: 


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DELLA 


REALE ACCADEMIA 


DI 


SUENZE LEE RE RES eAEV 


DI PALERMO 


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TERZA SERIE 


(Anno 1899 


PALERMO 
TIPOGRAFIA FP. BARRAVECCHIA E PIGLIO 


1900 


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Tavola delle materie 


Magistrato Accademico. 
Commemorazione di Simone Corleo. 
SampoLo Pror. Luigi. — Relazioni Accademiche per gli anni 1596, 1597, 1398. 


CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE 


VexrurI Pror. ApoLro. — Sulle misure di gravità relativa, eseguite nella parte oc- 
cidentale della Sicilia e nelle piccole isole adjacenti, nella estate 1599. 
Zona Pror. TeMsrocLE. — Contributo alla fisica terrestre. 
SoLer IxG. E. — Sulla rappresentazione Geodetica di talune superfici. 
» » — Nuovi studi sopra una certa deformata della Sfera. 
» » — Nuovi studi sopra una certa deformata della Sfera (nota II). 
Urso OrtEGA Dont. AnroxIno. — Antico e moderno in Medicina. 


CLASSE DI SCIENZE MORALI 


SaLvioLI Pror. Giuseppe. — Sullo Stato e la Popolazione d’Italia prima e dopo le 


invasioni barbariche. 
CLASSH DI LETTERE BD ARDI 


Di GrovannI Moxs. Vincenzo. — Alcuni ricordi storici e artistici di Santa Lucia de 
Plano Milatii oggi del Mela. 

NaroLI Pror. Luigi. — Bartolo Sirillo, oratore. 

PoLLaci Nuccio FEDELE. — La Feudalità — Federico II Svevo ei Comuni Siciliani. 

PaoLuccI Pror, Giuseppe. — Contributo di documenti inediti sulle relazioni tra Chiesa 


e Stato nel tempo Svevo. 
COMUNICAZIONI 


Riassunto delle osservazioni Meteorologiche eseguite nel R. Osservatorio di Palermo 


(Valverde) negli anni 1897-93-99. 


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Ih MUNICIPIO DI PALERMO 


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PROMOTORE 


Il Sindaco di Palermo: COMM. EUGENIO OLIVERI. 


MAGISTRATO ACCADEMICO 


" Presidente 


DI GIOVANNI Comm. Mons. Vincenzo, Vescovo titolare di Teodosiopoli, 
Professore di Storia della Filosofia nella R. Università di Palermo, 
Membro dell'Istituto di Francia. 


Vice-Presidenti 


GEMMELLARO Comm. Gaetano Giorgio, Professore di Mineralogia e Geo- 
logia nella R. Università di Palermo, Senatore del Regno. 

RiccA SALERNO Comm. Giuseppe, Professore di Economia Politica nella 
R. Università di Palermo. 


Segretario Generale 


SaMmPoLo Comm. Luigi, Professore di Diritto Civile nella R. Università 
di Palermo. 


Classe di Scienze Naturali 
Direttore 


CALDARERA Comm. Francesco, Professore di Meccanica razionale nella 
R. Università di Palermo. 


Anziani 


CERVELLO Comm. Vincenzo, Professore di materia Medica e Farmaceu- 
tica sperimentale nella R. Università di Palermo. 


VII 
MacaLuso Comm. Damiano, Professore di Fisica nella R. Università di 
Palermo. 


Segretario della Classe 


Guccia Cav. G. Battista, Professore di Geometria superiore nella R. Uni- 
versità di Palermo.. 


Classe di Scienze morali e politiche 
Direttore 


MaAGGIORE-PERNI Avv. Francesco, Professore di Statistica nella R. Uni 
versità di Palermo. 


Anziani 


SaLvioLI Cav. Giuseppe, Professore di Storia del Diritto italiano nella 
R. Università di Palermo. 
GUARNERI Prof. Andrea, Senatore del Regno. 


Segretario della Classe 


Russo-ONEsTO Cav. Michele, Procuratore Generale sostituto alla Corte 
di Appello di Palermo. 


Classe di Lettere e Belle Arti 
Direttore 
PitRÈ Comm. Giuseppe, Dottore in Medicina. 
Anziani 


SALINAS Comm. Antonino, Professore di Archeologia e Direttore del Mu- 
seo Nazionale. 
SPATA Cav. Giuseppe, Direttore dell’ Archivio Notarile. 


Segretario della Classe G 


Amico Cav. Ugo Antonio, Professore di lingua italiana nel R. Liceo 
Vittorio Emanuele. 


Segretario aggiunto 


SALAMONE-MARINO Salvatore, Dottore in Medicina, Professore di Pato- 
logia speciale. 


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ZONA Prof. Temistocle, Primo Astronomo aggiunto. 


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COMMEMORAZIONE 


DI 


SIMONE CORLEO 


FATTA 
nella R. Accademia e nella R. Università degli Studi 


il 21 Agosto 1892. 


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COMMEMORAZIONE 


DI 


SIMONE CORLEO 


Giunge tardi nei volumi dei nostri Att questo ricordo del prof. Corleo, 
essendo egli morto nel 1891. 

Cagione di ciò è stata la speranza, serbata per anni e oramai venuta 
meno, di potere pubblicare anche la commemorazione del chiarissimo 
prof. Roberto Benzoni, letta alla nostra Accademia. 

Pubblichiamo ora i discorsi del prof. Giuseppe Cugino e del prof. Pietro 
Merenda che furono letti nel portico posteriore del grande atrio dell’Ate- 
neo allo secoprimento del busto che professori e discepoli avevano fatto 
scolpire da valente artista. 

Nel giorno 21 agosto 1892 Accademia e Università onorarono insie- 
me l'una l'illustre socio che nominato presidente non potè per la ina- 
spettata e quasi improvvisa morte prendere possesso dell’alto ufficio, e 
l’altra l'illustre professore che per tanti anni aveva con grande lode in- 
segnato. 


La solenne tornata dell’ Accademia fu presieduta dal prof. Vincenzo 
Di Giovanni. Erano presenti i soci Di Giovanni, Sampolo, Montalbano Giu- 
seppe, Montalbano Saverio, Gugino, Doderlein, Salomone-Marino, Benzoni, 
Naselli-Gela, Macaluso, Crisafulli Salvatore, Orlando, Sirena, Di Blasi, 
Lodi, Crisafulli Vincenzo, Riggio, De Gregorio, Cervello, Costantini, Ar- 
gento, Pitrè. Intervennero altri Signori e Signore. 


4 COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 


Il Segretario Generale prof. Sampolo comunicò il seguente telegramma 
del Sindaco di Salemi : 

«I Salemitani assistono riverenti col pensiero commemorazione so- 
«lenne cotesto illustre Consesso inaugurazione mezzo busto università, 
«memoria immortale concittadino Simone Corleo. — Giuseppe Lampiasi, 
« Sindaco ». 

Il prof. Roberto Benzoni lesse la commemorazione della quale pub- 
blichiamo il sunto che ne fu dato nella relazione accademica del Segre- 
tario Generale per l’anno 1890, 91 e 92: 

«In primo luogo egli descrisse la parte grande che la filosofia con- 
temporanea fa alla dottrina critica della conoscenza; accennò agli sforzi 
fatti in questo secolo da vari filosofi per superare le colonne d’ Ercole 
della Critica del Kant, e si fermò lungamente a dimostrare come il Cor- 
leo abbia risoluto il problema della conoscenza in modo suo proprio ed 
originale. Il Corleo, sottoposti ad accurato esame i principî di sostanza 
e causa, venne nell’opinione che tali concetti, come comunemente s’in- 
tendono, non siano conciliabili col principio assoluto dell’Identità. 

«L’ esame critico, che il Corleo fece ai concetti di sostanza e causa, 
è tutto informato al principio che l’ uno non può essere il sostrato di 
più manifestazioni, che l’ uno non può produrre il diverso. L'A. dimo- 
strò come il Corleo, avendo negato alla sostanza ogni comprensione e 
alla causa ogni efficienza, abbia, in luogo di rettificare, negato il valore 
normatico e costituitivo dei principî di sostanza e di causa. 

«Il disserente procede poi a dimostrare come il filosofo di Salemi, fedele 
alla sua critica dei concetti di sostanza e di causa, abbia raccolto i suoi 
pensieri filosofici in una forma sistematica che non ha alcuna analogia 
coi sistemi materialisti o spiritualisti, idealisti od ontologici della Storia 
della Filosofia. 

« Nella seconda parte il Benzoni rilevò tutta l’importanza della dot- 
trina del Corleo circa la distinzione dei doveri assoluti e relativi, e chiari 
com'Egli abbia dimostrato la perenne immobilità dei doveri assoluti senza 
invocare alcun principio metafisico, ma studiando la natura umana e 
applicando la legge di proporzione che governa il collegamento degli 
elementi a formare il tutto ». 


Finita la commemorazione, il Presidente dell’Accademia, prof. Di Gio- 
vanni, invitava l’uditorio a seguirlo nell'atrio della R. Università degli 
Studj, dove, com'era stato annunziato, si doveva inaugurare il mezzobusto 
del prof. Corleo, elevato a spese dei colleghi e degli scolari di lui, e 
modellato dall’artista salemitano Salvatore Rubino. 

Ivi eran presenti molti professori, col Rettore alla testa, non poche 


COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO DD) 


Signore, buon numero di scolari del defunto, un pubblico eletto, il genero 
del Corleo prof. Santi Sirena, coi suoi figliuoli. Tutti si affollarono nel se- 
condo portico, che sta dirimpetto all'ingresso centrale dell’ Università, e 
dove sorgono la maggior parte delle imagini dei più celebri professori 
che ebbe l’Atenèo. 

Fattosi profondo silenzio, una nipotina del Corleo tolse il velo, e allora, 
fra la commozione di molti, apparve dinanzi agli astanti la maschia e 
‘pensosa fisura del filosofo di Salemi, scolpita nel marmo. Sul piedistallo, 
era scritto il nome dell’illustre defunto, e sotto, in una lapidetta, leg- 
gevasi: / colleghi e gli scolari, nel XXI agosto MDOCCXCTII, D.D. 


Prese per primo la parola il prof. Vincenzo Di Giovanni, e, per parte 
sua e degli altri due componenti la Commissione esecutiva, prof. Giu- 
seppe Gugino , preside della facoltà di giurisprudenza, e prof. Roberto 
Benzoni, disse così: 


Ill.mo Sig. Rettore, 


« Simone Corleo fu decoro e lustro della nostra Università, dove in- 
segnò per trent'anni. Colleghi e scolari di lui uno ben a ragione te- 
stimoniato l’altissima stima che avevano del collega e del maestro, eri- 
gendo questo mezzobusto, che io, a nome della Commissione esecutiva, 
mi pregio di consegnarvi». i 


Il Rettore, prof. Damiano Macaluso, rispose : 


« Accetto, collega chiarissimo, la consegna del mezzobusto di Simone 
Corleo, che voi mi fate in nome della Commissione esecutiva. I colleghi 
e gli scolari dell’uomo insigne rapitoci dalla inesorabile morte, han vo- 
luto che dentro l’Università, dov’ egli insegnò, si serbasse in perpetuo 
questo ricordo di lui, che la illustrò col suo sapere. L’ Università, giu- 
‘ stamente altera, accoglie qui la scultura che rappresenta Simone Corleo, 
e veglierà sempre alla conservazione di questo sacro deposito ». 


Indi il prot. Gugino, per incarico dei professori dell’Università, lesse le 
seguenti parole : i 


Ò COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 


Signori, 


«Questo Ateneo, a Palermo tanto caro e all’Isola tutta, ha mai sempre 
noverato tra i suoi insegnanti menti superiori ed elettissimi ingegni, tra 
questi non ultimo Simone Corleo. Le onoranze che oggi la stima dei col- 
leghi e l'affetto dei discepòli rendono alla memoria dell’uomo venerato, 
altamente attestano dei titoli preclari che distinsero il filosofo e 1’ inse- 
gnante, la cui effigie marmorea a buon diritto va a prendere posto nel 
Pantheon universitario, di fronte a quella del grande filosofo Benedetto 
D'Acquisto. 

«A 29 anni Simone Corleo esordiva come scienziato pubblicando nel 1852 
le sue //cerche sulla vera natura dei creduti fluidi imponderabili, e, allo 
intervallo di cinque anni, metteva alla luce le Ricerche sulla natura del- 
l’innercazione. Nel 1860 usciva il primo volume della sua grande opera, 
Filosofia universale, completata due anni dopo. Parve avesse voluto ripo- 
sarsi chiuso nel campo delle sue meditazioni : ed ecco che nel 1879 ne 
esciva colla pubblicazione del Sistema della Filosofia universale, ovvero filo- 
sofia dell'identità, col quale esponeva il vasto organismo della sua. conce- 
zione filosofica. L'identità del tutto con gli elementi che lo costituiscono 
è il geniale concetto del Corleo, ch'egli applicò ai vari rami del sapere, 
dalle scienze naturali all’etica. Con questo canone, se alle prove della cri- 
tica dei tempi che verranno sarà addimostrato vero, il nome del Corleo 
s'irradierà nell’infinito campo delle scienze; se tale ipotesi ardita cadrà 
col suo sistema, sempre quel nome conserverà il suo posto tra quei ro- 
busti pensatori che invano si affaticarono a risolvere il. grave problema 
della scienza. 

«Insegnante di etica raccoglieva ed elaborava da tempo gli elementi 
di questa dottrina filosofica, e con giovanile baldanza imprendeva nel 1890 
a pubblicare in fascicoli le sue Lezioni di filosofia morale, mentre ad un 
tempo, colla cooperazione degl’illustri professori Di Giovanni e Benzoni, 
fondava la importante rassegna siciliana La Filosofia. 

« Ricordiamo tutti le qualità eminenti dell’insegnante. Eletto professore - 
di filosofia morale nel 1864 per pubblico concorso, le sue lezioni furono 
tra le più frequentate; la eloquente, copiosa, affascinante parola attraeva 
studenti e non studenti, attorno la sua cattedra; ed era ammirevole come 
il Corleo al contenuto difficile dei concetti filosofici sapesse adattare forme 
precise, nette, intelligibili, così che applaudite riuscivano, come le sue 
pubbliche conferenze tenute nell’ aula Magna nell’ intento di divulgare, 
con altri illustri insegnanti, i nuovi portati della scienza, le sue lezioni 
nell’aula sesta. 


COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO T 


« Rettore negli anni 1884 e 1885, seppe validamente tutelare gl’interessi 
dell’Università, reclamando quel patrimonio che il Dittatore Garibaldi le 
assegnò nel 1860. 

« Attestano di Simone Corleo patriotta la storia di Salemi del 1860, e 
quanto, al giungervi dei Mille col leggendario Duce, seppe egli oprare nel 
suo paese natio; la legge sull’enfiteusi ecclesiastica, che porta il suo nome, 
e ch'egli illustrò con un libro, che solo basterebbe a dare reputazione 
ad un uomo; l’alta e illuminata direzione da lui tenuta per l'esecuzione 
di tale legge; lo' stupendo discorso in morte del primo Re d’Italia; gli 
scritti su svariatissimi argomenti, tutti riguardanti il riordinamento dello 
Stato. 

« Questo ricordo marmoreo, affidato al culto della gioventù studiosa, ter- 
rà desto nella coscienza dei giovani il nome del geniale filosofo; ma più 
che da questi muti attestati il nome di Corleo brillerà dalle opere che 
egli ha legato all’evoluzione del pensiero filosofico nella storia dei pen- 
satori ». 


Un applauso generale coronò le parole del prof. Gugino. 
Da ultimo il prof. Merenda lesse : 


IlImo Sig. Rettore, Signore e Signori, 


«Quando, la sera infausta del 1° marzo 1891, e la mattina seguente, si 
sparse per la città la nuova inattesa, incredibile della morte prematura 
di Simone Corleo (1), fu lutto per quanti sapevano apprezzare l uomo 
attorno i cui resti mortali piangeva una famiglia desolata, fu uno schianto 
del cuore per coloro che avevano avuto la fortuna d’essergli amici. E 
fin d'allora, o Signori, surse spontaneo proponimento a colleghi e scolari, 
che la effigie di Lui, sculta nel marmo, avesse un posto qui, accanto ai 
simulacri di Rosario Gregorio, di Giuseppe Piazzi, di Domenico Scinà, 

di Emerico Amari, di quella schiera nobilissima d’ingegni eletti, che, inse- 
gnando in questa Università, divennero per scienza famosi, e furono e 
sono gloria di quest’Isola che li vide nascere e della gran patria italiana. 

«I professori dell’Atenèo nostro, senza distinzione di scuola, mossi da 
un sentimento che altamente li onora, auspici il Benzoni, il Di Giovanni 


(1) Rileggendo, penso che Corleo aveva quasi anni 68, da un pezzo era malandato 
in salute, e, come fa saputo poi, da medico presagiva la sua prossima fine. 

Ho lasciato il testa tal quale, perchè risponde al sentimento che io e moltissimi 
provammo allora. 


8 COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 


ed il Gugino, furono primi ad offrire la contribuzione loro, affinchè il 
disegno si traducesse in atto. Un gruppo di scolari del prof. Corleo, scarso 
d’autorità ma non di devozione, e fidente nella bontà dello scopo (1), 
chiese dappoi il concorso pecuniario di quanti, prima del 1860, e dal 1862 
a questa parte, avevano da quel Sommo ricevuto il pane della'sapienza (2). 
Novantanove di costoro, ai quali non languiva il culto delle memorie, 
l'invito accolsero premurosi, ed oggi finalmente s'inaugura questo mezzo 
busto, dovuto alla mano di valoroso artista. 

«La Dio mercè, non viene l'omaggio vostro dalla tarda giustizia della 
posterità, ma da persone che insieme con Corleo vissero vita intellettuale, 
con Lui insegnando o da Lui apprendendo. 

«Il prof. Gugino ha manifestato il pensiero dei colleghi; io dirò sol 
tanto poche parole, così come l’animo detta, ed evocando ricordi della 
scuola, a nome dei discepoli del filosofo di Salemi. 

«Simone Corleo è creatore d’ un sistema di filosofia universale, noto 
ancora a pochi, da pochissimi forse inteso del tutto, il quale, nella sua 
grandiosità e coesione, quale stupenda opera del genio dominò tutti 
noi; e a molti ispira la fede ch’ esso produrrà una vera rivoluzione 
nella scienza, facendo o rischiarando la strada che condur deve all’a- 
gognata certezza tutti i rami dell'umano sapere che non vi fossero per- 
venuti. Fede ch'è corroborata dal vedere le idee generatrici e profonde 
di quella mente vasta accordarsi mirabilmente coi progressi sicuri della 
scienza, e, nelle applicazioni loro alla maniera di governarsi nel vivere, 
nulla presentare che sia contrario alla coscienza etica dei popoli civili, 
quale è stata rifatta dal Cristianesimo, ed, anzichè scuotere, rinvigorir 
quegli elementi costituitivi dell’ umana società, senza dei quali, invece 
di progredire, si ricade.nella barbarie, comunque mascherata. 

« Nè ci sgomenta se gli scettici, commiserandoci, dicono che c’illudiamo, 


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(1) Il Comitato era composto dei signori: prot. Pietro Merenda, Presidente; avvo- 
cato Giuseppe Pensabene-Perez, Cassizre; avv. Vincenzo Mangano, Segretario; pro- 
fessore Rosolino Acanfora; avv. Salvatore Donatuti di Ludovico; avv. Francesco La 
Colla; prof. Francesco Paolo Scaglione. 

(2) Ammaestrò per sei anni i giovani del Seminario di Mazzara, a cominciare dal 1868, 
prima in Filosofia e Diritto naturale, e poi in Matematiche. 

Dal 1892 al 1854 diede lezioni di Filosofia e di Matematiche in Palermo, nei Con- 
vitti Vittorino e Stesicoro. 

A principiare dal 1862, insegnò nella Regia Università di Palermo : il 20 febbraio 
di quell’anno vi fu nominato libero docente di Filosofia e Storia della Filosofia; fu 
incaricato d’insegnarvi Storia della Filosofia il 10 novembre successivo, e, ottenutavi 
per concorso la cattedra di Filosofia Morale, fu nominato professore ordinario, con 
deereto del 10 gennaio 1864. 


COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 9 
e ricordano che i sistemi antichi son caduti, e ai dì nostri abbiamo visto 
rovinare filosofiche dottrine alle quali son legati i nomi illustri di Hegel, 
di Cousin, di Gioberti e via dicendo. Eschilo consacrò le sue tragedie a Sa- 
turno, e del pari Corleo affidò al tempo i suoi concepimenti, ed i fidi 
scolari di Lui nel tempo anch'essi confidano ! 

« Questo sistema egli svolse non solo in libri che non periranno, ma 
eziandio dalla cattedra. E noi ricordiamo le sue lezioni, dagli argomenti 
che a poco a poco convincevano serrando da tutte le parti; ordinate, 
ricche della più varia dottrina, chiarissime, spesso eloquenti, e nelle Quali 
pendevamo estatici dal suo labbro. Non mai smarriva la concatenazione 
delle idee, non mai ci accadde di vederlo a cercare un nome, un voca- 
bolo. Dava, senza saperlo, alla voce, alla fisonomia, ai gesti le infles- 
sioni, l’espressione, i movimenti di cui é capace un grande artista. AI 
cibiade chiamò Socrate satiro incantatore. Corleo non era alto di statura, 
ed appariva alquanto tarchiato; ma le sue membra erano ben proporzio- 
nate, ed aveva poi una bella testa, adorna d’una barba mezzana, che dava 
compimento ad un aspetto virile, senza iattanza nè albagia; fronte ampia, 
che ti faceva subito arguire una grande intelligenza; occhi non grandi, 
ma compostamente vivaci, e dai quali traspariva or la fermezza or l’in- 
dulgenza; sorriso mai affettato, ora dolce, ora arguto, talvolta indefinibile; 
aveva andatura grave, nulla di lezioso, anzi grande dignità nei movi- 
menti. Diverso adunque da Socrate, possedeva un aspetto attraente. Ma, 
incantatore anch’ Egli, sulla cattedra pareva spesso un uomo ispirato, e 
talvolta si trasfigurava agli occhi nostri, poggiando in alto maestoso e 
terribile. Nè ciò avveniva perch’Egli, impaziente dei rigori del metodo, 
ricorresse agli artifizi della rettorica, ovvero, non più padroneggiando 
se stesso, alla ragione il sentimento sostituisse. L’ effetto veniva d° al- 
tronde. La sua magica parola, aprendoci una strada per ardue stermi- 
nate piagge, ci portava senza stentosulle cime dell’umano pensiero; e di 
là lo sguardo spaziava per l’orizzonte, e vedevamo distintamente le sue 
dottrine, che ci apparivano trascendentali e irrefragabili, ed assistevamo, 
di frequente commossi e perturbati, al conquasso di tanti sistemi, sfolgo- 
rati da una dialettica irresistibile; toccava il sublime nella filosofia degli 
affetti: qui Egli univa alla forza dell’argomentazione il calore della passio- 
ne, la fantasia del poeta; soggiogava la mente, dominava il cuore, e tutto 
plasmava a modo suo, destando in noi nobili pensieri, dolci emozioni, 
ineffabili entusiasmi (1). 


(1) Frequentai la seuola negli anni scolastici 1870-71 a 1873-74; dopo la lasciai mio 
malgrado, costrettovi da imperiosi doveri professionali. 
Corleo dava lezioni di Filosofia Morale nei giorni dispari, e di Filosofia teoretica 


10 COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 

«Né tutto questo gli costava fatica. Egli per lo più non faceva alcuna 
preparazione prossima, non meditava di proposito; ed anche dopo essersi oc- 
cupato tutta la giornata di ben altro, ed aver favellato, sin davanti la soglia 
dell’aula, di vigne, della tassa sul macinato e d’altri simili argomenti, le mille 
miglia lontani dai teoremi delle filosofiche discipline, preso il suo seggio, cal 
mo, sereno, sorridente, ripigliava il filo interrotto della lezione anteriore, e 
seguitava, come se al suo dire non ci fosse stata interruzione veruna (1). E, 
quel che più ci sorprendeva, gli bastava un atto di volontà per elevare 
il tono della trattazione. Valga un esempio. Quando Giuseppe Guerzoni 


nei giorni pari. Queste seconde lezioni le impartiva come insegnante libero di Pilo- 
sofia teoretica e Storia della Filosofia; ma della Storia non dava ordinariamente spe- 
ciale insegnamento, perchè era compresa nella Sintesi critica dei sistemi. Ogni corso 
si compiva in un biennio, e quello di Etica dividevasi così: 1° anno Filosofia Morale 
teorica; 2° Filosofia Morale pratica. 

Negli anni scolastici 1871-72 e 1872-75 fu incaricato di Filosofia teoretica e Storia 
della Filosofia, per supplire il prof. Francesco Acri, chiamato all’Università di Bolo- 
gna; e allora dava due lezioni la settimana di Filosofia Morale, due di Filosofia teo- 
retica, due di Storia della Filosofia. 

Gli aspiranti alla laurea in Filosofia erano rarissimi o per la moltiplicità e difficoltà 
delle materie, o pel poco frutto che veniva dal diploma; l’aula però era sempre piena 
di studenti di tutte le facoltà ; di laureati; di estranei d’ ogni età, che ascoltavano 
innamorati, e per anni ed anni dalle lezioni del prof. Corleo non si sapevano staccare. 

Quando, dopo le vacanze, il Maestro tornava dalle campagne di Salemi vegeto ed 
abbronzato, ai giovani che si mostravan lieti d’ascoltare di nuovo la sua voce, diceva 
sorridendo ch'era lì a ripetere il solito quaresimale; però le lezioni sembravano agli 
ascoltatori sempre nuove, o per la forma, o per novelli esempi, o per altre e più felici 
osservazioni, o per argomenti non mai addotti. 

Noto che le lezioni di Filosofia Morale, massime pratica, erano le più frequentate, 
perchè apportavano maggior diletto a tutti, come quelle che non erano dirette sol- 
tanto alla mente, ed offrivano pascolo anche agl’intelletti più forti, perocchè Egli, 
con profonda meraviglia degli astanti, penetrava fin nel midollo dei fatti umani e 
dei loro motivi, e da essi risaliva ai principi generali, mostrando la corrispondenza 
fra gli uni e gli altri. Io però preferiva le lezioni di Storia della Filosofia : quel ve- 
dere, per così dire, al tocco d’una bacchetta magica, sorgere sistemi stupendi, che 
parevano imperituri, e che poi, demoliti, cadevano in frantumi, mi affascinava, e mi 
riesciva educativo, insegnandomi quanto ardua cosa sia la scienza delle scienze anche 
ai più grandi intelletti che abbia avuto l’ umanità; come nell’ errore cadano, senza 
saperlo, persino genii immortali; com’ è misero chi attribuisce a perversità o debo- 
lezza d’ingegno le dottrine anche più strane o deleterie nei loro effetti, 

(1) E questo è poco. Un giorno a me, che non tacevo la sorpresa per questa tra- 
sformazione che in Lui operava la scuola, manifestava che il suo sistema in gran 
parte non era stato elucubrato a tavolino, ma gli era venuto dalla cattedra, nell’atto 
d’insegnare. 


COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 11 


leggeva in questo Atenèo le sue Lezioni di letteratura italiana, accolte nei 
primi tempi con tanto fervore, gli furono assegnate dapprima la stessa aula 
del Corleo, e l’ora successiva; or, dopo un pezzo che Corleo il suo inse- 
gnamento e impartiva, era dietro la porta un pigiarsi, un rumoreggiare 
che ci faceva fremere; ebbene il Maestro diventava allora così eloquente, 
che i nostri sdegni contro i disturbatori sbollivano, l’attenzione si con- 
centrava tutta nell’oratore, e noi non sentivamo più altri che Lui. Sovente 
c’era in noi tanta ammirazione, così ci agitava la passione, che dovevamo 
fare grandi sforzi per contenerci, sapendo che l’applauso non gli garbav: 
era nostra però l’ultima lezione dell’anno, alla fine della quale l’entusia- 
smo, ch'era stato tante volte represso, traboccava irrefrenabile, ed Egli 
doveva aver pazienza ! 

« Che dir poi dello zelo col quale esercitava l’ufficio suo ?YAi miei tempi 
cominciava la sua lezione due ore appresso il mezzodi, e la sua preci- 
sione, piovesse o facesse bel tempo, era tale che noi, vedendolo compa- 
rire, si diceva celiando ch’ era giunto il momento di far dare l’ ora 
giusta ai nostri oriuoli. Fuvvi una sola eccezione. Un giorno Egli era 
venuto prima del tempo, ma, mentr’era nella sala dei professori, compar- 
vero tre cittadini ad invitarlo affinchè volesse presiedere una grande adu- 
nanza pubblica, nella quale si doveva protestare contro una nuova gra- 
vezza che il Ministero proponeva al Parlamento. Simone Corleo, se accet- 
tava, sarebbe stato portato su dall’aura popolare. Egli però approvava quel 
balzello, e rifiutò con bel garbo, non ostante ogni preghiera. Non ci fu 
rimedio: quel giorno la lezione riuscì dimezzata! Per quattr’anni che 
fui suo scolaro, credo che Egli sia mancato una sola volta alla scuola, 
e l'assenza fu cosa così nuova che ne ricordo il motivo : era impegnato 
in una Commissione che aveva l’incarico di studiare l’ordinamento di certi 
istituti scolastici (1). 

«Né dopo mutò, per quanto l’età e gli acciacchi diminuissero la sua 
Vigoria non comune. Ed è noto a tutti che perfino il 24 di febbraio, primo 
giorno di quella terribile malattia, che, con tanta rapidità, lo trasse al 
sepolcro, Egli, pur sentendosi male, come Vespasiano non volle trascurare 
i suoi doveri, e venne all’Università, e, nell’aula consueta che ci sta vi- 
cina, sali barcollante la cattedra, e si sforzò di cominciare quella lezione, 


(1) Probabilmente il caso avvenne nel 1873, quando il Corleo, insieme coi profes- 
sori Cacopardo, Garaio, Gemmellaro, Sampolo, Mucciarelli e Guarnieri, fece parte 
della Commissione della R. Università di Palermo, che rispose ai quesiti della Com- 
missione d’inchiesta sulla istruzione secondaria. 


12 COMMEMORAZIONE DI SIMONE CORLEO 
che doveva esser l’ultima: perchè, fra lo sgomento degli astanti, la pa- 
rola gli venne meno, e dovette Egli cedere alle preghiere degli ascolta- 
tori, e smettere, riducendosi a stento nella sala dove convengono i pro- 
fessori: cinque giorni dopo era morto! 

« Corleo aveva anche diritto al nostro amore. Il sistema di Lui ci si pre- 
sentava come la negazione dei sistemi filosofici che avevamo studiati : 
noi quello vedevamo estollersi e grandeggiare, mentre, con non lieve shi- 
gottimento nostro, quest’altri, conquassati, crollavano, trascinando nella 
loro rovina le nostre convinzioni precedenti. Da qui i dubbi, le difficoltà, 
il bisogno di discutere col Maestro. Giammai non m'è toccato di trovare 
un professore così paziente nell’ ascoltare le osservazioni degli scolari, 
per quanto moleste o misere fossero talora; così garbato nel confutare, 
così dolce nel persuadere ! 

« Gli allievi poi, anche dopo aver frequentato l’Università, trovavano per 
lo più in Lui : consigliere prudente, amico attettuoso, protettore gagliardo, , 
conforto soave nei mali della vita, e sopra tutto stimolo continuo a la- 
vorare, a farsi innanzi per propria virtù. Parecchi, senza l’opera di Lui, 
non avrebbero fatto il poco o molto che son riusciti a fare. Nè va di- 
menticato che nulla chiedeva loro in contraccambio, nemmeno che di 
fronte alle dottrine sue fossero ortodossi o che i filosofici studi tuttavia 
coltivassero. 

«Ora, sotto pena di perdere ogni culto per ciò ch'è grande e nobile, 
ogni senso di affetto e di gratitudine, moi non potevamo, né potremo 
dimenticare giammai la cara e buona imagine paterna del Maestro, ed 
abbiamo voluto anche noi ch’essa venisse affidata al marmo, e traman- 
data ai futuri studenti di questo Ateneo. Qui, alle figure venerate di bi 
mone Corleo e di quest’altri spiriti magni essi verranno ad ispirarsi; e 
l’errore, di scienza superbamente clamidato, non riuscirà ad avvolgerli 
fra le sue spire mortifere, e, a confusione dei profeti di sciagure che ci 
agghiacciano il cuore lamentando tuttodì che oramai invano si ripongono 
nei giovani le speranze nostre, nell’avvenire la patria sarà circontulsa. 


di nuova luce di gloria!» 


Dopo questo discorso, anch’ esso applaudito, ebbe termine la cerimo- 
nia, che lasciò negli astanti ricordo gradito e indelebile. 


RELAZIONI ACCADEMICHE 


Per gli anni 1896, 18597, 1898 
RECITADE 
Alla R. Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti 


DA 


LUIGI SAMPOLO 


Segretario Generale della medesima. 


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RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


LETTA 


nel 21 Febbraio 1897. 


TETTI 


SoMMARIO : Rieonferma del magistrato accademico — Operosità del magistrato prece- 
dente — Dotazione — Pareggiamento dell’ Accademia a quella di Torino — Vol. IV 
degli Atti — Causa d'Andrea — Letture: A. Borzi, Contributo alla sensibilità delle 
piante; G. Pitrè, Conto sbagliato ; Luigi Natoli, Di Bartolomeo Strillo, oratore del 
secolo XVI; Fedele Pollaci Nuccio, Del feudalismo, Federico II, I Comuni — Com- 
memorazioni : Giuseppe Di Menza; Padre Giuseppe Orlando; Saverio Cavallari; Giu- 
seppe Zurria; Mariano Pantaleo; Giuseppe Fiorelli ; Alfonso Le Roy; Giulio Simon; 
G. B. Santangelo; Giovanni Costantini. 


Signori, 


Il magistrato accademico è stato riconfermato per il triennio 1897-1899, 
con pochissime mutazioni. Al compianto comm. G. Di Menza Vice-Pre- 
sidente, fu sostituito l’illustre prof. Giuseppe Ricca-Salerno. 

Il chiarissimo professore Salvioli da segretario della classe di scienze 
morali e politiche è passato fra gli anziani, e all’ufficio di segretario fu 
nominato l’egregio magistrato cav. M. Russo Onesto. 

Certo coloro che fecero parte del passato magistrato accademico hanno 
reso utili servigi alla nostra Accademia. 

Esso ottenne le stanze in S. Nicolò per collocarvi gli uffici e la biblio- 
teca; luogo, se non acconcio alla dignità dell’Accademia, certo opportuno 
fino a che uno migliore non se ne abbia. 

Esso sostenne l anno passato il diritto dell’ Accademia alla sua dota- 
zione che da un secolo e più le ha dato il Municipio, e, riconfermata la 
dotazione, l'Accademia fu salvata da una seconda morte. 


4 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 

La dotazione è stata di nuovo minacciata. Nella recente relazione sul 
l'ispezione del nostro Municipio, si disse gravare sul bilancio varii sus- 
sidii ad istituti scientifici, e fu nominata fra questi la nostra Accademia. 
Si ignorava che nel 1791 il Senato accordava nuova ed onorata sede 
all'Accademia nel suo palazzo, e due anni dopo le concedeva una dote 
per il suo sostegno e mantenimento; dote che, poca in principio, è salita 
negli ultimi anni a L. 2000. Il magistrato accademico si è rivolto al 
R. Commissario straordinario comm. Pantaleoni, per ottenere il manteni- 
mento della dotazione. 

Vogliamo sperare che mercè l’opera del prof. A. Marcacci, notabile 
deputato alla pubblica istruzione, egli la conservi nel bilancio. Così L'Ac- 
cademia, antico e recente lustro della Sicilia, continuerà a sussistere. 
Non dubitiamo che il ministro Codronchi la confermerà (1). 

Queste incertezze che ripetonsi ogni anno dovranno finire. E finiranno 
quando il Consiglio comunale porrà nel suo bilancio la dotazione dell’Ac- 
cademia, non più tra le facoltative, ma tra le spese obbligatorie. 

L'Accademia nostra ha importanza non minore di altre d’Italia. Non 
è stata però pareggiata a quella delle Scienze di Torino ai fini dell’ar- 
ticolo 18 num. 32 dello Statuto. Per le altre Accademie non c'è decreto 
che le pareggi a quella di Torino. 

Il Senato, ispirato ad uno spirito largo d’ interpretazione, ai membri 
della R. Accademia delle scienze di Torino ha parificato quelli delle altre 
Accademie scientifiche e letterarie che non avevano importanza minore 
della Torinese; sono le Accademie scientifiche di Napoli e di Parma, VIsti- 
tuto Veneto, l’ Istituto Lombardo, l'Accademia della Crusca, la Società 
Italiana dei XL di Modena e l'Accademia dei Lincei (2). 

Non dovrebbe medesimamente la nostra Accademia essere parificata 
a quella di Torino ? 

Tempo fa si fece istanza al Governo perchè la nostra fosse a quella 
pareggiata ai fini dell’art. 18 n. 32 dello Statuto del Regno. 

Il Magistrato accademico rinnovò ora la dimanda che fu appoggiata 
presso il Governo dal ministro Codronchi. 

Ove la elezione a Senatore cada sulla persona di uno dei nostri socii, 
il Senato, ci si fa sperare, consentirà che basti senz’altro essere appar- 
tenuto alla palermitana Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti per 
entrare nell'Alto Consesso. 


(1) Il R. Commissario straordinario comunale Pantaleoni ristabiliva nel bilancio comu- 
nale le L. 2000 per la nostra Accademia. 

(2) Mario Mancini, UGo GALEOTTI : Norme ed usi del Parlamento italiano — Roma, 
tipografia della Camera dei Deputati, 1887, p. 76. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 5) 

I IV volume dei nostri Atti uscirà presto alla luce, cosicchè in poco 
più di tre anni se ne son pubblicati due. 

La liberalità del Marchese D’ Andrea ci avrebbe rilevato dallo stato 
pecuniariamente non prospero in cui versiamo. Il D'Andrea è stato dichia- 
rato dalla Corte d’ Appello di Napoli, demente, e nullo di conseguenza 
il suo testamento. La causa è stata sottoposta al giudizio della Supre- 
ma Corte di Napoli. Qual ne sarà il successo ? Io non. spero. Però il 
nostro magistrato ha difeso col maggiore interesse i diritti dell'Istituto (1). 

Le quali cose tutte sono certamente indubitata prova dell’opera assidua 
ed efficace degli ufficiali che avevate preposto al governo dell’Accademia 
e che ora avete onorato dei vostri suffragi, riconfermandoli nei rispettivi 
ufficii. 


Poche ma importanti letture ebbero luogo nel 1896; una su tema di 
scienze naturali, le altre su temi letterari. 

L'illustre Prof. A. Borzì lesse : Contributo alla conoscenza dei fenomeni 
di sensibilità delle piante. 

Il fenomeno della sensibilità delle piante è uno di quei soggetti che 
si è molto studiato. Ne scrisse il Darwin, e si sa oramai, che alcune 
piante al contatto di un animaletto richiudono le loro foglie, ripiegano 
i loro tentacoli, i loro filamenti, avvicinano i loro petali, ed imprigionano 
l’imprudente insettuccio che su di essi credeva forse trovare nutrimento 
e vi ha invece trovato la morte. Chi non ha visto l’incalzarsi, lo sten- 
dersi di alcune piante rampicanti, lo attorcigliarsi ‘dei viticci di altre 
essenze ai corpi coi quali sono venuti a contatto; quanti altri fatti con- 
simili non si sono osservati, senza mai domandare il perchè di essi, ? 

Chi scruta la natura riesce sovente a discovrirne qualche mistero. I 
fenomeni di sensibilità delle piante hanno da lungo tempo attirata la at- 
tenzione del fisiologo, il quale ha trovato che in alcuni organi vegetali 
la sensibilità si esplica con tutte le parvenze d’un fatto indipendente da 
elementi specializzati in nervi e muscoli. 

L'azione di stimoli determinati si trasmette a grande distanza, e l’or- 
gano rapidamente si contrae e ne derivano dei moti rapidi. Ma vana 
è stata finora la ricerca di speciali organi trasmettitori delle eccitazioni, 
vano il risalire alle cause prime determinanti i moti degli organi sen- 
sibili. Si sono create teoriche che poggiano sulle proprietà meccaniche 
delle cellule di detti organi, e si è stabilito che i moti dipendono dal vario 
alternarsi dello stato di tensione delle pareti delle cellule medesime. 

Il Prof. Borzì, studiando gli stimmi sensibili di alcune piante in rap- 


(1) Il ricorso è stato rigettato dalla Corte di Cassazione di Napoli. 


6 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


porto a varii stimoli meccanici, stabiliva primieramente che i moti di 
quegli organi fossero d’indole protoplasmatica. Colla scorta poi d’indagini 
anatomiche determinava la presenza di uno speciale sistema conduttore, 
mettendo in chiaro le particolari interne azioni esercitate dagli stimoli 
sulla funzionalità del protoplasma di siffatti elementi. 

Tali azioni, secondo lui, rendono il protoplasma impotente a ritenere 
la propria e normale acqua di imbibizione la quale perciò viene respinta. 
Essa trova allora temporanea dimora dentro cavità speciali che circon- 
dano le cellule sensibili. Egli s’intrattenne con molta precisione a deseri- 
vere siffatte ingegnose disposizioni anatomiche destinate al completa- 
mento della funzione sensitiva, che egli paragonò alle vacule pulsanti 
di molti protozoi e piante inferiori, gettando così luce sulla funzione di 
quest'ultime. 

Il Borzi con eguale precisione trattò del meccanismo di trasmissione 
«dell’azione degli stimoli. 

La seconda parte del lavoro riguarda gli stimmi sensibili presso i quali 
egli scopriva un ingegnoso apparecchio aero-meccanico destinato a pro- 
vocare le oscillazioni dei filamenti al momento in cui questi vengono 
urtati, mostrando che è desso un fenomeno prevalentemente fisico. 

La lettura erudita e assai dilettevole fu molto ammirata. 


Il chiarissimo Prof. Pitrè lesse la novella del Conto sbagliato, o la novella 
dello Sciupone impreviggente. 

Nel Novellino è il primo.cenno del Conto sbagliato : Un cavaliere, non 
volendo lasciar nulla alla sua morte, fe’ il conto degli anni che gli sareb- 
bero avanzati e cercò di spendere tutto il suo avere. Sopravanzarono gli 
anni ed egli era rimasto povero. Presentossi allo Imperatore Federico II, 
e questi il cacciò fuori della Corte, imperocchè -— gli disse — tu sei quegli 
che volevi ghe dopo i tuoi anni niuno avesse bene. 

Da questa novella si ha il punto di partenza per una serie di racconti 
o versioni di racconti, nei quali ricorrono intercalari come i motti se- 
guenti : 

Fate bene a Gianni 

Che gli è mancata la roba ed avanzato gli anni; 
Povero Ammannato 

I quattrini son finiti e il tempo gli è avanzato; 
Fate bene a Lapo (o all’affamato) 

Che il tempo l’ha ingannato. 

Nel secolo XII fu in Siena una brigata spendereccia e godereccia, la 
quale, messe insieme parecchie migliaia di lire, le sparnazzò e si ridusse 
sul lastrico. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 T 


Im Sicilia si conta la stessa novella e v'è questo motto : 


Faciti la limosina a Don Giuvanni 
Ca ci mancaru li dinari e cei crisceru l’anni. 


Sono diciotto versioni del racconto, e i diciotto personaggi vanno sotto 
una diecina di nomi. I racconti tutti si riferiscono ad un fatto che può 
essere intervenuto molte volte in questo mondo. Quanti castelli in aria 
si fanno alla giornata! Quanti calcoli non si sbagliano nella previsione 
di avvenimenti politici ! 

Il valentissimo folk-lorista siciliano, venuto in alta fama pei suoi mol- 
teplici studii di letteratura popolare, fu sentito con molto diletto (1). 


Di Bartolomeo Sirillo, oratore del secolo XVI, ragionò Il’ egregio pro- 
fessore Luigi Natoli. 

Del Sirillo scrissero il Mongitore e innanzi a lui il Branci, il Baronio, 
il Di Giovanni, il Potenzano, l’Auria, il Flaccomio e il padovano Nicolò 
degli Oddi. Di lui leggonsi notizie nelle memorie da servire per la storia 
letteraria di Sicilia, e recentemente ne fe’ ricordo il Pollaci Nuccio. 

Anche l'illustre professore V. Di Giovanni ne discorse ne’ seguenti 
lavori : La poesia italiana in Sicilia nei secoli XVI e XVII — I prosatori 
siciliani nei due secoli XVI e XVII (2). 

Il nostro chiarissimo socio segui il Sirillo nelle città d’Italia ove ad 
erudirsi nelle lettere era stato mandato da’ genitori. 

Letterato e dotto nelle filosofiche e teologiche discipline, lo segui in 
Palermo, ove professò lettere italiane e latine. Fu eletto canonico della 
Cappella Palatina e segretario del Senato palermitano, ufficio, prima di 
lui, occupato dal Naso; e, dopo lui, da Filippo Paruta. Poetò in italiano 
e anche in latino, ma procacciossi maggior fama per le sue orazioni in 
volgare. 

La chiarezza del suo nome indusse il Senato a spedirlo in Ispagna per 
la difesa di alcuni privilegi della città, ed egli condusse felicemente a 
fine la sua missione. Quando si apparecchiava a far ritorno in Palermo 
lo colse la morte. 

Lo considerò poi il nostro socio quale eccellente oratore e dimostrò 
con alcuni brani delle sue orazioni com’ egli nella maniera di scrivere 
tutta artifiziosa e per purezza di stile possa tenersi modello. 


(1) Vedi G. PitRÈ: La novella del Conto sbagliato. Palermo, Tip. del Giornale di 
Sicilia, 1891. 
(2) Vedi Dr GrovaNnNI: Filologia e Letteratura. Palermo, 1891. Vol. II. 


8 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


Il prof. Natoli diede, con forma eletta e perspicua, una ordinata e com- 
pleta notizia della vita e delle opere del celebre Bartolomeo Sirillo e ne 
riscosse meritato plauso. 


Il chiarissimo socio Fedele Pollaci-Nuccio, traendo occasione da qualche 
falso giudizio che invade ancora le menti sul feudalesimo, ha voluto far di 
questo uno studio speciale, e in una prima lettura ne ha mostrato la intima 
essenza. Premesso un rapido cenno storico sulla parte che la nobiltà ebbe 
in Sicilia nei principali avvenimenti dell’ isola dai Normanni alla rivo- 
luzione nel 1848, espone essere fondamento della feudalità tre elementi : 
1° il possesso di grandi tenute; 2° la giurisdizione che i signori aveano 
sugli uomini e sulle terre a loro soggette; 3° la mutua relazione di aiuto 
e difesa tra signori e vassalli. Mostra come il primo elemento derivasse 
dal diritto romano; il secondo dagli usi germanici; il terzo dalla Chiesa. 
A proposito degli usi germanici egli, ricordando le testimonianze di Ce- 
sare e di Tacito, fa vedere come la feudale istituzione, per ciò che riguarda 
la giurisdizione ed altre costumanze, trovi pieno riscontro nelle pratiche 
germaniche; e come sotto questo aspetto, la feudalità si trovi tutta nei 
Commentarii di Cesare e nella Germania di Tacito. Parlando del senti 
mento cristiano che pervade la società dopo la venuta del Cristo, mostra 
con esempii, tratti anche da scrittori pagani, come il sentimento pubblico 
a favore degli schiavi si venisse poco a poco mitigando, e che, grazie 
ai nuovi sensi di amore promulgati dal Nazareno, la condizione degli schiavi 
si fosse lentamente convertita in quella di servi della gleba, aventi di- 
ritti ed una personalità, mentre gli schiavi del paganesimo ne manca- 
vano. Scendendo infine alla Chiesa, mostra in generale l’azione incivi- 
litrice di essa nel corso del Medio Evo, e come la sola autorità che avesse 
potuto e saputo resistere alla forza brutale, in un tempo di leggi deboli 
e inosservate, fosse venuta dalla Chiesa. Rammenta come questa nel 
Medio-Evo ebbe influenza su tutto: costumi, arti, lettere ecc. e quindi, 
resi, in generale, più miti e gentili gli animi, la causa della feudalità 
ne guadagnò ancor essa, stringendo sempre più quella vicendevolezza 
di legami di amore e di sostegno fra signori e vassalli, che costituirono 
la natura intima della feudale istituzione. 

Conchiude quindi il Pollaci che il feudalismo fu un prodotto di tre . 
elementi eterogenei, che il disordine, seguito al decadimento dell’Impero, 
fuse fra loro, e che non comprende bene la feudalità chi parla di abusi 
e di prepotenze. Gli abusi e le prepotenze furono effetto della prevari- 
cazione individuale, non della istituzione, che era appoggiata a’ santi 
principii dell'autorità, della proprietà, dell’amore. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 9 


Ora a me tocca il doloroso ufficio di rimemorare i soci trapassati entro 
l’anno. E non furono pochi. 


«Io non posso ritrar di tutti appieno » 
perocchè 


«.....mi caccia il lungo tema». 


Ne mancarono tre ordinarii, due della classe di scienze morali e poli 
tiche, uno di quella di lettere, uno emerito, parecchi onorari e corri- 
spondenti. 

Il comm. G. Di Menza che fu Vice-Presidente, era esimio cultore delle 
«scienze morali. 

Entrò giovane nella carriera amministrativa, nel 1862 passò nella ma- 
gistratura, essendo stato nominato procuratore del Re nel Tribunale di 
Palermo. 

Consigliere d’ appello, fu per lunghi anni presidente di Corte d’ As- 
sise, e acquistossi rinomanza di assai valente fra’ migliori. Presiedette 
poi per non brevi anni la sessione promiscua di Palermo. La giuria 
fu tema prediletto delle sue indagini, de’ suoi studi. E scrisse: Dez 
quesiti che si propongono ai giurati. I giudizii popolari dei Romani. Le ri- 
forme della istituzione dei giurati. Il quesito fondamentale nella riforma della 
istituzione dei giurati. Dei giudizi popolari in Italia e nella Sicilia, e special- 
mente secondo î loro risultati dal 1861 al 1869. Voti e desideri di un pre- 
sidente di Corte d’ Assise. 

Apprestò così non lieve contributo coi suoi studii, e la sua esperienza 
‘all’arduo problema della giuria, che, sempre nuovo, ha richiamato recen- 
temente l’attenzione del Comitato ordinatore del IV Congresso giuridico 
nazionale (1). i 

Coltivò con zelo anche gli studii economici e il diritto pubblico, e pa- 
recchi importanti lavori diè fuori, che attestano la sua larga cultura e 
l'interesse che ei prendeva alle grandi quistioni sociali della età nostra. 

Il Di Menza dedicò gran parte della sua vita a vantaggio dell’ammi- 
nistrazione comunale, ove prevaleva con l'autorevolezza della sua parola; 
per parecchi anni resse lodevolmente la Fidecommesseria Palagonia. 

Rettitudine, operosità e ampiezza di cultura furono i pregi onde egli 
ebbe vanto (2). 


(1) Il Comitato ordinatore del IV Congresso giuridico nazionale ha proposto fra’ temi 
di diritto penale: «Se e per quali reati convenga conservare la giurìa, e con quali 
guarentigie ». 
(2) Vedi : G. Di Menza —Necrologia per L. SamPoLo nel Circolo Giuridico, Vol. XXVI. 
arivista p. 


10 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


Il padre Giuseppe Orlando che apparteneva alla Compagnia di Gesù, 
fu coltissimo nelle discipline sacre, nelle filosofiche e nelle letterarie. 

Nella lotta fra Chiesa e Stato egli nell’Ape Iblea, che con nuovo bat- 
tesimo s’intitolò Sicilia Cattolica, sostenne la parte più difficile, la direzione. 

La lotta polemistica era la sua vita. Il suo giornale fu dei migliori, 
che nel campo religioso, si pubblicassero in Italia. Pei suoi scritti fu 
egli tenuto in istima da’ lètterati, in considerazione da Leone XHI, che 
più volte ebbe per lui parole di lode. Ed egli ne traeva conforto e nuova 
vigoria per combattere. 

To giovinetto l’ebbi compagno e rivale nella scuola d’eloquenza latina 
all’ Università di Palermo, insegnandovi il chiaro prof. Gaetano Daita. 
Dipoi ci disunimmo, e ciascuno di noi si incamminò per la sua via. Sono 
ora pochi anni, io lo rividi nella nostra Accademia, e antichi compagni, 
tornammo amici. 

Lesse, ammirato, in questa sala, l’elogio di Vincenzo Mortillaro mar- 
chese di Villarena. Anni addietro si fe’ qui stesso iniziatore di una sot- 
toscrizione per un mezzobusto del padre Alessio Narbone, sommo eru- 
dito e bibliografo, suo maestro, ch’ era stato segretario generale della 
nostra Accademia. 

Ottimo sacerdote ei fu, pio, caritatevole, umile, carattere adamantino (1). 


Fr. S. Cavallari consacrò tutta la sua vita operosa alle arti del dise- 
gno, dell'incisione e dell’architettura, e poi all’archeologia. 

Ancora giovane collaborò alla monumentale opera del Duca di Ser- 
radifalco Antichità di Sicilia; collaborò coll’illustre tedesco Sartorio Wal 
tersausen autore dell'Etna e le sue rivoluzioni; e dopo dieci anni di assiduo 
lavoro diè fuori la stupenda carta topografica dell'Etna (2). Aiutò Enrico 
Schurtz nell’ opera: I monumenti medievali dell’ Italia meridionale. Colla 
borò più tardi alla Cappella di S. Pietro insieme con Giuseppe Meli e 
Isidoro Carini. 

Condotto a Gottinga dal Waltersausen, fu allievo e insieme maestro 
in quella celebre Università. Vi conseguì il dottorato in lettere e filo- 
sofia; ivi insegnò architettura. Pubblicò allora i primi suoi lavori di ar- 
cheologia e di storia. Tornato a Palermo nel 1848, prese parte alla grande 
rivoluzione per l’indipendenza. Essendosi nella nostra Università diviso 


(1) Vedi nella Sicilia Cattolica del 28-29 marzo 1896, le parole lette da me innanzi 
il feretro del padre Giuseppe Orlando. 

(2) Emilio Chaix pubblicò nel 1890 in Ginevra una nuova carta dell’Etna correggendo 
la carta del Cavallari e aggiungendovi le posteriori, eruzioni. Nei tre mesi di escur- 
sioni sull'Etna e nei rilievi lo aiutò lo egregio mio amico prof. Giuseppe Ga mbino.. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 11 
in due lo studio dell’architettura, scienza ed arte, nell’una insegnandosi 
i principi della costruzione, nell’ altra l’ arte della decorazione , questa 
insegnò il Cavallari. 

Fu poi professore di architettura nell'Accademia di Belle Arti di Brera 
in Milano, e poi direttore dell’Accademia Nazionale di S. Carlos nel Mes- 
sico. Rimpatriò, essendo ministro della pubblica istruzione Michele Amari, 
suo vecchio amico ed ammiratore. 

Nominato Direttore di Antichità e Belle Arti, egli diessi amorosa- 
mente a disseppellire altri ruderi in Selinunte, ove : 


Disseminato sul deserto piano 
D'infrante moli orror, del passeggiero 
Fissa l’attonit'occhio da lontano (1). 

Le sue scoverte accrebbero di molto il materiale fino allora noto. 

Preziosi lavori pubblicò nel Bollettino della Commissione di Antichità 
e Belle Arti. Scovri la necropoli Sibaritide e il sito ove sorgea l’antica 
Sibari. 

Dalla Direzione degli scavi passò Direttore del Museo di Siracusa, che 
può dirsi aver lui fondato. In quella regione intraprese importanti scavi, 
specie nelle catacombe Siracusane. Nella topografia di Siracusa pubbli- 
cata a spese dello Stato, la parte topografica è di lui, essendo opera dello 
illustre prof. Holm la parte storica. 

Ricorderò i lavori letti da lui nella nostra Accademia : Su alcuni vasi 
orientali con figure umane, rinvenuti in Siracusa e in Megara Iblea — Eu- 
rialos e le opere di difesa di Siracusa — Prolegomeni ai monumenti preelle- 
nici — La necropoli di Sabucina , U antica Nissa e i vasi di Machara o E- 
raclea Minoa. 

Gli scavi da lui fatti gli aveano appreso che innanzi la venuta delle 
greche colonie l'isola non era un deserto, e che gli abitatori antichi erano 
innanzi nella civiltà. Di quel periodo preellenico esistono ancora are e 
innumeri sepolcri, le une e gli altri indici sicuri di incivilimento. 

Imonumenti preellenici schiuderanno nuovi orizzonti ai ricercatori delle 
memorie antiche. È questa l’opera postuma di lui per la quale ebbe un 
incoraggiamento dal Ministro Gianturco, e che, pubblicata per cura del 
figlio (2), accrescerà fama all'illustre archeologo. La Sicilia, sia nelle vetuste 
città di Selinunte, Siracusa, Segesta, Taormina, sia nella civiltà preelle- 
nica, fu sempre la cura costante del nostro Cavallari. Egli ben ricordava 


(1) Elegie di siciliano argomento di Ludovico re di Baviera recate di tedesco in ita- 
liano da Tommaso Gargallo, Palermo, 1831. 
(2) Ingegnere Salvatore Cavallari. 2 


12 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 
il patriottico avvertimento del sommo Scinà: « La nostra politica, giacchè 
le lettere hanno ancora la loro politica, dovrebbe esser quella di occu- 
parci delle cose nostre; e il motto d’unione tra’ Siciliani che pigliano a 
coltivare le scienze dovrebbe essere Sicilia ». In questo campo noi po- 
tremo acquistare una gloria tutta nostra, ma talvolta gli stranieri — specie 
i Tedeschi — ce la contendono e ci vincono. 

A breve distanza dal lodato nostro socio mancava alla Sicilia un altro 
illustre uomo Giuseppe Zurria in Catania : ambi lungamente vissuti, ambi 
decoro dell’isola nostra e dell’Italia. 

Lo Zurria professò nel Gymnasium Siculorum calcolo infinitesimale e 
die’ a luce notevoli memorie matematiche. 

Fra le più importanti è quella sulla diffrazione della luce, intorno alla 
quale Claudio Poulliet, fisico di molta fama e membro dell'Istituto, seri 
veva allo stesso autore : « È un lavoro eccellentemente composto ed assai 
elaborato, in cui tutto è stato svolto con infinita chiarezza e precisione 
nel ragionamento e con perfetta eleganza nella forma. Fresnel aveva 
posato le basi salde dello edificio, Cauchy ne fu il continuatore, voi l'avete 
felicemente condotto a fine ». 

Altra eccellente memoria ha per tema sullo sviluppo della funzione per- 
turbatrice nella teoria dei pianeti. Lo Zurria portò così bel contributo alla 
meccanica celeste, che ebbe cominciamento da Newton, venne arricchita 
di nuovi principî da’ sommi Bernouilli, D’Alembert, Eulero, Cleraut, La- 
grangia e Laplace, e— cinquant'anni sono già volti —ebbe un vero trionfo 
quando Léverrier chiuso in solitaria cella (1) determinò co’ calcoli il loco 
ove splendeva un altro pianeta e lo additò al Galle addetto allora all’Os- 
servatorio di Berlino, oggi Direttore di quello di Breslavia, e questi puntò 
il suo cannocchiale e discopri il nuovo pianeta che appellossi Nettuno (2). 


(1) Così FR. SAVERIO ARABIA descrive la scoperta del Nettuno: 
D'una lampada nuova 
L'universo, di Dio tempio, s'accende; 
E da l’etereo calle 
Una novella viatrice trova 
Il guardo che si volge all’emisfero. 
Già d’aliarmato un vigile pensiero 
Da solitaria cella 
L'occhio precesse, e d'una a l’altra stella 
Lei giunse, e salutò trepidamente 
Avvolta ancor nel vergine secreto ! 
Il Nettuno, pianeta scoverto da Leverrier, nelle poesie e prose di Francesco Saverio 
Arabia. — Salerno per Raftaello Migliaccio, 1854. 
(2) Il Galle è nato nel 1812 a Pabsthaus presso Wittenberga. A lui nel 23 set- 
tembre 1896 l’associazione dei Naturalisti tedeschi spedi un telegramma di felicitazione 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 15 
Lo Zurria insegnò cinquantacinque anni, tenne per quattordici il ret- 
torato di quell’ illustre Università, e per maggior tempo la presidenza 
della facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali. Presidente dell’ac- 
cademia Gioenia ed uno dei XL della Reale Società italiana delle Scienze. 
Ebbe adamantino il vigore dell'intelletto lucidissimo che serbò intatto 
fino alla ultima ora, insieme con l’immacolata rettitudine dell’animo (1). 


Ragionando di Mariano Pantaleo da Nicosia, comincerò con le parole 
di persona a lui la più caramente diletta (2): « Era egli l’ottavo figlio di 
un contadino, che ritraeva la sussistenza per la famiglia da un piccolo 
podere, ch'egli coltivava assieme ai figli. Il ragazzo trovò assai dura quel 
l’esistenza, e non potè acconciarsi all'idea di dover passare la sua vita 
nelle privazioni e nell’oscurità. 

« Lasciò il campo e frequentò le scuole della città. 

«I progressi rapidi fatti nelle lettere gli attirano l’attenzione e la sim- 
patia di benefattori, che conosciuto quanto quel giovane valesse pensa- 
rono mandarlo all’ Università di Napoli e gli assegnarono un sussidio. 
Benché scarso, egli lo benedisse, perchè gli fu mezzo a sollevarsi dalla 
folla e ad attingere una nobile meta ». 

Studiò scienze mediche. Presto venne in grido, e tornato in Palermo, 
vi fermò sua stanza, vi esercitò la chirurgia, e specie la ostetricia. In- 
segnò per un cinquantennio nella nostra Università, prima nella cattedre 
di istituzioni chirurgiche e poi in quella di Clinica ostetrica che egli con- 
dusse a grado eminente. 

Fondò poi la scuola ed istituì il seminario delle levatrici accanto alla 
sua clinica e all’annessa sala della maternità; scuola e seminario cotanto 
utili alla società. Le partorienti erano prima affidate a persone ignoranti 
che aveano acquistato con l’ esercizio pratica del mestiere. Il Pantaleo 
rilevò la classe delle levatrici e, addottrinandole, le fe’ più esperte e più 
sicure. 

Professore, preside della facoltà, presidente dell’ Accademia di scienze 
mediche, antico socio della nostra, autore di pregiate memorie scientifiche, 
egli ebbe in vita onoranze meritate per il 50° anno del suo insegnamento 
dalla Accademia di scienze mediche (8), e che gli furono compenso a tutta 


pel cinquantesimo della scoverta a cui aveva dato mano almeno materialmente. V. Cà 
viltà Cattolica. Scienze naturali nel fascicolo del 20 febbraio 1897, p. 409. 

(1) Queste parole scriveva il Rettore di quella Università, Angelo Majorana, nell’an- 
nunziare la morte dell’illustre scienziato. 

(2) Vedi V. PanrALEO : Consigli ai miei figli, scelta della professione, p. 41. Palermo, 
Tipografia dello Statuto, 1885. 

(3) V. 2. Accademia delle scienze mediche : Onoranze al Prof. Mariano Pantaleo pel 


14 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


una vita spesa negli studi, nella scuola e nello esercizio dell’arte ostetrica. 

Mariano Pantaleo è una di quelle splendide figure che per la pertinace 
persistenza del volere si sollevano fra gli altri (1) e diventano maestri e 
giovano con la loro opera sapiente. 


Il napoletano Giuseppe Fiorelli fu numismatico ed archeologo, e note- 
volissimi lavori die’ fuori nell’una e nell’altra disciplina. Gli Anmali di nu- 
mismatica gli procacciarono bella fama fra’ dotti. 

A 23 anni venne nominato Vice-Presidente del Congresso degli scien- 
ziati di Genova, e poi Ispettore degli Scavi di Pompei, ufficio renuto fino 
al 1848, e poi lasciato per le tristi vicende politiche di quell’anno, e ri- 
pigliato dopo il 1860. i 

Pompei — che nel 79 dell’èéra di Cristo il Vesuvio avea coverto delle 
sue lave, uccidendo uomini, animali, e sommergendo nella terra edifici 
pubblici, case, palinsesti, tavole cerate, e tutto — quella città fu geniale 
argomento degli studi e delle assidue cure del Fiorelli. Pubblicò le iscri- 
zioni che in varie lingue leggevansi ne’ ruderi di essa: Monumenta epi- 
graphica ad fidem archetiporum expressa e Gli annali degli scavi di Pompei 
in cui si dà particolare ragguaglio delle innumeri cose in quella città 
trovate che attestano la progredita civiltà del popolo romano. 


Alfonso Le Roy di Liegi, fu filosofo e pedagogista. 

Per opera di lui nel 1848 adunossi quel Congresso dei professori per 
le cui proposte il Belgio ebbe la legge sulla pubblica istruzione promul- 
gata nel 1850. Fondò nel 1849 la prima scuola di agricoltura che sor- 
gesse in quel regno. 

Insegnò nell'Università di Liegi metafisica ed estetica, e nello stesse 
tempo pedagogia nella Scuola Normale Superiore, e più tardi psicologia 
in questa e nell'Università logica, metafisica e storia della filosofia. 

Scrisse molto con eleganza e sana critica intorno ad argomenti lette- 
rari e filosofici e di pubblica istruzione, e appartenne alla scuola spiri- 
tualista (2). 


suo giubileo universitario — XVI gennaro MDCCCXCI. Tipografia del Giornale di Si7- 
cilia, 1891. 

(1) V. A. ALFANI: Battaglie e Vittorie. Nuovi esempi di Volere e Potere. Mariano 
Pantaleo. Firenze, Barbera, 1890. 

(2) V. Etudes genérales de statistique et histoire de l’insegneiment compiendone stu- 
dii sull’Inghilterra, sugli Stati Uniti, sul Canadà. — L’administration de l’instruction 
publique en Prance. — L’Eglise Sainte Croîx et ses peintures murales. — Notices sur 


RELAZIONE PER L'ANNO 1896 5 
Giulio Simon, una gloria della Francia, è morto nell’anno passato. 
L’insigne uomo, dopo aver professato a Caen, a Versailles, e fatto con- 
ferenze di storia della filosofia alla Scuola Normale di Parigi, si addot- 
torò con una dissertazione sul 7’meo di Platone commentato da Proclo, 
e nel 1839 venne nominato supplente del Cousin alla Sorbona. Dopo il 
colpo di Stato (nel 1851) rimosso dalla cattedra egli tornò a vita privata; 
si occupò allora di economia politica, di quistioni sociali e specialmente 
di scuole; in materia d’insegnamento acquistò in breve grande autorità. 
Osteggiò la candidatura di Napoleone; nel 1865 al Parlamento fu dei 
capi dell’opposizione democratica; indi senatore repubblicano. 
Fu fra’ membri del Governo della difesa nazionale, (1870-71); ministro 


mr 


dello interno e presidente del Consiglio (1876-77). 

Segretario perpetuo dell’Accademia di Scienze morali e politiche, Giulio 
Simon è nobile e splendida figura che primeggia fra coloro che hanno 
consacrato la vita al servizio del progresso mercè la libertà, la giustizia 
e la pace. Fra le istituzioni che meglio gli erano a cuore, egli era ap- 
passionato per la redenzione dell'infanzia e per la pace; con l’una sot- 
traendosi i fanciulli alla precoce delinquenza e avviandosi a diventare 
buoni cittadini; diffondendosi con l’altra nel popolo il sentimento del ri- 
spetto dalla vita umana e facendosi giungere a principi e presidenti di 
repubbliche, il voto che si evitino quanto più è possibile le guerre per 
le quali si fa terribile scempio delle umane genti. 

Fu liberale per intima convinzione e pubblicò : La Uberté; — La liberté 
politique; — La liberté civile; — La liberté de coscience. 

Le sue convinzioni lo eccitarono a ragionare della sorte di chi soffre 
e pubblicò : L’owvrier de huit ans. — L’ouvriere. Egli perseverante nei suoi 
alti propositi e confidando nel successo, parlò a’ grandi e a’ pusilli, e 
difese sempre la libertà, il lavoro, la dignità umana, la pace. 

Giulio Simon è del bel numero di quella nobile schiera di pensatori 
che illustrarono in Francia l éra luminosa che incominciata con la re- 
staurazione, seguitò durante il governo degli Orleans e poi sotto il se- 
condo Impero, e durò fin dopo la repubblica. 


Qui finiva il necrologio della mia relazione, quando nuovi recentissimi 
lutti mi hanno obbligato a continuarlo. 
Poche parole dirò per G. Battista Santangelo. Fu poeta dialettale, di- 


la vie et les travaur d’ auteurs belges contemporains. — Etudes sur le patoy de la 
Belgique. — L'Universitét de Liege depuis sa fondation. 

In filosofia pubblicò: Questions psicologiques. — La philosophie en 1854. — La mec- 
‘canique e la liberté. (Dizionario del De Gubernatis, edito nel 1870). 


16 RELAZIONE PER L'ANNO 1896 


resse per lunghi anni con amore le scuole elementari della nostra città, 
e di sua sapienza pedagogica die’ alta prova con le relazioni scolastiche 
che diedero a lui l’onore di vedere premiato il nostro Municipio in di- 
verse Mostre didattiche. Egli fu tenuto in alto conto dall’illustre peda- 
gogista Giuseppe Allievo. 

L’avv. Giovanni Costantini, antico nostro socio, è morto il giorno 11 
del cadente mese quasi d’improvviso. La sua salute s'era da tempo gran- 
demente infievolita, però negli ultimi mesi era d’assai migliorato. Una 
caduta, l'influenza sopraggiuntagli, lo trassero al sepolcro. 

Pei non comuni pregi d’animo e di mente che il possedevano, la sua 
morte destò nel foro e negli amici universale rimpianto. 

Figlio a Costantino che fu esimio letterato, poeta e magistrato, si educò 
alle lettere e si addisse poi con lode alla avvocatura. Giovane, scrisse 
Dello scopo principale della Divina Commedia, mentre intorno a quel tempo 
due illustri letterati, Francesco Perez e Giuseppe Borghi avevano ra- 
gionato dei fini del sommo poeta. 

Fu degli allievi più studiosi di Emerico Amari, e a lui si strinse di 
schietta indissolubile amicizia,’ chè in ambi era conformità di credenze 
e di tendenze politiche. 

Nel 1860 occupò alto ufficio nel Ministero di Giustizia, e fu membro 
del Consiglio straordinario di Stato incaricato di esaminare ed esporre 
al Governo gli ordini e gli stabilimenti adatti a conciliare i bisogni pe- 
culiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e prosperità della na- 
zione italiana. 

Gli venne offerto il nobile ufficio di Consigliere di Corte di appello; 
accettando, avrebbe incominciato dove il padre suo ebbe finito. Ma non 
accettò, e tornò al foro ove era a lui serbato fra’ migliori cospicuo loco. 
Scrisse importanti difese; ebbe parola efficace, vibrata, talvolta acre. 
Primeggiò per cultura letteraria. Fu assessore delle Curie arcivescovili 
di Palermo e di Monreale. 

Visse nell’oggi, ripensando ad ideali non attinti, ad un passato che non 
poteva più tornare, e si chiuse in se stesso conducendo vita austera. 
Agli affanni, alle miserie, che accompagnano sempre la nostra esistenza, 
egli trovò dolce conforto nella cultura dello spirito. 

Ho finito. La molta materia di cui dovevo intrattenervi mi ha obbli- 
gato ad essere lungo. Ho bisogno della vostra cortese indulgenza. 


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RELAZIONE PER L'ANNO 1897 


LETTA 


nel 19 Giugno 1898. 


Sommario: Giacomo Leopardi — Collocamento in S. Domenico del busto del padre Alessio 
Narbone — La Biblioteca — Pubblicazione degli Atti — Letture: G. Pipitone Fede- 
rico; Fedele Pollaci; L. Sampolo; A. Venturi — Ricordi luttuosi: L. Di Maggio ; En- 
rico D’Orleans; F. Serafini; T. Vallauri; L. Tosti; Canovas Del Castillo; D. Vitrioli—Fau- 
sti ricordi: Onoranze al Prof. Di Giovanni, al Prof. Pitrè e al Prof. Borzi. 


Ricorrendo in questo anno, il 29 del volgente mese, il primo centenario 
della nascita di Giacomo Leopardi, reputo acconcio ricordare il nome di 
Lui che fu di quegli uomini d’antico stampo italiano che in alcuna età 
non sorsero mai frequenti. 

Maugurandosi testè nella nostra Università la effigie in marmo del 
Leopardi, volle l'illustre oratore (1) indagare quali relazioni abbia avuto 
il Poeta con la Sicilia. 

Ricordò una lettera di Michele Bertolami al poeta, una iscrizione di 
Ferdinando Malvica in onore di lui (2); un desiderio del poeta manife- 
stato al Gargallo di voler dettare in Palermo un corso di lezioni (3); ri- 
cordò Giuseppina Turrisi Colonna le cui malinconiche liriche trovano un 
riflesso nei Canti nobilissimi del Recanatese. E ricordò la edizione fatta 
in Palermo nel 1854 di XXIII Canzoni di lui. 


(1) Prof. GrovannI MESTICA. 
(2) A Giacomo Leopardi, poeta filosofo delle età sonnolenti rimprovero solenne. 
(3) Vedi C. CALDERONE, I Borghi in Sicilia. G. Pedone Lauriel, 1886. 


18 RELAZIONE PER L'ANNO 1897 


Frugando anch'io nelle biblioteche per sapere di quelle relazioni, ebbi 
la fortuna di trovare notizia più degna di memoria di quelle sopra ri- 
cordate. Rinnovatasi nel 1852 la nostra Accademia, il nome del Conte 
Giacomo Leopardi fu scritto fra i socii corrispondenti, insieme con quelli 
di Giovanni Carmignani, di Pasquale Galluppi, dt Pietro Giordani, di AI 
fonso La martine, di Guglielmo Libri e di altri siffatti valentuomini (1). 

La nostra Accademia rendeva così onore al poderoso ingegno del poeta 
e del filologo che appena uscito di fanciullezza avea fatto una bella tradu- 
zione degli idillii del siracusano Mosco, e levò poi alto grido di sè, non 
solo in Italia, ma anche in Germania, lodato dal Niebhur e appellato 
da quell’ alto ingegno di Pietro Giordani pari piuttosto ai migliori dei 
Greci che superiore agli Italiani. 

Questo tributo di onore venne a lui in quel tempo che fu il più ope- 
roso della sua vita letteraria. Nel 1826 tradusse nella lingua dei trecen- 
tisti alcune vite dei Santi Padri della raccolta di Combefisio con tanta 
maestria da ingannare i filologhi più esperti. 

Mm quello stesso anno mandò in luce un volume di idillii, elegie, tra- 
duzioni, e nel 1851 die’ fuori la terza edizione dei suoi Canti in cui ac- 
colse quanto di meglio avea dato nelle precedenti, aggiungendovi nuove 
stupende poesie : il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, La quiete 
dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio. 

Dall’entrare nell'Accademia nostra, dall’ essere il poeta argomento di 
lavori dei nostri letterati (2) al divenire popolare fra noi corse parec- 
chio tempo. I nostri venerati maestri, educandoci alla civile letteratura 
ce’ indirizzarono amorosamente allo studio di Dante, dell’Alfieri, del Pa- 
rini, del Foscolo. 

Al culto di quei sommi si aggiunse poi quello del Leopardi, le cui li- 
riche entrarono nelle scuole, e s' impressero allora nella memoria dei 
giovani i canti A/'Italia, Pel monumento a Dante, Ad Angelo Mai; canti 
ispirati in cui ebbe suono ed eco la coscienza delle miserie d’Italia nostra 
in quel tempo. Onde un nostro giovane e valente poeta, mancato sì presto 
alla vita e alle lettere (3), in una sua ode al Leopardi esclamava : 


Sì ben pregavi tu che a questa afflitta 
Donna pietosa e bella 


(1) Elenco dei socii componenti l'Accademia delle Scienze e Belle Lettere di Palermo 
all'epoca del 1835. Estratto dal giornale di Scienze Lettere ed Arti per la Sicilia, giu- 
gno 1835 n. 150. Palermo, tip. del Giornale letterario. 

(2) Vedansi su Giacomo Leopardi, discorso di Pompeo Inzenga, nel giornale di Scéenze- 
Lettere ed Arti anno 1834, e altro di Isidoro La Lumia nella Concordia 1840. 

(3) GrusePrPE MACHERIONE, Liriche, Catania, 1896. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 19 


La qual nomasi Italia, un dì regina 
De le plaghe dell’orbe, or derelitta, 
Dio non velasse del genio la stella; 

E che nel cuor dei suoi divisi figli 
Rigerminasse la virtù latina; 

E di sacri perigli, 

Di resoluto e nobile ardimento, 

Li agitasse ancor caldo un sentimento. 


E venne il tempo in cui gli Italiani detter prova che non era mancato 
il senno ed il valore di Roma, e conquistarono la indipendenza dallo stra- 
niero, e ricomposero ad unità la patria. 

Adunque degno è di nota che prima in Sicilia a salutare ed onorare 
degnamente l’altissimo poeta fu la nostra R. Accademia. 

Ed ora Palermo festeggia il primo centenario del nascimento di lui 
innalzando due busti; I uno, opera del valente scultore A. Ugo, nella 
R. Università, e l’altro, modellato dal bravo scultore Pasquale Civiletti, 
in una ajuola della incantevole Villa Giulia, ove fra 1’ infinita armonia 
dei fiori sorgono le immagini di poeti, pittori, musicisti. 


La effigie in marmo del padre Alessio Narbone, eretta per iniziativa 
della nostra Accademia, è già collocata nel tempio di San Domenico di 
contro a quella dell’illustre filantropo dei matti barone Pietro Pisani. Vi 
si legge sotto : 


AL P. ALESSIO NARBONE S. I. 

TEOLOGO STORICO ERUDIPO SENZA PARI 
NATO IN CALTAGIRONE IL 9 AGOSTO 1789 
MORTO IN PALERMO IL 12 DICEMBRE 1861 

LA R. ACCADEMIA DI SCIENZE LETTERE ED ARTI (1) 
1896. 


| Oggi ci gode I’ animo di annunziarvi che le collezioni delle Società 
scientifiche, con le quali si è in corrispondenza, sono complete. E della 
cortesia onde ne hanno sollecitamente risposto i Presidenti e i Bibliote- 
carî delle Accademie e degli Istituti scientifici, che attesta la stima in 
cui la nostra è tenuta, sentiamo il debito di rendere qui vive e pubbliche 
grazie. Degli atti e de’ rendiconti di coteste Accademie sarà pubblicato 
il catalogo, acciocchè voi, illustri socî, possiate conoscere gli atti delle 
Accademie, che da noi si possiedono, e trarne vantaggio pei vostri studî. 


(1) V. sopra Alessio Narbone quel che ne dissi nelle relazioni del 1894 e del 1895. 
3 


20 RELAZIONE PER L'ANNO 1897 


Le Società scientifiche, con le quali I Accademia tenevasi nel 1855 in 
corrispondenza di doni e di comunicazioni, erano le seguenti: due di 
Palermo, Commissione di Agricoltura e Pastorizia, R. Istituto di Vacci 
nazione; una dell'Isola, Accademia di Scienze, Lettere e Arti dei Zelanti 
di Acireale; altra delle Calabrie, Accademia di Scienze e Lettere di Co- 
senza; altra di Napoli, Accademia delle Scienze, Società Reale Borbonica; 
altra di Roma, Accademia Pontificia dei Lincei. 

Delle Accademie straniere notavansi: la Società di Scienze naturali 
di Cherbourg, la R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti del Belgio e 
l'Osservatorio Reale di Bruxelles; la I. e R. Accademia di Scienze natu- 
rali e filosofiche di Vienna, e l’Istituto Smithsoniano di Washington. In 
tutto undici accademie. 

Oggi noi siamo in corrispondenza con quasi tutte le Accademie ita- 
liane, e con parecchie di Francia, di Germania, d’Austria-Ungheria, della 
Gran Bretagna, della Russia, e di parecchie altre degli Stati Uniti d’Ame- 
rica, del Messico, del Brasile, del Canadà, dell’ Australia. 

Sono 52 Accademie e Istituti d’Italia, e 120 stranieri. Gli Atti di tutti 
cotesti Istituti scientifici, la maggior parte dei quali cercherebbonsi invano 
nelle srandi biblioteche pubbliche, rendono preziosa la nostra. 


Un buono statuto, buone letture, sono parte dei mezzi; ma non è tutto 
ciò che abbisogna per rendere illustre un’Accademia. 

La istancabilità delle nuove Accademie nella pubblicazione dei loro 
lavori le differenzia dalle antiche. 

Non solo l’Istituto di Francia, la Società Reale di Londra, le Accademie 
di Berlino e di Pietroburgo, ma anche quelle di Edimburgo, di Dublino, 
Stocolma, Copenaghen, di Monaco, di Amsterdam, di Bruxelles, e di Li- 
sbona, la R. Accademia delle Scienze di Torino, quella dei Lincei, e l'Isti- 
tuto Lombardo, e quello Veneto, e l’ Accademia delle Scienze di Bologna, 
e l'Ateneo di Brescia e la Società Reale delle Scienze di Napoli devono 
la loro celebrità alla pubblicazione dei loro atti, ed in essa appunto di 
mora la vita delle dotte Assemblee. E noi sullo scorcio del volgente se- 
colo, abbiamo dato fuori ben sette volumi della Nuova Serie, e quattro 
della terza, ai quali ne sarà aggiunto fra non guari un altro. Confi- 
diamo che mercé le sue pubblicazioni l Accademia salga ancora più in 
meritata fama. 


L'Accademia, nell’anno decorso, tenne poche tornate; si ebbero sola- 
mente quattro letture. ; 
Nella mia Relazione, che voi leggerete nei nostri Atti, io feci ricordo 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 21 


delle letture del prof. Borzì, del D.* Pitrè, del prof. Natoli e del prof. Fe- 
dele Pollaci Nuccio, e commemorai i socî trapassati nel 1896 (1). 


Il socio G. Pipitone Federico lesse uno studio « Su pessimismo nella poe- 
sia di Giovanni Meli, e sui critici del Poeta ». Nel suo discorso, dopo avere 
dimostrato, con una larga analisi, sorretta da opportune citazioni, come 
il Meli non fosse Arcade, secondo credono i suoi principali critici, ma forte 
e profondo pessimista, oltrepassante in alcuni punti lo stesso Leopardi, 
confutò uno ad uno, con vigoria e dialettica stringente, i critici più repu- 
tati del poeta, raffermando il valore grandissimo dell’autore del Polemone. 

La lettura del prof. Pipitone fa parte di uno studio sul Poeta e i suoi 
tempi, che l'editore Reber ha testè pubblicato. 


Il socio Cav. Fedele Pollaci Nuccio faceva la sua seconda lettura (2), 
sul tema: I Feudalismo — Federico IT —I Comuni Siciliani. Svolse, con 
quella competenza che gli è propria, la parte riguardante il feudalesimo 
in Sicilia. I Normanni introdussero i feudi; la potenza dei baroni venne 
infrenata dai principi che domina: rano da assoluti signori. Nè qui mai 
insorsero, se ne eccettui il ribellamento contro il primo Guglielmo. Egli 
ci espone le leggi normanne intorno ai feudi, conservateci nel libro delle 
Costituzioni. Federico II di Svevia perfezionò , con le sue leggi, 1’ ordi- 
namento dei Normanni, e pose in migliore armonia gli elementi costi- 
tutivi della feudalità, signori e vassalli, e quelli politici della società, 
principi, baroni e popolo, e per siffatto equilibrio potè reggersi quella 
costituzione per oltre sei secoli. 

Ond'è che, mentre altrove il feudalesimo fu ultrapotente, qui in Sicilia 
fu sempre temperato sotto la signoria dei Normanni e degli Svevi. Mo- 
deravansi a vicenda, come scrisse il nostro Amari, nella Costituzione 
Siciliana, il principato e il baronaggio, nè illimitati diritti avevan questi 
sulle persone, nè gravissimi sulle facoltà; i villani men servi che altrove; 
non eran servi i rustici; i borghesi, i cittadini, fin delle terre feudali, 
sentivano lor libertà, loro immunità sostenevano. Il potere giudiziale, 
dipendendo direttamente dal Principe, non serviva a tutte voglie della 
feudalità. Comportabili le gabelle, miti i servigi, rarissimi gli universali 


(1) Giuseppe Di Menza, P. Giuseppe Orlando, prof. Saverio Cavallari, prof. Giuseppe 
Zurria, prof. Mariano Pantaleo, prof. Giuseppe Fiorelli, Giulio Simon, G. Battista San- 
tangelo e Giovanni Costantini. 

(2) Nell'anno 1896 egli aveva fatto la prima lettura su quel tema. 


DI RELAZIONE PER L'ANNO 1897 


tributi, e i parlamenti soli concedean questi; i parlamenti conoscean solen- 
nemente le leggi dettate dal Re (1). 


To, nel novembre ultimo, tolsi a tema « Vincenzo Errante» che fu socio 
della nostra Accademia, e segretario della classe di lettere, essendone 
parso acconcio favellare di persona, che fu parte non ultima della grande 
rivoluzione del 1848, quando da li a poco si sarebbero fatte grandi feste 
per celebrare il cinquantennio di quel memorando avvenimento, e quando 
il Consiglio Comunale deliberava che la sepoltura dello Errante fosse in 
S. Domenico, ove a pubbliche spese sorgeva già un modesto monumento. 

Il subbietto del tema, meglio che il nome di chi lo trattava, attirò 
nell'adunanza non pochi socî, ed anche persone di fuori l'Accademia. 

Io ricordai la sua giovinezza, i servizî da lui resi alla patria, il suo 
esilio, il ritorno nel 1860, le sue prose e i suoi versi. Letterato, poeta, 
uomo politico, ben meritava che in questa Accademia si fosse fatto largo 
ricordo di lui. 

Altri, con parola più eloquente, avrebbe potuto tesserne le lodi, nes- 
suno con maggiore affetto, chè io da giovanetto appresi ad amarlo ed 
ammirarlo, e, dopo il suo ritorno dall’ esilio, gli fui stretto da più che 
fraterna amicizia. 


L’adunanza del dicembre fu solenne per numeroso ed eletto uditorio. 

Lesse l'illustre socio Prof. Adolfo Venturi Sullo stato attuale delle dot- 
trine cosmogeniche. Il tema era dei più attraenti; il problema dei cieli, 
che sono 


la gloria di Colui che tutto move, 


e intorno al quale si sono affaticati, si affaticano e si affaticheranno le 
menti più eccelse per discoprire i mondi e le armonie di lassù. 

Su questa lettura che destò sì vivo interesse, consentite che alcun poco 
mi intrattenga, tanto più che, pubblicata a parte, non sarà riprodotta 
nei nostri Atti. 

Il sommo Pitagora precesse di venti secoli l'avvenire. Egli intuì che 
i pianeti erano da considerarsi quali corpi roteanti attorno al sole im- 
moto; che le stelle disseminate per gli spazî gravitavano, a distanze in- 
calcolabili dal sole; centri esse di altri sistemi. 

Epicuro, per spiegare l’ origine e la natura delle cose, immaginò un 
suo sistema, nei cui particolari s’ ispirarono i moderni per stabilire le 


(1) AMARI: Storéa del Vespro, Capo X, pag. 67. Ea. di Milano, 1886. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 25 
ipotesi sulla costituzione della materia che sembrano tutt'ora le più ve- 
rosimili. 

Nell’età moderna Copernico inaugura i suoi studî cosmogenici, acco- 
gliendo la grande dottrina di Pitagora. Dopo lui, Klepero dimostra le 
tre celebri leggi del moto dei pianeti; Galileo finisce di dimostrare il mo- 
vimento di rotazione della terra; Cartesio affronta audacemente l'ignoto 
e stabilisce la prima cosmogonia dei tempi moderni. La dottrina dei vor- 
tici risente l'influsso delle antiche speculazioni di Epicuro. Egli comprese 
che il sistema del mondo è puro meccanismo, ed è perciò noverato fra’ 
più benemeriti delle speculazioni del cielo. 

Accanto a Cartesio sorgono Galileo e poi Leibnitz e Newton, il primo 
dei quali vide 

Sotto l’etereo padiglion rotarsi 

Più mondi e il sole irradiarli immoto, 


Onde all’Anglo che tanta ala vi stese, 
Sgombrò primo le vie del firmamento. 


Newton ha la gloria di annunciare la legge dell’universale gravitazione, 
e Leibnitz fornisce alla scienza il mezzo di potere applicare la gran legge 
allo studio dei fenomeni naturali del moto. Da qui data la vera vita 
scientifica delle dottrine riflettenti gli argomenti del Cosmo. 

Herschell scopre nelle nebulose numerosi esempî dello stato di diffu- 
sione della materia. E qui il Venturi ne parla dell’etere e delle difficoltà 
che s'incontrano nel conoscere la natura delle forze che debbono reg- 
gere la materia primitiva e.condurla ad assumere le forme attuali. 

La gravitazione specifica delle particelle non basta a spiegare i moti 
attuali; ci vuole una quantità determinata di forza viva impartita a tutte 
le particelle del sistema. Vi hanno dunque due ordini di forze : l’attra- 
zione mutua delle parti, e la forza viva comunicata a ciascuna di queste. 

E qui ne ragiona della genesi dei pianeti e delle origini e possibilità 
di costituzione di quei corpi che fanno corteggio a quasi tutti i pianeti. 

Egli dagli studî fatti deduce che accanto alle due forze motrici della 
materia, la gravitazione e la originaria energia potenziale, è indispen- 
sabile considerare altre forme dinamiche minori o secondarie, ma capaci 
di grandi effetti. 

E qui favella dell’ altro enigma del cielo che sono le comete, che i 
popoli credono precorritrici di disastri, e della magistrale teorica di Schiap- 
parelli, secondo la quale si trasforma una cometa in uno sciame di stelle 
cadenti. 

Lo studio delle comete ha fatto riconoscere un’ azione cosmica nelle 


24 RELAZIONE PER L'ANNO 1897 
forze elettromagnetiche , ed è questo un nuovo dinamismo acquisito a 
vantaggio dei meccanismi del cielo. 

Dopo questa stupenda esposizione delle dottrine cosmogeniche, l’illustre 
socio si propone il problema: quali saranno, attraverso al succedersi dei 
tempi, le vicende di questo maraviglioso meccanismo che incanta ed 
affatica insieme le nostre menti. 

Egli dice : i destini delle cose non sono avvolti in meno densa tenebra 
di quella onde sono involute le origini. Ed egli ci trasporta per le vie 
dell’avvenire. Se fra milioni di anni il gran luminare si estinguerà e la 
sua morte trarrà seco quella di tutte le creature viventi, la materia non 
può rimanere eternamente inattiva, e darà forma ad altri corpi, ma il 
come ci sfugge. 

Questa vicenda ultima delle cose di questo mondo ci richiama alla 
memoria i bei versi del gentile e profondo poeta, Giacomo Zanella, nella 
stupenda poesia La conchiglia fossile : 

Poi quando disceso 
Sui mari redenti 
Lo spirito atteso 
Ripurghi le genti, 
E splenda dei liberi 


Un solo vessillo 
Sul mondo tranquillo; 


Compiute le sorti, 
Allora dei cieli 
Nei lucidi porti 
La terra si celi; 
Attenda sull’ancora 
Il cenno divino 
Per nuovo cammino. 


Nell'anno decorso, come di solito, la morte ha menato la sua inesora- 
bile falce nelle file dei nostri Socî. 

Imncomincio da colui che precedette gli altri nella vita d’ oltretomba, 
e al quale io, infermo, non potei dare, in nome vostro e mio, l'estremo 
saluto. 

È il Padre Luigi Di Maggio. Della medesima età, ci conoscemmo da 
fanciulli. Ei fu « degli agni della santa greggia » di Domenico; io presi 
altra via applieandomi agli studî giuridici. Ci riavvicinammo più tardi. 

Gentile d’aspetto, d’indole mite e benigna, prontissimo d’ingegno, fu 
allievo e amico di Paolo Giudice dello stesso ordine, e gli serbò sempre 
amicizia, pur dopo che questi ebbe smessa la tunica di frate. 

Costretto a lasciare la diletta Palermo, per le sue idee liberali, dimorò 


” 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 25 
alcun tempo in Napoli, ove il pergamo fu la nobile palestra che gli pro- 
cacciò fama di valente oratore. Predicò poi nelle maggiori città italiane, 
e fu dei più chiari oratori dell’età che fu sua, riscuotendo ovunque plausi 
e trionfi. 

Di lui venne edito il Sermone Sul Duello recitato nella Chiesa di 
Santa Maria Novella. 

Nel volume V dei nostri Atti Nuova Serie (1) leggesi il Saggio Sto- 
rico-Critico sul 4° volume degli Annali di Pietro Ranzano, letto nella. 
tornata degli 11 luglio 1875, nel quale egli dimostrò con logica strin- 
gente che il 4° volume non fu mai scritto, rivendicando la fama dell’im- 
mortale Fazello, cui fu apposto malignamente di averlo involato (2). E 
pubblicò nel primo centenario in onore del B. Pietro Geremia, il pa- 
negirico recitato da lui nel tempio di S. Domenico. 

La Società Siciliana per la Storia Patria, dopo varie vicende, acquistò 
stabilità e importanza, essendone Lui Segretario Generale, e Presidente 
il Marchese di Torrearsa. 

Il Di Maggio impresse alla società l indirizzo, che, in breve tempo, 
la fè rivaleggiare con le più antiche d’Italia; le diè nobile ricetto nel- 
l’ex-convento di San Domenico, e rifatta a nuovo una parte dell’edificio, 
vagheggiava innalzare una grande sala per la biblioteca e per le solenni 
occasioni. E lo ardito disegno avrebbe compiuto, chè in lui il volere era 
potere; ma la morte glielo impedì. Il nome del padre Luigi Di Maggio 
non può scompagnarsi da quella Società, che può dirsi creata da lui. 

Le nobili signore, che intendono caritatevolmente a soccorrere i po- 
veri a domicilio, lo ebbero cooperatore amoroso ed efficace. Lui dame 
e giovinette richiedevano giornalmente di consigli, e in lui confidavano 
i più reposti pensieri, le ansie, gli affanni, i dubbî, ed egli consigliava, 
confortava, ammaestrava. Lui ebbero paternamente affettuoso i pargo- 
letti. 

La sua morte fu lutto cittadino; commoventissimo il mesto corteo che 
ne accompagnò la salma al cimitero. 


(1) Atti della R. Accademia di Scienze Lettere e Belle arti, Nuova Serie. Ufficio ti- 
pografico Amenta, 1875. 

(2) Il Prof. Bozzo, Segr. Gen. della nostra Accademia in una Nota in fine del vol, V, 
Nuova Serie, accenna ad un altro lavoro del Di Maggio Cenni sulle opere degli insigni 
e dotti uomini del secolo XVIII, Lorenzo Olivier e Benedetto del Castrone siciliani; 
ma questi Cenni non furono pubblicati. 

L’Olivier e il Del Castrone erano domenicani, l’uno fisico, l’altro matematico, e di en- 
trambi fa onorato ricordo lo Scinà nel suo Prospetto della Storia letteraria del Se- 
colo XVIII. Vol. I, pag. 36, e vol. II, p. 95. 


26 RELAZIONE PER L'ANNO 1897 

Dame e giovinette, commosse e singhiozzanti, commiste alla eletta 
cittadinanza e al popolo, rendevano onore di pianto all’ illustre e caro 
trapassato, all’ ottimo e pio frate di S. Domenico, che seppe nel mede- 
simo tempo essere ottimo cittadino, accoppiando nel nobile suo animo 
religione e patria, cose che altri a torto ritiene inconciliabili, come se 
Cristo avesse imposto a’ credenti di non amare la patria. 


Enrico d’Orleans, Duca d’Aumale, che nel 1893 fu nominato socio ono- 
rario, è morto d'improvviso nel suo podere Lo Zucco presso Partinico. 

Il grande infortunio del Bazar di Carità in Parigi, tra le cui vittime, 
spente nelle fiamme vertiginose, era una sua congiunta, funestò le ul 
time ore di lui, e forse fu causa della improvvisa sua morte. 

Figlio a Luigi Filippo, predilesse Palermo, ove suo padre fe’ dimora 
nel principio del secolo; e qui sovente veniva a diporto. 

Uomo d’armi, generale, letterato, conoscitore di lingue antiche, biblio- 
filo, dotato di una rara memoria, venne in grido fra’ dotti. 

Scrisse l’Histoîre des princes de Condé, ma tardò a pubblicarla. Quando 
venne fuori l’Histozre de Cesar, il Sainte Beuve, esclamò : « Voila le livre 
« de l’empereur paru; c'est le moment de se montrer généreux; César 
« doit ouvrir la porte a Condé ». Ma Condé dovette attendere il 1869. 

Il proscritto di ieri, rientrato in patria, fu nominato membro dell’Ac- 
cademia Francese. La gioia di rivedere la Francia fu mista al dolore, 
perchè la trovò vinta, mutilata, sanguinante; e dopo la sua nomina, si 
spense, com’egli medesimo disse, l’ultima fiamma del suo domestico fo- 
colare. 

Nobile esempio il Duca d’Aumale! Figlio ad un Re, amò gli studî, e 
divenne valente letterato. Ricchissimo di censo, spese ingenti somme 
per l’acquisto di ricche collezioni, e vivente donò all'Istituto di Francia 
il castello di Chantilly, ove sono musei preziosissimi. Con questa reale 
liberalità egli innalzò a sè stesso un monumento dere perennius. 

Filippo Serafini, al quale fui legato per antica amicizia, fu romanista 
e civilista illustre. 

Insegnò Diritto Romano, per 40 anni, in Pavia, in Bologna, in Roma, 
in Pisa, e discepoli di lui sono quei valorosi che insegnano oggi il Di- 
ritto Romano nelle Università italiane. 

Egli, con l'insegnamento, con le opere elementari, con altri dotti la- 
vori, e con la versione del Trattato di Pandette del suo venerato mae- 
stro, Ludovico Arndts, corredata da lui di dottissime note, giovò a far 
tornare fra noi in onore gli studî del Diritto Romano. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 27 

Tommaso Vallauri, nato a Chiusa di Cuneo, il 23 gennaio 1805, si è 
spento il 2 settembre. 

Sin dal 1843, insegnò eloquenza greca e latina nell'Università di To- 
rino. Diè in luce molte opere in italiano e latino, ed è stato uno de’ più 
illustri latinisti dei nostri tempi, potendo ben paragonarsi al Bembo, al 
Sadoleto e al Vida. 

Fu accusato di aver fatto parte del Senato. Il Vallauri, cattolico, non 
istimò che il servire la patria fosse contrario ai doveri del buon catto- 
lico. Non rinunziò alla sua fede, ma alla fede del credente aggiunse 
quella del cittadino. 

E chiuse nobilmente la vita, istituendo erede delle sue sostanze la 
Reale Accademia delle Scienze di Torino, e lasciando un cospicuo legato 
a quella Università, ove per lunghi anni aveva insegnato. 

Sì splendidi esempî sono degni di imitatori. Le Accademie e le Uni- 
versità, arricchite da liberali donatori, risponderanno più adequatamente 
agli alti fini, a cui intendono. 


L’'Abate Luigi Tosti, Cassinese, nato in Napoli, è una gloria italiana. 

Parecchie sue opere sono divenute classiche. 

Egli illustrò la Storia d'Italia con la Storia della Lega Lombarda; con 
la Storia della Contessa Matilde; con la Storia di Bonifazio VILI e dei suoi 
tempi. Illustrò la Storia della Chiesa coi /rolegomeni alla Storia Univer- 
sale della Chiesa; con la Storia del Concilio di Costanza; con la Storia dello 
Scisma (Greco; con la Storia di Abelardo e de' suoi Tempi, e la Vita di 
S. Benedetto. ; 

Devoto alla Santa Sede, e d'animo italiano, egli ebbe incarico di pre- 
parare gli animi alla pace fra la Chiesa e l'Italia, da molti anni sospi- 
rata dai Cattolici. Ed egli cattolico ed italiano, come Gioberti, Rosmini, 
Balbo, conoscendo che il fatale dissidio noccia alla Chiesa ed allo! Stato, 
scrisse : La Conciliazione; ma l'inclito vegliardo, dopo breve tempo, fu co- 
stretto a disdire ciò ch’ebbe scritto. E fu per lui grande amarezza prof- 
ferirsi pentito e dolente di aver dettato ciò che egli sentiva dentro l’anima 
sua di cattolico e di cittadino italiano (1). 


Don Antonio Canovas del Castillo, che fu Presidente del Consiglio dei _ 
Ministri in Ispagna, venne ucciso da un italiano, Michele Angiolillo, che, 
seguendo il triste esempio del Caserio, volle vendicare i suoi colleghi 
di Barcellona; l'uno e l’altro, con Lega e Acciarito, hanno vilipeso coi 
loro assassinî il nome d'’Italiano. 


(1) Vedi nell'Archivio Storico Italiano, Serie V. t. XXI: IL Padre Tosti di E. PistELLI. 
4 


28 RELAZIONE PER L'ANNO 1897 

Fu il Canovas uno degli uomini politici più eminenti della Spagna, 
oratore eloquente, insigne letterato, che lasciò una Storia del dominio 
austriaco in Ispagna. 

Liberale e monarchico, fu dei capi del movimento politico che por- 
tarono al: trono Alfonso XII. 

La morte impedì a lui di vedere la sua diletta Spagna dilacerata dalle 
fazioni, mentre i suoi prodi soldati combattono eroicamente presso Cuba 
contro gli Stati Uniti di America. 


Qui finiva il necrologio dei nostri Socî ma, leggendo ora la mia re- 
lazione, son costretto aggiungere il nome di Diego Vitrioli, al quale in- 
dirizzò il Principe di Galati il seguente greco epigramma, che, tradotto 
in latino, suona così : 


Te meus, o Diduce, hic mandat salvere libellus, 
Cui byra sorte data est inclyti Virgilii; 

IWlum, queis praestas, Charitum si dusxerit una, 
Ipse ego, per superos, sidera fronte petam! 


Al 20 maggio spegnevasi in Reggio la nobile vita di Diego Vitrioli, 
ottantenne. Fu uomo antico in tempi moderni, vivendo con Tacito e con 
Virgilio, e rifuggendo dalla vita dei tempi suoi. La sua biblioteca, la sua 
casa, ricca di vasi greci ed etruschi, con le pareti ornate d'’affreschi, coi 
busti dei più grandi uomini di Roma e di Grecia, gli rievocavano il mondo 
antico e gli facevano rivivere i classici scrittori, e con essi ragionava 
con la loro stessa favella, e con maestria pari alla loro. 

Molti lavori egli scrisse : la X./ia, poema elegantissimo ; Epigrammi, 
Elegie, Epistole, Epigrafi, Orazioni, L’Asino Pontaniano, Elogio di Marian- 
gela Ardinghelli, celebre letterata napoletana, Weglie Pompejane. 

Giovane ancora, ottenne un premio dall’ Accademia Ercolanese, ed a 
lui procacciarono lodi la dissertazione latina sul tempio di Giunone Lu- 
cinia, e l’altro sull’ Agro Reggino in due epistole latine a Paolina Leo- 
pardi, e levarono grido le elegie, specie le Pompejane, d’onde a lui fu 
dato il nome di Poeta di Pompei. 

Emulò gli antichi poeti, e nei suoi versi c'è venustà, armonia, talvolta 
ardimento, splendore d’imagini, finitezza di stile. 

La morte del Vitrioli, che fu detto « latinarum literarum decus, elegan- 
tissimus latinae poeseos cultor» è lutto nazionale. 


