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Full text of "Biblioteca storico-criticia della letteratura Dantesca;"

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B.SEEBER 


BIBLIOTECA  STORICO  -  CRlTICi 


DEI  1  A 


LETTERATURA  DANTESCA 


DlKKllA 


DA  (ì.  L.  i^ASSKRIM  i:  da  P.  PAPA 


VII -^  Vili. 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

'899. 


FRANCESCO  TORRACA 


DI  UN  COMMENTO  NUOVO 


ALIA 


DIVINA  COMMEDIA 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

1899. 


Proprietà  letteraria. 


m.ogna:  tipi  della  ditta  Nicola  Zanichelli   1899. 


GIOSUÈ  CARDUCCI 


Per  invito  cortese  dei  direttori  della  Biblioteca  sto- 
rico-critica della  letteratura  dantesca^  con  pochissimi 
tagli  e  poche  aggiunte,  ristampo  la  recensione  del  Com- 
mento alla  Dipina  Commedia  del  prof.  Giacomo  Po- 
letto,  che  pubblicai  nel  Bullettino  della  Società  Dante- 
sca italiana  (II,  1895)  e  nella  Rassegna  bibliografica 
della  Letteratura  Italiana  (III,  1895).  A  ristamparla  mi 
ha  incoraggiato  il  giudizio  di  Giosuè  Carducci:  »  più 
che  recensione  è  un  commento  essa  stessa,  e  dà  e  ac- 
cenna gli  elementi  e  i  criterii  onde  oggi  dovrebbesi 
far  un  commento  nuovo  della  Commedia  » .  Ed  a 
Giosuè  Carducci  la  dedico,  nella  nuova  veste,  per 
testimonianza  di  affetto  e  di  riconoscenza. 

Roma,  agosto  iSg^. 

F.  T. 


DI   IN  COMMI :NT0  movo 
ALLA     DI  VI X A    COMMEDIA 


TORRACA. 


DI  UN  COMMENro  M  ()\() 
ALLA    DIVISA    COMMEDIA 


Non  e  "  impresa  da  pigliare  a  gabbo  „  discorrer  convenien- 
temente d'  un  così  voluminoso  commento  del  poema  di  Dante  ('). 
Il  Poletto  vuole  non  esser  giudicato  se  non  da  chi  1'  abbia  letto 
per  intiero,  ed  io,  che  pure  1'  ho  letto  tutto,  non  esprimerò  giu- 
dizi, presenterò  una  serie  —  forse  troppo  lunga  —  di  osserva- 
zioncelle  e  di  appunti,  da  cui,  chi  non  1'  abbia  esaminata  diretta- 
mente, potrà,  con  sufficiente  esattezza,  trarre  un  concetto  del- 
l' opera.  Soltanto,  a  modo  d' introduzione,  e  a  titolo  d' impres- 
sione, dirò  qui  poche  cose  del  metodo,  che  il  Poletto  ha  seguito. 

Il  commento  è  compilato,  in  generale,  per  (jualiiiKjue  fatta  di 
leggitori;  in  particolare,  per  "  giovani  sacerdoti  o  prossimi  al 
sacerdozio,  e  i  più  di  essi  già  Laureati  in  filosofia  e  in  Teo- 
logia „.  E  il  benemerito  autore  del  Dizionario  dantesco  si  do- 
manda: "  Posto  ciò,  dovevo  io,  avrei  potuto  occuparmi  costante- 
mente di  certe  note  di  pura  forma?  E  non  avrei  anzi  dovuto, 
per  la  qualità  appunto  degli  alunni,  abbondare,  troppo  più  che 
in  altre  scuole  non  si  soglia,  di  materia  filosofico-teologica?  „  La 
risposta  non  può  non  esser  affermativa;  ma  basta  aprire,  a  qual- 
siasi pagina,  uno  qualunque  de' tre  volumi,  per  vedere  che  le  chiose 


(')  La  Divina  Coniitìcdia  di  Dante  Alighieri  con  cnntinenlo  del  prof.  Giacomo 
Poletto:  I,  L'Inferno,  pp.  xxv-748;  II,  Il  Purgatorio,  pp.  777;  III,  Il  Paradiso, 
pp.  708,  Lxxxvi  di  rimario  e  17  d'indice.  Tipografia  Liturgica  di  S.  Giovanni, 
Desclée,   Lefcbvre  e  C.  ;  Roma,   1894. 


di  pura  tbnna,  se  così  piace  chiamarle,  le  chiose,  che  spiegano 
frasi  e  parole  per  sé  chiarissime,  sono  troppe.  La  parafrasi  del 
testo,  continua,  minuziosa,  non  di  rado  inutilmente  prolissa,  in- 
vece di  aiutare,  stanca;  invece  di  chiarire,  offusca  e  affoga.  Gio- 
vani latti  e  giià  laureati  meritavano  di  non  essere  trattati  come 
scolaretti  di  ginnasio. 

La  compilazione  è  condotta  su  gli  altri  commenti,  antichi  e 
recenti,  tra  i  quali  più  spesso  adoperati  quelli  dello  Scartazzini 
e  del  Casini,  più  pregiati  quelli  del  Tommaseo,  del  Cesari,  del 
Giuliani.  Il  Cesari  e  il  Giuliani  sono,  d'ordinario,  scelti  ad  arbitri 
delle  questioni  più  gravi,  o  più  intricate.  Or,  di  commenti  fatti 
con  i  commenti,  su  i  commenti,  mettendo  i  commentatori  gli  uni 
contro  gli  altri,  dando  biasimo  a  questo  e  lodando  quello,  ne 
avevamo  già  troppi.  Ho  studiato  per  conto  mio,  con  quant'  at- 
tenzione potevo,  questo  tema,  e  mi  son  persuaso  che  giove- 
rebbe, oramai,  separare  ciò  che  appartiene  alla  storia  della 
critica  dantesca,  da  ciò  che  direttamente  può  servire  a  far  inten- 
dere il  poema.  Come,  per  le  lingue,  si  distingue  da  un  pezzo  il 
vocabolario  storico  da  quello  dell'  uso  ;  così,  per  la  Couwicdia, 
sarebbe  bene  cominciar  a  distinguere  le  rassegne  delle  opinioni 
e  delle  chiose  de'  commentatori  dalla  interpretazione  giudicata 
migliore.  Prendiamo  un  passo  controverso:  non  è  vano  sfoggio 
d'  erudizione  infilar  1'  una  dietro  all'  altra  le  spiegazioni,  che  ne 
furono  tentate,  da  Iacopo  della  Lana  al  Casini,  se  si  è  sicuri 
d'avere  per  proprio  studio  trovata  la  spiegazione  definitiva;  ov- 
vero si  è  convinti  che  la  trovò  il  Tommaseo,  poniamo,  o  il  Vel- 
lutello?  Vero  è,  molte  questioni  non  son  finite,  molti  passi  non 
sono  ancora  stati  spiegati  in  maniera  soddisfacente;  ma  chi  si 
accinge  a  dare  intero  un  commento  nuovo,  ha  compiuto  davvero 
il  dover  suo  quando  se  la  cava  ripetendo: 

Messo  t'ho  innanzi;  ornai  per  te  ti  ciba? 

Una  parte  del  commento  è  occupata  da  digressioni  polemiche, 
nelle  quali  non  è  preso  di  mira  questo  o  quel  dantista,  questo  o 


-   5  — 

quel  critico;  ma,  genericamente  e  in  confuso,  i  sedicenti  critici 
liberali,  o  libertini,  o  frammassoni.  Che  spari  di  questa  polvere 
un  arcade  monsignore,  il  quale  non  ne  possiede  altra,  passi;  ma 
il  Poletto!  E  non  in  lavori  d'occasione,  non  per  opporre  frizzo 
a  frizzo,  botta  a  botta;  ma  in  un  commento  destinato  alle  scuole, 
ai  giovani  sacerdoti!  Anche  certe  allusioni  —  quelle,  per  esempio, 
ai  governi  rapitori,  ai  governi  incameratori  —  sono  per  lo  meno 
inopportune;  a  ogni  modo,  rispettiamo  Dante  quando  lo  pren- 
diamo a  pretesto  dei  nostri  sfoghi?  Che  "  a  capir  Dante  per 
davvero  „  non  occorra  "  il  pieno  e  cordiale  consentimento  a 
quanto  egli  credeva  e  sperava,  e  amava  „,  si  prova  troppo  facil- 
mente: senza  eccessiva  superbia,  crediamo  di  capire  assai  bene 
Omero  e  Virgilio,  eppure  non  adoriamo  gli  dei  dell'  Olimpo  e 
dubitiamo  che  si  sia  mai  combattuta  la  guerra  di  Troiai 

Miior  Giove,  e  l' inno  del  poeta  resta. 

Un  commento  in  parte  veramente  nuovo  potrà  esser  fatto  da 
chi,  tenendo  aperta  innanzi  la  Divina  Covwicdia,  leggerà  gli  au- 
tori tutti,  che  Dante  conobbe,  o  potè  conoscere  e,  piuttosto  che 
ne'  tardi  chiosatori,  studierà  la  lingua,  le  opinioni,  le  allusioni  al 
costume  nelle  prose  e  ne'  versi  de'  contemporanei.  Quanta  luce 
possa  venire,  da  tali  indagini,  ai  concetti  e  alla  forma  del  poeta, 
dimostreranno,  se  di  dimostrazione  e'  è  bisogno,  alcuni  riscontri, 
i  quali  per  quest'  unica  ragione,  —  e  son  lieto  me  ne  offra  il 
destro  l' opera  del  Poletto  —  sottopongo  all'  attenzione  degli 
studiosi. 


I. 


Inferno,  I,  7.  Si  confronti  V Ecclesiastico  (  XLI,  i):  "  O  mors, 
quam  amara  est  memoria  tua  „.  Tanto  è  amara,  afferma  il  Poletto, 
"  non  la  selva,  come  vogliono  molti,  ma  la  cosa  a  dire  „.  Bisognerebbe 
dimostrare  che  nella  cosa  a  dire  il  poeta  trovò  il  bene  {vi trovai), 
scorse  alte    cose    {v'ho    scorte).  "  Chi    legge  altre,  e  con  ciò  di 


—  6  — 

necessità  intendo  il  luoiitr,  le  fior,  gli  sforzi  del  Poeta,  l' incontro 
di  Virgilio,  e  simili,  non  s'  avvede  che  tutte  queste  cose  avvennero 
fuori  e  non  dentro  della  selva  „.  Ma  se  le  n/fr  cose  "  sono  quel- 
r  a/fa  fantasia,  che  il  Poeta  descrisse,  ovvero  il  soggetto  del 
Poema  „,  come  si  può  asserire  che  Dante  le  scorse  dentro  la 
selva,  o,  peggio,  ve  le  trovò?  O  dovremo  intendere,  con  patente 
offesa  al  buon  giudizio  e  all'  arte  del  poeta,  che  trovò  e  scorse 
alte  cose  nella  cosa  a  dire? 

I,  20.  //  las^o  del  cuore  scrisse  Dante  anche  nella  ballata  Donne 
io  non  so,  trascritta  nel  1320  in  un  memoriale  bolognese.  Il  con- 
fronto de'  due  passi  simili  mostra  preferibile  la  lezione  il  lago 
del  cor  alla  volgata: 

Una  saetta,  che  m"  asciuga  un  lago 
del  cor,  pria  che  sia  spenta. 

(Cfr.  Carducci,  Litorno  ad  alcune  rime  dei  secoli  XII  e  XIV, 
p.  167).  —  I,  23.  Una  frase  del  commento  può  indurre  in  errore: 
"  Pelago:  è  quello  che  altrove  1'  Autore  chiama  alto  sale,  cioè  V alto 
mare,  e  che  può,  come  qui,  intendersi  per  mare  difficile,  burrascoso  „. 
Non  è  burrascoso  il  mare  quando  V  acqua  solcata  dalla  nave  ri- 
torna  eguale.  Pelago  usa  Dante  per  mare  profondo  ;  ma  il  voca- 
bolo, da  sé  solo,  non  implica  l' idea  di  difficoltà.  Non  sarebbe 
stato  inutile  osservare  che  l' uso  di  esso  non  è  esclusivamente 
dantesco;  basti  citare  a  prova  due  versetti  di  F.  da  Barberino 
(  Doc.  d'  Amore,  sotto  Industria,  XV,  x  )  : 

a  pelago  laudato 

mal  pescare  ho  trovato. 

Né,  forse,  sarebbe  stato  inutile  notare  la  frase  "  Uscito  alla  riva  „. 
Cfr.  Fatti  di  Cesai  e,  II,  vni:  "  Uccidevanoli  all'uscire  de  le  navi 
<i  la  riva  „. 

I,  32.  "  È  malagevole  decidere,  notò  il  Blanc,  se  nella  lonza 
si  debba  intendere  la  lince,  la  pantera  o  il  %o/>ardo,  confonden- 
dosi spesso  questi  animali  tra  loro  „.  Recentemente  il  Casini  ha 


osservato:  "  Che  il  poeta  non  inventasse  egli  il  nome  della  lonza, 
a'x  prova,  oltre  che  per  1'  uso  fattone  nella  forma  sciolta  di  /coiizn, 
da  Brunetto,  anche  per  un  documento  fiorentino  del  1285,  dove 
a  una  bestia  già  racchiusa  è  dato  il  nome  di  /cinicia  „,  e  perché 
il  nome  si  trova  in  un  sonetto  satirico  di  Rustico  di  Filippcj. 
Verissimo:  in  un  altro  sonetto  Rustico  [Aiit.  Rime  Volg.,  V, 
DcccLX  )  preferi,  forse  obbligato  dalle   leggi    del    verso,   scrivere  : 

e  di  leonza  e  d'altro  assai  fragore; 

ma  Palamidesse  Bellindoti,  —  gonfaloniere  de'  balestrieri  a  Mon- 
tapcrti,  quando  Dante  non  era  nato  ancora,  —  fini  una  canzo- 
netta di  lamento  (Ivi,  II,  ci.xxxviu)  dicendo  della  sua  donna: 

che  s"  una  Ionica  fosse 
si  perderla  natura, 
ed  avriane  pietanza. 

Anche  qui  "  abbiamo  la  lonza  col  senso  di  bestia  spaventosa, 
feroce,  ardita  „  ;  sennonché  Ristoro  di  Arezzo,  che  bene  si  può 
chiamare  uno  scienziato,  distingueva  la  lonza  dal  leopardo  :  "  Lo 
segno  del  leone....  faccia  il  leone,  e  la  terra  e  tutti  li  animali  a 
sé,  come  //  leopardo,  e  la  lonza,  e  li  animali  aldaci  che  vivono 
di  ratto  „  [Della  Conipos.  del  Mondo,  \'II,  i  ).  Dunque,  torniamo 
ai  dubbi  di  prima.  I  quali  non  sono  dissipati,  anzi  aggravati  da 
altri  documenti  della  raccolta,  in  cui  il  Casini  ha  trovato  quello 
del  1283.  Il  5  aprile  del  1291  il  Capitano,  presenti  i  Priori,  nel 
consiglio  dei  Cento,  propose  "  provisionem  faciendam  prò  Co- 
muni Bindo  de  Luca  prò  pretio  leopardi,  in  quantitate  librarum 
L-'  florenorum  parvorum  „.  La  proposta  fu  approvata  senza  di- 
scussione; ma  nel  Consiglio  speciale,  quello  stesso  giorno,  ser 
Salimbene  Dietisalvi  siirrexit  et  arcngando  la  combatté  ("  salvo 
de  facto  leopardi,  quod  consuluit  quod  nichil  fiat  „):  posto  a 
partito,  il  fatto  del  leopardo  passò  con  sessanta  voti  contro  tre. 
Nel  giugno  il  Consiglio  del  Podestà  ebbe  a  trattare  del  paga- 
mento di  sessanta  soldi    e    dieci  denari  a  Piero  del  Maestro  prò 


ptisfuia  /lopordi  (Giikrakdi,  Le  Consi/Z/r  dr/Za  Rrpiihhl.  Fior.,  II, 
pp.  20  e  91).  Il  Comune,  che  già  prima  del  1260  (')  teneva  a  pub- 
bliche spese  il  leone,  nell'  85  tenexa  una  Iriiiìcia,  nel  91  un  leo- 
pardo: era  "  esposizione  „  permanente,  non  temporanea,  come 
pare  abbia  creduto  il  Casini;  perciò  riesce  difficile  ammettere 
nell'uso  popolare  la  confusione  della  loììza  col  leopardo,  cosi  net- 
tamente distinti  nelle  discussioni  e  negli  atti  de'  Consigli  citta- 
dini ;  quasi  impossibile  ammetterla  nel  pensiero  e  nella  lingua 
di  Dante.  Cfr.  Folgore  (xvì:  "  leggero  piiì  che  lonza  o  lio- 
pardo  „. 

I,  38-40.  L'opinione,  "  che  afferma  il  mondo  creato  in  primavera  „ 
trovandosi  il  sole  "  congiunto  colla  costellazione  dell'  Ariete  „,  si 
può  vedere  enunciata  con  la  dovuta  esattezza  astronomica  in 
Macrobio  (/;/  Sonni.  Sci/>.,  I,  xxi):  "  Aiunt  incipiente  die  ilio, 
qui  primus  omnium  luxit....  qui  ideo  mundi  natalis  iure  vocitatur, 
Arietem  in  medio  coelo  fuisse  „. 

I,  91.  È  citato  \'irgilio:  qnovc  tenetis  iter?  A  maggior  diritto 
può  essere  citato  G.  Faidit  (  "  er  meillors  tener  autre  viatge  „  ), 
o  Guittone  (  "  Or  pensa  di  tener  altro  viaggio  „  ).  —  1,  105. 
Interpretando  nazione  in  senso  di  domiìiio,  il  Poletto  si  lascia  an- 
dare a  una  chiosa  lunghetta;  ma  non  ha  pensato  a  trovare  un 
luogo  di  Dante,  o  di  scrittori  del  tempo  di  Dante,  in  cui  la  pa- 
rola nazione  significhi  altro  da  nascita.  —  I,  106.  Delle  due  spie- 
gazioni della  locuzione  iinìilc  Italia,  che  il  Poletto  accoglie,  una 
io  r  ho  sempre  creduta  proposta  primamente  da  chi  o  non  ri- 
cordava punto,  o  non  ricordava  bene  quando  e  perché  Virgilio 
l'avesse  usata.  Raccontava  a  Didone  Enea  (III,  505-522 j: 

Provehimur  pelago  vicina  Ceraunia  iuxta 
unde  iter  Italiani  cursusque  brevissimus  undis. 
Sol  ruit  interea  et  montes  umbrantur  opaci. 


(')  "  Non  ardite  ora  di  tenere  Leone,  che  voi  già  non  pertene,  e  se  '1  tenete, 
scorciate,  ovver  cavate  lui  coda,  e  oreglie,  e  denti,  e  unghi,  e  '1  depelate  tutto. 
e  in  tal  guisa  potrà  figurare  voi  „.  Gcittone,  Leti,  ai  fiorentini  (XIV). 


-   9   - 

lainque  riibcsccbat  stellis  Aurora  fugatis 

cum  procul  obscuros  Collis  hmiiileiiKjiic  videmus 

lialiatu. 

Ora,  c|ual  parte  dell'Italia  vede  chi  viene  dall'  Epiro  per  mare? 
Non,  certo,  V  Italia  laziale.  —  I,  117.  L'autorità  di  S.  Tom- 
maso, di  S.  Paolino  e  di  Dante  [EpiM.  VI,  2)  induce  il  Po- 
letto  a  opinare:  "  Non  può  esservi  dubbio  di  sorta  che  al 
seconda  tuorte  non  debbasi  dare  il  senso  d' inferno  o  di  eterna 
dannazione:  ma  sarebbe  mestieri  al  grida  dare  il  significato 
di  impreca  „.  Un  contemporaneo  di  Dante,  Giordano  da  Ri- 
valto  [Fred,  iiied.,  lxu),  "  per  molte  ragioni  in  grande  copia 
e  per  la  scrittura  „,  aveva  in  animo  di  mostrare  "  come  i  dan- 
nati desiderano  di  tornare  in  nulla,  se  essere  potesse  „;  ma  una 
sola  ne  espose:  "  Il  male,  ove  non  ha  nullo  mischiamento  di  bene, 

quello  è  male  sommo Cosi    è    il    male    de' peccatori    privati 

d'ogni  bene,  messi  in  ogni  male;  e  però  e' chiamano  la  morte 
continovamente  e  non  la  possono  trovare....  Vedendo  che  delle 
pene  non  possono  essere  fuori,  essendo  eglino,  vorrebbono  vo- 
lentieri, e  questo  disiderano  continuamente,  di  tornare  in  nulla  a 
non  essere,  per  campare  quelli  tormenti;  e  se  si  potessono  ucci- 
dere, volentieri  il  farebbono  mille  volte  il  di,  se  bisognasse  „. 

II,  6.  "  Ritrarrà ....  Da  tal  voce  si  sente  qui  l'uomo  nelle  arti  del 
disegno  versato  „.  Se  tutt'  i  provenzali,  i  francesi  e  gì'  italiani,  che 
prima  di  Dante  usarono  "  tal  voce  „,  fossero  stati  versati  nelle 
arti  del  disegno,  io  non  so  che  sarebbe,  ora,  della  fama  di  Ci- 
mabue  e.  di  Giotto.  Imaginiamoci  Bertran  de  Born  intento  a  di- 
segnare le  malefatte  del  re  di  Aragona  su  tavoletta  o  su  parete, 
invece  di  enumerarle  in  un  serventese!  —  II,  9.  Cfr.  Gino, 
Vedete  : 

Or  si  parrà  chi  à  'n  sé  nobilitate. 

II.  28-30.  Il  Poletto  non  crede  si  possa  scorgere  in  andovvi 
un'  allusione  all'  andata  di  S.  Paolo  all'  Inferno  secondo  la  leg- 
genda medioevale;  "  V  andovvi  s>\  riferisce  semplicemente  a  5^- 
colo   immortale,  che,    come    pur    notò    il    Gasini,    significa    anche 


—    IO   

il  Paradiso  „.  Qui,  se  non  ni'  inganno,  son  confuse  due  cose. 
Lasciando  stare  la  leggenda,  —  per  la  quale  non  basta  più 
rinviare  all' Ozanani,  al  \'illari,  al  d'Ancona,  —  domando  per- 
ché non  si  possa  intendere  anche  l' Inferno  compreso  nella 
locuzione  seco/o  inuiiorta/c.  "  Ed  io  eterno  duro  „  dice  l' iscri- 
zione su  la  porta  del  "  luogo  eterno  „.  Srco/o  significò  lerra, 
vita  e  inondo;  perciò  la  pettegola  del  Contrasto  di  C.  dal  Camo 
minacciava  di  non  cedere,  anche  se  il  vago  avesse  assembrato 
tutto  quanto  V  abrrc  d'està  secolo;  perciò  in  Albertano  (III,  xni  ) 
si  legge:  "  Chi  serve  al  re....  perde  questo  secolo  e  l'altro  „;  e 
ne'  Fatti  di  Cesare  (IX,  xix)  si  attribuisce  alla  Sibilla  la  profezia 
"  che  a  la  fine  del  secolo  lo  mondo  si  rimoverà  per  fuoco  „  ;  e 
Guittone  ringraziava  Maria,  che  s'  era  degnata  amarlo 

e  del  secol  ritrare 

che  loco  è  di  bruttezza  e  di  falsia. 

Come  vita  e  come  niotido,  il  secolo  è  mortale  e  immortale.  — 
II,  35.  Cfr.  Francesco  da  Barberino  {Doc.  d' Ani.,  sottu  Indu- 
stria, xcvi): 

E  ciaschedun,  eh'  è  saggio, 
del  fin  nel  suo  coraggio 
davanti  al  cominciare 
pensa. 

Non  era  questa  1'  occasione  di  giudicar  chiaro  "  perché  savio  nel 
linguaggio  di  Dante  divenga  sinonimo  di  poeta  „.  —  II,  55.  Lapo 
Gianni,  Onesta  rosa: 

e  gli  occhi  suoi  lucenti  come  stella. 

II,  56.  "  Piana  non  intenderei  con  chi  spiega  con  voce  soni- 
messa,  sibbene  chiara,  di  facile  intoidintento  „.  Anch'  io,  incorag- 
giato da  un  esempio  di  ser  Brunetto: 

ma  per  piano  volgare 
ti  sia  detto  1'  affare, 


—  II  — 


e  da  uno  di  J.  Rudel:  "  lo    vers    que    chantam    en    plana    Icnga 
romana.   „  —  li,  59-60.  Cfr.  Roman  de   Troie,   13787-88: 


Joufrois,   1402-3: 


por  aprendre  li  la  inesure 
combicn  li  monz  est  lons  ne  dure; 


Qu'  en  tant  conme  li  muiides  dure, 
nen  a  si  larges  criature. 


11,  77-78.  Cicerone,  Somn.  Scipionis  iv:  "  In  infimoque  orbe 
Luna  radiis  Solis  accensa  convertitur.  Infra  autem  iam  nihil  est 
nisi  mortale  et  caducum,  praeter  animos  munere  deorum  homi- 
num  generi  datos:  supra  Lunam  sunt  aeterna  omnia  „.  —  11,  94: 
.SV  compiange  vale  non  solo  "  sente  compassione,  si  duole  „, 
anche  si  quercia.  U.  da  Lodi,  1097-98:  "  L' anema  molto  se 
compiange  qel  corpo  tropo  se  refrance  „.  Fatti  di  Cesare,  II,  i: 
"  Marco  si  parti  del  luogo  e  di  quello  assalto  si  compianse  al  se- 
nato „.  —  II,   no: 

A  far  lor  prò  ed  a  fuggir  lor  danno.   — 

Al  contrario    Amerigo    di    Pegulhan,    En   greti   pantais:  "  Fuich 
nion  prò  e  vau  seguen  mon  dan   „. 

Ili,  6.  Con  tutte  le  ragioni  del  Gioberti  e  del  Conti,  rimane 
strano  che  l' Inferno  sia  opera  del  Primo  Amore,  se  non  s' intende: 
de/  Volere  divino.  G.  da  Rivalto,  lxxxiii:  "  Il  volere  di  Dio  è  prin- 
cipio e  cagione  di  tutte  le  creature  che  sono  e  di  tutto  ciò  eh' è; 
e  però  è  principio  perfetto.  Il  podere  e  savere  sono  principio,  ma 
non  perfetto....  Il  volere,  la  volontà  è  principio  di  tutte  1'  opere. 
L'amore  che  è?  L'  amore  viene  dalla  volontade....  non  può  essere 
sanza  volontà  né  volontà  sanza  amore:  sono  una  cosa  „.  —  III, 
40-43.  "  Li  rifiuta  l'Inferno,  dacché  i  dannati,  sotto  certo  rispetto, 
avrebbero  argomento  di  gloriarsi  d'  essere  stati,  almen  nel  male,  da 
più  di  loro  „.  A  questa  interpretazione  potrebbe  accrescer  forza 
una  sentenza  del  Convito,  II,  33:  "  Del  non  potere  e  del  non 
sapere  bene  sé  menare,  le  più  volte    non    è    l'uomo    vituperato; 


12    — 

ma  del  non  volere  è  sempre,  perché  nel  volere  e  nel  non  volere 
nojitro  si  giudica  la  malizia  e  la  bontade  „.  Egidio  Colonna,  Del 
Rcgg.  dei  Priucipi,  I,  XMi:  "  E  bene  ù  ditto  che  i  re  debbono 
intendare  al  bene  comune,  che  se  ellino  non  intendessero  al  bene 
comune  e  fossero  in  istato  di  potere  mal  fare  e  noi  facessero, 
perciò  non  dovrebbero  essere  lodati,  ned  essere  di  più  gran 
merito;  perciò  che  non  basta  ad  essere  buono,  ed  a  volere 
essere  lodato,  il  guardarsi  da  i  mali  operare,  ma  conviene  che 
esso  adoperi  bene  „.  —  111,  117: 

Per  cenni,  come  augel  per  suo  richiamo. 

Cecco  Angiolieri: 

ed  io  feci  per  cenni:  A  me  non  pare. 

Aìit.  Rime  volg.  (  II,  cui  j  : 

Andrò  sanza  richiamo 

a  lei,  che  legno  e  bramo, 

com'  astore  a  pernice. 

IV,  II.  Un  esempio,  non  dantesco,  di  viso  per  vista.  Ristoro, 
Vili,  XVI  :  "  E  guardando  nel  cielo,  veggio  If  mescolati  due  co- 
lori oppositi,  lo  chiaro  e  lo  scuro,  per  la  cagione  della  profondità; 
che,  quando  lo  viso  entra  per  lo  cielo,  non  gli  truova  fondo  né 
fine,  là  ov'  egli  si  riposi  e  rafiggasi  su,  e  spezialmente  là  ove  non 
sono  le  stelle;  imperciò  che  non  sono  trasparenti  che  '1  viso  le 
passi  „.  —  IV,  40.  La  frase:  non  per  altro  rio  fu  usata  anche 
in  prosa.  Tav.  Ritonda,  lxxii:  "  Quella  lettera  era  stata  fatta  per 
riconfortare  alquanto  Ghedino,  e  non  fue  per  altro  rio  né  per 
altro  affare  „.  Cfr.  Chiaro,  Oni  che  va: 

d'  ogni  reo  trae  lo   core  e  mette  in  pace. 

I\',  52-55.  Nessun  accenno  alla  tradizione  della  discesa  di 
Cristo  all'Inferno.  Un  amico  di  Dante,  Lapo  Gianni,  alla  Morte: 

Tu  non  ti  puoi,  maligna,  qui  covrire, 
né  da  ciascun  disdire 


—  13  — 

che  non  trovasti  più  di  te  possente: 

ciò  fu  Cristo  potente  a  la  sua  morte, 

che  prese  Adamo  ed  ispezzò  le  porte 

incalciandoti  forte: 

allora  ti  spogliò  de  la  vertute, 

ed  a  lo  'iiferno  tolse  ogne  salute.   — 

1\',  74.  "  (Jrniiizd,  luogo  cospicuo,  che  li  diparte,  li  distingue  dal 
modo  degli  altri  ecc.  „  Questa  non  è  pensata  bene:  orraiiza  non  il 
castello,  bensì  la  cagione,  per  cui  gli  spiriti  magni  dimorano  nel  ca- 
stello. —  IV,  89.  "  Dal  nominar  Orazio  dalle  sue  satire,  anziché  dalle 
liriche,  non  vi  par  egli  che  Dante  conoscesse,  ciò  che  ormai  è  am- 
messo da  tutti,  che  non  nella  lirica  ma  nella  satira  consiste  la  prin- 
cipal  gloria  del  Venosino?  „  Non  mi  pare.  Non  solo  Dante,  ma  tutto 
il  Medio  Evo  conobbe,  studiò,  ebbe  familiari  le  satire  più  delle 
liriche.  Dante  non  ricordò  mai  le  odi;  citò  più  volte  la  Poetica, 
una  volta  accennò  ad  argomento  trattato  nelle  satire.  —  IV,  106: 
A  spiegare  perché  il  castello  sia  detto  nobile  non  occorreva  rife- 
rire dal  Convito  la  definizione  di  nobiltà.  Qui,  credo,  il  poeta  non 
ebbe  alcuna  intenzione  profonda,  scrisse  una  frase  d'  uso  comune. 
Cfr.  Intelligenzia,  st.  60: 

In  una  bella  e  nobile  fortezza 

istà  la  fior  d'  ogni  bieltà  sovrana, 

in  un  palazzo  eh'  è  di  gran  bellezza.... 


È  molto  bello,  nobile  e  giocondo.. 
intorneato  di  ricca  fiumana.  — 


IV,  114. -A  Guittone  piaceva  "  ogni  donna  e  donzella,  che  basso 
e  rado  favella  „.  —  IV,  123.  Gli  occhi  di  Cesare  erano  simili  a 
quelli  non  d'  uno  sparviero  in  genere,  ma  dello  sparviero  grifagno. 
D.  de  Pradas,  Lo   Ronians  dels  auzels  cassadors,  311-12,  323-25: 


Aquist  aun  los  hueills  tan  vermeills 
com  es  de  mali  lo  soleills. 

Auzel  niaic  non  aura  ia 

aissi  bels  hueills  com  1'  autre  a, 
que  '1  guilfanh  non  a  contrast. 


—  14  — 

I\',  136.    "   Pone,  rÌLicnc,  afferma  „.  Non  si  dava,  se  posso    dire, 
tanta  intensità  al  senso  di  questo  verbo.  Guittone,  son.  Mi  piace: 

secondo  ciò,  dio  pone  alciuio  autore; 

r  Inttlligi'iicia,  st.  306: 

e  i  nomi  e  la  divisa  pon  l'autore; 

e  Dante  stesso: 

siccome  il  Saggio  in  suo  dittato  iione. 

V,  I.  "  Primaio,  primo....  anche  fuor  di  rima  „.  Fuor  di  rima 
e  in  scritture  non  letterarie,  come  gli  Ordiìiamcnti  di  S.  Maria 
del  Coiììiiiìc,  al  pari  di  sczzaio.  —  V,  20.  Buona  1'  osservazione  : 
Forse  Dante  meglio  che  al  virgiliano  faciìis  dcsccnsus  Averno 
pensava  alle  parole  del  Vangelo:  Intrate  per  angustaìu  portam ; 
quia  lata  porta  et  spatiosa  via  est,  qua  ducit  ad  pcrditioneiii  „. 
Le  due  citazioni  eran  già  nei  commenti  dello  Scartazzini  e  del 
Casini,  il  forse  era  già  in  quest'  ultimo,  onde  mi  viene  desiderio 
di  un  riscontro  nuovo:  "  Molto  ene  la  via  d'inferno  lata  e  bella 
e  piacevole  all'  e-ntrata;  e  quanto  più  vai  innanzi,  più  diventa 
stretta,  tanto  che  ne  la  fine  ella  distrecza  a'  folli  che  là  entro  si 
sono  messi  „  ecc.  Conti  mar.  d' anonimo  senese,  xii.  —  V,  39. 
"  Sommettono:  in  questo  verbo  sta  tutta  la  sensibilità  della  con- 
seguente condanna....  nel  sommettono  è  tutto  1'  atto  della  volontà 
pervertita  „.  Anche  qui,  mi  permetto  pensare,  il  poeta  seguitò 
uso,  non  ebbe  a  cercare  e  scegliere  tra  varie  espressioni  la  pili 
efficace.  Leggesi  nella  Tavola  Ritonda  (lxxv):  "  Io  non  voglio 
sottomettere  la  ragione  alla  volontà;  „  e  ne' versi  di  quel  capo 
ameno  di  Folgore: 

Ma  ben  se  po'  coralmente  dolere 
chi  sommette  rason  a  volontade, 
e  segue  senza  freno  suo  volere. 

Risalendo  più  addietro,  in  un'  antica  biografia  di  B.  di  Ventadour 
trovo  citati  questi  versi  di  A.  di  Maroill: 

e  fuc  mon  sen  e  sec  ma  voluntat, 


—  15  — 

e  questi  di  G.  d'  Uisel  : 

Que  enaissi  s*  avcn  de  tìn  aman 
quel  sens  non  a  podor  contrai  talan. 

\',  46-48.  Lai  a  me  non  pare  usato  nella  Coììumdia  "  in  senso  di 
voce  dolorosa,  lamentevole,  di  certi  uccelli  „  ;  perché  credo  Dante  sa- 
pesse che  i  laìs  lirici  non  erano  costretti  a  trattar  soltanto  temi 
tristi:  il  famoso  lais  don  cliievrefitel,  per  esempio,  è  un  canto  di 
gioia.  L'n  ttovatore  nostro,  il  quale  visse  parecchi  anni  ancora  dopo 
la  nascita  di  Dante,  aveva  usato  la  parola  a  proposito  di  uccelli  ; 
ma  di  uccelli,  che  si  rallegrano,  come  avevan  fatto  prima  di  lui 
G.  De  Borneil,  U.  Brunet,  J.  Rudel  e  chi  sa  quanti  altri  : 

Si  toc  m'  estaiic  en  cadena, 

er  quan  neis  1'  auzels  demena 

joi  ci  plais 
fazen  vers,  vottlas  e  lais 
pel  temps  qu'  csclaira  e  serena. 

Di  traendo  guai,  oltre  quelli  della  Coììimcdia,  si  potrebbero  citare 
moltissimi  altri  esempi.  Gino: 

Girò  traendo  dolorosi  guai. 

\',  67.  Quando  leggo  che  in  Paris  alcuni  ravvisano  il  protagonista 
del  poemetto  popolare  Paris  e  Vienna,  per  poco  con  loro  non  mi 
risso.  Dovrebbe  bastare  la  menzione  di  Elena  nel  terzetto  pre- 
cedente a  far  capire  che  si  tratta  di  Paride;  ma,  forse,  l'ipotesi 
piacque  e  piace  a  chi  non  ebbe  mai  in  vita  sua  occasione  di  os- 
servare quante  volte  nelle  poesie  francesi,  provenzali  e  italiane 
anteriori  alla  Coniniedia  s' incontrino  insieme  Paris  ed  Elena  tra 
gli  esempi  di  amanti  famosi.  Vienna,  è  lecito  chiedere,  in  quale 
storia  d'amore  medioevale  si  trova  nominata?  E  perché  Dante 
al  famosissimo  troiano  avrebbe  dovuto  preferire  un  oscuro  gio- 
vinetto, di  cui  ora  per  la  prima  volta  sento  dire  dallo  Scartaz- 
zini  e  dal  Poletto  che  fu  un  cavaliere  errante?  A  quale  delle  due 
Tavole  sede  mai?  Giacché  non  è  da  confondere  con  quel  Parides 
/'  amoroso,  il  quale  comparisce  una  volta,  nel  Palamede,  travestito 


—   ró- 
da donzella  armata;    non    era    brettone,    era    nato  in  Vienne    del 
Dellìnato  da  un  gran  signore 

che  Giacomo  per  nome  era  cliiamato. 

Il  protagonista  del  poemetto  popolare  —  non  anteriore,  proba- 
bilmente, al  Quattrocento  —  non  solo  non  mori  per  amore,  come 
1'  Andreoli  avverti  ('),  ma  amò  di  purissimo  affetto  la  giovinetta 
\'ienna,  e  la  sposò  santamente,  e  da  lei  ebbe  cinque  figliuoli  : 
perché,  dunque,  sarebbe  stato  collocato  all'  Inferno  tra  i  lussu- 
riosi? A  proposito  di  Tristano:  il  Poletto  non  nomina  quelli,  che 
fanno  "  Isotta  morta  alquanti  mesi  dopo  l' amante  „,  e  sarebbe 
vano  cercarli  tra  i  più  antichi  narratori  della  leggenda  e  tra  i  più 
autorevoli;  certamente  l'autore  dell'indigesta  e  tarda  compila- 
zione del  Tristan  in  prosa  non  era  capace  di  comprendere  e  di 
sentire  la  poesia,  1'  "  éclat  douloureux  et  fascinant  „  di  quella 
leggenda.  —  V,  103: 

Amor,  che  a  nullo  amato  amar  perdona. 

"  Perdoìia;  qui  vale  fa  grazia,  concede;  risponde  al  parccre  dei 
Latini  „.  Cosi  anche  altri;  ma  nessuno  reca  esempi  di  questo 
uso  del  verbo  nella  nostra  lingua.  Eccone  uno.  Tristano,  ferito 
il  cavaliere  Fellone,  "  lo  voleva  trarre  a  fine  „  ;  ma,  alle  pre- 
ghiere e  alle  promesse  di  lui,  "  allora  Tristano  gli  perdona  la 
morte  „.  [Tav.  Ri/.,  cxiv).  —  V,  105: 

Che,  come  vedi,  ancor  non  mi  abbandona. 


(1)  L' Andreoli,  non  Io  .Scartazzini,  come  si  legge,  per  errore,  nella  prima 
ediz.  di  questo  scritto.  Credevo  allora  lo  Scariazzini  capace  di  fare  una,  co- 
munque sbagliata,  osservazione,  col  proprio  cervello.  Ma  nemmeno  di  questo 
è  capace!  Ringrazio  i  gentili,  che  gli  hanno  voluto  rimproverare  di  non  avermi 
citato  mai  nelle  sue  troppe  sbrodolature  recenti  di  argomento  dantesco;  ma  io 
prevedevo  che  così  avrebbe  scartazzineggiato  sin  da  quando  ebbi  occasione  di 
levargli  quel  poco,  che  ancora  gli  rimaneva  addosso,  di  merito  fallace. 

Virtutis  expcrs,  verbis  iactans  gloriam 
Ignotos  fallit,  notis  est  derisui. 

V.  le  mie  A'.  Rassegne,  x. 


—   17  — 

Il  concetto  e  le  parole  vengono  direttamente,  o  ni'  inganno  a 
partito,  da'  romanzi  francesi,  che  diffusero  in  Italia  la  conoscenza 
di  Tristano  e  d'Isotta  e  del  loro  tragico  amore: 

de  Tristram  e  de  la  reine, 
de  lur  amur  qui  tant  fu  fine, 
dunt  il  ourcnt  incinte  dolur; 
/tuia  eii  inururenl  en  un  jitr. 

"  Gli  (lue  amanti  „  narra  una  \-uIta  la  nostra  Tavola  Riloìida, 
"  ebbono  una  vita  e  feciono  una  morte  „;  un'altra  volta  fa  dire 
alla  bionda  regina:  "  Lo  di  che  morrà  Tristano,  io  gli  farò  com- 
pagnia; e  se  lo  re  o  lo  dolore  no' mi  uccide,  io  medesima  m'uc- 
ciderò; imperò  che  noi  siamo  stati  una  vita,  e  degna  cosa  è  che 
noi  siamo  una  morte  „.  —  V,  121-23.  "  La  forma  assoluta  e 
come  antonomastica  qui  usata  da  Francesca,  fa  credere  ragione- 
volmente che  non  d'altri  s'intenda,  che  di  Virgilio  „.  Ma  non 
come  di  Publio  Virgilio  Marone,  dell'  autore  dell'  Eneide,  bensì 
come  di  un'  ombra,  che,  al  pari  di  tutti  gli  altri  abitatori  della 
valle  inferna,  "  ricordandosi  e  avendo  dinanzi  alla  memoria  il 
bene  eh'  ebbe,  ed  ora  si  truova  cosi  caluco,  questa  memoria  lo 
affligge  sommamente  „.  (G.  da  Rivalto,  liv).  Perciò,  dottore  non 
ha  il  senso  suo  solito  di  doctor,  bensi  quello  di  ductor,  condut- 
tore, guida,  come  néX  Eneide   (IX,  226): 

ductores  Teucrum  primi  et  delecta  iuveutus 
consilium  summis  regni  de  rebus  habebant, 

cioè  nel  verso,  che  segue,  terzo,  due  altri  già  parafrasati  dal  no- 
stro poeta  per  dar  principio  al  canto  II.  Che  Dante  fosse  guidato, 
condotto  da  Virgilio,  Francesca  aveva  potuto  arguirlo  dalla  do- 
manda del  secondo,  quando  il  primo,  chinato  il  viso,  se  ne  stava 
tutto  pensoso.  Poi,  bastava  osservare  che  se  uno,  ancora  vivo, 
andava  visitando  in  compagnia  di  un  morto,  per  1'  aer  perso,  quelli, 
che  avevan  tinto  il  mondo  di  sanguigno,  il  morto  doveva  esser  guida 
al  vivo.  Per  la  sentenza,    cfr.    P.    Raimon  di  Tolosa,   Us  novels  : 

que  qui  non  a  vezat  aver 
gran  be,  plus  leu  sap  sostener 

TORRACA.  2 


afan,  que  tals  cs  belhs  e  bos, 
qu'  el  maltraitz  1*  es  plus  angoissos 
quan  li  sove  "1  benanansa. 

E  un  nitro  provenzale  (Mahn,  Gcdicìitc,  1019): 

et  es  maiers  dolors 
aquel  qu'  es  ricx  cant  desvay  sa  ricors 
que  si  dabans  no  for  estatz  manens. 

\ ,  136.  La  bocca  è  fvic  di  amore,  si  legge  nella  Vita  Nuova.  —  V, 
137.  Dante  imaginò  Paolo  e  Francesca  intenti  a  leggere  di  Lanci- 
lotto,  come  amor  lo  strinse,  e  come,  per  la  molta  cortesia  dell'  alto 
prcììcipc  Galeotto,  —  tanto  migliore  della  sua  fama  —  potè  parlare 
a  Ginevra,  manifestarle  il  suo  amore,  baciarla.  La  lettura,  facendo 
traboccare  que'  due  cuori  innamorati,  fu  1'  occasione,  per  cui  co- 
nobbero i  dubbiosi  desiri.  Tutto  questo  è  imaginazione  del  poeta, 
perché  —  non  mi  stancherò  di  ripeterlo  —  egli  fu  il  primo  e, 
per  lunga  pezza,  egli  restò  solo  narratore  del  tragico  caso;  ma, 
forse,  imaginando,  ricordava.  L'  amore  de'  due  cognati,  passione 
veemente  e  gentile,  indomabile,  quasi  fatale,  è  l' amore  stesso, 
che  ad  2ina  morte  aveva  condotto  Tristano  e  Isotta.  Or,  a  che  e 
come  gli  amanti  della  leggenda  avevano  compreso  di  amarsi? 
"  Tristano  e  Isotta  si  puosono  allo  scacchiere  a  giuocare  a  scacchi, 
come  erano  usati....  E  giucando  eglino  in  tale  maniera,  aveano 
grande  talento  di  bere;  e  allor  addomandaro  che  lo  vino  fosse 
apportato.  E  allora  Governale  e  Brandina....  presono  il  bottacino 
là  dove  era  lo  beveraggio  si  amoroso,  e  sie  diedono  di  questo 
bere  a  Tristano  e  a  Isotta....  E  avendo  Tristano  bevuto  questo 
beveraggio,  egli  si  maraviglia  molto  molto,  perché  sua  volontà 
né  suo  pensiero  egli  in  alcuno  modo  non  poteva  raffrenare. 
'E  simile  e  in  tale  modo  era  infiammata  madonna  Isotta;  cioè  di 
lui:  e  per  tale,  l'uno  guatava  l'altro;  e  per  lo  molto  mirare, 
r  uno  conosce  il  disio  e  la  volontà  dell'  altro.  E  a  quel  punto 
dimenticarono  lo  giuoco  degli  scacchi....  „  {Tav.  lò'tonda,  xxxiv). 
La  scena,  eccettuati  alcuni  particolari,  è  sostanzialmente  la  stessa. 
P'orse,  ripeto,  Dante,  la  ricordava    mentre  componeva  il  V  canto 


—  19  - 

dell'  Iii/cnio,  —  l' ipotesi  trova  conferma  nelle  allusioni  al  ciclo 
di  Artu,  con  le  quali  comincia  e  finisce  1'  episodio  e,  meglio,  nella 
natura  e  negli  effetti  dell'amore  de' due  cognati,  in  tutto  identici 
a  quelli  dell'amore  della  coppia  brettone;  —  ricordandola,  volle 
ingentilirla  insieme  e  renderla  pili  verosimile,  piti  umana.  Vi  riusci 
con  un  mezzo  ammirabilmente  semplice,  sostituendo  al  gioco  degli 
scacchi  la  lettura,  al  botlaciiio  il  libro  di  Lancillotto,  al  beveraggio 
la  forza  d'  Amore,  "   che  a  nullo  amato  amar  perdona  „, 

\'I,  i8.  Cfr.  Monte  Andrea  {Ant.  Rime  volg.,  Ili,  ccLXxxvn): 

che  tal  colpo  si  '1  cor  de  1'  omo  squatra. 

\'I,  30  e  34.  Pugnare  e  adonare  passarono  da'  provenzali  ai 
nostri  rimatori.  —  \'I,  36:  Frate  Giordano,  xviii:  "  Dico  prima 
che  '1  mondo  è  assimigliato  a  canna  per  la  vanità  sua;  sapete 
che  la  canna  è  cosa  vana;  pare  cosi  di  fuori,  ma  dentro  è  vana 
e  vota;  cosi  il  mondo  è  pretta  vanità  „.  —  VI,  48.  Non  ci  ma- 
raviglieremo  di  trovar  in  Dante  maggio  "  pur  nel  mezzo  del 
verso  „,  se  rifletteremo  che  1'  usarono  prima  di  lui  Guittone  ed 
altri,  e  fu  usato  anche  in  prosa.  Tavola  Ritonda,  xliv:  "  La 
reina  Isotta  fece  a  Lancialotto  lo  maggio  onore  del  mondo  „.  — ■ 
VI,  96.  "  Podestà....  si  dice  tuttavia  a  Firenze  „.  E,  prima  di 
Dante,  lo  scrissero  i  dittatori,  i  notai,  in  latino,  i  rimatori  nostri, 
da  C.  dal  Canio  all'  autore  della  canzone  Biasmar  vo',  in  vol- 
gare. —  VI,  103  segg.  Non  so  se,  dicendo:  Ritorna  a  tua  scienza, 
Virgilio  voglia  proprio  "  richiamare  1'  alunno  alla  filosofia  aristo- 
telica „.  Il  24  ottobre  1305,  in  Santa  Maria  Novella,  frate  Gior- 
dano (lxxxvi)  insegnava:  "  Dicono  i  santi  e' savii  che  '1  corpo 
nostro  non  è  uomo  per  sé,  né  l'anima  non  è  uomo  per  sé,  no; 
ha  r  uno  natura  perfetta  per  sé  solo,  ma  1'  anima  e  il  corpo  con- 
giunta insieme  fanno  uomo,  sono  una  natura  compiuta  e  per 
fetta....  E  però  il  corpo  risusciterà  e  ricongiugnerassi  collo 
ispirito  „. 

VII,  14.  L'  autore  è  di  avviso  che  fiacca  "  qui  sia  verbo  at- 
tivo, il  cui  soggetto  è  vento,    e    non    già    neutro  assoluto  „.  Non 


—    20    

la  pensava  cosi  maestro  Ffancesco  da  Firenze  {.liif.  Riiiir  i'o/ì;., 
TI,  rxcvii): 

Vedili'  ò  per  contastare 

al  vento,  perdi'  à  potcn/a, 
pender  1'  albore  e  fiacarc 
e  cader  sanza  difenza. 

\'II,  20-2I.  Non  sono  sicuro  che  travaglio  valga  "  dolori  morali  „ 
e  f>ciìr  dolori  "  materiali  „.  Si  badi,  a  ogni  modo,  all'  uso  di  tia- 
vaglia  femminile,  frequentissimo  da  Odo  delle  Colonne  a  —  che 
so?  —  alla  cronaca  fiorentina  pubblicata  dal  Villari:  "  La  quale 
3'sola  co  molta  travalgla  per  lui  fue  acquistata  „.  E,  spesso, 
travaglio  e  pena  si  lasciano  cogliere  insieme.  Conti  senesi,  x  : 
"  Bello  amico,  in  grande  pena  et  in  grande  travallio  vi  site 
messo  per  lo  vostro  mesfatto  „;  Fatti  di  Cesare  III,  v:  "  Avete 
sofferte  per  me  molte  travaglie  e  molte  pene,  già  è  diece  anni  „. 
Per  seipa  cfr.  Monte,  Ant.  Rime  volg.,  Ili,  cclxxxviii: 

serv'  è  dei  servi  chi  cosi  si  scipa. 

\'II,  53.  "  \'ita  sconoscente  è  quanto  vita  ignobile,  dissennata, 
senza  intelletto  „.  La  parola  fu  usitata  nella  lirica  provenzale  e 
nell'italiana  cortigiana.  Sozzi  non  significò  soltanto  "  macchiati 
di  avarizia  e  di  prodigalità  „.  Questo  non  ha  voluto  intendere 
r  autore,  ma  la  sua  frase  può  produrre  equivoco.  Albertano, 
III,  XIV  :  "  Altresì  è  sozzo  ad  essere  lodato  dai  sozzi,  come  lo- 
dare le  sozze  cose  „,  "  1'  amor  di  sozzi  non  ti  può  dare  a  man- 
giare, se  non  sozza  cosa  „.  —  VII,  58.  Cfr.  Guittone,  Lett.  xxxvii: 
"  Poni  ad  amburo  (al  prodigo  e  all'avaro)  lo  freno  di  largezza; 
cioè  tenere,  e  dare  quel  che  dei  „.  E,  nella  canzone  Tanto  so- 
vente, 69: 

e  fa  veder  eh'  acquisti,  tcgna  o  dia. 

Domanda  il  commentatore:  "  Mondo  pillerò  non  si  potrebbe  ni- 
tendere  per  mondo  o  vita  presente,  in  questo  senso  che  i  pro- 
dighi e  gli  avari  non  ebbero  contentezza  e  pace  in  questo  mondo, 
e  ora  hanno  l'Inferno?  „  Non  mi  pare:  questo  mondo,  la    terra^ 


21    

1(1  iiolcc  mondo,  è  ricordato  sempre  con  doloroso  rimpianto  dai 
dannati?  —  \'II,  64.  La  perifrasi  piacque  al  Latini  nel  Tcsorctlo: 
"   Che  già  sotto  la  luna  Non  si  trova  persona  ecc.  „ 

\'III,  20.  yl  (jiicsia  volta  per  significar  tempo,  come  al  Poletto 
piace,  non  luogr»,  si  legge  nella  Tav.  Ritotida,  lxxx  :  "  Cotesta 
assembraglia  fac  adunare  la  rcina  Ginevra,  solo  perché  Lancio- 
lotto  torni  a  corte;  ma,  in  verità,  ch'ella  l' àe  fallata  a  questa 
volta   „.  —  \'I1I,  36.    Guido  Cavalcanti: 

Vedete  eh'  i'  son  un  che  vo  piangendo. 

\'1I1,  T07.  G.  di  Borneil,  A  ben  cliantar:  "  La  bon' esperansa 'ni 
pais  „;  Chiaro,  canz.  Oi  Lasso,  st.  4': 

che  non  credo  eh'  agia  core 
cui  non  mette  'n  isperanza  bona. 

Monte,  son.  Per  nio/fa  goitc  : 

E  di  ciò  molta  gente  si  notrica, 

ciascun  vivendone  a  speranza  bona. 

Fiore  di  virili,  xxxvii:  "  La  buona  speranza  non  ti  abbandona 
mai,  ma  datti  buon  conforto  infra  gli  amici  „.  —  Vili,  118-19. 
"  Espressione  potente,  creata  da  lui,  verso  della  quale  ogni  altra 
sarebbe  fievole  „.  Creata  da  lui,  ex  niliilo,  non  direi:  Monte,  nella 
canzone  Più  sofferir,  60,  aveva  scritto: 

ora  eh'  io  son,  com'  io  vi  dico,  raso 

d'  ognunque  cosa  eh'  ave  in  me  vertute. 

IX,  48.  -l  tallio  vale  a  questo  solo....  dunque  erra  chi  a  tanto 
spiega  intanto,  in  questo  mentre.  „  E  chi  spiegasse  allora,  in  quel 
punto,  come  in  francese: 

actant  se  teut  et  outre  s' en  ala? 

'/'avola  Ri/onda,  xcvi:  "  E  a  tanto  lo  sindaco  fa  dare  alle 
trombe  „  ;  Liòro  di  Fioravaìtte  liv  :  "  A  tanto  giunse  Io  re  e 
disse  „  ;  Fatti  di  Cesare  \\  xv:  "  A  tanto  fu  la  battaglia  si  di 
presso,  che  ecc.  „.  —  IX,  50.  Libro  de'  Sette  Savi:  "    Forte    co- 


minciarono  a   gridare    e    a    battersi    a    palme  e  istracciarsi  i  loro 
capegli  „. 

X,  36.  Quantunque  abbia  letto  e  citi  il  De  Sanctus,  temo  non 
abbia  il  nostro  commentatore  compreso  bene  il  carattere  di  Fa- 
rinata e  la  diflerenza  tra  esso  e  quello  di  Capaneo:  "  Il  baldo 
sprezzatore  della  vita  futura  pare,  pur  provandone  si  terribili  ef- 
fetti, che  non  abbia  smesso  punto  dal  suo  orgoglioso  disprezzo; 
ma  come  a  Capaneo  forse  questa  permanente  superbia  è  castigo 
maggiore  della  stessa  fiamma,  che  il  succia  „.  Capaneo  era  un 
fanfarone,  Farinata  un  magnanimo.  "  L'  uomo  di  gran  cuore  e  di 
grand'  animo  pare  che  abbia  gli  altri  in  dispetto,  conciosiacosaché 
per  loro  opera  né  per  loro  parole  elll  non  lassa  a  fai-e  l'opere 
di  virtù  „.  Cosi  Egidio  Colonna  (II,  xxv  )  ;  e  Dante  {Convito, 
I,  XI ):  "  Sempre  il  magnanimo  si  magnifica  in  suo  cuore;  e 
cosi  lo  pusillanimo  per  contrario  sempre  si  tiene  meno  che  non 
è  „.  —  X,  39.  "  Conto  io  derivo  da  comptiis,  nobile,  ornato.  „ 
In  tal  caso,  il  discepolo  avrebbe  ricevuto  dal  maestro  un  consi- 
glio inutile,  perché,  per  dire  chi  erano  stati  i  maggiori  suoi,  non 
ebbe  davvero  bisogno  di  fare  un  discorso  nobile  od  ornato. 
Meglio,  come  già  inclinava  a  proporre  il  Zingarelli,  tener  la  pa- 
rola equivalente  al  francese  coiiite  e  al  provenzale  coindr,  ma  non 
nel  solo  senso  di  pulito,  adorilo:  nel  senso,  piuttosto,  di  gentile, 
grazioso,  amabile.  Non  altrimenti  1'  usò  1'  autore  della  ballata  E  do- 
nale conforto  (  Ant.  Rime  volg.,  III,  cccxvi  )  : 

E  donale  conforto, 

conta  pulzella,  per  tua  cortesia, 

a  quillo  che  t'  à  porto 

tutto  so  core  e  messo  in  tua  balia,  ^ 

e,  per  quanto  è  possibile  capire,  Ser  Clone  (Ivi,  IV,  p.  207): 

Umilemerte   —  sue  paraule  conte 

sanza  rancura   —  per  te  si  ben  son  porte, 

in  rima  con  conte  per  cognite.  —  X,  57.  Anche  tidto  spento  detto 
del  suspìcare  merita  la  lode  di  espressione  potente  —  il   Poletto 


—  23  — 

non  gliela  dà  —  ;  ma  nenimcn  essa  è  creazione  di  Dante.  Monte 
(.hit.  Rime  volg.,  Ili,  ccLXXxix,  47-48): 

tutto  mio  posso, 
dove  voler  poria,  è  tutto  spento. 

Comincia  a  diventarmi  simpatico  questo  noioso  ! 

X,  61-63.  Il  Poletto  giudica  indecifrabile  ancora  "  questo  punto  „. 
Mi  piace  non  conceda  di  riferire  a  Dio  la  frase  Coltti  che  attende 
la;  mi  dispiace  ricordi  il  pellegrinaggio  di  Guido  alla  tomba  di 
San  Giacomo  "  a  Tolosa  „....  come  prova  della  religiosittà  di  lui. 
Non  ha  avuto  notizia  del  sonetto  di  Niccola  Muscia: 

Ecci  venuto  Guido  a  Campostello  ? 

Guido  si  parti  dai  compagni  "  senza  dicer  vacci  „,  asserendo  che 
"  non  v'  era  botio  „. 

La  spiegazione  del  disdegno  di  Guido,  mentre  questo  com- 
mento si  veniva  stampando,  faceva,  dirò  con  l' amico  Mazzoni, 
molto  cammino.  Il  Mazzoni  (\)  riassume  e  compie  le  interpreta- 
zioni proposte:  "  Io  Dante  non  vengo  da  me  solo,  vengo  con 
una  scorta  fidata  (e  ciò,  per  attenuare  il  vanto  che  gli  verrebbe 
àdW  altezza  d'  ingegno);  la  quale  scorta,  per  questa  via,  io  spero 
che  mi  condurrà  fino  a  colei  che  fu  ed  è  il  sospiro  della  mia 
vita,  e  di  cui  Guido  non  si  curò  né  si  cura  „.  Concordo  con  lui 
in  tutto,  meno  l' ultima  frase.  Con  opportune  citazioni  di  poeti 
nostri  e  di  un  provenzale  egli  dimostra,  come  meglio  non  si 
potrebbe  desiderare,  che  disdegno  è  qui  voce  del  gergo  amo- 
roso; ma  non  ha  considerato  che  la  persona  disdegnosa  è  sem- 
pre la  donna,  unicamente  la  donna  e  che  disdegno  ha  signifi- 
cato ben  più  grave  di  noncuranza.  Di  testimonianza  di  disdegno 
maschile,  come  direbbe  1'  amico  A.  Zenatti  (')  rammento  solo  la 
canzone  Oi  lassa  di  Odo  delle  Colonne: 

ed  or  m'  à  a  disdegnanza 
e  fammi  sconoscenza; 


{})  Nozze  Ciait-Sappa  Flaiidiuel,  p.  69. 

(^1  II  disdegno  di  Guido  nella  Cultura,  11-22  luglio 


—    24    - 

ma  l'eccezione  è  solo  apparente,  perché  Odo  rappresenta  una 
donna  nelle  condizioni,  che  por  gli  uomini  innamorati  erano  or- 
dinarie. Tristano  —  qualche  altra  citazione  non  nuocerà  —  il 
valoroso  Tristano,  il  fiore  della  cavalleria,  fu  una  volta  costretto 
a  dire  alla  franche  vaine: 

Alias,   kc  je  lant  ai  vcsquu, 
quant  je  cest  de  vus  ai  vòu, 
ke  vus  cn  dcsdein  me  tenes 
et  pur  si  vii  ore  me  avez  ; 

e  a  ricordarle  il  tempo  felice: 

quant  vus  me  amastes  semz  desdeing 

(Bartsch,  Chrest.  de  l' anc.  Francais;  Trislran).  Cino  da  Pistoia 
scrisse,  proprio  come  Dante,  avere  in  disdegno:  ma  la  disdegnosa 
gentilezza,  della  quale  egli  sforzavasi  a  non  dolersi,  era  della  sua 
donna: 

Or,  donna,  se  a  la  vostra  signoria 

piace  avere  in  disdegno  il  mio  servire, 


saver  dovete  che  lo  meo  desire 

non  in  ver  desse  disdegnar  a  voi.  (M 


E  un'  altra  volta  : 


Io  sento  si  il  disdegno, 

che  voi  mostrate  contr'  al  mirar  mio, 
eh'  a  veder  non  vi  vegno. 

Ciò  posto,  il  soggetto  di  ebbe,  non  è,  non  può  essere  Guido. 
Beatrice,  o  si  consideri  come  donna,  o  come  simbolo  della  Fede, 
della  Teologia,  di  quel  che  si  vuole,  era  troppo  alto  collocata 
nella  mente  del  poeta,  perché  egli  osasse  pur  di  pensare,  o,  peggio, 
di  dire,  che  qualcuno  aveva  potuto  non  solo  non  curarsi  di  lei 
ma  averla  a  disdegno. 

A  fermare  d'  un  tratto  il  Mazzoni  su  là  via,  su  la  buona  via, 
già  per  tanta  parte  percorsa,  dev'  esser  valso  —  non  Io  dice,  ma 
s' indovina'  —  quella,  che  Isidoro  Del  Lungo,  scherzando,  chiamò 


(')  Cosi  il  Rice.  2846.  Il  cod.  Vat.  3214  :  "  non  e    inver    disse    disdegnare  ad 
coi  „.  Le  stampe  :   "  Non  in  ver  debbe  „. 


"  alchimia  lessicografica  (')  „.  "  l'cr  quanto  „  —  secondo  1'  al- 
chimia —  "  siano  grandi  i  capricci  del  vocabolo  "  cui  „....  non 
è  fra  essi  compreso....  che  il  sullodato  "  cui  „  pussa  signilìcare 
"  a  tale  persona,  la  quale,  ad  ciiiii  qncììi,  ad  cani  qnam,  o,  peggio 
ancora,  ad  ntni  qui,  ad  laiii  qiiac  „.  Pure,  io  —  per  necessità 
registro  qui  me  —  avevo  osservato:  questo  cui  vale  a  chi;  non 
di  rado,  a  chi  si  deve  tradurre  in  a  cohti,  a  quello,  il  quale  {il 
t/uale  soggetto).  Aggiungo  un  a  cui  in  vece  di  a  chi  dalla  can- 
zone Lo  snaiìiorato  core  di  Chiaro  : 

Amor  è  dato  a  cui 

ha  cortesia,  ha  pregio,  ed  ha"  piacere. 

Infine,  non  so  se  la  Crusca  li  abbia  registrati,  ho  non  soltanto 
da  citare  degli  a  chi,  ma  anche  due  cui,  capricciosi  quanto  si  vuole, 
capricciosissimi  anzi,  fratelli  carnali  del  cui  dantesco.  Chiaro  Da- 
vanzati  {La  gioia)  descrive  la  sua  donna: 

h  suoi  cavai  dorati, 

e  li  cigh  moretti 

e  volti  com'  archetti, 

con  due  occhi  morati, 

li  denti  minotetti 

(  di  perle  son  serrati  ), 

labra  vermiglie,  li  color  rosati, 

cui  mira,  par  che  tutte  gioi'  saetti. 

Ossia  :  Pare  che  ella  saetti  tutte  gioie  a  quello,  il  quale  mira  i  suoi 
capelli  e  il  resto;  se  non  si  preferisce,  posto  un  punto  e  virgola 
alla  fine  del  penultimo  verso  :  Pare  a  quello,  il  quale  la  viira,  che 
ella  saetti  tutte  gioie.  lacopone,  nella  frottola,  con  limpidezza 
maggiore  : 

cui  bee  1'  acqua  torbida 
non  li  creder  la  chiara; 

ossia  :  Non  affidare  l' acqua  chiara  a  quello,  il  quale  beve  la 
torbida. 


(M  //  disdegno  di  Guido,  N.  Antologia  del  t°  nov.    1880.    È    ricomparso    nel 
voi.  Dal  Secolo  e  dal  Poema  di  Dante  ;  Bologna,  Zanichelli,   1898. 


-só- 
li subito  drizzarsi  di  Cavalcante,  1'  interrogazione  afìannosa, 
angosciosa,  eh'  egli  rivolge  a  Dante,  il  suo  ricader  supino,  dipen- 
dono da  queir  ebbe,  supposto  pronunziato  appunto  per  produrre 
tali  e  tante  conseguenze.  Il  poeta,  dunque,  lo  pensò  ben  bene 
prima  di  lasciarselo  uscir  dalla  penna.  Possibile,  se  fosse  riferito 
al  disdegno  di  Guido  per  Virgilio,  che  Dante  non  avesse  riflet- 
tuto :  "  Ebbe;  non  l'ha  più,  non  l'ha  ora  a  disdegno;  vien  a 
mancare  perciò,  il  fondamento  all'asserzione  mia:  vado  per  l' In- 
ferno condotto  da  persona,  di  cui  Guido  vostro  non  si  curò 
quanto  mi  curai  io?  „  Ma,  in  verità,  del  disdegno  di  Guido  per 
X'^irgilio  non  s'è  trovata  alcuna  prova  seria;  né  si  potrebbe  tro- 
varne del  disdegno  di  lui  per  Beatrice.  Questa  non  è  mai  pura 
personificazione,  conserva  sempre  qualcosa  della  donna  reale. 
Quale  opinione  dovremmo  farci  dell'  amante,  se  apponesse  al- 
l'amico  la  colpa  di  non  aver  anch' egli  amato  Beatrice?  Ammesso 
alluda  solo  a  Beatrice  simboleggiante  un  qualunque  essere  o  con- 
cetto astratto,  intopperemmo  nella  difficoltà  d' imaginarla  in  preda 
all'ira,  al  dispetto,  alla  vendetta,  proprio  quando  Guido  avrebbe 
cessato  di  noti  curarla. 

XI,  7-9.  Il  Poletto,  nella  tomba,  che  guarda  papa  Anastasio, 
non  vede  altro  "  che  un'  opposizione  diabolica....  „  per  render 
vano  il  viaggio  di  Dante,  "  facendo  titubare  la  fede  di  lui  nella 
verace  e  ineffabile  guida  del  Papa  come  organo  dello  Spirito 
Santo  „.  E  Dante  non  mostrerebbe  di  essersene  punto  accorto! 
—  XI,  22  segg.  La  distribuzione  de'  peccati  si  confronti  col  ca- 
pitolo XVIII  del  Fiore  di  Virtù.  Il  Poletto  reca  alquante  righe  di 
Cicerone  dal  De  Officiis  (I,  xni,  41):  gioverebbe  leggere  e  me- 
ditare anche  i  paragrafi  precedenti.  —  XI,  49.  "  Suggella,  tien 
come  sotto  sigillo,  tien  fissi  e  chiusi  in  sé  „  ecc.  Però  del  segno 
suo  sembra  allusione  alla  pena.  —  XI,  52-56.  Fiore  di  Virili,  xx: 
"  Tradimento  si  è  propriamente  a  tradire  altrui  d' alcuna  cosa, 
di  che  altri  si  fida  „.  Cfr.  G.  de  la  Tor: 

Qant  hom  reigna  vas  cellui  falsament, 
qui  r  onra  c'\  scrv  e  l'ama  finament, 
ses  traiment 


per  piegs  de  hom  temer 

de  lui  que  d' autre,  qui  voi   dir  Io  ver, 

per  que  ccl  en  cui  hom  plus  se  tia, 

scs  fadia 

pot  mielz  l' om  enganar, 

quel   col  de  cui  hom  sap  qes  deu  gardar. 


—  XI,  83-84.  Cicerone,  De  Off.,  I,  8.  "  In  omni  iniustitia  per- 
multum  interest,  utruni  perturbatione  aliqua  animi,  quae  plerum- 
que  brevis  est  et  ad  tempus,  an  consulto  et  cogitata  fiat  iniuria. 
Leviora  enim  sunt  ea,  quae  repentino  aliquo  motu  accidunt,  quani 
ea,  quae  meditata  et  praeparata  inferuntur  „.  —  XI,  97  segg.  II 
poeta  accenna  alla  "  Filosofia  „  e  alla  sua  "  Arte  „,  perciò  si 
capisce  che  qui  pone  concetti  di  Aristotile;  ma  non  sarebbe  meglio 
ritrovarli  e  addurli  a  dichiarazione  del  testo,  che  arguirli  più  o 
meno  esattamente  dal  testo?  Chi  non  avesse  a  mano,  o  non  vo- 
lesse, o  non  potesse  consultare  Aristotile,  legga  un  capitolo  di 
frate  Egidio  (II,  III,  ix).  Usiirierc  è  della  lingua  nostra  antica  e- 
della  provenzale. 

XIII,  19.  Marco  Polo,  xxvii:  "  \'i  viene  un  vento  talvolta  du- 
rante la  state  di  verso  Io  sabbione  „.  —  XIII,  25.  Questa  "  riu- 
nione di  più  voci  simili  „  e  la  ripetizione  in  principio  di  parola 
della  stessa  sillaba,  ha  un  nome  in  rettorica,  e  fu  in  certi  tempi 
e  per  certi  popoli  unica  forma  poetica.  La  Rctli.  ad  Hcrcnn. 
(IV,  14),  conosciutissima  nel  Duecento,  consentiva  la  iradiictio, 
"  cum  idem  verbum  crebrius  ponatur,  non  modo  non  offendat 
animum,  sed  etiam  concinniorem  orationem  reddat.  „  Anche,  tra 
gli  ornamenti  dello  stesso  genere,  comprendeva  "  cum  idem 
verbum  ponitur  modo  in  hac,  modo  in  altera  re  „,  come  fece 
Dante  più  volte.  —  XIII,  40.  La  similitudine  dello  stizzo,  vera- 
mente "  una  delle  più  preziose  del  poema  „,  giaceva  in  germe 
in  una  canzone  di  G.  Faidit  { Jaiizcns): 

....  el  cor  m'  art  e  dels  huoills  plor 

de  dolor 

eissament  cum  la  vert  leigna, 

qu'  el  fuoc  arden 

plora  soven. 


—    28    — 

Do  la  lezione  del  eanzoniere  yl;  in  altri  1' ultimo  verso  è: />/orrt// 
s' cni/^rrii.  —  Xlll,  55.  "  Mi  lasci  prendere  dall' allettamento  di 
ragionare  con  voi  „  a  me  pare  la  sola  interpretazione  giusta.  Per 
convincersene,  basta  considerare  che  la  metafora  non  si  restringe 
alle  ultime  parole  del  terzetto  (ni'  iiivcsc/ii),  anzi  comincia  dal 
primo  verso  [in'  (i(frsc/ii).  Con  l'esca,  annota  il  Poletto,  "  s'atti- 
rano i  pesci  all'amo  „:  si,  ed  anche  gli  uccelli  alla  pania,  onde 
Guittone  sentenziò  (  Liif.  I)  :  "  Affamato  uccello  sostene  di  pren- 
dere esca  o'  crede  laccio  „.  Adescato,  V  uccello  s' invesca,  come 
sapeva  bene  il  Petrarca: 

Di  di  in  di  vo  cangiando  il  viso  e '1  pelo; 
né  però  smorso  i  dolce  ittescati  ami, 
né  sbranco  i  verdi  ed  invescati  rami, 
dell'  arbor,  che  né  sol  cura  né  gielo. 

Non  conosco  esempi  (V  invescarsi  per  ai'C)-  impaccio  nel  parlare; 
abbondano  nella  Connncdia  e  altrove  quelli,  in  cui,  propriamente 
o  metaforicamente,  vale  lasciarsi  fermare^  trattenere,  proidere.Ser 
Brunetto,  messo  in  forza  d' Amore,  volle  muoversi  credendosi 
campare, 

ma  non  potetti  andare, 

eh'  io  vi  era  si  invescato 
che  già  da  nullo  lato 
potea  mover  lo  passo. 

XIII,  58-60.  Il  Moore  rimanda  a  Isaia,  xxii,  22;  io  sin  dal  1880 
indicai  l' imagine,  adattata  al  protonotaro  (non  "  cancelliere  „)  in 
una  epistola  di  Niccolò  da  Rocca:  "  Tanquam  Imperli  claviger 
claudit,  et  nemo  aperit  et  nemo  claudit  „. 

XIII,  63.  Il  Poletto  adotta  la  lezione  lo  sonno  e  i  polsi,  la  quale 
è  sostenuta  dal  Moore,  quantunque  all'altra  riconosca  l'appoggio 
di  parecchi  manoscritti  autorevoli  e  di  antichi  commentatori,  tra 
cui  Iacopo  della  Lana,  e  quantunque  nella  sua  ristampa  dell'  In- 
ferno le  dia  luogo:  le  vene  e  i  polsi.  Senz'entrare  in  discussioni 
fisiologiche,  o  d'altro  genere  (ma  non  senza  ricordare  un  verso 
del  Dittamondo  :  "  che  il  sangue  per  le  vene  torni  ai  polsi  „  )  io 


—   29   — 

dico  che  Dante  scrisse  qui,  come  nel  primo  canto,  le  vene  e  i 
polsi,  perché  era  frase  d'uso.   G.  dall'Orto  l  ^liiior  i' veglio): 

non  ho  polso  né  vena, 

che  del   tormento  suo  non  \\  sovegna. 

Tavola  Riloinla  (i):  "  Vw  tanto  greve  lor  caduta,  che  non  si  sen- 
tiano  né  polso  né  vena  „;  (cxiv)  "  Lo  cavaliere  non  batteva  né 
polsi  né  vena,  e  giaceva  come  corpo  morto  „  (cxxix)  "  Cadde  in 
terra  tramortita,  e  non  si  sentla  né  polso  né  vena  „;  ecc.  —  XIII, 
69.  "  Tamaro  in  tristi  lutti,  bella  antitesi  „.  Bella,  non  intera- 
mente nuova,  anzi  non  rara.  Chiaro  {Aiit.  Rime  volg..  Ili,  cciv  ; 
j'  en  passe  et  des  lìieilleurs): 

e  r  alegranza  mi  torna  in  rancura. 

XIII,  49.  J'isioiie  (li  Tiigdalo,  i:  "  Quando  1'  anima  mia  si  parti 
dal  corpo  „.  —  XIII,  100.  Il  Poletto  traduce  vermena  in  piccola 
pianta;  il  Casini  tradusse  in  piccolo  arboscello,  lo  Scartazzini, 
sempre  amante  di  apparir  singolare,  in  giovane  ramuscello,  ce- 
spiiglietto  !  \'ediamo  di  accostarci  un  poco  più  al  vero. 

Primum  cana  salix  madefacto   vimine  parum 
texitur  in  puppim. 

aveva  raccontato  Lucano  (IV,  131);  J.  de  Tuim  (  Yst.  de  J.  Cesar, 
IV )  tradusse  e  chiosò:  "  Et  fist  taire  petites  nes  d*  osieres,  dont 
il  avoit  grant  plentet  parmi  la  praerie  „  ;  lo  scrittore  de'  Fatti  di 
Cesare  (VI,  in)  abbreviò:  "  E  fecero  burchi  di  vermene  „. 
—  XIII,  105.  "  Quest'  iiom  è  spesso  nel  Poema  in  senso  di  al- 
cuno, altri,  e  simili  „.  Nel  poema  soltanto?  —  XIII,  117.  "  Ogni 
rosta,  ogni  ostacolo  od  impedimento,  che  loro  si  frapponesse,  cioè 
i  rami  e  gli  arbusti,  che  loro  attraversavano  la  via,  „  Toglierei 
r  idea  dell*  impedimento,  desunta  dal  Daniello  e  confortata  del- 
l'autorità  del  Perazzini.  Ogiìi  rosta  vale  ogni  frasca.  Vedasi  nel- 
r  Esopo  senese  la  favola  xxxin,  nella  quale  "  meriggiando  uno 
vecchio  al  meriggio  d'uno  albero  con  una  rosta  in  mano,  e  istando 
in  suoi  millanti  „,  fu  annoiato  da  una   mosca,  "  e    volendola    fé- 


—  30  — 

rire  dava  a  sé  medesimo  „  e  infine  le  disse,  tra  l'altro:  "  se  la 
più  picciolina  foglia  che  à  la  mia  rosta,  solo  una  volta  ti  colga, 
morrai  e  cadcrai  in  terra.  ,,  Ristoro  (Vili,  xxiii):  "  E  se  noi  sa- 
remo nella  stufa  calda,  e  costrigncremo  1'  aere  colla  rosta  o  con 
altro,  sentiremo  l'aire  freddo  per  lo  viso  ecc.  „   —   XIII,  126: 

Come  veltri  eh'  useisser  di  catena. 

Al  Poletto  la  struttura  del  verso  ramnìcnta  l'altro: 

e  come  quei  che  con  lena  all'annata. 

Gliel' avrà  rammentato  per  antitesi.  Altra  volta,  (son.  Sonar  òrac- 
chetti)  Dante  scrisse: 

e  di  guinzagli  uscir  veltri  correnti. 

XIII,  134: 

Che  t'  e  giovato  di  me  fare  schermo? 

Cfr.  Fatti  di  Cesare,  IX,  xxxiii:  "  Cesare  combatteva  con  irato 
intendimento,  e  quando  clli  non  poteva  riparare  a'  colpi,  si  faceva 
schermo  di  Tolomeo.  „ 

XIV,  12.  Vedano  i  filologi,  se  pure  è  necessario,  qual  valore 
abbia  l'ipotesi  che  randa  possa  esser  voce  passata  dalla  lingua 
nostra  alla  tedesca.  A  me  sembra  più  utile  trascrivere  due  versi 
di  Monte  {Ant.  Rime  voìg.,  III,  ccxci): 

che  par  che  luce  espanda 

com'  a  la  randa   —   del  giorno  la  stella. 

Chi  sa  perché,  là,  dove  Bertran  de  Born  dice  del  re  Riccardo: 

N'  oncas  fai  el,  anz  assetja  els  a  randa, 

il  Thomas  traduca:  à  l' cìivi?  Il  Raynouard  cita  dalla  tenzone  di 
Folchetto  di  Lunel  con  Gerardo  Riquier: 

tan  que  s'  an  colcar  a  randa 
de  si  dons, 

tr  traduce:  "  còte  a  còte.   „ 


_  31  — 

Xl\',  30.  "  1  suoni  aperti  di  questo  verso,  nota  il  \'enturi, 
esprimono  la  larghezza  dei  fiocchi  lentamente  cadenti  „.  Forse 
Dante  aveva  letto  in  un  sonetto  del  suo  primo  amico: 

e  bianca  neve  scender  senza  venti, 

c  nella  canzone  di  Francesco  Ismera,  suo  coetaneo: 

veder  fioccar  la  neve  senza  venti. 

XIV,  43-44.  Albertano  (111,  xv):  "  Disse  Ovidio:  o  tu  che  vinci 
tutte  le  cose,  vinci  l' ira  „.  —  XIV,  90.  Albertano  (III,  xiii):  "  Chi 
odia  la  loquacità  ammorta  malizia  „. 

XV,  3.  "  Guizzanti',  terra  di  Fiandra,  di  cui  oggi  non  resta 
{)iu  traccia....  e  forse  la  traccia  non  ci  fu  mai,  perché  nessuno 
seppe  mai  di  questo  luogo  additare  1'  esistenza.  „  Singolare  scet- 
ticismo, e  strano,  chi  rifletta  che  il  Poletto  riferisce  le  notizie,  che 
di  Guizzante  raccolse  il  Della  \'edova!  Dell'esistenza  di  Guiz- 
zante in  Fiandra  ecco  una  testimonianza,  anteriore  d' oltre  un  se- 
colo al  \'illani,  in  un  pianto  di  B.  De  Born  [Moii  cliau): 

Fransa  tro  Compenha 
de  plorar  nos  tenha 
e  Flandres  de  Gan 
trol  port  de  Guissan. 

Il  Thomas  cita  un  verso  della   Cli.  de  Roland: 

De  Besencpun  tres  qu'  as  porz  de  Guitsand. 

XV,  88.  "  Corso,  vita  avvenire;  e  tal  voce  in  questo  signifi- 
cato, io  proposi  alla  Crusca  nell'  ediz.  che  ora  si  stampa  „.  La 
Crusca  avrà  riflettuto  che  il  significato  non  1'  ebbe  da  Dante.  Monte 
{Ant.  Rime  volg.,  Ili,  cclxxxv): 

èmmi  rimase  che  la  vol(.>ntate 

e  potestate  —  di  conoscer  mio  corso. 

-Ma  altrove  Monte  stesso  (cclxxxix  ) 

e  s' io  son  morto  e  spento 

lo  corso  di  mia  vita  ora  n'è  prova. 


—  32  — 

X\'.  94.  "  Arra,  non  è  iiierccdr,  come  spiegano  alcuni,  sibbene 
ciò  clic  comunemente  diciam  caparra  „.  L'  osservazione  giustis- 
sima merita  il  rincalzo  d'un  esempio.  Tavola  Rifonda  (xi):  "  Et 
allora  Lancilotto  tanto  amava  la  reina  Ginevara,  che  loro  adopa- 
rarono  si  et  in  tal  modo,  che  fero  il  pagamento  amoroso  della 
dilettosa  arra  che  nel  principio  s'avevano  donata;  cioè  che  dal 
mirare  vennero  al  baciare;  et  venendo  a  l'abbracciare  „  ecc.  Cfr. 
Rodi,  de  F/aiiwiica,  3506-10: 

"   Non  voil  aiso  per  don  prciidas, 

mais  per  arras,  que  sapias 

que  beus  ai  encor  a  donar.   „ 

—   "  Seiner,  fai  ss' il,  si  Dieus  mi  gar, 

cestas  arras  valon  ben  do.   „ 

X\',   108.  Frate  Egidio  (II,  11,  xi):  "  Lerciandosi  e' panni  laida 
mente  „;  Albertano  (III,  xni):  "  Chi  toccherà  la  pece  sera  lercio  „. 
XVI,  67.  Chiaro  {Anf.  Rime  volg.,  Ili,  cclix): 

Ove  dimora  e  posa 
Cortesia  e  valore? 

X\'1I,  8.  "  Arrivò,  in  significato  attivo,  unico  esempio  questo 
che  in  tale  significazione  rechino  i  Dizionari  „.  Su  per  givi  lo  stesso 
aveva  notato  il  Casini.  CTr.  Le  Roììtan  de   Troie,  2194: 

totes  lor  nes  (  ils  )    i  arrivcrent, 

e  il  Canz.  Cìiig.,  454:  "  A  questo  porto  amor  m' ha  arrivato  „. — 
XVII,  39.  "  Mena,  il  continuo  menar  delle  mani,  ovvero  la  tresca 
di  esse  „.  Sembra  strano  al  Poletto  che  tutti,  "  non  esclusi  i  Voca- 
bolari „,  spieghino  stato,  condizione;  ma  pili  di  tutti  resta  egli  lon- 
tano dal  significato  proprio,  che  è  costume,  condotta,  maniera.  Onde 
ser  Brunetto,  delle  quattro  figliuole  della  sua  Imperadrice: 

....  or  mi  parean  tutt'  una, 

or  mi  parean  divise 
e  'n  quattro  parti  mise, 

SI  eh'  ognuna  per  sene 
tenea  sue  proprie  mene. 


—  33  — 
Guittone  {Soi'eutc  vegio)  tra  i  mezzi  di  acquistar  onore,  poneva: 

Far  di  sé  bella  mena 
con  vita  adorna  e  gientc. 

G.  dall'Orto  { Amore,  i' prego): 

non  avrò  in  oblio, 

qual  hai  ver  me,  signor,  tenuta  mena. 

Si  vegga  neir  EuschIioììicìi  di  G.  Le  Brun  il  ritratto  ideale  della 
donna: 

dels  flancs  e  dels  costats, 
dels  autres  locs  privaz, 
deu  esser  d'  aitai  mena 
com  a  tal  loc  covena. 

E  si  consulti  B.  de  Born  (  Chaziitz  )  : 

Tant  es  d'  amorosa  mena  , 

qua  morrai,  si  no  m' estrena 
d'  un  doutz  bais. 

XVII,  121.  Tutti  leggono  scoscio,  e  il  Poletto  commenta:  "  È  l'atto 
che  fa  r  uomo  per  discender  da  oggetto  su  cui  era  a  cavalcioni, 
cioè  aprir  delle  cosce,  allargar  le  cosce;  tanto  è  vero,  che  preso 
di  nuova  paura,  il  Poeta  dichiara  tosto  che  si  raccosciò,  che 
vieppiù  strinse  le  cosce  ai  fianchi  di  Gerione.  Vuol  dunque  si- 
gnificarci, che  avendo  visto  que'  fuochi  e  sentiti  que'  pianti,  co- 
minciò a  sentir  paura  del  momento  che  arrivato  laggiù,  sarebbe 
dovuto  discendere  di  groppa  a  Gerione  „.  La  frase,  dunque, 
fortemente  ellittica,  sottintenderebbe  un  pensando  o  un  prevedendo, 
In  verità,  mi  parrebbe  più  logico  ricongiungere  ////  più  timido 
con  la  rappresentazione,  che  il  poeta  ha  già  fatta,  e  non  breve- 
mente, del  sentimento  da  lui  provato  al  trovarsi  "  nell'  aer  d'  ogni 
parte  „.  Aveva  avuto  già  grande  paura;  quando,  sporti  gli  occhi 
in  giù,  vide  fuochi  e  senti  pianti,  ebbe  paura  maggiore  di  quella 
di  prima,  e  si  raccosciò  tutto  tremando.  Se  raccosciarsi  vuol  dire 
stringer  le  cosce,  Dante  avrebbe  trovato  un  bel  modo  di  prepa- 
rarsi a  scendere  dalla  schiena  di  Goriorie  !  D'  altra   parte,   che  si 

TORRACA  3 


—  34  — 

«.lebba  leggere  scoscio,  come  tutti  ritengono,  non  giurerei.  Quali 
e  quanti  altri  scrittori  lo  usarono?  Osservo  che  otto  codici,  in- 
dicati dal  Moore,  recano  sfascio;  poi,  apro  un  volume  della  yhi- 
tic/ic  Rime  volgari,  (III,  cclxxxvhi)  e  vi  trovo: 

Qual  è  più  alto  se  gli  dà  lo  stoscio; 
ed  è  si  ben  lo  scroscio, 
si  è  mortale  il  colpo,  e  ciò  conoscio, 
non  v'  ha  rimedio,  si  lo  spengne  tutto. 

Xe  apro  un  altro  (V,  cmv)  e  vi  trovo: 

Intenda,  'ntenda  chi  più  montat' è  alto 

e  pensi  ben  ciascun  client' è  lo  scroscio: 
faciendo  di  caduta  poi  Io  salto, 
non  si  trova  rimedio  in  tale  stoscio. 

L' analogia  di  questi  passi  con  quello  di  Dante  è  evidente,  si 
per  il  concetto,  e  si  per  le  rime.  Ora,  ne'  versi  di  Monte  stoscio 
una  volta  significa,  se  non  erro,  urlone,  spinta;  un'  altra  volta 
mina,  o  l'atto  di  precipitar  giù;  tutt' e  due  le  volte  non  si  al- 
lude all'  atto  di  aprire  o  di  allargare  le  cosce, 

XVII,  128.  Cecco  Angiolieri:  "  Tornare'  senza  logro  di 
Paranoia  „.  Il  Poletto  giudica:  "  Nello  stesso  senso  (di  logoro) 
i  Francesi  hanno  Icnrre,  e  i  Tedeschi  ludcr.  „  Veramente,  luder, 
in  tedesco,  vai  quanto  carogna  in  Italiano.  "  Dal  latino  Itidicrum  „ 
non  direi,  nemmeno  con  un  "  forse  „,  trattandosi  di  caccia  ve- 
nutaci dalla  Germania.  —  XMII,  114.  Frate  Giordano  lxxiii: 
"    Non    ha    istalla    né    privado    al    mondo   più   puzzolente    „.    — 

XVIII,  134-35.  Secondo  il  Moore,  non  direttamente  dall'  Eunuco 
di  Terenzio,  da  una  citazione  di  Cicerone  trasse  Dante  la  ri- 
sposta di  Taide.  Fiore  di  Virtù,  xvii:  "  Il  savio  signore  ripren- 
dilo quando  egli  falla,    se    tu    vuoi    avere    grazia    appo   lui   „.  — 

XIX,  37.  "  Garbatissima  risposta  „  ;  ma  non  si  direbbe,  per  non 
risalire  più  indietro,  traduzione  d'un  verso  di  B.  Zorgi  { Novt 
laissarai)  : 

per  que  m'  es  bel  tot  aisso  qu' a  leis  platz? 


—  35  — 

XIX,  113.  Fiore  di  virili,  xii:  "  Santo  Cipriano  dice:  Gli  avari 
si  possono  propriamente  chiamare  pagani,  i  quali  adorano  gì'  idoli 
dell'oro  e  dell'aigento  „.  —  XX,  97.  Guittone,  Sovvnle : 

Però  non  mi  riprenda 

alcun  omo,  ma  apprenda 

e  vcggia  avanti  più  eh'  io  non  gli  assenno. 

XXI,  42.  Cecco  Angiolieri: 

parm' esser  certo  ch'ella  direbbe:  ila. 

XXI,  45.  Furo  fu  usato  fuor  di  rima  e  in  prosa,  e  ricorreva  a 
ogni  momento  su  le  labbra  di  que'  lucchesi,  di  cui  il  Bongi  rac- 
colse le  frasi  ingiuriose  per  entro  i  protocolli  criminali  del  Tre- 
cento. —  XXI,  48.  Il  Poletto  per  non  ha  luogo  "  intende  sem- 
plicemente: qui  non  e'  e  „  ;  né  sa  "  perché  si  voglia  altrimenti  „. 
Ma  consideri  questo  passo  de'  Fatti  di  Cesare  (  I,  xx  )  :  "  Paura 
non  ha  qui  punto  di  luogo,  che  Cicerone  nostro  consolo  è  si 
guarnito  d'  arme  e  di  cavalieri,  che  non  dovemo  neuna  cosa  dot- 
tare „,  dove  la  prima  frase  traduce  il  latino  di  Sallustio  {Bell. 
CatiL,    51):    "    De    timore,    supervacaneum    est    disserere    „.    — 

XXII,  I  segg.  Folgore  xvii: 

F.l  martidi  gli  do  un  novo  mondo, 
udir  sonar  trombette  e  '.amburelli, 
armar  pedon,  cavalieri  e  donzelli, 
e  campane  a  martello  dicer:  Don  do: 


e  sonar  a  raccolta  i  trombatori, 
e  sufuli  e  flauti  e  ciramelle.... 


Come  ognun  vede,  con  ragione  il  Poletto  scrive  di  ceìinaniella: 
"  La  voce  aveva  fin  dai  tempi  più  antichi  forme  diverse.,,;  ma 
ha  torto  di  dubitare  che  fosse  consuetudine  generale  usar  lo 
strumento  in  guerra.  La  Tavola  Ritonda,  cxxxv:  "  E  venendo 
r  altro  giorno.  Io  re  Artù  fa  dare  alle  campane  a  martello,  e  so- 
nare le  trombe  e  cennamelle;  e  a  quello  suono,  tutta  la  baronia 
si  prende  ad  armare  „  ;  dove  il  Polidori,  da  un  registro  senese 
del  1325,  pose  la  notizia:  "  Matheio  di  Cenino   ciaramella  {sona- 


-  36- 

tare  ih)  del  Clioniune  „.  Il  Y)c\  G\\xà.\ce  [Una  legge  suntuaria  e.cc.) 
pubblicò  un  ordine  di  pagamento  dato  da  Carlo  duca  di  Ca- 
labria, il  31  maggio  1328,  a  favore  di  Penino  de  Stella:  "  quas 
solvit  tubatoribus  Civitatis  Baronie  et  Tubatoribus  Ccramellato- 
ribus  et  aliis  Istrionibus  comestabulorum  venientium  cum  gente 
armigera  de  partibus  Lombardie  ad  servitia  nostra  ecc.  „  De'cor- 
ridori  e  del  loro  ufHzio  Egidio  Colonna  (III,  ni,  x):  "  In  ciascuna 
ischiera  il  prenze  die  mettare  alcuna  persona  che  sia  iscorritore 
sopra  ad  alcuno  cavallo  forte  e  possente,  si  eh'  elli  possa  andare 
innanzi  e  'ndrieto,  secondo  che  bisogno  fusse,  per  iscontrare  ai 
nemici;  che  nullo  male  è  si  grande,  quando  l'uomo  l'ha  preve- 
duto „.  B.  de  Born,  Be'  vi  platz  —  dell'  attribuzione  pare  non  si 
possa  dubitar  più,  dopo  le  considerazioni  del  Clédat  e  dello 
Chabaneau  — : 

E  platz  mi  quan  li  corredor 
fan  las  gens  e  1'  aver  fugir, 
e   platz  mi  quan  vei  apres  lor 
gran  re  d'  armatz  ensems  venir. 

In  Firenze,  quando  s'  era  deliberato  di  far  esercito  generale, 
si  ordinava  "  quod  pulsetur  cotidie  campana  Comunis  prò  exer- 
citu,  secundum  morem  actenus  observatum  „,  come  si  legge 
nelle  Consulte.  —  Nel  testo,  dopo  l' apostrofe  :  O  Aretini,  si 
dovrebbe  porre  due  punti,  o  un  punto  e  virgola,  perché  il  se- 
condo vidi  non  si  riferisce  ai  corridori,  bensi  a  gualdane,  tornea- 
menti,  giostre,  di  cui  non  si  può  credere  si  facessero  soltanto  in 
Arezzo,  checché  ne  dicano  il  postillatore  del  Codice  Caetani  e 
il  Bianchi.  —  XXII,  15.  Il  verso,  giudica  esattamento  il  Poletto, 
non  ha  relazione  con  luoghi  biblici.  Leggo  nella  Tavola  Ritonda, 
XXVI  :  "  E  quie  si  afferma  la  parola  usata  che  dice  cosie:  Gli 
mercatanti  anno  botteghe,  e  gli  bevitori  anno  taverne,  e'giuo- 
catori  anno  i  tavolieri;  e  ogni  simile  con  simile  „.  Era,  dunque, 
modo  proverbiale.  —  XXII,  85.  Clii  ha  letto  le  rime  di  Guittone, 
di  Monte,  di  Cino,  i  Conti  degli  antichi  cavalieri,  e  altre  scritture 
toscane  anteriori  alla   Cotnrnedia,    o    contemporanee,    non    può    a 


—  37  — 

meno  di  maravigliarsi  a  sentire  ripetere  che  di  piano  sia  frase 
sarda.  —  XXII,  123.  Credo  abbia  buon  diritto  il  Poletto  di 
considerare  proposto  quale  sinonimo  di  capo.  A  chi  obbiettava 
che,  dunque,  "  Ciampolo  prima  salfò,  e  poi,  dopo  aver  spiccato 
il  suo  salto,  si  sciolse  dalle  braccia  di  Barbariccia  „,  il  Casini 
rispose  bene:  "  Il  poeta  descrive  queste  due  azioni  come  con- 
temporanee, come  avvenute  in  itii  punto  „.  Aggiungerei:  non  fu 
lo  sciogliersi  dalle  braccia  del  diavolo  conseguenza  dello  sforzo 
fatto  per  saltare?  Proposto  per  capo  o  governatore  non  s'incontra 
solo  nella  Commedia.  Fatti  di  Cesare,  IX,  xxxvii:  "  Elli  lassò 
uno  proposto  a  la  terra;  „  lvi  :  "  Elli  stabili  proposti  in  luogo 
di  pretori.  „  289.  —  XXII,  149.  Pieraccio  Tedaldi,  vi: 

Sono  impaniato  come  tordo  in  pegola. 

XXIII,  IO.  Fiore  di  l'irtiì,  xxxvii:  "  Seneca  dice:  La  cupi- 
dità ecc.,  si  come  è  finito  un  pensiero,  l'altro  si  comincia  „. 
Perché  ricorrere  ai  "  giri  concentrici,  che  del  continuo  sono 
prodotti  dal  medesimo  centro?  „  —  XXIII,  22.  Tostamente  non 
solo  "  nella  Vita  Xiiova,  „  ma  anche  altrove.  Albertano,  I,  vi  : 
"  E  per  lungo  tempo  pensa,  e  fa  tostamente;  perciò  che  la  to- 
steza  fa  la  cosa  graziosa  „.  —  XXIII,  116-17.  Dante  s'  era  già 
servito  del  consiglio  di  Caifas,  adattandolo  nel  sonetto  Chi 
guarderà  : 

destinata  mi  fu  questa  finita, 
dacch'  uomo  conveniva  esser  disfatto 
perch'  altri  fosse  di  pericol  tratto.  . 

XXIV,  14.  In  poca  d'  ora  scrissero  nei  secoli  xiii  e  xiv  molto 
più  spesso  di  in  poco  d' ora;  forse  la  prima  lezione  è  la  vera. 
l'incastro  usò  il  poeta,  non  solo  qui  e  nel  Purgatorio,  anche 
nelle  liriche: 

Com'  più  mi  fere  Amor  co'  suoi  vincastri. 

XXIV,  43.  La  spiegazione:  "  Quando    fui    su,    la    forza    de*  miei 
polmoni  era  si  esausta    eh'  io    „    ecc.,    la    quale   il  Poletto,  senza 


-  38  - 

sottoporla  ad  esame,  accetta  da  altri  commentatori,  offende  la 
Grammatica  e  il  \'ocabolario.  Del  polmoìi  non  è  un  genitivo,  un 
complemento  di  specificazione;  del  sta  per  dal  come  nel  verso  87 
del   XXI  del   Paradiso: 

La  cui  virtù.... 

mi  leva  sovra  me  tanto,  eli'  io  veggio 
la  somma  Essenzia,  della  quale  è  munta. 

Questo  per  la  Grammatica;  quanto  al  Vocabolario,  lena  italiano, 
nel  Duecento  e  nel  Trecento,  corrisponde  al  provenzale  ales, 
alena,  al  francese  alane  {lialcinc),  7-espiro,  soffio,  fiato.  Quante 
volte  non  fu  celebrata  V  aulente  lena  di  Madonna;  quante  volte 
non  fu  asserito 

che  la  pantera  à  'n  sé  tale  natura 
eh'  a  la  sua  lena  traggon  gli  animali! 

Bisogna,  dunque,  intendere:  "  Quando  fui  su,  avevo  tanto  poco 
fiato  ne'  polmoni  „  ecc.  Guittone,  Ai  Dea  : 

a  gran  pena 
agio  tanto  di  lena 
che  for  tragga  di  bocca  la  favella. 

XX1\',  45.  Bonagiunta  da  Lucca,  son.  Però  clic  sete  : 

e  prego  Dio  che  '1  mio  frutto  aggia  saggio 
che  vi  talenti  nella  prima  giunta. 

XXI\',   122.  Ser  Brunetto: 

e  piovvero  in  Inferno 
in  fuoco  sempiterno. 

XXIV,  127.  Conti  senesi,  ix:  "  E  si  come  elli  la  tenne  per 
levare,  l'ostia  se  n' andoe  si  eh' elli  non  seppe  che  si  facesse,  si 
li  mucciò  de  le  dita  „.  Roman  de  Roti,  372-3: 

e  ceo  que  il  porter  ne  poent 
en  terre  mucent  e  enfoent. 

Nel  Voyage  de  Charlemagnc  à  Je'rus.  et  Constant.,  Ogier  pone 
termine  al  suo  gab  affermando  : 

mult  iert  fols  li  reis  Hugue,  s' il  ne  se  vait  mucier. 


—  39  — 

XX\',    )    segg.    F.    da    Barberino,    Doc.    d'Ani,    (sotto    Doci- 

Jilii,  x\  Il  ): 

Quel,  che  leva 
le  mani  a  Dio  spesso,  bestemmiando 
o  d'  altrui   mal  pregando. 

Che  il  far  le  fiche  "  fosse  proprio  dei  Pistoiesi  „,  credat  jiidacus 
A  pel  la. 

E  puote  dir:  Se  Dio  mi  benedica, 

tropp'  ò  del  su'  quand'  i'  1"  ò  tra  le  braccia: 

e  facciagli  sott'  al  mantel  la  fica, 

insegna  a  Bellaccoglienza  quella  brava  Vecchia  del  Fiore.  Mezzo 
secolo  prima,  a  dir  poco,  D.  de  Pradas  aveva  minacciato  ai  falsi 
lusingatori  : 

per  mal  de  vos  farai  la  figlia 
als  gilos. 

Cfr.  il  Roììi.  de  Jan/re  : 

E  '1  li  fes  la  figa  denant.... 
e  non  1'  en  fes  jes  una  sola 
ans  r  cn  a  faiclias  mais  de  tres. 

XXV,  8o.  Monte  [  Aiit.  Rime  volg.,  Ili,  cclxxxvi): 

Ha  si  mortale  istato, 

che  quanti  son  li  ben  per  lui  son  cassi. 

XX\',  138.  "  Parlare  e  sputare  sono  atti  proprii  e  specifici  del- 
l'uomo  „.  Non  v'ha  dubbio,  checché  altri  abbia  fantasticato;  ma 
perché,  mentre  Buoso  fugge  zufolando, 

r  altro  dietro  a  lui  parlando  sputa  ? 

Non,  a  parer  mio,  per  dimostrare  che  è  ridivenuto  uomo,  o,  meglio, 
ombra;  e  nemmeno  in  atto  di  disprezzo.  Dove  sarebbero  andati 
a  cacciarsi  l'alterezza,  la  dignità,  l'orgoglio!  E  perché  il  Caval- 
canti dice: 

Io  vo'  che  Buoso  corra, 
com' ho  fati' io,  carpon,  jier  questa  valle? 

Io  voglio!  dunque,  sapeva  di  poter  costringere  Buoso  a  correre. 
Se  non  ho  le  traveggole,  la  scena  fu  ispirata  al  poeta  dalla  ore- 


—  40  - 

denza  popolare  nelle  virtù  delle  formole  magiche,  carmina,  e  dello 
i>puto.  Sappiamo  da  Plinio  {Naf.  Ilist.,  XXVIII,  iv,  7)  "  hominum 
vero  in  primis  ieiuiiam  salivam  centra  serpentes  praesidio  esse  „. 
Altrove  Plinio  stesso  insegna  (\'ll,  11,  15):  "  Et  tamen  omnibus 
hominibus  centra  serpentes  inest  venenum,  feruntque  ictus  sa- 
livae,  ut  ferventis  aquae  contactum  fugere.  Quod  si  in  fauces  pe- 
netraverit,  etiam  mori:  idque  maxime  humani  ieiuni  oris  „.  Gior- 
dano da  Rivalto  (ix)  raccolse  la  superstizione,  come  pare,  dal 
popolo:  "  Onde  dicesi  di  certe  erbe Come  dello  sputo  del- 
l'uomo, eh' è  veleno  del  serpente,  ed  all'uomo  non  fa  male  „. 
Contro  la  podagra  si  recitava  tre  volte  la  formola  :  "  Ve- 
nenum veneno  vincitur,  saliva  ieiuna  vinci  non  potest  „  e  si  spu- 
tava tre  volte.  "  Maxima  est  enim  vis,  quam  tribuunt  homines 
superstitiosi  spuendo;  nulla  paene  actio  magica  sine  saliva  effici- 
tur  :  terna  despucre  praedicatione  in  oinni  medicina  mos  est  atque  ita 
cffcctus  adiuvare  (Plin.  XXVIll,  36);  atque  ita  a  Plauto  [Capi. 
550)  "  morbus  qui  sputatur  „  commemoratur.  (IIeim^  Incantam. 
Magica).  Fors'  anche  il  poeta  rammentava  un'altra  credenza 
popolare,  che  prima  di  lui  aveva  raccolta  Bartolommeo  Zorzi 
{At ressi)  : 

car  r  US  tenetz  del  serpen 
queis  lonha  del  home  nut. 

Cfr.  il  Bestiario  tosco-veneziano,  5:  "  E  quando  lo  vede  alcun 
omo  che  sia  nudo,  si  fuze  (lo  serpente)  da  lui  instesso  et  à  gran 
paura.  „ 

XXVI.  90  segg.  "  Non  honestum  consilium,  at  utile,  ut  aliquis 
fortasse  dixerit,  regnare  et  Ithacae  vivere  otiose  cum  parentibus , 
cani  nxore,  cum  filio.  L'Uum  tu  decus  in  cotidianis  laboribus  et 
periculis  cum  hac  tranquillitate  conferendum  putas?  Ego  vero 
istam  contemnendam  et  abiciendam,  quoniam,  quae  honesta  non 
sit,  ne  utilem  quidem  esse  arbitror  „.  Da  questo  passo  di  Cice- 
rone (De  Offic,  HI,  26),  Dante  potè  trarre  l'alto  concetto  di  Ulisse, 
che  senza  ambagi  manifesta,  pur  condannandolo  alla  fiamma  per- 
petua dell'  ottava  bolgia.  L' orazion   piccola    non    la    paragonerei, 


—  41  — 

come  fa  il  Poletto,  a  quella  di  Enea  {^Eii.,  i,  197-207:  l'eroe 
troiano  consolava  de'  recenti  mali  i  compagni,  col  ricordo  di 
altri  più  gravi  e  con  la  certezza  dell'arrivo  ai  lidi  latini;  l'eroe 
greco  esorta  i  frati  già  vecchi  e  tardi  a  un  viaggio,  di  cui  non 
può  predire  la  fine,  sol  per  amore  di  virtù  e  di  conoscenza.  Le 
parole  di  Ulisse  mi  ricordano  quelle  di  Alessandro  nel  poema  di 
P'ilippo  Gualtiero,  che  Arrigo  da  Settimello,  alla  fine  del  secolo  xii, 
il  cronista  faentino  Tolosano,  nella  prima  metà  del  secolo  xiii,  co- 
nobbero e  adoperarono   [Alcxatifi.,  x,  311  segg.  )  : 

Nunc  quia  nil  mando  peragcndum  rcstat  in  isto, 
ne  tamen  adsuetus  armorum  langueat  usus, 
eia,  qttacraniHs  alio  sub  sole  iacentes 
antipodnni  populos,  ne  gloria  nostra  relinqual 
vel  virtus  quid  ine.vpertum  quo  crescere  fiossit, 
vel  quo  perpetui  mereatur  oanninis  odas. 

Ma,  più  probabilmente,  Dante  s' inspiro  ai  versi  bellissimi  di 
Orazio  [Epist.  I,  11,   17-26): 

Rursus  quid  virtus  et  quid  sapientia  possit, 

utile  proposuit  nobis  exemplar  Ulixen, 

qui  domitor  Troiae  inultoritnt  providus  urbis 

et  ntores  hontinum  inspexit  latunique  per  aeqitnr, 

dum  sibi,  dum  sociis  reditum  parai,  aspera  multa 

pertulit,  adversis  rerum  inmersabilis  undis. 

sirenum  voces  et  Circae  pocula  nosti: 

quae  si  cum  sociis  stultus  cupidusque  bibisset, 

sub  domina  meretrice  fuisset  turpis  et  excors, 

vixisset  caiiis  iuniundus  vel  antica  luto  sus. 

XXVI,  136.  Fa/ti  di  Cesare  (I,  xx):  "  S'avvidero  che  loro  gloria 
{laetitia)  era  tornata  in  pianto  „.  Toniar  }^^x  diventare,  cambiarsi, 
niiitarsi,  è  del  provenzale.  Basti  un  esempio.  P.  Vidal,  Noju  fai: 

Quel  jois  d'amor  torn' en  planhs  et  en  plors. 

XXVII,  21.  "  Se  la  voce  issa  è  da  Dante  messa  in  bocca  a 
un  Toscano  di  Lucca  (nel  Purgatorio),  per  qual  motivo  dovrà 
dirsi  lombarda  „?  Non  basta:  la  voce  si  trova,  secondo  la  lezione 
più  probabile  [Canz.  Palat.  418,  53)  in  una  danza  del  lucchese: 


—  42  — 

"  \'oi  pulzelle  novelle,  si  belle,  issa  vo'  intendete  „.  A  Guido  da 
Monteteltro,  romagnolo,  vissuto  troppo  più  a  lungo  nell'  Italia  set- 
tentrionale e  in  Romagna  che  non  in  Toscana,  le  parole  di  Vir- 
gilio —  ma  non  il  modo  come  questi  le  pronunzia  —  rammen- 
tano, forse,  le  contrade  d' Italia,  ove  era  solito  udirle,  a  preferenza 
di  altre.    Aizzare  è  in  un  sonetto  dantesco  : 

Sonar  bracchctti,  cacciator'  aizzare. 

XXVII,  83.  Pcntnto  e  confesso  e  rendersi  paiono,  negli  antichi 
testi,  Avino,  Avolio  e  Ottone.  B.  Zorzi,  Aissi: 

e'  aissi  cum  es  de  quant  dieus  voi  grazire 
rendutz,  qu'  estai  penedens  e  confes, 

dove  è  da  osservare  che  rendutz  significa  frate;  perciò  la  spiega- 
zione migliore  del  verso  di  Dante  può  non  essere  quella  del  Po- 
letto  :  "  ritornai  a  Dio  „.  Non  affermo  che  non  possa  essere, 
altre  volte,  infatti,  nel  rendersi  non  è  inclusa  V  idea  del  convento. 
Tavola  Rit.,  cxiv:  "  E  Tristano  vedendo  ciò,  si  à  grande 
paura,  e  rendesi  molto  pentuto,  e  raccomandasi  a  Cristo  croce- 
fisso, e  mette  mano  alla  spada  „.  —  XXVII,  129.  Non  credano  i 
giovani  al  Cesari,  citato  a  questo  luogo,  che  Dante  si  sia  foggiato 
di  capo  suo  "  questo  suo  rancnrare  „.  Non  è  certo,  secondo  al- 
cuni, che  da' provenzali  passasse  il  verbo  ai  lirici  nostri;  ma  cer- 
tamente da  questi  passò  a  Dante.  Chiaro  Davanzati: 

Di  ciò  pensando,  temo  e  mi  rancuro. 

XXVIII,  22.  "  Veggia,  botte  (voce  antiquata;  però  vezza  o 
vezzia  vi  sono  ancora  in  qualche  dialetto  dell'alta  Italia)  „,  Il 
Casini  aveva  scritto:  "  voce  arcaica  rimasta  viva  in  qualche  dia- 
letto dell'Italia  superiore  „.  E  lo  Scartazzini:  "  voce  d'origine 
ignota....  Vezza  e  vezzia  per  botte  vivono  nel  Bergamasco  „.  Sta 
a  vedere  che  Dante  l' imparò  quando  si  recò  ad  ossequiare  Ar- 
rigo Vii: 

E  quivi  son  le  vegge  del  sapino, 

dov' a  vernaccia  e  greco  ed  alzur  vino, 


—  43  — 

conta  r  Iiitilligoizia  (  st.  69  ).  Invri^ctarc  valeva  quanto  imbottare. 
"  V'inuni  invegetatum  seu  inibotatuni  in  burgo  Levanti  non  possit 
vendi  ad  minutuni  „  trovò  il  Rossi  {G/oss.  uieiiiocvalc  ligioc)  in 
un  documento  genovese.   —  XX\'III,  26.  Cecco  Angiolicri  : 

Se  non  gli  secca  'I  cuor  e  la  corata. 

XXN'III,  33.  Fatti  di  Cesare,  IX,  xi.iv:  "  E' suoi  capelli  di  drieto 
faceva  mettane  avanti  e  fare  ciuft'etto,  si  che....  li  giacevano  a  la 
fronte  dinanzi  „.  —  XX\'II1,  38.  Tavola  Rit.,  xcvn:  "  Io  met- 
teroe  ai  taglio  della  spada  quanti  cavalieri  vi  troverrò  „.  Accis»ia, 
opina  il  Poletto,  non  può  spiegarsi  adornare,  acconciare,  abbigliare 
per  antifrasi  o  per  ironia,  perché  "  qui  non  ci  può  essere  né  an- 
tifrasi, né  ironia,  non  permesse  dalla  frase  5/  crudelmente  „.  Gli 
deve  essere  sfuggito  che  il  Zingarelli,  con  le  parole  di  Maometto, 
confrontò  quelle  di  Griffolino: 

è  Vanni  Schicchi, 
e  va  rabbioso  altrui  cosi  conciando. 

XX\'III,  43.  Musare  dovrebbe  essere  accostato  al  provenzale 
muzar  e  al  francese  muser.  —  XXX'III,  123.  Semplice  si,  ed  effi- 
cace l'esclamazione  di  B.  de  Born;  ma,  nel  modo  come  si  pre- 
senta, già  usata  in  versi  da  Chiaro  [Ant.  Rime  volg.,  III,  cc.xvi  )  : 

che  per  tempo  aspettare  dico  :  O  me  ! 

e  da  Monte  (Ivi,  cclxxxix): 

Ahi  me  lasso,  ben  ò  che  dire  :  O   me  ! 

XXIX,  46-49.  Si  confrontino  con  questi  di  messer  Onesto  da 
Bologna: 

Se  li  tormenti  e'  dolor  eh'  omo  ha  conti 
fossero  insieme  tutti  in  uno  loco. 

XXIX,  85.  Ancora  messer  Onesto: 

ò  troppo  forte  cosa 
il  donare  di  quel  che  1  cor  dismaglia. 

XXIX,  138  Messer  Onesto  a  messer  Cino: 

Siete  voi,  messer  Cin,  se  ben    v'  adocchio  ? 


—  44  — 

XXX,  43-  /^'^""«^  (irlla  tonna  non  vuol  dire  la  uiigliorc  ca- 
valla, ne  la  più  hrlla,  se  non  errò  il  Passavanti  nel  Trattato  della 
Scienza:  "  E  dicono  che  le  donne  della  torma,  che  guidano  l'altre, 
sono  Erodia  che  fece  uccidere  san  Giovanni  Batista  e  la  Diana 
antica  dea  de'  Greci  „. 

XXX,  53.  Convcrtr  non  vuol  dire,  qui,  né  assiiuila,  né  rivolge 
a  lunghi  dove  non  dovrebbe,  se  non  errò  frate  Giordano  (lix.): 
"  L' idropico,  quanto  più  mangia  e  bee,  quegli  omori  si  corrom- 
pono tutti  e  convertonsi  in  mali  omori  flemmatici  „.  —  XXX,  102. 
Il  più  comune  de'  significati  di  croio,  presso  i  nostri  antichi  e 
presso  i  Provenzali,  è  spregevole,  vile. 

XXXI,  4.  Non  mi  pare  spiegato  bene  od' io:  "  Intesi  narrare 
dagli  antichi  poeti  „.  Erano  frequentissime  le  allusioni  alla  lancia 
di  Peleo  nelle  liriche  provenzali  e  nelle  italiane.  Uno  de'  due  ri- 
matori faentini  ricordati  nel  De   Viilgari  Eloqiientia  : 

a  Pelleus  la  posso  assimigliare 
feruto  di  sua  lancia  ; 
non  guerrìa  mai  s'  altr'  ore 
con  ella  il  loco  no  lo  riferisse. 

Altr'  ore  penso  di  dover  leggere  col  Nannucci  (  il  codice  Pala- 
tino 418:  altror),  non  altrove,  come  leggono  altri,  perché  la  lancia 
non  poteva  esser  cagione  "  di  buona  mancia  „  se  non  ferendo 
proprio  là,  dove  prima  aveva  ferito.  Forse  messer  Tommaso  co- 
nobbe e  fuse  insieme  entrambe  le  lezioni  del  paragone  di  B.  di 
Ventadour,  che  traduceva:  si  autra  vetz  e  si  per  cis  loc  no  s' cu 
fezcs  ferir.  Anche  alle  menzioni  di  Dedalo,  di  Narciso,  della  fe- 
nice, e  a  qualche  altra,  Dante  potè  essere  condotto  da  remini- 
scenze di  scritture  in  lingua  d'  oc  e  in  lingua  di  sì;  con  questo 
non  nego  eh'  egli  le  rifoggiasse  su  gli  esemplari  classici. 

XXXIII,  ij5.  "  /)/^/;'o  wn'wrwa/ sta  ghiacciata,  gela  qui  dietro 
a  me  „.  Va  da  sé;  ma  che  vale  propriamente  vernare  in  questo 
luogo?  Era  opportuno  dirlo  qui,  non  nel  commento  al  canto  xxx 
del  Paradiso.  Un  sonetto  di  Dante  contro  Forese  comincia: 

Chi  udisse  tossir  la  mal  fatata 
moglie  di  Bicci  vocato  Forese, 


—  45  — 

potrebbe  dir  che  la  l'osse  vernata 
ove  si  fa  '1  cristallo  in  quel  paese. 

Tra  parentesi,  meglio  che  da  un  proverbio  riferito  nella  Cronaca 
del  Villani,  1'  ultimo  verso  di  questo  sonetto  riceve  lume  dal  di- 
scorso della  madre  di  madonna  Sismonda  nella  novella  del  Boc- 
caccio (vu,  8):  "  Ti  potevano  cosi  orrevolmente  acconciare  in 
casa  i  conti  Guidi  con  un  pezzo  di  pane  „.  —  XXXIII,  150. 
*'  L'  esser  villano,  mancando  alla  data  parola,  fu  cortesia  verso  di 
lui,  che,  per  traditore  si  meritava  ben  peggio  „.  Credo  si  debba 
ordinare  in  altro  modo  la  frase:  ed  essere  villano  a  lui  fu  cortesia. 
Forse  passò  per  la  mente  del  poeta  quel  di  Ovidio  { Melani., 
VI,  633): 

....  scelus  est  pietas  in  coniuge   Tereo; 

o  un  motto  popolare,  che  Garzo  aveva  incluso  tra  i  suoi  pro- 
verbi: "  Villania  in  cui  regna  Cortesia  lo  disdegna  „,  o  una  sen- 
tenza di  Guittone  {Altra  fiata,  126): 

e  se  languisse  a  morte, 

crudele  essere  lui  merzede  tegno. 

L'imperatore  Federico  II  (  P.  de  Vineis  Epist.  V,  11):  "  instar 
enim  pietatis  est,  in  huiusmodi  sceleris  correctione  fuisse  cru- 
delem.   „ 

G.  d' Uisel,  Ben  f eira: 

car  egalmen  s'  ataing  a  cortesia 

e'  om  fassa  enoi  als  enoios  quii  l'an. 

E  Lanfranco  Cigala,   Ges  ev  non  sai: 

....  segon  dreg  non  es  ges  traimenz 
trair  trachor;  qu' aissi  tot  engalmenz 
com  es  trair  son  amie  malvcstatz, 
es  son  trachor  trair  pretz  e  bontatz. 

XXXI\',  98.  Burella,  ai  tempi  di  Dante,  era,  in  Firenze,  il  nome 
di  una  prigione,  ricordata  non  di  rado  nelle  Consulte  (  "  Super 
expendendo  libras  l  in  reparatione  carcerum  Burelle  et  Pal- 
eacze  „  ;  "  proposuit  dominus  G.  potestas  de  locatione  Borelle  „). 


-46- 

Il   nome  proprio   diventò  presto  eomune.  Avendo  innanzi  il  testo 
del   Roiiuiii  de  la  Rose,  dove  è  scritto  : 

Si  convient  quc  de  prison  saille, 

l'autore  del  Fiore  fece  dire  dalla  \'ccchia  (clxxxv): 

e   torni  suso 
e  tragga  1'  altro  fuor  della  burella. 


II. 


Purgatorio,  I,  7.  All'  autore  sembra  bella  e  vera  1'  osserva- 
zione del  Cesari:  la  luce  di  Venere  non  era  tanta  da  coprire  la 
costellazione  de' Pesci;  "  questo  velare,  non  tanto  il  prese  Dante 
per  figura  da  velo,  quanto  dal  velare  che  i  pittori  fanno  i  lor 
quadri  „.  Non  so  se  sin  dai  tempi  di  Cimabue  e  di  Giotto  si 
usasse  condurre  sopra  i  quadri  quella  "  tempera  di  colore  assai 
lieve,  che  a  modo  di  velo  trasparente  ne  lascia  veder  le  figure 
di  sotto,  con  piacevole  temperamento  di  quel  nuovo  colore  „,  so 
che  nel  Convito  (II,  xiv)  si  legge  della  stella  di  Mercurio:  "  Più 
va  velata  de' raggi  del  sole,  che  nuli' altra  stella E  (la  Dialet- 
tica )  va  più  velata  che  nulla  altra  scienza,  in  quanto  procede  con 
più  sofistici  e  probabili  argomenti,  più  che  altra  „.  —  In  una  nota, 
alla  fine  del  canto,  sono  raccolti  dal  Convito  e  dal  De  Monarchia 
i  giudizi  di  Dante  su  Catone:  Catone,  liberato  dal  limbo  quando 
Cristo  vi  discese,  salirà  dopo  il  giudizio  finale  al  Paradiso,  perché 
il  poeta  lo  ha  imaginato  "  illuminato  della  fede  in  Cristo  „,  non 
vedendo  più  in  lui  il  suicida,  "  ma  l'uomo  dalla  rigida  virtù,  anzi 
il  più  virtuoso  di  tutta  quanta  1'  antichità,  che  per  amor  della  li- 
bertà morale  aveva  fatto  getto  della  vita  „.  L'  ammirazione  e  la 
venerazione  per  1'  Uticense  nacquero  nel  poeta  dal  solo  studio 
degli  scrittori  antichi,  o  concorse  a  generarle  una  qualche  tradi- 
zione scolastica  leggendaria?  Sarebbe  da  ricercare.  In  una  rozza 
scrittura,  certamente  anteriore  alla  Commedia,  vedo  attribuita  a 
S.  Agostino,  severissimo  giudice  di    Catone,    un'  opinione    molto 


—  47  — 
ili  versa  da  quella  del  santo  vescovo,  e,  per  ciò  stesso,  non 
molto  diversa  da  quella  del  poeta.  "  L'nde  santo  Augustino, 
sovra  la  morte  tale  de  Catone,  disse  che  la  morte  d' om  tale 
come  Catone,  che  convenevole  era  asciitpio  dovesse  essere  e  fitsse, 
a  quelli  ch'erano  lora  e  deveano  venire,  sempre  de  volere  franchi 
pria  volere  morire  che  vivere  servi  e  sotto  signoria  „.  Cauli  di 
.hd.    Cai'.,  XVI.    —   I,   13.  .1  Lapidari,  del  zaffiro: 

Kar  il  est  clers,  et  sa  bealté 
semole  le  ciel  et  sa  clarté.... 
Ali  pur  ciel  samblent  li  pluisor 
d"  oriant  qui  getent  luisor. 

11  Notar  Giacomo:  "  Ca  s'  este  orientale  Lo  zaffiro  assai  più  vale  „. 
II,  52.  F.  da  Barberino,  Reggini.  (V,  xxi):  "  Sta  donna  Non 
dee  mostrar  d'  esser  tropo  maestra.  Anzi  selvaggia  e  nova  Sé  ri- 
trovando neir  ovre  d'  amore.   „  Cfr.  Cino,  Lo  grati  disio: 

Selvaggia  n'  è  '1  bel   nome, 

né  fuor  di  soa  proprietà  lo  tiro, 

s'  ancor  vo'  dir  selvaggia,  cioè  strana 

d'  ogni  pietà,  di   cui  siete  lontana. 

E  cfr.  Ser  Nofìb  d'  Oltrarno,  La  dilettanza.  —  II,  122.  Non  è  ne- 
cessario scendere  fino  al  Poliziano,  né  ricorrere  al  Crescenzi  per 
trovar  esempi  di  scoglio  nel  senso  di  pelle.  Lapo  Gianni,  Novelle: 
"  Lo  scoglio  di  doglienza  Ave  gittato  come  face  il  cervo.  „  Al 
tempo  di  Dante  viveva  anche  il  verbo  discogliare:  in  un  contrasto 
tra  G.  Orlandi  e  una  donna,  questa  dice: 

perché  la  bona  spera 

fermat'  ho  nel  coraggio, 

per  simigliare  serpe  che  discoglia. 

Ili,  27.  "  Brandizio ;  Brindisi,  che  i  Lat.  appellavano  Brnndti- 
siuni  e  Briindisiiitu  „.  E  che  i  contemporanei  di  Dante  chiama- 
vano Brandizio  in  Italia  (Lntelligenzia,  121:  "  Partisi  allora  ed  a 
Brandizio  gìo  „  ),  Braiidis  in  Francia,  Branditz  in  Provenza. 
—  Ili,  126.  Cfr.  Palamidesse,  Ant.  Rime  volg.,  IV,  dcxcix: 
Or  legga  un'  altra  faccia  del  Saltero. 


-48- 

111.  135.  Se  la  lezione  fuor  del  verde  non  è  "  convalidata  dai  ma- 
noscritti „,  perché  accogliere  le  chiose,  alle  quali  dette  occasione? 
E,  accogliendole,  perché  non  correggerle  e  compierle?  La  novella 
del  Sacchetti,  dove  è  menzione  del  verde  delle  candele,  è  la  xii; 
alla  tarda  testimonianza  del  Daniello  si  può  aggiungere  quella 
d' un  contemporaneo  di  Dante  (Cane.    Clu'i^.,  410): 

Sì  se'  condoli'  al  verde,  Ciampolino, 

che  già  del  candellier  hai  ars'  un  poco  ; 
a  mal  tuo  grado  rimarrai  del  gioco, 
poi  r  han  condotlo  si'  dadi  del  Mino. 

—  IV,  I-I2.  Roììi.  de  Flamenca,  2380-91  : 

E  lui  li  sen  aii  tal  usage 

qne  se  1'  us  formis  so  message 

r  autre  de  re  non  s'  entremela, 

mais  tota  s' ententio  meta 

a  lui  aiudar  e  servir 

si  que  lui  aion   un  consir; 

e  per  cesta  rason  s'  ave 

qui  pessa  fort  que  meinz  ne  ve, 

men  sen  e  men  parla  et  au, 

et  ja  noi  toc  hom  trop  suau 

cel  colp  non  sentirà  ne  geis; 

zo  ve  chascus  per  si  meteis. 

Ristoro,  II,  i:  Nonché  a  molte  cose,  ma  pur  a  due  non  può 
intendere  una  volta,  né  1'  anima  dell'  uomo,  né  quella  della  bestia; 
però  che  stando  uomo  attento  a  udire  non  vede;  e  se  l'uomo 
mira  ben  fiso  come  'I  dipintore,  suona  la  campana  e  non  1'  ode,  e 
non  se  ne  addae  „.  Giordano  da  Rivalto  (xl):  "  Quando  il 
pensiero  opera  forte  in  alcuna  cosa  o  in  alcuno  luogo,  non  vedi 
quello  che  ti  passa  dinanzi  agli  occhi;  perocché  l'anima  nostra 
non  è  di  grande  vertude,  che  possa  intendere  a  due  cose;  ma 
quando  intendi  bene  a  una  e  èvvi  bene  astratto,  si  perde  all'altra; 
e  però  non  vede,  né  ode,  né  sente  cogli  altri  sensi  „.  —  V,  37. 
L'  espressione  vapori  accesi  "  si  riferisce  naturalmente  ad  ambedue 
i  fenomeni  delle  stelle  cadenti  e  dei  lampi  tra  le  nuvole  d'Agosto  „. 
Naturalmente,  perché  rispecchia  un'  opinione  de'  tempi  di    Dante. 


-   49   - 

Ristoro  d'Arezzo  (\'II,  ii):  "  Questo  (vapore  igneo)  infianinian- 
tlosi  e  facendo  fuoco  e  fuggendo,  va  facendo  roniore  entro  per 
lo  vapore  acqueo....  e  vedemo  la  fiamma,  la  quale  noi  chiamiamo 
baleno....  La  folgore  è  vapore  igneo  „.  E  (MI,  v):  "  Vedemo  la 
notte  correre  entro  per  l' aere  fiamme  di  fuoco,  e  dissolvere  e 
venire  meno.  E  alquanti  non  savi  credono  eh'  elle  sieno  stelle, 
che  caggino  del  cielo  e  vengano  meno....  E  la  cagione  di  questa 
fiamma  può  essere  secondo  questa  via:  che  stando  l'aere  asciutto 
e  secco,  per  lo  calore  s' infiamma  lo  vapore  nell'  aere,  e  corre  lo 
vapore  infiammato  entro  per  1'  aere  „.  Su  per  giii  lo  stesso  in- 
segnava a' suoi  ascoltatori  G.  da  Rivallo  [PrrcL  iiicd.,  xxxii). 
—  V,  100-108.  "  E  la  parola  ecc.;  1'  ultima  parola  che  dissi  fu  il 
nome  di  Maria  da  me  invocato  in  quella  distretta;  atto  suprema- 
mente bello,  e  invenzione  degnissima  dell'  amor  di  Dante  a  Maria, 
che  ecc.  „  Che  1'  atto  di  Buonconte  sia  supremamente  bello,  vo- 
glio ammettere;  che  l'invenzione  sia  di  Dante,  no,  perché  Dante 
non  fece  se  non  giovarsi,  com'  egli  sapeva,  di  una  credenza  co- 
mune, della  quale  si  posson  trovare  documenti  nelle  tante  raccolte 
dei  Miracoli  della  Madonna.  Rispetto  alla  lagrimetta,  meglio  di  un 
passo  di  S.  Agostino,  troppo  indeterminato,  calza  a  proposito 
questo  di  Giordano  da  Rivalto,  iv:  "  E  qui,  cioè  in  questo 
mondo,  solo  una  lagrima  che  vegna  di  buon  cuore,  di  contrizione 
di  suoi  peccati,  è  di  grande  virtude;  che  spegne  e  disfà  il  pec- 
cato, e  quanti  n'  avessi,  e  scampati  dalle  pene  del  ninferno,  e 
merita  vita  eterna  „.  —  V,  109-114.  Sarebbe  stato  utile  avvertire 
che  timido,  detto  di  vapore,  non  è  un  riempitivo^  è  la  parola 
propria,  perché  gli  antichi  distinguevano  il  vapore  umido  o  acqueo 
del  vapore  aereo,  dal  terrestre,  dall'  igneo.  Tra  le  varie  spiega- 
zioni proposte  de' vv.  112-114,  il  Poletto  preferisce,  come  la  più 
semplice,  quella  del  Lombardi,  la  quale  si  fonda  sul  presupposto 
falso  che  il  diavolo  possa  qualche  volta  aver  bisogno  di  farsi 
venire,  di  fuori  o  di  dentro  non  so,  il  mal  volere.  Dire:  —  il  dia- 
volo accoppiò  la  cattiva  volontà  con  l' intelletto,  a  bella  posta, 
per  sfogare  l' ira  sua  sul  cadavere  di  Buonconte  — ,  significa  non 
vedere  che  Dante  ha  espressamente  notato,  del  diavolo  :  Pur  mal 

TORRACA.  I 


—  50  — 

chiede,  solamente  il  male,  sempre  il  male.  Io  credo  che  i  due 
verbi  glitnsc  e  mosse  debbano  stare  insieme  in  figura  di  chiasmo: 
//  diavolo  (quel  mal  volere,  che  chiede  solo  male)  radunò  il  va- 
pore e  mosse  il  vento.  Potrei  anche  accettare  la  costruzione  : 
accoppiò  e  mosse  il  vapore  e  il  vento,  se  non  mi  costringesse 
ad  attenermi  all'  altra  il  rispetto  dovuto  a  Torquato  Tasso.  Il 
quale  parafrasò  i  versi  di  Dante  a  questo  modo  (  Genis.,  \\\, 
st.   114Ì: 

Ma  la  scliiera  inlcnial 

sendole  ciò  permesso,  in  un  inonuii/o 

r  aria  in  nube  restrinse,  e  )nosse  il  vento. 

L'  inciso  con  l' intelletto  è  spiegato  dal  terzetto  precedente,  al 
quale  non  si  è  posta  sufficiente  attenzione.  Oh,  qual  bisogno  aveva 
Buonconte  di  fare  a  Dante  una  lezioncina  di  meteorologia?  Dante 
sapeva  —  e  Buonconte  lo  dichiara,  non  per  mera  cortesia  —  come 
il  vapore  si  muti  in  pioggia;  perché,  dunque,  dirglielo?  Perché 
il  vapore,  che  si  converti  nella  pioggia,  per  la  quale  gonfiatosi 
r  Archiano  trascinò  il  corpo  all'  Arno,  non  si  raccolse  secondo 
le  leggi  naturali;  ma  per  volontà  del  diavolo,  il  quale,  d'altra 
parte,  non  ebbe  ad  affaticarsi  materialmente  a  raccoglierlo,  ba- 
standogli a  ciò  un  suo  comando.  Tanto  è  vero,  che  anche  gli  altri 
fenomeni  sono  attribuiti  alla  volontcà  del  diavolo:  egli  copri  di 
nebbia  la  valle,  egli  fece  intento  il  cielo  di  sopra.  Ristoro,  VII,  iv: 
"  Dacché  gli  elementi  di  sé  non  si  possono  muovere,  né  fare 
generazione,  né  altri  accidenti,  se  non  per  la  virtù  del  cielo,  e'  tro- 
veremo ingenerato  e  mosso,  e  impulsare  in  una  contrada  una  ope- 
razione terribile  di  vento,  lo  quale  diradicherà  li  alberi,  e  farà 
grandissimi  accidenti,  e  gli  elementi  di  loro  noi  possono  fare,  se 
non  Io  fa  d'  essi  altra  virtude  „.  Il  giorno  della  battaglia  di  Cam- 
paldino,  alla  vii'tù  del  cielo  si  sostituì  quella  del  diavolo.  Per 
r  ultimo  verso  si  confronti  la  Vita  Nuova  „  ;  "  Amore....  cominciò 
a  prendere  sopra  me  tanta  sicurtade  e  tanta  signoria, /><?;-/«  z'/r/// 
che  gli  dava  la  mia  imaginazione,  che  mi  convenia  fare  compiuta- 
mente tutti  i  suoi  piaceri  „. 


\'I,  20.  "  Inveggia;  voce  antiquata,  invidia  „.  CtV.  G.  Guinizelli, 
Tcgìiol,  st.  4"  : 

onde  '1  giorno  ne  porta  grand'  envcggia. 

E  Cecco  Angiolieri,  Da  te: 

perché  del  mio  v"  inveghi  pili  che  Mino. 

Fu  scritto  anche  invcggimìicìito. 

\'I,  149-51.  La  similitudine  dell'inferma  è  parsa  a  taluno  imi- 
tata da  una  canzone  attribuita  a  P.  della  Vigna  e  a  Stefano  di 
Messina  : 

e  piango  per  usagio 

come  fa  lo  malato 

che  si  sente  aggravato 

e  dotta  in  suo  coragio, 

che  per  lamento  li  par  spesse  fiate 

li  passi  parte  di  ria  volontate. 

Però,  in  questi^  e  ne'  versi  di  A.  di  Maroill,  che  questi  parafra- 
sano, il  malato  si  lamenta  soltanto;  invece  l'inferma  di  Dante 

non  può  trovar  posa  in  su  le  piume, 
ma,  con  dar  volta,  suo  dolore  scherma. 

Se  Dante  ebbe,  qui,  bisogno  di  ricevere  ispirazione  da  altro  scrit- 
tore, e  non  bastò  a  dargliela  Arrigo  da  Settimello  (I,  187  segg.  ), 
gliela  potè  oflVire  Peirol  {Pos  de  lìion  joi): 

pero  se  remuda 
malautes,  car  mieills  cuda 
en  autra  part  garir. 

Vili,  19-21.  Dichiara  il  Poletto:  "  A  me  parrebbe,  come  parve  ad 
altri,  una  cosa  abbastanza  strana  e  poco  men  che  inesplicabile  in 
cervello  sano  prendere  un  tuono  tanto  cattedratico  e  dire  al  mio 
uditorio:  Aguzzate  l'intelletto,  state  bene  attenti,  perchè  qui  la  cosa, 
die  debbo  dirvi,  è  facilissima  ad  intendersi.  Io  invece  intendo  tutto 
al  contrario;  intendo  che  il  Poeta,  conscio  che  lo  scernere  a  prima 
giunta  certe  verità  nascoste  sotto  il  velame  dell'  allegoria,  non  è 
da  tutti,  avverte  con  serietà  il  suo  lettore  a  starsene  bene  attento. 


—    52    — 

perché  la  cosa  importa,  dacchc  facilmente,  per  la  sua  sottigliezza, 
potrebbe  essere  non  ravvisata,  e  il  lettore  potrebbe  passar  oltre 
senza  badarvi  „.  Bisognerebbe  provare  che,  scrivendo  fiurpnssar 
di'fifro,  il  poeta  volesse  intendere  passar  olire  con  1'  aggiunta  del 
senza  badarvi;  bisognerebbe  provare  che  la  cosa  velata  sia,  se  mi 
si  permette  lo  strano  aggettivo,  non  meno  Irapassabile  del  velo. 
Certo,  il  poeta  dice  sottile  il  velo,  non  la  cosa  velata  ;  1' allegoria 
non  il  senso  di  essa.  Il  Poletto  sente  il  tono  cattedratico  perché 
attribuisce  all'  imperativo  aguzza  e  a  tutta  la  frase  senso  più  grave, 
maggior  valore  che,  in  verità,  non  abbia.  Appunto  perché  il  velo 
è  leggerissimo  e  1'  occhio  può  subito  e  facilmente  cogliere  sotto 
di  esso  la  verità,  a  questa  guardi  il  lettore,  più  che  al  velo;  non 
essendo  mestiere  fatica  nella  sposizione  dell'  allegoria,  badi  alla 
sentenza  (  Convito,  IV,  i).  Le  parole  sono  proprio  quelle  di  Ca- 
pocchio: 

aguzza  ver  me  1'  occhio, 
sì  che  la  faccia  mia  ben  ti  risponda; 

nelle  quali  nessuno  s'  è  mai  sognato  di  trovar  tono  cattedratico. 
Che  trapassar  dentro  (non  oltre)  il  velo  sia  facile,  lo  mostra  bene 
il  Berardinelli,  del  quale  accetta  l'opinione  il  Poletto:  "  Quanto 
al  significato,  apparisce  chiaro  „  ecc.  ;  "  la  cosa  è  chiara  baste- 
volmente  per  sé  „  ecc. 

