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Full text of "Atti della Società toscana di scienze naturali, residente in Pisa"

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PFESEOS 
TIPOGRAFIA T. NISTRI E C. 


1886 


DOTT. JACOPO DANIELLI 


OSSERVAZIONI 


Siepe ci Roo GRANI 


DELLA 


GUNNERA SCABRA RUIZ ET PAV, 


CON NOTE 


SULLA LETTERATURA DEI NETTARI ESTRAFLORALI 


Nella primavera dell’ anno 1882 vegetavano nelle serre 
dell’ Orto botanico fiorentino, dei giovani individui di Gunnera 
scabra, nati nell’anno stesso da semi avuti dalla pianta che 
fiorì nel suddetto orto, e che fu presentata fiorita ad una con- 
ferenza della Società toscana d’ orticoltura il 19 giugno 1881. 

L’ illustre naturalista e viaggiatore Odoardo Beccari, da quel- 

l’acuto osservatore che egli è, vide che quelle pianticelle pre- 
sentavano nel loro stipite dei corpiciattoli speciali, degli “ organi 
buffi, com’ esso li chiamò, e mi invitò ad osservarli. 
Il loro aspetto mi riuscì affatto nuovo, e spinto dal desiderio 
di sapere che fossero volli studiarli. Avuto il permesso dal chia- 
rissimo mio maestro prof. Teodoro Caruel, di sacrificare alcuni 
di quelli individui, mi accinsi all’ opera della quale presento 
adesso, qualunque essi sieno, i resultati, i quali almeno oso 
sperare sieno nuovi, poichè nelle mie ricerche bibliografiche non 
ho trovato niente che dicesse di questi organi. Forse se avessi 
seguitato a esaminare e avessi tardato a mostrare i miei studi 
in proposito, avrei potuto io stesso dire qualche cosa di più e 
di meglio su questi strani corpiciattoli; ma l’ interesse scientifico 

Se. Nat. Vol. VII, fasc. 1.0 l 


2 J. DANIELLI 
reclamando la maggior prontezza nell’ interpetrazione dei fatti, 
senza occuparsi di chi li addita, pongo nel dominio del pubblico 
questi primi resultati de’ miei studi, onde altri più abili, e con 
materiali migliori, si unisca a me per dare più presto una com- 
pleta spiegazione di questi organi, dei quali, fra le altre, non 
ho potuto dare il significato morfologico. 

Se, contrariamente all’ esito delle mie indagini bibliografiche 
e a ciò che mi hanno detto alcuni distinti botanici, fossi stato 
preceduto nelle mie osservazioni, la presente comunicazione sarà 
utile a confermare fatti già noti o a farli meglio conoscere. 


La Gunnera scabra Ruiz et Pavon — G. chilensis Lam., 
Panke Anapodophylli folio Feuillée, Panke tinctoria Molina — 
non è difficile ad essere osservata, poichè è abbastanza colti- 
vata nei nostri giardini come pianta ornamentale a causa delle 
sue foglie colossali e rugose; ma però da noi non sembra di 
facile coltura giacchè, come disse nella già rammentata confe- . 
renza del 19 giugno 1881 il sig. Bastianini, capo giardiniere del- 
l'Orto botanico fiorentino, essendone stata tentata, da esso e 
da altri, negli anni antecedenti al 1881, la coltura, non si riuscì 
ad ottenere una pianta piuttosto robusta. A me poi, più sfortu- 
nato di loro, che mi premeva di studiare gli organi in questione, 
fino dalla loro origine, non è voluta nascere (!). 

Nei propri paesi, Chilì e Perù, abita luoghi umidi, stagni, 
sorgenti, paduli; fiorisce nel settembre e ottobre; è detta Pante 
e Pangue, e serve a molti usi. Così si prende la decozione delle 
foglie per rinfrescarsi, si mangiano i picciòli crudi scortecciati, 
i tintori si servono delle sue radici, miste con una certa terra, 
per tingere in scuro, i conciatori si servono del rizoma, ricco 
di acido gallico, per conciare e tingere le pelli; il decotto delle 
radici arresta la diarrea e l’ emorragie; e  Mucilago plantae 
tenerae dorso et renibus applicitus, febrium ardores compescit (*) ,. 


(4) Mi è stato detto che il cattivo successo della cultura di cui parlò il Bastia- 
nini, può esser dipeso dal considerare la Gunnera come pianta da serra, dovendo 
invece esser tenuta come una pianta nostrale abitante i luoghi umidi. 

(*) Ruiz, Fl. et Pavon, J., Systema vegetabilium Florae peruvianae et chilensis, 
I., p. 367, s. 1. 1748. 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. R) 


Le giovanissime piante da me studiate (Tav. IV, fig. 1) avevano 
un piccolo fusto rigonfiato, che poi avrebbe formato il rizoma, 
di circa 10 0 15 mm. di diametro, alto 20 o 30 mm., tutto co- 
sparso, fino nella parte più inferiore, degli organi in discorso. 
Oltre le foglie si vedono su di essi delle radici avventizie più 
o meno grosse, anche nella parte più alta del fusto; le quali 
nascono spessissimo vicinissime e al disotto degli organi. Negli 
interstizi il fusto è coperto da peli di vario genere. Alcuni di 
questi organi sono nascosti da stipole ascellari o linguette. 

Essi sono rotondi o un po’ ellittici, lobati in modo da pren- 
dere una forma stellata più o meno marcata, con un bel mu- 
crone nel centro (Tav. IV., fig. 1a). Gli ellittici spesso hanno due 
od anche tre mucroni, forse resultanti dall’ unione di più organi. 
I lobi in generale sono 7 od 8. Questi organi nel loro pieno 
sviluppo sono di colore giallo. La loro superficie è ricoperta da 
una sostanza mucilagginosa. Il diametro massimo a cui possono 
arrivare è di 8 o 9 mm. 

Nei più giovani ch'io ho potuto osservare, le diverse parti 
erano meglio distinte; specialmente i mucroni sono più svilup- 
pati. Col crescere della pianta gli organi sì fanno più numerosi 
e ingrossano, ma arrivati alle dimensioni nelle quali li abbiamo 
superiormente descritti, dopo un po’ di tempo, la pianta conti- 
nuando a crescere, i mucroni spariscono (Tav. IV., fig. 1 8), gli 
organi perdono la forma più o meno stellata, si fanno roton- 
deggianti, di colore scuro, non son più mucilagginosi e danno 
al fusto, o estremità superiore del rizoma, un aspetto tuber- 
coloso. 

Però all’ ascella delle foglie che più si avvicinano al centro, 
fra le stipole, troviamo ancora degli organi giovani, mucilag- 
ginosi; i quali non ho veduto più nelle piante ancora maggior- 
mente adulte. 

In sezione verticale questi corpiciattoli (Tav. IV., fig. 2) ram- 
mentano, lontanamente, la forma della parte superiore del giglio 
fiorentino. Si vedono i lobi curvarsi esternamente, a guisa di 
voluta, e la parte dell’ organo, che sorge in mezzo ad essi, va 
ingrandendo dal basso all’ alto fino al punto in cui si separa 
dai lobi; dal qual punto comincia a ristringersi e prende la 


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4 Î. DANIELLI 
forma di un mucrone. Queste cose le vediamo maggiormente 
marcate in organi non tanto sviluppati. 


Le linee principali di una sezione orizzontale, fatta alle base, 
cioè nel luogo in cui i lobi e la parte centrale si differenziano, 
ci mostrano invece una figura formata nel centro da un poliedro 
spesso ottagonale (Tav.IV., fig.3), contornato da tanti coni troncati, 
in sezione longitudinale, quanti sono i lati del poliedro centrale. 
Però, come ben vedesi dalla figura 3, i contorni di queste diverse 
parti non sono formati da linee rette come le figure geometriche 
a cui ho paragonato questa sezione, ma sibbene da linee più 
o meno curve che li rendono frastagliati. 

Il taglio trasversale del mucrone fatto nella sua parte li- 
bera (Tav. IV., fig. 4) mostra come in essa il contorno del mu- 
crone, in SO sia ancora maggiormente frastagliato. 

La massa di questi organi è formata da cellule poliedriche, 
delle volte allungate, più grandi nei punti mediani delle diverse 
parti dell’ organo. Sono più piccole di quelle che entrano a co- 
stituire il fusto o rizoma. In mezzo a loro, in ogni lobo e nel 
mucrone si getta un bel fascio che parte da quelli che si tro- 
vano nel fusto. 

I fasci sono concentrici, libero-legnosi, aventi il legno costi- 
tuito da vasi spirali situati nel centro del fascio. 

Tutto l’ organo, cioè tanto i lobi che la parte centrale, è 
coperto da un’ epidermide formata da uno strato di cellule a 
contorno regolare, scure, con grosso nucleo e nucleolo. 

Ho costatato nelle cellule degli organi in discorso e in quelle 
del fusto, la presenza del glucosio e del saccarosio, mediante il 
saggio dello zucchero di Trommer e il reattivo di Fehling. Vi 
si trova ancora del tannino e della fecola, la quale è in mag-_ 
giore quantità nel fusto, nelle cellule del quale si presenta in 
granelli anche molto grossi, mentre negli organi che studiamo 
i granelli sono piccolissimi. 


A primo aspetto questi organi potevano sembrare peli glan- 
dulosi alla base, o vere e proprie glandole, ma adesso che ab- 
biamo osservato la loro costituzione anatomica, siamo certi che 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. 5) 


non si tratta nè delle une nè degli altri poichè hanno l’epider- 
mide e in essi si distribuiscono dei fasci fibro-vascolari. Quello 
che sono però non sarà difficile a dirsi se ci ricordiamo che con- 
tengono degli zuccheri e che in conseguenza il liquido che esce 
da essi è un vero e proprio nettare. i 
Perciò non mi perito a dire che sono nettarti estraflorali, 0, 
come direbbe Delpino, nettarii estranuziali ('). 


Se non è difficile il dire che cosa sono questi organi, non è 
lo stesso in quanto al dire a che cosa servono. Lo scopo, o, per 
meglio dire, la funzione dei nettarii estraflorali è intesa molto 
diversamente dai botanici; e gli organi studiati da me, forse 
non portano nuova luce su questo problema. 

Senza occuparci degli antichi botanici, le cui idee in propo- 
| sito sì trovano svolte o riepilogate nei lavori moderni, vediamo 
che cosa dicono quelli che più si sono occupati della funzione 
dei nettarii estraflorali, per poi cercare di spiegare l’uso di quelli 
della Gunnera. 

Delpino (*), dopo avere affermato che resta eterno il princi- 
pio: , ove esiste un nettario, ivi esiste una funzione di relazione 
tra la pianta nettarifera e tra determinati animalcoli melito- 
fagi,,e aver definito i nettarii: , pars mellifera plantarum 
angiospermarum propria , — definizione erronea perchè si trovan 
nettarii anche nelle felci e nelle conifere — divide questi in me- 
sogamici o nuziali e in estranuziali. Parla della posizione di 
questi ultimi, e dopo aver citati alcuni esempi di simili nettarii, 
alla domanda: , qual'è dunque la funzione dei nettarii estra- 
nuziali, sia che si trovino nelle foglie cauline, nelle brattee o 
calice , risponde che non esita , ad enunciare che siffatti net- 
tarii hanno per funzione principale di costituire nelle formiche, 
nelle vespe, nei Polistes altrettante vigili sentinelle e guardiani 
per impedire che le parti tenere delle piante siano divorate dai 


(') Delpino F. — Ulteriori osservazioni sulla dicogamia vegetale. Parte Seconda, 
fascicolo II, p. 86, Milano 1875. 
(?) Delpino F. 1. c. p. 85, 


6 J. DANIELLI 


bruchi , ('). Aggiunge che un altra funzione (ma in via subalter- 
nissima) può talvolta essere esercitata dai suddetti nettarii, con- 
sistente nell’ impedire l’ accesso delle formiche ai nettarii nuziali, 
trattenendole sui nettarii estranuziali. 

Lo stesso autore in un altro suo lavoro intitolato: Rapporto 
tra insetti e tra nettarii estranunziali in alcune piante (*), trattando 
più diffusamente lo stesso tema dà un elenco di piante fornite 
di nettarii estranuziali, e dalle osservazioni che fa su alcune di 
esse deduce che i nettarii in discorso, almeno nei nostri paesi, 
sono in correlazione con insetti formicari o vespiari. 

Dice di aver visto nettarii estraflorali in un’ottantina di specie 
distribuiti in una ventina di generi appartenenti a tredici fami- 
glie di dicotiledoni (*), e che crede che ulteriori ricerche potreb- 
bero decuplare tal numero. 

Di queste piante però dà solo il nome specifico di poco più 
di venti, fra cui ce ne sono alcune delle quali non ha veduto 
che esemplari secchi, per cui non può stabilire con certezza che 
esse abbiano nettaril. 

Vide un , vero esercito di piccole formiche , sulle brattee 
nettarifere del Clerodendron fragrans; cita le Myrmecodia, V Hyd- 
nophytum come piante che danno domicilio alle formiche; crede 
possibile che un certo Clerodendron che ha gl’internodi rigonfi 
presso l’ apice, cavi nel centro, con un foro da una parte dal 
quale: entrano ed escono formiche, sia affine al fragrans e che 
le formiche vi abbiano fatto lo scavo per usufruire con più co- 
modo i nettarii, come lui ha visto seguire nella Cynara Cardun- 
culus con punto 0 con poco danno della pianta e con grande 
vantaggio delle formiche (4); ha visto individui di Polistes gallica 
su diverse specie di Cassta, uno o due per ogni pianta, attratti 
dal miele delle glandole picciolari, i quali gli ricordavano coi 
loro andirivieni “ il diportarsi delle sentinelle dinanzi ai posti 
di guardia ,; vi vide anche delle formiche ma non gli sembrano 
adattate. 

Osservò che i nettarii picciolari del Ricinus sono visitati, al- 


(1) Delpino F., l. c. p. 90. 

(*) Bull. Soc. Ent. ital. Firenze-Roma 1875, Anno VII, p. 69. 

(£) Delpino F., l. c. p. 73. 

(4) Il Beccari mi ha detto che i fusti della Cyrara non sono scavati dalle for- 
miche ma dalle larve di un rincofozo. 


. OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. i 


meno nel nostro paese, dalla Polistes gallica; sopra i bocci della 
Paeonia officinalis vide sopra ognuno da una a tre formiche, 
che suggevano il nettare emanante dai sepali “ avvicinando qua- 
lunque oggetto a dette boccie, le formiche si allarmavano, assu- 
mevano un’ attitudine minacciosa e lo mordevano furiosamente, 
spiegando così il carattere d’ intrepidi e accaniti difensori delle 
boccie medesime ,('). Sopra una specie d’eteropteris vide formiche 
leccare il nettare dei nettarii picciolari. Per tre o quattro giorni 
prima dell’ antesi, e uno o due dopo, vide su quasi tutte le ca- 
latidi della Centaurea montana una o due formiche; in seguito 
le brattee esterne dell’ involucro calatideo non danno più nettare 
e i difensori se ne vanno; vide formiche lambire il nettare delle 
stipole della Vicia sepium e di specie affini; osservò qualche 
formica leccare le glandole picciolari del Prunus avium con 
gemme sbocciate da qualche giorno; nel Sambucus racemosa os- 
servò lo stesso fatto, ma melliflue erano le stipole; in ogni indi- 
viduo giovane di Sambucus Ebulus costatò per solito la presenza 
di alquante formiche che leccavano i nettarii di ciascuna foglia. 

Esposto poì il principio: , Quando un fenomeno appare iso- 
lato e singolo nella specie sua, può essere e quasi sempre è 
una mera casualità, destituita affatto da ogni significazione di 
fine o di scopo. Ma quando uno stesso fenomeno si ripete e si 
riproduce in esseri di affinità remote e quando si perpetua nella 
serie colà dove si è manifestato, allora doventa un segno indu- 
bitabile della costanza e dell'importanza delle cause che lo hanno 
perpetuato, presuppone una funzione, uno scopo, ben definito ,. 
Considerando che quello di questi nettarii è un fenomeno che si 
riproduce in una quantità non piccola di piante, appartenenti 
alle famiglie le più svariate, e che perciò debbono avere uno scopo, 
una funzione, che esclusivamente si riferisca ai servigi che essi 
insetti prestano alle piante, si mette a ricercare questo scopo 
» mediante un processo rigorosamente logico di esclusione ,. 
Esclude che il nettare sia una naturale escrezione di umori 
superflui, e perciò egli dice che non rimane che credere che i 
nettarii estraflorali abbiano una funzione adescativa e, sempre 
per esclusione, ammette che non resta possibile altra tesi che 
quella che le formiche e le vespe siano i principali nemici dei 


(5) Delpino F., Lc. p. 70. 


8 J, DANIELLI 


principali nemici di certe piante. Dice ciò confermato dal fatto 
di essere fra i principali nemici delle piante le larve, special- 
mente dei lepidotteri, e frai principali nemici di dette larve le 
formiche. 

In poche parole, certe piante a somiglianza degli afidi, coc- 
ciniglie ec. porgerebbero un tributo di sostanza zuccherina ai 
loro difensori. Le Myrmecodia, gli Hydnophytum, le Tococa, Ma- 
jeta, Cynara Cardunculus ec. offrirebbero « vere caserme e corpi 
di guardia alle formiche , ('). La facilità di spiegare certi feno- 
meni e questo modi di esprimersi non devono meravigliarci, pen- 
sando che il chiaro autore tra le , cause efficienti e precedenti 
che hanno determinato un dato organismo in tutti i suoi carat- 
teri intrinseci ed estrinseci da esso posseduti, è convinto che 
figuri in prima linea un principio intelligente e previdente infuso 
in ogni organismo (?). 

Parla dell’utilità delle formiche per distruggere gl’ insetti 
che infestano i boschi. In prova di ciò riporta degli esempi e 
scrive che spessissimo le formiche adottando a stazione l'albero 
a cui son vicine salvano l’ albero stesso per quell’annata da ogni 
danno di bruchi (*). 

Dice che osservazioni di pratici confermano l’ utilità dei ser- 
vizi che devon rendere le formiche alle piante, 1’ uffizio impor- 
tantissimo, sopra ogni altro insetto, addossato alle formiche, di 
mantenere l’ equilibrio nelle classi degli insetti fitofagi, massime 
dei lepidotteri. Gl’icneumonidi, i veri nemici delle uova, dei bruchi, 
delle crisalidi, delle farfalle, essendo totalmente vincolati alla 
vita dei bruchi, non possono ostacolare la moltiplicazione dei 
bruchi di anno in anno crescente. si 

Alla pag. 87 fa questo ragionamento: dei carnivori, naturali 
equilibratori e limitatori dei fitofagi, i monofagi e gli aligofagi han- 
no poca importanza ed efficacia “ perchè sta vero che diminuiscono 
gli individui delle specie di cui si nutrono, ma diminuendoli dimi- 
nuiscono le proprie risorse, in una parola diminuiscono se stessi. 
Invece gli animali pantofagi hanno ben altra efficacia. In un 
anno si ciberanno della specie A_ straordinariamente moltiplica- 
tasi; nell’ altra annata, poichè la specie A sarà ridotta al quinto 

(4) Delpino F. 

(*) Delpino F 

F. 


. p. 82. 
. p. 81. 
(3) Delpino . p. 86 


L) 
Dn) 
9 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. 9 


numero d’ individui, aggrediranno poniamo la specie B che a 
suo turno si sarà eccessivamente moltiplicata, e così via discor- 
rendo, ogni anno faranno sentire la loro azione equilibratrice 
su quelle specie che, moltiplicandosi soverchiamente, tendono a 
rompere l’ equilibrio preesistente. Ma è chiaro che per potere 
esercitare quest’ ufficio, non bisogna essere, quanto al cibo, vin- 
colati a niuna specie. Quindi è che i veri equilibratori sono gli 
animali pantofagi; laddove gli oligofagi e per più forti ragioni 
i monofagi non sono che equilibratori apparenti ,. Applicando 
ciò agli insetti, considerando che le formiche son pantofagi, a 
differenza degli icneumonidi, conclude che l' azione delle formiche 
alla distruzione delle farfalle deve esser maggiore di quella degli 
ieneumonidi. Cita alcune osservazioni pratiche a conferma di ciò 
e fa altre considerazioni per dimostrare la maggior efficacia delle 
formiche. 

Dice che i ragionamenti e fatti esposti vengono in appoggio 
all’, importante verità, che le formiche sono i principali equili- 
bratori e moderatori degli insetti fitofagi; , e che , resta nello 
stesso tempo giustificato il concetto da cui pigliammo il nostro 
punto di partenza, cioè che la natura provvide ad attirare 
sopra non poche piante le formiche, medianti nettarii apposi- 
tamente fabbricati, nello scopo di assicurare le piante stesse 
dalle invasioni dei bruchi ,. Aggiunge che in qualche località 
della terra può credersi che l’ ufficio di equilibratore sia confe- 
rito anche alle vespe, se si considerano i nettarii estranuziali dei 
generi esotici icinus e Cassia; ma ci manca ogni elemento di 
osservazione reale per poter confirmare o infirmare siffatta con- 
gettura , ('). Termina dicendo che non gli par vera la teoria 
di Darwin per spiegare l’ origine dei nettarii fiorali mediante 
la selezione naturale, perchè parte dall’ idea che il miele trasu- 
dato dai nettarii estranuziali sia un escremento e dall’ idea che 
la visita di questi nettaril per parte d'insetti, torni inutile alle 
piante. 

Belt (?) ha studiato una specie d’ Acacza di cui certe formiche 
distruggono tutte le foglie, non per mangiarle, ma per farne, 
secondo lui, dei letti sopra i quali esse coltivano dei funghi. 


(4) Delpino F., l. c. p. 89. 
(?) Lubbock — Les insectes et les fieurs sauvages. Traduit par E. Barbier. Pa- 
ris 1879, p. 7. 


10 J. DANIELLI 


Questa pianta porta delle spine scavate, e ciascuna fogliolina di- 
stilla del nettare in una glandola in forma di cratere, situata 
alla base della foglia, e porta all’ estremità nua piccola appen- 
dice zuccherina in forma di pera ('). 

Quest’ Acacia è abitata da miriadi di piccole formiche (Pseu- 
domyrma bicolor) che si pongono nelle spine scavate e che tro- 
vano così su quest’ albero, l’ alloggio e il nutrimento. Queste 
formiche circolano incessantemente [nella pianta; costituiscono 
per la pianta dei difensori sempre svegli che cacciano e met- 
tono in fuga le formiche di cui l’ abitudine è di danneggiare le 
foglie; oltrechè, secondo Belt, esse comunicano alle foglie un 
certo odore che le difende contro gli attacchi dei mammiferi 
erbivori. 

Miiller (*) ha osservato fatti analoghi, a Sainte-Catherine. 

Darwin (#) riportando le idee di Delpino, scrive che non ha 
mai avuto ragione di credere che segua quello che afferma il 
botanico genovese nelle tre specie da lui osservate: Prunus 
Laurocerasus, Vicia sativa e Vicia Faba; che nessuna pianta è 
più debolmente attaccata da dei nemici della Pterîs aquilina, 
la quale non ostante alla base delle fronde ha delle grosse 
glandole che segregano, nella loro giovinezza soltanto, un liquido 
zuccherino abbondante, avidamente succhiato da formiche ap- 
partenenti specialmente al genere J/yrmica, le quali non servono 
a protegger la pianta contro qualche nemico. 

Non crede buono l’ argomento portato da Delpino per di- 
mostrare che queste glandole non possono essere considerate 
come escretori (‘), ma ammette che in qualche caso la secrezione 
serva a attirare degli insetti per difendere la pianta, ed ag- 
giunge che non vi è da dubitare fminimamente che essa sia 
stata sviluppata in alto grado a questo fine speciale, dopo le 
osservazioni di Delpino e specialmente dopo quelle di Belt sulla 
Acacia sphaerocephala e sopra i fiori di passione. 

Bonnier (°) ha osservato nelle stipole nettarifere della Vicia 


(1) La scoperta delle glandole all’ estremità delle foglioline dell’ Acacia corni- 
gera Willd., attribuita da F. Darwin a Belt è invece dovuta a Savi e a Meneghini 
(v. Beccari O., Malesia, II, p. 58. 

(2) Muller — Nature, Vol. X, p. 103. — Lubbock., l. c. p. 7. 

(3) Darwin C. — Des effets de la fécondation croisé. Paris, 1877, P. 412. 

(4) Darwin C., 1. c. p. 143. 

(?) Bonnier — Les nectaires. Ann. Sc. nat. 6.2 Série, tom. VIII, p. 65, Paris 1879, 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. ll 


i seguenti imenotteri, che raccoglievano abbondantemente il net- 
tare: Apis mellifica abbondantissimamente; Polistes gallica, Sphe- 
codes gibbus, un po’ meno; diversi Anrdrena, diversi Helictus e 
molto più raramente i Bombus agrorum, B. pratorum, B. hirto- 
rum, B. terrestris. Aggiunge che si possono anche osservare gli 
imenotteri sopra le stipole di Vicia Faba abbondantemente; sopra 
quelle della Vicia sepium e della Vicia lathyroides, meno frequen- 
temente. Ha pure osservato, nei dintorni di Parigi, le api visitare 
i nettarii dei picciòli di Prunus avium e di Prunus Mahaleb; una 
volta vide il Bombus terrestris e spessissimo numerosi ditteri 
sopra ai nettarii delle giovani foglie di Crataegus Oxyacantha. A 
Huez (0isans) osservò le api raccogliere il nettare sopra i pe- 
duncoli della £ruca sativa. Ha visto la miellata senza pucerons, 
nelle quali raccoglievano il miele, in Francia e in Norvegia, i 
seguenti imenotteri: Bombdus terrestris, B. hortorum, B. pratorum, 
B. agrarum, B. articus, B. alpinus, B. nivalis, B. consobrinus, 
Apis mellifica, Osmia rufa, O. nana, Andrena fulvicrus, A. dor- 
sata, Halictus cilindricus, H. tricinctus. 

Fa rimarcare che anche le api, oltre le formiche, secondo 
Belt, visitano i nettarii estraflorali dell’ Acacia sphaerocephala, e 
non sa in che esse possano servire da guardie. 

Egli seguita scrivendo: “Inutile è insistere più lunga- 
mente su questa parte supposta (quella attribuita da Delpino); 
non sì possono discutere simili ipotesi fatte senza osservazioni, 
senza esperienze e di cui l'immaginazione fa tutte le spese ,. 

Dice che la maggior parte dei nettarii estraflorali non emet- 
tono al di fuori che un volume relativamente debole di nettare 
e sovente non emettono alcun liquido. Il massimo di volume 
emesso sì verifica sempre avanti che l’ organo presso il quale 
si trova l’ accumulazione dello zucchero abbia raggiunto il suo 
sviluppo. i 

A misura che quest’organo si sviluppa completamente l’ emis- 
sione del liquido diminuisce, poi cessa. Questo l’ ha costatato 
fra gli altri nei nettarii delle foglie del Prunus avium, Ricinus 
communis, Crataegus Oxyacantha. Si è assicurato che p. es. nei 
nettarii situati su i denti delle foglie del Ricino, del Crataegus, 
degli Anethum e dei Sambucus, perdono a poco a poco i loro 
zuccheri a misura che appassiscono o che spariscono confonden- 
dosi col parenchima vicino. Conclude dalle sue osservazioni che 


12 J. DANIELLI 


per i nettarii estraflorali quando gli zuccheri spariscono dal tessuto 
nettarifero, essi vanno a contribuire alla nutrizione dell’ organo 
vicino in via di sviluppo. 

Nei tessuti nettariferi estraflorali (!), quando 1’ emissione del 
liquido è massima, la proporzione del saccarosio è massima nel 
tessuto. L° emissione dipende dai fenomeni della traspirazione 
e si trova in relazione diretta con le circostanze esterne. 

“Lo sviluppo essendo continuo, l’accumulazione dello zucchero 
è costantemente impiegata. I periodi di formazione e di distru- 
zione si confondono per lungo tempo. La riserva cessa di fun- 
zionare quasi completamente, ed anche qualche volta sparisce, 
quando l’ organo vicino raggiunge il suo sviluppo quasi completo. 
Molte di queste accumulazioni zuccherine non producono alcun 
liquido esterno ,. 

I periodi di distruzione delle riserve zuccherine sono distinti 
nelle gemme. 

Da tutto il suo lavoro, Bonnier tira la seguente conclusione 
generale: “ I tessuti nettariferi, siano fiorali o estraflorali, emet- 
tano o no un liquido al di fuori, costituiscono delle riserve nu- 
tritizie speciali, in relazione diretta con la vita della pianta ,. 

E per quelli che vogliono spiegare teleologicamente queste 
accumulazioni zuccherine, riporta un pezzo delle /egons sur les 
phénomènes de la vie di C. Bernard, che termina così: “ la legge 
della finalità fisiologica è in ciascun essere in particolare, e non 
fuori di lui: l'organismo vivente è fatto per sè stesso, egli ha 
le sue leggi proprie, intrinseche. Lavora per sè e non per gli 
altro 

Van Tieghem (*), dividendo le idee di Bonnier, scrive che la 
parte fisiologica è la stessa in tutti i nettarii, che cioè sono 
sempre una riserva zuccherina destinata ad alimentare 1° accre- 
scimento degli organi vicini. Il nettare esce dalle piante come 
il liquido ordinario; la sua formazione è un: semplice caso par- 
ticolare. del fenomeno generale dell’ emissione dei liquidi per 
traspirazione rallentata, e per la naturale proporzione di zuc- 
chero di canna, accompagnato da glucosio e da qualche sale che 
contiene, è ricercato avidamente dagli insetti che ne sono ghiot- 


(') Bonnier, l. c. p. 205. ‘ 
(2) Van Tieghem, Ph. — Traité de botanique, Paris 1884, p. 203. 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. 13 


tissimi, i quali perciò, potendo la pianta riassorbire il nettare 
emesso, causano alle piante stesse, portandole via una parte 
della riserva zuccherina per lo sviluppo degli organi vicini, un 
reale danno, il quale però delle volte è compensato. “ Ma quanto 
sovente - egli osserva - questa compensazione non ha luogo? ,. 

Il Beccari (') crede, a differenza di Darwin, che nella Pteris 
aquilina, meglio che in qualunque altra, sia giustificata la sup- 
posizione di un uffizio di difesa per parte delle formiche, appunto 
perchè le glandole non secretono nettare altro che quando sono 
giovanissime (*). Osserva che la Pteris aquilina può avere attrat- 
tive per gli insetti in altre parti del mondo, se non.l’ ha nelle 
nostre, perchè è cosmopolita. Per provare che le felci anche da 
noì non sono immuni dagli attacchi degli insetti, cita il fatto 
di un Cyrtomium falcatum che ha avuto quest’ anno tutte le 
fronde, mano a mano che si svolgevano, spuntate da una larva 
verde di lepidottero, e quelle di giovanissime piante di Pteris 
aquilina, che erano non molto distanti dal Cyrtomium, ridotte 
in pezzetti. Non ha visto insetti sulla Pferis, ma ritiene che il 
danno debba attribuirsi a larve simili a quelle del Cyrtomium. 

Lo stesso autore scrive che forse anche le Korthalsia fra le 
palme offrono nettari estranuziali sul piccolo picciòlo dei sin- 
goli segmenti delle foglie; che sono bellissimi quelli perifillici 
del margine della Rosa Banksiae, e che attraggono gran numero 
di grosse formiche nere (Campanatus pubescens), le quali la ren- 
dono quasi immune dalle larve della Zylotoma rosae. Delle larve 
sì trovano talvolta sui germogli stentati e secondari, nei quali 
la secrezione zuccherina è quasi nulla, per cui non vengono vi- 
sitati dalle formiche. In questo caso è evidente, esso dice, che 
la produzione dei nettarii è necessaria per attirare le formiche, 
e che queste quando sono presenti proteggono i germogli dagli 
attacchi delle larve. 

Crede invece che realmente in alcune piante, p. es. nel Pesco, 
non sia provato se il vantaggio che le formiche vi recano, sia 
maggiore del danno. Dimanda se tali piante non potendo libe- 
rarsi da ospiti importuni, han trovato più conveniente e meno 
svantaggioso localizzarli dove il danno è minore. 


(4) Beccari 0. — Malesia, vol. II, p. 41. Genova 1884. 
(3) Questa ragione si potrebbe portare anche in appoggio alle idee di Bonnier. 


14 i. DANIFLLI 


Insiste, dopo aver detto che le foglie del Clerodendron fistu- 
losum Becc. han delle glandole presso la costola della pagina 
inferiore, che nelle piante ospitatrici si trovano spesso glandole 
che secretono umori graditi, a quanto sembra, alle formiche. 

Perchè Bonnier dice che non sa spiegarsi la visita delle api 
all’ Acacia cornigera, Beccari scrive in nota: “Si direbbe che 
Bonnier non è mai stato punto da un’ ape, altrimenti gli sa- 
rebbe subito venuto in mente che una pianta molto frequentata 
dalle api difficilmente può essere attaccata da animali erbivori. 
A ragione quindi H. Muller (Journ. Micr. Soc. 1881 p. 626) ac- 
cusa Bonnier di aver cercato colle armi di un ragazzo di rove- 
sciare una delle teorie più larghe e meglio stabilite , ('). Que- 
sto apprezzamento mi sembra che faccia il paio con quello di 
Bonnier su le osservazioni di Delpino. 


Delpino dice dunque di aver visto nettarii estraflorali in un'ot- 
tantina di specie, dà però il nome specifico di solo una ventina, 
delle quali ha visto alcune soltanto secche, e quindi confessa di 
non poter stabilire certamente se abbiano nettarii, ed ha osser- 
vato formiche soltanto sui nettarii di circa nove specie, e Polistes 
in più specie di Cassia (?) e nel Aicinus. Nessun’ altra osserva- 
zione diretta, cioè su piante con nettarii, ha egli fatto. Il restante 
sono ragionamenti più o meno filosofici che saranno più o meno 
giusti; ma certo il voler cercare lo scopo di un organo e volerlo 
trovare con un processo d' esclusione, qualunque sieno le nostre 
cognizioni, mi sembra poco scientifico, poco positivo. È proprio 
vero che non rimanga che credere altro che i nettarii estraflorali 
abbiano una funzione adescativa, e che non resti possibile di 
credere altro che questa venga esercitata per le formiche e le 
vespe, essendo questi animali i principali nemici dei principali 
nemici di certe piante? 

Non sarebbe razionale dopo quello che abbiamo visto, il 
supporre, senza generalizzare tanto, che come la matura ap- 
profitta di mezzi diversi per raggiungere lo stesso fine, il me- 


(‘) Il Beccari crede che i nettarii estraflorali potrebbero aver avuto origine da 
lesioni momentanee prodotte dagli insetti e divenute poi ereditarie per la costanza 
delle cause produttrici, gli stimoli continuati e per l'utilità della produzione (I. c. p. 60). 

(2) Sulla Cassia vide anche delle formiche ma gli sembrano poco adattate, 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. 15 


desimo organo nelle diverse piante adempia funzioni differenti 
o magari le accumuli in una medesima specie? Nei pochi vegetali 
in cui è stata osservata la presenza di nettarii con i detti in- 
setti, è provato la necessità o la grande utilità di questi? Non 
vediamo piante con nettarii, senza formiche o vespe, e non ostante 
non invase dai bruchi, e piante simili a queste, senza nettarii? 

Intanto, come abbiamo già detto, Darwin dietro osservazioni 
proprie nega l’ utilità delle formiche, ammettendo la funzione 
adescativa, per difesa, nella Acacia sphaerocephala e sopra i fiori 
di passione dietro quello però che di esse han detto Delpino e 
Belt. E Bonnier fa osservare che sui nettarii vi si trovano spesso 
imenotteri, come pure le api e numerosi ditteri, e che nell’Acacia 
sphaerocephala, oltre le formiche, vi si trovan le api. Che bene 
alla pianta farebbero questi insetti? 

S'è visto che Beccari fa notare che le api tengono lontani 
gli animali erbivori; ma quante piante a cui accorrono le api 
sono danneggiate dagli erbivori! E la Pieris aquilina, per la 
quale si compiace di riportare da Bonnier (') che fu vista esser 
visitata da un Malictus, non è mangiata dagli erbivori? 

L'osservazione di Belt prova ancora che vi sono delle formiche 
dannose alle piante. Beccari stesso crede che alcune volte non 
sia provato che l'utile non sia maggiore del danno. E Macchiati (*) 
afferma il danno delle formiche a certe piante, avendo visto che 
le formiche tengono lontane le mosche che contribuiscono alla 
fecondazione incrociata dello Aster chinensis. 

Potrebbero certi nettarii su cui non vi sono insetti essere 
stati utili, per attirare i difensori, in altri tempi o in altri 
luoghi, ma quali sono le osservazioni che ce lo dimostrano? 

Anche l'ipotesi che alcune volte le piante pongono l’ esca 
in un luogo perchè gl’ insetti non sì cibino in un altro, non è 
perfettamente gratuita? È vero che la natura si serve delle volte 
di mezzi diversi per raggiungere uno scopo identico, ma questa, 
ripeto, è un’ ipotesi gratuita, mentre Macchiati (*) ha osservato 
che l’ Aster chinensis per tenere lontani insetti dannosi, e questi 
sarebbero appunto formiche, emettono sostanza gommosa di odore 


(4) Beccari O., l. c. p. 4l. 

(*) Macchiati L. — Catalogo dei pronubi delle piante. Nuovo giorn. bot. ita- 
liano, p. 355, Firenze 1884. 

(3) Macchiati L., l. c. 


16 J. DANIELLI 


disgustoso. È bella la teoria, è brillante, ma avanti di crederci 
aspettiamo che sia sostenuta da un numero ben maggiore di os- 
servazioni. L'ipotesi che sostiene Bonnier e Van Tieghem sembra 
maggiormente basata sopra l’ osservazione. Bonnier cita male a 
proposito le Legons di Bernard, poichè anche secondo le idee di 
Delpino, la pianta, benchè utile agli altri, in ultima analisi lavo- 
rerebbe per sè. 

Van Tieghem, come abbiam veduto, crede che gli insetti 
prendendo il nettare causino un male alla pianta, che però 
qualche volta può esser compensato. 

Io non ho controllato le osservazioni pubblicate nei lavori 
che ho largamente riassunti, nè ho osservazioni mie particolari 
da contrapporre a quelle degli autori suddetti; perciò anzi ho 
tracciato queste note sugli scritti di Delpino, Darwin, Bonnier, 
Van Tieghem, Beccari, ecc. Così il lettore potrà farsi un concetto 
giusto delle cognizioni che si hanno intorno a questo argomento, 
e applicare quelle che più gli piacciono all’ interpetrazione della 
funzione, o, come altri direbbe, dello scopo degli organi che ora 
studiamo della Gunnera scabra. 

Mi permetterò soltanto di far rilevare come gl’ individui da. 
me studiati vivevano in una serra a Firenze, mentre la pianta 
è americana, per la qual cosa il non trovarsi insetti sui nettarii, 
nel caso mio, non proverebbe niente contro [Delpino, poichè po- 
trebbe darsi benissimo che vivessero in America animali ghiotti 
dei tessuti della Gunnera scabra, e insetti difensori adescati dalla 
medesima, e non importati, nè parassiti nè difensori, in Italia, 
a Firenze, e perciò da me non visti. Non ho potuto studiare, 
analizzare, nei differenti tempi, il contenuto dei nettarii, degli 
organi a loro vicini e del fusto per vedere se le trasformazioni 
del loro contenuto giustificavano o no la interpetrazione di 
Bonnier. Mi preme però di rammentare come il fusto, che è 
. rigonfiato, su cui s' inseriscono i nettarii, le radici, le foglie, ecc., 
sia ricchissimo di materiali di riserva. 

Io son fra coloro i quali credono che la scienza vera debba essere 
fondata su osservazioni numerose, serie, fatte con serenità, pe- 
sate e vagliate da una critica spassionata servente solo la causa 
del vero, che sia tarda a concludere e a sintetizzare; e che i 
naturalisti, lasciando le intuizioni, le divinazioni ad altri, - o non 
le confondano colla scienza - diano le cose certe come certe, le 


OSSERVAZIONI SU CERTI ORGANI DELLA GUNNERA SCABRA ECC. 17 


dubbie come dubbie, e, quando n° è il caso, confessino la loro 
ignoranza: altrimenti per quanto si facciano chiamare positivisti, 
saranno sempre dei metafisici. Perciò convinto della bontà di 
queste idee, dopo avere studiato gli autori che si sono occupati 
dei nettarii estraflorali ed esaminato, come ho potuto, i medesimi 
nettarii nella Gumnera scabra, a chi mi domandasse a che questi 
servano nella Gunnera, risponderei candidamente: non ne so 
niente: mele quicquam. 


So. Nat. Vol. VII, fase. 1.° 2 


SULLE SCORIE 
PROVENIENTI DA ANTICHE FUSIONI METALLICHE 
CHE SI TROVANO NELLA TENUTA DI CASTAGNETO 


RICERCHE 


DI FAUSTO SESTINI 


Nella tenuta di Castagneto, appartenente alla Nobil Casa 
della Gherardesca, dalla parte che confina col Campigliese, quasi 
alla base del Monte Calvi, in luogo detto comunemente gli 
Schiumaj, s'incontrano diversi depositi di scorie di antica ori- 
gine, disposti poco men che simmetricamente, al di qua e al di. 
là del botro del Sambuco, i quali si crede risalgano ai tempi 
degli Etruschi. Secondo il sig. Simonin ( Exploît. min. et metall. 
en Toscane pendant l’ antiquité et le moyen-cige. — Annal. des 
Mines Ser. 5, T. XIV. p. 557 ), queste scorie avrebbero presso a 
poco la stessa composizione di quelle di Fucinaja (Campiglia), 
soltanto sarebbero più BAero di rame e non conterrebbero che 
traccie di zinco. 

Io ebbi occasione di visitare gli Schiumaj nella primavera del- 
l’anno passato, e di raccogliere i campioni di quelle scorie, delle 
quali ho creduto bene istituire accurata analisi chimica. Ognuno 
di quei depositi è esteso per molti metri quadrati e segue la 
pendenza del terreno su cui poggia: la scoria è bruna o quasi 
nera; in molti depositi, specialmente in quelli più alti, è affatto 
inalterata anche alla superficie, in altri cumuli quella delle parti 
superficiali è ricoperta da materia terrosa nera, commista a 
terriccio trasportatovi dalle acque che scendono dai boschi so- 
| prastanti. Non è raro incontrare pezzi di scoria a superficie ver- 
micolare, lucente ed anche iridescente, come se fosse uscita ieri 


SULLE SCORIE DI ANTICHE FUSIONI CHE SI TROVANO EC. 19 


dal forno fusorio, — tanta è la resistenza che offre agli agenti 
esterni, ai quali è esposta da secoli. La scoria è costituita da 
una massa ben fusa per lo più, molto omogenea in generale; 
in qualche punto apparisce semigranulare ed offre bolle prodotte 
dai gaz rimasti inclusi, che la rendono in molti luoghi più o 
meno spugnosa. In due cumuli che occupano la parte di mezzo 
dello spazio rettangolare che delimita gli Schiumaj, la scoria 
presenta piccole vene di color verde, alcuni cristallini verdastri 
o celesti nelle cavità, e qualche rifioritura o efflorescenza dello 
stesso colore, dovuti a composti ramici formatisi per l’azione 
dell’acqua. La frequenza di questi composti idrati di rame nelle 
scorie di alcuni dei cumuli potrebbe far credere, piuttosto che 
avanzi di antiche fusioni fatte per estrar ferro, fossero il capo- 
morto della estrazione di altri metalli, com’è ormai accertato 
per le scorie del Campigliese, che più spesso derivano da mine- 
rali di rame, di piombo e di stagno che da quelli di ferro. 

Con una grossa zappa fu facile riconoscere che quegli avanzi 
dell’ antica industria metellurgica sono veramente enormi, e se 
il luogo ed il tempo lo avessero conceduto sarebhe stato utile 
prendere qualche misura per stabilire quanto ci sia di vero nel- 
l'opinione di coloro che credono raggiungano tutte quelle scorie 
il peso approssimativo di oltre quindici mila tonnellate. Giova 
intanto avvertire che la loro escavazione è facilissima, essendo 
i frantumi affatto incoerenti, piuttosto di piccol volume, e 
quelli di grossa mole cadendo in pezzi ai primi colpi delle 
mazze ferrate. Se si aggiunge che sono a cielo scoperto e sul de- 
clive di valle non troppo ripida, si comprende di leggeri quanta 
facilità si offra a chi voglia trarre profitto di quelle materie 
minerali per tanti secoli restate in assoluto abbandono. 

Il Sig. Simonin non avendo ritrovato gli affioramenti certi 
del giacimento che gli antichi esplorarono agli Schiumaj della 
Gherardesca, non sa decidere se esse scorie provengano da fu- 
sione di minerale di rame o di piombo. A 150 metri più in 
basso degli ultimi cumuli fui condotto a vedere dalle persone 
del luogo due escavazioni praticate verticalmente nella roccia 
calcarea alla destra del botro. Queste buche sono irregolari, co- 
minciano con pozzi entro i quali l'occhio non scorge nulla di 
notevole; sono escavate con arte affatto primitiva, sicchè im- 
possibile senza tutto l'occorrente sarebbe stato lo scendervi. 


20 #. sESTINI 
Al di fuori sul declive del monte si trovario pezzi di calcareo 
ceroide e frantumi di calcareo a quanto pare fossilifero, stac- 
cato probabilmente dalla roccia nella quale furono aperte quelle 
buche. Soltanto a quando a quando mi accadde di rinvenire 
qualche piccolo frantume di minerale limonitico, che raccolsi 
insieme con due campioni di roccia traversata da vene colorite 
di verde dalla bduratite, o idrocarbonato di zinco e di rame. 
Questo per me era un segno quasi certe che in quei luoghi, o 
in altri prossimi dovevano e forse debbono trovarsi ancora mi- 
nerali di ferro accompagnati da composti di zinco e di rame, 
come avviene dalla parte opposta del Monte Calvi ed in molte 
parti del Campigliese; ma quì presso gli Schiumaj della Ghe- 
rardesca al certo con minore frequenza e minore abbondanza. 
Indi passai a visitare le duche del ferro, poste a nord di Monte 
Calvi sul Poggio Cornato; al di là, cioè, del botro dell’ Acqua 
viva. Ivi i paesani ritengono esista un filone (?) metallico, ma i 
pochi segni di minerali di ferro da me veduti alla superficie del 
suolo, per la massima parte epigenici, e la qualità della roccia 
calcarea predominante in quelle buche, che sono scavate oriz- 
zontalmente e poco profonde mi fanno ritenere che possa appli- 
carsi a questa località l'opinione emessa e validamente sostenuta 
dal chiarissimo Prof. Ant. D'Achiardi ( Vedasi l’opera — I me- 
talli, loro minerali e miniere — Milano 1883 ) sull'origine della 
miniera dl ferro-manganifero del Monte Argentario; che, cioè, 
questi giacimenti di ferro sieno l’effetto di acque marziali, le 
quali avendo penetrato o attraversato quelle roccie calcaree ab- 
biano impregnato le roccie stesse, ove più, ove meno, di ossido 
di ferro e di altri metalli, ed abbiano dato per tal modo ori- 
gine a quegli ammassi irregolari di minerale, che si trovano 
saltuariamente nelle roccie calcaree delle ‘indicate località. 
Probabilmente gli antichi scavatori dopo avere raccolto quanto 
più poterono a cielo scoperto, aprirono le buche che ancora in 
quei luoghi si vedono, o ingrandirono grotte naturali ivi esi- 
stenti, cercando minerali da trattare. Debbono certamente aver 
tratto profitto di tutto quanto si conteneva negli affioramenti ; 
di fatto attualmente segni di notabili depositi metallici super- 
ficiali non appariscono presso gli Schiuma) di Castagneto, e so- 
lamente con accurati e non poco dispendiosi lavori potrebbesi 
mettere in luce la esistenza degli ammassi di minerale conte- 
nuti nell'interno della roccia calcarea. 


SULLE SCORIE DI ANTICHE: FUSIONI CHE SI TROVANO ECC. 21 


Le scorie raccolte dai diversi depositi dapprima apparivano 
un poco differenti tra loro: alcune erano ben conservate, altre 
per l’azione degli agenti atmosferici sembravano un poco alte- 
rate. Ma ben presto dovei riconoscere che anche queste seconde 
erano lievemente scomposte alla superficie, e toltane con l’acqua 
la polvere nera che le ricopriva, e che conteneva molta materia 
umica, rimaneva scoperta la sostanza scorificata quasi intatta. 
Sottoposta all'analisi qualiquantitativa, nella quale fui valida- 
mente coadiuvato dal Sig. Dott. Livio Sostegni, Ajuto alla Cat- 
tedra di Chimica Agraria nella R. Università di Pisa, la scoria 
sì riconobbe formata principalmente di silicato ferroso-calcico 
con allumina, magnesia, manganese ed ossidi di zinco, di piombo, 
e di rame. Di cobalto e di nichelio non fu possibile trovare 
traccie operando sopra le quantità non grandi che pel solito si 
prendono in simili casi. Forse sottoponendo ad esperimento mag- 
giori quantità di scoria si sarebbe potuto aver reazioni sufficienti 
per accertarsi della presenza di questi metalli, ma tali reazioni 
del resto non hanno un valore pratico se non indicano notevoli 
quantità dell'uno o dell'altro dei due metalli in discorso. 

La ricerca dell’argento ha sempre molta importanza, e pel 
caso nostro avea speciale interesse, giacchè agli Schiumaj trovasi 
accumulata una grandissima quantità di scoria, e quindi anche 
se fosse stata piccola la quantità dell’ argento, la convenienza 
di trattare la scoria per cavarne il metallo prezioso potrebbe pur 
esserci stata sempre. La ricerca fu eseguita con cura e su quan- 
tità di materia non piccola, giacchè si operò su 100 gr. alla 
volta, ma non si potè rinvenire apprezzabile quantità di argento. 
La composizione centesimale della scoria è rappresentata dalle 
seguenti cifre: 
Su 100,0 parti 


Acqua svaporata a 105° Cì . . . . . >» 2,3 
AGESTICICA MSI N08 
Ossidoliferrosog(Ee0) Ar E» 1398 
—ciallummioi (ALSO) Re Eroe ee 
— di manganese (Mn,0;) . . . . » 0,6 
MECAIUZIOCON (ANO) 078 
— RR diepronpog (EOS 
= dirramel(GUO) eee e 00 
7 AIICRICION(CAO) RR IR 
- — di magnesio (Mg0) . . . .. » 0,8 
Acqua combinata - Materia umica- Perdite » 6,7 


100,0 


22 FT. SESTINI 


Qual conto possa farsi di queste scorie come materia da 
trattarsi per estrarre un qualche metallo dei molti che contiene 
non è difficile prevedere, ma non spetta a me dichiarare in questo 
luogo. Piuttosto mi piace esporre come, a mio credere, le scorie 
di Castagneto potrebbero trovare un utile impiego adoperandole 
come ingrediente per la fabbricazione del vetro da bottiglie; 
essendo esse sostanzialmente costituite da una pasta vetrificata 
o almeno semivetrificata di silicato ferroso calcico, è da rite- 
nersi con sicurezza che con l'aggiunta di ossidi alcalini e terrosi 
in dose opportuna si potrebbe avere una materia vetrosa iden- 
tica a quella che si richiede per le bottiglie nere. 

Il vetro da bottiglie comprende in sè, come.è noto in media: 


SIC OOO 
Calce, osi 205» 
Ossido di Petro, LES AMT] A SO 
TORRE e e 
AMARA 


Basterebbe mescolare a 120 parti di scoria di Castagneto 
30 p. di argilla, 250 p. di sabbia silicea, 80. di calce, 6 p. di 
solfato sodico e 24 p. di cenere di legno per avere una compo- 
sizione adatta alla formazione delle Dotbiglie da vino. 

In prova di questa mia opinione riporterò una delle formule 
secondo le quali si fabbricano bottiglie da vino in Champagne: 


SA ed 00 pani 
Eeldispato esse sie ese 0066» 
Calco ere ee er ee 2 De per 460 parti di pasta vetrosa 
Salesma tino Re] Doo 
Scorie di forni fusorie . . 125 » 


Noi importiarno ogni anno una grande quantità di bottiglie 
e di damigiane rire nelle fabbriche estere. Lasciando a parte 
quelle che si acquistano con i vini imbottigliati la statistica 
del 1882 ci addita che in quell’anno si importarono dall'estero 
75,414 centinaja di bottiglie comuni e quintali 3350 di dami- 
giane. Presso S. Vincenzo potrebbe, quindi, sorgere una fabbrica 
di bottiglie da vino impiegando le scorie di Castagneto e traendo 
profitto della facilità che vi si offrirebbe per la compera di com- 
bustibile e per spedire per via di terra e di mare le bottiglie 
fabbricate. 


SULLE SCORIE DI ANTICHE FUSIONI ECC. DO 


La nostra industria enologica è in notabile aumento, come 
lo assicura l'incremento della nostra esportazione; ed alcuno ha 
trovato modi di spedire con qualche vantaggio anche i vini da 
pasto in damigiane di forma speciale e con ingegnoso rivesti-. 
mento. La fabbricazione economica dei recipienti di vetro può 
assicurare l'avvenire della nuova maniera di spedir fuori d’Italia 
i nostri migliori vini che ormai sono noti per le loro buone 
qualità, ma non possono sostenere la concorrenza dei prodotti 
consimili degli altri paesi vinicoli che da tanto tempo vanno su 
i mercati stranieri, se non allettano i trafficanti ed i consuma- 
tori con il buon prezzo congiunto alle intrinseche qualità in essi 
conservate mercè ottimi, sicuri ed economici recipienti. 


D. PANTANELLI 


UNA APPLICAZIONE 


DELLE 


RICERCHE DI MICROPETROGRAFIA 
ALL'ARTE EDILIZIA 


Un esame delle roccie ridotte in lamelle trasparenti può in 
moltissimi casi fornire utilissimi indizi sulla loro maggiore o 
minore resistenza come materiali da costruzione, per quanto 10 
creda che il miglior criterio sulla scelta di detti materiali sarà 
sempre dato dall’ esperienza del tempo e dall’ osservazione delle 
vecchie costruzioni, congiunte se vuolsi al valore della loro re- 
sistenza allo schiacciamento; però il grande sviluppo stradale 
moderno non permette che raramente di usufruire materiali di 
cave conosciute da antica data, dovendosi sovente per ragioni 
economiche prendere i materiali dove sono più comodi alle di- 
verse opere d’arte; in questi casi frequentissimi, il criterio 
che precede alla scelta è prettamente empirico e spesso si ri- 
fiutano buoni materiali per altri di migliore apparenza e ‘dei 
quali solo il tempo dimostra la cattiva qualità; il suono, il 
modo di frattura, la stessa resistenza allo schiacciamento sono 
insufficienti, potendo la roccia includere nel suo impasto mate- 
riali facilmente alterabili dagli agenti amosferici, o guadagnare 
in quest’ azione. La distinzione che fanno tutti i coloni del 
Chianti d’° Alberese e Galestro, dando il primo nome ad un cal- 
care resistente e durevole ed il secondo ad un calcare simile 
appena uscito di cava ma che in breve tempo si sfalda minu- 
tamente, è un esempio esagerato sì, ma calzante delle illusioni 
alle quali il solo esame esterno può condurre, 


RICERCHE DI MICROPETROGRAFIA ALL’ ARTE EDILIZIA 25 


Nei sette anni circa che mi occupo più o meno di petrografia 
ho potuto casualmente esaminare una discreta serie di roccie 
usate nelle costruzioni e limitando per ora il mio esame ai cal- 
cari e alle arenarie, sarei giunto a raccogliere le seguenti os- 
servazioni. 

Calcari. — I calcari possono essere cristallini o amorfi e 
possono contenere quantità variabili d’impurità; i calcari cri- 
stallini se sono puri o anche inquinati per poco di materiali 
estranei sono altresì resistenti e in generale buoni materiali da 
costruzione quando corrispondono alle qualità più elementari 
richieste al fine al quale sono destinati: i calcari amorfi possono 
fornire buoni materiali da costruzione a patto che non conten- 
gano anche in miscuglio intimo forti proporzioni di materiali 
argillosi, intendendo con questa parola un po’ vaga, quella mi- 
scela indefinita di silicati d’ allumina, di ferro, d' allumina più 
o meno pura, di silice amorfa, d’ ossido di ferro idrato che me- 
scolati a quantità variabile di carbonato di calce costituiscono 
le argille comuni. 

Arenarie. — In queste roccie va distinta la natura del 
cemento e quella dei loro elementi; il cemento può essere siliceo, 
calcare e argilloso; se il cemento è siliceo avremo delle quarziti 
e ì caratteri esterni i più grossolani permetteranno di ricono- 
noscerle nè credo che valga la pena di occuparsene; se il ce- 
mento è calcare occorrerà distinguere se è cristallino o amorfo, 
nel primo caso fornirà buone pietre da costruzione nel secondo 
mediocri; se poi è prevalentemente argilloso in molti casi la 
stessa incoerenza loro servirà ad escluderle senz’ altro; l’ esame 
microscopico del cemento si residua quindi a riconoscere se 
questo essendo calcare è cristallino 0 amorfo e nel secondo caso 
se vi è frammista dell’ argilla: riconosciuta la natura del cemento, 
dovrà porsi mente alla natura dei loro elementi; questi possono 
essere in generale frammenti di roccie diverse, quarzi, calcari, 
e silicati vari; rammentando la origine di esse è ovvio osservare, 
che i frammenti delle roccie da cui derivano se erano facilmente 
alterabili, sì saranno distrutti prima del loro deposito; per contro 
1 frammenti quarzosi e quelli di calcare se appartenevano a 
calcari cristallini o a calcari compatti saranno inalterati; lo stesso 
non può dirsi di molti tra i silicati, questi possono trovarsi in 
uno stato d’incipiente decomposizione che è poi facilmente ri- 


26 D. PANTANELLI 


conoscibile tra i più comuni di essi cioè tra i feldispati; un 
altro silicato che è comune alle arenarie è la mica, facilmente 
riconoscibile al microscopio è di poca importanza nel problema 
che io considero, perchè se in piccola quantità non altera sen- 
sibilmente la resistenza della roccia, se in quantità rilevante 
rende la roccia schistosa; un’ altro elemento e del quale non 
so ancora valutare l’importanza è la clorite; -probabilmente per 
la sua natura e per analogia con i feldispati con i quali ha in 
comune gli ultimi prodotti della decomposizione non è favore- 
vole alla resistenza delle roccie, ma non ho osservazioni in pro- 
posito per venire ad una conclusione. 

Come si vede mi resterebbe a parlare di molti altri materiali 
usati nelle costruzioni, cioè di tutti quelli che hanno anche media- 
tamente un origine endogene; per molti di essi le osservazioni 
petrografiche credo superflue (graniti, serpentini, porfidi, tra- 
chiti etc.), altri (tufi vulcanici, breccie serpentinose, etc.) potreb- 
bero invece rientrare nelle arenarie, ma preferisco riservarli ad 
ulteriori ricerche mancandomi osservazioni in proposito. 

Ritornando alle arenarie rammenterò la maggiore resistenza 
del macigno di Grillo (Siena) in confronto di quello della Gon- 
folina (Firenze) e non esito ad attribuirla al cemento calcareo 
più decisamente cristallino del primo e alla scarsezza di fram- 
menti feldispatici, che gia in parte alterati, riattivano la loro 
decomposizione sotto l’ azione degli agenti amosferici; l’.arenaria ‘ 
di Fiumalbo deve la sua ottima qualità come pietra da taglio 
al suo cemento di calcite e probabilmente all’ assenza del feld- 
spato, e l’ arenaria di Porretta nella quale questi caratteri non 
sì verificano è alla prima inferiore; nello stesso modo certi cal- 
cari grossolani dell’ Apennino settentrionale, che poi in fondo 
sono vere e proprie arenarie, essendo il colore biancastro quello 
che ha servito alla loro denominazione e non i componenti, 
forniscono buoni materiali da costruzione, quando il loro cemento 
è di calcite che nel caso speciale è fornito dai gusci delle fora- 
minifere, sono invece pessimi se è amorfo o argilloso, nè è facile 
riconoscerli all’ispezione esterna; per le stesse ragioni le arenarie 
nummulitiche danno sempre buoni materiali per l’arte edilizia. 

Il cosidetto rosso di Maremma o di Montieri ha una resi- 
stenza variabilissima ed oggi che specialmente viene scavato in 
quantità per riparare antiche basiliche della Toscana non so 


RICERCHE DI MICROPETROGRAFIA ALL’ ARTE EDILIZIA 27 


come reggerà all’ azione del tempo; infatti la proporzione dei 
materiali argillosi in questa roccia è egualmente variabile senza 
che possa riconoscersi ai caratteri empirici. 

Sul modo di riconoscere i materiali precedenti non starò a 
fermarmi, il quarzo, il calcedonio, la calcite, l’ aragunite, il feldi- 
spato, la mica si riconoscono facilmente; lo stesso non può dirsi 
per il materiale argilloso specialmente nei calcari amorfi; con 
la luce polarizzata non si risolvono utilmente, in questi casi e 
credo sieno gli unici, vale meglio servirsi della colorazione arti-. 
ficiale per mezzo di una soluzione di fucsina; essì più o meno 
si colorano e con questo mezzo ho potuto riconoscere ad esempio 
in alcune sezioni d' alberese o di calcare litografico, la presenza 
di materiali estranei al carbonato di calce; essi si presentarono 
sotto la forma di minute strie colorate e mentre non si sarebbe 
potuto senza questo mezzo distinguere una sezione in un calcare 
amorfo puro da quello di un calcare litografico, la colorazione 
artificiale mi ha fornito le differenze succitate che poi sono 
state confermate dalla diversa entità del residuo lasciato dai 
medesimi disciolti che furono in una soluzione d’ acido cloridrico. 

Per rendermi ragione del diverso potere assorbente dei colori 
ho sottoposto ad una soluzione di fucsina nell’ alcool e quindi 
a ripetuti lavaggi sostanze diverse, cioè carbonato di calce, di 
magnesia, silice amorfa, allumina pura, caolino, idrato ferrico, 
argilla, polvere basaltica, tripoli a diatomèe, radiolarie recenti e 
fossili, feldspato etc., alcuni di questi corpi provenivano dalla 
polverizzazione di roccie altri erano preparati artificialmente; il 
potere assorbente è massimo per la silice amorfa, in ordine de- 
crescente viene l’ allumina e il carbonato di calce ottenuto per 
precipitazione; la polvere di marmo e il carbonato di magnesia 
non si colorano; si colora il caolino, una soluzione di fucsina è 
scolorata sensibilmente dall’idrato ferrico, il feldispato e il ba- 
salto non si colorano; le diatomèe e le radiolarie si colorano 
soltanto nelle parti ove il loro guscio è alterato, se sono fresche 
o inalterate non sì colorano affatto, così nei tripoli spogliati del 
carbonato di calce si colorano i residui indeterminabili silicei che 
accompagnano la massa delle diatomèe e delle radiolarie mentre 
queste ultime rimangono scolorate; la silice ottenuta’ per calci- 
nazione dalla silice gelatinosa si colora vivamente anche in una 
soluzione allungatissima nè è più possibile con ripetuti lavaggi 


28 D. PANTANELLI 


nell’ alcool fargli perdere il colore acquistato; si potrebbe in- 
differentemente impiegare qualunque altro colore d’ anilina, credo 
però preferibile la fucsina, non presentandosi questo colore na- 
turalmente. i i 

Terminerò questa nota ricordando un osservazione che sono 
stato incapace d’ interpretare. E noto che la decomposizione 
superficiale dei materiali da costruzione è accompagnata e anche 
ajutata da una vegetazione speciale di licheni; 1’ esame dei mo- 
numenti della Toscana nei quali il marmo di Carrara è il ma- 
teriale più comune, ha dimostrato che gli ornati, i bassorilievi 
e le statue esposti all’ aria libera perdono in quattro secoli non 
solo la loro freschezza e la vivacità del taglio, ma anche 1’ as- 
sieme delicato delle curve delle loro masse; così probabilmente 
molti capi d’arte antichi dei quali nei musei oggi ammiriamo 
la freschezza, non sarebbero giunti a noi se non fossero stati 
seppelliti nelle macerie. Orbene vi sono materiali da costruzione 
su i quali i licheni non allignano; alcuni marmi in vecchie co- 
struzioni colpiscono per la loro bianchezza; i travertini del- 
l’abbadia di S. Galgano fabbricata nel 1300 e della quale non 
restano oggi che le pareti, avendo il cardinale Ferroni ultimo 
proprietario nel secolo passato venduto il piombo del tetto, sono 
ancora bianchi; nei paesi ove il rosso ammonitifero è la prin- 
cipale pietra da costruzione (Montieri, Spoleto) non è raro vedere 
alternarsi pietre scure per licheni con altre tuttora rosse fiam- 
manti; quale relazione passa tra questa refrattarietà alla vege- 
tazione dei licheni tanto favorevole alla durata delle pietre da 
costruzione e la loro composizione?. 


D. PANTANELLIÎ 


MROCCIE DI ASSAB 


mn__r_————— 


Il Dott. Vincenzo Ragazzi unitamente alle copiose raccolte 
zoologiche inviate all’ Università di Modena dalla baja di Assab, 
rimise alcuni campioni di roccie indicando essere le sole varietà 
litologiche dei dintorni; sono in tutto dieci esemplari, quattro 
calcari, una lava basaltica e cinque esemplari di scorie con 
traccie di vetrificazione. 

Il basalto porta questa indicazione: “ forma il sustrato alla 
lava e rimane allo scoperto presso il mare ,. Ha l’ aspetto degli 
usuali basalti compatti a minuti elementi, pressochè nero, di 
massa uniforme e appena interrotta da qualche cavità e da rari 
cristallini di peridoto; la sua densità è 2, 96; in lamelle presenta 
un impasto uniforme di plagioclasio, augite, peridoto, magnetite 
e qualche rara traccia d’ apatite; la frequenza di detti minerali 
corrisponde all’ ordine secondo il quale li ho numerati; le la- 
melle trattate coll’ acido cloridrico perdono il peridoto; la pol- 
vere dalla quale può separarsi una parte di minerale magnetico, 
levigato con la soluzione di borotungstato di cadmio (dens. 3,1) 
si separa lentamente in due parti distinte, una è un miscuglio 
di magnetite e peridoto, l’ altra, la più leggiera, di feldispato e 
augite; i cristalli sono sempre piccolissimi ; i cristalli di peridoto 
. eccetto i pochi visibili ad occhio nudo, sono piccolissimi appena 
0,2 di millimetro e queste dimensioni non sono oltrepassate da 
quelli di plagioclasio. 

La polvere rosso-scura levigata coll’ acqua che ne separa le 
diverse grossezze senza alterare sensibilmente le proporzioni dei 
componenti, trattata con acido cloridrico non perde che il pe- 
ridoto e l’ ossido di ferro; calcinata non cambia colore nè perde 
sensibilmente di peso; la percentuale della silice è 50,2; non è 
stata continuata l’analisi quantitativa ma avendo fatto oltre 
alla disassociazione col carbonato di soda e potassa quella col- 
l'acido fluoridrico, ho constatato la presenza della calce, della 


30 D. PANTANELLI — RÒCCIE DI ASSAB 


soda e di tracce di potassa; potrebbe oltre alla magnetite con- 
tenere dell’ oligisto presentandosi alcune volte in sezioni da non 
potersi riferire a forme monometriche; il feldispato offre i caratteri 
ottici della labradorite; i cristallini geminati secondo la legge 
dell’ albite si estinguono per un angolo massimo di 20.° da 0,10. 
Le sezioni condotte nelle scorie basaltiche per le molte cavità 
male possono ottenersi sottili a sufficienza; sono opache amorfe 
con pochi cristallini aciculari, trasparenti, nei quali è vivo assai 
tra i prismi incrociati il pleocroismo lamellare; provengono dal 
monte Ganga e dai contorni di Assab; per il loro speciale gia- 
cimento non posso che riferire la nota che le ACCOMIDAcEo 
“scorie frequenti in grandi masse tra i lapilli ,. 

Gli esemplari di calcare appartengono al cordone litorale 
post-pliocenico già segnalato da tutti coloro che hanno scritto 
del Mar Rosso (per maggiori dettagli vedasi Issel, Malacologia 
del Mar Kosso pag. 17 e seg.); sono costituiti da un impasto 
incoerente di piccole ghiaje, foraminifere, frammenti d’alghe in- 
crostanti, corallari etc.; è notevole l’ estrema rarità, almeno 
negli esemplari ricevuti, di avanzi di molluschi, contengono in- 
vece frammenti di lava e sono quindi posteriori alle lave stesse. 

Il Dott. hagazzi aveva spedito contemporaneamente alle sue 
raccolte: una copia del suo giornale; questo si è perduto e suolo 
al ritorno dalla sua missione a Let-Marefia nello Scioa, potrò 
con più precisione riferire della posizione reciproca di queste 
roccie, nella quale occasione spero anche trattare di quelle che 
ha già raccolte e che raccoglierà durante il suo soggiorno in 
quelle regioni. 


ANTONIO D’ACHIARDI 


DELLA 


. TRACHITE E DEL PORFIDO QUARZIFERI 


DI 


DONORATICO PRESSO CASTAGNETO: 
NELLA PROVINCIA DI PISA 


_ (Nota presentata nell’ adunanza del 14 decembre 1884), 


Delle rocce trachitiche e porfiriche del territorio campigliese 
(prov. di Pisa) han fatto menzione fra i primi o le hanno anche, 
ma solo macroscopicamente, descritte il Targioni, il Savi, il Pilla, 
il Burat, il Meneghini e il Coquand. Altri, e fra questi il vom 
Rath e il Vogelsang, ne studiarono più di recente, e segnata- 
mente quest’ ultimo per la trachite, anche la struttura micro- 
scopica; e poichè questo mio studio s’aggira quasi esclusivamente 
nel campo della microscopia, ritornerò ancora a parlare di essi, 
quando ne sarà il caso. Il Lotti finalmente ha intrapreso in 
questi ultimi tempi lo studio geologico di queste medesime roc- 
ce, da lui riassunto in una memoria presentata alla Società To- 
scana di Scienze Naturali in questa stessa straordinaria e solenne 
seduta, in cui si celebra il 50.° anniversario d’ insegnamento del 
nostro comune maestro, il prof. Meneghini; e dal Lotti stesso 
ho ricevuto gli esemplari, che formano il materiale di questo 
lavoro e le seguenti indicazioni, che letteralmente trascrivo. 

“Trachite quarzifera — Questa roccia forma quasi per 
intiero le colline littoranco fra Castagneto e il Botro dei Marmi 


32 A. D' ACHIARDI 


presso Campiglia Marittima, essendo soltanto ricoperte qua e là 
da lembi di roccie sedimentarie eoceniche, le quali per il loro 
irregolarissimo andamento stratigrafico manifestano ad evidenza 
di essere state sconvolte dalla roccia eruttiva. Però non mostrano 
al suo contatto alterazione di sorta. La roccia trachitica non 
presenta varietà spiccate, e solo qua e là lascia vedere delle 
inclusioni più o meno arrotondate ordinariamente piccole di una 
roccia di struttura e composizione mineralogica molto diversa. 
Presso San Vincenzo si presenta in pseudostrati di 15 a 20 cm. 
di grossezza e regolarissimi. Gli esemplari raccolti per lo studio 
petrografico provengono da Donoratico ,. 

“ Filoni porfirici — Nel botro di Santa Maria presso 
Donoratico su quel di Castagneto un filone porfirico attraversa 
gli scisti varicolori del lias superiore, avendo uno spessore di 4 
metri circa. Si espande quindi in una piccola massa della stessa 
roccia, che però in parte diviene pumicosa. Questo filone trovasi 
separato dalla trachite delle colline da un tratto di non più di 400 
metri, occupato intieramente da roccie sedimentarie eoceniche ,. 

“ Altri filoni regolarissimi della stessa roccia porfirica attra- 
versano i marmi del lias inferiore presso San Silvestro in quel 
di Campiglia; e questi sono quelli descritti dal vom Rath ,. 

Ciò premesso passo alla descrizione delle due rocce. 


TRACHITE QUARZIFERA 


G. vom Rath nel 1866(') descrivendo la roccia, che forma 
alcune delle più basse colline del Campigliese presso al mare, la 
qualifica come trachite, che dice resultare da Sanidina con Oli- 
goclasio, Quarzo in foggia di diesaedri arrotondati, Mica di scuro 
colore e Cordierite violetto-azzurra, pleocroitica, in cristalli im- 
mersi nella massa fondamentale e costituiti dalle forme 110, 310, 
100, 010, 001. Nè Augite, nè Orneblenda dice di avervi veduto; 
sì un poco di Magnetite, che attrasse dalla roccia polverizzata 
mercè del magnete. 

Dà finalmente il peso specifico di questa roccia, che trovò 


(‘) Fragmente aus Italien I. Theil — Zeitasch. d. deut. geol. Gesel 1866. 639. 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIZERI DI DONORATICO Bh) 


essere 2,478 a 20°C., e i resultati dell’ analisi fattane, da me 
più sotto allegati. 

H. Vogelsang (') poco dopo, e cioè nel 1867, descriveva questa 
stessa roccia, anzi gli stessi esemplari avutine dal Vom Rath, 
riproducendone su di una tavola l’immagine di una sottile se- 
zione osservata al microscopio a luce ordinaria e polarizzata. 
Ci dice egli essere la roccia costituita da una massa fondamen- 
tale vetrosa limpida, con cui fanno contrasto le frequenti lamine 
di mica bruna, e in cui l’ osservazione microscopica gli avrebbe 
pur rivelata la presenza di sanidina, meionite, quarzo, dicroite. 
forse di augite, non di oligoclasio. Descrive ed effigia le inclu- 
sioni vetrose e gassose, e accenna finalmente alla struttura flui- 
dale. Considera la roccia come un conglomerato vulcanico, che 
qualifica di trachite quarzifera. 

. Lo stesso G. vom Rath () l’anno dopo tornando a parlare 
e con maggior diffusione del territorio campigliese dice che le 
rocce eruttive dei dintorni di Campiglia son distinte in porfide 
quarziferi e porfidi augitici, e l’ una e l’altra sorta descrive, alla 
prima delle due riferendo quella, che da lui stesso studiata e 
analizzata aveva già qualificato come una trachite conformemente 
al giudizio fattone prima dal Pilla, indi per l’ esame microscopico 
dal Vogelsang. È il Vom Rath dubbioso se si tratti di trachite; 
per lo meno ammette, se vi abbiano vere rocce trachitiche, 
un’ intima connessione fra esse e i porfidi quarziferi dei filoni 
tanto che non si possano separare nella Valle delle Rocchette, 
ove ne fece lo studio. Conclude con esprimere una sua convin- 
zione che se non trovinsi rocce vulcaniche recenti (trachiti) nè Enella 
conca di Campiglia, nè nella strada da Rocca San Silvestro alla 
parte superiore della Valle delle Rocchette, nè nella valle stessa fino 
a San Vincenzo, non resta però esclusa la possibilità che nelle 
colline di Castagneto esista una vera e propria trachite. 

Da ciò emerge chiara l’importanza di un nuovo studio pe- 
trografico di queste rocce, che il Vom Rath fu incerto nel definire, 
che il Meneghini e il Savi per le correlazioni loro riunirono sotto 
l’unico nome di rocce riacolitiche e che io stesso nella Mineralogia 
della Toscana ritenni come collegate da stretti vincoli di’parentela. 


(1) Philosophie der Geologie und milkroskopische Gesteinsstudien. Bonn. 1867. 
(2?) Geogn. miner. Fragm. aus Italien. Th. IL — Die Berge von Campiglia in der 

Toskanischen Maremme. Zeztschr. d. Deut. geol. Gesellsch. Berlin. 1868. Bd. 20. S, 307. 
Sc. Nat. Vol, VII, fasc. 1.° 8) 


84 A. D' ACHIARDI 

E lo studio di questa trachite tanto più appare importante in 
quantochè la sia stata appunto raccolta là dove il Vom Rath 
stesso faceva presentire la possibilità che vera e propria trachite 
esistesse, e la sia senza dubbio la stessa cosa di quella descritta 
ed effigiata dal Vogelsang. 

Caratteri macroscopici — La roccia ha struttura ap- 
parentemente granosa e la particolare ruvidezza delle trachiti. 
I grani cristallini non hanno per il solito grandi dimensioni; 
ma di tutte le principali specie, feldispato, mica, cordierite ec., 
veggonsi anche a occhio nudo qua e là cristalli della grossezza di 
più millimetri; raramente, ma non ne mancano e in special modo 
del feldispato, se ne osservano anche di più di un centimetro. 
Il colore abituale della roccia è grigio, più o meno scuro secondo 
la quantità della mica e del magma fondamentale vetroso, 
che appare grigiastro veduto in massa, e alla cui abbondanza, 
non che alla porosità della roccia, deve attribuirsi la densità mi- 
nore che nelle ordinarie trachiti. II Vom Rath ha trovato 2,478; 
io pure 2,4 in varie pesate fatte di molti grammi di roccia. 
E un peso specifico che si avvicina assai a quello di alcune os- 
sidiane, e ne rende ragione la copia del magma vetroso, che se 
non apparisce a occhio nudo, lo si vede abbondare nelle sezioni 
osservate al microscopio a nicol incrociati. 

Di tanto in tanto si veggono nella roccia nidi di colore più 
scuro per sovrabbondanza della mica assai nettamente limitati 
dal resto della massa; e in questi nidi o concentramenti micacei 
si osservano anche, e talvolta molto frequenti, cristalli di un 
pirosseno verdastro-scuro, taluno dei quali ho pur potuto misu- 
rare al goniometro a riflessione, rilevandone, benchè solo appros- 
simativamente, i valori angolari delle facce 110, 010 e 100 (Tav. II, 
fig. 9). Gli angoli delle facce prismatiche della zona [001] presi 
a due a due mi hanno dato infatti dei valori di circa 137° e 
133°, che si approssimano assai ai valori di 136°,27,30" e 
133°,32',30" degli angoli 110: 010 e 110:100. Anche a occhio 
nudo si scorge che un buon numero di questi cristalli sono ge- 
minati in croce; ma il modo se ne determina meglio al micro- 
scopio per la piccolezza dei cristalli e poca lucentezza loro. 
La durezza ne è di circa 6. Al cannello ferruminatorio si fon- 
dono in un vetro verde-sporco, non però senza qualche difficoltà. 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 35 


Caratteri microscopici — Osservata al microscopio 
una sezione sottile di questa roccia appare quasi nella sua to- 
talità o meglio per la sua maggiore estensione trasparente e 
senza colore; solo di tanto in tanto granuli violacei di cordie- 
rite e più frequenti e non di rado fitte liste o laminette di mica 
di color tabacco ne turbano la limpidezza. A nicol incrociati si 
distinguono subito parti diverse nella massa di stessa apparenza; 
ed ecco quali sono le distinzioni da farsi. 

Magma o massa fondamentale — In alcune parti scarso, 
in altre abbondante, a luce ordinaria appare come un vetro 
quasi limpido e scolorito o leggermente tinto qua e là di un 
colore caffè-latte sbiadito. (Tav. I, fig. 1). La struttura fluidale 
è più o meno evidente secondo i punti. 

A nicol incrociati la massa fondamentale resta completa- 
mente estinta in ogni posizione; soltanto vi si vedono finissimi, 
inconmensurabili peli o aghetti lucenti. Di tanto in tanto si 
scorgono, pure sferule o globuli raggrinziti, che pajono pur essi 
di vetro (Tav. I, fig. 3). I seguenti minerali vi stanno immersi. 

Sanidina — È il più abbondante frà i minerali di questa 
roccia, superato solo talvolta dalla mica. Limpida e senza colore 
a luce ordinaria non sempre se ne scorgono entro al magma di 
analoga apparenza nettamente i cristalli, che però si delineano 
chiaramente nella luce polarizzata a nicol incrociati. Non per- 
tanto se ne possono anche a luce ordinaria rilevarne le sezioni 
in foggia di quadrati, rettangoli, esagoni, spesso allungate (Tav. II, 
fig. 1-6), quali sono ordinariamente offerte dalla sanidina, con 
linee di sfaldatura basale e con quell’ apparenza di rotture pro- 
prie di questa varietà di ortose. Ho pur veduto sezioni otta- 
gonali e cristalli che vi conducono (Tav. Il, fig. 7), e delle sezioni 
maggiori abitualmente in figura d’esagono ho pur misurato 
non pochi angoli, che corrispondono agli angoli dell’ ortose fra 
le facce 100, 010, 001, 021, 403, 101. (Tav. II, fig. 4, 5, 6). Talune 
sezioni mostrano segni di geminazione, e pare secondo la legge 
di Carlsbad. 

A nicol incrociati si palesano colori d’interferenza vivaci, 
come già furono notati dal Vogelsang. 

Oligoclasio? — G. vom Rath dice essere l’ oligoclasio 
quasi altrettanto abbondante quanto la sanidina nella trachite 
di Campiglia; Vogelsang invece non ve ne avrebbe trovato segno 


36 A. D' ACHIARDI 


nelle sezioni da lui preparate. Certo non è in copia come dice il 
Vom Rath; ma non vi manca; è però scarsissimo e raramente ne 
ho vedute le sezioni (Tav. I, fig. 3) in mezzo alle numerosissime 
di sanidina, risconoscibili da queste per la loro Seu OmnE! po- 
lisintetica. 

Quarzo — Visibile anche a occhio nudo, se ne scorgono 
i cristalli nelle sezioni osservate al microscopio in foggia di 
grani dotati di un notevole rilievo, quale non è comune in 
questa specie. Non può per altro cader dubbio che non sì tratti 
di quarzo, essendochè nei grani sia spesso riconoscibile la forma, 
di diesaedro con e senza prisma, quest’ ultimo sempre estrema- 
mente raccorciato. Le direzioni di estinzione confermano pure 
la determinazione specifica. 

A differenza di quelli del porfido sotto descritto questi grani 
di quarzo sono piccoli e scarsi; raramente superano nel loro 
diametro maggiore i due o tre decimi di millimetro, eccezionali 
sono quelli di qualche millimetro che sì vedono ad occhio nudo; 
mentre se ne danno non pochi di minor dimensione. Raro è che 
nel campo del microséopio con ingrandimento di 127 diametri 
ne appaiano più d'uno; il più spesso non se ne veggono. 

A differenza pure dei cristalli del porfido questi grani non 
offrono segno di geminazione; sempre semplici ed isolati o solo 
per eccezione uniti in due l’uno sull’ altro in posizione parallela 
ne differiscono pure per il loro modo d’ arrotondamento senza 
segno di corrosione, per il loro aspetto particolare; per la man- 
canza d’ intrusione in essi del magma; onde ben a ragione il 
Vogelsang fu incerto nell’ attribuire il loro stato, più esatta- 
mente l'arrotondamento loro, o a incompleto sviluppo o a fu- 
sione degli individui cristallini. Quest’ ultima ipotesi potrebbe 
trovare appoggio nel fatto citato anche da Silvestri del ritro- 
vamento di quarzo fuso fra i materiali vulcanici. 

Senza colore, perfettamente trasparenti questi cristalli sono 
forniti di poche inclusioni. Vi se ne osservano però talune ve- 
trose di forma irregolare; e altre un poco più frequenti, benchè 
rare esse pure e per il solito una o poche più per grano visibili 
nello stesso piano di fuoco della preparazione, le quali ripetono 
la forma stessa e l’ orientazione del cristallo, che le include, e 
sono abitualmente fornite di una bolla gassosa. Il loro contorno 
esilissimo esclude che sieno cavità regolari piene di liquido con 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO SEI 


livella; lo che viene pure escluso dal fatto di aversi talvolta, 
benchè eccezionalmente, più di una bolla gassosa per inclusione. 
Oltre a ciò vi si scorgono pure inclusioni bacillari limpide e 
senza colore dotate talvolta esse medesime di bolle gassose. 
A nicol incrociati si presentano colori d’interferenza vivaci 
(Tav. I, fig. 2, 3) con tendenza a distribuirsi circolarmente. 
Mica. — La mica appare frequente nelle sezioni osservate 
al microscopio, così come la si scorge anche a occhio nudo. 
Di colore bruno-tabacco, listiforme o in tavolette esagonali se- 
condo il taglio, pochissimo trasparente, anzi appena tralucida, 
è con ogni verosimiglianza biotite. Osservata la polvere dei 
nidi micaceo-pirossenici si veggono numerosissime ed esili lami- 
nette di mica, che in tal modo apparisce più o meno traspa- 
rente, di color tabacco chiaro e a nicol incrociati mostra colori 
d’ interferenza dal verde-bruno al verde-giallastro-bruno. 
Cordierite — Oltrechè a occhio nudo e di dimensioni di 
più millimetri, ma in tal caso scarsi, si veggono nella massa 
fondamentale della roccia sotto al microscopio piccoli e nume- 
rosì cristalletti e grani a contorno spesso irregolare e talvolta 
anche corroso di un minerale di color di spigo, violetto o 'rosso- 
vinato; quest’ ultimo colore apparendo di rado e preferibilmente 
verso la periferia, ove i grani cristallini appaiono come alterati 
per un principio di corrosione sofferta. I cristalli, in buona parte 
riconoscibili nelle loro forme, ci appaiono sezionati ora paralle- 
lamente, ora normalmente, ora obliquamente all’ asse verticale. 
Le sezioni parallele all’ asse (0) sono per il solito in foggia 
di rettangoli (Tav. II, fig. 13); e nella grossezza stessa della pre- 
parazione ci è dato pur talvolta di travedere più facce fra loro 
inclinate della zona dei prismi verticali (Tav. 1I, fig. 14-16), con 
ogni verosimiglianza e direi quasi certezza le 100, 010, 110, 310, 
che poi si riconoscono per misure nelle sezioni a queste nor- 
mali (Tav. II, fig. 22-23). Rarissimamente si osservano facce pi- 
ramidali, essendo abitualmente terminati i cristalli dalla base: 
soltanto in una sezione di cristallo ne ho osservato due, che 
dalla misura dell’ angolo che fanno fra loro sembrano riferibili 
alle 101 (Tav. II, fig. 17). 
Le sezioni normali o quasi all’ asse verticale appaiono esa- 
gonali o a maggior numero di lati (Tav. II, fig. 18, 23 ec.), e 
‘ sono spesso rotondeggianti per corrosione sofferta, di cui pur si 


38 A. D' ACHIARDI 


veggono i segni nelle porzioni periferiche. Mentre nelle sezioni 
parallele all’asse verticale i cristalli ci appaiono semplici, in 
queste anche a luce ordinaria, meglio a luce polarizzata e meglio 
ancora a nicol incrociati e anche con la lamina di quarzo, ci 
si appalesa con tutta evidenza la geminazione caratteristica 
della cordierite, quale fu osservata da A. von Lasaulx (!) e da 
Hussak (?) nei rigetti trachitici del lago di Leach, e dal secondo 
anche in quelli bianco-azzurrastri dell’ Asama-Yama (Giappone). 
Le figure 21-24 della tav. II mostrano taluna di queste sezioni; 
le frecce indicano una delle due direzioni di estinzione; i sim- 
boli sono stati applicati alle respettive facce per l’ indicazione 
fornitamene dal pleocroismo. 

Nella fig. 21 si vedono sei settori spettanti a più cristalli 
uniti per le facce del prisma 110, cinque nello stesso modo, il 
sesto diversamente, estinguendosi contemporaneamente due set- 
tori adiacenti, che non è perciò a credersi spettino a un mede- 
simo cristallo, essendo nettamente l’ uno dall’ altro distinti per 
la linea di giunzione. 

Nella fig. 23 è rappresentato un ‘altro gemello a contorno 
meno regolare e in cui ognuno dei sei settori ha la stessa di- 
rezione di estinzione del suo opposto. I piani di unione fra 1 
vari settori non sono più gli stessi che nel caso precedente, o 
corrispondono per ambedue i cristalli contigui a un piano 310 
o per uno di essi a un piano 110 e per l’altro al pinacoide 010. 
I valori angolari: 


00: 9 e gr) 
IDO e e a 
090 O 
10100 PR MO 92/951 
100-310 A ooo: 
30810 = 59°, 10' 


quali son dati da Des-Cloizeaux, e che sono tutti con molta ap- 
prossimazione multipli di 30°, spiegano questi vari modi di ge- 


(4) Ueb. Cordieritzwillinge in einem Auswurfling des Laacher See. Zeit. Kr. u. 
Min. d. Groth 1883. 8. 771. 

(?) Ueb. den Cordierit in vulkanischen Auswurflingen. Sitz. A. Ak.. Wiss. (Math. 
Nat. CI.). Wien 1883. 87, 4-5, 332. 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 39 


minazione secondo i piani suddetti. Le direzioni di estinzione, 
che per i due settori superiori e per i due inferiori sono paral- 
lele ai piani di contatto di questi quattro settori con i due set- 
tori laterali, e per questi due ad angolo di circa 30° con quelle 
prime ci facilitano l’interpetrazione di sì fatte geminazioni. 

Nella fig. 23 è rappresentato un grano rotondeggiante co- 
stituito da due individui e nella 24 altro gemello a seconda del 
piano 110 con notevole differenza di sviluppo negli individui 
riuniti e corrosione periferica, che pur si osserva nella fig. 25. 

Con il solo analizzatore il minerale si mostra decisamente 
pleocroico. Le sezioni parallele all’ asse verticale appaiono di 
colore violetto-spigo assai intenso quando l’asse verticale del cri- 
stallo sia normale alla sezione principale del nicolj appaiono 
invece bianco-giallastre, e in qualche raro caso anche rossastre, 
se sia ad essa parallela. Nelle sezioni normali all’ asse verticale 
sì hanno invece due tinte entrambe violette, ma l’ una di in- 
tenso colore di spigo, l’ altra violetta pallida; sono le due tinte 
degli assi orizzontali. La tinta più pallida si ha quando il ma- 
croasse, o in altri termini il piano degli assi ottici, sia paral- 
lelo alla sezione principale del nicol; onde 


a (asse y) violetto-scuro 


Sal 


(asse x) violetto-chiaro 
(asse z) bianco-giallastro 


(I 


In altre cordieriti è detto aversi diverso contegno come notò. 
già Hussak; ma qui si ha proprio perfetta corrispondenza con 
la cordierite summentovata dei rigetti vulcanici trachitici tanto 
del lago di Leach, quanto del vulcano d’ Asama-Yama nel 
Giappone. 

A nicol incrociati si manifestano vivaci colori di polarizza- 
zione (Tav. I, fig. 1 e 3); e i cristalli si estinguono parallelamente 
e normalmente all’ asse dei prismi verticali. 

Questa nostra cordierite è assai più ricca d’ inclusioni del 
quarzo della stessa trachite; e parte sono cristalline, parte no. 
Fra le prime si hanno esilissimi cristallini bacillari senza colore 
analoghi a quelli del quarzo, e che a lor volta qui pure con- 
tengono inclusioni gassose (Tav. II, fig. 20). La grossezza di 
queste bacchettine raggiunge raramente mm. 0,010; il più spesso 


40 ‘ A. D' ACHIARDI 


è al di sotto di mm. 0,005. La lunghezza ne è varia e molto 
maggiore. In una sezione di cristallo (Tav. II, fig. 16) ho pur 
veduto un’ inclusione di color tabacco in foggia di esagono. 

Vi hanno oltre a ciò inclusioni vetrose limpide, senza colore, 
nelle quali si accolgono bolle di aria in vario numero (Tav. II, 
fig. 14 e 25); nella massima parte però di esse inclusioni si ha 
soltanto una bolla gassosa. Riscaldando la lastrolina al di sopra 
di 60° le bolle gassose restano immobili ed immutate. I pori a 
gas spesso sono allineati, e nel gemello rappresentato nella fig. 21 
sì osservano disposti in linee parallele ora alle facce del prisma, 
ora al macroasse (Tav. I, fig. 1). Ei sembra da ciò che debbano 
essersi formati nel cristallo entro a fenditure più facili in certe 
direzioni che in altre. 

Meionite? — È citata da Vogelsang (mem. cit.), non dal 
Vom Rath. Si vedono è vero sezioni quadratiche e anche, benchè 
raramente, ottagonali; si vedono prismi allungati che all’ appa- 
renza si giudicherebbero per dimetrici; ma tanto a luce ordinaria 
che a nicol incrociati presentano gli stessi caratteri delle se- 
zioni evidentemente spettanti alla sanidina, la quale come di- 
mostra con descrizione e figure anche il Rosenbusch (') offre 
spesso apparenze, che possono farla scambiare con sostanze di- 
metriche. Gli angoli di 115° a 118° misurati dal Vogelsang e 
da lui riferiti alla meionite, le facce del cui rombottaedro fon- 


damentale sono fra loro inclinate di 116°,18', ho riscontrato. 


io pure in sezioni analoghe a quelle dal Vogelsang stesso effi- 
giate, ma è pur l’ angolo che nell’ ortose fanno fra loro le facce 
001 e 403 (116°,32°). Per tanto trattandosi di altri esemplari, 
mentre non posso escludere che realmente Vogelsang abbia avuto 
sott'occhio la meionite, non ne posso nè meno confermare la 
determinazione; sono anzi propenso ad escludere la presenza di 
questa specie nella trachite di Castagneto, tanto più che nes- 
suna delle sezioni quadratiche od ottagonali, che in parte almeno 
dovrebbero riferirvisi, si mantiene costantemente estinta col gi- 
rare della lastrolina. 