Di solito il ricordo degli estinti è stata l’ultima parte del mio discorso; 
ma nell’anno passato ai lutti si è aggiunta l’ allegrezza, per onoranze 
fatte a due nostri socî; ond'io non saprei non tenerne conto. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1897 29 
I non comuni meriti letterarî e scientifici del nostro illustre Presidente 
gli avevano procacciato l’alto onore di essere ascritto fra’ Socî dell’Isti- 
tuto di Francia. 
Ora la suprema autorità della Chiesa lo innalzò al Vescovato di Teo- 
dosiopoli, ed il governo del Re lo decorò della commenda della Corona 
d’Italia : 


Fannogli onore, e di ciò fanno bene. 


Della nostra Accademia, già Accademia del Buon Gusto, nel secolo 
passato, furono Direttori M.' Vincenzo Longo da Messina, uno dei promo- 
tori efficaci della medesima, che fu poi Giudice della Apostolica Legazia; 
indi M.r Salvatore Ventimiglia, che fu insigne Vescovo di Catania. 

Nel nostro secolo, Presidenti sono stati M." Gabriele Gravina, Vescovo 
di Flaviopoli, poi Cappellano Maggiore, e M." Giuseppe Crispi, preclaris- 
simo grecista e M" Benedetto D'Acquisto, insigne filosofo che fu arcive- 
scovo di Monreale. È quarto ora il chiarissimo M" Di Giovanni, cui augu- 
riamo possa salire a maggiori altezze. 


Il nostro insigne folklorista, Prof. Giuseppe Pitrè, ha speso tutta la 
vita nella letteratura popolare, ha raccolto canti, fiabe, tradizioni, pro- 
verbî, giuochi, pregiudizî e pubblicato la bibliografia universale degli studî 
folkloristici di tutte le nazioni. Lode e premio gli eran dovuti; da ogni 
parte la lode; dalla R. Accademia di Scienze di Torino il premio Bressa 
di L. 10000. 

Ci piace riferire il giudizio che del nostro. Socio dava la Commissione, 
relatore il Prof. D’Ovidio. 

«Tra coloro ai quali si da nome di « Folk-loristi » e che in sostanza 
studiano la psicologia del popolo, il Pitrè è, senza dubbio, il primo in 
Europa. 

«In questo genere di studî varî tentativi s'eran fatti da ‘altri; ma il 
Pitrè fu il primo a cominciare con ordine metodico, continuato di ri- 
cerche generose e sicure in tutte quante le forme possibili. 

« E perseverò per circa 50 anni senza interruzione, raccogliendo un 
materiale scientifico così vasto, che nessuno in questo genere di studî 
può stare accanto a lui. 

« Mettendo il nome del Pitrè, si è tenuto conto non soltanto del suo 
alto e vero valore scientifico, ma anche della grande importanza morale 
che avrebbe di premiare una vita intera di lavoro disinteressato, e per 
molti anni solo da pochissimi riconosciuto ». 


30 RELAZIONE FER L'ANNO 1897 


E qui permettete che faccia altro ricordo, abbenchè sia tardi, ma a 
me non fu noto che ieri, il fatto che onora altro nostro illustre Socio. 

L'Istituto di Francia conferi nel 1895 il premio internazionale per gli 
studi Crittogamici, Fondazione Desmazières, all’opera del nostro Socio 
Prof. Antonino Borzì Studi Algologici, pubblicata in Padova nel 1875. Ri- 
portiamo il giudizio della Commissione. 

«I signor Antonino Borzì professore di botanica alla Università di Pa- 
lermo, fu dei primi ad usare il nuovo metodo (1), con tale successo che 
lo ha reso uno dei più stimati algologhi del nostro tempo. Una parte 
delle sue osservazioni è stata pubblicata in memorie più o meno estese: 
la maggior parte è raccolta in un'importante opera Studi algologici, ac- 
compagnata di belle tavole disegnate dall'autore. Un primo fascicolo è 
venuto fuori nel: 1883, un secondo il decorso anno. Questo secondo fa- 
scicolo che comprende 260 pagine e 21 tavole, è stato mandato al con- 
corso pel premio Desmaziéres. Dodici generi di cui cinque nuovi, vi sono 
studiati con la maggior cura. Aggiudicando il premio Desmazières al 
signor Borzì per i suoi Studi A/gologici, la Commissione sarebbe lieta che 
l’autore vedesse in esso un incoraggiamento a continuare le sue ricerche 
e a dare il seguito ai fascicoli già pubblicati ». 

Gli onori resi a’ nostri Socî tornano a decoro e vanto della Accademia 
cui appartengono. 


CeL9 


T4-5) 
IGN 


(1) « Si è spesso e da tempo avvertito che un gran numero di alghe verdi molto sparse, 
semplicissime nella struttura, che si moltiplicano con la scissiparità, non sono orga- 
nismi autonomi, ma stadi regolari o stati anamorfici d’altre alghe complicate. Perchè di 
ciò si fosse certi, bisognava conoscere esattamente la struttura intima della cellula, la 
stabilità della struttura, e distinguere le differenze spesso minime che le separano. Biso- 
gnava inoltre, seguendo l’esempio dei batteriologisti, prendere l’abitudine di coltivare 
le alghe in tali condizioni da poterle seguire in tutte le fasi del loro sviluppo senza 
mescolarvi altre specie e far variare queste condizioni in modo da far modificare — se- 
fosse possibile — il loro sviluppo. Questo metodo ha condotto a risultamenti notevolissimi 
non solo sotto l’aspetto biologico, ma anche sotto l'aspetto della classificazione ». Rela- 
zione della Commissione. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 


LETTA 
nel 25 Luglio 1899 
—3>3E=— 


SommMARTIO : Elezione di Socî — Proposta di riforma — Scambio d’atti con l'Accademia 
di Scienze di Torino — Catalogo degli atti delle Accademie che sì possiedono — Let- 
ture : del Can. Di Bartolo; del Prof. Cosentino; del Prof. Leto Silvestri; del Prof. Sal- 


violi — Commemorazioni : Dennis; Tornabene; Reyes; Minà Palumbo; G. Di Giovanni; 
Arabia; Civiletti -- Fausto ricordo: Lagumina, Vescovo di Girgenti. 


Signori, 


Compito gradito m'è ogni anno il narrare ciò che l'Accademia ha ope- 
rato, e molto doloroso il ricordarvi i nomi dei socî trapassati. 

Varî impedimenti hanno ritardato questa mia lettura, che dovrebbe 
essere preludio all'anno accademico, e nel corrente invece precorre di 
poco le vacanze autunnali. 


Le nostre fila si assottigliano di anno in anno, ma non si colmano i 
vuoti da parecchio tempo. Nel 1897 mancò il numero di quindici richiesto 
dallo Statuto per la votazione. 

L’anno appresso la tornata delle elezioni ricadde il giorno in cui il 
Municipio invitò a Solunto gli ospiti per la festa del 12 Gennaio, e la 
tornata andò a vuoto. Non si dubitava che le elezioni avrebbero avuto 
luogo in quest'anno. In gennaio, per impreviste circostanze, non si potè 
convocare l’ Accademia. Si indissero le nuove elezioni per giugno. Una 
prima volta non ci furono i quindici; di nuovo, a breve distanza, si ri- 
convocò l'assemblea per il 30 dello stesso mese, ma anche questa volta 
non si raggiunse il numero, e le elezioni non si poterono fare. 


32 RELAZIONE PER L'ANNO. 1398 

Donde ciò ? A me sembra che cagione precipua sia 1’ articolo dello 
Statuto che richiede il quarto dei socî ossia quindici su sessanta, senza 
distinguere se i socii attuali raggiungano il numero richiesto. Potendo 
avvenire che non pochi ne manchino nelle tre classi, ne occorrerebbe 
un minor numero. 

È necessario quindi che si riformi quell'articolo; se no, I’ andamento 
dell’Accademia troverà intoppi. 

Sarà presentata, se il mio desiderio non falla, una proposta per mo- 
dificare 1 articolo dello Statuto che richiede quindici su sessanta. 

Come le schiere dei combattenti si colmano appena l’uno o l’altro di 
essi cada nella mischia, così le nostre fila, scemate per morti e per tra- 
sferimenti, è bene si integrino senza grandi indugi. 

Piacemi notare che i nomi proposti per le varie classi erano chiari 
nelle scienze naturali e matematiche come nelle scienze morali e nelle 
lettere. 

L'Accademia che fu detta Palermitana, come Lombardo appellasi VIsti- 
tuto che ha sede a Milano, e Veneto quello di Venezia, ha accolto nel 
suo seno, da quando l’Italia è una, scienziati e letterati di qualunque 
parte del regno. 

E furono soci attivi di questo illustre Consesso Pietro Tacchini e Pietro 
Doderlein, come oggi sono Adolfo Venturi e Casimiro Mendino, e socio 
collaboratore è Francesco Gerbaldi. I non siciliani, che vengono pieni 
di sapienza e di amore a dettare dalle cattedre della nostra Università, 
hanno trovato e troveranno sempre affetto e riverenza. 


La nostra Accademia scambia i suoi atti con quelli delle più illustri 
d’Italia; mancava quella delle scienze di Torino. Il magistrato accade- 
mico è lieto di avere stretto relazione anche con quest’ultima, ch'è delle 
più operose e alla quale dobbiamo i Monumenta historiae patriae. 


Riordinata la nostra preziosa biblioteca, pubblicheremo il Catalogo 
degli atti delle Accademie e degli Istituti scientifici e letterari coi quali 
siamo in corrispondenza. 

Così i Socî sapranno quanta sia la suppellettile degli atti degli Istituti 
che l'Accademia possiede, e potranno giovarsene. 


Nel decorso anno si fecero letture dagli illustri socî, Can. Salvatore 
Di Bartolo, Prof. Giuseppe Cosentino, Prof. Gaetano Leto Silvestri e Pro- 
fessore Giuseppe Salvioli. 

Il Can. Di Bartolo c’intrattenne : Della etnologia nei rapporti alle scienze 


e al manuale del Prof. Kean. 


929 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 33 

Egli primieramente disse che noi accademici dobbiamo tener d’occhio 
alla tradizione, al progresso, alla integrazione; alla tradizione, raccogliendo 
i frutti delle investigazioni dei nostri antecessori; al progresso, studiando 
di accrescere il patrimonio trasmessoci; alla integrazione, per la quale 
saremo assai solleciti che le conclusioni di una scienza non discordino 
da quelle di un’altra. 

Indi fa la rassegna del manuale del Kean. Questi tratta delle dibat- 
tute quistioni sull'origine dell’uomo e sulla sua antichità. 

Recentemente uno dei più illustri letterati italiani, Antonio Fogazzaro, 
che è un credente, in un suo discorso: L'origine dell’uomo ed il senti 
mento religioso, dimostrò potersi conciliare la teoria della evoluzione con 
le idee religiose. Assai prima di lui il Wisemann in varie conferenze 
avea provato la connessione delle scienze con la religione. rivelata; e 
pure ieri nell'Accademia dei Lincei, Luigi Luzzatti piacquesi dimostrare 
in un bel discorso : Scienza e fede, che i popoli più civili vivono in uno 
stato d’animo ch'è la prova più evidente dello splendore inestinguibile 
della scienza e della fede. 

Il Kean crede alla possibilità della creazione diretta dell’uomo. Rico- 
nosce la varietà delle razze, affermando la unità dell’umana famiglia, ossia 
il monogenismo riconosciuto dal Linneo, dal Buffon, dal Cuvier, Geoffroy 
de Saint Hilaire, Humbold, Muller, Riccardo Owen, Alfredo Maury, Qua- 
tufages. 

La etnologia, come viene solidamente svolta dal Kean, presenta l’uo- 
mo rivestito di altissima dignità, creato da Dio; l’umanità, unica specie, 
d’onde la naturale fratellanza dei popoli, riconosciuta dalla civiltà e dalla 
religione, l umanità venuta da unico ceppo, e però unica storia, cui 
splende unica civiltà. 

Il Kean fa l’uomo antico di 500,000 anni; il Di Bartolo ricordò che nel 
Congresso di Friburgo il Boulay diceva mon potersi sostenere che sia 
antico di 200,000 e più anni; il marchese di Nadaillac lo vuole invece 
antico di non più di 10,000. Tra tanta disparità di opinioni, certo è che 
antichissimo è il mondo, e 


Noi siamo di ieri; 
Dell’Indo pur ora 
Su’ taciti imperi 
Splendeva l'aurora; 
Pur ora del Tevere 
A’ lidi tendea 

La vela di Enea. 


ZANELLA. 


34 RELAZIONE PER L'ANNO 1898 

Il Prof. Giuseppe Cosentino lesse: Sulle Zecche di Messina e di Paler- 
mo, e del privilegio di Ruggiero IT del 1129. 

Molto si è scritto pro e contro la autenticità di quel privilegio. De- 
gli scrittori Napoletani il Pecchia lo ritenne in parte interpolato , e il 
celebre Di Meo, con critica soda e precisa, lo dichiarò falso. Il Grego- 
rio (1) lo ritenne interpolato in alcuni punti; il parere di lui è stato 
adottato in Sicilia (2). È vero che la Zecca di Messina coniava nel 1130, 
ma c'era anche quella di Palermo. 

Che vi sia interpolazione lo dimostra il documento stesso affermante 
che la Zecca di Messina era per tutto il Regno, quando in Palermo.negli 
anni dell’ Egira 535, 536, 557, 539 ecc. abbiamo molte monete di Rug- 
giero Re, coniate nella Zecca di Palermo (3). 

Lo Scheffer-Boichorst, a proposito dei privilegi di Enrico VI e di Co- 
stanza per Messina, dichiara affatto falso quel diploma, dimostrando 
che l'assoluta franchigia del porto i Messinesi non ebbero che col pri- 
vilegio di Enrico VI degli 11 maggio 1197 (4). 

Il lavoro del Cosentino comprende due parti. Nella prima egli esamina 
le varie questioni relative all’autenticità, o meno, del privilegio di Rug- 
giero II del 1129 in favore di Messina, e dopo un esame diplomatico- 
storico del documento, ne conchiude che esso è certamente apocrifo, 0 
per lo meno profondamente alterato. Studiando poi il documento in rela- 
zione alla Zecca Messinese, argomenta l’epoca probabile di siffatta alte- 
razione (5). 

Nella seconda parte pubblica alcuni documenti inediti relativi alla 
Zecca di Palermo, istituita verso la metà del secolo XV; parlando della 
coniazione dei piccoli allora avvenuta, dell’ influenza perniciosa portata 
dai medesimi nel campo economico e dello stato della Zecca Messinese 
in quel periodo. 


Nel 1888 il Circolo Giuridico commemorava solennemente 1’ illustre 


(1) GrecorIo, Cons. I, IV, nota 45. La MAnTIA: Sf. della legisl. civ. e crim.di Sic. I, p.82. 

(2) Di tale avviso è anche lo SrarrABBA (Scritti inediti e rari di Antonino Amico) 
e GarurI, in Monete e Conti, cap. I, pag. 25. 

(3) GC. GARUFI: Monete e Conti, app. I, p. 141. 

(4) Zur Geschischte der XII. und XIII. Jahrhunderts Diplomatische Forschungen 
— Berlin, 1897. 

(5) Nella nota 1, pag. 2483 lo Scheffer-Boichorst dichiara che sarebbe studio impor- 
tante vedere la data in cui fu eseguita la falsificazione. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 35 
penalista Francesco Carrara, onore dell’Università di Pisa, anzi d’Italia, 
e ne leggeva l’ elogio il chiaro Avv. Salvatore Sangiorgi Di Maria (1). 

Nello stesso anno la nostra Accademia incaricò l’egregio Prof. G. Ta- 
ranto a far la commemorazione del Carrara. Accettò l’incarico, ma non 
potè adempirlo, essendo, dopo poco tempo, morto in ancor verde età e 
quando da lui insegnante e scrittore l'Ateneo e la scienza molto si ripro- 
mettevano. i 

TN Prof. Gaetano Leto Silvestri, nel decimo anniversario della morte 
dell’illustre maestro, v’intrattenne : Di Francesco Carrara e delle sue dot- 
trine. Espose la teorica fondamentale di lui che dimora nella tutela giu- 
ridica. «Il diritto (sono parole del Carrara) è sovrano dell’ umanità, e 
questa sovranità dev'essere mantenuta incolume contro qualunque attacco, 
e per conseguenza l’obbiettivo primario dell’ordine sociale, l’unico essen- 
ziale a quest'ordine, è il mantenimento della sovranità del diritto, del 
quale le potestà umane non sono che passivi strumenti in quanto si 
adoperano alla sua protezione ». 

Questo sistema venne adottato da tutti gli scrittori in Italia. Prevale 
anche in Germania, benchè con formola e titolo diversi, e si propagò 
pure in Francia e nella penisola iberica. Carrara colmò molte lacune 
nel sistema generale della scienza, rettificò, perfezionò non poche teori- 
che come quella della colpa, della classificazione dei delitti, del conato, 
delle cause digradanti la pena. Combattè la dottrina dell’ emenda del 
reo, e l’altra della così detta scuola positiva. 

Il Carrara fu pars magna nella compilazione del Codice Penale Italiano, 
e strenuo propugnatore dell’abolizione del carnefice. 

La esposizione delle dottrine del Carrara fu nitidamente fatta, perchè 
il nostro socio è convinto seguace di quella scuola, e ad essa indirizza 
ed ammaestra la gioventù nella nostra Università. 


Sullo stato della popolazione d'Italia prima e dopo le invasioni barbariche 
è il tema della lettura del socio prof. Giuseppe Salvioli. 

Il chiarissimo storico, mentre s'accingeva a scrivere : La distribuzione 
della proprietà fondiaria in Italia al tempo dell'Impero (2), che fa riscontro 
con le belle e dotte memorie : Les grands domaines dans l empire ro- 
main d'aprés des travauxr recents pubblicate in Parigi da Eduardo Beau- 


(I) Vedi Circolo Giuridico, vol. XIX, Cronaca, p. 78. 
(2) Jeggesi nell'Archivio Giuridico, vol. LXII, 1899. 
(3) Nouvelle revue historique de droît francais et étranger. A. XXI-XXII, 1897-98. 


36 RELAZIONE PER L'ANNO 1898 

douin (3), leggeva l’altra sua memoria alla Accademia. Le due monografie 
del Salvioli si collegano fra loro, impero, e tempo delle invasioni bar- 
bariche che a quello succedette. In quella sua memoria egli studia, 
con la critica storica, l’Italia medievale, dal secolo V in poi, che costi- 
tuendo un ambiente speciale, deve essere ben conosciuto, se si vogliono 
rettamente comprendere gli ordinamenti economici e sociali, come le 
istituzioni giuridiche e politiche. Ed egli, con le sue indagini, è perve- 
nuto a dimostrare che le soluzioni ai varii problemi, che già aveva dato 
il primo storico d’Italia, Ludovico Muratori, sono le più accostantisi alla 
realtà e quelle che meglio hanno resistito alla critica. 

Il Prof. Salvioli studia e illustra lo stato della penisola dopo il V se- 
colo, dimostra quante vaste fossero le terre incolte, quelle occupate da 
boschi e paludi, e quanto scarsa la popolazione che per 1’ alta e cen- 
trale Italia calcola a circa 3 milioni, e chiariti questi punti, sarà age- 
vole la spiegazione di fatti che ora sembrano strani e inverosimili. 

Ci piace notare che la nostra Accademia porge, con simiglianti lavori, 
bel contributo di studii alla storia medievale. 


Nel 1898 sono mancati non pochi socii: Giorgio Dennis, Francesco 
Tornabene, Sebastiano Reyes, Francesco Minà-Palumbo e Giuseppe Di 


Giovanni. 


Molti in Palermo ricordano la figura alta di un Console inglese che qui 
dimorò dal 1870 al ‘79. Era Giorgio Dennis (1). 

Fu ricevitore generale a Berbice ‘Gujana Britannica, poi console a 
Bengazi in Tripoli, in Creta, in Palermo, e poi a Smirne. Nostro socio 
corrispondente estero dal 13. dicembre 1874; Vice-presidente dell'Istituto 
archeologico di Roma. 

Pubblicò una guida pei viaggiatori inglesi in Sicilia (2). L'opera che gli 
diè maggior fama fu: Le città e i cimiteri dell'Etruria, pubblicata nel 1848, 
e poi di nuovo nel 1878, aggiuntevi le notizie delle più recenti sco- 
verte (3). 

Più che come filologo e archeologo, il Dennis è stimato come acuto 0s- 
servatore, e guida illuminata nello studio delle cose antiche (4). 


(1) È morto il 7 settembre 1898 nella tarda età di 85 anni. Dal Times. 
(2) Handbuck for the travellors en Sicily. London, Murray, 1864. 
(3) The cities and cemeteries of Etruria, revised edition, recording the most recent diseo- 
veries in two volumes, with map, plans, anda illustrations, London, John Murray, 1878. 
« La città e i cimiteri dell'Etruria. Edizione riveduta con accenno alle più recenti sco- 


verte, in due volumi, con mappe, disegni e illustrazioni » . 
(4) Vedi BouLiertTI nell'Archivio Storico Italiano, quarta serie, Vol. III, anno 1879. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 51 

Il Prof. Francesco Tornabene, nato a 10 maggio 1815, venne educato 
dai padri Cassinesi di S. Nicolò l’ Arena in Catania. Di questo insigne 
monastero divenne frate in giovane età, e lo visse gran parte della sua 
vita e là coltivò la sua mente. Deputato a vegliara sulla preziosa Bi- 
blioteca di quel monistero, divenne poi Priore del medesimo. 

Predilesse fra le scienze naturali la botanica, e la professò nell’ Uni 
versità di Catania dal 1840 al 1892, anno in cui venne collocato a riposo. 
Fondò l’ Orto Botanico in quell’ Ateneo, piantò 1’ Hortus Siculus, che, 
secondo la volontà del suo fondatore (il can. Cultraro) dovrebbe essere un 
emporio della flora viva ed essiccata. Insegnò l’agraria in quell’istituto 
tecnico. Fu presidente della Società Economica e del Comizio Agrario 
della Provincia di Catania. 

Molti lavori restano di lui: Storia critica della tipografia Siciliana. 
— Picerche bibliografiche del secolo XV.— Quadro storico della Botanica in 
Sicilia. — Cultura delle Opuntiae della provincia di Catania. — Origine e 
diffusione dei cegetabili sul globo. — Flora Sicula viva et exsiccata, seu col- 
lectio plantarum in Sicilia Sponte volventium. — Elogio accademico di Vin- 
cenzo Tineo. 

N Tornabene onorò l’ordine monastico cui appartenne, e la Sicilia che 
gli diede i natali. 

Al tempo in cui visse e dettò le sue opere il Tornabene, gli studii 
di botanica, a preferenza di altre scienze naturali, eran molto in fiore fra 
noi. Il quale peculiare rifiorimento era dovuto al nostro Orto Botanico, 
per fabbriche il migliore d’Italia, ricco di una quasi-completa collezione 
delle piante nostre e di gran numero di piante esotiche, mentre l'Uni- 
versità non avea nè conchiglie, nè pietre, nè animali, nulla insomma 
di quanto abbisognasse per istruire la gioventù negli studii della storia 
naturale. 

Vincenzo Tineo dirigeva amorosamente l’Orto Botanico e sempre più 
arricchivalo di libri e di piante. Allievi di lui furono Agostino Todaro 
che gli succedette nella cattedra e ne continuò le tradizioni; Giuseppe 
Inzenga che fu esimio agronomo e resse con sapienza l'istituto agrario 
Castelnuovo; Filippo Parlatore che sopra gli altri levò più alto il volo 
e fondò e diresse I’ Erbario Centrale Italiano in Firenze, primeggiando 
fra’ botanici contemporanei. 

Anche Andrea Bivona giovò alla Sicilia con le sue ricerche botaniche. 

Tl nostro Orto adesso ha preso altro più largo indirizzo, secondo i pro- 
gressi della scienza, e v'è un laboratorio per le ricerche anatomiche e 
fisiologiche delle piante, e ciò è lode dell’ illustre Prof. Borzi, il quale 
vuol dargli maggiore importanza, facendolo divenire stazione botanica 


5S RELAZIONE PER L'ANNO 1898 
internazionale. Al quale ufficio nessuna terra in Italia è meglio disposta 
che la nostra Conca d’Oro, ove in tanto sorriso di cielo cresce la flora 
più variata del mondo, e ove, come nelle regioni native, prosperano e 
vigoreggiano le piante tropicali e subtropicali. 


Due più recenti lutti ci hanno addolorato, essendoci mancati in que- 
stanno uno dei nostri socî attivi ed uno dei più antichi corrispondenti. 

Il Dott. Sebastiano Reyes, nato in Messina, fè i suoi studî superiori 
nel nostro Ateneo ed ebbe maestri il Pantaleo, il Gorgone, il Gallo, il 
Polara, il Cervello. Fu di quelli che amano accrescere, con lo studio in- 
defesso, il patrimonio del sapere. Il tirocinio fè presso il valente dottor 
Tommaso La Russa. 

Venne eletto socio nostro sin dal 1872. Di lui nei nostri Atti si sono 
pubblicati i seguenti importanti lavori: Discorso sulla teoria della impor- 
tazione del cholera (1874).— Sulla fognatura e la Cala di Palermo (1880-81). 
— Sulla profilassi nei casi di contagio (1885). 

I temi su cui spese principalmente la sua attività intellettuale, furono 
il colera e la sua importazione, e la igiene della nostra Città. 

Palermo ricorda con orrore l’infausto anno 1837, nel quale la moria 
fu sì grande che i sepolcri non bastando ai morti , fu disposto un im- 
menso rogo per le cataste delle innumeri vittime. E nuove stragi in altri 
anni faceva il colera in Palermo e anche più in Messina. 

Il Reyes ad evitare il ritorno di quel pestifero e fatale morbo faceva 
voti che i governi ne impedissero l’entrata. 

Il nostro socio fu chiamato a far parte della Condotta Medica della 
città, e di questa utilissima istituzione fu operoso segretario, ne tenne 
la statistica e ne dettò poi la storia. 

La sua morte è stata rimpianta, perchè egli esercitò decorosamente 
la medicina, e rese pregiati servizî al paese, e perché alle doti intellet- 
essendo stato eccellente nel 


tuali seppe congiungere quelle del cuore, 


santuario della famiglia. 


Nella tarda età di 85 anni spegnevasi il decano dei naturalisti Sici- 
liani, Francesco Minà Palumbo nel suo nativo Castelbuono. Giovanissimo 
si addottorò in medicina nell’Ateneo di Palermo, ove ebbe condiscepoli 
Giuseppe Inzenga, Nicolò Turrisi e Pietro Calcara, che divennero insigni 
agronomi e naturalisti. 

Nato in un paese posto alle radici delle Nebrodi, volgarmente dette 
Madonie, si innamorò di quei monti celebrati da Plinio, da Strabone e 
da altri antichi, e si applicò tutto allo studio dei medesimi. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 39 
Psercitò l’arte salutare non per trarne guadagno, ma per sentimento 
di umanità. 
Sebbene rinchiuso in Castelbuono, lontano dai grandi centri di cul 
tura, fu operosissimo, e scrisse molti pregiati lavori scientifici che sono 
un tesoro, avendo egli seguito amorosamente i progressi del sapere mo- 


derno. 
Di lui ricordiamo le opere più importanti : i 
Introduzione alla Storia naturale delle Madonie — Catalogo degli uccelli 


delle Madonie 
Il Catalogo e la Storia naturale si leggono negli Att) della nostra R. Ac- 


Studî agrarî sulla campagna settentrionale delle Madonie, 


cademia (anni 1853-1859). 

Altri non pochi lavori egli pubblicò negli Arnali di Agricoltura fon- 
dati da Giuseppe Inzenga, nell’Empedocle del Biondi, e nella /avi/!a che 
pubblicossi in Palermo dal 1856 al 1859. 

Degni di speciale ricordo sono: i Proverbi Agrari Siciliani con le loro 
spiegazioni (1854) — La monografia sui prati artificiali (1862)— e il Trat- 
tuto sulla coltivazione dei pistacchi. 

Ebbe ingegno assai versatile tanto da non sapersi dire se valesse più 
in meteorologia che in agraria, in geologia che in zoologia. 

Di lui e dei molteplici lavori altri dirà più degnamente; a me basti 
per adesso ricordare il nome illustre e l’operosità del venerando Fran- 
cesco Minà Palumbo, che insieme con l’altro suo compaesano e con- 
giunto, minore a lui di fama, Antonio Minà La Grua, onorò Castelbuono 
e la Sicilia (1). 


Nella Classe di Lettere ed Arti abbiamo rimpianto la dolorosa perdita 
dell’insigne pittore Giuseppe Di Giovanni. 

(riovanissimo si dimostrò assai disposto alla pittura. 

Attese alla scuola di disegno nella Università. Entrato un giorno in 
quella del nudo, in cui insegnava il Riolo, meravigliò tanto il maestro 
con un suo schizzo cavato dal nudo, che quegli lo invitò a frequentar la 
sua scuola. 

Cominciò ad esercitare la pittura, ma le invidie e le gelosie ne lo 
distolsero per parecchio tempo, e datosi alla incisione, vi divenne assai 
valente. 

Tornò alla pittura che in quegli anni era assai fiorente in Palermo, 

Salvatore Lo Forte, che in patria aveva prediletto il Monrealese, e 


(1) Vedi nei Nuovi Annali di agricoltura Siciliana redatti dal prof. F. Alfonso. Pa- 
lermo 1899, fasc. II. Necrologia di F. Minà Palumbo. 


40 RELAZIONE PER L'ANNO 1898 

fuori i Fiamminghi, dipingeva con correttezza di disegno, e con vigo- 
ria di colorito, secondo la maniera di quelle due scuole. Andrea D'An- 
toni concepiva in modo mirabile ed eseguiva con grande celerità, e trae- 
va dalla storia alti temi che scuotevano ed esaltavano gli animi. Giu- 
seppe Meli, pittore .e letterato, aveva profondamente studiato in To- 
scana e in Roma, le opere meravigliose che ci porge il cinquecento, e 
componeva — specie nel genere sacro — quadri che si ammiravano per 
la graduazione armonica del concetto, del disegno, del colorito. Fran- 
cesco Paolo Priolo, minore d’anni dei precedenti, ma pur valoroso, facil- 
mente concepiva e correttamente eseguiva sulla pietra e sulla tela, ed 
ispirò coi suoi dipinti al Perez il bellissimo Carme L'Arte e 72 Vero. 

A questi prodi artisti si aggiunse Giuseppe Di Giovanni. E tutti e 
quattro D'Antoni, Meli, Priolo, Di Giovanni ornavano di loro dipinture 
le sale del palazzo Tasca, per invito di quel gentiluomo e proteggitore 
delle arti in quel tempo fra noi, il Conte Lucio Tasca d’Almerita. E ga- 
reggiando diedero tutti e quattro belle prove del loro valore in quelle 
sale ornate a dovizia di tele e di marmi di illustri autori (1). Il Di Gio- 
vanni vi dipinse Cerere che prima apprende all'uomo la coltura della 
terra (2). 

Un artista napoletano, lo scultore Luigi Persico (3), ch'era venuto in fa- 
ma per la sua bella statua rappresentante 1’ America, conosciuto il Di (Grio- 
vanni ed apprezzatone il merito, lo indusse a recarsi in Roma a studiare 
i capolavori della pittura, assegnandogli liberalmente del suo quanto oc- 
corresse per lui e per la sua famiglia. Ed egli recossi nell’eterna Città, 
ma vi dimorò poco; il cholera, che desolò di nuovo nel 1855 la nostra 
Palermo, il richiamò, ben presto presso la diletta famiglia. 

Ebbe per due anni una pensione dal Municipio e poi l’incarico di re- 
carsi a Parigi per fare una copia dell’ Immacolata del Murillo. Ma gli 
avvenimenti del 1860 glielo impedirono. i 

L'ultimo suo lavoro fu il Cuore di Gesù per la Cappella dell'Istituto 
di Sant'Anna in via d’Ossuna. 

Giuseppe Di Giovanni meritò di essere tenuto in gran conto pei suoi 


(1) Vedi Guida del Viaggiatore in Sicilia novellamente compilata da Salvatore 
Lanza, Palermo, Fratelli Pedone Lauriel, 1859. 

(2) Prima Ceres ferro mortales vertere aratro 

Instituit. — Virgilio, Georg. I, 147. 

(3) Lui Persico modellò una delle statue dei Sovrani Borboni di Napoli che fu- 
rono nel 1854 collocate nel Foro (Borbonico, oggi Foro Italico). In quell’anno egli venne 
a Palermo. 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 41 


quadri di genere sacro, che si ammirano in vari paesi dell’isola (1) e 
per la eccellenza de’ suoi ritratti. 


Il necrologio chiudevasi qui; ma ritardatasi la lettura di questa mia 
relazione, altro lutto ci è sopravvenuto. 

È morto in Napoli l'illustre Francesco Saverio Arabia, letterato, poeta 
e giureconsulto calabrese. 

L'imponenza del corteo, che ne accompagnò la salma al cimitero, gli 
oratori che ne tesserono l’ elogio, massime il Proc. Gen. Masucci, che 
gli fu compagno ed amico, attestano l’alta stima in cui era tenuto V'A- 
rabia pei rari pregi di mente e di cuore. 

I suoi bei versi, pubblicati nel 1846, mi fecero innamorare di lui. 

Stupende fra le altre le ottave Z Camaldoli, e 1 Ode «Il Nettuno 
scoverto da Leverrier».I componimenti dell'Arabia appartengono a quella 
poesia nella quale (come dice il Tommaseo) «l’anima rivolgendosi in 
sé, e dall’affetto cogliendo alimento al pensiero e dal pensiero all’affetto, 
sì crea un universo; poesia che cerca lo spirituale nel sensibile, e tutto 
riferisce agli affetti dell’uomo e sparge su tutto un affetto eguale e in- 
determinato. » 

Lo conobbi in Napoli. 

Educato alla scuola del Puoti e del De Sanctis egli apprese a studiare 
bene le lettere italiane; e l’animo suo s’ispirò nei nobili sentimenti della 
italianità e della patria. 

L’Arabia si applicò agli studî del diritto, pur non tralasciando il culto 
delle lettere. Attese specialmente alla scienza penale, e appena ven- 
tenne pubblicò, nel 1854, / principî del diritto penale applicati al Codice 
delle Due Sicilie, libro prezioso come manuale pei giovani, e che nel 
1861 ebbe il compimento in un’appendice intitolata Del Codice Penale 
Sardo e delle leggi penali napoletane. 

Più tardi egli rifece la prima sua opera / principî di diritto penale ap- 
plicandoli al Codice penale italiano. 

Ebbe un fratello, Tommaso, poeta e giurista come lui: par mobile 
fratrum. Nel 1852 i due fratelli intrapresero lo Spettatore Napoletano ed 
ebbero licenza di fare una cronaca politica. Il giornale, diretto da gio- 
vani che vagheggiavano gli ideali della libertà, ebbe breve vita. 

L’Arabia nel 1860 fu chiamato alla magistratura, e sali, di grado in 
grado, all’alto ufficio di Procuratore Generale sostituto e poi di Consi 


(1) Alcamo, Cefalù, Palma-Montechiaro, Mussomeli, Palazzo Adriano, Campofraneo. 
Non pochi quadri del Di Giovanni adornano in Palermo parecchie case signorili. 


42 RELAZIONE PER L'ANNO 1898 
gliere nella Corte di Cassazione. Le cure dell’ ufficio non lo distolsero. 
mai dagli studî scientifici e letterari e pubblicò: Del supremo magistrato. 
— Del Pubblico Ministero—Del Diritto di punire secondo la scuola positiva. — 
Della incompatibilità di alcuni concetti di ragion penale. E scrisse del (Giur 
nella legislazione italiana, e non ne fu lodatore. 

Scrisse e pubblicò, poco prima di morire, Sorrento, e qui raccolse con 
eleganza di lingua e di stile, alcune memorie che a quell’ incantevole 
luogo si riferiscono. Fu il canto del cigno; e la pubblicazione venne fatta 
a beneficio della Casa Paterra fondata da quella nobile e pia Signora 
ch'è la Marchesa Ravaschieri, degnissima nipote del celebre Gaetano 
Filangieri. 

Fu socio dell’Accademia Pontaniana e dell’Accademia di Scienze Mo- 
rali di Napoli. Socio onorario della nostra, Senatore del Regno. In Se- 
nato la sua parola fu rada, ma negli ufficî fu trovata opportuna e sagace. 

Amò la campagna, ove, come egli cantò, 


LISERO par più casto spiri 
Ogni profumo, e tai sembran le piante, 
Quasi il silenzio che qui regna avesse 
Fatto pensose e meditanti anch'esse, 


e gran parte di vita egli condusse in solitaria cella, confortato dai li- 
bri e da pochi eletti amici. 

Lui piansero le Muse, cui egli consacrò i primi verginali amori, lui 
pianse la. Calabria e Napoli, lui pianse Italia che perdeva il poeta gen- 
tile ed elevato, il giureconsulto insigne. 


Un'altra tomba si è dischiusa dinanzi a noi, ea me tocca il doloroso 
ufficio di riprendere di nuovo le dolenti note. 

Benedetto Civiletti, uno dei nostri più valenti scultori non è più; e 
non toccava ancora l’undecimo lustro. Mostrando di buon ora grande ta- 
lento per la scultura, studiò il disegno con A. D'Antoni, l’arte scultoria 
con B. Delisi. Sovvenuto dal Municipio, essendo sindaco il Marchese di 
Rudini, recossi a Firenze ov'ebbe maestro il Dupréè. 

Lavorò con amore. Dante giovanetto segnò il glorioso inizio di lui 
nell'arte, e fu unanime il presentimento ch'egli sarebbe venuto in chia- 
rezza di fama. Costantino Canaris che si accinge a bruciare le navi turche 
durante la rivoluzione greca, fu il tema che ispirò al Civiletti il bel 
gruppo rappresentante la risoluta figura del Canaris conscio dell’ alta 
impresa, e dietro a quella l’altra di un suo compagno, incerto e mera- 
vigliato dell’audacia dell’eroe d’Ipsara. L’opera del giovane artista ebbe 


RELAZIONE PER L'ANNO 1898 43 


plausi, destò entusiasmo. Il Governo comperatala ne fe’ graditissimo 
dono alla Città nostra. Esposta a Vienna nel 1876, a Parigi nel 1878 
rivelò al mondo artistico il nuovo valoroso scultore. E la nostra Acca- 
demia onorollo allora, ascrivendolo fra i nostri soci. 

Compose poi Satana ed una fanciulla; Gesù al Getsemani; La Guardia 
muore; Cesare giovinetto; Cristo deposto ; Archimede; Dogali; il Monumento 
a Vittorio Emanuele; il Lavoro; un Leone, ultima sua opera che sarà col 
locata nel podio del teatro Massimo. 

A Benedetto Civiletti Italia e Francia diedero le più alte attestazioni 
di stima e di onore; ma egli non ne superbì, e attese a salire sempre più 
alto nell’arte. Egli seppe con sì alto magistero imprimere nella creta i 
suoi concepimenti che le figure da lui rappresentate ti sembrano persone 
vive, come il Canaris, Cesare giovinetto, e il nerboruto operaio che la- 
vora sull’incudine. 

Benedetto Civiletti! se la morte anzi tempo ti furò all’arte e alla fa- 
miglia, i tuoi figli saranno orgogliosi del tuo nome che non morrà; e Pa- 
lermo che ti vide nascere, è superba delle tue opere che resteranno glorie 
della tua terra natale. Palermo che nel secolo passato ebbe il valente 
Ignazio Marabitti, ha avuto nel secolo morente Valerio Villareale, Nunzio 
Morello e poi Benedetto Delisi e Benedetto Civiletti; nè la schiera dei 
prodi vien meno, chè nell’arte scultoria v'è una giovine e balda genera- 
zione che mira a gareggiare coi migliori d’Italia. 


Come nel 1897, anche nell’anno decorso, ai lutti si è congiunta la 
allegrezza. 

Il nostro socio attivo della classe di scienze morali e politiche , pro- 
fessore Bartolomeo Lagumina, è stato insignito del Vescovato, e mandato 
a reggere la diocesi Agrigentina, che anni dietro avea avuto a pastore 
altro dotto nostro socio, Domenico Turano. 

Insegnante d’ebraico nel nostro Seminario Arcivescovile, e di lingua 
ebraica ed araba nell'Università degli studi, venne stimato valente orien- 
talista. 

Nel Falso Codice Arabo-Siculo diè prova di perizia nella lingua, di 
acume nella critica, di conoscenza della storia letteraria; come nelle 
Iscrizioni sepolcrali del Museo Borgiano si dimostrò perito nella paleografia 
Cufica. E nel concorso per la cattedra di arabo nell’ Università di Na- 
poli fu riconosciuto eligibile al pari che il Buonazia. 

Pubblicò : Studi sulla numismatica Arabo- Normanna di Sicilia (1), il 


(1) V. Archivio Storico Siciliano, Palermo 1891. Anno XVI. 


dl RELAZIONE PER L'ANNO 1898 
Catalogo delle monete arabe esistenti nella Biblioteca Comunale di Paler- 
mo (1); Codice diplomatico dei Giudei in Sicilia (2), collaborando degna- 
mente con lui in questa opera il fratello Giuseppe; Due bolle di Sisto IV 
a favore di Guglielmo Raimondo Moncada e l’uso delle Riserve di Benefici 
in Sicilia (3), ed altri lavori minori, sopratutto di numismatica araba e 
di epigrafia araba, ebraica e fenicia. 

Lesse nella nostra Accademia le Giudaiche di Palermo e di Messina (3). 

Precorrevalo in Girgenti la fama di ottimo sacerdote, onore del clero 
palermitano, e di preclaro orientalista. Le accoglienze di quella popola- 
zione furono solenni. 

Egli saprà rispondere alla aspettazione comune e reggerà quella chiesa 
con sapienza e amore e virtute, e darà maggior lustro al Collegio di San- 
t'Agostino e di San Tommaso ch'è stato novellamente arricchito di pre- 
ziosi libri per liberalità del nostro socio Ab. Crisafulli. 

Noi ci rallegrammo con lui, ci rallegriamo adesso con noi stessi, per 
l’onore toccato ad uno dei migliori fra’ nostri soci: Sunt praemia laudi. 
Il sommo Pontefice e il Governo d’Italia hanno pregiato nel Lagu- 
mina la virtù e la dottrina. 

E qui chiudo questo mio discorso, chiedendovi venia se il molto di 
cui dovevo intrattenervi mi abbia costretto a non essere breve. 


(1) Pubblicato in Palermo. Stab. Tip. Virzì, 1892. 

(2) Documenti raccolti e pubblicati dai fratelli BarroLomEo e GIUSEPPE LAGUMINA 
nei Documenti per servire alla storia di Sicilia, pubblicati a cura della Società per 
la Storia Patria, serie 12, vol. VI e XII. 

(3) In Arch. Stor. Stcil. N. S. III, 1878, p. 346 seg. 

(4) Si leggono nel volume IV Terza Serie degli Atti della R. Accademia di Scienze, 
Lettere e Belle Arti, Tipografia Barravecchia. 


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SULLE MISURE DI GRAVITÀ RELATIVA 


ESEGUITE 


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nella estate del 1899 


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Comunicazione data alla R. Accademia 


Prof. ADOLFO VENTURI 


nella tornata del 14 Novembre 1899. 


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SULLE MISURE DI GRAVITÀ RELATIVA 


eseguite nella parte occidentale della Sicilia e nelle piccole isole adiacenti 


nella estate del 1899. 


TE? 


Illustri Colleghi, Signori, 


Da che i moderni mezzi di misura si sono mirabilmente perfezio- 
nati, le investigazioni, instituite con somma accuratezza e sagacia in- 
torno a molteplici soggetti di indole fisica hanno condotto a scoprire 
fatti e fenomeni, che per la estrema tenuità delle proprie manifesta- 
zioni sensibili, passarono sino ad oggi inosservati anche ai più diligenti 
ricercatori delle leggi naturali. Ne è a credersi, che tali fenomeni che 
direi metricamente infinitesimi, sieno di altrettanta infinitesima conse- 
guenza; chè anzi sembra che in quasi impercettibili manifestazioni, siasi 
la Natura compiaciuta di nascondere ad occhio umano, le cause o al- 
meno le spiegazioni dei più grandiosi ed interessanti suoi fenomeni, 
quasi per mettere a difticile prova l’ingegno e la sagacia di chi auda- 
cemente si accinga a scrutare i suoi misteri. Chi non sa che quel ful- 
gore di sole, che è fonte di vita e tripudio dei nostri sguardi, non da 
altro sia prodotto che da movimenti così evanescenti dell’etere, che mai 
sarà possibile davarti alla mente di rappresentarli? Chi ignora omai, 
che del lento trasformarsi della materia nel misterioso lavorio delle fer- 
mentazioni, e di tanti altri effetti, e chimici e fisiologici e patologici, 
la causa va ricercata in svariati organismi, così minuti che non si di- 
scernono se non ajutati dai più potenti mezzi ottici ? 

Ai nostri tempi, così caratterizzati da oculato spirito di critica scien- 


4 SULLE MISURE DI GRAVITÀ RELATIVA: 
tifica, nulla più può trascurarsi, non le più inapprezzabili manifestazioni 
dei fatti, non le più insignificanti anomalie che: si riscontrino in un fe- 
nomeno già creduto spiegato e, quasi direi, catalogato in un ordine pre- 
stabilito di leggi fisiche. Gli è che una piccola anomalia non avvertita 
o non curata, o apparsa solamente sotto la potenza sérutatrice di un 
più perfezionato organo sperimentale, può completamente scompigliare 
tutte le nostre idee sul fenomeno in cui si manifesta, e può condurci 
ad una scoperta inattesa di una eccezionale importanza, non foss’altro, 
teorica. 

Quella scienza geometrica e meccanica della Terra che fu denomi- 
nata Geodesia, offre due luminosi esempi della importanza che le ano- 
malie infinitesime dei fenomeni possiedono, come capaci di disserrare 
altri e più vasti orizzonti innanzi all'occhio penetrante del paziente e 
sagace scrutatore della natura. Alludo alle anomalie delle latitudini ed 
a quelle della gravità terrestre. Si è creduto, sino a pochi anni addietro, 
che la Terra ruotasse permanentemente attorno ad un asse fisso nella 
sua massa, a ciò indotti dal non aver mai osservate nelle. latitudini 
terrestri cambiamenti che fossero superiori agli errori temibili nelle os- 
servazioni. Ma dopochéè, coll’ingegnoso metodo di Talcott, e colla costru- 
zione di appropriati istromenti , tali errori di osservazione furono ri- 
stretti in limiti insperabili, allora si resero manifeste nelle latitudini 
terrestri delle variazioni piccolissime, sì, non oltrepassando esse il mezzo 
secondo, ma perfettamente determinate e comparabili. Dalla constata- 
zione di tali anomalie, allo stabilire con piena certezza la variabilità 
dell’asse istantaneo di rotazione della Terra, non v'ea altro passaggio 
che quello da effetto a causa necessaria: e così ora è fuor d’ogni dubbio 
l’importantissimo fatto non solo geodetico, ma anche astronomico, che 
i poli terrestri non son più due punti invariabili sulla superficie del 
nostro globo, ma si spostano continuamente, e in modo periodico su di 
essa, mantenendosi peraltro in un’ area di piccola amplitudine. E già 
questo nuovo fenomeno ha dato origine ad un nuovo campo di ricerche, 
trattandosi ancora di stabilire le leggi precisé che lo regolano e le cause 
che lo producono; campo arduo e vasto, ove già molti preclari ingegni 
vanno nobilmente esercitando le proprie elette potenzialità intellettuali. 

Il secondo esempio ci è offerto: dalla storia della forma della Terra. 
Questa forma precisa, è tutt'ora un’incognita, ma la geodesia moderna, 
procedendo a passo lento ed insieme sicuro, ha la ferma fiducia di per- 
venire a determinarla in modo soddisfacente. È ben noto come questo 
problema dati dalla più remota antichità : sin dalla prima cosmogonia, 
la biblica, si dà alla terra la forma piana; solo ai, tempi alessandrini, 


ESEGUITE NELLA PARTE OCCIDENTALE DELLA SICILIA, ECC. 5) 
storicamente e scientificamente risale il concetto della Terra sferica. 
Ma una radicale modificazione dei concetti sino allora dominanti, do- 
veva nascere dalla scoperta delle leggi del pendolo. Grazie a questo 
tanto semplice quanto prezioso istromento, Isacco Newton potè dichia- 
rare sicuramente esser fola, ciò che sino a quell’ora erasi da tutti cre- 
duto vero : la sfericità della Terra; questa doversi considerare schiac- 
ciata ai poli, e rigonfia all’equatore secondo le leggi di un’ellissoide di 
rotazione. Ma questa nuova e più razionale maniera di rappresentare 
la forma del nostro pianeta, col proseguire degli studi cominciò a ri- 
levarsi insufficiente. Essa contrastava colle osservazioni sempre più pre- 
cise, che in principio del nostro secolo andavansi instituendo in gran 
numero di luoghi, circa la direzione della; verticale; e fu constatato che 
queste direzioni non seguivano menomamente la legge regolare che 
avrebbe dovuto coordinarle secondo la natura speciale dell’ ellissoide. 
Fu, in tal modo, messa fuor di dubbio l’insufficienza dell’ipotesi ellis- 
soidica; e ciò con tanta maggior sicurezza, quanto maggiore fu il campo 
delle misure e la loro precisione. 

Ma non basta distruggere, occorre riedificare, nè la riedificazione di 
un tanto edificio era cosa di piccol momento. Che cosa sostituire al- 
l’ellissoide? La discussione attenta, scrupolosa, esauriente delle anomalie 
riscontrate nella deviazione della, verticale, condussero in linea diretta 
alla persuasione di non dover insistere oltre a considerare la superficie 
Geoidica della Terra come rientrante in un tipo geometrico semplice 
o conosciuto, che io vorrei dir, regolare; ma bensì di doversi prendere 
sotto l’aspetto di una superficie molto irregolare, con irregolarità nu- 
merosissime, ma molto piccole, e che, ciò non pertanto, nel suo gene- 
rale portamento, sia ben poco dissimile da quella Ellissoide cui fu pri- 
mamente assomigliata. 

Posta la questione su questo terreno, che è il vero e logico, e non 
esistendo altra via per conoscere la natura di una superficie irregolare 
se non quella di determinarla per via di punti, (il che significa di 
stabilire rispetto ad una superficie nota le posizioni di quanti più 
punti dell’ ignota è possibile) i geodeti dovettero cercare, di luogo in 
luogo, di rendersi conto delle divergenze fra i valori degli elementi os- 
servati, e quindi reali, e quelli che teoricamente discenderebbero dalla 
superficie di riferimento, o come diremmo, di sostegno, della superficie 
vera. Da queste divergenze si ricaveranno gli elementi che debbono 
portare alla conoscenza della vera configurazione della Terra; però non 
bastando a questo scopo. le sole anomalie della verticale, si pensò di 
valersi anche di un altro importantissimo elemento, variabile di luogo 


6 SULLE MISURE DI GRAVITÀ RELATIVA 


in luogo, intendo l’intensità del peso, o come si dice più confidenzial- 
mente, la gravità locale. 1 

Ma se questo programma era sapientemente ed opportunamente con- 
cepito, il tradurlo in pratica era un altro conto, non essendo facile im- 
presa lo studio sperimentale della gravità terrestre, anzi potendo, le 
determinazioni di questa, riguardarsi in allora come le più intricate e 
delicate cose che in materia di ricerche fisiche si presentassero nel 
campo sperimentale. Sino a pochi anni addietro non si solevano fare 
che delle determinazioni assolute in questo genere, o col mezzo del pen- 
dolo reversibile di Kater,o con quello filare di Bessel: ma per ciò che 
si è detto, è chiaro che nè l’uno metodo, nè l’altro possedevano quella 
condizione di speditezza, necessaria per estendere facilmente le misure 
su vaste regioni di tutta la parte emersa del nostro pianeta. Fortuna- 
tamente, coll’ingegnosa idea di sostituire le determinazioni differenziali 
a quelle assolute, e coll’assegnare a questo scopo un opportunissimo e 
rapido istromento dovuto alla sagace inventiva del Col. di Sterneck 
dello St. Magg. austriaco, si rese finalmente possibile l’esecuzione del 
programma geomorfico cui sopra accennava, di servirsi cioè delle mi- 
sure pendolari per raggiungere la cognizione della vera forma. della; 
superficie geoidica della Terra. 

La illustre e benemerita associazione geodetica internazionale con 
sede a Berlino, in una sua memorabile adunanza cui parteciparono i 
delegati di tutte le nazioni aderenti, che son poi tutte le nazioni civili, 
additò e raccomandò vivamente il nuovo e fecondo campo di ricerche, 
inculcando a quegli istituti scientifici del genere, che per dotazioni ne 
fossero in grado, di istituire e seguitare numerose ricerche di sravità 
relativa, che, raccolte su tutte le parti del mondo, e discusse sistema- 
ticamente dal detto Ufficio centrale, varranno a portar molta luce sulla 
natura ancora ignota della superficie terrestre. Gran parte del mondo 
geodetico-astronomico ha risposto all’appello; vari governi sono entrati 
nel nobile arringo, armando apposite spedizioni marittime che pellegri- 
nando di isola in isola e di costa in costa lontana, hanno già abbon- 
dante messe raccolta nel campo dei nuovi studi gravimetrici. 

Anche l’Italia non ha tardato a mettersi nella nuova via, sebbene 
non colla stessa lena di altri paesi; e ciò per le solite non liete ragioni 
ché tutti conosciamo e che sarebbe un di più il ricordare. L’Osserva- 
torio di Padova e il nostro solerte Istituto geografico militare, iniziarono 
gli studi nelle regioni centrali d’Italia, e nel Veneto: alquanto dopo, 
l’ Istituto geodetico di Torino si occupò e si occupa di tali determina- 
zioni in Piemonte. Le altre provincie non diedero sinora cenno di vita; 


ESEGUITE NELLA PARTE OCCIDENTALE DELLA SICILIA, ECC. 7 


solo che in alcuni luoghi del Napolitano e della costa adriatica son ve- 
nuti gli stranieri a far ciò che noi avremmo dovuto fare, quasi a rim- 
provero della nostra trascuratezza. 

Preoccupati di risparmiare all’ Isola nostra l’ onta di un’ invasione 
straniera, sia pure in materia di gravimetria, e per sfatare l’esoso ed 
ingiusto pregiudizio che quaggiù si sia alla coda di ogni progresso scien- 
tifico, il Prof. Riccò ed io, in una conferenza tenuta fra noi in Catania 
nel 1897, stabilimmo di far contribuire i nostri istituti agli studi di gra- 
vità terrestre, e si convenne dover egli operare nella parte orientale 
dell’Isola, io ‘nell’occidentale, comprese le isolette che da questa parte 
le fanno corona. Cominciai a darmi d’attorno per l’acquisto dell’appa- 
recchio di Sterneck col quale si effettuano le progettate determinazioni; 
e ne ebbi i mezzi, dal nostro benemerito Consorzio universitario, che, 
vista l’importanza dello scopo, non si fece pregare a concedermeli. L’in- 
ventore stesso, 1’ Illustre col. V. Sterneck volle gentilmente incari- 
carsi di far costruire l’apparecchio da un meccanico viennese di sua 
fiducia, e determinarne egli stesso le costanti specifiche; e così il nostro 
istituto geodetico fu arricchito di un istromento prezioso, che in Italia 
non è posseduto se non dall’Istituto congenere di Torino e dalla Com- 
missione geodetica Italiana. 

In possesso dell’ istromento, e dopo le necessarie prove ed esercita- 
zioni, dovetti pensare al programma, non solo scientifico, ma anche pra- 
tico della campagna che volevo intraprendere. Quanto al primo, pren- 
dendo a base Palermo, sî imponevano due determinazioni dette una di 
andata e l’altra di ritorno: le altre stazioni credetti utile di farle nelle 
isole, perchè in alto mare, lontano dalle influenze locali delle catene 
montuose, le determinazioni di gravità vengono più genuine e più nette; 
e volli appoggiarmi poi a qualche punto della costa. Quanto al numero 
di esse stazioni, esso doveva impreteribilmente esser limitato dalla po- 
tenzialità finanziaria, ahimè, non cospicua del mio Istituto. Ed eccomi 
trasportato nell’ altra parte, che chiamai pratica, del programma. In 
queste spedizioni, occorrono tre persone; l’ operatore, l’assistente e il 
meccanico; e siccome queste ricerche sono per l’indole loro, vagabonde, 
si doveva pensare a far fronte al più della spesa, cioè ai trasporti con- 
tinui delle persone e del materiale, senza trascurare le altre piccole 
miserie della vita intese col nome di fame, di sete e di sonno, e che 
pur troppo non possono essere soddisfatte anche dal più caldo amore 
della scienza. Il munifico cittadino Comm. I. Florio risolse il primo pro- 
blema, concedendo gratuito passaggio sui postali della N. G. a me ed 
ai miei compagni, non escluso il bagaglio scientifico; del che gli rendo 


8 SULLE MISURE DI GRAVITÀ RELATIVA 

qui pubbliche grazie. Il ministro della Marina, cui pure dobbiamo esser 
gratissimi, mi concesse libero ingresso ed alloggio nei semafori dello 
Stato, edifici adattatissimi, anche scientificamente, a queste ricerche. 
Ridotta quindi la spesa nella misura delle forze di cui potevo disporre, 
fu intrapresa la campagna con una: determinazione in Palermo, città, 
poi in Ustica, in Pantelleria, Favignana, Trapani, in Mezzomorreale, 
e chiudendo poi colla determinazione di ritorno nello stesso luogo ove 
fu fatta quella di partenza. Fui assistito, per Palermo ed Ustica, dall’Egre- 
gio ingegnere Soler assistente del Gabinetto ; per gli altri luoghi, dal 
chiarissimo Prof. Delisa, nostro socio, ai quali pure professo la mia gra- 
titudine. In quelle isolette molto interessanti e così poco note agli stessi 
siciliani, fummo fatti segno ad ogni sorta di cortesi manifestazioni; a 
Favignana, in ispecie, il Comm. Caruso, a Trapani l’on. Lampiasi e il 
Cav. Adragna ci obbligarono infinitamente. Nel nostro programma en- 
trava.a dir vero, anche la lontana isola di Lampedusa, i cui dati sa- 
rebbero stati interessantissimi; ma un incidente accaduto ad un istro-- 
mento accessorio, mi fece perdere la coincidenza di viaggio, e dovetti 
per forza maggiore rinunciarvi. ; 

Le determinazioni di gravità si eseguono osservando le durate di oscil- 
lazioni di quattro masse pendolari opportunamente sospese, in rapporto 
alle oscillazioni di un orologio astronomico che batte i secondi. Pel con- 
fronto dei due generi di oscillazioni serve il metodo delle coincidenze 
di Borda, ma estrinsecato in un modo elegantissimo e sicuro, che costi- 
tuisce la parte geniale dell’invenzione di Sterneck. Ad ogni battuta del- 
l’orologio, uno scatto elettrico produce un lampo che riflesso da appo- 
sito specchietto fissato sulla massa oscillante, vien ricevuto in un can- 
nocchiale attraverso a cui questa massa viene continuamente osservata. 
Cosicchè, mentre l’orecchio segue l’ andamento dell’ orologio, l’ occhio 
segue l’oscillare della massa identificata dal lampo, e così è possibile con- 
frontare le due oscillazioni, e giudicare quanto duri quella della massa 
pendolare rispetto a quella dell’orologio rappresentante l’unità di tempo, 
ossia il minuto secondo. Ma, per esser sicuri che questa unità di tempo 
sia ciò che dev'essere, bisogna conoscere l’andamento dell’orologio, il 
che si fa con osservazioni stellari eseguite con un istromento speciale. 
Ciò stabilito, ecco qual’era l’ordine di ogni determinazione. Si comin- 
ciava col disporre gli istromenti nel modo più conveniente, e sopratutto 
col regolare l'orologio astronomico, che è l’anima di queste ricerche: 
per esperienza fatta, posso dire che è prudenza somma farlo oscillare 
liberamente almeno dodici ore, prima di dar principio alle esperienze. 
Poscia la prima ricerca era quella dello stato assoluto dell’orologio, fatta 


ESEGUITE NELLA PARTE OCCIDENTALE DELLA SICILIA, ECC. 9 
con osservazioni di altezze di stelle nel 1° verticale, o come dicono, la 
determinazione del tempo. Allora si procedeva allo studio delle oscil- 
lazioni delle masse pendolari; ed ognuna di esse veniva interpolata- 
mente fatta oscillare quattro volte, tenendosi scrupoloso conto delle con- 
dizioni termo-barometriche del momento. Ogni sera, poi, veniva fatta 
la determinazione del tempo per conoscere esattamente l’ andamento 
dell’orologio. 

Così, in tre giorni, veniva in ogni stazione compiuto lo studio della 
gravità, della quale si ottenevano in tal modo sedici determinazioni 
distinte, e si era, quindi, in grado di dedurre, dall’ accordo di queste, il 
valore più probabile della gravità stessa del luogo, non disgiunto dal 
criterio oggettivo e numerico del grado di bontà delle osservazioni. 

I risultati delle or descritte misure, confermarono quanto già si era 
osservato in tutti i paesi marini.e nelle isole; cioè, che la gravità reale, 
sperimentalmente ottenuta, è sempre maggiore di quella teorica, che 
corrisponderebbe ad una forma ellissoidica della Terra, che avesse una 
densità uniforme ed uguale a quella degli strati a noi accessibili. Que- 
sti eccessi di gravità sono di 11 decimillesimi del suo valore, per Val- 
verde; di 12 decimillesimi per Palermo; di 13 per Pantelleria; di 13 !/, 
per Trapani; di 14 per Favignana e di 15 per Ustica; mantenendosi, 
così l’entità di questi eccessi, dentro i limiti già segnalati in molte altre 
Stazioni estere, e dando forse ragione all’ ipotesi di Faure che, cioè, i 
fondi marini, pel millenario contatto colle acque fredde del mare, abbiano 
coll’ andar dei secoli accresciuto la loro densità al punto di attrarre 
maggiormente le masse esterne, di quel che facciano gli strati profondi 
continentali. Checchè ne sia delle cause, egli è certo che questi studi 
di gravità porteranno, col seguito, molta luce in varie ancora oscure 
ed intricate questioni geomorfiche; ed io, lieto di aver potuto aver modo 
di prender parte al gran lavoro internazionale , conto di perseverare 
su questa via nei limiti dei mezzi di cui posso disporre ; e nel frat- 
tempo, permettetemi, Egregi Colleghi, che io possa annunciare questo 
contributo ai nuovi studii terrestri, dalle pagine dei nostri volumi; es- 
sendo decente che ricerche riferentesi all'Isola nostra, vengano prima- 
mente negli Atti della maggiore sua Accademia, registrati. 


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CONTRIBUTO 


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Comunicazione data alla R. Accademia 
DAL SOCIO 
Prof. TEMISTOCLE ZONA 
nella tornata del 14 Novembre 1899. 


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IL GRIDO DELL'ACQUA 


Tutti gli autori di meteorologia e fisica terrestre, parlando della 
grandine, riportano l osservazione fatta, alcune volte, di un rumore 
speciale che ne precede la caduta; anzi è noto che sopra tale rumore 
si formularono delle ipotesi intese a spiegare 1’ origine della suddetta 
meteora. i 

Il detto rumore non si intese però sempre e dappertutto, ma solo in 
circostanze speciali, circostanze che con questa mia nota cercherò anche 
di mettere in rilievo. È 

Nelle mie frequenti escursioni in montagna, con tempo cattivo, avendo 
in vista qualche burrascata che stava arrivando, mi sentii spesso ripe- 
tere dai contadini siciliani: sigrurinu, sì riparassi, ca’u gridu c'è. L'av- 
viso lo capivo, perchè vedevo anche io che si avanzava da lontano la 
burrasca, ma non sapevo spiegarmi che cosa ci entrasse in tutto ciò 
la parola grido; il mio orecchie non si era ancora reso conto, separan- 
dolo dai tanti rumori della natura, del suono speciale, noto ai monta- 
nari della Sicilia, che precede le burrasche in generale e che da loro 
è chiamato il grido dell’acqua. 

Più tardi il fenomeno mi si presentò chiaro, netto ed intenso, e fu in 
tale circostanza che compresi di che cosa si trattava; e dopo di allora 
il rumore lo udii sempre e dappertutto per la montagna. 

Il rumore assomiglia a quello di un torrente impetuoso, a quello della 
cascata, a quello del treno ferroviario, al brontolio di acque scorrenti 


4 IL GRIDO DELL'ACQUA 


in sotterranei, al tuono lontano ; al sordo rombo della tromba marina; 
assomiglia, ma non è uguale a nessuno dei detti suoni, e ciò quando si 
tratti di pioggia che si avanza; che se la meteora porta grandine, il 
suono ricorda anche il rumore di noci agitate in sacchi. 

Ecco, del resto, come osservai per la prima volta il fenomeno, cioè 
come compresi che .cosa si doveva udire. Mi ero stabilito sotto una tenda 
sopra una rupe situata nel centro di una conca montana; il tempo verso 
sera erasi messo al cattivo. A mezzanotte, circa, intesi un rumore che 
andava rapidamente crescendo, tanto che in breve assunse le propor- 
zioni allarmanti di muggito di torrente, di fracasso ferroviario, di fra- 
gore di tromba marina; mi preoccupai tanto che mi alzai per attendere 
in piedi la supposta grave meteora; essa arrivò, e sempre muggendo 
si allontanò; non.fu una meteora pericolosa, ma un semplice acquazzone 
con vento debole. Durante la notte arrivarono altre due simili acquaz- 
zoni, ruggenti come il primo ed egualmente innocui; nella successive 
mattina i contadini mi domandarono se avevo sentito il grido dell'acqua. 
Dopo di allora (avendo inteso di che cosa si trattava) osservai spessis- 
simo il detto rumore, lo intesi precedere le burrasche di acqua, e quelle - 
di grandine, intesi spesso il rumore anche quando la burrasca non mi 
raggiungeva ma passava nelle vicinanze. 

Il rumore però non si intende sempre e dappertutto; nei grandi piani 
e nelle città non si ode; dall’osservatorio di Palermo benchè abbia osservato 
moltissime burrasche arrivare o passare vicine, non lo intesi mai. Lo 
intesi invece sempre trovandomi in luoghi elevati e solitari, lo intesi anche 
sul mare. Vi sono poi delle località, le quali si prestano mirabilmente 
a raccogliere, rinforzare e dirigere il suono; in una di queste località 
ebbi la fortuna di imbattermi io la prima volta che intesi nettamente 
di che si trattava: mi trovavo, come dissi, attendato sopra una colli- 
netta, situata nel centro di una conca montana, circondata da monti più 
o meno elevati (qualcuno fino a mille metri), dominanti colle loro parti 
superiori le valli limitrofe; il piano di Palermo ed il mare; il luogo è 
un vero orecchio, arrivano infatti colà voci umane, fischi di ferrovie, 
di piroscafi, suoni di campane ed ancora suoni di musiche, tutti rumori 
provenienti da grandi distanze. Osservato il fenomeno, mi posi natu- 
ralmente alla ricerca della causa, che ben facilmente trovai. Il rumore 
è dovuto semplicemente all’urto materiale contro il suolo della pioggia 
o della grandine che cade nelle località vicine. In moltissime circo- 
stanze vidi direttamente l’acqua cadere in luoghi vicini e udivo distinto 
il rumore; anzi una volta mi trovavo sopra una rupe a picco, pioveva 


a poca distanza dalla rupe, l'acqua che attraversava davanti a me 


IL GRIDO DELL'ACQUA 5 


l’aria non faceva nessun rumore, dal sottostante piano e valle si elevava 
invece distinto il noto grido. 

Trovandomi sopra piccoli battelli in mare, alla caccia, ed essendo 
raggiunto da acquazzoni, restai sorpreso del gran chiasso, che fa l'urto 
della pioggia sul mare. 

In conclusione, in ogni circostanza propizia, e furono numerose, mi 
convinsi sempre più che il rumore che precede la pioggia o la gran- 
dine, non ha altra origine oltre l’accennata, però il rumore non si sente 
che in posizioni elevate, in anfiteatri o ampie conche montane cioè in 
circostanze tali che permettono ai suoni di arrivare chiari e rinforzati. 


OI? 
TEN 


IL !zMISTPOEFFERS 


È già qualche anno che nei periodici scientifici si pubblicano rela- 
zioni e notizie circa un fenomeno misterioso di fisica. terrestre, fenomeno 
udito specialmente lungo la costa dal Mare del Nord indicato col nome 
di mistpoeffers. Esso consiste, a detta degli osservatori, in un suono che 
assomiglia a spari di artiglieria cupi e lontani; questi spari si sentono 
sempre dalla parte del mare e da località non troppo lontane dalla 
ostac; spesso il rumore, sempre provenendo dalla direzione del mare, 
paro che venga dal sottosuolo. 

In questi ultimi tempi parecchi inclinano verso l’ipotesi che il feno- 
meno sia dovuto a causa endogena e lo vorrebbero associare al fenomeno 
di rumori sotterranei sentiti spesso (benchè con carattere differente) in 
molte altre località discoste anche dai mari. Anche non volendo accu- 
munare con il fenomeno in discorso i rumori sotterranei ab antico sen- 
titi frequentemente, sta oramai il fatto che lo speciale rombo detto mist- 
poeffers è stato osservato in varie altre località costiere. 

Benchè mi fossero note le descrizioni del fenomeno, esso non attirò 
dapprima la mia attenzione, lontano essendo dal supporre che lo stesso 
fenomeno esistesse anche in Sicilia e fosse noto non al mondo dei dotti 
ma ai campagnuoli. 

Lo scorso autunno 1899 la mia famiglia andò a villeggiare in una 


8 IL MISTPOEPFERS 
conca montana separata dal mare da catene di monti alte da 5 o 6 cento 
metri; la stessa conca nella quale rilevai per la prima volta il feno- 
meno del grido dell’acqua. 

Dopo alcuni giorni di dimora colà fui avvisato, dalla mia famiglia, 
che spesso si sentivano dei colpi cupi come di cannoni lontani. Non 
diedi importanza alla notizia, perchè in località lontane alcuni chilo- 
metri sì sparavano spesso delle mine per l’estrazione di pietre. 

Più tardi però i colpi si notarono anche nelle ore notturne e di do- 
menica, tempi in cui gli spari non potevano attribuirsi a mine; ad onta 
di ciò sul fatto non fissai la mia attenzione, essendo lontano dal sup- 
porre che potesse trattarsi del mistpoe/fers. 

Qualche tempo dopo, in un giorno di domenica mi trovai nello stesso 
luogo con varii contadini; dopo aver parlato del buono e cattivo tempo, 
un contadino mi disse che il tempo doveva mutarsi, perchè si sentivano 
i colpi del golfo di Castellammare. Richiamata così la mia attenzione, 
ascoltai; in circa mezzora udii varii colpi, sordi che davano un suono 
intermedio fra le cannonate lontane ed il brontolio di tuono pure lontano. 

AI contadino che mi aveva addittato il fenomeno domandai la spie- 
gazione, quasi sicuro che esso mi avrebbe indicato qualche cosa di strano 
e misterioso; invece mi rispose : « la spiegazione è molto semplice : lungo 
una parte della costa del golfo di Castellammare vi sono delle grotte e 
caverne più o meno ampie, le onde del mare, penetrando in queste 
grotte, producono questi colpi simili ai spari ». Udito il rumore e la sem- 
plice, chiara e naturalissima spiegazione datami, mi persuasi che essa 
era certamente giusta, e che il fenomeno udito non poteva essere altro 
che il mistpoeffers del mare del Nord. Tanto più mi persuasi subito 
della cosa, perchè la riattaccai ad altre mie osservazioni fatte lungo la 
costa Nord della Sicilia. 

Due anni prima abitai per due mesi dietro Monte Pellegrino, in lo- 
calità completamente solitaria e selvaggia in riva al mare, dove la costa è 
dirupatissima e solcata di numerose insenature e grotte. Im detto luogo, 
quando il mare era agitato, i colpi, i brontolii ed i sibili per fughe 
d’aria compressa facevano un frastuono, che ora ricordava la canno- 
nata, ora il tuono; anzi spesso il suolo tremava per i colpi di onda nelle 
sottostanti ‘grotte. In un’altra località a Capo Zafferano trovai che il 
fenomeno assumeva una intensità sorprendente, degna di esser ammirata. 
In tale località il mare, flagellando con l’ onda la costa, non solo con 
fragore enorme scava caverne, ma spesso, dopo che queste sono costruite, 
gli stessi colpi di onda ne fanno crollare le volte, trasformando le ca- 
verne in piccoli seni di mare, spesso sorpassati da ponti naturali (avanzi 


IL MISTPOEFFERS 9 
delle volte), che ne riuniscono le sponde. Dall’assieme dei fatti da me 
osservati e dalla lezione ricevuta dal dotto contadino, sono persuaso che 
il fenomeno qui osservato è veramente il mstpoeffers e che la spiega- 
zione datami risponde pienamente al fatto. 

I colpi dell'onda marina, che si ingolfa entro le caverne costiere, dà 
origine al mistpoeffers; il rumore può propagarsi a distanze più o meno 
grandi attraverso l’aria, ma la propagazione del suono più spesso av- 
viene attraverso il suolo; da qui probabilmente ha origine il sospetto 
che il m/istpoeffers sia fenomeno endogeno. Se poi in varie circostanze 
esso è indizio di prossimo malo tempo, ciò dipende forse dal fatto, che 
l’onda marina, essendo più veloce delle burrasche, arriva prima di queste 
sulle coste. 


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SULLA RAPPRESENTAZIONE GRODETICA 


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L’Ing. Dott. E. SOLE R 


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SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA DI TALUNE SUPERFICI 


= -———& 


1. Il Beltrami ed il Dini trattarono in due celebri Memorie * della rap- 
presentazione geodetica delle superfici; cioè della rappresentazione di una 
superficie su di un’ altra fatta dietro il principio che ad un punto del 
l’una corrisponda un punto dell’altra, ed alle seodetiche dell’una corri- 
spondano le geodetiche dell’altra. 

Fermandoci alla rappresentazione sul piano delle superfici di rotazione 
a curvatura costante, positiva o negativa, non è difficile trovare, con 
opportuni metodi geometrici, le proiezioni delle curve del sistema geo- 
grafico delle stesse. 

Riguardo alle superfici a curvatura costante positiva basta difatti tener 
presente che la rappresentazione del Beltrami si riduce ad una proie- 
zione centrografica della sfera sopra un piano. 

Riguardo alle superfici a curvatura costante negativa vi si può giun- 
gere col metodo seguente. Consideriamo quella rappresentazione conforme 
della pseudosfera sul semipiano, nella quale i punti allo infinito della 
superficie sono rappresentati dallo asse delle x (retta limite); le geode- 
tiche da circoli aventi i centri sullo asse medesimo, ed i circoli geode- 


# BELTRAMI : Risoluzione del Problema di riportare î punti di una superficie sopra 
un piano, in modo che le linee geodetiche vengano rappresentate da linee rette. (Annali 
di Matematica. 1866) — Dini: Sopra un problema che si presenta nella teoria generale 
delle rappresentazioni geografiche di una superficie su di un'altra. (Annali di Mate- 


matica. 1869). 


4 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 
tici da circoli aventi i centri sopra rette perpendicolari all’ asse stesso; 
cadendo la rappresentazione della parte reale della superficie sul semi- 
piano positivo. Facciamo una inversione per raggi vettori reciproci, sce- 
gliendo per centro d’inversione un punto della perpendicolare innalzata 
al piano rappresentativo da un punto della retta limite. Allora, com’ è 
noto, il piano si trasformerà in una sfera, la retta limite diverrà l’equa- 
tore di detta sfera; tutta la porzione reale della superficie si proietterà 
sopra un emisfero; e precisamente i circoli rappresentanti le seodetiche 
si proietteranno secondo circoli i cui piani saranno normali al piano dello 
equatore, ed i circoli geodetici secondo circoli della sfera. Facendo an- 
cora una proiezione ortogonale dello emisfero in parola sul piano dello 
equatore, le geodetiche verranno rappresentate dalle corde del circolo 
equatoriale (circolo limite); i circoli geodetici da coniche doppiamente 
tangenti al circolo limite #, cadendo la rappresentazione della porzione 
reale della superficie internamente al circolo limite predetto. 

Il metodo esposto raggiunge maggior semplicità e generalità di quelli 
noti. Il Darboux **, difatti, pur fondandosi sulla suaccennata rappresen- 
‘tazione conforme della pseudosfera (che è la fondamentale), passa dalla 
medesima alla sfera, e sceglie su questa il centro di proiezione in modo 


si 


che è lecito ricavare la rappresentazione di Beltrami per una sola fa- 
miglia di geodetiche e loro traettorie ortogonali, e non contemporanea 
mente per tutte le geodetiche rappresentate nel semipiano. Il metodo del 
Klein, riportato dal Bianchi #*#, soddisfa alla necessaria generalità ri- 
guardo alla proiezione delle geodetiche; ma per adoperare lo stesso è ne- 
cessario passare dalla rappresentazione isogona suaccennata della pseu- 
dosfera ad altra pure isogona nella quale la retta limite è divenuto un 
circolo limite; mentre in quello da noi dato si va dalla rappresentazione 


# Non ci sembra inutile accennare le considerazioni geometriche che portano ad am- 
mettere la proprietà esposta. Se sopra ùna sfera si suppongono tracciati due circoli € 
e C’,e dal polo V del piano di € rispetto alla sfera si proiettano i due circoli, avviene 
che i poli della retta 7, intersezione dei piari di © e di €’, rispetto ai medesimi Ce € 
si trovano allineati con V; e sul piano Vr i fasci in involuzione di rette reciproche 
aventi il centro in V, e relativi ad ambedue i coni, coincidono. In tali condizioni si 
dice che i due coni hanno doppio contatto, giacchè si considerano proiettivamente equi- 
valenti a due coni aventi due generatrici comuni. Nello stesso senso si dice che se- 
gaudo quei due coni con un piano non passante per |, le coniche risultanti hanno un 
doppio contatto. Nella costruzione da noi fatta essendo il piano del circolo © lo equa- 
tore della sfera, il polo dello stesso rispetto alla sfera è un punto all'infinito. 

#* V. DABBOUX : Lecons sur la theorie des Surfaces. (T. INI, pag. 441). 

##* V. BrancHI : Lezioni di Geometria Differenziale, Pisa, 1894. 


DI TALUNE SUPERFICI 5) 
isozona fondamentale della psewdosfera, senza trasformazioni intermedie, 
a quella di Beltrami. 

È utile ancora rammentare che sulle superfici a curvatura costante 
negativa vi sono tre specie di circoli geodetici, intendendo col Darboux 
per circoli geodetici le linee a curvatura geodetica costante; cioè : 1° quelli 
pei quali le geodetiche ortogonali concorrono in un punto a distanza fi- 
nita, che è il centro dei circoli in parola; 2° quelli per cui le geodetiche 
ortogonali tendono a concorrere in un punto a distanza infinita; 3° quelli 
per cui le seodetiche ortogonali non hanno punto di concorso, o se vuolsi, 
concorrono in un punto ideale. 

Nella rappresentazione conforme suaccennata della pseudosfera sul se- 
mipiano , i circoli geodetici della 1% specie non toccano l’asse delle x; 
quelli della 22 gli sono tangenti; quelli della 3% lo secano. Corrisponden- 
temente nella rappresentazione geodetica della pseudosfera sul piano le 
coniche rappresentatrici dei circoli della 1% specie hanno col circolo li- 
mite un doppio contatto immaginario; nel 2° caso i due punti di tan- 
genza si riuniscono in un solo reale; nel 3° caso si hanno due punti di 
tangenza distinti e reali. 

Non facendo parola dei meridiani delle superfici di rotazione accen- 
nate in principio del $, poichè essi, com'è ovvio, vengono rappresentati 
da rette, le considerazioni geometriche precedenti permettono di affer- 
mare che i paralleli vengono in ogni caso rappresentati da coniche. Ciò 
è facile intendere per le superfici a curvatura costante positiva; per 
quelle a curvatura costante negativa basta tener presente che i paralleli 
possono considerarsi come circoli geodetici appartenenti alla 1,2% o 3# 
delle specie cennate sopra, secondoché facciano parte del sistema geo- 
grafico della superficie pseudosferica del tipo ellittico, del tipo parabolico 
o del tipo iperbolico. 

Il fissare sul piano le curve rappresentatrici del sistema geografico 
delle superfici di cui è quistione, sarebbe molto complicato qualora si 
volessero desumere i meridiani ed i paralleli dalle equazioni generali 
delle geodetiche e delle loro traettorie ortogonali, la determinazione delle 
quali ultime, fatta per quadrature, porta ad espressioni assai involute. 

Ma noi mostreremo come, avvalendoci delle equazioni in termini fi- 
niti delle geodetiche e dello arco di geodetica, con opportuno metodo, 
che equivale ad una trasformazione di coordinate curvilinee, si possono 
con grande facilità stabilire nel piano le equazioni delle curve rappre- 
sentatrici cercate; e si ha mezzo di trovare la rappresentazione piana di 
una curva qualsiasi espressa sulla superficie mediante le coordinate geo- 
grafiche. 


6 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 


2.E necessario premettere talune considerazioni d’'indole generale. Quan- 


SA NE o - Il 
do sulle superfici a curvatura costante positiva o negativa ( 25 3a) 5 
\ Uni 


si scelgono a linee coordinate le geodetiche uscenti da un punto P e le 
loro traettorie ortogonali, l'elemento lineare di tali superfici assume la 


forma 
(1) ds = R°(ds 4 sin°sd +) 
(2) dp (d SAL uu I e) 


dove, com'è noto, s è l'arco di geodetica contato a partire da P, © lan- 
golo che una geodetica qualunque del fascio fa con una geodetica fissa. 

Su tali superfici le linee accennate costituiscono un sistema di ellissi 
ed iperbole geodetiche , secondo le definizioni date dal Dini nella sua 
Memoria #; e se le stesse si scelgono come direzioni principali per la 
rappresentazione geodetica delle superfici in parola sul piano, in questo 
le direzioni principali saranno le linee che costituiscono il sistema di 
coordinate polari # 

Noi terremo, per maggior comodità, nel piano le coordinate cartesiane, 
scegliendo come assi coordinati la retta corrispondente al meridiano pas- 
sante per /, e quella corrispondente alla geodetica tangente in P al pa- 
rallelo passante per lo stesso punto. 

Ciò posto, rammentiamo che le equazioni della geodetica sulle super- 
fici accennate, si possono ridurre alla forma 


(3) Atgscosev+Btgssine + C=0 
B — @=9 Neli = essa È 
(4) d_____cose+ Bb SINICERCE0 


S+ e e +4+eS° 


* V. in proposito BraxcHI (Lezioni di Geometria Differenziale, p. 167). 
** Ciò può cavarsi facilmente dalla considerazione che posto lo elemento lineare della 


superficie da rappresentarsi, sotto la forma generale 


2 I 7 ì U, 2 Vi 2 
(a) ds (aU+0)— (aV+D), mai du? + n dar 
ALE . I 1 1 
il Dini, nel $ 7 della sua Memoria, cava che dette > i = le curvature 


Cu Cv fu fiv 


geodetiche delle direzioni principali w,v della superficie (@) e di quella su cui essa si 
rappresenta, tali curvature sono legate dalle relazioni 
3 3 
n Il Ì 5 1 
(AV 10) 2 = (a Ut)? 
I u Vu ia Vv 
Nel caso che lo elemento (a) si riduce alla forma (1) o (2), si ha u=s, V=0, U= f(0); 
1 1 
e poi ——=0, 


3 3, 
DV pu 


o 
bri 


= o(«), donde si deduce la proprietà enunciata. 


DI TALUNE SUPERFICI T 
e quindi basta pigliare per coordinate x,y di un punto del piano i coef- 
ficenti di A e di B nelle precedenti, perchè alle geodetiche delle super- 
fici corrispondano le rette del piano. 
Le formule di corrispondenza saranno quindi nel 1° caso 


( Xi = 1919 COSV 


(5) i 
( q= tg s smo 
e nel 2°. 
( x = tg hs cos 
6) { 
(6) ( 


y=t8&hssino 


Ancora nella speciale rappresentazione delle superfici di rotazione sup- 
porremo scelta come geodetica origine (7 = 0), il meridiano passante per ?, 
che sul piano sarà quindi rappresentato dallo asse delle x. Il parametro © 
sarà quindi l’azimut delle geodetiche uscenti da 7. 

Dalle formule precedenti si cava facilmente che gli angoli intorno al 
punto origine son conservati *: il che, unito alla proprietà fondamentale 
della rappresentazione, rende questa utilissima per proiettare regioni cir- 
costanti ad un dato punto. 

5. Consideriamo ora in ispecie le superfici di rotazione a curvatura 


# Ciò risulta dalla proprietà espressa dal Dini nel $ 7 della sua Memoria, che cioè 
nei punti in cui U= V (essendo lo elemento lineare sotto la forma (a) della nota pre- 
cedente) si ha similitudine dalle parti infinitesime. Ora all'origine si ha U=V=0. 

Si può provare anche facilmente colla considerazione dei moduli. Difatti i moduli 
lineari principali per le superfici (1), espresso lo elemento del piano in coordinate ret- 
tangolari, sono 


RI 1 1 
meg m=-- 
1 Rcoss 27 INCOIS 
e per le superfici (2) 
1 1 
mae Mmo= = 
= IROIP9 TI 08 
. 
All’origine, per cui s= 0, resta in ogni caso nm, = my, = ® 
Dalle precedenti si cava ancora, pei moduli superficiali, nel 1° caso 
1 1 
u=iarzreana ‘e nel 29, ue 3 
I COSI LECCO 8 


ed all’origine in ogni caso si ha 


Tanto i primi che il secondo si serbano costanti lungo i circoli. geodetici delle su- 
perficie. 


8 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 
costante positiva, il cui elemento lineare riferito ai meridiani ed ai pa- 
ralleli, può mettersi sotto la forma 
(7) ds = R° (du + cos ud w) 


dove « è l’arco di meridiano contato dall'equatore «= 0; e w la longi- 
tudine contata da un meridiano fisso. 

Consideriamo ancora le equazioni in termini finiti della geodetica, e 
la lunghezza di un arco di geodetica; cioè 


1 x Sin w 
(8) o= > arc tg nn (1 
ki V eos u — x 
i, sin w 
(9) iSie=# QUE tg SEE + (CHA 


Veosì wu — 22 


a 


vp essendo c la co- 
ÙU 


dove l” e 0” son le costanti d’integrazione; ed «= 
stante di Clairaut. 

Supponiamo adesso sulla superficie il sistema delle geodetiche uscenti 
da un punto arbitrario ?, e delle loro traettorie ortogonali; e scegliamo 
come geodetica origine il meridiano di /. Im tale ipotesi un punto qua- 
lunque J/ della superficie sarà determinato nel sistema in parola, scelto 
come coordinato, dalla lunghezza s dello arco della geodetica che lo con- 
giunge con ?, e dallo azimut v di essa all’ origine /? medesima. I due 
parametri s e © sono legati alle coordinate geografiche «, dello stesso 
punto dalle relazioni (8) e (9); da cui è facile cavare delle espressioni 
semplici che leghino le ultime alle prime. 

Scegliamo per coordinate geografiche della origine P leu= , 0 =0. 

Posti per brevità 
( 8= 08% 


(10) LARE 
( è = sin % 
sarà all’origine stessa 
(11) «= fp Sino 


Determiniamo le costanti l° e Cl nell'origine P medesima, col tener 
presente che quivi si ha pure s = 0. Adoperando nella (9) la formula per 
la somma degli archi tangente, se ne cava, dopo opportune riduzioni, 
per sin v una conveniente espressione, sostituendo la quale nella (8), dopo 
aver trasformata questa mediante la anzidetta formula degli archi tan- 
genti, risultano definitivamente le 
sin ©tgs 


B_-ècosetgs 


\ to Rio= 
(12) i 
| sinu= coss(0 + £ cos etgs) 


DI TALUNE SUPERFICI 9 


Supponendo in queste »= cost, w= cost si hanno le equazioni dei 
meridiani e dei paralleli; e sostituendovi in tale ipotesi le (5), si hanno 
per le linee rappresentatrici degli stessi sul piano, le espressioni 


(13) èdyegr+y—By=0 =tgfo) 


(14) (sinzu— 8°) a° + sint u.y2—288x+(sinu— 39) =0 


Cereando l’inviluppo delle rette (15), rappresentanti i meridiani, si vede 
che esse concorrono in un punto dell’asse delle «x di coordinate 


6 
(15) a=20) ear=+t 


Secondo la (14) i paralleli saranno dati da archi di ellissi, di parabole 
o di iperboli, secondochè 


sin° wu 5 COS? 4) 


L’equatore («= 0) è rappresentato da una retta 


parallela allo asse delle y. Il polo (x — 90°); da un punto le cui coor- 
dinate sono, com'è naturale, le (15). 

Le coniche (14) hanno l’asse focale coincidente con l’asse delle x, che 
rappresenta, come si sa, il meridiano di /; ed hanno per coordinate del 
centro 

8 

16) Uk== 0 a= ——} 

( 3 sin° u — 8° 

La rappresentazione si semplifica quando il punto origine si sceglie 
al polo, o all’equatore. 

Nel 1° caso è 


e le (15) (14) danno 
ra+y=0 
(17) | 
I -c°+y°=cotg?« 
cioè i meridiani son rappresentati da rette uscenti dall'origine, ed i pa- 
ralleli da circoli, com’era del resto prevedibile. 
Nel 2° caso èé 


to 


10 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 
e le (15) (14) danno 
3 ( 9,=% 
(18) 


( A2 


tor u.y — tou=0 
cioè i meridiani son rappresentati da rette parallele allo asse delle x; i 
paralleli da archi d’iperbole i cui centri sono all’origine. 

I risultati precedenti sono, per altra via, ritrovati dal Fiorini nei pa- 
ragrafi del suo Trattato * sulla Cartografia relativi alla centrografia oriz- 
zontale, polare, meridiana della sfera. Ad esso rimandiamo per altri det- 
tagli sulla proiezione stessa. 

4. Per la deformata per rotazione della sfera di raggio /è, in cui kK > 1, 
e della quale trattammo in altro luogo **, lo elemento lineare, si può 
porre sotto la forma i 

dis = Ri(d ud k così ud w2) 


In esso « rappresenta l’arco di meridiano contato dallo equatore «= 0, 
ed è legato alla latitudine geografica 9 dalla relazione 


siné=4sinu 
Tenuta presente la significazione di « in questo caso, si può tenere 
come equazione delle curve rappresentatrici dei paralleli delle regioni 
reali della superficie la precedente (14). 
Per le rette rappresentanti i meridiani, sì potrà tenere una espres- 
sione analoga alla (13), purchè si supponga 


v 
Ù 


= 2/00 

E 5 È ' SErOI SIGN ; 

5. Occupiamoci adesso delle tre specie di superfici di rotazione a cur- 
vatura costante negativa. 

E noto che lo elemento lineare di quella del tipo ellittico, riferita ai 
meridiani ed ai paralleli, può ridursi alla forma 


(19) dst= R°(du+Shud) 


dal quale, con metodi noti, si ricava per equazione in termini finiti della 
geodetica e per espressione dell’arco di geodetica sulla stessa : 


1 aChu 
(20 O == Wo cotg "=== (Cd 
9a £è VS GdR uo 


I LV 
21) al E log Citta MID 
2 Chu+ VSRau— a 


* V. FioRINI : Le protezioni delle carte geografiche. Bologna, 1881. 
#* SoLer: Nuovi studi sopra una certa deformata della sfera. (Atti della R. Ac- 
cademia di Scienze di Palermo, 1898). 


DI TALUNE SUPERFICI 11 


dove 


essendo c la costante di Clairaut. 
Determinandola, come nel $ 3, all'origine P(u=, © =0), dopo aver 
posto per brevità 


si ricava 
(23) x=è sine 


dove © è l’azimut di una data geodetica nel punto P medesimo. 
Introdotti i valori precedenti nelle (20) (21), e determinando le costanti 0" 


e €’ all'origine P, dopo aver posto C” = — 5 logd, si giunge ad espres- 


di 


sioni della forma: 


è Chusinv Bsine 
arc cotg 
co 


Re = arc cotg 


9) 


VISnRau— è sin? v 


coso Ohu—VSRka = è sin? 


p_ 90080 Chut4VSku— è? sino 


re) 
©2| 07 


le quali, sviluppate convenientemente, conducono alle : 


è +8cose T'hs 


cote Ro= — = 
$ sine TAs 


(24) 
| Chu=Chs(8+4+è cose Ths) 


x 


tra cui la prima si è ottenuta adoperando il valore di C'/R7 dato dalla 
seconda. 


Esse costituiscono nel caso presente le formule di trasformazione tra 
le coordinate geografiche e le geodetiche polari di un dato punto della 
superficie. 

Introducendo nelle medesime le formule di corrispondenza (6), dopo 
aver supposto 0hRu e cotg fw costanti, si ricava che i meridiani ed i 
paralleli son rappresentati dalle 

(25) Ba H- y cotg Rwo4+òèò=0 
(26) @A4 CR Ma + Chuy+28dx+(6— Ru =0 

Le rette, che rappresentano i meridiani, concorrono in un punto di 
coordinate 


(27) ga=e=s qe=0 


12 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 
cioè in un punto all'asse delle +, che rappresenta, al solito, il meridiano 
passante per l’origine P. 
I paralleli son rappresentati da ellissi, il cui asse focale coincide con 
l’asse delle x, e i cui centri hanno per coordinate 


(28) O RZ g=0 


Dalla (26) si ricava che il punto di concorso dei meridiani sulla su- 
perficie (v= 0), è dato, com'è naturale, dalle (27). 
Ancora dalle (6) si ricava che il circolo limite è dato da 


(29) deg = 


e si trova facilmente che le coniche (26) hanno collo stesso un doppio 
contatto immaginario nei punti 


} i 
(30) po==3 q= fata. 


0) 


Poichè £ > è, le (27) mostrano che il punto di concorso delle rette rap- 
presentatrici dei meridiani è interno, com’ era da aspettarsi, al circolo 
limite. ; 

La rappresentazione si semplifica, quando si scelga per origine / sulla 
superficie il punto di concorso dei meridiani (u= 0). Allora diventano 
B= e è=0, e le (25) (26) danno 

( r+ycotfhRo—=0 

(31) 

lx +y=TRu 


6. La superficie pseudosferica di rotazione del tipo parabolico, riferita 
ai meridiani ed ai paralleli, ha per elemento lineare È 


(32) dst= R°(du+evduw) 


Da esso si ricavano per equazione della geodetica, e per l’arco della 
medesima 


DE 1 MEREROS 
(33) = pyg Ve + loi 
(34) s=log[et4+ Veuve ]+ 0” 
dove, al solito, 
È e 
3i = — = essinv 
(35) = -p = evsine 


essendo c la costante di Clairaut. 


} DI TALUNE SUPERFICI 13 
Determinando all’origine le costanti C', 0” dopo aver posto (= —logl”” 
si giunge alle 


1 


Se PAL si e OT 
Ros sang e u_ y?sin2v — el cos v) 


espe sinto (= e%°) 
E Y(1+ cos v) 


Esse, opportunamente sviluppate, conducono alle 


e Thssin®v 
‘© {(A+ThAscos®) 
(36) c 


© =Chs(1+Thscosv) 


Y 
Ù 


dove, per ottener la prima, si è tenuto il valore di e" dato dalla seconda. 


Dalle stesse, introducendo le (6) dopo aver supposto » ed « costante, 
u 
ed aver indicato 


; = e, si ottiene 


(37) Ro Y ad_-y+£o o=0 
(38) RR RIEO 


Le rette rappresentatrici dei meridiani, concorrono nel punto 
(39) a=—1 ae=0 


cioè sul circolo limite, com’era da prevedere. 
Le coniche (38), rappresentatrici dei paralleli, sono delle ellissi, i cui 
assi focali coincidono coll’asse delle x, e i cui centri hanno per coordinate 


(40) = Ta = 


Esse hanno i due punti di contatto col circolo limite (29) sovrapposti 
in un punto reale di coordinate 


(41) xr=— 1 qg=0 


cioè dove concorrono i meridiani. 


7. La superficie pseudosferica di rotazione del tipo iperbolico riferita 
ai meridiani ed ai paralleli, ha per elemento lineare 


(42) ds = R°(du+Chudw) 


L'equazione in termini finiti della geodetica e l’arco della stessa, son 
dati, mettendo sotto opportuna forma le costanti, dalle 


14 SULLA RAPPRESENTAZIONE GEODETICA 


IS Pez? 
(43) = E log 200 AUT ii - L log C” 
2 aShut-VCnaZa 2 


1 Shu—-VCRu 
(44) g= l 


Ri 


lo) ———__— 
2 “a EVE 


1 
9 log 0” 


dove al solito, tenendo le notazioni (22) del $ 5, si ha 


(45) 


e gsi 
a=a=fsinv 
R 


essendo e la costante di Clairaut. 
Opportunamente sviluppando le (43) (44), si giunge alle 


| gro _ 8+3 Thscose+ Thssinv 


(46) — s+3TAscosw-- 


Thssinv 
Shu=Chs(0+8 Thscose) 


dove, al solito, si è ricavato dapprima dalla (44) il valore di Sw, che 
è servito per ottenere la prima delle precedenti. 


In esse, introducendo le (6) dopo aver supposto ‘w ed « costanti, si cava 


Ca Rw 


(47) IG LISA -)ytp@®—1)=0 
(48) (84 S A° a + SA uy + 28%8x+ (0 — SA =0. 


Le rette rappresentatrici dei meridiani concorrono in un punto 


(49) = 0 


che cade, al solito, sull’asse delle x, ma esternamente al circolo limite, 
com'era da prevedere. 


Le ellissi, rappresentatrici dei paralleli, hanno l’asse focale coincidente 
collo asse delle x; e per coordinate del centro 


E ) SE =) 
CO) e+ SR u J 


Esse hanno inoltre col circolo limite (29) un doppio contatto reale nei 
punti 


DI TALUNE SUPERFICI 15 

Riassumendo : 

Il metodo analitico esposto conduce con relativa semplicità alla de- 
terminazione delle (12), (24), (36), (46), le quali rappresentano sulle su- 
perfici di rotazione a curvatura costante positiva o negativa le formule 
di trasformazione tra le coordinate geografiche e le geodetiche polari, 
e permettono quindi di esprimere mediante le coordinate geodetiche delle 
curve già note mediante le geografiche. Av ralendosene nella rappresen- 
tazione geodetica delle cennate superfici sul piano, le formule medesime 
permettono facilmente di posizionare le curve rappresentatrici del si 
stema geografico. 

Le proprietà ricavate relativamente alla rappresentazione in parola 
possono riassumersi in questo modo : 

Considerato sopra una superficie di rotazione a curvatura costante po- 
sitiva o negativa un punto /, e facendo la rappresentazione geodetica 
di quella sul piano, se si sceglie in esso per origine delle coordinate il 
punto ?' corrispondente a P, e per asse delle x la retta rappresentatrice 
del meridiano di P:1° gli angoli intorno all’ origine sono conservati; 
2° i meridiani sono rappresentati da rette concorrenti sull'asse delle x; 
3° i paralleli da coniche aventi l’asse focale coincidente con la retta me- 
desima. 

Ove, in ispecie, la curvatura della superficie sia negativa, le coniche 
anzidette sono sempre delle ellissi, doppiamente tangenti ad un circolo 
avente per centro l’origine. 


Palermo, 1893. 


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NUOVI STUDI 


SOPRA 


UNA CERTA DEFORMATA DELLA SPERA 


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NUO VISSE 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 


Presentammo in altro lavoro # degli sviluppi relativi ad una defor- 
mata della sfera, nella quale indicato con r il raggio del parallelo, con « 
l’arco di meridiano contato da un certo parallelo, e con X una costante 
maggior d’uno, e supposta la sfera primitiva di raggio unitario, la curva 


tI 


meridiana è data dalle formule 


r=kcosu = | VIEZSIERmaRa, Va ES 1 


Lav 


e l'elemento lineare dalla 
ds = du? +1? cost ud O? 


Ci riserbavamo sin d’allora di estendere le formule date nella Nota 
ed applicarle ad esempi pratici per decidere se, ed in quali. casi, la de- 
formata in quistione potesse riuscire, come superficie di riferimento pel 
Geoide, preferibile allo Ellissoide. 

La presente nota si propone di dar luce sullo argomento sopra cennato. 


* Sopra una certa deformata della sfera — Rendiconti del Circolo matematico di 
Palermo — 1894 — Tomo VIII. 


4 NUOVI STUDI 
I 


Formule fondamentali. 


1. Ci proponiamo di esprimere le coordinate geografiche (9, w) di un 
punto / della superficie mediante le coordinate geodetiche polari (5, 0) 
del punto stesso, riferite ad una origine arbitrariamente scelta. 

Richiamiamo pertanto dalla Nota citata le equazioni in termini finiti 
della geodetica e dell’arco di geodetica. Esse sono 


1 
©sSs2= ar a== 
(1) TRS t9 Va 


sin 
2) G= ce gue === 
dl —_ 5 G 
( ° V cost u— e? 


dove d e l' sono delle costanti arbitrarie, e 
9 on 
(5) Cr 


dove 4 è la costante di Clairaut. 
Consideriamo un punto origine O di coordinate geografiche 0, «. Posto 
per brevità 


= COS'%) 


02 7° 


= sin) 


(4) Î 


e detto ©, l'angolo che l'arco di geodetica s, congiungente O con P, fa 
col meridiano uscente da O nel punto VO medesimo, si ha 


(9) c= sino, 


ed allora dalla (2), tenendo presente che all’origine s = 0, si cava, te- 
nendo sul momento il segno superiore 


° 
(0) 


6 = — arc tg —_ 
(0) 9 picos'v) 

Sostituendo per C nella (2) il precedente valore, e tenuta presente la 
formula della somma per gli archi tangente si ricava 


è V cost u— f? sin? è) 


8 cos ©, Sin 


(1) t9s= 


8.c0s o, V così u — £? sin® ©, + è sin w 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 5 
dalla quale, dopo fatto sparire il denominatore, quadrato, ed eseguite le 
opportune riduzioni, si giunge alla 


8c0sv, tes + è 


(3) sin = —rr > 
VI+tg?s 
ovvero 
(9) sinu = £ cos e, sins + 3 cos s 


la quale insieme alla 


(9) sin@ = ksinu È 


esprime la latitudine del punto / mediante le coordinate geodetiche dello 
stesso e la latitudine dell’origine. 
Similmente operando sulla (1), si ricava dapprima 


(10) b= — ] e t9 (è t39 %) 


e quindi 


zsinusin o, — 3 te èV cos — C8 sino 
(11) to bk 0 fo, b 0 
V così u 


8 sin* e, + èsinusinotg 


h 


Ma adoperando la (9), si ottiene 


ò sin s 


V costu— f* sin a, = f coso cos s 
Sostituendo nella (11), dopo opportune riduzioni, si ha 


TSO Gets sin ©, Sin s 
“p_3cosatgs o fcoss—è cos sins 


(12) to KO 


la quale esprime la longitudine del punto / mediante le coordinate geo- 
detiche dello stesso e la latitudine dell'origine. 

Notiamo che ove nelle (1) e (2) si fossero tenuti i segni inferiori, si 
sarebbe giunti alle seguenti espressioni 


\ sin = è coss— { cos ©, Sin s 
15 sin e) tes sin ©, si 
(13) AO SA sin e sins _ 
# bB4-dcosutgs £ coss+ è cos ©, SIN s 


2. Le (9) (9°) (12), ovvero le (13), unite alla 


&sin %) 


(14) sinv= 
cos 


* V. Nota citata, pag. 217 formola (23). 


6 NUOVI STUDI 


che proviene dalla equazione di Clairaut, risolvono il problema del tra- 
sporto delle coordinate lungo una geodetica s, note le coordinate (w) £ ©) 
nel punto origine della stessa. Esse permettono inversamente di rica- 
vare la espressione dell’arco di geodetica compreso fra due punti della 
superficie e gli azimut negli estremi della stessa, note le coordinate geo- 
grafiche dei punti medesimi. 