Vili,  45.  Cfr.  Barberino  [Reggini.,  Ili,  iv,  7):  "  Et  la  giente 
che  sciese  poi  di  costoro  è  stata  sempre  molto  gratiosa  ap- 
presso di  qualunque  è  stato  Re  „;  Libro  de'  Sette  Savi:  "  Fiemi 
molto  gratioso  essere  io  quello  che  possi  dire  „  ecc.  Perché  alle 
anime  della  valletta  sarà  cosa  assai  gradita  vedere  Dante  e  Vir- 
gilio? si  domanda  il  Poletto,  e  risponde:  "  Sordello  sapeva  che 
i  due  viandanti  sarebbero  stati  graziosamente  accolti  da  quelle 
grandi  ombre,  perché  Virgilio  era  famoso;  e  in  quanto  lor  gloria 
(dei  poeti?)  è  frutto  del  ben  fare  e  del  sapere,  è  lume  di  Dio,  e 
perciò  dee  tornar  degna  di  riverenza  anche  all'  altro  mondo  „. 
A  farlo  apposta,  Sordello  non  presenta  Virgilio  alle  grandi  ombre; 
ne'  colloqui  con  Nino  Visconti  e  con  Corrado  Malaspina,  dell'esser 


—  53  — 

egli  poeta,  Dante  non  parla  mai  I  Perché  sarebbe  stato  a  quelle 
anime  grazioso  vedere  i  due  viandanti?  Verrebbe  voglia  di  rispon- 
dere: Dio  buono!  Stavano  li  da  tanto  tempo  senz'aver  veduto 
facce  nuove!  —  Vili,  114.  Il  soniiiio  siitallo,  a  parere  del  nostro 
autore,  è  il  cielo,  non  la  vetta  del  Purgatorio;  ma  le  sue  ragioni, 
desunte  da  un  altro  luogo  del  Piti-i^atorio,  valgono  poco,  perché 
nessuno  iia  detto  a  Corrado  ciò,  che  Dante  dice  a  Marco  Lom- 
bardo: "  Dio  vuol  che  io  veggia  la  sua  corte  „.  —  Vili,  1 15-129. 
Cfr.  Tav.  Ril.,  lui  :  "  Sire,  novelle  vere  v'  apporto,  assai  grandi 
e  maravigliose  certamente  „;  lvu:  "  Noi  siamo  di  lontane  con- 
trade e  non  fummo  già  mai  in  questi  paesi  „.  Il  Poletto  nota: 
Ei;  è  certo  riferito  a' paesi,  e  ciò  richiede  la  sintassi;  non  si  ca- 
pisce perché  lo  Scartazzini  e  il  Casini  vogliano  riferirlo  ai  pa- 
renti di  Corrado,  come  idea  anticipata;  dei  parenti  chiaramente 
si  parla  dopo  „.  Però  Corrado  aveva  già  accennato  ai  suoi.  I  paesi 
palesi  non  è  modo  di  dire  semplice  e  d'uso;  pure,  l'asserzione, 
che  segue:  "  La  fama....  grida  la  contrada  „  sembra  dare  ragione 
al  commentatore.  —  Vili,  131.  Il  soggetto  non  è  capo  reo,  è 
mondo:  "  benché  il  mondo  volgendo  gli  occhi  alle  cose  transi- 
torie, vada  per  via  storta....  e  il  senso  non  solo  torna  piano,  ma 
contiene  chiaro  e  necessario  confronto  fra  la  casa  Malaspina,  che 
andava  per  via  diritta  e  verace,  e  il  resto  del  mondo  „.  Sarà; 
ma  tra  le  altre  spiegazioni,  con  quella,  che  intende  "  Roma  capo 
del  guelfismo  „,  avrebbe  dovuto  trovar  posto  questa:  "  la  curia 
romana  „. 

I/>sa  caput  mundi  venalis  curia  Papae 

prostat,  et  infirmai  cantera  membra  caput. 

Sono  versi  di  A.  da  Settimello  (III,  199),  a' quali  volendo,  si 
raccoglierebbero  innumerevoli  riscontri  nella  poesia  satirica  dei 
secoli  xn  e  xiii. 

IX,  1-9.  La  concubina  di  Titone  antico,  secondo  il  Poletto,  è 
r  aurora  solare  sorgente  all'  estremo  lembo  orientale  del  Purga- 
torio; il  freddo  animale,  la  costellazione  de'  Pesci,  con  la  quale 
nasceva  "  e  doveva  nascere  „  I'  Aurora,  perché  il  sole  si  trovava 


—  54  — 

in  Ariete;  i  passi  con  che  sale  la  Notte,  le  liiiiuìc  o  rrr.sr  del  Zo- 
liiaco;  l'ora  iiiJicata  dal  poeta,  le  iimliei  (^  un  quarto  di  notte.  In 
sostanza,  egli  adotta  1'  opinione  del  Mossotti,  confutata  vittoriosa- 
mente in  più  parti  dal  Ponta.  Or,  se  tutto  ciò  è  vero,  non  s' in- 
tende perché  il  freddo  animale,  nell'  indice  dell'  opera,  si  trovi 
registrato  sotto  la  parola  scorpio;  ma  come  può  esser  vero,  se 
prima  non  si  rimuovono  le  gravi  obbiezioni  del  Moore  (  Tiiucs 
Rcfcr.  ili  the  Div.  Coiitni.):  Freddo  animale  al  singolare  è  im- 
proprio, r  allusione  alla  coda  del  pesce  è  ridicola,  la  costella- 
zione de'  Pesci  non  ha  stelle  cospicue,  perciò  la  bella  descrizione 
del  verso  4  non  avrebbe  senso? 

Agli  argomenti  recati  dal  Moore  per  dimostrare  che  il  freddo 
animale  sia  proprio  lo  scorpione,  si  possono  aggiungere  alcuni 
altri.  Dante,  asseriscono,  non  poteva  mettersi  in  contraddizione 
con  \'irgilio,  il  quale  disse  ardens  lo  scorpione;  ma,  lasciando 
qui  di  ricercare  il  significato  esatto  di  questo  ardens,  che  per  al- 
cuni è  cupido,  bramoso  (a  sentire  Virgilio  la  costellazione  dello 
Scorpione  si  contraeva  per  lasciar  posto  all'astro  di  Ottaviano); 
Dante  poteva  bene  non  accettare  un'  opinione  di  \''irgilio,  se  di 
opinione  si  tratta,  per  attenersi  alla  scienza  del  tempo  suo.  La 
scienza,  per  bocca  di  un  maestro,  che  Dante  stimava  moltissimo 
(Alberto  Magno,  De  aniiìialibus,  xxvi),  classificava  lo  scorpione 
tra  gli  animali  senza  sangue,  freddi:  "  Et  quia  talia  frigida  sunt  „! 
Secondo  la  scienza  del  tempo,  chi  ben  guardi,  il  poeta  prima  in- 
dicò la  classe  {freddo  animale),  poi  l'individuo  [che  con  la  coda 
percuote  la  gente).  Alberto  Magno  empi  quasi  mezza  colonna  enu- 
merando i  malefici  effetti  della  puntura  dello  scorpione,  o,  per 
parlar  più  preciso,  della  coda,  giacché  "  non  potest  fern^e,  nisi  ad 
dorsum  in  modum  arcus  caudam  recurvet  „.  Anche  oggi  quella 
puntura  è  temuta;  ai  tempi  di  Dante  sembra  fosse  proverbiale  il 
motto:  "  Lo  scorpione  lusinga  con  la  faccia  e  con  la  coda 
punge  „  {Fiore  di  virtù,  xiv;  cfr.  G.  Faidit,  Motit  a  amors : 
"  Mas  r  usatge  de  1'  escorpion  te,  Qu'  aucei  rizen  „).  Se- 
condo la  Mitologia,  lo  scorpione  del  Zodiaco  è  trasformazione 
di  quello,  che  {non  ego,  non  primus,  veteres  cecinere  poetae)  punì 


—  DD  — 

Orione  colpevole  di  aver  tentato  di    violare,    o    di    aver    violato 

Diana. 

Horrct  vulnus  adhuc  et  spicula  tincta  vcnciio 
flebilis  Orion, 

racconta  Germanico  ul-W  Aratcn,  ed  egli  stesso,  altrove,  spiega 
la  frase: 

et  scorpion  ultima  cauda 
spicula  torquentem. 

Orione  fu,  dunque,  percosso  dalla  coda  dell' aracnide.  Lo  Scartaz- 
zini  giudica  usata  molto  impropriamente  la  parola  percossa  a  si- 
gnificare la  ferita  prodotta,  dice  lui,  tlal  pungiglione  ;  perù  se  il 
vocabolario  non  mentisce,  i  latini  usarono  ictus  nel  senso  di 
colpo  o  di  percossa,  e  non  solo  i  poeti  scrissero  :  acri  scorpios 
ietti,  accr  et  ictu  scorpios  {Astrott.,  II,  213,236),  anche  il  maggior 
naturalista  latino  scrisse  {Ilist.  ìiat.,  XI,  xxv,  87):  "  semper  cauda 
in  ictu  est,  nulloque  momento  meditari  cessat,  ne  quando  desit 
occasioni.  F'erit  et  obliquo  ictu  et  inflexo  „.  Plinio  stesso  (XXVIII, 
X,  155)  raccolse  la  credenza  che,  chi  voleva  guarire  della  ferita, 
doveva  all'  orecchio  di  un  asino  confessarsi  perctissum  a  scor- 
pione (').  Se,  infine,  ricordiamo  le  influenze  alla  costellazione  dello 
Scorpione  attribuite,  vedremo,  anche  per  questo  rispetto,  perspicua 
e  propria  l'espressione  dantesca.  Secondo  Manilio  (IV,  217): 

Scorpios  armatae  metuendus  cuspide  caudae 
qua,  sua  cum  Phoebi  currum  per  sidera  ducit, 
rimatur  terras,  et  sulcis  semina  miscet, 
in  bcllum  ardentes  animos,  et  Martia  corda 
efficit,  et  multo  gaudentem  sanguine  Syllam  ; 

e,  dopo  parecchie  altre  imputazioni  dello  stesso  genere: 

tantus  amor  pugnae,  discuntque  per  otia  bellum, 
et  quodcumque  nepse  studium  producitur  astro. 

Manilio  e  gli  altri  maestri  di  astrologia  assegnarono  lo  Scorpione 
al  pianeta  di  Marte,  perché  "  il  reo  desidera  di  stare  col   reo  „. 


(')  Cfr.     Hist.    ìiat.,    XXVIII,    ni,    32;    "    rursus    a    scorpione    aliquando  per- 
cussi  „  ecc. 


Ristoro  di  Arezzo,  del  quale  sono  queste  parole,  e  elle  —  si 
rammenti,  —  seriveva  nel  ]282,  ei  ofìVe  il  più  chiaro  commento 
del  verso  dantesco:  "  E  lo  scorpione  è  rio  e  velenoso,  ed  uc- 
cide altrui,  ed  ha  dietro  imo  coda  Inni^a,  loscosa,  col  pnngelloiic 
in  sommo,  per  fedire  e  per  pugncre  a  iradiiìiento  „  (  Comp.  d. 
Moììdo,  111,  ni). 

Il  Poletto  crede  che  al  momento,  di  cui  Dante  discorre,  l' au- 
rora solare  spuntava  alle  Colonne  d'  Ercole;  ma  io  non  comprendo 
come  possa  conciliare  questo  con  altri  dati  astronomici  da  lui 
ammessi  senza  discussione. 

Solem  quis  dicere  falsimi 
audcat  ? 

Se,  quando  il  sole  spunta  nel  Purgatoi'io,  tramonta  a  Gerusa- 
lemme, è  mezzanotte  al  Gange  e  mezzogiorno  alle  Colonne;  se 
quando  al  Purgatorio  è  mezzogiorno,  la  notte  comincia  "  a  sten- 
dere la  sua  ombra  „  al  Marocco;  è  chiaro  che,  quando  il  sole 
tramonta  al  Purgatorio,  a  Gerusalemme  spunta  1'  aurora,  è  mez- 
zanotte al  Marocco,  è  mezzogiorno  al  Gange.  Lo  disse  Dante 
stesso  al  principio  del  canto  XVII  della  seconda  cantica.  Al  tra- 
monto, e  subito  dopo,  mentre  "  1'  aer  s'  annerava  „,  Dante,  nella 
valletta  dell' Antipurgatorio,  riconosce  Nino  di  Gallura  e  comincia 
a  discorrere  con  lui.  Il  colloquio  è  interrotto  dall'  apparizione 
delle  tre  facelle,  della  quale  dà  breve  spiegazione  Virgilio,  e  dalla 
venuta  del  serpente,  che  gli  Angeli  discacciano.  Quindi  il  poeta 
è  interrogato  da  Corrado  Malaspina,  gli  risponde,  e  da  lui  ode 
una  profezia.  Tutte  queste  "  circostanze  „,  a  parere  del  Poletto, 
si  seguirono  in  tempo  non  minore  di  "  circa  quattr'  ore  „.  Vera- 
mente, posto  che  d'  aprile  il  sole  tramonta  alle  6,24,  se  Dante  si 
fosse  addormentato  alle  11  e  qualche  minuto,  le  circostanze  si 
.sarebbero  seguite  in  piii  di  quattro  ore;  ma  chi  vorrà  credere  sul 
serio  necessario  tanto  tempo  perché  avvenisse  ciò,  che  egli  racconta 
—  pure  riferendo  i  suoi  colloqui  con  le  anime  —  in  trenta  terzine? 
Mentre  al  Purgatorio,  come  abbiamo  veduto,  il  sole  tramon- 
tava, a  Gerusalemme  spuntava  1'  aurora.  Due  ore  e  mezzo    dopo 


-  57   - 

(  la  notte  aveva  fatto  due  passi  "  e  il  terzo  già  chinava  in  giuso 
r  ale  „  )  r  aurora  aveva  percorso  37  gradi  e  30  minuti  circa  e 
perciò,  s'imbiancava  al  balzo  d'oriente,  ({'Italia,  non  dell'emisfero 
australe  ;  d' Italia,  che  secondo  la  geografia  dantesca,  dista  da 
Gerusalemme  45  gradi  (').  tra  d'  aprile,  "  stando  lo  sole  nel  segno 
di  ariete  „,  quando  —  dice  Ristoro  -  il  sole  "  venendo  la  mat- 
tina di  sotto  terra,  non  sale  al  diritto  per  gir  su  all'  orizzonte, 
anzi  viene  a  schincio  allato  all'  orizonte  poco  sotto  terra....  si 
che  '1  suo  splendore  allumina  quello  orizonte  sopra  terra  grande 
spazio  di  tempo,  anzi  che  '1  sole  sia  sopra  terra  „.  Per  conse- 
guenza, mentre  al  Purgatorio  erano  due  ore  e  mezzo  di  notte, 

pallida.... 
Tithoni  croccum  liiiqucns  Aurora  cubile, 

al  balzo  d'  oriente,  in  Italia,  s'  imbiancava.  Giova  rammentare  il 
verso  di  Virgilio  ai  difensori  à^W  aurora  lunare  e  al  paladino  di 
Titano  aìilico;  ma  piti  giova  notare  la  corrispondenza  di  s' ini- 
hiancava  a  pallida. 

"  Il  segno  che  sorge  e  cade  col  sole,  sta  sempre  nascosto  „, 
sappiamo  da  Macrobio,  ed  anche:  "  quando  il  sole  tramonta  in 
Ariete,  subito  vediamo  sorgere  la  Libra,  e  il  Toro  apparisce  vi- 
cino air  Oceano.  „  Ma  essendo  —  uso  le  parole  del  Poletto  —  la 
^Libra  "  diametralmente  opposta  all'  Ariete  „,  ne  segue  che,  quando 
il  sole  sorge  in  Ariete,  la  Libra  tramonta. 

Occiduusque  aries  spatium  tempusque  cadendi 
quod  tenet,  in  tantum   chelae  consurgere  perstant, 

dice  Manilio  (III,  292-93),  e  Germanico  (630-33): 

Nam  si  Phaebeos  currus,  dura  longa  venit  nox, 
occasu  sequitur,  rursus  fugit  oceanum  ortu 
crune  simul  chelis  fulgens  ; 

ossia  (cfr.  M.  Capella,  Vili,  844  segg.):  l'Ariete  sale  per  un'ora 
e  venti  minuti,  discende  in  due  ore  e  quaranta;  la  Libra  sale  per 


(1)  Questa  opinione  è  stata  sostenuta  anche    dal    Cipolla    nel    Giorn.    storico 
^ella  Leit.  Hai. 


diu-  ore  e  quaranta  minuti,  cli>;cendc  in  un'  ora  e  venti  minuti. 
Perciò,  al  sorger  dell'aurora  in  Ariete,  questa  costellazione  scom- 
pare, e  si  vede  alla  parte  opposta  dell'  orizzonte  la  Libra. 

E  che  ha,  tutto  questo,  a  vedere  con  lo  Scorpione?  Rispondo 
subito:  la  Libra  e  lo  Scorpione  sono  tutt' uno,  perché  la  Libra 
non  è  se  non  parte  dello  Scorpione.  Macrobio,  nel  passo  allegato, 
avverte  [In  Sonni.  Scip.,  I,  xvni):  "  Libratn,  id  est  Scorpii 
cìiclas;  „  Marciano  Capella  (Vili,  839)  insegna:  "  Zodiacus.... 
aequales  duodecim  signorum  integrat  portiones,  sed  undccim  habet 
sigila:  Scorpius  enim  tam  suum  spatium  corpore  quam  chelis  oc- 
cupat  Librae,  cuius  superiorem  partem  pedes  Virginis  occupant, 
viaiorcm  vero  Scorpius,  denique  chelas  —  quam  Libram  dicimus, 
—  quidam  dixere  Graii  „.  Anche  Germanico,  una  volta  o  due,  passa 
dalla  Vergine  allo  Scorpione  senza  menzionare  la  Libra: 

Hinc  Nemaeus  erit  iuxta  leo  ;  tum  pia  virgo; 
scorpios  hinc  duplo  quam  cctcra  possidet  orbe, 
sidera,  per  chelas  geminato  lumine  fulgens. 

Le  quali  parole  ci  permettono  di  figurarci  la  bionda  testa  del- 
l'Aurora  adorna  come  di  due  mezze  lune  di  brillanti,  mentre  era 
difficile,  prima,  figurarcela  adorna  d'  un  monile  in  forma  di  scor- 
pione. Dice  lo  Scoliaste  di  Germanico:  "  Scorpio  habet  stellas 
XIX  :  in  singulo  cornu  binas,  primas  maiores,  insequentes  claras' 
et  obscuram  unam,  in  fronte  ni  quarum  una  clarior  in  media,  in 
dorsum  in  clarae,  in  ventre  duae,  in  cauda  v,  in  aculeo  iv, 
summa  x  et  novem.  Ex  his  priores,  fjiiae  siiiit  in  coniiòi/s  eiiis  iv 
duae  clarae  duae  obscurae,  Librae  adsignantnr  fjiiae  Chela:  dicuntur  „. 

Il  IO  aprile  il  sole  ha  già  percorso  due  terzi  della  distanza, 
che  separa  il  primo  punto  dell'  Ariete  dal  primo  punto  del  Toro, 
e  perché  quando  il  sole  sorge  in  Toro  si  vede  tutto  lo  Scorpione, 
credo  che  il  io  di  aprile  Dante  poteva  imaginar  visibili,  con  le 
stelle  anteriori  di  esso,  anche  le  altre;  tanto  pili  che  la  riforma 
gregoriana  era  ancora  di  là  da  venire. 

Si  dirà:  conosceva  Dante  codesti  scrittori?  Certo,  che  io 
sappia,  non  citò  in  alcuna  delle  sue  opere  Macrobio,    ma    ho    in 


—  59  — 

animo  di  dimostrare  che  non  l'ignorava;  certo,  non  citò  Ristoro 
di  Arezzo,  ma  ricordò  Alfragano  e  Alcazel,  su  i  quali  Ristoro 
aveva  mietuto  per  la  sua  bella  compilazione;  però  conosceva 
Virgilio,  e  nelle  Groii^ichr  (I,  32-35)  aveva  letto: 

anne  novom  tardis  sidus  te  mcnsibus  addas, 
qua  locus  Erigonen  inter  chelasque  sequentis 
panditur  (  ipse  libi  iam  bracchia  contrahit  ardens 
Scorpius  et  cali  iusta  plus  parte  relinquit); 

conosceva  Lucano,  e  aveva  letto  nella  Farsaglia  (I,  658-60): 

tu  qui  llagrante  minacem 
Scorpios  incendis  cauda,  chelasque  peruris 
quid  tantum  Gradive  paras  ? 

Bracììia  die  chele!  insegnava  una  delle  tante  opere  grammaticali 
del  Medio  Evo.  Infine,  Dante  conosceva  le  Mclaìiiorfosi,  e  vi 
aveva  letto  (II,  195  segg.  ): 

Est  locus,  in  geminos  ubi  brachia  concavat  arcus 
Scorpius,  et  cauda  flexisque  utrimque  lacertis 
porrigit  in  spatium  stgiiormii  iiteinbm  duortim, 

che  in  buon  italiano  vuol  dire: 

Evvi  un  lungo  nel  elei,  dove  le  braccia 
lo  Scorpion  ricurva  in  getnin'arco, 
e  il  vasto  spazio  di  due  segni  abbraccia 
e  coda  e  branche  ripiegando  in  arco. 

IX,  13-15.  "  Delle  due  sorelle  (Progne  e  Filomela),  secondo 
il  più  de'  poeti,  la  trasformata  in  rondine  fu  Progne,  e  Filomela 
in  usignuolo;  ma  Dante  ha  seguito  l'altrui  opinione  (  cfr,  Piirg., 
XVII,  19),  eh' è  di  Probo,  di  Libanio  e  di  Strabene  „.  Su  per 
givi,  lo  dicono  anche  altri.  Ma  perché  prendere  priiìii  guai  per 
allusione  alla  trasformazione  di  Filomela  in  uccello,  e  non  alla 
sventura  atroce  della  innocente  giovinetta?  Cfr.  Carmina  Ba- 
rai la  Aiìiat.  etc.   108  : 

philomena  queritur 
antiqua  de  iactura. 


—  6o  — 

E  forse  i  primi  ^iiai  non  sono  quella  sventura,  sono  le  grida 
della  giovinetta  oltraggiata 

frustra  clamato  sa;pc  parente, 
sajpc  sonore  sua,  niagnis  super  omnia  Divis. 

Losi  s'intende  meglio  suoi  primi  e  megWo  a  iiir/iioria:  ricordando 
quanto  e  come  invano  gridò  e  pianse,  Filomela  manda  ora  tristi 
lai.  Cuoi  nella  Commrdia  ha  sempre  il  significato  di  grida  do- 
lorose. 

X,  2.  Giordano  da  Rivalto,  lxvi:  "  Tutto  il  nostro  peccato 
sta  pure  nel  malo  amore,  per  amare  le  cose  troppo  e  disordina- 
tamente: questo  è  il  malo  amore  de' mondani;  perocché  tutte  le 
cose  di  questo  mondo  o  sono  male  ad  amarle,  o  sono  nocive 
a  te  „.  —  X,  32.  L' Intclligciizia,  st.  59: 

e  giammai  Policleto  intagliadura 
non  fece  al  mondo  più  propriamente. 

X,  52.  "  Storia,  bellissima!  storia  per  Dante  è  1' £';/r'/^/<',  storia  la 
Tcbaidc  di  Stazio,  e  storia  un  fatto  narrato  dalla  Bibbia;  perché 
la  storia  vera,  piti  che  di  fatti  si  deve  far  maestra  di  ragioni, 
dacché  più  insegnano  le  ragioni  che  i  fatti  „.  Ecco  un'  asserzione 
e  una  sentenza,  di  cui  questo  non  era  il  luogo.  Dante  adopera  il 
vocabolo  storia  nel  senso  tecnico.  Ristoro  (I,  vii):  "  A  modo 
delli  savi  artefici  che  fanno  la  nobilissima  operazione  mossaica, 
ad  adornare  od  a  storiare  le  pareti  e  pavimenti  de'  palazzi 
de' grandi  imperadori  e  de' grandi  re  e  de' grandi  templi....  E '1 
cielo  pare  che  sia  ordinato  e  istoriato  di  figure  d'  animali  e 
pesci  dalle  stelle,  quasi  al  modo  musaico  „.  Veggansi  gli  storici 
della  pittura  e  i  trattatisti,  il  Vasari  e  1'  Alberti. 

XI,  60.  Cfr.  Tav.  Rit.,  xeni:  "  Non  so  io  se  voi  già  mai 
l'udiste  ricordare  „:  "  Non  so  io  se  giammai  voi  l'udiste  menzo- 
nare  „.  —  XI,  85.  "  Intendo  che  1'  Oderisi  voglia  dire,  che  s'  ei 
fosse  vissuto,  tanto  si  sarebbe  collo  studio  adoperato,  che  prima 
di  lasciarsi  vincere.  Franco  avrebbe  dovuto  sudar  per  bene:  e  tal 
concetto  onora  Oderisi,  mentre  1'  altro  parmi  indegno  di  lui  e  del 
Poeta.  „  Lasciamo  stare  la  dignità  o  meno   dei  concetti;  perché 


-ol- 
ii Poletto  non  ha  dimostrato  che  1'  interpretazione  sua  convenga 
al  sì  corlcse?  —  XI,  95.  Tener  lo  catììpo  non  è  "  preso  dal  man- 
tenersi accampato  „  ;  cniupo  qui  vale  lizza,  aringo,  luogo  dove  si 
feriscono  torneamenti  e  si  corrono  giostre,  non  accampamento; 
tener  lo  campo  potrebbe  tradursi  col  verso  del  Boccaccio: 

e  sopra  il  campo  vincitor  si  stava, 

se,  piuttosto,  non  allude  ai  mantetiitori  o  tenitori,  che,  in  campo 
aperto,  sostenevano  l'assalto  di  altri  cavalieri.  —  XI,  100-109. 
Tutto  il  passo  merita  d*  essere  avvicinato  a  uno  del  Sogno  di  Sci- 
pione, vi-vii:  "  Ipsi  autem  qui  de  nobis  loquuntur,  quam  loquentur 
diu?...  Non  modo  non  aeternam,  sed  ne  diuturnam  quidem  gloria 
adsequi  possumus....  Quanti  est  ista  hominum  gloria,  quae  perti- 
nere  vix  ad  unius  anni  partem  exiguam  potest  „?  Il  Poletto,  a 
rincalzo  e  buona  spiegazione  del  concetto  di  Dante,  reca  un  tratto 
di  Boezio  {Pini.  Consol.,  II,  pr.  vii)  onde  il  poeta,  pare,  desunse 
il  confronto  tra  lo  spazio  di  mille  anni  e  l'eternità.  —  XI,  115-117. 
Cfr.   Canzon.   Cliig.,  180  e  373: 

che  per  vertù  del  sol  nasce  la  rosa 
e  quel  medesmo  fa  cader  le  foglie. 

—  XI,  118.  "  Ver  dir.,  parole  giuste,  veraci  „.  Locuzione  fre- 
quentissima negli  scrittori  del  Duecento,  usata  anche  avverbial- 
mente. C.  Davanzali  {Ant.  Rime  volg.,  Ili,  ccxxvii): 

e  ben  si  può  ridire 

che  fosse,  a  lo  ver  dire, 

oltre  misura  di  ciò  far  fallente. 

I.  Mostacci  (Ivi,  I,  xLiv): 

Ch'  io  non  fui  mai  allegro-  né  confortato, 
se  da  voi  non  n'avesse,  a  lo  ver  dire. 

XI,   139.   Tcsorctto: 

E  s' io  parlassi  scuro  ; 

Fiore  (li  Virtù,  xxxviii:  "  il  quintodecimo  vizio  si  è  favellare 
troppo  scuro  „. 


—    62    — 

XII,  55'5S-  l^''iiitc,  che  io  sappia,  non  cita  mai  Giustino,  in 
nessuna  delle  sue  opere;  perciò  non  dirci  dell' abbreviatorc  di 
Trogo  Pompeo:  "  la  cui  opera  Dante  certo  conosceva  „.  Del 
resto,  per  narrare  il  "  crudo  scempio  che  le'  Tamiri  „  e  per  ri- 
petere le  parole  della  fiera  regina,  non  aveva  bisogno  di  ricor- 
rere a  Giustino;  gli  bastava  Paolo  Orosio,  che  veramente  conobbe 
e  nel  De  Monarchia  citò  a  proposito  di  Semiramide  e  di  Vesoge 
(non  "  Vesore  „)  poco  prima  di  toccar  di  Ciro  e  di  Tamiri.  — 
—  XII,  65.  Il  Poletto  traduce:  "  Chi  fu  mai  si  eccellente  artefice 
nel  dipingere  e  nello  scolpire,  che  sapesse  rendere  con  tanta  ve- 
rità le  figure  e  i  lor  movimenti  „?  A  me  riesce,  lo  confesso,  un 
po'  stentato,  se  non  strano,  1'  uso  di  ombra  per  effigie  o  figura, 
Capirei,  sino  a  un  certo  punto,  delle  figure  di  persone;  ma  Voinhra 
di  "  Troia  in  cenere  e  in  caverne  „  non  mi  va.  Forse  riusciremo 
a  intender  meglio  se,  tornando  un  poco  indietro,  considereremo 
che  il  marmo  della  ripa  era  adorno  d'  iii/ag/i,  che  /;/  esso  era  />/- 
lag/iato  V  angelo  Gabriele,  intagliato  il  carro  e  i  buoi  dell'  Arca 
ecc.,  che  il  piano  della  cornice  aveva  figure  segnate,  simili  a  quelle 
delle  trombe  terragne;  e  se  ricorderemo  il  paragone  usato  dal 
poeta  a  significare  con  quanta  esattezza  e  bellezza  gì'  intagli  ri- 
producevano il  vero: 

si  propriamente 
come  figura  in  cera  si  suggella. 

Ciò  fatto,  leggiamo  in  Ristoro  (  VII,  x,  "  Guardando  nella  cera 
impremuta  e  nobilitata,  vedemovi  molte  e  svariate  cose  intagliate, 
le  quali  ella  ha  ricevuto  dal  suggello  „  (  Guittone  osserva:  "  In 
ferro  più  che  'n  ciera  tene  E  vale  intaglia  „).  E  più  oltre  (VII, 
in,  2):  "  Lo  suggello  nella  figura  ch'egli  ha  in  sé,  in  tale  luogo 
è  cupo  e  in  tale  luogo  è  basso;  e  nel  luogo  cupo  per  non  errare 
porta  la  cera  assai,  poca  per  empiere  lo  basso  „.  Nella  impronta, 
a' luoghi  cupi  del  suggello  corrispondono  le  parti  rilevate,  a' bassi 
le  parti  piane.  Or  se  quelle  chiamassimo  tratti  e  queste  ombre, 
non  avremmo  chiaro  e  intero  il  concetto  del  poeta?  —  XII,  93. 
"  Al  primo  gradino   d'  ogni    scala  delle  sette    cornici    sta  un  an- 


-63- 

gelo,  che  toglie  le  reliquie  degli  effetti  del  peccato  a  chi  sale 
alla  cornice  superiore  „.  Se  questo  è  vero,  come  può  esser  vera 
l'asserzione  della  p.  301:  "  Dove /«  capo  la  scala  per  ascendere 

al  cerchio  superiore l'angelo  leva  dalla  fronte  del  Poeta  uno 

dei  P,  a  significare  che  quel  dato  peccato  è  ornai  spento  e  per- 
donato „?  A  Ogni  modo,  chi  non  avesse  mai  letto  il  Purgatorio 
potrebbe  credere  che  tutti  e  sette  i  P  sieno  cancellati  1'  un  dopo 
r  altro,  da  altrettanti  angeli,  cosa  non  vera  per  1'  ultimo  P. 

XIII,  2.  Tra  risega  e  rilega  quale  lezione  preferisce  l'autore? 
Il  Moore  sta  per  risega,  termine  tecnico.  Chi  vuole  rilega  non 
bada  che  1'  idea  si  ripeterebbe  al  verso  4.  —  XIII,  32.  11  Poletto, 
seguendo  1'  esempio  di  altri  pone  qui  alcune  righe  del  De  Amicitia 
di  Cicerone;  ma  il  grido:  "  Io  sono  Oreste  „  -  se  le  voci  de- 
gli angeli  sono  "  altrettanti  testi  citati  a  ricordare  alle  anime 
esempi  contrari  all'  invidia  „  -  richiama  invece  un  luogo  del  De 
Fiiiibits  {\,  22)  :  "  Qui  clamores  vulgi  atque  imperitorum  exci- 
tantur  in  theatris,  cum  illa  dicuntur: 

Ego  sum  Orestcs, 

contraque  ab  altero: 

Immo  enimvero  ego  sum,  inquam,  Orestes  ! 

Cum  autem  etiam  exitus  ab  utroque  datur  conturbato  errantique 
regi:  -  Ambo  ergo  una  necarier  precamur,  -  quotiens  hoc  agitur, 
ecquandone  nisi  admirationibus  maximis  „  ?  —  XIII,  61  scgg.  Cfr. 
Le  Breviari  d'Amor,  13551-64: 

ditz  US  prezicaires: 
"  Sapchatz  que  truans  et  laynes 
m'  an  essenhat  de  Dieu  preguar  * 

quar  truans  quan  voi  demandar 
almorna,  per  so  qu' om  li  do 
plus  voluntiers  ses  dir  de  no, 
demostra  may  aquel  logual 
de  son  cors  on  a  mais  de  mal, 
e  si  a  re  sa  sobra  se 
non  cura  que  jan  mostre  re 


-  64- 

perso   qu'  oin   n"  aia  pietat 
quan  lo  veiia  fort  desayzat, 
e  li  n'  aia  mais  de  merce 
e  mais  de  grat  li  fassa  be.   „ 

Il  Polctto  prende  dal  Casini  la  cUlìnizione  ó\  prrdoìio :  "  Perdono 
e  prrdonanca  dissero  gli  antichi  quelle  feste  religiose,  alle  quali 
accorrevano  molte  genti  „  ecc.  Dissero  gli  antichi  del  Dugento, 
dissero  i  meno  antichi  del  Cinquecento  e  del  Seicento  -  testimoni 
il  Tansillo  e  il  Basile  -,  dicono  ancora  i  nostri  contemporanei. 
Ricordo  aver  sentito  cantare  una  canzone  popolare,  nella  quale 
una  giovinetta  pregava  la  mamma  di  condurla  a/ perdono  il  giorno 
di  S.  Giovanni.  —  XIII,  70-71.  "  A  tutte  quelle  anime  gli  occhi 
son  chiusi  con  una  cucitura  di  fìk)  di  ferro,  come  suol  farsi  agli 
sparvieri  selvaggi  per  poterli  addomesticare  „.  Non  diversamente 
lo  Scartazzini  e  il  Casini.  Ma  suo/  farsi  che?  Forare  e  cucire;  la 
similitudine  non  si  estende  al  fil  di  ferro;  agli  sparvieri  gli  occhi 
si  chiudevano  con  fil  di  refe,  non  di  ferro.  Mi  maraviglierei  che 
lo  Scartazzini  non  avesse  fatto  questa  necessaria  avvertenza, 
pure  avendo  citato  il  libro  di  Federico  II  De  arte  vcnandi  cimi 
avilms,  se  la  citazione  non  fosse  sbagliata.  (Cfr.  II,  xxxvii,  dove 
è  minuziosamente  descritta  l'operazione  della  cigliatura).  A  di- 
chiarazione del  secondo  verso,  trascriverò  un  passo  del  De  Arte 
(II,  XLv):  "  Falcone  posito  in  malleolo  cum  captus  fit  agrestis 
(ecco  il  selvaggio  di  Dante),  protinus  ciliandus  est,  nam  si  non 
ciliaretur,  statim  fieret  agrestior  ad  visum  faciei  humanse,  et  cae- 
terorum  quae  videre  non  consuevit,  et  tderetiir  magno  conamine 
ad  evadendnm,  ex  quo  conamine  distraheret  et  disrumperet  pennas 
suas  et  sua  membra  (ecco  il  queto  non  dimora)  „.  Il  Poletto,  lo 
Scartazzini  e  gli  altri,  che  tengono  sparvier  grifagno  come  equi- 
valente a  selvaggio,  •  senza  ricorrere  a  Dodo  di  Pradas  -  avreb- 
bero potuto  leggere  nel  Tesoro  di  ser  Brunetto:  "  E  sappiate  che 
tutti  gli  uccelli  feditori  sono  di  tre  maniere,  cioè  nidiaci,  ramaci 
e  grifagni.  Il  nidiace  è  quello,  che  V  uomo  cava  di  nido,  e  nutri- 
calo e  piglia  per  sicurtade.  Ramace  è  quello  che  già  ha  volato 
ed  ha  preso  alcuna  preda.  Grifagni  sono  quelli,  che  son  presi  al- 


-  65  - 

V  entrata  di  verno,  e  che  sono  mudati,  e  che  hanno  gli  occhi 
rossi  come  fuoco  „.  Lo  sparviero  grifagno  continuava  ad  essere 
grifagno  anche  quando  non  era  più  sr/vaggio,  quando  era  già 
divenuto  jiiaiiicro;  lo  sparviero  nidiace  e  il  ìaiìiacc  erano  anch'  essi 
selvaggi  prima  d'addomesticarsi.  Caso  mai  non  bastasse  l'esempio 
d'un  antico  rimatore  nostro  {Cane.  Palat.,  418,  16): 

Ben  ho  veduto  giocindo  da  forc 

li  selvaggi  sparveri 

prendere  e  far  maneri  diventare, 

valga  l'autorità    di    G.    di    Borneil    {No  pitesc)    a    togliere   ogni 

dubbio: 

L'autr'ier  sompniey  en  pascer 
un  somnhe,  que  'm  fctz  esbaudir, 
d'  un  esparvier  raniatge, 

que  s'  era  sus  mon  pong  pauzatz 
e  si  'm  semblav'  adoniesgatz. 
Ano  non  vi  tan  salvatge  ! 

Mas  pueys  fon  tiiainiers  e  privatz, 
e  de  bons  getz  apreisonatz. 

XIII,  123.  Cfr.  Pietro  \'idal  {Be/s  aniics): 

aissi  m'  es  gaugz  e  deleitz  e  sabors, 
cum  an  l'auzel,  quan  s' alegron  pels  nius 
del  cortes  temps,  que  vezon  aparer. 

XIV,  143.  Da  Canio,  che  non  significò  so\o  freno,  sembra  nato 
il  verbo  iìicaniare.  Chiaro  Davanzati  {Ani.  Rime  volg.,  Ili,  ccxxix): 
■"  Cosi  forte  (amor)  m' incama  D'  albore  sanza  rama  „.  —  X\',  15. 
Clic,  o  eh' è?  —  XV,  61-63.  Si  paragonino  con  un  pensiero  di 
Federico  II:  "  Scientiarum  generosa  possessio  in  plures  dispers^i 
non  deperit  et  distributa  per  partes  minorationis  detrimenta  non 
sentit  „.  —  X\',  133-135.  L'autore  difende  la  spiegazione  comune, 
la  quale  costringe  un  verso  e  mezzo  (  /'  occhio  che  non  vede 
Quando  disanimato  il  corpo  giace)  ad  essere  semplice  perifrasi  di 
occhio  corporeo.  Proporrei  di  spiegare:  Non  dimandai:  cìie  hai? 
come  fa  chi,  guardando  solo    con    1'  occliio,  non  vede,  non  s'  ac- 

TORRACA.  5 


—  66  — 

corgc  di  avere  innanzi  un  cadavere;  ossia,  congiungerei,  il  clic 
del  secondo  verso  col  chi,  da  cui  è  preceduto.  Come  si  può  dire 
occhio  che  non  vede,  V  occhio  del  corpo,  che  pure  guarda,  se  non 
è  occhio  di  cieco?  Guardare  pur  con  l'  occhio  vale,  a  parer  mio,. 
guardare  disattento  o  distratto:  si  può  guardare  e  non  vedere, 
come  Dante  stesso  nota  altrove.  —  X\'I,  27.  "  Calcndc  chiama- 
vano i  Latini  il  primo  di  ciasun  mese  „.  Chi  non  lo  sa,  de' gio- 
vani studiosi  del  divino  poema?  Era  da  notare  la  desinenza  della 
parola,  disusata  per  noi,  frequentissima  nel  Duecento.  Ristoro 
d'Arezzo  (\'III,  xxii):  "  Si  vanno  mutando  e  variando  tutti  li 
cominciamenti  e  le  fini,  e  le  solennità,  e  li  calendi  e  li  termini 
dell'  anno....  Poniamo  che  la  solennità,  o  '1  termine,  o  lo  'ncomin- 
ciamento  o  '1  calendi  s'incominci  ecc.  „  — ^  XVII,  19,  "  Empiezza, 
empietà  „.  Ma  Cecco  Angiolieri,  che  cinicamente  ostentava  X  em- 
pietà sua  verso  suo  padre,  a  proposito  del  padre  usci  a  dire: 

Vedete  ben  s' i  debbi  aver  empiezza: 
vedendolo  1"  altr'  ier  mastro  Taddeo, 
disse  :  e"  non  morrà  che  di  vecchiezza. 

Un'  altra  volta,  narrò  di  sua  madre  : 

ed  i'  vidi  mia  madre  a  me  venire 
empiosamente  con  malvagia  cera. 

Cfr.   Canz.   Chig.,  457  : 

ed  hai  si  'nvolto  tutto  'ntorno  'ntorno 
d'  empiezza,  d' ira,  di  noia  e  d' affanno. 

XVIII,  28-30.  Chiaro  Davanzati  {Ant.  Rime  vo/g.,  IV,  cccli) 

L'  amore  ha  la  natura  de  lo  foco, 

ch'ai  primo  par  di  picciola  possanza, 
sormonta  e  sale  in  grand'  altura  il  poco. 

X\'III,  83.  Non  credo  che  il  poeta  designi  unicamente  Mantova, 
e  mi  pare  inopportuno  citare  la  perifrasi  /a  gran  villa  {sopra  Y 
bel  fiume  d' Arno,    bisognava    aggiungere)    per  Firenze.  Piti  che 


-  67  - 

villa  è  indeterminato,  come  chi  dicesse:  più  clic  qualunque  altra 
villa.  E,  davvero,  perché  si  potesse  senz'  alcun  dubbio  scorgere 
qui  un  confronto  tra  Pietole  e  Mantova,  sarebbe  necessario  met- 
tere fuor  di  dubbio  che  Pietole  sia  mai  slata  nominata  pili  di 
Mantova.  Virgilio,  per  darsi  a  conoscere  a  Sordello,  non  co- 
mincia il  suo  discorso  da  Pietole,  bensì  da  Mantova  ;  e  Beatrice 
non  chiama  Virgilio  anima  cortese  pietolana  o  pietolese,  bensi 
mantovana. 

XIX,  19-24.  Né  il  Poletto,  né  altri  recenti  commentatori  hanno 
osservato  che  il  canto  della  sirena,  nel  sogno  di  Dante,  è  come 
r  ultima  e,  naturalmente,  più  perfetta  elaborazione  di  un  motivo 
frequente  ne'  versi  de'  rimatori,  che  lo  precedettero  di  non  molti 
anni,  o  furono  contemporanei  alla  sua  giovinezza.  Guglielmo  Be- 
roardi  (ma  la  canz.  é  attribuita  anche  a  P.  della  Vigna  e  al 
Notar  Giacomo),  aveva  scritto  [Ani.  Riiuc  volg.,  II,  clxxix): 

Son  rotto  come  nave, 

che  pere  per  lo  canto 

che  tanno  tanto  dolzc  le  serene  : 

lo  marinai'  s'  obria, 

perde,  e  va  per  tal  via 

che  perir  lo  convene; 

e  Maestro  Rinuccino  (ivi,  I\',  dui): 

Si  come  il  marinaro  la  serena, 
ca  lo  disvia  co  lo  dolze  canto 
e  poi  li  dà  tempesta  per  inganno. 

Quei  rimatori,  forse  (cfr.  Canz.  Palai.,  418,  42),  piuttosto  che  i 
Bestiari  o  il  Fiore  di  Virtù,  preferi  di  seguire  Dante;  o  a  quelli 
piuttosto  che  a  questi  fu  ricondotto  dalla  sua  memoria,  giacché 
non  rappresentò  i  marinai  prima  addormentati  "  in  sul  legno  „, 
e  poi  uccisi. 

Veramente,  dice  il  Poletto,  ripetendo  un'  osservazione  tradi- 
zionale, chi  fece  deviare  Ulisse  dal  suo  cammino,  fu  Circe,  "  ma 
Circe  non  era  Sirena,....  onde  bisogna  dire  eh'  egli,  non  cono- 
scendo r  Odissea,  facesse    di    Circe    una    Sirena  „.  Ma  se  Dante 


—  68  — 

non  conosceva  1'  Ocfissra,  sapeva  /////a  (/iiaìila  V  Riicidc ;  sapeva 
bene,  per  conseguenza,  che  gli  scogli  delle  sirene  (  V,  864)  erano 
abbastanza  lontani  da  Gaeta  (VII,  i-io),  dove,  "  prima  che  si 
Enea  la  nominasse  „,  Circe  aveva  per  piti  di  un  anno  trattenuto 
Ulisse!  Lo  sapeva  cosi  bene,  che  credette  Ulisse,  come  Enea, 
passato  da  quegli  scogli  al  mare  presso  Gaeta;  infatti,  imaginò 
che,  partito  da  Circe,  X  eroe  avesse  intrapreso  verso  occidente, 
non  verso  mezzogiorno,  l' ultimo  suo  viaggio.  Non  conosceva 
r  Odissea;  ma  aveva  letto  nel  De  Finibus  Bonorum  et  Malorum, 
che  ricordò  nel  Convito,  questi  versi  di  Omero  tradotti  in  latino 
da  Cicerone  (  \'.   18  ): 

O  decus  Argolicum,  quin  puppim  flectis,  Ulixes, 

auribus  ut  nostros  possis  agnoscere  cantus! 

Nani  iiemo  liaec  umquam  est  transvectus  caerula  cursu, 

quin  prius  adstiteiit  vocum  dulcedine  captus, 

post  variis  avido  satiatus  pectore  musis 

doctior  ad  patrias  lapsus  pervencrit  oras,  ecc. 

Dante  potè  credere  che  Ulisse,  avido  di  sapere,  avesse  ceduto 
all'invito;  tanto  più  che  a  questa  credenza  lo  tiravàin  certo 
modo  Cicerone  stesso  con  l'osservazione  seguente:  "  Vidit  Ho- 
merus probari  fabulam  non  posse,  si  cantiunculis  tantus  vir  irre- 
titus  teneretur;  scientiam  pollicentur,  quam  non  erat  mirum  sa- 
pientiae  cupido  patria  esse  cariorem  „. 

XIX,  26-28.  La  donna  santa  e  presta,  la  quale  appare  in  sogno 
al  poeta  prima  ancora  che  la  Sirena  abbia  richiusa  sua  bocca,  è 
Beatrice:  cosi,  secondo  il  nostro  autore,  "  riesce  più  vitale  l'or- 
ganismo del  Poema  „.  Oh,  dunque,  nel  poema  la  vita  la  spiriamo  o 
inoculiamo  noi,  quando  e  dove  ci  piace?  E  se  si  provasse  che  quella 
donna  non  è  Beatrice,  1'  organesimo  del  poema  in  che  e  perché 
ne  scapiterebbe?  Io  non  credo  sia  Beatrice,  perché  anche  so- 
gnando, di  lei,  dopo  decenne  sete,  dopo  aver  percorso  l'Inferno 
e  r  Antipurgatorio  e  tre  gironi  del  Purgatorio  per  ritrovarla,  di 
lei  r  innamorato  e  pentito  e  bramoso  poeta  non  chiederebbe  : 
—  Chi  è  questa?  Anche  in  sogno  la  riconoscerebbe.  Per  me,  la 
Sirena,  non  è,  né  in  senso    largo,    né    in   senso    stretto,  la  cupi- 


-  69  - 

digin,  la  quale  è  già  bene  rappresentata  cialla  Lupa  ;  io  non  vedo 
perché,  essendo  piaciuto  al  Poeta  prendere  il  simbolo  dalla  dot- 
trina comune  e  dalle  opinioni  correnti  al  suo  tempo,  non  si  debba 
in  quelle  cercare  la  spiegazione  di  esso.  "  Puossi  appropriare  il 
vizio  della  lusinga  alla  Sirena....  Lusinga  è  contrario  vizio  della 
Correzione  „  con  ciò,  che  precede  e  segue  nel  fortunato  libretto 
di  Tommaso  Gozzadini.  S' intende  la  Lusinga  de'  beni  e  de'  pia- 
ceri mondani,  ingannevoli  e  fallaci  come  il  canto  della  Sirena, 
onde  accade  di  dover  lamentare,  con  maestro  Rmuccmo: 

Così  la  gioia  m'  è  cangiata  in  pena, 
e  riso,  lasso!  m' è  tornato  in  pianto! 
per  mia  follia  ho  raddoppiato  il  danno. 

Inteso  a  questo  modo,  il  sogno  si  adatta  convenientemente,  come 
deve,  a  ciò,  che  Dante  vedrà  nelle  ultime  tre  cornici  del  Purga- 
torio, dove  si  piange  il  troppo  amore  al  bene  "  che  non  fa  1'  uom 
felice  „. 

XIX,  103  segg.  Adriano  V,  secondo  gli  Ami.  /anitcìis.,  in 
papa  trentacinque  giorni,  non  trentotto.  Le  parole,  che  Dante  gli 
fa  pronunziare,  sono  dal  commentatore  parafrasate  cosi:  "  Provai 
quanto  pesa  il  manto  papale  a  chi  lo  guarda,  Io  ambisce  con 
occhio  di  cupidigie  mondane,  a  chi  lo  desidera  con  intenti  pro- 
fani.... E  infatti,  come  si  possono  spiegare  altrimenti  i  versi  107- 
iio?  Quanti  sforzi  avrà  mai  potuto  fare  in  trentotto  giorni  di 
papato  per  serbare  immune  dal  fango  umano  la  dignità  ponti- 
ficia? „  È  permesso  obbiettare  che  il  manto,  a  chi  lo  ambisce 
da  lontano,  sia  pure  dal  fango,  non  può  pesare)  che,  in  genere, 
una  cosa  ambita,  non  può  far  sentire  il  suo  peso  se  non  quando 
è  stata  già  ottenuta.  "  E  dice  santo  Gregorio  una  ricca  parola; 
dice  che  'I  bene  del  mondo,  anzi  eh'  egli  s'abbia  si  si  ama  molto, 
ma  poi  che  l'hai  non  l'ami  cosi;  e  la  ragione  si  è,  che  prima 
speravi  e  credevi  che  in  quello  fosse  uno  grande  bene;  ma  poi 
quando  il  cerchi  e  pruovi  non  truovi  quello  che  credevi,  ma 
truovici  molto  poco  bene,  e  talora  non  niente,  ma  molto  con- 
trario.   Molto    si    disidera    il    cardinalato,    pare  un    grande  fatto; 


—  70  — 

quando  e  fatto  cardinale  amalo  vienicno,  non  ci  truova  quello 
che  credeva....  La  persona  vede  il  cardinale,  il  papa,  crede  che 
sia  una  beata  cosa  molto,  e  non  è  cosi,  anzi  è  tutto  il  contrario  ; 
e  si  vedi  che  se  poi  vengono  a  questo  istato,  si  si  dolgono,  e 
non  ci  trovano  quello  bene  che  credeano,  né  quella  pace  né 
quello  riposo,  anzi  molta  amaritudine  „.  Cosi  G.  da  Rivalto,  Lvni 
e  Lxxv.  Non  è  necessario  nella  frase  n  cìii  dal  fango  il  guarda 
vedere  unicamente  un'  allusione  personale.  —  XIX,  132.  L' autore 
accetta  e  sostiene  la  lezione  dritta;  non  comprende  "  in  che  un 
cristiano  peccherebbe  di  superbo,  se  dicesse  che  la  sua  onesta  e 
retta  coscienza  gli  suggerì  d'inginocchiarsi  innanzi  a  un  papa; 
codesta  non  è  superbia,  è  una  semplice  professione  della  propria 
fede  „.  Il  Moore  direbbe:  "  Significa  non  aver  punto  capito  il 
passo  „.  Non  v'ha  dubbio,  riesce  alquanto  contorta  la  frase: 
"  La  mia  coscienza,  essendo  io  ritto  (in  piedi),  mi  rimorse  (dallo 
stare  cosi  ritto);  ma  se  non  è  un  caso  che  alle  parole  del  poeta 
il  papa  immediatamente  risponda:  "  Drizza  le  gambe  „,  se  c'è 
relazione  tra  questo  drizza  e  l' aggettivo  del  verso  precedente  ; 
pare  più  probabile  doversi  leggere  dritto  che  non  dritta.  —  Mi 
sono  inginocchiato,  perché  ho  riflettuto  che  facevo  male  a  stare 
ritto.  —  Ma  rizzati,  perché  fai  male  a  stare  inginocchiato  ! 

XX,  J0-13.  "  Lupa  l'avarizia,  ma  Lupa  anco  la  prodigalità  „. 
Di  che  sente  fame  senza  fine  cupa  la  prodigalità?  —  XX,  82-84. 
La  chiosa  è  dell'  Ottimo,  che,  a  proposito  dell'  avarizia,  traduce 
alquanti  versi  di  Alano  de  Insulis;  sennonché,  dove  Alano  ri- 
corre alla  storia  e  alla  leggenda  classica  per  illustrare  il  concetto 
che  l'avarizia  doma  qualunque  forza,  vince  qualunque  virtù,  il 
Poletto,  per  ciascun  personaggio,  cita  i  versi  della  Commedia, 
ne' quali  di  esso  personaggio  è  menzione.  Cosi  accade,  per  esempio, 
che  Alano  sentenzii:  "  Penelope  pone  giii  la  vergogna  della  sua 
castitade  „,  e  il  commentatore  ricordi  tra  parentesi:  "  cfr.  Inf. 
XXVI,  96  „.  Apriamo  V  Inferno  al  luogo  indicato  e  leggiamo: 

né  il  debito  amore, 
lo  qual  dovea  Penelope  far  lieta  ! 


—  71  — 

"  Dove  vai?  „  "  Le  son  cipolle  „.  Di  simili  richiami,  o  rinvii, 
tutto  il  commento  è  pieno,  inutilmente  pieno,  giacche  non  giovano 
punto  a  rischiarare  le  difficoltà  del  testo,  o  a  dare  più  piano  e 
compiuto  il  concetto  dell'autore;  servono  solo,  e  male,  a  distrarre 
il  lettore.  Qui  —  come  altrove  —  non  aiuta  il  passo  di  Alano  a 
commentare  Dante;  è  costretta  la  Divina  Commedia,  Inferìio, 
Purgatorio  e  Paradiso,  a  chiosare  la  non  molto  fedele  traduzione 
d'  un  mazzetto  di  luoghi  comuni  racimolati  da  Alano.  E  la  chiosa, 
che  è  peggio,  ci  sta  come  il  cavolo  a  merenda.  Se  io  dicessi 
che  calzerebbe  meglio  una  diecina  di  esametri  d' Orazio  (  S^/.  Il, 
V,  75-83),  chi  vorrebbe  darmi  torto? 

XXI,  50.  "  Figlia  di  Taumante,  arco  baleno.  Secondo  la  mi- 
tologia, Iride  era  figlia  di  Taumante,  e  ancella  di  Giunone  „.  Cer- 
tamente; anche  non  è  men  certo  che  Dante  non  poteva  consul- 
tare né  r  Enciclopedia  popolare,  né  un  qualsiasi  Dizionario  delle 
Favole.  Lo  Scartazzini,  a  questo  punto,  accumula  citazioni  di 
Esiodo,  di  Ovidio,  di  Virgilio,  di  Stazio:  tolte  di  mezzo  la  Teo- 
gonia e  le  Selve,  che  Dante  non  conosceva,  in  tutt'  i  versi  del 
sulmonese  e  del  mantovano  si  parla  di  Iride,  non  della  paternità 
di  lei,  tranne  in  uno  {Metaìii.,  XIV,  845),  dove  è  detta  vergine 
taiDìiantea.  D'  ora  in  poi,  sarà  meglio  rimandare  1'  amico  lettore 
al  De  Natura  Deorimi  (III,  20):  "  Et  ob  eam  causam,  quia  spe- 
ciem  habeat  admirabilem,  Tliaiiììiaìite  dicitiir  Iris  esse  nata,,.  — XXI, 
56-57.  "  Noìi  so  come,  è  da  riferirsi  al  si  nasconda  „.  Non  pare.  Il 
monte  del  Purgatorio,  dice  Stazio,  trema  forse  più  giù,  o  poco,  o 
molto;  ma,  "  per  vento  ecc.  „  non  tremo  mai  quassù.  Il  non  so  come 
si  congiunge  benissimo  col  non  tremò;  né  questo  era  il  tempo,  né 
il  luogo  di  restringere  in  un  breve  inciso  una  teoria  de'  terremoti. 

XXII,  67-69.  Opportuna  la  citazione,  dal  commento  del  Casini, 
della  similitudine  di  ser  Paolo  Zoppo.  Hanno  fantasticato  che 
Dante  riprendesse  qui  un'  imagine,  piaciuta  prima  all'  autore  del 
Ritmo  Cassinese,  a  P.  Raimon  di  Tolosa,  a  fra  Guittone  e,  ag- 
giungerò, all'autore  del  Joufrois  (3350-51): 

Ausi  con  li  cirges,  qui  s'  art 
por  autrui  alumer  devant, 


e  a  mcsser  Iacopo  Mostacci: 

cosi  come  canilela,  che  rischiare 
prendendo  foco,  dà  ad  altra  vedere. 

Nella  similitudine  dantesca  la  candela  non  è  neppur  nominata; 
né  vi  traspare  il  concetto,  che  agli  altri  rimatori  piacque  rilevare, 
del  benefìzio  da  essa  procurato  col  danno  suo,  struggendosi. 
"  Arde  sé  e  consumasi,  e  altri  allumina  „  direbbe  frate  Gior- 
dano. A  Paolo  Zoppo  e  a  Dante  il  lume  importa  assai  meno  di 
chi  lo  porta.  Cfr.  i  versi  di  Ennio  recati  da  Cicerone  nel  De  Of- 
ficiis  (I,  XVI  ): 

Homo,  qui  erranti  comiter  inonstrat  viam, 
quasi  lumen  de  suo  luminc  acccndat,  facit, 

e  il  sonetto  di  Bonagiunta  al  Guinizelli,    Voi  eh' avete. 

XXII,  109-111.  "  Quivi;  nell'Inferno,  non  già  nel  Limbo....  il 
(juivi  del  v.  109  non  si  dovrebbe  riferire  a  ciìigliio,  sibbene  a 
earcere  cieco  del  v.  103  „.  Difficilmente  si  può  consentire.  Vir- 
gilio, per  non  meno  di  nove  versi,  parla  del  Limbo  :  siamo  nel 
primo  cinghio,  ragioniamo,  Euripide  v'  è  nosco.  Possibile  che,  al 
decimo  verso,  col  quivi,  passi  a  discorrere  dell'  Inferno  in  genere? 

XXIII,  4.  "  Figliuole....  non  per  necessità  di  rima,  come  è  il 
solito  ritornello  di  molti,  ma  perché  gli  antichi  cosi  alcune  volte 
usavano  anche  in  prosa,  come  notò  il  Cesari  „.  Proprio  cosi,  e 
meglio  dell'opinione  del  Cesari  varrebbe  qualche  esempio  (ne 
ho  pronto  uno  di  Albertano,  IV,  xxxiv:  "  Filliuole,  non  siano  li 
atti  o  li  fatti  tuoi  in  molte  cose  „  ).  Sennonché  la  stessa  osser- 
vazione doveva  essere  ripetuta  molte  altre  volte.  —  XXIII,  58. 
Il  sfoglia:  "  risentita  metafora,  dice  il  Cesari,  cioè  vi  nuda  di 
carne  e  lasciavi  come  stecchi  riarsi  „.  Risentila,  non  nego;  ma 
non  nuova.  Guittone,  Amor  non  ò: 

che  se  '1  mal  me  ne  sfoglia; 

Chiaro  Davanzati,  ///  voi: 

Ma  quanto  vivo  sanza  cor  più  doglio, 

e  sfoglio  —  d'  orgoglio 

la  mia  persona,  che  cor  no  la  mena; 


—  73  — 
un  anonimo: 

Si  son  montato  in  doglia, 

che  mi  conven  far  voglia  —  di  mostrare 

lo  mal  eh'  en  gioi  mi  sfoglia 

e  tutto  mi  rinvoglia  —  di  penare. 

{Ali/.  Rime  volg.,  Ili,  ccx  e  cccxvii).  —  XXIII,  72  e  86.  Cfr.  A. 
de  Marcili,  Aissi  cimi  ccl  qiie  aiic,  secondo  la  lezione  del  Canz.  A. 

l'ero  plazens  e  dolz  e  ses  martire 

mi  sembla  '1  mal  per  lo  ben  q' ieu  n'aten. 

Il  concetto  si  trova  innumerevoli  volte  nelle  rime  de' provenzali 
e  de' loro  imitatori  italiani.  —  XXIII,  112.  "  Forese  non  chiede 
già  a  Dante  diiHiiii  chi  tu  sei,  come  spiega  il  Casini,  eh'  ei  troppo 
ben  lo  conosceva;  ma  si  gli  chiede  come  sia  che  essendo  ancor 
vivo  abbia  potuto  far  un  tal  viaggio  „.  Infatti,  Forese,  dopo  aver 
guardato  fiso  il  poeta,  esclama:  "  Qual  grazia  mi  è  questa?  „ 
segno  che  1'  ha  riconosciuto,  e  non  gli  chiede  chi  sia,  ma  qual 
sorte  gli  sia  toccata  ("  Dimmi  il  ver  di  te  „).  Se  Forese  non 
r  avesse  riconosciuto,  Dante  non  avrebbe  potuto,  rispondendo 
alla  preghiera  di  lui:  "  Fa  che  più  non  mi  ti  celi  „,  alludere  alla 
loro  amicizia  e  familiarità  senza  neppur  dire  il  suo  nome. 

XXIV,  39.  Fiore  di  Virtù,  xiv:  "  Ermes  dice:  Il  cane  ama 
l'osso  infino  che  v'  ha  su  da  piluccare  „.  —  XXIV,  43.  Cfr.  G.  de 
Cabestanh,  Li  douz: 

Q'  una  no  porta  benda 
q'  en  prezes  per  esmenda 
jaser  etc. 

Che  cosa  era  la  benda,  che  Gentucca,  nel  1300,  non  portava  an- 
cora? II  Poletto  rimanda  al  commento  del  v.  74  del  canto  VIII 
del  Purgatorio,  dove  si  legge  che  '*  bende  non  sono  che  i  veli 
del  capo  „.  Ma  la  benda  di  Gentucca  non  era  un  velo,  come  non 
era  velo  la  benda  di  Flamenca,  di  cui  tanto  poco  era  contento 
l'innamorato  Guglielmo  [Roiit.  d.  Flain.,  4007  segg.): 

Li  benda  sai  que  m' a  trait 
quel  tene  las  aurellas  serradas. 


—  74  — 

bendas  mal  fosscs  liane  obradas! 
penduts  fos  qui  bendas  fes  primas, 
quar  hom  non  las  poc  far  tan  primas, 
la  vista  d'  ome  non  afTolIon  ! 
Et  ad  home  1'  ausir  non  tollon  ! 

Era,  spiega  il  Meyer,  "  un  bandeau  couvrant  les  oreilles  et  le 
bas  du  visage.  On  lit  en  efFet  dans  la  vie  de  Guillem  de  Balaun 
qu'  une  dame  „  baisset  sa  benda  per  lui  bayzar  „,  mouvenient 
impossible  avec  un  voile  „  ecc.  Il  biografo  tolse  questo  partico- 
lare da  una  poesia  di  Guglielmo  (Mon  vrrs): 

quan  baisset  vas  me  sa  benda 

e  'm  quis  francamen  esmenda  ecc. 

Cfr.  Uc   di  S.  Cir  (Servii): 

bianca  vermeilla  ses  menda 
es  la  cara  sotz  la  benda. 

Descrivendo  i  costumi  degl'  Italiani  al  tempo  di  Federico  II,  Fran- 
cesco Pipino  notava:  "  Ornatus  capitis  non  pretiosus  erat  virgi- 
nibus.  Matronac  vittis  latis  tempora  et  gcnas  ami  mento  vitlabant  „. 
—  XXIV,  6i.  L'autore  sta  per  la  lezione  gradire.  Il  Moore  os- 
serva {  Coiitriò.,  415),  e  l'osservazione  mi  pare  degnissima  di 
considerazione:  "  C'è  dell'ironia  appropriata  e  naturalmente 
dantesca  nell'  antitesi  tra  guardare  qui  e  vede  del  verso  se- 
guente „. 

XXV'I,  42.  Il  Poletto  vorrebbe,  col  Perez,  trovare  un  senso 
allegorico  nell'allusione  de' lussuriosi  a  Pasifae  ed  al  torello:  "  a 
non  trovare  troppo  strana  1'  allegoria,  basta  por  mente  al  signifi- 
cato della  parola  iauriis  nella  prima  strofa  dell'  ode  d' Orazio,  e 
al  veleno  con  cui  Enone  esclama  in  Ovidio:  Graia  juvenca  venit. 
E  pur  troppo,  in  tale  senso,  il  comune  e  vivo  linguaggio  tiene 
ambedue  i  nomi  di  toro  e  di  vacca  „.  In  tale  senso?  Il  nome  di 
/o)'o  non  mi  pare  si  dia  a  chi  soddisfa  la  donna  "  imbrutita  in 
suo  appetito  „,  bensì  all'  infelice  compagno  della  donna.  —  XXVI, 
98.  È  accettata  e  difesa  con  una  certa    vivacità  l' interpretazione 


~  /:>  ~ 
del  Costa:  "  Degli  altri  migliori  poeti,  ;///>/,  cioè  a  me  cari  „. 
Secondo  il  Poletto,  "  non  si  potrà  mai  dire  Tizio  è  viio  miglior, 
per  dire  che  Tizio  e  migliore  di  me  „.  Non  è  questipne  di  quello, 
che  si  potrà;  ma  di  quello,  che  a  Dante  piacque  dire.  Un  con- 
temporaneo di  Dante,  ne'  Docitiiicnli  d'  Amore,  ci  lasciò  questo 
avvertimento  sotto  Discrezione,  li,  20: 

Pensa  se  tu  eccedi 
li  tuoi  maggiori, 

e  sotto  Docilità  quest'altro  (\'1II,  5): 

In  casa  tua  rimani 

a  rietro,  se  son  tuo'  maggior,  o  pari  ; 

e  se  minor,  non  pari 

altro  che  saggio,  se  tu  simii  fai. 

L'interpretazione  del  Costa  lascia  ììiiglior   senza  il  complemento 
necessario:  poeti  migliori  di  chi? 

XXVII,  45.  Manca  al  vocabolo  poììie  l'avvertenza:  "  Non  per 
necessità  di  rima;  ma  perché  gli  antichi  cosi  alcune  volte  usa- 
rono „.  E  non  solo  fuor  di  runa,  ne' versi;  anche  in  prosa.  — 
XX\'II,  49.  "  Bogliente,  bollente  „.  Manca  la  stessa  avvertenza. 
Frate  Giordano,  xlvu:  "  E  come  il  mare  bogliente,  nel  quale 
non  è  requie  „.  —  XXVII,  80-84.  Cfr.  V  Intelligenzia,  st.  83: 
"  Come  pastor  vegliante  sovra  '1  gregge  „.  —  XX VII,  94  e  95. 
L'  autore  non  si  risolve  ad  accettare  una  delle  due  opinioni, 
che  riferisce;  quella  de' più:  "  Nell'ora  che  Venere  mandava  i 
suoi  primi  raggi  sul  Monte  „,  e  quella  dell'  Ottimo,  il  quale  "  in- 
tende quel  prima  nel  senso  di  prima  volta,  nella  costituzione  del 
mondo  „.  Si  badi  che  nel  giorno  della  creazione,  della  costitu- 
zione del  mondo,  \^enere  sorse  con  la  Bilancia  (Macrobio,  /// 
Somn.  Scip.,  I,  xxi),  non  già  con  i  Pesci,  con  i  quali,  invece, 
nasceva,  secondo  il  Bianchi,  quando  il  poeta,  presso  al  Paradiso 
terrestre,  vide  in  sogno  Lia.  —  XXVII,  105.  "  Miraglio,  spec- 
chio, da  mirare  „.  Benissimo;  ma  venne  ai  nostri  antichissimi 
rimatori  dal  provenzale.  Perché  B.  di  Ventadorn  aveva   cantato  : 

eia  'm  fetz  a  mos  huels  vezer 

en  un  miralh  qua  molt  mi  piai. 


-  76- 

Mirallis!  pois  me  mirei  en  te, 
in'an  mori  li  sospir  de  preon; 

P)ondie  Dietaiuti,  alla  sua  volta,  cantò: 

Ohimè,  chiaro  miragho  ed  amoroso, 

si  per  lo  primo  sguardo 

v'  imaginaì,  ond'  ardo, 

né  del  mio  cor  non  fui  mai  poderoso. 

Bisognava  notare  tutto  giortio.  Fatti  di  Cesare,  III,  v,  vi:  "  Sarà 
tutto  giorno  Pompeo  signore  di  Roma?....  Lelio  tutto  giorno  an- 
dava davanti  al  primiero  fronte  della  battaglia  „. 

XXVIII,  50-51.  Anche  il  Poletto  per  la  primavera,  che  Pro- 
serpina  perdette  quando  fu  rapita,  intende  i  fiori,  che  la  divina 
giovinetta  aveva  raccolti  nel  grembo  della  veste,  collecti  Jlores. 
Se  questa  è  la  spiegazione  migliore,  perché  poi  giudicare  "  op- 
portunamente „  citati  dal  Tommaseo  il  ver  purpureum  di  Virgilio 
e  il  me  ti' andava  per  la  miova primavera  cantando  del  Boccaccio? 
Temo  che  i  collecti  Jlores  di  Ovidio  abbiano,  con  la  solita  pre- 
potenza degli  ultimi  venuti,  fatto  dimenticare  i  fiori  non  colti. 
I  commentatori,  a  sostegno  dell'  opinione  loro,  citano  dal  Para- 
diso (xxx,  63): 

due  rive 
dipinte  di  mirabil  primavera; 

e  non  riflettono  che  in  questo  verso  mirabile  non  si  tratta  punto 
di  fiori  colti.  —  XXVIII,  121.  Cfr.  Bondie  Dietaiuti,  Quando  l'  aire: 

e  r  agua  surge  chiara  de  la  vena. 

Patti  di  Cesare,  III,  vi:  "  Ha  intorno  quattordici  fiumi  di  dolci 
acque,  e  queste  nascono  di  fontane  e  di  vene  d'  alpi  „. 

XXIX,  147.  Brolo,  che  significava  precisamente?  "  Al  modo 
lombardo  orto  ov'  è  verdura  „  come  "  fin  dal  suo  tempo  notò  il 
Buti?  „  O  giardino,  secondo  spiegò  il  Muratori?  Ovvero  siepe, 
che  piacque  al  Giuliani?  Pare,  senz'esser  ben  chiaro,  che  il  com- 
mentatore  pieghi    ad    accettare    quest'  ultimo    significato.    Ma,   in 


—  Il  — 

lingua  d'  oc  e  in  lingua  d'w'/Ia  parola  non  significò,  o  non  sempre 
significò  siepe,  né  giardino,  né  orto;  piuttosto  foresta,  bosco,  bo- 
schetto. Non  è  possibile  imaginare  una  siepe,  e  tanto  meno  un 
orto  o  un  giardino  di  frassini;  pure,  pel  hnilli  frcsni  vediamo 
passare  i  cavalieri  a  squadre  nel  Girart  de  Rossi/fio.  Di  boschetti 
ramosi,  piiì  esattamente  che  non  di  orti  o  giardini,  cantava  A. 
Daniel: 

l.'aur' amara  fais  broills  brancutz 
clarzir  quel  dous"  espeiss'  ab  Ébills, 

versi,  che  Dante  riferi  nel  De  Vii/gari  Eloqiicntia.  Guglielmo  de 
la  Tor  si  paragonò  alle  donne,  c'Alixandrc  irohct  ci  broill,  le  quali 
erano  cosi  fatte 

que  non  podion  ses  morir 
outra  1'  ombra  del  bruoill  anar. 

Giova  porre  qui  un  passo  dell'  antica  "  ballatina  „  : 

E  ili  mi  boschetto  —   se  mise  ad  andare 
Senti  r  oseleto   —   si  dolce  cantare. 
Oi  bel  lusignolo,   —   torna  nel  mio  brolo: 
Oi  bel  lusignolo,   —   torna  )iel  mìo  brolo. 

XXX,  94-99.  A  questi  versi  manca  una  chiosa,  direi,  psicologica. 
Perché  Dante,  il  quale  i  fieri  rimproveri  di  Beatrice  ascolta  s€n::a 
Iag7-ii)ie  e  sospiri,  quando  intende  che  gli  angeli  lo  compatiscono 
scoppia  in  pianto?  Io  ho  più  volte  pensato  che  quest'episodio, 
questi  versi,  aiutino  mirabilmente  a  spiegare  perché,  nel  cerchio 
secondo  dell'Inferno,  Paolo  pianga.  —  XXX,  115.  Vita  miova, 
qui,  come  nel  titolo  del  celebre  libretto,  non  significa  "  vita  gio- 
vanile o  dell'  adolescenza,  sibbene  la  rigenerazione  in  Dante  ope- 
rata per  l'amore  di  Beatrice  „.  Sarà;  ma  rigenerazione  da  che? 
Quale  rigenerazione  se,  nella  sua  vita  nuova.  Dante  era  virtual- 
mente tale  che 

ogni  abito  destro 
fatto  averebbe  in  lui  mirabil  prova? 


-  78- 

La  rigenerazione,  a  ogni  modo,  sarebbe  stata  d'  assai  breve  du- 
rata ("  alcun  tempo  „  ).  —  XXX,  133.  G.  da  Rivalto,  x:  "  Se 
l'uomo  è  al  mondo,  e  Iddio  lo  spira  ch'egli  esca  del  mondo 
e  venga  a  religione,  questo  ispirare  è  il  duca  Iddio,  che  ti  vuole 
trarre  dalla  ischiera  ove  tu  se'  e  metterti  a  migliore;  ma  se  tue 
non  se' ispirato  ecc.  „.  —  XXX,  136-138.  E  approvata  l'opinione 
che,  per  i  trascorsi  di  Dante,  fiere  cose  gli  scrisse  Guido  Caval- 
canti nel  sonetto  /'  vegno.  Io  sostenni  che  il  sonetto  fu  tenuto 
documento  de'  trascorsi  di  Dante,  solo  perché  non  s'  era  ricordato 
in  qual  senso  i  contemporanei  suoi,  ed  egli  stesso,  usavano  le  pa- 
role vile,  vibncìite,  virtù. 

XXXI,  66.  Cfr.  Antiche  Rime  volgari  V,  cmlii: 

dicovi  eh'  io  ne  son  forte  pentuta, 
e  parmi  dimorare  in  vita  sana, 
essendomi  si  ben  riconosciuta. 

XXXI,  116.  "  Per  sola  curiosità  si  legga  a  questo  punto  quante 
virtuose  diavolerie  allo  smeraldo  attribuisca  l' Ottimo  „,  Prima 
gli  furono  attribuite  dai  Lapidari:  X  Ottimo,  se  non  erro,  tradu- 
ceva da  Alberto  Magno,  De  Mineralibiis,  II,  xvii.  —  XXXI,  132. 
Delle  varie  spiegazioni  date  a  caribo  il  Poletto  non  dice  quale 
gli  sembri  migliore.  Nota  che  il  Buti  legge  gariho;  non  aggiunge 
che  i  provenzali  dicevano  garips.  Il  passo  è  stato  recentemente 
discusso  dal  Flamini,  il  quale  spiega:  "  Danzando  alla  loro  an- 
gelica armonia,  alla  loro  angelica  nota  „.  Io  intendevo  per  caribo 
aria  o  motivo  di  danza.  Il  Biadene  [Var.  Lett.  e  Ling.)  ha  tro- 
vato questa  definizione  di  F.  da  Barberino  :  "  consonium  antiquitus 
dicebatur  omnis  inventio  verborum  que  super  aliquo  caribo,  nota, 
stampita,  vel  similibus  componebantur,  precompositis  sonis:  hodie 
verba  talia  nomen  soni  vel  sonum  fabricantis  secuntur  „.  Anche 
ha  trovato  nell'  Ameto,  "  caribo  „  in  rima  con  tribo,  proprio 
come  nella  terzina  del  Purgatorio.  Il  Marchesini  {S(.  di  FU  Rom.  4) 
si  lasciò  sfuggire:  "  Notisi  che  Dante  usò /« /r/Z'o,  ma  la  proposta 
dantesca  non  piacque,  e  la  forma  non  attecchì  „.  Ma  Dante  una 
volta  sola  usò  la  parola,  e  al  maschile:  "  del  pili  alto  tribo  „.  In 


—  79  — 

provenzale  trips  divenne  qualche  volta  femminile:  tribo  femminile 
aì  legge  nella  parafrasi  lombarda  del  Nciiitiuiìi  Laedi  {Arc/i. 
Gioii.  li.,  VII,  31):  "  e  in  tute  quelle  tribo  no  gli  era  un  in- 
fermo „. 

XXXII,  5.  Avcaii  parete  dì  non  caler.  Il  Poletto  spiega:  "  Di 
non  darsi  pensiero  di  mirar  altra  cosa  „,  lasciando  nel  lettore  il 
dubbio  se  egli  abbia  o  no  posto  mente  al  valore  grammaticale 
della  locuzione.  Di  non  caler  sostantivo  ecco  due  esempi  proven- 
zali, tutt' e  due  di  Folclietto  da  Marsiglia  {  C/ianian  volgra,  4; 
Uns  volers,  5):  "  Ai  gran  doptanza  Que  mi  vos  fai  oblidar  non 
calers  —  Pero  laissatz  non  calers  „.  Non  caler  è  nel  sonetto  di 
Dante  a  Lippo. 

XXXIII,  40-45.  Il  Messo  di  Dio  e  il  veltro  sono  lo  stesso 
personaggio  e  simboleggiano  un  Imperatore.  Riassumo  e  non  di- 
scuto per  non  andare  troppo  lontano.  Osservo,  per  finire,  che 
fuia  era  del  linguaggio  vivo,  come  si  può  vedere  nell'  importante 
saggio  del  Bongi  { Propugnatore 'H.  S.,  III,  13-14):  "  Va  intende, 
sossa  fuia,  che  fuoco  di  Sancto  Antonio  ti  possa  venire  ne  le 
tuoi  carni  e  di  figliuolti!....  „ 


III. 


Paradiso,  I,  16  segg.  Al  pari  di  altri  suoi  predecessori,  il 
Poletto  accumula  citazioni  di  classici  inutilmente.  Che  giova  citare 
Ovidio?  Il  sulmonese  dice  solo  che  il  Parnaso  aveva  due  vertici. 
Che  giova  citare  Stazio?  Il  napoletano  —  nel  verso  522  del  V 
della  Tebaide,  non  nel  32  del  VII  —  ricorda  solo  cornila  Parnassi. 
Gioverebbe  additare  un  luogo  di  scrittore  antico,  dove  si  trovas- 
sero insieme  1' un  giogo  di  Parnasso  e  l'altro,  e  Cirra:  di  quello 
si  potrebbe  affermare  che  Dante  se  ne  fosse  ricordato;  tutto  il 
resto  è  vano  sfoggio  di  erudizione.  Nel  V  della  Farsaglia  trovo 
insieme,  in  non  grande  spazio  (70-100),  Parnassns  gemino  petit 
acthcra  colle,  nnoqiie  iiigo  Parnasse  latebas,   Cirrhaea  per  antra.  — 


—  8o  - 

I,  34.  Nt)ii  occorreva  compulsare  il  Coiivi/o  per  persuadersi  che 
i^raii  fìiìiìiiììtì  seconda  poca  favilla.  Chi  non  sa  il  motto  latino,  di 
cui  questo  verso  è  traduzione  quasi  letterale?  Di  riscontri,  se 
ve  ne  fosse  bisogno,  se  ne  potrebbero  addurre  a  dozzine.  Mazeo 
di  Rico: 

I.a  mia  favilla  in  gran  foco  e  tornata. 

Cino  da  Pistoia: 

Gran  foco  nasce  di  poca  favilla. 

I,  38.  Lucerna  "  non  doveva  essere  triviale  al  tempo  del  Poeta.  „ 
Certamente,  no  :  paragonavano  il  Sole  alla  lucerna  anche  gli  scien- 
ziati. Ristoro  (I,  xvni):  "  E  poi  troviamo  il  quarto  cielo,  nel 
quale  è  una  stella  sola  grande,  la  maggiore  che  sia,  piena  di  luce, 
la  quale  allumina  tutto  il  mondo,  ed  è  in  questo  mondo  come  la 
lucerna  nella  casa,  e  fue  chiamata  dalli  savi  Sole  „.  —  I,  48. 
Buona  l'osservazione  sul  creduto  costume  dell'aquila;  migliore 
sarebbe  stata  con  una  piccola  giunta:  rimatori  provenzali  e  ita- 
liani ne  tolsero  spesso  uno  de' termini  di  loro  similitudini.  Alcuni 
si  contentarono  d' un  breve  cenno,  altri  —  p.  e.  Ciuncio  —  vi 
spesero  intorno  parecchi  versi.  —  I,  94.  Cfr.  B.  de  Born,  Anc  no  's 
piioc  : 

que  de  tot  joi  si  desvest. 

I,  99.  Ristoro  (I\',  II):  "  E  mestieri  per  forza  di  ragione  che.... 
sieno  quattro  corpi  contrari  ed  opposti  l'uno  all'altro,  li  quali 
noi  chiamiamo  elimenti....  E  perché  la  spera  del  fuoco  fue  pili 
nobile,  e  più  sottile  e  più  lieve,  ponemola  di  sopra;  e  perché  la 
spera  dell'  aire  è  meno  sottile  e  meno  lieve  di  quella  del  fu"oco, 
ponemola  di  sotto  a  quella  del  fuoco.  „  —  I,  141.  Si  deve  leggere: 

Com' a  terra  quieto  fuoco  vivo? 

E  in  pochissimi  codici;  più  di  sessanta,  enumerati  dal  Moore, 
offrono  quiete  in,  e  il  Moore  acutamente  addita  la  relazione  tra 
in  quiete  e  in  te  del  primo    verso    della    terzina:    come  quiete  in 


—  8i  — 

fuoco  vivo  farebbe  maraviglia,  a  terra;  cosi  in  te  farebbe  niara* 
viglia  r  assiderti,  qui. 

Vedete  pur  lo  foco, 

che,  fin  che  sente  legna, 

infiamma  e  non  si  spegna, 

né  po'  stare  nascoso, 

aveva  cantato  Arrigo  Testa;  e  frate  Giordano  (xxxvi)  aveva 
insegnato:  "  Vedi  il  fuoco,  mentre  ch'egli  arde,  non  resta  mai 
un  punto,  e  poi  eh'  egli  è  spento  e'  rimangono  i  carboni  accesi  e 
parti  che  si  riposi.  Ingannato  se':  non  si  riposa  mai,  no,  mai. 
Or  non  vedi  che  sempre  arde  e  consuma  il  carbone,  e  viene 
faccendo  cenere  a  poco  a  poco,  e  non  resta  insino  che  non  1'  ha 
consumato?  Sicché  contino vamente  si  muta  e  non  istà  in  istato 
niente  „. 

II,  21.  Se  la  velocità  si  deve  riferire  al  cielo,  il  Poletto  ha 
ragione  d' intendere  per  del  il  primo  Mobile.  Ma  vediamo  noi 
come  e  quanto  il  cielo  Mobile  si  muova?  Dante  {  Conv.  II,  iv) 
ci  fa  sapere:  "  la  sua  velocità  è  quasi  incomprensibile!  „  Il  poeta, 
credo,  allude  alla  velocità  delia  vista,  degli  sguardi.  Dunque:  la 
sete  del  regno  deiforme  ne  portava  quasi  con  la  velocità  con  cui 
vedete  il  cielo;  non  già  :  con  la  velocità  di  movimento  del  primo 
Mobile.  —  II,  51.  Ristoro,  III,  viii:  "  Alcuni  sono  poco  savi,  e 
di  poco  savere  e  intendimento....  e....  dicono  che  (nella  Luna)  vi 
vedieno  Caino  e  Abel  „.  Chiaro: 

Dunque  saria  ragione 
che  'n  aira  e  'n  foco 
come  Caino  stesse.  — 

lì,  107.  Non  soltanto  il  terreno,  il  suolo,  ma  tutto  ciò,  che  sta  di 
sotto  della  neve,  rimane  nudo  ai  colpi  de' raggi  caldi.  —  II,  112. 
Cfr.  frate  Giordano,  xlvii:  "  Pace,  secondo  che  dicono  i  santi,  i 
filosofi,  significa  riposo,    stato  ove  non  è  nullo  mutamento  „. 

Ili,  88  segg.  Frate  Giordano,  in:  "  Considera  il  Sole  eh' è  pur 
uno,  e  godonne  tutti  quelli  del  mondo;  ma  chi  ne  gode  più  chi 
meno,  secondo  eh'  ha  migliori  occhi  e  più  purgati.  Cosi  i  beati  e 
gli  angeli,  secondo  che  sono    più    nobili  e  più  puri,  cosi  godono 

TORRACA.  6 


—    82    — 

di    Dio  ;    axvegnachc    tutti    siano    puri,    ma    tuttavia   nella  purità 
ha  gradi  „. 

VI,  35-36.  Il  Poletto  non  credo  che  questi  due  versi  "  sieno 
come  un  interrompimento  narrativo  del  poeta,  onde  per  soggetto 
di  coììiìnciò  dovrebbe  intendersi  Giustiniano  „.  Gli  pare,  invece, 
"  che  se  1'  Aquila  segui  di  Troia  in  Italia  Enea,  prestabilito  padre 
dell'  Impero,  ella  dovette  appunto  cominciare  a  mostrare  la  sua 
virfii  colle  prime  imprese  d'  Enea  in  Italia  „,  Pare  anche  a  me. 
La  parentesi  narrativa,  l' avvertenza  del  poeta  capiterebbe  op- 
portuna e  naturale  se  Giustiniano  cominciasse  ora  il  suo  discorso; 
ma  ha  già  parlato  per  più  di  trenta  versi.  —  VI,  94-96.  Il  nostro 
commentatore  move  "  una  questione  non  toccata  da  altri  „  e 
"  assai  grave  „.  Per  bocca  di  Giustiniano,  Dante  dice  chiara- 
mente "  Carlo  Magno....  aver  operato  per  autorità  dell'  Aquila.... 
cioè  in  virtù  della  imperiale  autorità,  ond' era  rivestito;  sta  bene; 
ma  come,  se  nel  capo  decimo  del  lib.  III  della  Monarchia  Dante 
ne  dichiara  che  l' elezione  del  re  Franco  fu  illegittima,  perché 
Michael  impcrabat  apud  Costantinopolim ?  „  Ecco:  Dante,  in  quel 
luogo  del  De  Monarchia,  non  esprime  un'opinione  sua,  riferisce 
uno  degli  argomenti  di  coloro,  i  quali  asserivano  auctoritatem 
Impcrii  ab  auctoritate  Ecclesia;  dependere  :  "  adirne  dicunt,  quod 
Adrianus  Papa  Carolum  Magnum  sibi  et  Ecclesiae  advocavit  etc, 
et  quod  Carolus  ab  eo  recepit  Imperli  dignitatem,  non  obstante 
quod  Michael  etc.  Propter  quod  dicunt  quod  omnes  qui  fuerunt 
Romanorum  imperatores  post  ipsum,  et  ipse  advocati  Ecclesiae 
sunt,  et  debent  ab  Ecclesia  advocari.  Ex  quo  etiam  sequeretur 
illa  dependentia  etc.  „  Contro  questo  argomento  Dante  oppone 
la  massima:  usurpatio  iuris  non  facit  ins!  L'usurpazione,  per  liii^ 
sarebbe  stata  colpa  non  di  Carlomagno,  ma  del  papa....  Infatti, 
soggiunge  :  "  Nam  si  sic,  eodem  modo  auctoritas  Ecclesiae  pro- 
baretur  dependere  ab  Imperatore  ;  postquam  Otto  Imperator 
Leonem  Papam  restituit,  et  Benedictum  deposuit,  nec  non  in 
exilium  in  Saxoniam  duxit.  „  Secondo  l' antica  tesi  ghibellina, 
difesa  nel  secondo  libro  del  De  Monarchia,  Y  impero  del  mondo 
spettava  de  iure  al  popolo  romano. 


-  83- 

VII,  139-42.  "  Lo  raggio  e  il  moto  delle  luci  sante  tira  (trae 
al  loro  essere,  informa)  l'anima  d'ogni  bruto,  che  sono  di  com- 
plessione potenziata  a  ciò.  „  Questa  costruzione,  approvata  dal 
Poletto  e  da  altri  moderni  ira'  iiiii^^/iori,  non  s'accorda  col  senso, 
che  essi  credono  di  scorgervi,  e  fa  dire  al  poeta  quel,  che  "  lui 
non  pensò  mai  „.  Si  costruisca,  invece:  "  Lo  raggio  e  il  moto 
delle  luci  sante  tira  di  complessione  potenziata  l'anima  d'ogni 
bruto  e  delle  piante.  „  Di  sta  per  <ùì;  e  il  senso  è:  i  bruti  e  le 
piante  vivono  quando  le  stelle,  col  raggio  e  col  moto  loro,  hanno 
mescolato  gli  elementi  e  postili  in  quelle  condizioni,  in  cui  bruti 
e  piante  possono  vivere.  "  Li  elimenti  sono  contrari  l' uno  al- 
l' altro,  e  non  hanno  in  loro  potenza  di  mescolarsi  insieme,  ne  di 
fare  di  loro  alcuna  generazione,  se  non  per  la  virtnde  del  cielo  e 
del  suo  movimento,  che  gli  mescola  insieme  e  fanne  la  genera- 
zione, come  sono  le  piante,  e  li  animali  e  le  minerie,  le  quali  egli 
ha  in  sé  di  fare  come  lo  suggello  la  cera....  E  se'I  cielo  colla 
sua  virtude  ha  in  sé  di  fare  cotale  forma  e  cotale  complessione, 
la  lattuga;  ha  di  farla  fredda  e  umida,  e  secondo  grado  mesco- 
lerà li  elementi  insieme,  e  sarà  più  acqua  che  fuoco,  tanto  quanto 
sarà  mestieri,  e  faranne  sempre  li  omori  li  quali  si  convengono 
a  ciò,  e  trarragli  dalla  terra  a  passo  a  passo,  sempre  facendone 
la  lattuga,  e  recheralla  alla  forma  e  alla  complessione  eh'  egli  ha 
in  sé  di  fare.  „  Ristoro,  \'II,  11,  4.  Lo  stesso  si  dica  del  porro 
^'  e  cosi  di  tutte  le  piante  „  e  "  quasi  similmente  „  degli  animali. 

\'I1I,  1-3.  L'amore  "  impuro,  sensuale  „,  fu  deiio  folle  dai 
Provenzali,  poi  dai  lirici  nostri.  Scrisse  Chiaro  Davanzati  a  una 
donna: 

Non  è  più  degna  cosa  di  volere 

intra  noi  due  amar  di  folle  amore  ; 
ma  di  cortese,  puro  e  di  piacere. 

Gli  astrologi  assegnavano  al  pianeta  di  Venere  il  dominio  su 
"  tutte  le  bellezze....  tutti  li  giuochi  e  li  solazzi....  tutte  l' alle- 
grezze.... giolari,  uomini  di  corte,  cantatori  d'amore  e  suonatori  „ 


-84  - 

(Ristoro,  III,  v).  E  Dante  pose  nel  cielo  di  Venere  il  trovatore 
Folchetto  di  Marsiglia. 

Mai  non  mi  capitano  sott'  occhio,  mai  non  mi  tornano  a  mente 
questi  versi,  che  io  non  ripensi  alla  questione  della  data  della 
canzone  ì'oi  c/ic  ìhIvik/cik/o.  La  cita  in  questo  canto  Carlo  Mar- 
tello, morto  nel  1295;  ma  il  prof.  Angeletti,  forte  dell'autorità  di 
Alfragano,  non  la  crede  composta  prima  del  1296.  Alfragano, 
infatti,  dice:  "  Revolvit  epicyclum....  Venus  i  Anno  Persico,  7 
mensibus  et  9  diebus  fere  „;  e  Dante,  nel  Convito,  racconta  d'aver 
veduto  la  prima  volta  la  donna  gentile  tanto  tempo  dopo  la 
morte  di  Beatrice,  quanto  ne  impiega  Venere  a  percorrere  due 
volte  il  suo  epiciclo.  Sono,  dunque,  trentotto  mesi  e  18  giorni 
(l'anno  persiano  era  di  12  mesi  di  irciita  gionii  giusti,  a  che 
non  pose  mente  l'Angeletti),  ai  quali  bisogna  aggiungere  i  trenta 
mesi  circa,  passati,  secondo  un  altro  luogo  del  Convito,  da  quando 
il  poeta,  per  la  lettura  di  Boezio  e  di  Cicerone,  cominciò  a 
imaginare  la  filosofia  come  una  donna  gentile,  a  quando,  per 
aver  frequentato  le  scuole  de'  religiosi  e  le  dispute  de'  filoso- 
fanti, fu  preso  da  tanto  amore  per  essa  filosofia  che  "  apri  la 
bocca  nel  parlare  della  canzone  „.  Cosi  arriviamo  al  marzo 
del  1296.  Eppure,  Carlo  Martello,  morto  nel  1295,  cita  il  primo 
verso  in  modo  da  lasciar  intendere  di  aver  letto,  ovvero  udito 
la  canzone  prima  di  andarsene  al  terzo  cielo! 

Si  attenne  scrupolosamente  ai  computi  di  Alfragano  il  poeta? 
Credo  se  ne  possa  dubitare.  L'  opinione  mia  nasce  dal  fatto  che 
Iacopo  figliuolo  di  Dante,  nel  Dottrinale  (XV),  assegna  al  giro 
di  Venere  nell'  epiciclo  soli  sette  mesi  e  nove  giorni. 

Venus  in  sette  mesi 
e  nove  di  compresi 
il  suo  epicico  gira.... 

E  perché  differiscono  da  quelli  di  Alfragano  anche  gli  anni,  i 
mesi  e  i  giorni,  che  Iacopo  assegna  al  giro  di  Giove  e  di  Sa- 
turno ne'  loro  epicicli,  mi  pare  lecito  supporre  che  la  fonte  di- 
retta di  questa  parte  del  Dottrinale  non    fosse    Alfragano.   Or  se 


-85- 

il  figliuolo  risolutamente  affermò  che  Venere  percorre  1'  epiciclo 
in  219  giorni,  non  è  molto  probabile  che  cosi  pensasse  anche  il 
padre? 

\'11I,  67-69.  CtV.  Ovidio  {  Mt'/ani.,  V,  346  segg.  )  : 

Vasta  giganteis  ingesta  est  insula  mcmbris 

Trinacris 

Dextra  sed  Ausonio  manus  est  subiecta  Peloro  ; 
laeva,  Pachyne,  tibi. 

IX.  123.  Scrive  il  Poletto:  "  Lo  Scartazzini....  trova  altra 
spiegazione,  riferendo  l'espressione  {con  l'ima  e  l'altra  palma) 
a  Giosuè,  del  quale  nell'  Ecclesiastico  è  detto:  quam  gloriam 
adeptiis  est  in  tollcndo  manus  stias;  cioè  levando  a  Dio  le  mani 
pregando.  „  Lo  Scartazzini,  benché  non  ignaro  delle  sacre  carte, 
vi  ha  pescato  un  granchio  grosso  questa  volta.  La  città  di  Ge- 
rico, dove  le  spie  di  Giosuè  "  ingressi  sunt  domum  mulieris  me- 
retricis,  nomine  Raab  „,  fu  presa  perché  le  mura  di  essa  cad- 
dero al  suono  delle  trombe  e  alle  grida  degli  Ebrei  (Lib.  Josue, 
vii);  il  versetto  dtW  Ecclesiastico  allude  invece  alla  presa  di  Hai 
(Lib.  Josiie,  vili,  18-26):  "  Josue  vero  non  contraxit  manum, 
quam  in  sublime  porrexerat,  tenens  clypeum  donec  interficerentur 
omnes  habitatores  Hai  „,  secondo  gli  aveva  comandato  il  Signore. 
Tenens  clypeum;  dunque,  non  "  colle  mani  giunte  „  !  Se  per 
r  una  e  l'  altra  palma  non  si  devono  intendere  le  mani,  con  cui 
Raab  tenne  la  corda  per  far  discendere  dalla  sua  finestra  gli 
esploratori  ebrei;  sarà  vietato  di  opinare  che  una  palma  simbo- 
leggi il  martirio  sofferto  su  la  croce,  l' altra  la  gloria  della  ri- 
surrezione ? 

X,  137.  Un  curioso  sbaglio  dà  occasione  a  una  più  curiosa 
digressioncella.  "  Leggendo;  insegnando;  ma  i  maestri  d'allora 
leggevano  davvero  la  lezione  (ond'eran  chiamati  lettori);  e  leg- 
gere suppone  essersi  preparata  la  lezione;  ciò  se  forse  era  un 
danno  alla  drammatica  e  alla  mimica  di  certi  saltaincattedra  (tal 
voce,  è  bene  avvertirlo,  fu  a  consimile  proposito  adoperata  dal 
Tommaseo),  perché  [se?)  non  lasciava    luogo    al    caldo    dell' im- 


—  86  — 

provvisazione,  toglieva  almeno  certi  scandali  „  ecc.  Mi  dispiace; 
ma  Sigieri  e  gli  altri  lettori  non  leggevano  la  loro  lezione,  scritta 
prima;  leggevano  il  testo,  su  cui  facevano  il  loro  corso,  le  Isti- 
tiizioìii,  poniamo,  o  Ippocrate,  o  un  trattato  di  Aristotile,  e  cosi 
via.  Boncompagno,  perciò,  mentre  dichiarava  di  non  aver  imitato  la 
Rettorica  di  Cicerone,  pur  non  avendola  mai  biasimata,  poteva 
asserire:  "  Nunquam  enim  memini  me  Tullium  legisse.  „  E  il 
Boccaccio  —  un  dantista  non  avrebbe  dovuto  dimenticarlo  —  fu 
eletto  "  ad  legendum  librum  qui  vulgariter  appellatur  //  Dante  „. 
Invidiosi  veri  per  degni  d' invidia  non  mi  dispiace.  —  X,  140. 
Non  mi  dispiace  nemmeno  monaca  per  sposa  di  Dio. 

XI,  76-79.  Se  concordia,  lieti  sembianti,  amore  a  maraviglia 
e  dolce  sguardo  sono  quattro  soggetti  di  faceano;  fa  maraviglia 
che  Dante  usasse  la  locuzione  faceano  esser  cagione,  impropria, 
lunga,  incomoda,  per  significare:  destavano.  Il  P^ilomusi-Guelfi 
propose  di  ordinare  il  terzetto  a  questo  modo:  "  Amore  e  ma- 
raviglia e  dolce  sguardo  facevano  essere  la  loro  concordia  e  i 
loro  lieti  sembianti  cagione  di  pensieri  santi.  „  —  XI,  138.  L' in- 
finito corregger  divenne  nome,  correggier,  nella  mente  di  alcuni 
commentatori,  perché  nel  Trecento  si  usava  scrivere  corregiere 
per  correggere. 

F.  da  Barberino,  Regg.,  ix,  224: 

E  dove  forse  dassè  non  potesse, 
o  non  sapesse  corregier,  dimandi. 

F.  degli  liberti,  canz.  Di  quel,  88: 

che  spesso  Io  correggier,  per  ver  dire, 
lo  mal  far  d'  uno,  a  mille  ne  fa  bene. 

XII,  7  e  segg.  Passino  nostre  muse  per  nostri  poeti;  ma  nostre 
sirene  per  nostre  cantatrici  come  potrebbero  passare?  Quando 
mai,  da  chi  mai  le  cantatrici,  senz'  intenzione  adulatoria,  furon 
dette  sirene?  Meglio  supporre  allusione  a  strumenti  musicali. 
Muse    erano    le    cornamuse    (cfr.    Bartsch,    Romanz.    iind   Past.y 


-87  - 

III,  27:  "  Guis  qui  leur  cante  et  kalernele  En  la  muse  au  grant 
bourdon  „:  La  Pauthcrc  d'  Amors,  162:  "  Psalterions,  muscs,  dou- 
ceines  „);  fu,  se  ben  ricordo,  nome  di  strumento  serena,  cer- 
tamente nome  d'un  componimento  poetico  provenzale;  delle  Si- 
rene favolose,  non  tanto  per  proverbio  e  in  sentenza  si  soleva 
ricordare  il  canto,  quanto  gli  allettamenti  del  canto  pericolosi. 
Però  nostre  non  sconviene  alle  Sirene  mitologiche.  Chiede  il 
Poletto:  "  Come  Dante  ci  avrebbe  appiccicato  1'  aggettivo  nostre?  „ 
Ma  nostre  qui  sta  per  terrene,  in  antitesi  con  quelle  dolci  tube 
celesti  :  cfr.  Mussafia  Moìuon.  ant.  di  dial.  ital.  (  C,  268  segg.  )  : 

....  sot'  el  cel  nesun  verso  se  canta 
né  de  syrena,  né  de  simphonia, 
né  de  strumento  altro  nesun  ke  sia 
si  deletevolo  en  lo  cor  de  1'  omo  ecc. 

Anche  altrove  il  canto  delle  Sirene  è,  come  potrebbe  essere  nel 
verso  di  Dante,  messo  insieme  con  suoni  di  strumenti  musicali 
a  formar  un  termine  di  confronto  con  i  canti  del  Paradiso.  Gia- 
comino da  Verona,  delle  voci  dei  beati: 

E  ben  ve  digo  ancora  enver  sen<;a  bosia, 
ke,  quant'  a  le  soe  voxe,  el  befe  ve  paria 
oldir  cera  né  rota  né  organo  né  symphonia 
né  sirena  né  aiguana  né  altra  consa  ke  sia. 

Il  meno  peggio,  se  le  mie  ipotesi  non  piacessero,  sarebbe:  "  Quello 
che  noi  crediamo  e  diciamo  del  canto  delle  Muse  e  delle  Si- 
rene. „  —  XII,  26-27.  ^^  paragone  deriva  dalla  lirica  cortigiana: 
i  due  occhi  debbono  chiudersi  e  levarsi  a  un  tempo;  uno  di 
essi  non  può  muoversi  e  levarsi  da  solo: 

Per  fermo,  ben  sapete 
che  d'  un  occhio  vedire 
non  poria,  per  ciertanza, 
che  ciascuno  visagio 
da  lui  avesse  veduta. 

"  Visagio  Sta  qui  per  ciascuno  dei  due  organi  destinati  a  ve- 
dere „,  avverte   il   Gaspary   {La  Se.  poet.  Sicil.,  p.  loi  ),  —  XII,» 


—  88  — 

55-  Nella  nota,  piuttosto  lunga,  al  vocabolo  drudo,  mancano  ri- 
scontri provenzali,  de'  quali  non  si  può  fare  a  meno,  e  italiani  di 
scrittori  anteriori  a  Dante.  Agli  altri  significati  si  aggiunga  quello 
di  amico  intimo,  prediletto.  "  Il  papa  1'  à...  per  suo  drudo  più  pri- 
vato „  reca  l'antica  (ma  di  quanto?)  cantilena  giullaresca  toscana; 
la  Cronaca  pubblicata  dal  Villari,  all'anno  1226:  "  Questi,  Gre- 
gorio IX)  era  imprima  cardinale  vescovo  d'Ostia,  ed  era  il  più 
drudo  caro  amico  che  Io  'nperadore  Federico  avesse  in  corte.  „ 
—  XII,  57.  Dante  a  S.  Domenico  dà  le  lodi,  che  Pietro  Vidal 
aveva  date  ai  Genovesi  (  Onant  ìwm  )  : 

Son  a  lors  amics  amoros 
et  als  nemics  orgolhos. 

Cfr.  R.  de  \'aqueiras  [Erani  rcqiiier): 

qu'  ilh  es  als  pros  plazens  et  acolndans 
et  als  avols  es  d'  ergulhos  semblans. 

XII,  67-72. 

E  perché  fosse,  quale  era,  in  costrutto, 

quinci  si  mosse  Spirito  a  nomarlo, 

dal  possessivo,  di  cui  era  tutto. 
Domenico  fu  detto  :  ed  io  ne  parlo 

si  come  dell'  agricola,  che  Cristo 

elesse  all'  orto  suo  per  aiutarlo. 

Spero  di  non  essere  compreso  tra  i  scctatores  ignorantiac  se  ri- 
ferirò due  strofette  di  Guittone  aretino. 


O  nome  ben  seguitato 
e  onorato  dal  fatto, 
Domenico  degno  nomato, 
a  dontiiie  dato  for  patto  ! 
Chi  tanto  fu  per  Dio  tratto, 
già  fa  miir  anni,  in  vertute, 
d' onni  salute  coltore? 


-  89- 

Agricola  a  nostro  Signore, 

non  terra,  ma  cori  coltando, 
Fede,  Speranz'  e  Amore 
con  vivo  valor  sementando, 
oh  quanti  beni,   pugnando! 
Fai  diserti  giardini 
con  pomi  di  fino  savore. 

QueL  Guittone,  solito  in  vocabiilis  atqtie  constructionc  plebcsccre, 
ebbe  talora  pensieri,  imagini,  epiteti  non  indegni  di  Dante.  — 
XII,  8o-8i.  Dobbiamo  spiegare  Dante  con  Dante?  Ebbene,  in- 
vece di  ricorrere  a  S.  Girolamo  e  ad  altri  etimologizzatori,  sen- 
tiamo come  egli  —  senza,  si  badi,  aver  bisogno  del  vocabo- 
lario ebraico  —  interpretasse  il  nome  Giovanna  (V.  N.,  xxiv): 
*  E  lo  nome  di  questa  donna  era  Giovanna....  tanto  è  quanto 
dire  Primavera,  perché  lo  suo  nome  Giovanna  è  da  quel  Gio- 
vanni, lo  quale  precedette  la  vera  luce,  dicendo:  Ego  vox  da- 
niantis  in  deserto:  parate  viani  Domini.  „  —  XII,  99.  "  Il  Ce- 
sari avvisa  che  Dante  avesse  qui  l'occhio  ai  versi  di  Lucrezio: 
quum  moUis  aquae  „  ecc.  Conobbe  Dante  il  poema  di  Lucrezio? 
Posso  ingannarmi  ;  ma  credo  di  no.  —  XII,.  144,  Discreto  latino 
mi  pare  reso  poco  bene  dalla  traduzione  del  Poletto:  "  discorso 
retto,  ben  pensato.  „  Più  esatto,  per  quel,  che  della  discrezione 
si  legge  nel  Convito,  mi  parrebbe:  reverente.  Tommaso  aveva 
discorso  di  S.  Francesco  con  grande  rispetto;  Bonaventura,  in 
sostanza,  mette  fine  alle  sue  parole  ripetendo  il  pensiero  del- 
l'introduzione:  ha  parlato  in  lode  di  S.  Domenico,  perché  Tom- 
maso aveva  /ave/iato  si  bene  di  S.  Francesco. 

XIII,  40-41.  Il  petto  di  Cristo,  forato  dalla  lancia,  soddisfece  po- 
scia e  prima,  tanto,  che  vince  la  bilancia  d'ogni  colpa;  ossia: 
la  morte  di  Cristo  valse  a  sanar  le  colpe  commesse  e  dopo  e 
prima  di  essa.  Le  due  spiegazioni  egualmente  accettabili  per  il 
Poletto  trascurano  o  rompono  il  legame,  che  unisce  soddisfece 
con  poscia  e  prima.  —  XIII,  r34-35.  Imagine  usata  spesso. 
Chiaro: 

Perch'  io  veggio  del  pruno  uscir  la  rosa. 


—  90  — 

XIV.  117.  Ingegno  ed  nrfe  vanno  di  conserva  nelle  rime  de*" 
provenzali  e  de' nostri.  "  Fin  amors  me  dona  '1  geing  e  l'art  ,^ 
canta  E.  Caircl  [.Ibril),  ed  anche: 

Sotilsmen  trai 

e  desten  per  travers 

falsa  amistatz  ab  engeing  et  ab  art. 

Allo  Stesso  modo  B.  de  Born  [Ges  de  far): 

tant  es  subtils  mos  genhs  e  m'  artz, 

R.  di-Miraval  ("  Amors  dona  l'art  e  '1  geing  „)  e  cento  altri. 
Per  conseguenza,  appare  incompiuta,  se  non  proprio  inesatta  la 
chiosa:  "  Con  diversi  mezzi,  come  imposte,  stuoie,  tende.  „ 

XV,  77.  Mancano  gli  esempi  di  igiiali  "  come  numero  sin- 
golare. „  Eccone  uno  di  frate  Giordano  (xxv):  "  Iddio....  rice- 
valo dalle  sozzure  e  fallo  iguali  co'  prencipi  del  popolo  suo.  „  — 
XV,  92.  Cognazione  usa  Dante  alla  latina,  intendendo  "  quibus 
maioribus,  quibus  consanguineis  „  (V.  Cicerone,  De  Invent.,  I,  xxiv). 
—  XV,  loi.  Se  la  lezione  migliore  è  gonne  contigiate,  perché 
lasciare  donne  nel  testo?  Anche  io  credo  che,  nel  bel  mezzo 
dell'  enumerazione  di  ornamenti  donneschi,  non  possano  conve- 
nientemente trovar  posto  le  donne  stesse.  Audefroi  le  Bastart 
narrò  d'Isabella,  che  aspettava  Gerardo: 

Vestue  fu  la  dame  par  cointise. 

Nella  sirventesca  di  Pietro  Base,  una  donna  si  lamenta  d' una 
legge  suntuaria,  e  dice: 

la  sentura  in'  esclaia 
qua  yeu  solia  senchar; 
lassa  !  non  1'  aus  portar.   — 

XV,  io6.  Il  poeta  si  ricordò  dell'osservazione  di  Cicerone  {De 
Off.,  I,  39  I  :  "  In  domo  clari  hominis,  in  quam  et  hospites  multi 
recipiendi  et  admittenda  hominum  cuiusque  modi  multitudo,  adhi- 


—  91  — 

benda  cura  est  laxitatis;  aliter  ampia  domus  dedecori  saepe  do- 
mino fit,  si  est  in  ea  solitudo.  „  —  XV,  107.  Frate  Egidio  (II, 
xvii):  "  Sardanapalo....  era  si  nontemperato,  ched  elli  s' era  tutto 
dato  ai  diletti  de  le  femmine  e  de  la  lussuria,  e  non  usciva  fuore 
de  la  sua  camera  per  andare  a  parlare  ad  alcuno  barone  del  suo 
reame....  Che  tutte  le  sue  parole,  e  tutto  il  suo  intendimento  era 
ne  la  camera  in  seguire  le  sue  malvagie  volontà  di  lussuria.  „ 
Potranno  le  parole  di  Egidio  essere  suggello,  che  sganni  chi 
vuole  si  restringa  1'  allusione  "  al  lusso  e  alla  morbidezza  delle 
abitazioni  „?  Si  badi  che  cantera,  [chambre,  cambra,  zambra) 
significò  propriamente  la  camera  da  letto.  (')  —  XV.  116.  Molto 
prima  del  Sacchetti,  molto  prima  di  Dante  le  donne,  e  non  della 
sola  Firenze,  usavano  biacche  e  belletti.  Sarà  necessario  ricor- 
dare gli  allegri  contrasti  del  monaco  di  Montaudon,  riferire  la  te- 
stimonianza di  Boncompagno:  "  Scio  quod  illas  diligere  consue- 
visti,  que  suas  facies  cerusa  et  unguento  citrino  dealbant,  que 
rubent  ex  appositione  bambacelli  et  florere  videntur  ex  coloribus 

appositis „?    Si    veda   quel  che  dice  frate  Egidio  (I,  xvii)  del 

"  fardo,  per  lo  quale  le  femmine  si  dipingono  vermiglie  o  bianche, 
cioè  bambagello  o  biacca  „,  e,  nelle  Rime  Genovesi,  V  invettiva 
contra  eas  qui  pingnnt  faciem,  e  il  sonetto  di  C.  Angiolieri  Quando 
mia  donna. 

XVI,  IO.  Cfr.  Salimbene:  "  UH  de  Apulia  et  Sicilia  et  romani 
Imperatori  et  summo  Pontifici  dicunt  tu;  et  tanien  appellant  eum 
Dominum,  dicentes;  tu  Messer.  „  Il  Poletto,  seguendo  il  Casini, 
biasima  i  commentatori  antichi  d'  esser  caduti  in  errore,  perché 
fecero  risalire  il  primo  uso  del  voi,   in    Roma,  ai  tempi  di  Giulio 


(')  Leggo  nel  fase.  3  del  voi.  IV  (maggio  1897)  del  Bullettino  della  Società 
dantesca,  p.  131,  che  neW  j4cadeniy  (4,  352,  n.  1279)  il  Paget  Toynbee  „  trova 
la  fonte  dell'allusione  di  Dante  a  Sardanapalo  in  questo  passo  del  De  regimine 
principum  di  Egidio  Romano,  autore  che  il  poeta  conosceva  certamente,  giacché 
lo  cita  nel  Convivio  (W,  34):  si  decet  etc.  Il  qual  passo  cosi  suona  nell'antica 
traduzione  italiana  (e.  1288).  "  Quello  re  Sardanapalo  era  si  non  temperato  ,,. 
e  via  di  seguito  sino  a  "  lussuria  „.  Il  recensore  non  ha  ricordato  che  il  riscontro- 
era  già,  per  mezzo  mio,  comparso  nel  Bullettino  del  1895  (voi.  II,  p.  203). 


—  92  — 

Cesare.  Non  l"u  de'  soli  commentatori  questa  opinione.  Fatti  di 
Cesare,  W,  vii:  "  Andonne  a  Roma.  Li  Romani  che  v'erano,  li 
fecero  grande  onore,  dicendo  centra  loro  costumanza:  boi  andiate 
e  ben  vegnatc;  che  solevano  dicere  a  uno  solo  uomo  :  ben  venglii, 
òen  vadi  tu.  „ 

XVII,  58.  "  Sa  di  sa/e  ecc.;  costa  caro.  „  Ma  Dante  parla  di 
pane  comperato  co'  suoi  danari,  o  di  pane  ottenuto  dalla  pietà 
altrui?  Intende  del  prezzo,  o  del  sapore?  —  XVII,  83-84.  "  Qui 
la  voce  affanni....  significa  le  fatiche,  le  cure  in  servizio  del  pub- 
blico bene.  „  Oh,  e  perché,  dunque,  censurare  il  Tommaseo  di 
avere  spiegato:  le  onorate  fatiche?  11  poeta,  o  m'inganno,  loda 
Cane  cosi  di  non  curar  le  ricchezze,  come  di  non  curar  dispia- 
ceri, travagli  (altro  non  significa  affanno).  —  XVII,  129.  Sembra 
proverbiale.  Cecco  Angiolieri: 

Là  dove  non  mi  prude,  si  mi  gratto. 

Guido  Orlandi: 

come  quei  che  rogna  gratta, 

che  sente  '1  mal  quand'  cHi  e  scorticato. 

E  un  trovatore  (B.  di  Pradas?)  non  credette  offendere  la  sua 
dama  affermando: 

gratar  me  fai  lai  on  nom  pru.   — 

XVIII,  46.  Rinoardo,  1'  eroe  di  Aliscans,  fu  cognato  di  Gu- 
glielmo d' Oringa.  Compi  imprese  straordinarie  arnlato  d' una 
pertica,  o  bastone,  per  cui  è  conosciuto  nell'  epopea  francese 
come  Rainouart  ati  tinel.  —  XVIII,  109-111: 

Quei  che  dipinge  li,  non  ha  chi  il  guidi, 
ma  esso  guida,  e  da  lui  si  rammenta 
quella  virtù,  eh'  è  forma  per  li  nidi. 

E  una  parentesi,  in  cui  Dante  s' indugia  un  momento,  dopo  aver 
narrato  come  le  luci    de' beati    avevano    preso    figura    di    aquila; 


—  93  — 

perciò  non  vedo  la  necessità  di  intender  /or;;/^;  nel  senso  scola- 
stico di  essenza.  Anche,  trattandosi  di  una  digressioncella,  a  cui 
dà  occasione  quel  maraviglioso  coniporsi  delle  luci  in  figura  di 
aquila,  non  vedo  la  necessità  di  prender  tiùù'  per  altro  che  per 
nidi  di  uccelli.  Non  congiungerei  in  un  solo  concetto,  in  una 
proposizione  sola,  esso  guida  e  quella  virtiì:  non  Dio  diretta- 
mente, secondo  le  dottrine  professate  dal  poeta,  bensì  le  intel- 
ligenze e  i  moti  del  cielo  producevano  su  la  terra  le  varie  forme 
viventi;  perciò  lascerei  stare  da  sé  le  parole  esso  guida.  La  virtù 
[del  cielo)  operando  su  gli  elementi,  dà  vita,  tra  le  altre  creature, 
anche  agli  uccelli;  per  entro  i  nidi,  ne' nidi,  assume  forme  di 
uccelli.  —  Altra  volta,  pensando  che,  secondo  le  dottrine  di  Dante 
e  del  tempo  suo,  1'  essere  vivente,  la  creatura  occupava  il  quinto 
gradino  d'una  scala:  Dio,  l'intelligenza,  il  cielo,  la  virtù,  l'effetto 
della  virtù,  scrissi  :  "  Dante  dice  che  la  virtù  si  rammenta  da  lui 
{Dio),  possiamo,  dunque,  intendere:  la  virtù  si  rammenta  di  pro- 
ceder da  Dio;  si  rammenta,  perché  non  guidata  immediatamente 
da  lui.  „  E  citavo  Ristoro  (VII,  in,  iv):  "  Quella  virtude,  la  quale 
è  dal  cielo,  e'  ha  a  significare  e  ad  operare  sopra  la  spezie  „  ecc., 
e  il  De  Vulgari  Eloquentia  (I,  xvi):  "  Sicut  simplicissima  substan- 
tiarum,  quae  Deus  est,  qui  in  homine  magis  redolet  quam  in 
bruto,  in  animali  quam  in  pianta,  in  hac  quam  in  minerà,  in  hac 
quam  in  igne,  in  igne  quam  in  terra.  „  Ora,  per  determinare  il 
valore  grammaticale  della  locuzione  da  lui  si  rammenta,  confron- 
terei il  passo  con  ciò,  che,  nel  canto  vii  del  Purgatorio,  si  legge 
della  probità: 

e  questo  vuole 
quei  che  la  dà,  perché  da  lui  si  chiami. 

Resta  a  vedere    se    l'ultimo   verso    non  si  debba  scrivere   cosi: 

quella  virtù,  che  forma  per  li  nidi. 

XIX,  14-15.  Il  Poletto  pensa,  come  pensava    il   Perazzini,  che 
l'Aquila  dica:  "  la   gloria    celeste    non    si    lascia    acquistare    dal 


—  94  -- 

solo  desiderio,  se  non  è  congiunto  alle  buone  opere  „,  e  che  il 
Poeta  "  ribadisca  il  chiodo  „  aflermando  altrove: 

Regniifit  coelonnn  violenza  paté 
da  caldo  amore  e  da  viva  speranza, 
che  vince  la  divina  volontate. 

Ora,  caldo  amore  e  viva  speranza  in  che,  o  quanto  differiscono 
da  desìo.''  Per  questo  riscontro,  appunto,  si  prova  che  vincere  ha 
significato  diverso  ne' due  passi  diversi.  L'Aquila  dice:  la  gloria 
resta  sempre  di  gran  lunga  superiore  a  qualunque  desiderio.  — 
XIX,  34.  Federico  II  si  vantava  d'aver  portato  dall'Oriente  in 
Europa  l'uso  di  mansuefare  i  falconi  col  cappello:  "  et  usum  ca- 
pelli sic  approbatum  a  nobis,  moderni  nostri  citra  mare  ha- 
buerunt.  „ 

XX,  103-105.  Frate  Giordano,  xxxii:  "  Vedete  qui  che  dicono 
i  santi,  che  i  pagani  non  fuoro  al  tutto  sanza  alcuna  fede;  impe- 
rocché tra  pagani  fuoro  molti  di  quelli  che  credettono  Cristo, 
eziandio  anzi  eh'  egli  incarnasse  . . .  Sicché  si  truova  di  molti  pa- 
gani, che  ebbero  fede  in  Cristo  e  aspettavanlo,  e  che  '1  deside- 
raro,  e  molti  ne  morirò  nella  fede  sua,  credendo  e  sperando  che 
dovesse  venire,  avvegnaché  non  fosse  ancora  venuto  ;  i  quali,  cre- 
dono i  santi,  che  tutti  sieno  salvi.  „  —  XX,  138.  Frate  Giordano, 
XX :  "  Sono  (gli  angeli)  congiunti  lui  in  una  voluntade,  che  ciò 
che  vuole  Iddio  si  voglion  eglino.  „ 

XXIII,  I  segg.  Il  testo  ha:  gli  son  grati,  la  nota  commenta 
aggrati.  \J  ardente  affetto  non  è  quello  dell'uccello  per  i  figli; 
bensì  la  brama  di  vedere  spuntare  il  Sole,  e  la  locuzione  va  con- 
frontata con  il  tu  hai  cotanto  affetto  di  Francesca.  —  XXIII,  130. 
"  Si  soffolce...  qui  trattandosi  d'arche,  vale  è  contenuto,  sta  den- 
tro, quasi  poggiasi  in  loro.  „  Piuttosto:  si  adutui,  si  addensa. 

XXIV,  75.  Ne'  versi  del  Notar  Giacomo,  Pisa  non  tiene  in- 
terna, ma  teme  interna  d'  orgogliosa  gente  (e  pare  si  debba  spie- 
gare nel  senso  del  provenzale  tensa,  disputa,  tenzone,  contesa,  non 
in  quello  di    intendimento,    che   piacque    al    Borgognoni);    perciò 


—  95  — 

non  possono  servire  a  provare  che  intcnza  valga,  nel  verso  di 
Dante,  denominazione  o  comelto.  —  XXI\',  141.  "  Sofferà,  soffre, 
ammette.  „  Anche  consente,  pernietle,  come  in  questo  caso.  "  Terra 
tu  cum  o  sofers?  „  domandava  una  volta  G.  di  Borneill. 

XXV,  19-22.  Si  paragonino  con  un'  imagine  di  U.  Brunet 
{Ah  plazer  )  : 

e  '1  colombet  pel  gaug  d'estiu 
mesclon  un  amoros  tornei, 
que  dui  e  dui  fant  lur  dompnei, 
qua  par  c'amors  baizan  los  liu. 

Pande  è  in  Guittone  ("  come  certo  in  {scrittura  pande  „)  e  in 
altri.  —  XXV  135.  "  Fischio,  dato  dal  nocchiero  per  segnale  di 
riposo,  o  per  rallentare  il  corso  della  nave.  „  Se  ciò  fosse,  non 
avrebbero  tutt'  i  torti  quelli,  a'  quali  1'  "  immagine  „  non  sembra 
molto  conveniente.  A  me  pare  si  tratti  del  suono  d' un  piccolo 
strumento,  zufolo,  fischietto,  (fraschetto  nell'Ariosto),  non  della 
bocca  del  nocchiero. 

XXVI,  22.  Non  comprendo  perché  "  il  vaglio  porti  all'  idea 
di  farina  ■„,.  Altro  è  vaglio,  altro  è  staccio.  —  XXVI,  62.  Amor 
torto  e  amor  diritto  sono  del  frasario  della  lirica  cortigiana  pro- 
venzale e  italiana.  Chiaro  (Ani.  Rime  volg.,  Ili,  ccl): 

...io  veggio  un  uom  morto  d'amore 
per  dritto  amare  ed  esser  servidore, 
a  suo  poder,  di  donna  tuttavia. 

XX\"I,  74.  "  Nescia,  inconsapevole,  priva  di  discernimento  „, 
e  basta.  C'era  da  dir  tanto!  11  Zingarelli:  "  Nescio,  lat.  ncscius. 
Il  Nannucci,  Voci  e  Locuz.  209,  lo  confronta  col  prov.  nesci. 
E  ozioso  dire  che  non  si  può  trattare  d' importazione.  Può  con- 
frontarsi la  frase  italiana  non  fare  il  nesci.  „  E  anche  questo 
può  parer  poco.  Dante  prese  scusso  scusso  dal  latino  il  voca- 
bolo? Lo  prese  dalla  lingua  parlata  in  Firenze?  Finché  non  si 
risponde  a  una  di  queste  due  domande  con  un  bel  si,  non  sarà 
ozioso  pensare  al  provenzale    ned  o   nesci^   visto   e    considerato 


-  96  - 

quanta  pavte  della  nostra  primitiva  lingua  poetica  dal  provenzale 
discenda.  Il  vocabolo  s'incontra  in  un  sonetto  di  Chiaro: 

I\Iolti  omini  vanno  ragionando 

dicendo  che  1"  amore  è  degna  cosa, 

e  face  il  lolle  assai  gire  amendando, 

lo  scarso  largo  con  grazia  copiosa, 
lo  nescie  ben  saccente  sermonando, 

lo  vile  prò',  e  la  noia  gioiosa. 

Vi  s' incontra  perchè  Chiaro  traduceva  da  Amerigo  di  Pegulhan 
(  Cd  que  s' irais  )  : 

Ancara  trob  mais  de  ben  en  Amor 
que  '1  vii  fai  car,  e  '1  neci  gcn  parlan 
e  r  escars  lare,  e  leial  lo  truan 
e  '1  fol  savi  ecc. 

XXVI,  85-86.  Paragone  ovvio,  che  Dante  ha  rinfrescato  e  nobi- 
litato nel  terzo  verso. 

B.  de  Ventadorn,  Lo  rosstgnols: 

Aissi  cum  lo  rams  si  pleia 
lai  o  lo  vens  lo  vai  menan. 

XXVI,  99.  Ant.  Rime  volg.,  cui: 

Co'  nvoglia  amorta  foco 
Amor  pure  accendendo. 

XXVI,  124  segg.  Domanda  il  Poletto:  "  Vi  par  egli  presumibile 
che  in  circa  dieci  anni...  Dante,  coi  meschini  sussidi  che  la  filo- 
logia poteva  porgere  allora,  abbia  potuto  fare  tali  studi  ecc.  da 
credersi  in  dovere,  in  cosa  di  tanto  momento,  di  ritrattare  un'opi- 
nione sostenuta  un  decennio  prima,  (quella  che  la  lingua  di 
Adamo  fosse  rimasta  agli  Ebrei  anche  dopo  la  dispersione  delle 
genti)  e  di  accamparne  e  sostenere  un'altra  radicalmente  contra- 
ria? „  E  perché  no?  Ritrattò  l'opinione  su  le  macchie  della  Luna! 
Sussidi  filologici  non  gli  bisognavano  e,  certamente,  egli  non  li 
cercò;  gli  bastava  più  attento  esame  del  racconto  biblico,  ovvero 
più  diligente  uso   del  criterio,  eh'  egli  ebbe,  della  mutabilità  delle 


—  97  — 

lingue.  Gli  bastava  pensare:  11  peccato  di  Adamo  condannò  lui  e 
i  discendenti  all'imo  d'ogni  malore;  perché  mai,  in  tanta  sven- 
tura, doveva  rimanere  illesa  la  lingua  parlata  da  Adamo  nel  Pa- 
radiso terrestre?  —  XXVI,  130.  Frate  Egidio  III,  11,  xxii:  "  Na- 
turale cosa  è  che  l'uomo  favelli,  e  la  natura  lo  'nsegna  all'uomo; 
ma  la  Tavellatura  qual  sia,  o  tedesca,  o  francesca,  o  toscana,  la 
natura  non  la  insegna,  anzi  conviene  che  1'  uomo  la  'mpari  da  sé 
o  per  altrui.  „ 
XXVII,  136-38. 

Cosi  si  fa  la  pelle  bianca,  nera, 

nel  primo  aspetto,  della  bella  figlia 

di  quel  oh'  apporta  mane  e  lascia  sera. 

Sinché  il  terzetto  sarà  interpunto  al  modo  che  si  vede,  non  po- 
trà essere  compreso.  Tra  le  molte  proposte,  il  Poletto  si  sente 
"  indotto  a  starsene  colla  spiegazione  comune  „  —  ma  qual' è? 
—  e  nella  bella  figlia  del  Sole,  scorge  la  natura  umana,  pure 
affermando  „  che  nella  frase  non  è  possibile  intender  altro  che 
il  Sole  fisico  „.  Si  sente  indotto,  tra  l'altro,  dal  fatto  che,  secondo 
Aristotile,  citato  nel  .De  Monarchia,  "  generat  homo  hominem  et 
sol  „.  Ma  Dante,  mentre  si  serve  del  Filosofo,  lo  corregge: 
"  Humanum  genus  filius  est  codi  quod  est  perfectissimum  in 
omni  opere  suo  „!  Hiiiuanitìu  gcnits  non  è  lo  stesso  che  natura 
umana,  come  deve  riconoscere  chiunque  legga  solo  il  principio 
del  De  Monarchia  (I,  iii):  non  può  mutar  sesso,  passando  dal 
latino  in  italiano,  se  non  a  condizione  di  mutar  significato. 
Umanità,  che  io  sappia,  per  humanum  gcnus,  non  si  diceva  ai 
tempi  di  Dante. 

A  mio  credere,  qui  si  parla  proprio  di  pelle,  ma  non  d'  uno 
stesso  uomo,  prima  fanciullo,  poi  maturo;  della  pelle  degli  uo- 
mini, che,  secondo  le  razze,  diremmo  noi,  secondo  i  climi,  dice- 
vano al  tempo  di  Dante,  in  alcuni  luoghi  della  terra  è  bianca, 
in  altri  nera.  "  E  s'  egli  si  truova  crimate  che  faccia  li  uomini 
bianchi,  per  lo  suo  opposito  è  mestieri  che  si  truovi  climati,  che 
faccia    li    uomini    neri    „    dice    Ristoro    (VI,   x).  E  dove  stanno, 

TORRACA.  n 


-  98  - 

quali  sono  gli  uomini  neri?  Risponda  Macrobio  (///  Soinn.  Scip.^ 
II,  x):  "  Circa  Oceani  oras  non  nisi  Aethiopes  habitant,  quos- 
vicinia  solis  usque  ad  speciem  nigri  coloris  exussit.  „  —  Gli  Etiopi 
furono  condotti  a  Troia  dal  loro  re  Mennone: 

eoasquc  acics  et  nigri  I^Iemnonis  arma 

vide  stupefatto  Enea  rappresentate  nel  tempio  di  Cartagine 
(  Acn.,  l,  489).  Mennone,  testimone  Ovidio  (  Metani.,  XIII,  575  segg,  ) 
era  figliuolo  di  Titone  e  dell'Aurora,  la  bella  figlia  del  Sole!  Per 
conseguenza,  il  poeta  ha  voluto  dire:  cosi  la  pelle  bianca  degli 
uomini  diventa  nera  là  dove  priuiamentc  apparisce  l'  Aurora,  — 
ovvero  :  nei  luoghi,  che  /'  Aurora  vede  prima  di  tutti  gli  altri,  o, 
infine  :  ne'  luoghi  dove,  donde  prima  è  veduta  /'  Aurora.  Non  si 
tratta,  giova  avvertire,  di  erudizioni  difficili  e  peregrine;  Ovidio 
e  Virgilio  tutti  sanno  quanto  fossero  famigliari  a  Dante;  Ditti 
di  Creta,  Darete  Frigio,  Benóit  de  Saint-More  —  il  cui  poema 
Guittone  di  Arezzo  possedeva  e,  a  volte,  citava  e  traduceva  — 
narravano  a  chierici  e  a  laici  le  imprese  e  la  fine  immatura  di 
Mennone  figliuol  dell'  Aurora,  duce  di  Etiopi  e  d' Indi.  G.  di 
Chàtillon  aveva  attribuito  ad  Alessandro  il  disegno  di  cercare 

adustas 
Aethiopum  gentes  et  inhospita  Memnonis  arva, 
Aurorae  sedes  atque  invia  solis  adire. 

La  locuzione  nel  primo  aspetto,  per  la  sua  concisione,  per- 
mette non  meno  di  tre,  forse  più  di  tre  spiegazioni.  Aspectits 
vale  lo  sguardo,  la  vista,  la  figura,  V  apparenza,  il  carattere  e 
chi  più  ne  ha,  ne  aggiunga.  Mette  conto  di  cercare  se  altri  passi 
di  Dante  possano  chiarir  questo;  uno  del  Purgatorio  (XXXIII, 
loS'S)  abbastanza  oscuro  per  sé,  non  aiuta  se  non  a  confermare 
vario  e  quasi  sempre  difficile  a  cogliere  il  significato  del  voca- 
bolo aspetto: 

E  più  corrusco,  e  con  più  lenti  passi 

teneva  il  sole  il  cerchio  di  merigge, 

che  qua  e  là,  come  gli  aspetti,  fassi. 


—  99  — 

I  commentatori  hanno  molto  almanaccato;  ma  il  nodo,  il 
groppo,  —  come  ^/i  aspetti  —  hanno  evitato,  o  fìnto  di  non  sen- 
tirselo sotto  la  mano.  Alla  spiegazione  dei  pili,  la  quale  ha  essa 
bisogno  di  Edipi  — :  "  Il  qual  meriggio  non  si  fa  a  tutte  le  re- 
gioni in  un  luogo,  ma  a  chi  qua,  a  chi  là,  secondo  i  gradi  del- 
l' Equatore  che  le  regioni  co'  loro  vari  meridiani  intersecano  „  — 
posso  sostituire  una  notizia  più  chiara,  togliendola  da  Ristoro 
(I,  XXIII  ):  "  E  troviamo  lo  cerchio  del  mezzo  cielo,  che  ne  passa 
da  oriente  a  occidente,  lo  quale  ne  sta  tuttavia  sopra  capo,  se- 
gando il  cerchio  del  mezzo  die  per  mezzo;  in  qualunque  parte 
noi  andremo,  dal  settentrione  al  mezzo  die,  ed  e  contra,  sempre 
verrà  con  noi  stando  sopra  quel  cerchio,  stando  sopra  capo,  an- 
dando noi  sotto  lo  cerchio  del  mezzo  die,  lo  quale  non  starà 
fermo,  ed  e  centra....  E  '1  cerchio  del  mezzo  die,  segandolo  {i! 
cercìiio  del  mezzo  ciclo)  per  mezzo,  ne  verrà  tuttavia  col  sega- 
mento sopra  capo,  e  moverassi  secondo  il  nostro  andare  „.  In 
altre  parole,  il  meridiano  varia  secondo  la  diversa  posizione  no- 
stra; dovunque  noi  ci  troviamo,  sul  capo  nostro  passa  il  meri- 
diano. Vien  quasi  voglia  di  considerare  aspetti  come  voce  verbale 
e  d'intendere:  il  meridiano  si  fa  qua  e  là,  secondo  che  lo  guardi, 
gli  rivolgi  r  occhio  di  qua  o  di  là.  Ma  consultiamo  Macrobio  (  In 
Somn.  Scip.,  I,  xv):  "  Duo  {circuii)....  meridianus  et  horizon, 
non  scribuntur  in  sphaera,  quia  certuni  locum  habere  non  possunt, 
sed  prò  diversitate  circunspicientis  habitantisve  varientur.  Meri- 
dianus est  in  quem  Sol  cum  super  hominum  verticem  venerit, 
ipsum  diem  medium  efficiendo  designai.  Et  quia  globositas  terras 
habitationes  omnium  aequales  sibi  esse  non  patitur,  non  eodem 
pars  coeli  omnium  verticem  despicit.  Et  ideo  unus  omnibus  me- 
ridianus esse  non  poterit,  sed  singulis  gentibus  super  verticem 
suum  proprius  meridianus  efficitur  „. 

XXVIII,  55-56.  "  Finora  non  sappiamo  che  alcun  codice  abbia 
la  lezione  esemplato,  onde  la  non  si  può  accogliere  per  verun 
conto  „.  Or  come  va  che,  nell'  edizione  piccola  della  Commedia, 
curata  dal  Poletto,  sia  stata  accolta? 


Il  Poletto  disputa  lungamente  per  riuscire  a  provare  che  nei 
due  versi: 

Udir  conviemmi  ancor  come  1'  esemplo 
e  r  esemplare  non  vanno  d'  un  modo, 

tanto  valga  esemplo  quanto  cseiiiplarc.  Ma  se  Dante,  altre  volte, 
usò  indifferentemente  le  due  parole  a  denotare  il  modello,  V  ar- 
chetipo e  simili,  qui,  ponendole  l' una  di  fronte  all'  altra,  volle, 
dare  ad  ognuna  il  valore  proprio.  Che,  nel  primo  verso,  esemplo 
stia  per  il  mondo  sensibile  e,  nel  secondo,  esemplare  per  il  mondo 
soprasensibile,  si  può  provare  con  la  scorta  del  linguaggio  can- 
celleresco del  tempo  di  Dante  e  con  l' autorità  de'  grammatici 
del  Medio  Evo.  Leggiamo  nelle  Consulte  che,  nel  1291,  l'amba- 
sciatore di  Siena  Ser  Giovanni  Paganelli  annunziò  ai  Fiorentini 
aver  il  Papa  mandato  una  certa  lettera,  "  de  qua  litera  idem 
Ser  Johannes  reduxit  exemplum....  in  quadam  cedula  „.  E  leg- 
giamo nel  Graccismus  (XI,  81-82): 

Exemplar  liber  est,  exemplum  quod  trahis  inde: 
exemplum  trahitur,  exemplar  dicito  de  quo. 

XXVIII,  8991.  "  Credo  che  il  Poeta  volesse  dire....  che,  mo- 
vendosi e  levandosi  ora  per  dimostrare  la  letizia,  che  provavano, 
gli  Angeli,  pur  rimanendo  dentro  al  loro  cerchio  rispettivo,  si 
mostrassero  come  scintille,  in  quella  guisa  che  da  un  ciocco  arso 
sbattuto  si  staccano  e  si  levano  le  scintille  (e  questa  immagine 
r  abbiamo  già  veduta  più  addietro....)  e  queste  scintille  eran  tante, 
che  non  si  potevano  numerare  „.  Le  faville  de'  ciocchi  arsi  per- 
cossi surgono,  dice  il  poeta;  quando  il  ferro  è  arroventato,  disfa- 
villa  dice  il  poeta  stesso,  ossia  manda  faville  fuori  di  sé;  disfa- 
villare da  alcunché  si  legge  nel  Purgatorio  ("  ed  onde  ogni  scienza 
disfavilla  „):  non  si  può,  dunque,  non  si  deve  credere  che  gli 
Angeli  si  mostrassero  come  scintille  pur  rimanendo  dentro  alloro 
cerchio  rispettivo.  Non  solo  si  mostravano  fuori  de' cerchi,  ma 
ognuna  seguiva  il  cerchio  proprio  [lo  incendio),  girava  perché  il 
cerchio  continuava  il  suo  giro.  —  XXVIII,  103.  "  Vonno,  vanno  „. 


lOI    — 

Piuttosto:  volvono  o  volgolo,  come,  da /oòòo^/o, /»o;/;/o  nel  terzetto 
precedente. 