Pirosseno — Vogelsang (*) cita con dubbio riferendoli all’augi- 
te alcuni grani e pezzetti di color verde da lui raramente osser- 
vati nella massa della trachite. Il Vom Rath (£) dice di non avervi 


(1) Mikrosk. Phy. ec. 1873. 1. 319. 
(23) Mem. cit. 1866. 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI* DI DONORATICO 4] 


scorto segno di questa specie, e io pure nella massa comune 
della roccia, almeno nelle sezioni da me osservate, nulla di certo 
son riuscito a vedere che vi si possa riferire; soltanto può restare 
il dubbio per alcune plaghe verdognole, spiegandoci con l’ altera- 
zione sofferta la mancanza dei vivaci colori d’ interferenza propri 
di questa specie. Ma se non nella massa comune, il pirosseno 
vi esiste e abbondante in alcuni nidi ricchi anche di mica, e 
che per il loro colore più scuro risaltano all’ occhio sul fondo 
più chiaro della roccia. 

Sono cristalli piccoli, non misurando i maggiori che 1a 2 mm. 
di larghezza per 2-4 di altezza. Per il solito molto minori, pre- 
sentano tutti le forme 110,100, 010; ne si può dire se. tutte 
anche le 111, essendochè polverizzata la roccia per isolarli, sì 
presentino spesso rotti all’ estremità (Tav. II, fig. 8-12). Malgrado 
la loro piccolezza ho potuto d’ alcuni misurare gli angoli della 
zona dei prismi verticali al goniometro a riflessione, e già dissi 
di aver trovato valori di circa 187° e 133° per ogni quattro degli 
otto angoli, valori che corrispondono con approssimazione, che 
non poteva ottenersi maggiore per la poca lucentezza delle facce, 
agli angoli di 136°, 27,380” e 133",32,30" fatti nel pirosseno 
da 110:010 e 110: 100. 

Non pochi di questi cristalletti sono geminati per compene- 
trazione a similitudine della staurolite, nel modo stesso che ho 
pur riscontrato in moltissimi cristalli della nera augite vesu- 
viana, nei quali vengono a giacere nel medesimo piano ora le 
facce 010 e 010, ora le 100 e 100, ora le 100 e 010, ora le 
100 e 110, ora altre della stessa zona appartenenti respettiva- 
mente ai due cristalli compenetrantisi. Alcuni di questi casi ho 

senza dubbio riscontrato sia per osservazione diretta con la lente 
o al microscopio per luce riflessa, sia nelle sezioni fattene e ri- 
dotte sottili nel balsamo del Canadà. 

I due cristalli gemelli fanno fra loro angoli di circa 80° e 
100° o di 120° e 60°, misurati al microscopio con larghissima ap- 
prossimazione, come pure si vede nell’ augite vesuviana. Le dire- 
zioni di estinzione, qui pure indicate dalle frecce nelle figure, 
alutano a studiare queste geminazioni. 

Nella fig. 8 è rappresentato un gemello, in cui nell’ uno 
dei due cristalli la Jinea di estinzione è parallela all’ asse 
verticale o spigolo 100:010, mentre nell’ altro vi fa angolo 


49 © A. D' ACHIARDI 

fra 38° e 40°: è ciò che avviene per i due piani rispettivamente 
paralleli alle facce 100 e 010, che qui vengono a corrispondersi 
per i due individui nel medesimo piano. 

Nella fig. 10 è effigiato un gruppo nel quale un individuo 
sì estingue al solito parallelamente all’ asse verticale, ma 1’ altro 
non più come per il caso precedente ad angolo di c.* 38°, 44' 
con esso, ma sì bene di circa 20°, che con molta approssima- 
zione corrisponde all'estinzione sulla faccia 110. Invece nel sruppo 
rappresentato nella fig. 11, mentre in uno degli individui 1’ estin- 
zione si fa pure con angolo di circa 20°, nell’ altro si fa con 
angolo, di poco più di 38°, onde conviene ammettere che ven- 
gano a corrispondersi nel piano della preparazione i piani cri- 
stallini 010 e 110. 

Nel gruppo finalmente rappresentato dalla figura 12 sono 


le due facce 010 e 010 di due cristalli che vengono a corrispon- 
dersi nello stesso piano. Le linee di estinzione fanno in ambe- 
due i cristalli angolo di c.* 38° con l’asse dei prismi verticali; 
i due cristalli fanno fra di loro angoli che misurati al micro- 


scopio dettero valori vicini a 81° e 99°; è la geminazione 101 
già descritta ed effigiata anche da Naumann. 

Colore del pirosseno verde-sudicio nei cristalli osservati 
occhio nudo o con la lente; verde-giallastro nelle sezioni esa- 
minate al microscopio. Manca affatto il pleocroismo con un sol. 
nicol. A nicol incrociati appaiono i colori d° interferenza propri 
del pirosseno. i 

Magnetite — G.vom Rath fa menzione anche di magnetite; 
io non ne ho veduta nella massa della roccia, ma non ne esclu- 
derei la presenza nei nidi micaceo-pirossenici senza per altro 
poter affermare di più. 


A parte questi nidi ricchi di pirosseno, che costituiscono una 
peculiarità di alcuni punti della massa, la trachite di Castagneto 
si ravvicina molto a quella dell’ Asama-Yama, recentemente de- 
scritta dall’ Hussak('), che ben a ragione ne notava pure la 
rassomiglianza ponendone a confronto le analisi. 


(1) Mem. cit. 


TRACHIVE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 48 


Asama-Yama Campiglia 
Si0, 74, 65 70, 64 
A1,0, 15,32 14,11 
Fe,0, 9,84 2,86 
Mn0 0, 26 — — 
Cao 1, 96 9,02 
Mg0 0,79 0, 72 
K,0 1,42 2,95 
Na,0 4,11 4, 67 
Perdita per 0, 45 2.30 


arroventamento ) 
101,30 100, 27 


Non vi ha dubbio per me che non si tratti di trachite 
quarzifera, malgrado il suo tenore in silice più basso che nelle 
comuni trachiti del gruppo delle quarzifere, per le quali Zirkel 
dà un minimo di 72,26. La sua scarsità in grani di quarzo, 
da me già notata, ci rende ragione della sua relativa povertà 
in Si0,, che rimane pur sempre assai al di sopra che nelle tra- 
chiti non quarzifere, tanto se sanidino-oligoclasiche, quanto, e 
a più forte ragione, se soltanto sanidiniche. 

L’ abbondanza della massa vetrosa, l’ estensione e il contegno 
della roccia, tutto porta a concludere che questa non siasi len- 
tamente e profondamente consolidata sotterra a più o meno 
grande pressione in dighe, filoni ec., ma sì bene raffreddatasi 
rapidamente alla superficie o presso di essa, sia colando ester- 
namente, sia rapprendendosi in cupule ec. Nè la presenza del 
quarzo deve fare ostacolo nell’ammetter ciò, che se Zirkel (') 
ci dice mancare nelle forme laviche, raramente sì, ma in talune 
lave trachitiche è stato pure riscontrato. 


PORFIDO QUARZIFERO 


G. vom Rath nella seconda delle due sopra citate memorie (?) 
già dissi come ondeggiasse nel dubbio se alla trachite o al 


(*) Lehrb. d. Petrogr. 1866. 2. 166. 
(£) Die Berge von Campiglia — Zeit. d. Deut. geol. Gesel. Berlin. 1868. 20. 307. 


44 A. D' ACHIARDI 


porfido dovesse riferire certe rocce di San Vincenzo e dintorni 
nel territorio campigliese, e come propendesse per ritenere quale 
un porfido quarzifero la roccia che prima aveva qualificata come 
una trachite, e che come tale conferma lo studio microscopico 
fattone da Vogelsang e ova pure da me. Si rimane quindi un 
po’ incerti se effettivamente quando parla di porfido quarzifero 
descriva o no ciò che prima aveva fatto conoscere sott’ altro 
nome. Per altro, indipendentemente da una qualche confusione 
che vi può esser nata, egli è certo che là ove parla del porfido 
dei filoni non è il caso della trachite descritta da Vogelsang 
e da me, ma sì della roccia di cui imprendo ora la descrizione 
sotto il nome di porfido quarzifero, o almeno di qualche cosa 
di molto analogo; tanto più che fra i minerali che lo compongono 
non più ricorda la violetta cordierite, ma i cristalletti piccolis- 
simi della varietà pinite. 

Caratteri macroscopici. — Gli esemplari da me esa- 
minati del porfido quarzifero di Donoratico raccolti dal Lotti 
ci mostrano una roccia più compatta e tenace che non sia la 
trachite precedentemente descritta. Invece di un fondo di color 
grigio come in quella si ha una massa biancastra, che appare 
in parte costituita da elementi feldispatici, forse qui parzial- 
mente caolinizzati, e nella quale veggonsi numerosi cristalli o 
grani di quarzo grigiastri e brevi prismi di un minerale grigio- 
verdolino, che all’ apparenza si giudica per pinite, e iqua e là: 
scarsissimi cristalletti neri come di tormalina. Mica nera, sì 
frequente nella trachite, qui manca; solo in connessione con i 
cristalletti che paiono di pinite veggonsi delle laminette bianche 
lucenti, che ne sembrano derivare e si prenderebbero per talco 
o per mica bianca. Cristalli di feldispato di notevoli dimensioni 
sembrano trovarvisi di tanto in tanto, e quelli che il Lotti mi 
ha mostrato da lui stesso raccolti in posto sono di ortose con 
apparenza vetrosa come nella varietà sanidina. 

Caratteri microscopici. — La massa fondamentale 
appare in massima parte costituita da un minuto miscuglio di 
parti cristalline senza colore o con apparenza nebulosa a luce 
ordinaria. Io credo si tratti di un magma felsitico a elementi fel- 
dispatici e silicei, giucandone almeno alla loro apparenza a nicol 
incrociati. Questi materiali del magma mostrano spesso una strut- 
tura sferolitica e colori d’ interferenza a nicol incrociati senza 


TRACHITE E PORFIDÒ QUARZIFERI DI DONORATICO 45 


mai estinguersi completamente per la orientazione loro in 
tutte le direzioni. Oltre a ciò si osservano pure sferuliti a croce 
nera. E il magma caratteristico dei così detti porfidi petrosel- 
ciosi, che rivela pure un’ apparenza calcedoniosa-opalina, un in- 
sieme che è dovuto a qualche cosa d’intermedio fra lo stato 
di perfetta cristallizzazione e il vetroso e il colloide. Qua e là 
nel magma, ma preferibilmente intorno ai grani di quarzo, si 
osserva una sostanza informe di colore grigio-sporco, che produce 
l'apparenza nebulosa sopra menzionata e ha contegno di silice 
calcedoniosa fra i nicol incrociati; si direbbe prodotta dalla 
corrosione stessa del quarzo, e forse anche di qualche altro mi- 
nerale (Tav. I, fig. 4, 5, 6). 1 

Studiando per paragone altre e consimili rocce di giaciture 
diverse da questa, ma pur sempre nel territorio campigliese, ne 
ho pur osservate alcune in cui la struttura felsitica è anche 
più evidente, e la massa fondamentale costituisce in massima 
parte la roccia, che può pertanto ritenersi una vera e propria 
felsite. 

Quarzo — Convien distinguere il quarzo di prima dal 
quarzo di seconda consolidazione. 

Il quarzo di prima consolidazione si presenta in grani di 
dimensioni variabilissime, ordinariamente riconoscibili anche a 
occhio nudo. La massima parte però di quelli osservati nelle 
sezioni al microscopio raramente raggiungono o sorpassano un 
millimetro di diametro; per il solito ne differiscono in meno 
e d’ assai. 

Le sezioni nella preparazione non appalesano alcun colore a 
luce ordinaria; limpide, fresche, senza rilievo, com'è carattere 
del quarzo, soltanto verso la periferia sempre, non di rado an- 
che nell’ interno, mostrano segni di sofferta corrosione (Tav. II, 
fig. 26-32). Irregolarmente esagonali e non di rado anche a 
maggior numero di lati, tali appaiono per la sofferta corrosione, 
che ne ha attaccato diversamente le varie parti e fra esse in 
special modo l’ estremità dei cristalli, ivi producendo un falso 
lato, facilmente però riconoscibile per le tracce manifestissime 
del suo modo di origine. Quando la corrosione sia molto pro- 
gredita invece di sezioni poligonali si hanno sezioni di grani 
più o meno rotondeggianti e spesso anche irregolari nel loro 
contorno con insenature, solchi ec. 


46 A. D' ACHIARDÎ 


Le sezioni poligonali ci mostrano chiaramente i caratteri 
del quarzo. Alcune poche esagonali rimangono sempre estinte 
a nicol incrociati; sono sezioni normali all’ asse di simmetria; 
altre e sono le più stanno ad esso asse più o meno oblique ed 
anche parallele; nè rare sono quest’ ultime o che per lo meno 
vi sì approssimano, e per le quali oltre alle direzioni di estin- 
zione pur le misure degli angoli di circa 142° e 76°-77° giovano 
alla determinazione della cristallizzazione (Tav. II, fig. 26). 

Le facce del prisma sono ordinariamente molto ridotte, tal- 
volta anche mancano, ma si danno pure cristalli in cui pren- 
dono notevole sviluppo, lo che non ho mai riscontrato nei cri- 
stalli della trachite. 

E mentre in questa i grani di quarzo sono scarsi e bite 
mente isolati, qui invece sono spesso uno a canto dell’ altro: 
taluni pochi in posizione parallela, talvolta però per distacco 
avvenuto di parti di un unico cristallo (Tav. U, fig. 32), altri 
e più in posizione diversa, onde a nicol incrociati diversi pure 
i loro colori e i momenti d’ estinzione (Tav. I, fig. 4 e 6). Per 
la maggior parte questi grani o cristalli ci appaiono riuniti 
parallelamente a una faccia di romboedro (Tav. II, fig. 27); ma 
dalle sole sezioni e per l’ approssimazione un po’ larga nella 
misura degli angoli, che variano secondo che il taglio cada in 
un verso o nell’ altro, riesce un po’ difficile stabilire se si abbia 
a che fare con gemelli secondo 100, e quali apparrebbero dalla 


succitata figura 27, o non piuttosto secondo il piano 251, come 
porterebbero per alcuni casi a credere angoli misurati di circa 
85° fra i due cristalli, e il piccolo angolo che in essi fanno le 
direzioni di estinzione. 

Ho pur veduti cristalli riuniti altramente (Tav. TI) 'fio-129); 
per una faccia di romboedro l'uno e di prisma l'altro; ma 
qualunque sia il modo di unione, non mai si compenetrano fra 
di loro, e ogni sezione di cristallo appare semplice anche per i 
colori d' interferenza. 

Le figure 30, 31 e 32 della tav. II e le 5 e 6 della tav. I, 
oltre la corrosione periferica dei cristalli, mostrano anche la in- 
trusione più o meno profonda del magma entro le loro sinuosità, 
anfrattuosità ec. prodotte dalla corrosione stessa, così come è 
carattere del quarzo di prima consolidazione. In queste sinuosità 
insieme al magma si vedono penetrare anche i cristalletti di 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO AV 


pinite, spesso aderenti ai cristalli stessi di quarzo, prova della 
loro origine più serotina (Tav. II, fig. 29, 30, 31 e 33), se non sia 
piuttosto dell’ avere essi fluitato nel magma e dell’ essere dal 
medesimo stati trasportati. 

Oltrechè per la compenetrazione in essi della massa fonda- 
mentale e altre apparenze sopra descritte, differiscono i cristalli 
di quarzo del porfido da quelli della trachite anche per la copia 
delle inclusioni. 

Fra le inclusioni cristalline si hanno qui pure le solite esili 
bacchettine senza colore o leggerissimamente verdognole a estre- 
mità per il solito rotondeggianti, che a quarzo estinto appaiono 
luminose nel quarzo stesso, e che sono a lor volta non di rado 
dotate di inclusioni gassose. Misuratene alcune trovai aver lun- 
ghezza massima di mm. 0,195 e larghezza massima di mm. 0,012, 
per la maggior parte essendo molto al di sotto di tali dimen- 
sioni (Tav. II, fig. 27, 28, 29, 30). Questi microliti sono perfetta- 
mente analoghi a quelli effigiati da Cohen (') e da lui riferiti 
all’ apatite. 

Analoghi a questi nella forma e nelle dimensioni altri mi- 
croliti di colore giallo-arancio pur si veggono nel quarzo (Tav. I, 
fig. 4b. Io sospetto che sieno di zircone, ma non escludo che possano 
anche essere di altra specie. Quasi dello stesso colore, meno che un 
po’ più giallastro-brune, si osservano pure delle globuliti, talora 
anche in numero considerevole (Tav. II, fig. 33), e di forma ge- 
neralmente ellittica. 

Oltre a queste si hanno e in gran numero inclusioni vetrose 
e gassose (Tav. II, fig. 26 a 38). In alcune sezioni di cristalli ho 
osservate inclusioni assai voluminose di un vetro giallognolo 
(Tav. II, fig. 32) con più bolle di gasse; ma in generale queste 
inclusioni sono senza colore, limpide; talune sembrano accennare 
a un contorno regolare, che quasi ripete la forma del quarzo 
includente; ora, apparentemente almeno, distribuite senza re- 
gola alcuna, ora allineate in gran numero; ma sono pur queste 
di vetro? La presenza di una sola bolla di aria in quasi tutte 
potrebbe far sospettare che per la massima parte fossero in- 
clusioni liquide con livella; ma le bollicine gassose non sì spo- 


(*) Samml. v. Mikr. z. ver. d. wikr. Stract. v. Miner. u. Gesteinen. Stuttgart 
1883. Tav. LXXVÎI, fig. 3-4. 


48 i A. D' ACHIARDÎ 


stano affatto, nè meno a una temperatura superiore ai 60°, 
quindi, mentre non escludo la possibilità che vi abbiano anche 
iuclusioni liquide, in generale e per lo meno per quelle a con- 
torno esilissimo, che sono molte, ritengo che sieno vetrose. 

Le bollicine gassose sono per il solito assai grandi; e credo 
vi abbiano anche cavità esclusivamente ripiene di gasse, quelle 
per esempio che con ombra considerevole ripetono nel loro con- 
torno la forma del quarzo includente, e con esse altre anche ir- 
regolari nella loro figura. 

Del quarzo di seconda formazione già dissi parlando della 
massa fondamentale; aggiungerò oro che lo si osserva pure 
nelle sezioni del feldispato, come epigenico sui cristalli più o 
meno alterati di questo minerale. Ci appare pure ivi in foggia 
di piccolissime, fitte sferuliti a fibre irraggianti, che non si estin- 
guono a nicol incrociati e danno colori assai vivaci d’ interferenza 
(Tav. I, fig. 4a). Così pure si osserva nella pinite. 

Silice. — Con apparenza granulare e di calcedonio la si 
osserva nella massa fondamentale della roccia, e pur anco nelle 
sezioni dei cristalli più o meno alterati di feldispato e di pinite. 

Ortose. — Cristalli di dimensione svariatissima mostrano 
l'abito particolare dell’ ortose, e non è difficile misurarvi angoli 
che conducono alle forme 001, 100, 010, 110, 101, 201 (Tav. II, 
fig. 40641). Essi sembrano costituire una buona porzione della 
roccia, prendendo parte anche in confuso alla costituzione della 
massa fondamentale. In generale paiono semplici; ve ne hanno 
però anche dei geminati, ma rarissimi. 

A luce ordinaria sì appalesano senza colore o meglio bianco- 
sporchi, soltanto tralucidi e tutti sagrinati. A nicol incrociati 
rari sono i cristalli che ci presentino le tinte comuni dell'or- 
tose, per lo più si ha l'apparenza di un’ alterazione sofferta, e 
soltanto come macchie qua e là in generale appariscono nella 
sezione in figura di ortose le tinte grigio-morate a testimonianza 
di parti non completamente alterate. Ei sembra di vedervi pure 
il caolino in foggia di nubecole bianco-sudicie opache, e ne è 
la presenza resa verosimile anche dall’ apparire a occhio nudo 
più o meno caolinizzati i cristalli di feldispato; e dell’ altera- 
zione da essi sofferta è pure da ritenersi effetto la presenza 
dell’ abbondante silice in foggia di scagliette e sferuliti a cri- 
stallini irraggianti, di cul già dissi trattando del quarzo, e che 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 49 


occupano tanta parte della massa feldispatica. (Tav. I, fig. 4-6). 
L’ alterazione sofferta rende spesso difficile, se non anche impos- 
sibile, decidere se si tratti di ortose o di oligoclasio, e se di 
ortose di quale delle sue varietà. L'esame macroscopico di al- 
cuni cristalli farebbe credere si avesse a che fare qui pure con 
sanidina; certo l’ aspetto loro è ora ben diverso sotto al micro- 
scopio da quello dei cristalli di sanidina della trachite. 

Debbo avvertire che gli esemplari furono raccolti alla super- 
ficie, quindi rimane il dubbio se in profondità conservi il feldi-. 
spato lo stesso aspetto. 

Oligoclasio — La struttura polisintetica di alcuni cristalli, 
non cancellata dall’ alterazione, ne fa certi della presenza di un 
plagioclasio, che per la natura della roccia stessa sarà verosimil- 
mente l’ oligoclasio (Tav. I, fig. 4 a). 

Ciò che fu detto per l’ ortose vale anche per questa specie 
circa all’ alterazione sofferta e ai suoi prodotti. 

Tormalina — Nella maggior parte delle sezioni fatte non 
vedesi nulla che vi si possa riferire; ma in due si scorgono chia- 
ramente sezioni di cristalletti aggruppati, e parte anche irrag- 
gianti, che ritengo sieno di tormalina, specie non comune in sì 
fatte rocce (Tav. I, fig. 4d). Questi cristalletti parte appaiono 
sezionati lungo l’ asse, parte obliquamente e parte normalmente 
ad esso o quasi. Le prime sezioni son tutte più o meno allun- 
gate, la lunghezza massima da me riscontrata raggiungendo i 
mm. 0,2127 per una massima larghezzza di mm. 0,08325; ma 
molti cristalletti sono più piccoli assai e specialmente sottili, mi- 
surando in lunghezza mm.0,18-0,21 e in larghezza mm. 0,018-0,037. 
Queste sezioni parallele all’ asse ci si appalesano abitualmente 
rotte all’ estremità o indecifrabili nella loro terminazione: solo 
alcune poche mostrano facce, che per la misura degli angoli 


si possono riferire alle 100, 111 concorrenti alla base (Tav. II, 
fig.34). Vi si scorgono irregolari e poche fenditure, che sembrano 
accennare a non facile sfaldatura. Le sezioni normali o quasi 
norrnali all'asse sembrano laminette di mica esagonali con angoli 
misurati di 120°. 

A luce ordinaria si ha una bella tinta celeste come di cianite 
in varie delle sezioni parallele all’ asse, in altre di queste e nelle 
esagonali cilestro-verdastro più o meno pallido e talvolta più o 


meno sudicio. 
Se. Nat. Vol. VII, fasc. 1.° 4 


50 A. D' ACHIARDI 


Con il solo polarizzatore si ha forte dicroismo: mentre 
le sezioni esagonali o basali si mostrano costantemente della, 
stessa apparenza, cioè dotate di colore bruno-azzurrognolo o di 
poco cambiano alcune (verosimilmente quelle fra esse tagliate 
non del tutto normali all’ asse), le altre più o meno allungate 
cambiano da una tinta azzurra scura tendente all’azzurro-violetto 
a un celeste-verdognolo con grande differenza di assorbimento 
di luce a seconda della posizione della lamina cristallina. Quando 
l'asse di simmetria del cristallo è normale alla sezione princi- 
pale del polarizzatore si ha il massimo di assorbimento con la 
tinta azzurra molto scura; quando invece è parallelo si ha il 
minimo con le tinte chiare giallo-verdastro-celestognole. 

A nicol incrociati le sezioni esagonali restano costantemente 
estinte o quasi; le altre presentano colori d’ interferenza più o 
meno vivaci ad anelli concentrici. Poche o punte inclusioni. La 
presenza del boro svelata dall’ analisi fatta della roccia dal Gaz- 
zarrini conferma la determinazione di questa specie. 

Pinite — Vom Rath parlando dei porfidi quarziferi del 
Botro all' Ortaccio, dice che entro a una pasta apparentemente 
compatta bianco-giallastra stanno moltissime cordieriti della gros- 
sezza di una linea, convertite in piniti. 

Negli esemplari da me osservati del porfido quarzifero di 
Donoratico presso Castagneto ho pur veduto a occhio nudo e 
meglio con la lente numerosissime e piccole colonnette d’ appa- 
renza quasi steatitosa, di colore grigio-verdolino pallido, talvolta 
lucenti come talco specialmente nelle fratture; e simili a queste 
ne ho pur riscontrato in altri esemplari provenienti d’ altre 
parti del territorio campigliese e nell’apparenza loro corrispon- 
denti a quelli descritti dal Vom Rath. I caratteri al microscopio 
si corrispondono del pari. 

Questo minerale nelle sezioni osservate al microscopio ci ap- 
pare in foggia di prismi o bacchette allungate, la cui larghezza 
ordinariamente oscilla intorno a mm. 0,02 a 0,03, e la lunghezza 
da mm. 0,11 a 0,19; ma se ne danno pure di quelle fra queste 
sezioni prismatiche che appena raggiungono mm. 0, 009 di lar- 
ghezza e altre che superano qualche millimetro tanto per tra- 
verso che per lungo; tali quelle dei cristalli che veggonsi bene 
a occhio nudo. 

Queste sezioni allungate appaiono rotte all’ estremità o ter- 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 51 


minate dalla base e solo per eccezione da facce oblique. Nella 
grossezza della preparazione si travedono talora più facce di 
prismi; e poichè nelle sezioni normali all’ asse si hanno figure di 
esagoni, d’ottagoni e di dodecagoni, conviene quindi ritenere che 
vi abbiano le facce dei pinacoidi 001, 100, 010 e di due prismi 
verticali (Tav. I fig. 4-6, Tav. II, fig. 36-39). Il contorno di alcune 
sezioni è anche irregolare; ma l’ abito prismatico non vi è per 
questo cancellato. 

L’interna struttura appare alquanto diversa secondo gl’ in- 
dividui, forse in grazia della più o meno progredita alterazione 
loro. Ordinariamente le sezioni longitudinali ci appaiono costi- 
tuite come da fasci di fibre, che di tanto in tanto lasciano ma- 
glie occupate da sostanza omogenea, e procedono sinuosamente 
nella direzione dell’ asse verticale. In qualche parte invece di 
fibre così procedenti si hanno sferuliti di fibre irraggianti da 
tanti centri distinti, così come è poi caso abituale delle sezioni 
normali all’ asse. Grani o lamelle come di sostanza eterogenea 
s' intromettono fra queste fibre (Tav. II fig. 36-39). 

A luce ordinaria si ha un colore giallo-verdolino più o meno 
chiaro, che tanto più sbiadisce quanto più sottile sia la sezione 
fino quasi a diventare appena sensibile. L° intensità della tinta 
varia anche in ragione delle varie parti del cristallo, che ci ap- 
paiono diversamente colorite. Lunge dall’ aversi una tinta uni- 
forme si hanno porzioni del tutto senza colore e limpide, altre 
giallo-verdoline e lamelle o grani di color verde intenso, che sem- 
brano come indipendenti e sospese entro la massa del cristallo 
che le include. Le porzioni fibrose e sferulitiche sogliono apparire 
verdastre; le maglie, che vi si comprendono, senza colore e limpide. 

Con un sol nicol non pochi cristalletti danno segno di pleo- 
croismo nelle loro sezioni longitudinali apparendo una tinta più 
pallida quando sono disposte normalmente alla sezione principale 
del polarizzatore, più intensa e verde quando sieno invece a 
questa parallele. Si ha quindi l’ opposto che nella cordierite della 
trachite, per la quale nelle sezioni longitudinali la tinta più 
chiara si aveva parallelamente alla sezione principale del polariz- 
zatore, e ciò mi aveva messo in sospetto potesse trattarsi di 
qualche cosa di diverso. Ma intanto anche Hussak (') ha riscontrato 


(') Ueb. den Cordierit in vulkanischen Auswurflingen. Stîtz. &. &. Ah, Wiss. 
Wien. 1883. 87. 4-5. 832. 


52 A. D' ACHIARDI 


diverso contegno in varie cordieriti; e la cristallizzazione, la strut- 
tura minutamente fibrosa e lamellosa, il colore e vedremo anche 
la polarizzazione di aggregato fanno ritenere che sì tratti di 
pinite. 

A nicol incrociati si presentano i fenomeni stessi descritti 
da Fouqué e Levy (') per questa specie; si vede cioè che tanto 
la parte colorata che senza colore risultano, parzialmente ‘almeno, 
di sferuliti a croce nera (Tav. I, fig. 4c), con questa differenza 
che le giallo-verdi presentano le tinte morate dell’ opale e del 
calcedonio, le scolorite colori di polarizzazione cromatica vivaci 
precisamente come nelle stesse sferuliti osservate nelle sezioni 
dei feldispati. Le sferuliti a croce nera veggonsi meglio e. più 
frequentemente nelle sezioni normali che nelle parallele all’ asse 
verticale. Ove invece di sferuliti si hanno soltanto fasci di fibre, 
queste presentano deboli colori d’ interferenza, che talvolta pur 
mancano. 

Le laminette o grani di color verde cupo inclusi o facenti 
parte della massa stessa della pinite mostrano colori d’interfe- 
renza più o meno sensibili; sembrano quasi di mica. 

L'estinzioni nelle sezioni non costituite o solo parzialmente 
costituite di sferuliti si fanno sempre parallelamente e normal- 
mente all’ asse dei prismi verticali. 

I cristalli di pinite si veggono spesso aderenti ai cristalli 
di quarzo, talvolta trasportati dal magma stesso entro alle 
sinuosità di corrosione, che in questi si osservano ripiene dalla 
massa fondamentale (Tav. II, fig. 30). 

Mica — Non vi ha certo mica nera come nella trachite, 
in cui vedemmo abbondantissima la biotite; può sospettarsi che 
a una mica appartengano certe laminette, che si veggono nella 
pinite. 

Apatite — Vi ho in parte riferito le esili inclusioni bacillari 
senza colore, che si rinvengono nel quarzo e altri materiali di 
questa roccia (Tav. II, fig. 27, 28, 30, 31). 

La presenza del fosforo svelato dall’ analisi conferma questa 
determinazione. 

Zircone? — Sono incerto se a questa o ad altra specie 
debbano riferirsi î microliti bacillari di colore giallo-arancio, 0s- 
servati in diversi cristalli di quarzo (Tav. II, fig. 4 8). 


(1) Minér. Microgr. — Roches. érupt frangaises. Paris 1879, 314. 


TRACHITE E PORFIDO QUARZIFERI DI DONORATICO 53 


‘ Ematite? — Incerta; forse sono’da riferirsi ad essa alcune 
esili laminette di color giallo-arancio. 
Pirite — In cubi con tinta giallastra all’ intorno dovuta 
a limonite. In parecchie sezioni non ne ho veduto indizio, dunque 
la deve esser rara, almeno negli esemplari da me esaminati di 
Donoratico e di questa varietà, chè in altri di San Silvestro 
(Campiglia) e di struttura più omogenea e compatta ho trovato 
essere molto più frequente, cosa importante a notarsi per la 
connessione di queste rocce eruttive coi giacimenti metalliferi. 


Tali sono la trachite e il porfido quarzifero di Castagneto, 
due rocce cke senza dubbio presentano fra loro una notevole 
differenza. Quella, quasi un vetrofiro, è roccia che deve aver 
colato alla superficie o essersi rappresa molto presso di essa. 
Il magma si è rapidamente raffreddato, si è quindi costituito in 
massa vetrosa, nè vi fu tempo perchè corrodesse lentamente il 
quarzo e lo compenetrasse, come è avvenuto invece nel porfido, 
che anche nel suo modo di presentarsi in dighe o filoni esclude 
il trabocco. Il raffreddamento e consolidamento di questa seconda 
roccia dovette farsi quindi più lentamente sotterra; l’ abbon- 
dante e uniforme massa vetrosa non si formò mancato il rapido 
rapprendersi della roccia; i cristalli di quarzo, formativisi, da 
prima in molto maggior numero, per la loro lunga dimora nel 
magma più o meno fluido furono da questo più o meno profon- 
damente corrosi e compenetrati, prima che si consolidasse; e 
l'allineamento o meglio accumulamento delle innumerevoli in- 
clusioni in certe direzioni piuttosto che in altre ci accenna forse 
la via per la quale si fecero strada. 

L'aspetto del feldispato, la qualità e 1’ abito della cordierite 
convertita in pinite nel porfido, queste e tante altre diversità 
che vi hanno, che differenza vi ha quasi in tutto, fanno senza 
dubbio, lo ripeto, delle due rocce due cose ben distinte. Ma non 
vi può dunque essere alcun legame fra loro? La comunanza della 
massima parte delle specie minerali quantunque con proprietà 
fisiche diverse, la corrispondenza di composizione elementare 
dataci dall’ analisi chimica, riferendoci a quella fatta di altri 
porfidi vicini e analoghi, le condizioni geologiche del giaci- 
mento, quale viene descritto dal Lotti, tutto ci porta a sospet- 


54 : A. D' ACHIARDI 


tare un legame di provenienza fra queste due rocce, entrambi 
spettanti al gruppo delle rocce a struttura trachitoide, e ve- 
rosimilmente per null’ altro oggi diverse se non perchè l’ una 
si rapprese rapidamente alla superficie o presso di essa, l’ altra 
s'intruse in filoni in mezzo a quelle stesse rocce, che la prima 
traboccando forse ricopriva per lunga estensione. Tocca ora al 
geologo indagare se ne sia corrispondente l’ età, e se le sì pos- 
sano e debbano considerare come effetto di una stessa fase 
vulcanica nelle sue diverse manifestazioni ipogea ed epigea. 


Pisa, 14 decembre 1884. 


o 9 DD > 


SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 


Tav. l. 


. Sezione della trachite di Donoratico veduta a luce ordinaria. 


La medesima a luce polarizzata e a nicol incrociati. 


. Altra sezione della stessa roccia veduta pure a nicol incrociati. 
. Sezioni del porfido quarzifero di Donoratico: @ porzione di roccia con ortose . 


e plagioclasio veduta a nicol incrociati; d Id. con quarzo, feldispato, 


zircone? pinite ec. ; c. Id. con pinite costituita di sferuliti a croce nera; 
d. Id. con ortose e tormaline veduta a luce ordinaria. 


. Sezione dello stesso porfido a luce ordinaria. 
. Id. a nicol incrociati. 


Tav. II. 


1-7. Cristalli di sanidina. — Ingrandimento di circa 50 diametri. 


8-12. Cristalli di pirosseno geminati in croce meno il N.° 9, che è semplice. 


13. 
14. 


de 


18. 


Ingrandimento di 15 a 20 diametri. 

Sezione di cristallo di cordierite a superficie sagrinata. 

Cristallo di cordierite (100,010, 001, 110) con inclusioni vitreo-gassose. — 
Ingrandimento di 50 diam. 


. Altro cristallo di cordierite (001, 100, 110) con le stesse inclusioni. In- 


grandimento di 40 diam. 


. Id. (190, 010, 001, 110, 310) con inclusioni cristalline e vetrose. Ingran- 


dimento di 75 diam. 
Sezione di cristallo di cordierite terminato da facce piramidali, forse le 101. 
Sezione normale all'asse di cristallo di cordierite con principio di corro- 
sione periferica, che però nen ha cancellato la forma poligonale. 


56 A. D' ACHIARDI — "RACHITE E PORFIDO QUARZIFERI EC. 


19-20. Sezioni pure normali all’ asse, ma. arrotondate per maggiore corrosione 
sofferta. Nella fig. 20 vedesi un’ inclusione cristallina bacillare conte- 
nente tre bollicine gassose. Ingrandimento di circa 60 diametri. 

21. Gemello di cordierite. Ingrandimento di 85 diametri. 

22. Id. con ingrandimento di 21 diam. 

23. Id. con ingrandimento di 50 diam. 

24. Id. con segni di molto progredita corrosione. 

25. Granulo di cordierite corrosa e con inclusioni vetrose e gassose. 

26. Sezione parallela all'asse di un cristallo di quarzo con inclusioni gassose 

} numerosissime, 

27. Cristalli di quarzo, riuniti parallelamente a una faccia di romboedro 100, 
a estremità corrose, con numerose inclusioni. Ingrandimento di 40 diam. 

28. Id. riuniti per una faccia di prisma l’ uno, di romboedro l’altro, a estre- 
mità corrose. 

29. Cristallo di quarzo corroso, con le solite inclusioni e con pinite aderente. 

30. Cristallo di quarzo corroso e con intrusione del magma e numerose inclu- 
sioni. Ingrandimento 37 diametri. 

34. Idem con ingrandimento di 17 diam. 

32. Id. con intrusione del magma da parte a parte. Le solite inclusioni nu- 
merosissime. I due pezzi isolati appartengono al medesimo cristallo. 

33. Cristalli di quarzo con globuliti e longoliti. — Pinite aderente al quarzo. 

34. Sezione verticale di cristallo di tormalina. Ingrandimento di 250 diam. 

35. Id. con ingrandimento di 250 diam. 

36-38. Cristalli di pinite. Ingrandimento di 55. diam. 

39. Sezione normale all’ asse esagonale l’ una, ottagonale l’ altra di cristalli di 
pinite con struttura interna sferulitica. 

40. Sezione di cristallo di ortose parallela a 100. 

41. Id. parallela a 010. 


UNA OSSERVAZIONE 


DI TERZO CONDILO OCCIPITALE NELL'UOMO 


CONSIDERAZIONI RELATIVE 


NOTA 


DEL DOTT. GUGLIELMO ROMITI 


PROFESSORE DI ANATOMIA IN SIENA 


(con una Tavola) 


Che nell’ osso occipitale dell’uomo possano occorrere processi 
a mo’ di condili, oltre i due normalmente destinati ad articolarsi 
coll’ atlante, è cosa nota agli Anatomici: nè è solamente per 
illustrare un nuovo caso di questa rara varietà anatomica, la 
quale ho di recente raccolta per il mio Museo, che io ho creduto 
pubblicare questa Nota; ma piuttosto mi piace prendere occa- 
sione da questa illustrazione, per esprimermi su qualche punto 
| relativo al modo di spiegazione degli abnormi condili occipitali 
umani, sul quale verte tuttora qualche discrepanza, o qualche 
errata interpretazione. 

G. F. Meckel(') per il primo notò la presenza di insoliti 
processi nella faccia inferiore della porzione basilare dell’ osso 
occipitale ed in quella condiloidea. Parlando delle apofisi inso- 
lite dirette dall’ alto al basso, e di una lunghezza spesso molto 
considerevole che vedonsi quasi sempre presso al foro occipitale, 


(!) G. F. Meckel — Manuale d’ Anatomia Generale descrittiva e patologica. 
Tradnz. Caimi, Milano, 1825. Tomo II, pag. 84. 


58 G. ROMITI 


sia da una parte sola, sia da ambedue insieme, o che sono più ‘ 
o meno solidamente articolati con la apofisi trasverse dalla prima 
vertebra cervicale (e qui accenna chiaramente al processo para 
occipitale), continua: “ egli è molto più raro il trovare queste 
» apofisi dinanzi al foro occipitale, fra le estremità anteriore 
» dei due condili ,. Di simili casi egli aveva già descritti esempi ('). 
La spiegazione che ne dava era quella della mostruosa duplicità.: 
immaginò che normalmente l’ embrione venga formato da due 
metà laterali, le quali prima si uniscono nel dorso, poi nel piano 
anteriore (?). 

Dopo Meckel i trattatisti ricordarono questa varietà, ed alcuni 
osservatori ne fecero oggetto di studio speciale. Ricordarono i 
condili occipitali Hyr (#) che li disse anomalia assai rara, e li 
considerò analoghi a tutto il condilo unico degli uccelli e degli 
anfibi squamosi. Her/e(*) menziona le altrui osservazioni, Krause (3) 
li ricorda pure: li dice abbastanza rari (5 °/,) e più frequente- 
mente verificati nel maschio che nella femmina. Poco o nulla 
dicono tutti gli altri autori che ho potuto aver tra mano. 

Di Anatomici che fecero oggetto di speciali ricerche o di 
Monografie gli abnormi condili dall’osso occipitale umano, è primo 
da citare il Dieterich (°), il quale descrivendo alcune abnormità 
del cranio umano, illustra ancora degli esemplari di condili oc- 
cipitali abnormi. Gruber ("*) poi sulle sue “ Anomalie nuove , 
che egli raccolse in un sol volume, tratta assai estesamente e 
colla sua ben nota dottrina, l’ argomento degli abnormi condili 
dell’ occipite. Non ho potuto avere occasione di consultare il 
libro originale dell’ Anatomico di Pietroburgo, e perciò non ne 


(1) In: De duplicitate monstrosa. Hallae. 1815. pag. 21. e: Deutches Archiv fur 
die Physiologie. Bd. I. H. 4. Tav. VI, pag. 644. 

(2) Cesare Taruffi — Dottrine sulla formazione dai mostri doppi. (Bollettino delle 
Scienze Mediche di Bologna. Serie VI, Vol. 2.° 1878, pag. 55 dell’ Estr. e: Storia 
della Teratologia. Bologna. 1881-1884. sparsim. 3] 

(3) Giuseppe Hyrtl — Istituzione di Anatomia dell’ Uomo. Trad. Antonelli. Na- 
poli. 1871. pag. 180. 

(4) Henle— Handbuch der systematischen Anatomie des Menschen..I, pag. 107. 
Braunschweig. 1871. 

(è) Krause — Anatomie. Hannover. 1880. T. III, pag. 63. 

(5) Citato da Henle. 

(7) Ibid. 


UNA OSSERVAZIONE DI TERZO CONDILO OCCIPITALE NELL’ UOMO 59 


posso, come vorrei, portarne un sunto ed un giudizio: nemmeno 
ho trovato il lavoro di Allen, menzionato da ZHenle ('). 

Canestrini e Moschen (*) descrivendo ed interpretando assai 
giustamente alcune abnormità trovate in Crani del ‘Trentino, 
illustrano ancora specialmente tre casi di condilo occipitale, ri- 
cordando in una Nota come ne posseggano un altro esemplare 
nel Cranio di un Veneto. I due casi descritti nella Memoria 
sono: uno di condilo abnorme che nasce dal condilo normale 
destro e si porta in basso e all'interno nella linea mediana 
(fig. 1 della Memoria di C. e M.), un altro di condilo abnorme 
esattamente mediano (fig. 2), un terzo (fig. 4) doppio. A proposito 
del condilo esattamente mediano, lungo 8 millimetri e articolan- 
tesi coll’ Atlante, gli Autori della Memoria accertano come sia 
forse da collegare l’abnorme tubercolo umano col tubercolo 
unico degli uccelli e dei rettili, seguendo così il modo di inter- 
pretazione accennato da ZMyrtl. 

Io descrissi (*) un terzo condilo occipitale trovato nel teschio 
d’un maschio di 60 anni, senese, e distinsi i veri condili dalle 
abnormi faccette articolari nella periferia del gran foro occipitale. 
Notai in quella circostanza come la varietà sembrava rarissima: 
1:300. Il cranio in discorso era brachiocefalo, il condilo ab- 
norme, figurato nella fig. IV della Memoria, era situato nel 
mezzo dello spazio intercondilaideo anteriore, ma con una larga 
base che ampiamente si impiantava verso destra: la base del 
condilo abnorme era di 12 millimetri trasversalmente, il condilo, 
incrostato di cartilagine nella punta sua, misura 8 mill. di lun- 
ghezza. Seguii allora la dottrina che il condilo abnorme umano 
fosse analogo al condilo unico dei sauropsidi di Huxley, o rettili 
ed uccelli. Lo stesso caso riportai nel Catalogo del mio Museo (*). 


(1) Allen — Citato da Henle. ibid. 

(?) G. Canestrini ed L. Moschen — Anomalie del Cranio trentino (Atti della 
Società Veneto-Trentina di Scienze Naturali, Padova. Vol. VII. fasc. 1. 1880, con una 
Tavola. Profitto di questa citazione per dichiarare che non conoscevo questo lavoro 
quando scrissi la Memoria sullo sviluppo e varietà dell’ occipitale, ed è per questo 
che non vi si trova menzionata. Non era a mia disposizione il periodico che lo con- 
teneva, ed ebbi poi lo scritto dalla cortesia degli Autori. 

(3) Guglielmo Romiti — Lo sviluppo e la varietà dell’osso occipitale nell’ uomo. 
(Atti della Accademia dei Fisiocritici. Siena. 1881. Serie III Vol. IIl. fasc. I. pag. 86. 

(4) G. Romiti e Pilade Lachi — Catalogo ragionato del Museo Anatomico. Siena. 
1883. I. pag. 56. 


60 G. ROMITI 


Con questo che ora descrivo, due soli sono i casi di terzo con- 
dilo che ho trovato tra circa 700 crani di senesi che io ho pa- 
zientemente raccolti e studiati dacchè dirigo la Scuola Anatomica 
Senese. È da tenere nota che io intendo parlare di veri e propri 
condili ben sviluppati, e non prendo in considerazione le ab- 
normi faccette articolari attorno il gran foro occipitale e nem- 
meno i piccoli rudimenti di condili basilari, così facilmente con- 
fondibili coi tubercoli faringei i quali hanno ben altro significato. 

Infine il Prof. Francesco Legge(') studiando diligentemente 
780 crani di Camerino, ed illustrando sommariamente le diverse 
varietà che presentavano, notò, a proposito di condili occipitali 
come questi gli si presentassero assai meno frequenti nei suoi 
crani, di quanto non lo furono ad altri e specialmente aj me. 
Infatti in 780 crani trovò soli due esemplari di condilo occipitale 
abnorme: uno dei quali era di condilo semplice o laterale, 1’ altro 
di doppio: in questo è da notarsi il fatto che il condilo sopran- 
numerario di destra è in diretta comunicazione col condilo nor- 
male, dal quale è separato per un solco superficiale. 

Per quanto riguarda il modo di spiegazione o di interpreta- 
zione della varietà della quale ora tengo parola, Legge non 
ammette, o per lo meno pone fortemente in dubbio, che il terzo 
condilo occipitale nell’ uomo sia analogo al condilo unico dei 
sauropsidi. Che esso non impugni la comune spiegazione in modo: 
assoluto, dicono le parole colle quali egli esprime il proprio 
pensamento (pag. 33-34): “a me non pare, egli scrive, che il 
» condilo occipitale anormale dell’ uomo possa ritenersi analogo 
» all’ unico degli uccelli, ed anco ammettendolo non saprei come 
» Spiegare che i condili laterali lungi dall’ essere atrofici come 
sin tal caso dovrebbero essere, sono invece sviluppati più che 
“= d’ordinario ,. 

La ragione precipua per la quale il ricordato diligente ana- 
tomico pone fortemente in dubbio la comune spiegazione, è 
principalmente nel fatto del credere come il condilo abnorme 
‘occupi una posizione laterale, essendo impiantato o a destra 
(caso mio) o a sinistra (caso suo); inoltre in un suo caso notò 
come avanti dal condilo fosse una produzione rivestita di carti- 


(1) Francesco Legge — Intorno ad alcune anomalie dell’articolazione occipito- 
Atlantoidea osservata nei crani camerinesi. Velletri 1883. opusc. pag. 28 e seg. 


UNA OSSERVAZIONE DI TERZO CONDILO OCCIPITALE NELL’ UOMO 61 


lagine la quale ritiene “ un vero terzo condilo in via di indivi- 
» dualizzarsi ,: crede perciò che il terzo condilo sia dovuto ad 
una specie di “ semmazione dei condili normali ,, ed a prova 
di ciò ricorda anche come rimanga talvolta traccia della pri- 
mitiva riunione sua col condilo normale in un piccolo istmo 
osseo che li ricongiunge indietro. Aggiunge poi come il modo 
di considerare o di formarsi i condili abnormi occipitali sia 
uguale a quello dei tubercoli basilari (faringei). Talun caso di 
straordinario sviluppo dei condili normali in avanti richiama 
alla mente i due condili normali del cavallo che tanto si spin- 
gono innanzi. 

Questo modo di spiegare la genesi dei condili abnormi del- 
l’occipitale, se è ingegnoso e studiato, credo possa essere seria- 
mente discusso: ciò io mi proverò di fare, dopo aver descritto 
il nuovo caso che intendo illustrare, e che appunto mi dà ar- 
gomento alla presente Nota: che io per verità, anche dopo le 
osservazioni di Legge, sono sempre per la antica spiegazione, un 
po’ meglio interpretata, sul significato degli abnormi condili 
occipitali. 

Cranio N.° 371, anno 1883, del Museo Craniologico dell’ Istituto 
Anatomico di Siena. È di un maschio, Senese, di anni 70. 

Il Cranio è largo ed ha le seguenti misure: 


Diametro antero-posteriore massimo. . . 176 mm. 
» trasverso massimo . . . . . 151 » 
» VELICA a at ii 
{nCeNCCrA CORR MO 


Cranio grande, ortognato, glabella sporgente: ossa nasali piccole 
_e fossa temporale profonda con lievi creste o asperità ossee 
nella parte anteriore della linea temporale. Orbite ampie, obli- 
que, fossa canina poco sviluppata, setto nasale a sinistra, volta 
del palato assai profonda, con creste longitudinali: mandibola 
piccola, angolo giusto, mento sporgente. 

Leggera traccia di sutura metopica in basso: suture normali 
persistenti, solamente la sagittale è saldata corrispondentemente 
all’ obelion. Ampio wormiano pterico a sinistra: niuna traccia 
di sutura incisiva: denti normali e ben conservati. . 

Nella porzione condiloidea sono due piccoli condili abnormi 
dei quali, meglio che per la descrizione, si può avere chiara idea 


62 ; G. ROMITI 


per la esatta fisura fatta di grandezza naturale dal Dott. Valenti 
(V. la Tavola Fig. 1). 

I due condili abnormi sono perfettamente simmetrici l’ un 
l’altro, e sono nettamente distinti e separati dai condili normali, 
per mezzo d’ uno spazio o solco, tanto che non vi è traccia di 
rapporto alcuno tra essi ed i condili normali. I due condili 
abnormi misurano ambedue 6 millimetri in altezza, e 4 milli- 
metri in larghezza alla loro punta sulla quale apparisce in ambo 
i condili una faccetta articolare. Essi convergono col loro estremo 
un verso l’altro e distano quivi l’ un dall’ altro per 3 mm., così 
pure alla base mentre nel mezzo sono allontanati per 5 mm., 
e rimane perciò tra loro 'una specie di ampio foro aperto in 
alto. È da notarsi il modo di impianto e di origine dei due 
condili abnormi dall’ osso, poichè essi nascono direttamente da 
questo nè accennano a fondersi nel loro impianto verso i con- 
dili normali, i quali sono ben confermati. 

Descritto questo nuovo caso, guardiamo adesso se possa o 
no sostenersi per la spiegazione degli abnormi condili occipitali 
l'antica interpretazione, o se debba modificarsi, e incominceremo 
collo stabilire il valore della difficoltà che alla ammissione di 
essa ha affaciate l’ egregio Prof. Legge. 

Io devo prima di tutto dichiarare che, ove si eccettuino 
alcune abnormi disposizioni delle parti del corpo umano dovute 
ad alterazioni patologiche e nondimeno comprese tra la varietà, 
es. la fusione dell’ atlante con l’ occipitale, eccetto questi casi, 
le vere e proprie varietà anatomiche nell’ uomo devono sempre 
riferirsi ad una analogia coi bruti. Veramente le eccezioni alle 
quali ho sopra fatto allusione non sarebbero veramente di perti- 
nenza dei nostri studi, sibbene meglio di quelli dei patologhi; 
ma è invalso l’uso comprenderla tra la varietà, ed io stesso 
in varie circostanze l’ ho fatto, ed ora accenno a questo errore. 
Che ogni vera varietà umana corrisponda ad analogia coi bruti 
e conseguentemente, per le noti leggi ontogenetiche, ad uno 
stadio o periodo embrionale è cosa adesso sufficientemente as- 
sodata alla scienza, ed io pure ho contribuito con varie pub- 
blicazioni a stabilire questo fatto ('). Ora, siccome gli abnormi 


(!) Vedi, tra le altre, il mio lavoro: IZ Darwinismo e la Embriogenia. (Rivista 
di filosofia scientifica. Torino-Milano. 1883. V. ). 


, 


UNA OSSERVAZIONE DI TERZO CONDILO OCCIPITALE NELL’ UOMO 63 


condili occipitali non hanno certamente origine da un processo 
patologico, devono rappresentare una omologia, per quella legge 
di necessità che governa la Biologia in genere, e la Morfologia 
in specie. 

Secondo Legge i condili abnormi (terzo condilo) dell’ occipitale 
sono da paragonarsi ai tubercoli basilari (faringei) e da spie- 
garsi con lo stesso meccanismo: ma che i due fatti sieno un 
po’ differenti mostra la semplice riflessione che i tubercoli fa- 
ringei trovano ragioni e dipendenza nell’ impianto della apone- 
vrosi faringea che, per i muscoli i quali vi sì inseriscono, è una 
potenza attiva, e perciò i tubercoli faringei hanno significato 
d'impianto muscolare, nè può certamente averlo l’ abnorme 
condilo occipitale. Aggiungasi poi che Legge stesso ed altri hanno 
descritto per tubercoli faringei, dai condili occipitali ‘abnormi 
o rudimentali: e tali sono appunto quelli vicini alla periferia 
del forame magno. 

I condili occipitali nel cavallo sono, come ognun sa, assai 
sporgenti in avanti, tanto che tra i loro estremi anteriori in- 
tercede piccolo spazio. Paragonati con i condili abnormi occi- 
pitali dell’ uomo, non vi ha dubbio che questi estremi loro riav- 
vicinati somigliano assai questi, e specialmente quelli come lo 
illustrato da me in questa Nota. Ma questa simiglianza di con- 
formazione non da diritto nè ragione di cercare per i condili 
del cavallo un’altra interpretazione morfologica che non sia 
quella comparativa ed evolutiva. I condili occipitali del cavallo, 
ravvicinati in avanti mercè una specie di espansione, rappresen- 
tano appunto un gradino, una formazione intermedia, una forma- 
zione ravvicinantesi al condilo unico, e perciò, pur trovando 
giusta la grossolana comparazione tra i condili del cavallo e certi 
casi di abnormi condili occipitali nell'uomo, trovo ancora che 
una forma non può venire a spiegare l’altra, essendo tutti e due 
suscettibili d'una spiegazione comune. La fossetta occipitale me- 
dia(Lombroso) o vermiana (Albrecht-Chiarugi) che abnormemente 
può trovarsi nell’ occipitale umano è uguale di aspetto a quella 
che normalmente si trova in molte scimmie: ma ambedue le 
formazioni, l’anormala umana e la normala simiana non sono 
che una forma di passaggio o relativamente rudimentaria della 
grande fossa che contiene il verme negli uccelli. Lo stesso rap- 


64 G. ROMITI 


porto di spiegazione intercede tra i condili abnormi umani, 1 
normali del cavallo ed il condilo unico dei sauropsidi. 

Un argomento inoltre che, a tutta prima, parrebbe possedere 
un certo valore per impugnare la omologia tra l’ unico condilo 
dei sauropsidi ed il terzo condilo umano, sarebbe quello tolto 
dal vedersi che la variata disposizione coincide con i condili 
normali. Ma ove si rifletta sopra a questo fatto, ben facilmente 
ci si convincie come non presenta nulla di strano. Infatti che 
nel corpo umano possa coesistere la disposizione normale e quella, 
variata d'una istessa parte, che possa cioè coesistere la dispo- 
sizione umana e quella brutale, è cosa che non tanto di rado 
si verifica, e, tra gli altri, citerò solamente nello stesso occipitale 
la esistenza del processo paraoccipitale. Quando la formazione 
ossea rappresentata dai condili normali dell’ occipite è la fusione 
di tre distinti produzioni ossee, come or ora accennerò, sì in- 
tende bene come la mancata fusione di queste tre parti fa ri- 
manere la traccia od il vestigio della primitiva triplice indi- 
vidualità. 3 

Per studiare colla massima esattezza il modo di formazione 
del condilo occipitale unico nei sauropsidi, l’ esemplare migliore 
è quello dei Cheloni, d’ una ordinaria testuggine: e ne ho fatto 
disegnare dal Dott. Mibelli la faccia posteriore del cranio, nella 
Fig. II. Si osserva in questa come l’ unico condilo risulta da tre 
formazioni, da tre condili ben distinti e separati da un solco 
profondo, ma riavvicinati e stretti l'un l’altro per formarne 
apparentemente uno ('). La porzione inferiore appartenente al 
basioccipitale presenta un condilo o un processo articolare di- 
stinto basilare: le due porzioni laterali appartenenti all’ occipitale 
laterale hanno esse pure un condilo o un processo articolare 
laterale. Queste tre porzioni nella testuggine sono divise, ed i 
tre condili appariscono così distinti che esaminando il terzo con- 
dilo umano il paragone tra i tre condili del Chelonio e della 
triplice abnorme formazione umana apparisce chiarissimo. Negli 
uccelli e negli ofidi le tre porzioni dei condili si fondono inti- 
mamente ed il condilo apparisce veramente unico. Mi parrebbe 


(‘) Trovo singolare che Sappey dica « nelle tartarughe di mare, l’unico tuber- 
«colo che rimpiazza i due condili presenta un solco nella linea mediana, che è un 
< primo vestigio d'una tendenza verso la dualità». Anatomia Descrittwa. Trad. ital. 
Napoli 1878, Vol. 1, pag. 547-48). Avrebbe dovuto parlare di due solchi e di triplicità. 


UNA OSSERVAZIONE DI TERZO CONDILO OCCIPITALE NELL' UOMO 65 


adesso inutile il ricordare e le condizioni embrionali dell’ occi- 
pitale nei vertebrati superiori, ed i vari stadi per i quali nei 
vari vertebrati il condilo unico viene successivamente a formare 
1 due condili distinti, individualizzandosi così i due condili laterali, 
a formare i quali concorre nei vertebrati superiori porzione del- 
l’occipitale basilare, cioè la sua porzione laterale anteriore: ciò 
vedesi bene esaminando la base del cranio di un neonato. Se 
però la porzione articolare del basioccipitale rimane distinto si 
ha appunto nell’ uomo il terzo condilo abnorme, unico o doppio 
secondo si sviluppa o no un estremo di quello. 

Quanto alla forma ed al numero degli abnormi condili oc- 
cipitali umani, lo studio dei condili nella testuggine ce ne da 
ragione. Il condilo basilare della testuggine, come vedesi bene 
nella figura, è conico, assai largo alla sua base, e nel mezzo 
è lievemente incavato nella direzione antero-posteriore: se lo 
immaginiamo diviso in due metà laterali, queste hanno 1’ aspetto 
come se nascessero con direzione obliqua in dentro: a questo 
modo si intende la varia forma degli abnormi '‘condili umani. 
Infine quel solco che in certe osservazioni si descrive, e che 
partisce il condilo abnorme del condilo normale è appunto il 
rappresentante di quel profondo solco che, nella testuggine, di- 
vide i condili laterali da quello basilare, e che nel neonato umano 
accenna alla porzione del condilo normale che spetta al basioc- 
cipitale. 

È per tutte queste considerazioni che io sono più che mai 
persuaso che il terzo condilo occipitale nell’ uomo è omologo al 
condilo basilare della testuggine e perciò alla porzione mediana 
del condilo degli uccelli e dei coccodrilli. È perciò errore il con- 
siderare la omologia tra il condilo abnorme umano e tutto il 
condilo unico degli uccelli, come fanno gli Antropotomi. Anche 
gli abnormi condili occipitali umani stanno perciò a rappresentare 
una normale disposizione dei vertebrati inferiori. 


©‘ 


Se. Nat. Vol. VII, fasc. 1.° 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 


Fig. I. 


Osso occipitale di maschio adulto: visto per la faccia inferiore — 
Grandezza naturale. 


I. — Inion. 

C. C. — Condili normali. 

C/ Terzo condilo. 
Fig. II. 


Cranio di Testuggine di mare, visto per di dietro — Grandezza 
naturale. 
I. — Cresta occipitale. 
L. L. — Occipitali laterali. 
B.  — Occipitale basilare. 


LA CARTILAGLNE DELLA PIEGA SEMILUNARE 


ED IL PELLICCIAIO NEL NEGRO 


NOTA ANATOMICA 


DEL DOTT. GUGLIELMO ROMITI 


PROFESSORE DI ANATOMIA IN SIENA 


Morì, non è molto, nel nostro Manicomio, una Negra demente: 
la Direzione dello stabilimento, tanto benemerita nella Scuola 
Anatomica, non potè concedere per private ragioni, lo studio 
dell’ intero cadavere, come sarebbe stato mio vivissimo desiderio. 
Dovendovi però preparare il cranio ed il cervello per conser- 
varli, io ebbi gentile concessione dal sig. D. A. Lachiî di poter 
studiare le parti molli della testa. Allora la mia attenzione si 
rivolse a ricercare più specialmente la esistenza, la forma e la 
struttura della cartilagine della piega semilunare, seguendo 
Giacomini, il quale espresse la speranza che altri Anatomici si 
occupassero di questo argomento. Capitatami la occasione, ob- 
bedisco al dovere del ricercatore e al desiderio del Collega. 

La donna era una Egiziana di una sessantina di anni, affetta 
da demenza consecutiva, e cieca per atrofia del bulbo da tise 
bulbare, da ambedue gli occhi. Cagione della morte fu un grave 
vizio cardiaco. 

Delle cose ricercate nella testa, io ricorderò solamente che 
chiarissimo esisteva un rudimento dell’ organo di Jacobson, nel 


68 G. ROMITI 


modo e nella forma che in altre-circostanze descrissi ('). Notai 
inoltre come il muscolo pellicciaio si prolungava un poco più in 
alto ed in dentro sulla faccia, certamente più in alto che nel 
Bianco, nel quale arriva fin verso il limite dei denti inferiori. Ciò 
coincideva con quanto videro Turner () e in parte Chudzinski (8): 
Giacomini (‘) trovò il muscolo pellicciaio sviluppato maggior 
mente una volta, un’ altra impiccolito, nelle altre 7 normale. 
Hartmann (*), nella figura che egli dà della musculatura del 
corpo d’un negro Monjalo, il pellicciaio in alto si vede un po’ più 
sviluppato che nel Bianco. Non vi ha dubbio che dalla maggior 
parte delle osservazioni, nel pellicciaio dei Negri si nota una 
estensione maggiore o un maggior sviluppo del muscolo sotto- 
cutaneo del collo, il qual fatto segna un passaggio allo sviluppo 
grandissimo che lo stesso muscolo assume nel Chimpanzé, fino 
a giungere all’ arcata zigomatica (Turner lo vide appunto di 
questa estensione in un negro); laddove nel Gibbone e nelle 
altre scimmie antropomorfe esso muscolo ha lo stesso sviluppo 
che nel Bianco (Hartmann) (5). 

Ma il fatto che più interessava nella testa della nostra Negra 
era appunto la esistenza della cartilagine nella piega jsemilu- 
nare, cartilagine che Giacomini non trovò costante nelle sue 
IX osservazioni su cadaveri di negri. Risolvetti allora, se ne 
verificavo la esistenza, prepararla da un lato in sito, e dall’ iLie 
toglierlo e studiarlo nella sua minuta struttura. 


(*) G. Romiti — Rudimento di organo di Jacobson nell’ uomo adulto (Bollett. 
Soc. Cult. Sc. Med. in Siena. 1884. 6. e Gazz. degli Ospitali N.° 73). 

(2) W. Turner — Notes on the dissection of a negro (Journal of the anat. and 
Phisyologie 1879, pag. 382). 

(3) Chudzìinskhi in: Revue d'Antropologie Ill, pag. 25. 1874. 

(4) C. Giacomini — Annotazioai sopra l’ anatomia del Negro. 2.2 Mem.@ pag. 28. 
Torino 1882. III. Memoria. 1884. pag. 5 

(5) Hartmann — Die menschenahnlichen Affen. Leipzig. 1883. pag. 144. V. la 
trad. ital. Milano 1884, pag. 163. È singolare che nel bellissimo libro di Testuz. 
<« Les anomalies musculaires chez l° homme. Paris » pag. 206 e seg. non si parli della 
disposizione del pellicciaio nel Negro. 

(6) Poco tempo fa, trovai nella stanza del taglio un bellissimo esempio di enorme 
pellicciaio in un maschio della nostra razza, e tale che certamente non avevo visto 
uguale, e non ricordo ugualmente descritto. In un uomo di 55 anni, alto metri 1, 80, 
a masse muscolari assai bene sviluppate, esisteva a destra un pellicciaio spesso e 
ben cornuto, il quale in basso aveva inserzioni normali. ed in alto si estendeva in 
tutta l'arcata zigomatica, confondendo le sue inserzioni con quelle di zigomatici. 
A sinistra il fatto era in minori proporzioni. 


LA CARTILAGINE DELLA PIEGA SEMILUNARE FI) IL PELLICCIAIO DEL NEGRO 69 


Esporrò prima brevemente quanto si conosce sulla cartila- 
gine della terza palpebra nel Negro. 

Si sapeva solamente dagli Anatomici come nel Negro la 
piega semilunare fosse più sviluppata che nel Bianco ( Soem- 
mering), e si conosceva in questa disposizione un rudimento più 
sviluppato della terza palpebra dei bruti, e si dava a questo 
fatto un valore puramente antropologico, considerandolo come 
un carattere di animalità (Vost). Il Giacomini, ricercando nel 
1878 gli occhi di negri, trovò che nella piega semilunare di essi 
esisteva una piccola cartilagine, resto o rappresentante della 
cartilagine della terza palpebra dei bruti. Ricercò allora la piega 
semilunare delle scimmie, e vi trovò pure la cartilagine: la 
studiò ancora nel Bianco, e quivi pure, come rara eccezione, 
ne potè trovare un rudimento ('). Nel mentre trovò costante, 
ma più o meno svilppata, la cartilagine pella piega ,semilunare 
nel Negro, vide che nel Bianco maschio era in porporzione del- 
l'1:78, 5 dei casi, nella donna bianca 1:85. 

Dopo le ricerche di Giacomini, per quanto io mi sappia, nes- 
suno ripetè le osservazioni. Anzi Martmann (1. c. pag. 196 del- 
l’ ediz. tedesca, e 209 della traduz. italiana), asserisce che lo 
studio sull’ occhio degli Antropoidi gli lascia concludere per una 
grande somiglianza coll’occhio. Nel suo recente libro Gegendaur (*), 
tanto diligente nel ricordare tutto quanto è rudimentario nel- 
l’uomo, non ricorda la cartilagine della terza palpebra; argo- 
mento questo assai prezioso in un trattato di Antropotomia, 
intesa ed indirizzata come giustamente ha fatto il chiaro ana- 
tomico. 

Nella donna Negra, che forma soggetto della mia osserva- 
zione, la piega semilunare, o terza palpebra rudimentaria, era 
grandemente sviluppata, e, sentita fra i polpastrelli, appariva 
assai consistente. Ruotato fortemente in fuori il bulbo oculare, 
notevolmente atrofizzato, uniti delicatamente la congiuntiva alla 
base della piega, e, dissecatela convenientemente, isolai una 
bella placca cartilaginea, di figura triangolare, colla base in 
avanti, e, misurante 6 millimetri verticalmente e 5 millimetri 
trasversalmente. Il muscolo retto interno presentava la stessa 


(4) C. Giacomini — Annotazioni sopra l’ Anatomia del Negro. I. Mem. Torino 1878, 
II. Mem. 1882. III Mem. 1884. — G. Romiti - Istologia speciale. Siena 1882, pag. 160. 
(?) Gegenbaur — Lelrbuch der Anatomie des Menschen. Leipzig. 1883. pag. 930. 


70 G. ROMITI 


disposizione descritta da Giacomini a pag. 22 della sua 1. Me- 
moria: si dirigeva in tre fasci dirigentisi uno alla sclerutica, 
uno alla terza palpebra, il terzo alla caruncola. 

La cartilagine della terza palpebra dell’ altro lato, dopo es- 
sere stata isolata ed indurata in alcool ordinario, venne sottil- 
mente sezionata e colorita con carminio di Grenacher. Essa mo- 
strò avere i caratteri spiccati di cartilagine fibrosa. 

Con questa Notizia ho cercato di utilizzare, nel miglior modo 
che mi è stato possibile, un materiale di studio assai raro ad 
incontrarsi nella nostra Scuola, e tanto che ritengo sommamente 
difficile trovarmi nella stessa circostanza una seconda volta. 


SOLFATO STANNOSO, SOLEATO: STANNOSO-AAMONICO 


ED ALCUNI LORO AMMON-DERIVATI 


DI 


ANTONIO LONGI 


Molto ristrette sono le cognizioni che si hanno sul solfato 
stannoso e, poichè sembra che nemmeno ne sia stata mai fatta 
l’analisi, molti trattatisti si sono astenuti dall’ assegnargli una 
formula. 

Nella speranza che il solfato stannoso od un solfato stannoso 
alcalino presentassero una stabilità maggiore del cloruro e che la 
loro soluzione potesse quindi con vantaggio sostituirsi a quella, 
di cloruro stannoso per le molteplici operazioni analitiche nelle 
quali quest’ ultima viene impiegata, io ho preparato e studiato 
il solfato stannoso ed un solfato stannoso-ammonico. 

Vari sono i metodi per i quali può ottenersi il solfato stan- 
noso, ma ho dovuto convincermi che il migliore fra tutti è quello 
per il quale lo si ottiene dalla reazione dell’ acido solforico sul- 
l’ ossido stannoso. 

Riempii di anidride carbonica un pallone della capacità di 
quattro litri circa e vi versai una soluzione recentissima di 
cloruro stannoso proveniente da 300 gr. di buono stagno puri- 
ficato per filtrazione ('). A questo pallone adattai tosto, per 
mezzo di un tappo di gomma a tre fori, un tubo a rubinetto 
munito di imbuto, un sifone il cui braccio interno scendeva fino 


(4) Metodo di Curter (Dingl. polyt. Journ. t. CCXV. 469). 


12 A. LONGI 


al fondo del pallone ed un corto -tubo piegato ad angolo retto. 
All’ estremità esterna del sifone era adattato un tubo di gomma 
chiuso con una pinzetta; il corto tubo piegato ad angolo retto 
poneva il pallone in comunicazione con un apparecchio Kipp 
ad anidride carbonica. 

Dopo avere immerso il pallone in un bagno di acqua bollente, 
per mezzo dell’imbuto a rubinetto aggiunsi a poco a poco am- 
moniaca fino a leggero eccesso e terminai di riempire il pallone 
con acqua distillata bollita. L' idrato stannoso formatosi si tra- 
sforma in questo modo in ossido il quale cade ben presto al 
fondo del pallone. Mercè l’ apparecchio adoperato, si può, senza 
far venire l’ ossido stannoso in contatto dell’ aria, separare il 
liquido e sostituirlo con anidride carbonica e continuare così a 
lavare con acqua distillata bollente fino a che il liquido decan- 
tato si mantenga perfettamente limpido coll’ aggiunta di nitrato 
di argento. 

L'’ossido stannoso ottenuto è grigio cupo in forma di sca- 
gliette lucenti di aspetto grafitoide; esso fu trattato con una 
quantità di acido solforico (gr. 240) di poco inferiore alla teorica 
(gr. 249), il risultante solfato fu disciolto in acqua bollente e 
la soluzione filtrata. La soluzione, di reazione acida, fu evaporata 
a b. m. fino a metà del suo volume. 

Durante l’evaporazione si formavano alla superficie del liquido 
delle croste di minuti cristalli strettamente intrecciati le quali 
mano mano cadevano al fondo. 

Questi cristalli A. furono separati e dalle acque madri, per 
ulteriore evaporazione, si ottennero nuovi cristalli B. 

Fu ripetuta la preparazione del solfato stannoso disciogliendo 
però l’ ossido stannoso in un eccesso di acido solforico (300 gr.) 
ed ottenni analogamente dei cristalli A'. e dalle acque madri 
di essi altre croste cristalline B'. 

‘I quattro prodotti furono spremuti bene fra carta e quindi 
asciugati nel vuoto su pomice imbevuta di acido solforico. 

Il corpo ottenuto si presenta in forma di piccolissimi cristalli 
bianchi traslucidi alcuni dei quali esaminati al microscospio 
mostrarono abito prismatico; essi poichè presentarono il feno- 
meno dell'estinzione furono ritenuti come appartenenti al sistema 
trimetrico. In altri cristalli fu osservato che alle facce prisma- 
tiche si associavano facce laterali di pinacoidi e che spesso a 


SOLFATO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO FC. 73 


queste si univano i domi. Per la loro piccolezza riuscì però im- 
possibile qualunque altra determinazione cristallografica ('). 

Esso sì discioglie in poca acqua dando un liquido limpido il 
quale, per l’ aggiunta ulteriore di acqua, si intorbida per la for- 
mazione di solfati basici insolubili: poche gocce di acido cloroi- 
drico rendono di nuovo il liquido limpido. Tal soluzione precipita 
in bianco col cloruro baritico, e trattata col solfuro idrico, cogli 
alcali, coi solfuri alcalini, col cloruro mercurico e col cloruro di 
bismuto (previa aggiunta di idrato potassico in eccesso) dà le 
reazioni proprie dei sali stannosi: essa non dà precipitato quando 
sia bollita con soluzione concentrata di nitrato ammonico. 

Riscaldato a 100°, in tubi nei quali si fece passare una cor- 
rente di idrogeno secco, subì delle diminuzioni di peso del tutto 
insignificanti. 

Riscaldato ad elevata temperatura facilmente sì scompone 
emettendo anidride solforosa. 


ANALISI QUANTITATIVA 


Le determinazioni fatte sui quattro prodotti A, B, A' e B' 
asciugati a 100° in corrente di idrogeno furono: 

a) Determinazione dello stagno — Questa determinazione fu 
fatta con vari metodi: da soluzioni titolate del prodotto in acqua 
acidulata con acido cloroidrico fu precipitato lo staeno con ni- 
trato ammonico previa sopraossidazione con acido nitrico, op- 
pure fu precipitato con solfuro idrico ed il resultante solfuro fu 
per arrostimento convertito in ossido stannico; od altrimenti 
in soluzioni titolate in acqua fortemente acidulata con acido 
solforico fu determinato lo stagno con soluzione 7; di perman- 
ganato potassico. 

b) Determinazione del residuo SO' allo stato di BaS0' dopo 
aver separato lo stagno allo stato di Sn0? o di Sn°S?. 


A 


Da 0,925 gr. di sostanza si ottennero 0,6574; 0,6577 or. di 
Sn0° corrispondenti a 0,51716; 0,51746 gr. di Sn = 55,90; 
55,94 °/, Media 55, 929/,. 


(4) Queste notizie mi vennero gentilmente comunicate dal sig. Dott. Luigi Busatti, 


14 A. LONGI 


Per 0,3962 gr. di sostanza si richiesero 37,1; 36,9; 36,8 cc. 
di K°Mn°0* & corrispondenti a 0,21889; 0,21771; 0,21712 gr. di 
Sn=99,24; 54,94; 54,80 °/,. Media 54,87 °/.. 

Da 0,925 gr. di sostanza si ottennero 0,9895; 0,9855 gr. di 
Ba SO' corrispondenti a 0,40776; 0,40606 gr. di SO! = 44,07; 
43,90 °/n. Media 43,98 °/,. 


B 


Per 0,2954 gr. di sostanza si richiesero 27,7; 27,5; 27,5 cc. 
di K*Mn°08 3 corrispondenti a 0,16343; 0,16225; 0,16225 gr. di 
Sn—=55,92; 54,93; 54,93 °/,. Media 55,06 °/,. 


A' 
Da 0,8174 gr. di sostanza si ottennero 0,5720; 0,5734 gr. di 
Sn0? corrispondenti a 0,45000; 0,45122 gr. di Sn = 55,05; 
55,20 °/,. Media 55,12%. 
Per 0,3652 gr. di sostanza si richiesero 34,1; 33,9; 34,0 cc. 
di K?Mn?08 7; corrispondenti a 0,20119; 20001; 20060 gr. di 
Sn= 55,07; 54,23; 54,75 °/. Media 54,58 Nec 


B! 


Per 0,3421 gr. di sostanza si richiesero 31,5; 31,0; 31,2 cc. | 
di K°Mn°08 7 corrispondenti a 0,18585; 0,18290; 0,18408 gr. di — 
On=54,23; 53,46; 53,81 °/. Media 53,83 %. 

I resultati di queste analisi sulla composizione dei quattro 
prodotti, fatte le medie complessive, così si riassumono: 


CERSERE. 


sn | S5I45 IE5I06 | 54,85 | 53,83 


SO4 43, 98 44,85 


Ascrivendo al solfato stannoso la tormula Sn S0* o meglio 
Sn? (S0*)? la sua composizione centesimale sarebbe: 


Sn = 55,14 
SO! = 44,86 


SOLFTAO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO EC. (43) 


Il solfato stannoso lasciato all’ aria molto energicamente ne 
assorbe l’ ossigeno per trasformarsi in ossido e solfato stannico. 
La sua soluzione pure abbandonata a se molto prontamente 
depone dell’ossido stannico ed il liquido limpido, per l’ ebollizione 
con nitrato ammonico, precipita ossido stannico. 

Il solfato stannoso, come reattivo, non può dunque sostituirsi 
con vantaggio al cloruro perchè la sua soluzione è troppo facil- 
mente alterabile; nonostante ciò io ne determinai il coefficente di 
solubilità e per tale ricerca iv mi valsi della porzione A' siccome 
quella che all’ analisi dette i numeri più prossimi a quelli teorici. 

Il solfato stannoso ridotto in polvere fu posto in una bottiglia 
a tappo smerigliato, fu aggiunta una quantità di acqua relativa- 
mente molto piccola, fu sostituita l’aria con idrogeno, fu agitato fre- 
quentemente per due giorni e quindi filtrata la risultante soluzione. 

La quantità di solfato stannoso disciolto fu determinata da 
quella di Sn0* e di BaSO! che tal soluzione forniva, nel qual 
modo fu possibile verificare che le quantità di Sn e SO* si 


Sn 
S04? 
dispensabile per decidere se il liquido esaminato fosse la vera so- 
luzione del solfato stannoso oppure di un prodotto della sua 


scomposizione coll’ acqua. 


erano mantenute fra loro nel rapporto la qual cosa era in- 


Temperatura del liquido all’ atto della filtrazione 12°. 
I. — 6,1396 gr. di soluzione dettero 1,195 gr. di SnO° e 
1,866 gr. di Ba SO*. 
II. — 8,712 gr. di soluzione dettero 1,682 gr. di SnO? e 
2,6246 gr. di BaSO*. 


| Coefficente di solubilità del solfato stannoso a 12° 


_—- da — P_i _° 


calcolato dell’ Sn0? Calcolato dal BaS04 


iL | 2, 632 2,582 
Il 2, 630 2,620 
Media ti ne te 2 616) 


(1) C. Marignac nella sua memoria « Recherches sur les formes cristallines et 
Za composition chimique de divers sels » (Annales des Mines, 5.€ Serie, XII, p. 54) ri- 
ferendo molto laconicamente sulla solubilità del solfato stannoso dà, come coefficente 
di solubilità di questo corpo a 19°, 51!/, numero molto discosto da quello da me trovato. 


16 | A. LONGI 

Dumas, nel suo Traitè de Chimie appliquée aux arts ('), par- 
lando della difficoltà che presentano allo studio i solfati stannico 
e stannoso, accennò alla probabilità che questi due sali potessero 
formare coi solfati alcalini composti più facilmente studiabili. 
Però nonostante che tali combinazioni non siano state mai da 
alcuno nè studiate nè ottenute, se si eccettuano le (K?S0'4-SnS0') 
e (K*S0‘4(SnS0')?) che Marignac ha appena accennate (?), pure 
in alcuni trattati trovasi scritto che il solfato stannoso dà coi 
solfati alcalini dei solfati doppi meno facilmente ossidabili pel 
contatto dell’ aria. | i 

Io ho voluto tentare la preparazione di combinazioni del 
solfato stannoso con quello ammonico. 

Convertii 300 gr. di stagno in ossido stannoso il quale fu 
trattato con 300 gr. di acido solforico e subito dopo con una 
soluzione contenente 335 gr. di puro solfato ammonico. Riscaldai 
la mescolanza a b. m. aggiungendo ad essa tant’ acqua bollente 
fino a che il formatosi solfato stannoso non si fu completamente 
disciolto. Per la evaporazione si formarono delle croste bianche 
formate da aggregati di minutissimi cristalli A.; esse furono 
separate dalle acque madri, dalle quali, per evaporazione ulte- 
riore si ottenne un altro prodotto B. di aspetto simile al primo. 

In un altra preparazione la soluzione risultante dalla me- 
scolanza dei solfati stannoso ed ammonico fu evaporata per ‘/, 
circa, fu rigettata l’acqua madre ed il residuo ridisciolto nella 
minor quantità possibile di acqua distillata bollente. Per la eva- 
porazione di questa soluzione si ottennero pure due frazioni A. 
e B', le quali apparentemente differivano dalle prime solo per 
una leggerissima colorazione giallognola. 

I quattro prodotti furono come, i quattro precedenti di 
solfato stannoso, spremuti fra carta e posti ad a sciugare nel 
vuoto sull’ acido solforico. 

Il corpo ottenuto si presenta in forma di aggregati di cri - 
stalli bianchi, traslucidi, minutissimi sui quali non fu possibile 
fare alcuna determinazione cristallografica. Analogamente al 
solfato stannoso, dà una soluzione che viene intorbidata per 
l'aggiunta ulteriore di acqua. Sottoposto all’ analisi dette le 


(!) T. III, p. 173. Paris 1831. 
(2) V. Memoria citata. 


SOLFATO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO EC. 07 
reazioni proprie dei solfati, dei sali stannosi e di quelli ammonici. 
Riscaldato a 100° in corrente di idrogeno non subì sensibili di- 
minuzioni di peso. Riscaldato a temperatura elevata facilmente 
sì scompone. 


ANALISI QUANTITATIVA 


Le determinazioni furono fatte sui quattro prodotti A, B, A' 
e B' asciugati a 100° in corrente di idrogeno. 


A 


Da 1,0888 gr. di sostanza si ottennero 0,5702; 0,5711 gr. di 
Sn0? corrispondenti a 0,44865; 0,44928 er. di Sn = 41,19; 
42,10 °/,- Media 41,64%. 

1,954 gr. di sostanza sottoposti alla distillazione con soda 
fornirono una quantità di ammoniaca equivalente a 69,9 cc. di 
Na0H "/,, corrispondenti a 0,12582 gr. di NH‘—6,43 °/,. 

Da 1,0888 gr. di sostanza si ottennero 1,3572; 1,3557 gr. di 
BaS0' corrispondenti a 0,55917; 0,55859 er. di SO! — 51,35; 
91,30 °/,. Media 51,32%. 

B 


Per 0,3199 gr. di sostanze si richiesero 22; 22,6; 22,2 cc. 
di K?Mn?0° "/,vo corrispondenti a 0,1298; 0,13384; 0,13098 gr. di 
 Sn==40,57; 41,99; 40,94°/,. Media 41,16 °/,. 

A' 

Per 0,518 gr. di sostanze si richiesero 36,9; 36,6; 36,5; cc. 
di K®*Mn?08 "/,,0 corrispondenti a 0,21771; 0,21594; 0,21535 gr. 
di Sn = 42,43; 42,09; 41,97%. Media 42,16 °/- 

Da 1,7862 gr. di sostanza, da cui fu separato lo stagno col 
solfuro idrico, si ottennero 0,6232; 0,627 gr. di Pt corrispon- 
denti a 0,11366; 0,11437 gr. di NH‘= 6,36; 6,40 °/,. Me- 
dia 6,38 %/. 

183 

Per 0,5695 gr. di sostanza si richiesero 40, 6; 40, 5; 40, 5 cc. 
di K?Mn?*08 "/,oo corrispondenti a 0,23954; 0,23895; 0,23895 sr. 
di Sn =42,06; 41,95; 41,95 °/. Media 41,99. 


18 FE A. LONGI ‘ 


A B | A' | B' 
Sn 41,64 41,15 42, 16 41,99 
| 
NH4 6, 43 — | 6,38 | — 
SO* 61,32 _ —_ = 


Per questi risultati si viene a concludere essersi ottenuto il 
solo composto corrispondente alla formula Sn°(S0')?+ (NH*)?S0*, 
nonostante che si fosse aggiunta al solfato stannoso una quan- 
tità di solfato ammonico di modo che i loro pesi stassero nel 
rapporto di TESTE 

La composizione centesimale teorica del Sn°(SO*)*+(NH*)?S0* 
sarebbe: 


Snia 
NH! — 6,42 
SOt — 51,42 


Il solfato stannoso-ammonico si soprossida molto prontamente 
a contatto dell’ aria. La sua soluzione, abbandonata a se, tanto 
presto quanto quella del semplice solfato stannoso, abbandona 
ossido stannico ed il liquido soprastante precipita pure ossido 
stannico per l’ ebollizione con nitrato ammonico. 

Determinai il coefficente di solubilità del solfato stannoso- 
ammonico in modo analogo a quello tenuto per la fissazione 
del coefficente del solfato stannoso. 


Temperatura del liquido all’ atto della filtrazione 11°,5. 

TI. — 12,8525 gr. di soluzione dettero 1,968 gr. di SnO? e 
4,483 gr. di BaSO*. 

II. — 12,843 gr. di soluzione dettero 1,971 gr. di Sn O? e 
4,4035 di BaSO?. 

IIT, 12,849 gr. di soluzione sottoposti alla distillazione con 
soda fornirono una quantità di ammoniaca equivalente a 63 cc. 
di Na0H "/, corrispondenti a 0,2268 gr. di NH*. 

IV. — 12,8505 gr. di soluzione sottoposti alla distillazione 
con soda fornirono una quantità di ammoniaca equivalente a 
63,5 cc. di NaOH "|, corrispondenti a 0,2286 gr. di NH". 


SOLFATO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO EC. 19 


| Coefficente di solubilità del solfato stannoso-ammonico a 119,5 


.TYTYTochcTrr e_—_————_ _rrr—-._._ re ""="="—T——_—_—€—€ € 


calcolato dall’ Sn0? calcolato dal Ba SO4 calcolato dall’ NH* 


| | 
I | 2, 498 | 2,978 | —_ 
II. | 2, 490 | 2, 640 | = 
n | x | A | 2,642 
IV | —_ | _ | 2, 613 
MIGGIE vai oe Salo TEO 


L’ammoniaca è capace di formare delle combinazioni con 
vari composti dello stagno. Fra le combinazioni ammon-stanniche 
sì possono citare 


Sn C1°, 2 NH? di Rose 

Sn Cl’, 4 NH? di Gouvelle e Persoz 
Sn Br', 2 NH? di Ragman e Preis 
Sn I, 8 NH° di Rammelsberg; 


però di combinazioni ammon-stannose non è a mia cognizione 
che la Sn C1?, NH? di Persoz. 

Nell’ intento di venire in conoscenza di nuove combinazioni 
ammon-stannose io sottoposi all’ azione dell’ ammoniaca l’ ossido 
stannoso, il solfato stannoso ed il solfato stannoso-ammonico. 
Questi composti, ridotti in tenuissima polvere, furono asciugati 
| in corrente di idrogeno in tubi riscaldati a 100°, furono pesati 
e fu fatta passare su di essi ammoniaca perfettamente secca. 

L’ ossido stannoso non sì combina coll’ ammoniaca nè ad 
una temperatura di vari gradi sotto 0°, nè a 25°-30° nè a 100° 
nè a 200°. 

Il solfato stannoso assorbe ammoniaca tanto alla temperatura 
ordinaria che a 100° trasformandosi in un composto colorato 
intensamente in giallo; questa combinazione però si effettua 
molto lentamente e sono necessari molti giorni avanti che i 
tubi cessino di aumentare di peso. 


80 A. LONGI 


T. 5,168 gr. di solfato stannoso assorbirono 1,639 gr. di 
ammoniaca; i 
II. 7,243 gr. di solfato stannoso assorbirono 2,281 gr. di 
ammoniaca; 
per cui si deduce che il composto giallo contiene 24,07;523,94 °/ 


1a 


di ammoniaca e che gli si può ascrivere una delle due formule 
Sn SO’, 4NH*; Sn? (S05f, 8NH? 


che richiedono 24,11 °/, di ammoniaca. 

Esso si scompone colla massima facilità per l’ azione di 
l’acqua. Abbandonato all’ aria ne assorbe l’ umidità: emette am- 
moniaca e si trasforma in una polvere bianca risultante da 
solfato ammonico ed ossido stannoso. 

Il solfato stannoso assorbe pure ammoniaca quando sia ri- 
scaldato alla temperatura di 180°-200°; in queste condizioni 

I. 8,140 gr. ne assorbirono 0,305 gr.; 
II. 9,252 gr. ne assorbirono 0,359 gr. 

Il composto che ne risulta è colorato in giallo pallido e con- 
tiene 3,61; 3,73 °/, di ammoniaca. Ad esso si può assegnare la 
formula 


Sn? ($05?, NH? 


che richiede 3, 82 0/, di ammoniaca ('). 
Per l' azione dell’acqua esso si scompone in solfato ed ossido 
stannoso e solfato ammonico. 
Il solfato stannoso ammonico assorbe pure ammoniaca alla 
temperatura ordinaria acquistando una bella colorazione gialla. 
I. 2,6925 gr. ne assorbirono 0,3050 gr.; 
II. 3,9655 gr. ne assorbirono 0,4000 gr. 


(') Il solfato stannoso ridotto in tenuissima polvere e sospeso nel cloroforme anidro 
assorbe pure l’ ammoniaca secca trasformandosi in un composto colorato in giallo 
pallido. Sul prodotto, asciugato in una corrente di idrogeno secco, fu determinato 
l’SO* e per media di due determinazioni concordanti si ottenne per rapporto cente- 
simale 41,02; però, per un caso fortuito essendosi guastato il prodotto, non potei più 
“fare le determinazioni dello stagno e dell’'ammoniaca la quale ultima specialmente 
era necessario, in questo caso, determinare; perciò per il solo dato ottenuto io non 
posso decidere se alla combinazione formatasi sia da assegnarsi la formula SnS04, NHS 
(o meglio Sn? (SO*)2, 2NH® ) per cui si richiede 41,579/ di SO oppure 1’ altra 
Sn? (SO4)?, 3NH* la quale richiederebbe 40,91 °/, di SOA. 


SOLFATO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO EC. 81 


Il risultante composto contiene, dunque, 10,19; 10,62 "o di 
ammoniaca e corrisponde alla formula 


Sn* (NH*)? (S0*)?, 4NH? 
per la quale si richiedono 10,82 °/, di ammoniaca. 


Coll’ acqua esso si scinde in ossido stannoso e solfato am- 
monico. 


È questione non ancor definita se le combinazioni stannose 
contengano un atomo di stagno funzionante da bivalente, op- 
pure due atomi tetravalenti di questo elemento i quali per es- 
sersi reciprocamente uniti per due unità di saturazione vengano 
a formare un aggruppamento tetravalente. 

Lo studio delle combinazioni stannose presenta delle notevoli 
difficoltà per causa della loro estrema tendenza a trasformarsi 
in derivati stannici e da ciò deriva se su molte di esse si hanno 
solamente cognizioni molto incomplete. Il composto meglio stu- 
diato è certamente il cloruro; e le ricerche fatte su questo corpo 
ci permettono di fare alcune considerazioni sulla costituzione 
delle combinazioni stannose. Per due determinazioni della densità 
di vapore del cloruro stannoso, fatte da Rieth e delle quali egli 
sì limitò esclusivamente a comunicare i risultati ('), si potrebbe 
dedurre che ciascuna molecola di esso contiene un solo atomo 
di stagno; però più recentemente V. e C. Meyer avendo fatta la 
stessa determinazione (*) trovarono per la densità di vapore i 
valori 


12, 85 alla temperatura di 619° 
e 13,08, i MUTA 


i quali li condussero a stabilire che Sn? Cl* esprimeva la gran- 
dezza molecolare del cloruro stannoso. 