Basta pertanto eliminare il © tra la (9) e la (12), introducendo in questa, 
dopo quadrato, i valori di cos ©), cos? © e sin? ©) ricavati dalla prima. 
Dopo opportune riduzioni, si giunge con questo procedimento alla 


62 — sin? — cos? s+ 2 d sin w cos s 
5? sin? % + cos? s — 2 è cos s sin v 


te kO = 


e da questa si passa alla 
cos? s — 2 è sin  coss+ (3° sin? u — 52 cos? Q cos? «) = 0 
e quindi alla 
(15) coss = è sin u + 8 cos wu cos k£ 


che dà appunto l arco di geodetica mediante le coordinate geografiche 
dei suoi estremi. 

A risultato identico si perverrebbe partendo alle (13). 

Noi terremo pei casi pratici la (15) col segno superiore. 

Essa, supposto « = 0 e X = 1, riproduce in tal modo una formola 
nota pei triangoli sferici rettangoli. 

Nel caso degli archi di geodetica molto piccoli, la precedente (15) può 
nel calcolo condurre a risultati poco sicuri, e quindi è preferibile ado- 
perare la seguente, che si ricava dalla stessa, ma in cui l’s si presenta 
nella funzione trigonometrica seno : 


1 
(16) sins= | cos° u sin? & Q+ (8 sin u — è cos « cos & o] la 


Ancora, per avere lo azimut ©, all'origine O della geodetica, si noti 
che la (12), dopo rovesciata, si riduce facilmente alla forma 


7 cCoss — è cos © SÎn s 
cos ©, sin s 


toe, cotgkQ = 


in cui, introducendo per cos ©, sin s il valor tratto dalla (9), si giunge alla 


cos s— ò sin 
ig cotgkoO = = 
sin u— è cos s 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA T 
e valendoci per coss della formula (15), si perviene, dopo aver diviso 
per cotgk9, alla 


cos vu sink Q 
è cos u cos fi 2 


(17) TO 


6 sin 


L’azimut v allo altro estremo si può ricavare mediante la (14). 
Notiamo ancora che introducendo nella (12) soltanto il valore di cos vo 
cavato dalla (9), si giunge alla 


B sin ©, sin s 


io LO = —_- 
Cos s— è sin 


e adoperando allora la (15), si perviene alla 


È cos v sin £Q 
(18) sine = —— 
sins 


dalla quale si ricava 


cos v sin XQ 


(19) sin s : 
sin ©) 


La (19), pur dando I’ s per mezzo del seno, offre rispetto alla (16) il 
vantaggio di essere facilmente calcolabile mediante i logaritmi. 

Notiamo ancora che operando sulle (13), come si operò sulle (9) (12) 
per giungere alla (17), e valendosi sempre per coss della (15) col segno 
superiore, si giunge alla seguente espressione di , : 


cos v sin &£ Q 


(20 ie 2 = D 
(20) 907 acosucoskQ— sin 


la quale, come vedremo meglio in seguito, riesce utile nei casi in cui 
il denominatore della (17) risultasse negativo. 

Operazioni analoghe a quelle fatte sulle (9) (12) per giungere alla (19) 
portano, partendo dalle alle (13), a formula analoga alla predetta (19), co- 
m’era del resto da prevedersi. 


II 
Proiezioni geografiche della deformata. 
3. Per applicare alla deformata della sfera le formule di corrispondenza 
relative alle rappresentazioni isogone di una superficie di rivoluzione 


sul piano, cominceremo dal porre l'elemento lineare della deformata in 
parola sotto forma isoterma. 


8 NUOVI STUDI 


Supponendo, per maggior generalità, la sfera primitiva di raggio &, 


il detto elemento è dato da: 

(21) ds? = R?du°+ R°k? cost ud O? 
che si può ridurre alla forma 

(22) - ds= RkcosuVdV?+d92 


essendo V (latitudine isoterma) data dalla 


du 1 14 sinw 
253 Age = ” 
CÈ k cos u ip 2k log 1— sinu 


Y 


dove può supporsi C = 0, ammettendo che l’equatore sia origine comune 
pei parametri V ed «, il quale ultimo è legato alla latitudine ® di un 
punto della superficie dalla 


(24) ksine= sin@ 


Le formule precedenti ci permettono di stabilire con grande facilità 
il canevaccio delle carte rettangolari e centrali. 

4. Carte rettangolari. — Essendo dato lo elemento lineare del piano sotto 
la forma 


(25) ds?=da°+dy? 
le formule per la corrispondenza isogona sono 
\ LANCE 


) € l+4sinu 
| yI=ZT5x198; 


(26) 


— sin u 


dalle quali, supponendo, come è lecito fare, p=g9 = 0, si cava che i me- 
ridiani della superficie son rappresentati da rette parallele allo asse delle y 
(rappresentante il 1° meridiano), ed equidistanti tra loro; i paralleli da 
rette parallele allo asse delle x (equatore), e che si allontanano tanto 
più quanto più sin aumenta senza mai nel caso nostro, in cui si man- 
tiene sempre u < 90°, andare allo infinito del piano. 

Il doppio segno dello y vale a potere rappresentare i due emisferi, 
boreale ed australe, partendo sempre dallo equatore. 

Il modulo di trasformazione è dato da 


(9 
Rkcoswu 


A= 


ed una lossodromica della superficie è rappresentata da una linea retta. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 9 


5. Carte centrali. 


Essendo dato lo elemento lineare del piano sotto la 
forma polare 
i | ds'?= (da 4+d0) 
(27) 4 
| = lop:efp 


le formule di corrispondenza per la rappresentazione isogona dopo facili 
trasformazioni, e dopo una opportuna scelta di costanti si possono ri- 
durre alle seguenti 


È 
7 (È + sin Jr 2k 

e —_—y—_m& 

Pi le=sinia 
dalle quali si cava che i meridiani son rappresentati da rette concor- 
renti al polo delle coordinate (essendo il 1° meridiano rappresentato dallo 
asse polare); ed 


(On 


paralleli da circonferenze concentriche. 

Supponendo c é 1 si hanno casi analoghi a quelli della sfera. 

Il doppio segno nello esponente della 2° formola vale a darci la rap- 
presentazione dei due emisferi, boreale ed australe. 

Consideriamo una lossodromica della superficie. Essa è data da 


mr 
(6) T u 5 
Q= = log cotg; (E -—- ) (Gea 
% 5 lo) 4 D un = 
in cui si può porre C = o, supponendone l’origine allo equatore; e dalla 
= . ER ; 1 
stessa si cava con facili passaggi, e ponendo — = a, la seguente 
È (6) 


1l+sinw 


PINO) 
29 e host - 2 
15) 1_—-sinw 


che si poteva ricavare anche dalle formule del $ 4. 
Supponendo nelle (28) c = 1, dalla considerazione di esse e della (29) 
si cava che la curva rappresentatrice della lossodromica è 


n 
(30) = 9 


cioè una spirale logaritmica. 
Il modulo di trasformazione è dato da 


i, (7° sin u\9% 
1-sinw 
Rkcosu 


(31) n= 


Lao) 


* V. Sopra una certa deformata della sfera. Pag. 221. 


10 NUOVI STUDI 
Derivando rispetto ad « si ha 


dn _n(c+ksin) 
da k cos 


la quale si annulla, ponendo 


ca ksinu 
Tenghiamo come costante 
(33) u=— € 


il che, avuto riguardo alla (24), vale a portarci dall’ emisfero boreale 
p.e. all’australe. 
Con tale ipotesi, e risultando dalla (532) 
d° n 


= 
du 


si conchiude che la costante è il seno della latitudine, per la quale av- 
viene la minima deformazione. 

Ove si volesse rappresentare una zona compresa tra due paralleli ®, 
e ®,, in modo che le deformazioni fossero minime sul parallelo medio, 
nulle sopra un altro parallelo ®, e quindi sul suo simmetrico rispetto 
al parallelo medio, le due costanti x e e andrebbero determinate dal 


sistema 


ice 
sin (+ 9)=u 
(34) / SA ITNITO p. 
\ mi ( k+ pm da 
k— sin ® / 


——————_=1 
RVI_ sind 


nelle quali l’ultima si cava facilmente dalla (51) mediante la (24). 

In questo modo, qualora la zona non fosse molto estesa, avremmo pic- 
cole deformazioni su tutti i paralleli. La proiezione, così ricavata, porta 
come è noto, il nome di Hardings. 

6. Im quanto alle proiezioni prospettive della deformata accenneremo 
che, data la sua forma geometrica, manca la stereografica polare. 

Relativamente semplice è ricavare il canevaccio della ortografica me- 
ridiana, giacchè tenendo il piano meridiano come piano delle x, per 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 11 
essa valgono le espressioni di x e 2 ricavate, nella nota citata #, cioè 


e = RR eos cosa z=R|va1i—=t2sinzudu 


I paralleli vengono rappresentati da rette parallele allo asse delle 
(equatore), e i meridiani da cerchi di cosinusoidi. 

Esistono pure per la deformata delle proiezioni analoghe alla centro- 
grafiche meridiana ed orizzontale della sfera, ma di esse parliamo in 
una nota speciale #* 

T. Per trattare delle proiezioni equivalenti, ci converrà tenere lo ele- 
mento lineare della superficie sotto la forma (21). 

Allora, dato l'elemento del piano sotto la forma 


ds?=da°4 d y? 


ed imposta la condizione che i paralleli siano rappresentati da parallele 
allo asse delle y, ed il 1° meridiano dallo asse delle x, le formule di 
corrispondenza sono x 


(99) ge =6P:(0) IZZO 


nelle quali la 1% relazione è arbitraria; g una costante, » il raggio del 
parallelo della deformata, / il raggio della sfera da cui essa proviene. 
L'angolo corrispondente a due linee coordinate obbiettive, e i moduli 

lineari lungo tali linee, son date da 
e (4) a’ (1) gR 


(56 togA=—— Mu=E- mo = 
SO, = y' (u) I TESTA DEE (O) 


Se l'elemento del piano è dato sotto la forma polare, e si vuole che 
i paralleli siano rappresentati da circonferenze aventi il centro comune 
nel polo delle coordinate, ed il primo meridiano dallo asse polare, le 
formule di corrispondenza saranno 


dove la 1% è arbitraria. Corrispondentemente alle (36) si ha 


p' (u) i p' (u) gR 
E Mi = SEL = L 
pO' (u) SUTURA 2 p' (1) 


(58) Log 


# V. Sopra una certa deformata della sfera. — $ 2. 

#* Dalla nota citata si trae che la z può esprimersi mediante funzioni ellittiche. 

### V. Sulla rappresentazione geodetica di talune superficie. — Atti della R. Ac- 
cademia di Scienze di Palermo — 1898. 


112 NUOVI STUDI 

Le (35) e (36) ci permetteranno ricavare le proiezioni cilindriche, quella 
di. Flamsteed e di Babinet. Le (54) (538) quelle di Albers e di Werner. 

Dalle formule precedenti, che valgono per qualunque superficie di ri- 
voluzione, e dalla considerazione che i raggi dei paralleli della sferà e 
della sua deformata per rotazione differiscono di una costante, si può a 
priori prevedere che le proiezioni equivalenti della deformata presen- 
teranno proprietà analoghe a quelle della sfera. 

Ci limiteremo ad accennare le formule relative alle varie carte. 

8. Carte cilindriche. 


In esse, come è noto, si vuole che i meridiani 
siano rappresentati da rette parallele allo asse delle x (1° meridiano). 
Poniamo quindi, avuto riguardo alle (55): 
gie» 


(59) L (U) 
( 


essendo c una nuova costante. 


) 


Colla ipotesi (39), le (56) danno, dicendo ,, #2, i moduli principali 


S$ ( € 
(40) NN=9.00 == A P m=M9e5 7 


Determinando allora la c colla condizione che le distanze siano con- 
servate sullo equatore, il che importa porre c = # £; e la costante d’in- 
tegrazione della (39) colla condizione che lo equatore (= 0) sia rappre- 
sentato dallo asse delle y (x = 0), le formule definitive della corrispon- 
denza nel caso nostro saranno 


(41) x= gl sinu y=k RO 


dalle quali si ricava un canevaccio analogo a quello sferico. 
9. Carta di Flamsteed. -— Essa risponde alla condizione che le lunghezze 
sono conservate su tutti i paralleli. Quindi, stante la 5* delle (36) ha 


\ 


, \ 9 
(42) I) CAI o) 
© 


detta c una nuova costante. Determinando la costante d’ integrazione 
colla condizione che l’equatore (wu = 0) sia rappresentato dallo asso delle y 
(2 = 0), le formule di corrispondenza nel caso nostro sono 

9 
(45) a=9 Ru y= chkE cos 

© 
Le (56) divengono 


g g 


: — Mi 
ekOsinu? TORINO 


(44) 


vp) 


a 
L 


= @ 


— 
(bi 


SOPRA UNA CERTA DEPORMATA DELLA SPERA 
Dalle quali per u=0 si ha 


dA — 900 == Ca 


cioè il 1° meridiano fa angoli retti coi paralleli; e su di esso son con- 
servate le lunghezze. Posto, come è utile per non deformare col disegno 
la rappresentazione, g = c*, dalle (43) opportunamente modificate, si cava 
(45) u=E Rkoeos(T) 
cR 
cioè i meridiani son rappresentati da archi di cosinusoidi, arrestati nel 
:aso nostro ai due paralleli di regresso limitanti la superficie. 
10. Proiezione di Babinet.— È noto che in tal proiezione, continuando 
i paralleli ad essere rappresentati da linee rette, si fanno rappresentare 
i meridiani da curve di /orma determinata, e precisamente la curva me- 
ridiana limitante lo emisfero da rappresentarsi da un circolo, e gli altri 
meridiani da archi di ellissi. Basta pertanto dare alla y la forma 


(46) Ur 


essendo a il raggio del circolo esteriore. Dalla seconda (85) si cava allora 


a [vo 


dae Va —a=g R*ksinu+C 


ovvero, dopo integrato e determinato la costante in modo che ad u=0 
corrisponda x = o, si ha 


SIC TED . IL DO . 
eVat—a°4+ a?aresin — = xgk E?sinu 
(4) 


La quale, ponendo x = a sin 6 diviene 


di P2 ci 
(47) Qi04 so OS 
(C/o 


Facendo la stessa posizione nella (46), le formule di corrispondenza 
divengono 


ZINIO, 


(48) x=asin0 g= cos 0 


essendo 9 per ogni valor di x determinato dalla (47). Le ellissi, proie- 
zioni dei meridiani aventi tutte per asse maggiore 24, sono nel caso 
nostro limitate ai paralleli minimi di regresso della superficie. 


14 NUOVI STUDI 

11. Carte centrali. — Adoperiamo adesso le (37) (38). 

Volendo che ai meridiani corrispondano delle rette uscenti dal polo 
delle coordinate, avuto riguardo alla 2* (37), e detta ec una nuova co- 
stante, si deve porre 

(49) 9 de = 


po 
Lui 


e le formule di corrispondenza nel caso nostro, detta C la costante d’in- 
tegrazione relativa alla (49), divengono 
72 


7° sin = cQ 


2gk - 
(50) poo+ 40 


Le (38) danno 


(51) A = 900 a ca 
7 


mao = € 
p 


(SS 


Si possono, come nella proiezione tolemaica, avere diversi canevacci 
secondochè e 5 1. Nel caso che si voglia rappresentare una zona limi 
tata tra due paralleli «, ed «,, in modo che su due paralleli «, w° equi 
distanti dagli estremi, le lunghezze siano conservate, si può adoperare 
per la determinazione delle costanti c e C un procedimento analogo @ 
quello della sfera. Si avrebbe così la carta di Albers. 

12. Carte di Werner. — Tenendo sempre come formule di corrispon- 
denza generali le (537) (38), vogliamo determinare e in modo che le di- 
stanze sian conservate su tutti i paralleli. Dalla 3* (38), detta c una nuova 
costante, si cava 


e le formule di corrispondenza in tal caso divengono 


era 


(53) = 2 Ru+C d= 


[n°] 


dalle quali si cava facilmente, avuto riguardo alle (38), che angoli e di- 
stanze son conservate sul 1° meridiano. 

Difatti dalla 2* (553), opportunamente scritta, si cava 
d 6 dp dr 


= I n 
Pron du ar 


(94) 


i do 
dalla quale, tenuto presente che per Q—=0 è 6=0, si cava dr DE 
4 


quindi dalla prima (38) si ha A = 90°. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 15 
Allora dalla 2* (38), avuto riguardo alla (52), si cava 
4 

DD) Un > ES 

{ L'arena 

Supponiamo che si voglia rappresentare una regione limitata a due 
paralleli ,,, essendo %, il medio. Detto « un parallelo arbitrariamente 
scelto tra #, ed uno degli estremi, avuto riguardo alla (52), per formule 
di corrispondenza possono tenersi 


È Ryg cre 
(56) ME SH) (0) 0Q==—- 
î Cc (0) 
dove £, è arbitrario. 
Allora la 12 (38), sostituendo il valore di 6’°(u) cavato dalla (54) e 
quello di £' (4) cavato dalla prima (56), diviene 


(DT) cotA=—e9 (È ksinu + 2) 
9g f 
Di essa possiamo servirci per determinare g, in modo che gli angoli 
retti delle linee coordinate obbiettive sien conservate sul parallelo me- 
dio ,. Basta porre 


dr g 7 
(58) == 4 A O) 
i ck sin 


che si rende positivo, scegliendo per costante 


as @ 


Volendo ancora che il modulo dei paralleli sia uguale a quello del 
1° meridiano, tenuto presente ciò che diviene la 3* (38) introducendovi 
la (52), ed avuto riguardo alla (55), basta porre 

gel 
Si ha così la proiezione di Werner, che rende buonissimi servigi per 


regioni limitate. 


II. 


Rappresentazione conforme dello ellissoide 
sulla deformata della sfera. 


18. E noto # che nello ellissoide di rivoluzione , riferito ai meridiani 
ed ai paralleli come linee coordinate, lo elemento lineare sì presenta 
sotto la forma isoterna 


(59) ds=rVde+ dv 


# V. Pucci: Fondamenti di Geodesia. Vol. II, pag. 227 e seg. 


16 . NUOVI STUDI 
dove , è il raggio del parallelo; © (longitudine) è il parametro dei me- 
ridiani, © (latitudine isoterma) il parametro dei paralleli, legato alla la- 
titudine geografica %, dalla relazione 


pi È 
a = ed / 
) cotg (4 90 ) 


in cui e è la eccentricità delle ellissoide, e la costante arbitraria % può 


1—esin: 


:) SEL e 
(60) Ù log; RIDE 


ritenersi uguale alla unità, supponendo l’origine comune delle latitudini 
all’equatore. 

Im quanto alla deformata si è visto che, supponendo la sfera originaria 
di raggio X e pigliando a linee coordinate i meridiani ed i paralleli, lo 
elemento lineare assume la forma 


(61) ds= RkcosuVdV?2+4+d 9 
essendo la latitudine isoterma V legata alla geografica ® dalla 


O sin ® 
1 i loe lat STN 


(62) v=- 


che si cava facilmente dalla (25) del $ 3 mediante la (24); e dopo aver 
posto C—=0 con supposizione analoga a quella di sopra. 

Per lo scopo pratico che ci proponiamo, è utile nella rappresentazione 
cercata stabilire il complesso di conformità in modo che ai meridiani 
dello ellissoide corrispondano i meridiani della deformata ed ai paralleli 
i paralleli. Attenendoci quindi alla forma lineare pel complesso in pa- 
rola, avremo 


(65) Qt iV=c(otdo)H e 
dove c, ce’ son due costanti arbitrarie, la seconda delle quali è conve- 
niente porre sotto la forma immaginaria 
ec = —ilog K 
Allora dalla (65), dopo aver tenute per V e le espressioni (60) (62) 


in cui si siano indrodotte in luogo delle latitudini 9, ®, le colatitudini €, Z, 
si cavano le relazioni fondamentali della rappresentazione 


OQ=ew 
1 


(64) Î el 0 A ) 


k + cos Z 1 —ecost 


essendo dato il modulo di trasformazione dalla 


E 3) R k? ia 2 7 E O SII 
(65) PREIS v =rrS08 VI1— e cos? 4% 
a sin & 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SHERA 17 

14. Consideriamo sul momento le tre costanti €, /?, A, e determinia- 
mole in modo che lungo un parallelo convenientemente scelto di latitu- 
dine <, (Latitudine normale della rappresentazione) sia il modulo pre- 
cedente uguale all'unità, e che si discosti da essa il meno possibile quando 
si passi dal parallelo normale ai vicini, in modo che le aree e le lun- 
ghezze ellissoidiche nella regione prossima a quel parallelo subiscano 
nella rappresentazione cercata la minima deformazione possibile. 

Pertanto detti 7,4 Zo yi Valori di 2, €, Z, 9 corrispondenti a 4, € 
sviluppando » nella serie : 


RIMANE 2 VA Ea RI R) 
(66) n My 5 (6 E So) s È È sO È Le S Ta LU a De 
d 30) 2 d "0° 2. : d (e 


soddisfàremo alle precedenti indicazioni, determinando le tre citate co- 
stanti in modo che si abbia : 


dn de n 
67 Pr = 1 n 20 = 
i ; d 0) d “0g 
ivi 55) ri la ; È UU , 
Deriviamo pertanto la (65) rispetto % ed introducendovi per ra il 
valore 
a d4 ii )? = (B® — COS Z 
(68) Rig e?) c(k s° 2) 


e? cos? €) 


de sintsinza 
che si cava dalla seconda (64), si ottiene 


dm © (=) VIE 7 


Torse g «19 y 9a 9 27 
di 4 sime 6 VI e? cos? € 


(69) (c cos 4 — cos 0) 


la quale può lungo il parallelo normale ridursi a zero, determinando la 
costante c dalla condizione 


(70) ccosZj — costk=0 


Derivando nuovamente la (69) rispetto a £, e tenendo presente la (70), 
dè n 


TE può lungo il parallelo normale ridursi a 


si vede facilmente che la 
zero, ponendo 


(71) 


e) (2 — (COSÌ Zi) 
sin & (1 — e? cos &) 


20 N 


SIDICAZZIO 


Le (70) (71) unite alla (65), la quale può scriversi per 2, = 1 


(72) DIRSI NERI (E, 


18 NUOVI STUDI 


ed alla seconda (64), la quale lungo il parallelo normale può seriversi 


1 ce 
FÀ dea IE SUR Us e cos ®) i (i 
k 4 cos Z 1—-ecoss NE NSO 


permettono la determinazione di e, A, /?,Z) in funzione della latitudine 
ellissoidica 4, e tali da soddisfare alle condizioni poste in principio del 
na 
. Possiamo ora av alleno della costante %, che entra nello elemento 
a della deformata, in modo da semplificare le formule precedenti. 
Dalla considerazione della (64) e seguenti, si. cava che tale semplifi- 
cazione potrebbe verificarsi qualora lungo il parallelo normale si ren- 
desse c uguale all’unità. Or, eliminando Z, tra le (70) (71), si ottiene 


LI 


IRE 
dito y/ 1 ore int 4, Sì 


e DI 


Si soddisfa quindi alla condizione precedente, col determinare # dalla 
3 NOTO siae, e sin! & 
(14) 2 JE 


la quale dando in ogni caso % > 1, conserva alla deformata la sua con- 
figurazione geometrica fondamentale, e rendendo ancora lungo il paral- 
lelo normale della rappresentazione c = i, riduce le (64) alla forma 


O) = 
1 e 


(19) a SR ST, G 
Sr © 
| k + cos Z ll=fetcost PAS 
Ed ancora le (70) (71) (72) (75) con opportune eliminazioni e riduzioni, 
danno 
COSÌIZI =COSÌG, 
NILE 
R = (1 eleosto) 
Da così € 
(76) 0 
al se 
meet È COSI | I —@ 08 dl Os do 
VIE Ros.) 1 +e cos, SO) 


Le (74) (75) (76) possono dunque assumersi come le formule fonda- 
mentali della rappresentazione dello ellissoide sulla deformata della sfera. 
Se ne deduce che, determinando la deformata sopra cui vuol rappresen- 
tarsi uma regione ellissoidica di parallelo centrale «, mediante la (74), 
essa può adattarsi geometricamente collo ellissoide in modo che : 


SOPRA UNA CERTA DEPORMATA DELLA SPERA 19 
1° i piani meridiani ellissoidici coincidano coi piani meridiani corri 
spondenti della deformata; 2° il piano del parallelo normale 4, dello el- 
lissoide coincida col piano del corrispondente parallelo ®, della defor- 
mata, ed i due paralleli si sovrappongano # 
Si noti ancora che qualunque sia %, la sfera da cui proviene la de- 
formata è la sfera osculatrice lungo il parallelo normale allo ellissoide ##. 
Pel passaggio dalle latitudini ellissoidiche alle corrispondenti latitudini 
della deformata possono adoperarsi la 5% delle (76) e la 


VERO E ACI COSTANTE 
an RESTA Lan [ate (5) (; e) ) 
1 ‘onz=ek_—__— w RR NPI 
fitta, 2 f1-+ecost\e q} 

r+|a de ) a | 


SX 


che si cava dalla 2* delle (75). 

Le due stesse formule citate, adoperando nella seconda il metodo delle 
successive approssimazioni, possono valere pel passaggio delle latitudini 
della deformata alle corrispondenti ellissoidiche. 

16. Nello intento di verificare quali correzioni subiscano le latitudini 
in varie regioni passando dallo ellissoide alla deformata determinata 
dalla (74), ci siamo avvalsi della (74), della 5* (76) e della (77) per costruire 
una tavola nella quale tenendo i gradi 0°, 15, 25... 75 come latitudini 
normali della rappresentazione, abbiamo inserito le latitudini della defor- 
mata corrispondenti alle latitudini ellissoidiche di 5° e di 10° superiori ed 
inferiori alla latitudine normale prescelta, e quindi lo scartamento tra 
le normali alle due superfici relativo ai paralleli medesimi. Per la eccen- 
tricità ci siamo avvalsi del valore besseliano, 


* Tenendo presente la sind =sinw già citata nel $ 1, e che rimane immutata 
quando lo elemento lineare della deformata assume la forma (61), si prova facilmente, 
adoperando la (74) e seconda delle (76) che 


RVk— sin, = 


cioè che il raggio del parallelo normale dello ellissoide è uguale al raggio del paral- 
lelo corrispondente della deformata. 
#* Difatti la 2a delle (76) si ottiene eliminando c?(X° — cos Zy) tra le (71) e (72). 


NUOVI STUDI 


| 
Cor log Ke | log A O) log cos Z I Ch) o_o 
| 
rERISam ran | 
0° | 0, 0014539 | 0, 0000000 | 
5o | 2, 9408110 50,00, 00; 6 | + 0,7 6| 
10 1, 2397291 10, 00, 05, 0 5,0 
15 1, 4131250 15, 00, 16, 5 1605 
| 20, | 1,5342752 . |.20, 00, 38,6. 38,06 
| 5 | 2, 9406596 5; (00; 16, 040 MMI 
es 10 1, 2397265 | 19, 00, 04, 7 AESORT 
15 | 0, 0012662 | 1, 9999343 20. | 1 5340854 20, 0-0 8 RE 
| 25 1, 6260634 25, 00, 25, 5 25, 5 
| 15 1, 4132166 15, 00, 28, 1 28 ol 
25 | 0, 0009820 | 1, 9997202 si Di OSH TO Se 
: Ù | 30 1, 6990012 30, 00, 08, 5 8 5 
35 1, 7587000 | 35, 00, 36, 1 36, 1 
25 | 1, 6261112 25, 00, 36, 1 36, 1 
È Lote 30. | "1 6990045 | 30, 00, 09, 5 9, 5 
G5 | 0, 0006538 | 1, 9998231 % 1. 8080933 ‘n 0a, 1 © ln e 
45 1, 8495752 45, 00, 42, 9 42.9 
35 1, 7587103 35, 00, 39, 6 39, 6 
45 | 0, 0003644 | 1, 9987837 i DE eli Po De 1 < 
) Ro 50 1, 8842723 50, 00, 10, 4 10, 4 
55 1, 9134306 55, 00, 44, 8 44, 8 
45 1, 5495606 | 45, 00, 36, 0 36, 0 
55 | 0, 0001578 | 1, 9982037 e e DA 
; tua 60 1, 9375409 | 60, 00, 08, 5 8, 5 
65 | 1, 9373156 65, 00, 40, 6| 40, 6 
55 1, 9134115 55, 00, 31, 9 © 
RR aa 60 L 9375402 60, 00, 07, 8 T, 8 
i Wei 70 1, 9722928 70, 00, 09, 1 ONINI 
15 1, 9849636 75, 00, 35, 2 35; 2 
| 65 1, 9572969 65, 00, 21, 6 21, 6 
do Re 70 1, 9729896 70, 00, 04, 9 4,019 
75 | 0,0000065 | 1, 9973936 n a oa 09 
85 1, 9983494 85, 00, 28, 0 28, 0 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SPERA - 21 
La tavola precedente mostra che le correzioni più forti si hanno nelle 
latitudini medie, e le più tenui verso gli estremi del quadrante. Ciò è 
d'accordo coi criteri che possono ricavarsi dalla (66), nella quale la 3% de- 
rivata di » all'origine ha il seguente valore 


sin cos 5, 


(e n 


doh 


=A @ lee @) 
} ì (I 


e cos” 4) 


ed essa si annulla per 4, = 0, e poi, come si verifica facilmente, si man- 
tiene crescente nella prima metà del quadrante, per ridiscendere nella 
seconda metà sino a 0 per 4 = 90. 

Nelle regioni equatoriali dunque possiamo alla zona rappresentatrice 
di una corrispondente regione ellissoidica dare una estensione molto mag- 
giore che verso le latitudini medie, ove non è prudente estenderla sino 
ai 10° dal parallelo medio. 

Difatti, p. e., per &, = 45°, e perg — 4" = 10° il quarto termine della (66) 
dà 0,0000166 e quindi 7» differisce sensibilmente dalla unità. 

17. Il calcolo della 3* (76) e della (77) riuscendo faticoso, possiamo anche 
nel caso della deformata avvalerci pel passaggio dalle latitudini ellis- 
soidiche a quelle corrispondenti sulla deformata e viceversa, del metodo 


indicato dal Pucci nel caso della rappresentazione gaussiana. 
Per dedurre la latitudine sferica ® corrispondente ad una ellissoidica g, 
si ponga 


et dg = dD, HA 


indicando al solito con 4, la latitudine normale della rappresentazione 
e con ®, la corrispondente, che nel caso nostro le è uguale. 
Per valori di A relativamente piccoli, si può porre 


d® Ae? /d ® A 43 d* ® 
Ad= NG (| = Li ) > ( = c'oratd o 
x se(77), Fargo ea i 


T 


Dalla (68) si cava allora 


) A (Al e°) € (k®? — sin? @) 
ds © cosscos®(1—e?sin? g) 


deb c(1—e) (£*— sinì@) c(1—e2)(kK°—sin*®)sin® 


5 


_ = == 2c(1-—e)sin® 
dbes cos'gcosP(1—e'sin*s)? È 


così d 


— sin9l+e(Q2 


Î 3 sin? g) | 


NUOVI STUDI 


22 : 
I e sin°g(sin®?g — cos?s)(c(1 —e2)(k° la SOS) 
cosg(1—e*sing) } cosìd 
) Pi 2/ DZ 
dé +|tte @— 3sin d|j+ 
do 3; 
3 (. 9 a 2\ e d% 
d3@ | | 2e(eT 1)(1--e*)sin toa ) 
3= opa sg . de QRICIO ) 
dg cosy(1—e?sin?g)) |{+sing 3 di be singcosy 
i cos'® 
dee To c(1-—e*)(XK2—1— cos?4 
+ | sine) È n 
dico SN così ® 
2 Di ( 
+|1-e(2—3sin* 9] i] 
Dalle quali considerando che all'origine %), si ha 


ce] 


cost ep (li-eì sintg) 
1—- e 


k° — sin 9) 


D) 
i cos'y 
k—1_—costa= su 


| ja +cos°)— 1] 


1—- e? 


si ha, riducendo le precedenti : 


__ 4e? sin 9, 08 9) 
1—-e' sino 


(fa i) 
naz: 

d T/0 

4 e così È, gut 

(1 e e } (145 e? sin? %o) 
ga CARO 10 


/ dè Go ) 
d (0a, 0) 


e quindi la serie soprascritta diventa : 


2 e? sin g) C0S %, sin 1’ 
l—esin*% 


(18) AGTAgd Ag, 


ng 2 e? cos yy sin? 1” 


+Ayg — ica a (1+5e?sin?g 
Ù 5(1— e sin° 9) dla to) 


Per passare invece dalle latitudini sferiche alle ellissoidiche , si può 


adoperare la serie 


3) A 2 (3) A 483 (Co 
AQZA® | - se Pa SESTRI 
ui (E e re sons ra nn 


SOPRA UNA CERTA DEPORMATA DELLA SPERA 23 
la quale, tenute presenti le derivate dirette precedentemente cavate, di- 
venta 


s 2 er sin 9, C08 9, Sin 1°” 


4 () 


(79) ai Ad i 
l—-e sm, 


«2 e° così 9, sinz 1” SISI, 
— AR __—_0o TC _1l_-T7esinM+..... 
5(A— e sin %)° 


La serie (78) arrestata al secondo termine, che è facilmente calcola- 
bile coi logaritmi, dà per latitudini differenti di 5° dalle latitudini nor- 
mali considerate nella tabella del S$ (16) delle correzioni differenti di fra- 
zioni di secondo da quelle ottenute colle formule rigorose. 

Notiamo ancora che le due serie soprascritte (78) e (79) sono più sem- 
plici di quelle analoghe trovate dal Pucci per la sfera gaussiana. 

18. Per mostrare quale fiducia possa prestarsi agli sviluppi del para- 
grafo precedente, non ci è parso inutile ripetere per la deformata il cal- 
colo di alcune geodetiche già determinate sullo ellissoide mediante le 
posizioni geografiche degli estremi, e tali che la differenza di latitudine 
fra gli estremi stessi rientra nei limiti segnati al $ 16. 

Pertanto abbiamo scelto per parallelo normale della rappresentazione 
quello corrispondente ad uno degli estremi della geodetica, correggendo 
la latitudine ellissoidica dello altro estremo mediante il 2° termine della 
serie (78). Per avere poi la lunghezza della geodetica, e gli azimut agli 
estremi, abbiamo naturalmente tenute le formule dei $$ 1 e 2. 

(ili esempi scelti sono tre : il 1° dato dal Pucci nei suoi Hondamenti di 
reodesia riguarda la geodetica Lissa-Tremiti (112 km. circa); il 2° riguarda 
la geodetica Kénisberg-Berlino (530 km.) ed è dato dallo Helmert nel 
Vol. I della sua Geodesia e ricalcolato dal Pizzetti nella sua Nota: Sopra 


un modo di calcolare la lunghezza di un arco di geodetica * ete.; il 3° ri 
portato nella stessa opera dello Helmert si riferisce ad una geodetica 
di km. 4000 circa. 

Crediamo utile, per comodità del lettore, di riepilogare le formule te- 
nute nei calcoli, sia per | arco di geodetica, che per gli azimut degli 
estremi della stessa. 

Accenneremo pertanto che sono indicate con 9, e 9 le latitudini ellis- 
soidiche date, tra cui %, è la normale; con &, e £ vanno indicate i com- 
plementi delle precedenti, con ®,, *, Ze Z le quantità corrispondenti sulla 
deformata, tenendo presente che, lungo il parallelo normale 


re 17 
= 
= a 


* V. Rivista di Topografia e Catasto. Marzo 1897. 


24 NUOVI STUDI 

Sarà indicata con A la differenza di longitudine tra i punti estremi 
della geodetica; con A 9 la differenza tra le latitudini estreme della stessa 
e con è 9 la correzione da fare a g per passare alla corrispondente 4. 

Riportiamo adesso le formule 


, 2 e sing, 0089, sin 1 


Dez Na 
die 22ima2 
jil=2teslsinztoy 


*_gH4- dg 


Dee V pia PULL fo 
e 


Lo sin ®, È sin ® 
sinu= 7 sinu= 


A 


cos « sink A 


te Vo = @ 


& sin 3 cosu cosk A w 
A PI QRS 
‘(80) l ovvero ( f = cos Uo ) 
: ò = simo 
cos usinka 
tg 0 = 


è cosu coskAw— 8 sin 


È fsin e, 
simo = e 
COS U 


È cos u sink A w 
Sims = = aa 


SEU al 
Per è, si terrà la prima o la seconda delle formule date secondochè 
fsinuZìcosucosk A. 


In tal modo si ha per l’azimut all'origine scelta della geodetica il va- 
lore minore di 90°, ed esso si potrà in ogni caso riportare al quadrante 
conveniente dalla considerazione del punto origine e del senso della lIon- 
gitudine. 

La geodetica, cavata in arco, si riduce in metri, come vedesi dalle 
precedenti, sulla sfera osculatrice allo ellissoide lungo il parallelo nor- 
male della rappresentazione. 

Per eccentricità abbiamo tenuto il valor besseliano 


e = 0, 0816968 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 25 


I calcoli solo stati eseguiti ‘colle tavole a 7 cifre, tenendo 1’°84 decinale 
per le parti proporzionali. 


ESEMPIO TI. 


Geodetica Lissa - Tremiti. 


{ fo 43°, 01”, 44/”, 867 
Dati ) Arwi= 0% 364, ZOLA 485 
oi 42006, M8 209, 


Calcolo colle formule (80) 


log X = 0, 0004162. 5 log tg 2) = 1, 6977904. 9 
ag = 0”, 346 log sin v = 1, 6432707. 1 
4 = 49°, 07/, 164, 615 log sin s = 2, 1465434. 2 


u,= 42, 58, 40, 509 


SMI ZIIONTO, "39 075 
u= 42, 04, 18, 008 ai e iO 


PNE 0 99 ERI log R = 6, 8045410. 8 
Risultati del Pucci Risultati dei calcoli Differenza tra i risultati 
s = 119488, 14 s = 112488, 23 As=-— 00,07 
v = 269, 307, 107, 4 v, = 269, 30”, 107, 283 Av=+0% 1 
DIO GMO5 3A — 96, 05, 31, 630 AZIO n 


ESEMPIO II. 


Geodetica Kénisberg - Berlino. 


Dati ì È A a = 7°, 6’ 
> g=59; 30, 16, 69 
Calcolo colle formule (80) 
log = 0, 0001624. 0 log te vw) = 0, 3966780. 4 
do= 1, 939 log sin v = 1, 9355442. 2 
d = 52°, 30/, 18”, 629 log sin s = 2, 9186352. 6 


un = 54, 41, 01, 672 


sl — 49, 45°, IU 188 
u= 52, 28, 38, 196 


kEAw= 7, 06, 09, 559 log 7 = 6, 8051249. 9 
Risultati dello Helmert Risultati dei calcoli Differenza tra i risultati 
si 299954 ‘si—l92999956 ASsS=— 0%, 02 
vo = 65°, 16%, 0977, 34 v = 65°, 16/, 09, 484 ana SA 
v= 59; 33; 00, 67 v=59, 33, 00, 661 Av= +0, 01 


26 


Risultati del Pizzetti 


sg= 


Vo 


v 


529979, 6 
650, 167, 09”, 6 
59, 33, 00, 8 


STUDI 


Differenza tra i resultati 
As=4+ 0m, 04 


Avw=-+0”,1 
Av=+0”,1 


Risultati dei calcoli a 10 cifre dello Helmert Differenza tra 1 resultati 


s = 529979, 5784 > As=-+0m, 0184 
© = 65°, 167, 09/7, 36499 Av = + 0%, 11901 


v= 59, 33, 00, 68891 Av = — 0%, 02730 
ESEMPIO IN. 
(oo = 019, DD” 
Dati | A = 69% 8 
Sue 19 
Calcolo colle formule (30) 
log A = 0, 0002110. 9 log tg v = 0, 2838079. 2 
dg = 0% 210 log sin v = 1, 9411635. 2 
è ® = 51°, 12/, 00”, 210 log sin s = 1, 8197234. 5 
Ue DI BEE) 65) 
LADRO ISS si= 41°,19%, 14%, 4792 
kAw= 69, 05, 00, 856 log ? = 6, 8049889. 0 


Risultati dello Helmert Risultati dei calcoli Differenza tra i resultati 


s = 4602295, 9 s = 4602295, 16 
Un = 629, 801,577, 32 n = 62°, 301, 55,35 
6 


v= 60, 50, 41, 80 v = 60 


As=+ 00, 74 
Av = + 1”, 966 
Av=+ 1”, 868 


Le differenze sensibili riscontrate nel 3° esempio, più che al metodo 
tenuto per la correzione della latitudine, son dovute alla lunghezza della 
geodetica per la quale, data la approssimazione tenuta nei calcoli, si pos- 
sono avere sicure le cifre intere; e l’incertezza dei risultati relativi alla 
medesima si risente, stante il legame esistente tra le varie formule (80), 
anche negli azimut, i quali, trattandosi di rappresentazione conforme do- 
vrebbero fedelmente riprodursi. 

19. Completeremo le ricerche precedenti, risolvendo per mezzo delle 
formule dei $$ 1,2 il problema inverso a quello trattato del $ (18) cioè, 
supponendo date le coordinate geografiche ellissoidiche di un estremo 
della geodetica, ricercheremo quelle dello altro estremo, avvalendoci per 
lunghezza di geodetica e per azimut all’origine della stessa delle quan- 
tità calcolate nel $ (18) medesimo. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 27 


Esse ricerche ci serviranno a mostrare che le differenze riscontrate tra 
gli azimut sferici e quelli ellissoidici tenendo pei calcoli le formule (80), 
e le differenze in lunghezza tra le geodetiche, le quali differenze si ri- 
ducono sempre in arco ad una piccola frazione di secondo, non impedi- 
scono di ottenere per coordinate geografiche ellissoidiche dell’altro estremo 
di geodetica dei risultati accettabili. 

Le formule all’ uopo adoperate sono, in primo luogo, le (9) e (12) 
del $ 1, ovvero le (15) del $ stesso, secondochè per azimut ©, alla ori- 
gine della geodetica si è tenuta la (17) del $ 2, ovvero la (20) *. 

Ed in ispecie, negli esempi I, II pei quali risulta 


Bsinu<dècosucoskAw 


si è tenuta per tg ©, la (20), e quindi tenghiamo pei nuovi calcoli le (15); 
ed invece nello esempio III pel quale risulta 


Gsinu > è cosu coskAw 


terremo le (9) e (12) #*. 

Mm ogni caso le formule adoperate ci portano alla conoscenza di KAw 
e di ®; cioè delle coordinate geografiche dello altro estremo della geo- 
detica sulla deformata. Per passare alle corrispondenti sullo elissoide, 
basta per aver la longitudine il valor di £ lungo il parallelo normale, valor 
già noto nel caso nostro dai precedenti calcoli; e per aver la latitudine 9, 


# Ciò risulta logico, considerando che la (17) proviene da operazioni fatte sul grup- 
po (9) e (12), come la (20) proviene dalle (13). 

** È facile spiegare con semplici considerazioni analitiche come negli esempi esposti 
sia utile la (17) o la (20). 

Considerando come latitudine normale della rappresentazione quella relativa allo 
estremo Nord della geodetica (il che noi abbiamo sempre fatto nei calcoli esposti) ed 
essendo quindi «>, risulta 

gsinu < dcosu 

Ne viene di conseguenza che pei piccoli archi di geodetica, cioè per piccoli valori 
di Aw, si mantiene (moltiplicando il 2° membro della precedente per cos Aw che è 
relativamente prossimo ad uno) il senso della disuguaglianza, e va adoperata la (20). 
Quando invece A © è grande, riducendosi cos A w molto piccolo, può questo, moltipli- 
cato pel secondo membro della precedente, ridurlo così piccolo da cangiare il senso 
della disuguaglianza, come succede nello Esempio III ed allora va adoperata la (17). 

Se si fosse scelta l'origine wu, < sarebbe 


Qsinu è cosu 
e tenendosi in ogni caso cosk A w < 1, il senso della disuguaglianza sarebbe durato 


sempre lo stesso; e quindi avremmo sempre adoperata la (17), ed inversamente le (9) e (12). 


28 


bisogna correggere la ®; per il che abbiamo adoperato il secondo ter- 


NUOVI STUDI 


mine della serie (79), e precisamente abbiamo tenuto 


DI 


ar È e sin 9, C0S © Sin 1” 


(81 È == 
i=easinzO) 


d= 


Esso, nel caso nostro, arrestandoci ai millesimi di secondo, riproduce 
all'incirca le correzioni adoperate per passare dalle latitudini ellissoidiche 
alle sferiche. 

Non ci occupiamo dello azimut © allo altro estremo della geodetica, 
perchè esso è stato in ogni caso calcolato nel $ precedente. 


ESEMPIO I. 
Geodetica Lissa - Tremiti 


go = 43%, 01°, 447, 867 v = 269, 30/, 1077, 283 


Dati 
w,= 0, 00, 00, 000 s= 1, 00, 39, 075 
log sin, = 1, 6495708. 9 log & = 0, 0004162. 5 
log cos v = 1, 9517804. 0 log sin @ = 1, 5265296. 7 


log sin s = 2, 2465434, 2 


log cos s = 1, 9999324. 0 kAw= 0%,36/,27/,550 


logtgX A w=92; 0255550. 0 = 42, 07, 16, 597 
log sinu = 1, 8261134, 2 ‘ dd = — 0” 346 
Coordinate geografiche note ‘ Risultati dei calcoli Differenze 


Av= 0°, 36, 25/, 485 SAw=+ 0”, 001 


= 42, 07,16, 269 


Aw= 0,36, 25/7, 484 
o=42; 07, 16, 251 


ESEMPIO II. 
Geodetica Kénisberg - Berlino 


. &,= 549, 42,50”, 60 vu = 65°, 167, 09/7, 484 


"Dati | 
(wo = 0,00, 00, 00 
log sine, = 1, 9582217. 0 
log cos ©) = 1, 6215436. 6 


log sin s 


log coss = 


log tg #Aw 


log sin = 1, 8993343. 


Coordinate geografiche note 


69 g= 52, 30, 16, 


Risultati dei calcoli 


Aw= 7,06”, 00”, 009 


99 


s'= 4,45, 22, 188 


log X = 0, 0001624. 0 


log sin ® = 1, 8994967. 5 


EA w= T°, 067, 09/,568 
= 59, 30, 18, 611 

dp= — 17,938 

Differenze 


3Aw= — 07,009 


673 3g=+0, 017 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 29 
ESEMPIO III. 


Co == 910,55 vo = 62°, 30/, 55//, 354 
Dati 
ea 000 s=41, 19, 14, 4792 
log sin v) = 1, 9479895.9 log #= 0,0002110. 9 
log cos vw = 1, 6641816. 2 log sin d= 1,8917261. 8 
log sin s= 1,8197234. 5 
log cos s = 1, 8756048. 1 k A w = 699, 05/,00”, 860 
logtgXk A w= 0,4177190. 4 @= 51, 12; 00 , 224 
log sin w== 1, 8915150. 9 $o&=— 0,210 
Coordinate geografiche note Risultati dei calcoli Differenze 
Auv= 690, 05°, 00”, 00 Auw= 699, 03, 00 Lo) 005 SDAYUEZ=IT 045 005 
e= 51, 12, 00, 00 g= 51, 12, 00, 014 3o=—0, 014 


7 


Gli esempi precedenti mostrano che la differenza di longitudine si ri- 
produce in ogni caso a meno di 0”, 01; e la latitudine da noi ricavata 
differisce dalla vera di quantità che si tiene tra 0,01 e 0”, 02. Ciò non 
ci sembra eccessivo, tenuto presente il metodo approssimato tenuto pel 
passaggio delle latitudini ellissoidiche alle sferiche. 

20. Dai paragrafi precedenti si cava che la superficie di cui trattiamo, 
la quale nella rappresentazione conforme studiata risultando una defor- 
mata della sfera gaussiana, deve naturalmente mantenere geometricamente 
rispetto alla ellissoide le proprietà che quella presenta, permette la ri- 
soluzione dei principali problemi di geodesia pratica con formule altret- 
tanto semplici che quelle sferiche, ed anzi certune, come quelle relative 
alla correzione delle latitudini date dalle serie (78) e (79), anche più 
semplici. 

Non ci sembra inoltre inutile l’aggiungere che dette formule portano 
nei risultati un’esattezza maggiore delle analoghe relative alla rappre- 
sentazione conforme sulla sfera. 

Riportiamo qui sotto i risultati ottenuti dai calcoli fatti per la sfera 
gaussiana relativamente ai due esempi del $ 18, in cui maggiore è la 
differenza di latitudine tra gli estremi. 

Facciamo presente che per la sfera, essendo &%= 1, diviene 


My Îh = ® 


Il %,, corrispondente al parallelo normale 4, scelto sull’ellissoide, è in 
questo caso dato dalla relazione (70), essendo il c determinato da una 
formula identica alta (74). Per avere il $, analogamente a quanto si fece 
nel $ 18, abbiamo corretto la latitudine ellissoidica 2 adoperando la serie 


30 NUOVI STUDI 
data dal Pucci *; ma per ottenere un valore accettabile abbiamo dovuto 
calcolare due termini della stessa, e non uno soltanto come nel caso no- 
stro. Per la lunghezza della geodetica, e per gli azimut all'estremo abbiamo 
infine adoperato le formule relative tra le (80) del $ 18, dove alle «, ed 
u si sono sostituiti i valori segnati sopra, ed al KAw il cAw, giacchè sulla 
sfera 


Ecco adunque i risultati per la geodetica Lissa - Tremiti 


Risultati del Pucci Risultati sulla sfera Differenze 
so = 112488, 14 s= 112487, 88 As=+ 00,96 
0, = 26°, 307, 1077, 4 1 = 26, 30, 10, 596 NES 2 

=, 0,317 v = 26,05, 31, 944 Av=+0, 2 


Geodetica Kénisberg-Berlino 


Risultati dello Helmert Risultati sulla sfera Differenze 
s = 529979, 54 s = 529979, 87 As=— 00m, 32 
vo = 65, 16,09, 34 vo= 65,1 16, 09, 310 Avy=+ 07,03» 
— 59, 33, 00, 67 v= 59,33, 00, 492 Av=+0, 


La deformata può dunque adoperarsi con sufficiente fiducia, non sol 
tanto, com'è ovvio, per la triangolazione, ma anche pel calcolo delle geo- 
detiche e pel trasporto delle coordinate geografiche lungo le stesse, tutte 
le volte che la regione ellissoidica in cui quelle si svolgono non superi 
in latitudine i limiti convenienti. 

Dai risultati fin qui ottenuti si vede che entro tali limiti essa può ben 
sostituirsi allo ellissoide tanto per le calcolazioni, quanto per le proiezioni 
geografiche, per cui essa, come si vide, si comporta nella maggior parte 
dei casi analogamente alla sfera. 


IV. 
Sulla determinazione della deformata locale. 


21. La presenza del parametro X nello elemento lineare della super- 
ficie da noi studiata permette ancora di adoperare per essa metodi analoghi 
a quelli che si tengono per lo ellissoide, collo scopo di dedurre da una 
deformata normale, opportunamente scelta, delle deformate che possibil 
mente si adattino alle varie regioni geoidiche. 


* Puccr: Geodesta. Vol. II, pag. 204. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 31 


Cominciamo dal notare che le espressioni dei coseni direttori della 
normale in un punto della superficie, quando si scelgono come assi coor- 
dinati quello di rotazione e due altri costituenti col primo un triedro 
trirettangolo e situati nel piano dello equatore, sono *: 


| così = cos QV 1- £? sin? 
(82) l cosa= sinQ VI — K° sin? 
| cost= Ksinw 


le quali, stante l’ ultima che può scriversi secondo la forma più volte 
adoperata 


(83) sin®= sin 


vengono a dipendere dalle sole coordinate geografiche di un punto, ed 
è quindi possibile, indipendentemente dalle dimensioni della deformata, 
disporre della normale in un punto in modo che coincida con una nor- 
male geoidica. 

Scelto tal punto come centro di emanazione, ed adoperando il % e lo 
R relativi alla deformata normale, le formule dei $$ 1 e 2, ci permet- 
teranno di calcolare le varie geodetiche partenti dal centro (%, , %o); 
e le coordinate geografiche (*’, 2’) degli estremi delle stesse. 

Per adattar meglio la superficie in parola alla regione geoidica con- 
siderata alteriamone le dimensioni e diamole altra orientazione; suppo- 
nendo però che le alterazioni è £#, è X delle sue dimensioni, e le quantità 
è d, è, fissanti la sua nuova orientazione siano così piccole che possa 
aver luogo la nota relazione di Laplace tra è è, e 3. 

Ripigliamo, in tale ipotesi, le formule (9) e (12) del $ 1. 

Esse, supponendo che lo elemento lineare della superficie abbia la forma 


(84) ds = R°(du° 4 k° costud O 


ed introducendovi la (85), si possono opportunamente scrivere sotto la 
forma 


{i 


(85) ® = arc sin; sin £, cos 


Ss = È Ss ì 
3 5=$ SERI i 

VT VIE ‘Sme icosvasin == 

R sin 1 gni L) o ? sin 1°) 


kisino,sin=== 
Li e sin I 


Ss 


VIEZISIN/O, cose 
0 Rsin l’ 


a 6 bi 

— sin 9, cos, sin 
2 dI io 

le quali ci danno le coordinate geografiche all’estremo di una certa geo- 


# Cfr. SoLeR: Sopra una certa defyrmata della sfera. Pag. 215. 


hei 


32 NUOVI STUDI 
detica s, partente dal centro di emanazione, calcolate sulla deformata 
normale. 
Supponiamo adesso sostituiti ad /, %, ®,, © le 


ER+èR, k+3k, Po td vo td Vo 


Sviluppando con Taylor le precedenti, si avranno pel calcolo delle coor- 
dinate geografiche 4”,, £’, (espresse in secondi) all’estremo di s sulla nuova 
deformata, delle espressioni della forma 


(86) d=d+A3R+A4,3kK+Bo065+C3% 
(87) O = +EsR+Fèk+Gè®+Lèa 
I coefficienti della (86), dopo opportune riduzioni, hanno la forma se- 
guente 
A = ai RATA SLA SII (si ® <j 22 VI? sin? ® dei : 4) 
ai R? cos 4 sin 1” sm, SIns — U — Sino £, COS Vo COS S 
cos v, Sin s° k 
CIT cosd'sinl” VI sin? di 
(88) 4 
i 0S , / sin PCOS, è dr 
SEI Sosa 0 $ coss” sia 0©0S US sin s° 
COS P | VI: — sin? P, ) 
sin ©, sin s” Gt E 
C=—- o Vk— sin? Ci 


cos d” 
Quelli della (87), dopo aver posto per brevità 
Vk? — sin° 4. cos s — sin 9, cos ©, sins” = D 
assumono la forma seguente : 


s così k O! 


E=— E D'snl” sine, V &°— sin? & 
Ùù 
1 5 così k Q' È 
=== |osini+ __—_- sino) sinssino (sind coss' A 
ksin1 D°VE° sin?6, 

an 27, Sj la / 72 “in? 
(89)( + cos % Sin s°” V &°— sin »)] 
c- cosk O’ cos®, sine, sin s {sin 9, cos s/+cose, sins Vk— sin To 

DÈ VIZI 
cosko! _ a, 
L= pe 800 s” | cos e) cos s” VI o Sin ®, sins” | 


Supponendo note le coordinate astronomiche dello estremo della 
geodetica s considerata, si avranno per lo stesso, mediante le (86) (87), 
le attrazioni locali in latitudine e longitudine; e trattando le varie coppie 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 35 


di equazioni ottenute per le varie geodetiche in modo da render minima 
la somma dei quadrati delle deviazioni agli estremi delle geodetiche me- 
desime, avremo i valori più convenienti di è /?, è &, è ®, e è ©, in modo 
che la deformata locale sarà fissata nelle dimensioni e nella orientazione. 

22. Poichè lo ellissoide besseliano è tenuto in Geodesia come ellissoide 
normale, abbiamo creduto conveniente ricercare la deformata normale 
colla condizione che la sua figura geometrica si allontani il meno pos- 
sibile da quella dello ellissoide in parola. Fra le varie vie tentate per 
conseguire lo scopo, abbiamo ottenuti i risultati più accettabili da quella 
già cennata nella nostra Nota precedente *, e per la quale si suppongono 
i semiassi della deformata eguali a quelli dello ellissoide besseliano. 

Cenneremo brevemente che supposto lo elemento lineare della defor- 
mata posto sotto la forma (84), e detti a e d i massimi del raggio del 
parallelo e dell’ordinata 2 del meridiano, si ha 


(90) a= Sa si ) 


= ae 


x x 


= 1 <p 
è il modulo delle funzioni ellittiche di parametro 7, determinate dalla 
(91) cosu=dn(t,%) 


e mediante le quali si esprimono le coordinate del meridiano. 

Dal rapporto delle (90), dopo aver posto per a e d i valori dei semiassi 
besselliani, si determinò 

(92) log x = 1, 9997220 
il quale corrisponde ad una deformata, il cui arco « di meridiano si estende 
PErRelioi 

Tale deformata, coassiale allo ellissoide, si può paragonare collo stesso 
mediante le formule date nel $ 8 della Nota citata, e che qui riportiamo 
opportunamente modificate pei calcoli. 

Dato sopra una curva meridiana della deformata un punto P di lati 
tudine ®, la 


(93) Sin dd =9% 


che si cava facilmente dalla (91), permette mediante le apposite tavole, 


* Cfr. SoLER: Sopra una certa deformata della sfera. Pag. 211. 


Ul 


34 NUOVI STUDI 


il calcolo di 7, e quindi della ordinata Z relativa al punto P, mediante la 


T 
94 Z=laMi(€ = 
(94) al()+07 


dove Z (©) è la nota funzione di Iacobi 


che può calcolarsi mediante lo sviluppo in serie delle © *#; e A è I’ inte- 
grale ellittico di 1% specie, che si cava dalle apposite tavole, noto lo x. 
La normale alla deformata nel punto /, incontra la ellissi meridiana 
dello ellissoide besseliano tracciata nel piano della curva meridiana con- 
siderata e coassiale alla stessa, in un punto /, la cui latitudine è data da 


(95) toe = tg 
e la cui ordinata da 

(96) z=bsino 
detta © è l'anomalia eccentrica. 

Per determinar questa, si calcolano le quantità ausiliarie 


È È t INT 
\ FA=A|AInisn: rene DEI 


(97) 


GAa=da V IR di È Di (ED 


ed allora si ha: 


b 
snaG@_-—entE(a 
ì a 
(98) sha = = 
a È i 9 
SRTH 4 €N°T 
a 


La differenza ® — < permette di vedere quale distacco ci sia nei vari 
punti della curva meridiana tra le normali della deformata e quelle dello 
ellissoide; e la Z—2 dà un criterio sulla situazione delle due curve. 


* Pel calcolo della Z (7) abbiamo tenuta la formula seguente: 


DE ZE DA Oo 
+ 39° sin K 4g! sin K RINO 
d 


CARICATI OS STAT 
qsin=- — 2g! sin 


21 fc 

Za)= = 

AT) K È COL o 
1-2q cos TA + 2g'cosT — 29° cos 


TUT î 4TT 
Digi cose 
ved Vi 


avendo cura di verificare ogni volta che i termini trascurati contenenti il 92° adduce- 
vano un errore insensibile, data l’indole della ricerca. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 35 
Allo estremo del ramo considerato della curva meridiana di deformata 
si ha == X, ed in conseguenza si ha 
Z(K)=o0 e sino=x 
Per tale estremo si ha ® = 90°; e la differenza Z— 2 dà la distanza 
tra le due ordinate sulla stessa retta. 


Noi abbiamo fatto i confronti accennati di 10° in 10°. 
Premettiamo che pel valore (92) di x, corrispondono 


log A = 0,6738454 e logg=1, 5456220 


e dalle tavole contenute nella recentissima opera del Lévy #, si son 
cavati i vari valori di = corrispondenti ai valori scelti di sin ®. 


-— 


| ® log Z (7) log: F°(t) log G (x) log sin w d_- 4 Z—-& 
00 0 0°, 00,7 00,7” 0 Om 
10 | 1345788 | 3, 2373884 | 6, 8032334 | 1, 2404142 | — 0, 03,00, 7| + 78 

| 20 | 1,4252165 | 3, 5414701 | 6, 8033621 | 1, 5346618 | — 0, 05,28, 2 T17 
30 | 1, 5833820 | 3, 7185686 | 6, 8035537 | 1, 6994227 | — 0, 07,09, O| 1825 
40 | 1, 6817616 | 3, 8433312 | 6, 8037911 | 1, 8085340 | — 0, 07, 34, 4| 3752 
50 | 1, 7413643 | 3, 9451232 | 6, 8040435 | 1, 8843503 | — 0, 06,34, 4| 5981 
60. | 1, 7682259 | 4, 0409868 | 6, 8042801 | 1, 9374614 |— 0, 04,01, 9| 7949 
70 | 1, 7574165 | 4, 1615542 | 6, 8044728 | 1, 9727956 |+0, 00,25, 5| 8920 
80 | 1, 6741098 | 4, 4001750 | 6, 8045964 | 1, 9930899 |-+-0, 09,37, 6| 7949 
90 | 0 1, 9997220 |-+2, 02,35, 3| 4066 


I risultati precedenti non escludono la possibilità, almeno sino a certe 
latitudini, di passare dalla deformata normale in parola e quelle locali 
con variazioni tali nelle dimensioni che si rientri nei limiti cennati al 
$ precedente. Ove ciò fosse confermato dai calcoli che ci riserbiamo in 
proposito di fare, la nostra superficie si potrebbe sostituire allo ellissoide 
sia come superficie di adattamento che come superficie di calcolo; e si 
avrebbe così il grande vantaggio di poter determinare geodetiche co- 
munque estese in latitudine, e di poter eseguire qualunque trasporto di 
coordinate col metodo sferico. 


Palermo, 1898. 


* Cfr. Lbvy: Précis élementaires de la theorie des fonetions elliptiques avec tables 
numériques ete., Paris, 1898. 


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_ NUOVI STUDI 


SOPRA UNA CERTA DBFORMATA DELLA SPERA 


O 


L’Ing. Dott. E. SOLER. 


“ge 


=— ETRE == 


1. Nella nostra Nota precedente Sopra una certa Deformata della Sfera *, 
annunziammo il proposito di studiare se la deformata in parola potesse 
adattarsi a delle regioni geoidiche in modo comparabile allo ellissoide. 
Nel presente lavoro presentiamo i calcoli eseguiti per lo scopo accennato, 
avendo scelto per regione geoidica quella indiana, sulla quale è stata 
eseguita dagli Inglesi, come è noto, una vastissima triangolazione , di 
cui esistono estese pubblicazioni *#* i 

Come deformata normale adoperammo quella determinata coi criteri 
esposti nello ultimo paragrafo dalla nostra precedente Nota; quella nella 
quale, cioè, si suppongono i semiassi eguali a quelli dello ellissoide. Essa, 
come verificammo allora, presenta nelle regioni dai 10° ai 50° di latitu- 
dine un sensibile distacco, lungo il meridiano, tra le sue normali e quelle 
del meridiano ellissoidico, e quindi ci parve, anche sotto questo riguardo, 
assai utile stabilire dei calcoli sopra una regione che si stende appunto 
tra quelle latitudini. 


Il parametro % relativo alla deformata normale fu determinato però 
in base alle dimensioni dello ellissoide di Clarke, su cui gl’Imglesi ese- 
guirono i loro calcoli, e che sono le seguenti : 


a = 20922932 piedi log. 7, 3206225. 4 
b = 20853375. > » 7,3191763. < 
e = 0, 006638» » 3,8220271. 8 


* Cfr, E. SoLER: Nuovi studi sopra una certa Deformata della Sfera (Palermo 1898). 

** I dati relativi alla triangolazione indiana sono stati pubblicati nella opera inti- 
tolata: Account of the operations of the great Trigonometrical Survey of India, di cui 
alcuni volumi furono gentilmente donati dal Ministero inglese delle Colonie al Gabi- 
netto di Geodesia della nostra Università. 


4 NUOVI STUDI 
Ci risultò, adoperando un metodo analogo a quello cennato nel $ 1 della 
nostra prima Nota sulla Deformata della Sfera *: 


log & = 0, 0002691. 0 
e quindi dalla 


dove 


= ; = 1, 9997309. 0 


si trasse 


log; J? = 7, 5205554. 4 (in piedi) 


che ci dà il raggio della sfera da cui proviene la deformata in parola. 

Si scelse come origine pei calcoli quello tenuto nella triangolazione 
inglese, cioè Kalianpur, che si trova nel cuore dell'India, e rispetto al 
quale esistono i seguenti dati fondamentali : 


Laniugime Nord; 5 oo vo 2 1736 
Longitudine Est Greenwich 77, 41, 44, 75 
Azimut a Surantal . . . . . 190, 27, 05, 10 


Nei trasporti delle coordinate geografiche pei vari vertici delle reti 
adoperate” tenemmo i valori dei lati tenuti nei trasporti indiani, dopo 
esserci assicurati che la risoluzione dei grandi triangoli fatta sullo Bllis- 
soide di Clarke si poteva, senza sensibile errore, ritener fatta sulla nostra 
Deformata. ##* 


Tra le reti della triangolazione indiana tenemmo, in primo luogo, quelle 
che corrono lungo l’arco di meridiano passante per Kalianpur, essendo 
nostra precipua intenzione di studiare quale adattamento potesse otte- 
nersi tra un arco di meridiano ellissoidico ed uno della deformata. Nel 
senso indicato i trasporti si spinsero per 6° a Nord e per 6° a Sud della 
origine, nè credemmo conveniente andar oltre giacchè le differenze tra 
le latitudini ellissoidiche e le sferiche si rendevano già troppo sensibili. 


* E. SoLER: Sopra una certa Deformata della Sfera (Rend. Circolo Mat. Palermo, 1894). 
* Cfr. Nuovi studi ete. (Attî R. Acc. Scienze Vol. V) pag. 33. 


# Prendendo come latitudine media del triangolo quella di Kalianpur, si caleolò che 
lo eccesso sferico in un triangolo equilatero di Km. 70 di lato (distanza mai superata 
tra i vertici delle reti adoperate) tracciato sulla sfera osculatrice allo ellissoide, era 


e—=1/,0049; e invece supponendolo tracciato sulla deformata era = 1’, 0010. 


Prendendo come lato del triangolo Kn. 60, si ebbe per lo ellissoide s = 07, 73776 e 


1) 29R 


per la deformata = = 0‘, 75540. 


SOPRA UNA CERTA DEPORMATA DELLA SPERA 5 

Trovammo ancora utile seguire due reti lungo il parallelo passante 
per l'origine, sia per istudiare lo andamento delle differenze in que- 
sto senso, sia per vedere, dopo la compensazione, quali effetti produ- 
cesse la medesima per l’adattamento delle due superficie nel senso indi- 
cato. I trasporti furono spinti per un 10° circa ad Est di Kalianpur lungo 
la serie longitudinale di Calcutta; e per 3° circa ad Ovest del medesimo 
punto, essendoci arrestati ad una stazione determinata astronomicamente 
dopo la quale, seguendo ad Ovest, per trovarne altra nella stessa con- 
dizione era necessario procedere lungo una rete di 2° ordine, il che non 
trovammo conveniente, non avendo essa lo stesso peso di tutte le altre 
adoperate, che sono del 1° ordine. Del resto, come si vedrà dalle tavole 
seguenti, tanto ad Est che ad Ovest dell’origine si hanno sensibilmente 
le stesse differenze. ‘ 

Le formule adoperate pei trasporti sono tratte dalla nostra Nota pre- 
cedente, e precisamente : 


| sin = è cCoss+ f sin s C08 ©) 


E sin ©, sin s 3 = COSW 
sin pAmn= E (i ; L) 
(1) COS % ò = sin %y 
- & sin) 
sine= 
COS 


dove «, e ©, sono, per ogni lato della rete, il parametro del parallelo 
riferentesi alla stazione origine A, e l’azimut da A all'altra stazione B. 
La prima delle formule precedenti, unita alla 


(2) sine = ksinw 


ci dava volta per volta la latitudine della stazione £; la seconda la lon- 
gitudine, e la terza l’azimut da 5 ad A. 

I calcoli fatti colle precedenti erano controllati in diversi modi. 

In primo luogo, prima di cominciare i trasporti per una data rete, 
riportavamo in arco tuttii valori dei lati, s, che si dovevano adoperare: 
e poi lo stesso calcolo si rifaceva volta per volta, in modo da essere 
sicuri dello s°' che si introduceva nelle (1). 

Ancora, introducendo nella prima delle (1) il valore di 8 tratto dalla 
terza, ed opportunamente riducendo, si poneva 


\ sine = A, sin) 
, 


I cote 2, sim e cos = A, cos À 


6 NUOVI STUDI 
da cui si determinavano 4A, e %, ed allora la prima delle (1) pigliava 
la forma 


(4) sinu= dysin(s+%) 


che controllava il valore di sin sopra ottenuto. La seconda delle (3) 
ci dava mezzo di controllare sine, e cose, giacchè la cotg e, si otte- 
neva direttamente, e per mezzo delle due prime. 


Inoltre si trasformava la formula 


sin ©, sin s 


CS 
Ul 


ekAiw=—- = n 
g COS Ss — è COS % SÎn s 


se 


ottenuta nella Nota precedente *, ponendo 


\ = ASI p 
(6) 


è cose, = A, cos o 


e quindi la precedente si poneva sotto la forma 


(7) A, sin (o —s)tgkA6= sin, sin s 


che controllava il valore di %Aw ottenuto dalla seconda delle (1), e 
quindi quello di « che si usava per ottenerlo #*. 

Aggiungiamo infine che, ove nei trasporti lungo il meridiano , risul 
tava molto piccola la differenza di longitudine fra le stazioni A e 5, il 
calcolo di sinkAw e di %Aw si ripeteva a 10 cifre. 

Lo stesso si faceva per sinv e pel 7, ove questo fosse prossimo 4 
90°; ed il risultato si controllava ancora colla seguente : 


RETE e 1 
GO cosu-—->- sin (end 9) 9 


2 cos 


E 


sin sin (©) — %) 


oi 


Lì 


che è un’opportuna trasformazione della terza delle (1). 
Daremo ora un cenno sulla formazione delle tavole dei trasporti. 


* Ofr. E. SoLER: Nuovi studi ete. pag 5. 
** Per altro controllo il valore di sink Aw si otteneva pure dalla 
, sin v sin s 
SINVAZANDI e 
6 
Ù 


che v ha sostituendo nella 2° delle (1) il valore di sin v) tratto dalla 32 delle stesse. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SPERA T 


Nelle due colonne Ae B abbiamo indicato, per ogni lato, le stazioni 
di origine e di arrivo secondo la numerazione della triangolazione in- 
diana. Soltanto abbiamo sostituito i numeri arabi ai romani adoperati 
dagli Inglesi, a meno delle stazioni fondamentali, riattaccate alle basi 
misurate, per cui abbiamo serbato le indicazioni di quella triangolazione. 
La stazione (VII) è quella origine di tutta la rete, Kalianpur. 

Nelle colonne logs, © %,; ©; ©, 2bbiamo indicato il log del lato 
(in piedi), l’azimut da A a 5, la latitudine, la longitudine, e l’azimut da 
Bad A, cavati dalle tavole della triangolazione indiana. Con g,} ©, %, 
le quantità analoghe alle precedenti risultanti dai nostri calcoli, e con 
Ag, Av, e Av le differenze tra le nostre e quelle ellissoidiche. Con A, 
indichiamo la correzione da darsi ogni volta al ©, indiano per introdursi 
nelle (1). Essa ripete naturalmente la correzione all’azimut di ritorno . 

Le ultime quattro colonne delle tavole portano i valori logaritmici 
della 1% e 2* delle (1); :/sin« la differenza tra i logaritmi della 1 (1) 
e della (4); ed e (KA) è la differenza tra i due membri della (7), te- 
nendo il segno positivo quando il primo membro supera il secondo. 
Osserviamo che le differenze indicate sono sempre unità della 7 cifra 
decimale del logaritmo. 

Aggiungiamo per maggiore schiarimento che i dati relativi all’arco di 
meridiano (24° —18°) sono cavati dal Vol. IV dalla pubblicazione inglese; 
quelli relativi alla serie di Karachi dal Vol. III; e quelli relativi all’arco 
di meridiano (24° — 30°) e alla serie di Calcutta dal Vol. VI. 

Nelle tavole seguenti abbiamo serbato la maniera di contare gli azimut 
tenuto nella triangolazione indiana, cioè da S. a N..passando per l’Ovest. 


le) NUOVI STUDI 


Trasporti lungo 


A log s Vo A vo B T) tD 
| vin |"4,6973042.0 | 334 44/01/83 (iv) | 2350, 44/93 | 23/59/4656 | + 1/63 | 77,450 
| (Iv) | 5,1531760.0 || 5,11,9,84 | + 0/03 | = | 23,36,20,88 | 23,36,27,66 6,78 | 77,3% 
| 2 | 496099839 28,49,17,73|— 0,03] 4 |23,23,07,14 | 23,23,16,84) | 19,70 | 77,356 
| ‘2 | 5,0098984.8 | 328,19,26,41| — 0,13] = |23,08,44,13 | 23,08,57,07| 12,94 | 77,448 
5 1506820843 | 14,36,02,00 | + 0,01 |» |22,50,02,06 | 22,50,19,26 | 17,20 | 77,39% 
s |5,3409511.4| 1,40,52,77)— 0,06] nn |22,13,50,24 | 22,14,15,76|  25,52.| 77,358 
11 | 5,2316971.9 | 353,54,51,62 | — 0,08 | 15 | 21,45,50,12 | 21,46,22,24| 52,12) 77,40 
153 | 5,0374625.2 | 16,43,11,99 | — 0,02 | nz |21,28,35,34 | 21,29,11,56| 36,22 |77,36} 
13 |5,1976828.2 | 352,03,48,91 | — 0,11 | 19 |21,02,47,80 | 21,03,30,23| 42,43 | 77,40} 
! 29 |5,0477736.8| 3,09,23,10| + 0,01 | 22 | 20,44,23,06 | 20,45,09,99| 46,93 | 77,38 
| ®® | 4,9874445.5 | 357,59,37,27| — 0,02 | 2a |20,28,20,70 | 20,29,11,57 | 50,87 | 77,39 
‘24 |4,7018029.3 | 338,17,33,29 | — 0,01 | 23 | 20,20,37,19 | 20,21,29,94 | 52,75|77,4; 
| 25 |5,0926745.3 | 355,24,00,07 | 4 0,06 | #3 | 20,00,14,11 | 20,01,11,97 | 57,86 | 77,44 
\22 |5,0611296.2| 0,27,53,63 | 40,11 | 29 |19,41,13,04 | 19,42,15,66 | 62,62| 77,44) 
29 |5,15728933 | 2,31,44,71 | + o,10| sn | 19,17,30,44 | 19,18,39,06| 63,62 | 77,43) 
‘31 |4,8819161.0| 6,52,20,20 | + 0,07 | 34° | 19,05,00,52 | 19,06,12,34| 71,82 77,40) 
‘3a |5,08984926| 8,59,25,26 | + 0,01 | 86 | 18,44,56,23 | 18,46,13,27| 77,04 | 77,38) 
(36 |4,9675022,0 | 3,29,14,17 | — 0,09 | 86 | 18,29,38,00 | 18,30,58,97 | 80,97 | 77,37, 
| 38 | 4,0502070. | 332,31,48,39 | — 0,12 | 389 | 18,16,33,50 | 18,17,58,19| 8469 | 77,4 
\s9 |49091889.4| 8,12,88,14|+0,03/ ae |18,09,17,35 | 18,04,45,21| 87,86 | 77,49) 
| 


eridiano 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 


meridionale (24° — 18°) 

A w U, DIA Av log sin uw  |e sine Jogisinà os(KA0)| 
4/13 |-1-0/10 | 154 45/35/31 | 154 45/35/34 |4+-0/08 | 1,6089806.5 |-+-0,3 30464027. 2 0,5 
15,48 |-+-0,04 | 185, 10; 53,91. | 185,10, 53,88 ! — 0,03 | 1, 6023029. 7 | @,6 4, 8277750.4 | +0, 4 | 
2.21 | 0,16 | 208, 46,09,13 | 208, 46,09,00 | — 0,13 | 1,5984731.3 |—0,2 | 3,3609500. 2 | +0, 6 | 
58, 12 |-+-0,07 | 148,23,13,80 | 148,23, 13,81 |-+0,01 | 1,5942633. 7 |+-0,5 | 3) 4462049. 6 | — 0,1 
2,65 | — 0,06 | 194,33,58,84 | 194,33,58,78 | —0,06 | 1,5887169. 1 |--0,2 | 3, 1847980. 4 | +-0,3 
14 | — 0,09 | 181, 40,26,53 | 181, 40,26,45 | — 0,08 | 155777395.8 | — 0,8 | 4,5215736.2 | — 0,1 | 
5,99 | - 0,01 | 173,56,03,45 | 173,56,03, 43 | — 0,02 | 1,5690202.5 | +0,9 | 4,9688082. 5 0,0 
77 | — 0,15 | 196,41,09,63 | 196,41,09,52 | — 0,1) | 1{5635473.5 | — 0,2 | 3/2072791.4 | — 0,6 
)8,69 | — 0,05 | 172,05, 12,25 | 172,05,12,26 |-+0,01 | 1,5552114.9 |-40,4 | 3,0474172.7 |+-0,9 
18,90 | — 0,07 | 183,09, 00,01 | 183,08, 59,99 | — 0,02 T,5491465.5 0,0. | 4,4973654. 2 |-4+0,6 
34.69 | — 0,06 | 177,59, 49,86 | 177,59, 49,85 | — 0,01 | 1,5437833.3 | 0,0 | 4,2396146. 4 LA 
50,40 |-{-0,02 | 158,18,41,51 | 158,18,41,57 |-+0,06 | 1,5411731.3 | 0,0 | 4,9774699.9 | 40,1 
34,55 |+-0,05 | 175,24,35,97 | 175,24,36,08 |-+0,11 | 1,5341986.9 |4-1,3 | 47035173.3 | — 0,4 
24.76 |+-0,04 | 180,27,50,31 | 180, 27,50, 41 |-+-0,10 | 1,5275756.1 | —0,6 | 5,6762026.2 |+0,1 
(8,55 |+0,01 | 182,31, 22,63 | 182,31, 22,70 |+-0,07 | 1,5191561.4 |—0,6 | 4,5067525. 4 | —0,1 | 
{3,44 | — 0,03 | 186,51,48,96 | 186,51, 48,97 | + 0,01 | 1,5146430.1 | — 0,4 | 4,6640675.3 | — 0,2 
23,35 | — 0,11 | 188,58,20,42 | 188,58, 20,33 | — 0,09 | 1,3072839.9 | 4-0, 1 | 4,9870671.6 |4+-0,7 
24, 68 — 0,13 || 183} 28,55, 44 | 183; 28, 55,32 |— 0,12 1,5015782.3 + 0, 8 | 45 4542935.8 | — 0,5 
31,74 |+-0,05 | 152,34,03,03 | 152, 34,03, Il |4-0,08 | 1, 4966365. 7 | +0,8 | 3,3163279.0 19] 
31,60 |---0,01 | 188512,00,70 | 188,12,00,71 | + 0,01 | 1-4915570.9 | — 1,0 I 7655604.7 +04 


(au) 


10 


NUOVI STUDI 


Trasporti lungo 


il grande 


® 


ii 
CS 
vw 


va r 
CD) 


5, 0409070. 


v 
5, 0554050. 


5, 1508572. 


| 4, 9258360. 


4, 9390979. 


5, 0518837. 


15, 1004592, £ 
| 4,9039366. 


| 4,9480077. 


5, 2426384. 
5, 0827041. 
5, 0488182. 


4, 9735965. 


5, 1785382. 5 


4,9795127. 


5, 1026265. 5 
4, 9560536. 


5, 0772255. 


È) 


5,0784622. 


5, 0598558. 


5, 2695973. 2 


5, 1136742. £ 


DI 


DS) 


N 


> 


DI. 


(242IONSE 


| 208,40, 41, 


202, 06, 01, 8 


NOTAZIONE 
1728095 


183,04, 35 


191, 27,5 
199, 48,30 
123, 05, 
127, 16,2: 
188, 24, & 


146, 50, 26 


219, 49, 
171,23, 


’ 


174,31, 30, 


212,34, 33, 
165, 22, 19,59 
193, 04, 50, 87 


177, 26,00; 63 


Eros: 


- 
+ 
L 


i 


+ 
+ 
+ 


AE 
i ita 


+ 


oa 


L , - 
0,03 
0, 26 


0,25 


| + 0,20 


0, 19 
0, 20 
0,23 
0,25 
0, 91 
0,15 
0,16 
0,13 
0, 08 
0), 07 
0, 06 
0), 01 
0,02 
0,01 
0,01 
0,04 
0,02 


0,04 


=G 


Ur 2 "r 
24.08, 08,73 


16,53, 29 
35, 24, 14 
55, 47, 49 
08, 14,39 
16,13, 46 


28, 33,26 


13, 49, 65 


26, 16, 92 


28, 10, 11,24 


28,30, 59,64 


28, 44, 04, 49 | 


29,02, 20, 11 
29, 18, 59,07 
29, 37, 18, 46 
50, 07, 12, 13 


30, 28, 36,91 


38, 12,13 


02,49, 05 | 


-6 


Ren O Lage, "r 

24, 08,03, 52 
24, 25, 54,07 
7,29 


uz. 


28,03, 
6, 56, 31, 34 
27,13, 11,58 
27, 25, 36, 5 


29 


SA 


ZINS7A 
28, 02,01, 
28,09, 22,7 
28, 30,07, 38 
28, 43,09, 91 
20, 01, 22, 36 
20, 17, 58, 48 


29, 36, 14,75 


30, 06, 03,51 


| 30,27, 24,84 


48 | 


26,84 
20,31 
34,88 
38, 07 


40, 42 


65, 62 


72,07 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 11 


neridiano meridionale (24° — 80°) 


Ao | Ur D, AV log sinu  |Zsinu| logsinkAw |e(KCAw)! 


—Ti===-/-ii e&@éi i —eea Til Ì 


" IZ 


, O È P=y0oa 
)8 47 |-+-0/56) 62,47,22/94 | 62,47,23,20 | +0,26 | 1,6113236.8 |-+-0,8 | 3,7088208. 0 | 40,8 


2,91 |-+0,55 | 358,15,39,27 | 358, 15,39, 52 |-+-0,25 | I;6163198.3 |— 0,1 | 42368344.6 | — 0, 4 
56,57 |-+-0,40 | 347,19, 12,55 | 347,19,12,75 | 4-0,20 | 1,6225831.7 |4-0,6 | 3/2126248.8 | — 0,6 
5,33 |+-0,35 | 352,08, 11,97 | 332,08, 12, 15 |-+0,18 | 1,6263184, 4 | 4-0, 4 | 4,7835983.5 | — 0,8 
2,16 | +0, 37 3,04, 53, 62 3, 04,53, 81 lo, 19 | 1,6301594. 0 |+0,9 | 4,3919944.3 | 40,8 
13,68 | + 0,50 5, 40, 25, 80 5,40, 26,00 | +0,20 | 1, 6350613.5 | —0;8 | 4,7702273.2 | — 1,4 


824 |4-0,62 | +1,29,57,47 | 11,29,57,70 |+0,23 | 1,6403825.0 | —0,7 | 3, 1244879.9 |-40,7 


16,50 |-4-0,79| 19,50,41,00 19,50, 41,25 | +0,25 1,6435921.9 |+0,7 | 3, 1603819.5 0,0 
59,50 | +0, 43 302, 59,13, 12 | 302,59, 13,33 |+-0,21 | 1,6456356.9 |+0,6 | 3,5980665. 1 |— 0 


22 | — 0,04 | 307,08,23, 11 | 307,08, 23, 


(9) 
(© 


+0, 15 | 1,6487679.2 | — 0,5. | 3,7201816.5 | 40,2 
9,85 | + 0,09 8, 26,31, 45 8,26, 31,61 | 4-0, 16 | 1, 6559143.6 |—0,1 | 3,1370563.9 | — 0,5 
8,03 | — 0,23 | 326, 49, 52,98 | 326, 49, 53, Il |-40;13 1,6600332.7 | — 0, 4 | 3,5502444.5 |-+0,2 
il,32 | — 0,63 | 312; 20,37, 77 | 312, 20,37, 85 |+0,08 | 1,6630690.9 | +0, 5 | 3,6480765. 4 | 40,9 
sg |—0,33| 39,54,55,02! 39,54,55,09 | +-0,07 | 1,6659497. 1 0,0 | 3 
988 | — 0,44 | 351,21, 53, 14 | 351,21,53,20 -+ 0,06 | 1,6718224.8 |—0,1 | 3 
71 |—0,03 | 62,08,54,99| 62,08,55,00 |-+0,01 | 1, 6735612.8 0,0 | 3,6598153.4 | — 0,3 
6,20 | — 0,06 | 354,30, 25,94 | 354, 30, 25,96 .|+-0,02 | 1, 6784224.4 | — 0,6 | 4,8178956.8 |— 0,4 


3,64 10,15 | 28,44,34,54| 28,44,34,53|—0,01 | 1,6814430.4 | —0,1 | 3,3737665. 4 | — 0,6 


(46) 


0025 |--0,37| 22,10,06,46 | 22,10,06,45 | — 0,01 | 1,6856148.3 |4+-0,4 | 3,3905178.2 |-+1,0 | 


9,29 |4-0,69 | 32,40,30,38 | 32,40,30,34 | — 0,04 | 1,6893735. 8 | 4-0, 6 | 3,5485938. 5.|+0,2 


— 0,3 | 3,2024850. 4 |+-0,5 


do 


071 |--0,55 | 345,19,38,01 | 345,19,37,99 | — 0,02 | 1,6934614. 


039 |--0,77| 13,08,49,67 | 13,08,49,63 | —0,04 | 1,7000238.9 |-+0,6 | 3,3667920. 2 |+-0,4 


887 | 40,73 | 357,25, 27,08 | 357, 25,27,05 |— 0,03 | 1} 7046447. 4 | — 0,4 | 4,5087863. 4 |+0,1 


2 


NUOVI STUDI 


Trasporti 


A log s Ùo) 
| 
\EEREESI | 
| | | 
TR ara a ia | 
(IV) | 5,2360396. 3. |.293} 05,/46,/23| 
| £ 
3 | 5,0257562. 8 | 305,18, 38,51 


4° | 5,1055089. 9 | 237, 10, 
3 | 5,1167588. 1 | 300, 51, 


8 | 4,9502633.5 | 244,39, 
| 
9 | 5,2230668.5 | 308, 14, 
| 2 | 5,1558719.8 | 265,29; 
46 | 5, 2018261. 1 | 264, 33, 
18 | 5, 1835015.0 | 250,10, 
\see | 5,2029569.5 | 204, 05, 
| 22 | 5,2895479.9 | 281,31, 
| 25 | 5,0388877.0 | 265,26, 
28 | 5,2810087. 8 | 252, 44, 
| 32 | 5,1169892.1 | 261,02, 
| sa 5, 3176306. 8 | 288, 49, 
| | 
NECA 5, 2535576. 8. | 268, 02, 
* gn | 5,2693773. 4 | 218,19 
ÒTI | 5, 1466477..1 | 270, 38, 
23 | 5,1402539. 1 566,44, 


4,9657019. 1 


32 | 5,0760640.7 | 292, 18, 
53 | 5, 12983179.8 | 269,03, 


58 | 5,3792092. 2 | 281, 56, 
&1 | 5,1556043.0 | 246, 12, 
63 | 5,1172218.3 | 202, 28, 


* Trasporti aggiunti per 


(AS) 
DO 


w 
JE 
CO 


42, 67 


03,15 


16, 46 


52, 4l 


33; 69. 


Ì 


arrivare a stazioni 


23 |24,04, 
25 |23,34 
28 |23,35, 
32 |23,44 


42 24,02, 
43 | 23,97, 


s2 |23,40, 
55 |23,32, 


5%) 25, 33, 
GI 23, 24, 
GI 23,94, 
GA | 23,04, 


p , 
99 
DO) 


29, 05 


con latitudine determinata 


7 all , 
O1 | 23,48, 37, 09 


53 | 23: 38,30, 85 
07 | 23, 49, 51, 86 
66 | 23, 38, 47, 89 


28 | 23, 28, 00, 89 
53,|/23, 29, 49, 69 


01 | 24. 04, 42, 04 
96 | 23, 54, 17, 09 


74 |23,,35, 41,54 
79 | 123, 44,57, DI 
17 28,48, 17.15 
98| 23,37,/11, 39 
]1 | 23, 38,08, 27 
99 | 24, 02, 06, 85 
63 | 23,37, 50, S4 


36 | 23, 33,03, 58 
51 | 23,39, 23, 64 
87 | 23, 25,08, 77 
04 | 23. 34,34.78 
02. | 23,54, 31, 37 


astronomicamente e | 


78,48] 


82, 39) 
82,56: 


83,/al 


85, 58 
86,35, 
86,59. 


87,08; 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA 


tudinale di Calcutta 


SFERA 


ij /8 


IAA SA2ZA 


57.18, 26, 84 | 


121, 00, 05, 83 


64, 45, 40, 26 | 


85, 40, 06, 68 
84, 44, 42, 69 
70, 20, 54, 39 
24, 10, 07, 83 


101, 44, 48,30 


38, 28,00, 98 


86, 54, 17,94 


84, 43, 19,90 
112, 25,57, 70 
89, 12, 54, 84 
102, 13, 19, 62 


66, 21, 53, 5 


log sim 2 


——___— 


1, 6058002. 


Ul 


1, 6028960. 0 
1, 6061567. 9 


1, 6929779, 5 


1, 6047817. 2 


1, 5998533. 5 


1, 6005807. 4 


1, 6010893. 3 


| 1, 6035397. 6 


1} 6103774. 2 
1, 6016733. 8 
T, 6020807. 3 
1, 6047509. 9 


1, 6057050. 7 


1, 6025156. 1 


1, 6027873. 6 


1, 6096435. 8 


1, 6027034. 2 


1, 6030668. 3 
T, 6034741. 7 
1, 6013184. 9 


1, 6014155. 0 


1, 5990176. 6 


1, 6017684. € 


1, 6074867. 1 


= sin] 
Il 


0,0 


0,0 


| 
S 
SS) 


+ 
SD 
(AY) 


0,0 


SÌ] 


log sin 4A w 


E 
3, 9179772. 6 
3, 6551250. 8 
3, 7482696. 3 
3, 7680889. 5 
3, 6243719. 2 
3, 8352472. 9 
3; 8717157. 5 
3, 9171816: 8 
3, 8747598. 0 
3, 5329304. 9 
3, 9981385. 2 
3, 7550245. 8 
3, 9790155. 2 
3, 8298572. 7 
2, 0113626. 6 
3, 9709466. 8 
3. 78085988. 2 
3, 8642470, 2 
35 8972470..0.| 
3, 6815550. 7 
3, 7596617. 9 
3, 8466402. 7 


2, 0866249. 5 


8344887. 5 


3, 4182016. 9 


14 


NUOVI STUDI 


Trasporti lungo la 


5, 0018433. 


| 5, 1092672. 


5, 0842015. 


| 4,9181115. 


| 5, 0660415. £ 


5, 0188557. 


4, 8497555 


4, 9765810. 


ll 


| 


Viy A (21 

l 90, 27, 05,10 
104, 16, 34,39 | — 0,42 
73; 11,53, 64 0,57 
| 117,00, 50, 86 0,85 
| 11, 15,57,22 1,00 
8 | 103,50, 54, 64 mo IT 
47, 13,14, 43 1,38 
112,07, 38,07 1,50 
80,14, 10,75 1,75 
| 105, 16,47, 31 1,95 
64, 45, 23, 68 1,99 


22 


23 


"6 


24° 14, 20/42 
24, 17, 49,79 
24, 14,52, 08 
24, 22,23, 15 
24,30, 03, 74 
24,34, 50,10 
24,25, 32, 46 
24, 32, 01,18 
24,28, 44, 16 
24, 31, 48,39 


24, 25,07, 27 


Po 
24) 14, 1884 
24,17, 47,45 
24, 14, 50,38 
24, 22, 19,84 
24, 29, 58,76 
24,34, 44,11 
24,25, 28, 46 
24, 31,55, 81 
24, 28, 39, 48 


24, 31, 43,04 


76,07 
75,50 
75,29 
75,17 


75, 01 


i 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 


jitudinale di Karachi 


Aw | E 


DS 


Î 
i 


| i 
11,15 |-+0/06 | 10, 27, 405/46 
| 


09,81 | —0, 33 | 284, 10, 24,09 
28,99 | — 0,60 | 253,07, 30, 33 
20,81 | — 1, 03 | 296, 54, 12, 45 
bili 58 | 291,07, 00, 37 
Hi > 14 (283,40,04,23 
26,93 | — 2, 41 | 227,08, 41,62 
38,58 | — 2,97 | 292,00, 23, 89 
15,92 | — 3,550 | 260, 05, 35,52 


2| 2300 


28, 66 


Va AV 
| 

107 27) 405/04 | — 0/42 
284,110,123,,52)| 10,157 
253,07, 29,48 | 0,85 
296, 54, 11, 45 | 1,00 
291, 06, 50, 20. ig 
283, 42, 02, 85 | 1,38 
227, 08, 40, 12 | 1,50 
202,00, 22, 14 | 1, 75 
260, 05, 38,57 1,95 
285, 11,.38,72 1,99 
244,38,57,34| 2,15 


log sin w 


e ]TÈ] 0 


1,6130831. 1|— 1, 
I, 6140573. 8 | 


1, 6132306. 0 


I, 6153255. 3 | 
1, 6174521, 6 
1, 6187681. 1 
1, 6162011. 
I, 6179924. 
1, 6170856. 7 

I, 6179336. 1 


I, 6160845 


Y 
| 


elsinu 


log sink Aw 


4, 6222385. 


9 
3, 6407308. 


, 4920789. 


(Db) 
00) 


3; 6717970. 1 


3, 7992043..3 


3, 5040970. 4 


0.0) 


3, 7063089. 


3, 7801927. 


(DAI 


. 16 NUOVI STUDI 
2. Dalle tavole precedenti cavammo le posizioni geografiche dei ver- 
tici per cui esistendo delle osservazioni astronomiche di latitudine, ci po- 
temmo avvalere per procedere alla formazione delle equazioni di con- 
dizione. Per nissuno dei vertici delle reti prescelte si trovarono osser- 
vazioni astronomiche di longitudine; né ci fu possibile, cogli elementi 
che avevamo a nostra disposizione, riattaccarli alle stazioni di longitu- 
dine, che si trovano verso le regioni considerate. 
T punti tenuti, dunque, furono : 
lungo l’arco di meridiano per la regione (24°—18°): 
Lddi (5), Badgaon (22), Damargida (42); 
lungo l’arco di meridiano per la regione (24°—30°): 
Usira (22), Datairi (40), Banog (X); 
lungo la serie di Calcutta : 
Kardra (23), Hurildong (42), Malincha (64); 
e lungo la serie di Karachi : 
Aramlia (23). 
Pei punti indicati si calcolarono l’ azimut, «,, della geodetica che li 
unisce all’origine, Kalianpur, e la lunghezza di detta geodetica. 
Il primo fu calcolato, volta per volta, mediante la 


(8) Logi 


cos u sin KA © # 8 = COS U 
© sinu— 305% cost A (. = sin n) 
dove «, si riferisce sempre all’ origine; ed « è il solito parametro del 
parallelo riferentesi al punto in considerazione, e A© la differenza di 
longitudine tra detto punto e l’origine. 

Per controllo del calcolo numerico, la precedente tg si otteneva pure 
dalla 


cosusinkAw 
(9) liete 
A, sin (u—7) 


per adoperar la quale si ricalcolava il sin #Aw, e si poneva 


\ B='d3c081 
(10) i 
| 3coskAw= A, sin 


Il quadrante di e, era determinato dal segno della precedente (8), 
tenuto presente quello di Aw, e dal segno di cos ©, tratto dalla prima 
delle (1), e quindi dal semplice paragone del sin, noto dai trasporti, 
col è cos s. 


# Cfr. E. SoLER: Nuovi studî, etc. pag. 6. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 17 


La geodetica s, unente il punto scelto all’ origine, si calcolava me- 


diante la 


al cos < sin #4 w 
) Il 


sins = 5 
sin ©) 

che si cava dalla seconda delle (1); e la prima delle (1) medesime sotto 
la forma in cui là sta scritta, serviva al controllo degli s e ©, ottenuti. 

Nella tavola seguente abbiamo inscritto pei 10 punti, sopra indicati, 
nelle colonne indicate con 7, ed s i valori ottenuti dalle (8) ed (11). Nella 
colonna (log sin «) si è inscritta la differenza tra il log sin, dato dai 
trasporti, e quello calcolato colla prima della (1), tenendo il ©, e 1’s, ultimi 
ottenuti. Nelle ultime tre colonne della tavola abbiamo, per comodità 
del lettore , inscritte per ogni punto la latitudine 4, determinata coi 
trasporti, quella g, determinata astronomicamente, e la differenza, Ag, 
tra la prima e la seconda. 

Notiamo ancora che gli azimut quivi inscritti sono contati alla maniera 
nostra, cioè dal .V al S passando per l'Est, e che le differenze inscritte 


m 


nella quarta colonna sono sempre unità della 7® cifra decimale. 

I _ —_ = nt 

| i ; e (log È D È 

| Stazione U) | s Sa) do | d, A d | 
| | | | | 
| | 

Il i | IAS BID o PRI 7 09OV ZAN | £ OLD O EROE DO 
IERI 177,04,57,330 0,58, 16,085 | — 0,1 23,08,57,07 | 23,08,39,10 | + 17,97 
| Badgaon | 180,44,04,288 | 3,21,53,449 | — 0,4 | 20,45,09,99 | 20,44,15,54 | + 54,45 
| Damargida . . | 179,52,56,196 | 6,02,10,588 | — 0,5 | 18,04,45,21 | 18,03;14,92 | + 90,29 
Î Î 

| Usira. . . 359,34,20,512 | 2,49,12,647 | — 0,3 | 26,56,31,34 | 26,57,00,50 | — 29,16] 
| Sa STURA RICA i AEREE] da 
| Datairi . . . . | 359,56,08,805  4,35,45,857 | + 1,6 | 28,43,09,91 | 28,43,58,67 | — 48,761 
| lo i | È | 
| Banog. . . .. 2,49,13,118 | 6,20,24,893 | 40,5) 30,27,24,84 | 30,28,04,18| — 39,34 
Il | 

| Karàra . ... 89,58,48,655 | 3,17,52,067 + 6,2 | 24,04,42,04 | 24,04,42,20| — 0,16) 
| Hurilaong . . | 89,25,04,810 | 6,07,57,398 | +0,1 24,02,06,85 | 24,02,16,74 | — 9,89 | 
| Maluncha. . . | 89,28,14,795 | 8,38,04,776 | — 0,8 | 23,54,31,37 | 23,54,29,64|4 1,73] 
Il | { | Î 
| Aramlia. . . . | 277,30,35,636 2,27,17,852 +02 (24,25,03,33 | 24,25,02,66 | + 0,67 
| | 


5. I valori della tavola precedente introdotte nelle espressioni 


tp ORI AIA n VI? — sin? 9, cos & C0s 8) 
LU ND Tio 
{ cos © Sin £ k 
! cosgsinl’ VI? sing, 
(12) 
p_ St | s_ Sinancoso sins ) 
COSIpI ( Vik — sin? | 
Fia galimg === 
(= DEE VI? — sin? 9, 


COS Y 


18 NUOVI STUDI 
già determinate nella precedente Nota *, variando opportunamente la 
prima delle (1), servirono alla formazione del quadro delle deviazioni 
che segue, e dove le varie A seguono per indice l'ordine dei punti se- 
condo la disposizione della tavola del $ precedente. 

I coefficenti delle deviazioni furono volta per volta controllati, calco- 
lando per mezzo di valori arbitrari di 3, è %, 9, è% il valore corri 
spondente di Ag sia dalla formola differenziale che dalla prima delle (1). 

Ecco il quadro delle deviazioni : 


a,=- 0, 000167 3 4145,8 5% + 1,000 39,4 0,001 37) 417,97 
A, =+0; 000580 -+14181,9. 40,999. +0,001 454,45 


a 0,001040 — 24996,5 +0, 999 0,000. +90, 29 

= 0 000/000 0.000, 29 

(13) A,=-- 0,000792 +20646,9 +1,000 0,000. — 48,76 

w 200109 ERI 000 0000 IR 

SCE OMO I 

AT 20 0000400 O 0 0 O MO) 

NET E e 173 

NO O000IT II 00 MA 

Ponendo 

(14) x, = a x, = 10003%2,=3% 2,= "a 


si son costruite le equazioni normali relative alla condizione di render 
minima la somma dei quadrati delle deviazioni locali A. 

Si è trovato al solito modo, e cogli opportuni controlli, il seguente 
sistema normale : 


350, 95852 x, 888, 81394 a,— 4, 90236 x,—1, 31739 x,-+2238, 62824=0 
2263, 21848 #,-+-20, 71108 x,—2, 01649 x,— 5612, 90789=0 
REN Ito ORO 2, 129402, + 37, 19882=0 
7=0 


i.e - - 3, 90860 2,4 11, 1675 
da cui si è passato al seguente sistema ridotto : 


350, 95852 x,--888, 81394 x,—4, 90236 x,—1, 31759 x,4-2258, 62824=0 
a 26874 ax,-4+-8, 29569 x,—5, 35282 2,4 56, 49081=0 
4, 27048 1,40, 87159 2,4 30, 87198=0 
1,5359035 2,4 37, 91662=0 
Risolvendolo si ha: 
log x, = 1, 4357055,, log, = 0, 2209415n, log x, = 1,1869068, 
log x, = 1, 657555 


* E. SoLeER: Nuovi studi, etc. pag. 32. 


SOPRA UNA CERTA DEPORMATA DELLA SFERA 19 


e riferendosi alle (14) 
ea Ge AO: 3k:=—0, 015378; dle =— 454500. 


Perciò le dimensioni della nuova deformata che al più possibile si adatta 
alla regione considerata, sono 


k = 0, 985242 R = 20455471 piedi — 6234713 


che è una deformata con % < 1, cioè allungata nel senso dei poli, il che 
non nuoce al caso nostro, trattandosi dell’ adattabilità di una sola sua 
regione. 

I residui delle attrazioni locali si avranno sostituendo le (15) nelle (13), 
e si trova in tal modo : 


(16) 


che sono abbastanza soddisfacenti ove si tenga conto delle divergenze 
primitive, in molti dei punti tenuti, fra la latitudine geodetica e quella 
astronomica, e alla eccezionale adattabilità allo Ellissoide della regione 
indiana. 

Si deve, però, osservare che a causa della piccolezza del 39, e del sen- 
sibile valore del: è,, secondo le (15), gli spostamenti delle normali della 
deformata fondamentale sono abbastanza forti nel senso del parallelo : la 
ragione di ciò può rintracciarsi nel fatto che non avendo potuto consi 
derare le deviazioni in longitudine, la nuova deformata ha potuto pren- 
dere nel senso del parallelo suindicato una configurazione sensibilmente 
diversa; per il che alla nuova deformata non possiamo riconoscere altra 
proprietà che quella di attenuare in misura soddisfacente le deviazioni 
in latitudine dei punti considerati. 

4. Trattandosi di una superficie di adattamento che viene impiegata 
per la prima volta, non sarà inutile discutere più da vicino i risultati 
cui siano pervenuti. Si potrà, p. e., cercare come si comportino, rispetto 
alla regione considerata, le deformate sferiche della stessa classe della 


20 NUOVI STUDI 
fondamentale, cioè quelle per cui 4% > 1, mentre la discussione prece- 
dente ci ha condotto ad una deformata per la quale & < 1. 