XXIX,  143-45.  Frate  Giordano  xix:  "  Come  lo  specchio 
quando  è  intero  che  mostri  una  faccia,  e  quando  1'  hai  rotto  in 
più  parti,  in  tutte  è  interamente  quel  medesimo  volto  „.  —  XXXI, 
105-  "  Qualcuno  intende  che  aulica  faìna  si  riferisca  al  cominciar 
della  divozione  per  la  Veronica;  qualche  altro,  il  desiderio  del 
pellegrino,  che  ne  senti  parlare  da  fanciullo,  onde  il  desiderio  di 
vederla  in  lui  si  fece  si  vivo  „.  L'  una  e  1'  altra  spiegazione  non 
danno  un  senso  chiaro,  facilmente  intelligibile.  Perché  la  lezione 
vera  non  potrebbe  essere  antica  fame?  La  giustifica,  anzi  la  ri- 
chiede il  resto  del  verso  :  non  si  sazia.  E  cosi  antica  e  cosi  forte 
la  brama  del  pellegrino,  che,  a  vedere  la  santa  imagine,  egli  non 
può  d'  un  sol  tratto  saziarsi,  ma  sta  a  mirarla  intento  fin  che  si 
mostra. 

XXXIII,  15.  Frequente  ne'  rimatori  del  Duecento,  e  quasi  non 
dissi  proverbiale.  Chiaro  [Ani.  Riìiie  volg.,  \\\,  cc.xxix): 

....  amor  mi  fa  volere 
sanza  1'  ale  volare  : 

Monte  (ivi,  cclxxxhi): 

E  senza  1'  ale  prender  puote  volo, 
ed  anche  (V,  dcci.xvm): 

Prendo  il  mio  volo  com'augiel  senz'ali.  — 

XXXIII,  62-63.  Cfr.  R.  Bovarelli,  Al  cor: 

don  tals  doussors  inz  al  cor  me  dissen, 
qe  'm  ten  lo  cors  frese  e  gai  e  rizen.  — 

XXXIII,  80.81.  Cfr.  Chiaro  {Ant.  Rime  volg.,  Ili,  ccxxvi): 

Giungendo  ben  miei  rai  con  quei  del  Sole.  — 


I02    

XXXlll,  90.    "    Il    Monti,  alludendo  all'impresa  degli  Argonauti, 
poetò: 

Quando  Jason  dal  Pelio 
Spinse  nel  mar  gli  abeti, 
Il  primo  corse  a  fendere 
Il  casto  seno  a  Teti  „. 

Povero  Monti I  Poveri  versi!  Mi  rincrescerebbe  finire  con  la 
censura  d'  una  citazione  sbagliata,  se  da  siffatte  censure  si  fosse 
astenuto  il  Poletto.  Dunque....  vniiam  daìints,  con  quel,  che  tutti 
sanno. 


IV 


Questo  novissimo  ed  amplissimo  commento  del  poema  sacro, 
oltre  che  riassumere  o,  se  si  preferisce,  assommare  gli  studi  lunghi 
e  amorosi  di  ben  "  cinque  lustri  „;  oltre  che  mostrare  come 
Dante  sia  inteso  e  spiegato  su  e  dalla  cattedra  speciale,  la  quale 
il  Pontefice,  "  lasciando  ad  altri  le  ciancie  sonore  „,  volle  "  in 
"  Roma  erigere  all'  Allighieri  „  ;  riassume,  assomma,  mostra  le 
condizioni  presenti  della  critica  dantesca  cattolica  e,  per  certi  ri- 
spetti, di  tutta  quanta  la  critica  dantesca.  Secondo  me,  sarebbe 
tempo,  e  ne  offrirebbe  occasione  opportuna  il  lavoro  del  Poletto, 
di  chiudere  questi  rivi  e  aprirne  di  nuovi,  con  metodi  più  schiet- 
tamente moderni,  pili  veramente  critici.  La  giustezza  del  concetto, 
che  accenno,  ed  esso  concetto  scaturiscono  dall'esame  diligente, 
che  ho  fatto,  di  queste  duemiladugento  pagine;  ma,  perché  le 
osservazioni  mie  erano,  per  necessità,  numerosissime,  alcune 
ne  ho  tenute  per  me;  altre  ne  ho  messe  insieme  nei  fogli, 
che  precedono  ;  qui  raccoglierò  parecchie  di  quelle  —  non 
tutte  —  che  si  riferiscono  alla  illustrazione  propriamente  storica 
del  poema.  È  la  parte  non  so,  col  rispetto  dovuto  all'autore,  se 
più  debole  o  meno  curata  del  commento;  ma  si  capisce  sia  cosi: 
anche  non  volendo  tener  conto  degli  errori  materiali  di  storia  e 
di  cronologia,  devo  dire  con  rincrescimento    che    il    Poletto  non 


~  103  — 

Ila  fatto,  quasi  sempre,  se  non  servirsi  de'  commenti   anteriori  al 
suo.  Non  ha  iniziato  indagini  per  proprio  conto;  non  s'è  curato  • 
<ii  informarsi    delle    indagini    altrui,    nemmeno    di    quelle   rese  di 
pubblica  ragione  prima  del   1890.  Ma  la  via  lunga  mi  sospinge  e, 
senz'  altro,  vengo  agli  appunti. 

Inferno,  V,  94-96.  "  Secondo  le  ultime  ricerche  del  Tonini  „ 
scrive  il  Poletto,  "  il  lugubre  fatto  „  della  morte  di  Paolo  Mala- 
testa  e  di  Francesca  da  Polenta  avvenne  "  nel  1276  „.  Veramente, 
il  Tonini  fu,  nell' affermare,  meno  risoluto;  a  ogni  modo.  Paolo 
viveva  ancora  nel  1282-83,  quando  tenne  in  Firenze  la  carica  di 
Capitano  del  popolo. 

VI,  51.  Oltre  il  rimatore  Ciacco  dell'Anguillaia,  conosciamo 
un  Ciacco  di  Buoninsegna  per  mezzo  d'  un  documento  del  1264; 
possiamo,  perciò,  ritenere  fosse  nome  Ciacco,  non  soprannome: 
di  nomi,  che  a  noi  paiono  strani,  si  farebbe  una  curiosa  raccolta 
nelle  cronache  e  nelle  carte  fiorentine  e  non  fiorentine  del  Du- 
^ento.  Se  il  Ciacco  dantesco  avesse  avuto  altro  nome  "  battesi- 
male „,  Dante,  il  quale  non  nasconde  una  certa  pietà  per  lui,  non 
gli  avrebbe,  forse,  detto  bruscamente:  "  Ciacco,  il  tuo  affanno  „  ecc  . 
non  lo  avrebbe,  voglio  dire,  chiamato  col  nomignolo  dispregia- 
tivo. Se  potesse  provarsi  che  il  goloso  dell'  Inferno  dantesco  e  il 
rimatore  furono  una  stessa  persona,  non  per  questo  dovremmo 
•crederlo  "  non  fiorentino  „;  l'Anguillaia  era  nel  contado  di  Fi- 
renze, e  il  cod.  vaticano  3793  porta  il  contrasto  Gemma  laziosa 
sotto  il  nome  di  "  Ciacco  dell'Anguillaia  di  Firenze  „.  Al  più, 
nelle  prime  due  parole  del  verso: 

voi  cittadini  mi  chiamaste  Ciacco, 

potremmo  scorgere  l' intenzione  di  distinguere  gli  abitanti  della 
città  da  quelli  del  contado;  ma  Dante  altrove  usò  cittadini  nel 
senso  di  concittadini.  —  VI,  70.  Piace  al  Poletto  l' interpretazione 
dell*  Andreoli  :  "  che  la  parte  Nera  sormonti  con  l'aiuto  di  uno, 
cui  ella  già  fin  d'  ora  sta  lusingando  „.  Ma  quell'  uno,  Carlo  di 
A'alois,  fu  semplice  strumento  di  Bonifazio  Vili.  Risalendo  a 
piaggia,  plaga,  come,  su  le  orme  del  Blanc,  fa  il  Poletto,  non  si 


—  I04  — 

riesce  a  cavare  uiì  concetto  clìiaro  dal  frs/c  pingi^ia  dantesco; 
perciò  non  sarà  inopportuno  ricordare  che  plaidcjar  o  plan'ar 
provenzale  e  phxidicr  francese  ebbero,  con  altri  signilicati,  quello- 
di  trattare,  accordare.  Se  Ciacco  dicesse  :  "  La  parte  Nera  pre- 
varrà con  r  aiuto  aperto,  con  le  armi  di  uno,  il  quale  ora  sta 
facendo  trattative  „,  il  verso  si  risolverebbe  senza  stento  in  un'an- 
titesi tra  la  forza  usata  dopo  e  i  tentativi  nascosti  e  tortuosi  di 
prima.  Questo,  non  1'  altro  di  destreggiarsi,  stare  in  fra  due,  pare 
a  me  il  significato  di  piaggiare  in  un  passo  del  Villani  riferito> 
dal  Casini:  "  Molti  che  alla  prima  avean  tenuto  col  cardinale,  si 
furono  rivolti  per  gli  sdegni  che  vedeano;  e  i  grandi  di  Parte 
Nera,  e  simili  quelli  che  piaggiavano  col  cardinale,  si  guernirona 
d'arme  e  di  gente  „.  Ma,  forse.  Dante,  non  trasse  a  sentenza 
lontana  dalla  propria  e  usuale  il  vocabolo;  forse  qui,  al  pari  di 
plaidejar  provenzale,  di  plaidier  francese,  di  plaide^ar  lombardo- 
(è  ne'  Proverbi  del  Patecchio,  523  :  "  Se  tu  dei  plaide(;ar  con  om 
posent  ni  mato.  Se  tu  poi  si  t' acorda  „),  piaggiare  vale  sempli- 
cemente contendere,  litigare,  piatire,  perché  sincope  di  piateggiare^ 
di  cui  ci  restano  esempi  nel  volgarizzamento  del  Regg.  dei  Prin- 
cipi di  E.  Romano  (III,  11,  20:  "  le  parti  che  piateggiano  —  il 
causo  donde  1'  uomo  piateggia  „  ecc.  )  e  nel  Dottrinale  di  Jacopo- 
di  Dante  (XLVIII): 

Cavalicr  per  difesa 
ci  dà  per  ogni  offesa 
che  sia  fatta  al  minore, 
che  non  abbia  vigore 
di  poter  piateggiare 
per  sua  ragion  francare. 

Piateggiare  fu  legittimo  figliuolo  di  placitare,  equivalente  nel  la- 
tino del  Medio  Evo  a  litigare  e,  anche,  a  chiamare  in  giudizio- 
come  si  può  vedere  nel  Du  Cange.  Se  ciò  fosse,  niente  di  meglio! 
Perché  proprio  nell'aprile  del  1300,  su  per  giù  ne' giorni,  in  cui 
pili  tardi  il  poeta  doveva  imaginare  accaduto  il  suo  incontro  con 
Ciacco  neir  Inferno,  proprio  allora,  su  la  terra,  il  papa  Boni- 
fazio Vili  ingiungeva  al  Comune  di  Firenze  di  desistere  dal  prò- 


-    I05   - 

cesso  contro  tre  fiorentini  accusati  di  mercanteggiare  in  Corte  df 
Roma  la  libertà  della  patria;  minacciava  "  pena  della  scomunica 
e  interdetto  e  della  nullità  d'  ogni  sentenza  „  ;  citava  perentoria- 
mente alla  sua  presenza  Lapo  Saltarelli  e  gli  altri  due  fiorentini 
tam  inique  et  pcniitiosc  delatioìiis  hiiiiisìiiodi,  ut  dìtitnr,  auctorcs 
precipuos,  sotto  pena  cxcomiiiiiiiicatiuiiis  et  perpetue  iiiltahilitatis  ad 
oiiines  lionores  et  qneenmquc  officia.  (')  Si  rammenti  che  il  15  giu- 
gno 1300  fu  consegnata  ai  priori,  tra  i  quali  era  Dante,  la  "  con- 
dannazione fatta  dal  podestà  messer  Gherardino  da  Gambara,. 
sotto  la  signoria  precedente,  il  18  di  aprile  „,  di  que'  tre  mac- 
chinatori ai  danni  della  libertà  di  Firenze  e  di  tutta  Toscana  ,,. 
a  vantaggio  del  papa  (').  Se,  dunque,  Ciacco  dicesse:  "  Mentre 
che  io  ti  parlo,  il  papa  piatisce;  fra  tre  soli  aiuterà  con  la  forza 
i  Neri  „,  nessun  altro  passo  del  poema  sarebbe  al  pari  di  questo^ 
traduzione    esattissima  di  fatto  storicamente  accertato. 

VI,  80.  "  Arrigo,  dei  Giandonati,  secondo  alcuni;  secondo 
altri,  de'  Fifantì,  uno  di  que'  che  presero  parte  all'  uccisione  di 
Buondelmonte  nel  1215  „.  Solita  chiosa;  però  all'uccisione  di 
Buondelmonte  partecipò  Odarrigo  (  in  alcuni  testi  Oddo  Arrighi) 
non  già  Arrigo  Fifanti.  In  buon  punto  mi  giunge  il  bel  volume 
pubblicato  per  cura  del  Santini  (  Docum.  dell'  antica  Costit.  deC 
Comune  di  Firenze;  Firenze,  Vieusseux,  1895)  in  cui  trovo  Ar- 
rigo Avvocati  tra  i  consiglieri  del  1216  e,  insieme  con  Iacopo 
Rusticucci,  tra  i  consiglieri  del  Podestà  nel  1237. 

Vili,  32  segg.  Un  Filippo  Argenti  non  s' è  ancora,  che  ia 
sappia,  scoperto  ne'  documenti,  dove  possiamo  spigolar  notizie 
"  degli  Adimari  „.  Un  Filippo  quondam  domini  Bernardi  de  Adi- 
mariis  qui  dicitur  Morsellus  fu,  nel  1266,  registrato  nell'  estimo 
de'danni  patiti  dai  Guelfi  (  Delizie  degli  Erud.  Tose,  VII,  256  segg.  ). 

IX,  112  segg.  De' sepolcri  di  Adi  trattava  brevemente  un  ca- 
pitoletto della  Cronaca  attribuita  a  Turpino  (XXVIII),  lungamente 


(')  Levi,  Bonifazio   Vili  e  le   sue    relazioni  col    Connine    di    Firenze,    pp.  40 
segg.  e  90. 

(*)  Del  Lu.ngo,  Un  doc.  ined.  del  Priorato  di  Dante;  nel  Bull.  d.  soc.  Dant.,  189C.. 


—  io6  — 

un  capitolo  (XC)  degli  O/ia  Iiiipcn'alin  di  Gervasio  di  Tilbury. 
Eran  creduti  lavoro  de' primissimi  cristiani  delle  Gallie;  Gervasio 
assicura  che  Cristo  apparve  a  posta  per  benedirli,  e  narra  un 
fatto  avvenuto  nicn  di  dicci  anni  prima  che  egli  queste  cose  scri- 
vesse (  I2II  ). 

X,  53.  Fu  veramente  epicureo  il  padre  di  Guido  Cavalcanti? 
O  non  tornò  mai  alla  fede?  Se  a  lui  fu  indirizzata  una  canzone 
di  Guittone  d'  Arezzo,  è  lecito  dubitare  che  Dante  fosse  esatta- 
mente informato.  Scrive  l'aretino: 

A  messer  Cavalcante  e  a  messer  Lapo 
va,  mia  canzone,  e  di'  lor  eh'  audit'  aggio 
che  '1  sommo  onorato  signoraggio 
pugnan  di  conquistar  tornando  a  vita; 
e,  se  tu  sai,  li  aita .... 
digli  che  afTermin  lor  cori  a  volere 
seguire  ogni  piacere 
di  colui,  che  per  tutto  è  nostro  capo. 

XI,  119.  Quando  Federico  II  mori,  Manfredi  non  poteva  "  am- 
bire all'Impero  „,  perché  viveva  Corrado.  Ciò  mostra  quanto 
sia  verosimile  il  dicesi,  che  al  Poletto  non  è  rincresciuto  racco- 
gliere dai  cronisti  e  commentatori  guelfi. 

XII,  107.  "  Alessandro  non  può  essere  che  Alessandro  di  Fere 
in  Tessaglia,  delle  cui  ferocissime  violenze  e  crudeltà  parlano 
A^alerio  Massimo  e  Diodoro  Siculo  ed  altri  „.  Si  noti  che  in  una 
stessa  pagina  del  De  nfficiis  di  Cicerone  (II,  7),  Dante  lesse  bia- 
simi di  Dionisio  e  di  Alessandro  Fereo.  —  XII,  112.  11  Poletto 
crede  che  il  figliuolo  di  Obizzo  d' Este,  uccisore  del  padre  se- 
condo il  poeta,  sia  designato  a  questo  modo  "  non  perché  figlia- 
stro davvero,  ma  per  1'  enormità  del  delitto  „.  La  stessa  opinione 
espresse  il  Bartoli,  e  a  me  pare  accettabile.  Di  una  madre  cattiva, 
snaturata,  fu  detto  e  si  dice  madrigna;  Claudiano  e  Arrigo  da 
Settimello  rimproverarono,  l'uno  alla  Natura,  l'altro  alla  Fortuna, 
il  subito  mutarsi  di  madre  in  madrigna;  Cecco  Angiolieri  disse 
a  proposito  di  sua  madre  [Canz.   Cliig.,  435): 

E  eh'  i'  sia  suo  figliuolo  a  me  non  pare, 
ma  figliastro; 


—     lUJ     — 

Dante  stesso  scrisse  altrove  (Par.  XVl,  59-60): 

Se  la  gente,  che  al  mondo  più  traligna, 
non  fosse  stata  a  Cesare  noverca, 
ma,  come  madre,  a  suo  figliuol  benigna. 

Allo  stesso  modo  un  figliuolo  perfido,  uccisore  del  proprio  padre, 
potè  esser  detto  figliastro.  Un  passo  del  Partenopc.x,  del  quale  il 
Du  Gange  recò  due  soli  versi,  potrebbe,  se  non  erro,  recar  lume 
alla  questione.  Narra  l'autore  (297  segg.)  come  Anchise  tradì  i 
Troiani,  e  come  poi  fuggi: 

Anchises  a  ses  nes  en  vait 

puisqu'  il  ot  la  fait  son  atrait, 

et  ses  Jillaslres  Enéas, 

car  certes  ses  Jils  n'  est  il  pas, 

car  Enéas  est  dols  et  pis; 

si  n'  avoit  pas  consence  en  Gris, 

de  grans  biens  faire  soveniers, 

et  sages  et  buens  cavaliers, 

et  Anchises  est  pleins  d' envie 

de  contens  et  de  félonie. 

"  Da  cattiva  radice  „,  soggiunge  il  troverò,  "  esce  cattivo  frutto, 
perciò  dico  che  Enea  non  era  figliuolo  d'  Anchise  „, 

XII,  137.  Il  Cristofori  pubblicò,  nel  1890,  alcuni  atti  di  un 
processo  ordinato  da  Clemente  I\',  nel  quarto  anno  del  suo  pon- 
tificato, proseguito  per  ordine  di  Gregorio  X,  contro  Ranieri  dei 
Pazzi  incolpato  di  aver  ucciso,  ferito  e  derubato  un  vescovo,  un 
arcidiacono,  parecchi  chierici  e  non  so  quanti  laici  mentre,  per  la 
Toscana,  viaggiavano  tutti  insieme  alla  volta  di  Roma.  Ammessa 
per  vera  la  notizia  dell'  Ottimo:  "  Questi  (R.  de'  Pazzi)  fu  a  rubar 
li  prelati  della  Ghiesa  di  Roma  per  comandamento  di  Federigo  II 
imperadore  delli  Romani,  circa  li  anni  del  signore  mille  dugento 
ventotto  „,  bisognerebbe  ripetere  il  proverbio:  "  Il  lupo  perde  il 
pelo,  ma  non  il  vizio  „.  Ma  1'  Ottimo  sbagliò  la  data  del  ruba- 
mento  de'  prelati  e,  forse,  confuse  in  uno  fatti  separati  1'  un  dal- 
l' altro  da  non  meno  di  venticinque  anni.  Ranieri  de'  Pazzi  non 
viveva  più  nel  1280  {Delizie,  IX,  193). 


—  io8  — 

Xlll,  58.  Pier  della  \'igna  fu  protonotario  e  logoteta,  non 
"  eanceliiere  del  regno  „.  —  XIII,  75.  I  primi  versi  dell' epitaffio 
di  Federico  non  sono  citati  esattamente:  eccoli,  secondo  la  lezione 
del  Capasso  (  Hisf.  Diplotii.,  p.  3  )  : 

Si  probitas,  sensus,  virtutum  copia,  census, 
nobilitas  orti  possent  obsistere  morti, 
non  foret  extinctus  Fridericus  qui  jacct  intus. 

Ed  ecco  la  versione  di  tutto  1'  epitaffio  —  rimasta  sconosciuta, 
pare,  agli  studiosi  dell'antica  poesia  —  che  fece,  prima  del  1273, 
un  cronista,  probabilmente  siciliano: 

Se  la  Origene  del  nobile  sangue 
senso,  probità,  virtù  et  ricchezi 
resistentia  facexero  et  mitigizi 
alla  crudele  morte,  che  sempre  langue, 
non  forrea  della  vita  extinto 
Re  Federico,  che  qui  jace  dentro. 
Mille  cento  (dugento)  L  più  che  uno 
erano  cursi  che  si  naque  colui, 
che  ce  portò  salutifero  duno, 
quando  1'  anima  de  Re  Federico 
alli  vermi  lassò  lo  corpo  mendico; 
passò  da  questo  mundo  in  quella  dia 
che  se  fa  la  festa  ad  Santa  Lucia. 

XIII,  I20.  Il  Carducci  giudicò  diretto  a  questo  Lano  il  sonetto 
Dossento  sciidelin  de  diaìiiaiiti,  che  egli  trasse  da  un  memoriale 
bolognese  del  1293,  e  che  ora  si  può  leggere,  in  forma  molto- 
pili  corretta,  tra  le  rime  di  Cecco  Angiolieri  nel  Canzoniere  Chi- 
giano  (398).  E  Cecco  stesso  scrisse  un'  altra  volta  (445)  : 

Giugiole  di  quaresima  a  1"  uscita 

e  sucina  fra  1'  entrar  di  fevraio 

e  mandorle  novelle  di  gennaio 

mandar  vorrei  io  a  Lan,  eh' è  gioi  compita, 
ch'io  l'amo  più  che  nessun  uom  la  vita, 

ed  ei  mi  tien  per  suo,  e  sono  e  paio. 

Qui  Cecco  lo  loda  molto  di  bellezza,  ma.... 

ma  non  dico  cosi  de  la  bontade, 
né  del  senno,  perciò  eh' i' mentirla; 


—  I09  — 

invece,    nel    primo    sonetto    l'aveva    lodato    e   di    bellezza    e    di 
senno  ('). 

XIV,  133.  Dicono  guelfo  Iacopo  di  Sant'Andrea,  e  il  Bartoli 
suppose  "  la  sua  qualità  di  guelfo  non  fosse  affatto  estranea  alla 
scelta  che  di  lui  fece  il  poeta  per  popolare  la  mesta  selva  „.  Sta, 
però,  il  fatto  che,  nel  1237,  Iacopo  appare  con  altri  fedeli  di  Fe- 
derico II  tra  i  testimoni  di  diplomi  imperiali  (')  e  che,  nel  1239,  si 
recò  al  campo  imperiale  con  Azzo  d'  Este.  Visto  venire  alla  sua 
volta  Ezelino,  il  marchese  mandò  innanzi  Iacopo  ed  Ailo  de'  Com- 
pagni, i  quali  "  pregarono  cortesemente  Ecelino  di  ritirarsi  o 
alla  diritta  o  alla  sinistra,  come  pili  gli  piacesse  ;  ed  Ecelino  avendo 
ciò  fatto,  ciascuno  passò  colle  sue  genti  senza  alcun  disordine  „. 
Poco  dopo,  il  13  giugno.  Federico  fulminò  severa  sentenza  contro 
il  marchese  ribelle  e  contro  i  seguaci  di  lui;  ma  Iacopo  non  è 
tra  i  condannati". 

XV,  no.  Francesco  d'Accorso  —  del  quale  molte  notizie 
avrebbe  potuto  raccogliere  il  Poletto  nell'  ultima  edizione  del  Sarti, 
e  un  aneddoto  nelle  Novelle  antiche  — ,  confessatosi  colpevole  di 
aver  esercitato  1'  usura,  ebbe  da  Niccolò  IV  comando  "  male  parta 
pauperibus  largir!  vel  in  pios  usus  erogare  „  (^)  Nel  1283  com- 
però una  casa  da  Venedico  Caccianemico;  nel  1292,  al  suo  nipo- 
tino Bartolommeo  "  adhuc  in  cunis  vagienti  et  vix  bimo,  uxorem 
destinavit  Peregrinam  Venetici  Caccianemici  viri  nobilissimi  filiam 
paris  etatulae,  cum  qua  constituta  dos  est  et  sponsalia  rite  con- 
tracta  „.  —  XV,  112  segg.  "  Andrea  de' Mozzi...  fu  da  Bonifazio  Vili 
traslato  alla  sede  di  Vicenza,  dove  mori  l'anno  appresso  il  26 
agosto  „.  Appresso  a  quale? 

XVI,  41-44.  Tegghiaio  Aldobrandi  e  Iacopo  Rusticucci  posse- 
devano case  contigue  in  S.  Michele  in  Palchetto.  Altre  case  pos- 


{^)  Cfr.  Navone,  Le  rime  di  Folgore  ecc.,  lvi  n. 

(')  Huillard-Bréholles,  Hist.  diplom.,  V,  122-23;    Vergi,   St.   degli  Ezelim, 
III,  115- 

(3)    PoTTHAST,    Reg.   pOttt.    II. 


sedeva  Iacopo  in  S.  Lorenzo  al  IMugnone  [Delizie,  VII,  258): 
viveva  ancora  nel  1266. 

XMII,  50.  "    ì\'ticdico  Caccianimico....   si   crede  morisse  tra  il 
1290  e  il  1300  „.  I  termini  sono  con  troppa  larghezza  indicati.  — 
"  Alcuni  lo  fanno  uomo  di  sangue  e  di  corrucci;  altri  lo   dicono 
cavaliere  nobile,    probo    e    valoroso  „.    Se   badiamo  clic  probo  e 
valoroso  avevano  identico  significato,  non  diremo  col  Poletto  che 
i  chiosatori    e    gli    storici  "  non    vanno  d' accordo  „  nel  definire 
l'indole  di  Venedico.  Ma  perché  non  consultarli,  gli  storici?  Essi 
direbbero:  Venedico,  nel   1264,  fu  podestà  d' Imola;  nel  67,  si  ado- 
però con  i  frati  Gaudenti  Loderingo  e  Catalano,  e  con  molti  altri, 
a  riconciliare  le  parti  bolognesi  venute  al  sangue,  ma,  pochi  mesi 
dopo,  aiutava  suo  fratello  Caccianemico  (e  tutt' e  due  erano   isti- 
gati dal  padre)  a  uccidere  Guido  di  Gruamonte,  soprannominato 
Palteiia,  loro  cugino;  nel  73,  fu  de' primi  a  prender  le  armi  contro 
i  Lambertazzi;  nel  73-74,  andò  capitano  del   popolo  a  Modena  e 
nel  75  podestà  a  Milano;  nel  79,  con  altri   quarantanove  de' Gè 
remei,  giurò  pace  a' Lambertazzi;  nell*  83,  tenne  la  podesteria  d 
Pistoia,  dove  alcuni  credono  lo  vedesse  Dante;  nell' 87,  fu    man 
dato  a  confine  per  aver  suscitato    rumore    a    favore  de'  Lamber 
tazzi.  Della  parentela,  che  contrasse  con  lui  Francesco  d'Accorso 
ho  già  fatto  cenno.  —  XVIII,  122.  "  Dante  conobbe   Alessio  In 
terminelli....  probabilmente    nel    tempo    eh'  egli  fu  a  Lucca  „.  Ma 
quando  fu  a  Lucca  Dante?  Gentucca  gli  fece  piacere  la  sua  città 
parecchi  anni  dopo  il  1300;  Alessio  nel  1300  si  batteva  la  zucca 
nelle  Malebolge. 

XXIV,  128-29.  Dice  Dante  al  suo  duca: 

e  dimanda  qual  colpa  quaggiù  il  pinsc 

eh'  io  il  vidi  uom  già  di  sangue  e  di  corrucci. 

Il  commentatore  spiega:  "  Il  vidi,  il  conobbi  „.  Facile  chiosa;  ma 
dove,  come,  quando?  Il  prof.  A.  Chiappelli  si  propose  questo 
stesso  quesito  tre  anni  or  sono  [La  Cultura,  20  marzo  1892, 
n.  12)  e,  ragionandovi  intorno  con  il  suo  solito  acume,  mostrò 
di  supporre  che  Dante  avesse  conosciuto  Vanni  Fucci  in  Pistoia, 


dove  nel  1295  tenne  la  podesteria  Mainetto  degli  Scali  "  che  fu 
poi  suo  compagno  d' esilio  „,  e  dove  nel  1296  fu  capitano  del 
popolo  Palmieri  degli  Altoviti,  "  cioè  appunto  uno  dei  quattro 
condannati  con  Dante  nel  1302  „.  Altre  considerazioni  aggiunse 
il  dotto  professore  dell'  Università  di  Napoli  a  meglio  render  pro- 
babile, se  ho  bene  inteso,  una  o  più  andate  del  poeta  a  Pistoia. 
Io  le  credo,  mi  affretto  a  dichiarare,  assai  probabili,  quante  volte 
ricordo  qual  breve  distanza  separi  Firenze  da  Pistoia,  e  quali 
fossero  le  relazioni  delle  due  città  fra  il  1290  e  il  1300;  nondi- 
meno, un  documento,  non  so  se  osservato  da  altri,  m' invita  a 
pensare  che  il  poeta  potè  vedere  il  ladro  pistoiese  fuori  di  Pi- 
stoia e  fuori  di  Firenze. 

Dopo  la  battaglia  di  Campaldino,  dal  1289  al  1293,  Firenze, 
alleata  di  Nino  giudice  di  Gallura,  combattendo  guerra  lunga  e 
quasi  ininterrotta  con  Pisa,  ebbe  bisogno  di  soldati,  e  —  come 
pare  —  non  bastandole  le  forze  proprie  e  degli  alleati,  condusse 
a'  suoi  stipendi  parecchie  masnade  di  venturieri,  stranieri  e  ita- 
liani. Straniero  era  il  capitano  supremo  dell'  esercito,  il  vincitore 
di  Campaldino,  quell'Amerigo  di  Narbona,  in  grazia  del  quale 
—  e  fu  r  ultima  volta,  forse  —  la  moribonda  poesia  provenzale 
trattò,  con  interessamento  e  con  aff"etto,  di  cose  italiane:  la  critica 
nostra,  occupatissima  a  rintracciar  notizie  del  balio  di  Amerigo, 
non  pare  se  ne  sia  accorta.  Comandavano  piccole  o  grosse  squadre 
e  compagnie,  bene  e  puntualmente  pagate  dal  Comune,  Manente 
da  Sarteano,  Stefano  da  Bibbiena,  Bulgarino  da  Sarteano,  Gu- 
glielmo Catalani,  Michele  da  Arezzo,  Naldo  da  Perugia,  Francesco 
da  Rieti,  tutti  certamente  italiani,  Giovanni  di  Chesta  e  Ruggero 
di  Lilla,  che  paiono  francesi,  venuti,  è  lecito  supporre,  con  Ame- 
rigo. Di  tutti  costoro,  sia  per  il  soldo  loro  dovuto,  sia  per  le 
operazioni  militari,  alle  quali  partecipavano,  dovettero  spesso 
discorrere  i  consigli  del  Comune;  di  parecchi  de' loro  seguaci 
dovettero  a  cagione  de'  cavalli,  de'  muli,  de'  ronzini  "  mortuis, 
seu  perditis,  vel  quomodocumque  amissis  „,  per  i  quali  il  Co- 
mune concedeva  un  compenso.  Il  22  luglio  1292  il  consiglio  del 
Capitano  fu  invitato  a  deliberare   "   super   emendatione   facienda 


—    112    — 

\'.\NM  FiLio  Fvccii  DE  PiSTORio  de  masnada  domini  Rogerii  de 
Lilla,  de  quodam  equo,  in  quantitate  triginta  duorum  florenorum 
auri  „  (')  Da  questa  notizia  ricaviamo  che  X'anni  Fucci  militò 
sotto  le  bandiere  iìorentine  nella  guerra  contro  Pisa,  nella  quale 
•"  prestò  anch' egli  servizio  „  Dante  Alighieri. 

XX\'.  43.  "  Di  Cianfa,  da  questo  in  fuori  eh' ei  fu  della  fa- 
miglia de' Donati,  nulla  san  dirci  i  commentatori  „.  Ebbene,  ag- 
giungiamo che  nel  1280  era  de*  cavalieri  aureati  gueltì  [Delizie, 
IX,  104),  nel  1282  uno  de' consiglieri  del  Capitano  per  il  Sesto 
di  Porta  S.  Pietro  (  Cousultc,  I,  135).  —  XX\',  148.  Piiccius  Sciau- 
^atus  et  fila  furono  banditi  nel  1268;  Puccitis  Sciancatiis  de  Gali- 
gariis  fu  tle'  Ghibellini,  che  giurarono  pace  a'  Guelfi  nel  1280 
{Delizie,  Vili,  218;  IX,  92). 

XX\'II;  46-48.  Non  riesco  a  indovinare  dove  il  Poletto  abbia 
trovato  che  i  Riminesi  donarono  \'errucchio  ai  Malatesta:  è  come 
dire  che  i  Ravennati  donarono  Polenta  agli  antenati  di  Fran- 
cesca. Malatestino  non  fu  "  primogenito  di  Malatesta  il  Vecchio  „ 
(e  dire  che  il  nostro  commentatore  cita  altrove  il  Tonini!). 

XXVIII,  16-19.  Nessun  cronista  o  documento  contemporaneo 
narra  che  il  conte  di  Caserta  "  avendo  avuto  l' incarico  di  difen- 
dere quel  passo  importantissimo  (di  Ceperano),  lasciò  libero  varco 
alle  truppe  nemiche  „.  Il  passo  di  Ceperano  fu  lasciato  senza 
difese  da  Manfredi;  Riccardo  conte  di  Caserta  difendeva  San  Ger- 
mano. Ad  Alardo  di  Vallery  il  Poletto,  indotto  forse  dall'  auto- 
rità del  Casini,  regala  la  carica  di  consigliere  di  re  Carlo  d'  Angiò  ; 
errore,  perché  il  valoroso  connestabile  di  Champagne  capitò  im- 
provvisamente e  quasi  per  caso  a  Tagliacozzo.  "  A  celle  heure 
-et  à  cel  point  que  li  roys  Charles  ordenoit  sa  gent  ainsi  et  ses 
batailles,  Erars  de  Waleri,  chevaliers  preus  et  renommez,  et  autre 
chevalier  de  France  qui  repairoieni  d'  outre-mer  par  la  terre  de 
Puille,  vindrent  en  1'  ost  le  roy  Charlon  aussi  comme  angle  que 
Diex  y  eùt  envoyez  „  ecc.  (*)    Quanto    prode  e  cortese  cavaliere 


(')  Gherardi,  Le  Consnlle  ecc.,  II,  p.  200. 

(*)  Cfr.  Oeuvres  compleUs  de  Rutebeuf,    par  A.  Jl'binal,   III,  44,    dove    sono 
raccolte  molte  notizie  del  vecchio  guerriero. 


—  113  — 

fosse  messer  Alardo,  si  vede  da  una  delle  cento  Novelle  antiche 
(ediz.  Biagi,  V  ).  —  XXN'^III,  135.  Non  pure  "  i  cronisti  „;  ma  i 
novellatori,  i  biografi  antichi  di  Bertran  de  Born  e  lo  stesso  Ber- 
tran  chiamarono  re  giovane  il  principe  Enrico  primogenito  di  En- 
rico li  (re,  perché  coronato  nel   1170J: 

quar  reis  joves  aviatz   nom  agut. 

Per  conseguenza,  non  è  se  non  una  sofisticheria  mantenere  nel 
testo:  re  Giovanni.  Domando:  quali  "  antichi  cronisti  ci  dipin- 
gono Bertrando  prode  guerriero,  ma  inquieto  e  seminatore  di 
discordie?  „  Il  Thomas,  invece,  ci  apprende:  "  Aucun  des  chro- 
niqueurs  officiels  des  regnes  d'  Henri  II  et  de  Richard  Coeur-de 
Lion  ne  semole  connaìtre  ce  personnage.  Seul,  un  moine  obscur 
de  r  abbaye  de  Saint-Martial....  prononce  le  nom  de  Bertran  de 
Born;  mais  sans  faire  allusion  à  son  ròle  politique  „.  Il  Thomas 
pubblicò  il  suo  libro  nel  1888. 

XXIX,  27.  Tra  le  case  danneggiate  da'  Ghibellini,  delle  quali 
fu  compilato  V  elenco  nel  1266,  è  notata  "  domum  aliquantulum 
"  destructam  „,  nel  popolo  di  S.  Martino,  appartenente  a  Geri  del 
Bello  {Delizie,  VII,  259).  —  XXIX,  109.  Antichi  e  moderni  non 
sanno  di  Grififolino,  se  non  ciò,  che  Dante  ne  dice:  l'Acquarone 
ritiene  che  V  alchimista  fu  messo  al  fuoco  al  tempo  del  vescovo 
Buonfiglio,  "  il  quale  resse  la  Chiesa  sanese  dal  1216  al  1252  „. 
Sennonché  Magister  Grifolinns  de  Arczio  viveva  ancora  nel  1259, 
in  Bologna,  ascritto  alla  Società  de'  Toschi  (^).  —  XXIX,  125-27. 
Posto  che  quello  Stricca  e  quel  Niccolò,  che  Capocchio  loda  ironi- 
camente, si  debbano  ritenere  de'  Salimbeni  e  non  di  altra  casata,  si 
riferiscono  ad  essi  due  documenti  del  1287  pubblicati  dal  Cristofori 
{Misceli,  stor.  Rom.,  I,  vii,  231-32).  Per  avere  occupato  alcune 
terre  del  monastero  di  S.  Salvatore  del  Monte  Amiata,  furono 
citati  a  nome  del  papa  "  dominos  Johannem,  Strictam,  Berta- 
conem  et  Nicolaum    de    Salimbenis    milites    civitatis   Senarum   „. 


(1)  Gaudenzi,  Stai,  delle  soc.  del  Pop.  di  Bologna,  p.  414. 

TORRACA. 


—  114  — 

Non  so  se  alluda  alla  hiioìia  sciiiiia  un  verso  d'  un  sonetto,  vera- 
mente, verso  la  fine,  molto  oscuro  di  Cecco  Angiolieri  (  Canz. 
Chig.  442): 

Forse  che  riguardato  par  capocchio. 

Ne  fece  un  cenno  il  D'Ancona  negli  Studi  di  Crit.  e  St.  lett.,  dove 
e  da  notare  che  della  putente  Magna  non  indica  la  patria  di  Berto 
Rinieri,  ma  il  luogo,  dond'  è  scritto  e  mandato  a  Berto  il  sonetto 
Salute  manda  ecc.  —  XXIX,  131.  Ignoro  se  altri  abbia  pensato 
che  Caccia  d'Asciano  potrebbe  essere  1'  autore  della  canzone 

Per  forza  di  piacer  lontana  cosa 
è  prossimana  al  core 

(i  due  versi,  belli,  meritano  d'essere  citati  insieme),  la  quale,  nel 
canzoniere   vaticano  3793,  sta  sotto    il  nome  di  Caccia  da  Siena. 

XXX,  44.  Simone  Donati  "  nipote  di  Buoso  „  —  fratello,  se- 
condo i  documenti  —  qual  vantaggio  poteva  aspettarsi  dalla  morte 
di  lui,  che  aveva  eredi  diretti?  A  questa  circostanza  non  hanno 
posto  attenzione  i  commentatori,  e  nemmeno  gli  eruditi,  che  della 
falsificazione  del  testamento  hanno  discorso.  L' inganno  dovette 
essere  ordito  dal  figlio  di  Buoso,  Taddeo,  il  quale,  giunta  la  volta 
sua  di  testare,  promise,  e  obbligò  il  proprio  figliuolo  a  promettere 
"  solvere  omnia  legata  olim  facta  et  relieta  per  Dom.  Buosum 
patrem  dicti  Taddei  „  [Delizie,  IX,  123).  Buoso  viveva  ancora 
nel  1280. 

XXXII,  69.  Carlino  D.  Ciuppis  de  Pazzis  il  2  luglio  1302  era 
compreso  tra  i  condannati  ghibellini;  il  3  agosto  fu  cancellato  per 
balia  data  ai  Priori  sopra  ciò  (Delizie,  IX,  loi).  —  XXXII,  119. 
Sia  pure  "  calunniosa  1'  accusa  „  di  tradimento  fatta  a  quel  di 
Beccheria;  è  certo  che  i  Fiorentini  giudicarono  avesse  buon  fon- 
damento. I  "  numerosi  documenti  „  prodotti  a  dimostrarla  "  ca- 
lunniosa „,  dimostrano  solo  che  il  papa,  i  Pavesi  e  gli  scrittori 
ecclesiastici  adottarono  opinione  diversa  da  quella  dei  Fiorentini. 
Opporre  all'  autorità  del  Villani  la  testimonianza  del  Malespini, 
a  questi  lumi  di  critica  storica,    può  parere,  se  non  altro,  un'  in- 


genuità,  —  XXXIl,  121.  Gianni  de  Soldancriis  recano  le  Coìisulte 
ed  altre  carte  della  seconda  meta  del  Duecento;  lic  Soldaìicriis 
vi  si  legge  anche  di  altre  persone  della  famiglia  (Gualteronus, 
Tiniosus,  Belioctus,  Guido,  GrifìTus  de  So/dancnis);  perciò  la  le- 
zione esatta  del  verso  pare  questa: 

Gianni  tie'  Soldanier  credo  che  sia, 

e  farebbe  il  paio  con  quella  del  XIV  del  Piirgalorio: 
O  Ugolin  rf*' Fantolin,  sicuro  ecc. 

XXXIII,  75.  Secondo  il  Poletto,  il  conte  Ugolino,  vinto  dal 
digiuno  il  dolore,  non  mangiò  la  carne  de'  suoi,  ma  ne  fece  "  come 
un  tentativo  „.  Dante  non  aveva  ancora  posto  mano  alla  Divina 
Co/iDiicdia,  quando  un  altro  fiorentino  notava  nel  suo  quaderno 
di  appunti  storici:  "  E  cosi  morirono  d' inopia  fame  tutti  e  cinque, 
ciò  fue  il  conte  Ugolino,  Uguiccione,  Brigata,  Anselmuccio  e 
Guelfo;  e  quivi  si  trovò  che  ['11110  mangiò  de  le  carni  all'altro  „  (') 

XXXIV,  97-98.  "  Il  Buti:  I  signori  usano  di  chiamare  le  loro 
sale  cainniinatf,  massimamente  in  Lombardia  „.  Verissimo;  ma 
anche  a  Firenze.  "  Die  iovis  XXII  februarii.  Congregatìs  dominis 
Xllcim  et  duobus  sapientibus  prò  sextu,  congregatis  in  pallatio 
Comunis  in  caminata  Potestatis  „  {Consulte,  I,  11).  "  Credo  di 
aver  provato  in  altro  luogo  che  Burella  fu  nome  proprio  d'  una 
prigione  in  Firenze:  cosi  si  spiega  perché  Dante  stimasse  neces- 
sario avvertire  d'  essersi  trovato  in  una  burella  naturale.  La  Bu- 
rella era  nel  Gardingo,  vicino  alla  cappella  di  S.  Firenze;  il 
Comune  la  teneva  in  fitto. 

Purgatorio,  IX,  118.  Manfredi  mori  il  26  febbraio  1266;  ma 
non  "  a  Ceperan,  là  dove  fu  bugiardo  ciascun  pugliese  „.  Il  Po- 
letto  stesso,  in  altra  occasione,  non  cade  in  questo  sbaglio,  né  io 
Io  noterei,  se  egli,  qua  e  là,  non  fosse  piuttosto  acerbo  nelle  cen- 
sure di  sviste  e  di  dimenticanze. 


(1)  Cronica  Fiorentina,  in  Villari,  /  primi  due   sec.  della    St.  di  Firenze,  II, 
p.  251.  Sembra  sfuggita  a  tutti  la  testimonianza  dell'annalista  genovese  del  tempo. 


—  ii6  — 

\',  64.  A  proposito  di  Iacopo  del  Cassero,  meritavano  d'essere 
ricordate  alcune  dotte  e  acute  pagine  di  I.  1>(.1  Lungo.  W  si  legge 
r  epitafììo  di  Iacopo  : 

Italie  sydus  Martiniis  copia  legum 
aggrcditur  fidus  doctorum  conscia  reguin 

ecc.,  in  versi,  chi  negherebbe?,  "  feroci  „,  ma  non  "  leonini  „. 
L'  arte  poetica  del  Medio  Evo  li  diceva  collaterali,  ovvero  vciitrini 
e  caudati,  perché  "  in  ventre  id  est  in  medio  et  in  cauda  id  est 
in  fine  habent  concinnitatem  „.  —  V,  136.  Anni  sono,  un  bel  di- 
scorso del  Del  Lungo  fece  sperare  chiuse  una  buona  volta  le 
dispute  su  questo  verso.  Il  Poletto  le  riapre;  ma  non  con  molta 
chiarezza,  giacché  nel  testo  stampa  disposa iido,  nel  commento 
legge  e  chiosa  disposata.  Alle  prove  raccolte  dal  Del  Lungo  per 
dimostrare  che  1'  inanellare  e  il  disposare  erano  atti  simultanei  e 
r  uno  compimento  dell'  altro,  si  aggiunga  la  testimonianza  di  F. 
da  Barberino  {I^cgg.  Vj: 

Ma  non  vi  lascio  del  di  dell'  anello, 

quando  si  dicon  le  parole  e'  hanno 

a  fare  intero  il  matrimon  tra  loro.... 

Le  man  non  porga  a  colui  che  la  tiene, 

quando  l'anello  a  lei  si  dona; 

ina  prima  aspetti  che  quasi  sforzata 

la  man  sia  presa....     • 

Cosi  ancor  quand' ella  è  dimandata: 

—   Vole'  voi  consentire?  in  cotale 

o  simili  parole, 

aspetti  r  una  e  le  due,  e  la  terza 

faccia  soave  e  piana  sua  risposta.... 

poi  si  rimane  colle  donne 
anzi  che  vada  a  lui.... 
Avien  che  questo  giorno 
ella  si  mena  a  lui. 

La  spiegazione,  che  piti  "  arride  „  al  Poletto:  sei  sa  colui,  il  quale, 
facendosi  marito,  me  aveva  avuto  per  prima  moglie,  non  solo  intro- 
duce a  forza  nelle  parole  della  Pia  allusioni,  che  non  contengono, 
ma  le  costringe  a  far  zuffa  con  la  grammatica    e    col    senso   co- 


—  117  — 

niiinc,  perche  in  verità  ella  direbbe  :  y</t7//^/6>.s7  ;//(7;7A>  ad  un'altra, 
;;//  aveva  presa  per  moi^/ir. 

\'l,  i8.  "  A  Marzucco  indirizzò  fra  Guittone  una  canzone  „. 
Si,  ed  anche  una  lettera,  nella  quale  ricordò  un  prestito  fatto  al 
^'  nobile  molto  e  magno  seculare  „,  quando  fu  assessore  di 
Arezzo,  dal  padre  suo  V'iva  di  Michele.  Messer  Marzucco  di 
messer  Scornigiano  giudice  fu  de'  iiirisperiti  sindici  conimitnis 
Pisani,  che  nel  1276  intervennero  alle  stipulazioni  della  pace  con 
Firenze. 

Xlll,  121.  "  Xon  fili;  non  ci  tu  mai  (in  Lunigiana)  prima 
del  1300;  quando  v'andò  dapprima  fu  nel  1306,  dopo  la  visita 
che  nell'agosto  fece  in  Padova  all'amico  Giotto  „.  Di  questa 
visita  il  Poletto  si  mostra,  qui  ed  altrove,  tanto  sicuro,  che  par 
quasi  crudeltà  chiedergliene  le  prove.  Certamente  non  è  una 
prova  r  epigrafe  di  Carlo  Leoni.  Oggi  si  dubita  sinanche  del- 
l' andata  del  poeta  a  Padova  nel  1306. 

XI,  80.  "  Tengo  per  certo  che  mentre  scriveva  qui  il  nome 
■di  Agobbio,  in  riguardo  ad  Oderisi,  dovesse  rammentarsi  d'  altro 
Eugubino,  suo  feroce  nemico  e  persecutore,  voglio  dire  Gante 
de'  Gabrielli....  e  forse  si  rammentava  d'  altro  cittadino  di  Gubbio 
di  Rosone  de'  Gabrieli  „  ecc.  Altri  potrebbe  tenere,  invece,  per 
certo  che,  mentre  scriveva  questa  frase.  Dante  dovesse  rammen- 
tarsi del  lupo  il'  Agobbio....  —  XI,  95.  La  risposta,  che  Benve- 
nuto attribuisce  a  Giotto:  Piiigo  de  die,  scd  fingo  de  nocte,  era 
stata  pronunziata  molti  secoli  prima  da  L.  Mallio,  qui  optimiis 
pictor  Roniae  ìiabebatiir  secondo  Macrobio  [Satiir.,  II,  11).  Tanto 
è  vero  che  Dante  la  udisse  dall'amico  suo  in  Padova! — XI,  97 
segg.  Nel  passo: 

cosi  ha  tolto  r  uno  all'  altro  Guido 
la  gloria  della  lingua, 

il  commentatore  intende  "  Guido  dalle  Colonne  superato  in  ec- 
cellenza da  Guido  Guinicelli  „,  e  ciò  non  solo  reputa  vero,  ma 
pargli  "  che  ci  metta  in  largo  campo,  e  ci  richiami  alla  mente  il 


—  ii8  — 

periodo  bolognese  della  nostra  letteratura,  vieppiù  bello  del  pe- 
riodo siciliano  „.  Potrei  opporre:  A  Guido  delle  Colonne  Dante 
non  dette  mai  lode  speciale,  non  attribuì  meriti  di  caposcuola; 
potrei  osservare:  se  il  Poletto  non  giudica  Guido  Cavalcanti 
tale  da  "  non  che  vincere,  pur  pareggiare  il  merito  e  la  lode 
che  r  Allighieri  si  ampiamente  concede  al  Guinicelli  „,  dal  canto 
suo  Guido  delle  Colonne  fu  tal  rimatore,  che  non  dovette  essere 
gran  merito  per  il  Guinizelli  1'  averlo  superato.  Ma  badiamo  ad 
altro.  Ha  tolto  dice  Oderisi,  e  si  deve  intendere  di  tempo  non 
troppo  lontano  dal  1300  e,  fors'  anche,  di  persona  tuttora  viva 
in  quell'anno  {civ.  pciiucllcggia  l'Vanco,  l' onore  è  tutto  or  suo, 
ora  Giotto  ha  il  grido))  il  Guinizelli  era  morto  nel  1276!  Né 
basta:  se  Oderisi,  ossia  Dante,  facesse  un  confronto  tra  il  rima- 
tore bolognese  e  il  messinese,  con  quanto  rispetto  alla  cronologia 
direbbe:  il  bolognese  ha  tolto  la  gloria  della  lingua  al  messinese? 
Guido  delle  Colonne  visse  ancora  più  di  dieci  anni  dopo  la  morte 
del  Guinizelli. 

XIV.  Le  notizie,  raccolte  qui  da'  commenti  antichi,  di  Guido 
del  Duca  e  de'  romagnoli,  eh'  egli  nomina,  sono  tutte  inesatte 
o  monche;  (^)  ma  commenti  e  scritture  antiche  non  ignote  al 
Poletto  non  sono  stati  da  lui  esaminati  con  molta  attenzione. 
Due  volte,  infatti,  dice  che  il  compagno  di  Guido  nella  cor- 
nice degl'  invidiosi  era  Ranieri  Paolucci  o  de'  Paolucci  da  Cai- 
boli;  ma  i  Calboli  s'imparentarono  co' Paolucci  molto  tardi  nel 
secolo  XIV.  Più  volte,  qua  e  là,  ricorre  al  Novellino;  ma  non 
ricorda  la  novelletta,  in  cui  messer  Rinieri  da  Calvoli  è  rappre- 
sentato in  atto  di  pregar  d'  amore  la  donna  di  messer  Lizo  da 
Valbona,  mentre  quest'  ultimo  "  era  dopo  la  parete  de  la  camera  „. 
Tra  Benvenuto  da  Imola  e  Pietro  di  Dante  non  sa  vedere  chi 
racconti  meglio  un  aneddoto  di  Guido  del  Duca  e  di  Arrigo  Mai- 
nardi  ;  ma  dimentica  che  esso  aneddoto  è  riferito  nel  Novellina 
a  tre  cavalieri  di  Romagna,  uno    de'  quali    Messer    Polo  Traver- 


(■')  Cfr.  nella  N.  Anloìogia  del  i."  settembre  1893  il  mio  articolo    Le    rimem^ 
brame  di  Guido  del  Duca. 


—  119  — 

sario.  Non  riesce  a  determinare  se  Folcieri  da  Calboli  fosse  po- 
destà di  Firenze  nel  1302  o  nel  1303;  ma  non  ha  nemmeno  cer- 
cato se  mai  di  lui  si  potessero  ricordare  altre  podesterie  ed  altri 
fatti.  A  proposito,  la  nota  :  "  Per  ìiipotc  alcuni  intendono  che 
Folcieri  fosse  figlio  d'un  figlio  „,  simile  a  troppe  altre,  lascia 
bene  capire  come  il  Poletto  abbia  studiato  le  allusioni  storiche 
del  poema.  Quegli  alcmu  e  quegli  altri  sono  i  commentatori. 
Bastava  aprire  il  Cantinelli,  scrittore  sincrono,  per  sapere  sicu- 
ramente che  Folcieri  non  fu  figlio  d' un  figlio  di  Ranieri.  Al 
modo  stesso,  bastava  aprire  Salimbene  per  evitar  di  scrivere: 
"  Dicono  che  (Pier  Traversaro)  maritasse  una  sua  figliuola  a 
Stefano  re  d'  Ungheria  „.  Stefano  d'  Ungheria  duca  di  Slavonia 
sposò  Traversaria  pronipote  di  Pietro:  non  egli,  bensì  un  fi- 
gliuolo di  lui  e  d*  una  Morosini  fu  re  di  Ungheria. 

XX,  71.  Carlo  di  Valois  "  secondo  il  Compagni  „  entrò  in 
Firenze  "  il  4  novembre  del  1301  „.  Anche  i  sostenitori  del- 
l' autenticità  della  Cronaca  riconoscono  che  la  data  è  sbagliata  : 
fu  "  il  di  d'  Ognissanti  „. 

XXII,  67-72.  La  similitudine  di  "  quei,  che  porta  il  lume  dietro 
e  sé  non  giova  „  1'  abbiamo  "  in  Paolo  Zoppo,  poeta  della  prima 
metà  del  secolo  XIII  „.  Della  seconda. 


Messer  Paulo,  di  Bologna  nato 
e  di  Castel  chiamato  dalle  genti, 


nel  1268  vende  una  sua  casa  in  Castello;  parecchi  anni  dopo  sì 
pacificò  con  i  monaci  di  S.  Procolo,  ai  quali  aveva  fatto  guerra 
lunga  e  viva. 

XXIV,  23.  Di  Martino  IV  non  direi  :  "  Prima  Simone  dai 
Torso  „,  bensì,  più  esattamente:  Simone  di  Brie  o  di  Brian, 
cardinale  di  S.  Cecilia  prima  di  diventar  papa.  Della  forma  dal 
Torso  noterei  che  non  è  solo  nella  Commedia,  e  del  peccato,  di 
cui  Martino  è  punito,  avvertirei  che  gli  è  imputato  anche  dal 
cronista  Francesco  Pipino,  il  quale,  scriveva  prima  della  pubbli-^ 
cazione  della  Commedia.  —  XXIV,  31.  Messer   Marchesino  degR 


Orgogliosi,  figliuolo  di  Superbo,  nel  1296  fu  podestà  di  Faenza. 
—  XXIV,  43-45.  Non  nuova,  ma  non  è  punto  inutile  ripeterla, 
r  avvertenza  :  "  Meglio  è  dire  che  Gentucca  fu  una  donna  luc- 
chese che  fu  cara  a  Dante;  sul  resto  non  è  serio  l'insistere.,., 
perché  non  se  ne  sa  nulla  „.  Non  intendo,  però,  per  quale  ra- 
gione, nella  frase  di  Bonagiunta:  "  come  ch'uom  la  riprenda  „, 
questo  qualcuno  potrebbe  benissimo  esser  Dante  medesimo,  per 
quello  che  disse  in  biasimo  di  Lucca,  che  ognun  v'  era  barat- 
tiere „.  L'odi  è  come  dire  //////  e  nessuno,  e  la  frase  era  comunis- 
sima,  cosi  indeterminata,  in  Italia,  in  Francia,  in  Provenza. 

Ans  diraii  tiiit:  Mi  no  pot  om  reprendre 
de  mil  mal  plait, 

tolgo,  a  caso,  da  una  poesia  di  B.  de  Born.  Il  colloquio  di  Bo- 
nagiunta con  Dante  avviene  nell'  aprile  del  1300,  quando  il  primo 
era  morto  da  quattro  anni,  quando  il  secondo,  probabilmente, 
non  aveva  nemmeno  imaginato  di  dover  porre  nell'Inferno  un 
anziano  di  S.  Zita  e  nel  Purgatorio  Bonagiunta.  —  XXIV,  83-84- 
II  Casini  crede  che  il  poeta  avesse  rappresentato  la  fine  di  Corso 
Donati  come  miracolosa,  "  immaginando  eh'  ei  fosse  tratto  a  coda 
di  cavallo  verso  l' Inferno  „.  Il  Poletto  crede,  invece,  che  "  quel- 
r  esser  tratto  dalla  bestia  verso  la  valle  ecc.,  altro  non  significa 
se  non  che  il  cavallo  furiosamente  correndo  trascinava  alla  morte 
quello  scellerato  „.  Per  trarre  Corso  all'  Inferno  in  corpo  ed 
anima,  la  bestia  avrebbe  dovuto  esser  quella,  che,  secondo  la 
leggenda,  portò  Teodorico  da  Verona  all'Etna,  un  diavolo  in 
forma  di  cavallo.  Se  Corso  fosse  stato  veramente  tratto  verso 
r  Inferno,  perché  la  bestia  lo  avrebbe  percosso,  lasciando  "  il 
corpo  vilmente  disfatto  „  a  Firenze,  presso  la  badia  di  S.  Salvi? 
XXVI,  92.  Il  Guinizelli  "  nel  1274  co'  suoi  compagni  fu 
cacciato  in  esilio,  e  mori  due  anni  appresso,  come  affermano,  a 
\'erona  „.  Come  affermano  si  riferisce  alla  data,  ovvero  al  luogo 
della  morte?  Il  Poletto,  che  più  volte  ha  dovuto  cercare  il  senso 
esatto  di  frasi  dantesche  rese  men  chiare    da  incisi  come   questo 


—    121    — 

SUO,  avrebbe  dovuto  evitarlo.  Gli  atti  relativi  all'  eredità  del 
poeta  e  alla  tutela  del  figliuolo  minorenne,  pubblicati  da  L.  Frati, 
sono  del  3  e  del  13  novembre  1276.  —  XXVI,  1 18-120.  Prose 
di  ronuiiiz:,  secondo  il  Poletto,  è  allusione  ai  romanzi  francesi  in 
prosa,  alle  Arturi  regis  oììibagcs  piilcìicrrimae  del  De  Viilgari 
Eloqui'iitia.  "  Il  Guinicelli  affermò  che  Arnaldo  in  lingua  d'  oc,  per 
eccellenza  di  stile,  fu  pili  glorioso  di  lui,  che  scrisse  in  lingua 
di  6/' versi  d'amore;  e  cosi  vinse  ogni  più  illustre  scrittore  di 
romanzi  in  lingua  d'  oi7,  dunque  fra  gli  scrittori  suoi  contempo- 
ranei delle  tre  lingue  sorelle  Arnaldo  Daniello  per  invenzione  e 
per  passione  passò  innanzi  a  tutti  „.  Resta  dubbio  che  i  versi 
d' amore  comprendano  le  poesie  del  Guinizelli  e  degli  altri  elo- 
quenti italiani,  preposti  nel  De  l^itlgari  Eloqiieiitia,  per  perfe- 
zione e  dolcezza,  agli  stessi  provenzali  ;  non  è  esatto  porre  Ar- 
naldo Daniello  tra  i  contemporanei  del  Guinizelli.  —  124-26.  Da 
qual  documento  si  rileva  che  Guittone  nacque  nel  1220?  Non  è 
stato  inopportuno  avvertire  che  Dante,  in  Firenze,  potè  conoscer 
l'aretino;  forse  sarebbe  stato  non  meno  opportuno  ricordare  che 
il  nome  Guittone,  intorno  al  quale  si  almanaccò  non  poco,  nella 
seconda  metà  del  Duecento  era  frequentissimo  a  Firenze  e  in 
tutta  Toscana.  Il  terzo  verso  è  spiegato  cosi:  "  Fin  che  il  vero 
vinse  //  grido  con  un  numero  di  persone  maggiore  di  quello 
degli  stolti,  che  a  quel  grido  andavano  dietro  „.  Ma  Dante  non 
scrisse:  il  grido,  bensì:  di  grido  in  grido,  e  perciò,  mi  sembra 
non  al  grido,  al  pregio  dato  solo  a  Guittone  si  deve  riferire  Y  af- 
fermazione: r  ha  vinto  il  ver.  Chi  ben  consideri,  più  persone  non 
significa  numero  di  censori  di  Guittone  più  grande  di  quello 
d^' molti  anticìn  stolti,  che  avevan  lodato  lui  solo;  piiì  persone, 
grammaticalmente  e  aritmeticamente,  sono  meno  di  molti.  Infine, 
come  restringere  a  differenza  di  cifre  la  questione,  proprio  là 
dove  Dante  distingue  l' opinione  accolta  senza  discuterla,  per 
fama,  dall'  opinione  nata  dopo  che  arte  o  ragione  si  sono  fatte 
ascoltare  ? 

Paradiso,  III,  118.  Costanza  era  zia,  non    "    sorella    „  di  Gu- 
gliemo  II  il  buono.  Federico  Barbarossa  nacque  molti  anni  prima 


del  1165:  vincere  un  capitano  di  undici  anni  sarebbe  stato  grande 
gloria  per  i  Lombardi,  a  Legnano?  Se  Dante  "  rispetto  alla  casa 
sveva  non  tiene  conto  né  di  Corrado  III,  predecessore  del  Bar- 
barossa,  né  di  Corrado  IV,  figlio  e  successore  di  Federico  II  „,. 
non  diremo  lo  faccia  "  perché  non  si  diedero  pensiero  delle  cose 
"  d'Italia  „;  ma  perche  Corrado  III  signore  di  Franconia  non 
poteva  esser  compreso  tra  i  z'cnli  di  Soave,  e  perché  Corrado  IV 
non  fu  imperatore,  e  regnò  soli  quattro  anni. 

Vili,  119.  "  La  dimora  dell'Alighieri  in  Napoli  „  nella  se- 
conda metà  del  1294,  è  di  quelle  ipotesi,  a  cui  gi'  investigatori 
più  recenti  e  pili  diligenti  della  vita  del  poeta  non  prestano  fede. 
—  Vili,  77.  Ai  commentatori  futuri  gioverà  sapere  che  il  Croce  (*) 
intende  solo  l' avarizia  nell'  espressione  avara  povertà  di  Cata- 
logna e  non  vi  riconosce  allusione  ai  signori  Catalani  venuti  con 
Roberto,  dopo  la  sua  prigionia,  nel  Regno,  per  questa  buona 
ragione:  nessuno  ha  ancora  addotto  le  prove  "  che  Roberto 
d'  Angiò  si  servisse  di  Catalani  negli  uffizi  del  regno  e  avesse 
presso  di  sé  molti  cortigiani  Catalani  „. 

IX,  54.  "  Lasciando....  la  Malta  del  lago  di  Bolsena,  della 
quale  non  abbiamo  indizio  „.  il  Poletto  crede  si  tratti  di  una 
prigione  fatta  in  Viterbo,  secondo  il  Della  Tuccia,  "  allato  alla 
porta  di  ponte  Tremoli,  la  quale  era  chiamata  la  Malta,  dove  il 
Papa  metteva  i  suoi  prigioni  „.  Qualcosa  più  d' un  indizio  ci 
offre  la  Cronaca  pubblicata  dal  Villari,  sotto  Tanno  1294:  "  Elli 
(papa  Bonifazio  Vili)  messer  Rinieri  Ghiberti  di  Firenze,  gran 
maestro,  fece  mettere  nella  Malta,  forte  prigione  nel  lago  di 
Bolsena  „.  —  IX,  94.  "  Dice  1'  Ottimo,  e  credono  i  più  de'  mo- 
derni, che  Folchetto  fosse  figlio  d' un  mercante  genovese  chia- 
mato Anfuso,  stanziatosi  in  quella  città  „.  E  come  no,  se  tanto 
i  moderni,  quanto  1'  Ottimo,  seguono  1'  antica  biografia  del  trova- 
tore? "  Folquetz  de  Marseilla  si  fon  de  Marseilla,  fils  d' un  mer- 
cadier  que  fo  de  Genoa,    que    ac    nom    ser    Amfos  „.  Non  affer- 


ei Primi  contatti  fra  Spagna  e  Italia,   p.  24. 


—  123  — 

merei  che  Folchetto  "  esordi  alla  sua  carriera  poetica  alla  corte 
di  Alfonso  I  conte  di  Provenza  „,  e  quest'  ultimo  indicherei  me- 
glio col  suo  titolo  di  re  (Alfonso  II)  d'Aragona.  Tra  le  ragioni, 
dalle  quali  il  trovatore  potè  essere  indotto  a  partirsi  dalla  corte 
di  Barrai  del  Balzo,  perché  omettere  proprio  quella  sola,  che  le 
antiche  biografie  danno? 

XII,  140.  La  forma  calavrcsc  può  parere  una  singolarità,  e 
non  e.  Parlando  dell'abate  Gioachino  a  punto,  la  Cronaca  pub- 
blicata dal  Villari  ha:  "  In  questo  tempo  per  il  valoroso  e 
savio  huomo  "  messer  Jovacchino  abate  in  Calaira  „.  Folco  di 
Calavra  chiama  il  canzoniere  vaticano  3793  messer  Folco  Ruffo, 
r  autore  della  canzone  D'  Amor  distretto  :  il  Contrasto  di  Cielo 
ha  Calabra.  Non  so  chi  abbia  potuto  dar  a  credere  al  Poletto 
che  il  luogo  selvaggio  tra  1'  Albula  e  il  Neto,  dove  si  ritirò  Gioa- 
chino, si  chiamasse  "  Santa  Fiora  „.  Con  diploma  del  1221  Fe- 
derico II  confermò  i  privilegi  ottenuti  prima  al  monastero  "  di 
Fiore  „:  sorgeva  li  presso  sia    detto    per    gli    studiosi    della 

leggenda  carolingia  —  e  serviva  di  termine  a  possessi  del  mona- 
stero, tra  il  Neto  e  il  Savuto,  la  Pietra  di  Carlomagiio  (').  La 
chiesa  dell'abbazia  fu  dedicata  a  S.  Giovanni  Battista;  "  il  paese, 
che  più  tardi  vi  si  formò  attorno,  riunendo  insieme  i  due  nomi, 
fu  detto  e  si  chiama  tuttora  S.  Giovanni  in  Fiore  (-).  „  Aggiran- 
dosi anche  questa  volta  tra  alcuni  ed  altri,  il  Poletto  non  riesce  a 
mettere  insieme  notizie  esatte:  il  dotto  libro  del  nostro  Tocco 
gli  è  ignoto. 

XV,  120.  Cfr.  Giordano  da  Rivallo  (VII):  "  Come  quando 
l'uomo  ha  una  sua  donna  e  va  in  Francia,  e  acciocch' ella  sia 
ben  guardata,  si  la  lascierà  il  marito  a  guardia  a  un  suo  caro 
amico;  ma  se  costei  piacesse  tanto  a  costui  che  l'è  dato  a 
guardia,  eh'  ella  ne  dimenticasse  il  marito  e  lasciasselo,  questa 
sarebbe  adulteria  „.  Il  caso  non  doveva  essere  raro,  se  il  predi- 
catore stimò  non  inutile  occuparsene. 


(Vi  Arcluv.  Stor.  />.  le  Prov.  Napol,  XIV,  p.  151. 

(2)  Tocco,  U  Eresia  nel  Medio  Evo;  Firenze,  Sansoni,  1884,  p.  278. 


—    124   — 

X\'I,  152-53.  Ripetendo  un'affermazione  di  altri  commenta- 
tori, il  Poletto  scrive  non  "  restar  notizia  „  che  il  giglio  fioren- 
tino fosse  mai  stato  "  ad  asta  posto  a  ritroso  „  per  qualche 
scontìtta.  Quando  i  Senesi,  vittoriosi  a  Montaperti,  rientrarono 
nella  loro  città,  "  innanzi  a  tutti  andava  uno  cicli'  imbasciatori 
de' Fiorentini.,.,  ed  era  a  cavallo  in  su  un  asino,  e  strascinava 
la  bandiera  ovvero  standardo  del  Comune  di  Firenze  ed  esso 
imbasciadore  aveva  voltato  il  volto  verso  la  bandiera,  e  la  coda 
dell'  asino  aveva  per  briglia.  „ 

XX\',  6.  "  Di  questo  animo  di  Dante,  alto  e  sereno,  avver- 
sante cosi  da  ogni  sopruso  come  da  ogni  bassezza,  è  certissimo 
documento  la  Epistola  all'  Amico  Fiorenti/io  „.  Ahimè,  non  pili 
certissimo  da  quando  il  Barbi  [Bullctt.  d.  soc.  Dant.,  II,  i.^-a.*") 
ha  mostrato  che  dal  ribandimento  del  1316  erano  esclusi  "  omnes 
et  singuli  qui  quacunque  de  causa  per  dominum  Cantem  de  Ga- 
briellibus  de  Eugubio....  fuerunt  condempnati  et  exbanniti  „.  Ma 
è  vietato  supporre  che  coloro,  da'  quali  Dante  ebbe  la  notizia, 
non  conoscessero  esattamente  tutto  il  tenore  (\€i\?^  provvisione?  {^) 

XX\'II,  22-27.  Il  Poletto  non  nega  che  qui  si  tratti  di  Boni- 
fazio Vili;  ma  soggiunge:  "  Altrove  però  fu  detto  chiaramente 
*'  Vicario  di  Cristo  „.  Da  chi?  Da  Ugo  Capeto.  Qui  è  S.  Pietro, 
il  primo  degli  apostoli,  il  primo  papa,  il  quale  non  riconosce 
Bonifazio  per  suo  legittimo  successore. 

XXIX,  124.  L'  "  uso  vigente  „  a  Firenze,  nel  Veneto  e  tut- 
tavia in  qualche  paese  della  Sicilia  „,  ebbe  legale  sanzione  nello 
Statuto  di  Albenga:  "  Nutriens  semper  emendet  damnum,  exce- 
ptis  duobus  porcis  sancti  Antonii,  qui  libenter  possint  quomodo- 
cumque  ire  et  stare.  „. 


[})  Questo  ed  altri  buoni  argomenti  ha  adoperato  il  Mazzoni  a  difesa  del- 
l'autenticità  dell'epistola  nel  Bull.  d.  soc.  Dant.  Ital.,  V.  pp.  97  segg.  (marzo- 
aprile  1898).  Cfr.  le  mie  Nuove  Rassegne;  Livorno,  Vigo,  1894,  pp.  263  segg. 


EKRArA.  CORRIGE. 


Pag.       21      r.     2     dannati?  dannati 

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VOLUMI    PUBBLICATI 

Il   i.°  fascicolo  contenente: 

PAGET    TOYNBEE 


RIGEPiGlIE  E  AOTE  DANTESCHE 

SERIE  PRLAIA 

TRADUZIONE  DALL'  INGLESE  CON  IMPORTANTI  AGGIUNTE 


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Il  *2.'*  e  S."*  fascicolo  contenente: 

ENRICO  ROSTAGNO 


LA  VITA  DI  DANTE 

TESTO    DEL    COSÌ    DETTO    COMPENDIO 

ATTRIBUITO    A 

GIOVANNI  BOCCACCIO 

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NICOLA    ZINGARELLI 

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DI 

FOLGHETTO  DI  MARSIGLIA 

NELLA   «  COMEDTA  >>  DI  DANTE 

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Il  5**  fascicolo  contenente: 

EGIDIO    GORRA 

IL  SOGGETTIVISMO  DI  DANTE 

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Il  G°  fascicolo  contenente: 

FELICE    TOCCO 

QUEL  CHE  NON  C  È  NELLA  DIVINA  COMMEDIA 

DANTE  E  L'ERESIA 

CON    DOCUMENTI 
E    CON    LA   RISTAMPA    DELLE    QUESTIONI   DANTESCHE 

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Il  7-8"  fascicolo  contenente  : 

FRANCESCO   TORRACA 

DI  UN  COMMENTO  NUOVO 

ALLA 

DIVINA    COMMEDIA 

Questo  volume  si  vende  anche  separato  al  prezzo  di  L.  3. 


BIBLIOTECA  STORICO  ■  CRITICA 


DELLA 


LETTERATURA  DANTESCA 


DIRETTA 


DA  G.  L.  PASSERINI  e  da  P.  PAPA 


IX -X. 


I^>OLOGXA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 
1899. 


FRANCESCO  NOVATI 


INDAGINI  E  POSTILLE 


DANTESCHE 


SERIE    PRIMA. 

Se  Dante  abhiu  mai  puliMicanieiito  insegnato  —  Pascua  pieriis  dettiutn 
resonabat  avenis  —  La  suprema  aspirazione  di  Dante  —  Come  Manfredi 
s'è  salvato  —  La  "  Squilla  di  lontano  „  è  quella  dell'are  Maria?  — 
'  La  vipera  che  '1  melanese  accampa  „  —  Appendice  :  A.  Lattes,  La 
campana  serale  nei  secoli  XIII  e  XIV  secondo  gli  statnti  delle  città 
italiane. 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

1899. 


Proprietà  letteraria. 


BOLOGNA:   TIPI    DELLA    DITTA    ZANICHELLI,   1899. 


Al  sen.  GAETANO  NEGRI 

PRESIDENTE  DEL  COMITATO  MILANESE 
DELLA   SOCIETÀ   DANTESCA    ITALIANA 


Illustre  Senatore, 

Tra  i  benefici  de'  quali  io  vado  al  massimo  poeta 
nostro  debitore  (e  son  parecchi^  a  dir  vero,  e  di  l'aria 
natura),  questo  reputar  soglio  singolarissimo^  che  nel 
suo  nome  e  sotto  gli  auspici  suoi  a  me  sia  stato  con- 
cesso stringer  con  Lei  i  vincoli  d'  un'  amiciiia^  die  il 
tempo,  grandissimo  saggiatore  di  cosiffatte  leghe,  ha 
resi  man  mano  più  saldi  e  più  tenaci.  Se  innanzi  che 
ad  un  medesimo  intento  gli  sfiorii  nostri  i'  accomunas- 
sero, alla  sincera  reverenda  per  /'  austera  nobiltà  del 
suo  carattere,  la  dignità  somma  della  vita,  già  s'  accop- 
piava neW  animo  mio  la  più  calda  ammirazione  per 
r  altera  dell'  ingegno,  mirabilmente  vario  in  Lei,  pro- 
fiondo ed  arguto;  a  cotesti  sentimenti,  dopoché  ebbi  la 
ventura  di  sempre  più  avvicinar  La,  venne  a  disposarsi, 
caldissima,  la  simpatia  destata  dalla  bontà,  dalla  cortesia, 
che  in  Lei  regnano  sovrane.  Consenta  Ella  dunque, 
ottimo  Senatore,  che  del  mio  devoto  affetto  io  mi  faccia 
lecito  porgerLe  oggi  un  pubblico  segno,  inscrivendo  in 


fronte  a  questo  librìccino  il  di  Lei  nome,  caro  in  Italia 
ad  ogni  spirito  colto  e  gentile.  Tenue  è  come  per  mole 
così  per  pregio  il  libretto  ;  ma  ri  si  ragiona  di  Dante^ 
e  taluni  degli  scritti  eh'  esso  racchiude,  allorché  furono 
letti  dinanzi  a  quel  dotto  consesso  eh'  Ella  sì  degna- 
mente presiede.,  trovarono  presso  di  Lei  assentimento  e 
favore.  Gradisca  pertanto  tale  quale  è  la  picciola  offerta, 
e  continui  a  volermi  bene. 


Milano,  novembre  1899. 


//  suo  aff.mo 
Franxesco  Novati. 


AVVERTENZA 


Degli  scritti  qui  riuniti  il  primo,  il  secondo  ed  il  terzo  possono  dirsi  inlicrainenle 
nuovi,  giacche  se  in  una  lettera  aperta  all'amico  e  collega  carissimo  prof.  Mi- 
chele Scherillo,  pubblicata  nella  Biblioteca  delle  Scuole  Italiane  {  a.  Vili,  serie  2^, 
n.  17-181,  mi  si  porse  occasione  d'esprimere  quel  ch'io  pensassi  intorno  alla  te- 
stimonianza d'  Ubaldo  da  Gubbio  ed  al  valore  che  le  si  doveva  attribuire,  pur  la 
questione  del  preteso  insegnamento  di  Dante  a  Ravenna  vi  fu  (  né  si  poteva 
altrimenti  )  semplicemente  accennata.  I  tre  ultimi  invece  videro  già  la  luce  nei 
Rendiconti  del  R.  Istituto  Lombardo  di  Scienze  e  Lettere  (Serie  II,  v.  XXXI, 
p.  366  seg.  ),  e  ne  fu  fatta  poi  a  cura  del  solerte  editore  comm.  U.  Hoepli  un'edi- 
zione a  parte  di  cencinquanta  copie,  ora  interamente  esaurita.  In  questa  ri- 
stampa ebbero  tutti  da  me  nuove  cure.  Anche  1' erudita  nota  del  prof.  Alessandro 
Lattes  sulla  „  Campana  serale  nei  sec.  XIII  e  XIV  „  è  stata  in  servigio  di  essa 
dal  dotto  e  cortese  autore  ampliata  e  rifatta. 


1. 


SK   DANTE 

AlililA  MAI   in  BBLICAMKXTK   INSEGNATO 


I. 


Notissima  a  quanti  son  cultori  degli  studi  danteschi  è  1'  allu- 
sione air  Alighieri,  sue  a  teueris  anuis  adolescentie  prcceptor,  che 
messer  Ubaldo  di  Bastiano  da  Gubbio  ha  introdotta  nel  Telente- 
logio;  e  non  meno  noto  è  come  sul  valore  da  attribuire  a  codesta 
testimonianza  abbiano  a  lungo  tenzonato  i  biografi;  giacché 
mentre  alcuni  si  fondavan  sopra  di  essa  per  asserire  che  Dante 
soggiornò  anche  a  Gubbio,  altri  negavano  tale  sua  andata  al- 
l' umbra  cittadina,  additando  il  Teleutelogio  quasi  fonte  torbido  ed 
impuro.  La  via  più  spiccia  per  definire  la  controversia  sarebbe 
stata  questa  sola:  riprendere  in  esame  il  declamatorio  libretto 
dell'  Eugubino  e  cercar  di  mettere  in  chiaro  quando  e  dove  fosse 
stato  composto,  e  quindi  dedurne  un  giudizio  suU'  attendibilità 
delle  sue  asserzioni:  pure  a  ciò  niuno  de'  contendenti  volse  il  pen- 
siero fino  agli  ultimi  tempi.  Era  riserbato  al  prof.  Nicola  Zingarelli 
il  merito  di  risolvere  in  gran  parte  la  controversia  con  quell'  eru- 
dito ed  acuto  scrittarello  eh'  egli  ha  intitolato  La  data  del  Teleu- 
telogio. (•)  Grazie  alle  sue  diligenti  ricerche  l' incertezza  in  cui  era- 
vamo sinora  rimasti  intorno  al  tempo  ed  al  luogo  che  videro  na- 
scere r  opericciuola  dell'  Eugubino  si  può  dire  definitivamente 
dissipata.  Ubaldo  di  Bastiano  da  Gubbio,  già  scolaro  di  diritto 
canonico  e  civile  in  Bologna,  lasciata  questa  città,  passava  a  di- 
morare in  Firenze  nella  seconda  metà  del  1326,  quando  stava 
per  entrarvi  (  o  v'  era  pur  allora  entrato  )  in  qualità  di  Signore, 
colla  consorte,  lo  zio,  Giovanni,  principe  di  Morea,  ed  un  fulgido 


-  8  - 

codazzo  di  "  signori  e  cavalieri  e  baroni,  Franceschi  e  Proenzali  e 
"  Catelani  e  del  Regno  e  Napoletani  „  ('),  Carlo  duca  di  Calabria. 
La  signoria  Angioina  era  destinata  a  durar  poco  ed  a  lasciare  di 
sé  ne' governati  memorie  tutt' altro  che  gradite;  pure  in  quel  mo- 
mento la  parte  Guelfa  ed  insieme  con  essa  molti  de'  grassi  po- 
polani e  mercatanti  che  più  tardi  dissero  corna  de'  "  Pugliesi  „, 
acclamava  festosa  e  giubilante  il  sospirato  campione  ;  colui  che 
doveva  liberare  Firenze  dal  più  fiero  degli  avversari  suoi:  l'in- 
domabile Castruccio.  L'  entusiasmo  essendo  di  natura  sua  conta- 
gioso, non  ci  farà  maraviglia  che  si  comunicasse  anche  al  buon 
Ubaldo  da  Gubbio,  il  quale  reputò  quella  propizia  occasione  per 
mandare  in  pubblico  il  proprio  trattato,  raccomandandolo  non 
soltanto  alla  protezione  del  vescovo  di  Firenze,  da  cui,  secondo 
io  credo,  ei  dipendeva  (^),  ma  a  quella  altresì  del  duca  di  Calabria; 
principe  non  "  troppo  savio  „,  per  dir  vero,  chi  dia  retta  al  Vil- 
lani {*);  ma  forse  dal  paterno  esempio  stimolato  e  spinto  ad  atteg- 
giarsi ancor  egli  qualche  volta  in  fautore  di  letterati  e  di  poeti. 
Di  qui  consegue  pertanto  che  le  parole  dall'  Eugubino  dedicate 
alla  memoria  di  Dante  possano  esser  stimate,  come  dichiara  lo 
Zingarelli,  „  la  pili  antica  notizia  biografica  che  dell'  Alighieri 
"  conosciamo  sinora,  anteriore,  sembra,  anche  a  quella,  ben  pili 
"  importante  d'  altronde,  che  scrisse  Giovanni  Villani  {■'}  „. 

La  "  pili  antica  notizia  biografica  „  s'è  detto;  ma  all'anti- 
chità va  pari  l' interesse  ?  Ecco  una  domanda  alla  quale  non  si 
può  rispondere  molto  facilmente.  Innanzi  tutto  bisogna  distin- 
guere cosa  da  cosa.  Or  di  due  cose  appunto  discorre  l'Eugubino: 
della  soverchia  indulgenza  con  cui  il  poeta  avrebbe  ceduto  agli 
stimoli  della  carne,  e  dell'  insegnamento  che  dal  poeta  stesso  gli 
sarebbe  stato  impartito.  La  prima  asserzione  non  può  avere  agli 
occhi  nostri,  tenuto  conto  della  forma  rettoricamente  vaga  con  cui 
è  espressa  C^j,  importanza  vera.  —  "  Quanto  soverchiamente  esso 
"  fosse  ad  amore  sottoposto  assai  chiaro  è  già  mostrato  „,  di- 
remo anche  noi  col  Boccaccio  ('),  perché  quella  di  messer  Ubaldo 
possa  giudicarsi  autorevole  testimonianza.  Più  ragguardevole  per 


—  9  — 

fermo  è  invece  l'altra  notizia,  come  ognuno  intende.  Ma  quale 
ne  è  il  fondamento? 

Che  Dante  sia  stato  realmente  maestro  d'  Ubaldo,  quando  costui 
usciva  di  puerizia,  niuno  ha  messo  prima  d'ora  in  forse;  né  dalla 
comune  sentenza  si  dilunga  lo  Zingarelli.  11  quale  anzi,  tanto  è 
alieno  dal  sospetto  che  il  passo  del  Teleittclogio  sia  suscettibile 
d'  un'  interpretazione  diversa  da  quella  che  da  più  di  cent'  anni 
gli  viene  assegnata,  pur  respingendo  come  assurdo,  anzi  quasi 
quasi  grottesco,  il  dubbio  che  1'  esule  fiorentino  abbia  mai  potuto 
recarsi  a  Gubbio  all'  intento  d'  erudirvi  il  giovinetto  Ubaldo,  pone 
innanzi  la  congettura,  già,  per  verità,  accennata  alla  sfuggita 
dal  Mazzatinti  (**),  che  l'Eugubino  piuttosto  siasi  portato  (in  età 
tenera  assai  )  a  Bologna,  quand'  appunto  1'  Alighieri  v'  aveva  posto 
dimora.  Nel  qual  caso  non  già  nel  1318,  secondoché  un  tempo  si 
era  stimato,  bensì  ad  una  decina  d'  anni  prima  sarebbe  da  asse- 
gnare la  relazione  del  futuro  autore  del  Teleutdogio  col  poeta 
divino. 

Or  se  questa  relazione  ha  davvero  esistito,  essa  porge 
un'  aperta  prova  che  Dante,  negli  anni  dolorosi  dell'  esilio  "  mise 
"  a  profitto  qualche  volta  le  sorgenti  della  sua  coltura  „,  facendo 
il  maestro  di  scuola.  Né  ciò  deve  recarci  meraviglia,  a  giudizio 
dello  Zingarelli.  "  Oramai  tutti  o  quasi  —  scriv'  egli  difatti  —  sì 
''  piegano  ad  ammettere  con  Corrado  Ricci  che  Dante  insegnasse 
"  nello  Studio  ravennate,  forse  rettorica,  latina  o  volgare  che  fosse, 
"  probabilmente  l'una  e  l'altra  insieme  O  „.  Se,  quand'era  ospite 
di  Guido  Novello  da  Polenta,  il  trattatista  della  volgare  eloquenza 
professò  dunque  rettorica,  perché  dovrà  parerci  strano  eh'  egli  abbia 
insegnato  anche  parecchio  tempo  prima,  anche  a  Bologna,  allorché 
conduceva  in  questa  città  una  vita  di  studio?  Vero  è,  avverte 
sempre  lo  Zingarelli,  che  al  figliuol  di  Bastiano,  se  gli  fu  affidato 
ancor  fanciullo.  Dante  non  potè  certo  dare  un'  istruzione  di  ca- 
rattere molto  elevato  ("^).  E  che  per  questo  ?  Come,  piegando  la 
fronte  alla  ferrea  legge  della  necessità,  1'  esule  fiorentino  si  fece 
più  tardi  retore  a  Ravenna,  cosi  sarà  diventato,  anni  prima,  pre- 
cettore a  Bologna. 


A  me  (perché  dissimularlo?)  quest'ipotesi  spiace,  e  tanto  più 
spiace  in  quanto  non  ho  mai  saputo  né  so  acconciarmi  ad  en- 
trare nella  schiera  di  coloro  che  all'  ipotesi  escogitata  dal  Ricci 
non  soltanto  danno  lode  d'  "  ingegnosa  „  (  lode  eh'  io  non  vo'  cer- 
tamente diniegarle  ),  ma  "  si  piegano  ,,  altresì  a  giutiicarla  pro- 
babile. Sicché  prima  d'  additare,  come,  o  m' inganno,  ha  fatto  lo 
Zingarelli,  nel  passo  del  Tcleiitdogio  che  stiamo  esaminando,  un 
nuovo  e  solido  argomento  in  favore  della  sentenza  che  Dante 
abbia  mai  o  in  Bologna  o  in  Ravenna  ovvero  altrove  insegnato, 
vuoi  in  forma  pubblica,  vuoi  in  forma  privata,  preferirei  andare 
ricercando  se  non  vi  sia  modo  di  dare  alle  parole  di  messer 
Ubaldo  un'  interpretazione  la  quale  ne  modifichi  essenzialmente 
il  significato. 

Ora  la  maniera  e'  è,  e,  a  mio  vedere,  assai  semplice.  Chi  può 
difatti  forzarci  a  ritenere  che  lo  scrittore  del  Telcittrlogio  abbia 
proprio  voluto  alludere  colle  parole  sopra  riferite  ad  un  vero  e 
reale  insegnamento  eh'  egli  ricevuto  avesse  dalla  viva  voce  del- 
l'Alighieri? Non  può,  al  contrario,  messer  Ubaldo  essersi  accon- 
tentato di  designar  costui  quale  "  suo  precettore  „,  alla  maniera 
istessa  con  cui  l' autore  della  divina  Comedia  si  piace  dal  pro- 
prio canto  appellar  "  dottore  „,  autore,  "  maestro  „,  "  pedagogo  „ 
Virgilio?  (")  Non  si  tratterà,  insomma,  d'una  pura  e  semplice 
figura  rettorica,  colla  quale  l'Eugubino  ha  inteso  manifestare  al 
pari  di  molt' altri  l'ammirazione  schietta  e  vivace  che  ridestava 
in  lui  il  poeta  divino? 

Né  renda  alcuno  esitante  ad  accogliere  questa  mia  novella  in- 
terpretazione quanto  lo  Zingarelli  ha  osservato  intorno  all'  uso 
fatto  qui  da  Ubaldo  della  parola  praeceptor,  per  definire  i  rapporti 
che  sarebbero  corsi  tra  lui  e  l' Alighieri.  Se  dessimo  retta  al- 
l'egregio critico,  codesto  vocabolo  in  bocca  ad  Ubaldo  starebbe  ad 
indicare  che  l' insegnamento  impartitogli  dal  poeta  fu,  come  1'  età 
sua  tenera  richiedeva,  umile,  elementare  ('').  Ma,  a  nostr'  avviso, 
lo  Zingarelli  s'è  qui  lasciato  traviare  dal  ricordo  del  significato 
speciale  che  in  tempi  relativamente  assai  recenti  il  vocabolo 
praeceptor  è  venuto  ad  assumere  nel   comune    discorso.    Nel    lin- 


—  II  — 

guaggio  medievale  però  la  parola  non  solo  aveva  mantenute  tutte 
le  accezioni  che  possedeva  già  nell*  uso  classico,  ma  ne  aveva 
altresì  acquistate  delle  nuove  ('').  Sotto  la  penna  dei  nostri 
trecentisti  pertanto  essa  non  denota  soltanto  chi  attenda  ad  erudire 
un  giovane  nelle  arti  liberali,  ma,  in  più  largo  senso,  chiunque 
faccia  opera  di  maestro,  non  già  addottrinando  dalla  cattedra 
gli  scolari,  ma  componendo  nella  quieta  solitudine  della  propria 
stanza  scritture  atte  ad  eccitare  nell'  animo  di  chi  le  legga,  gio- 
vane o  vecchio  eh'  egli  sia,  sensi  di  stupore  e  d' ammirazione. 
Talché  niun  titolo  pili  onorifico  di  questo  suole  scendere  dalla 
penna  del  Boccaccio  ogni  qualvolta  egli  scriva  al  Petrarca  {");  e 
r  esempio  del  Boccaccio  è  seguito  da  quant'  altri  vogliono  ono- 
rare nel  cantor  di  Scipione  il  propugnatore  indefesso  della  dot- 
trina e  della  poesia  antica  ('^).  Altrettanto  tocca  più  tardi  al  pro- 
secutore di  quest'  opera  gloriosa,  a  Coluccio  Salutati  ("').  E  come 
i  grandi  viventi,  si  fregiano  di  siffatta  qualifica  i  trapassati;  e 
r  aggettivo,  già  attribuito  al  Salvatore  dalle  Sacre  Carte,  passa  a 
designare  il  filosofo  "  morale  „,  Aristotele,  per  opera  di  Dante 
stesso!  ('") 

Ma  qui  taluno  potrebb' ancora  obbiettare:  s'ammetta  pure  che 
pracccptor  nel  citato  luogo  del  Tclciitclogio,  sia  adoperato  in  senso 
allegorico.  Però  nella  frase  d'Ubaldo  v'ha  qualcosa  di  più;  ei 
chiama  Dante  suo  "  precettore  nei  teneri  anni  dell'adolescenza  „. 
Possibil  mai  che,  cosi  dicendo,  non  abbia  voluto  asserire  proprio 
altro,  se  non  che  fin  da  quando  ei  mosse  i  primi  passi  nell'  ar- 
ringo degli  studi,  s' affisò  come  in  sua  guida  nel  poeta  fioren- 
tino? E  perché  no?  Giovanni  Boccaccio,  sforzandosi  di  giustifi- 
care in  cospetto  al  Petrarca  il  fervente  culto  eh'  egli  professava 
all'  Alighieri,  non  assevera  forse  che  questi  a  lui,  giovinetto,  fu 
primo  duce,  prima  face  negli  studi  ?  ('**)  Ed  il  veneto  Paolo  di  Ber- 
nardo non  s'esprime  anch' egli  nella  stessa  guisa,  anzi  (curiosa 
coincidenza)  colle  parole  medesime  di  cui  si  giova  l'Eugubino, 
per  manifestare  tutta  la  devota  sua  ammirazione  verso  il  Pe- 
trarca ?  Ab  annis  enim  tencris  —  ei  gli  scrive  —  mirari  te  cepi, 
te  colui,  te  diicem  habui,  postremo  te  imaginarium   vite   tcstem   vo- 


Int....  C^).  Perché  dovremo  noi  mostrarci  adesso  riluttanti  a  cre- 
dere che,  al  pari  del  Boccaccio,  il  figliuol  di  Bastiano  da  Gubbio 
abbia  eletto  tìn  dall'adolescenza  prima  a  guida,  a  maestro,  a 
testimone  immaginario  della  sua  vita  di  pensiero  colui  che,  oltre 
ad  aver  divulgato  tra  V  ostile  stupore  del  „  clero  „  e  la  curiosità 
commossa  del  volgo  il  mirabil  suo  viaggio  oltremondano,  aveva 
pur  tratte  fuori  le  „  nuove  rime  „,  composto  il  Convivio,  dettato 
il  De  ìiwnarchia  ? 

Di  quanto  siamo  venuti  sin  qui  ragionando  logica  conclusione 
sarebbe  quella  che  Ubaldo  da  Gubbio  mai  non  conobbe  l' Ali- 
ghieri, "  se  non  come  per  fama  uoni  s'innamora  „;  e  tale  in 
realtà  è  la  mia  persuasione. 

A  rafforzare  la  quale  pur  troppo  niun  valido  argomento  ci  è 
lecito  dedurre  dalle  ampollose  pagine  del  Telcutelogio,  ricchissimo 
di  vacue  ciancie  filosofiche,  ma  poverissimo  d' allusioni  alle  vi- 
cende individuali  di  chi  1'  ha  elaborato.  Pure  se  non  fosse  teme- 
rità soverchia  quella  di  voler  trarre  partito  da  tenuissimi  indizi, 
noi  oseremmo  dire  che  anche  la  cronologia  della  vita  d'  Ubaldo, 
per  quel  tanto  che  se  ne  può  intravvedere,  parlerebbe  in  nostro 
favore.  Dai  pochi  versicoli  che  servono  di  chiusa  al  Telcutelogio 
rilevasi  difatti  che  1'  Eugubino,  allorché  lo  stava  scrivendo,  trat- 
tenevasi  in  Bologna,  assorto  nello  studio  d'  entrambe  le  leggi  \^^). 
Ma  se  verso  il  1326,  prima  di  passare  a  Firenze,  egli  era 
pur  sempre  scolaro,  difficile  riuscirà  di  credere  che  avesse  rag- 
giunta un'età  molto  matura;  tutt' al  più  si  sarà  avvicinato  alla 
trentina  (■').  Ed  in  tal  caso,  quando  l'  Alighieri  si  trattenne  per 
qualche  tempo  in  Bologna,  vale  a  dire  circa  il  1308,  Ubaldo  non 
era  davvero  in  grado  di  riceverne  ammaestramenti  di  sorta! 

Ove  r  interpretazione  nostra  raccolga  dunque,  siccome  ne  ho 
fondata  speranza,  il  favorevole  suffragio  dei  competenti,  l' impor- 
tanza della  notizia  dantesca  inserita  nel  Telcutelogio  ne  verrà,  se 
non  distrutta,  attenuata  d'  assai.  Priva  di  qualsiasi  valore  per  la 
biografia  dell'  Alighieri,  essa  non  meriterà  d'  essere  d'  ora  innanzi 
menzionata  dai  critici  se  non  come  prova  indiretta  si  ma  nota- 
bile dei  giganteschi  passi  che  dopo  la   divulgazione    totale    della 


—  13  — 

Conu'iù'ti  aveva  percorso  la  fama  del  poeta  divino.  L'apoteosi  di 
Dante  è  già  incominciata  (").  Per  Ubaldo,  come  per  tutti,  o  quasi 
tutti,  gli  scrittori  del  tempo,  egli  non  è  pili  soltanto  l'artista  ricco 
de'  più  bei  doni  della  natura,  il  dotto  onusto  di  tutti  i  tesori  della 
scienza;  è  qualcosa  di  più  alto,  di  più  sacro:  il  primo  poeta  volgare 
emulo  degli  antichi. 

II. 

Questo  ch'ora  abbiam  fatto  non  è  se  non  un  primo  passo  sulla 
via  che  intendiamo  percorrere.  Più  forse  del  generale  consenso 
ha  contribuito  a  mantenere  fedele  lo  Zingarelli  alla  vulgata  inter- 
pretazione del  passo  testé  discusso  del  Tcleutclogio,  una  tal  qual 
fiducia  da  lui  riposta  nella  bontà  di  quell'  ipotesi  che,  dopo  essere 
stata  accolta  al  suo  primo  apparire  da  diffidenza  grande  e  mal 
celato  scetticismo,  venne  poi,  a  poco  a  poco,  guadagnando  siffat- 
tamente terreno  da  strappare  all'  autore  d'  un  recentissimo  libro 
intorno  a  Dante  la  veramente  straordinaria  confessione  che  non 
si  ha  per  combatterla  verun  argomento  di  peso  (*'^).  Secondo 
quest'  ipotesi  il  poeta  sarebbesi  recato  a  Ravenna  non  già,  com'  é 
vecchia  fama,  ospite  di  Guido  Novello  da  Polenta,  ma  in  quella 
vece  pubblico  lettore  di  rettorica  volgare  nello  Studio.  Campione 
di  siffatta  sentenza  è  un  valente  cultore  delle  storiche  discipline, 
esperto  conoscitore  di  cose  ravennati,  Corrado  Ricci  ;  il  quale, 
dopo  averla  primamente  espressa  in  un  libriccino  di  polemiche 
dantesche,  uscito  in  luce  molt'anni  or  sono,  si  è  dato  cura  di 
ripresentarla  al  pubblico  in  un  recente  e  poderoso  volume  ('^),  cir- 
condata di  quante  prove  ei  giudicò  confacenti  a  renderla  pro- 
babile. 

Le  prove  raccolte  dal  Ricci  son  desse  di  tale  natura  da  poter 
sostenere  vittoriosamente  1'  urto  d'  una  critica  la  quale,  non  paga 
delle  apparenze,  voglia  andar  fino  al  fondo  della  questione?  Per 
esser  schietto  io  non  ne  son  troppo  persuaso,  e  della  riluttanza 
che  provo  ad  accettare  la  nuova  opinione  intorno  alle  cagioni 
che  guidarono  Dante  a  Ravenna,  verrò  adesso,  com'  è  doveroso, 
adducendo  i  motivi. 


—  14  — 

11  maggiore  e  più  saldo  argomento  in  favore  dell'  ipotesi  che 
vogliamo  combattere,  è  ofìerto,  come  aveva  già  notato  il  Hartoli, 
ed  i  sostenitori  di  essa  confessano,  dalle  parole  con  cui  Giovanni 
Boccaccio,  dopo  aver  nella  \'ita  di  Dante  narrato  come  costui, 
mosso  dalle  profferte  di  Guido  Novello,  s' inducesse  ad  elegger 
dimora  in  Ravenna,  soggiunge:  "  E  quivi  con  le  sue  dimostrazioni 
"  fece  più  scolari  in  poesia  e  massimamente  nella  volgare  (^■')  „. 
Le  altre  testimonianze,  addotte  per  provare  che  in  codest'  asserto 
del  biografo  autorevolissimo  deesi  scorgere  un'  esplicita  allusione 
air  insegnamento  pubblico,  uflìciale,  di  rcttorica  affidato  a  Dante 
dai  Ravennati;  e  cioè  a  dire  certi  grossi  versi  di  Simone  Ser- 
dini  da  Siena,  detto  il  Saviozzo,  un  passo  della  Vita  di  Dante 
compilata  nella  prima  metà  del  quattrocento  da  Giannozzo  Ma- 
netti,  nonché  taluni  inconcludenti  aneddoti  che  spettano  ad  età 
anche  più  tarda;  languidi  echi  quali  sono  tutte  della  dichiarazione 
boccaccesca,  non  debbono  esser  giudicate  degne  di  discussione  (^^). 
Or  trascurando  per  il  momento  (  e  dico  per  il  momento,  giacché 
torneremo  ben  presto  ad  occuparcene),  là  questione  se  le  parole 
del  Boccaccio  significhino  realmente  tutto  quanto  si  fa  loro  si- 
gnificare; accontentiamoci  di  ricercare  adesso  se  a  priori  sia 
ammissibile,  in  relazione  a  ciò  che  sappiamo  della  vita  e  de'  co- 
stumi del  tempo,  la  supposizione  che  1'  Alighieri  abbia  tenuto  in 
Ravenna  una  cattedra  di  rettorica  volgare  o,  secondoché  altri 
più  cautamente  sostiene,  una  cattedra  dalla  quale,  insieme  alla 
latina,  egli  avrebbe  insegnato  altresì  la  poesia  volgare  (^'). 

Ed  innanzi  tutto:  sui  primi  del  Trecento  fioriva  o  per  lo  meno 
viveva  ancora  in  Ravenna  un  pubblico  Studio?  Qui  coloro  i  quali 
vagheggian  Dante  trasformato  in  dottore  s'  abbattono  ad  un  primo 
e  non  lievissimo  intoppo,  giacché  i  più  moderni  ed  autorevoli 
storici  delle  università  italiane  s'accordano  nel  ritenere  che  su- 
gli inizi  del  secolo  dodicesimo  la  celebre  scuola  giuridica  di  Ra- 
venna, cedendo  ai  fati  che  l' incalzavano,  si  chiudesse  per  non 
riaprirsi  mai  più.  Sicché  il  nome  della  città,  dove  brillò  per  tanti 
secoli  un  vividissimo  focolare  di  legale  dottrina,  si  cerca  in- 
vano neir  elenco  de'  nostri  Studi  nel  sec.  XIII  e  nel  XIV  (■'').   Il 


Ricci  però  s'  0  industriato  a  provare  come  qualche  vestigio  delle 
antiche  scuole  ancor  durasse  in  Ravenna  al  principio  del  Trecento, 
ed  ha  recato  innanzi  i  nomi  di  due  ignoti  maestri,  chiamati  1'  uno 
a  leggervi  grammatica  nel  1304,  1'  altro  logica,  medicina  e  filosofia 
nel  1333  ("").  Certo  ciò  non  dimostra  gran  cosa  in  favore  della 
continuità  della  tradizione  universitaria  in  Ravenna;  ma  noi  non 
vogliamo  parere  di  soverchio  esigenti,  ed  acconsentiamo  quindi 
ad  ammettere  che  un  avanzo  dell'  antichissimo  Studio  si  mante- 
nesse pur  sempre  nella  sede  dei  Polentani,  quando  vi  pose  stanza 
r  esule  fiorentino.  Il  segreto  della  nostra  condiscendenza  non  è 
tale  d'altronde  che  ci  torni  increscioso  svelarlo:  a  noi  di  fatti 
non  importa  tanto  di  mettere  in  dubbio  che  a  Ravenna  conti- 
nuasse ad  esistere  nel  primo  ventennio  del  secolo  decimoquarto 
una  larva,  un'  ombra  dello  Studio  vetusto,  quanto  di  mostrare 
come  sia  altamente  improbabile  che  in  quello  Studio,  qualunque 
esso  fosse,  potesse  trovar  luogo  una  cattedra  di  rettorica  volgare. 

Ma,  innanzi  tutto,  facciamo  ad  intenderci.  Che  cosa  vogliono 
dire  queste  parole:  rettorica  volgare? 

Tra  i  monumenti  letterari  del  nostro  Dugento  noi  ci  abbattiamo 
in  un  libro  che  é  compendio  della  Rettorica  ad  Erennio,  allor 
creduta,  com'è  notissimo,  di  Cicerone;  compendio  dettato  origi- 
nariamente da  un  Bolognese,  ammiratore  di  re  Manfredi,  e  rifatto 
più  tardi,  per  quanto  sembra,  da  un  Toscano  (■^'^j.  Il  trattatello, 
detto  Fior  di  Rettorica  nelle  numerose  redazioni  più  o  men  com- 
piute, rimaneggiate,  corrette  che  ce  ne  sono  pervenute,  mira  però 
sempre  al  medesimo  fine  :  ad  ammaestrare  cioè  i  "  laici  che  hanno 
"  valente  intendimento  „,  i  "  gentili  uomini  volgari  „,  ne'  precetti 
oratori,  cosicché  possano,  pur  ignorando  il  latino,  "  ornatamente 
"  favellare  „  neh'  idioma  materno.  Il  fine  che  si  propongono 
dunque  gli  autori  ed  i  rifacitori  del  nostro  libro  è,  come  si  vede, 
meglio  civile  e  politico  che  letterario  ;  si  tratta  infatti  di  dar  modo 
a  coloro  che  non  sanno  di  lettere  d' avvalersi  cionondimanco 
delle  loro  facoltà  naturali,  non  già  per  gareggiare  sterilmente  coi 
dotti,  ma  per  farsi  largo  nella  società  contemporanea:  di  metterli 
in  grado  di   recitare    un'  orazione,  che    —    perfetta    nella    forma, 


—  i6  — 

compiuta  ed  ordinata  nella  disposizione  delle  sue  parti  od  infine 
recitata  a  dovere  —  taccia  trionfare  la  causa  dal  dicitor  soste- 
nuta. Ora  il  sorgere  ed  il  diffondersi  di  siffatti  trattati  assai  ben 
si  comprende  in  una  società  quale  l' Italiana  de'  secoli  XIII-XIV, 
in  cui  gli  "  idioti  „,  i  "  laici  „  partecipavano  in  maniera  così 
larga,  spesso  anzi  cosi  preponderante,  al  reggimento  della  pub- 
blica cosa,  e  r  umilissimo  tra  gli  artefici,  da  un  giorno  all'  altro, 
poteva  salire  alle  maggiofi  cariche  del  proprio  comune;  ma  non 
prova  esso  insieme  eloquentemente  come  nelle  scuole  secondarie 
e  superiori  d'allora  non  s'avesse  traccia  d'un  insegnamento  del 
volgare?  Giacché  sarebbe  grave  errore,  a  mio  giudizio,  quello  di 
credere  che  coteste  scritture  siano  dovute  a  grammatici,  o  di 
immaginare  che  taluna  tra  esse  abbia  mai  potuto  servire  come 
libro  di  testo  in  una  scuola  d' arti.  Se  noi  non  sappiamo  oggi 
chi  Fra  Guidotto  si  fosse,  possiamo  tuttavia  dal  titolo  che  va 
congiunto  al  suo  nome  dedurre  eh'  egli  non  appartenne  né  al 
chiericato  né  alla  classe  degli  insegnanti  ('');  in  quanto  a  Bono 
Giamboni  poi  ben  s' accordano  i  mss.  nel  dirci  eh'  ei  fu  giu- 
"  dice  di  legge  (^^)  „.  II  Fior  di  Rdtorica  pertanto,  al  pari  di 
qualche  altro  libro  congenere  e  non  meno  noto  ai  nostri  lettori, 
nuli'  altro  ci  rappresenta  se  non  il  risultato  dello  sforzo  isolato,  in- 
dividuale, per  soddisfare  ad  una  necessità  sociale  che  si  veniva 
facendo  sempre  più  urgente  ed  imperiosa;  ma  che,  data  la  rigida 
ed  immutabile  costituzione  delle  scuole  secondarie  e  superiori, 
non  si  poteva  altrimenti  appagare.  Al  disdegno  della  scienza 
ufficiale  suppliva  pertanto,  come  meglio  le  tornava  fattibile,  l' ini- 
ziativa particolare. 

Quest'  impulso  medesimo,  come  die  origine  alle  versioni  vol- 
gari, che  videro  però  alquanto  più  tardi  la  luce,  di  talune  fra  le 
Artcs  dictandi,  le  quali  avean  goduto  di  maggior  credito  sui  pri- 
mordi del  secolo  decimoquarto  ('•');  cosi  provocò  anche  (cosa  che 
merita  d'essere  adesso  da  noi  più  peculiarmente  considerata)  i 
primi  tentativi  di  dare  forma  teorica  e  magistrale  all'  arte  del 
dire  in  rima;  arte  abbandonata  fin  allora  all'  inspirazione,  al  gusto, 
al  capriccio  individuale,  quantunque  1'  esempio  degli   "    eccellenti 


"  dottori  „  giovasse  già  a  frenare  gli  arbitri  ed  additasse  ai  volon- 
terosi la  via  da  seguire.  A  gran  torto  quindi,  chi  si  piacque  pre- 
sentarci r  Alighieri  sotto  la  cappa  di  lettore  dello  Studio  raven- 
nate, oltreché  taluni  testi,  del  tutto  estranei  alla  controversia  che 
adesso  si  dibatte,  ha  citato  1'  esistenza  dell'  Ars  r/iytinnica  d'  An- 
tonio da  Tempo  come  una  luminosa  prova  che,  sul  nascere  del 
Trecento,  la  poesia  volgare  s'insegnava  già  nelle  scuole.  Egli  è 
proprio  l'opposto;  e  nel  trattato  del  giudice  padovano,  ove  il 
conoscessero  più  che  di  nome  non  ricercherebbero  gli  avver- 
sari nostri  un  conforto  alle  loro  audaci  supposizioni.  Chiunque 
abbia  posto  gli  occhi  sopra  il  proemio  da  Antonio  messo  in 
fronte  al  suo  libro  sa  bene  com'  egli,  timoroso  che  altri  non  1'  ac- 
cusi d'  avere  sprecato  tempo  e  fatica,  occupandosi  di  cosi  "  modica 
"  scienza  „,  alleghi  a  giustificazione  propria  il  fatto  che  nessuno, 
per  quanto  a  lui  constasse,  aveva  mai  prima  d' allora  stimata 
degna  di  trattazione  la  poesia  volgare;  sicché,  bramando  egli 
rendere  servigio  agli  indotti  che  ignorano  il  latino,  erasi  accinto 
a  riordinare  la  materia  ancora  indigesta  ed  a  sanzionare  coli'  au- 
torità della  legge  quanto  per  lo  innanzi  si  osservava    soltanto  in 

omaggio  all'esempio  de' pivi    celebrati    tra    i    dicitori    ('^) Ma 

non  son  questi  i  concetti  stessi  che  avevano  stimolato  Fra  Gui- 
dotto  e  messer  Bono  Giamboni  a  traslatare  di  latino  in  volgare  la 
Rettorica  di  Tullio?  Anche  il  libro  d'Antonio  da  Tempo  adunque, 
come  il  trattatello  ritmico  di  Francesco  da  Barberino  ed  il  mag- 
gior volume  dantesco,  è  il  portato  delle  stesse  cause,  il  frutto 
del  medesimo  sforzo  per  rialzare  l' idioma  volgare,  nobilitarlo, 
riavvicinarlo  al  latino,  ad  onta  della  ripugnanza  che  per  esso 
prova  il  chiericato.  Ed  ancora  una  volta  chi  assume  codest'  inca- 
rico non  è  già  un  grammatico  o  un  retore;  bensì  invece  un  uomo 
di  legge,  un  magistrato,  che  se  ebbe  occasione  d'  assidersi  infinite 
volte  sulla  sedia  giudiziale,  sopra  la  cattedra  non  sali  certo  mai(^^). 
Bisogna  proprio  persuadercene;  tutto  o  quasi  tutto  quanto  s'è 
fatto  in  Italia  nei  primi  due  secoU  in  favor  del  volgare,  negletto  e 
dispregiato  dai  dotti  e  quindi  inesorabilmente  escluso  dalle  scuole 
secondarie  e  superiori,  si  compi  in  seno  di  quella  classe  che    ne 

NOVATI.  2 


—  i8  — 

aveva  fin  da  tempi  remoti  avvertita  l' importanza,  e  s' era  sfor- 
zata, come  meglio  aveva  potuto,  in  servigio  degli  ideali  suoi  per 
indole  essenzialmente  civili,  di  farne  oggetto  d'  un  umile,  elemen- 
tare ammaestramento  (^''). 

Possiamo  quindi  affermarlo  senza  titubanza:  no,  nessun  Studio 
italiano  accolse  mai  nella  schiera  dei  suoi  docenti,  prima  che  il 
sole  del  Rinascimento  non  rifulgesse  altissimo  sull'  orizzonte,  un 
maestro  il  quale,  sulle  tracce  di  Tullio,  impartisse  precetti  di  vol- 
gare eloquenza  o  ammaestrasse  i  discepoli  suoi  a  comporre  so- 
netti e  canzoni  ovvero  canzoni  e  sonetti  altrui  commentasse 
e  dichiarasse  cosi  come  avrebbe  esposti  i  carmi  di  Virgilio  o 
d' Orazio.  Figuriamoci  se  ciò  poteva  verificarsi  dunque  a  Ra- 
venna, nel  primo  ventennio  del  Trecento,  ai  giorni  ne'  quali  la 
Comcdia  divina  cominciava  appena  a  diffondersi,  cantata  a  pezzi 
e  bocconi  su  per  i  trivi  dai  giullari  (^")  !  Per  credere  ad  un  avve- 
nimento cosi  strano,  cosi  contrario  a  tutto  quanto  ci  è  noto  di 
quegli  uomini,  di  quell'  età,  farebbe  mestieri  aver  dinanzi  l' atto 
ufficiale  con  cui  Dante  fu  chiamato    dal    comune    di    Ravenna    a 

legger  o  rettorica  o  poesia  volgare,  e  poi e  poi  si  stenterebbe 

ancora  a  prestar  fede  ai  nostri  occhi  ! 

Si  badi  bene  però.  Cosi  dicendo  io  non  voglio  negare  meno- 
mamente che  in  Ravenna,  alla  corte  del  gentile  signore  da  Po- 
lenta, il  "  vecchio  divino  „,  nidlius  dogmatis  expers,  come  si  com- 
piacerà dirlo  Giovanni  da  Bologna,  tribuendo  a  lui  la  lode  che 
Macrobio  aveva  rivolta  a  Virgilio  (^^),  sia  stato  circondato  da 
un'eletta,  numerosa  schiera  di  studiosi,  ammiratori  del  suo  ingegno, 
della  sua  dottrina,  avidi  di  tesoreggiare  gli  insegnamenti  suoi  (^^). 
Ma  questo,  com'  è  agevole  ad  intendere,  nulla  ha  a  che  veder 
colla  cattedra.  Perché  Dante  potesse  avviare  Menghino  Mezzani, 
ser  Piero  Giardini,  ser  Dino  Perini,  il  Polentano  stesso  pe'  flo- 
ridi sentieri  del  novello  Parnaso,  non  occorreva  davvero  eh'  ei 
levasse  il  pane  di  bocca  ad  un  maestro  solenne  e  "  conventato  „ 
di  rettorica  o  di  poesia! 


-   19 


III. 


"  Convcntalo  „,  ho  detto,  e  non  senza  motivo.  Taluno  infatti, 
pur  consentendo  meco  nel  ritenere  sonnnamente  improbabile  che 
il  poeta  fiorentino  abbia  speso  gli  estremi  suoi  giorni  leggendo 
nello  Studio  ravennate  una  materia  del  tutto  ignota  ai  programmi 
universitari  del  tempo  suo,  potrebbe  tuttavia,  fisso  nell'  idea  che 
le  "  dimostrazioni  „  fatte  dall' Alighieri  ai  propri  amici  siano  state 
vere  lezioni  cattedratiche,  interpellarci  a  questo  modo:  Siam 
d' accordo.  Cattedre  di  rettorica  o  di  poesia  volgare  non  ne 
esistevano  allora  in  niun  luogo,  e  men  che  meno  a  Ravenna.  Però 
ogni  Studio  che  meritasse  d'essere  detto  tale,  vantava  a  que'giorni 
accanto  alla  cattedra  di  rettorica  un'  altra  di  poesia  latina  C''), 
donde  s' insegnavano  le  regole  della  versificazione  metrica,  e 
s' esponevano  generalmente  i  quattro  grandi  autori  :  Virgilio, 
Ovidio  "  maggiore  „,  Stazio,  Lucano  (^').  Perché  non  dovremo 
noi  ammettere  che  Dante  abbia  coperto  siffatta  cattedra?  Chi 
vorrà  dubitare  che  quel  grand'  uomo  non  sapesse  dichiarare 
r  alta  "  Eneida  „,  o  le  "  crude  armi  della  doppia  tristizia  di 
"  locasta  „,  o  i  fasti  di  colui  che  "  Farsalia  percosse  „,  in  guisa 
da  lasciare  le  mille  miglia  lontano  qualsiasi  più  sufficiente  mae- 
stro dell'  età  sua?  Certo  nessuno. 

Sta  bene,  rispondesi.  Ma  aveva  egli  qualità  per  far  ciò?  Co- 
loro che  son  cosi  pronti  ad  affidargli  or  questa  or  quella  cattedra, 
dimenticano  con  soverchia  facilità,  a  mio  crédere,  che  1'  Alighieri 
non  consegui  mai  verun  grado  magistrale,  veruna  laurea  dotto- 
rale; che  fu  insomma  semplicemente  un  "  laico  „;  laico  mera- 
viglioso, si,  ma  laico,  Ei  si  venne  a  trovar  quindi  fatalmente  in 
una  condizione,  nella  quale  1'  insegnamento  superiore  doveva 
rimanergli  sempre  inaccessibile.  La  libertà  d' insegnare,  grandis- 
sima, per  quanto  s' afferma,  nello  Studio  bolognese,  quand'  era 
nei  suoi  principi  {*'},  aveva  sofferto  col  volger  dei  secoli  tante  e 
tali  restrizioni,  che  già  a  mezzo  il  Dugento  non  poteva  far  pili 
parte  della  facoltà    giuridica    chi    non    avesse    cosi    privatamente 


20    — 

come  pubblicamente,  re  et  iioiìiine,  conseguito  il  titolo  di  dot- 
tore (*^).  Quanto  avveniva  nel  collegio  dei  giuristi  non  tardò  a 
ripetersi  pur  nell'altro  de' medici  e  degli  artisti  [*^)',  cosicché  gli 
scolari  stessi,  ai  quali  per  tradizionale  diritto  solevano  essere 
affidate  alcune  straordinarie  letture,  piinia  ti'  iniziare  i  corsi  loro 
dovettero  in  omaggio  agli  statuti  dare  solenne  affidamento  che 
si  sarebbero  conventati  dentro  i  termini  loro  prefissi;  altrimenti 
ogni  fatica  da  essi  durata  consideravasi  vana  e  rimaneva  senza 
compenso  (^"'l.  Soli  gli  insegnanti  di  talune  arti  inferiori,  come  a 
dire  la  grammatica  e  la  chirurgia,  fui'ono  in  massima  esone- 
rati, se  crediamo  agli  statuti  del  1432,  dall' obbligo  del  con- 
vento (^'^), 

Le  norme  stesse,  che  dal  secolo  Xlll  in  poi  disciplinarono 
neir  università  di  Bologna  1'  elezione  dei  docenti,  vigevano  negli 
altri  Studi  italiani  già  esistenti,  ed  entrarono  in  vigore  in  quanti 
sorsero  più  tardi,  i  quali  modellarono  le  loro  costituzioni  sull'  esem- 
pio della  Bolognese  (^').  Da  ciò  consegue  che  se  nel  periodo  di 
tempo  in  cui  l' Alighieri  abitò  Ravenna,  vi  fiori  uno  Studio  ed 
in  questo  Studio  si  volle  istituire  una  cattedra,  vuoi  di  rettorica 
vuoi  di  poesia,  il  conferimento  di  sifl"atta  cattedra  ebbe  ad  essere 
eseguito  in  base  alle  prescrizioni  osservate  cosi  a  Bologna  come 
a  Padova,  cosi  a  Roma  come  a  Firenze,  insomma  dapertutto. 
Ed  in  tal  caso  Dante,  a  cui  niuno  aveva  mai  infilzato  in  dito  il 
simbolico  anello,  dovette  rinunziare  alla  speranza  di  conseguirla^ 
ove  di  simil  speranza  si  fosse  nudrito. 

Si  sarà  egli  dunque  rassegnato  il  fiorentino  sdegnoso  e  della 
grandezza  sua  consapevole,  poiché  la  via  dell'insegnamento  su- 
periore gli  era  preclusa,  ad  ammaestrare  i  giovinetti  se  non  pro- 
prio negli  elementi  primi  dello  scibile,  nella  grammatica,  a  mo'  di 
pedagogo  umilissimo?  Tanto  sarebbe  da  credere  ove  s'  accogliesse 
r  interpretazione  che  C.  Ricci  dà  nel  libro  suo  agli  esametri  coi 
quali  s'inizia  la  prim' ecloga  dantesca: 


Forte  recensentes  pastas  de  more  capellas, 
Tunc  ego  sub  quercu,  meus  et  Meliboeus  eramus 


—    21    

Ora  in  questi  versi,  che  noi  sareninio  a  prima  vista  inclinati 
a  considerare  come  una  semplice  e  non  troppo  felice  parafrasi 
di  quelli  onde  prende  incominciamento  la  settima  tra  le  ecloghe 
virgiliane  (*-)  ;  in  questi  versi,  dico,  1'  anonimo  autore  delle  glosse 
conservate  nel  cod.  Laurcnziano  V\.  XXIX,  8,  discopre  un  signi- 
ficato simbolico;  che  per  lui  rccenscrc  capellas  equivale  infatti  a 
iimìicrarc  scliolarcs.  Ecco  dunque  un  nuovo  e  forte  argomento 
per  sostenere  che  a  Ravenna  Dante  insegnava  !  Ma  v'  ha  di  più. 
Già  il  Macri- Leone,  collegando  il  de  lìtorc  a  j-eceiisoitcs;  (il  che  a 
tìie  pare  arbitrario  ed  erroneo  ('"))  aveva  osservato:  „  L' abitu- 
„  dine  di  recoiscre  capdlas  o  numerare  scliolares,  de  more  (  si  noti 
„  bene  ),  presuppone  una  certa  dimora  in  quel  luogo  (^*')  „.  Ed 
il  Ricci,  accettando  la  proposta,  la  rafforza  e  nel  de  more  vede 
adombrata  anche  una  „  continuità  ordinata  e  regolata  nell'  inse- 
„  gnamento  ('')  „.  Gran  maestro  quel  Dante  !  Alla  dottrina  egli 
disposava  dunque  anche  quell'  altra  qualità  tanto  preziosa  in  un 
insegnante  che  è  la  diligenza  ! 

In  verità  a  noi  riuscirebbe  assai  facile  sbarazzarci  da  ogni 
impiccio  respingendo  addirittura  come  arbitraria  e  fallace  1'  espli- 
cazione dell'  Anonimo  ;  né  saremmo  i  primi,  che  1'  anima  buona 
del  Giuliani  già  ce  ne  ha  dato  1'  esempio  (■'-).  Codesto  rimedio  però 
non  ci  capacita,  esso  è  troppo  eroico  per  i  nostri  gusti,  tanto  più 
che  all'  autorità  dell'  anonimo  glossatore  noi  siamo  disposti  a  mo- 
strarci molto  più  ossequiosi  di  quant'  altri  abbia  fatto  mai  sinora. 
E,  d'altronde,  è  cosi  costante  (e  ben  se  n'avvide  già  il  Macri- 
Leone)  in  Dante  e  nell'amico  suo  Giovanni  la  consuetudine  di 
additare  sotto  le  simboliche  figure  de' giovenchi,  delle  pecore,  dei 
capretti,  i  discepoli  d' età  pili  o  meno  matura  (■■''j,  che  non  ci 
par  proprio  lecito  qualificare  qui  di  visionario  1'  Anonimo.  Anche 
per  noi  dunque  le  caprette  simboleggiano  gli  scolari;  ma  che 
l'Alighieri  ne  sia  stato  il  pastore,  o,  fuor  di  metafora,  il  maestro, 
questa  è  un'  altra  faccenda. 

Esaminiamo,  lettor  paziente,  un  poco  meglio  il  testo  che  ci  sta 
dinanzi.  Melibeo,  sotto  il  qual  nome  s'  asconde,  come  ci  insegna 
il  glossatore,  un  concittadino  del  poeta,  esule  al    pari  di  lui,    ser 


Dino  Perini  ('*],  arde  dalla  curiositfi  di  conoscere  l'epistola  che 
^topso  (Giovanni  del  Virgilio)  ha  inviata  a  Titiro  (l'Alighieri). 
Questi  si  fa  giuoco  del  suo  giovane  amico  per  qualche  po'  di 
tempo,  e  quindi  esce  a  dirgli  con  linguaggio  anzi  che  no  ruvidetto: 

Stulte,  quid  insanis  ? tua    cura,  capellae 

Te  potius  poscunt,  quamquam  mala  coenula  turbet. 

„  A  te,  egli  soggiunge  poi,  sono  ignoti    i    pascoli,    cui    adombra 

„  l'alta  vetta  del  Menalo,  .  ,  .  que' pascoli,  ne' quali,  mentre  i  gio- 

„  venchi  folleggiano  tra  l'erbe,  Mopso  contempla  giocondo  l'opere 

„  degli  uomini  e  degli  Dei,    e  con  dar  poscia  fiato  alle  canne  di- 

„  schiude  le  intime  gioie  ...   „.  E  Melibeo  di  rimando: 

si  Mopsus,  ait,  decaiilat  in  lierbis 

Ignotis,  ignota  tamen  sua  carmina  possim, 

Te  monstrante,    mais    vagulis  prodiscerc    e  a  p  r  i  s    (^''). 

E  in  questi  luoghi  pertanto  ed  alla  fine  dell'  Ecloga  in  un  terzo 
passo,  che  è  stato  sinora  interpretato  nella  più  strana  guisa  del 
mondo  (^'^),  a  Melibeo  è  sempre  assegnata  la  custodia  dell'  ircino 
gregge;  a  quel  Melibeo,  dico,  che  appunto  per  essere  un  rozzo 
capraio,  non  può,  a  giudizio  di  Titiro,  gustare  né  comprendere  i 
canti  di  Mopso,  il  bifolco  d'  Arcadia.  Ma  Titiro  è  dunque  ben  su- 
periore per  condizione  al  suo  amico,  se  questi  lo  implora  qual 
maestro,  e  Mopso  gli  rivolge  le  sue  canzoni  !  Squarciamo  adesso 
il  velo  trasparentissimo  dell'allegoria;  che  cosa  si  dovrà  dedurre 
da  quanto  abbiam  veduto  se  non  che  ser  Dino  Perini  insegnava 
ai  fanciulli  ravennati  la  grammatica,  pur  di  guadagnarsi  un  tozzo 
di  pane,  la  grama  Genetta,  che  per  la  scarsezza  e  l' inopia  a  lui, 
amante  de' buoni  bocconi,  riusciva  molesta?  Ser  Dino,  notaio, 
come  il  titolo  suo  ci  addita,  ben  poteva,  spinto  dal  bisogno,  tra- 
mutarsi in  maestro  di  scuola  ("J.  Ma  che  altrettanto  facesse  Dante 
Alighieri  è  troppo  forte  a  pensare. 

In  verità,  chi  asserisce  che  il  cantore  dell'  oltretomba  si  con- 
ducesse a  Ravenna  lettore  non  si    saprebbe    bene    di    che    cosa. 


—  23  — 

in  uno  Studio  di  problematica  esistenza,  non  cela  il  proposito  suo 
di  combattere  la  tradizionale  opinione  che  alla  dolorosa  povertà 
del  poeta  invecchiato  e  stanco,  errabondo  per  le  città  di  Romagna, 
sia  venuto  con  signorile  munificenza  in  aiuto  Guido  Novello  da 
Polenta.  Ed  io  credo  d' indovinare  le  ragioni  che  rendono  incre- 
scioso a  taluni  ammiratori  dell'  Alighieri  il  pensiero  eh'  egli  chiu- 
desse la  vita  sua  travagliata,  „  ospite  mantenuto  "  del  tirannello 
ravennate. 

Giudicano  per  avventura  costoro  che  l' immagine  del  vate 
giustiziere  ne  esca,  sebben  lievemente,  pur  alcun  poco  sminuita; 
giacché  a  chi  gli  si  mostrava  largo  di  favori  e  di  doni,  egli  non 
poteva  certo  rispondere  con  atti  che  d'ossequio  non  fossero;  i 
quali  per  ciò  appunto  mal  parrebbero  convenirsi  a  quella  sua 
sdegnosissima  anima  insofferente  d'ogni  legame  servile.  Io  però 
confesso  di  non  dividere  codesto  modo  di  vedere.  Agli  occhi  di 
Dante,  che  fu  prima  di  tutto  e  sopra  tutto  l'uomo  del  suo  tempo, 
non  potè  mai  sembrare  indecoroso  il  ricevere  benefìzi  e  compensi 
da  coloro  che  la  natura  o  la  fortuna  avessero  collocati  sui  pili 
alti  fastigi  della  società  contemporanea;  né  egli  ebbe  a  provare 
mai  quel  rettorico  abborrimento  contro  la  tirannide,  che  manife- 
starono colle  parole  meglio  che  coi  fatti,  il  Petrarca,  il  Boccaccio, 
ed  in  genere  tutti  gli  amici  e  discepoli  loro,  ne'  quali  i  sentimenti 
repubblicani  degli  avi  rifermentavano  innocui  per  effetto  dell'  am- 
mirazione ardentissima  votata  all'  antichità  (^^).  Uomo  di  corte. 
Dante  usò  le  corti  e  vi  si  piacque;  che  se  fé' segno  di  satirici 
strali,  d' invettive  fiere  e  sanguinose  taluni  tra  i  signori  italiani 
del  suo  tempo,  ciò  fu  perch'  essi  venivano  meno  alle  generose 
tradizioni  familiari,  erano  „  tornati  in  bastardi  „  ;  e,  come  tali,, 
meritavano  d'  essere  vituperati  e  derisi.  Ma  se  le  trombe  di  Si- 
cilia ed  i  corni  degli  Estensi  e  le  tibie  degli  altri  grandi  avessero 
dato  diverso  suono,  il  poeta  non  avrebbe  certo  scagliato  contro 
di  loro  il  biblico  radia!  Sicché  accanto  a  coloro,  i  quali  colle 
virtù  a  principe  convenienti  sapevano  blandire  i  suoi  ideali,  rin- 
focolare le  speranze  sue,  il  Ghibellino  austero  non  sdegnò  mai 
soffermarsi,  ed  il  salire  per  le  scale  dei  loro  palagi  se  ebbe    tal- 


-    24    - 

volta  a  senibrai-gli  "  duro  ",  inni  mai  gli  parve  indecoroso.  E 
come  s'intenderebbe  altiimenti  quel  suo  rallungare  per  anni  ed 
anni  d'  una  in  altra  corte,  quel  farsi  ospite  qua  de'  Malaspina,  dei 
Guidi,  degli  Ordelaffi,  là  degli  Scaligeri  e  de' Polentani?  Uom  di 
corte,  uom  d'  affari,  a  cui,  come  già  per  taluni  degli  antichi  trova- 
dori, eh'  egli  ammirava  tanto,  la  lingua  fu  sempre  e  spada  ed  elmo, 
Dante  era  nato  per  la  vita  agitata  ed  affaccendata;  non  già  per  l'esi- 
stenza placida,  uniforme,  modesta,  del  maestro  di  scuola.  Che  se 
davvero  egli  avesse  stimato  desiderabile  cercare  nell'insegnamento 
un  tranquillo  rifugio  contro  ogni  tempesta,  come  mai  non  sareb- 
besi  indotto  a  procacciarselo  molto  tempo  prima  ?  Proprio  solo 
a  cinquant'  anni  suonati,  a  Ravenna,  egli  ebbe  modo  di  accorgersi 
che,  insegnando,  poteva  vivere,  vivere  povero,  ma  libero  ? 

Temeraria  impresa  eli'  è  adunque,  a  mio  credere,  quella  di 
sostituire  un'  ipotesi,  campata,  allo  stringere  de'  conti,  in  aria,  ad 
un  fatto  il  quale  vanta  in  proprio  favore  testimonianze  ragguar- 
devoli per  numero,  per  tempo,  per  qualità.  Che  Guido  Novello 
abbia  "  richiesto  di  special  grazia  a  Dante  quello  eh'  egli  sapeva 
"  che  Dante  dovea  a  lui  domandare;  cioè  che  seco  gli  piacesse 
"  di  dover  essere  (°^)  „ ,  non  solo  afferma  il  Boccaccio,  a  cui  fa 
eco  Filippo  Villani  (^'^),  ma  asseriscono  anche  i  contemporanei. 
Giovanni  Del  Virgilio,  scrivendo  all'  Alighieri  stesso,  si  piace 
mettere  in  chiaro  quanto  il  Polentano  l'ami  e  lo  tenga  da  conto: 
sicché  finisce  per  giudicare  follia  la  speranza  che  il  "  vecchio  di- 
"  vino  "  si  scosti  dal  fianco  di  Guido  per  recarsi  da  lui: 

Mopse  ....  quid  ?  es  demens  !  quia  non  permittct  lolas 
Comis  et  urbanus,  duni  sunt  tua  rustica  dona  ....  ("'). 

y 

E  poco  appresso,  intento  al  triste  ufficio  di  commemorare  coi 
propri  versi  1'  amico  perduto,  non  scorderà  d' aggiungere  come 
piamente  l' avesse  accolto  nel  suo  grembo  il  signor  di  Ra- 
venna: 

Qucm  pia  Guidonis  gremio  Ravenna  Novelli 
Gaudet  honorati  continuisse  ducis  (•"''). 


A  queste  attestazioni,  già  note,  vado  lieto  d'  aggiungerne  adesso 
una  fin  qui  trascurata,  1*  importanza  della  quale  non  sfuggirà  ad 
alcuno.  Giovanni  da  Ravenna,  il  celebre  cancelliere  de*  due  Fran- 
ceschi da  Carrara,  toccando  in  una  sua  inedita  scrittura  della 
larghezza  colla  quale  Bernardino  da  Polenta  venne  in  aiuto  del 
Boccaccio,  soggiunge  :  Citiiis  aule  aviis  Guido  sic  Daiìtis  prisciilia 
gloriabatitr,  ut  )ioii  ìiioiio  ad  ììuIuìii  ciiiicta  siippcditaret,  verinn 
ctiam  /aiiKjuaiii  privatus  ciiis  coììvcrsatioiic  familiariter  uterctur  C^'), 
Mo  detto  rilevantissimo  questo  passo.  Se  è  certo  dilatti  che  Gio- 
vanni ebbe  a  lasciare  Ravenna  in  età  assai  giovanile,  pure  nulla 
ci  vieta  di  credere  che  nel  tempo  della  sua  fanciullezza,  quando 
durava  ancor  vivace  e  fresca  colà  la  memoria  del  soggiorno  fat- 
tovi dall'  Alighieri,  egli  abbia  udito  spessissimo  discorrere  di  lui. 
Ed  anche  supponendo  che  altri  non  gliene  avesse  parlato,  chi  sa 
quante  volte  dovette  tenergliene  parola  più  tardi  suo  padre, 
maestro  Conversino,  il  quale  certo  aveva  veduto  il  poeta,  e  forse 
era  stato  in  rapporti  con  lui!  La  testimonianza  del  Ravennate 
può  sempre  essere  considerata  da  noi  quasi  quella  d'  un  contem- 
poraneo di  Dante. 

Vorremo  rigettare  dopo  di  ciò  l' opinione  tradizionale,  che 
s'  appoggia  a  cosi  validi  sostegni,  per  accettarne  una  fondata  su 
basi  ipotetiche  e  malfide  ?  Sarebbe  davvero  un  imitare  il  cane 
della  favola  che  lasciò  la  carne  per  1'  ombra.  Ovvio  riesce  quindi 
conchiudere  che  nulla  concede  d' asserire  che  T  Alighieri  abbia 
mai  pubblicamente  insegnato  vuoi  a  Bologna  vuoi  a  Ravenna. 
Non  a  Bologna,  perché  le  ambigue  parole  dell'  autore  del  Telai- 
telogio  sono  suscettibili  d'  un'  interpretazione  assai  remota  da  quella 
che  si  è  sempre  data  loro,  pili  per  consuetudine  che  per  rifles- 
sione; non  a  Ravenna,  giacché  non  è  ammissibile  che  ai  giorni 
del  nostro  lo  Studio  di  quella  città  possedesse  una  cattedra  o  di 
rettorica  o  di  poesia  volgare.  Che  se  una  cattedra  di  poesia  la- 
tina vi  fu,  l'Alighieri  non  ebbe  facoltà  di  conseguirla;  e  d'inse- 
gnare infine  grammatica  ai  ragazzi,  grazie  alla  generosa  ospita- 
lità del  Polentano,  ei  non  potè  davvero   mai    sentire    il    bisogno. 


NOTE 


(')  N.  ZiNr.ARF.i.i.i,  La  data  del  "  Telentcìogio  „  (Per  la  biografia  di  Dante), 
estr.  dagli  Studi  di  lett.  Hai,  Napoli,   1899,  v.  I,  p.   180  sgg. 

(')  G.  Villani,  Ist.  Fior.  lib.  X,  cap.  I.  E  ci".  F.- 1".  Perrens,  Hist.  de  Florence, 
Paris,  1879,  to.  IV,  p.  98  sgg 

(')  Neil'"  epistola  nuncupatoria  „  al  prelato  (F'rancesco  Silvestri  da  Cingoli, 
clic  occupò  la  sede  vescovile  dal  15  marzo  1323  al  21  ottobre  13^1;  cf.  Euhel, 
Ilier.  calli,  trt.  aevi,  Monasterii,  1898,  p.  260),  Ubaldo  cosigli  dichiara:  "  Mearum 
"  virium  habenas  habetis  in  manibus,  retrahentes  aut  relaxantes  easdem  prò  libitu 
"  voluntatis  „...  E  quindi  aggiunge:  "  Deus  autem  omnipotens  claram  vestram  prae- 
"  san  ti  a  m  mihi  quatn  plurimuin  reverendam  dignetur  per  longissiina  tempora 
"  conservare  „.  Cf.  Berardelli,  Codd.  onni.  lai.  et  italic.  qui  iitss.  in  bibl.  SS. 
Ioli,  et  Pauli  Venetiar.  asservantnr  Calai,  in  Nuova  race,  d' Opusc,  Venezia, 
1783,  to.  XXXVIII,  n.  2,  pp.  153.  Di  qui  mi  par  lecito  congetturare  che  I'  Eugu- 
bino tenesse  qualche  ufficio  presso  la  curia  vescovile  di  Firenze.  Ho  però  vana- 
mente ricercato  il  nome  suo  ne'  Monumenti  della  Chiesa  Fiorentina  raccolti  e 
pubblicati  dal  Lami. 

(*)  Op.  cit.,  lib.  X,  cap.  CIX. 

(')  Op.  cit.,  p.  H. 