Th. Carnelly (*) si oppose alle conclusioni dedotte pei risultati 
ottenuti’dai due Meyer, perchè le loro determinazioni erano state 
fatte a temperatura troppo vicina al punto di ebollizione del 
cloruro stannoso (*). In seguito a ciò V. Meyer ed H. Zuùblin 


(') Berliner Berichte III, 668. 
(3) ivi XII, 1197-1198, 
(3) Berliner Berichte XII, 1836. i i 
(4) Lo stesso Carnelly insieme con Carleton Williams hanno trovato che esso 
bolle fra 617° e 628. (Berliner Berichte XII,- 1370). 
So. Nat. Vol. VII, fascic. 2.° 6 


82 i A. LONGI 


ripeterono le esperienze alla temperatura di 800° e 970° e tro- 
varono (') che in queste condizioni il cloruro stannoso (non de- 
componendosi affatto con liberazione di cloro) forniva un volume 
doppio di quello ritrovato alla temperatura di 619° e 697°; per 
cui essi stabilirono che il cloruro stannoso allo stato di vapore 
esiste in due stati distinti a seconda della temperatura: quello 
di Sn? C1* a temperatura più bassa e quello di Sn C1* a tempe- 
ratura più elevata. 

A me sembra però che per tali ricerche si possa quasi sicura- 
mente decidere sulla esistenza dell’aggruppamento —Sn=Sn=, 
poichè il valore 13,08 tanto vicino al teorico 13,06 fu deter- 
minato ad una temperatura (697°) di circa 75° superiore a quella 
di ebollizione del cloruro stannoso, per cui non si può dubitare 
che esso non si trovasse allo stato di vapore perfetto. 

Ogni dubbio però sarebbe del tutto rimosso quando si po- 
tessero produrre ancora argomenti di ordine chimico in favore 
dell’ aggruppamento =Sn=$Sn=. 

Per analogia col carbonio e col silicio, nonostantechè non 
si sia potuto ancora determinare direttamente la grandezza ,mo- 
lecolare del protocloruro di silicio ottenuto da Troost e Haute- 
feuille (£), si dovrebbe ottenere per lo stagno un cloruro Sn? C1° 
intermedio fra quello stannico e lo stannoso: A. Ladenburg (?) 
tentò infatti di ottenere un prodotto di alogenazione intermedio 
facendo agire il bromo sul cloruro stannoso, ma la grande 
energia dell’ alogeno e la poca stabilità dei legami per i quali 
stanno uniti fra di loro gli atomi di stagno, gli impedirono di 
arrestare la reazione alla formazione di un prodotto del tipo 
Sn? (X'); egli giunse però a dimostrare la esistenza di un pro- 
dotto di questo tipo studiando le combinazioni dello stagno coi 
residui alcoolici. ACRI 

Frankland (‘) e Lòvig (7) scoprirono che per l'azione della 
lega di stagno e sodio sull’ioduro etilico si formano diversi etil- 
derivati dello stagno: lo stagno-tetraetile, -trietilioduro, -trietile 
e -dietile. Se lo stagno-dietile avesse potuto volatilizzarsi senza 


(1) Berliner Berichte XIII, 811-815. 

(?) Comptes rendus. 1871, LXXHI, 567. 

(3) Ann. d. chem. u. Pharm. VIII Supplementband 60-63. 
(4) ivi LXXXV, 329. 

(5) ivi LXXXIV, 308. 


SOLFATO STANNOSO, SOLFATO STANNOSO-AMMONICO EC. 83 


decomposizione, la questione della esistenza dell’ aggruppamento 
=Sn=Sn= sarebbe omai già stata definita, ma disgraziata- 
mente egli si decompone in stagno e stagno-tetraetile: d’ altra 
parte poi il processo di preparazione non è tale da poter portare 
alcun lume sulla sua costituzione. 

Lo stagno-trietilioduro può paragonarsi ad un ioduro alcoolico, 
quindi, analogamente, per azione del sodio i due residui — Sn(C°H5)* 
monovalenti si dovrebbero unire per formare il composto Sn°(C?H5)5 
identico allo stagno-trietile di Frankland e Lòvig. Questa sintesi 
fu infatti realizzata da Ladenburg (') e la formula Sn? (C°H5)6 
che per essa fu condotto ad assegnare al prodotto ottenuto 
venne in tutto confermata per le determinazioni della densità 
di vapore (*). 

L’ esistenza di un corpo della formula molecolare (Sn°)" (X')° 
è un argomento validissimo in favore della formula (Sn?)"(X)* 
da assegnarsi alle combinazioni stannose; poichè se è possibile 
e provata l’ esistenza dell’aggruppamento =Sn—Sn= nessuna 
ragione si oppone a che si ammetta con quasi ugual certezza 
quella dell’ altro aggruppamento —Sn=Sn=, nonostante che 
fino ad ora non si sia riusciti ad acquistarne prove dirette. 

Per queste considerazioni io assegno al solfato stannoso la 
formula S0'=Sn=Sn=sSO' alla quale vengo pure condotto per 
un fatto di ordine puramente chimico: Io ho precedentemente 
mostrato come il solfato stannoso riscaldato fra 180° e 200° as- 
sorba una quantità di ammoniaca tale da formare un corpo la 
cui formula più semplice è Sn®(S0O')? NH. Ora, in considerazione, 
specialmente, del bel lavoro di V. Meyer ed M. Lecco sulla co- 
stituzione dei composti-ammonici (*), è necessario ammettere che 
l’azoto sì unisca direttamente ai due atomi di stagno e che la 
formula di costituzione dell’ ammon-derivato, che io chiamerò 
solfato di ammon-stannoso, sia quindi 


3 
MESTRE 


Per analoghe considerazioni si devono pure ritenere quali 
combinazioni atomiche gli altri due derivati ammonici e devono 
chiamarsi: solfato di octoammon-stannoso (Sn*(NH?)8) (S0*)? quello 


(') Ann. d. Chem. u. Pharm. VIII Supplementband p. 64-70. 
(2) Ivi. 
(3) Berliner Berichte VIII (1875), p. 233. 


84 A. LONGI — SOLFATO STANNOSO, SOLFATO EC. 


ottenuto dal solfato stannoso, e solfato di tetraammon-stannoso 
ammonico (Sn°(NH?)'(NH')S0')? quello ottenuto dal solfato 
stannoso ammonico, al quale ultitno corpo non si può a meno 
di assegnare la formula 
5 da 4 
SO*Sn—Sn 50 NH 
poichè infatti se le parti costituenti del solfato ammonico non 
si fossero unite direttamente a quelle del solfato stannoso, per 
un nuovo reparto delle valenze proprie a ciascuno dei cinque 
elementi, il risultante corpo si sarebbe razionalmente compor- 
tato, per l’ azione dell’ ammoniaca, quale una mescolanza di so]- 
fato stannoso e solfato ammonico e ne sarebbe risultato un 
tutto con una composizione corrispondente ad un solfato di 
octoammon-stannoso ammonico, mentre che, come ho mostrato, 
io ottenni in questo caso un tetraammon-derivato. 

Questo studio mi ha offerto dunque di pronunciarmi in favore 
del tipo (Sn°)"(X')" al quale necessariamente vengo condotto 
dall’ ottenuto solfato di ammon-stannoso. Nuovi e più importanti 
fatti di ordine chimico si richiedono però per poter giungere 
a stabilire definitivamente la costituzione delle combinazioni 
stannose, per cui io ho in animo di continuarne lo studio in 
questa direzione. 


Pisa, dal laboratorio di Chimica generale della 
R. Università - Novembre 1884. 


BULOTTI 


CORRELAZIONE DI GIACITURA 


IL FORHDO QUARZIFERO I il TRACK QUANZ IA 


NEI DINTORNI 


DI CAMPIGLIA MARITTIMA E DI CASTAGNETO 
IN PROVINCIA DI PISA 


In altra occasione ('), trattando dei graniti toscani, feci notare 
che nei monti di Campiglia e di Castagneto si verifica un fatto 
 eloquentissimo in appoggio della tesi di una stretta relazione 
genetica fra i graniti e le trachiti. Dissi che da una massa di 
liparite o trachite quarzifera cordieritica ben caratterizzata, che 
ha interessato gli strati eocenici, dipartonsi filoni di porfido 
quarzifero, i quali nei pressi di Castagneto penetrano negli scisti 
varicolori a Posidonomya Bronni del lias superiore e nei dintorni 
di Campiglia attraversano i calcari del lias inferiore. Il fatto 
aveva troppa importanza perchè nor meritasse di essere studiato 
accuratamente, e soprattutto interessava di mettere in chiaro 
la vera natura di quelle roccie sulle quali, tranne alcune ricerche 
del vom Rath (*) e del Vogelsang (*), non esisteva uno studio 
micropetrografico completo. Tale lacuna è stata ora colmata dal 


(!) Lotti — Considerazioni sulla età e sulla origine dei graniti toscani. (Boll. 
geol. 3 e 4 1884). 

(?) G. vom Rath — Quarzfuhrender Trachit von Campiglia Marittima ( Zeits. 
et. XVill 1866, pag. 639). 

(3) H. Vogelsang — Philosophie der Geologie etc. Berlin 1867. 


86 B. LOTTI 


prof. D’ Achiardi e sappiamo ormai cosa pensare sulla costitu- 
zione mineralogica di queste due roccie, le quali, sebbene tanto 
diverse nel modo d’aggregazione e nell’ aspetto esterno, pei fatti 
che andremo esponendo sono da ritenersi unicamente quali mo- 
dalità di uno stesso magma eruttivo dovute alle condizioni dif- 
ferenti in cui avvenne il suo consolidamento. 

Dai geologi toscani Savi, Pilla, Meneghini e da altri le roccie 
feldspatiche di Campiglia furono sempre denominate riacoliti 
o trachiti quarzifere. Il vom Rath, cui son dovuti tanti eruditi 
lavori sulle roccie eruttive del nostro suolo, analizzò e descrisse (') 
una roccia eruttiva del Campigliese, che per la presenza di una 
pasta amorfa di feldspato sanidinico e per l’intiero suo abito 
credè di poter classificare fra le trachiti. Gli rimase però qual- 
che dubbio essendochè la roccia conteneva un buon numero di 
diesaedri di quarzo e la cordierite, cosa insolita nelle roccie vul- 
caniche; ad avvalorare questo dubbio aggiungevasi che nei din- 
torni era stata osservata pure una roccia porfirica in filoni, 
non lungi dalla massa ritenuta di trachite. Per togliere ogni 
dubbio 1° Autore volle nuovamente visitare il Campigliese (®) e 
percorrendo la valle delle Rocchette, che taglia in traverso le 
colline eruttive di S. Vincenzo, si convinse che esse erano vera- 
mente formate di trachite. Il confronto poi della roccia eruttiva 
delle colline con quella granitico-porfirica dei filoni, la loro non 
dubbia connessione, la presenza in ambedue della cordierite fe- 
cero certo l’ Autore della impossibilità di tener distinta la roccia 
supposta trachitica della massa da quella porfirica dei filoni e 
non potendo ritenere quest’ ultima quale trachite finì per con- 
cludere che la roccia della massa non era da classificarsi fra le 
trachiti. La instabilità nella opinione di questo profondo osser- 
vatore a riguardo delle roccie feldspatiche del Campigliese di- 
pendeva manifestamente dal fatto che la struttura della roccia 
in filoni è tutt’ altro che trachitica, ad onta che la sua connes- 
sione con quella veramente trachitica della massa apparisca in- 
contestabile. 

Le ricerche micropetrografiche del D’Achiardi, i risultati 
delle quali son resi di pubblica ragione in questo stesso volume 


‘(3) G. vom Rath — Zetùts. XVIII, pag. 639. i 
(2) G. vom Rath — Die Berge vom Campiglia etc. — ? (Zeits.ete XX, 1868, 
page 326-327). 


CORRELAZIONE DI GIACITURA FRA IL PORFIDO E LA TRACHITE QUARZIFERA - 87 


degli Atti della Società toscana di Scienze naturali, hanno pie- 
namente dimostrato che la roccia costituente la quasi totalità 
della massa eruttiva nelle colline fra S. Vincenzo e Castagneto 
è non solo una vera e propria trachite quarzifera, ma una tra- 
chite a pasta fondamentale vetrosa, e che la roccia la quale 
comparisce in filoni in prossimità della massa trachitica è por- 
fido quarzifero che appena differisce da altri porfidi quarziferi 
per avere i grossi cristalli isolati di feldspato somiglianti più 
alla sanidina che all’ ortose. Ì 

Dopo ciò interessava vivamente di constatare i rapporti 
geologici fra la roccia trachitica e il porfido quarzifero, rapporti 
soltanto intraveduti dal vom Rath e dagli antichi geologi to- 
scani, i quali, con questo esempio del Campigliese e coll’ altro 
dell’ Elba, non seppero mai trovar differenza per la genesi e 
per l'età fra i graniti e le trachiti. A questo scopo mi proposi 
ed eseguii colla massima cura il rilevamento geologico della re- 
gione compresa fra Castagneto e Campiglia, sulla carta alla 
scala di '/-o0no del nostro istituto geografico, ed ora ne vado 
esponendo brevemente i risultati, mentre la unita cartina geolo- 
gica mi dispensa dal descrivere la conformazione della località 
e la distribuzione topografica delle roccie. 

La massa trachitica delle colline littoranee le quali, con 
un'altezza media sul mare di circa 150 metri, stendonsi fra il 
Botro ai Marmi presso Campiglia e quello di S. Maria presso 
Castagneto, non presenta notevoli varietà, e quella di Donoratico, 
studiata dal D’ Achiardi, si può considerare come il tipo di 
questa formazione. Quasi dappertutto ritrovansi in essa quelle 
inclusioni micaceo-pirosseniche, con cristalli piramidali di quarzo, 
descritte dallo stesso Autore. Una varietà nera di trachite, che 
‘apparisce in zone alternanti con quella biancastra o grigia or- 
dinaria, contiene, come le inclusioni, gruppi cristallini di piros- 
seno verdecupo. Presso S. Vincenzo ed anche altrove la trachite 
presenta una pseudostratificazione marcatissima di cui approfit- 
tano i cavatori in quella località per farne lastre da pavimenti, 
gradini etc. Sulla sinistra del Botro delle Rozze o delle Rocchette 
la roccia eruttiva diviene parzialmente pumicosa e può notarsi 
che la vetrificazione ha interessato soltanto la massa fondamen- 
tale; il quarzo, i cristalli più grossi di sanidina e la biotite sono 
rimasti impigliati nelle sfilacciature pumicee. Questa parziale 


88 B. LOTTI 


vetrificazione sì ritrova poi frequentemente al contatto cogli 
strati calcareo-argillosi eocenici, che appariscono quà e là in 
lembi, quali residui d’ un mantello che ricuopriva un tempo la 
massa eruttiva. Presso questo contatto, sempre sulla sinistra 
del Botro delle Rozze, apparisce una breccia di aspetto resinitico 
che ricorda quelle brecciole calcaree a nummuliti non rare nei 
terreni eocenici; vi si osservano infatti frammenti angolosi di 
varie dimensioni, grigiochiari, grigiocupi, giallastri, neri, senza 
dubbio in origine calcarei, che furon poi convertiti in silice re- 
sinoide per sostituzione chimica. Certo è che gli elementi di 
questa roccia non furono cementati posteriormente alla loro 
silicizzazione, ma essa si operò sulla roccia aggregata. La tra- 
chite poi ravvolge qui alcuni frammenti del calcare eocenico di 
contatto perfettamente inalterato ed a luoghi è convertita in 
retinite, talora gialla, talora colorata in rosso vivo da sesquios- 
sido di ferro. 

Risalendo le valli delle Rocchette e di Bufalareccia osservasi 
che la massa eruttiva delle colline viene a contatto coi terreni 
liassici costituenti la parte montuosa della regione; ma in tal 
caso la roccia eruttiva non è più trachite, come a Donoratico 
e a S. Vincenzo ove è a contatto cogli strati eocenici, ma por- 
fido quarzifero identico a quello dei filoni. Al Poggio Lombardo 
la roccia porfirica sta in contatto cogli scisti varicolori a Posi- 
donomya Bronni del lias superiore e poco appresso, al Poggio, 
delle Ginepraje, tale contatto verificasi coi calcari bianchi del 
lias inferiore, i quali non presentano) alterazione di sorta, nè 
sono cristallini come nella conca di Campiglia, ma soltanto ce- 
roidi e fossiliferi, come gli analoghi del M. Pisano, delle Alpi 
Apuane e dell’ Elba. Girando intorno al Poggio delle Ginepraje 
la massa eruttiva ritorna in contatto cogli scisti del lias su- 
periore, pur mantenendosi porfirica, e poi, più a Sud, coi sedi- 
menti eocenici divenendo nuovamense trachitica. L’ ampiezza 
della zona porfirica di contatto è un po’ indeterminata, ma può 
raggiungere all’ incirca 500 metri. 

Nel letto del Botro di S. Maria presso Donoratico, in p quel 
di Castagneto, vedesi il porfido quarzifero penetrare negli scisti 
del lias superiore a guisa di filone, con 5 o 6 metri di spessore, 
che espandesi poi più sopra, sulla sinistra del fosso, in una pic- 
cola massa cupolare circoscritta dagli scisti stessi, La roccia, 


CORRELAZIONE DI GIACITURA FRA IL PORFIDO E LA TRACHITE QUARZIFERA 89 


che è appunto quella studiata dal D’ Achiardi, presenta grossi 
cristalli di feldspato alquanto vetroso, nel quale sta diffusa 
molta biotite e qualche prisma di pinite. Nella parte più su- 
perficiale dell’ affioramento essa diviene pumicosa, come vedemmo 
accadere per la trachite, e fra la porzione vetrificata e quella 
cristallina vi è un passaggio graduato che può osservarsi in uno 
stesso campione. In accordo con quanto vedemmo verificarsi 
per la trachite, anche nella porzione pumicosa del porfido è 
soltanto la pasta feldspatica che si è vetrificata, mentre i grossi 
cristalli di feldspato, il quarzo e qualche lamina di mica ap- 
parentemente decolorata, vi sono impigliati. 

Due filoni perfettamente paralleli di porfido quarzifero, aventi 
uno spessore medio di 4 o 5 metri e diretti da N.N.0. a S.S. E. 
attraversano i calcari del lias inferiore, tanto ceroidi che sac- 
caroidi, della conca di Campiglia e lungo il loro percorso, per 
più che due chilometri, sono scortati dai celebri giacimenti pi- 
rossenico-metalliferi tanto bene descritti dal Savi (') e dal vom 
Rath (*). In un punto del filone più occidentale, presso il Pozzo 
Coquand, il porfido quarzifero è tanto intimamente collegato ai 
silicati ferrocalciferi (pirosseno, epidoto e ilvaite) che esso pure 
è in parte divenuto pirossenico ed epidotifero. Poco più sopra 
osservasi nello stesso filone che la roccia eruttiva diviene felsi- 
tica od euritica al contatto coi calcari, i quali del resto non 
soffersero alterazioni di sorta. I cristalli di feldspato, porfirica- 
mente diffusi nella roccia di questi filoni, sono per lo più alquanto 
trasparenti, forse però non come quelli di vera sanidina ed in 
qualche punto, come ad esempio presso la Cava del Piombo nel 
filone orientale, hanno più l’ aspetto dell’ ortose che quello della 
sanidina. 

Una massa eruttiva isolata, in forma di cupola, riapparisce 
nella valle del Botro ai Marmi, verso Campiglia, al disotto dei 
calcari grigi saccaroidi (bardigli) a couzeranite, che costituiscono 
il terreno più antico della serie geologica di questi dintorni e 
son forse riferibili all’ infralias, se pure non debbono riunirsi al 
lias inferiore coi marmi bianchi sovrapposti. La roccia eruttiva 
è quì anche meno somigliante alla trachite di quello che non 


(!) Savi Paolo — Oss. geol. sul Campigliese (N. Giorn. Lett. XVIII, Pisa 1829). 
(2) G. vom Rath — Die Berge von Campiglia ec, (Zeits. ete. XX, 1868). 


90 B. LOTTI 


lo sia il porfido quarzifero preso finora in considerazione, dal 
quale differisce per una più manifesta granulazione della massa, 
per la mancanza di pinite e per la scarsità della mica e dei 
grossi cristalli di feldspato; la sua struttura rammenta quella 
di certi graniti porfirici dell’ Elba, abbenchè il feldspato ortotomo 
abbia pur sempre un po’ d’ apparenza vetrosa. 

Riassumendo noteremo adunque i seguenti fatti principali: 

1. Nei dintorni di Campiglia e di Castagneto le roccie 
eruttive feldspatiche compariscono o in una massa cupolare 
ricoperta quà e là da lembi di roccie sedimentarie eoceniche, 
o in filoni negli scisti del lias superiore e nei calcari ceroidi o 
saccaroidi del lias infericre. 

2. La massa eruttiva cupolare è formata di trachite quar- 
zifera, ad eccezione di quella sua parte che viene a contatto 
coì terreni liassici la quale è di porfido quarzifero, come di por- 
fido quarzifero sono pure i filoni racchiusi nelle roccie liassiche. 

s. La roccia eruttiva della massa cupolare a contatto cogli 
strati eocenici rimane trachite e presenta anzi a luoghi fenomeni 
di vetrificazione in se stessa e di silicizzazione nelle roccie eoce- 
niche di cui racchiude qualche frammento. 

4. Nessun fenomeno di contatto presenta il porfido sugli 
scisti e sui calcari liassici, nè tale è da riguardarsi la saccariz- 
zazione dei calcari nella conca di Campiglia, poichè si osserva 
che i filoni eruttivi attraversano indifferentemente i calcari ce- 
roidi fossiliferi e quelli saccaroidi. 

5. La roccia eruttiva che apparisce di sotto ai bardigli 
del M. Rombolo, costituenti la formazione più profonda della 
serie in questi dintorni, ha una struttura granitica più marcata 
di quella della roccia porfirica dei filoni. 

6. I giacimenti pirossenico-ilvaitici, cui si associano i mi- 
nerali di ferro, piombo, zinco rame e stagno, sono strettamente 
collegati ed in manifesta relazione genetica colle roccie eruttive. 

Da quanto è stato esposto risulta adunque chiaramente di- 
mostrato che i due tipi principali di roccie eruttive, trachite e 
porfido, non rappresentano altro che modalità di consolidamento 
di uno stesso magma dipendenti da condizioni diverse in cui 
esso consolidamento si verificò. Tali condizioni devono riferirsi 
specialmente a differenze di profondità, potendosi così soltanto 
spiegare perchè la massa eruttiva mantiensi trachitica a contatto 


CORRELAZIONE DI GIACITURA FRA IL PORFIDO E LA TRACHITE QUARZIFERA 91 


colle roccie sedimentarie eoceniche, superficiali e di esiguo spes- 
sore, mentre diviene granitico-porfirica a contatto con quelle 
più profonde liassiche. La struttura granitoide della massa erut- 
tiva del M. Rombolo, da riguardarsi come la più profonda, e 
la saccarizzazione dei calcari liassici nell’area metallifera di 
Campiglia lascerebbero pur anco sospettare la esistenza, sotto 
quell’ area, di una roccia decisamente granitica alla quale, come 
altrove, sarebbero dovuti e i fenomeni metalliferi e il metamor- 
fismo del calcare liassico. 

Quanto all’ età di queste roccie eruttive solo può asserirsi che 
esse sono posteriori all’ eocene; chè se volessimo trovare un le- 
game genetico fra queste e le roccie granitiche e porfiriche del- 
l Elba, del Giglio, di Montecristo e di Gavorrano, perchè esse 
pure posteoceniche e in relazione con silicati ferrocalciferi e con 
giacimenti metalliferi e perchè hanno a comune vari minerali 
accessori, quali la tormalina e la cordierite o pinite, dovremmo 
fissarne l’ età fra la fine dell’ eocene e il miocene superiore ('). 
È a notarsi in proposito che, alla stessa guisa come all’ Elba, 
manca nel Campigliese tutta la serie miocenica e ‘pliocenica, 
che pure è ben sviluppata a poca distanza nelle valli della 
Cecina e della Cornia. 

Quand’ anche del resto siano a tenersi distinte in rapporto 
alla età le roccie eruttive del Campigliese dalle altre dell’ arci- 
pelago toscano, non viene con ciò menomamente diminuita ] im- 
portanza del fatto che tra il granito tipico terziario dell’ Elba 
e la trachite quarzifera, pure terziaria, del Campigliese abbiamo 
tutti i passaggi per mezzo dei graniti porfirici, dei porfidi quar- 
ziferi a ortose e dei porfidi quarziferi a sanidina, tantochè i . 
nostri antichi geologi Savi, Pilla, Pareto, Meneghini ed altri 
più recenti, fra i quali il Cocchi (2) e il D'Achiardi (?), riconob- 
bero sempre uno stretto legame fra le roccie granitiche e tra- 
chitiche della Toscana; legame che non era sfuggito al vom 
Rath, il quale pur non divideva intieramente le idee dei geologi 


(1) Lotti — Consid. sulla età e sulla origine dei graniti toscani. (Boll. geol. 
3 e 4. 1884, 

(3) I. Cocchi — Descr. geol. dell’ Isola d’ Elba. (Mem. Comit. geol. d’Italia, 
TE) Io i 

(8) A. D’Achiardi — Cordierite nel granito dell’ Elba, (Atti Soc, tosc. sc. nat. 
II, 1876). 


92 B. LOTTI — CORRELAZIONE DI GIACITURA FRA IL PORFIDO EC. 


toscani, allorquando esclamava (') , Sollte es in Toscana in der 
That nicht mòglich sein, was aller Orten so leicht ist, trachy- 
tische und granitishe Gesteine zu unterscheiden?, ed è infatti 
proprio così. 


(4) G vom Rath — Die Berge vom Campiglia. (Zeits, ete. XX, pag. 326). 


Vedi tav. VII. 


D. PANTANELLI 


VERTRBRATI FOSSILI 


DELLE 


iN DSS EOLO 


Pochi anni indietro furono scoperti nelle vicinanze di Spoleto 

banchi rilevanti di lignite, che oggi concessi in esplorazione a 
diverse società promettono un ricco avvenire a quella regione, 
anche poi per la vicinanza di Terni centro importante d’ indu- 
strie svariate. 
. Maggiori dettagli circa queste ligniti possono aversi da una 
pubblicazione del prof. Ricci (La lignite di S. Angelo in Mercole, 
Spoleto 1881); in questa interessante memoria mi si è voluto 
fare l’ onore di pubblicare a mia insaputa uno abbozzo inedito 
di carta geologica dello Spoletino da me fatta prima del 1873 
e lasciata al mio ottimo amico Conte F. Toni: in questa oggi 
avrei molto a ridire; fortunatamente la riproduzione litografica 
è così infelicemente riuscita che mi dispensa da qualunque pos- 
sibile correzione. 

Il banco di lignite a N. O. di Spoleto nei pressi di S. An- 
gelo in Mercole e S. Croce è compreso in una argilla d’ origine 
lacustre; inclina variamente ad Est con pendenza sufficientemente 
regolare salvo qualche rottura locale dipendente da strisciamenti 
verso l’asse della valle; la sua potenza oltrepassa in qualche 
località i 15 metri e sottostà alle marne lacustri di Castel Ri- 
taldi dalle quali trassi in altri tempi le specie d’ acqua dolce 
seguenti: ana sp. Belgrandia prototypica Brus., Neumayria la- 


94 D. PANTANELLI 


biata Neum., Emmericia umbra De Stef., Melanopsis Esperî Ferr., 
M. fflammulata De Stet., Valvata piscinalis Mill., Neritina Panta- 
nellii De Stef., Pisidium Lawleyanum De Stef., Lymnaea subpa- 
lustris Thom., Unio sp. le quali, meno le due ultime furono 
illustrate da De Stefani nel suo lavoro sopra i molluschi plioce- 
nici continentali e sul loro ordinamento; per quanto abbia cer- 
cato non mì è stato possibile di ritrovare presso la lignite 
avanzi riconoscibili di molluschi; se però questi sono mancanti, 
lo stesso non può dirsi dei vertebrati e le poche specie raccolte 
servono a sufficienza per determinare con precisione il piano di 
queste ligniti. I 

Fino dal 1879 il Capellini presentò all’ Accademia di Bologna 
dei molari di Mastodon di questa località; che poi nel 1881 
disse appartenere al JI. arvernensis; intanto il Conte Toni intel- 
ligente e passionato raccoglitore delle ricchezze geologiche del 
suo paese, andava raccogliendo quello che il caso portava alla 
luce negli scavi della lignite e al precedente si aggiunse il M. 
Borsoni e il Tapirus arvernensis. 

L’anno decorso essendomi recato a Spoleto anche per sod- 
disfare alla mia pungente curiosità per avere io in altri tempi 
percorso varie e ripetute volte la regione lignitifera senza ac- 
corgermi della lignite, potendosi dove avviene, per seguire 1’ af- 
fioramento della medesima tener dietro ad uno strato d' argilla 
cotta dalla combustione superficiale della lignite, visitai nuova- |. 
mente dette località e pregai il Conte Toni di affidarmi i fossili 
delle ligniti per esaminarli e confrontarli comodamente con altri 
già conosciuti; aderendo a questa mia preghiera tanto il Muni- 
cipio di Spoleto proprietario di detti fossili quanto il sig. Toni 
depositario dei medesimi, della qual concessione oggi pubblica- 
mente ringrazio, vengo ora a render conto dei medesimi, pre- 
sentando allo stesso tempo i modelli dei più importanti tra essi. 


Mastodon arvernensis Cr. et Job. 


I frammenti appartenenti a questa specie sono tre molari, 
e una porzione dell’ estremità della mascella superiore con parte 
dell’ incisivo; dei molari uno solo è completo e due di essi per 
la curvatura sono i 3' (6) molari della mascella superiore; tra 
questi il sinistro è completo, il destro. manca della fila ante- 


VERTEBRATI FOSSILI DELLE LIGNITI DI SPOLETO 95 


riore di tubercoli (colline); il sinistro è maggiore dell’ altro e 
la mancanza d’ erosione in ambedue della superficie tubercolare. 
mostra che all’ individuo o individui ai quali hanno appartenuto, 
non erano ancora emersi alla superficie esterna della mascella: 
le dimensioni dei due molari sono le seguenti: 
Lunghezza non tenendo conto della curvatura 
mol. sinistro Cm. 25 mol. destro ultima fila esclusa Cm. 18. 
Larghezza massima 
mol. sinistro Cm. 10 mol. destro Cm. 8. 


Distanze delle sommità dei successivi tubercoli a partire dalla fila po- 
steriore cioè tallone escluso in mm. 


fila interna fila esterna 
mol. sinistro 921, 27, 53. 34, 42; — 23, 32, 43, 41,39» 
sol etto, ODI ESSE eee 2 IO 


Distanza delle sommità tubercolari estreme di una stessa fila, a partire 
dalla fila posteriore. - 
mol. sinistro 16, 23, 27, 30, 32, 40 
mol. destro 16, 18, 22, 24, 28, .... 


Abbiano o no i due molari appartenuto allo stesso individuo, 
il destro non tanto per le sue dimensioni minori, quanto per 
lo stato della superficie era in uno stadio di sviluppo meno 
avanzato del sinistro. 

È notevole che ambedue offrono oltre il tallone sei serie al- 
ternate di tubercoli; questo numero sembra eccezionale e Lortet 
et Chantre (Reches. Sur les Mastod. Archiv. mus. hist. nat. 
Lyon. Tom. II, pag. 299, 300) lo citano solo per il Mastodon 
longirostris; si verifica però anche nel M. arvernensis; infatti 
avendo pregato il mio ottimo amico De-Stefani di riscontrare 
questo fatto nelle ricche collezioni del museo di Firenze, ha 
trovato che sopra dodici esemplari di ultimi molari di detta 
specie, quattro soli presentavano sei file di tubercoli ('); tra 
«diversi molari del museo di Siena nessuno offre questa partico- 
larità; l’ altro molare incompleto e sufficientemente eroso rap- 
presenta la parte anteriore del 2.° (5.°) molare. 

Il frammento di mascella superiore presenta una parte del- 
l’incisivo destro rotto a livello della sua inserzione, il diametro 
del medesimo è Cm. 8. 


(') È da notare che mentre Lartet et Chantre (loc. cit ) indicano cinque file di 
tubercoli per il M. arvernensis, nelle tavole di Jourdan unite alla stessa memoria 
sono figurati (Tav. IV, fig. 6, 62, Tav. V, fig. 6, 62) due ultimi molari con sei file 
di tubercoli oltre il tallone. 


96 ; D. PANTANELLI 


Questi resti come quelli seguenti provengono dalle cave di 
lignite di S. Croce. 


Mastodon Borsoni Hays. 


Questa specie è rappresentata da due molari uno dei quali 
completo e da vari frammenti dei medesimi. Il molare completo 
è il 3.° (6°) molare superiore sinistro, le sue dimensioni sono 
le seguenti: 


Lunghezza Cm. 19. 
Larghezza massima alla penultima fila anteriore Cm. 10. 
Distanze delle successive quattro file e del tallone a partire da questo; 
Mm. 36, 44, 45, 45. 
Larghezza delle quattro file tubercolari alla sommità e a partire dalla 
posteriore 
Mm. 50, 50, 55, 55. 


l’altro molare è parte del 2° (5°) molare destro della mascella 
inferiore, manca di parte della fila posteriore ed è profondamente 
eroso nelle parte centrale ed esterna. 

Oltre a questi vi sono due frammenti d’ ultimo molare e in. 
ambedue la prima serie anteriore di tubercoli. 

Ho detto più sopra che sono stati raccolti vari frammenti. 
d’ incisivi; alcuni di essi sono assegnabili a quella parte solo per 
la evidente struttura reticolata dell’ avorio; un frammento solo 
raggiunge le seguenti dimensioni: 

Lungh. Cm. 96 Diam. mass. Cm. 7,5 Diam. min. Cm. 2,7. 


Tapirus arvernensis Cr. et Job. 


Questa specie è rappresentata dalla mascella inferiore sinistra 
incompleta; a forza di pazienza e di cera ho potuto riavvicinare 
quattro frammenti e tenere insieme i molari dal 3 m. al 3 pm.; 
un l° pm. che probabilmente appartiene alla stessa mascella 
non è stato potuto collocare al suo Pesto erano però uniti il 
3 pm. e il 1° m., come pure il 3 m. e il 2 m., quindi la rico- 
struzione ha mastino nel ricollocare il 1° m., che era staccato 
e rotto alla base della corona e nel riavvicinamento dei due 
frammenti ad ognuno dei quali era unita porzione della mascella; 
il terzo molare era sempre nell’ alveolo e la sua superficie su- 


VERTEBRATI FOSSILI DELLE LIGNITI DI SPOLETO 97 


periore è inclinata colla parte anteriore più bassa rispetto alla 
superficie superiore della serie dentaria, si trova inoltre distante 
dal secondo molare ed avrebbe dovuto percorrere un arco di 
cerchio col centro sul prolungamento posteriore della mascella 
per raggiungere il suo posto. 

I diversi molari presentano una finissima striatura parallela 
all'asse della mascella nella sommità lineare dei tubercoli. 

Oltre ai denti avvi una falange, un frammento di meta- 
tarso® un frammento d’astragalo, e rottami d’ ossa piatte; ho 
riferito i denti specialmente al 7. arvernensis Cr. et Job. perchè 
diversi da quelli dei due Tapiri di Casino e Sarzanello; sono 
invece simili ad alcuni molari del Val d'Arno dove questa specie 
è citata, posseduti dal Museo di Siena. 


Diverse misure dentarie in millimetri 


1pm. | 3°pm.|4°pm.| 1m. 2m. | 3m. 
A | 19,4 | 19,8| 20,3 21,2 (123,425 
[| 

B TESO PES 

» 9 2931 is,61 9710 110,6 

» ARR 3A Rn In MAG) 

Cc » 13,4 | 15,1 

C' » lO 

D » 9,1 9,9 

D' » ae 
A Lunghezza — B_, , Distanze successive a partire dalla 
estremità anteriore del dente alle sommità tubercolari sull’ asse 
della mascella — © € Larghezze misurate alla base della co- 
rona nelle due parti anteriore e posteriore di ogni dente escluso 
il 1° p.m. — € parte anteriore C parte posteriore — D 


D' Larghezze misurate sulle sommità tubercolari come sopra; 
D parte anteriore, D' parte posteriore. 
Da queste misure si rileva che nei tre molari la parte an- 
Soc. Nat. Vol. VII, fascic. 2.° 7 


F98 D. PANTANELLI 


teriore del dente è più larga della posteriore, l’ inverso avviene 
nei premolari. 

Tra i fossili inviatimi trovasi un piccolo Sa di corno 
di cervo. 

Finalmente nelle marne di Castel Ritaldi con i molluschi 
citati di sopra, raccolsi l’ osso dell’ avambraccio di una rana? 
Che ora trovasi presso il Museo di geologia della Università 
di Roma. 

La presenza del Mastodon arvernensis determina la posizione 
stratigrafica di queste ligniti; cioè le assegna al pliocene; quella 
del .M. Borsoni stabilisce Ando ani a livello delle medesime 
nella serie pliocenica. Il M. Borsoni è stato trovato in Val 
d’ Arno e in Piemonte; nella valle del Rodano segna i piani 
più bassi del pliocene ed in Toscana, ch'io sappia, non è stato 
trovato negli strati pliocenici superiori; si può quindi anche se 
non si vuole accettare come io credo che le ligniti di Spoleto 
rappresentino un piano inferiore del pliocene, ritenerle decisa- 
mente coeve agli strati classici del Val d' Arno. 

Risultano poì appartenere questi strati alla parte inferiore 
del pliocene da un’ altra serie di considerazioni; ho detto più 
sopra che questi strati sottostanno alle marne lacustri di Castel 
Ritaldi; queste a loro volta sono sottoposte alla potente for- 
mazione sabbiosa di Montefalco nella quale come in quella ana- 
loga della vicina Bevagna, sono stati a più riprese trovati molari 
d’ Elephas meridionalis e il sig. Toni stesso mi ha mandato con 
i fossili delle ligniti un frammento di molare di detta specie 
trovato a Mercatello (Castel Ritaldi) alla base della collina di 
Montefalco; la pendenza poi degli strati a lignite di S. Croce 
e S. Angelo non si conserva negli strati superiori di Montefalco 
i quali sono pressochè orizzontali. 

Ho sottoposto all’ analisi microscopica un calcare biancastro 
friabile che in molti punti è direttamente sovrapposto agli strati 
a lignite; contiene circa il cinquanta per cento di carbonato di 
calce ed il residuo dopo eliminazione di quest’ ultimo contiene 
moltissime spicule di spongille e diatomee. 


VERTEBRATI FOSSILI DELLE LIGNITI DI SPOLETO 99 


Avendo pregato il sig. F. Castracane di esaminare dette 
diatomee, devo alla gentilezza di questo la seguente nota: 


» Epithemia Hyndmanti Sm.; E. zebra Ka.; E, ocellata Kz.; 
» E. proposcidea Kz. 


» Cocconeis placentula E. MMI 
» Oyolotella PR sii Cstr. QUI 


(/ 


. 


n. sp.; E. maximis; a latere rectan- ìì s Z, 
D) de na Se: adi Da e dA, 
» gula, a fronte plana; tertia radu =IRA 
» parte circum radiata; area centrali. == 0:0+08, 0. da, 090 = 

Ses o bi Co == 


» rariusculis margaritis subregulariter 2 eee = 
» radiata, nonnullis punctulis interpo- CV » God o }1% 
» latis. c. \ i 

HI N 


C. Pantanelliana Ostr. 999, 


l/ 


» È vicina alla CA. comta (E. Kz.) 


» Var. radiosa che Gunnow ha figurato 
» nella Sinopsi di Van Neurk dalla quale però sempre differi- 


s rebbe e per l'irregolarità delle linee radianti dell’area e più 
» per la presenza di minutissimi puntini sparsi fra mezzo. 

» Oymbella cuspidata Kz.; C. obtusiuscula Kz.; C. gastroides 
» Kz.; C, (Cocconema) cistula E. 

s Pinnularia acuta Sm.; P. radiosa Sm. 


» Navicula ovalis Sm. 

» Gomphonema vibrio E. 

» Fragilaria (Odontidium) Narrisomi È. 
» Gomphonema? curvatum Kz. 

» Melosira arenaria Moore ,. 


Rimettendo il residuo siliceo di detto calcare al sig. Castra- 
cane mi ero limitato ad indicare la località ed il piano geolo- 
gico, e il sig. Castracane aggiungeva alla nota precedente le 
seguenti considerazioni : 

» Secondo me il materiale non è semplicemente lacustre 
yin lato senso, ma mi indica una vegetazione che ebbe luogo 
»ln un ampio lago, l’ assenza di qualunque Eunotia mi fa pen- 
» Sare ad una non forte altezza sul livello del mare ,. 

Le considerazioni stratigrafiche verificano rigorosamente le 


precedenti induzioni del sig. Castracane. 


Modena Decembre 1884. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


1. Mascella inferiore sinistra di Taptrus veduta dal lato interno 
con 3 m, 2 m, 1 m, 4 pm, 3 pm. 
2. La stessa dal lato esterno. 


3. Superficie superiore dei denti 3 pm, 4pm, lm, 2 m, 3 m. 


OSSA ACCESSORIE 


CONPARATIVAMENTE STUDIATE NEL CKAXTO. DELL'UOMO 


E 


DEI RIMANENTI MAMMIFERI 


DAL 


DO UT. RICALBI EUGENIO 


Aiuto ALLA CATTEDRA DI ANATOMIA comP. E ZooLoGia DELLA R. UniveRSITÀ DI PISA . 


Leggendo libri di Anatomia, antichi e moderni, che trattino 
dello scheletro cefalico dei Mammiferi e specialmente dell’ Uomo, 
avviene ad ognuno non di rado di trovar rammentate ossa ?n- 
terpar tetali, ossa epactali, ossa soprannumerarte, ossa intercalari, 
ossa wormiane: avviene anche facilmente di vedere come molti 
Autori si siano studiati fare di queste ossa enumerazioni, no- 
minarne, descriverne e poi è facile vedere come non è mancato 
chi di esse ha trattato, specialmente riferendosi all’ Uomo, in 
modo, dirò così, magistrale. Ma quello che mai, o quasi mai, 
si trova è qualche studio comparativo, che riguardi la cosa in 
complesso nei Mammiferi, qualche lavoro di interpretazione mor- 
fologica, che abbracci, se non tutte, il che reputo impossibile, 
almeno una parte delle menzionate ossa. Questa mancanza di 
uno studio comparativo sull’ accennato argomento dimostra che 
esso, per quanto già analiticamente trattato, è tuttavia, almeno 
a mio credere, sempre coltivabile con buon frutto, quando non 
ci sì limiti a sterili enumerazioni e descrizioni, nel qual caso, 
come dice Calori, non si farebbe che portar acqua all’ Oceano, 
ma quando si cerchi collegare tra loro con vedute di Anatomia 
comparata le cose. 


102 E. FICALBI 


Nel presente scritto faccio un tentativo nell’ accennato senso 
comparativo. Mi propongo trattare non nella sola specie umana, 
ma nel complesso dei Mammiferi delle ossa dette in oggi dai 
più interparietali e di molte di quelle altre che sono tutte in- 
giustamente raccolte in un fascio col nome collettivo di wor- 
miane. 

Non ho trascurato diligenza nelle osservazioni; mi sono spe- 
cialmente valso del materiale zootomico che è raccolto nel ricco 
Museo di Anatomia comparata di questa Università pisana, e 
mi sono giovato anche del materiale, che il mio maestro Prof. 
Iomiti della Università di Siena ha sempre messo, unitamente 
al suo consiglio, a mia disposizione, nelle non infrequenti visite, 
che sono andato facendo a quella scuola di Anatomia umana, 
della quale il Romiti stesso è Direttore. 


E a notizia di ognuno che le ossa che compongono lo scheletro 
cefalico, o il cranio, dei Vertebrati sono, considerandole sotto 
l'aspetto del loro sito di origine, di due maniere ('): alcune si 
formano là ov’ è cartilagine e ne prendono il posto, si sostitui- 
scono, insomma alle varie parti del condrocranio, e diconsi ossa 
di origine cartilaginea o, per abbreviazione, cartilaginee; altre 
invece si formano in seno a semplice tessuto connettivo, non 
prendono il posto prima occupato da cartilagine, e diconsi ossa 
di origine membranacea 0 membranacee. — Im tatti i Vertebrati 
a scheletro più o meno ossificato si ha questo fatto: che quella 
porzione dello scheletro cefalico ‘o del cranio, che costituisce 
propriamente la scatola che racchiude 1’ encefalo (porzione detta 
dagli Inglesi brain-case), mentre alla base ed anche nelle sue 


(1) Una distinzione un poco più netta delle varie ossa, secondo il loro posto di 
origine, per quanto il processo istologico di ossificazione non sia recisamente diverso 
nei varii casi, è la seguente: 1.° Se le ossa formansi nel connettivo del derma diconsi 
ossificazioni dermosteiche o dermostosi. 2.° Se le ossa formansi nel tessuto connettivo 
sottocutaneo o sottomuccoso, o immediatamente fuori del pericondrio di una cartila- 
gine o, per dirlo in termine generale, in un ambiente connettivale, diconsi ossifica- 
zioni parosteiche 0 parostosi; esse sono le vere ossa membranacee. 3.9 Se le ossa for- 
mansi immediatamente al di dentro del pericondrio, non invadendo da prima che le 
cellule superficiali della cartilagine, diconsi osséficazioni ectosteiche o ectostosi; collo 
sviluppo tutta la cartilagine può essere invasa da fuori in dentro 4.° Se le ossa for- 
mansi dentro la sostanza cartilaginea diconsi ossificazioni endosteiche 0 endostosi ; sono 
le vere encondrosi. i 


OSSA ACCESSORIE 103 


parti periferiche può aver cartilagine od ossa cartilaginee, in 
sopra possiede sempre a ricuoprirla diverse ossa, che sono di 
origine membranacea: in altre parole buona parte del tegmen 
cranii (') (cranial roof degli Anatomici inglesi) e tutto in certi 
Vertebrati, risulta di ossa membranacee. — Le più caratteristiche 
ossa membranacee del fegmen cranzi sono i parietali e i frontali, 
che nei Mammiferi si può dire lo costituiscono da sole. In di- 
versi Vertebrati inferiori (Pesci teleostei, Serpenti) nel tegmen 
cranii può vedersi più o meno compreso anche un osso di origine 
cartilaginea, il sopraoccipitale; di lato poi ai parietali trovasi nei 
Vertebrati un altro osso membranaceo, lo squamoso, che, se non 
entra nel fegmen cranti, entra almeno talvolta (Uccelli, Mam- 
miìferi) e sovente in modo rimarchevole, a costituire della sca- 
tola encefalica buona parte delle pareti laterali. — Esaminiamo, 
per renderci conto meglio di ciò che ho detto, le cose in un 
cranio di un feto di Mammifero: dico di un feto, o di un embrione, 
perchè nell’ individuo adulto molte delle unità osteologiche cra- 
niche quasi sempre saldansi più o meno tra loro e non sono 
più discernibili. Prendo ad esempio il cranio di un embrione di 
Maiale (fig. 1 e fig. 8, tav. X). Procedendo dal di dietro iu avanti, 
troveremo subito il sopraoccipitale, s 0; esso è un osso di origine 
cartilaginea e nel Maiale non fa parte propriamente del tegmen 
cranii, sibbene della parete periferica posteroinferiore della sca- 
tola encefalica; circoscrive in alto il grande forame occipitale, 
fo, e confina col suo margine superoanteriore coi due parietali; 
nell’ animale adulto o quasi, come accade nell’ Uomo, saldandosi 
il sopraoccipitale col bastoccipitale, bo, e cogli esoccipitali, e 0, 
costituisce l’ osso cecipitale nel suo compiesso. 1 parietali, pa, 
seguono al sopraoccipitale: sono, come già si sa, ossa membra- 
nacee caratteristiche del tegmen cranti: confinando essi posteroin- 
feriormente col sopraoccipitale, tra essi stessi e quest’ ultimo si 
viene a costituire una linea articolare o una sutura occipitopa- 


{) Si suol dividere in Anatomia umana lo scheletro cefalico in cranio e faccia: 
questa divisione, considerando le cose anatomocomparativamente e embriogenicamente, 
non regge, e da alcuno, come dal Prof. Romi, è già stata abbandonata. Io non in- 
tendo qui fare una divisione più o men buona; dirò solo che avendo adottate le espres- 
sioni di scatola encefalica e specialmente quella di fegmen cranti, non ho con questi 
appellativi inteso altro che indicare una od un'altra regione dello scheletro cefalico, 
una od un’altra sua porzione, la quale passa senza limite netto di demarcazione, spe- 
cialmente considerando le cose nella serie vertebrata, nelle altre regioni o porzioni. 


104 ; E. FICALBI 


rietale, che dicesi per la sua apparenza, anche sutura lambdoidea, 
i due parietali poi, toccandosi col loro margine interno, vengono 
a costituire tra loro una linea articolare, la quale, partendo 
dall’ apice dell’ angolo lambdoideo, si dirige in avanti, occupando 
il mezzo del tegmen cranii, e prende il nome di sutura bipartetale, 
od anche di porzione parietale della sutura sagittale, che, come 
vedremo, si estende anche tra i due frontali. Lateroinferiormente 
ai parietali trovansi gli squamosi, sq, (nell'adulto sono la pars 
squamosa ossîs temporis), coi quali i parietali stessi costituiscono 
la sutura squamoperietale; ciascuna sutura squamoparietale parte 
dai limiti estremi delle branche divergenti della sutura lambdoidea 
e si dirige in avanti. Anteriormente i parietali confinano coi 
frontali; questi, fr, sono due grandi ossi che si dirigono in 
avanti: sulla linea mediana del fegmen cranti costituiscono un 
tratto articolare, che dicesi sutura bifrontale o porzione frontale 
della sutura sagittale: frontali poi e parietali costituiscono una 
linea articolare trasversa, che dicesi sutura frontoparietale; non 
sto a ricordare che nell’ Uomo adulto i frontali si fondono in 
un sol pezzo, scomparendo così la porzione frontale della sutura 
sagittale. Non sto a parlare delle altre ossa che, all’ intorno 
delle enumerate, si trovano a costituire il resto del cranio. Mi 
intratterrò invece in altre particolarità che si riscontrano nel 
tegmen cranii embrionario. Una cosa subito è da far notare a 
proposito di sutura sagittale e frontoparietale: nel punto ove 
esse a vicenda si tagliano (fig. 1 e fig. 8, 4), costituendo tra loro 
come una croce, ossia in corrispondenza dei quattro angoli in- 
terni dei due frontali e dei due parietali, le linee articolari delle 
ossa in discorso sì allargano e vengono così a far risultare uno 
spazio membranoso quadrangolare, che dicesi fontanella fronto- 
parietale. Un fatto simile può osservarsi più indietro del descritto: 
se noi esaminiamo il cranio di un embrione di Maiale meno 
avanzato in sviluppo di quello che ci ha fornito le fig. 1 e 8, 
o meglio di qualche altro Mammifero, compreso 1° Uomo, trove- 
remo che nel punto di unione delle suture sagittale e lambdoidea, 
ossia dove l’ una comincia e l’altra presenta il vertice del suo 
angolo, esiste, per il fatto dell’ essere un po’ discosti gli apici 
delle ossa, uno spazio membranaceo analogo alla fontanella 
frontoparietale, di apparenza triangolare, spazio che dicesi fon- 
tanella occipitoparietale o occipitale. L' esistenza di queste due 


OSSA ACCESSORIE 105 


fontanelle è interessante e non deve esser dimenticata. — Rias- 
sumendo ora le cose accennate pel tipico cranio del Majale, può 
dirsi: che posteriormente nel cranio abbiamo un osso cartilagineo, 
circoscrivente in sopra il gran forame occipitale e che dicesi 
osso sopraoccipitale; che al davanti di esso sono due ossa mem- 
branacee, proprie a quella porzione dello scheletro cefalico che 
abbiam chiamato fegmen craniîi, ossa dette parietali, costituenti 
tra loro una sutura biparietale, e col sopraoccipitale una sutura 
lambdoidea; che nel punto di unione della sutura biparietale 
(suo estremo posteriore) e della lambdoidea (suo vertice) può 
esistere uno spazio membranaceo o ura fontanella occipitoparie- 
tale; che lateralmente ai parietali esistono due ossa membra- 
nacee dette squamosi; che in avanti ne esistono due altre pur 
membranacee, che sono i frontali, i quali tra loro costituiscono 
una sutura bifrontale (che con la biparietale costituisce l’ intiera 
sutura sagittale), e coi parietali una sutura trasversa o fronto- 
parietale; che nel punto in cui sutura sagittale e frontoparietale 
sì incontrano esiste uno spazio membranaceo o una fontanella 
frontoparietale. Non è stato per scrivere cose risapute che ho 
detto tutto ciò, ma per fermar bene 1’ attenzione sul modo come 
è conformato il tegmen cranii del Maiale, il quale, lo dico fin 
d’ ora, ha molto del tipico sotto questo punto di vista. Aggiun- 
gerò ora che divenendo adulto il Maiale, le singole ossa che 
circoscrivono le fontanelle, si avvicinano, si mettono in contatto 
e le fontanelle stesse (come già si vede esser avvenuto nella 
fig. 1 e 8 per la occipitale), si chiudono, senza che nessuna os- 
sificazione speciale sia in esse comparsa. 

Lo ripeto: il tegmen cranti del Maiale è, sotto il punto di 
vista dell’ argomento che ho preso a trattare, tipico. Ciò inteso, 
diamo uno sguardo preliminare alle differenze che il tegmen crandi 
di altri Mammiferi può presentare, confrontato con quello del 
Maiale; lo sguardo preliminare stesso reputo utile per stabilire 
subito un programma, una guida al mio lavoro. 

Se, adunque, ci facciamo ad osservare ora un cranio, per esem- 
pio, di un feto di Cane presso alla nascita, o quello di un gio- 
vane Cane ('), troveremo, sì, nel fegmen cranii le ossa istesse 

(1) Ho preso per esempio il Cane perchè, secondo Meckel e secondo Baraldi, in 


questo animale l’interparietale si sviluppa per un solo centro ed è quindi sempre 
unico. Meckel dice: L° interparietule stretto del Cane non si sviluppa mai per più 


106 E. FICALBI 


che già conosciamo e vedremo che hanno i noti rapporti tra 
loro; ma tosto anche ci colpirà la presenza in più di un osso, 
che nel Maiale non esisteva affatto; quest’ osso vedremo posto 
precisamente nella sitnazione di quello spazio membranaceo, 
che abbiam chiamato fontanella occipitoparietale. La jfig. 9, 
tolta dallo scheletro cefalico di un giovane Cane, ce ne dà chiara 
idea. In essa figura vedesi in so il sopraoccipitale, in pa i pa- 
rietali, in fw i frontali; in înt poi, che è il posto della fon- 
tanella occipitale, vedesi un osso triangoliforme, situato tra so- 
praoccipitale e parietali, e che dicesi, per la posizione sua, én- 
terpartetale. 

Ecco dunque che passando dal Maiale al Cane abbiam visto 
crescersi il numero delle ossa membranacee del fegmen cranòi, 
per l'aggiunta di un interparietale. Continuiamo il nostro 
sguardo preliminare. 

Se dal cranio di un feto o da quello di un giovane individuo 
canino, noi passiamo al cranio, per esempio, di un embrione di 
Pecora, vedremo crescersi ancora di uno i pezzi del tegmen cranti. 
Nell’ embrione pecorino troveremo non più uno, come nel Cane, 
ma due interparietali; e la fig. 10, che rappresenta la parte 
posteriore di porzione del cranio di un feto di Pecora, ce ne 
dà chiara idea. In essa vedesi in so il sopraoccipitale, in pa i 
parietali, in fr i frontali, in % la fontanella frontoparietale; 
in ént poi, situazione della primitiva fontanella occipitale, ve- 
donsi due ossa triangoliformi, situate tra sopraoccipitale e pa- 
rietali, e che sono i due interparietali. 

Così dal Cane alla Pecora, lo ripeto, sono nuovamente cre- 
sciuti i pezzi del tegmen cranti, perchè 1’ interparietale da unico 
e mediano, si è fatto doppio e bilaterale. 

Se dal cranio di un embrione di Pecora passiamo a quello 
di un embrione, anche assai avanzato di Cavallo, vedremo que- 
sto fatto: che si hanno ancora due ossa di più; quattro di più 
in confronto del Maiale. Troveremo, dunque, nell’ embrione del 
Cavallo il sopraoccipitale, i due parietali, gli interparietali, che 


d’un punto di ossificazione. Per debito di verità, io debbo dire che in un giovanis- 
simo embrione di Cane ho veduto doppio l’interparietale. In altri ciò non vidi. Sono 
inclinato a credere che sì possa nelle varie razze o nei varii individui di Cane ve- 
rificare l'uno e l’altro fatto; forse prevale quello ammesso da Mec&e/, dello sviluppo 
per un unico centro. 


OSSA ACCESSORIE 107 


possono essersi fusi in un sol pezzo, i frontali, gli squamosi; ma 
altre, come ho detto, ne troveremo nel tegmen cranti oltre queste: 
troveremo, cioè, che sempre nel luogo di situazione della fon- 
tanella occipitoparietale, al davanti dei due interparietali, i quali 
si fondono in un sol pezzo, esistono due altre ossa speciali, trian- 
goliformi, quasi due altri più piccoli interparietali; do loro il 
nome di ossa interparietali accessorie ('). Nella fig. 15 vedonsi le 
cose accennate: <p è l’interparietale (fusione dei due primitivi), 
ipa sono gli interparietali accessorii. — Così, lo ripeto, nel 
fegmen cranîi altre ossa membranacee sonosi aggiunte, due in 
più che per la Pecora, quattro in più che pel tipico. Maiale: 
due interparietali, due interparietali accessorii, tutte della fon- 
tanella occipitoparietale e di origine membranacea. 

I fatti rammentati sono normali. Ma altri ne esistono, si- 
mili a questi, che solo ne differiscono per essere più rari, i quali 
ci dimostrano come altre ossa membranacee, oltre le suaccen- 
nate, possano prender posto nel /egmen cranii dei Mammiferi. 
Esaminando infatti le collezioni di cranii, per esempio di Scim- 
mia, non raramente capita di vedere che il posto della fonta- 
nella frontoparietale può essere invaso da uno speciale osso, 
che ne ha precisamente la forma, e che riguardo ad essa, ri- 
corda i rapporti degli interparietali per la fontanella occipitale; 
do a quest’ osso il nome di osso frontoparietale (*), e lo rappre- 
sento nella fig. 16, e nella fig. 17 in fp. Ed ecco che un ele- 
mento di più, oltre i già noti, può nel fegmen cranii dei Mam- 
miferi prender posto. 

Altre ossa, sebbene più rare ed accidentali, posson prender 
posto nel tegmen cranti dei Mammiferi. Posson trovarsi nella 
sutura lambdoidea, nella biparietale, nella squamoparietale, per 
tacere di altro. Riserbo a queste il nome di ossa icormiane. 

Come si è visto, così, in questa specie di programma che ho 
tratteggiato, è ben singolare il tegmen cranti, considerato in una 
serie di Mammiferi. I suoi pezzi possono variare di numero da 
un Mammifero all’ altro, e noi li abbiam visti progressivamente 
aumentare. 

Quale è il valore di queste ossa che, prendendo a tipo il 


(4) Vedi per esteso le cose più avanti. 
(3) V. più avanti. 


108 E. FICALBI 


Maiale, trovansi in più in altri Mammiferi? Sono esse tra loro 
produzioni affini? Sono gli anelli di una stessa catena? Ecco il 
quesito a cui risponderò nelle conclusioni di questo mio scritto. 
Frattanto, per poter giungere alle conclusioni stesse, è necessario 
che mi estenda alquanto in descrizioni analitiche; e farò ciò 
cominciando dai Vertebrati inferiori ai Mammiferi. 

Tutto ciò che ho sommariamente detto fin qui (e vi ritornerò 
poi più estesamente), si riferisce, lo si sa e lo ripeto, allo sche- 
letro cefalico dei Mammiferi. Ma è ora tempo di dimandarci: 
Come si comporta, per riguardo ai suoi pezzi ossei, il tegmen 
cranti degli altri Vertebrati? Vi si nota il già cognito potere 
accrescitivo nel numero dei pezzi stessi? Possono esistere, cioè, 
nei Vertebrati, a scheletro cefalico ossificato, inferiori ai Mam- 
miferi, e le ossa interparietali, e le interparietali accessorie, e 
l’osso frontoparietale, e le ossa” wormiane? Questo importante 
quesito alla breve cercherò risolvere, cominciando dalla classe 
degli Uccelli e scendendo ai Pesci. Esauriti questi, tornerò sui 
Mammiferi. 

Nel tegmen cranîi degli Uccelli abbiamo evidentissime le ossa, 
che già conosciamo: due parietali, due frontali, due squamosi; 
indietro dei parietali abbiamo il solito sopraoccipitale d’ origine 
cartilaginea, che circoscrive in alto il forame magno. Negli Uc- 
celli carinati per rendersi conto di ciò, come di molte altre par- 
ticolarità ostsologiche inerenti al loro scheletro cefalico, è ne- 
cessario esaminare giovani individui, sovente non ancor schiusi 
dall’ uovo: e ciò, in causa della fusione precoce che (come in 
diversi Mammiferi, e più che in essi) avviene di molte delle ossa 
craniche tra loro, siano di origine membranacea o cartilaginea. 
Negli Uccelli struzionidi è più facile veder le cose anche nel- 
l'individuo adulto. Io mi varrò di una figura tratta dallo sche- 
letro cefalico di una Numida, non ancor uscita dall’ uovo. Ésa- 
miniamo, dunque, la fig. 2: in essa fo rappresenta il forame 
occipitale, ed intorno a questo veggonsi i varii elementi osteolo- 
gici del segmento occipitale del cranio: vedesi, cioè, il baszocci- 
pitale, bo, gli esocipitali, e 0, il sopraoccipitale, s0; quest’ ultimo 
segna il limite superiore del gran. foro e col suo margine an- 
teriore incurvato confina in parte coi due parzetali, pa; essi 
non giungono ancora nel giovine Uccello che ci serve di esempio, 
a toccarsi tra loro in una sutura sagittale; confinano, tuttavia, 


OSSA ACCESSORIE 109 


anteriormente ciascuno col frontale del proprio lato, fr, col 
quale costituiscono una sutura frontoparietale; i frontali poi 
tra loro costituiscono una sutura bifrontale. Non toccandosi 
l’un l’altro, come si è visto, i due parietali, al sommo della 
testa del nostro Uccello notasi uno spazio membranoso, 2, che 
è la fusione delle due fontanelle occipitale e frontoparietale tra 
loro, e che può dirsi fontanella occipitoparietofrontale. Come si 
vede, in essa non si trova nessun elemento osseo che ricordì gli 
interparietali o tanto meno gli interparietali accessorii, 1’ inter- 
frontale, i wormiani dei Mammiferi, che abbiamo superficialmente 
più addietro esaminato. Divenendo adulto 1’ Uccello, la accen- 
nata fontanella mano mano scomparirà per l’ accostarsi tra loro 
sulla linea mediana, dei parietali e dei frontali dell’ un lato con 
quelli dell’ altro lato, e poi per il saldarsi del sopraoccipitale e 
dei parietali per un conto, dei parietali e dei frontali per un 
altro. Dal fin qui detto chiaro risulta che si ha nell’ Uccello un 
caso analogo a ciò che vedemmo per il Maiale. Mai, cioè, nel 
fegmen cranii degli Uccelli sviluppansi le ossa interparietali e 
tanto meno le altre, che già conosciamo. Invero Et. Geoffroy 
St. Hilaire (') aveva creduto vedere negli Uccelli due interparie- 
tali; egli considerava come interparietali quelli che in oggi di- 
consi, e che io ho accennato, parietali, e considerava a lor volta 
parietali quelli che chiamansi, e che io pure ho chiamato, squa- 
mosi. Ma questo suo erroneo modo di considerar le cose fu ret- 
tificato per primo da Oken (1818), e nessuno poi ha più soste- 
nuto e diviso le idee di Stefano Geoffroy St. Hilaire. 

Nei Rettili la porzione dello scheletro cefalico, che appellasi 
tegmen cranîi, può essere variamente costituita, specie per il fog- 
giarsi diverso delle ossa d’ indole parietale e frontale, a seconda 
che si considerano i varii gruppi dei Rettili, i Crocodiliani, gli 
Ofidiani, i Lacertiliani e i Cheloniani (per tacere dei Rettili 
estinti). Questo è certo: che nel loro /egmen cranti non notasi 
mai alcun elemento interparietale o di natura affine. Vi fu, è 
vero, chi in quei peculiari Rettili che sono gli Ofidiani, credè 
notare un osso interparietale; ma dirò tra poco quanto tale 
veduta sià erronea; frattanto farò noto che in molti Lacerti- 


(1) Geoffroy Saint-Hilaire Et. — Considerations sur les piéces de la téte osseuse 
des animaur vértébrés et particulièrement sur celles du cràne des Oiseaux. In: 
Ann. du Muséum d' hist. nat. Tom. X, 1807. 


110 E. FICALBI 


liani è ovvio persuadersi come gli elementi interparietali od 
affini non siano affatto presenti: infatti in varii tra essi fra il 
sopraoccipitale e i parietali esiste uno spazio membranaceo, una 
vera fontanella occipitoparietale, che persiste tutta la vita, senza 
che mai ossificazione alcuna vi si stabilisca. Nella fig. 8 ho rap- 
presentato la parte superiore di porzione del cranio di un Geko: 
come è facile vedere, tra il sopraoccipitale, so, e il margine 
posteriore dei parietali, pa, esiste una fontanella, 2 2; or bene, 
in essa, che sarebbe la sede degli interparietali, non scorgesi 
mai ossificazione alcuna. Anche negli Ofidiani o Serpenti non 
esiste nessun osso interparietale: quello che può venir fatto di 
credere un interparietale non è che il sopraoccipitale: la ragione 
che, superficialmente osservando le cose, può portare a ritenere 
come un interparietale ciò che realmente nei Serpenti è il so- 
praoccipitale, è questa, che vengo a dire: come mostra la fig. 5 
(rappresentante la parte superiore di porzione del cranio di un 
Serpente), i due esoccipitali, e 0, nei Serpenti circondano com- 
pletamente di lato e in sopra il gran forarae e vengono, in alto 
al forame stesso, tra loro a riunirsi in una sutura: risulta da 
ciò, che il sopraoccipitale, so, ha indietro a sè la parte più 
superiore dei due esoccipitali, che cireondano il gran foro, e tro- 
vasi incastrato (a far parte del fegmen cranii, il che non accade 
nei Mammiferi) tra questa parte più superiore degli esoccipitali 
e il parietale, pa (che è unico), ricordando presso a poco l’in- 
terparietale di varii Mammiferi. Ecco spiegato perchè alcuno lo 
chiamò interparietale, appellativo, del resto, che da qualche 
vecchio anatomico (Agassiz) fu dato in generale all’ osso so- 
praoccipitale di molti Vertebrati. Il Cuvier (!), circa al sopraoc- 
cipitale degli Ofidiani, dice appunto quello che sopra ho esposto: 
dice, cioè, che per il fatto che gli esoccipitali, o, come egli li 
chiamava, gli occipitali laterali, si toccauo l’ un l’altro al di 
sopra del foro occipitale, come nei Coccodrilli, (ed in questi pure 
Et Geoffroy St. Hilaire chiamò interparietale il sopraoccipitale), 
il sopraoccipitale 0, come egli diceva, l’ occipitale superiore è 
spinto in avanti e presso che ridotto all’ ufficio di interparie- 
tale. — Che ciò non sia non sto a ripetere: il sopraoccipitale 


(4) Cuvier G. — Legons d’Anatomie comparée, Publ. par Duméril. III Ed. Bruxel- 
les, 1836. T. I, Pag. 362. 


OSSA ACCESSORIE 19.01 


dei Serpenti è osso prettamente cartilagineo, e, come in oggi 
da tutti si ammette, non ha alcuna relazione con l’ interparie- 
tale. E lo stesso Cuvier fin dai suoi tempi asseriva che nè Ret- 
tili, nè Uccelli (ossia i Sauropsidi dei moderni Anatomici) pos- 
siedono ossa di tale natura. 

Come nessun interparietale od osso affine trovasi nel tegmen 
cranit dei Sauropsidi, così non trovasi in quello degli Amfibii, a 
qualunque gruppo essi appartengano. Negli Amfibii viventi manca 
nello scheletro cefalico, non solo il basioccipitale, ma anche il 
sopraoccipitale; sono gli esoccipitali che ciscoscrivono in alto il 
grande forame e tra essi ed i parietali (che posson esser, come 
nelle Rane, fusi in un sol pezzo coi frontali) non scorgesi mai 
alcun elemento osseo, che ricordi uno o due interparietali. Nei 
Labirintodonti, che sono Amfibii fossili, il posto del sopraoccipi- 
tale era occupato da due ossa, come dice Zuz/ey, ma tra esse, 
e ì parietali non trovavasi intercalato osso alcuno. Nella fig. 5 
e nella fig. 6 rappresento porzione di cranio amfibiano: delle 
due figure, la prima si riferisce a un Gimnofione, la seconda ad 
un Ancero, alla Rana comune. In ambedue eo sono gli esocci- 
pitali, forniti ciascuno di un condilo, c 0, per l’ articolazione del 
cranio alla colonna vertebrale; nella fig. 5, p @ sono i parietali, 
fr ì frontali: come si vede in essa figura, tra esoccipitali, che 
circoscrivono completamente fino in sopra, il gran foro, e i pa- 
rietali non esiste alcuna ossificazione intercalare; nella fig. 6, f p 
è l'osso frontoparietale; pro il prootico destro: come la figura 
dimostra, tra gli osoccipitali, che circoscrivono il gran foro, e 
l'osso frontoparietale, rimane un piccolo spazio non ossificato, 
2, ma in esso mai sviluppasi alcuna ossificazione. Così che, lo 
ripeto, negli Amfibii non si ha mai traccia di interparietali od 
ossa affini. 

Passiamo ai Pesci con scheletro cefalico più o meno ossifi- 
cato. Nei Ganoidi le ossiìficazioni cefaliche cartilaginee sono scar- 
sissime, permanendo un assai sviluppato condrocranio; invece 
le ossificazioni membranacee sono più abbondanti e la massima 
parte di esse sono ossa di origine cutanea, situate in buon nu- 
mero sopra alla regione del fegmen cranti. È per questo che se 
noi ci facciamo ad esaminare per di sopra il cranio, per esem- 
pio, di un Polypterus, troveremo in corrispondenza della regione 


112 E. FICALBI 


sopraoccipitale un numero assai grande di ‘placchettine ossee, 
in avanti a queste ne troveremo due che arieggiano due parie- 
tali ed innanzi pure a quest’ ultime due altre, che ricordano i. 
frontali. E taccio di altre. Queste ossa cutanee del cranio dei 
Ganoidi (in cui Gegenbaur vede il primo annunzio delle ossa 
membranacee del tegmen cranîî dei Vertebrati ai Ganoidi su- 
periori, cui per eredità sarebbero trasmesse ), a ciò ch'io mi 
propongo studiare e dimostrare, cioè che nei Vertebrati infe- 
riori ai Mammiferi non esistono ossa interparietali o di natura 
affine, non portano, per l’indole loro cutanea, contributo alcuno. — 
Nei Pesci dipnoi, come per esempio nel Lepidosiren, nel tegmen 
cranii si ha un grande osso unico membranaceo, il quale dalla 
regione sopraoccipitale si estende fino alla etmoidale: dicesi 
quest’ osso frontoparietale ed al di dietro di esso non sorgesi 
ossificazione alcuna, che ricordi ossa di indole interparietale od 
affine. 1 

Veniamo ai Pesci teleostei. In questi pure, non v° è dubbio, 
si può escludere ogni interparietale od affine ossificazione. I 
vecchi Anatomici, a dir vero, non la pensarono sempre così: 
ed io voglio intrattenermi un po’ sulla loro opinione, perchè 
questa credo non sia da prendersi a gabbo: io, lo dico per in- 
cidenza, ho sempre coltivato con buon frutto i vecchi Maestri 
di Anatomia al pari dei moderni; anche in questo scritto ho 
la soddisfazione di aver tolto dalla polvere varie verità anato- 
miche, che i moderni sembrano aver dimenticato. A proposito 
dello scheletro cefalico dei Pesci teleostei, dunque, si parla di 
osso interparietale da tutti o da quasi tuttii vecchi Anatomici, 
quali possono essere Hi. Geoffroy St. Hilaire, G. Cuvier, Agassiz 
ed in certo modo anche Meckel; da questi insigni osservatori 
sì chiama, 2 tutto o in parte, interparietale quell’ osso che più 
modernemente venne detto, anche pei Pesci, sopraoccipitale. Per 
accennare tosto la posizione di questo sopraoccipitale degli Autori 
moderni nei Pesci teleostei, dirò ch’ esso sta sopra al forame 
magno e che può avere coì parietali disposizioni speciali, secondo 
le varie maniere di Pesci: può darsi, cioè, che i due parietali 
seguano il sopraoccipitale e al davanti di esso sì tocchino col 
loro margine interno, in modo da costituire una sutura sagit- 
tale; o può darsi che il sopraoccipitale spingasi tra essi in 


OSSÀ ACCESSORIE 113 


modo da giungere a toccare il frontale, tenendo, per conse- 
guenza l’uno dall’ altro separati tra loro i due parietali, che 
tra loro non formano sutura sagittale. Nella fig. 7 rappresento 
una veduta superiore di porzione della metà posteriore del cranio 
di un Luccio: fr sono i frontali; e p gli epiotici; pa i parietali, 
che non formano sutura sagittale; so il sopraoccipitale, che se- 
para i parietali e si articola in avanti coi frontali. — Tornando 
ai vecchi Anatomici, Cuvier a proposito dell'osso, che chiamiamo 
oggi sopraoccipitale fa osservare che non solo separa talvolta 
completamente l’ uno dall’ altro i due parietali, come io già ho 
detto poco fa, (a similitudine di ciò che può accadere per l’ in- 
terparietale di qualche Mammifero, come i Cetacei), ma ‘che, 
spesso si avanza tra i frontali abbandonandosi in dietro in certi 
Pesci gli esoccipitali e di più, ad esempio nei Siluridi, può ar- 
rivare perfino a fondersi in un sol pezzo coi parietali (come fa 
l’ interparietale in diversi Mammiferi). Per suo conto, Meckel (') è 
dubbioso sul significato dell’ osso, che modernamente chiamiamo 
sopraoccipitale nei Pesci: egli dice che quest’ osso non gli sem- 
bra appartenere agli occipitali e trova giustificato l’ appella- 
tivo usato da Cuvier di interparietale; lo chiama anche por- 
zione squamosa dell’ occipitale e riserba alla sua parte anteriore 
l'appellativo di interparietale. Ad onta delle opinioni e delle 
ragioni dei vecchi Anatomici, devesi ritenere che l’ osso chia- 
mato modernamente sopraoccipitale ha realmente nei Pesci te- 
leostei tale natura: infatti è di origine cartilaginea. Nei Pesci 
teleostei, così, non esiste interparietale. Mi sono esteso alquanto, 
prima di venire a questa conclusione, perchè qualcuno anche 
modernamente ha pensato che nel sopraoccipitale dei Teleostei 
siano insiti elementi interparietali; il che non ritengo per di- 
verse considerazioni e principalmente per la ragione che que- 
st’ osso ci si presenta, lo ripeto, di origine cartilaginea. 

Da tutto ciò che ho fin qui esposto sì può concludere che 
nei Vertebrati inferiori ai Mammiferi non esiste mai nessun 
elemento osseo interparietale 0, tanto meno, interparietale ac- 
cessorio, frontoparietale, wormiano. Mi si potrebbe rimproverare, 
perchè mi sono trattenuto soverchiamente a dimostrare una 


(4) Meckel J. F. — Traité général d’ Anatomie comparée, Trad. de l’ allem. par 
Riester et Sanson. Paris 1829, T. II 


Sc. Nat. Vol. VII, fascic. 2 8 


114 E, FICALBI 


cosa, che i moderni Anatomici non negano: infatti nessuno dei 
libri recenti di Anatomia parla di interparietali od ossa affini 
nei Sauropsidi e negli Ictiopsidi. Ma, ad onta di ciò, ‘sono con- 
vinto che le mie parole non siano state del tutto vane, special- 
mente per ciò che si è riferito ai Pesci, ed in omaggio alle idee 
dei vecchi Maestri di Anatomia. 

Torno ora ai Mammiferi e prima di tutto ricordo che per 
veder bene la disposizione di molti dei loro pezzi cranici è ne- 
cessario il più delle volte far ricorso agli embrioni o ai giovani 
individui, perchè nell’ adulto molte ossa perdono, per reciproca 
fusione, la loro individualità. 

Il Maiale, lo sappiamo già, ci offre esempio di scheletro. ce- 
falico, che è, per riguardo alle -particolarità che mi interessano, 
tipico. In esso infatti (fig. 8) a circoscrivere in alto il grande 
forame e a far da parete posteriore alla scatola encefalica tro- 
viamo il sopraoccipitale, osso completamente di origine |cartila- 
ginea, il quale mai acquista elementi membranacei nella sua 
composizione. In sopra e al davanti del sopraoccipitale si tro- 
vano i due parietali, che col sopraoccipitale stesso formano una 
sutura lambdoidea e tra loro una biparietale (porzione biparie- 
tale della sutura sagittale); tra sopraoccipitale e parietali po- 
chissimo tempo rimane una fontanella che, anche in embrioni 
assai giovani, si chiude per il vicendevole accostarsi di queste 
tre ossa. Di lato ai parietali sono gli squamosi, e in avanti i: 
frontali, che tra loro formano una sutura bifrontale (parte fron- 
tale della sagittale) e coi parietali una frontoparietale. Una 
fontanella, del resto non mai relativamente ampia, trovasi nel 
cranio embrionale tra frontali e parietali, lungo il decorso della 
sutura sagittale: questa fontanella col crescere dell’ animale 
sparisce, per l’ accostarsi reciproco in quel punto dei frontali 
e dei parietali. Niuna altra ossificazione, oltre le accennate, 
rinviensi a cose normali nel tegmen cranti del Maiale a qualungne 
epoca lo si esamini. Mancano in esso, dunque, e interparietali 
e altre ossificazioni, che possano stabilirsi nella fontanella oc- 
cipitale e frontoparietale. Che il Maiale in ogni epoca dello svi- 
luppo e della vita estrauterina non presentasse mai ossa inter- 
parietali aveva già detto Meckel (') in quella inesauribile mi- 


(4) Meckel J. — Traîté général etc. cit. - Tom. IV. pag. 252. 


OSSA ACCESSORIE 115 


niera di verità zootomiche, che è la sua Anatomia comparata: egli 
dice che invano lo ha cercato anche nelle prime età fetali; e 
tutto ciò una volta di più mostra quale acuto osservatore fosse 
Meckel e quanti fatti anatomici egli sia riuscito a raccogliere 
e constatare. Anche Baraldi con una bella serie di embrioni di 
Maiale convenientemente preparati (esistente nel nostro Museo) 
ci ha esplicato l’ asserto di Meckel, della non esistenza assoluta 
d’interparietali nello scheletro cefalico del Maiale. Flower (') ed 
anche Parker (*) ed Huxley (), per quanto mostrino di non 
ignorare questo fatto, non vi sì intrattengono, quasi non ne 
apprezzassero l’ importanza. 

Visto che il Maiale è privo di interparietali e che in esso 
la fontanella occipitale si chiude ben presto per 1’ accostarsi 
reciproco del sopraoccipitale coi parietali, dirò che altri Mam- 
miferi, nei quali non esiste, sembra, interparietale alcuno, sono 
quelli dell’ ordine infimo, gli Ornitodelfi o Monotremi, cioè. E 
questo fatto è importante, non solo perchè rappresenta un 
punto di più di ravvicinamento tra gli Ornitodelfi e i Vertebrati 
sottostanti, ma perchè anche ci fa vedere come, oltre i Suidi, 
altri Mammiferi ci diano esempio di mancanza di interparietali. 

Esaminiamo ora, già che abbiam visto quelli che ne sono 
privi, i Mammiferi forniti di ossa interparietali, facendo di queste 
ossa una rivista rapida sì, ma, per sommi capi completa: dopo, 
su esse, riassumeremo qualche considerazione. 

Gli interparietali, che, non mi stancherò di dirlo, sono spe- 
ciali ossificazioni della fontanella occipitoparietale, furono per 
la prima volta accennati da Ruini (4) (1598) nel feto del Ca- 
vallo. E siccome fondonsi in questo animale (come negli altri) 
con l'età in uno solo, di forma presso a poco quadrata, Ruini 
stesso lo chiamò osso quadrato. Dipoi Meyer (5) (1800) lo nominò 
nei Rosicanti (in cui è sovente sviluppatissimo) osso trasverso. 
Cuvier lo disse, da prima, parietale impari; finalmente Et. Geoffroy 


(‘) Flower W. H. — An introduction to the osteology of the Mammalia. Lon- 
don 1876. 

(£) Parker and Bettany — The morphology of the Skull. London, 1877. 

(*) Huxley T. H. — Lectures on the Elements of comparative anatomy. London 1864. 


» >» Manuale dell''Anatomia degli animali vertebrati (Trad. da 
Giglioli). Firenze 1874. 


(#4) Ruini C. — Anatomia del Cavallo. Bologna 1598. 
(°) Meyer N. — Prodromus anat. Murium. Jena 1880. 


116 E. FICALBI 


Saint Halatre (') (1807) gli dette il nome di osso înterparietale, 
o di ossa interparietali, se la fusione in unico pezzo non è av- 
venuta. Questa denominazione, adottata da Cuvier stesso e da 
Meckel, è giunta fino a noi e deve esser conservata. — Vediamo 
come, nei Mammiferi, suole svilupparsi quest’ osso, o queste ossa 
interparietali, e come comportarsi, divenendo adulto l’animale. 
Come ben dimostrò Baraldi (?), possono aversi tre modi di svi- 
luppo. 1.° I centri di ossificazione sono due, situati lateralmente 
nella fontanella occipitale, e assai distanti dalla linea mediana; 
in questo caso avremo, come nei Cervi, due ossa interparietali 
ben distinte, anche per vario tempo dopo la nascita; — 2.° I 
centri di ossificazione sono pur due, ma vicina alla linea me- 
diana, ossia tra loro; in questo caso, come nella Pecora, nel 
Bove, si hanno bensì due ossa interparietali, ma che rimangono 
poco tempo separate, fondendosi tra loro in un sol pezzo du-’ 
rante la stessa vita fetale; — 83.° Il centro di ossificazione è 
unico, situato sulla linea mediana, 0, se sono due, sono tanto 
vicini da fondersi tosto che appariscono insieme, in un ‘unico 
centro di irradiazione della sostanza ossea; in questo caso si ha 
un solo osso interparietale sempre, come nel Cane. — Dal modo 
come accade lo sviluppo, sì possono avere, adunque, nel feto 
un solo interparietale impari e mediano (Cane), o due interpa- 
rietal:, bilaterali, toccantisi reciprocamente per un loro margine 
(Cervo, Pecora). Per quanto, però, molti Mammiferi abbiano allo ‘ 
stato embrionale due interparietali, allo stato adulto o ne hanno 
un solo, o non ne hanno alcuno. Ciò, per due cagioni: la prima 
è, che gli interparietali coll’ accrescimento si saldano tra loro 
in un sol pezzo, e se questo permane tutta la vita (Castoro, 
Trace), il Mammifero è fornito di un interparietale; la seconda 
cagione porta a questo: che il rammentato interparietale, più 
o meno precocemente, in molti Mammiferi si salda con le ossa 
circostanti e perde la sua individualità; così questi Mammiferi 
allo stato adulto sono privi di interparietale (Cane, Pecora, Uomo). 
L'interparietale, in quei Mammiferi nei quali scompare, può 
perdere la sua individualità in due modi: nel primo modo, si 


(!) V. in: Ann. du Meséum d'’ rist. nat. Tom. X, pag. 249 e 342. (An. 1807). 
(2) Baraldi G. — Alcune osservazioni sulla origine del cranio umano e degli 
altri Mammiferi, ossia craniogenesi deo Mammiferi. Giornale della R. Acc. di Me- 


dicina, Torino 1873, 


OSSA ACCESSORIE 117 


salda al sopraoccipitale: e questo caso è frequentissimo (Cane, 
Uomo, Scimmie); nel secondo modo, si salda con i parietali, e 
di ciò si hanno esempi tra i Roditori, tra gli Arziodattili rumi- 
nanti, tra i Solipedi. — Il fatto del fondersi molto precocemente 
da prima tra loro (se sono due) e poi con le circostanti, nei 
varii Mammiferi, le ossa interparietali, e il non trovarsi, per 
ciò, di interparietali traccia nè nell’ individuo adulto, nè, in certi 
casi, neppure nell’ individuo alla nascita o non molto prima di 
essa, ha fatto sorgere la domanda se realmente tutti i Mam- 
miferi abbiano interparietali. Rispondo a questo quesito, indicando 
anche qualcuno dei principali Mammiferi in cui allo stato adulto 
permane l’ interparietale ('). i 

Nel Maiale, abbiam visto, si può esser certi che nessun in- 
terparietale esiste, e ciò è un fatto inoppugnabile. Così è per i 
Monotremi. Potrebbe darsi che il fatto del Maiale si verificasse 
anche in qualche altro Mammifero. Tuttavia deve dirsi che in 
Mammiferi di tutti gli ordini (non parlo dei Monotremi) si sono 
trovati, esaminandoli nelle convenienti età od epoche di sviluppo, 
due interparietali od uno. — Per l’ Uomo, fino dai tempi di 
Meckel e di Cuvier si discusse se avesse o no interparietale. 
Meckel (*) chiaramente lo ammette; dice: “ Presso 1’ Uomo la 
porzione squamosa dell’ occipitale si forma di due metà situate 
una sopra l’altra, delle quali la metà superiore corrisponde al- 
l’interparietale, almeno a quello del Topo e del Castoro, che 
hanno quest’ osso sviluppatissimo ,. Cwvîer (*) pure riconosce la 
traccia degli interparietali nella parte superiore della squama 
occipitis, osservata nel feto umano delle prime settimane. In 
questi ultimi anni alquanti Anatomici, e tra noi Baraldi (') e 
itomiti (*) rimisero in evidenza la cosa. L' Uomo dunque ha pri- 
mitivamente due interparietali; ma essi si saldano precocemente 
(nelle prime settimane di sviluppo ontogenico) al sopraoccipitale 
e tra loro; costituiscono così la porzione squumosa vera e propria 


(1) V. Gruber W. — Abhandl. aus der menschlichen und vergleichenden Anat. 
St. Petersburg, 1852. — Otto A. G. — De rarioribus quibusdam sceleti humani 
cum animalium scéleto analogiis; Vratislaviae 1839. 

(?) Meckel J. F. — Traité géneral etc. cit. - T. IV, pag. 252. 

(8) Cuvier G. — Lecons d’An. etc. cit. - Pag. 412. 

(4) Baraldi G. — AZcune osservazioni etc. cit. 

() Romiti G. — Lo sviluppo e le varietà dell’ osso occipitale nell' Uomo. Atti 
della R. Acc. Fisioc. Siena 1881, 


118 E. FICALBI 


dell’ occipitale adulto, porzione che, per ciò che abbiam detto, 
è di origine membranacea: nell’ osso dell’ adulto potrebbe dirsi 
porzione interparietale dell’ occipitale. Certe volte gli interparie- 
tali nell’ Uomo non seguono, durante lo sviluppo, la regola: può 
darsi cioè che non si uniscano all’ occipitale che tardissimo o 
mai. In questo caso si hanno nel cranio umano tra occipitale 
e parietali uno o due ossa staccate, che sono gli interparietali, 
e questa loro persistenza come ossa distinte ci rappresenta un 
ritorno atavico. Se teoricamente consideriamo le cose, si vede 
che la presenza degli interparietali liberi nell’ Uomo può rispon- 
dere ad uno di questi tre casi: 1.° Tra occipitale e parietali può 
esistere un unico grande osso triangolare ('): esso rappresenta i 
due interparietali primitivi anchilosati tra loro, ma non col sopra- 
occipitale, come mostra la fig. 11: (caso omologo, per esempio, al 
Castoro adulto). Tra occipitale e parietali possono esistere due 
ossa grandi triangolari: sono i due interparietali, rimasti liberi 
tra loro e con le ossa circonvicine (caso omologo, p. es., al gio- 
vane Cervo); Tra sopraoccipitale e parietali può aversi un solo 
osso, triangoliforme, ma non mediano, sibbene unilaterale, come 
mostra la fig. 12; esso è un solo dei due interparietali primitivi 
che è rimasto indipendente da ogni altro osso, compreso il suo 
omonimo, mentre quest’ultimo è saldato al sopraoccipitale. 
Esaminiamo brevemente questi tre casi. Dirò subito che comun- 
que si siano presentati gli interparieteli nell’ Uomo, gli Antro- 
potomi vi hanno assai scritto e discusso intorno, non scarseg- 
giando di denominazinoni difformi per questo fatto, di natura 
sua sempre uguale. Quando, come nel primo caso da me enu- 
merato, un solo interparietale si notava nel cranio umano (fig. 11), 
ad esso si dette il nome di wormiano vero, wormiano triangolare, 
os triquetrum; fu da Fischer (è) detto osso epattale, altri lo chiamò 
epattale vero; Tschudi gli dette il nome, non giusto, di os 7ncae 
(osso dei cranii peruviani antichi); il nostro venerando Calore (*) 
gli ha dato anche l'appellativo di wormiano occipitale. Tutte 
queste denominazioni devono esser sostituite, come giustamente 
insiste il Prof. Romiti, con quella di 2rterparietale. Tra i vecchi 


(4) V. Romiti G. — Lo sviluppo etc. cit. - V. anche Calori citato più avanti. 

(2) Fischer G. — De osse epactali sive Gothiano. Moscoviae 1811. 

(8) Calori L. — De' wormiani occipitali ed interparietali posteriori, ete. In: Mem. 
dell’Acc. delle Sc. dell’ Ist. di Bologna, 1868. Tom. VII, fase. 2. ì 


OSSA ACCESSORIE 119 


anatomici, Cuvier non volle riconoscere nell’ osso ora descritto 
un interparietale omologo a quello di molti Mammiferi; altri 
Anatomici, tra cui è da porre Van Doeveren (') e Meckel, pen- 
sarono che realmente fosse l’ interparietale. Jacquart (®) in que- 
st’ osso volle vedere una distintiva di razza antropologica: ma 
sicuramente a torto, al pari di Tschudîi. — Nel secondo caso 
da me enumerato, nel sito della fontanella occipitale possono 
trovarsi non uno, ma due interparietali; non mì intrattengo di 
più su questa cosa: ma mi preme tar tosto una dichiarazione. 
Potrà darsi, trovando due grandi ossa tra occipitale e parietali, 
che esse siano i due veri interparietali non fusi in un unico 
pezzo, ma il più sovente, a mio credere, queste due ossa non sono 
i vert inter ‘parietali, sibbene gli interparietali accessorii, che descri- 
verò; essendo, in tal caso, il vero interparietale anchilosato col 
sopraoccipitale come squama occipitis, che può essere un poco 
più piccola. Si tenga a mente questo fatto, su cui tornerò con 
la dovuta estensione. — Nel terzo caso da me enumerato (5), 
si ha un solo interparietale, unilaterale (tig. 12). — Lungo la 
sutura lambdoidea del cranio umano, lo dico ora per incidenza 
e vi tornerò sopra, possono sovente trovarsi delle ossificazioni 
senza valore, che non sono nè gli interparietali, nè gli interparie- 
tali accessorii, e che devono mettersi nel numero dei wormiani. 

Nelle Scimmie gli interparietali si comportano precisamente 
come nell’ Uomo, saldandosi di buonissima ora al sopraoccipi- 
tale e costituendone la porzione squamosa; quindi nell’ adulto 
non solo, ma neanche alla nascita si ha un osso interparietale 
indipendente, se non per puro caso. Ritengo che la presenza di 
interparietale indipendente nelle Scimmie debba esser fatto ben 
raro: così, per esempio, in oltre 80 cranii da me osservati di 
Scimmie di diversa specie ed età, mai l’ ho potuto notare. — 
Quello che ho detto per le Scimmie valga ‘per i Lemuri. — 
Nel giovane Galeopiteco trovasi un interparietale, che è scom- 
parso nell’ adulto. — Trovasi semplice o doppio nei giovani 


(1) Van Doeveren — Specimen observationum academicarum. Groningae et Lugduni 
Batavorum 1765. 

(*) Jacquart — De Za valeur de los epactal comme caractère de race en anthro- 
pologie. In : Journ. d’Anat. 1865. T. I. 