Per obbligare la deformata definitiva a verificare la condizione &> 1, 
si può lasciare arbitrario p. e. è/?, nel render minima la somma dei 
quadrati delle (13), in modo che 3%, è), è@, e i residui risultino fun- 
zioni di è ?. Si potrà, poi, fissare il valore di quest’ultimo in modo che 
il X definitivo venga > 1, e siccome ciò potrà ottenersi in infiniti modi, 
si sceglierà fra questi quello che rende più piccoli i residui più forti. 

In tal modo siamo sicuri di giungere ad una deformata della classe 
k>1, senza dimenticare che i risultati potrebbero usarsi alla determi 
nazione di altre deformate, anche di quelle per cui % < 1. 

Riprendendo x, dalle (14) invece di è/?, il sistema normale per è & 
indeterminato, sarà : 


2263, 21848 x,+-20, 71108 1,2, 01649 .x,-_[5612, 90789+888, 81394 x,]=0 
Ù) A Di 4 

9, 94821 x,--2, 72940.x,-+[ 37, 79882— 4, 90236 x,]=0 

3, 90860 x,+[ 11,16757— 1,31739 x,j=0 


La risoluzione del precedente porta alle seguenti radici 


dg = 2, 5794-00, 395 x, 
(17) dI sci — 0, 224 x, 
a,=— 9,809 +0, 384 x, 


Consideriamo la è%, tenendo presenti le (14). Essa verrà : 
èk = 0, 002579 + 0, 000395 x, 
e ricordando che il valore iniziale di % è 
k = 1, 000620 
si avrà pure 
k = 1, 003199 + 0, 000395 x, 
Fissiamo, ora, x,, arbitrario, in modo che % > 1. Ne risulta subito : 
(18) x, 2 — 8, 0986 


Al di sopra del valore precedente, avremo sempre deformate col &Kd 1. 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 21 


Formiamo intanto i residui, introducendo in (15) le (17), tenute presenti 
le (14). Avremo : 


AR O) 
NICO 0020] 
IRR 0 
A, == 8,85—0 , 142, 
20 T01L0 Va 
Ng SSL 20), 
—— 6:,42--0 


(19) A 
A 
A 
NEI 0 
A 
A 


o=4 5 ,49+0 , 20%, 


Per ogni valore di .x,, soddisfacente alla (18), avremo i valori dei resi- 
dui (19) per una deformata col % > 1. Il minimo valore di x, è —8, 0986. 
Ora nel quadro precedente (19) si vede che nei più grossi residui, i coef- 
ficenti sono di egual segno; è quindi conveniente scegliere x, negativo, 
onde attenuarli; senza però discendere per «, al disotto del valor mi- 
nimo cennato. 

Il massimo vantaggio sarà quindi di prendere il valor minimo stesso, 
e i residui diverranno: 


AE 
A, =+ 6,06 
A, =+ 11, bl 
A, =—:6,,72 
(20) A,=— 7,51 
A;=+21 ,73 
Axi==—= 3,99 
AT=IMON32 
Asg=4+ 3,83 
Ao=— 11 ;98 
D'altro lato introducendo il valore x, = — 8, 0986 nelle (17), e tenendo 
presenti le (14), si ha 
è = — 80986; èk=—0,000620; èg, = — 10,08; è, = —128/,91 


quindi gli elementi di dimensione della nuova deformata sarebbero : 


pe=0 It = 20828985 piedi — 6348554 


22 NUOVI STUDI 


Si vede dunque che, volendo tenere deformate del genere % > 1 quella 
che meglio si adatta alla regione indiana è una sfera di raggio sopra- 
scritto; ma i residui 3° e 6° del quadro (20) sono molto più forti di quelli 
del quadro (16), appartenendo quei residui alle massime deviazioni. Si 
vede dunque, come anche per questa via, si giunga alla conclusione che 
alla regione considerata si adatta meglio una deformata di genere XK < 1, 
anzichè una di genere % > 1. 

5. Si è poi voluto investigare più da vicino la quistione del forte va- 
lore di è), trovato nel $ 

Perciò si è lasciata indeterminata l’incognita che vi si riferisce, cioè 
a dire a,. 

Il sistema ridotto relativo ad x, indeterminato, è : 


350, 95852 a,— 888, 81394 x,—4, 90236 4+-[2238, 62824—1, 31739 2,]=0 
12, 26874 +8, 29569 #,+[ ia 35282 x,]=0 
@1) 4, 27048 «,-4+[ 30, 87198—0, 87159 x,]=0 


le cui radici sono 


xe, =— 5,613 + 1,4553 x, 
(22) xt, = + 0, 28364 + 0, 57430 x, 
o=—- 1,22 — 07,20 TE, 


e per le (14) 


(23) è = — 57613 + 145, 5 30); èk = 0, 000284 + 0, 000057 dw); 
Mi 2220000, 
Si vede, intanto, che se vogliamo piccoli spostamenti in è7,, la nuove 
deformata resta del genere % > 1. Ma ad ogni modo, se si calcolano i 
residui in questa forma, avremo : 


MEI 00589 
a, =+ 10,014 0,0163%, 
A, =-+16,07+0,0573%, 


= 8590110, 
(24) A,=— 4,704+0,0303%, 
A; = + 24,49+ 0,047 è2, 
A, =— 8,19—0,0563%, 
EZIO di. 
Aj =— 9,48—0,027d7 
Ao=— 3,464+0, 03T%%, 


SOPRA UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 25 
Per èe,=0, obbligando cioè la deformata a spostarsi solo nel senso 
del meridiano, i residui sono più forti di quelli che vengono nel modo ge- 
nerale : per attenuarli si vede che bisogna dare a 'èv, un valore forte, il 
che conferma come non si possa evitare un sensibile spostamento della 
deformata nel senso del parallelo. Ci riferiamo quindi all’ osservazione 
fatta in fine del $ 3, attendendo di poter conoscere i dati di longitudine *. 


. 


Palermo, 1899. 


* Crediamo utile riferire che ad espletare le ricerche coi dati disponibili si sono ri- 
fatti i calcoli tenendo arbitrario il è 4, € si è giunti a conclusioni sensibilmente con- 


cordanti con quelle dei $$ precedenti. 


farci 
ISO 


Atei risse 


9 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 


> 


MEMORIA LETTA NELLA TORNATA 
della R. Hecademia di Scienze, lettere ed Arti 


del 16 Aprile 1899 


DAL SOCIO 


D." ANTONINO URSO ORTEGA 


Vice-Presidente della R. Accademia di Scienze Mediche. 


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ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 


Honni soit qui mal y pense. 


Antico e moderno è detto delle cose, è detto degli uomini; delle prime 
sempre con rispetto e venerazione, dei secondi spesso con disprezzo e 
con disdegnoso obblio ! 

Ed è strano, o Signori, assistere ognî giorno al fatto che, se per caso, 
tra vecchi ruderi si ritrovi un capitello, un frantume d’arco, un pezzo 
di colonna che, anche lontanamente, rammenti una circostanza sola 
d'una memoria storica : la cosa mena subito rumore, eletti ingegni vanno 
sul luogo e li cercano quei frantumi, li riuniscono, e se occorre impe- 
discono la demolizione dell’antico, che pur dovea dar lustro al moderno: 
quando anche non si pensi a ristorare quella cosa vecchia, a riprodurla, 
per il solo piacere di tornare ad ammirarla, di vederla rivivere. 

Però per l’uomo già divenuto adulto, qualunque sia stato il suo pas- 
sato, non importa lo splendore di cui si sia circondato: non vale l’u- 
tile che abbia arrecato, di lui si dice : oggi è vecchio; vuol dire conce- 
detegli soltanto di morire ! 

Oh, perchè dunque tanta differenza tra cose ed uomini ? 

Sta il fatto realmente nei progressi della scienza, 0, che forse questa 
scienza, nei tempi che si chiamano antichi, non progredì mai? ovvero 
questi progressi son poi tali, che un uomo, perchè nato prima di essi, 
non possa studiarli, abbracciarli, seguirli, e bisogna assolutamente, che 


4 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 

muoja prima e rinasca poi; acciò divenga un altro uomo, diverso da 
quello che fu e da quello che è? Eeco quanto da un pezzo rumino 
nella mia mente e in vario modo rifletto; tanto da farmi nascere vivis- 
simo il desiderio di conoscere perchè questo progresso, il quale fa tanto 
bene, per la sua sola realtà, non possa vivere mai, senza distruggere, 
senza ammazzare 2 perchè soltanto debbano farlo circondare di stragi e 
di lutti ? 

L'argomento è assai delicato ed altrettanto difficile: mi sarà possibile 
svolgerlo come conviensi ? Ne dubito molto: ma mi proverò. 

La scienza ha progredito e molto; e chi osa negarlo o è cieco della 
mente, o mentisce a se stesso. Io mi limito esclusivamente alla parte 
medica di essa, ché non ardisco punto atfacciarmi a cosa altra dello 
scibile umano, perchè la vertigine del movimento mi farebbe pagare 
assai cara la mia presunzione. 

E che abbia progredito lo dicono del modo il più patente i risultati, 
che in tante intraprese chirurgiche, ed in tante cure mediche, oggi si 
hanno con maggiore facilità ! 

Il ventre è aperto per una operazione chirurgica, o alle volte per 
l’affermazione di una diagnosi semplicemente; si richiude poi e purchè 
si sia ottemperato a taluni metodi rigorosi, di una forma o di un’ al 
tra: al quarto giorno la cicatrice è completa, senza una goccia di pus! 
Questo fatto non si otteneva prima, o almeno assai di rado, mentre 
oggi è comune; dunque vi è progresso. 

‘Una donna gravida è scoverta viziata di bacino: e secondo il srado 
di vizio e secondo l’età della gravidanza : dai semplici consigli igienici, 
per riguardo alla nutrizione della madre, in faccia allo sviluppo del 
feto; al parto prematuro; alle operazioni demolitive del feto; alle cesaree 
di Sànger o di Porro, vi sono tanti gradini salutari da ascendere: tante 
vie ragionate da battere che segnano altrettanti progressi reali, che in 
verità ha ‘fatto la scienza. i 

Un accesso di perniciosa si ripete con pericolosa celerità; un avvele- 
nato si rifiuta ostinatamente ad ingojare il controveleno; una sincope 
minaccia di togliere rapidamente la vita; lo stato degli intestini non 
permette la somministrazione di rimedio alcuno, per la via ordinaria 
della bocca; una feroce infezione sifilitica deturpa e devasta sorda ai 
rimedii consueti; ebbene la siringhetta di Pravaz, per la medicatura 
sottocutanea, è là, pronta a rimediare, malgrado la volontà del malato, 
la rapidità dell’accesso, le intolleranze intestinali, la violenza del male! 

Questi sono reali progressi dei quali la scienza va superba. 

Esempii potrebbero accumularsi l'uno sull'altro, dimostrando aperta- 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 5 
mente, come di perfezionamento in perfezionamento si sia arrivato ad 
ottenere dei risultati ognora più brillanti nell'esercizio giornaliero della 
medicina. Però nè si ha il diritto di ritenere che quanto una volta si 
fece, fu sempre mal fatto, né quanto oggi si fa sarà sempre perfetto ; 
né perciò non subirà in appresso dei mutamenti, i quali dovranno rite- 
nersi delle utopie, sol perchè nella forma contradicono a certe maniere 
di fare, comunemente diffuse e venute in uso. 

Nulla è immutabile in medicina ; tutto anzi va soggetto a trasforma: 
zioni, a seconda dei tempi nei quali si vive. 

Il microbismo, il mondo degli infinitamente piccoli, resi ‘oggi visibili 
dai potenti mezzi di ingrandimento, che i progressi dell’ottica ci forni 
scono, dà valida spiegazione di cose, che gli antichi intuirono, ma che 
non potevano interpretare, perchè non ne ebbero i mezzi. Loro man- 
cavano i buoni microscopii, nè essi potevano pensare ai modi di colo- 
razione dei preparati, che erano assolutamente ignoti. Però questi antichi 
intuirono e si misero in guardia contro questi agenti occulti e col lin- 
guaggio dei tempi, tutto ammassarono in una parola e dissero cireum- 
fusa! Circumfusa tutto abbracciava e quanto si può trasmettere e quanto 
si può assorbire; e rappresentava una grande parte della patogenia di 
infezione. Gli antichi non potevano darsi ragione dei modi di succedere 
di talune auto-infezioni intestinali, causa di malattie. Che meraviglia ! 

Pasteur non era ancor nato e non si era ancor dimostrato il movi- 
mento animato delle fermentazioni, dovuto a microorganismi; nè vi era 
stato alcuno, che avea ideato la secrezione di sostanze attive, da parte 
di infinitamente piccoli, che oggi, per comodità di spiegazione, per faci- 
lità di interpretazione chiamiamo tossine; ma aveano perfettamente 
intuito che sostanze ingerite poteano arrecare gravi danni all’ essere 
uomo e si espressero abbastanza chiaramente colla parola <ngesta. La 
parola gesta per loro era già il punto di partenza di tante cause di 
avvelenamento dell’organismo umano. 

E nei circumfusa e negli ingesta troviamo abbastanza accennata la 
necessità della esistenza di una secrezione, di una escrezione, di una 
produzione tossica, capace di avvelenare ed uccidere un organismo 
animale, la tossina, che gli antichi di una maniera più ingenua, sia 
pure, ma egualmente intuitiva chiamarono, materia peccans. La videro, 
la dimostrarono gli antichi questa materia peccans ? 

Permettetemi: esattamente come oggi vediamo le tossine. L'una e le 
altre sono due concetti della mente, che rivelano intendimenti perfet- 
tamente eguali. 

Chi dunque può assicurarvi che domani queste tossine, da altri espe- 


» 


6 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 

rimenti, da dimostrazioni diverse, da intuizioni differenti dell’ umano 
intelletto, non vengano ad essere ben altrimenti interpretate e presen- 
tate da concezioni variate, le quali dimostrino, che debba pensarsi ed 
esprimersi in una maniera totalmente nuova sul loro essere e svilupparsi ? 
Ed allora che cosa avverrà delle tossine condannate a raggiungere la 
loro vecchia parente, la materia peccans ? 

Non lasciando questo modo di ragionare, dobbiamo tener presente, 
che questi microbi, chiaramente dimostrati dalle odierne ricerche, come 
causa della tale o tale altra malattia, non attecchiscono fatalmente da 
per tutto; no. Ci sono condizioni speciali, individuali, locali o gene- 
rali, le quali contrastano il loro incedere o il loro sviluppo. Tal orga- 
nismo oppone resistenza, come tal altro concede loro ampia facoltà di 
stare e moltiplicarsi; senza contare che sullo stesso terreno, che preso 
d’ assalto, sta per essere soggiogato dal nemico invadente, si combatte 
una lotta accanita per la difesa, sostenuta dai soldati della conserva- 
zione. Sicchè questi difensori contrastano ed annullano la forza e la 
vitalità degli invadenti: e se sono in condizioni tali da resistere e vin- 
cere, distruggono l’azione di quelli e la loro potenza. La malattia non 
è generata, la salute è conservata ! 

Questo è quello che nel linguaggio moderno si chiama /agocitosi : 
cioè azione di attività di certe cellule dell’organismo, mediante l’ajuto 
dei leucociti, le quali di consueto esistenti nell’organismo, innocenti, ma 
vigili, vegliano alla sua conservazione ed impediscono i guasti dei mal- 
vagi, o annientando la loro azione, o distruggendoli. 

A questa condizione, s' intende, occorrono delle disposizioni speciali 
dell’organismo e dell’individuo, per le quali possa spiegarsi e mantenersi 
questa tale resistenza. Ed allora comunemente nel linguaggio odierno è 
detto, che i microbi non hanno trovato un terreno favorevole di coltura, 
perchè nell'organismo quello avviene, che avverrebbe in vitr0 nel gabi- 
netto di un esatto osservatore. 

Ma concedetemi, o Signori, questa fagocitosi, questa deficienza di ter- 
reno di coltura, non sono corrispondenti a quanto gli antichi espressero, 
colle varianti di resistenza organica, di idiosinerasia, di vis a tergo, di 
natura medicatrice e simili ? 

Di certo sì; quando una di queste forze si metteva in azione, la ma- 
teria peccans doveva confessarsi sconfitta e battere in ritirata. 

Il concetto quindi di quanto oggi sagacemente è svolto ed applicato, 
secondo le idee dominanti in medicina, non è che lo svolgimento e la 
dimostrazione di quanto da uomini ammaestrati nello studio delle cose 
mediche fu avvertito di una maniera, permettetemi di dire, spirituale 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA ti 
e non materiale, perchè la mente di quei dotti intui quello che più 
tardi altri forniti di quei mezzi, che i primi non poteano avere, fecero 
vedere cogli occhi e toccare colle mani. 

Questo è frutto di ciò che si chiama progresso, perchè, a credere 
mio, progredire non implica soltanto il concetto di creazione, ma più 
di tutto quello di perfezione, che vale miglioramento di quanto già fu 
capito, spiegato o fatto. do 

Così in pratica spesso quello che una volta si facea si torna a far di 
nuovo, vestito di aspetti diversi, quanto alla forma e producente effetti 
eguali quanto alla sostanza. Prendiamo un esempio pratico, la tisi; 0 
diciamo più chiaramente la tubercolosi pulmonale. 

Fuvvi un tempo in cui questa malattia fu detta seriamente conta- 
giosa; e la paura che un malato tubercoloso destava era tanto radicata, 
da dettare le cautele più severe, per preservarsene. A molti è facile 
rammentare come il tisico fosse stato, subito riconosciuta la malattia, 
isolato del meglio. Lo si lasciava separato di letto, dormire solo in una 
stanza : si riteneva vero atto di abnegazione lo assisterlo da vicino. 
Morto, si avea la massima cura di distruggere tutti gli oggetti che erano 
alui serviti, suppellettili, vestiti etc; nè si sarebbe trovato un individuo 
che volentieri ne avesse indossato gli abiti; anzi se questi richiesti ve- 
nivano donati, non si dimenticava mai la dichiarazione, che eran ser- 
viti ad un consunto. La stanza, che il malato avea abitato era total 
mente rifatta a nuovo nella volta, nei muri, nel pavimento, colla ra- 
schiatura e pittura delle pareti e delle imposte. Non era nuovo, nè sor- 
prendente il caso, che degli oggetti di suo uso si fosse fatto un gran 
falò in una pubblica piazza. E si era tanto severi nell'esecuzione di questi 
doveri, che a parte della grande difficoltà che la famiglia del tisico incon- 
trava a ritrovare una casa da fargli abitare, morto lui, questa famiglia 
era obbligata, senza bisogno di sentenza del magistrato, alla completa 
rifazione almeno della stanza che lo albergava. Tanto era generalizzata 
questa consuetudine, che ai ritrosi bastava un solo cenno del commis- 
sario di polizia. Queste credenze, queste usanze erano comunissime qui 
in Palermo, né alcuno vi si ribellava. Il mostro ospedale civico avea 
una sezione di medicina a partè per questi malati di petto, ed esisteva 
un ospedale speciale per loro. 

La contrada dell’Olivuzza, che come locale di mite temperatura era 
prescelta, come villeggiatura per questi ammalati, destava un vero 
terrore, per le abitazioni che forniva. 

Certo queste abitudini erano la conseguenza di un decreto reale del 
re di Napoli e Sicilia, dato ai 19 di luglio 1782, (cento anni prima della 


$ ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 

scoperta di Koch). Questo decreto, dietro i pareri di Cirillo, Cotugno ete. 
obbligava ogni medico, al quale fosse accaduto di curare un malato 
affetto da ulcera del pulmone, a farne subito dichiarazione all'autorità 
competente, sotto pena di multa di 300 ducati, e di dieci anni di esilio 
in caso di recidiva. I malati poveri venivano curati allo spedale; i loro 
indumenti , rigorosamente custoditi in luogo appartato, per poi essere 
disinfettati o bruciati; appMcando gravi multe a chi li avesse dolosa- 
mente venduti o comprati. Le loro case disinfettate e rifatte nei pavi- 
menti e nei muri; le porte e le finestre bruciate; e non si permettea 
che altri le abitasse , se non trascorso un anno di tempo. Queste mi- 
sure si tennero in vigore fino oltre il 1848; ed eravamo in epoca di 
tirannide e di barbarie ! 

Però, siccome alle volte avviene, che le cose buone sono, per sem- 
plice spirito d’innovazione, alterate o distrutte; queste sanissime misure 
per quanto si fossero volute chiamare vessatorie, ebbero anche a dar 
di volta e scomparire. 

Jo rammento che nei primi anni del mio esercizio, qualche spirito 
dottrinariamente bizzarro, ebbe la strana idea di contrastare queste cre- 
denze, dichiarando che quella malattia non contagiava, facendo venir 
meno alle pratiche fino a quel tempo in uso. Ne sorse una schiera di 
giovani medici, che seguirono queste idee; ed io non esito a sospettare, 
che tali innovazioni fossero state una delle cause di maggiore diffusione 
della malattia tra noi! 

Quale atroce rimprovero non dovea essere più tardi la brillante sco- 
verta del bacillo di Koch! Fra noi chi sarebbe lo stolto che volesse fare 
appunti alla scoperta, oltremodo dimostrativa, del dotto tedesco ? Forse 
qualche volta torna a grave pregiudizio del malato, l’esame dello sputo 
che fa rinvenire il tremendo bacillo, poichè troppo presto, innanzi & 
questo infinitamente piccolo , spesso il medico piega le braccia, vinto 
dalle sue fatali convinzioni! Così anche gli antichi faceano innanzi al 
caratteristico sputo nummulare e forse, malgrado tutti gli esperimenti 
moderni, così per lungo tempo ancora faremo noi d’oggi e i futuri faranno! 
Speriamo che il progredire e l’ estendersi degli esperimenti, colla mo- 
derna terapia, in questa ed in altre malattie, ci forniscano in appresso 
mezzi più efficaci di quelli fin qui usati per salvare i poveri malati ! 
Il bacillo di Koch, vera dimostrazione scientifica, in oggi, della tuber- 
colosi, di certo, o Signori, non venne spontaneo nella mente del dotto 
tedesco; ma fu il tempo che maturò dippiù le conoscenze che si aveano 
sulla tubercolosi. 

Lo studio dell’ ascoltazione, rese sempre più dimostrative le osserva- 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 9 
zioni cliniche e le determinazioni delle lesioni prodotte dalla malattia 
tubercolare. 

Laennec fece fare tali progressi ai metodi di esplorazione, che in oggi 
questo nome ha dovuto necessariamente serbare nella storia della me- 
dicina, quel posto che allora si conquistò; nè ci sarà certamente medico 
nel mondo, che prendendo lo stetoscopo, non ricorra colla mente a quel 
sommo, per il solo piacere di pensare, che visse nei tempi che furono. 

Secondo Laennec, a dire di Nisten, il tubercolo, che non è più con- 
siderato da alcun autore come una semplice trasformazione di tessuto 
degenerato, sarebbe un tessuto nuovo, un tessuto accidentale, senza 
‘analogia nello stato sano, sviluppato totalmente per epigenesi; vuol dire 
in modo che nulla di esso fosse esistito prima della sua formazione. 

Alle nozioni degli antichi sul tubercolo, succedono gli studî sulla forma 
di granulazione e queste nozioni, palesate da Laennec, hanno maggiore 
sviluppo con Andral; indi Villemin ripiglia la quistione e in queste forme 
tubercolari e granulose ammette la preesistenza di un agente causale 
specifico, di un virus residente nei prodotti morbidi, che genera sugli 
elementi dei tessuti sani, riproducibile negli organismi, nei quali si 
introduce. 

Con ciò quindi abbiamo una idea di alcun che di specifico nella for- 
| mazione della malattia, che Villemin chiama agente causale specifico; 
e per ciò che concerne la sua riproducibilità nei tessuti sani, vi è tanto 
che parla in favore della contagiosità della malattia. Allora si fanno 
delle ricerche sulla prova della. contagiosità del male; e tra gli altri 
Hérard e Cornil sperimentano sui fatti d’inoculazione dall'uomo al coni- 
glio e trovano, che la granulazione ‘prodotta dalle lesioni tubercolari è 
la materia specifica inoculabile della tubercolosi, e questo nel 1866. Nella 
stessa epoca Lebert di Breslau, per injezioni sottocutanee produce la tu- 
bercolosi servendosi del liquido contenuto nelle caverne dei tubercolosi. 
Seguendo nella via sperimentale Chaveau di Lione comunica delle espe- 
rienze di Viseur di Arras, il quale propalò la malattia ai gatti per in- 
gestione di sostanze tubercolari : ciò nel 1874; malgrado che Luigi Car- 
pani non trovi ancor risoluta la quistione della contagiosità e virulenza 
della tubercolosi e che Metzquer neghi ogni specificità e contagiosità di 
essa. Pio Foa, nel bullettino delle scienze mediche 1876, riguarda il tu- 
bercolo come un succedaneo-della pulmonite caseosa, che nulla ha di 
specifico e di inoculabile, non essendo che un neoplasma di origine con- 
giuntivale, privo di vasi, non rappresentante una unità clinica ma isto- 
logica. 

L'uso migliore del microscopio e i suoi perfezionamenti fanno pure 


10 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 
parlare Cornil dell’esistenza nel tubercolo di cellule giganti, da lui inter- 
pretate come tagli di vasi sanguigni obliterati più o meno ectasici; men- 
tre Malassez le spiega come. elementi arrestati nel loro sviluppo, forse 
delle cellule vaso-formative. 

Su queste cellule giganti non tardava a comparire una opinione di 
Lubinoff, negli archivî di Virchow, che dichiarava potere queste risul- 
tare dalla trasformazione di elementi cellulari di natura -differentissima. 

Questo cenno, veramente a volo di uccello, sulle progressive osserva- 
zioni fatte sulla tubercolosi, non tende da parte mia a dimostrare altro 
se non che le ricerche si danno la mano per andarsi perfezionando; e 
che una osservazione portandone un’altra, si va migliorando nelle inter- 
pretazioni dei concetti, che poi diventano spiegazioni di fatto e prove 
palpabili. 

Senza queste nozioni antiche non ci sarebbe oggi la conoscenza mo- 
derna del bacillo, il quale colla coltura e colla riproduttibilità per mezzo 
degli innesti, non ammette più dubbio circa alla trasmissibilità del male 
dall’animale all’uomo e viceversa. Diversi animali sono stati trovati ca- 
paci di venire contagiati dal tubercolo e financo Toussaint nel 1880, si 
spinge a far sapere che gli stessi majali possono essere toccati dalla 
malattia e che la difficoltà che si ha di rinvenirli tubercolosi sta nel 
fatto che essi prendono la forma galoppante, la quale li uccide in bre- 
vissimo tempo, prima che possano cadere sotto la osservazione. E siamo 
pur giusti e riverenti agli sforzi fatti dagli antichi, senza mezzi e senza 
prove, per sola intuizione della mente. 

Bayle nel 1810, in varii scritti sulla tisi, comunicati alla Società della 
Scuola di Medicina di Parigi, per comodità di studio, divide la tisi pul- 
monale in sei specie distinte; tisi tubercolosa, tisi granulosa, tisi con 
melanosi, tisi ulcerosa, tisi calcolosa, tisi cancerosa. Come si vede, egli 
passa in rivista clinica tutte le fasi, che poteva allora contemplare l’ana- 
tomia patologica nella detta malattia. 

E veramente naturale, ed è quello che voglio far risaltare alla mente 
di chi mi ascolta, come egli fin d’allora abbia manifestamente dichiarato, 
che questi processi morbosi non poteano soltanto essere il prodotto di 
una forma infiammatoria, ma che i tubercoli erano probabilissimamente 
una malattia speciale e primitiva; che una infiammazione qualunque 
del petto non bastava a produrli. 

Seguitando a studiare questo punto, prende a confronto le malattie sifi- 
litiche e con un fine ragionamento conchiude che, come non basta la 
infiammazione a generare una malattia sifilitica, così, senza una predi- 
sposizione dell'individuo e senza un principio particolare, una specie di 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 1l 
virus proprio, non possa ritenersi possibile lo sviluppo della tubercolosi, 
la quale secondo lui, più che ad infiammazione ubbidisce all’azione di 
un virus speciale, come speciale è quello della sifilide e che dice chia- 
ramente, nello stato attuale delle conoscenze scientifiche, non essere pos- 
sibile spiegare. 

Vedete dunque, o Signori, con quanta chiarezza di concetto e di lin- 
guaggio al 1810 è stata precorsa la teoria di un male, che tanti anni 
dopo dovea chiaramente dimostrarsi specifico per la scoverta del bacillo! 

Tutto questo ho voluto richiamare alla vostra memoria, sol per farvi 
tenere presente, come le conoscenze in medicina si succedano e si per- 
fezionino; e tante cose, anzi tutte, non sarebbero oggi quelle che sono 
se non fossero state quelle che furono. 

Senza le intuizioni degli antichi non sarebbero venuti successivamente 
né Morgagni, né Cruveilhier, nè Andral, nè Virchow, nè quanti altri 
oggi microscopicamente illustrano la macroscopica anatomia patologica 
antica ! 

Per il lato delle precauzioni, in che cosa differisce l'antico dal moderno? 
Ogni epoca disinfettò a suo modo e con eguale interesse; e quello che 
oggi si fa è forse più di quello che fu legge, per riguardo alla tuberco- 
losi, più di cento anni fa ? Per riguardo alla cura? Malgrado i tentativi 
di Koch e di Maragliano, la terapeutica del male ha lasciato il risultato 
clinico allo stesso punto in cui gli sforzi di oggi lo trovarono; sicché 
Jaccoud in una sua-lezione sulla tubercolosi, pubblicata al 1884 nella 
Gazzette des hOpitaur de Paris, osserva che la scoperta del Koch, nulla 
ha cambiato quanto alla igiene ed alla terapeutica della tubercolosi: e 
questa osservazione sventuratamente fin qui non è stata smentita ! 

£ qui potrei di certo fermarmi ritenendo questo esempio abbastanza 
dimostrativo della mia tesi; ma sarebbe oggi ingrato, chi, senza pedan- 
teria, non sì intrattenesse alquanto delle varianti e dei progressi delle 
medicature chirurgiche e perciò dell’antisepsi e dell’asepsi; due dottrine 
che veramente sono venute l una dopo l altra a portare infiniti bene- 
fizii nei trattamenti delle cose chirurgiche. 

Due grandi genî sorgono giganti a beneficare la medicina: Pasteur 
che, pur non essendo medico, additò ai medici sentieri non mai prima 
battuti, e Lister che risolutamente ve li condusse. 

Due veri ed imperituri patriarchi delle moderne innovazioni, ai quali 
non mancherà, forse mai, quella venerazione che oggi, debitamente loro 
sì tributa ! Colle fermentazioni del lievito di birra Pasteur parlò di micro- 
organismi viventi generatori di quei mutamenti che producono quegli 
effetti; ed in seguito a questi concetti e cogli ulteriori studii sul colera 


5) 


12 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 
dei polli e sulle malattie carbonchiose dei montoni, egli schiuse la via 
agli studî bacillarî, alle colture ed alle inoculazioni dei principî pro- 
duttivi delle malattie; cose tutte delle quali han saputo trarre largo 
profitto i patologi. 

Ed allora scosso il grande genio di Lister, pensò che ricorrendo ad 
un prodotto della serie carbolica, si poteano perseguitare gli infinita- 
mente piccoli, nocivi all'organismo umano, per paralizzarne e distrug- 
gerne l’azione. Sicchè dando larga accoglienza, all’acido fenico, con appo- 
sito metodo occlusivo e protettivo, con grande sorpresa dei chirurgi, 
ottenne delle costanti riunioni di prima intenzione. 

Scemò prima, scomparve poi per incanto la suppurazione dai fatti 
chirurgici, e la membrana piogenica e la qualità di pus lodevole e di 
buona condizione, strenuamente descritte e studiate dai trattatisti di cose 
chirurgiche, fino alla recente epoca di Ranzi e Regnoli, in brevissimo 
tempo rimasero puri ricordi storici. 

Addio unguenti e linimenti di ogni sorta; addio cerato del Galeno; 
addio grassi animali, depurati o no; ritiratevi e cedete il passo ai grassi 
minerali, dei quali la vasellina rimane principe! Non più cerotti ade- 
sivi, che, infiammando la pelle favorite i processi resipolacei; date il 
posto alle semplici suture; non più medicature a cielo aperto; ma ocelu- 
sioni totali, estese, complete delle piaghe e delle ferite e voi magnanimi 
Velpeau e Malgaigne non sostenete più l'innocenza dell’aria atmosferica 
sulle ferite e sulle piaghe; né vogliate più aggiungere che agli animali 
senza medicature, risanano pure le piaghe esposte all’ aria e da essi 
leccate, o trattate colle sperimentali insufflazioni sottocutanee d'aria. 

E tu venerando e centenario mercurio, va dunque superbo delle tue 
antiche vittorie sulle flogosi, a dispetto del tuo pericoloso e giovane 
rivale, il ghiaccio; dacchè, un prodotto delle tue viscere, la tua quin- 
tessenza, il sublimato, è passato avanti, ha debellato l’acido fenico, ha 
annientato i suoi succedanei, regna autocrate, sovrano assoluto contro 
le infezioni; comunque in verità coi vantaggi sì, ma coi pericoli altresì 
del regime dei monarchi assoluti. 

Di medicamenti, di sostanze antisettiche, di persecutori dei microbi, 
ve ne ha uno stuolo abbastanza numeroso, che sarebbe inutile far pas- 
sare schierato innanzi i vostri occhi. Adunque la guerra dichiarata agli 
infinitamente piccoli è sostenuta con ardore e spesso con vantaggio; la 
cosidetta antisepsi è il perno della credenza e gli sforzi crescono per 
perseguitare e snidare i distruttori dell’organismo. 

Ma alle volte questi sforzi sono vani e lo scopo sventuratamente non 
si ottiene, perchè i nemici si sono insinuati, si sono moltiplicati, hanno 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 13 
invaso i linfatici, sì sono precipitati nel sangue ed il torrente della cir- 
colazione li trasporta, li spande negli organi varî del corpo e si pro- 
ducono in punti, anche lontani dalla porta di entrata quei varî depo- 
siti di pus e di siero, che furono perfettamente conosciuti dagli antichi, 
sotto il nome misterioso di metastasi, cioè di trasporto. Metastasi che 
essi accettavano come un fatto compiuto, come risultato noto di un 
andamento ignoto di cose delle quali non poteano spiegare lo strano 
procedere e che pur capirono fosse la conseguenza di un assorbimento. 
‘Assorbimento di che ? di pus? ma come mai poteano i globuli del pus 
attraversare i finissimi capillari, quando già il microscopio avea fatto 
conoscere che i globuli del pus erano più grandi di quelli del sangue ? 

I nostri vecchi, antichi, si dovettero contentare di accettare il fatto che 
conobbero, ma che non poterono spiegare; perchè ancora a quei tempi 
il microscopio non avea potuto far passare davanti ai loro occhi la 
numerosa falange degli infinitamente piccoli, colle loro varie uniformi 
di diplococchi, gonococchi, stafilocrocchi, streptococchi etc. 

È dunque, o Signori, non il fatto conosciuto di oggi, poichè esso era 
stato già notato e seguito; ma è la spiegazione di questo fatto, che 
appartiene al tempo di oggi; mediante i mezzi che si posseggono, le 
interpretazioni che si fanno, le spiegazioni che si danno. Questo al certo 
si chiama progresso ed il fatto è innegabile, ma non per questo queilo 
che fu si deve chiamare decesso, mentre come fondamento e base esso 
vive e palpita tuttora. 

Però l’ingegno dell’uomo a questo non si è arrestato e passando più 
avanti e sempre meglio riflettendo e pensando, ragionò così: Se questi 
infinitamente piccoli penetrano dannosi nell'organismo; se non sempre, 
una volta entrati, può esser facile cacciarli o distruggerli; e perchè non 
si chiude loro la porta di entrata? Vietate l'ingresso e non avrete i 
danni avvenire. Sicché rendete puro tutto ciò che deve andare in con- 
tatto con l’operando; l’ambiente, i vostri indumenti, i vostri strumenti, 
il campo operativo, i pezzi da medicatura; bollite l’acqua, diminuite il 
numero degli assistenti; disinfettate, sterilizzate, bruciate, tutto sarà 
innocuo, puro, netto, secondo il senso medico, e sarete sicuri del risul- 
tato. Tutto ciò accettato, si è fatto um secondo passo avanti nel progresso; 
è nata l’asepsi, cioé, la negazione delle infezioni, cioè la custodia dell’or- 
ganismo, cioè la più rigorosa contumacia a favore dell’operando. 

Stando alla lettera, la vera asepsi, nello stretto senso della parola, 
non è possibile; uno starnuto, un colpo di tosse, l’aria stessa forse, pos- 
sono nuocere a tutto il preparato. Ma questa non è ragione perchè non 
piegassimo, rispettosi, muti e credenti, il ginocchio innanzi ad un prin- 


14 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 
cipio, che per l’epoca in cui viviamo, e secondo le credenze di questa 
epoca, ha dato e dà risultati brillantissimi. 

Venga domani un altro sistema, distrugga queste attuali credenze, ma 
la generazione che vedrà cose diverse, oh non passerà certo deridendo 
le nostre tombe, ma sarà obbligata a dire : furono veri credenti e convinti! 

Volgiamo ora lo sguardo un istante a tempi molto antichi e ritrove- 
remo, che l’idea di un veleno, che potesse accrescere il pericolo di danni 
all'organismo nelle piaghe e precisamente nelle ferite d'armi da fuoco 
avea posto radici così profonde nelle menti di quelli d’ allora, che per 
maggior rimedio fu tanto in uso di versare dell’olio bollente sulle dette 
lesioni. 

Fu detto che Ambrogio Pareo, il francese, fosse venuto a distruggere 
questa pratica: basta però percorrere la storia della Medicina in Italia 
del De Renzi per ritrovare nel suo terzo volume, come Pareo, giovane 
dai 19 ai 22 anni, venuto in Italia colle armate francesi, vi avesse ap- 
preso ciò alle nostre illustri scuole di quell’epoca. Ed in fatto, assai prima 
di lui, Ferri e Maggi, diedero precetti molto chiari sulle legature delle 
arterie nelle ferite, sul modo di' praticare le amputazioni e sulla maniera 
blanda di curare le ferite d’archibugio e di schioppetti, di estrarne le 
palle, di allargarne i tramiti. Questi italiani dichiararono che le ferite 
d’armi da fuoco, non erano avvelenate dalla polvere da sparo, né bru- 
ciate dalla palla; ma bensì erano lesioni gravi, per effetto della con- 
tusione che riceveano, alla quale era dovuta 1 escara che si formava 
sui tessuti colpiti. Ed anche Haller e poi Portal dimostrarono chiaramente 
come Pareo, il salvato dalla strage di S. Bartolomeo, non ostante calvi- 
nista, per volontà di Carlo IN (che lo fece custodire nella sua stanza, 
durante la notte fatale), venuto a studiar giovanissimo in Italia, sì era 
appropriato quello che ivi avea appreso. 

Poco dopo quell'epoca e nei primi del 1600, Cesare Magati da Scan- 
diano, modificava grandemente la cura delle ferite, respingendo le me- 
dicature che interponevano in quelle dei corpi estranei e degli unguenti; 
e promulgando la legge, che tali lesioni, protette dall’aria e trattate con 
medicature rare, guarivano più presto e più facilmente, non essendo 
disturbato il processo, che la natura usa per la loro cicatrizzazione, anche 
nei casi di corpi estranei, allorquando le manovre necessarie alla loro 
estrazione doveano accrescere i danni delle lesioni medesime. 

Saggi precetti dettati circa trecento anni prima dell’epoca in cui noi 
viviamo e che riveduti e corretti, ci tornano oggi vestiti alla foggia della 
moda nostra. E per lungo tempo limitossi la medicatura ad usare blandi 
unguenti, come il vecchio cerato di Galeno, spalmato sulla filacciea. Le 


. 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 15 
suture nelle ferite non erano dimenticate e ci fu un tempo come rile- 
varono nel 1840 De Rensis e Ciccone, che se ne abusò ‘troppo: tanto 
che Pibrac e Cooper ebbero a dire, che sarebbe stata più vantaggiosa 
la loro abolizione; mentre Velpeau, che riprendea la quistione, le ritenne 
utili, ma non sempre indispensabili; ed in faccia alla fiducia estrema 
che loro aveano accordato Delpech e Gensoul, disse che Serre avea ben 
compreso il loro valore, limitandone l’uso ai casi, nei quali urgea la 
riunione di prima intenzione. 

Ma il regno della filaccica, la quale, in parentesi, non era la cosa la 
più pulita, non dovea essere eterno. Il cotone cardato facea la sua com- 
parsa, non sprezzato dal Velpeau, già usato da Anderson in America, 
e poi accettato da Larrey e Mayor. Più tardi gli inglesi ebbero a pre- 
ferire il Zint, specie di tessuto con una superficie a peluria : la seta, la 
lana, le spugne, l’agarico furono anche proposti. 

Ma già si ripensò che la presenza dell’ aria sulle piaghe era nociva, 
malgrado le denegazioni di Velpeau; ed ecco nel 1836 Giulio Guérin 
colla sua medicatura ovattata o pneumatica, ripresa più tardi da Alfonso 
Guérin; mentre Gosselin e Ollier nel 1875 dichiarano, che in quelle me- 
dicature aveano trovato germi; ciò che forse al 1877 avea fatto mettere 
in dubbio il valore della stessa medicatura a Barbosa di Lisbona. Già 
si era pensato a dar libero scolo alle secrezioni delle medicature da Chas- 
saignac col suo drenaggio o fognatura delle piaghe; e poi Netter avea 
preferito delle medicature asciutte spolverate di canfora. 

Il regno degli unguenti era minacciato e Burggraeve di Gand rico- 
priva le ferite, anche le operatorie con lamine di piombo. Verso il 1890 
Le Fort preferisce l’uso dell’alcool canforato ai varî unguenti : e quindi, 
dietro i concetti di Pasteur, l’acido fenico è proposto da Lister, con una 
medicatura antisettica, prima più complicata, ora più semplice. 

Lucas Championnière la porta trionfante in Francia: questa medica- 
tura vince in Italia, regna in Germania, domina nel mondo: siamo in 
pieno progresso; il moderno ha vinto, l'antico è distrutto ! 

utile, o Signori, che io vi racconti le vicende dell’acido fenico, già 
soprattatto da altri contendenti, tutti della sua medesima discendenza; 
esiliato per opera del sublimato e questo a sua volta attaccato di fronte 
da preparati meno pericolosi, poi sostituito dalla semplice acqua bollita. 

Voi siete tutti della mia epoca; di questa epoca sapete le condizioni; 
ed or che anche i giornali politici, ad ogni piè sospinto vi parlano scienza, 
talvolta pur profanandone il tempio; ne sapete tanto da imbarazzare noi 
medici, così come alle volte, e non di rado, ci intralciate l’ andare in 
cose che forse lasciate al nostro criterio, andrebbero più semplici e meno 
ampollose ! 


16 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 

E qui fermiamoci rispettosi e riconoscenti innanzi al glorioso ed im- 
mortale monumento innalzato dalla storia al genio di Lister, che fu il 
vero capo del movimento attuale. 

Eppure chi lo avrebbe mai detto, che sotto i suoi occhi, dalla stessa 
Inghilterra, sarebbe a breve distanza sorta una corrente, che ha tentato 
di annientare il sistema e di dimostrare la non necessità del suo essere! 
Ebbene la storia contemporanea registra anche questo fatto! Forse si 
sarà voluto mettere in evidenza, che non la sola antisepsi ed asepsi con- 
corrano ai buoni risultati, ma che vi hanno pure la loro parte e la mag- 
gior precisione data ai processi operativi ed i grandi miglioramenti recati 
all’emostasia temporanea e permanente, perchè anche questa, colla più 
esatta chiusura dei vasi sanguigni, toglie l’entrata a tanti assorbimenti, 
che bastano da soli a generare inconvenienti gravissimi. Ed anche a 
questo punto ricordiamo con grato omaggio l'illustre nome di Péan. 

Or dunque, o Signori, non vi pare che il nuovo non sia che una con- 
seguenza del vecchio ? Senza il vecchio non ci sarebbe il nuovo, come 
senza il padre non ci è il figlio. 

Ed è autorizzato il figlio a diventar snaturato , disprezzando 1’ opera 
del padre, vituperandone la memoria ? 

I concetti di oggi non sono sempre nuovi: la base di questi concetti 
ci fu data spesso dai nostri antichi; a noi oggi idee più ampliate, dimo- 
strazioni più possibili, mezzi più attuabili, han fatto migliorare metodi 
che forse intraveduti prima, oggi sono resi di facile e comune inten- 
dimento. 

Niente ci costringe a rinnegare il passato innanzi al presente. Chi ose- 
rebbe dimenticare i nomi di Volta e di Francklin, sol per magnificare 
le estese applicazioni dell’ elettricità dei nostri tempi, fino all’ introdu- 
zione dei raggi di Roentgen ? E ben dicea Cabanis, nella sua storia della 
medicina, come fa osservare Pouchet « la vera filosofia della scienza, deve 
bandire l’inquietudine della novità; questo bisogno di annientare i lavori 
dei predecessori; questa attività tumultuosa, che conduce incessantemente 
taluni uomini a ricominciare tutto sopra piani nuovi ». 

Mi ha fatto sempre un senso di grande pietà, il vedere con quanta 
facilità, in fatto dello esercizio della medicina, si levi la voce a gridare, 
questi è della scuola antica, che varrebbe quanto dire alla gente: diffi- 
datene, egli non sa e non seppe! Che vuol dire scuola antica e scuola 
moderna, innanzi a quello che da giovani ed inesperti è chiamato pro- 
gresso ? Oh, che forse oggi soltanto, epoca vertiginosa di pubblicazioni, 
soverchiamente abbondanti, spesso inutili, sovente dannose, l’ uomo 
alquanto più provetto, se studioso, non è capace di tener dietro alle no- 
vità del giorno, estraendone soltanto ciò che vi ha di sano e di utile ? 


ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 17 

Credono i giovani, che anche pei padri nostri non sia stato possibile 
assistere alla decadenza di Brown, per arruolarsi sotto le bandiere di 
Broussais ? credono che noi nati sotto gli echi di Broussais non abbiamo 
saputo vivere vedendo la risurrezione di Brown ? 

Queste sono le così dette epoche in medicina, che anche esse dimo- 
strano, che tutto ritorna e che tante volte nulla vi ha di nuovo sotto 
il sole! Onde spesso sentendo questo fanatico e partigiano vociare di 
antico e moderno, di vecchio e di nuovo, io rifletto e penso, che. tutto 
ciò non sia che un triviale etfetto della lotta per 1’ esistenza, struggle 
for life! 

Oggi, epoca nella quale una mal ponderata estensione concessa all’i- 
struzione popolare, una sventurata tendenza a far sparire qualunque 
rispetto alle forme gerarchiche, tanto necessarie all'ordinamento sociale; 
ha spinto in avanti tanti esseri, che non nacquero per pensare, tanto 
meno per diventare utili alla società, e niente atfatto per reggere; oggi 
che le scuole si sono trovate allagate da studenti di ogni ceto e ten- 
denti ad aspirazioni di ogni sorta, grandi guai ne sono avvenuti. Onde 
cessato l'acquazzone delle maestrine, ne è venuto il diluvio dei professio- 
nisti; e succede che questi nuovi arrivati, dopo tanti anni di studî, non 
sempre proficui per soverchie complicazioni ed estensioni, si presentino 
alle lotte della esistenza senza speranza d’avvenire. 

Associazioni diverse, società di operai e d’ impiegati, case di salute, 
ambulanze e poliambulanze , croci di ogni colore, mettono il giovane 
nella dura necessità di formare bassi intrighi, di scendere ad indegni 
concubinaggi professionali; di mantenere combinazioni vergognose, tran- 
sazioni vituperevoli; modi tutti, che, almeno per l’esercizio nostro, produ- 
cono disonore oscenità e nessun lucro! È necessità quindi, che in tanta 
folla, il giovane più che mai viva della rovina dell’adulto; che egli non 
attenda, che legge di natura gli faccia il largo che gli compete; ma 
ponga mano ad artificî demolitori; e spesso le parole di scuola antica e 
scuola moderna, di vecchio e di nuovo, non servono a segnare i limiti 
del progresso, ma sono soltanto male parole inventate a scopo di sven- 
tramento professionale. 

Vivete, dunque o giovani, baldi di vita e fidenti nell’avvenire; vivete 
nei sani principii di un insegnamento che sappia farvi capire, che i 
nostri antichi anche essi lavoravano con ardore e con coscienza e che 
non meritano il disprezzo ed il perpetuo ostracismo ai quali si vorreb- 
bero condannare. Nelle biblioteche cercate; e scuotendo la polvere tro- 
verete tesori rinserrati in brevi ma succose parole! Sono modeste e 
semplici spesso le loro espressioni, ma sono sentenze, che non trovano 


18 ANTICO E MODERNO IN MEDICINA 
a ridire; sono frutto d’ indagini di menti elette che lavoravano senza 
mezzi, guidate dal loro profondo argomentare, senza materiali dimo- 
strazioni. 

To credo adunque, o Signori, di aver potuto chiarire coi fatti alla mano, 
che questi antichi non furono quegli oziosi ed inetti, che un sistema di 
casta vorrebbe farci di leggieri credere; io credo che tutto non sia da 
distruggere e vilipendere e che quegli antichi abbiano sempre diritto 
alla nostra venerazione ed al nostro rispetto. 

Certo in quei libri non si troverà nè una pagina di microscopia, nè 
un cenno di batteriologia, nè di quanto oggi, progredendo, si è di nuovo 
ritrovato. Ma di chi la colpa se una volta si navigava alla vela ed oggi 
si va a vapore ? 

Diciamolo in coscienza : la parte macroscopica, la descrizione dei sin- 
tomi delle malattie, fu fatta in altri tempi in una maniera solida e du- 
ratura ed esclusivamente ragionando ed osservando al letto del malato 
e sul malato. 

Pochi scriveano, ma seriveano bene e sennatamente e quelle pagine 
dei sommi di allora, si leggevano con frutto e profitto. Oggi molto si 
scrive, troppo si pubblica e spesso un sogno si traduce in segno ed inu- 
tilmente spunta anche una nota cosidetta preventiva, che domani più 
matura riflessione, esame più calmo e mancanza di prove condannano 
ad un necessario obblio! E tutto ciò a danno della vera clinica, la quale 
a sua volta diviene inferma per mancanza di sussistenza ! E bene spesso 
la terapeutica, sol per la smania di farla moderna, si allontana dalle 
sue teorie, si inoltra in terreni pericolosi, si imbarazza nei suoi passi e 
sempre, senza confessarlo, per non venire contradetta, disdice alle volte 
le sue recenti denegazioni; torna silenziosa al suo passato perchè non 
tutti hanno il coraggio di alzar la fronte e levar la voce, temendo di 
essere scomunicati; ed ogni giorno assistiamo allo spettacolo di una più 
schietta e genuina dimostrazione di quel famoso motto; multa renascen- 
tur quae jam cecidere ! 


CLASSE DI SCIENZE MORALI 


Lo Od 
3 


SULLO STATO G LA POPOLAZIONE D ITALIA 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 
—<c<o—— 
Lettura fatta all'Accademia di Scienze, Lettere e Balle Arti 
DAL SOCIO ORDINARIO 
RroffCl0SEBRREZSATRVAGOISI 
(17 Luglio 1898) 
Vela 


DZ 
(CS 


Sicura causa di errori nel valutamento dei fatti storici in genere è 
la insufficiente conoscenza dell’ ambiente in cui detti fatti si svolsero. 
Sainte-Beuve raccomandava che prima di tratteggiare la biografia di al- 
cuno si illuminasse il lettore intorno al paese e ai luoghi di sua vita e 
alle sue abitudini, e risorse delle popolazioni in mezzo a cui quel tale 
esercitò la sua azione : il letterato francese riputava indispensabile che 
prima d’ogni altra cosa andasse la pittura dall'ambiente, come quella 
che avrebbe meglio dato la chiave degli avvenimenti grandi 0 piccoli 
che si avevano a narrare. Egli era pienamente nel vero : così soltanto 
il quadro storico si può avvicinare all’esattezza e alla precisione, così 
solo la biografia riescirà vera. Ora lo stesso sistema deve seguirsi per 
la esposizione d'ogni genere di storia, sociale o politica, economica o giu- 
ridica, religiosa od artistica : occorre cioè cominciare dall’ambiente : ed è 
questo che generalmente si è dimenticato. Le nostre storie per lo più 
trascurano questo che dovrebbe. essere il capitolo preliminare e basta 
loro la dichiarazione che i fatti sono avvenuti im Italia piuttosto che in 
Francia, per dispensare da ogni informazione di natura economica e sta- 
tistica sul teatro a cui gli avvenimenti si riferiscono, cosicchè può poi 
avvenire che il lettore e anche lo scrittore finiscano per perdere di vista 
la realtà lontana e confusa, e rappresentarsi, anche per l’epoca romana, 
germanica o feudale, un'Italia non diversamente coltivata, abitata e po- 
polata da quella che noi vediamo e ci fanno conoscere le statistiche. 
Nelle scuole si studiano e si imparano a meraviglia le gesta di Cesare 0 
di Alboino, di Diocleziano o di Carlomagno che ci raffiguriamo come se 
operassero nell'Italia moderna, in modo da risultarne un’ottica storica 
così viziata che anche i fatti più semplici riescono male interpretati. 
Lo stesso errore si commette poi generalmente e in misura maggiore 


4 SULLO STATO .E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


quando si giunge al momento delle invasioni germaniche. Allora il no- 
stro pensiero corre a immaginare sovrapposizioni di popoli a popoli, 
milioni di invasori che si precipitano in mezzo a milioni di vinti, in 
guisa che gli uni e gli altri si pigiano, si stringono, si confondono in 
un territorio pieno di città e villaggi, non diverso da quello che costi 
tuisce l’Italia contemporanea. E pensiamo a quello che avverrebbe 0g- 
gidi se nuove invasioni fossero possibili, e in qual modo i milioni d'Italiani 
potrebbero essere spogliati della libertà, cittadinanza, proprietà e diritto, 
tutte cose che sarebbero avvenute in seguito alla invasione longobarda. 
Allora restiamo perplessi e sorgono i primi dubbi. 

Perchè, è chiaro, la storia di un popolo si svolgerà in un senso o in 
un altro; renderà più probabile questo o quello avvenimento, secondochè 
è maggiore o minore il numero degli individui che lo compongono, grande 
o piccolo il territorio che abita. Gli avvenimenti che riempirono gli an- 
nali del medio evo, non sarebbero, per esempio, stati possibili, se Italia 
avesse avuto il numero degli abitanti che contò nelle epoche moderne. 
Da ciò la necessità di descrivere le condizioni della penisola e della sua 
popolazione al momento dalle invasioni e poi, e cercare nelle prime le 
ragioni per le quali fu possibile che genti forestiere si stabilissero in 
Italia e vi fondassero dominazioni. Non solo | Italia antica si difte- 
renzia dalla moderna per estensione, distribuzione di città e villaggi, 
territorii coltivati, numero di popolazione, come dimostrarono gli studi 
da Cluvero a Nissen e quelli di Beloch; ma anche l’Italia medievale co- 
stituisce un ambiente speciale che deve essere ben conosciuto, se si vo- 
gliono rettamente comprendere gli ordinamenti economici e sociali, come’ 
le istituzioni politiche e giuridiche. Il sommo storico Muratori è ancor 
quegli che dei nostri storici ha avuto il più acuto senso storico dei varii 
periodi e li ha rischiarati di luce vera senza amplificazioni di alcun ge- 
nere, cosicché le soluzioni da lui date ai varii problemi sono quelle che 
più si accostano alla realtà e meglio hanno resistito alla critica. 

Ciò che ci proponiamo nelle pagine seguenti, è appunto di illustrare 
lo stato della penisola dopo il sec. V : chiarito questo punto fondamen- 
tale, riescirà più agevole la spiegazione di fatti che ora sembrano strani, 
inverosimili; e di loro inverosimiglianza facciano colpa alle informazioni 
come insufficienti e alle interpretazioni di testi come errate. Invece in 
altro punto è la sede dell’errore. 

La critica storica richiede anche questa aggiunta. Clio che una volta 
procedeva agile e leggera, deve al suo fardello che la curva, aggiun- 
gere anche questa indagine, ma la sua opera guadagnerà certamente in 
solidità. 


PRIMA «E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE ") 


Durante i secoli IV e V la popolazione declinava continuamente. Le 
guerre, le carestie, le pestilenze, le prime scorrerie dei Germani ave- 
vano decimato gli abitanti delle città e delle campagne. Il cielo sem- 
brava irato contro gli uomini, e gli ultimi pagani rendevano respon- 
sabili delle pubbliche calamità i cristiani i quali, abbattendo il tempio 
della Vittoria, avevano provocata lira dei numi (1). In alcune parti della 
penisola sembrava si stendesse il deserto : il viandante avrebbe visto le 
campagne spopolate, i tugurii vuoti, le città ed i vic) in rovina e ovunque 
il silenzio per mancanza di abitanti. 

La terra un giorno coltivata si copriva di erbe selvatiche e di bo- 
scaglia, e pianure un tempo animate da villaggi erano divenute preda 
della malaria, causa alla sua volta di mortalità e di fuga degli abitanti. 

L'Italia meridionale e la centrale, ove trovavansi le grandi zone a lati- 
fondo (2) ed ove le guerre mosse da Roma contro le popolazioni indi- 
gene avevano fatto grandi vuoti fra queste, più soffrivano per la con- 
tinua diminuzione di abitanti. Immensi territorii portavano anche al 
tempo dell'Impero il lutto di guerre combattute durante la Repubblica. 
Il Jatifondo che era stato l’effetto immediato della violenta conquista e 
della distruzione degli stati indipendenti, aveva sostituito ai coltivatori 
liberi le torme degli schiavi, i quali hanno sempre avuto un basso coef- 
ficiente di natalità. 

L’Etruria era senza abitanti fin dai tempi di Tiberio Gracco che tra- 
versandola per andare in Ispagna, vi incontrò solo schiavi e uomini che 
sembravano selvaggi (3). Fra Firenze e Pisa si estendevano grandi pa- 
ludi (4). Si è osservato che sopra 50000 chilom. q. dell'Etruria, nel III Sec. 
avanti Cristo appena 17000 potessero essere destinati alla cultura (5). 
I più popolati erano i 9000 ch. q. fra il Tevere e l’Ombrone e special 
mente il paese dei Falisci : seguivan poi per densità di popolazione la 
valle superiore dell'Arno e quella media del Tevere intorno a Perugia. 

Questa regione ebbe moltissimo a soffrire per le guerre sillane; e sotto 


(1) GeLasiI.: Ad Andromachum ed. Thiel Epist.rom.pontificum a S.IHario, 1857, p. 290. 

(2) Vedi il mio articolo: La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia al 
tempo dell'Impero, nell'Archivio Giuridico, 1889. 

(3) PLurarcHI: Vita Tiber. Gracchi, 10. 

(4) DavIpson : Gesch. Florenz, 1896, p. 26. 

(5) BeLOCH : Bevolkerung des griech. roem. Welt, 1886, p. 423. 


a 


6 SULLO STAMPO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 

l'Impero non riuscì a rimarginare le piaghe aperte e sanguinose, e al 
IV secolo le campagne tosche presentavano uno spettacolo di vera de- 
solazione : immense distese di campi incolti, selve sterminate interrotte da 
paludi: i fiumi disarginati, i castelli rovinati, città e villaggi vuoti di 
abitanti (1). 

Il Piceno non conservava altro che il ricordo di una popolazione che 
Plinio (7ist. zat. III, 110) aveva distinto per la sua fecondità « quondam 
ubervimae multitudinis ». Le antiche popolazioni dei Marsi, dei Sanniti, 
dei Peligni, ecc. erano andate distrutte e disperse nelle guerre civili : 
non si contava alcun centro urbano importante. L’ Apulia fin dagli ul- 
timi tempi della Repubblica era detta « inarissima pars Italiae » (2). L'aria 
si era corrotta (3) a tal punto che gli abitanti di Salapia nell’ Apulia, 
decimati dalle malattie, ottennero dal Senato un luogo più salubre (4). 
Nella stessa condizione si trovavano le città e campagne del Sannio 
(dopo le guerre di Silla), i paesi dei Volsci, degli Equi, dei Marsi, la Lu- 
cania e il Brutio. ht Lucania la popolazione era rappresentata da torme 
di schiavi (5). Cosenza dovè essere dispensata dall'imperatore Valentiniano 
dal provvedere annona in vino, perchè mancavano le braccia per col 
tivare le vigne: altri paesi dell’Italia meridionale furono autorizzati a 
pagarla in carne, ossia col genere che offrivano i pascoli abbondanti (6) 
che si erano sostituiti ai campi coltivati da popolazioni che Livio chia- 
mava dense e prolifiche. 

La costa dell'Adriatico era ridotta quasi deserta: poche città e anche 
quelle in rovina. Nelle campagne schiavi affamati sognanti ribellioni. Im 
queste parti le guerre servili trovavano i numerosi contingenti di com- 
battenti. Le coste del Mediterraneo erano abbastanza popolate, ma dietro 
di esse veniva il latifondo deserto di uomini e di villaggi. 

Il territorio attorno a Roma era incolto e disabitato per un raggio di 
oltre 70 chilom. Laddove sorgevano le 253 città dei Volsci, Plinio (/7ist. 
nat. INT, 5) e Livio (6, 5) non trovavano che le paludi pontine insalubri 
e insecure, appartenenti a patrizii romani. Le antiche città del Lazio 
erano decadute a c/c; (7), e di altre appena restava il nome (8). Roma 


(1) Runizia : I, 285. 
(2) Cicer. : ad Attic., VIII, 3 
(3) Cicer. : de lege agn., II, 26, 27. 
(4) Virruvit I, 4. 
(5) JovenaAL : VIII, 180. 
(0) LAND CRREODS NIVEA 
soa Horar. Lp. !, 11 « Gabiis desertior atque Fidenus vicus ». 
) Di Ardea resta il nome, Vedi VerGILIt: Aenedd. VII, 410. PrinIo nell'H. n. INI, 


Di scrive: «ex antiquo Latio LMI popoli interiere sine vestigiis». 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE Ù 
nei suoi dintorni non aveva che greggi, solitudine e malaria. Appiano (1) 
assicurava che si potevano fare molte leghe nella campagna romana 
senza incontrare anima viva. Quindi era libero il campo ai briganti che 
rendevano insecure le strade. 

Si ha un’ idea dei pericoli a cui erano esposti i viandanti leggendo 
una lettera di Marco Aurelio ove narra di uno scherzo che egli fece a 
certi pastori fingendosi brigante, un giorno che a cavallo ritornava dalle 
vigne paterne : alle porte di Roma egli potè rappresentare una vera 
scena di brigantaggio (2). Fino dai tempi dell'Impero la campagna 7o- 
mana era desolata dalla malaria; i proprietarii avevano rinunziato a far 
coltivare i latifondi da schiavi, e per risparmiare il lavoro umano sempre 
dispendioso, li avevano trasformati in pascoli per la produzione della 
carne che richiede il minimo di mano d’opera ed è sempre ricercata nei 
dintorni di una grande città. Se occorrevano braccia pei lavori.agricoli, 
si ricorreva agli operai avventizii che dai monti dell’ Umbria o degli 
Abruzzi discendevano ogni anno a lavorare nella campagna romana, non 
altrimenti di quanto si pratica oggi (3). 

La Sicilia fin dal tempo di Strabone era in decadenza (4). La costa 
da Pachino al Lilibeo era abbandonata, serbando in scarsi abituri gli 
scheletri di antiche città: quella da Lilibeo a Peloro appariva anche 
allora mediocremente abitata, coll’Emporio segestano, con Panormo co- 
lonia romana, con Cefalù, ecc. Da Peloro a Pachino Strabone ricorda 
Messana e Catania come centri popolosi per le colonie romane, poi Taor- 
mina e Siracusa. Il restante dei territorii dell'interno dell'Isola era tutto 
occupato da pastori. I Romani, egli dice, considerata questa solitudine, 
poichè si furono impossessati dei monti e delle pianure, per la maggior 
parte ne fecero cessione a uomini clie vi guidassero armenti di buoi e 
cavalli. La Sardegna e la Corsica fra le distrette di una grande miseria 
che spingeva i padri a vendere i figli per pagare le imposte (5), decli- 
narono pure rapidamente. 

La popolazione non numerosa prima, si veniva sempre più assotti- 
gliando per le stesse cause che diminuivano la natalità nelle parti con- 
tinentali d’Italia. Erano pure spopolate le isolette del Mediterraneo at- 
torno alla Toscana (6). 


(1) De bello civ., I, ©. 

(2) FRONTONIS : ad M. Caesarem et invicem, ep. II, 12. Cfr. JovenaLn: INI 307. 
(3) Sverox. : Vespas. 1. E sui briganti, Aug. 32: Zeb. 31. 

(4) Geogr. VI, 3. 

(5) GregoRrI: I, Ep. V. 41 ed. Ewald. 

(6) SozomeNI : Hist. eccles, INI, 13. 


8 SULLO SPATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 

Lo stesso fenomeno di spopolamento si avvertiva anche nelle parti 
dell’ Italia superiore. S. Ambrogio poteva serivere che l’Italia era così 
deserta di uomini come la Tracia e la Mesia, dove ardeva la guerra dei 
Goti distruttrice di città e di popoli (1), e nel 496 papa Gelasio a quegli 
ultimi pagani che attribuivano l'origine delle calamità onde era afflitta 
l’Italia, le pesti e le guerre continue, alla soppressione delle feste dei 
Lupercali, rispondeva che la Tuscia, YVEmilia e le altre provincie nelle 
quali più non esistevano abitanti, erano ridotte in così miserando stato 
anche quando le feste si celebravano con tutta la pompa (2). 

Da tutti gli scrittori come dalle leggi parte unanime la testimonianza 
intorno al triste spettacolo che presentavano città e campagne. Queste 
eran deserte e incolte. Ovunque paludi, o vaste e impraticabili boscaglie 
come ai tempi di Varrone (8). «Gli Appennini ne erano coperti e selve 
immense si stendevano ancora nell’Etruria. Rutilio costeggiando le coste 
tosche notava che qui « memorosa viret densis cicinia lucis » (4). Anche 
la Lucania alternava i pascoli con grandi boschi (5). L’aratro era ovunque 
e spesso arrestato dalle annose quercie che davan buon cibo alle ster- 
minate greggi (6). La malaria si stendeva mortifera nelle coste e nel 
l’interno della penisola: non solo nelle Maremme toscane ove le acque 
del mare stagnavano assieme ai fiumi, ma ancora nelle coste. mediter- 
ranee, nei territorii dei Vulcani spenti dell’Italia centrale, nella Magna 
Grecia, nelle pianure di Puglia, nei campi di Leontini, nel Sud-Ovest 
di Sardegna e nella costa orientale di Corsica l’aria era pestilenziale. 
Il versante occidentale della catena appenninica era appestato dalle pa- 
ludi toscane. Sidonio Apollinare che nel 467 attraversò questa regione 
pestilenziale per recarsi a Roma a recitare panegirici in onore di suo 
suocero Avito, poco mancò non vi perdesse la vita (7). L'Italia non ap- 
parve al retore avergnate la madre giovine e potente, quale l’ aveva 
cantata Virgilio magna parens cirum, ma invecchiata € timorosa. Inde- 
bolita dagli anni e dai dolori procede a passi lenti, appoggiata a un 
olmo coperto di pampini, il suo bastone della vecchiaia, senza casco e 
senza corazza. Queste armi sono troppo pesanti per membra indeholite. 


(1) AMBROSII : 27 Lucam, c. 21. 

(2) Epist. adversus Andromacum cit. ed. Thiel « Quid Tuscia, quid Aemilia, caete- 
raeque provinciae in quibus hominum paene nullus existit ? » 

(3) De re rust. I, 2. 

(4) Itin., I, 625. 

(9) CaLPURNIT: Eg0. IV, T, 10. 

(6) VARRON: de ling. lat. XIV, 5 « agros non colebant propter sylvas ». 

(7) Ep., 1,5. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 9 
Però, dice Sidonio, anche nella sua stessa caducità l Italia si mostra 
sempre feconda, l'abbondanza segue le sue tracce : la terra dove posa 
il piede, si copre di fiori e di frutta, e ruscelli di vino le scaturiscono 
attorno (1). 

Se Sidonio invece di arrestarsi a Roma avesse continuato il viaggio, 
altre e più gravi piaghe avrebbe potuto constatare. Una generale ro- 
vina, una popolazione che si estingueva, un'agricoltura che periva per 
mancanza di braccia e anche di domanda di prodotti. Ovunque terrae 
inanes, squallidae, inutiles, steriles (2). Ai tempi di Pertinace tanti erano 
i fondi deserti in Italia che egli nel suo breve regno ebbe il pensiero 
di attirare coltivatori sui beni del fisco, concedendo la proprietà a chi 
assumeva la cultura e aggiungendovi anche l'immunità dai pesi pub- 
blici, per dieci anni (3). Fin dal tempo di Plinio i segni della decadenza 
nell’agricoltura per mancanza di braccia si avvertivano attorno Como (4). 
In molti luoghi dell’Italia meridionale si constatava la povertà della cul- 
tura (5). Sotto Nerone l'interno della Campania era riguardato quale 
luogo di pena ove rilegare come banditi i liberi ingrati (6). Sessant’anni 
dopo Costantino si contavano nella Campania 528042 jugeri di terreno 
abbandonato (uguale ettare 152000) ossia circa 1320 chilom. quadr., meno 
di un dodicesimo dall'intera regione (7). Le campagne del Piceno, Sannio, 
Brutio e Apulia non erano in condizioni migliori tanto che il governo 
doveva condonare i tributi fondiarii (8). Un geografo degli ultimi tempi 
dell'Impero dice che la Lucania, la Campania e il Brutio erano coperti 
di boschi (9). Però anche al tempo di Cesare vi erano in Italia moltis- 
simi luoghi deserti (10) e ne diremmo presto la ragione. Già Tacito aveva 
avvertito lo spopolamento generale d’Italia (11) che mai si arrestò, nem- 
meno per le leggi agrarie o per la fondazione di colonie che presto si 
estinguevano, i veterani non lasciando prole (12). Sotto Tiberio si era pa- 
rimenti constatato che la popolazione scemava, scemava sempre. Nerva 


(1) Id. Carmina, XI, 321-328. 

(Lo inn: Vos) 866 SI LAZ, SSUblo 

(3) HERODIANI : Hist. II. 4. 

(4) Epist. III, 19. 

(5) Stu Iran. VIII, 945. 

(6) Tacrp. Ann. XIII, 26. 

(7) L. 2; C. Dason. NI, 28. 

(8) L. 7, C. THEOD. XI, 28: 

(9) Virus SequestER nei Geographi minores ed. Riese, 1878, p. 153. 
(10) Dron. Cassi. XXX, 8. 

(11) Ann. IV, 4 e 27. 

(12) Taciv. Annalia XIV, 27. 2 


10 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
spese 60 milioni di sesterzi (uguale a L. 15 milioni) per la colonizza- 
zione interna, ma non ricavò che meschinissimi risultati. 

Secondo i calcoli del Beloch (1) al secolo IM il Lazio, la Campania e 
i paesi dell'Appennino da Rimini a Venosa con circa 60000 kq. avreb- 
bero contenuto una popolazione di 1750000: liberi ossia 29 abitanti per 
chilometro quadrato : l’Etruria con 13000 chilom. quadr. avrebbe avuto 
circa 200000 liberi ‘cioè 15 per 1 chilom. quadr., Y Apulia, la Lucania 
il Brutio con 45000 chilom. quadr. da 500000 a 600000 ossia da 11 a 13 
per chilom. quadr. Nell’Alta Italia vi sarebbe stata una maggiore den- 
sità, ma ben lontana dalla moderna, poichè dall’Alpi all’ Appennino le 
paludi frequenti e vaste contrastavano il suolo alle culture agrarie e alle 
città : la via Emilia fra Modena e Bologna era costruita sopra argini e 
fiancheggiata da paludi. 

Il Po e i suoi affluenti seminavano nei luoghi bassi le loro acque sta- 
gnanti. La sinistra degli Appennini era incolta (2). Il Beloch calcola nella 
Gallia una popolazione da 4 milioni a 4 milioni e mezzo (5), che poi di- 
minuì talchè negli ultimi tempi dell'Impero in tutta la penisola non si 
avrebbe avuto che una popolazione di 5 milioni, cioè 22 abitanti per 
chilom. quadrato, quanta attualmente ne contano il Montenegro e la 
Russia, i quali sono gli Stati meno popolati d'Europa. 

Queste cifre dovettero ancora ribassare nel V secolo quando comincia- 
rono le invasioni dei Germani. Si sà per es. che causa le scorrerie dei Goti 
l’Italia fu così rovinata che nel 415 Onorio dovette ridurre a un quinto 
i tributi della Campania, Tuscia, Piceno, Sannio, Lucania, Brutio (4) 
e che nel 418 diminui ancora i tributi della Campania e quelli della Tu- 
scia e del Piceno (ò). Un elemento per dimostrare la scarsa natalità e il 


(1) Bevolkerung, cit. 
I suoi calcoli per la statistica dall’ Italia all’epoca di Augusto sono i seguenti : 


ar Rom dieta Men 3 e eo o eo e oa o oo oo SITI 
Per il Lazio, Etruria, Umbria, Piceno, Campania, Lucania, Brutio, Apulia, liberi 1750090 
Per la Cisalpina, Liguria e Venezia. 0.000. 100000 
Ingtotalefcittadinigli Deri Cin fltalia: Re e 250000 
SCHIAVI TRON LIETI IR A IE EA I I e E VOV000 
Isole, liberi e schiavi (compresa la Corsica)... +0... + + +-+ 1000000 


Totale. . 6250000 
Cfr. anche PuLL : Profilo antropologico d’Italia nell'Archivio per l'antropologia e 
l’etnologia. Firenze XXVIII, 1898, pag. 72-81. 
(2) AmrosII: Epist. I, 39 (Migne XVI 1099). 
(3) O. e. 
(4) L. 7, C. THEOD. XI, 26. 
(5) L. 12, id. XI, 26. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE Il 
decrescere degli abitanti ci è anche dato dalle leggi fiscali che accordavano 
la esenzione delle imposte a quelli che avevano tre figli per Roma città, 
quattro per l’Italia, e per le provincie (1). Il male aveva colpito tutte le 
parti dell’Impero e tutte le classi. Anche il tit. del Cod. Theod. de al#ment. 
quae inop. part. composto da due leggi di Costantino prova lo stato de- 
plorevole delle famiglie e l'inevitabile isterilimento delle popolazioni. 

Abbiamo detto come qualche serittore antico fin dall'epoca della Re- 
pubblica constatasse che la popolazione d’Italia era scarsa e che l’agri- 
coltura era in abbandono. Cicerone per esempio parlava della soltudo 
Italiae (2). Il quadro che d'Italia fece Lucano è quanto mai desolante : 
« Gli edificii che minacciano rovina, se cadranno, non schiacceranno 
alcuno. Vuote sono le case, né vi è più alcuno che le custodisca. L’Esperia 
dope tanti anni incolta, si copre di selvaggi pruni e sterpi. Le antiche 
città non vedono nelle strade che qualche raro abitante. Mancan le 
braccia ai campi che reclamano lavoro. Un servo incatenato coltiva i 
nostri seminati. Tante generazioni nascono pel mondo, e intanto le no- 
stre città e campagne sono spopolate » (3). 

Queste ed altre parole possono sembrare contrastare colle descrizioni 
di altri scrittori che parlano del gran numero di città che aveva l'Ita- 
lia (4) e del fiorente stato dell’ agricoltura. Premettiamo che gli serit- 
tori antichi non avevano idee dei grandi numeri-e perciò le loro notizie 
sono da accogliersi con molta riserva. Invece è dimostrato che sotto 
Augusto esistevano solo 454 centri urbani, mentre oggidi i Comuni del 
Regno d’Italia sommano a 8263, dei quali 5724 con una popolazione 
inferiore a 3000 abitanti, e 2146 sono quelli che hanno una popolazione 
da 3000 a 10000 abitanti (5). i 

Ora Strabone che scriveva alla fine del regno di Augusto e che per 
la sicurezza delle informazioni e la imparzialità è un teste prezioso, con- 
ferma pienamente come non pochi centri urbani un giorno fiorenti, fos- 
sero decaduti senza speranza di risorgere. Ben è vero che egli guarda con 
fiducia « la nuova costituzione e la saggezza del principe che arresterà 
l’Italia nella sua china funesta di corruzione e di rovina » : ma nessuna 
virtù di principe poteva operare siffatto miracolo. Intanto ecco quello 
che Strabone dice dell’ Italia. Premesso che la Cisalpina è « ora re- 


(Atos 8 Dei 

(2) Ad Attie. I, 19. 

(9) Phars. I, 24, VII, 400. 
(4) AELIAN: Var. Hist. 9-16. 
(5) BELOCH: 0. e. 


Ia) SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 

gione privilegiata », il che ci è attestato anche da altre parti, così 
parla delle altre parti: La città di Pisa fu un giorno molto fiorente: oggi 
ancora è rinomata, ma solo per la ricchezza delle sue miniere e I° ab- 
bondanza dei suoi boschi. Populonia è deserta. Coeres un giorno città il- 
lustre e tanto popolata, ora è l'ombra di sè stessa, al punto che le Terme 
le quali si trovano nei suoi dintorni, sono per l'affluenza di persone che 
vi accorrono per motivi di salute, più popolate della città. Cossa è pure 
in decadenza. Delle città del Lazio, Gabi, Veio, Cora sono così deca- 
dute, che nemmeno più esistono. Lo stesso egli constata per la Sabina. 
Cures è ridotta a semplice borgata. Trebula, Eretum e tante altre nella 
Campania sono ormai piccoli villaggi. Altre importanti città del Lazio 
sono ora piccole borgate o anche proprietà private. Così Laurentum, 
Lavinium, ecc. Arpinum, Casinum, Aquinum. Delle città del Sannio, 
fatta eccezione per Benevento, non resta che il ricordo. La Lucania, 
sembra un deserto. Nella Japigia tanto popolata una volta e ove si con- 
tavano tredici città, oggi salvo Taranto e Brindisi non sono che mise- 
rabili villaggi. Percorrendo il Brutio, lungo la costa meridionale tro- 
ransi le vestigia di antiche città, Crotone, Thuri, Metaponto, Eraclea, 
che oggi più non esistono. Nella Sabina vi sono poche città e vanno an- 
noverate piuttosto fra i pagi. Fregellae una volta celebre città e capo 
di molte, ora è vico. Isernia è distrutta. Rhegium conserva ancora un 
po’ di vita perchè Ottavio Augusto, ritornando di Sicilia fu così colpito 
dallo spopolamento di essa, che la destinò a quartiere dei soldati della 
sua flotta (1). 

Si erano salvate, secondo la descrizione di Strabone, ed anzi erano 
cresciute città. come Taranto, Benevento, Brindisi, Ostia, Napoli, Pompei, 
Sinuessa, Rieti, Baia, ossia le città favorite da porti ampi e ben riparati, 
i grandi emporii marittimi, che servivano pel commercio e per le flotte 
militari, le stazioni balneari, i luoghi di piacere ricercati dai ricchi e 
dagli infermi, insomma le città che come grandi parassiti vivevano del 
lusso di Roma e pei bisogni dell'impero. Invece le città che si alimen- 
tavano della campagna circostante, che erano i centri commerciali di 
numerose popolazioni agricole, erano in rovina oppure avviate a imman- 
cabile decadenza. Soltanto, egli nota (2), la ragione padana è molto po- 
polosa e trovansi emporii fiorenti, come Padova. 

E la decadenza dopo Strabone aveva sempre progredito. Rutilio se- 
coli dopo, contemplando tante rovine esclamava : « Cernimus exemplis 


(1) Geograph. V. 2, 3. 
(ILA II 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 15 


oppida posse mori »: e l’uomo si lamenta di essere mortale! (1). « Ca 
dono le città, cadono i regni ! » 

Non parliamo della Lucania e del Brutio, di cui Seneca diceva : Chi 
vuol vedere un deserto, vada in queste regioni (2). Ma lo spopolamento at- 
taccò anche la Cisalpina, ove non poche città negli ultimi tempi del- 
l'Impero decaddero e rimasero quasi disabitate. Si spopolarono i piccoli 
municipii come Vercelli (3) e Ateste (4) : nel 388 S. Ambrogio notava che 
le città di Modena, Reggio, Bologna, Piacenza e Brescia che una volta 
erano /lorentissimorum quondam populorum castella, erano ridotte a semiru- 
tarum urbium cadarera, terrarum erposita funera (5). Nell’ Etruria Fiesole 
declinava, e Populonia è da Rutilio (6) descritta come città abbandonata, 
nulla rimanendo delle sue mura massiccie che alcuni frammenti e dei 
maestosi edifizi altro che rovine. Ai tempi di Papa Gregorio I Populonia, 
sebbene fosse sede di un vescovo, il quale allora trovavasi anche in mi- 
serabili borgate, era quasi interamente abbandonata, come Vetulonia, 
Formiae, Luceria, ecc. (7). 

Tale rovina dei piccoli centri urbani avveniva per varie cause, fra cui 
le mortalità causate dalle pesti, perchè i piccoli mumicipii stremati di 
mezzi non potevano sostenere il peso delle gratuite distribuzioni di erano 
ai poveri, e perché il latifondo circostante faceva sentire la sua azione 
specialmente sui piccoli centri. I poveri che vivevano sulle firrumentatio- 
nes, gli operai senza lavoro, i curiali senza risorse emigravano, e uma 
corrente di emigrazione si dirigeva non solo dai piccoli centri verso i 
grandi, ma anche dalle campagne. Già Svetonio (8) aveva notato che 
mo dei risultati delle fondazioni alimentari era stato appunto di chia- 
mare nelle città molti agricoltori, il proletariato artigiano dei vici, i 
vagabondi e gli oziosi, perchè nelle città trovavano il pane gratuito: 
mancando industrie cittadine il proletariato d’ allora oziava nelle città 
gravando sulla pubblica beneficenza. Milano crebbe di abitanti per que- 


(1) Itiner. I, 414. 

(2) De tranquil. animi, 2. 

(3) HIERONYMI, Epist. I. 3, « Vercellae olim potens nunc raro habitatore est semi- 
rutae ». 

(4) AressI: I?7cerche storico-critiche sulle antichità di Este. 1776, pag. 10. 

(5) AmBROGIT: Epist. 1, 39 (Migne, XVI, 1099). 

(6) Itiner.I, 401-414. CANINA : L'antica Etruria marittima descritta con î monumenti, 
1846, vol. III. Lam: Lezioni di antichità toscane, I, 52. RepeTTI : Dizionario geografico 
in v. Populonia. 

(7) ForpIicER: Handbuch di Alten Geographie. III, 1877. 

(8) Aug. 42 « quod carum fiducia cultura agrorum cessaret >». 


14 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


ste cause (1) e divenne una città dalle ir27r2umere domus al tempo di 
Ausonio (2), mentre altre città nei dintorni, quelle specialmente che non 
avevano fondazioni per la beneficenza, si spopolavano. Anche la in- 
sicurezza delle campagne contribuiva allo spopolamento di esse : i rurali 
miserabili senza terre e senza pane accorrevano nelle grandi città, as- 
sieme ai vagabondi e agli oziosi delle piccole, in cerca di sussistenza, 
e perciò ad Aquileia difesa da mura « affluivano torme di famiglie dalle 
campagne, dalle borgate, dai vici intorno abbandonati e si ricoveravano 
nella guardia della città sotto la protezione delle mura sebbene cadenti 
per l'età » (3). i 

Anche i curiali schiacciati dal peso delle imposte fuggivano le città 
e cercavano scampo sui loro fondi, ove speravano nascondersi alle ves- 
sazioni degli esattori. Non protetti dalle autorità nè dal defersor emigra- 
vano nascostamente dalle Curie, che così decadevano sempre più, mentre 
poi venivano a mancare le stesse risorse che economicamente alimen- 
tavano la vita cittadina. 

Questa emigrazione di essi è constatata anche dalle leggi (4). Maioriano 
imperatore nel 458 parla di questi Curiali che si sono nascosti in an- 
goli lontani, o si sono posti sotto la protezione dei potenti o hanno com- 
prato a costo della propria libertà individuale l immunità dagli oneri, 
e vuole che siano anche colla forza ricondotti nelle città. Dietro questa 
aristocrazia municipale, andavano anche le altre classi: parassitarie , i 
clienti che attendevano le sportule, i non abbienti che vivevano di elemo- 
sine, mentre gli operai andavano vagando per le città maggiori e popolose 
in cerca di lavoro. Anche più tardi al tempo dei Goti la poveraglia ro- 
mana cercava soccorsi presso gli invasori Germani (5). L'imperatore 
Onorio confessa che le classi infime fuggivano la città per nascondersi 
in solitudini campestri : « destitutee ministeriis civitates splendorem quo 
« pridem nituerant, amisere: plurimi siquidem collegiati cultum urbium 
« deserentes agrestem vitam in secreta se et devia contulerant ». E in- 
darno le autorità davano a questi fuggitivi la caccia per ricondurli entro 
le mura della città (6). \ 


(1) Corpus inser. lat., V. pag. 633. 

(2) Opuscula NVIIII Ordo urbium nobilium V. ed. Schenkl nei Monum. Germ. hist. 
Auct. antiq. V, p. II, pag. 99. 

(3) HeRODIANI, VIII, an. 238: Erposttio totius mundi dell’an. 345 nei Geographi la- 
tini minores, ed. Riese, 1875, p. 121. Cfr. Ausonir: Ordo, VII, pag. 100. 

(4) Nov. Majoriani, 1. 

(5) SALVIANI : De Gubern. Dei, V. 27, 37, ed. Halm nei Monum. Germ. 

(601 130 C04. Treo dt XI ata 3201 NV 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 15 


In quanto ai curiali che restavano nelle città, si abbandonavano ad ogni 
genere di prepotenze, spogliavano i deboli, vessavano gli umili (1). L'ini- 
quità loro rivaleggiava coll’ avidità del fisco (2), inesorabile e sempre 
mendico (3). Questi piccoli tiranni spiegavano tutta quella malvagità che 
dei piccoli prepotenti è sempre propria : impudici fino all’incesto (4), lus- 
suriosi (5), peggiori dei servi (6): così li chiama Salviano. Portano attorno 
i vizii più detestabili assieme a grande arroganza (7). Le autorità tutte 
erano poi una turba di ladri (8). 

Insomma desolazione e miseria, e al seguito di queste tutti i vizii e 
tutte le brutture. Il despotismo aveva isterilito la penisola, aveva an- 
nientato ogni sorgente di prosperità al punto che perfino i giuochi pub- 
blici, i circenses, delizia delle plebi e dei ricchi, si dovettero in molti 
luoghi sospendere, tanta era la generale miseria (9). 


Intorno alle cause del decrescere continuo della popolazione in Italia, 
che è il fatto più caratteristico del Basso Impero, non siamo bene illu- 
minati. Il libertinaggio, il disprezzo della vita coniugale, la corruzione, 
il desiderio di conservare i patrimonii aviti, sono stati indicati come le 
cause della diminuita natalità. Ma queste non poterono agire che a Roma 
ein qualche altro centro urbano e presso le classi ricche. I piaceri raf- 
finati, il lusso e altri vizii possono certamente influire sulla natalità di 
alcune classi alle quali I abbondanza dei mezzi permette la facilità di 
procurarsi una vita dissoluta; ma quelli che non si trovano in simili 
circostanze di fortuna, sono anche in gran parte mondi dai vizii che 
traggono seco una diminuzione di popolazione. 

Non neghiamo che la morale di Epicuro abbia potuto influire a togliere 
dignità alla vita di famiglia, che la irreligione dominante per cui le are 
dei numi si coprivano di polvere e di ragnatele, il rilassamento nei si- 


(1) SaLviaNnI, V, 18. 
(2) Id. III, 50. 

(3) Id. VI, 43. 

(4) Id. VII, 87. 

(5) Id. VII, 6, 10. 
(6) Id. IV, 27. 

(7) Id. VI, 40. 

(8) Id. VI, 60. 

(9) Id. VI, 42. 


16 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALTA 

stemi morali per cui tutti i vizi più osceni erano circondati di benevolo 
compatimento e i pedagoghi ne facevano pompa (1), abbiano fatto de- 
serto il focolare e ridicole le madri dalla numerosa prole. Ma alla irre- 
ligione dei pochi Plinio l’ antico contrappone 1’ ignobile credulità degli 
altri (2), che poi erano i molti, nello stesso modo che l’epicureismo non ere 
uscito dalle file di pochi raffinati, di intellettuali gaudenti che le depra- 
vazioni loro volevano giustificare colla teoria che trovavano più com- 
moda. Le dottrine immorali non varcarono i circoli limitati delle classi 
ricche, che erano poi Je meno numerose, nè si estesero molto oltre Roma. 
Oggi colla stampa e le facili comunicazioni, qualunque dottrina o sistema 
filosofico può sperare di correre il mondo con grande facilità : eppure 
nessuno penetra se non negli stretti circoli delle classi superiori, mentre 
invece tutte le classi inferiori vi restano estranee. Quanto doveva es- 
sere maggiore questa refrattarietà delle plebi nelle epoche antiche, nelle 
quali la civiltà era concentrata in alcuni grandi centri! Il resto del ter- 
ritorio in nessun modo risentiva la influenza delle dottrine di Luciano 
contro il politeismo, o di Epicuro sulla virtù. I vizii e le turpitudimi (3) 
della « grande Babilonia situata sui fiumi » non potevano essere proprii 
di tutta Italia, da cui essa era come separata. Roma che raccoglieva 
entro le sue mura la popolazione più eterogenea, più maschi che fem- 
mine (4), questi maschi che accorrevano da tutte le parti portando i loro 
vizii e l'avidità insaziabile di godere (5), vera feccia del mondo, come 
Lucano chiamava Roma (6), non era tutta I'Italia. L'impudicizia e l’osce- 
nità. che avevano scuole e regno nella capitale, a Baia e lungo le coste 
marine non avevano contaminato tutta la penisola. 

Questa separazione di Roma, divenuta città orientale, dalle altre parti di 
Italia, è attestata dagli stessi contemporanei : la vita dell’ urds è ben 
diversa da quella del resto d’Italia : le delizie di quella sono altrove 
( 


ignote (7), nello stesso modo che l economia italica era diversa ed in 


nessuna connessione trovavasi con quella di Roma (8). Basta infatti leg- 


(1) SueTON.: De grammat. LacrantI : De falsa relig. lib. I, pag. 61. SALVIANI: De 
gubern. Dei, VII, 232. 

(2) Hist. Natur. XVI 30 : XXVIII, 2. 

(3) Epist. ad Romanos di S. Paolo, I, 27. 

(4) Dion. Cass.: Hist. LIV, 6. 

(5) Sexec. : Consolat. ad Helviam, 6. 

(6) Pharsal. VII. 

(7), Cfr. TAcIt.: Host. II AL. 

(8) Cfr. il mio lavoro cit. Sulla distribuzione della proprietà fond. in Ilalia al tempo 
dell'Impero. — Archivio Giuridico, nuova serie, vol. III (LXII), 1899. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE ite7 
gere quello che Polibio scrive intorno allo straordinario buon mercato che 
trovasi nelle città italiane (1), mentre a Roma la vita era carissima, per 
farsi un'idea del grande distacco che passava tra la provincia e la ca- 
pitale. I poeti vantavano ancora l'innocenza dei vustiei e la semplicità 
delle popolazioni agricole (2). 

Questo vogliamo osservare a proposito dall’ opinione che attribuisce 
alla corruzione il grande diminuire della popolazione in Italia al tempo 
dell'impero. 

Le cause economiche fino a qual punto poterono produrre siffatto ri- 
sultato? Una grande miseria rodeva la società romana e contrastava 
colla grande ricchezza (3): « Se tu sei povero, sempre diverrai più po- 
vero» diceva Marziale (4): e altrove « Un gran male vi è nella no- 
stra società, e questo è l'abbandono in cui trovansi i poveri » (5). Tanta 
è l’avarizia e l'avidità del denaro che non vi è posto pei poveri (6) : non 
resta loro che la disperazione e la morte. Nulla può meglio ritrarre la 
indifferenza e la superbia dei ricchi verso i non abbienti quanto la do- 
manda di Trimalcione presso Petronio: «che vale un povero più di 
una cosa? » (7). 

La condizione del pauperismo superava allora per orrore quella delle 
epoche posteriori : nessuna speranza di migliorare, di elevarsi. Il povero 
nato al vagabondaggio (9), alla questua degradante (10), o se ha istinti 
sanguinarii si farà brigante (11). Torme di miserabili stazionavano nelle 
piazze, sui ponti, davanti ai-teatri (12) : abitavano in luoghi che Giove- 
nale chiama terebrae (13). La miseria era giunta a quel punto in cui toglie 


non può trovare nel lavoro alcun merito od utilità (8); egli è condan- 


le forze e il desiderio della riproduzione. Giovenale avvisa che questo 
stato di cose non trovasi soltanto nelle città ma anche nelle campa- 


(1 EVI SÌ 

(2) VirGIL. Georg. 

(3) MARTIAL, ep. XIV, I. 
(4) Id., ep. V, 81. 

(9) Id., ep. V, 19. 

(6) HoraT. Carm, III, 50. 
(7) PetRON. 48, 5. 

(8) IuvenaL. Sat. III 21. 
(9) Id. III, 23. 

(10) Id. V, 1. 

(11) Id. III, 302: Hora. Carm. III, 24. 
(12) MIA EVE GLGRAVANe: 
(13) Id., III 225. 


I 


13 È SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
gne (1): tutte le classi dipendenti, quelle che vivono soltanto del lavoro 
delle loro braccia, ne erano colpite: ossia le classi che alimentano colla 
larga fecondità gli stati, sembravano isterilite. 

I poveri sono prolifici ma fino a un punto in cui Ja miseria estrema 
non estenua le loro forze. Questo punto era stato raggiunto nella Società 
romana. In tanta miseria, la mortalità dei nati doveva essere enorme. 
I moralisti più severi non sdegnavano di trovar scuse, di approvare anzi 
«i poveri che non allevavano i figli perchè riguardavano la povertà 
come il peggiore dei mali e non volevano trasmettere questa triste e 
desolante successione » (2). Quando Costantino, per influenza del Cristia- 
nesimo, vietò l'esposizione dei nati, ebbe cura di prevedere il caso della 
miseria e così dispose : « I genitori poveri che non potranno nutrire e 
vestire i figli, riceveranno dal fisco alimenti e vestiti » (3). Ma tanti 
erano questi genitori senza averi, che il fisco non riuscì a soddisfare a 
tutte le domande loro e. si dovè permetter loro se non di esporre, al- 
meno di vendere i figli sarguinolenti. Gli esposti morivano e gli altri 
conservati nei tuguri desolati li seguivano per le privazioni e le malattie. 

Ora nella società romana non era soltanto la poveraglia senza me- 
stiere che trovavasi in siffatta condizione, ma ancora l'artigianato libero 
e la borghesia misera che soffrivano; quello pel lavoro servile, questa 
per la ricchezza male distribuita. Abbondavano cioè nelle città i curiali 
stremati di mezzi e oppressi dalle insopportabili imposte e gli artigiani 
senza lavoro. Ora queste persone nelle strette di una miseria di vario 
grado, che andava da una povertà decente alla nudità più degradante, 
esse poi che costituivano la maggioranza della popolazione, non potevano 
tener alto il livello della natalità. Non potevano abbandonarsi agli ec- 
cessi della dissolutezza e inoltre dovevano fuggire il matrimonio. Se le 
loro file si ebbero a restringere per la diminuita natalità ciò non fu per 
causa del loro libertinaggio. Egualmente i piccoli possidenti tendevano 
a restringere il numero della prole, a non avere una larga discendenza, non 
diversamente da quello che pratica oggidi la piccola borghesia francese così 
invincibilmente devota alle pratiche maltusiane (4). Le disposizioni citate 
che accordavano l'esenzione d’imposta ai padri che avevano 3 figli a Roma 
e 4 in Italia mostrano alla evidenza come le famiglie ritenessero che 


(1) JuvenaLr. XIV, 141-155: XVI, 36, VIII, 244 e segg. 

(2) Get. II, 23. 

(3) L. 1. Cop. THEOoD. XI, 27. 

(4) Cfr. l'eccellente lavoro del prof. Nrrri, La popolazione e il sistema sociale, 1894, 


pag. 152. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 19 


» 


avere 5 o 4 figli costituisse già un peso insopportabile, come il piccolo 
proprietario di Roma e d’Italia avvertisse che un numero superiore di figli 
imponesse sacrifizii, i quali potevano portare alla rovina della famiglia, 
alla perdita della proprietà e con essa al passaggio da una classe superiore 
ad altra inferiore. Da ciò la frequenza dei matrimonii tardivi, la sterilità, 
l’unigenitura. Se a questo stato di cose, a queste prevalenti disposizioni 
dello spirito si aggiunge il fatto della grande mortalità nei fanciulli e 
l’altro che ci è rivelato dalle epigrafi funerarie, cioè la poca longevità 
non solo nelle classi servili (1), ma anche nelle libere, è dato arguire 
come si dovessero diradare le file dei curiali, senza che fosse possibile, 
per l’ ascendere dei ceti inferiori, colmare i vuoti che si verificavano. 
Quella sterilità, che doveva portare alla fine di wr popolo (2), era piutto- 
sto un fenomeno economico che un fenomeno fisiologico. « La debole fe- 
condità delle classi possidenti, scrive con acuto senso della vita econo- 
mica il Nitti (5), il quale ha in modo perfetto trattato il difficile argo- 
mento della popolazione anche dal punto di vista storico — desiderose di 
sfuggire a ciò che uno scrittore italiano chiaîma l’orrido economico (4), 
il discendere dalla classe in cui si è vissuto in una classe inferiore , è 
un fenomeno universale che è assai facile constatare dovunque.... Nei 
paesi più prolifici del mondo, nel paese classico della proliferazione di- 
sordinata e abbondante, il fenomeno si verifica con la stessa precisione, 
con la stessa intensità » (5). 

Le difficoltà della vita, la gravezza delle imposte, il rilassamento delle 
idealità, la facilità delle relazioni sessuali irregolari non condannate dalla 
morale producevano la diminuzione dei matrimonii e della natalità non 
soltanto nelle classi dei possidenti ma anche fra l artigianato. Si veri- 
ficava quel fenomeno proprio delle società moderne più progredite, cioè 
che i piccoli possidenti si attenevano alla previdente infecondità pel de- 
siderio di non discendere nelle classi inferiori, mentre i ricchi, per le 
condizioni di vita in cui trovavansi, per le degenerazioni del senso e 
gli adulterii frequenti erano ridotti a una debole fecondità. 

Va anche aggiunto che indipendentemente dalla povertà accertata, le 
classi operaie che vivono di poco, si logorano presto e che, come tutti 


(1) Crccorti: Tramonto della schiavitù, Torino 1899, p. 1286. 

(2) VANLAER: La fin d'un peuple, Parigi 1895. 

(3) O. ec. p. 153. 

(4) MortARA : I doveri della proprietà fondiaria e la questione sociale, Roma 1883, 
p. 35. 

(5) Sumyer Marne: Zarly history of institutions, p. 385. 


20 SULLO STATO 4 LA POPOLAZIONE D'IPALTA 

i socialmente deboli, hanno bisogno dell’ unione, rappresentavano nella 
società imperiale un contingente abbastanza scarso, perchè da esse po- 
tesse venire quell’aumento di popolazione che negavano le classi supe- 
riori, anche se le condizioni fatte al lavoro libero fossero state buone. 
Il lavoro libero, per quanto cresciuto di importanza, aveva sempre una 
posizione secondaria perchè la base della economia era sulla schiavitù e 
la produzione industriale non richiedeva quell’abbondante salariato che 
attualmente è la fonte precipua onde si alimenta la popolazione. È inoltre 
certo che allora non agivano soprale classi operaie quelle cause che le 
spingono, nel nostro mondo industriale, ad accrescere col numero dei figli 
il reddito delle famiglie, poichè il lavoro dei fanciulli non era allora ri- 
cercato. Gli operai liberi della società romana non costituivano un pro- 
letariato industriale, ma erano quello che oggidi in Inghilterra si direbbe 
l'aristocrazia del lavoro, composta da salariati in possesso di una teenica 
speciale; difatti da elementi liberi si veggono esercitate le professioni 
e le arti meglio retribuite, meno faticose, più considerate (1), mentre ai 
servi erano riservati i sérvizii più umili e quegli uffizii che richiedevano 
continuità e dipendenza stretta. Perciò non potevano presso essi agire per 
un’ elevata natalità quelle cause che oggi spingono l'operaio all’impre- 
vidente procreazione, ed al contrario dovevano seguire l'esempio dei 
curiali nell’allontanare, il più possibile, il soverchio peso della famiglia. 
Essi cercavano di migliorare di condizione, e la legislazione li incorag- 
giava in questi sforzi proteggendoli con varie misure (2), associandoli in 
corporazioni (3) coll’intento di portare quel benessere che in ultimo con- 
corre a limitare il numero delle nascite. 

Altra circostanza che impedì ogni eccesso di popolazione fu la schia- 
vitù. Maschi di preferenza erano gli schiavi comprati nei mercati, maschi 
quelli portati in Italia come bottino di guerra e distribuiti sui fondi; e 
i Romani erano soliti di affidare soltanto a schiavi isolati i lavori dei 
‘ampi, cosicchè sulle vaste distese non si trovavano famiglie o gruppi 
di famiglie, ma ergastoli pieni di maschi abbrutiti dal lavoro e da vizii 
osceni e bestiali. Raramente il padrone concedeva allo schiavo una 
compagna, perché le giovani schiave tenevansi nelle case pei lavori 
domestici, e solo quando vecchie non più piacevano, nè servivano, da; 


(1) Crccorti, 297. 

(2) Prarr. Ueber d. rechtlich. Schutz d. wirthschaftliche Sehucichen in d. roem. 
Kaîsergesetzgebung. 1897, pag. 20 e segg. 

(3) WaLrzINnG: Htude historique sur les corporationes professionelles chez les Ro- 
maîns, Bruxelles 1895. ; 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 21 
vansi a qualche schiavo preferito. Quando cessò 1 importazione degli 
schiavi dall’ Oriente, cercarono i Romani di provvedere al. bisogno di 
schiavi facilitando le unioni di essi e le nascite, e l'istituzione del colo- 
nato avrebbe potuto anche servire a questo disegno; ma sarebbe stato 
necessario che i proprietarii facessero sacrifizii e anticipazioni per queste 
piccole unità economiche famigliari che dovevano costituirsi. Prescelsero 
invece quella maniera di produzione la quale richiede la minor quan- 
tità di lavoro, ossia la pastorizia. Perciò nessuna cura posero per Vin 
cremento della natalità dei coloni, come degli schiavi. 

La schiavitù ebbe certamente molta parte nella diminuzione della po- 
polazione: da un lato la facilità del commercio colle schiave induceeva 
gli uomini liberi al celibato e diminuiva la fecondità matrimoniale: dal- 
l’altra le unioni degli schiavi con donne non più giovani dovevano essere 
poco feconde. Dovendo il padrone mantenere lo schiavo e i suoi figli 
ed essendo questo nell’ economia di lui un peso con utili per lo meno 
lontani, rare erano le unioni (1) e spesso il padrone favoriva 1 aborto 
e la esposizione di infante. Così il numero degli schiavi non poteva 
crescere nè in generale nè localmente al di là del bisogno e dei mezzi 
di mantenimento; e il padrone aveva sempre a sua disposizione mezzi 
sufficienti per impedire che ciò avvenisse. «Altra causa che deprimeva 
sempre il numero degli schiavi, era la grande mortalità. I più prove- 
nivano da paesi lontani; la diversità dei-climi li uccideva presto : sot- 
toposti a lavori duri, mal trattati, con scarsa nutrizione, soccombevano 
poco dopo che erano stati acquistati. Nella schiavitù delle colonie si 
notò pure la grande mortalità, la facilità delle malattie e la sterilità loro : 
e questo era uno dei motivi per cui i colonizzatori ritennero la schiavitù 
uno dei più costosi mezzi di produzione (2). Al tempo di Plinio il giovane 
in alcune parti d’Italia non vi erano più schiavi, nè si sapeva come 
colmare i vuoti che si facevano (3). Seneca ep. 80, e Catone de rer. 56 
informano sulle insufficienti quantità di alimenti che ricevevano i servi. 
Si è indotti a credere che specialmente quelli addetti ai lavori rurali si 
trovassero in una miseria estrema. La denutrizione li estenuava e li 
uccideva precocemente (4). Avveniva di essi quello che oggi accade degli 


(1) Secondo CoLuMELLA, I, 8, 5 è prudente che il padrone favorisca solo le unioni 
del villico ossia del sorvegliante degli schiavi: a lui solo si permette di tenere una 
donna e aver figli. 