(')  Non  sarà  sfuggita,  pensiamo,  anche  ad  altri  la  singolare  rassomiglianza 
che  intercede  tra  le  parole  con  cui  Ubaldo   censura    l' inclinazione    smoderata    di 

Dante  verso  i  piaceri  del  senso  ("  Hec    illa    est    que    Dantem inter    humana 

"  ingenia  nature  dotibus  coruscantem  et  omnium  morum  habitibus  rutilantem, 
"  adulterinis  amplexibus  venenavit  „),  e  quelle  onde  F.  Villani  s'è  giovato  a  ricordare 
i  trascorsi  di  ser  Brunetto:  "  Profecto  virtutum  omnium  habitu  felix,  si  repentine 
"  libidinis  aculeos  impudicos  potuisset  arcere  „;  Pii.  Villani,  Lib.  de  Civ.  Fior, 
fainos.  civibus,  ed.  Galletti,  p.  11.  Certo  l'accordo  è  casuale;  ma  in  entrambi 
gli  scrittori  appar  manifesto  il  medesimo  sforzo  di  nascondere  più  che  riesca  pos- 
sibile una  verità  ingrata. 

(')  La  vita  di  Dante  scr.  da  G.  D.,  ed.  Macri-Leonc,  Firenze,   1888,  p.  44. 

C)  G.  Mazzatinti,  //  Teletit.  di  Ub.  di  Seb.  da  Gubbio,  ecc.,  in  Arch.  Sior. 
Ital.,  serie  IV,  to.  VII,  1881,  p.  266.  II  nostro  amico  però  partiva  dal  presupposto 
che  Ubaldo  avesse  conosciuto  Dante,  mentre  attendeva  in  Bologna  "  agli  studi 
"  di  giurisprudenza  „;  opinione  che  mal  s'accorda  colle  dichiarazioni  dell'Eugu- 
bino medesimo. 


—  28  — 

(')  Op.   cit.,   p.    14. 

(!*')  Op.  cit.,  loc.  cit. 

(")  E  si  può  aggiungere  anche  Aristotele:  ci".   Conv.  I,  ix,  63. 

(«»  Op.  cit.,  p.   14. 

(")  Già  presso  i  classici  praeccptor  e  non  soltanto  qui  docci,  ma  anche  qui 
inbct:  cfr.  Forceluni,  s.  v.;  ed  appunto  di  qui  discende  il  nuovo  valore  di  "  prin- 
cipe „,  "  signore  „,  "  magistrato  „,  che  la  parola  assume  presso  gli  scrittori 
medievali.  Oltreché  i  Cotniics  Palatii  furono  quindi  chiamati  praeceptores  anche 
taluni  dignitari  d'  ordini  monastici  e  cavallereschi,  com'  è  agevole  vedere  in  Du 
Gange,  s.  v. 

('*)  CoRAZZiNi,  Le  leti,  edite  cd  iiicd.  di  DI.  G.  B.,  Firenze,  1877,  p.  47,  51, 
123,  195,  374,  335,  354,  377,  ecc. 

('')  Ci.  p.  es.  la  lettera  di  Francesco  da  Fiano  al  Petrarca,  che  com.  :  Favor 
ingfiis  (  cod.  Vatic.  Ottobon.  2992,  e.  26  n):  "  Vale,  mi  pater  et  preceptor 
"   doctissime,  vale,  poeta  clarissime,  vale,  peritissime  orator  „,  ecc. 

Il  Boccaccio  pure  è  ben  due  volte  chiamato  "  venerabilis  praeceptor  meus  „ 
da  Benvenuto  da  Imola  (  Coiiun.,  ed.  Lacaita,  Inf.  e.  II,  to.  I,  p.  79;  Par.  e.  XVI, 
to.  V,  p.  164);  ma  io  non  ho  voluto  citare  nel  testo  siffatt' esempio,  perché  il 
Rambaldi  parla  del  Boccaccio  come  "  lettore  „  della  Coniedia;  e  quindi  in  certo 
modo  come  d'  un  vero  e  proprio  "  precettore  „. 

(**)  "  Cum  igitur  die  quodam  cum  optimo  meo  preceptor  e  Colucyo  in 
"  suo  studio  residerem . . ..  „;  lett.  di  Lorenzo  d'Antonio  Ridolfi  a  Gianfrancesco 
de' Mannelli  in  cod.  Panciatich.  147,  e.  11  u.  Mi  è  avvenuto  già  di  ricordare  come 
il  Ridolfi  attribuisca  il  titolo  di  suo  "  precettore  „  ad  ogni  persona  un  po'  colta 
con  cui  si  trovi  a  carteggiare;  sicché  ritroviamo  dichiarati  tali,  insieme  al  Salu- 
tati, Giovanni  di  messer  Scolare  da  Firenze,  Zenobio  Niccolai,  maestro  Giovanni 
da  Monticchiello,  fra  Maurizio  Massi,  fra  Martino  da  Signa! 

{^')  Cfr.  IsAi.  LV,  4;  S.  Lue.  Vili,  45,  XVil,  13.  Cf.  anche  De  inon.  Ili,  i:  "  prae- 
*  ceptor  morum  Philosophus  „;  Epist.  Vili,  5:  "  habeo  praeceptorem  Philosophum  „. 
—  Anche  Seneca  è  chiamato  per  antonomasia  "  praeceptor  morum  „  da  Francesco 
Nelli;  cfr.  H.  Cochin,  Un  ami  de  Péirarquc :  Lettres  de  F.  Nelli  à  Petr.,  Paris, 
1892,  Lett.  XVIII,  p.  244. 

('■')  Cf.  Petrarchae  De  reo.  /ani.  lib.  XXI,  ep.  XV,  ed.  Fracassetti,  to.  Ili, 
p.  108  sg.:  "  Inseris  nominatim  hanc  huius  officii  tui  excusationem,  quod  ille  libi 
"  adolescentulo  primus  studiorum  dux  et  prima  fax  fuerit  „. 

(")  Cf.  G.  VoiGT,  Die  Briefsammlungen  Petrarca' s,  ecc.,  Miinchen,  1882,  p.  81. 
C"*)  Credo  opportuno  riferirli,  tanto  più    che    nell'opuscolo    dello    Zingarelli, 
dove  pure  si  leggono  (  p.  6),  il  senso  ne  riesce  oscuro  a  cagione  di  taluni  errori 
tipografici  : 

lUis  Ubaldum  me  mater  dulcis  alcbat 
Temporibus,  mihi  sacra  patrum  decreta  ministrans, 
Urbibus  Italiae  spcculum,  Bononia;  cuncta 
Murmura  qui  vici  Parcarum  te  duce  nacto, 
Lumine  cuncta  regens  Verbi,  pater  optime,  mundi. 


—   29    - 

(Quest'ultimo  e  il  verso  stesso  col  quale  incomincia  il  primo  carme  del  Teletite- 
ìogio).  Trattandosi  d'un  lavoro  di  mole  non  indiflercnte,  io  suppongo,  come  già 
da  principio  mi  venne  fatto  d'accennare  (  v.  p.  8),  che  Ubaldo  avesse  composto 
a  Bologna  n°gli  anni  precedenti  al  1326  il  libro  che  pubblicò  poi  a  Firenze, 
in  occasione  della  venuta  di  Carlo  di  Calabria.  Alla  congettura  dello  Zingarelli, 
che  forse  il  Telentelogio  non  fosse  ancora  compiuto,  allorché  il  principe  Angioino 
s'allontanò  da  Firenze  (  op.  cit.,  p.  12),  sembrano  contraddire  i  versi  sopra  citati. 

(*')  Per  verità  Ubaldo  si  esprime  a  proposito  dei  suoi  studi  in  guisa  così 
enfaticamente  vaga  ("  iuris  utriusque  fluentis  pauhilum  madidus  „  ),  che  mal  si 
può  comprendere  se,  quando  dedicava  il  proprio  libro  al  vescovo  di  Firenze, 
fosse  soltanto  baccelliere  (si  noti  il  paulitltim  uiadidus\)  o  se  invece  avesse  già 
ottenuta  la  laurea  ///  utroque.  Siccome  però  a  conseguire  questa  dieci  anni  erano 
sufficienti  (giacché  del  tcnv>o  speso  nello  studio  del  diritto  civile  si  teneva  conto 
a  chi  volesse  poi  conventarsi  nel  canonico,  e  viceversa:  cf.  H.  Rashdali,,  The 
Uinversilies  of  Europe  in  the  ttiiddle  ages,  Oxford,  MDCCCXCV,  v.  (,  p.  222);  cosi 
il  calcolo  nostro  tornerebbe  in  tutti  i  modi. 

C'*)  Altrove  m' era  sembrato  di  poter  asserire  che  Ubaldo  in  un  passo  del 
Telentelogio,  già  riferito  dal  Mazzatintt,  op.  cit.,  p.  271,  avesse,  forse  il  primo, 
rilevato  il  carattere  di  poeta  "  nazionale  „  per  eccellenza  dell'  Alighieri,  chiaman- 
dolo il  "  Virgilio  italiano  „:  cfr.  La  bibliot.  delle  Scuole  Hai.  a.  Vili,  serie  II,  1899, 
p.  198;  elogio  che,  mezzo  secolo  dopo,  ricorre  sulla  bocca  del  Salutati  e  del  Boc- 
caccio. Ma  in  realtà,  secondochc  mi  ha  fatto  accorto  1'  amico  prof.  Zingarelli,  nel 
luogo  del  Telentelogio  non  di  Dante,  ma  di  Virgilio  deesi  propriamente  tener 
dall'  Eugubino  discorso. 

("')  Vo' alludere  a  F.  X.  Kraus,  che  nel  suo  Dante,  Sein  lebcii  ti.  seiit  n'erh, 
ecc.,  Berlin,  1897,  ''b-  I,  p-  114.  scrive:  "  Man  sieht  im  Grunde  niclit,  was  gegen 
"  diese  Annahme  einzuwenden  wiire  „. 

(■*)  C.  Rieri,  L'  ultimo  rifugio  di  D.  A.,  Milano,  1891,  cap.  XV,  p.  78  sgg. 

(»*)  Op.  cit.  §.  6,  p.  31. 

e")  Non  credo  che  molti  tra  i  dantisti  vorranno  col  Ricci  dir  "  autorevole  „ 
il  Manetti,  che  nell'  opera  sua  sui  tre  poeti  fiorentini  ha,  per  quanto  spetta  all'  Ali- 
ghieri, inserita  "  eine  unbedeutende  Compilation  aus  Boccaccio,  Villani  und  Bruni, 
"  ohne  irgend  eine  namhafte  Notiz  hinzuzufflgen  „  (Kraus,  op.  cit.,  p.  io);  e 
le  parole  del  quale,  ad  ogni  modo,  non  hanno  la  portata  loro  attribuita,  come 
vedremo  fra  breve.  Che  i  "  dottori  di  scienza  „  poi,  convenuti  alle  esequie  del 
poeta,  secondoché  asserisce  l'  Ottimo,  fossero  professori  dello  Studio  ravignano, 
si  può  ben  congetturare,  se  talenta;  ma  come  provarlo? 

(^')  Il  temperamento  é  proposto  dallo  Zingarelli,  op.  cit.,  p.   14. 

('^)  Cfr.  H.  Rashdall,  op.  cit.,  v.  I,  p.  117  sg.  H.  Denifle,  £)/<?  Uiiiversitdteit 
des  Mittelalters  bis  1400,  Berlin,  1885,  di  Ravenna  e  della  scuola  sua  non  dice 
parola. 

(*'•")  Il  Ricci  ricorda  anche  un  Ugo  di  Riccio,  iuris  civilis  professor,  che  si  tro- 
vava a  Ravenna  nel  1298.  Ma  dal  documento  ch'egli  stesso  ha  pubblicato  (op. 
cit.,  App.  II,  doc.  II,  p.  412)  si  rileva  che  il  detto  Ugo  fungeva  da  vicario  del 
podestà  di  Ravenna  (il  pisano  Giacomo  Gaetani)  per  alcuni  mesi  di  quell'anno. 


—  30  — 

Ci".  S.  Bekxholi,  Govniii  di  Rai-,  r  <ii  Noni.,  I^avemia,  1898,  p.  29.  Si  tratta 
dunque  d'  un  pubblico  uflìcialc  che,  probabilmente,  se  ne  sarà  tornato  via  col  po- 
destà che  r  aveva  salariato.  F.  iun's  civiiis  professor  nel  linguaggio  del  tempo,  in 
casi  come  questo,  equivale  semplicemente  a  perilus,  a  docior  e  simili. 

(^")  Cf.  A.  Gazzam,  Frate  Giiidollo  da  Bologna,  studio  storico-critico,  Bologna, 
1884;  F.  Tocco,  //Fiordi  reltor.  e  le  sue  pri)icip.  redac.  sec.  i  codd.  fiorentini  in 
Giorn.  stor.  della  leti.  Hai,  v.  XIV,   1889,  p.  337  sgg. 

('')  Diversamente  opina  il  Gazzani;  ma  cf.  Giorn.  slor.  della  leti,  ital.,  IV, 
1884,  p.  273. 

(32j  Qf   Tocco,  op.  cit.,  p.  364. 

C)  Ui  queste  versioni  io  ne  conosco  tre,  tutte  e  tre  date  alla  luce  nella  se- 
conda metà  del  sec.  XIV,  e  sono  le  seguenti: 

I.  La  Drieve  Introdtictione  a  dittare,  pubblicata  di  sull'unico  cod.,  che  or  sia 
conosciuto  (  il  Riccard.  2323,  del  sec.  XIV  ex.  )  da  F.  Zambrini  in  Bologna  del 
1854;  la  quale  non  è  già,  come  il  Ricci,  op.  cit.,  p.  82,  sembra  aver  supposto, 
un'opera  dettata  in  volgare  dal  suo  autore,  bensì  in  quella  vece  un'assai  libera 
traduzione,  con  copiose  aggiunte,  fatta  da  un  fiorentino,  vissuto  tra  il  1350  ed 
il  1390,  dell' yi/'s  dictaniinis  di  Giovanni  di  Bonaiidrea,  celebre  notaio  bolognese, 
che  insegnò  rettorica  nel  patrio  studio  dal  1292(7)  al  1321:  cf.  Fantuzzi,  Notizie 
degli  Scritt.  Boi.,  to.  II,  p.  375  sg.;  Corradi,  Notizie  sui  profess.  di  latin,  nello 
Studio  di  Boi.,  Bologna,  1887,  par.  I,  p.  47  sg.  Il  libretto  di  Giovanni  godette 
nel  secolo  in  cui  fu  composto  d'  un'  immensa  diflusione,  della  quale  stanno  a 
farci  testimonianza  i  numerosi  mss.  che  ancora  ne  esistono;  ecco  perché  l'ano- 
nimo fiorentino  giudicò  utile  traslatarlo,  pur  notando  che  in  molte  cose  le  "  con- 
"  suetudini  „  de'  suoi  giorni  erano  in  contraddizione  colle  regole  dell'  autore. 

2.  L' arte  del  dittare  che,  inedita,  si  conserva  nel  cod.  Magliabech.  VI,  10,  5 
(sec.  XV  in.),  la  quale  altro  non  è  se  non  un  molto  libero  rifacimento,  eseguito 
nella  prima  metà  del  Quattrocento  da  un  ignoto  scrittore  toscano,  dell'  Illutni- 
ftatoriuiii  ossia  Iiitroductoriiiiii  de  arte  dictaniinis  di  maestro  Giovanbattista  da 
S.  Giovanni  di  Moriana,  dettatore  fiorito  suU'  inizio  del  Trecento,  intorno  al  quale 
è  per  adesso  a  vedere  quanto  ha  scritto  R.  .Sabbadini,  Storia  e  crii,  di  ale.  testi 
latini  in  Museo  ital.  di  antic/i.  class.,  v.  Ili,  1890,  p.  401  sgg. 

3.  La  praticità  di  maestro  Laurentio  di  Aquilegia,  essa  pure  inedita  come  la 
precedente,  che  si  rinviene  unita  al  Fior  di  Rettorica  nella  redazione  Giamboniana 
e  ad  altre  scritture  spettanti  all'  ars  dictandi  nel  cod.  Marciano  It.  ci.  X,  124 
(sec.  XV  in.),  ci  presenta  una  traslazione  assai  fedele  della  Practica  dictaniinis 
del  famoso  maestro  friulano,  il  quale,  com'è  noto,  insegnò,  oltreché  a  Bologna,  a 
Parigi  tra  il  1298  ed  il  1302  (cf.  il  mio  Influsso  del  pens.  lat.  sulla  e  tv.  del  pop. 
ital.  nel  nt.  e!^,  p.  250  e  la  recensione  di  L.  Delisle  in  Joiirn.  des  Savants,  di- 
cembre 1898,  p.  745  sg.).  Oltre  ai  qui  enumerati  altri  volgarizzamenti  di  scritture 
spettanti  alla  scienza  del  dettare  potranno  forse  rinvenirsi  in  mss.  non  ancora 
esplorati,  ma  non  stimo  probabile  che  ulteriori  scoperte  valgano  a  smentire  il 
nostro  asserto  che  siffatto  lavorio  di  traduzioni  abbia  avuto  voga  soltanto  a 
mezzo  il  Trecento. 

('*)  "  His  itaque  considcratis   et    quod    de    rithimis    vulgaribus    per    aliquam 


—  31  — 

"  artem,  quae  mcis  fuerit  oculis  aut  auribus  intimata,  non  fuit  per  aliquos  prae- 
"  ccdentcs  aliquid  sub  regulis  aut  detcrminato  modo  vel  exemplis  hucusque 
"  theorice  nuncupatum,  quod  ad  doctrinam  aliquam  saltem  radium  in  huiusmodi 
"  licet  modica  scientia  possct  accedere,  sed  solum  quidam  cursus  et  consuetudo 
"  rithimandi  quae,  ut  puto,  a  bonis  et  dignis  veteribus    liabuit   principium;    quod 

*  quidcm  est  per  rithimatores  quasi  accidentaliter    et    pratice,    non  autem    magi- 

*  straliter  usitatum  etc —  ea  que  circa  hoc  per  expcrimenta  rerum  et  praticani 
"   per    alios    rithimantes  vidi  hactenus    observari.. . .    in    quandam,    licet    parvam, 

"  artem  et  doctrinam   et    regulas redigere  meditavi  „;  Delle  rime  volg.  Irati. 

«li  A.  da  Tempo,  ed.  Grion,  Bologna,  1869,  p.  69  sg.;  il  passo  è  collazionato  sul 
cod.  Braideiise  AF.  X.  30,  e.  1  a.  Che  il  da  Tempo  nel  1332  ignorasse  d'esser 
stato  preceduto  dall'  Alighieri  non  può  farci  meraviglia:  chi  conobbe  in  quel- 
V  età  il  De  vttlgari  eloqueiitia  ?  Che  se  ad  alcuno  cotesto  libro  poteva  venir  tra 
mani,  colui  doveva  esser  davvero  il  giudice  padovano,  fiorito  in  città  dottissima 
e  tra  amici  che  col  latino  coltivavan  anche  il  volgare,  di  cui  più  d' uno  anzi 
vantavasi  (  tale  il  Quirini)  d'aver  in  Dante  il  proprio  "  maestro  e  pedagogo  „. 

l")  Ci.  Grion,  op.  cit,  p.  5  sgg.  e  S.  Morplrgo,  Rime  iited.  di  G.  Quirini  e  A. 
da    Tempo  in  Arch.  Stor.  per   Trieste,  l'Istria  ed  il  Trentino,  voi.  I,  i88i,  p.  154  sg. 

('")  Cf.  su  questo  punto  il  mio  libro  L'influsso  del  pens.  lat.,  p.  81  e  n.  224 
sg.,  non  che  i  fonti  ivi  allegati. 

{")  Che  i  giullari  si  fossero  impadroniti  di  una  parte  almeno  della  Comedia 
assevera  nel  suo  Carmen,  secondo  è  ben  noto,  Giovanni  Del  Virgilio;  e  la  cosa 
è  data  come  sicura  da  un  critico  avvezzo  a  pesar  bene  le  proprie  parole,  il 
D'  Ovidio  (  Tre  discussioni  dantesche,  Napoli,  1897,  p.  12  e  14  ). 

j3tj  "  Virgilius  nullius  disciplinae  expers  „:  Macr.,  Comm.  in  Sonni.  Scip.  \,  vi,  44. 

(")  Questo,  e  non  altro,  è  anche  il  senso  del  passo  di  G.  Manetti,  che  il  Ricci 

ha  riferito,  un  po' sciupacchiato,  a  p.  82  del  suo  libro:  "  Ravennae  igitur com- 

"  plures  annos  reliquum  vitae  suae  commoratus,  nonnuUos  sane  homines  egre- 
"  giosque  viros  poeticam  egregie  prae  ceteris  edocuit  compluresque  egregios 
"  praestantis  ingenii  viros  materno  sermone  ita  erudivit,  ut  nonnulli  ex  his 
"  vulgares,  ut  aiunt,  non  vulgares  poetas  haberentur  „.  Manetti  Vita  Dantis  in 
Ph.  Villani  Liber,  ed.  Galletti,  p.  78.  A  presiedere  in  Bologna  un  ugual  circolo 
d'ammiratori  suoi  (nel  quale  però  ai  "  viri  „  sarebbersi  mescolati,  com'era  natu- 
rale, anche  i  giovani),  invita  chiaramente  anche  Giovanni  Del  Virgilio  il  poeta 
divino  coi  versi  67-69  dell' Ecloga  sua: 

Huc  ades:  huc  venient  qui  te  pervisere   gliscent, 
Parrhasii  iuvenesque  senes,  et  carmina  laeti 
Qui  nova  mìrari  cupiantque  antiqua  doceri. 

A  Bologna  pure  Dante  avrebbe  dovuto  dunque  "  con  le  sue  dimostrazioni  „  fare 
"  più  scolari  in  poesia  e  massimamente  nella  vulgare  „;  tuttavia  ninno,  ch'io 
sappia,  ha  mai  dedotto  di  qui  che  Giovanni  gli  proponesse  d'  aprir  una  scuola 
di  rettorica  o  di  poesia! 

(*■')  Forse  m' inganno,  ma  m'  è  sembrato  che  da  taluni  si  tenda  a  confondere 
in  una  sola  due  cattedre  che  furono,  ai  tempi  dell'  Alighieri,  affatto  diverse  1'  una 


—  32  - 

ilall'altra:  quella  di  rcttorica  e  quella  di  poesia.  Or  quantunque  l'origiiie  dell'errore 
riesca  evidente  a  ehi  rammenti  come  spesso  avvenisse  nel  sec.  decimoquarto 
che  ad  un  medesimo  insegnante  entrambe  s'affidassero,  pure  non  sarà  inoppor- 
tuno chiarir  bene  le  cose.  Osserviamo  a  quest'intento  quanto  si  verificò  a  Bolo- 
gna nel  1331,  l'anno  appunto  in  cui  Dante  mori.  Gli  storiografi  dello  Studio  ci 
attestano  che,  essendo  allor  passato  di  questa  vita  scr  Giovanni  di  Bonandrea, 
notaio  e  retore  famoso,  come  s'  è  già  accennato,  il  quale  da  più  anni  insegnaci 
nello  Studio  insieme  alla  Rettorica  anche  la  Poesia,  gli  fu  dato  per  successore 
nella  prima  di  queste  cattedre  Bertolino  Benincasa  da  Canolo,  altro  dottore  non 
meno  celebre,  che  prese  a  leggere  il  Tullio  nuovo  ed  a  spiegare  la  sunima  dicla- 
ìutuis  di  Bonandrea  (Fantuzzi,  op.  cit.,  loc.  cit.;  Mazzetti,  Rep.  de' Profess.  dell'  Uni- 
vcrs.  di  Bologna,  Bologna,  18^7,  p.  48).  Contemporaneamente  però,  volendo  esau- 
dire i  voti  della  scolaresca,  il  comune  incaricò  Giovanni  Del  Virgilio  di  assumere 
r  insegnamento  della  poesia  :  "  teneatur  et  debeat  quolibet  anno  legere  et  dare 
"  versificaturam  et  poesim  arbitrio  audientium  et  quibuslibet  duobus  annis  dictos 
"  quatuor  auctores  „  ;  ved.  Macrì-Leone,  La  biicol.  lat.  nella  leiter.  ital.  del  sec.  XIV, 
Torino,  1889,  p.  57.  Più  tardi,  nel  corso  del  sec.  XIV,  si  ripetè  nuovamente  il 
caso  che  un  medesimo  dottore  coprisse  insieme  nello  Studio  bolognese  la  cat- 
tedra di  rettorica  e  quella  di  poesia:  tra  i  Rotuli  dello  Studio,  edili  dal  Dallarc 
I  /  Rat.  dei  Lettori,  Legisti  e  Artisti,  dello  Stitd.  Bologn.  dal  1384  al  i^gg,  Bo- 
logna, 1888,  V.  I,  p.  7),  noi  ne  rinveniamo  difatti  uno  del  1388-89,  in  cui  maestro 
Bartolomeo  di  Puglia,  celebrato  dottore  di  quel  tempo  (  cf.  Salutati,  Episto- 
lario, Roma,  1893,  '^'-  'f'  P-  3-13 )r  è  eletto  "  ad  lecturam  Rectorice  et  Auctorum  „; 
ed  il  salario  suo,  da  cinquanta,  vien  quindi  portato  a  cento  lire  bolognesi.  Anche 
Giovanni  de' Malpaghini  nel  1397  in  Firenze  alla  lettura  della  Rettorica  congiun- 
geva quella  degli  "  Autori  „.  Cf.  Gherardi,  Stat.  dell'  Univ.  e  Studio  Fior.,  Fi- 
renze,  1881,  Parte  II,  Doc.  CV,  p.  369. 

(■")  Dico  "  generalmente  „,  perché  i  quattro  surricordati  si  consideravano  gli 
"  auctores  „  per  eccellenza;  ma  quando  al  maestro  o  agli  uditori  fosse  piaciuto, 
la  scelta  poteva  cadere  anche  sopra  altri  scrittori  dell'antichità,  vuoi  poeti  vuoi 
prosatori.  L'atto  d'elezione  di  Giovanni  Del  Virgilio  testé  citato  gì' impone  di 
leggere  "  dictos  quatuor  auctores  et  quoscumque  alios  auctores  prò  libito  audi- 
"  torum,  sed  quolibet  anno  duos  ad  voluntatem  audientium  „:  ed  anche  il  Malpa- 
ghini a  Firenze  vien  chiamato  "  ad  legendum  unum  auctorcm,  hystoricum,  mo- 
"  ralem  aut  poetam  quolibet  anno   „. 

(*^)  Cf.  Rashdai.l,  op.  cit.,  V.  I,  p.  206  sg. 

(■")  Cf.  C.  Malagola,  Statuti  delle  Univers.  e  dei  Collegi  dello  Studio  Bologn., 
Bologna,  MDCCCLXXXVIII,  Stat.  dell' Univ.  dei  Giuristi,  1317,  lib.  II,  p.  37; 
1432,  lib.  II,  p.  97.  E  cfr.  anche  Dallaki,  op.  cit.,  v.  I,  p.  VII  e  Proemi  dei 
Rotuli,  p.  XIX. 

{**)  Cf.  .Malagola,  op.  cit.,  Stat.  dell' Univers.  di  Medie,  e  d'Arti,  1405, 
rubr.  XLII,  p.  254;  rubr.  L,  p.  257. 

(")  Cf.  Malagola,  op.  cit..  .Stat.  dell' Univ.  dei  Giur.,  1432,  lib.  II,  p.  97; 
Dallari,  op.  cit.,  V.  I,  p.  XII  e  sgg.  ;  p.  XIX,  ecc. 

(**)  Ved.  Malagola,  op.  cit.,  p.  254  e  cfr.  Rasiidall,    op.  cit.,  v.  I,  p.  2(2  e 


-  33   - 

2^7-  Le  cose  però  non  dovettero  andar  sempre  nello  stesso  modo.  Per  ciò  che 
spetta  alla  grammatica,  la  rubr.  XLII  degli  Statuti  de' Medici  e  degli  Artisti, 
dopo  aver  decretato  che  niuno  possa  insegnar  a  Bologna  "  in  aliqua  scientia  or- 
"  dinarie,  nisi  fuerit  conventuatus  „,  e  stabilite  le  pene  non  solo  per  il  docente  che 
violasse  siffatta  disposizione,  ma  anche  per  chiunque  andasse  ad  udirlo;  sog- 
giunge: "  legcntcs  in  gramatica . .. .  non  teneantur  ad  predicta.  „  Però  quest'esen- 
zione è  subito  temperata  dalla  clausola:  "  nisi  esset  prò  utilitate  Universitatis 
"  scolarium  ;  tunc  sibi  exhibeatur  terminus  duorum  vel  trium  mensium,  si  fuerit 
"  obtentum  per  maiorem  partem  diete  Universitatis  „.  Per  il  "  bene  „  dell'  Uni- 
versità (frase  molto  vaga!)  si  potevano  obbligare  dunque  anche  i  grammatici 
che  volessero  leggere  nello  Studio  a  conventarsi.  Ma  v'ha  di  più.  Sullo  scorcio 
del  Trecento  l'obbligo  del  convento  era  già  imposto  loro  anche  per  le  letture 
"  straordinarie  „.  E  diffatti  ne' Rotuli  dal  r38.<-85  accanto  agli  insegnanti  ordi- 
nari di  grammatica,  noi  rinveniamo  due  scolari  incaricati  di  leggere  la  stessa 
materia;  ma  cosi  all'uno  come  all'altro  è  nel  documento  rammentato  l'impegno 
assunto  d'  addottorarsi  dentro  un  lasso  di  tempo  prestabilito  (  due  mesi  scarsi 
per  il  primo,  quasi  sei  per  il  secondo):  alias  uulìunt  salaritim  pcrcipiat :  v.  D.\i.- 

LARI,    Op.    Cit.,    V.    I,    p.    5. 

(*'')  A  Padova  non  solo  non  "  potevano  essere  professori  ordinari!  e  straor- 
"  dinarii  se  non  dottori  „  (Glori.\,  Montini,  della  Univ.  di  Padova  (  1222-1  jiS) 
in  Meni,  del  R.  Istil.  Veneto,  XXII,  par.  Il,  1885,  p.  395  sgg.  );  ma  ai  gramma- 
tici stessi,  che  leggevano  nello  Studio,  correva  1'  obbligo  d'  essere  "  conventati 
"  et  approbati  „,  come  attestano  gli  statuti  comunali  del  1259  (cf.  Gloria,  op.  cit., 
P-  375.  e  Denifle,  op.  cit.,  v.  I,  p.  800).  Altrettanto  seguiva  ad  Arezzo,  dove  gli 

statuti  del  1255  impongono  che  "  nullus  audeat  legcre  ordinarie  in  civitate  Aretina 

"  nec  in  gramatica  nec  dialectica  nec  in  medicina,  nisi  sit  legitime  et  publice  et 
"  in  generali  conventu  examinatus  et  approbatus  et  licentiatus  quod  possit  in 
"  sua  scientia  ubique  regere  „  :  cf.  F.  von  Savigny,  Gesch.  des  Rómisch.  Rechts 
ini  Mittelalter,  Heidelberg,  1822,  v.  Ili,  p.  6^5.  E  cosi  pure  decretavano  gli  statuti 
dello  Studio  romano  (  v.  F.  M.  Renazze,  Storia  dell'  Univ.  degli  Studi  di  Roma, 
Roma,  MDCCCIII,  to.  I,  App.  al  lib.  I,  Doc.  XXXIV,  p.  271),  ed  altresì  quelli  della 
Università  Fiorentina,  "  lauda  bilem  cons  u  etudinem  in  omnibus  gene- 
"  ralibus  Studiis  observatam,  in  hoc  nostro  Studio  inmitantes  „:  Ghe- 
RARDi,  op.  cit.,  Stat.  rubr.  I.XXIII,  p.  81. 

(")  ViRG.  Bue.  Ecl.  VII,  1-2: 

Forte  sub  arguta  consederat  ilice  Daphnis, 
Compulcrantque  greges  Corydon  et  Thyrsis  in  unum,  etc. 

(^')  Secondoché  indica  la  collocazione  delle  parole,  la  quale  qui  s' accorda 
collo  svolgimento  del  pensiero,  de  more  deesi  riferire  a  pastas:  Melibeo  e  Titiro 
passano  in  rassegna  le  caprette,  dopoché  queste  "  tornano  dal  pasco  „  pasciute, 
com'è  costume  (cf.  Virg.  Ecl.  IX,  23-24). 

C'")  F.  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.   log. 

(")  Op.  cit.,  p.  8^. 

NOVATI.  3 


—  34  — 

(")  Cf.  opere  ialine  di  D.  A.,  reintegrate  nel  testo  con  nuovi  coinm.,  Firenze, 
i88a,  V.  II,  p.  326. 

^")  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.   109  sg. 

(")  Ricci,  op.  cit.,  p.  99  sg. 

(")  Ecl.  I,  vv.  9-26. 

('*)  Manifestato  il  proposito  suo  d' inviare  a  Mopso  dicci  vaselli  di  latte, 
Titiro  chiude  il  suo  discorso  con  un"  ultima  raccomandazione,  alquanto  ironica, 
a  Melibeo: 

Tu  tamcn  interdum  caprns  mediterò  pctulcos. 
Et  duris  crustis  discas  infigere  dentes; 

e  quindi  l'Ecloga  stessa  ha  fine  (  v.  65-68).  Or  intorno  al  significato  di  questi 
versi  il  Dionisi  ;  che  pur  troppo  è  passato  e  passa  ancora  come  uno  dei  più  fe- 
lici interpreti  delle  Ecloghe  dantesche,  mentre  di  solito  non  ne  imbrocca  una; 
esce  fuori  con  la  seguente  incredibile  diceria:  "  Queste  io  le  ho  per  parole  di 
"  Ser  Dino  Perini,  di  Melibeo;  colle  quali  egli  insinui  a  Titiro,  cioè  a  Dante,  che 
"  mediti  a  quando  a  quando  peiulcos ...  capros,  vale  a  dire  i  Grandi  alla  sua  parte 
"  contrarj,  per  guardarsene;  e  i  personaggi  degni  d'infamia,  per  inserirne  anche 
"  nel  Purgatorio  la  riprensione  o  la  satira;  e  che  s'avvezzi  a  masticar  con  pa- 
"  zienza  il  pane  degli  altri,  che  ha  sette  croste,  ovvero  il  pane  della  povertà,  eh' è 
"  per  sé  stesso  durissimo  „.  Serie  di  Aneddoti,  n.  IV,  Verona,  Erede  Merlo, 
MDCCLXXXVIII,  p.  9.  Si  può  dar  di  peggio!  Eppure  codesta  fantastica  spiega- 
zione ha  fatto  fortuna.  La  ripete  tal  quale  il  Fraticelli;  il  Giuliani  la  loda  (bellis- 
sima questa,  che  dopo  averla  adottata  nel  commento  (op.  cit.,  p.  332),  a  p.  335 
se  ne  scorda,  e  nel  tradurre  1' ecloga,  lascia  i  due  versi  a  Titiro!):  solo  il  P.\- 
SQUALiGO,  Ecloghe  di  G.  del  Virg.  e  di  D.  Aligli.,  Lonigo,  1887,  p.  45,  la  respinge, 
perché:  "  stando  alla  nuda  lettera,  non  vi  ha  dubbio  che  il  discorso  è  qui  di 
"  Dante  a  Melibeo  „;  in  compenso  però,  fisso  nell'idea  che  Dante  sia  or  Titiro 
or  Melibeo,  cava  partito  dai  due  versi  per  un  inintelligibile  sproloquio.  Or  tutto 
questo  a  me  pare  un  voler  chiudere  gli  occhi  per  non  vedere.  In  primo  luogo  è 
impossibile  togliere  a  Dante  i  due  versi:  la  é  questione  di  senso  comune.  In  se- 
condo poi  come  si  fa  ad  immaginare  che  i  "  capri  petulci  „  sian  altra  cosa  dai 
soliti  scolari,  "  cura  „  di  Melibeo,  altre  due  volte  indicati  colla  stessa  parola 
neir  Ecloga?  Bisogna  proprio  non  capir  nulla  del  linguaggio  bucolico  per  supporre 
che  sotto  le  spoglie  de' capretti  lascivi  (che  tanto  vale  il  petulci  del  testo) 
Dante  potesse  nascondere  i  "  grandi  alla  sua  parte  contrarli  „  o  i  personaggi 
da  infamare  nella  Comedia\  Ma  ove  a  costoro  egli  si  fosse  dato  briga  d' alludere, 
ben  altre  fiere  g!i  avrebbero  prestato  il  lor  nome!  Né  meno  assurda  è  la  spiega- 
zione del  verso  seguente.  Dante  (s'è  già  veduto)  ama  rimproverare  scherzosa- 
mente a  Melibeo  che  i  carmi  di  Mopso  "  non  sono  pane  pe' suoi  denti  „.  E  qui 
ripete  il  rimbrotto:  "  Mentr' io  attendo  a  mugnere,  tu  occupati  delle  capre,  ed 
"  impara  a  metter  i  denti  nelle  dure  croste  „,  cioè  stude  in  his,  come  dice  il 
glossatore  anonimo:  "  cerca  di  farti  più  dotto  „.  E  se  abbisognasse  una  prova 
che  questo,  e  non  altro,  è  il  senso  vero  del  verso,  noi  additeremmo  tosto  1'  ecloga 


—  35  — 

colla  quale  Giovanni  Del  Virgilio  ha  risposto  alla  dantesca.  Il  maestro  bolognese 
vi  si  dice  pronto  a  ricambiare  il  latte  di  pecora  che  Dante  gli  invierà  con  altret- 
tanto latte  di  giovenca,  allor  allora  spremuto,  "  quo  dura  queant  mollescere 
"  crusta  „  (v.  93).  O  di  quali  croste  si  parla  qui,  in  grazia,  se  non  di  quelle 
appunto  che  Mclibeo  durava  fatica  a  rosicchiare?  Che  e' entran  dunque  il  pane 
altrui  "  dalle  sette  croste  „  ed  il  pan  della  povertà,  e  gli  altri  sogni  del  Dionisi? 

('")  Nulla  tornava  più  agevole  ad  un  notaio  del  scc.  XIV  di  quello  che  tra- 
sformarsi in  maestro  di  grammatica,  data  la  strettissima  parentela,  ond' erano 
allora  insieme  congiunte  le  scuole  d'  ars  uo/an'a  e  d'  ars  diciaHdi.  Ved.  in  pro- 
posito quel  mio  vecchio  lavoro  che  è  La  giovinezza  di  Coluccio  Salutali,  Torino, 
1888,  p.  66  sgg.  —  Sopra  il  Perini  avrò  occasione  di  ritornare  in  un  nuovo  lavoro. 

('■*)  Occorre  forse  rammentare  tutto  lo  scalpore  fatto  dal  Boccaccio,  a  cui 
s"  unirono  e  il  Nelli  e  il  Bruni  e,  più  tardi,  anche  il  Salutati,  allorché  il  Petrarca 
ebbe  a  recarsi  presso  de' Visconti?  La  lettera  che  Giovanni  diresse  al  suo  vene 
rato  amico  in  quell'occasione  ribocca  d'indignazione  e  di  paroloni  (cf.  Corazzini, 
op.  cit.,  p.  -17  sgg.);  eppure  l'autore  di  essa,  quando  la  necessità  a  ciò  l'indusse 
non  sdegnò  d'  accettare,  anche  lui,  1'  ospitalità  ed  i  benefici  di  "  tiranni  „,  come 
Francesco  Ordelafti,  Ostasio  e  Bernardino  da  Polenta.  Lungo  discorso  potrebbes 
fare  intorno  a  quest'  argomento,  né  privo  d' interesse.  Ma  qui  soltanto  avvertiremo 
a  mostrar  come  siasi  andato  facendo  sempre  maggiore  l' influsso  dell'  antichità 
anche  in  quest'  ordine  d' idee,  sulle  menti  degli  amici  e  discepoli  del  Petrarca  e 
del  Boccaccio,  che  a  parecchi  di  costoro  sembrava  riprovevole  audacia  quella 
che  consigliò  l'Alighieri  a  cacciar  nel  più  cupo  dell'Inferno  gli  uccisori  di  Cesare, 
tanto  che  il  Salutati  dovette  sorgere  nel  De  tyraiitno  a  difendere  contro  di  loro 
il  suo  glorioso  concittadino. 

(")   Vita  di  Dante,  §  5,  p.  30. 

(•^)  Op.  cit.,  ed.  Galletti,  p.  io. 

(")  Ecl.  I,  vv.  80-81. 

(")  Cfr.   Vita  di  Dante,  §  6,  p.  33. 

C'ì  De  eligibilis  vitae  genere  in  cod.  della  Nazionale  di  Parigi,  Fonds  Lat. 
€49^,  e.   12  A. 


II. 

PASCUA  PIKRIIS 
DEMUM   RESONABAT  AVENIS 


I. 


Si  può  dirlo  senz'essere  ingiusti  verso  chicchessia:  tra  i 
tanti  cultori  degli  studi  danteschi,  i  quali  dallo  scorcio  del  se- 
colo XMII  in  poi  ebbero  ad  occuparsi  della  corrispondenza 
poetica  corsa  tra  l'Alighieri  e  Giovanni  Del  Virgilio,  il  solo  che 
abbia  dato  prova  sicura  d' averne  riconosciuto  il  vero  carattere 
e  ben  compresa  tutta  l' importanza,  è  stato  Francesco  Macri-Leone. 
Pur  troppo  anche  a  lui  la  "  livida  Atropo  „  ruppe  a  mezzo  il 
giocondo  lavoro;  sicché  del  libro  ch'egli  aveva  vagheggiato  in- 
torno alla  Bucolica  latina  nella  letteratura  nostra  del  Trecento, 
la  prima  parte  soltanto  potè  vedere  la  luce;  ed  anche  questa, 
messa  sgraziatamente  a  stampa  dall'  autore,  mentre  si  trovava 
lontano  da  ogni  centro  di  cultura,  martellato  dalla  brama  di  pro- 
cacciarsi alla  lesta  un  "  titolo  „,  che  lo  riconducesse  in  meno 
inospitale  soggiorno;  usci  fuori  portando  impressi  i  dannosi  vestigi 
di  quella  fretta,  che  "  dismaga  1'  onestade  „  non  degli  uomini  sol- 
tanto, ma  altresì  delle  opere  loro  (*).  Ad  onta  di  ciò,  ripeto,  il 
giovine  critico  leccese,  dotato  com'  era  di  svegliata  ingegno  e  di 
non  scarso  acume,  seppe  giudicare  le  ecloghe  dei  due  trecentisti 
con  molta  maggiore  finezza  di  quella  mostrata  da  tutti  i  predecessori 
suoi,  e  levare  quindi  di  mezzo  come  non  pochi  altri  pregiudizi 
intorno  ad  esse  diffusi  ('),  anche  un'  erronea  opinione  che,  tenuta 
com'era  da  letterati  per  fama  chiarisssimi,  minacciava  d'abbuiare 
sempre  più  la  questione  in  luogo  di  chiarirla.  Aveva  in  vero 
fatto  dapprima  capolino  tra  gli  studiosi  per  opera  di  Giorgio 
Voigt  la  credenza  che  Dante  si  fosse  preso  giuoco  del  consiglia 


—  40  — 

datogli  dal  retore  bolognese  d'  abbandonare  per  la  latina  la  vol- 
gar  poesia,  e  "  scherzando  „  V  avesse  respinto  (■');  poscia  era 
sopraggiunto  il  Gaspary  ad  asserire  come  1'  "  impronta  prosun- 
"  zione  „  dell'  interprete  di  Virgilio  fosse  sembrata  tale  al  poeta 
divino  che  a  rintuzzarla  si  confacesse  non  già  aperto  sdegno 
o  manifesto  dileggio,  bensì  invece  una  sottile  ironia.  Per  conse- 
guire appunto  tale  intento  egli  avrebbe  divisato  d'  assumere,  ri- 
spondendo a  Giovanni,  le  spoglie  dell'  antico  Titiro,  di  cavare 
da  quella  maroniana  zampogna,  cui  da  secoli  ninno  più  aveva 
distese  le  mani,  novelle  armonie.  Sotto  l' involucro  pastorale 
quanto  di  rude  o  d' offensivo  poteva  serbare  il  pensiero  dan- 
tesco sarebbesi  ammorzato  e  rammorbidito  senza  scemare  d'  effi- 
cacia; per  tal  guisa  il  vecchio  simbolo  bucolico,  compenetrato 
dal  vigoroso  soffio  di  uno  spirito  nuovo,  da  ozioso  trastullo  ri- 
diveniva vera  forma  d' arte  (*).  Codesta  sentenza  del  valoroso 
tedesco  andò  a  genio  a  parecchi;  sicché  il  Pasqualigo  da  un 
canto,  dall'altro  Antonio  Lubin  s'industriarono  a  ricercar  poi 
nel  testo  dei  due  pastorali  componimenti  inviati  da  Dante  a  Gio- 
vanni, i  passi  donde,  a  lor  giudizio,  il  sarcasmo  velato  e  la  dis- 
simulata ironia  meglio  parevano  appalesarsi  (^),  Il  Macri-Leene 
al  contrario  giudicò  del  tutto  fallace,  coni'  era  in  realtà,  questo 
modo  di  vedere  del  Gaspary  e  de' seguaci  suoi;  ne  faticò  molto 
a  dimostrare  il  suo  assunto.  Non  v'  ha,  egli  avvertiva  rettamente, 
alcun  sapore  di  scherzo,  e  men  che  meno  poi  d' ironia,  nel  lin- 
guaggio di  Dante.  Ben  lungi  dal  considerarlo  quasi  un  arrogante 
grammaticuzzo,  che  vuol  sedere  a  scranna,  giudice  di  quanto 
non  sa  né  può  comprendere,  Titiro  tratta  Mopso  come  un  amico 
schietto  e  devoto,  della  cui  stima  s*  onora,  del  cui  affetto  si  com- 
piace. E  le  lodi  eh'  ei  si  degna  tributargli  ben  potranno  forse 
parer  a  noi  oggi  ampollose,  ma  giammai  menzognere  e  beffarde. 
"  Per  carità,  conchiude  il  Macri-Leone,  non  attoschiamo,  coi  no- 
*'  stri  sottili  vapori  di  critici,  il  profumo  soave  d'  affetto  sincero 
"  e  di  benevolenza  cortese,  che  emana  da  questi  graziosi  fiori  di 
"  poesia  sbocciata  già  al  cominciare  della  nostra  primavera  let- 
''  teraria,  e  ancora  non  avvizziti  „  f'). 


—  41  — 

Come  pur  dianzi  accennavo,  la  causa  tolta  a  difendere  dal 
compianto  Macri-Leone  era  di  tale  bontà,  che  la  vittoria  non  po- 
teva mancargli,  anche  quand'  egli  per  raggiungerla  avesse  con 
minor  vigoria  combattuto.  E  difatti  oggi  non  v'ha  più  alcuno 
disposto  a  farsi  campione  vuoi  clcH'  una  vuoi  dell'  altra  delle  due 
opinioni  dal  Macri-Leone  respinte.  Pure,  ove  al  Gaspary  re- 
stasse, eh'  io  noi  credo,  ancora  qualche  fautore,  riuscirebbe  age- 
vole a  noi,  rafforzando  di  nuove  obbiezioni  il  manipolo  di  quelle 
già  addotte,  costringerlo  a  piegare  in  ritirata. 

Supponiam  dunque  per  un  istante,  che  il  poeta  illustre,  of- 
feso dall'  audace  e  non  richiesto  consiglio  del  maestro  bolo- 
gnese, si  fosse  davvero  proposto  di  rintuzzarne  la  baldanza  con 
velati  ed  arguti  rimbrotti.  Possiamo  noi  credere  che  in  tal  caso 
ei  sarebbe  stato  pago  a  pungerne  la  protervia  con  le  allusioni, 
recondite  tanto  da  riuscire  inintelligibili,  al  "  bianco  paziente  „, 
al  "  canaletto  „  umile,  che  accoglie  e  guida  giii  per  il  declivio 
del  monte  le  linfe  che  sovra  la  cima  zampillano,  ai  "  turpi  orec- 
"  chi  „  di  re  Mida,  alla  morte  del  protervo  Pireneo?  (")  Ben  più 
naturale  sarebbe  ritenere  che  anche  in  quegli  amplissimi  elogi 
da  lui  prodigati  al  suo  contradditore,  1'  Alighieri  avesse  versato 
qualche  stilla  di  fiele.  Sicché,  quand'  egli  scrive  che  Mopso  suole 
air  ombra  del  Menalo,  nei  fioriti  prati  d' Arcadia,  dar  fiato  alle 
pastorali  canne  con  si  inaudita  dolcezza  da  rinnovare  i  prodigi 
d'Orfeo,  giacché 

dulce  melos  armenta  sequantur, 
Placatique  ruant  campis  de  monte  leones. 
Et  refluant  undae,  frondes  et  Maenala  nutent;  (') 

noi  dovremmo  restare  incerti  se  vedere  in  siffatte  parole  una 
lode  sincera  o  una  garbata  canzonatura.  Ma  Giovanni  a  co- 
dest'ecloga,  presentatagli  quasi  un  vaso,  che  ha  intriso  il  labbro 
di  un  "  soave  licore  „,  mentre  contiene  in  fondo  de'  "  succhi 
"  amari  „,  s' aff'retta  a  rispondere  immediatamente  con  un'altra, 
nella  quale  l'  ammirazione  per  il  "  divin  vecchio  „,  che  manife- 
stavasi    già    tanto    grande    nel    primo    suo  carme,  par  fatta  mag- 


—  42  — 

giore,  pili  intensa,  soprattutto  più  afifcttuosa,  O  come  mai?  Egli 
dunque  non  ha  capito  nulla?  Ha  preso  per  moneta  buona  e 
sonante  le  sarcastiche  lodi  tributategli?  Possibile  che  un'ironia, 
la  quale  balza  evidente  agli  occhi  de'  critici,  nati  cinque  secoli 
dopo,  sia  rimasta  inavvertita  a  colui  che  ne  era  il  bersaglio? 
Ma  v'ha  dell'altro.  L'ecloga  di  Dante  sarebbe  stata  dettata  per 
difendere  il  volgare  dagli  attacchi  di  Giovanni,  anzi,  addirittura 
di  tutto  quello  stuolo  di  dotti,  che  il  maestro  bolognese  rappre- 
sentava; ed  in  essa  non  si  rinvien  parola  che  accenni  ai  meriti 
vilipesi,  ai  conculcati  diritti  di  quell'  idioma  in  cui  l' Alighieri 
aveva  dettato  la   Comcdia? 

Adagio  un  poco:  la  difesa  del  volgare  c'è;  odo  rispondermi 
da  più  parti;  ed  agli  altri  s'aggiungerebbe  qui,  ove  fosse  vivo, 
anche  il  Macri-Leone.  Giacché  egli  pure,  il  valente  giovine,  dopo 
avere  intravveduta  la  via  che  si  doveva  battere  per  discoprire  il 
vero,  non  ha  saputo  percorrerla  tutta  quanta;  ma,  ad  un  tratto, 
ricalcando  le  proprie  vestigia,  è  tornato  a  mescolarsi  alla  schiera 
di  coloro  che  aveva  cosi  felicemente  sorpassati.  Chiarito  infatti 
che  neir  animo  di  Dante  non  allignò  mai  pensiero  alcuno  meno 
che  benevolo  e  cortese  verso  Giovanni  Del  Virgilio;  laonde  è 
vano  ricercare  ne'  versi  a  lui  diretti  traccia  di  scherno  o  di  mal 
animo;  egli  soggiunge  che  l'Alighieri  volle  disarmare  con  altro 
mezzo,  ben  più  nobile  e  degno,  il  suo  contradditore:  vale  a  dire 
"  facendogli  gustare  i  prodotti  della  sua  originale  e  ricchissima 
"  Musa  volgare  „  (^).  Or  cosi  affermando,  il  Macri-Leone  ha 
adottata  una  sentenza  che,  per  essere  da  tutti  comunemente  te- 
nuta, non  per  questo  dee  dirsi,  a  parer  nostro,  prossima  al  vero. 
Poiché  il  vero,  a  compendiarlo  in  poche  parole,  è  tale:  Dante, 
ben  lungi  dal  rigettare,  vuoi  scherzoso  vuoi  ironico,  il  suggeri- 
mento di  Giovanni,  dichiara  non  solo  d'accettarlo,  ma  s'accinge 
tosto  a  metterlo  in  esecuzione.  So  che  codest'  asserto  farà  inar- 
care le  ciglia  a  più  d'  uno  ("*).  Ma  io  non  chieggo  che  d'  essere 
ascoltato  prima  di  venir  giudicato;  e  quindi,  bandito  ogni  in- 
dugio, m'affretto  ad  esporre  le  cagioni  che  hanno  prodotta  in 
me  siffatta  persuasione. 


—  43  — 


IL 


La  mia  dimostrazione  si  i'on'ierà  adesso  unicamente  sopra 
l'analisi  di  quel  brano  della  prima  tra  le  ecloghe  dantesche,  il 
quale,  benché  sia  stato,  quasi  a  sazietà,  discusso  da  quanti  eb- 
bero sin  qui  occasione  non  solo  di  studiare  la  corrispondenza 
dell'  esule  fiorentino  col  professore  bolognese,  ma  di  discutere 
altresì  la  rilevantissima  questione  del  come,  del  dove,  del  quando 
la  Conicdia  sia  per  intero  uscita  alla  luce;  pure  non  è  mai  stato 
rettamente  interpretato  da  alcuno.  Ben  sanno  dunque  i  lettori, 
come,  dopo  avere  rivelato  con  un  movimento  mirabile  di  giusta 
alterezza,  tale  da  richiamare  per  bellezza  ed  efficacia  di  forma  e 
di  pensiero  il  superbo  slancio  lirico  del  Paradiso  (XXV,  1-9),  la 
sua  suprema  aspirazione  —  quella  cioè  di  ricevere  in  Firenze 
la  laurea  — ,  Dante,  quasi  colpito  ad  un  tratto  da  molesto  ri- 
cordo, si  rivolga  al  giovine  Melibeo,  interrogando:  "  Ma,  il  con- 
"  cederà  Mopso?  „  —  "  Mopso...  e  che?  „;  chiede  a  sua  volta 
Melibeo.  E  Titiro  allora: 

Comica  nonne  vides  ipsum  reprehendere  verba, 
Tum  quia  foemineo  resonant  attrita  labello, 
Tum  quia  Castalias  pudet  acceptare  sorores? 
Ipse  ego  respondi:  versus  iterumque  relegi, 
Mopse,  tuos 

Melibeo  scrolla  allora  le  spalle,  e  poi  : 

Quid  faciemus,  ait,  Mopsuin  revocare  volentes? 

A  codesta  domanda  Titiro  risponde  coi  versi  divenuti  oramai 
famosi  : 

Est  mecum,  quam  noscis^  ovis  gratissima,  dixi. 
Ubera  vix  quae  ferre  potest,  tam  lactis  abundans; 
Rupe  sub  ingenti  carptas  modo  ruminat  herbas; 
Nulli  iuncta  gregi,  nullis  assuetaque   caulis, 
Sponte  venire  solet,  nunquam  vi,  poscere  mulctram. 
Hanc  ego  praeslolor  manibus  mulgere  paratis; 
Hac  iniplebo  decem  missurus  vascula  Mopso  (")• 


—  4+  — 

Or  qual  "  dottrina  „  si  nasconde  sotto  il  velame  allegorico 
in  questi  esametri  ?  Monsignor  Dionisi  nell'  edizion  sua  delle 
ecloghe,  appoggiandosi  all'  autorità  dell'  Anonimo  glossatore  del 
cod.  Laurenziano  PI.  XXIX,  8,  e  soprattutto  fidando  nella  po- 
stilla, che  la  parola  ovis  spiega  come  òucolicnin  canncn,  stimò 
che  Dante  alludere  qui  volesse  all'  ecloga  stessa  che  stava  scri- 
vendo. Egli  interpretò  dunque  1'  intero  brano,  testé  letto,  in  que- 
sta guisa:  "  Che  faremo,  disse  (Melibeo),  volendo  noi  rinvitarlo 
"  (Mopso)?  cioè,  s'intende,  bisogna  (come  spiega  1' anonimo)  in 
"  qualche  modo  rispondergli;  se  no,  e'  non  ci  scriverà  più  „. 
Per  ovviare  a  siffatto  danno,  1'  Alighieri  "  consigliasi  ecloga  la- 
"  tina  mandargli,  eh'  è  questa  istessa,  in  cui  egli  sotto  la  persona 
"  di  Titiro  finge  tener  sermone  con  Melibeo  „;  ecloga,  della 
quale  i  dieci  vasetti  di  latte  riescono  "  simbolo  certissimo  '*  „. 
Ed  in  prova  sempre  maggiore  di  ciò  il  Dionisi  adduce  anche  le 
parole  di  Giovanni  Del  Virgilio,  il  quale  nell'  ecloga  sua  alla 
Dantesca  responsiva  manifesta,  in  persona  di  Mopso,  il  disegno 
di  mandare  a  Titiro  altrettanto  latte  quanto  costui  gliene  volle 
donare: 

tot  mandabinius  illi 
Vascula,  quot  nobis  promisit  Tityrus  ipsc  ("). 

"  Ora  Mopso  col  suo  latte  non  intese  che  la  ecloga  stessa, 
"  ove  questo  dice;  dunque  a  giudizio  di  maestro  Giovanni  anche 
"  Titiro  nel  suo  regalo  di  latte  promesso  a  Mopso  non  poteva 
"  non  intendere  1'  ecloga  stessa,  ove  tal  cosa  annunziava  „.  Per 
verità  a  creder  questo  può  riuscire  di  qualche  incomodo  il  pro- 
misit del  testo  (o  non  aveva  forse  Dante  già  effettivamente  man- 
data all'  amico  1'  ecloga  sua?).  Ma  la  difficoltà  sarà  tolta  di  mezzo, 
ove  al  promisit  si  sostituisca  un  praemisit  ('^). 

Tale  r  esplicazione  del  Dionisi,  che,  pur  nascondendo  in  sé 
stessa  una  particella  di  verità,  non  riesce  tuttavia  nel  complesso 
accettabile,  né  presentasi,  almeno  in  apparenza,  soddisfacente  e 
persuasiva.  Non  è  a  stupire  pertanto  che  contro  di  essa  siano 
insorti  più  tardi  quanti    vollero    far    materia    degli    studi    loro  le 


—  45  — 

ecloghe  dantesche.  E  tutti  stimarono,  combattendo  1*  erudito  ve- 
ronese di  combattere  insieme  l'Anonimo  trecentista;  nel  che, 
come  or  ora  vedremo,  s'ingannarono  a  partito. 

Tra  coloro,  che  più  s'  affaticarono  a  confutare  il  Dionisi,  un 
luogo  segnalato  però  spetta,  dopo  Filippo  Scolari  ('•'),  al  padre 
Marco  Giovanni  Penta,  non  tanto  perché  ei  sia  stato,  come  affer- 
mava il  Giuliani  (""'),  "  uno  dei  maggiori  dantisti  del  nostro  secolo  „, 
quanto  perché  l'opinione  da  lui  propugnata  in  una  prolissa  scrit- 
tura, inserita  nel  Giornale  Arcadico  del  1848  ('^),  tiene  oggi  an- 
cora il  campo,  né  ha  mai,  eh'  io  sappia,  rinvenuto  oppositori. 
E  poiché  contro  il  Ponta  dunque  a  noi  tocca  combattere,  cosi 
gioverà  esporne   prima   con    imparziale  chiarezza  i  ragionamenti. 

"  La  corrispondenza  poetica  di  Dante  e  Giovanni  Del  Vlr- 
"  gilio  „  :  questo  è  il  titolo  che  la  dissertazione  del  "  savio  e 
•'  dottissimo  „  Somasco  porta  in  fronte;  pure  cadrebbe  in  er- 
rore chi  stimasse  che  della  corrispondenza  stessa  s' occupi  es- 
senzialmente r  Autore.  In  realtà  a  lui  essa  è  non  già  fine,  ma 
mezzo  per  raggiungere  il  proprio  intento:  quello  di  provare, 
contro  la  sentenza  d'  Ugo  Foscolo,  che  il  "  poema  sacro  „,  ben 
lungi  dall'  essere  ancora  ignoto  al  pubblico  quando  Dante  mori, 
era  già  stato  dato  tutt'  intero  alla  luce  fin  dal  1319,  salvoché  gli 
ultimi  tredici  canti  del  Paradiso  ('^).  Or  siccome  l' enimmatica 
allusione  all' agna  da  lui  posseduta  ed  ai  dieci  mastelli  di  latte 
che  proponevasi  mugnerne,  introdotta  dall'  Alighieri  nella  prima 
sua  ecloga,  sembrò  al  Ponta  offerire  un  valido  sostegno  alla  tesi 
di  cui  s'era  fatto  patrocinatore;  ben  si  capisce  da  ciò  com'egli 
abbia  fatto  tesoro  di  ogni  argomento,  vuoi  da  altri  già  addotto 
vuoi  da  lui  stesso  escogitato,  pur  di  mostrare  vana  ed  infon- 
data la  sentenza  che  nella  pecora  simbolica  si  celasse  1'  ecloga 
latina. 

Comincia  dunque  il  Ponta  dal  negare  che  la  domanda  di  Me- 
libeo  a  Titiro:  quid  facicmus...  Mopsiwi  revocare  z'o/(?«/<'5,  debba, 
come  il  Dionisi  aveva  creduto,  esser  intesa  cosi:  "  Che  farem 
"  noi,  volendo  rinvitar  Mopso,  acciocché  torni  a  scriverci  „  — 
Revocare  non  ha  qui,    egli  dice,    la   forza    che  in    altri    casi  pos- 


-  46  - 

siede  di  "  rinvitarc  „,  bensì  quella,  che  gli  è  pure  coniunissinia,  di 
"  indurre  altrui  a  mutar  sentenza,  maniera  d'  agire  „,  e  simili  ('"). 
Melibeo  non  chiede  quindi  che  cosa  occorra  fare,  perché  Mopso, 
invitato,  riscriva,  ma  perché  egli,  cangiando  d'  avviso,  si  pieghi 
a  concedere  che  Dante  sia  coronato  per  la  poesia  italiana  (^'^). 
Premesso  questo,  assai  chiaro  si  scorge  come  il  dono  che  Titiro 
dichiarasi  disposto  ad  inviare  a  Mopso,  de'  dieci  vasi  di  latte 
spremuto  dalle  poppe  della  sua  pecora  prediletta,  non  possa  in 
veruna  guisa  essere  simbolo  di  quanto  concerne  l' ecloga  e 
r  idioma  latino.  Prima  di  ricercare  il  senso  allegorico  delle  scrit- 
ture altrui,  continua  argomentando  il  Ponta,  dee  chi  legge  inten- 
derne bene  quello  letterale.  Or  che  leggiamo  noi  nell'  ecloga 
dantesca?  Per  espressa  testimonianza  di  Titiro,  Melibeo  ci  è 
presentato  in  essa  "  uomo  cosi  tutto  volgare  ed  idiota  che  nulla 
"  si  conosce  del  parlare  latino  tenuto  da  Mopso  a  Titiro  nel 
"  cariìtcìi  antecedente  „:  sicché  riesce  ragionevole  asserire  es- 
sergli sconosciuto  il  fonte  da  cui  sgorga  la  poesia  latina  (^^). 
Dall'  altro  canto  Titiro  asserisce  che  Melibeo  ben  conosce  la  sua 
pecora.  Ora,  s'ei  conosce  la  pecora,  dee  conoscere  anche  il  latte 
ch'essa  suol  dare;  ma,  in  tal  caso,  né  la  pecora  né  il  latte  pos- 
sono simboleggiar  la  poesia  latina;  quindi  torna  assurdo  il  cre- 
dere che  i  dieci  vasetti  debbansi  identificare  coli'  ecloga  dantesca. 
E  poi,  chi  ben  guardi,  le  qualità  tutte  dell'  allegorica  agnella 
mal  si  confanno  alla  poesia  latina.  Scrive  infatti  Dante  non  solo 
ch'essa  è  nota  a  Melibeo,  uomo  illetterato,  ma  che  a  lui  stesso 
è  carissima,  che  abbonda  di  latte,  che  è  schiva  delle  altre  greggi, 
e  non  usa  in  alcun  altro  ovile,  docile  e  mansueta  cosi  da  venire 
al  mastello  spontanea,  senza  che  mai  alcuno  la  debba  sforzare. 
"  Or  e  quando  mai  Dante  frequentò  questa  sorta  di  verseg- 
"  giare?  Quando  mostrossi  più  appassionato  di  questa,  che  della 
**  poesia  italiana?  come  fé'  conoscere  che  questa  pecora  usasse... 
''  di  presentarsi  spontanea  alla  mugnitura  di  Dante,  il  quale 
"  pei  versi  latini...  sino  a  quel  tempo  non  fu  mai  conosciuto 
"  poeta?  „  (% 

Se  non  è  dunque  la  musa,  1'  ecloga    latina,  che    sarà    mai  co- 


—  47  — 

dest' agnella?  Che  sarà?  risponde  il  l'onta.  Essa  è  la  musa  ita- 
liana, "  la  quale  senza  fallo  può  dirsi  e  carissima  a  Dante,  e 
"  nota  a  Melibeo,  e  abbondantissima  di  latte  poetico  italiano,  e 
*'  schiva  degli  altri  ovili  e  degli  altri  greggi,  avendo  nulla  di 
"  comune  cogli  altri  poeti  italiani,  se  pur  n'eccettui  l'esteriorità 
"  del  verso:  né  gii  manca  il  pregio  della  docilità  di  prestarsi 
"  volonterosa  e  spontanea  ai  desideri  del  mistico  pastore  „  ('•'). 
Dalle  gonfie  poppe  di  essa  Dante  "  mungerà  tosto  dieci  mastel- 
"  letti  di  latte,  simbolo  di  altrettanti  canti  della  Conniicdia,  per 
"  mandarli  a  Mopso:  acciocché,  sottintendi,  veduto  si  bel  dono, 
"  muti  pensiero  per  modo  sulla  Coniijudia,  da  dover  credere  il 
*'  suo  autore  degno  della  poetica  corona  „  ("');  e  questi  canti 
apparterranno  alla  sola  parte  del  poema,  che  ancora  non  era 
pubblicata,  cioè  al  Paradiso.  Cosi  le  dieci  misure  di  latte  sono 
"  il  vero  simbolo  degli  ultimi  dieci  canti,  che  ancor  mancavano 
"  al  pieno  compimento  del  poema  sacrato:  i  quali  però  non 
*'  erano  a  quei  giorni  composti,  ma  1'  autore  intentamente  vi  si 
"  era  occupato:  Rupe  sub  ingenti  carptas  modo  rnniinat  ìierbas : 
"  Hanc  ego  praestolor  manibiis  miilgere  paratis  „  ('•'). 

L' interpretazione  del  Ponta,  ingegnosa  senza  dubbio  e  sot- 
tile, consegui  una  fortuna  grandissima.  Nessuno  infatti,  da  cin- 
quant'  anni  a  questa  parte,  s' è  levato  mai  ad  impugnarne  la 
sostanziale  bontà;  se  dissenso  vi  fu,  esso  s'aggirò  sempre  fino 
ad  ora  intorno  a  punti  di  secondaria  importanza.  Cosi  i  dantisti 
pili  recenti  non  s' accordarono  tutti  coli'  "  onor  della  somasca 
*'  congregazione  „  nel  considerare  la  "  gratissima  agnella  „  quasi 
mito  della  musa  italiana  ovvero  della  fantasia  dell'  artista.  Se  il 
Macri-Leone  consente  in  ciò  ancora  col  Ponta  ('''),  il  Pasqualigo, 
al  contrario,  preferisce  riconoscere  in  quella  "  la  Coniincdia  o, 
"  meglio,  la  Musa  della  Commedia,  la  quale  era  nuovissima,  cioè 
"  fuori  affatto  da  ogni  altro  modo  di  poetare  „  (^');  definizione 
che  lascia,  in  quant'  a  chiarezza,  a  desiderare  parecchio.  Il  Giu- 
liani pure  dal  canto  suo,  si  compiacque  ravvisare  nell'  agna  "  la 
"  materia  preparata  alla  Cantica  del  Paradiso,  ed  anzi  la  Can- 
"  tica  stessa,  alla  quale  nessuno  mai  aveva  posto,  non  che  la  mano, 


-48- 

"  neppur  il  pensiero  „  (""l.  Anche  nello  stabilir  il  vero  signifi- 
cato de'  dieci  mastelli  di  latte  sorse  disputa  tra  gli  interpreti, 
eil  a  taluni  piacque  1'  avviso  del  Punta  che  de'  dieci  ultimi  canti 
del  Paradiso  si  trattasse  ('^)  ;  mentre  altri  giudicò  siffatt'  asserto 
ardito  troppo  (come  realmente  è),  e  privo  di  valido  sostegno, 
sicché  amò  meglio  non  precisar  nulla  {^^).  Il  Pasqualigo  invece, 
sempre  fecondo  é\  peregrini  pensamenti,  identificò  senz'  altro 
coi  simbolici  mastelli  non  già  gli  ultimi,  bensì  i  primi  dieci  canti 
del  Paratiisol  (^').  Ad  onta  di  codesti  dispareri  l'accordo  fu  però 
e  rimase  unanime  nel  ritenere  simboleggiata  sotto  le  spoglie  della 
mistica  agnella,  vuoi  in  una  vuoi  in  altra  parvenza,  la  poesia 
volgare,  e  ne' dieci  vasi  di  latte  altrettanti  canti  della  Comedia, 
anzi  più  precisamente  del  Paradiso,  che  Dante  prefiggevasi  man- 
dare a  Giovanni  Del  Virgilio,  per  indurlo  a  mutar  d' opinione 
sul  conto  della  poesia  volgare,  ed  a  concedergli  quindi  di  conse- 
guire il  sospirato  alloro,  senz'  aver  fatto  prova  alcuna  del  valor 
suo   nel  campo  della  lingua  latina  (^^). 


III. 


Sembrerà  quindi  forse  a  parecchi  una  temerità  bella  e  buona 
la  mia  di  voler  scuotere  dalle  fondamenta  1'  edificio  innalzato  dal 
Ponta  e  da  tanti  autorevoli  critici  giudicato  sinora  solidissimo. 
Ma,  se  non  sono  giuoco  d'un* illusione,  facile  mi  riuscirà  dimo- 
strare come  siffatta  fabbrica  partecipi  della  natura  di  quella  che 
"  sul  Pireneo  „  aveva  elevata  Atlante  per  tenervi  sicuramente 
Ruggero.  Non  appena  le  magiche  olle  vanno,  per  mano  di  Bra- 
damante,  in  frantumi,  ecco  il  colle  farsi  deserto, 

Né  muro  appar  né  torre  in  alcun  lato, 
Come  se  mai  Castel  non  vi  sia  stato  ("). 

L'  olla  del  mago  è,  nel  caso  presente,  la  dichiarazione,  eh'  io 
reputo  nell'  essenza  sua  interamente  fallace,  data  dal  Ponta  del 
concetto  che  informa  e  regge   la   macchina  simbolica    del    carme 


—  49  — 

dantesco.  A  Giovanni  Del  Virgilio,  il  quale    gli    ha    mosso  spon- 
tanee, caldissime  istanze,  perché,  dopo  avere  prodigato  cosi  libe- 
ralmente   al  volgo    i    tesori    della    sua    inspirazione    e    della   sua 
scienza,  ei  si  prenda  finalmente  pensiero  anche  dei    dotti,  scriva 
cioè  anche  per  loro;  perché,  se  gli  sta  a    cuore    la    sua  fama,  le 
aggiunga  ali  al  dorso,  facendo  uso  dell'  idioma,  il    quale,  non  ri- 
stretto dentro  angusti  confini,  irraggia   per  tutto    il    mondo  e  tra 
loro  afìfratella  i  poeti  ed  i  saggi  d'ogni    paese;  Dante    risponde- 
rebbe   colla    promessa    d' inviargli    ancora    de'  versi    italiani.    Ma 
perché?  Per  farlo  persuaso,  rispondesi,  dell'eccellenza  della    Co- 
media,  per  mostrargli  che,  a  torto,  egli  dispregia,  al  pari  di  tutti 
i  "  chierici  „  contemporanei,  gli  idiomi  nazionali.  "  Era  quello  il 
"  solo  mezzo  per  difendere  contro  1'  umanista  le  ragioni  del  vol- 
"  gare!  „  esclama    il  Macri-Leone.  "  Mandargli  dcccìu  vascida  di 
"  poesia  bucolica  latina,  sarebbe  stato  un  dargli  causa  vinta!  „  (^'). 
Sta  bene;  ma  chi  v'autorizza  a   credere    che  tanta    ingenuità 
albergasse  in  petto  all'Alighieri?    Come    poteva    egli    pensar  sul 
serio  che  Giovanni,  il  quale  aveva  proprio  allora  allora  espresso 
il  vivo  rammarico    che    in    lui    e    ne'  colleghi    suoi    tutti    destava 
r  ostinazione  del  grande  poeta  a  scrivere    in  volgare,  e  per  ade- 
scarlo a  cantare  latinamente  gli  faceva  balenare  dinanzi  agli  occhi 
la  promessa  di    leggere    dalla    cattedra,    in    pieno    Studio,   i  suoi 
"   futuri   „  componimenti,    e    d' impetrargli    quindi    la    tant'  ambita 
corona  (^'j;  mutasse  parere  e   linguaggio    dopo    siffatt' invio.''  La 
cosa  si  potrebbe  comprendere,   ove  fossimo  certi    che  il  maestro 
bolognese    nulla    avesse    mai    letto    della    Couicdia.    Ma,    a   farlo 
apposta,  noi  siam    sicuri    del    contrario!    Or    se    Giovanni    cono- 
sceva   ed    ammirava    altamente    (  "  altamente  „    dico,    giacché    è 
sogno  d'infermo  l'asserire,  come  altri  ha  fatto,  che  nel  carme  da 
lui    inviato    a    Dante    si    parli    con    scarsa    reverenza    del   sacro 
poema)  {^^),  X  Iiifcnio,  il  Purgatorio,  e,  come  i  più  vogliono,  anche 
una  parte  del  Paradiso  (^"),  eppur    non    aveva    fatto    getto    delle 
sue  antiche  opinioni;  come    e    perché  sarebbesi    egli    indotto  ad 
abiurarle,  dopo  avere  esaminato  il  nuovo  manipolo  di  canti  invia- 
togli?   Che    cosa  mai  in   essi  canti  avrebb' egli  rinvenuto  di  cosi 

NOVATI.  4 


_  50  — 

straordinariamente  nuovo  e  sublime  da  indurlo  a  rinunziare  ad 
una  convinzione  lungamente  nudrita,  che  tutto  ci  l'ivela  saldis- 
sima, e  che  tale  esser  doveva  dilatti,  poiché  dopo  di  lui  conti- 
nuarono a  tenerla  i  letterati  dell'  Europa  intera  per  quasi  due 
secoli?  (^^). 

Ma  ciò  non  basta.  All' ecloga  dantesca  il  Del  Virgilio  s'af- 
fretta a  rispondere  con  un  carme  della  stessa  natura,  nel  quale 
r  ammirazione  sua,  il  suo  affetto,  il  suo  culto  per  1'  Alighieri  pa- 
iono farsi,  s'è  già  notato,  anche  maggiori;  come  maggiori  e  più 
incalzanti  divengono  gli  inviti,  perché  il  "  divin  vecchio  „  voglia 
recarsi  a  Bologna.  Giovanni  non  esita  ora  più  a  chiamare  Dante 
un  nuovo  Virgilio,  anzi  Virgilio  stesso  redivivo,  e  gli  promette 
applausi,  corone,  omaggi,  onori  convenienti  alla  grandezza  sua  {^"). 
Or  donde  trae  dessa  alimento  questa  nuova  e  più  ardente  vampa 
d'entusiasmo,  che  riscalda  il  petto  all'interprete  acclamato  dei 
sommi  autori  latini?  Dalla  lettura  dei  dieci  canti  della  Comedia, 
che  l'Alighieri  aveva  detto  di  mandargli?  No  davvero,  giacché 
i  critici  s' accordano  ormai  tutti  nel  ritenere  che  la  promessa 
fosse  rimasta  senz'  effetto  ('").  Ciò  che  commuove  ed  esalta  Gio- 
vanni è  il  fatto  —  importantissimo  —  che  Dante  siasi  indotto  a 
dettare  un  poemetto  latino,  abbia  cioè  ceduto  ai  suoi  consigli, 
appagata  la  brama  cosi  vivamente  manifestatagli,  offerto  insomma 
al  maestro  bolognese  ed  ai  compagni  suoi,  studio  callcntibus, 
quel  pretesto,  di  cui  andavano  avidamente  in  traccia  per  poter 
mescere  alle  lodi  del  volgo  profano  gli  encomi  loro! 

Né  basta  ancora.  Smanioso  di  manifestar  i  sentimenti  che 
dentro  gli  ribollono,  il  Bolognese  non  solo,  deposte  le  tibie,  dà 
di  piglio  anch'esso  alla  pastorale  zampogna;  ma,  giunto  al  ter- 
mine del  suo  canto,  promette  all'amico  di  ricambiare  i  suoi  doni. 
Tu  m' hai  voluto,  dice,  far  lieto  di  dieci  vaselli  pieni  di  latte 
spremuto  dalle  poppe  della  tua  agnella;  io,  dal  mio  canto,  ne 
riempirò  per  te  altrettanti  col  latte  della  mia  giovenca  (■*').  Or 
che  vuoi  dir  con  questo  Giovanni?  Ch'egli  avrebbe  mandata 
a  Dante  1'  ecloga  cui  stava  scrivendo,  risponderebbero  il  Dionisi 
ed  il  Ponta.    Ma    dell'  infelicità  di    siffatta    risposta,    come   già  il 


Giuliani  ('"j,  s' ù  avveduto  anche  il  Macri-Leone  (^').  Perché,  a 
designare  un'  "  unica  „  ecloga,  Giovanni  adoprerebbe  la  figura 
stessa  usata  dall' Ah'ghieri  per  denotar  "  dieci  „  componimenti? 
Non  poteva  egli  dire  ottimamente  che,  in  contraccambio  de'  "  dieci  „ 
vasi  promessi,  avrebbe  donato  "  un  „  mastello?  Per  spiegare 
quest'altro  imbroglio,  il  Macri-Leone  ricorre  ad  un  espediente, 
che...  non  spiega  nulla:  "  Mopso  —  ei  scrive  —  s'avvicina 
"  (alla  sua  giovenca]  con  l'intenzione  di  mandare  a  Titiro  tanti 
*'  vasi  di  latte  quanti  quello  gliene  avea  promessi.  Badiamo: 
"  con  l'intenzione,  ma  non  nel  fatto;  perché  egli  stesso  aggiunge 
"  dopo:  '  ma  forse  è  superbia  mandar  latte  a  un  pastore  '.  Cosi 
*'  i  vascula,  di  cui  parla  Giovanni,  non  sono  neppure  l' ecloga 
*'  che  egli  manda  a  Dante,  ma  i  canti  che  gli  promette;  i  quali, 
^'  a  differenza  di  quelli  di  Dante,  non  sarebbero  volgari,  ma 
*'  latini,  non  "  latte  di  pecora  „,  ma  di  "  vacca  „;  distinzione 
**  che  nel  linguaggio  bucolico  non  dev'essere  trascurata,  e  che 
"  ci  mostra  la  superiorità  in  cui  la  poesia  latina  era  tenuta  ri- 
"  spetto  alla  volgare  „  {**). 

Apriamo  qui  una  breve  parentesi.  La  trovata  che  il  latte  di 
vacca  stia  qui  a  designare  la  poesia  latina,  mentre  quello  di  pe- 
cora denoterebbe  il  volgare,  spetta  al  p.  Ponta  (^''),  ed  è  graziosa 
assai;  ma  è  permesso  dubitare  che  sia  altrettanto  vera.  Vi  è  modo 
di  spiegare  infatti  più  pianamente  e  naturalmente  la  qualità  che 
Giovanni  attribuisce  alla  propria  Musa,  chiamandola  bucula.  Basterà 
ricordare  che  Dante,  introducendo  l'amico  in  quel  suo  fantastico 
mondo  pastorale,  si  è  piaciuto  imporgli  il  nome  di  Mopso  (^^), 
e  crearlo  non  già  un  pecoraio,  come  aveva  fatto  per  sé  stesso,  o 
un  guardiano  di  capre,  come  per  Melibeo,  bensì  un  bifolco  (^'). 
Postosi  sulle  orme  dell'Alighieri,  Giovanni,  come  ha  mantenuto 
il  nome  di  Mopso  (^■-),  cosi  ha,  naturalmente,  conservato  d'  esso 
Mopso  r  ufficio.  "  Dacché  devi  cantar  nelle  selve,  egli  dice  a  sé 
""  stesso,  t'oda  Titiro  cantare  qual  bifolco: 

Audiat  in  silvis  et  te  cantare  bubulcum  (*').  „ 

Ma  un  bifolco  non  può  avere  a  sua  disposizione  altro  latte 
■che  non  sia    di  giovenca;    è    ovvio  quindi  che    Mopso    offra  ap- 


punto  a  Titiro  cotal  ilono.  K  tanto  poco  egli  è  disposto  a  cre- 
dere il  latte  della  biicitla  sua  supcriore  a  quello  dell'  ovis  di  Ti- 
tiio,  che,  dopo  aver  manifestata  l'intenzione  propria,  soggiunge: 
scd  ìac  pastori  fors  csl  vìandare  siiprròìnii  C^").  Ora  ei  pecche- 
rebbe doppiamente  d' arroganza  se,  oltre  a  permettersi  d' offrir 
del  latte  ad  un  pastore,  aggiungesse:  Bada  bene,  il  latte  ch'io 
ti  dò  vai  molto  meglio  di  quello  che  tu  m'  hai  profferto,  che  il 
tuo  è  di  pecora  ed  il  mio  di  vacca! 

O  come  si  fa  dunque,  ci  sia  lecito  questo  po'  di  sfogo,  a  non 
vedere  V  insulsaggine,  la  fiacchezza,  e  persino  1'  assurdità  di  tutti 
codesti  discorsi?  Dante,  sollecitato  da  Giovanni  Del  Virgilio  a  far 
paghi  i  suoi  voti,  condivisi  da  quanti  son  uomini  dotti,  col  com- 
porre de'  poemi  latini,  gli  indirizza  un'  ecloga,  che  finisce  colla  pro- 
messa di  mandargli  de'...  versi  volgari,  anzi  propriamente,  dieci 
canti,  non  uno  di  pili,  non  uno  di  meno,  della  Coìurdia.  L'  altro,, 
che  s' era  fin  allora  scalmanato  a  pregarlo  perché  facesse  per 
l'appunto  il  contrario,  s'accheta  a  un  tratto;  e,  quasi  immemore 
di  quanto  aveva  cosi  insistentemente  richiesto,  promette  di  ri- 
cambiare ciò  che  non  gli  era  stato  inviato  con  dieci  componi- 
menti suoi.  Di  qual  genere?  Volgari  forse?  La  cosa,  sebbene  a 
prima  vista  un  po'  strana,  riuscirebbe  in  fondo  spiegabile.  Una 
volta  che  Giovanni  ha  trovato  anch'  esso  la  sua  strada  di  Da- 
masco e  s' è  miracolosamente  convertito  al  culto  del  volgare^ 
perché  non  potrebbe  aver  adoperato  questo  e  non  il  latino?  (•''} 
Ma  che!  rispondono.  Egli  manderà  dieci  vasi  di  latte  di  vacca, 
e  non  di  pecora;  dunque  dieci  componimenti  latini.  A  qual  fine? 
Niuno  ne  sa  nulla.  E,  per  colmare  la  misura.  Dante  torna  si  a 
scrivergli,  fa  grandi  lodi  dell'  amico,  ma  delle  reciproche  pro- 
messe non  fiata  più.  O  l'arruffata  matassa! 

Eppure  non  abbiamo  ancora  vuotato  il  sacco  del  tutto.  In 
fondo  sta  il  meglio. 

Cosi  nell'  ecloga  dell'  Alighieri  come  in  quella  a  lui  diretta 
dal  maestro  bolognese  v'  ha  un  punto  oscuro,  che  il  brav'  uomo 
del  Ponta  s'è  ben  guardato  dal  toccare;  e  l'esempio  suo  hanno 
studiosamente  seguito  coloro  che  vennero  poi;  "  studiosamente  „, 


-sa- 
dico, perche  non  mi  par  possibile  che  tanti  critici  acuti  e  dih- 
genti  siano  passati  accanto  ad  una  cosi  grossa  diflìcoltà  senz'  av- 
vertirne r  esistenza.  A  Mopso  Titiro  promette  dieci  vaselli  di 
latte;  Mopso  dal  canto  suo  si  profferisce  pronto  a  rinviarne  a 
Titiro  altri  dieci.  Perché  dieci?  Questo  numero  non  può  esser 
uscito  a  caso  né  dalla  penna  dell'uno  né  da  quella  dell'altro: 
deve  avere  la  sua  ragione  di  esistere.  In  un  genere  di  poesia 
coni'  è  il  pastorale,  i  cultori  del  quale  contemplano  il  loro  grande 
modello,  la  Bucolica  virgiliana,  con  gli  occhi  stessi  con  cui  l'aveano 
veduta  i  grammatici  latini  del  V  e  del  VI  secolo.  Donato, 
Servio,  Fulgenzio  Planciade  (^');  se  proprio  ogni  parola  non  ha 
un  senso  mistico,  certo  ogni  numero  però  racchiude  un  simbolo. 
Ma  il  p.  Ponta,  il  quale  in  servigio  delle  ipotesi  proprie  non  esita 
a  fare  ricorso  alla  diversità  che  intercede  tra  il  latte  di  vacca  e 
quel  di  pecora,  non  si  cura  di  rendere  ragione  d'  un  particolare, 
importante  per  sé  medesimo,  importantissimo  poi,  ove  si  rifletta 
che  chi  scrive  è  il  "  buono  accoglitore  „  dei  numeri  per  eccellenza. 
Dante  Alighieri!  Se  questi  si  fosse  lasciato  scappare  dalla  penna 
un  "  tredici  „,  che  bazza  per  il  Ponta!  Egli  avrebbe  rinvenuto 
in  quel  numero,  e  non  certo  a  torto,  un  prezioso,  un  impagabile 
argomento  per  sostenere  che  i  canti  del  poema  sacro,  promessi 
dall'  esule  illustre  all'  amico,  erano  davvero  gli  ultimi  tredici  del 
Paradiso,  tanto  ansiosamente  dopo  la  morte  di  Dante  ricercati. 
Ma  perché  i  vaselli  sono  dieci,  il  loro  numero  nulla  dovrà  qui 
significare?  Crcdal  Jiidaeus  Apclla  —  direbbe  Orazio  —  non  ego. 
Noi  ci  aggiriamo  dunque  (la  cosa  è  ormai  ben  manifesta), 
come  tanti  cavalieri  dell'Ariosto,  dentro  un  ingannevole  labirinto, 
per  scioglierci  dal  quale  sarebbe  proprio  necessario  l' anello 
d'  Angelica,  quel!'  anello,  intendo,  che 

Centra  il  mal  degli  incanti  ha  medicina. 

E  se  il  poter  dell'  anello  fosse  tale  che,  per  sciorre  noi,  con- 
venisse distruggere  dalle  fondamenta  l' edificio  architettato  dal 
Ponta,  il  male  sarebbe  poi  molto  grande?  Io  noi  credo.  Ma 
innanzi  tutto  esiste  il  talismano? 


—  54  — 

Si,  esso  esiste,  e  chi  sta  in  atto  di  porgercelo  è  il  vecchio 
postillatore  Laurenziano,  sempre  citato,  ma  ben  di  rado  ascol- 
tato; la  riputazione  del  quale,  vilipesa  a  torto  da  più  d'un  ac- 
chiappanuvole  di  mia  conoscenza,  è  stata  rivendicata  si  dal  Macri- 
Leone  {•'^),  ma  non  cosi  vigorosamente  e  dottamente,  che  1'  opera 
di  riparazione  possa  dirsi  del  tutto  compiuta.  Ed  a  compierla 
provvederemo  noi;  ma  più  tardi,  non  qui;  che  ormai  è  tempo  di 
venire  ad  una  definitiva  soluzione  del  problema  di  cui  ci  stiamo 
occupando. 

IV. 

Come  accennammo  già  sul  principio  di  questa  nostra  scrit- 
tura, alla  parola  ovis,  che  ricorre  nel  verso  58  dell'  ecloga  dan- 
tesca, dove  s' inizia  la  descrizione  della  simbolica  agnella,  il 
commentatore  Laurenziano  postilla:  bitcolictim  Carmen.  Alla  glossa 
pose  mente  il  Dionisi  e  la  volle  far  sua,  ma  e'  la  intese  a  ro- 
vescio. Stimò,  cioè,  e  nella  stess'  erronea  opinione  persevera- 
rono poi  tutti,  i  suoi  pochi  fautori  ed  i  suoi  numerosi  avversari, 
che  r  Anonimo  con  siffatte  parole  designar  volesse  1'  ecloga  la- 
tina che  Dante  stava  appunto  scrivendo.  Or  credere  ciò  equiva- 
leva ad  affermare,  affatto  gratuitamente  per  verità,  che  l' Ano- 
nimo ignorasse  il  vero  valore  de'  termini  de'  quali  si  serviva.  Né 
egli  né  alcuno  difatti,  che  avesse  pratica  di  scrittori  latini  a  quel 
tempo,  si  sarebbe  fatto  lecito  d' usare  le  parole  bncoliciim  Car- 
men per  additare  un'  "  ecloga  „,  un  solo  componimento  di  carat- 
tere pastorale;  giacché  era  noto  che  bucolicnm  carmen  impiega- 
vasi  unicamente  a  designare  un  "  complesso  di  componimenti 
"  pastorali  „,  una  riunione  di  ecloghe  ("^).  Ma  ai  giorni  dell'Ano- 
nimo, come  a  quelli,  dai  suoi  ben  poco  lontani,  dell'  Alighieri, 
non  conoscevasi  che  un  solo  monumento  letterario,  al  quale  cotal 
titolo  convenisse,  il  Bucolicnn  libcr  di  Virgilio  ("'•'').  Questo  appunto 
s' è  proposto  d' indicarci  il  Postillatore,  e  non  altro  che  questo 
aveva  certamente  voluto  additare  ai  lettori  suoi  1'  Alighieri. 

Ecco  spiegato  1' enimma;  ne  faceva  mestieri  per  riuscirvi  d'un 
nuovo  Edipo,  come  ognuno  vede!  \J  ovis  gratissima,    che   Dante 


:5.-)  — 

tien  presso  di  sé,  ù  nient'  altro  che  la  Bucolica  virgiliana.  Ben  si 
comprende  quindi  che  tutte  le  peregrine  qualità  accennate  dal 
poeta  si  riscontrino  in  essa.  Gratissima  a  Dante  (e  come  po- 
trebb'  essere  altrimenti,  ove  si  ripensi  il  culto  di  cui  proseguiva 
il  "  cantor  de' bucolici  carmi  „?),  essa  rumina  all'ombra  d' un' in- 
gente rupe  (il  Menalo,  la  poesia  teocritea?);  non  usa  con  verun 
gregge,  né  ad  alcun  ovile  è  accostumata,  quia,  postilla  qui  il 
nostro  "  duca  „,  non  invcnitur  alind  opus  bucolicum  in  lingua 
latina  {^'^);  è  copiosissima  di  latte  non  solo,  ma  accorre  spontanea 
a  farsi  mungere,  perché  il  canto  bucolico  non  costa  fatica  di 
sorta  al  poeta,  ma  sgorga  pronto  dall'  estro  ("'").  Come  poi  dalle 
turgide  mamme  di  cotesta  pecora  possa  Dante  far  disegno  di  spre- 
mere tanto  latte  da  riempirne  dieci  vaselli,  non  è  più  adesso  un 
mistero  per  noi.  Non  consta  forse  di  dieci  ecloghe  la  bucolica 
virgiliana?  Ed  a  questo  numero  non  s' attenne  forse  il  Manto- 
vano per  imitare  Teocrito,  che  a  dieci  de'  suoi  mimica  aveva 
dato  per  soggetto  scene  pastorali?  (•'^)  Come  Virgilio  segui  Teo- 
crito, Dante  seguirà  Virgilio  {■'^).  Ei  detterà  pertanto  un  nuovo 
Bucolicon,  formato  da  dieci  ecloghe;  e  sarà  questo  il  Carmen  va- 
iisonnm,  che  Giovanni  lo  ha  supplicato  di  vergare;  il  monumento 
in  cui  tutti  i  dotti  del  mondo  potranno  ammirare  la  spontaneità 
della  sua  vena  poetica,  la  profondità  della  sua  dottrina,  1'  eccel- 
lenza dell'  arte  sua. 

Chiarito  questo  punto  essenziale,  tutto  il  resto  si  chiarisce  a 
sua  volta.  Egli  è  cosi  ben  naturale  che  all'  annunzio,  forse  inat- 
teso, della  deliberazione  presa  da  Dante  ed  incominciata  ad  at- 
tuare colla  composizione  d'  una  prima  ecloga,  Giovanni  Del  Vir- 
gilio abbia  provato  in  cuore,  commisto  a  molta  e  legittima  com- 
piacenza, un  certo  sentimento  d' emulazione.  Amant  alterna  Ca- 
nicnae,  ei  deve  aver  pensato  tra  sé.  Dante  intende  dunque  scri- 
vere dieci  ecloghe,  quante  per  l'appunto  ne  ha  scritte  Virgilio? 
Ebbene  io,  vocalis  verna  Maronis,  ne  detterò  altrettante  a  mia 
volta.  Ed  eccolo  accingersi,  rotto  ogni  indugio,  all'impresa  ('^"). 
Né  Dante  dal  canto  suo  vorrebbe  esser  da  meno;  ma,  ricevuta 
la  risposta   dell'  amico,    medita  già    quel    che    debba    riscrivergli, 


_  56  - 

quando  d' improvviso,  a  stornarlo  da  si  gradita  occupazione, 
nuovi  pensieri,  ben  più  gravi  e  molesti,  sopraggiungono.  Costretto 
a  recarsi  a  Venezia  in  servigio  del  Polentano,  e  fors'  anche 
—  perché  no?  —  a  passare  da  Piacenza,  ove  Galeazzo  Visconti 
l'attende;  ei  non  ritorna  che  molti  mesi  dopo  al  suo  fido 
asilo,  infermo,  stanco,  bramoso  di  quiete  (^^).  E  di  nuovo  pone 
mano  al  lavoro  e  détta  la  seconda  ecloga  all'  amico  che  1'  attende 
ansioso...;  ma  la  morte  lo  coglie,  e  la  bucolica,  a  mala  pena 
iniziHta,  è  interrotta  per  sempre  {^'").  Ecco  perché,  quando  egli 
assume  1'  ufficio  pietoso  di  celebrare  in  un  breve  epigramma  il 
poeta  illustre,  il  diletto  maestro,  Giovanni  Del  Virgilio  esce  fuori 
con  quel  distico,  tanto  spesso  citato,  né  mai,  ci  sia  permesso 
affermarlo,  prima  d'ora  inteso  a  dovere: 

Pascua  pieriis  demum  resonabat  avenis; 
Atropos,  heu,  lectum  livida  rupit  opus. 

Si  rifletta  un  momento.  Se  il  divino  poeta  avesse  scritte  soltanto 
le  due  ecloghe  a  noi  pervenute,  senza  verun'  intenzione,  come 
taluno  ha  detto  C^^),  di  proseguir  il  lavoro,  mandando  compagne 
alle  prime  altre  non  poche;  come  mai  al  Bolognese  sarebbe  sal- 
tato in  capo  di  scrivere  che  1'  ultima  fatica  letteraria  intrapresa 
da  Dante  era  un  Bucolicon,  e  che  la  Parca  invidiosa  gli  spezzò 
tra  mano  il  filo  dell'opera  eletta? 

Cosi  sciolto  r  incanto,  il  castello  è  sparito. 


V. 


Che  siffatta  irreparabile  scomparsa  debba  essere  veduta  con 
rammarico  da  qualcuno  non  è  punto  improbabile;  ma  che  i  pili, 
dopo  quanto  si  è  detto,  possano  o  vogliano  persistere  a  non  stimarla 
avvenuta,  questo,  per  essere  schietto,  a  me  sembra  incredibile. 
I  fatti  son  fatti,  la  Dio  mercé;  ed  una  volta  che  sian  assodati,  ai 
critici  degni  di  tal  nome  non  è  lecito  né  fingere  d' ignorarli  né 
sforzarsi  d' attenuarli  a  vantaggio  di  vecchie  opinioni,  forse  at- 
traenti, ma,    più    che  dubbie,    dimostrate    addirittura    fallaci.   Ora 


—  57  — 

niun  fatto,  se  non  ni'  inganno,  e  a  giudicare  più  accertato  di 
quello  che  noi  ci  siamo  industriati  sin  qui  a  rimettere  in  luce. 
Naturalmente  neppur  io  mi  dissimulo  che  possa  provocare  qual- 
che meraviglia  il  veder  1'  Alighieri,  considerato  sempre,  e  ben  a 
ragione,  come  il  grande  propugnator  del  volgare,  piegarsi  sullo 
stremo  di  sua  vita,  quand'  ormai  la  Coiiicdia  divina  era  con- 
dotta a  compimento,  non  già  a  dettare  per  suo  spasso  qualche 
metrica  epistola  agli  amici,  bensì  a  comporre  un  vero  e  proprio 
poema  latino  sopra  il  modello  virgiliano.  Ma,  una  volta  che  la 
cosa  sia  provata  vera,  quel  che  di  meglio  resta  a  fare  è  mettersi 
alla  ricerca  delle  cause,  le  quali  poterono  tanto  sull'  animo  del 
poeta  da  consigliargli  di  dedicare  alcuni  anni  della  sua  ancor 
verde  vecchiezza  (alcuni  anni,  dico,  giacché  ragionevole  è  sup- 
porre eh'  ei  non  sospettasse  affatto  di  dover  finire  cosi  immatu- 
ramente) a  codesta  intrapresa.  Siccome  però  assumere  una  si- 
mile ricerca  significa  sollevare  molte  ed  assai  delicate  questioni, 
cosi  a  noi  basterà  per  adesso  di  tentare  un  problema  molto  più 
modesto:  indagare  cioè  semplicemente  i  motivi  onde  l'Alighieri 
fu  indotto,  quand'  ebbe  preso  il  partito  di  dar  saggio  della  propria 
eccellenza  anche  nel  campo  forse  fin  allora  intentato  della  poesia 
latina  C'M,  a  proporsi  la  geniale  fatica  di  restaurare  in  Italia  il 
culto  della  bucolica  virgiliana.  Vero  è  bene  che  difficile  riesce, 
secondoché  già  osservò  il  Macri-Leone,  "  per  non  dire  impossi- 
"  bile,  indagare  le  ragioni  segrete  che  determinarono  il  genio 
"  alla  scelta  delia  sua  forma  d'arte  „  (-');  ma  oggi  siffatta  diffi- 
coltà, per  quanto  grave  sempre,  può  parere  per  avventura  minore; 
oggi,  dico,  che  intorno  alla  genesi  delle  ecloghe  dantesche  assai 
più  ci  è  noto  che  il  Macri-Leone  non  sapesse  o  sperasse  mai  di 
sapere. 

Esortato  da  Giovanni  Del  Virgilio,  "  allora  famosissimo  e 
"  gran  poeta  „,  suo  "  singularissimo  amico  „,  per  usare  le  pa- 
role del  Boccaccio  C^*^),  a  cantare  gli  avvenimenti  politici  e  le 
guerresche  vicende  dell'ultimo  settennio  (1313-1319),  gli  ^''oi 
eh'  erano  apparsi,  quasi  sanguigne  meteore,  sul  fosco  cielo  della 
travagliata  Italia,  ad  imboccare,  insomma,  l'epica  tromba  cui  nes- 


-  58- 

suno  ardiva  jiiù  dare  fiato,  Dante,  clic  teneva  sempre  presentì 
agli  occhi  della  mente  le  pagine  immortali  della  sua  "  scorta 
"  saputa  e  fida  „,  ebbe  a  rammentar  tosto  quel  bellissimo  luogo 
dell'  ccloga  VI,  in  cui  Virgilio  narra  come  a  lui,  che  già  s'  ap- 
prestava ad  assecondare  i  desideri  di  Varo,  Febo  vellicasse  dol- 
cemente l'orecchio  per  dissuaderlo  da  si  arduo  cimento: 

Ciim  canercm    rcges    et    proclia,    Cynthius   aiirein 
VcUit  el  admonuit:  Pastorem,  Tityre,  p  i  n  g  u  i  s 
Pascere  oportet   ovis,    deductum  dicere  Carmen  ("). 

Quest'  amorevole  consiglio,  di  cui  il  Mantovano  diceva  aver  fatto 
subito  suo  prò,  non  andò  perduto  neppure  per  il  suo  alunno  de- 
voto. Giovanni,  deve  essersi  detto  Dante,  mi  chiede  un  poema 
epico.  La  domanda  è  un  po' troppo  indiscreta:  io  non  mi  tengo 
da  tanto.  Ma  in  parte  almeno  lo  vo'  far  pago.  Non  solo  è  muta 
da  secoli,  com'  ei  lamenta,  la  tromba  che  celebrò  le  armi  d'  Enea, 
ma  giace  altresì  negletta  la  zampogna  con  cui  Titiro  seppe,  nelle 
ideali  campagne  di  Siciha,  esaltar  Dafni  ed  Alessi.  Ebbene  io 
farò  risorgere  dal  profondo  sonno  la  musa  campestre  ;  mercé 
mia  l'Italia  riudrà  i  canti  della  sua  più  gloriosa  stagione;  Titiro 
novello,  dacché  a  me  pure  un  Dio  hacc  olia  fecit,  canterò  al- 
l' ombra  densa  de'  pini  le  greggi  ed  i  pastori. 

Tale  io  oserei  pertanto  immaginare  la  genesi  di  cotest'  opera 
dell'Alighieri,  per  indole,  per  forma,  per  inspirazione  diversa 
tanto  da  quella  che  l'aveva  "  fatto  per  più  anni  macro  „,  e  che 
sola  doveva  arrecargli  l'immortalità;  ma  che,  ad  onta  di  tutto, 
si  confaceva  mirabilmente  a  talune  intellettuali  inclinazioni  del 
poeta,  soddisfaceva  certe  attitudini  e  consuetudini  dell'  ingegno 
di  lui.  Appassionato  cultore  di  simboli,  com'  egli  fu  sernpre, 
avvezzo  a  ricercare  avidamente  significati  riposti  nelle  scritture 
altrui  ed  a  celarne  pur  volontieri  molti  e  reconditi  nelle  proprie 
(quanto  o  quanto  reconditi,  narratel  voi,  commentatori  infelici, 
che  v'  ostinate  a  volte,  con  si  candida  ingenuità,  a  spiegare  l' ine- 
splicabile!); Dante  non  poteva  a  meno  d'ammirare  e  gustare 
profondamente   la    bucolica    virgiliana,    nella    quale    sotto    il  velo 


~  59  - 

leggero  e  grazioso  della  favola  pastorale,  dividendo  una  cre- 
denza antica  ed  universale,  egli  discopriva  sensi  ben  più  arcani 
e  sublimi  di  quelli  che  in  realtà  vi  si  nascondessero.  Talché, 
quando  formò  il  pensiero  di  scriver  anche  in  latino  un'  opera 
che  rendesse  testimonianza  del  suo  altissimo  intelletto,  ei  fu  na- 
turalmente condotto  a  dar  la  preferenza  a  quel  genere  bucolico 
che  gli  concedeva  ancora  una  volta  di  dissimulare  sotto  la  let- 
terale parvenza,  che  la  moltitudine  non  doveva  "  trapassare  „, 
quella  "  dottrina  „,  che  ai  "  pochi  „  soltanto  era  lecito  attingere, 
que*  pochi  già  chiamati  dattorno  a  sé  col  superbo  invito  del  Pa- 
radiso : 

Metter  potete  ben  per  1'  alto  sale 

Vostro  navigio,  servando  mio  solco, 
Dinanzi  all'  acqua  che  ritorna  equalc   (°*). 

Io  andrei  in  conseguenza  molto  a  rilento  prima  d'  accogliere  la 
sentenza  enunziata  dal  Macn'-Leone  nella  chiusa  del  suo  libro, 
che  cosi  il  tentativo  di  Dante  (rimasto  quasi  ignoto  per  mol- 
t'  anni  e  privo  di  vera  efficacia  sopra  le  posteriori  vicende  della 
poesia  pastorale  tra  noi),  come  la  rigogliosa  fioritura  del  ge- 
nere bucolico,  ond'  è  contrassegnata  in  Italia  la  seconda  metà 
del  Trecento,  derivino  l'origine  da  un  solo  e  medesimo  fattore: 
r  influsso  di  giorno  in  giorno  crescente  dell'  umanesimo  C^").  Che 
ciò  possa  sostenersi  in  riguardo  al  Petrarca  ed  a  tutta  la  scuola 
da  lui  capitanata,  non  nego  ('*');  ma  per  quel  che  spetta  all' Ah'- 
ghieri,  schiettamente  mi  pare  insostenibile  ("^).  Meglio  assai  che 
l'uomo,  il  quale  al  soffio  dello  spirito  antico  rinascente,  dell'uma- 
nesimo che  già  batte  alle  porte,  sente  sorgere,  prender  forma  e 
colore  dinanzi  alla  sua  immaginativa  un  mondo  ignoto  di  poetici 
fantasmi,  io  scorgo  in  Dante,  che  si  accinge  a  dotare  la  lettera- 
tura latina  d'un  nuovo  Biicolicon,  il  pensatore  ancor  tutto  imbe- 
vuto di  quelle  vecchie  dottrine  mistiche  e  filosofiche,  le  quali,  pullu- 
late in  seno  alle  scuole  semipagane  della  decadenza  romana,  erano 
state  accolte  e  trasmesse  d' una  in  altra  generazione  dai  dotti 
del  medio  evo  con  relisriosa  si  ma  non  oculata  venerazione. 


NOTE 


(')  Dell'eccessiva  fretta  non  solo  ci  porge  indizio  la  scorrezione  davvero 
soverchia  di  quanti  son  testi  latini,  vuoi  editi  vuoi  inediti,  inseriti  via  via  nel 
libro  (agli  esempi  addotti  dal  Gioni.  storico  della  lett.  ital.  XV,  1890,  p.  290, 
quant' altri  se  ne  potrebbero  aggiungere!  ma  basterà  per  tutti  quello  curiosis- 
simo segnalato  ivi  più  tardi  dal  Belloni;  Giorn.  XXII,  1893,  369  sg.);  bensi  anche 
ne  rinveniamo  la  prova  nelle  lacune  che  certe  parti  della  trattazione  (l'introdu- 
zione soprattutto)  presentano,  e  nell'elaborazione  imperfetta  de' materiali  stessi 
che  r  Autore  aveva  a  sua  disposizione.  Sicché  il  tema  che,  per  quanto  spetta 
alla  bucolica  postdantesca,  è  in  gran  parte  ancora  intentato,  vorrà  essere  ripreso 
o  prima  o  poi  da  capo.  Ma  chi  ambisca  assumerlo  dovrà  ricordare  che  i  monu- 
menti bucolici  della  seconda  metà  del  Trecento  giacciono  ancora  quasi  tutti  ine- 
diti ed  ignoti  nelle  nostre  biblioteche;  sicché,  per  far  opera  definitiva,  occorrono 
lunghe  indagini  e  seria  preparazione. 

(*)  La  questione  dell'  autenticità  delle  ccloghe  è  stata  svolta  da  lui  con 
siffatta  larghezza,  che,  sebbene  tutto  non  sia  stato  certamente  ancor  detto  in 
proposito,  dovrebbesi  però  considerare  in  massima  come  definita.  E  tale  io  la 
considero  da  tempo,  laonde  non  arrivo  a  comprendere  come  critici  forniti  di 
molto  acume  e  di  copiosa  dottrina  s'indugino  ancora  in  dubbi  che  son  meri  ca- 
villi. Cfr.  Kraus,  op.  cit.,  p.  286,  ma  insieme  Cian  in  BiiUctt.  della  Soc.  Dctiit.  It., 
N.  S.,  v.  V,  1898,  p.  137  sg. 

(')  Die   IViederbeleb.  des  class.  Alieith.  ^  od.  Lehnerdt.  Berlin,  1893,  v.  I,  p.  13. 

{*)  Ecco  le  parole  stesse  del  compianto  scrittore:  "  Dante  antwortete  mit 
"  einem  lateinischen  Hirtengedichte,  welches,  erfiillt  von  edlen  Gedanken,  von 
"  dem  stolzen  Bewusstsein  des  grossen  Kflnstlers,  mit  feiner  Ironie  die 
"  naseweise  Zudringlichkeit  zurOckweist  und  hoch  iiber  dem  steht, 
"  was  man  nachher  von  solchen  Gedichten  in  Italien  geschrieben  hat;  die  pa- 
"  storale  Einkleidung  ist  hier  keine  mnssige  Spielerei,  sondern  wirkliches  Mittel 
"  der  Kunst,  wo  offe  ne  Rede  schroffund  verletzend  gewesen  wàre»- 
Ccsch.  der  Italien.  Liter.,  Berlin,  1885,  v.  I,  p.  295. 

(*)  F.  Pasqualigo,  Egloghe  di  Giov.  del  Virg.  e  di  D.  A....  recate  a  miglior 
lesione,  ecc.,  Lonigo,  1887;  e  la  recensione  di  questo  libro  inserita  da  A.  Lubin 
jn  La   Cultura,  a.  VII,  voi.  9,   1888,  p.  33  sgg. 

(*)  Op.  cit.,  p.  116. 


—   62    — 

(')  ClV.  rAsguALic.o,  op.  cit.,  p.  34,  70,  77;  Liiun,  op.  cit.,  p.  35  sg. 
.(')  Ecì.  1,  21-23. 

(')  Op.  cit.,  p.  115.  Lo  stesso  concetto  è  espresso  in  torma  quasi  identica  a 
p.  80,  92,   107. 

('")  Specie  a  chi,  come  succede  al  Kraus,  op.  cit.,  p.  286,  misconosca  a  tal 
segno  il  carattere  della  corrisponden/a  dantesca  da  uscir  fuori  a  dire  che  1'  Ali- 
ghieri difficilmente  dovette  trovare  il  tempo  necessario  "  nx  einem  solchem 
"  Scherz  „  ! 

(>')  Ed.  I,  51-64. 

('")  [I.  DioMSi]  Serie  di  Aneddoti  ntiiiicro  IV,  Verona,  MDCCLXXXVIII, 
cap.  XIX,  p.  108. 

(")  Ecl.  resf>.,  94-95. 

('*)  DioN[si,  op.  cit.,  p.  15,  n.  59. 

(")  /  versi  latini  di  Giov.  Del  Virg.  e  di  Dante  Alligh.  ree.  in  versi  ital.  ed 
illustr.  da  F.  S.,  Venezia,  1845.  A  pag.  45  e  141  di  quest'indigesta  raccolta  sono 
però  enunziate  le  idee  stesse  che  il  Ponta  ha  poi  sviluppate  e  date  per  proprie. 

('•)  Opere  lat.  di  D.  A.,  v.  II,  p.  321. 

(}'')  Sulla  corrispoìid.  poet.  di  Dante  e  Giov.  del  Virg.,  deduzioni  di  M.  G.  Penta 
in  Gior)talc  Arcadico  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti,  v.  CXVI,  Luglio,  Ag.  e  Sett., 
Roma,  1848,  p.  326  sgg.  A  p.  372,  dove  il  lavoro  s'arresta,  leggesi  l'avvertenza: 
Sarà  continuato. 

(*')  Questa  tesi,  che  l' A.  erasi  prefisso  di  svolgere  nel  suo  lavoro,  è  del 
resto  enunziata  in  un  "  Sommario  „,  posto  in  fronte  all'articolo  stesso. 

(")  II  Ponta,  op.  cit.,  p.  360,  scrive  anzi  che  "  il  revocare  si  in  latino  e  si  in 
"  italiano  ha  più  naturalmente  il  significato  di  indurre  altrui  a  mutare  sentenza, 
"  maniera  di  agire,  e  simili  „,  che  non  l'altro  di  "  richiamare  „,  "  rifivitare  „; 
ma  ciò  non  è  punto  conforme  a  verità.  Per  ciò  che  concerne  al  latino,  basta 
dare  un'  occhiata  agli  esempì  raccolti  dal  Porcellini,  s.  v.,  per  riconoscere  che 
il  significato  fondamentale  e  più  comune  del  verbo  é  pur  sempre  quello  di  retro 
vaco,  abeunteiM  vacando  retraho,  reduco,  rursuni  voco,  e  non  già  l' altro  di  re- 
trailo,  abduco,  avoco.  E  in  quanto  all'  italiano,  il  solo  esempio  dantesco  a  cui  il 
Ponta  stesso  sta  pago  di  rinviare,  riesce  dubbio,  poiché  le  parole  di  Beatrice:  "  Né 
"  impetrare  ispirazion  mi  valse,  Con  le  quali  ed  in  sogno  ed  altrimenti  Lo 
"  rivocai  „  (  Purg.  XXX,  133-35);  si  possono  spiegare  come  meglio  piace  nel- 
l'uno o  nell'altro  modo.  Ed  in  un  altro  luogo  del  Poema  poi  {Par.  XI,  135)  "  ri- 
"  vocare  „  è  indubbiamente  adoperato  nel  senso  di  "  richiamare  „.  Questo  ci  giova 
aver  di  passaggio  notato,  perché  i  lettori  sappiano  che,  forti  dell'  appoggio  da- 
toci dal  commentatore  trecentista,  disapproviamo  la  interpretazione  del  Ponta, 
adottata  invece,  che  s' intende,  dal  Giuliani,  op.  cit.,  p.  335,  e  dal  Pasqualigo, 
op.  cit.,  p.  44,  i  quali  traducono  quindi  "  revocare  „  con  "  volgere  „,  "  far 
"  disdire  „. 

(*")  Ponta,  op.  cit.,  p.  361.  II  Giuliani  invece  (op.  cit.,  p.  331  )  con  una  di 
quelle  sue  peregrine  volate,  allontanandosi  da  tutti  gli  altri  interpreti,  parafrasa 
cosi  la  interrogazione  di  Dante:  concedat  Mopsus?  "  E  il  consentirà  maestro 
*  Giovanni,  che  tanto  sublime  materia  sia  da  me    poetando    trattata  in  volgare? 


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"  E  che  potrà  egli  ridire?  soggiunge  l'amico  Dino  a  Dante  „.  Non  si  potrebbe 
svisar  peggio  il  pensiero  dell'Alighieri! 

(")  PoNTA,  op.  cit.,  p.  362  sg.  L' ignoranza  di  Melibco,  il  quale  sarebbe  di- 
giuno tanto  d'  ogni  pur  elementare  cognizione  della  lingua  latina,  che  Dante  tro- 
verebbesi  costretto  "  ad  esporre  in  concetto  l' intera  poesia  di  Mopso  „,  perché 
egli  possa  formarsene  un'  idea,  è  semplicemente  un  parto  della  fantasia  del  Ponta, 
il  quale,  pur  di  raggiungere  il  suo  fine,  non  indietreggia  nemmeno  dinanzi  alla 
necessità  d'ammettere  che  un  sere,  un  notaio,  non  sapesse  sillaba  di  latino;  il 
che  è  assurdo  e  grottesco  ad  un  tempo.  Noi  abbiamo  già  veduto  come  l'Alighieri 
accusi  anzi  1'  amico  di  presunzione,  perché  osa  credersi  da  tanto  da  intendere  e 
gustare,  egli,  umile  maestro  di  scuola,  1'  alta  poesia  di  un  dotto  come  il  profes- 
sore bolognese.  Però,  quando  si  decide  ad  appagare  la  curiosità  del  Perini,  non 
solo  gliene  legge  intero  il  carme,  ma,  volendo  aver  da  lui  consiglio  sul  contegno 
da  tenere  con  Giovanni,  torna  a  rileggerglielo!  {versus  iter  11 11: q uè  telegi, 
Mopse,  luos). 

(")  PoNTA,  op.  cit.,  p.  365. 

(-')  Po.NTA,  op.  cit.,  loc.  cit.  E  cfr.  altresì  p.  350,  dov'  è  recata  una  spiega- 
zione alquanto  diversa,  ma  pur  essa  molto  sottile. 

('*)  PoNTA,  op.  cit.,  p.  350. 

(■"')    PoNTA,    op.    cit.,    p.    351-52. 

("'•)  Op.  cit.,  p.  107  e  cfr.  p.  80.  Lo  stesso  è  a  dire  di  G.  Carducci,  Della 
varia  fortuna  di  Dante,  Disc.  I,  in  Stilili  letterari,  Livorno,   187^,  p.  256  sg. 

('')  Op.  cit.,  p.  4^  e  45. 

('')  Op.  cit.,  p.  331. 

(-'•)  Tra  gli  altri  al  Carducci,  Studi  cit.,  p.  258,  che  credette  per  di  più 
rinvenire  nei  v.  44-45  dell' £■«:/.  resp.  un'allusione  al  principio  del  e.  XXV  del 
Paradiso,  il  quale,  a  suo  avviso,  "  doveva  essere  un  degli  ultimi  fra  i  dieci 
"  mandati  dal  poeta  a  G.  del  Virgilio  ». 

('")  Tali  il  Giuliani,  op.  cit.,  p.  332,  che  però  non  dà  verun' esplicazione  del 
suo  inusitato  riserbo,  ed  il  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.  108,  n.  i,  il  quale  invece 
respinge  come  infondata  la  congettura  del  Ponta. 

(")  Non  voglio  defraudare  i  lettori  della  dilettevole  sua  elucubrazione  :  "  Né 
"  sarebbe  fuor  di  ragione  il  pensare,  che,  quand'egli  scriveva  quest' Ecloga, 
"  avesse  già  forniti  i  dieci  primi  canti  del  Paradiso,  raffigurati  nei  dieci  vaselli 
"  di  latte,  e  che  la  sua  musa  si  stesse  meditando,  ovvero  ruminando,  1'  unde- 
"  cimo  canto,  nel  quale  è  descritto  appunto  queir  alto  monte,  alle  cui  falde  (?) 
"  e  la  città  di  Assisi,  patria  di  S.  Francesco  „.  Op.  cit.,  p.  44.  Cosi  dunque 
r  "  ingente  rupe  „,  nella  quale  il  Dionisi  riputava  simboleggiata  la  montagna  del 
Purgatorio,  si  trasforma  nel Subasio!  E  pensare  che  chi  scriveva  siffatte  stra- 
vaganze, respingeva  poi  come  "  frivole,  strane,  capricciose,  fantastiche  „,  le 
glosse  dell'  Anonimo  trecentista  ! 

C)  Non  deesi  infatti  passare  qui  sotto  silenzio,  come,  a  giudizio  del  Giu- 
liani e  del  Pasqualigo,  Dante  titubasse  a  poetar  latinamente  per  timore  d' incor- 
rere "  la  pubblica  derisione  „  (Giuliani,  op.  cit.,  p.  329);  ed  anzi,  come  dice 
senza    cerimonie    il    Pasqualigo    (op.    cit.,    p.    39),    di    "    provocare    i    fischi 


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"  ile' I  e  t  tera  ti  grandi  e  piccoli  „  (Povero  Dante,  anche  de'  "  piccoli  „ 
avea  paura!)  Or  si  noti  che  di  siffatta  originale  opinione,  la  quale  mostra  ad 
esuberanza  quanto  profonda  fosse  in  entrambi  la  conoscenza  delle  condizioni 
nelle  quali  versavano  le  lettere  latine  in  Italia  ai  tempi  dell'Alighieri,  e  come 
equamente  di  quest'ultimo  apprezzassero  la  dottrina;  i  due  valentuomini  non 
sanno  recar  innanzi  altra  prova  da  quella  in  fuori  offerta  loro  dai  vv.  39-40  del- 
l'Ecl.  I,  del  sommo  fiorentino: 

Quantos  balatus  colles  et  prata  sonabunt 
Si,  viridante  coma,  fidibus  peana  ciebo  ! 

Sicché  le  grida  d'esultanza,  onde  il  poeta  si  piace  immaginare  da  grandi  e  pic- 
coli accolto  l'inno  di  trionfo  ch'egli  inalzerebbe  il  giorno  in  cui  gli  cingesse  le 
tempie  il  sospirato  alloro,  divengono  "  fischi  „  per  il  Pasqualigo!  Cfr.  Macrì-Leone, 
op.  cit.,  p.  79,  n.  I.  Il  LuBiN  (op.  cit.,  p.  35),  si  allontana  dal  Pasqualigo  nella 
versione  eh' ei  pure  reca  di  questi  versi;  ma  neppur  egli  li  ha  rettamente  intesi. 

(")  Ariosto,  Ori.  Fin:  IV,  38. 

(")  Op.  cit.,  p.  107. 

(")   Canu.  35-38;  41. 

('*)  Strana  cosa!  Queir  istesso  p.  Ponta,  il  quale  pertinacemente  sostiene 
che  Giovanni  nel  1319  "  ebbe  tra  mano,  oltre  tutti  quelli  della  prima  e  della  se- 
"  conda,  anche  parecchi  canti  dell'ultima  parte  del  sacrato  poema  „  (op.  cit., 
p.  340  sg.  ),  che  di  questo  pertanto,  "  previa  una  posata  lettura  „,  possedette 
una  "  chiara,  distinta  e  piena  cognizione  „,  donde  sorse  in  lui  la  persuasione  che 
nella  Comedia,  ad  onta  della  volgar  forma,  era  "  ricco  di  profonda  dotfrina  il 
"  concetto,  cosi  che  appena  Platone  avrebbe  saputo  ammirarne  la  piena  bel- 
"  lezza  „;  quell' istesso  p.  Ponta,  dico,  quasi  non  avvedendosi  della  grossolana 
contraddizione  in  cui  cade,  ripete  in  pari  tempo,  non  una,  ma  due,  ma  tre  volte! 
che  a  nuli' altro  il  maestro  bolognese  mirava,  inviando  all'Alighieri  il  suo  carme, 
se  non  a  "  consigliarlo  e  scongiurarlo  per  ciò  che  i  poeti  più  alletta,  la  gloria, 
"  a  desistere  pur  una  volta  dalla  continuazione  della  sua  Comedia  volgare  „ 
(op.  cit.,  p.  331,  347);  tanto  che  Dante,  rispondendogli,  si  sforzò  di  rivocarlo 
"  dal  disprezzo  manifestato  intorno  al  suo  poema:  cosa  che  altamente  dovea 
"  toccare  il  cuor  del  poeta  „  (op.  cit.,  p.  361).  Or  si  può  dare  incoerenza 
maggiore?  Ma  se  Giovanni  conosceva  nel  1319  quasi  che  tutta  la  Comedia,  come 
poteva  frullargli  per  il  capo  la  bizzarra  idea  di  "  scongiurar  „  Dante  a  non  conti- 
nuare un  lavoro  già  quasi  condotto  a  compimento?  E  se  del  poema  sacro  si 
mostrava,  come  il  Ponta  medesimo  vuole,  ammirator  convinto  nel  Carmen,  come 
in  pari  tempo  avrebbe  dato  segno  di  disprezzarlo?  Ma  ciò  che  riesce  più  singo- 
lare ancora  è  constatare  come  le  idee  del  Ponta  abbiano  rinvenuti  consenzienti 
il  Giuliani  ed  il  Pasqualigo.  De'  quali  il  primo  le  adotta  senza  scoprirsi  però 
troppo,  more  solito  (op.  cit.,  p.  332);  mentre  l'altro,  meno  accorto,  cosi  fa  di- 
scorrere Giovanni  con  Dante:  "  Lascia  adunque  il  volgare,  e  attienti  al  latino; 
"  e  pur  a  questo  attenendoti,  metti  da  parte  1'  astruso  soggetto  della  Comedia, 
"  e  canta  quello  che  ti  dico  io...  „  (  op.  cit.,  p.  42).  Eppure  ci  voleva  tanto 
poco  a  capire  che  Giovanni,  ben  lungi    dal  metter    fuori    la   ridicola  pretesa  che 


-65  - 

l'Alighieri  interrompesse  la  Cotnedia,  non  intese  dirgli  se  non  questo:  "  Or  che 
"  il  poema  mirabile  è  pressoché  fìnito,  quando  tu  intenda  cantar  di  bel  nuovo, 
"  non  rivolgerti  più  ai  volgari,  ma  pensa  un  poco  anche  ai  dotti,  e  scrivi  una 
"  buona  volta  per  noi,  parlandoci  di  avvenimenti  contemporanei  che,  se  tu  non 
"   li  canti,  rimarranno  ignoti!   „. 

('■)  E  la  cosa  può  esser  vera,  ma  se  mai,  non  davvero  per  le  ragioni  che  i 
più  soglion  addurre,  dal  Ponta  in  poi,  a  provarla  tale. 

C*)  Il  Macri-Leone,  op.  cit.,  p.  78,  è  giunto  a  qualificare  uno  "  stolto  pregiu- 
"  dizio  „  quello  dei  dotti  del  Trecento  che  la  lingua  latina  fosse  superiore  alla 
volgare.  Via,  tanto  "  stolto  „  allora  non  lo  si  poteva  dire,  specie  se  si  rifletta 
che  la  Coìiiedia  non  era  ancor  uscita  alla  luce! 

(")  Ed.  resp.  33-35;  65-67  sgg. 

('")  Cf.  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.  108. 

(*')  Ed.  resp.  94-95. 

(*')  Giuliani,  op.  cit.,  p.  341. 

{*')  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.   107  sg. 

(**)  Op.  cit.,  p.  108. 

(")  Op.  cit.,  p.  363  sgg. 

('•)  Le  ragioni,  onde  1'  Alighieri  e  stato  indotto  ad  attribuire  a  Giovanni  il 
nome  di  Mopso,  furono  senza  dubbio  parecchie.  I  lettori  ricorderanno  in  primo 
luogo  come  nell'  Ecl.  quinta  Virgilio  introduca  a  celebrare  la  memoria  di  Dafni 
estinto  due  pastori,  entrambi  eccellenti  nel  canto:  Mopso  cioè  e  Menalca.  Mopso, 
nel  quale  gli  antichi  commentatori  riconoscono  Emilio  Macro,  invitato  da  Me- 
nalca, inizia  la  poetica  commemorazione,  ripetendo  a  mo'  di  canto  continuato 
r  epicedio,  che  in  forma  di  componimento  amcbeo  aveva  pur  mo'  inciso,  mentre 
lo  stava  improvvisando,  sulla  scorza  d'un  faggio.  E  quand'egli  ha  finito,  Me- 
nalca gli  esprime  la  propria  ammirazione  con  parole  divenute  famose  (vv.  45-49): 

Tale  tuum  Carmen  nobis,  divine  poeta, 

Quale  sopor  fessis  in  gramine,  quale  per  aestum 

Dulcis  aquae  saliente  sitim  restinguere  rivo. 

Nec  calamis  solum  aequiparas  sed  voce  magistrum. 

Nulla  di  più  probabile  che  il  ricordo  di  questo  magnifico  elogio  abbia  consi- 
gliato Dante  a  chiamar  Mopso  l' amico.  Ma  v'  ha  di  più.  Secondo  la  favola  si 
•disse  Mopso  uno  de' Lapiti,  figliuolo  d'Ampykos,  nell'arte  divinatoria  espertissimo, 
il  quale  si  recò  cogli  Argonauti  alla  conquista  del  vello  d'  oro.  E  col  nome  stesso 
chiamossi  un  altro  celebre  favoloso  indovino,  il  figlio  di  Manto,  fortunato  rivale 
di  Calcante:  cf.  W.  H.  Roscher,  Aus/iihilicli.  Lexik.  dei-  Grieclt.  11.  Rodi.  Mytiio- 
logie,  Leipzig,   1890-97,  v.  Il,  e.  3207  sgg. 

Or  quest'  istesso  Mopso  spesse  volte  confuso  col  primo,  fu  rammentato 
anche  da  Teodulo  sulla  fine  di  quella  sua  Ecloga,  che  godette  nell'  età  di  mezzo 
tanta  faina,  e  servi  per  secoli,  al  pari  del  poemetto  di  Arrigo  da  Settimello, 
dell'  Esopo,  del  Faceto,  ecc.,  come  primo  libro  di  lettura  nelle  scuole.  Cfr.  Lib. 
Theodoli  in  And.  odo  nior.,  Lugduni,  1538,  p.  34.  Al  pari  di  tutti  i  contemporanei 
suoi  anche  Dante,  da  fanciullo,  dovette  leggere,  anzi  mandar  a  memoria  addirittura. 

No  VATI.  5 


—  66  — 

l'ascetico  poemetto  Jcl  vetusto  scrittore;  di  qui  l'orse  un  altro  ne  lieve  impulso 
ad  assegnare  all' amico  un  nome  per  tanti  rispetti  divulgatissimo. 

(•")  Facendo  di  Giovanni  un  bifolco,  l'Alighieri  evidentemente  s'è  piaciuto 
alludere  al  cospicuo  grado  che  quegli  teneva  nell'insegnamento.  I  suoi  uditoli 
infatti,  come  ci  fa  avvertire  1'  anonimo  Laurcnziano,  perche  adulti,  potevansi  pa- 
ragonare a  giovenchi,  non  già  a  capretti  o  ad  agnelli,  ai  quali  per  la  tenera  età 
loro  meritavano  d'  esser  invece  ravvicinati  quelli  di  ser  Dino  Perini. 

{■")  Allorché,  parecchi  anni  più  tardi,  il  Del  Virgilio  dettò  1'  ecloga  al  Mus- 
sato edita  dal  nAXDiNi  (  Calai,  codd.  r.iss.  latin,  bibl.  Med.  Lato:,  to.  Il,  e.  9  sgg.  ) 
di  sul  cod.  Laur.  PI.  XXIX,  8,  a  far  manifesta  l' infelicità  sua  ei  prese  il  nome 
di  Moeris  (da  u.ci*'-a  ^faltnii:  cosi  il  Boccaccio  in  una  delle  sue  ecloghe  chiamerà 
poi  Dorilos  un  personaggio,  da  doris,  che  in  greco  (?)  vale  "  amaritudo  „  :  cfr. 
HoRTis,  Studi  sulle  ofi.  lat.  del  Bocc.,  p.  ^3);  ma  non  passò  sotto  silenzio  quello 
che  consentito  gli  aveva  Dante  in  tempi  più  avventurati  (  v.   182-83): 

Mopsus  enim  fuerat  quondam,  modo  nomine  Moeris 
Dicitur. 

{*")  Ecl.  resp.  30.  Anche  nell'  ecloga  testé  citata  al  ]\Ius=ato  rinveniamo 
un'allusione  di  Giovanni  alla  sua  "  bucula  „  (v.  150),  che,  a  cagione  del  silenzio 
mantenuto  dal  glossatore,  ci  rimane  alquant'  oscura. 

("")  Ecl.  resp.  96.  Il  Pont.\,  op.  cit.,  p.  368,  usci  proprio  fuori  del  seminato, 
quando  traduceva  questo  verso  cosi  :  "  A  quel  pastore  vuoisi  mandar  latte  su- 
"  perbo  „  !  Nessuno,  per  fortuna,  1'  ha  seguito.  Ma  nemmeno  il  Macri-Leone  però 
era  esatto,  quando  scriveva:  "  Ma  forse  è  superbia  a  un  tal  pastore  mandare 
del  latte  „  (  op.  cit.,  p.  84);  giacché:  "  quel  tale  non  vi  mis' io  „,  potrebbe 
dirgli  il  Del  Virgilio. 

('■')  Quest'idea  si  è  presentata  anche  alla  mente  del  Lubin,  op.  cit.,  p.  37,  n.  i. 

(^*)  Niuna  prova  più  caratteristica  di  codesta  tendenza  noi  potremmo  citare 
di  quella  offerta  dal  Petrarca  medesimo  nella  singolare  dichiarazione  allegorica 
da  lui  tentata  dalla  prima  tra  le  ecloghe  virgiliane  (cf.  De  Xolhac,  Pétrarqne  et 
V  humanisnie,  Paris,  1892,  p.  122  sgg.),  ove  non  ce  ne  fornisse  una  anche  più 
eloquente  il  commento  all'  intiero  Bitcolicoii,  che  in  servigio  del  proprio  inse- 
gnamento dettò  Benvenuto  Rambaldi.  In  questo  suo  lavoro  (  che  si  legge  nel 
cod.  109  della  Governativa  di  Cremona,  e.  i  a  sgg.)  l'Imolese  ha  portato  tan- 
t'  oltre  la  ricerca  maniaca  del  significato  simbolico,  da  lasciar  indietro  di  molto 
non  solo  il  Petrarca  ed  il  Boccaccio,  ma  Fulgenzio  medesimo! 

(")  Op.  cit.,  p.  98  sg. 

C)  Non  credo  necessario  raccogliere  prove  di  tale  asserzione.  Ad  ogni  modo 
può  riuscir  opportuno  ricordare  come  il  Petrarca,  seguito  da  tutti  i  contempo- 
ranei suoi,  sia  solito  designare  in  siffatta  guisa  la  raccolta  delle  proprie  ecloghe, 
mentre  che,  ove  dell'una  o  dell'altra  di  esse  gli  avvenga  di  far  parola,  usa  a  de- 
notarla o  il  termine  poetico  à' ecloga  cj  quelli  più  semplici  di  par/icula  e  capi- 
tulnm.  "  Bucolicum  Carmen  duodecim  eclogis  distinctum  scribere  orsus  „  (Fani. 
lib.  X,  ep.  IV,  ed.  Fracassetti,  II,  85):  "  Bucolici  carminis  particulam  saltem 
"  unam  „  (cioè  un' ecloga,   Var.  ep.    XLIX,  voi.    cit.,  438);  "  ad    carmen    bucoli- 


-  67  - 

*  cum  unum  capitulum  sive,  ut  in  re  poetica  non  nisi  poeticis  utar  verbis,  celo- 
"  gam  unam  addidi  „  {Var.  ep.  XLII,  ed.  cit.,  Ili,  ^lo),  ecc.  Anche  le  due  eclo- 
ghe  dantesche  son  chiamate  dal  Manetti,  Fi/a  Daiilis,  ed.  Galletti,  p.  82,  buco- 
licum  Carmen;  cosi  come  le  sedici  del  Boccaccio  ("  bucolicum  quippe  carmen 
"  per  sexdccim  eclogas  egregie  distinxit  „;  Vita  Bocc,  p.  92).  Altrettanto 
fanno  il  Salutati,  dov' ei  ragiona  delle  sue  ecloghe  (Epistolario  lib.  Ili,  ep.  IX, 
V.  I,  p.  157),  e  Giovanni  Boni  d'Arezzo,  che  l'opera  propria  definisce  "  Bucolica 
"  partita  in  eclogis  „;  cf.  E.  C.vrrara,  Giov.  L.  de  Bonis  d'Arezzo  e  le  sue  np, 
iucd.  in  Ardi.  Stor.  Lonib.,  a.  XXV,   1898,  p.  342. 

(")  Secondo  il  DiONisr,  op.  cit.,  p.  9,  quando  Dante  scriveva,  "  non  erano 
"  state  per  anco  scoperte  1'  ecloghe  di  Calfurnio  (sic)  „;  la  quale  opinione  difficil- 
mente vorrà  adottare  oggi  chi  rammenti  come  al  Petrarca  ne  avesse  promesso 
una  copia  per  l'appunto  un  concittadino  del  Dionisi,  Guglielmo  da  Pastrengo  ! 
Cf.  De  Noliiac,  op.  cit.,  p.  173.  Ad  ogni  modo  questo  è  certo  però  che  non  solo 
l' Alighieri,  ma  anche  Giovanni  del  Virgilio,  come  risulta  dai  v.  6  segg.  del" 
r  ecloga  sua  al  Mussato,  il  Boccaccio,  il  Salutati,  il  Rambaldi,  insomma  pressoché 
tutti  i  pili  dotti  uomini  del  Trecento,  ignorarono  l'esistenza  del  mediocre  poeta 
siculo,  come  quella  dell'  ancor  più  mediocre  Nemesiano. 

(")  Strano  a  dirsi!  Tutti  gli  illustratori  delle  ecloghe  dantesche  hanno  rife- 
rito questa  glossa,  in  cui  tanto  chiaramente  si  allude  alla  Bucolica  virgiliana;  5-i 
son  dati  cura  d'avvertire  che  d'essa  appunto  si  trattava...  e  nessuno  poi  s'è 
mai  domandato  che  stesse  a  fare  qui  l'accenno  all'opera  del  poeta  latino,  se 
Y  ovis  era  1' ecloga  di  Dante  o,  peggio  che  peggio,  la  musa  della  Comedia! 

('■'')  La  glossa  dell'  Anonimo  a  questo  luogo  è  poco  intelligibile,  giacché  egli 
sembra  credere  che  Dante  parli  di  sé  stesso,  mentre  per  la  retta  intelligenza  del 
passo  torna  forse  necessario  riferirne  le  parole  a  Virgilio. 

(")  Cf.  TuEOCRiTt  Idyllia,  ed.  Fritzsche,  Lipsiae,  1868,  v.  I,  p.  6,  n.  La  cosa 
è  rilevata  da  Servio:  "  Sane  sciendum  VII  eclogas  esse  mere  rusticas;  quas 
"  Theocritus  .X.  habet;  hic  in  tribù s  a  bucolico  Carmine,  sed  cum 
"  excusatione  discessit  „:  v.  Servii  Coiuìii.  in  Virg.  Bue,  ed.  Lion,  Got- 
tingac,  1826,  V.  II,  p.  96.  Non  è  a  tacere  poi  che  già  nell'antichità  volevasi  scor- 
gere un'allusione  alle  dieci  ecloghe  offerte  da  Virgilio  ad  Augusto,  nelle  parole 
di  Menalca  (Ed.  Ili,  vv.   70-71): 

Quod  potui,  puero  silvestri  ex  arbore  leda 
Aurea  mala    decem    misi... 

La  qual' opinione,  riprovata  da  Servio  (op.  cit.,  v.  II,  p.  116),  ha  rinvenuto  al 
contrario,  com'era  naturale,  molto  favore  presso  i  commentatori  medievali;  e 
basti  qui  citar  di  nuovo  Benvenuto  da  Imola  (cf.  cod.  Crem.  cit.,  e.  12  b).  Servio 
avrà  magari  ragione;  ma  che  nel  luogo  or  riferito  di  Virgilio  quel  numero  non 
abbia  però  verun  significato,  par  duro  ad  ammettere,  ove  si  ricordi  come  Pro- 
perzio torni  anch' egli  a  ripeterlo  in  quella  tra  le  sue  Elegie  (II,  xxxiv,  69),  eh' >• 
tutta  intessuta  di  reminiscenze  virgiliane. 

('"')  Tra  i  poeti  bucolici  del  sec.  XIV  non  son  pochi  coloro  i  quali,  ad  imita- 
zione del  Mantovano,  vollero  che  dieci  e  non  più  fossero  le    ecloghe    loro.   Que 


—  68  — 

St'c  a  dire  dell' autore,  sin  qui  non  idciUificato,  del  Ihtcoìicttni  cniiiicii,  attribuito 
senza  una  ragione  al  mondo  al  Mussato  (cf.  Minoia,  Della  vita  e  delle  opere 
di  A.  M.,  Roma,  1884,  p.  198);  di  Giovanni  Boni  d'Arezzo,  le  ccloghe  del  quale 
son  state  testé  studiate  dal  Carrara,  ecc.  Anche  il  Biicolicoii  petrarchesco,  in 
origine,  sembra  si  modellasse  pur  in  questo  sul  vir,u:iliano.  Accanto  a  costoro 
però  non  mancò  chi  o  non  curasse  di  raggiungere  il  numero  tradizionale  o  si 
proponesse  di  superarlo:  il  Salutati,   Domenico  Silvestri,  il  Boccaccio,  ecc. 