(*) Nel Museo di Anatomia umana di Siena esistono due cranii, nei quali è ben 
visibile questa particolarità, avendosi ben distinto in ambedue il solo interparietale 
destro, 


120 E. FICALBI 
Chiropteri. — E rarissimo negli Insettivori adulti. — I Rosi- 


canti ci danno i più belli esempii della permanenza dell’ osso 
interparietale nell'adulto: sviluppatissimo lo ha il Castoro, e 


più o meno tutti gli altri Rosicanti. — Nei Carnivori adulti 
non sì trova o raramente. — Nemmeno nell’ Elefante adulto. — 
Trovasi nell’Irace adulto. — Sviluppatissimo è nei Cetacei, an- 


che adulti, per quanto possa anche in questi animali coll’ età 
fondersi col sopraoccipitale; nei Cetacei l’interparietale si esten- 
de dal sopraoccipitale al frontale: impedisce, così per tutta la 
vita che i dune parietali si uniscano tra loro in una sutura. — 
Negli Arziodattili ruminanti adulti l’interparietale perde gene- 
ralmente la sua individualità; i Cervi giovani lo presentano 
evidente. Sappiamo già che i Suidi ne difettano. — Nei Peris- 
sodattili adulti sovente manca l’ interparietale, per quanto lo 
si trovi evidente nei giovani e talvolta doppio anche del tempo 
dopo la nascita; si vede nel Rinoceronte. — Negli Sdentati (') 
e nei Marsupiali giovani si trova e qualche volta anche negli 
adulti o semiadulti. 

Così ho ricapitolato tutto ciò che si riferisce all’ Anatomia 
comparata delle ossa interparietali. Si è visto che mancano in 
tutti i Vertebrati inferiori ai Mammiferi, nei più bassi di questi 
(Monotremi) e nei Suidi. Esistono negli altri, in cui possono ridursi 
ad uno e perdere la loro individualità spessissimo nell’ adulto. 
Facciamo ora qualche considerazione su queste ossa. Dal momento , 
che esse non trovansi nè nei Vertebrati inferiori, nè nei Mammi- 
feri monotremi, si deve ritenere che la loro presenza indica in 
certo qual modo superiorità. Ciò è indubitato: tuttavia per quanto 
sieno ossificazioni proprie ai Vertebrati superiori, esse non sono 
essenziali: e ciò ci vien dimostrato, non solo dal poco sviluppo 
che prendono in alcuni e dal fatto che perdono in altri prestis- 
simo la loro individualità, ma specialmente dal fatto che man- 
cano del tutto in certi Mammiferi, quali i Suidi. Quest’ ultimo 
fatto della loro assenza nei Suidi, che non sono Mammiferi dei 
più bassi, costringe, lo ripeto, a non considerarli essenziali; 
infatti se noi esaminiamo la serie dei Mammiferi mai troveremo 
che questo o quell’ altro osso possa mancare in una per ricompa- 
rire in un’altra specie, e, di più, neanche mai troviamo nel cranio 


('*) Meckel — An. comp. etc. 


OSSA ACCESSORIE 121 


dei Mammiferi, fuori degli interparietali, essa che mai abbiano 
dato traccia di loro nei Vertebrati inferiori. Fa solo eccezione 
alla prima di queste due regole un osso de] cranio dei Pango- 
lini (Maris), nei quali manca (almeno così sembra) lo zigoma- 
tico ('); ma ciò si può spiegare per la forma un po’ inusitata 
del cranio di questi animali: e vi è anche da riflettere che lo 
zigomatico o giugale trovasi rappresentato in molti dei Verte- 
brati sottostanti ai Mammiferi, il che basta per farcelo ritenere 
èlemento cranico non dirò dei più essenziali, ma certo impor- 
tante. Per rafforzare sempre più la mia tesi, che le ossa inter- 
parietali non sono essenziali, ma che rappresentano elementi 
che sonosi aggiunti nel tegmen craniî dei più dei Mammiferi, 
ricorderò anche il loro luogo di origine: la fontanella occipito- 
parietale; sono dunque ossa di fontanella. Ora, dunque, concludo 
dicendo: che le ossa interparietali sono ossificazioni proprie dei 
Vertebrati superiori (Mammiferi), ma non essenziali; per il posto 
ove nascono posson considerarsi ossa di fontanella, di sopra a 
più nel tegmen cranti. — Nè si creda esagerata questa mia as- 
serzione: un sommo Anatomico, Accardo Owen, è andato più 
in là: egli ha scritto (°): , L’interparietale non è un elemento 
cranico costante, e non è neppure uno smembramento di un 
solo e medesimo osso della testa; esso è tutto al più il più 
grande e il più comune delle ossa wormiane intercalate ,. Questo 
certo è troppo, perchè il carattere delle ossa wormiane è di non 
esser costanti, e nei più dei Mammiferi l’ interparietale invece 
lo è. Ie dunque non lascio la opinione che ho emesso. ‘ 

Gli interparietali, pur non essendo veri wormiani, sono, ho 
detto, un di più che si è aggiunto nel fegmen cranti. Ma nel 
fegmen cranii stesso possono aggiungersi altri elementi, i quali 
non hanno, confrontati con gli interparietali, altra differenza 
che questa: di essere, prendendo in complesso i Mammiferi, meno 
frequenti: gli interparietali mancavano nei Monotremi e nei 
Suidi ed erano cosa di regola negli altri Mammiferi; gli elementi 
dei quali parlerò ora sono di regola in pochi Mammiferi (Equidi), 
e più rari o mancanti negli altri; ecco la differenza. — Ho già 


{!) Ho detto almeno così sembra perchè altra volta si ritenne mancare in molti 
altri Mammiferi lo zigomatico, il quale poi invece si trovò esistere nei feti e anchi- 
losarsi prestissimo con altre ossa. ; 

(2) Owen R. — Principes d’ Ostéologie comparée etc. Paris 1855, pag. 35, 


122 F. FICALBI O 


detto indietro in questo scritto, che se noi ci facciamo ad os- 
servare il cranio di un feto di Cavallo, sovente anche al mo- 
mento e dopo la nascita, potremo osservare questo fatto: che 
il Cavallo stesso ha non solo al davanti del sopraoccipitale due 
interparietali, (che riunendosi poi in un sol pezzo costituiranno 
l'osso quadrato del vecchio I?uini), ma al dinanzi dei due inter- 
parietali, o dell'unico, se già fusi, troveremo di regola due altre 
ossa più piccole, triangolari, che si toccano in una sutura an- 
teroposteriore. Queste ossa, lo ripeto, sono cosa di regola nei 
Solipedi, ed è per ciò che devono fermare l’ attenzione dell’ Ana- 
tomico. Le chiamo, per la posizione loro, ossa inferparietali ac- 
cessorie (fig. 13). Gli Anatomici moderni, a quanto sembra, 
ignorano la presenza di queste ossa, se si deve gindicarne dai 
loro libri. Io stesso, col Prof. Baraldi, che le ha preparate in 
diversi cranii, e che mi ha favorito la fig. 13, le credei da prima 
una novità; ma poi vidi che a JMeckel (') non erano per nulla 
sfuggite. Egli dice che sono usuali presso qualche Mammifero 
e di questo numero sono sopra a tutto i Solipedi: sembrerebbe 
quindi, che come cosa normale o quasi le avesse trovate in altri 
Mammiferi, e sono di fatto frequentissime, e trovansi in. varie 
specie. Meckel non le nomina, nè ne indaga il significato. Io 
ripeterò che sono evidentissime nel feto equino: saldansi con 
l’età prima tra loro, poi con l’interparietale, che loro sta in 
dietro, in seguito saldansi anche in avanti coi .parietali. — Ve- 
diamo ora se le ossa interparietali accessorie esistono negli altri 
Mammiferi. Dirò subito, a guisa di preannunzio, che esistono 
frequentemente e che a torto furon sempre considerate come 
ossificazioni accideutali, senza importanza: ossa wormiane, ecco 
la elastica parola che tutto doveva spiegare. Io mi sono dato 
a ricercare, sia nella letteratura anatomica, sia nei Musei la 
presenza di queste ossa e l’ ho trovata relativamente frequente 
e comune a molte specie di Mammiferi, come vengo a dire. 
Nell’ Uomo la presenza di così dette ossa wormiane nella 
sutura lambdoidea è un fatto frequente assai: Sappey ed altri 
Antropotomisti dicono che quivi trovansi di preferenza i wor- 
miani. Il fatto è che molti di questi pretesi wormiani (a sè i 
piccoli nuclei ossei senza importanza reale) sono non di rado 


(') Meckel — Traité gen. ete. cit. - T. IV, pag. 251. 


OSSA ACCESSORIE 123 


le ossa interparietali accessorie, che in casì tipici, come io ho 
veduto, tra la porzione squamosa dell’ occipitale (derivata dalla 
unione ad esso degli interparietali veri) trovansi in numero o 
di due, analoghe a quelle dei Solipedi, e ne ho figurato un caso, 
o in numero di wr sol pezzo, risultante veris milmente dalla 
fusione delle due, come avviene nel Solipede con lo sviluppo. 
Il caso che ho rappresentato colla fig. 14 mi sembra tipico: la 
figura è presa dal cranio di un feto umano alla nascita ('); in 
essa e0 sono gli esoccipitali, d0 il basioccipitale, so il sopraoc- 
cipitale, ép la porzione squamosa o gli interparietali fusi col 
sopraoccipitale ed all’ intorno dei quali riman sempre qualche 
segno della primitiva indipendenza e doppiezza; 2 pa seno gli 
interparietali accessorit; è evidente la rassomiglianza che hanno 
con quelli del Cavallo. Qualche volta le due ossa interparietali 
accessorie sono fuse in un sol pezzo, intercalato tra porzione 
squamosa dell’ occipitale, la quale può essere un po’ meno svi- 
luppata per fargli posto, e parietali. In ogni modo, mai gli 
Antropotomisti eransi dati a riflettere sulla natura delle descritte 
ossificazioni: come i più di essi furono ostinati nel chiamare 
epattale o wormiano vero l’ interparietale, quando presentavasi 
indipendente, così pure le ossa interparietali accessorie furon 
da essi sempre chiamate wormiani. Ma che questa veduta non 
sempre sia giusta mi pare lo dimostri il caso tipico da me ac- 
cennato. Riconosco anch'io, sì, che nella sutura lambdoidea 
posson prender luogo veri wormiani accidentali e insignificanti 
morfologicamente, ma non posso a meno di fare avvertire e di 
ripetere che molte delle ossa dette wormiani occipitali, e regi- 
strate dagli Autori sono in realtà gli enterparcetali accessorii, di 
cui ci dà classico esempio il Cavallo. Ed anche qualcuna di quelle 
ossa che come :cormiani occipitali figura e descrive, per esempio, 
Calori, devono forse, a mio debole giudizio, lo ripeto, esser con- 
siderate ossa interparietali accessorie o rimaste indipendenti tra 
loro, come nell’ esempio che ho figurato, o fuse in un sol pezzo 
come avviene con l’ età anche nei Solipedi. Nè mi si obietti che 
le ossa interparietali accessorie dei Solipedi sono wormiani per- 
manenti, poichè questa espressione permanenti esclude appunto 
il significato che deve darsi all’ altra di wormiano. Sono, bensì, 


(*) Ebbi questo cranio dal Museo anatomico di Siena, 


124 ‘E. FICALBI 

gli interparietali, gli interparietali accessorii, il frontoparietale, 
i wormiani, come dirò in seguito, tutte ossa che passano a gradi 
le une nelle altre; ma differenze di grado esistono tra esse, e 
gli interparietali accessorii non sono wormiani nel senso vol- 
gare — Essi quando sono presenti nell’ Uomo ci rappresentano 
un fatto accidentale in esso, ma normale in certi Mammiferi 
inferiori, ci rappresentano, in altre parole un caso di un più o 
men diretto atavismo. 

Così ho accennato alla presenza delle ossa interparietali ac- 
cessorie nell’ Uomo. Vediamo ora come esistono in altri Mam- 
miferìi. Premetterò che si trovano spesso e già Meckel scrisse di 
avere in varii animali veduto sovente uno o più ossa molto con- 
siderevoli situate al davanti dell’interparietale. — Possono tro- 
varsi nelle Scimmie ed io ne ho visto un caso nel cranio di un 
non adulto individuo di Simia satyrus L. — Non ne ho trovato 
traccia in pochi cranii di Lemuri da me esaminati. — Nei Ro- 
sicanti possono gli interparietali accessori trovarsi, fusi tra loro 
in un sol pezzo, che è situato innanzi al vero interparietale: ce 
ne dà esempio assai comune il Castoro. — Anche tra i Carni- 
vori spesso trovasi un osso interparietale accessorio, come ce ne 
dànno esempio i Gatti, i Cani; in questi ultimi anzi si ha questo 
fatto singolare: che, come per un solo centro sviluppasi 1’ in- 
terparietale vero, così per un centro solo sembra svilupparsi 
l’interparietale accessorio; nella fig. 15 rappresento porzione 
del cranio di un Cane, in cui l’interparietale accessorio vedesi 
con tutta chiarezza (î a). — In un Irace adulto al davanti del- 
l’interparietale ho visto nel cranio due interparietali accessorii 
sempre liberi e indipendenti, come nel feto del cavallo. — Nei 
Cetacei può esistere uno sviluppatissimo interparietale accessorio, 
risultante verisimilmente dalla fusione in un sol pezzo dei due 
centri primitivi; il Prof. Richiardi (') descrisse fin dal 1877. 
questo terzo interparietale nel cranio di un feto di Orca: di- 
mostrò .che in esso cranio , esistono tre interparietali; due pari, 
al davanti del margine superiore del sopraoccipitale, separato 
l’uno dall’ altro sulla linea mediana da una piccola placca os- 
sea, ed un terzo impari assai più ampio, che sta al davanti dei 


(i) In: Processo verbale dell'adunanza del 14 gennaio 1877 della Società Toscana 
di Sc. Naturali, residente in Pisa. 


OSSA ACCESSORIE 195 


margini superiori dei precedenti e dei parietali e giunge fino ai 
frontali ,; disse anche che “ dal saldarsi dei detti interparietali 
tra loro e col sopraoccipitale ne risulta quella porzione lam- 
bdoidea dell’ occipitale così ampia negli individui adulti, da par- 
tecipare col suo margine anteriore alla formazione del vertice 
della testa ,. Questo è davvero un bel caso. — Nel cranio di 
uno Sdentato (Jyrmecophaga tamandua Desm.) ho visto ben svi- 
luppato l’ interparietale accessorio, di forma losangica, situato 
tra parietali e squama occipitis. — Nei Marsupiali può trovarsi 
l’interparletale accessorio, come ce ne dànno frequente esempio 
la Sariga, il Wombato. 

Ho parlato, così, di ciò che si riferisce agli interparietali 
accessorii, considerati negli ordini dei Mammiferi. Si è visto che 
il loro posto di origine è la fontanella occipitale: sono dunque 
ossa di fontanella. Mancano, come è ovvio a intendersi, nei 
Vertebrati inferiori ai Mammiferi e nei Monotremi, possono 
trovarsi nei Mammiferi degli altri ordini: anzi in taluni Mam- 
miferi sono cosa di regola (Equidi). Queste ossa sono anche 
meno essenziali degli interparietali veri, per quanto però veri 
wormiani non siano, trovandosi costanti in qualche specie. Vo- 
lendo ora, per riassumere, definire gli interparietali accessorii, 
può dirsi: che sono ossificazioni proprie dei Mammiferi al di 
sopra dei Monotremi, ma che non sono essenziali ed anche meno 
essenziali degli interparietali; sono ossa di fontanella anch’ essi 
come gli interparietali veri e al pari di essi sono ossificazioni 
di sopra a più nel fegmen cranî. 

Abbiam visto, così, che quali elementi di sopra a più nel 
fegmen craniî dei Mammiferi possono trovarsi gli interparietali 
e gli interparietali accessorii. Può, oltre questi, riscontrarsi in 
un altro osso di fontanella, che segna propriamente il tratto 
di unione tra le ossificazioni surrammentate e i wormiani. L’ osso 
al quale alludo risiede nel posto della fontanella frontoparietale 
e non è raro vedere che sì insinua alquanto tra i frontali an- 
‘ teriormente e i parietali posteriormente. Lo chiamo osso fronto- 
parietale per la sua situazione: potrebbe dirsi anche osso inter- 
frontale ('). Perchè, mi si potrebbe tosto chiedere, non deve esser 


(‘) Non ho adottato l'appellativo di 2nterfrontale (usato, se non erro, per l’ Uomo 
da Boianus) perchè quando i due frontali, come quasi sempre avviene, saldansi in 
un sol pezzo, non sembra più che quest’ osso sia tra l'uno e l’altro, ed anche non 


126 E. FICALBI 
messo l’osso frontoparietale addirittura tra i wormiani od 
esclusone affatto? Tra i wormiani non può a buon dritto met- 
tersi per una ragione non del tutto trascurabile; perchè, cioè, 
esso sebbene non sia propriamente di regola in alcun Mam- 
mifero, pur tuttavia è quasi di regola nelle Scimmie platirrine 
appartenenti alla famiglia dei Cebidi e specialmente nelle specie 
dei generi Cebus e Ateles. Se noi ci facciamo ad esaminare un 
certo numero di cranii di Cebi o di Ateli con tutta facilità tro- 
veremo che il posto della fontanella frontoparietale è occupato 
da un osso che, specialmente negli Ateli, ha forma romboidale 
e che con un estremo si insinua tra i due frontali o in un’ in- 
taccatura del frontale, se i due sonosi fusi in un sol pezzo, con 
l’altro estremo si insinua un po’ tra i due parietali (fig. 16). 
Escluderlo poi affatto dai wormiani non si può tanto facilmente, 
perchè costante non è veramente in alcun Mammifero. Credo, 
quindi, di non esser lontano dal vero dicendo che l’ osso fron- 
toparietale segna il passaggio dalle altre ossa di sopra a più 
del tegmen cranti dei Mammiferi ai veri wormiani. Credo anche 
di non esser lontano dal vero ammettendo che, fermo ciò che 
ho espresso, esso abbia un po’ maggiore dignità dei wormiani, 
e questo perchè la sua presenza non è un fatto così acciden- 
tale come quella dei wormiani, essendo l’ osso istesso comunis- 
simo nei cranii delle Scimmie, che più sopra ho rammentato. — 
Do un cenno di qualche altro Mammifero, in cui può trovarsi 
l'osso frontoparietale (!). 
Nell’ Uomo può trovarsi l’ osso frontoparietale: è però piut- 
tosto raro, specie ben sviluppato. Lo conoscevano già gli Autori 
antichi e sovente lo si trova accennato sotto 1’ appellativo di 
osso antiepilettico, perchè fu creduto eroico rimedio nella epilessia. 
In oggi va generalmente coì nome di wormiano della fontanella 
anteriore e frontale, od anche col nome di frontatale. — Nelle 
Scimmie ho già detto che può trovarsi frequentemente 1’ osso 
in quistione e ce ne danno esempio quasi costante i Cebidi. 
Nella fig. 16 ho rappresentato l'osso frontoparietale di un Ateles; 
l’osso stesso vedesi in fp: ha forma romboidale e si insinua 


l’ ho adottato perchè in certe Scimmie (Cebus) sembra rappresentare l° apice poste- 
riore staccato del frontale, che è in questi animali molto prolungato in FIGuO a guisa 
di cuneo, che sì insinua tra i due parietali. 

(!) V. Leuckart — ZooZ. Bruchstiicke, Il; Stuttgardt, 1841. 


OSSA ACCESSORIE 127 


in avanti in una intaccatura del frontale fr, intaccatura che 
era primitivamente tra i due frontali dell’ individuo giovane, 
dietro si insinua alquanto trai due parietali, p a. Anche in Scimmie 
di altre famiglie può trovarsi l'osso frontoparietale: in 75 cranii 
esaminati, di Scimmie che non fossero Cebidi, ho trovato due 
volte la presenza del surrammentato osso: una volta nel cranio 
di un Cercopithecus cynosurus Geoffr., una seconda volta nel cranio 
di un Inuus ecandatus Geoffr. Tatte e due le volte era benissimo 
sviluppato e di forma romboidale, avente insomma apparenza 
e rapporti, come quello della fig. 16. — In altri Mammiferi può 
trovarsi l'osso frontoparietale e talvolta bene sviluppato. Nella 
fig. 17 ho disegnato l’osso stesso come si trova nel cranio di 
uno Sciacallo ('): in essa fr sono i frontali; pa i parietali; fp 
è l'osso frontoparietale, il quale come l’ interparietale e 1’ in- 
terparietale accessorio nei Cani, è di forma quadrilatera ed al- 
lungato. — Per citare qualche altro Mammifero, dirò che Ca- 
lori (*) descrisse e figurò pel cranio del Pedetes caffer Illig. un 
ben sviluppato osso frontoparietale, ch’ egli chiamò wormiano 
della fontanella anteriore. Anch'io ho esaminato diversi cranii di 
Rosicante ed un caso di osso frontoparietale ben sviluppato ho 
riscontrato in un’ Istrice. Un caso he ho visto in un Marsupiale, 
e taccio di altro (*). 

Oltre gli interparietali, gli interparietali accessorii e 1° osso 
frontoparietale, possono nel cranio dei Mammiferi e specialmente 
in quello dell’ Uomo, rinvenirsi delle piccole ossificazioni di sopra 
a più, che non hanno la minima costanza nè nel modo di ap- 
parire, nè nel numero loro. A questi ossetti accessori si diede 
il nome di wormiani attribuendone la scoperta all’ Anatomico 
danese Olao Wormius, che credette nel 1611 averli descritti pel 
primo, mentre già li conoscevano gli antichi e Bartolemeo Eusta- 
chio nel secolo precedente a Wormius ne avea tenuto parola. — 
Dobbiamo intendere per wormiani quelle ossificazioni che non 
hanno nè regola, nè costanza alcuna nella apparizione loro, ma 
che sono prettamente accidentali. Il luogo di apparizione degli 
ossetti wormiani sono di preferenza le fontanelle e le suture 


(4) Su 25 cranii esaminati, appartenenti ad individui del genere Canis, ho trovato 
una sola volta l’ osso frontoparietale. i 

(*) Calori L. — In: Mem. dell’Acc. d. Sc. dell’ Istit. di Bologna, T. V, An. 1854, 

(3) Non ho riscontrato mai l’ osso frontoparietale in 15 cranii di gatti. 


€ 


128 E. FICALBI 


del tegmen cranù: così compaiono sia nel sito della fontanella 
occipitale, e della frontoparietale, sia nel decorso delle suture 
lambdoidea ('), biparietale, frontoparietale. Possono per di più 
osservarsi frequentemente wormiani fuori del fegmen cranii in 
altre articolazioni o suture, anche di ossa cartilaginee con mem- 
branacee; vedonsene spesso nella sutura temporoparietale, nella 
sfenoparietale, nella sfenofrontale: così un wormiano sovente 
assal sviluppato si ha nella sutura temporoparietale (squamopa- 
rietale) ora detta, e gli si dà il nome di crotatale; uno (o più). 
può aversi nel sito della fontanella temporooccipitoparistale; uon 
tra l’ angolo anteroinferiore del parietale e la grande ala dello 
sfenoide, e gli si può dare, con //ower, il nome di wormiano 
epipterico. Perfino dentro l’ orbita si è visto la presenza di un 
wormiano, nel punto ove sì incontrano tra loro frontale, etmoide, 
sfenoide. Tra le ossa della così detta faccia dell’ Anatomia umana 
sono rarissimi i wormiani. Tutto ciò, esclusivamente, o quasi, 
per l’uomo. Sovente i wormiani sono laminette ossee, le quali 
non corrispondono che o al solo tavolato interno o al solo ta- 
volato esterno delle ossa craniche. In conclusione i wormiani 
sono ossificazioni usualmente piccole, che ci stanno a rappre- 
sentare punti di ossificazione insoliti e dispersi senza regola. 

I wormiani sono specialmente ritrovabili nella specie umana. 
Anche le Scimmie possono presentarli: in 80 cranii scimmieschi, 
tre ho visto presentare qualche wormiano. Negli altri Mammi- - 
feri possono esistere, ma rari. 

Quale è la cagione del prodursi dei wormiani? In certi casì 
non si può scorgere causa alcuna apprezzabile e bisogna consi- 
derare la presenza loro come una mera accidentalità. Im altri 
casi, reperibili nella specie umara, è possibile spiegare la for- 
mazione e la presenza di queste ossificazioni: così, in generale 
sì è visto che quando il contenuto cranico è molto abbondante, 
si ha la formazione di wormiani, quasi che essi fossero nuovi 
pezzi che si aggiungono agli altri, per aumentare la capacità 
craniense; nei crani “dali individui idrocefalici notasi il maggior 
numero dei wormiani. In certi casi di accrescimento grande del 


(1) Nel Museo di Siena esiste un cranio di una pazza nel quale, oltre ad altri 
wormiani, ne esistono al di sopra dell’ angolo superiore dell’ occipitale quattro, con 
una disposizione curiosa: di essi uno è centrale, triangoliforme, gli altri tre gli stanno . 
attorno, situati uno per ogni lato del primo. 


OSSA. ACCESSORIE 129 


cranio il numero dei wormiani si fa grandissimo (in:modo da 
avvicinarsi alla cinquantina) per divisione in pezzi delle singole 
ossa di ricuoprimento: così Porta! (') dice che negli sfiancamenti 
del cranio prodotti da soverchio contenuto le ossa piatte del 
tegmen cranti, specie i parietali, si dividono in molti frammenti 
o wormiani, quasi che il cranio fosse formato da una congerie 
di queste ossa. 

Da tutto quello che sono venuto dicendo, chiaro si vede 
come nel cranio dei Mammiferi confrontato con quello dei Ver- 
tebrati inferiori, si vengono aggiungendo delle nuove ossa di 
ricuoprimento. Di queste nuove ossa, alcune sono costanti in 
tutti i Mammiferi, eccetto poche eccezioni: sono gli interparie- 
tali. Altre sono costanti in un piccol numero e frequenti, ma 
non costanti, nei più: sono gli interparietali accessorii. Altro 
osso non è costante mai, ma quasi costante in un certo numero 
di Mammiferi, e assai frequente in altri: è l'osso frontoparietale. 
Altre ossificazioni infine sono prettamente e sempre accidentali, 
per numero, per modo, e per sito di apposizione: sono le ossa 
wormiane, ritrovabili prevalentemente nella specie umana. — 
Certo ognuno non potrà a meno di riconoscere che esiste una 
certa affinità tra le quattro maniere di ossa, che ho enumerato; 
han tutte questo di comune: che sono accessorie; tuttavia grande 
differenza di grado e di importanza tra le prime e le ultime esiste. 
Peccherebbe ugualmente, a mio credere, colui che volesse porre 
tra le ossa essenziali del cranio gli interparietali, come colui che 
gli interparietali stessi considerasse wormiani: e l’una e l’altra 
di queste pecche furon dagli Anatomici commesse. 

Si potrebbe ora chiedere quale possa essere la cagione che, 
nei Mammiferi e precisamente in quelli al di sopra degli Orni- 
todelfi, ha portato alla formazione delle ossa accessorie. Quanto 
al wormiani, abbiam visto che può contribuire al loro prodursi 
l’aumentato contenuto cranico. Questo fatto potrebbe dar luce 
a spiegare la formazione delle altre ossa accessorie. Fermandoci 
agli interparietali, che sono le ossa accessorie più importanti 
e costanti, sarebbe errore il credere che fossersi formati (e poi 
ereditariamente trasmessi) nel cranio dei Mammiferi per l’ au- 
mentato volume dell’ encefalo, in confronto di quelle degli altri 
Vertebrati ? 


(1) Portal — Cours d' Anat. méd. T. I. Paris, 1803. 
So. Nat. Vol. II, fasc. 1.9 9 


130 i E. FICALBI 
Facendo ora termine, riassumo per comodità le cose princi- 
pali, che sono venuto dimostrando in questo mio scritto. 

1. — Nei Vertebrati sottostanti ai Mammiferi non si ha 
traccia nè di interparietali, nè di altra ossificazione affine (ossa 
accessorie). Le ossa accessorie sono proprie alla classe dei Mam- 
miferi, senza che, però, sì ritrovino in tutti. 

2. — Gli interparietali (o l’ interparietale), per quanto 
siano ossa quasi costanti nei Mammiferi, mancano tuttavia nei 
Monotremi (?) e nei Suidi: ora questo fatto della loro mancanza 
in alcuni Mammiferi ci fa vedere come gli interparietali stessi 
siano ossificazioni non essenziali. Infatti nessun altro osso del 
cranio (esclusa forse una eccezione per lo zigomatico, che del 
resto si trova non solo nei Mammiferi, ma nella grande massa 
dei Vertebrati) può mancare, come ho detto avvenire per gl’ in- 
terparietali nei Suidi (taccio della loro mancanza nei Monotremi 
e in tutti gli altri Vertebrati); nessun altro osso del cranio poi 
perde così facilmente e presto la propria individualità, come so- 
vente fanno gli interparietali. Per concludere, dunque, e senza 
andare all’ estremo di Qwen, che li considerò addirittura wor- 
miani, può dirsi che gli interparietali sono ossificazioni di fon- 
tanella, ritrovabili in quasi tutti i gruppi dei Mammiferi, ma 
non in tutti: sono, cioè, frequentissime, ma non essenziali; e 
riflettendo che non esistono nella grande massa dei Vertebrati, 
siamo costretti a riguardarli come ossa di sopra a più nel teg- 
men crani. 

8. — Negli Equidi abbiamo lo sviluppo, nella fontanella 
occipitoparietale, in via normale o costante, di due ossificazioni 
in più, oltre i due parietali: abbiamo, cioè, gli interparzetali ac- 
cessortîi. Questi possono frequentemente trovarsi in molti altri 
Mammiferi, fusi o no in un sol pezzo. Gli interparietali accessorii 
non devono esser messi nel novero delle ossa wormiane, perchè 
sono normali e costanti negli Equidi e il fatto della costanza 
esclude appunto la natura vera e propria di wormiano. Può 
dirsi che gli interparietali accessorii sono ossificazioni di fonta- 
nella molto meno frequenti, considerando la serie intiera dei 
Mammiferi, degli interparietali e come essi e più d’ essi sono 
ossificazioni di sopra a più nel fegmen cranti. 

4. — Nella specie umana trovansi talvolta tra squama 
occipitis (la quale rappresenta i veri interparietali fusi tra loro 


OSSA ACCESSORIE 131 


e col sopraoccipitale) e parietali, nella situazione della parte più 
anteriore della fontanella occipitoparietale, due ossa, od un osso 
solo, presentanti un certo sviluppo e regolarità: i cultori di 
on a umana non hanno di queste ossificazioni interpretata 
mai la vera natura, limitandosi a denominarli wormiani. È ra- 
gionevole invece ritenere che rappresentino gli interparietali 
accessorii. Si ha, così, in occasione della loro presenza, la ri- 
petizione accidentale nell’ Uomo di un fatto normale in certi 
Mammiferi ad esso inferiori, si ha, cioè, un caso di atavismo. 

6. — Nelle Scimmie dei generi Ateles e Cedus è un fatto 
non dirò costante, ma frequentissimo la presenza, nel sito della 
fontanella anteriore, di un osso di forma presso che romboidale, 
che è posto tra i due frontali (o tra il frontale) e i parietali: 
lo dico osso frontoparietale. Esso può trovarsi nel cranio di di- 
versi altri Mammiferi, compreso l' Uomo. È un osso di fonta- 
nella, che ci sta a indicare il passaggio vero tra interparietali 
e interparietali accessori con le ossa wormiane. Sta un po’ al 
di sopra delle ossa wormiane, perchè quasi di regola negli Ateli 
e nei Cebi, ma d' altra parte ricorda affatto queste ossa, perchè 
è del tutto accidentale negli altri Mammiferi compreso 1’ Uomo. 
Non v'è bisogno che dica che l’ osso frontoparietale anche in 
misura maggiore degli interparietali e degli interparietali ac- 
cessorii, è un osso di sopra a più nel tegmen cranîi. 

6. — Le ossa wormiane sono ossificazioni affatto acciden- 
tali, fuori di ogni cagione ereditaria. Possono nascere in tutti 
i punti del cranio: prevalgono nel tegmen. Confrontando i vari 
Mammiferi tra loro, si vede che è l’ Uomo quello che prevalente 
mente presenta wormiani: possono presentarne anche le Scimmie 
(io ho visto 3 casi su 80 cranii), e raramente altri Mammiferi. 

”. — Dagli interparietali ai wormiani, come abbian visto, 
si va per gradi: gli interparietali sono comuni a moltissimi 
Mammiferi, sebbene non a tutti; gli interparietali accessorii sono 
cosa di regola soltanto in pochi, per quanto possano apparire 
in altri; l'osso frontoparietale non è veramente costante in nes- 
suna specie, per quanto sia quasi costante nei Cebidi; i wor- 
miani infine sono sempre accidentali per sede per numero e per 
modo di apparizione. 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 


Tavo Xx. 


Fig. 1. (metà del naturale). Veduta superiore del cranio di un embrione di 
Sus scrofa L. (alcune ossa che dovrebbero vedersi alquanto di. lato, 
come gli squamosi etc., sono state trascurate), n a nasali; fr fron- 
tali, tra i quali è compresa la sutura bifrontale; p a parietali, tra 
i quali è compresa la sutura biparietale; # fontanella frontoparietale; 
so sopraoccipitale. ; 

» 2. (2 volte e '/, ingrandita). Veduta posteriore del cranio di un embrione 
di Numida meleagris L. nell’ ultima settimana di incubazione. do 
basioccipitale; eo esoccipitali: so sopraoccipitale; 70 grande fo- 
rame occipitale; sg squamosi; p a parietali; fr frontali; «. fonta- 
nella occipitoparietofrontale. 

» 3. (2 v. ingr.). Veduta superiore di parte del cranio di un Platydactylus 

mauritanicus Gmel. fr frontale; ps 7 postfrontale; pa parietali; 
so sopraoccipitale; e o esoccipitali; s g squamosi; d o basioccipitale ; 
zz fontanella occipitoparietale. 

. (4 di volta ingr.). Veduta superiore di parte del cranio di un Tropi- 
donotus natrix Wagler. pa parietale; p sf postfrontale; pro pro- 
otico; eo esoccipitali; s o sopraoccipitale. 

» 5. (4 v. ingr.) Veduta superiore di parte del cranio di un Siphonops in- 

stinctus Wagl. fr frontali; p a parietali; e 0 esoccipitali, di cui. cia- 
scuno mostra un condilo articolare, c o. 

» 6. (2 v. ingr.) Veduta superiore di parte del cranio di una Rana esculenta 
L. fp osso frontoparietale; pr o il prootico destro; e 0 esoccipitali, 
col condilo c 0; fo foro occipitale, 4 spazio non ossificato al di dietro 
del frontoparietale. 

» 7. (metà del vero). Veduta superiore di porzione. del cranio di un Esox 

Lucios L. fr frontali; pa parietali; e p epiotici; so sopraoccipitale. 

. (quasi al vero). Veduta posteriore del cranio di un embrione di Sus 

scrofa L. fr frontali; p a parietali; X fontanella frontoparietale ; sq 


% 
CS 


(e 0) 


» 


133 


squamoso ; p periotico sinistro; eo esoccipitale col condilo c 0; do 
basioccipitale; 7 forame occipitale; so sopraoccipitale; « tessuto 
non ossificato tra sopraoccipitale e parte superiore del gran foro. 


Fig. 9. (metà del vero). Veduta superiore della parte posteriore del cranio di 


» 


» 


un giovane Cane (gli squamosi sono stati trascurati). fx frontali; 
pa parietali; so sopraoccipitale ; i n # interparietale. 

10. (grand. naturale). Veduta posteriore del cranio di un embrione di pe- 
cora lungo, dalla fronte all’ origine della coda, centm. 18 (non sono 
stati disegnati gli squamosi e i periotici). fr frontali; »p @ parietali; 
k fontanella frontoparietale; so sopraoccipitale; în £ i due interpa- 
rietali; eo esoccipitali coi condili, co; do basioccipitale; fo foro 
occipitale; 2 tessuto non ossificato tra sopraoccipitale e parte supe- 
riore del gran foro. 

11. (44 del vero). Veduta posteriore di un cranio umano. pa parietali; # e 
temporali; oc occipitale; i # interparietale. 

12 (4 del vero). Veduta posteriore di un cranio umano. pa parietali; e 
temporali; oc occipitale; in #l’interparietale déstro, che solo è ri-- 
masto distinto, essendosi il sinistro fuso col sopraoccipitale. 

13. Interparietale ed interparietali accessori di un embrione di Cavallo 
lungo dalla fronte all’ origine della coda centm. 46 circa (grand. na- 
turale) so limite superiore del sopraoccipitale; pa limite interno 
dei parietali; #p osso interparietale, in cui si vede sempre l’ accenno 
della primitiva doppiezza; ?p a interparietali accessori. 

14. Occipitale di un feto umano a termine, con gli interparietali accessorii 
(24 del naturale). do basioccipitale ; @0 esoccipitali; s 0 sopraoccipi- 
tale; ip interparietali, fusi già in parte tra loro e col sopraoccipi- 
tale; #p a interparietali accessorii. 

. (‘4 del vero). Veduta superiore della parte posteriore del cranio di un 
Cane (gli squamosi sono stati trascurati). fr frontali; p @ parietali; 
so sopraoccipitale ; è p interparietale; è a interparietale accessorio. 

16. (grand. nat.) Osso frontoparietale in un Ateles variegatus Natterer. 
fr frontale; p a parietali; s/p sutura frontoparietale; sp sutura bi- 
parietale; fp osso frontoparietale. 

17. (grand. nat.) Osso frontoparietale in un Canis mesomelas Schreb. fr 
frontali; pa parietali; sf sutura bifrontale; sp sutura biparietale; 
sfp sutura frontoparietale; 7Yp osso frontoparietale. 


— 
"or 


SULLE DIVERSE FORME 


CHE 


PRENDONO I CORPI NEL DISCIOGLIERSI ENTRO DN LIQUIDO INDBEINITO 


E IN PARTICOLAR MODO 


SULLE FORME CHE ASSUMONO IL GHIACCIO E I SALI 
NELL’ ACQUA, I CORPI ATTACCATI DAL LIQUIDO 
CHE LI CIRCONDA E GLI ELETTRODI POSITIVI DI 

_ METALLO OPPUR DI CARBONE 


E SULLA NOTEVOLE 


INFLUENZA DELL'OSSIGENO DELL'ARIA IN QUESTE ULTIME AZIONI 


MEMORIA 


DI A. BARTOLI E G. PAPASOGLI 


I. — Ogni volta che abbiamo elettrolizzato nei nostri: 
precedenti studi, dei liquidi acidi, alcalini e neutri usando per 
elettrodo positivo della grafite, o del carbon di storta o d' altra 
specie osservammo che l’ elettrodo prendeva delle forme diverse 
secondo la natura dell’ elettrolite in cui stava immerso. 

Ci occupammo di un tal fatto in una nota assai dettagliata 
pubblicata nel 1883 col titolo: “ Nuova Contribuzione alla istoria 
del Carbonio ,, negli atti della società toscana di Scienze Naturali 
ed alla qual nota aggiungemmo due tavole per maggior chia- 
rezza ('). 

Torniamo oggi sullo stesso argomento, cioè sulla forma che 
vari corpi solidi assumono nello sciogliersi in liquidi di varia 
natura tanto che essi corpi siano semplicemente immersi in li- 
quidi attivi o no quanto che vengano percorsi da corrente elettrica. 


(4) Così fpure una tavola con le figure del carbone che ha servito da elettrodo 
positivo la inserimmo nella Gazzetta Chimica e nel Nuovo Cimento anni 1881-82. 


SULLE DIVERSE FORME CHE PRENDONO I CORPI NEL DISCIOGLIERSI EC. 135 


Con queste ricerche abbiamo voluto spiegare quel fenomeno 
che continuamente si ripete quando un corpo solido stando im- 
merso in un liquido in quiete, è maggiormente consumato, nella 
pluralità dei casi, nel punto d’ affioramento che nella parte im- 
mersa. 

II. — Sperimentammo in primo luogo col ghiaccio, come 
il caso il più semplice, nel quale un corpo solido si scioglie in 
un liquido della medesima natura. Procurammo che la tempe- 
ratura della massa liquida non fosse variata sensibilmente dal 
ghiaccio, che vi si fondeva, adoperammo perciò una massa 
d’acqua molto maggiore relativamente a quella del ghiaccio che 
vi sì immergeva. Il liquido era tenuto nella massima quiete ed 
in una grandissima vasca di vetro. 

Quando un cilindro di ghiaccio dell’ altezza di 15 o 20 cm., 
e del diametro di circa 6 cm. tenuto fermo alla parte superiore 
viene immerso per metà in una grande massa d’acqua portata 
alla temperatura di 90° C, in pochi minuti la parte immersa 
sì fonde, come pure si fonde una piccola parte di quella emersa 
in modo che quest’ ultima resta sollevata dalla superficie del- 
l’acqua mantenendo la base quasi piana. F. I. 

Se la temperatura dell’ acqua s’ abbassa aumenta per con- 
seguenza il tempo necessario perchè la parte immersa si fonda 
ed il cilindro acquista la figura di due coni saldati fra loro ai 
vertici, ed intanto che l’ inferiore va sollecitamente distruggen- 
dosi il superiore si fa sempre più marcato. F. II. 

La causa per cui la parte emersa prende la forma di un 
cono rovesciato dipende dai vapori acquei che s’' inalzano dalla 
superficie del liquido, come la sua forma più o meno acuminata 
dipende dal tempo maggiore o minore che vi sta in contatto. 

Quando poi la temperatura dell’ acqua scende fra i 50°—20° C 
allora la forma della parte emersa del ghiaccio appena si mo- 
difica, e l’immersa si fonde mantenendo sempre la forma cilin- 
drica e la fusione progredisce uniformemente sì in basso come 
lateralmente F. IIl. 

Abbassando sempre più la temperatura 20°—10° C, la forma 
cambia ed il cilindro di ghiaccio immerso assume quella di una 
goccia più o meno grossa secondo il grado di temperatura del- 
l’acqua, e nel punto di affioramento avviene il maggior con- 
sumo, di maniera che la parte immersa si stacca dalla emersa. 


136 A. BARTOLI E G. PAPASOGLI 


Più bassa che è la temperatura dell’acqua, non inferiore però 
ai 6° C, più grosso è il pezzo che si separa, ma questa separa- 
zione avviene più lentamente. Così mentre un cilindro del dia- 
metro di 7 cm. immerso nell’ acqua a 20° C è diviso nel punto 
di affioramento in 15 minuti, quando la tempreratura si abbassa 
a 10° C il tempo cresce fino a 40 minuti, F. IV. 

— Nei casi precedenti la forma che prende il cilindro immerso 
dipende dal prodursi, nell'acqua intorno alla superficie di contatto, 
una corrente fredda discendente a causa della maggiore densità 
acquistata dall’ acqua che lo circonda e che ne trattiene la fu- 
sione, mentre a distanza formasi uno corrente calda ascendente, 
che investendo il ghiaccio nel punto di affioramento ne accelera 
in quel punto stesso la liquefazione e produce la strozzatura: 
formansi cioè nel liquido dei moti convettivi. 

Se in luogo di un cilindro sì sperimenta con un cubo di 
ghiaccio facendo in modo che questo stia completamente im- 
merso nel centro di una massa considerevole d’ acqua, si osserva 
che se la temperatura è superiore ai 4°C la figura che va ac- 
quistando è quella di una mezza sfera con la curvatura in alto 
se poi è inferiore ai 4° C il ghiaccio acquista la stessa forma 
ma rovesciata F. V. 

Sperimentando in seguito con acqua alla temperatura di 4° O, 
cioè nel caso della sua massima densità, il cilindro di ghiaccio 
sì fonde in basso, per cui nel fondersi genera dell’ acqua meno 
densa e più fredda (la temperatura oscillava fra lo—2°C), la 
quale nel salire in alto lambendo la superficie del ghiaccio ri- 
chiama dietro a sè quella più densa e più calda, ciò che deter- 
mina una fusione maggiore in basso che in alto. F. VI. 

Ripetendo le medesime esperienze con acqua nella quale era 
stato sciolto tanto cloruro di sodio da renderla presso che della, 
densità dell’ acqua di mare (36—40 gr. °°/,) osservammo che 
il ghiaccio immerso acquista la forma rappresentata con la F. VI, 
perchè l’ acqua prodotta dalla sua fusione è sempre meno densa 
dell’ acqua in cui sta immerso, e conseguentemente produce una 
corrente ascendente intorno al ghiaccio immerso. Però se la 
temperatura dell’ acqua salata era sotto 4° C allora l’ acqua della 
corrente ascendente arrivata alla superficie si gelava di nuovo 
formando un largo collare rilevato intorno al cilindro di ghiac- 
cio, F. VII, 


SULLE DIVERSE FORME CHE PRENDONO I CORPI NEL DISCIOLIERSI EC. 137 


Questo fatto spiega il meccanismo con cui i massi di ghiaccio 
galleggianti in mare si saldano fra di loro con tanta facilità, 
e prova ne sia che posti due cilindri fra di loro distanti 1 cm. 
bentosto formarono un sol pezzo. 

III. — Il cloruro ammonico foggiato in cilindri, il sal 
gemma, il carbonato sodico, l’ idrato potassico, quello sodico 
come pure i grossi cristalli di solfato di rame quando sono in 
parte immersi nell’ acqua distillata assumono una sola forma 
più o meno marcata secondo il tempo che stanno immersi e la 
temperatura dell’ acqua; formasi cioè una strozzatura nel punto 
d’ affioramento che aumenta rapidamente tanto da separare la 
parte emersa dalla immersa. i 

La strozzatura avviene perchè appena s’ immerge nell’ acqua 
un corpo solubile in essa una certa quantità del corpo solido 
si scioglie nell’ acqua che lo circonda e queste aumentando di 
densità scende in basso lungo il corpo stesso difendendolo dal- 
l’acqua meno densa circostante che viene allontanata e spinta 
in alto. Questa a sua volta venendo in contatto all’affioramento 
col corpo, ne scioglie una certa quantità e scende essa pure in 
basso lambendo il corpo: ripetendosi più e più volte questo 
fatto sì produce la strozzatura: la causa poì della forma conica 
che assume la parte immersa facilmente si capisce riflettendo 
che l’ acqua che circonda il corpo solubile essendo meno satura 
in alto che in basso scioglierà nell’ unità di tempo, maggior 
quantità del corpo nella parte superiore immersa che nella in- 
feriore, oltrechè vi saranno le correnti discendenti ec. 

Se poi s' immerge nel centro di una grande vasca d’ acqua 
un cubo di sal gemma, o di allume, o di solfato di rame o di 
cloruro ammonico, in modo che la sua base sia orizzontale so- 
spendendolo per un filo, dopo breve tempo il cubo si consuma, 
prendendo una forma che si avvicina a quella di una semisfera, 
con le convessità in alto. Invece se si adopera un cubo di ghiac- 
cio, in una soluzione salina, il dado prende ancora la forma di 
semisfera ma con la convessità rivolta in basso. F. V. 

Impiegando poi dei cilindri fusibili, come di cera, di stearina, 
di spermaceti, di paraffina, di sego e dei dadi delle stesse so- 
stanze immerse in una vasca piena d’acqua calda, si otteneva 
un consumo simile a quello del ghiaccio nelle soluzioni di acqua 
salata F. VII, dacchè appunto il liquido proveniente dalla fusione 


138 A. BARTOLI E G. PAPASOGLI 


di quelle sostanze saliva in alto. Invece un cilindro di paraf- 
fina, o un dado di paraffina, negli olii leggieri del petrolio si 
discioglie prendendo le forme dei sali nell’ acqua, a causa della 
maggiore densità della paraffina. F. III e IV. . 

Ciò che abbiamo detto sin qui si riferisce al caso delle sem- 
plici soluzioni, nel caso poi di solidi, che reagiscono chimica- 
mente con i liquidi nei quali vengono immersi facemmo le se- 
guenti osservazioni. 

IV. — Consumo di un cilindro attaccato da un liquido. — Im- 
mergendo un cilindro di carbonato di calcio in una soluzione 
diluita di acido cloridrico il cilindro prende una forma simile a 
quella rappresentata dalla figura (F. VIII) che varia però se la 
soluzione acida è un po’ concentrata. Se lo sviluppo è debole si 
forma nel punto d’ affioramento una strozzatura marcata e la 
parte immersa prende la forma conica a motivo delle correnti 
ascendenti e discendenti che sì formano, se poi lo sviluppo 
è vivace allora si osserva un solco profondo circolare nel punto 
d’affioramento e la parte immersa prende la forma di un cono 
rovesciato. F. IX. In questo caso dunque il massimo consumo 
avviene in alto ed al basso mentre nel centro è assai minore. 

Ciò dipende dallo sviluppo gassoso che determina una cor- 
rente ascendenle che incontra la discendente determinata dalla 
maggiore densità acquistata dalla soluzione acida per il cloruro 
calcico disciolto: formasi dunque nel centro uno strato di un 
liquido più denso che agli estremi, e la parte del cilindro im- 
merso prende la forma di due coni saldati fra loro per la base. 

Lo stesso avviene per lo zinco, il ferro e tutti quei metalli 
attaccati dalle soluzioni nelle quali s’' immergono, il loro con- 
sumo è maggiore nel punto d° affioramento. 

V. — Azione dell’aria. — In questo caso però un’ altra 
causa concorre a far sì che all’ affioramento avvenga la stroz- 
zatura e quindi la separazione della parte emersa dalla immersa. 

Di sovente s’osserva che alcuni metalli (specialmente il rame) 
immersi in parte in un liquido inattivo, col tempo vengon cor- 
rosi nel punto in cui toccano la superficie del Jiquido. La causa 
di questo fenomeno dipende dall’ossigeno atmosferico. 

Per provare ciò eseguimmo le seguenti esperienze 5° immerse 
in parte nell’ acido solforico diluito un cilindro di rame del dia- 
metro di 5 mm., (a freddo l’acido solforico diluito non attacca il 


SULLE DIVERSE FORME CHE PRENDONO I CORPI NEL DISCIOGLIERSI EC. 139 


rame), e per prova di confronto mettemmo un egual cilindro di 
rame nelle stesse identiche condizioni del primo con la diffe- 
renza che al liquido acido sovrapponemmo uno strato di pe- 
trolio rettificato alto 3 cm. 

Passò un mese senza che si potesse osservare alcun fenomeno: 
nei due saggi; in seguito osservammo che il liquido del primo 
saggio aveva preso un leggero colore bluastro mentre quello 
del secondo saggio era incoloro. Passato il secondo mese si for- 
marono dei minuti cristalli di solfato di rame sul cilindro del 
primo saggio, che stavano attaccati pochi millimetri sopra alla 
linea d’ affioramento; quei cristalli col tempo aumentarono di 
numero e di grossezza tanto da ricuoprire tutta la parte emersa 
del cilindro di rame, mentre che il cilindro di rame del secondo 
saggio rimase terso e di grossezza uniforme come vi fu messo. 
Alla fine del quarto mese il rame del primo saggio mentre man- 
teneva la sua forma cilindrica, nella linea d’ affioramento pre- 
sentava un profondo solco circolare F. X. Gli stessi risultati si 
ottennero con cilindri di piombo entro soluzioni diluite di acido 
acetico, si trovò dopo varii mesi attaccato il piombo nella boc- 
cia dove aveva accesso l’aria; mentre nell’ altra boccia nella 
cui parte superiore avevamo prodotto una atmosfera di gas il- 
luminante, o dove si era messo uno strato di petrolio, il piombo 
non sì trovò affatto attaccato. 

La causa di questi fenomeni è evidentemente dovuta al- 
l’azione dell’ ossigeno atmosferico. 

VI. —. Consumo di un elettrodo cilindrico. — Un cilindro 
verticale di rame impiegato come elettrodo positivo entro una 
larga vasca contenente una soluzione satura di solfato di rame, 
mentre l’altro elettrodo è una larga lamina di rame che forma 
la superficie di un cilindro di .un decimetro e più di raggio, di 
cui il primo cilindro è l’asse, non si consuma regolarmente, 
ma prende dopo un certo tempo la forma della fig. XI, e final- 
mente dopo un tempo più o meno lungo, dipendente dalla in- 
tensità della corrente e dalla superficie *dell’ elettrodo positivo 
esso sì stacca completamente nel punto dove il cilindro era 
toccato dalla superficie della soluzione di solfato di rame. 

L'esperienza fu ripetuta diverse volte con cilindri di varie gros- 
sezze, e correnti di diversa forza, sempre i cilindri si trovarono 
spezzati lungo la linea che separa il liquido dall’aria sovrastante. 


140 A. BARTOLI E G. PAPASOGLI 


Se invece si toglie il cilindro qualche tempo prima che si 
spezzi, si osserva lungo la linea in cui affiora nell'acqua, un 
profondo solco, indizio di un forte consumo in quel punto: men- 
tre nelle parti immerse nel liquido il consumo è rimasto rego- 
lare ed il pezzo serba la forma di cilindro. 

Gli stessi resultati abbiamo ottenuti con cilindri di piombo 
elettrodi positivi in una soluzione di acetato di piombo, e con 
cilindri di ferro in una soluzione di solfato ferroso: col ferro 
però il consumo è meno regolare ed il solco profondo ma meno 
circolare. 

Quale è la causa di tale singolare fenomeno? 

Molte esperienze ci provarono che il fenomeno è dovuto al- . 
l’aria che sovrasta al liquido; l’ aria interviene coll’ ossidazione 
sull’ elettrodo, in quelle parti che sono in vicinanza del liquido 
e perciò sempre un po’ bagnate da questo. 

Infatti coi metalli poco ossidabili, come un cilindro d’ar- 
gento chimicamente puro, impiegato come elettrodo positivo in 
una soluzione di nitrato d’argento non dà luogo allo stesso 
fenomeno; invece l'argento si consuma quasi regolarmente nella. 
parte immersa, vedi fig. XII. Questa esperienza coll’ argento è 
stata da noi ripetuta le centinaia di volte, nell’ occasione di de- 
terminare la costante di una bussola o di un galvanometro. 
Come l’ argento si comporta pure il platino, ecc. 

Abbiamo poi ripetute l’ esperienze precedenti con cilindri di 
rame, avendo cura di versare lentamente sull’ elettrolite appena 
cominciata l’ elettrolisi, uno strato di petrolio alto 5 a 10 mil- 
limetri: in tal caso il cilindro di rame si consumò regolarissi- 
mamente nella parte immersa per modo che arrestata 1’ elettro- 
lisi ad un certo punto, l’ elettrodo di rame aveva la forma di 
diverso diametro, aventi l’asse a comune: il cilindro più pic- 
colo s’ intende, corrispondeva alla parte immersa: nemmeno con 
una lente potemmo scorgere verun solco lungo la linea di se- 
parazione dell’ elettrolite dal petrolio. 

Abbiamo eseguite anche le esperienze seguenti: il cilindro 
di rame elettrodo positivo penetra verticalmente traverso un 
tappo entro una campana tubulata e rovesciata piena di una 
soluzione satura di solfato di rame; l’ elettrodo negativo essendo 
al solito una lamina di rame aderente alle pareti laterali della 
campana: anche in questo caso il cilindro di rame tutto im- 
merso nel liquido, si consumò regolarmente, 


\ 


SULLE DIVERSE FORME CHE PRENDONO I CORPI NEL DISCIOGLIERSI EC 141 


Non vi è dunque dubbio che il fenomeno del consumo del 
rame, etc. lungo la linea d’ immersione, non sia dovuto che 
all’ azione dell’ aria e propriamente dell’ ossigeno dell’ aria 
atmosferica ('). 

VII. Consumo degli elettrodi positivi di carbone. — L'azione 
dell’ aria spiega anche i fatti che soguono, i quali sono collegati 
coi precedenti. 

Le soluzioni acquose concentrate dei cloruri molto solubili, 
come il cloruro di calcio, di sodio ecc., elettrolizzate danno al 
polo positivo del cloro senza ossigeno: se Il’ elettrolisi si fa con 
un elettrodo positivo di carbone, il quale sia tutto immerso 
nella soluzione dello elettrolite (come avviene nei voltametri 
Hoffmann) allora l’ elettrodo può servire indefinitamente allo 
sviluppo del cloro, senza che esso mai si alteri. Ma se invece 
l’ elettrodo, sia grafite, carbon di storta, o carbon di legno, pesca 
nel liquido per una certa porzione mentre l’altra emerge nel- 
l’aria atmosferica sovrastante, allora abbiamo sempre osservato 
che in capo a pochi dì il carbone si consuma lungo la linea che 
separa l’aria dal liquido. È questo fatto che abbiamo sempre 
osservato non solo nell’elettrolisi delle soluzioni concentrate dei 
cloruri, ma eziandio dei bromuri e degli ioduri, e il fatto fu da 
noi accennato nella nostra memoria sulle Elettrolisi delle solu- 
zioni dei cloruri, bromuri, ioduri pubblicata nel Nuovo Cimento 
di Pisa, e nella Gazzetta Chimica di Palermo nel 1882. 

La causa del fenomeno è chiaramente dovuta all’ ossigeno 
atmosferico, sebbene per ora non sia facile interpretare chiara- 
mente il meccanismo delle reazioni per le quali l’ ossigeno fa 
consumare il carbone: ed infatti un grosso strato di petrolio 
sovrapposto al liquido basta ad impedire il consumo dell’ elet- 
trodo di carbone, e così pure basta a impedirlo la disposizione 
sopra descritta nella quale l’ elettrodo penetra dal basso all’ alto 
per mezzo di un tappo di gomma entro una campana tubulata 
e rovesciata, piena dell’ elettrolite (?). 

Notiamo infine che alla stessa causa si deve se nell’ elettrolisi 
delle soluzioni acide e saline in generale il carbone elettrodo 


(4) Varie di queste esperienze elettrolitiche furono per incarico nostro fatte quat- 
tro anni or sono dell egregio dottore Paolo Guasti, che qui pubblicamente ringraziamo. 

(2) E facile comprendere, che per tali esperienze andarono chilogrammi dì clo- 
ruri, bromuri, ioduri, ecc. 


142 A. BARTOLI E G. PAPASOGLI — SULLE DIVERSE FORME EC. 


positivo si consuma il più delle volte, lungo la linea che separa 
l’elettrolite dall’ aria. È un fatto questo che noi abbiamo os- 
servato spesso: ma in tal caso il fenomeno si complica a causa 
del movimento delle bolle di gas, che si svolgono più o meno 
rapidamente dal carbone elettrodo positivo. È con questi movi- 
menti gassosi e coi movimenti prodotti dalle soluzioni di acido 
mellico discendenti nell'acqua e sollevantesi nelle soluzioni alca- 
line che si spiegano le diverse forme che prendono gli elettrodi 
positivi entro quei diversi elettroliti. 

VIII. — Non possiamo qui riassumere le pagine a, 
perchè la nostra memoria è scritta così laconicamente che non 
ci pare se ne possa levare un periodo, senza oscurare la chia- 
rezza di qualche fatto importante, e senza rompere la connes- 
sione fra i fenomeni che vi abbiamo descritti. 


Dal Gabinetto di Fisica dell’ Istituto 
Tecnico di Firenze 


2 Gennaio 1885. 


DOTT. GIUSEPPE RISTORI 


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CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE 


DEL 


VALDARNO SUPERIORE 


La Flora fossile del pliocene lacustre del Valdarno superiore 
era fino ad ora conosciuta per i pregevolissimi studi di Carlo 
Gaudin, i quali servirono ad illustrare le flore fossili dei depositi 
pliocenici ed anche post-pliocenici di molte fra le località to- 
scane ove sì possono raccogliere impronte di filliti fossili e resti 
di vegetali fossilizzati. 

Il dotto Paleofitologo studiò, in special modo le raccolte del 
March. Carlo Strozzi, le quali erano per la maggior parte co- 
stituite di filliti provenienti dalle così dette argille arse che nel 
superiore Valdarno, involgono i noti depositi di Piligno dei din- 
torni di Castelnuovo e di Gaville. 

Alcuni studi fatti per mia particolare istruzione, sulle for- 
mazioni lacustri di quel bacino pliocenico, fecero sì, che io mi 
imbattesse in nuovi depositi argillosi contenenti abbondanti 
resti di vegetali fossilizzati e impronte di foglie. Le nuove località, 
nelle quali potei raccogliere un numero ragguardevole di esem- 
plari di filliti fossili, sono quelle della Foresta e del Chiuso am- 
bedue poco distanti dalla terra di Figline al contrario assai 
lontane da Castelnuovo e da Gaville da dove trasse lo Strozzi 
le sue pregevoli raccolte. Ebbi poi occasione di avere fra mano 


144 G. RISTORI 

la collezione di filliti appartenente al Museo Geologico e Pa- 
leontologico di Firenze, e quella del Museo dell’ Accademia del 
Poggio residente in Montevarchi i numerosi esemplari, delle quali 
in parte provengono da Gaville in parte da Castelnuovo (Zona delle 
Ligniti) ma i più sono di una località poco distante da S. Giovanni 
valdarno denominata il Pratello. Da tutto questo insieme di 
materiali potei facilmente accorgermi, come una parte di quelli 
esemplari apparteressero a specie di piante, che il Gaudin non 
aveva indicate come rinvenute nel Valdarno superiore; mentre 
un'altra, e questa era la più ragguardevole, confermava l' esì- 
stenza, anche nelle nuove località suindicate del Valdarno, delle 
specie descritte e figurate dal prelodato Paleofitologo. Questo fatto 
mi invogliò ad imprendere lo studio tanto degli esemplari del Mu- 
seo fiorentino, che furono dal Prof. Cesare D'Ancona gentilmente 
posti a mia disposizione, quanto di quelli da me stesso raccolti 
e dei non pochi posseduti dal Museo di Montevarchi. Postomi 
all'opera non senza conoscere le difficoltà di un simile studio e 
l'incertezza, che sempre regna nelle generiche e specifiche deter- 
minazioni, e che tutti i Paleofitologi hanno dovuto confessare, 
per esser quelle spesso fondate su una sola impronta di foglia, 
su di un frammento di essa, oppure sul solo frutto o su altro 
esiguo resto della pianta; ben presto mi accorsi del mio non 
facile compito. Ad onta di ciò studiai colla massima diligenza 
e dopo del tempo potei convincermi di non avere errato nel mio 
primo giudizio; giacchè constatai l’esistenza di ben 22 specie di 
piante dal Gaudin non indicate, come appartenenti alla flora 
fossile del Valdarno superiore e di 9 non ancora descritte do nes- 
sun Paleofitologo. 

Ho creduto quindi non affatto inutile pubblicare i resultati 
di questi miei modesti studi tanto più, che a questo proposito 
fui incoraggiato dall’egregio Prof. Carlo De Stefani, che insieme 
al Prof. Cesare D’ Ancona mi furono in questo povero lavoro 
prodighi di consigli e suggerimenti. 

Dall’ esposizione del quadro sinottico comparativo posto a 
compimento di questo studio, può vedersi a colpo d'occhio, che 
la flora fossile del Valdarno superiore ha dei riscontri più o 
meno importanti con le flore fossili mioceniche, plioceniche, e 
post-plioceniche di alcune fra le più note località italiane, che 
fino ad ora hanno dato resti ed impronte di vegetali fossili. Tali 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 145 
raffronti ci porzono propizia occasione a fare alcune considera- 
zioni sul vero carattere di quella flora fossile. 

Gli studi del Gaudin ci posero davanti un numero ragguar- 
devole, di specie, che il Valdarno ha in comune non solo con 
alcuni depositi miocenici italiani; ma eziandio con altri stranieri: 
infatti il nostro deposito, secondo gli studi del Gaudin, contiene 
non meno di 87 specie comuni alla flora fossile di C&ningen 
(Svizzera) e 21 a quella artica ambedue illastrate dall’ Heer. 
Ha poi un numero più o meno grande di specie comuni a flore 
fossili di molte altre località come p. es. Soteka, Kumi, Maering, 
Radoboj. Il numero di queste specie comuni alle flore fossili 
italiane e straniere mioceniche viene oggi aumentato dietro 
questi miei studi, fatti come contributo alla flora fossile del 
Valdarno superiore. Questo fatto non è assolutamente privo 
d'importanza; poichè, mentre da una parte arricchisce il numero 
delle specie fossili del Valdarno superiore, dall’ altra imprime 
un carattere forse più spiccato a quella flora avvicinandola 
ancor più a quelle mioceniche e specialmente a quelle dei paesi 
settentrionali. Con questo però siamo lungi dal dimostrare, che 
la Flora fossile del Valdarno appartenga ad un periodo più an- 
tico del pliocene; poichè tenuto conto del piccol numero di specie, 
che finora conosciamo, quelle comuni alle flore mioceniche sono 
abbastanza ristrette di numero e non tali da imprimere alla 
flora valdarnese un carattere spiccato di maggiore antichità: 
infatti osservando attentamente, con quali località mioceniche 
più specialmente essa flora, abbia specie in comune, ci pos- 
siamo di leggeri accorgere, che la comunanza maggiore è con 
quei depositi miocenici tanto italiani, che esteri, i quali sono 
rispetto al Valdarno posti in località più settentrionali. 1 unica 
eccezione l’ abbiamo per i depositi del senigalliese, i quali con- 
tano ben 29 specie in comune con quelli del Valdarno. Del resto 
mì piace insistere ancora un poco su questa comunanza di specie, 
che la flora fossile qui presa in esame ha con le mioceniche di 
località più settentrionali; poichè ciò importa per una conclu- 
sione abbastanza universale, alla quale si può sempre giungere 
osservando e studiando, tanto le forme fossili animali, quanto 
e[ vegetali incluse in depositi appartenenti al medesimo piano 
geologico; ma situati l'uno più a Nord dell’ altro. La conclu- 
sione si è che i tipi propri di specie più antiche si conservano 

Se. Nat. Vol. II. fasc. 1.° 10 


146 6. RISTORI 


e passano più facilmente da periodo a periodo geologico nei 
paesi più meridionali di quello, che non facciano in quelli più 
a settentrione; e ciò accade in modo più deciso per le flore, 
che per le faune; poichè alle piante mancano i mezzi di difesa, 
che gli animali e specialmente quelli superiori per organizza- 
zione posseggono. Credo ora che quella conclusione si possa e 
si debba applicare al caso della nostra flora fossile valdarnese 
e spiegare quindi la comunanza che ha di alcune specie colle 
flore mioceniche, ricorrendo alle idee sostenute dal Darwin nel 
suo libro sull’ origine delle specie, intorno alle immigrazioni, 
alle dispersioni e alla permanenza più o meno lunga di alcune 
forme vegetali. L’ eccezione, che potrebbe presentarsi riguardo 
alla fora miocenica senigalliese, credo si possa in qualche modo 
distruggere o almeno scemarne grandemente il valore, rammen- 
tandosi, come i vegetali più lungamente degli animali conser- 
vino le identiche forme specifiche e come necessaria conseguenza 
di ciò sia la minor variabilità delle flore nel passaggio da un 
periodo geologico all’altro di fronte alle faune, che si presen- 
tano variabilissime. A questo si devono aggiungere le peculiari 
circostanze di luogo, le quali possono influire grandemente sul 
carattere di una flora, come quella, che molto risente delle mu- 
tate condizioni di vita e specialmente di quelle, che si riferi 
scono alla climatologia e alle molte altre influenze atmosferiche. 
Dando il giusto valore a queste riflessioni si può anche rendersi 
ragione del carattere alquanto miocenico della flora fossile del 
Valdarno, senza, che ci faccia senso l’ esistenza ormai costatata 
di 56 specie comuni col miocene di varie località italiane su 113, 
che fino ad ora si conoscono di quella flora. 

A questo punto credo giunto il momento opportuno di venire 
a considerazioni più particolari e mi piace quindi notare fin 
d'ora, come la flora fossile, dei depositi miocenici del Casino 
presso Siena illustrata dal Dott. Peruzzi presenti sopra 28 specie 
fin ora descritte 14 comuni con quella del Valdarno ossia la 
metà. Questa proporzione abbastanza considerevole per località 
tanto vicine ed il rinvenimento fatto da me stesso d’ impronte di 
foglie riferibili alla Q. Etymodrys Ung. che il Dott. Pantanelli (') 


(4) Pantanelli — Sugli strati miocenici del Casino (Siena) e considerazioni sul 
miocene superiore. Memorie della Reale accademia dei Lincei. VIII, Serie 3.2 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 147 


afferma non essere fino ad ora insieme alle specie Sabdal major 
Ung. Fagus dentata Ung. Castanea Kubinyi Kov. Salix angusta 
Braun, rinvenute in depositi pliocenici, mi pare degno di nota; 
perchè dietro questo fatto s' indebolisce un poco uno degli ar- 
gomenti, su cui si sono appoggiati per riferire i depositi d’acqua 
dolce, della suindicata località del Casino al miocene superiore. 
Del resto non voglio con questo trarre argomento contradittorio 
alle conclusioni del Pantanelli basate principalmente sulla fauna 
e più particolarmente sul rinvenimento in quella località di 
resti d’ Mipparion di Dremotherium e del Tapirus priscus Kaup. 
di Eppelsheim, solamente farò osservare, che è molto pericoloso 
trarre argomenti stratigrafici basandosi sulle flore fossili, le 
quali si assomigliano molto sanche se appartengono a periodi 
geologici distanti fra loro. La flora pliocenica poi in particolare, 
ha troppe specie in comune colla miocenica per potere servire 
di base a considerazioni stratigrafiche. 

Passando ora a fare il confronto della nostra flora fossile 
con le plioceniche italiane si scorge, che il numero di specie 
comuni non è quale si potrebbe immaginare. Pochi raffronti sì 
notano nelle località toscane di Bozzone presso Siena e di Mon- 
tajone in Val D’' Era, ne offrono invece un numero un poco 
maggiore le località pliocenichej lombarde di o/la d’ Induno; 
Nese, e Valle di Tornago, queste in complesso, almeno secondo 
gli studi del Sordelli, hanno 16 specie comuni colla flora del 
Valdarno. Riflettendo un poco su questo fatto si scorge fa- 
cilmente, come fino dal pliocene esistevano flore proprie di 
ciascun paese e manca, a differenza dell’antecedente epoca mio- 
cenica, quella uniformità e quasi universalità. Questo logica- 
mente porta il suo contributo di prova per ritenere, che or- 
‘mai le condizioni climatologiche durante il pliocene non erano 
più uniformi; ma invece variabili anche fra paesi vicini; e ciò 
in causa dei sollevamenti che avevano già fatto prendere in 
quell’epoca alle catene di montagne una disposizione molto 
simile all'attuale ed avevano raggiunto già notevoli altezze. 
Porrò per ultimo in rilievo come la flora fossile valdarnese per 
me decisamente pliocenica (') conti un piccol numero di specie 


(1) Ritengo pliocenica questa flora 1.° perchè dietro gli studi del Major e dopo 
il rinvenimento di resti di Mammiferi fossili appartenenti alle medesime specie, fatto 
tanto nelle sabbie, quanto nelle argille, le quali includono i resti dei vegetali fossili, 


148 G. RISTORI 


comuni a quelle finora rinvenute in depositi post-pliocenici: in- 
fatti colla flora delle argille del Castro (Arezzo) non ha in comune 
che due sole specie l’Alnus Kefersteinii Goepp: l’Acer Ponzianum 
Gd. coi Travertini toscani pure riferibili al post-pliocene la 
Planera Ungeri Ett. la Persea speciosa Heer l Acer Sismondae Gd. 
il Fagus sylvatica L., la Betula prisca Ett. e il Quercus Mew. L. (!). 
Questo dimostra quanto la nostra flora sì discosti dalle post- 
plioceniche; perchè il piccolo numero di specie, che ha in comune, 
tenuto conto dell’incertezza, che sempre regna nella determina- 
zione, è di poca e niuna importanza. La comunanza però, che 
per le due specie Acer integrilobum Ow. e Juglans tephrodes Ung. la 
flora fossile valdarnese ha acquistato con quella post-pliocenica 
del bacino di Leffe illustrata dal Sordelli non può restare privo 
d'interesse; perchè oggi alla comunanza della fauna mammologica 
dei due bacini si aggiungerebbe anche quella di due specie di 
piante fossili. Ciò potrebbe prendersi in seria considerazione e 
tenersi in conto di nuovo fatto comprovante la pliocenicità della 


non è più possibile, basandosi sulla fauna, fare, come per l'addietro, la distinzione 
nel Valdarno superiore di due orizzonti geologici, l'uno Miocenico, l’altro Pliocenico, 
al primo dei quali secondo lo Stòhr (Intorno ai depositi di lignite che esistono in 
Valdarno. Ann. della Soc. dei Nat. An. V. e lo Strozzi e Gaudin (Few! foss. de la 
Tose. M. I e II, parte geologica) apparterrebbero i depositi di Piligno e conseguen- 
temente le argille, che gli includono; 2.° perchè io stesso ho potuto raccogliere nelle 
Sabbie, nei Sansini ed in altri depositi, non corrispondenti al piano delle così dette 
Argille arse e quindi secondo lo Strozzi e Gaudin più recenti di esse Argille e. 
contenenti un’ altra flora ed un altra fauna, un buon numero d'impronte di foglie 
e di resti vegetali fossilizzati appartenenti alle medesime specie di quelli, che si 
rinvengono nel piano dell’ArgiZZe arse, insieme ad altre impronte, che sempre se- 
condo gli autori succitati, apparterrebbero ad una flora più recente, propria solo dei 
Sansini e delle Sabbie e da non confondersi con quella delle ArgilZe. Tutto ciò per 
chi volesse ancora vedere nel Valdarno superiore un piano geologico riferibile al 
miocene superiore. 

(2) Riferibile a questa specie ne esiste un solo esemplare posseduto dal Museo 
di Montevarchi; esso proviene da Gaville e precisamente dagli strati delle argille 
cenerognole. (Zona delle Ligniti) ossia da quell’ orizzonte creduto il più antico del 
Pliocene del Valdarno superiore. Questo fatto potrebbe aggiungere un altro argo- 
mento sulla inopportunità della distinzione in quella località di due flore una più an- 
tica delle argille, una più moderna dei sansini e delle subbie; giacchè si vede ormai 
abbastanza bene, che le poche «pecie comuni alla flora quaternaria e magari alla 
vivente si trovano tanto nelle formazioni argillose, quanto nelle sabbiose e ghiaiose 
(Sansino) al pari di quelle comuni alla flora miocenica dei depositi italiani ed esteri; 
per cui non so vedere, su quali fatti paleontologici ci si possa basare per sostenere 
ancora la distinzione di un pliocene inferiore (per alcuni miocene superiore) ed un 
pliocene superiore nei depositi in questione. ; 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 149 


flora fossile di Leffe, se non si potesse fare osservare, che due sole 
specie comuni al pliocene di fronte ad un numero considerevole 
di specie decisamente post-plioceniche, anzi per la più parte 
tuttora viventi, che il Sordelli ci ha descritte ed indicate come 
proprie di quel Bacino, non possono servire come base di nes- 
suna conclusione attendibile; molto più, che 1° Acer integrilolum 
Ow. è stato rinvenuto in altre località post-plioceniche e del- 
V Luglans tephrodes Ung. che io mi sappia, non abbiamo prove- 
nienti da Leffe, che frutti isolati, i quali può supporsi, che siano 
stati colà trascinati per il denudamento di altre località plioce- 
niche, che gli contenessero. i 

I resultati ottenuti nel proseguimento dello studio della flora 
fossile del Valdarno superiore e le consider&zioni, che si sono potute 
fare paragonando la suindicata flora con quella inclusa da i depo- 
sitì miocenici, pliocenici e post-pliocenici di altre località italiane 
ed estere, ci danno la possibilità di fare dei rilievi più esatti 
intorno alla temperatura, che nell’età pliocenica regnava nel 
Valdarno; perchè se da una parte si può dimostrare, che quella 
flora non è punto a riferirsi al miocene superiore, come si cre- 
deva dallo Strozzi, dal Major e dal Pantanelli, dall’ altra si può 
intuire, stante il carattere suo miocenico, a condizioni climato- 
logiche, tali da spiegare l’ esistenza e la prosperità dei grandi 
mammiferi pliocenici, che vissero nei dintorni di quel bacino: 
infatti per quanto l’ insieme dei generi di piante fossili fin’ ora 
rinvenute in quella località, non sia, fatte poche eccezioni, pro- 
prio di una flora tropicale; ma invece di una assai temperata; 
nondimeno l’ esistenza di numerose impronte di foglie riferibili. 
a diverse specie di Cinnamomum di Carya di Pierocarya di Persea 
di Lawrus, di Cassia, di Sassafras non che di altre meno numerose 
di Magnolia, e di Liquidambar frutto in gran parte di questi 
miei ultimi studi, imprime certamente a questa flora un carat- 
tere alquanto differente da quello, che aveva per i soli studi 
del Gaudin; giacchè ne accresce il numero dei generi proprii delle 
calde regioni. 


150 G. RISTORI 


DESCRIZIONE DELLE PIANTE FOSSILI 


_————— 


Conifere 
Fam. Abieteae 


Einus 


Pinus Haidingeri Ung. 

P. strobilis magnis, ovato-oblongis, squamarum apophysi magna, plano- 
convexa rhombeo-trapezoidea, carina trasversali producta; umbone 
mediano elevato Gaud. Fewill. foss. de la Tosc. p. 27, M. I, PI. II, 
fig. 4. Unger Chloris protog. p. 73, Taf. IX, fig. 9, 10, 11. Schimper 
Tr. Pal. veg. II, p. 262. 

Syn. Pitys Haidingeri Ung. Chloris protogea. p. 73, Taf. IX. 


Osserv. — I due strobili di Pino, che io riferisco alla specie 
suindicata di Ung. differiscono un poco fra di loro, l’ uno con- 
corda coll’ esemplare figurato dal Gaudin, l’altro invece si ac- 
costa più a quello dell’ Unger. Infatti il primo strobilo è meno 
allungato del secondo ed in ciò si avvicinerebbe a quello del 
Pinus uncinoides Gaud.; ne differisce però per le apofisi delle 
squame, per l’ umbone, che nel mio si presenta ricurvo, di più 
le apofisi delle squame dall’ alto al basso vengono ricoperte 
in parte dalle successive e non si veggono finire ad angolo, 
cosa questa, che si riscontra anche nell’ esemplare figurato 
dal Gaudin. All'incontro il mio secondo esempiare è più allun- 
gato e nello stesso tempo più ridotto nel diametro trasversale 
e le apofisi delle squame, alcune finiscono ad angolo, come nello 
strobilo figurato dall’ Unger, altre ripetono il modo del primo 
esemplare. Tolte queste piccole differenze nel resto ambedue gli 
esemplari da me studiati concordano coi caratteri specifici del 
P. Haidingeri e quindi credo ben fatto riferirgli a quella specie; 
molto più, che il Gaudin (') stesso ci fa notare esistere un pas- 


(!) Feuill. foss. de la Tosc. P. 27, M. TI. 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 151 


saggio graduato fra la forma degli strobili del P. //aidingeri e 
quella degli strobili riferiti al /. unceinoides; per cui io credo 
essermi imbattuto in un esemplare che sì accosta ancor più di 
quello studiato dal Gaudin alla specie P. uncinoides, ed in uno, 
che invece è intermediario per la forma frà quello studiato dal 
Gaudiu e quello studiato e figurato dall’ Unger, però ambedue 
riferiti alla specie P. Ma?dingeri. 

Il Sordelli (') indica questa specie come rinvenuta nel Val- 
darno superiore dall’ ing. E. Spreafico, certo è che il Gaudin 
non la descrive nè figura come proveniente da quella località, 
ma sibbene da Chieri in Piemonte. Altro esemplare proveniente 
da Castelnuovo di Massa pure nel Valdarno superiore è citato 
dal Sordelli stesso, come facente parte della collezione paleon- 
tologica del nob. G. Curioni insieme ad un secondo strobilo della 
stessa località, che riferisce al P. Massalongi Sis., invece che al- 
P. Haidingeri Ung, a cui ritiene appartenere il primo. 

Local. -- Zona delle Ligniti Castelnuovo Gaville. (Coll. del 
Museo Geologico e Paleont. di Firenze). 

Distr. geogr. — Ligniti plioceniche di Seegraben presso 
Leoben nella Stiria superiore, Chieri Piemonte, Polla d’ Induno 
(Lombardia). 


Pinus Saturni Ung. 


A conferma dell’ esistenza di questa specie nella Flora plioce- 
nica del Valdarno ‘superiore noterò come abbia avuto occasione 
di studiare due strobili esistenti nel Museo fiorentino perfetta- 
mente conservati e indubbiamente riferibili alla suindicata specie. 
Ambedue provenivano dalla zona delle ligniti ( Castelnuovo 
 Gaville). 


Pinus vexatoria? Gaud. 


La cattiva conservazione di uno Strobilo di Pino, che del 
resto presenta ragguardevoli dimensioni, mi impedisce di po- 
terlo coscienziosamente determinare, pure non trovo superfluo 

(4) F. Sordelli — Descrizione di alcuni avanzi vegetali delle Argille plioceniche 


lombarde. pag. 22. — Atti della Società Italiana di Scienze Naturali. Vol. XVI, 
Fasc. III. 


152 G. RISTORI 


il notare come da alcune poche squame malamente conservate 
e deformate dalla compressione non che dall’ apofisi e dall’ um- 
bone, che ancora lasciano vedere la loro forma sebbene alte- 
rata dallo schiacciamento sofferto, si possa, con qualche proba- 
bilità di essere nel vero, ravvicinare il suindicato strobilo, a 
quelli propri della specie P. vevatoria Gaud. Fewill. foss. de la 
LEI MIEI IT 

Del resto non può prendersi la responsabilita di aggiungere 
anche questa specie di Pinus alla flora del Valdarno superiore: 
vedremo se la raccolta di filliti fossili delle argille valdarnesi, 
che continuamente si stà facendo per parte del Museo Geolo- 
gico e Paleontologico di Firenze, potrà offrirci in seguito esem- 
plari meglio conservati, i quali confermino l’esistenza anche di 
questa specie nel Valdarno superiore. 


Pinus De-Stefanii nov. sp. 


Tav JeVALIT io 20885 


P. strobilis oblongis gracilibus fere acuminatis centim. 5 circa longis 
infra medium 2 crassis apophysibus basilaribus rhombeis, aliis tran- 
sverse rhombeis superne rotundatis et ab umbone striatis, carina 
trasversali acuta, umbone trasversim spinato. 


Des. e Osserv. — Gli strobili di questa nuova specie di 
Pino sono oltremodo frequenti nelle argille di Gaville e di Ca- 
stelnuovo, che involgono i banchi di lignite; e vi si rinvengono 
in tanta quantità, che io ne ho avuti fra mano un numero 
grande di esemplari e mi ha maravigliato che il Gaudin. non 
abbia potuto osservarne nessuno. Gli strobili di questa nuova 
specie rammentano la forma di quelli giovanissimi del nostro 
P. pinea L. e sono lunghi dai 4,50 ai 6 centimetri ed hanno un 
diametro laterale di 2 a 2,90; perciò si mostrano allungati e sot- 
tili. Le apofisi delle squame sono alla base dello strobilo di forma 
romboidale, procedendo verso l’apice vanno modificandosi e dopo 
due o tre serie sì mantengono romboidali alla parte inferiore e 
divengono arrotondate superiormente; solamente le apofisi basi- 
lari finiscono inferiormente ad angolo acuto, le altre, che sono 
arrotondate nella parte superiore, si ricoprono in piccola parte 
a vicenda, per cui non finiscono più ad angolo come le prime. 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 153 


Le apofisi stesse sono striate e le strie irradiano dall’ umbone. 
La carena è acuta e disegnata da un solco non tanto profondo 
e poco marcato. 

I molti strobili da me esaminati, che stante le poche e pic- 
cole differenze esistenti, ho riferito tutti quanti alla suindicata 
nuova specie, si possono dividere in tre tipi di forme, che forse 
corrispondono a tre diversi stadi di sviluppo. Una prima rap- 
presentata dalla fig. 1 più larga alla base più acuminata e avente 
forma quasi perfettamente piramidale. Una seconda rappresentata 
dalla fig. 2 di forma meno piramidale e più cilindrica e con 
apofisi ed umbone più marcato. Una terza rappresentata dalla 
fig. 3 quasi cilindrica e meno acuminata con apofisi più svilup- 
pate e tali da farci credere, che quello strobilo abbia quasi rag- 
giunto il suo completo sviluppo. 

Questa specie succintamente descritta presenta analogie di 
qualche importanza col P. Hampeana Heer PI. tert. Helv. I, 
p. 56, Taf. XX, fig.4 Ung. Foss. FI. v. Kumi p.21, t. II, fig. 15-15 
Ung. Chloris prot. 76, Taf. XX, fig. 1-3 e col P.(Taeda) resurgens 
Sap. Schimper; Tr. Pal. veget. II, p. 281, Taf. LXXVI, fig. 7, 
La prima ha simile colla mia specie la forma generale dello 
strobilo e le dimensioni, non che la forma delle apofisi, le quali 
però nella specie ungeriana, si mostrano più uniformi e più 
profondamente striate e con umbone molto più rilevato e quasi 
mancante di spina trasversale. La seconda non presenta di simile 
altro, che la forma generale dello strobilo e le dimensioni. 

Local. — Zona delle Ligniti Castelnuovo, Gaville, Pratello (Coll. 
del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


Fam. Uupressaceae 


Callitrites 


Callitrites Brongniarti Endl. 
Tav. VIII, fig. 4. 


C. Strobilis subglobosis e squamis lignescentibus, basi intrusis, fere ad 
basim quadrivalvibus, valvis aequalibus acutis, dorso convexo, verru- 


154 G. RISTORI 

cosìs Endl. Syn. Conîf. p. 274, Ung. Sylloge p. 66, Taf. XX, fig. 8-9. 

Schimper, Tr. de PI. veg., II, p. 337. 

Syn. Thuytes callitrina Ung. Chloris protog. p. 22, Taf. VI, fig. 1-8, 

Taf. VII, fig. 1-10. per le altre sinonimie vedi Schimper opera citata. 

Osserv. — La determinazione di questa specie l’ ho dovuto 
necessariamente fare solo sugli strobili; giacchè mi mancava 
ogni altro resto fossile appartenente o a foglia o a porzione di 
ramo, ne ho avuto neppure la fortuna di imbattermi in frutti 
fossilizzati dentro agli strobili medesimi. Ad onta di ciò neì. 
molti strobili, che ho esaminati ho ritrovati costanti i caratteri 
esposti e rappresentati nella descrizione e figure date dall’ Unger 
e dall’ Ett. per la suindicata specie C. Brongniarti e poco credo 
possa dubitarsi sulla giustezza della determinazione. Gli strobili 
della specie qui descritta hanno analogie con quelli della Cal- 
litris quadrivalvis, se ne discostano però per essere il dorso delle 
valve di quest'ultimi quasi liscio; mentre quelli della specie fos- 
sile presentano verrucosità molto evidenti e caratteristiche. Frà 
le specie fossili plioceniche si può ravvicinare alla Thuya Saviana 
Gaud.; ma questa specie, come nota l’autore stesso, ha uno stro- 
bilo non già costituito di valve, come la qui esaminata; ma sib- 
bene di squame verticillate. Di più le verrucosità delle squame 
nella specie del Gaud sono molto meno sviluppate di quello che 
non siano sul dorso delle valve della specie fossile qui esaminata. 

Local. — Sabbie gialle limonitiche di Gavelle e Pratello presso 
S. Giovanni Valdarno. (Coll. del Museo Geologico e Paleontolo- ‘ 
gico di Firenze). 

Distr. geogr. — Formazioni terziarie di Haring. — Radoboj 
in Croazia. — Mont-Rouge presso Parigi. — Armissa presso Nar- 
bona. — Colline di Torino. 


Potameae 
Fam. Naiadeae 


EPotamogeton 


Potamogeton Aunconai nov. sp. 
Tav WII ie: 5,07, 8 


P. foliis ovalibus circa 3 cent. longis, 1, 80 latis, nervis curvatis nume- 
rosissimis basim apicemque versus convergentibus, nervulis pariter 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 155 
numerosissimis trasversim coniuntis et ex primis egredientibus sub 
angulo fere recto. Fructibus (') in medio ex uno latere incavatis ex 
altero convexis, circiter mill. 5 longis et 3 latis. 

Des. e Osserv. — Ho io stesso raccolto in una località detta 
la Foresta, presso Figline Valdarno, un argilla quasi di colore 
cinereo simile a quella, che involge una buona parte dei banchi 
di lignite presso Castelnuovo e Gaville, ricca di impronte indub- 
biamente appartenenti a foglie di Potamogeton. Queste foglie pre- 
sentano i seguenti caratteri: Forma ovale leggermente allun- 
gata, diametro longitudinale cen. 3 a 3, 50 diametro trasversale 
cen. 1, 80. Le nervature sono convergenti ai due estremi del 
diametro longitudinale e quindi sono a mano a mano, che si ac- 
costano ai bordi esterni della foglia maggiormente arcuate. Il 
numero di queste nervature, compresa la mediana costituita da 
una nervatura più marcata e diritta, e circa 18. Gli spazi fra 
nervatura e nervatura sono più o meno curvati a seconda della 
distanza loro del bordo della lamina foliare e sono presso a 
poco di eguale superficie e vengono attraversati da nervetti sot- 
tili, che vanno da nervatura a nervatura; e fanno con queste 
quasi un angolo retto ad eccezione di quelli, che partono dalla 
nervatura mediana retta; poichè essi fanno colla medesima un 
angolo assai acuto e vengono a disporsi obliquamente come i 
lati di un triangolo equilatero avente il vertice su di essa ner- 
vatura mediana. Il frutto, che ho potuto esaminare su di un 
solo esemplare è di forma ovale lungo m. 5 largo 3, da una 
parte presenta bordi smarginati ed un incavo in forma di vul- 
va con un solco mediano; dall'altra è di forma leggermente 
convessa ed assottigliato nella parte superiore dove i bordi si 
prolungano in una piccolissima appendice, che finisce in punta, 
rigonfio invece nell’ inferiore. 

La specie fossile, che più si avvicina alla qui sopra descritta 
è il Potamogeton multinervis Brongt.; ma quest’ultimo ha le 
foglie di forma ovale sì; ma con diametro trasversale propor- 
zionalmente più lungo, e quindi esse si avvicinano più alla forma 
tondeggiante; di più le nervature hanno andamento più irre- 


(') Più modernamente, quello che io ho chiamato frutto, allo scopo di mantenere 
la nomenclatura dei Paleofitologi e per essere più facilmente inteso da tutti, sarebbe 
un Carpidio; poichè il vero e proprio frutto nei Potamogeton è l' insieme di 4 Car- 
pidi corrispondenti ai 4 pistilli del fiore giunti a maturazione. 


156 G. RISTORI 


golare, sono in maggior numero, essendo anche la lamina foliare 
di maggior superficie. La specie valdarnese ha invece maggiori 
analogie colla vivente /. natans L. differisce solo da questa ultima 
per maggior riduzione della lamina foliare e perla disposizione 
più uniforme delle nervature; le quali nella suindicata specie vi- 
vente sì presentano alternativamente più o meno marcate; per 
modo che l’ area limitata da due nervature più marcate è attra- 
versata da una terza nervatura meno marcata, di più i nervetti 
trasversali sono relativamente meno numerosi e limitano aree 
quadrangolari di maggior superficie, che nella specie fossile sopra 
descritta. 

Nella qui annessa tavola non ho mancato di figurare, oltre 
alle foglie, alcuni frammenti di stipule per far vedere la loro 
nervatura longitudinale, che si presenta del resto abbastanza 
uniforme. 

Local. — Argille refrattarie della Foresta nei pressi di F3- 
gline Valdarno. (Raccolte da me stesso e donate al Museo Geo- 
logico e Paleontologico di Firenze). 


Amentifere 
Fam. Cupuliferae 


Carpinus 


Carpinus grandis. Ung. 
Tag VINI e. 19. 


C. foliis petiolatis, subcordatis, ovato?oblongis, acuminatis, duplicato- 
serratis penninerviis, nervis secundariis simplicibus, rectis, parallelis 
Ung. Icon. pl. foss. Taf. XX, fig. 4. Heer FI. tert.Helv. II, p. 40, Taf. 
LXXII, fig. 2-24 e Taf. LXXIII, fig. 2-4. Ung. Sylloge plantarum 
foss. p. 67, Taf. XXI, fig. 1-13. Muss. e Scarb. Flora foss. Senig. 
p. 208, Tav. XXIV, fig.5. Heer FI. foss. artica. p. 103, Taf. XLIX, 
fig. 9. Sismonda Matér pour servir. a la Pal. du Piem. p. 39, PI. 
XII, fig. 7-8. Schimper Tr. Pal. veg. p. 589. IL. 