(2) NirtI, 0. c. 158: Loria, Analisi della proprietà capitalistica, I. 

(3) Ep. 3; 19: 10, 24:19, 36. 

(4) Ogni schiavo aveva 5 modii = 43,77 litri di grano al mese e 2 ettl. circa di vino 
all'anno. Poco olio, olive e fichi. Becker-GoLr: Gallus, 168. 


22, SULLO STAMDO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
estremamente poveri, i quali « se anche prolificano, mettono al mondo 
dei nati così deboli e così inadatti che le prime bufere delle malattie li 
uccidono e determinano la raccapricciante mortalità infantile della classe 
povera » (1). Nelle colonie moderne gli schiavi si mostravano general 
mente infecondi e malgrado gli eccitamenti dei padroni si riproducevano 
poco e male : sembravano colpiti da sterilità : un senso di scoraggiamento 
li penetrava e li induceva, anche se ben nutriti, a riprodursi debolmente. 

Nell’antichità poi si è osservato giustamente (2), come gran parte delle 
guerre di conquista trovi la causa remota nella sterilità della classe 
schiava. In quell'economia ove il lavoro pesava tutto sugli schiavi, poi 
ché questi prolificavano debolmente, imponevasi la necessità di provve- 
dersi di nuove braccia: nell'interno del paese mancavano le forze libere 
lavoratrici: dovevasi ricorrere agli schiavi, e poichè i mercati non ne 
offrivano a sufficienza, si ricorreva alle guerre che erano vere tratte di 
carne umana. Non altra anche presentemente è la causa delle guerre, 
delle razzie che le tribù più belligere del centro dell’Africa fanno contro 
le tribù più deboli e più pacifiche. 

si è fatto anche risalire la responsabilità di questo fenomeno al lati 
fondo che avrebbe avuto una parte soverchiante nell'economia agraria; 
si è detto e ripetuto (3) che.la diminuzione della piccola proprietà e della 
piccola cultura le quali importano una dissipazione di lavoro, hanno però 
come termine corrispondente -un aumento rapido e continuo :della po- 
polazione della quale il crescere sopperisce nuove forze di lavoro (4). 
La curva discendente che sino al principio dell'Impero presenta la po- 
polazione italica, dipenderebbe dal scemare dei piccoli e medii possessi, 
fulero dell'ordinamento repubblicano e dell’esercito. Ora ciò che riguarda 
le deplorevoli condizioni della piccola proprietà in generale, è a nostro 
avviso, di molto esagerato: alcune frasi di retori latini male interpre- 
tate e a torto generalizzate hanno dato origine a questo luogo comune 
che non resiste a un esame di altri fatti e a una discussione intorno 
all'economia agraria degli ultimi secoli dell'Impero (5). Molto più probabile 
si è che il latifondo abbia avuto ai tempi di Roma imperiale il suo regno 


(1) NITTI, 0. c. 

(2) Dureau DE LA MALLE: Wramen des causes générales qui chez le Grecs et les 
Romains devaient s’opposer au développement de la population (Memoires de ©’ Aca- 
demie des inscriptions, NIV, 1842, 318. 

(3) Anche Cicconi, 188. 

(4) DurEAU DE LA MALLE: Memore sur l’agricolture romaine depuis Caton le Cen-- 
seur jusq'à Columella (Memotres de l'Acad. des inscript., XIII, 1828, p. 416. 

(5) Vedi il mio lavoro cit. nell'Archivio giuridico, 1899. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 25) 
nell'Italia peninsulare e nelle isole, come in queste parti lo ha presen- 
temente e che invece le regioni dell’Italia settentrionale abbiano avuto 
in prevalenza la piccola proprietà. Il latifondo quindi non avrebbe por- 
tato ovunque quei mali onde lo si incolpa in riguardo alla diminuzione 
della popolazione. Ma intanto anche sopra questo è bene notare come 
generalmente si attribuiscano al latifondo e alla piccola proprietà effetti 
che in modo assoluto non hanno. Non è vero cioè che la piccola pro- 
prietà porti seco un aumento della popolazione; anzi attualmente si vede 
che ove essa è prevalente, la fecondità è minore, e ne abbiamo già in- 
dicato le cause. I piccoli proprietarii si impongono freni alla procrea- 
zione; e a questi rivolgevansi le leggi imperiali romane quando cerca- 
vano eccitarli a crescere per mezzo delle immunità tributarie. 

L'azione del latifondo fu notevole invece sulla economia in genere 
e sulla popolazione rurale in ispecie. Ai tempi dell'impero, coll’introdu- 
zione del colonato esso avrebbe anzi cooperato, per mezzo della creazione 
di piccole aziende agrarie autonome, all’ incremento della popolazione : 
e questo dovè avvenire in quelle parti d’Italia ove l’esistenza di centri 
urbani eccitava la produzione agricola. Ma dove questi mancavano, come 
nel mezzodi, nè il colonato attecchi nè la popolazione crebbe e continuò 
sul latifondo a dominare la pastorizia, e le terre restarono incolte. Queste 
regioni ebbero disseccate le fonti della ricchezza ed espiarono per secoli 
il delitto di non aver accettato di buon grado la supremazia di Roma (1). 
Lo stesso risultato toccò anehe all’ mghilterra che fino a questo secolo 
ebbe l'agricoltura rovinata per l'espropriazione che i nobili fecero subire 
ai coltivatori di Scozia e d'Irlanda. L’espulsione scellerata, descritta nel 
commovente poema di Goldsmith 7he deserted village, non soltanto prostrò 
il ceto dei liberi agricoltori, ma gli effetti ultimi di questo metodico pur- 
gamento di una proprietà, the dearing of an estate, come allora si diceva, 
esercitato su larga scala, furono per lungo corso di secoli fatali alla ric- 
chezza britannica. Essa esperimentò a tutto suo danno 1 erroneità del 
principio che ogni economia sulla mano d’ opera, o, in altri termini, 
qualsiasi soppressione di vite umane che concorrono a un'industria, sia 
un profitto. 

Il latifondo riesci. ancora dannoso alle città circostanti, nelle quali ro- 
vinò l’esercizio delle industrie, cioè l’artigianato libero, e non tanto derivò 
questo danno per la estensione di esso, quanto per l’ ordinamento eco- 


. 
(1) Anche PLINIO: Mist. nat. 83, constata che la rovina d’Italia provenne dalla guerra 


sociale: e fu il mezzodi a soffrirne a tal punto che le conseguenze dell’espropriazione 
delle popolazioni allora avvenuta mai più furono sanate. 


24 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IRALIA 

nomico che esso aveva. Il latifondo colla ea e con una popolazione 
che bastava a tutti i bisogni della «774 provocò la disoccupazione degli 
operai urbani e dei cicè i quali non sapevano più per chi lavorare. Ne 
seguì un vero concentramento di industrie nella «27 e nei cici circa 
cillam, ove a conto e nell'interesse del padrone si lavorava e si produ- 
ceva per l’intero territorio. Si sà che nei latifondi si tenevano mercati 
per la vendita dei prodotti (1). I coloni ivi residenti, tenuti a presta- 
zioni varie, occupati in tutte le industrie inerenti al latifondo, nulla la- 
sciavano al lavoro dei liberi operai cittadini e anzi potevano far loro 
concorrenza, rinvilendo le mercedi. Il lavoro libero era sopratfatto e de- 
presso, non potendo calcolare che sulle classi intermedie scarse di mezzi, 
le sole onde si alimentassero le città. Ciò spiegherebbe 1’ emigrazione 
che è notata dagli scrittori: gli operai senza lavoro abbandonavano i piccoli 
centri urbani per cercar fortuna a Milano.ed Aquileia : ciò spiegherebbe 
anche perchè le città dell’Italia peninsulare fossero cadute tutte in ro- 
vina e in abbandono e da molte fossero emigrati in massa gli abitanti 
spesso costretti a darsi al brigantaggio. Erano quivi le grandi regioni 
del latifondo. 

Invece nella Gallia cisalpina e nell’Emilia ove il latifondo non era la 
forma di economia agraria preponderante, non mancano anche durante 
l'Impero i segni di una certa operosità urbana (2). Si lavora in lane, 
botti, stoviglie, oreficeria. I collegi degli artigiani attestano vitalità (3), 
sebbene l’organizzazione di essi che in tempi.di prosperità assicurava van- 
taggi proteggendo le persone e garentendo il lavoro, fosse ormai, come in 
tutte le epoche di decadenza un peso insopportabile e riducesse i profitti 
mantenendo un numero di artigiani superiore ai bisogni dell'industria. Im 
queste regioni si hanno centri urbani popolosi come Milano, Padova, Aqui- 
leia, Ivrea, Bologna, Arezzo, ecc. : e pei minori non vi è tanta e generale 
decadenza quanta ve ne ha per le città dell’Italia peninsulare. Anzi crebbe 
piuttosto il numero dei centri del popolo coltivatore che spesso salirono 
a importanza di ici 0 di pagi..A questi centri romani collegano le loro 
origini gran parte dei paesi ora esistenti nell’ Alta Italia, benchè non 
appaiono nella penombra della storia che nei primi secoli del medio evo, 
sotto la dominazione longobardo-franca. Queste diverse condizioni del 


(1) FrontINn. ed. LACcHMANN 59: Sveron., Claud. 12, PLINI, Ep., 5, 42: Cfr. anche 
WEBER, Roem. Agrargesch, 272. 

(2) BLiimnER: Die gerwerbliche Thatigheit der Volkier d. Klas. Alterth., Leipzig. 1869,. 
p- 98-107. 

(9) WALTZING, 0. cit. Cicorti: Zramonto della schiavitù, ec. XVI. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE |. 25 
l'economia urbana nell’Alta Italia sono riprova di una diversa distribu- 
zione della proprietà fondiaria in confronto del mezzogiorno, cioè il la- 
tifondo non era nell’ Alta Italia così potente da seccare le sorgenti di 
prosperità nei centri urbani e da portare la popolazione a irrimediabile 
decadenza. 

Da queste considerazioni possiamo desumere che molteplici furono le 
cause che produssero in Italia la diminuzione della popolazione. Alcune 
anzitutto sono di ordine generale, ossia vi erano nell’ antichità delle 
cause che impedivano alle popolazioni di crescere. Tutte le nazioni del 
mondo antico ci si presentano in istato di stazionarietà; ciò si osserva in 
sommo grado a proposito degli Ebrei. La mortalità immensa dei nati e 
dei fanciulli che riscontrasi presso tutti i popoli poco inciviliti, le guerre 
frequenti che toglievano i più vigorosi, le epidemie micidiali, erano fla- 
gelli che minacciavano tutté le generazioni e mettevano in serio peri 
colo l’esistenza delle nazioni. Queste cause agivano con grande inten- 
sità anche nell'Italia imperiale. Poi vi era la schiavitù, e mancava così 
quel largo contributo alla natalità che danno le classi lavoratrici. Il vi- 
zio greco molto diffuso e la prostituzione ammessa e favorita avevano 
pure la loro parte nel mantenere questa specie di consunzione sociale. 
Invece l’ indebolimento delle credenze religiose , lo scetticismo e il ne- 
gativo dogmatismo, l’amore del lusso e dei godimenti materiali non po- 
tevano avere che una parte ben secondaria nel progressivo decadimento. 
Insomma vi erano delle cause, che direi inevitabili, per le quali le po- 
polazioni restavano stazionarie, ossia non crescevano, e ciò anche quando 
la natalità non fosse stata limitata da alcuna restrinzione preventiva. 

Siffatte cause operano anche durante il medio evo, nello stesso modo 
che operano presentemente presso le popolazioni poco civili. 

Se ad esse si aggiungeranno altre circostanze che agiscono sfavore- 
volmente sulla natalità, sarà chiaro perché le popolazioni invece di restare 
stazionarie, erano condannate a decrescere. Le difficoltà economiche dei 
curiali e la miseria degli artigiani produssero una generale diminuzione 
della nuzialità e della natalità e mantennero in eccesso il numere dei 
morti sopra un’insufficiente natalità. Il matrimonio non solo aveva contro 
lo sfavore dei costumi, non solo era minato dal divorzio, dall’ aborto 
procurato, dalla sterilità deliberata e volontaria, corruzione infinita che 
Augusto colle sue leggi non era riescito a vincere (1), ma ancora era 
ostacolato dalle strettezze economiche le quali si fecero sentire, in grado 
sempre maggiore dopo Augusto. Non era dato a tutti costituire una nuov: 


CDL SI RIOVIEN 4 


26 __ SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IDALTA 
famiglia e sopportarne i pesi; e intanto era facilissimo trovare tutte le 
soddisfazioni agli istinti del senso; e questa facilità che rendeva super- 
fluo il matrimonio, colpiva a morte la natalità. 

Non vi erano più abitanti nelle città e coloni nelle campagne. La co- 
lonizzazione danubiana aveva tolto alla penisola un largo fiotto del suo 
miglior sangue. Gli Italiani che ai tempi di Cicerone, quali negotiatores 
trovavansi in tutte le parti del mondo, nelle Gallie, come in Arabia, 
al tempo dell'Impero erano stati sostituiti in questa bisogna dai Greci 
e dagli Ebrei. Gli stranieri coprivano le cariche tutte, e si trovavano 
nei posti più umili : essi colmavano i vuoti che lasciavano gli Italiani. 
Anche nel Senato vi era chi nell'infanzia non aveva respirato l’aria del- 
l Aventino (1), e fra cavalieri altri se ne contavano. La razza non era 
vecchia, nè il popolo infiacchito : nessuna ragione fisiologica contribuiva 
a questo isterilimento che gli stessi contemporanei avvertirono. 

Ma la viricultura era ostacolata da ragioni morali ed economiche, le 
prime poi prevalenti in modo speciale a Roma e nei grandi centri ur 
bani di corruzione, le seconde portate all’ estremo limite ovunque dal 
fiscalismo più spietato, dalla mancanza di moneta che emigrò dall'Italia 
per l'Oriente e oltre le Alpi per riscattarsi dai Germani, dalla crisi in 
cui si dibattè l’economia pubblica e la privata. Non era il pauperismo che 
travagliava quella società ma la miseria : da essa venivano i maggiori e 
irrimediabili vuoti nelle file della popolazione italica. 


Il quadro finora descritto ci presenta l'Italia in continua decadenza, 
con moltissime terre incolte; e la causa di ciò era nella diminuzione della 
popolazione. Però questo stato di cose riceverà il suo giusto rilievo 
quando si pensi a quello che è realmente l’Italia e si confronta ciò collo 
enorme lavoro umano ehe ha nel corso dei secoli trasformato i suoi monti 
e le sue pianure. 

La penisola che abitiamo, se ha ricevuto dalla natura sorriso di cielo 
e tepore d’aria, è un paese di montagna come nessun altro nel nostro: 
continente, tranne la Svizzera, e di alte montagne in gran parte nude 
o dirupate ed inospiti. Dei 296320 ch. q. della sua superficie totale, quasi 
i/_ (ch. q. 56000) per essere o nevosi o rocciosi o ghiaiosi, si atfaeciano 
come invincibilmente refrattarii ad ogni produzione vegetale e ciò per 
opera della natura. Altri ?/, non sono suscettibili che di una produzione 


(1) Tacrr.: Ann. NI, 23. JuvexaL, II, SI, Vedi Giancorenzo : I barbari nel Senato 


romano al VI sec. negli Studi di storia e diritto. Roma, an. XX, 1899, pag. 127. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE ZI 
mediocre, non racchiudendo che magri pascoli naturali utilizzati, nella 
estate, dalla pastorizia nomade; boschi e spazi di nessun valore e brulli 
in cui alligna qualche raro albero e poca erba stentata. L'Italia montuosa 
che abbraccia quasi i */, dell’Italia totale, per il fatto invincibile della 
natura che rende affatto improduttivo una parte dello spazio, offre ben 
poche risorse all'uomo. Im quanto ai colli e agli altipiani essi sono quasi 
sempre forniti di scarso terriccio e vi domina assai di frequente la ghiaia 
depositatavi dal ritirarsi dei ghiacciai nei tempi preistorici. La siccità 
estiva del clima italiano non consente loro di coprirsi di quella vege- 
tazione erbacea spontanea che costituisce la ricchezza naturale degli 
altipiani e dei colli che si stendono lungo il versante germanico della 
catena delle Alpi. 

Restano le pianure: ma quella padana è affatto artificiale, che ivi il 
suolo non regge, per ricchezza di depositi alluvionali, al confronto dei 
corrispondenti bacini della Schelda e del Reno (le Fiandre), dell’ Elba 
(l’ Holstein), della Senna (la Normandia), del Danubio (il Banato e la 
Rumania), delle terre nere della Russia meridionale, nè di una gran 
parte dell’Imghilterra. Generalmente il tenue strato coltivabile di Lom- 
bardia è dovuto all'arte: all’ estremità inferiore del bacino padano do- 
minano le acque stagnanti e le lagune. Nè le altre minori più meridio- 
nali pianure della penisola e delle isole italiane forniscono oggetto di 
invidia: imperocchè vi domina la malaria quasi dappertutto, e in molti 
luoghi con una tale intensità da escludere quasi completamente ogni 
possibilità di agricoltura. In complesso l’Italia apparisce come paese agri- 
colo uno dei meno favoriti, per spontanea liberalità, dalla natura : in con- 
fronto di superficie, pochissima terra coltivabile e anche questa soggetta 
alla siccità e alla malaria. Secondo le- statistiche, dei 29,632,341 ettari 
che compongono la superficie totale del Regno, 6,196,645 sarebbero a 
pascoli; 5775,787 sarebbero incolti, di guisa che la superficie coltivata 
sarebbe di 17,659,909 ettari, di cui 4,736,000 a frumento, 1,716,705 a 
gran turco, 232,091 a riso, 477,666 ad orzo, 1,000,000 ad altri legumi. 

Siffatte condizioni di inferiorità dovevano essere maggiori quanto più si 
risale nell’antichità. Per quanto i poeti celebrino le lodi d’Italia (1), ne 
vantino l'agricoltura, l’ubertosità ecc. per quanto ricorra come un luogo 
comune la menzione della fertilità naturale, ricorrono anche frequenti le 
notizie dell’insalubrità e della sterilità. Si parla per es. della Campania 


(1) VirGILI: Georg., II, 145. PLiNII: Hist. nat., III, 5. Grammi FariscI: Oynegeticon, 
5598 (nei Poet@ minores latini, ed. Wernsdorf, I, 76). 


28 SULLO STATO BLA POPOLAZIONE D'IPALTA 


dives e del suo pingue solum (1), ma Avieno (2) invece ricorda la Can 
pania proiccta in patulos: e non vi è contraddizione perchè non tutta la 
Campania è così favorita dalla natura, ma solo quelle parti che hanno 
la terra pulla (3), LRideale di ogni agricoltore (4), la dura terra che da 
tre o quattro raccolti (5). Il Piceno è descritto come coperto di boschi (6), 
il Brutio come pieno di sassi e selve (7) e la Lucania è detta orrenda (8). 
I prati di Lombardia erano allora coperti di acque, e grandi superficie 
di suolo erano allagati dalle continue inondazioni del Po (9). La Toscana 
era incolta ed imboschita (10). Solo attorno Lucca, Pisa, Volterra, Popu- 
lonia, Vetulonia ecc. vi era coltivazione. L'Italia non poteva spontanea- 
mente alimentare un gran numero di abitanti e richiedeva molto e per- 
severante lavoro. Perciò le popolazioni non varcarono le linee degli spazii 
salubri e facilmente coltivabili e alle spalle rimasero vastissime esten- 
sioni di selve, di pascoli e di terre incolte. Cosiecchè non tutto quello che 
appariva incolto era frutto del latifondo, cioè non era dovuto all’espro- 
priazione dei piccoli proprietarii coltivatori; ma era terra non adatti 
al lavoro, di scarsa produzione : terra che mai era stata adibita a cul 
tura, nemmeno prima della dominazione romana. Cosiechè la sterilità 
e l’insalubrità del suolo avevano la lor parte nella stazionarietà del nu- 
mero degli abitanti il quale piuttosto, per il peggioramento delle ge- 
nerali condizioni economiche, declinava. Le campagne non ebbero mai 
una popolazione densa e presentarono sempre quello spettacolo proprio. 
dei paesi ove gli abitanti sono scarsi. Si ingannano quindi gli scrittori, 
che, pensando a tempi di fiorente cultura che non erano mai esistiti per 
Italia, piena la fantasia delle più lussureggianti immagini sulla Satwnzia 
tellus, ritenevano questa decadenza recente, questa rovina punizione di 
peccati (11) oppure l’attribuivano esclusivamente allo spietato fiscalismo 


) PriscianI: Perziegesis, 351 (Pete latini minores, IV, 299). 
) AvieNni: Deseript., n. 525. 

(3) CoLumer : IT, 10. Prix.: Hist. nat, NVIII, 25. 

(4) Cicer,: de lege agr., II 76. ViraiL.: Georg. Il, 217. 

(5) Pini: Mist. nat., XVIII, 3. 91. 

(6) Avieni: Deseript. orbis ferre, n. 499 (Poete minores latini, ed Wernsdorf. V). 
(7) Aviexrimn. 505. 

(8) Aviewi:n. 503. CaLpurni: VII, LT. 

(9) Avreni:n. 424. Puinit: st. nat , III Lucani: Phars., VI, 272. VinGIn.: Georg, 
IV, 372. Tale era l’autica Padusa ora Bondeno che abbracciava territorii del ferrarese, 
modenese e del mantovano. 

(10) Sipoxni: Ep., I, 5. Cfr. FLori: Hest., I, 19. 

(11) Vedi la lettera di Papa Gulasio cit. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 29 


imperiale (1). Questo vi ha avuto parte, come abbiamo detto, ma non 
ne è il responsabile esclusivo. Alle circostanze di ordine morale ed eco- 
nomico da noi enumerate per spiegare la diminuzione della popolazione 
italica, va aggiunta questa precipua dipendente dal territorio e da ciò 
che questo allora offriva ai suoi abitatori. 

Pel mutuo rapporto in cui la città sta colla campagna, data la scar- 
sezza della popolazione agricola, era naturale che anche la città non 
potesse prosperare, ed è anche evidente come i peggioramenti nelle con- 
dizioni delle campagne che si verificarono negli ultimi tempi dell'Impero, 
si ripercuotessero sulle città. L'immiserimento di queste era accresciuto 
per la immigrazione dei rurali in cerca delle distribuzioni annonarie (2), 
alle quali alla lor volta non provvedevano più con sufficiente larghezza 
le campagne. Era un circolo vizioso che reclamava rimedii, e a questi 
pensarono alcuni imperatori con provvedimenti intesi a ripopolare le 
regioni le quali al primo secolo dell'Impero Diodoro Siculo e Strabone 
avevano trovato ben coltivate, prescrissero ai Senatori di avere in Italia 


campagne. Per rimediare allo squallore che si estendeva e invadeva 


almeno un terzo e poi almeno un quarto delle loro sostanze (8); poi 
concessero esenzioni dalle imposte a quelle famiglie che si fossero recate 
sopra fondi deserti (4), autorizzarono i possessori di fondi fertili a occu- 
pare le terre sterili e incolte che li circondavano, minacciandoli di 
spogliarli anche di questi se non accettavano gli sterili o non ne cura- 
vano la cultura (5). Queste misure erano inadeguate ai mali e non se 
ne avvertì alcun vantaggio. La causa della rovina era la mancanza di 
popolazione, di quella popolazione che sempre scarsa in Italia anche nei 
tempi preromani, erasi ancora fatta più rara negli ultimi tempi dell’Im- 
pero, per molteplici cause, comprese anche quelle che resero o stazio- 
narie o quasi tutte le popolazioni dell’antichità. Occorreva trovare braccia 
che salvassero 1 Italia dalla malaria e ridonassero la vita ove già si 
stendeva il deserto. 

Fu allora attuato un solo provvedimento logico, quello di trasportare 
in Italia intere popolazioni e si ricorse alle tribù dei Germani vinti. Ten- 
tativi di colonizzazione interna furono fatti in diverse epoche. Nerva 


(1) Così specialmente i storici bizantini. 

(2) Che però al tempo dell’anarchia militare erano già decadute e quindi non dava- 
no che scarsi aiuti. 

(3) P.LININ: 17,6, 19. 

(4) L. 16, Cod. Theod., NI, 56. 

(5) L. 4, id., de locat. fundi emph. N, 3: L. 6, Cod. Just., NI, 58. 


30 -SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 

spese in varie imprese di questo genere 60 milioni di sesterzi (L. 15 mi- 
lioni) ma senza risultati. Aureliano pensò di ricorrere ai prigionieri. di 
guerra per mettere a cultura di vigna i grandi tratti di terre incolte 
da lui, sembra, acquistati. Queste terre dall’Etruria per la via Aurelia si 
estendevano fino alle Alpi Marittime, e sono quelle stesse terre che ai tempi 
di S. Ambrogio e di papa Gelasio erano deserte. Egli sperava di trasfor- 
mare quei territori in ricchi vigneti che dovevano provvedere e gratui 
tamente il vino al popolo romano, mettendo a carico di questi coloni 
l'obbligo di somministrare una certa quantità di vino (1). Teodosio tra- 
sportò gli Alamanni da lui vinti e fatti prigioni sulle sponde del Po, 
destinandoli al lavoro dei campi, in fertili pagi, a titolo di tributari , 
cioè in una condizione quasi uniforme a quella dei coloni (2). Graziano 
nel 377, vincitore dei Goti, degli Unni e dei Taifali trapiantò tribù intere 
di questi popoli in Italia per coltivare i campi attorno a Modena, Reggio 
e Parma (3). E prima ancora tribù di Marcomanni e Quadri vinti da 
Marco Aurelio erano stati accantonate alle porte di Ravenna; poi essendo 
pericolosi per la sicurezza dei cittadini, questi barbari furono dispersi per 
le campagne lontane (4). Altri Goti vinti da Claudio II ebbero parimenti 
sede in Italia per dissodare terre incolte (5). La sponda sinistra del Po 
aveva una popolazione germanica (6). 

Ma questi coloni trasportati in climi a cui non erano abituati, addetti 
a lavori sedentarii ai quali non erano preparati, quale sorte ebbero ? Si 
esaurirono come i Negri delle colonie moderne, i quali davano un lavoro 
scarso o morirono presto senza lasciare posterità ? Oppure fondarono 
delle colonie agricole nelle regioni in cui furono trasportati, non altri 
menti che i contadini italiani fecero sulle rive del Danubio? Non sarà 
mai possibile dare una risposta a queste domande , ‘come non sì potrà 
sapere se quei contadini che i capelli biondi ed altri segni somatici fanno 
ascrivere alla razza germanica, quei biondi che si incontrano nelle varie 
parti d’Italia, siano i discendenti di quei vinti Germani che gli imperatori 
romani disseminarono per le campagne deserte, assieme alle famiglie, op- 
pure derivino da quei popoli Goti e Longobardi che scesero da vincitori 
e in diverse regioni fissarono le loro sedi. Im ogni modo questo fatto si 


(1) Vopiscr: Aurel., 48. 

(2) AMMIAN., MARCELLINI: XXVIII, 5, 15. 

(3) Id., XXXI, 9, 4. 

(4) Zosimi: I, 46. TrerELL. Pon.: Vita Claudi, 
(5) IuL. CapiroL.: Vita Marci Aureli, 13, 22. 


(6) Eurroerr: VIII, 12. Orostr: VII, 15. 


© 


9. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 31 

deve aver presente, perchè esso può gettar luce sopra alcuni nomi di 
persone certamente germaniche i quali si trovano in documenti italiani 
del VI secolo (1), e può anche servire a spiegare l'origine degli aldi del 
periodo longobardo. Perchè gli aldi dell’Editto di Rotari non potrebbero 
essere questi coloni germanici, che gli invasori trovavano in Italia adetti 
ai lavori agricoli, tenuti in uno stato più vicino alla servitù che alla 
libertà e che essi migliorarono , separandoli dai servi e considerandoli 
come parte della nazione longobarda ? 

Ciò che costituisce il risultato finale della presente esposizione è questo: 
la rovina d'Italia derivava dall’ irrimediabile decremento della popola 
zione. Constatavasi questo tanto nei bassi ceti quanto nei superiori, e 
traeva seco un generale deperimento sociale, al quale nemmeno sfug- 
girono quelle classi usurarie che vivono sullo sfruttamento delle inferiori. 
Turbato l'equilibrio fra classe e classe, tra il profitto e il consumo, segui 
un regresso generale nella ricchezza che riescì fatale principalmente 
alle classi che vivevano di spese improduttive. La catastrofe di esse 
colpi in modo speciale la mente degli scrittori del tempo, ai quali sem- 
brava che così naufragasse la fortuna di tutto 1 Impero. Tutto il loro 
dolore si appuntava su queste famiglie che scomparivano, sui municipii 
abbandonati, i fori silenziosi, le curie immiserite; sui commerci interrotti, 
le industrie desolate, il denaro mancante : e invece non avvertivano che 
in questo inevitabile e generale ritorno all'economia naturale i ceti ru- 
rali rivivevano e si ristoravano, e che mentre la plutocrazia e l’aristo- 
crazia le quali avevano ròso il corpo dell'economia sociale, perivano dopo 
di avere esaurito tutto in ismodata e insensata lussuria, nelle campagne 
come nelle città dagli umili si riprendeva il lento lavoro preparatore di 
una nuova civiltà. 

L'antica era condannata a perire, e con essa dovevano anche scom- 
parire quelle antitesi economiche che essa conteneva nel suo seno, gli 
splendori della «75s da un lato e le miserie delle provincie e special 
mente d’Italia dall’altro. Scompariva così la fioritura superficiale di ca- 
pitalismo ehe per quanto portentosa era però limitata a Roma e a qualche 
porto dell’ Oriente e mal dissimulava la dominante economia naturale 
su cui erasi senza alcuna coesione e rispondenza sovrapposta. La caduta 
dell'Impero romano segnava la rivincita dell'economia naturale, la rea- 
zione di essa, e la preparazione di un'epoca nuova di civiltà nella quale 
minori fossero i distacchi fra le forme economiche superiori e quelle in- 
feriori. 


(1) Marini: 2apiri, 115. 


(SS 


SULLO STAPO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 


II. 


Al momento delle invasioni germaniche e per alcuni secoli fino al XIII 
lo squallore delle città, l’abbandono delle campagne malsane e coperte 
di boschi, lo spopolamento generale sono confermati da molte testimo- 
nianze. La descrizione che abbiamo tracciato dell’Italia durante gli ul- 
timi tempi dell’Impero, si può applicare anche nel periodo che vide ab- 
battuta l'autorità imperiale in Italia e genti straniere comandare ai Ro- 
mani : anzi le invasioni, le guerre che le accompagnarono, le pestilenze 
che seguirono, accrebbero le rovine, la desolazione, l’immiserimento e 
la diminuzione degli abitanti. i 

Le scorrerie dei Barbari avevano maggiormente travagliato 1 Alta 
Italia che la parte peninsulare. 

Dalle Alpi al Pò, dice Sant'Ambrogio, le campagne sono spopolate (1); 
invece la Campania non ha sentito lo strepito delle guerre e vive tran- 
quilla (2). Ogni momento il nembo si affacciava dalle Alpi e gettava lo 
spavento nei coltivatori. Ennodio descrive l’arnrzetas provincialium (3), ed 
era un pezzo che essi non sapevano se avrebbero potuto in pace racco- 
gliere il grano. che avevano seminato. Dio è stanco e si vendica, grida 
salviano (4): i delitti superano la misura (5), è venuta lora dell’espia- 
zione per i persecutori dei poveri (6) e pei ladri (7). « Wastata est Italia 
tot cladibus » (8) : e questi saccheggiatori sono divenuti « elatione tumidi, 
cictoria superbi, delitiarum ac divitiarum affluentia dissoluti » (9). Prodigii 
mai osservati annunziavano terribili avvenimenti : il cielo sembrava irato 
contro gli uomini, e la terra fremeva in continui terremoti (10). Le donne 
partorivano mostri. Ad ogni momento carestie spaventose, al punto che 
le madri si cibavano della carne dei figli loro (11). Pestilenze continue (12) 


(1) Hexameron, II. 

(2) Epist., I, 59. 

(3) Op. XXXIII (ep. I, 26) ed. Vogel (Monum. Germ. Auct. antig. VII, 34). 
(4) SALVIANI: De vero judicio et provid. Dei, V. T4, VIII, 24 

(5) Id. IV, 102. 

(6) Id. V, 83. 

(TT) TA VI, 863 

(8) Id. VI, 110. 

(9) Id. VII, 130. 

(10) Anon. vales. Chronica minora ed. Mommsen I, 326 nei Mon. Germ. Auct. antig.- 
(11) HypamiTt Lemici: CkRron. ed. Mommsen, Chronica minora, II, 17. 

(12) Orosm : II, 15. BeDAE: Ofhron. ed. Mommsen, CQRron. minora, INI, 287. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 35 
uccidevano quelli che la fame risparmiava (1). Sembrava l'avvicinarsi 
della fine del mondo e il cronista con terrore superstizioso notava : 
« Scripta super Hierusalem ex parte coclestis irae venovantur erempla » (2). 

Le carestie, le pestilenze, le guerre, le desolazioni che i Germani in- 
vasori portarono nelle città e nelle campagne, dopo il secolo V, ridussero 
in modo sensibilissimo il numero della popolazione italica ed a tal punto 
che intere regioni restarono spoglie di abitanti. Molte città un giorno 
fiorenti si ridussero a semplici c/c, molte borgate furono interamente ab- 
bandonate, i pochi abitanti essendo fuggiti o nelle vicine città per met- 
tersi a riparo dietro le mura fortificate, o sui monti per sottrarsi alle 
violenze degli invasori. Quei Germani che un giorno alla Società romana 
angariata dagli esattori e dai prepotenti, e senza coesione morale, erano 
apparsi come liberatori (3), scorazzavano ormai quali padroni sul suolo 
italico riempiendo di terrore gli abitanti, distruggendo, incendiando, por- 
tando via tutto quello che potevano. La parola che usano i cronisti di 
fronte ai danni immensi causati dalle invasioni germaniche è wvastare, 
demolire (4). L'Italia era ridotta a tal punto che gli stessi Germani non 
potevano trattenersi lungamente in quelle città sprovviste di vettovaglie, 
in quelle campagne deserte e squallide e perciò fatto bottino di quanto 
potevano caricare sui carri avanzavano sempre verso il sud o tornavano 
sui loro passi. Dei tanti barbari che valicarono le Alpi prima di Teo- 
dorico nessuno pote arrestarsi a lungo in Italia : non il timore delle armi 
imperiali li cacciò, ma il difetto di quella abbondanza che essi si ripro- 
mettevano trovare. In cerca di questa alcuni si ridussero in Africa, altri 
passarono in Ispagna. Così non fu solo la libidine del bottino, ma anche 
la necessità di trovare pagi o città provviste. di vettovaglie che spinse 
in avanti le orde franche ed alemanne capitanate da Leutari e da Buc- 
cellino e che le obbligò a dividersi, alcune con Leutari rivolgendosi 
verso il Mar Ionio, Puglia e Calabria, altre con Buccellino verso Cam- 
pania. Al ritorno le truppe di quest’ultimo, che erano all’incirca 30000, 
trovarono sulle strade già percorse, le campagne nude, i luoghi abitati 
privi di ogni vettovaglia, e soltanto videro pendere dalle vigne i grap- 
poli di uva, onde i Franchi satollaronsi, facendo vin nuovo, sì mala- 


(1) An. 543. Mortalitas magna Italiae solum devastat. Auctarium Marcellini. Chron. 
minora, ed. Mommsen, II, 107. i 

(2) Hvparm Lewrer: CAr. minora, cit. II, pag. 29. 

(3) Orostt: VII, 29. Zosm : III 3. EuTtROPIT: X, 14. 

(4) JORDANIS: Getica 60, Mon. Germ. Auct. antig., V, 137. 


34 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
mente che molti morirono di malattia e di fame pria di incontrarsi coi 
Greci di Narsete (1). i 

È superfluo descrivere le rovine che i tanti barbari discesi in Italia 
seminarono sui loro passi. Degli Unni, per esempio, dice il cronista, de- 
moliunt pene totam Italiam. Saccheggiarono Aquileia, Verona, Milano, 
Pavia, Mantova, Brescia, Cremona, ecc. Tale desolazione produssero nelle 
città e campagne ove esaurirono tutte le risorse, che dovettero tornar- 
sene perchè non sapevano più come nutrirsi (2). Poi i Rugi, gli Alani, 
gli Eruli, i Goti misero a sacco città e villaggi, uccidendo gli abitanti, 
e in molti punti non restò una casa intatta (3). Ommnes fomanos (Goti) 
interficiunt, dice un cronista con indubbia esagerazione (4). 

Milano quordam wrbs regia (5) vide le sue mura abbattute dai Goti (6). 
Rimase però ancora la seconda città d’Italia, e le nobiltà ligure anche 
sotto i Goti era considerata « come la testa del popolo italiano per ric- 
chezza e intelligenza », e dopo il Senato di Roma veniva quello di Mi- 
lano, come rappresentante dell'Alta Italia (7). Questa circostanza, rende 
ragione del fatto perchè alla discesa dei Longobardi parte di questa no- 
biltà abbandonasse Milano e riparasse a Genova che era allora e rimase 
anche per qualche tempo bisantina. 

Come contro Milano, così e più contro Aquileia e Padova si appun- 
tarono le furie degli invasori. Queste due città erano come due barriere 
sulla loro strada. A più riprese esse furono messe a ferro e fuoco e gli 
abitanti uccisi o messi in fuga. Per non parlare delle città minori che 
i Germani incontravano sulla loro strada, va menzionata Pavia che fu 
ridotta da Odoacre a un mucchio di rovine al punto che al tempo di 
Teodorico la sua popolazione in miseri tuguri e nello squallore viveva (8). 
Di stragi, saccheggi, devastamenti si riempì tutta la Liguria al tempo 
degli Eruli (9) : ed Ennodio così descrive le condizioni d’Italia, delle quali 
egli era spettatore : Universa Italiae loca originariis viduata cultoribus : în 


(1) JORDANIS: Getica 41, Mon. Germ. Auct., V, 114. 

(2) Cfr. i passi cit. da THIERRY: Histozre d’ Attila, 1856, I, 112. 

(3) PauLI Drac.: II, 26. AGNELLI: Vitae pont., 95. Mon. Germ. Script. pag. 338. 

(4) Auctarium Marcellini, pag. 106. 

(5) JORDANIS : Getica, 41, Mon: Germ. Auct., V. 114. 

(6) Auctarium Marcellini, pag. 106. 

(7) EnwnopI: Opera LXXX (Opuse. 3, Vita Epiphani, ed. Vogel) Mon. Germ. Auct. 
Antig. VII, 96, 98. 

(8) Idem. 

(9) Id. Opera 263 (Paneg. Theodor, n. 6) id. pag. 206 e Vita Epihani, n. 162, 182, 
pag. 104 e 107. ; 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 35 
tristitiam meam segetem ferax spinas atque iniusta plantaria campus ad- 
portat >» (1). 

Soltanto Roma si ergeva ancora in mezzo a queste immense rovine. 
Gli innumerevoli e robustissimi edifizi avevano resistito al saccheggio 
di Alarico, di Genserico e di Recimere. Se le statue di oro erano state 
rapite, se quelle di marmo o bronzo erano state abbattute dai piede- 
stalli, Roma presentava sempre la magnificenza dell'antica capitale (2) 
ed era la domina mundi, come la chiamavano i poeti (3) per la vastità 
della cinta e le innumerae domus. Tale era il prestigio che sulle fantasie 
aveva la Romulea città che si riteneva nessuna perfidia o empietà umana 
avrebbero potuto toccarla : 


Cura hominum potwit tantum componere Romam 
Quanta non potwit solvere cura Deum (4). 


L'Italia meridionale non era sfuggita alle desolazioni. Napoli e le splen- 
dide costiere del Mediterraneo erano state saccheggiate dai Vandali. 

La Sicilia, siccome garantita dal mare aveva sfuggito alle prime ca- 
lamità; ma fu per breve perchè il cielo non tardò a inerudelire contro 
le sue genti. Vennero le correrie barbariche le quali formarono la de- 
solazione delle città e portarono la diminuzione dei popoli (5). Nel 438 le 
sue città marittime videro comparire torme di disertori barbari che 
saccheggiarono e portarono via quello che poterono (6). Nel 440 la vi- 
sitò Genserico che la devastò (7), e con intolleranza religiosa cacciò ve- 
scovi e perseguito credenti (8). Palermo fu assediata (9). 

Non una ma più volte ebbe a soffrire la Sicilia per opera dei Van- 


(1) ExwnopI: Opusc., 3, Vita Epiphani n. 138, pag. 101. 

(2) GRISAR: Storia di Roma, I. Roma alla fine del mondo antico. 1399. 

(3) CALPURNII : Wglog. IV, 101: VIII, 83. 

(4) HiLpEBERTI: De urbis Romae ruinis,n.25(Poetae latini minores, ed. Wendsdorf, 
IV, 208). 

(5) Historia miscella, ed. Eyssenhardt. Berlino, 1869, lib. XVI, c. 18 e segg. pag. 348. 

(6) ProspeR. Tiro: 0hr., ed. Mommsen, p. 476. 

(7) Cassion.: Ohron, ed. Mommsen, Ohronica minora, IL, 156. Mon. Germ. HyDATII, 
n. 120, ed. Mommsen, p. 23. 

(8) Historia miscela, XVI, 20. 

(9) BepAR: Chron., ed. Mommsen, Ohr. minora, III, 302. 


96 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
dali (1), dai quali uma volta fu liberata per l’ intervento di truppe bi- 
zantine comandate dall’avo di Cassiodoro, il quale impedi che i Vandali 
saccheggiassero il resto di Sicilia e passassero nei Bruzi (2); ed allor: 
si crede che Valentiniano abbia permesso ai popoli l’uso delle armi (3). 
Ma pure le desolazioni vandaliche erano continue perchè Genserico eser- 
citava il mestiere di pirata (4) e ogni anno faceva incursioni in Sicilia 
e nelle coste meridionali d’Italia, saccheggiando e predando. E così an- 
che la Sicilia ne andò in rovina, come dice Salviano : vastata eversaque 
Sicilia Fisci horreo et quae si vera reipublicae abscissa, catinta Africae anima 
ac republica occidentis (5). La decadenza più antica causata dal mal go- 
verno dell’Impero nelle provincie meridionali, era precipitata dopo queste 
scorrerie. 

La Sicilia ricevette il governo dei Goti senza guerre e senza con- 
trasti, ma fu troppo breve il dominio di Teodorico perchè ad essa fosse 
dato rimarginare le piaghe; e da una Novella di Valentiniano e di Teo- 
dosio risulta quanto triste fosse la condizione delle città sicule e lo spo- 
polamento di esse : Siracusa, Catania, Termini e Solanto erano in rovina 
e alcune di queste più non risorsero. Perciò vi è molto di esagerazione 
rettorica in quello che scriveva Cassiodoro sul rinnovamento economico 
della Sicilia sotto i Goti quia longa quies et culturam agris praestitit et po- 
pulos ampliavit (6). 

Se da essa continuava a venir grano a Roma per servigio pubblico (7) 
e ciò risulta dalle parole di un cronista contemporaneo che narra come 
Belisario si lusingò di aver presto ragione dei Goti, occupando nutricem 
Siciliam (8), se il grano di Sicilia trasportato dalle flotte bizantine servi 
a vettovagliare le truppe che riconquistarono l’Italia (9), tutto ciò non 
vuol dire che le condizioni dell'Isola e delle sue popolazioni fossero floride. 

Non parliamo delle rovine accumulate durante la guerra gotica : la 


(1) ApoLLin. Sipon.: Panegyr. Anthemi, II, 367. 

(2) Cassion.: Var. I, 4. ProcoP. : De dello vand., I, 336. Vicror VITENSIS : Hist. 
persec. Vandal., I, 4. 17, ed. Halm, pag. 13. 

(3) Cop. TaroDp.: De reddito jure armorum. Nov. Valent. III tit. IX. 

(4) « In Siciliam atque Italiam continuo longas praedando incursiones fecisse, civitates 
partim diripiendo, partim solo aequando.» Procop.: De bello vandal. INIL 

(5) Lib. VII, ed. Halm., Mon. Germ. 

(6) CassIon.: Varîar., IX, 10. HoLm: Gesch. Siciliens, 1898, III, 268, 493. 

(7) AureL. PRUDENT, ed. Migne, 255. SALVIANI: De gudern. Dei, VI, 68, ed. Halm. 

(8) JoRDANES: Getica, LX, 308, ed. Mommsen, Monum., p. 137. 

(9) Prosp. Tiro : cit. pag. 478. 


1) 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 5) 
Campania fu devastata da Totila (1) e nel 547 Roma fu sottoposta a 
tal saccheggio che durò più di 40 giorni. Un cronista dice : Roma ita 
fuit desolata ut nemo ibi hominum nisi bestie morarentur (2). La stessa 
sorte toccò a Fermo, Osimo, Napoli, Spoleto e gli effetti della guerra si 
ripercossero specialmente nel Piceno e nella Toscana. 


L'Italia meridionale non ebbe dunque nulla da invidiare all’ Alta Italia 
così danneggiata dall’ invasione longobarda. Allora Padova, Aquileia, 
Concordia, Este furono rase al suolo: gli abitanti che sfuggirono alla 
morte si ritirarono nelle isolette della laguna. L'Istria fu messa a ferro 
e fuoco. Il popolo longobardo, era furtis obnorius, rapinis intentus, omicidiis 
promptus (3) e lo spettacolo che presentava l'Italia 7 anni dopo la ve- 
nuta di Alboino è così descritto da Paolo Diacono : Spoliatis ecclestis, sa- 
cerdotibus interfectis, civitatibus subrutis, populis qui more segetum excreve- 
rant, extinctis (4). Così descrive 1’ invasione lo storico longobardo e le sue 
parole concordano con quelle di Gregorio I che piange sulle eversae urbes, 
castra eruta, ecclesiae destructae, nullus terram nostram cultor inhabitat (5) 
e assistendo a questo dnteritus omnium rerum teme l avvicinarsi della 
fine del mondo (6). A più riprese egli parla degli agri depopulati (7), dei 
campi desolati, delle città distrutte : dn solitudine vacat terra, nullus pos- 
sessor hanc inhabitat (8). Le belve sono dove prima abitavano gli uomini. 
Anche l’amministrazione religiosa non funziona e i riti sacri non si pos- 
sono celebrare populo deficiente (9). I contadini sono fuggiti e le cam- 
pagne sono in abbandono (10). Dove i Longobardi passano, in rovine si 
mutano le città e in deserto le campagne: gli abitanti fuggivano collo 
spavento negli occhi, come diceva Machiavelli (11). 


(1) Awctarium Marcellini. Chr. minora, II, 106. 
(2) Id., II, 108. 

(3) PAULI: Diac. III, 1. 

(4) Id., II, 32. 

(5 GrEGOR:I, Ep. III, 29, ed. Ewald. 
(6) Id., Moralia, lib. XXV, 40. 

(1) Id., Homilia în Ezech., II, n. 6 e 22. 
(8) Id. Dialog., III, 38. 

(9) Id., Ep. III, 20, (p. 148, 178). 

(10) Id. Ep. I, 48. 

(11) Storie, I, 3. 


38 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 

Anche dopò il primo periodo dell'invasione, continuando uno stato di 
guerra fra Longobardi e Bizantini, molte città ebbero a soffrire : non fu 
dato alle campagne di ripopolarsi, il furore dei vincitori ebbe spesso a 
scoppiare anche durante il secolo VII, e alle loro incursioni, alle sor- 
prese e ai saccheggi restarono esposte le città bizantine, finchè non fu- 
rono aggregate alla dominazione longobarda. 

Escursioni di barbari, scorrerie di predoni, guerre desolatrici, ove po- 
polazioni intere erano passate a fil di spada, e ridotte in schiavitù (1), 
si succedettero per due secoli senza interruzione e senza lasciar tempo 
agli abitanti di riparare le perdite. Si può dire che l’Italia fu in preda 
ad una desolazione permanente, e quei barbari che discendevano dalle 
Alpi nessuna pietà sentivano e nulla risparmiavano : edifici pubblici e 
case private, città fortificate e villaggi aperti, tutto era messo a ferro 
e a fuoco e dietro i loro passi sorgevano solitudini e deserti. Sotto Agi- 
lulfo Padova, Mantova, Cremona furono rase al suolo (2), le città lungo 
la costa dell'Adriatico da Luni fino ai confini dei Franchi, cioè Genova, 
Savona, Albenga, Varicotti (l’attuale Noli) furono distrutte da Rotari (3). 
I territori tra Nocera e Sorrento furono devastati e i documenti di questo 
periodo non parlano che di distruzioni e rovine (4). 

Perchè il quadro dello stato e della popolazione d’Italia in questo pe- 
riodo possa ancor meglio risaltare, ricordiamo le notizie che delle ca- 
restie e delle pestilenze danno i cronisti del secolo VI: 

Anno 556 e seguenti : grande carestia in tutta la penisola. Le madri 
si nutrivano colle carni dei loro nati. Nel Piceno morirono 50000 agri- 
coltori di fame (5). 

Anno 550 grande mortalità in Italia (6). 

Anno 566 grande pestilenza in tutta la penisola, ma specialmente in 
Liguria : le campagne restarono spopolate : non trovavasi chi volesse an- 
dare a mietere e a vendemmiare (7). 

Anno 569 grande carestia (8). 


(1) GrecoRrII: I, ep. VI, 32: VII, d9, 23. 

(2) Pauci Drac. : IV, 23, 28. 

(BD) 10; Wo DI 

(4) ERcHEMPERTI: Hist. longob. benev., 24 nei Monum. Germ. Script. rerum longob., 
pag. 243. 
5) CassioporI: Var. XI, 27. Procopr.:de del. got. II, 20: Hist. iniscel. XVI, 18. 
(6) Mist. miscel. XVI, 20. 
[ 


= 


(7) PAULI Drac.: II, 4. Gregori: I, Dialog. IV, 26. 
(8) Id. id. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE DO 


Anno 570 carestia e pestilenza fecero vuoti così grandi nelle città 
e campagne e l’Italia cadde in tanta debolezza che gli invasori Lon- 
gobardi non trovarono alcuna resistenza (1). 

Anno 575 continua la mortalità (2). 

Anno 589 in causa di lunghe inondazioni nella Venezia, Liguria e 
Roma scoppiarono grandi epidemie (3). 

Anno 591 carestia in tutta Italia (4). 

Anno 592 carestia nell’Alta Italia (5). 

Anno 592 al 598 peste a Ravenna, nell’Istria, a Grado, nell'Italia cen- 
trale, poi a Roma e nell’Italia settentrionale (6). 

Ed erano grandi morie che facevano vuoti immensi nelle file della 
popolazione, erano calamità che si succedevano senza tregua, che nem- 
meno vi era il tempo di riaversi dallo spavento. L'Italia era aperta a 
tutti gli invasori come a tutte le malattie e le genti parlavano di morbi 
inusitati che venivano dal settentrione e dall’oriente. Quel misterioso 
terrore onde erano colpite le popolazioni alla fine del IV secolo e che 
c'è descritto da Orosio e da Salviano, si ripetè alla fine del secolo VI 
quando i Longobardi, i più temuti fra i Barbari, dilagarono come un 
torrente furioso, attraverso l’Italia. Anche allora si parlava di prodigi 
inusitati, di legioni di armati che apparivano fra le nubi rosse di sangue, 
della nascita di mostri, di terremoti che inghiottivano città e uomini, di 
aridità di terre, di carestia di viveri, di calamità e mortalità che af- 
fliggevano anche gli animali. Il vescovo Redento di Ferentum, alla parte 
settentrionale di Roma, raccontava che trovandosi a visitare le sue par- 
rocchie aveva udito una voce dirgli : « È venuta la fine di ogni carne » (7). 

A proposito delle ricordate inondazioni e pestilenze avvenute nel 590, 
per mostrarne la gravità e i danni recati, ascoltiamo oltre le narrazioni 
di un teste quale fu Gregorio I, quelle di Gregorio di Tours e di Paolo 
Diacono. 

Il papa era tanto atterrito dalle strages mortalitatis (8) che spopolavano 


(1) PauLI Drac.:1IT, 26. 

(2) Id. II, 26. MARIUS AVENTICENSIS: Chronica minora ed. Mommsen, II, pag. 238, 239. 

(3) PAULI Drac.: II, 24. GreGoR. Turon.:X, 1. GregoRrII : I, Dialog. III, 19: IV, 36, 
Epist. I, 2. 

(4) PauLi Dirac. : IV, 2. 

(©) Id. id. 

(6) Id. id. 

(7) GregoRrI: Dialog. INI, 38. 

(8) Epist., IX, 228, ed. Ewald, II, 223. 


40 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
Roma e le città, dalle d2mmutationes aeris, terroresque de coelo et contra 
ordinationem temporum tempestates, fumes, pestilentiae, terrae motus (1) che 
riteneva prossima la fine del mondo. Paolo Diacono ricordava ancora, alla 
distanza di alcuni Secoli, il terrore delle popolazioni per le innondazioni 
dei fiumi nel 590 e specialmente per lo straripamento del Tevere e per 
la terribile peste scoppiata poco dopo, con le seguenti parole : « In quel 
tempo avvenne un diluvio di acque ne’ confini della Venezia e della 
Liguria e nelle rimanenti regioni d’ Italia, quale dopo il tempo di Noè, 
si crede non fosse più avvenuto. Rovinarono possessioni e colle e grande 
fu la moria degli uomini e delle bestie. Le strade furono distrutte, rese 
impraticabili le vie e tanto crebbe I’ Adige che le acque attorno alla 
basilica del B. Zenone si innalzarono fino alle finestre superiori ». Nel 
novembre tanti furono i lampi e i tuoni, come non mai nel tempo estivo. 
Due mesi dopo la città di Verona fu in parte distrutta dalle fiamme (2). 
I Romani ricordavano la profezia di San Benedetto fatta, secondo la leg- 
genda, quando gli Ostrogoti minacciavano la città: « Roma nor sarà di- 
strutta dalla genti, ma affievolita e stanca dalle tempeste e saette, dai 
turbini e terremoti. Si sfascerà in se medesima ». I misteri di tale pro- 
fezia, dice papa Gregorio, si sono fatti per noi più chiari della luce. 
Vediamo in questa città le mura conquassate, i palazzi atterrati; le chiese 
distrutte dal turbine e i suoi edifici stanchi per lunga età e sfasciati 
per crescenti rovine » (3). 

Della peste scoppiata nel 590 parla anche Gregorio di Tours (4). Per 
le pioggie dirotte e continue avvennero in Italia spaventevoli innonda- 
zioni. Il Tevere straripò con tanto impeto che parecchi templi pagani 
ormai cadenti per età andarono diroccati al suolo. E tanto fu 1 imper- 
versare della corrente che ne andarono distrutti i granai della chiesa 
romana, i quali sorgevano probabilmente sulle sponde del fiume a piedi 
del Monte Aventino, nel luogo medesimo dove simiglianti granai ave- 
vano già servito per l’ addietro nei tempi pagani, all’ amministrazione 
dalle vettovaglie (5). Così le onde ingoiarono tutte le derrate quivi rac- 
colte in frumento ed altre civaie che montavano a molte migliaia di 
misure. Le acque stagnando appestarono l’aria; scoppiò la peste ingui- 
naia che aveva già desolato Costantinopoli e le terre dei Franchi. Stando 


8) Dial. II, 15. (Miene: LXVI, 162). 
(4) Hist. Franc., X, 1, Mon. Germ. Script rer. meroving., 406. 
(5) GRISAR: Roma alla fine del mondo antico, parte III, 1877, p. 27. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 41 

a Paolo Diacono contrade intere rimasero senza abitanti (1): e papa Gre- 
gorio aggiunge che per le stragi l’Italin sembrava un cimitero (2). E le 
stragi erano causate dai Longobardi. Il papa così descrive la loro venuta : 
«Come una spada tratta dalla guaina queste orde selvagge si disserra- 
rono sopra di noi e gli uomini dappertutto come mietuti dalla falce pe- 
rirono. Città vennero rase al suolo, villaggi distrutti, chiese sradicate, 
conventi saccheggiati. I campi si ridussero a deserto; e terre squallide 
sono da per tutto, perchè non è chi le coltivi. (#li stessi possidenti sono 
scomparsi. Ove prima era calca di gente oggi abitano le fiere ». 

Da oltre due secoli sull'Italia modo humanus modo divinus gladius (3) 
inerudeliva e con tanta sequela di mali, non è difficile immaginarsi quale 
spettacolo dovessero presentare campagne e città d’Italia e a quale estremo 
fosse ridotta la popolazione. Nel 556 Papa Pelagio I scriveva : Italiae 
praedia ita desolata sunt ut ad vecuperationem (delle pensioni sui possessi 
ecclesiastici) zemo sufficiat (4). Nel 680 i vescovi riuniti a Concilio a Roma 
descrivevano lo squallore delle città e la desolazione delle campagne ita- 
liche (5). Cassiodoro confermava che l’Italia era in desolazione e piena 
di luoghi deserti (6). 


Im tali condizioni la natura selvaggia riprese il suo impero : molti ter- 
ritori si coprirono di boschi o restarono preda alle acque stagnanti, agli 
straripamenti dei fiumi, alla malaria. Avvenne così che il territorio che 
forma ora la provincia di Ferrara, le pianure del Modenese e del Manto- 
vano, ecc. furono nell’alto medio evo frastagliate da paludi formate dalle 
acque del Po in verun modo regolate : fu così che molti territori delle 
provincie da Padova a Ravenna divennero paludi infette. * 

Fran questi territorii per loro natura paludosi e solo un aspro lavoro 
li poteva sottrarre alle acque. 

Durante l'Impero qualche lavoro di prosciugamento si era fatto nel- 
l' Alta Italia, ma ancora molte acque stagnanti sottraevano campi alla 


(1) GREG. : Dial. III, 33. 

(2) Id. Dial. III, 38: Homilia I in Evang. n. 1. 

(3) Epîst. VI, 23, ed. Ewald, I, 258. 

(4) Epist. merovingici et karol. aevi (Mon. German.) I, p. 73. MansI : Concel, IX, 124. 
(5) MansI: Concil. XI, 186. 

(6) Variar., VIII 31. 


42 SULLO STATO E LA POPOLZIAONE D'IPALIA 
agricoltura non solo nella Venezia, ma anche nell’ Emilia e Flaminia. 

Gli storici parlano di vere distese di acque che sembrano laghi (1). 
Vitruvio ne menziona fra Altinam, Aquileia e Ravenna (2). Secondo 
Strabone tutte le coste adriatiche eran interrotte da larghi tratti palu- 
dosi (3): ed altri terreni acquitrinosi egli ricorda attorno a Brescia, Man- 
tova, Reggio e Como. Secondo Erodiano tanti stagni e paludi vi erano 
fra Altinum e Ravenna che sembrava trovarsi in mezzo al mare e 
si andava in barca da’ un luogo all’ altro. Ferrara era in mezzo alle 
acque; e grandi stagni fra Modena e Bologna sono ricordati da Cice- 
rone (4). Quelli che circondavano Ravenna diedero luogo a un’ ironica 
apostrofe da parte di Apollinare Sidonio il quale ebbe i sonni turbati 
dalla « municipalium ranarum loquax turba » (5). 

Dopo il IV sec. tutti i lavori di prosciugamento rimasero interrotti e 
poi caduta la dominazione romana nessuna cura li ebbe degli argini e i 
fiumi non furono contenuti entro i loro alvei. Teodorico avrebbe voluto 
riattare gli argini, ma la sua amministrazione non potè provvedere ai 
grandi bisogni e dopo lui nulla fu fatto. Venne da ciò che alcuni grossi 
e impetuosi fiumi o torrenti si aprirono nuovi letti, aggiungendo danni 
e desolazioni a quelli causati dalle invasioni. Per esempio l'Adige at 
traversata Verona non piegava a Legnago come fa oggi, ma correva 
dritto a Montagnana e ad Este. Con varie diversioni si allontanò sempre 
più da queste città e si ritiene che nel 589 straripasse e si aprisse un 
nuovo letto. Re Autari approfittò di questo avvenimento poiché il fiume 
allagando il Polesine e parte del Padovano occupato dai Greci, difendeva 
il territorio longobardo. Anche il Brenta si aprì in questo periodo un 
nuovo letto. 

Al tempo della discesa dei Longobardi, il territorio lucchese era spesso 
interrotto da spazii acquitrinosi formati dalle acque che scendevano senza 
direzione dagli Appennini, e durante il primo medio evo si accrebbero 
le paludi nella valle padana, e nelle coste orientali ed occidentali d’Italia. 

La Toscana e la Maremma senese e volterrana che prima costituivano 


(1) CcuverIUs: Ifaléa. Nissen: Italienische Landeskunde, I, 430 

(2) 4: 

(3) Geograph. lib. V. 

(4) Epist. famil. X. 

(5) I. 8, « Te municipalium ranarum loquax turba circumsilit, in qua palude inde- 
sinenter rerum omnium lege perversa, muri cadunt, atque stant, turres fluunt, naves 
sedent, agri deambulant ». 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 43 
l’Etruria annonaria, tanto furono danneggiate dalle guerre gotiche e dal- 
l'invasione longobarda che immensi spazi restarono abbandonati e deserti, 
coperti da boschi nelle alture, da acque nelle parti basse e marine. Da 
alcune antiche città i pochi abitanti superstiti emigrarono, e di esse non 
rimasero che mucchi di rovine (1), ed il suolo ove prima sorgeva Ve- 
tulonia fu invaso da silvestre vegetazione. Gli abitanti di essa si tra- 
sferirono alle. isole di Elba e del Giglio (2). Per queste cause la Toscana 
era detta regione pestilenziale (3) e spoglia di genti. Un vescovo Gio- 
vanni che nel 800 si recò a visitare la Maremma, trovò i villaggi ab- 
bandonati, le case e le chiese in rovina, solitudine e deserto (4). I monti 
livornesi durante il medio evo erano coperti da folti boschi ed inabitati (O) 
e le carte toscane, fanno menzione frequentemente di case dirute, di 
ruderi anneriti dal fuoco, di campagne abbandonate, di acque stagnanti, 
di selve estesissime (6). La malaria seguiva a queste rovine e all’abban- 
dono delle campagne, e perciò anche i rari ed isolati agricoltori non si 
trattenevano in questi territori infetti di miasmi e fino dal secolo VIII 
si constata quella temporanea migrazione di braccianti traspadani che 
si recavano da lontano a coltivare le terre toscane (7). Questa malaria 
era specialmente prodotta dai torrenti che scendevano dagli Appennini 
senza corso regolato : ristagnavano e formavano larghe distese di luoghi 
acquitrinosi e paludigni. Tante acque non incanalate e ristagnati al piano 
erano un ostacolo alla agricoltura e alla residenza stabile di coltivatori. 
Un'antica leggenda narra che San Frediano alla fine del secolo VI de- 
viasse le acque del Serchio per cui fu resa possibile la coltivazione della 
fertile pianura lucchese : ma anche qui la cultura limitavasi a certe parti 
meno depresse, a vere /irsulae non soggette alle innondazioni fluviali. 

7 mentre ovunque le acque occupavano il piano quasi abbandonato 
la flora selvaggia riprendeva i declivi dei monti e le alture. Già fino dai 
suoi tempi Apollinare Sidonio aveva visto « ulcosum Lambrum, caeruleam 


(1) Così fu di Populonia : vedi il Cartulario del Monastero di S. Quirico di Populo- 
nia pubblicato da GrorcetTI: Archivio storico italiano, serie III, XVII, 18753. 

(2) BorcnInI: Discorsi, p. II, pag. DT, 278, 281. 

(3) SIDONII: I. cap. 5. 

(4) Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, V, p. II, pag. 71. 

(5) TARGIONI TozzertI: Relazione di viaggio, IX, 59 e segg. 

(6) Memorie e doc., V, part. II, pag. 220, 313, 384; V, part. III, pag. 126, 129, 178, 
206, 613. 

(7) Id., V, part. II, pag. 10, an. 725 « presbyter peregrinus ex partibus traspadanis» 
ha fondo nel Pisano. 


dd SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 
Addam, velocem Athesim, pigrum Mincium, quorum ripae querciis, acerni 
sque nemoribus cestiecbantur (1). E fu d’allora un crescere continuo di selve 
immense nei monti e nelle pianure, le quali trattenendo le acque piovane 
e impedendo il rapido crescere dei torrenti e dei fiumi compensavano 
la mancanza di argini. Imtere provincie erano coperte di selve, in mezzo 
alle quali come sole sorgevano le città, i pagi e i campi coltivati. Un 
antico documento descrivendo il territorio di Modena dice che esso era 
insolentia aquarum enormiter occupatum rivis circumfluentibus et stagnis ex 
paludibus ercrescentibus per cui gli abitanti se ne eran fuggiti e il terri 
torio era rimasto deserto (2). Nelle vite dei Santi e nelle cronache si 
parla spesso di eremiti che si erano ritirati in boschi impenetrabili, poco 
distanti dalle città, in compagnia di orsi e lupi (5), i quali spesso visi 
tavano le città italiane anche nei secoli XIV e NV (4). Non vi erano 
braccia per coltivare che limitatissime zone attorno ai luoghi abitati, e 
perciò le terre lontane dalle città o ingrate e di laboriosa e scarsa pro- 
duttività restavano abbandonate alla vegetazione spontanea e silvestre. 

Non parliamo delle alte catene alpine ed appenniniche che anche altempo 
dei Romani erano quasi rimaste interamente incolte. Le grandi selve che 
ne coprivano i fianchi, non furono toccate nel primo medio evo. I Ger- 
mani che del resto avevano un culto per gli alberi e le selve, essendo 
pochi di numero, non avevano bisogno di accingersi ai duri e pazienti 
lavori .di diboscamento, e nemmeno essi si spinsero sui monti. In con- 
seguenza rimasero intatti i grandi boschi e per la scarsa popolazione se 
ne formarono nuovi. 

Paolo Diacono narra della vastissima silea nella quale i re longobardi 
andavano a caccia (9), e che si stendea fra il Tanaro e l’Orba nel ter- 
ritorio di Marenco, Tortona, Alessandria. Essa fu il luogo preferito per 
la caccia dai re italiani (6) e solo dopo il secolo X si cominciarono a 
dissodare quelle vaste estensioni (7). Grandi boschi vi erano in Liguria 
e nei territori di Massa. 


(1) I. 8. 

(2) Vita S. Geminiani in MuratORI, Rer. Ital. SS. II, 2, pag. 691, e nei Monum. di 
storia patria delle prov. moden. Cronache XIV, 886, pag. 63. 

(3) Chron. Novatic. lib. 5, 14. (MurATORI: R. I. SS. II, 2. Pertz: Mon. VII: Mon. 
hist. p. Script. III). } 

(4) SaccHeTtI: Novella 17. Boccaccio: Nov. 87. PoLIzIANO: St. I, 119. 

(5) Hist. lang. V. 37: VI, 58. 

(6) LiuTPRANDI: Antapodoseos, I. 40, 42. (PerTZ: Mon. Script. III). 

(7) CiPoLLA : Appunti per servire alla storia di Asti, p. 240. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICAM 4D 

Da Agnello apprendiamo che alle porte di Ravenna vi erano non solo 
paludi, ma grandi boschi. Tra Imola e Firenze le comunicazioni erano 
interrotte da impenetrabili selve, e di queste era coperto il territorio 
fra Bologna e Modena. Altre grandi ve ne erano in provincia di Man- 
tova (1), al nord di Reggio ove è ora Migliarina, Novellara, Fabbrico (2). 
Ove è ora Nogara nel Veronese esisteva urna gran selva (3). Nel medio 
evo la Via Emilia correva attraverso paludi e boschi. Quando si apre un 
cartolaro di documenti relativi all’Alta e Centrale Italia, si è sicuri di 
incontrarsi ad ogni momento nella menzione di selve. Non solo queste 
coprivano le alture dei monti, ma si spingevano ancora alle estremità 
delle falde e ancora nelle pianure stesse. Sono le quercie annose, dai larghi 
rami e dalla folta chioma, e sotto esse pascolano greggi di porci. Il gl/an- 
datico che indica tanto un canone che si pagava al re o al signore per 
l’uso delle selve, quanto una prestazione in natura di ghianda, ricorre 
frequentemente. Tali grandi selve esistevano ancora ai tempi dei Comuni, 
e avanzi grandiosi di esse si prolungarono fino ai giorni mostri. Nelle 
provincie dell’Italia centrale si avevano la gran selva di Ravenna, quelle 
del basso forlivese, quelle di Lugo. Grandi selve esistevano tra Firenze e 
Siena. L’Umbria e gli Abbruzzi avevano anche in epoche recenti i loro 
monti coronati di selve spontaneamente cresciute a cominciare dal primo 
medio evo, allora ricovero a banditi o a qualche pio penitente. 

Ma interroghiamo i documenti per avere un'idea del gran numero di 
selve e della misura in cui soverchiavano le terre messe a cultura. Ecco 
qualche notizia sulle selve che coprivano le pianure e i monti del mo- 
denese (4). Ivi i re longobardi avevano grandi possessi dei quali fecero 
poi donazioni a chiese e monasteri. Erano grandi corti quasi tutte bo- 
schive. Nella corte che Astolfo donò nel 752 al vescovo di Modena vi 
era una selva di 500 jugeri (5): e di selve eran piene le corti che i 
vescovi possedevano sul Panaro e sul Secchia (6). 

La selva che nel 753 re Astolfo donò all’abate Anselmo e che faceva 
parte di una corte regia, misurava oltre 120 chmq. si stendeva dal Pa- 
naro all’agro persicetano (7). Altrettanto vasta era la selva regia donata 


(1) Codex diplom. Langob., 95. 

(2) Trova: Cod. dipl. long., 962. 

(3) MuraroRI: Antig. diss. 21. 

(4) TrraposcHI: Storta dell’ Abazia di Nonantola, II, 9. 
(5) MuraTORI: Antig. italicae, diss. XXI. 

(6) TrraBoscHI: Memorie stor. moden. I. Cod. dipl. n. 5-1. 
()RIASRIIAPwASI 


46 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


al Monastero di Nonantola da Liutprando nel 824 (1). Al vescovo di 
Cremona appartenevano nel 1000 vastissimi boschi (2), ed altri a’ ve- 
scovi di Milano e Lodi (3), Parma (4) Ove ora sorge Ostiglia, nel se- 
colo IX, eran boschi e paludi (5) ed estensioni vastissime di terre boschive 
e paludose appartenevano al monastero di Polirone (6). 

La grande proprietà feudale, le curtes, che erano in gran parte co- 
stituite dai fundi e dai latifundia dell’epoca imperiale, trovavansi durante 
l'epoca medievale nelle mani del fisco regio e dei signori laici ed eccle- 
siastici; a questi eran tali beni venuti per infendamenti o per donazioni da 
parte dei re. Le carte ci mostrano in modo chiaro come questo grande pos- 
sesso regio o signorile fosse in gran parte costituito da terre incolte e 
boschive. Numerose erano le curtes regales nel Piemonte e in Lombardia: 
fra il 568 e il 1095 se ne contano 100 in Lombardia e 205 in Piemonte.. 
Nel territorio che ora costituisce la provincia di Brescia (chmq. 5180) 
se ne contavano 20: in quel di Milano (chmq. 2992) 27 : in quel di Ales- 
sandria (chmq. 5055) 49. La nona parte del territorio era nell’epoca lon- 
gobarda proprietà della corona. Ora dalle carte di donazione (non avendosi 
un elenco descrittivo dalle curtes regales, risulta che la maggior parte 
di questa proprietà e specialmente i grandi possessi, erano incolti e co- 
perti di boschi. Tali erano le grandi distese di terra donate al mona- 
stero di Bobbio, a quello di Pedona, alla chiesa di San Giovanni di 
Monza (7), dai primi re longobardi (8), tali erano quelle che accompa- 
gnarono le fondazioni di chiese e monasteri fatte da Grimoaldo e Cuni- 
perto. Nelle donazioni più numerose di Liutprando al monastero di Santo 
Atanasio, a quello di Berceto (9), nelle altre di Desiderio ai monasteri 
di S. Salvatore, Leno, Nonantola, Farfa, Cassino, ecc. poche sono le terre 
coltivate mentre sterminate sono le boschive (10). Le corti poste fra il 


(1) Tiraposcni, II, p. 41-43. 

(2) SANcLEMENTE: Serzes episcop. cremon., p. 251. 

(3) Zaccaria : Serzes episcop. laudens., p. 1853. 

(4) Arrò: Storîa di Parma, I, 314. 

(9) TiraBoscuHr: Sforza dell’Ab. di Nonant., Il, 46. 

(6) BaccHINI: Polérone, 103. 

(7) Pel monastero di Bobbio, vedi i doeumenti pubblic. da Trova. Però i num. 246 e 249 
souo falsi. Ma una donazione di Agilulfo è menzionata in una carta nei Mon. Rist. pa-- 
triae: Chart. I. 30. 

(8) Trova : 354. 

(9) Id. 531. 

(10) Codex diplom. Longob. 52: Regesto farfense, Codex Cavensis, ecc. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 47 

Tanaro, la Stura e l'Appennino Ligure donate da Berengario al vescovo 
di Asti, dell’estensione di 100 mila jugeri (an. 900) contenevano grandi 
spazi a selve, boscaglie, paludi, ecc. (1). I mille mansi poste sul Tanaro, 
che formavano la dote di Berta moglie di re Ugo, gli altri 2160 che aveva 
in Toscana: i mille sul Po e i 4580 nei contadi di Lucca, Siena e Chiusi 
appartenenti alla moglie di Lotario erano nella stessa condizione (2). 
Queste curtes regiae poste fra l’Orba, il Tanaro e il mare, con una super- 
ficie di circa chm. 55 da Est a Ovest e di 60 da Nord a Sud, sono dette 
deserti loca in un documento dal 967 (3). 

Nel contado di Bergamo il bene regio di Cortenova era di 2287 jugeri, 
la maggior parte a bosco: basti dire che sopra vi erano sette famiglie 
con 18 persone : una piccola parte era a grano e a vigna (4). Nello stesso 
contado il fisco possedeva altre terre a prato, ma l’ estensione ne era 
ben diversa: Covello era di 55 jugeri, Caneto di 10, Vedelengo di 52, 
Andenengo e Seratica di 47; ed anche minore era l’estensione di quelle 
coltivate a grano, come Fara che misurava solo 22 jugeri. Mvece a Bar- 
bata accanto alle terre a grano vi era il bosco e la superficie era di 191 
jugeri: a Barbadisca il bosco era di 400 jugeri. Nel 987 Corrado donò 
al vescovo di Vercelli la corte Caresana che comprendeva 


vineae, capella, sedimina 100 juga 
terrae arabiles. . . . 200. > 
prata gerba. . . . .300. >» 
SUGO OOO (0) 


Per detta corte in un altro documento del 995 troviamo le seguenti 
misure : 
COSO 1 jugum 
Vites seu prata. . . 1000 juga 
Terra arabilis . . . 8000. » 


gerbae et buscalia l 4000 6 
Stilvae et paludes . \ °° DI 


(1) Codex dipl. Long., 390. 

(2)2Id:15921053: : 

(3) Diploma Ottonis I, nei Monum. Germ., ed. Sickel, 339. 

(4) Lupi: Cod. dipl. Bergom. nell’Indice. Codex dipl. long. 464. 

(5) PROVANA: Studi critici sulla storia d’Italia al tempo di re Arduino, 1844, p. 351. 

(6) Diploma Ottonis III, ed. cit. 264-323. Il PorRO :nel Codex diplom. longob. p. 205 
mette il “gum = mq. 7854,12 ed è in ciò seguito dal DARMSTAEDTER (Redchsgut in der 
Lombardei u. Piemont 1896, pag. 112, 225, 301) che fa 8000 jugeri = 6000 ettari, ossia 
il jugum=are 75. Credo questa misurazione discutibile e preferirei ritenere che il 
jugum medievale equivalesse al jugero romano, ossia = are 25. 


4S SULLO STAPO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


E queste sono corti regie nelle quali erano inclusi tratti boschivi; ma 
è menzione sovente di veri e propri boschi regii, posti sotto ammini- 
stratori speciali (Si/eazi, gualdatores) mentre i piccoli erano inclusi nella 
amministrazione delle corti regie. Ai primi appartenevano la foresta W/ydés, 
e i boschi di Lomellina, di Ostiglia, di Montelongo. I secondi erano meno 
importanti per estensione ma più numerosi e ovunque esistevano delle 
grandi corti regie (1). Le popolazioni vi facevan legna, ma eran tenute 
a tagliare gli alberi che» servivano al re e che poi erano lavorati dai 
regi carpentarii (2). Tralasciamo ora esaminare perchè questi grandi boschi 
si trovassero nel possesso del fisco regio e qual valore questo fatto possa 
avere per la storia dell'occupazione del suolo italico al momento delle 
invasioni germaniche. La quantità di grandi boschi che l'Alta Italia ci 
presenta, trovasi anche nell’Italia centrale e meridionale. La Garfagnana 
e la Versili:. erano anche al tempo della contessa Matilde regioni emi- 
nentemente boschive ed incolte (3): invero in un cambio di terre fatto 
da Azone b.savolo di Matilde, in quel di Pisa, sono menzionate terrae 
arabilis modia 40, silcis et buscaleis modia 1060 che vengono permutate 
con 1050 modia silcis et buscaleis (4). Fitte selve coprivano le campagne 
di Volterra, degli Abruzzi, ecc. : e i monasteri di Cassino, Farfa, Subiaco, 
come quelli di Bobbio, Pomposa, Leno, Polirone, nati generalmente da 
piccoli eremitaggi, sorsero in mezzo a grandi boschi dei quali i monaci 
stessi intrapresero il dissodamento. 

Della Lucania e della Calabria, regioni boscose al tempo dei Romani, 
e poco popolate, accennerò brevemente. 

Il tempo distrusse i lavori di bonifica agli stagni del Tanagro e molte 
terre lucane vennero preda alle acque stagnanti e ai giuncheti; e cadute, 
distrutte o imbarbarite Consilino, Atena, Tegiano, Sontia, Marcelliana, 
i pochi abitanti furono cacciati dalle numerose paludi che oggi più non 
esistono, ma che scovre la onomastica dei luoghi (5). La malaria spo- 
polò città e campagne. I fiumi che non trovavano facile sbocco nel mare, 
impaludarono e così di erbe selvatiche si coprirono vastissime superficie, 
come di limo le acque violenti e scomposte coprirono le rovine di Sibari, 


1) Cfr. DARMSTAEDTER, pag. 299 e segg. 

2) Codex dipl. Longob., 529. 

(3) PaccHI: Ricerche istoriche sulla provincia della Garfagnana, p. 14. 

(4) MuratoRrI: Antig., diss. 25. 

(5) Vedi i nomi degli odierni paesi di Padula, Montesano, Buonabitacolo. Cfr. Ra- 
ciopPi, Storia dei popoli della Lucania e Basilicata, L: 1889, pag. 357. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 49 
di Eraclea, di Sirii, Turii, Caulonia, Temesa, Lao, Molpa, Marcina, Bus 
sento, Pesto. 

Nell’alta come nella parte inferiore della penisola la popolazione era 
tanto diminuita che nessuno cercava di combattere la natura selvaggia 
che riprendeva il suo impero. Non si coltivava oltre il bisogno della 
famiglia, perciò crebbero ovunque le selve, le foreste, le boscaglie, le 
paludi; finchè qui man mano si adagiarono altre famiglie; poche, esigue, 
meschine e pure, benchè lentamente, espandentisi. 


Tanta era la terra disponibile che, oltre i boschi comuni (1), ogni famiglia 
teneva a bosco una parte della sua proprietà. 

Difatti le carte medievali ci mostrano come spesso ad un appezzamento 
di terra coltivata andasse congiunta una più grande superficie di terra 
boschiva, appartenente allo stesso proprietario; per es. in una carta cre- 
monese del 990 a 20 iugeri di terre arabili sono congiunti 1600 iugeri 
di selva (2); in una carta del 1039 a 700 iugeri di cultum si accompa- 
gnano 1200 di boschi, e a 114 di campi coltivati 400 di boschi (3). In 
un tenimento cum sylva et boscaleis vi sono 20 iugeri di terre arabili e 
60 di selve (4). Spesso accanto alla terra coltivata vi è la ‘selva (5). In 
una donazione del 961 si danno 40 moggia di terre arabili e 1060 di 
boschive: 190 di quelle e 1030 di queste : in altra del 1061 4 di ara- 
bili e 96 di boschive (6). In una permuta dello stesso anno si cambiano 
76 iugeri di arabili e 420 di boschive, con 13 di prati e 420 di boschi (7). 
Nel 972 quale appendice a una pecia de terra sono menzionati 611 iugeri 
de silva et runcoras per mensura (8). Egualmente nel 946 la chiesa di Bo- 
logna che aveva ricevuto una donazione di 2000 mansi, possedeva varie 


(1) Trova: Cod. dipl. longob., IV, n. 671. E al n. 604 « parte mea de cahagio sub 
monte ». Cfr. RorH. 240, 241, 519, 525. Liur: 82, 116. 

(2) MuraTORI: Antig. ital., II, 263. 

(3) Arpò : Storta di Parma, II, 312-315. 

(4) BaccHINI: Storîa del Mon. di S. Benedetto di Polirone nello stato dî Mantova, 
1656, doc. p. 3. 

(5) SOLDANI: Hist. monast. de Passiniano, Lucca, I, 1741, p. 5; an. 740. Tirago- 
scHI: Storia dell’Abbazia di Nonant. II, pag. 63, an. 88. 

(6) DELLA RENA: Introd. alla seconda serie dei duchi di Toscana, 1764, pag. 119, n.2. 

(7) Id., pag. 123, n. 4. 

(8) ArrAROSI: Memorie storiche del Monastero di S. Prospero di Reggio, I, 763. 


II 


50 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
corti con grandi appendici di selve, nelle quali, secondo l’estensione di 
esse, i coloni della Chiesa andavano a far legna (1). 

Im ogni carta di donazione o di investitura di terre, leggesi: «cum 
aquis, silvis, paludibus, pratis, pascuis, ecc. » : e questa formula incontrasi 
anche nei documenti del secolo XII. Ogni cé/la, o curtis comprendeva 
estensioni notevoli di boschi e di paludi. Solo una parte della curtis era 
coltivata, il resto era abbandonato alla natura selvaggia; e quando il 
centro dalla curtis, cioè la casa dominicata, crebbe e si trasformò in 
castrum circondato da mura e fossati, furono messe a cultura le terre 
prossime al castello, ove si rinserravano i coltivatori all'avvicinarsi di 
qualche pericolo. Nell’epoca feudale crebbero anzi i boschi perchè i signori 
andavano a gara nell’averne e vietavano di tagliare un albero e disso- 
dare porzione alcuna di terra. 

Questi grandi boschi restarono intatti fin verso il secolo XII. Di quelli 
esistenti nel vicentino si ha notizia dagli Statuti del secolo XIII (2). I 
boschi che coronavano gli Appennini della Liguria durarono più a lungo : 
anche al secolo XIX la terza parte della provincia di Genova era coperta 
da boschi (3), e al secolo XVI il bosco di Taggia della estensione di 2000 
ettare dava il legname per le flotte all'Ordine gerosolimitano. I Comuni 
avevano magistrati speciali pei boschi (Saltari), come avevano ufficiali 
ai beni incolti: curavano che le piante fossero conservate e ne discipli- 
navano il taglio (4) : ma poi sotto la pressione dei bisogni per la crescente 
popolazione ne incoraggiarono il dissodamento (5). I primi segni della 
trasformazione delle selve in campi e luoghi abitati si avvertono nel finire 
del secolo X. Dove era la gran foresta sul Tanaro, verso quell’epoca trovansi 
corti e mansi e popolazione che lavora (6). Solo i nomi di Gazzola, Gazzora, 
Bosco, Marengo, Silvano, Rovereto, ecc. indicano l’esistenza dell'antica selva. 
Anche in Toscana nel secolo X notasi il risveglio della agricoltura pel 
crescere della popolazione. Nel 942 il vescovo di Lucca livellava edifici 
diruti con molino presso Populonia per 6 denari d’argento; quarant'anni 
dopo quelle case vedonsi riedificate, e le terre un giorno incolte trasfor- 


(1) SaLvioLI: Annali bolognesi, I, parte II, ar. 24. 

(2) Statuti di Vicenza 1264, ed. Lampertico, I, p. 54-555. 

(3) Casanis: Dizionario, XVIII, 681. 

(4) GLoRrIA : p. CLVI. BereNnanR: Dell’antica storia e legislazione forestale in Ita- 
Lia, 1863. 

(5) Cfr. Registro della Curia arcivescovile di Genova, ed. Belgrano, negli Atti della 
Società ligure di storia patria, II, 2, 1862, pag. 314. 

(6) Codex dipl. lung., 997. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE I 
mate in orti, vigne, oliveti, tanto che il canone sali a 10 soldi d’argento (1). 
La causa stava nell’aumento della popolazione e il mezzo nell’enfiteusi. 

Sotto la spinta della popolazione crescente si cominciarono ad abbattere 
le quercie secolari, a dissodare, a mettere a cultura. Allora specialmente 
le chiese diedero ad enfiteusi i boschi ad stirpandum (2), e per incorag- 
giare i coltivatori per i primi anni o nulla pretendevano 0 semplicemente 
la decima, che in seguito elevavano alla quarta parte dei prodotti (3); 
e molte decime e runcatica che si pagarono in seguito sulle terre, deri- 
vavano appunto da simili concessioni di terre boschive date a dissodare (4). 
Anche terre paludose furono con identici contratti concesse per prosciu- 
garle e i concedenti furono autorizzati «i lavori e i possessi loro ir paludes 
et flumina extendere quantumceumque potuerint » (5). 

AI secolo XII non bastando più le terre coltivate ai bisogni della popo- 
lazione crescente, questa invase anche i boschi dei monasteri e li dis- 
sodò (6). Un lavoro generale ferveva : ove eran boschi, germogliarono 
le spighe del grano, o:le erbe dei pascoli o si piantaron vigne (7). 

Le più antiche descrizioni d’Italia dell’epoca comunale però attestano 
ancora l’esistenza di numerose e importanti selve. Si esamini, per es. il 
Dittamondo di Faccio degli Uberti. Al XVI secolo Alberti nella sua celebre 
descrizione d’Italia (pag. 346) ricordava le folte selve di Liguria, Pie- 
monte, Appennini, Umbria e Basilicata, ma a proposito delle innondazioni 
del Po notava: « Pare a me tra l’altre ragione che il faci tanti disordini, 
sia una che essendo moltiplicati gli huomini nell’ Italia et non essendo 
sufficienti i luoghi piani et consueti di cultivare.... è stato necessario altresì 
di coltivare gli alti monti incolti. Onde scendendo la pioggia ecc. ecc. Il 
che non occorreva tanto nei tempi antichi per essere incolti i monti ». 
Così a poco a poco non solo le pianure ma anche le montagne furono 
denudate dalle foreste secolari, con grande danno per l'agricoltura e oggi 
quasi tutte le terre suscettibili di prodotto sono state messe a cultura. 


(1) Memorie e doc. per servire alla storia dî Lucca, V, p. III, 1895, 415. 

(2) DeLLa RENA: Serze, 1780, p. 6, an. 1112. BaccHINI: Polirone, 92, an. 1112. Vi- 
gnatI: Codice diplom. laudense, II, n. 152. Tiraposcu1: Storia di Modena, III, n. 376, 
an. 1144. 

(3) TiraposcHI: Mod. II, n. 2, 340, an. 1127. FrIZzI: Mem. per la storia di Fer- 
rara, II, pag. 230. 

(4) R. DELLA RENA: Serie, 1780, n. 4, pag. 61. 

(5) Id. Serze, 1779, n. 15, p. 62. 

(6) Bolla di Innocenzo II, an. 1136 per un mon. in MuraTORI Antig. diss. 21. 

(7) VicNnATI: Cod. Dipl. laudense, II, n. 152. 


DI, SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 


L’onomastica dei luoghi, come si è anche qua e là accennato, conserva 
ancora bene l'impronta dello stato semi-selvaggio in cui trovavansi tante 
e tante terre della penisola. Si esamini, per es. il Dizionario dei Comuni 
del Regno, e si vedrà il gran numero di Albarelli, Albereti, Bosco di...., 
Boscalli, Boschetti, Carpane, Carpenedo, Conselve, Frassene, Frassineto, 
Frassenello, Gazzo (1), Gazzetto, Gazzolo, Gualdo (2), Legnaro, Langhe, Olmo, 
Roveredo, Salboro, Salgarella, Selva, Selvatico, Selvazzano (3). Questi sor- 
gono ove nel medio evo eran foreste. Poichè diboscare dicevasi runcare 
così ronchi erano i luoghi diboscati e nel Padovano si hanno 20 luoghi 
col nome di Ronchi, 5 nel Trevigiano, 4 nel Veronese, 5 nel Bellunese, 
5 nell’Udinese, 1 nel Veneto (4). Altri comuni prendono nome dai lupi 
e orsi che abitavan IeTforeste (5): Orsiago, Lupa, Lupari, Lupaiano, ece. 
Altri da paludi: Anguillara, Lagomorto, Palù, Palugana, Pescana, Val 
di...., Tencarola, Bagnoli, Bassano, ecc. Altri luoghi traggono il nome dal 
fatto che essi un giorno erano vaste lande destinate alla caccia del signore, 
e sono gli animali che li battezzano : così Falconara, paese dell’Anconi- 
tano e del Cosentino, Vulturara (appula ed irpina), e Cervara e Cervi- 
nara, ecc. Ancora si osservi Carbone, paese sorto presso un cenobio dei 
Basiliani (6), Carbonara, nomi venuti ai luoghi da ampli diboscamenti 
per via del fuoco : Colobraro per i colubri o serpi che infestavano quei 
terreni paludosi. Gravina dal medievale graca= fossa, fiumara. Piana di 
Maglia= Macchia. Guarina anticamente Warina = selva messa in difesa 
e riservata alla caccia del signore. Spinosa, Improsta = terra perusta dis- 
sodata per via di abbrucciamento, come è il senso di Arsieni in quel di 
Moliterno. Tramutola= terra motola, diminutivo di mota, terra troppo 
imbevuta d’acqua. Questi nomi sono presi da tutte le parti d’Italia, nel 
nord, al centro e al Sud, e tutti attestano che l'origine di molti luoghi, 
sorti dopo il mille, avvenne in mezzo a boschi e a stagni di acque, che 
furono poi pel lavoro secolare dell’uomo trasformati in fertili campi. Una 


(1) Gahagio, Cafaggio, Cafaggioli, Cafaggina, Caggello, Caggiolo. Cfr. PrerI: To- 
ponomastica della Valle del Serchio. Supplemento all’ Archivio glottologico italiano, 
dispensa V, 1898, p. 149. 

\2) GuaLpoLo: Terra valda: Mem. e doc. per servire alla storia di Lucca, IV, p.II, 174. 

(3) E potremmo aggiungere Cerreto, Cerqueto, Curcheta (da quercus) Quarneto, 
Berceto, Roveto, Gruvitano, Sosselva, Selvoli, Selvaneto, Vepre, ecc. 

(4) Goria: L’agricol. a Padova, I, c. 14. 

(0) Bower: Bandi lucchesi, 360. 

(6) UGHELLI: Italza sacra, VII, 78. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 53 
analisi dell’origine della toponomastica italica (1) potrebbe portare ad alcune 
considerazioni non solo sulla storia etnica, politica ma anche su quella 
economica della penisola; ma dovendo discutere, a questo proposito, intorno 
ad alcune opinioni recentemente enunziate e che crediamo inesatte, ce ne 
asteniamo per ora. 

Per ultimo indichiamo le denominazioni di Zsola che ricorrono frequen- 
temente in Toscana. Con questo nome si indicavano piccoli territorii abi- 
tati e salubri che sorgevano quali oasi in mezzo alle vaste superficie acqui 
trinose ed incolte. Queste Isole trovansi anche nel Lazio e Abruzzi. È 
la lingua del medio evo ebbe vari nomi per indicare le terre palustri; 
lauma, lame (2), regonis (3), saldinis (4), arbo, warbo, garbo, vado, van- 
zo = palude (5), vegro = incolto, pastino (6), braida (7), stalaria, nomi i 
quali poi servirono a battezzare antichi villaggi o frazioni di essi o 
località che da deserte erano divenute col tempo abitate. 

Da tutte queste varie testimonianze risulta quanto diversa fosse l’Italia 
del medio evo dalla presente: dove ora popolazioni laboriose si adden- 
sano, allora non erano che boschi e paludi : ove ora sono casolari e vil 
laggi, allora erano deserta loca (8), terrae desertae (9): e così dalle Alpi 
alla Sicilia, lo stesso spettacolo. 

L’agro romano, la Calabria, la Lucania erano nelle stesse condizioni 
di squallore, e come esse era la Liguria e la Lombardia. I cartulari 
riproducono l'abbandono dei campi e la scarsezza della popolazione colla 
menzione frequente che le terre non hanno coltivatori. Ad accrescere 
nell'Italia meridionale lo spopolamento, si erano aggiunte le escursioni 
dei Saraceni che uccidevano o facevano schiavi quanti incontravano, e 
che quindi avevano fatto emigrare sui monti e verso l’interno le popo- 


(1) Su questa ved. FLEccHIA : Nomi locali dell’Italia superiore : Atti dell’ Accademia 
delle scienze di Torino, XV. PIERI: cit. 

(2) MURATORI : diss. 33. 

(3) Zaccaria: Monast. dî Leno, p. 205. 

(4) TaccoLi: Memorie di Reggio,I, 596, an. 1136. Questa parola manca in Ducange. 

(5) BrunaccI: Storîa di Padova, p. 656, an. 1097. 

(6) Registro della Curia arcivese. di Genova, p. 314. Pastino = terreno divelto, scas- 
sato, zappato; di pastini è frequente menzione nel territorio lucchese: vedi Memorie 
e doc. per servire alla storia ilî Lucca, V, parte II, 554, 636: parte III, 201, 669. 

(7) Baccuni: Storia del Mon. di S. Benedetto di Polirone, p. 36. ReNA: Serte 1780, p. 10. 

(8) Diploma Ottonis I nei Monum. Germaniae, ed. Sickel, p. 339. 

(9) Memorie e doc. per servire alla storia di Lucca, IV, parte II, append. 19, an. 
813, 36, an. 844 e V, parte III, 420, an. 983. 


D4 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 
lazioni delle coste dell’Italia meridionale. Così villaggi e città restarono 
in completo abbandono. 

Mm conclusione l’opera di distruzione già attiva e per tante cause nel- 
l'epoca imperiale, poi inacerbita pel cozzo delle invasioni e delle guerre, 
opera malefica durata per secoli, aveva spogliato i campi di tutta la 
penisola dei suoi coltivatori e le città degli abitanti : in quelli il deserto, 
in queste rovine. Le grandi città dell’epoca imperiale discesero per il 
numero della popolazione al grado di vici, e città si dicevano soltanto 
perchè avevano intorno la cinta di mura o un simulacro di mura (1). Entro 
la cinta i detriti del passato splendore cadevano in rovine, sulle quali in 
seguito col crescere della popolazione si elevarono case, prima in legno, 
poi cambiate in pietra: e quell’ uso di adoperare le vecchie fondazioni 
per sopra fabbricare contribui a dare alle città italiane del medio evo 
quel tipo vario e bizzarro di vie irregolari. 


J00G 


Da questo quadro delle condizioni naturali che presentava la penisola, 
è lecito desumere, per quanto riguarda il numero della popolazione ita- 
lica che, durante il periodo dell’invasione longobarda ossia nella seconda 
metà del secolo VI, la curva decrescente abbia toccato il punto più 
basso. Dopo l’ impero romano nessuna cifra è più a disposizione dello 
studioso in modo che non è possibile ricostruire alcuna statistica. Cen- 
simenti non furono più fatti nell’epoca di mezzo e anche la legislazione 
carolingia, così attenta ai bisogni delle popolazioni, non contiene ‘alcuna 
disposizione in proposito. I conti non tenevano nota dei liberi che dove- 
vano il servizio militare o pubbliche prestazioni (2), ma solo notavano 
la condizione delle persone residenti nei beni del fisco. Nemmeno le par- 
rocchie tenevano allora registri (3). Soltanto i monasteri avevano elen- 


(1) Così OrtoNE DI FRISINGA, Chronie. VII, 27, in PerTz, Mon. Germ. Script. XX. 

(2) Secondo gli Annal. Etnhardî in Pernz Mom. Gern. SS. II, 197, 218 l’imperatore 
mandava missî, a riunire quelli che erano tenuti al servizio militare, ed in pene in- 
correvano i renitenti. Vedi anche il Capital. de rebus exercitatibus an. 811, c. 9; ed. 
Boretius, p. 165. Di ordine di convocazione parlano anche i Capitolari (Cfr. BoRETIUS, 
p. 141). I conti dovevano indagare ogni volta « quanti homines liberi in singulis comi- 
tatibus maneant, ecc.» Capit. Aquisgran. an. 828, c. 7, ed. Boretius. Descrizioni dei 
beni imperiali dovevano fare i missi (Capit. de villis, 812 e Capît. aquens, 807, e. T) 
ed anche « describere.... quot homines casatos in ipso beneficio ». Cap. Aquisgr. 812, c. 5. 

(3) I registri parrocchiali divennero obbligatorii soltanto col Concilio di Trento. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE DI 


chi delle famiglie dei loro dipendenti: ma per l'Italia ancora noi non 
ne conosciamo di analoghi al Polypticon dell’ Abbate Irminone (1). La 
Chiesa Romana, erede delle buone tradizioni amministrative imperiali, 
redigeva elenchi dei poveri ai quali distribuiva soccorsi, il grano che 
veniva dai patrimoni che essa aveva in Sicilia : però anche questi elen- 
chi non sono a noi pervenuti (2). 

Non statistiche, non cifre adunque. È impossibile precisare il numero 
della popolazione ed è d’uopo limitarci alle notizie generali che si sono 
riferite, cioè che le campagne erano abbandonate, le città in rovina, 
che le malattie avevano distrutto buona parte della razza italica (5). 
Sifatta decadenza del resto datava da secoli: Augusto l’aveva avvertita 
e aveva studiato i rimedi che a poco o a nulla approdarono (4). I disastri 
dei secoli V e VI l'avevano affrettata ed acuita, dopo che eransi veri- 
ficati i timori di Orosio, cioè era avvenuto che tutte le afflizioni sca- 
tenatesi un giorno sull’Egitto avevano preso a percuotere l'occidente (5) 
e tutti i rimedi si mostravano insufficienti ai mali delle provinciae eversae (6). 
Era un’implacabile sentenza divina che si eseguiva, tanto che San Mas- 
simo vescovo di Torino diceva ai suoi fedeli non esservi altro mezzo 


(1) Ed. da Guérard. Si hanno dei registri pel monastero di Farfa, di Santa Giulia di 
Brescia, ecc. (dei quali parlerò più oltre), ma non sono paragonabili a quelli dei mo- 
nasteri di Francia o di Germania così preziosi per la storia economica di quei paesi. 

(2) Di essi parla GrovannI Dracono : Vita Gregorti M. II, 30: « communis sexus 
cunctarum aetatum ac professionum nomina tam Romae quam per civitatesve vicinas 
‘nec non longinquas maritimas urbes degentium cum suis cognominibus temporibus 
et remunerationibus expresse continentur ». 

(3) Oltre le grandi pestilenze sopra ricordate, voglio avvertire che la malaria era in 
Italia tanto generale che i cronisti tedeschi del medio evo mettevano a carico dell’in- 
fetto aere italico (morbus italicus, febris italica: Aun. Fuld. Pertz, III) le mortalità 
onde erano colpiti i loro conuazionali che scendevano in Italia. Vedi Vita Mudov. id. 
II, 642. EkkrAHARDI, Casus S. Galli, an. 395 in PerTz Mon. Germ. SS. II, 82. Ann. 
Hildesteim id, III, 92. Ann. Augustani id. INI, 134. 

(4) Recentemente il BeLocH ha calcolata la popolazione dell’Alta Italia al tempo di 
Cesare in 3 milioni: durante l'impero in 4 milioni e mezzo. Secondo i suoi calcoli 
l’Italia tutta al principio delsec. XVI aveva nove milioni, di cui 6 nell’Alta e 5 nel Mez- 
zogiorno. Oltre l’art. nel Bulletin de l’ Institut international de statistique, IIT, 1888, 
vedi i suoi art. in Afene e Roma, I, 1898, p. 257-278 e Die Bevòlkerung Galliens zur 
Zéit Caesars nel Rheinisches Museum fiir Philologie, nova serie, vol. LIV, 1898, pa- 
gina 440-442. Firenze nella prima metà del secolo XII aveva 6000 abitanti. DANTE: 
Parad. XIV. Cfr. SALVEMINI: Magnati e popol., 1899, 45. 

(9) VII, 27. 

(6) VII, 33. 


56 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
di scampo se non la preghiera: « Non teme i barbari chi teme Dio» (1). 

Jordanes narra che Alario «quasi vis vacuam intravit Italiam » (2). 
Procopio, che è lo storico meglio informato della sua epoca, egualmente 
constata la straordinaria diminuzione della popolazione italica, tanto 
da esserne sorpreso (3). Secondo lui, l’Italia, sebbene fosse tre volte mag- 
giore dell’Africa vandalica, tuttavia era meno popolata di questa (4). Da 
oltre un secolo vi eran state guerre desolatrici, ele tregue eran troppo brevi 
perchè il numero degli abitanti potesse crescere. Piuttosto alcune delle 
cause che avevano rovinato l’Italia e scemata la popolazione sotto lim- 
pero romano continuarono anche sotto i Bizantini, come le prepotenze 
della burocrazia, le violenze dei grandi e le imposte disordinate. Ciò che 
un antico scrittore diceva: «dal Consolato di Basilio fino al patriziato 
di Narsete furono i Romani delle provincie d’Italia annichiliti » (5) è per- 
fettamente vero, anche per quelle parti d’Italia che continuarono a re- 
stare sotto la dominazione bizantina. 

Noi abbiamo enumerato le guerre, le invasioni, le carestie, le pesti 
lenze come circostanze che concorsero alla diminuzione della popolazione, 
la quale poi non poteva crescere per quelle altre cause generali proprie 
dei periodi di bassa civiltà e che abbiamo già indicate. Per dare un esem- 
pio dei vuoti che le scorrerie dei Germani facevano nella popolazione 
italica citeremmo il fatto delle migliaia di Italiani che al tempo dei Goti 
furono strappati dai Borgognoni scesi con Gundebardo e trasportati oltre 
le Alpi per coltivare le terre. Alcuni anni dopo Ennodio trovò nei din- 
torni di Lione sei mila individui razziati in quell’ epoca e non ancora 
venduti (6). I Vandali poi migliaia di Italiani portarono quali schiavi in 
Africa (7). Le nazioni militari e conquistatrici abbisognano di braccia 
servili che coltivino per esse la terra ed è anche questa la ragione per 
cui nel periodo barbarico invece della pena di morte pei delinquenti fu 
ammessa con tanta facilità e per tanti delitti la schiavitù perpetua o 
temporanea. 