('"'")  È  curioso  a  notare  come  il  pensiero  che  i  componimenti  coi  quali  Gio- 
vanni Del  Virgilio  intendeva  ricambiare  il  dono  di  Dante,  dovessero  essére  d'in- 
dole pastorale,  sia  balenato  anche  alla  mente  del  Giuliani,  op.  cit.,  p.  341.  Ma 
fu  un  baleno  e  nulla  più. 

(*")  Sull'andata  a  Venezia  v.  F.  Villani,  op.  cit.,  p.  io  sg.;  e  cfr.  Ricci,  op. 
cit.,  p.  145  sgg.,  il  quale  però  intorno  alla  data  del  ritorno  di  Dante  a  Ravenna 
tiene  opinione  diversa  da  quella  ora  espressa  e  che  già  manifestò  G.  Bklloni, 
Sopra  un  passo  dell'  ed.  resp.  di  Giov.  del  Virg.  a  Dante,  in  Giorn.  star,  della 
Ictt.  ital.  XXII,  369  sg.  —  Che  1'  Alighieri  poi  in  seguito  al  ben  noto  invito  di  Ga- 
leazzo Visconti  si  recasse  realmente  a  Ravenna  sostiene  il  Della  Giovanna, 
Dante  mago,  in  Rivista  d' Italia,  a.  I,  v.  II,  1898,  p.  138;  e,  quantunque  il  Passe- 
rini, Giorn.  Dani., -a.  IV,   1897,  p.   129,  si  opponga,  inclinerei  a  crederlo  ancor  io. 

(*■■')  Troppo  nota  è  l' importante  postilla  dell'  Anonimo  Laurcnziano  in  pro- 
posito (cf.  Belloni,  op.  cit.,  loc.  cit.),  perché  giovi  qui  riferirla. 

C^)  Macrì-Leone,  op.  cit.,  p.   120. 

(*')  "  Intentato  forse  „  ho  detto  in  omaggio  alla  comune  credenza;  ma  era  desso 
realmente  tale  per  l'Alighieri?  Io  ne  dubito  assai.  Di  un  uomo,  il  quale  fin  dalla 
gioventù  aveva  tanta  famigliarità  coi  poeti  latini  quanta  egli  n'ebbe  (cf.  Boc- 
caccio, Vita  di  D.,  §  2,  p.  Il),  come  si  può  credere  che  solo  sullo  stremo  di  sua 
vita  s'inducesse  a  scrivere  in  esametri  latini,  "  all'unico  fine,  come  direbbe  il  Lubin, 
'  di  mostrare  col  fatto  di  saperne  fare?  „  Filippo  di  Gino  Rinuccini  in  quella 
sua  vitarella  del  poeta,  che  pubblicò  nelle  Delizie  degli  Eruditi  Toscani  to.  XII, 
Monumenti,  il  p.  Idelfonso  di  S.  Luigi,  laddove  tocca  degli  scritti  di  lui,  dice  che 
in  latino,  oltre  che  le  opere  a  tutti  note,  "  scrisse  alcuna  Egloga,  ancora  scrisse 
"  molte  'epistole  in  prosa  e  in  versi  „  (p.  253).  Alla  testimonianza  del  buon 
messer  Filippo  io  non  annetto  gran  peso;  ma  che  quant' egli  dice  debba  essere 
il  vero  mi  pare  difficile  negare.  Sicché,  per  mio  conto,  io  non  esito  a  credere 
che  le  ecloghe  ci  rappresentino  una  tenue  parte  di  questo  poetico  bagaglio  del- 
l'Alighieri che  il  tempo  ci  ha  sventuratamente  involato. 

C)  Mackì-Leone,  op.  cit.,  p.  119. 

(«■■')    Vita  di  Dante,  §  6,  p.  33. 

e-')  Bue.  Ecl.  VI,  3-5. 

{'■'')  Par.  II,  13-15. 

(''')  Cf.  op.  cit.,  p.  121  sg. 

C")  Rileveremo  altrove  le  manifeste  tracce  che  dello  studio  fatto  dal  Boc- 
caccio del  Bucolicon  dantesco  si  rinvengono  nelle  ecloghe  del  Certaldese. 

(")  In  realtà  le  cause  di  questa  fioritura  sono  probabilmente  meno  involute 
e  complesse  di  quanto  il  Macri-Leone    immaginasse;  e  l'azione    dell'antichità  ri- 


-  69  - 

nascente  lui  l'orse  avuto  in  essa  una  parte  notabilmente  inferiore  a  quella  che  il 
valoroso  giovane  inclinava  ad  attribuirle.  Giovanni  Boccaccio  —  la  cosa  ci  sem- 
bra sicura  —  non  sarebbesi  mai  accinto  a  dettar  ecloghe  simboliche,  ove  l'esem- 
pio del  Petrarca,  il  suo  inclito  "  precettore  „,  non  1'  avesse  a  ciò  potentemente 
stimolato;  del  Petrarca,  dico,  al  quale,  come  pure  si  sa,  egli  dava  il  vanto  d'aver 
rinnovata,  nobilitandola,  dopo  secoli  d'abbandono,  la  poesia  pastorale.  E  tutti  co- 
loro che  nella  seconda  metà  del  sec.  XIV  cantarono  lo  selve  e  gli  armenti,  Ia- 
copo Allegretti  e  Cecco  Meletti,  entrambi  da  Porli,  Coluccio  Salutati,  il  Silvestri, 
Giovanni  de  Bonis,  per  non  ricordare  che  i  più  noti,  neppur  essi  si  sarebbero 
certo  invaghiti  di  siffatto  genere  poetico,  ove  ad  infervorarli  all'  impresa  non 
fosse  sempre  stato  lor  presente  il  pensiero  che  il  Petrarca  ed  il  Boccaccio  ave- 
vano fatto  e  facevano  altrettanto.  La  larga  produzione  bucolica  del  Trecento  è 
dunque  dovuta  quasi  unicamente  all'influsso  della  dittatura  letteraria  del  Petrarca. 
Ed  in  costui  il  disegno  di  comporre  ecloghe  piene  di  astruse  allegorie  deesi 
creder  germogliato  e  maturato  al  soffio  dello  spirito  nuovo,  dell'  antichità  risor- 
gente? A  me  non  pare  davvero.  Se  prestiam  fede  a  quanto  egli  stesso  ci  racconta, 
il  pensiero  di  comporre  un  Bucolicon  venne  a  messer  Francesco  li  per  li,  in  un 
momento  d'ozio;  e  noi  non  ci  allontaneremmo  forse  dal  vero  se  congetturassimo 
che  gli  fosse  quasi  ad  insaputa  sua  suggerito  dalla  preocupazione,  onde  fu  domi- 
nata la  sua  vita  artistica  tutta  intera:  quella  d'emulare  Virgilio.  Bello  dovette 
parergli  che,  quando  all'  Eneide  doveva  grandeggiar  accanto  I'  Africa,  anche  un 
Bucolicon  nuovo  venisse  a  contrastar  l'antico  grido  al  latino.  Com'è  chiaro,  in 
tutto  ciò  r  influsso  dell'  Umanesimo  ha  ben  poco  a  che  vedere.  Si  tratta  essen- 
zialmente d' un  movimento  artificioso,  che  non  risponde  se  non  in  apparenza 
alle  aspirazioni  nuove  del  tempo,  e  che  ritrova  la  sua  ragione  d' essere  nella 
moda,  nello  spirito  d'imitazione,  sempre  cosi  potente  nel  campo  letterario,  e. 
soprattutto,  nel  culto  ardentissimo,  onde  tutti  i  dotti  d'allora  avevano  circon- 
dato il  Petrarca.  Tant'  è  vero  ciò  che  in  uno  di  costoro,  nel  quale  più  nitida  e 
viva  sembra  esser  stata  la  visione  di  quello  che  sarebbe  riuscito  il  vero  rinasci- 
mento classico  (voglio  parlare  del  .Salutati),  il  "  folle  amore  „  nudrito  in  gio- 
ventù per  la  poesia  bucolica  aveva  cogli  anni  finito  per  tramutarsi  in  una 
schietta  e  mal  dissimulata  avversione.  Sicché,  da  vecchio,  non  soltanto  Coluccio 
mostrava  di  far  poco  o  nessun  conto  delle  ecloghe  proprie,  ma  s' impazientava 
ove  altri  gliene  inviasse,  trovando  sconveniente  all'  età  sua  Io  scioglier  "  indo- 
"  vinelli  „  ;  e  giungeva  persino  a  scrivere  che  se  nel  lungo  viaggio  attraverso  i 
secoli  la  Bucolica  di  Virgilio  non  avesse  avuta  a  compagna  V  Eneide,  difficilmente 
sarebbe  giunta  sino  a  noi! 


III. 
LA  supi<i:ma  aspirazioni:  di  dante 


I. 


A  nessuno  tra  i  commentatori  e  gli  studiosi  della  Coiìicdia 
era  accaduto  mai  di  dubitare  che  l' interpretazione  tradizional- 
mente data  ai  famosi  terzetti,  onde  s' inizia  il  canto  XX\'  del 
Paradiso,  potesse  giudicarsi  discutibile,  anzi  addirittura  fallace, 
prima  che  a  dichiararla  tale  non  sorgesse  risoluto  il  Todeschini. 
Fin  allora  tutti  s'erano  trovati  infatti  d'accordo  nel  ritenere  che, 
accennando  all'  intenzione  da  lui  nudrita  di  "  prendere  il  cap- 
"  pello  „  in  sul  fonte  stesso,  dov'  era  entrato  "  nella  fede  che  fa 
"  conte  l'anime  a  Dio  „,  Dante  avesse  voluto  riaffermare  ancora 
una  volta  quella  speranza  di  potere  "  per  la  poesi  allo  inusitato 
"  e  pomposo  onore  della  coronazione  dell'  alloro  pervenire  (')  „, 
dalla  quale  soltanto,  come  ci  è  ben  noto  per  le  attestazioni  sue 
e  d'altri  non  pochi,  aveva  tratto  aiuto  e  conforto  nel  faticoso  e 
lungo  cammino.  Pure  si  universal  consenso  non  impedi  all'  erudito 
vicentino  di  chiamare  "  affatto  vana  ed  insussistente  „  la  comune 
opinione.  "  Si  potrebbe  dare  —  cosi  scriveva  egli  in  un  breve 
saggio  sopra  codest'  argomento  —  un  concetto  più  miserabile  di 
"  questo:  io  prenderò  la  corona  poetica  sul  fonte  del  mio  batte- 
"  simo,  perché  quivi  io  entrai  nella  fede  cristiana,  e  perché 
"  S.  Pietro  in  cielo  approvò  la  mia  fede!  Si  deve  ammettere 
"  senza  dubbio  che  qui  la  voce  cappello  significhi  la  insegna 
"  del  dottorato,  giacché  si  sa  bene  che  nei  tempi  del  poeta  im- 
"  ponevasi  un  cappello  o  una  berretta    a    coloro,    eh'  erano    con- 


—  74  — 

"  ventati  in  ijiialclie  scienza;  ma  lìantc  n^n  poteva  intendere 
"  qui  d'  esser  conventato  o  creato  dottore  se  non  in  quella  dot- 
"  trina  di  cui  ricorda  la  professione  anticamente  latta  e  1'  appro- 
"  vazione  recentemente  ottenutane.  Qui  non  si  tratta  che  di  fede 
"  e  di  scienza  teologica;  dunque  la  laurea  di  cui  ijui  si  parla 
"  essere  non  può  che  la  laurea  in  divinità,  o  vogliamo  dire  in 
"  teologia.  Né  il  fonte  battesimale  era  già  luogo  oppoituno  a 
"  conseguirsi  una  laurea  d' indole  diversa  „. 

"  Ninna  università  d' Italia  —  continua  il  Toileschini  —  eon- 
"  cedeva  ancora  nei  tempi  dell'  Allighieri  la  berretta  o  il  cap- 
"  pello  di  lettore  in  teologia;  ma  Dante  in  mezzo  agli  anni  ilei 
"  suo  esilio  era  accorso  alle  scuole  teologiche  di  Parigi,  e  di  là 
"  certamente  egli    trasse  quella    idea    che    domina    nei  versi  ora 

"  da  noi  esaminati Dante  poteva   credere    con  valido  fonda- 

"  mento  di  essere  pur  egli  meritevole  dell'  onore  di  quella  ber- 
"  retta;  ma  unendosi  in  lui  alla  giusta  estimazione  del  proprio 
"  sapere  un  vivo  desiderio  di  ritornare  in  patria,  non  seppe  ini- 
"  maginare  più  grata  ricompensa  alle  proprie  gloriose  fatiche, 
"  che  assumere  il  carattere  di  maestro  in  tlivinità  in  quel  luogo 
"  medesimo,  dove  egli  era  stato  ricevuto  alla  fede  cristiana. 
"  E  giova  non  poco  a  dar  ragione  del  desiderio  manifestato  dal 
"  poeta  ed  a  mostrarcene  tutta  la  convenienza,  quell'  uso  di  F'i- 
"  renze  rammentatoci  a  questo  luogo  dall'  Antico,  che  s'  onoras- 
"  sero  nel  Battistero  di  san  Giovanni,  quando  venivano  li 
"  scienziati   da   Bologna  „. 

"  Contro  l'assunto  che  ne' versi,  di  cui  facciamo  parola,  si 
"  parli  della  berretta  teologica  e  non  dell'alloro  poetico,  assai 
"  poco  valgono  le  considerazioni,  che  ivi  Dante  accenni  al  suo 
"  poema,  e  additi  sé  stesso  come  poeta.  Il  poema  è  qui  tratto 
"  in  campo  come  fonte  della  fiducia  di  tornare  in  patria;  e  la 
"  qualità  di  poeta  si  mette  in  mostra  per  doppia  ragione,  vale  a 
"  dire,  e  pel  nome  che  1'  Allighieri  ne  godeva  in  Firenze  prima 
"  dell'  esilio,  e  per  1'  opera  del  poema,  tessuto  di  poi.  Io  tornerò 
"  in  Firenze  poeta,  dice  egli,  come  vi  fui  conosciuto  e  celebrato 
"  altra  volta,  ma  vi  sarò    poeta  d'altra  età    e    d'altro    tenore;  e 


—  /:)  — 

per  le  nuove  e  divine  cose  eh'  io  canto,  su  quel  fonte  ove 
entrai  nel  consorzio  delle  cose  divine,  potrò  esser  dichiarato 
maestro  in  divinità.  La  laurea  poetica  potevano  dargliela  i  Fio- 
rentini prima  dell'  esilio,  perché  avevano  già  riconosciuto  lui 
siccome  il  maggiore  dei  loro  poeti  :  col  poema  sacro,  e  spe- 
cialmente colle  dottrine  teologiche  professate  nel  Purac/iso, 
Dante  aveva  acquistato  diritto  ad  una  laurea  d' altra  natura. 
Oh  come  gli  interpreti  tentano  talvolta  di  far  apparire  Dante 
dissennato!  Nel  momento,  in  cui  egli  si  gloria  dell'approvazione 
ottenuta  da  S.  Pietro,  sognano  ch'egli  ravvolgesse  in  mente 
il  pensiero  della  ghirlanda  d'Apollo  „  (•). 


IL 


Così  dunque  il  Todeschini;  del  quale  ci  è  sembrato  prezzo 
dell'  opera  far  conoscere  ai  lettori  nostri  l' ipotesi  rivestita  di 
quella  forma  stessa,  ond'  egli  s'  era  giovato  a  significarla.  Ipotesi, 
non  v'  ha  dubbio,  fantasticamente  ardita,  ma  che  nessuno  tuttavia 
s' è  dato  sin  qui  la  briga  di  confutare.  Vero  è  che  il  silenzio, 
cosi  rigorosamente  mantenuto  intorno  ad  essa  da  pressoché  tutti 
gli  interpreti  della  Conirdia,  puossi  ascrivere  a  disdegno  (^);  ma, 
ove  della  singolare  taciturnità  questa  per  1'  appunto  dovesse  cre- 
dersi la  causa,  ci  permetteremmo  d'  osservare  che  il  disdegno  ci 
pare  assai  fuori  di  luogo. 

Pure  niuno  più  di  noi  è  lontano  dal  consentire  col  dantista 
vicentino  nell'opinione  che  la  laurea,  vagheggiata  dall'Alighieri, 
sia  stata  quella  di  teologia.  Troppi  e  troppo  gravi,  per  vero,  sono 
gli  ostacoli,  contro  i  quali  una  sentenza  di  tal  genere  viene  a  dare 
di  cozzo,  perché  non  ci  si  debba  stupire  che  un  uomo  erudito  ed 
ingegnoso,  quale  fu  il  Todeschini,  o  non  li  abbia  a  bella  prima 
avvertiti  o,  fattone  accorto,  siasi  lusingato  di  scansarli.  In  realtà 
egli  stesso  ha  preveduto  la  più  facile  tra  le  obbiezioni  che  gli  sa- 
rebbero state  mosse:  come,  di  grazia,  poteva  Dante  sperare  di  con- 
seguire in  Firenze  la  laurea  teologica,  se  ai  di  suoi  nessuna  tra 
le  città  italiane,  che  andavano  superbe  d'uno    Studio  (di  cui  Fi- 


-   76  - 

renze  mancava),  aveva  facoltà  di  conferirla?  (*)  —  ed  ha  iniina- 
ginato  d'  eluderla,  afFermando  che  il  divine^  poeta  s'  era  portato 
a  Parigi  già  molto  tempo  innanzi,  ed  in  cpiell'  università  aveva 
con  onor  grande  e  non  minore  profitto  atteso  ai  teologici  studi. 
Ma,  pur  troppo  per  il  Todeschini,  1'  andata  tii  Dante  oltremonti 
è  tutt' altro  che  provata  fin  ora  (•'');  né  maggiore  solidità  pre- 
senta r  attestazione  del  Boccaccio,  da  Filippo  Villani  ripetuta, 
che  delle  "  scuole  della  teologia  "  ei  sia  stato  colà  frequentatore 
assiduo  e,  per  vittorie  conseguite  disputando,  famoso  (").  Però, 
quand'  anche  risultasse  accertato,  come  per  adesso  non  è,  che  il 
poeta  nostro  fu  a  Parigi,  ed  in  quello  Studio  si  dedicò  alle  scienze 
divine,  ne  conseguirebbe  forse  che  nella  sua  breve  dimora  egli 
avesse  acquistato  il  diritto  di  domandare  più  tardi  ai  propri  con- 
cittadini una  laurea  in  teologia?  Chiunque  conosca,  non  diremo 
a  fondo,  ma  appena  appena  superficialmente,  quali  fossero  le 
norme  immutabili  e  rigorose,  ond'  era  regolata  nelle  scuole  pari- 
gine la  carriera  di  quanti  aspiravano  al  convento  in  divinità, 
non  potrà  a  meno  di  sorridere  al  pensiero  che  si  sia  da  taluno 
creduto  sul  serio  che  Dante  potesse  o  volesse  percorrerla!  Lo 
studente  in  teologia,  rammento  cose  che  sono  senza  dubbio  assai 
note  ai  lettori,  sia  che  avesse  qualità  d' ecclesiastico,  sia  che 
fosse  un  secolare  (nel  qual  caso  trattavasi  quasi  sempre  d'un 
maestro  d'arti),  doveva  studiare  sei  anni,  prima  d'ottenere  il 
permesso  di  presentarsi  a  quell'esame,  che,  felicemente  superato, 
lo  elevava  al  baccellierato  col  grado  di  "  biblico  ordinario  „,  se 
chierico,  o  di  "  cursore  „,  se  laico.  Dopo  di  che,  per  trasfor- 
marsi in  "  baccelliere  formato  „,  e  procacciarsi  la  licenza,  al  fu- 
turo dottore  occorrevano  altri  tre  anni  d' indefesse  fatiche  scola- 
stiche; trascorsi  i  quali,  e  sostenuta  una  nuova  solenne  prova, 
che  dicevasi  "  tentativa  „,  ove  niun  altro  ostacolo  si  frapponesse, 
egli  veniva  assunto  finalmente  con  pubblica  cerimonia,  la  ùirrel- 
fatto,  alla  dignità  magistrale  (').  O  non  avevo  io  ragione  d'  os- 
servare che  il  voler  far  passare  l'Alighieri  per  una  siffatta  tra- 
fila di  lezioni,  di  esami,  di  prove,  è  idea  degnissima  di  riso? 
Nel  "  vico  degli    strami  „,  ove    ei  l' abbia    davvero    frequentato, 


—  77  — 

l'esule  fiorentino  non  consumò  neppur  un  terzo;  ma  che  dico 
un  terzo?  nemmeno  un  quarto  forse,  del  tempo  che  riesciva  in- 
dispensabile per  conquistare  la  sospirata  "  cedola  „  d' ammis- 
sione ai  candidati  baccellieri. 

Non  perdiamo  dunque  noi  adesso  altro  tempo  a  confutare 
un'opinione  cosi  priva  di  solido  fondamento,  come  quella  si  è  che 
Dante  abbia  mai  accarezzato  il  bizzarro  disegno  di  sollecitare  dai 
propri  concittadini  un  titolo  onorifico  eh'  egli  non  era  in  grado  di 
pretendere  né  quelli  avevano  autorità  di  concedere;  e  volgiamoci 
invece  a  dimostrare  quanto  sia  vano  l'altro,  gratuito,  asserto  del 
Todeschini,  che,  ove  s' interpretino,  come  s'  è  sempre  fatto,  dal 
secolo  decimoquarto  in  poi,  i  terzetti  3  e  4  del  XXV  del  Paradiso, 
facciasi  esprimere  al  sommo  scrittore  nostro  un  concetto  scon- 
veniente, anzi  addirittura  "  miserabile  „.  Che  Dante,  fatto  certo 
dallo  sfolgorar  pili  vivo  dell'  "  apostolico  lume  „,  il  qual  gli  gira, 
letiziando,  la  fronte,  che  "  nel  dir  „  gli  piacque,  ne  cavi  argo- 
mento a  reputarsi  degno  ormai  del  poetico  alloro;  non  può  pa- 
rere strano  se  non  a  chi  ignori;  cosa  per  verità  troppo  nota, 
perché  sia  d'  ignorarla  concesso;  quale  conto  Dante,  al  pari  di 
tutti  i  contemporanei  suoi,  facesse  della  poesia.  Se  Aristotele  in 
un  luogo  famosissimo  della  Metafisica  aveva  affermato  che  ne'  poeti 
dovean  vedersi  i  primi  teologizzanti  ('*);  se  altri  antichi  s'erano 
accordati  col  "  maestro  di  color  che  sanno  „  nel  sostenere  che 
tutt'  uno  in  origine  formar  dovettero  la  poesia,  la  filosofia  mo- 
rale, la  teologia;  e  codest' opinione,  accolta  da  Massimo  Tirio, 
da  Strabone,  da  Plutarco,  da  Eusebio,  ritrovò  poscia  consenzienti, 
per  non  dir  che  di  questi,  e  Lattanzio  e  S.  Agostino  (");  chi 
vorrà  giudicar  strano  che,  sugli  inizi  del  Trecento,  l' Alighieri,  al 
pari  d' Albertino  Mussato  e  di  maestro  Guicciardo  da  Bologna, 
doctor  doctorum  in  gramatica,  fosse  profondamente  convinto  che 
il  ministero  di  poeta  paragonar  si  poteva  ad  un  sacerdozio,  e 
che  al  poeta  stesso,  al  vate,  competeva  a  buon  dritto  il  nome 
di  "  teologo  „,  posto  che  con  solenni  autorità  riusciva  fatto  di 
provare  "  che  la  teologia  e  la  poesia  quasi  una  cosa  si  pos- 
"  sono  dire,  dove  uno   medesimo  sia  il  subbietto;  anzi 


-  78- 

"  che  la  teologia  ni  un' altra  cosa  è  che  una  poesia 
"  di  Dio  „  ("^)?  Nulla  di  più  naturale  pertanto  che  nel  momento 
appunto  in  cui  immaginò  solennemente  riconosciuta  la  propria 
ortodossia,  lassiì  nel  cielo,  dal  vicario  di  Cristo,  egli  sia  ritornato 
col  pensiero  a  quella  coronazione  poetica,  la  quale  avrebbe  do- 
vuto annunziarlo  quaggiù  nel  mondo,  teologo  insieme  e  poeta. 
Del  resto,  non  avea  egli  già  fatto  qualcosa  di  simile,  iniziando 
la  cantica  del  Piìradiso?  Allora,  tutto  compreso  della  grandezza 
del  cimento  a  cui  s'  esponeva,  erasi  affrettato  ad  invocare  pro- 
pizio il  "  buono  Apollo  „,  perché,  fatto  "  vaso  del  suo  valore  „, 
toccar  potesse  la  meta  desiderata: 

O  divina  virtù,  se  mi  ti  presti 

Tanto,  che  1'  ombra  del  beato  regno 

Segnata  nel  mio  capo  io  manifesti, 
Venir  vedrà'  mi  al  tuo  diletto  legno, 

E  coronarmi  allor  di  quelle  foglie, 

Che  la  materia  e  tu  mi   farai  degno ("). 

Ora,  mercé  1'  aiuto  implorato,  egli  ha  varcato  già  1'"  alto  sale  „; 
la  nave  sua  tocca  già  il  porto,  ed  il  "  beato  regno  „,  del  quale 
si  diceva  pago  di  "  manifestare  „  l' ombra  soltanto,  quale  ei 
r  aveva  nel  suo  capo  fermata,  è  balzato  fuori,  rutilante  d' incre- 
dibil  fulgore  e  di  soprannaturale  bellezza,  dalla  sua  titanica  fan- 
tasia. Come  possiamo  stupirci  che  in  codest'  istante  di  suprema 
compiacenza  l' artista  sublime  stenda,  desideroso,  la  mano  alla 
"  fronda  peneia  „,  di  cui  anela  a  cingersi  il  crine,  che,  biondo 
un  tempo,  or  s'è  fatto  d'argento?  Non  v' è  davvero  ragione  di 
dubitarne:  a  Firenze,  in  quel  suo  bel  San  Giovanni,  dove  sole- 
vansi  onorare,  come  1'  Ottimo  ci  attesta,  "  gli  scienziati,  quando 
"  vengono  da  Bologna  „  ('"),  niun'  altra  corona  che  la  febea 
non  fosse,  agognò  mai  di  vedere  collocata  sul  proprio  capo  il 
teologo-poeta. 


I 


—  79  — 

III. 

Ma  se  bizzarra  ed  inaccettabile  risulta  la  pretesa  del  Tode- 
schini  (li  protiitare  ai  posteri  l'Alighieri  incappucciato  di  vaio 
come  un  solenne  maestro  di  sacra  teologia  (*^),  non  tutte  le  os- 
servazioni colle  quali  egli  s'era  ingegnato  a  rinfiancare  la  disgra- 
ziata sua  congettura,  debbono  giudicarsi  immeritevoli  della  nostra 
attenzione.  Ed  una  soprattutto,  a  niiu  avviso,  vale  la  pena  d'  es- 
sere qui  esaminata  e  discussa:  quella  cioè  concernente  al  vero  si- 
gnificato della  frase:  "  prendere  il  cappello  „,  adoperata  dal  poeta 
per  designare  la  particolare  onoranza,  alla  quale  egli  aspirava. 

"  Cappello:  la  corona  d'alloro.  Cosi  tutti  „;  nota  laconica- 
mente lo  Scartazzini  nella  più  recente  edizione  del  suo  utile 
commento  C^).  Che  tutti,  proprio  tutti,  affermino  questo,  non  si 
potrebbe  a  rigor  di  termini  asserire  {'^);  certa  cosa  è  tuttavia 
che  la  massima  parte  degli  interpreti  danteschi  in  codesta  sen- 
tenza concorre.  Ma  dicon  bene  i  pili?  Qui  sta  il  punto.  Mettiamo 
in  sodo  innanzi  tutto  che  quante  volte  Dante  s'  è  trovato  a  ri- 
cordare la  suprema  sua  aspirazione,  non  ha  mai  involuto  in  am- 
bagi, in  oscure  espressioni,  in  enimmatiche  spoglie  il  proprio  pen- 
siero; ma  s'  è  piaciuto,  anzi,  estrinsecarlo  nella  maniera  pili 
piana,  col  più  esplicito  linguaggio.  Ad  Apollo  nel  I  del  Paradiso 
egli  chiede  1'  "  amato  alloro  „,  le  "  foglie  „  del  suo  "  diletto 
"  legno  „,  la  "  fronda  peneia  „  ;  e  sol  di  lauro,  sol  di  serti 
"  penei  „,  ne'  quali,  all'  "  alta  vergine  „,  tramutatasi  in  pianta, 
s' intrecceranno  1'  edera  e  il  mirto,  doctariiìn  pracuiia  fronlimn, 
discorre  nell'  egloghe  (*^).  Superfluo  aggiungere  che  soltanto  di 
"  laurea  de  lauro  „,  coni'  allora  si  diceva,  parlano  sempre,  toc- 
cando delle  speranze  dal  divino  poeta  nudrite,  e  Giovanni  Del  \'ir- 
gilio  ed  il  Boccaccio  ('').  Perché  dunque,  dovendo  nel  passo,  che 
adesso  esaminiamo,  esprimere  un'  idea,  da  lui  già  tant'  altre  volte 
nettamente  formulata,  viene  egli  fuori,  il  poeta,  con  una  frase 
cosi  precisa  ed  in  pari  tempo  però  cosi  differente  da  quelle 
sempre  per  lo  innanzi  adoperate:  "  prenderò  il  cappello  „? 


—  8o  — 

Differente?  odo  qui  rispondeinii.  E  perché  differente?  O  non 
e  "  cappello  „,  come  1'  usa  in  questo  luogo  1'  Aligliieri,  un  galli- 
cismo per  "  ghirlanda  „? 

Certo:  "  cosi  dicono  tutti  „,  ripeterò  anch'io  alla  mia  volta  ('"). 
Ma  quale  fondamento  ha  la  comune  persuasione?  Per  verità 
nessuno.  Che  in  Francia,  in  forza  dell'  uso  generalmente  adot- 
tato da  giovini  e  donzelle  di  portare  la  fronte  ricinta  d'  un  serto 
di  rose  o  d' altri  fiori  in  luogo  d' un  cappello,  la  voce  cliapel, 
accanto  al  significato  suo  primitivo,  abbia  sviluppato  per  esten- 
sione r  altro  di  "  ghirlanda  „,  "  corona  „,  sta  benissimo  (^^).  Ma 
che  r  usanza  di  chiamare  "  cappello  „  una  corona  di  fiori  e  di 
foglie,  varcate  le  Alpi,  siasi  tra  di  noi  trapiantata,  e  più  partico- 
larmente in  Toscana  nei  secoli  XIII  e  XIV  fatta  comune;  co- 
mune, intendo,  a  tal  segno  da  concedere  a  Dante  di  valersi 
dell'  uno  in  luogo  dell'  altro  vocabolo,  senza  timor  veruno  di  riu- 
scire oscuro  ai  lettori  e  d'ingenerare  nella  mente  loro  qualche 
equivoco;  io  non  veggo  davvero  come  si  possa  provare.  A  buon 
conto,  oltre  il  preteso  esempio  dantesco,  niun  altro  di  "  cappello  „ 
"  ghirlanda  „  ci  presentano  i  dizionari  {^°),  ove  quello  non  sia, 
tratto  dal  Decameron,  che  non  prova  nulla  di  nulla.  Scrive  difatti 
nella  Novella  I''  della  Giornata  I"  il  Boccaccio,  che  ser  Ciapperello 
da  Prato  era  in  Parigi  ser  Ciappelletto  chiamato,  perché  "  non  sap- 
"  piendo  li  Franceschi  che  si  volesse  dir  Ciapperello  „  credevano 
"  che  cappello,  cioè  ghirlanda,  secondo  il  loro  volgare, 
"  a  dir  venisse  „.  Le  quali  parole  del  novellator  certaldese  po- 
tranno bensì  essere  addotte,  ove  ad  altri  piacesse,  per  confer- 
mare una  volta  di  piti  che  "  secondo  il  volgare  di  Francia 
cìiapel  equivaleva  a  "  ghirlanda  „;  ma  non  giovano  né  punto 
né  poco  a  dimostrare  che  altrettanto  succedesse  nel  volgare 
italiano. 

Prima  d' asserire  pertanto,  quasi  si  trattasse  di  fatto  indi- 
scusso ed  indiscutibile,  che  nel  terzetto  del  Paradiso,  di  cui  an- 
diamo ragionando,  la  frase:  "  prenderò  'I  cappello  „  corrisponde 
perfettamente  a  quest'altra:  "  io  mi  cingerò  il  capo  d'una  co- 
"  rona  d'  alloro  „  ;  sarebbe  d'  uopo  che  i  fautori  di  cotest'  interpre- 


—  8i  — 

tazione  cominciassero  dal  raccogliere  le  prove  che  in  Toscana, 
ai  di  dell'Alighieri,  a  designare  una  ghirlanda  si  usava  corrente- 
mente il  gallicismo  "  cappello  „.  Ma  sarebbe,  temiamo,  una  ri- 
cerca destinata  a  non  recar  frutto  veruno. 

O  allora?  Allora  viene  naturalmente  fatto  di  domandarci  se 
per  avventura  non  avesse  colto  nel  segno  il  Todeschini,  quando 
sosteneva  che  qui,  sulla  bocca  di  Dante,  la  voce  "  cappello  „ 
nuli*  altro  vuole  significare  se  non  l' insegna  del  dottorato,  quella 
copertura  del  capo,  cioè,  che,  varia  per  materia  e  per  foggia,  a 
seconda  dei  tempi,  dei  luoghi  e  delle  circostanze,  pure  conti- 
nuossi  per  tutta  1'  età  di  mezzo  ad  offerire  a  coloro  i  quali  nel- 
r  una  o  nell'altra  scienza  conventavansi,  simbolo  manifesto  di 
gloria,  di  carità,  di  giustizia  (•').  Ma  il  Todeschini  s' incaponi, 
come  abbiamo  veduto,  a  volere  riconoscere  nel  "  cappello  „,  che 
Dante  dichiarasi  disposto  a  "  prendere  „,  quello  che  s' imponeva 
ai  maestri  di  sacra  teologia;  noi  invece  siamo  per  credere  che 
il  poeta  divino  abbia  vagheggiato  un  titolo  meno  pomposo  si, 
ma  nel  tempo  stesso  assai  più  consentaneo,  per  l' indole  sua, 
agli  studi  da  lui  prediletti;  un  titolo  eh' ei  poteva  agevolmente 
procacciarsi  anche  senza  varcare  le  Alpi;  a  Bologna,  per  esem- 
pio, e  con  altrettanta  facilità  farsi  riconoscere  e  riconfermare  a 
Firenze:  quello  cioè  di  dottore  in  arti. 

Non  si  dica,  di  grazia,  superflua  questa  mia  supposizione,  né 
mi  si  accusi  d'aver  sgombrato  il  terreno  dai  ruderi  dell'edificio 
voluto  innalzare  dal  Todeschini,  per  erigervi  una  nuova  fabbrica 
a  mio  capriccio.  Tra  l' ipotesi,  eh'  io  m'  ero  proposto  di  sfatare 
definitivamente,  e  quella  che  mi  permetto  adesso  d' enunziare, 
corre  una  differenza  grandissima,  quale  può  intercedere  cioè  tra 
un  ragionamento  campato  in  aria  ed  uno  che  si  fonda  sopra 
l'attento  esame  de' fatti  e  della  realtà.  Poteva  l'Alighieri;  cosi  io 
mi  sono  domandato  e  mi  domando;  conseguire  la  laurea  in  poe- 
sia senza  essere  prima  passato  per  un'  altra  cerimonia  prelimi- 
nare, senz'  avere  ottenuto  il  titolo  di  dottore  in  grammatica 
ossia  il  convento  in  arti?  Qui  sta  il  nodo  della  questione,  che 
nessuno  sinora  s'era    proposta;    giacché,    anche    in  questo  caso, 

NOVATI.  6 


—    82    — 

come  in  altri  parecchi,  i  biografi  del  divino  poeta  hanno  sempre 
preso  le  mosse,  quasi  direi  inconsciamente,  dal  curioso  principio 
che  alle  norme,  lo  quali  governavano  in  maniera  determinata, 
precisa,  la  vita  sociale,  ed  a  cui  non  si  derogava  mai  per  motivo 
veruno,  nel  secolo  decimoquarto,  Dante,  perché  era  Dante,  abbia 
potuto  sottrarsi.  Di  qui  è  sorta  l' idea  del  Todeschini  che  il  poeta, 
benché  secolare  non  solo,  ma  marito  e  padre,  senz'  avere  mai 
raggiunto  verun  grado  nella  gerarchia  clericale,  solo  per  avere 
seguito  non  sappiamo  quali  corsi  nello  Studio  parigino,  avesse 
potuto  aspirare  nientemeno  che  ad  una  laurea  in  sacra  teologia; 
di  qui  r  altra  credenza,  eh'  io  mi  son  pure  sforzato  di  compro- 
vare fallace  ed  inane,  che,  ad  onta  di  cotesta  sua  condizione  di 
laico,  r  Alighieri  fosse  potuto  salire  sopra  una  cattedra  di  retto- 
rica  o  di  poesia.  Ma  i  contemporanei  di  Dante  non  1'  hanno  cer- 
tamente considerato  mai  come  sogliono  considerarlo  i  suoi  cri- 
tici, nati  la  bazzecola  di  sei  secoli  più  tardi!  Ammettiamo  pure 
che,  specie  negli  ultimi  anni  della  sua  travagliata  esistenza,  la 
fama  dell'  esule  fiorentino  avesse  disteso  più  largo  volo  in  Italia, 
che  non  soltanto  il  volgare  avesse  appreso  ad  ammirarlo,  ma 
molti  dotti  a  lor  volta  lo  reputassero  poeta  insigne,  profondo 
scienziato.  Ma  da  ciò  ad  ammettere  che  in  favor  suo  si  potessero 
infrangere  leggi  e  violare  consuetudini  sancite  dal  tempo  e  rigo- 
rosamente osservate  da  tutti  ci  corre,  come  ognun  scorge,  di 
molto.  Non  crederei  pertanto  prudente  conchiudere  che  la  pub- 
blicazione integrale,  definitiva  della  Comcdia  sarebbe  stata  baste- 
vole, perché  1'  Alighieri  raggiungesse  il  sospirato  premio  di  tante 
e  diuturne  fatiche,  prima  d'  aver  cercato  di  mettere  bene  in  chiaro, 
se  pure  è  possibile  riuscirvi,  che  cosa  veramente  fosse,  ai  giorni 
di  Dante,  la  laurea  poetica,  ed  a  quali  condizioni  essa  venisse 
abitualmente  conceduta. 


IV. 


Che  alla  fronda  sacra    ad    Apollo    nessuno    de'  contemporanei 
suoi    rivolgesse    bramoso    il    pensiero,    oltreché    nell'  ecloga    sua 


-83   - 

prima,  asserisce,  tra  scorato  e  sdegnoso,  in  un    luogo    notissimo 
del  Paradiso,  l'Alighieri  medesimo: 

Si  rade  volte,  padre,  se  ne  coglie, 

Per  trionfare  o  Cesare  o  Poeta, 

(Colpa  e  vergogna  delle  umane  voglie) 
Che  partorir  letizia  in  sulla  lieta 

Delfica  deità  dovria  la  fronda 

Peneia,  quando  alcun  di  sé  asseta;  (") 

t?  della  veracità  di  cotesti  melanconici  asserti  del  poeta  sorgono 
a  loro  volta  testimoni  cosi  Orso  conte  dell'  Anguillara  e  senator 
romano  nel  diploma  da  lui  conceduto  al  Petrarca,  ('^)  come  Gio- 
vanni Boccaccio,  il  quale,  pur  scrivendo  dopoché  ed  il  Petrarca 
appunto  e  Zanobi  da  Strada  s'  eran  cinti  del  simbolico  serto  la 
fronte,  definisce  l' onore  vanamente  vagheggiato  dall'  esule  fio- 
rentino, "  pomposo  „  non  meno  che  "  inusitato  „  (^^).  Tuttavia 
chi  gittasse  uno  sguardo  sovra  quell'  indigesto  zibaldone,  in  cui 
\'incenzo  Lancetti  s'  è  ingegnato  a  raccogliere  le  notizie  concer- 
nenti ai  poeti  laureati  "  d'  ogni  tempo  e  d'  ogni  nazione  „,  (") 
sarebbe  a  prima  giunta  portato  a  giudicare  che  1'  usanza  di 
coronare  d'  alloro  i  poeti  non  fosse  tra  il  due  ed  il  trecento  ca- 
duta in  tanta  dimenticanza  quanta  dalle  parole  dell'  Alighieri  ri- 
sulterebbe. Non  meno  di  sei  difatti  sono  gli  scrittori  che,  ove 
prestassimo  fede  al  poligrafo  cremonese,  dovremmo  ritener  in 
cent'anni  all' incirca  giunti  al  possesso  della  ghirlanda  febea:  due 
stranieri:  un  inglese,  cioè,  Roberto  Baston,  un  francese,  Adenet: 
e  cinque  italiani:  Boncompagno  da  Signa,  frate  Pacifico,  Niccolò 
di  Giunta  di  Boldrone,  Bono  da  Bergamo  ed  Albertino  Mussato  (^'"'). 
Disgraziatamente  però  anche  a  questa  ponderosa  compilazione 
lancettesca  vollero  presiedere  le  solite  Muse  dell'autore,  la  fretta 
e  la  sciatteria;  ed  egli,  pur  d'impinguare  i  propri  cataloghi,  ha 
fatto,  come  suol  dirsi,  d' ogni  erba  fascio.  Sicché  se  noi  sotto- 
porremo adesso  ad  un  rapido  esame  i  fonti,  ond'  ebbe  a  giovarsi 
per  gratificare  i  sei  personaggi  testé  enumerati  del  titolo  di 
poeti  laureati,  non  tarderemo  a  riconoscere  come  ai    più    tra    di 


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loro  una  critica  imparzialnionte  severa  debba  affrettarsi  a  strap- 
pare dalle  chiome  1'  alloro  fuor  di  ragione  usurpato. 

Che  il  carmelitano  inglese  Roberto  Baston,  compositore  di 
ritmi  satirici  e  morali  in  latino  e  volgare,  sia  stato  sui  primi  del 
secolo  XI\'  onorato  della  poetica  ghirlantia,  è  affermato  dal  Lan- 
cetti  sul  fragile  fondamento  portogli  dalle  seguenti  parole  di 
Giovanni  Baie,  il  noto  illustratore  della  storia  letteraria  della 
Gran  Brettagna  fiorito  nel  sedicesimo  secolo:  Hiinc  rlidorcm  ne 

poctani  O.xotiii  Inurcattwi seenni  accepit  rex  Edviiardus  pn'niits 

in  Scot  l'atti  ittinis,  anno  Doni  ini  1^04,  ut  in  futura  Strivr/itirnsis 
eastrt  fortissimi  ohsidione,  insigniter  gesta  describerd.  ('")  Ma  chi 
rammenti  come  sia  stata  consuetudine  costante  nelle  britanniche 
scuole  d' insignir  del  titolo  di  "  poeti  laureati  „  quanti,  usciti  vit- 
toriosi dalle  prove  che  la  legge  imponeva,  conseguissero  il  grado 
accademico  di  "  dottori  in  grammatica  „  ;  ('*')  potrà  a  buon  dritto 
meravigliarsi  che,  tra  milT  altri  graduati  negli  Studi  d'  Oxford  e 
di  Cambridge,  i  quali  nel  corso  de'  secoli  XV  e  XVI  consegui- 
rono con  si  modico  sudore  il  sacro  ramo  d' alloro,  Vincenzo 
Lancetti  sia  proprio  andato  a  scegliere,  per  introdurlo  nelle  tavole 
sue,  lo  sfortunato  abbate  di  Scarborough,  il  quale,  dopo  avere 
seguitato  in  Scozia  il  suo  sovrano  coli'  intento  di  celebrarne  ir» 
eroico  stile  i  trionfi,  caduto  poi  nelle  mani  de'  nemici,  si  trovò, 
per  salvar  la  propria  vita,  costretto  a  descriverne  non  meno  ador- 
namente, secondo  il  poter  suo,  le  sconfitte.  (") 

Se  r  intrusione  dell'  oscuro  monaco  inglese  nel  "  numerato  ,^ 
drappello  de'  laureati  trecentisti,  si  può  comprendere  ed  anche,, 
fino  ad  un  certo  segno,  giustificare  ('"),  quella  d' Adenet  all'op- 
posto rimane  davvero  senza  scusa.  Pur  ammettendo  che  le 
cognizioni  del  Lancetti  in  fatto  di  storia  letteraria  medievale 
non  sian  state  mai  molto  profonde,  riesce  tuttavia  incredibile 
eh'  egli  ignorasse  come  il  titolo  di  "  re  „,  onde  il  noto  autore 
del  Cleoviadés  soleva  far  cosi  ingenua  pompa  ne'  propri  poemi^ 
traesse  origine  da  costumanze  poetiche  dell'  età  di  mezzo,  le 
quali  nulla  ebbero  mai  di  comune  colla  laurea  sospirata  dai  dotti. 
Ove  non  si  volesse  dunque  menar  buona  a  Paulin  Paris  la   con- 


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gliiettura  che  Adenet  fosse  stato  dal  conte  di  Fiandra,  presso  di 
cui  visse  anni  molti,  assunto  all'  ulììcio  di  "  re  de'  menestrelli  „, 
ufficio  che  in  molte  corti  principesche  d'  allora  solevasi  affidare 
a  que'  trovieri,  i  quali,  pur  facendo  professione  di  poesia,  sovrain- 
tendevano  insieme  alle  feste  ed  ai  sollazzi  de'  lor  signori,  ed  eser- 
citavano un'  autorità,  pia  o  meno  riconosciuta,  sulla  varia  ed 
irrequieta  famiglia  giullaresca  a  cui  appartenevano  (^');  si  potrà 
sempre  supporre  eh'  egli  si  fosse  guadagnata  la  corona,  di  cui  an- 
dava tanto  orgoglioso,  in  una  di  quelle  gare  solite  ad  indirsi  ogni 
anno  dai  Pnis,  già  ai  suoi  giorni  fiorenti  in  parecchie  città  della 
Francia,  ad  Arras,  a  Lille,  a  Valenciennes.  (^')  Ma  sia  che  si 
tratti  d'  un  impiego  di  corte  o  d'  una  poetica  onorificenza,  certa 
cosa  si  è  che  il  menestrello,  caro  a  Guido  di  Dampierre,  neppure 
nei  momenti  de'  suoi  maggiori  trionfi  sognò  mai  d'  insinuarsi, 
grazie  al  proprio  diadema  d'orpello,  nella  schiera  sacra  de'  "  vati  „, 
accanto  a  Virgilio  ed  a  Stazio! 

Nello  stesso  equivoco  in  cui  è  caduto  rispetto  ad  Adenet  le 
Roi,  noi  sospettiamo  che  il  Lancetti  sia  scivolato  anche  per 
quanto  concerne  a  fra  Pacifico,  sebbene  in  questo  caso  il  suo 
errore  riesca  attenuato  agli  occhi  nostri  dal  vedere  come  altri 
eruditi,  assai  pili  sagaci  di  lui,  siansi  lasciati  cogliere  all'  amo 
istesso  eh'  egli  ha  tanto  avidamente  abboccato.  Il  Tiraboschi  in- 
fatti, che  s'  era  dapprima  mostrato  molto  esitante  a  pronunciarsi,  ed 
il  Ginguené,  sulle  sue  orme,  non  dubitano  di  collocare  tra  i  poeti 
laureati  l' impareggiabile  compagno  del  Serafico  d'  Assisi,  fondan- 
dosi su  quanto  di  lui  lasciò  scritto  nella  seconda  vita  del  Santo 
fra  Tommaso  da  Celano  :  Erat  in  Marchia  Anconitana  saecularis 
quidam  sui  oblitus  et  Dei  nesciiis,  qui  se  totani  prostitucrat  vanitali. 
Vocabatur  nomen  eius  rex  versniitn,  eo  qnod  princeps  foret 
lasciva  cantantium  et  inventor  saecu/ariuni  cantionutn  :  ut  paucis 
dicam,  nsqne  adeo  gloria  mundi  extulerat  hominem,  quod  ab 
imperatore  fuerat  pomposissime  coronatus.  ('*)  Ma  né  il  dotto  au- 
tore della  Storia  della  letteratura  italiana,  né  altri  dopo  di  lui,  (^*) 
sembrano  essersi  avveduti  dell'  assurdo  a  cui  si  va  incontro  sup- 
ponendo che  r  incoronazione  del  giullare  della  Marca  Anconitana, 


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eseguita,  come  pare  probabile,  da  Federigo  II,  (•'^)  possa  esser 
stata  una  cerimonia  che  arieggiasse  anche  da  lontano  quella  cui 
aspirar  doveva  pili  tardi  Dante,  e  di  cui  furono  in  realtà  protagonisti 
e  il  Mussato  e  il  Petrarca.  Colui,  che  divenne  fra  Pacitìco,  la  "  pia 
"  madre  „  de'  Francescani,  (*']  fu  semplicemente  nei  tempi  della 
sua  gioconda  giovinezza  —  su  questo  non  può  correre  dubbio  — 
un  rimatore  volgare,  autore  d' amorose  e  profane  canzoni,  il 
quale,  musico  eccellente,  disposava  ai  "  motti  „  lascivi  i  molli 
"  suoni  „  lor  convenienti;  (■*")  corrispondeva  insomma  perfetta- 
mente a  quello  che  è  il  tipo  da  noi  ben  conosciuto  del  giullare 
o,  se  più  piace,  del  trovatore.  Sicché  se  il  titolo  di  re  de' versi, 
sotto  il  quale  egli  era  in  tutt'  Italia  conosciuto,  gli  fu,  come  afferma 
recisamente  san  Bonaventura,  (^^)  conferito  dall'  imperatore  in 
occasione  della  sua  solenne  coronazione,  noi  potremo  da  ciò  cavar 
argomento  a  ritenere  che  il  serto,  ond'  egli  venne  insignito  dalla 
mano  regale,  non  sia  già  stato  quello  formato  colle  fronde  del- 
l' "  alta  vergine  peneia  „,  ma  semplicemente  un  diadema  sullo 
stampo  dell'  altro,  che  già  vedemmo  aver  ricinto  il  capo  a  più  e 
più  menestrelli  di  Francia,  d'Inghilterra,  di  Fiandra;  un  diadema 
intendo,  dal  cui  aureo  cerchio  spuntavano  sempre  fuori  le  corna 
munite  di  sonagli  del  giullaresco  cappuccio.  E  chi  non  scorge  a 
prima  giunta  quanto  riesca  inverosimile  che  un  sovrano  fornito 
di  somma  dottrina,  quale  fu  Federigo  II,  abbia  potuto  indursi  a 
dividere  con  un  cantore  volgare  l'alloro  di  Cesare?  (^^) 

Messi  cosi  definitivamente  in  disparte  codesti  candidati  alla 
laurea,  che  per  una  o  per  altra  ragione  ce  ne  sono  apparsi  del 
tutto  immeritevoli,  volgiamoci  a  considerare  i  titoli  dei  rimanenti, 
i  quali,  per  essere  stati  grammatici  e  dottori  d'arti,  assai  più 
legittimamente  potrebbero  ritenersi  possessori  di  quella  corona 
che  "  assetava  „  1'  autore  della  Comcdia  divina.  Anche  qui  però 
dovremo  proceder  subito  ad  eliminarne  più  d'uno:  Boncompagno 
da  Signa  innanzi  tutto,  giacché  il  gaio  maestro  toscano  non  ha 
verun  diritto  alla  qualità  di  "  laureato  „.  Vero  è  bene  che  nel 
1215,  in  Bologna,  se  prestiamo  fede  al  suo  racconto,  alla  pre- 
senza dell'  "  università  dei  professori    di    diritto    canonico    e    ci- 


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"  vile  „,  d'altri  dottori  e  d'una  moltitudine  di  scolari,  uno  de' suoi 
libri,  il  Boncompagnus,  venne  recitato,  approvato  e  coronato 
d'alloro;  (*")  ma  laureare  un  libro,  come  ognuno  comprende,  non 
equivale  a  laurearne  1'  autore.  La  notevole  cerimonia,  che  il  cele- 
bre dettatore  ha  descritta  con  legittima  soddisfazione  nelle  ultime 
linee  della  sua  opera,  rientra  quindi  nel  numero  di  quelle  che 
sappiamo  essere  state  più  d'  una  volta  celebrate  in  Italia  e  fuori 
nei  pubblici  Studi;  (^')  ma  colla  "  coronazione  dell'alloro  „,  di 
cui  noi  discorriamo,  non  ha  proprio  nulla  a  che  vedere. 

Allontanato  Boncompagno,  ci  rimane  da  rimuovere  dal  seggio 
eh'  egli  pure  ha  abusivamente  occupato,  un  ultimo  involontario 
usurpatore,  e  cioè  a  dire  Niccolò  di  Giunta  di  Boldrone.  E  per 
riuscirvi  non  dovremo  durare  verun  travaglio.  Se  il  nome  ©scu- 
rissimo di  cotesto  grammatico  fiorentino  si  trova  registrato  tra 
quelli  dei  poeti  coronati,  ciò  è  dovuto  ad  un  madornal  granchio 
pescato  dal  Lancetti,  il  quale,  avendo  inteso  a  sproposito  certo 
periodo  d'  una  scrittura  di  Ferdinando  Fossi,  immaginò  che  que- 
st'  erudito  attribuisse  a  Niccolò  il  titolo  di  laureato,  mentre  egli 
altro  non  s' era  prefisso  di  avvertire  se  non  che  in  un  docu- 
mento sincrono  al  nome  di  Niccolò  seguiva  1'  onorifico  qualifi- 
cativo di  doctor  graììimaticac.  ('') 

Cosi,  a  furia  d' eliminazioni,  non  più  che  due  rimangono  i 
personaggi,  ai  quali  si  può  tener  per  fermo  che  fosse  concessa 
sugli  inizi  del  Trecento  la  simbolica  ghirlanda:  Bono  da  Ber- 
gamo ed  Albertino  Mussato.  Le  melanconiche  riflessioni  dell'Ali- 
ghieri corrispondono  pertanto  esattamente  al  vero;  il  serto  ed  il 
nome  di  poeta  eran  proprio  quasi  spenti  in  que'  giorni  ne'  quali 
egli  assorgeva  coli'  alta  fantasia  alla  conquista  d' arcani  mondi 
ideali. 


Di  cotesti  due  personaggi  non  più  che  uno  però  è  a  giudicare 
meritevole  della  nostra  considerazione:  Albertino  Mussato.  Da 
lui  solo  difatti,  mentre  Bono  da  Bergamo   scompare,    inaflferrabil 


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fantasma,  per  entro  la  secolar  notte  d'  obblio  che  lo  ravvolge,  {*^) 
noi  possiamo  conseguire  i  ragguagli  atti  a  farci  comprendere 
che  cosa  fu,  che  cosa  significò  la  coronazione  poetica  ai  giorni 
suoi,  ai  giorni  di  Dante. 

Ma  la  solenne  cerimonia,  compiutasi  in  suo  onore  a  Padova 
nel  1315,1^^)  non  è  degna  soltanto  d'attento  esame  per  il  valido  mo- 
tivo, che,  grazie  alle  minuziose  descrizioni  tramandatene  da  colui 
il  quale  ne  fu  il  protagonista,  ci  è  nota  in  ogni  suo  particolare. 
Essa  raggiungerà  altresì  una  nuova  e  forse  inattesa  importanza 
agli  occhi  nostri,  ove  ci  avvenga  di  riflettere  come  tra  coloro 
che  pili  avidamente  ne  ascoltarono  in  Italia  il  racconto,  vada 
fuori  di  dubbio  enumerato  1'  Alighieri.  Ora  se  io  esiterei  ad  asse- 
rire che  r  incoronazione  del  Mussato  abbia  proprio  accesa  in 
petto  al  poeta  divino  quella  favilla,  onde  doveva  esser  secondata 
poi  si  gran  fiamma,  non  dubito  invece  d'affermare  ch'essa  coo- 
però fortemente  ad  accrescerla,  a  ringagliardirla.  E  di  questo 
mio  convincimento  reputo  cosa  assai  agevole  recare  innanzi  sif- 
fatte prove    che    valgano  a  trasfonderlo    nell'  animo    de'  leggitori. 

Ignorò  Dante,  finché  visse,  amando  e  sognando,  nel  "  dolcis- 
"  simo  seno  „  della  sua  diletta  Firenze,  pur  il  nome  d'  Albertino 
Mussato?  Quando  si  pensi  che  già  negli  estremi  anni  del  secolo 
decimoterzo,  l' illegittimo  frutto  degli  amori  di  Viviano  del  Musso, 
dopo  aver  trascorsa  la  triste  giovinezza,  intento  a  ricopiare  "  Ca- 
"  toni  „  per  sfamare  sé  stesso  ed  i  derelitti  fratelli,  era,  mercé  l'al- 
tezza del  suo  ingegno,  pervenuto  in  patria  ai  pubblici  onori,  alla 
ricchezza,  alla  fama;  {*^')  la  cosa  parrà  ben  poco  probabile.  Ma 
s'  ammetta  pure  che  a  Dante,  prima  d' intraprendere  il  doloroso 
pellegrinaggio  dell'  esule,  persino  il  nome  d' Albertino  fosse  ri- 
masto sconosciuto.  Possiamo  noi  credere  eh'  egli  abbia  perdurato 
a  lungo  in  siffatt'  ignoranza,  posto  che  "  lo  primo  suo  rifugio  e 
"  '1  primo  ostello  „  si  trovò  ad  essere,  com'egli  stesso  c'insegna. 
Verona?  Sarebbe  assurdo  il  supporlo.  Quante  e  quante  volte,  al 
contrario,  ne'  giorni  che  trascorse  ospite  del  "  gran  Lombardo  „ 
€Ì  dovette  udir  parlare  di  colui,  nel  quale  tutti  riconoscevano 
r  uomo  principale  di  Padova,  or  con  accenti    d'  ammirazione   per 


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la  versatilità  del  suo  acuto  intelletto,  la  feconda  abbondanza  della 
sua  poetica  vena;  or  con  parole  di  sdegno  e  di  minaccia  per  il 
calcolato  ardimento,  con  cui,  a  difesa  degli  insidiati  dritti  della 
città  natale,  fronteggiava  i  disegni  ambiziosi  della  corte  scaligera? 
La  bella  e  complessa  figura  del  Mussato,  magistrato  e  poeta, 
storico  e  giureconsulto,  uomo  d'  armi  e  di  toga,  che  manteneva 
rapporti  di  letteraria  amicizia  con  quanti  nella  Marca  Trivigiana 
avessero  grido  di  dotti;  e,  sebbene  trattasse  con  maestra  penna 
r  idioma  sacro  di  Roma,  piacevasi  talvolta  fare  prova  di  sé  anche 
nel  dispregiato  volgare,  non  potè  dunque  a  meno  d' imprimersi 
fortemente  nel  pensiero  dell'  Alighieri,  di  suscitare  nell'  animo  suo 
un  insieme  di  sentimenti,  tra  i  quali  la  stima,  fors' anche  la  sim- 
patia, ebbero  certo  il  sopravvento. 

La  discesa  d'  Arrigo  Wl  in  Italia  dovette  poi  rendere  più  in- 
tensa siffatta  simpatia  in  cuore  al  poeta  divino.  Come  potè  questi 
mirare  d' allora  in  poi  con  occhio  indifferente  l' uomo,  il  quale 
consacrava  tutta  l' autorità  che  gli  proveniva  dall'  alta  stima  in 
patria  e  fuori  conseguita,  a  servir  quella  causa,  di  cui  anch'  egli 
affrettava  coi  più  fervidi  voti  il  trionfo?  Gli  avvenimenti  che  con- 
sigliavano ad  Albertino  di  dettar  le  sue  istorie,  non  strappavan 
forse  le  epistole,  calde  or  d' entusiasmo  or  di  sdegno,  all'  Ali- 
ghieri? Non  attendevano  entrambi,  il  Padovano  non  meno  che 
il  Fiorentino,  dal  successor  di  Cesare  e  d'  Augusto  la  salute  della 
città  loro,  anzi  d'Italia  tutta?  Se  nelle  sale  de' comunali  palagi 
di  Milano,  di  Torino,  di  Genova,  oppur  sotto  le  tende  degli  ac- 
campamenti di  Cremona  e  di  Brescia,  in  mezzo  ai  fedeli  accorsi 
d' ogni  parte  a  stringersi  intorno  all'  imperiale  vessillo.  Dante 
abbia  o  no  incontrato  Albertino,  io  non  so  dire;  né  vorrei  con 
ipotesi,  per  quanto  ragionevoli,  prive  però  di  solide  basi,  sce- 
mare la  virtù  persuasiva  che  sprigionasi  dal  semplice  riaccosta- 
mento di  questi  nomi,  di  questi  fatti,  di  queste  date.  {*'')  Ma  niuno, 
penso,  m' infliggerà  la  taccia  di  temerario  divulgatore  di  vuote 
congetture,  se  ripeterò  ancora  una  volta  come  torni  impossibile 
credere  che  in  giorni  pari  a  quelli,  1'  Alighieri  non  abbia  seguito 
con  attento  sguardo  i  passi  di  colui,  dinanzi  al  quale   ogni  porta 


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s'apriva,  elio  Margherita  di  Brabaiitc,  la  consorte  d'Arrigo,  ac- 
coglieva tra  i  pili  fidi  nelle  scerete  sue  stanze,  che  il  sire  di  Lus- 
semburgo colmava  a  tal  segno  di  favori  da  fargli  dire  che  niun 
italiano  mai  fu  certo  di  lui  più  caro  al  suo  cuore.  (^") 

Ed  ecco,  quando  il  cielo,  che  s'  era  imporporato  de'  crocei  ba- 
gliori preannunziaiiti  il  sospirato  mattino,  torna  sinistramente  te- 
nebroso, quando  coli'  improvvisa  scomparsa  del  suo  imperiai  pro- 
tettore, tutto  intorno  a  Dante  ruina;  ecco  il  Mussato  toccare  in- 
vece il  fastigio  supremo  della  gloria.  Padova,  liberata  dal  terrore 
dell'  imminente  tirannide  scaligera,  memore  de'  benefici,  onde 
l'aveva  colmata  il  suo  alunno,  superba  del  lustro  ch'egli  le  pro- 
caccia, ridestando  ad  un  tempo  dal  sonno  secolare  la  musa  di 
Seneca  e  quella  di  Livio,  gli  consente,,  esultante,  l'alloro.  Dov'eia 
in  quel  momento  l'Alighieri?  Noi  l'ignoriamo  pur  troppo.  Ma 
dovunque  ei  fosse  arrivato,  "  legno  senza  vele  e  senza  governo 
"  portato  a  diversi  porti  e  foci  e  liti  dal  vento  secco  che  vapora 
"  la  dolorosa  povertà  „  (^*);  certo  non  tardo  ad  avere  notizia  del- 
l' inaudito  avvenimento,  per  cui  tutt'  Italia  s*  era  commossa.  E  se 
ripensando  alla  ventura  di  colui  ch'aveva  scritto  V  Eccrinidc,  più 
acuta  forse  lo  punse  la  trafittura  di  "  quella  piaga  della  fortuna, 
"  che  suole  ingiustamente  al  piagato  molte  volte  essere  imputata  „; 
e  più  amaro  lo  colse  il  sentimento  della  "  viltà  „,  in  cui  con  la 
persona  sua  eran  1'  opere  del  suo  ingegno  al  cospetto  di  molti 
cadute ;(*^)  pure,  come  1' un  pensiero  dall'altro  germoglia,  ei  fini 
forse  per  ravvisare  nella  solenne  onoranza  con  novello  esempio 
tributata  ad  un  poeta,  quasi  un  presagio  della  propria  futura  gran- 
dezza. Né  dopo  d'allora  il  proposito  di  cingersi  anch'esso  il  capo 
del  serto  peneio  ebbe  ad  abbandonarlo  mai  più. 

Che  se  in  lui  per  avventura  la  speranza  di  levarsi  tant'  alto 
da  raggiungere,  anzi  superare,  il  Mussato,  avesse  alquanto  rimesso 
col  tempo  del  suo  vigore,  aitici  doveva  assumere  la  cura  di  riat- 
tizzarla. Quale  è  invero  lo  scrittore  contemporaneo,  il  poeta  vi- 
vente, che  m  quei  suoi  versi,  destinati  a  suscitare  tanto  tumulto 
d'  affetti  nel  cuore  di  Dante,  giudica  a  lui  unicamente  paragona- 
bile Giovanni  Del  Virgilio?  Albertino  Mussato.  "  Se  tu  mi  sprezzi, 


-  91    - 

dice  il  retore  bolognese,  tra  serio  e  scherzoso,  al  vecchio  divino, 
"  bada  a  te,  io  mi  torrò  la  sete  col  frigio  Musone: 

Me  contcmne;  sitim  phrygio  Musone  Icvabo.  l^**) 

Né  sono  ciance  le  sue.  Giacché,  piti  tardi,  quando  Dante  è 
sceso  nella  tomba,  ei  ricorre  davvero,  come  al  solo  poeta  che 
onori  l'Italia,  ad  Albertino,  e  per  propiziarsi  l'animo  di  lui,  che, 
profugo  dalla  patria,  prova  ancora  una  volta,  come  sia  acerbo  l'esilio; 
gli  rammenta  che  non  sdegnò  di  cantar  seco  un  altro  grande, 
vittima  illustre  delle  discordie  cittadine,  quel  Titiro,  che  all'  om- 
bra della  selva  risonante  sul  lito  di  Chiassi,  strinse  tra  le  pro- 
prie braccia  1'  agreste  musa  virgiliana.  (^') 


VI. 


Avvertita  cosi,  anche  per  altra  via,  la  singolare  importanza 
della  cerimonia  celebratasi  in  Padova,  rispetto  alle  ricerche  di  cui 
ci  stiamo  occupando,  passiamo  adesso  a  farne  oggetto  di  rapido 
esame.  Né  questa  è,  come  pur  dianzi  notavasi,  disagevole  intra- 
presa, imperocché  lo  stesso  Mussato  ci  offre  il  modo  di  condurla 
ad  effetto. 

Una  sua  metrica  epistola,  diretta  al  grammatico  Giovanni, 
racchiude  invero  una  minuta  descrizione  di  tutta  la  festa,  in  cui 
egli  ottenne  l'alloro  i;'"^).  Che  se  qua  e  là  noi  lo  troviamo  co- 
stretto dalla  necessità  in  cui  versava  di  narrar  con  poetico  lin- 
guaggio cose  che  in  sé  nuli'  avevano  di  poetico,  a  servirsi 
d*  espressioni  alquanto  ambigue  ed  enfatiche,  ciò  non  scema  di 
molto,  checché  altri  ne  abbia  pensato,  l' autorità  del  suo  rac- 
conto (^'). 

Narra  dunque  Albertino  che  il  collegio  degli  Artisti;  formato, 
com'è  ben  noto,  dai  soli  dottori,  i  quali  insegnavano  arti,  filosofia  e 
medicina  nello  Studio  patavino (•''^);  venuto,  in  seguito  alla  pubblica- 
zione deWEcerinide,  nella  determinazione  d'  onorarne  1'  autore  col 
conferirgli  la  laurea,  dopo  essersi,  previamente  assicurato  il  con- 


—  92  — 

senso  del  vescovo,  del  rettore  e  fors'  anche  degli  altri  colleglli, 
sollecitò  i  magistrati  cittadini  ad  autorizzare  e  convalidare  in- 
sieme colla  presenza  loro  la  solenne  cerimonia.  Stabilito  il  tutto, 
la  testa  tu  fissata  per  il  3  dicembre.  In  quel  giorno  dunque  tac- 
quero i  tribunali  e  le  scuole,  le  botteghe  si  chiusero,  le  officine 
rimasero  deserte  ("''J.  La  cittadinanza  in  folla  si  riversò  nel  comunale 
palagio,  dove  il  Mussato  fu  condotto  con  gran  pompa,  accompagnato 
dai  Gastaldioni,  dal  collegio  de'  Giudici,  da  tutta  quanta  1'  Univer- 
sità ("^).  Ed  ivi,  meiitr'  egli  invano  tentava  d' allontanare  da  sé 
un  onore  di  cui  reputavasi  immeritevole,  dal  vescovo  o  dal  ret- 
tore (che  si  trattasse  del  primo  però,  capo  supremo  della  scuola, 
meglio  che  del  secondo  io  reputo  credibile),  gli  fu  imposta  sul 
capo  una  ghirlanda,  nella  quale  alle  sacre  fronde  del  lauro  s' in- 
trecciavano foglie  d'  edera  e  ramoscelli  di  mirto  ("').  Compiuta  cosi 
la  coronazione  e  stesone  per  man  di  notaio  pubblico  strumento 
che  tutti  i  dottori  presenti  sottoscrissero,  il  novello  laureato  venne 
a  suon  di  trombe  riaccompagnato  solennemente  a  casa.  Se  du- 
rante la  cerimonia  siano  stati  pronunziati  discorsi,  non  ci  dice  il 
Mussato  ;  ma  chi  vorrà  supporre  eh'  egli  stesso  ed  i  promotori 
suoi  abbiano  rinunciato  a  fare  sfoggio  di  tutta  la  loro  eloquenza, 
in  un'  occasione  tanto  propizia?  {■'^)  E  pare  altresì  che  nel  corso 
della  festa  siasi  fatta  pubblica  lettura  dell'  Ecerinide  {^"). 

Ora,  che  cosa  abbiamo  noi  qui?  Una  solennità  interamente 
nuova;  nuova,  intendo,  tanto  nell'essenza  come  nelle  parvenze 
sue;  o  non  piuttosto  una  cerimonia,  la  quale  si  riconnette  con 
altre  già  conosciute,  tanto  da  poter  esserne  considerata  quasi 
un'emanazione,  ovvero,  se  meglio  piaccia,  un'amplificazione?  Se 
noi  dessimo  retta  a  Jacopo  Burckhardt,  codesta  domanda  sa- 
rebbe destinata  a  rimanere  senza  risposta,  giacché,  per  suo  giu- 
dizio, della  "  coronazione  dell'  alloro  „,  quale  si  piacque  idoleg- 
giarla in  Italia  quella  eh'  ei  chiama  la  "  prima  generazione  di 
^  poeti-filologi  „,  torna  impossibile  additar  l'origine  e  precisare  i 
riti.  Non  I'  origine,  perché  essa  si  perde  nella  notte  dell'  età  me- 
dievale: non  i  riti,  giacché  questi  non  giunsero  mai  a  rivestire 
caratteri  determinati  e  concreti.  "  Si  trattava,  dice  il  Burckhardt, 


—  93  — 

"  d'una  dimostrazione  pubblica,  d'una  manifestazion  visibile  della 
"  gloria  letteraria,  e  per  questo  motivo  appunto  la  laurea  fu  sempre 
"  qualcosa  di  mobile,  di  variabile  „  (""). 

Siffatte  conclusioni  del  genialissimo  scrittore  tedesco  vogliono 
esser  accolte  con  grande  cautela,  perché,  dato  che  racchiudano 
un  fondo  di  vero,  esso  è  intorbidato  però  e  corrotto  da  inesattezze 
non  lievi. 

Ed  innanzi  tutto:  se  noi  avessimo  prove  che  1' usanza  d' inco- 
ronare i  poeti,  ancor  viva  in  Roma  pur  nell'  estrema  decadenza 
degli  studi  e  dell'  impero,  si  fosse  oscuramente  mantenuta  per 
tutta  quanta  l'età  di  mezzo,  sicché  tratto  tratto  della  persistenza 
sua  uscisse  fuori  qualche  indizio,  io  comprenderei  l' asserto  del 
Burckhardt  che  la  sorgente  di  essa,  per  quanto  irreperibile,  debba 
essere  assegnata  alla  "  notte  medievale  „.  Ma  se  ciò  devesi  re- 
putar falso,  poiché  di  siffatta  consuetudine  non  rinveniamo  né  in 
Italia  né  fuori  vestigio  veruno  (^');  se  la  laurea,  quale  vagheg- 
giarono Dante,  il  Mussato,  ed,  a  tacere  d' altri,  il  Petrarca,  ci 
rappresenta  un  vero  e  schietto  ritorno  a  tradizioni  classiche,  ob- 
bliate  dal  medio  evo,  che  il  rinascimento,  fin  dai  primi  suoi  passi, 
si  sforza  di  richiamare  in  vigore,  che  e'  entrano  qui  1'  età  di  mezzo 
e  le  tenebre  sue?  D'altronde,  sia  che  la  laurea  trecentistica  deb- 
basi  giudicare  quasi  propaggine  inattesa  di  consuetudini  antiche, 
delle  quali  mai  non  s'era  del  tutto  obliterato  il  ricordo;  sia  che 
piaccia  invece  considerarla  come  il  portato  d'  un  atteggiamento 
nuovo  della  coscienza  italiana,  rinascente  a  novella  vita  di  pen- 
siero; com'è  possibile  immaginare  ch'essa  non  abbia  mai  avuto 
altra  norma  che  il  capriccio  individuale  non  fosse,  in  un  tempo 
nel  quale  ogni  cosa  volevasi  ancor  sottoposta  a  regole  fìsse,  pre- 
cise, e  si  tentava  ostinatamente  d' imporre  leggi  anche  a  ciò  che 
per  sua  indole  sembrar  doveva  ad  ogni  legge  ribelle?  Vero  è  bene 
che  il  Burckhardt  immagina  Dante  nell'  atto  di  coronarsi,  di  sua 
propria  mano!,  del  sospirato  alloro,  curvo  su  quelle  fonti  di 
san  Giovanni,  dov'  anch'  egli,  al  pari  d' infiniti  altri  figliuoli  di 
Firenze,  era  stato  battezzato  C'"^);  ma  noi,  forse  per  povertà  di 
fantasia,  non  arriviamo  a   figurarci    l'Alighieri,    che,    dichiaratosi 


—  94  — 

da  sé  stesso  poeta,  s' acconcia  in  capo  il  serto  d' Apollo,  con 
quel  medesimo  gesto  con  cui,  cinquecent'  anni  più  tardi,  in  Notre- 
Dame,  Napoleone  I  si  cingerà  di  propria  mano  la  corona  im- 
periale! 

Ma  a  che  perdere  il  tempo  in  oziose  discussioni?  Basta  in 
realtà  esaminare  con  un  po'  d'  attenzione  la  cerimonia  celebrata 
in  Padova  il  3  dicembre  1315,  per  riconoscere  eh'  essa  si  collega 
strettissimamente  con  quella  che  da  pili  secoli  solevasi  eseguire, 
ad  ogni  momento,  in  qualunque  città  d'  Italia  la  quale  possedesse 
uno  Studio  generale:  voglio  dire  il  "  convento  „. 

Le  rassomiglianze  tra  le  due  cerimonie  sono  tali  e  tante  che 
negarle  sarebbe  quanto  negare  1'  evidenza.  Chi  delibera  di  dare 
la  laurea  al  Mussato?  Il  collegio  degli  Artisti,  uno  dei  tre,  cioè, 
ai  quali  negli  Studi  medievali  era  riserbato  di  decidere  se  un 
candidato  alla  licenza  in  diritto,  in  arti  o  in  teologia,  fosse  di  tale 
onore  meritevole  (^^).  Chi  impone  il  serto  in  capo  al  laureando? 
Il  vescovo,  sembra;  vale  a  dire  quell'autorità,  a  cui  nello  Studio 
padovano  spettava,  in  seguito  ai  pontificali  decreti,  il  diritto  di 
conferire  il  berretto  dottorale  ai  candidati  di  qualsivoglia  facoltà; 
diritto  che  in  Bologna  esercitava  1'  arcidiacono,  a  Parigi  il  can- 
celliere di  Notre-Dame  e  a  volte  quello  pure  di  S.  Genoviefìfa  C^^). 
Alla  coronazione  d'Albertino  assistono  tutti  i  dottori  dello  Studio, 
i  quali  autenticano  poscia  colle  sottoscrizioni  loro  1'  atto  notarile, 
che  deve  attestare  solennemente  la  validità  di  quant' è  stato  com- 
piuto. Or  che  cosa  avrà  contenuto  codest'  atto?  La  pura  e  sem- 
plice descrizione  della  cerimonia?  La  cosa  è  poco  probabile. 
Verisimile  invece  riesce  il  credere  che,  come  sappiamo  essersi 
sempre  fatto  in  occasione  di  addottoramenti  nel  sec.  XIII  e 
nel  XIV,  alla  descrizione  dell'accaduto  vi  fosse  aggiunta  la  no- 
tizia dei  privilegi  e  dei  diritti,  de'  quali  il  laureato  era  stato  posto 
in  possesso  (''•');  primissimo  tra  tutti  quella  liì)cra  polcstas . .  . .  (ani 
in  liac  sanctissima  urbe  ....  quaiii  alibicwnquc  locoriim  Icgcndi, 
dispiitandi  atqiie    inlcrprdmidi   vdcriun    scripturas    et    novos   a    se 

ipso libros  et  pocmata  componendi;  quell'autorizzazione,  id  uhi 

et  quoties  sibi  placuerit,  possit  huiusmodi  atque   alios    actiis  poeti- 


—  95  — 

COS....  soloìiiiitrr  cxcrccrc;  che  vediamo,  trentott'anni  dopo,  at- 
tribuiti in  un  documento  ufficiale,  il  diploma  di  laurea  rila- 
sciatogli dal  Senator  di  Roma,  al  Petrarca  ('"^).  Ed  in  siffatto 
diritto  ognuno  che  possegga  qualche  notizia  della  legislazione 
scolastica  d'  allora,  non  tarderà  a  ravvisare  quel  iiis  ithiciiiìKjite 
docendì,  che  in  ogni  Studio  la  conseguita  licenza  assicurar  soleva 
al  novello  dottore  (""). 

Ma  qui  non  è  tutto.  \'\  son  altri  fatti  ancora  che  giovano  a 
confermare  sempre  più  come  vincoli  numerosi  e  tenaci  stringes- 
sero nel  secolo  di  Dante  il  convento  alla  laurea  poetica. 

Prima  che  il  cantor  di  Scipione,  acceso  dall'ambizion  nobilissima 
di  ritornare  al  Campidoglio  il  vanto  da  secoli  obbliato  di  veder 
accorrere  alle  sue  sacre  pendici  quanti  fosser  vaghi  del  delfico 
alloro,  facesse  sorgere  coli'  efficacia  delle  sue  parole  e  con  quella 
anche  maggiore  dell'  esempio  nell'  animo  dei  suoi  amici,  dei  suoi 
ammiratori,  di  tutti  i  contemporanei  insomma,  la  persuasione  che 
niun'  altra  coronazione  poetica  potesse  dirsi  tale,  ove  a  Roma 
non  fosse  stata  conferita  \^^)\  del  privilegio  di  creare  i  poeti  si 
credevano  legittimi  possessori  que'  corpi  appunto,  ai  quali  spet- 
tava di  concedere  1'  addottoramento  in  arti,  cioè  a  dire  i  collegi 
degli  Artisti.  Sono  i  coìisortcs  Studii,  i  magistri,  che  assumono, 
come  s'  è  veduto,  1*  iniziativa  delle  onoranze  tributate  in  Padova  al 
Mussato  ;  e  se  congettureremo  che  ad  essi  pure  sia  andato  più 
tardi  debitore  della  sua  laurea  Bono  da  Bergamo,  non  cadremo 
probabilmente  in  errore.  Quanto  succedeva  tra  noi,  avveniva  pure 
oltremonti;  al  Petrarca  infatti,  se  crediamo  alle  sue  affermazioni, 
l'offerta  dell'alloro  giunse  da  Parigi  per  mezzo  del  cancelliere  del- 
l'Università; ora  costui  dovette,  com'è  ben  chiaro,  nella  qualità 
sua  di  capo  supremo  della  scuola,  trasmettere  al  poeta  una  pro- 
posta, eh'  era  stata  probabilmente  presentata  dal  collegio  dei  dot- 
tori d'  arti  all'  intera  Università  (*^). 

Ad  un  certo  momento  però  nell'  esercizio  di  codesto  privi- 
legio noi  vediamo  gareggiare  coi  collegi  universitari  delle  auto- 
rità ben  più  elevate,  ma  in  generale  prive  di  competenza 
scientifica  e  letteraria:  vale  a  dire   i    principi.    Che    Carlo    IV  di 


-  96- 

Boemia  s'arrogasse    la    facoltà    di    creare    i    poeti,    tutti    sanno; 
tant'  è  vero  eh'  egli  incoronò  di  sua  mano    in    Pisa  il  15  maggio 
del  1355  quel  mediocre   grammatico  di  Zanobi  ("").    Ma   il    "  ce- 
"  sare  germanico  „  fece  di  pili.  Oltre  a  concedere  egli  stesso  la 
laurea  poetica,  diede  facoltà  altrui  di  Aire  altrettanto;  a   Firenze 
per  cagion  d'  esempio,  la  quale  ebbe  poi    a    valersi    assai    larga 
mente  di  questo  permesso  nel  corso  del  secolo  decimoquinto  f^) 
Or  donde  nasceva  nel  sovrano  boemo,  in  codesto  "  barbaro  ca 
"  muffato  da  imperatore  „,  come  lo  chiama  Francesco   Nelli  ('-) 
la  persuasione  che,  coronando    i    poeti,    egli    esercitasse    un'alta 
sua  prerogativa  ?  Dicono    eh'  egli    "    partisse    dall'  ipotesi    che  il 
"  diritto  d' incoronare  i   poeti    avesse    neh'  antichità    appartenuto 
"  agli  imperatori  romani  „  ('^);  ma  questa  spiegazione  non  è  fatta, 
lo  confesso,  per  appagarmi.  Carlo  IV  era  tutt'  altro  che  un  igno- 
rante, amava  circondarsi    d' uomini    dotti,    e    non    poteva    quindi 
credere  troppo  facilmente  alla  realtà  d'  un  fatto,  del  quale  le  storie 
non  gli  fornivano  esempio  veruno  {'*). 

D'  altro  canto  noi  sappiamo  bene  che  il  Petrarca,  quand'  ancor 
non  aveva  concepito  l' ambizioso  disegno  di  farsi  coronare  in 
Campidoglio,  vagheggiava  la  speranza  di  ricevere  1'  alloro  in  Na- 
poli dalle  mani  di  re  Roberto  ("^).  E  ciò  torna  quanto  a  dire  che 
costui  credevasi  licenziato  a  concederlo.  Eppure  ei  non  poteva 
certo  nudrire  l' illusione,  di  cui  si  pasceva  Carlo  IV,  d'  essere  il 
legittimo  successore  d' Augusto  !  Se  entrambi  codesti  principi 
adunque  credettero  di  possedere  il  medesimo  diritto,  la  ragione 
dovrà  ricercarsene  in  qualche  facoltà  comune  cosi  all'  uno  come 
all'  altro.  E  quest'  è  la  facoltà  di  creare  i  dottori. 

In  qual  maniera  il  re  di  Boemia  legittimasse  siffatta  pretesa; 
aggravata  anche  stavolta  dal  fatto  eh'  egli,  primo  tra  gli  imperatori, 
aggiunse  ai  privilegi  de' conti  palatini  quello  ancora  di  concedere 
il  berretto  dottorale  ai  candidati  in  diritto  civile;  non  sa  dirci  il  Fi- 
cker,  il  quale  sta  pago  ad  avvertire  come  il  fatto,  che  per  avventura 
potrebbe  trovare  qualche  fondamento  nelle  costituzioni  universitarie 
boeme,  ove  esse  ci  fossero  meglio  conosciute,  costituiva  però  una 
vera  novità  per  l'Italia;  ed  una  novità  che  fu  assai  male  accolta 


—  97  — 

dalle  Università  della  penisola  ("'').  In  mancanza  di  sicure  notizie 
si  può  dunque  sospettare  che  noi  ci  troviamo  dinanzi  alla  ten- 
denza, che  contraddistinse  il  governo  di  Carlo  IV,  d'ampliare 
fuor  di  modo  il  campo  entro  cui  la  potenza  imperiale  doveva 
esercitarsi.  Come  imperatore,  il  cesare  boemo  consideravasi  fonte 
d'ogni  diritto;  qual  meraviglia  che  colui  il  quale  fondava  a  sua 
posta  le  Università,  nominasse  anche  i  dottori? 

In  quanto  a  Roberto  d'  Angiò  le  sue  pretensioni  si  spiegano 
assai  facilmente.  A  tutti  invero  è  noto  come  1'  università  di  Na- 
poli sia  stata  retta  fin  dalle  origini  a  mezzo  di  costituzioni  inte- 
ramente diverse  da  quelle,  ond'  erano  regolati  tutti  gli  altri  Studi 
italiani.  Federigo  II  aveva  riserbato  a  sé  stesso  o  delegato  al 
suo  gran  cancelliere,  come  altri  solenni  offici,  quello  pure  delle 
promozioni  ("l;  ed  i  re  Angioini  si  mostrarono  sempre  cosi  ge- 
losi di  tale  prerogativa,  che  rifiutarono  di  riconoscere  ogn'  altra 
laurea  che  non  fosse  quella  da  loro  impartita.  Avvenne  quindi  più 
d'una  volta  nel  corso  del  sec.  XIII,  che  un  dottore  forestiere 
per  aprirsi  l'adito  ad  una  cattedra  nello  Studio  partenopeo  si 
rassegnasse  a  subire  di  nuovo  quegli  esami,  grazie  ai  quali  già 
altrove  ei  s'era  procacciato  il  convento,  e  quind'  anche  il  diritto, 
non  sempre,  come  si  vede,  rispettato,  d'  insegnare  dovunque 
liberamente!  ('^) 

Da  tutto  quanto  siamo  venuti  esponendo  limpidissima  scatu- 
risce la  conseguenza  che  ai  tempi  dell'Alighieri  (e,  si  potrebbe 
aggiungere  senza  tema  d'errare,  anche  a  quelli  del  Petrarca)  (■^), 
la  coronazione  poetica  era  dall'  universale  considerata  come  una 
cerimonia  d'  alto  valore  scientifico,  d' indole  eminentemente  acca- 
demica, e  strettamente  collegata  al  convento,  di  cui  con  lievi 
modificazioni  riproduceva  il  processo,  i  riti,  i  particolari  simbo- 
lici e  caratteristici.  Non  ci  sarà  dunque  adesso  cagione  di  mera- 
viglia il  constatare  come  sotto  la  penna  degli  scrittori  trecen- 
tisti ricorra  indifferentemente  in  vece  del  vocabolo  "  laurea  „ 
r  altro  di  "  convento  „,  quasiché  entrambi  la  stessa  cosa  signifi- 
chino. Non  ci  stupiremo  udendo  l' Ottimo  chiamar  la  laurea 
"  convento  di  scienza  poetica  „  ;  non  ci  farà  specie  vedere  1'  Ano- 

NOVATI.  7 


-98  - 

nimo  Laurenziano  postillar  al  verso  41  dell'  ecloga  prima  tra  le 
dantesche: 

Scd  timcam  saltus  et  rura  ignara  deorum; 

tiiuciìììi :  l'dcst  c ouvcniar {  Bonoiiic;  oppur  Zenone  da  Pistoia 
nella  Pietosa  fonte  parlarci  in  questa  forma  dell'  incoronazione  di 
Francesco  Petrarca: 

E  anni  trentasette  eran  correnti 

Della  sua  vita,  quand'  il  re  Ruberto 

Si  giusto  giudicò  che  si  conventi 
Nell'alta  poesia;  (^0) 

e  non  ci  parrà  infine  punto  strano  che  Dante  stesso,  a  designare 
quella  solennità,  dalla  quale  si  riprometteva  "  il  nome  che  pili 
"  dura  e  piti  onora  „,  abbia  adoperata  la  frase:  "  prenderò  '1 
"  cappello  „. 


VII. 


Raccogliamo  dunque,  per  venire  ad  una  conchiusione,  le 
sparse  fila  di  quest'  ormai  lungo  ragionamento.  Dalle  ricerche, 
attraverso  a  difficoltà  non  lievi  condotte  a  compimento,  è  risul- 
tato come  la  coronazione  poetica,  bramata  da  Dante,  fosse  onore 
talmente  inusitato  in  que'  giorni,  che  soltanto  un  poeta  potè  con- 
seguirla, il  Mussato.  E  r  esame  del  come  costui  giungesse  al 
possesso  dell'  alloro,  ci  confermò  sempre  più  nella  persuasione 
che  la  "  laurea  de  lauro  „  sia  stata  allora  considerata  quale  il 
premio  della  scienza  (che  poesia  e  scienza  volevano  dire  lo  stesso), 
di  cui  solo  i  dotti  potevano  disporre  a  vantaggio  de'  dottissimi. 
Se  dopo  di  ciò  noi  ci  proporremo  ancora  la  domanda:  poteva 
Dante  in  virtii  d'  un  poema  volgare,  per  quanto  eccellente,  otte- 
nere siffatto  premio,  cingere  1'  alloro,  di  cui  si  cinse  Albertino  e 
doveva  più  tardi  inghirlandarsi  il  Petrarca?;  dovremo  rispon- 
dere di  no. 

\'i  sono  delle  opinioni,  false  o  vere,  poco  monta,  cosi  tenaci, 
cosi  radicate,  cosi  comunemente  tenute,  che  contro    di  esse  ogni 


-  99  - 

sforzo  individuale  si  fiacca,  ogni  piiì  icrnia  volontà  si  spunta; 
delle  quali  riesce  a  trionfare  solo  chi  di  tutto  e  di  tutti  trionfa 
sempre:  il  tempo.  La  convinzione  che  la  lingua  degna  della  poesia 
e  della  scienza  fosse  unicamente  la  latina  devesi  stimar  una  di 
queste.  Anche  se  la  Comcdia  fosse  uscita  alla  luce  vivente  il  suo 
autore,  ed  avesse  a  lui,  ancor  vestito  di  polpe,  procacciata  1'  im- 
mensa popolarità,  onde  lo  ricinse  estinto  ;  tutti  coloro  che  nel 
sec.  decimoquarto  godean  nome  di  dotti,  avrebbero  continuato  a 
deplorare  che  un'  altissima  mente,  capace  d' emulare  Omero  e 
Virgilio,  si  fosse  abbassata  a  prodigare  perle  ai  porci,  coprendo 
le  suore  Castalie  di  cenci  indegnissimi  (■').  Giovanni  Del  Virgilio 
sorse  interprete  di  siffatto  rammarico  (per  noi  cosi  strano  e 
grottesco,  ma  cosi  logico  e  naturale  a  que' tempi),  ed  intimò  al- 
l'Alighieri di  placare  il  dotto  stuolo  de'"  chierici  „,  di  cantare, 
latinamente,  fatti  degni  dell'  epica  musa.  A  questo  patto,  ma  a 
questo  patto  soltanto,  si  profferse  pronto  a  procurargli  quel  titolo 
che  i  suoi  colleghi  padovani  avevano  al  Mussato  largito;  che  più? 
gli  lasciò  sperare  che  avrebbe  fatto  pe'  suoi  nuovi  poemi  quanto 
per  r  Eceriìiidc  aveano  operato  e  Castellano  e  Guicciardo  :  li 
avrebbe  cioè  letti  e  dichiarati  dall'alto  di  quella  cattedra,  dond'espo- 
neva  i  carmi  di  \'irgilio  e  d'  Ovidio  (*'). 

Quale  tumulto  d' alTetti  la  profferta  di  Giovanni  suscitasse 
neir  animo  di  Dante  già  s'  ebbe  occasion  d'  avvertire,  né  occorre 
ripetere  adesso.  Basti  dire  eh'  ei  s'  arrese  al  consiglio  dell'  amico, 
e  pose  mano  al  Carmen  bncoliciiiìi,  non  tanto  per  fare  cosa  grata 
a  lui,  quanto  all'intento  d'allontanare  il  solo,  il  vero  ostacolo, 
che  poteva  impedirgli  l'acquisto  della  fronda  desiata.  Quand'egli 
avesse  alla  Coniecù'a  divina  congiunto  il  poema,  per  cui  riviver 
doveva  la  musa  di  Titiro,  chi  avrebbe  ardito  di  contrastargli  il 
"  cappello  „?  E  chi  vietargli  di  sovrapporvi  l'alloro? 

Ma  qui  prevedo  un'obbiezione  che  fa  d'uopo  distruggere.  Se 
Dante  era  risoluto  a  mostrarsi  degno  d'  un  vero  convento,  come 
poteva  nudrir  lusinga  d'  ottenerlo  a  Firenze,  dove  non  esisteva 
uno  Studio,  e  quindi  mancava  un  consesso  di  dotti,  cui  tornasse 
lecito  fare  in  suo   prò    quant'  avevano   fatto    gli   Artisti  padovani 


—    lOO    — 

por  il  Mussato  e  fecer  poi  i  parigini  e  re  Roberto  per  il  Pe- 
trarca? Occorre  ricordare  a  questo  punto  un  fatto  che  nessuno, 
o  m'inganno,  ha  finora  rilevato.  Pochi  mesi  prima  che  Dante 
esalasse  l' anima  grande,  Firenze  aveva  pubblicamente  manife- 
stato il  proposito  di  creare  nel  suo  seno  una  completa  istitu- 
zione di  studi  superiori.  "  Posto  che  nelle  città  regali  debbonsi 
"  insegnare  le  leggi  ed  ogni  altra  scienza  • —  cosi  comincia  la  prov- 
visione legalmente  approvata  dai  Consigli  il  14  maggio  1321  — 
"  giusto  è  che  in  Firenze,  città  regale  e  di  tutta  eccellenza  adorna, 
"  fiorisca  uno  Studio  generale  „  (•'^•').  Ma  uno  Studio  generale  non 
s'  apre  cosi  all'improvviso,  né  basta  a  crearlo  un  decreto!  Perché 
i  Fiorentini  nella  primavera  del  1321  giudicassero  opportuno  di 
bandire  all'  Italia  tutta  la  grande  novella,  forza  è  credere  che  le 
trattative  avviate  col  pontefice,  col.  re  di  Napoli,  con  persone 
d'  ogni  grado  e  d'  ogni  fatta,  fossero  non  solo  da  tempo  iniziate, 
ma  condotte  anche  a  buon  fine  {^*).  Nulla  di  più  probabile  per- 
tanto che  Dante,  prima  ancora  di  ricevere  l' invito  del  retore 
bolognese,  fosse  a  cognizione  di  quello  che  dai  concittadini  suoi 
nel  suo  «  bello  ovile  „  s'apparecchiava;  sicché  la  speranza  di 
prender  ivi  il  cappello,  soggiogando  imperiosa  il  suo  cuore,  abbia 
avuto  virtù  di  fargli  parere  men  verde,  men  fresca,  men  bella  la 
fronda  che  gli  offeriva  Bologna. 


NOTE 


(')  Boccaccio,    l'Ha  di  Dante,  §  8,  p.  47. 

(•)  Scritti  SII  Dante,  raccolti  da  B.  Bressan,  Vicenza,  1872,  v.  Il,  p.  315  segg., 
*  Sulla  retta  intelligenza  del  terzo  e  del  quarto  ternario  del  canto  XXV  del  Pa- 
"  radiso  „.  11  concetto  che  Dante  sperasse  farsi  coronar  non  solo  come  "  poeta  „ 
ma  altresì  come  "  teologo  „,  trovasi  già  di  passaggio  accennato  da  Philalethes, 
D.  A.'  s  Gòtti.  Coiiidciie,  Leipzig,  1868,  III  Theil,  p.  3^0;  ed  in  nube  si  rinviene 
anche  in  una  postilla  del  p.  Lombardi,  La  D.  C.  di  D.  A.,  Roma.  MDCCCXXI, 
to.  HI,  p.  362. 

(')  Fa  eccezione  lo  Scaktazzini,  La  D.  C.  di  D.  A.,  Leipzig,  1882,  v.  Ili, 
p.  669,  il  quale  combatte  bensì  l' ipotesi  del  Todeschini,  che  dice  "  stiracchiata, 
"  violente,  contro  natura  „,  ma,  all'  infuori  d' un  solo,  non  reca  contro  di  essa 
verun  valido  argomento. 

{*)  Neil'  università  di  Bologna  lo  studio  della  teologia  non  ebbe  ad  iniziarsi 
che  nel  1352,  auspice  Innocenzo  VI.  .Su  questa  peculiarità  degli  Studi  italiani 
d'essersi  mantenuti  nei  primi  secoli  della  loro  esistenza  interamente  estranci  al 
movimento  teologico,  cf.  Rashdall,  op.  cit.,  v.  I,  p.  251  sgg. 

(')  Cf.  Bartoli,  Storia  della  lett.  ital.,  Firenze,  1884,  v.  V,  p.  211  sgg.;  Ga- 
SPARV,  Storia  della  lett.  ital.,  trad.  Zingarelli,  v.  I,  p.  24.^  sgg.;  Kraus,  op.  cit., 
pag.  67  sgg. 

('■)  Boccaccio,  Vita  di  Dante,  §  5,  p.  29;  Geneal.  deor.  gent.,  Basileae, 
MDXXXII,  lib.  XV,  cap.  VI,  p.  389;  Villani,  op.  cit.,  p.  9. 

(")  Cf.  Rasiiuall,  op.  cit.,  V.  I,  p.  462  sgg.;  e  v.  anche  P.  Feret,  Les  origines 
de  l' iinivers.  de  Paris  et  som  organisat.  aii  XII'  et  att  XIII'  si'ecles  in  Reviie  des 
qiiest.  histor.,  to.  LII,   1892,  p.  361. 

O  Aristot.  Metaphys.  \,  ni,  5. 

\')  Max.  Tyrii  Dissertationes,  ed.  Reiske,  Lipsiae,  MDCCLXXIV,  par.  I, 
p.  167,  Diss.  X  ;  Stkabon.  Geograph.  I,  11,  3  sgg.;  Plutarchi  De  Pythiae  orac. 
XVllI,  De  auiniae  procreai,  in  Tiinaeo  XXXIII,  7;  S.  Augustix.  De  civit.  Dei 
lib.  XV'III,  cap.  XIV,  XXIV ;  Fir.m.  Lactantii  Div.  Institut.  libri,  ed.  Brandt,  lib.  V, 
cap.  v;  ecc. 

('")  Boccaccio,  l'ita  di  Dente,  §  10,  p.  56.  Gli  argomenti  stessi  addotti  qui 
e  con  maggiore  larghezza  sviluppati    nel    libro    cit.   delle    Geneal.    dal    Boccaccio, 


—     I02    — 

aveva  già  tratti  fuori  Albertino  ne'  vari  componimenti  da  lui  delicati  alla  difesa 
della  poesia  (Ep.  IV,  ad  Joniiii.  gì-niiini.  f^rofrss.;  Kp.  VII,  ///  laiideiii  pocticiie ; 
Ep.  XVIII,  Ad  Frati-.  Ioaiiii.  de  MiìiiIihì  (  v.  A.  Mi'ssati  Tiagocdiac  ctc,  in 
Graevii  77»rs.  aii/ù/.  et  histor.  Itnliac,  I.ugduni  Batavor.,  MDCCXXII,  to.  VI 
par.  II,  e.  40  sgg.)  AH'  ultimo  di  essi  appunto,  la  replica  cioè  del  Mussato  a  frate 
Giovannino  da  Mantova,  perchè  tale,  a  suo  avviso,  che  dimostra  vittoriosamente 
"  nobilem  artcm  poeticam  fuisse  et  esse;  et  esse  non  modo  ethicam  sed  theo- 
"  logam  „,  rimanda  i  lettori  del  Commento  da  lui  dettato  ^nW  Eceriitidc,  mae- 
stro Guicciardo.  Ved.  Mussato  Eccrinidc,  ed.  L.  Padrin.  Bologna,   1900,  p.  246. 

(")  Par.  I,  22-27. 

(")  L'  Ottimo  Conili!,  drllti  D.  C,  testo  ined.  d'  un  contempor.  di  Dante,  Pisa, 
MDCCCXXIX,  to.  Ili,  p.  543. 

(")  Nulla  forse  può  giovare  a  mettere  meglio  in  luce  1'  enorme  diversità  che 
intercedeva  tra  il  modo  di  pensare  de' teologi  veri  e  de' poeti-teologi,  ai  giorni 
dell'Alighieri,  delle  parole  colle  quali  il  domenicano  Giovannino  da  Mantova  ini- 
zia la  sua  confutazione  delle  ragioni  recate  innanzi  da  Albertino  pv.-r  provare 
l'origine  "  divina  „  dell'arte  poetica:  "  Circa  quam  quaestionem  . .  .  dubia  pro- 
"  saice  quam  metrice  potius  movere  disposui,  ne,  doctor,  vidercr  sacrae 
"  theologiac  iniuriam  facerc,  me  poeticis  regulis  obligando.  „  Guauvu 
Tlics.  cit.,  e.  51. 

(")  La  D.  C.  di  D.  A.,  3  Milano,  Hoepli,   1899,  p.  949. 

('")  Tra  i  commentatori  antichi  taluni,  come  a  dire  Iacopo  della  Lana,  1'  Ano- 
nimo Fiorentino,  ecc.,  evitano  di  pronunziarsi  in  proposito.  Tra  i  moderni  poi 
devesi  ricordare  S.  R.  Minich,  Sulla  sintesi  della  D.  C,  considerazioni,  Padova, 
1854,  p.  28  sgg.,  il  quale  ha  proposta  di  tutto  il  passo  (e  quind' anche  della  frase 
"  prenderò  '1  cappello  „)  un'interpretazione  simbolica,  di  cui  già  il  Todeschini, 
op.  cit.,  to.  II,  p.  319  sgg.,  ha  fatto  giustizia. 

("••)  Cf.  Ecl.  I,  33,  34-35,  40,  42,  43-44,  50;  Ed.  II,  36-37. 

('")  Cf  loH.  DE  Viro.  Carni.  38;  Ecl.  resp.  66;  Boccaccio,  Vita  di  D.,  §  8, 
p.  47  ;  §  II,  p.  59;  Amor.  Vis.  cap.  V;  Gcitcal.  loc.  cit.;  Carmen  ad  F.  Pctr.  in 
CoRAZZiNi,  op.  cit.,  p.  53  sgg. 

('■"j  Come  un  "  gallicismo  „  dantesco,  "  cappello  „  per  "  ghirlanda,  corona  „ 
oltreché  dai  soliti  commentatori,  è  registrato  altresì  dal  Nannucci,  Analisi  crit. 
dei  verbi  ital.  investig.  nella  loro  prim.  orig.,  Firenze,  1843,  p.  351;  dallo  Zinoa- 
KELLi,  Parol:  e  forme  della  D.  C.  aliene  dal  dial.  fior.,  in  Studi  di  Filol.  Rom., 
Roma,  1884,  V.  I,  p.  120;  e  dal  Parodi,  La  rima  e  i  vocab.  in  rima  nella  D.  C. 
in  Bull,  della  Soc.  Dani.  II.,  N.  .S.,  1896,  v.  IH,  p.  145.  Niuno  però  di  questi  valorosi 
uomini  adduce  a  conforto  dell'asserzione  tradizionale  un  fatto,  un  esempio  nuovo. 

('")  Dicendo  "  Francia  „  voglio,  naturalmente  accennare  anche  al  territorio 
occitanico.  Cf.  Littré,  Diction.  de  la  langiie  franf.  to.  Ili,  p.  555;  Hatzfeld- 
Darmesteter,  Dictionn.  géiiir.  de  la  langue  franf.,  s.  v.;  Burguy,  Granitn.  de  la 
lingue  d' Oli,  v.  Ili,  p.  59;  Diez,  E.  W.  I,  86. 

('")  Quelli,  intendo,  del  Ghirardini,  del  Tommaseo,  delllo  .Scarabelli,  i  quali 
tutti,  forti  del  preteso  esempio  dantesco,  introducono  tra  i  significati  di  "  cappello  „ 
quello  pur  di  "  ghirlanda  „.  Il  Vocabol.rio  della  Crusca  invece    non    lo    registra; 


-   I03  - 

ma  ciò  dipende  da  un'  involontaria  dimenticanza,  giacché  sotto  la  v.  "  incappel- 
"  larsi  „  vediamo  i  Compilatori  prendersi  cura  di  avvertirci  che  la  parola  vale 
"  incoronarsi,  inghirlandarsi...  conforme  al  significato  che  aveva  cappello  per 
"  Corona,  Ghirlanda  „.  —  Anche  di  questo  significato  attribuito  ad  "  incappellarsi  „, 
esaminati  gli  esempi  che  se  ne  adducono,  ci  pare  più  che  lecito  dubitare. 

Aggiungo  poi  qui,  a  confermare  sempre  più  la  mia  opinione,  che  neppur 
nei  dialetti  nostri  più  ricchi  di  gallicismi,  è  avvenuto  a  me  e  ad  altri  di  rinve- 
nire "  cappello  „  col  significato  di  "  ghirlanda  „. 

(")  Cf.  le  pagine  che  il  Rashdall,  op.  cit.,  v.  II,  cap.  xiv,  p.  639  sgg., 
dedica  alla  descrizione  delle  vesti  de'  professori  nonché  degli  scolari  nel  medio 
evo.  Tra  le  altre  particolarità  si  trova  appunto  additata  questa  che  nelle  fa- 
coltà di  legge  e  di  medicina  alla  "  berretta  „,  riserbata  ai  teologi,  era  abitualmente 
sostituito  un  "  pileum  „  (quindi  un  "  berrettino  „),  più  o  meno  rassomigliante 
al  berretto  rotondo,  ancora  usato  in  speciali  circostanze  dai  dottori  delle  stesse 
facoltà  ad  Oxford  ed  a  Cambridge.  (Op.  cit.,  p.  642.). 

Intorno  al  significato  simbolico  del  "  birretum  „  rinvengonsi  in  un  documento 
padovano  del  1392  queste  dilucidazioni:  "  Hiis  biretum  addicitur,  quod  pil- 
"  leolum  b.  pater  Geronimus  nominavit,  testura  breve,  latissimum  caritate 
(cf.  S.  HiERON.  Ep.  LXXXV,  n.  6),  quod  iure  capiti  sopponitur,  quoniam,  te- 
stante Apostolo  (S.  Paul.  Ep.  ad  Eph.  III,  19),  "  eminere  scientiam  scientie 
"  caritatcm  „  (sic!  leggi:  "  eminere  decet  scientie  caritatem  „?)  Cf.  Gloria, 
/  ttiomtnt.  padov.,  1318-1^05  v.  II,  p.  267,  n.  1838.  In  un  diploma  fiorentino,  di  al- 
quanti anni  più  tardo  (M33),  s'asserisce  poi  che  il  conferimento  del  "  birretum  „ 
avviene  "  in  signum  gloriae  et  coronae  lustitiae  „  ;  Gher.xrdf,  Statuii,  par.  II,  p.  439, 
n.  CLXXXI.  In  un  terzo  perugino,  del  1482,  modellato  però  sovra  un  esemplare 
molto  antico,  il  berretto,  tolto  dal  sacro  altare,  dee  ornar  il  capo  del  nuovo  dot- 
tore "  ad  gloriam  et  laudem  magni  Dei  „;  M.  Morici,  Un  diploma  di  laurea  in 
medie,  dell'  Univ.  di  Perugia,  Firenze,    1899,  p.   11. 

(=>»)  Farad.  I,  28-33. 

(*')  "  Hoc  nempe  poeticum  decus  aetate  nostra,  quod  dolenter  referimus, 
«  incertum  qua  seu  ingeniorum  tarditate,  sed  temporum  malitia  usque  adeo 
"  oblitum  esse  videmus,  ut  etiam    quid    per    ipsum    poetae    nomen    importetur, 

"  pene  incognitum  nostris  hominibus    habeatur Sane    autcm  poetas    egregios 

"  in  morem  triumphantium  accepimus  in  Capitolio  coronari,  usque  adeo  et  in 
"  desuetudinem  nobis  abiit  illa  solemnitas,  ut  iam  a  mille  trecentis  annis  nullum 
"  ibi  legamus  tali  honore  decoratum  „.  Di  questo  notabile  documento,  più  volte 
messo  a  stampa  (  cf.  Hortis,  Scritti  ined.  di  F.  Fetr.,  Trieste,  1874,  p.  8  sgg.), 
non  possediamo  però  un'edizione  critica.  Io  mi  son  valso  della  riproduzione  fat- 
tane dal  Renazzi,  op.  cit.,  v.  I,  p.  263  sgg.,  n.  XXVII,  che  non  è  né  migliore 
né  peggiore  di  quelle  ricordate  dal  Hortis. 

(-*)  Vita  di  D.,  1.  cit.  Anche  Zanobi  da  Strada  nell'  orazione  da  lui  composta 
in  occasione  della  sua  laurea,  dice  a  Carlo  IV  lo  stesso,  per  proprio  conto: 
"  Nam  hoc  tempore,  cum  pene  (in)  totum  lapsa  huius  studii  a  tot  ante  saeculis 
"  cura  esset,  tu  et  in  hoc  homuncione  praecipue  decus  poetici  honoris  exsu- 
"  scitas  „;  Ved.  A.  Wesselofsky,  Boccaccio,  Pietroburgo,  1894,  v.  II,  p.  659. 


—  I04  — 

(^*)  Mi'iii.  ini.  ai  podi  laureati  d'ogni  tempo  e  d'ogni  nazione,   Milano,    1839. 

('*)  Cf.  Par.  Il,  cap.  I,  Poeti  laur.  nei  sec.  XIII  e  XIV,  p.  8a  sgg. 

<?'')  Scriptor.  illnstr.  iiiaiot:  Britanniae ...  Catalog.,  liasileae,  MDLVII,  Cent.  I\', 

P-  369- 

(*■")  Ct".  Tu.  \V.\RTON,  The  liisl.  of  English  Poctiy  ftoin  the  dose  of  the  elev. 
tó  the  conimene,  of  the  eighleenth  cent.,  London,  182^,  v.  II,  p.  .^41  sgg.  (L'edi- 
zione del   1840  non  m' è  slata  accessibile). 

(^")  Per  la  vita  e  le  opere  del  Baston,  oltreché  il  libro  testé  citato  del  Baie 
e  quello  del  PiTS,  Relation,  histoiic.  de  rebus  anglic.,  Parisiis,  1609:  v.  anche  il 
Wartox.  op.  cit.,  V.  II,  p.  64,  al  quale  il  Lancetti,  op.  cit.,  p.  89,  muove,  non 
so  come,  l'infondata  accusa  d'averne  del  tutto  taciuto. 

('*')  Se  il  Baston,  come  affermasi,  segui  davvero  Edoardo  I  in  Scozia,  col- 
r  incarico  di  cantarne  le  gesta,  egli  ha  qualche  diritto  d"  essere  considerato  come 
un  poeta  di  corte,  e  quindi  di  venire  riaccostato  "  idealmente  „  a  quegli  ufficiali 
della  casa  reale  d'Inghilterra,  che,  più  tardi,  assunsero  il  titolo  di  poeti  laureati. 
Ma  d'altro  canto  chiamare  cosi  il  carmelitano  non  è  lecito,  giacché,  prima  di  John 
Ka\-,  fiorito  ai  giorni  d'Edoardo  IV  (1472-1483),  niuno  tra  i  poeti  di  corte  nella 
Gran  Brettagna,  ove  diasi  fede  al  Warton  (op.  e  loc.  cit.,  p.  440),  assunse  siffatta 
denominazione.  Del  resto,  quand'  anche  si  riuscisse  a  stabilire,  contro  l' avviso 
dell"  erudito  or  citato,  che  alla  corte  inglese  i  versificatori  stipendiati  dal  sovrano 
anche  prima  del  Kay  furono  detti  "  poeti  laureati  „,  sapendo  noi  che  questo 
titolo  non  altro  indicava  allora  in  Inghilterra  che  un  "  graduated  rhetorician  „ 
(Wartox,  op.  e  loc.  cit.,  p.  443),  non  risulterebbe  da  ciò  confermata  la  pre- 
tesa del  Lancetti  di  annoverare  tra  i  colleghi  del  Petrarca  anche  Roberto 
Baston. 

{")  Cf  Hist.  littér.  de  la  France,  to.  XX,  p.  675  sgg. 

(^')  Per  i  Puis  in  genere  v.  Paris,  La  littér.  franf.  au  m.  a.,"  §  127.  Sopra 
quello  d'  Arras,  uno  dei  più  celebri,  e  sulla  poetica  sovranità  eh'  esso  conferiva 
ai  trovieri,  cf.  adesso  H.  Guy,  Essai  sur  la  vie  et  les  oeuvres  littér.  du  trouvere 
Adan  de  le  Halle,  Paris,   1898,  Introd.,  p.  XXXII  sgg.,  e  specialmente  L  sgg. 

Per  r  istituzione  analoga  di  Valenciennes  veggasi  poi  il  vecchio  e  raro  libro 
di  G.  A.  J.  Hécart,  Serventois  et  sottes  Chans.  couronnés  à  Valenc.  tirés  des 
mss.  de  la  Bibl.  du  Roi  ',  Paris,  Mercklein,  1834. 

(")  B.  ToMM.  da  Celano  Lm  vita  seconda...  di  S.  Fr.  d'  Assisi,  ed.  L.  Amoni, 
Roma,  1880,  p.  158,  cap.  XLIX.  —  Tiraboschi,  Star,  della  leti,  ital.,  Milano, 
MDCCCXXIII,  to.  IV,  lib.  Ili,  p.  577  sgg.;  Ginguené,  Hiit.  liti,  d' Italie,  Milan, 
MDCCCXX,  to.  I,  p.  315. 

('*)  Citerò  per  tutti  colui,  al  quale  il  Lanxetti,  op.  cit.,  p.  84,  dà  il  vanto  d'  avere 
chiarito  cosi  tutto  quanto  concerne  a  fra  Pacifico,  da  "  togliere  ogni  avanzo  di  dubbio 
"  alla  più  severa  e  incontentabile  critica  „,  vale  a  dire  G.  Carbone  Cantai.a- 
MESSA,  autore  delle  Meni.  int.  i  Letter.  e  gli  Artisti  della  città  di  Ascoli  nel  Piceno, 
Ascoli,  MDCCCXXX,  p.  23  sgg.  In  realtà  invece  lo  scrittore  ascolano  s'è  limi- 
tato a  far  proprie  tutte  le  asserzioni  gratuite  e  le  strampalate  ipotesi  dal  p.  G.  A. 
da  Mendrisio,  dall' Appiani,  dal  Panelli  accumulate  intorno  al  compagno  di 
S.  Francesco;  l'origine,  la  famiglia,  le  vicende  del  quale,  prima  del  suo  ingresso 


—  I05  — 

nell'ordine  minoritico,  rimangono  tuttora  ravvolte  dal  pili  fitto  mistero.  Nuli' altro 
che  una  falsificazione  sono  anche  i  versi  volgari  attribuitigli;  cf.  Gaspakv,  op. 
eit.,  V.  I,  p.  123  e  432.  —  Una  copiosa  bibliografia  su  Fra  Pacifico  in  Sauatieh, 
Speciilu»!  perfectionis,  Paris,  1898,  cap.  59,  p.   108. 

('^)  Cf.  quanto  osserva  in  proposito  il  TiRABosciit,  op.  cit.,  Ice.  cit.,  p.  578,  n.  a. 

(")  Cf.  Tho.mae  Tl'sci,  Gesta  iuiper.  et  ponti/,  in  Man.  Geriii.  Ilist.,  .Script., 
XXII,  e.  492. 

(")  Questo  era  stato  già  ben  veduto  dall' antico  volgarizzatore  della  Vita 
di  S.  Francesco  scritta  da  S.  Bonaventura,  il  quale  chiama  Fra  Pacifico  "  uno 
"  grande  dicitore  in  rima,  el  quale  pello  suo  trovare  bellissimo....  era  chia- 
"  mato  re  di  versi  e  di  canzone  „:  cf.  Misceli.  Frane,  v.  II,  1887,  e.  158.  Ed 
altrettanto  hanno  ripetuto  1'  Affò,  Vision.  Pi-ec.  della  poesia  volg.,  Milano,  I82^, 
p.  65,  ed  il  TiRABOSCHi,  op.  cit.,  loc.  cit.  Siccome  però,  se  diamo  retta  alle  pa- 
role degli  scrittori  francescani  più  antichi.  Fra  Pacifico  fu  eccellente  nella  musica 
(  lo  Specnl.  perfect.  lo  dice,  non  una  sola  volta,  "  nobilis  et  curialis  doctor  can- 
"  torum  „):  cosi  io  non  ho  difficoltà  a  credere  che,  dopo  la  sua  rinunzia  alle  va- 
nità'mondane,  abbia  composti  e  musicati,  come  Fra  Enrico  da  Pisa,  canti  ascetici, 
sequenze,  laudi  ecc.,  anche  in  latino. 

(^')  "  Inter  quos  quidam  saecularium  cantionuni  curiosus  inventor,  qui  ab 
"  imperatore  propter  hoc  fuerat  coronatus  et  exinde  rex  versuum  dictus.  „ 
S.  BoNAVExruRAE  Vita  b.  Fr.  in  Ada  Sanct.  Octobris,  Antverpiae,  MDCCLXVIII, 
to.  II,  e.  752,  §  50. 

(")  Chi  obbiettasse  che  anche  Federigo  II  amò  poetare  in  volgare,  mostre- 
rebbe di  non  sapere  quale  concetto  s' avesse  a  quel  tempo  delle  virtù  caval- 
leresche, onde  un  principe  doveva  essere  adorno.  Colla  musica  e  colle  amorose 
canzoni  s'acquistava  grido  d'uomo  "  cortese  „,  non  si  saliva  al  Parnaso!  Ora 
"  messere  lo  imperadore  „,  eh'  era  "  loico  e  cherico  grande  „,  come  Dante  il 
dice,  sapeva  questo  meglio  di  chicchessia. 

(*")  Cf.  RocKiNGER,  Bri>/stell.  u.  Fornielbiich.  des  XI  bis  XIV  jahrh.,  Mun- 
chen,  1863,  I,  174.  Che  nel  1226  lo  stesso  libro  fosse  di  nuovo  "  letto  ed  appro- 
"  vato  „  nella  cattedrale  padovana,  come  afferma  B.  Colfi,  Di  un  aniichiss.  coniiii. 
all'  Ecer.  di  A.  M.  in  Rassegna  Emiliana,  Modena,  1889,  a.  II,  p.  625,  non  mi 
par  lecito  desumere  dalle  parole  dell' A.,  il  quale,  distinguendo  il  tempo  della 
lettura  e  della  coronazione,  "  tempus  recitacionis,  „  cioè  il  1215,  da  quello  della 
pubblicazione,  "  tempus  dacionis  „,  cioè  il  1226,  sembra  voler  alludere  a  due 
cerimonie  del  tutto  diverse.  Trattandosi  del  resto  d'uno  spirito  cosi  bizzarro 
come  fu  Boncompagno,  rimane  sempre  il  sospetto  eh'  egli  ci  voglia  giocare 
qualche  tiro.  La  corona  d'alloro  al  proprio  libro  potrebb' averla  imposta  quindi 
ci  medesimo,  in  conformità  a  quanto  dice  nel  dialogo  tra  lui  e  l'opera  stessa: 
"  Demum  ad  conferendum  perpetuum  robur  institucioni  iam  facte  super  caput 
"  tuum  laureatam  pono  coronam  „.  Op.  cit.,  p.  131.  Certa  cosa  è  infatti  che  di 
libri  solennemente  approvati  serbiamo  molti  ricordi,  di  libri  "  laureati  „,  questo 
solo. 

(")  Cf.  Colfi,  op.  cit.,  p.  624  sgg.,  il  quale,  a  proposito  dell'approvazione 
pubblica  data  dal  collegio  degli  Artisti  di  Padova  al    commento  di    Guicciardo    e 


—  io6  — 

Castellano,  opportunamente  rammenta  come  nel  sec.  XII  t.ilc  onoranza,  oltreché 
al  Bouco>ìif>agHHS  del  dettatore  da  Signa,  sia  toccata  piiranco  alle  Croniche  di 
Rolandino  (13  Aprile  1262).  A  queste  notizie,  spettanti  a  Padova,  si  può  ag- 
giungerne  un'  altra,  da  cui  rilevasi  come  la  consuetudine  vigesse  anche  oltre- 
monti: nello  Studio  parigino  infatti,  tra  il  1298  ed  il  1302,  la  Rhctorìca  dictaminis 
di  maestro  Lorenzo  d' Aquileia  nor^  solo  meritò  "  solempnis  recitationis  gloria 
*  decorar!  „,  ma,  come  attesta  il  suo  autore,  venne  poi  anche  "  solempniter  ap- 
"  probata  „.  Cf.  L'influsso  del  peiis.  lai.,  "  ecc.,  p.  254. 

(*')  V.  le  CongeUiire  di  utt  Socio  Etrusco  (M.  Maccioni)  sopra  una  carta 
papir.  dell'  Arch.  Diploin.  di  S.  A.  R.  il  Ser.  Pietro  Leop.  Arcid.  d'  Austria  Grand, 
di  Tose,  ecc.,  con  la  prefazione  dell'Editore  (Ferd.  Fossi),  Firenze,  MDCCLXXXI, 
p.  XXIII  sgg. 

Di  Niccolò  di  Giunta  nulla  sappiamo;  ma  vien  fatto  di  pensare  eh' egli  possa 
aver  avuto  qualche  rapporto  col  concittadino  e  coetaneo  suo  Tommaso  di  Giunta, 
mediocre  rimatore,  che  uno  de' suoi  sonetti  indirizza  per  l'appunto  ad  un  Nic- 
colò. Cf.  Renier,  Sonetti  ined.  di  Tonini,  di  Giitutn  e  d'  alivi  rimatori  del  sec.  XIV, 
Ancona,   1883,  Nozze  Scipioni-Ferri,  p.    15. 

(*')  Cf.  TiRABOScnr,  op.  cit.,  to.  V,  par.  II,  p.  881,  il  quale  non  die  prova 
tuttavia  del  suo  consueto  acume,  quando  propose  d' identificare  Bono  con  quel- 
r  amico  e  corrispondente  di  Lovato  e  d'Albertino,  eh' ei  chiama  erroneamente 
"  Bonatino  „,  mentre  si  tratta  invece  di  Bovetino  de'  Bovetini  da  Mantova,  pro- 
fessore di  decreti  e  canonico  della  cattedrale  di  Padova:  cf.  L.  P[adrin],  Lu- 
pati  de  Lupatis,  Bov.  de  Bovetinis...  Carmina  quaed.,  Padova,  1887,  p.  56.  Il  Padrin 
stesso,  d'altronde,  si  è  fuorviato  completamente,  tentando  di  far  una  sola  persona 
di  Bono  e  di  quel  Paolo  de'  Boni,  cambista  padovano,  detto  "  poeta  „,  del  quale 
il  nome  ricorre  in  documenti  del  tempo.  Se  qualcosa  intorno  a  Bono  si  sa  di 
sicuro  è  che  fu  per  origine  bergamasco!: 

Nunc  quoniam  numerare  labor  quot  Cymbria  nuper, 
Saecula  Pergameum  viderunt  nostra  poetam, 
Cui  rigidos  strinxit  laurus  Paduana  capillos, 
Nomine  requc  bonus: 

cantò  il  Petrarca  nell'epistola  diretta  forse  a  Bruzzo  Visconti  (Carni,  lib.  II,  xi); 
e  questi  tre  versi,  come  ognuno  sa,  sono  l' unica  testimonianza  dell'  esistenza 
d'  un  Bono,  che  ottenne  a  Padova  1'  alloro  di  poeta. 

(**)  Questa  data  è  stata  testé  collocata  fuor  d'ogni  incertezza  dal  Padrin, 
Ecerinide,  Introd.,  p.  X. 

(*')  Cf.  U.  Marchesint,  Docum.  ined.  su  A.  M.  in  Propugnatore,  N.  .S.,  v.  I, 
par.  II,  1888,  p.  396  sgg.  Intorno  al  Mussato  in  quest'ultimi  quindici  anni  molto, 
fors' anche  troppo,  si  è  scritto  e  da  molti;  ma  una  biografia  degna  di  lui  manca 
tuttora,  né  prima  ch'escano  in  luce  tutte  le  opere  sue,  cosi  edite  che  inedite,  resti- 
tuite da  una  critica  sagace  all'  integrità  primitiva,  sarà  il  caso  di  pensare  a  dettarla. 

(■"'')  Ma  pochi  si  sono  proposti  il  quesito  che  nel  testo  s' accenna  ;  tra  gli 
altri   G.  Zanella,  A.  M.  o  delle  guerre  fra  Padov.  e  Vicent.  al  tempo   di   Dante, 


—  I07  — 

in  Scrìtti  vari,  Firenze,  1877,  p.  394  sgg.  ),  il  quale  inclina  a  rispondere  affermati- 
vamente (op.  cit.,  p.  412,  416  )  ;  ed  ora  anche  il  CARDUCct,  Della  Ecerinide  e  di  A.  M., 
in  Padrin,  op.  cit.,  p.  281,  che  in  quella  vece  non  si  pronunzia.  K  dilatti  proba- 
bile è  che  Dante  si  sia  recato  prima  o  poi  a  Padova;  probabile  pure  ch'egli 
.^bbia  in  qualchcduna  delle  città  surricordate  venerala  la  maestà  d'Arrigo;  ma 
come  darne  le  prove?  Cf.  B.\rtoli,  op.  cit.,  v.  V,  p.  232  sgg.;    Kraus,    op.    cit. 

P-  77- 

(*')  Cr.  Epist.  II,  /;/  landcni  D.  Ilciirici  inip.  in  Op.  cit.,  e.  36,  dove  tra  altro 
ei  scrive: 

Gratia  multa  tibi  prò  me,  mitissime  Caesar, 

Accedant  animae  praemia  digna  tuae, 
Quod  tibi  cis  Alpes    non    me    dilectior    alter, 

Carior    aut    nostra    sub    regione  fuit. 
Tu  mihi  munificus  supra  quaesita  fuisti; 

Solus  ab  imperio  prodiga  dona  tuli. 

Quali  siano  stati  questi  "  doni  eccessivi  „  egli  spiega  poi  largamente  nel 
trattato  inedito  intitolato  Liber  de  lite  fortimae  et  natiirae,  che  si  legge  nel  cod. 
ms.  5.  I.  5.  della  Colombina  di  Siviglia,  e.  31  a  sgg.  E  cf.  anche  De gestis  Italie, 
lib.  IV,  rubr.  II,  in  Muratori,  R.  I.  S.  to.  X,  e.  618  sg. 

{**}  Dante,  Cohv.  \,  iii,  ed.  Moore,  p.  240. 

[*'')  Couv.  ibid. 

e*')  loH.  DE  ViRG.  Ed.  resp.  88.  E  cf.  Giorn.  stor.  della  leti,  it.,  XXII,  354  sgg. 

C')  loH.  DE  ViRG.  Elei.  ad.  A.  M.  in  Bandini,  op.  e  Ice.  cit.,  e.  11. 

(")  È  quella  pubblicata  come  la  IV  in  Op.  cit.  e.  40. 

('')  Non  basta  stare  in  guardia  e  porre  in  guardia  i  lettori  contro  "  1'  amore 
"  d'Albertino  per  le  frasi  eleganti  ed  i  sonori  emistichi,  „  e  contro  le  amplifi- 
cazioni di  cui  si  sono  compiaciuti  i  di  lui  biografi,  come  ha  fatto  il  Golfi,  op. 
cit.,  p.  627,  al  quale  appunto  alludiamo.  Conviene  altresì  cercar  d' intendere  a 
dovere  le  parole  del  Mussato,  e  non  già  accontentarsi  d'asserire,  quand'appa- 
iano oscure  o  difficili,  che  il  poeta  giovasi  di  frasi  fatte,  anche  quando  non 
"  esprimano  esattamente  il  suo  concetto.  „  Se  il  Colfi  si  fosse  regolato  in  cotal 
modo,  la  ricostruzione  da  lui  tentata  della  festa  padovana  del  1315,  la  quale,  in 
omaggio  al  vero,  pur  cosi  com'è,  segna  un  notabile  progresso  sovra  le  antece- 
denti, sarebbe  andata  immune  dai  non  pochi  e  non  lievi  errori,  ond' è  ora  gua- 
stata. Il  critico  non  avrebbe  innanzi  tutto  persistito  nella  comune  ma  fallace 
opinione  che  le  due  epistole  del  Mussato,  numerate,  a  dispetto  della  cronologia, 
come  I  e  IV,  siano  destinate  a  descrivere  una  sola  e  medesima  cerimonia,  a 
brev'  intervallo  di  tempo  ripetuta;  ma  sarebbesi  facilmente  avveduto  come  nel 
primo  carme  (il  IV  in  Opera,  e.  40)  Albertino  lumeggi  in  tutti  i  particolari  che 
la  distinsero,  la  propria  laurea;  nell'altro  (il  I)  si  piaccia  ragguagliarci  intorno 
alle  peculiarità,  ond'  andava  caratterizzata  la  novella  solennità,  che,  a  perpetuo 
ricordo  della  laurea  da  lui  conseguita,  il  comune  di  Padova  aveva  deliberato  si 
celebrasse  tutti  gli  anni  ad  epoca  determinata.  Ove  poi  egli    si    fosse  dato  briga 


—  io8  - 

di  ricercare  come  ai  di  del  Mussato  funzionassero  le  scuole  superiori,  e  non 
avesse  quindi  ignorato  che  col  titolo  di  Collrgiiiiit  Aiiislanmi  s'indicava  unica- 
mente in  Piidova  sugli  inizi  del  sec.  XIV  il  collegio  dei  Dottori  artisti,  cioè 
medici,  filosofi,  e  grammatici,  dodici  di  numero  e  retti  da  un  Priore  (  et".  Glokia, 
/  nioii.  cit.,  p.  375  sg.  ),  il  Golfi  si  sarebbe  certamente  ben  guardato  dal  definire 
quel  corpo  a  cui  il  Mussato  andò  debitore  della  laurea,  come  il  "  collegio  dei 
*  letterati  (!)  di  Padova,  che  contava  fra  i  suoi  membri  più  autorevoli  i  dottori 
"  dello  Studio  „:  op.  cit,,  p.  623,  625,  ecc.  —  Ancora:  se  delle  consuetudini 
inerenti  al  convento  avesse  maggiori  notizie  posseduto,  avvedendosi  come  dai 
novelli  dottori  si  facesse  sempre  distribuzióne  di  guanti  di  capretto  ai  dottori 
che  li  avevano  esaminati  e  promossi,  e  ciò  in  obbedienza  agli  statuti  universitari 
(  cf.  Gloui.-\,  op.  cit.,  p.  .13^  ;  R.\shdall,  op.  cit.,  v.  I,  p.  231  ),  non  avrebbe  più 
definito  come  un  "  particolare  aggiunto  dalla  fantasia  del  poeta  „  l' espresso 
accenno  che  Albertino  fa  all'obbligo  incombente  al  Priore  del  collegio  d'offe- 
rirgli annualmente  un  paio  di  guanti  di  capretto:  Oi  iiabitque  inanus  ttostras  de 
tegniiiie  caprae.  E  se  finalmente  non  si  fosse  messo  in  capo  che  il  Mussato  ado- 
perava frasi  fatte  "  anche  quando  non  esprimevano  esattamente  il  suo  concetto  „, 
non  sarebbesi  indotto  ad  affermare  che  il  distico: 

Doctorum  series,  Studii  reverentia  nostri, 
Signavit  titulis  singula    gesta  suis, 

significar  voglia  che,  dopo  la  lettura  dell'  Ecerinide,  "  i  principali  dottori  dello 
"  Studio  apposero  il  loro  nome  alle  opere  di  Albertino  „  (op.  cit.  p.  626-27); 
ma  non  avrebbe  esitato  a  rilevarne  il  vero  senso:  che  i  dottori  presenti  cioè 
sottoscrissero  il  diploma  di  laurea  in  cui  per  ordine  era  descritto  tutto  quanto 
aveva  avuto  luogo  (singula  gesia). 

Parecchie  altre  osservazioni  potremmo  muovere  al  Golfi.  Ma  basti  quanto 
s'  è  detto  a  dimostrargli  che  per  far  della  vera  critica  storica  non  basta  intessere 
alquante  paginette 

Di  più,  di  poi,  di  ma,  di  se,  di  forsi, 
Di  pur,  di  assai  parole  senza  effetti. 

(")  Giò  risulta  nitidamente  dalle  parole  di  Giovanni  da  Naone:  cf.  P.\drin, 
Ecennide,  p.  XIV. 

(")  Gf.  Efiisi.  cit.,  v.    18-21: 

Utque  die  sacra  nulla  sub  lite  vacavit, 

lustitiae  teniiit  curia  nulla  patres; 
Nec  fora  nostra  dabant  ullas  venalia  merces, 

Artifices  operas  dcstituere  suas. 

Anche  da  questi  versi  il  Golfi  (op.  cit.,  p.  627  sg.)  cava  argomento  per  accusare 
il  Mussato  d' aver  voluto  far  credere    che    perfin    la    plebe    comprendesse  e    gu- 


—   I09  — 

stassc  la  sua  tragedia!  Ma  che  c'entra  qui  la  tragedia?  Il  poeta  narra  semplice- 
mente che  tutti,  nobili  ed  ignobili,  ricchi  e  poveri,  dotti  ed  ignoranti,  accorsero  a 
vederlo  coronare  poeta!  Che  vi  può  essere  di  più  naturale  di  ciò? 

(*°)  Che  la  festa  siasi  celebrata  "  in  palazzo  „,  e  non  già  nel  pubblico  Studio, 
come  altri  pensò,  dimostra  la  deliberazione  del  collegio  dei  giudici  d'intervenirvi, 
presa  il  di  innanzi  e  fatta  conoscere  dal  Padrin,  op.  cit.,  p.  X. 

C"")  Alla  parte  presa  dal  vescovo  all'  incoronazion  sua  accenna  il  Mussato 
con  due  parole  sole:  Annuii  antistes.  E  di  qui  poco  si  può  cavare  davvero;  sicché, 
ove  altri  inclinasse  a  credere  che  la  corona,  consenziente  il  prelato,  fosse  im- 
posta al  poeta  dal  Priore  del  collegio  degli  Artisti  forse  sarebbe  nel  vero. 

{'")  L' intervento  di  Alberto  di  Sassonia,  allora  rettore  dello  Studio,  è  signi- 
ficato poi  cosi  dal  Mussato  :  plausit  praeconia  Saxo.  E  se  pensiamo  al  valore 
della  frase  facere  o  perageie  praeconia,  usata  dai  buoni  scrittori  latini,  non  po- 
trem  intendere  se  non  questo:  che  il  Rettore  pronunziò  un  panegirico  del 
laureato.  Egli  avrebbe  dunque  fatto  in  tale  occasione  quanto  nei  conventi,  nelle 
promozioni  dottorali  soleva  far  a  Bologna  l' arcidiacono  o  il  dottore  che  ne  te- 
neva le  veci:  cf.  Savignv,  op.  cit.,  v.  Ili,  p.  195. 

(''■')  Cf.  Padrin,  op.  cit.,  p.  XII. 

e")  Cf.  La  civilisat.  en  Italie  aii  tenips  de  la  Retiaiss.,  trad.  .Schmidt,  Paris, 
1885,  to.  I,  p.  254  sgg.  Mi  duole  non  aver  ancora  alle  mani  la  nuova  edizione  del 
testo  tedesco  curata  dal  Geiger. 

C"')  Taluno,  il  quale  abbia  notato  come,  se  non  in  Italia,  certo  oltremonti 
siasi  conferito  durante  l'età  di  mezzo  il  titolo  à'  Archipoeta  a  parecchi  cultori 
della  poesia,  potrebbe  per  avventura  concepir  il  sospetto  che  cotale  denomina- 
zione fosse  adoperata  allora  per  distinguere  i  poeti  "  dotti  „,  forse  i  laureati,  dai 
verseggiatori  "  volgari.  „  Ora  son  qui  ad  avvertire  più  cose.  Che  al  pari  di 
quello  di  "  re  „,  il  nome  d' Archipoeta  abbia  servito  a  denotare  la  supremazia 
conferita  per  volontà  d'  un  principe  ad  un  troviero  sopra  gli  altri  menestrelli  e 
giullari  non  può  parer  dubbio,  ove  s"  attenda  a  ciò  che  scrivono  sul  conto  del 
versificatore  normanno  Enrico  d'Avranches,  vissuto  alla  corte  d'Enrico  III  d'In- 
ghilterra (1207-1272),  il  Warton,  op.  cit.,  V.  I,  p.  50,  ed  il  Michel,  La  Chans.de 
Rol.  et  le  Roni.  de  Roncevaii.x,  Paris,  1869,  Préf,  p.  XXV  sgg.  In  pari  tempo  però 
non  è  lecito  negare  che  lo  stesso  titolo  d'  Archipoeta  abbia  servito  altrove,  prima 
e  poi,  a  segnalare  1'  eccezional  valore  artistico  raggiunto  da  chi  ne  veniva  insignito, 
e  che,  quindi,  siasi  attribuito  anche  a  scrittori  non  volgari,  ma  latini,  quali  turono  e 
r  anonimo  goliardo  tedesco  che  celebrò  in  ritmi  famosi  le  imprese  del  Barbarossa 
in  Germania  ed  in  Italia,  dove  scese  in  compagnia  di  Rinaldo  di  Dassel,  arcive- 
scovo di  Colonia  e  cancelliere  imperiale  (cf.  Wattenkach,  Dciitschl.  Gcschichts- 
qiiellen  *■,  v.  II,  p.  474  sg.  ),  e  l'altro  "  vagus  clericus...  "  Nicolaus  nomine,  quem 
"  vocant  Archipoetam  „,  di  cui  circa  il  1220  parla  Cesario  di  Heisterbach  (  cf. 
Reumont  in  Ardi.  Star.  Hai,  Ser.  I,  1849,  App.,  to.  VII,  p.  509  ?g.).  A  nessuno  però 
sfuggirà  il  significato  singolare  di  questo  fatto:  che  il  medesimo  onorifico  titolo 
sia  stato  in  Germania  tra  il  sec.  XII  ed  il  XIII  concesso  a  due  poeti,  non  appartenenti 
già  alla  classe  autorevole  dei  dotti,  bensì  alla  disgraziata  casta  de'  "  vaganti  „; 
a  due  versificatori,  che  usavano  si  il  latino,  ma  se  n'  avvalevano  unicamente  per 


dettare  componimenti  d'un  genere  ibrido,  ignoto  all'antichità,  oscillante  tra  lo 
scolastico  ed  il  giullaresco,  e  che  nessuno  considerava  né  molto  nobile,  né  molto 
serio:  in  una  parola,  de' componimenti  ritmici.  Tant' è  vero  questo,  che  il  go- 
liardo protetto  dal  cancelliere  imperiale,  ove  gli  appartenga  realmente  la  Con- 
fcssio  notissima,  avrebbe  in  codesto  suo  capolavoro  additata  nettamente  egli 
stesso  la  distanza  che  separava  lui,  trutanno,  che  scriveva  senza  studio,  secondo 
r  ispirazione  del  momento,  dai  chierici  solenni,  tutti  intenti  ad  imitare  i  classici, 
per  creare  opere  imperiture  (Cnriii.  Bui:,  p.  69,  str.   15,17): 

leiunant  et  abstinent  Mihi  nunquam  spiritus 

poetarum  chori:  poetriae  datur 

vitant  rixas   publicas  nisi  prius  fuerit 

et  tumultus  fori:  venter  bene  salur; 

et,  ut  opus  faciant,  cum  in  arce  cerebri 

quod  non  possit  mori,  Rachus  dominatur, 

moriuntur  studio,  in    me  Phoebus  irruit 

subditi  labori.  et  miranda  fatur. 