Osserv. — I due esemplari, che ho esaminati provengono da 
due diverse località, uno dalle argille cenerognole di Pratello 
presso S. Giovanni Valdarno, l’ altro dalle argille e sabbie gialle 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 15% 


della Foresta presso Figline Valdarno, Gli ho riferiti ambedue 
alla specie C. grandis; giacchè frà le figure molteplici, che dà 
l Heer tutte riferibili alla medesima specie nè ho trovate alcune, 
che concordano perfettamente coll’ impronta proveniente dalla 
Foresta; altre invece, che concordano con quella rinvenuta a 
Pratello. Lo stato di conservazione dì queste due filliti non per- 
mette l’ esclusione di ogni dubbio sulla loro determinazione spe- 
cialmente se si tiene in debito conto, la facile confusione, che 
può succedere frà le foglie di Betula, Carpinus, Corylus, Ulmus 
come giustamente nota il Massalongo. Ad onta di ciò, la forma 
della lamina foliare, la sua acutezza, la forma delle dentature 
dei bordi laminari e la nervatura secondaria, concordano per- 
fettamente colle figure e descrizioni date dai diversi Paleofitologi 
per il C.grandis. In ultimo noterò come uno degli esemplari da 
me esaminati, presenti qualche analogia colla specie C. pyrami- 
dalis Goepp.; però non corrisponde il numero delle nervature, 
che è alquanto maggiore in quest’ ultima specie, la quale ha 
anche l’ apice della lamina foliare più acuto; l’ altro esemplare 
corrispondente alla Fig. 15 Tav. VIII, ha invece molte analogie 
colla specie C. orzentalis Lam. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno, Foresta presso 
Figline Valdarno (Coll. del Museo Geologico e Paleontologico 
di Firenze. 

Distr. geogr. — Sobrussan e Luschiz (Boemia), Torino, 
Kéflach. (Stiria ) Bacino di Vienna, Sinigaglia, Atanekerdluk 
(Groelandia) . 


Fagus 


Fagus incerta Mass. 
Tav. VII, fig. 9, 10, 11. 


F. foliis oblongis, elliptico-sublanceolatis, apice subattenuato-acumina- 
tis, basi, subcordato-rotundatis, penninerviis, margine integriusculis, 
undulatis, denticulatisve, costa valida, nervis secundariis sub angulo 
acuto orientibus, parallelis simplicibus alternis, rete venoso  fere 
obsoleto. (Schimper, Tr. Pul. veg pag. 607, II) — Mass. FI. Foss. 
Senîg. p. 205. Tav. XXX, fig. 3). 

Syn. Alnites incerta Mass. Prod. Fl. foss. Seniy. p. 13. Viviani 
in Soc. Geol. Fran. Tav. IX, f.1-2. Mass. Fl. Foss. Senig. p. 205, 


158 G. RISIORI 


Tav. >.0.0% f.3. Fagus ambigua Mass. Fl. Foss. Senig. p. 204, 
Tav. XXXVI, f. 1. 


Osserv. — Un numero ragguardevole di esemplari che più 
o meno perfettamente corrispondono alla descrizione e figura, 
che il Massalongo dà per la specie F. incerta, sono stati da me 
riferiti alla suindicata specie: non senza osservare attentamente 
la variabilità delle forme successiva e graduale; per cui può 
dirsi, che esista una scala non interrotta di forme, che va dal 
F. incerta, al F. ambigua al F. betulaefolia, e quindi credo do- 
versi ridurre a certezza il dubbio del Massalongo stesso, sul- 
l'opportunità di riunire in una sola le tre specie suindicate: 
infatti mentre sarebbero per lo stesso autore caratteri differen- 
ziali, della specie /. incerta, apice attenuato e margine dentellato, i 
quali esagerati costituirebbero, invece, quelli propri della terza 
F. betulaefolia, sì riscontra poi, nei miei esemplari, una succes- 
sione non interrotta, che va dal margine semplicemente ondulato 
al margine evidentemente dentellato di più tanto l'apice quanto 
la base delle lamine foliari si presentano con acutezze diverse. 
In una parola la numerosa serie di filliti che mi sta davanti 
confonde affatto questi caratteri di distinzione per modo, che alle 
due estremità stanno esemplari, che dovrebbero riferirsi 1’ uno 
al F. ambigua l’altro al F. betulaefolia, mentre frà questi due, 
ne esiste una serie abbastanza numerosa con caratteri interme- 
diari, tali da porci davanti tutti i possibili termini di passaggio 
fra la prima ed ultima forma. Dietro di ciò mi prendo senz’ altro 
la licenza, che del resto mi dà il Massalongo stesso, autore delle 
tre specie succitate, e riferisco tutti quanti gli esemplari da me 
esaminati alla specie /. incerta. A giustificazione di ciò figuro 
nell’ annessa tavola 3 esemplari; l’ uno dei quali fig. 9 possiede 
tutti i caratteri del /. incerta, un secondo qui non figurato se 
ne discosta un poco avvicinandosi invece al F. ambigua, il terzo 
(fig. 10) poi potrebbe riferirsi a quest’ ultima specie, mentre l’ulti- 
mo (fig.11) ci potrebbe rappresentare il £. betulaefolia. Per ciò, che 
concerne le rassomiglianze, che le qui studiate filliti possono avere 
con filliti fossili di altra specie vedi Mass. FI. foss. Senig. p. 204-205. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni valdarno, Gawville e 
Castelnuovo (Zona delle Ligniti), (Coll. del Museo Geologico e 
Paleontologico di Firenze. 

Distr. geogr. — Sinigaglia. 


= 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 159 


Fagus Gaudini nov. sp. 
‘Dav. VIII, fig. 42; 13. 


F. foliis petiolatis ovatis oblongis acuminatis, basi rotundata, costa 
mediana recta ac valida, nervis secundariis sub angulo acuto egre- 
dientibus, rectis, apud basim leniter arcuatis, oppositis vel alternatis, 
parallelis, margine profunde ondulato ac lobato, nervulis tenuissimis 
perpendicularibus inter se conjuntis. 


Des. Osserv. — Non può certamente mettersi in dubbio, 
che le due impronte di filliti rappresentate dalle Fig. 12, 15 
Tav. VIII, appartengano al genere /agus; però non corrispon- 
dono a nessuna delle specie fossili fino ad ora descritte nè ad un 
gran numero delle viventi, con cui ho avuto agio di confron- 
tarle, da ciò la ragione di averle distinte con un nuovo nome 
specifico eccone l'esatta descrizione. Lamina foliare, ovata, allun- 
gata con bordo distintamente lobato, apice acuto e base arroton- 
data. La base della lamina è regolare nelle giovani foglie, come 
quella rappresentata dalla Fig. 13 Tav. VIII, diviene invece un 
poco irregolare nelle adalte, come si vede alla Fig. 12, Tav. VIII, 
cioè esse presentano una porzione della lamina foliare un poco 
più sviluppata longitudinalmente ed anche nel senso della lar- 
ghezza, per cui la lamina stessa non viene tagliata per metà 
della costola mediana; ma una porzione è maggiore dell’ altra. 
La costola mediana è robusta, si allunga in un picciuolo anch’ esso 
di considerevole sviluppo ed è leggermente ondulata in corri- 
spondenza dei punti di origine delle nervature secondarie, le 
quali sono parallele e diritte, solamente le due più prossime alla 
base laminare si presentano leggermente arcuate, per cui non 
sì mantengono parallele alle altre. Tutte quante le nervature 
secondavie vanno a finire nell’ angolo di insenatura dei lobi, che 
sono arrotondati e formano come una smerlatura lungo il bordo 
laminare, detti lobi incominciano fino dalla nervatura secondaria 
più prossima alla base e a mano a mano, che si avvicinano, al 
punto di massima larghezza della lamina, si fanno più marcati 
e arrotondati, per poi tornare verso l'apice, a diminuire nuova- 
mente. Lo spazio compreso fra nervatura secondaria e nervatura 


DI 


secondaria è di m.7 nelle foglie giunte a completo sviluppo 


160 G. RISTORI 


m. 4//, nelle giovani. L'angolo, che le nervature s:condarie fanno 
colla costola mediana, è di 45°, 2!. Il rete venoso è poco distinto; 
nasce però dalle nervature secondarie sotto un angolo quasi retto 
e limita piccole areole di forma quasi rettangolare. 

Questa nuova specie di Faggio sì può ravvicinare al 
F. castaneefolia Ung. ma in questa ultima specie abbiamo un 
numero maggiore di nervature secondarie ed il bordo lami- 
nare dentato. Col F. ambigua Mass. ha in comune l’acutezza 
dell’apice laminare ed i lobi, che però sono molto più profondi 
nella mia nuova specie, la quale ha anche la base della lamina 
molto meno attenuta e minore anche il numero delle nervature 
secondarie. Col /. Feronie Ett., presenta analogie nella forma 
della lamina e del picciuolo; però quest’ ultima specie è irrego- 
larmente dentata e lobata ed ha l'apice più ottuso. Frà le specie 
viventi il solo F. sylvalica gli assomiglia un poco e presenta 
in qualche sua varietà lobi lungo il bordo laminare, ma essì sono 
sempre molto più piccoli che nella mia nuova specie. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


Fagus (') pseudo-cordifolia nov. sp. 
Tav. VIII, fig. 14. 


F. foliis petiolatis cordatis, apice acuminato, basi rotundata, dentatis, 
nervis secundariis angulo acuto egredientibus, craspedodromis, paral- 
lelis; sed basim versus leniter arcuatis, utrinque 10. 


Des. Osserv. — Foglia lunga centim. 5 larga cent. 2,80 
lungamente picciolata, cordiforme con base arrotondata e apice 
abbastanza acuto, con bordo laminare dentate, denti acuti e 
uscenti dal bordo stesso sotto angolo acutissimo. Costola mediana 
abbastanza sviluppata e leggermente sinuosa. I nervi secondari 
sono retti craspedodromi ad eccezione dei tre più prossimi alla 


(1) Ho riferito quest' impronta al: genere Fagus; ma non posso a meno di far pa- 
lese l’ incertezza, che ancora mi rimane; poichè ha delle analogie non indifferenti 
colle foglie di Betula e potrebbe appartenere anche a quel genere. I molti raffronti 
che ho fatto della mia impronta con foglie fossili e viventi di Faggio e di Betula 
mi hanno fatto propendere a crederla appartenente al primo, piuttosto che al se- 
condo genere. 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 161 


base laminare, che si presentano leggermente arcuati e non si 
mantengono agli altri paralleli, il penultimo nervo secondario 
poi manda qualche piccola diramazione verso la base. Il rete 
venoso è appena visibile, costituito da nervetti uscenti quasi ad 
angolo retto dai nervi secondari e limitanti aree di forma ret- 
tangolare con margini alquanto frastagliati. 

Se si confronta questa succinta descrizione con quella data 
del Heer lora arctica Vol. VII p. 83 per il suo Y. cordifolia 
è facile accorgersi, come esistano dei raffronti e delle somi- 
glianze non indifferenti frà la mia nuova specie e quella del 
Heer; pur nondimeno, tenendo in debito conto le poche; ‘ma 
importanti differenze, che si possono riscontrare, come per es. la 
presenza di dentature evidentissime nei miei esemplari, l’ arcua- 
zione dei nervi secondari specialmente di quelli più prossimi alla 
base laminare, il loro angolo d’ emergenza dalla costola mediana 
e la maggiore acutezza dell’ apice laminare, mi pare giustifi- 
cata abbastanza la distinsione che ne ho fatta dalla specie figu- 
rata e descritta dall’ Heer e dalle altre fossili e viventi. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno, Gaville (Coll. 
del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


Quercus 
Quercus neriifolia Al. Br. 


Q. foliis longe petiolatis subcoriaceis elongato-lanceolatis, apice acumi- 
natis, basi attenuatis subdecurrentibus, nervis secundariis sub angulo 
subrecto e costa exorientibus oppositis, alternisve parallelis, margi- 
nem versus inter se coniuntis, parum curvatis arcuatisve, venis obli- 
quis irregularibus tenuissimis inter se coniuntis, retem minutissimum 
irregulariter pentagonum includentibus. Ung. Gen. sp. pag. 403 — 
Gaudin Feuill. Foss. de la Tosc. M. VI, p. 12, PI. II, fig, 1. Heer FI. 
Helv. II pag. 45-46, Taf. LXXIV, fig. 1-6. Taf. LXXV, fig. 2. 
Mass. Lett. a Scarabelli, pag. 18, N.° 17, Ett. FI. v. Bilin pag. 54. 
Saporta Etud. II, p. 256, Schimper Tr. pal veg. p. 621. II. Mass. 
FI. foss. Senig. p. 188 Tav. XXXI, fig. 6. 

Syn. Quercus lignitum AL Br. in Stizenb. Verzeichn pag. 77, Heer. 
Uebers d. Tert. Fl., pag. 53. Quercus commutata Heer HI. tert. 
Helv I, pag. 14, 21. 


Osserv. — La fillite da me esaminata somiglia perfettamente 
alla Fig. 2 e 6, Taf. LXXIV dell’ Heer FI. Helv. come pure alla 


Se. Nat. Vol. II. fasc. 1.° 11 


162 G. RISTORI 


fig. 6, Tav. XXXI, Mass. Il. Senig. e non sì può menomamente 
dubitare dell’esatezza di questa determinazione. !l1 mio esem- 
plare però, proveniente dal Pratello presso. S. Giovanni Val- 
darno, non mi sembra, che rassomigli troppo alla figura, che 
dà il Gaudin Fewill. foss. de la Tos. MOVIES "o 1 di un 
esemplare riferito da lui alla stessa specie e proveniente da 
Bozzone; infatti quest’ ultimo presenta la lamina: foliare mag- 
giormente attenuata, tanto all’ apice, che alla base e una lar- 
ghezza della lamina medesima molto maggiore e nervi secon- 
dari uscenti dal mediano con angolo molto acuto. Tali caratteri 
non si riscontrano in nessuna delle tante figure che l’ Heer ed 
il Massalongo danno per la Q. nertifolia; di più l’ acutezza del- 
l'angolo, che le nervature secondarie fanno colla costola mediana, 
non è neppure consentaneo ai caratteri distintivi che gli autori 
sopracitati danno per la specie di Quercus suindicata; per cuì 
mi sarà permesso di esprimere qualche dubbio sulla esattezza 
della determinazione fatta dal Gaudin almeno per 1’ esemplare, 
che ha figurato a PI. II, fig.1, Feuill. foss. de la Tose. M. VI. 

Local. — Gaville. Valdarno superiore (Coll. del Museo Geolo- 
gico e Paleont. di Firenze). 

Distr. Geogr. —- (Eningen, Sobrussan { Boemia ) Sinigaglia, 
Bozzone, (Toscana). 


Quercus Seillana Gaud. 


I numerosi esemplari esistenti nel Museo Geologico e Pa- 
leontologico di Firenze riferibili alla specie Q. ScilZana manten- 
gono costantemente i caratteri, che il Gaudin ritiene esclusivi 
della sua specie ed atti a distinguerla e separarla dalla Castanea 
atavia Ung. per cui ho creduto necessario fare questa semplice 
nota, allo scopo di confermare la nuova specie del Gaudin, fino 
ad oggi esclusiva della flora fossile del Valdarno superiore. 


Quercus sp. ind. 
Laval VALISSNI RE 
Osserv. — Figuro nella Tav. VIII, a fig. 17 un esemplare 


di fillite proveniente dal Pratello presso S. Giovanni Valdarno 
probabilmente riferibile al genere Quercus; stante però i bordi 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 163 


laminari mal conservati, che tutti gli esemplari da me esaminati 
presentano, non sì possono riferire alla specie di Quercus, a cui 
per altri caratteri della lamina foliare potrebbero appartenere. 
Infatti essi esemplari presentano, tanto per la nervatura, qua nto 
per l’apice e la base laminare, analogie col Q. Scillana Gaud. e 
col Q. Gaudini Les. e specialmente con quest’ultima specie hanno 
in comune la validità della costola mediana e dei nervi secondari 
non che la rotondità della base laminare. Però attentamente e 
ripetutamente esaminando detti esemplari si vede che non esi- 
stono affatto nè dentature nè lobature lungo il bordo laminare, 
per cui non apparterrebbero a nessuna delle due specie suindi- 
cate, che presentano evidenti dentature. Da ciò la probabilità 
di essere davanti ad una nuova specie di Quercus simile alla 
0. Gaudini e solo distinta da quella per l'assoluta mancanza di 
dentature e lobature lungo il bordo laminare. 


Quercus Daniellii nov. sp. 
Tav. VII, fig. 18. 


Q. foliis ovato-oblongis, longe petiolatis, basi fere rotundatis, apice 
acuto, lateribus utrinque lobatis, lobis acute dentatis, nervo mediano 
valido, nervis secundariis sub angulo minime acuto egredienti- 
bus, craspedodromis, parallelis et basim versus arcuatis, rete venoso 
vix conspicuo. 


Des. Osserv. — Foglia ovata allungata con base quasi 
arrotondata e angolosa all’inserzione del picciuolo, il quale si 
presenta allungato e sottile, bordi laminari quasi paralleli e solo 
convergenti presso l'apice e la base, lobati assai distintamente, 
i lobi sono dentati, ed i denti acutissimi. Costola mediana sot- 
tilissima e angolosa specialmente in corrispondenza del punto 
d’ emergenza dei nervi secondari, i quali nascono sotto un’ an- 
golo abbastanza grande cioè di 58° gradi e sono, quelli presso 
alla base laminare, arcuati come pure i due più prossimi al- 
l’apice, retti quelli al centro della lamina foliare, tutti quanti 
sono craspedodromi. Il rete venoso è appena visibile. 

Dietro questa descrizione è facile accorgersi come il mio 
esemplare presenti poche rassomiglianze colle specie fossili fino 
ad ora descritte e figurate, per quanto esse siano numerosis- 


164 G. RISTORI 


sime; solo una lontana analogia la possiamo trovare in qual- 
cuna delle tante foglie riferite alla Q. Drymeja Ung. Le maggiori 
analogie però le ha colla specie tuttora vivente Q. Pseudo-suber 
Santi; infatti troviamo nell’ esemplare fossile da me esaminato 
corrispondenza nella forma dei lobi e delle dentature dei mede- 
simi ed anche le nervature secondarie sono egualmente disposte. 
Altra rassomiglianza, poi l'abbiamo nella forma ed acutezza 
dell’ apice laminare, il quale in ambedue queste specie la fossile 
e la vivente presenfa lateralmente due dentature acutissime, le 
quali fan sì, che l'apice medesimo prenda 1’ aspetto tricuspidale. 
La mia nuova specie fossile però non concorda colla vivente per 
la forma della lamina, che nella prima si presenta più allun- 
gata più ridotta in larghezza; per modo, che i bordi laterali, 
della medesima si mantengono per lungo tratto paralleli e solo 
presso la base e l’ apice cominciano a convergere; mentre nella 
specie vivente presentano una più o meno leggiera curvatura 
e danno alla lamina foliare una forma più ellittica ed avente un 
diametro trasversale relativamente maggiore. Di più la specie 
fossile, conta un numero maggiore di nervature secondarie cioè 
7a8 per lato e la costola mediana ed il picciuolo sono molto 
meno sviluppati, di più le nervature secondarie fanno colla co- 
stola medesima un angolo più ottuso. 
igline Valdarno (Coll. del Museo 
Geologico e Faleoiolio di Firenze) rinvenuta da me nelle 
IG cenerognole Var delle Ligniti). 


Quercus Etymodrys Ung. 


Q. foliis longe petiolatis, oblongo-ellipticis, regulariter sinuato-dentatis, 
dentibus obtusis, basi attenuatis, apice obtusiusculis, penninerviis, 
nervis secundariis rectis, alternis vel oppositis, venis perpendicu- 
laribus, retem laxum tetragonum plerumque efformantibus. Ung. FI. 
v. Glei. p. 174. Taf. III. fig. 3, Mass. FI. foss. Senig. p. 178, Tow. 
XXIF-XXIII, fig. 10, 11, 12. Tav. XLII, fig. 12, Gaudin. Fewill. 
foss. de la Tosc. M. VI. p. 13. PI. III, fig. 11. Schimper Tr. Pol. 
veg. p. 650, II. 


Osserv. — Gli esemplari riferibili a questa specie sono in 
gran uumero stati da me raccolti presso una località detta la 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 165 


Foresta distante due chilometri dalla terra di igline. L'im- 
pronte sono per lo più in un argilla cenerognola refrattaria ed 
anche se ne trovano in uno strato argilloso, di color nero e 
bituminoso, che alterna con quello cenerognolo. Esse vi si rin- 
vengono numerosissime e si veggono sopramettersi le une alle 
altre; per modo chè è difficile poterle isolare ed averne una 
completa. Ad onta di ciò si riscontrano con facilità in quei nu- 
merosi esemplari succitati i caratteri delle foglie appartenenti 
alla Quercus Etymodrys, anzi alcuni di essi sono riferibili alla va- 
rietà entelea del Massalongo (FI. foss. Senig. p. 179 Tav. XXII- 
NXIII fig. 10-12), altri alla varietà microdonta rappresentata 
e descritta nella medesima opera del Massalongo Tav. XXII-XXHI 
fig. 5 p. 180. Da ciò si può ,con maggior probabilità di’ non 
avere errato, ritenere l’ esistenza assoluta anche nel Valdarno 
superiore di questa specie fino, ad ora creduta da molti esclu- 
siva della flora del Miocene superiore. 

Local. — /oresta presso Figline Valdarno (da me raccolta 
e donata al Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. Geogr. — Marne di S. Anna presso Gleichenberg. Si- 
nigaglia, Puzzolente, Monteinasso, Casino presso Stena. 


Quercus Ilex L. 


Fra gli esemplari di filliti, che si conservano nel Museo 
della Accademia del Poggio residente in Montevarchi, ne ho 
potuto osservare uno, che appartiene alla specie Quercus Ilex, 
giacchè concorda perfettamente colla descrizione e figure che il 
Gaudm da a p.9, M.V, PI. III, fig. 7-11 Cont. a la PI. foss. 
ital. Gli esemplari del Gaudin provengono tutti quanti dai Tufi 
vulcanici delle Lipari, quindi questa specie che oggi trovo nel 
Valdarno superiore è comune anche alla Flora quaternaria non 
che alla vivente. L'’impronta da me esaminata proviene proprio 
dal piano delle Argile arse, da cui, lo Strozzi, il Pantanelli ed 
il Major ('), hanno voluto vedere rappresentato il Miocene su- 
periore 0 il Pliocene inferiore in una parola l'orizzonte più antico 


(4) Major — Su livello geologico del terreno, in cui fu trovato il così detto 
Uranio dell’'Olmo, Arch. per l’Antropologia e la Etnologia. Vol. VII, p. 344. (1877). 


166 G. RISTORI 


dei depositi pliocenici del Valdarno, che secondo il Major sareh- 
bero contemporanei a quelli del Casino presso Siena. 
Local. — Gavelle e Castelnuovo (Zona delle Ligniti) Coll. del 
Museo della Acc. valdarnese del Poggio residente in Montevarchi. 
Distr. geogr. — Isole Lipari. 


Quercus figulinensis nov. sp. 
Tav. VIII, fig. 16 


Q. foliis oblongis, longe petiolatis, basi apiceque attenuatis, strictis, 
margine regulaviter sinuato-dentato, dentibus obtusis, penninerviis, 
nervo mediano valido, secundariis rectis alternatisve, nervulis ab se- 
cundariis sub angulo fere recto egredientibus, rete venoso vix conspicuo. 


Des. Osserv. — Foglie allungatissime acuminate, attenuate 
alla base, lobate, lobi dentati, denti piccoli e poco acuti, pic- 
ciuolo lungo e valido, nervatura mediana valida e alquanto 
sinuosa specialmente presso l’ apice laminare, nervature secon- 
darie in numero di 8 per lato ed uscenti ad angolo acuto dalla 
costola mediana, con andamento leggermente incurvato al centro 
della lamina, più sentitamente presso l'apice e presso la base. 
Le nervature terziarie escono dalle secondarie sotto un angolo 
vicinissimo al retto e si confondono col rete venoso, il quale 
limita aree rettangolari con lati sinuosi ed alquanto irregolari. 

Gli esemplari qui descritti furono raccolti da me stesso nella 
solita argilla cenerognola della Foresta (Zona delle ligniti). Questi, 
come si vede dalla descrizione, sì presentano assai caratteristici 
e non hanno somiglianza perfetta con nessuna delle specie fos- 
sili; solamente qualche analogia con le giovani foglie di Q. Ety- 
modrys; ma ne differiscono per molti caratteri specialmente per 
le lobature molto meno profonde in questa nuova specie ed 
anche per la forma della lamina, che si presenta tanto più al- 
lungata e stretta, e finalmente per la quasi costante arcuazione 
più o meno evidente dei nervi secondari. Fra le specie viventi 
somiglia un poco al Q. cerris e al Q. robur.; ma quest’ ultime 
specie hanno i lobi del bordo laminare, che vanno a finire in 
dentature molto più acute, hanno il picciuolo molto più corto 
e le nervature meno marcate. 

Local. — Foresta presso Figline valdarno (Raccolte da me 
e donate al Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 167 


Fam. Salicineae 
Salix 
Salix integra Goepp. 


S. Foliis lanceolatis, basi attenuatis, acutis, nervis secundariis angulo 
acuto egredientibus. Ge@pp. foss. Flora v. Schossnita. $. 25, Taf. XIX, 
fig. 1-16. Heer Flora foss. Helv. II, p.32, Taf. LXVILI, fig. 20-22. 
Gaudin Fewilll. foss. de la Tosc. p. 30, M. 1, PI. INI, fig. 6. 

Syn. Salix attenuata Al. Br. Stizenb. 79. Salix paucinervis Al. 
Br. in Stizenb 79. 


Osserv. — L’ esemplare di fillite, che io riferisco alla specie 
suindicata, concorda perfettamente colla descrizione e figura del 
faudini Zell: foss. dela Tose. M. I p. 30, PI IIL fig. 6, e 
del Heer FI. foss. Helv. p.32, Taf. LXVILI, fig. 22. Solamente 
l'esemplare, da me esaminato presenta dimensioni minori di 
fronte a quello figurato dal Gaudin; mentre concorda anche per 
questo con alcuni degli esemplari figurati dall’ Heer. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del Museo 
(reologico Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — @mningen. Montaione (in Toscana). 


Salix decurrens nov. sp. 


Tav. VIII, fig. 19. 


S. foliis lanceolatis in petiolum attenuatis atque decurrentibus, basi api- 
ceque valde attenuatis, costa media valida, nervis secundariis validis 
et sub angulo acutissimo egredientibus, arcuatis, in margine laminari 
decurrentibus. 


Des. Osserv. — Foglia lanceolata con lamina molto atte- 
nuata alla base e decorrente nel picciuolo, il quale si mostra di 
circa 5 millimetri lungo, grosso e perfettamente cilindrico. Il 
bordo laminare è integro, l’apice attenuato e alquanto arroton- 
dato, la costola mediana assai grossa, le nervature secondarie 
poco evidenti, arcuate decorrenti lungo il bordo laminare ed 
uscenti con angolo acutissimo dalla costola mediana. Le nervature 
secondarie si anastomizzano con le terziarie, specialmente nei 


168 G. RISTORI 


pressi del bordo laminare. La lunghezza della foglia compreso 
il piccinolo è di cent. 8, la massima larghezza cent. 1, 03, presa 
alla distanza di due terzi dall’ estremità del picciuolo. 

Non con troppa facilità ho potuto capire se l’ esemplare qui 
preso in esame e gli altri ad esso simili appartenessero ad un 
Salir, piuttosto che ad un Laurus: infatti se esaminiamo atten- 
tamente la figura e descrizione che il Massalongo dà per il Laurus 
iteophylla Mass. FI. foss. Senig. p. 258, Tav. XLV, fig. 18. e quella 
di Ett. per il /. phoeboides Ett. Foss. FI. v. Vien. Taf. ILL, fig. 3.. 
vi si possono trovare analogie abbastanza numerose ed importanti 
colla mia nuova specie di Salix; però quando si tenga conto nella 
mia specie della forma caratteristica della lamina, del suo ro- 
busto e corto piccimolo e dell'acutissimo angolo, che le nervature 
secondarie fanno colla mediana non che della loro pronunziata 
curvatura e decorrenza lungo il bordo della lamina medesima; 
credo, che si abbia abbastanza, per potere riferire la mia im- 
pronta ad un .Salzx piuttosto che ad un Laurus, e descriverla 
come specie nuova. Frà le specie viventi che più si assomiglino 
alla qui fossile descritta stà per primo il Salix babilonica L. 
quest’ultima però differisce per la base laminare meno attenuata, 
la lamina molto più sviluppata e più allungata e ridotta invece 
in larghezza; secondo viene il Sale candida Mi. il quale però 
ha il bordo laminare crenato e l’ apice acuto. Noteremo in ul- 
timo come la decorrenza della lamina nel picciuolo, proprietà 
caratteristica nella mia nuova specie, non sia cosa frequente nei 
Salix: infatti fra ì fossili abbiamo il solo Salix nimpharum Gaud. 
fra le specie viventi abbiamo il Salix alba L., S. silesica, S. an- 
gustifolia, S. arbuscula, S. daphnoides, S. sacutifolia, S. viminalis,. 
e poche altre. 

Local. — Pratello ‘presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


Peopulus 


Populus mutabilis v. oblonga Heer. 


Tav. VIII, fig. 29. 


P. foliis oblongo-ovatis et sublanceolatis, basi integris, superne dentatis 


vel serratis. Heer FI. tert. Helo. II, p. 19. III. p. 173, Tof. LX, 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 169 
fig. 6, 7, 9, 10, 13, 15. Mass. FI. foss. Senig. p. 243. Ett. Foss. 
FI. v. Bilin p. 85, Taf. XXII, fig. 11, XXVIII. fig.8, Schimper Tr. 
Pal. veg. p. 694. II. 

Syn. Populus oblonga Al. Br. in Stizenb. p. 80. 


Ossery. — All’ esemplare da me studiato e riferito alla specie 
P. mutabilis v. oblonga fra le tante e varie forme della lamina 
foliare figurate dall’ Heer, una sola corrisponde perfettamente ed 
è quella della Fig. 16, Taf. LX, le altre se ne discostano più 
o meno, ripetendo però e mantenendo i principali caratteri, 
quali sarebbero, la forma della lamina, e la. disposizione delle 
nervature secondarie. L’ esemplare però da me esaminato presenta 
il picciuolo alquanto mal conservato e quindi è impossibile potere 
riscontrare se anche la lunghezza e grossezza di esso corrisponda 
agli esemplari figurati dall’ Heer; quello che si può ancora ve- 
dere nel mio esemplare è il modo d' inserzione del picciuolo alla 
lamina e anche questo corrisponde perfettamente alle rappre- 
sentazioni dell’ Heer. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. CEningen, Stettfurt, a Schrotebury, Soteka, 
Radoboj, Ligniti di Bonn Miocene del Ilississipî, Puzzolente, 
Montemasso (Toscana), Sinigaglia. 


Fam. Balsamifluae 


Liquidambar 
Liquidambar Europaeum A. Braun. 


L. foliis longe petiolatis, palmatilobis 3-5 lobis, lobis argute serratis 
apice cuspidatis, lobo medio indiviso rarius lobato, (fructibus in stro- 
bilum globosum coalitis, capsulis lanceolatis longe cornutis, pedun- 
culo strobili elongato crassiusculo stricto. Al Br. in Buckl. Geolog. Ig 
p.115; in Stizenb. Verzeichn p. 76, Ung. Chlor. prot. p. 120, Taf. 
XXX. fig. 1, 5. Ett. foss.. FI. v. Vien. p. 15, Taf. II, f. 19-22, Goepp. 
Tert. FI. v. Schossnite p. 22, Taf. XII, f. 6-7. Heer FI. tert. Helv. II, 
p. 6, Tof. LI-LII, fig. 1-8. E. Sismonda Matér. pour serv. a la pal. 
du Piem. p. 30, PI. IX, fig.7, Gaud. et Strozzi Feuill. foss. de la 


170 G. RISTORI 
Tosc. p. 30, PI. V. 1-3. Mass. FI. foss. Senig. p. 237, Tav. XII, f. 4. 
Tav. XIV, fig. 6. Schimper, Tr. de Pal. veg. II, p. 710. 
Syn. Acer parschlugianum. Ung. Chlor. prot. p. 132, Taf. XLIII, 
f. 5, L. acerifolium Ung. Iconogr. Taf. XX, f. 28. Gen. et. spec. 
p. 515. 


Osserv. — Un solo esemplare e non completo proveniente 
da Gaville rappresenta questa specie nella Flora fossile del 
Valdarno superiore. L’ impronta è indubbiamente riferibile al 
genere Liquidambar, somiglia molto alla specie Europaeum; ma 
stante i lobi un poco più ottusi presentati dal mio esemplare 
(stando a ciò, che dice il Massalongo 7. foss. Senig. p. 239 a 
proposito della sua nuova specie L. Vincianum Mass.) potrebbe 
anche a questa riferirsi; per quanto abbia i lobi molto più ottusi 
del mio esemplare, il quale per le dimensioni la forma e l’acu- 
minatezza dei lobi, concorda perfettamente colla fig. 3 PI. V, 
M.1 Gaudin Feuill. foss. de la Tosc., che ci rappresenta il L. Eu- 
ropaeum. Dietro poi l’ incertezza espressa dal Massalongo stesso, 
riguardo alla vera e propria distinzione della sua nuova specie. 
riferisco senz’ altro il mio esemplare a quella del Braun L. 
Europaeum. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno superiore. 
Coll. del Museo della Società Valdarnese del Poggio residente in 
Montevarchi. 

Distr. geogr. — Sotzka, Eningen, Radoboj, Montemasso, 
(Toscana), Puzzolente, Sinigaglia. 


Urticinèe 


Fam. Ulmaceae 


Elanera 


Planera Ungeri Ett. 


P. foliis breviter petiolatis rarius sessilibus magnitudine maxime varian- 
tibus, ovato-acuminatis, vel ovato-lanceolatis, basi plerumque inequali- 
bus aequaliter et sempliciter serratis vel crenatis, dentibus plerumque 
magnis, nervis secundariis 7-14 sub angulo acuto egredientibus. 


Ett. foss. FI. v. Hùring Taf. X, fig. 4-5. Heer FI. tert. Helv. II, 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 171 
p. 60, Taf. LXXX. Ung. foss. Fl. v. Kumi. p. 24, Taf. IV, fig. 10-16. 
Heer FI. foss. arct. p. 110, Taf. IX, fig. 8. Sismonda Matèr. pour 
serv. a la pal. du Piem., p. 48. PI. XVII Ig fig. 2, 4. Ludw. Palceon- 
II AVRIL figo 911 XXXIX, fig. 1, 10. 
VARO al gie encnimperni Bride Pali veg pi (7145 TIE AL. 
LXXXIX, Gaudin, Feuill. foss. de la Tosc. M. I, p. 34, PI. IL fig. 
d05M IV, pr24, PETS figio15: 17. 


Osserv. — Mi sembra cosa inutile trascrivere qui la lunga 
sinonimia, di questa specie e per essa rimando senz'altro al Trat- 
tato di paleofitologia dello Schimper p. 714 Vol. II. Come pure 
per le osservazioni sulla incerta classazione delle forme di filliti 
riferite a questa specie, richiamo le osservazioni fatte dal Mass. 
FI. Foss. Senig. p. 216 sul genere Zelkova sinonimo di Planera. 
Ho riferito a questa specie, un impronta di foglia da me stesso 
raccolta alla Foresta presso Figline valdarno, e credo la mia 
determinazione bastantemente ben fondata; giacchè quell’ im- 
pronta presenta tutti i caratteri propri della specie suindicata 
e concorda colle figure che ne danno l’Heer, l’ Ett., ed il Gaud. 
stesso. Farò poi notare come anche il Gaudin sospettasse l’ esì- 
stenza di questa specie nella flora fossile del Valdarno supe- 
riore, per avere potuto esaminare molti frammenti di filliti pro- 
venienti da quella località, i quali a suo dire appartenevano con 
molta probabilità ad essa specie; ma il non avere egli potuto 
esaminare esemplari di foglie sufficentemente ben conservati e 
completi, gli impedì di ascrivere anche quella specie frà le com- 
ponenti la flora fossile summentovata. 

Local. — Foresta presso Figline Valdarno superiore (donata 
da me al Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Svizzera, Alemagna, Croazia, Grecia, Francia, 
. Italia nei terreni miocenici. Il Gaudin 1° indica nel quaternario 
di Prata, Monsummano e Poggio Montone, (Toscana) e nel pliocene 
di Montajone Val D’ Era. 


Ulmus quercifolia Ung. 


Tav. VIII, fig. 20. 


U. foliis petiolatis, ovato-acuminatis basi attenuatis, argute dentatis 
penninerviis, nervis secundariis subsimplicibus craspedodromis Ung. 


172 G. RISTORI 
Chlor. prot. p. 96, Taf. XXV, fig. 5, Gen. sp. pl. foss. p. 411. Syl- 
loge pl. foss. I, p. 13. Taf. IV, fig. 7-13. Schimper Tr. pal. veg. II, 
p. 721. A 


Osserv. —- La fillite, che io ho riferito alla suindicata specie 
dell’ Unger presenta una perfetta somiglianza colla fig. 5 Taf. 
XXV, Ung. Chlor prot. e ne concorda anche la descrizione, quindi 
credo, che non si possa dubitare sulla vera esistenza di questa 
specie nella flora fossile del Valdarno superiore. Aggiungerò poi 
che ad onta della facile confusione che può succedere frà le fo- 
glie appartenenti ai generi: Ulmus, Corylus, Betula, Alnus, tanto 
fra loro rassomiglianti, specialmente per la nervatura il mio 
esemplare presenta dei caratteri così evidenti da escludere quasi 
ogni dubbio di appartenere a specie diversa e molto meno a 
genere diverso da quello a cui l’ ho riferito. 

Locali. — Zona delle Ligniti (Gaville Castelnuovo) (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Formazioni mioceniche superiori della 
Stiria, Parschlug e Obdach, Wiesenau (Carinzia). 


Laurinèe 


Fam. Lauraceae 


Persea 
Persea speciosa Heer. 


P. foliis coriaceis, longe petiolatis, ellipticis, nervo mediano valido, secun- 
dariis utrinque 8-10, sub angulo acuto egredientibus Heer FI. tert. 
Helo. DI, p.8L Vof. XC; fig. 11-12 e Daf (C) fig SSA pio) 
Taf. CLILI, fig. 9-10. Gaudin, Feuill. foss. de la Tose. M. I, p. 37, 
PILA, fig PRIVILEGI TIT Eito fosso Bin ipo de 
XXXII, fig. 15-16. Schimper, Tr. Pal. veg. p. 829, IL 


Osserv. — Mi sono imbattuto in diversi esemplari di filliti 
appartenenti alla specie dell’ Heer Persea speciosa; essi infatti 
concordano perfettamente colle figure e descrizioni date dall’ Heer 
e dal Gaudin. Degli esemplari da me esaminati alcuni somi- 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VAHDARNO SUPERIORE 173 


gliano alla fig.7, PI. VII, M. I Gaud. Fewill. foss. de la Tose. altri 
alla fig. 3 PI. X, id. memoria. Dubito del resto, che anche il 
Gaudin abbia prima di me potuto esaminare e riferire alla specie 
suindicata un’ impronta di fillite avuta dallo Strozzi; la quale 
probabilmente proveniva dal Valdarno superiore. Nell’ incertezza 
però ho voluto qui far menzione delle molte filliti che ho avuto 
agio di esaminare se non altro a conferma della certa esistenza 
di questa specie nella flora fossile del Valdarno superiore. 

Local. — Pratello (') presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Molassa d’ acqua dolce nella Svizzera; Schro- 
tzburg presso CEningen argille di Priesen. Travertini di S. Ve 
valdo, Jano (Toscana). (Appartiene al gruppo della Persea indica). 


$assafras 


Sassafras Ferrettianum Mass. 


]l Gaudin ha determinata questa specie su di un esemplare 
abbastanza mal conservato e che presentava intero solo un lobo 
laterale della lamina foliare; essendomi io imbattuto in un im- 
pronta perfettamente conservata ed intiera trovo ben fatto no- 
tare ciò a conferma della certa esistenza della suindicata specie 
fossile, nel valdarno superiore. 


Cinnamomum 


Cinnamomum lanceolatum (Ung.) Heer. 


Tav. VIII, fig. 22, 23. 


C. foliis petiolatis, lanceolatis basi apiceque acuminatis triplinerviis 
lateralibus margine approximatis, acrodromis apicem non attingen- 


(1) Di questa specie ne esistono numerosissimi esemplavi nel Museo dell’ Acca- 
demia valdarnese del Poggio residente in Montevarchi, provenienti da Gaville. Fra 
questi esemplari vi si trovano tutte quante le forme di foglie figurate dai diversi 
autori e riferite alla suindicata specie; per cui non si può più dubitare della sua 
esistenza nella flora fossile del Valdarno superiore. 


174 G. RÎSTORI 


tibus Heer. HI. tert. Helo. p. 86, Taf. XCIII, fig. 6-11. Mass. FI. 
foss. Senig. pe 265, Tav. VILI, fig. 2, 8, 4. e Tav. XXXIII, fig. 9. 
Sismonda Matér pour serv. a la Pal. du Piem. p. 52, PI. XXIV, 
fig. 5-6 e PI. XVI, fig. 7. Ung. foss. FI. v. Kumi p. 30, Taf. VII, 
Schimper Tr. Pal. veg. p. 842, IL 

Syn. Phyllites cinnamomeus Ross. Verst. Taf. I fig. 2, Daphno- 
gene lanceolata Ung. Fl. v. Sotek. Taf. XVI, fig. 1-6. Web. Pa- 
leontogr. II p. 183, Taf. XX, fig. 8. Ett. Fl. M. Prom. Taf. VII 
fig. 3-7. Ceanothus lanceolatus (et polymorphus?) Veb. loc. cit. Taf. VI, 
fig. 4, 5. 


Osserv. — Il Massalongo nella sua flora fossile Senigalliese, 
a proposito della specie Cinnamomum lanceolatum, osserva che 
alcane forme possono facilmente confondersi colla Daphogene 
Ungeri Heer e col Cinnamomum Rossmissleri ‘Heer stante le 
piccole differenze dei caratteri diagnostici. Io però per i miei 
esemplari, credo proprio essermi imbattuto in due delle forme 
più caratteristiche del C. lanceolatum: infatti i caratteri che io 
riscontro sulle filliti esaminate corrispondono perfettamente 
alle descrizioni e figure date e dall’ Yeer e dal Sismonda a pro- 
posito della suindicata specie. Abbiamo poi che uno dei due 
esemplaii somigla alla perfezione colle fig. 6, 7, 10 Taf. XCILI 
dell’ Heer FI. tert. Helv e con la fig.7 Pl. XXVI del Sismonda 
Matér. pour serv. a la pal. du Piem. l'altro invece che è anche 
più perfettamente conservato si avvicina alle fig. 8, 9, Taf. 
XCIII dell’ Heer opera stessa. 

Local. — Gaville Pratello presso S. Giovanni Valdarno (Coll. 
del Museo Geologico e Paleontolagico di Firenze. 

Distr. geogr. — Svizzera nella molassa d'acqua dolce Sota. 
Rodoboj, Hering, ligniti di Bon. Sinigaglia, Torino. schisti di 
Asson Rixhòft, Kumi. 


Cinnamomum Targionii nov. sp. 


Tav. VIII, fig. 24. 


C. foliis amplis, ovalibus, basi obtusa, nervo mediano validissimo, nervis 
lateralibus e basi egredientibus validis ac margini parallelis et fere 
apicem attingentibus, nervis tertiariis pariter e basi orientibus, 
arcubus curvatis et margini fere parallelis, nervulis transversis ex 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 175 


lateribus egredientibus sub angulo fere recto, rete venoso interpo- 
sito polygono. 


Des. e Osserv. — La fillite, che qui descrivo sotto il nome 
nuovo di Cinnamomum Targioni proviene dal Pratello presso S. 
Giovanni Valdarno è benissimo conservata, e manca solo del- 
l’apice laminare. Essa presenta anche a prima vista dei caratteri, 
che la fanno subito distinguere da tutte le specie fossili e vi- 
venti di Cinnimomum, eccone la descrizione. Foglia perfettamente 
ovale e di dimensioni considerevoli. La base laminare è rotonda 
e nel bel mezzo di essa si inserisce il picciuolo, che dall’ im- 
pronta lasciata al punto di inserzione, si giudica robustissimo 
come è il nervo mediano diretta continuazione del picciuolo 
medesimo. I due nervi laterali sono arcuati paralleli al bordo 
laminare anch’ essi robusti e raggiungono quasi l’ apice della 
lamina. Oltre a questi due nervi ne abbiamo altri due pure 
uscenti dal punto d’ inserzione del picciuolo, i quali meno ro- 
busti del primo paio si dispongono fra questi e il bordo lami- 
nare e vengono come costituiti da tanti piccoli archi, all’ estre- 
mità poi di ciascuno di essi archi sorge un nervetto di quarto 
ordine, che uscendo ad angolo quasi retto attraversa nel senso 
della larghezza l’ area limitata dal nervo laterale primario e da 
quello secondario; per modo chè essa area viene divisa in tanti 
quadrilateri aventi, dei due lati più corti, l’uno più prossimo 
al bordo laminare con convessità volta all'infuori, l’ altro, più 
prossimo al nervo mediano e costituito quindi da una porzione 
di uno dei nervi laterali primari, con convessità meno pronunziata 
e volta pure verso il bordo laminare più prossimo. I suddetti 
nervetti trasversali poi si anastomizzano e contribuiscono a for- 
mare il rete venoso poligonare. L’ area compresa fra i due nervi 
laterali primari è pure conspersa di rete venoso poligonare; ma 
costituito dalle diramazioni ed anastomosi di nervetti, che hanno 
origine dalla costola mediana. 

La nuova specie di Cinnamomum, (') qui descritta e figurata, 
ha qualche analogia col C. spectabile Heer; quest’ ultima però ha 
una maggiore tenuità della base laminare, nervature meno mar- 
cate e decisamente soprabasilari ed è mancante della terza serie 


(') Le specie viventi, che mostrano maggiori somiglianze colla fossile qui destritta 
sono queste: Cinnamomum zeylanicum Brey. Laurus cinnamomum And. Smilax ca- 
nariensis Willd. Smilax Walteriî Purch. 


176 G. RISTORI 


di nervature uscenti dal punto di inserzione del picciuolo ed 
aventi andamento parallelo ai bordi. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno superiore 
(Coll. del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


Cinnamomum polymorphum Heer (A. Br.) 


Tav. VIII, fig. 21. 


Cito questa specie e figuro nell’annessa tayola uno degli 
esemplari da me esaminati, il quale al pari di tutti gli altri 
proviene da Pratello presso S. Giovanni valdarno; perchè il 
Gaudin nelle sue Memorie Sur. quel Gis. de Fewill. foss. de la 
Tosc. mentre cita nel quadro sinottico comparativo la suin- 
dicata specie, omette poi di farne la descrizione e di figurare 
nelle tavole qualcuno degli esemplari meglio conservati. 

Del resto gli esemplari da me esaminati non presentano 
nulla di notevole ed hanno visibili e benissimo conservati i 
caratteri della specie, a cui gli ho riferiti e a cui indubbiamente 
appartengono. | 
— Local. — Pratello presso S. Giovanni. Gaville Valdarno su- 
periore. (Coll. del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 
Distr. geogr. — Soteka. Monte Promina, Torino, Sinigaglia, 
Svizzera, Puzzolente, Montemasso, Bozzone (Toscana). 


Ericinee 
Fam. Ericaceae 


Andromeda 


Andromeda protogaea Ung. 


A. foliis, coriaceis, utrinque attenuatis, integerrimis, costa valida, nervis 
secundariis alternis camptodromis inaequidistantibus, nervulis flexuosis 
percurrentibus in retem minutum exculptum solutis tt. H. foss. 
Haering. p. 64, Taf. XXII, fig. 1-8, Heer FI. tert. Helv. III, p. 8, 
Taf. CI, fij. 26 c,d, e, f. Mass. Piant. foss. del Vicentino. p. 153. 
Mass. Fl. foss. Senig. p. 297, Tav. XXXIV, fig. 3-6, Tav. XLIII, 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 177 


fig. 4. Gaud. Feuill. foss. de la Tosc. M. I p. 39. PI. X, fig. 10. 
Schimper Tr. pal. veg. III, p. 4. 
Syn. Leucothoe protogaea Ung. foss. Fl. v. Soteha Taf. XXIII, 


f. 2,3,5,9. Schimper Tr. pal. veg. III, p. 4. Andromeda tristis Ung. 
Syll. ILI, p. 36, Taf. XII, fig. 12. Andromeda reticulata Ett. FI. 


v. Htring. p. 65, Taf. XXII, fig. 9-10. 


Osserv. — L’ esemplare da me esaminato non consiste che 
in un frammento della porzione inferiore, di una lamina foliare, 
ad onta di ciò vi si possono riscontrare tutti quanti i caratteri 
necessari per una determinazione specifica: infatti si vede bene 
che esso concorda perfettamente colla descrizione e figura del- 
l’ Heer 77. tert. Helv. III p. 8 Taf. CI fig. 26 e con quella dell’Et. 
PI. Hùring p. 64 Taf. XXII fig. 1-8 non che con quella del Gaudin 
Feuill. foss. de la Tos. M. Ip. 59 PI. X fig. 10. Il lungo e grosso 
picciuolo, l’ attenuazione pronunziatissima della lamina alla base, 
la disposizione delle nervature secondarie, ed il rete venoso quasi 
costantemente rettangolare, sono caratteri abbastanza importanti 
e così evidenti nel frammento di fillite da me studiato, da non 
lasciare nessun dnbbio sulla giustezza di questa determinazione. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno superiore 
(Coll. del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Sotelka, Hiring, M. Promina; Stiria. Nella 
molassa d’acqua dolce nella Svizzera, Kumi, Sarzanello (Piemonte), 
Sinigaglia, Puzzolente (Toscana). 


Folycarpee 


Fam. Magnoliaceae 


Magnolia 


Magnolia fraterna Sap. 
Tav. VIII, fig. 25. 


M° foliis coriaceis, elliptico-oblongis, lanceolatis, integerrimis, subtus ut 
videtur, pubescentibus, penninerviis, nervo primario valido, subtus 
prominente, secundariis sub angulo plus minusve aperto emissis obli- 
quisve secus marginem curvatis, anastomosantibus, nervulis transve:- 
sim oblique decurrentibus flexuosis tenuiter reticulatis, pagina su- 


Se. Nat. Vol. II. fasc. 1.° 12 


178 G. RISTORI 


periori impressis Sap. FI. foss. de Meximieux p. 267; PI. XXXII, 
fig. 2-4. Schimper Tr. pal. veg. III, p. 76. 


Osserv. Gli esemplari da me esaminati sono abbastanza 
ben conservati ed a prima giunta sì scorge, che indubbiamente 
essi appartengono al genere Magnolia. Essi però si discostano 
effettivamente dalle specie di Magnolie fossili fin ora descritte, 
e si avvicinano grandemente alla vivente M. grandiflora, Fra le 
specie fossili però esiste a Merimieux una specie di Magnolia e 
precisamente la fraterna di Sap., le di cui impronte sono per- 
fettamente simili a quelle da me esaminate, tanto, che ho do- 
vuto a quest’ ultima specie riferire i miei esemplari. Però con- 
viene che io faccia notare come non abbia saputo vedere diffe- 
renze apprezzabili fra i miei esemplari, la specie figurata e de- 
scritta dal Saporta e le foglie della vivente Magnolia grandiflora; 
poichè la maggiore tenuità della lamina alla base e la minor 
grandezza della lamina foliare non mi sembrano caratteri troppo 
costanti per servire di base ad una distinzione specifica: infatti 
quando sì osservino bene i miei esemplari si scorge anche in 
essi come pure nelle foglie della Magnolia grandiflora, e negli 
esemplari figurati dal Saporta per la sua specie fossile, 1° inco- 
stanza dei caratteri suaccennati. Un solo carattere, che si trova 
costante nelle foglie della suindicata specie vivente, manca invece 
tanto nei miei esemplari fossili, quanto in quelli figurati dal 
Saporta; e questo si è la breve decorrenza della lamina foliare 
lungo il picciuolo. 

Local. — Foresta presso Figline Valdarno. Gawvelle. (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Meximicux, depositi pliocenici. 


Acerinee 


Fam. Aceraceae 


Acer 
Acer integrilobum OW. 
Tav. VIII, fig. 26 


Osserv. — Figuro nella annessa tavola l’unico esemplare di 
Acer integrilobum, che ho potuto osservare nella collezione del 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 179 


Museo Geologico e Paleontologico di Firenze, e ciò per far rite- 
nere come certa l’esistenza di questa specie nella flora fossile 
del Valdarno superiore; perchè fra le molte filliti appartenenti 
ad Acer figurate dal Gaudin Fewill. foss. de la Tosc. M. VI PI. 
IV non ne scorgo alcuna, che veramente possa dirsi appartenere 
alla specie, a cui ho riferito il mio esemplare: infatti anche il 
Gaudin stesso a pagina 79 M. VI dell’ opera suindicata, nota 
come la prima e la terza figura della tavola IV assomiglino al- 
quanto al A. integrilobum; ma non in modo da escludere ogni 
dubbio su di una simile determinazione che ne venisse fatta. 
Di più egli stesso enumera le differenze, che esistono fra i suoi 
esemplari e le descrizioni e figure date dall’ Meer Fl. tert. Helo. 
III, p.58 Taf. CXVI fig. 11 e dal Massalongo p. 332 Tav: XV- 
XVI fig.6 per la vera specie A. integrilobum. Il mio esemplare 
invece ripete precisamente la forma di quelli figurati dall’ Heer 
e dal Jassalongo e corrisponde perfettamente alle descrizioni 
della specie. 

Local. — Gaville Valdarno superiore (Coll. del Museo Geo- 
logico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — @mningen. Puzzolente (Toscana). 


Acer sp. ind. 


Tav. VIII, fig. 31. 


Figuro nella annessa tavola l’impronta di una Samara (') di Acero 
proveniente da Pratello presso S. Giovanni e questo perchè essa 
mì pare, che differisca da tutte quelle figurate dal Gaudin come 
trovate nel Valdarno superiore. Il mio esemplare invece presenta 
«delle somiglianze colle Samare proprie dell’ Acer crassinervium 
Ett. FI. foss. v. Bilin. III p. 22 Taf. XLV fig. 8-16 e con quelle 
dell’ A. narbonense Sap. 


(') Per Samara si intende l’Achenio alato. 


180 ‘ 6. RISTORI 


Frangulinee 


Fam. Iliceae 
Elex 


Ilex Massalongi nov. sp. 
Tav VINICAna2r7. 


I. foliis ovato-ellipticis, coriaceis, basi rotundata, apice acuminato spi- 
noso, margine spinoso, costa mediana validissima, nervis secundariis 
ramosis, validis ac alternis nervulis ac venis patentissimis. 


Des. Osserv. = Questa fillite appartiene indubbiamente 
al genere Ilex; giacchè possiede tutti quanti i caratteri, che il 
Massalongo e l’Heer pongono in rilievo, come distintivi di questo 
genere. Per ciò che riguarda la specie a cui può appartenere 
questo mio esemplare, si può affermare recisamente, che differisca 
tanto dalle specie fossili quanto dalle viventi fino ad ora cono- 
sciute; da ciò la ragione di averne fatta una nuova specie e di 
darne una dettagliata descrizione. Foglia ovale con base arro- 
tondata ed apice, che finisce in una punta spinosa, lunghezza 
della lamina cen. 9, picciuolo lungo e robusto, costola mediana 
validissima, nervi secondari pure molto robusti ed uscenti dal 
mediano sotto un angolo di 54° e 5'; queste nervature secondarie 
sono in numero di 8 o 9 per lato e disposte con alternanza, 
alcune di esse attraversano le spine e finiscono nella punta 
acuminata delle medesime, mentre le altre si ripiegano ad arco 
in prossimità del bordo laminare ed ivi si anastomizzano colle 
diramazioni delle altre e formano nell'insieme un rete venoso 
evidentissimo e a larghe maglie. Il bordo laminare è provvisto 
nella porzione sinistra della lamina foliare di una sola spina, nella 
porzione destra invece di due, corrispondenti a due nervature 
secondarie alternanti non successive. I nervetti terziari nascono 
dai secondari spesso sotto un angolo vicino al retto si diramano 
alla lor volta e si anastomizzano fra di loro e con le loro dira- 
mazioni, limitando così aree assai grandi e di varia forma. 

La mia nuova specie mostra delle analogie coll’ Ilex Studeri 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 181 


De la Harpe figurato e descritto dall’ IZeer FI. tert. Helv. Vol. 111 
p.72 Taf. CXXII fig. 11, e col I. Euminiana Heer FI. tert. Helv. 
III p. 72 Taf. CXXII fig. 23: infatti col primo ha comune la 
forma triangolare ed appuntata delle spine e la disposizione delle 
nervature secondarie; non concorda però per il numero delle 
dentature spinose, per il rete venoso e per i nervi di 2.° e 3.° 
grado, che nella specie dell’ Heer sono molto meno robusti; col 
secondo invece concorda per la validità delle nervature; ma 
discorda per il numero delle dentature spinose, che sono nella 
mia nuova specie molto meno numerose; ma più grandi. Fra 
le specie viventi il solo Ilex aquifolium può darcene una lontana 
idea; però quest’ ultimo ha le nervature meno valide, il numero 
delle dentature spinose maggiore, e le spine si presentano’ più 
acuminate e la nervatura secondaria è più regolare. 

Local. — Gawville Valdarno superiore (Coll. del Museo Geo- 
logico e Paleontologico di Firenze). 


Fam. Rhamneae 


Rhamnus 


Rbhamnus sp. ind. 


Riferisco a questo genere un'impronta, che molto difficilmente 
sì può verificare se appartenga al genere Ramnus, oppure al 
genere Cassia. Per la disposizione delle nervature secondarie si 
avvicina al fhamnus; per la piccolezza della lamina foliare in- 
vece alle Cassie. Ad onta di ciò essa impronta, presenta qualche 
analogia, specialmente per la disposizione delle nervature secon- 
darie, col R. Gaudini Heer, ne differisce però per l'angolo d’emer- 
genza delle medesime più acuto nel mio esemplare e per la base 
laminare più attenuata. Del resto, non saprei a quale altra specie 
avvicinarlo nè trovo conveniente farne una specie nuova, man- 
candomi esemplari bene conservati. 


182 G. RISTORI 


Terebinthinee 


Fam. Juglandeae 


Juglans , 


Juglans tephrodes Ung. 


Provenienti dal Tasso presso Terranuova Bracciolini ho avuti 
molti frutti indubbiamente appartenenti alla specie J. fephrodes 
Ung. Questo noto perchè il Gaudin non fa neppure menzione 
di sì numerosi resti fossili; solo il Pilla nel suo Trattato di 
Geologia p. 176 V. II ne descrive e figura due frutti come rin- 
venuti nelle argille plioceniche del Valdarno superiore, Questa 
specie di Juglans è stata anche rinvenuta nelle formazioni la- 
custri del Bacino di Leffe; ed anche nel Museo di Firenze esistono 
alcuni esemplari di frutti appartenenti indubbiamente a quella 
specie e provenienti da quest’ ultima località. Nelle brevi con- 
siderazioni da me fatte a principio di questo studio sulla Flora 
fossile del Valdarno superiore non ho mancato di notare questo 
fatto e quindi rimando a quelle per le osservazioni in proposito. 
Inquanto alla descrizione della specie e alla figurazione degli 
esemplari rimando all’ opera del Pilla pag. e vol. citato e al 
lavoro dell’ Unger: SyMloge pl. foss. pl. 38 Taf. XIX fig. 12-15. 

Local. — Tasso presso Terranuova Bracciolini (Coll. del Mu- 
seo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Fe:stritz in Iiria, Castel-Arquato formazione 
subappennina Bergamo ligniti, Leffe ligmti). 


Carya 


Carya elaenoides Ung. (Heer). 
Tav. VIII; fig. 28, 28 a. 


C. foliolis ovato-lanceolatis, subfalcatis, serratis, basi valde inaequalibus, 
petiolatis, lamina in petiolum decurrente, nervis secundariis parallelis 
arcuatis camptodromis rete venoso conspicuo. Fructibus ovato oblon- 
gis angulatis subpedunculatis. Heer Fl. tert. Helv. ILI, p. 92, Taf. 
CXXXI, fig. 1-4. Schimper Tr. pal. veg. p. 256, III - 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 183 


Syn. Juglans elaenoides Ung. foss. FI. v. Soteha Taf. XXXII, 
fig. 1-4. Mass. FI. Senig. p. 397, Tav. IX, fig. 11, Tav. XLII, fig. 14. 


Osserv. — Sono sicuro della determinazione di questa specie 
perchè l’ ho potuta basare non solo su esemplari di foglioline 
assai ben conservate; ma anche su di un esemplare del frutto, del 
quale credo bene di darne il disegno nella annessa tavola. Tanto 
il frutto quanto le foglioline si accordano in tutto e per tutto 
colle descrizioni e figure date dall’ Zeer. Le foglioline però non 
sono troppo simili a quelle figurate dal Massalongo sotto il si- 
nonimo di J. elaenoides. D' altra parte non ho potuto confron- 
tare i miei esemplari con quelli figurati del Ung. autore di questa 
specie giacchè non mi è stato possibile avere la Foss. HI. v. Sotzka 
ove l'illustre paleofitologo descrive e figura questa specie. Del 
resto ripeto anche una volta, che gli esemplari da me esaminati 
concordano tanto perfettamente colle descrizioni e rappresenta- 
zioni che Heer dà per la specie Carya elaenoides Heer, che non 
è possibile dubitare della identità specifica dei miei esemplari 
con quegli fisurati dall’ Heer stesso. In ogni modo la non corri- 
spondenza della mia impronta con quelle figurate dal Massalongo 
sotto il nome di Juglans elenoides, mi fa nascere il dubbio, che 
non esista sinonimia fra Carya, e Juglans elaenoides, e che siano 
invece due specie distinte. Farò per ultimo osservare come 
l'esemplare figurato dal Massalongo abbia grandi analogie colla 
Pterocarya Massalongi Gaud. Feuill. foss. de la Tosc. M. I p. 40, 
PI. VILI, fig.1, PI. LX, fig. 2, mentre all’ incontro i miei esem- 
plari se ne discostano molto sia per il numero e l’ acutezza delle 
dentature dei bordi laminari, sia per la disposizione delle nerva- 
ture secondarie e per l’acutezza dell'angolo d'emergenza di esse 
dalla costola mediana, ed anche per altri caratteri di minore 
importanza. 

Local. Gaville Valdarno superiore (Coll. del Museo Geologico 
e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — Sinigaglia? Sotzka? Losanna, Aarwangen, 
Ligniti di ott. 


184 G. RISTORI 
Rosifloree 


Fam. Amygdaleae 


EPruNwaS 


Prunus nanodes Ung. 


Cito questa specie, perchè il Gaudin nella sua memoria Fewill. 
foss. de la Tosc. M. II, non si mostra punto sicuro di una im- 
pronta riferita alla specie suindicata, e quindi resta in dubbio 
se veramente la specie esista nella flora fossile del Valdarno su- 
periore. Un’ impronta però proveniente dal Pratello presso S. 
Giovanni da me esaminata concorda con ogni suo carattere colla 
fig. 1, Taf. CXXXII, Heer, PI. tert. Helv. III. per modo che non 
lascia nessun dubbio sulla sua identità specifica e quindi anche 
sull’ esistenza di questa specie nella Flora fossile del Valdarno. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno superiore, 
Gaville. (Coll. del Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 

Distr. geogr. — @mingen, Gleichenberg. 


Leguminosae incertae sedis 


Eeguminosites 


Leguminosites sp. ind. 
Tav. VIII, fig. 30. 


Sono stato molto incerto se riferivo l’ impronta figurata a 
Tav. VIII, fig. 80 ad una Cassiu o ad una Cesalpinia; dopo però 
molti confronti fatti su figure di foglie fossili e su varie specie 
di Cassie e di Cesalpinie viventi mi sono dovuto convincere, che 
non si poteva, stante la cattiva conservazione del mio esem- 
plare, affermare nulla di certo, ed allora mi sono deciso di fi- 
gurare nella Tavola quest’ impronta distinguendola col nome 
generico Leguminosites e dando alla terminazione (ifes) tutto 1l 
suo valore d'incertezza. — La mia impronta però ha qualche 
analogia colla specie Leguminosites Pyladis Gaud. ed anche colla 
Cassia ambigua Ung: ma molto probabilmente non appartiene a 
nessuna delle due specie. 

Local. — Pratello presso S. Giovanni Valdarno (Coll. del 
Museo Geologico e Paleontologico di Firenze). 


QUADRO SINOTTICO COMPARATIVO (') 


DeLLe PrAnTE Fossili DEL PLIOCENE LACUSTRE DEL VALDARNO SUPERIORE 


Miocene Pliocene 
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35 SIAE ISS SORE 
1 | Sphaeria italica Gaud. . . . .. i cl A 
DI » annulus Gaud.. . . . . CILE STE 
3 | Osmunda Strozzi Gaud. . . . . . | so 
| 
4 | Pinus Haidingeri Ung. . ... . . DI | aLe 
BI SOPASTrOZZIE Gaudi nen + SÒ ++ 
. Il 
6 MERISAUUCII Une e ene LL ++ sl SL 
7 » oceanines UE RARE e E + IT 
8 SIMENEpIOREUMpi i i et + di i 
9 slipoxatoma Gand. +... fee ” 
10 >»  paleostrobus Ett.. . . . . {+ Usi ui 
- inoîdes Gaud. . . Ia | {gol 
ll » une IF 
12 »  De-Stefanii nov. sp. . . . . ‘ +++ 
13 | Sequoia Langsdorfi Brog. . . . . ++ +| + | Ju x | 
i ium ad ao Lea | | 
14 | Taxodium dubium Stbg Sic, | st sr 
. î ( 
15 | Taxodites Strozziae Gaud. . . . . | | vi 
E ' È | 
16 | Glyptostrobus europacus Brog. . . sia +| {+ [HH AO 
17 | Callitrites Brongniarti Endl. . . . [+| Ai 
Il Il | + 
18 | Poacites primaevus Gaud. si | 
19 | Cyperites elegans Gaud, . si 
20 | Smilax Targionii Gaud. . . . . + | To 
21 | Potamogeton Anconai nov. sp... + JOR6a) 
22 | Myrica italica Gaud. . . . . - - | | \t 
| | 
(1) Per la successione dei generi delle piante fossili, tanto iu questo quadro sinottico, quanto nel resto del lavoro, ho se- 
guita la classazione adottata dallo Schimper nel suo trattato di Paleofit logia 


N. Specie Miocene | Pliocene Postpliocene 
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23 | Betula Brongniarti Ett. . 
24 » insignis Gaud... 
25 >» prisca Ett. + 
Z6 | Alnus gracilis Ung. IE + 
27 >»  Kefersteinii Gaud. . «| SL + +|+|+ + 
28 | Carpinus grandis Ung. sb EL ESE? 
29 | Fagus sylvatica L. | + +| | 
80 » incerta Mass. =L | ++| |+ 
81 » Gaudini nov. sp. + 
32 » pseudo-cordifolia nov. sp. - | Se Ri 
38 | Quercus Drymeia Ung. - | (++ SL +++|+ 
34 » Etymodrys Ung. +. + +++ su 
35 » neriifolia Al. Br. +| |+ + +. 
96 » myrtilloides Ung. . EUR SF 
37 >» chlorophylla Ung. . “| +| + +? 
98 » Haidingeri Ett. di 
39 » Mandraliscae Gaud. Lap SRL 
40 » Gmelini A. Br. . ++ 
41 » Lucumonum Gaud. SEE 
42 >» Gaudini Les. + SÈ 
43 » mediterranea Ung. . +| | SE 
44 » Scillana Gaud. . Sta +|+ + 
45 > Laharpii Gaud. . i Î + SL 
46 » Daniellii nov. sp. . INN 
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47 » figulinensis nov. sp. TERNA al 
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CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 187 


N. | Specie | Miocene | Pliocene ric 


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53 | Populus Heliadum Ung. . . ... | + leita E | 
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56 | Liquidambar europaeum Al. Br. ++ |t ! + nia + ch 
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60 | Ficus gavillana Gand | nl 
cf» i Gitiefolia ALBr iL. | ue st 
62 | Persoonia tusca Gaud . ., .. . gli 
63 | Laurus princeps Heer. . ... .|t|+ + +++ |+ + Gia ala sia 
64| >» Gastaldi Gand. . . . .. | 35 
65 >» Guiscardii Gaud.. . . . . | ìr chi 
66 » pracilis Gaudi... . | | HP 
67 | » ocoteaefolia Ett? . . . . ni 
68 | Persea speciosa Heer. . .. .. | | | Ar pla 
69 | Sassafras Ferrettianum Mass. . - {| |+ È ERE 
70 | Cinnamomum polymorphum Al. Br. . +| |+| |+ +++ + sa Mae 
7 » Buchii Heer, . . + | Ì +++ 
2 » lanceolatum Heer. . . |+| |+ |+ an 
73 » Targioni nov. sp. . + sia 0 
q4 » Scheuchzeri Heer. . . |+|+/+ (t agita | lea | 
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188 G. RISTORI 


N. Specie Miocene Pliocene Postpliocene 
D 
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76 | Diospyros anceps Heer. . . . . . + ++ 
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78 | Andromeda protog®a Ung. . . . . |+ + ++| | SL 
79 | Megnolia fraterna Sap. . | +| ++ 
80 | Acer integrilobum 0. W. . ... + + SE Apa 
gl >» Ponzianum Gaud. . . . . . +| |+ +|+|+2 
82 >». Sismondae Gaud. . . . . . Spe +2|+2 + 
83 | Sapindus falcifolius Al. Br... . .{4+] |+ SL ++ de 
84 | Celastrus Michelotti Gaud. . . . . È E 
85 » Bruckmanni Al. Br.. . ++ | 
86 | Ilex theefolia Gaud. . . . ... si 
87 »  Vivianii Gaud. ne 
88 > Stenophyl'a Ung Re + pe 
89 » Massalongi nov. sp... . . . sli 
90 | Berchemia multinervis Al. Br. . . sii ++ I +? 
91 | Rhamnus Decheni 0. W.. . . . .|{H| ]+ + ti sia +|+ 
92 » acuminatifolius 0. W. . . {+ | 5E | 
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93 » Rossmassleri Ung. . +| HH salto 
94 | Ceanothus ebuloides 0. W. . | PSA 
95 | Juglans Strozziana Gaud. . . . . + +|F + ch 
96 SAR DIlinicag Une sr|eE +|+ SRL 
97 » nux taurinensis Brog. . . |+ { +? 
98 » acuminata Al. Br... . H+ (+ |H| + E 3r | + 
| 
99 DIM EP GOA ESAUSTI | IA SE ++ 
( 
100 | Carya elenoides Ungîa . . .. . + | ++ 
Ì 


CONTRIBUTO ALLA FLORA FOSSILE DEL VALDARNO SUPERIORE 189 


N. | » Specie Miocene Pliocene Postpliocene 
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{1 101| Carya tusca Gaud. . | + ! 
102| Pterocarya Massalongi Gaud. . . . SL +| {+ + + 
{ 103] Rhus Lesquereuxiana Heer. sal 
104| Myrtus Veneris Gaud. Sia 
105| Crataegus puzzoleutana Gaud . DE +? 
106 | Prunus nanodes Ung. . . . | +|+ 
107| Cassia lignitom Ung. . da LE 
108 > ambigua Ung. . RT crachbo | ES 
109) » yperborea Ung. . .- .- . .|+ 35 35| |P 
110 | Inga gavillana Gaud. . .. . . | ci 
111| Leguminosites firmulus Heer. . ale 
112 » Pyladis Gaud. 5 Spia 
| 
113| Phyllites gavillanus Gaud. sla 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE DELLA TAV. VII. 


22,23. 


OT 
28-28 a. 


Pinus De-Stefanii nov. sp. Ristori. 

Callitrites Brongniarti Endl. 

Potamogeton Anconai nov, sp. Ristori la fig. 8 rappre- 
senta alcuni frutti o carpidi. 

Fagus incerta Mass. 

Fagus Gaudini nov. sp. Ristori la fig. 13 rappresenta una 
foglia giovane. 

Fagus pseudo-cordifolia nov. sp. Ristori. 

Carpipus grandis Ung. 

Quercus figulinensis nov. sp. Ristori. 

Quercus sp. ind. 

Quercus Daniellii nov. sp. Ristori. 

Salix decurrens nov. sp. Ristori. 

Ulmus quercifolia Ung. 

Cinnamomum polymorphum Heer (Al. Br.). 

Cinnamomum lanceolatum Ung. 

Cinnamomum Targionii nov. sp. fistori. 

Magnolia fraterna Sap. 

Acer integrilobum O. W. 

Ilex Massalongi nov. sp. Ristori. 

Carya eleenoides Ung. (Heer). 

Populus mutabilis v. oblonga Heer. 

Leguminosites sp. ind. 

Acer sp. ind. 


LUIGI BUSATTI 


BARITINA DI CAPRILLONE 


PRESSO MonTECATINI IN VAL DI CECINA 


In cavità geodiche, tra le vene calcitiche attraversanti la 
puddinga ed il calcare marnoso miocenico di Caprillone, furono 
dall’ ing. Lotti (') rinvenuti dei belli e grossi cristalli di Baritina. 
Nell’ esemplare, che favorì al Museo di Pisa, i cristalli di questa 
specie sono impiantati fra minuti cristalli romboedrici di cal- 
cite, sopra i quali giganteggiano per la loro dimensione. Oltre 
la grossezza fu il particolar modo col quale si presentano che 
maggiormente vi richiamò la mia attenzione. Bianco di porcel- 
lana è il contorno di questi cristalli, colore che verso il centro 
svanisce per dar luogo ad una colorazione giallo-rossigna e 
giallo-chiara. Per lo spazio ove domina questo colore, i cristalli 
sono translucidi; nelle parti periferiche ove domina il bianco, 
invece sono affatto opachi. Pochi sono i cristalli bianchi e opa- 
chi in tutte le loro parti: questo avviene solo nei più piccoli, 
| ed alcuni spezzati lasciarono nell’ interno scorgere delle por- 
zioni incolore, limpidissime. 

L’ aspetto come corroso, che hanno questi cristalli di bari- 
tina, le screpolature che portano farebbero sospettare, contro 
all’ inalterabilità della specie minerale cui appartengono, che 
abbiano subìto esteriormente un’ alterazione o meglio una tra- 
sformazione in combinazione idrata. E da questo punto di vista 
che specialmente fui mosso ad istituirne un’ analisi completa. 


(!) Boll. d. Comit geolog. d' Italia. N.° 11-12, 1884. pag. 367. 


192 L. BUSATTI 


Ma sì la parte interna, che mi appariva la più pura ed inalte- 
rata, quanto la esterna mi dettero sempre resultati concordanti 
nelle ricerche chimiche. i 

La sostanza prima di assoggettarla alle prove quantitative, 
fu disseccata a 100°, quindi a 200°, in tubo essiccatore in bagno 
ad olio, ma la perdita non sorpassò gr. 0,0035 per gr. 1,0705 di 
sostanza presa. Non contento di ciò scaldai la sostanza in un 
crogiuolo di platino fino al calor rosso, ma anche con questa 
prova la perdita non aumentò sensibilmente, e si dovè conclu- 
dere che la baritina, malgrado le sue apparenze, non conteneva 
che acqua igroscopica, e da trascurarsi nell’ analisi quantitativa, 
per il resultato della quale do i seguenti numeri: 


Ba gi RITI 
Ce e I 
SOLE ee AA094 

99, 152 (1) 


Avverto che la calce, atteso il poco precipitato che ne otteneva 
neì saggi qualitativi, è stata calcolata per l'eccesso di acido sol- 
forico, che rimaneva dopo la completa salificazione del bario. 
Le forme bene accertate presentate da questa baritina, se- 
condo l’orientazione adottata dal Miller, sono (110, 012, 101, 001); 
a cui corrispondono secondo Naumann e Dufrénoy, respettiva- 


mente i simboli (co P, '/, P co, P 00, 0 P), (m, af, e', p). Forse 
sì potrebbe aggiungere alle sopra riferite forme qualche altro 
prisma orizzontale, ma non fu possibile accertarlo con misure. 
Avverto che non potei far uso che del goniometro a mano, col 
quale del resto potei assicurarmi dei seguenti valori angolari: 


110: I10 = (101° 
110 : 012 = 1190 
012 : 012 = 78° 
012 : 001 = 1410 


012 : 101 = 1200 
101: 101 = 1050 
(00007 


(*) Quest’ analisi l’ ho eseguita nel Laboratorio di Chimica generale dell’ Univer- 
sità, diretto dal cav. prof. P. Tassinari. Colgo quindi quest’ occasione per ringraziare 
il detto Professore del gentile permesso concessomi di frequentare in qualunque mia 
occorrenza il suo Laboratorio; come anche di mostrarmi grato al dott. U. Antony, 
del detto Laboratorio, per l’ aiuto prestatomi nelle varie ricerche chimiche ivi fatte. 


NOTA SU DI ALCUNI MINERALI TOSCANI 193 


I cristalli sono allungati molto nel senso dall’ asse y, essendo 
il prisma orizzontale 101 molto sviluppato. Poco estese sono le 
faccie del prisma verticale 110, ed in tutto l’ insieme la baritina 
di Caprillone per l’ abito di cristallizzazione si ravvicina molto 
al cristalli di celestina. 

La sfaldatura si può ottenere facilissimamente in piani per- 
fetti secondo 001: il suo peso specifico 4,38 si scosta di poco 
da quello dato per le tipiche baritine. 


GEMINATO DI EMATITE 


pi Rio (IsoLA D’ ELBA) 


Fra le belle cristallizzazioni di ematite dell’ isola d’ Elba non 
s'incontrano molto frequentemente dei geminati. L° Hessemberg 
descrisse e disegnò nelle sue Mineralogische notizen (') dei bellis- 
simi cristalli di ematite elbana con geminazione secondo R (100) 


e secondo co R (211) ed il D' Achiardi (*) dipoi ne osservava 
anche con geminazione parallela alla base (111). Di questi ultimi 
geminati se ne possono vedere alcuni nella ricca collezione to- 
scana che il detto professore di Pisa con tanta cura e maestre- 
volmente ha saputo radunare. 

Il geminato che ora descrivo fa parte di un aggruppamento 
cristallino d’ un bellissimo esemplare di ematite che fu donato 
dal dott. Badanelli al Museo di Pisa, e che egli raccolse a Rio. 
Vi sono presenti le faccie 100 (R), 211 ('/, R), 332 (— '/R), 
511 (&/, R 3), 811 (‘/, P 2). Le isosceloedriche 311 e le romboe- 
driche 100, 211 sono faccie bellissime e molto sviluppate nel 
cristallo geminato, che fra gli altri del gruppo cristallino at- 
trasse la mia attenzione. Le 211 sono anche profondamente ri- 
gate nel verso dello spigolo 211 : 100 e le 332 sono alcune levigate 
più lucenti delle altre ed un pochetto gibbute. 


(4) Abhand. d. Senchenberg. Naturf. Gesel. in Frankfurt a M. Bd. VII, S. 1, 
ff. e Bd. VII, S. 257 f. 
(*) Mineralog. d. Toscana. Pisa 1872. 
Se, Nat. Vol. II. fasc. 1.° 13 


194 i. BUSATTI 


La geminazione nel cristallo in discorso avviene per giustap- 
posizione. E asse di geminazione la perpendicolare ad una faccia 


del prisma 211. I geminati di ematite con la enunciata legge, 
quali sono quelli dell’ Elba e disegnati dall’ Hessemberg ('), come 
anche quelli di Traversella effigiati dallo Striver (*), hanno 
sempre questo carattere a comune: abito tabulare e parallelli- 


smo delle faccie 311 e 111 dei due gemelli: cioè a dire che la 
faccia basale ed isosceloedrica di un cristallo è in perfetta con- 
tinuazione con le corrispondenti faccie dell’ altro. Jl nostro esem- 
plare si allontana da questi inquanto che vi ha solo parallel- 
lismo delle faccie isosceloedriche, mancandovi la base. È appunto 
per la presenza in esso dei romboedri 332 e 211 che si ha in- 
vece un angolo rientrante all’ estremo dell’ esilissima e tortuosa 
linea, la quale lasciano appunto scorgere le faccie isosceloedriche 
dei due gemelli, là dove si uniscono per fondersi in un mede- 


simo piano. 


CLORITE DELLA MINIERA DEL BOTTINO 
(Aupr APUANE) (°) 


La clorite di questa miniera si presenta in masse ed in 
piccoli concentramenti tra le belle cristallizzazioni dei solfuri 
metallici della ricordata ed abbandonata miniera del Bottino, 
presso Serravezza. 

L'aspetto è scaglioso, il suo colore verde pomo: è luccicante 
e minutamente cristallina. La sua polvere esaminata al micro- 
scopio si risolve in tante e minute scaglie o lamelle cristalline 
verdoline e l’ una all’ altra addossate, sovrapposte a somiglianza 
d’ una pila che si attorcigli lungo una linea spirale. Le laminette 
cristalline a contorno generalmente rotondo si mostrano spesso 
in una forma di esagono regolare perfetto. Quando si possono 

(4) V. Op. cit, 

(2) Sed. cristall. ematite di Traversella. At. d. R. Ac. delle Sc. di Torino, Vol. VIL. 

(3) Dello studio di questo minerale resi già conto, in unione al prof. A. Funaro, 
in una seduta della Soc. Toscana (V. vol. III, dei proc. verb. p. 281), Oggi desidero 


riunirlo agli altri minerali di recente studiati, anche perchè così verranno corretti 
gli errori numerici che il proto allora inseriva nello specchietto dell’ analisi. 


NOTA SU DI ALCUNI MINERALI TOSCANI 195 


esaminare di una certa sottigliezza appariscono trasparentissime 
e debolissimamente dicroiche con un nicol, e mostranti leggeri 
colori d’ interferenza con i due nicol. 

La sua durezza è = 1,5 circa; il pes. spec. — 2,8 — 2,9. 

I caratteri chimici di questa clorite sono i seguenti. Col 
borace dà una perla giallo-rossastra a caldo, che raffreddandosi 
passa al verde-chiaro per divenire gialla a freddo. Riscaldata 
nel tubo chiuso prende colore bruno e svolge acqua. Anche se 
riscaldata a rosso su lastra di platino mantiene il colore bruno. 
L’ acido cloridrico concentrato l’ attacca, svolgendo da principio 
un poco di anidride carbonica. Per prolungata ebollizione si 
decompone totalmente con deposito di silice gelatinosa. 

L'analisi qualitativa eseguita su varii pezzi del medesimo 
minerale ha costantemente rivelato la assenza di basi alcaline, 
e la presenza di tracce di calce soltanto in alcuni pezzi. Preva- 
lenti si riconobbero agevolmente il ferro allo stato ferroso, la 
allumina, la silice e la magnesia. 

Per l’analisi quantitativa fu scelto un campione scevro di 
calce. I resultati ottenuti sono i seguenti, che metto a confronto 
con quelli dati da altri analizzatori per cloriti delle due sot- 
toindicate località: 


1. Bottino. Anal. Funaro. 2. Muttershausen in Nassau. Anal. Erlenme yer (4). 
3. Dillenburg. Anal. Niess (?). 
1 2 3 

Anidride silicica (Si0) . . . 23,69 25, 72 23, 67 

Ossido alluminico (Al303) . . . 21,63 20, 69 24, 26 

» ferrico (Fes0,). . . . 4,27 4,01 8,17 

» ferroso (Fe0) . . . . 34,53 27,79 29, 41 

» magnesico (Mg0). . . 4,82 11,70 1,75 

peniaicaIc1cON(CRO)R = 1,28 

Acquat(E50) 7,00 10, 05 8, 83 

Anidride carbonica (CO) . . . 4,12 = 1,01 

100, 06 99, 96 98, 38 


Il prof. D' Achiardi nella sua Mineralogia della Toscana fa 
menzione di questa clorite, che per i caratteri esteriori (?) am- 
mette doversi ritenere come Eipidolite, e più specialmente come 
appartenente alla sua varietà Afrosiderite. 


(1) Jahresb. 1860, 773. 
(*) Jahrb. Miner. 1873, 320. 
(3) Mineralog. d. Toscana, Il, pag. 231. 


196 i G. BUSATTI 


L’analisi di cui ho ora ripartiti i resultati conferma quanto 
fino da allora aveva pensato l’ egregio mineralogista, in quanto 
che ì resultati ottenuti concordano assai con quelli di campioni 
di afrosiderite di altra provenienza, come quelli le cui analisi ho 
posto a confronto con quella eseguita dal Funaro. 

La presenza di acido carbonico costante in questa afroside- 
rite fa credere che essa sia già alterata dalla sua composizione 
normale; giacchè questo corpo non può starvi altrimenti che 
combinato al ferro o alla magnesia, e senza entrare nella mo- 
lecola cloritica. Per questa cagione ci siamo astenuti dal tirar 
fuori una formula, che non avrebbe fatto maggior luce certa- 
mente sulla complessa costituzione dei minerali cloritici. 


QUARZO, GESSO, PIROLUSITE 


DELL’ ISOLA DEL GIGLIO 


Questi minerali provengono dai giacimenti metalliferi dell’ Isola 

e più particolarmente da quello della Cala dell’Allume il quarzo 

ed il gesso, ivi associati ai minerali già noti di questa località ('): 

la pirolusite invece dal giacimento di minerali manganesiferi 
del Campese (?). i 

Quarzo. — In generale cristalli della semplice combinazione 


(211, 100, 221), ora limpidi ora nebulosi, e che hanno molta 
somiglianza con quelli provenienti dalle masse ferree dell’ isola 
d’ Elba. 

In un cristallino una faccia sola tiene luogo della bipiramide, 
ed è così poco inclinata sull’ asse del cristallo da far credere a 
prima vista che occupi il posto della base. I valori angolari che 
ebbi misurando l’ inclinazione di questa faccia con la prismatica 
oscillarono da 85°, 11’ a 85°, 40°, (media 85°, 21’). Il cristalletto, 
regolare per le faccie prismatiche, che sono striate orizzontal- 
mente, porta sulla faccia eccezionale una incavatura centrale 
triangolare. 


(1) Busatti — F/lworite dell’ is. d. Giglio. At. d. Soc. Tos. d. Sc. Nat. Vol. VI, 
fasc. 1.0 ; 

(*) Lotti — Appunti d. osser. geolog. nel promontorio Argentario, nell’ is. del 
Giglio e di Gorgona. Bollet. d. Comit. Geolog. d’ Italia. N. 5-6, 1883. 


NOTA SU DI ALCUNI MINERALI TOSCANI 197 


In altro cristalletto questa faccia, per così dire pseudobasale, 
si è come ripetuta per più volte sovra sè stessa in piani pa- 
ralleli, succedentisi l’ uno di seguito all’ altro verosimilmente 
colla medesima inclinazione. 

In un terzo cristalletto portante la solita faccia, nel centro 
di questa si erge di nuovo la bipiramide. Altri cristalli, per il 
sovrapporsi e decrescere di questa faccia, hanno preso una forma 
quasi decisamente fusata. Questa forma poi apparisce al sommo 
grado in alcuni grossi cristalli, che divennero tali solo per 1’ as- 
sociarsi ed il decrescere in unione parallela di altri individui 
cristallini minori. Altre particolarità si potrebbero notare nelle 
faccie romboedriche di questi quarzi: così alcune se ne hanno 
concave e conservanti per tutta la loro estensione levigatezza 
come nelle piane. Altre poi sono tutte striate, ed ora più ora 
meno profondamente, ma sempre in modo da darci l’ idea come 
esse risultassero da decrescenti gradini. In questo ultimo caso 
però i contemporanei riflessi al goniometro dimostrano chiara- 
mente come si abbia sempre a che fare col medesimo rom- 
boedro. 

La presenza di faccie più o meno inclinate sull’ asse del 
cristallo e simulanti la base non è nuova nel quarzo, e basti 
ricordare fra gli esempi nostrani i quarzi di Palombaia illustrati 
dal prof. Bombicci prima ed in seguito da altri mineralogisti. 
Tuttavia ho creduto non affatto disutile il ricordarle anche di 
questa località, perchè possono avere un certo valore riguardo 
al modo, ancora discusso, col quale esse faccie possono essersi 
prodotte. 

È fuori di dubbio che nel nostro caso esse non hanno avuto 
origine come nei così detti babel-quarz, in cui le faccie si pro- 
dussero in uno spazio ristretto da non potersi liberamente 
estendere, vuoi per il contatto di altra faccia cristallina, vuoi 
per una superficie levigata contro la quale si trovarono impe- 
enati per una delle sommità in modo che ne fu impedito il 
regolare accrescimento. I cristalli che qui ricordiamo sì erge- 
vano liberissimi tra piccoli cristalli romboedrici di calcite e che 
formavano insieme a questi una piccola geode rinvenuta spez- 
zando un ammasso di pirite. Per i nostri cristalli è lecito anche 
non ammettere che queste sue forme, devianti dalle ordinarie, 
sieno divenute tali ‘per corrosioni, o sieno state acquisite per 


198 L: BUSATTI 


cause ulteriori intervenute a modificare i i cristalli di quarzo dopo 
essersi formati. 

Ci sembra in fine, che per i cristalli che abbiamo sotto occhio, 
nei quali riscontriamo un graduato passaggio dalla faccia unica 
ed inclinata sul prisma fino alla forma fusata dei cristalli di 
questo stesso giacimento, sia più ragionevole ammettere, seguendo 
l’idea di molti mineralogisti, che le forme descritte debbano 
ripetere la loro origine da cause perturbatrici, influenzanti più 
o meno direttamente la cristallizzazione fino dal primo depose. 
delle molecole formatrici dei cristalli. 

Gesso. — Ne ho incontrati dei cristalli di grandezza va- 
riabile, alcuni raggiungono perfino sei centimetri di altezza. Le 
forme che presentano si hanno associate nella combinazione (111, 
110, 010). Le faccie 111 lucenti presentano delle gibbosità che 
rendono ineguali la loro superficie; le 110 più o meno lucenti 
a seconda dei cristalli portano strie per lo lungo; le 010 sono 
molto estese e presentano in alcuni cristalli una lucentezza se- 
ricea dovuta ad esilissime fibre fra loro parallele, attraversantì 
le faccie per tutta la loro estensione: sono anche scanalate nel 
verso dello spigolo di combinazione col prisma. Alle sopra rife- 
rite forme, comuni per le cristallizzazioni del gesso, se ne uni- 
scono altre in alcuni cristalli; esse si presentano come faccette 
di modificazione allo spigolo 110 : 010. Sono strette e lucenti: 
di due ho potuto misurare la inclinazione sul prisma, ed ho 
ottenuto dei riflessi colla 110 che si scostano di poco da 164° 
per la più vicina al prisma, e per la più lontana di circa 154°. 
Questi valori si possono ritenere come molto vicini a quelli 
riportati dal Des Cloizeaux (') per le forme di questa specie 
9 !8/., g"/: (13 230, 250). Infatti egli da: 


MIS CR AO SZ 
O Eee AC en] DOPPI 02 


Tra alcuni cristalli di gesso si nascondono delie piccole mas- 
sarelle giallognole di solfo, ed essi più che gli altri esemplari 
dimostrano chiaramente come possa essersi prodotto il solfato 
di calce nel filone della Cala dell’ Allume; cioè per l’ alterazione 
dei solfuri e più specialmente per quelli di ferro, ivi abbon- 
dantissimi. 

(4) An. de Chimie et de Physique, 3. Ser., T. X. pag. 53. 


NOTA SU DI ALCUNI MINEKALI TOSCANI 199 


Pirolusite. — Di questa specie è prevalentemente costi- 
tuito il giacimento manganesifero del Campese. E inclusa in 
ammassi nel calcare cavernoso infraliassico o lo impregna ad- 
dirittura, come avviene nella giacitura del vicino Monte Argen- 
tario, ove il minerale ferro-manganesifero compenetra profonda- 
mente il calcare cavernoso. — Il colore è bruno, i cristalli hanno 
splendore metallico: sono aciculari e sì riuniscono in forme 
fibrose e raggiate. Danno polvere nera e sono solubili comple- 
tamente nell’ acido cloridrico concentrato. E difficile però che 
si abbia a che fare con pirolusite pura, si ha sempre più o 
meno deposito di silice nella soluzione, nella quale i saggi chi- 
mici vi svelano copia di ferro e carbonato di calce. 


MAGNETITE ED EPIDOTO 


DeL Romrro (Monti LIvornESI ) 


Rinvenni questi due minerali in vicinanza del Romito sulla 
via a sinistra di chi vi si conduce, dietro l’ indicazione datami 
dall’ ing. Lotti, in un concentramento di eufotide inglobato in 
un ammasso della stessa roccia, ma che presentavasi all’ intorno 
tutta alterata. La magnetite vi è abbondante e disseminata fra 
il feldispato in masserelle di color grigio scuro completamente 
opache. L’epidoto vi si trova più raro: è cristallizzato, di color 
giallo verdastro e spesso i cristallini si riuniscono fra loro in 
forma radiata. 