Un altro esempio preso da Procopio vale ad illuminare intorno alle 


(1) Sancti Maximi TAURINENSIS Opera (ed. Migne, LVII), Homilia XCOII, pag. 465. 
(2) Getica, c. 29. 

(3) De bello got. V, pag. 314, ed. Comparetti. | 

(4) Historia arcana, c. 18. 

(5) MarIUS AveNTINUS nei Chronica minora, ed. Mommsen, II, 510. 

(6) ExnoDpII: Vita Epiphani, p. 267. 

(7) GrecoRrI, I: Dialog. II 1. 


m 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE DI 
condizioni demiche d'’ Italia (1). Egli narra di una grande carestia, in 
seguito alla quale morirono di fame nel Piceno 50000 contadini ed anche 
molti di più al di là del Golfo Jonio. Innumerevoli villaggi restarono 
spopolati : in alcuni centri rustici i Goti trovarono solo qualche donna 
ischeletrita: gli uomini erano morti o fuggiti. Continua la narrazione, 
dicendo che le terre rimasero incolte per mancanza di braccia: il erano 
non fu internato nei solchi coll’aratro, ma fu abbandonato alla superficie. 
Né essendovi alcuno che lo mietesse, passata la maturità ricadde giù e poi 
niente più nacque. Le genti dell'Emilia emigrarono nel Piceno pensando 
che quella regione essendo marittima non dovesse essere totalmente 
afflitta dalla carestia. 

In tutta la regione oltre il Po fino a Ravenna, i Franchi in una scor- 
reria che fecero al tempo dei Goti non trovarono abitanti nelle campa- 
gne: «quella regione (dice Procopio II 25) priva affatto di uomini non 
oftriva loro altro se non buoi e l’acqua del Po». Perciò scoppiarono 
malattie nel campo dei Franchi e un terzo di essi lasciò le ossa nella pianura 
padana; e gli altri dovettero nella maggior fretta ripassare le Alpi «perchè 
quelle regioni erano deserte e vi si moriva di fame ». 


Ma questi vuoti non furono colmati dalle orde germaniche che si fer- 
marono nella penisola? Non si ebbero nazioni intere che si sovrappo- 
sero ai residui della razza italica ? E fino a qual punto si ebbe una tra- 
sfusione di sangue germanico nelle vene italiane ? e come fu la nazione 
italica rinnovata da queste sorgenti di gioventù e di vita che le com- 
municarono i popoli del nord? È un luogo comune 1’ affermare che il 
decrepito mondo romano declinò a morte, finchè le invasioni germaniche 
con gli incroci del sangue non lo ridestarono a nuova vita, che la vi 
goria onde furono dotati gli Italiani nei secoli posteriori al mille, è frutto 
dell'incontro della razza germanica colla latina. Questa opinione è stata 
sostenuta da Troya, Manzoni e dallo stesso Balbo. Soltanto il dottissimo 
Muratori diede poco peso ai Germani, come numero e come elemento 
civilizzatore , e in ciò rivela come i larghi e profondi studi sul medio 
evo gli avessero dato una felice e vera intuizione di quelle epoche lontane. 

Perchè i Barbari stanziati in Italia potessero rimediare ai danni pro- 
vocati dalla loro irruzione, sarebbe stato necessario che fossero stati in 


(1) De bello gotico, II, 20. Cfr. Liber pontificalis: Vita Silvestri, ed. Duchesne. 
8 


95 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


gran numero e vi avessero presa stabile dimora. Questo secondo fatto 
non avvenne che coi Longobardi. Prima truppe germaniche comandate 
dai maestri dei militi passarono e ripassarono le Alpi; ingaggiavano tribù 
al di là e ne traevano di qua or pro or contro gli Imperatori. L'esercito 
pieno di Barbari, agli ordini di Barbari, era di fatto signore d’Italia : ma 
non sifatte milizie di predoni e avventurieri potevano colmare i vuoti 
della popolazione italica. Non è quindi il caso di tener conto degli Eruli, 
Rugi, Alani, Sciri e Turcilingi che furono sempre occupati in guerre e 
infine così sminuiti di numero che vinti da Teodorico, nemmeno ebbero, 
come esercito a ripassare le Alpi, tanto erano stati decimati dalle armi 
o dalle malattie. Pochi alla spicciolata si ridussero ai paesi di origine : altri 
furono confinati in alcune valli alpine, probabilmente in quelle di Aosta; 
chiara prova del loro scarso numero che non li rendeva in alcun modo 
pericolosi. Gli altri Barbari che al principio del V sec. eran discesi in 
Italia, o avevan rivalicato le Alpi o avevan perduto la vita nei campi 
italici, come quei 200 mila soldati di Radagasio che cacciati dalla fame, 
nei monti di Toscana, qui furono da Stilicone distrutti nel 405 (1), o 
come quei Franchi di re Teodoberto che si ammalarono per le /ebbrz 
dovute all’insalubrità dei luoghi ove rapinavano e in pochi superstiti do- 
vettero ripassare nel 539 le Alpi (2). 

Si deve solo parlare degli Ostrogoti e dei Longobardi. Ora è inesatto 
ritenere che tanto quelli che questi discesi in Italia rappresentassero la 
intera nazione, piuttosto che semplici bande di armati però numerose. 
Né si può argomentare che fossero la nazione intera dal fatto che queste 
bande avevano dietro le donne e i fanciulli e un codazzo di servi o 
semiservi. Anche le truppe romane e le federate dislocavansi colle donne, 
i figli e i servi. La presenza loro non implicava che si trattasse dello 
intero popolo che si metteva in movimento: e se gli storici dell’epoca 
adoperano le parole gens, gentes, queste non indicano, (come l’altra pa- 
rola Zeute) popoli interi ma truppe barbare, come i Zaeti in opposizione 
all'esercito romano. Gli invasori dell’Impero romano non abbandonarono 
le loro sedi all’ intento di fondare nuovi regni ma soltanto si mossero 
spinti dal bisogno o dal desiderio di razziare e saccheggiare. Difatti pei 
Longobardi è detto che vennero in Italia comitante fame et mortalitate (3). 


(1) Orostt, VII, 37. 

(2) Gregor. Turon: Hist. Franc., 22. Mari AvenT, in Chron. minore, II, 256. Lo 
stesso accadde ad altri Alamanni distrutti dalle malattie. AcamBHIAR: De dello got., IL. 

(3) BeDAE: Chron. nei Chronica minora, cd. Mommsen, III, 308: MARIUS AVENTINUS, 
id. II, 509: Liber pontific., ed. Duchesne, I, 64-65. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 59 
Loro intenzione era di tornare in patria dopo di aver fatto un ricco bot- 
tino. Perciò non eran gl’'invasori una nazione intera che emigraza, ma 
una parte, la più avventurosa e battagliera che cercava bottino e con- 
quiste. Si trattava quindi di veri eserciti ordinati i quali per riguardo al 
numero non potevano modificare che insensibilmente le condizioni della 
popolazione sopra cui si ponevano. 

Quindi quando Ennodio (1) parla di carri che tennero pei Goti luogo 
di tetti, di case mobili ove caricavansi gli strumenti necessarii, di ru- 
rali attrezzi e di macine frumentarie trascinate dai buoi, di donne gra- 
vide a cui era addossata la cura di apprestare il vitto, ecc. non vuolsi 
intendere che tutti i Goti abbiano seguito Teodorico in Italia ma solo 
di una parte di essi nello stesso modo che soltanto una piccola parte-di 
Vandali andò con Genserico in Africa. 

Del resto queste genti germaniche non erano innumerevoli, come di- 
cevano gli storici romani. Quanti fossero non sappiamo ; forse non su- 
peravano i 4 milioni; ed errano quegli scrittori che parlano di grandi masse, 
di inesauribili moltitudini di genti che uscivano dalle selve di Germania, 
e intraprendevano il loro esodo per forza maggiore, perchè la terra natia 
più non li nudriva, tanto erano aumentati (2). Che nel periodo fra Tacito 
e Marco Aurelio siasi verificato aumento di popolazione, 1’ attestano i 
cronisti, per es. a proposito dei Goti (3), ma non era mai il caso di emi- 
grare, quantunque fossero i Germani nomadi e dati alla pastorizia e 
alla caccia piuttostochè all'agricoltura, ed avessero bisogno di grandi 
estensioni di suolo. Una parte si mosse per la conquista e il bottino; altri 
restarono a casa. I Visigoti secondo Eunapio (4) nel 376 erano 200000 
quando abitavano i paesi danubiani; gli Ostrogoti eran circa 500 000. 
L'esercito di Alarico contava da 50 a 100000 uomini (5). Anche i Fran- 
chi erano pochi numerosi. 

Il numero dei Goti che accompagnarono Teodorico in Italia è valutato 
generalmente al massimo di 300000 uomini. I veri combattenti erano 
circa 40.000 ; il resto costituiva la nazione (6). Oltre questi vi era un 


(1) Panegiîr. Theod., 6. 

(2) Così Dann e WixrersHEIM: Gerch. der Volkerwanderung,I, 28 ed., 1880, p. 8, 
10, 130 e prima MACCHIAVELLI (però a pag. 147 nega che le invasioni siano dovute 
a sovrappopolazione). 

(3) JORDANIS : Getica, c. 4 « magni populi numerositate crescente », 

(4) Historiarum fragmenta apud Suidam exiîstentia, ed. Maii, II 

(5) HopGxIns : Italy and her invaders, I, 2 ed., 1892, p. 812. 

(6) Così HopGxiNs : Italy and her invaders, 22 ed., III, 1896, p. 182. KoEPKE: An- 
finge des Koenigthums bei den Gothen, Berlin, 1859, pag. 167-68. Daun: Koenige, II, 78, 
fa salire l’intero numero dei Goti a 250 000 uomini. PALLMANN : Geschichte der Volker- 
wanderung, Gotha, 1864, n. 457 a 300000. 


60 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
contingente di Rugi valutato da 40 a 50 mila uomini (1). Poichè Teo- 
dorico ebbe dato al suo regno un pò di pace e floridezza, così anche la 
popolazione gota crebbe e copri le perdite fatte anteriormente nelle guerre. 
All’assedio di Roma, cinquant’ anni dopo la conquista, comparvero 150 
mila Goti: cioè la nazione sarebbe cresciuta a 600.000 anime (2). 

Quarantamila Goti conquistarono l’Italia e vi fondarono un regno : 
altrettanti Vandali e forse.meno fondarono il regno dei Vandali in Africa(3). 

La tradizione gotica riprodotta da Vitige durante la guerra di Giusti 
niano valutava a 200 mila il numero degli armati discesi in Italia al 
seguito del conquistatore (4). È una tradizione e i calcoli dipendenti dalle 
voci popolari allora come oggi hanno pochissimo valore. È dubbio anche 
che i diversi gruppi di questa razza in Oriente abbiano mai contato tanto 
numero di armati combattenti. Ora si sa che Teodorico non li portò tutti: 
molti restarono nella Mesia, nel Chersoneso taurico, e anche dopo la 
sua discesa in Italia sono menzionati corpi numerosi di Goti mercenarii, 
che continuavano a prestare servizio sotto le bandiere degli imperatori 
bizantini. 

Lasciamo da parte le espressioni dei panegiristi, ultimi rappresentanti 
della peggiore retorica (5), e le frasi degli storici che Teodorico discese 
in Italia cum gente sua (6): la verità è che il numero dei Goti belligeranti 
contro I esercito bizantino mai fu cotanto numeroso come risulterebbe 
da queste espressioni, ma sempre scarsi di numero furono gli eserciti 
goti che combatterono contro i Greci. j 

Teodorico non scese in Italia colla sua nazione, ma con un esercito, 
dietro al quale venivan su carri che eran case, le donne che macina- 
vano il grano, e i fanciulli (7). Egli compì con questa gente un viaggio lun- 
go e disastroso, in inverno, colla fame e le malattie alle calcagna, attra- 
verso a popolazioni nemiche, come i Gepidi che dovè combattere sulla 
Sava, e per quattr anni fu in guerra con Odoacre e in questo tempo 
avvennero molti scontri sanguinosi ed anche la diserzione di una parte 


(1) Procopr: de D. g., I, 16. 

(2) Ia., III, 4. 

(3) HopGxIns, DAHN, PALLMANN, ece. 

(4) Procori: de db. got., II, 6. 

(5) Enwnopir: Paneg. Theod., ed. Vogel, Mon. Germ. 

(6) JORDANIS: Getica, DI. 

(7) EnnoDpIT: Panegyr. Theodor. ProcoP. de db. g., I, 1. Le donne sempre numerose 
seguivano gli eserciti goti, tanto che dopo la battaglia di Nasso i soldati romani eb- 
bero qual bottino 2 e 3 donne gote. WIbTERSHEIM, I, 226. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 61 


dei Rugi (1). Un'idea intorno al numero di questa nazione gota che lo 
accompagnava, si ha dal fatto che quando Teodorico sgombrò da Milano 
e si ritirò a Pavia, potè entro le mura di questa città riunire tutta la 
sua nazione (2) e poichè presto le case tutte ebbero i loro ospiti, si co- 
struirono baracche nelle strade e nelle piazze. Pavia era allora una pic- 
cola città che contava soltanto due chiese (3): eppure bastava per con- 
tenere tutto il popolo goto. Egli è che i Goti erano pochi di numero anéhe 
al momento in cui si eran messi in marcia. Poi il loro numero si era 
ridotto, tanto che furono costretti a chiedere aiuto ai Visigoti e ai Bor- 
gognoni. Questa circostanza come il loro accantonamento in alcune piazze 
forti assicurano della scarsissima diffusione dell’elemento goto in Italia, 
della più scarsa influenza ed espansione che dovettero avere le leggi ed 
istituzioni loro in un territorio così vasto come l' Italia; da poter dire 
che la maggioranza degli Italiani appena dovè avvertire il nuovo domi- 
nio. Non è quindi il caso di parlare mai di una modificazione dei diritti 
degli Italiani da parte di una dominazione che durò poco più di settan- 
t anni e che fu rappresentata da un numero così limitato di uomini. 
E allora tenendo presente questo dato statistico, sarà possibile valutare 
che cosa dovéè essere e se potè risultati avere la divisione delle terre ope- 
rata da Teodorico in favore dei suoi Goti, quando questa venga collegata 
alle condizioni della proprietà fondiaria in Italia, alla grande quantità di 
terre abbandonate e all’altro fatto che i Goti non ebbero tempo né modo 
di trasformarsi in agricoltori, perchè occupati nelle guerre contro i Greci 
mai riuscirono a posare le armi. Ma di tale argomento non è questo il 
momento e il posto di trattare. 

Intanto le incessanti guerre ridussero molto il numero dei Goti e ad 
assottigliarlo ancora si aggiunsero le malattie e le diserzioni: perchè sem- 
bra che dopo la presa di Ravenna molti Goti disertassero ed emigrassero (4), 
come si può argomentare dalla pochezza di quelli che si vedono in armi 
subito dopo e sempre poi con Ildibaldo, Totila e Teia. Forse, nei settan- 
t'anni che durarono in Italia, avvenne da loro quello che notasi di tutti 
quei primi popoli settentrionali discesi nelle province romane : che per- 
dutisi di animo e di corpo scemarono per se stessi e poi soggiacquero 
al primo incontro di qualunque nemico. Così gli Svevi e gli Alani in 


(1) Hist. miscell., 15. 

(2) EnnoDpII: Vita S. Epiphanti, ed. Vogel, p. 100. 

(3) Id., Ennodio chiama Pavia Civitatucula. E collo stesso nome PaoLo Dracono : 
Hist. long., V. 5, chiama Asti. 

(4) Procor., II, 29. 


62 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 
Spagna, così i Vandali in Africa, e Spagna : così non solo la stirpe regia 
dei Merovingi come è comunemente narrato, ma tutti i primi Franchi 
venuti con essi: così i Goti in Italia e poscia in Spagna : e la ragione 
sta nella degenerazione che subiscono i popoli trasportati in nuovi ter- 
ritorii. 

E allora si potrà chiedere: come avvenne che un popolo così esiguo 
e sempre in diminuzione, giammai rinforzato da aiuti che gli venissero 
da oltre le Alpi potè resistere per settant'anni alle armi di Belisario e Nar- 
sete, combattere su un teatro vastissimo, avere corpi di armati in Dal 
mazia e nelle Gallie, in Liguria e a Roma, in Campania e in Sicilia, 
tanto che leggendo la storia delle guerre gotiche si ha l’idea che vera- 
mente un popolo straordinariamente numeroso e non un esercito avesse 
preso stanza in Italia e la tenesse dalle Alpi alla Sicilia ? 

Ma anche questa illusione cederà il posto a più esatta realtà, se si 
avrà presente la tattica dei Bizantini e il modo loro di guerreggiare. 
La \guerra gotica descritta con tanta magniloquenza da Procopio non è 
che una serie continua di guerriglie, ove sparuto era il numero dei combat- 
tenti e poche le perdite. Basti sapere che l’esercito con cui Belisario doveva 
riconquistare sui Goti l’ Italia, componevasi di 7000 soldati: il che im- 
porta che anche le forze gotiche non dovevano essere di gran lunga so- 
verchianti. E con sifatto numero di soldati l’Italia fu ridotta al dominio 
imperiale. Questo teneva i suoi vasti territorii per mezzo di piccoli eser- 
citi, composti di poche migliaia di fanti e cavalieri. Con 10.000 fanti e 5000; 
cavalieri i Greci riconquistarono l'Africa (1). L'impero aveva una buona 
flotta formata di centinaia di navi da trasporto, oltre un centinaio di 
dromoni o navi da guerra: aveva un buon generale, come Belisario, e 
poche truppe ma ben agguerrite (2). Bastava un piccolo presidio a Mi- 
lano per assicurare all’ impero tutta la Liguria (3), a Milano che era 
riguardata la prima città di Occidente, dopo Roma e un forte baluardo: 
contro i Germani (4), e così Teodorico potè estendere il suo regno alla 
Sicilia, Dalmazia, Svevia, Pannonia, Norico, alle due Rezie, alla Pro- 
venza e alla Narbona sino ai Pirenei. 

Gli eserciti dei Goti non superavano il migliaio di uomini (9); ma 


(1) Procop:de dello Vandal., pag. 398. Secondo la Notitia Occid., e. ,in Italia avreb- 
bero dovuto essere 106 000 soldati, ma erano sulla carta. HoDGKINS, I, 629, 634, 812. 

(2) Id., de d. g., 1, 25 e 27. 

(3) Id., II, 8. 

(4) Id., II, 8. 

(5) Id., III, 1. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 63 
essendo dislocati nei punti più strategici, erano sufficienti ad assicurare 
il dominio della penisola, perchè gli Italiani avevano fatto divorzio colla 
vita delle armi e si mostravano fin d’allora disposti a subire la dominazione 
di chicchessia. 


Quanti erano i Longobardi che discesero in Italia ? 

Impossibile è fissarne il numero. La notizia prima che si ha di essi, 
quella di Tacito, assicura che erano relativamente poco numerosi, che 
rappresentavano la più piccola delle tribù germaniche (1). Ma da Tacito 
ad Alboino avrebbero potuto crescere di numero, anche per mezzo del 
l'assorbimento di altri popoli. Gli scrittori moderni hanno avuto le opi- 
nioni più disparate. Chi li ha ridotti a una cifra minima (2): chi invece 
ha ritenuto che fossero numerosissimi (3): altri pensano che, assieme ai 
Longobardi, scendessero in Italia altre genti di origine nordica, nell’eser- 
cito longobardo incorporate, le quali non avevano propria nazionalità 
o la avevano confusa in quella del popolo più numeroso (4): e conse- 
guente a tale premessa, Lupi immaginò la popolazione indigena quasi 
completamente sterminata per la venuta dei Longobardi; davanti al 
numero imponente di essi nessuna resistenza da parte dei Romani sarebbe 
stata possibile. Altri invece ne volle precisare il numero in 20 000 com- 
battenti, il che importerebbe un totale, compreso le donne, i fanciulli, 
i vecchi e i servi di circa 100000 persone. Ma queste cifre non sono 
che induzioni, perchè nè Paolo diacono, nè altri cronisti danno informa- 
zioni in proposito. Soltanto papa Gregorio I dice che la numerosa popo- 
lazione italica la quale li stringeva da ogni lato, avrebbe potuto facil 
mente aver ragione di essi e massacrarli in breve ora (5). Cosicchè fu 
perfettamente nel vero Schupfer, profondo conoscitore di questi tempi, 
quando chiamò i Longobardi un pugno di nomadi, accettando l’opinione 
che non fossero più di 20000 combattenti (6). 

I Longobardi che nel numero di cinquemila combattendo nell’esercito 
di Narsete contro i Goti (7), avevano conosciuto le riechezze esistenti 


(1) Taciti: German. 40. 

(2) Marrri: Verona iMustrata. lib. XI. 

(3) Lupi: Cod. diplom. bergom., I, 105, 180. 

(4) LAFARINA : Storia d’Italia. 

(5) Epist. XI, 41. 

(6) Istituzioni politiche Longob., 83. 

(7) PauLI Drac., II, 1. ProcoP, De dello got., IV, 26. 


64 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IDALTA 


ancora nelle città italiche, passando le Alpi non avevano il disegno di 
conquistare l’Italia e di stanziarvisi, ma solo di farvi bottino. Essi intra: 
presero una di quelle scorribande per le quali erano famosi, tanta era la 
ferocia che essi vi ponevano (1), e per meglio assicurarsi dell’esito tras- 
sero seco alcune orde di Sassoni, le quali sempre perseverando nel disegno 
di ritornare alle patrie sedi dopo di aver raccolto buona preda, si distac- 
carono dai Longobardi allorchè questi conobbero che era possibile restare 
in Italia e fondarvi una dominazione. Perciò in questa scorreria cella 
quale si iniziò l'invasione longobarda, l'avanguardia condotta da Alboino 
era formata veramente da poche migliaia di uomini, i più giovani ed 
arditi, pronti alle lotte e allo sbaraglio, che la fame cacciava dal patrio 
suolo (2): essi aprivano la strada al corteo dei vecchi, fanciulli e donne 
che sui carri seguivano i Germani nelle loro conquiste. Le narrazioni dei 
contemporanei ci mostrano i Longobardi pochi di numero, ma audaci, 
anzi feroci, e fatti più arditi dalla neghittosità degli Italiani. Del resto 
essi non dovevano essere in numero superiore a quelle altre tribù che 
nei secoli V e VI si spostarono dall'Europa centrale verso il Sud a scopo 
di conquista e fondarono regni ne’ territorii dell'impero romano. Di queste 
la tribù più numerosa era quella dei Visigoti, ove eranvi 200 mila ad 
bellum apti et aetati florentes (3): nessuna delle altre era in grado di met- 
tere in armi tante persone. 

Il non aver dato la giusta importanza a questi dati statistici è stato 
ed è tuttora causa di gravi errori, e non è possibile apprezzare al suo 
giusto valore gli avvenimenti politici, mè risolvere quistioni di storia 
giuridica od economica, trascurando il fattore della densità della popo- 
lazione. Così immaginando i Germani un popolo di emigranti per colo- 
nizzare e assimilando le invasioni a colossali spostamenti di nazioni intere, 
causati da esuberanza di genti non più contenute nella terra natia, la 
storia di quei tempi così oscuri deve apparire diversa da quella che 


(1) VELLEI: Hist. rom. I, e. 106. 

(2) BepAR: COhron. cit. 

(3) Tanti erano quando sospinti dagli Unni ottennero da Valente di passare il Da- 
nubio per divenire coloni. EuNnAPII, cit. — Da questo numero di armati si può desu- 
mere la cifra totale della popolazione; calcolando che questi armati fossero la metà 
della popolazione maschile, il totale dei Visigoti sarebbe di 800 mila. Detto calcolo non 
è arbitrario, ma ha per base quanto Cesare, de dello gal. I, 16, riferisce degli Elvezii 
e Strabone, Geograph. IV, 315, dei Salassi. Aggiungendo i servi si potrebbe arrivare 
al milione. 

La stessa proporzione abbiamo avuto presente nel valutare la popolazione Ostrogota 
e Longobarda. 


PRIMA. E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 65 
sarebbe se in quei Germani non vediamo altro che conquistatori eccitati 
da cupidigia di ricchezze. 

Escludendo dunque che la Germania antica sia stata la vantata o//i- 
cina gentium come la ritenevano i Romani (1), e valutandone la sua popo- 
lazione a 4 milioni, non facciamo che metterci in armonia colle notizie 
di Cesare relative alle campagne da lui compiute nel centro di Europa 
e colle altre relative al modo con cui il /#m2es fu difeso : dalle une e dalle 
altre risulta quanto piccolo fosse il numero delle truppe romane impiegate 
contro i Germani, e come i Romani non ebbero mai a combattere con- 
tro moltitudini strabocchevoli. 

Anche al tempo di Odoacre la potenza del numero era sempre dalla 
parte di Roma. 

Non credo che per la Germania antica siano stati compiuti studi spe- 
ciali sulla sua popolazione, analoghi a quelli fatti pel mondo greco- 
romano (2). Siamo condotti a valutarne sì basso il numero da diverse 
considerazioni: anzitutto dal fatto che indubbiamente pochi di numero 
erano i Franchi, gli Alamanni, ecc. che fondarono regni nei territorii 
dell'impero romano : poi dal fatto che fin verso il secolo XVI molte re- 
gioni della Germania eran quasi disabitate (3), e infine per la presenza di 
quelle cause che impediscono presso i popoli barbari 1’ aumento della 
popolazione. In quella economia primitiva, ove la caccia (4) e la pastorizia 
somministravano i mezzi principali per la vita, ad ogni tribù, ad ogni 
famiglia erano necessarie grandi estensioni di suolo. Si è calcolato che 
uno spazio di terra messo a cultura e sufficiente per mantenere chi lo 
coltiva, deve essere elevato a 50 volte tanto per mantenervi lo stesso 


(1) Taciro (Germ. 4, 19) parlando dei Germani usa le espressioni én tanto hominum 
numero, in tanta numerosa gente: ma è stato provato che gli scrittori greci e romani 
non avevano idee chiare intorno ai grandi numeri ed usavano espressioni iperboliche 
per quantità che a noi sembran modeste. Cfr. Speck : Die Statistik in der alten Ge- 
schichte nei Jahrbiicher f. Nationaloekon, 32 serie, XIII, 521. Intanto i germanisti in ge- 
nerale parlano di grandi masse di popoli: così ErHARDT: Aelteste german. Staaten- 
bildung, 1879. BauMSTARK: Erlauterung and. Germ. Warrz: Deut. Verf. Gesch., I, 32 
ediz., 1880, pag. 19, ma nulla si può affermare sulle testimonianze che riferiscono. 

(2) Nè InAMA STERNEGG, nè LAMPRECHT hanno tale argomento trattato, nè il BeLOCH 
(Die Bevolkerung im Alterthum nella Zettschrift fiir Socialwissenschaft, II, 1899, 
pag. 505 e segg.) si occupa del mondo germanico. 

(3) Taciro (Germ. 5) dice che la Germania era <in universum aut silvis horrida, 
aut paludibus foeda». Vedi INAMA STERNEGG : Deut. Wirthschaftsgesch, III, parte 12, 
1899, pag. 11. LAMPRECHT : Deutsche Wirthschaftsleden, I, 173. 

(4) CAESARIS: De bello gall., IV, 1; VI, 21. 


66 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
numero di persone se date alla caccia, ed elevato a 20 volte tanto se 
date alla pastorizia. Ciò dà un’idea della quantità di terreno che era ne- 
cessario ad ogni tribù germanica, e spiega nello stesso tempo la ragione 
delle continue lotte fra queste tribù. 

E intanto si è pure constatato che le popolazioni che vivono di caccia 
e anche quelle date alla pastorizia non crescono per la grande mancanza 
di alimenti. Ne abbiamo la conferma nello spettacolo che presentano le 
popolazioni incivili anche ai giorni nostri. I Buschimani e gli Australiani 
hanno fra i loro scarsi indumenti il cosidetto cinto della fame, che spesso 
adoperano. Gli abitanti della Terra del fuoco sono afflitti da perpetua 
carestia. Nelle leggende degli Esquimesi il fondo comune a tutti gli avve- 
nimenti è la fame. Presso questi popoli e presso i selvaggi di Australia 
l’infanticidio è frequentissimo, e grande è la mortalità dei nati (1). Di 
numero poi sono sempre pochi e vivono in pochi gruppi : la grande pe- 
nuria di alimenti impedisce che si riuniscano in maggiori agglomerazioni. 
Le razze australiane sono sul vasto territorio disperse e quasi frantumate 
in piccolissime orde, ognuna delle quali ha il suo territorio. Si riuniscono 
soltanto nell'occasione delle grandi danze sacre e per intraprendere qual- 
che spedizione guerresca. I Buschimani si incontrano soltanto in gruppetti 
di poche persone: e se talora tengono delle riunioni, queste non si pro- 
traggono a lungo: appena concluso il negozio, ognuno ritorna alle pro- 
prie sedi lontane. Mancano provviste di alimenti per provvedere ai bi- 
sogni di molte persone casualmente riunite: chi può, dà quello che ha 
e senza compenso. 

I popoli barbari o semibarbari, essendo estremamente imprevvidenti 
hanno sempre alle calcagna lo spettro della fame che li travaglia e li 
incalza. Si ricordino le carestie terribili che a intervalli frequenti colpi- 
scono le popolazioni dell’India e di alcune provincie russe : non parliamo 
di quelle che desolano l'Africa : sono. scene di orrori che superano ogni 
immaginazione. Interi paesi restano spopolati e i sopraviventi trascinano 
una vita di malanni e di debolezza insanabile. Ora nell’antica storia dei 
Xermani è sempre menzione di carestie, e fu, come si è detto, per sfug- 
gire alle distrette della fame che i Longobardi si decisero alla conquista 
d’Italia. Questa miseria permanente e le periodiche carestie impedivano 
ai Germani di crescere, nello stesso modo che rendono stazionarie le 
razze barbare, malgrado la grande natalità. Malthus già avverti queste 
circostanze sull’aumento della popolazione presso i selvaggi. Adamo Smith 


(1) Warrz-GerLAND: Antropol., VII, 778-780. 


nm 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 67 
notò già che se la povertà non impedisce le nascite, è sommamente sfavo- 
revole all'allevamento dei fanciulli, ed avverti che quanto più è basso il 
livello della agricoltura ed insufficiente la produzione, tanto più lento è 
il progresso della popolazione. 

In ultimo i Germani avevano la schiavitù colla sua bassa natalità ed 
alta mortalità : ammettevano l'esposizione degli infanti e 1° infanticidio 
come atti leciti (1); e lo stato di guerra in cui le tribù trovavansi continua- 
mente fra loro, come anche i latrocinia nei quali la gioventù cercava 
onore e gloria e la frequenza delle faide dovevano sottrarre alla popo- 
lazione i migliori fisicamente e i più giovani. 


Non può far meraviglia il modo con cui queste poche migliaia di Lon- 
gobardi riuscirono a fondare un regno. Poche truppe greche si prova- 
rono a resistere : per la disorganizzazione interna, nessuna forza di resi 
stenza era in grado di funzionare. Gli Italiani poi, pochi di numero, di- 
spersi sopra un territorio vasto, intersecato da boschi e paludi, eran disu- 
sati alle armi : preferivan mutilarsi piuttostoche militare. Non conoscendo 
più la virtù della guerra eran condannati a cadere vittime dei popoli 
bellicosi, sebbene fossero questi inferiori di numero. Il despotismo impe- 
riale, il depauperamento generale del paese, la rovina delle città avevano 
resa l’Italia preda ai barbari. I ricchi non volevano abbandonare gli agi 
delle «4//e loro, i possessores non avevano interesse a mantenere un ordine 
che li opprimeva, i coloni non avevano motivo di battersi pei loro pa- 
droni. I deboli non chiedevano che di liberarsi in qualunque modo dal 
dispotismo burocratico e dalla tirannia dei potenti. La situazione interna 
era tutta volta all’anarchia. All’ impotenza della legge si era sostituita 
l’autodifesa privata. L’egoismo di classe erasi scatenato senza alcun pu- 
dore: nessun sentimento di solidarietà : gli uni in aperto o in segreto 
ostili agli altri e desiderando anche la catastrofe pur di mettere termine 
a una situazione per la generalità intollerabile. 


Riconosciuto che i Longobardi costituivano una piccola minoranza di 


(1) Vita S. Liudgeri in MazinLon : Acta Sanet. Ordinis S. Bened., IV, parte I, 
pag. 20 (ed. Parigi, 1677). Cfr. GrImm: Rechtsalt., 455. WiLpa : Deut. Strafrecht, 125. 
PLATZ: Gesch. d. Verbrechens der Aussetzung, 1876, p. 26. 


68 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 


fronte agli Italiani (1), è chiaro come nel fatto non potè aver risultati 
pratici una politica di asservimento sopra i vinti, dato anche che l'abbiano 
voluto esperimentare. Non è il caso di parlare di popolazioni fatte serve, 
di nazionalità distrutta. Egualmente non è lecito attribuire ad essi un 
qualsiasi incremento della popolazione, il quale, del resto, non si mani- 
festò che verso il mille, ossia in epoca troppo lontana dalla conquista, 
per poterlo attribuire ai conquistatori. Piuttosto, dall’analogia con quanto 
è avvenuto in altri paesi ove due razze diverse furono di fronte, potreb- 
besi sostenere che mai la fusione etnica si compie con vantaggio della 
posterità, ma da essa deriva arresto di popolazione e di civiltà. I prodotti 
di tali incroci sono generalmente deboli, nè lasciano larga e robusta discen- 
denza e socialmente hanno delle ricadute ataviche verso la barbarie. Sono 
questi però argomenti oscuri, anzi misteriosi; e quindi le cautele non 
sono mai soverchie. È certo però che non solo nei primi anni della 
conquista ma fino alla venuta dei Franchi, l’ Italia fu come involta in 
una fitta caligine, e vide la sua civiltà arrestarsi, la lingua corrompersi, 
la vita intellettuale assopirsi (2). È anche certo che quei Longobardi che si 
confusero colla razza italica, secomparirono come elemento etnico, mentre 
quelle altre famiglie dei duchi, un’esigùa ma eletta minoranza, che sde- 
gnarono gli incroci e conservarono puro il sangue, fondarono in Italia 
famiglie principesche, e furono il nucleo dell’aristocrazia feudale : Zorgo- 
bardi, lombardi (3) si dissero infatti i nobili per attestare il puro sangue 
germanico. Il che importa che il restante ceto dei liberi che si inerociò 


(1) Si noti anche che negli anni susseguenti alla invasione si ebbero in Italia terri- 
bili pestilenze, che non dovettero certo risparmiare i Longobardi. Cfr. GrecoRII: Dialog. INI, 
19, IV, 36. Epést. II, 2, IX, 123. PauLI Drac.: Hést., IMI, 23. IV, 4, 16. GREGOR. TURON. 
Hist. X, 1. Nel secolo VII ebbe molto a soffrire l’Italia per carestie e malattie : vedi 
Liber pontificalis, Vita Bened., Pelag. II, Bonif. IV, Costant. ed. Duchesne, I, pag. 308, 
315, 317, 389. Cfr. id. I, p. 348, 350, 402. 

(2) E ciò malgrado le seuole ecclesiastiche e laicali che si ebbero anche prima del 
1000 in molte cistà italiche, come ho mostrato nella mia Istruzione pubblica in Italia 
nei sec. VIII, IX e X. Firenze, 1899, 2a ediz. 

(3) TarGIONI: Viaggi, VI, 80. MurarorI: Antig.Il, 476 (Feudum Lambardorum de S. Mi- 
niato), id. IV, 574 e V, 860 (Lambardi de Buriano : Quidam milites qui dicuntur Lam- 
bardi an. 1163. MuRrATORI: Ant. estensi, I, pag. 76. UGnELLI, IMI, 237, an. 1103. Longo- 
bardi de Ferliano , ecc.: Lami: Epise. II, 166, an. 1194: Cecina: Notizie ist. dî Vol- 
terra, p.33, 39, 104, 109. Nello Statuto Fiorent. del 1286 Cattani et Lombardi: e nello 
Stat. di Pisa 1284 I, r. 109 nobilem vel Lombardum. A Padova molte famiglie pren- 
devano il nome dei Longobardi: vedi GLORIA: Cod. dipl. padovano, II, nr. 360, 462, 
700, 726, 1132. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 69 


colle famiglie romane perdette ogni importanza specifica e disparve assor- 
bito dagli elementi etnici indigeni. Così quegli incroci che credonsi essere 
stata la scaturigine della nuova nazione italica, segnerebbero invece la 
degenerazione e la perdita dell'elemento etnico germanico. Difatti il vi- 
sibile prevalere della cultura latina nella lingua e nel diritto significa, 
a parte le altre cause, anche il prevalere del sangue latino. Gli inva- 
sori sparirono come popolo e come fattore di civiltà, come spari la lingua 
loro. Nè poteva essere diversamente: i milioni di Romani dovevano ine- 
vitabilmente assorbire le migliaia di Longobardi. 

Per fissare le proporzioni in cui trovaronsi Longobardi e Romani si 
è fatto ricorso alle professioni di leggi e alcuni calcoli si sono fatti per 
Padova e suo territorio. Si sono contate nei documenti 140 professioni 
di legge romana, 115 di legge romana, 32 di legge salica, 5 di alamanna, 
2 di bavara (1);in un documento relativo a una campagna si sono con- 
tati 28 appartenenti alla nazione longobarda (2). Dunque i Longobardi 
sarebbero stati a Padova in maggioranza. Sarebbe pessima logica esten- 
derne la conclusione a tutta Italia : Padova fu una delle prime città dai 
Longobardi conquistata e distrutta: molti preferirono fermarvisi colle 
famiglie, però nelle campagne. Anche la regione della Saccisca o Pieve 
di Sacco da 66 Longobardi contro 8 Romani. Diciamo nelle campagne 
e non in città perchè mentre nel periodo che va dal 958 al 1058 nel 
territorio si contano 9 Romani contro 18 Longobardi e 9 di altre leggi 
barbariche, la. città dà 59 Romani, 20 Longobardi, 8 di altre leggi ger- 
maniche. Invece dai documenti modenesi nel IX secolo si contano 4 Ro- 
mani, 5 Longobardi, 3 Franchi; nel X 21 Romani, 15 Franchi, un Lon- 
gobardo; nel XI 35 Romani e 535 Longobardi, 4 Franchi; nel XII 5 Ro- 
mani e 3 Longobardi (3). 

A Cremona prevalgono sempre i Romani (4). Ma tutti questi calcoli 
a nulla servono perché le professioni non rappresentano la proporzione 
delle nazionalità in cui dividevasi la popolazione, ma solo si riferiscono 
a persone più potenti e di maggior distinzione, e fra queste trovavansi 
senza dubbio la maggior parte dei Longobardi. Nè gli infimi nè i ceti 
medi facevano atti notarili, e perciò i nomi di essi, che poi eran la mag- 
gioranza della popolazione, con minor frequenza compaiono nelle carte. 


(1) GLorIA: Dell’agricol. nel Padovano, I, 1853, p. XNCOVI. 

(2) BruNACCI : Storîa dî Padova, p. 541. 

(3) AsrEGIANO : Cod. dipl. Cremon. . 

(4) Queste cifre si desumono da uno spoglio fatto sui documenti pubblicati nelle Me- 
morte modenesî del TIRABOSCHI. 


70 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 
SE 

Dalle notizie finora accumulate e dalle considerazioni esposte risulta 
quanto grande doveva essere lo spopolamento della penisola: ma non 
è possibile fissare nemmeno in modo approssimativo il numero dei suoi 
abitanti durante i secoli VI e VII. Soltanto è lecito arguire che la po- 
polazione valutata intorno ai 6 milioni nell’epoca di Cesare, fosse ancora 
scemata, e divenuta inferiore a quella cifra durante il periodo delle inva- 
sioni e lo stabilimento dei Longobardi. Tutte le provincie soffrivano per 
la penuria di abitanti, e le città ancora apparivano i cadaveri onde par- 
lava S. Ambrogio : alcune eransi cinte di mura ed eran tanto piccole che 
sembravano borgate, quelle non murate avevano l’aspetto di campagne 
per la grande quantità degli orti, ogni casa avendo il proprio (1). Solo la 
residenza del conte o del Vescovo conferiva onore di città. Ogni vita 
languiva nelle strette viuzze: pochi negozianti vi trafficavano, alcuni 
artigiani provvedevano ai bisogni della città e della campagna, coltivata 
in breve raggio attorno all’abitato, e pel resto spesso lasciata in abban- 
dono (2); così essi perpetuavano in Italia l'economia cittadina. 

Anche sulle corti, corticelle e masserizie delle chiese e dei laici non 
vi era abbondanza di forze lavoratrici, anzi dai documenti medievali può 
desumersi che per lo più poche famiglie, composte di poche persone tro- 
vavansi sopra vaste estensioni di suolo. 


Per es. (3) a Cortenova dell'estensione di 2287 7uga trovavansi 7 famiglie di 18 individui 


nella corte di Covello » DD >» » dota DO» 
» Fara » DI 5 » di 5 » 

» Barbata » 191 » » 5 » 41 » 

» Vedelengo » O 2600 » lì 6» 

» Pumenengo » 47.» » 3.» 8» 

» Andengo » 400. » » lu» Do 

ossia sopra 3054 juga > IO 85» 


(1) GrecorII I, Ep., IX, 137: XIII, 5: XIV, 3. 

(2) Da ciò le frequenti menzioni di ferrae absae, apsae, absentes, vacuae. (TIRABOSCHI: 
Nonant., II, n. 126, an. 1029); mansi absi (Cod. dipl. Long., 431, 507), terrae sine mas- 
sarios (id. 279, 763), terrae ubî iam corticella fuit et nunc est absens (id. 354). Man- 
cavano ad esse cioè le braccia per coltivare, i coloni fissi, e al massimo erano lavorate 
provvisoriamente da altri coloni, se e quando potevano. Nell’indice al Cod. dipl. Long. 
sono riferite le varie spiegazioni date alla parola absens, alcune arbitrarie, mentre il 
senso ci appare chiarissimo. 

(5) Vedi i doc. nei Mon. hist. patriae Chartar., I, 35 e Cod. dipl. Long., 464. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 71 


Nella grande corte di Limonta, una delle poche su cui abbiamo no- 
tizie, nel 835 trovavansi in tutto 32 persone (1): 


Ursus con moglie e 5 figli con tutto 7 
tl 


Foscolus » e 5 » » » 

Lobianus » e3 >» » DARA 
Ariulfus » ©.5)__» » n. E 
Agripestus  » @l » 3 
Laupus » ed » » » 16 


Si esamini ancora il seguente quadro di beni appartenenti al mona- 
stero di S. Giulia, al principio del sec. X colla relativa estensione delle 
terre (2): 

terra arabilis vinea prata  silvas ad 


Curtis ad seminandum ad ad incrassandum residenti 
modius (3) anforas carradas porcos 


Timolina 32 60 6 — praebendariù 14 più 23 manentes 
Canella "80 30 10 —_ id. 1) > 3 id. 
Bogonago 90 — 6 50 id. 8 

Iseo 17 5O 10 50 id. TOMO id. 
Porzano 300 50 25 20 id. 22 >» 21 id.e servi 
Nuvellaria 270 50 20. 200 id. 16 

Magonvico 300 70 29) 15 id. 30 

Val Camonica 40 25 40 — id. 23 » 83 servi 
Riveriola 470 70 44 560 id. 25 

Bissarissa 450100 20) 550 id. 16 

Alfiano 900. 100 DOMINO id. 49 » 14 manentes 
Curticella 90 20 20 —_ id. 15 

Cicognara 330 10 15200) id. I) > 28 id. 
Miliarina 540120 50. 2000 id. Dl © 28 id. 


La corte di Iseo è così descritta: « ha 4 case terranee, 3 camminate, 


(1) Codex diplom. Longob., 125. Cfr. il mio scritto Consortes e conliberti nel dir. lon- 
gob.-franco. Contribuzione alla storîa della proprietà fondiaria, negli Atti e memorie 
-della Società di storia patria per le provincie modenesi e pamensi. Serie III, vol. II, 
parte I, 1883. 


(2) Cod. dipl. Long., 419, col. 701. 
(3) Modius= hl 1, 462 secondo il Cod. dipl. Longob., 205. 


12 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'IPALIA 


m 


terra aratica per 17 moggia: vigna che dà 100 anfore, oliveto di 1000 
libbre, prato di 10 carri di fieno, selva per 50 porci, castagneto di 30 
moggia. Questi beni sono tenuti in coltivazione diretta per mezzo di servi 
e prebendati, 6 maschi e 7 femine, e ha per scorta 25 moggia di miglio, 
#5 anfore di vino, 4 buoi, 15 porci, 4 pecore, 50 polli. Da essa dipen- 
devano 20 sorti: su 18 stanno 58 manenti tenuti a varie prestazioni, tre 
sono absi » (1). Sopra altre 2 corti del monastero di S. Giulia stavano 4 
manenti, su 5 risiedevano 15 e 7 sono absentes. Sulla corte di Nirone stava- 
no tre famiglie (2). In quella di Migliarina composta da 10 case e 11 cam- 
minate e da cui dipendevano 50 sorti trovavansi 54 persone, in quella 
di Piacenza 8 masserie e 2 servi. Il ricchissimo monastero di S. Giulia 
di Brescia aveva un immenso patrimonio, ma poche braccia per colti- 
varlo. Lo stesso dicasi per quello di Farfa che possedeva, per es. « De 
Amiterno in S. Xisto substantiae XLII» con 32 persone; «in Castello 
Saxa » 7 persone; «in Terea» 2; «in orbita» 6; «in Cerolungo » 2; 
«in Canali» 38;in tutti i beni posseduti in quel di Amiterno persone 
105 (3). Tutte queste cifre mostrano la scarsezza delle persone sulle terre 
coltivate e la loro sproporzione all’ estensione, ossia la minima densità 
della popolazione in Italia prima del mille. 

E prima di chiudere queste ricerche sulla popolazione nell’alto medio 
evo, voglio ancora notare alcune considerazioni che mi suggerisce l’esame 
dell’inventario dei coloni del Monastero di Farfa (4). Esso ci offre alcune 
notizie sulla composizione delle famiglie nel principio del IX secolo (791-821), 
non sulla fecondità dei matrimonii,ignorandosi il numero dei figli morti. Ora 
il fatto notevole che presenta quell’inventario è il numero esiguo di figli 
che avevano le famiglie dei coloni (de familtis) del monastero. Quasi tutte 
hanno 2 figli, molte 1 figlio, poche arrivano a 4, una ne ha 6, un’altra 8: 
e trattasi di oltre un centinaio di famiglie, disseminate sopra molte curtes 
e in varii territorii. Anche a Cortenova il massimo della prole vedesi 
rappresentata da 5 figli (5), e le altre famiglie residenti a Cortenova, 
Covello, ecc. (6) avevano una media di 2,5 figli oltre marito e moglie. 
A Limonta 32 persone sono distribuite in 6 famiglie, quindi con 3, 8 


P 


(1) Codex dipl. Longob., 419. * 

(2) Arrò: Storia dî Parma, II, 302. 

(3) Chronicon Farfense in MuraTORI: Rer. ital. SS., II, parte I, 428. 
(4) Id., 429 e segg. 

(5) Mon. hist. patr. Chart., I. 

(6) Codex dipl. Long., 125. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 73 
figli (1): a Griliano 140 manentes compongono 28 famiglie, perciò con 3 
figli per ciascuna (2). 

Tali basse cifre non riguardano la natalità che resta sconosciuta, ma 
piuttosto la grande mortalità infantile e degli adulti che impediva l’au- 
mento della popolazione, mortalità causata dalle frequenti carestie ed 
epidemie, non che dall’assenza completa di misure profilattiche, donde, 
per es. la grande diffusione della lebbra (3). In quanto alle carestie il 
medio evo ne soffriva una ogni due anni, parziale o generale. Il ser- 
vaggio poi portava seco alcune delle debolezze insanabili che avevano 
impedito l’aumento degli schiavi. Anzitutto i padroni dei servi regola- 
vano i matrimonii di questi, non pel desiderio di agire sul movimento 
della popolazione, ma solo per esercitare uno dei diritti signorili, e così 
il governo della riproduzione della classe servile si divise fra servo e 
padrone, il quale ne autorizzava le unioni solo quando gli sembravano 
utili; e siccome il padrone, allorchè si costituivano nuove famiglie ser- 
vili, doveva provvedere queste non solo della terra ma di strumenti e 
di anticipazioni, così è chiaro che egli non doveva essere facile ad ac- 
cordare i permessi. Nè lo poteva lusingare la speranza di maggiori pro- 
dotti che i nuovi coltivatori gli avrebbero portato dalle sorti dissodate, 
imperocchè non egli abbisognava di maggiori prodotti e anzi, nei pe- 
riodi di economia naturale, come-fu l'alto medio evo, vi era nelle abitazioni 
dei signori, laici o ecclesiastici, abbondanza di carne, di vino, e di grano. Da 
ciò i matrimonii non frequenti nè precoci; da ciò la costituzione di una 
nuova famiglia solo quando a questa erano assicurati i mezzi per vi- 
vere, quando aveva un pò di terra, la casa e un pò di suppellettili 
che per quanto modeste non potevansi allora procurare facilmente e 
piuttosto trasmettevansi di generazione in generazione. 

Alcune consuetudini rurali e tradizioni popolari conservatesi nelle 
‘campagne anche in epoca posteriore attestano che la donna non può 
sposarsi se nen ha il corredo e l’uomo se non possiede la casa e il letto (4). 


(1) Cod. dipl. Longob. Eguale fenomeno presentano le famiglie servili descritte dal 
Polypticon d’Irminon, ed. Guérand. Anche ciò si desume da alcune notizie riferite da 
InAama-STERNEGG: Deutsche Wirthschaftsgeschichte I, 1876, pag. 514. 

(2) Id. 419. Vedi anche il Catalogus servorum ad Mon. Vulturnense spectantium, 
an, 872 in MuraTORI: R. I. SS., I, parte II, 397. 

(3) In Francia ci erano 2000 leproserie: KuRTH: La lepre en occident avant les Crot- 
sades nel Compterendu du Congrés international des catholiques, Paris, 1891. 

(4) Proverbi siciliani : « Nè donna senza dote nè carne senza ossa». — « Prima di 
trasiri la zita si deve avere la dota». PimrRÈ: Proverdî sécè., II, e. 31. Palermo, 1880. 


10 


4 SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


Il diritto matrimoniale nelle terre signoriali ove abitavano le famiglie 
servili, non era certo favorevole alle nozze per le quali oltre il con- 
senso dei genitori richiedevasi quello del padrone al quale pagavasi il 
prezzo della serva o aldia se abbandonava le terre di lui (1), o davasi 
dal padrone dello sposo in cambio un’altra donna (2). Altre volte era 
addirittura vietato sposarsi fuori del fondo cui i servi appartenevano (3). 
Scegliersi quindi una moglie fuori, o non potevasi o portava una spesa, 
mentre d’altro canto sceglierla fra quelle della corte poteva essere im- 
pedito dai divieti canonici sui gradi di parentela e sulla cognazione spi- 
rituale. Legati alla gleba tutti dipendevano dal beneplacito del padrone 
che non aveva fretta nè interesse e se accondiscendeva, esigeva una 
tassa (4). 

Queste considerazioni spiegano come la condizione servile sia stata 
sempre sfavorevole all'incremento della popolazione. Se il servaggio me- 
dievale non fu isterilito dalla prostituzione, dalla mancanza di donne e dal 
tedio della vita, mali propri dell’ antica schiavitù, altre cause econo- 
miche e legali lo isterilirono impedendo la frequenza dei matrimonii: e 
fu perciò che restò stazionario, e a conferma di ciò può citarsi la na- 
zione che rappresentava fino a 40 anni fa il medio evo contemporaneo, 
cioè la Russia ove la popolazione servile non aumentò mai, anzi in più 
luoghi decrebbe. E non fu solo la libertà che provocò in Russia, come al 
trove, l'incremento della popolazione, ma fu più specialmente il salariato, 
che, dando agli individui una illusoria indipendenza, agevolò la forma 
zione delle nuove famiglie proletarie, le quali specialmente in Europa 
rappresentano la gran parte della popolazione che senza posa aumen- 
tano. 

La stazionarietà o almeno il lentissimo aumento della popolazione ita- 


(1) « Recepit actor regis mundium de aldiana ‘auri solidos, 3—que tibi in aldio suo 
in coniugio sociavi». Trova: Cod. dipl. Longob., 937. 

(2) GrecoRrII: Epist. IX, 12: Liber diurnus, ed. Sickel, VI, 15.—Cfr. c. 1, IN, IV, 9. 

(3) « Eum districte debeas commonere ne filios suos... foris alicubi in coniugia so- 
ciare praesumat, sed in ea massa cui lege et conditione ligati sunt, socientur ». GRE- 
cor, I, Ep. X, 28. 

(4) Ia. I, 42 «ut commoda nuptiarum (dei coloni) I sol. summam non eccedant. > — 
Anche nel secolo XIII incontransi disposizioni analoghe: An. 1211 il vese: di Trento 
vieta ai suoi villani di sposare ancé/las alîenas sotto pena di perdere tutti i beni (Co- 
der wangianus): an. 1823 lo stesso ai villani di Sorrento: HUILLARD-BREHOLLES : H2- 
storia diplom. Priderici II, II, 383. 


PRIMA E DOPO LE INVASIONI BARBARICHE 0) 


liana fino al mille nemmeno dipendevano da generale e normale miseria 
che anzi nel medio evo, negli anni di abbondanza e in virtù dei miti 
patti censuarii, enfiteutici, ecc. si aveva a notare un eccesso costante 
dei viveri sugli uomini (1). La carità poi provvedeva agli indigenti. 

E nemmeno dipendevano da infecondità volontaria nei matrimonii, 
severamente condannata dalla Chiesa. 4 

Le cause erano molteplici: i numerosi impedimenti canonici a cui sì 
aggiungevano quelli derivanti da interessi politici (divieto di sposare 
persone di altro signore, I obbligo di pagare una somma al padre, al 
signore, ecc.) -—la frequenza del celibato, l’uso di votare i figli alla ca- 
stità (oblati), — il gran numero di monaci e di sacerdoti — le epidemie 
che facevano stragi — le continue carestie, causate dall'estrema localiz- 
zazione dei mercati — la vita breve degli adulti e la grande mortalità 
infantile dipendenti dall’ ignoranza di ogni norma igienica, dalla man- 
canza di ogni profilassi e terapia scientifica. 

Sotto l’azione di queste cause la popolazione non poteva crescere, e 
appena la natalità riempiva i tanti vuoti. Parallellamente agivano altri 
motivi proprii di quella civiltà economica, cioè la mancanza di ogni 
iniziativa e di ogni interesse personale, sentendosi il coltivatore prigio- 
niero del suolo e vedendo nella terra lo strumento della sua pena, — 
la scarsa produttività del suolo per mancanza di strumenti e di cogni- 
zioni agricole. 

Nulla stimolava la procreazione. Finchè queste cause perdurarono gli 
aumenti furono lentissimi. L'Inghilterra nel 1086 aveva 1200000, cioè 
21 persone per ch. q.; ne contava 2 353 000 nel 1377, 5 milioni nel 1575: 
8 nel 1700: l’Italia al 1500 aveva 9 milioni e 11 al 1600, 17 nel 1800 : 
la Russia nel 1789 aveva 25 milioni (2). 

Ma come quelle cause si modificarono, cambiarono i sistemi di pro- 


(1) Le grandi selve nutrivano immense torme di porci; la ghianda era abbondan- 
tissima, grande l’uso delle carni salate e affumicate. Notizie statistiche di questo ge- 
nere si hanno per la Germania e non per l’Italia. A Francforte sull’Oder con ab. da 6 
a 12000 — nel sec. XIV si uccidevano 30 mila buoi all’anno! (KLoDEN :Jabrbicher f. 
Nationaloeck. I: 218. IANSSEN: L’AUemagne à la fin du m. a. I). Il vitto era a buon 
mercato : invece carissimo erano i prezzi delle abitazioni, degli oggetti di lusso. V. D’A- 
VENEL: La fortune privée, paysans et ouvriers, 1899. 

(4) Questi dati sono presi dall’art. d’Inama nell’ Handwéorterbuch der Staatswiss 22 
ed. 1899, vol. II, pag. 660-674. Vedi per l’Italia BeLocH: La popolazione d’Italia nei 
secoli 16, 17 e 18 nel Bullettin de l'Institut international de statistique, III, 1888, e 
per la Sicilia MAGGIORE-PERNI : La popolazione di Sicilia e di Palermo dal sec. X, 1882. 


(9) SULLO STATO E LA POPOLAZIONE D'ITALIA 


duzione e si compì la rivoluzione dell’economia moderna, — l’Inghilterra 
toccò i 40 milioni, l’ Italia 32, la Russia 116, la Francia da 20 milioni 
e la Prussia da 2 milioni nel 1700 salirono rispettivamente a 38 e a 
52 milioni nel 1895. In un secolo la densità della popolazione inglese 
da 59 persone per ch. q., quale era nel 1800, raggiunse la cifra di 192 
per ch. q. In Italia da 60 si innalzò a 100. Tali cifre provano quanto 
era spopolata l'Europa nel medio evo e dimostrano la connessione fra 
popolazione e forme economiche. 

I dati qui raccolti sulla condizione d’ Italia e sulla sua popolazione 
nei primi secoli del medio evo, devono servire come presupposto, per 
studiare i non pochi problemi che ancora sono avvolti da oscurità, re- 
lativi alla storia politica, giuridica ed economica del nostro paese, e 
serviranno a illuminare alcuni punti importanti intorno al modo con cui 
si stabilirono i Germani in Italia e alle relative conseguenze, le quali 
non potranno mai essere giustamente valutate, se non tenendo presente 
quanto era la popolazione conquistata e quanti erano i conquistatori, 
quale era lo stato delle città e delle campagne e quale era la distribu- 
zione della proprietà fondaria. 


INDICE 


Introduzione. c c . o . . 6 c 

I. — Diminuzione delia popolazione italica ai tempi dell’Impero 
Romano 7 b - ; 

Corogratia delle campagne d’Italia . ; ; i . 

Popolazione d’Italia al V secolo . 


Rovine dei centri urbani . . A ; i A IRA 
Cause del decrescere della popolazione È vi a 

Il pauperismo . ; o È . 3 6 

La schiavitù. : } ì È ; È ; 1 ; 
Il latifondo . î i È È È ; È h : 
Stazionarietà delle nazioni antiche 

La viticultura . È 5 : 5 ; È i 
Condizioni fisiche d’Italia . ò 5 . È 5 5 
Squallore delle campagne . : E 5 i, x 
Colonizzazione germanica . . ì : ; ; ; 
Ritorno all’economia naturale . 5 E ; ; 3 
II. — Stato d’Italia al momento delie invasioni . È 5 
Devastazioni nelle varie regioni . o . 0 o . 
L'Italia meridionale e la Sicilia . : 5 7 ; 5 
L'invasione Longobarda . . 0 5 
Carestie e pestilenze dei secoli VI e VII . Ò È ò 
Aumento dei terreni paludosi . 0 0 Ò ò 

Le insulae . 3 È 5 c Ò 0 5 à 
Formazione di immensi boschi . ; 0 ò 0 3 
Le curtes. . ò . B 3 o 5 ; 0 8 


Rapporto fra le terre incolte e le coltivate. z ; o 


Pag. 


na 


49 


La malaria . ò ; 1 0 5 ; Ò A 5 È 


Dissodamenti posteriori . ; î ; È Ò ; o 
Ricordi di queste condizioni nella toponomastica 0 o 0 
III. — La popolazione dopo le invasioni . 5 È 3 0 
Numero dei Germani venuti in Italia. Ù 5 2 ; 

Numero degli Ostrogoti c . 0 © o . c c 


Numero dei Longobardi . ° > , : . : ; 
Cause che impedivano l’aumento della popolazione presso i Ger- 
mani . 0 . o o È Ò c . ò 


Circostanze che favorirono la fondazione del regno Longobardo 
Influenza della venuta dei Longobardi sulla popolazione Italica 


Proporzione tra Longobardi e Italiani 6 : . i 
Popolazione nelle curtes . 6 È a ò È o 6 
Composizione delle famiglie. : c . 0 o . o 
Cause per le quali la popolazione non crebbe durante il medio evo . 
Le carestie, le epidemie, il servaggio. ò o . 

Il matrimonio » 0 6 o . o ò o s 0 


Densità della popolazione in Europa durante il medio evo 
Conclusione . é Ì i ò . 6 , i ì 


PAG. 


» 


CASSE IRE ME RSA I 


ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 


DI 


SANTA LUCIA DE PLANO MILATI 


OGGIRDEESMEA 


COMUNICAZIONE 


di M.r Vineenzo Di Giovanni, Presidente 


DI ; a gi 
| IOITRITRA Totsone I0AODA NDS. 


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Ni 


III | Fa izeet i ceneotti 


TTTyTyTyTTTTywWwr Wu axKkKKNKKXNKXKNKNKKAKKNKNKNKIASFKNSITITEAANFTFAWEREE<33 


ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 


DI SANTA LUCIA DE PLANO MILATII 


oggi del MELA 


ezio = 


La piccola città di Santa Lucia de plano Milatii, o del Mela, e per lo 
meno la sua Chiesa, comparisce sin dal tempo del Conte Rogiero, poichè 
è nominata nel diploma di concessioni di Castelli, Terre e Villani fatta 
al Monastero di S. Bartolomeo Apostolo nell’ Isola di Lipari; e si dice, 
a prova dell’esistenza anteriore, che la donazione della Chiesa di S. Lu- 
cia dn territorio Milatii, era stata già fatta « cum terris, et cum septem 
Villanis et uxoribus eorum et filiis » da Goffredo Borello, uno dei grossi 
Baroni del Conte. La data del diploma pubblicato dal Pirri nella Noti- 
zia della Chiesa di Patti, è del 1094; che è lo stesso anno di un altro di- 
ploma, nel quale Roberto primo Vescovo di Messina, dicendo della ristau- 
razione che il glorioso Conte andava facendo delle Chiese disfatte dalla 
nefanda empietà Saracenica, e restituite nel pristino stato, nomina la prima 
fra le Chiese che furono addette all’Abate Ambrogio di Lipari pur Abate 
del Monastero di Patti, « cum omnibus decimis suis.... de earum Eccle- 
siarum territoriis » la Santa Lucia de plano Milatii « videlicet Ecclesiam 
Sanctae Luciz sitam in campania Milatii » (1). La stessa cosa conferma 
ne’ suoi diplomi, e specialmente nel 1154, il re Rogiero, che nota, dopo 
la Chiesa di Patti, per prima la « Ecclesiam Sanctae Lucie in Campo Mi- 
latii ». Ma nè nei diplomi del 1094, nè in questo del 1154, è nominato 
insieme con la Chiesa il Casale dove la Chiesa si trovava, bensì sola- 


(1) V. Pirro, Svezia Sacra, t. II. Not. Eceles. Pactensis, p. 771. 


4 ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 


mente è notata la località «in Campo Milatii », o « de plano Milatii ». 
Pertanto assai tardi dovette nascere la tradizione d'una città Greca o Ro- 
mana che ivi fosse esistita, chiamata Mende, ove si dice avvenuto il mar- 
tirio della Santa vedova Romana Lucia e di Geminiano e di Massima, 
pur romani; tantochè raccontandosi nella leggenda di questi SS. Martiri, 
che dopo essere stati di qua e di là, finirono la loro vita in Mende, fu 
scritto sul frontone della Chiesa di S. Lucia del Mela, « Hine divinitus 
Lucia ad aetereas migravit sedes », ritenendo la Mende, o Mendola, fra 
Noto e Mineo, detta pure Santa Lucia «in Montanis » essere la stessa 
che la Santa Lucia « de plano Milatii » (1). 

Non si conosce documento autentico di questo Mende in campo Milatii, 
e l’Amico nel Dizionario topografico di Sicilia registra solamente la Mende, 
o Mendola, presso Noto, nominata da Stefano e da Apollodoro, e conosciuta 
sotto i Saraceni, e in un diploma di Tancredi Conte di Siracusa del 1103 
col nome di Rahal barenum. Nel tempo del dominio Musulmano, i luo- 
ghi di Santa Lucia del Mela erano poco o nulla abitati dagli Arabi, tranne 
Milazzo e qualch’altro sito di quella che si disse Valle di Milazzo: e non so 
quale documento ebbe a mano l'Airoldi a segnare la località di S. Lu- 
cia col nome arabo di Mankarru, che corrisponde al nome ancora sen- 
tito di Mancarruni, e che si legge in un diploma del 1322 di re Fede- 
rico Aragonese (2), in questi sensi : 

« Fridericus dei gratia Rex Sicilie: 

« Per presens privilegium notum fieri volumus Universis tam presen- 
tibus quam futuris, quod nos considerantes qualiter fideles nostri habi- 
tatores in Plano Milatii guerrarum tempore... de magnis, aut parvis in- 
cursibus pro eo quod Planum ipsum immediate in maritima... incursibus 
magis patet, pro eo etiam, quod major pars dictorum nostrorum fidelium 
in Casalibus, et locis debilibus ejusdem Plani habitare consueverunt, et 
habitant, unde ipsos de necessitate oportet solitas habitationes predicto- 
rum Casalium et locorum deserere, et cum uxoribus, familiis et rebus eo- 
rum non sine gravibus ipsorum dispendiis ad abitandum tutius alias ter- 
ras.... Volentes saluti et indemnitatibus eorum quorum et aliorum om- 
nium nostrorum fidelium cura pervigili incessanter et indefesse sollicite 
occurrere et salubriter providere quoddam Fortilitium pro conservatione 
earumdem rerum et facultatum, ac pro securioni statu et habitatione 
nostrorum fidelium Casalis Sancta Lucie positi in predicto Plano Milatii 
et aliorum locorum et Casalium eidem Fortilitio circumdjacentium, ae 


(1) V. CaJEeTANUS, Vite Sanetor Siculor. t. I, fol. 103. Animadr. fol. TT, 80. 
(2) V. L. FuLcI, Storia delle temporalità dell'Abbazia di Santa Lucia del Mela, p. 126 
in nota, Palermo, tipi del Giornale di Sicilia, 1885. 


DI SANTA LUCIA DE PLANO MILATII OGGI DEL MELA tp) 


etiam vicinorum ad illud eorum transferre volentium incolatum, de novo 
in quadam Mona seu monte prope dictum Casale S. Lucia, dieto de Mac- 
carrone, construi nostra mandavit Serenitas et fundari : quod quidam For- 
tilitium cum omnibus juribus, authoritatibus, proprietatibus et pertinen- 
tiis suis, ac omnes et quosvis alios fideles nostros quos ad dietum For- 
tilitium infra preesentem annum septime indictionis eorum habitationem 
transferre contigerit, ad omni Comitatus, Baronie et Pheudi liberalitate 
nostra speciali gratia ex certa scientia perpetuo totaliter duximus exi- 
mendos. Fortilitium ipsum inhabitaturos ut supra ad nostrum heredum- 
que nostrorum demanium revocantes, et tam dictum Fortilitium quam 
personas preedictas promittimus ex nune in anthea semper perpetuum 
in nostro demanio retinere et etiam conservare fide..... nostra, et here- 
dum nostrorum, nec non ex costitutionibus Serenissimi.... Fratris nostri 
Jacobi Aragonum olim Sicilie Regis Il. et.... Carissimi fratris nostri dicto 
Regno Sicilie..... editas atque nostre curie et cujuslibet alterius juribus 
semper salvis. Ad hujus autem rei memoriam et robur in posterum va- 
liturum presens privilegium exsinde fieri et sigillo Majestatis nostre pen- 
denti jussimus communiri. Dat. Messane per nob. Fridericum de Mess... 
militem Regni Sicilie cancellarium, anno dominice Incarnationis millesimo 
trecentesimo vigesimo secundo, decimo tertii januarii, septime Indictio- 
nis » (1). 


(1) Corrisponde questo R. diploma di re Federico Aragonese a quanto si legge nel 
l’atto di transazione che faceva nel 1323 il Beneficiale di S. Lucia super jura bajulationis 
illi persolvenda, col Sindaco e le persone dell’Università di S. Lucia; nel quale atto si 
nota che, «ipsa Terra S. Lucie de novo habitata extitit novis habitatoribus tam ex Ca- 
sali dicto de..... et nunc extrabitato, quam ex aliis Casalibus eidem plano Milatio cir- 
cumjacentibus vicinis pro majori parte de Mandato Regio propter continuas destructio - 
nes, quas habitatores ipsi annuatim patiebantur ex incursione hominum malignantium 
temporibus bellorum in ipso Plano Milatii...». £ segue tutto l’atto con la conferma, la 
ratificazione e l’accettazione del Re Federico, «ad quem directe spectat jus Patronatus 
Ecclesie » : e la transazione riguardava solamente il diritto sulla Baglia, e però non si 
faceva parola del diritto delle decime del suo territorio proprio della Chiesa di Santa 
Lucia, con le quali decime territoriali, cum ferris, et cum septem villanis et uroribus, 
fu donata da Goffredo Borello al Monastero di Patti nel 1194. Queste espressioni « de 
territoriis Ecclesiarum... cum terris» ete. significanti le proprietà della Chiesa, indi ob- 
bligate alle decime sin da’ tempi normanni, valgono a far conoscere la qualità di esse 
decime, sin dalla loro origine e dalla donazione della chiesa al Monastero di Patti ne’ 
primi tempi della conquista Normanna. Nell'opera del Dott. Francesco Cupane Della 
Cappellania Maggiore del Regno di Sicilia e sua relazione alla Chiesa di Santa Lucia, 
a p. 5. (Palermo 1809), parlandosi della transazione citata si nota « si obbligò l’ uni- 
versità di pagare in ogni anno al Beneficiale e suoi successori onze 25 in perpetuo, in 
luogo di quei diritti di bajulazione, che pretendeva di esigere ». (V. Curavne, Memo- 
ria, citata Ducumenti, n. II, p. 1-4). 


6 ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 

Questo nome Maccarrone, certamente corrotto dall’arabo, dalla sua fi- 
nitura accenna a cristiani, vumi. 

Ora sopra la cima del monte che porta questo nome, è ancor oggi esi- 
stente il Castello, volgarmente creduto essere stato costruito dagli Arabi, 
senza che lo dimostrasse nessuna linea architettonica della parte restante 
dell’edifizio, che non è di struttura araba, ma fu edificato giusta il pre- 
detto diploma del 1822 sotto Federico Aragonese, il quale ordinava racco- 
gliersi in quella difficile località del Maccaruni la gente dispersa per la 
pianura di Milazzo, acciò fosse difesa anche dalla stessa difficoltà naturale 
del luogo dalle invasioni e devastazioni degli Angioini di Napoli, e fabbri- 
carsi su quell’abitazione dei cristiani, un fortilicium, che è il presente Ca- 
stello, delle cui torri ancora alcuna è ben conservata, con parte della 
muraglia a feritoje che lo circondava. Non si sa se anche in quell’altura, 
ovvero dove è oggi il Palazzo Abaziale, fu il Castello o Palazzo abitato 
nei primi anni del secolo XIII da Federico Svevo e dai suoi della Corte, 
fra quali il Cappellano Mustaccio, primo Prelato di Santa Lucia. 

L’'Amari dubita se la Santa Lucia di oggi potrà essere stata l’Hagar 
Ammar (il Sasso di Ammar) di Edrisi (1); e io direi chi sa se potrà ri- 
ferirsi ad Ammar quello che oggi in Santa Lucia volgarmente si crede 
un bagno o /evacro dei Saraceni, e a me è parso l’avanzo di una tomba 
musulmana, quadrata e con cupola di sopra, al muro dcila quale er: 
una lapidetta marmorea con iscrizione, che o fu distrutta per ignoranza 
ovvero rubata, restando soltanto visibile il posto dove era murata inter- 
namente. 

Sotto Rogiero Re erano in Santa Lucia, come per allora si chiamava 
il casale, abitanti di razza diversa, e vi era una colonia di Lombardi, 
i quali il Re voleva.che godessero dei privilegi e delle libertà, di cui 
godevano i Lombardi di Randazzo (2); ma non si accenna a Musulmani, 
e il resto degli abitanti del Casale dovevano esser greci, siccome molti 
cognomi ancora esistenti, frai quali quello dei Cuzzaniti assai diffuso. 

È poi a notare quello che si raccoglie da un documento del 1523, cioè 
che l’antico Casale, nel quale si trovava la Chiesa di Santa Lucia, era 
allora disabitato, e la detta terra di S. Lucia era abitata « de novo, novis 
habitatoribus tam del Casale, quam ex alijs Casalibus eidem Plano dicto 
de Milatio circumadjacentibus vicinis (3) »; sì che il Beneficiale di S. Lucia 


(1) V. Storîa de’ Musulmani, vol. I. 

(2) V. Dr GreGoRIO, Considerazioni, 1. I, e. IV, pag. 110, nota 1. Si parla del « teni- 
mento Milatii» e non può essere che la presente S. Lucia del Mela, v. AMARI, Storza 
de’ Musulmani, v. III p. 252. 

(3) V. Dr CHiara, De Cappella Regis, Doc. XXXVIII, p. 28-29. Panor. 1815. 


DI SANTA LUCIA DE PLANO MILATII OGGI DEL MELA 7 
‘consentiva alla transazione che si faceva tra esso Beneficiale e la Uni- 
versità di S. Lucia, sulla rendita della daglia, per ragione che il Casale 
era disabitato e depopulato : tanto vero che nel 1322 re Federico fece ac- 
crescere e ripopolare l'antico Casale con nuova gente raccolta dalla piana 
di Milazzo: dal quale accrescimento e ripopolamento è sorta appunto la 
presente santa Lucia, la quale nella sua parte alta ed antica presenta 
tutti i caratteri delle fabbriche del secolo XIV. 

Sotto Federico II la piccola città di S. Lucia ripopolata, accresciuta 
e fortificata da Federico II Aragonese, fu pure occupata dagli Angioini 
«di Napoli, ma per breve tempo; e nel 1366 era ordinato dal Re al Ca- 
pitano di Santa Lucia di restituire a Giovanni Tortoreto, che si era do- 
vuto allontanare per la occupazione dei nemici quel Bereficium Ecclesie 
Samete Lucie. (v. Cupane, Op. cit. Docum VI, p. 8). Il quale Beneficiwm 
si trova chiamato Abbazia di Santa Lucia nel 1458, leggendosi nell’atto 
di concessione del beneficio fatto dal Re a Giacomo Gaullant, « Abbacia 
S. Lucia de Castro » e così « Ecclesia Sanete Lucie de Castro» dal 
nome della piccola città, ove quell’abbazia si trovava. i 

Ora la Chiesa nominata nel 1094 esistette fino al primo ventennio del 
secolo XVII, sotto il venerato Abate Antonio de Franchis o Franco, il 
quale a detto del Pirri (1), « eam a fundamentis magnificentius erexit » 
adornata e perfezionata dall’ altro Abate Prelato Vincenzo Firmatur: 
prima del 1643, quando moriva in Palermo. Se non che un precedente 
Abate, palermitano, Giovan Martino de Vitali, aveva decorato di opere 
d’arte nel 1485 l’antica Chiesa, allogando alcune opere in marmo ad ar- 
tisti marmorarii dimoranti in Palermo, delle quali opere del secolo V 
e nelle rinnovazioni degli Abati De Franchis e Firmatura, furono ri- 
spettati il Fonte battesimale, l'elegante pila di acqua benedetta, e la 
grande Porta maggiore, che ancora si vede con ammirazione de’ riguar- 
danti. Del Fonte battesimale e della pila di acqua benedetta si è trovato 
l’atto di convenzione che fu redatto in Palermo fra l'Abate G. Martino 
de Vitale esecutore delle intenzioni dell'Abate Federico de Vitale suo zio, 
e maestro Gabriele de’ Baptista marmorario, e pubblicato dal beneme- 
rito Mon. Gioacchino Di Marzo nel vol. II dell’opera I Gagini e la Scul- 
tura in Sicilia ecc. (Palermo 1883, p. 9-10). Ma nulla sappiamo della grande 
Porta marmorea forse per ricerche non ancora fatte con diligenza, tranne 
della grande rassomiglianza di questa Porta per il suo disegno architet- 
tonico e gli ornati con la porta minore della Chiesa di S. Agostino in 


(1) V. Sic. Sacra, Reliq. Abbat. în Sicilia. Notit. race. da Viro Amico. Not. VI. San- 
ctae Luciae de Milatio. 


8 ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 


Palermo, giudicata della fine del 400 o de’ principii del 500 e sospettata 
opera di Giuliano Mancino o di Bartolomeo Berrettaro, scultori di ori- 
gine lombarda. Non si conosce documento certo di qresta Porta della 
Chiesa di S. Agostino in Palermo, ma nella stessa città lavorava ed abitava 
quando fece il contratto con l’ Abate Martino de Vitale il marmorario 
maestro Gabriele De Baptista di nazione lombarda e imparentato col Man- 
cino, che ne sposava la figlia nel 1506. Or perché col raffronto del lavoro 
e del disegno, non si possono riferire le due Porte allo stesso artista 
di Palermo, molto più che maestro Gabriele de Baptista lavorò appunto per 
la Chiesa di S. Lucia dove erano stati lombardi sin dal secolo XII, in 
quegli ultimi anni del secolo XV (1), che è l’epoca di quella Porta? La 
quale non può affatto attribuirsi al de Masolo, o al Mazzola di Catania, 
stante la differenza degli ultimi anni ne’ quali questi artisti lavorarono, 
e la differenza di stile delle Porte marmoree da loro eseguite in alcune 
chiese di Messina e di Catania. Al contrario, nella Porta di S. Lucia i 
candelabri sopra I architrave, benchè non ornati, il motivo del rosone 
alla base del candelabro, la decorazione del semicerchio sopra 1° archi 
trave, e dell’architrave, le mensole sotto l’architrave dalla parte di dentro 
e quelle esterne, sono pure della stessa mano; come la mezza figura di 
Dio Padre in atto di benedire sovrastante con base ornata al semicerchio 
dentro cui in altorilievo sta la Vergine col Bambino e due sante ai 
lati, forse la Santa Lucia Siracusana, e la Santa Lucia Romana: e tra 
le due Porte la differenza massima è nei lati dell'imposta, nei pilastri 
rabescati in quella di Palermo, e nelle colonnine a cordone a uso del 
trecento in quella di S. Lucia. Nella quale i festoni dell’uno e dell’altro 
lato della Porta richiamano è vero lavori del Mancino e del Berrettaro, 
ma era l’arte del tempo, e maestro Gabriele de Baptista era coetaneo ed 
amico del Mancino e del Berrettaro, ai quali si attribuiscono decorazioni 
marmoree di Porte eseguite in Alcamo. 

La Porta di S. Agostino ne’ suoi pilastri accusa il 500, anche dei primi 
anni; la Porta di S. Lucia richiama gli ultimi anni del 400 e fa accenni 
al 300, tanto che è da dubitare se siano colonne anche più antiche della 
Porta, e forse apprestate all’artista da monumento più antico del tempo 
quando poteva lavorare il maestro Gabriele de Baptista, più avanti negli 
anni a Gabriele Mancino, che fu suo genero, per commissione e del pri- 
mo e del secondo Abate De Vitale, e oltre al Fonte Battesimale della 


(1) Nel Fonte Battesimale della Cattedrale di S. Lucia si legge in lettere scolpite : 
«Coeptus tempore R. Domini Federici Vitalis et finitum tempore Joann. Martini Vitalis 
successoris, anno Domini MCCCC, 1. XXXIV ». 


DI SANTA LUCIA DE PLANO MILATII OGGI DEL MELA 9 


Cattedrale, lavorava forse l’altro Fonte Battesimale della Parrocchia del- 
l’Annunziata, e di quella di S. Nicolò, chiese di architettura di quel se- 
colo XV, siccome dimostra la bella torre campanaria dell’ Annunziata, 
la quale chiesa conserva iscrizioni d’ innovazioni che vi si fecero sin 
dalla metà del secolo XVI, e d’altra parte presenta una fila di colonne 
nella nave maggiore, che si debbono ritenere come molto antiche, fin- 
chè non si trovi alcun documento in contrario, e solamente si sta alla 
tradizione che le colonne predette furono portate li sopra nella città dal 
fiume che vi scorre vicinissimo, e dal lato opposto, sul quale scorre il 
Mela. Dico del fiume che è detto floripotamo, e si confonde col fiume di Con- 
drò, o fiume di Monforte, mentre il Mela è detto fiume Noczto, e il Fazello 
notò che le sue scaturigini sono « ex latere orientali collis Sanctae Lucie » 
(Doc. 1, L. IX, c. VIII) Ora o il Mela o il fiume di Condrò, tutti e due 
così vicini a Santa Lucia, scorrevano ne’ campi dove la mitologia pose 
i pascoli dei buoi del Sole presso il fiume e dove fu il Fanum Diane, 
o il Santuario di Diana Facelina, che è nominato negli antichi scrittori 
col nome Facelinus, presso cui fu combattuta la battaglia tra Pompejani 
e Ottaviani, ed era il piccolo borgo Agatirro e anche detto forse dal 
tempio Artemisio, dipendenza del predetto Santuario di Diana e posto ad 
occidente del fiume di Condrò, secondo la Geografia della Sicilia antica 
del Pugliese (p. 44). Ora non avrebbero potuto appartenere quelle colonne, 
ora nella Chiesa dell'Annunziata, al Fanum Diane, tanto celebrato nel 
l’antichità ? (1). II nome del Mela era anche /acelir0, dice l’Amico, per 
ragione del tempio di Diana: ma l’Holm sostiene che il Melave il Facel 
lino siano stati due nomi di fiumi distinti e sempre vicini alla marina 
di Milazzo, con corso verso il mare dalle colline di S. Lucia; e aggiunge 
che nulla impedisce di considerare il Noczto per il Melas, e il Fiume di 
Condrò pel Facelinus. Che che si dica dei due fiumi, il Me/as e il Facelinus, 
sono sempre fiumi del territorio di S. Lucia; e chi dice che da quelle ro- 
vine del Fanun Diane donde il fiume ebbe anche il nome di Facelinus, 
non poterono nei tempi di mezzo gli abitanti di S. Lucia portare nel loro 
casale e poi deliziosa cittadina le colonne sopravvanzate di quel pagano 
Santuario della Dea Facelina ? 

La Chiesa dell’ Annunziata dovette esser fondata nell’ ingrandimento 
del Casale nella prima metà del secolo XIV, e lo dimostra il suo Campa- 


(1) È da notare che soltanto le prime due colonne a sinistra verso il.coro hanno ca- 
pitelli antichi di stile corinzio, e sono somigliantissimi ai capitelli del tempio di Anto- 
nino e Faustina in Roma, e a qualche altro del Panteon, sì per l’arte e sì per la ele- 
ganza e purità del disegno. 


10 ALCUNI RICORDI STORICI E ARTISTICI 


nile semplice e severo ma elegante, e l’ornato delle finestre tanto somi- 
gliante alle finestre della torre rotonda del Fortilicio o Castello di re Fe- 
derico Aragonese. Non ci sono è vero documenti, ma nulla si oppone alla 
conghiettura, rispetto alle colonne dell'Annunziata, molto più che quelluogo 
nominato anche Artemisio e meglio Sedes Fascelina, e Fanum Dianae, fu 
occupato anticamente da Ottaviano, mosso da Milazzo, avvenendo la di- 
sfatta de’ Pompejani ivi tra il Fanum Diande e Naulachio (presso Spata- 
fora), e potè allora il Santuario soffrire tale devastazione che nel medio 
evo non offriva altro che rovine e resti di Archi, col qual nome fu detto 
e conosciuto nella nostra geografia medioevale. 

Sarebbero da rintracciare le ragioni perchè in Santa Lucia, sì nel ca- 
sale più antico, e sì nelle fabbriche aggiunte novamente in principio 
del secolo XIV sotto gli Aragonesi, non si trovi mai 1 arco acuto, bi- 
zantino e normanno, molto meno arabo, nemmeno nel Castello, bensi 
l’arco romano a pieno sesto, o al più le finestre o semplici o bifore di 
stile romanzo. I Lombardi fecer parte della nuova popolazione che si ag= 
giunse all'antica, e vi si raccolsero sotto i Normanni; ma l’architettura 
di Santa Lucia del secolo XIV non fu nè arabo bizantina, né lombarda.. 
Bisognerebbe altro studio per rispondere a questo fatto architettonico, ed 
io per ora non posso mostrare che fotografati una delle torri del fort 
cium fatto costruire nel luogo stesso fortificato di Maccaruni, ove potè 
essere qualche avanzo più antico, da Federico Aragonese, e il bel Cam- 
panile e le colonne e i capitelli della Chiesa dell’ Annunziata ; siccome 
presento anche in fotografie pur la Porta grande della Chiesa Cattedrale, 
ignorata nella nostra storia dell’arte, come ignorato lo stupendo Fonte 
Battesimale di S. Nicolò, e quindi non studiata né per l’epoca della co- 
struzione, nè per lo stile che dimostra ne’ suoi dettagli (1). Non dico per ora 
di pregevoli dipinti sopra tavola e in tela e delle scolture, fra le quali 
principalissima e stupenda la Madonna della neve del 1528 del sommo Ga- 
gini, bellissima fra le Madonne che si conoscono del rinomato artista, e 
venerata da quel popolo luciese con grande devozione, religione ed am- 
mirazione sentita dell’arte. 


15 Agosto, 1898. 


(1) Ringrazio molto l’ egregio giovane Sig. Cuzzaniti studente, della gentilezza di. 
aver tirato per me le fotografie predette da me desiderate nella visita fatta in Santa 
Lucia nel luglio passato, e i rev. Canonici D. Gaspare Milazzo ed Emilio Vasari della» 


premura che ne hanno avuta. 


15 VICO SIIEIIGIEO 


ORATORE DEL SECOLO XVI 


Lettura fatta dal Socio 
Prof. LUIGI NATOLI 


nell'adunanza del 19 Luglio 1896, 


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Di Bartolo Sirillo abbondano notizie e documenti che si riferiscono agli 
ultimi anni della sua vita; mancano invece quelli della giovanezza. La 
quale non sappiamo come egli trascorresse, sia perché la famiglia fu 
oscura, benchè denarosa, sia perchè da fanciullo fu mandato a studio 
fuori dell’isola nativa. 

Ho detto la famiglia oscura, perchè non mi è avvenuto d’incontrare 
nei diplomi o atti, che ho potuto vedere, alcuno della famiglia o del co- 
gnome del Sirillo, in una delle tante forme onde era esso scritto nei do- 
cumenti che riguardano il nostro : Cirillo, Sirillio, Insirillo. Ignoto è l’anno 
della sua nascita : per induzione, e approssimativamente, si può credere 
non anteriore al 1545 né posteriore al 1550. I parenti o per ambizione 
di farne un dottore, o perchè ravvisarono favorevoli disposizioni d’inge- 
gno nel fanciullo, o per consiglio altrui, lo mandarono a studio in Pisa, 
sotto la disciplina di Pietro Angelo da Barga, che, chiamato a insegnarvi 
nel 1549, aveva acquistato grande riputazione allo studio pisano. Il Si- 
rillo vi ebbe compagno l’ umanista Francesco Flaccomio e, forse, Mat- 
teo Donia, i quali del maestro e del loro affetto per lui lasciarono testi- 
monianza nei loro carmi. Il Bargeo, come si sa, stette a Pisa fino al 1575; 
poi dal cardinale Ferdinando dei Medici fu chiamato a Roma, dove mori 
nel 1586. IL Sirillo che del maestro fu sempre affettuoso discepolo ed ami- 
co, scrisse alla morte di lui una bella canzone, per celebrarne la dot- 
trina e le virtù. Ebbe anche a maestro Lorenzo Gambara, come testi- 
monia il Flaccomio nei suoi carmi (1). 


(1) In Sécelides, Messana, 1609, in 8°, 


4 BARTOLO SIRILLO 

Quando egli sia ritornato in patria non si sa; ma si potrebbe con in- 
duzioni più o meno probabili stabilire il suo ritorno a dopo il 1575. Im- 
fatti nelle Rime degli Accademici Accesî, che furono pubblicate nel 1571 
e nel 1575, il suo nome nè figura tra quelli dei rimatori, tra cui certo non 
sarebbe. mancato, perchè il Sirillo fu buon verseggiatore; né si trova 
nè pure fra i nomi dei personaggi lodati, fra i quali, sia per gli amici 
che ebbe tra gli accademici, sia per la sua dottrina, si sarebbe dovuto 
trovare. Il silenzio intorno al suo nome, in quel tempo, mi fa credere 
quindi che prima del 1573, per lo meno, egli non tornasse in Palermo. 
E d’altra parte bisogna pur notare che non v'è traccia alcuna d’inca- 
richi a lui affidati, innanzi al 1581. 

Dice l’Auria (1) che al suo ritorno il Sirillo fu in Palermo maestro nel- 
l’una e nell’altra lingua; ma lettor pubblico non fu, perchè fra gli atti 
del Senato o del Consiglio Civico non si trova alcun atto di elezione in 
persona del Sirillo; mentre vi si trovano dal 1498 in giù le nomine di 
tutti i lettori dello studio palermitano, come il Fazello, il Ballo, il Con- 
tovo, l’Ingrassia, il Celano ecc. Forse apri studio in casa sua, come usavan 
molti in quei tempi. 

Datosi alla predicazione, crebbe in tanta rinomanza, che fu eletto cap- 
pellano, indi confrate della venerabile compagnia dei Bianchi : e questo 
ufficio gli giovò molto, procacciandogli amicizie e protezioni nel patri- 
ziato; giacchè è noto che la compagnia era composta di gentiluomini di 
provata e incontestata nobiltà. La notorietà acquistatasi come oratore 
valse a farlo scegliere dal Senato di Palermo, nel 1581, per recitare il di- 
scorso nell’ingresso di Marcantonio Colonna, di ritorno da Messina; nel 
quale incarico egli seppe così guadagnarsi l’ ammirazione, per quella sua 
forma ornata e magniloquente, che, avendo nel 1584 il marchese di Bria- 
tico, presidente del Regno per la partenza del vicerè Colonna, chiesto 
conto da Messina alla città di Palermo del titolo di Senato col quale si 
sottoscriveva il magistrato comunale, il pretore, che era allora don Fa- 
brizio Valguarnera barone del Godrano, affidò al Sirillo la difesa del ti- 
tolo, se bene il Sirillo non fosse ancora assunto ad alcun ufficio muni- 
‘cipale (2). 

Il Segretario o cancelliere del Senato era in quel tempo don Geronimo 
Branci, letterato e giurisperito; il quale, anziché offendersi della prefe- 
renza, nell’imprendere un anno dopo la difesa di alcuni privilegi di Pa- 


(1) Zeatro degli Uomini letterati ecc., ms. della Comunale, ai segni Qq. D. 19. 
(2) Vedi AuRIA, Teatro degli Uomini letterati, citato a f. 167 e inoltre BrANCI, nel 
Discorso citato appresso. 


BARTOLO SIRILLO 5) 
lermo, cita e ricorda con onore la lettera del Sirillo, e ne ta sue le ra- 
gioni e le argomentazioni (1). 

Il Branci morì ai 14 di giugno del 1587, e a’ 22 il Senato elesse a suo 
successore il Sirillo, per un triennio (2), ma egli tenne l’ufficio sino alla 
sua morte, perchè con deliberazione degli 11 di settembre del 159: venne 
riconfermato per un altro triennio (5). 

Ma già prima di questa riconferma aveva ottenuto qualche altra prova 
di benevolenza dal magistrato cittadino. Negli ultimi del 1588 (4) il Se- 
nato fece recitare a sue spese, nel pubblico teatro, e con magnifico ap- 
parato, la Tragedia di S. Caterina del Sirillo; la quale recita fatta con 
lusso straordinario di spese, con « intermedii veramente regii » e da co- 
mici valentissimi, costò circa ottomila scudi, se il Rosso, dal cui diario 
tolgo questa notizia, non esagera (5). Nè ciò bastando, con deliberazione 
del 13 marzo 1590 il Senato gli concesse una gratificazione di quaranta 
onze per la stessa tragedia (6). Ma gli allori colti come autore tragico non 
offuscarono la sua rinomanza di oratore, sicchè nel 1589, ai 20 di di- 
cembre, essendo morto don Fabrizio Valguarnera suo protettore, fu pre- 
scelto a recitare l’orazione funebre (7). Nel ’92 ideò il ponte o arco trion- 
fale, per l'ingresso del vicerè Enrico di Guzman conte di Olivares; la de- 
serizione del quale arco fu poi composta da Don Gaspare Ariano (8). Nel 
93 recitò a Porta Felice l’orazione per l’arrivo della reliquia di S. Ninfa, 
concessa dal Papa alla Viceregina. 

La descrizione dell’arco trionfale gli tirò addosso una vera tempesta. 
Già nei convegni in casa di Berlinghieri Ventimiglia tra’ giovani lette- 
rati, sera cominciata a discutere l'autorità letteraria del Sirillo. Giovanni 
Giuffredi, Luigi d’Heredia, Filippo Paruta, maggiore d’anni e di dottrina, 
il Ventimiglia avevano severamente , fra loro, giudicato il Capitolo su 
l'Angelo Custode, un Cartello di giostra, e la famosa Tragedia di S. Ca- 
terina; adesso criticavano l'Arco e la descrizione fattane dall’ Ariano. Que- 


(1) Branci: Discorso intorno alla difesa di alcuni privilegi della littà di Palermo, 
in Palermo, 1586. 

(2) Registro di Atti ecc. 1586-87, fog. 181, v. 

(3) Registro di Atti, 1593-94, fog. 12, v. 
(4) E non già nel 1580 come scrisse l’AuRIA, e altri più recentemente ripete. 

(5) Varîe cose notabili occorse in Palermo, cavate da un libro scritto da VALERIO 
Rosso, nella BD. Stor. Letter. di Sicilia del Di Marzo, vol. I, pag. 277. 

(6) Registro di Atti, del 1589-90, f. 125. 

(7) Vedi Dr GrovannI, Palermo Restaurato, vol. I, pag. 399, nella Biblioteca Stor. 
Lett. del Dr Marzo; e inoltre in una lettera di FiLtPPo PARUTA, del 29 febbraro 1593. 

(8) AURTA, loc. cit. 


6 BARTOLO SIRILLO 

sti giudizî furono riferiti al Sirillo, il quale se ne adontò, e ne nacque 
una rivalità mal celata fra lui e il Paruta. Stampata nel ‘953 la descri- 
zione dell’Ariano, il Paruta, per rivendicare a sè alcune invenzioni di 
cui l’Ariano e il Sirillo s'erano fatti belli, scrisse una lettera, nella quale 
criticava la composizione dell'Arco, ma con modi cortesi e rispettosi : il 
Sirillo rispose con acredine, rinfacciando al Paruta i consigli e gli inse- 
gnamenti dati; il Paruta allora perdette le staffe e riscrisse con violenza 
ricordando al Sirillo l'oscurità dei natali e la sapienza parolaia accattata 
« per le taverne della Toscana ». Nella disputa acre, ingiuriosa, furono 
travolti il Giuffredi, l’Heredia, il Berlinghieri, l’Ariano, e molti altri let- 
terati meno noti: lo Heredia, anzi, fu preso di mira e vilipeso da una 
turba di letteratuncoli invidiosi della rinomanza che egli, ancor giova- 
nissimo, s'era acquistata (1). 

Ma quasi a compensare il Sirillo di queste lotte, poco dopo, con let- 
tera patente di re Filippo I, in data del 17 giugno 1594, fu eletto ca- 
nonico minore della Chiesa di S. Pietro del Palazzo, succedendo nel po- 
sto al morto don Giovanni Bartoli; ma la lettera reale non fu resa ese- 
cutoria che ai 13 di luglio 1595, con la speciale provvista «non obstante 
lapsu anni » (2). Pare che da prima egli non fosse molto attivo nel suo 
nuovo ufficio, perchè il suo nome non figura nei verbali degli atti ca- 
pitolari della Cappella Palatina, innanzi al 7 aprile 1596 (3). 

Il 2 maggio del 1597 fu eletto cancelliere del capitolo (4); ma durò 
poco in questa carica; perchè insorte quistioni tra il Senato di Palermo 
e la Corte di Madrid, fu necessario inviare in Spagna un ambasciatore 
straordinario, e nessuno pareva più acconcio all’ufficio del Sirillo (5); il 
quale con lettere credenziali del Senato, in data del 30 novembre 1597 
fu eletto ambasciadore, e provvisto dei mezzi (6). 

I mezzi di navigazione d’allora e la stagione inoltrata, non permisero 
certo al Sirillo di intraprendere subito un viaggio, pericoloso anche in 
tempi più propizî; onde io ritengo che egli non partisse innanzi alla pri- 
mavera del 1598. Avvalorano la mia supposizione due fatti: il primo, 
che il Senato di Palermo non elesse il cancelliere sostituto pel tempo 


(1) Vedi S. Saramone MARINO : La Lurcigiuneria, nell’Arch. Stor. Sîc., Serie III 

(2) Registro del Protonotaro N. 431, anni 1594-95, f. 114 e seg. 

(3) Vedi nell’archivio della Cappella palatina gli Atti Capitolari. 

(4) Vedi negli A4## sudetti, vol. I, f. 9. 

(5) Come risulta dal f. 59 del registro degli Attè 1596-97, il Sirillo aveva già ricevuto. 
un aumento di stipendio; e inoltre un anticipo di duecento onze (ivi f. 85). 

(6) Registro di Lettere e patenti 1592-1612, f. 151 v. 


T 


BARTOLO SIRILLO 


dell'assenza del Sirillo prima degli 11 settembre 1598 (1); il secondo che 
parimente il capitolo della Cappella Palatina non elesse il nuovo cancel 
» liere che nel 1598. Vi ha di più, anzi. Da una dichiarazione del Ciantro 
della Palatina, don Agostino Basilio, fatta a 10 luglio 1600 risulta che 
il Sirillo si allontanò dalla chiesa e fu «assente dal servizio divino » 
solo dal 1° marzo 1599, XII Indizione in poi ‘2). 

Fu questo l’ultimo servizio reso alla patria: da Madrid non tornò più. 
E fama, che dopo avere onorevolmente compiuto | ambasceria e con- 
dotto a termine ogni faccenda, sul punto di ritornare, si ammalasse im- 
provvisamente, e soccombesse al male. Il Mongitore e gli altri che lo 
hanno seguito, pongono la morte nel 1598; ma dalle date dei documenti 
accennati or ora risulta invece che in quell’ anno egli non si era per 
anco allontanato da Palermo. E che la data della morte sia un parto 
della fantasia del Mongitore, si vede meglio da altri documenti. Infatti 
alla citata dichiarazione della Cappella Palatina, che lo dice assente dai 
divini ufficî solo dal 1° marzo 1599 in poi, possiamo aggiungerne altre 
testimonianze dalle quali risulterebbe che nel 1600 il Sirillo era ancor 
vivo. E certezza infatti che fino al 29 ottobre del 1600 lo stipendio di 
canonico, che il Sirillo percepiva, fu pagato a Bartolomeo Catalano pro- 
curatore del Capitolo, e per parte del Sirillo; e che fino al febbraio 
del 1600 il Sirillo ne aveva ricevuto l’ ammontare (3). Onde era fatta 
istanza al R. Patrimonio di spedire il mandato ordinario « dello stipendio 
di detto Sirillo da pagarsi sulla fede del Ciantro di mese in mese » da 
marzo in poi (4). La quale istanza era respinta, perchè secondo i capitoli 
del R. Visitatore, lo stipendio degli assenti doveva essere diviso fra co- 
loro che li supplivano negli ufficî divini. Così veniva deliberato ai 7 lu- 
glio del 1601 XIV Indizione, come si ricava da un documento nel quale 
il Sirillo è detto sempre « lontano e assente dalli serviti) della sudetta 
chiesa » (5). Se il Sirillo fosse morto nel 1598, come mai poteva rice- 
vere lo stipendio e poteva sollevare una quistione giuridica nel 1601 ? 
Ed è anche da notare, che il Senato di Palermo, nominando nel 1599 il 
Ferreri definitivamente al posto di Cancelliere, motivava la nomina, non 


(1) Registro di 442 1598-99. XII Ind. f. 18. L’ eletto fu don Vincenzo Ferreri, pel 
tutto il tempo dell’assenza, ma senza stipendio. 

(2) Monum. I. R. C. dal 1591 al 1600, vol. V. f. 253, all'Archivio della Cappella Palatina. 

(3) Mon. Durp.r. dagli anni 1132 al 1623, vol. I, f. 128, nell’Archivio della R. Cap- 
pella Palatina. 

(4) Ivi. 

(5) Mon. I. R. C. dal 1591 al 1600, f. 254 v. 


le) BARTOLO SIRILLO 


già per la morte del Sirillo, ma perchè il triennio della sua nomina era 

compiuto (1). Il che conferma sempre che il Sirillo in quel tempo non era 

ancor morto : nè si può ritenere che, se morto, la notizia non fosse an- 
cora pervenuta in Palermo, perchè coi traffici continui tra l'isola e la° 
Spagna, non è ammissibile che la morte del Sirillo, personaggio rag- 
guardevole e pei suoi meriti e per la qualità di cui era rivestito, rima- 
nesse ancora per due anni ignorata dal Capitolo e dal Senato, il quale 
poi aveva tutto l'interesse di saper nuove del suo ambasciatore. 

Uomo fortunato, accarezzato, protetto, visse una vita tranquilla, sol 
leticato nella sua vanità di primeggiare : la morte troncò nel meglio la 
sua vita, e, crudele antitesi, lo privò di quelle onoranze e di quelle pompe 
che non gli sarebbero mancate, se fosse morto in Palermo. 

Ma di lodi non gli furono avarii suoi concittadini : di lui fecero ono- 
revole ricordanza il Branci, nel Discorso che abbiamo citato (2), il Ba- 
ronio (3); il Di Giovanni (4); l'Auria (5); il Mongitore (6). 


II. 


Bartolo Sirillo ebbe fama di buon poeta e di eccellente prosatore; ma 
le opere sue non sono numerose. Benchè facesse professione di ora- 
tore, appena due sole orazioni si trovano a stampa; le altre molte, fra 
cui quella recitata in morte di don Fabrizio Valguarnera, probabil- 
mente si sono perdute. Delle sue poesie la massima parte è ancora ine- 
dita, e meriterebbe invece essere data alla luce; e ancor inedita sarebbe 
la sua tragedia, se il Di Marzo non l’avesse pubblicato nella sua Biblioteca. 

Stampate dunque si trovano l’Oratione fatta per la Città di Palermo 
all’illust, et eccell. sig. Marc Antonio Colonna vicerè di Sicilia, nel ritorno 
che ci fece di Messina l'anno 1581 (1); l Oratione recitata in Palermo net 
Teatro fatto all'angolo del Bastione Vega in istrada Colonna, il giorno del- 
V entrata solenne del Capo di S. Ninfa a 9 settembre 1593 (8); la Tragedia 
di S. Caterina (9); un Capitolo nella Scelta di Poesia di diversi eccellenti 


(1) Registro di Att? del 1599-1600. 

(2) Vedi innanzi a pag. 5. 

(3) De Majestati Panormitana, Libro III, 3. 

(4) Loco citato (vedi la nota a pag. 5). 

(5) Loco citato. . 
(6) Bibl. Stc., vol. I. 

(7) In Palermo, presso Giov. Frane. Carrara MDLXXXIII. 

(8) Ivi. 

(9) Nella Bi02. Stor. e Lett. del Dr Marzo, 32 Serie, vol. I. 


BARTOLO SIRILLO 9 


poeti pubblicata in Genova nel 1582; alcune ‘me pubblicate dal Di 
Giovanni in un suo discorso (1); un sonetto al Branci : il resto delle rime 
è sparso nei codici, l’orazione funebre pel Valguarnera non si sa dove 
sia; di una Capanna di Tirsi, che il Mongitore gli attribuisce, mon so 
nulla, come nulla so di vn’Arco trionfale fatto in nome del Vassallaggio 
alla Marchesa di Geraci donna Dorotea Ventimiglia per la venuta nel suo 
stato (2). 