Non  mi  par  dunque  di  sbagliare  affermando  che  al  titolo  é'  Are  Inpoeta  siasi 
sempre  nell'  età  medievale  accoppiato  un  certo  non  so  che  di  giocoso,  di  giulla- 
resco, che  avrebbe  trattenuto  gli  uomini  d' allora  dal  servirsene  per  esaltare 
(poniamo)  Gualtiero  di  Chàtillon  o  Alano  da  Lilla.  E  di  qui  si  potrebbe  cavare 
anche  modo  a  meglio  comprendere  come  il  titolo  stesso,  quando  fu  risuscitato 
dal  circolo  di  begli  umori  che  faccano  in  Roma  corona  a  Leone  X,  siasi  usato 
per  burla,  non  per  davvero. 

(•"'-)  Il  veder  che  Dante  designa  poi  con  tanta  precisione  come  luogo  dove 
la  sospirata  festa  dovrebbe  effettuarsi,  il  "  fonte  del  suo  battesmo  „,  suggerisce 
al  Burckhardt  quest'altra  osservazione:  "  Sembra  che  l'Alighieri  abbia  vagheg- 
"  giato  una  festa  per  metà  religiosa.  „  Al  che  vien  voglia  di  chiedere:  E  come 
avrebbe  potuto  fare  diversamente?  Quale  cerimonia,  rassomigliante  a  quella  di 
cui  egli  bramava  divenire  protagonista,  poteva  non  essere  allora  per  metà  reli- 
giosa? Lasciamo  in  disparte  il  Petrarca,  che  spezza  con  meditata  violenza  la 
tradizione  medievale,  e  guardiamoci  invece  dattorno.  Che  vediam  noi?  Vediamo 
dal  sec.  XII  al  XVI  le  promozioni  dottorali  avvenire  tutte  e  dovunque  col  con- 
senso e  coli' intervento  delle  più  alte  dignità  ecclesiastiche  cittadme;  loro  natu- 
rale sede  stimarsi  sempre  e  dapertutto  le  cattedrali;  sicché,  ove  si  contravvenga 
a  tale  consuetudine,  si  bandiscono  a  bella  posta  decreti  per  punire  i  contrav- 
ventori (cf.  Gherardi,  Statuti,  par.  \,  p.  172,  doc.  LXXIII);  ove  proprio  s'esca 
dal  recinto  del  tempio,  la  cerimonia  ha  luogo  però  nel  palazzo  del  vescovo 
(V.  Rashdalt,  op.  cit.,  I,  473;  GnEKARDi,  op.  cit.,  par.  11,  p.  439,  doc.  CLXXXIÌ: 
le  insegne  della  dignità  magistrale,  prima  d' essere  concesse  al  nuovo  dottore, 
sono  collocate  sul  sacro  altare.  Che  più?  Una  cerimonia  maggiormente  vicina 
alla  laurea  che  il  convento  non  sia,  l'approvazione  solenne  d'opere  didattiche 
o  storiche  si  compie  pure  nella  chiesa;  il  Boneompagmis  a  Padova  è  pubblicato 
nella    cattedrale,  presenti  il  vescovo  ed  il  legato  apostolico;    le    Croniche  di  Ko- 


—  Ili   — 

landiiio  sono  approvate  dai  dottori  dello  Studio  patavino  nella  chiesa  di  S.  Ur- 
bano. Quale  meraviglia  che  Dante  si  scorgesse  ncll'  immaginazione  sua  già  co- 
ronato d'  alloro  in  quel  tempio,  eh'  era  1'  orgoglio  di  Firenze  innanzi  che  S.  Maria 
del  Fiore  fosse  sorta;  in  quel  tempio,  dove  egli  stesso  aveva  chi  sa  quante 
volte  veduto,  secondoché  1'  Ottimo  attesta,  onorarsi  gli  "  scienziati  „ ,  quando 
tornavano  da  Bologna? 

e"'*)  Cf.  Savigny,  op.  cit.,  V.  HI,  p.  205  s^.;  Rashdall,  op.  cit.,  v.  I,  p.  225 
sg.;  450;  Gloria,  Mohuiii.  1222-1318,  p.  434. 

("')  Cf.  Savigny,  op.  cit.,  v.  Ili,  p.  205  sgg.,  267  sgg.,  336;  Rashdall,  op. 
cit.,  v.  1,  225,  229;  452,  473;  Gloria,  op.  cit.,  p.  369. 

("'')  Ved.  i  più  antichi  diplomi  dottorali  raccolti  dal  Savigny,  op.  cit.,  v.  Ili, 
app.  VII,  p.  626;  e  particolarmente  quello  dato  ad  un  giudice  bresciano  nel  1277 
dal  vescovo  di  Reggio,  e  l'altro  conferito  in  Bologna  nel  1314  a  Gino  da  Pistoia. 

{"'^)  Renazzi,  op.  cit.  p.  265:  e  cf.  Hgrtis,  Scritti  ined.,  p.  8. 

('"'')  Veggasi  difatti  quale  stretta  relazione,  non  sostanziale  soltanto  ma  for- 
male, interceda  tra  codesta  formola  usata  dal  senator  di  Roma  e  quella,  di  cui 
valevasi  in  ■  Parigi  il  cancelliere  di  S.  Genovieffa  per  creare  i  dottori  in  arti 
(Rashdall,  op.  cit.,  v.  I,  p.  452):  "  Et  ego  auctoritate  apostolorum  Petri  et 
"  Pauli  in  hac  parte  mihi  commissa  do  vobis  licentiam  legendi,  regendi, 
"  disputanti  et  determinandi  ceterosque  actus  scholasticos  seu  magi- 
"  strales  exercendi  in  facultate  artium  Parisiis  et  ubique  ter- 
"   raruin   „.  Cf.  anche  Gloria,  op.  cit.,  p.  436. 

C")  Questo  convincimento  spira,  come  si  sa,  profondissimo  dalle  epistole  del 
Nelli  (  CocHix,  op.  cit.,  ep.  XVII,  p.  234  sg.  )  e  del  Boccaccio  (  Corazzini,  op. 
cit.,  p.  189  sgg.).  Cf.  Burckhardt,  op.  cit.,  v.  I,  p.  255;  Voigt,  Die  Wiederbel., 
V.  I,  p.  455:  HoRTis,  op.  cit.,  p.  8  sgg. 

(''")  Cf.  F.  Petrarcae  Ep.  ad  poster,  in  F.  P.  Epistolae  Fainil.,  ed.  Fracas- 
sctti,  V.  I,  p.  7  sg. 

("")  Suir  incoronazione  di  Zanobi  v.  Hortis,  Studi  sulle  op.  Int.  del  Bocc., 
p.  272  sgg.;  Renier,  Liriche  ed.  e  ined.  di  Fazio  d.  Ub.,  Firenze,  1883,  p.  CCV 
sgg.;  C.  Frati,  Un'  epist.  ined.  di  G.  B.  in  Propugnatore,  N.  .S.^  v.  I,  par.  II,  1888, 
P-  31   sgg.;  Wesselofsky,  Boccaccio,  v.  II,  p.   167   sg. 

Anche  la  cerimonia  pisana,  per  quanto  ne  sappiamo,  riprodusse  con  maggior 
pompa  ma  assai  fedelmente  nell'  insieme  il  tipo  tradizionale  del  convento.  Se 
non  avvenne  in  chiesa,  ebbe  però  luogo  "  super  grados  marmoreos  circum 
"  stringentes  ecclesiam  „  (il  Duomo),  immediatamente  dopo  una  solenne  funzione 
religiosa.  II  sovrano  non  solo  baciò  in  bocca  Zanobi,  ma  dopo  avergli  imposto 
la  laurea  in  capo,  gli  infilò  in  dito  un  anello  : 

semper 
Ante  oculos  mihi  Caesar  erit,  procerumque  corona 
Et  quae  caesareo  venerunt  oscula  ab  ore, 
Annulus  ac  digito  iam  desponsata  poesis. 

Cosi  cantava  lo  Stradino  medesimo  (Frati,  op.  cit.,  p.  50).  Or  chi  ignora  come 
il  bacio  al  neo-dottore  e  1'  apposizione  dell'  anello  al  dito  di  lui,  "  in    signum  de- 


—     I  12     ~ 

"  sponsationis  scientic  „,  fossero  "  insignia  doctoratus  „,  che  non  mancavano 
mai  nei  conventi?  Ved.  Rashdai.i.,  op.  cit.,  v.  I,  p.  229  sg, ;  Gloria,  op.  cit., 
p.  436;  Moli.  1318-1405,  V.  1,  p.   107. 

("')  Non  ci  e  giunto  pur  troppo  né  il  testo  del  privilegio  di  laureare  i  poeti, 
che  ai  Fiorentini  avrebbe  largito  Carlo  IV,  né  alcun  ragguaglio,  dirò  cosi,  uf- 
ficiale ch'esso  abbia  un  tempo  esistito,  giacché  nel  diploma  im]ierinle  del  2  gen- 
naio 1364  (  cf.  Gherardi,  op.  cit.,  par.  I,  p.  139,  doc.  XXIX  )  non  se  ne  tocca 
affatto.  Tuttavia  della  reale  esistenza  sua  non  par  lecito  dubitare.  Coliiccio  Sa- 
lutati già  disteso  sulla  bara,  "  fu  coronato  poeta  per  deliberazione  de' signiori 
"  e  collegi...  per  un'alturità  che  gran  tempo  fa  ebbono  e  Fiorentini  da  Carlo 
"  imperadore  „  :  dice  sotto  1'  a.  1406  il  Priorista  Panciatichiano  112  della  Nazionale 
di  Firenze,  e.  106  n  ;  e  grazie  a  codest'  "  alturità  „,  che  altri  fonti  già  noti  ram- 
mentano, anche  Leonardo  e  Carlo  d'  Arezzo  conseguirono  dopo  morte  la  corona 
d'  alloro. 

Come  mai  nel  sec.  XIV  i  Pratesi  abbiano  dal  canto  loro  potuto  insignir 
della  laurea  Convenevole,  secondoché  attesta  il  Petrarca,  Ep.  Seti.  lib.  X\'I,  i, 
confessiamo  d' ignorare. 

C^)  CocHiN,  op.  e  loc.  cit. 

("')    Cf.    BURCKH.XRDT,    Op.    cit.,    V.    I,    p.    255.  y 

C*)  Per  l'interesse,  tutt' altro  che  tenue,  che  Carlo  IV  mostrò  sempre  verso 
gli  studi  storici  e  letterari,  v.  C.  Hòfi.er,  Die  Zei/  dei-  Lnxciithiirgischen  Kaiser, 
Wien,   1857,  p.  49  sgg. 

("')  Cf  intorno  a  ciò  Bartoli,  op.  cit.,  v.  VII,  p.  38  sgg.  ;  G.vsp.vrv,  op.  cit., 
V-  1/  p-  353.  ecc. 

C')  I.  FiCKER,  Forscìiitiig.  sur  Reiclis-ii.  Reclitsgescìi.  Italieiis,  Innsbruck,  1869, 
V.  II,  p.  107,  §  263. 

('')   Cf  S.wiG.VY,  op.  cit.,  V.  Ili,  p.  304;  Rashdall,  op.  cit.,  V.  II,  par.  I,  p.  25. 

[''■)  Ved.  il  caso  di  Iacopo  da  Belvisio,  reputato  dottore  del  sec.  XllI,  come 
ci  vien  narrato  dal  S.wigxy,  op.  cit.,  v.  Ili,  p.  305. 

("")  Quanto  di  schiettamente  medievale  nella  sostanza  non  men  che  nella 
forma  conserva  ancora  la  cerimonia  capitolina,  malgrado  i  tentativi  fatti  dal 
Petrarca  per  ricondurla  alle  classiche  tradizioni!  Né  egli  né  i  suoi  promotori 
seppero  o  ardirono  in  realtà  allontanarsi  dalle  più  tra  le  consuetudini,  delle 
quali  l'età  loro  soleva  esigere  l'osservanza;  sicché  tutto  fini  per  passare  nel 
modo  consueto.  Il  Petrarca  si  sottopose  prima,  spontaneamente,  ad  esami  al- 
trettanto severi  quant'  erano  quelli  "  tremendi  e  rigorosi  „,  attraverso  i  quali 
giungevasi  negli  .Studi  al  magistero;  poscia  munito  del  "  regio  testimonio  „, 
chiese  ai  magistrati  di  Roma  (chiese,  si  badi  bene,  giacché  contro  l'asserto  che 
la  corona  gli  fosse  dai  Romani  stessi  offerta  parla  chiaro  il  privilegio  di  laurea); 
di  poter  conseguire  in  Campidoglio  l'onorificenza  bramata.  Fu  esaudito;  ma  la 
cerimonia  doveva  essere  presieduta  da  un  rappresentante  del  re  Roberto;  e' 
sol  quando  risultò  manifesta  l' impossibilità  che  codest'  inviato  giungesse  in 
tempo,  il  .Senatore  di  Roma  deliberò  d'incoronare  di  sua  mano  il  poeta,  dichia- 
rando tuttavia  di  farlo  "  auctoritate  praefati  domini  Regis  „  (significantissima 
per  noi  siffatta  precedenza  assegnata  a   Roberto);    e,    quindi,    del    senato    e    del 


—  113  — 

popolo  romano.  Insiem  colla  laurea  il  Petrarca  fu  insignito  della  "  potestas 
"  ubique  legendi  „,  già  da  noi  dichiarata,  e  di  tutti  i  privilegi,  immunità  ed 
onori,  "  quibus  hic  vcl  ubique  terrarum  uti  possunt  vel  posse  sunt  soliti  libe- 
"  ralium  et  honestarum  artium  professores  „.  E  questa  è,  insomma,  e  1'  ha  ve- 
duto anche  Hortis,  op.  cit.  p.  12,  una  *  promozione  „  magistrale  in  piena  regola, 
un  "  convento   „  beli'  e  buono. 

Dopo  di  che  viene  naturale  il  domandare  se  siano  proprio  nel  vero  tutti 
coloro  i  quali,  sulle  orme  d'  alcuni  amici  e  contemporanei  del  Petrarca,  hanno 
gareggiato  fin  qui  nel  descriverci  la  cerimonia  del  9  aprile  1343  come  un  fatto 
di  enorme  importanza,  un  raggio  di  luce  che  rompe  inattesa  le  tenebre  d' un 
età  oscurissima  (Rcumont),  iniziatore  d'una  nuova  era  di  cultura  (  Gregorovius  ); 
tale  insomma  che  la  rinnovazione  morale  ed  intellettiva  di  Roma  ne  fu  avvan- 
taggiata assai  più  che  dalla  sommossa  di  Cola  di  Rienzi  (Hortis).  Certo  chiunque 
pensi  e  scriva  cosi,  fa  il  giuoco  del  Petrarca,  il  quale  si  sforzò,  dissimulando  abil- 
mente i  maneggi,  mercé  de' quali,  forte  dell'appoggio  di  pochi  potenti,  era 
riuscito  a  piegare  ai  propri  disegni  un  volgo  incapace  di  comprendere  i  moventi 
segreti  della  sua  condotta;  di  far  comparire  la  cerimonia,  di  cui  fu  il  prota- 
gonista, come  un  avvenimento  nuovo,  inaudito.  Ma  fare  il  giuoco  del  Petrarca, 
non  è  giovare  alla  storia. 

("")  Zen.  da  Pistoi.\,  La  piet.  fonte,  ed.  Zambrini,  Bologna,  1874,  cap.  VII, 
terz.  39-40,  p.  54. 

C)  Coluccio  stesso,  che  aveva  ereditato  dal  Boccaccio  il  culto  per  l'Ali- 
ghieri, non  sa  però  nascondere  il  rammarico  che  1'  uso  del  volgare  avesse  im- 
pedito al  cantore  dell'oltretomba  d'alzarsi  al  disopra  d'Omero  e  di  Virgilio: 
"  Sentio  tamen  alìum  recte  —  scriveva  a  Leongiovanni  Pierleoni  —,  nisi  fallor,  tam 
"  latiali  quam  graeco  praeferendum  Homero,  si  latine  potuisset  sicut  ma- 
"  terni  sermonis  elegantia,  cecinisse  „  Epistolario  lib.  XII,  ep.  VII,  v.  Ili,  p.  491. 

C')  Cf.  pag.  49  di  questo  volume. 

(")  Gherardi,  op.  cit.,  par.  I,  p.   107  sgg.,  doc.  I. 

('*)  Credo  d'aver  dimostrato  fin  dal  1883,  contro  l'opinione  del  Morelli  (in 
Gherardi,  op.  cit.,  p.  XXXIV  sg.  )  che  lo  Studio  nel  1321  era  già  aperto,  e  vi 
leggevano  in  diritto  Osberto  Follati  da  Cremona  ed  Andrea  Ciafferi  (Giorn.  Stor. 
della  letler.  ital.,  v.  I,  p.  103).  Ora  aggiungerò  che  fin  dal  principio  del  1320  si 
trovava  anche  a  Firenze  ad  insegnarvi  "  in  arte  grammatica  et  in  aliis  artibus 
"  et  scientiis  ,  (vale  a  dire  logica  e  filosofia),  quel  Guicciardo  da  Bologna,  cele- 
berrimo grammatico,  al  quale  si  deve  il  commento  all'  Ecerinide  del  Mussato, 
con  cui  ebbe  cordiali  rapporti  d' amicizia.  Guicciardo  si  trattenne  a  Firenze 
almeno  tre  anni:  cf.  Gherardi,  op.  cit.,  par.  II,  doc.  I,  9-1 1  Ag.  1320;  p.  278-79, 
doc.  Ili,  IV,  25-27  febbr.  1321,  28  febbr.  —  i  marzo  1322.  Questa  interessante 
notizia  rimase  del  tutto  sconosciuta  a  quanti  s'  occuparono  negli  ultimi  tempi 
del  fratello  di  Bertoluzzo:  cf.  cosi  P.\drix,  Lup.  de  Lup.  Canti.,  p.  44;  Colfi,  op. 
cit.,  p.  425  sg.  E  chi  sa  se  la  presenza  di  lui,  qui  in  partibus  omnibus  Lombar- 
diae  qttam  Tusciae  doctor  doctorum  in  gramatica  reputatttr,  come  scriveva  un 
contemporaneo,  fu  senz'effetto  sovra  i  disegni  di  Dante? 

NOVATI.  8 


IV. 

COMK  MANFREDI  S'  K  SALVATO. 


La  salvazione  di  Manfredi  è  tal  problema  che  die  sempre  pa- 
recchio filo  da  torcere  ai  commentatori  di  Dante;  agli  ortodossi 
soprattutto,  i  quali  non  seppero  mai  troppo  da  che  parte  rifarsi 
per  dimostrare  non  aver  il  poeta  peccato  d' irriverenza  verso  la 
Santa  Chiesa,  fingendo  che  uno  scomunicato  avesse  potuto  ritro- 
vare presso  Dio  quella  misericordia  che  dai  ministri  di  lui  eragli 
stata  inesorabilmente  diiiiegata  (');  tanto  pili  che  dall'altro  canto 
quanti  non  sono  della  Chiesa  soverchiamente  teneri  si  sono  ralle- 
grati sempre  nell'  udir  l' Alighieri  sentenziare  con  tant'  austera 
fierezza,  che  per  maledizione  di  sacerdoti 

si  non  si  perde 
Che  non  possa  tornar  1'  eterno  amore, 
Mentre  che  la  speranza  ha  fior  del  verde  (-)  ; 

e  ne  hanno  dedotto  che  Dante  nel  far  grazia  a  Manfredi  erasi 
proposto  un  elevatissimo  fine  politico  e  morale  {^).  Ma  comunque 
sia  di  ciò,  che  non  è  del  mio  istituto  d' impacciarmene,  accanto 
a  cotesto  quesito  ne  rimane  pur  sempre  oscuro  un  altro:  su  quali 
fondamenti  cioè  il  poeta  abbia  poggiata  V  affermazione  sua  co- 
tanto franca  ed  aperta  che  lo  Svevo  non  è  dannato,  anzi  salvo, 
benché  un  alto  "  divieto  „  lo  costringa  ad  errare  fuor  de'  gironi, 
in  cui  le  anime  purganti  s'  affinano, 

Per  ogni  tempo  eh'  egli  è  stato  trenta 

In  sua  presunzion,  se  tal  decreto 

Più  corto  per  buon  preghi  non  diventa  (*). 


—  n8  — 

Or  alla  soluzione  di  siffatto  quesito  vorrei  io  contribuire,  ove  mi 
torni  possibile,  colle  brevi  note  che  seguono. 

Per  chi  consideri  le  opinioni  religiose  e  politiche  dell'  Alighieri 
e  ripensi  l' inesorabil  condanna  da  lui  pronunziata  contro  il  grande 
Federigo  II,  rinchiuso  in  eterno  dentr'  una  delle  infocate  arche 
che  fanno  "  varo  „  il  luogo  della  città,  "  che  ha  nome  Dite  „, 
la  salvazion  di  Manfredi  si  deve  presentare  certo  a  tutta  prima 
quasi  inesplicabile.  Della  Chiesa  anche  il  figlio  era  stato  innanzi 
tutto  nemico;  meri  acerbo  del  padre,  quest' è  vero  (''),  ma  nemico 
insomma,  e  tale  nemico  che  mori  scomunicato.  Pure  la  ribellion 
contro  Roma  non  è  il  pili  grave  de' suoi  peccati.  Ei  n'ha  com- 
messo di  maggiori;  ed  anche  senza  tener  calcolo  delle  assurde 
accuse,  onde  1'  odio  guelfo  tentò  insozzarne  la  fama;  —  accuse  alle 
quali  r  animo  generoso  di  Dante  sdegnò  per  fermo  di  prestar 
fede  —  d'  "  orribili  „  addirittura.  Non  ebbe  egli  grido,  ahimé 
troppo  ben  fondato,  di  miscredente  (")?  Non  condusse  vita,  come 
il  Villani  direbbe,  "  epicurea  „,  sicché,  ove  fortuna  gli  avesse 
più  lungamente  sorriso,  Italia  tutta  sarebbe  per  opera  sua  tornata 
in  "  fonte  di  libidine?  „  C).  Non  corse  voce  ch'egli  con  arti  ne- 
fande fosse  solito  sollecitare  l'aiuto  di  potenze  infernali?  (■") 
Certo  in  tutto  questo  cumulo  d'  accuse  lanciate  contro  il  principe 
svevo,  r  Alighieri  avrebbe  ritrovata  la  più  ampia  giustificazione 
dell'  operato  suo,  quando  nel  "  caldo  „  monumento,  dove  aveva 
gittato  il  magnanimo  Federigo,  si  fosse  deciso  a  precipitare  pur 
esso  Manfredi. 

Il  poeta  volle  invece,  quest'  è  fuori  di  dubbio,  sottrarre  uno 
almeno  di  quegli  "  illustri  eroi  „,  intorno  al  capo  de'  quali  aveva 
nel  De  viilgari  eloqnentia  intrecciato  si  fulgido  serto  di  gloria  f  ). 
agli  orrori  d' averno.  E  Manfredi  fu  il  prescelto;  mezzo  a  ciò  la 
sua  conversione  in  fin  di  vita.  Or  di  cotesto  ritorno  a  Dio,  che 
il  "  nipote  di  Costanza  imperatrice  „  avrebbe  compiuto  dopo  che 
gli  fu  "  rotta  la  persona  di  due  punte  mortali  „,  onde  derivò 
contezza  il  poeta?  Volle  egli,  com' è  stato  argutamente  affermato, 
valersi  ancora  una  volta  di  quel  "  diritto  di  grazia  „,  che  s'  era 
come  a  dir  riserbato  per  salvare  alcuni    celebri    peccatori  ('°j;  o 


—  119  — 

fu  in  quella  vece  guidato  e  direi  quasi  sforzato  a  mostrarsi  be- 
nigno verso  Manfredi  da  voci  che  corressero  ai  suoi  giorni  in- 
torno alla  morte  del  principe  biondo  ed  infelice,  e  lo  volessero 
redento  ad  onta  de' papali  divieti? 

Questi  dubbi  s'  erano  affacciati  già  alla  mente  de'  pili  antichi 
commentatori  della  Comcdia;  e  tra  gli  altri  udiamo  esprimerli 
con  maggiore  vivezza  que'  due  che  godettero  d'  una  particolare 
estimazione  a' tempi  loro,  perché  gravi  e  reputati  dottori:  Fran- 
cesco da  Buti  cioè  e  Benvenuto  da  Imola,  Intento  a  sciogliere 
r  ingarbugliato  nodo  della  scomunica,  che  pareva  dichiarata  dal 
poeta  inefficace,  il  maestro  pisano  scrive:  "  Et  avendo  proposito 
"  (lo  scomunicato)  di  ritornare  (all'obbedienza)  e  volendo;  ma 
"  non  potendo,  sopravvenendo  la  morte,  anco  è  tanta  la  miseri- 
"  cordia  di  Dio  che  lo  riceve  nella  sua  grazia;  e  se  questo  pro- 
"  posito  e  questa  volontà  fusse  nota  ai  pastori,  ancora  elli  lo  ri- 

"  metterebbeno L'  autore  nostro  finge  che  questo  pentimento 

"  fusse  nel  re  Manfredi  quando  venne  a  la  morte,  per  mostrare 
"  questa  sentenzia  e  dichiaragione  sopra  questo  dubbio,  la  quale 
"  è  verissima;  ma  se  lo  re  Manfredi  ebbe  questa  contrizione  a 
"  la  fine,  questo  non  sa  se  non  Dio  „  (").  Ed  il  Rambaldi  a  sua 
volta:  Et  Ine  nota  quod  aliqiii  dicunt  quod  Manfrcdus  in  cxtremo 
rcdivit  ad  Deimx;  sed  certe  istud  scire  non  potuit  poeta,  quia  Man- 
frcdus iìicogniitis  morttms  est  in  medio  ardore  belli . ...  ('"). 

Or  s'avvertano  qui  le  parole  di  Benvenuto:  "  taluni  dicono 
"  che  Manfredi  sul  punto  di  morte  tornasse  a  Dio  „;  le  quali,  o 
m'inganno,  concedono  legittimo  appiglio  a  congetturare  che  ai 
tempi  del  grammatico  imolese  vigesse  ancora  una  tradizione,  in 
base  alla  quale  si  narrava  che  lo  Svevo,  prima  di  spirare  1'  anima 
invitta,  si  fosse  rivolto,  proprio  come  Dante  vuole,  a  quell'infi- 
nita Giustizia  che  è  insieme  infinita  Clemenza.  Posto  quindi  che 
siffatt'  opinione  corresse  per  la  penisola,  già  vivo  1'  Alighieri,  dif- 
ficilmente si  potrebbe  negare  eh'  ei  1'  avesse  conosciuta  e  se  ne 
fosse  fatto  1'  eco  nel  poema  immortale. 

Però  taluno  osserverà  forse  che  le  parole  di  Benvenuto  sono 
in  fin  de'  conti  troppo  vaghe,  perché  lecito  divenga   cavarne   ap- 


I20   

poggio  per  un'  ipotesi  di  tal  fatta.  Chi  ci  assicura  invero  che  la 
diceria  da  lui  raccolta  sia  proprio  anteriore  all'  apparizione  della 
Conicdia?  E  se  invece  di  riconoscere  in  essa  il  fonte,  dond' è 
scaturito  1'  episodio  dantesco,  si  dovesse  semplicemente  vedervi 
una  derivazione  di  questo?  In  mezzo  secolo  e  più  il  tempo  non 
sarebbe  davvero  mancato,  perché  una  credenza  che  la  lettura 
della  Comcdia  aveva  fatto  germogliar  nella  mente  di  molti,  si 
fosse  radicata  cosi  da  parer  sorta  indipendentemente  da  quella. 
In  tal  caso  si  correrebbe  il  rischio  di  scambiare  colla  causa 
r  effetto. 

Non  manca  però,  e  conviene  ascriverlo  a  nostra  buona  ven- 
tura, il  modo  d' approfondire  alcun  poco  l' indagine  e  di  metter 
in  sodo  che  le  voci,  cui  allude  il  Rambaldi,  dovettero  realmente 
propalarsi  tra  le  genti  italiane  prima  ancora  che  Dante  ponesse 
mano  al  sacrato  poema.  Un  racconto,  al  quale  coteste  voci  hanno 
pòrto  argomento,  ci  è  difatti  pervenuto  in  due  redazioni,  diverse 
per  età,  per  indole,  per  provenienza;  e  poiché  fin  qui  nessuna 
di  esse  è  stata  presa  in  seria  considerazione,  cosi  penso  non 
riuscirà  superfluo  sottoporle  ad  accurata  disamina  ('^). 

Dacché  niun  uomo  vivente  poteva,  secondo  la  comune  sen- 
tenza, farsi  testimone  della  conversion  di  Manfredi  e  malleva- 
dore quindi  della  salvezza  sua,  fu  giuocoforza  ricorrere,  per  con- 
seguire d' entrambe  notizia,  a  mezzi  soprannaturali.  Ed  ecco 
quanto  a  tal  proposito  ci  sa  narrare  l' Anonimo  commentator 
fiorentino,  tratto  alla  luce  dal  Fanfani:  "  A  la  cagione  per  che 
"  r  Auttore  mette  qui  il  re  Manfredi  fra  gli  eletti,  si  risponde  che 
"  due  furono  le  cagioni;  1' una  che  1' Auttore  vuole  dimostrare, 
"  per  confortare  altrui,  acciò  che  niuno  si  disperi,  che  Iddio, 
"  quantunque  1'  uomo  sia  peccatore,  se  nello  estremo  della  vita 
"  si  pente,  il  riceve  a  misericordia  ....  La  seconda  cagione  fu 
"  però  che  si  truova  che  Gonstanzia  fu  giustissima  et  buona 
"  donna;  onde,  sappiendo  ella  la  vita  del  padre  suo,  eh' era  stata 
"  disonesta,  et  nimico  di  Santa  Chiesa,  essendo  uno  santissimo 
"  romito  in  Cicilia  a  quello  tempo,  in  una  montagna  presso  a 
"  Mongibello,  questa  Gostanza  andò  a  lui,  et   pregollo    che    pre- 


—    121    

"  gasse  Iddio  che  gli  rivelasse  se  il  re  Manfredi  era  perduto  o 
"  no.  Il  romito,  fatta  l' oratione  et  il  prego  a  Dio,  gli  disse 
"  coninie  Iddio  gii  rivelò  che  Manfredi  era  fra  gli  eletti  in  Pur- 
"  gatorio  „  (•<). 

Ma  questa  divina  rivelazione,  ond'  è,  senza  accennarla,  pre- 
supposta la  conversione  del  moribondo  sovrano,  non  fu  la  sola 
che  soddisfacesse  la  bramosia  di  conoscerne  le  sorti  oltremon- 
dane, viva  certo  tra  i  contemporanei  suoi.  Al  cielo  infatti  viene 
a  contrapporsi  1'  inferno,  e  della  salvezza  di  Manfredi,  curioso  a 
dirsi!,  sorge  mallevadore  quello  spirito  maligno  con  cui,  a  dar 
retta  alla  guelfa  leggenda,  il  figlio  di  Federigo  II  aveva  stretti 
vivendo  patti  abbominevoli  ('^).  Codesta  nuova  versione  del  rac- 
conto, nella  quale  un  ossesso  pugliese  prende  il  posto  dell'eremita 
siciliano,  cosi  come  il  demonio  quello  di  Dio,  ci  è  offerta  dal  ca- 
pitoletto seguente  dell'  Imago  mundi  di  fra  Jacopo  da  Acqui: 

Quid  factum  est  de  anima  kegis  Manfredi 

Posi  lux  fuit  iti  Apulia  quidam  obscssus  a  dyabolo  et  loquc- 
batur  de  divcrsis,  qucm  quidam  iiitcrrogavit  dicens  :  "  die  mi/ii 
"  si  sa/vus  est  rex  Manfredus  „.  cui  respondit  dyabolus:  "  quitique 
"  vcrba  salvaruiit  eum,  sicut  tibi  dicet  comes  Hcttricus  de  illis  quin- 
"  qne  ver  bis  „.  qui  respondit  dicens:  "  quando  rex  Manfredus  ce- 
cidit  in  morte,  ultima  verba  sua  fucrunt  ista  :  Deus  propitius  esto 
ìiiilii  peccatori.   „  ("^). 

Siamo  cosi  di  fronte  a  due  narrazioni,  le  quali,  sebbene  a 
tutta  prima,  perché  mirano  a  mettere  in  chiaro  lo  stesso  fatto 
—  la  salvazione  di  Manfredi  —  e  si  valgono  per  riuscirvi  del 
medesimo  espediente,  —  la  rivelazione  soprannaturale  —  sem- 
brino aver  molto  di  comune,  in  realtà  poi,  più  minutamente  esa- 
minate, finiscono  per  apparirci  1'  una  indipendente  dall'  altra.  Nella 
prima  infatti  è  la  figlia  stessa  dell'estinto  che,  incerta  sulla  sorte 
toccatagli,  si  rivolge  ad  un  pio  solitario,  e  ne  consegue  un  ora- 
colo atto  a  dissipare  i  suoi  timori;  nella  seconda  invece  un  ignoto 
purchessia,  spronato  dalla  curiosità,   sollecita   il    diavolo,    entrato 


in  corpo  ad  un  ossesso,  perche  voglia  fargli  palese  che  sia  se- 
guito del  re  svevo  dopo  la  morte.  Ed  il  demonio  lo  compiace 
bensf,  ma  solo  in  parte;  che  dopo  aver  affermato  essere  l'anima 
di  Manfredi  in  luogo  di  salute,  lascia  la  cura  di  spiegare  come  e 
perché  ciò  sia  avvenuto  ad  un  nuovo  personaggio,  un  uomo, 
cioè,  che  è  chiamato  il  "  conte  Enrico  „.  Come  si  vede,  quanto 
compiuto,  coerente  nella  semplicità  sua  risulta  il  primo  racconto, 
tanto  incompleto,  sconnesso,  oscuro  s'  appalesa  invece  il  secondo. 

Ad  onta  di  ciò,  se  taluno  domandasse  quale  de'  due  ci  sembri 
degno  di  maggiore  considerazione,  io  non  esiterei  un  momento 
ad  asserire  che  la  palma  spetta  a  quello  tramandatoci  dal  cronista 
piemontese.  E  la  ragione  di  siffatta  preferenza  risulterà  manifesta 
da  quanto  or  vengo  a  dire. 

Certo  neppure  la  novelletta,  di  cui  l'Anonimo  commentator 
fiorentino,  vissuto,  com'  è  noto,  sul  cader  del  Trecento,  s'  è  fatto 
l'espositore,  non  deesi  disdegnare.  Sgombrato  dopo  un  po' d' esi- 
tazione il  sospetto  che  a  farla  nascere  abbia  cooperato  1*  influsso 
dell'episodio  dantesco,  io  non  vedrei  motivo  di  negare  ch'essa 
trovi  il  suo  fondamento  in  una  tradizione  popolare.  Era  ben  na- 
turale che  il  pensiero  di  far  intervenire  Costanza,  buona  e  pia 
principessa,  in  prò  dell'  anima  paterna,  germogliasse  spontaneo 
nella  commossa  fantasia  di  quanti  erano  stati  sudditi  di  Manfredi 
e  sotto  la  "  mala  signoria  „  del  lupo  angioino  non  avevano  tar- 
dato a  rimpiangere,  accorati,  il  saggio  e  benefico  governo  del- 
l' "  agnello  „  svevo.  Dirò  di  più.  Non  sarebbe  nemmeno  impro- 
babile che  r  aneddoto  conservato  dal  tardo  glossatore  avesse 
una  base  nella  realtà;  che,  cioè,  l'andata  di  Costanza  ad  un  ere- 
mita siciliano  in  fama  di  santità  fosse  veramente  avvenuta.  D'ana- 
coreti, basiliani  o  no,  poco  monta,  che  godesser  nome  di  profeti 
e  di  santi,  nell'  isola  del  fuoco  dovevano  trovarsene  ancora  non 
pochi  sullo  scorcio  del  Dugento  ('");  né  io  vorrei  respingere  come 
assurda  l'ipotesi  che  la  "  genitrice  dell' onor  di  Cicilia  e  d'Ara- 
"  gona  „  avesse  affrontati  i  disagi  d'  un'  aspra  salita  per  sollecitar 
da  uno  di  loro  il  responso  atto  a  ridonarle  la  calma  ed  a  ravvi- 
vare, confortandolo  di  speranza,  il  suo  zelo  per  il  bene. 


—  123  - 

Pure  la  narrazione  cosi  scucita  di  fra  Jacopo  d'  Acqui  eccita 
in  noi  curiosità  più  intensa,  perché  ci  presenta  de'  problemi  ai 
quali  non  riesce  facile  il  porgere  adeguata  risposta.  Ed  innanzi 
tutto  avvertiamo  che  su  di  essa  il  poema  sacro  non  ha  davvero 
esercitato  alcun  influsso.  Né  dico  questo,  perché  io  tenga  per 
fermo  che  tra  il  1330  ed  il  1340,  gli  anni  cioè  ne'  quali  il  Bellin- 
geri  compilò  l'opera  sua  ('*),  la  Comedia  fosse  ancora  scono- 
sciuta in  F^iemonte;  anche  se  le  cose  stessero  difatti  cosi,  niun 
conforto  ne  deriverebbe  all'  opinione  nostra,  giacché  Jacopo 
d' Acqui,  da  buon  domenicano  qual  fu,  non  rimase  certo  rin- 
chiuso tutta  la  vita  nell'  angusta  cerchia  della  città  nativa,  ma  di 
mondo  ebbe  a  vederne  parecchio;  sicché  non  potè  mancargli,  o 
prima  o  poi,  il  destro  di  gettare  gli  occhi  sul  sacro  volume.  Ma, 
dato  pure  ch'egli  abbia  tenuto  tra  mani  la  Comedia,  certo  è 
eh'  essa  in  nessun  luogo  del  suo  libro  ha  lasciato  traccia.  E  il 
fatto  riesce  tanto  pili  degno  di  nota,  in  quanto  che  la  cronaca  di  fra 
Jacopo  altro  non  è  se  non  un  centone  messo  insieme  senza  cri- 
tica, ma  in  pari  tempo  (vantaggio  non  lieve  per  noi)  senza  ri- 
tocchi ('^).  Or  tutto  quel  che  concerne  alle  vicende  della  casa  di 
Svevia  vi  apparisce  esposto  in  cotal  maniera  da  poterlo  ragione- 
volmente supporre  scaturito  da  fonti  che,  se  non  saranno  a  dir 
schiettamente  popolari,  possono  però  e  debbono  giudicarsi  tali, 
in  cui  elementi  popolareschi  assai  nitidamente  si  rispecchiassero. 
E  questo,  che  risulta  chiaro  per  Federigo  II,  per  Pier  della  Vigna, 
ma  sopra  tutto  per  Corradino  ('"),  ci  sembra  essersi  verificato 
anche  per  Manfredi. 

Se  dopo  queste  premesse  ci  faremo  a  studiare  con  maggior 
attenzione  la  novelletta  dell'  Imago  mundi,  non  tarderemo  ad 
accorgerci  com'  essa  abbia  a  considerarsi  quasi  il  sunto  molto 
sommario  ed  imperfetto  d'  una  più  ampia  narrazione  anteriore  (''). 
Che  Manfredi  sia  in  luogo  di  salute  v'  è  dichiarato  dalle  asser- 
zioni di  due  testimoni:  quella  dell'indemoniato  e  l'altra,  che 
giunge  proprio  inattesa,  d' un  personaggio  qualificato  come  il 
"  conte  Enrico  „.  Or  chi  è  costui,  del  quale  si  parla  come  d' in- 
dividuo ben  conosciuto,  mentre  nessuna  notizia   ne    è    stata    per 


—    124   — 

1"  innanzi  arrecata?  Clic  lia  egli  a  vedere  nel  racconto  del  Bel- 
lingeri  ?  E  perché  a  lui  è  noto  quanto  tutti  gli  altri  ignorano,  le 
parole  cioè  pronunziate  da  Manfredi  agonizzante?  A  coteste  in- 
terrogazioni fra  Jacopo,  se  potesse  udirle,  non  saprebbe  davvero 
che  cosa  rispondere;  ma  esse  avrebbero  certamente  trovata  una 
piena  soddisfazione,  ove  a  noi  fosse  giunto  il  testo,  eh'  egli  ha 
cosi  malamente  riepilogato.  Quel  testo,  a  mio  avviso,  dovett'  es- 
sere insomma  un'  esposizione  pili  o  meno  poetica  e  romanzesca 
delle  vicende  ultime  di  Manfredi,  in  cui  sulla  morte  sua  eran  dati 
ragguagli  che  niun'  altra  delle  fonti  oggi  conosciute  ci  ha  conser- 
vati. E  tra  essi  probabilmente  notavasi  anche  questo:  che  Man- 
fredi non  cadde  già,  inosservato  ed  ignoto,  quando  più  ferveva 
la  battaglia,  ma  fu  assistito,  moribondo,  da  un  fedele,  il  quale  non 
erasi  mai  scostato  dal  suo  fianco,  al  pari  dell'  eroico  Teobaldo 
degli  Annibaldi,  ma  che,  più  fortunato  di  lui,  aveva  potuto  sot- 
trarsi vivo  al  brutale  furore  de'  "  ribaldi  „  francesi  f ^). 

Or  codesto  "  conte  Enrico  „  che  raccolse,  secondo  la  tradi- 
zione imperfettamente  riferita  dallo  scrittore  deW  linaio  ìiiundi, 
le  parole  supreme  dello  Svevo,  sarà  desso  da  identificare  con 
qualche  personaggio  realmente  vissuto?  Per  verità  le  narrazioni 
storiche  della  rotta  famosa  non  serbano  memoria  che  tra  i  Conti 
i  quali  nel  febbraio  del  1266  facevano  scorta  a  Manfredi,  uno  ve 
ne  fosse  cosi  nominato;  ma,  come  ben  si  comprende,  questo  si- 
lenzio non  può  essere  giudicato  tanto  grave  da  obbligarci  ad 
escludere  la  probabilità  che  nell'  esercito  svevo  militasse  in  al- 
lora un  conte  Enrico.  Tanto  più  che  se  noi  ci  volgiamo  a  ri- 
cercare nei  documenti  contemporanei  qualche  notizia  sopra  co- 
loro  i  quali  più  efficacemente  colla  spada  e  col  senno  aiutarono 
il  principe  di  Taranto  a  ricuperare  dopo  la  morte  di  Corrado 
r  eredità  paterna,  non  tarderemo  a  mettere  in  sodo  come  in 
mezzo  ad  essi  abbia  primeggiato  più  d'  un  Enrico.  Passiamo  or 
dunque  brevemente  in  rassegna  questi  gagliardi  sostenitori  della 
causa  sveva,  per  tentar  di  rintracciare  colui,  al  quale  il  racconto 
dell'  Acquense  vuol  essere  riferito. 

Primo  tra  loro  ci  si  affaccia  Enrico  conte  di  Sparvara,  illustre 


rampollo  di  queir  antico  e  nobilissimo  ceppo  de'  conti  palatini  di 
Lomello,  il  quale  sugli  inizi  del  secolo  tredicesimo  s'  era  già  in 
pili  rami  partito  (").  Nato  da  una  stirpe  che,  dopo  aver  domi- 
nato per  secoli,  quasi  sovrana,  in  Pavia,  era  stata  costretta  ad 
irscirne  dall'  indomabile  energia  tli  quel  volgo  che  assorgeva  a 
dignità  di  popolo  nel  nascente  comune;  e  rifugiatasi  nel  contado, 
aveva  dovuto  poi  ritornare  umiliata  e  vinta  a  vivere  dentro  la 
cerchia  delle  mura  cittadine,  posciaché  i  Pavesi  a  furia  ebbero 
smantellata  e  distrutta  la  superba  sua  rocca  {^*);  Enrico  di  Sparvara 
nutriva  naturalmente  in  cuore  sentimenti  ghibellini.  Le  più  antiche 
notizie  che  noi  possediamo  intorno  a  lui  ce  lo  mostrano  infatti 
già  entrato  nelle  buone  grazie  dell'  imperator  Federigo,  il  quale  nel 
febbraio  1219,  con  suo  diploma  dato  dai  dintorni  di  Spira,  confer- 
mava ad  Enrico  di  Guido  ed  a  Roffino  di  Roffino  di  lui  cugino  tutti 
i  privilegi  che  la  casa  di  Lomello  vantava  ab  antico  C^'').  Ma  colla 
Chiesa  invece  il  conte  di  Sparvara  non  sembra  si  curasse  troppo 
di  mantenere  buoni  rapporti,  se  ne  giudichiamo  dal  fatto  che,  mol- 
t' anni  dopo,  e  cioè  nel  1237,  il  vescovo  di  Pavia  era  costretto  a 
fulminare  contro  di  lui,  colpevole  di  violenze  a  danno  di  certe 
monache  d' Acqui,  la  scomunica  {'"'').  A  questi  contrasti  colle 
autorità  ecclesiastiche  dovettero  probabilmente  accoppiarsene  altri 
non  meno  fieri  coi  comuni  di  Pavia  e  di  Vercelli,  i  quali  tutti 
ebbero  1'  effetto  di  rendere  il  feudatario  di  Lomello  sempre  più 
propenso  alla  parte  dell'  impero,  da  cui  soltanto  poteva  sperare 
soccorso;  né  s'ingannava,  giacché  quando  nel  1248  Federigo  II 
si  recò  a  Vercelli  e  vi  si  trattenne  più  mesi,  egli  impose  a  quel 
comune,  che  appunto  a  lui  s' era  rivolto  per  ottenere  giustizia 
pe'  canonici  della  cattedrale  contro  i  soprusi  de'  conti  di  Lomello, 
quale  podestà  Enrico  di  Sparvara  ('").  La  sparizione  del  sovrano 
illustre,  avvenuta  di  li  a  poco,  non  scemò  nel  nostro  1'  attacca- 
mento alla  dinastia  sveva;  anzi  i  rapporti  suoi  coi  figli  di  Fede- 
rigo divennero  più  stretti.  Ed  infatti  nel  1253  noi  lo  vediamo, 
disceso  nel!'  Italia  meridionale  ed  insignito  del  titolo  di  conte  di 
Marsico,  reggere  in  qualità  di  regio  capitano  e  giustiziere  la  terra 
di  Lavoro  ed  il  contado  di  Molise  {'^). 


120    

Alla  morte  di  Corrado,  mentre  Roma  fa  ogni  suo  sforzo  per 
strappare  al  principe  di  Taranto  il  retaggio  paterno,  Enrico  da 
Sparvara  figura  tra  i  più  strenui  campioni  di  Manfredi.  Né  sono 
soltanto  documenti  cancellereschi  che  ci  parlano  allora  di  lui;  ma 
delle  sue  gesta  si  fanno  banditori  anche  gli  storici.  L'espugna- 
zione di  Foggia  (2  die.  1254)  cosi,  il  primo  notabile  fatto  d'armi 
di  quella  campagna,  che  doveva  condurre  Manfredi  all'acquisto 
dell'agognata  corona,  fu  dovuta  in  gran  parte  all'audace  sua 
iniziativa  ('^}.  Più  tardi,  quando  1'  esercito  papale  s'  era  raccolto  a 
Guardia  de'  Lombardi,  egli  assunse  di  nuovo  una  pericolosa  mis- 
sione, che,  grazie  all'  avvedutezza  di  cui  die  prova,  riusci  a  buon 
fine  (^^).  Sicché  nel  febbraio  del  1256,  nella  corte  tenuta  a  Bar- 
letta, poiché  la  vittoria  gli  aveva  arriso,  il  nuovo  sovrano  ricon- 
fermava al  barone  lombardo,  meritato  premio  di  tanti  servigi, 
la  contea  di  Marsico  nuovo,  già  concedutagli  da  Federigo  o  da 
Corrado  (^'). 

Che  in  questo  prode,  il  quale  fu  cosi  cordialmente  devoto  ai 
tre  ultimi  principi  svevi,  fosse  da  riconoscere  il  "  conte  Enrico  „ 
invocato  da  irà  Jacopo  d'Acqui  in  testimone  del  suo  racconto, 
io  credetti  tempo  addietro  probabile,  soprattutto  perché  stimavo 
che  nella  patria  del  cronista  il  nome  di  quell'  illustre  personaggio 
dovesse  aver  suonato,  anche  mezzo  secolo  dopo  la  sua  scom- 
parsa, famigliare  ancora  o  almen  noto  a  moltissimi.  Ma  cosi  con- 
getturando, non  avevo  posto  mente  ad  un  fatto,  che  tuttavia  pili 
d'  uno  tra  i  recenti  storici  dell'  età  sveva  erasi  curato  di  porre 
in  rilievo:  quello  cioè,  che  un  documento  spettante  ai  primissimi 
tempi  del  reggimento  angioino  rende  invece  molto  legittima 
r  ipotesi  che  il  conte  di  Sparvara  si  fosse  spento  qualche  anno 
innanzi  alla  rotta  famosa,  dove  il  fiore  della  baronia  sveva  trovò 
si  triste  fine.  In  un'  inquisizione  sui  feudi,  che  re  Carlo  fece  di- 
fatti eseguire  all'  intento  di  ridonare  a  coloro,  i  quali  n'  erano  stati 
spogliati  dagli  Svevi,  le  terre  ch'avevano  per  1' addietro  posse- 
dute, è  ricordato  come  Ruggeri  de*  conti  di  Sanseverino  recupe- 
rasse la  contea  di  Marsico  che,  tolta  a  lui,  era  stata  concessa 
prima  ad  Enrico  di   Sparvara    e    poi    a    Riccardo    Filangeri.    Or 


—    127    — 

come  ben  s' intende,  Manfredi  non  avrebbe  certo  potuto  con  sif- 
fatto dono  beneficare  il  suo  favorito,  ove  il  feudo  di  Marsico  non 
fosse  per  la  morte  del  conte  Enrico  divenuto  vacante  (■"^). 

Tale  era  già  1'  opinione  di  Giuseppe  di  Cesare  ('"*),  che  il  pro- 
fessor Pasquale  Del  Giudice  culi'  autorità  sua  conferma,  aggiun- 
gendo insieme  come  il  nome  d'  Enrico  da  Sparvara  dopo  il  1256 
non  s' incontri  più  nelle  storie  (■'^).  Ed  io  non  veggo  maniera  di 
dissentire  da  critici  tanto  competenti.  Mi  sembra  tuttavolta  non 
inutile  osservare  come  non  sia  del  tutto  esatta  la  seconda  asser- 
zione, che  d'  Enrico  si  taccia  interamente  il  nome  dai  cronisti  a 
partire  dall' a.  1256.  In  realtà  noi  lo  rinveniamo  ancora  molto 
tempo  appresso.  Giunti  infatti  col  racconto  loro  al  1271,  gli  An- 
nali piacentini  ghibellini  espongono  come  in  quell'  anno  il  conte 
Enrichetto  di  Sparvara,  cittadino  pavese,  si  portasse  oltremonti 
per  sollecitare  Federigo  III,  re  di  Sicilia  e  di  Germania,  in  nome 
del  proprio  comune  e  d'altri  collegati,  ad  affrettare  la  sua  discesa 
nella  penisola  (").  Ora  se  noi  dessimo  retta  a  chi  compilò  gli 
indici  del  tomo  decimottavo  de'  Monumenta  Germam'ae  histo- 
rica  (''),  cotest' Enrichetto  dovrebbe  essere  identificato  coli' altro, 
del  quale  siamo  sin  qui  andati  esponendo  succintamente  le 
vicende. 

È  questo  credibile?  No  davvero.  Enrichetto,  conte  di  Spar- 
vara, di  cui  ragiona  1'  Annalista  piacentino,  è  certamente  il  mede- 
simo che,  dieci  anni  dopo,  nel  1281-82,  si  rinviene  a  Vercelli  in 
qualità  di  podestà  del  comune  ('*').  Si  tratta  quindi,  come  chiaro 
risulta,  d'  un  nipote  oppur  d'  un  cugino  del  conte  di  Marsico,  na- 
turalmente molto  più  giovine  di  lui  ed  a  lui  sopravvissuto.  Però 
anche  quest'  Enrico,  chiamato,  second'  io  penso,  Enrichetto,  per 
distinguerlo  dal  valoroso  espugnatore  di  Foggia,  fu  tra  coloro  i 
quali  condivisero  le  sorti  di  Manfredi.  Il  suo  nome  figura  infatti 
in  mezzo  a  quelli  de'  baroni,  che  circondavano  il  principe  di  Ta- 
ranto, prestantcs  ei  consiliiuìi,  anxiliiaìi  et  favor em,  in  quella  let- 
tera del  25  marzo  1255,  colla  quale  papa  Alessandro  IV,  rendendo 
conto  al  mondo  intero  del  "  colloquio  „  da  lui  tenuto  in  Napoli 
coi  fedeli  suoi,  dichiara  il  ribelle  figliuolo  di  Federigo  II  decaduto 


—    128     - 

da  ogni  suo  titolo  ed  onore  (^'*).  Nulla  di  più  probabile  che  En- 
richetto  da  Sparvara  abbia,  come  le  folgori  papali,  sfidati  pure 
a  Benevento  i  brandi  angioini. 

Nel  conte  di  Loniello  che,  a  differenza  dell'  altro  pili  anziano, 
Jacopo  da  Acqui,  potrebbe  avere  conosciuto  di  persona  {^^),  a  noi 
riescirebbe  lecito  per  siffatta  guisa  riconoscere  il  misterioso  te- 
stimone dell'  agonia  di  Manfredi,  di  cui  andiamo  in  traccia,  se  un 
terzo  personaggio  non  si  facesse  innanzi  a  vantar  ancor  esso 
qualche  diritto  alla  nostra  attenzione.  E  questi  Enrico  di  Filippo 
conte  di  Ventimiglia,  chiamato  talvolta  anch'  egli  ne'  documenti 
contemporanei  col  diminutivo  d'  Enrichetto,  il  quale  trapiantò  nel- 
r  isola  di  Sicilia  1'  antica  sua  stirpe.  Marito  d' Isabella  contessa 
di  Gerace,  investito  da  Manfredi,  che  lo  diceva  suo  fedele  e  con- 
sanguineo, di  molti  feudi  e  tra  gli  altri  del  contado  d' Ischia 
maggiore,  mandato  verso  il  1260  dal  sovrano  svevo  a  reggere  in 
qualità  di  suo  vicario  la  Marca  Anconitana  {*^);  il  valoroso  ba- 
rone fu,  come  ben  si  comprende,  compagno  a  Manfredi  negli 
ultimi  casi  di  sua  vita;  prese  parte  alla  battaglia  fatale  e,  seb- 
bene vi  corresse  grave  pericolo,  giunse  ad  uscirne  incolume,  ri- 
parando, secondoché  scrive  Saba  Malaspina,  in  Sicilia  (^').  E  due 
anni  appresso  tra  i  partigiani  di  Corradino,  che  nell'  agosto  si  rac- 
colsero a  convegno  presso  d' Ischia,  egli  pure  ricompare  {*^). 

Non  a  torto  pertanto  potrebbe  qualcuno  vedere  nel  consan- 
guineo di  Manfredi,  la  vita  del  quale  si  prolungò  fino  quasi  al- 
l'ultimo decennio  del  secolo  tredicesimo  (^^),  colui  che  ne  raccolse 
le  parole  novissime.  Ma  le  mie  preferenze  sarebbero  pur  sempre, 
debbo  confessarlo,  per  il  barone  pavese,  per  Enrico  di  Sparvara, 
che  non  solo,  come  s'ebbe  già  occasione  di  accennare,  fu  ancor 
egli  coetaneo  o  quasi  dell'autore  dell'  Imago  mundi,  ma  nel  corso 
della  sua  esistenza  si  trovò  probabilmente  ad  avere,  al  pari  del 
suo  congiunto  ed  omonimo,  il  conte  di  Marsico,  come  possessore 
di  feudali  diritti,  frequenti  relazioni  con  istituti  e  persone  spet- 
tanti a  quella  città  per  l'appunto,  donde  il  cronista  aveva  tratto 
i  natali  {*^}. 

Ma,  dacché  siamo  in  cammino,  non  potremmo  noi  far  ancora 


—    129  — 

un  passo  innanzi  e  cercar  di  stabilire  qual  fosse  cotesta  narra- 
zione della  battaglia  di  Benevento,  in  cui  tanto  notabil  parte  era 
stata  concessa  al  valoroso  conte  di  Sparvara?  Il  racconto  del- 
l' Imago  mundi,  può  forse,  cosi  mutilo  coni'  è,  recare  qualche  lume 
anche  sopra  questo  punto.  Le  parole  che,  per  quanto  si  raccoglie 
da  esso,  Manfredi  avrebbe  pronunciato  innanzi  di  morire,  sareb- 
bero state  le  seguenti  :  Deus  propitius  csto  niilii  peccatori.  Ora  io 
non  credo  d' andare  lungi  dal  vero  riconoscendo  in  queste 
cinque  parole,  che  si  pretendono  uscite  di  bocca  allo  Svevo 
spirante,  un  verso  ritmico  di  quattordici  sillabe;  un  verso,  il 
quale,  singolare  combinazione!  è  quasi  identico  ad  altro  che 
forma  parte  d'  un  componimento  goliardico,  venuto  alla  luce  nel 
secolo  dodicesimo  ed  in  Francia,  ma  divulgatosi  rapidamente  per 
tutt*  Europa,  e  cosi  popolare  ancora  tra  noi  quasi  cent'  anni  dopo, 
che  fra  Salimbene  non  disdegnò  di  trascriverlo  intero  nella  Cro- 
naca sua,  la   Confcssio  Priviatis  : 

Tunc  occurrent  citius  angelorum  chori  : 

Sit  Deus  propitius  mi  hi  peccatori  (■*■•). 

Ma  se  la  suprema  prece  di  Manfredi  era  nel  documento  di  cui 
Jacopo  da  Acqui  ci  ha  conservato  comecchessia  un  compendio, 
racchiusa  dentro  1'  ambito  d'  un  verso,  non  sarà  lecito  congettu- 
rare che  il  documento  stesso  fosse  per  intiero  versificato?  Ove 
s'  accogliesse  codest'  ipotesi,  noi  potremmo  concludere  che  a  com- 
pilare il  suo  capitoletto  1'  autore  dell'  Imago  mundi  siasi  giovato 
d'  un  ritmico  componimento  latino,  nel  quale  coi  modi  stessi  che 
furono  tra  di  noi  a  mezzo  il  Dugento  tanto  graditi  ai  dettatori 
di  poesie  bellicose  e  politiche,  ma  con  sentimenti  ghibellini,  erasi 
cantata  la  pugna  presso  Benevento  e  pianta  la  morte  di  Man- 
fredi (^•=). 

Che  l'Alighieri  poi  abbia  conosciuto  1' una  o  l'altra  delle  due 
tradizioni  fin  qui  analizzate,  le  quali  tendevano  per  diversa  via  al 
fine  medesimo,  io  non  oserei  affermare;  ma  la  cosa  in  ogni  modo 
avrebbe  scarsa  importanza.  Giacché  questo  premeva  a  noi  di  met- 

NoVATf.  9 


—  I30  — 

tere  in  chiaro:  che  il  pensiero  di  collocare  Manfredi  tra  gli  eletti, 
piinia  ancora  che  1'  Alighieri  lo  concepisse,  era  già  sorto  spon- 
taneo nella  coscienza  di  una  parte  almeno  degli  Italiani,  i  quali 
r  aveano  in  piti  e  varie  guise  manifestato,  opponendo  cosi  una 
magnanima  resistenza  al  furor  cieco  d'  accusatori  che  non  teme- 
vano di  profanare  la  santità  della  morte  (^').  E  poiché  quest'  in- 
tento si  è  raggiunto,  mi  sembra  lecito  afiFermare  che  la  salvazione 
di  Manfredi  non  germinò  nella  fantasia  del  poeta,  ma  gli  fu  sug- 
gerita dalla  tradizione  {*^).  Studioso,  quale  ei  fu,  di  leggende  e 
di  popolari  racconti,  Dante  dovette,  giovine  ancora,  porger  avido 
orecchio  a  quanto  gli  venivan  narrando  i  rappresentanti  di  quella 
generazione,  che  ne  aveva  veduti  i  trionfi  e  la  caduta,  intorno 
all'illustre  figliuolo  di  Federigo  II.  E  l'asserzione  con  insistenza 
ripetuta  che  Manfredi  non  fosse  morto  impenitente,  ma  avesse 
finito  la  parola  nel  nome  divino,  sicché  crudele  ed  ingiusto  era 
stato  il  rifiuto  di  comporne  la  salma  in  terra  consacrata,  egli  ac- 
colse neir  altissima  mente  per  trarne  più  tardi  inspirazione  ad  un 
episodio  sublime  come  poesia,  solenne  come  ammaestramento. 


NOTE 


(')  Cfr.  ad  es.  G.  Poletto,  Dizionario  Dantesco,  Siena,  1886,  v.  IV,  p.  219  e 
V.  anche  l'edizione  da  lui  curata  della  Coiitedia,  Roma,  1894,  v.  II,  p.  62. 

("')  Pnrg.  Ili,   133  sgg. 

(3)  Cfr.  F".  d'  Ovidio,  E.  Little,  L'  Eit/er  de  Dante  in  Nuova  Antologia,  se- 
rie li,  V.  XV,  1879,  p.  756  sgg. 

{*)  Purg.  Ili,  139  sgg. 

(^)  Fitit  in/esttis  ecclesiae,  dice  il  Ranibaldi,  licet  pater  plus  ....  Cfr.  Benven. 
DE  Rambaldis  de  Imola  Coment,  sup.  D.  A.  Conioediant,  ed.  Lacaita,  Florentiae, 
MDCCCLXXXVII,  tom.  Ili,  p.  109. 

C")  Cfr.  G.  Villani,  Istorie  fiorentine,  lib.  VI,  cap.  XLVl,  LXXXVIII,  ecc. 

(")  Unde  si  magno  tempore  vixisset,  posuisset  totani  Ytaliatn  in  fontetn 
libidinis  (1.  ita?)  quod  Ecclesia  ad  minimum  devenisset.  Cosi  Fra  Jacopo  da 
Acqui,  Cliroiiicon  Iinaginis  mundi  in  Alonum.  Hist.  Patriae,  Script,  tom.  Ili, 
e.  1592,  in  quel  capitolo  De  vanitatibus  regis  Manfredi,  che  è  la  descrizione  della 
corte  di  Puglia  qual  poteva  farla  un  giullare,  ma  riprodurla  un  frate. 

(**)  Nel  Rliytlimtis  de  Victoria  Caroli,  che  è  stato  pubblicato  da  A.  Blsson, 
Die  Scìilacht  bei  Alba  swiscli.  Konradin  u.  Karl  von  Anjou,  1268  in  Deutsche 
Zeitschr.  fi'ir  Gcscliichtswissenschaft,  v.  IV,  1890,  p.  275  sgg.,  si  leggono  questi 
versi  : 

Matfredus,    qui    magi  e  e    nitebatur    carte, 
Novit    de    qua    Carolus    servicbat    arte. 

Cfr.  anche  Cian,  Sulle  orme  del  Veltro,  Messina,   1897,  P-  28. 

(9)  Cfr.  De  vulg.  elocj.  I,  xii. 

i}'^)  Cfr.  F.  d'Ovidio,  Guido  da  Montefeliro  nella  D.  C.  in  Nuova  Antologia, 
serie  III,  v.  XXXIX,  1892,  p.  236  sgg. 

(!')  Franc.  da  Buti,  Coiiim.  sopra  la  D.  C.  di  D.  A.,  ed.  Giannini,  Pisa, 
1858,  tom.  Il,  p.  71. 

(12)  Op.  e  loc.  cit.  Degli  altri  commentatori  antichi  nessuno  reca  intorno 
alla  morte  ed  alla  salvazione  di  Mjtnfredi  ragguagli  che  valgano  la  pena  d'essere 
citati  da  noi. 

(13)  Al  racconto  di  Iacopo  da  Acqui  ha  fatto  una  fuggevole  allusione  il  Ne- 
CRONi,  La  tomba  di  re  Manfredi,  in  L'Alighieri,  a.  I.  1890,  p.  105,  e  le  sue  parole 
sono  state  riprodotte  letteralmente  dal  Poletto,  La  D.  C,  v.  II,  p.    69.   Un'  altra 


—  132  — 

allusione  si  p^l^  rinvenire  presso  il  Torraca,  La  scuota  pocl.  sic,  in  TV.  Atìt.^ 
Serie  III,  v.  I.IV,  1894,  p.  ^6ó.  Della  narrazione  dell' Anonimo  Fiorentino  ninno 
invece,  eh'  io  sappia,  prima  d'  ora  ha  discorso. 

('^)  Comiiifiito  alla  D.  C.  d'  Anonimo  Fiorentino  del  sec.  XIV  ora.  per 
la  prima  volta  stamp.  a  cura  di  P.    F  anfani,  Bologna,   1868,  tom.  II,  p.  5)  sggr. 

[}•')  Alle  profezie  in  odio  di  Manfredi,  che  furon  edite  rial  Lami  e  dal  Bozzo, 
ed  altresì  dal  Winkei.mann,  l'erse  auf  Kónig  Manfred  u.  Karl  von  Anjou  in 
Forschuugen  zar  Dentsch.  Gescli.,  XVIII,  1878,  p.  477  sgg.,  e  ricordate  testé  dal 
CiAN,  op.  cit.,  p.  26  Sgg.,  devesi  aggiungere  pur  quella  che  sta  nel  cod.  I.aur. 
Santa  Croce  PI.  XX  sin.,  9,  in  calce  alla  trascrizione  dell'opera  di  Valerio  Mas- 
simo. Essa  ha  questo  di  curioso  che  vien  attribuita  cosi  qui,  come  in  un  ms. 
Muoni,  al  diavolo  :  Versus  diaboli  contra  Man/redimi.  Cfr.  Bandini,  Cai.  Codd. 
Lai.  Bibl.  Med.  Laiir.,  tom.  1\',  e.   150  sg. 

('<')  Chronic.  cit.,  e   1505. 

('")  Cfr.  P.  P.  Rodotà,  Dell'  orig.,  progresso  e  stato  presente  del  rito  greco  in 
Italia,  Roma,  MDCCLVIII-LX,  lom.  II,  lib.  II,  cap.  VII,  p.  131. 

(18)  Per  il  tempo  in  cui  il  Bellingeri  dettò  la  oronaca  v.  la  prefazione  pre- 
messa da  G.  Avogadro,  all'edizione  eh' ci  ne  curò,  op.  cit.,  p.  7. 

(•")  Un  lavoro  accurato  d' indagine  sui  fonti  dell'  Imago  mundi  rimane  ancora  a 
fare;  per  taluni  recenti  studi  su  di  essa  v.  però  Potthast,  Bibl.  In'st.  m.  aevi"^,  I,  631. 

('")  E  noto  come  della  morte  di  Corradino  Fra  Jacopo  dia  particolari  eh'  ei 
dice  tolti  dal  racconto  d'  un  testimonio  oculare  :  Et  qui  fttit  omnibus  hiis  prae- 
sens  scripto  rnandavit .  . .  .  Chron.  cit.,  e.   1598. 

(^')  Anche  il  racconto  della  calata  di  Corradino  in  Italia  si  rivela  a  chi  Io 
legga  con  attenzione  come  uno  stringatissimo  sunto  di  più  diffusa  esposizione. 

(^*)  Cfr.  Sabae  Malaspinae,  Rer.  Sicular.  lib.  IH,  cap.  XIII  in  Muratori, 
Rer.  It.  Scr.  Vili,  e.  829-30:  lu.vta  cadaver  Manfredi  compertum  est  corpus  Theo- 
baldi  de  Aniballis,  qui  semper  in  pugna  Manfreduin  e  vestigio  sequebatur. 

('^)  Questi  rami,  che  nella  seconda  metà  del  sec.  XII  erano  tre,  salirono  in 
due  secoli  circa,  a  dodici,  per  quanto  assevera  il  Dionisotti,  Lomello  ed  i  conti 
palatini  \n  Illustrazioni  star,  corograf.  della  reg.  subalpina,  Torino,  1898,  p.  15; 
ma  i  principali  rimasero  però  sempre  quelli  di  Langosco  e  di  Sparvara,  il  primo 
de' quali  vive  tuttora,  mentre  il  secondo  s' estinse  sulla  fine  del  secolo  XVIII 
(  cf.  Dio.NisoTTi,  op.  cit.,  p.  15,  n.  3)  in  Teodoro  figlio  di  Francesco.  I  signori  di 
.Sparvara  aveano  tolto  il  nome  da  una  terra  della  Lomellina,  situata  presso  Gam- 
barana  ed  oggi  scomparsa  (  da  .Sparvara  si  nomina  tuttavia  anche  adesso  una 
fraz.  del  comune  di  Gagliavola,  Prov.  di  Pavia);  la  quale  appare  già  ricordata 
sotto  la  forma  Sparoaria  in  un  documento  nonantolano  del  993;  cf.  Robolini, 
Notizie  apparten.  alla  storia  della  sua  patria,  Pavia,  1826,  voi.  II,  p.  280.  E  Spar- 
varia  dicevasi  pur  sempre  nel  sec.  XIII  ;  ma  nelle  storie,  per  colpa  de'  copisti, 
questo  nome  soffri  alterazioni  non  lievi,  talché  il  conte  Enrico  vedesi  da  più 
scrittori,  anche  recenti,  ricordato  erroneamente  quale  signore  di  Sparnaria,  Sper- 
naria,  Spreveria,  ecc. 

('^)  Da  Pavia  i  conti  di  Lomello  furono  cacciati  nel  1024;  la  distruzione  del 
loro  borgo  e  castello,  perpetrata  dai  Pavesi,  segui  poi    nel    1 155.    Per   la    storia 


—  133  — 

antichissima  di  questa  famiglia,  della  quale  le  origini  rimangono  oscure,  oltreché 
il  GiuLiM,  Mem.  spett.  alla  storia.  ...  di  Milano,  Milano,  1854,  v.  II,  p.  107,  III, 
439,  ed  il  RoBOLiM,  op.  cit.,  voi.  IV,  parte  I,  p.  372  segg.,  v.  anche  G.  Casalis, 
Dizion.  geogr.  star,  stalist.  coiiuiierc.  degli  Sta/i  di  S.  M.  il  Re  di  Sardegna,  To- 
rino, 1841,  V.  IX,  p.  931  sgg.  11  lavoro  testé  citato  del  Dionisotti  ofTre  altresì 
parecchie  notizie;  ma,  come  succede  quasi  sempre  degli  scritti  di  quel!"  erudito, 
è  faragginoso  ed  inesatto. 

(?5j  Come  risulta  da  tal  documento,  dato    alla    luce    dal    Roisolim,    op.    cit., 

V.  IV,  par.  I,  p.  375  sg.,  Enrico  era  figlio  di  Guido  d'  Aicardo.  V.  anche  Dio.msotti, 
op.  cit.  p.  15. 

(•*')  I  documenti,  che  concernono  alle  contese  insorte  tra  il  conte  di  Lomello 
ed  il  monastero  di  S.  Maria  d' Acqui,  a  cagione  del  convento  detto  "  delle 
Donne  „,  edificato  sotto  il  titolo  di  S.  Michele  del  Bosco  su  quel  di  Zibido 
<  sicché  dicevasi  ecclesifi  S.  Michaelis  de  Zebede),  nella  terra  di  Marza,  sono  stati 
pubblicati  da  G.  A.  Moriondo,  Monumenta  Aquensia,  Taurini,  MDCCLXXXIX, 
Pars  I,  e.  493  sg.,  n.  59,  60;  Par.  11,  e.  854.  E  cfr.  pure  Robolint,  op.  cit.,  v.  IV, 
par.  I,  p.  425. 

(-")  Ved.  V.  Mandklli,  //  connine  di  Vercelli  nel  ni.  evo,  Vercelli,  1858,  to.  I, 
p.  308  sgg.  Dai  documenti  consultati  da  quest'  egregio  erudito  rilevasi  che  Enrico 
durò  in  carica  per  un  anno,  a  cominciare  dal  1269.  Egli  intitolavasi  Enricus  pa- 
lalinus  Comes  Lauinelli  imperiali  mandalo  potestas  Vercellarmn.  Nel  giugno  del  1250 
gli  vediamo  sostituito  un  suo  congiunto,  Goffredo  di  Langosco  (Manuelli,  op. 
cit.,  to.  Ili,  App.  Il,  p.  276  sg.  ). 

('")  Tanto  risulta  da  un  diploma  di  Corrado  IV'  in  data  17  nov.  1253,  che  fu 
ripubblicato  da  E.  Winkel.mann,  Ada  Imperli  inedita  saec.  XIII  et  XIV,  Inn- 
sbruck,  1880,  v.  I,  p.  409  sg.,  n.  491,  e  che  merita  considerazione  anche  per 
il  fatto  che  vi  appaiono  fuse  insieme  in  un  solo  ufficiale  le  funzioni  del  Capitano 
e  quelle  del  Giustiziere:  cf.  Ficker,  Forsclning.  cur  Reichs-und  Rechtsgesch.  Ita- 
ìiens,  Innsbruck,  1868,  v.  I,  §  203,  14;  Capasso,  Ilisl.  diplom.  regni  Siciliae  inde 
ab  a.  i2jo  ad  a.   1266,  in  Atti  della  R.  Accad.  di  Archeol.,  ecc.,    Napoli,   1874,  v. 

VI,  par.  Il,  p.  56,  n.  104:  Boeh.mek,  Regesta  Imperli,  W,  Die  Regesten  des  Kaiser- 
reichs,   1198-1272,  ed.  Ficker,  Innsbruck,   1882,  p.  8^^,  n.  4Ó15. 

(?^)  Cf.  Nicolai  de  Iamsilla  (o  chi  altri  egli  sia)  Ilist.  in  Muratori /?«■>-.  It. 
Scr.io.  Vili,  e.  536;  e  cf.  pure  gli  altri  fonti  contemporanei  additati  dal  Capasso 
op.  cit.,  p.  87,  n.   179,  e  dal  Boeh.mer,  op.  cit.,  p.  856. 

(30)  Iamsilla,  op.  cit.,  e.  562  sgg.  Il  conte  Enrico  si  parti  da  Montesano  il 
I  giugno  1255  per  esplorare  le  mosse  de' papalini  ch'erano  a  Bulfida.  Allonta- 
natosi dai  suoi,  cadde  nelle  mani  de'  nemici,  ma,  non  avendo  costoro  indovinato 
chi  egli  si  fosse,  potè  svignarsela,  grazie  alla  scaltrezza  propria,  ed  all'aiuto  d'un 
manipolo  d'arcieri  saraceni  che  sovraggiunse  opportuno. 

Nel  giugno  del  1256  poi,  lasciato  da  Manfredi  nella  terra  di  Lavoro  come  suo 
capitano  generale,  espugnò  i  castelli  di  Sora  e  di  Rocca  d'  Arce,  che  ancor  op- 
ponevano resistenza,  talché  ridusse  tutt'  intera  quella  provincia  all'  ubbidienza 
verso  il  novello  sovrano:  cf.  Iamsilla,  op.  cit.,  e.  581;  Capasso,  op.  cit.,  p.  121, 
n.  242;  B0EH.MER,  op.  cit.,  p.  860. 


—  134  — 

(•''•)  C(.  Iamsii.la,  op.  cit.,  0.  578  sg.;  Capasso,  op.  cit.,  p.  115,  n.  233;  Boehmer, 
op.  cit.,  p.  859  sg.,  n.  4654:  Dei.  Giudice,  Rice.  Filangieri  al  lempo  di  Feder.  II., 
di  Corrado  e  di  Manfredi  in  Arch.  Star,  per  le  Prov.  Napoletane,  a.  XVII,  1892, 
P-  537>  5-<2.  Il  Del  Giudice,  a  proposito  di  questa  investitura,  notava  essere 
"  dubbio  „  se  la  prima  concessione  del  feudo  di  Marsico  novo  al  conte  Enrico 
tosse  stata  fatta  da  Federigo  o  da  Manfredi;  ma  il  documento  del  1253,  già  da 
noi  citato,  non  lascia  adito  a  dubbiezza  di  sorta:  il  da  Sparvara  non  potè  otte- 
nere Marsico  che  da  Federigo  o  da  Corrado,  se  già  nel  1253  n^  risulta  in- 
vestito. 

('-)  Il  testo  originale  dell'Inquisizione  è  andato  smarrito  (cf.  Dei.  Giudice 
op.  cit.,  XVII,  542),  talché  oggi  non  se  ne  ha  che  un  magro  sunto,  inserito  dal 
De  Lellis  ne'"  Notamenti  „  suoi  sui  fascicoli  Angioini  dell'Archivio  di  Napoli, 
fatto  conoscere  dal  Minieri-Riccio,  /  notamenti  di  M.  Spinelli  difesi  ed  illustrati, 
p.  253.  Cf.  Capasso,  op.  cit.,  p.  349. 

(33)  G.  di  Cesare,  Storia  di  Ma>ifrcdi  re  di  Sicilia  e  di  Puglia,  Napoli,  1837, 
V.  I.  p.   185. 

(^*)  Op.  cit.,  XVII,  p.  542,  nota. 

(35)  Ann.  Plac.  Gihell.  in  Mon.  Gerin.  Hist.,  Script,  to.  XVIII,  p.  553:  "  Eodem 
"   tempore  comes  Anrigetus  de  Sparroeria,  civis  Papié,  prò  comuni  Papié 

*  ivit  in  Alamaniam  ad  ortandum  et  adcellerandum  adventum  domni  Frederici 
"  tertii  regis  Scicilie  et  theutonicorum,  qui  cotidie  prestollantur.  Et  predicta 
"  omnia  acta  sunt  et  tractata  per  marchionem  Montisferati  de  voluntate  domini 
"  Ricardi  de  Onibalibus  et  domni  Octaviani  et  Oberti  de  Cotonaria  et  aliorum 
"  cardinalium  ecclesie    Romane,    ad    quorum    curiam    dictus    Marchio    de    mense 

*  madii  pcrrexit,  etc.  „.  Cf.  Robolini,  op.  cit.,  v.  IV,  part.  I,  p.  170  sgg.,  181,  il 
quale,  oltre  questo,  ricorda  altri  fatti,  che  valgono  a  provare  come,  ad  onta  della 
sciagurata  fine  di  Corradino  (23  ap.  1268),  non  avesse  cessato  di  prevalere  in 
Pavia  la  fazione  ghibellina,  di  cui  i  conti  di  Langosco,  Sparvara,  Gambarana,  i 
signori  di  Sannazzaro,  Pescarolo,  ecc.,  erano  i  capi. 

(36)  Ved.  p.  841. 

(3")  Maxdelli,  op.  cit.,  to.  Ili,  p,  278:    "    1281.    Podestà  "  Comes  Enricus  de 

*  Sparvaria  „;  p.  279:  "  1282.  Podestà  "  Enricus  de  .Sparvaria  Comes  Palatinus 
"  de  Lomello  „. 

(3*)  *  In  eodem  quoque  colloquio,  presente  ibi  multitudine  fidelium  copiosa, 
"  comitem  Henriketum  de  Sperveria....  et  omnes  alios  familiares  et 
"  fautores    predicti    Manfredi    manifeste    inonuimus    eisque    stride    precepimus, 

"   ut a  prefato  Manfredo  omnino  discedcrent  „.  Lett.  di  papa  Alessandro  IV 

in  WiN'KELMAXN,  op.  cit.,  v.  Il,  p.  726  Sg.,  n.   1044. 

(3^)  Ove  si  supponga  che  Enrichetto  fosse  nato  nel  1235,  egli  avrebbe  toccato 
i  vent'  anni  al  momento  del  colloquio  di  Napoli  ed  i  trenta  allorché  prese  parte 
alla  battaglia  di  Benevento.  Talché  quando  si  concedesse  eh'  egli  sia  vissuto  an- 
cora quarant' anni,  la  sua  morte  potrebbe  reputarsi  seguita  verso  il  1315.  Ma 
ne' primi  lustri  del  sec.  XIV  era  già  uomo  fatto  per  fermo  anche  l'autore  del- 
l' Imago  ntundi. 

(*")  Parecchie  buone  notizie  intorno  a  lui  raccolse  già    illustrando    la  genea- 


—  135  — 

logia  de'  conti  di  Ventimiglia,  da  documenti  sincroni  P.  Gioffredo,  Storta  delle 
Alpi  marittime  in  Moìt.  Hist.  Patriae,  Script.,  II,  e.  598  sgg.  Altre  ne  aggiunsero 
poscia  G.  Capasso  nella  sua  già  citata  Hist,  p.  201,  n.  338,  338;  p.  205,  n.  3^3, 
p.  313,  n.  358:  p.  313,  n.  516,  ecc.;  e  quindi,  in  tempi  recentissimi,  F.  Savio, 
/  conti  di  Ventimiglia  nei  sec.  XI,  XII  e  XIII  in  Giorn.  Ligustico,  XX,  1893, 
p.  ^56,  .\6\  sg.  Della  parentela  ond'  era  legato  il  conte  d' Ischia  a  Manfredi  è 
resa  testimonianza  in  un  diploma  di  costui,  che  si  può  leggere  in  Winkelmann, 
op.  cit.,  V.  I,  p.  416  sg.,  n.  501. 

(^')  S.  Malaspina  Rer.  Siciilar.  Historia  lib.  Ili,  cap.  XII,  in  Muratori,  Rer. 

It.  Scr.  to.  Vili,  e.  829:  "  Galvanus,  inquam,  et  Fredericus, Enricus  etiam, 

"   qui   Gallicorum  faciem  expavescens,  in  Siciliam  profugus  applicat, de  Man- 

"  fredino  exercitu  tot  supersunt  „. 

{**)  Cf.  Capasso,  op.  cit.,  p.  205,  n.  3^3. 

(<3)  I  documenti  più  recenti  per  data  che  lo  ricordino,  spettano  al  1285;  cf. 
Savio,  op.  cit.,  p.  461. 

{**)  Fratr.  Salimbenis  Chronicon,  Parmae  MDCCCLVII,  p.  44.  Un'  illustra- 
zione critica  e  storica  insieme  della  Coitfessio  si  può  vedere  in  Hauréau,  Notice 
sur  un  ms.  de  la  reine  Christine  etc,  in  Notic.  et  Extr.  des  Mss.  de  la  Bibl.  Nat., 
to.  XXIX,  par.  II,  p.  253  sgg.  Nel  verso  che  ci  interessa,  a  tacer  d'  altre  varianti, 
alcuni  codd.  in  luogo  di  mihi,  dato  da  Salimbene,  recano  tanto  oppure  huic. 

(<5)  Non  vogliamo  però  passar  sotto  silenzio  come  la  prece  che  Manfredi 
avrebbe  mormorata  morendo,  risonasse  spesse  volte  nell' iden  t  i  e  a  forma,  sulla 
bocca  del  Serafico  d'  Assisi,  quando  più  era  assorto  nelle  mistiche  sue  contem- 
plazioni. Ecco  invero  quanto  scrive  colui,  eh'  io  persisto  a  ritenere  il  più  antico 
e  più  autorevole  biografo  di  S.  Francesco,  fra  Tommaso  da  Celano:  "  Quadam 
"  vero  die ....  locum  orationis  petit,  sicut  et  saepissime  faciebat,  ubi,  cum  diu 
"  perseverarci...  frequentcr  replicans  verbum  illud:  Deus,  propitius  esto 
"  mihi  peccatori,  quaedam  laetitia  indicibilis  . . . .  sensim  coepit  cordis  eius 
"  intima  superinfundere,  etc.  „:  B.  Tomm.  da  Celano  Vita  prima  di  S.  F.  d' A., 
ed.  Amoni,  Roma,  1880,  cap.  XI,  p.  52.  Or  questo  curioso  riscontro  è  tale  da 
far  nascere  in  noi  il  sospetto  che  la  preghiera  di  Manfredi  fosse  una  vera  e 
propria  giaculatoria  sorta  forse  in  tempi  ben  anteriori  al  secolo  XIII  ed  in  questo 
poi  divulgatissima;  talché  l'ipotesi  nostra  che  la  forma  ritmica,  della  quale  nella 
cronaca  di  fra  Iacopo  da  Acqui  appare  vestita,  potesse  rinvenire  la  sua  ragione 
d'  essere  nel  fatto  eh'  era  stata  dedotta  da  un  componimento  in  versi  ;  ne  ver- 
rebbe scossa.  E  tornerebbe  allora  forse  più  conveniente  il  congetturare  che  la 
pia  orazione  si  stimasse  possedere  qualche  arcana  efficacia;  il  che,  come  a  tutti 
è  noto,  credevasi,  nell'  età  di  mezzo,  d'  assai  preci  e  formulette  e  scongiuri.  Co- 
munque sia  di  ciò,  noi  ricaveremo  ad  ogni  modo  anche  da  questo  fatto,  che  ci 
e  sembrato  necessario  additare  agli  studiosi,  un  incitamento  a  procedere  sempre 
guardinghi  (e  non  già  "  timidi  „,  come  s'è  lasciato  un  po' a  torto  sfuggire  dalla 
penna  a  proposito  delle  presenti  indagini  nostre,  un  egregio  collega)  sul  terreno 
tanto  lubrico  delle  ipotesi.  Le  affermazioni  "  recise  „  stanno  bene,  allorché  pos- 
sono recarsi  innanzi  a  risolvere  controversie  storiche  o  letterarie    de'  fatti    certi, 


—  136  — 

de" dati  positivi;    non  già   quando  ci  si  trovi  costretti  a  ricercare   pazientemente, 
e  solo  per  via  di  congetture,  quello  che  si  stima  dover  essere  il  vero. 

(<S)   Ci".   F.   Lenormant,  a    travet  s    l' ApuHe  et  la   Lticaine,    Paris,  1883,    v.   I, 
p.   106  sgg. 


V. 

LA   <  SQUILLA  DI  LONTANO  »   E  QUELLA 
DELL'  A  VE  MARIA  ? 


Era  già  1'  ora,  che  volge  '1  disio 

A'  naviganti,  e  intenerisce  il  core. 

Lo  di  eh' han  detto  ai  dolci  amici:  a  Dio; 

E  che  lo  novo  peregrin  d'  amore 

Punge,  se  ode  squilla  di  lontano. 

Che  paia  '1  giorno  pianger  che  si  muore. 

Pttrg.,  Vili,   1-6. 

Se  noi  diamo  un'occhiata  a  tutti  i  commentatori  moderni,  in 
mezzo  alle  manifestazioni  pressoché  identiche  d'  un'  ammirazione 
sincera  per  quanto  tradizionale,  noi  scorgeremo  far  sempre  capo 
lino  una  medesima  asserzione:  La  squilla  di  lontano,  che,  udita 
dal  novo  peregrino,  gli  punge  si  forte  il  core,  è  quella  che  suona 
y  Ave  Maria.  "  Squilla  —  dice  il  padre  Lombardi  (e  cito  qui  di 
preferenza,  come  ben  s' intende,  tra  gli  interpreti  danteschi  ta- 
luni più  soliti  a  lavorare  di  testa  che  di  forbici)  —  campana,  che 
"  con  mesto  suono  e  quasi  da  morto,  come  tra  cattolici  si  pra- 
"  tica  nel  suonare  su  1'  imbrunir  dell'  aria  1'  Ave  Maria  ed  in  al- 
"  cuni  paesi  anche  il  De  profundis,  sembri  piangere  il  terminare 
"  del  giorno  „  (').  Ed  un  altro  padre,  il  Cesari,  colla  consueta 
sua  vivacità:  "  Non  vi  par  sentire  quel  fioco  tintin  dell' Avem- 
"  maria  che  suoni  in  qualche  villa  a  due  o  tre  miglia?  Il  quale, 
"  per  cagione  della  luce,  che  è  quasi  morta  tutta,  e  di  quel  si- 
"  lenzio,  vi  par  proprio  un  sonare  a  morto?  „  (").  E  Brunone 
Bianchi  :  "  La  campana  a  cui  si  vuole  accennare  é  quella  che 
"  invita  all'Ave  Maria  della  sera,  e  che  veramente  udita  in  qual- 


—   140  — 

"  clic  distanza  quando  ogni  cosa  si  tace  e  l'ombra  s'avanza, 
"  pare  che  pianga  il  giorno  che  finisce  ....  E  qui  si  noti  come 
"  r  Alighieri  non  solo  rispetta  religiosamente  i  donimi  della  Santa 
"  Chiesa,  ma  anche  le  pie  credenze  e  le  divote  osservanze,  onde 
"  a  tempo  sa  trar  partito  per  toccare  il  cuore  dei  suoi  leggi- 
"  tori  „  (^).  E  la  stessa  canzone  ripetono  concordi  il  Venturi,  il 
Biagioli,  il  Fraticelli,  il  Bennassuti,  il  Poletto,  ed  altri  ancora, 

Semplici  e  qiieti,  e  lo  'nipcrchc  non  sanno  ('). 

Se  dai  moderni,  trascurando  quelli  del  quattro  e  del  cinque- 
cento {^],  noi  discendiamo  agli  espositori  più  antichi  del  poema 
divino,  r  aftermazione  che  la  squilla  dantesca  sia  quella  deW  Ave 
Maria,  non  ci  si  presenta  all'  opposto  se  non  presso  un  solo. 
Benvenuto  da  Imola,  il  quale  cosi  dichiara  il  verso  quinto:  "  se 
"  ode  squilla  di  lontano  „  :  Idesi  si  audii  canipanain  pn/santeni  a 
loiige  ad  Ave  Maria  (').  Gli  altri  trecentisti  o  parafrasano  vaga- 
mente le  parole  dell'  Alighieri,  senz'  identificare  però  la  "  squilla  „ 
con  un  bronzo  sacro  che  dia  il  segnale  d'  una  determinata  ora- 
zione, quali  Francesco  da  Buti  e  l' Anonimo  Fiorentino  ("),  o, 
come  r  Ottimo,  il  Della  Lana,  1'  Anonimo  Cassinese  e  fra  Gio- 
vanni da  Serravalle,  mettono  innanzi  altre  spiegazioni  su  cui  ri- 
tornerò tra  poco. 

Or  la  questione  ch'io  mi  propongo  di  svolgere  nella  presente 
postilla  sta  tutta  qui  :  Allorché  Dante  scriveva,  1'  uso  di  salutare 
la  Vergine  col  suono  de'  bronzi  sacri  e  non  sacri,  "  quando  cade 
"  il  die  „,  neir  ora  appunto  in  cui  secondo  la  comune  credenza 
Gabriele  le  disse:  ave;  era  veramente  diffuso  in  Italia? 

Come  di  tant'  altre  pie  consuetudini,  cosi  anche  di  questa  la 
storia  è  stata  già  da  tempo  e  più  e  più  volte  indagata,  ma  non 
senza  intorbidarla  e  falsarla  spesso  con  inesatte  ed  infondate 
asserzioni.  Parecchi  tra  i  men  recenti  scrittori  s'  accordarono  cosi 
nel  diffondere  la  credenza  che  1'  uso  di  salutare  con  rintocchi  di 
campana  la  Vergine,  dopo  il  tramonto,  fosse  stato  stabilito  da 
Urbano  II  (1088-1099)  in  occasione  della  Crociata  ch'egli  aveva 
bandita;  e  che,  caduto  poscia  in  abbandono,  avesse  rinvenuto  in 


—  141  — 

Gregorio  IX  (1227-1241)  un  nuovo  ed  efficace  promotore  (*).  Altri 
ancora,  sulla  fede  d' un  quattrocentista,  ufficiale  encomiatore  di 
san  Bonaventura,  s'  è  affrettato  ad  attribuire  al  pio  francescano 
l'introduzione  della  devota  osservanza  (");  "  grazie  a  lui  V  Aìi- 
"  ^n'/its,  poetico  appello,  partito  dall'  umile  campanile  de'  Minori, 
"  volò  —  dice  r  Ozanam  —  di  torre  in  torre  ad  allietare  il  con- 
"  tadino  sul  solco,  il  viandante  sul  cammino  „  (^').  Ma  coleste 
disparate  opinioni  non  hanno  verun  fondamento  storico,  non  reg- 
gono alla  critica,  né  possono  reputarsi  degne  di  fede,  come  a 
tempo  loro  provarono  il  Mabillon,  il  Lambertini,  il  Trombelli  ("), 
e  conferman  oggi  pienamente  i  più  competenti  trattatisti  di  scienze 
ecclesiastiche  ('^).  Anzi  il  dotto  autore  degli  Annali  di  s.  Bene- 
detto ed  il  futuro  papa  Benedetto  XIV  son  andati  tant'  oltre  da 
sentenziare  che  la  pia  costumanza  di  render  omaggio  col  suono 
dell'  Angelus  a  Maria  Vergine  non  ebbe  inizio  innanzi  al  secolo 
sedicesimo;  ed  in  questo  s'ingannarono  a  partito. 

Per  verità  al  devoto  costume,  già  adottato  prima  d'  allora  in 
una  chiesa  francese,  quella  di  Saintes  (^^),  ricordata  per  l' ap- 
punto a  titolo  d'  onore  dal  pontefice,  diede  solenne  principio  Gio- 
vanni XXII,  il  quale  nel  1318,  terz' anno  del  suo  pontificato, 
emanò  a  tal  intento  una  bolla  solo  parzialmente  pubblicata  dal 
Rinaldi  ('^).  Stabilivasi  con  essa  che  in  quolibet  noctis  crcpiisciilo 
campana  pulsdiir  d  (leggi  ut?)  ad  sonum  eiusdem  ipsi  fideles 
pracmissae  salutationis  vcrbum  diccrcnt  {^^').  A  stimolar  poi  meglio 
lo  zelo  de'  fedeli  stessi  il  papa  concedette  dieci  giorni  d' indul- 
genza a  chiunque  ciò  volesse  osservare;  ed  altri  ancora  ne  ag- 
giunse nel  1327,  anno  dodicesimo  del  suo  regno,  con  nuova  bolla 
in  data  7  maggio,  che  fu  pur  essa  dal  Rinaldi  messa  alla  luce  ("'). 
E  verso  il  medesimo  tempo,  forse  uno  o  due  anni  dopo,  alla  pre- 
scrizione della  sera  un'  altra  par  ne  facesse  seguire,  cosa  fin  qui 
non  avvertita,  concernente  al  mattino  ('•).  Così  1'  Ave  Maria  volò 
davvero  d' allora  in  poi  di  torre  in  torre  due  volte  al  giorno. 
Quando  ai  rintocchi  dell'  aurora  e  del  vespro  venissero  poscia 
ad  aggiungersi  quelli  del  mezzogiorno,  a  noi  non  importa  adesso 
chiarire  (^^). 


—    142    — 

11  non  spregevole  dono  ti' imlulgenze,  di  cui  papa  Giovanni  XXll 
aveva  voluto  largheggiare  con  quanti  si  piegassero  ad  assecon- 
dare il  suo  divoto  instituto,  contribuì  certo  efficacemente  a  pro- 
muovere nella  cristianità  tutta  quanta  1'  usanza  di  salutare  al  tra- 
monto la  \'crgine  col  suono  delle  squille  non  meno  sacre  che 
profane.  Le  città  nostre  andarono  a  gara  nell'  adottarla  ;  e  che 
in  Pavia  nel  1330  vigesse  già  da  un  bel  pezzo  ce  ne  reca  testi- 
monianza autorevole  quel  canonico  Giovanni  da  Mangano,  che 
scrisse  il  /iòcr  de  laxidibus  civitatis  Ticincnsis,  edito  come  ade- 
spoto dal  Muratori  (^^).  Lo  stesso  è  a  ripetere  per  Piacenza;  in 
quanto  a  Milano  l' introduzione  della  religiosa  osservanza  si  col- 
lega strettamente  ad  un  problema  ch'io  non  posso  per  il  mo- 
mento risolvere:  quello  cioè  della  data  emortuale  di  fra  Bonvesin 
della  Riva,  a  cui  l' iscrizione,  collocata  già  sul  suo  sepolcro  in 
San  Francesco,  dà  il  vanto  d'  aver  primo  fatto  risuonare  1'  Ave 
Maria  in  città  non  men  che  in  contado:  qui  primo  fccit  pulsavi 
campanas  ad  Ave  Maria  Mcdiolani  et  in  comitatu  (^").  Ma  poiché 
in  tutti  i  modi  la  vita  del  dabbene  Umiliato  non  può  essersi  pro- 
lungata molto  al  di  là  del  quarto  lustro  del  secolo  quattordice- 
simo, lecito  è  conchiudere  che  tra  le  repubbliche  lombarde  Mi- 
lano dovett'  esser  delle  prime  a  far  propria  la  novella  osservanza. 

Or  se  non  è  quella  dell'  Ave  Maria,  non  ancor  suonata  tra 
noi  quando  l'  Alighieri  poetava,  la  "  squilla  di  lontano  „  che  sarà 
dessa  mai?  Qui  ci  troviamo  in  presenza  di  due  soluzioni  entrambe 
probabili  e  confortate  di  prove;  esaminiamole  dunque  e  vediamo 
poi  quale  sia  da  preferire. 

Durante  tutta  l'età  medievale  come  al  di  là  de' monti  cosi 
anche  al  di  qua  vigoreggiò  il  costume  di  segnalare  con  rintocchi 
di  campana  lo  spirare  del  giorno.  Primo  effetto  di  questo  suono, 
che  spesso  dal  bronzo  stesso,  onde  si  sprigionava,  assunse  il 
nome  di  "  squilla  „  (''),  era  che  i  tavernieri  cessassero  di  vender 
vino  e  chiudessero  gli  ospizi  loro;  tantoché,  sebbene  a  seconda 
de'  luoghi,  come  il  Rezasco  ce  ne  assicura,  portasse  nomi  di- 
versi (■*),  la  campana  serale  potè  in  taluni  paesi  esser  chiamata 
la  "  campana  de'  bevitori  „  ("j. 


—  143  — 

Quant'  air  ora  in  cui  la  squilla  facevasi  udire  non  possediamo 
gran  copia  di  notizie;  ma  quelle  che  ci  son  giunte  concedono  di 
stabilire  che  per  lo  più  sonava  quando  il  giorno  stava  per  ter- 
minare. Generalmente  è  detto  infatti  che  sonava  de  scro;  a  Pisa 
all'ora  solita  (l'ora  cioè  stabilita  dai  magistrati,  variabile  proba- 
bilmente a  seconda  delle  stagioni),  ex  quo  obscunttii  est;  a  Pia- 
cenza —  ma  siamo  già  dopo  il  1336  —  si  distingue  la  campana 
che  suona  circa  lioram  cotnplctorii,  in  omaggio  alla  Vergine,  dalla 
serale  che  squilla  ///  prima  liora  noctis  fiora  consueta:  a  Pavia 
altresì  la  ski//a  ad  lioraìii  constilutam  dalla  campana  del  comune 
che  suona  pur  1'  Ave  Maria  ^^).  Come  si  vede,  dapertutto  i  rin- 
tocchi della  campana  si  facevano  insomma  sentire,  quando  "  l'aer 
s' annerava  „,  dapertutto  davano  principio  alla  notte  legale,  to- 
gliendo modo  a  chicchessia  d'  uscire  dalle  città  o  dai  borghi  e, 
quel  eh'  era  peggio,  d'  entrarvi. 

Or  son  questi  i  suoni  che  pungono  il  pellegrino  dantesco? 
Tale  è  1'  opinione  d'  un  antico  commentatore  della  Comedia,  fra 
Giovanni  da  Serravalle,  reputatissimo  teologo,  oratore,  professore 
ed  anche  diplomatico  ('''),  del  quale  1'  opera  poderosa  solo  da 
pochi  anni,  come  i  lettori  nostri  non  ignorano,  è  stata  fatta  di 
pubblica  ragione:  Quando  fxt  sero,  scriv' egli,  si  peregrini audiunt 
pulsare  imam  campanam,  que  vocatur  in  Ytalia  squilla,  quae  si- 
gnificat  finem  dici,  pungunt  se,  idest  conantur  velocius  ire,  propter 
applicare  ad  portam  antequam  claudatur  (^^'). 

La  spiegazione  che  il  buon  Francescano  dà  qui  della  "  squilla 
"  di  lontano  „  si  fonda  dunque  in  parte  sopra  un'  interpretazione 
del  testo  di  Dante,  che  noi  non  possiam  davvero  approvare.  Tra- 
durre infatti,  com'egli  fa,  i  versi: 

E  che  lo  novo  peregrin  d'  amore 

Punge,  se  ode  squilla  di  lontano, 

Che  paia  '1  giorno  pianger  che  si  muore; 

in  questa  maniera: 

Et  quod  tiovtts  peregrinus  aiiiotis 

Pmigit  se,  si  audii  sqiiillani  a  longe, 

Oitc  appareat  dietn  plorate  qui  inorititr ;  ('-"j 


—   144  ~ 

e  non  solo  falsare  il  pensiero  di  Dante,  ma  far  troppo  buon  mer- 
cato della  grammatica.  Sicché,  sebbene  anche  ad  altri  glossatori 
della  Comcdia,  contemporanei  di  fra  Giovanni,  quali  il  Rambaldi  ed  il 
Della  Lana,  sia  parso  di  discernere  in  mezzo  a  quel  miscuglio  d'af- 
fetti che  al  viandante  suscitano  in  petto  i  rintocchi  della  notturna 
campana,  anche  il  timore  di  non  giungere  in  tempo  a  procac- 
ciarsi un  sicuro  asilo  per  la  notte,  la  prima  notte  eh'  ei  passerà 
in  paese  straniero,  tra  gente  ignota  ij*)\  noi  staremo  contenti  a 
pensare  che  la  mestizia,  ond'  è  ingombra  la  mente  del  "  novo 
"  peregrino  „,  non  tragga  origine  da  preoccupazioni  cosi  medio- 
cremente poetiche,  ma  sgorghi  tutta  dall'  amoroso  desiderio 
de'  cari  lontani. 

Ma,  pur  ammesso  ciò,  nulla  ci  vieterebbe  di  consentire  nel- 
r  opinione  di  fra  Giovanni  che  la  squilla  dantesca  sia  semplice- 
mente la  campana  serale,  la  squilla  del  coprifuoco,  se  non  ci  ve- 
nisse innanzi  un'  altra  esplicazione,  la  quale,  oltre  ad  avere  per 
se  r  autorità  d' interpreti  non  meno  stimati,  s'  avvantaggia  sulla 
precedente  in  ciò  che  essa  meglio  giova  a  farci  gustare  nella 
squisita  armonia  che  ne  governa  i  più  piccoli  particolari  il  quadro 
mirabile  colorito  dal  poeta. 

Come  dicemmo  incominciando,  tanto  1'  Ottimo  quanto  Iacopo 
della  Lana  e  1'  Anonimo  Cassinese  s'  accordano  nel  porgere  una 
medesima  interpretazione  delle  parole  "  se  ode  squilla  di  lon- 
"  tano  „.  Scrive  il  primo:  "  E  dice  che  '1  nuovo  pellegrino,  cioè 
"  eh'  è  nuovamente  entrato  nella  peregrinazione,  al  quale  pare  avere 
"  poco  camminato  il  di,  ed  avere  a  fare  lungo  viaggio,  e  ode  di 
"  lunge  sonare  alcuna  campana  a  compieta  fino  all'ora 
"  del  finente  di,  è  punto  di  cura  e  di  sollecitudine  „  (^^).  Ed  il 
secondo:  "  Quando  elli  ode  squilla,  cioè  campana  che  li  notifichi 
"  la  morte  del  giorno,  cioè  le  compiete,  che  hanno  a  signifi- 
"  care  eh'  elle  suonano  nel  compimento  del  giorno  „  ('").  Il  terzo 
infine:  Xaiit  qiiaìido  piilsatiir  ad  compiei  or  inni  vidctur 
quod  campana  ploret  dient,  co  quod  moritiir,  idcst  finitur  (^'). 

Ecco  dunque  quella  ch'io  reputo  la  vera  spiegazione  de' versi 
sin  qui  discussi.  La  squilla  che  il  pellegrino  ode    da    lungi    è    la 


—  145  — 

stessa  che  al  tramontar  del  sole  chiama  i  religiosi  a  cantare 
compieta,  1'  ultima  delle  ore  canoniche,  la  quale,  come  il  nome  suo 
dichiara,  compie  e  chiude  tutti  gli  uffizi  diurni  C'^).  Di  essa  ve- 
ramente si  può  asserire  "  che  par  che  pianga  il  giorno  che  si 
"  muore.  „ 

E  che  Dante  avesse  proprio  nell'ora  di  compieta  fermo  il  pen- 
siero, noi  sempre  meglio  ce  ne  renderem  persuasi,  se  prenderemo 
rapidamente  in  esame  la  maniera  con  cui  ne'  canti  VII  ed  Vili  è 
dal  poeta  descritto  il  momento  nel  quale  la  scena  si  svolge.  Che 
fanno  invero  le  anime  elette,  sedenti  "  in  sul  verde  e  'n  su  fiori  „ 
della  valletta  ridente,  "  prima  che  '1  poco  sole  s'  annidi  „  ?  Esse 
cantano  la  Sahr  regina:  l'orazione  che  la  Chiesa  recita  a  com- 
pieta (^^).  E  non  appena  l' astro  radioso  è  disceso  sotto  1'  oriz- 
zonte, una  tra  esse,  surta  in  piedi,  chiede  "  con  mano  l' ascol- 
"  tare  „,  e  poscia: 

Te  iucis  ante  si  devotamente 

Le  usci  di  bocca  e  con  si  dolci  note 
Che  fece  me  a  me  uscir  di  mente. 

Ma  r  inno  eh'  ella  intuona  e  gli  altri  spiriti  bennati  ripetono  si 
dolcemente  in  coro, 

Avendo  gli  occhi  alle  superne  rote, 

è  appunto  quello  che  la  Chiesa  medesima  suole  cantare  a  com- 
pieta per  implorare  da  Dio  aiuto  e  custodia  contro  le  tentazioni 
notturne: 

Te  litcis  ante  tefiitinttm, 

Rerum  creator,  poscinnts 

Ut  prò  tua  cleitieittia 

Sis  pracsul  et  custodia   (3<). 

In  conclusione.  Che  Dante  abbia  potuto  curvare  la  fronte, 
quando  correva  per  1'  aria  l' umile  saluto  a  Maria,  com'  è  stato 
testé  poeticamente  affermato,  non  vorrò  negar  io  adesso,  benché 
sarebbe  innanzi  tutto  a  vedere  se  negli  anni  che  precedettero  la 
morte  sua,  e  cioè  tra  il  1318  ed  il  1321,  la  consuetudine  pia,  cal- 

NOVATI.  IO 


—  146  — 

deggiata  da  papa  Giovanni  XXII,  avesse  già  preso  radice  in  Ve- 
rona o  in  Ravenna.  Ma  che  nella  meravigliosa  pittura  con  cui 
l'ottavo  del  PKVi^atorio  s'inizia  entri  come  elemento  un  accenno 
air  Ave  Maria,  ci  par  da  negare  recisamente.  Al  poeta  divino 
non  sarebbe  certo  sembrato  opportuno  né  riverente  il  ricavare 
—  come  i  suoi  recenti  commentatori  pretendono  eh'  egli  abbia 
fatto  —  solo  un'  allusione  alla  melanconia  che  suol  suscitare  nel- 
r  animo  nostro  il  tramonto,  da  quel  saluto  alla  Vergine,  il  quale 
secondo  la  volontà  della  Chiesa,  pur  allora  solennemente  mani- 
festata, doveva  essere  rendimento  caloroso  di  grazie,  significa- 
zione di  letizia  per  l' accompimento  del  pili  gaudioso  tra  i  mi- 
steri :  r  Annunciazione  (•'^■'). 


NOTE 


(1)  La  D.  Coniniidia  di  D.  A.,  corretta,  spiegata  e  difesa  dal  P.  B.  Lom- 
bardi, tom.  II,  Pili};.,  Roma,  MDCCCXXI,  p.  :oa. 

(?)  Bellesze  della  D.  C.  di  D.  A.,  dialoghi,  v.  Il,  Milano,  Silvestri,  1840, 
p.    105  seg. 

(3)  La  Cominedia  di  D.  A.  dichiar.  da  B.  Bianchi,  Firenze,  1868,  p.  302. 

(<)  P.  Venturi,  La  D.  C.  di  D.  A.,  Firenze,  1830,  tom.  II,  p.  74;  G.  Bia- 
<;[OLi,  La  D.  C.  di  D.  A.,  Parigi,  1819,  tom.  Il,  p.  119:  Fraticelli,  La  D.  C.  di 
D.  A.,  Firenze,  1873,  p.  300;  Bennassuti,  La  D.  C.  di  D.  A.  col  e omm.  cattolico, 
Verona,  1867,  v.  II,  p.  186;  Poletto,  La  D.  C.  di  D.  A.,  Roma,  1894,  v.  II, 
p.  170. 

(^)  Cfr.  Renier,  Un  commento  a  Dante  del  sec.  XV  in  Giorn.  stor.  della  lett. 
ital.  IV,  i88.j,  p.  36  sg.,  per  il  giudizio  da  recare  intorno  ai  commentatori  di 
quell'epoca.  Il  Barzizza,  il  Landino,  il  Daniello,  il  Vellutello  nulla  recano  dij  resto 
su  questo  argomento  che  a  noi  giovi  ricordare. 

{f')  Comm.  cit.,  V.  Ili,  p.  219. 

{")  Da  Buti,  op.  cit.,  V.  II,  p.  173:  "  se  ode  squilla;  cioè  campana  piccula.... 
'  che;  cioè  la  quale  campana,  paia  il  giorno  pianger  ;  cioè  che  paia  col  suono 
"  suo  dolersi  e  lamentarsi  del  giorno,  che  viene  meno,  ecc.  —  Anon.  Fior.,  op. 
"  cit.,  V.  II,  p.  131  :  "  Et  similmente  a  colui  che  cammina  per  terra  quando  da 
"  lungi  ode  alcuna  squilla,  eh'  è  segno  che  si  faccia  notte,  gì'  intenerisce  il 
"  cuore,  ecc.  „. 

(*)  Tali  sono  A.  Wion,  Lignum  vitae  ornainent.  et  dee.  Eccles.  in  V  lib.  di- 
vis.,  Venetiis,  MDXCV,  lib.  V,  p.  655;  D.  e  C.  Magri,  Hierole.xicon,  s.  v.  Sai»- 
tatio  Angelica,  ecc.  E  v.  altresì  Moroni,  Dizioti.  d'  eriidis.  stor.  eccles.,  v.  II,  Ve- 
nezia, 1840,  p.  81,  s.  V.  Angelus  Domini. 

(')  Alludo  alla  scrittura  intitolata:  Octaviani  a  Martinis  Sinuessani  u.  i.  doc- 
toris  de  vita  et  tniraculis  S.  Bonaventurae  oratio,  qua  posiulatur  a  Si.xto  IV  s.  p. 
in  Divorum  referri  numerutn,  edita  negli  Ada  Sanctorum,  lulii  tom.  Ili,  e.  826, 
Antverpiae,  MDCCXXIII,  dove  si  legge  quanto  segue  :  Idem  etiam  piissimus  cultor 
gloriosae  Virginis  matris  lesus  instituit,  ut  fratres  populum  ìiortarentur  ad  salu- 
tandum  eamdem  signo  campanae  quod  post  completorium  datur.  Ma  qual  fede 
possa  prestarsi  ad  un  panegirista,  che  scriveva  quasi  due  secoli  dopo  l' elogiato, 
e  non  doveva  certo  sottoporre  a  troppo  sottile  disamina  ciò   che    andava  racco- 


-   148  - 

gliendo  in  di  lui  lode,  ognuno  può  di  per  se  stesso  considerare.  Cfr.  del  resto  Du 
Gange,  s.  v.  angelus. 

('9)  A.  F.  OzANAM,  Oriivifs  comf^lelcs,  toni.  V,  Paris,   1882,  p.   118. 

('M  Cf.  Mahili-ON,  Acta  Sauctor.  orci.  S.  Dcncdicti  in  saecul.  class,  distrib. 
Saec.  Quintum.  Venetiis,  MDCI.XVIII-MDCCl,  Pracf.,  ^  122,  p.  LX;  Benedicti  XIV 
ponti/,  max.  olini  Prosperi  card,  de  Laiubertiiiis,  Institulioii.  Ecclesiastic.  tom.  I, 
ed.  IV  latina,  Parmae,  MDCCLXII,  Instit.  XIII,  p.  43,  n.  11  ;  Io.  Chrys.  Trombelli, 
Afariae  saHciissitnac  l'ita  et  gesta,  toni.  V,  Bononiae,  MDCCLXIV,  par.  II  dis- 
sert.  VII,  De  ter  rcpetita  singulis  diebus  definito  temporis  intervallo....  angelica 
salutatione,  p.  303  sgg. 

('')  Cf  LicHTENBERGER,  Encyclopédie  des  scieitces  religieuses,  Paris,  1877, 
tom.  I,  p.  308;  VVetzer  ì4.  Welte 's,  Kirc/ieii/e.vicoit',  Freiburg,  1882,  v.  I,  col. 
846,  s.  V.   Angelus  Domini. 

(53)  Saintes  é  una  piccola  città  del  dipartimento  della  Charente-inférieure, 
sulla  sinistra  della  Charente,  con  un  porto.  Fu  sede  di  un  vescovo  fin  da 
tempo  remoto;  cf.  Gnllia  Christiana,  tom.  Il,  p.  105-j  sgg.;  Gams,  Ser.  ep.  eccl. 
cath.,  p.  623. 

('*)  Cf.  O.  Rayxai.dus,  Annales  Ecclesiast.  ab  a.  MCXCVIII,  etc,  ed.  Mansi, 
Lucac,  MDCCL,  tom.  V,  p.  iii.  Il  fatto  che  papa  Giovanni  citi  unicamente  la 
chiesa  di  Saintes  siccome  quella  in  cui  fioriva  la  devota  costumanza  eh'  era  suo 
desiderio  veder  diffusa  in  tutto  1'  orbe  cristiano,  mi  par  da  solo  bastevole  a  di- 
mostrare che  prima  d'allora  nulla  di  simile,  almeno  a  saputa  della  Curia  Ro- 
mana, soleva  usarsi  altrove.  Giacché  in  caso  diverso  riuscirebber  inesplicabili  la 
menzione  di  una  sola  chiesa  ed  il  silenzio  serbato  su  quant' altre  avessero  prima 
d'  allora  osservata  1'  usanza  medesima.  Non  è  poi  a  tacere  una  particolarità  che 
il  Rinaldi  omette  di  raccontare,  ma  che  è  riferita  da  uno  scrittore  abbastanza 
antico,  quel  fra  Giovanni  Nj'der,  autore  di  molte  opere  ascetiche,  tra  le  quali  il 
noto  Formicarium,  che  si  vuol  morto  circa  il  1^38;  cf.  Chevalier,  Rép.  des 
some,  histor.  du  m.  a.,  e.  1647.  Or  bene  costui  in  un  suo  sermone  sull'Annun- 
ciazione, che  a  me  non  è  riuscito  però  di  vedere,  narra  che  papa  Giovanni  XXII 
si  determinò  a  stabilire  l'usanza  deW Ave  Maria  serale  dopo  uno  strepitoso  mi- 
racolo compiuto  in  Avignone  dalla  Vergine  stessa  a  vantaggio  d'  un  tal  suo 
devoto  condannato  al  rogo.  Di  tal  fatto  maestro  Giovanni  assicura  se  vidisse  in 
publico  instrumento  litterae  autenticae,  come  dice  il  reverendo  padre  fra  Pei.barto 
ije  Te.mesvar  nel  suo  Stellariunt  coronae  gloriosiss.  Virgiuis,  etc,  Venetiis, 
MDLXXXVI,  lib.  XII,  part.  II,  artic.  II,  p.  218.  E  cf.  anche  Tro.mbelli,  op.  cit., 
p.  307,  n.   12. 

('•'')  Queste  parole  son  tolte  dalla  bolla  del  1327,  di  cui  or  ora  toccheremo, 
perché  di  quella  del  1318  il  Rinaldi,  invece  di  riprodurre  alla  lettera  la  parte 
che  unicamente  premerebbe  conoscere,  è  stato  contento  a  dare  un  riassunto, 
mentre  riferisce  per  esteso  le  lodi  prodigate  alla  Vergine  dal  pontefice:  squarcio 
d'eloquenza  del  quale  noi  avremmo  anche  fatto  a  meno! 

n*)  Cf.  Raynaldi,  op.  cit.,  p.  36J.  La  bolla,  diretta:  Angelo  episcopo  Viter- 
biensi  nostro  in  Urbe  vicario,  è  datata  :  Avinion.  non.  maii  anno  XI. 

(•")  .S'è  affermato  e  si  continua  ad  affermare    (  cf.  Wetzer-Welte,  op.  cit.. 


—  149  — 

col.  84-;),  che  il  documento  più  antico  da  cui  risulti  come  all' istituzione  dell' /4z/<> 
Maria  serale  tenesse  dietro  ben  presto  quella  del  mattino,  sia  la  disposizione  presa 
nel  1368  dai  membri  della  sinodo  adunata  a  Lavaur  (Dipartim.  del  Tarn,  Francia 
meridionale),  con  cui  si  stabilisce  e  si  ordina:  sub  poeiia  excoimimnicalioitis  quod 
singulis  et  continnis  diebus  reclores  et  curati  provinciarum  ttostrariini,  iiuilibet  per 
se  vel  aliuui,  circa  sulis  ortittn,  pttlsent  seu  piilsari  faciant  una»i  campanant  per 
tnodtim  et  forniam  qitibHS  trahitur  de  sera,  quando  pulsatttr  prò  Ave  Maria  ; 
Conci/.  Vaurense  liab.  a.  MCCCLXVIII,  cap.  CXXVll,  in  Baluzius,  Concilia 
Galliae  SVarbonensis,  Parisiis,  MDCLXVIII,  p.  283  sg.  Ma  nessuno  s'  è,  per  quanto 
sembra,  avveduto  che  un  testo  italiano,  anteriore  di  trentotto  anni  alla  sinodo 
francese,  ci  dimostra  1'  Ave  Maria  del  mattino  già  nel  1330  stabilita  cosi  al  di  là 
come  al  di  qua  dei  monti.  Leggesi  infatti  in  quel  Liber  de  laudibus  Papiae,  che 
il  proposto  G.  Bosisio  fin  dal  1851  dimostrò  essere  stato  scritto  nel  1330  in  Avi- 
gnone da  Giovanni  Mangano,  pavese,  canonico  di  Valenza  ed  avvocato  della  Curia 
romana,  quest'esplicita  aflermazione  :  Praeter  atiteui  qiiotidianuru  illud  sigHttm, 
quod  Jìt  in  si-ro  ad  salntandant  Virginem  gloriosani,  institutum  est  alitid 
nttper  in  inaile  fieri  panlo  post  signum  Aurorae  ad  eanidem  salutetn  reite- 
randani,  siculi  in  locis  plurintis  observ atur.  Cf.  Muratori,  Rer.  II.  Scr' 
tom.  XI,  e.  29,  cap.  XIV';  Bosisio,  Ricerche  ini.  alla  persona  dell'  Anonimo  Tici- 
nese in   Cassetta  Provinciale  di  Pavia,  27  gennaio   1857. 

C)  Cf.  Trombelli,  op.  cit.,  n.  16,  p.  308  sg.;  Wetzer-Welte,  op.  e  loc.  cit. 
Un  passo  della  Somma  di  Sant'Antonino,  arcivescovo  di  Firenze,  spesso  citato 
ad  altro  fine,  ci  dà  la  prova  che  tra  il  1416  ed  il  1459  in  Toscana  1'  uso  di  suonar 
V Ave  Maria  del  mezzogiorno  non  s'era  ancora  introdotto:  Statuii  insuper  Ec- 
clesia singulis  aiebus  pulsari  ter  canipanas  ecclesiarum  de  sero  et  iterttm 
de  tnane.  Ad  quid  nisi  ut  ìionoretur  beata  Maria  et  laudetur  ex  salutatione  an- 
gelica? B.  Anto.mm  Sunnnae  Sununar.  tom.  IV,  Lugduni,  MDXLII,  tit.  XV, 
cap.  XXIV,  §  III.  Ma  in  Francia  esso  vigeva  già  certamente  dai  primi  anni  del 
secolo  XV. 

(>9)  Cfr.  la  nota    17. 

(50)  Cf.  TiRABOSCHi,  l'ct.  HumiUator.  nionum.,  Mediolani,  MDCCLXVI,  v.  I, 
diss.  IV.  par.  IH,  XXVI,  p.  299  sg.  ;  Forcella,  Iscris.  delle  Chiese  e  degli  altri  edi- 
fici  di  Milano,  Milano,  1890,  v.  Ili,  n.  84,  p.  73.  Tutte  le  illazioni  che  il  Tiraboschi 
aveva  creduto  di  poter  ricavare  dall'  epitafio  di  Bonvesin  rispetto  al  tempo  in 
cui  \' Ave  Maria  si  cominciò  a  suonare  in  Milano,  sono  state  distrutte  dalla  sco- 
perta del  testamento  del  13 13,  che  ci  mostra  il  della  Riva  ancor  vivo  nel  terzo 
lustro  del  sec.  XIV.  Il  Tiraboschi  lo  credeva  morto  su  per  giù  vent' anni  prima. 

(^')  Cf.  Rezasco,  Dizionario  del  linguaggio  ital.  star,  ed  ainmin.,  Firenze, 
i88i,  p.  1121,  s.  v.  Squilla.  E  cf.  anche  Du  Cange,  s.  v.  skella. 

(--)  Op.  cit.,  p.  504,  s.  v.  Guardia,  n.  xxx. 

(-•')  G.  Mangano,  Lib.  de  land.  cit.  in  Muratori,  op.  cit.,  e.  27. 

(-■')  Cf  r  erudita  nota  sulla  campana  serale,  che  1'  egregio  collega  prof.  Ales- 
sandro Lattes  s'  è  piaciuto  a  mia  preghiera  dettare,  e  che  noi  ripubblichiamo  per 
sua  cortese  concessione  in  appendice. 

(-^)  Intorno  a  costui,  che  ben  può  considerarsi  ancora  quale    un    trecentista, 


—  15°  — 

mi  sia  lecito  rimandare  a  quant'  io  ne  ho  scritto  nel  BtiìlcUnto  della  Soc.  Daiit. 
hai.  n.  7,  dicembre  1891,  p.  12  sgg.  ;  e  nel  Giorii.  slot:  della  leti.  Hai.,  XXIX^ 
1897.  p.  565  sg. 

(-^)  Fr.  Ioh.  de  Serravalle  ord.  niitior.,  rpisc.  et  />iiiic.  Fintiani,  traiixlatio 
et  conictttiint  tot.  libri  D.  A.,  eie,  Prati,  MDCCCXCI,  p.  512.  Secondo  la  sua 
consuetudine  di  ripeter  sempre  «n  pajo  di  volte  le  proprie  spiegazioni,  poco 
dopo  il  dabben  frate  le  rida  con  qualche  aggiunta:  Puugil,  scilicet  sollicitat,  se 
si  audit  squillam,  idcst  campaitaiii,  quae  pulsatur,  die  tuorientc,  idest  cessante  ; 
quia  illa  campana  videtur  plorare  dieni  morientein  sive  cessanteiit.  In  Gallia  sic 
pulsatur  de  srro  talis  campana,  quod  sonus  ille  videtur  quidem  (  leggi  :  quidam  .'  ) 
planctus  diei  ccssantis.  Op.  cit.,  p.  513. 

(2')  Op.  cit.,  p.  512. 

(''^l  Scrive  difatti  Benvenuto,  op.  cit.,  p.  219:  vel  die:  che,  idest  qui  novus 
peregrinus  ita  punctus  amore  videtur  deplorare  quod  nimis  cito  noctescat  antequain 
hospitetur.  Ed  il  Della  Lana,  op.  cit:,  v.  II,  p.  91  :  "  Ancora  per  uno  altro  esem- 
"  pio  mostra  quella  ora,  e  dice:  ella  era  simile  a  quella  che  punge  e  fa  trat- 
"  tare    più    tosto  il  pellegrino   „. 

(-')   Op.  cit.,  toni.  II,  p.   109. 

P)  Op.  cit.,  V.  II,  p.  91. 

(31)  //  Cod.  Cassinese  della  D.  C.  per  la  prima  volta  letteralm.  messo  a 
stampa,  Monte  Cassino,  1865,  p.  230.  Questa  è  chiosa  marginale  al  v.  6  del 
canto  Vili.  Al  v.  i  ed  al  5  ricorrono  poi  altre  postille  interlineari;  che  sulle  pa- 
role "  era  già  1'  ora  „  sta  scritto  completorii,  e  sulle  seguenti  "  se  ode  squilla  „  : 
sonantem  ad  conipletorium. 

(38)  Cf.  Du  Gange  s.  v.  completa^  completorium.  Come  e'  insegna  il  Vocabo- 
lario della  Crusca  s.  v.  compieta,  questa  voce  è  stata  ed  è  oggi  ancora  adope- 
rata a  designare  il  tempo  in  cui  si  recita,  il  suono  delle  campane  che  l'annun- 
ziano, e  genericamente  per  estensione  il  fare  della  sera,  la  sera,  ecc. 

(33)  Cf.  Cod.  Cassin.  cit.,  glossa  al  v.  18:  Te  lucis:  que  salve  regina  et ymnus 
iste  caniatur  in  completorio. 

(3<)    Cf.    POLETTO,    op.    cit.,    p.    I71. 

(3'')  Cf.  Trombelli,  op.  cit.,  p.  312,  n.  25  sgg. 


VI. 


LA  VIPKHA  CHKL  MFLANESE  ACCAMPA 


Purg.  Vili,  80. 


Laddove  Nino,  giudice  di  Gallura,  lamenta  che  la  moglie  sua, 
dimentica  de'  giuramenti,  abbia  nel  velo  di  sposa  mutate  le  bende 
vedovili,  egli  esclama,  acceso  di  "  dritto  zelo  „  : 

Non  le  farà  si  bella  sepoltura 

La  vipera  che  '1  melanese  accampa, 
Com'  avria  fatto  il  gallo  di  Gallura. 

Or  che  la  "  vipera  „  stia  qui  a  denotare  i  Visconti,  niun 
dubbio.  Ma  che  ha  egli  voluto  dir  Dante  aggiungendo  eh'  essa 
"   il  melanese  accampa  „? 

Nei  manoscritti  cotesto  verso  si  rinviene  offerto  in  due  modi. 
Parecchi,  e  vanno  tra  i  migliori,  leggono  "  '1  melanese  „  {'); 
altri  "  i  melanesi  „;  e  questa  discrepanza  di  lezione,  che  s' é  na- 
turalmente riprodotta  e  perpetuata  nelle  stampe,  segna  anche,  non 
vorrei  proprio  dir  sempre,  ma  nella  maggior  parte  de'  casi,  una 
diversità  d' interpretazione.  Giacché,  mentre  molti  tra  coloro  che 
leggono:  "  il  melanese  „.  spiegano:  "  la  vipera  che  il  Visconti, 
"  o  il  popolo  di  Milano  che  nel  Visconti  riconosce  il  proprio  si- 
"  gnore,  porta  nel  campo  dello  scudo  „  ;  quanti  adottano  la  va- 
riante: "  i  melanesi  „,  intendono  comunemente:  "  la  vipera  che 
"  conduce  in  campo  a  battaglia  i  milanesi  „. 

De'  vecchi  interpreti  danteschi  nessuno  eh'  io  vegga  accoglie 
la  sentenza,  secondo  la  quale  "  accampare  „  varrebbe  quanto 
"  portar  nel  campo  dello  scudo  „  (').  De'  moderni  invece  non 
pochi  r  han  fatta  propria:  il  Cesari,  il  Bianchi,  il  Fraticelli,  il 
Bennassuti  (^).  E  costoro,  cred'  io,  son  stati  indotti  a  ciò   dall'  au- 


—  154  — 

torità  della  Crusca,  la  quale  nel  suo  Vocabolario  cosi  dice 
d'  "  accampare  „  :  "  Trovasi  per  avere,  portare  nel  campo  dello 
"  scudo  o  dell'arma  gentilizia  „  (*);  ma  quand' è  questione  poi 
d'  allegare  gli  esempì,  non  sa  segnalarne  se  non  uno  solo,  che  è 
precisamente  il  luogo  dantesco,  di  cui  ora  discutiamo. 

Ma  quali  argomenti  s' adducono  a  sostegno  di  siffatta  inter- 
pretazione? Ch'  io  sappia,  nessuno.  Ove  si  provasse  dunque  che 
le  ragioni  messe  innanzi  per  confortar  la  contraria  opinione  son 
valevoli,  questa  dovrebbe  tosto  venir  ripudiata.  Tuttavia  neppur 
dell'  altra  spiegazione  data  ad  "  accampare  „,  condurre  cioè 
i  soldati  in  campo;  si  può  dire  che  i  propugnatori  suoi  sappiano 
rincalzarla  d'  efficaci  prove.  Due  commentatori  antichi.  Benvenuto 
cioè  e  fra  Giovanni  da  Serravalle,  stanno  per  essa,  ma  non  si 
curano  di  porgerne  veruna  giustificazione  (^);  in  quant' ai  mo- 
derni, dal  Lombardi  in  poi,  essi  per  darne  ragione  citan  tutti  con 
concordia  mirabile  una  testimonianza,  la  quale  invece  di  raffor- 
zare l'asserto  loro  riesce  a  distruggerlo!  E  valga  il  vero.  La  te- 
stimonianza a  cui  alludiamo  è  dedotta  da  certa  dissertazione  le- 
gale, data  alle  stampe  nel  1748  dal  conte  Gabriele  Verri,  per 
sollecitare  il  Fisco  a  reprimere  con  maggiore  severità  gli  abusi 
eh'  erano  invalsi  in  materia  d' insegne  e  di  titoli  nobiliari  (").  Or 
qui,  toccando  per  incidenza  dello  stemma  visconteo-sforzesco, 
dopo  averne  fatto  risalire  V  origine  al  duello  seguito  in  Palestina 
tra  Ottone  Visconti  ed  un  campione  saraceno  che  portava  per 
insegna  un  serpente,  il  giureconsulto  milanese  continua,  facendo 
proprie  le  parole  di  Carlo  Sigonio:  Oiiaiii  oh  rem  maiores  nostri, 
ut  Sigo/n'us  tradi't,  pnhlico  decreto  sanxerunt,  ne  post  hac  castra 
Mediolancnsium  locarentiir,  nisi  vipereo  signo  ante  in  aliqua  ar- 
bore constituto  {').  Or  posto  che  a  questa  consuetudine  abbia  vo- 
luto veramente  alludere  1'  Alighieri  nel  noto  verso,  come  si  potrà 
continuare  a  interpretar  questo:  "  la  vipera  che  i  Milanesi  recano 
"  in  campo  per  insegna  „,  secondochè,  ad  eccezion  d'un  solo  (*), 
hanno  fatto  sin  qui  tutti  i  moderni  commentatori?  Converrà  in- 
vece spiegarlo:  "  la  vipera  che  attenda  i  Milanesi,  che  concede 
"  loro  di  prendere  gli  alloggiamenti   „. 


'ro 


Che  questa  sia  la  vera,  la  sola  legittima  interpretazione  del 
passo  dantesco,  risulta  chiaro  infatti,  ove  si  metta  mano  ad  in- 
terrogare altri  fonti,  per  credito  e  per  antichità  pili  degni  di  fede, 
che  non  siano  le  Istorie  del  Sigonio  e,  peggio  che  mai,  le  dis- 
sertazioni fiscali  del  Verri.  Ed  innanzi  tutto  in  questa  spiega- 
zione noi  vediamo  concordare  tre  tra  i  più  stimati  commenti  an- 
tichi: quello  di  Pietro  Alighieri,  di  Francesco  da  Buti,  di  Jacopo 
Della  Lana.  Succinti  i  due  primi:  Vipera,  citiits  vcxillum  priits 
ponitiir  in  campo  per  Mcdioìancnscs  ex  privilegio  antiquo;  dice  il 
tìgliuol  del  poeta  (").  Ed  il  grammatico  pisano  :  "  la  vipera  .... 
"  che  quelli  di  Melano  tegnano  per  maggiore  impresa,  quando 
"  s' accampano  in  nessuno  luogo  per  cagione  di  guerra  „  ("j. 
E  con  copia  maggiore  di  particolari  il  terzo:  "  E  dice  che  i  Mi- 
"  /atiesi  accampa,  perché  si  è  giurisdizione  di  quella  arma,  che 
"  sempre  quando  li  Milanesi  vanno  in  oste,  dove  si  pone  quella 
"  insegna,  si  pone  il  campo:  e  fine  che  quella  bandiera  non  è 
"  posta,  è  grande  bando  a  ponere  altra  insegna,  ed  è  stato 
"  sempre  e  per  tempo  di  parte  guelfa  e  per  tempo  di  parte  ghi- 
"   bellina  „  ("). 

Tutto  questo,  che  con  tanta  chiarezza  espone  il  commentatore 
bolognese,  aveva  già  parecchi  lustri  innanzi  affermato  in  più 
d'  una  tra  le  sue  storiche  compilazioni  il  milanese  Galvano  della 
Fiamma:  Dicit  cronica  de  Barzanorc  —  cosi  egli  nella  Cronica 
niaior  —  (jitod  Conninilas  parentele  Viceconiitnni  hoc  privilegitim 
contulii,  qnod  acies  exercitus  Mediolani  nuìiquam  castra  fìgerent 
nisi  vexillnm  Vicecomitum  in  arbore  crectuni  conspicercnt  ('•).  Alla 
sagacia  di  Giorgio  Giulini  questa  notizia  non  isfuggi,  come  era 
ben  naturale,  e  neppure  il  partito  che  se  ne  poteva  trarre  per 
meglio  illustrare  il  luogo  del  Purgatorio;  ma  1'  aff"ermazione  del 
Domenicano  che  il  privilegio,  di  cui  godeva  sugli  inizi  del  se- 
colo XIV  r  impresa  de'  Visconti,  fosse  stato  concesso  loro  ab  an- 
tiquo dal  comune  di  Milano  lo  trovò,  e  si  capisce,  incredulo.  "  Che 
"  ai  di  lui  tempi  —  scriveva  egli,  pertanto,  accennando  a  fra 
"  Galvano  —  ciò  si  usasse  io  lo  credo  facilmente,  perché  allora 
„  la  famiglia  Visconti  era  signora  di  Milano ....  Ma  che  si  prati- 


-  156  - 

"  casse  anche  prima,  quantlo  tìoriva  la  nostra  repubblica,  il 
"   Fiamma  non  lo  farà  credere  facilmente  ad  alcuno  „  ('^). 

Kppurc,  stavolta  è  proprio  forza  che  gli  crediamo.  Ed  ecco 
perche.  Recando  innanzi  .la  notizia  del  privilegio  largito  dai  Mi- 
lanesi alla  casata  d'  Ottone  Visconti  in  memoria  dell'  eroica  av- 
ventura di  costui,  il  cronista  non  ha  fatto,  come  gli  succede  tanto 
di  frequente,  ehe  ricopiare  quasi  alla  lettera  una  distinzione  del 
De  ìììagtìdlibits  urbis  Mediolani,  opera,  come  si  sa,  di  fra  Bon- 
vesin  della  Riva.  E  questi  espone  il  fatto  in  tale  maniera  da  non 
lasciare  adito  a  dubbio  veruno:  Offertur  quoque  ah  ipso  \Comuni\ 
alieni  de  nobilissimo  Vicccomitum  genere,  qui  dignior  videatur,  ve- 
xilluni  quoddani  cuin  vipera  indico  figurata  colore  quendam  sara- 
ccnum  rubcuìiì  transglucienteni  :  nec  alienti  castranietatur  noster 
exercitus  nisi  prius  visa  fucrit  vipera  super  arborem  aliquam  lo- 
cata consistere  ('^). 

Le  deduzioni  che  da  queste  parole  dell'accurato  cronografo 
si  possono  ricavare,  sono,  come  ognun  vede,  parecchie.  Il  bra- 
v'  uomo,  che  scriveva  nel  1288,  allorché  Milano  era,  almeno  in 
apparenza,  ancora  padrona  di  sé  stessa  e  conservava  tutte  le 
istituzioni  comunali,  non  poteva  avere  alcun  interesse  ad  alterare 
la  verità  ed  a  spacciar  per  antica  una  consuetudine  che  tale  non 
fosse  stata.  Devesi  dunque  ritener  come  sicuro  che  nel  secolo 
decimoterzo  1'  esercito  milanese  non  s'  accampasse  mai,  se  prima 
non  avesse  veduto  librarsi  in  alto  il  vessillo  che  la  città  soleva 
offrire  ad  un  Visconti. 

Intorno  all'  origine  di  siffatta  usanza,  la  quale  apre  la  via  a 
sospettare  che  l' insegna  della  vipera  fosse  in  antico  propria  del 
comune  di  Milano,  e  non  già,  come  sostiene  la  vulgatissima  tra- 
dizione, della  famiglia  che  doveva  renderla  poi  tanto  famosa,  non 
è  qui  il  caso  d' istituire  ricerche.  A  noi  basti  per  ora  aver  messo 
in  sodo  come  delle  interpretazioni  prima  d'ora  proposte  del 
verso  dantesco  che  si  era  preso  in  esame,  una  sola  sia  esatta, 
quella  cioè  che  i  più  tra  i  commentatori  avevano  fin  qui  ignorata 
o  negletta.  E  1'  Accademia  della  Crusca  opererà  saviamente  se 
a  documentare  il  proprio  asserto    che    "    accampare    „    possiede 


—   i.i7  — 

anche,  tra  gli  altri,  il  significato  di  "  portare  nel  campo  dello 
"  scudo  „,  andrà  in  cerca  di  testimonianze  pili  sicure  di  quella 
che  il  passo  del  Purgatorio  è  capace  d'  offrirle. 


NOTE 


(1)  De'  quattro,  sui  quali  il  Wittc  ha  fondata  la  propria  edizione,  tre,  il  Laur. 
Pianta  Croce,  il  Berlinese  ed  il  Cactani,  danno  questa  lezione  :  cf.  Witte,  La 
D.  C.  di  D.  A.,  Berlino,  MDCCCLXII,  p.  286;  Cod.  Cassinese  cit.,  p.  228;  ed  in 
essa  consente  anche  1' Antaldiano,  sicché  il  Lombardi,  op.  cit.,  p.  no,  l'adottò, 
lodandola.  Ma  il  Witte  s'attenne  nel  testo  all'altra,  che  è  la  vulgata;  ed  a 
torto,  secondo  me,  l' ha  seguito  il  Moore,  Tutte  le  opere  di  D.  A.^  Oxford, 
MDCCCXCIV,  p.  63.  Ma  sia  poi  che  si  preferisca  il  singolare  o  il  plurale,  sarà  da 
scriver  sempre  "  melanese  „  e  "  melanesi  „,  poiché  cosi  e  non  altrimenti  per 
fermo  pronunziò  e  scrisse  da  buon  toscano  l'Alighieri. 

(-')  L'Ottimo,  op.  cit.,  II,  116,  nulla  dice;  I' Anonimo  Fiorentino,  op.  cit.,  II, 
136,  se  la  cava  scrivendo:   "   la   vipera  eh"  è  l'arme  de' Visconti  da  Melano  „. 

(3)  Cesari,  op.  cit.,  Dial.  III,  v.  II,  p.  116;  Bianchi,  op.  cit.,  p.  306;  Frati- 
cELi.i,  op.  cit.,  p.  304  ;  Bennassuti,  op.  cit.,  V.  II,  p.  199. 

\})    Vocab.  degli  Accad.  della  Crusca^',  Firenze,   18Ó3,  v.  I,  p.  77. 

{■>}  Benvenuto,  op.  cit.,  tom.  HI,  p.  231:  Dicil  ergo:  la  vipera,  insignium 
l'icecontitttiii  de  Mediolano  ;  che  i  iiiilanesi  accnuipa,  idest,  quam  mediolatienses 
portoni  in  campo.  —  G.  da  Serravalle,  op.  cit.,  p.  516:  [Viceconiites]  qui  por- 
tant  prò  arniis  viperam,  scilicet  serpentelli,  quatti  etiaiii  Mediolaneiises  [portant] 
in  cainpum,  quando  vadunt  in  e.xercitiiin.  —  Altrettanto  asserisce  I'Anoni.mo 
Cassinese,  op.  cit.,  p.  230. 