IL, CALCARE AD ANPHISTEGINA 


NELLA 


PROVINCIASDE PISA, EDT STONSROSSI 


MONOGRAFIA 


DEL DOTT. GIOVANNI AUGUSTO DE AMICIS 


Tutto quel complesso di colline note col nome di — Colline 
Pisane —, studiate anche dal lato geologico fino da tempi ab- 
bastanza lontani, è costituito quasi esclusivamente di terreni 
terziari. Ho detto quasi esclusivamente, volendo con questa re- 
strizione accennare a quei piccoli lembi di terreni cretacei, giu- 
rassici, liassici ed infraliassici scoperti non è molto (') presso 1 ‘ 
Bagni di Casciana nella località detta Sammuro e nelle vicine 
di Macchione, Casina, e Colle Montanino. 

In quasi tutte quelle colline si ha un carattere commune 
e pressochè costante, la disposizione concentrica, direi quasi zo- 
nata, dei terreni terziari, cominciando in basso dall’ eocenico e 
venendo al miocenico e quindi al pliocenico. 

L’ eocene vi è rappresentato dai calcari alberesi in massima 
parte, da schisti galestrini, arenarie, argille schistose, calcari 
siliciferi, ftaniti e diaspri gremiti di scheletri di radiolarii; il 
miocene presenta in prevalenza i gessi e le marne gessoso-solfifere, 
calcari marnosi, Jigniti, conglomerati ad elementi calcareo-ser- 


pentinosi, calcari grossolani, marne a cerizii, e tripoli; 11 pliocene 


(1) Lotti B. — Un piccolo lembo di rocce antiche in mezzo al pliocene presso 
i Bagni di Casciana. Proc. verb. Soc. Tose. di Scienz. Nat. Vol. IV, 13 gennaio 1884. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 201 


è rappresentato da conglomerati, sabbie, argille turchine, sabbie 
marnose compatte, marne a foraminiferi, calcari ad Amphistegina. 

È appunto, come lo accenna il titolo di questo lavoro, dei 
calcari ad Amphistegina che intendo qui occuparmi, e dei nu- 
merosi fossili che in essi sì contengono. 

Prima di entrare a parlare della posizione stratigrafica di 
detti calcari e della loro fauna e flora fossile, credo cosa utile, 
anzi necessaria, far precedere un breve cenno degli studi che 
precedentemente a questo riguardo furono fatti, e delle diverse 
opinioni dei vari geologi per riguardo al posto da assegnarsi a 
questi calcari nella serie geocronologica. 

Questi calcari pel bizzarro loro modo di presentarsi, per 
l'apparenza loro simile ad enormi cumuli di lenticchie pietrifi- 
cate riunite da un cemento a formare a volte intiere colline, 
da gran tempo attirarono l’ attenzione degli osservatori e dei 
curiosi delle cose naturali e dettero luogo ad una infinità di 
supposizioni e peregrine spiegazioni più o meno lontane dal vero. 

Il primo che di tali calcari si occupò fu il celebre natura- 
lista Targioni-Tozzetti ('). Egli riconobbe a Casciana, Parlascio 
e San Frediano, che tale deposito constava di innumerevoli 
corpi marini uniti insieme da glutine lapideo; e che fra questi 
corpi marini quelli che più degli altri tutti abbondavano erano 
le Lenticoliti o Numismali. Dà pure una abbastanza esatta 
posizione degli strati di tali calcari, dicendo che essi sono quasi 
tutti inclinati da mezzogiorno a tramontana con grossezza di- 
versa che può giungere fino alle 6 braccia, e che riposano su 
quei calcari che egli chiama col nome di Spugnoni. Nota pure 
le differenze che si incontrano nei vari strati sì per la compat- 
tezza, sì per le dimensioni delle Lenti, sì pure pel colore del 
cemento che le lega. Combatte l’ opinione del Bourguet che ri- 
teneva essere tali Lenticoliti o Triticiti o Nummi null'altro 
che “ coperchi di chiocciole ,. Dà inoltre notizie sui fossili rac- 
chiusi nei calcari lenticolari e cita un brano interessantissimo 
di una lettera dell’ inglese Strange, ricca di molte osservazioni 
paleontologiche relative a molti fossili da esso trovati a Parlascio. 
Da ultimo nota per incidenza che la stessa pietra abbonda in 
altri luoghi della Toscana, senza per altro citare altre località. 


(1) Targioni-Tozzetti G. — Relazione di alcuni viaggi fatti în diverse parti 
della Toscana. Firenze 1768-79. Vol. I, p. 276. 


202 G. A. DE AMICIS 


Il Soldani (') nel suo — Saggio orittografico —, pubblicato 
nel 1780, opera assai meravigliosa per verità e dottrina, avuto 
riguardo al tempo in cui fu scritta, parla della straordinaria 
abbondanza di piccoli Ammoniti e Nautili striati minutissimi in 
molti luoghi del Volterrano e del Pisano, specialmente nel Monte 
di Parlascio, Casciana, etc. Dice che tali corpicciuoli sono fra 
loro uniti da un , leggerissimo glutine quasi di torba calcarea 
bianca , e che formano concrezioni uniformi. Nelle appendici poi 
XXV, XXVI, XXVII, LXXXII, CXXXV, CXLIV, parla delle di- 
verse varietà di lenticole da lui trovate e di altri fossili nel 
calcare lenticolare rinvenuti. Inoltre, da quel minuzioso ed ac- 
curato osservatore che era, volle pure avere una idea appros- 
simativa del numero di lenticole che si contengono in un dato 
peso di roccia, e trovò che 40 grani di quel calcare contenevano 
1380 nautili. 

Il Giuli (*) parlando dei terreni che si riscontrano nelle lo- 
calità presso Ceppato e le cave di San Frediano, non sì perita di 
chiamare il calcare ad Amphistegina — calce carbonata oolitica | 
gialliccia —, errore madornale in cui certo non sarebbe caduto 
se avesse conosciuto ciò che di tale calcare avevano, mezzo se- 
colo prima di lui, scritto il Targioni ed il Soldani. 

Dopo di lui il Pilla (*) nel suo trattato di geologia, scrive: 
“Un altro deposito dello stesso periodo (miocene) occorre nelle 
vicinanze di Casciana nelle colline di Pisa, e presenta una riu- 
nione di caratteri di tale importanza che crediamo conveniente 
di farlo conoscere con alquanto di precisione ,. E dopo avere 
descritta la roccia, resa famosa già dalla descrizione del Targioni, 
nota come i luoghi principali in cui essa si osserva siano San 
Frediano e Parlascio. Dà pure una figura delle cave di San 
Frediano. Per altro dalla esterna apparenza di questo calcare, 
dal suo modo di presentarsi in balze scoscese e dirupate ed an- 
nerite esternamente dalle intemperie, ritiene tale calcare di età 
assai più antica dei circostanti depositi, e dice che esso forma 
come un’ isola in mezzo ai depositi subapennini che gli stanno 
d’ attorno. E da queste vedute stratigrafiche passando allo stu- 


(!) Soldani A. — Saggio orittografico. Siena 1870, pag. 48 e seg. 

(*) Giuli G. — Saggio statistico di mineralogia utile della Toscana. Bologna 
1842-43. pag. 86. È 

(*) Pilla L. — Trattato di geologia. Pisa 1847-51. pag. 205. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 203 


dio dei fossili trova anche in questi caratteri tali da fare ascri- 
vere quei calcari ad un periodo anteriore al subapenninico; così 
nota come le Ostreae che vi si riscontrano mostrino sulle valve 
grandi pieghe, carattere che, esso dice, non è proprio delle 
ostriche del terreno subapenninico; inoltre cita come non appar- 
tenenti al terreno subapenninico parecchie specie di Terebratulae, 
un piccolo Pecter, ed alcune piccole Ostreae. 

Nota poi, e qui è perfettamente nel vero, come si trovino 
in quella roccia piccoli echini, molti brachiopodi fra cui due 
piccole specie di terebratule nuove che descrive e figura, mil- 
lepore, denti di pesce ec. 

Lo stesso geologo trattando della pietra lenticolare di Ca- 
sciana nel giornale -- Il Cimento (') —, in una nota esprime 
il dubbio che l’età geologica della pietra summentovata anzichè 
riferirsi al periodo pliocenico debba considerarsi più antica e sia 
forse da noverarsi fra i terreni miocenici. 

Da ultimo in alcune osservazioni sull’età della pietra lenti- 
colare di Casciana (?), dà tutte le ragioni per cui crede non 
potersi tale roccia riferire al terreno subapennino. Una delle 
ragioni è pel Pilla l’ aver rinvenuto nelle cave di San Frediano 
fusticini di piccoli coralli che non aveva mai trovati nei terreni 
pliocenici, e con essi piccoli corpicciuoli orbicolari di alveoliti 
simili a quelli che aveva rinvenuto nella panchina di Pomarance 
che esso riteneva per miocenica.: Inoltre anche |’ anparenza 
esterna del colle di Parlascio, la posizione degli strati, la rela- 
zione colle rocce circostanti, erano per lui altrettante prove 
della non pliocenicità di quel deposito. Da ultimo dà un cata- 
logo di fossili trovati a San Frediano, Parlascio, Usigliano e 
Casciana, distinguendo colla lettera S quelle forme che sono 
identiche alle subapennine, colla lettera M quelle che ne diffe- 
riscono. Ecco la nota: Coralli (M); Lenticoliti (M); frammenti ed 
aculei di Eckini (M); Balani (S); due specie di piccole Terebratule 
(M); Ostrea khippopus (S); piccolo Pecten (M); denti e palati di 
pesci (M); Terebratula ampulla (S); una Terebratula corta, larga 
e compressa (M); Terebratula bipartita (M); Pecten variîus (5); 


(') Pilla L. -— Della pietra lenticolare di Casciana nelle Colline Pisane. Gior- 
nale - Il Cimento — Pisa, ottobre 1847. 
(2) Pilla L. — Osservazioni sull’ età della pietra lenticolare di Casciana. 


Roma, 1848. 


204 i G. A. DE AMICIS 


Pecten flabelliformis (S); altro piccolo Pecten (M). — Come con- 
clusione della sua memoria dice; “ Per tutti i caratteri disopra 
discorsi non può cadere alcun dubbio che la pietra lenticolare 
di Casciana non appartiene alla formazione subapennina. Ella 
deve riferirsi a quella divisione dei terreni terziari che sono 
dimandati miocenici ,,. 

Dopo il Pilla si occupò del calcare lenticolare di Casciana 
il Passerini (') nelle sue — Memorie sui Bagni d’ Aqui —. Ivi 
in una lettera al dott. Prospero Chiari relativamente alla geo- 
logia del Bagno d’ Aqui, comunemente detto di Casciana, dice 
che il calcare lenticolare di Parlascio forma una specie di isola 
in mezzo ai terreni subapenninici, rappresentando esso in questa 
località il terreno miocenico. — Come si vede, il Passerini non 
fa che riportare le parole stesse del Pilla, e le stesse sue ragioni 
adopera a prova dell’ asserto, cioè l’ apparenza esterna del Monte 
di Parlascio ed i fossili in quel calcare contenuti che gli paiono 
in parte da riferirsi al terreno subapennino, in maggior parte 
invece al miocene. 

Anche nel — Quadro generale della geologia della To- 
scana (?) --, posto in fondo alla traduzione della memoria del 
Murchison — Sulla struttura geologica delle Alpi, degli Apen- 
nini e dei Carpazii —-, il calcare ad Amphistegina di Parlascio 
figura tra i pianì miocenici, ed è posto contemporaneo del cal- 
care di Rosignano e di quello delle Parrane, nonchè della pan- 
china di Pomarance e di San Dalmazio. 

Nella memoria del prof. Capellini — Sulla formazione ges- 
sosa di Castellina Marittina (*) —, è detto che , forse da accu- 
rate ricerche stratigrafiche si giungerebbe alla conclusione che 
mentre in determinate aree si costituivano strati di calcare 
nummulitico colla Nummulites Targionii Mgh. (pietra lenticolare 
di Parlascio), altrove si depositavano i calcari grossolani e mar- 
nosi di Rosignano e delle Parrane, ovvero si continuava la for- 
mazione di banchi di Ostreae come quelli di Santo al Poggio ,. 


(1) Passerini F. — Cenni mineralogici e geologici sul Bagno d’ Aqui e sue 
adiacenze. Pisa 1853. |. 

(2) Murchison R.I. — Sulla struttura geologica delle Alpi, Apennini e Car- 
paziîi. Traduzione dei prof.” Savi e Meneghini. Firenze 1851, 

(3) Capellini G. — Za formazione gessosa di Castellina Marittima ed i suoi 
fossili. Bologna 1874. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 205 


Come si vede con queste parole il prof. Capellini stabilisce una 
contemporaneità fra il calcare ad Amphistegina ed il calcare 
grossolano delle Parrane e di Rosignano ed i banchi ad Ostreae 
di Santo al Poggio, che nel quadro di classificazione dei terreni 
unito a quella memoria sono posti nella porzione superiore del 
miocene medio, corrispondente secondo i suoi studi all’ Elveziano 
ed al 2.° Piano Mediterraneo. 

E dello stesso anno una nota del prof. D’ Achiardi (') sulla 
geologia del bagno d’ Aqui o di Casciana. In questa nota l’ egre- 
gio geologo fondandosi su quanto era stato scritto dal Pilla e 
da nessuno contraddetto ascrive egli pure al miocene il calcare 
ad Amphistegina, sul quale, egli aggiunge, si adagiano i sedi- 
menti pliocenici, e quindi più recenti, delle più basse colline; 
nota inoltre che se al Bagno d’ Aqui non è evidente tale sovrap- 
posizione nascondendola il travertino, essa si vede però chiara- 
mente al di là di San Frediano fra le cave ed Usigliano ove 
gli strati della calcaria lenticolare si tuffano sotto ai terreni 
subapenninici. 

Come si rileva facilmente da quanto sono venuto fin qui 
esponendo, tutti i sopra nominati geologi trovavansi tutti d’ ac- 
cordo perfettamente nel riferire il calcare ad Amphistegina al 
periodo miocenico anzichè al pliocenico o subapenninico. 
Fu primo il Manzoni (£) a porre in dubbio quanto gli altri 
prima di lui avevano detto, fondandosi sopra suoi studi detta- 
gliati stratigrafici e specialmente sull’ esame delle specie fossili. 
In talune sue considerazioni, dopo aver rilevato l’ errore com- 
messo dagli altri attribuendo al miocene il calcare di San Fre- 
diano e Parlascio, e fatta notare la non contemporaneità di 
esso calcare con quello di Rosignano, ripetutamente asserita dal 
Capellini, conchiude che la pretesa Nummulites Targioni Mgh. 
non è una nummaulite, che tutta la formazione che fa corona 
alle colline di Casciana, San Frediano, Parlascio ed Usigliano 
non è miocenica, e che i fossili raccolti, distinguibili in Mollu- 
schi, Briozoi, Echinodermi e Foraminifere provano all’ evidenza 
che si tratta di una vera e propria formazione litorale pliocenica 


(*) D' Achiardi A. — La geologia del Bagno d' Aqui o di Casciana. Boll. d. R. 
Comit. Geolog. Ital. 1874. 

(*) Manzoni A.— Note e considerazioni alla - Relazione di un viaggio n Italia 
del Dott. Fuchs. Boll. del R. Comit. Geolog. Ital. 1874. i 


206 G. A. DE AMICIS 


immediatamente addossata e sovrapposta alle marne turchine 
plioceniche conosciute col nome di mattajoni o argille turchine. 

. Pochi giorni dopo a queste osservazioni del Manzoni com- 
pariva, pure sullo stesso argomento, un lavoro del Seguenza ('). 
in esso l’ autore dice che il Manzoni con quanto aveva scritto 
sul calcare ad Amphistegina, aveva prevenuto talune applicazioni 
dei suoi studi del pliocene dell’ Italia meridionale alle rocce della, 
Toscana. Volendo conciliare le osservazioni del dott. Manzoni 
con quelle surriferite del prof. D’ Achiardi, dice che ritenendo 
veri ì fatti stratigrafici dai due geologi oppostamente sostennti 
cioè l’ essere il calcare sovrapposto al mattajone, e 1’ essere sot- 
toposto alle marne plioceniche, cerca in questi due fatti opposti 
la conferma di una importante verità, cioè che il calcare lenti- 
colare toscano giace fra due zone di marne plioceniche, che per 
poco attento esame si confusero in una sola; il che trova con- 
ferma in ciò che avviene nella Italia meridionale. Prosegue fa- 
cendo un paragone fra la Toscana e l’Italia meridionale, pel 
pliocene della quale fece la distinzione netta del pliocene recente 
dall’ antico; dice che il Fuchs errò nel riguardare la pietra len- 
ticolare di Parlascio siccome il nostro più recente pliocene; che 
tale calcaria non è esclusiva della Toscana come sì era prima 
creduto; ne descrive i diversi giacimenti dell’ Italia meridionale; 
dice che la pretesa Nummulites Targionii Mgh. è invece la Am- 
phistegina vulgaris d' Orb., e conclude dicendo che così nell’ Italia ‘ 
meridionale che in Toscana la roccia lenticolare forma un ot- 
timo orizzonte al limite superiore della più antica zona del 
pliocene. Termina la sua nota con un elenco di fossili avuti dal 
Lawley, provenienti da San Frediano e Parlascio, fossili da ri- 
ferirsi, secondo le sue vedute, tutti alla parte superiore del più 
antico pliocene. 

Nei fascicoli 11.° e 12.° del Bollettino del R. Comitato Geo- 
logico dello stesso anno replicava il prof. D° Achiardi (?) a quanto 
aveva detto il Seguenza. Non nega che nell’ Italia meridionale 
il calcare lenticolare riposi fra due zone di marne plioceniche, 
ma dice che a San Frediano le cose procedono diversamente. 


(*) Seguenza G — Sulla relazione di un viaggio geologico in Italia del Dott. 
Th. Fuchs. Boll. del R. Comit. Geolog. Ital. 1874. pag. 294. 
(*) D' Achiardi A. — Sulle calcarie grossolana e lenticolare della Toscana. 


Boll. del R. Comit. Geol. Ital. 1874. fascicoli 11 e 12. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 207 


Nè sostenne con calore, come aveva detto il Seguenza, l’ età 
miocenica di tale roccia, ma tale la ritenne dietro gli studi 
degli altri. Dà una esatta e minuziosa descrizione topografico- 
stratigrafica dei depositi di San Frediano, ed a meglio spiegare 
la cosa unisce una sezione mostrante la posizione delle sabbie 
gialle per rispetto alla calcaria lenticolare. Concorda colle osser- 
vazioni del Manzoni e ritiene esso pure che tali depositi siano 
pliocenici anzichè miocenici, e termina riferendo una nota di 
fossili di San Frediano e Parlascio conservati nel Museo di Pisa 
e determinati dal De-Stefani. Dalla determinazione delle specie 
arguisce il prof. De-Stefani che non solo non si tratti di mio- 
cene, ma neppure di pliocene antico, non avendovi trovate 
traccie di Pleurotomae o di altre specie proprie del tipico pliocene; 
per altro non istabilisce a quale piano del pliocene esso calcare 
debba riferirsi. 

Dopo che il Manzoni ebbe notato non essere miocenici i 
calcari lenticolari, e che tale fatto fu confermato dal Seguenza, 
dal D' Achiardi e dal De Stefani, anche gli altri geologi, avendo 
occasione di trattare di tali rocce, non le posero più nel miocene, 
ma bensì nel pliocene. — Così il Capellini in una sua nota ('), 
dopo avere annunciato il rinvenimento del calcare ad Amphiste- 
gina presso la stazione di Orciano, ed avere notato che ivi tale 
calcare riposa sopra una collina costituita interamente di ar- 
gille turchine plioceniche, e concluso quindi che tale roccia è 
pliocenica ed occupa il posto delle ordinarie sabbie gialle, dice 
che se avesse visitato il deposito di Orciano prima della pub- 
blicazione della sua: memoria sui gessi della Castellina, avrebbe 
fin d'allora collocata la pietra lenticolare al suo vero posto, 
cioè nel pliocene. 

TN Capellini stesso nella memoria sui terreni terziari di una 
parte del versante settentrionale dell’Apennino (*), nel quadro 
comparativo di una parte della formazione terziaria e recente 
del Bolognese e Forlivese colle corrispondenti della Toscana, 
Francia e Bacino di Vienna, pone il calcare ad Amphistegina 
nel Messiniano superiore al disotto cioè delle sabbie gialle ed 


PI 


(') Capellini G. — Calcare ad Amphistegina, Strati a Congeria.e calcare di 
Leitha neî Monti Livornesi, Estr. Rendic. Accad. d. Sc. dell’Istit. di Bologna 1874. 
(*) Capellini G. — Swi terreni terziari di una parte del versante settentrionale 


dell’ Apennino. Bologna 1876. 


208 G. A. DE AMICIS 


argille turchine del pliocene superiore, coevo cioè delle sabbie 
marine di Montpellier ed alla porzione superiore degli strati di 
Belvedere. Nel corso poi di questa momoria dice che le sabbie 
gialle del Sasso, Mongardino, Monte Mario e Riosto, coetanee 
delle sabbie di Belvedere corrispondono in parte al calcare a 
Nulliporae ed Amphisteginae di Parlascio e di altri luoghi della 
Toscana, di Castrocaro Forlivese e delle colline Romane. Divide 
inoltre sia per gli studi suoi che per le ricerche del dott. Foresti 
le marne e sabbie plioceniche in due orizzonti. ben separati, 
ossia due depositi litorali sabbiosi uno più antico e 1’ altro più 
recente cui corrispondono due depositi argillosi o marnosi sub- 
marini o di mare profondo. Il calcare ad Amphistegina lo pone 
appunto (dietro gli studi del Seguenza ) fra questi due diversi 
orizzonti. 

Il De Stefani nella Memoria sui Molluschi continentali dei 
terreni pliocenici e sull’ ordinamento di questi ultimi ('), dice: “ Vi 
era l'abitudine di escludere dal pliocene e considerare come 
mioceniche tutte quelle rocce terziarie recenti le quali non fos- 
sero argille nè sabbie, quindi le Panchine per la massima parte, 
i conglomerati ofiolitici, 1 calcari ad Amphisteginae (altre volte 
Nummulites) ....... I calcari ad Amphistegina di Parlascio e 
San Frediano, i cui fossili erano meglio conservati, pei primi 
per opera del Manzoni furono riconosciuti pliocenici. Le specie 
più notevoli contenute in essi sono: Pecten latissimus Brc., Pecten 
flabelliformis Brc., Pecten Alessi Phil., Neaera crispata Sa 
Vermetus intortus n Cypraea Brocchi Dshogt 

Il De Stefani 23 in altra parte della medesima memoria 
scrive queste parole: “ Rimangono pliocenici gli altri terreni 
che già avevo nominati, cioè le panchine ed i calcari di Monte- 
rufoli, Monte Massi, Sassoforte, Pomarance, San Dalmazio ...... 
Altri autori già prima di me avevano manifestata l’ opinione 
che alcune di queste panchine fossero plioceniche. Il Savi (?) 
aveva creduto fossero plioceniche le panchine dei dintorni di 


(4) De Stefani C. — Molluschi continentali dei terreni pliocenici italiani ed or- 
dinamento di questi ultimi. Memorie della Soc. Tosc. d. Scienz. Natur. Vol. II, fase 2.9 
Vol. III, fasc. 2.0 Pisa 1876-77. 

(?) Savi P. — Sopra i carboni fossili dei terreni miocenici delle Maremme To- 
scane. Pisa 1848. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 209 


San Dalmazio, cosa convenuta più tardi anche dal Lotti ('). 
Giova però ricordare che a proposito della panchina di Poma- 
rance e San Dalmazio il Coquand (?) a cagione della natura li- 
tologica e per avervi trovato il Clypeaster altus Lk. che si ri- 
teneva caratteristico del miocene, le credette mioceniche pur 
riconoscendole superiori alle marne salmastre gessifere apparte- 
nenti, secondo quel che ho detto, al miocene superiore e certo 
non più antiche. In questa opinione fu seguìto più tardi dal 
Meneghini e dal Savi stesso (). Ma appunto perchè sono più 
recenti delle marne gessifere e contengono fossili pliocenici, bi- 
sogna tornare all’ antica opinione del Savi e porle nel pliocene: 
il Clypeaster altus, come già ha dimostrato il Seguenza ('), in 
Italia non è punto caratteristico del miocene, ed in Toscana, 
oltrechè a Pomarance, si trova in parecchi altri luoghi schiet- 
tamente pliocenici ,. 

Lo stesso geologo nel — Quadro comprensivo dei terreni 
dell’ Apennino settentrionale (°) —, scrive: “ Gli ammassi calcarei 
ad Amphistegina Hauerina d' Orb., così communi verso il Tirreno 
ad Orciano, Cetona, Parlascio, San Dalmazio, Civitavecchia, e 
di cui è noto pure qualche lembo verso l’ Adriatico a Castrocaro 
(Firenze), stanno nella parte superiore dei terreni veramente 
pliocenici, fatto del quale devesi tenere conto perchè in molti 
scritti è ammessa inesattamente l’ opinione contraria ,. 

Riassumendo quanto sono venuto dal principio fin quì espo- 
nendo, da tutti i fatti dai vari geologi osservati, mi pare ormai 
fuori di dubbio doversi i calcari ad Amphistegina porre nel 
pliocene anzichè nel miocene. Nè con ciò finisce la discussione 
circa il posto da assegnarsi a tali calcari nella serie geologica, 
giacchè di quei geologi che li pongono nel pliocene, alcuni li 


(4) Lotti B. — Sul giacimento ofiolitico di Rocca Sillana. Boll. d. R. Comit. 
Geol. It. 1876. p. 289. 

(2) Coquand H. — Sur es terrains tertiaires de la Toscane. Soc. Geol. de 
France. S. Il, T. 1.° pag. 421. 1844. 

(3) Savi P. e Meneghini G. — Considerazioni sulla geologia della Toscana 
(Appendice). Firenze 1851. 

(4) Seguenza G. — Intorno alla posizione stratigrafica del Clypeaster altus Lk. 
Atti della Soc. Ital. di Scienze Nat. Vol. XII, fasc. 3.2 Milano 1869. 

(3) De Stefani C. — Quadro comprensivo dei terreni dell’ Apennino settentrionale. 
Atti della Soc. Tosc. d. Scienze Nat. 1881. pag. 243. 


Se. Nat. Vol. II. fasc. 1.0 14 


210 G. A. DE AMICIS 


considerano come pliocenici recenti o superiori, altri invece come 
del pliocene antico. Soltanto collo studio paziente e coll’ accurato 
esame dei fossili e coi dati stratigrafici potremo sperare di ri- 
solvere la quistione e porre detti calcari nel posto che nella 
serie geologica dei terreni loro compete. 

E prima di tutto converrà vedere se tali calcari ad Amphi- 
stegina siano esclusivi delle celebri località di San Frediano, 
Parlascio e Casciana, o se si trovino anche in altri posti. — Già 
nel 1875 il Capellini accennava ad un lembo di calcare ad 
Amphistegina, identico a quello delle citate località, presso la 
stazione di Orciano sotto alla villa del cav. Perugia, detta la 
Casa Nuova; notava altresì come a Boccacciano presso Sarteano 
nei monti di Cetona avesse fino dal 1873 trovato detto calcare. 

Anche il Targioni Tozzetti fino dal 1768 aveva fatto capire 
come conoscesse oltre i giacimenti di San Frediano, Parlascio, 
e Casciana anche altri depositi di calcare ad Amphistegina; in- 
fatti, senza per altro nominare località, dice: “ Questa panchina, 
(il calcare lenticolare) serve pei lavori grossi di mura come 
succede in molti altri luoghi della Toscana ove la stessa pietra 
abbonda ,. 

Il De Stefani cita pure un calcare pliocenico a Pomarance, 
Monterufoli, Monte Massi, Sassoforte, ma senza dire se esso 
possa riferirsi al tipo stesso del calcare ad Amphistegina, e se 
contenga tali foraminiferi. Cita poi come calcari ad Amphiste- 
gina i calcari di Orciano, già citati prima dal Capellini, di Ce- 
tona, di San Dalmazio e di Civitavecchia. 

All’ infuori del Targioni, del Capellini e del De Stefani, nes- 
suno di tutti gli altri autori che si occuparono dei calcari plio- 
cenici ad Amphistegina, ne fece mai conoscere, per quante ricerche 
ne abbia accuratamente fatte sui libri e memorie loro, in altre 
località della Toscana. E questo fatto tanto maggiore meraviglia 
mi destò dopo che ebbi compiute numerose escursioni per la 
provincia di Pisa, inquantochè trovai il calcare ad Amphistegina 
abbondantissimo in quasi tutte le località ove si ha il pliocene. 
Così ebbi occasione di rinvenire il calcare ad Amphistegina oltre 
che negli omai notissimi luoghi di San Frediano, Parlascio e 
Casciana, e di riscontrarlo, giusta le osservazioni del De Stefani, 
a Sar Dalmazio, anche a Sogliole, Pozzuolo, Belvedere, Nugola, 
Volterra, Rocca di Sillano, Monte Castelli. Riconobbi pure che 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 211 


i calcari o panchine di Pomarance, Monterufoli, Monte Massi e 
Sassoforte, altro non sono che calcari ad Ampdistegina. Visitai 
anche il deposito citato dal Capellini presso la stazione di Or- 
ciano e così dal lato stratigrafico come per l'estensione sua 
potei rilevare parecchie differenze da quanto egli ne aveva 
scritto . 

In conclusione ecco le località della provincia di Pisa in. 
cui fino ad ora ho trovato ben distinto il calcare ad Amphiste- 
gina: San Frediano, Parlascio, Casciana, Madonna dei Monti 
{presso San Frediano), Nugola, Pozzuolo, Casino, Nugola vec- 
chia, Belvedere, Sogliole (presso Nugola), Volterra, San Giusto, 
S. Dalmazio, Pomarance, presso Rocca di Sillano, presso Monte 
Castelli, Monternfoli, Monte Massi, Sassoforte, Orciano presso la 
Villa Perugia, Pozzavilla, e presso la villa Cubber. 

Ritengo inoltre trattarsi pure di veri calcari ad Amphiste- 
gina pliocenici nei Monti dl Cetona, giusta le osservazioni del 
Capellini e del De Stefani, e secondo ciò che ne è detto dal 
Capitano Verri (') nella sua nota sulla Valdi Chiana. Anzi, da 
quanto dice il Verri, sulla loro pliocenicità non può cadere 
dubbio stando essi sovrapposti a circa 120 m. di marne che 
contengono quali fossili caratteristici il Trifon apenninicum, il 
Thyphis fistulosus, il Capulus hungaricus, la Terebratula Regnolii, 
ed il Ceratotrochus duodecimeostatus, e per conseguenza sono in- 
dubbiamente plioceniche. 

Non parlerò qui dei calcari di Cetona non avendo potuto - 
recarmi la a farne uno studio dettagliato; nè mi occuperò di 
quelli di Sassoforte, Monterufoli, Monte Massi, e delle vicinanze 
di Rocca di Sillano e Monte Castelli, non avendovi potuto fare 

sufficiente raccolta di fossili; parlerò invece partitamente di 
tutti gli altri, del loro modo di presentarsi e dei fossili che vi 
si trovano e che vi ho raccolti e studiati. 

Da ultitao mi sento in dovere di rendere grazie all’egregio 
sig. dott. Busatti, che, avendo rinvenuto il calcare ad Amphi- 
stegina a Magliano di Toscana (Maremma Toscana), me ne fa- 
voriva esemplari per uno studio comparativo con quelli delle 
colline Pisane, ed al tempo stesso mi forniva dati stratigrafici 
per porre al suo posto nella serie dei terreni anche questo calcare. 


(*) Verri A. — Sulla cronologia dei vulcani Tirreni ed idrografia della Val di 
«Chiana. -Rendic. del R. Istit. Lomb. di Scienz. Lett. ed Arti. Milano 1878. 


212 G. A: DE AMICIS 


Esaminando i calcari di tutte le località che sono venuto 
enumerando, si potrebbero riscontrare parecchie differenze fra 
l'uno e l’altro esemplare di posti differenti, così per l’ aspetto 
litologico come per la prevalenza o mancanza di taluni fossili. 
Mi si potrebbe così accusare di avere compreso col nome di 
calcari ad Amphistegina dei calcari ove l’ Amphistegina è raris- 
sima, e dove invece abbondano litotamnii, briozoi, brachiopodi, 
ec. e che meglio quindi con altri nomi si designerebbero. Ma 
non imponderatamente ho fatto ciò. Esaminando tutto il plio- 
cene di quasi tutta la provincia di Pisa, come ultimo rappre- 
sentante superiore di questo periodo ho spessissimo trovata una 
forma calcarea; questa a volte è ricchissima di Amphisteginae 
tanto da esserne quasi esclusivamente costituita, tal’ altra in- 
vece ne è priva o quasi priva, ma la posizione sua è sempre 
invariabilmente superiore alle sabbie gialle che in istrati più o 
meno potenti vi si sottopongono; a volte anche queste sabbie 
possono mancare od essere ridotte a lembi di pochi centimetri 
di spessore, come è il caso di San Frediano e di Orciano, ed 
allora il calcare può per condizioni affatto locali sovrapporsi 
più o meno immediatamente alle argille turchine. Nè alla pro- 
vincia di Pisa sì limita questo fatto; chè anzi quasi in tutta 
Italia come termine superiore del pliocene non si hanno le sab- 
‘ bie gialle, ma una forma calcarea o arenacea più o meno gros- 
solana, ovvero conglomerati con fossili esclusivamente litorali 
e spesso con Amphisteginae. Per questo fatto credo potersi sta- 
bilire come limite superiore della porzione più recente del plio- 
cene una zona di calcari, sabbie grossolane cementate e con- 
glomerati; per questa zona propongo, almeno per la Toscana, 
il nome di zona dei calcari ad Amphistegina, a ciò indotto dal 
fatto che nella massima parte dei casi da me presi in conside- 
razione l’Amphistegina si trova quasi sempre, e perchè nei luoghi, 
ove meglio si osserva la sovrapposizione sua alle sabbie gialle 
plioceniche, come a Pomarance, a San Dalmazio ed a Belvedere, 
là si presenta appunto ricco di Amphisteginae quasi tanto quanto 
quello di San Frediano. 

Perciò eviterò d’ora innanzi di adoperare la denominazione 
di calcare lenticolare per non implicare idee sulla sua forma 
litologica, o riserverò tale nome alle varietà che realmente per 
l'abbondanza delle Amphisteginae possono dirsi - sensu stricto - 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 213 


lenticolari; invece in un modo generale adopererò il nome di 
calcare ad Amphistegina, comprendendo in una sola zona così 
denominata tutti i calcari soprastanti alle sabbie gialle del 
pliocene superiore. 

Nella zona del calcare ad Amphistegina credo pure potersi 
comprendere tutti quei conglomerati ad elementi più o meno 
fini, quei banchi ad Ostreae e Balani, quei lembi di sabbie gros- 
solane cementate e contenenti fossili, sovrapposti alle sabbie 
gialle, depositi tutti che sono in grande relazione col vero cal- 
care ad Amphistegina sia per i fossili che contengono, sia per 
la posizione loro stratigrafica per rispetto ai sottostanti piani 
del pliocene batimetricamente inferiori quantunque geologica- 
mente affatto contemporanei, sia infine, e questa mi pare la 
ragione più saliente per riunire in una sola zona,tutti questi 
diversi sedimenti, sia, dico, perchè rappresentano tutti una for- 
mazione prettamente litorale, come dai fossili è dimostrato. 

Terminato così con questi brevi cenni riassuntivi lo studio 
della letteratura geologica, relativa al calcare ad Amphistegina, 
ed avvertita la maggiore estensione che intendevo dare a tale 
denominazione dirò ora del modo suo di presentarsi nelle varie 
località in cui si rinviene, dei diversi suoi aspetti e della sua 
posizione stratigrafica. i 

Oltremodo vario è l’ aspetto suo sia per la compattezza, sia 
per le dimensioni delle Amphisteginae, sia pel colore, sia infine 
pei fossili che contiene. Di questo vario modo di presentarsi fece 
pure menzione il Targioni-Tozzetti nei suoi —- Viaggi in To- 
scana (') —. A Parlascio ed ‘a San Frediano dove si riscontra 
il tipico calcare lenticolare, da una varietà facilmente disgrega- 

bile che si trova alla superficie, si passa per infinite gradazioni 
ad una varietà così compatta e resistente da poter assumere 
levigatura ed anche discreto polimento, varietà di cui fannosi 
anche belle tavole ed è là conosciuta dai cavatori col nome di 
lumachella. 

A Nugola l'aspetto del calcare è identico a quello degli 
strati inferiori di San Frediano: esso vi è compatto, vi sono 
meno visibili le Amphisteginae ed in alcuni punti si potrebbe 
piuttosto dire un vero calcare a Lithothamnion. 


(1) Targioni-Tozzetti G. — V. Op. cit. pag. 276 e seg. 


214 3 G. A. DE AMICIS 


A Pozzuolo così come al Casino, poco lungi da Nugola, il 
calcare è compatto assai, e contiene, oltre alle Amphisteginoe, 
molti altri generi di foraminiferi, e Litotamni, nonchè in alcune 
sue parti molte Cladocore. i 

A Belvedere sono distintissime le Amphisteginae ed il calcare 
può dirsi veramente lenticolare; vi abbondano le Cellepore ed 
i Litotamnii. 

A Sogliole, presso Nugola, i brachiopodi prendono! un tale 
sopravvento sugli altri fossili che il calcare ad Amphistegina 
dovrebbe là Mia calcare a brachiopodi. 

In tutte le altre località più sopra citate, in cui ho riscon- 
trato il vero calcare lenticolare, tranne poche e ristrettissime 
eccezioni, esso si presenta presso a poco come a Parlascio e 
San Frediano, cioè varietà disgregabili alla superficie, di mano 
in mano più compatte discendendo verso gli strati interiori. 

Anche a Magliano, per quello che posso rilevare dagli esem- 
plari avuti dal dott. Busatti, le cose procedono nello stesso 
modo, e mentre alla parte superiore si ha un calcare giallastro, 
friabile, ricchissimo di Amphisteginae, alle parti inferiori invece 
si ha un calcare analogo a quello di Nugola, compattissimo e 
con abbondanti Lithothamnti. 

Se pei fossili che contiene, per le belle varietà, e per essere 
stato da più antico tempo studiato ed escavato, il calcare di 
Parlascio e San Frediano può prendersi a tipo dei calcari ad 
Amphistegina, non è certo però in tali località che si è nelle 
più adatte condizioni per vedere la sua posizione stratigrafica. 
A San Frediano si potrebbe a prima giunta credere che il calcare 
lenticolare fosse realmente inferiore alle sabbie gialle plioceniche. 
Ed esso è difatto inferiore a delle sabbie gialle; ma queste sia pei 
fossili caratteristici che contengono, sia pure per l’ aspetto loro 
non sono analoghe a tutte le altre sabbie gialle plioceniche, bensì 
alle sabbie di Vallebiaja, che paiono per gli studi già fatti(') 
da ritenersi di quelle più recenti. Questo fatto del resto era 
già stato notato dall’ egregio prof. D’ Achiardi, che aveva nelle 
sabbie sovrastanti al calcare lenticolare rinvenuta la stessa 


(4) De Stefani C. — Della nomenclatura geologica. Lettera ad E. Beyrich. 
Estratto Vol. I, Ser. IV, Atti d. R. Istituto Veneto. 1883. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA FC. 215 


Oladocora che è così commune nelle sabbie di Vallebiaja ('). 
In questa opinione, che cioè tali sabbie siano da ritenere più 
recenti delle altre solite sabbie gialle, mi conforta il fatto che, 
discendendo la collina di San Frediano dalla parte opposta a 
quella ove sono le cave principali, andando cioè verso Us.gliano, 
ho potuto rinvenire al disotto del calcare, fra questo e le ar- 
gille turchine indubbiamente plioceniche per le specie fossili 
caratteristiche che contengono, uno strato di pochi centimetri 
di spessore, ma nettamente visibile, di sabbie perfettamente 
identiche alle ordinarie sabbie gialle plioceniche. 

Meglio che a San Frediano ed a Parlascio sì può vedere la 
sovrapposizione del calcare alle sabbie gialle plioceniche a Bel- 
vedere, Pozzuolo e Sogliole (presso Nugola) e meglio ancora 
presso Volterra alle balze di San Giusto, a San Dalmazio e Po- 
marance. A Belvedere, Pozzuolo e Sogliole si ha un passaggio 
graduato senza ombra di discordanza dalle inferiori argille tur- 
chine (V. Tav. XI, fig. A) a sabbie gialle compatte con pochi 
fossili, quindi a sabbie gialle meno compatte ricche di fossili 
fra cui l° Ostrea lamellosa, il Pecten varius, il Pecten opercularis, 
la Terebratula ampulla, e sopra a queste si rinvengono potenti 
strati di calcare ad Amphistegina ricchissimi di fossili. Analoga 
disposizione potei osservare presso Volterra, ove, fattomi calare 
giù per le balze di San Giusto, potei osservare, di mano in 
mano che colle funi mi scendevano al basso, calcare ad Amphi- 
sfegina che nella parte sua inferiore si cambiava a poco a poco 
in istrati di sabbie grossolane cementate, quindi sabbie gialle 
plioceniche, da ultimo al di sotto di tutto le argille turchine 
potentissime. 

Disposizione di cose perfettamente analoga si ha a San 
Dalmazio, ove gli strati di calcare, tanto ricchi di brachiopodi 
da potersi col nome di calcare a brachiopodi designare, sovrap- 
posti alle solite sabbie gialle concordantemente con esse, sono 
inclinati di circa 20° a S.0., e poi dopo un certo tratto, sa- 
lendo la via che conduce alla Rocca di Sillano, si riscontrano 
quasi perfettamente orizzontali e tali perdurano finchè scom- 
paiono per lasciare allo scoperto le masse ofiolitico-serpentinose 


(4) D'Achiardi A. — Sulla calcaria lenticolare e grossolana della Toscana. 
Boll. d. R. Comit. Geol. Ital. 1874. pag. 362 e seg. 


216 i G. A. DE AMICIS 


sottostanti della Rocca di Sillano, sulle quali in quel punto 
essi direttamente essi poggiano. Calcari analoghi per fossili e per 
l'aspetto loro sono quelli su cui è fondata Pomarance; ivi pure 
giacciono sopra le sabbie gialle plioceniche, inclinati verso 0. N. 0. 
ma di ben poco (V. Tav. XI, fig. B). 

I lembi di Parlascio, Casciana e della Madonna dei Monti 
sì presentano con tali caratteri da potersi con ogni ragione 
dire che rappresentino altrettanti piccoli lembi staccati dal de- 
posito di San Frediano. 

Ad Orciano poco lungi dalla villa Perugia e dalla casina 
del sig. Cubber, il ono lenticolare si presenta col carattere 
locale di contenere molti altri fussili, sopratutto molte specie 
di Pecten. — ll prof. Capellini annunziandone la scoperta (') 
aveva detto che esso costituisce la un banco lungo circa 30 m., 
alto 7 ad 8, composto di strati che inclinano verso la valle 
della Fine: che esso riposa sulle argille turchine plioceniche e 
che per conseguenza occupa il posto delle sabbie gialle plioce- 
niche superiori. — Osservando attentamente verso il contatto 
fra il calcare e le argille potei rinvenire anche quì, come a 
San Frediano un sottile lembo di vere sabbie gialle interposte; 
e rigirando la collina, presso Pozzavilla trovai ben più potente 
tale strato di sabbie gialle superiori, onde potei concludere che 
anche per Orciano, come per tutti gli altri posti, il calcare non 
occupa già il posto delle sabbie gialle, ma è ad esse superiore. 

Anche a Magliano di Toscana, secondo ciò che me ne diceva 
il dott. Busatti, il calcare lenticolare riposa sulle sabbie gialle 
plioceniche. 

In conclusione si ha adnnqus estesissima in Toscana una 
zona speciale limite superiore del pliocene; ad essa do il nome 
di zona del calcare ad Amphistegina per esserne questo calcare 
il tipo predominante, senza però escludere che al suo posto si 
possano trovare, come di fatto si trovano, altre rocce diverse 
come conglomerati, sabbie grossolane fossilifere cementate, 
banchi ad Ostreae, etc. Di questa zona troviamo pure lembi 
nella Maremma, ed anche nell’ Italia meridionale, come ad es. 
presso Catanzaro ove mi fu segnalato dal mio buon amico dott. 
Neviani, professore nel Liceo di quella città. 

(4) Capellini G. — Calcare ad Amphistegina, strati a Congeria e calcare di 


Leitha nei Monti Livornesi. Estratto, Rendic. accad. Se. Istit. di Bologna. 1875. 


. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 217 


Tutta questa zona, benchè superiore alle sabbie gialle plio- 
ceniche, pure è affatto ad esse contemporanea, e solo rappre- 
senta una formazione diversa per batimetria, precisamente come 
avviene per le argille turchine che mentre sono coeve delle 
sabbie gialle, pure sono ad esse inferiori perchè deposte in acque 
più profonde. La zona del calcare ad Amphistegina rappresenta 
adunque batimetricamente la parte più litorale del pliocene, e 
stratigraficamente il più alto termine di tale sistema. 

Annetto molta importanza ad estendere lo studio di questa 
zona a tutto il resto dell’Italia, giacehè per tal modo si po- 
trebbe facilmente ricostrurre tutta l’ antica spiaggia del mare 
pliocenico sulla nostra penisola. Sarebbe pure interessante ve- 
dere se si trovino lembi di formazioni riferibili a tale zona 
anche nelle isole del Mediterraneo. 

Ed ora ecco il catalogo sistematico dei fossili che nei depositi 
di tale zona si rinvengono. Con tali fossili, raccolti nelle mie varie 
escursioni, distinti per località e collocati in serie nell'ordine zoo- 
logico, ho potuto mettere insieme una discreta collezione che ho 
donata al Museo della R. Università di Pisa. Parecchi fossili, e 
specialmente Briozoi, di Parlascio e San Frediano esistevano già 
nelle collezioni di questo Museo ed erano stati studiati dal prof. 
Meneghini; ed anche dì questi (che ho distinti colla lettera M) 
mi sono valso acciò questo catalogo riuscisse meno incompleto. 


VERTEBRATA 
PISCES 


Gen. Chrysophris. 
Chrysophris Agassizii Sism. 
Di questa bella specie, vicinissima alla vivente Chrysophris 
aurata, ho raccolto 18 denti a San Frediano. Un solo esemplare 


iso riferibile dubitativamente alla sp. Agassiziî ho tro- 
vato a Nugola. 


Gen. Capitodus Mist. 
Capitodus subtruncatus Miinst. 


Un grosso e ben conservato dente ed uno più piccolo tron- 
cato alla parte inferiore, trovati a San Frediano. — I denti di 


218 G. A. DE AMICIS 


questa forma, riferiti dal Minster al gen. Capitodus, genere che 
comprende perfino da una parte dei Dentex, dall’ altra dei 
Leuciscus, sono probabilmente riferibili al gen. Sargus. 


Gen. Umbrina Cuv. 


Umbrina sp. 


Un solo dente specificamente indeterminabile, mancante della 
porzione inferiore, proviene dalle cave di San Frediano. 


Gen. Lamna Cuv. 
Lamna Hopei Ag. 
Quattro esemplari, di cui due isolati e con pieghe longitu- 
dinali ben marcate, furono da me trovati a San Frediano. 
Gen. @xyrhina L. 
Oxyrhina minuta Ag. 
Un dente di questa specie fu raccolto a San Frediano e stu- 
diato e determinato dal Lawley. (M). 
Gen. ®Sphyrna Raf. 
Sphyrna prisca Ag. 


Di questa specie 7 bei denti triangolari, non molto grandi, 
determinati essi pure dal Lawley furono raccolti a San Fre- 
diano. (M). 


MOLLUSCOIDEA 
BRACHIOPODA 


Gen. Reihyneonella Fischer 
Rhyconella bipartita Bre. 
Provengono di questa specie tre esemplari dalle cave di San 


Frediano; di essi due mostrano la forma tipica, l’ altro ha 1° in- 
senatura della grande valva più marcata di quello che non sia 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 219 


nelle forme tipiche. Uno dei due esemplari tipici potei aprirlo 
per prepararvi l’ apparecchio apofisario. Nove esemplari di cui 
alcuni rotti e male conservati, provengono da Parlascio e fanno 
parte delle collezioni del Museo geologico di Pisa. — Quattro 
altri esemplari bellissimi e così conservati da mostrare per tra- 
sparenza l’ apparecchio apofisario, li ho raccolti a San Dalmazio. 


Gen. Thecidium Sow. 


Thecidium mediterraneum Res. 


Un solo esemplare di forma i aginta più ‘allungata della 
tipica, proviene da Parlascio. (M). 


Gen. Argiope Deslongch. 


Argiope decollata Chemn 


x 


Questa specie è comune assai nel calcare ad Amphistegina 
di talune località. Moltissimi esemplari ne ho raccolti a San 
Frediano corrispondenti perfettamente alla figura datane dal 
Davidsun; solo alcune presentano le pieghe sulle due valve vi- 
sibili distintamente su tutta la superficie delle valve anzichè 
solo sulla fronte della conchiglia. 

Il Museo di Pisa ne possiede pure moltissime provenienti da, 
Parlascio e di forme regolarissime. 


Gen. H'erebratulina d’Orb. 


Terebratulina caput-serpentis Linn. 


Di questa specie citata come comune a Parlascio e San Fre- 
diano, non ho potuto trovare resti in tali località; nè il Museo 
di Pisa ne possiede. 

Sette esemplari abbastanza bene conservati li trovai a San 
Dalmazio. Fra questi uno conserva tutte due le valve e si mostra 
eguale alla figura datane dal Davidson; solamente le pieghe che 
ornano tale elegantissima conchiglietta giunte presso la fronte 
nella regione mediana così della grande che della piccola vele 
si biforcano. 


220 G. A. DE: AMICIS 


Gen. Terebratula (Llwyd) Klein. 
Terebratula ampulla Bre. 


Questa specie è assai comune nei calcari ad Amphistegina e 
subisce diverse piccole modificazioni nella forma. Nelle collezioni 
del Museo di Pisa moltissime se ne hanno di forma tipica pro- 
venienti da Parlascio; altre pure della stessa località furono 
per l'aspetto loro distinte ne.le collezioni dal BIDE Meneghini 
col nome di 7. ampulla var. depressa. 

To ne ho potuto raccogliere sei esemplari a Sogliole, tre bel- 
lissimi a San Frediano, uno a Nugola. 


Terebratula grandis Blumb. 


Un solo esemplare e non completo mi è occorso di trovare 
di questa specie, perfettamente corrispondente alla figura datane . 
dal Davidson. L' esemplare proviene da Sogliole. 


Terebratula sinuosa Brc. 


x 


Questa bella specie è in alcune località assai più comune 
ed abbondante della 7. ampulla. Due esemplari sono della col- 
lezione del Museo; un esemplare lo raccolsi a Sogliole, e ben 
diciannove in poca estensione di terreno a San Dalmazio. 


Terebratula Regnolii Mgh. 


Di questa specie vicina alla 7. ampulla ma più allargata e 
con forame più stretto si conservano nel Museo di Pisa otto 
esemplari di cui uno mostrante l'apparecchio apofisario, prove- 
nienti da Parlascio e che:servirono al prof. Meneghini a sepa- 
rare la specie. Quattro esemplari ne ho potuto raccogliere a 
sogliole. 


Gen. tlegerlea Davidson 
Megerlea orbicularis Mgh. 


Due bellissimi esemplari di questa specie a valve leggermente 
striate longitudinalmente ed area nettamente visibile nella grande 
valva, li raccolsi a San Dalmazio. L’ uno misura circa 2 cm. nel 
senso trasversale, l’ altro è circa la metà del primo. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC, 221 


BRJOZOA 


Gen. Berenicea Lamx. 
Berenicea congesta Reuss 
Di questo elegante briozoo un solo esemplare proviene da 
Parlascio. (M). 
Berenicea echinulata Reuss 


Un esemplare proveniente da Parlascio (M). 


Gen. Entalophora Lamx. 
Entalophora anomala Reuss 


Abbastanza frequente a Parlascio. Molti esemplari ne ha il 
il Museo di Pisa. 


Gen. Rilisparsa d° Orb. 
Filisparsa biloba Reuss 


Un solo esemplare ben conservato proviene da Parlascio (M). 


Gen. Elethopora Hagw. 
Plethopora Ibex sp. n. Mgh. 
Sopra un bellissimo esemplare proveniente da Parlascio e 
,che appartiene al Museo di Pisa, il prof. Meneghini istituì la 


nuova specie Ibex. La descrizione e figura non furono ancora 
pubblicate. 


Gen. Fascicularia M. Edw. 
Fascicularia audeontium M. Edw. 
Di questa specie che fu studiata dal Manzoni nei calcari 


lenticolari di San Frediano e Parlascio, non mi è riuscito tro- 
vare esemplari; nè il Museo di Pisa ne possiede alcuno. 


Gen. Reptimulticava d’Orb. 


Reptmulticava cavernosa Micht. 


x 


Questa specie è assai comune e spesso in esemplari di rag- 
guardevoli dimensioni. Il Museo di Pisa ne possiede molti pro- 


209 G. A. DE AMICIS 


venienti da Parlascio. Due esemplari ne ho raccolti ad Orciano, 
uno bellissimo a Belvedere, e molti a San Frediano. 


Reptimulticava simplex Micht. 
Di questa specie poco diversa dalla precedente ma assai più 
rara, quattro soli esemplari provengono da San Frediano. (M). 
Gen. Ceriocava d'Orb. 


Ceriocava megalopoca Reuss 


Due soli esemplari ma benissimo conservati e corrispon- 
denti alla descrizione datane dal Reuss per questa specie pro- 
vengono da Parlascio. (M). 


Ceriocava Arbasculum Reuss 


Specie di dimensioni più piccole della precedente ed anche 
più comune. Parecchi esemplari con caratteri ben distinti sono 
di Parlascio. (M). 

Gen. Bieteroporella Busk 
Heteropella radiata Busk 


Parecchi esemplari di Parlascio e San Frediano furono stu- 
diati e determinati dal Manzoni. 


Gen. Aetea Lamx. 
Aetea sica Co. 
Alcuni esemplari di Parlascio raccolti e determinati dal 
M ano. i 
Gen. Membranipora Blv. 


Membranipora nobilis Reuss. 


Un. bell’ esemplare di una colonia di questo: briozoo incro- 
stante su di una Cellepora, proviene da Parlascio.-(M). 


Membranipora minima sp. n. Mgh. 


_ Un bellissimo esemplare di questo briozoo incrostante su di 
un'Eschara polyomina, proviene da Parlascio, si conserva nel 


1L CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 223 


Museo di Pisa e servì al prof. Meneghini a distinguere tale 
specie nuova non ancora per altro pubblicata. 


Membranipora excavata sp. n. Mgh. 


Anche questa specie di cui sì conserva nel Museo di Pisa 
un esemplare proveniente da Parlascio, fu distinta e separata 
dal prof. Meneghini, ma non ancora descritta nè figurata. 


Membranipora squamata sp. n. Mgh. 


Forma assai elegante a grandi cellule, comune abbastanza 
a Parlascio; specie essa pure distinta dal prof. Meneghini ma 
non pubblicata. 


Membranipora angulosa Reuss 


Esemplari ne furono raccolti a San Frediano e Parlascio dal 
dott. Manzoni. 


Membranipora calpensis Bk. 


Anche di questa specie indicata come comune a Parlascio 
dal dott. Manzoni, non mi è riuscito trovare esemplari. 


Membranipora Rossellii And. 


Parecchi esemplari furono raccolti a San Frediano e Par- 
lascio; C. S. 


Membranipora reticulum Michel. 


Pochi esemplari di San Frediano furono studiati dal dott. 
Manzoni. 


Gen. Lepralia Johnston 


Lepralia innominata Cod. 


Alcuni esemplari delle cave di San Frediano furono deter- 
minati dal Manzoni. 


Lepralia raricostata Reuss 


Gli esemplari provengono da Parlascio; c. s. 


224 | UG, A. DE AMICIS 


Lepralia squamoidea Reuss 
Anche questa specie fu studiata dal Manzoni. Gli esemplari 
sono di San Frediano. 
Lepralia Haueri Reuss 


Non molto comune a San Frediano, più comune a Parlascio. 


Lepralia decorata Reuss 


Trovata a San Frediano. 


Lepralia pertusa Tohast. 


Di questa elegantissima specie due forme furono distinte 
dal Manzoni a San Frediano e Parlascio; l’ una è la forma 
tipica, l’altra è imperforata. 


Lepralia ciliata Pallas 


Anche di questa specie, come della precedente, il Manzoni 
distinse due forme, l’ una tipica, l’altra con cellule inermi e 
levigate. Provengono gli esemplari da San Frediano. 


Gen. Eschara Busk 
Eschara varians Reuss 


Parecchi esemplari raccolti a Parlascio fanno parte delle 
collezioni del Museo. 


Eschara papillosa Reuss 
Specie elegantissima, non molto frequente. Nove esemplari 
provengono da Parlascio. (M). 


Eschara conferta Reuss 


Un solo esemplare fu trovato a Parlascio. (M). 


Eschara sp. 


Molti altri esemplari riferibili al gen. Eschara e provenienti 
così da Parlascio come da San Frediano non sono specificamente 
determinabili. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 225 


Gen. Escharina d’Orb. 


Escarina gracilis d’Orb. 


Un esemplare proveniente da Parlascio. (M). 


Gen. Escharinella d'Orb. 
Escharinella elegans sp. n. Mgh. 
Questa bellissima specie di cui un solo esemplare si conserva 
nel Museo di Pisa è una specie nuova non ancora pubblicata 
del prof. Meneghini. 


Gen. Eeorina d' Orb. 
Porina scrobiculata Reuss 


Bellissima specie. Tre piccoli esemplari provengono da Par- 
lascio. (M). 


Porina Reussi n. sp. Mgh. 


Di questa nuova specie dal prof. Meneghini dedicata al 
valente naturalista Reuss, parecchi esemplari provenienti da 
Parlascio si conservano nel Museo di Pisa. La specie, ancora 
inedita, è molto vicina alla P. diplostoma Reuss, ma pure ne è 


nettamente distinta. 
Gen. Retepora Imperato 
Retepora echinulata Blain. 


Di questa elegantissima specie a larghe maglie e cellule 
| piccole numerosissime, due soli esemplari furono raccolti a 


Parlascio. 


Gen. Semiflustrella d’Orb. 


Semiflustrella limarioides sp. n. Mgh. 


Bella specie con cellule aperte tutte sopra una sola faccia 
delle colonie che sono ramose, a sezione elittica, e piccole. 
Questa specie stabilita pur essa dal prof. Meneghini sopra 
esemplari di Parlascio, è anche essa, come le precedenti, inedita. 

Se. Nat. Vol. II. fase. 1.9 15 


226 G. A. DE AMICIS 


Gen. Cellepora Fabricius emend. Busk 
Cellepora tubigera Busk 
Questa specie è comune assai; il dott. Manzoni ne determinò 
fra i briozoi di Parlascio e San Frediano; io ne ho raccolti 
esemplari oltrechè a San Frediano, ove abbonda, anche a Bel- 
vedere e ad Orciano. 
Gen. BAteptocelleporaria d'Orb. 


Reptocelleporaria globularis Bru. 


Specie comune a Parlascio. (M). 


Reptocelleporaria sp. 
Riferisco a questo genere un esemplare raccolto ad Orciano 
e specificamente non determinabile. 
Gen. Vincularia Dfr. 


Vincularia submarginata d’ Orb. 


Bella specie formante esili colonie poco ramificate, abbastanza 
frequente a Parlascio. (M). 


Gen. MAyriozoum Donati 
Myriozoum truneatum Donati 


I 


Questa specie è citata dal Manzoni nel calcare di Parlascio; 
l'ho raccolto in grande abbondanza a San Frediano. 


‘ Myriozoum punctatum Phil. 


Comunissimo ed in forme tipiche ed in forme alquanto mo- 
dificate. Abbonda a Parlascio e San Frediano; l’ ho pure rac- 
colto ad Orciano. 


Myriozoum clavatum sp. n. Mgh. 


Colonie più piccole delle precedenti e con cellule pure più 
piccole. Meno comune degli altri Myriozoum. Tre esemplari delle 
collezioni del Museo provengono da Parlascio. La specie del 
prof. Meneghini è ancora inedita. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 227 


MOLLUSCA 
GASTEROPODA 


Gen. Turbo Lam. 


Turbo rugosus Linn. 


Nel calcare ad Amphistegina di Nugola trovansi con bastante 
frequenza i modelli interni di questo fossile; ma non ho mai 
potuto averne esemplari col guscio conservato. Nella collezione 
dei fossili di Nugola un solo esemplare ne esiste ed in abba- 
tanza cattivo stato di conserv zione. 


Gen. 'Trochus Linn. 
Trochus sp. 


Riferibili a questo genere ma senza speranza di determina- 
zione specifica sono molti modelli interni communi nel calcare 
ad Amphistegina. Nella collezione da me fatta due esemplari 
provengono da Belvedere, uno da San Frediano, e tre da Nugola. 


Gen. Turritella Lam. 
Turritella subangulata Bre. 


Un esemplare allo stato di modello da me raccolto a Nugola, 
mostra tutti i caratteri di conchiglia turricolata ad anfratti 
superiormente più piccoli, carena unica assai acuta, apertura 
quadrangolare, per potere essere ascritto a questa specie. 


 Turritella sp. 


Altri modelli indubbiamente riferibili a questo genere ma 
per le specie non determinabili, li raccolsi a Sogliole, ed a 
Belvedere. 

Gen. Vermetus Adans. 
Vermetus intortus Lam. 


Un piccolo ma bellissimo esemplare formato da una agglo- 
merazione, direi quasi da un nodo, di innumerevoli tubi di Ver- 


928 G. A. DE AMICIS 


meti, l’ ho raccolto ad Orciano. Presenta distintissimi tutti i 
caratteri della specie 2ntortus secondo la diagnosi datane dal- 
l’ Hoernes. 


Gen. Caecunmr Flem. 
Caecum trachea Montv. 


Di questo piccolo ed elegante gasteropode mi è occorso di 
trovare un solo esemplare a San Frediano; esso è lungo circa 
12 mm.; il suo diametro interno non raggiunge 1 mm. La su- 
perficie esterna è ornata di numerose e sottili raghe che danno 
alla conchiglia tubulare un aspetto tracheiforme. 


Gen. Natiea Adanson 
Natica millepunetata Lam. 


Ho ascritto a questa specie un modello raccolto a San 
Dalmazio, di forma subglobulare, spira poco prominente ed oc- 
cupante circa un quarto del diametro maggiore della conchiglia. 


Natica sp. 


Altro piccolo esemplare specificamente indeterminabile e da 
ascriversi a questo genere fa parte della collezione del Museo 
di Pisa e proviene da San Frediano. 


Gen. Cerithium Brug. 
Cerithium varicosum Bre. 


Due bellissimi esemplari ne ho raccolto a Nugola; l’ uno è 
un modello esterno, l’ altro un modello esterno con unito il 
modello interno, Rilevati, con cera da modellatore, i modelli 
dalle impronte esterne, vi trovai tutti i caratteri per ascrivere 
questi due begli esemplari al C. varzcosum. 


Gen. Cypraea Linn. 
Cypraea Brocchii Desh. 


Un modello interno di questa specie distinguibile per 1’ aper- 
tura angusta ed arcuata non mediana e labbro con numerosi 
denti brevi, proviene da Parlascio. È lungo circa 4'/ cm. 
largo 3 1/2. (M). 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 229 


Gen. Bolium Lam. 


Dolium denticulatum Desh. 


Di questa bellissima specie ho avuto la fortuna di trovare 
a San Frediano un così bel modello interno da permettermene 


SI 


la determinazione. L' esemplare è di cm. 6 '/,X4. 


Gen. "E ritonium Link. 
Tritonium olearium L. 


Un unico frammento comprendente due anfratti incompleti, 
ma pure senza dubbio alcuno determinabile, ho potuto rinvenire 
ad Orciano. Sono uniti allo stesso esemplare anche taluni piccoli 
Vermetus intortus Lam. 


Gen. Biurex Lam. 


Murex conglobatus Mich. 


Un modello così perfetto da potere essere specificamente 
determinato l’ ho trovato a San Frediano. Lungo circa 8 cm. 
è quasi completo non mancadogli che il solo primo anfratto. 


Murex brandaris Linn. 


Appartiene certamente a questa specie per tutti i caratteri 
che presenta, per le tracce di ornamenti, e per l’ andamento 
della spirale, un’ altro modello di dimensioni alquanto minori 
del precedente, raccolto pure esso da me nelle cave di San 
Frediano. 


Gen. Conus L. 


Conus sp. 


Nelle cave di San Frediano ho raccolto un modello di un 
piccolo cono che non misura più di 6 a 7 mm. di lunghezza, è 
a spirale molto depressa e superiormente allargato. Non mi è 
riuscito conguagliarlo ad alcun’ altra delle specie note. 


230 G. A. DE AMICIS 


SCAPHOPODA 


Gen. Dentalium L. 


Dentalium tetragonum Brocchi 


Un bellissimo esemplare lungo circa 1 cm. perfettamente 
corrispondente alla figura e descrizione datane dall’ Hoernes, 
proviene da Parlascio e si conserva nel Museo di Pisa. 


Dentalium entalis Linn. 


Due piccoli frammenti appartenenti a questa specie li ho 
raccolti a San Frediano. 


PELECIPODA 


Gen. O@strea Lam. 


Ostrea cochlear Poli 


Di questa specie bo rinvenuto una sola valva inferiore al- 
quanto rotta al margine ed all’ umbone di circa 45 mm. per 
27, assai convessa e con aspetto poco lamellare, impressione 
ligamentare di poco depressa, e di forma pressochè triangolare 
e striata; impressione muscolare poco distinta. 

L’ esemplare proviene da Orciano. 


Ostrea lamellosa Brocchi 


Questa specie è estremamente comune e forma spesso 
San Frediano e Parlascio, così come a Belvedere, Orciano, Po- 
marance e San Dalmazio veri banchi. È invece piuttosto rara 
a Nugola. 


Ostrea edulis L. 


Questa specie è abbastanza comune ad Orciano dove ho 
raccolto una valva inferiore di cm. 5 '/, per 4 con impressione 
muscolare subcentrale nettamente distinta e fossa ligamentare 
triangolare striata longitudinalmente, ed una piccola valva su- 
periore sottilissima di circa 19 mm. per 24. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 231 


Ostrea pusilla Brc. 


Tre esemplari di questa piccola e bella specie fanno parte 
delle collezioni del Museo e provengono da Parlascio. 


Ostrea sp. 


Non sono specificamente determinabili una valva di mm. 45 
per 57 simile alla lamellosa ma troppo consumata per essere 
determinabile; così pure parecchie piccolissime valve di non più 
di 2 mm. di diametro maggiore esilissime e ricurve assai, fre- 
quenti esse pure a Parlascio. (M). 


Gen. Anomia L. 
Anomia ephippium Bre. 


Di questa specie ho rinvenuto due valve a Belvedere; di esse 
luna misura cm. 7X5, l’altra 4Xx2'/,. La più piccola è assai 
bene conservata e presenta tre impressioni muscolari onde può 
dirsi sia la valva destra. Anche quella più grande può per la 
sua notevole convessità ritenersi come valva destra. 


Anomia sp. 


Sono specificamente indeterminabili tre piccole valve da me 
raccolte a San Frediano. 


Gen. Spondylus L. 
Spondylus sp. 


Non ho potuto determinare la specie di un frammento tro- 
vato a San Frediano comprendente tutta la regione cardinale 
di una valva destra con grande area ligamentare triangolare. 
E assai meno concavo dello Sp. crassicosta Lam. come pure 
dello Spordylus subcostatus d’ Orb. da cui si distingue per l’ am- 
piezza dell’ area ligamentare triangolare. 

Riferisco pure ma dubitativamente al gen. Spondylus un 
modello interno assai inequilaterale ed inequivalve mostrante le 
tracce di una impressione laterale, ma reso ancora più difficil- 
mente decifrabile per l’ essere contorto e in parte logorato. 
Esso mi fu favorito dal sig. Domenico Tardi di San Frediano 
proprietario di quelle cave. 


232 i G. A. DE AMICIS 


Gen. Lima Brug. 


Lima inflata Chemnitz 


Un esemplare mal conservato ma pure distinguibile per 
essere obliquamente inequilaterale, a coste longitudinali tenui, 
numerose, e pressochè fra loro eguali, l’ ho potuto raccogliere 
ad Orciano. 


Gen. Pecten Miller 
Pecten latissimus Brocc. 


Questa grande specie è abbastanza comune nel calcare ad 
Amphistegina. Un bell’ esemplare di 18 cm. per 16 proveniente 
da San Frediano si conserva nel Museo di Pisa. Altri esemplari 
trovansi nel piccolo Museo della città di Volterra e provengono 
da Volterra, da San Dalmazio e da Pomarance. 


Pecten Jacohaeus L. (Vola Jacobaea L.) 


Specie più frequente della precedente, comunissima poi ad 
Orciano. Ne ho raccolto una grande valva superiore a Sogliole, 
una pure superiore a San Frediano, un frammento a Nugola e 
molti ad Orciano, fra cui una piccola valva superiore benissimo 
conservata. 


Pecten flabelliformis Bre. (Janira flabelliformis Bio 


Tre begli esemplari di 11 cm. per 9, circa, e dei quali uno 
conserva entrambe le valve, provengono da Orciano ove ho tro- 
vata tale specie comunissima. 


Pecten opercolaris L. 


Specie comune di cui ho raccolto un esemplare a Belvedere, 
cinque a San Frediano (di cui quattro piccolissimi), quattro a 
Nugola, dei quali due rotti al margine, e due altri interi; uno 
di questi di cm. 5 per 4'/, è conservato benissimo, mostra in- 
tere le due alette e ben distinte tutte le rughe che ornano le 
numerose coste. Altri due begli esemplari ben conservati, più 
piccoli del precedente li ho raccolti ad Orciano; ed infine altri 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. LD) 


dubbii, un poco rotti, e di poca buona conservazione li ho tro- 
vati a San Dalmazio. Nelle collezioni del Museo se ne conser- 
vano parecchi di Pomarance e Volterra. 


Pecten Pusio L. 


Anche questa specie non è rara; ne ho raccolto un esem- 
plare non troppo bello a Sogliole, uno piccolo ma benissimo 
conservato e di forma tipica a San Frediano, un frammento 
pure assai caratteristico a Nugola e due altri frammenti, di cui 
uno conserva le alette, a San Dalmazio. 


Pecten dubius Brc. 


Communissimo. Ne ho trovato un esemplare, ma senza le 
alette, a Belvedere, sei esemplari tipici e ben conservati a San 
Frediano, dieci piccoli esemplari tutti belli ed in buono stato 
ad Orciano e due bellissimi colle alette affatto intere a San 
Dalmazio. 


Pecten varius L. 


Anche questa specie è assai comun. e diffusa. Molti esem- 
plari ne esistevano già nel Museo di Pisa: due ben conservati 
riuniti sopra un solo pezzo di calcare ad Amp/istegina lì ho 
raccolti a Belvedere, cinque di diverse dimensioni a Nugola, 
due bellissimi cogli ornamenti tutti assai bene conservati e 
alette pressochè complete ad Orciano. 


Pecten filexuosus Poli 


Per la forma affatto caratteristica delle coste, ho riferito 
senza titubanza a questa bella specie due piccoli frammenti, 
unici rappresentanti, purtroppo, che io abbia trovati ad Orciano. 


Pecten inflexus Poli 


Di questa elegantissima specie, una fra le più belle di quelle 
appartenenti al gen. Pec/en, ed assai vicina alla Pes-felis, ho 
trovato un solo frammento mancante della porzione umbonale 
«ma però con tutti gli altri caratteri ben marcati. Più fortunato 
fui a San Dalmazio ove potei rinvenire due esemplari completi 


294 G. A. - DE AMICIS 


di tale specie, l'uno valva destra, l’ altro valva sinistra, ed in 
uno stato di conservazione veramente magnifico. 


Pecten sp. 


Alcuni esemplari specificamente non determinabili proven- 
gono da Pozzuolo. 


Gen. Miodiola Lam. 
Modiola barbata L. 


Due soli frammenti da riferirsi però senza alcun dubbio pei 
caratteri loro a questa specie, ne ho rinvenuto a Nugola. È 
una delle specie meno comuni nel calcare ad Amphistegina. 


= Gen. Pinna L. 


Pinna nobilis L. 


Uno stupendo esemplare di questa specie, lungo oltre 25 
centimetri perfettamente conservato, è posseduto dal sig. Do- 
menico Tardi, proprietario delle cave di San Frediano, ove esso 
fu rinvenuto. 

Riferisco pure, ma dubitativamente per riguardo alla specie, 
al gen. Pinna un frammento di modello interno con avanzi di 
gascio a struttura laminare o squamosa, rinvenuto ad Orciano. 


Gen. Area Linn. 
Arca diluvii Lam. 


Un solo esemplare bellissimo, con entrambe le valve così 
bene conservate che si direbbe piuttosto essere stato racchiuso 
in argille che in calcari, ne ho trovato nel calcare ad Amphi- 
stegina di Orciano. 


Sottogen. EByssoaarea 


Byssoarca Noae Linn. 


x 


Questa specie è abbastanza commune in modelli interni a 
San Frediano; per altro neppure un esemplare ne ho trovato 
col guscio conservato. Singolarissimo è il modo con cui sono 


]L CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 235 


disposti tali modelli nel calcare lenticolare. 1 cavapietre di San 
Frediano trovano spesso delle cavità più o meno sferiche riem- 
pite da corpi allungati ovalari disposti l’ uno accanto all’ altro 
in guisa da irradiare tutti ‘a rosa da un centro. Questi corpi 
di forma singolarissima non sono altro che modelli di Arca Noae 
come si rileva dall’ essere oblunghi, inequilaterali, con grandi 
umboni allontanati assai 1’ uno dall’ altro, grande area cardinale 
concava e due impressioni muscolari l’ una grande l’ altra pic- 
cola, caratteri tutti di questa specie. Per ispiegare la strana 
disposizione loro 1’ uno accanto all’ altro colla parte più allun- 
gata rivolta verso il centro, conviene ammettere che tale specie 
vivesse in comunità in tale guisa formate, unite per mezzo del 
bisso; onde è giustificato il nome di Byssoarca dato al’ sotto- 
genere cui appartiene l’ Arca Noae. 


Gen: Eectunculus Lam. 
Pectunculus flabelliformis Doderl. 
Ho trovato ad Orciano un solo esemplare abbastanza bene 


conservato di questa piccola specie che è, del resto, rarissima 
nel calcare ad Amphistegina. 


Pectunculus sp. 


Un numero straordinario di modelli interni riferibili al gen: 
Pectunculus per le due profonde impressioni muscolari che presen- 
tano ai lati, si rinvengono a Belvedere, a San Frediano, a Parla- 
scio, ad Orciano e sopratutto poi a Nugola, ove sono comunissimi. 


Gen. Nueuia Lam. 


Riferisco al gen. Nucula senza cercare di dire nulla della 
specie, due piccoli modelli interni provenienti da San Frediano. 
Nelle collezioni del Museo di Pisa ve ne è un’ altro proveniente 
da Parlascio esso pure specificamente indeterminabile. 


Gen. Carndita Desh. 
Cardita rudista Lam. 


Di questa elegante spec e ho raccolto due valve ben conser- 
vate con caratteri nettissimi ad Orciano, Esse sono tumide, 


236 : G. A. DE AMICIS 


inequilaterali, con 17 coste rotondate e oblique, umboni molto 
ricurvi, un solo dente cardinale nella valva destra, due nella 
sinistra. 


Cardita rhomboidea Bre. 
Una sola valva ed in poco buono stato ho potuto raccogliere 


ad Orciano; è la valva destra. 


Gen. €hama Linn. 


Chama sp. 


Riferisco, ma dubitativamente, a questo genere un piccolo 
modello interno un poco incurvato a spirale raccolto a Sogliole. 


Gen. Eueina Deshayes 


Lucina spuria Desh. 


Di questa bella specie sei esemplari meravigliosamente con- 
servati, colle valve ornate di numerose e sottilissime pieghe 
longitudinali, provengono da Parlascio e fanno parte delle col- 
lezioni del Museo. 


Lucina sp. 


Un modello interno trovato a Parlascio e conservato nel’ 
Museo non è specificamente determinabile. 


Gen. Eliplodonta Bronn. 
Diplodonta rotundata Mng. 
Di questa specie il Museo di Pisa possiede quattro modelli 
interni provenienti da Casciana. 
Gen. Cardiumm Linn. 
Cardium hians Bre. 


Tre bei modelli mostranti nettamente la parte posteriore 
beante, le coste radiali oblique fra cui altri minori se ne trap 
pongono, ne ho rinvenuto a Sogliole. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA ECe 237 


Cardium edule Linn. 


Un esemplare ben conservato con una delle valve ed il mo- 
dello interno completo, fu da me trovato nelle cave di San 
Frediano. 

Riferisco pure a questa specie, del resto punto commune, 
un’ impronta esterna trovata a Nugola. 


Cardium cfr. tubercolatum L. 


Non sono ben certo di potere riferire a questa specie un 
modello interno di notevoli dimensioni con non meno di 30 coste 
radiali oblique, raccolto pure esso a San Frediano. 


Cardium sp. 


Sono specificamente indeterminabili due modelli interni pro- 
venienti l’ uno da Casciana, l’altro da Parlascio. (M). 


Gen. Venus Linn. 


Venus umbonaria Lam. 


A Nugola ho trovato con notevole frequenza i modelli in- 
terni di questa specie assai tumida ed inequilaterale, a seno 
paleale urande e profondo che si osserva pure nei modelli. 


Venus laevis d’Orb. 


Tre bellissimi modelli riferibili a questa specie provenienti 
da Parlascio fanno parte delle collezioni del Museo di Pisa. 


Venus sp. 


Molti altri modelli interni del gen. Venus ma non determi- 
nabili specificamente provengono da Nugola, da San Frediano 
e Parlascio. 


Gen. Arcopagia d’'Orb. 
Arcopagia sp. 


Due modelli interni di questo genere molto vicino alle T'el- 


linae provengono da Parlascio e fanno parte delle collezioni 
del Museo. 


238 G. À. DE AMICIS 


Gen. Panopaea Ménard 


Panopaea Faujasii Ménard 


Un grosso modello interno di questa specie aperta a tutte 
due le parti, mi fa favorito dal sig. Tardi di San Frediano, 
nelle cui cave fu rinvenuto. 


Gen. Teredo Linn. 


Un modello interno proviene da San Dalmazio, due fram- 
menti in migliore stato li ho raccolti a Nugola. 


LIE LR RODA 
CRUSTACEA 


Gen. BBalanus auct. 
Balanus balanoides Ray. 


Un solo esemplare alto circa 2 cm. proviene da Parlascio. (M). 


Balanus perforatus Brug. 


Ho raccolto a San Frediano un piccolo esemplare alto circa 
7 mm. di questa specie. La forma sua è tubolosa pilabbestono che 
conica e con apertura ristretta e di forma ovata. i 


Balanus tulipiformis Ellis. 


Un individuo alto 30 mm. colla base del diametro di 28 mm. 
l’ho raccolto ad Orciano. Esso sta sopra una valva di Ostrea 
lamellosa. Vi si vedono abbastanza distintamente le perforazioni 
delle pareti e dei radii, ma nulla rimane dell’ opercolo. 


Balanus concavus Darw. 


Ho trovato ad Orciano due esemplari di questa specie; uno ‘ 
di essi è assai bene conservato e mostra una forma conica, 
un’ apertura di media grandezza con un dente molto sporgente 
dalla parte della carena, e linee radiali distinte sugli scudi, 
carattere distintivo di questa specie. Il colore ne ci roseo. Le 
pareti sono. perforate, non così i radil. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 239 


VERMES 
CHETOPODA 


Gen. Serpula Linn. 


Serpula sp. 


Un piccolo esemplare di un tubo a sezione più o meno 
quadrato e ravvolto a spirale con una depressione o solco lon- 
gitudinale che divide la parte superiore del tubo in due lobi 
rilevati, proviene da Parlascio. (M). 

Un altro tubo diritto, lungo 17 mm., e del diametro di 3 mm. 
con accenno manifestissimo della divisione in successivi anelli, 
l’ho raccolto a San Frediano. 


ECHINODERMATA 
ECHINOIDEA 


Gen. Cidaris Lam. 


Pa 


Cidaris tessurata Mgh. 


Di questa elegantissima forma si trovano a San Frediano 
numerosissimi radioli. Più raramente sì rinvengono poi anche 
delle placche; due ne ho trovate a San Frediano; parecchie di 
Parlascio appartengono al Museo di Pisa che possiede pure un 
bellissimo benchè piccolo esemplare intero di questa specie; 
questo esemplare proviene da Parlascio e misura 9 mm. di 
diametro per 5 di altezza. Sono benissimo distinguibili tutte 
le piccole placche e tutti i tubercoli, come pure le aree ambu- 
lacrali ed interambulacrali. Anche ad Orciano ne ho raccolto 
un radiolo. 


Cidaris Miinsteri Sism. 


Unici rappresentanti di questa specie sono cinque radioli 
trovati ad Orciano; uno di essi presenta ben conservata la fac- 
cetta articolare, gli altri sono spezzati. 


240 G. A. DE AMICÎS 


Gen. Echînus Linn. 
Echinus Lamarcki d’Orb. 


Un solo esemplare di questa specie appartenente al Museo 
di Pisa e proveniente da Parlascio fu spedito al prof. Taramelli 
per studio, onde non potei vederlo. 


Echinus sp. 


Un esemplare di 65 mm. di diametro e 86 di altezza, tro- 
vato alle cave di San Frediano e gentilmente cedntomi dal sig. 
Tardi, è disgraziatamente così eroso alla superficie, che, pure 
essendo un bell’ esemplare e mostrando nettamente la distinzione 
fra le aree ambulacrali e le interambulacrali, tuttavia non è 
specificamente determinabile. 


Gen. E?sammechinus Ag. 


Psammechinus Spadae Dr. 


Anche l’ unico esemplare di tale specie che possedeva il 
Museo di Pisa e che proveniva da Parlascio fu mandato al 
prof. Taramelli. 


Gen. Echiînocyasmus van Phelsum. 
Echinocyamus pusillus Ag. 
Provengono dalle cave di San Frediano i cinque esemplari 


che ho raccolti di questa bella e piccola specie. Sono ben con- 
servati e con caratteri ben manifesti. 


Echinocyamus tarentinus Lk. 


Di questa specie dalla precedente di ben poco diversa, ma 
più depressa e più ovata, provengono da San Frediano quattro 
begli esemplari. (M). 


Echinocyamus ovatus Ag. 


Un unico esemplare ma bellissimo con tutti i tubercoletti 
conservati e apertura anale e boccale assai ravvicinate, proviene 
da Parlascio e fa parte delle collezioni del Museo. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 241 


Gen. Ciypeaster Lk. 
Clypeaster pliocenicus Seg. 


Un bellissimo esemplare appartenente al Museo, di dimen- 
sioni assai ragguardevoli, proviene da Pomarance. 


Clypeaster sp. 


Riferisco al gen. Clypeaster per la forma caratteristica dei 
tubercoli, una unica placca rinvenuta a San Dalmazio. 


Gen. Spatangus Klein. 
Spatangus sp. 


Sono da riferire al gen. Spatangus sei piccoli frammenti di 
placche provenienti da Parlascio e appartenenti al Museo di 
Pisa; così pure cinque grandi frammenti di guscio (di cui tre 
presentano assai bene distinte le aree ambulacrali) che raccolsi 
a San Dalmazio. Un altro frammento pure di Spatango com- 
prendente due porzioni di aree ambulacrali ed una intermedia 
interambulacrale 1’ ho raccolto a Belvedere. 


COELENTERATA 
ANTHOZOA 


Gen. Cladoceora Ehrenbs. 
Cladocora sp. 


I calcari ad Amphistegina sono in molti punti ricchi di 
Cladocore, ma queste mancando quasi sempre della muraglia non 
riescono che molto dubitativamente determinabili per riguardo 
alla specie. Esemplari numerosi ne ho raccolto a Pozzuolo ove 
le Cladocorae sono i fossili predominanti, a Belvedere, a San 
Frediano, a Pomarance ed a San Dalmazio. 


Gen. Ceratotrochus Edw. et H. 
Ceratotrochus duodecim-costatus E. 


Un esemplare meravigliosamente conservato colle dodici 
coste rilevate e ben visibili ornate di finissime spine e con setti 


numerosi, proviene da Parlascio (M). 
Se. Nat. Vol. VII, fasc. 1.0 16 


242 G. A. DE AMICIS 


Gen. Flabellum Lesson 
Flabellum sp. 


Questo genere è comunissimo ma disgraziatamente è sempre 
privo della muraglia, per cui non riescono gli esemplari speci- 
ficamente determinabili. Molti ne ho raccolti a Nugola, a San 
Dalmazio, Pozzuolo, Belvedere, San Frediano e Parlascio. 


ERRO MEOZOnI 
FORAMINIFERA 


Importantissima parte prendono alla costituzione dei calcari 
ad Amphistegina questi organismi minuscoli. Molti generi, mol- 
tissime specie di foraminiferi si rinvengono in questi calcari. 
Senza occuparmi in questo lavoro dello studio particolareggiato 
dei foraminiferi, studio che sarà oggetto di un' altra nota che 
già sto preparando, dirò soltanto che i generi più frequenti che 
si trovano nei calcari ad Amphistegina, sono, come potei rilevare 
sia da molte sezioni microscopiche fatte, sia dall’ esame micro- 
scopico dei detriti di tale roccia, i seguenti: Polystomella (e fra 
esse è frequentissima la P. crispa), Globigerina, otalia, Rosa- 
lina, Triloculina, Textularia, Pulvinula. Sopra ogni altro poi ab- 
bonda il gen. Amphkistegina che per la grande prevalenza sua 
dà il nome a tale calcare, Di questo genere conviene che mi 
intrattenga qui alquanto. 

Questo foraminifero fu dall’ Aldrovandi (') distinto colle de- 
nominazioni di Triticites e Congeries pedis humani; il Targioni- 
Tozzetti (?) di poi lo chiamò Lente o Lenticola, denominazione che 
gli fu dal Pilla (°) più tardi mantenuta. Il Soldani (‘) dice che tale 
fossile appartiene agli Ammoniti o Nautili striati minutissimi. 
Fu solo più tardi il prof. Meneghini (*) che, studiando tale fos- 


(*) Aldrovandi U. — Musaeum Metallicum. Bononiae 1648. 
(*) Targioni-Tozzetti G. — Relazione di alcuni viaggi fatti in diverse parti 
della Toscana. Firenze 1768-79. 


(3) Pilla L. — Osservazioni sull età della pietra lenticolare di Casciana nelle 
colline pisane. Roma 1848. 

(4) Soldani A.— Saggio orittografico. Siena 1780. 

(8) V. collezioni del R. Museo Geologico di Pisa. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 243 


sile raccolto a San Frediano e Parlascio, lo ascrisse al genere 
Nummulites, e vi trovò tali caratteri da formarne una specie 
nuova, la N. Targionii. 

Il prof. Meneghini studiando i fossili della Sardegna (') nel- 
l’istituire per una nummulite dei terreni neogenici Sardi la 
nuova specie N. Lamarmorae, dice che questa è assai vicina alla 
N. striata, ma molto più alla N. Targionit di Parlascio e San 
Frediano, quantunque i setti della N. Targioniî siano molto più 
obliqui di quelli della N. Lamarmorae. Nota pure che la forma 
ne è variabile ma sempre lenticolare, a bordi taglienti e con 
ombilico prominente. Dice anche che tale specie è da Fichtel e 
Mobhl descritta col nome di Nautilus mammilla. 

Nel 1874 il dott. Manzoni (*) affermava in alcuni suoi studi 
sulla posizione stratigrafica del calcare lenticolare, che la pretesa 
Nummulites Targionii Mgh. non è una Nummulite. Nello stesso 
anno vedeva la luce un lavoro del Seguenza (*) in cuni si diceva 
doversi la Nummulites Targionii Mgh. rapportare al genere Amphi- 
sfegina e che probabilmente era l’ Amphistegina vulgaris d’' Orb. 
Successivamente nel 1880 il dott. Manzoni in una memoria pub- 
blicata dalla Società Toscana di Scienze Naturali ‘(*) diceva che 
l Amphistegina del calcare lenticolare di Parlascio e San Fre- 
diano è l’ Amphistegina Hauerina d’ Orb. 

Il genere Amphistegina fu dal d’ Orbigny (@) fondato sopra 
esemplari fossili del bacino di Vienna e su taluni esemplari vi- 
venti; come caratteri principali distintivi del genere egli diede 
1 seguenti: Conchiglia lenticolare, inegualmente rigonfia con un 
corpo a foggia di bottone saliente al centro delle due facce, 
formata dall’avvolgimento spirale di due specie di logge (cellules) 
che alternano insieme, di cui le une occupano tutta una faccia 
opposta della conchiglia, le altre riempiono gli spazi che riman- 
gono della seconda faccia, presentando così da un lato setti 


(4) La Marmora A. — Voyage en Sardagne. Turin. 1857. Tome II, pag. 625. 

(*) Manzoni A. — Note ad un viaggio in Italia del dott. Th. Fuchs. Bull. d. R. 
Comitato Geologico Italiano, 1874. 

(*) Seguenza S. — Sulla relazione di un viaggio in Italia del dott. Th. Fuchs. 
Ball. R. Comit. Geol. ltaliano, 1874. 

(4) Manzoni A. — Echinodermi fossili pliocenici. Memorie, Soc. Tosc. Sc. Nat. 
Vol. IV, fasc. 2.° 1880. 

(®) D'Orbigny A. — Foraminifères de Vienne. 1825. 


244 i G. A. DE AMICIS 


semplici radiali, dall’ altro setti biforcati. Lo Zittel(') a questi 
caratteri dati dal d’ Orbigny aggiunge i seguenti: Loggia ini- 
ziale centrale ‘grande (grosse centrale Embryonalkammer), circon- 
data da 4a 7 giri spirali divisi da setti in molte logge; logge 
comunicanti fra loro per una fessura lunga e stretta posta al 
bordo settale interno della faccia inferiore; conchiglia perforata 
dappertutto da fini canalicoli tranne nella parte centrale a hot- 
tone, nella parte mediana commune dei giri (cordone dorsale) 
e nelle pareti dei setti ove è compatta; setti composti di due 
foglietti saldati che di rado lasciano spazio visibile fra di loro; 
assenza di un sistema canalifero che le avvicina di più alle 
Rotaline che alle Nummuliti. Per vedere la bifidità dei setti con- 
siglia di consumarne accuratamente con un acido la superficie. 

Si trattava adunque di vedere se il fossile del calcare len- 
ticolare presentava tutti questi caratteri per potersi ascrivere 
al genere Amphistegina. 

Cominciando dai caratteri che si possono rilevare col sem- 
plice esame esterno della conchiglia, riscontransi bensì nel fos- 
sile di Parlascio (V. Tav. XI, fig. 1, 1a), la forma lenticolare, e 
l’ ineguale rigonfiamento centrale sulle due faccie, ma per quante 
ricerche accurate abbia fatte sopra oltre 300 esemplari non ho 
potuto mai riscontrare nè setti bifidi nè logge alternanti. Senza 
stare qui a parlare partitamente dei vari sistemi che ho seguito 
per potere vedere i setti, che senza artifici sono difficilmente 
osservabili, sistemi di cui già ho parlato in una mia breve nota 
precedente (?), mi limiterò a dire che nessuno dei setti mi com. - 
parve mai bifido; inoltre il loro andamento era affatto diverso da 
quelli della vera Amphistegina Haueri; giacchè in questa, sopra 
la faccia meno convessa, i setti giunti circa a due terzi dal 
bottone centrale si incurvano bruscamente per poi biforcarsi, 
invece negli esemplari da me esaminati i setti si presentano 
costantemente di poco incurvati ed uniformemente in tutta la 
loro lunghezza. Nella Amphistegina Haueri inoltre sull’ altra 
faccia i setti non sono più bifidi, ma fra l'uno e l' altro di essi 
vi è un accenno di un piccolo setto secondario. Invece -nella 


(1) Zittel A. — Handbuch der Paleontologie. Minchen 1876. 
(3) De Amicis G. A. — L’Amphistegina del calcare lenticolare di Parlascio. 
Proc. verb. Soc. Tosc. Scienz. Nat. 20 maggio 1885. 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 245 


mia di Parlascio tutte e due le facce sono perfettamente eguali 
senza accenno alcuno a setti secondari. 

Nè si può il fossile in esame riferire all’Amphistegina vulgaris 
d’Orh., come vorrebbe il Seguenza, giacchè anche questa, come 
si vede chiaramente dalla figura ricavata dal modello in gesso 
N.° 40 della collezione del d’Orbigny (V. Tav. XI, fig. 2, 2a, 20), 
presenta setti bifidi per quanto sia di forma ben diversa dal- 
l’Amphistegina Haueri, ed i setti suoi così dell'una che dell'altra 
faccia abbiano andamento diversissimo. 