Ma di tutte queste opere a noi non interessano che le orazioni, come 
quelle che diedero fama al Sirillo, e che meglio dimostrano qual fosse‘ 
l’arte o la maniera sua di scrivere. 

Senza ricorrere alle memorie antiche, e alle testimonianze di Aristo- 
tile, di Platone, di Marco Tullio, che additano la Sicilia come culla del- 
l’arte oratoria, e senza ricordare Gorgia leontinese, Corace e Tisia; pos- 
siamo affermare che per naturali disposizioni dell'ingegno i siciliani si 
sono in ogni tempo, e in ogni genere di orazione, segnalati per facondia 
e per calda eloquenzi : e se modernamente Filippo Cordova fu salutato 
il più grande oratore del Parlamento italiano, e Gioacchino Ventura ha 
pochi che gli si accostino nell’oratoria sacra, non è senza ragione. L’ora- 
toria fu nell’ Isola tenuta in onore: la sua costituzione politica, la fre- 
quenza dei parlamenti esercitavano e rendevano necessario 1’ esercizio 
di parlar pubblicamente: ma essa non diventò un’arte che nel secolo XVI, 
quando alla calda e spontanea eloquenza si sostituì la regola, e il pen- 
siero fu imprigionato tra le distinzioni retoriche, e il sentimento falsato. 
Nessun monumento noi abbiamo dei nostri vecchi oratori, ma ce ne 
possiamo formare un’idea dalla rude e violenta epistola dei Siciliani 
al papa, del 1282, (3) la quale è una vera e propria orazione, che in 
certi punti tocca il sublime. Le orazioni che il Fazello, imitando gli 
storici latini mette in bocca ai suoi personaggi, sono una esercita- 
zione artistica, secondo il gusto dei tempi; perocchè negli storici o cro- 
nisti del medio evo non si trova alcun esempio di discorsi o concioni. 
Ma nel secolo XVI gli oratori abbondano : gli arrivi e le partenze dei 
viceré, le morti dei personaggi illustri, gli avvenimenti straordinarî, le 
liti frequenti tra la città e il governo per la difesa dei privilegi, erano 
fatti che richiedevano una orazione. Anche gli avvenimenti dei privati, 
come a dire una onorificenza, o un nuovo titolo concesso a uno dei pri- 
marî baroni, costituendo fatti importanti nella vita cittadina, erano 


(1) Vedi in FWologia e Letteratura, Palermo 1873, vol. II. 
(2) È citato dal Mongitore, in B4@00. Sze. 
(3) Vedi, AmaRrI: Storia del Vespro ece. nei Documenti. 


10 BARTOLO SIRILLO 


accompagnati da una orazione. Onde la necessità di uno studio regolato 
dell’arte, e una schiera di oratori, pei quali l’arte si ridusse a un mec- 
canismo di forme, e la impostatura retorica prese il posto del sentimento. 
Per la qual cosa la celebrità e l’importanza di un oratore non risiedevano 
in quelle doti che costituiscono la vera eloquenza, e che oggi cerchiamo, 
ma nella conoscenza profonda dei mezzi retorici, nel sapere meglio con- 
formarsi ai modelli di scuola, nella sostenutezza e nella magniloquenza 
della forma, la quale di tanto si innalzava, di quanto più si allontanava 
dalle maniere comuni di favellare, 

Ora è in questo genere di orazioni che il Sirillo toccò 1’ eccellenza, 
nessuno scrittore dei nostri riuscendo più di lui artifizioso, non solo nel- 
l'organismo dell’orazione, ma nella positura dei periodi e delle proposi- 
zioni, e nella ricercatezza delle parole e dei costrutti. È l’esagerazione 
della maniera del Boccaccio; di che si risentono tutti gli oratori del cin- 
quecento, nei quali è difetto di sentimento vero, e non è altra preoccu- 
pazione che l’arte, o meglio certi speciali atteggiamenti dell’ arte. Tut- 
tavia è da notare che questa esagerazione, questo studio di parer ma- 
gnifico, questo sforzo per fare della prosa monumentale, questo miche- 
langiolismo della parola, non cominciò che nell’ultimo ventennio del se- 
colo, preludiando alle gonfiezze del barocchismo posteriore. Fino al 1575 
troviamo oratori che per quanto è possibile cercano di esser semplici : 
tale è Girolamo Fazello, frate dei Predicatori, il cui Quaresimale (1), re- 
citato nella primavera del 1574, se non è notevole per impeti, e per mo- 
vimenti drammatici, ha però una certa compostezza. 

Cito a caso dalla predica sul /elice regimento di Dio : 

« Empia e dura cosa è udire e pensare che tutte le creature a noi 
inferiori, e senza discorso e ragione, si lascino governare da Dio, e sola- 
mente l’huomo essendo giuditioso e dotato di tanti benefici, fatto superbo 
recalcitra contro il governo di Dio. Nè pensate, christiani, che questa 
mia querela sia sogno o favola, ma è più che vera, essendo fondata nella 
scrittura, e nella esperienza. Ditemi in che consiste il governo ? Direte : 
in essere drizzati al proprio fine. Ecco, fratelli, il fuogo è governato 
«perchè è drizzato a luogo alto, come proprio fine. La pietra è governata 
perchè è drizzata a luogo basso come proprio fine. E tutti gli animali 
sono governati..... tutti ubbediscono al governo e conseguentemente al 
governatore, Dio. Dirai : non è Dio che gli governa, ma la natura. Ti 
domando : che cosa è questa natura? bisogna dire che sia o Dio o altra 
cosa. Se è Dio ho l’intento mio, che Dio li governa. Se non è Dio, ma 


(1) Stampato in Palermo pel Magola nei 1575. 


BARTOLO SIRILLO 11 


è altra cosa , io domando : quest’ altra cosa che tu chiami natura, chè 


E così per tutto il libro; e diciamolo pure, questa semplicità, con tutti 
quei ripigliamenti, con quelle ripetizioni non è priva di grazia; ed è ciò 
appunto che fa vedere più spiccatamente i difetti dell’ oratoria accade- 
mica che tanto piacque ai critici del cinquecento. Leggasi, per esempio 
questo tratto di un Discorso premesso da Lionardo Orlandini al Giorgio, 
poema del Donia : i 

« È cosa chiarissima, giudiciosi lettori, che le fatiche de gli ingegni 
esperti in qualunque professione si rendan più o men degne principal 
mente da la nobiltà del subietto nelle opere che essi partoriscono. Questo 
si vede aperto nella Filosofia madre e maestra di tutte le arti e mestieri 
humani; nella quale il trattar cose metafisiche, e divine avanza di gran 
lunga lo scrivere delle fisiche, cioè naturali. Perchè Platone, Omero dei 
Filosofi, e Principe de gli Accademici fu stimato da’ dotti gran Metafi- 
sico, e chiamato divino : et Aristotele capo dei Peripatetici, Maestro e 
Filosofo singolare fra quanti scrisser mai di filosofia naturale, havendo 
egli di quella scritto dottissimamente....... Verrò solamente alla Poesia 
Eroica, la quale s'aggradisce et illustra altresì dalla materia che a cantar 
prende l’Eroico; perciò (come scrive Eliano) dissero gli antichi che Omero 
era Poeta da cavalieri, ed Erodoto da contadini...... Ma chi non discer- 
nerà questa miglioranza nell’Ariosto e nel Tasso, amendue Poeti della 
nuova regolata lingua Italica ? L’Ariosto, pingendo diversamente molte 
nobili attioni, canta le donne, i cavalieri, l’arme, gli amori, l’audaci im- 
prese e le cortesie che furono allora che i Mori passarono il Mar d’Africa 
a destrution del bel regno di Francia, dalle smanie del figliuol di Mi- 
lone cieco e forsennato amante, donando al suo poema titolo d'Orlando 
Furioso. All'incontro il Tasso, oltre al riguardo della unica attione illustre 
propria dell’Epopea, freggiandola con vaghe digressioni, sol cantò quel 
pietoso Capitano, liberator del Sepolcro di Cristo; il qual valorosamente 
combattendo tolse Gerusalemme alla barbara e sporca tirannide saracina, 
e spiegò a grandissimo onore la vittoriosa e trionfale insegna del nostro 
Salvatore per tutto Oriente, chiamando esso Tasso le sue dotte e pre- 
giate vigilie Gerusalemme liberata..... » 

A nessuno sfuggirà l’artificio di questo periodo, dove ogni cosa è stu- 
diatamente ottenuta, secondo un modello di stile che lo scrittore tolse 
a imitare: ma pure a petto di altri prosatori l’Orlandini è ancor più ita- 
liano. Il Branci, per esempio, nel suo Discorso in difesa dei privilegi di 
Palermo si sforza di dare al suo stile un andamento ancor più artifi- 
zioso, e tuttavia si scusa che per la materia che egli è costretto a trat- 


12 BARTOLO SIRILLO 


tare e per la fretta, non può scrivere « con quella pura lingua e quel per- 
fetto stile » che si richiederebbe. 

Questi pregi, di che il Branci non poteva farsi bello, si ritrovano ap- 
punto nelle orazioni del Sirillo, che in questo stile, o diremo meglio, 
maniera di esprimersi, può considerarsi come modello. 


III. 


La preoccupazione costante del Sirillo di apparir bello e maestoso, si 
rivela fin dalle prime parole. Egli ricorre al solito artifizio della mode- 
stia, alla debolezza del suo ingegno, alla oscurità della sua persona, alla 
imparità delle forze in confronto alla grandezza del soggetto, all’ esser 
costretto da amici, e a tutti i soliti mezzucci che servono a fingcre una 
modestia che non si ha, e a tar rilevare vie maggiormente i pregi del- 
l’orazione. 

Così nell’orazione a Marc’ Antonio Colonna dopo aver detto che se egli 
imprendeva a parlare, gli era perchè come cittadino non potea disub- 
bidire ai comandamenti della patria, dice : 

«ri Tuttochè io vegga chiaro di sottentrare a peso di gran lunga 
“più grave, che al mio debole ingegno non farebbe mestieri, e. di molti 
ci conosca vieppiù di me possenti a così fatto carico sostenere, mi sono 
‘oggi condotto a parlar pubblicamente in questo luogo nel cospetto di V. E., 
ascoltandomi la nobiltà di Sicilia; e vengo ora, ma vengo, a dirne il 
vero, non senza mio grande spavento a far quell’ufficio in vece di questa 
Città, ch’ella medesima, come poco avanti dicemmo, quando avesse lin- 
gua, farebbe...... Le quai ragioni, mentre che io colla maggior brevità, 
che fia possibile, mi sforzerò di riferire, prego umilmente V. E. per quel 
puro affetto che a portar soma, troppo, come dissi innanzi, alle mie forze 
disuguale mi ha indotto, voglia coll’aura della sua Benignità favorire il 
corso del mio ragionamento, e non por mente all’umiltà della mia Per- 
SONA... > 

E nell’orazione per la reliquia di S. Ninfa, comincia così : 

«Se una certa paura, che in me si scorge qualora mi convien ra- 
gionare in pubblico luogo, dove io per queste rare volte mi conduco, a 
quelle astretto da espressi comandamenti di Signori, o da caldi preghi 
di Amici, che pur di comandamenti hanno forza, fu mai reputata non in- 
degna di scusa, oggi per certo è scusabile in maniera che parer potrebbe 
per avventura degno di accusa il contrario..... » 

E chiude con queste altre parole : 

« Ed a Voi ancora mi volgo, Eccellentis. Principe, acciocchè m’ impe- 


BARTOLO SIRILLO 15 


triate coll’autorità vostra da così scelta adunanza, che presente è stata 
al mio arringo quella benignità, di cui gli Oratori han bisogno per rin- 
vigorirsi a nuova impresa; avendo riguardo alla sublimità del Soggetto 
(a cui non giugne umana mente) ch’è stata della mia scarsezza la vera 
e sola cagione, poichè, come in su ’1 principio dissi, mal si dispiega con 
parole quel che ben dall’intelletto non si comprende ». 

A nessuno verrà in mente di dubitare dalla superiorità del Sirillo sopra 
gli oratori del suo tempo, dato il concetto che si avea del perfetto ora- 
tore, e l'ideale dello stile che nella seconda metà del secolo gli scrittori 
perseguirono. L'eleganza che per noi risiede nei rapporti di convenienza 
tra la forma e il concetto, e nello sfuggire così la secchezza come la so- 
vrabbondanza, ai tempi del Sirillo era riposta nella esagerazione della 
linea curva: onde nelle arti del disegno la ricerca degli scorci più mo- 
struosi e la turgidezza delle forme; nell’architettura gli immensi cartocci, 
negli abiti gli sbuffi, i rigonfi e gli enormi colletti inamidati; nella prosa 
i periodi gonfi e arrotondati, vacui nella loro sonorità, le parole ricer- 
cate, lo studio di allontanarsi dalla semplicità e dalla naturalezza, l’andar 
dietro a ciò che è meno usato, meno comune, per un malinteso senti 
mento di aristocrazia : quasichè essere aristocratici in arte significhi agi- 
rarsi in ampi e maestosi paludamenti che rendono goffa la persona o ri- 
-dicola. i 

Secondo dunque la moda dei tempi, il Sirillo può considerarsi come 
uno dei prosatori modelli, giacchè egli cerca di portare alla perfezione, 
fin nelle più piccole cose, quell’arte e quello stile. 

Il lettore mi segua nella trascrizione di questa pagina dell’ Orazione 
per S. Ninfa: 
ct Dove altre volte orando, la riprension degli Uomini ho temuta, 
ora il Divino Giudizio par che fosse da paventare. Oltre a ciò gli studj 
di quelle arti, delle quali io, come in esse poco avanti per la debolezza 
dell'ingegno sia proceduto, quando alcuna fiata nondimeno mi è bisognato 
ragionar pubblicamente, ho ricevuto non piccolo ajuto, ora mi abban- 
donano affatto; nè in questa occorrenza son buone a prestar sussidio ve- 
‘uno; imperocchè mal si dispiega con parole quel che ben dall’intelletto 
‘mon si comprende; e ’1 pensier che si esprime e comunica a gran fatica, 
come riceverà egli ornamento e leggiadria ? Senza che, qui non han luogo 
‘i precetti e le regole, che in lodando comunemente si osservano, cioé 
di annoverare i beni, che gli antichi Savj del Mondo chiamarono esterni, 
e molto men gioverammi ciò ch’essi andavano cicalando intorno alle lodi 
dell’animo, poichè invece delle ricchezze, le quali erano da loro apprez- 
zate, è nella Scuola di Cristo avuta in pregio la povertà, si stimano più 


14 BARTOLO SIRILLO 


degli onori gli scherni, e più che le prosperità son le tribulazioni esal 


«Ma con tutto ciò pure, o che l’ universal contentezza sgombri dal 
petto mio la temenza, o che piuttosto, come più mi giova di credere, la 
mia gloriosa Compatriota, perchè in questa solennità io celebri qualcuna 
delle sue lodi, m’abbia dal suo benigno Sposo un tal favore impetrato; 
io mi sento l’animo ripieno di nuova ed insolita baldanza: e quanto più 
conosco le proprie forze minori, tanto più confido nel celeste soccorso, 
e coll’ajuto di colui, che a’ mutoli ancora, quando gli è a grado, concede 
l’uso della favella, e che in un tratto di rozzi e semplici Pescatori Oratori 
eloquentissimi fece già divenire, porto ferma speranza di non essere in: 
vano salito su questo Pergamo; Egli spero che moverà, snoderà e reg- 
gerà questa lingua; ei purificherà l’immonde mie labbia con quell’info- 
cato Carbone del Suo Spirito, e mentre narrerò il vicendevole ardente 
amore della sua bella Ninfa e di lui, si degnerà mandare al mio cuore 
una favilla di quel fuoco, bastante a far, che le parole, che quindi usci- 
ranno, gelate non arrivino alle orecchie di chi m’ascolta..... 

« È pregio sovrano delle Donne, come ciascun sa, la bellezza, e però 
generalmente con faticoso studio procacciano d’ esser tenute belle; ma 
pochissimo rilieva, per chiarirsi che belle si chiamano agli occhi degli 
Uomini, conciosiacosa che quelli s'ingannano assai di leggieri, e non si 
trova negli umani sentimenti verace e fermo giudizio; colei sicuramente 
può dirsi bella, che piace a quel perfetto e supremo Conoscitor de le 
Bellezze; e colei bellissima, che sommamente gli è grata..... » 

E appresso, per citar qualche tratto ove il sentimento ‘è più vivo e 
la commozione scalda l’oratore : 

« Ma cosa in tanto succedette, che recarle potè cordoglio; e ciò fu, 
che avendo il Tiranno udito come dal Vescovo gli era stata la figliuola 
battezzata, il fè insieme con alcuni suoi Discepoli, che seco allora si ri- 
trovarono, con furioso impeto cacciar in prigione, e quivi batterlo e fla- 
gellarlo aspramente; e perchè alla fama di quella presura corser molti 
della Città per opera del buono e diligente Pastore convertiti al verace 
culto, quali in difesa del vero e dell’innocenza parlando, Servi di Cristo 
e sprezzatori degli Idoli magnanimamente si discoprirono, comandò che 
di loro alcuni, i quali ascesero al numero di quarantaquattro, per ispa- 
vento degli altri fosser decapitati. Or tutti gli strazj fatti a quel Santo 
Vecchio sentì la Gentilissima dentro il suo cuore; e il ferro, che tagliò 
quelle quarantaquattro venerande teste, fe’ nell’animo di lei quaranta- 
quattro profonde ferite. Oh, Gloriosi Martiri che col vostro sangue con- 
sagraste già questa felice Terra, più che per la felicità e amenità sua.... 


BARTOLO SIRILLO 5 


Oh Santissimo Vescovo Mamiliano, esempio dei Vescovi, compagno degli 
Aspostoli, Apostolo e patriarca di questa Città..... 

& 0000106 Il Tiranno pieno di maltalento, e fuor d’ogni modo infellonito, 
e forse con incrudelir nella Figliuola credendo acquistarsi gran fama di 
notabile severità, pensò di farla di cruda e spaventevol morte morire; 
e secondo il pensiero comandò che fosse posta dentro un grande e pieno 
vaso d’olio bollente, e quivi tenuta, finchè disfatte le carni dalle ossa e 
dai nervi si dispiccassero; il che senza dimora gl’infami esecutori della 
giustizia si diedero ad eseguire...... Ecco in mezzo alla maggior piazza, 
sostenuta da gran treppiè di ferro un’ampia caldaia; ecco arrecatovi le 
fascine ; eccovi appreso il fuoco; ecco le vampe levate al Cielo; ecco 
l'olio, che per l’impeto delle fiamme strepitoso divenuto contro la sua 
natura, da lungi gorgogliando si fa sentire; «co, intorniata da vile e 
fiera masnada, comparire spogliata dal cinto in su l’onestissima Vergine; 
e colei, che ad altre Persone, fuor che a’ suoi famigliari di casa, rare 
volte avea dimostrato il viso, costretta è ora davanti il Popolo ignuda 
a discoprir la persona; se ben io credo che in guisa offuscati dal pianto 
erano quivi allor gli occhi di ognuno, che senza essere veduta quasi 
potè passare, finchè arrivò al supplizio; dove quando la posero i Mani 
goldi, si alzarono dagli Uomini e dalle Donne riguardanti le voci e le 
strida grandissime infin al Cielo; ed Ella sola quietissima, che ad ognuno 
era cagion di lamenti e di lutto, con gli occhi lieti non che asciutti, mi- 
rando verso il Cielo, cantava dolcemente quelle parole del Salmo: Di 
mostrami, o Signore, la tua faccia, e sarò salva...... » 

Certo quest’ ultimo passo non è privo di bellezza , ma quanto siamo 
lontani dalla sprezzosa noncuranza del Caggio e dalla venusta sempli- 
cità del Veneziano. Qui c’è tutto l’artificio di una scuola che va cercando 
l’effetto e che uccide a poco a poco l’ arte. E data questa forma soste- 
nuta, secondo rettorica, data la maniera di porgere che il Sirillo aveva 
prestante, la voce sonora, il gesto solenne, data la monumentalità che 
rivestiva in quel tempo tutti i fatti della vita e tutte le creazioni del 
pensiero, non è a dubitare un momento che le lodi tributate al Sirillo e 
la fama acquistatasi non siano state sincere. 


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E FEUDALITRÀ 
FEDERICO Il SVEVO E I COMUNI SICILIANI 


DON ZON 


Lettura fatta alla R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti 
il 20 Giugno 1897 
DAL SOCIO 


FEDELE POLLACI NUCCIO 


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ASignasi, 


14, 


Invitato da questo onorevole Presidente a legger qualche cosa in una 
delle nostre ordinarie sedute, mi son determinato rivolgere la vostra 
attenzione a un soggetto che a bella prima sembrerebbe troppo noto : 
la feudalità. Certo, dovunque si è scritto, e molto, di questo gran fatto 
che informò per secoli la società tutta medievale, e che attirò sempre 
la considerazione di giurisperiti e di letterati. In Sicilia, e nel corrente 
secolo, ne hanno scritto meglio di tutti il Gregorio e l’Orlando : quegli 
da storico nelle sue imperiture Considerazioni; questi da giurista nel suo 
Feudalesimo in Sicilia : lavori entrambi degni della riputazione che han 
sempre goduto. Ciò non pertanto non credo che di questo argomento 
non si possa dire ancor qualche cosa e rischiararne meglio qualche punto : 
e questo m’ingegnerò di fare nel presente discorso, nel quale vi mo- 
strerò che le invettive del Colletta e le accuse del Botta e del Win- 
speare, se hanno ragione alcuna di essere, più che alla feudalità, andrebber 
meglio dirette alla umana malignità; che in Sicilia la legge, e, più di 
tutte, le sacre imperiali costituzioni fredericiane seppero opportunamente 
temperarla a vantaggio dei vassalli; che anche dopo la sua abolizione, 
essa lasciò tracce luminose che difficilmente il tempo potrà cancellare, 
e che molte cose di cui oggi ci onoriamo non sarebbero esistite se non . 
fosse stato per questo odioso feudalesimo. E che il mio discorso non sia 
inopportuno, ve lo dirà il seguente recentissimo fatto. 

Ai 15 gennaro del 1894 il Giornale di Sicilia pubblicò un'intervista tre 


4 LA FEUDALITÀ 


uno dei compilatori del Dorn Chisciotte, di Roma, ed un eminente prelato 
della Vaticana, nel quale tutti riconoscemmo indubbiamente il dotto e 
prudente Mons. I. Carini. Or in quella relazione non si dubitò di attri- 
buire all’insigne Prelato un'affermazione, quanto ridicola tanto scempia 
ed ingenerosa, cioè che in Sicilia în certi punti selvaggi esiste ancora il 
jus primae noctis e Ze donne e è contadini passano di dritto aè Signori sulla 
tariffa invariabile di cinque lire. La insensata affermazione destò l'ira di 
tutti, e un eminente personaggio di questa città,il professore Cav. Giu- 
seppe Pitrè seppe ben dare a quei compilatori il fatto loro sullo stesso 
Giornale di Sicilia. Ed ecco come, dopo 85 anni dalla eversione della feu- 
dalità in Sicilia, non si esita a mettere in giro simili frottole, e dopo 
parecchi secoli che l’ imperatore Federigo puniìi severamente in Sicilia 
questo temerario e crudele abuso, io non intendo certo farmi il campione 
della feudalità : il fatto solo che essa cadde è la prova più palpabile della 
sua incompatibilità coi tempi, ma non se ne aggravino i torti; non si 
veda una legge là ove tutt’ al più non è che una individuale prevari- 
cazione; non si disconosca ciò che ebbe di buono, e si rammenti sopre 
tutto che molte cose di cui oggi ci onoriamo sono appunto frutto di 
questa odiata feudalità. 

Il feudalesimo in Sicilia, siccome dappertutto altrove, può venir con- 
siderato sotto due aspetti : politico e civile. Nel primo esso ci si appre- 
senta come un corpo: di ricchi e potenti signori che, compatti fra di loro, 
difendono, al caso, le nazionali franchigie e la; nazionale indipendenza; 
che, talvolta, per gelosie reciproche, immergono l’isola in luttuosi turba- 
menti, e che riuniti in triennali assemblee coi rappresentanti dei comuni 
demaniali, votano le leggi e provocano dal Sovrano i provvedimenti op- 
portuni al buon governo dell’isola. Sotto l’aspetto civile noi veggiamo 
questi feudatarii siccome tanti piccoli sovrani coi quali il sovrano coro- 
nato divide la sua autorità, e che, così rivestiti di questo potere, gover- 
nano le proprie terre, vi riscuotono tributi, vi fanno opere pubbliche, 
vi amministrano giustizia civile e criminale, e tutto questo in cambio 
di un’ servizio militare e di collette e donativi che ognun di loro è co- 
stretto a contribuire al proprio signore e sovrano. Come corpo politico, 
la feudalità ha lasciato in Sicilia molti e bei ricordi : pochissimi cattivi. 
Coi due primi Ruggieri essa lavora a sottomettere le province oltre il 
Faro, a portar la potenza e il nome siciliano fino in Oriente, e a get- 
tare le basi di quella costituzione che dovea regger l'isola per ben sette 
secoli. Sotto il primo Guglielmo, provocata o provocatrice, lotta contro 
il Maione per arrestarne l’ambiziosa cupidigia, pur protestando sempre 
la sua devozione al proprio re. Dopo la morte del secondo Guglielmo è 


FEDERICO IL SVEVO E I COMUNI SICILIANI 5 
questa nobiltà che, desiderosa di porre la corona regale sul capo di Tan- 
credi, nipote di re Ruggiero, e aiutata dal Pontefice Celestino III, si leva 
a difesa del principio nazionale e lotta contro un partito straniero pre- 
valente in corte; è questa stessa nobiltà che, lungo il periodo svevo, 
non curando l'ira di Federigo, tenta cacciare dall'isola lo straniero, e 
che, poco dopo, stretta al vessillo di Federico d'Aragona, si affatica in- 
defessamente a respingere dai lidi Siciliani le aggressioni angioine. Sono 
questi stessi aristocratici che, dalla morte di Federico alla regina Maria. 
gelosi dell’indipendenza siciliana, fanno argine alla prevalenza della fa- 
zione catalana, e, benchè per le loro individuali ambizioni, avessero ro- 
vesciato l’isola nelle fatali conseguenze d’una sfrenata anarchia, sono sol- 
tanto questi orgogliosi ottimati che cercano allontanar dall'isola l’inva- 
sione dei Martini; che riuniti nel 1591 a Castronovo, come le repubbliche 
italiane a Pontida e a S. Zenone, giurano di impedire 1’ annessione del- 
l’isola alla corona aragonese, e che, per questa loro resistenza, vedon 
poscia sè stessi dichiarati quasi tutti ribelli e felloni, e spogliati dei loro 
feudi, riconcessi così ai nuovi venuti. E quando tutta la nazione, insieme 
a taluni di quei baroni fedifraghi al patto, stanca della guerra civile, 
sembra rassegnarsi al giogo straniero, sono ancora due potenti signori 
che contrastano coi Martini e che s'immolano vittime volontarie alla 
siciliana indipendenza : Andrea Chiaramonte in Palermo, Artale Alagona 
in Catania. Alla morte del secondo Martino la nobiltà siciliana non resta 
inoperosa, ma, rinnovando i passati tentativi, cerca dar la corona sici- 
liana a un siciliano, al giovane Federico, conte di Luna, figlio del se- 
condo Martino e della bella Catanese Tarsia Rizzari; e quando , per la 
morte di Alfonso, viene a vacare altra volta il trono isolano, cerca farvi 
salire un re proprio, il giovane Carlo, figlio primogenito di Giovanni di 
Navarra e di Bianca. Dal governo castigliano in poi, e colla introduzione 
delle milizie stabili, la feudalità, perduta per ogni dove l’anteriore im- 
portanza, si riduce tranquilla a votar leggi ed imposte nel Parlamento, 
e a far mostra pomposa di sè aspettando l’ora del risorgimento. E questa, 
abbenchéè tardi, venne sì che dobbiamo soltanto a questo corpo di grandi 
feudatarii l'opposizione mostrata, verso la fine dello scorso secolo e pri- 
mordii di questo, alle mire ambiziose d’una regina e d’una fazione na- 
poletana spadroneggianti fra noi, il giuramento d’una nuova costituzione 
e la difesa delle secolari franchigie dell’isola. E quando, infine, questa 
terra si leva in armi nel 1848 pel racquisto della propria indipendenza, 
i signori non vengono meno alle avite tradizioni, ma lavorano anch'essi, 
e, uniti ai rappresentanti popolari, fanno echeggiar la loro voce nelle 
aule del parlamento siciliano, che, aperto allora, dovea richiudersi dopo 
pochi mesi per fondersi e risorgere nel parlamento italiano. 


6 LA FEUDALITÀ 


Come istituzione civile, la feudalità ci ha tramandato memorie assai 
varie, siccome varia è la natura da cui le umane azioni si determinano. 
Certo andremmo parimente errati, se credessimo quei baroni, duchi, conti, 
marchesi e principi tutti buoni o tutti malvagi. Se guardiamo a ogni 
tempo della feudalità, e segnatamente ai primi, quando i costumi erano 
ancora rozzi e duri, quando il potere pubblico riposava intero nelle mani 
di quei potenti, quando ancora il civile progresso non aveva fatto di 
questa forza individuale un'autorità pubblica astratta, indipendente dalle 
diverse classi sociali e a tutti egualmente sovrastante, cioè la legge, era 
naturale che uomini ricchi, strapotenti e gelosi di loro stessi, fossero tal- 
volta trascorsi ad eccessi ed avessero abusato anche dei loro privilegi. 
To conosco i lamenti delle popolazioni siciliane contro i loro signori du- 
rante l’ anarchia feudale del XIV secolo; so bene come queste popola- 
zioni avessero coi voti e coll’opera favorito l'invasione dei Martini per 
trovar così un ristoro alla prepotenza baronale; conosco ancora di talune 
terre che, insofferenti del giogo feudale, vennero ad aperta ribellione coi 
loro signori; so pure la storia funesta delle rivalità di due nobili famiglie 
in pieno secolo XVI, cui popolo e scrittori han chiamato antonomasti 
camente Caso; non ignoro di talune terre che, al passaggio da demaniali 
a feudali, ricorsero a manifesta sedizione e ricomprarono a prezzo esor- 
bitante la loro demanialità; so benissimo come da qualche avello , ove 
giacciono i resti di taluno di quei baroni, sorga ancora una voce che 
ci fa sapere come egli sia stato spento di pugnale dal proprio servo. Non 
mi è ignota nemmanco la esistenza di sette segrete che si prefissero il 
fine di trar vendetta di alcuni torti sociali, e fra questi i soprusi e le 
insolenze di taluni di quei signori (1). Ma che perciò ? È la storia feu- 
dale di sette secoli piena solo di esempii parimente tristi ? Null’altro che 
questo resta allo storico a narrare dei costumi feudali? E quegli otti 
mati furono tutti malvagi e la,loro malvagità fu effetto necessario del 
feudale organamento, o non piuttosto una colpa da ascrivere all’indole 
perversa di taluno di essi, o forse meglio, di qualche Pelagrua che ne 
procurava gl’interessi sulle terre baronali ? Per rispondere con imparzia- 
lità a questi dubbii, dopo avere attentamente esaminato la natura del 
feudalesimo, pigliamo per poco le leggi sicule e in ispecie le Costituzioni 
fredericiane, interroghiamo gli statuti formati da questi stessi baroni pel 


(1) Sono quella dei Vendicatori ni tempi di Guglielmo II, e l’altra dei Beati Paoli 
alla fine dello scorso secolo. V. La Lumia, La Sicilia sotto Guglielmo il Buono, capo IV, 
parag. II. 


PEDERICO I SVEVO E I COMUNI SICILIANI T 

governo delle loro terre, quasi tutti posteriori al periodo castigliano, e 
ci convinceremo che il feudalesimo, al postutto, non fu quel mostro che 
ci si vorrebbe far credere; che la legge non lasciò mai i deboli vassalli 
preda alla prepotenza dei baroni e che protesse parimente la sorte di 
quelli e i dritti di questi; che alcuni dei vantaggi dei quali gode la so- 
cietà presente, traggono la loro origine da quel gran fatto sociale, e che , 
infine talune piccole comunità mediterranee dell’isola sarebbero ventu- 
rose anche oggi in tanto progresso di civili istituzioni, se potessero altra 
volta tornare al giogo feudale. 

Della origine della feudalità oggidi più non si dubita. Tre grandi ele- 
menti concorsero provvidenzialmente alla sua formazione : impero ro- 
mano , istituzioni germaniche , Chiesa, ossia, 1° l’elemento romano-ta- 
lico, per quanto riguarda i latifondi, i quali legando signori e vassalli 
sullo stesso suolo, furono il mezzo più efficace a produrre il vincolo; 
2° l'elemento germanico per quel che spetta alla giurisdizione feudale; 
3° I elemento cristiano per quanto concerne quei sentimenti che furon 
l’anima e la vita della feudale istituzione, cioè la reciprocanza di amore 
e di patrocinio fra signori e vassalli. Ovunque questi tre elementi si in- 
contrarono, nacque spontanea la feudalità. Però, ovunque nata, parecchi 
secoli dovettero scorrere prima che essa toccasse il suo perfezionamento. 
Dal V al X secolo, dalla prima irruzione barbarica alle Crociate, tutto 
fu confusione, strage, rovina; però dal secolo XI in poi, cessato il timore 
di nuove invasioni, si equilibrarono meglio i pubblici e i privati poteri, 
e il commercio colle regioni del Levante fe’ meglio sentire il bisogno 
di pace, di lavoro, di cultura morale e intellettuale. Per la cresciuta in- 
fluenza religiosa gli spiriti si ammansarono, gli animi si nobilitarono, i 
costumi si ingentilirono, e la feudalità divenne quella che poi fu nello 
stato della sua migliore esplicazione : la cavalleria. 

L'isola nostra fu più fortunata di tante altre nazioni in quanto allo 
stabilimento della feudalità. Mentre altrove la società dovette passare a 
traverso infinite turbolenze, prodotte dalla dissoluzione di precedenti g0- 
verni e dallo stabilimento di nuovi, prima che la ragion feudale acqui- 
stasse per lunga costumanza la forza di legge e che gli stati trovassero 
l’ autorità necessaria a tener in giusto equilibrio signori feudali e co- 
muni indipendenti, l’ isola vide quel nuovo ordine impiantarsi pacifica- 
mente nelle sue regioni, senza scosse violenti, ma rattenuto e moderato 
dallo stesso braccio poderoso di quei principi normanni che seppero fon- 
dare una costituzione alla quale doveano arridere sette secoli di vita. Il 
Gregorio nelle sue imperiture Considerazioni, osservò questo stesso scri- 
vendo che coò Normanni passaron la prima volta è feudi in Sicilia e dove 


8 LA FPEUDALITÀ 


che questi eransi altrove stabiliti successivamente e per gradi, furono altora 
presso noi quasi già adulti e nella lor consistenza introdotti (1); e a questo 
stesso si conformò l’Amari, osservando che la feudalità siciliana, istituita 
per lo primo allo scorcio dell'undecimo secolo da un conquistatore che sapea 
comandare ai suoi seguaci, nacque ubbidiente e moderata, e che non men che 
il dritto costituito raffrenava i baroni un contrappeso materiale : i molti beni 
ritenuti in demanio, i molti allodii lasciati agli antichi abitatori ed « Mu- 
sulmani, e forse un po più tardi i fondi conceduti ai municipii col peso del 
servigio navale, e fin dal principio l'accorta distribuzione dei feudi (2). 
Bisogna per poco riandare i tempi che precessero 1’ arrivo dei Nor- 
manni per conoscere perchè la feudalità non abbia incontrato in Si- 
cilia gli ostacoli di altrove e non vi abbia prodotto quei disturbi eco- 
nomici e civili suscitati in altre regioni dall’urto degli ordini antichi coi 
nuovi. La condizione delle persone segui appo noi le stesse fasi che appo 
le altre province dell'impero. Da Costantino il Grande in poi, la schia- 
vitù era venuta sempre decrescendo fino alla sua totale estinzione per 
l’influsso del Cristianesimo, e surrogandosi in sua vece il colonato servile 
ola servitù della gleba. L'Amari ci ha spiegato in che cosa questa con- 
sistesse, e poichè non credo poterlo far meglio di come l’ha fatto quel 
sommo uomo, ecco le sue parole: La condizion dei coloni era che rima 
neano attaccati al suolo essi e è loro figliuoli e è nepoti perpetuamente e pa- 
gavano un tributo annuale per la terra assegnata ; che poteano acquistare 
beni mobili e stabili con la propria industria ma non alienarli senza per 
messo del padrone; che fuggendo dal podere, la legge dara al padrone di ri 
durli in schiavità, e concedea di ripigliarli in termine di trenta anni per 
gli uomini e di venti per le donne, ecc. (3). Ma se al Cristianesimo sarà 
dovuta in eterno la lode di avere intrapreso l’opera dell’abolizione della 
schiavitù, è ingiusto accusar esso, o i Cristiani almeno di quei secoli, 
come sembra voglia far l Amari, di non avere aborrito dal colonato ser- 
vile. La storia dell'umanità non presenta esempii di mutamenti radicali 
di ordini civili ed economici fatti a balzo : il genere umano andrà sempre 
per gradi; ogni altro modo è e sarà impossibile, come sarebbe stato im- 
possibile in quei tempi un passaggio repentino dalla schiavitù romana 
alla libertà odierna. Basterà alla gloria del Cristianesimo e della Chiesa 
il fatto che su tutti i patrimonii posseduti allora dalla Corte di Roma 


(1) Libro I, Cap. II 
(2) Storîa dei Musulmani, vol. III, p. 300. 
(3), Ibid., vol. I, p. 200. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 9 
in quasi tutti i paesi civili i coloni vi godevan di una condizione tanto 
migliore di quella delle altre terre che i servi di queste, fuggendosene, 
cercavano di aggregarsi al numero dei coloni delle masse ecclesiastiche. 
Del resto la servitù della gleba o colorato sercile segnò un grande mi- 
glioramento a petto della schiavitù, avendovi i servi acquistato ciò che 
loro mancava onninamente nella prima : la condizione di uomini e il con- 
seguente esercizio di quasi tutti i dritti civili che le leggi consentivano 
a uomini liberi. L'accusar poi il clero in generale, come fa apertamente 
lo stesso Amari (1), di avere mantenuto più tenacemente dei laici la ser- 
vitù della gleba, senza recare alcuna prova dell’asserzione, mi sembra una 
ingiustizia storica, quando tanti altri scrittori e fatti irrefragabili avvisan 
del contrario. Come del pari non regge l’accusa al pontefice Gregorio I 
di avere ribadito le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia e di aver 
peccato d’ avarizia e di contraddizione tra le massime di carità da lui 
propugnate e la tenacità nel mantenere la servitù della gleba sui pos- 
sessi ecclesiastici nell’isola (2). Quel pontefice dovea rispondere dell’am- 
ministrazione del vasto patrimonio che la Chiesa possedea in Sicilia, ed 
egli, santo e grande (come riconosce lo stesso Amari), tanto lodato per la 
carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, egli che tutto fece 
per migliorare la condizione dei coloni fra noi, egli che taluni ne eman- 
cipò (fatti tutti che lo stesso Amari non nega), non possiam credere che 
non avrebbe mancato di emanciparli tutti se avesse potuto farlo senza 
danno di un patrimonio di cui dovea dar conto. Se discordia e è, non 
è certo tra i principii del santo e grande pontefice e i suoi fatti in quanto 
a schiavitù, ma tra gli attributi datigli da un canto e le accuse suddette 
dall’ altro; chè non può dirsi certamente grande e santo un sommo ge- 
rarca che avesse offerto al mondo lo spettacolo di tanta avarizia e di 
sì ributtante contradizione. La cura infine che quel santo vescovo di 
Roma ponea nel mantenere le entrate della Chiesa in Sicilia, non merita 
certo la qualificazione di avarizia quando si pensi l’uso che egli facea 
di quelle rendite, sia in sovvenimento ai poveri, sia in compra di fru- 
menti per la stessa Roma, in erezione di tempii e di monasteri, e per 
le spese di amministrazione : cose che sono state irrefragabilmente dimo- 
strate dal Di Giovanni (3) prima, e recentemente da quel dotto Prelato 


(1) Sforia dei Musulmani, vol. I, p. 202. 

(2) Ibid. pp. 28, 202. 

(3) V. Di GrovannI: Codex diplomaticus Siciliae, e specialmente la dissertazione V 
alla fine del volume, consacrata dall'A. al patrimonio della Chiesa in Sicilia (De antiquo 
patrimonio ecclesiae romanae in Sicilia) e all'uso che i pontefici ne facevano. 


DO 


10 LA FPEUDALITÀ 


che è Mons. Domenico Gaspare Lancia di Brolo nella sua Storia della 
Chiesa in Sicilia, ecc. vol. I, p. 445 e segg. (1). 
La proprietà fondiaria in quei tempi bizantini inclinava alla condizione 


(1) Questo insigne Prelato che da più anni regge la Sede arcivescovile di Morreale, 
ha chiaramente mostrato, in base al regesto dello stesso S. Gregorio, come questo pon- 
tefice non ad altro uso si fosse servito delle entrate del. patrimonio della Chiesa in Si- 
cilia che allo esercizio della sua inesauribile carità, e come questo esercizio si fosse fatto 
principalmente nell’isola allo scopo di far precipuamente sentire ai Siciliani i vantaggi 
del loro suolo. Ma quel che più monta, e il Lancia Brolo lo prova colle epistole dello 
stesso Pontefice, è il fatto che S. Gregorio tutto fece ch’era in suo potere per mitigare 
la condizione dei coloni delle masse ecclesiastiche. Molti servi egli liberò: ma non po- 
teva liberarli tutti. Un affrancamento totale, in tempi in cui il lavoro non era libero, 
e la filosofia civile era ancor molto lontana dal proclamarlo tale, sarebbe stato un grande 
errore che avrebbe arrecato grande disturbo nell'ordine economico : ciò che quel santo 
uomo non potea permettere, affinchè il patrimonio ecclesiastico non venisse.meno con 
grave discapito dei poveri ai quali, dicea Gregorio, esso apparteneva. Le verità evan- 
geliche non erano ancora sì universalmente e sì radicalmente ricevute, nè la pienezza 
dei tempi era tale da render possibile una generale liberazione. Niun uomo può alzarsi 
tanto sui proprii tempi da poterli mutare a fondo con una legge o con un semplice 
cambiamento di sistema se le menti dell’universale non vi siano ancor preparate. Anche 
il Vangelo ebbe il suo periodo di preparazione e di opportunità. Del resto, se quel grande 
Pontefice non liberò tutti i servi della gleba ecclesiastica, fece però qualche cosa che 
equivalse a un totale affrancamento, e che mi piace far conoscere meglio colle parole 
dello stesso Lancia di Brolo : Ma # più savio provvedimento ed insieme il più utile pei 
rustici della Chiesa fu quello ordinato da S. Gregorio nel primo anno del suo ponti- 
ficato quando, a tagliar corto a tutti ygli arbitrii e soperchierie possibili, stabilì în un 
apposito capitolato quali fossero è doveri dei rustici verso il patrimonio della Chiesa 
e che potessero da essi pretendere gli azionarti, e, fattolo pubblicare per tutte le masse, 
ordinò che a tutti singolarmente ne fosse rilasciata copia autentica onde sapessero, 
sono sue parole, quel che dovessero, e come difendersi colla sua autorità da ogni vio- 
lenza di chicchessia. Questa noî possiam chiamarla la magna carta dei rustici sici- 
liana, colla quale, fissati invariabilmente i loro doveri, e licenziati a resistere alle 
altrui violenze ed ingiuste pretese, vennero în certo modo ad affrancarsi. 

Certo fu questo un santissimo provvedimento di ordine generale, e il solo che quel 
magnanimo Gerarca avesse potuto adottare per far sicura la condizione dei servi contro 
le oltracotanze di padroni inumani e crudeli. Se l’Amari quindi l’accusa di inconsistenza 
e di avarizia per non averli tutti affrancati, la sua accusa è ingiusta e da esser messa 
al pari di tante altre che egli sventuratamente non manca di lanciare contro ogni cosa 
che sapesse di Chiesa e di Cattolicismo. Vorremmo credere probabile che, dopo il lavoro 
dell’ eminente Prelato siciliano pubblicato otto anni prima della di lui morte avve- 
nuta nel luglio del 1889, egli sarebbe stato lieto, in omaggio alla verità, di modificare 
il suo giudizio in una prossima edizione, che si proponeva di fare, della sua Sforza de? 
Musulmani del modo stesso come nella sua ultima edizione del Vespro (Milano, Hoe- 
pli 1886) non mancò di avvantaggiarsi dei nuovi documenti trovati in Spagna dal Ca- 
rini, e altrove da altri. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI Il 
della proprietà feudale. L’ Amari stesso notò come allora si fosse in Si 
cilia manifestata una tendenza ai latifondi, determinata da cause neces- 
sarie e proprie del tempo, di riscontro ad altri fatti che tendevano in- 
vece a frazionare e a sminuzzare le proprietà (1). Ma sia come si voglia : 
i latifondi, derivati dal dominio romano, non si estinsero nel periodo 
successivo, anzi si accrebbero, e quando abbiamo latifondi e colonato ser- 
vile, abbiamo già due grandi elementi di feudalesimo. 

Il succeduto dominio ottomano nulla immutò a questo stato di cose, 
chè anzi lo migliorò. L’Amari, l’unica fonte alla quale si può attinger 
per tutto ciò che riguardi la Sicilia musulmana, ci informa che il Corano, 
rispetto a schiavitù, rivaleggiò col Vangelo, e, ripetendo ciò che avea 
detto più sopra, che S. Gregorio il grande meritò bene della umanità pei 
liberali precetti, non accompagnati sempre dallo esempio, a favor degli schiavi, 
leva a cielo Maometto per avere, centi anni appresso la morte di S. Gre- 
gorio, migliorato assai più la condizione di coteste vittime della forza e del- 
lPavarizia (2). Jo non mi fo ad esaminare (mè ne sarebbe il caso) quale 
dei due codici religiosi abbia fatto più per l'umanità e in particolare per 
la classe sofferente degli schiavi : certo non si potrà negare al Cristo di 
avere egli, il primo, e più secoli prima di Maometto, predicato agli uomini 
la fratellanza, e se il Corano contiene anch’ esso caritatevoli precetti, 
non può vantar su questo punto alcuna priorità di tempo sul Vangelo. 

Per la proprietà fondiaria nulla di speciale nel periodo musulmano. 
Il Corano non la vietava, e i Maomettani possedettero e possiedono infatti 
la terra in pieno dritto di proprietà e per diversi modi, come ogni altro 
popolo (53). Il ricordo anche che l’Amari fa d'una nobiltà siciliana alla 
epoca araba, ci induce a credere alla esistenza allora di vasti possedi- 
menti, sembrando probabile che la parola zobétà non abbia in quel pe- 
riodo contenuto il senso morale che ebbe appresso, ma quello piuttosto 
materiale di ricchezza e di prevalenza sulle classi inferiori, e che i z0bélè 
di allora non abbian tanto differito dagli antichi ottimati (4). 

Stando adunque così le cose, abbiamo evidente la ragione del pacifico 


(1) V. Di GrovanxI: Codex citato, vol. I, p. 204. 

(2) Ibid. vol. I, pag. 482. 

(3) AMARI, ibid. vol. II, pp. 10 e segg. 

(4) Questo però non importa che gli Arabi abbiano conosciuto la feudalità, come as- 
serì il messinese Pierro De GREGORIO, eonfutato dal GrecoRrIO e dall’OrLanpo. V. IZ 
feudalisimo in Sicilia di quest'ultimo a p. 32 e segg. 


12 LA FEUDALITÀ 

stabilimento della feudalità fra noi. Quando i Normanni vennero nell’isola, 
alla metà dell'XI secolo, la schiavitù personale e inumana dei Romani 
era da lunga pezza cessata: stava per essa invece quella della gleba; la 
proprietà fondiaria di vasti possedimenti non era un fatto ignoto, ma 
uno invece a cui i Siciliani eran da lunga avvezzi. L'esistenza inoltre 
di una nobiltà anteriore alla conquista normanna e così conforme alla 
indole della feudalità, ne agevolava, e grandemente, l'introduzione in 
Sicilia. Si metta anche nel conto l’aiuto della religione cristiana, viva 
in quest'isola sin dai primi anni dell’éra volgare e che era la religione 
stessa dei conquistatori, ed avremo intero il nucleo di quei fatti, cioè 
latifondi, nobili, coloni e religione, pei quali l’adattamento dell’isola al 
regime feudale dovea riuscire assai più pronto che non altrove in tutta 
la terraferma italiana, ove, per la enorme discordanza di principi ed 
istituti civili e religiosi tra le popolazioni indigene e le barbariche del 
Nord, il cozzo e il contrasto furono assai accaniti e lunghi, e il disfaci- 
mento degli ordini preesistenti per dar luogo ai nuovi dovea apportar 
quelle convulsioni e quei trambusti che ben meritarono alla società di 
allora l'appellativo di barbara. 

I Normanni come prima ebber conquistata l'isola e vi si stabilirono 
da signori assoluti e indipendenti, pensarono all’ interno ordinamento 
dello stato cereandovi gli ufficii della corona, ordinandovi gli affari civili, 
religiosi ed economici, fondando le magistrature e regolando con prov- 
vide leggi la feudalità. Noi non possediamo oggi tutto il corpo delle leggi 
normanne, salvo le poche che ci sono pervenute a traverso il codice 
vaticano e le Assisae regum Siciliae, ambedue recentemente illustrati dal 
Merkel, dal La Lumia (1), dal Siracusa (2), dal La Mantia (3) e da altri, 
e specialmente a traverso il Codice fredericiano. Non ci è dato quindi 
il conoscer quante siano state le feudali, ma che esse dovettero esser 
molte ci è chiaro da parecchi indizii ed argomenti. E, anzi tutto, di talune 
di esse ci vien fatto ricordo dai cronisti e dagli storici, come, p. e. quella 
di Ruggiero re sulla inalienabilità delle cose di regio demanio, che com- 
prende i feudi perchè tenuti originariamente 2. capite dalla corona, e 
che figura la prima nel terzo libro delle Costituzioni; e l’altra che vietò 


(1) La Sicilia sotto Guglielmo il Buono ece., Cap. IV, $ V, e nell’appendice. 
(2) Il regno di Guglielmo I in Sicilia, P. II, cap. XIII. 
(3) Cenni storici su le fonti del dritto greco romano e le Assise e leggi dei re di 
Szcélia, Palermo, 1887. Si vedano inoltre gli altri scrittori citati dallo stesso La Max- 
TIA, a p. 64, nota 2. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 13 
ai baroni di sposare le loro figlie senza consenso del re, legge destinata 
a divenir famosa per essere stata non poca causa delle turbolenze che 
agitarono il regno di Guglielmo I, e che, comunque si appartenesse 0 
al secondo Ruggiero o al primo Guglielmo, fu trasfusa nel Codice di 
Federigo, al titolo 23 del libro II, e data fuori come cosa del monarca 
svevo. Per qualche altra legge non arrivata fino a noi, lo stesso codice 
svevo ci dà indirettamente contezza. Così il titolo 32 del libro III, che 
porta quella de novis aedificiis, per la quale fu ingiunto di demolire i 
castelli e le torri eretti senza il permesso reale sin dai tempi di Gu- 
glielmo (consobrini nostri, cioè Guglielmo II, cugino di Federico per parte 
della madre Costanza), è indizio che durante il regno di quel principe 
dovette esser promulgata qualche legge interdicente ai signori feudali 
la erezione di tali fortezze, e da questi ultimi non curata; poichè in 
altro modo non si comprenderebbe il perchè Federico abbia stabilito il 
tempo del cugino monarca come limite del periodo per la esecuzione 
della legge. Per altro le agitazioni sediziose al tempo del Maione è na- 
turale che avessero al secondo Guglielmo suggerito quel provvedimento 
comune a tante altre nazioni in quel primo medio evo, e praticato mas- 
sime dai Longobardi nelle loro successive conquiste (1). 

Per tutte le altre leggi, delle quali non ci son rimasti nè i testi nè 
il ricordo, più d’una congettura ci induce a credere alla loro numerosa 
pluralità. E primamente, la dichiarazione che lo stesso Federico fece nel 
proemio al suo codice, cioè che egli non tutte vi accolse le leggi nor- 
manne, ma quelle soltanto non antiquate e concordi alle proprie dispo- 
sizioni, ci offre la prova più sicura che molte leggi normanne dovettero 
prima di lui regolare anche la feudalità. Addippiù, il ricordo che la storia 
ci fa dei Defetarti, ossia quei libri doganali che conteneano la descrizione 
di tutte le terre del regno e dei feudi e delle loro rendite, distrutti una 
prima volta nell’assalto dato alla reggia dalla plebe al 1161, e poi subito 
rifatti per opera di Matteo Aiello (2), ci porge altra prova per credere 
che un governo che tanta cura pose a conoscere i feudi e le loro spet- 
tanze e a distinguer le ragioni feudali dalle demaniali, non potè nel corso 


(1) De CHeRRIER, Storia della lotta dei Papi ecc. Introduzione, p. 20, Palermo, 1865. 
Il GrannonE crede invece che la legge de novis aedificiis sia di Federico, per le pa- 
role ab obitu divae memoriae regis Gulielmi consobrini mostri (Storia civile di Na- 
poli, Capolago, 1841, vol. 5, p. 3051). Io, da mia parte, appunto per queste parole, la 
credo del secondo Guglielmo, e ritengo fermamente che lo Svevo, inteso a fiaccare 
l’aristoerazia, altro non abbia fatto che richiamarla in vigore. 

(2) Siracusa, ibid. P. II, p. (5. 


14 LA FEUDALITÀ 
di un secolo e mezzo restringersi a governare un ordine sociale, tanto 
importante quanto quella feudalità, colle poche leggi contenute nel codice 
vaticano, nelle Assise e nelle Costituzioni. 

Ma con questo io non intendo escludere l'opinione del Gregorio e di 
altri che credono che molte cose feudali fra noi, più che da leggi speciali 
siciliane, abbian potuto regolarsi con norme consuetudinarie recate da Nor- 
mandia dai conquistatori normanni, o originate dal dritto feudale comune 
o da qualche codice straniero. Non ignorate, Signori, quanta sia stata 
l'influenza francese ai tempi normanni, e massime in quei del primo Gu- 
glielmo, educato appunto da un francese, il rinomato Pietro di Blois, 
poi suo Cancelliere. La legislazione feudale raccolta e ordinata da alcuni 
giureconsulti lombardi verso il 1150, sotto il titolo di Zébr? /eudorum, fece 
parte del Corpus juris civilis quasi a compimento della raccolta giusti 
nianea; altre disposizioni, emanate dalla Chiesa, si contengono nel Corpus 
juris canonici, al libro IM, tit. XX delle Decretali di Gregorio IX; le As- 
sise del reame di Gerusalemme, compilate al 1099, formarono il jus con- 
suetudinarium quo regebatur regnum orientale, fondato, come sapete, dai 
Franchi lungo il periodo delle Crociate. Or bene: nulla è più facile che 
questa influenza e queste compilazioni giuridiche, salite in alto conto 
presso tutte le nazioni europee, abbian dato in alcune origine a consue- 
tudini, che divennero col tempo altrettante leggi. Così, p. e. il Giannone, 
non ad una legge scritta, ma al predominio francese attribuisce il costame 
siciliano di disporre le successioni secondo il jus Mrarncorum, che, in 
contrasto al longobardo, divenne poscia norma generale in quest'isola. 
E lo stesso Gregorio, talvolta all’ azione straniera, talvolta alle Assise 
gerosolimitane fa risalire talune consuetudini, per le quali altra prova 
non potè produrre che i fatti stessi confermati dai diplomi. E così, e non 
altrimenti, egli ci dà conto di due leggi importanti, venute in uso fra 
noi sin dall’inizio della monarchia e costituite poscia a regola di dritto, 
luna, cioè, che proibì ai signori di imporre gravezze oltre quelle che 
avessero trovato nelle terre feudali al tempo della prima concessione (1); 
e l’altra che riserbò al potere sovrano, come dritto di regalìa, la giuris- 
dizione criminale o il mero impero. Ad ogni modo, sia come si voglia, 
o leggi consuetudinarie o positive, il certo è che la feudalità in quel 


(1) Se il Conte Ruggiero fu rigido nel non permettere ai feudatarii la percezione 
di altri dritti oltre quelli a’ quali le popolazioni erano assuefatte prima della loro in- 
feudazione, non lo fu meno Federico Aragonese, che col cap. XLIII confermò la legge 
normanna. Testa, t. I, p. 69. Sieulae sanctiones, t. IV, p. 95. ORLANDO, Il fewdali- 
smo in Sicilia. Cap. VII, $ 2. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 15 


torno, per consentimento di tutti gli storici, fu moderata e tranquilla, e, 
se si tolga il ribellamento contro il primo Guglielmo, pel quale la storia 
non ha ancora accertato se la provocazione sia partita dal Maione o dal 
partito aristocratico, non troveremo altro simile esempio in Sicilia nel 
corso di un secolo e mezzo : prova luminosa dell’accorgimento con cui 
quei principi, o adattando leggi straniere o emanando delle proprie, 0 
con dritto scritto o consuetudinario, seppero provvedere al decoro del 
regno al di fuori e alla sua pace e tranquillità al di dentro. 

Le leggi feudali normanne a noi pervenute sono le nove che si con- 
tengono nel libro II delle Costituzioni del regno, ai titoli I, II, INI, XII, 
XVI, XVII, XX, XXIII, XXXIV (1). Veramente, secondo l'edizione del 
Carcani, questo numero sarebbe di otto; ma 1 Huillard Breèholles V ha 
portato a nove, giacchè quella del titolo secondo, De vassallis non ordi- 
randis, che il Carcani attribuì all'imperatore Federico, fu da lui, sull’au- 
torità di codici autorevoli, assegnata al re Ruggiero. E meglio, imperocchè 
riguardando quella legge la promozione dei servi al chericato, ed essendo 
una ripetizione di altra legge simile contenuta nel Cod. vaticano, che 
tutti concordemente assegnano all’epoca normanna, si può con certezza 
ritenere che Federico altro non abbia fatto che confermarla riproducen- 
dola nel suo codice, ma che la sua prima promulgazione appartenga al 
regno normanno. Anche per la legge del tit. III : De his qui debent acce- 
dere ad ordinem clericatus, che è semplicemente una dilucidazione di quella 
del titolo II, non van d’accordo il Carcani e il Bréholles, attribuendola 
il primo al re Ruggiero, e il secondo a un Guglielmo; ma poichè tale 
dilucidazione potea farsi tanto da Ruggiero per una legge propria, quanto 
da un Guglielmo per quella di un suo predecessore, lascio la cosa nel 
dubbio, contentandomi di assegnare la legge all’epoca normanna. Anche 
il Codice vaticano porta tre leggi feudali, quelle cioè dei Capitoli I, IV 
e X, corrispondenti a quelle delle Assise di n. 2, 3, 6, 39; ma, essendo 
state ripetute nel Codice fredericiano, non possono tenersi in conto di 
leggi diverse. 

La prima, adunque, delle nove anzicennate, si riferisce ai dritti di 
regalia, e porta il titolo De juribus rerum regalium (2). Ruggiero vi dichiara 


(1) Tutte le leggi rnormanne, a noi pervenute col codice di Federico, sarebbero, se- 
condo il Carcani, 39, cioè 28 di re Ruggiero e 11 di Guglielmo; ma il Bréholles, appog- 
giandosi ai migliori codici, porta il numero a 61, delle quali 36 di re Ruggiero e 25 
di un Guglielmo. 

(2) Il GrannoneE parlò di questa e delle altre leggi di Ruggiero re nel cap. V del 
libro XI della sua Sforza Civile. 


16 LA FEUDALITÀ 

solennemente la integrità delle regalie, ossia delle cose appartenenti al 
R. demanio, e la loro inalienabilità a danno dei dritti sovrani : legge di 
importanza suprema. pei tempi in cui fu fatta e per le conseguenze che 
ne derivarono. La dichiarazione delle regalie non fu una legge soltanto 
siciliana, ma comune in quel tempo a tutta la terraferma italiana: né: 
era quella la prima volta che la legge sottraesse alla proprietà privata 
talune cose riconosciute di, pubblico dritto. Già parecchi secoli prima, le 
leggi romane aveano ammessa tale pubblicità e resi quindi insuscettivi 
di proprietà privata le gabelle fiscali, i portorii, le saline, le miniere, i 
dritti di pesca (1), le spiagge, i beni delle università, i servi di queste 
e i loro peculii ecc. (2). Ai giureconsulti romani successe, nel 1153, l’îm- 
peratore Federico Barbarossa, che nella dieta di Roncaglia, fece quella 
famosa dichiarazione delle regalie, che fu inserita nel bro dei feudi, al 
titolo LVI della parte II, colla intestazione : Quae sint regaliae. AI Bar- 
barossa fu contemporaneo il nostro Ruggiero, che non mancò di promul 
gare anch’ egli la sua legge sui beni della R. corona: ma poichè non 
conosciamo l’anno della promulgazione di questa, non possiamo affermare 
se il monarca siciliano abbia o no preceduto il tedesco : dobbiamo con- 
tentarci di sapere che, in Sicilia, la nozione della integrità delle regalie 
rimonta sino al principio della monarchia, e che i sovrani posteriori altro 
non fecero che seguire le orme tracciate dal primo Ruggiero. 

Ho detto che la legge normanna sulla inalienabilità delle regalie fu im- 
portante per altre leggi che conseguentemente ne derivarono :ed ecco 
come. Il dritto di allora incluse tra le regalie anche i feudi, i quali, per- 
chè concessi in principio dalla Corona e a questa revertibili in difetto 
di eredi legittimi, vennero perciò riguardati come inalienabili. Questa teo- 
ria, seguita strettamente da Federico Svevo, originò parecchie disposizioni 
contenute nel suo codice; ma, abbandonata poi da Federico d'Aragona, che 
stabili al contrario la massima dell’alienabilità dei feudi, offrì appicco a 
quegl’infiniti litigi nel campo legale che durarono quanto la stessa feu- 
dalità. Le costituzioni imperiali, derivate dalla massima della inaliena- 
bilità delle regalie, son quelle del libro III, ai titoli V, VI, VII, IX e XI. 
Quella del titolo V, Constitutionem divae memoriae ecc. proibì qualunque 
alienazione o alterazione nello stato dei feudi, qualunque transazione 0 
arbitramento sugli stessi, senza la sovrana sanzione : eccettuò solo le sca- 
denze (eacadentias) ossia i suffeudi vacanti che scadevano al Demanio, pei 


(1) Libro L, titolo XVI, ff., n. XVII. 
(2) Ibid. libro I, tit. VIII, nn. 4, 5, 6. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 17 
quali facultò l'alienazione, ma cogli stessi pesi e cogli stessi servizii coi 
quali erano stati primamente concessi. E coll’altra costituzione, nello stesso 
titolo, Mac edictali lege ecc. proibì ai signori feudatarii, laici o ecclesia 
stici, l'alienazione o permuta di tutte quelle cose sulle quali si dovessero 
rendite o servigi al demanio reale. Per questo stesso principio, coll’ al- 
tra costituzione del titolo VI, De rerocandis transeuntibus ad alienam ha- 
bitationem, impose rigorosamente ai baroni di non tenere ai loro servigi 
borgesi o vassalli del Demanio e fissò loro il tempo e le persone, entro 
il quale ed a cui farne restituzione; come del pari ordinò agli ufficiali 
regi di restituire ai baroni gli uomini loro che si trovassero sulle terre 
demaniali. Ben se lo seppe nel 1239 il Vescovo di Caiazzo, contro cui 
l’imperatore ebbe ad aprire severa inchiesta perchè datus è sensum 
reprobum , tra gli altri suoi eccessi, nullam ad maiestatem nostram ha- 
bendo reverenciani, quosdam homines et jura demanii nostri deteriere presu- 
mit, sibi licitum stulte fore putando quod generaliter omnibus prohibetur (1). 
L'imperatore, come vedete, era custode tenace dei dritti e delle cose 
reali, e non dubitava mai in tanti preamboli alle sue leggi di intimar 
pubblicamente che non ne avrebbe mai tollerato la benchè minima of- 
fesa (2). Le altre tre costituzioni sono anche un’applicazione dello stesso 
principio d’inalienabilità delle regalie. L'una De hRominibus demantii affi 
datis non tenendis, vietò ai feudatarii di tener sotto il loro patrocinio a/fi- 
dati 0 raccomandati, specie di bravi o di sgherri, pel motivo che il re 
era il difensore naturale % più valido degli uomini demaniali; l’altra De 
hominibus mon tenendis ecc. inibì agli uomini del demanio di tener feudi 
da conti o baroni e di obbligar perciò la propria persona a servizii feu- 
dali, per la ragione che, abbandonata così la signoria del re, sarebbero 
di necessità passati a quella dei signori, e l’altra del titolo XI, De re- 
commendatis vel revocatis non detinendis, ribadì la stessa proibizione e in- 
dicò i luoghi e gli ufficiali dove e a cui farsi la consegna degli uomini 
suddetti. Era la stessa cura che l’imperatore metteva a ritener presso 
di sè gli uomini del suo demanio, come a ritenere nel suo dominio le 
terre feudali. E finalmente, quella del titolo X, De Rominibus baronum 
possidentibus ecc. che facultò i vassalli dei signori feudali ad acquistare 
da uomini del R. demanio beni siti nelle stesse terre demaniali, proibì 
a detti signori di esigere prestazioni e servizii per tali terre, e autorizzò. 
la R. Corte, in mancanza di legittimi eredi, a succedere nei detti beni. 


(1) Regesto di Federico II in Carcani, p. 247. 
(2) Si leggano i preamboli ai titoli IV, VII, IX, XI dello stesso libro III. 


18 LA PEUDALITÀ 

Era anche questa un’altra applicazione dello stesso principio, per la 
quale l’imperatore procurava di non far passare in potere dei signori i 
beni del proprio demanio e di fare che essi non ne percepissero alcun 
vantaggio a detrimento delle entrate fiscali. Ma non era solo il deside- 
rio di mantenere integre le regalie che spingeva quel sovrano a queste 
statuizioni: un altro ve ne era, e mi piace richiamarvi la vostra atten- 
zione : quello, cioè, di non permettere un ingrandimento oltre misura dei 
suoi vassalli feudatarii e di reprimerne in ogni modo la burbanzosa ol 
tracotanza: repressione alla quale sapete come egli abbia sempre rivolto 
l’opera sua dalla gleba dei feudi alle aule del parlamento. 

A questa legge normanna sulle regalie, ne seguono altre due , pari- 
mente normanne, come mostrai più sopra, e risguardanti la promozione 
dei servi al chiericato. Veramente prima che i nostri re avessero rego- 
lato con leggi proprie questa faccenda, la Chiesa avea su ciò pubblicato 
i suoi canoni, e il Decreto, alla distinzione LIV, e le Decretali di Gre- 
gorio, al tit. XVIII, aveano statuito che nessun servo potesse essere ascritto 
al sacerdozio senza aver prima ottenuta la libertà dal suo padrone, pel 
motivo che debet esse immunis ab aliis qui divinae militiae est aggregan- 
dus, ut a castris dominicis, quibus nomen eius adscribitur nullis necessitatis 
vinculis abstrahatur, e perchè quod infirmari vel cituperari potest praecaceri 
debet. I Normanni quindi altro non fecero che richiamare in vigore nel 
proprio regno le risoluzioni dei sacri canoni, e le loro leggi su questa 
materia, comprese prima nella collezione del Codice vaticano al titolo 
X, indi in quella delle Assise ai titoli VI e XXXIX, vennero ratificate 
da Federico imperatore e inserite da lui nel suo codice ai titoli II e III 
del libro III. Però se le due leggi del codice fredericiano sono in tutto 
conformi alle due delle Assise, tanto quelle che queste poi differiscono 
dalle altre del codice vaticano, contenendo qualche cosa che nelle va- 
ticane non si trova. 

Queste infatti altro non portano che la proibizione di ordinare i servi 
senza il consenso dei padroni, e la facoltà al Vescovo di ordinarli a forza 
quando in qualche luogo si patisse difetto di sacri ministri e il signore 
feudatario si ostinasse irragionevolmente a negare il suo assenso a qual- 
che servo riconosciuto idoneo. Le Assise invece e le Costituzioni, ripeten- 
do la stessa legge, vi aggiungono una distinzione molte sottile, e impor- 
tante tanto alla faccenda della sacra ordinazione quanto al dritto tutto 
feudale. I servi, dicon le Assise al tit. XXXIX, sono di due sorta: quelli 
che servono intuitu personae, come sono gli ascrittizii, i servi della gleba 
e altri simili, i quali servono non per patto imposto nella concessione 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 19 


di qualche dereficio ossia possedimento feudale (1), ma édntuitu personae, 
quia personae eorum sunt obligatae servitiis, e questi tali sine adsensu et 
voluntate dominorum suorum ad ordinem clericatus accedere nequeunt ; gli 
altri però che servono ratione tenimenti vel beneficii possano ordinarsi 
chierici anche contro la volontà dei loro signori, purchè rinunziino pri- 
ma al deneficio. Disposizione giustissima, giacchè gli ascrittizii, passando 
al sacerdozio, sarebbero %pso jure divenuti liberi, e la legge canonica e 
civile, che rispettavano il sacro dritto di proprietà, non potevan poi vio- 
larla, spogliando i padroni dei loro servi; mentre gli altri che servivan 
per ragion di un possesso, potevan da sè stessi rendersi liberi ed atti al 
sacro ministero, rinunciando al beneficio posseduto. 

Il Gregorio, nel fare la classificazione di tutti gli ordini sociali a quel 
tempo, non avvertì alla esistenza di questa doppia classe di servi, e nel 
cap. VII del libro II ci parlò solo di vélani e di rustici; ma né questi né 
quelli corrispondono ai servi dereficiarii dei quali ho ragionato. I villani, 
dice egli (2), erano, nè più nè meno, i servi della gleba, o gli ascréttizzi, 
i quali, perchè adscripti glebae o villae e tenuti a prestar servizio perso- 
nalmente, formavan tutt'uno col fondo e insieme con questo, e come un 
accessorio di esso, passavan da un padrone ad un altro. Furon per lo più 
quei Saracini, i quali, abitando da antico tempo sulle terre siciliane, erano, 
dopo la conquista, caduti in potere dei Normanni, che una coi fondi li 
avevan concesso ai nuovi signori. Infatti le antiche platee normanne sono 
tutte piene dei nomi di tali servi e delle loro famiglie. I rusticz invece 
(sono parole stesse del Gregorio) coltiravan forse gli altrui campi o per 
mercede 0 togliendoli a fitto, ed è probabile che i rustici niuno 0 assai poco 
terreno come lor proprio possedessero : imperocchè i veri possessori erano i mi 
liti dei feudi e i borgesi degli allodii (3): quali parole ci dipingono i rustici 
come persone libere, che liberamente locavano ai signori dei feudi l’opera 
loro. Or bene : i servi deneficiarii non erano i villani, perché, mentre questi 
stavano attaccati al suolo e condannati a perpetua servitù essi e le loro 
famiglie, i beneficiarii lo eran soltanto per l’occasione del loro possesso 
e potevan rivendicarsi a libertà rinunziando, come si è detto, al loro te- 
nimento; non erano i rustici, perchè mentre questi restavan liberi, i servi 
beneficiarii, come gli ascrittizii, dovean dei servigi al loro signore. Erano 


(1) Sul valore della parola beneficium, si veda, oltre al DucanGE, il ROBERTSON, 
Storia di Carlo V, nota 8, P. III 7 

(2) Lo dicono anche il Du CANGE e il RoBERTSON, op. cit., nota 9a. 

(3) Considerazioni ecc., Palermo, 1858, p. 200. . 


20 LA FEUDALITÀ 
dunque un che tramezzo ai vi/lani e ai rustici e partecipanti al tempo 
stesso della servitù dei primi e della libertà dei secondi. Tanto gli ascrit 
tiziù che i beneficiarii vennero meno col tempo, più per forza di senti 
mento e d’abitudine che di legge: restarono solo i rusticî che formarono 
in Sicilia quella classe di contadini che ritiene ancor oggi il nome di v2/lari. 

Altre leggi normanne sui feudi sono quelle delle Costituzioni, allo stesso 
libro III e ai titoli XIH, XVI e XVII. Sono attribuite a un re Guglielmo, 
ma a quale dei due, non è chiaro. Quella del titolo XIII, de Dotario co- 
stituendo. ecc. permise a un barone, se avesse avuto tre feudi, di costi- 
tuirne uno in dotario alla moglie; se meno, di costituirglielo in denaro; 
se più, di assegnarlo in proporzione sempre del terzo: con questo però 
che, se un barone o conte possedesse delle terre abitate (castra), non po- 
tesse obbligare in dotario quella da cui la baronia o il contado pren- 
desse il nome (1). Federico colla costituzione XV del libro III, Licentiam 
Baronibus ecc. sanzionò ed ampliò questa legge di Guglielmo, aggiun- 
gendo che, se un barone o milite possedesse solo due feudi, potesse ad- 
dirne uno in dotario; se uno e mezzo, questo mezzo; se uno solo, po- 
tesse darlo in denaro, a misura della qualità del feudo. 

Ma quale era la posizione giuridica della donna, rispetto al dotario, 
dopo la morte del marito? A ciò provvide il titolo XVI, Mulier quae do- 
tarium habuerit ecc. disponendo che tale donna restasse vassalla del si- 
gnore del feudo, a cui, come ogni vassallo, dovesse assicurazione de vita, 
membris et captura corporis, a meno che l’erede del barone fosse il figlio 
comune; che, a richiesta del signore feudale, fosse tenuta, sotto pena di 
caducità, a prestare alla R. C. quei servizii ai quali era tenuto il pro- 
prio marito signore del feudo; che dovesse assicurare gli uomini del de- 
manio, e. che costoro invece dovessero assicurarla e difenderla, salvo 
sempre ogni dritto del barone signore del feudo, come del pari doves- 
sero assicurar costui, salvo sempre ogni di lei dritto. 

Siccome la dote poteva esser formata anche dai fratelli, la Costitu- 
zione del tit. XVII, Fratribus ob dotes sororum ecc. ne stabili il modo fa- 
cultando i fratelli, qualora non possedessero mobili o altri beni ereditarii, 
ad obbligare a quest'uopo parte di un feudo : se possedessero tre o più 
feudi, a destinarne uno in dote, purchè il matrimonio seguisse col con- 
senso del re : ut tamen in omnibus supradictis quando feudum alienatur, 
vel obligatur aut in dotarium constituitur, matrimonium ipsum de speciali 


(1) Il GianNONE, senza alcun sufficiente motivo, attribuì questa legge a Ruggiero 
re, mentre i codici più accreditati, seguiti dal CARCANI e. dal BrÈHoLLES, l’aserivono 
a un Guglielmo. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 2il 


nostra licencia contrahatur: aliter omnes conventiones nullas vires habebunt, 
Da quali parole il Giannone fu indotto a credere che questa fosse ap- 
punto quella famosa legge sui matrimonii delle fanciulle nobili sancita 
da Guglielmo I e che provocò contro di lui le ire del baronaggio sici- 
liano (1). Allo storico napoletano non si accordò il Gregorio che opinò 
invece che la legge suddetta fosse andata perduta, e che essa malamente 
si attribuisca a Guglielmo I, mentre, a suo avviso, andrebbe meglio at- 
tribuita a Ruggero re, per la ragione che ai tempi di Guglielmo i ba- 
roni si dolevano di essa legge come di cosa già vecchia (2). Il Di Blasi 
segui, anzi copiò il Giannone, che fu pure seguito dal Palmeri. Il Sira- 
gusa convenne col Gregorio nel creder perduta la legge; ma si appros- 
simò al Giannone nel farne autore Guglielmo I (3). Io non mi fermerò 
a lungo sopra questo punto, tanto più che il passo del Falcando, che si 
riferisce a questa legge e alle doglianze dei baroni, è così indeterminato 
che nulla intorno a ciò può cavarsene di sicuro (4). 

Le ultime tre leggi normanne concernenti feudalità sono quelle ai ti- 
toli XX, XXII e XXXIV. La prima assegnata a un Guglielmo, e col 
titolo De adiutoriis erigendis ab hominibus, fu emanata allo scopo di cessare 
le pubbliche rimostranze per la capricciosa e pesante esazione delle sov- 
venzioni feudali o adiutorii, e stabili i casi nei quali fosse lecito ai si- 
gnori, laici o ecclesiastici, far tale riscossione e la misura come farla: 
moderate tamen, ecc. Questa legge, conforme in parte anche a quella del 
titolo III del Codice vaticano e alla II delle Assise, è troppo nota nella 
storia del nostro dritto, perchè io mi ci fermi più che tanto. Soggiungo 
solo che Federico colla costituzione al titolo XXI dello stesso libro III, 
De adiutortis pro militia fratris, estese ad altri casi il dritto all’adiutorio, 
come all’ armamento a cavaliere del fratello e al matrimonio della so- 
rella; e che Giacomo, allo scopo di regolare la esigenza che i re avean 
soluto far capricciosamente di questi adiutorzi o colletti dalla nazione 
tutta, coi capp. 22° e segg. sino al 27°, fissò anch'egli i casi per tale riscos- 
sione e il modo e la quantità di essa. La colletta col tempo assunse il 
nome di dorativo (5). 


(1) Istoria civile del regno di Napoli, libro XII, capo V, Leggi del re Guglielmo: I; 
e capo V, libro XI, Delle leggi di Ruggiero I re di Sicilia. 

(2) Op. cit. libro II, cap. IV. 

(3) IZ Regno di Guglielmo I, P. II, p. 97. 

(4) Nella edizione del DeL RE, vol. I, p. 326, Napoli, 1845. 

(5) Nel mio volume Le Iscrizioni del Palazzo Comunale di Palermo, ebbi occasione 
«di parlarne a lungo, a proposito della esenzione da alcuni tributi riconosciuta ai Paler- 
‘mitani nel 1734, da pag. 223-381. 


22 LA FEUDALITÀ 

A questa costituzione segue l’altra Sancimus di Re Ruggiero, che è al 
tit. XXII e che merita uno speciale ricordo perchè si riferisce al modo 
clandestino come una volta si celebravano i matrimonii fra noi. Prima 
del Tridentino invalse in Sicilia l'opinione che gli sporsali (guaggiu) de- 
bitamente celebrati e seguiti da un fatto qualunque che valesse una chiara 
manifestazione di consenso; come la coabitazione o la subarrazione, ossia 
l'apposizione dell’anello nuziale, fossero bastevoli alla validità delle nozze, 
secondo il principio che Consensus facit nuptias, abbenchè non confermati 
dalla parrocchiale benedizione. Si disputò a lungo in ambo i fori se questa 
clandestinità invalidasse o no i connubii, e ne nacquero tanti litigi che 
i tribunali ecclesiastici non ebbero tregua finchè il Tridentino venne pe- 
rentoriamente a determinare le condizioni per la validità e solennità dei 
matrimonii. Certo l'abuso di tali unioni clandestine dovette esser tanto 
ai tempi normanni e le conseguenze così pregiudizievoli alla pace e alla 
economia delle famiglie, e specialmente a quelle dei nobili per la irre- 
golare trasmissione dei beni feudali, da provocare una legge dal secondo 
Ruggiero, e una legge così rigorosa. La costituzione Sancimus infatti di- 
chiarò nulli tali matrimonii, illegittimi i figli e incapaci a succedere, e 
le mogli inabili a ripetere le loro doti: eccettuò solo le vedove o i già 
sposati. Federico, forse per la continuazione dell’abuso, rinnovò la legge, 
intarsiandola nel suo codice. Da molti anni gli sponsali, sicilianamente 
nguaggiu, ossia la solenne promessa di celebrare de futuro le nozze, ai 
quali tanta importanza si annesse una volta, sono venuti meno, e oggi i 
matrimonii ecclesiastici, nobili o no, si celebrano tutti indistintamente 
giusta i canoni del Concilio tridentino. 

Viene ultima la costituzione di un Guglielmo, al tit. XXXIV, risguar- 
dante i servi fuggitivi. La servitù, per quanto mitigata dalla Chiesa 
e dai sentimenti di umanità ispirati dal Cristianesimo, era pur sempre 
uno stato opposto a quella naturale libertà che il Creatore ha infuso negli 
animi di tutti. Se poi mettiamo in, conto qualche trattamento duro che 
poteva toccare talvolta agli aserittizizi per la casuale inumanità di qualche 
signore, si comprenderà subito il perchè di tali repentine fughe dal le- 
gittimo dominio feudale. Il veder promulgata una legge contro questi 
fuggiaschi, e imposti rigorosamente il dovere e il modo della restituzione, 
ci è indizio sicuro che quelle fughe dovettero essere così spesse e così 
dannose le conseguenze, da richiamarvi l’attenzione della società e del 
legislatore. Ma sembra però che quella legge normanna non sia valsa 
gran caso a riparare il male. Federico Svevo ebbe anch'egli senza dubbio 
a trovarlo, giacchè una sua costituzione, quella del titolo XXXVI, De 
mancipiis fugitivis, raffermò la legge normanna, aggiungendo a questa,.. 


FEDERICO Il SVEVO E I COMUNI SICILIANI 29 


che, qualora i padroni non si presentassero entro un termine stabilito 
a reclamare i servi e a provare legalmente il loro possesso, questi restas- 
sero per sempre addetti alla R. Corte. Nè il male diminuì nell’ epoca 
aragonese; poichè nei due registri di lettere per gli anni 1311-12, e 1316-17, 
pubblicati nel 1892 da questo Archivio Comunale nel volume GU Atti 
della città di Palermo dal 1311 al 1410, sono frequenti le lettere della no- 
stra università agli ufficiali delle altre terre del regno per la ricerca e 
lo arresto dei servi fuggitivi. Cessata col tempo la servitù della gleba e 
succeduti agli antichi servi i viari, questi, sebbene non fuggissero come 
i loro antecessori, continuaron però, e spesso, a diloggiare colle loro fa- 
miglie dal feudo di un signore a quello di un altro, e i signori, dal canto 
loro, continuarono a richiamar sulle loro terre i villani disertori. Quali 
disertamenti furono una delle cause che contribuirono al sorgimento di 
tanti fra i nostri Comuni, come a suo luogo avrò meglio occasione di 
mostrare. 

Vi ho discorso finora delle leggi feudali normanne adottate o modifi 
cate dall'imperatore e re, Federico : vi dirò ora di quelle che si debbono 
al genio e all’ispirazione di quest'uomo, vero Bonaparte del secolo XIII, 
e che, a somiglianza di quest’ ultimo, deve oggi la sua gloria, più che 
al rumore delle battaglie, alla sapienza delle sue leggi. È certo, per la 
data che leggesi in fine dello stesso Codice, e per la testimonianza di 
Riccardo da S. Germano, che esso fu pubblicato nella solenne adunanza 
o parlamento di Melfi, nell’ agosto del 1231 (1); ma non è certo quanta 
parte vi abbia avuto l'imperatore. Il cronista succennato, rassegnando 
gli avvenimenti del giugno di quell’anno, scrisse : Constitutiones novae, 
quae augustales dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur (2), 
ciò che ci farebbe credere che Federico vi abbia solo partecipato col 
semplice ordine dato ad alcuni giuristi di eseguirne la compilazione; ma 
un documento, pubblicato in parte dal La Mantia (3), e che è una lettera 
di Papa Gregorio IX dei 5 luglio 1231, diretta all’Arcivescovo di Capua, 
fa nientemeno Federico autore, dettatore di quelle leggi. Noi oggi, alla 
distanza di quasi sette secoli, non possiamo affermar nulla su questo 
punto. Che il codice sia in molta parte opera del famoso Pietro della 
Vigna e di molti altri giureconsulti e legisti di cui Federico assai si giovò 


(1) 1231. Mense Augusti. Constitutiones imperiales Melfiae publicantur. Rice. DA 
S. GeRrm. nella ediz. del DeL RE, vol. II, p. 73. 

(2) IIa ep: 22 

(3) Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia, vol. I, p. 97, nota 2. 


D4 LA FEUDALITÀ 


nell’amministrazione interna dei suoi stati, è ammesso da tutti gli storici; 
ma che esso sia opera principale del monarca svevo, non è probabile 
pel fatto solo, che egli, impigliato qual era nel governo di due grandi 
Stati, nelle brighe esterne colla corte di Roma e cogli altri principi del- 
l'impero e nelle altre interne coi Saraceni e coll’ aristocrazia siciliana, 
non poteva avere nè tempo, nè voglia di attendere alla . formazione di 
un codice. Addippiù, per quanto il suo genio fosse stato superiore al suo 
secolo, non può ammettersi ch'egli sia stato corredato di tanta dottrina 
legale quanta ne occorre per un lavoro di un codice che è il risultato 
non solo della formazione di nuove leggi, ma dello studio ed esame delle 
preesistenti. Ame invece pare probabile che Federico, come Napoleone, 
abbia soltanto ispirato al lavoro la sua tinta, il suo carattere generale, 
e che, tutt'al più, si debba forse a lui specialmente qualche legge; giac- 
chè alcuni principii, ch'egli sanzionò colla sua condotta politica, informano 
anche il suo codice, come p. e. la supremazia sovrana sul potere aristo- 
cratico, la riserva al re del supremo potere criminale, la restrizione dei 
privilegi e dei possedimenti del clero, la generale sottomissione dei citta- 
dini, di qualunque ordine, agli ufficiali regi; la esistenza e la condizione 
giuridica dei comuni ecc. principii che rifulgono anche nel carteggio uffi- 
ciale dell’imperatore e nel suo /egesto: laonde scrisse bene il Gregorio 
che le lettere volgarmente attribuite a Pier delle Vigne possono esserci di 
grandissimo utile.... nello studio di questo codice.... e che principalmente merita 
un diligentissimo studio il registro dell’ imperatore che contiene molte sue 
lettere relative a governo, degli anni 1239 e 1240; perciocchè non solo può 
trarsene amplissinna materia a rischiarare la storia dei tempi; ma ancora 
si ha da esse il più utile commentario a molte delle sue costituzioni (1). Ma 
grande o piccola che sia stata l’ingerenza imperiale, da più secoli quella 
collezione, al pari delle due altre precedenti, la teodosiana e la giusti- 
nianea, porta il nome dell’imperatore che l’ordinò e la compì; e, sebbene 
non scevra di difetti, e grave specialmente la mancanza di un ordine 
ragionato e sistematico quale si ammira nei codici moderni, pure il difetto 
è largamente compensato dal fatto di essere stato quel corpo di leggi 
uno dei primi tentativi di codificazione nel medio evo e il più’ bel mo- 
numento della sapienza civile dei Normanni e degli Svevi. 

Le leggi feudali sono, per lo più, comprese nel libro III e vi sono miste 


(1) Il GreGORIO chiamò il codice fredericiano opera superiore a quel secolo e degna 
del gravissimo ingegno di Federico, e a dichiararlo consacrò quasi tutto il libro terzo» 
delle sue Considerazioni, e occasionalmente parte dei primi due. 


PEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 25 


a quelle dei Normanni ivi parimente riportate, benchè negli altri due 
libri non manchino leggi che contengano disposizioni relative a feudalità. 
Il Gregorio, che accennò a queste costituzioni imperiali, le credette cose 
normanne , inserite solamente da Federico nel suo codice (1). In parte 
ha ragione, per quelle cioè che riguardano le relazioni scambievoli tra 
signori e Vassalli : le. altre però, e massime quelle che si raggirano sulle 
successioni, sono cosa tutta di Federico e come tali riportate nella storia 
del nostro dritto. 

Le leggi che definiscono la qualità dei rapporti tra signori e vassalli, 
sono per me il gioiello del codice fredericiano e formano una prova lumi- 
nosa di quel che dissi nel principio della presente lettura, su quel pa- 
rallelismo di dritti e doveri, su quella indistinta e reciproca assistenza 
che è il segno più notevole, l'acquisto più bello della civiltà cristiana. 
Non intendo con ciò che prima di Federico il diritto feudale non fosse 
stato in possesso di questo cardinale principio : il Gregorio, che tanto 
studiò sulla società di quei tempi, ci rammenta la massima, cavata dal 
dritto francese e invalsa per tutto ove invalse il dritto dei feudi, che 
il signore deve tanta fede e lealtà al suo uomo quanto l'uomo al suo signore (2). 
Le Assise del reame di Gerusalemme, contemporanee al conquisto nor- 
manno, contengono su questo punto provvidissime leggi (3) che furono 
seguite dai Normanni nella loro costituzione feudale dell’isola. Però sem- 
bra che le leggi normanne, a giudicarne da quel che ce ne resta, non 
siano andate al di là di una semplice raccomandazione. La collezione 
del codice vaticano al titolo III, e le Assise dei re di Sicilia al titolo II, 
avvertirono ai signori di trattare i loro servi umanamente: Monemus 
principes, comites et barones, ommesque dominos, subjectos humane tractare, 
misericordiam adhibere. Federico invece non restò pago di uno sterile 
avvertimento che, appunto per la sua indeterminazione, dovea per lo 
più riuscire inefficace ed illusorio : volle perciò determinar meglio il le- 
game feudale fra signori e vassalli, e lo fece con quattro costituzioni 
del libro terzo: la XII, la XIV, la XVIII, e la XIX. La duodecima De 
non opprimendis vassallis a dominis, proclamò in generale la massima che 
nessun signore avesse dovuto opprimere ingiustamente i suoi vassalli e 
rapir loro la roba propria :che se un signore avesse osato far ciò, fosse 


(1) Libro II, Cap. VI. 

(2) Ibid. p. 187. i 2 

(3) Si vedano i capp. 205, 206 e 208, e molti articoli delle Assise in forma di leggi, 
dal f. 297 in poi, nel V vol. della raccolta diplomatica del CancranI, Venezia, 1792. 


4 


26 LA PEUDALITÀ 
lecito al suo uomo chiamarlo in giudizio, nel quale se il signore avesse 
perduto, venisse condannato alle spese e al doppio del valore degli og- 
getti mal tolti, da corrispondersi alla R. Corte; se la vittoria invece fosse 
stata pel signore, venisse allora il vassallo calunniatore condannato alle 
spese del giudizio a favor del signore. Così, continua l’imperatore, avremo 
provveduto a reprimere la nequizia del padrone e la calunnia del vas- 
sallo. Ed ecco, messi l’uno e l’altro in eguale bilancia : ecco il vassallo 
elevato al punto da potere sfidare in giudizio il proprio signore. La costi- 
tuzione XIV, De adhibenda fideiussione dominorum seu vassallorum, abilitò 
il vassallo a prestar fideiussione pel suo signore e viceversa, e determinò 
il modo come rifarsi vicendevolmente del danno o dell’interesse cagio- 
nato dalla malleveria, cioè, condannò il signore a perdere /pso jure l’omag- 
gio del vassallo qualora non lo liberasse dalla malleveria criminale, e per 
la civile, autorizzò i vassalli a staggire i beni mobili dei signori e è 
venderne financo gl’immobili ereditarii sino al valore dell'indennità: pei 
feudi, in ossequio al principio d’inalienabilità, concesse loro di pegnorarne 
soltanto i frutti. Uguale potere accordò al signore contro il proprio vas: 
sallo. Ecco un’ altra volta messi a paro signori e vassalli, e sollevati 
questi sino a poter procedere contro i primi e pegnorarne i beni. Nè 
questo è tutto : le altre due costituzioni, ai titoli XVIII e XIX, compiono 
il quadro di questa reciprocità feudale. La diciottesima, De assecuratione 
dominorum a vassallis, rammenta i doveri feudali del vassallo , quelli, 
cioè, di assicurare il suo signore de vita, membris, captione corporis sui et 
terreno honore, di essergli fedele, di non partecipar mai ad alcuna trama 
contro di lui, di svelargli, sapendolo, quanto a suo danno si ordisse, e 
di difenderlo da qualunque attentato contro la sua proprietà feudale: 
una contravvenzione a questi obblighi avrebbe reso il vassallo reo di 
fellonia e passabile delle pene minacciate ai /e/loni dalle leggi feudali. 
Come vedete, son tutti doveri inerenti per la legge generale dei tempi 
alla qualità di vassallo, e conseguenza immediata del Zigio0 omaggio: i 
doveri e i dritti invece, rammentati dalla costituzione diciannovesima, 
sono dovuti ad una più ampia applicazione fattane in sicilia dalla mente 
di Federico, ispirata dal concetto cristiano della feudalità. Se il vassallo, 
dice quella legge, richiestone pubblicamente dal suo signore, si neghi 
a guarentirlo, o commetta fellonia contro di lui e contro i figli e la mo- 
glie, o se, dopo triplo avviso, ricusi prestargli il suo servizio feudale o 
si rifiuti, nella corte del suo signore, di render ragione a chiunque pro- 
ceda contro di lui e in quelle cose la cui cognizione spetti al suo signore 
(de eo quod ad dominum spectat), questi allora potrà giudiziariamente (per 
exguardium) dispossessar tale vassallo di tutto ciò che egli tenga da lui. 


FEDERICO IIT SVEVO E I COMUNI SICILIANI 27 
E viceversa, se il signore ricusi guarentire il vassallo accusato di delitto 
la cui cognizione non sia riserbata alla Corte del re, o se lo batta senza 
ragione, o commetta adulterio colla moglie di lui o ne deflori la figlia, 
perda subito l'omaggio di quest'uomo, e costui resti per sempre aggregato 
al demanio regale. 

Ecco, Signori, quanta uguaglianza di rapporti, tra baroni e vassalli: 
ecco come l’imperatore e re, senza distruggere un'istituzione tanto recla- 
mata dai tempi, l'abbia contenuto, accordando ai vassalli così larghe gua- 
rentigie contro gli abusi feudali: ecco come con queste leggi siasi fatta 
in Sicilia la più bella attuazione del citato principio che l’uomo dovea 
tanto al signore quanto questo all’uomo. 

Sorge qui .il dubbio se i vassalli nominati in quest'ultima costituzione 
siano i nobili, che erano vassalli del sovrano, ovvero i villani e gli abi- 
tanti dei feudi popolati, che erano i vassalli dei nobili. La risposta è fa- 
cile, per due ragioni :1° perchè non sembra probabile che Federico ab- 
bia voluto fare una legge per proteggere solo la classe assai ristretta degli 
aristocratici contro i possibili abusi dell'unico loro signore, il sovrano, 
quali abusi più che una punizione legale, impossibile quasi ed illusoria, 
avrebbero trovato una più pronta vendetta da parte di ottimati così po- 
tenti ed audaci quanto quelli che vissero nei periodi normanno, svevo, 
angioino ed aragonese; 2° perchè se mettiamo a riscontro i due testi, la- 
tino e greco, di suddetta costituzione, la difficoltà cadrà subito da sè stessa, 
per la ragione che, mentre tale costituzione forma nel latino unica legge, 
nel greco è divisa in due, ciascuna col suo titolo. Or bene : il titolo della 
seconda, tradotto in latino, è il seguente: Quibus casibus domini amittant 
homagium cillanorem suorum (Ev &roîors Vena dî desnita aro)ivovsi To ouatitoy 
tv fa)avoy 2075 ). Da quali parole sorge evidente che Federico e i suoi 
giureconsulti, nel dettar questa legge, contemplarono, precipuamente, non 
il caso di abusi del sovrano sui nobili, ma di questi sui poveri vassalli, 
che, più assai dei nobili, bisognavano dell’aiuto della legge, non potendo 
tanto facilmente averlo dalla loro spada. Questa costituzione adunque può 
riguardarsi come il colmo di tutta quella serie di misure adottate dallo 
svevo monarca perla repressione della prepotenza aristocratica, repres- 
sione, ripeto, che fu sempre la mira costante della sua politica e delle 
sue leggi. 

I governi che si successero fra noi camminaron sempre sulle tracce 
del grande imperatore, e le leggi dei secoli posteriori avvisaron sempre 
a questo doppio scopo :al rattrenamento della preponderanza aristocra- 
tica e alla protezione dei poveri vassalli. Io non posso citare tutti i prov- 
vedimenti emessi a prò di questi e che s'incontrano nel corpo delle no- 


28 LA FEUDALITÀ 
stre leggi:mne citerò uno soltanto che, per me, li riassume tutti. Alcune 
lettere patrimoniali dei 28 Novembre 1778, emanate in esecuzione di un 
biglietto di R. Segreteria dei 26 del Settembre precedente, volendo oc- 
correre in aiuto ai carcerati, sì demaniali che baronali, che languivan 
di fame nelle pubbliche carceri delle università e dei baroni, obbligò quelle 
e questi a contribuire una tenue giornaliera sovvenzione pel sostenta- 
mento di tali detenuti; appoggiando per amendue quest’obbligo sul do- 
vere supremo della carità. Pei baroni però addusse in modo speciale una 
ragione, la quale, foggiata colla forma di un sillogismo, comprende in sè 
virtualmente tutto lo spirito della legislazione feudale. I padri, dissero 
quei giudici patrimoniali, debbono ai loro figli l’alimento: or i vassalli 
sono i figli dei baroni; dunque questi sono tenuti ad alimentarli : ragio- 
namento degno invero di quella cristiana carità che, come ho mostrato, 
fu l’anima ispiratrice della feudale costituzione e che dettò ad un tempo 
le leggi dei legislatori e i commenti dei giurisperiti. La giurisprudenza 
infatti, per questa come per tante altre parti del dritto, recò a compi- 
mento l’opera delle leggi. Pigliamo fra mani il trattato del più celebre 
dei trattatisti siciliani, il libro De concessione feudi del sommo messinese 
Pietro De GrEGORIO (1), e alla parte VIII, Questione XVI, troveremo 
due capitoli: l’uno, col titolo Me dure boni tractamenti erga vassallos, ri- 
guarda il trattamento umano che i baroni doveano agli uomini di loro 
dipendenza e le pene pei signori inumani e crudeli; l’altro, colla intito- 
lazione : De iure reverentiae et honoris erga dominos, contempla i doveri 
dei vassalli verso i signori e le pene pei vassalli irreverenti. Secondo quel 
l’eminente giurista, contravveniva allo spirito benefico della legge quel 
barone che non amministrasse retta giustizia a’ suoi dipendenti, o che 
li impedisse di andare al re o al vicerè per proporre i proprii gravami, 
o che volesse astringerli a disonestà, o violentasse o seducesse Je mogli 
o le figlie dei vassalli, o che pretendesse da loro servigi indebiti, o in- 
fine che con provvedimenti, utili solo a sé, danneggiasse i suoi sudditi. 
Contro un tale signore varii rimedii, dice il De Gregorio, si offrivano ai 
vassalli, i quali potevano o recedere impunemente dalle terre del barone, 
o, coll’assenso del re o del vicerè, congregarsi e scegliere uno o più sin- 
daci che portassero al re o al suo vicerè le loro querimonie (2), e il so- 


(1) PetrI De GREGORIO séiculi messanensis equitis et jurisconsulti famosissimi, feu- 
distae magni......... DE CONCESSIONE FEUDI, cum additionibus, summartis, argumentis 
ecc. D. Garsiae Mastrillo, ciusdem auctoris pronepotis ecc. Panormi, M. D. XOVIII. 

(2) Capitolo LXIV di re Giovanni, in TESTA, vol. I, p. 464. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 29 


vrano o il suo rappresentante, dopo udito il barone e ammonitolo in- 
darno tre volte, poteva spogliarlo del feudo del modo stesso che un 
domino eminente può privare del fondo enfiteutico il domino utile che 
lo distruggesse o lo guastasse. Similmente, continua il De Gregorio, i 
vassalli dovevano onore e riverenza ai proprii signori, e avrebbe vio- 
lato questo supremo devere feudale quell'uomo che non avesse accolto 
rispettosamente gli ordini, le lettere del signore, che le diffamasse, che 
non lo sovvenisse nelle necessità, che non gli si mostrasse ubbidiente 
e fedele, o che di un modo qualunque gli arrecasse danno od ingiuria. 
Un siffatto vassallo avrebbe perduto il suo feudo, o qualunque cosa avesse 
tenuto dal suo signore. Ecco, Signori, su questo punto, la dottrina del 
famosissimo giureconsulto messinese, del grande feudista, come piacque chia- 
marlo al pronipote Garsia Mastrilli; quale dottrina fu quella ancora del 
catanese e celeberrimo Nicolò Intriglioli (1), del Mastrilli stesso, del Muta, 
di tutta insomma la scuola giuridica siciliana e straniera, e come le sacre 
imperiali costituzioni ebbero vigore in Sicilia, almeno per quelle parti 
in cui non furono derogate da leggi posteriori, sino al nuovo ordine di 
cose all’inizio del presente secolo, così anche le dottrine della nostra giu- 
risprudenza formaron legge fra noi fino alla soppressione della feudalità. 

Ed ora non ci si venga più, o Signori, a parlare del famoso jus primae 
noctis. Ci saranno state per lo passato, lo concedo, tante prime notti quante 
furono le notti che, nell’ordine di tempo, si successero dal primo impianto 
della feudalità sino alla sua totale abolizione, ma jus non ci fu mai, meno 
che nelle teste popolari, o in quella di qualche novelliere, o di fanatici 
incaparbiti a mantenere storicamente ciò che la morale e le leggi non 
potevano ammettere. Non ignoro che, a questi lumi di luna, non manchi 
chi voglia, più per vano desiderio di singolarità che per ischietta con- 
vinzione, affermarne l’esistenza: anzi mi si assicura che, non è guari, 
fu in Sicilia dato alla luce un opuscolo con cui, fra altri documenti, 
furon pubblicate alcune lettere di manutenzione e possesso, emanate dal 
Tribunale del Patrimonio, per le quali riconoscevasi a un Tizio il legale 
possesso di alcuni dritti e fra questi il jus suddetto; ma persona compe- 
tente, il Barone R. Starrabba, mi accertò che, avendo cercato quelle let- 
tere nei volumi del R. Archivio di Stato, non ebbe mai a trovarle. E 
così come in Sicilia, questa strana leggenda fece nel medio evo il giro 


di tutte le nazioni; e questa universalità è la prova più evidente della 


(1) Don Nicolai Intriglioli, patritii catinensis jurisconsulti celeberrimi, ecc. De feudis 
centuria secunda, ecc. Palermo, 1597, p. 332 e segg. 