(•"l  Cf  Lombardi,  op.  e  loc.  cit.,  ;  Tommaseo,  Commedia  di  D.  A.,  Venezia, 
'837,  p.  65;  Milano,   1854,  p.  338;  P0LETT0,  op.  cit.,  p.   183. 

{")  De  titiilis  et  insigniis  teniperandis  Dissertatio  fiscalis  Gabr.  comitis  Verri 
etc,  Mediolani,  MDCCXLVIII.  §  XL,  p.  35.  Il  luogo  del  Sigonio,  che  il  Verri  ha 
fatto  proprio,  si  legge  in  C.  Sigonii,  Hisioriariim  de  regno  Italiae  libri  qitindc- 
cim,  Venetiis,  MDLXXIIII,  p.  385. 

(*)  Questa  "  rara  avis  „  è  il  re  di  Sassonia,  che,  fondandosi  sulle  testimo- 
nianze allegate  del  Sigonio  e  del  V'erri,  traduce  il  nostro  verso  cosi: 

"  Die  Viper,  d"  runter  Mailands  \'olk  sich  lagert  „ 

(^)  P.  Allegherii,  Super  Dantis  ips.  genit.  Comoed.  Commciitariutit,  cur.  V. 
Nannucci,  Florentiae,  MDCCCXXXXV,  p.  351. 


—  i6o  — 

(10)  Da  Bvti,  op.  cit..  v.  Il,  p.   i8i  sg. 

(>M  Della  Lana,  op.  cit.,  v.  II,  p.  94.  Giustizia  vuole  che  avvertiamo  come 
anche  il  Poletto  riferisca  queste  parole  del  Laneo;  ma  ne  ricava  poco  frutto, 
perché  spiega  pur  sempre  :  "  è  stendardo  ai  Milanesi  nelle  battaglie  „  1'  "  ac- 
"  campa  „  dantesco. 

('"ì  C(.  Croii.  mai.,  ed.  Ceruti,  in  Misceli,  di  st.  ital.,  tom.  VII,  Torino,  1869, 
p-  743.  E  vedi  altresì  Maiiipul.  Etor.  in  Muratori,  Rer.  II.  Sc^-.  XVI,  cap.  CXLl, 
col.  Ó17  sg. 

(•3)  GiVLiNi,  Meni,  speli,  alla  sloiia,  ecc.,  Milano,   1854,  v.  Il,  p.  681. 

('^)  B.  De  Rippa,  De  magn.  uri).  Med.  cap.  V.  dist.  xxiii  in  Bulkttino  del 
r.  Islit.  stor.  ital.  n.  20,   1898,  p.    150. 


APPENDICE 


NOVATI. 


LA  CAMPANA  SERALE  NEI  SECOLI  XIII  E  XIV 
SECONDO  GLI  STATUTI   DELLE   CITTÀ  ITALIANE 


Dell'  uso  di  suonare  ogni  sera  la  campana  del  comune  per 
indicare  il  principio  della  notte,  i  documenti  a  me  noti  parlano 
sino  dal  principio  del  sec.  XIII,  come  d'un  fatto  ben  conosciuto, 
intorno  a  cui  non  ù  necessaria  alcuna  spiegazione,  e  valgono 
quindi  a  provarne  1'  esistenza  anche  per  parecchi  anni  anteriori 
alla  loro  data.  Chi  volesse  però  ricercare  negli  antichi  Statuti  il 
testo  d'  una  precisa  deliberazione  delle  Assemblee  Comunali  in 
proposito  farebbe  quasi  dappertutto  opera  vana,  poiché  questa, 
come  molte  altre  usanze  paesane,  sorse  da  sé  spontaneamente 
e  si  diffuse  dappertutto,  avendo  trovato  in  ogni  comune  grande 
o  piccolo  condizioni  favorevoli.  La  necessità  di  vegliare  diligen- 
temente contro  le  aggressioni  notturne  di  nemici  esterni  e  contro 
pericolosi  tentativi  d' interni  malfattori,  mantenne  sempre  nelle 
nostre  città  e  borghi  ordinati  servizi  di  sentinelle  e  ronde  a  tu- 
tela delle  vite  e  delle  robe  degli  abitanti:  gli  statuti  ne  parlano 
quasi  in  tutti  i  comuni  liberi,  e  nelle  terre  soggette  a  signoria  le 
guaite  (guardie  semplici)  e  le  scaragiiaitc  (guardie  a  schiera)  si 
ricordano  più  volte  quale  prova  di  soggezione  nei  frequenti  pro- 
cessi fra  signori  e  dipendenti  che  volevano  emanciparsi  (').  È  fa- 
cile comprendere,  come  essendo  affatto  sconosciuta  la  pubblica 
illuminazione  delle  vie,  nessuno  uscisse  di  notte  senza  esservi 
spinto  da  urgente  bisogno,  e  quei  custodi  guardassero  con  so- 
spetto i  passanti,  massime  se  sprovvisti  di  lume,  e  tenessero 
d' occhio  le  taverne,  costante  rifugio  d' avventori  di  malaffare, 
come  in  somma  il  giungere  della  sera  portasse  con  sé  un  cumulo 
di  cure  e  diligenze  maggiori.  D'altra  parte  i  cittadini  erano  av- 
vezzi ad  esser  richiamati  dalle  campane,  non  solo  alle    Chiese   e 


—  164  — 

ai  doveri  religiosi,  ma  anche  ai  loro  obblighi  civili,  sia  che  do- 
vessero accorrere  all'  Arengo  per  discutere  intorno  alla  cosa  pub- 
blica, o  prepararsi  alla  difesa  contro  esterni  invasori,  o  prestar 
man  forte  per  arrestare  i  progressi  di  qualche  incendio,  rapida- 
mente divampante  tra  le  case  di  legno  e  i  tetti  di  paglia:  certo 
la  campana  pubblica  suonò  anche  per  chiamare  a  raccolta  le 
guardie  notturne,  cui  spettava  il  servizio  di  custodia  o  per  turno 
o  per  ufficio,  ed  in  molti  luoghi  la  suonata  serale  porta  il  nome 
di  campana  dei  cusfocù'  o  della  guardia.  Essa  veniva  nello  stesso 
tempo  a  ricordare  alle  persone  dabbene  eh'  era  giunta  1'  ora 
di  rientrare  tranquillamente  nelle  case  loro  per  evitare  ogni  so- 
spetto ed  ogni  confusione  pericolosa  con  gente  di  mali  propo- 
siti: ad  Asti  la  campana  si  chiama  dei  ladroni  perché  contro  di 
essi  è  particolarmente  rivolta. 

Basta  un'  occhiata  all'  elenco  delle  fonti  statutarie,  che  si  trova 
in  fine  di  questa  Nota,  per  rilevare  che  la  consuetudine  di  suonar 
ogni  sera  la  campana  della  notte  era  diffusa  nei  sec.  XIII  e  XIV 
in  ogni  regione  d'Italia:  solo  pel  Napoletano  non  mi  fu  possibile 
consultare  alcuna  fonte  contemporanea,  ed  il  Ciccaglione  ('),  pur 
facendo  menzione  dei  provvedimenti  municipali  a  tutela  della  si- 
curezza pubblica,  affatto  uguali  a  quelli  delle  altre  città  italiane, 
si  per  le  taverne,  si  per  1'  uscir  di  notte,  non  parla  d'  alcun  se- 
gnale vespertino,  che  fosse  dato  per  fissare  il  momento  in  cui 
quelli  dovevano  essere  applicati. 

Il  documento  più  antico  che  io  conosco  è  una  carta  Novarese 
del  1222  (^),  ove  fra  altre  riforme  disciplinari  introdotte  dai  de- 
legati dell'  Arcivescovo  di  Milano  pei  canonici  del  Duomo  di  No- 
vara, si  prescrive  ai  custodi  della  Chiesa  di  recarvisi  a  dormire 
ìiora  qua  pulsatur  ad  canipotiain  quc  pidsatur  ut  ìiiiltiis  vadat  per 
civitatem  sine  liimine.  Queste  parole  ci  mostrano  veramente  l'usanza 
già  introdotta  da  qualche  tempo  e  ce  ne  additano  lo  scopo  ori- 
ginario, provvedere  alla  tutela  dei  cittadini  e  separare  le  persone 
dabbene  da  quelle  di  dubbia  fama.  Pochi  anni  dopo  nel  1229  il 
Podestà  di  S.  Gemignano  condannava  un  tale  che  si  era  lasciato 
cogliere  fuori  di  casa  senza  lume  dopo  il  terzo  segnale  (^),  e 
possiamo  anche  ricordare  gli  statuti  seguenti  che  fanno  precisa 
menzione  della  suonata  serale  nella  prima  metà  del  sec.  XIII: 

Padova,  ove  la  data  del  capitolo  è  indicata  colla  formula,  ivi 
assai  frequente,  stalnliim  vetus  conditimi  ante  millcsinuun  ducente- 
simiint  trigesimiim  sextiiin, 

Pinerolo,  di  cui  gli  statuti    portano   la    data    1220    e    possono 


-  i65  - 

conservarla,  sebbene  siano  pervenuti  a  noi  in  una  redazione  po- 
steriore di  sessant*  anni,  perché  il  loro  contenuto  prova  che  subi- 
rono soltanto  lievi  modificazioni  ('^), 

Biella  e  \'iterbo,  le  cui  leggi  hanno  rispettivamente  la  data 
1245  e  1251, 

Ravenna,  dove  tutti  gli  elementi  cronologici  concordemente 
provano  che  il  nucleo  degli  statuti  editi  dal  Fantuzzi  appartiene 
al  tempo  indicato, 

Brescia,  dove  i  capitoli  che  contengono  il  giuramento  delle 
guardie  notturne  —  in  prima  persona,  manifesto  indizio  d'anti- 
chità remota  —  spettano  pure  secondo  ogni  probabilità  a  quel 
periodo,  benché  ci  siano  giunti  nella  riforma  degli  statuti  che  fu 
fatta  nel  1277. 

Noteremo  invece  al  contrario  che  a  Vercelli  può  credersi  non 
esistesse  ancora  nel  1241  1'  usanza  della  suonata  serale,  perché 
agli  osti  si  prescrive  d' interrompere  la  vendita  del  vino  ad  ve- 
sf>ei'os,  e  non  si  fa  cenno  del  segnale,  come  suole  dappertutto. 

A  Bologna  1'  uso  sembra  veramente  introdotto  intorno  al  1260, 
perché  le  annuali  riforme  degli  statuti  non  ne  parlano  prima  e 
se  ne  trova  menzione  soltanto  in  un'  ordinanza  del  podestà  del 
1261,  come  nella  revisione  del  1260  fu  aggiunto  un  capitolo  re- 
lativo alla  suonata  mattutina. 

D'  una  campana  vespertina  parla  anche  il  poema  De  regimine 
et  sapiciitia  potestatis  (''),  composto,  secondo  1'  editore  Ceruti,  da 
Orfino  da  Lodi  alla  metà  del  secojo  XIll,  nei  versi  che  seguono: 

Seiiiper  ni  est  tiioris  resone/  campana  laboris, 
Arlibns  inipletis  paveat  campana  qiiietis, 
Tunc  cito  pince»  na  referat  preciosa  falerna, 
Non  ibi  cisterna  faveat  sed  darà  taberna. 

Non  vorrei  però  affermare  con  certezza  che  essi  si  riferiscano 
alle  suonate  che  indicavano  il  principio  del  giorno  e  della  notte, 
e  che  il  terzo  verso  parli  ai  modesti  tavernari,  obbligati  a  metter 
fuori  dell'uscio  i  bevitori  ostinati:  forse  vi  si  accenna  invece  sol- 
tanto alla  campanella  che  annunciava  1'  apertura  e  la  chiusura  dei 
pubblici  uffici  nel  palazzo  del  podestà  ed  all'  obbligo  per  lui  di 
mantenersi  sobrio  per  tutta  la  giornata. 

Dove  fosse  collocata  la  campana  spesso  si  tace,  qualche  volta 
si  nomina  solo  la  e.  coinnnis,  altre  volte  quella  del  Duomo  o  della 
Chiesa;  a  Casale  doveva  essere  sulla  piazza  principale,  perché  è 
detta  e.  de  platea.  A  Bologna  era  sulla  torre  di  S.   Pietro,    a    Pi- 


—  i66  — 

stola  sul  campanile  del  Duomo  e  si  chiamava  la  campana  di  Bel- 
tramo, a  Siena  emigrò  da  una  torre  privata  all'  altra,  finché  fu 
costrutto  nel  1345  il  campanile  nel  palazzo  pubblico.  A  Nizza  in- 
contriamo la  campana  corni/;  a  Pinerolo  gli  statuti  più  antichi 
usano  la  voce  tintinttahiilimi,  i  posteriori  1'  altra  campana,  e  non 
so  se  per  questa  diversità  di  parola  si  possa  credere  che  dap- 
prima s'adoperasse  un  campanello,  suonato  forse  a  mano  per  le 
vie,  pili  tardi  una  campana  fissa. 

Quanto  al  tempo,  è  detto  che  si  suona  de  sevo  o  al  tcinpo 
consueto,  appunto  perché  si  tratta  d'  una  pratica  introdotta  per 
consuetudine.  A  Pisa  si  comincia  ex  quo  ohsciinim  est,  a  Chieri 
citm  bene  nox  fiicrit^  a  Piacenza  ///  prima  ìiora  noctis,  ad  Asti 
circa  ìwram  complciorii :  a  Siena  e  Tortona,  come  ordinano  i 
magistrati,  a  Firenze  almeno  sul  principio  del  sec.  XV,  post  ve- 
spcras  tra  le  23  e  le  24  (").  Queste  formule  incerte  lasciano  ben 
comprendere  che  l'ora  doveva  mutare  secondo  la  stagione. 

In  qualche  città  i  rintocchi  serali  per  l' ordine  pubblico  si 
mantengono  separati  dai  segnali  religiosi,  p.  es.  a  Piacenza  si 
distinguono  dalla  sonata  circa  ìxoram  completorii,  fatta  solo  in 
onor  di  Maria,  propter  sahitationem  beate  Virginis  Marie  fiendam  : 
cosi  a  Pavia  altra  cosa  è  la  schilla  ad  lioram  constitutani,  altra 
r  Ave  Maria  suonata  dalla  campana  del  comune  (*).  A  Pistoia  si 
prescrive  che  si  diano  con  quest'  ultima  tutti  i  segni  ad  horas 
consuetas  di  giorno  e  di  notte  secundum  ecclesiasticam  consnetn- 
dinem,  quando  tacciono  i  bronzi  della  Chiesa:  altrove,  come  ve- 
dremo, qualche  divieto  comincia  subito  post  sonnm  Ave  Marie. 

Davansi  per  lo  più  tre  segnali  con  tre  suonate  diverse,  due 
a  Pinerolo  ed  Arona,  una  sola  a  Biella,  Rivalta,  Nizza:  a  Bo- 
logna si  suonava  ad  sogatn  cioè  a  martello  a  tocchi  staccati,  a 
Siena  e  Tortona  ad  destensum,  e  a  Siena  per  una  magna  ìwra: 
sette  tocchi  s' usavano  a  Pavia,  venti  aliqitantnliim  rari  a  Pia- 
cenza, a  Bologna  si  provvede  solo  per  la  campana  del  mattino. 
Curiose  prescrizioni  si  leggono  negli  statuti  di  Chieri  :  il  primo 
ed  il  secondo  segno  dovevano  esser  dati  dalla  Chiesa  di  S.  Maria, 
il  terzo  da  quella  di  S.  Giorgio;  l'uno  a  notte  fatta,  il  successivo 
dopo  tanto  tempo  che  bastasse  ad  una  persona  d' importanza, 
ttiiles  vel  aliqtia  magna  persona,  per  cenare  a  suo  agio;  l'ultimo 
quando  fosse  trascorso  un  intervallo  sufficiente,  perché  un  uomo 
o  donna  potesse  andare  quietamente  da  un  punto  all'  altro  della 
città. 

La  notte  legale  principia  dopo  il    segnale,    quasi    dappertutto 


-  i67  - 

dopo  il  terzo,  e  parecchi  statuti  ne  fanno  dichiarazione  espHcita: 
cosi  Alberico  da  Rosate,  giureconsulto  lombardo  morto  nel  1354, 
riferendo  le  parole  di  un  giurista  piti  antico,  Guido  da  Suzzara, 
morto  prima  del  1292,  ricorda  l' esistenza  a  Padova  della  cam- 
pana deputata  ad  segregandimi  dictu  a  noctc,  siciU  coiiiiiiiiiiitcr  est 
iti  onuiihas  civitatihiis  (^).  Da  quel  momento  si  applicano  i  provve- 
dimenti di  polizia  per  la  sicurezza  degli  abitanti  e  cominciano 
r  ufficio  loro  le  guardie  di  notte,  chiamate  in  Sicilia  scinrtcrii  o 
maestri  di  sciiirta  ('"j,  rese  alacri  dalla  responsabilità  personale  cui 
sono  esposte  pei  furti  e  danneggiamenti  commessi  durante  la  loro 
vigilanza,  se  non  possono  denunciarne  1'  autore.  Inoltre  le  pene 
e  multe  pei  delitti  compiuti  di  notte  si  aumentano,  spesso  del 
doppio,  talora  anche  pili,  dopo  l'ultimo  segnale,  a  Pistoia  e  Lucca 
dopo  il  primo,  e  perciò  a  Pisa  e  Firenze  la  suonata  serale  riceve 
il  nome  di  e.  prò  pena  dupli. 

Regola  comune  a  tutti  gli  Statuti  è  questa,  che  non  si  pos- 
sono tenere  le  porte  aperte  né  si  può  girare  per  la  città  e  sob- 
borghi se  non  col  lume,  od  almeno  portando  con  sé  del  fuoco 
in  modo  visibile:  a  Parma  fu  vietato  dapprima  anche  andare  col 
lume,  e  questa  regola  fu  modificata  nel  1262:  a  Genova  la  squilla 
serale  dei  monasteri  si  chiamava  campana  degli  zoppi,  perché 
suonava  prima  e  lasciava  loro  il  tempo  di  rincasare  adagio  ("|. 
Questa  regola  non  era  però  cosi  assoluta  da  non  patire  alcun'  ec- 
cezione, e  s' intende  anzitutto  che  si  potesse  sottrarvisi  per  debito 
d'  ufficio,  per  ragioni  di  servizio  pubblico,  o  con  licenza  speciale 
del  magistrato;  inoltre  si  ammettono  pure  giustificazioni  urgenti 
o  manifeste,  di  cui  gli  statuti  danno  esempi  diversi,  o  riser- 
vano il  giudizio  all'arbitrio  del  podestà.  Questo  fu  espressamente 
sancito  a  Monza  nel  1379  con  uno  statuto  singolare  deroga- 
tivo alla  norma  comune.  Cosi  secondo  i  luoghi  sono  esenti  da 
pena  quelli  che  partono  per  un  viaggio  o  ne  ritornano,  quelli 
che  accorrono  alla  campana  a  stormo  in  caso  d' incendio,  cor- 
rono in  cerca  di  medico,  prete,  levatrice  o  barbiere  per  salassi, 
o  si  recano  in  tal  qualità  dov'  é  richiesta  1'  opera  propria,  e  chi 
va  di  buon  mattino  al  lavoro,  come  devono  fare  scolari,  fornai  e 
contadini  che  pernottano  lunge  dalle  loro  terre  nei  centri  abitati. 
A  Vercelli  si  proscioglie  da  ogni  multa  anche  \\  /amulns  portans 
torticiam,  il  cero,  ad  doiìiinntii  suiim. 

In  parecchi  statuti  le  persone  di  buona  fama  hanno  altresi  li- 
cenza di  passeggiare  soli  o  con  qualche  vicino  innanzi  alla  casa 
propria  ed  alle  contigue,  non  più  di  tre  o  cinque,    e    per  le  con- 


—  i68  — 

dizioni  igieniche  delle  abitazioni  si  permette  anche  d'  uscire  per 
soddisfare  qualche  bisogno  fisico  vicino  alla  cantonata.  In  alcune 
città  (Bologna,  Firenze,  Pisa,  Treviso,  Como,  Milano,  Cremona, 
Lodi)  è  proibito  espressamente  di  suonare  di  notte  strumenti 
musicali,  liuto  o  viola  per  le  vie,  e  giova  credere  che  gli  inna- 
morati italiani  preterissero  le  ore  del  mattino  per  esprimere  i 
loro  sentimenti  colle  note  armoniose,  dacché  quegli  statuti  parlano 
solo  di  mattinate  e  non  fanno  mai  menzione  di  serenate. 
I  contravventori  sono  puniti  con  multe,  pili  gravi  se  portano 
armi:  le  guardie  li  denunciano  al  giudice  all' indomani,  e  possono 
arrestarli  subito,  se  sono  persone  sconosciute  o  sospette,  salvoché 
diano  malleveria  di  presentarsi  personalmente  al  mattino  seguente. 
A  Pavia  si  stabilisce  perfino  una  presunzione  legale  contro  chi 
è  trovato  di  notte  fuor  di  casa,  e  se  in  quella  notte  fu  commesso 
qualche  delitto  in  città,  lo  si  considera  subito  come  imputato  e 
si  comincia  ad  istruire  il  processo  contro  di  lui:  s' invita  pure 
con  bando  publico  chiunque  avesse  sofferto  per  qualche  delitto 
o  ne  avesse  conoscenza,  a  farne  l' immediata  denuncia. 

Altra  regola  generale  è  1'  obbligo  imposto  a'  tavernieri  di  por 
fine  alla  vendita  minuta  del  vino,  mandare  a  casa  gli  avventori 
e  chiuder  l'osteria:  essi  devono  provvedervi  per  lo  più  al  primo 
segnale,  a  Pisa  al  secondo,  perché  i  bevitori  abbiano  tempo  di 
rincasare  prima  del  terzo,  e  la  prima  suonata  riceve  perciò  il 
nome  di  campana  dei  tavernai,  e.  potatorum  a  Pavia,  come  si  chiama 
senz'  altro  vigneron  nella  Francia  settentrionale  ('^).  Si  può  cre- 
dere che  tale  divieto  non  esistesse  ancora  a  Siena  nel  1259  e 
non  vi  fosse  obbligatoria  la  chiusura  delle  taverne,  dacché  vi  si 
vieta  espressamente  ai  custodi  notturni  di  trattenersi  in  esse  nelle 
ore  in  cui  devono  esercitare  la  loro  vigilanza:  agli  abitanti  di 
Nizza  siffatta  norma  parve  assai  grave  ed  impetrarono  due  volte 
dal  siniscalco  di  Provenza  che  fosse  mantenuta  solo  per  gli  osti 
di  mestiere,  e  si  concedesse  in  via  d'  eccezione  ai  privati  di  poter 
vendere  il  proprio  vino  al  minuto  a  qualsiasi  ora  del  giorno  in 
casa  propria  per  mezzo  dei  propri  servi. 

Alcuni  statuti  danno  invece  ai  cittadini  licenza  di  mandare  a 
comperare  del  vino  coi  loro  recipienti  anche  dopo  la  campana 
per  consumarlo  in  famiglia,  purché  i  vasi  in  cui  si  trasporta  non 
siano  del  bettoliere:  altri  permettono  a  questo  di  dar  a  bere 
dopo  il  segnale  ai  forestieri  che  alloggiano  nella  stessa  taverna. 
A  Venezia  nel  1360  il  vinaio,  che  teneva  osteria  entro  il  Fon- 
daco dei  Tedeschi,  fu  messo  in  contravvenzione  per  aver  violato 


—   169  — 

la  proibizione  comune,  ma  ne  fu  poi  liberato,  dacché  gli  avven- 
tori colti  dai  custodi  col  bicchiere  alla  mano  dopo  la  suonata 
serale  erano  tedeschi  dormienti  nel  Fondaco,  e  quei  mercanti 
vogliono  sempre  ìiaberc  vininn  quocicìis  voìitiit,  alitcr  fraiigcreiit 
Itostium  ('*). 

Non  mancarono  qua  e  là  norme  e  divieti  speciali  che  appa- 
riscono connessi  colle  varie  condizioni  locali.  L'  acqua  sudicia  si 
può  gettare  per  le  vie  soltanto  di  notte,  ed  in  qualche  luogo 
—  S.  Gemignano,  Corleone,  Iglesias  —  anche  le  immondizie, 
che  altrove  non  è  mai  lecito  buttare  per  le  strade:  a  Pisa  se 
chi  vi  contravviene  è  un  servo,  gli  statuti  impongono  al  padrone 
di  pagar  la  multa,  ma  tcncntnr  imputare  famulo  sai  famulae  in 
suo  salario  coiìiputarc.  La  pulitura  delle  cloache  ed  a  Pistoia  la 
preparazione  del  sego  è  permessa  soltanto  dopo  la  campana:  a 
Pinerolo,  come  a  Riva  di  Trento  ('^),  anche  le  bestie  non  pos- 
sono trovarsi  fuori  del  recinto  ove  sogliono  essere  chiuse  la 
notte:  a  Voghera  e  Viterbo  invece  la  macellazione  degli  animali 
è  interdetta  nel  periodo  notturno,  probabilmente  ad  evitare  le 
operazioni  clandestine  su  animali  malati  con  danno  della  salute 
pubblica.  Qualche  proibizione  locale  comincia  subito  post  sonum 
Ave  Marie,  p.  es.  ad  Ivrea  per  1'  andare  a  caccia  nel  distretto,  a 
Bene  pel  tenere  in  casa  meretrici  o  ribaldi,  a  Piacenza  pel  trat- 
tenersi nei  conventi  femminili.  Gli  statuti  de' calzolai  di  Lodi  im- 
pongono pure  di  cessare  dal  lavoro  al  primo  suono  dell'  Ave 
Maria  nelle  vigilie  delle  feste  ('^). 

Gli  statuti  accennano  in  generale  altresì  ad  una  campana  del 
mattino,  dalla  quale  comincia  il  giorno,  ma  per  lo  più  bastano  i 
segnali  delle  Chiese  che  invitano  i  fedeli  religiosi  e  laici  alle 
preci  mattutine:  qualche  legge  dichiara  esplicitamente  che  il 
giorno  legale  ha  principio  da  essi.  Non  sembra  difficile  scoprire 
la  ragione  della  differenza;  la  campana  serale  ha  maggiore  im- 
portanza ed  è  quasi  sempre  una  campana  pubblica,  perché  prov- 
vede alla  sicurezza  generale,  ed  è  pili  urgente  e  necessario  fis- 
sare r  inizio  della  notte,  dacché  le  male  azioni  si  commettono 
più  facilmente  quando  le  tenebre  si  vanno  facendo  più  fitte,  an- 
ziché nelle  ultime  ore,  quando  si  diradano.  A  Pisa  e  Casale  la 
campana  comunale  suona  anche  al  mattino,  a  Piacenza  e  Pavia 
essa  stessa  dà  due  segnali,  uno  per  l'Ave  Maria  e  l'altro  perla 
fine  della  notte  legale.  A  Bologna  si  ha  l'  unico  esempio  d'  uno 
statuto  esplicito  introdotto  nella  redazione  del  1260  per  ordinare 
la  suonata  mattutina  della  campana   di  S.    Pietro:    prima    fu    im- 


posto  che  suonasse  a  martello  pel  tempo  sufficiente  a  chi  usciva 

di  cittcà  per  allontanarsi  d'  un  miglio,  sett'  anni  dopo  furono    pre- 
scritti quindici  tocchi  rari  e  cinque  spessi. 

Alessandro  Lattes. 


Le  bozze  di  questa  Nota  erano  sul  punto  di  venir  licenziate, 
quando  trovai  un  documento  Alessandrino,  che  avrebbe  dovuto 
essere  ricordato  prima  d'  ogni  altro,  perché  anteriore  di  sedici 
anni  alla  carta  Novarese  sopraccitata.  E  desso  uno  statuto  o  sen- 
tenza del  1206,  con  cui  si  condannano  a  perpetua  infamia  ed 
incapacità  due  guardie  del  Comune,  perché  senz'averne  auto- 
rità concessero  licenza  ad  un  cittadino  di  tener  giuoco  in  sua 
casa  et  potiim  ibi  volenti  bus  biberc  dar  et  post  campaìiaui ,  anzi  vi 
giuocarono  essi  medesimi  ad  tabulas  cantra  staiittiiin  ("').  Questo 
documento,  che  conferma  tutte  le  osservazioni  già  fatte  nelle 
pagine  precedenti,  si  legge  nel  codice  che  si  conserva  nell*  Ar- 
chivio comunale  d'Alessandria  col  nome  Libcr  crucis,  dove  fu- 
rono trascritti  molti  documenti  importanti  ed  insigni  per  la  storia 
del  Comune, 


NOTE 


(')  V.  p.  es.  nel  mio  libro:  //  diritto  cnnsuetmlinario  delle  città  lombarde,  Mi- 
lano  1899,  p.  380,  not.   i8^. 

(')  CiccAGLioNE,  La  legisl.  econoni.  /ìitaitz.  e  di  polizia  nei  niitiiicipi  dell'  It. 
nterid.  nel  Filangieri  voi.  XI,  Milano,   1886,  par.  I,  p.  528,  n.  27. 

(?)  Monuni.  /list.  patr.  edita  inssu  Caroli  Alberti,  Cliartaruni  I,  Torino,  1836, 
n.  858,  col.   1278. 

{*)  Pecori,  Storia  della  terra  di  S.   Geinigiiano,  Firenze,   1853,  p.  711,  not. 

(^)  Cfr.  Carutti,  Storia  di  Pinerolo,  -  Pinerolo,    1897,  p.  68. 

(^)  Miscellan.  di  storia  italiana,  voi.  VII,  Torino,   1866,  p.  57. 

(")  Statuto  Florentiae,  Friburgo,  1778-83,  Statuti  del   1415,  III,  34. 

(*)  Mangano,  Lib.  de  latidibiis  Papiae  ap.  Muratori,  R.  I.  S.  (  ov' è  pubbli- 
cato anonimo  ),  XI,  29,  cap.  XIV. 

(*)  Alberico  da  Ros.^te,  Lectura  super  Digesto  velcri,  Lugduni,  1534,  I,  f.  1561: 
ad  l.  More  romano  tit.  De  feriis  et  dilationibus  (  Dig.  Il,   12,  8). 

C'')  Per  le  origini  della  voce  v.  Sicir,iANO-ViLi,ANEUv.\  op.  cit.  per  le  Consiie- 
tud.  di  Palermo,  p.  4  io. 

(11)  Statuto  dei  padri  del  Comune  della  Rcp.  Genovese,  Genova,  1886,  p.  XI. II. 

(1-)  GoDEFRCY,  Dict.  de  l' anc.  langue  frang.,  Vili,  235,  s.  v.   Vigneron. 

(13)  SiMONSFELD,  Dcr  foiidaco  dei  Tedeschi,  Stuttgard,   1887,  I,  tiuin.   1852. 

(1^)  S/rt/«</i'  di  Riva,  ed.  Gar,  Trento,  1861,  Stat.   1274,  §  8^. 

(15)  Miscellan.  di  st.  ital.  cit.,  Statuta  caligarioruni  Laude,   I2S3  (?),  art.    VII. 

(""')  Gasp.\rolo,  Code.v  qui  Liber  Crucis  tmncupatur  e  tabularlo  Ale.vandrino, 
Roma,  1899,  p.  Ili,  n.  92. 


BIBLIOGRAFIA 


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e  (ìiiipdiuì. 

Gaudenzi  —  nel  Digesto  ilalimio,  voi.  VI,  par.  I,  Torino,  1888, 
s.  V.    Cainpmta,  p.  489. 

Fertile  —  Storia  del  diritto  italiano"'  V,  Torino,  1897,  P-  ^5^» 
not-  56-57.  P-  669  not.  32  a  35. 

RezascO  —  Dizion.  del  ling.  italiano  slor.  ed  aniniim'strat.,  Fi- 
renze, 1881,  s.  V.  Bollettino  n.  14,  Campana  n.  i,  Custodi, 
n.  2,  Guardia  n.  14,  22,  30,  Notte  n.  4,  Polizza  n.  36,  Scara- 
guaita  n.   1,  Se  iurta,  Squilla. 


FONTI  STATUTARIE 

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Tdrincì,   1602,  I,  71,  72  e  II,   190,  an.  1318. 
Vercelli    1241:    Monumenta    Instar iac   patriae    edita    iussu    Caroli 

Alberti,  Leges  municipales,  II,  Torino,   1876,  e.  283. 
Biella  1245:  Poma,  Gli   Stat.    del    Comune    di   B.,    Biella,    1885, 

rubr.   18. 
Bene  Vagienna  1293:   Capitula  et  Statata  comunitatis  Baemuìiiim 

edit.    AssANDRiA,    Torino-Roma,    1892,    e.    11,    113,    ió6,    314 

(  nn.   1324). 
Alessandria  1297:   Codex  statutorum    magnificae    comunitatis    A., 

Alessandria,  1547,  p.  92. 
Rivalla  1297:  Atti  della  R.  Accad.  delle  Scien:,e  di  Torino,    XIII, 

Torino,  1878,  p.   1265. 
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col.  61,  scc.  XIII,  173,  sec.  XIV,  180,  an.  1294. 


—  174  — 

Moncalieri  st  e.  XllI  e  XI\':  Moti,  citi.,  ibid.,  col.  1377,  1396. 

Ivrea  scc  XIII  t  XI\':  Man.  citi.,  ibid.,  col.  121  j,  1219,  1248 
(an.  1333). 

Chieri  131 1  :  Cibk.^rio,  Delle  Storie  di  Cltieri,  lì,  Torino,  1827, 
r.   II,  64,   138,  185. 

Tortona  13-9:  Siaitita  eivitalis  Dertlionoe,  Milano,  1573,  f.  140!. 

Mombaruzzo  1337:  Sialnti  inediti  di  M.,  cdit.  Gasparolo,  Ales- 
sandria,  1896,  e.  73. 

Vercelli  1341  :  Stattda  coìììhuìs  et  aliiiae  civitotis  Verccllarutii,  Ver- 
celli, 1541,  r.  84,  107. 

Torino  1360:  Man.  citt.  Legg.  jìiuiì.,  I,  col.  682. 

Gasale  dopo  il  1360:  Moìi.  eitt.,  ibid.,  col.  looi,  loio,  1019,  1025. 

Asti  1379  (  non  1534  come  ap.  Rezasco):  Statida  Ast.,  Asti,  153J., 
MI.  13,  XI,  84,  85. 

Voghera  1389:  Statala  civilia  et  criìiiinalia  oppidi  Vigiicrie,  Mi- 
lano, 1558,  stat.  civ.,  e.  156,  207,  208,  217,  218,  crimin.  36. 

Valenza  1397:  Ordini  et  Riforma della    Terra  di  V.,  Milano, 

1586,  e.  256,  492,  563. 


Genova:  Stat.  della  colonia  Genovese  di   Pera,    1316:    Misceli,    di 
star,  ital.,  XI,  Torino,  1870,  e.  185. 


Bergamo  circa  1270:  Mon.  citt.  Legg.  niunic.,  Il,  XIII,  25. 
Milano  1272:    CoRio,    Historia  patria    di   Milano,    Milano,    1503, 

f.    IDI. 

Brescia  1277:  Moìi.  citt.  ibid.,  col.  1584  [182],  lib.  Ili,  130,  e  col. 

1584  [246],  lib.  IV,  I,  an.  1282. 
Novara  1277:  Mon.  citt.  ibid.,  e.  136,  152,  153,  379,  (an.  1289). 
Como:  Stattda  Novocomi.   Mon.  citt.  ibid.,   e.    45,    139,    140,    141, 

an.   1276,  1280. 
Brescia  1313:  Mo)i.  citt.  ibid.,  Il,  m,  144. 
Milano    1330:    trascritti,    come   prova   l'identità   cogli   Statuti   di 

Monza,  negli  Statuti  del  1396,  Statuta  Mediolani,  Milano,  1480- 

82,  II,   126,  127,  V,  79. 
Monza  circa  1333:  Liher  Statntoriun  conmnis    Modoetiae,   Milano, 

1579-  ^-  70»  7i>  86. 
Piacenza  1336:  Statata  varia  civitatis  Placentiae,   Parma,  1860,  I, 
35,  V,  22,  23:  Statuti  dei  chierici  1337,  p.  554. 


—  175  — 

Arona  1386:  Mss.  Trivulziano  n.  1318,  e.  155,   156. 

Cremona   1387:  Statata  civitatis   Cnnio/iac,  Cremona,  1578,0.  122, 

123,  183,   184. 
Lodi  1390:  Statata  coììinmiiitatis  Laudac,  Milano,  1537,  f.  8t,  84,  iii. 
Vigevano  line  sec.  XIV:  Mss.  Trivulziano  n.  865,  e.  12. 
Pavia   1393:  Statata    civitatis    et   priiicipatas    Papié,    Pa\ia,    1590, 

crini,  e.  40  a  43,  81. 


Padova  ante  1236:  Statati  del  cornane  di  P.  dal  sec.  XII  al  12SJ, 

cclit.  Gloria,  Padova,  1873,  e,  784. 
Vicenza  1264:  Stat.  del  coìiiane  di  V.,  Venezia,  1886,  p.  75,   177, 

194,  265  (Banni  del  1275). 
Verona  1272-76:  Stat.  mss.  nella  Bibliot.  comunale,  III,    145,    IV, 

56,  ed  aggiunte  1296,  in  fine  del  lib.  III. 
Mantova  1303:    D'Arco,    Stadi   inforno    al  manie,    di    Mantova, 

Mantova,  1871,  I,  43,  61,  69. 
Venezia  1319:   Capitolare  inedito  dei  capi  di  sestiere  ap.    Fertile, 

op.  cit.,  loc.  cit. 
Verona  1328:  Stat.  mss.  nella  Bibliot.  comunale,  III,  115,  IV,  38. 
Treviso  1329-39:  Statata  provisionesqae  dacales  civitatis    Tarvisii, 

Venezia,  1574,  1.  I,  tract.  Ili,    e.    24    a    26,    1.    Ili,   tract.    VI, 

e.  14  a  18. 

Ravenna  sec.  XIII:  Fantuzzi,  Monam.  ravennati  dei  seco/i  di  mezzo, 
X'cnezia,  1801-04,  IV,  e.  156,  269  bis. 

Parma  1255:  Monam.  histor.  ad  provincias  Parm.  et  Placeìit.  per- 
tiìientia,  I,  Parma,  1855,  p.   160,  350,  355. 

Bologna  1260-61:  Statati  di  B.  dal  124^  al '6y,  ed.  Frati,  Bo- 
l(i<ina,   1877,  IV,  8a,  X,  39,  io6f,  voi.  III,  557,  §§  12  a  19. 

Parma  1266  a  1304:  Mon.  citt.  Stat.  Parmae,  II,  Parma,  1857, 
193.   —  Ibid.  1316  a  1315:  ibid.,  III,  Parma,  1859,  264. 

Modena  1327:  Statata  civitatis  Matinac,  Parma,  1864,  IV,  16, 
32,  217. 

Parma  1347:  op.  cit.,  IV,  Parma,  1860,  255. 

Carpi  1353:  Meni.  stor.  e  docam.  sulla  città  e  sali' antico  princi- 
pato di  Carpi,  Modena,   1884,  p.  92. 

Siena  Breve  degli  af fidali  del  Conmne  i2jo:  Firenze,  1868,  e.  33 
a  35- 


-  176  - 

S.  GemignanO  1255:  Pixori,  Sforia  di  S.  Gnu.,  Firenze,  1853,  I, 
44.,   111.  46.  64. 

Siena  Stot.  del  commic,  \'26'2.\  Il  constitulo  del  coni,  di  Siena, 
ed.  Zdekaier,  Milano,  1897,  I,  169,  258,  260,  302  a  304; 
487.  503;  III,  7. 

FÌreilZ3  Sftif.  dei  podestà  1-2^4:  Rondoni  /  più  antielii  frntiuìienti 
del  constittdo  fiorentino  nelle  Pidìbìicaz.  dell'  htit.  di  Studi  su- 
periori, XI,  e.  5,  23,  24,  e  le  note  ai  medesimi  pei  capp.  cor- 
rispondenti degli  stat.  del  capitano  1321  e  del  podestà  1324. 

Pistoia  Stat.  del  podestà  12S6:  Statiitiini  Potestatis  coniunis  Pi- 
s/orii,  ed.  Zdekai-kr,  Milano,  1888,  I,  48  a  51  ;  III,  19,  66: 
Tract.  itidicis  de  daninis  datis,  623,  66. 

Fisa  Breve  Pisani  Coniiinis  12S6  :  Stat.  ined.  della  città  di  Pisa, 
ed.  BoNAiNi,  Firenze,  1852,  III,  5,  48. 

Chianciano  1287:  Statuti  di  Chianciano,  Orvieto,  1874,  e.  328. 

Lucca  1308:  Meni,  e  dociini.  per  servire  alla  st.  di  Lucca,  Lucca, 
1867,  III,  par.  III,  14,  94. 

Lucca  1346:  Bandi  Lucchesi  nella  Collez.  di  opere  ined.  e  rare, 
ed.  BoNGi,  Bologna,  1863,  p.  123,  133,  142,  178. 

Viterbo  1251:  Documenti  di  storia  italiana,  Firenze,  1872,  IV,  66, 

100,  128. 
Roma  1363:  Statuti  della  città  di  Roma,  ed.  Re,    Roma,  1883,  II, 

97,  148;  III,  96,  T23. 

Palermo  sec.  XIII:  Consuetudini  di  Palermo,  ed.  Sìciliaso-'Villa- 
NUEVA  nei  Docum.  per  servire  alla  st.  di  Sicilia,  Palermo, 
1895,  ser.  II,  voi.  IV,  e.  60,  colle  note,  pag.  406  a  413, 

Alcamo  Stat.  delle  Gabelle  1367:  in  Docum.  citt..  Pai,  1876,  se- 
ri.- Il,  voi.  I,  p.  54. 

Corleone  Assise  della  terra,  sec.  XIV  in  Docum.  citt..  Pai.  1880, 
voi.  II,  e.  50,  92,  107,  130,  140.  —  Nelle  Consuetudini  del 
sec.  XIV  (ibid.j  il  e.  XLI  è  identico  al  cap.  succitato  delle 
Palermitane. 

Sassari  1316:    C.ode.v  diplomaticus    Sardinie   in    Mon.    ìiist.   patr., 

Torino,   1861,  I,  70;  III,  17. 
Iglesias  1327  :  Ibid.   Codex  diplom.  ecclesiensis,   Torino,    1877,    II, 

33-  34.  79- 


INDICE 


Dedica    .     - fag.  i 

Avvertenza „  3 

I.  Se  Dante  abbia  mai  pubblicamente  insegnato 7 

II.  Pascua  pieriis  demum  rtsonabat  avenis „  37 

III.  La  suprema  aspirazione  di  Dante „  73 

IV'.  Come  Manfredi  s'  è  salvato „  115 

V.  La  "  squilla  di  lontano  „  è  quella  àe\\' Ave  Marta? „  137 

VI.  "  La  vipera  che  '1  melanese  accampa  „ „  151 

Appendice:  A.  Lattes,  La  campana  serale  nei  secoli  XIII  e  XIV    se- 
condo gli  statuti  delle  città  italiane „  161 


NOVATI. 


Biblioteca  Storico-critica  della  Lette- 
ratura Dantesca  diretta  da  G.  L.  Pas- 
serini e  da  P.  Papa. 

FASCICOLI   PUBBLICATI: 

1.  Paget  Toynbee  -  RICERCHE  E  NOTE  DAN- 
TESCHE, Serie   T  L.     1  25 

2.-3.  Enrico  Rostagno  —  LA  VITA  DI  DANTE, 
testo  del  così  detto  Compendio  attribuito  a 
G.  Boccaccio.  „     3  — 

4.  Nicola  Zingarelli  -  LA  PERSONALITÀ  STORICA 
DI  FOLCHETTO  DI  MARSIGLIA  nella  Co  me  dia 
di  Dante  „    1  50 

5.  Egidio  Gorra  —  IL  SOGGETTIVISMO  DI  DANTE 

„     2   - 

6.  Felice  Tocco  QUEL  CHE  NON  C  È  NELLA 
DIVINA   COMMEDIA    o    DANTE    E    L'ERESIA. 

„  2  - 
7.°-8.     Francesco    Torraca     -    DI    UN    COMMENTO 

NUOVO  ALLA  DIVINA  COMMEDIA.  „     3    - 

9.'^ -10.    Francesco  Novati  —  INDAGINI  E  POSTILLE 

DANTESCHE  „    3    - 

I  fascicoli  si  pubblicano  uno  al  mese  in  formato 
di-8:  il  loro  prezzo  sarà  stabilito  volta  per  volta  in 
ragione  del  numero  delle  pagine. 

Si  può  anche  sottoscrivere  la  prima  serie  di  12  fa- 
scicoli per  sole  lire  12  (estero  franchi  16)  che  si  pa- 
gano anticipatamente. 


BIRLIOTEr.A  STORICO  -  r,RITICA 


DELI.A 


LETTERATURA  DANTESCA 


DIRETTA 


DA  G.  L.  PASSERINI  k  da  P.  PAPA 


XI. 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 
1899. 


EDWARD  ARMSTRONG 


i;  IDEALE   POLITICO   DI   DANTE 


JOHN    EARLE 


LA  ''  VITA  NOVA  „  DI  DANTE 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

1899 


Proprietà  letteraria. 


BOLOONA:   TIPI    DELLA   DITTA    ZANICHELLI,    1900. 


E.    ARMSTRONG 


L'  IDEALE  POLITICO  DI  DANTE 


L' IDKALi:  PULII  ICO  DI  DANTK  (') 


Non  è  invero  tra  i  fortunati  uomini  di  stato  che  bisogna  ricer- 
care nella  storia  i  sognatori  d' ideali  politici;  si  può  anzi  affermare 
che  la  fortuna  letteraria  d'  un  simile  ideale  è  inversamente  pro- 
porzionato alla  fortuna  politica  di  chi  ne  è  autore. 

Questo  perchè  il  successo  letterario  sta  nel  "  sentimento  „ 
nel  suo  stridente  contrasto  col  vero,  e  l' ideale  politico,  seb- 
bene si  atteggi  a  disegno  del  futuro,  non  è  poi  in  verità  che  una 
fantastica  immagine  del  passato;  dice  ciò  che  "  avrebbe  dovuto 
essere  „,  non  ciò  che  "  sarà  „  ;  segna  il  tramontare  di  un 
vecchio  ordinamento,  anziché  il  nascere  di  uno  nuovo  ed  in 
rispetto  all'  autore  —  s'  egli  è  mai  stato  uomo  politico  —  non  è 
già  Qn  programma,  ma  sibbene  l'apologia  della  sua  causa. 

Perciò  non  deve  meravigliare  se  l' Italia    nel    periodo   d' ind 
pendenza,  che  corre  dalla  caduta  degli   Hohenstaufen  alla    dom 
nazione  Spagnuola,  abbia  prodotto  due   grandi    ideali    politici: 
De  Monarchia  di  Dante  ed  //  Principe   del  Machiavelli,    pur  non 
riuscendo,  se  togliamo  Venezia,  a  stabilire    un    duraturo    assetto 
politico. 

Vi  è  tanta  analogia  nella  condizione  di  questi  due  scrittori, 
che  viene  quasi  spontaneo  il  considerarli  unitamente  per  un  mo- 
mento. Entrambi  furono  Fiorentini  e  avevano  tenuta  un'  alta  ma- 


(')  Questo  scritto  comparve  originariamente  nella  Cliiirclt  Otiarterìy  Review 
(fase,  dell'aprile  1890),  donde  noi  l'abbiamo  tratto  col  cortese  consenso  del- 
l' Autore. 


gistratura,  furono  trascinati  entrambi  (uio  ad  un  certo  punto 
oltre  le  proprie  originali  opinioni  e  nel  lìcìre  degli  anni  si  videro 
entrambi  condannati  ad  ozio  politico,  e  sebbene  si  mantenessero 
sempre  dopo  la  caduta  in  stretti  rapporti  con  i  maggiorenti  del 
tempo,  non  poterono  avere  alcuna  seria  influenza.  Ambedue  si 
addolorarono  per  la  incurabile  discordia  delle  singole  città,  so- 
gnarono ambedue  un'  Italia  unita,  ed  insieme  videro  nel  po- 
tere temporale  della  Chiesa  uno  dei  principali  ostacoli  al  loro 
ideale;  tanto  per  l'uno  quanto  per  l'altro  l'attuarsi  del  sogno 
parve  dipendere  da  un  solo,  conosciuto  uomo.  Quanto  a  poesia, 
veramente  fra  Dante  ed  il  Machiavelli  corre  la  stessa  differenza 
che  vi  è  fra  Giuliano  e  Lorenzo  de'  Medici  e  l' imperatore  Ar- 
rigo VII,  pur  tuttavia  ebbero  comune  la  speranza  di  un  pratico 
successo. 

Tanto  il  De  Monarchia  quanto  //  Principe  sono  epitaffi  di 
ordinamenti  morti  e  come  tutti  gli  epitaffi  dicono  ciò  che  il  morto 
avrebbe  dovuto  essere  o  ciò  che  si  spera  esso  divenga. 

Mentre  la  conclusione  dell'  uno  ed  il  proemio  dell'  altro  sono 
dichiaratamente  basati  sulla  storia,  pure  né  1'  uno  né  1'  altro  è, 
come  la  Politica  di  Aristotile,  la  grammatica  di  un  ordinamento 
esistente.  Quello  che  più  non  viveva  quando  il  Machiavelli  scrisse 
era  in  verità  un  ordinamento  nazionale,  poiché  poggiava  sull'esclu- 
sione dello  straniero,  ma  ne  cagionò  la  morte  la  debolezza  dell'idea 
unitaria  interna.  L' ordinamento  invece  considerato  da  Dante 
andò  a  male  per  la  mancanza  di  vivo  sentimento  di  nazionalità; 
ma  Dante,  non  curando  questo  male,  voleva  ad  ogni  costo  rinno- 
vare r  unità.  Questa  è  la  ragione  per  la  quale  1'  opera  di  Dante 
riesci  un  epitaffio  soltanto,  mentre  quella  del  Machiavelli  fu  un 
epitaffio  si,  ma  con  promessa  di  vita  futura. 

Abbiamo  posto  che  il  De  Monarchia  fosse  un  ideale  politico 
e  certamente  lo  crediamo,  ma  ci  manca  assai  il  non  sapere  con 
certezza  in  quali  circostanze  ed  a  qual  fine  Dante  lo  scrivesse: 
se  cioè  quest'  opera  fosse  come  il  credo  della  sua  conversione  al 
Ghibellinismo  teorico,  prima  della  lotta  fra  Bonifacio  Vili  e  la  co- 
rona di  Francia;  se  dovesse  essere    un    opuscolo   politico  inteso 


—  3  — 

come  aiuto  immediato  alla  causa  di  Arrigo  VII,  o  finalmente  se 
un'apologia  od  un  epitaffio  della  causa  quando  era  già  perduta. 
Vi  è  altra  incertezza  intorno  alle  attinenze  di  quest'  opera  con  le 
altre  del  medesimo  autore.  La  Commedia,  il  Convito,  le  Epistole. 
sono  piene  di  allusioni  alla  vita  contemporanea,  mentre  il  De  Mo- 
narchia non  ne  contiene  forse  alcuna.  E  forse  quest'  opera  una 
esposizione  di  principii  generali,  la  premessa  maggiore,  mentre 
la  minore  e  la  conclusione  politica  è  nelle  altre?  È  insomma  uno 
scritto  che  ha  preceduto  gli  altri  tanto  per  il  pensiero  quanto  per 
il  tempo?  Ovvero  il  risultato  astratto  della  esperienza  politica, 
intorno  alla  quale  erano  stati  gittati  giù  appunti  nelle  altre  opere, 
quasi  in  un  diario? 

Fortunatamente,  se  negli  altri  scritti  vi  è  pur  qualche  scon- 
cordanza nei  luoghi  di  minor  momento,  non  vi  sono  contradizioni 
in  quanto  alla  teoria  generale.  Se  il  De  Moìiarcìiia  è  stato  scritto 
durante  il  regno  di  Alberto  d'  Austria,  esso  ci  mostra  ugualmente 
la  fede  politica  di  Dante  quale  egli  la  mantenne  durante  e  dopo 
il  regno  di  Arrigo  VII,  e  per  il  suo  carattere  astratto  e  per  1'  or- 
dinamento logico  essa  è  la  miglior  base  possibile  per  un  raffronto 
dell'ideale  con  ciò  che  era  in  realtà  la  politica  del  giorno.- 

E  notevole  che  Dante  al  principio  stesso  dell'  opera  affermi 
d'  essere  l' inventore  d'  una  nuova  teoria  intorno  alla  monarchia 
temporale.  Da  questa  affermazione  si  sono  volute  trarre  conse- 
guenze intorno  alla  data  dell'opera;  senonclic  durante  tutta  la 
vita  politica  di  Dante,  ed  anche  prima,  la  teoria  della  monarchia 
universale  era  un  luogo  comune  che  ha  occupato  l' intera  vita  di 
molti  diplomatici  e  giureconsulti.  La  novità  apportatavi  da  Dante 
sta  in  ciò  che  egli  la  connette  con  la  metafìsica  e  la  tratta  con 
severo  metodo  logico.  In  questo  modo  la  teoria  è  passata  dalle 
mani  del  giurista  a  quelle  del  filosofo,  prendendo  nel  mutare  un 
novissimo  aspetto.  Il  giureconsulto  considera  i  diritti  dell'impero 
ed  i  doveri  dell'umanità;  il  filosofo,  che  si  occupa  dei  diritti  che 
ha  l'umanità  per  poter  raggiungere  il  suo  fine,  pensa  invece  ai 
diritti  dell'  imperatore.  Il  sovrano  non  è  che  il  mezzo  col  quale 
r  umanità  può  raggiungere  la  pienezza  del  suo  potere    ed    occu- 


—  4  — 

pare  il  posto  clic  le  è  assegnato  nell'  oriliiiaincnto  dell'  universo. 
Il  giureconsulto  chiama  l'imperatore  "  Signore  di  tutti  „,  mentre 
il  filosofo  lo  dice  "  servo  di  tutti  „;  al  modo  stesso  che  il  Pontefice 
è  Siri'iis  Scrvoniììi  Dei,  V  imperatore  non  è  che  il  ministro  della 
libera  umanità. 

Quale  dunque  è  il  fine  della  "  universalis  civilitas  „  di  questa 
umanità?  Ce  lo  dice  Dante  stesso:  "  Est  actuare  semper  totam 
potentiam  intellectus  possibilis,  per  prius  ad  speculandum,  et  se- 
cundario  propter  hoc  ad  operandum  per  suam  estensionem  „  ('). 

Per  raggiungere  il  qual  fine  principale  mezzo  è  la  pace  e 
questa  dipende  dalla  giustizia;  ora  non  essendo  la  giustizia  pos- 
sibile fi-a  poteri  che  si  equivalgono,  è  necessario  un  solo  ed  uni- 
versale giudice. 

Egli  deve  avere  potenza  e  volontà  bastevoli  per  essere  il  più 
equo  ;  la  sua  giustizia  non  può  essere  intralciata  dalla  cupidigia, 
poiché  egli  nulla  avrà  da  desiderare,  il  suo  dominio  non  ha  altri 
limiti  che  1'  Oceano.  Se  pur  la  cupidigia  offusca  la  giustizia, 
amore  poi  l' illumina,  amore  che  è  cosa  propria  del  sovrano,  es- 
sendoché è  più  vicino  all'  umanità  degli  altri  principi.  Il  suo 
operare  è  simile  a  quello  dell'umanità,  lo  dice  il  Convito;  il 
sovrano  ha  relazione  con  l' uomo  compiutamente,  ove  gli  altri 
signori  r  hanno  solo  in  parte.  Siccome  la  giustizia  è  un  mezzo 
per  raggiungere  la  felicità  umana,  il  sovrano  non  è  altro  che  il 
ministro  dell'  umanità,  onde  essa  diventi  libera;  esiste  per  i  suoi 
sudditi,  non  questi  per  lui. 

Nella  monarchia  solamente  1'  uomo  vive  per  sé  stesso  e  non 
a  vantaggio  d'altri,  perché  è  perfettamente  libero.  E  base  di  questa 
libertà  la  "  libertas  arbitrii  „,  l'indipendenza  cioè  dell'intelletto 
dall'  appetito,  indipendenza  che  soli  gli  esseri  intelligenti  posseg- 
gono del  tutto.  Libertà  e  governo  sono  strettamente  vincolati: 
"  Evigilate  igitur  omnes,  et  assurgite  regi  vestro,  incolae  Italiae, 
non  solum  sibi  ad  imperium,  sed,  ut  liberi,  ad  regimen  reservati.  (^)  „ 
Questo  è  ciò  che  ci  fa  felici  qua  giù    e  ci  renderà    poscia    simili 

(1»  De  Mon.  I,  4. 

(^  Dante  Episl.  V,  6. 


agli  dei.  Questa  libertà  è  esenziale  alla  perfezione  delle  nostre 
qualità  intellettuali:  "  Pax  cum  libertate  „  diventa  dunque  il  motto 
dell'  impero.  Questa  è  la  base  filosofica  dell'  opera  di  Dante,  per 
mezzo  della  quale  egli  ci  porge  i  principii  fondamentali. 

Senonché  ora  sorge  un  nuovo  intoppo:  a  chi  spetta  di  diritto 
l'impero?  E  a  questo  punto  Dante  trova  nei  lettori  ignoranza  di 
fatti  e  disaccordo  circa  le  conseguenze  da  cavarne.  V  è  chi  nega 
i  diritti  del  Popolo  romano  e  chi  nemmeno  ne  conosce  le  ragioni. 

Il  diritto  deriva  dalla  volontà  di  Dio,  e  se  riesciremo  a  dimo- 
strare che  Roma  ebbe  il  suo  impero  per  volere  di  Dio,  lo  avrà  avuto 
giustamente.  Roma  ha  il  più  bel  titolo  di  nobiltà,  poiché  le  viene  dai 
fondatori  il  sangue  più  puro  derivante  dalle  tre  divisioni  del  mondo; 
tutte  le  nazioni  hanno  combattuto  per  l' impero  ed  in  ciascun 
giudizio  della  spada  la  sapienza  divina  ha  dato  ragione  a  Roma. 
Chi  mira  al  bene  comune  lo  fa  a  scopo  di  giustizia,  poiché  ap- 
punto in  essa  sta  il  bene  comune;  ora  Roma  nel  soggiogare  il 
mondo  mirava  a  questo  bene  comune:  la  sua  storia  è  una  lunga 
prova  di  sacrifizio.  "  Omni  cupiditate  submota,  quae  reipublicae 
semper  adversa  est,  et  universali  pace  cum  libertate  dilecta,  populus 
ille  sanctus,  pius  et  gloriosus,  propria  commoda  neglexisse  vide- 
tur  ut  publica  prò  salute  humani  generis  procurarci.  Unde  recte 
illud  scriptum  est:  Roinanii/n  iinpcrimn  de  fonte  nascitur  pietatis.  „  (') 

La  natura  stessa  ha  formato  Roma  per  l'impero,  poiché  la 
legge  naturale  è  inseparabile  dalla  giustizia.  Nel  preparare  i 
mezzi  per  il  fine  dell'  uomo  la  natura  destina  alcuni  uomini  per 
l'ubbidienza,  altri  per  il  comando  e  similmente  fa  con  i  popoli;  di 
questi  quale  meglio  del  romano  fu  mai  preparato  per  l' impero 
universale?  Altre  città  potranno  essere  prime  nell'arte  o  nelle 
scienze,  ma  senza  dubbio  Roma  fu  fatta  perché  imperasse. 

Ma  pur  riconoscendo  Roma  quale  sede  dell'  universale  reg- 
gimento, deve  proprio  essere  sovrano  1'  imperatore?  Negano  i 
Decretalisti  e  riferiscono  alla  S.  Sede  tutte  quante  le  prove  che 
Dante  adduce  in  favore  dell'impero.  Perciò  Dante,  che  nel  secondo 


(i)  De  Monarchia  II,  5. 


—  6  — 

libro  aveva  per  difendere  Roma  "  scossi  sul  soglio  tutti  i  re 
della  terra  „,  deve  nel  terzo  combattere  gli  avvocati  pontifici, 
*'  gente  ignara  di  teologia  e  di  filosofia  che  afferma  in  mala 
fede  essere  le  tradizioni  della  Chiesa  le  basi  della  religione  „  ('). 

Ora  nel  trattare  tali  questioni  Dante  non  deve  ammaestrare 
circa  i  principi  fondamentali,  ma  sibbene  cercare  di  combattere 
prove  contrarie;  perciò  è  che,  mentre  il  primo  libro  è  sopra  tutto 
filosofico  ed  il  secondo  storico,  il  terzo  riesce,  per  essere  del 
tutto  polemico,  il  più  vero,  il  più  interessante  ed  il  più  efficace 
presso  i  lettori  moderni  ;  e  nel  medesimo  tempo  somiglia  mag- 
giormente alle  altre  apologie  dell'  impero  precedenti  o  susseguenti 
il  De  Monarchia. 

Dante  inoltre,  pur  combattendo  le  pretese  pontificie,  non  lascia 
di  approfondire  il  suo  concetto  dell'  impero.  Per  primi  ribatte  gli 
argomenti  tratti  dalla  Scrittura  intorno  al  prevalere  del  sacerdote 
sul  principe,  poscia  quelli  metafisici  patrocinanti  una  unità  nella 
quale  T  imperatore  sia  sottoposto  al  Pontefice.  In  vano  i  Deere- 
talisti  forzano  la  mano  alla  storia  e  fanno  legge  della  donazione 
di  Costantino  e  delle  susseguenti  concessioni;  Dante  risponde 
loro,  dover  andare  il  diritto  avanti  il  giudice,  come  l' impero  va 
prima  dell'  imperatore.  Costantino  non  aveva  diritto  alcuno  di  fare 
donazione  di  ciò  che  era  dell'  impero,  né  la  Chiesa  di  accet- 
tarlo, poiché  egli  non  poteva  alienare  ciò  che  non  gli  appar- 
teneva "  Poterai  tamen  imperator,  in  patrocinium  Ecclesiae,  pa- 
trimonium  et  alia  deputare,  immoto  semper  superiori  dominio, 
cuius  unitas  divisionem  non  patitur.  Poterat  et  Vicarius  Dei  re- 
cipere,  non  tanquam  possessionem  sed  tanquam  fructum  prò  Ec- 
clesia, prò  Christi  pauperibus  dispensator  „  (*).  L' imperatore  po- 
teva concedere  e  la  Chiesa  accettare  solamente  a  titolo  d'  usu- 
frutto ed  a  vantaggio  dei  poveri. 

Se  poi  Carlomagno  è  diventato  \ Advocaiiis  e  perciò  il  vassallo 
della  Chiesa,  "  usurpatio  iuris  non  facit  ius  „  ;  l' Impero  è  anteriore 


(1)  De  MoM.,  Ili,  3- 
{-)  De  Moti.  Ili,  IO. 


alla  Chiesa,  Cristo  stesso  ne  riconobbe  il  potere  temporale  (se 
Costantino  non  lo  avesse  avuto,  non  avrebbe  potuto  fare  dona- 
zioni alla  Chiesa  e  questa  avrebbe  commesso  un  abuso  accet- 
tandole). Ora  nessuna  legge,  né  divina,  né  nazionale,  né  univer- 
sale, ha  fatto  passare  mai  questa  potestà  in  mano  alla  Chiesa; 
essa  non  se  la  poteva  attribuire  da  sola,  né  l'Imperatore  poteva 
concedergliela;  la  "  virtus  auctorizandi  imperiuni  nostrae  morta- 
litatis  „  è  contraria  alla  sua  natura  stessa.  Quale  è  dunque  la 
relazione  che  corre  tra  essa  e  l'Impero? 

L'  uomo  è  un  mezzo  fra  il  corruttibile  e  l' incorruttibile,  ha 
due  nature,  ciascuna  delle  quali  ha  il  proprio  fine;  santità  in 
questa  vita  e  santità  nell'altra;  la  via  per  raggiungere  quest'  ultimo 
scopo  sta  nella  dottrina  spirituale  e  nelle  virtù  teologali  e  ne  è 
guida  il  Pontefice.  Il  primo  fine  invece  si  raggiunge  con  la  dot- 
trina filosofica,  con  le  virtù  morali  e  con  quelle  dell'intelletto: 
r  imperatore  doma  con  la  pace  le  contrarie  onde  di  passione. 
Questo  è  dunque  l'ufficio  dell'impero.  "  Ut  in  areola  ista  morta- 
lium  libere  cum  pace  vivatur  „  (').  Siccome  poi  l' ordinamento 
della  terra  è  simile  a  quello  dei  cieli  cosi  solamente  chi  ha  or- 
dinato i  cieli  può  dare  al  guardiano  della  terra  gli  "  utilia  do- 
cumenta libertatis  ac  pacis  „  (^).  Dio  solo  elegge.  Egli  solo  con- 
ferma, ed  i  cosidetti  elettori  non  sono  che  suoi  ministri.  Il  De 
Monarcliia  conduce  dunque  ad  un  imperatore  che  abbia  per  mis- 
sione di  istituire  la  pace  universale  per  mezzo  della  giustizia; 
egli  è  il  servo  della  libera  umanità  e  gli  altri  principi  sono  suoi 
deputati.  Il  diritto  gli  viene  dal  Popolo  romano,  ma  la  sua  legge 
deve  essere  assoluta,  né  può  essere  intralciata  o  menomata  dalla 
giurisdizione,  né  dalla  legge  delle  cose  spirituali. 

Quest'  ideale  non  aveva  probabilità  alcuna  di  essere  attuato, 
finché  i  mezzi  consistevano  in  un'  imperatore  quale  Alberto 
d'  Austria,  in  principi  quali  Filippo  il  bello  e  Carlo  di  Napoli  od 
in  un  Pontefice  quale    Bonifacio    VIII.    Se    non    fosse    stato    per 


(I)  De  Moli.  Ili,   i6. 


r  assunzione  al  trono  di  Arrigo  VII  e  per  1'  andata  dei  Papi  ad 
Avignone,  il  De  Monarchia  sarebbe  riescilo  inutile  e  senza  con- 
cordanza storica. 

Solamente  durante  il  regno  di  Arrigo  MI  l' ideale  di  Dante 
ebbe  qualche  attinenza  col  vero.  Il  materiale  dato  dalla  storia 
consiste  da  un  lato  nell'  imperatore  stesso  e  negli  elementi  che 
in  teoria  sembravano  poter  essere  favorevoli,  cioè  gli  interessi 
del  Ghibellinismo  e  1'  ambizione  del  Popolo  romano,  e  dall'  altro 
in  quelli  che  secondo  ogni  probabilità  si  sarebbero  opposti  all'  av- 
verarsi dell'  ideale,  cioè  i  vantati  diritti  della  resistente  unità  del 
Papato  sotto  forma  d' impero  e  lo  spirito  di  nazionalità  che  com- 
batteva l'unità  sotto  qualsiasi  forma.  Se  carattere  dell'impero 
doveva  essere  l'universalità,  cioè  l'assenza  d'interessi  locali  e 
di  attriti  nazionali  — •  un  che  al  di  sopra  dei  contrastanti  interessi 
e  delle  fazioni  —  allora  il  carattere  personale  ed  il  modo  di  vita 
di  Arrigo  di  Lussenburgo  ne  facevano  un  imperatore  ideale  ; 
e  se  il  De  Monarchia  è  stato  scritto  prima  della  sua  ascen- 
sione al  trono,  Dante  si  è  mostrato  veramente  profeta,  oltreché 
filosofo. 

Arrigo  come  imperatore  aveva  la  men  definita  nazionalità  che 
si  potesse  sperare;  principe  dell'  impero  Germanico  era  eletto 
dagli  elettori  Tedeschi  unanimi;  ma  veniva  dal  confine  di  Francia, 
era  stato  educato  alla  corte  francese  e  parlava  francese,  la  sua 
elezione  era  patrocinata  dal  fratello,  I'  elettore  di  Treviri,  sempre 
il  più  francese  fra  gli  elettori,  e  perciò  la  sua  candidatura  riesciva 
gradita  alla  Corte  di  Francia.  Ora  i  suoi  interessi  fin  da  principio 
erano  in  Italia,  che  egli  stesso  riguardava  quale  luogo  di  partenza 
per  la  Terra  santa. 

Il  Papa  infatti  gradiva  l'elezione;  un  Pontefice  francese  non 
poteva  che  temere  il  minacciato  trapasso  dell'impero  dai  Te- 
deschi ai  Francesi,  senza  contare  che  1'  aumento  d' influenza  im- 
periale in  Italia  avrebbe  arrestato  l' ingrandire  della  monarchia 
Napoletana,  minaccia  alla  indipendenza  degli  Stati  Pontifici.  Ep- 
pure il  re  dei  Germani  avrebbe  a  mala  pena  certo  soggiaciuto 
ad  un  Pontefice  Francese. 


—  9  — 

Arrigo  era  di  gran  lunga  in  condizioni  più  vantaggiose  degli 
Ilabsburg  e  l'assenza  del  Papa  gli  apriva  le  porte  di  Roma. 
Il  possedere  egli  un  piccolo  principato  di  otto  o  nove  città 
non  poteva  certamente  creargli  un  legame  qualsiasi  di  naziona- 
lità; è  vero  che  la  cessione  della  Boemia  al  figliuolo  fu  il  prin- 
cipio della  grande  potenza  territoriale  della  casa  di  Lussemburgo, 
ma  pare  che  Arrigo  non  mirasse  affatto  a  questo.  È  certo  che  la 
sua  politica,  al  contrario  di  quella  degli  Habsburg  suoi  anteces- 
sori, e  di  quella  di  Luigi  di  Baviera  suo  successore,  non  fu  punto 
indirizzata  ad  accrescimento  territoriale  per  vantaggio  proprio. 
Egli  usò  del  matrimonio  per  amicarsi  principi  potenti,  ma  lo  fece 
come  gli  imperatori  antichi  per  assicurarsi  la  fedeltà  dei  vice- 
rettori dell'  impero,  non  perché  col  tempo  le  loro  proprietà 
territoriali  venissero  per  eredità  ad  accrescere  quella  della  sua 
casa.  Se  poi  in  Italia  mancarono  ad  Arrigo  i  vantaggi  materiali 
di  Federico  II,  non  gli  si  misero  dinanzi  al  valico  delle  Alpi  gli 
ostacoli  che  per  60  anni  ne  avevano  chiuso  il  passo  agli  altri 
imperatori  tedeschi. 

Roberto  di  Napoli  era  allora  allora  salito  al  trono,  aveva  un 
titolo  incerto,  e  Federico  di  Sicilia  sarebbe  stato  per  lui  per  lo 
meno  un  rivale.  Gli  effetti  della  tragedia  di  Bonifacio  VIII  non 
potranno  mai  essere  troppo  valutate,  anzi  erano  tanto  maggiori 
inquantoché  si  trattava  di  uno  dei  pontefici  più  potenti.  Non 
ostante  il  crescere  successivo  del  dominio  temporale,  il  papato 
non  riebbe  mai  pili  la  suprema  autorità  in  Italia.  La  teoria 
Guelfa,  se  teoria  fu  mai,  di  una  federazione  italiana  dei  municipi 
con  a  capo  il  Pontefice  italiano,  perdette  ogni  prestigio.  Il  Pon- 
tefice non  fu  più  italiano,  i  municipi  Lombardi  caddero  quasi  tutti 
in  mano  ai  despoti,  quelli  Toscani  si  divisero  in  fazioni,  fra  le 
quali  è  ben  difficile  distinguere  un'unica  linea  di  condotta.  Le 
classi  inferiori,  che  non  avevano  posa  sotto  quei  tirannelli,  nobili 
o  borghesi  che  fossero,  ed  agognavano  almeno  un  mutare  di  pa- 
droni, sperarono  in  Arrigo,  come  nel  1494  spereranno  in  Carlo  VIII 
"  Plebs  omnis  Italiae,  quae  novis  semper  trahi  ducibus  quaerit, 
lege  fatorum  aeterna,  venientem  Caesarem  jam  manifestis  oplabat 


IO 


applausibus  (')  „.  Roma  senza  corte  né  commercio  era  pronta  ad 
accogliere  un  imperatore  od  un  Pontefice  che  le  rendesse  la  prospe- 
rità materiale  e  traducesse  in  realtà  le  sue  aspirazioni  a  ritornare 
centro  del  mondo.  "  Fama  incrcbesccbat  Pop.  Roni.  praesertimque 
plebem  commodis  suarum  rerum  Regem  exojìtare  (-)  „.  Potè  poi 
più  di  tutto  l'essere  Arrigo,  in  tanta  demoralizzazione,  l'unico 
principe  che  avesse  un'alto  ideale,  quello  stesso  che  Dante  descrive, 
cioè  di  un  regno  di  pace  e  giustizia  che  fosse  una  liberazione  da 
un'incosciente  tirannide;  stato  questo  che  se  pur  non  poteva 
essere  universale,  almeno  poteva  essere  comune  alla  Germania 
ch'egli  aveva  pacificato,  ed  all'Italia  della  quale  egli  diveniva 
arbitro.  Non  avrebbe  avuto  per  capitale  una  città  venutagli  in 
retaggio  dalla  sua  casa,  ma  Roma  stessa;  avrebbe  usato  il  potere 
per  servire  quello  spirituale  della  Chiesa  e  per  difenderne  gli  in- 
teressi temporali.  E  perciò  che  studiando  la  storia  di  Arrigo  pare 
di  leggere  il  De  Monarchia  punto  per  punto.  Vediamo  il  pe- 
riodo visionario  filosofico  nel  quale  egli  tenta  di  stabilire  la  pace 
universale;  il  periodo  storico  nel  quale  egli  sacrifica  ogni  cosa 
pur  di  rinnovare  l' unione  dell'  Impero  con  Roma,  e  finalmente 
e  inevitabilmente  la  polemica  quando  è  costretto  a  combattere 
la  rivalità  del  Pontefice  e  dei  suoi  alleati.  Il  continuo  parlare  di 
pace  e  giustizia  che  si  nota  nei  cronisti  di  Arrigo  non  si  deve 
considerare  come  un  luogo  comune  di  panegirico  regale,  perché 
ciò  si  riscontra  nei  Tedeschi  come  negli  Italiani,  nei  Ghibellini 
come  nei  Guelfi  moderati,  quale  il  Villani. 

Il  suo  governo  nel  Lussemburgo  è  lodato  :  "  Quod  in  eo  via 
justitiae  et  trames  equitatis  bases  suas  fixerit;  nam  per  comitatum 
Lutzelburgensem  mercatoribus  et  aliis  peregrinantibus  major  fuit 
securitas  quam  sit  in  aliquibus  provinciis  ecclesiarum  immu- 
nitas  (^)  „.  Pare  proprio  che  pace  e  giustizia  fossero  caratteri- 
stiche della  sua  famiglia.  Il  cronista  di  Baldovino  da  Treviri,  dopo 


(')  Ferretus  Vicentinus:  Muratori  IX,   1055. 
('■=1  Mussato.  L.  Ili,  e.  7:  Muratori,  X,  ^08. 
(')  Pcrtz,  XVII,  70:  Annales   Worm. 


—  II  — 

aver  lodato  in  Arrigo  queste  medesime  virtù,  dice  di  lui  "  jude.x 
justissimus,  semper  illum  gerens  animum.  Juste  iudicate,  fìlii  ho- 
minum  (')  „.  Dal  Lussemburgo  la  sua  fama  passò  in  Germania, 
una  cronaca  di  Salzburg  dice  di  lui:  "  de  quo  multa  bona,  et 
maxime  quod  pacis  amator  et  justus  judex  csset,  quasi  per  totam 
Alemaniam  dicebatur  (-)  „.  L'annalista  di  Zwettel  crede  che:  "  la 
sua  morte  ebbe  per  causa  l' essere  il  mondo  indegno  di  lui, 
poiché  da  Carlomagno  in  poi  non  vi  fu  chi  gli  somigliasse.  Il 
suo  ardore  per  la  giustizia  ed  il  carattere  religioso  della  sua  vita 
lo  resero  pari  ai  re  dell'Antico  e  del  Nuovo  Testamento  „. 

Quando  scese  in  Italia  la  forma  pratica  che  doveva  prendere  il 
regno  di  pace  e  di  giustizia  fu  naturalmente  il  ripristino  dei  vicari 
imperiali,  che  dovevano  mettere  ordine  nell'  intrico  di  tiranni  e 
di  libertà  comunali.  Dovevano  invero  continuare  ad  esistere  i  mu- 
nicipi, ma  solamente  come  complemento  della  giurisdizione  im- 
periale; erano  stati  tanti  germi  di  discordie,  dovevano  ora  for- 
mare insieme  una  gran  leva  d'  unità.  I  nomi  di  parte  Guelfa  e 
Ghibellina  dovevano  dimenticarsi.  Cosi  suonavano  le  lettere  im- 
periali: "  Universos  Christicolas  sibi  cordi  esse  componendos  (')  „. 
Tale  fu  il  tenore  del  discorso  imperiale  ai  Lombardi,  pronunziato 
dal  trono  posto  dinanzi  a  S.  Ambrogio  il  giorno  che  cinse  la  co- 
rona di  ferro:  "  Intentionis  erat  nullam  partem  tenere,  ubique  po- 
nere  pacem,  omnes  expulsos  introducere  (""J  „.  E  fu  allora  che  ad  un 
fedele  esule  di  Vercelli,  il  quale  diceva  aver  sofferto  assai  a  ca- 
gione dell'  impero,  cui  purtuttavia  avrebbe  seguitato  a  servire  con 
ogni  sua  possa,  rispose  di  non  poter  credere  che  i  travagli  gli 
fossero  venuti  dall'  impero,  perché  in  Lombardia  egli  non  par- 
teggiava, che  non  vi  era  venuto  per  alcuna  parte,  ma  sibbene 
per  tutti  quanti  ("'). 


(')  Baluze.,  Mise.  Hist.,  I,  314. 

e")  Contiti.  Canonicormii  S.  Rudberti  Salisburgensis:  Pertz,  XI,  319. 
(3|  Lettera  ai  Pisani:  Mussato  lib.  V:  Muratori  X,  406. 
[*)  Nicolai  Episc.  Bottoni.  Relatio:  Muratori  IX,  89^;  ed.  Heyck  p.  2. 
(')  Ibid.  "  Nostro  intendimento  era  di  volere  i  Forentini  tutti,  e  non  partiti,  a 
buoni  fedeli  „.  Villani  IX,  7.  Lo  stesso  a  IX  15  dice,  che  la  gente  era  cosi  scossa 


12     -- 

Questo  serio  e  religioso  piincipc  renano  faceva  veramente  uno 
strano  contrasto  con  i  signori  italiani  d'  allora.  Suo  unico  piacere- 
era  la  pace;  lo  dice  il  Compagni:  "  La  sua  vita  non  era  in  so- 
nare, né  in  uccellare,  né  in  solazzi,  ma  in  continui  consigli, 
e  a  pacificare  i  discordanti  e  assettare  i  vicari  per  le  terre  „  ('). 
La  missione  gli  veniva  direttamente  da  Dio  ed  era,  aggiunge, 
di  abbattere  i  tiranni  per  modo  che  non  ce  ne  rimanesse  un  solo, 
e  perciò  "  venne  giù,  discendendo  di  terra  in  terra,  mettendo 
pace  come  fusse  uno  agnolo  di  Dio  „  (^).  Clemente  stesso  lo  indi- 
cava quale  messia  di  pace  "  Vivat  rex  Salamon.  Salamon  inter- 
pretatus  pacificus  rex,  nani  et  ipse  talis  est,  pacem  enim  diligit, 
pacem  quaerit  et  amplectitur,  et  pacem  procurat,  nani  Teutoni  hoc 
videntes  a  bellorum  strepitibus  quierunt  et  quiescunt ....  nani 
ubicumque  fuit  ita  pacem  procuravit  quod  in  veritate  dicere  pos- 
sumus  :  In  pace  factns  est  ejus  lociis  „  (^).  Ma  più  notevole 
ancora,  quando  si  raffronti  con  la  teoria  di  Dante,  è  un  passo 
della  Cronaca  di  Baldovino  di  Treviri,  nella  quale  cosi  parla  di 
Arrigo:  "  Merito  illud  propheticum  cius  dcbuit  auribus  insonare: 
Specie  Ina  quoad  iustitiam  humanitatis  et  ad  vitam  activam,  ei 
pulcliritiidine  tua,  scil.  honorum  operum  divinitatis  et  ad  vitani 
speculativam,  intende,  prospere  procede,  et  regna  „  {*).  Dante  non 
avrebbe  certo  potuto  nel  primo  libro  esprimere  l'idea  sua  meglio 
di  questo:  "  Simplex  animus  [qui]  totaliter  aspirabat  dare  pacem 
mundo  „  (^). 

Né  fu  Arrigo  meno  ardente  di  Dante  nel  voler  che  la  pace  fosse 
compagna  inseparabile  di  una  legge  universale  con  un  solo  legisla- 
tore. L'universalità  dell'Impero  è  impressa  perfino  sul  suo  sigillo: 


dalla  sua  fama  di  giustizia  e  di  paciere,  che  se  non  fosse  stato  per  l'indugio  a 
Brescia  avrebbe  potuto  impadronirsi  di  Toscana,  Roma  e  Napoli  senza  colpo 
ferire. 

(')  Dino  Comp.   Cronica,  Uh.  III.  26.  Ediz.  Del  Lungo,  II.  363. 

(^)  Ibid.  lib.  III.  24.  Ediz.  cit.  II,  355. 

(')  Bonaìni.  Jicta  Henrici  VII,  I,  2. 

{*)  Baluze.  Mise.  Misi.  I,  jij. 

C")  Johannes  de  Cermenate:  Muratori  IX,   1237. 


-  13  — 

"  Ego  coronarum  corona  imindique  caput,  conlìrmo  principi  po- 
testatem  sibique  subjicio  civitates  gentiumque  nationes.  Tueantur 
aquilae  gloriani  nieam  „.  Questa  stessa  universalità  è  impressa 
in  egual  modo  sui  comuni  indipendenti  e  sui  feudi  pontifici.  Nel 
suo  Editto  del  1313,  egli  parla  "  dell'  Impero  romano  nella 
cui  pace  riposa  l' ordine  di  tutto  il  mondo,  e  del  divino  co- 
mando che  ogni  anima  dovrebb'  essere  soggetta  all'  Imperatore 
romano  „  (').  Né  viene  esclusa  Napoli  in  forza  dell'  alta  sovranità 
pontificia,  "  Regnum  Siciliae  et  specialiter  insula  Siciliae  sicut  et 
ceterae  provinciae  sunt  de  Imperio,  totus  enim  mundus  impera- 
toris  est  „  ('). 

E  di  quest'  impero  deve  essere  centro  Roma  col  "  suo  popolo 
fedelissimo,  col  suo  caro  senato,  col  quale  egli  viene  a  passare 
giorni  pieni  di  letizia  „.  A  noi  questo  diritto  divino  ed  incontra- 
stabile di  Roma  appare  la  parte  pili  fantastica  ed  inattuabile 
dell'ideale  dantesco  e  dell'ambizione  di  Arrigo;  ai  suoi  con- 
siglieri militari  poi  parve  una  vera  e  propria  stoltezza.  E  so- 
lamente in  Roma  ferveva  di  rimando  un'  uguale  ambizione  ed  un 
ideale  simile  ai  loro,  che  non  si  curava  di  tempo  né  di  parte.  Non 
ora  solamente,  ma  ogni  volta  che  il  dilagare  della  nobiltà  teuto- 
nica fu  arrestato  per  un  momento  da  un  sopravvanzare  della 
democrazia,  insieme  col  tisico  vivere  delle  libertà  municipali  ri- 
prese a  fiorire  la  bella  aspirazione  ad  un  Imperio  universale.  Poco 
importava  che  l'impero  fosse  passato  in  mano  ai  Tedeschi;  che 
fosse  maggiormente  vincolata  la  libertà  d'elezione,  non  già  dalle 
grandi  cariche  imperiali,  ma  dal  possesso  di  certe  terre  anche 
oltre  i  confini  dell'antico  impero;  che  non  fosse  più  necessaria 
di  aver  prima  l'incoronazione  e  l'acclamazione  popolare,  poiché 
se  ne  era  fatto  senza  per  60  anni.  "  Roma  „  dice  il  Gregorovius 
"  è  r  unico  luogo  ove  i  fantasimi  del  passato  non  svaniscono 
mai  „.  Gli  imperatori,  se  volevano  che  il  loro  titolo  avesse  un 
significato,  non  potevano  fare  a  meno  di    ricongiungesi  a  Roma. 


(')  Pertz,  IV',  544.   Coustitutiones  Heiirici  VII. 
(•)  Dònniges,  Ada  Heinici  VII,  II,  6j. 


-  1+  — 

Se  poi  il  Pontelìce  temeva  la  presenza  dell'  Imperatore  in  Roma 
e  ne  era  partito  in  fretta,  è  pure  indubitato  ehe  solamente  con 
questa  unione  egli  avrebbe  potuto  avere  un'  influenza  veia  sul- 
r  Impero.  Infatti  1'  ultimo  imperatore  coronato  in  Roma  fu  anche 
r  ultimo  sul  quale  la  S.  Sede  ebbe  autorità.  Presso  gli  Hohen- 
staufen  questa  idea  doveva  servire  alla  dominazione  in  It^dia  ; 
per  Luigi  di  Baviera  fu  un  pretesto  ad  osteggiare  un  Pontefice 
rivale,  per  Arrigo  poi  segnò  la  cima  della  sua  ambizione;  egli 
seguiva  le  orme  degli  Ottoni.  Invano  1'  Arcivescovo  di  Magonza 

10  scongiurò  ad  abbandonare  il  disegno  di  passare  le  Alpi  e  a 
contentarsi  del  regno  di  Germania  ('). 

A  Roma  il  suo  successo  pratico  dipendeva  da  cause  estranee 
alla  teoria,  dalle  forze  cioè  rispettive  dei  Colonna,  degli  Orsini 
e  delle  famiglie  loro  alleate;  dalla  probabile  vittoria  del  cavaliere 
germanico  sulle  barricate  di  Napoli  e  finalmente  dal  maggiore  o 
minore  tempo  che  avrebbero  impiegato  i  Fiorentini  a  mandare 
avanti  la  leva  della  parte  Guelfa  di  Toscana.  Ma  bisogna  fare 
astrazione  anche  da  ciò;  la  vera  probabilità  di  successo  non  stava 
nella  fortuna  dei  combattimenti  in  campo  aperto;  sibbene  piuttostcj 
nella  alleanza  del  monarca  universale  con  la  democrazia  romana. 

11  Senato  concede  all'  Imperatore  la  giurisdizione  sulla  città,  egli 
convoca  un  parlamento  ai  piedi  del  Campidoglio  e  diecimila  cit- 
tadini rappresentano  gli  elettori  di  tutto  il  mondo.  Siccome  è 
sbarrata  la  via  a  S.  Pietro,  la  commissione  Pontificia  non  ha 
autorità  per  incoronare  in  Laterano.  Senonché  il  dare  la  corona 
non  spetta  al  papa,  sibbene  al  popolo.  "  Ex  plebiscito  obtentum 
est  Cardinales  Reipublicae  suasionibus  precibusque  coronam  dare, 
sin  autem  coercendos  per  tribunos  populumque  Romanum  „  (•). 
Ed  infine  l' incoronazione  fu  fatta  mercé  l' imposizione  del  popolo 
ai  Cardinali.  Arrigo  credeva  fermamente  che  l' impero  del  mondo 


(')  "  Nel  primo  consiglio  fu  ofeso  da' Fiorentini,  perché  a' preghi  loro  l'ai- 
ci%'escovo  di  Mag?.nza  lo  consigliava  che  non  passasse,  e  che  li  bastava  essere 
re  della  Magna,  mettendoli  in  gran  dubio  e  pericolo  il  passare  in  Italia.  „  Dino 
Compagni,  Cronica,  III.  24.  Ediz.  cit.  p.  353. 

(^)  Mussato,  Vili,  e.  7.  Muratori,  X,  460. 


_  15  — 

dipendesse  dal  possesso  delle  fortezze  di  Roma.  Se  pur  riesciva 
a  niaiitcncrsi  in  Roma  che  era  la  capitale  dell'impero,  egli  pensava 
che  "  ceteras  terras  tanquam  appendicias  suum  veluti  caput  respec- 
tare  „  (').  "  Perché  sono  io  qui  venuto?  „  chiedeva  ai  Romani  "  So- 
lamente per  far  si  che  il  popolo  romano,  ora  mal  noto  nel  resto 
del  mondo,  possa  riprendere  il  governo  sotto  l'egida  e  col  titolo 
della  maestà  dei  Cesari  „.  Quando  i  nobili  tedeschi  ed  i  capi 
Ghibellini  si  ritirarono,  il  popolo  non  voleva  che  Arrigo  li  se- 
guisse, egli  poteva  rimanere  a  Tivoli  che  pur  era  terra  romana  ('). 
Dopo  la  sua  partenza  poi  fu  richiamato  dall'  improvviso  sollevarsi 
del  popolo  guidato  dall'  Arlotti.  A  Roma  le  rivoluzioni  non  erano 
che  reazioni.  L'Arlotti  fu  schiacciato  ed  Arrigo  mori;  toccò  a 
Luigi  di  Baviera  di  accettare  la  corona  del  popolo  romano  (^). 
Pure  il  Petrarca  opina  che  se  Arrigo  fosse  vissuto  "  Romani 
regnantem  et  liberrimos  Italiae  populos  ac  felicissimos  reli- 
quisset  „  (/). 

Se  il  Papa  e  l' Imperatore  dovevano  governare  regni  separati, 
è  peccato  che  avessero  insieme  una  sola  capitale.  Quando  la 
monarchia  con  Arrigo  VII  si  stabili  sul  Laterano,  e  sul  Quirinale 
con  Vittorio  Emanuele,  il  Witicano  fu  loro  sempre  troppo  vi- 
cino. Non  bastò  il  Tevere  a  separare  il  potere  spirituale  dal 
temporale  ed  infatti  il  ponte  S.  Angelo  fu  sempre  il  naturale 
campo  di  battaglia. 

Un  viaggio  imperiale  a  Roma  fu  sempre  il  pomo  della  discordia 
fra  r  elemento  Guelfo  ed  il  Ghibellino,  la  pietra  di  paragone  che 
mostrava  quanto  vera  fosse  la  professata  amicizia  della  S.  Sede 
per  r  Impero.  Ed  in  ciò  il  viaggio  di  Arrigo  non  fu  certamente 
un'eccezione;  mostrò  con  quanta  proprietà  egli  fosse  stato  chia- 


(')  Mussato  vili,  cap.  3:  Muratori,  X,  451. 

(-)  Ferretus  Viccntinus:  Muratori  IX,   1106. 

(•'')  "  Compertiim  est,  dispositis  ad  huius  [Arlotti]  plebisque  ad  libitum  rebus, 
praecipue  potentioribus  fusis,  omnia  haec  parari  Caesari,  ipsum  evocandum  in 
urbem,  vehendumque  triumphaliter  in  Capitolium,  principatum  ab  sola  plebe  re- 
cogniturum  „.  Mussato,  XI,  cap.  12.  Muratori,  X,  508. 

{*)  Petrarca,  Lederà  a  Carlo  IV. 


—  i6  — 

niato  r  imperatore  Guelfo  ed  in  qual  modo  egli  realizzasse  le 
vedute  Ghibelline  intorno  alle  i-(.lazit)ni  tra  Chiesa  e  Stato. 

Qui  vengono  a  galla  tutti  i  punti  controversi.  Fin  dove  egli 
considerava  che  le  due  autorità  fossero  indipendenti  per  origine 
e  distinte  per  funzioni?  Che  significato  aveva  la  donazione  di 
Costantino  in  generale  ed  in  particolare  riguardo  alle  pretese 
pontificie  in  Italia?  Fu  in  verità  investitura  di  feudo  da  parte 
del  sovrano  l'incoronazione  di  Carlomagno?  E  che  cosa  signi- 
ficava il  pericoloso  titolo  di  Advocalus?  Aveva  forse  un  signifi- 
cato tecnico  feudale  o  fu  usato  secondo  quello  originario  e  per 
un  atto  singolo?  Vera  la  prima  ipotesi,  che  l'imperatore  cioè 
stesse  alla  chiesa  in  generale  come  di  solito  1'  Advocattis  stava 
ai  Vescovadi  od  alle  abbazzie  (dato  cioè  che  fosse  il  protettore 
della  Chiesa  legalmente  costituito,  che  esercitava  i  diritti  di  giu- 
stizia temporale  che  essa  non  poteva  da  sé  stessa  esercitare), 
quale  era  sull'Impero  il  valore  di  questo  titolo?  Era  un  feudo 
concesso  dalla  Chiesa,  alla  quale  l' Advocatus  prestasse  poi  in 
cambio  il  suo  appoggio,  o  era  forse  un  possesso  che  1'  Advocatus 
aveva  prima  di  assumere  quest'ufficio? 

Dalle  quali  questioni  si  saliva  poi  ad  altre  più  pratiche.  L'au- 
torità d'Arrigo  era  anteriore  o  posteriore  alla  sua  incoronazione? 
Era  egli  Cocsar  dal  momento  della  elezione  o  da  quando  aveva 
avuto  la  corona  col  consenso  papale?  Potè  l'ignoranza  delle 
condizioni  del  Papa  infirmare  l' atto  di  consacrazione  compiuto 
dalla  commissione  pontificia? 

Tali  questioni  si  presentarono  ad  Arrigo  la  prima  volta  du- 
rante il  viaggio  a  Roma;  a  lui,  come  a  Dante,  il  Ghibellinismo 
teorico  dovette  parere  probabilmente  un  frutto  in  ritardo.  Egli 
dunque  fu  detto  l' imperatore  Guelfo;  la  Corte  pontificia  non  trovò 
espressione  più  mite  di  quella  di  spergiuro  per  indicare  la  sua 
azione  in  Roma('),  basando  quest' accusa  su  due  documenti:  sulla 


(')  "  Quia  inultum  jam  videbatur  prosperar!  Papa  Clemens,  sumpta  occasione 
ex  parte  Ruperti  regis  Siciliae,  opposuit  se  imperatori,  imponendo  ei  perjurium 
ut  habetur  in  Constitutionibus  Clementinis,  cap.  Romani  principis  „.  Pertz  XIV, 
418.   Gesta  Arch.  Magd. 


—  17  — 

lettera  originale  di  Arrigo  chiedente  la  riconferma  papale  alla  sua 
elezione  e  su  di  un  documento  publicato  a  Losanna  nel  quale 
dava  guarantigia  di  mantenere  le  promesse  in  quella  lettera  con- 
tenuta (').  Ma  essi  poi  non  contraddicono  tanto  alla  teoria  di 
Dante,  se  facciamo  eccezione  di  quanto  si  riferisce  al  titolo  del 
Papa  negli  stati  pontifici.  Perfino  il  domininm  siipcrius,  come 
lo  chiamerebbe  Dante,  è  appena  rispettato. 

Nessun  decreto  può  essere  emanato  senza  il  consenso  ed 
avanti  il  parere  del  Papa,  l' Imperatore  ed  i  suoi  non  possono 
esercitare  alcuna  giurisdizione,  né  tenersi  alcuna  terra.  Come 
Advocatus  e  Defensor  Ecdcsiae  \  Imperatore  si  obbliga  di  difen- 
dere il  territorio  pontificio  e  di  far  si  che  i  suoi  vicari  di  Lom- 
bardia e  di  Toscana  giurino  di  fare  lo  stesso.  Ora  il  rendere 
giustizia  nelle  città  pontificie  spettava  all'  Imperatore  in  persona, 
solo  quando  era  fra  le  loro  mure,  mentre  gli  Imperatori  di  prima 
la  rendevano  in  Roma  senza  farne  questione.  Questa  concessione 
mostrava  che  Roma  non  era  città  imperiale  nel  vero  senso  della 
parola.  Senonché  il  fatto  di  non  citare  solamente  la  donazione  di 
Costantino,  ma  anche  la  conferma  di  questa  per  opera  degli  Im- 
peratori successivi,  e  l'essere  la  promessa  d'Arrigo  VII  fatta  in 
forma  di  un'  altra  conferma,  proverebbe  che  in  fondo  la  sovra- 
nità non  era  mai  stata  alienata  e  che  le  temporalità  della  chiesa 
erano  un  feudo  avuto  dall'  Impero,  feudo  tuttavia  tenuto  in  con- 
dizioni affatto  speciali.  Cosi  la  pensava  Arrigo.  Fino  dal  131 1, 
prima  di  qualsiasi  screzio  con  la  chiesa,  il  Bando  di  Firenze  di- 
ceva: "  exemplo  Christi,  cujus  vicem  ipsa  regalis  dignitas  in 
terris  circa  temporalia  noscitur  obtenere  „  (').  E  Nicolò  di  Bu- 
trinto  fa  dire  ad  Arrigo  :  "  Imperator  et  rex  Robertus  non  subi- 
ciuntur  ecclesie  equaliter  quantum  ad  temporalia,  quia  unus  est 
deffensor  et  advocatus  nihil  habens  ab  ecclesia  de  temporalibus, 
alius  est  subditus  et  vasallus,  'suum  regnum  ab  ecclesia    habens. 


(1)  Pertz  IV,  494;  ibid.  501-3. 
(«)  Pertz  IV,  519. 

Armstrong. 


--  i8  — 

Dicebant  adlnic  quod  si  ut  vasallum  ecclesie  in  teniporalis  per- 
mitteret  se  duci  per  sanctitatem  vestram,  quod  esset  perjurus, 
cuni  jura  imperii  diminueret;  que  tamen  juravit  non  diminuere 
sed  augere  „  ('). 

Fattasi  maggiore  la  resistenza  all'  Imperatore,  le  idee  imperiali 
divennero  più  chiare.  Se  pure  con  la  sua  lettera  Arrigo  aveva 
rotto  i  patti  di  Losanna,  la  condotta  ambigua  di  Clemente  V  rese 
inevitabile  la  contesa  anche  contro  il  suo  volere.  L'  occupazione 
a  mano  armata  di  Roma  fu  provocata  dalla  resistenza  militare 
delle  truppe  napolitane  e  da  quella  dei  feudatari  papali,  gli  Orisini. 
Ben  complessa  era  la  questione,  Arrigo  entrava  in  Roma  dopo 
accordi  col  Papa  e  accompagnato  dalla  commissione  pontificia, 
che  doveva  incoronarlo  in  S.  Pietro.  Ma  la  via  a  S.  Pietro 
era  chiusa  dallo  stesso  Vicario  pontificio  di  Romagna,  il  quale 
prima  aveva  anche  contrastato  1'  entrata  di  Roma  a  Ponte  Molle. 
L' imperatore  dovette  per  forza  accettare  la  giurisdizione  vietata, 
non  potendola  la  commissione  Pontificia  esercitare  per  la  grande 
impopolarità,  e  perfino  gli  fu  imposta  l' incoronazione  non  po- 
tendo egli  protrarla  tanto  da  rimanere  poi  privo  dell'  appoggio 
delle  truppe  Tedesche  e  di  quelle  dell'Italia  settentrionale;  do- 
vette inoltre  accettarla  per  salvare  la  minacciata  vita  dei  commis- 
sari. Questi  riferirono  al  Papa,  ed  era  la  verità,  che  l'avevano 
consacrato  nel  Laterano  in  seguito  alla  violenza. 

E  dopo  r  incoronazione  ecco  sorgere  un  gran  numero  di 
questioni,  delle  quali  prima  non  s'era  fatto  parola:  L'Imperatore 
non  doveva  mai  attaccare  Napoli;  non  fare  un  armistizio  d'un 
anno  con  Re  Roberto,  non  doveva  andar  via  da  Roma  né  dagli 
Stati  pontefici  il  giorno  stesso  della  incoronazione,  non  doveva 
ritornare  senza  il  consenso  del  Papa  e  finalmente  doveva  dichia- 
rare di  non  aver  acquistato  alcun  nuovo  diritto  per  dimora  in 
Roma  né  per  imprigionamento  di  cittadini  né  per  occupazione  di 
fortezze. 


(')  Ed.  Heyck.  p.  63. 


—  19  — 

Siffatte  pretese  provocarono  la  pubblicazione  del  manifesto 
d' Arrigo,  aperta  e  completa  dichiarazione  di  fede  ghibellina  e 
pienamente  d'  accordo  con  i  principi  fondamentali  del  De  Mo- 
narchia (').  "  Nos  fuimus  et  semper  esse  volumus  defensor  et 
piigil  sacrosancte  Romane  Ecclesie  in  omnibus  suis  Juribus,  sed 
nos  non  sumus  astricti  alicui  ad  juramentum  iìdelitatis  nec  unquam 

juranientum  fecimus....  nec  scimus  quod  antecessores  nostri 

hoc  Juramentum  unquam  fecerunt  „  (^). 

L' Imperatore  riceve  il  potere  dalla  mano  dei  suoi  elettori  so- 
lamente e  ciò  si  accorda  con  l' idea  di  Dante,  che  cioè  il  volere 
di  Dio,  il  quale  solo  può  disporre  del  potere  temporale,  si  mani- 
festi direttamente  per  mezzo  degli  elettori.  E  finalmente  il  Papa 
non  può  ordinare  all'  Imperatore  di  lasciare  Roma,  essendo  essa 
a  capo  dell'  impero  e  città  imperiale.  Questa  è  l' ultima  parola 
dell'  Imperialismo,  parola  tanto  più  autorevole  in  quanto  pronun- 
ciata dal  più  ortodosso,  dal  più  pio,  dal  più  morale  degli  impe- 
ratori, dall'  uomo  per  cui  Clemente  dovette  pronunciare  un  elogio 
funebre,  non  ostante  che  stesse  per  intentargli  un  processo;  dal- 
l' uomo  infine  che  si  comunicava  ogni  mese  e  che  non  volle  sal- 
var la  vita  liberandosi  dal  veleno  che  come  aveva  potuto  temere, 
gli  era  stato  somministrato  nella  particola  ('),  Inoltre  questa  di- 
chiarazione non  era  stata  fatta  nella  foga  d'una  lite,  né  in  se- 
guito ad  alcuno  screzio  personale  fra  il  Pontefice  e  l' Impe- 
ratore {*). 


('l  "  Quamvis  Papa  non  teneatur  inungere  fatuum  vel  hereticum  in  impera- 
torem  ....  tamen  non  ideo  sequitur  quod  sola  electio  Romani  Principis  ci  jus  non 
tribuat  iinperandi,  quemadmodum  enim  sola  Papac  electio  ei  omnem  tribuit  po- 
testatem  et  administrationem,  quia  nomo  est  eo  superior  in  spiritualibus,  ita 
quidem  et  Romano  principi  sola  electio  eius  omnem  tribuit  potestatem,  quia  non 
eo  superior  in  temporalibus   „.  DOnniges.  Ada  Hetirici  VII.  II,  6i. 

(•-)  Ibid.  II.  5^-5,  et  seq. 

(')  Pertz,  XVI,  423:  Ainiales  Lubicenses;  Historiens  des  GauUs  et  de  la 
France,  XXII,  140.  GeftVoi  de  Paris. 

{*)  Pertz  XI,  665:  Contiti.  Zwetlensis  Tertia ;  Pertz,  XVI,  423:  Ann.  Lu- 
bicenses. 


—   20   — 

Nella  contesa  con  gli  Hohenstaufen  i  due  poteri  lottarono  con 
la  forza  brutale,  mentre  Arrigo  e  Clemente  si  attaccarono,  per 
dir  cosi,  con  i  guanti;  quanto  perdettero  d"  entusiasmo  nella  gara 
fu  guadagnato  in  conoscenza  delle  regole  di  combattimento.  La 
vita  d'  Arrigo,  mai  deliberatamente  ostile  al  Pontificato,  illustra 
la  filosofia  dell'  Impero,  ed  è  perciò  che  seguendola  pare  di  leg- 
gere il  De  Monarchia.  Arrigo  a  differenza  dei  suoi  predecessori 
proclama  appena  coronato  1'  universalità  dei  suoi  disegni,  quando 
appunto  r  unità  era  più  desiderata;  predica  pace  e  giustizia  quando 
questa  era  arma  di  partito  e  quella  purtroppo  vana  parola.  Egli 
promette  una  libertà  che,  se  non  altro  in  teoria,  era  assai  più 
larga  di  quella  goduta  sotto  l' irresponsabile  reggimento  d' un 
despota  Lombardo,  assai  più  alta  di  quella  tanto  vantata  di  Fi- 
renze, la  quale  era  privilegio  solo  di  una  parte,  di  una  fazione. 
"  Si  perfidiam  Italorum  inexpertus  agnovisset  dolosque  vitasset, 
merito  labentes  Imperli  partes,  depressosque  tyrannide  populos, 
in  salubrem  stationis  libertatem  reformasset  „  (').  E  che  è  ciò  se 
non  l'analisi  del  primo  libro  del  De  Monarchia? 

Parallelamente  al  secondo  corre  il  nebuloso,  fantastico  periodo 
del  regno  d'Arrigo  nella  capitale  che  non  "  istruisce  l'ignorante  „ 
né  "  convince  il  litigante  „.  Qui  si  vede  la  teoria  dei  diritti  mondiali 
del  popolo  Romano  e  del  suo  rappresentante  e  poi  appare  che 
questo  popolo  nemmeno  è  libero  di  camminare  per  le  proprie  vie; 
risposta  sufficiente  alla  teoria  "  che  l' impero  romano  è  fondato 
sulla  violenza  e  su  quella  si  mantiene  „.  Si  vede  un  Imperatore 
al  di  sopra  delle  nazionalità  e  dei  partiti,  perché  in  fatti  i  suoi 
Tedeschi  e  Ghibellini  l'  hanno  abbandonato. 

Ma  più  chiaro  ancora  appare  il  parallelo  col  terzo  libro  di 
Dante.  I  principi  filosofici  sono  stati  controversi,  ma  s' ignora  la 
giustificazione  storica.  Ora  si  deve  considerare  la  ragione  di  quelli 
che  solamente  litigavano  e  si  deve  trovare  una  prova  di  verità  dei 
principi  imperiali  nelle  contradizioni  dei  nemici.  E  qui  l'impresa  di- 
venta più  facile.  Si  tratta  di  demolire  due  teorie  altrettanto  sprov- 


(')  Ferretus  Viccntinus  :  Muratori,  IX,  1059. 


—    21    — 


viste  di  praticità.  Tutti  gli  argomenti  colpiscono  il  segno  e  sono 
quelli  medesimi  che  serviranno  alla  generazione  a  venire,  a  Luigi  di 
Baviera  ed  ai  suoi  tempi.  La  battaglia  fu  vinta,  se  non  per  l' im- 
pero universale,  certamente  contro  1'  universale  potere  temporale 
della  Chiesa.  Perciò  parrebbe  che  il  sistema  politico  di  Dante 
non  fosse  poi  del  tutto  ideale.  O  questo  libro  aveva  per  base 
la  vita  di  Arrigo  \'II,  o  appena  scritto  sorse  un  sovrano  a  mo- 
strarne la  praticità.  Ma  d' altra  parte  la  possibilità  pratica  sva- 
nisce: se  Dante  era  un'idealista,  lo  era  pure  Arrigo  VII  e  gli 
ideali  d' amendue  avrebbero  dovuto  applicarsi  ad  una  generazione 
singolarmente  disadatta  alle  fantasia  ed  eminentemente  positiva, 
generazione  d'  avvocati  e  di  avventurieri. 

Quali  erano  gli  strumenti  di  cui  disponeva  Arrigo?  i  Te- 
deschi forse?  Per  loro  era  passata  l'età  giovanile  delle  armi 
e  dell'  espansione.  Non  al  cavaliere,  ma  al  contadino  ed  al 
mercante  era  affidato  nel  secolo  decimoquarto  la  espansione  del 
teutonismo,  perciò  Arrigo  aveva  poco  sèguito  in  Germania.  Era 
cosa  vana  il  dire  alla  stolida  gens  Teuionicornm  che  la  sovranità 
del  mondo  era  la  sposa  loro  destinata  e  che  dovevano  accettare 
l'impero  dell'universo;  vano  il  far  loro  intendere  che  gli  uffici, 
le  prefetture  e  le  pili  alte  cariche  del  "  Senatus  Populusque  Ro- 
manus  „  erano  vacanti  per  essi  (').  Tutto  questo  non  li  allettava, 
rispondevano  non  essere  ancor  venuto  il  momento  per  sobbar- 
carsi a  tanta  impresa.  Anche  fra  quelli  che  partirono,  pochi  parve 
avessero  alcuna  ambizione  politica  o  territoriale.  Speravano  più 
nella  parte  individuale  di  bottino  che  in  nuove  terre  o  nuovi  uf- 
fici. Molti  dei  più  illustri  erano  tedeschi  soltanto  di  parte,  non  di 
patria;  piuttosto  erano  Fiamminghi,  Borgognoni,  Savoiardi  o  del 
Delfinato.  E  la  stessa  famiglia  di  Arrigo  era  ben  poco  tedesca: 
egli  per  primo  era  francese;  suo  figlio  un  cavaliere  errante  senza 
nazionalità,  Carlo  IV  padre  dei  Tedeschi,  ma  per  adozione,  e 
Wenzel  era  Czeco. 


(')  Mussato,  I,  cap.  8:  Muratori,  X,  329. 


22    

Lo  stesso  Sigismondo  era  più  popolare  altrove  che  in  Ger- 
mania. Ma  se  Arrigo  non  poteva  diventare  capo  d' una  nuova 
migrazione  teutonica,  poteva  poi  appoggiarsi  sui  Ghibellini  ita- 
liani? Se  essi  avessero  veramente  costituito  il  partito  della  no- 
biltà rurale  —  Teutonica  per  origine  —  avrebbero  potuto  gio- 
vare all'  ideale,  combattendo  in  nome  dell'  unità  e  del  feudale- 
simo contro  lo  spirito  di  separatismo  municipale,  che  spirava  da 
Roma.  Senonché  la  nobiltà  rurale  non  era  Ghibellina,  come  nem- 
meno era  Guelfa  quella  borghese  delle  città.  Se  i  Colonna  erano 
d'origine  tedesca,  lo  erano  pure  gli  Orsini.  I  signori  dell'altipiano 
umbro  e  toscano,  pure  d'origine  tedesca,  erano  altrettanto  Guelfi 
che  Ghibellini,  anzi  i  più  tenaci  fra  i  Guelfi,  i  Malatesta,  erano 
tedeschi.  I  Malaspina  ed  i  Guidi  avevano  altrettanti  rami  Guelfi 
quanti  ne  contavano  Ghibellini.  In  Firenze  stessa  i  Cerchi  che 
rappresentavano  il  partito  del  progresso,  della  ricca  borghesia, 
s'  allearono  con  la  parte  Ghibellina  della  città.  Nessun  alto  prin- 
cipio dunque  poteva  guidare  dei  partiti  determinati  solamente 
dai  feudi  di  famiglia  e  dalle  gelosie  locali.  Gli  avventurieri 
Ghibellini  si  valevano  delle  invasioni  imperiali  allo  stesso  modo 
che  i  Guelfi  approfittavano  dell'  appoggio  Angioino,  cioè  solo 
per  fini  personali.  I  titoli  entravano  per  qualche  cosa;  un  vi- 
cariato imperiale  contava  più  di  uno  papale,  perché  il  sovrano 
ne  era  meno  vicino.  Gli  Estensi  tuttavia  si  mantennero  al  si- 
curo tenendoli  amendue. 

Se  alcun  alto  principio  esiste,  sta  appunto  nella  negazione  di 
principio  e  cioè  nel  più  schietto  individualismo;  ciò  che  guada- 
gnava il  nobile  avventuriero  lo  teneva  per  sé.  Né  fu  questa 
costumanza  esclusiva  del  secolo  decimoquarto,  né  speciale  d' Italia. 
L' impero  per  secoli  e  secoli  aveva  cercato  di  crearsi  una  classe 
di  dipendenti,  la  quale  seguendo  il  suo  dilagare  tenesse  pur 
sempre  contatto  col  centro,  ma  questi  dipendenti  non  rimane- 
vano mai  tali,  divenivano  signori.  Arrigo  fece  l'ultimo  tentativo, 
costituendo  vicariati  imperiali  neh'  Italia  settentrionale  per  rial- 
lacciare la  giustizia  municipale  con  l'imperiale,  ma  la  prova 
falli    appena    fatta.    Molte    volte    questi    vicari    erano    i    signori 


—  23  — 

stessi,  per  modo  che  l' ufficio  non  dava  loro  che  un  titolo 
di  pili. 

E  questa  fu  una  delle  cause  pili  frequenti  di  rivolta;  i  Cre- 
monesi dicevano  che  Arrigo  non  era  un  re,  ma  sibbene  un 
tiranno  "  Cuni  tyrannides  in  urbibus  exercendas  decreverit,  anti- 
quatos  tyrannos  titulis  imperialibus  approbans  „  (').  Un  oratore 
Padovano  disse  ai  suoi  concittadini,  che  Arrigo  era  un  distrut- 
tore sbrigliato  per  il  mondo.  "  Et  qui  incolae  nobilium  oppido- 
rum?  Incolae  nempe  tyranni  veteres,  vicariorum  imperii  inducti 
vocabulis  „  (").  Questa  era  una  causa  frequente  di  rivolta,  e  la 
pili  grande  di  tutte,  quella  di  Brescia,  fu  istigata  da  uno  degli 
stessi  vicari  d'  Arrigo. 

Arrigo  poi  fu  spinto  tanto  dall'  uso  generale  quanto  dal  cattivo 
stato  delle  sue  finanze  alla  simonia  e  gli  antichi  tiranni  ebbero 
naturalmente  la  precedenza  nel  comperare  (^).  E  ciò  è  confermato, 
oltreché  dall'  ostile  Mussato,  anche  dal  lodatore  Ferreto  di  Vi- 
cenza. "  Tum  primum  Caesar  pretio  corruptus  perfidisque  suorum 
hortatibus  fasces  magistratusque  omnes  venum  exposuit  (*}  „. 

Arrigo  era  del  tutto  persuaso  della  mancanza  d'un  principio 
ordinatore  nella  lotta  dei  partiti;  egli  vedeva  come  Dante,  che 
"  mentre  i  Guelfi  si  ribellavano  contro  il  potere  imperiale,  i  Ghi- 
bellini se  lo  attribuivano  „  e  capi  che  1'  unità  del  potere  imperiale 
era  possibile  solo  con  la  distruzione  dei  partiti.  Infatti  odiava  i  nomi 
Guelfo  e  Ghibellino  "  cuncta  absoluto  amplectens  imperio  ^')  „. 

Le  guerre  in  Italia  erano  provocate  non  solamente  dalle  di- 
verse parti  in  seno  alle  città,  ma  anche  dagli  esuli  che  ne  erano 
banditi  e  che  all' infuori  della  guerra  e  dell'intrigo  non  avevano 
occupazione,  perciò  uno  dei  primi  atti  d'  Arrigo    fu    quello   di  ri- 


(')  Mussato,  II,  cap.   io:  Muratori,  X,  358. 

(^)  ibid.  416. 

(')  Villani:  "  E  cosi  tutte  l'altre  terre  di  Lombardia  lasciò  a  tiranno,  non 
possendo  altro  per  lo  suo  malo  stato,  e  da  ciascuno  ebbe  moneta  assai,  e  pri- 
vilegiolli  delle  dette  signorie.  „ 

(*)  Feretus,  lib.  IV:  Muratori,  IX,   1064. 

(^1  Mussato,  I   13:  Muratori,  X,  3^0. 


-    24   — 

chiamare  tutti  gli  esuli  di  qualunque  partito.  Usò  poi  la  medesima 
imparzialità  nella  nomina  dei  vicari.  Ma  un  uomo  solo  non  po- 
teva domare  la  lotta  dei  partiti  in  Italia,  né  arrestare  la  generale 
tendenza  d'isolamento;  appunto  il  richiamo  degli  esuli  fu  cagione 
della  maggior  parte  delle  rivolte  che  scoppiarono  subito  dopo  la 
partenza  d' Arrigo.  Il  Cronista  d' Asti  non  incolpa  Arrigo  delle 
rivoluzioni  occorse  nell'  Italia  settentrionale,  ma  piuttosto  le  at- 
tribuisce agli  errori  nazionali:  "  Variis  pestibus  merito  afflicti 
sunt  Lombardi,  quoniam  Henricus  Romanorum  rex  inculpabilis 
fuit,  quia  venerat  tamquam  Rex  mansuctus  ad  pacilìcandum  Lom- 
bardos,  nec  potuit,  quia  pars  praenominata  Guelfa  non  potuit  esse 
vicina  illorum,  quibus  dominari  solebat,  et  Gibellini  voluerunt 
antiqua  opprobria  vindicare;  et  ideo  comparantur  anguillae,  quae 
neque  per  caput,  neque  per  caudam  manu  teneri  non  potest  (').  „ 
Perciò  la  parzialità  s'  impose;  una  posizione  al  disopra  dei 
partiti  significava  isolamento.  Avendo  dunque  bisogno  di  aiuto 
per  la  spedizione  di  Roma,  Arrigo  dovette  per  forza  divenire 
capo  parte  e  scelse  per  amici  i  maggiorenti  Ghibellini.  Dino 
Compagni  ci  spiega  tutto  questo  mutamento:  la  dichiarazione 
dell'imperatore  di  non  essere  uomo  di  parte  C),  le  lamentele  dei 
Ghibellini,  perché  egli  non  aveva  in  grazia  che  i  Guelfi,  poi  quelle 
di  questi  perché  egli  prediligeva  i  Ghibellini,  e  finalmente  la 
lenta  defezione  dei  Guelfi  che  avevano  meno  bisogno  della  sua 
protezione  e  la  sosta  finale  a  Roma,  quando  Arrigo  "  intendendo 
le  ingiurie  gli  erano  fatte  da'  Guelfi  di  Toscana,  e  trovando  i 
Ghibellini  che  con  lui  s'accostavano  di  buona  volontà,  mutò 
proposito  e  accostossi  con  loro:  e  verso  loro  rivolse  l'amore  e 
la  benivolenzia  che  prima  aveva  co' Guelfi;  e  propesesi  d'aiu- 
tarli e  rimetterli  in  casa  loro,  e  i  Guelfi  Neri  tenere  per  nimici, 
e  quelli  perseguitare  f"^)  „. 


(')  Chron.  Astense,  cap.  LXI  :  Muratori,  XI,  234. 

(')  L.  III.  e.  26.  Del  Lungo,  Dìmo  Compagni  e  la  sua  cronica.  Firenze,  1879. 
II,  361-62. 

<•)  Dino  Compagni,  IH,  36.  Ediz.  cit.  p.  407-8. 


—  25  — 

Né  erano  questi  Ghibellini,  che  Arrigo  seguiva,  monarchici 
teorici  come  Dante,  ma  sibbene  uomini  dello  stampo  d'  Uguccione 
della  Faggiuola,  Can  Grande  e  Matteo  Visconti,  che  non  erano 
ammaliati  da  alcuna  bella  e  sentimentale  visione  di  pace  univer- 
sale, né  d'universale  sovrano;  uomini,  che  non  prendevano  a 
modello  un  passato  immaginario  e  conducevano  l' Italia  ad  una 
nuova  vita  tanto  naturale  quanto  nazionale.  Ribelli  contro  la 
Chiesa  quanto  contro  l' impero,  non  avevano  per  fine  la  contem- 
plazione filosofica,  ma  piuttosto  la  prosperità  materiale  da  rag- 
giungersi indifferentemente  sia  con  la  pace  sia  con  la  guerra; 
avevano  per  giustizia  il  loro  proprio  volere,  e  quanto  a  libertà, 
essi  non  l' intendevano  concessa  che  alla  propria  persona.  Un 
detto  del  più  grande  di  queste  creature  di  Arrigo,  di  Matteo 
Visconti,  è  poi  diventato  il  credo  dei  suoi  successori.  "  Ego  sum 
et  Papa  et  Imperator  et  dominus  in  terris  meis  „.  Veramente 
fi-a  questi  eroi  del  secolo  decimoquarto  noi  troviamo  molte  fi- 
gure che  avrebbero  fatto  la  gioia  del  Machiavelli,  ma  che  erano 
ben  distanti  dal  sovrano  ideale  pensato  da  Dante.  Pure  erano  i 
soli  strumenti  di  cui  Arrigo  disponesse. 

Il  Castelar  ha  detto  essere  impossibile  fondare  una  repubblica 
ove  non  esistono  repubblicani;  Arrigo  s'accorse  di  non  poter 
fondare  1'  impero  per  mancanza  d' imperialisti.  Inoltre  Arrigo  non 
era  adatto  ad  essere  un  capo  parte,  la  sua  personalità  ed  il  suo 
programma  repugnavano  a  questa  sua  nova  posizione.  Né  egli,  né 
Dante  potevano  poi  predicare  pace,  giustizia  e  libertà,  ed  essere 
partigiani  al  tempo  stesso.  Mentre  Dante  era  allontanato  dai 
partiti  per  la  sua  alterigia  ed  impazienza.  Arrigo  non  sapeva 
starci  in  mezzo  per  l' eccessiva  dolcezza  di  carattere  e  per  la 
sua  irresolutezza.  Ben  presto,  al  cominciare  della  spedizione,  Ni- 
colò da  Butrinto  notò  questa  sua  mancanza  di  decisione.  Un 
certo  pavese,  non  badando  alle  minacce  del  suo  vescovo  Guelfo, 
andò  ad  unirsi  ad  Arrigo  e  allora  il  Conte  Filippone,  fratello 
del  vescovo  ed  in  quel  tempo  presso  all'  imperatore,  inviò  1'  or- 
dine di  distruggergli  la  casa  e  gli  averi.  Arrigo  non  fece  punto 
rimprovero  a  Filippone  per  quest'  atto,    ma    anzi  se  lo  tenne   vi- 


—   26   — 

cino  come  consigliere.  Nicolò  nella  supplica  al  Papa  a  proposito 
di  questo  fatto  scrive:  "  In  conscentia  niea  ego  ex  tunc  minus 
in  animo  meo  ipsum  regem  reputavi  et  quod  ipse  nunquam  bene 
faceret  justitiam  nec  de  malis  hominibus  magni  studerei  facere 
justitiam  quod  supra  modum  mihi  displicebat  (')  „  Anche  un 
verso  della  Cronaca  rimata  attribuita  a  GeofFroi  de  Paris  forse 
ci  mostra  l'opinione  pubblica: 

"   Une  chose  ot,  que  trop  piteux 
Estoit,  e  ce  li  fist  damage; 
Car  homme  de  trop  grant  pitie 
Est  souvente  fojx  despitié  (")   „. 

E  d' altra  parte  gli  elementi  di  resistenza  erano  formidabili. 
Tutti  quanti  i  principi  di  Dante  e  d' Arrigo  urtavano  qualche 
interesse  materiale  dentro  o  fuori  d' Italia.  Tanto  l' indipendenza 
municipale  di  Toscana  e  Lombardia,  quanto  quella  dinastica  di 
Napoli  erano  armate  contro  il  campione  dell'unità  imperiale.  Il 
sentimento  nazionale  francese  non  pativa  i  vantati  diritti  dell'  im- 
peratore romano,  come  quello  italiano  non  sopportava  un  re  te- 
desco. Si  aggiunga  la  S.  Sede  che  usava  delle  armi  spirituali 
per  impedire  il  soqquadro  del  potere  temporale.  Ma  di  questo  è 
già  stato  detto  abbastanza. 

Principio  contro  principio,  la  lotta  fu  decisa  né  lasciamoci 
ingannare  dalla  importanza  che  le  fu  data  sotto  Luigi  di  Baviera. 
Il  succedersi  di  violenza  e  di  rimorso  nell'  anima  di  un  sozzo  e 
superstizioso  soldato  non  costituiscono  una  prova  abbastanza 
sicura  della  supremazia  pontificia.  Alla  fine  del  secolo  decimo- 
quinto vedremo  un  Vitellozzo  Vitelli  implorare  l' assoluzione  da 
Alessandro  avanti  d' essere  strozzato  dal  figlio  d' Alessandro 
stesso.  I  trionfi  passeggeri  di  Giovanni  XXII  e  di  Benedetto  XII 
si  debbone  attribuire  alle  qualità  personali  di  Luigi  ed  ai  bisogni 
politici  dei  suoi  avversari,  e  non  dipendevano  dal  potere  della 
S.  Sede. 


(')  Muratori,  IX,  891  ;  ed.  Heyck,  7. 

(')  Historiens  des  Gaules  et  de  la  France,  XXII,   126. 


Nello  sforzo  supremo  d'Arrigo  per  ripristinare  1'  impero,  il 
Papato  appare  un  fattore  inoperoso:  l'influenza  temporalistica  di 
Clemente  né  agevolò  il  cominciare  della  lotta  né  potè  determi- 
narne la  conclusione.  Le  armi  spirituali  si  spuntarono  contro  un 
imperatore  convinto  della  giustizia  della  sua  causa  e  dell*  inte- 
meratezza  della  sua  vita:  la  scomunica  non  spaventò  il  più  re- 
ligioso principe  del  tempo.  La  questione  se  si  potesse  o  no  lan- 
ciare la  scomunica  su  di  un  imperatore  che  difendeva  i  diritti 
dell'  impero  è  discussa  con  calma,  senza  passione  né  abusi.  Fu 
deciso  che  la  scomunica  non  era  possibile.  Questa  questione  ed 
il  terzo  libro  del  De  Monaìxhia  concludono  le  ragioni  dell'  im- 
pero contro  la  S.  Sede. 

Riesce  più  difficile  1'  attribuire  un  giusto  valore  agli  altri  ele- 
menti contrari.  Mettendo  da  parte  per  un  momento  la  Francia 
non  impegnata  direttamente  nella  lotta,  bisogna  saper  sceverare 
la  opposizione  alla  monarchia  da  parte  dei  municipii  dal  vero 
sentimento  nazionale,  che  se  da  un  lato  aveva  provato  per  espe- 
rienza tutto  il  danno  del  passaggio  dei  soldati  tedeschi,  vi  tro- 
vava dall'  altro  una  liberazione  dalla  tirannide  municipale.  Ed  è 
poi  assai  difficile  lo  stabilire  fino  a  che  punto  Dante,  il  Compagni 
e  lo  stesso  Villani  interpretavano  I'  opinione  popolare  circa  alla 
teoretica  supremazia  di  Roma.  Che  questa  teoria  esistesse  e  che 
non  fnsse  propria  di  Roma  sola  o  delle  menti  speculative,  lo 
provarono  gli  avvenimenti  del  regno  di  Luigi  ed  ancor  più  Io 
mostrò  r  attitudine  delle  città  italiane,  quali  Firenze  e  Venezia 
riguardo  al  Rienzi.  Si  può  tuttavia  affermare  questo  con  certezza, 
che  cioè  gli  interessi  materiali  che  spingevano  al  mantenimento 
delle  indipendenze  municipali  erano  più  forti  di  quelli  che  ne 
consigliavano  l' abolizione,  ed  in  secondo  luogo  che  lo  svolgi- 
mento barbarico  dell'  impero  si  ricordava  assai  più  che  non  la 
sua  derivazione  Romana. 

La  discordia  fra  le  famiglie  potenti  ed  il  popolo,  le  paure  di 
quelle  e  le  vaghe  speranze  di  questo  sono  assai  bene  spiegate 
dal  seguente  brano  di  Landolfo  Colonna:  "  Res  nova  et  dura 
videbatur  quibusdam  Italicis  atque  Tuscis,  et  maxime    qui    popu- 


—    28    — 

liini  regere  videbantur,  cum  scxaginta  quinque  annis  et  amplius 
a  deposicione  ab  imperio  ultinia  Fredcrici  sine  iniperatoris  do- 
minio perstitissent,  quod  ejus  dominio  denuo  subderentur  a  quo 
se  existimabant  in  perpetuum  liberatos:  sed  propter  tyrannidis 
grave  jugum,  quod  in  cives  suos  exercuerant,  merebantur  ut 
tyrannidi  subderentur,  et  hoc  ipsum  minor  populus  praecipere 
affectabat  ('l  „. 

Siano  pur  tali  le  condizioni  del  secolo  decimosecondo  e  de- 
cimoterzo, ciò  non  toglie  che  anche  nel  decimoquarto  vi  sia 
ben  poco  da  rallegrarsi  e  che  corresse  grande  divario  fra  la 
teorica  del  governo  e  la  sua  reale  costituzione.  Non  appare 
chiaro  che  le  tiranniche  famiglie  delle  città  Guelfe  di  Lombardia 
o  quelle  oligarchiche  di  Toscana  ardessero  di  più  puro  amore 
per  la  libertà  che  non  quelle  Ghibelline.  Prima  della  morte  di 
Arrigo  Firenze  dette  la  sua  costituzione  in  mano  a  Roberto  di 
Napoli  per  cinque  anni  e  dopo  fece  facoltà  al  suo  fratello  minore 
di  designarle  i  magistrati.  Ciò  nonostante  v'era  differenza  fra 
lo  stringere  un  contratto  per  un  tempo  determinato  e  con  con- 
dizioni speciali  ed  il  riconoscere  i  diritti  dell'  impero  indipendenti 
da  tempo  e  condizioni.  Né  erano  questi  vantati  diritti  del  tutto 
nominali.  Arrigo  pretendeva  d'  esercitare  il  diritto  di  nomina  dei 
magistrati,  certamente  poi  di  sceglierli  fra  i  candidati  che  gli 
fossero  presentati,  voleva  mutare  gli  statuti  cittadini  e  tenere 
milizie  nelle  fortezze.  Attestano  i  documenti  come  fossero  impe- 
riose le  domande  d'uomini  e  di  denaro  non  meno  moleste  certo 
per  non  esser  sempre  esaudite.  Gli  interessi  delle  famiglie  prin- 
cipali erano  danneggiati  dal  ritorno  degli  esuli.  Il  Villani  lascia 
intendere  che  se  non  fosse  stato  per  il  timore  i  Fiorentini  avreb- 
bero riconosciuto  l' imperatore.  Tanto  più  moleste  erano  le  pre- 
tese dell'  imperatore  per  il  fatto  che  i  municipi  se  ne  credevano 
del  tutto  liberi  e  per  sempre.  È  vero  che  di  tanto  in  tanto  erano 
stati    nominati    vicari    imperiali    in    Toscana,  come,  per  esempio, 


(')  Historiots  de  la  Gattle  et  de  la  France,  voi.  XXIII:  Breviariuiit  Historicimt 
J-Mitdulphi  de  Coluniita. 


-    29  — 

nel  1281,  1286  e  1296,  ma  il  loro  potere  non  s'  era  mai  esteso 
fino  alle  città.  Tuttavia  l' imperatore  trovava  difficoltà  anche  nei 
paesi  che  non  gli  erano  apertamente  ostili.  Pisa  gli  sottomise 
gli  statuti,  ma  Genova  brontolò  ed  anche  resistette.  "  Henricus 
novitates  plures  voluit  Januae  faccre  nec  potuit,  vo](_!iat  habere 
castrum  Januae  et  deponere  Abbatem  Popoli  nec  potuit  (')  „. 
Cosi  scriveva  il  cronista  di  Asti.  I  veneziani  rifiutarono  di  giu- 
rare fedeltà,  "  Unde  nullam  bonam  causam  scio  „  aggiungeva 
Nicolò  di  Butrinto  "  nisi  quia  sunt  de  quinta  essentia,  nec  Deum 
nec  Ecclesiam,  nec  Imperatorem,  nec  mare,  nec  terram  volunt 
recognoscere  0  „.  Nemmeno  la  proposta  fatta  di  permettere 
loro  la  guardia  della  Brenta  potè  piegarli.  Perfino  la  Ghibellina 
Verona  non  ubbidì  all'  ordine  dell'  imperatore  di  riammettere  gli 
esuli  Guelfi. 

Insormontabile  dunque  era  la  differenza  fra  Dante  ed  i  po- 
litici veri;  egli  mirava  alla  legge,  questi  alla  esecuzione  pratica 
di  essa.  Dante  ammetteva  la  legge  municipale  solo  come  compi- 
mento necessario  di  quella  imperiale,  gli  altri  non  volevano  sapere 
di  vicari  imperiali,  considerandoli  come  intrusi,  venuti  per  sop- 
piantarli. Perciò  gli  interessi  delle  famiglie,  il  sentimento  tradi- 
zionale e  le  ragioni  pecuniarie  congiuravano  insieme  a  favorire 
la  resistenza  attiva  o  passiva  dei  municipi  contro  un  risuscitato 
impero.  In  Toscana  poi  la  resistenza  di  municipale  divenne  pro- 
vinciale, quivi  la  parte  Guelfa  era  ancora  più  salda  e  compatta 
della  vecchia  lega  Lombarda.  Quasi  prese  la  forma  di  una  sta- 
bile federazione.  Inoltre  la  conoscenza  pratica  dei  cosi  detti  li- 
beratori fece  passare  il  popolo  dalla  parte  delle  oligarchie. 

I  Guelfi  non  costituivano  un  partito  nazionale,  come  nemmeno 
i  Ghibellini  ne  costituivano  uno  tedesco;  ma  il  fatto  dell'esi- 
stenza di  questa  parte  bene  organizzata  che  in  Toscana  poteva 
tanto,  e  1*  aver  essa  a  nemico  1'  imperatore  che  era  Tedesco  fece 
rinascere  quell'  istintivo  e  generale  odio  della  razza  latina  per  la 


(')  Muratori,  XI,  235. 
(')  Ed.  Heyck,  15. 


—  30  — 

germanica.  Si  osservi  con  quanta  cura  Dante  nasconde  1'  origine 
forestiera  dell'  impero  e  come  invece  insista  sulla  sua  derivazione 
romana.  Appena  egli  ricorda  la  concessione  fatta  a  Carlo  Magno 
e  degli  elettori  non  scrive  che  per  diminuirne  1'  importanza. 
Gli  autori  del  tempo  portano  una  quantità  di  e5empi  di  questa 
rivalità  che  esisteva,  non  tanto  fra  le  famiglie  Guelfe  e  Ghibel- 
line, quanto  nel  popolo.  Ciò  non  prova  affatto  che  si  vagheg- 
giasse un'  Italia  unita,  ma  che  esisteva  una  semplice  antipatia 
per  i  Tedeschi. 

Fin  dal  principio  v' è  un  grido  del  popolo  di  Milano  che  pre- 
suppone una  tregua  fra  le  fazioni  interne  a  fine  di  combattere 
lo  straniero:  "  Moriantur  Teutonici  omnes;  pax  est  inter  Domi- 
num  Guidonem  et  Dominum  Matthaeum  (')  „.  Lo  stesso  Giovanni 
da  Cermenate,  Ghibellino,  parla  della  "  Stolida  gens  Germaniae 
ninium  praedae  avida  ac  disciplinae  militaris  ignara  (^)  „.  E  Ro- 
berto di  Napoli  certamente  intrepretava  il  desiderio  nazionale 
quando  implorava  dal  Papa  di  non  sanzionare  l' elezione  del- 
l' imperatore. 

"  Reges  Romani  consueverunt  eligi  de  lingua  Germanica, 
quae  consuevit  producere  gentem  acerbam  et  intractabilem,  quae 

raagis  adhaeret  barbaricae  feritati  quam  Christianae  professioni 

Unde  cum  Germani  cum  Gallicis  non  habeant  convenienciam, 
immo  repugnanciam,  et  cum  Italicis  non  conveniant,  cavendum 
est  quod  Germana  feritas  inter  tot  reges  et  naciones  non  pro- 
ducant  scandala,  et  dulcedinem  Italiae  in  amaritudinem  non  con- 
vertat  (^^j  „. 

I  Guelfi  si  fecero  un  piedistallo  di  questa  naturale  antipatia 
degli  italiani  per  i  tedeschi  e  parlarono  per  bocca  di  Firenze: 
"  Nunquam  nobis  probari  potuit  Imperator  qui  in  Italiani  bar- 
baras  copias  ducat,  quum  id  potius  cavendum  ut  hanc  nobilissi- 
mam  provinciam  a  barbarorum    manibus    vindicaret    {*}   „.  Dante 


(')  Nicolai  Episc.  Buirontini  Relatio:  Muratori,  IX,  897;  ci.  Heyck,   18. 

(")  Muratori,  IX,  1274. 

(^)  Bonaini,  Ada  Henrici  VII,  I,  236. 

(*)  Theiner,  I,  p.  1077:  Lettera  dei  fiorentini  ad  Arrigo  VII. 


—  31  — 

può  aver  ragione  nel  giudicare  la  moralità  politica  della  oligar- 
chia Guelfa  di  Firenze;  ma  certo  i  documenti  addotti  dal  Bonaini 
sono  una  gran  prova  della  sua  forza.  Questa  lega  unisce  le  grandi 
e  le  piccole  città  di  Toscana  appianandovi  le  discordie;  arruola 
milizie  fra  le  popolazioni  rurali,  ferma  convogli  e  squadre  Ghibel- 
line sulla  via  di  Pisa  che  andavano  a  unirsi  con  Arrigo.  Le  amba- 
sciarle fra  Napoli  ed  Avignone  si  seguono,  mille  intrighi  vengono 
orditi  per  impedire  che  i  due  mal  sicuri  alleati  si  rompano  fede 
patteggiando  ciascuno  per  conto  proprio  con  1'  impero.  Si  ricono- 
sce r  opera  dei  fiorentini  in  ogni  sommossa  di  Lombardia,  men- 
tre poi  mandano  a  Roma  quanti  uomini  di  senno  possono.  Dietro 
a  Firenze  i-' era  Napoli,  il  potere  più  compatto  d'Italia  e  dietro 
a  Napoli  stava  la  Francia.  La  resistenza  opposta  dalla  Francia 
all'impero,  e  fino  a  un  certo  segno  anche  quella  di  Napoli,  aveva 
tutt'  altro  carattere  di  quella  incerta  ed  indeterminata  che  gli 
opponeva  l' Italia  in  generale.  Era  veramente  la  guerra  dichia- 
rata alle  alte  supremazie  ornai  vecchie  ed  esautorate  da  stati 
saldi  ed  organizzati  che  avevano  per  appoggio  tutta  la  loro  sto- 
ria, il  loro  sistema  di  governo  e  le  loro  ben  note  ambizioni. 
Non  si  trattava  dell'antipatia  popolare  per  una  lingua  forestiera; 
ma  essa  ha  una  giustificazione  legale  e  filosofica.  La  Francia 
combatteva  il  nemico  della  propria  indipendenza  nazionale,  fosse 
poi  stato  questi  1'  imperatore  od  il  pontefice.  Le  opere  legali  o 
politiche  che  videro  la  luce  a  Parigi  al  principio  del  secolo  si 
riferivano,  è  vero,  alla  controversia  fra  Filippo  e  Bonifacio  \'III, 
attacavano  la  chiesa  :  ma  questa  e  l' impero  erano  cosi  stretta- 
mente connesse  che  gli  attacchi  diretti  all'  una  non  potevano 
non  ripercuotersi  sull'  altro.  La  più  lunga  ed  ordinata  fra  queste 
opere,  il  trattato  di  Giovanni  di  Parigi,  alle  volte  corre  paral- 
lelamente al  De  Monarchia,  usa  gli  stessi  argomenti,  porta  i  me- 
desimi esempi  e  riesce  in  alcuni  punti  una  discussione  in  con- 
tradittorio.  Considera  i  beni  della  Chiesa  sotto  lo  stesso  punto 
di  vista;  cioè  quasi  un  "  possesso  „  e  non  una  "  proprietà  „, 
ha  la  medesima  opinione  circa  la  precedenza  tanto  nel  pensiero 
quanto  nel  tempo  del  potere    temporale,    ed  è  concorde    nel  non 


—  32  — 

giudicare  valida  la  donazione  di  Costantino.  Se  il  Pontefice  come 
vicario  di  Cristo  era  signore  temporale,  Costantino  non  poteva 
dargli  alcuna  cosa;  gli  atti  di  un  imperatore  non  potevano  pre- 
giudicare quelli  del  suo  successore.  Identiche  sono  le  risposte 
agli  argomenti  tratti  dalla  scrittura  e  dalla  storia  dal  partito  pa- 
pale, senonchè,  le  parole  di  Giovanni  da  Parigi  erano  più  ar- 
dite: "  Mystica  theologia  non  est  argumentativa  nisi  accipiatur 
ejus  probatio  ex  alia  scriptura  (')  „.  "  Ubi  quaeritur  de  pote- 
state  Papae  in  temporalibus,  efficax  est  testimonium  Imperatoris 
prò  Papa;  et  non  est  multum  efficax  testimonium  Papae  prò  se 
ipso,  nisi  dictum  Papae  fiilciatur  auctoritate  Scripturae  sacrae  vai 
scripturae  Canonicae  (^)  „.  "  Nella  storia  si  possono  trovare  molti 
esempi  di  sottomissione,  tanto  per  l' imperatore  quanto  per  il 
Papa,  ma  "  Injuria  non  facit  ius  „  L' uomo  deve  raggiungere 
un  fine  terreno  ed  ultra  terreno,  all'  uno  ci  guida  il  principe,  al- 
l' altro  il  sacerdote,  siccome  poi  quest'  ultima  meta  è  più  nobile 
dell'  altra,  cosi  il  Pontefice  è  superiore  al  principe.  Ciò  non  to- 
glie che  il  potere  temporale  per  essere  derivato  da  quello  spiri- 
tuale non  debba  essere  a  questo  uguale.  Nella  famiglia  il  maestro 
conduce  ad  un  fine  più  elevato  che  non  il  medico,  né  perciò 
deve  essere  questi  a  quello  soggetto  nell' indicare  la  medicina; 
il  paterfamilias  non  ha  certo  sottomesso  il  medico  al  maestro 
qnoad  hoc  (^).  Con  questo  dunque  Giovanni  da  Parigi  riconosce 
la  necessità  della  monarchia  "  Regnum  est  regimem  multitudinis 
perfectae  ad  commune  bonum  ordinatum  ab  uno  (^)  „.  L'uomo 
è  nato  per  vivere  in  società  per  potere  soddisfare  ai  bisogni 
della  sua  natura.  Se  ognuno  cercasse  solamente  il  proprio  bene, 
la  società  si  sfascerebbe,  perciò  per  il  bene  comune  questa  deve 
essere  regolata  da  uno  solo,  poiché  è  più  facile  che  uno  solo 
mantenga  la  pace  e  si  sacrifichi  per  il  bene  di  tutti.  Inoltre  in 
tutta  la  natura  prevale  la  legge  dell'  unità.    Ma   la   concordia  fra 


(>)  Goldast,  Monarchia,  ed.  1668  II,   128. 
(=)  Ibid.  129. 
(^1  Ibid.  113. 
(*)  Ibid.  loi. 