Per questi caratteri cominciai a dubitare che il fossile del 
calcare lenticolare non fosse una Amphistegina. Intanto nel 
consultare diverse opere mi occorse di leggere una memoria 
del De la Harpe (') ove in una nota parla di Amphisteginae e 
dice che osservando al microscopio l’Amphistegina del bacino di 
Vienna vi si riscontrano senza difficoltà i caratteri che il d’Or- 
bigny attribuisce a tal genere; mentre l’Amphistegina Targionii 
(Nummulites Targionii Mgh.) della pietra lenticolare di Toscana 
si mostra tutto affatto diversa. Ivi i setti non si biforcano, e 
la sezione longitudinale così come le due facce della conchiglia 
sono simili a quelle di una piccola Nummulite a lati leggermente 
ineguali ed a setti lunghi ed arcuati. La conoscenza di questa 
nota di un così accurato osservatore e perfetto conoscitore di 
tali esseri, veniva sempre più a confermarmi nell’ idea che non 
sì trattasse di una Amphistegina. Dietro |’ osservazione del De 
la Harpe della somiglianza esterna del fossile in esame colle 
Nummuliti mì venne desiderio di vedere se alle Nummuliti real- 
mente poteva riferirsi. Con ispeciali artifizi di cui già nella 
succitata mia nota tenni parola, ottenni le sezioni della Amphi- 
stegina Targionii; esaminandole di poi al microscopio e confron- 
tandole con sezioni di vere Nummuliti tolte alle collezioni del 
Museo di Pisa trovai molte differenze così nelle sezioni longitu- 
dinali come nelle trasversali. Nelle mie sezioni longitudinali 
il numero dei giri risulta comparativamente minore che nella 
maggior parte delle Nummuliti delle stesse dimensioni; il 
sistema canalifero in molti casi non è distinguibile; i setti ap- 
paiono più ricurvi ed allungati e non giungono a toccare la, 
parete del giro precedente più interno: le logge sono più grandi. 


(4) De la Harpe Ph. — Etude des Nummulites de la Suisse. Geneve 1881. 


246 G. A. DE AMICIS 


Così pure nelle sezioni trasverse, l’Amphistegina Targionii pre- 
senta un numero minore di giri e quindi questi sono più al- 
lontanati; di più sono maggiormente inequilaterali. 

Un’ altra cosa potei osservare tanto nelle sezioni mie tra- 
sversali come nelle longitudinali; l’ esistenza costante in tutti 
gli esemplari di una loggia centrale perfettamente sferica di 
ragguardevoli dimensioni che pare non coordinarsi affatto alla 
forma ed allo svolgimento successivo della spira (V. Tav. XI, 
fig. 3,3a 365). Nelle Nummuliti si ha bensì in una metà circa 
delle forme la presenza di una loggia centrale, ma essa si 
presenta sempre come principio della spira, ed è costantemente 
di dimensioni minori che negli esemplari idi Parlascio e San 
Frediano. 

Un ultima e più notevole differenza ho potuto osservare 
confrontando le sezioni trasversali dell’ Amphistegina Haueri con 
quelle della Targionii. In quella (V. Tav. XI, fig. 4), si osserva 
che le lamine costituenti i giri si presentano traversate da in- 
numerevoli e sottilissimi tubetti assai ravvicinati, e che spesso 
nella direzione dell’ asse maggiore dalle lamine stesse si staccano 
da una parte delle più piccole lamelle aventi pure esse la stessa 
struttura tutta cribrata da tubi e che formano unendosi all’altro 
lato della lamina stessa delle cavità di varia forma. 

Invece osservando la Amph. Targioni essa appare ben di- 
versa. In luogo di aversi le lamine traversate dai canalicoli, esse 
appaiono costituite da altrettante finissime e numerose lamelle 
parallele alla superficie esterna; di tali lamelle riuscii a contare 
fino a 25 a costituire le lamine spirali principali. Questa partico- 
larità si può osservare nelle annesse figure (V. Tav. XI, fig. 3, 3a, 6) 
di sezioni trasverse ricavate al microscopio le une con un in- 
grandimento di circa 390 diametri, l’ altra con un ingrandimento 
di poco più di 600 diametri. Altra cosa ancora si può osservare 
nella sezione trasversa, cosa essa pure espressa nella annessa 
figura (V. Tav. XI, fig. 6°, l’esistenza cioè di canali veri e propri, 
giacchè come tubi si comportano al microscopio, che partono 
dalla camera centrale irradiando ma non in tutte le direzioni; 
essi sono poco numerosi, abbastanza lontani l’ uno dall’ altro e 
diretti solo secondo l’ asse minore della conchiglia, mentre non 
se ne trovano nella direzione dell’ asse maggiore; inoltre non 
raggiungono mai la superficie esterna, ma giunti alla metà circa 


IL CALCARE AD AMPHISTEGINA NELLA PROVINCIA DI PISA EC. 247 


dello spessore della terza lamina interna, si perdono d’ occhio, 
nè più sì riscontrano nei giri più esterni. 

Altra particolarità pur degna di nota si è che osservando 
a più forte ingrandimento, 600 diametri circa, una sezione 
trasversa della Amphistegina Targioni, si vedono dalle lamine 
spirali staccarsi delle lamine più sottili che si ripiegano arcuan- 
dosi e raggiungono le lamine vicine cui si appongono per ren- 
derle più grosse (V. Tav. XI, fig. 7). 

Inoltre una sottilissima sezione del guscio dell’ Amphistegina 
Haueri condotta parallelamente alla superficie esterna, mi ha 
mostrato (V. Tav. XI, fig. 5) con un ingrandimento di circa 600 
diametri un numero grandissimo di piccoli fori rotondi; mentre 
un analoga sezione della Targioniî osservata prima collo stesso 
ingrandimento, e poi perfino anche con un obbiettivo ad im- 
mersione che dava un ingrandimento di 1060 diametri, non mi 
ha mostrato perforazioni di sorta. 

Adunque l’ Amphistegina Targionii differisce dalle vere Num- 
muliti come pure dalle vere Amphisteginae, prendendo a tipo di 
queste l’ Amph. Haueri; però si avvicina molto più a queste 
che a quelle. Si sarebbe potuto per questo fossile fare un genere 
nuovo, ma non avendolo fatto il compianto e chiarissimo 
De la Harpe, per consiglio anche del mio maestro prof. Meneghini, 
mi astengo dal proporlo; invece si potrà ampliare la frase ca- 
ratteristica del gen. Amphistegina per comprendervi anche il 
fossile di Parlascio e San Frediano. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


Fic. A. Spaccato geologico condotto da Poggio ai Frati alle Panzane. 


b) 


n» 


B. £ È; A da Pomarance alla Rocca di Sillano. 
1. Amphistegina Targionii Mgh. (Ingrandim. 30 diam.). 
To 7 3 (veduta di profilo) (ingrand. 30 diam.). 


2.24.20. Amphistegina vulgaris d’ Orb. 
3.34.30. Amphistegina Targionit Mgh. (Sezioni trasverse e lon- 


gitudinale). 
4. Amphistegina Haueri d’ Orb. (Sezione trasversa; ingr. 350 diam.). 
5. Pi » (Sezione del guscio parallela alla super- 


ficie esterna. Ingrandim. 600 diam.). 
6. Amphistegina Targionii Mgh. (Sezione trasversa. Ingr.350 diam.). 
7. 5 * (Sezione trasversa. Ingr. diam. 600). 


GIUSEPPE RISTORI 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE 


SUL 
VALDARNO SUPERIORE, SUI DINTORNI D’' AREZZO 


E SULLA 


VAL DI CHIANA 


Fin dall'inverno del 1884 impresi, dietro consiglio del Prof. 
Carlo De-Stefani a fare delle escursioni nel Valdarno superiore 
e nei dintorni della città d’ Arezzo, indi nella Val d’Ambra e 
ultimamente nella Val di Chiana, allo scopo non solo di rendermi 
più esatto conto di quelle località riguardate sotto 1’ aspetto 
geologico; ma anche per raccogliervi fossili e più specialmente 
conchiglie lacustri, della cui ricerca mi aveva espressamente in- 
caricato il Prof. Cesare D’ Ancona. In tutte queste escursioni, 
che si succedettero a brevi intervalli, non mancai di fare molte 
osservazioni geologiche e di notare nel mio taccuino quelle che 
mi parvero maggiormente importanti; tanto che oggi, rileggendo 
tutte quelle note ed esaminando accuratamente le raccolte da, 
me fatte, stimai non del tutto inutile coordinare quei miei poveri 
studi, a fine di poterne trarre le necessarie conseguenze e ri- 
chiamare su di essi l’attenzione dei geologi: poichè da quello 
che potei leggere nei libri ed ascoltare nelle lezioni e nelle con- 
versazioni scientifiche, mi è sembrato che non tutti sieno d'ac- 
cordo sulle vicende geologiche, a cui andarono soggetti quei paesi. 

Le conclusioni, che fin d’ ora prometto di trarre da ciò, che 
potei osservare, saranno la necessaria e più logica conseguenza 


250 i G. RISTORI 


di fatti, i quali si possono sempre da chiunque constatare ; poichè 
scevro da ogni preconcetto, esaminai e raccolsi materiali e no-. 
tizie al solo scopo di fare uno studio coscenzioso. Non saprei, 
però, chiudere queste poche righe d’ introduzione senza ricordare 
nuovamente gli egregi professori Cesare D'Ancona e Carlo De- 
Stefani, che con consigli ed aiuti mi incoraggiarono a questi 
studi, e tanto contribuirono accicchè riuscissero il meno peggio 
possibile. 


CRETA ED EOCENE 


I terreni più antichi, che si incontrano nelle regioni qui 
prese in esame, si devono in piccola parte riferire al Cretaceo 
superiore, per la massima ai diversi piani dell’ Eocene. Questi 
terreni costituiscono quasi esclusivamente i monti e le catene 
montuose, che limitano il Valdarno superiore, i dintorni della 
città di Arezzo, e parte anche della Val di Chiana specialmente 
dalla parte di Sud-Ovest. 

Delle due catene montuose, che limitano l’ una a Nord-Est 
l’altra a Sud-Ovest e Nord-Ovest il bacino del Valdarno supe- 
riore, presenta maggiore interesse per il geologo quest’ultima; 
poichè nella prima sono talmente sviluppate le arenarie, che non 
lasciano, altro che in minima proporzione, accessibili le forma- 
zioni degli alberesi, dei galestri e del calcare nummulitico, e se 
si eccettuano gli affioramenti della pietra forte che si veggono 
comparire fra il torrente Vicano e il torrente Marnia, ed i cal- 
cari alberesi e nummolitici che compariscono nella porzione più 
a Sud-Ovest della Sieve poco o nulla è da dirsi intorno alla sua 
costituzione geologica, la quale si presenta assai uniforme. 
Infatti tanto alla base di quella catena, quanto nelle più alte 
vette, non sì scorgono che arenarie in stratificazioni assai re- 
golari‘e con un inclinazione dai 12 ai 15 gradi, diretta da 
Nord-Est a Sud-Ovest. Le arenarie, come generalmente accade, 
non presentano fossili all’ infuori di qualche impronta di Chon- 
drites e di residui vegetali carbonizzati, a cui si dà il nome di 
Stipite. Tale uniformità viene interrotta alla Croce dei Fossi presso 
monte Drago, ove sono state da una profonda frana, messi allo 


G. RISTORI — CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 251 
scoperto i galestri, le argille scagliose e gli alberesi e più a Sud 
alla Querce, al Nibbio, al Cocollo, e finalmente a Poggio di Loro, 
ove emergono i calcari alberesi schistosi (sasso coltellino). Que- 
st’ ultime formazioni al pari delle arenarie sono prive di fossili, 
e solo i calcari alberesi ci presentano qualche impronta di fu- 
coide. Gli strati sono alquanto più inclinati di quelli delle are- 
narie, hanno una quasi identica direzione, e non è dato scorgere 
in nessun punto le formazioni ad essi sottostanti. È probabile 
però che riposino sul calcare nummulitico o alternino con esso, 
come si vede nell’ opposta catena montuosa del Chianti, la quale 
ci presenta una costituzione geologica molto simile. Una prova 
di ciò la possiamo avere portando il nostro esame nella; porzione 
dei suddetti monti di Pratomagno, la quale si volge a Nord e 
si congiunge coll’ Appennino del Mugello. Essa mostra i suoi 
fianchi profondamente erosi dal fiume Sieve e dai suoi affluenti 
di sinistra, ed è quindi facile vedere la successione delle forma- 
zioni nel modo suesposto, ed il calcare nummulitico vi si rinviene 
in posto giacente sulla pietra forte, la quale contenendo im- 
pronte di Inocerami di Ammoniti ed altri fossili è stata giusta- 
mente riferita al Cretaceo superiore, oppure sui calcari alberesi 
o con essi alternante. Queste condizioni geologiche si ripetono, 
come è detto, nella catena del Chianti e nelle sue propaggini, che 
limitano il Valdarno superiore a Nord-Ovest, ed è qui che si 
può vedere uon interrotta la successione degli strati dalle are- 
narie al calcare nummulitico, e misurarne le direzioni ed inclina- 
zioni. I luoghi, che mi hanno specialmente offerta tale possibilità 
sono i seguenti: Cavriglia, Monte Murlo, Lucolena, Monte Lisoni 
e a Nord-Ovest Monte Scalari: quivi ho anche raccolti numerosi 
saggi di calcare nummulitico fossilifero, in cui sì veggono oltre 
le Nummuliti, alcuni resti di C:daris difficilmente determinabili. 
A Cavriglia poi nel nummaulitico non è raro rinvenire denti di 
Squalo, i quali sono pure frequenti in quello stesso terreno a 
Pontassieve, ed io stesso ne ho raccolti anche in altre località, 
di cui avremo luogo di parlare. 

L'inclinazione degli strati costituenti le suindicate forma- 
zioni và crescendo dalle arenarie (') ai calcari alberesi, e special- 


(!) L’ inclinazione delle arenarie raggiunge un’ angolo di 12 gradi e la direzione 
è Nord-Est, Sud-Ovest. 


252. G. RISTORI' 


mente a quelli sottostanti al nummulitico, i quali spesso si 
mostrano quasi raddrizzati. Essa inclinazione unitamente alla 
direzione della medesima, che costantemente si mantiene, mostra 
all’ evidenza, che desse formazioni con quelle simili della catena 
di Pratomagno costituiscono un sinclinale, su cui si adagiarono 
le argille e le sabbie plioceniche del Valdarno snperiore. 

Le condizioni stratigrafiche suindicate sì ripetono anche nei 
monti che cingono da ogni parte la pianura aretina, e qui pure 
le arenarie, i galestri e i calcari costituiscono il sottosuolo, su 
cui sì veggono riposare le ghiaie e le sabbie quaternarie di quella 
località. Anche qui sono. prevalenti le arenarie eoceniche, che 
riposano o sui calcari alberesi o sui galesti o sul calcare num- 
mulitico, il quale si mostra sviluppatissimo presso il Castello di 
Capolana, e sì estende dal torrente Bregine a S. Martino sulla 
destra dell'Arno, Gli strati considerevoli per spessore affiorano 
in più luoghi ed'io raccolsi numerosi saggi di quel calcare ove 
si vedono in gran numero le Nummuliti, e potei anche consta- 
tare la serie stratigrafica delle diverse rocce e formazioni, messa 
allo scoperto dalle profonde erosioni operate dal torrente Fal- 
toniano. Eccone la successione: Arenarie a cemento calcareo (pietra 
forte (') con impronte di Nemertiliti, Alberese compatto e Calcare 
nummulitico con strati inclinati dai 28 ai 50 gradi, Arenaria 
macigno con la solita inclinazion di 12 a 15 gradi e la solita di- 
rezione Nord-Est, Sud-Ovest. In questo calcare nummulitico, oltre . 
alle Nummuliti, si rinvengono anche denti di Squalo apparte- 
nenti per lo più ai generi Oxyrhina e Lamna, come la maggior 
parte di quelli, che si raccolgono abbondanti nel nummulitico a 
Pontassieve e a Cavriglia. 

Lo stesso posso dire di tutti gli altri monti, che cingono 
all’ intorno la pianura aretina non che dei piccoli rilievi, che 
sorgono qua e la ad interromperla: essi infatti hanno un identica 
costituzione geologica cioè arenarie, galestri, alberese, nummu- 
‘ litico, e quindi si può giustamente ritenere che si tratti di una 
sola e continua formazione, la quale costituisce il sottosuolo di 
essa pianura e i monti che la limitano. Che quei rilievi con- 
tradistinti nella carta topografica coi nomi Campolucci, Patri- 

(1) È molto probabile che questa pietra forte appartenga al Cretaceo superiore; 


giacchè vi si scorgono Nemertiliti e altre impronte di organismi assai problematici, 
in tutto simili a quelli della pietra forte di Monteripaldi e di Pontassieve. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 253 


gnone, S. Cecilia, Montioni, Pratantico, S. Maria, Maccagnolo, 
Puglia, ed il colle stesso ove è fabbricata la città, siano la conti- 
nuazione materiale dei monti che quasi da ogni parte cingono la 
pianura suindicata, non solo lo provano la identità mineralogica 
delle rocce e la loro successione stratigrafica; ma anche la di- 
rezione e inclinazione degli strati. 

Le condizioni geologiche, che abbiamo riscontrate nei mon- 
ti limitanti il Vallarno superiore e la pianura aretina si ripe- 
tono con varianti di poca importanza, dovute allo sviluppo 
maggiore o minore dell’ una o dell’ altra formazione, anche per 
i monti di Chiani, Poggiale, Civitella, Ciggiano, Monte S. Savino, 
Calcione fino a Rigomagno, i quali cingono a Nord-Ovest e Sud- 
Ovest e limitano le formazioni plioceniche, che alla lor volta 
includono le quaternarie costituenti la pianura della Chiana. 
Lo stesso si dica per i monti che più ravvicinati includono le 
sabbie e le argille plioceniche della Val d’Ambra: infatti i monti 
di Galatrona, di S. Leolino, di Duddova, di Monte Benichi sulla 
sinistra del fiume Ambra; di Rapale, di Sogna, di Calcinaja, di 
Capannole e S. Pancrazio sulla destra, presentano uno sviluppo 
prevalente delle arenarie con inclinazione e direzione di strati 
eguali a quelle fin ora trovate nella catena del Chianti sul ver- 
sante dell'Arno, della quale sono essi monti una più o meno 
diretta continuazione. Le arenarie al solito riposano sui galestri, 
sugli alberesi, sul calcare nummulitico, il quale si vede svilup- 
patissimo a Pogi. Il calcare alberese che in questa regione sot- 
tostà costantemente al nummulitico, presenta i suoi strati for- 
temente inclinati. Essendo poi esso calcare inquinato da sostanze 
ferruginose ha un colore rosso ruggine dovuto forse all’ azione 
delle acque meteoriche, che hanno ridotto i sali di ferro in esso 
contenuti allo stato di idrati, o alle emanazioni di acque mine- 
rali ferruginose, che tutt’ ora si incontrano assai frequenti in 
quella località. In questo calcare alberese non mancano le so- 
‘ lite impronte di Chondrites ed altre fucoidi ed io ne ho raccolti 
esemplari bellissimi a Poggiana ed a Pogi. 


MIOCENE . 


Anche il terreno miocenico ha i suoi rappresentanti nei 
paesi, di cui qui ci occupiamo, e il rinvenimento da me fatto 


254 i G. RISTORI 


di fossili riferibili a quel periodo geologico ne afferma l’ esi- 
stenza. Prima d’ora i dintorni del Valdarno superiore, della 
città d'Arezzo e della Val di Chiana toscana, non avevano dato 
altri fossili, i quali si potessero riferire al miocene, all’ infuori 
d'una porzione di tronco sicilizzato appartenente alla Raumeria 
Cocchiana Caruel., che fu rinvenuta in un torrente presso ia 
villa di S. Mezzano, ove l'avevano certamente trascinata le 
acque, che scendono dalla catena di Pratomagno e più precisa- 
mente dalla porzione di essa che si estende da Vallombrosa al 
Varco di Reggello. Quel fossile fa studiato dal prof. Teodoro 
Caruel, e attualmente fa parte della collezione paleontologica 
del Museo fiorentino: fu però allora riferito al Cretaceo; ma da 
che simili fossili si ritrovarono anche nei terreni miocenici, non 
è qui fuori di luogo pensare che anche questo nostro appar- 
tenga a quel periodo geologico. Oltre a ciò è probabile che sia 
miocenico anche un pezzetto di calcare contenente un modello 
interno di Murex ed un Pecten trovato nelle argille plioceniche 
di Renacci, presso S. Giovanni valdarno, dal sig. Giov. Batta. 
Ciantini, e donato al museo dell’Accademia del Poggio residente 
in Montevarchi. Quei due resti fossili quando furono raccolti non 
erano certamente in posto e questo ce lo prova il rotolamento 
da essi sofferto e la natura della roccia, a cui aderiscono e da 
cui sono compenetrati. Essi unitamente al pezzo di roccia cal- 
care furono a mio credere trascinati nel lago valdarnese, e . 
coinvolti nei suoi depositi, dai torrenti dopo avergli strappati 
ai monti vicini. La natura di quel calcare poi concorre ad ac- 
crescere la probabilità che quei fossili appartengano al Miocene; 
giacchè una roccia simile non sì trova che nel monte della Verna 
a rappresentarci per l'appunto il terreno miocenico; mentre 
gli altri piani geologici, che in esso monte sì incontrano, si 
mostrano costituiti da formazioni identiche a quelle della ca- 
tena di Pratomagno ed aventi eguali inclinazioni e direzioni di 
strati. A questo si aggiunge ora il rinvenimento fatto, durante 
le mie escursioni nei dintorni della città d'Arezzo e nella Val 
d’ Ambra di ciottoli costituiti da un calcare gialliccio cristallino, 
che mi colpì per la sua quasi perfetta rassomiglianza con quello 
a Briozoi del Monte della Vena, ultimamente illustrato dal dott. 
Vittorio Simonelli ('). Le località ove io raccolsi quei ciottoli 


(*) Simonelli — 1 monte della Verna e ‘i suoi fossili. Bull. soc. geol. ital. 
Vol. II, anno 1883, fasc. 3.0 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 255 


costituiti da un vero e proprio calcare a Briozoi, furono nei 
dintorni d'Arezzo il Torrente Faltoniano ed i Colli di Capolona 
e nella Val d’' Ambra Pogi ove si mostrano tanto sviluppati i 
calcari alberesi e il nummaulitico, di cui ho già parlato. Queste 
due località distano assai luna dall’ altra e appartengono a due 
sistemi di monti diversi; giacchè la prima località si rannoda 
colle propaggini più a Sud della catena di Pratomagno e coì monti 
del Casentino; mentre la seconda è in continuazione diretta colla 
catena chiantigiana. Quei ciottoli, che così ho chiamato per la 
loro forma rotondeggiante, ma che esaminati attentamente non 
son altro che pezzi di roccia di poco distaccati dallo strato, e 
solo un poco corrosi nei loro angoli per un non lungo rotola- 
mento, e forse più per l’azione delle acque meteoriche, proven- 
gono probabilmente dai monti circonvicini; poichè le località 
ove io gli ritrovai sono così solitarie e distanti da vie facil- 
mente accessibili, da non potersi in verun modo ammettere che 
l’uomo ve gli abbia trasportati da formazioni lontane. Non 
nego del resto come non abbia potuto trovare la roccia in 
posto: forse la causa che rese infruttuose le mie più diligenti 
ricerche, deve attribuirsi alla vegetazione boschiva folta e non 
interrotta, che cuopre ambedue quei luoghi. 

Dissi che questo calcare era in tutto simile a quello a Briozoi 
della Verna ritrovato in posto dal dott. Vittorio Simonelli e da 
esso riferito al Miocene superiore (piano Tortoniano). Questa mia 
affermazione è ampiamente giustificata dai fossili inclusi in quei 
due calcari di località così discoste fra loro, ma appartenenti 
a piani geologici fra loro corrispondenti. Infatti essi fossili sono 
quasi identici, come si può vedere dai due seguenti elenchi: 


Fossili del calcare a Briozoi Fossili del calcare a Briozoi 
del Monte della Verna (?) di Capolona e di Pogi 


1. Cellepora sp. ind. l. Cellepora (?) sp, ind. 
2. Cidaris caryophylla Sim. 2. Cidaris (*) sp. ind. 
3. Conocrinus sp. ind. 8. Conocrinus sp. ind. 
4. Ostrea sp. ind. 4. Ostrea sp. ind. 

5. Pecten sp. ind. 


(4) Simonelli — IZ Monte della Verna e i suoi fossili (Estr. dal. Boll. della Soc. 
geologica italiana. Vol. II, anno 1883, fasc. 3° 

(?) Le Cellepore presentano grande rossomiglianza con quelle che si veggono nel 
calcare della Verna, tanto che si può ritenere, che appartengano a specie forse identiche. 

(8) Credo che anche il solo radiolo di Cidaris che si vede su uno dei pezzi del 


256 i G. RISTORI 


I fossili però che maggiormente contribuiscono a farci rite- 
nere questi due calcari appartenenti ad una formazione contem- 
poranea, sono i numerosi resti di Crinoidi, appartenenti al genere 
Conocrinus, i quali se si tolgono le Cellepore, e qualche raro 
frammento di Ostrea e di Pecten e di Cidaris, gli riempiono 
quasi totalmente. 

Del resto, come si vede dall’ elenco, questi fossili sono scarsi 
e in uno stato di conservazione tale da non permettere di 
farne un esatta determinazione specifica; tuttavia non mancano 
certamente d’ importanza; poichè bastano a fornirci argomenti 
giusti e positivi per dimostrare l’ unità e la connessione, che i 
terreni miocenici delle località qui prese in esame, hanno con 
quelli della Verna e più generalmeute con quelli dell’ appennino 
toscano, di cui orograficamente e geologicamente parlando i 
monti limitanti il Valdarno superiore e la Val di Chiana, sono 
immediate propaggini, che come già dissi subirono i medesimi 
mutamenti e vicissitudini geologiche, le quali valsero a fargli 
identici nelle loro formazioni, e a farceli oggi riconoscere tutti 
quanti appartenenti ai diversi piani geologici, che dal Cretaceo 
vanno fino al Miocene superiore, trovandosi in essi più o meno 
sviluppate molte delle formazioni riferibili a quella serie strati- 
grafica di terreni non interrotta. 


PLIOCENE 


Il considerevole sviluppo dei terreni appartenenti al periodo 
pliocenico e ì numerosi fossili in essi contenuti hanno per i 
geologi reso classico il Valdarno superiore e la Val di Chiana. 
Tanto il geologo quanto il paleontologo hanno colà trovato 
campo agli studi, e molti di essi hanno largamente contribuito 
all’ illustrazione di quei terreni. Il tornare per parte mia su quel- 
l'argomento, tanto studiato, potrebbe sembrare, se non audace 
almeno inopportuno; quando non si ponesse mente alle tante 
controversie che esistono ancora fra i geologi, e al tanto mate- 


mio calcare a Briozoi, raccolti a Pogi, si possa ravvicinare alla specie del Simonelli 
C. caryophylla: infatti per quanto mal conservato, ne presenta le notevoli dimensioni 
e ne rammenta un poco anche la forma. Del resto lo stato di conservazione del mio 
esemplare non permette di potere affermare nulla di positivo, da ciò la ragione di 
averlo lasciato nell’ elenco coll’ indicazione Cidaris sp. ind. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 257 


riale paleontologico, che resta a studiarsi. Nella rassegna quindi 
di quelle formazioni plioceniche, cercherò di chiarire alcune delle 
controversie, e di porre nei giusti termini le questioni sulla più 
o meno probabile comunicazione col mare dei laghi, che du- 
rante il pliocene occuparono quelle località. So che su questo 
argomento hanno scritto valenti geologi, e per la Val di Chiana 
abbiamo parecchie memorie del Verri, in cui il dotto capitano 
cerca di spiegare, ricorrendo anche troppo spesso ai sollevamenti, 
alle depressioni, alle spaccature e a molti altri mutamenti della 
crosta terrestre, le deposizioni del pliocene lacustre a diretto 
contatto di quelle del pliocene marino. Le accurate escursioni 
fatte da me in quei luoghi ed i fossili che vi ho potuto racco= 
gliere, credo mi abbiano messo in grado di potere esprimere la 
mia opinione in proposito. Però, per procedere con ordine e a 
maggiore intelligenza di tutti, comincerò dal Valdarno superiore. 

È ormai a tutti noto come i depositi argillosi e sabbiosi 
che oggi formano le colline del Valdarno superiore, siano stati 
deposti da un vasto lago, che occupava nel periodo pliocenico 
quella regione. La fauna e la flora fossile di quei depositi hanno 
dimostrato che essi appartengono al Pliocene. Alcuni geologi 
però hanno voluto distinguervi due orizzonti geologici, 1’ uno 
dei quali, da alcuni è riferito al Pliocene inferiore o al Miocene 
superiore, l’altro, che corrisponderebbe alla speciale formazione 
dei sansini e delle sabbie gialle, al Pliocene medio e superiore. 
Questa distinzione fu specialmente fondata sul rinvenimento di 
resti di Mastodon ed anche sopra il carattere della flora delle 
così dette argille arse, le quali includono i banchi di piligno. 
Infatti collo studio della flora, che constatò la somiglianza di 
essa con quella miocenica di Eningen, sussistente per un numero 
non indifferente di specie comuni, e coll’ avere poi riferiti erro- 
neamenti i resti di Mastodon, rinvenuti insieme con altri di Ta- 
pirus nel piano delle argille arse, alla specie angustidens propria 
del miocene, si credè avere prove incontestabili per distinguere 
nel Valdarno superiore un orizzonte miocenico. Di questo parere 
furono Strozzi e Gaudin (') non che lo Stéhr (?), il quale illustrando 


(1) Strozzi e Gaudin — ZFeull. foss. de la Tosc. Mem. I e II. 

(£) Stohr — /ntarno ai depositi di Lignite che si trovano nel Valdarno supe- 
riore, ed intorno alla loro posizione geologica. Estr. dell’ Ann. della Soc. dei Natu- 
ralisti. Anno V. 


Se. Nat. Vol. VII, fase. 1.° dl 


258 ; G. RISTORI 


con una brevissima nota i banchi di piligno (o lignite) dei dintorni 
di Castelnuovo e di Gaville, gli riferì per le suesposte ragioni al 
piano (Aningeniano, mentre ritenne i sansini e le sabbie gialle, 
che secondo lui contenevano esclusivamente la maggior parte 
dei resti della fauna mammologica, appartenenti al piano Asti- 
giano; o Pliocene medio. Tale opinione andò perdendo terreno 
via via -che progredirono gli studi geologici e paleontologici di 
quella regione: infatti il Major studiando la fauna mammologica 
riconobbe, che le specie di mammiferi fossili fin ora conosciute 
nel Valdarno erano tutte plioceniche ed i resti di Mastodom (!) 
appartenevano tutti alla specie arvernensis Croiz. et Gob. propria 
del pliocene e il Tapiro non era quello rinvenuto nei depositi 
del Casino presso Siena insieme ai resti d’ Hipparion; ma fu dal 
Major riferito invece alla specie arvernensis. Resta il carattere 
solo della flora a sostegno della suesposta opinione e più che il 
carattere generale di essa, il singolare di due flore distinte; cioè 
di una, secondo lo Strozzi e Gaudin, miocenica esclusiva delle 
argille, e- di una pliocenica propria dei sansini e delle sabbie 
gialle. Questa distinzione di due flore atte a segnare due distinti 
orizzonti geologici poteva essere giusta, a patto solo che l’ una 
fosse esclusiva delle argille arse, 1’ altra dei:sansini e delle 
sabbie; ma pur troppo non è così! Chiunque abbia fatto rac- 
colta nel Valdarno superiore di filliti fossili, ed abbia attenta- 
mente esaminati gli strati, che le contengono, ed i giacimenti 
ove più abbondano certe specie, o cert’ altre, avrà dovuto accor- 
gersi, che spesso quelle medesime specie, che indussero il Gaudin 
a credere la flora delle argille miocenica, abbondano al pari 
delle altre aventi un carattere più moderno, nei sansini e nelle 
sabbie; mentre all’ incontro. molte specie come p. es. Hagus sy0- 
vatica, Quercus Nex od altre proprie del pliocene e di terreni 
anche più recenti, si rinvengono abbondantissime anche nel piano 
delle argille arse. In una parola non è possibile distinguere due 
flore una più antica una più recente; poichè le specie che con- 
corrono -a comporle si trovano sparse ed egualmente abbondanti 
in tutti quanti gli strati, sieno essi argillosi, sieno sabbiosi: da 
ciò la necessità di ritenere affatto arbitraria quella distinzione. 

(*) Una sola eccezione ci viene offerta da un dente molare posseduto dal Museo 


di Montevarchi, il quale apparterrebbe alla specie Mastodon Borsoni Hay; però è 
dubbio se sia stato ritrovato in Valdarno. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 259 


Non insisto di più su questo argomento, del quale ho più dif- 
fusamente e più opportunamente parlato in un mio antecedente 
lavoro sulle filliti fossili del Valdarno superiore: ivi il lettore 
potrà meglio convincersi della giustezza di quanto ho qui af- 
fermato, e potrà anche una volta constatare come sia instabile 
argomento, il carattere di una flora, per servire di base a con- . 
clusioni stratigrafiche. 

Premesse queste considerazioni, mi pare che non resti altro, 
che rigettare quell’ opinione ormai contradetta dai fatti, e pren- 
derne in esame un’ altra espressa dal prof. Igino Cocchi nella 
sua memoria (L’ Uomo fossile nell’ Italia centrale). Egli crede che 
nel Valdarno superiore debbasi distinguere due piani geologici 
l’uno riferibile al Pliocene medio Astigiano, e quindi caratterizzato 
dalla maggior parte delle specie componenti la fauna mammo- 
logica fossile, fra cui sta l’ Elephas meridionalis Nes., l’ atro al 
Post-pliocene distinto dal primo e caratterizzato dall’ Elephas 
antiquus Falc. il quale, secondo il precitato autore si troverebbe 
nei dintorni di Laterina ossia in depositi relativamente più re- 
centi di quelli a Nord-Ovest; una volta che si ammetta con lui, 
che le acque del detto lago fluissero da Nord. a Sud o più pre- 
cisamente da Nord-Ovest a Est-Sud-Est e che quindi i depositi 
più recenti si trovassero in quest’ ultima parte ('). 

Mi asterrò dal discutere questa opinione e dal prendere in 
esame l’ importanza dei dati geologici e paleontologici, su cui 
è fondata, dirò solo .che i resti di Z/ephas antiquus non sono 
stati rinvenuti soltanto a Laterina, ma anche al Bucine e nei 
pressi di Montevarchi. Esiste poi nel Museo di Firenze un cranio 
di. Elephas antiquus probabilmente rinvenuto nei pressi di Fi- 
gline, perchè acquistato dal noto raccoglitore Francesco Pieralli. 
Tutto questo mi pare che contribuisca a modificare un poco 
l'opinione del Cocchi, e ad ammettere, che l'orizzonte geologico 
più recente, e caratterizzato dall’ E. antiquus, sia molto più 
esteso nel Valdarno superiore di quello che non credesse il di- 
stinto geologo, il quale lo limitava ai dintorni di Laterina e di 
Malafrasca; quasichè queste località, essendo le più prossime 
| alle formazioni dei dintorni d'Arezzo costituissero come un anello 


(4) Cocchi — L’ uomo fossile nell’ Italia centrale. Memorie della Società italiana 
di scienze naturli. Tom. II, n.° 7, Milano 1867. 


260 G. RISTORI 


di congiunzione fra i depositi pliocenici del Valdarno e quelli 
quaternari della pianura aretina ('). All’infuori di quest’ osser- 
vazione, l’ opinione del Cocchi è abbastanza attendibile; poichè 
la fauna del Post-pliocene è caraterizzata dall’ Elephas untiquus 
anche in molte altre localita italiane ed estere: infatti, questo 
fossile sì ritrova anche all’Ardenza, e appartiene pure a quella 
specie una zanna ultimamente trovata a Livorno nel Cantiere 
dei fratelli Orlando, e attualmente posseduta dal Museo di Pisa; 
ora questi terreni appartengono indubbiamente al Post-pliocene 
e la fauna fossile, che contengono, lo dimostra all’ evidenza. 
Dopo queste considerazioni vediamo quale fosse la estensione 
del lago pliocenico valdarnese: a Nord-Est e Sud-Ovest erano 
le catene eoceniche di Pratomagno e del Chianti, che lo limiti- 
vano a Nord-Ovest, î monti di S. Donato e Bisticci ad Est-Sud- 
Est poi le formazioni plioceniche seguitano evidentemente non 
interrotte fino a confondersi con quelle quaternarie della pianura 
aretina. Queste limitazioni però non sono così assolute come 
potrebbe sembrare a chi esaminasse le cose superficialmente; 
poichè è molto probabile che anche dalla parte di Nord-Ovest 
il lago valdarnese comunicasse col sottostante bacino ove oggi 
sorge la città di Firenze: infatti procedendo da S. Ellero verso 
Firenze, tenendo per guida il corso dell'Arno si veggono quà e 
là, formazioni argillose e sabbiose, giacenti sui calcari alberest e 
sui galestrîi. Le località ove io le ho ritrovate sono quelle di 
Girone, Pontanico, Bagazzano presso Compiobbi, di Erchi, S. Mar- 
tino, e Torricella presso le Sieci. In tutti questi luoghi esse 
formazioni hanno poca potenza e sono spesso confuse coi galestri 
e coll’ argilla scagliosa, tanto che non appariscono molto evi- 
denti: del resto si vede bene, che 1’ opera della denudazione vi 
ha agito grandemente, per essere state deposte sulle erte pen- 
dici di quei colli eocenici. Pur nondimeno la loro certa esistenza 


(1) L' opinione del Cocchi, così modificata, non serve più come punto d’ appoggio 
per credere con lui, che anche durante il pliocene le acque del ‘lago valdarnese 
fluissero da Nord-Ovest a Est-Sud-Est; trovandosi però i terreni del Post-pliocene più 
sviluppati in spessore verso quest’ultima parte ciò potrebbe benissimo dimostrarci, che 
quei terreni si fossero formati in corrispondenza e durante il vuotamento del Lago, 
che avvenne per l'abbassamento sofferto in quel tempo dalle montuosità costituenti i 
dintorni d'Arezzo, e per essersi allora determinato da quella parte il flusso delle acque. 
Del resto avremo in seguito occasione di tornare su quest’ argomento. per ora basti 
averlo accennato. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 261 


dimostra che la deposizione. fu operata dalle acque, che dal 
lago valdarnese si insinuavano in quella gola; poichè anche 
l'altezza considerevole raggiunta dalle medesime formazioni 
plioceniche presso S. Ellero sulla sinistra del torrente Vicano (') 
è di valido appoggio a questa mia credenza. 

Oltre a ciò credo assai giusta l'idea espressa anche da altri, 
che il bacino del Valdarno superiore ricevesse le acqne di quello 
contemporaneo del Mugello, il quale ultimo non poteva avere 
altro scolo naturale all’ infuori di quello attuale per la Valle 
della Sieve; anzi potrebbe anche ritenersi che per essa Valle co- 
municassero fra loro quei due baciui. Non conosco però troppo 
bene il Mugello e la Val di Sieve per non credere azzardata una 
simile affermazione: posso però dire che poco oltre la Rufina 
sì cominciano a vedere le formazioni argillose e sabbiose che 
poi si allargano nel bacino mugellese. Quindi 1’ interruzione che 
corre fra le formazioni lacustri del Valdarno e quelle del Mu- 
gello sarebbe segnata da una serie di colline costituite di are- 
narie e di calcari alberesi, che si stende fra il torrente Vicano 
e Poggiuolo a Sud della Rufina. Queste colline raggiungono una 
altezza assai limitata, e tale da non escludere la comunicazione 
dei due sunnominati laghi pliocenici, da quella parte (©). Comunque 
sia di queste molteplici comunicazioni del lago valdarnese, con- 
viene per ora abbandonare l’ argomento ed imprendere invece 
la discussione di un altro assai più importante cioè quello di 
una più o meno possibile comunicazione che per la Val d’Ambra 
il lago medesimo poteva avere col mare pliocenico contemporaneo, 
che occupava i dintorni di Siena e la Valle dell’ Ombrone. L’ar- 
gomento non è nuovo; ne disse qualche cosa il prof. Carlo De- 
Stefani in un suo pregevolissimo lavoro: I Molluschi continentali 
phrocenici, pubblicato negli Atti della Soc. tosc. di Sc. Nat. vol. II, 
IN, V; nè tralasciò di parlarne ultimamente il prof. Igino Cocchi 
in una sua comunicazione alla Società medesima, intitolata : 


(4) Il Colle a cui io mi riferisco supera in altezza una gran parte delle forma- 
zioni cretacee, che avrebbero dovuto impedire alle acque del lago valdarnese di in- 
sinuarsi per quella gola e di comunicare col Bacino di Firenze. 

(2) A proposito dello scolo delle acque del lago del Mugello vedi Cocchi (L'uomo 
fossile nell'Italia Centrale, estr. dal V. III, Memorie della società ital. di scienze 
Nat. p. 37-38 e note. 


262: G. RISTORI 
Nuovi fossili del Vingone e della :Val di Chiana ('). Però 1’ idee 
esposte dai due. distinti geologi sono in perfetta contradizione 
ed è per questo che oggi mi permetto di portare il contributo 
di accurate mie osservazioni fatte in quelle località, a fine di 
mettere nei veri termini la cosa. i 

Nell’ intento di fare un’ accurata escursione nella Val d’Ambra 
e di rendermi esatto conto delle formazioni plioceniche, che oc- 
cupano quella valle e dei rapporti che potevano avere con 
quelle della Val d’Ombrone, tenni come direttrice della mia 
escursione la strada che mette in comunicazione le due vallate 
dell’ Arno e dell’ Ombrone procedendo in direzione Nord-Sud e 
percorrendo lungo le rive dell’Ambra per poi, abbandonate queste, 
tenere quelle del Torrentello Coggia che si getta nell’Ombrone 
a Borghi. Le mie ricerche cominciarono nei pressi del Bucine 
fino al paesello di Ambra. In questo primo tratto di terreno si 
mostrano abbastanza sviluppate le formazioni sabbiose e ar- 
gillose, le quali hanno dato resti di mammiferi pliocenici, ap- 
partenenti alle medesime specie di quelli che si ritrovano nel 
Valdarno. Le località più fossilifere sono i dintorni del Bucine 
ove oltre alle ossa dei mammiferi, esiste un deposito argilloso 
ricco di filliti fossili delle specie caratteristiche della flora fossile 
del resto del Valdarno superiore, ed i dintorni del paesello di 
Ambra ove si rinvennero resti di znoceros etruscus Falc. che 
si conservano nel museo di Montevarchi. Queste sabbie ed argille 
evidentemente plioceniche, mentre sì mostrano sviluppatissime e 
di considerevole potenza a Nord del Bucine, assottigliano note- 
volmente nelle vicinanze di quel paesello e vanno sempre più 
riducendosi in estensione e in' potenza a mano a mano che si 
procede verso Sud risalendo il fiume Ambra. Ciò io credo abbia 
sua causa nel considerevole sviluppo e nelle altezze raggiunte. 
dai terreni eocenici, di cui già tenemmo parola: infatti questi 
terreni mentre da una parte tendono a limitare la larghezza 
della valle, dall’ altra ne inalzano il livello, per modo che le 
acque del lago valdarnese, le quali in essa valle si insinuavano - 
dovevano necessariamente avere una profondità che andava di- 
minuendo a mano a mano che si procedeva. verso Sud. 

Le mie più accurate ricerche fatte in questa località non 


(') Atti della Soc. Tosc. di Scien. nat. (Processi verbali) Vol. IV, Adunanza 
4 maggio 1884. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 263 


riuscirono a scoprire nessun fossile all’ infuori di qualche 
resto di ossa di mammiferi, e dovei mio malgrado constatare 
l'assenza di resti di molluschi e di piante fossili. Accortomi 
che le ricerche ad onta della mia insistenza riuscivano affatto 
inutili, impresi a rivolgere domande in proposito a quei del 
luogo. Tutti mi accertavano il rinvenimento, più volte fatto, di 
‘ossa di mammiferi, e di più, con mia sorpresa, mi mostrarono 
numerosi denti di Squalo, un esemplare di Strombus coronatus 
Dfr. ed un modello interno di Cardita, aggiungendo di avergli 
trovati in quei luoghi. A prima giunta non nego che credei ri- 
soluta ogni controversia, insistei però presso quella gente a 
fine, che mi conducessero nelle località precise, ove dicevano di 
avere rinvenuto quei fossili marini: vi fui condotto; e non solo 
non potei raccogliervi nulla di simile; ma dovei anche convin- 
cermi dell’ assenza assoluta di ogni benchè minimo indizio della 
presenza del mare in quella località ; poichè dove si diceva di aver 
raccolto quei denti di Squalo dovevano trovarsi tanti altri resti 
di organismi marini da non lasciare nessun dubbio in proposito. 
Dopo questo tornai ripetutamente in quei luoghi, girai intorno 
ad essi, nulla lasciando intentato, portai meco dei saggi di ar- 
gilla per vedere se vi era qualche Foraminifera; ma tutto fu 
inutile. Non mi restava, che esplorare la parte più a Sud della 
Val d’Ambra cioè quel tratto che sta fra il paesello di Ambra 
e Bricocolo: ciò feci con massima cura, ma i resultati furono 
presso a poco gli stessi. Molti contadini possedevano denti di 
Squalo ed uno di essi, quello che abita la cascina denominata 
Pian di Rapale, affermava di avere trovato un dente di Squalo (') 
mentre scavava una buca ‘allo scopo di atterrare un albero; 
ma al solito, nulla potei vedere e raccogliere che giustificasse 
il rinvenimento di simili fossili; per la qual cosa dovei finire 
per convincermi che essi, od erano stati da qualcuno smarriti, 
o i contadini del luogo gli possedevano per avergli raccolti nelle 
non lontane crete senesi, ove spesso si recano per i loro com- 
merci ed anche per trovarvi lavoro. 


(') Quei del luogo (come la maggior parte dei contadini) chiamano i denti di 
Squalo saette, come pure chiamano così le frecce dell’ epoca neolitica abbondantissime 
nella Val d'Ambra: però dalla descrizione che me ne faceva quel colono e dalle ri- 
sposte date alle mie domande, potei assicurarmi, che si trattava proprio del dente 
di uno Squalo. 


264 ! G. RISTORI 


Da tutto ciò dovei concludere, che il mare non era pene- 
trato nella Val d'Ambra e molto meno vi era rimasto per lungo 
tempo: anzi mi aspettavo che oltre Biricocolo avrei trovato 
qualche ostacolo naturale, costituito dalle solite roccie eoceniche 
tanto sviluppate in quei luoghi, il quale desse ragione del non 
ingresso del mare in quella valle; ma con mia meraviglia ri- 
scontrai, che le formazioni argillose e sabbiose seguitavano non 
interrotte e a Giglio raggiungevano un altezza tale da superare 
di parecchi metri il culmine di Biricocolo costituito di arenarie. 
Solamente dopo essere disceso per un buon tratto nel despluvio 
dell’Ombrone ed avere raggiunto un livello molto inferiore alle 
formazioni argillose e sabbiose di Giglio e al Colle di Biricocolo, 
a Maesto, lungo il torrente Coggia, trovai la via provinciale 
ed il torrente stesso incassate nella roccia eocenica per una lun- 
ghezza di 20 metri; ma subito dopo a queste roccie si appoggia 
una formazione di ghiaie grossolane di ciottoli, alternante con 
sabbie ed argille, che raggiunge un notevole spessore e supera 
l'altezza delle formazioni eoceniche, per modo che la breve in- 
terruzione dei depositi pliocenici incontrata a Maesto è più ap- 
parente che reale; poichè tanto le argille e sabbie plioceniche 
suindicate, quanto quelle di Giglio e dei dintorni di Campo- 
vecchio e di Biricocolo, superano il livello delle roccie eoceniche, 
che costituiscono l’ interruzione summentovata. 

— Stando così le cose, delle due una, o il livello delle acque del 
lago del Valdarno, che si prolungava in un braccio per la Val 
d’Ambra, era superiore a quello delle acque del mare pliocenico, 
che occupava la Val d' Ombrone, per modo, che il rifiuto del 
lago fluiva nel mare, o le formazioni di ghiaie, ciottoli, sabbie 
ed argille alternanti che si trovano nei dintorni di Ombrone e di 
Maesto ci rappresentano un cordone litorale, il quale impediva 
che durante l'alta marea le acque marine entrassero nel lago 
a mescolarsi colle acque dolci. Ad avvalorare la seconda ipotesi, 
che mi pare la più logica e la più naturale, credo opportuno 
indicare la natura e la successione stratigrafica delle formazioni 
ghiaiose e sabbiose, che s° incontrano presso Maesto ed Ombrone, 
le quali essendo state in quelle due località erose dal torrente 
Coggia, mostrano al nudo la loro costituzione, successione ed 
alternanza di strati che è la seguente: 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 265 


Successione degli strati come si osserva presso Maesto 


l. Sabbia con ciottoli. . . . +. +. . . . . Spessore Met. 2,80 
2. Argilla turchina con grossi ciottoli. . . . » » 1,70 
Sb RENEE one eno e A » » 2,00 
4. Argilla turchina con grossi ciottoli. . . . » DINO:100 
Successione degli strati come si osserva presso Ombrone 
INS abb aree Spessore@Met.#2,80 
2. Argilla turchina con grossi ciottoli. . . . » » 3,00 
SESTA CONI CIO LO NARRA » ». 1,69 
4. Argilla turchina con grossi ciottoli. . . . » » 2 


Da ciò si può benissimo argomentare che quelle formazioni ciot- 
tolose e sabbiose non ci rappresentino altro che depositi di 
spiaggia; poichè anche le forme dei ciottoli sono quelle proprie 
delle ghiaie marine. L° assenza assoluta di fossili in queste for- 
mazioni, di fronte alla ricchezza di quelle che loro stanno a con- 
tatto immediato serve come di altra prova per dimostrarci che 
quei materiali furono elaborati dalle onde, per cui furono to- 
talmente distrutti i resti organici che potevano contenere. Ri- 
tengo poi i suindicati depositi di origine marina; perchè essi si 
trovano a contatto immediato con le sabbie ed argille ricchis- 
sime di conchiglie marine fossilizzate: anzi a maggior prova 
aggiungerò, che presso Maesto sulla sinistra del Coggia raccolsi 
una valva di Cardium, e molti altri frammenti di conchiglie 
apparteneuti al medesimo genere: di più, negli strati sabbiosi 
che alternano con quegli argillosi e ciottolosi, rinvenni un fram- 
mento probabilmente appartenente alla cerniera di una bivalve 
marina. i 

A rendere però così scarse di fossili marini quelle formazioni, 
che come già dissi dobbiamo ritenere littorali, credo che oltre la 
elaborazione meccanica dei materiali rocciosi, operata dalla furia 
delle onde marine, si debba aggiungere la più o men grande 
azione meccanica delle acque dolci del braccio del lago val- 
darnese, il quale insinuandosi per tutta la Val d’ Ambra si tro- 
vava come già accennammo ad immediato contatto di quel cor-. 
done littorale, e forse concorse in piccola parte a formarlo. 


266 G. RISTORI 


Questo braccio del lago valdarnese, il quale occupava l’at- 
tuale Val d’ Ambra, era la sola insenatura di qualche impor- 
tanza che interrompeva la linea quasi retta del suo littorale. 
Infatti oltrepassata quell’ insenatura le sponde del lago proce- 
devano poco frastagliate fino a Laterina: oltre questa località, 
venivano a stringersi e ad accostarsi notevolmente fra loro, e 
ciò in ragione dello sviluppo che prendono le rocce eoceniche 
(arenarie) a Spedaluccio ed a Rondine; per cui fra Castiglion 
. Fibocchi e Rondine abbiamo una notevole riduzione delle for- 
mazioni lacustri. La linea immaginaria poi, che con direzione 
Sud-Nord potrebbe riunire le due ultime località ricordate, de- 
limiterebbe press’ a poco le formazioni argillose e sabbiose ap- 
partenenti al pliocene, e quindi anche l’estensione del lago dalla 
parte di Est-Nord-Est; poichè oltre i punti toccati da essa linea 
immaginaria non sì trovano più depositi i quali possano rife- 
rirsì al pliocene, ma invece cominciano a svilupparsi le ghiaie 
e le sabbie con quella successione ed alternanza di strati propria 
del sottosuolo della\pianura aretina appartenente al post-pliocene. 
A proposito però di quest’ ultima porzione dei depositi plioce- 
nici del lago valdarnese, conviene che io faccia menzione di alcuni 
fossili marini consistenti ‘in due denti di squalo delle specie 
Carcharodon sulcidens Agass. e Oxyrhina hastalis Agass. che il 
Museo d'Arezzo possiede come provenienti da Palazzone. località 
poco lontana dalla stazione ferroviaria di Ponticino. Però dalle 
ricerche che feci in quella località dovei venire alle medesime. 
conclusioni, a cui mi condussero quelle eseguite in Val d’ Ambra 
allo stesso scopo e per la stessa ragione. 

Questo è quanto poteva dirsi intorno al Valdarno superiore 
e alla Val d'Ambra da un osservatore diligente e spassionato, 
all’ uopo di mettere nei veri termini le controversie ultimamente 
sorte sulle condizioni di quelle località nel periodo pliocenico. 
Se il rinvenimento di altri fossili o l’ osservazione più sapiente 
di fatti non venga a modificare l’ idee da me succintamente 
esposte, è -certo, che oggi non possiamo avere un opinione più 
confacente a spiegare tutti i fatti che sono alla nostra conoscenza 
per lo che basti per ora quello, che abbiamo detto del Valdarno 
e veniamo alla Val di Chiana.. 

IL’ argomento che incominciamo a svolgere è stato studiato 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 267 


dal Verri ('), il quale in diverse note ne ha -diffusamente trat- 
tato: esso però si è più specialmente occupato della Val di 
Chiana romana e dell’ antica deltazione del Tevere, che della 
Val di Chiana toscana. Nondimeno incidentalmente ha parlato 
anche di quest’ ultima località, anzi in una sua nota ultima (?) 
uscita ha modificate e corrette alcune idee antecedentemente 
espresse, intorno al piano del pliocene, a cui dovevano riferirsi 
i depositi laeustri di Marciano, Foiano, Pozzuolo fino al lago 
di Chiusi. Da ciò l' opportunità di tornare un poco sull’ argo- 
mento. 

Oltrepassata la stretta di Capo di Monte e Chiani, occupata 
dalle formazioni quaternarie, che uniscono quelle dei dintorni 
d'Arezzo con quelle della pianura della Chiana, percorrendo la 
via che da Chiani conduce alla Badia al Pino si può vedere 
come fino a Vicomaggio le formazioni quaternarie incise nel bel 
mezzo del canale maestro della Chiana, riposino decisamente sui 
terreni eocenici, che costituiscono la punta più avanzata Nord-Est, 
dei monti che determinano il displavio e lo sparti-acque della 
Chiana dell’Ambra e dell’Ombrone. Da Chiani a Vicomaggio, la 
strada segna il confine fra ì terreni quaternari e le arenarie 
eoceniche, che a sinistra della medesima prendono un grande 
sviluppo; però lungo il torrente Lota le arenarie summentovate 
vengono ricoperte in piccola parte da una formazione di sabbie 
gialle della potenza appena di 4 metri: questa sì allarga a mano 
a mano, che sì procede verso Sud e a Tuori ha già acquistato 
un considerevole sviluppo. Oltre quest’ ultima località la vediamo 
interrompersi più qua e più là per l’ affioramento delle arenarie; 
ma il suo sviluppo è divenuto sempre maggiore; giacchè passa 
anche ad occupare una parte della valle del Leprone e del Riola. 
A Montagnano questa formazione si allarga ancora di più ed 
acquista veramente una considerevole potenza, formando delle 
colline di 100 a 120 di altezza sul livello delle formazioni qua- 
ternarie costituenti la pianura solcata dal canal grande della 


(!) Verri Antonio — Sui movimenti sismici della Val di Chiana. Rendiconti del 
R. Ist. lombardo Vol. X. — Id. Avvenimenti nell’interno del bacino del Tevere du- 
rante e dopo il Pliocene. Atti Soc. it. di Scienz. nat. Vol. XXI, p. 149. — Id. SuZla 
Cronologia dei Vulcani tirreni e sulla idragrafia della Val di Chiana anteriormente 
al pliocene. Rend. del R. Ist. Lomb. Serie II, Vol. XI, fasc. III 


(2) Verri — Seguito alle note sui terreni terziari e quaternari del bacino del 
Tevere, 


265 i G. RISTORI 


Chiana, e prosegue non interrotta fino a congiungersi con quelle 
plioceniche marine di Chianciano e di Chiusi a Sud Ovest e con 
quelle lacustri di Città della Pieve a Sud. I fossili che vi si pos- 
sono raccogliere mostrano, che appartengono al pliocene lacustre. 
La valle dell’ Esse quella dell’ Infernaccio fino alla pianura della 
Chiana sono tutte circondate da colline plioceniche. A Marciano 
nei dintorni di Lucignano e di Monte S. Savino a Foiano a Farneta 
a Valiano a Pozzuolo a Giojella, ed in molte altre località, si 
possono raccogliere fossili appartenenti a diverse classi di ani- 
mali di specie evidentemente plioceniche. Infatti il Museo geo- 
logico di Bologna possiede resti di Elephas meridionalis rinvenuti 
a Farneta, ove io stesso ho raccolto una porzione di scapola ap- 
partenente a quella stessa specie. A Lucignano e nella valle 
della Foenna furono qualche tempo fa rinvenuti resti di Mastodon 
e di Elephas, e probabilmente anch’ essi dovevano appartenere 
alle specie arverensis e meridionalis. I fossili però più caratteri- 
stici, e che servono meglio a determinare l’ epoca precisa a cui 
appartengono quelle formazioni, e le condizioni di quelle località 
nel periodo pliocenico, sono le conchiglie lacustri, che sì trovano 
abbondantissime in molti luoghi, come presso Marciano in una 
località detta Ponti prossima al fiume Esse a Foiano presso la 
Madonna della Querce, a Farneta poco sotto la Villa a Valiano 
presso la Cascina del Fuoco, a Pozzuolo, a Giojella nel botro del 
Fossatone e a Casa Maggiore. In tutti questi luoghi ho io stesso 
raccolti magnifici esemplari di conchiglie lacustri, che ora pos- 
siede il Museo di Firenze e di cui credo bene darne la nota, che 
debbo alla gentilezza del prof. Cesare D'Ancona, che sta stu- 
diando quei fossili. 

1. Anodonta sp. (an. A. Bronnii D' Anc.?) 

Fossatone presso Giojella. 
2. Unio Pilla De Stef. 
Ponti presso Marciano. 
9. Dreissena Plebeja Dub. 


Marciano. 

4. Corbicula sp. 
Marciano 

-D. Neritina sp. 
Marciano. 


6. Valvata interposita De Stef. 
Marciano. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 269 


S Melanopsis flammulata De Stef. 


Marciano. 
8. Vivipara Esperi Fer. 
Giojella. 
9. è Belluccii De Stef. 


Marciano Farneta. 
10. Bithynia sp. 
Marciano. 


A Marciano ho raccolto anche qualche dente di inca e di 
Leuciscus. 

Per completare questa rapida rassegna delle formazioni la- 
custri plioceniche della Val di Chiana e a maggiore intelligenza 
del lettore, indicherò la successione naturale degli strati come 
sì trova in una delle località più fossilifere. Scelgo a questo 
proposito i dintorni di Marciano, come quelli che potei più mi- 
nutamente esaminare e dove raccolsi il maggior numero di fossili 
ed eccone la successione dall’ alto al basso : 

1.° Argille non fossilifere, e terreno vegetale; 

2.° Argille ferruginose con Paludine, Valvate, Neritine, 
Anodonte ec. 

3.° Strati con Dreissene e tufi calcari ove in gran numero 
sono riunite le Dreissene e dove si trovano i denti di. Tinca e 
di Leuciscus. 

4.° Sabbie con Unio, Anodonte, Dreissene, Valvate, Paludine, 
Melanopsis, Cyrene. 

Come si vede dallo spaccato, gli strati fossiliferi sono alter- 
nanti. Questa condizione di ‘alternanza di sabbie e di argille 
fossilifere la vediamo mantenersi più ‘0 meno esattamente nel 
resto della Val di Chiana. I fossili che si raccolgono in quelle 
formazioni mostrano che esse si deposero in seno ad un lago di 
acque dolci o meglio leggermente salmastre; poichè l’ abbon- 
danza delle Dreissene ci indica che le acque di esso lago non 
erano perfettamente dolci e non lo potevano essere; inquantochè 
le comunicazioni coi mari contemporanei, che lo cingevano da 
Sud e da Ovest dovevano essere numerose. Una prima di queste 
comunicazioni credo col Verri (') che fosse per la Val di Foenna 


(') A. Verri — Seguito alle Note sui terreni terziari e quat. del Bacino del 
Tevere. Atti della Soc. it. di Scienz. nat. Vol. XXIII, fase. 3.0 


270 G. RISTORI 


ed anche a Sud di essa: infatti percorrendo detta valle si incon- 
trano le formazioni plioceniche lacustri fino ad Osteria presso la 
stazione ferroviaria di Lucignano: quivi però vengono interrotte 
dalle arenarie eoceniche di Rigomagno, le quali raggiungono 
un’ altezza di poco superiore alle formazioni del pliocene marino, 
che si trovano assai sviluppate a Casalta ('), e che seguitano 
non interrotte anche nella Valle del Sentino fino a congiungersi 
colle formazioni plioceniche marine dei dintorni di Rapolano e 
della Val d'Ombrone. Inquanto alla Valle del Sentino e a quella 
della Foenna dirò che mostrano evidenti prove della permanenza 
del mare; poichè quà e la si veggono argille e sabbie contenenti. 
numerosi resti di conchiglie marine plioceniche, riposare sui ga- 
lestri manganesiferi tanto sviluppati nella Valle del Sentino a . 
S. Martino ed a Selva. Il pliocene marino incomincia a Casalta 
di la si-allarga nella Valle del Sentino congiungendosi a Nord- 
Uvest con quello della Val d’ Ombrone e a.Sud con quello dei 
dintorni di Sinalunga e di Torrita. 

A chi volesse dare poi una grande importanza allo sviluppo 
che le arenarie eoceniche prendono nei pressi di Rigomagno, e 
volesse vedere in corrispondenza, di quella località uno sbarra- 
mento fra il mare della val di Sentino ed il lago pliocenico 
della Chiana, farò osservare che l’ attuale scolo del Sentino e 
della Foenna nella Chiana invece che nell’ Ombrone, mostra evi- 
dentemente che i terreni secondari, che costituiscono presso 
Boninsegna, Romitorio e Camerino lo spartiacque fra il Sentino 
e l’Ombrone, superano in altezza le arenarie di Rigomagno; 
quindi se il mare pliocenico che occupava la Val di Sentino, 
comunicava, come è facile verificare, con quello della Val d’ Om- 
brone, superando col suo livello l’altezza raggiunta dalle for- 
mazioni secondarie nelle summentovate località; tanto più do- 
veva superare l’ altezza evidentemente minore, raggiunta dalle 
arenarie nei dintorni di Risomagno o più precisamente a Pa- 
lazzuolo e alle Folci. In ogni modo, anche facendo a meno della 
Val di Foenna come braccio di comunicazione fra il lago plioce- 


(4) Nella Carta geologica annessa ad un opuscolo del Verri intitolato: Alcune 
linee sulla Val di Chiana e luoghi adiacenti nella storia della Terra; la valle della 
Foenna a Ovest di Rigomagno e la Val di Sentino, sono segnate col colore convenuto 
per il pliocene lacustre; invece io ho riscontrato, che vi esistono formazioni plioce- 
niche sì, ma plioceniche marine. i 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 271 


nico della Chiana ed il mare contemporaneo senese, basta vol- 
gersi un poco a Sud per constatare, che le formazioni lacustri, 
che seguono per piccolo tratto il corso della Foenna a Sud 
d’ Osteria, sono continuate dalle argille e dalle sabbie marine 
di Sinalunga e di Torrita, le quali alla lor volta sono in  di- 
retta continuazione con quelle di Montepulciano, Chianciano e 
Chiusi, che limitano ad Ovest-Sud-Ovest, anche secondo il 
Verri (') la massima parte delle formazioni plioceniche lacustri 
della Val di Chiana e sono a queste contemporanee. 

La vasta comunicazione però che il lago, in seno al quale 
sì deposero le formazioni plioceniche della Chiana, sembra avere 
avuto dalla parte di Ovest-Sud-Ovest, ed anche di Sud (se si 
giudica dall’ estesa continuità delle formazioni lacustri con quelle 
marine) col mare pliocenico, che in allora occupava i dintorni 
di Montepulciano, Chianciano, Chiusi, Sarteano, Cetona, contradice 
la condizione di leggera salsedine delle sue acque, la quale ci 
viene evidentemente dimostrata dai fossili, che oggi si possono 
raccogliere nei suoì depositi. Infatti. quei fossili ad eccezione 
delle Dreissene, appartengono tutti a generi e specie di molluschi 
| proprie delle acque dolci, e quindi disadatti a vivere in acque molto 
salmastre. Tali condizioni non possono mettersi in relazione coi 
fatti che oggi si osservano, a meno chè non sì supponga una 
più o meno continua barriera, che limitasse almeno in parte 
una tanto vasta comunicazione, che non poteva misurare meno 
di 30 chilometri. Le formazioni costituenti questa barriera, che 
doveva essere anteriore alle deposizioni del lago e del mare 
pliocenico, oggi non esiste, e sarebbe quindi per noi cosa affatto 
gratuita il supporne l’esistenza anche in quelle remote età, da 
ciò la necessità di ricorrere, per ispiegare il fatto, ad una più 
logica supposizione, cioè all’esistenza, ammessa pure dal Verri (?), 
di un cordone litorale, che doveva necessariamente interrompere 
in gran parte, la comunicazione del lago col. mare da quella 
parte. 

Tali, è logico supporre che fossero le condizioni della Chiana 
toscana e di parte di quella romana nel periodo pliocenico. Le 
estese formazioni di ghiaie, sabbie ed argille, che come dicemmo, 


(4) A.. Verri — Seguito delle note sui terreni terziari e quaternari del bacino 
del Tevere. Soc. ital di Scienz. nat. Vol. XXIII, fase. 3.9 
(®) Id. — Id. Soc. it. ec. Vol. XXIII, pag. 287. 


Dna i G. RISTORI 


contengono numerosi avanzi fossili di una fauna decisamente 
pliocenica, e simile in parte a quella del Valdarno superiore, si 
devono riferire al piano geologico, a cui appartengono quelle 
di quest’ ultima località, e si devono senz’ altro ritenere contem- 
poranee e quindi argomentarne la coesistenza di quei due vasti 
laghi, i quali però, come, si può anche dimostrare basandosi 
sulla differenza, che evidente emerge dal confronto delle due 
faune malacologiche, non si trovavano nelle medesime condizioni 
nè erano fra loro in comunicazione, come .potrebbesi, e forse 
come si è da qualche geologo creduto. Ma poichè quest’ argo- 
mento è in diretta relazione colle condizioni in cui si trovavano. 
nel periodo pliocenico i dintorni della città d’ Arezzo ora rico- 
perti dalle potenti deposizioni di un lago quaternario, il quale 
superata la stretta di Capo di Monte, si estendeva anche ad una 
gran parte dell’ attuale Chiana toscana, e ne formava il sotto- 
suolo della pianura. Da ciò la ragione di cominciare subito 
trattare dei dintorni della città d’ Arezzo e CONSESUAA A 
dei terreni post-pliocenici. 


POST-PLIOCENE 


Sarà inutile che io torni a ripetere, come i dintorni della 
città d’ Arezzo non presentino, all’ occhio dell’ osservatore, che 
una formazione di considerevole potenza costituita di ghiaie, 
sabbie ed argille che riposano unitamente ad alcuni strati di 
lignite di non grande spessore su di una argilla turchina con- 
tenente resti di conchiglie fluviatili tutte, appartenenti a specie 
già conosciute e decisamente quaternarie o tuttora viventi. 
Negli strati stessi di lignite, che qua e la si mostrano di spessore 
variabile ed appariscono nei profondi tagli della pianura operati 
dal torrente Castro e dal ‘torrente Vingone non che dalla por- 
zione più a Nord del fiume Chiana e più specialmente nei pressi 
di Quarata, si possono raccogliere abbondanti i resti e le im- 
pronte di Paludine, di Anodonte, di Unio, di Planorbis, di Limnee, di 
Valvate, di Pisidium e di Cyclas, tutte appartenenti a specie già 
indicate dal prof. Igino Cocchi, in una sua ultima nota intitolata 
(Nuovi fossili del Vingone e della Chiana. Non starò qui a ripetere 
il nome di quelle specie determinate dal prof. Cesare d' Ancona: 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 273 


dirò solo che appartengono tutte a specie quaternarie o viventi, 
e servono benissimo, unitamente alla fauna mammologica e alla 
flora fossile, a determinare l’ orizzonte geologico a cui debbono 
riferirsi quei depositi ('), i quali si veggono riposare direttamente 
sulle arenarie eoceniche o sui calcari alberesi, o sulle argille 
scagliose e schisti argillosi, di cuì è costituito il sottosuolo della 
pianura aretina al pari dei monti che la limitano, e dei bassi 
colli di Patrignone, di Ciciliano, di Puglia, di Montioni e di 
S. Maria, che la interrompono. 

Al di sotto di queste formazioni quaternarie, per la fauna e 
per la flora fossile che in se racchiudono, era logicamente pre- 
supponibile che si sarabbero trovate delle formazioni plioceniche 
come diretta continuazione di quelle del Valdarno superiore o 
della Val di Chiana; ma per quanto accurate e diligenti sieno 
state le mie ricerche a questo proposito, non mi fu possibile 
d’ incontrare il ben che minimo rappresentante dei terreni plio- 
cenici e tanto meno rinvenni dei fossili riferibili a quel periodo. 
Avevo visti accennati, in uno scritto del: prof. Carlo De-Stefani (?) 
alcuni fossili marini pliocenici che egli, sotto l'autorità del Verri, 
cita come trovati lungo le rive del torrente Vingone e del 
torrente Castro e conservati nel Museo d’ Arezzo insieme colla 
mandibula di una Balena rinvenuta a Montioni nel 1663; mi 
recai a quel Museo, e fattane diligente ricerca, potei vedere quei 
fossili, che si trovavano nella collezione di conchiglie marine 
plioceniche senza essere determinati, e quello che è peggio senza 
neppure portare scritta l'indicazione della località, dai cataloghi 
solo potei constatare che erano stati portati a quel Museo come 
raccolti presso il torrente Vingone; mentre alcune altre con- 
chiglie marine, che trovai in una cassa, che giaceva abbando- 
nata nel magazzino, erano accompagnate da un vecchio cartel- 
lino, in cui erano scritte queste precise parole: 27 Conchiglie 
fossili trovate nel Castro sopra ad Arezzo. Questi fatti crebbero 
la speranza e il fervore nelle mie ricerche; ma mio malgrado, 
dovei pienamente convincermi che nei dintorni d’ Arezzo non 
solo non esistevano fossili marini pliocenici, ma neppure terreni, 


(4) Cocchi — L'uomo fossile nell Italia centrale. Estr. dal Vol. III, delle me- 
morie della società ital. di Scienz. nat. pag. 5. 
(2) De Stefani — Molluschi continentali plioc. (Atti della Soc. tosc. di scienz. 


nat. Vol. V, anno 1881. 
Se. Nat. Vol. II fascic. 2. 18 


274 G. RISTORI 


che gli potessero contenere. Tutte le frane, tutte le incisioni 
operate dai torrenti che solcano in vari sensi quella pianura, 
tutte le pendici scoscese, che mostrano a nudo gli strati, furono 
da me diligentemente visitate e vi furono fatte le più accurate 
e minuziose ricerche; ma da per tutto non rinvenni altro che 
depositi lacustri e lacustri quaternari sempre disposti nel modo 
anzidetto, colla solita successione di strati ('), con una orizon- 
talità quasi perfetta e contenente fossili lacustri post-pliocenici, 
nessun indizio di terreni più antichi e di fossili pliocenici. 

D’ altra parte, tornando ad esaminare più accuratamente le 
conchiglie marine conservate nel Museo d’ Arezzo, come prove- 
nienti dai dintorni della città, le quali volli anche determinare 
e darne qui la nota (?), mi accorsi che esse erano state raccolte 
parte nelle sabbie, parte nell’ argille, parte staccate da calcari 
forse miocenici, e mostravano caratteri così differenti di fossiliz- 
zazione da escludere assolutamente la provenienza loro da una 
medesima località. Queste osservazioni messe a contributo colle 
mie infruttuose ricerche e colla confusione che esiste e nei ca- 
taloghi e nelle collezioni del Museo d’ Arezzo, ove quello che è 
meno curato sì è appunto l'indicazione precisa della provenienza 
dei fossili, che vi si conservano, è naturale che destino il mas- 
simo sospetto sulla provenienza attribuita a quelle conchiglie 
marine, ed inclino quindi a credere che sieno state raccolte nelle 
crete senesi o nei dintorni di Sinalunga e di Torrita; tanto. 
più che la cassetta contenente le conchiglie distinte col cartellino 
di cui trascrissi più sopra la precisa dicitura, era ripiena di 
altre conchiglie marine fossili disposte colla più grande confu- 
sione, e che indubbiamente provenivano da Chiusi e da Cetona; 


(1) Per la successione dei depositi lacustri costituenti la pianura aretina vedi i 
tagli fatti e riportati dal Cocchi nella sua memoria L'uomo fossile nell’ Italia cen- 
trale. pag. 45-46. 


(2). Con indicazione di provenienza Con indicazione di provenienza 
dal Vingone dal Castro 
Murex Pecchiolanus D'Anc. Cardium hians Broc. (2 modelli interni) 
Cerithium vulgatum Brug. Pectunculus pilosus Lin. (4 valve) 
Ostrea sp. ind. Spondylus gederopus Lin. (4 valve) 
Cardium multicostatum Brocc. Pecten opercularis Lin. (2 valve sup.) 
Arca mytiloides Broce. Cytherea sp. ind. (2 modelli interni) 


Lucina sp. ind. (3 modelli interni) 
Ostrea edulis L. Gm. (3. valve) 
Cardita sp. ind. (1 modello interno) 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 275 


giacchè questo ripetutamente affermava il sig. Angiolo De-Giudici 
interrogato da me in proposito. 

Nulla aggiungerò sul valore paleontologico della mandibola 
di Balena trovata a Montioni per questo rimando alla nota (!) 
ultimamente fatta dal prof. Igino Cocchi e comunicata alla So- 
cietà toscana di scienze naturali residente in Pisa; e solo dirò, 
che a Montioni non esistono terreni che possano contenere si- 
mili fossili, e le Arge/le /urchine ricche di resti di conchiglie flu- 
viatili quaternarie, che sono messe allo scoperto, presso quella 
località causa le profonde erosioni del torrente Castro e del 
torrente Maspino, si veggono direttamente riposare sulle are- 
narie eoceniche che affacciansi frequentemente lungo l'alveo e 
nell’ alveo. stesso del torrente, primo rammentato. A questo si 
aggiunga, che la mandibola di Balena è molto discutibile se sia 
veramente fossile, e per esperienze da me fatte su di un fram- 
mento che ne staccai, non dubito punto di credere che quel 
resto organico appartenga a specie tuttora vivente, e sia stato 
colà portato ed inumato dall’ Uomo: certo è che non appartiene 
ad un animale che visse nell’ acque stesse, che operarono le 
deposizioni, da cui era ricoperto. 

Ad ogni modo credo potere affermare colla certezza di non 
essere smentito, che non esistono nei dintorni d’Arezzo terreni 
pliocenici e tanto meno terreni pliocenici marini: solamente le 
formazioni quaternarie ivi acquistano grande sviluppo e succe- 
dono immediatamente ai terreni eocenici senz'alcun intermediario. 
A quest’ultima affermazione però si oppongono le conclusioni 
del Forsyth Major, il quale in una sua nota intitolata: Su li-- 
vello geologico del terreno in cui fu trovato il così detto Cranio 
dell’ Olmo (:), afferma che sulle rive della Chiana presso la sua 
confluenza nell’ Arno, quindi poco lungi da Ruballa, nell’argilla 
sottostante alle ghiaie e sabbie quaternarie fu scavato nel 1869 
un molare di Elephas meridionalis Nesti; e di più che il Museo 
d’Arezzo, possiede numerosi resti di una fauna mammologica 
decisamente pliocenica, però senza indicazione di località ! 

Inquanto ai resti di mammiferi pliocenici conservati nel 
Museo d’ Arezzo, non potendosi sapere, anche secondo il Mayor 


(!) Cocchi — Nuovi fossili del Vingone e della Chiana. Atti della Società tosc. 
di Scienz. nat. Vol. IV, processi verbali, 4 maggio 1884. 
(*) Bull. della Soc. Ital. di Antropologia. Adunanza 20 aprile 1876. È 


276 G. RISTORI 


la località da dove provengono, non possono essi servire di 
nessuna prova attendibile; tanto più che dai cataloghi di quel 
Museo, per quanto sieno in grande disordine, io stesso ho potuto 
riscontrare, che parecchie delle ossa di mammiferi ivi conservate 
provengono dal Valdarno superiore e dalle colline plioceniche 
della Val di Chiana toscana. Il dente molare sopra citato però 
sarebbe di grande valore, quando non si potessero fare molte 
osservazioni ed esporre i seguenti fatti: 1." Il rinvenimento di 
resti di Elephas primigenius, di Cervus euryceros, di Bos. pri- 
migenius e di altre specie di mammiferi quaternari, non che 
di conchiglie lacustri pure quaternarie, fatto in quel medesimo 
strato argilloso ed in quella medesima località ove il Major affer- 
ma essere stato scavato il dente molare in questione. 2.° Nel 
Museo d’ Arezzo non esistono denti molari di Elephas meridionalis 
coll’ indicazione di essere stati ritrovati a Quarana, a Ruballa, a 
Ponte a Buriano, o in altre località presso alla confluenza della 
Chiana nell’ Arno. 3.° Nei denti molari di E. meridionalis pos- 
seduti dal detto Museo è manifesta la fossilizzazione caratteri- 
stica delle ossa fossili del Valdarno superiore. 4.° ll sig. Major 
non dice di essere stato presente all’ escavazione del fossile, 
quindi dovè fidarsi dell’ indicazione di persone estranee alla 
scienza, che tanto facilmente sogliono ingannare. 5.° La fauna 
mammologica fin’ ora rinvenuta nei dintorni di Quarata e sulle 
rive del fiume Chiana è decisamente quaternaria ('). 
Dimostrata così l’ assoluta mancanza dei terreni pliocenici 
nei dintorni della città d’ Arezzo, resta a cercarsi il perchè di 
quest’ assenza, mentre come vedemmo fino da Vicomaggio in 
Val di Chiana e da Rondine in Valdarno si incominciano a tro- 
vare terreni pliocenici. Ora come è che i laghi pliocenici che 
occupavano il Valdarno da una parte la Val di Chiana dall'altra, 
non invasero anche i dintorni d’ Arezzo e non operarono in essi 
le loro deposizioni? Per trovare una spiegazione a questo fatto, 
conviene rintracciare le condizioni in cui si trovavano nel periodo 
pliocenico i dintorni della città d’ Arezzo; poichè esse sole de- 
vono e possono darcene la ragione. Le deposizioni quaternarie 


(4) In quei luoghi nello strato argilloso che affiora sulla sinistra della Chiana 
alla sua confluenza nell’Arno, io stesso ho raccolto conchiglie lacustri appartenenti 
alle seguenti specie quaternarie: Bithynia tentaculata L. Valvata piscinalis Muùll., 
Planorbis spiralis L. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EC. 277 


della località che ci occupiamo, raggiungono uno spessore con- 
siderevole, e come dicemmo, riposano sulle arenarie, sui calcari 
alberesi e sui galestri, le quali rocce assorgono in moltissimi 
punti nel mezzo della pianura a dimostrarci come sia costituito 
il sottosuolo più profondo. A chi osserva attentameate quei 
colli, che interrompono qua e Jà la pianura suddetta, sì affaccia 
subito alla mente l’idea che le formazioni eoceniche di cui sono 
costituiti abbiano subìto un abbassamento ('), per il quale quella 
località fu invasa dalle acque, che vi deposero le ghiaie le sabbie 
e le argille, ricoprendo così le più antiche formazioni che oggi 
sporgono più quà e più là dalle deposizioni quaternarie inva- 
denti, al modo stesso che sporsero quali isole durante il sog- 
giorno del lago in quella medesima località. 

Il non trovarsi, negli strati più bassi costituenti il riempi- 
mento ed il ripianamento di quella depressione, nè terreni nè 
fossili pliocenici, mentre questi e quelli esistono a piccola di- 
stanza, dimostra chiaramente che quella regione doveva nel 
periodo pliocenico essere sollevata e quindi nell’ impossibilità 
e in tal condizione da non si effettare nuove deposizioni sulle pre- 
esistenti eoceniche; giacchè i nuovi terreni sì formano solamente 
quando una data regione si trovi depressa: altrimenti la denu- 
dazione operata dagli agenti atmosferici, invece di creare di- 
strusgerà parte delle formazioni preesistenti. L° opinione che 
durante il pliocene si trovassero sollevati e fuori del dominio 
delle acque i dintorni d'Arezzo, fu prima che da me manifestata 
dal Verri (?), il quale però estendeva questo sollevamento anche 
a tutta quanta la Chiana toscana. Dopo ulteriori studi 1° autore 
succitato modificò un poco le sue idee (*), mantenendo sempre 
la credenza che le acque del lago pliocenico della Chiana e 
anche quelle del suo lago quaternario, che l’ uno dopo l’ altro 
l’occuparono, fluissero nel Tevere e non già come oggi nell’Arno. 
Quest’ ultima idea è oggi universalmente acccettata e tutti siamo 
d’ accordo a ritenere che le acque del lago pliocenico e quindi 


(1) Verri — Avvenimenti nell’ interno del bacino del Tevere antico. Atti della 
soc. ital. di scienze naturali. Vol. XXI, an. 1878, pag. 176. 

(®) Verri — Sulla Cronologia dei Vulcani terreni e sulle orografia della Val di 
Chiana anteriormente al pliocene. Rendiconti del R. ist. lomb. Ser. II, Vol. XI, fasc. III 

(®) Verri — Seguito alle note sui terreni terziari e quaternori del bacino del 
Tevere. Atti Soc. ital. di Scienz. nat. Vol. XXIII. 


278 G. RISTORI 


quelle del lago quaternario della Chiana e del contemporaneo 
dei dintorni d’Arezzo fluissero verso Sud. Però da molti si crede 
che il flusso delle acque verso Sud si debba generalizzare anche 
al lago pliocenico del Valdarno superiore. Ora mentre nulla si 
può opporre alla prima idea, i fatti da me esposti riguardo le 
condizioni, in cui si trovavano i dintorni d’ Arezzo nel periodo 
pliocenico, contradicendo la seconda ci costringono a combat- 
terla, perchè se le acque di quel lago pliocenico’ si fossero 
scaricate nella Val di Chiana e conseguentemente i due laghi 
contemporanei e pliocenici della Chiana e dell'Arno si fossero 
trovati in diretta comunicazione, non potevano mancare nei 
dintorni d’ Arezzo nè fossili nè terreni propri di quel periodo 
geologico. L’ assenza di questi che si riscontra per tutta quanta 
la pianura aretina, mostra come dissi e qui mi piace ripetere, 
che i dintorni di essa città si trovavano allora sollevati ed impe- 
divano quindi il flusso da quella parte alle acque del Valdarno 
superiore ('). Ma non basta l'Arno scendendo dal Casentino e tro- 
vando quei terreni sollevati non poteva dirigersi a Snd, come 
poi per circostanze mutate fece nell'epoca quaternaria; quindi 
doveva come oggi volgere verso il lago del Valdarno superiore 
e scaricarsi in esso (*), contribuendo così in gran parte a col- 
.marlo e a fornirgli le acque necessarie a mantenerne la vastità. 
Quest’ ultima opinione scuoterà alquanto l’ idea ormai da un 
pezzo professata dai geologi che l’ Arno fino dal pliocene fosse 
tributario del lago della Chiana; ma quando si ammetta (come 
mi sono sforzato di dimostrare) il sollevamento della regione, 
oggi occupata dalla pianura aretina, durante il pliocene, il fiume 
non poteva fluire da quella parte, a meno che non si facesse 
strada attraverso ai monti, fino ad incidere quelli che esiste- 
vano fra Poggiale e Capo di Monte e costituire il taglio e la 
stretta oggi esistente fra le due località summentovate. Con- 


x 


viene però osservare che quella stretta oggi è solo occupata da 


(4) Il Cocchi dopo avere ammesso che le acque dell’ Arno e quelle del lago val- 
darnese fluissero verso Arezzo, non sapendo più da quali acque fosse mantenuto il vasto 
lago valdarnese, ricorse all’ ipotesi che esso lago ne ricevesse dalla parte di Nord- 
Ovest. (Cocchi - L’ Uomo fossile nell’ Italia centrale. p. 31. 

(2) Era più naturale che l’Arno si volgesse da quella parte, da che le formazioni 
plioceniche che s'incontrano fino da Rondine mostrano. che il fiume aveva minor quan- 
tità di roccie da erodere da quella parte per raggiungere la bassura: del Valdarno di 
quello che non avesse da Sud per incontrare a Vicomaggio quella della Chiana. 


CONSIDERAZIONI GEOLOGICHE SUL VALDARNO SUPERIORE EG. 2709 


formazioni quaternarie, e quindi è logico far rimontare a quel- 
l'epoca la sua origine e non ad una anteriore; tanto più che 
in questo modo si trova che la sua formazione è in corrispon- 
denza del generale abbassamento dei dintorni d'Arezzo, il quale 
diede luogo al lago quaternario e alla deltazione operata dal- 
l’Arno in esso lago e nel successivo della Val di Chiana comu- 
nicante col primo per la suindicata stretta di Capo di Monte. 

Per ciò che riguarda il vuotamento del lago del Valdarno, 
questo non poteva succedere altro che per la potenza raggiunta 
dai depositi operativi dall’ acque da una parte, e dall’ altra per 
l’ abbassamento subìto dai dintorni della città d’Arezzo sul finire 
del periodo pliocenico; per il quale abbassamento, come dicemmo, 
si formò il lago quaternario che comunicava con quello con- 
temporaneo della Val di Chiana, e l'Arno cessò di essere tribu- 
tario del lago pliocenico valdarnese, e trovò il suo naturale scolo 
verso la depressione dei dintorni d'Arezzo e la colmò operandovi 
quella deltazione che si estese anche a buon tratto della pianura 
della Chiana dopo avere superata la stretta di Capo di Monte. 

Le idee qui esposte mì vennero in mente or fa un anno 
allorchè intrapresi un escursione nei dintorni d'Arezzo allo scopo 
di ricercare ivi il pliocene marino, di cui sospettavo l’ esistenza 
dopo la lettura dei lavori del prof. Carlo De-Stefani. 

Chiuderò questa nota geologica colla speranza di aver fatto 
per parte mia, qualche cosa che concorra, almeno per i fatti e 
le osservazioni esposte, a fare un poco di luce sull’ argomento. 


M. CANAVARI 


FOSSILI DEL LIAS INFERIORE 


E 


GRANS ASSODATO 


RACCOLTI 


DAL PROF. A. ORSINI NELL'ANNO 1840 


Adunanza straordinaria del di 14 decembre 1884 


Una preziosa raccolta di fossili della più elevata montagna 
dell'Appennino si trovava nel museo geologico di Pisa, celata 
agli occhi del pubblico in uno dei molteplici cassetti nei quali, 
per ristrettezza di spazio delle collezioni esposte, sono racchiusi 
tanti e tanti tesori scientifici. Ricercando in quei cassetti fu per 
me una somma fortuna di rinvenire tale raccolta e leggere nelle 
etichette di essa e sugli esemplari stessi delle roccie la data 1840. 
Verso questo tempo l’ infaticabile prof. A. Orsini, per ricerche 
botaniche e geologiche, e in quest’ ultime valevolmente coadiu- 
vato dal conte A. Spada Lavini, aveva già percorso e ripercorso 
tutto quel tratto di Appennino che, dalle Alpi della Luna al 
Nord, si estende a mezzogiorno sino alle grandi catene del 
Monte Corno e della Maiella. Di quasi tutti gli esemplari è in- 
dicata la provenienza, e su alcuni si legge, di scrittura del- 
l'Orsini medesimo: Coni alti del Piccolo Corno, Coni ultimi del 
Piccolo Corno, o finalmente Vetta del Corno Piccolo; ciò che fa 
arguire ch’ egli raggiungesse le sommità di questa parte del 
Gran Sasso, ritenuta generalmente impraticabile anche sino a 


[6] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 281 


questi ultimi tempi. Noi avemmo già occasione di dire: , Ora 
la montagna (Gran Sasso d’Italia) è riconosciuta non difficil- 
mente accessibile quasi da ogni lato e viene percorsa e ascesa 
di frequente da studiosi e da escursionisti. Solo la vetta del 
Piccolo Corno, che, veduta dal Teramano, si presenta come il 
Dente del Gigante, non è stata ancora raggiunta; ma ciò 
non deve sorprendere quando si pensi che qua mancano le guide 
esperte e coraggiose che si trovano nelle regioni alpine , ('). 

Chi ebbe la ventura di conoscere l’ Orsini, o di sentire la 
fama ch’ egli ha lasciato di se nei montanari dell'Appennino, 
che più e più volte lo videro cimentare la vita in alpestri bur- 
roni per cogliere una pianta rara o estrarre dalla roccia un 
pietrefatto, non si meraviglierà al certo nel sapere ch’ egli, dopo 
aver esplorato buona parte dell’ Appennino, si avventurasse 
eziandio, con esito felice, di raggiungere e scrutare il punto più 
aspro e più difficile di tutta la catena. La memoria di una si- 
mile escursione non ci fu tramandata da nessuna pubblicazione, 
e sono lieto di poter ora ricordare un fatto sconosciuto, non 
tanto in riguardo alle difficoltà superate, quanto per le raccolte 
paleontologiche fatte in quell’ eccelso picco dell’ Appennino 
abruzzese. 

Sulla vetta del Corno Piccolo prevale un calcare grigio-ch ‘aro, 
talora con selce, identico litologicamente a quel lembo che si 
trova alla Conca degli Invalidi e che rapportammo al Lias 
medio (?). Risulta quasi completamente costituito di frammenti 
di steli di crinoidi (J22/ericrinus sp., Pentacrinus cfr. basaltiformis 
Miinst.) e di radioli di echinodermi. Fra questi sono rimarchevoli 
alcuni esemplari, tre dei quali qui figurati (tav. VI, fig. 14-16), 
e indicati come Cidaris sp. ind. Essi hanno qualche analogia con 
i radioli della Cidaris florigemma Phill., specie frequentissima 
nel Giura. L' esemplare indicato con la fig. 16 è quello che sì 
avvicina di più a questa specie per la regolare disposizione lon- 
gitudinale dei granuli spiniformi; tutti però se ne allontanano 
per non avere i granuli riuniti mercè un sottile filetto, ciò che 
si osserva costantemente nella C. florigemma Phill. Si aggiunga 


(') La regione centrale del Gran Sasso d’Italia. Osservazioni geologiche di 
L. BaLpacci- e M. CanavarI (con tavola di sezioni). Bollettino d. R. Com. geol. 
Vol XV, pag. 347. Roma, 1884. 


() 1 e. 


282 M. CANAVARI [7] 


infine che la forma del Gran Sasso si trova associata ad altri 
fossili spettanti al Lias medio. Così negli esemplari di roccie 
della :sommità del Piccolo Corno abbiamo notato l’ impronta di 
una ammonite mal definita, ma che pur tuttavia sembra essere 
di specie appartenente al gruppo del Harpoceras algovianum Opp., 
ed una bellissima Leptaena ('), la quale corrisponde perfettamente 
alla Leptaena fornicata Canav.; specie entrambi del Lias medio, 
e la seconda rinvenuta già alla Conca degli Invalidi (2). Havvi 
quindi anche corrispondenza paleontologica tra i calcari della 
vetta del Corno Piccolo e quelli della Conca degli Invalidi, ciò 
che viene a convalidare l’ interpretazione stratigrafica che il 
Baldacci ed io avevamo data della tettonica del Gran Sasso 
nella sezione S.-N. intersecante il Corno Grande e il Corno 
Piccolo, dopo aver percorso tutto il primo picco ed esserci li- 
mitati ad osservazioni nelle pendici occidentali e settentrionali. 
del secondo, senza toccarne la sommità (°). 