30 LA FEUDALITÀ 


universalità bensi del fatto, uguale dappertutto ovunque siano uomini, 
ma non di un dritto che nessuna legge ha giammai riconosciuto. Il Ci- 
brario, nella sua opera Dell'economia politica del medio eco, parlando dei 
dritti feudali, ci informa che uno di questi era appunto la facoltà ser- 
bata al Signore di consentire al matrimonio dei suoi vassalli, e continua: 
Questo intercento della volontà del padrone nei matrimonii diè poscia ori 
gine in parecchi feudi ad una vergognosa pretensione, indirizzata per altro 
più ad estorquer danari dallo sposo che poteva ricomperarsene, e sempre se 
ne ricompensara, che ad esercitare un colpevole e turpe atto di tirannia (droit 
de marquette, braconage, cuissage, scozzoneria) (1). Anche il vivente ba- 
rone Antonio Manno ha storicamente provato per le stampe che questo 
dritto non è mai esistito nel Piemonte, e che esso è da tenersi in conto 
di niente altro che di una popolare leggenda; e per me vi fo certi, o 
Signori, che, per quanti autori di feudalità io mi abbia consultati, non 
ne ho trovato pur uno che accenni seriamente al jus primae noctis. 
Compagno a questo è stato nella fantasia popolare un altro dritto in- 
teso volgarmente jus incosciandi (droit de cuissage), anch'esso tanto for- 
tunato da trovare asilo nelle pagine di due scrittori. Si assevera che sia 
stato largamente usato in Sicilia dai ministri di re Carlo d'Angiò, e che 
sia stato perciò una delle cause precipue che provocarono il famoso Ve- 
spro. I due scrittori mentovati sono il Mugnos e il Villabianca. Questo 
ultimo, appoggiandosi solo all’autorità del primo, asserì a f. 59 del suo 
ms. : Degli antichi dazii e gabelle portati dai siciliani a pro del R. Era- 
rio, ecc. (2) : Della ‘odiosissima e nefanda gabella e gius incosciandi che spa- 
ziava nel governo del ve Carlo d'Angiò che fu una delle cause per cui ce- 
lebrossi il Vespro siciliano, ce lV avrisa il Mugnos nella storia del Vespro, 
ediz. del 1669, ai ff. 88 e 90. E veramente lo storico leontinese alle pa- 
gine 90 ci dice che a’ tempi di Carlo è Yischi e i ministri regi oppri- 
mevano il popolo siciliano coll’esazione d'una vituperosa gabella del jus 
incosciandi, e a pag. 88, che i ministri francesi esigevano con violenza 
il jus incortandi, gabella odiosissima. Ora chi ha fior di senno agevol 
mente comprende che il dritto a cui si accenna non è altro che un’esa- 
gerazione, in buona fede certo, di un abuso al quale i ministri di re Carlo 
sì abbandonarono in Sicilia a disdoro delle nostre donne. Che essi ab- 
biano abusato della loro forza a questo intento, è cosa affermata una- 
nimemente da cronisti e da storici, e ripetuta ultimamente dall’Amari, 


(1), Torino, 1841, voll 3° 


(2) Presso la Biblioteca del nostro Comune, a’ segni Qq E 77, N. 6. 


o 


FEDERICO JI SVEVO E I COMUNI SICILIANI 31 
che, con tanto accurato studio sulle sorgenti storiche contemporanee, tutti 
ci narrò i soprusi e le soperchierie del governo angioino : eppure nelle 
sue narrazioni non trovo verbo che accenni menomamente alla esistenza 
d’un dritto o d’una gabella che avesse portato quel nome vituperoso (1). 
Siam sempre allo stesso: fatti, quanti se ne vogliono; ingiurie, quante 
ne piacciono : jus, dritto, sanzione legale ad una malusanza di tal fatta, 
mai. Chi ha poi pratica dei nostri scrittori, sa benissimo quanta fede 
meriti il Mugnos, le cui opere furono reputate così piene di falsità che 
una sentenza del Concistoro bisognò dichiararle immeritevoli di alcuna 
considerazione; e che se lode è dovuta al Villabianca, è quella sola di 
affettuoso e paziente raccoglitore di memorie, quali che si fossero e da 
dovunque provenissero. 

Bando adunque alla leggenda e mano alla storia. E nel caso presente, 
la storia appunto, e per essa le leggi che ne sono la parte più conside- 
revole, stan tutte contro questi pretesi dritti feudali, anzi li riprovano 
e severamente li gastigano. Nè variare di tempi, nè succedersi di si- 
gnorie diverse, nè mutar di mente e di costumi infransero mai le leggi 
fredericiane sulla mutua relazione tra vassalli e signori: finchè ci fu 
feudalità, esse durarono immutabili, perchè fondate sopra una legge su- 
prema e costante: la carità. 

Le altre leggi di Federico sulla feudalità han riguardo alle successioni 
feudali, e sono quattro, contenute tutte nello stesso libro III. Quella al 
titolo XXIV, De successione nobilium in feudis, vietò ai figli di un barone 
o di un conte defunto di ricevere il giuramento di omaggio e di fedeltà 
dai vassalli senza essere abilitato a ciò dal sovrano. È chiaro lo scopo 
di questa legge :rammentare ai nuovi successori in un feudo l'autorità 
superiore del principe, e che se omaggio era loro dovuto dai vassalli, 
ne eran principalmente debitori alla generosità sovrana. Fu, come si 
vede, una delle tante misure adottate dal grande imperatore per arginare 
un potere tendente per sua natura a straripare, e che straripò di fatto 
non di rado prima che avesse deffinitivamente trovato, dai Castigliani 
in poi, il suo equilibrio. L’ altra al titolo XXV, De morte baronis nun 
cianda imperatori, dispose che, morto senza figli un milite o un barone 
che tenesse feudo da un barone maggiore, dovesse subito la. sua morte 
annunziarsi al sovrano dal conte o dal barone, affinchè il sovrano de- 
stinasse la persona a cui vantaggio dovessero andare i mobili e il feudo 


(1) La Guerra del Vespro Siciliano, Cap. IV; Racconto popolare del Vespro Sici- 
liano, Roma, 1882, p. 18. 


32 LA PEUDALIPÀ 

o la baronia del defunto, che si trovassero iscritti nei quaderni della 
R. Dogana, e già ricaduti al R. Fisco per la morte dell’ultimo barone. 
È un'evidente applicazione del principio, tanto in voga una volta, che 
la totalità del territorio si apparteneva al sovrano, e che ogni conces- 
sione di parte del medesimo prevenisse dalla sua larghezza. Non era sorto 
ancora Carlo Napoli a mostrar colla sua Concordia (divenuto poi un vero 
pomo di discordia) che Ruggiero e i suoi commilitoni furono compagni 
con dritti eguali fra di loro e che ugualmente si divisero le terre con- 
quistate. 

Altre leggi che veramente formano un altro gioiello del codice di Fe- 
derico e che han raccomandato il suo nome alla posterità più che non 
abbian fatto le sue gesta bellicose, sono le due ai titoli XXVI e XXVII, 
De successione filiorum comitum et baronum, e De successione nobilium in 
feudis. Per esse l’imperatore, cancellando la perversa usanza che esclu- 
deva le donne dalle successioni feudali, sia che si trattasse di feudi franchi 
o di feudi longobardi, ammise anche queste alla successione nei beni 
paterni e del modo che poi formò legge costante nella storia del nostro 
dritto. Io mi contento solamente di accennarle, essendo esse così note 
nella nostra giurisprudenza che un ricordo maggiore mi sembra super- 
fluo. Per queste due famose costituzioni, conosciute colle parole iniziali 
In aliquibus e Ut de successionibus, rimando al capitolo IX del Feudalismo 
in Sicilia dell’Orlando. 

Sono queste, o Signori, le leggi del gran Federico dirette a dar norma 
imperitura alla siciliana feudalità. Quale fosse stato il pensiero intimo di 
quel principe e dei suoi collaboratori nel dettarle, vi è ormai troppo ma- 
nifesto: dare un giusto equilibrio al potere feudale di fronte all’ antico 
potere regio e al novello popolare. Voi non ignorate come in quei tempi 
in WSicilia i poteri politicamente costituiti fossero stati soltanto il regio e 
l’aristocratico; e come il popolo non vi avesse contato per nulla. Fu tutta 
opera di Federico la costituzione politica anche di quest’ultimo e il suo in- 
nalzamento. Sia che egli avesse invitato le città demaniali a mandare i loro 
sindaci ai parlamenti come parte integrante di questi e con poteri eguali 
a quelli degli altri due rami, siccome tutti gli storici han finora creduto; 
sia che li avesse chiamato per essere solo spettatori della sua grandezza, 
come qualche altro ha mostrato modernamente di voler credere, indu- 
bitabile è che i moderni mumicipii, se non ripetono da lui la loro origi- 
ne, ebbero da lui vigoroso incremento, e che in quel demanio reale, di 
cui egli fa così spesso menzione nelle sue leggi, si adombrano quelle città 
libere, le cui popolazioni vissero tranquille e sicure all'ombra della maestà 
e del potere reale. Se gloria è oggi dovuta allo svevo monarca è quella 


OE 


vu 
de) 


FEDERICO MI SVEVO E I COMUNI SICILIANI 
sopratutto di aver saputo rinchiudere entro certi limiti 1 oltrapossanza 
aristocratica, e, sollevando un pò più quella reale e creando la popolare, 
l’aver saputo bilanciare in modo i tre poteri da assicurar loro un'esistenza 
di altri sei secoli. Se fu gloria principale per Giulio Cesare, non l'aver 
vinto tante battaglie, ma l’aver prolungato di altri cinque o sei secoli la 
vita dell'impero romano, cambiando opportunamente la repubblica in mo- 
narchia, non è minor vanto per l’imperatore e re di Sicilia di aver per- 
fezionato la costituzione normanna, e, armonizzando meglio fra di loro gli 
elementi costitutivi della feudalità, signori e vassalli, e quelli politici della 
società tutta, principi, baroni e popolo, lo aver garantito per altri sei- 
cento anni l’esistenza della costituzione politica dell’isola nostra. E l’ef- 
fetto di questo sapiente temperamento fu appunto il fatto, tanto per Si- 
cilia onorevole, che, mentre altrove la feudalità diè in eccessi che ben 
presto la misero in mala vista, qui tra noi essa fu, sin dal suo inizio, pel 
senno normanno e svevo, mite e temperata e non offri lo spettacolo di 
quegli abusi che altrove quasi sempre la deturparono; onde l Amari potè, 
prima, nella Guerra del Vespro scrivere: Temperavansi a vicenda nell'an- 
tica siciliana costituzione il principato e il baronaggio : nè illimitati dritti avea 
questo sulle persone, nè gravissimi sulle facoltà : i villani men servi che al- 
trove;s non eran servi i rustici; i borghesi e i cittadini, fin delle terre feudali, 
sentivano lor libertà; lor immunità sosteneano. Il poter giudiziale dipendendo 
direttamente dal principe, non serviva a tutte voglie della feudalità. Compor- 
tabili le gabelle; miti i servigi; rarissimi gli universali tributi e i parlamenti 
soli concedean questi: i parlamenti conoscean solennemente le leggi dettate dal 
re (i). E meglio poi nel /tacconto popolare, a p. 16: La feudalità siciliana 
essendo stata istituita allo scorcio dell'XI secolo, era scevra di molte ingiu- 
stizie delle età più barbare che l'avevano prodotta in Francia. Basti accen- 
nare ai villani, infima classe della popolazione rurale in Sicilia, i quali go- 
deano diritti ignoti ai servi della gleba degli altri paesi. Anche i borghesi 
siciliani erano avvezzi a franchigie tali che i borghesi di Francia durarono 
tanta fatica e sparsero tanto sangue per conquistarle. Se la terza ed ultima 
possanza sveva non avesse saputo richiamare in vigore alquante leggi 
normanne e molte non ne avesse aggiunto ella stessa, compilando così 
il suo famoso codice, oggi non avrebbe potuto l’Amari serivere queste 
parole, nè sarebbe dato a me di ripeterle. 

Dissi nel principio di questo discorso che uno dei principali beneficii 
prodotti dalla feudalità fu l’ aumento delle terre interne dell’ isola e il 


(1) Cap. IV, p. 67, ediz. di Milano, 1885. 


34 LA PEUDALITÀ 
relativo accrescimento della popolazione isolana. Di questo fatto, di cui 
nessuno vorrà certamente negare il merito al regime feudale, due fu- 
rono le precipue ragioni : 1° il bisogno dell’agricoltura; 2° l’importanza 
maggiore che il signore di un feudo abitato acquistava nella società di 
allora. 

Sembra che l'abitudine da parte dei vassalli del Demanio regale o dei 
singoli baroni, di abbandonare le proprie terre per cercar pane e lavoro 
sulle terre altrui, sia stato di molto anteriore all’epoca sveva, e così grave 
da richiamare l’attenzione del legislatore e i rigori della legge. Già sin 
dai tempi normanni, siccome scrissi più sopra, era stato così frequente 
pei servi di fuggir dal dominio dei loro signori, che uno dei due Gu- 
glielmi avea dovuto promulgare una legge, ribadita poi da Federigo, con- 
tro quelle fughe. A questi fuggiaschi che abbandonavano le terre dei 
proprii padroni probabilmente per duro trattamento, eran compagni quelli 
che passavano nei feudi altrui allettati dalla speranza di più larghi van- 
taggi. Federigo svevo, nel titolo VI del libro III delle Costituzioni, parla 
anche di questi siccome di cosa che precedeva alquanto i suoi tempi 
(retroactis temporibus). Certo il male che questi abbandoni producevano 
doveva esser non poco sulle vastissime tenute feudali e nelle parti del- 
l’anno nelle quali più intenso era il bisogno dei contadini. Il namero poi 
maggiore o minore dei vassalli a libera .disposizione di un signore dovea 
crescere o diminuire la considerazione di quest’ultimo, e in quei tempi 
nei quali ogni ragione stava sulla punta di una spada, un improvviso 
aumento di vassalli dovea contribuire a fomentar discordie tra feudatarii 
limitrofi e rendere sempre più incerto e vacillante l’ordine pubblico. Fe- 
derigo impose rigorosamente ai nuovi padroni di restituire quei vassalli 
ai loro legittimi signori in un termine prescritto, e inflisse grave pena 
ai feudatarii renitenti. Il male continuò nei tempi aragonesi, e della sua 
gravità ci è indizio certo il fatto che esso fu contemplato da Giacomo 
appena salito. sul trono. Nel privilegio dei 5 febbraro 1285, è anche un 
eapitolo, il XXXVII, che comincia colle parole ad novas communantias. 
Contiene appunto i provvedimenti pel caso in discorso : nessun vassallo 
possa esser costretto a lasciare il proprio signore per andarne ad un 
altro : se servo ascrittizio della gleba, non sia accettato : se servo per ra- 
gion di cosa, dimetta prima questa cosa al suo padrone (1). Nè questa 
legge del principe aragonese valse a lenire il male che durò sempre e 
che fu causa di quei tanti litigi che accompagnaron la feudalità fino 
alla sua estinzione. 


(1) TestA, Capitoli del regno, I, 23. 


PEDERICO Il SVEVO E I COMUNI SICILIANI 35 

Causa immediata di quei litigi era il danno che lo allontanamento dei 
villani arrecava ai vicini baroni e alle vicine università : ai baroni veni- 
vano meno gli uomini dai quali esigevano i servizii e dai quali gene- 
ralmente riscuotevano le gabelle e i dritti esclusivi imposti o convenuti 
coi primitivi vassalli negli antichi capitoli baronali; le università vede- 
vano restringersi i proprii patrimonii colla diminuzione degli individui 
dai quali riscuotevano le gabelle pel soddisfacimento delle tarde alla R. C. 
C'era anche, se pur si vuole, un po’ di gelosia per la nascita e l’ingran- 
dimento di un vicino comune :il certo è che di queste liti non fu mai 
difetto nelle nostre corti di giustizia. Così il Duca di Cefalà voleva verso 
la metà dello scorso secolo popolare il suo feudo di Diana; ma vi si op- 
pose il Tribunale del R. Patrimonio sulle istanze del Conte di S. Marco, 
signore di Villafrati, feudo vicinissimo a Diana. Si ricorse al Tribunale 
suddetto : il S. Marco uscì vittorioso dalla lite. Era nel 1756 ricorso al 
re il Principe di Torrebruna, chiedendo la grazia di popolare il suo feudo 
di Carcicera vicino Noto; e affinchè le terre vicine non si opponessero, 
obbligavasi a popolar la nuova terra di Greci cristiani ch'egli avrebbe 
fatto venire dall’Albania. Il re acconsenti, ma alla condizione proposta; 
aggiunse solo, ad istanza del Tribunale del Patrimonio, che quei Greci 
non potessero passare in altre terre. Il R. Dispaccio di approvazione porta 
la data dell’8 maggio di quell’anno. Non posso citare tutti gli esempii 
da me raccolti : dirò soltanto che, allo scopo di evitare tutti quei litigi, 
il re, con R. diploma dei 30 maggio 1779, in occasione della licenza chiesta 
dal Marchese della Sambuca di fondare terre e popolazioni nei cinque 
feudi ch’egli aveva acquistati dall'Azienda gesuitica, impose per modum 
regulae che da quell’anno in poi non si potessero fondar nuove popola- 
zioni ad una distanza minore di tre miglia siciliane da altre terre dema- 
niali o baronali. 

Per ottenere la licenza suddetta, il feudatario dovea prima corrispon- 
dere alla R. C. una somma che variava secondo l’importanza del feudo; 
dopo quale pagamento, il re o il suo vicerè, inteso il Tribunale del Pa- 
trimonio, concedea il permesso, con quelle condizioni e con quelle pre- 
rogative che eran reputate del caso. Ai 10 giugno 1579, S. M. concesse 
a Stefano Morreale di popolare la terra di Castrofilippo colla condizione 
che tutti gli spagnuoli che fossero andati a farvi stanza e vi avessero 
preso. moglie, fossero per venti anni esenti da qualunque dazio, angaria, 
guardia e milizia, e i siciliani e quelli di qualunque altra nazione vi g0- 
dessero esenzioni da pesi e gabelle per nove anni. Vi eran poi delle con- 
dizioni generali che figurano in quasi tutte queste licenze, e che erano 
effetti indispensabili del sistema feudale. Così a tutti si concedevano le 


56 LA FPEUDALITÀ 


necessarie facoltà di riscuotervi i consueti dritti di dogana, di baiula- 
zione, di arranteria ecc. come tutti gli altri baroni del regno, e a tutti 
si conferiva il potere di nominarvi gli ufficiali pel governo della nuova 
terra : il segreto, il capitano, il giudice, i giurati, e di formarvi i capi 
toli, le ordinazioni, gli statuti necessarii a tale governo. Talvolta si con- 
cedeva anche la facoltà di costruirvi un castello, e allora la nomina del 
castellano si deferiva anche al feudatario. Così Domenico Morreale ac- 
quistò dalla Regia Corte, per privilegio del 28 Luglio 1681 il dritto di 
popolare la terra di Realmonte e di erigervi un castello: onde a lui e 
ai suoi successori l'attribuzione della nomina dei castellani. Qualche volta 
la licenza fu negata. Così nel 1756 volendo la Contessa di Caltanissetta 
popolare il suo feudo di Nissoria, ne fu impedita dal Tribunale del Pa- 
trimonio ad istanza del Principe di Scordia, possessore di Leonforte. E 
poichè la Contessa non curò l'ingiunzione del Tribunale, questo ordinò al 
Capitan d’armi di Leonforte di abbattere le nuove fabbriche, e il re, a cui 
il principe era anche ricorso, con dispaccio del 28 Agosto di quell’anno 
ordinò che mai, né allora nè in futuro, potesse la Contessa popolare il 
suo feudo. 

Appena concessa la licenza della popolazione, la natura del feudo cam- 
biava: da semplice, diveniva feudo con vassallaggio; e il signore, che 
ne era prima semplice barone, acquistava solo per questo il dritto di 
sedere nei parlamenti (1), e precedeva in nobiltà i possessori di feudi 
semplici o di soli titoli. Questa prerogativa fu di tanto pregio che si può, 
quasi senza tema di errore, asserire che tutti i feudatari chiesero ed 
ottennero le suddette licenze. E a meglio provar questo, ecco un elenco 
di molte terre che debbono la loro origine alle ragioni indicate. Non 
posso guarentire se l'elenco sia completo: forse no, ma è quello che ho 
potuto formare sopra gl’indici delle investiture, esistenti presso la Dire- 
zione dell'Archivio di Stato in Palermo. i 


(1) MoncIrorE, Parlamenti, t. I, p. 58. G. B. RoccuetTI, Dritto feudale comune 
e stculo, t. I, p. 131. 


FEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI BAI 


| Nome del Feudo Nome della famiglia che ottenne Data del privileai 
| o della Terra la licenza Se LI VRagio 
| ATEGONE. saio do doo Naselli Conte del Comiso... .. 1607-8, 1605-6. 
| Aleara, Lercara. . . . | Seammacca Gravina Amescua. . | 1595, conferma 1605-6. 
| Acquaviva a OllVeri Ae A e A MIO S4Z558 
| ATARZIIÎ sorto 600 dolo DINBIO IA 1621-22. 
Agata (S.) Militello. . . | Gallego e Russo ..........| 1630, 20 aprile. 
| AFINENE 6 010.10 bolo 0 o | Alimena... ene 1627-28. 
AFANERRO I od oe biblico | Mancino, olimi D. Trojano Parisi 
| Ama) boo o oso | Cottone e Aragona... . +. 
| Angelo lo Muxiaro. ..| Aragona Pignatelli. . . ..... 
ATA, (SI 0 ol o boo Alliata e Colonna. . . ....+.. 
| ATTTINIALEO 00.0 000/00 Cute Serro 
| Anna (S.). . - - - - + + | Riccio, Pandolfina . .. ...... 8 settembre 1648. 
Balatazza i ee | Duebi di Terranova. . . . . . +. | 29 marzo 1635. 
| Baroma: o 009 6500 MIST a CCIORIR ARCO 1623-24. 
| Belmonte, Mezzagno. . | Ventimiglia...» 1751-52. 
| Blasi(S.)S.Biagio Platani | Ioppulo. . . ......... 1635-36. 
| TR PI BUCO 21 luglio 1681. 
BICI NE MOLLC Ale RCA 10 giugno 1579. 
Burgetto). i. 0 00 | Aragona e Tagliavia . ... +. - 1636-37. 
Bompensieri, Naduri. . | Lanza... gene 1556-57. 
Bruca e Crisciunà . .-. | Scammacca. . . 0 1597-98. 
IBFOLORSI A [FIEANZASE ERRATE sali 1610-11. 
MOTO CARRERA  DMBOSCORI RR RR RI 1609-10. 
| Campofranco. . . . . .. | Del Campo. . LL 22 aprile 1573. 1571-72. 
| Castrorao. . . ...... | Di Giovanni... 25 maggio 1602. 
Comm o co oo 0 | Gravina e Cruillas. .. 0. 1626-27. 
MGastellacifoMBellacer2"94| BASA MORAR IE 1633-34. 
| Cammaratini. . ....- Setti 5 agosto 1758. 
Castro Ippo Rieti MOLECA RR O 16 gennaro 1576. 
| Campobello di Mazzara | De Napoli... ..... 6.66 10 dicembre 1621. 
| Careagi dio Senesi Paterno Castello E Sr 1630-31. 
CIALE Diana e Colnago. . ...... 1525-26. 
OTOCCR(SI Celesti Res e to 1596-97. 
| Cataldo (S.), . ...... Cl O 1606-7. 
: Capagi co do 60 doo Pi ORCAC21 Ve! 1516-17, 1521-22, conferma 
Caterinat(S9) Ate Castelnuovo. . . . . ..... 28 gennaro 1604, 1571-72. 
Cralo (IS) a 0 de 00 VERE IIRIARO Rai RE Rei pio 00 gd 1627-28. 
Castelluzzo,. . . e: Nicolò Speciale... ..... +» 1421-22. 
Castellammare... ... ill oro o e ovale 00 prod glo, ov o al9:9 1500-1, conf. 1508-9. 
CAmieaiito a sodo 000 (BONANNO * * | 1467-68, 1506-7. 
Campobello di Licata. . | Ramondetto . .......... - - | 19 luglio 1681. 
CENTOLDIENE E Alvarez de Toledo... ....-- 1500-1. 
((Calamonaci rete Antonio De Termine. . ....»- - 6 febb. 1574, conf. 1608-9 
Casteltermine. . . .... Piamalig dio 00 6 016 9000609 1628-20. 
Cusimano (S.). ...... . PRE io SIA NASO S ITO PO 
Cala o RAP RS 1609-10. 
DIAL A Dia. cli Carta); 00 6060 ooo o verso il 1757. 
Elisabetta (S.) . ..... IMONtAPELLO NE 1600-10. 
Fiumesalato . . . .... Cleto 1606-7. 
INTE 0 ooo 0a MALZIANO LA RARA RR CICIIT E 1526-7, 1525-6. 
HIP PORSI RN CACCAMISIR RE RR 1601-2. 
ONE SIA TMIEIONE] 0 oo 0 00 0 dd 60000 1614-15: 
RELA Tarallo e Rao... 1507-8, 1508-9. 
Favignana. ....... RAEE: dd 00 dd 0 dd 000 00 1640-41. 
Rlorestell e ECADISIA RE 1601-2. 
Fiumefreddo, S. Basile, 

IECNZANR AAA GILAVINALB a e A RE 18 febbraro 1614. 
lp POX(SIMIACOCINIA PALEZZI RACC IE 1597-98. 
EilIPpPol(SIIAMERA IAN ASCIDIA 1521-22. 

Giuseppe (S.) dei Mortilli | Marchesi della Sambuca. . .... 30 maggio 1779. 


i Gravina 


LA FEUDALITA 


Nome del Feudo 4 
o della Terra 


| Eiraliimes i ole ooo 


Giacinto SAI 


enim (SÌ co 000 


|| Irosa 


Lo Scaro di Capo d’Or- 
lando 


ITC OMERO 


|| Mongiolino. . . . . + do 


| Malvagna 


| Margherita (S.) 
| Mazzarrà 
Monteallegro. 


Mandri o S. Silvestro. . 
ORIETARO sod olo oa a 
Mazzarrà o Val di Savoja 


IRVITSI MATE LR RO 


Montaperto. . . +. 
Motta Camastra... .. 


Miserendino 
NENA OVE 
Montedoro 
Ninfa (S.) 
Niscemi 
Paceco 


Pala SERRE 
PANCA RE 
P'ASSADIt IENA RNE 
Piedimonte... ..... 
ROCCALLOLIVA MA 
Rata dA REnr 
Rifesi ISO 
ROCCE 
Riesi, o Altariva .. .. . 
Realmonte 


LACIE. zo O E 
SCORCIATOIE 
Silvestro, (S.). . +. 


| Sommatino. . . * 


Serradifalco 


| Scordia Soprana. . . . . 
|| Siculiana 


SChISOMIPAERAENON AVO 


VESTA a 0 0000 
Vallelunga . + 
Vittoria... + 


Nome della famiglia che ottenne 
la licenza 


ISPEIMO (o la 000 ovo da ‘00000 
PESCA TE I NO 
Celestri, marchese di S. Croce . . 


Toppulo e Ventimiglia... .... 
BAD CLOr Ie I 


Carelli Oo Vo 
MIGIMESO so 900 6 Di oproraLo 0.0 
SCILOMat DA E 
ME ACCO A 
Bonanno-Catolica. i. 5. 
Montaperto Raffadali... ..... 
Paternò e Castello... ..... 
MI OA CCI ORE RR 
INIEINERER a oto dv 0a 0 sod do . 
Spatafora e Colonna... .... 
Gioni ateo aa RO 
ER IMEERI (GIO doo pos bdo 
ROSSI AE Re ee 
Pignatelli Aragona ........ 
Giardina e Grimaldi. . ...... 


PrineIpefdieBUterLa MA 
Sanseverino 
Eiamimelt o'ot0 60 0 cotto ooo 
Marchese della Gibellina 


ATO MASTER REA 


MONLOVE EA ROIO 
IMIATETNGMAG 0 oto e ooo do volo 
Gravina de Cruvyllas. ........ 
Bonanno e Branciforti 
IMONTAPEELO MI 
CIVIDATE RI ERA ON 


Pignatelli 
Morreale 


Giardina e Grimaldi 
Branciforte 
La Motta. . .. 
LANZA n AN ER 
Lo Faso 


Paternò 
Notarbartolo 
AVOZZO: rete atene ite 6 
Lanza... 
Lampedusa Tomasi . . . 
MITRA Ro oro ooo nano Guelta Dia 
Valguarnera 
Conte di Modic 
Sicomo 


Data del privilegio 


mr oe_»ao©oe ci 


25 nov. 1644, e 1647-48. 
17 maggio 1642. 
1610-11. 

1518-19, 1519-20. 
1610-11. 

1623-24. 


1665. 

50 ottobre 1610, 1613-14, 
1527-28, 1528-29. 
1606-7. 

1626-27. 

1635-36. 

1507-8. 

1512-13. 

1524-25. 

1507-83. 

1601-2. 

1609-10. 

1507-8, 1508.9. 

20 settembre 1574. 
1571-72. 

1680-81. 

1655. 

1613-14, 1606-7, 1609-10. 
1625-26. 

1606-7. 

d agosto 1758. 
1641-42. 

1636-37. 

1659-60. 

1642. 

30 agosto 1687. 
1610, 1613. 

23 aprile 1507. 
1709-10. 

1518-19, 1519-20. 
1506-7. 

1513-14, 15 agosto 1647. 


28 luglio 1681. 


1467. 
1605-6. 


1600-1. 
1627-28. 
1606-7. 
1507-8, 1508-9. 
1640. 

1507-8, 1508-9. 
1492, 

1518. 

1680. 

ò agosto 1758. 
1634-35. 
1643-44. 
1499-500. 
1627-28. 

1633. 

1606-7. 
1606-7. 

1650. 


PEDERICO II SVEVO E I COMUNI SICILIANI 59 

Formata la nuova terra 0 università, spettava al barone di costituirvi 
anche la municipalità. Questa nelle terre baronali era composta dai Giu- 
rati, sotto la presidenza del Governatore: giacchè generalmente i feu- 
datarii risedevano nelle grandi città, lontani dai proprii feudi. Tanto i 
Giurati che il Governatore erano nominati dal Barone. Una Prammatic: 
dei 12 dicembre 1650 impose fortemente a tutto il baronaggio del regno di 
scegliere uomini adatti alla bisogna (1), e volle i baroni responsabili di tutte 
le somme dovute dall'università alla R. Corte e dai Giurati non riscosse. 
I maggiori affari del piccolo municipio erano sottoposti a tutti i terraz- 
zani, che componevano così il civico consiglio, e che deliberavano sulle 
spese dell'università e sui donativi che talvolta la comunità pagava al 
Signore. Ho trovato nell’Archivio dei Duchi di Terranova, che trovan- 
dosi il Duca a Milano verso il 1700 per servizio di S. M., i vassalli dei 
diversi stati gli pagarono un doratico; e nel 1736, trovandosi incinta la 
Duchessa, i naturali di Castelvetrano le offrirono un donativo. 

Conchiudo. La feudalità, dopo la servitù antica, fu la sola forma di 
governo possibile nel medio evo: il fatto di esser durata tanti secoli è 
‘un gran testimonio a favore di essa. Giudicata nei suoi rapporti tra si- 
gnori e vassalli, fu buona o cattiva, secondo gli uomini che entravano 
nella sua composizione. Ma non si dica che la legge abbandonò i vas- 
salli all’arbitrio dei padroni. La legge fece sempre quanto fu possibile 
per proteggere i primi contro i secondi, e il monarca che più di tutti 
si affaticò a quest'opera fu Federico svevo colle sue Costituzioni. Oggi 
la Sicilia nostra non conterebbe tanti comuni se la feudalità non avesse 
secondato il naturale aumento della popolazione interna colla fondazione 
di tante piccole università mediterranee. Tanti monumenti, che ora con 
orgoglio mostriamo agli stranieri, non sarebbero mai esistiti, se la feu- 
dalità non ne avesse apprestato i mezzi e non avesse saputo accendere, 
coi suoi religiosi e nobili sentimenti, la mente e il cuore di tanti poeti 
e letterati, e guidare la mano di tanti artisti. 


(1) PRAMMATICHE, t. III, p. 205. 


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CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI 


Sulle relazioni tra Chiesa e Stato 


NEL TEMPO SVUEVO 
— oo 
PRESENTATO ALL'’ACCADEMIA 
nella tornata del 1'?7 Dicembre 13899 
DAL SOCIO 


Prof GIUSEPPE PAOLUCCI 


DSPECAEONYE 
VESEIS 
SZ 


EI 


CONTRNBURO DI DOCOMENTIECINE DIG 


Sulle relazioni tra chiesa e Stato nel tempo Svevo 


=== 


La lotta tra l’imperatore Federico II di Svevia e i papi Gregorio IX 
e Innocenzo IV nella prima metà del secolo XIII segna la massima scis- 
sione della vita morale e politica del medio-evo; e siccome la lotta in 
ultimo divenne implacabile, segna anche la decadenza di esso, perchè 
la vita medievale si fondava sul concetto della coordinazione o subordi- 
nazione delle due massime potestà cristiane nè poteva continuare col dis- 
sidio inconciliabile di esse. Perciò questo momento di lotta ha richiamato 
spesso l’attenzione degli storici, che sempre più ai di nostri vi consa- 
cerano nuovi studi. Noi qui rechiamo alcuni documenti inediti, che non 
dispiaceranno ai cultori della storia del periodo Svevo e a quanti stu- 
diano le relazioni e i contrasti tra l’autorità civile e quella ecclesiastica 
nel medio evo. 

I primi sei documenti che pubblico riguardano due punti del contrasto 
di Gregorio IX e Federico II. 

Tra i gravamina che il primo nell’ agosto del 1236 muove all’ altro 
rispetto al regno di Sicilia vi è questo : 

«De castro Montis Regalis destructo, quod fuit constructum a rege 
Willelmo ad tuitionem ecclesie. 

« De restituendis bonis eccelesie Montis Regalis ». (Epistolae saeculi XITT 
edite da C. Rodenberg, Tomo I, p. 596 n. 700, Berlino, 1883). In altre 


4 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECO. 

lagnanze del settembre 1258 e poi nella bolla di scomunica Gregorio IX . 
torna a parlare del monastero e della chiesa di Monreale spogliati dei 
loro beni da Federico II. (Cf. le due series gravaminum e la bolla di sco- 
munica riunite in un sol prospetto presso Kòhler: Das Verhàltniss Kaiser 
Friedrichs Il zu den Pàpsten seiner zeit. Untersuchungen zur Deutschen 
Staats-und Rechtsgeschichte herausgegeben von Dr Otto Gierke. Heft XXIV, 
Breslau. 1888). Federico, che si difende vivamente da quasi tutte le 
accuse, quanto al castello sed ai beni della chiesa di Monreale risponde 
con qualche ironia: « Il castello di Monreale perchè esposto alle insidie 
dei Saraceni facemmo distruggere deliberatamente a richiesta degli stessi 
monaci, ai quali costava troppo (ad monachorum instantiam, velut ipso- 
rum facultatibus onerosum) né ora vogliamo con frettolosa leggerezza 
ripararlo; ma quando con felice auspicio torneremo da quelle parti, fa- 
remo quello che sarà più utile a noi ed alla chiesa. Ignoriamo poi che 
di questa, che ammiriamo quale splendido monumento dei nostri prede- 
cessori, qualche cosa sia stata da noi usurpata; come lo sapremo, se 
qualcuno ce lo dirà, lo faremo restituire integralmente (cum ad notitiam 
nostram aliquo deferente pervenerit, integre restitui faciemus)». (Huillard- 
Breholles. Hist. diplom. Frid. LI, Tom. IV, 909). 

Ora su questi beni della Chiesa di Monreale e sugli ordini dati assai 
prima delle lagnanze di Gregorio dall'Imperatore perchè fossero ad essa 
restituiti, pubblico i seguenti documenti : 

1.° Una sentenza d’un giustiziere della terra di Bari, la quale mostra 
che la chiesa di Monreale possedeva molti beni anche nella Puglia. 

2.° Un atto, col quale Gerardo cardinale del titolo di Sant'Adriano e 
governatore del regno di Sicilia in nome del Papa, vista l'impossibilità 
che stessero d’accordo l'arcivescovo di Monreale e i monaci del mona- 
stero della stessa città, mette i monaci sotto la diretta dipendenza della 
curia Romana. 

3.04. e 5.° Tre ordini di Federico II ai giustizieri, a tutti i dignitari 
e infine ai sudditi del regno di restituire e far restituire da chiunque alla 
chiesa di Monreale tutti i beni usurpati. 

6.° Un breve di Papa Onorio III, che ringrazia l’Imperatore della pro- 
tezione conceduta alla stessa chiesa. 

A questi documenti unisco altri cinque di vario argomento, che sono: 

7.° Un ordine del capo magazziniere della privativa regia del sale e 
del ferro a un rivenditore degli stessi generi di rispettare i diritti del 
convento di S. Maria de Crypta. i 

8.0 Una sentenza del maestro dei questori (revisore capo dei conti 
dell’amministrazione finanziaria e giudice con altri assessori nelle cause 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. d 

di obblighi feudali) sulla questione se gli uomini di un villaggio dipen- 
dente da un monastero avessero l'obbligo con quelli del demanio di con- 
correre alle opere della difesa di un castello. 

9.° Un ordine di Federico II ai canonici della cappella del palazzo Reale 
di Palermo di eleggere un prete a canonico. 

10.° e 11.° Due ritmi, l’uno sugli abusi dei funzionari di Federico II 
e l’altro sulla corruzione dell’alto clero e sui disordini del regno di Si- 
cilia dopo la morte dell’Imperatore. Questi ritmi fanno conoscere i sen- 
timenti e la vita morale di quel tempo, come gli altri documenti deter- 
minano i rapporti legali e politici. 

Nella trascrizione dei documenti originali ho conservato la punteggia- 
tura e l'ortografia del tempo. 

Ora ecco i documenti : 


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Giovanni de Monteforte giustiziere della terra di Bari per ordine dell’Impera- 
trice Costanza rimette la chiesa di Monreale in possesso dei beni toltile con 
violenza, specialmente nel territorio di Grumo. 


Bitonto 15 Luglio 1195, Indizione XIII. 


Incarnationis domini nostri Ihesu Christi. Anno millesimo centesimo nona- 
gesimo quinto. Imperii autem domini Henrici dei gratia Romanorum Impera- 
toris semper augusti. et Sicilie regis serenissimi. anno quinto, mense Iulii, quinto- 
decimo. Indictionis tertiedecime. Nobis Iohanne de Monteforte Imperiali terre 
bari Iusticiario sedente in Sala Episcopij Civitatis botontj nobiscum assedenti- 
bus. Magistro Sabino. Angelo eiusdem botonti Iudicibus. Angelo Vitecti Iudice. 
Cacciaguerra Curiali Notario. Nicolao Notario et aliis. dominus Robbertus vene- 
rabilis monachus Montis Regalis et prior nominati Vitecti. veniens ostendit nobis 
sacras litteras domine nostre Constantie Romanorum Imperatricis et Regine Si- 
cilie semper Auguste. precipientes ut poneremus in sagina et in possessione 
ecclesiam predictj Montis Regalis de omnibus possessionibus. et tenimentis. quos 
eadem ecclesia tempore domini Regis Willelmi inclite memorie iuste tenuerat. 
et possederat. quarum continentia litterarum hec est. 

Constantia dei gratia Romanorum imperatrix et Regina Sicino semper augu- 
sta. Iusticiariis terre bari, quibus presentes littere ostense fuerint fidelibus suis. 
gratiam suam et bonam voluntatem. Carus venerabilis Archiepiscopus Montis 
Regalis fidelis noster exposuit celsitudini nostre quod ecclesia Montis Regalis 
quam inter alias ecclesias Regni quadam specialj prerogativa tenemur diligere 
jura et rationes suas fovere : ac eius utilitatibus et comodis omni sollicitudine 
previdere. a quibusdam hominibus Iusticiarie vestre de possessionibus rebus ac 
tenimentis suis quos pacifice et quiete tenuit tempore magnifici Regis Guillelmj 
dive memorie Klarissimi nepotis nostri fundatoris eius usque ad obitum suum 
et post. et maxime de tenimento Grumj, quod est in partibus bari. est per vio- 
lentiam destituta. Super quod mandamus et sub obtentu gratie nostre vobis pre- 


le) CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 

cipimus quatinus prephatam ecclesiam Montis Regalis de omnibus tenimentis 
rebus. ac possessionibus quas constiterit eam tenuisse et habuisse tempore pre- 
nominati Regis. usque ad obitum suum; statim in ea sagina et possessione po- 
natis. qua fuit. Et deinde si illi qui tenimenta res et possessiones ipsas invadere 
presumpserint. in eis se ius aliquod habere dixerint. veniant ad curiam nostram. 
super hoc iusticie plenitudinem consecuturi. Data panormi vicesimo quinto Iunii. 
tertiedecime indictionis. 

Ostendit etiam nobis quoddam instrumentum continens Iusticiarios terre bari 
coram Sparayo. et Andrea eiusdem bari iudicibus. rationes eis ostensas. a parte 
predicte ecclesie posuisse eandem ecclesiam in possessionem de terris que di- 
cuntur. Biscelle. de quibus dominus Grumj eos inquiebabat. Nos autem adim- 
plentes precepta et mandata domine nostre Constantie Illustrissime Imperatricis 
Romanorum Sicilie Regine semper auguste. coram predictis posuimus in sagina 
et possessione predictum dominum Robbertum vice predicte ecclesie Montis Re- 
galis. de omnibus tenimentis. possessionibus. quas olim tempore domini Regis 
W. iuste tenuit et possedit. et specialiter de tenimento Bisecelle. de quibus pre- 
dicti Iusticiarii terre bari ipsi ecclesie saginerant et a domino Grumj Inquieteba- 
tur. Que omnia ad perpetuam memoriam et eiusdem ecclesie securitatem nostro 
mandato scripsit. Cacciaguerra. Curialis qui supra notarius qui ibi presens fuit. 


Magister Sabinus botontinus Iudex. 
Nicolaus notarius firmat. 


Ego frater Matheus dictus abbas Sancti Spiritus de Panormo testor me vidisse 
et legisse autenticum de verbo ad verbum sic ita continetur in illo sic in isto, 


Ego Angelus botonti Iudex. 


(seguono firme greche e latine sbiadite). 


Tabulario di Monreale. Pergamena n. 64, secondo la numerazione dell’arcivescovo 
Balsamo; alta mm. 390, più mm. 271 di plica, larga mm. 271. Con suggello di cera 
in scatola di legno del diametro di mm. 44, Il diploma evidentemente è una copia 
autentica fatta nel sec. XIII. 

Costanza allude a questa sua lettera in un altro documento del Dicembre 1196, 
che pure si conserva nel tabulario di Monreale e che fu in parte pubblicato da 
C. A. Garufi nella sua dottissima opera : I documenti inediti dell’ epoca normanna, 
Palermo, 1899, p. 33-6. Riporto una parte non pubblicata del documento che sembra 
anch'esso una copia del secolo XIII : 


« In nomine sancte et individue trinitatis. Constantia divina favente clementia 
Romanorum Imperatrix semper Augusta. et Regina Sicilie. Licet ex universis 
virtutum officiis sacri nomina Imperij a diebus antiquis gle (generale ?) pos- 
sideant fundamentum clarioribus tamen titulis suorum resonart iniuncta trium- 
phorum, dum augustalibus institutis sua cuilibet iura respondent. nec iniuria- 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 9 
rum surgit occasio. dum iusta possessio sine metu calumpnie suum sequitur 
possessorem. Hine secura tranquillitas. et pax sancta fovetur in populis. hine 
principes merito suam obtinent dignitatem. cum suam ornant. et muniunt pie- 
tate pariter. et iustitia potestatem. Sed illud omni laude precipuum arbitramur. 
cum celsitudo nostra intuitu dei. a quo culmen imperii et exordium sumpsit. 
et incrementum acquirit. ecclesiarum iura in singulis illibata custodit.... Ba- 
propter universis tam presentibus quam futuris presentis serie duximus decla- 
randum. quod cum inter Carum venerabilem Archiepiscopum Montis Regalis 
fidelem nostrum. et Conradum de monte Fuscolo. qui Grumum ex imperiali 
concessione tenebat foret in presentia nostri culminis questio excitata. super 
quodam tenimento bitecti : quod dicitur viscilie. quod predictus Conradus de 
tenimento Grumi asserehat fore, et idem Archiepiscopus preponeret possessio- 
nem predicti tenimenti. sibi ab eodem Conrado turbatam et peteret a simili 
turbacione predictus Conradus de cetero prorsus cessaret. et tam ipsius pos- 
sessionis. quam perceptorum fructuum restitutionem repeteret. Adderet etiam 
quod licet mandato quondam Tancredi qui ecclesie sue fuerat vehemens per- 
secutor possessio ipsius tenimenti data fuisset olim Alexandro buzcello nutrito 
suo. qui grumum ex ipsius dono tenebat. qua probatum est. tum ecclesiam 
ipsam semper in possessione fuisse; non potuit usque adeo illa tirannica per- 
secutio desevire. quin propter iusticie incrementum predicti tenimenti possessio 
fuisset eidem ecclesie iudicio restituta. Adiùdicata est igitur predicti tenimenti 
possessio eidem eccelesie cum perceptis fructibus. reservata questione proprie- 
tatis. in partibus Apulie decidenda. Ubi autem ad iusticiarios Apulie super 
facto ipso nostre altitudinis littete sunt dictate predictus Archepiscopus quoddam 
instrumentum sollempne in thesauro ecclesie sue inventum; curie obtulit. Cuius 
tenorem ad sopiendam omnem super ipso facto calumpniam huic nostro pri- 
vilegio duximus inferendum, vidilicet. (Qui è inserito il documento pubblicato 
dal Garufi e da lui riassunto così; Urso Trabalia, giustiziere in Trani, dirime 
una quistione tra il Conte di Conversano e i forestieri di Bitetto e Bisceglie 
circa il terratico. Maggio 1136). Quia igitur ex continentia predicti instrumenti 
quam diligenter inspeximus et subtiliter a nostris familiaribus iussimus intueri. 
evidenter apparet qualiter temporibus dive memorie famosissimi Regis Rogerii 
patris nostri. baiuli bitectensium contra Comitem Robbertnm Cupersani. qui 
tum Grumum tenebat predietum tenimentum Viscilie iudiciali sentencia ven- 
dicarunt, et qualiter ipsi ecclesie ex predicto iusto titulo pertineat. Cum eciam 
requisitus esset predictus Conradus. si quod instrumentum contra hoc haberet. 
nec ostendere posset. sed ex edictis hominum terre sue crederet. se ius in pre- 
dieto tenimento habere. Adtendentes quante devotionis studio. predicta ecclesia 
Montis Regalis a rege W° recolende memorie nepote nostro sib fundata. sicut 
et structure singularitas indicat et dignitatum quibus p e (preest ?) privilegia 
manifestant.... Propterea predictum mandatum quod eidem Conrado ad iusti- 
ciarios Apulie pro decisione ipsius negocij feceramus quod a longis retroactis 
temporibus fuerat legitime diffinitum. iusta consideratione duximus revocandum. 

2 


10 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 

contra tam novas concessiones ipsi ecclesie a supradicto illustri Rege indultas. 
tocius calumpnie occasionem et machinationum notulas auferentes. decernimus 
itaque et presenti constitutione perpetuo valitura sancimus quatinus totum pre- 
dictum tenimentum Viscilie. sicut in divisionibus predicti instrumenti expressius 
continetur; Archiepiscopatus Montis Regalis cum aliis omnibus tenimentis et 
pertinenciis civitatis sue bitecti perpetuo teneat et possideat. tocius super hoc 
calumpnie questione sopita. Nec liceat unquam predieto Conrado vel aliquibus 
quicumque fuerint ipsi tenentibus Grumum. ius aliquod in predicto tenimento 
repetere. vel prelatos Montis Regalis aut priores ab eis in bitecto statutos. sive 
homines ipsius civitatis aliquatenus impetere. vel molestare presumat. Quicum- 
que autem contra huius edicti nostri ex ratione et iusticia promulgati venerit 
instituta; iram imperialis culminis cum iactura personarum et rerum se noverit 
incursurum. Ad huius autem rei memoriam et robur perpetuo valiturum. pre- 
sens privilegium conscribi. per manus Goffridi Notarii et fidelis nostris et si- 
gillo nostro illud iussimus roborari. Anno. Mense. et Indictione subscriptis. 

« Data in urbe felici Panormi. Anno dominice incarnationis. Millesimo. Cen- 
tesimo. nonagesimo. sexto. Mense decembris. Indictione quarta decima. Re- 
gnante domino nostro Henrico. sexto dei gratia magnifico. Romanorum impe- 
ratore semper Augusto. et gloriosissimo Rege Sicilie. Anno Regni eius. vice- 
simo sesto. Imperij vero quinto et Regni Sicilie anno secundo feliciter amen». 


JOE 


Il cardinale Gerardo bailo del regno di Sicilia in nome del Papa Innocenzo III 
prende sotto la protezione papale î frati del monastero di Monreale esortan- 
doli a conservare tra loro il vincolo della carità e a rispettare è diritti dei 
borghesi della stessa città. 


(Monreale 1209?) 


Gerardus divina miseratione Saneti Adriani diaconus Cardinalis Apostolice 
sedis legatus et vice domini pape Regni Sicilie balius. Dilectis in Christo fra- 
tribus priori et conventui ecclesie montis Regalis. Salutem et firmam in domino 
caritatem. Angustias et labores. persecutiones. et molestias quas peccatis exi- 
gentibus iamdudum sustinuistis et iugiter sustinetis auribus attentis audivimus; 
et ex parte fide cognovimus oculata. Sane cum venerabilis frater noster Archie- 
piscopus vester coram nobis proponeret. vos nolle sibi prout tenebamini obedire. 
nec esse sibi subditos vel devotos. et vos contra nichilominus allegantes ipsum 
vobis non esse tractabilem nec benivolum nec benignum sicut tantum fratrem 
condecet diceretis ; nos diligenter operam dedimus prout nostis ut pax inter 
vos et ipsum posset plenius reformari. Unde ad id ventum est; quod tam de 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECO. 11 


beneplacito illius quam vestro ipse vobis et vos ei pacem ad invicem reddidi- 
stis. ita quidem quod ipse tam de ecclesia vestra quam de omnibus rebus eius- 
dem. una vobiscum tanquam dominus et bonus pastor ac pater cum filijs. dispo- 
nere et ordinare debebat. Cum autem omnes questiones et lites sopite. penitus 
erederentur; affuit sathan paci contrarius humani generi inimicus. qui cunceta 
que bene acta fuerant nimio cum labore; sua dissipavit malitia in momento. de 
quo valde doluimus et dolemus. et quod pax ipsa iuxta desiderium nostrum 
non fuerit observata; universitatem vestram latere nullatenus dubitamus. Verum 
quod valde inconveniens est ut tanta ecclesia tamque magnifica ubi tantorum 
corpora principum requiescunt dispendium offici ulterius patiatur; ne antiquus 
hostis pacis insidiator inter vos materiam habeat de cetero malignandi : de con- 
sueta benignitate et clementia Romane ecclesie tam vos quam ipsam ecclesiam 
vestram sub apostolice sedis et dominî pape protectione suscipimus. Legationis 
qua fungimur auctoritate firmiter inhibentes; ne ulla ecclesiastica secularisve 
persona in vos vel in res aut iura vestra manum audeat extendere violentam. 
vel contra iuris ordinem aut iustitiam vobis molestiam vel gravamen inferre. 
Quod si quis ausu temerario forte presumpserit ; qualiscumque persona sit, in 
divino iudicio extreme ultioni subiaceat. et a sacrosanta comunione corporis et 
sanguinis domini nostri Ihesu Christi aliena nisi resipuerit fiat. Burgenses quo- 
que vestros sub hac eadem volumus protectione concludi. ut in ea semper liber- 
tate permaneant; qua inclite memorie Rex Guillelmus cuius corpus in ipsa ec- 
clesia humata quiescit eos voluit permanere. sicut eius privilegia protestantur. 
Preterea monemus fraternitatem hortamur attentius et mandamus. quatenus 
beati benedicti regulam et institutionem cavensis monasterij secundum quod 
estis professi toto studio et tota mente servantes; vinculum pacis et karitatis 
inter vos invicem habeatis. et ita vitam et mores vestros satagatis componere; 
quod deus manifeste videatur inter vos habitare. et ecclesia Romana que est 
Specialis mater et magistra vestra sicut in sinu suo vos recepit, ita semper de- 
beat confovere. quia homines videntes opera vestra bona; deum in vobis glo- 
rificantes ad prestanda vobis beneficia karitatis possint et debeant ferventer 
accendi. 


Tabul. di Monr. Perg. di 0, 23040, 047 di plica X 0, 170. Con suggello di cera in 
scatolino legato con lacci di seta rossa e verde. Questo documento del cardinale legato 
essendo posteriore alla pace tra l’arcivescovo ei monaci sanzionata da Federico II 
con diploma del giugno 1208 ma poi non osservata credo possa assegnarsi all’anno 
1209. Il diploma ora indicato di Federico II fu pubblicato dal Pirri (Sicilia Sacra, 
II, 1198) e quindi dall’Huillard-Breholles (Zist. diplom. Frid. II. Tom. I, 135-7) ma, 
come nota quest’ ultimo, senza che il Pirri ne indicasse la fonte (fons, unde assu- 
matur, non indicatur). Esso è nel tabulario di Monreale, pergamena alta mm. 360 4 
mm. 68 di plica X 298. Manca il suggello. Nella traserizione del Pirri e quindi del- 
l’ Huillard-Breholles si legge : « Datum in urbe felici Panormi per manus Gual- 
terii Panormitani archiepiscopi, regni Sicilie cancellarii ete ». L’ Huillard-Breholles 
nota (p. 137 n. 1) che questa è la prima ed unica volta che il cancelliere Gual- 


12 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 
tievo si chiama arcivescovo di Palermo mentre era soltanto vescovo di Catania e dubita 
che nell’originale stia scritto a quel modo. Infatti nell’originale si legge: « Datum 
in urbe felici Panormi per manus Gualt de pal regni Sicil. cancellj». Non mancano 
altri errori di trascrizione: così invece di: « Hac igitur dueti consideratione lauda- 
bili» si legge: «Hac igitur decreti consideratione laudabili». E «mense Iulii» invece 
di « Mense Iunij ». 


III. 


Federico II ordina ai giustizieri del Regno di far restituire alla chiesa di Mon- 
reale tutti i beni che le erano stati conceduti dal re Guglielmo II 


Brindisi 22 Marzo (1221), IX Ind. 


Fredericus dei gratia Romanorum Imperator semper Augustus et Rex Sicilie. 
Universis Justiciariis per regnum Sicilie constitutis fidelibus suis. Gratiam suam 
et bonam voluntatem. Etsi ex potestate nobis concessa ecelesias et loca divino 
cultui dedicata teneamur protegere et tueri et ipsarum indempnitatibus sollicite 
providere; ille tamen favor debet nostre magnificentie non deesse que nostro 
regimini specialiter sunt commissa ad nos nullo pertinencia mediante. Cum igitur 
de bonis et possessionibus Montis ®cgalis ecclesie ; turbacionis temporibus re- 
troactis per diversas partes, et provincias regni nostri, plura in preiudicium 
ipsius ecclesie alienata sint et distracta inrequisito celsitudinis nostre consensu. 
et contra statutum privilegii per regem Guillelmum patruelem nostrum recor- 
dationis inclite. eiusdem ecciesie fundatorem ipsi ecclesie concenssi (sic). Nos 
volentes iura et privilegia ipsius ecclesie conservare illesa. et eam tamquam 
nostram cameram specialem in statum pristinum sub hoc serenitatis nostre tem-. 
pore reformare. Universitati vestre districte precipiendo mandamus ut quicquid 
de bonis et possessionibus Montis Regalis ecclesie ; in ipsius preiudicium alie- 
natum inveneritis vel distractum. contra statuta privilegii memorati; nostroque 
vel predecessorum nostrorum, inrequisito consensu. ad ius et proprietatem eius- 
dem ecclesie auctoritate nostra cum fructibus inde perceptis revocare curetis. 
Si quis autem ex vobis in dampnum et preiudicium Montis Regalis ecclesie. 
hoc mandatum nostre celsitudinis neglexerit adimplere indignationem nostram 
se noverit incursurum. Datum Brundusii Vicesimo. II°. Marcij. none Indictionis. 


Tabul. di Monr. perg. 91, numerazione Balsamo. Di mm. 175 + mm. 31 di plica 
XxX mm. 197. 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 15 


IV. 


Federico II ordina ai Prelati, Conti, Baroni, Giustizieri, Camerari, Castellani 
e Baiuli del regno di Sicilia di dare ogni aiuto ai priori e nunztii delle obe- 
dienze della Chiesa di Monreale, pel riacquisto dei servi, villani ed oblati 
della stessa Chiesa con tutti i loro beni: dichiara tutti costoro soggetti, do- 
vunque dimorino, alla curia delle obedienze di Monreale e non a quelle ba- 
ronali e li esenta dalle prestazioni personali pel trasporto del legname delle 
galere e per la riparazione dei castelli reali. 


Brindisi, 22 Marzo (1221), IX Indizione. 


Fredericus dei gratia Romanorum Imperator semper Augustus et Rex Sicilie. 
Prelatis ecclesiarum. Comitibus. Baronibus. Iustitiariis. Camerariis. Castellanis. 
Bajulis. et Universis per Regnum Sicilie constitutis. fidelibus suis. gratiam suam 
et bonam voluntatem. Carus venerabilis montis Regalis Archiepiscopus. dilectus 
familiaris et fidelis noster. excellentie nostre exposuit viva voce. quod cum non- 
nulli homines Regni nostri tempore Regis Guillelmi recolende momorie. et etiam 
post decessum ipsius. obtulerint se ecclesie sue montis Regalis. cum omnibus 
rebus et possessionibus suis; ipsi contra oblationem factam ecclesie supradicte 
retrahentes se; cum rebus et possessionibus suis ad ulterius se dominium con- 
tulerunt. propter quod iura et rationes ipsius ecclesie noscuntur in pluribus 
deminute. Multi etiam de villanis casalium que obedientie ipsius ecclesie per 
Regnum nostrum habere noscuntur; propter turbacionem temporis ad aliorum 
dominium convolarunt. Ipse quoque obedientie homines. et bona eorum. contra 
privilegium montis Regalis ecclesie molestantur in multis. supplicantes atten- 
tius maiestati nostre. ut bonos usus et consuetudines. quas tempore predicti 
Regis Guillelmi eadem ecclesia consuevit habere. predictis obedientiis suis di- 
gnaremur precipere. et quod villani sui et oblati iamdicti. ad suum. et ecclesie 
sue dominium de nostra licentia revocentur. Nos autem peticiones ipsius Ar- 
chiepiscopi benignius admictentes. Et quia jura ecclesie supradicte augeri potius. 
cuam minui peroptamus; fidelitali vestre mandamus et districte precipimus. qua- 
tinus ubicumque per regnum nostrum. priores obedientiarum montis Regalis. 
vel earum nuntii. qui ab eis specialiter propter hoc fuerint destinati. aliquem 
de oblatis suis. ab ipsius ecclesie dominatione subtractum. vel quoscumque de 
oblatis ipsis invenerint; qualiter ad iurisditionem sepedicte ecclesie. ipsos cum 
omnibus bonis suis. reducere possint; vestrum eis ob reverentiam nostri cul- 
minis auxilium et consilium impendatis. Villanos vero predictarum obedientia- 
rum montis Regalis. ubicumque eos ipsi priores. vel eorum nuntii invenerint; 
eisdem capiendi dedimus facultatem. et cum familijs et omnibus rebus suis ad 
priora loca et ipsarum obedientiarum casalia reducendi. Si quis autem de su- 
pradictis oblatis debitum universe carnis persolverit amodo vel inventus fuit 


alici CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 


persolvisse. precipimus ut res eius tam stabiles quam mobiles. ad dominium 
ipsius montis Regalis ecclesie sine defectu quolibet. cum perceptis exinde fru- 
ctibus redigantur. Et si quid de possessionibus suis distraxerunt, vel modo quo- 
libet alienarunt. post oblationem factam ecclesie ab eisdem. volumus quod in 
irritum penitus revocetur. et ad eum statum reducatur. quo fuit. quando ipsi 
se memorate ecclesie obtulerunt. Precipimus quoque. et presentis scripti aucto- 
ritate mandamus. quod nullus baronum. vel aliquis alius curiam habeat in pre- 
dictis casalibus montis Regalis. set obedientie ipsius ecclesie. curiam habeant 
de hominibus. et oblatis suis ubicumque morentur sicut tempore Regis Guillelmi 
consueverint habere. Ipseque obedientie. et homines sui. vel eorum animalia 
pro attrahendis lignaminibus galearum. seu pro reparatione castellorum nostro- 
rum ad angariam non cogantur. Set ea libertate quam habuerunt predicti tem- 
pore Regis. sub nostri regiminis tempore gratulentur. Et ut ipsa ecclesia montis 
Regalis. beneficium nostrum in universis et singulis favorabiliter recognoscat; 
omnes bonos usus, consuetudines, dignitates et iura ipsius illesa de cetero pre- 
cipimus observari. Scituri quod qui huic mandato nostro temerarie presumpserit 
obviare; cum periculo persone et rerum indignationem nostri culminis se noverit 
incursurum. Data Brundusii. vicesimo secundo Marcij. none Indictionis. 


Tabul. di Monr. perg. 150, numerazione Balsamo, Di 0.294 + 0,033 di plica > 0,270. 
Il suggello è in cera del diametro di 0,064 — Nello stesso tabulario vi è un’altra 
perg. n. 147, di 0,275 + 0, 022 di plica XX 0, 255 e mancante del suggello di cera. 
È pure di Federico II ed ha la stessa data e le stesse parole del documento sopra 
riportato, salvo quelle stampate in corsivo. Così dove nel documento ora pubblicato 
si legge : «Carus — fidelis noster excellentie nostre exposuit viva voce ete. » nell’altro 
si dice : « Carus — fidelis noster excellentie nostre per swas litteras et nuntium de- 
claravit quod etc. ». A prima vista non sembra ammissibile che la cancelleria di Fe- 
derico abbia messo fuori due documenti aventi la stessa data ed affermanti cose così 
diverse. Pure ritengo vero l’uno e l’altro fatto, cioè che Federico, quando forse fu 
in Sicilia, sentì esporre dallo stesso arcivescovo i danni sofferti dalla chiesa di Mon- 
reale e promise di ripararvi ; poi tardando il diploma a venire, l’ arcivescovo gli 
mandò un suo nunzio con lettere per richiederglielo. Ed allora la cancelleria impe- 
riale rilasciò al nunzio due diplomi : il primo promesso dall’ Imperatore e che forse 
era già stato scritto e l’altro richiesto con le lettere dell’arcivescovo. Mi conferma 
in questo parere il Philippi: «Posso affermare che di regola ai documenti di Fe- 
derico si unisce il datum non per indicare il tempo, dal quale abbiano valore i 
diritti ivi stabiliti e le promesse fatte, ma solo il tempo del compimento del docu- 
mento, allorchè è registrato (der mit der Eintragung in Register eintrat)». Plilippi. 
Zur Geschichte der Reichskanzlei unter den letzten Staufen. Munster. i. W. 1885. p. 44. — 
La scrittura delle due pergamene evidentemente è della stessa mano. Molti nessi ed 
abbreviature sono identiche in ambedue. In questa, ch’ io pubblico, il Fredericus è 
scritto con caratteri più grandi (onciali) e l’F ha un fregio laterale; nell’ altra è in 
semionciale e le lettere e d e è e sono minuscole. 

Quest'ultima fu pubblicata da M. Del Giudice tra i documenti uniti alla deseri- 
zione del Tempio di Monreale di G. L. Lello, ma con aggiunte non prive d’errori. 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 19) 

Così in ultimo vi si legge : « Data Brundusii, anno dominice incarnationis millesimo 
ducentesimo vigesimo primo, mense martii, indictione none, imperii domini nostri 
Friderici Dei gratia illustrissimi Romanorum Imperatoris semper augusti et regis 
Sicilie anno primo, regni nostri Sicilie vigesimo quarto feliciter. Amen.» — L'Huil- 
lard-Breholles riproducendo questo diploma (Hist. dipl. II, 149-52) nota che erronea- 
mente vi si dice: «regni nostri Sicilie» invece di «regni vero Sicilie» e «vigesimo 
quarto» mentre dev'essere « vigesimo tertio »; e dice di non sapere se l’errore è del 
testo o dell’amanuense. Il vero è che il testo della data è conforme a quello da me 
ora pubblicato e le altre parole furono aggiunte dal Del Giudice. 


V. 


Federico ordina a tutti i suoi sudditi di restitwire, non più tardi di un mese 
dopo d’aver ricevuto quest'ordine, alla Chiesa di Monreale qualunque pos- 
sesso 0 diritto di questa, che abbiano occupato : altrimenti vi saranno costretti 
dall’autorità pubblica con gravi pene. 


Brindisi, 22 Marzo (1221), IX Indizione. 


Fredericus. dei gratia Romanorum Imperator. semper Augustus. et Rex Si- 
cilie. Universis quibus presentes lictere estense fuerint. fidelibus suis; gratiam 
suam et bonam voluntatem. Notum facimus universitati vostre. quod nos su- 
perne retributionis obtentu. volentes ecclesiam montis Regalis. nostram came- 
ram specialem. in statum pristinum. serenitatis nostre tempore reformari ; de 
solita munificentie nostre gratia restituimus. concessimus et confirmavimus. 
Caro eiusdem ecclesie Archiepiscopo. et successoribus eius. ac ecclesie montis 
Regalis in perpetuum. Civitates. Castella. Casalia. Ecelesias. Tenimenta. posses- 
siones. villanos. et omnia iura eidem ecclesie dono et concessione Regis Guil- 
lelmi. secundi. memorie recolende. Concessione quoque ac confirmatione divo- 
rum Augustorum parentum nostrorum et nostra. rationabiliter pertinentia. De 
quibus cum per diversas partes et provintias Regni nostri multa sint et deti- 
neantur illicite occupata; universitati vostre districte precipiendo mandamus. 
quatinus siquis de possessionibus. et rebus. hominibus et bonis ecclesie montis 
Regalis. et obedientiarum ipsius iniuste aliquid detinet occupatum, infra unum 
mensem. post receptionem licterarum istarum. qualibet occasione cessante. eidem 
archiepiscopo vel certo nuntio suo. cum perceptis exinde fructibus sine dimi- 
nutione restituat. et resignet. Si quis autem violenter detinere presumpserit; 
volumus et mandamus. ut ad restitutionem detentoram. per comites. barones. 
Iustitiarios. baiulos et alios ordinatos nostros. sicut iustum fuerit compellatur. 
et qui mandatum nostrum super hoc neglexerit adimplere; cum periculo rerum 
et persone. indignationem nostri culminis se noverit ineursurum. Data brun- 
dusii. vicesimo secundo Marcij. none Indictionis. 


Tabul. di Monreale. perg. 148. numerazione Balsamo. Alta mm. 215 4 mm. 25 
di plica X 230. Manca il suggello. — Di questo diploma Huillard-Breholles riporta 
la sola data (Hist. dipl. II, 152, n. 2). 


16 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 


VI. ; 


Onorio ILI loda l° Imperatore Federico delle restituzioni fatte alla Chiesa di 
Monreale secondo le lettere da lui ricevute e lo esorta a conservar ad essa 
la sua protezione. 


Roma 4 Novembre 1221. 


Honorius episcopus servus servorum dei. Carissimo in Christo Frederico Il- 
lustri Romanorum Imperatori semper Augusto et Regi Sicilie salutem et apo- 
stolicam benedictionem. Sublimitatis tue clementiam in domino commendamus 
quod ecclesiam Montis regalis tempore turbationis Regni afflictam multipliciter 
et appressam sentire tue prosperitatis tempora voluisti. restituendo ei castra. 
possessiones. libertates et iura collata sibi a clare memorie Willelmo Rege Si- 
cilie predecessore tuo quibus eam tam christianj quam Sarracenj et tam clerici 
quam laici spoliarant sic imperialibus nobis significare litteris curavisti. Cum 
igitur tuis iustis precibus inclinati restitutionem ipsam auctoritate apostolica 
duxerimus roborandam. excellentiam tuam rogamus et hortamur in domino qua- 
tinus ecclesiam ipsam sicut ad magnificentiam tuam spectat. facias pie restitu- 
torum sibi pacifica possessione gaudere ut et ipsa ecclesia per te quasi de pul- 
vere se gaudeat suscitatam et tu per hoc placeas Regi regum qui odit iniusti- 
tiam et diligit equitatem. Datum Lateranj, secundo Nonas Novembris. Ponti- 
ficatus nostri Anno Sexto. 


Tabul. di Monr. perg. 152. Numerazione Balsamo. Alta 0,221 + 0,023 di plica 
X 0,270. Manca il suggello. — Un altro breve di Onorio III della stessa data diretto 
all’arcivescovo di Monreale e confermante la restituzione fatta dall'Imperatore è pub- 
blicata nelle Epistolae saeculi XIII, che il Pertz trascrisse dai regesti Pontifici del Va- 
ticano. Tomo I, pag. 127 n. 182. Berlino, 1883. Ma l'originale è conservato nel ta- 
bulario di Monreale, n. 159 secondo la numerazione Balsamo. È una pergamena 
alta 0, 344+- 0, 040 di plica x 0, 400 : ha suggello di piombo con lacci di seta a due 
colori. Il diritto del suggello ha: SP A — SPE con figure di S. Pietro e di S. Paolo; 
il rovescio : Honorius PP. III. 


VII. 


Pietro Vulpono, magazziniere capo della privativa regia del sale e del ferro 
nella Sicilia ail’occidente del fiume Salso, eccettuata la città di Palermo, or- 
dina a Berengario de Villanova, rivenditore degli stessi generi di privativa 
in Marsala, di permettere all’ abbate di S. Maria de Crypta di Palermo di 
estrarre dalle saline di S. Pantaleo le dodici salme di sale, che. gli toccano. 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 17 


Palermo, 23 Giugno (1252), VIII Indizione. 


Prudenti viro Berengario de Villanova statuto super venditione Salis et Perri 
Curie in Marsalia diiecto amico suo, Petrus Vulponus, magister Salis et Ferri 
Curie in Sicilia citraffumen Salsum preterquam in Panormo, salutem et amorem 
sineerum. Veridica relatione quamplurium Domini Imperatoris fidelium noviter 
intelleximus : quod domnus Abbas Sanete Marie de Crypta de Panormo de sa- 
lina insule Sancti Pantalei de tenimento Marsalie certum ius consuetum hactenus 
percipere et habere consuevit. Verum quia id plene nobis constitit et idem 
domnus Abbas petiit a nobis concedere ius predictum de salina ipsa sicut tem- 
pore Domini Martini de Monte Pessulano precessoris nostri consuetum percipere 
et habere, vobis ex imperiali parte qua fungimur auctoritate firmiter preci- 
piendo mandamus quatenus dicto domno Abbati vel eius certis nuntiis dictum 
ius quod tempore domini Martini predicti de salina predicta percepit, in futu- 
rum percipere permictatis: nolumus enim nec pati volumus quod «dictus domnus 
Abbas inter predicta iustam de nobis habeat materiam conquerendi. Data Pa- 
normi, XXIII° Junii, VIII Indictionis. 


Bibl. Com. di Pal. Mss. Qqa — H—9 f. 286 — Da un privilegio dell’Imperatrice Co- 
stanza del 1196 si rileva che il convento aveva diritto di prendersi all’ anno  salis 
saline salmas duodecim. Ad buiusmodi vero nostre concessionis inviolabile firmamen- 
tum hoc opus scriptum per manus notarii Eugenii et fidelis nostri fieri precepimus 
et sigillo cereo communiri. Datum Panormi, XIII mensis Aprilis, XIITII Indictionis — 
id. id. f. 290 retro. 


VIII. 


Federico II ordina al secreto Imperiale Matteo Marclafaba di giudicare se gli 
abitanti del Casale di S. Vincenzo, che dipendevuno dal Convento di S. Ma- 
ria di Valle Iosafat di Messina, avessero l’obligo di lavorare con quelli del 
Comune di Montalto nel fare i fossati, le palizzate ed altre opere che fossero 
necessarie al castello di questo Comune. Il secreto, convocate le due parti cioè 
il procuratore di Montalto e l'abate di S. Maria di Valle Tosafat e considerate 
le loro ragioni e prove, giudica a favore del Convento. 


Cosenza, 6 maggio 1255, VIII Indizione. 


In nomine domini amen. Anno dominice incarnacionis Millesimo ducentesimo 
tricesimo quinto, sexto die mensis Madii, Octave indictionis; Imperii vero do- 
mini nostri Frederici dei gratia Gloriosissimi Romanorum Imperatoris semper 
Augusti, Ierusalem et Sicilie Regis anno quinto decimo, Regni vero Terusalem 
anno decimo et Regni Sicilie anno tricesimo septimo. Feliciter amen. Quum nos 

3 


18 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 

Matheus Marclafaba Imperialis doane de Secretis et questoram magister apud 
Cusenciam Curiam regeremus, assidentibus nobis magistro Roggerio de Cathania 
et Robberto de Ariano Imperialis doane de Secretis Iudice, Frater Palmerius 
Sindicus universitatis hominum Montis alti veniens ad nos assignavit nobis Im- 
periales licteras, quarum tenor talis est: 4 

Fredericus dei gracia Romanorom Imperator semper Augustus, Ierusalem et 
Sicilie Rex Matheo Marclafaba Imperialis doane de Secretis et questorum ma- 
gistro, fideli suo, graciam suam et bonam voluntatem. Querelam Palmerii sin- 
dici universitatis hominum Montis alti, fidelium nostrorum, pro parte eorundem 
recepimus, continentem quod cum homines ecclesie Sancti Vincencii site iuxta 
Montem altum consueverunt tempore Regis Guillelmi bone memorie, consobrini 
et predecessoris nostri, et ab eo tempore usque nunc comunicare et conferre 
cum universitate predicta in faciendis fossatis, paliciis et omnibus aliis servi- 
tutibus, que tam a divis Augustis principibus quam a dominis Terre Montis 
alti petebantur, Radulfus venerabilis abbas Monasterii sancte Marie de Valle 
Tosaphat'ex sua presumpcione non permictit ipsos homines ecclesie saneti Vin- 
cencii, que est obediencia Monasterii predicti, comunicare et conferre in pre- 
dictis servitutibus consuetis cum universitate predicta, ad ipsius universitatis 
preiudicium et iacturam. Cum igitur pati nequeat Imperialis clemencia suos 
fideles debito iure privari, fidelitati tme firmiter et districte precipiendo man- 
damus quatenus, convocatis partibus coram te, causam huiusmodi mediante 
iusticia facias terminari. Et si constiterit ita esse predictos homines sanceti Vin- 
cencii conferre et comunicare cum universitare predicta in premissis debita coher- 
cione compellas. Alioquin predictam ecclesiam cum hominibus suis in sua so- 
lita permictas libertate gaudere. Datum Melfie, octavo Aprilis, octave indictionis. 

Cuius auctoritate mandati predictus Radulfus abbas per nos peremptorie ci- 
tatus in prefisso termino humiliter se presentavit in iudicio coram nobis. Contra 
quem predictus Palmerius sindicus universitatis prediete proposuit in hune mo- 
dum : proponit Palmerius sindicus universitatis Montis alti quod constitit pro 
parte universitatis hominum Montis alti contra dompnum Radulfum venerabilem 
abbatem sancte Marie de Iosaphat quod cum homines Casalis saneti Vincencii 
consueverint tempore Regis Guillelmi et ad eo tempore usque nune comunicare 
et conferre cum comunitate universitatis Montis alti in faciendis fossatis, pali- 
ciis et meniis castri Montis alti; in exactionibus, collectis; in lignaminibus ga- 
learum parasporiis et salutis ac aliis omnibus, que tam a divis Augustis prin- 
cipibus quam a dominis terre Montis alti petebantur; et eciam macellum habe- 
bant per homines Montis alti. Nunc predietus abbas non permictit ipsos homines 
cum universitate hominum Montis alti comunicare seu conferre in premissis ut 
consueverunt. Unde petit dictus sindicus pro parte ipsius universitatis adiudi- 
cari sibi ipsa iura in dietis hominibus, non obstante contradictione abbatis, ut 
dictus abbas permietat homines Casalis saneti Vincencii comunicare et conferre 
in premissis cum universitate Montis alti, salvo omni iure etcetera. Predictus 
autem dompnus Radulfus litem contestando pro se et hominibus sancti Vincencii, 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECO. 19 
quorum erat defensor, ut constitit, negavit proposita in libello, salvis racioni- 
bus et excepcionibus suis. Dato autem termino partibus ad probandum ea, que 
se obtulerant in iudicio, probaturas receptis testibus et instrumentis, que utraque 
pars in iudicio presentavit super articulis,, quos sibi ambe partes statim post 
contestacionem litis fuerunt in iudicio protestate; post multas allegaciones hine 
inde habitas super dictis testium racionibus et instrumentis exibitis; tandem 
partes coneludentes in causa sentenciam pecierunt. Nos autem, habito cum 
diligenti consideracione consilio, quia vidimus sindicum universitatis Montis 
alti non fundasse intencionem suam super hiis, que proposuerat in libello. Et 
nobis constitit evidenter per multos testes omni excepcione maiores, quos pars 
abbatis in iudicio introduxit, quod homines sanceti Vincencii, super quibus idem 
abbas impetebatur, fuerunt liberi et immunes tempore domini Regis Guillelmi 
secundi felicis memorie et postea a lignaminibus Galearum exactionibus para- 
sporiis et aliis in libello propositis; et quod quando universitas Montis alti aliquod 
predictorum serviciorum faciebat iidem homines saneti Vincencii super predictis 
immunitate gaudebant. Vidimus eciam per instrumenta exibita quod dominus 
Drogo, qui fuit dominus Montis alti et saneti Vincencii (quoniam dietam eccle- 
siam sancti Vincencii contulit Monasterio sanete Marie de Iosaphat cum honi- 
nibus et pertinenciis suis) homines sancti Vincencii ab omnibus supradictis exe- 
mit. Cuius donacionem dominus*Rex Rogerius et dominus Rex Guillelmus se- 
cundus recolende memorie suis privilegiis confirmarunt et confirmaciones eorun- 
dem felicium Regum dominus Imperator Henricus et domina Imperatrix Con- 
stantia et ultimo dominus Imperator Fredericus secundus post curiam Capue 
sollempniter promulgatam approbarunt. Deinde per inquisicionem, quam domi- 
nus Benedictus de terra laboris de commissione domini Mathei de Romania quon- 
dam secreti (ad quem proinde emanarat Imperiale mandatum) fecit, inventum 
est homines sancti Vincencii, saneti Michale de Fuscaldo et sancte Marie de 
Fossis, que sunt obediencie monasterii sancte Marie de valle Iosaphat, ab om- 
nibus supradictis fuisse liberos et immunes. Dictum abbatem Radulfum ab im- 
peticione dicti Palmerii sindici universitatis Montis alti duximus sentencialiter 
absolvendum. Unde ad futuram memoriam et tam ipsius abbatis quam predic- 
torum hominum sancti Vincencii cautelam, presens scriptum sibi per manus 
Berardi notarii nostri fieri fecimus, sigillo et subseripcione nostra ac subscrip- 
cionibus predictorum magistri Roggerii et predicti iudicis imperialis doane com- 
munitum. Actum Cusencie anno mense die et Indictione prerrissis. 

x Ego Matheus Marclafaba Imperialis doane de secretis et Questorum magister. 
Ego magister Rogerius de Cathania. 
Ego Robbertus de Ariano Imperialis doane Iudex. 


Archivio di Stato di Palermo. Pergamene del monastero della Maddalena di Mes- 
sina, n. 90. Sulla perg. e’ è tuttora il segno del suggello in cera rossa. La lettera 
dell'Imperatore al secreto fu già pubblicata dal Winkelmann, che la trasse da una 
copia della Bibl, Comm. di Pal. (Acta Imperi Inedita, 297.) Della stessa lettera Isi- 
doro Carini aveva già riportato alcune righe nell’Arch. Stor. Sic. Nuova Serie, IIL 


20 CONTRIBUPO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 

477. Un'altra sentenza del secreto Marclafaba fu da me pubblicato in appendice al 
mio scritto : IZ Parlamento di Foggia del 1240.(Atti della R. Accademia di scienze, 
lettere ed arti di Palermo. Terza serie. Vol. IV. Palermo, 1897). Quanto all’ obligo 
di certe chiese di concorrere alla riparazione dei castelli cf. la lettera di Federico 
del 1224: « Clamores innumeros, qui ex parte prelatorum regni nostri auribus nostris 
iugiter inculcantur, iam sic non possumus obaudire quin eis finem imponamus ». Or- 
dina che nelle taglie e collette glî ecclesiastici non siano uniti ai‘laici: «servitiis 
tamen, que tempore dicti regis Guillelmi quedam ecclesie monasteria tam in, militibus 
servientibus, reparatione castrorùm, quam in aliis causis facere tenebantur, nostre 
curie penitus reservatis». £2yccardì de Sancto Germano Chronica priora p.114. Na- 
poli, 1588. 

Circa « curiam Capue sollempniter promulgatam » vedi negli Atti della R. Acca- 
demia Prussiana delle Scienze di Berlino dell’anno corrente l’acute osservazioni dello 
Scheffer-Boichorst intorno la legge di Federico II : De resignandis privilegiis. Ma su 
due di quelle osservazioni debbo dire qualche parola. L’ autore nota che nel mio 
Parlamento di Foggia p. 3T (che fa parte del volume precedente di quest’ Accademia) 
pubblicando un documento dell’Imperatore Svevo datato in Foggia 1229 pensai « che 
con esso una quistione sollevata dal Ficker era decisa a favore del Winkelmann. 
Ma lo stesso Winkelmann confessò più tardi al suo oppositore ch'è quasi certo che 
Federico in quel tempo non entrò in Foggia ». Però lo Scheffer-Boichorst pubblica un 
altro documento di Federico pure rilasciato in Foggia con la stessa data e che conferma 
una concessione precedente di lui ed osserva « ché questa era stata sottoposta alla ma- 
gna curia, la quale aveva redatto il documento di conferma ». (Sitzungsberiehte der 
Ké6niglich Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin. Adunanza dell’8 Mar- 
zo 1900. Das Gesetz Kaiser Friedrich's II : De resignandis privilegiis, p, 159). Ma la 
magna curia, che confermò la concessione, doveva essere in Foggia, la quale perciò 
era in potere di Federico, salvo il castello. Questa osservazione, che feci nel mio 
precedente lavoro, è confermata dalla nuova pubblicazione dello Scheffer-Boishorst; 
e forse il Winkelmann, se avesse conosciuto i due documenti, sarebbe stato più 
restio a cedere. 

Lo stesso Scheffer-Boichorst a pag. 138 del citato studio nota che il Crisivs del 
l’ Huillard-Breholles IV, 253, ch'io dissi essere forse il Crissius de Fulgineo di una 
carta inedita, è facilmente un errore d’amanuense ed indica Orosivs, che del resto 
dice Sicilia nutrix tyrannorum e non mater. Accetterei volentieri l’indicazione dello 
Scheffer-Boichorst, se dal contesto non sembrasse che debbono attribuirsi alla stessa 
persona le parole che seguono : diligit nova et novitates amplectitur : le quali non si 
leggono in nessun luogo d’Orosio. 


IX. 


Federico II ordina al capitolo della Cappella Reale di Palermo 
di nominare canonico il prete Simone. 


Foggia 12 Marzo (1228-44). 


(Frederic)us dei gracia Romanorum Imperator semper augustus, Jerusalem 
et Sicilie Rex. Cantori et Capitulo Cappelle (sacri palacii Pano)rmi (fideli)bus 
suis. graciam suam et bonam voluntatem. 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 21 


Cum presbitero-Symoni cappelle ipsius clerico fideli nostro. fid(elium (1) servi) 
ciorum int(uit)u, prebendam in cappella ipsa primitus vacatur (am) (2) gracia 
nostra duxerimus concedendam. filelitati vestre precipimus. (quatenus eu)ndem 
clericum in cappella ipsa receptis presentibus admictatis in canonicam etin fra- 
trem. 


Datum Fogie XII Marcij. (3) 


Foglietto cartaceo in parte guasto conservato nel 1° vol. dei Monumenti della cap- 
pella palatina di Palermo. Dimensioni : 0,193 X 0, 049. Nella cancelleria di Federico 
la carta di bambagia non fu meno in uso della pergamena sia per lettere e mandati, 
sia per documenti di maggior conto (ef. Philippi op. cit. Zur Geschichte der Reichs- 
Kanzlei ete. e per il tempo precedente a quello Svevo Garufi : I doc. ined. dell’epoca 
normanna p. 276-80); ma di queste carte facili a guastarsi pochissime sopravvanzano. 
Questo doc. fu già pubblicato da Gioacchino Di Marzo nell’ interessante opuscolo : 
Una cassettina d’avorio nella cappella palatina di Palermo. Palermo, 1887; con qual- 
che differenza del testo da me dato. Ripubblicandolo credo pregio dell’opera di ripro- 
durre questa considerazione dell’illustre storico, che cioè 1° Imperatore Federico in 
questo documento «dispiega l’ assoluto potere del conferimento delle dignità e dei 
benefici della cappella palatina e benchè lontano e distolto dalle tante vicende della 
sua ghibellina politica trovò tempo sovente a provvederne egli stesso le sorti» op. 
cit. p. 45. Federico dacchè prese il titolo di re di Gerusalemme non fu in Foggia 
avanti del marzo 1228; perciò la lettera non può essere anteriore a quest’ anno. In 
un doc. poi del novembre 1244 contenente un accordo tra l'arcivescovo di Palermo 
e il vescovo di Girgenti sui confini delle loro diocesi si legge : Ego Symon Panor- 
mitanus canonicus et thesaurarius subscripsi». (Bibl. Comm. di Pal. Mss. Qq. H. T. 
f. 393). Supponendo che sia lo stesso Simone della lettera imperiale già divenuto 
canonico, non potremmo assegnare al doc. una data posteriore al 1244. 


Xx. Î 


Quartine monorime composte dal maestro Terrisio dell’ Università di Napoli 
e mandate all’Imperatore Federico II contro è funzionari di lui (1240 ?) 
; Cesar auguste, princeps -mirabilis 
Qui frena regis orbis instabilis, 
Ad te defertur vox satis abilis; 
Esto, si placet, illi placabilis. 
Ut aboleres mundi malitiam 
Et revocares terris iustitiam, 
Tungeres pacem huic in sociam 
Rex tibi regum dedit potentiam, 
Grandia bona, septrus, regalia; 
Addidit idem imperialia; 
Nam tuis iussis servit Italia; 
Omnibus hiis plus dulcis apulia. 


(1) Nel Di Marzo: suorum (2) vacancium... (3) Octobris. 


22 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 
Cuneta cohartas armis et legibus; 
Orbis stat totus sub tuis pedibus; 
Est tibi datum a summis sedibus 
Ut extollaris pre cunctis regibus. 
Tua vis, Cesar, non est in terminis, 
Nam (ea) virtutem trascendit hominis; 
Ut ita dicam, cuiusdam numinis 
Instar, ostendit lictera nominis : 
Nullus in mundo Cesare grandior, 
Nullus sub sole Cesare forcior, 
Nullus sub luna Cesare clarior, 
Nullus ubique Cesare tersior. 
Tibi fortissimo prole multiplici 
Nil unquam potest e contra abici, 
Placuit, placet eterno iudici 
Ut tibi mundus debeat subici. 
Tibi debetur extrema regio : 
Tam contremescit: papalis legio; 
Patris et patrum falsa religio; 
Omnia vincis hoc iure prelio. 
Te iam expectat omnis victoria; 
Luget in parte lesa liguria; 
Ad se te vocat grandis theotonia; 
De te prolata sunt vana sompnia. 
Cum tua cura sit valde provida, 
Aures benignas dictis accomoda; 
Tolle malicias, destruas orrida : 
Sustinent multi multa incomoda. 
Res est enormis et multum devia: 
Prevalent hodie seva periuria, 
Per que dampnantur corda fidelia 
Et tota viget regni discordia. 
Lux est in tenebris, ubi ius (1) agitur; 
Solvitur reus, iustus occiditur : 
Palea gramine male discutitur: 
Quid potest facere qui sic concluditur. 
Itur ad curiam lapsis vestigiis : 
Est tua curia plena litigiis : 
Stant ibi miseri velut in stigiis: 
Cadit qui non est fultus auxiliis. 
Sedent in ordine Iusticiarii 
Qui querunt aurum et camerarii; 
Qui seribunt acta celsi notarii 
Sedent cum istis et multi alii. 


CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 23 


Istis debentur prima donaria, 
Set tibi, Cesar, post secundaria; 
Omnia bona, lauta cibaria 
Et hinirundi (2) quos dicunt maria. 
Assident Iudices tendentes recia: 
Longa decurtant, prolongant brevia; 
Multum differtur brevis sentencia, 
Ni prius veniant dampnosa precia. (2) 
Stant advocati ad litis opera, 
Qui dicunt nova et salvant vetera; 
Tondent et mungunt omnia pecora : 
Postea clamant usque ad sidera. 
Clamat philippus ponens subtilia, 
Respondet grecus dicens similia; 
Tudex barbatus ex parte alia 
Et multi alii canentes talia. 
Garrit grisippus ore nephario, 
Qui variatur ordine vario : 
Certat pro uno solo denario 
Per totum diem cum adversario. 
Calamus meus non vult plus ludere; 
Vivat Augustus quantum vult vivere, 
Imperet et regnet in toto tempore, 
Ut suos hostes possit confundere. 


Codice cartaceo del secolo XIV intitolato: Cronaca Svevo-Angioina : e conservato 
dal Principe di Fitalia. f. 82-83 — Il verso: Luget in parte lesa liguria: credo che 
alluda alla battaglia di Cortenova del 1237; l’altro : Ad se te vocat grandis theotonia: 
forse alle minaccie dell’invasione tatara verso il 1240-41. Iam contremescit papalis 
legio — esprime il sentimento degl’Imperialisti che il Papa dovesse cedere, come cre- 
deva lo stesso Federico in una lettera del giugno 1240 (Huillard-Breholles V, 1003). 
— Patris et patrum falsa religio — allude forse ai decreti di Federico contro. i frati 
Francescani e Domenicani nel 1239-40. Perciò credo il ritmo composto verso il 1240. 

Questo ritmo fu già pubblicato dal Winkelmann nella sua dissertazione : De regni 
Siculi administratione, come leggesi nella nota 1 p. 367 della Geschichte des Kaiser 
Friedrichs II del medesimo autore. Ma siccome non mi è stato possibile di procu- 
rarmi dalle Biblioteche o dai librai questa dissertazione, credo il ritmo ignoto ai più. 
Si consideri dunque questa mia come una seconda edizione. Ma essendo il testo del 
codice fitaliano molto scorretto ed avendo io dovuto supplirvi del mio meglio, è pro- 
babile che questa seconda edizione non sia migliorata. 


(1) Nel cod. sit. (2) dampna si proia. 


24 CONTRIBUTO DI DOCUMENTI INEDITI, ECC. 
NI. 
Ritmo sugli abusi dei Prelati e sui disordini del regno di Sicilia (1255 2) 


.....lam prelati — sunt Pilati — inde successores, 
Pium rati — Christum pati —- Cayphe fautores; 
Dum cognati — prebendati — surgunt ad honores, 
Pulsant dati — paupertati — hostia doctores. 

Licterati — spe fraudati — egent post labores; 
Probitati — ac etati — desunt provisores; 
Non vocati — non creati — merito minores, 
Vi mitrati — vi plantati — presunt iuniores. 

Omnis status — inmutatus — gregis et pastoris; 
Conturbatus — principatus — regis iunioris; 

Nutat tronus — dum patronus — nullus est honoris, 

Nemo bonus — portans onus — gracie minoris. 
Vota plura — preces, thura — gemitus amari 

Pro secura — regni cura — fiunt in altari; 

Sicut navis — peritura — fluctuat in mari, 

Ita gravis — hec pressura — non potest sedari. 


Cod. cit. del Principe di Fitalia, p. 85-86. Queste strofe sono seguite da altre parole, 
che, forse perchè male trascritte, mon si comprende bene se siano ritmo o prosa. 
Credo le strofe inedite, perchè non m'è riuscito di trovarle nei Carmina Medîî aevi 
del Novati (Firenze, 1888), nè nelle raccolte di Edelstand du Meril (Poésies populaires 
latines du Moyen age. Paris, 1847 e Poésies inédites du Moyen age. Paris, 1854), nè 
nei Carmina medii aevi ex bibl. Elveticis collecta dell’Hagen. I primi quattro versi della 
seconda strofe eredo che alludano ai disordini del regno di Sicilia dopo la morte di 
Corrado IV avvenuta nel 1254. Il regis iunioris ta pensare al piccolo Corradino. Il 
verso: nemo bonus portans onus gracie minoris: per me vuol dire : nessun potente 
si rassegna a ubbidire un re di pochi anni. — Nello stesso codice del principe di Fi- 
talia vi è un testo della lettera del Re Manfredi al Senato Romano : Armonia celestis 
imperi ete. più completa di quella pubblicata dal Capasso nell’ Mist. diplom. regni 
Sicilie inde ab anno 1250 ad annum 1266. Napoli, 1874, p. 274. Così dove il Capasso 
riporta : «in terra edificata.... issime »; ivi si legge : «in Petri petra hedificata sanc- 
tissime». Nel Capasso : «lapsa postea....... santitat..... dilucidum» :nel cod. «lapsu 
postea prelatorum diete sanctitatis genus dilucidum ». Nel Capasso : « irregulate cu- 
piditatis.... aC... entis apparencie.... conatibus»: nel cod. « irregulate cupiditatis 
affectibus ac ferventis apparencie magnis conatibus » ete. ete. 


RIASSUNTO 


OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE 


ESEGUITE 


NEL A. OSSERVATORIO DI PALERMO (VALVERDE) 
NEGLI ANNI 1897-98-99 


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Ottobre... . 64,70 | 29 56,26 45,97) 4 32,9 2 18,90 | 7,5 26 |. SW T,9 || 11,71|72,0| 65,1 
Novembre | 66,90) 12 61,27 | 45,00] 30 | 25,9 | 15 |14,86| 4,1 28. SW 45| 9,64) 76,6 | 59,5) 
Dicembre . . .. | 71,60,| 27 58,90 | 35,50 | 4 ||20,9 4 |11,83| 3,2 I SA 8,0.) 8,11|78,4|62,5) 
| | 
| | 
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| 
| 
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Massimo . . (11,60 |} 
Medio . .. generale del barometro (96,91 | Escursione barometrica annua mm. 36,10. 


METEOROLOGICO DI VALVERDE IN PALERMO NEGLI ANNI 1897-98-99 


livello del mare m. 71,29 


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i 25.26.27.28.29.30.31 25.28.29.30.31 


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20,13 | 19,28 | 18,58 | 107,60 ‘5.6.12.21.22 i Lari 5.6 


25,12 | 23,52 | 22,20 | 173,14 [4.5 4,25 | 16.17.29 4 


6,20 | 25,41 | 24,55 | 23,66 | 151,28 4.13 | 15,55 20 id 
24,08 | 24,32 | 24,00 | 23,49| 167,98 [20.21.24.28.29 24.35 | 14.15 DS 
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1,84 | 19,43 | 20,08 | 20,40 92,10 |3.4.5.11.18.21.23.24.26.29 161,35 | 6.16 3.6.11.22 


4,07 | 15,95 | 16,82 | 17,46 | 48,23 (4.6.7.14.20.21.24.26.27.29.30 46,70 | == 50) 


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(7,11 | 17,41 | 17,40 | 17,36 |1186,04 de 736,07 a = 
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Grandine 


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Massimo . . ) 40°,6 
Medio. . . . > generale del termometro < 189,85 | Escursione termometrica annua 409, 1 


Minimo. . . (MOIO 


RIASSUNTO DELLE OSSERVAZIONI ESEGUITE NEL R. OSSERVATORIG 


Altezza del pozzetto da 


BAROMETRO: TERMOMETRO | VENTO | UNITÀ 
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Ma oO NO | 62560.) 15 54,50 | 41,73 19 |33,7 | 18 |19,14| 8,6 2 NE. 8,9 || 10,43 | 63,5.|134, 
(GIUSTO ME | 61,60) 30 96,19 46,30) 15 |40,7 | 15 |24,00|11,5 208 RENI 9,6 | 13,75 | 61,2 2 
Lao a dc ooo 59,13 | 1 99,62 | 50,22) 14 |35,4 | 21 |24,97 | 19,6 9 NW 6,0 | 15,06 | 63,0 || 13,6 
Agosto... . | 58,90, 22 56,36 | 52,40] 9 |374 9 | 26,06 | 16,0 200 ON 4,6 | 16,61 | 65,1| 20, 
Settembre . “. . || 60,50 | 15 97,05 | 49,90) 24 |30,7 | 14 |®3,76 | 14,6 24 NE 2,7 | 15,48 | 69,2 28,0 
Ottobre. . ....| 60,98| 928 | 5462) 44701819 33,6 | 18 |21,40| 9,5 |30-31 | SW 5,2 || 13,25 | 70,9 58,5 
Novembre . . .. || 60,80] 11 55,99! 42,10) 24 |29,9 DI IRISSION N83 29 || S-SSW 7,8 | 11,26 | 73,6 || 54,0 
Dicembre . ... || 69,80, 27 99,02 | 47,70| 21 | 20,9 | 5-15.| 19,46 3,0 23. |-_SW 5,9 || 8,41 | 77,4 68,9 
| | i 
Medie e totali . . || 763,02 | — |756,06 9 — (00) |ae6| 7050) = | no 6,9 || 11,44 | 69,4 46,2 
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Massimo . . 112,42 
Medio. . . . > generale del barometro 196,06 Escursione barometrica annua mm. 39,01 


Minimo. . . (533,41 


METEOROLOGICO DI VALVERDE IN PALERMO NEGLI ANNI 1897-98-89 


) 
livello del mare m. 71,29 
GEOTERMOMETRI PIOGGIA ED EVAPORAZIONE GIORNI CON 
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19 | 10,79 | 11,29 [11,88 | 74,78 (1.4.5.11.12.13.14.17.20.21.25.26 | 108,38 |1.3.4.5.8.9.10.11.12.8 4.913 |1.8.10 
| 13.14.23.25 
Bri 77,00 | 25.30 15.23 E — 
55 | 14,22 | 13,96 | 13,85 | 117,37 [3.4.20.21.22.23.27.28.29.30 89,40 |3.7.26.30 25 — — 
69 | 17,09 | 16,57 | 16,19 | 129,03 |8.9.10.14.29.30 36,05 ||7.12.18.19 8.29 = = 
05 | 21,38 | 20,18 | 19,27 | 154,56 = = [6 = 2. e 
64 | 23,50 | 22,41 | 21,51 | 157,62 [8.11.15 23,61 | 15 24 = = 
91 | 24,95 | 23,92 | 23,03 | 145,13 |17.18.26.29.30 15,86 25 16.17.2526. = — 
29 
105 | 23,13 | 22,76 | 22,34 | 111,36 |3.16.17.24.27.28.29 40,75 | — iaia — = 
46 | 20,40 | 20,57 | 20,62 | 123,91 |1.2.4.7.9.10.11.15.19.20.21,29,24. 1.9.15 = - 
(08! 17,31 | 17,80 | 18,21 || 105,89 |1 2.5.6.7.8.13.14.15.17.18.22,29,30 È 15.17.21.29 = - 
| 
54 | 13,73 | 14,54 | 15,26 | 53,80 2.3.4.5.6.7.10.11.16.17.22,23.24.29 233,65 116 17.21 2.7.16 #22 22193 
| | | 
| | | 
26 | 17,46 | 17,32 | 17,25 [1287,23| no 830,25 | 2 2a Si — 
| | | 
Massimo . . ) \ 40,7 
Medio. . . . generale del termometro < 18,66 Escursione termometrica annua 38,9 
Minimo. . . 1,8 


6 È RIASSUNTO DELLE OSSERVAZIONI ESEGUITE NEL R. OSSERVATORIO | 
Altezza del pozzetto dal 


BAROMETRO | TERMOMETRO UMIDITÀ 


î 
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CEMIAIO 0 00 0 è 167,04 21 | 753,10 741,95 31 (25,5 | 31 |12,21| 24 | 28 | S 
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RCNIORIO 000 65,50. | 28 OM 15 AZIZ e 1350 11 NE 
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NRZO vb sv 0 66,30 | 28 55,51 | 40,54| 23 |31,6 | 23 |14,32 DA Il ENE 
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ADI ET 63,05 3 59,49 | 47,50) 10 | 26,9 | 19 |16,45| 5,4 | 11 ENE 
Maggioni || 61,62| 31 | 55,88| 48000 8 (\37,5.| 16 |20,338| 80 | 3 ENE 
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Gneo, do boo 61,70) 6 55,98 | 48,70| 21 |31,5 | 21 (29,71 114 1 ENE 
rallo do 660 60,21 | 31 56,80 | 51,90] 18 |35,4 | 25 |24,94|13,6 | 6 ENE 
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PARO SUOR 61,20 | 14 51,06 | 51,94! 22 | 33,7 10 |125;99! 16,0. | 25 || /ENE 
| | | 
Settembre... . || 60,55 | 5 55,24 47,925 | dl |:35,7 9) (24,22) 14,5 | 12) || ENE 
Ì 
Ottobre... . .. 64,80 | 29 58,90 | 52,50 | 19 | 30,6 472167 0/4 10M |VENE 
| | 
Novembre . . . . || 65,80 | 26 60,02 | 46,88 | 21 || 28,6 T |16,20) 5,1 17 |ENE-SSW| 
Riccia | | a 
Dicembre... . || 65,50| 5 59,9 | 37,90) 14 | 23,2 30. | 13,22 | 4,4 5 | SSW 
| | | | | 
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Medie e totali . . ||763,64| — |756,71|74643| — |3014| — |18,73 | 8,03 — | ENE 1,3 || 11,28 | 68,1 | 45] 
Ì 
Massimo . ; | (67,04 | i 
Medio. . . .> generale del barometro Î 156,71 Escursione barometrica annua mm. 29,24 ; 
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Minimo . . . (31,80 ì 


ITEOROLOGICO DI VALVERDE IN PALERMO NEGLI ANNI 1897-98-99 T 


ello del mare m. 71,29 


‘EOTERMOMETRI | PIOGGIA ED EVAPORAZIONE | GIORNI CON 
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mm. | 
sid | 10,13 | 10,84 || 12,61 || 74,92 12.3.4.11.12.16.17.26.27 47,90:|2.3.31 4 4 134 
IO | 11,56 | 11,86 | 12.24| 61,34 |4.7.18.21.22.23.25.26.27 86.75 1.2.4 DA 7 = 
| | 
Vi | 12,39 | 129,56 | 12,82 || 115,26 '13.14.15.20.21.24.25.26 44,40 10.23.26 26 26 26 


>D | 15,06 | 14,74 | 14,58 | 160,98 8.9.10.12.13.14.24 39,40 |8.9.10.15.24.27.98 Meo es 17: 
| | | 


)2. | 19,39 | 18,38 | 17,58 || 167,67 9.28 12,95 11.26 28 DIE = 


32 | 21,57 | 20,70 | 19,89 || 158,87 |2.5.7.16.18.19.23 29,90 |114.17.23.26 5.6.7.18 toa, = 
| 4 {| 


53 | 24,21 | 23,05 22.00 | 175,28 |14 15,40 |1.19.25.26 14 _ 14 


55 | 25,68 | 24,64 | 23,69 || 169,57 |22 0,55 | == 4 3: e 


32 | 23,90 | 23,90 | 23,02 | 196,87 |11.12.13.16.17.18.24 | 23,02 11 (12.13.16.17. sl = 
144.15 |1.8.9.13.31 19,95 18.17.3 131 È = 
I | 17,55 | 18,06 | 18,51 | 92,85 |5.13.16.17.18.19.21.22.23 115,32 { [re 17 17 


112,75 |2.3.8.9.10.11.12.13.14.15.16.17.20 |/118,67 \5.9.13.14.15.17 20 = |a 
21.22.23.24.25) | | 


| | 
| 
)3 | 18,13 | 17,93 | 17,75 |1630,51 Di 550,21 | a: FTSE e 2 
| | 
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Massimo ag: 37,5 
Medio sea: | generale del termometro 18,73 | Escursione terpiometrica annua 33,1 


Minimo. . . 4,4 


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SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI 


DI PALERMO 


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TERZA SERIE 


\Anno 1899) 


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| Volume V. 


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TIPOGRAFIA F. BARRAVECCHIA E 


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DI PALERMO 


che fu già Hecademia del BUON GUSTO. 


PRIMA SERIE 


Saggi di dissertazione dell’ Accademia Pale del Buon duo anno 17 
Saggi di dissertazione dell’ Accademia palermitana del Buon Custo ti 
la sua reinteg MITE Fanno: I (91° Ero e dei 
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(Ani dell'Accademia di Selenzo e ni di Palermo 


TERZA SERIE 


Atti della‘ R. Accademia di Scienze, Lettere e Belle 


Vol. I 
Vol. II. 
Vol. II 
Vol. IV 
Vol V 


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