Si deve però anche dire che un esemplare in cui è scritto 
Coni alti del Piccolo Corno, 1840, risulta di un calcare bianco, 
cristallino, farinoso, identico a quello della maggiore vetta del 
Gran Sasso, e spettante al Lias inferiore. Da questo frammento 
di roccia ho potuto estrarre un fossile benissimo conservato, 
che corrisponde alla Chemritzia (Oonia) turgidula Gemm., specie 
del Lias inferiore. Non è improbabile che questo pezzo di roccia 
sia stato tolto dal conì più orientali, nei quali, oltre il Lias 
inferiore, deve succedere anche il Trias; ma in ogni modo tale 
fatto fa supporre che qualche lieve complicazione stratigrafica, 
dal Baldacci e da me non potuta rilevare, implichi le sommità 
del Piccolo Corno. 

Oltre ai sopra citati fossili del Lias medio l’ Orsini ne rac- 
colse altri nella vetta del Gran Sasso, alcuni dei quali portano 
l'indicazione: Punta a Levante del Corno Grande. Per la maggior 
parte sono essi minuti gasteropodi con qualche raro lamelli- 


(!) Questa elegante conchiglia fu studiata dal MENEGHINI, che, riconoscendola 
nuova, la chiamò Zeptaena Orsiniî. Non mi era noto l’ esemplare in parola quando 
io descrissi identica specie col nome di L. fornicata, (Contribuz. III alla conosce. d. 
Brach. d. Str. a T. Aspasia Mez. ecc. Atti Soc. tosc. d. Sc. nat. Vol. Vl, Pisa, 
1883) poichè altrimenti avrei conservato quel nome in segno di rispetto e di vene- 
razione al Maestro e a ricordo del prof. A. ORSINI. 

(?) La regione centr. d. Gran Sasso ecc., pag. 353. 

(3) 2. c. Tav. VII, fig. 3. 


[8] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA FCC. 285 
branco, pregievolissimi per rara conservazione, simili a quelli 
che già vi rinvenimmo ('), riferibili al Lias inferiore e corrispon- 
denti a quelli del calcare cristallino di Sicilia, interposto tra 
gli strati a 7. Aspasia Mgh. e il Retico (°). 

L’oggetto principale della presente nota è la descrizione di 
questi eleganti fossili, nelle cui superficie si sono potuti rilevare 
i più particolareggiati caratteri della conchiglia, ciò che forse 
varrà a scusare i soverchi nomi nuovi usati anche per esemplari 
conservati solo in frammenti. Ho colto poi l'occasione per figu- 
rare e descrivere anche un crinoide (tav. VI, fig. 17) rinvenuto 
dal Baldacci e da me, insieme ad altri fossili, nel Lias inferiore 
esteso al vallone della Grotta dell'Oro (*), 


DESCRIZIONE DELLE SPECIE 


MOLLUSCA 
CI. GASTROPODA 


Gen. Scurriopsis Gemm. 


Scurriopsis (?) Orsinii n. f. 
RaveaVibio, 2: 


Alea: Sire Rea mm. 5,5 
Diametro antero-posteriore . . . . . >» 9 
» laterale sr eee 9 


Conchiglia spessa, subconica, a base quasi circolare, convessa 
posteriormente e anteriormente alquanto concava. L’ apice è un 
poco spostato verso la parte anteriore e termina con punta 
mammillare. La superficie è ornata da numerose e sottili co- 
stole radiali che vanno diminuendo in grandezza dalla base verso 


{!) La regione centr. d. Gran Sasso ecc., pag. 351. 

(£) G. GewmeLraro, Sopra ale. faune giur. e lias. di Sicilia ecc. Palermo, 
1872-82. 

(®) La regione centr.*d. Gran Sasso ecc. pag. 351. 


284 M. CANAVARI [9] 


la regione apiciale. Con una semplice lente di ingrandimento 
sono inoltre visibili delle sottilissime linee o rughe concentriche. 
I caratteri interni, relativi alle impressioni muscolari, sono 
sconosciuti. 

Per la ornamentazione questa forma si rapporta al genere 
Scurriopsis come fu definito dal Gemmellaro ('), ma se ne 
allontana per la conformazione dell’ apice terminante in punta 
mammillare, carattere che la farebbe invece riunire al genere 
Scurria. Nelle specie però di questo genere sì rileva quasi co- 
sta ntemente la mancanza delle costicine radiali. 

La Scurriopsis(?) Orsinîi n. f. per gli ornamenti esteriori ricorda 
le specie del Lias inferiore Sc. Neumayri Gemm., Sc. Sartoriusi 
Gemm., Sc. Blakei Gemm. (?) ravvicinandosi però maggiormente 
a quest’ ultima. Da tutte poi facilmente si distingue per la forma 
del contorno della base, che è quasi circolare e non ovale o 
ellittico, e per le indicate concavità e convessità rispettivamente 
posteriore ed anteriore. 


Gen. ILiotia Gray. 
Liotia circumceostata Canav. sp. 


1879. Straparollus circumcostatus Canavari, Sui foss. d. Lias inf. 
nell’App. Centr. Att. d. Soc. 
tosc. di Sc. nat. Vol. IV, pag. 

147, tav. XI, fig. 3. 
1872-82. Liotia circumcostata (Canav. sp.) GenmennaARo, Sopra ale. 
faune giur. e lias: di Sicilia. In 
nota, pag. 340. 


1880. > È Canavari, La montagna del Suavicino, 
Boll. d. R. Com. geol. Vol. XI. 
pag. 61. 


+ Un piccolo frammento di anfratto, in parte racchiuso nella 
roccia, corrisponde completamente agli esemplari raccolti nel 
Lias inferiore di altre località dell’ Appennino centrale (Sanvicino, 
Grotte di S. Eustachio). Esso misura mm. 6 di lunghezza ed è 
ornato da tre costole trasversali con piccole prominenze o tu- 


(‘) Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 379. 
(2) 2. c. 


[10] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA EC. 285 


bercoli nei margini interno ed esterno. Questi tubercoli sono 
appaiati nel margine ombilicale, però non tutti hanno eguale 
grandezza, e quelli che si trovano nella parete interna sono i 
più piccoli. Le strie longitudinali sottilissime, poco numerose, 
passano anche sopra le costole e sui tubercoli: se ne contano 
circa 7 nella metà visibile di un anfratto, che ha il diametro 
di mm. 3. Esse suono meno numerose di quelle che si riscontra- 
rono nell’ esemplare originale. La bocca non è conservata e la 
sezione dell’ anfratto, quando non corrisponde alle costole, è 
pressochè circolare, quando vi corrisponde si osservano piccole 
sporgenze relative ai tubercoli delle costole stesse. 

Questa specie, che rapportai al genere Straparollus, deve 
ascriversi alle Liotiae, come fece osservare giustamente il Gem- 
mellaro. Si noti poi che le forme più antiche di Liotiae erano 
titoniane. 

Per gli ornamenti degli anfratti, consistente in costole tra- 
sversali variciformi e in istrie longitudinali, la descritta specie 
ricorda assai una specie frequentissima in Hierlatz e nelle Alpi 
di Gratz (') che appartiene a tutt’ altro genere, e cioè la Neritopsis 
elegantissima Hòrnes. L’ accrescimento degli anfratti, la depres- 
sione della spira così pronunciata da dare alla conchiglia la 
forma quasi discoidale, e l’ ampio ombilico, stabiliscono subito 
nella specie dell’ Appennino diversità generica (?). 


(‘) F. SroLIczka — Ued. d. Gastrop. u. Aceph. d. Hierlatz-Schichten. Sitzungsb. 
d. k. Ak. d. Wiss. XLII B., pag. 179, Wien, 1861. 

(2) La Liotia circumcostata Canav. del Lias inferiore sarebbe stata sino ad ora 
la specie più antica del genere. Ma sembra invece che il genere Liotia abbia rappre- 
sentanti in terreni ancora più antichi, e precisamente nel Trias. L'ing. ZACCAGNA 
avrebbe di recente infatti trovato nella formazione marmifera delle Alpi Apuane, in 
un piano non certo dei più superiori, una località sommamente interessante con 
qualche ammonite e numerosissimi e piccoli gasteropodi, tra i quali sono frequenti 
esemplari di piccole Liotiae. Queste corrispondono per la maggior parte dei carat- 
teri alla specie appenninica del Lias inferiore, e la sola differenza che vi si riscontra 
è relativa alle minori dimensioni. Ammettendo come probabile, senza tuttavia ora 
asserirlo, che la Ziotia dei marmi sia la medesima specie di quella dell'Appennino, 
questo fetto non potrebbe nulla influire intorno all’ età triasica dei marmi medesimi, 
ormai riconosciuta ed accertata da molteplici ed accurate osservazioni. È noto in- 
fatti che i gasteropodi hanno generalmente un'ampia distribuzione nel tempo, e 
per non citare molti esempi ricorderemo che parecchi gasteropodi del Trias alpino 
(Hauptdolomit) trovano specie identiche o analoghe in formazioni liasiche (v. Am- 
Mov, Die Gastrop. d. Hauptd. Abhandl. d. zool.-mineral. Ver. zu Regensburg. Min- 
chen, 1878). 


286 M. CANAVARI [11 


Gen. Erochus Linn. 


Trochus Signorinii n. f. 
Tav. VI, fig. 9. 


Lunghezza della conchiglia . . . . . . mm. 6 
Larghezza dell’ ultimo giro . . . . ... >» 4,9 
ANS010NSpirale Ria IN. 500 


Conchiglia piccola, coniforme, composta di 8-9 giri piani o 
leggermente depressi, molto bassi e crescenti sotto un angolo 
rettilineo; la loro altezza sta alla larghezza circa come | : 4, 
essi sono riuniti mercè suture profonde e distintissime. Alla 
base o parte anteriore di ogni giro scorre un cingolo arroton- 
dato alquanto sporgente a guisa di carena, che dà una forma 
tutta speciale alla conchiglia, ogni giro della quale è ornato 
poi da tre sottilissime strie longitudinali, visibili solo con una 
lente d’ ingrandimento. La base depressa è un poco concava, 
angolosa all’ esterno e non ombilicata, appare del tutto liscia; 
apertura più larga che alta, molto depressa nella parte interna 
e quasi subromboidale. 

Questa specie per la conformazione della base e dell’ intiero 
ultimo giro ha molta analogia con il Trochus Voltai Gemm. ('), 
da cui però si distingue ver tutti gli altri ornamenti e in ispecial 
modo per la presenza della carena nella parte anteriore degli 
anfratti e per il minor angolo spirale. Per questi ultimi carat- 
teri la forma del Gran Sasso trova delle notevoli rassomiglianze 
nel Trochus torosus Stol.(?) delle Alpi di Gratz. Ma in tale 
specie oltrechè aversi un maggior numero di strie longitudinali 
(5 invece di 3), la posteriore di queste è sporgente a guisa di 
cingolo, onde la sutura dei giri si trova tra due sporgenze, ciò 
che dà alla specie tutt’ altra forma. 

Al nuovo e interessante esemplare associante caratteri di 
due specie ben diverse, diamo il nome del R. prof. Signorini, 
intelligente e appassionato ricercatore di fossili della provincia 
aquilana. 


(") Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 354, tav. XXVII, fig. 35-88. . 
(2) Ueber da. Gastr. u. Aceph. ecc., pag. 170, Taf. I, fig. 18. 


x 


[12] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NEL GRAN SASSO D'ITALIA ECO. 287 


Gen. Nerîtina Lam. 
Neritina sp. ind. cfr. N. Cornaliae Gemm. 


Rave Moio. 10. 


1872-82. Neritina Cornaliae GeuweLLAro (cfr.), Sopra ale. faune 
giur. e lias. di Sicilia, pag. 318, 


» » 
tav. XXIV, fig. 62-64. 
Lunghezza della conchiglia . . . . . . mm. 7 
Larehezza{fdelliulti mo giro RE RE 


Questa piccola conchiglia obliquamente ovata corrisponde 
per la maggior parte dei caratteri alla specie cui fu paragonata. 
Non sì è potuto tuttavia assicurarne la corrispondenza perfetta 
a cagione dell’incompleta conservazione dell’ esemplare, nel quale 
mancano quasi tutto il labbro interno ed i caratteristici denticuli 
nel lato columellare indicati dal Gemmellaro. 


Gen. Bifrontia Desh. 
Bifrontia conjuneta n. f. 


Tav VAD dep UE 


Porzione degli ultimi due anfratti di una conchiglia destrorsa 
discoidale, posteriormente piana e anteriormente carenata. La 
spira si accresce rapidamente e l’ ultimo anfratto ha un diametro 
doppio (mm. 4) del precedente (mm. 2); essa è pochissimo in- 
voluta, l’ombilico risulta perciò ampio e profondo. La parete 
ombilicale è leggermente concava ed è ornata da spesse costoline 
o pieghe trasversali (5 in 4 mm.), che aumentano verso il lato 
superiore rendendolo crenulato; indi continuano, diminuendo in 
grossezza, sulla parete anteriore appena concava e inclinata 
verso l’ esterno sino in una specie di cingolo spirale oltre il 
: quale si dilatono e svaniscono (fig. 11 c). Succedono dipoi altri 
due cingoli i quali comprendono una sottile fascia depressa, 
alla quale fa seguito, nell’ ultimo anfratto e nella parte esterna, 
una carena molto sporgente. Le pieghe fanno un angolo ante- 
riore appena pronunciato sul margine crenulato. Sulla faccia 


288 M. CANAVARI [13] 


ombilicale si hanno inoltre delle strie longitudinali visibili solo 
con lente d'ingrandimento (fig. 11 c). La faccia apiciale ha le 
suture degli anfratti molto evidenti e sembra del tutto liscia, 
nè si è potuto in essa riscontrare quelle strie d’ accrescimento 
così caratteristiche per la loro direzione nella determinazione 
del genere ('). L'apertura della conchiglia anzichè ripetere la 
forma triangolare o subtriangolare dell’ anfratto, è irregolarmente 
ovulare, poichè le angolosità esteriori provengono dal diverso 
spessore del guscio e non implicano la parete interna; la qual 
cosa è evidente nell’ esemplare descritto, che ha la particolarità 
di avere la conchiglia in uno stato di. buona conservazione. 
Nella figura 115, che dà la sezione della bocca, non è indicata 
la carena esterna, perchè nell’ esemplare essa era in quel punto 
mancante, come sì rileva dalla fig. 11 a. 

Il genere Bifrontia, limitato ai terreni eocenici, fu fatto co- 
noscere dal Gemmellaro (?) anche nel Lias inferiore, e la specie 
ch’ egli descrisse con il nome di £ifrontia Scacchii, sì avvicina 
immensamente alla forma del Gran Sasso. Le differenze che vi 
ho notato relative agli ornamenti esteriori di pieghe evidenti 
anche nell’ ultimo giro, di cingoli e strie spirali, che non furono 
indicati nella specie di Sicilia, e la conformazione dell’ apertura 
mì hanno indotto a distinguerla con un nome nuovo. 


Gen. Climacina Gemm. 


Climacina Mariae Gemm. 
Fav. VI, fi. 6. 


1872-82. Climacina Mariae GemmeLLaRo, Sopra alc. faune giur. e 
lias. di Sicilia, pag. 245,tav. XXI, 
fig. 30-35. 

1884. = n (Grmm.) BaLpaccie CanAvarI, La regione 
centr. d. Gran Sasso d’Italia, Boll. 
d. R. Com. geol. Vol. XV, pag. 351. 


Un bello esemplare corrisponde perfettamente per la forma 
e sviluppo dei giri a gradinata con la specie di Sicilia, e _pre- 


(4) Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 363. 
(3) 2. c., tav. XXVII, fig. 55-59, tav. XXVIII, fig. 5, 6. 


[14] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 289 


cisamente con la forma giovanile indicata dal Gemmellaro con 
le figare 30-33. Anche per gli ornamenti esteriori, che consistono 
in sottilissimi cingoletti longitudinali, è analoga alla specie cui 
è stata riferita. 

Un altro esemplare appartenente alla medesima specie rac- 
cogliemmo il Baldacci ed io sulla vetta del Gran Sasso: quest’ ul- 
timo è conservato nelle collezioni del R. Comitato geologico 
in Roma. 


Gen. Chemnitzia d'Orb. 


Subgen. O0omia Gemm. 
Oonia turgidula Gemm. 


1872-82. Chemnitzia (Oonia) turgidula Grmmerraro, Sopra alc. faune 
giur. e lias. di Sicilia, pag. 273, 
tav. XXII, fig. 12, 13. 


Conchiglia liscia, lunga circa mm. 12, crescente sotto un 
angolo spirale di 40°, composta di 6-7 giri involuti, l’ ultimo 
dei quali ventricoso alto mm. 7 e largo del pari 7 millimetri. 
Un poco più piccolo quindi dell’ esemplare figurato dal Gemmel- 
laro, corrisponde ad esso per le proporzioni e per tuttii carat- 
teri relativi all’ accrescimento della spira e alla conformazione 
della bocca. i 

Il citato esemplare è di somma importanza in quanto che 
è l’unico fossile spettante al Lias inferiore raccolto sulle cime 
del Corno Piccolo, e, come è stato già indicato (pag. 282 [7]), nel 
pezzo stesso del calcare da cui fu estratto è l’ indicazione: 
Coni alti del Piccolo Corno, 1840. 


Gen. Cerithium Adans. 


Cerithium Orsinii n. f. 


Tav. VI, fig. 1. 
Lunghezza della conchiglia. . . . . . mm. 13 
Larghezza dell’ ultimo giro. _. . .. . >» 7 
ANO IOMspirale ee Re 370 


Conchiglia piccola, di forma conica, crescente sotto un angolo 


a lati un poco convessi, composta da numerosi e bassi giri, 
So. Nat. Vol. II fascic. 2. 19 


290 M. CANAVARI (15). 


riuniti da suture rettilinee non molto marcate. Ogni giro è 
ornato da 8 sottili strie longitudinali ondulate e da una doppia 
serie di granuli o tubercoli, l’ una anteriore di 12 tubercoli ar- 
rotondati, l’altra posteriore di un numero doppio di elementi, 
alquanto minori in grandezza e sporgenza. Non sembra che le 
strie attraversino questi tubercoli. L' ultimo giro è incompleta- 
mente conservato; nella base si notano tre marcate strie con- 
centriche verso la parte esterna (fig. 1 3), che è un poco care- 
nata. Traccia molto mal definita della columella.. i 

Questa specie è affine al C. Pironai Gemm.(') del Lias in- 
feriore di Sicilia, da cui sì distingue facilmente per l’ angolo 
spirale più aperto e per il numero maggiore delle serie dei 
tubercoli nella parte posteriore del giro. Ha anche qnalche ana- 
logia per la forma della conchiglia con il C. Herbichi Gemm. (?), 
ma se ne allontana per la disposizione e numero dei noduli e 
per la forma della sutura dei giri. 


Cerithium apenninicum n. f. 


Tav. VI, fig. 2. 
Lunghezza approssimativa della conchiglia mm. 10 
Larghezza dell'ultimo giro. ... . . <>» 695 
Aneologspiral eee ee 410 


Conchiglia piccola, di forma conica tendente alla pupoide, 
composta di giri molto bassi, rilevati nel mezzo e uniti da 
suture rettilinee ben distinte. Nella parte centrale di ogni giro 
si trovano 9 tubercoli arrotondati, piuttosto grandi, e 4 cingoli 
longitudinali, dei quali 3 anteriori ai tubercoli e uno tra i tu- 
bercoli medesimi. I tubercoli di un giro non corrispondono pre- 
cisamente a quelli del giro precedente, ma tendono ad essere 
alternanti. La base dell’ ultimo giro e i caratteri relativi alla 
bocca non sono conservati nell’ esemplare esaminato. 

La semplice serie di noduli e la disposizione delle strie tra- 
sversali, danno un carattere tutto speciale alla forma descritta, 
da non farla assomigliare o riferire a nessuna delle specie liasiche 
di Cerithii sino ad ora conosciute. 


(1) Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 293, tav. XXIII, fig. 45, 46.. 
(3) Z. c., pag. 294, tav. XXIII, fig. 47, 43. 


[16] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 291 


. Cerithium Spadai n. f. 

Tav. VI, fig. 4. 
Lunghezza approssimativa della conchiglia . . . mm. 25 
Larghezza dell'ultimo giro conservato . . . . . >» 45 
Angolo spirale calcolato... . . . . . +. . 160 


Conchiglia conico-allungata e quasi cilindrica, a giri piuttosto 
alti, piani nella parte centrale e carenati in quella posteriore, 
riuniti da suture poco manifeste. Ogni giro è ornato da tre 
serie di granuli, quella posteriore posta sulla carena è composta 
di 11 marcatissimi granuli arrotondati e molto sporgenti; le 
altre due anteriori risultano di granuli più piccoli, che sembrano 
essere riuniti da cingoli longitudinali; oltre di ciò si hanno 
numerose e sottilissime strie longitudinali visibili solo con una 
lente d’ ingrandimento. 

Anche in questo esemplare si deve lamentare 1° insufficienza 
della conservazione per una completa descrizione; d’ altro canto 
i distintissimi caratteri esteriori così interessanti nei Cerithii e 
in generale in tutti i gasteropodi, vorranno scusare il nome 
nuovo. La triplice serie di noduli riscontrata nel Cerithium 
Spadai n. f., e la sua forma conico-allungata, la separano net- 
tamente dalle altre specie note del genere. 


Cerithium sp. ind. cfr. ©. Strueveri Gemm. 
Tav. VI, fig. 3. 


1872-82. Cerithium Strueveri GEMNELLARO (cfr.), Sopra alc. faune 
giur. e lias. di Sicilia, pag. 297, 
tav. XXV, fig. 29, 30. 


Porzione di spira della lunghezza di mm. 6, di una conchiglia 
mancante dei primi e degli ultimi giri, di forma conica e al- 
quanto pupoide, carattere non bene espresso nell’ ingrandimento 
(fig. 35). I giri sono riuniti da suture profonde e marcate, ed 
ornati da 8 pieghe molto sporgenti intersecate da sottili cingoli 
e strie longitudinali come nel Cerithium Strueveri Gemm. Le 
pieghe o costole trasversali hanno, tanto nella parte anteriore 
del giro, quanto in quello posteriore, una piccolà prominenza 


999 M. CANAVARI [17] 


a guisa di nodulo, sul quale passa un cingolo longitudinale di 
maggior rilievo degli altri; cosicchè in ogni giro si avrebbero 
due cingoli più evidenti degli altri invece di tre, come nella 
specie di Sicilia. Per questa lieve differenza, per la conforma- 
zione delle costoline trasversali, e sopratutto a causa dell’ im- 
perfezione dell’ esemplare esaminato, non mi è sembrato poterne 
accertare l'identità con la specie illustrata dal Gemmellaro, con 
la quale certamente ha a comune moltissimi caratteri, 


Gen. Cerithinella Gemm. 


Cerithinella fiscellense (') n. f. 
Ta viaVd so 


Lunghezza della conchiglia. . . ... mm. I 
Larghezza dell'ultimo giro . . .....° >» 4 
ANCO 0NSpira NOR 140 


Conchiglia conico-allungata, a giri bassi, leggermente concavi 
nel mezzo, sporgenti in una piccola carena anteriore sulla quale 
sì trova una serie di 12 granuli arrotondati o ovali molto 
marcati. inoltre ogni giro è ornato da numerose e sottilissime 
costicine o cingoli (da 14 a 16) ondnlati e di apparenza gra- 
nulosa, ciò che dipende, secondo il Gemmellaro (£), dall’ incontro 
di esse con le strie trasversali di accrescimento. Nella parte: 
posteriore degli ultimi due giri conservati sì ha poi una seconda 
serie di minutissimi granuli distinguibili ad occhio nudo sola- 
mente sotto una conveniente incidenza di luce. La linea sutu- 
rale, che cade tra le due serie di granuli, è appena marcata. 
La bocca e tutti i caratteri relativi all’ ultimo giro, come anche 
le strie di accrescimento sono sconosciuti. 

Il descritto esemplare è strettamente affine per la sua forma 
con la Certthinella elegans Gemm. (*) del Lias inferiore di Sicilia. 
I caratteri differenziali riscontratevi sono relativi al maggior 
numero dei cingoli longitudinali e sopratutto al numero e di- 


(!) Dall’ antico nome mons Fiscellus con cui s' indicava probabilmente tutta la 
catena montuosa compresa tra i fiumi Tronto e Aterno, il punto culminante della quale 
è il Gran Sasso. 

(*?) Sopra ale. faune giur. ecc., pag. 28). 

(*) Z. c., pag. 285, tav. XXIII, fig. 34-37, tav. XXV, fig. 23. 


[18] FOSSILI DEL LIAS INFER.ORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 298 


sposizione della serie dei piccolissimi granuli nella parte poste- 
riore degli anfratti. Nella specie di Sicilia infatti la seconda 
serie è composta di un numero di granuli pressochè eguale alla 
prima, mentre in quella del Gran Sasso il numero ne è doppio, 
ed i granuli sono anche molto più piccoli. Nell’ ingrandimento 
di un giro figurato dal Gemmellaro (') la serie di granuli po- 
steriore dà luogo, come l’ anteriore, ad una carena sporgente, 
la quale manca completamente nella Cerithinella apenninica n. f. 
Tale carattere assai rilevante dà a quest’ultima una forma 
tutta speciale, come si rileva dall’ ingrandimento rappresentato 
con Ja fig. 75; nella quale però è da osservare che la serie po- 
steriore dei granuli non è indicata, perchè l’ ingrandimento è 
tratto dal terz’ ultimo giro, ove non si è riscontrata la suddetta 
granulazione. Essa sembra che vadi svanendo nella parte apiciale 
della spira, verso cui va diminuendo’ ancora la serie dei granuli 
della parte anteriore dei giri. Per i citati ornamenti esteriori 
la C. apenninica n. f. è invece molto più affine alla C. italica 
Gemm. (?), dalla quale però diversifica per la conformazione 
della spira conico-allungata e non quasi cilindrica, come in 
quest’ ultima specie. La Cl. apenninica n. f. rappresenterebbe 
quindi una forma intermedia alle due C. elegans Gemm. e C. 
italica Gemm. 


Cerithinella miliare n. f. 
Tav. VI, fig. 8. 


Lunghezza approssimativa della conchiglia . . . mm. 20 
Larghezza dell’ ultimo giro eonservato.. . .. . . » 4 
ANCOORSPICA ee IR E 120 


Conchiglia piccola, conico-allungata, a giri bassi, piani o 
leggermente depressi nel mezzo, uniti da suture non descerni- 
bili, ornati da sottilissime e numerose costoline longitudinali, 
simili a quelle della specie precedente e a quelle delle diverse 
forme di Cerithinellae descritte e figurate dal Gemmellaro (°). 
Nella parte posteriore di ogni giro si trova un’ unica serie di 
12 leggerissimi granuli, che dà luogo ad una specie di ca- 


(‘) Sopra alc. faune giur. ecc., tav. XXIII, fig. 37. 
() Z. c., pag. 284, tav. XXIII, fig 30-33, tav. XXV, fig. 20-22. 
(3) 7. c. 


294 |M. CANAVARI i [19] | 


rena pochissimo marcata quando si osservi la conchiglia late- 
ralmente (fig. 8). Le costoline longitudinali attraversano anche 
questa granulazione. 

La definizione di questa specie non si può completare a 
. cagione dell’ imperfezione degli esemplari fragmentari esaminati. 
La determinazione generica viene giustificata dalla grande ras- 
somiglianza che la specie in parola ha con la Certthinella Sche- 
rina Gemm. ('), dalla quale diversifica solo per la presenza della 
minuta granulazione. Per quest’ ultimo carattere ricorda la C. 
Manzonii Gemm. (*); ma anche da questa specie è facilmente 
separabile perchè la serie della granulazione si trova nella parte 
posteriore del giro anzichè in quella anteriore, per il minor 
sviluppo dei granuli e inoltre per la conformazione delle suture, 
le quali sono larghe ed impresse nella specie di Sicilia, mentre 
sottilissime e quasi indistinte nella forma del Gran Sasso. Questi 
caratteri dell’ ornamentazione della conchiglia sono molto inte- 
ressanti nel genere, e si considerano come buoni elementi per 
la delimitazione di una forma nuova, per quanto incompleta 
essa possa essere nella sua spira. 


Cerithinella fimbriata n. f. 
Tav. VI, fig. 5. 


Frammento composto di cinque giri della lunghezza di mm. 12 
e della massima larghezza di mm. 3, appartenente ad una con- 
chiglia piccola, di forma conico-allungata tendente alla cilindrica 
con un angolo spirale di soli 7.° I giri sono alquanto convessi ‘ 
ed hanno una specie di carena hella parte posteriore, dopo la 
quale si deprimono verso la sutura indicata da una linea ben 
distinta. Ogni giro è ornato da 5 sottilissimi cingoli diminuenti 
in grandezza dalla parte anteriore alla posteriore e di forma 
ondulata a cagione di numerose linee di accrescimento. Queste, 
con un forte ingrandimento, nella parte posteriore appaiono 
oblique, ciò che non è stato espresso nella fig. 56, in cui sono 
indecisamente rappresentate per l'insufficienza dell’ ingrandi- 
mento. Tale carattere relativo alle strie di accrescimento ci ha 


(1) Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 289, tav. XXIII, fig. 25, 26. 
(2) Z. c., pag. 286, tav. XXIII, fig. 18, 19. tav. XXV, fig. 25. 


[20] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 295 


fornito l’ elemento generico più importante, fatto già rilevare 
dal Gemmellaro (') nella definizione delle Cerithinellae. 

La semplicità degli ornamenti dell’ esemplare esaminato, la 
forma della spira e dei giri d’ apparenza carenati, individualiz- 
zano molto bene la specie e la separano da tutte le altre af- 
fini descritte e figurate. i 


‘CI. LAMELLIBRANCHIAT'A 


Gen. Macerodon Lyc. 


Macrodon (?) Giolii n. f. 
Tav. VI, fig. 13. 


Pnnehezza gi 0 ee n malo 
AI tezza gi ae te e n 


Conchiglia allungata, inequilaterale, margine palleale retti- 
lineo o appena convesso, anteriormente rotondata e posterior- 
mente troncata. Dali’ apice parte una carena molto marcata che 
va a limitare il corsaletto. Apice ricurvo, molto sporgente come 
in tutte le Arcidue, delimitando un’ area ligamentare sviluppa- 
tissima e lunga quasi quanto tutta la conchiglia; margine car- 
dinale rettilineo, non completamente conservato, nè possibile di 
preparazione a cagione della cristallizzazione del calcare che ha 
implicato il guscio e il modello. La conformazione della cerniera 
è quindi sconosciuta, nè si può per mancanza di caratteri es- 
senziali, quali sono quelli relativi ai denti, stabilire con certezza 
il genere cui la specie appartiene. 

La valva figurata è la sinistra; essa in gran parte è in mo- 
dello interno e nor ha conservati che due piccoli frammenti di 
guscio, l'uno nel margine palleale e 1° altro in quello apiciale. 
In tali frammenti si osservano sottili e numerose costoline ra- 
diali (circa 4 in ogni millimetro) che dal margine palleale arri- 
vano quasi sino all’ estremità dell’ apice, intersecate da alcune 
rughe concentriche. Nel modello del corsaletto si osservano 
anche 4 pieghe radiali abbastanza pronunciate che vanno sva- 
nendo alla regione apiciale, le quali rappresentano le impronte 
di corrispondenti depressioni che dovevano trovarsi sulla super- 


(4) Sopra alc. faune giur. ecc., pag. 282. 


296 M. CANAVARI [21] 


ficie interna della conchiglia. Oltre a ciò è indicata l’ impronta 
palleale integra, e la traccia del solo muscolo anteriore, la 
quale si trova in vicinanza della porzione del guscio apiciale, 
mentre non è conservata quella del posteriore. 

Un altro frammento allo stato pure di modello interno e 
mancante della regione apiciale, rappresenta la valva destra; 
vi si nota una lieve differenza con la valva sinistra figurata, 
in quanto che la carena che va a limitare il corsaletto è un 
poco più marcata. 

La forma descritta presenta le maggiori analogie con .il 
genere Macrodon, e veramente con le due specie M. Spallanzanti 
Gemm. e M. (?) Pasini Gemm. del Lias inferiore di Sicilia (!). 
Dalla prima specie si distingue facilmente il M. (®) Gol n. f. 
per la minore lunghezza della conchiglia, per la mancanza della 
sinuosità nel margine palleale e per la presenza delle pieghe 
radiali nel corsaletto, e anche per uno sviluppo alquanto mag- 
giore delle costoline radiali. Dal M.(?) Pasinà Gemm., a cui 
la specie del Gran Sasso è maggiormente affine per la con- 
formazione della conchiglia, si allontana per gli ornamenti 
esterni. Il M.(®) Pasinii Gemm. infatti ha costoline marcate nel 
corsaletto, ma nel modello il corsaletto è del tutto liscio (?), ciò 
che stabilisce una diversità al certo molto interessante. 

Il Macrodon che il Baldacci ed io(*) indicammo come M. 
cfr. Spallanzani Gemm., va riferito alla specie descritta. 


ECHINODERMATA 
Cl. CRINOIDEA 


Gen. MHillericrinus Linn. 


Millericrinus sp. nov.? 
Lav anee 


Entroco cilindrico di mm. 15 di diametro e mm. 20 di lun- 
ghezza, composto di numerosissimi trochiti equidistanti, e ognuno 


(4) G. GemmeLLARO, Sopra ale. faune giur. ecc., pag. 384-385, tav. XXIX, fig. 
7-8, 9-10. 

(2) 2. c., tav. XXIX, fig. 10. . 

(3) La reg. centr. d. Gran Sasso ecc., pag. 351. 


[22] FOSSILI DEL LIAS INFERIORE DEL GRAN SASSO D'ITALIA ECC. 297 


alto circa mezzo millimetro contandosene 9 in mm. 5. Le arti- 
colazioni pochissimo profonde danno luogo sulla superficie esterna 
a piccoli solchi, i quali con una lente d'ingrandimento appaiono 
indistintamente denticulati. Le facce articolari si sono ottenute 
mercè la frattura dell’ esemplare in più pezzi. Il minore di 
questi misura l’ altezza di un millimetro, presenta le due facce 
articolari e risulta di due trochiti, a giudicare dal solco esterno 
che vi si riscontra. Faccia articolare piana, raggiata; canale 
centrale riempito di carbonato di calce che non partecipa alla 
sfaldatura dello spato di cui è costituito l’intero entroco, ciò 
che lo rende ben distinto; è di forma circolare e negli articoli 
superiori tendente a quella pentagonale ad angoli pochissimo 
sporgenti; il suo diametro raggiunge circa mm. 2. Le costoline 
molto sottili irradiano dal limite del canale alla periferia, aumen- 
tando gradatamente in grossezza e in numero per irregolare 
dicotomia e talora anche per interposizione; in un quadrante 
ne abbiamo contate 25. Con una lente d’ ingrandimento sì os- 
servano sottilissime costoline concentriche, To. quali intersecando 
le radiali danno a queste apparenza granulare. In una sezione 
sottile perpendicolare all’ asse e corrispondente precisamente ad 
una faccia articolare, le costoline radiali e le concentriche sono 
molto manifeste e con un debole ingrandimento si ha un’ fia 
parenza reticolare. 

Con i crinoidi liasici la specie descritta per alcuni caratteri 
della superficie articolare, quali sono quelli relativi alla dico- 
tomia delle costoline radiali, ricorda gli esemplari di MiMericrinus 
raccolti alla Bicicola e riferiti dal Meneghini (') al M. cfr. 
Adnethicus Quenst. Ma se ne allontana, oltrechè per il maggiore 
diametro, anche per le costoline radiali granuliformi e special- 
mente per la sottigliezza dei trochiti. Un’ affinità ancora mag- 
giore la trova invece con una specie .molto recente, e cioè con 
il Millericrinus Munsterianus d° Orb., del Giura superiore e pro- 
priamente della zona a Hemicidaris crenularis. È cosa poi molto 
difficile asserire che la forma del Gran Sasso appartiene effet- 
tivamente al genere MiMVericrinus, al quale per analogia 1’ ab- 
biamo avvicinata. Essa ricorda anche i trochiti del genere 


(4) Monogr. d. foss. appart. au calce. rouge ammonitique de Lombardie ecc., 
pag. 182, pl. XXX, fig. 20-25. 


298. MI, CANAVARI AT.) 


Apitocrinus, e il carattere della granulazione delle costoline ra- 
diali è stato citato anche nelle superficie dei trochiti dell’ Apio- 
crinus Mariani Desor ('), del Sequaniano superiore. 

L’ elegante esemplare, troppo incompleto per indicarlo con 
un nome nuovo, fu raccolto nel Lias inferiore nella gola inter- 
posta tra i due Corni e il monte Intermesole, e precisamente 
nel vallone della Grotta dell’ Oro. Esso è conservato nelle col- 
lezioni del R. Comitato geologico in Roma. 


(1) P. pe LorioL, Monogr. des Crin. foss. de la Suisse. Mém. de la Soc. pal. 
Suisse. Tomo IV, pag. 22. Genève, 1877-79. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VI. 


Fossili del Lias inferiore 


la. Cerithium Orsinii n. f. pag. 289 [14]. 


15. 7 »  Ingrandito e visto dalla base. 

Jie. 9 s Ingrandimento di due anfratti. 

2a. Cerithium apenninicum n. f. pag. 290 [15]. 

2b. si È Ingrandimento di due anfratti. 


3a. Cerithium sp. ind. cfr. ©. Strueveri Gemm. pag. 291 [16]. 
85. Lo stesso ingrandito. 
4a. Cerithium Spadai n. f. pag. 291 [16]. 


4b. i » Ingradimento di un anfratto. 

5a. Cerithinella fimbriata n. f. pag. 294 [19]. 

5 d. Ù È Ingrandimento di un anfratto. 

6a. Climacina Mariae Gemm. pag. 288 [13]. 

6.b. n = Ingrandimento di un anfratto. 

7a. Cerithinella fiscellense n. f. pag. 292 |17]. 

7b. a s . Ingrandimento del terz’ ultimo anfratto, 


in cui manca la serie dei piccoli gra- 
nuli nella parte posteriore. 
.8. Cerithinella miliare n. f. pag. 293 [18]. Ingrandimento di due 
anfratti e mezzo. 
9. Trochus Signorinii n. f. pag. 286 [11]. Ingrandito. 
10. Neritina sp. ind. cfr. N. Cornaliae Gemm. pag.256 [12]. Ingrandita. 
11a. Bifrontia conjuncta n. f. pag. 287 [12]. 
lidi 5 È Veduta dal lato della bocca senza essere 
. indicata la carena sporgente nel labbro 
esterno perchè rotta. 
lle. Ingrandimento di una porzione di anfratto della specie precedente. 
124. Scurriopsis (?) Orsinii n. f. pag. 283 [8]. Ingrandita e vista 
dalla parte superiore. 


300 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA [25] 


Fig. 125. Lo stesso esemplare visto di lato, ingrandito. 

» 13. Macrodon (?) Giolii n. f. pag. 295 [20]. 

»s 17.  Millericrinus sp. n.? pag. 296 [21]. L’originale si trova nelle 
collezioni del R. Comitato geologico in Roma 
e fu raccolto nel vallone della Grotta dell’Oro, 
mentre tutti i precedenti, conservati nel R. mu- 
seo geologico di Pisa, provengono dalla vetta 
del Corno Grande. 


Fossile del Lias medio 


» 14-16. Cidaris sp. ind. pag. 281 [6]. Tre esemplari diversi per for- 
ma e numero dei granuli ornamentali raccolti nella 
sommità del Piccolo Corno. 


"INTORNO HD UNA ANUNALA DISPOSIZIONI 


DELLE 


VENE DEL COLLO NELL'UOMO 


NEOISCA 


DEL DOTT, PILADE LACHI 


PROFESSORE DI ANATOMIA UMANA NELL' UNIVERSITA DI CAMERINO - 


Aveva appunto letto l’accurato lavoro ‘del dott. Ficalbi su 
certe disposizioni venose reperibili nel collo delle Scimmie ('), 
quando mi è occorso di osservare in un cadavere umano una 
speciale distribuzione delle vene del collo, che mi sembrò con- 
fermare appieno le vedute dal Ficalbi stesso enunciate. Mi prendo 
ora appunto la cura di far noto il caso occorsomi, prima perchè 
lo credo avvenimento non tanto frequente, poi per contribuire 
a confermare ancora una volta la dottrina della discendenza, 
al quale oggetto le varietà anatomiche reperibili nell’ Uomo 
molto bene si prestano. E tanto più volentieri mi assumo questo 
compito, in quanto il dott. Ficalbi invitava giustamente a fare 
delle ricerche sull’ argomento. 

L'individuo nel quale fu riscontrata la varietà in discorso 
era un giovane di 23 anni dei pressi di Camerino. Avendo io 
dovuto fare una iniezione venosa per i bisogni della scuola, fui 
sorpreso prima di tutto di sentire e vedere un cordone bleuastro 
fra la cute e la clavicola destra, che era certamente dovuto ad 


(4) Ficalbi E. — Di una particolare disposizione di alcuni vasi venosi del collo 
nelle Scimmie e della poss bilità di spiegare con essa alcune anomalie venose re- 
peribili nell’ Uomo. Atti d. Soc. Tose. di Sc. Nat. Vol 1V, Fasc. 3.0 Pisa 1885. 


302 P. LACHI 


una vena iniettata, e che m’ invitò a rendermi ragione della sua 
presenza. Espongo adunque la disposizione venosa del collo di 
questo individuo che si vede riprodotta fedelmente nell’ annessa 
tigura (Tav. XIII) che io debbo all’ abile matita del gentile mio 
amico e collega Prof. Reali. 

Il tronco della vena giugulare esterna g e alla cui costituzione 
prendeva parte la vena temporale superficiale ts era ampiamente 
anastomizzato colla vena faciale f per mezzo di un grosso tronco 2 
e per conseguenza indirettamente con la giugulare interna g 2. 
Più in basso poi comunicava con la giugulare anteriore ga per 
mezzo di un tronco trasversale #7 ed anche più in basso per 
mezzo di un’ altro tronco trasversale #7 più specialmente in cor- 
rispondenza del triangolo omoclavicolare, quando cioè la vena 
giugulare esterna sta per attraversare l’ aponevrosi cervicale 
media. A questo stesso punto della vena medesima facevano 
capo vari tronchi venosi a modo di raggi fra cui la vena cer- 
vicale trasversa e la soprascapolare, non che un tronco speciale 
che dirò fin da ora essere il tronco giugulo-cefalico gf. Era pure 
a questo livello che la giugulare esterna si approfondava, si 
faceva più anteriore e sboccava nella succlavia dappresso alla 
giugulare interna. La vena cefalica c del corrispondente arto 
superiore sì conduceva per il solito interstizio deltoideo-pettorale, 
ma giunta al livello del triangolo clavi-pettorale si divideva in 
due rami, di cui uno profondo rappresentante la contindazione 
normale che andava a sboccare nella vena ascellare, ]’ altro su- 
perficiale che passava al davanti della clavicola per riunirsi colla 
vena giugulare esterna, tronco anastomostico giugulo-cefalico g f. 
In tal maniera si veniva ad avere un anello venoso che abbrac- 
ciava la clavicola e il muscolo succlavio, costituito da parte 
della giugulare esterna, da porzione della vena succlavia ed 
ascellare, dalla terminazione della vena cefalicà e dal ramo ve- 
noso giugulo-cefalico. 

A sinistra poi si avevano ad osservare le seguenti particola- 
rità. La vena cefalica giunta al triangolo clavipettorale forma- 
va, dividendosi e riunendosi successivamente, un anello venoso 0, 
come mostra la figura, per sboccare quindi nella vena ascellare. 
Era pure notevole che nel triangolo sopraclavicolare, il muscolo 
omoioideo non esisteva, ma era invece sostituito da una espan- 


ANOMALA DISPOSIZIONE DELLE VENE -DEL COLLO NELL’UOMO 303 


sione carnosa, la quale si estendeva dall’ osso ioide alla clavi- 
cola, sul cui margine posteriore prendeva inserzione per una 
estensione di circa 4 centimetri, in modo che il muscolo assu- 
meva così la forma triangolare a base in basso e che le sue 
fibre più esterne andavano a confondersi con quelle del muscolo 
trapezio. 

Dal sopra detto si rileva come nel collo del soggetto in 
esame si avessero disposizioni speciali che meritano veramente 
di essere prese in considerazione. 

Il primo fatto e che mi sembra sopra gli altri dovere essere 
studiato è la disposizione venosa del lato destro, che si può rias- 
sumere dicendo che ivi esisteva il ramo giugulo-cefalico, ossia 
un ramo anastomatico fra vena cefalica e giugulare esterna. È 
certo che fra vena giugulare esterna e vena cefalica esiste come 
condizione embrionale una comunicazione e questa può assumere 
o no un certo sviluppo dando luogo a ciò che Sappey chiama 
anomalie per inversione di volume. Se non che non bisogna fer- 
marsi a questa semplice spiegazione embriologica, ma studiarne 
ancora la significazione, per quanto le varietà venose così facili 
a verificarsi non permettano sempre questo studio 

Ora può stabilirsi prima di tutto che primitivamente Ja vena 
giugulare esterna e la cefalica si trovano fra loro in rapporto 
di comunicazione, e questa che è costante e bene sviluppata 
negli animali inferiori e più precisamente nelle scimmie studiate 
da Ficalbi, sì va facendo sempre meno evidente nell’ uomo fino 
a ridursi a un sottilissimo ramo, e solo per ritorno atavico può 
prendere un ragguardevole sviluppo. 

Questo fatto in genere, dell’ esistenza di questo tronco giu- 
gulo-cefalico, è ciò che ravvicina l’uomo alla scimmia; le sue 
modalità sono invece condizioni perfezionate. Può dirsi frattanto 
tipica la esistenza di un’ anastamosi fra la giugulare esterna e 
la cefalica; ma può questa disposizione presentarsi in una ma- 
niera più o meno perfetta e ridursi anche ad un semplice conato. 
Per esempio può la vena giugulare esterna nel suo estremo in- 
feriore dividersi in due rami di cui l’ uno va nella vena suc- 
clavia come di norma, l’altro invece discende più o meno per 
sboccare in un altra vena del collo (Gruber) o anche nella stessa 
succlavia (Gruber) e per conseguenza senza raggiungere la vena 


304 P. LACHI 

cefalica. Può mancare: il primo di questi rami ed esistere invece 
l’altro, il quale benchè non raggiunga la cefalica può però di- 
scendere in basso al davanti della clavicola formare un ansa 
attorno ad essa e al muscolo succlavio per poi sboccare nella 
vena succlavia (Gruber). Lo stesso ramo, che Ficalbi chiama 
anteriore nelle scimmie, può discendere anche più in basso e 
riunirsi con la vena cetalica (Krause, Hallette, Nuhn). In tutti 
questi casi il conato alla tipica condizione ora ora accennata è 
fatto dalla vena giugulare esterna. Ma può invece questo es- 
sere effettuato dalla vena cefalica, ed allora si possono presen- 
tare gradazioni varie avanti di giungere alla disposizione che 
sopra. Può infatti la vena cefalica salire in alto per raggiun- 
gere la giugulare esterna e sboccare in essa (Quain). Oppure la 
stessa vena può passare al davanti della clavicola per comuni- 
care con la vena succlavia. E finalmente può giungersi alla con- 
dizione più perfetta, vale a dire della esistenza del ramo ana-. 
stomatico giugulo cefalico, e per. conseguenza di un anello ve- 
noso che abbraccia la clavicola quale appunto è il caso di Nuhn 
e quello che mi ha dato occasione di scrivere queste poche con- 
siderazioni e che è rappresentato nella annessa figura. 

Il caso nostro merita perciò di essere reso di pubblica ra- 
gione sia perchè ci sta a rappresentare una condizione atavica 
quanto anche per la sua rarità. Difatto di casi di tal genere 
si ricorda come notevole quello di Nuhn, e Gegenbaur stesso 
nel suo trattato di Anatomia Umana ricorda come rare le pos- 
sibilità di casi congeneri. Havvi però una certa differenza fra 
il caso nostro e la condizione normale delle Scimmie come ha 
descritta e rappresentata Ficalbi. Difatto 1’ anello circumcelavi- 
colare in esse'è costituito da una divisione e successiva riunione 
della vena giugulare esterna nel suo estremo interiore. La vena 
cefalica sembra sboccare nel ramo anteriore di questa divisione 
ossia in quello che abbiamo ricordato per ramo giugulo-cefalico. 
Però nulla si oppone a che venga considerato, come corrispon- 
dente alla normale umana terminazione della vena cefalica, quel 
tratto di ramo anteriore che intercede fra lo sbocco della cefa- 
lica nel tronco giugulo-cefalico e la sua riunione con il ramo 
posteriore. Per cui, se invece di aversi questa riunione, si ha 
lo sbocco di questa ultima porzione in modo isolato, più in basso 


ANOMALA DISPOSIZIONE DELLE VENE DEL COLLO NELL’ UOMO 305 


e fino anche nella ascellare (come è appunto lo sbocco della 
vena cefalica normalmente), si intende in modo assai perfetto 
l’analogia che corre fra il caso nostro e quello delle scimmie, 
e come tutte le varietà sopraccitate non siano che modalità di 
una stessa disposizione. ) 

In questo modo considerati i vari casi possibili, troviamo 
pure modo di intendere la speciale disposizioni venosa che ab- 
biamo trovato a sinistra dello stesso individuo. La vena cefa- 
lica come mostra la figura presenta un anello nella sua por- 
zione più alta e presso allo sbocco suo. Se il segmento esterno 
di questo anello si fosse maggiormente sviluppato, fosse passato 
davanti alla clavicola e avesse raggiunto la giugulare esterna 
si avrebbe avuta la stessa disposizione del lato sinistro. Per cui 
è da ritenersi che in questo caso non si ha che una gradazione 
per giungere alla esistenza del tronco giugulo-cefalico come è 
nelle scimmie. 

Ammesso dunque come primitiva e tipica la esistenza del 
ramo giugulo cefalico, quale si trova nelle scimmie ne viene 
come corollario che il caso di Nuhn e il nastro del lato destro 
rappresentano una condizione atavica abbastanza perfetta, gli 
altri casì surricordati di avviamento a questa disposizione sia 
per parte della vena giugulare esterna sia per parte della vena 
cefalica (come è appunto nel lato sinistro del nostro individuo) 
rappresentano invece un avviamento alla forma più clevata 
quale si presenta normalmente nell’ uomo. 

In modo incidentale mi piace di far rilevare la coesistenza 
di queste disposizioni venose con quella del muscolo omoioideo 
del nostro soggetto, quale si rappresenta in c/ è nella annessa 
figura. Fra i muscoli del collo l’omoioideo offre assai di frequente 
delle varietà, come lo attestano Theile nella sua Miologia, Ge- 
genbaur e Henle nell’ Anatomia Umana. Anzi fra le disposizioni 
che frequentemente prende il muscolo omoioideo nel suo ventre 
posteriore si ha quella di una duplice inserzione clavicolare e 
scapolare o di sola clavicolare; il secondo caso è il più frequente 
e il fatto è anche più facile ad osservarsi nella razza negra come 
appunto è avvenuto a Giacomini, il quale ne riporta vari casi 
nella sua 2.* e 3.* memoria di annotazioni sopra l’ anatomia 
del Negro. Tanto Giacomini come Gegenbaur hanno assegnato 

So. Nat. Vol. II, fascic. 2. 20 


‘306 P. LACHI — ANOMALA DISPOSIZIONE DELLE VENE EC. 


il nome di muscolo cleido-i0ideo alla disposizione analoga a quella 
da noi osservata. Questa varietà muscolare è da associarsi alle 
molte altre e frequenti riscontrate da vari osservatori nel collo, 
come per es. ultimamente da Bianchi (riferita nello Sperimentale, 
febbraio 1885), le quali tutti stanno ad indicarci una tendenza 
a riempire il triangolo sopraclavicolare con un setto muscolare 
completo come sì osserva in mammiferi inferiori all’ uomo. Per- 
ciò sia per la sua frequenza molto maggiore nei Negro che nel 
Bianco, sia per la sua speciale disposizione laminare, la varietà 
muscolare da noi osservata può essere giustamente ritenuta come 
un ritorno atavico e tanto più se si metta in accordo con le 
sopra descritte varietà venose. 


SPIEGAZIONE DELLA FIGURA 


Tav. XIII 


Vena temporale superficiale. 
»  faciale. 
» Giugulare esterna. 
» » anteriore. 
» » interna. 
Anastomosi fra vena giugulare esterna e giugulare anteriore. 
Vena cefalica. 
Tronco venoso-giugulo-cefalico. 
Cava superiore. 
Aorta. 
Occhiello formato dalla vena cefalica. 
Muscolo eleido-ioideo. 
Vena ascellare. 


SOPRA IL CANALE CRAMO-FARINGKO NELL COMO 


E 


SOPRA LA TASCA IPOFISARIA O TASCA DI RATCHKE 


RICERCHE i 
DEL DOTT. GUGLIELMO ROMITI 


PROFESSORE DI ANATOMIA IN SIENA 


(con una Tavola) 


Essendo caduto sotto la mia osservazione per la prima volta 
un caso di canale cranio-faringeo nel teschio d’ una bambina 
di 5 anni, credo opportuno illustrarlo convenientemente; non 
tanto per la sua nuovità, quanto per le importantissime con- 
siderazioni alle quali conduce il suo studio morfologico-compa- 
rativo e genetico. Con questa osservazione io cerco di aumentare 
il materiale di studio della umana osteologia, condotto con quel 
metodo di esame che tende alla ragione dei risultati anatomici. 
D'altro lato io porto convincimento che anche questa sorta di 
raccolta di fatti che sorge dalla continua ed ingloriosa osserva- 
zione del cadavere umano, debba trovare dei cultori tra gli Ana- 
tomici; i quali, se anche potranno errare nelle loro spiegazioni, 
lasciano sempre un elemento di studio ad altri più felici ed 
acuti nello interpretare. 


Landzert (') chiamò: canale cranio-faringeo una apertura da 
esso trovata esclusivamente nei neonati (10 :°/,), la quale si par- 


(') Th. Landzert — Ueber den canalis cranio-pharyngeus am Schddel des 
Neugebornen. (Petersburger med. Zeitschrift. Bd. XIV. H. 3. 1868. S. 133). 


SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL'UOMO E SOPRA LA TASCA EC. 809 


tiva dalla sella turcica, traversava il corpo sfenoidale giungendo 
sino alla volta faringea: il canale conteneva un prolungamento 
cavo a cul di sacco della dura madre con dei vasi, e non era 
altro che il resto del tragitto del prolungamento o diverticolo 
ipofisario il quale dalla faringe va a costituire il lobo anteriore 
della glandula pituitaria. Per quanto conosco, nessun Anatomico 
ha ricercato questo canale al di là del feto e del neonato: i 
Trattati riportano solamente le osservazioni di Landzert. 


Descrizione del preparato. — Cranio N.° 761 della mia rac- 
colta, e Preparato N.° 267 del Museo di Siena. Bambina di 5 
anni, senese, morta nello Spedale il Giugno scorso. Il cranio è 
assai bene sviluppato, è di forme squisitamente armoniche ed è 
a tipo brachicefalo spiccato. Di altre particolarità, oltre il ca- 
nale in parola, presenta un grande wormiano pterico a destra 
ed una marcata sutura incisiva, la quale raggiunge il margine 
alveolare (V. la fig. I). 

Nel mezzo della faccia inferiore della base del cranio, e la 
figura aiuta molto la descrizione, ed esattamente in corrispon- 
denza della parte più anteriore del basipostsfenoide, a 6 milli- 
metri dalla sincondrosi sfeno-occipitale, a 3 dall’ estremo superiore 
del vomere, lievemente a destra della linea mediana, esiste un 
foro (fig. I, a) di circa 1 millimetro di diametro. Esso traversa 
tutto il corpo dello sfenoide in una direzione lievemente obliqua 
in avanti ed allo esterno, finchè sbocca esattamente nel fondo 
della sella turcica a destra a 2 ‘/, millimetri dalla linea mediana. 
Il suo lume è uguale per tutto il suo tragitto rettilineo, e la 
sua lunghezza misura 8 millimetri. 


Frequenza. — Per quanto riguarda la frequenza del canale 
cranio-faringeo, bisogna naturalmente fare una grande distin- 
zione tra il suo incontrarsi nel feto e nel neonato e nelle epoche 
della vita posteriori a queste. Nell’ embrione umano e nei piccoli 
feti è sempre costante trattandosi, come vedremo, di disposizione 
necessaria, qualunque sia il fatto embriologico che lo origina. 


510 G. ROMITI 

Dico questo perchè sono stati affacciati dei dubbi sopra la ra- 
gione del comunicare la faringe col cranio nel periodo embrionale. 
Le mie ricerche personali sopra questa comunicazione nello em- 
brione e nel feto umano non mi porterebbero che a confermare 
le altrui, sia per la costanza nel primo, come per la frequenza 
nel secondo, avendo pressappoco incontrato il rapporto di fre- 
quenza dichiarato da Landzert. Nel fanciullo e nell’ adulto la 
cosa è altrimenti, poichè, come ho accennato, gli Anatomici non 
ricordano in essi questa abnorme disposizione. Essa è certamente 
rarissima, e nello stabilirne la proporzione è necessario por mente 
ad una disposizione che talvolta può incontrarsi e che potrebbe 
trarre in inganno. Voglio dire che possono ritrovarsi nel basisfe- 
noide, come nelle altre ossa della base del cranio, esili forellini 
i quali, come il canale basilare dell’ osso occipitale, hanno ra- 
gione vascolare. Essi sono assai più fini del nostro in discorso, 
non traversano verticalmente l' osso e sono situati alle parti più 
periferiche. i 

Fatta questa considerazione posso dichiarare che esaminati 
circa 800 Crani che ho raccolti per il Museo, alcuni dei quali 
preparati per il nostro Manicomio non ho trovato il canale in 
parola. 

Esaminando ancora una dozzina di crani di bambini della 
prima età, nemmeno in questi ho visto il canale, solamente in 
alcuno esiste tuttora una piccola traccia d’ una fossetta nella 
sella turcica, resto dell’ obliterato canale. Perciò anche nei bam- 
bini non deve essere facile il verificare la persistenza d'un ca- 
nale cranio-faringeo; e nello insieme, anche tenendo calcolo 
della regola proposta da Krause(!) circa lo stabilire la più o 
meno relativa frequenza delle varietà umane, noi possiamo con- 
siderare questa importante varietà ossea umana ora descritta 
come straordinariamente rara. 


Significato morfologico-comparativo. — Ricercando il cranio di 
altri mammiferi inferiori all’ uomo ho trovato solamente una 


(!) W. Krause — Handbuch der menschlichen Anatomie Hannover 1880. T. III, 
pag. 54-57. 


SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL'UOMO E SOPKA LA tasca EC. S11 


omologa disposizione nel Lepus cuniculus e nel timidus. Però, 
non potendo avere copioso materiale anatomo-comparativo, ho 
estese le mie ricerche a poche classi di mammiferi, e chi vorrà 
interessarsi di questo studio potrà estenderlo in questo indirizzo 
di ricerca. Cercai direttamente il coniglio, poichè sapevo dalla let- 
tura dell’ eccellente libro di Parker e Bettany (') che in questo 
roditore la fossa pituitaria è permanentemente sprovvista di un 
fondo o pavimento osseo, e che perciò nell’ adulto rimane nel 
mezzo di essa uno spazio perforato. 

Esaminando infatti lo sfenoide di un vecchio coniglio, come 
è quello che ho figurato, visto dalla faccia inferiore o prossimale, 
nella fig. Il. si vede che la sella turcica o fossa pituitaria è 
ampia ed anche a pareti oblique che le danno figura ad imbuto. 
Nel fondo è un foro ovale (a), lungo 2 millimetri nel grande 
asse. Talvolta 1’ ho trovato doppio, e ì due posti longitudinal- 
mente. Tornerò su questa disposizione del coniglio ‘dicendo delle 
parti contenutevi. Nella base del cranio della lepre ordinaria 
esiste una disposizione identica a quella del coniglio: il foro 
sembra più ampio. Infatti in una lepre adulta il foro, ovale 
come nel coniglio ha un massimo diametro di 2 '/, millimetri. 

Nelle altre specie di Roditori esaminati non ho trovato uguale 
disposizione: il basisfenoide è tutto solido nè è perforato. Così 
trovasi in vari J/us, nell’ Hystrix, nella Cavia. Cercando altri ordini 
di Mammiferi ho veduto in un giovane Felis catus un sottilissimo 
canale cranio-faringeo, che appena permetteva il passaggio ad 
una finissima setola. Ma è più specialmente studiando vertebrati 
inferiori che si trova costante la normale comunicazione tra la 
sella turcica e la faringe. È specialmente nei pesci più inferiori, 
nei Mixinoidi, che questa comunicazione persiste, e toglie nome di 
canale palato-nasale. Questa comparazione fu per il primo asserita, 
da Huxley (*), il quale dedusse questa spiegazione dal considerare 
il canale palato-nasale dei Mixinoidi come lo spazio tra le tra- 
becole del cranio, e giustamente lo paragonò a quella apertura 
che nello embrione dei vertebrati superiori fa comunicare la 
faringe col cranio. Ed anzi trasse da questa asserzione una forte 


(') Parker e Bettany — Die Morphologie des Schédels. (Trad. tedesca dalla 
opera inglese). Stuttgart. 1879. pag. 26. 

(£) Th. H. Huxley — Manuale della Anatomia degli animali vertebrati. Trad. 
ital. Firenze 1874. pag. 68. 


912 i G. ROMITI 


prova del valore delle trabecole del cranio e dei processi palato- 
mascellari quali archi viscerali preorali: MiXlucho- Maclay (!) os- 
servò la stessa comunicazione negli Squali. Rimane cosa sin- 
golare che, tra i mammiferi, soltanto il coniglio presenti una 
costante apertura nell’ adulto. 

Il canale cranio-faringeo descritto nella bambina è perciò 
omologo al canale o foro pituitario della base del cranio nel 
coniglio e nella lepre, ed al canale palato-nasale dei pesci Mi- 
xinoidi. i 


Spiegazione o ragione embriologica. — Riconosciuta ormai la 
necessità di dover rintracciare le ragioni d’ ognì varietà umana 
sullo sviluppo dell'organo che la presenta, noi dovremo ricercare, 
nel caso nostro, se in qualche periodo della vita embrionale la 
base del cranio è attraversata da un canale. Ed è infatti così 
per la formazione del lobo anteriore della glandula pituitaria. 

La glandula pituitaria situata nella sella turcica è composta 
di due lobi uno anteriore, l’ altro posteriore, lobi che, come è 
noto, si sviluppano in modo ben differente: l’ anteriore dalla 
primitiva cavità faringea, il posteriore dal cervello intermedio. 
E ormai da tutti riconosciuto che il lobo anteriore si produce 
da un diverticolo dalla cavità faringea primitiva cioè dal foglietto | 
esterno od ectoderma, diverticolo detto tusca ipofisaria, tasca 0 
borsa di Fathke dal nome dello anatomico che la trovò. La tasca 
ipofisaria per giungere nello interno del cranio, nella futura 
sella turcica, traversa da principio la primitiva base del cranio 
tra il pilastro medio e quella parte della base che corrisponde 
al cervello intermedio: procedendo lo sviluppo la tacsa va 
strozzandosi sempre più alla sua base che si allunga a sottile 
picciuolo, si stacca ed il picciuolo si trova corrispondere allora 
presso a poco tra il basipresfenoide ed il basipostsfenoide. Il 
percoso del peduncolo della tasca ipofisaria o tasca di statchhe 
si osserva chiaramente in embrioni umani nei primi mesì e spesso 
anche in feti di 4 o 5 mesi, come non di rado me ne sono con- 


(4) Miklucho-Maclay — Bettrdge zur vergleichenden Neurologie der Wirbelthiere. 
Leipzig. 1870. pag. 39 e seg. 


SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL’ UOMO E SOPRA LA TASCA Ec. 313 


vinto. Il canale, che non è che il canale cranio-faringeo, si oblitera 
assai presto, tanto che nei feti a termine non se ne trova che il 
10 °/,, come sopra ho accennato, e in età più inoltrata non se 
ne trovano tracce, ed il caso mio della bambina di 5 anni mostra 
la eccessiva rarità sua. Negli ultimi mesi della vita intra-uterina 
rimane distinta nel fondo della sella turcica una profonda ed 
ovale infossatura (fig. III, a): ed è appunto quello il resto della 
estremità superiore della comunicazione. 

Il canale cranio-faringeo descritto adesso nella bambina, non 
è che il resto della primitiva comunicazione tra la cavità del 
cranio e la faringe, per il formarsi del lobo anteriore della 
glandula pituitaria ('). 


Esaminando il contenuto del canale cranio-faringeo nel feto 
fresco, si nota come esso contenga un piccolo prolungamento 
della dura madre, alcuni vasellini specialmente venosi e del lasso 
connettivo. Così pure esaminando la cosa nel coniglio e nella 
lepre ho visto che la ampia fossa contiene un prolungamento 
della dura madre, ed allo esterno un po’ di connettivo assai 
lasso separa questa dalla superficie ossea. Vi sono molti e sot- 
tilissimi vasi, per la massima parte venosi: qualche ramificazione 
traversa il foro e si sperde per la volta faringea. 

Giacchè il caso che ho illustrato mi ha condotto a parlare 
della tasca ipofisaria o tasca di Ratfckhe, io debbo profittare della 
circostanza per togliere in esame alcuni lavori sull’ argomento, 
noti dopochè io avevo già pubblicato il mio libro di Embrio- 
genia, e lo studio dei quali naturalmente può riattaccarsi a 
quello del canale cranio-faringeo. Sono questi relativi alla esi- 
stenza della tasca di Fathke, ed al significato ontogenetico della 
glandula pituitaria. 

È solamente del primo punto che intendo occuparmi, che 
per l’altro rimando ai noti lavori di Dohrn, di Qwen, di Baraldi 
e di Balfour. 

Fino da quando Fatkke (*) nel 1838 scuoprì la tasca ipofisaria, 

(1) Per quanto riguarda la letteratura sulla formazione della tasca ipofisaria e 
dalla glandula pituitaria, rimando ai Trattati di Embriologia di KoZZiker, 2.8 ediz., 
di Balfour, alle mie Lezioni di Embriogenia, II, pag. 31, ed alla eccellente Mono- 
grafia di Mihalkovics. Entw. des Gehirns; Leipzig. 1877. pag. 83 e seg. 


(*) Ratchke — Ueber die Entstehung der glandula pituitaria. (Mùller 's Archiv. 
1838. pag. 482). 


314 i ‘ G. ROMITI 


Reichert (') ne impugnò la esistenza, facendola derivare da pro- 
duzione delle meningi. Ma la esistenza della tasca di Ratchke o 
tasca ipofisaria; benchè per singolare contradizione fosse poi ne- 
gata dallo stesso suo scuopritore (*), fu nuovamente confermata 
dagli osservatori e fu ritenuta origine del lobo anteriore della 
ipofisi. Così, per ricordare alcuno, KoWiker fin nella 1.° Edizione 
della sua Entwichelungsgeschichte (Leipzig. 1861, pag. 242) con- 
fermò il fatto nel pollo e nell’ uomo (*): Luschka (5) pure la os- 
servò nell’ embrione umano di 8-10 settimane, JXiklucho-Maclay (*) 
nell’ embrione di squalo, Dursy (59) completò il concetto di Iatchke 
mostrando la doppia origine dei due lobi della ipofisi: la tasca 
di Fatchke, prodotta dallo intestino anteriore, produceva 1’ ante- 
riore, il posteriore nasceva dallo infondibulo. Fu merito di 
Gotte ("*) correggere il modo di origine della tasca di Ratchke o 
tasca ipofisaria, poichè mostrò che essa non nasceva dallo inte- 
stino anteriore e perciò dallo entoderma, ma sibbene dalla ca- 
vità boccale primitiva, e perciò dallo ectoderma. Questa capitale 
dimostrazione fu tosto confermata ed accettata da Jlhalkovies (8), 
Balfour (*), Kolliker (19), da me("), e da Rabl-Ruchiard (!): nel- 
l’uomo è anche ricordata da Froriep ('*), il quale dà anche eccel- 
lenti figure del canale cranio-faringeo nell’ embrione umano. Ad 
onta di questa concordia di opinioni tra gli Anatomici, non è 
molto, nel 1884, che Pau! Albrecht, autore del resto di buoni 


ed originali lavori di osteologia comparata, ha voluto sostenere 


(4) Reichert — Das Entwicklungsleben im Wirbelthierreiche. Berlin 1840. p. 179. 


(2) in: Entwickelung der Schildkròte. Braunschweig. 1848. pag. 29. 

(8) KoMiker — Entw. |.® Auf Leipzig. 1861. 

(4 Luschha — Der Hirnanhang. etc. Berlin. 1860. pag. 31. 

(3) Miklucho Maclay — Beitrdage zur vergleichenden Neurologie der Wirbel- 
thiere. Leipzig. 1870. pag. 39. 

(5) Dursy — Beitrdge zur Entwickelungsgeschichte des Hirnanhanges. ( Med. 
Centralblatt Berlin. 1868. 8.) e: Zur Entw des Kopfes des Menschen. Tùbingen 1869. 

(7) Gotte — En. der Unke. Leipzig. 1875. pag. 228. 

(8) Mihalkovies — Specialmente in: Ew. des Gehirns. Leipzig. 1877. pag. 83. 

(9) Balfour — A preliminar account of the development of the elasmobranch 
fishes. (Quart. Journal of the micros. Science. Oct. 1875). 

(1°) Kolliker — Entw. 2.2 ediz. Leipzig. 1879. pag. 302. 

(1!) Romiti — Lezioni di Embriogenia. II. Siena 1882. pag. 34. 

('2) Rabl-Ruchkard -- De gegenseitigen Verhdltniss der Chorda, Hypophysis. 
etc. (Morph. Jahrb. VI. 1880). s 

(13) A. Froriep — Kopftheil der Chorda dorsalis bei menschlichen Embryonen. 
(Henle 's Festgabe. Bonn. 1882. pag. 26). 


ite. 


SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL’UOMO E SOPRA LA TASCA EC. 315 


che la tasca di Fafchke non esiste. L'importanza massima della 
questione, giustifica se io riporto sommariamente le conclusioni 
che nella sua Memoria ('), riguardano il nostro soggetto. 

“ La tasca di Fafchke non esiste : esiste, è vero il canale cranio- 
faringeo nell’ embrione, ma è ripieno solamente dai vasi retro- 
faringei, che non hanno comunicazione nè colla faringe, nè 
colla cavità ovale primitiva, l'organo contenuto nel canale 
e considerato come tasca di atchke non è che uno di questi 
vasi (*): non vi ha ragione embriologica per distinguere due lobi 
nella ipofisi. Il così detto lobo posteriore non origina dall’ in- 
fundibolo. Tutta l’ ipofisi è completamente indipendente dal cer- 
vello e dalla faringe: gli epiteli dell’ ipofisi sono endoteli: tutta 
l’ipofisi è una glandula vascolare sanguigna, omologa a tutta 
l’ipofisi dei pesci: il sacco vascoloso di questi è rudimentario 
nei vertebrati superiori. L’infundibolo è un filo terminale cra- 
niale: esiste perciò nel midollo due code di cavallo, una craniale, 
l’altra caudale ,. 

Queste le conclusioni, le quali, ognun vede, quanto e quanto 
profondamente dovrebbero modificare le nostre cognizioni ed i 
i nostri modi di considerare, non° solo la ipofisi del cervello, 
ma ancora il sistema nervoso centrale in genere. Ma dovendomi 
soltanto per adesso occupare di quanto è relativo alla tasca di 
Ratchke, noterò prima di tutto come Albrecht descriva un “ pro- 
longement gréle du cràniopharynx ,, che non diverrebbe altro 
che la volta faringea dell’ adulto, il quale prolungamento rag- 
giunge, non traversa mai il cranio, nè produce porzione di ipo- 
fisi. Ma la sua asserzione, che cioè il lobo ipofisario sia indipen- 
dente dalla faringe, egli non dimostra con ricerche nello em- 
brione, almeno scorrendo molti dei suoi lavori che devo alla sua 


('*) Paul Albrecht — Sur Zes spondylo centres èpitwitaires du cràne, la non exi- 
stence de la poche de Ratchke et la présence de la chorde dorsale et de spondylo- 
centres dans la cartilage de la cloison du nez des vertébrés. Communication faite 
a Ja Soc. d’ Anat. path. Bruxelles 1884. Manceaux Edit. 

(£) In questo punto vi ha una nota, che testualmente riporto: 

< En un mot, il y a deux erreurs différentes, qu’ on a commises: on a regardé 
<le prolongement gréle du cràniopharynx (voir v. KoZlker Entw. 2.2 fig. 825 4h) 
<ou un vaisseaux rétropharingien (voir v. KòZker 1. e. fig. 326 c c') pour la poche 
<de Ratchke. Le prolongement gréle du cràniopharynx existe certainement, mais 
«jamais il ne peres la base du cràne, jamais il ne se détache du cràniopharynx, 
< jamais il ne devient le lobe antérieur de 1’ hypophyse ».. 


8 G. ROMITI 


316 ©. @. ROMITI 


squisita cortesia, si contenta di asserirlo assolutamente, e dedu- 
cendolo da preparati tolti da feti e da adulti: e ciò è singolare 
poichè nei suoi lavori di ostevlogia comparata la dimostrazione 
segue sempre l’ enunciato o l’ asserzione. Insisto intanto su 
questo lato potente della critica; del non confermare cioè l’ as- 
serzione con preparati embriologici. 

Bisogna che ricordi come A/brecht nello stesso lavoro abbia 
ammesso che la corda dorsale non termini, come universalmente 
sì ritiene, nel dorso della sella turcica, ma si continui nel setto 
delle narici, ove si troverebbero degli spondilocentri epituitari; 
donde cadrebbe completamente la nota teoria di Gegembaur della 
divisione del cranio in vertebrale e provertebrale, e della divi- 
sione in: cordale e precordale di XoMWiker. 

È più specialmente con queste dimostrazioni che Albrecht 
impugna la derivazione del lobo ipofisario della faringe. Infatti 
egli ritiene poter dimostrare che la corda dorsale percorra tutta 
la lamina quadrilatera dello sfenoide o il dorso della sella, tra- 
passi per la lamina perpendicolare dell’ etmoide e quindi nel 
setto cartilagineo. Possiede egli un cranio di feto umano ove 
dal dorso della sella sono continue ossificazioni sino all’ etmoide, 
ricorda una figura di Rambaud e Renault nella quale si vedono 
7 nuclei di ossificazione distinti nel setto nasale cartilagineo 
d'un bambino di un anno, ed infine descrive un teschio di vi- 
tello adulto, nel setto nasale del quale sono 7 nuclei o centri 
vertebrali. Perciò la ipofisi dovrebbe essere organo ipocordale 
e non epicordale ('). 

La comunicazione di Albrecht destò una certa commozione 
tra gli Anatomici, e Alberto Kollker (®) si oppose recisamente 


(1) Avevo già preparato questo lavoro quando io ebbi occasione vedere in Roma 
il mio ottimo amico Prof. Albrecht, nel novembre scorso. Io ammirai la sua pre- 
ziosa collezione osteologica che egli cortesemente mi dimostrò; e mentre rimasi per- 
fettamente persuaso su quanto riguarda il basiotico, la fossetta vermiana, la duplicità 
originaria dall’osso incisivo, le paracostoidi e l' indipendenza delle coste cervicali 
dalla radice anteriore dell’ apofisi trasversa (fatto questo del quale avevo io pure data 
dimostazione), e altri fatti osteologici, vidi, è vero, anche i preparati mezionati nel 
testo relativi alla continuazione di ossificazioni parziali al di là del dorso del clivo. 
Quanto a questi per il momento non potrei pronunciarmi sul merito della questione 
se o no la corda passi nel setto: circa però la genesi del lobo anteriore dalla ipo- 
fisi dalla faringe, io credo che quei preparati non possono distruggere quanto è dato 
di osservare nello embrione. ; 

() A. Kélliker — Grundrisse der Entwik. 2.® Ediz. Leipzig. 1884. pag. 245, 


iaia a. 


SOPRA ÎL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL’ UOMO E SOPRA LA TASCA Ec. 317 


ed in maniera assoluta al modo di formazione della ipofisi secondo 
Albrecht, tanto più che questi dava ancora grande valore per 
la sua tesi ad una figura, la 308 della 2.° edizione della “ Em- 
briologia , dello stesso /0/ler, giacchè egli considerava la por- 
zione compresa tra ms e 4 della stessa figura come la porzione 
sfeno-etmoidale del cranio, cosa che realmente non era, perchè 
la porzione sfeno-etmoidale è formazione successiva. Riconosco 
però giusto l’ appunto che A/breckt fa sull’ interpretazione di 7 
in quella figura: % non può essere certamente la tasca di Ratchke 
che allora la ipofisi sarebbe ipocordale: è più probabile che la 
tasca sia l’infossamento situato subito sotto ch. 

Nei lavori successivi KO/liker (') ed Albrecht (*) limitarono più 
specialmente la loro discussione sul ritenere o no che la corda 
dorsale si prolunghi nel setto nasale, e perciò se devesi o no con- 
cludere, come vorrebbe A/breckt, che tutto intero il cranio debba 
considerarsi come vertebrale e cordale, in opposizione alle note 
divisioni in vertebrale e prevertebrale (Gegembaur ), cordale e 
precordale ( KoXker ). Per quanto riguarda la nostra questione, 
la formazione del lobo anteriore della ipofisi dalla tasca di 
Ratchke, Albrecht ricorda come Ratchke stesso abbia rinnegato 
quanto egli aveva avanti ammesso circa 1’ origine del lobo della 
ipofisi dalla tasca ipofisaria, ed insiste sopra la spiegazione dif- 
ferente che dà ad alcune figure di oWiker. Di osservazioni 
anche quì non porta proprie ricerche su embrioni e descrive 
solamente, come ho accenuato, un singolare setto delle narici 
d'un vitello, nel quale sono 7 rigonfiamenti ossei da esso con- 
siderati quali centri vertebrali o spondilocentri. Nè è certamente 
adesso che voglio discutere questa capitale questione della dot- 
trina del cranio, che mi porterebbe troppo lontano dal presente 
argomento. 

Tornando dunque alla tasca di Ratchke o tasca ipofisaria, 
benchè io fossi più che mai persuaso e dalla sua esistenza, e 


(1) A. Kòlliker — Eine Antwort an H. Albrecht in Sachen der Enistehung 
der Hypophysis und des spheno-ethmoidales Theiles des Schédels. (Biolog. Cen- 
tralblatt. 1 marzo 1885). — Zitzber der Wurzburg Phys. med. Gesellesch agosto 1885). 

(3) P. Albrecht — Ueber Existenz oder Nichtexistenz des Ratchke’schen Tasche. 
(Biolog. Centralblatt. 1 febbraio 1885. — Ueber die Chorda dorsalis und 7 knòcherne 
Wirbelzentren in Rhnorpligen Nasenseptum eines erwachsenen Rindes. Biolog. 
Cblatt. 1 maggio 1885. 15 maggio 1885 e 15 giugno 1885). 


Signa ; G. ROMITI 


dalla derivazione del lobo anteriore dalla ipofisi da essa, aven- 
dola sempre trovata, pure ho voluto sottoporre nuovi embrioni 
di vari vertebrati e di vario grado di sviluppo, ad un completo 
e minutissilmo esame, praticando sezioni della intera loro testa 
esattamente verticali, parallele al piano mediano antero-poste- 
riore, per mezzo del microtomo di Thoma, e montando le se- 
zioni in serie. Così a me parve forse, meglio che in qualunque 
altro modo, da risolversi la questione, che nelle cose naturali 
una esatta osservazione o verificazione d’ un fatto è argomento 
perentorio più delle migliori e più sottili deduzioni. Di più 
usando soverchiamente di queste ci si avvicina, anco involon- 
tariamente, a quel teleologismo che è sorgente di tanti e tanto 
colossali errori nella scienza nostra. 

Meglio d’ ogni minuta descrizione, io darò, tra le tante se- 
zioni praticate, le figure (fig. IV e V) della sezione verticale, 
ed esattamente della centrale della serie, d'una testa di em- 
brione di pulcino verso il 7. giorno di covatura fatta nella 
stufa di Arsonval. L’ embrione colorito e rinchiuso nella paraf- 
fina, fu sezionato col microtomo di Jung. Ho a bella posta pre- 
ferito il disegno e lo studio d’ una preparazione tolta dal pulcino, 
perchè Kolliker e Mihalkovies hanno più specialmente studiata 
e figurata la cosa in questo stadio nei mammiferi. 

Il disegno si limita a quella parte della preparazione che com- 
prende il fondo della bocca primitiva (a), la base del cranio nel 
pilastro medio di Ratchke, futura sella turcica (b. c), il cervello 
intermedio (d), e, al davanti, un grosso vaso (e). Dalla parte 
più alta del fondo della bocca o della volta faringea, parte un 
sottile prolungamento epiteliale, largo 25 micromillimetri, questo 
ha un cammino lievemente tortuoso, traversa la base del cranio 
primitivo tra due formazioni cellulari (f) che costituiranno il 
basisfenoide e sbocca in una ampia infossatura che è la fossa 
pituitaria o futura sella turcica. È da notare che nel suo tra- 
gitto passa al davanti d’ un grosso vaso (e) involto in delicato 
tessuto fibrillare. La presenza di questo vaso in questa località, 
ed in un periodo sì primitivo ci da ragione del trovarvisene 
anche nell’ adulto: donde i molteplici forellini vascolari che esi- 
stono spesso nel basisfenoide completo, forellini che, come ho 
sopra detto, non devono essere confusi col canale cranio-faringeo. 

Arrivato il prolungamento in parola, che non è altro che 


SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO NELL'FOMO E SOPRA LA TASCA EC. 319 
la primitiva tasca ipofisaria, entro il cranio, esso è schiacciato 
d’avanti in dietro, e si continua direttamente in una massa 
glandulare a molteplici gemmazioni od acini, claviforme nel suo 
insieme (9), e che sì porta in dietro ed in alto verso la base 
del cervello intermedio (7). L' epitelio di questa massa è cilin- 
drico corto, è alto 8 micromillimetri: e la massa stessa rappre- 
senta una serie di gemmazioni da un tubo epiteliale o glandu- 
lare, esattamente come si ha nella produzione delle comuni 
glandule del corpo umano: esso non è altro che il lobo anteriore 
della ipofisi, ed è inutile spendere ulteriori parole per asserire 
che esso non può essere che la continuazione o il prodotto del 
prolungamento dell’ epitelio faringeo o della tasca di atchke. 
Nel preparato si nota ancora che il prolungamento faringeo è 
tuttora cavo (fig. V) presentando un lume di 9 micromillimetri: 
così pure sono i tubi glandulari del lobo anteriore della ipofisi. 

Benchè non direttamente collegato col nostro argomento, 
pure io voglio notare un fatto palese nella preparazione e nella 
figura che fedelmente ritrae: Albrecht, tra le sue conclusioni, 
asserì ancora che tutta la apofisi è indipendente dal sistema 
nervoso centrale; sicchè, per esso lui, il lobo posteriore di questa 
non doveva nascere dal cervello intermedio. Ma appunto nella 
fignra sì vede in (î) come un diverticolo del pavimento del cer- 
vello intermediario si porta in basso ed in dietro rella fossa 
ptnitaria, ed è quello che, come mostra lo studio del successivo 
sviluppo, va a costituire il lobo posteriore della ipofisi. 

Da questa preparazione resta meglio confermato e dimo- 
strato come anche nel pulcino il lobo anteriore della ipofisi si 
formi da gemmazioni o diverticoli che nascano dalle due pareti 
della tasca di Ratchke, .l’ estremo della quale nelle sezioni tra- 
sverse, apparisce schiacciato ed ha aspetto di fessura, come è 
figurato, ma nello embrione di troia, nella fig. 329 della 2.° ediz. 
della Embriologia di Kéo/ker. Nei mammiferi invece le gemma- 
zioni epiteliali che producono il lobo anteriore della ipofisi sor- 
gono solamente dalla faccia anteriore della tasca. Nello stadio 
che io ho descritto adesso nel pulcino si vede come alcuni dei 
diverticoli sieno già isolati dallo estremo della tasca faringea 
che li originò. 

Dal sin quì detto e dimostrato, chiaro apparisce come la 
nuova veduta di Albrecht, benchè sostenuta da un ricercatore sì 


320 G. ROMITI —— SOPRA IL CANALE CRANIO-FARINGEO EC. 


competente in morfologia comparata, non è che una semplice 
asserzione. 

Che nello embrione il canale cranio-faringeo, del quale ve- 
ramente Albrecht riconosce la esistenza, contenga dei vasi retro- 
faringei, è fatto che anche le mie preparazioni confermano, e 
nella fig. IV ne è appunto disegnato uno, ma che l’ organo de- 
scritto per tasca di Rafchke sia uno di questi vasi non può 
certamente sostenersi e per la sua natura schiettamente epite- 
liale e per il continuarsi col lobo della ipofisi. 

Che in questo canale sieno anche vasi, non cade dubbio, e 
uno si vede in (e) nella fig. IV: tali si trovano, e abbondanti 
traversare il canale nei coniglio e nella lepre adulti, ed assai 
probabilmente sulla nostra bambina era ancora un vasellino che 
traversale l’ abnorme apertura del basisfenoide. Ma non si può 
prendere per esistito permanente quanto si trova solo nell’ adulto, 
che allora bisognerebbe negare molte altre comunicazioni o pro- 
lungamenti transitori che si trovano nello embrione e dei quali 
puo talvolta restar traccia nell’ adulto, e dei quali sarebbe quì 
ozioso tener ricordo. La tasca di Kufckhe sparisce agli odierni 
vertebrati perchè nuovi adattamenti non ne hanno giustificata 
la permanenza e la ragione; rimangono i vasi perchè possono 
avere speciale ufficio ('), sia per nutrire delle parti, sia per co- 
stituire vie emissarie specialmente venose. 

Dallo insieme di questa mia Memoria son venuto concludendo: 

Esiste, come rarissima varietà nell’uomo, il canale cranio- 
faringeo, anche al di là della vita fetale. 

Esso è omologo a quanto si trova normalmente nel coniglio 
e nella lepre. 

Sta a rappresentare il resto o la traccia del passaggio at- 
traverso la base del cranio della tasca di Fafch'e. 

Ha perciò lo stesso significato morfologico-comparativo e 
genetico delle altre varietà umane: è carattere reversivo. 

La tasca di Fatchke esiste realmente e dà realmente origine 
al lobo anteriore della ipofisi. 


(1) Canale abnorme ed esclusivamente vascolare è il così detto « Canale basilare 
mediano dell’ occipitale » dal quale ne sono stati illustrati esemplari da Gruber e 
da me. 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 


Fig. I 
Porzione di base di cranio di una bambina di 5 anni. 
a. Canale cranio-faringeo traversato da una setola. 


Fig. II. 


Base del cranio (meno la parte anteriore) d'un coniglio adulto. 
a. Canale o foro cranio-faringeo. 


Fig. III 


Faccia superiore d’ uno sfenoide di feto umano all’ 8.° mese. 
a. Fossetta pituitaria o resto del canale cranio-faringeo. 


Fig. IV. 


Porzione di sezione verticale della base del cranio di un embrione di pollo 
al 7.° giorno di covatura. Induramento nel liquido di Kleinemberg e alcool: 
colorazione in massa nel carminio alluminico: inclusione in paraffina e sezioni 
verticali in serie col microtomo Jung. La preparazione è una delle centrali. 

Harinack 3-2. Tubo corto. Camera di Milne-Edwards e Doyere. 

Cavità boccale e faringea primitiva. 

c. Base del cranio-Pilastro medio di Ratchke. 
Cervello intermedio. 
Vaso basilare. 
Prolungamento faringeo (tasca di Ratchke). 
Lobo anteriore della ipofisi. 
Base del cervello intermedio. 
Lobo posteriore della ipofisi. 


PADPLASPA 


©. 
. 


-Fig. Y. 


e.f.g. della fig. IV maggiormente ingranditi. Hartnack 3-5 t. c. 


J. DanieLLi. — Osservazioni su certi organi della Gunnera scabra . Pag. 
F. Sestini. — Sulle scorie provenienti da antiche fusioni metalliche 
che si trovano nella tenuta di Castagneto. SITO » 
D. PANTANELLI. — Una applicazione delle ricerche di micropetro- 
grafia all'arte edilizia ; » 
D. PANTANELLI. — Roccie di Assab. . » 
A. D'Acmarpi. — Della trachite e del porfido era di Doe 
‘ ratico presso Castagneto nella prov. di Pisa . i 
G. Romiti — Una osservazione di terzo condilo occipitale nell uomo 
e considerazioni relative . CREA To 
G. Romiti, — La cartilagine della piega semilunare ed il pellicciaio 
nel negro . pn A O A CI MERI I la OO 
A. Loxei. — Solfato stannoso, solfato stannoso-ammonico ed alcuni 
loro ammon-derivati . SES te aa » 
B. Lotti. — Correlazione di oa fra il porfido quarzifero e la 
trachite quarzifera nei dintorni di Campiglia marittima e di 
Castagneto in prov. di Pisa 5 PELLA VR » 
D. PantanELLI. — Vertebrati fossili delle ligniti di Spoleto. » 
E. FicarBi. — Ossa accessorie comparativamente studiate nel cranio 
dell’uomo e dei rimanenti mammiferi . . . . . . . . +. > 
A. Bartoli L G. Papasogii. — Sulle diverse forme che prendono i 
corpi nel disciogliersi entro un liquido indefinito » 
G. Ristori. -- Contributo alla flora fossile del Valdarno superiore. » 
L. Busatti. — Nota su di alcuni minerali toscani . » 


SDAI e 


DELLE 


MATERIE CONTENUTE NEL SETTIMO VOLUME 


x 


324 


G. A. De Amicis. — Il calcare ad amphistegina nella provincia di 


Pisa, ed i suoi fossili 


.- Pag. 200. 


G. Risrori. — Considerazioni geologiche sul Valdarno superiore ecc. » 249 
M. CanAVvARI. — Fossili del Lias inferiore del Gran Sasso d’Italia » 280‘ 
P. LAcHI. — Intorno al una anomala disposizione delle vene del 


G. Romiti. — Sopra il canale cranio-faringeo nell’uomo e sopra la 


collo nell'uomo . 


tasca ipofisaria . 


ERRATA 


Pag. 140 lin. 29. l'elettrodo di rame aveva 


AA AZ A MI 


154 
155 
155 
170 
172 
188 
196 


» 
« 


» 


SÌ 
25. 


la forma di diverso dia- 
metro È 

Potameae 

mill. 5 logis et 3 Iatis 

lungo m. 5 largo 3 

Urticinèe 

Laurinèe 

N. 75. Oreodaphe Heerii 


. ripartiti 


» 301 


CORRIGE 


l'elettrodo di rame aveva la9Fformafdi 
due cilindri di diverso 


Potamee 

mill. 3 longis 2 latis, 
lungo mill. 3 largo 2 
Urticinee 
Laurinee 
Oreodaphne Heerii 
riportati 


| AttiSocTos.SceNat.VolL VII Tavl. D'Achiardi.Trachite e porfido 


È 
Li 
MALO. 
a, 
CIANI 


Atti Soc.Tosc.Sc.Nat.VolVIl.Tav.II. D'Achiardi. Trachite e porfido 


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Cristofanilit Mibelli dis. Lit. Gozani Pisa. 


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Danielli. Osservazioni sulla Gunnera ecc, 


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Atti Sac.Tosc.Sc_Nat Vol VI 


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Ficalbi.- Ossa accessorie. 


Atti SoeTos.Se.Nat.Vol VII Tav.X 


Ficalbi. dis. Cristofani lit Lit.Gozani Pisa. 


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AttiSoc.Tos.ScNat.Vol.VII Tav.XI 


De Amicis. Calc.ad Amphist 
Fig.A 
Paggio ai Frati Cerretello 


Scala perle distanze e le altezze 


|: 25000 


[CC] Quacernario 


Argille salifere 
E] Ce. ad Amphistegina 


Pliocene 
Miocene 


Gonfolite 


Marne e cale. marnosù 


E 


BNS Serpentino 
Pomarance 


Rocca di Sillano 
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Fig.B Ka: 
| 


Scala 


per le distanze e le altezze 


1:50 000 


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Cristofani dis.elit. 


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Att. Soc. Tosc.Sc.Nat.Vol.VII Tav. XII 


Mariotti e Valenti dis. 


Gristofani lit. 


G.Romiti. Canale Cranio-faringso 


Lit. Gozani Pisa 


Att. Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. VIL Tav. XIIL Lachi.- Vene del collo nell’ Uomo 


Reali dis. Cristofani lit 


R.Lit. Gozani Pisa 


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