—  33  — 

i  due  scrittori  cessa  dinanzi  alla  parola  "  perfectae  „.  Affatto 
diversa  per  ciascuno  d'  essi  è  la  circonferenza  dei  circoli  di  cui 
la  monarchia  è  il  centro.  Per  Giovanni  da  Parigi  la  monarchia 
non  è  universale,  ma  nazionale:  in  materia  spirituale  per  legge 
divina  è  necessario  che  ci  sia  un  solo  supremo  potere,  non  cosi 
in  materia  temporale  "  Non  sic  autem  fideles  laici  sic  habent 
ex  iure  divino,  quod  subsint  in  temporalibus  uni  monarchae  su- 
premo (')  „.  "  Ma  l'istinto  naturale,  che  deriva  da  Dio,  li  induce 
a  vivere  in  società  (civiliter  et  in  communitate),  fra  loro  stessi 
debbono  scegliersi  i  capi  a  fine  d' essere  felici,  ma  li  sceglie- 
ranno differenti  a  seconda  della  differenza  delle  diverse  società. 
Nessuna  tendenza  nazionale  né  legge  divina  li  obbliga  ad  una 
unica  gerarchia  superiore.  Gli  uomini  differiscono  più  nel  corpo 
che  neir  anima  e  perciò  il  governo  secolare  è  diverso  dallo  spi- 
rituale. Un  uomo  solo  non  può  governare  il  mondo  nelle  cose 
secolari  come  nelle  spirituali,  infatti  un  potere  è  spiritiialis  e 
r  altro  è  maniialis,  ed  egli  non  potrebbe  provvedere  a  popoli 
lontani  gli  uni  dagli  altri.  La  proprietà  temporale,  a  differenza 
di  quella  della  Chiesa,  è  del  tutto  privata  e  non  ha  bisogno 
d'essere  spartita  in  comune;  né  il  Papa  né  l' imperatore  possono 
tassarla  se  non  per  il  bene  di  tutti.  Una  è  la  fede  Cattolica  e 
perciò  una  deve  essere  la  mente  che  la  dirige,  la  vita  invece  e 
la  civiltà  sono  molteplici  per  ragioni  climatiche  e  geografiche. 
Non  è  possibile  una  sola  legge,  perché  ciò  che  sarebbe  bene 
per  una  natura  sarebbe  male  per  un'  altra.  Aristotile  e  S.  Ago- 
stino la  pensano  così:  "  Melius  et  magis  pacifice  regebatur  res- 
publica  cum  uniuscuiuscumque  vel  unumquodque  regimen  suae 
patriae  terminis  finiebatur....  Causa  destructionis  Imp.  Rom.  fuit 
ambitio  propria  dominandi  vel  provocandi  alienas  injurias  (^)  „. 
Che  cosa  dunque  deve  .comprendere  l'unità?  Essa  deve  avere 
base  etnica.  Ammettendo  pure  che  Costantino  avesse  dato  l' im- 
pero al  Papa  —  cosa  che    non    fece   né    poteva    fare    —    questa 


(')  Goldast,  Monarchia,  ed.   1668,  II,  ni. 
(=)  Ibid.   112. 

Armstrong. 


—  34  — 

donazione  non  includeva  i  Franchi,  perché,  se  la  Gallia  era  ve- 
ramente soggetta  air  impero,  non  lo  erano  né  lo  erano  mai  stati 
i  Franchi,  che,  se  anche  fossero  stati,  ora  erano  libri  per  pre- 
scrizione, allo  stesso  modo  che  l' Italia  era  libera  dal  dominio 
dei  Franchi  sebbene  avesse  ubbidito  un  tempo  ai  loro  imperatori. 
L' impero  Orientale  è  indipendente  da  quello  Occidentale  per 
prescrizione,  perché  dunque  non  potranno  altri  popoli  invocare 
la  stessa  ragione  per  la  loro  libertà?  Tanto  pili  che  l'Impero 
Romano  fu  fondato  con  la  violenza.  Il  mondo  non  ha  mai  goduta 
tanta  pace  come  prima  e  dopo  dell'  impero  universale.  "  Melius 
est  plures  pluribus  regibus  dominari  quam  unum  toti  mundo  (^)  „. 
Non  può  sfuggire  l'importanza  di  quest'opera:  essa  vide  la  luce 
tre  o  quattro  anni  dopo  la  supposta  dimora  di  Dante  a  Parigi  e, 
a  meno  che  la  teoria  del  Witte  intorno  alla  maggiore  antichità 
del  De  Monarchia  sia  vera,  il  libro  dell'  Alighieri  potrebbe  averla 
avuta  per  modello  od  essere  stato  scritto  per  contraddirla. 
L' opera  di  Giovanni  da  Parigi  è  in  tutto  simile  al  terzo  libro 
del  De  Monarchia,  in  tutto  opposta  al  secondo,  ed  in  parte  si 
accorda,  in  parte  differisce  dal  primo. 

È  vero  che  le  analogie  possono  dipendere  dall'  identità  delle 
fonti,  poiché  si  riconosce  in  ambedue  l' influenza  di  S,  Tomaso 
d'  Aquino.  Dififeriscono  tutte  e  due  dalla  conclusione  del  De  Re- 
gimine Principimi,  ma  insieme  vi  attinsero  gli  argomenti  che 
convenivano  al  loro  assunto.  Il  trattato  di  Giovanni  da  Parigi  è 
tutt'  altro  che  una  esercitazione  accademica,  ben  più  del  De  Mo- 
narchia esso  rappresenta  la  viva  opinione  del  tempo.  I  re  Franchi 
volevano  ridurre  l' impero  ad  un  principato  nazionale,  se  poi 
doveva  essere  di  più,  lo  volevano  per  sé  stessi  ('),  e  questo  i 
Tedeschi  sapevano.  Gli  annali  di  Lubecca,  a  proposito  dell'ascen- 
sione d'Arrigo  al  trono,  cosi  s'esprimono  "  Eo   tempore  (1309) 


{»)  Ibid.  141. 

('J  Conf.  due  opere  attribuite  a  Pierre  du  Bois.  Vedi  Dupuy  :  llist.  du  di/- 
feretid  d' enlre  le  Pape  Boitiface  Vili  et  Philippe  le  Bel,  e  N.  de  Wailly,  Mé- 
Mioires  de  l' Instit.  Nat.  de  France  :  Académie  des  Jitscriptions  et  Belles  Let- 
tres,  XVIII  (2). 


-  35  — 

quia  Reges  Alemanniae  minus  aspirabant  post  Fredericum  impe- 
ratorcni  ail  Iiabciuluni  iniperiuni,  videbatur  Francigenis  derisorium 
quod  se  scriberent  reges  Romanorum  (')  „.  Se  Dante  trova  un 
competitore  in  Giovanni  da  Parigi,  Arrigo  VII  trova  un  rivale 
al  suo  idealismo  nella  praticità  di  Roberto  di  Napoli;  la  sua  let- 
tera sopra  citata  critica  tutta  quanta  la  concezione  medievale 
dell'  impero  e  ne  scuote  le  basi  filosofiche  di  uniformità.  L' im- 
pero era  stato  acquistato  con  la  violenza,  perciò  non  poteva  du- 
rare, altrimenti  sarebbe  andato  contro  natura.  Dunque  l' impero 
Romano-Germanico  non  ha  origine  divina,  il  re  dei  tedeschi 
è  il  nemico  naturale  di  Francia  e  di  Napoli,  egli  avrebbe  dovuto 
da  quella  riconquistare  le  cosidette  terre  imperiali  al  di  là  della 
Saona  e  vincere  questo  che  era  principale  ostacolo  al  suo  do- 
minio in  Italia.  Il  diritto  di  dominio  cambia,  hanno  avuto  l' im- 
perio i  Caldei  e  gli  Egiziani  e  1'  hanno  pur  perduto,  quello  di 
Roma  si  è  ridotto  sopra  pochi  villaggi.  L'  elezione  di  un  Tedesco 
pregiudica  Francia,  Italia  e  Napoli,  è  cagione  di  scandalo  a  tutti 
i  principi  "  qui  sunt  in  piena  et  pacifica  libertate  dominii  et  pò- 
testatis  eorum,  nec  in  aliquo  subsunt  aut  obediunt  imperatori, 
excepto  rege  Boemie.  „  Gli  imperatori  possono  invocare  antiche 
scritture,  ma  i  re  possono  invocare  la  prescrizioni.  Questa  è  la 
negazione  contenuta  nei  due  primi  libri  di  Dante  e  nei  due  primi 
capitoli  della  vita  di  Arrigo;  noi  sentiamo  che  Roberto  tanto  in 
teoria  come  in  armi  è  dalla  parte  della  ragione.  I  contemporanei 
non  poterono  vedere  ciò  con  egual  chiarezza.  Il  Villani  ci  dice 
che  gli  autorevoli  del  tempo  credevano,  che  se  non  fosse  stato 
per  la  sua  morte  improvvisa,  Arrigo  avrebbe  preso  Napoli,  poi 
tutta  r  ItaFia  e  molte  altre  terre;  gli  stessi  Greci  e  Saraceni  erano 
in  grande  angoscia  per  la  riescila  dell'  impresa  (^).  Il  cronista  di 
Baldovino  credeva  che  il  sole  della  fede  cattolica  fosse  stato 
oscurato  da  un  eclissi  o  da  una  cometa,  perché  "  illud  gloriosum 
Rom.   Imp.    vere    fuerat    revocatum,    coadunatum    et    in    maxima 


0)  Pertz,  XVI,  ^2i:  Ann.  Lubicenses. 
(*)  Villani,  IX.  53. 


-36- 

parte  restaurntum,  ciijus  recuperationis  finis  immincbat,  quod 
ista  niors  pessima,  toti  Catholicae  fìdei  nociva,  pessime  prolii- 
bebat  (')  „.  Ma  l'effettuazione  dell'ideale  dantesco  di  monarchia 
universale  non  dipendeva  unicamente  dalla  vita  o  dalla  morte  di 
Arrigo.  Questa  non  era  che  un  episodio  della  lotta  di  parte  fra 
Guelfi  e  Ghibellini:  episodio  che  permise  ai  Ghibellini  d'Arezzo 
di  mutare  il  colore  del  cavallo  che  portavano  sullo  stemma  di 
bianco  a  nero  e  dette  agio  ai  Guelfi  di  Reggio  di  costringere  i 
nemici  a  mettere  delle  candele  sulle  loro  finestre,  episodio  che  i 
Pisani,  uomini  pratici  lamentarono  come  una  delle  massime  di- 
sgrazie "  perché  avevano  speso  in  lui  più  di  due  miglioni  di  fiorini 
d'  oro,  e  non  ne  aveano  fatto  prò  nesuno,  e  rimaneano  in  briga 
grandissima  senza  avere  moneta  (^)  „. 

Le  ragioni  che  fecero  rimanere  il  De  Monarchia  un'  aspira- 
zione ideale  sono  più  profonde  che  non  questo  episodio.  Se  gli 
angusti  limiti  d'  una  città  guelfa  non  potevano  soddisfare  Dante, 
che  all'amico  fiorentino  scriveva:  "  nonne  solis  astrorumque  spe- 
cula ubique  conspiciam?  Nonne  dulcissimas  veritates  potere  spe- 
culari ubique  sub  coelo?  „  ( '')  ;  cosi  l'impero  d'Arrigo  "  de  in- 
violabili iure  fluctus  Amphitritis  attingens,  vix  ab  inutili  unda 
Oceani  se  circumcingi  dignatur  (^)  „,  non  poteva  essere  conte- 
nuto nei  limiti  d' Italia  né  d'  Europa.  La  corona  ed  il  trono  che 
Dante  vide  essere  preparati  per  il  superbo  Arrigo  non  erano  di 
questo  mondo,  non  era  la  corona  di  ferro,  che  l'Italia  aveva 
impegnata  ("j  né  il  trono  Romano,  al  quale  essa  chiudeva  la  via. 
Forse  noi  non  sentiamo  allo  stesso  modo  d'allora,  e  le  no- 
stre simpatie  non  s' accordano  con  i  tempi,  forse  la  critica  dei 
posteri  appunto,  per  mancanza  di  simpatia,  è  troppo  severa. 
Forse  anche  Dante  "  per  lo  suo  sapere  fu  alquanto   presuntuoso 


(')  Baluze,  Mise.  Hisl.  I,  319. 
(-)  Baluze,  I,  453:   Chron.  Pisanuìu. 
{'\  Epist.  IX. 
(«1  Epist.  VII. 

{')  La  corona  ferrea  era  stata  impegnata  dai  Della   Torre;  Lande    da    .Siena 
aveva  fatta  fare  una  nuova  che  il  Villani  descrive,  IX  9. 


—  37  — 

e  schivo  e  isdegnoso,  e  quasi  a  guisa  di  filosofo  mal  grazioso 
non  bene  sapea  conversare  coi  laici  (')  „  forse  era  troppo  uso 
a  "  garrire  e  sclamare  a  guisa  di  poeta  (')  „.  Può  darsi  che  non 
si  potesse  dire  con  verità  di  Arrigo  che  "  se  i  mali  straordi- 
nari dell'  Italia  erano  allora  capaci  di  rimedio,  non  si  potea 
scegliere  medico  più  a  proposito  di  questo  (^)  „.  A  mala  pena 
però  noi  ci  persuadiamo  delle  parole  del  Compagni  :  "  I  luomo 
savio  di  nobile  sangue,  giusto  e  famoso,  di  gran  lealtà,  prò'  d'  armi 
e  di  nobile  schiatta,  huomo  di  grande  ingegno,  e  di  gran  tem- 
peranza {*)  „,  perché  ci  viene  in  mente  in  vece  l' ironico  detto 
del  Pisano 

"  Omo  di  buona  vita  e  di  pogo  senno  „. 


e)  Villani  Giov.^  lib.  IX.  e.   136. 

(-)  Ibid. 

(')  Muratori,  .-iiin.  d' It.,  Vili,  72. 

{*)  D.  Compagni,  HI,  23,  Ediz,  cit.  p,  350. 

(')  Sardo,  Cion.  Pisana  LII.  Arcliiv.  Stor.  Ital.  VI  (2)  94.  Altro  interessante 
racconto  della  spedizione  d'Arrigo  VII  nei  Documenti  di  Storia  Italiana,  voi.  VI: 
Cronache  dei  secoli  XIII  e  XIV,  Firenze  1876:  "  Diario  di  Ser.  Giovanni  di  Lemme 
da  Comugnori.  „  Lo  scrittore  vide  Arrigo  VII  nel  tempo  di  una  sua  visita  a  Pisa 


E  A  R  LE 


LA    VITA  NOVA  DI  DANTE 


LA    VITA  XOVA  DI  DANTE  (') 


Quando  il  Boccaccio  divulgò  la  notìzia  che  la  Beatrice  di 
Dante  era  figlia  di  Folco  Portinari,  dette  la  spinta  all'  interpetra- 
zione  letterale  della  "  Vita  Nuova  „,  e  il  movimento  non  è  an- 
cora cessato.  Fin  da  quei  remoti  tempi  alla  famiglia  Portinari  è 
toccata  una  parte  dell'  interesse  che  desta  in  noi  tutto  ciò  che 
si  connette  storicamente  col  grande  poeta  medioevale.  E  per 
una  specie  di  congruenza  naturale,  sebbene  non  per  conseguenza 
necessaria,  la  storia  romantica  dell'  amore  del  poeta  per  Bea- 
trice è  stata  intesa  in  senso  personale  e  reale. 

La  "  Vita  Nuova  „  è  interpretata  come  una  testimonianza  di 
fatti,  la  quale  benché  mescolata  di  misticismo  fantastico,  è  ancora 
ritenuta  sostanzialmente  storica  e  autobiografica. 

Posto  ciò,  il  motivo  della  "  Vita  Nuova  „  ha  il  suo  fonda- 
mento nell'amore  di  Dante  per  Beatrice  Portinari;  e  poiché  la 
"  Commedia  „  é  inseparabile  dalla  "  Vita  Nuova  „,  il  complesso 
di  quel  vasto  concetto  e  l' occupazione  intellettuale  di  tutta  la 
vita  del  poeta,  che  questi  due  lavori  insieme  rappresentano,  sono 
derivati  come  naturale  conseguenza  da  quella  passione,  che  la 
vista  di  Beatrice  Portinari  accese  nel  cuore  di  Dante,  quando 
questi  aveva  nove  anni. 

Non  vogliamo  fermarci  a  discutere  quanto  ciò  sia  naturale  o 
possibile.  Possiamo  immaginare   in    astratto,    quasi    tutta  la  serie 


(•)  Questo  scritto  è  estratto  dal  n.  367,  voi.  clxxxiv  della  Quarterly  Review 
(luglio  1896)  dove  vide  prima  la  luce.  La  traduzione  è  stata  eseguita  col  per- 
messo dell'  illustre  Autore,  al  quale  ci  professiamo  gratissimi. 


—  42  — 

di  conseguenze  resultanti  dall'  eccitamento  di  una  potente  pas- 
sione, in  gioventù.  Ma  questo  non  può  farci  credere,  che  un 
uomo  come  Dante  si  sia  messo  a  comporre  di  proposito  la  rive- 
lazione dei  suoi  più  intimi  sentimenti,  come  quella  contenuta 
nella  "  \'ita  Nuova  „  intesa  materialmente. 

Si  potrebbe  opporre  in  verità  che  egli  ha  rivelato  abbastanza 
sé  stesso  e  i  suoi  pensieri  nella  "  Commedia  „;  ma  questa  pub- 
blicità è  drammatica,  ed  è  ristretta  a  fatti  d' universale  interesse; 
mentre  in  tutto  ciò  che  è  domestico  e  personale  Dante  si  è 
mantenuto  in  una  dignitosa  reticenza.  Non  ci  ha  detto  nulla  circa 
il  padre  o  la  madre,  il  fratello  o  la  sorella;  niente  di  sua  mo- 
glie o  dei  suoi  figli,  o  delle  circostanze  del  suo  matrimonio. 
L'  unico  punto,  nel  quale  si  possa  dire  che  abbia  infranto  la  sua 
abituale  riservatezza,  riguarda  il  suo  esilio;  ed  in  questo,  anche 
se  dovesse  ritenersi  come  privato  e  personale,  bisogna  conside- 
rare che  i  suoi  sentimenti  erano  troppo  acuti  per  esser  repressi. 

Quando  obbiezioni  di  questo  genere  furono  fatte  contro  l' in- 
terpetrazione  letterale  della  "  Vita  Nuova  „,  la  risposta  pronta 
da  parte  dei  letteralisti  è  stata,  che  non  dobbiamo  giudicare  di 
Dante  come  si  potrebbe  di  uomini  ordinarli,  poiché  egli  fu  supe- 
riore al  comune  degli  uomini,  sia  per  la  forza  delle  sue  impres- 
sioni, sia  per  le  sue  facoltà  intellettuali.  Si  può  ammettere  la  su- 
periorità di  Dante;  ma  questa  considerazione  non  rimuove  la 
nostra  difficoltà.  E  per  parlare  poi  in  generale,  non  siamo  favo- 
revolmente disposti  verso  qualsiasi  argomento  basato  sulle  diffe- 
renze fra  il  grande  poeta  e  il  resto  dell'umanità.  Poiché  qua- 
lunque arte  e  qualunque  critica,  deve  dipendere  dai  principi  co- 
muni dell*  animo  umano,  e  ad  essi  deve  riportarsi. 

Al  tempo  stesso  é  da  notare  che  il  progresso  della  critica 
storica  ha  inteso  a  distruggere  l' autorità  del  Boccaccio.  Foco 
monta  che  risulti  da  documenti  l' esistenza  della  famiglia  Porti- 
nari:  questa  famiglia  è  indubbiamente  storica,  ma  cosa  vale  il 
racconto  del  Boccaccio,  che  identifica  la  Beatrice  di  Dante  con 
la  Beatrice  Portinari?  Nel  quarto  volume.  Prolegomeni,  dell'edi- 
zione grande  della  "  Divina    Commedia  „,  curata    dallo  Scartaz- 


—  43  — 

Zini,  la  nota  principale  è  il  discredito  che  pesa  sul  Boccaccio 
come  biografo  di  Dante.  Egli  viene  considerato  come  semplice 
romanziere,  come  uno  scrittore  privo  di  senso  storico,  che  non  si 
dette  pensiero  di  accertarsi  della  verità  anche  quando  gli  restava 
facile  il  farlo;  raramente  un  suo  racconto  vien  trovato  degno  di 
fede;  di  regola  non  si  pon  mente  alle  sue  asserzioni,  è  un  lo- 
quace e  vuoto  narratore,  un  ciarliere,  che  si  avvicina  al  ciarla- 
tano. Il  Boccaccio  è  stato  il  principale  sostegno  dell'  interpetra- 
zione  letterale;  ma  questo  è  il  carattere  che  gli  ha  aggiudicato 
lo  Scartazzini,  benché  egli  stesso  aderisca  all'  opinione  dei  lette- 
ralisti,  pur  rifiutando  la  testimonianza  del  Boccaccio  riguardante 
Beatrice  Portinari. 

Di  fatti  vi  è  una  ragione  più  forte  dell'  autorità  del  Boc- 
caccio, anche  se  avvalorata  dalla  data  della  morte  di  Beatrice: 
vi  è  il  racconto  meravigliosamente  verosimile,  che  sembra  cosi 
spontaneo,  cosi  concreto,  e  cosi  convincente,  che  non  ostante  i 
poetici  e  mistici  contorni,  trasporta  il  lettore  soggiogato,  e  lo 
rende  propenso  ad  accettare  V  opinione  del  D' Ancona,  che  la 
"  Vita  Nuova  „  sia  "  una  ingenua  e  piena  confessione  di  ciò  che 
v'era  di  più  intimo  e  segreto  nel  cuore  dell'amante  „  ('). 

L' interpetrazione  allegorica  ha  una  genealogia  venerabile,  sia 
che  la  testimonianza  indiretta  e  negativa  di  Pietro,  figlio  di  Dante, 
si  ammetta  o  no.  La  via  fu  preparata  nel  secolo  XV  dalla  cri- 
tica del  Filelfo,  il  quale  pretendeva  che  Beatrice  fosse  una  figura 
puramente  immaginaria.  Ma  solo  nel  1723  un' interpetrazione  al- 
legorica fu  metodicamente  svolta,  quando  il  Dott.  Anton  Maria 
Biscioni  pubblicò  gli  scritti  in  prosa  di  Dante,  con  un'  importante 
prefazione,  nella  quale  sosteneva  che  Beatrice  era  il  simbolo  della 
Sapienza.  Questo  studio  non  è  soltanto  notevole  per  1'  originalità, 
ma  anche  per  la  sobrietà  della  forma  e  del  giudizio. 

Questo  è  quanto  si  può  dire  degli  interpreti  allegorici  in  ge- 
nerale. Gabriele  Rossetti  riprese  a  trattare  1'  argomento  e  dimo- 
strò con  sua  propria  soddisfazione  che  la  "  Vita    Nuova  „  è   un 


(M  La  Vita  Nuova  di  D.  A.  Pisa,  1872,  p.  XXVIII. 


—  +4  — 

libello  ghibellino  dissimulato  in  un  criptograiiima  simbolico.  A  giu- 
dicare dagli  sforzi  fatti  per  combattere  questa  teoria  (tra  i  quali 
quello  di  Arturo  Hallam  lodato  da  R.  W.  Church),  ne  inferiamo 
che  fosse  presa  sul  serio  a  quell'epoca;  ma  non  possiamo  oc- 
cuparcene ora,  non  avendo  essa  tenuto  in  seguito  altro  posto 
nella  letteratura  che  quello  di  una  curiosità. 

Di  tutti  gli  studi  che  hanno  seguito  le  linee  tracciate  dal  Bi- 
scioni, il  pili  ampio  è  quello  del  Gietmann  (').  Egli  vede  in 
Beatrice  un  costante  simbolo  della  Chiesa,  e  questo  sistema 
segue  con  diligente  uniformità.  La  sua  coscienziosa  interpetra- 
zione  quasi  sempre  ricompensa  il  lettore,  anche  in  quei  punti 
dove  non  è  convincente.  In  fatti  l' autore  vuol  provar  troppo,  e 
nel  suo  sforzo  di  scoprire  qualcosa  a  favore  della  sua  teoria  in 
ogni  incidente  della  "  Vita  Nuova  „,  egli  oltrepassa  quel  che  si 
richiede  nell'  interpetrazione  di  un'  allegoria,  e  procede  come  se 
fosse  occupato  alla  soluzione  di  un  prolungato  enigma  (^). 

Ma  lasciando  altri  sistemi,  noi  tenteremo  di  esporre  l' inter- 
petrazione allegorica  quale  l' intendiamo  noi,  ed  in  questo  tenta- 
tivo bisogna  cominciare  con  una  costatazione  storica  che  è  della 
più  grande  importanza.  Il  carattere  di  quella  fioritura  primaverile 
della  moderna  poesia,  di  cui  Dante  è  il  più  cospicuo  prodotto, 
risulta  chiaro  dal  fatto  che  il  miglior  lavoro  dell'  epoca  fu  steso 
in  forma  di  allegoria.  Dal  XII  al  XIV  secolo,  i  poemi  più  origi- 
nali e  più  ricchi  di  osservazioni  sul  carattere  e  sul  vivere  umano, 
tanto  scritti  in  latino  che  nelle  parlate  volgari,  furono  allegorici. 
Questa  è  asserzione  sicura  e  al  di  sopra  di  qualsiasi  discussione. 
II  tempo  ha  già  deciso  quali  debbano  esser  ritenute  le  migliori 
opere  di  quel  periodo.  Quei  lavori  in  volgare  che  sono  ancora 
in  fama,  come  Le  Roman  de  Renart,  Le  roiìiaii  de  la  rose,  Piers 
the  Ploivnian  sono  tutti  allegorici. 


(')  Beatrice,  Getst  uiid  Kern  der  Dante  'sclien  Dichtmigen.  —  Freiburg  in 
Breisgau,  1889. 

(')  Questo  elementare  errore  è  comune  ugualmente  ad  ambo  le  parti.  Uno 
degli  eterni  argomenti  dei  letteralisti  contro  gli  allegoristi  è  il  seguente  :  "  Come 
spiegate  la  quantità  di  particolari  realistici,  ai  quali  non  può  attribuirsi  un  si- 
gnificato allegorico?  „. 


—  45  — 

A  questi  si  devono  aggiungere:  la  Perla,  un  poema  allego- 
rico del  XIV  sec,  che  è  stato  restituito  alla  letteratura  dal  si- 
gnor Gollancz,  nella  sua  edizione  del  1891  ;  ed  il  poema  latino 
Anticlaudianns  di  Alano  de  Insulis,  metafisico  e  poeta  del  XII  sec, 
un  nome  il  quale,  per  quanto  oscuro  a  noi  adesso,  ebbe  gran 
voga  fra  gli  scienziati  del  suo  tempo,  e  anche  molto  dopo. 
Quest'  ultimo  è  un  poema  allegorico,  sul  quale  avremo  occasione 
di  tornare  in  seguito.  La  transizione  realistica  del  XiV  sec.  fu 
il  preludio  del  Rinascimento,  e  da  quel  tempo  la  tendenza  al 
realismo  è  costantemente  aumentata,  mentre  1'  avversione  all'  al- 
legoria ha  fatto  nascere  una  positiva  corrente  contraria  a  quel 
genere  di  composizione. 

E  poiché  il  pubblico  al  presente  è  mal  disposto  all'  alle- 
goria, succede  naturalmente  che  i  letteralisti  raccolgono  da 
questa  circostanza  un  certo  vantaggio  polemico.  È  uso  di  quella 
scuola  di  screditare  l' interpetrazione  allegorica  con  un  certo 
tono  sprezzante,  come  se  la  pura  allegoria  fosse  indegna  del 
soggetto  che  stiamo  considerando:  si  può  guadagnare  cosi  un 
vantaggio  temporaneo,  ma  difficilmente  esso  può  rendersi  dura- 
turo, essendo  deboli  le  fondamenta.  Giudicare  un  lavoro  del  XIII 
sec.  con  le  norme  e  i  pregiudizi  del  XIX,  è  assurdo;  deve  es- 
sere misurato  alla  stregua  del  gusto  che  prevaleva  ai  suoi  tempi, 
quando  la  composizione  allegorica  era  altamente  in  onore. 

L' autorità  del    Boccaccio  ha  cospirato    col    moderno  disgusto 
per    r  allegoria  a    favorire    il    prevalente    assenso    all'  interpetra- 
zione   letterale    della    Vita    Nuova,    poiché    la    Vita    Nuova    è   il 
campo  di  battaglia  di  questa  controversia.  Veruna  seria  differenza 
d'opinione  esiste  riguardo  alla  Beatrice  della    Divina  Coniiiiedia: 
tutti    s' accontentano    di    riconoscere    in    essa    una    figura  simbo- 
lica; ma  questa  funzione  vien  presa  dai  letteralisti  come  se  fosse 
uno  sviluppo  della  Beatrice  della  "  Vita  Nuova  „,  nella  cui  narra 
zione  essi  sostengono  che  si  tratti  di  una  persona   reale.  I  lette 
ralisti  non  negano  la  presenza  dell'  allegoria  nella  "  Vita  Nuova  „ 
ma  la   credono    un    ingrandimento    accessorio    e    lo    sviluppo    d 
una    storia    originalmente    vera    ed    umana.    Ciò    che    noi    soste 


-46- 

nianio  e  dianictralnicnto  opposto  a  questa  teoria.  La  narrazione 
è  fin  nei  suoi  germi  un'allegoria,  e  la  sua  vera  sfera  è  spirituale 
dal  principio  alla  fine;  non  pertanto  può  aver  cavato  molti  ele- 
menti dalle  circostanze  attuali  della  vita,  o  può  oflrirci  punti  di 
contatto  con  la  cronoK)gia  e  con  la  storia. 

La  "  \'ita  Nuova  „  registra  Un  conflitto,  ma  non  di  passioni 
che  hanno  la  loro  sede  nella  materia;  un  conflitto  che  era  però 
imperfettamente  inteso  da  colui,  il  quale  più  o  meno  ne  fu  il 
soggetto,  e  lo  ritrasse  in  quella  specie  di  ragionamento  figurato, 
che  più  si  avvicina  alle  sue  vaghe  impressioni;  per  conseguenza 
non  era  in  suo  potere  di  delinearlo  in  termini  propri  di  prosa 
filosofica.  Il  conflitto,  che  il  sentimento  e  la  fede  tradizionali  so- 
stengono contro  r  invadenza  intellettuale  del  raziocinio,  è  a  noi 
familiare  adesso,  e  molti,  anche  di  comune  levatura,  sono  capaci 
mercé  una  coltura  tradizionale  di  descrivere  questa  lotta  nei 
confini  riconosciuti  dell'  analisi  psicologica.  Ma  di  scritture  siffatte 
abbiamo  appena  qualche  esempio  nel  sec.  XIII,  e  certamente 
nessuno  in  linguaggi  volgari. 

Dante  ha  un  grande  concetto,  ma  non  ne  è  completamente 
padrone,  non  sa  ridurlo  ad  una  chiara  analisi;  ma  sa  dipingerlo 
in  vaghe  similitudini  di  analogia  ed  allegoria.  Questo  non  è  stato 
abbastanza  inteso  da  alcuni  sostenitori  della  interpetrazione  alle- 
gorica. Per  esempio,  il  Gietmann  è  troppo  minuzioso  nelle  ana- 
logie che  cerca  di  stabilire  fra  le  circostanze  della  storia  esteriore 
e  i  particolari  di  significato  allegorico.  È  necessario  ammettere 
che  r  allegoria  contenga  alcune  cose  che  non  possono  venire 
tradotte,  e  per  contrario  molte  altre,  che  sono  come  un  velo  alla 
indeterminatezza  del  pensiero  del  poeta.  E  appunto  perché  egli 
non  può  precisamente  spiegare,  accuratamente  delineare  e  acu- 
tamente definire  il  suo  concetto,  l'allegoria  conviene  al  suo  pen- 
siero, e  stava  pronta  pel  suo  uso,  come  l' unico  strumento  let- 
terario di  un  certo  valore  che  a  quel  tempo  era  perfetto  ed 
opportuno. 

Ciò  che  dà  importanza  a  questa  disputa  su  Beatrice  è  il  fatto, 
che  il  segreto  concetto   di    Dante  è  certamente  figurato    in  Bea- 


—  47  — 

trice.  Per  rispetto  alla  Cotiuìiedia  tutti  io  riconoscono;  ma  la 
controversia  sta  in  ciò,  che  noi  sosteniamo  ciie  Beatrice  ha  un 
solo  e  medesimo  carattere  dal  principio  alla  fine,  dalla  [irima 
pagina  della   Vita  Nuova,  al  termine  del  Paradiso. 

La  questione  di  Beatrice  è  realmente  limitata  alla  Vita  Nuova, 
e  verte  circa  la  giusta  interpretazione  di  questo  piccolo  libro  e 
la  vera  relazione  di  esso  con  la  Coniinedia.  Può  il  carattere  di 
Beatrice  essere,  come  dicono  i  letteralisti,  una  cosa  nella  Vita 
Nuova  e  un'altra  nella  Commedia?  È  dessa  una  fanciulla  in  carne 
e  ossa  nella  Vita  Nuova,  la  quale  gradatamente  diventa  una  crea- 
tura divina  nella  Coniiiiedia?  È  più  che  un'oggetto  di  curiosità  let- 
teraria r  accertare  in  quale  ordine  di  idee  fosse  realmente  il  Poeta. 

Il  presente  stato  della  disputa  è  imperfetto  al  più  alto  grado; 
il  disaccordo  nell'  opinione  minaccia  di  diventare  fazioso.  Qua- 
lunque ragionamento  è  riconosciuto  buono,  solo  se  appoggia  la 
tesi  che  lo  scrittore  sostiene;  e  le  prove  più  degne  di  fede 
sono  messe  in  dubbio  quando  attraversano  il  sentiero  del  dispu- 
tante. In  questo  modo  le  difficoltà  insite  per  natura  al  soggetto 
sono  accresciute.  Vi  sono  certamente  alcuni  fatti  che  devono 
essere  riconosciuti  indiscutibili,  e  se  questo  non  è  ammesso,  ogni 
speranza  di  progresso  negli  studi  danteschi  vien  meno.  Perciò, 
prima  di  andare  avanti  vogliamo  fissare  alcuni  punti,  che,  a  nostro 
avviso,  dovrebbero  essere  generalmente  accettati  e  messi  fuori 
di  ogni  controversia.  Senza  questa  concessione  nulla  di  sicuro 
potremo  stabilire,  e  staremo  sempre  come  sopra  una  palude  va- 
cillante, senza  poter  giungere  a  nessuna  conclusione  positiva. 

I.  —  Il  primo  sonetto  della  Vita  Nuova  è  quel  che  vuol 
essere,  cioè,  una  vera  copia  di  quel  sonetto  enigmatico,  che 
Dante  aveva  fatto  molto  tempo  prima  e  che  girava  fra  gli  amici. 
Che  fosse  cosi  divulgato  è  evidente  dalle  risposte  che  abbiamo 
tuttora  e  che  sono  accettate  da  tutti  per  genuine.  Simile  divul- 
gazione renderebbe  quasi  impossibile  qualunque  mutamento  so- 
stanziale, e  l'opinione  dello  Scartazzini  {Prolegomeni,  p.  i68),  che 
il  sonetto  abbia  da  ritenersi  probabilmente  alterato,  è  gratuita,  e 
fatta  a  posta  per  distruggere  uno  dei  punti  più  sicuri  della  ricerca. 


-48- 

2.  —  Per  la  (hniia  gentile  si  deve  intendere  doìiiia  filosofia, 
secondo  la  spiegazione  che  Dante  stesso  dà  nel  Convito.  Gli  ar- 
gomenti in  contrario  del  Witte  e  dello  Scartazzini  sono  ineffi- 
caci, o  soltanto  efficaci  a  scuotere  i  fondamenti  della  discussione. 
Noi  dobbiamo  accettare  come  pura  verità  1'  attestazione  di  Dante, 
o  accusarlo  di  falso:  non  vi  è  scampo  fra  questa  alternativa. 

3.  —  La  mirabil  visione  del  e.  43  è  identificata  con  la  Divina 
Comnicdia,  come  è  inteso  generalmente,  e  le  obbiezioni  dello 
Scartazzini  che  tendono  ad  infirmare  questo  fatto,  [Prolegomeni, 
p.  317)  non  possono  essere  ammesse. 

4.  —  Questo  punto  è  il  più  importante  di  tutti.  Dobbiamo 
scrutare  le  operazioni  mentali  di  Dante,  come  quelle  di  un  uomo 
costituito  come  noi;  negando  a  noi  stessi  questa  facoltà,  ci  di- 
chiariamo medesimamente  incapaci  di  critica.  Nessun  peso  di 
autorità  dovrebbe  indurci  ad  esitare  nel  riconoscimento  e  nel- 
r  affermazione  di  questo  diritto  naturale. 

Non  occorre  una  grande  conoscenza  della  letteratura  dantesca 
per  accorgersi,  che  tanto  gli  allegoristi  che  i  letteralisti  hanno 
molti  argomenti  plausibili  da  ciascuna  parte,  e  che  si  gli  uni  che 
gli  altri  confidano  nella  forza  delle  loro  rispettive  posizioni.  Ciò 
non  di  meno,  la  ragione  deve  stare  da  un  lato  solo.  Occorre  un 
seguito  d' argomentazioni  potenti  e  noi  crediamo  che  vi  siano 
gli  elementi  necessari,  e  riteniamo  che  la  vittoria  sarà  final- 
mente di  quella  teoria  che  si  mostrerà  più  capace  di  risolvere 
le  principali  difficoltà  e  di  mostrare  nel  sistema  del  nostro  au- 
tore un  intento  continuato  ed  un  disegno  consistente.  A  questa 
prova  avremo  qualche  volta  occasione  di  richiamarci  in  seguito. 

Lo  Scartazzini  riconosce  un  ostacolo  in  quella  parte  del  racconto, 
ove  è  detto  che  l' amante,  quando  senti  per  la  prima  volta  la  voce 
di  Beatrice,  cominciò  subito  a  disperare  della  vita  di  lei  ('). 


(')  "  Dante  salta  un  periodo  di  nove  anni,  in  capo  al  quale  periodo  rive- 
dendola ed  udendone  il  gentil  saluto,  gli  parve  di  vedere  tutti  i  termini  della 
sua  beatitudine.  Se  non  che  questa  sua  beatitudine  e  amareggiata  dal  presenti- 
mento di  morte  della  sua  donna,  che  insurge  non  sappiamo  perché  nella  mente 
del  diciotenne  poeta  „.  Prolegomeni,  p,  319. 


—  49  — 

Lo  Scartazzini  ammette  che  vi  è  un  dubbio  non  risolto,  nel- 
r  anticipare  ciie  fa  l' autore  la  morte  di  Beatrice.  Se  noi  cre- 
diamo di  leggere  un  semplice  racconto  d'  amore  giovanile,  certa- 
mente ci  sarà  difficile  di  capire  come  un  innamorato  diciottenne, 
che  ha  ricevuto  allora  allora  il  suo  primo  incoraggiamento,  possa 
in  queir  istante  medesimo  temere  per  la  vita  della  sua  donna. 
Ma  questa  difficoltà  può  essere  appianata,  accettando  la  più  an- 
tica soluzione  allegorica,  cioè  quella  che  Beatrice  sia  un  simbolo 
della  Teologia. 

Dapprima  bisogna  porre  attenzione  a  certe  circostanze  che 
Io  Scartazzini  ha  trascurate  nel  suo  breve  sommario.  Al  primo 
apparire  al  poeta  nell'  infanzia,  Beatrice  avea  una  veste  di  colore 
umile  ed  onesto,  sanguigno;  e  in  quel  tempo  l'amore  nacque,  ma 
non  vi  era  comunicazione  di  parole.  Al  secondo  incontro,  nove 
anni  dopo,  il  suo  abito  era  di  colore  bianchissimo,  ed  ella  cammi- 
nava in  mezzo  a  due  gentildonne  più  anziane  di  lei,  e  fu  allora 
che  porse  a  Dante  con  ineffabile  cortesia  quel  saluto,  che  gli  fu 
come  un  lampo  di  dolcissima  beatitudine.  Queste  particolarità  non 
devono  essere  trascurate,  perché  sono  essenziali,  e  la  storia  non 
è  la  medesima  senza  di  esse. 

11  colore  chermisi  significa  che  all'  età  di  nove  anni  la  reli- 
gione e  circonfusa  dagli  affetti;  e  il  bianco  puro  dei  diciotto  anni 
è  l'apprendimento  della  divina  verità  con  fede  illuminata;  tutto 
questo  è  anche  confermato  dall'appoggio  delle  due  donne  più 
anziane  che  sono  ai  lati  di  Beatrice,  che  certamente  stanno  a 
denotare  la  Fede  e  la  Ragione. 

E  come  i  due  incontri  sono  differenti  per  il  colore  delle  vesti 
di  Beatrice,  cosi  pure  per  i  segni  di  comunicazione  espressa  fra 
i  due  amanti.  Il  che  vuol  dire  che  a  nove  anni  non  vi  era  che 
una  fede  semplice  ed  implicita,  mentre  a  diciotto  vi  si  aggiun- 
geva altresì  un  atto  esplicito  della  ragione. 

Con  questo  risveglio  di  attività  intellettuale  l' apprensione, 
che  la  teologia  non  ha  alcun  saldo  fondamento  nel  progresso 
scientifico  di  questo  mondo,  comincia  a  fare  il  suo  primo  in- 
gresso   nella    mente    indagatrice.    Per    noi    questa    spiegazione  è 

Earle.  4 


—  50  — 

sufficiente;  tuttavia  noi  non  ci  contentiamo  della  soluzione  di 
ciascuna  difficoltà  presa  singolarmente,  ma  piuttosto  ci  affidiamo  ad 
una  serie  di  soluzioni,  le  quali  sono  potenti  non  separatamente, 
ma  combinate  insieme,  perché  ci  porgono  indizi  sicuri,  perché 
sono  organicamente  collegate  fra  loro,  ed  infine  perché  tendono 
a  stabilire  un  motivo  e  un  principio  solido  d' interpetrazione. 

Yì  è  un  pensiero  fondamentale  che  informa  tanto  la  Vita 
Xuoi'a  che  la  Divina  Coiiiinedia,  dando  ad  entrambe  una  più 
interna  unità.  Questo  pensiero  è  la  supremazia  della  Teologia 
sulla  Filosofia,  della  Fede  sopra  la  Scienza.  Noi  ci  aspettiamo 
che  qualche  lettore  ci  domandi,  se  sia  possibile  che  questo 
conflitto  fra  la  Fede  e  la  Scienza  sia  stato  sentito  fortemente 
da  Dante.  Per  la  nostra  presente  controversia  questo  è  un 
punto  di  cosi  vitale  importanza,  che  bisogna  cercare  di  to- 
gliere ogni  dubbio.  Vogliamo  perciò  addurre,  a  dilucidarlo,  due 
categorie  d'  argomentazioni,  1'  una  di  carattere  generale  riguardo 
i  tempi,  r  altra  personale,  rispetto  al  poeta.  Per  la  prima,  pos- 
siamo riferirci  ai  capitoli  in  principio  del  De  Imitatione,  che  mo- 
strano una  grande  sfiducia  nella  scienza  come  dannosa  al  senti- 
mento religioso. 

Invero  tutto  il  periodo  scolastico,  se  guardiamo  ai  suoi  punti 
culminanti,  avrà  l' apparenza  di  essere  stato  meno  un  conflitto 
fra  il  realismo  e  il  nominalismo,  che  fra  la  Fede  e  la  Scienza. 
L' una  è  quistione  solo  dottrinale  e  transitoria;  l'altra  è  una 
quistione  universale,  la  quale  dappertutto  accompagna  il  pro- 
gresso dell'  umana  coltura.  Ogni  crisi  del  periodo  scolastico 
si  aggira  su  questa  controversia.  Verso  la  fine  del  XII  sec.  vi 
fu  una  grande  reazione,  un  ritrarsi  della  mente  religiosa  dal 
movimento  razionalista,  nel  quale  il  misticismo  riguadagnò  il  suo 
dominio. 

Un  esempio  tipico  di  questa  rivoluzione  è  Alanus  de  Insulis 
(Alain  de  Lille),  il  quale,  essendo  un  famoso  maestro  nella  scuola 
di  Parigi,  uno  che  sapeva  ridurre  i  misteri  a  una  prova  mate- 
matica, subì  un  grande  mutamento,  e  da  allora  concesse  la  sua 
scienza  al  mondo,  non  per  via  di  argomenti,  ma  di  simboli  e  al- 


—  51  — 

legorie.  La  storia  della  sua  conversione  divenne  una  parabola. 
Arrivato  all'  apice  della  celebrità,  destò  grande  aspettativa,  annun- 
ziando eh'  egli  avrebbe  dimostrato  pubblicamente  il  mistero  della 
Trinità.  La  mattina  del  giorno  fissato  a  ciò  egli  passeggiava 
lungo  la  Senna,  e  vide  un  bambino  che  prendeva  l' acqua  dal 
fiume  e  la  versava  in  una  buca  nella  sabbia.  "  Cosa  fai  li,  pic- 
cino? „  "  Voglio  versare  tutta  l'acqua  in  questa  buca  finché  il 
fiume  non  sia  secco  „.  "  E  quando  avrai  finito  la  tua  bisogna, 
bimbo?  „.  Prima  che  voi  terminiate  il  disegno  che  avete  in  mente  „. 
"  Quale  disegno?  „  "  Intendete  far  parata  della  vostra  scienza 
spiegando  il  mistero  della  Trinità;  il  vostro  è  un  proponimento 
pili  difficile  del  mio  „. 

Poi  nel  sec.  XIII  segui  il  trionfo  della  Filosofia,  alla  quale 
successe  la  conciliazione  degli  elementi  discordanti;  la  quale, 
compiuta  da  due  illustri  domenicani,  Alberto  Magno  e  Tommaso 
d'  Aquino,  durò  qualche  secolo  ed  è  per  molti  ancora  soddisfa- 
cente. Ma  in  sostanza  non  è  possibile  nessuna  conciliazione  du- 
revole di  tal  fatta:  gli  interessi  che  si  suppone  accordati  sono 
divisi  alla  loro  base  da  un  abisso  insormontabile. 

Per  un'anima  credente  Dio  è  molto  vicino  e  può  da  tutti  es- 
sere conosciuto;  per  un  intelletto  nudrito  di  scienza  Egli  è  smi- 
suratamente lontano,  inaccessibile  ed  inconoscibile.  Questa  radi- 
cale differenza  era  già  saputa  dall'  autore  del  Libro  di  Job;  ar- 
deva nella  memoria  della  Chiesa  per  l'eresia  gnostica;  era  troppo 
rigidamente  rafforzata  in  pratica  da  Gregorio  il  Grande,  con  la 
sua  insistenza  sulla  profanità  di  qualunque  studio  che  non  fosse 
consacrato  dall'  autorità  della  Chiesa.  Qui  vi  sono  due  parti  in- 
conciliabili, ognuna  delle  quali  separatamente  contiene  delia  ve- 
rità, ma  si  guardano  1' un  l'altra  in  perpetua  antinomia;  e  però 
vi  deve  sempre  essere  qualcosa  di  falso  e  di  sofistico  in  qua- 
lunque sistema  che  pretenda  alla  loro  conciliazione. 

E  in  questo  consiste  la  debolezza  della  teologia  scolastica. 
Se  nel  progresso  degli  studi  si  manifestava  una  grave  scissura 
fra  la  Fede  e  la  Scienza,  naturalmente  succedeva  che  lo  zelo 
religioso  nei  dotti  bruciava  d'  ardente  desiderio  di  fare  un  ponte 


_-    52    — 

suir  abisso,  e  di  rimettere  1'  unità  e  1'  armonia  fra  le  due  grandi 
sorgenti  del  pensiero  umano.  Già  nel  XII  sec.  questo  stato  di 
cose  era  cessato.  Il  primo  grande  esempio  di  uno  sforzo  verso 
la  riconciliazione  fu  dato  in  questo  secolo  da  un  ebreo,  IVIosé 
Maimonides,  il  quale  nacque  nel  1135  e  mori  nel  1204.  Il  suo 
libro  intitolato  "  La  guida  dell'  errante  „,  fu  giudicato  dall'  Hau- 
réau  „  il  più  bel  monumento  di  filosofia  prodotto  dagli  Ebrei,  il 
loro  vero  classico,  la  cui  influenza  durò  tanto  che  ancora  splende 
nelle  pagine  dello  Spinoza  e  del  Mendelssohn  „  ('). 

Lo  stesso  secolo  produsse  due  opere  col  medesimo  titolo  di 
Sminila  Tìicologiae,  e  scritte  con  lo  stesso  scopo  :  1'  una  di  Ro- 
berto di  Melun,  e  l'altra  di  Stefano  Langton,  che  divenne  poi 
Arcivescovo  di  Canterbury.  Nel  secolo  decimoterzo,  uomini  di 
varie  scuole  e  sètte  misero  fuori  le  loro  Snmma,  e  una  degna 
di  speciale  menzione  e  che  apparve  verso  il  1225,  sotto  il  titolo 
di  Siiiiiììia  Philippi  Canccllarii,  era  di  Filippo  di  Grève,  Cancel- 
liere dell'  Università  di  Parigi.  In  queste  opere  i  metodi  filosofici 
erano  applicati  a  quistioni  teologiche,  ed  esse  tendevano  a  diven- 
tare enciclopediche.  La  Siuìinia  di  Alessandro  Hales,  il  dottore 
irrefragabile,  nativo  di  Gloucestershire,  e  che  mori  nel  1245, 
crebbe  a  tali  proporzioni  per  la  elaborazione  successiva  di  altre 
mani,  che  Ruggero  Bacone,  fiorito  nella  seguente  generazione, 
diceva  che  era  plus  quam  pondiis  iiniiis  equi.  Ma  nonostante  que- 
sta lunga  serie  di  esperimenti,  quando  Alberto  Magno  intraprese 
il  medesimo  compito,  iniziò  una  nuova  èra  nella  teologia  filoso- 
fica, e  l'opera  che  lo  rese  cosi  celebre  fu  compiuta  dal  suo  di- 
scepolo Tommaso  d' Aquino  al  punto,  che  non  rimase  nulla  da 
aggiungere  in  questo  campo  ai  cultori  che  vennero  dopo.  Alberto 
Magno  e  Tommaso  d'Aquino  sono  in  teologia  le  autorità  di 
Dante,  che  sta  ai  loro  piedi. 

Non  per  questo  però  egli  si  lascia  preoccupare  dalla  loro 
sottigliezza,  né  abbagliare  dal  loro  splendore;  egli  serba    la  pro- 


I*    Histoire  de  la  Phiiosophie  Scolastique,  Paris,   i38o,  par.  II,  p.  43. 


—  53  — 

pria  indipendenza  di  pensiero  e  di  giudizio.  Egli  intuisce  l' im- 
possibilità naturale  di  un  completo  accordo  fra  la  Teologia  e  la 
Filosofia;  pure  ammirandole  ambedue,  una  solane  predilige.  Egli 
sa  che  la  Filosofia  è  di  questo  mondo,  non  cosi  la  Teologia. 
Questa  terra  non  può  essere  la  dimora  stabile  per  la  sua  donna 
prediletta,  essa  deve  essere  trasportata  in  altra  sfera,  deve  in- 
fatti morire;  ma  egli  non  cessa  perciò  di  essere  fedele  a  lei, 
quantunque  per  qualche  momento  possa  essere  sedotto  e  tra- 
viato. Una  volta  infatti  dopo  la  sua  sparizione  il  suo  pensiero  le 
fu  infedele,  ed  egli  s'innamorò  della  Filosofia;  ma  dopo  alcun 
tempo  si  penti  e  tornò  al  suo  primo  amore,  1'  unico  nel  quale  la 
sua  anima  trovasse  soddisfazione  e  pace.  Dante  più  che  cono- 
scere, forse  sentiva  che  la  Scienza  non  può  mai  supplire  la  re- 
ligione, né  sostituirsi  ad  essa,  ma  che  tuttavia  può  essere  utile, 
promovendo  un  esame  critico  di  dottrine,  che  si  connettono  più 
o  meno  da  vicino  con  la  religione. 

Cosi  abbiamo  cercato  di  dimostrare,  con  una  scorsa  generale 
fra  le  controversie  di  quel  tempo,  che  il  conflitto  tra  fede  e 
scienza  era  grave  e  dominava  le  menti  dei  pensatori. 

Adesso  passiamo  alla  prova  particolare  data  dagli  scritti  di 
Dante,  e  che  formerà  la  seconda  parte  della  nostra  argomenta- 
zione. Otterremo  maggior  chiarezza,  accomodando  i  nostri  esempi 
su  di  un  disegno  ben  definito,  e  illustrando  questa  parte  dell'  ar- 
gomentazione: 1°  con  la  Vita  Nuova,  2"  con  la  Coììììucdia,  3"  con 
r  una  e  1'  altra  di  queste  due  opere. 

Cominciamo  dalla  Vita  Nuova,  e  vediamo  come  in  essa  sia 
evidente  la  supremazia  della  Teologia.  Prima  di  tutto,  vi  è  de- 
scritta quella  scena,  nella  quale  Dante  essendo  in  chiesa  guardava 
Beatrice,  ma  parve  agli  osservatori  eh'  egli  guardasse  un'  altra 
donna,  che  stava  in  linea  retta  fra  il  suo  occhio  e  il  vero  og- 
getto della  sua  attenzione.  Il  secondo  quadro  è  dove  la  bella 
Giovanna  —  per  la  sua  freschezza  chiamata  Primavera  —  fu 
vista  passeggiare  precedendo  Beatrice.  Il  terzo  è  quando,  dopo 
la  morte  di  Beatrice,  lo  sguardo  compassionevole  di  quella  donna 
alla  finestra    consolò  1'  afflitto  innamorato,  e  dopo  egli  vergognan- 


—  54  — 

dosi  della  sua  infedeltà,  tornò  al  suo  primo  amore  eon  nuova 
intensità  di  passione.  Queste  tre  scene  sono  tre  emblemi,  posti 
simmetricamente  in  ciascuna  delle  tre  partizioni  di  qursU)  li- 
bricino. 

Queste  pitture  emblematiche  esprimono  con  vari  aspetti  la 
suprema  eccellenza  della  Teologia,  nonostante  l'incanto  quasi 
irresistibile  della  Filosofia.  Qui  noteremo  il  grado  di  certezza  al 
quale  possono  arrivare  le  immagini,  quando  sono  in  questo  modo 
ripetute,  poste  e  variate. 

Cosi  viene  offerto  un  compenso,  per  la  dubbiezza  della  storia 
allegorica,  al  lettore  circospetto,  a  chi  lo  iìitcìidc  (  Vita  Nuova, 
cap.  7-8).  Il  metodo  è  scritturale  e  apocalittico  e  potrebbe  essere 
illustrato  dal  Libro  di  Daniele  e  dall'  Apocalisse,  se  lo  spazio  lo 
permettesse. 

Noi  intendiamo  che  un  importante  scopo  possa  celarsi  nel- 
l'adozione di  questo  metodo  ternario.  Sembra  infatti  che  sia  stato 
adoperato  affinché  una  guida  al  segreto  intendimento  possa  rin- 
tracciarsi nell'oscurità  della  velata  allegoria.  Per  mezzo  di  que- 
sto metodo  apocalittico  è  stato  provveduto  ad  una  via  sicura 
d' interpetrazione,  e  forse  l'unica  che  può  alla  fine  assicurare 
l'accordo  unanime  fra  i  commentatori.  Questo  è  un  punto  che  va 
illustrato  con  un  esempio.  Uno  dei  passi  più  discussi  è  quello 
risguardante  la  donna  alla  finestra.  Il  Witte  è  cosi  convinto  che 
fosse  realmente  una  gentildonna  fiorentina,  eh'  egli  si  sforza  di 
confutare  il  preciso  racconto  di  Dante,  che  gli  sta  contro,  nel 
Convito.  Questa  attitudine  cosi  sicura  è  basata  sulla  forma,  la  con- 
creta e  palpabile  forma  della  descrizione  originale  nella  Vita  Nuova. 
Quando  un  critico  si  pianta  risolutamente  su  un  terreno  sogget- 
tivo, difficilmente  può  esserne  scacciato,  tranne  che  da  una  prova 
di  natura  anche  più  esteriore.  E  di  nessun  profitto  trar  fuori 
impressioni  soggettive  di  allegoria  contro  soggettive  impressioni 
di  fatto.  Ma  quando  si  scopre  che  questo  è  il  terzo  di  una  serie 
sistematicamente  distribuita  di  quadri  emblematici  rappresentanti 
lo  stesso  sentimento  sotto  vari  aspetti,  e  quel  sentimento  appunto 
asserito  da  colui  che  meglio  doveva    conoscerlo,    la    tenacità  dei 


—  55  — 

più  illustri  veterani  non  deve  vergognarsi  di  arrendersi.  Questo 
è  un  esempio  di  quel  che  si  possa  sperare  dall'  apocalittica  guida 
d' interpetrazione  che  1'  autore  ha  provveduto. 

Nella  Coiìiinedia  le  relazioni  fra  la  fede  e  la  Ragione  e  le 
loro  diverse  parti  sono  ripetutamente  accennate  e  variamente 
illustrate,  come  nel  Purg.  Ili,  34-36;  XXXI,  iii.  Ma  noi  desi- 
deriamo richiamare  l' attenzione  su  alcune  prove  fino  adesso 
trascurate.  Al  principio  del  poema  il  mistico  pellegrino  sì  perde 
in  una  foresta  di  confusione,  e  quando  finalmente  si  leva  e  vede 
dinanzi  a  sé  le  serene  cime  della  Scienza,  egli  seguita  con  fatica 
a  salire.  Che  //  dilettoso  monte  significhi  il  colle  della  Scienza  di- 
mostrativa, è  chiaro  dal  verso: 

„  Si  che  il  pie  fermo  sempre  era  il  più  basso   „. 

Il  punto  più  basso  è  il  più  stabile  nella  dimostrazione,  perché 
Te  proposizioni  che  sostengono  l'edificio  dell'argomento  sono  per 
certo  le  più  basse,  fintanto  che  si  giunge  ai  fondamenti  che  sono 
i  più  sicuri  di  tutti,  poiché  consistono  di  assiomatiche  verità. 
E  che  questo  verso  richieda  siffatta  interpetrazione  è  confermato 
in  modo  molto  importante.  I  commentatori  differiscono  circa  il 
senso  materiale  di  esso,  quanto  ad  intenderlo  come  una  descri- 
zione meccanica  di  una  salita,  e  forse  non  del  tutto  esatta;  ma 
per  l'allegoria  è  quasi  sufficiente:  il  poeta  pensava  più  al  suo 
significato  allegorico  che  al  letterale. 

Ora  il  cammino  gli  è  chiuso  dal  terrore  di  bestie  feroci;  poi 
il  suo  procedere  è  disviato  dall'  ambasciata  di  Beatrice  e  dalla 
scorta  di  Virgilio.  Egli  è  tolto  dall'  orgogliosa  ambizione  della 
Scienza,  e  messo  per  una  strada  che  lo  condurrà  a  Beatrice. 
In  altri  termini  egli  abbandona  il  sentiero  della  Sapienza  per 
quello  dell'  Amore.  Qui  possiamo  ricordare  quelle  parole  di 
S.  Paolo:  La  Scienza  esalta,  ma  l' amore  edifica,  e  una  sentenza 
di  Alberto  Magno:  La  Filosofia  è  la  voce  della  Scienza,  ma  la 
Teologia  quella  dell'  amore.  Il  pellegrino  sta  per  giungere  al  dif- 
ficile passo,  perché  //  timore  del  Signore  è  il  principio  della  sa- 
pienza. Là  felicità  cercata,  è  quella  che  si  appunta  nella  Scienza. 


-56- 

Avendo  passato  le  due  regioni  dei  divini  giudizi,  egli  viene  a 
parlare  di  Beatrice  nel  Purg.  XXX,  73  ;  con  un  luminoso  verso 
che  saluta  (.la  lontano,  e  che  ci  pone  in  immediata  continuità  col 
Prologo  : 

Guardaci  ben,  ben  sem,  ben  som  Beatrice. 

"  Io  sono  infatti  Beatrice,  che  ti  richiama  da  quella  orgogliosa 
e  presuntuosa  via,  quando  volevi  in  verità  scalare  il  monte  della 
Scienza,  e  io  sono  quella  che  ti  ho  portato  in  questo  paradiso 
terrestre,  che  (come  dovevi  sapere,  e  infatti  sapevi)  è  la  vera 
sede  dell'  umana  felicità.  „  Questo  è  il  significato  della  terzina 
che  ha  tanto  tormentato  i  commentatori  e  dalla  quale  non  hanno 
ancora  tratto  un  senso  ragionevole. 

Sul  verso  74  lo  Scartazzini  ha  condensato  in  due  fitte  pagine 
di  carattere  minuto  le  suggestioni  degli  interpreti,  dalle  quali 
scegliendo  la  migliore,  si  arriva  alla  conclusione,  che  il  verso 
è  ironico!  Nulla  è  più  alieno  dalla  situazione  in  cui  si  trova  il 
Poeta;  il  rimprovero  è  a  posto,  ma  non  la  derisione.  E  poi  il 
mostruoso  accozzo  che  farebbe  coi  versi  seguenti: 

Come  degnasti  di  accedere  al  monte? 
Non  sapei  tu  che  qui  é  1'  uom  felice? 

La  seconda  domanda  renderebbe  vana  la  prima,  e  a  nessuno 
è  riuscito  di  stabilire  una  sensato  nesso  fra  loro.  La  spiegazione 
comune  è  davvero  molto  imperfetta,  cioè,  che  il  primo  verso 
sia  ironico  il  secondo  serio.  Tutta  questa  esegesi  si  poggia  sulla 
sbagliata  opinione  che  il  monte  di  cui  si  parla  sia  quello  sul 
quale  si  trova  Beatrice.  Per  provare  che  questo  è  erroneo  basta 
solo  osservare  che  l' enfatico  (jiii  del  verso  75  è  antitesi  a 
//  monte,  e  perciò  il  monte  accennato  deve  essere  qualche  cosa 
di  diverso  dal  luogo  in  cui  si  svolge  la  scena  presente.  Il  monte 
indicato  non  è  //  sacro  monte,  Purg.  XIX,  38,  chiamato  anche 
//  santo  monte  XXVIII,  12,  ma  è  //  dilettoso  monte  del  Prologo. 
Si  ammetta  questo  e  tutte  le    difficoltà    svaniranno  e    si  vedrà  a 


—  57  — 

bella  prima  che  nel  Canto  seguente,  XXXI,  28-30,  il  poeta  ha, 
secondo  un  metodo  favorito,  espresso  in  altri  termini  il  senso  di 
questo  verso  enigmatico,  stemperandolo  in  una  terzina. 

Yl  sono  forti  indicazioni,  benché  alcune  nascoste,  che  Dante 
riguardava  il  verso  Giianhìci  hcn,  come  una  chiave.  Questo  è  il 
verso  centrale  del  Canto,  e  il  suo  numero  è  il  73,  ogni  cifra  del 
quale  e  di  valore  sacro,  e  la  loro  somma  forma  il  numero  per- 
fetto IO.  Da  ogni  lato  di  questo  centro  i  versi  sono  72,  e  qui  le 
cifre  sommano  a  9.  11  numero  del  Canto  nella  Cantica  è  30,  un 
multiplo  sacro  del  numero  perfetto.  Né  questo  è  tutto:  il  numero 
di  questo  Canto  principale  fra  i  100  Canti  del  poema  è  64,  dove 
le  cifre  sommano  a  io;  ha  63  Canti  avanti  a  sé  e  36  dopo,  nei 
quali  due  numeri  le  cifre  fanno  9. 

Queste  simmetrie  aritmetiche  non  devono  essere  sprezzate 
dalla  critica  che  vorrebbe  penetrare  nel  pensiero  di  Dante,  per- 
ché sono  perfettamente  dantesche,  ed  erano  senza  dubbio  di 
vera  utilità  a  lui  stesso  nella  costruzione  dell'  edifizio  della  sua 
grande  opera,  né  vi  è  bisogno  di  dubitare  che  fossero  anche 
destinate  a  futuri  iìli  conduttori,  per  ricompensare  quelli  che 
s' ingegnassero  attentamente  di  scoprirle.  A  noi  sembrano  dire 
che  qui,  Purg.  XXX,  73-5,  è  depositata  la  chiave  che  potrebbe 
aprirci  le  segrete  origini  di  questo  grande  argomento;  poiché 
questo  passo  ci  rimanda  a  un  punto  che  sta  fuori  del  poema,  e 
prima  del  suo  principio.  È  implicito  che  il  pellegrino  si  è  mosso 
alla  ricerca  della  felicità,  e  che  egli  aveva  stabilito  i  suoi  piani 
non  saggiamente,  anzi  perfino  perversamente.  Il  rimprovero  di 
Beatrice  colpisce  la  primitiva  risoluzione  che  sta  dietro  1'  azione 
del  poema:  "  Perché  hai  voluto  andare  al  monte?  Non  sapevi  tu 
che  qui  è  la  sede  della  felicità?  „ 

Il  motivo  manifesto  del  suo  muoversi  era  di  trovare  la  felicità, 
ed  egli  sapeva  che  questa  non  si  trovava  sul  colle  della  Scienza: 
chiunque  altro  può  sperare  di  trovarla  ivi,  egli  no.  Perciò  la  sua 
decisione  era  contro  la  sua  migliore  opinione;  egli  aveva  peccato 
contro  la  sua  intelligenza,  ed  egli  era  stato  liberato  dalle  conse- 
guenze del  suo  errore;  e  qui  e'  era    ragione   abbastanza    per  co- 


-58- 

minciare  con  rimprovero,  ma  non  con  ironia!  Ci  sembra  fuori 
dubbio  che,  spogliata  dell'  allegoria,  la  vera  accusa  sia  questa, 
che  egli  cioè  aveva  negletto  la  Teologia  per  correr  dietro  alla 
Filosofia.  Se  questa  fosse  la  vera  soluzione  di  un'antica  diflìcoltà 
allora  sarebbe  un  saldo  appoggio  all'  opinione  nostra,  che  il  pen- 
siero fondamentale  di  Dante  è  la  supremazia  della  Fede.  Il  poeta 
descrivendo  l' umana  ricerca  della  scienza,  che  è  la  medesima 
cosa  della  felicità,  ha  assegnato  un  uftìcio  secondario  a  quella 
filosofia,  che  è  la  voce  della  scienza,  e  ha  riservato  il  più  alto 
posto  per  la  Teologia  che  è  la  voce  dell'Amore.  Il  suo  giudizio 
si  trova  in  uno  dei  più  profondi  poemi  del  nostro  secolo: 

"  Who  loves  not  Knowledge  ?  Who  shall  rail 
Against  her  beauty  ?  May  she  mix 
With  men  and  prosper  !  Who  shall  fix 
Her  pillars  ?  Let  her  vvork  prevali. 


.     .     .     Let  her  Know  her  place; 
She  is  the  second,  not  the  first  ('). 


Avendo  dimostrato  adesso  che  questo  è  un  pensiero  fondamen- 
tale nella  Commedia,  come  nella  Vita  Nuova,  resta  da  provare 
lo  stesso  con  argomenti  presi  dalle  due  opere  insieme.  La  tra- 
scendente natura  della  Teologia  è  il  segreto  pernio  del  movi- 
mento nella  Vita  Nuova;  ma  se  contempliamo  questo  libriccino 
in  relazione  con  la  Commedia,  troveremo  allora  che  è  manife- 
stamente il  principio  che  dà  unità  a  queste  due  opere.  La  natura 
della  Teologia  che  tutto  abbraccia  è  rappresentata  al  principio 
della  Vita  Nuova  dall'  amore  neh'  età  infantile,  e  nuovamente 
viene  ritratta  alla  fine  del  Paradiso  dall'  umana  apprensione  della 
Natura  Divina,  per  mezzo  di  una  misteriosa  intuizione  senza 
r  aiuto  di  argomento  dialettico.  Tra  questi  estremi  poli  —  il  primo 
avanti  che  sia  sviluppato  l'intelletto,  l'altro  dopo  che  il  suo 
corso  è  finito,  —  i  due  lavori  sono    inclusi,  e  il  pensiero    fonda- 


(')  Tennyson   —   In  vtenioriam,  cxiv. 


—  59  — 

mentale  di  tutto  il  disegno  è  manifesto,  fuori  di  ogni  possibile 
errore. 

Il  sistema  allegorico  di  Dante  si  concentra  su  Beatrice.  E  per 
la  giusta  esegesi  di  Beatrice  è  bene  ricordare  questo,  che  l' idea 
che  rappresenta,  per  quanto  vera,  non  è  improntata  di  rigida 
uniformità.  Come  la  luna,  essa  ha  le  sue  fasi;  i  suoi  aspetti  va- 
riano con  la  stagione  e  le  occasioni,  ma  la  variazione  di  essi  è 
senza  incostanze,  poiché  tutti  naturalmente  si  fondono  in  una 
verità  principale  e  comprensiva.  La  sua  figura  ricorda  quella 
della  Filosofìa  in  Boezio:   — 

"  Statura  discrctioìiis  aìiihiguac.  Nam  mine  quidoìi  ad  comnm- 
ìicììi  scse  hoiìiiììiinn  moisurani  coìiibebat,  mine  vero  pulsare  cacliun 
atiiiiiin  ver  tic  is  cacii/iii/ie  videbatiir  ;  qnae  cinn  eapiit  altiiis  extulis- 
set,  ipsiiiìi  ctiam  caelitiii  pciictrabat,  respicieìitiiuiique  lioìiiiinui  fra- 
strabatiir  intuitimi  ('). 

Quando  diciamo  che  Beatrice  rappresenta  la  Teologia,  non 
intendiamo  con  ciò  la  Teologia  scolastica,  che  era  assimilata 
quanto  più  possibilmente  alla  Scienza  e  alla  Filosofia.  No,  la 
Teologia  intesa  qui  è  precisamente  quella  che  è  distinta  dalla 
scienza  dimostrativa,  nò  conformabile  ad  essa.  Non  è  la  Teo- 
logia come  sistema  dialettico,  ma  come  principio  di  convinzione, 
il  principio  della  Fede;  e  ciò  è  reso  manifesto  dall'identifica- 
zione di  Beatrice  con  la  Chiesa  di  Cristo,  Che  simile  identifica- 
zione sia  intesa  dall'  autore  della  Vita  Nuova  è  un  punto  che 
non  possiamo  lasciare  nell'incertezza.  Quali  che  siano  i  vari 
aspetti  di  Beatrice,  essi  tutti  si  confondono  nella  Chiesa  come 
nella  loro  unità  collettiva;  e  vi  sono  passi  notevolissimi  da  cui 
questa  stessa  idea  emerge  in  tutta  la  sua  integrità  e  pienezza. 
Questo  è  il  significato  di  quegli  attributi  superumani  che  sono 
profusi  su  Beatrice,  e  dei  quali  il  D'Ancona  crede  che  basti  dire: 
Nella  ardente  fantasia  del  poeta,  l'  amata  diventa  un  essere  supe- 
riore all'  umana  condizione  (").  Essa  è  un  nuovo  e  gentile  miracolo 


(')  De  Consolatione  Philosophiae,  I.   i. 
\j)  D'  ANCONA  —    Vita  Nuova,  p.  xxxiv. 


—  6o  — 

che  Dio  ha  donato  al  mondo,  e  che  i  santi  nell'  alto  del  cielo 
reclamano  a  voce  alta;  essa  è  un  tipo  vivente  della  perfetta  bel- 
lezza, fisica  e  morale;  Dio  intende  di  far  di  lei  una  cosa  nuova/ 
passando  fra  la  folla,  essa  spande  intorno  a  sé  una  strana  e 
soprannaturale  fragranza,  uno  spirito  divino  d'amore,  d'umiltà, 
di  pace.  I  letteralisti  non  sono  mai  cosi  impacciati  come  di  fronte 
a  questi  attributi,  che  per  loro  non  sono  altro  se  non  appassio- 
nate esagerazioni.  Noi  al  contrario  sosteniamo  che  queste  sublimi 
espressioni  sono  interamente  immuni  di  esagerazione,  che  esse 
convenientemente  corrispondono  alla  Chiesa  di  Cristo,  secondo 
l'idea  che  l'autore  aveva  nella  sua  mente;  e  perciò  non  pos- 
siamo accordarci  col  Prof,  d' Ancona,  che  basti  cioè  a  spiegarle 
pienamente  la  sua  formola:  AV/A?  ardente  faìdasia  del  poeta,  l'  aiìiaia 
diventa  un  essere  superiore  all'  iiììiaiia  condizione. 

Tale  interpetrazione  presume  che  il  vero  soggetto  del  discorso 
non  sia  affatto  sovrumano,  ma  soltanto  cosi  rappresentato  da  un 
ardente  imaginazione,  che  trasporta  il  poeta  al  di  là  dei  limiti 
del  senso  comune,  per  dar  la  stura  ad  una  rapsodia  che  non  può 
essere  in  nessun  modo  ridotta  ad  un  qualche  significato  reale. 
Simile  commento  ha  perciò  per  effetto  di  accusare  Dante  di  un 
basso  artifizio  di  composizione  rettorica,  che  egli  in  anticipa- 
zione ha  ripudiato,  poiché  cosi  intendiamo  lo  sdegnoso  passo: 
Grande  vergogna  sarebbe  a  colui  che  rimasse  cosa  sotto  forma  di 
figura  o  di  colore  rettorico,  e  poscia  dotnandaio  non  sapesse  dinu- 
dare le  sue  parole  da  cotal  veste,  in  guisa  che  avessero  verace  in- 
tendimento. E  (jucsto  mio  primo  amico  ed  io,  ne  sapemo  bene  di 
quelli  che  cosi  rimano  stoltamente  ('). 

Si  potrebbe,  usando  una  forma  indiretta  di  discorso,  più  en- 
faticamente negare  la  frivolezza  di  scherzare  con  lo  stile  figurato? 
Certamente  il  Biscioni  aveva  ragione,  quando  suggerì  che  questo 
passo  era  destinato  da  Dante  ad  ammonire  1'  attento  lettore. 

Ma  fortunatamente  possiamo  giustificare  questi  attributi  di 
Beatrice  con  un  esempio  di  grande  rilievo,    nell'  esposizione    del 


(■)   Vita  Nuova  e.  xxxv. 


—  6i  — 

quale  un'altra  delle  precipue  ditTicoItà  sarà,  sperianic»,  schia- 
rita. Non  vi  e  esempio  nel  quale  1'  esagerazione  paia  più  smisu- 
rata, che  quando  vien  detto  di  Beatrice  nella  prima  canzone,  che 
al  Cielo  non  manca  se  non  lei,  e  che  il  Cielo  non  ha  altri  difetti 
se  non  quello  causato  dalla  sua  mancanza. 

Se  questo  non  potesse  spiegarsi  altrimenti  che  come  un'  effu- 
sione tlcir  ardente  fantasia,  sarebbe  una  frenesia  strana  senza  re- 
gola né  legge,  qualche  cosa  che  non  ha  posto  nell'arte;  e  in  questo 
caso  si  potrebbe  esser  costretti  a  cercar  rifugio  nella  proposta 
del  D'  Ancona,  che  sostiene  davvero,  che  la  J'i/a  Nova  itoti  è  un 
prodotto  dell'  arte,  ma  semplicemente  dell'  ispirazione.  Non  ci  fer- 
meremo a  domandare  se  l' arte  e  l' ispirazione  siano  inconcilia- 
bili, poiché  il  rifugio  è  solo  ipotetico,  e  non  temiamo  di  dovervi 
ricorrere. 

Il  modo  con  cui  lo  Scartazzini  tratta  questa  difficoltà  della 
prima  canzone,  è  piuttosto  leggero.  Egli  dice  così:  —  "  Questa 
canzone  contiene  veramente  alcuni  passi  oscuri  ed  enigmatici; 
del  resto  essa  non  oltrepassa  i  limiti  dell'  umano.  Se  un  amante 
dice  che  l' idolo  suo  è  desiderato  in  cielo,  al  quale  esso  solo 
manca,  non  si  può  negare  essere  questa  un'  esagerazione  un 
po'  forte.  Eppure  esagerazioni  consimili  non  sono  insolite  nella 
poesia  erotica  „  ('). 

Non  lo  sono?  Il  critico  non  adduce  un  solo  esempio  parallelo; 
omissione  che  non  possiamo  fìngere  di  deplorare,  perchè  nep- 
pure un  mucchio  di  esempi  avrebbe  potuto  rendere  accetta  la  sua 
argomentazione.  Egli  è  completamente  fuori  di  traccia,  perché  in 
questo  caso  non  si  tratta  di  esagerazione.  L' intenzione  di  Dante 
è  affatto  sobria,  basata  su  buone  autorità  e  suscettibile  di  esser 
provata. 

Era  una  dottrina  accettata  dai  teologi  medioevali,  che  la  crea- 
zione dell'  uomo  fosse  destinata  a  riempire  il  vuoto  causato  dal- 
l'espulsione  degli  angeli  ribelli;  e  che  la  Chiesa  sia  l' istrumento 


(')  Prolegomeni  p.  172. 


—    62    — 

pel  quale  gli  ordini  celesti  hanno  da  ricuperare  il  loro  dovuto 
compimento.  Questa  credenza  è  accer.nata  da  Dante  nel  Con- 
vito (').  Cosi  che  noi  abbiamo  qui  un  fondo  ortodosso  per  1'  as- 
serzione che  il  Cielo  non  manca  che  di  Beatrice,  solo  se  suppo- 
niamo che  nella  figura  di  Beatrice  Dante  avesse  in  pensiero  la 
Chiesa. 

È  la  variabilità  nel  simbolismo  dei  suoi  principali  caratteri  che 
inganna  il  commentatore  di  Dante.  Abbiamo  visto  che  nella  prima 
Canzone  Beatrice  è  la  Chiesa  arzlùK,  semplicemente  e  piena- 
mente. Nel  X  del  Paradiso,  d' altra  parte,  essa  rappresenta  la 
Chiesa  non  in  questo  modo  generico,  ma  in  una  sua  fase,  cioè 
come  la  manifestazione  della  Potenza  di  Dio.  Fondati  suW Apocal. 
XII.  I,  dove  si  è  sempre  creduto  che  la  donna  nel  sole  figurasse 
la  Chiesa,  questo  e  i  canti  seguenti  sono  stati  influenzati  nella  loro 
genesi  dalle  parole  di  S.  Paolo:  (')  "  Acciocché  nel  tempo  pre- 
sente sia  data  a  conoscere  ai  principati  e  alle  podestà,  nei  luoghi 
celesti,  per  la  chiesa,  la  molto  varia  sapienza  di  Dio.  „ 

Una  simile  variazione  accompagna  il  carattere  dell'  Amore 
nella  Vi'ia  Alitava.  In  alcuni  punti  esso  non  è  che  la  personifica- 
zione dell'  ardore  di  Dante,  in  altri  è  invece  il  Cristo,  come  nel 
e.  12,  dove,  se  ammettiamo  questo  più  alto  valore  simbolico, 
sparisce  ogni  difficoltà  in  quella  misteriosa  espressione:  Ego 
tanquaìii  ceiitrum  circuii,  cui  simili  modo  se  habciit  circnmferentiae 
partes;  tu  autem  non  sic. 

Se  sosteniamo  che  1'  essenziale  natura  della  Vita  Nuova  è 
allegorica,  la  quistione  se  Beatrice  fosse  realmente  una  persona 
che  Dante  amò  non  viene  né  affermata  né  negata.  Noi  non  pro- 
pugnamo  la  negativa,  perché  è  naturale  anzi  che  no,  di  supporre 
che  delle  tenere  memorie  abbiano  animata  la  penna  dell'  autore. 
Ma  se  una  volta  ci  si  accerta  che  il  libro  è  essenzialmente  un'  al- 
legoria, allora  l' interesse  di  questa  quistione  diventa  secondario. 
Che   differenza  farebbe  nel  nostro  giudizio  intorno  al  Pilgrini  's 


(')  li.  6. 

O    III.    IO. 


-  63  - 

P/ogrcss,  se  si  potesse  sapere,  cosa  di  cui  infatti  si  può  appena 
dubitare,  che  le  scene  e  i  casi  della  vita  di  Bunyan  vi  sono 
rappresentati?  Non  per  questo  sarebbe  meno  un'allegoria. 

Proviamoci  adesso  a  tradurre  l'allegoria,  non  linea  per  linea 
e  parola  per  parola,  ma  liberamente,  tenendo  conto  non  solo  di 
quel  che  sembra  voglia  dire,  ma  di  quello  altresì  che  sembra 
suggerire.  Al  tempo  stesso  non  cercheremo  di  toglierle  del  tutto 
quel  cliiaroscnro  di  allegoria,  esponendola  alla  luce  di  una  realtà 
ordinaria.  Forse  vi  sono  dei  punti  che  non  hanno  nessun  intimo 
significato  e  che  non  appartengono  all'  allegoria,  ma  soltanto  alla 
parte  esteriore,  aggiunti  unicamente  per  mandare  avanti  la  storia 
e  darle  una  verosomiglianza.  Altri  punti  ci  sembrano  pieni  di  un 
significato  spirituale  e  non  di  meno  non  possiamo  assegnare  ad 
essi  alcuna  certezza.  Di  questa  specie  è  il  bel  corso  di  acqua  lim- 
pida, che  in  due  occasioni  (  cap.  IX  e  XIX  )  scorre  lungo  la  via 
del  nostro  pellegrino. 

Vogliamo  perciò  soltanto  disegnare  alcuni  contorni  principali, 
lasciando  ancora  una  parte  del  campo  da  esplorare  ai  lettori 
diligenti. 

I.  Alla  fine  del  mio  nono  anno  provai  forti  impressioni  di 
religione.  Era  il  tempo  della  mia  Confermazione  e  della  prima 
Communione.  Ero  pieno  di  reverenza  per  le  mirabili  verità  infuse 
nella  mia  mente  da  quelli  che  più  amavo;  e  tutto  il  mio  essere 
era  infiammato  dal  roseo  splendore  di  un  primo  amore.  I  miei 
sentimenti  erano  estatici  ma  costanti;  e  quel  tempo  segna  il  prin- 
cipio di  una  Vita  Nuova. 

"  Da  quel  tempo  in  poi  ero  cosi  compiutamente  sotto  l' in- 
fluenza di  quel  divino  principio,  che  1'  anima  mia  era  come  spo- 
sata all'  amore  celeste,  ed  era  nei  precetti  e  nei  comandamenti 
della  Chiesa  che  questa  passione  trovava  il  suo  proprio  sodisfa- 
cimento.  Spesse  volte  questa  mi  conduceva  alla  congregazione 
dei  fedeli,  dove  avevo  incontri  col  mio  giovane  angelo,  e  questi 
incontri  erano  cosi  soavi  che  in  tutta  la  mia  infanzia  sarei  andato 
frequentemente  in  cerca  di  un    rinnovamento  di  questi  piaceri,  e 


-  64- 

scorgevo  lei  cosi  nobile  e  ammirabile  in  tutti  i  suoi  portamenti 
che  di  lei  si  poteva  sicuramente  dire  il  detto  di  Omero:  "  Non 
sembrava  figlia  di  un  mortale,  ma  di  Dio  „.  Con  tutto  ciò  la 
mia  religione  non  era  atìatto  fanatismo  ;  ma  ovunque  si  facesse 
sentire  la  voce  della  Ragione,  io  sempre  prestavo  l' orecchio 
attentamente.  Di  queste  reminiscenze  voglio  però  ricordare  sol- 
tanto alcuni  punti  principali,  quelli  che  nel  mio  libro  di  ricordi 
sono  indicati  sotto  grandi  paragrafi. 

"  Coni'  io  crebbi  in  età,  le  tinte  cambiarono.  La  rosea  luce  della 
commozione  si  mutò  impercettibilmente  nella  luce  bianca  della 
fede  intellettuale.  Ogni  giorno  che  passava  pareva  mi  aprisse 
qualche  nuova,  spirituale,  intima  conoscenza;  e  ciò  che  da  prin- 
cipio soltanto  mi  era  stato  rivelato  dagli  affetti,  pareva  adesso  lo 
comprendessi  per  mezzo  dell'  intelletto.  Nuova  luce  ed  orizzonti 
più  vasti  mi  erano  concessi  ogni  tanto,  simili  ad  un  grazioso 
saluto  di  qualche  essere  superiore.  Se  penso  al  passato,  mi  pare 
che  la  mia  Religione  era  sorretta  da  una  parte  dalla  Fede,  dal- 
l' altra  dalla  Ragione.  Cosi  sembra  fosse  lo  stato  della  mia  mente 
nel  mio  diciottesimo  anno.  Mi  proposi  di  fare  della  religione  la 
principale  aspirazione  della  mia  vita.  Per  fortificarmi  in  questa 
risoluzione,  feci  un  enigmatico  sonetto  a  guisa  di  visione,  e  lo 
mandai  ad  amici  poeti.  Alcuni  di  essi  risposero,  ed  uno  mi  so- 
migliava vagamente  nei  miei  sentimenti;  ma  però  non  ci  fu  al- 
cuno che  avesse  la  più  remota  idea  della  mia  intenzione  a  quel- 
r  epoca.  In  quell'  enigmatico  sonetto  dedicavo  il  mio  cuore  alla 
religione  e  alla  Chiesa. 

"  Mi  applicai  talmente  allo  studio  della  sacra  letteratura  che 
i  miei  spiriti  animali  cominciarono  a  languire,  e  divenni  cosi 
emaciato  che  i  miei  amici  s'impensierirono  di  me;  mentre  altri, 
con  intento  punto  gentile,  si  davano  attorno  per  penetrare  il  mio 
segreto.  Essendomi  accorto  della  natura  della  loro  curiosità,  e 
desiderando  di  essere  ad  un  tempo  gentile  e  cauto,  dissi  loro  che 
Amore  mi  aveva  preso.  Quando  la  loro  curiosità  li  spinse  pili 
avanti  per  chiedere  dell'  oggetto  del  mio  amore,  li  guardai  sor- 
ridendo e  tacqui. 


-65  - 

"  Non  avendo  l' intenzione  di  farmi  credere  un  teologo,  na- 
scondevo la  mia  vera  occupazione  sotto  forma  di  studi  secolari 
di  astronomia,  di  astrologia,  di  poesia  antica.  Queste  occupazioni 
avevano  il  sorriso  del  pubblico  favore,  che  mancava  alla  teo- 
logia; almeno  per  un  laico.  Con  questi  pretesti  seguitai  i  miei 
studi  sulla  Scrittura,  che  chiamavo  la  città  nella  quale  Dio  aveva 
posto  la  mia  beatitudine.  Detti  pure  alla  mia  felicità  un  nome  di 
donna,  chiamandola  Beatrice.  Per  di  più  ebbi  la  fantasia  di  regi- 
strare il  suo  nome  fra  le  donne  onorate  dei  tempi  antichi,  e  a 
quello  scopo  raccolsi  i  nomi  di  donne  elette  della  Bibbia,  stu- 
diando dove  sarebbe  il  posto  più  atto  a  Beatrice.  I  nomi  am- 
montarono a  sessanta,  e  queste  le  chiamavo  le  più  belle  donne 
della  Città  di  Dio.  Sembrerà  sorprendente,  ma  fu  cosi  che  non 
potei  contentare  il  mio  pensiero,  se  non  mettendo  Beatrice  al 
nono  posto,  subito  dopo  lìachele,  In  questo  modo  :  Eva,  Adah, 
Zillah;  Sara,  Hagaz,  Rebecca;  Lia,  Rachele,  Beatrice. 

"  Dovei  accorgermi  che  la  teologia  non  può  essere  coltivata 
in  modo  soddisfacente  senza  la  luce  di  altri  studi,  letteratura  se- 
colare, scienza  e  filosofia.  Colsi  ogni  opportunità  per  allargare 
le  mie  cognizioni,  e  quando  ero  arrivato  fin  dove  potevo  in  un 
soggetto  o  il  mio  interesse  per  esso  si  era  esaurito,  ne  prendevo 
un'  altro  usando  sempre  questi  studi  laici  come  un  riparo  fra  me 
e  quella  impertinente  curiosità  offesa  dalla  mia  seria  applicazione. 
Ma  col  crescere  della  mia  avidità,  la  mia  attenzione  si  divise: 
non  avevo  più  la  mia  antica  semplicità  di  aspirazione,  e  divenni 
meno  sensibile  all'  angelico  saluto.  Le  finzioni  e  le  pretese  con 
le  quali  avevo  sperato  di  ingannare  gli  altri,  avevano  finito  per 
ingannare  me  e  avevo  quasi  cessato  di  sentire  la  voce  di  quella 

"   il  cui  più  lieve  bisbiglio  mi  commove  più 

che  tutte  le  ordinate  ragioni  del  mondo.  „ 

"  Allora  decisi  di  rinunziare  alle  finzioni,  e  di  professare  aper- 
tamente la  fede  e  1'  amore  che  era  in  me,  e  che  era  stato  mio 
dall'  infanzia.  Al  tempo  stesso  confessai  francamente  il  gusto  che 

avevo  acquistato  per  alcuni  rami  della  scienza  laica.  Questo  non 
Earle.  5 


—  66  — 

era  vantaggioso  per  me  rispetto  agli  ecclesiastici,  che  diffidavano 
di  me  a  causa  delle  mie  tendenze  laiche.  Ero  guardato  fredda- 
mente da  quelli  che  avrebbero  dovuto  essere  i  miei  naturali  al- 
leati, e  non  avevo  conforto  né  al  di  fuori  né  al  di  dentro.  Perù 
seguitai  a  nutrire  la  mia  imaginazione  della  mirabile  bellezza 
della  verità  rivelata  e  a  mantenere  la  mia  devozione  adorando 
la  donna  del  mio  pensiero.  Nonostante  la  mia  risoluzione,  vi 
erano  momenti  nei  quali  soccombevo  al  mio  dolore,  scrivendo 
lamentosi  sonetti,  e  lagnandomi  in  modo  vile.  Pensavo  troppo 
a  me  stesso  e  alle  mie  afflizioni;  la  mia  religione  era  ansiosa  e 
capricciosa.  Da  queste  alternative  del  mio  spirito  fui  tratto  fuori 
da  un  caso  che  mi  farò  a  raccontare. 

"  2.  Una  nuova  esaltazione  di  mente  fu  prodotta  in  me  da  una 
causa  cosi  inaspettata,  che  il  racconto  può  esserne  interessante. 
Conoscovo  molte  nobili  dame  che  vivevano  nei  piaceri  della  vita 
mondana,  e  che  sapendo  le  mie  favorite  occupazioni  cosi  aliene 
dalle  loro,  mi  onorarono  della  loro  speciale  curiosità.  In  un'  oc- 
casione che  ero  in  loro  compagnia,  alcune  se  la  ridevano  piano, 
a  parte  fra  di  loro;  altre  mi  guardavano  e  aspettavano  di  sen- 
tire quel  che  avrei  detto  ;  altre  ancora  discorrevano  insieme.  U 
quest'ultimo  gruppo  una,  voltandosi  verso  di  me,  mi  chiamò 
per  nome  e  disse:  "  La  tua  adorazione  è  strana;  pare  non  t 
renda  felice;  a  che  cosa  aspiri?  „  "  Aspiro  alla  lode  della  ce 
leste  bellezza  „.  "  Questo  suona  molto  diflferente  dalle  tue  lu 
gubri  poesie,  che  si  aggirano  tutte  intorno  alla  tua  compas 
sionevole  condizione.  „  Queste  giuste  parole  mi  fecero  vergo 
gnare  della  mia  tristezza,  e  risolvetti  che  da  quel  momento  in 
poi  avrei  cambiato  i  miei  lamenti,  in  una  voce  di    glorificazione. 

"  Lasciai  da  banda  la  mia  tristezza  e  decisi  di  non  aver  altro 
pensiero  che  la  lode  della  mia  divina  innamorata.  In  ciò  trovai 
una  sublime  esaltazione  di  mente,  che  per  altro  non  era  senza 
una  corrispondente  paura.  Mi  avvidi  nuovamente  che  essa,  benché 
stesse  in  questo  mondo,  non  era  di  qui;  e  l'antica  trepidazione 
che  dovesse  essere  trasportata  in  un'  altra  sfera  mi  ritornò.  La 
vidi  perfino  in  sogno  trasportata  verso  il  cielo    in    una   luminosa 


-  67  - 

nuvola,  accompagnata  da  una  innumerevole  schiera  di  angeli. 
E  tutto  ciò  era  misteriosamente  connesso  ad  un  interesse  pro- 
gressivo per  altri  soggetti:  poiché  cominciai  ad  accorgermi  che 
gli  studi  secolari  sono  intesi  a  portare  nuovi  raggi  di  luce  anche 
nelle  pagine  della  verità  rivelata,  e  che  la  Scienza  rispetto  alla 
Teologia  è  ciò  che  il  Precursore  era  rispetto  a  Cristo. 

"  3.  Ma  l'estasi  lungamente  sostenuta  portò  la  reazione.  II 
mio  eccessivo  entusiasmo  fini  nella  pigrizia  e  neh'  apatia;  pa- 
reva come  se  quella  che  amavo  non  fosse  più  alla  portata  dei 
miei  affetti.  Quando  ebbi  ancora  un  momento  di  riflessione,  trovai 
che  la  mia  spirituale  dilettazione  era  assopita,  mentre  si  faceva 
pili  acuta  la  mia  curiosità  intellettuale,  e  mi  sentivo  più  traspor- 
tato verso  la  Scienza  che  verso  la  Teologia.  Soggiogato  dalla 
più  esatta  forma  di  dimostrazione,  permisi  che  retrocedessero  le 
più  alte  e  vaghe  aspirazioni,  finché  la  loro  lontananza  mi  im- 
pauri. Allora  mi  fermai  e  corsi  in  armi  contro  questa  schiavitù 
intellettuale.  Tornai  al  mio  primo  amore  con  animo  risoluto,  e  il 
mio  primo  amore  mi  apparve  con  quel  roseo  splendore  che  ec- 
citò i  miei  affetti  il  primo  giorno  della  mia    Vita  Nuova. 

"  Mentre  alla  Teologia  veniva  cosi  ridata  la  sua  naturale  su- 
premazia, avevo  fatto  un  terzo  passo  nella  scoperta  della  infe- 
riore e  dipendente  natura  dell'  insegnamento  secolare.  E  in  questi 
studi  ebbi  anche  un'altra  mira.  Più  mi  accorgevo  dell'altezza 
della  Teologia,  e  come  essa  si  elevi  sola  al  di  sopra  delle  defi- 
nizioni scolastiche  e  dei  processi  sillogistici,  e  più  comprendevo 
che  nelle  cose  divine  si  richiede  una  speciale  delicatezza  e  un 
tatto  finissimo.  Il  soggetto  è  troppo  etereo  per  esser  trattato 
vocahitlis  propriis;  i  suoi  ragionamenti  possono  più  altamente 
essere  intesi  con  le  analogie,  attraverso  le  figure  dell'  allegoria 
e  della  poesia. 

"  Ma,  ahimé!  la  nostra  favella  figurata  italiana  è  sorda  e  non 
sviluppata;  ed  è  cosi  per  ogni  soggetto  tranne  uno,  cioè  quello 
dell'  amore,  nel  quale  è  stato  ingegnosamente  esercitata  da  una 
numerosa  schiera  di  poeti  lirici;  e  questa  è  la  sola  maniera  di 
allegoria  che  presentemente  è  utile   nella    nostra   lingua   volgare. 


—  68  — 

Ecco  dunque  una  ragione  perché  io  coltivai  ogni  ramo  della 
scienza;  per  trovare  principalmente  materia  da  allargare  il  giro 
della  nostra  poesia,  la  quale  cosi  potrà  servirmi  a  dimostrare  la 
beatitudine  della  celeste  sapienza  in  un  modo  più  degno  di  qua- 
lunque altro  che  mai  sia  stato  tentato  fin  qui.  „ 

In  questo  tentativo  di  dclineare  il  contenuto  vero  della  Ft/a 
Nuova  abbiamo  diligentemente  conservato  1' /o  dell' originale;  ma 
non  si  deve  supporre  che  riguardiamo  questa  storia  come  un 
racconto  personale,  né  come  una  parte  di  velata  autobiografia. 
Questa  idea  è  stata  una  prolifica  sorgente  di  confijsione.  Dei 
biografi  hanno  preso  alcune  parti  della  Fiia  Nuova  e  le  hanno 
cucite  con  passi  del  Convito  o  della  Coiniiiedia,  come  per  farne  in 
apparenza  una  storia  compatta.  Noi  neghiamo  che  la  Vita  Nuova 
possa  usarsi  in  questo  modo.  Il  suo  vero  significato  è  intimo  e 
mentale,  mentre  l'apparente  storia  non  è  che  una  veste.  Che  molto 
dell'  esperienza  dell'  autore  ci  sia  li  conservato,  certamente  lo  sap- 
piamo; ma  r  intento  del  libro  non  è  autobiografico,  e  a  noi  riesce 
impossibile  distinguere  ciò  che  è  personale  da  ciò  che  non  è. 

Il  proponimento  è  di  tracciare  il  cammino  destinato  all'  uomo 
quando  aspira  alla  perfezione  della  sua  natura  e  si  metta  a  ri- 
cercare la  felicità  nella  scienza.  L'  io  non  è  l' io  dell'  uomo  Dante 
Alighieri,  ma  del  pellegrino  ideale  che  Dante  personifica,  o  come 
altrimenti  dice  lo  Scartazzini,  "  il  mistico  viatore  „,  o  "  il  mi- 
stico pellegrino  „.  La  Vita  Nuova  è  imbevuta  di  verità,  e  la  sua 
veridicità  colpisce  la  mente  di  ogni  lettore.  Ma  è  possibile  ac- 
corgersi di  ciò  e  tuttavia  sbagliare,  poiché  essa  è  una  verità, 
non  di  ordine  storico  e  biografico,  m.a  poetica,  mistica,  universale, 
che  pur  valendosi  della  esperienza  e  dei  ricordi,  non  regola  i 
fatti  secondo  le  circostanze  di  tempo  e  di  luogo.  Inoltre  li  rior- 
dina liberamente  alla  luce  di  un'  ardente  imaginazione,  ed  in  ser- 
vizio del  pensiero  spirituale  che  vuole  esporre. 

Vi  è  un  libro  di  Francesco  W.  Newman,  pubblicato  nel  1850, 
col  titolo  di  "  Fasi  della  Fede;  o  capitoli  della  storia  della  mia 
Fede  „.  I^er  movente  e  tendenza  è  proprio    1'  opposto    del    libro 


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di  Dante,  poiché  propugna  il  principio  che  la  scienza  è  la  misura 
delia  verità  in  materia  di  fede.  Nonpertanto  il  suo  disegno,  come 
apologia,  e  i  suoi  generali  rapporti  col  pensiero  dell'  autore  lo 
fanno  analogo  alla  l'ita  Nuova,  per  modo  che  i  due  libri  si  so- 
migliano. Il  libro  del  Newman  ha  la  forma  di  ricordi  personali, 
ha  la  parola  Storia  nel  suo  titolo,  e  potrebbe  facilmente  scam- 
biarsi per  una  memoria  autobiografica,  senza  l' avvertenza  della 
Prefazione.  Questa  noi  vogliamo  citare,  perché,  imUatis  niiilandis, 
sembra  ripetere  il  caso  della   Vita  Nuova. 

"  La  forma  storica  è  stata  deliberatamente  scelta,  perché  pili 
facile  ed  interessante  pel  lettore;  ma  non  si  deve  credere  che 
r  autore  dia  in  generale  la  sua  storia  intima  e  meno  ancora 
un'autobiografia.  Il  progresso  della  sua.  fede  è  il  solo  oggetto; 
altri  ne  sono  introdotti  sia  come  illustrazione  di  quello,  sia  come 
digressioni  da  quello  suggerite  „. 

In  questo  libro  del  Signor  Newman  sono  incidenti,  avventure 
e  anche  conversazioni,  che  certamente  sono  fatti  reali;  special- 
mente il  racconto  diffuso  delle  sue  discussioni  giovanili  in  Oxford 
col  suo  fratello  maggiore,  che  divenne  poi  il  Cardinale  Newman. 
Dove  tali  narrazioni  si  accordano  con  ciò  che  noi  conosciamo 
assai  bene  da  altre  fonti,  volentieri  accettiamo  la  loro  verità  sto- 
rica. Cosi  pure  nella  Vi/a  Nuova,  due  dati  di  fatto  stanno  saldi, 
come  Jachin  e  Boaz,  uno  in  principio  e  l'altro  alla  fine  del  libro, 
essendo  pienamente  attestati  da  altra  testimonianza;  conseguen- 
temente non  abbiamo  esitato  a  dare  ad  essi  un  valore  assioma- 
tico per  r  intento  di  questa  argomentazione.  Ma  ciò  non  ci  avvi- 
cina ad  una  soluzione  del  problema,  sia  il  9  giugno  1290  una 
data  vera  o  fantastica  ('). 

Vi  è  molta  storia  in  quel  libro;  con  tutto  ciò  il  libro  non  è 
storico;  e  non  può  senza  altra  prova  conferire  un  valore  storico 
a  nessuno  dei  racconti  che  contiene. 


(1)  Nell'edizione  di  Oxford  delle  Opere  di  Dante  notiamo,  che  nella  Vita 
Nuova,  e.  30,  dove  si  tratta  di  questa  famosa  data,  la  lezione  Italia  si  è  intro- 
dotta per  errore.  Il  Dr.  Moore  (Acadeiiiy,  2  dee.  1894)  ha  dimostrato  che  la  vera 
lezione  è  Arabia. 


Ma  qui  sorge  naturale  la  domanda:  Se  questo  libriccino  è  es- 
senzialmente un'  allegoria,  come  mai  fu  ritenuto  generalmente  per 
una  narrazione  di  fatti?  Se  questo  è  un  errore,  in  che  modo 
daremo  ragione  del  suo  diffondersi?  Crediamo  che  a  questa 
domanda  vi  possa  essere  risposta,  e  che  il  tentativo  per  rispon- 
dervi metta  in  luce  l' immediato  e  peculiare  motivo  della  Vi'ia 
Nuova. 

Volendo  trattare  dell'  opinione  prevalente  dobbiamo  ricor- 
darci su  che  cosa  essa  è  basata.  Abbiamo  già  considerato 
V  asserzione  del  Boccaccio  e  la  data  assegnata  alla  morte  di 
Beatrice.  Questi  sono  i  due  soli  fatti  che  i  ■  letteralisti  possono 
addurre  in  sostegno  della  loro  tesi.  Ma  vi  è  un'  altra  influenza,  che 
sta  al  di  fuori  dell'  argomento,  pur  essendo  più  forte  di  questo  : 
vogliamo  dire  lo  stile  e  la  maniera  stessa  della  Vita  Nuova. 
Quella  naturalezza  e  semplicità,  quella  forma  cosi  realistica  e 
concreta,  quella  ricca  varietà  di  particolari  impedisce  al  lettore 
di  stare  in  guardia  e  lo  persuade  ad  accettare  il  racconto 
come  un  fatto  reale,  quantunque  circondato  da  un'  aureola  di 
misticismo.  E  appunto  in  questa  semplicità  e  apparenza  realisiica 
la  tenacità  dell'interpretazione  letterale  è  radicata;  mentre  que- 
sta apparenza  è  certamente  illusoria.  Questo  libriccino  è  ve- 
ramente un  lavoro  di  calcolata  ingenuità  e  di  studiato  artifizio. 
La  scoperta  del  Signor  Eliot  Norton  basta  da  sé  stessa  ad  as- 
sicurarci quanta  parte  d'invenzione  sia  stata  profusa  nell'ordina- 
mento di  esso.  Se  tanta  cura  era  dedicata  all'  architettura  interna 
che  è  affatto  nascosta,  si  può  mai  supporre  che  l'esterna  e  visibile 
superficie  del  discorso  sia  realmente  lavoro  facile  e  spensierato 
come  ne  ha  l'apparenza? 

Dunque,  se  una  volta  è  ani  messo  che  vi  è  lì  tutto  quest'  ar- 
tifizio, non  possiamo  fare  a  meno  di  domandare  quale  ne  sia  stato 
il  motivo.  Il  motivo  di  tanta  invenzione  deve  connettersi  col  di- 
segno principale  della  mente  di  Dante,  se  egli  aveva  realmente  tale 
disegno.  Ma  noi  sappiamo  dall'  ultima  parte  della  Viia  Allieva  che 
egli  meditava  e  stava  per  eseguire  un  grande  proponimento,  e  che 
questo  suo  annunzio  fosse  perfettamente  sincero,  è  per  noi,  come 


—  71  — 

abbiamo  già  detto,  una  verità  assiomatica.  Quando  Dante  scrisse 
la  l'Ha  Nuova  contemplava  già  la  sua  grande  Visione.  Questo 
fatto  incontestabile  ci  offre  un  punto  di  partenza.  L'  ultimo  pa- 
ragrafo della  V^ita  Nuova  rivela  la  sua  genesi;  perché  quel  para- 
grafo rappresenta  la  congiunzione  di  essa  con  la  Coinnicdia.  Il 
sacro  poema,  mentre  era  ancora  in  preparazione,  gettò  fuori  la 
Vita  Nuova  come  un  germoglio. 

Sotto  quale  rispetto  la  Vita  Nuova  doveva  secondare  il  disegno 
della  Commedia?  Uno  sguardo  alla  condizione  letteraria  del 
poeta  suggerirà  la  risposta  a  questa  domanda.  Dante  era  andato 
cercando  una  personificazione  per  rappresentare  la  Scienza  di- 
vina, e  questa  ricerca  non  fu  per  lui  agevole.  Un  personaggio 
molto  conosciuto  doveva  rappresentare  la  scienza  della  Ragione 
naturale,  ma  chi  personificava  la  celeste  Scienza  che  viene 
dalla  Fede?  La  principale  azione  della  Commedia  si  reggeva  su 
questa  personificazione,  la  quale,  per  di  più,  era  creazione  pro- 
pria e  speciale  del  poeta.  A  quel  posto  importante  non  avrebbe 
ammesso  un  fantasma  poco  solido,  un  Nome  descrittivo  o  sim- 
bolico, come  si  usava  nelle  personificazioni  epiche  di  quel 
tempo.  Alanus  de  Insulis,  nel  suo  Auticlaudianus,  aveva  rappre- 
sentata le  Virtù  riunite  in  consiglio  nel  palazzo  di  Madonna 
Natura,  e  li  sulla  proposta  della  Ragione  fu  deciso  di  mandare 
la  Prudenza  e  la  Ragione  insieme  come  in  deputazione  al  trono 
dell'Altissimo,  per  chiedere  un  favore  da  Lui.  Gli  ambasciatori 
di  ciascuna  Virtù  si  mettono  in  cammino  su  di  un  carro  tirato 
da  cinque  cavalli  (che  sono  i  cinque  Sensi),  la  Ragione  fa  da 
cocchiere.  Essendo  arrivati  ad  una  certa  altezza,  i  cavalli  rifiu- 
tano di  andare  avanti.  A  questo  punto  si  vede  avvicinarsi  un'  au- 
gusta signora  che  è  la  Teologia  :  vuol  condurre  la  Prudenza  al 
compimento  della  sua  missione,  ma  solo  a  patto  che  essa  con- 
gedi la  sua  compagna  indiscreta,  la  Ragione.  Quando  si  avvici- 
nano agli  abbaglianti  splendori,  il  cuore  della  Prudenza  viene  a 
mancare,  ed  essa  sviene.  Qui  appare  la  Fede  e  la  rialza:  così 
sorretta  essa  arriva  innanzi  al  trono. 

Sotto  simili  nomi  astratti  e  fisfure  simboliche  erano  introdotti 


—  72  — 

dei  caratteri  nella  più  alta  poesia  del  dodicesimo  e  tredicesimo 
secolo.  In  quell'  epopea  satirica  che  sorse  nei  Paesi  Bassi,  e 
di  cui  r  esempio  pivi  conosciuto  è  "  Rainardo  la  Volpe  „ 
i  caratteri  umani  sono  simboleggiati  sotto  nomi  di  animali.  Ma 
il  poema  che  ebbe  la  maggior  voga  europea  nella  gioventù  di 
Dante  fu  il  "  Roman  de  la  Rose  „.  In  questo  famoso  poema 
sociale  i  caratteri  hanno  ognuno  nomi  descrittivi:  Belacueil  (Bella 
Accoglienza)  Dangier  (Autorità),  Déduit  (Piacere),  Barat  (In- 
ganno), ecc. 

Dante  non  voleva  far  nulla  di  simile  nella  sua  Coiumedia: 
la  coscienza  della  sua  grande  potenza  realistica  si  accordava  col 
suo  senso  dell'  arte,  per  escludere  i  simboli  e  le  astrazioni  e 
mettere  in  vece  loro  delle  persone;  e  meno  che  mai,  avrebbe 
ammesso  simile  invenzione  poco  solida  nel  posto  più  vitale  di 
tutti.  Egli  dunque  ha  voluto  un  personaggio  vero  con  un  nome 
già  conosciuto  al  mondo,  e  perciò  compose  la  Vita  Nuova  per 
stabilire  la  probabile  esistenza  di  una  tal  persona,  per  far  cono- 
scere al  mondo  la  carriera  terrestre  della  sua  mistica  Beatrice. 

Furono  le  esigenze  dell'  arte  sua  che  Dante  aveva  in  vista 
quando  si  mise  a  scrivere  la  Vita  Nuova;  ciò  che  era  più  profondo 
nel  suo  pensiero  non  si  mostrava  in  quel  momento  ai  suoi  occhi 
come  essenziale.  Il  suo  disegno  immediato  era  di  dare  a  Bea- 
trice un  carattere  solidamente  terrestre,  e  in  questo  è  riuscito 
(forse)  al  di  là  del  suo  desiderio.  I  suoi  caratteri  spirituali 
sono  invero  riccamente  accumulati  nei  velati  recessi  dell'  in- 
terno; ma  tutto  questo  sembra  secondario  agli  occhi  abbagliati 
dal  libero  e  naturale  e  grazioso  movimento  della  superficie. 
E  questa  superficie  esterna  è  quella  che  effettua,  eccedendo 
r  immediato  disegno  dell'  autore.  Spinto  dal  motivo  di  fare 
di  Beatrice  una  persona  storica,  mostrò  le  sue  meravigliose 
forze  di  narrazione  realistica,  e  raccontò  la  sua  storia  nebulosa 
in  modo  tale  da  darle  la  solidità  di  una  esperienza  personale. 
Poiché  essa  era  vuota,  egli  seppe  quasi  compensare  ciò  con 
un'  atmosfera  di  mistero,  e  dare  al  racconto  quell'  impronta  di 
realtà  velata  che  fino  a  questo  momento  tiene  il  mondo  in  dubbio. 


—  73  — 

La  sua  idea  era  di  rappresentare  la  vita  terrestre  di  Bea- 
trice come  se  fosse  stata  in  relazioni  sentimentali  (benché  su- 
blimi e  distanti)  con  lui  fin  dall'infanzia.  Per  muovere  di  li,  aveva 
un  solido  punto  d' appoggio  pel  suo  piede.  Alcuni  anni  prima 
aveva  fatto  circolare  un  sonetto  che  aveva  provocato  altri  sonetti 
in  risposta,  e  questa  era  una  circostanza  ben  conosciuta  del  pas- 
sato. Il  fatto  ebbe  una  certa  notorietà  e  questa  notorietà  era 
adesso  utile  per  dare  alla  nuova  storia  un'  aria  di  verosimi- 
glianza; e  Dante  davvero  se  ne  valse!  Qui  ci  troviamo  di  fronte 
alla  più  organica  questione  sulla  struttura  della  Vita  Nuova. 
Quale  relazione  vi  è  fra  quell'antico  sonetto  e  questo  nuovo 
libro?  In  quell'antico  sonetto  il  poeta  è  sorpreso,  nelle  silen- 
ziose veglie  della  notte,  dalla  subita  apparizione  di  Amore,  in 
tale  terribile  maestà  che  non  può  ricordarlo  senza  tremare.  Il 
possente  visitatore  pare  allegro,  quando  tiene  nella  sua  mano  il 
cuore  del  poeta,  mentre  fra  le  sue  braccia  riposa  Madoìiiia,  av- 
volta in  un  panno  e  addormentata.  Egli  la  sveglia,  e  col  cuore 
ardente  gentilmente  la  ristora,  benché  riluttante;  dopo  di  che  se 
ne  parte  piangendo. 

Si  può  mai  errare,  affermando  che  un  solo  Personaggio  risponde 
al  carattere  d'Amore  come  è  dato  in  questo  sonetto?  Un  solo, 
il  quale  è  cosi  in  alto  da  avere  in  sua  balia  il  cuore  umano,  e 
che  nello  stesso  tempo  è  cosi  umile  che  sia  ricordato  per  aver 
pianto?  E  chi  è  la  seconda  figura?  Si  può  dubitare  che  in 
Madoìiìia  si  debba  vedere  la  Chiesa,  la  Sposa  che  obbedisce 
allo  Sposo  Divino,  perfino  mentre  si  ritira  dall'  ufficio  impo- 
stole? Il  suo  ritirarsi  come  pure  il  suo  sonno  era  probabilmente 
una  riflessione  sulla  languida  e  impreparata  condizione  della 
Chiesa  nella  mente  dell'  autore.  Amore  venne  allegramente  al- 
l' atto  di  dedicazione,  ma  parti  in  lagrime.  Non  sono  queste  le 
lacrime  di  Cristo  su  Gerusalemme?  Se  dunque  questa  spiega- 
zione è  corretta,  i  personaggi  di  questo  emblema  sono  Cristo, 
la  Chiesa,  e  il  poeta.  L'ardente  passione  della  sua  anima  è  ac- 
cettata da  Cristo  e  ne  dispone  in  maniera  tale,  che  ei  si  trova 
legato  e  identificato  con  la  Chiesa  di   Cristo.    Questa    interpetra- 


—  74  — 

zione  concilia  ogni  elemento  nell'  enigma,  trova  anche  conferma 
in  molti  passi  della  Jlfa  Nuova,  ed  è  completamente  ratificata 
da  tutto  il  motivo  della  Connncdi'a.  Negli  anni  che  seguirono  la 
composizione  di  questo  antico  sonetto  1'  artistico  disegno  aveva 
maturato;  il  Poeta  aveva  adottato  Beatrice  come  la  concreta 
rappresentante  della  sua  ricerca,  ed  intraprese  a  scrivere  la  Vita 
Nuova  per  farla  conoscere  personalmente,  e  per  darle  "  una  di- 
mora locale  ed  un  nome  „.  Egli  cominciò  conseguentemente  con 
r  identificare  la  figura  dormente,  nell'  antico  sonetto,  colla  perso- 
nalità di  Beatrice  adottata  di  recente.  Il  procedimento  era  dei 
pili  legittimi,  in  quanto  che  ambedue  erano  espressioni  genuine 
di  un  medesimo  non  mai  interrotto  pensiero;  eppure  l'adatta- 
mento è  piuttosto  violento,  perché  quel  pensiero  era  passato 
coir  andar  del  tempo  ad  una  fase  nuova.  Quello  che  nella  con- 
cezione originale  non  era  che  una  pittura  emblematica  di  una 
mentale  attitudine,  era  adesso  rivestito  di  storiche  relazioni  e  di 
terrestri  contorni;  e  l'emblema  di  un'idea  astratta  si  era  trasfor- 
mata in  un  personaggio  concreto  capace  di  figurare  in  un  poema 
epico. 

L'adattamento  dell'antico  sonetto  alla  sua  nuova  collocazione 
fu  certamente  fatto  con  tutta  quella  circospezione  che  è  richiesta 
da  un'  opera  di  critica.  L'  autore  conclude  la  prosa  che  riguarda 
il  primo  sonetto  con  un  astuto  tratto  di  artistica  simulazione. 
Dice:  "  Lo  verace  giudizio  del  detto  sogno  non  fu  veduto  allora 
per  alcuno,  ma  ora  è  manifesto  alli  più  semplici.  „  Come  nel  la- 
voro di  un  ebanista  una  linea  di  impercettibili  pallini  copre  una 
commessura,  cosi  questa  piccola  frase  finale  con  la  sua  aria  di 
ingenuità  e  di  casualità  unisce  strettamente  1'  antica  visione  del 
Cuore  Ardente  con  la  personalità,  introdotta  di  fresco,  di  Bea- 
trice. Cosi  i  più  semplici  non  sono  stati  i  soli  ad  accettare  questa 
ingannevole  suggestione,  e  la  figura  dormente,  che  originaria- 
mente significa  la  Chiesa  di  Cristo,  fu  identificata  con  Beatrice, 
la  donna  amata  dal  poeta. 

Non  è  scopo  del  nostro  assunto  di  diminuire  1'  umana  realtà 
di  Beatrice;    ma    ciò    che   sosteniamo   è   questo:   che    nella    Vita 


—  /D  — 

Nuova  essa  occupa  il  secondo  luogo  e  nun  il  primo;  che  essa 
vi  è  stata  introdotta  e  aggiunta  per  ragioni  artistiche;  che  la  sua 
personalità  è  stata  frammista  nella  tessitura  della  Vita  Nuova  e 
della  Coiiuìicch'a,  ma  che  non  costituisce  il  principio  e  la  sor- 
gente delle  due  opere;  principio  e  sorgente  che  si  trovano  in- 
vece in  quella  spirituale  idea,  della  quale  Beatrice  è  il  simbolo  e 
la  figura  personificata. 

Questo  antico  sonetto,  preso  cosi  per  un  nuovo  punto  di  par- 
tenza, esercita  un'  importante  influenza  sulla  struttura  del  libro. 
Per  essere  appunto  un  sonetto,  diviene  il  parente  di  una  serie 
di  altri  sonetti,  formanti  la  base  dell'  architettura  e  della  sim- 
metria del  libro.  Per  aver  natura  di  visione,  diventa  la  sorgente 
e  r  origine  del  suo  elemento  apocalittico.  Altre  visioni  sono  svi- 
luppate, conservando  il  piano  simmetrico,  fino  al  numero  di  sei, 
con  promessa  di  una  settima.  Questa  relazione  di  sei  e  sette  ap- 
partiene al  metodo  apocalittico.  Tra  i  più  cospicui  caratteri  del- 
l'Apocalisse sono  tre  visioni  che  tutte  concorrono  nel  sette:  sette 
sigilli,  sette  trombe,  sette  fiale.  Nello  spiegare  queste  visioni  è 
costantemente  osservato  un  ordine  speciale,  cioè  che  sei  parti 
sempre  si  rassomigliano,  e  che  la  settima  è  sospesa,  prolungata; 
la  settima  è  separata  dalla  sesta  da  un  episodio,  o  intervallo  di 
tempo  che  viene  colmato  da  un'  altra  azione.  E  in  questo  si  ri- 
conosce r  ispirazione  della  più  vitale  continuità  neh'  ordine  della 
l^ita  Nuova.  Sei  visioni  sono  sviluppate  e  una  settima  è  annun- 
ziata. Questa  serie  pervade  tutto  il  lavoro  come  una  specie  di 
midollo  spinale,  e  ne  fa  un  solo  organismo  con  la    Commedia  ('). 

Passiamo  adesso  a  considerare  la  base  meccanica  sulla  quale 
questo  piccolo  libro  è  stato  costruito.  Dante  dava  molto  impor- 
tanza a  questo  sistema,  al  tempo  stesso  lo  nascondeva  cosi  ac- 
curatamente che  rimase  dubbio  fino  al  nostro  secolo.  Il  Signor 
Eliot  Norton  nel  1867,  pose  in  luce  la  traccia  di  una   intera  sim- 


(')  Qui  dobbiamo  notare  che  questo  ordine  di  sei  visioni  e  della  settima 
differita  è  frainteso  dal  Witte,  che  ha  contato  1'  ultimo  sonetto  come  la  settima 
visione;  mentre  non  è  una  visione,  ma  un  volo  della  poetica  fantasia,  il  che  è 
differente. 


-  76- 

meti'ia  clic  indica  non  soltanto  una  bizzarra  ingenuità,  ma  anclie 
una  grande  maturità  di  disegno  e  di  proponimento.  In  questa 
piano  nascosto  la  seconda  canzone  sta  come  punto  centrale. 
Come  distanze  simmetriche  da  questa  poesia  centrale  sono  poste 
la  prima  canzone  e  la  terza.  Queste  due  poesie  hanno  un'  affinità 
reciproca  nella  successione  di  strofe  e  di  concetti,  e  manifesta- 
mente sono  designate  a  corrispondersi.  Lo  spazio  fra  la  prima 
canzone  e  la  seconda  è  occupato  da  quattro  sonetti;  e  lo  spazio 
corrispondente  fra  la  seconda  canzone  e  la  terza,  contiene  quattro 
poesie  delle  quali  tre  sono  sonetti.  Il  gruppo  chiuso  fra  queste 
tre  canzoni  forma  il  culmine  centrale  del  libro;  e  le  parti  da 
ogni  lato  di  esso  sono  simmetricamente  corrispondenti  I'  una  al- 
l'altra. Il  culmine  centrale  è  preceduto  da  dieci  poesie,  delle  quali 
nove  sono  dei  sonetti,  ed  è  pure  seguito  da  dieci  poesie  delle 
quali  nove- sono  sonetti.  Il  Witte  può  ben  a  ragione  esclamare, 
nella  sua  ammirazione  per  questa  scoperta,  che  una  simmetria 
cosi  completa  non  può  essere  accidentale. 

La  scoperta  di  questa  costruzione  studiata  è  una  nuova  fonte 
di  luce  per  l' interpetrazione  del  libro.  Prima  e  anzitutto  ci  porge 
un  prezioso  indizio,  richiamando  la  nostra  attenzione  sulla  supre- 
mazia gerarchica  della  canzone  centrale.  Questa  poesia  sorpassa 
tutto  il  resto,  e  sta  con  singolare  distinzione  nel  mezzo  di  trenta 
componimenti  minori,  quindici  per  parte,  fra  i  quali  altri  due  pure 
eminenti,  la  prima  e  la  terza  canzone,  stanno  come  sostegni,  ma 
di  grado  inferiore  da  entrambi  i  lati.  La  prima  canzone"  è  una 
poesia  nella  quale,  benché  la  perdita  di  Beatrice  sia  temuta,  il 
tono  è  contento  e  pieno  di  speranza,  perché  è  stata  risparmiata; 
la  terza  canzone  è  un  canto  funebre  per  la  sua  morte  naturale 
che  è  già  accaduta,  ma  un  canto  funebre  dominato  da  un  grido 
di  trionfo.  Mentre  la  seconda  canzone,  quella  centrale,  è  una  vi- 
sione della  translazione  di  Beatrice  al  Paradiso,  col  lamento  di 
tutto  il  creato  per  la  sua  dipartita;  e  questa  scena,  benché  senza 
realtà  e  visionaria,  benché  mera  estasi  di  fantasia,  e  tale  dichia- 
rata nella  poesia  stessa  (essendo  Beatrice  ancora  sulla  terra),  è^ 


—  //  — 

ciò  non  di  meno,  il  cuore  e  lo  scopo  dell'  intero  lavoro,  il  punto 
culminante  del  disegno  dell'autore. 

Inoltre  è  da  notare  che  la  relazione  della  Canzone  centrale 
con  le  due  subalterne  è  tale  da  fare  delle  tre  un  poetico  gruppo 
di  variazioni  sopra  il  medesimo  tema,  il  transito  di  Beatrice.  Pa- 
rimenti, la  relazione  della  canzone  centrale  con  le  due  poesie 
più  distanti,  il  primo  sonetto  e  il  venticinquesimo,  è  la  stessa 
benché  meno  distinta.  Cosi  il  pensiero  che  unisce  il  libro  in 
unità  è  quello  del  transito  di  Beatrice.  L' intimo  significato  del 
pensiero  è  cosi  notevolmente  manifestato,  segnalando  il  fatto 
che  lo  stesso  pensiero  occupa  la  poesia  centrale  e  il  primo  e 
l'ultimo  Sonetto,  di  modo  che  questo  transito  di  Beatrice  (non 
la  sua  morte  naturale  ma  la  sua  traslazione  celeste  )  corona  il 
più  alto  pinnacolo  dell'  intiera  struttura,  e  allo  stesso  tempo  lo 
pervade  fino  alle  sue  estremità.  Se  consideriamo  che  la  morte 
naturale  di  Beatrice  è  stata  aggiunta,  come  una  cosa  fuori  del 
proposito  principale,  mentre  il  suo  passaggio  ad  un'  altra  sfera 
sta  in  principio,  in  mezzo  e  da  ultimo;  possiamo  credere  essere 
la  J'ifa  Nuova  sotto  forma  di  un  racconto  letterale,  altro  che  un 
lavoro  di  arte  imaginativa  e  un' allegoria?  La  traslazione  di  Bea- 
trice al  paradiso  in  una  nuvola  bianca,  con  un  seguito  di  angeli 
seguaci,  è  una  giustificazione  della  natura  sovrumana  della  Teo- 
logia? 

Qui  faremo  punto  e  raccoglieremo  i  risultati  del  nostro  ar- 
gomentare e  li  metteremo  accanto  all'  interpetrazione  letterale.  Lo 
Scartazzini  incomincia  il  discorso  intorno  della  Vila  Nuova  con 
un  breve  cenno  sulla  composizione  del  libro.  Egli  scrive:  "  Dopo 
la  morte  di  Beatrice,  Dante  raccolse  un  certo  numero  di  poesie 
liriche,  che  erano  state  composte  a  tempo  di  lei  e  al  momento  della 
sua  morte;  le  forni  di  un  commentario  storico  e  di  divisioni  sco- 
lastiche, e  cosi  formò  il  suo  primo  libro,  la  Vita  Nuova.  „  Ancora 
enuncia  cosi  l'intento  dell'autore:  "  Il  disegno  dell'autore  era 
di  dare  un  commentario  autentico  ai  suoi  versi  amorosi,  e  al 
tempo  stesso  di  costruire  un  monumento  alla  sua  Beatrice.  „  La 
nostra  investigazione  ci  porta   ad    un   apprezzamento    molto    dif- 


-  78- 

ferente  del  libro,  per  quel  ehe  riguarda  la  sua  opportunità,  il 
suo  motivo,  e  la  sua  composizione.  Ci  permettiamo  di  sup- 
porre che  esso  ebbe  occasione  dalla  meditazione  del  poeta  sul 
disegno  della  sua  Commedia,  meditazione  che  lo  condusse  a  scor- 
gere la  necessità  di  personificai^e  sostanzialmente  il  carattere 
principale,  in  quella  grande  intrapresa.  Conseguentemente,  che 
lo  scopo  e  il  motivo  immediato  della  Vita  Nuova  doveva  acqui- 
stare al  suo  personaggio  principale  una  reputazione  storica,  e, 
questa  affatto  indipendentemente  dalla  quistione  se  Beatrice  fosse 
o  no  una  persona  reale.  In  terzo  luogo,  riguardo  alla  sua  strut- 
tura non  vediamo  nessuna  ragione  per  credere  che  la  Vita  Nuova 
fosse  una  compilazione  di  poesie  già  composte,  ma  riteniamo 
piuttosto  che  le  poesie  furono  scritte  ciascuna  per  il  posto  che 
adesso  occupa,  eccettuato  il  primo  sonetto.  Insomma  la  nostra 
conclusione  è  questa:  che  la  Vita  Nuova  è  una  storia  allegorica 
del  conflitto  fra  la  Fede  e  la  Scienza,  e  che  in  questo  conflitto 
sta  il  suo  intimo  e  vero  significato.  La  forma  esterna  di  storia 
è  stata  determinata  da  un  motivo  di  un  ordine  più  superficiale 
—  il  motivo  artistico,  —  il  quale  richiedeva  che  Beatrice  fosse 
fornita  di  un  ricordo  storico  per  far  rilevare  la  convenienza  del 
posto  destinatole  nella  Commedia.  La  Vita  Nuova  e  la  Commedia. 
rappresentano  una  continuità  di  pensiero,  del  quale  i  principali 
culmini  hanno  la  loro  riprova  neW  f/i/eruo  i  e  ii.;  Purgatorio 
XXX,  e  seg.  ;  Paradiso  x.  xxx  e  xxxiii.  La  Vita  Nuova  contiene, 
ma  le  nasconde  sotto  una  realistica  storia  d'  amore,  le  titubanze 
di  Dante  circa  la  principale  quistione  del  secolo  in  cui  egli  vi- 
veva. Come  la  Virtù  e  il  Piacere  contendevano  per  il  possesso 
morale  di  Ercole,  cosi  la  Fede  e  la  Scienza  si  disputavano  il  pos- 
sesso intellettuale  del  pellegrino  del  secolo  XIII.  E  questa  conclu- 
sione non  è  punto  infirmata  dalla  questione,  se  l'amore  di  Dante 
per  Beatrice  fosse  reale  o  fittizio.  Il  nostro  argomento  lascia 
posto  a  qualunque  varietà  di  opinione  su  quel  soggetto,  che  è 
affatto  estraneo  al  motivo  e  all'  origine  della  Vita  Nuova.  Se 
Beatrice  era  o  no  realmente  una  persona,  e  se,  tale  essendo,  fu 
una  donna  che  egli  amò,  o  se  fu  per    lui    soltanto  qualche  stella 


—  79  — 

più  specialmente  luminosa,  o,  in  terzo  luogo,  se  gli  furili  soltanto 
un  nome,  quel  che  appare  evidente,  in  ogni  caso,  è  che  essa  fu 
aggiunta  quale  iniagine  poetica,  dopo  che  la  Coiiiiiicdia  era  già 
abbozzata  nella  niente  del  poeta. 

In  favore  dell'  interpretazione  che  sottomettiamo  qui  al  lettore 
possiamo  affermare,  che  essa  è  la  meglio  provata,  che  rimuove 
pili  liifficoltà  di  qualunque  altra,  e  che  ci  porge  un  disegno  con- 
sistente e  uno  sviluppo  continuato  dal  Iitcipit  l'ita  Xava  fino 
all'  ultimo  canto  del  Paradiso. 


Questo  studio  del  Prof.  Earle,  che  ci  è  parso  meritevole  di  esser  meglio 
conosciuto  in  Italia,  per  la  originalità  delle  idee  che  egli  porta  nell'  interpetra- 
zione  della  l^ita  Nuova,  fu  esaminato  criticamente  dal  prof.  Guido  Mazzoni  nel 
Bullettitto  della  Società  dantesca  italiana  (gennaio  1899).  All'acuta  recensione 
del  prof.  Mazzoni  rimandiamo  il  lettore  che  abbia  vaghezza  di  vedere  in  che 
maniera  siano  state  discusse  fra  noi  le  conclusioni  del  dantista  inglese. 

La  Direzione. 


INDICE 


E.  ARMSTRONG. 

L' ideale  politico  di  Dante Pag:       i 

J.    EAKLK. 
La  Vita  Nova  di  Dante  ,  .  ,39 


BIBLIOTECA  STORICO  -  CRITICA 


DELLA 


LETTERATURA  DANTESCA 


DIRETTA 


DA  G.  L.  PASSERINI  e  da  P.  PAPA 


XII. 


BOLOGNA 

DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 
1899. 


DOTI.  EDOARDO  MOORE 


L'  AUTENTICITÀ 


DKLLA 


QUAESTIO  DE  ADUA  ET  TERRA 


BOLOGNA 
DITTA  NICOLA  ZANICHELLI 

1899 


Proprietà  letteraria. 


Bologna,  Tipi  della  Ditta  Zanichelli,  1901. 


L'  AUTENTICITÀ 


QUAESTIO  DE  AQUA  ET  TERRA. 


E.    MOORE. 


"  Io,  che  .il  volto  di  tanti  avversari  parlo  in  questo 
Trattato,  non  posso  brevemente  parlare.  Onde  se  le 
mie  digressioni  sono  lunghe,  nullo  si  maravigli  „. 

CoNV.  IV.  vili.  vv.  93-96. 

E  invalsa  da  vario  tempo  la  moda,  specialmente  tra  gli  Italiani, 
di  considerare  la  falsità  della  Quccstio  de  Aqua  et  Terra  come 
una  conclusione  indiscutibile  e  fuori  di  ogni  seria  discussione.  Io 
stesso,  nel  preparare  il  testo  della  edizione  dantesca  di  Oxford  ('), 
partecipai  all'opinione  prevalente  (come  apparisce  tuttavia  dal 
Proemio)  e  tanto  vi  partecipai,  che  persino  esitai  a  ristampare  il 
Trattato  tra  le  opere  di  Dante.  Ma  nel  rivedere  le  prove  di 
stampa  fui  colpito  da  un  certo  che  di  autenticità,  e  dal  carattere 
interamente  dantesco,  non  solamente  negli  stessi  argomenti  ma 
altresì  nella  forma  e  nei  particolari  della  lingua  con  cui  erano 
espressi.  Questa  impressione  è  stata  tanto  mai  accresciuta  da  un 
esame  più  accurato,  che  io  desidero  di  invitare  i  cultori  di  Dante 
a  ristudiare  la  questione. 

Si  ritiene  che  questo  Trattato,  cosi  poco  letto,  sia  un  discorso 
fatto  da  Dante  nel  20  gennaio  1320,  al  cospetto  del  clero  riunito 
di  \^erona,  con  la  eccezione  di  pochi,  la  cui  assenza  è  commentata 
sarcasticamente  nell'  explicit,  che  costituisce  l' ultimo  paragrafo. 
Era  inteso  a  definire  un  quesito,  che  Dante  aveva   sentito   solle- 


(')  Tutte  le  opere  di  Dante  Alighieri  nuovmiiente  rivedute  nel  testo,  dal  Dr.  E. 
MooRE,  Oxford,  1894.  Le  indicazioni  dei  versi  delle  opere  in  prosa  di  Dante 
sono  fatte  secondo  la  numerazione  di  quesf  edizione. 


-  4  — 

vare  e  trattare  poco  soddisfacentemente,  mentre  era  a  Mantova. 
La  Ourstiotic  era  per  sommi  capi  questa,  come  è  esposta  nel  §  2: 
può  l'Acqua  nella  sua  propria  sfera,  o  circonferenza  naturale, 
essere  in  un  luogo  qualunque  pili  alta  della  terra  asciutta,  cioè 
del!a  parte  abitabile  della  Terra  ?  Questo  deriva  dalla  credenza 
medievale  comunemente  accettata,  che  le  sfere  dei  quattro  Ele- 
menti posassero  concentricamente  al  di  sopra  o  al  di  fuori  1' una 
dell'altra  nell'ordine  seguente:  Terra,  Acqua,  Aria,  Fuoco,  (')  e 
che  conseguentemente  il  /r?co />;7)/);7V)  dell' Elemento  Acqua  (Co«f. 
Ili,  iii)  fosse  al  di  sopra  dell' ElemcMito  Terra.  Scopo  di  questo 
Trattato  è  di  provare  che  la  suddetta  questione  debba  essere 
risoluta  negativamente  (^). 

La  soluzione  adottata  è  la  seguente.  E  vero  che  1'  Elemento 
Acqua  nella  sua  propria  sfera  sta  al  di  sopra  dell'  Elemento 
Terra,  e  questo  è  fatto  accertato  sopra  i  tre  quarti  della  super- 
ficie del  globo.  Ma  in  nessun  luogo  è  al  di  sopra  del  livello  della 
terra  detccta  ovvero  cmergens,  la  quale,  secondo  la  credenza  al- 
lora in  voga,  costituiva  circa  un  quarto  della  superficie  del  globo, 
essendo  comunemente  descritta  come  la  quarta  habitabilis.  Ma 
questa  occupa  una  posizione  eccezionale  rapporto  alla  sfera  re- 
golare ovvero  naturale  circonferenza  dell'  Elemento  Terra  (^).  Essa 
è  una  escrescenza  gibbosa  su  quella  superficie  sferica  (§  19  v.  20), 
e,  rozzamente  parlando,  nella  forma  di  mezza  luna  (ib.  v.  6'2);et 
sccundiim  haec  salvatur  concentricitas  terrae  et  aquae  (ib.  v,  7).  Le 
cause  finali  ed  efficienti  (§  9  v.  9)  di  questa  protuberanza  ecce- 
zionale sono  esposte  molto  chiaramente. 

La  causa  finale  è  che  vi  possono  essere  alcuni  luoghi,  ove 
tutti  gli  Elementi  (miscibilia)  possono  incontrarsi  e  combinarsi  in 
ogni  forma  possibile  di  esistenza  corporea  {corpora  mista  et  com- 
plexionata),  perchè  se  qualche  forma  potenziale    di    esistenza    re- 


(')  Vedi  la  prima  serie  dei  miei  Sludies  in  Dante,  Oxford  1896,  pag.  122,  124,  300. 
(*)  Che  tale  questione  fosse  generalmente  discussa  al  tempo  di  Dante,  vedasi 
più  sotto  pp.  12  segg. 

(')  V-  §  XXIII  vv.  18-23.  . 


stasse  senza  sviluppo  /;/  atto,  ciò  implicherebbe  un  difetto  nelle 
opere  del  viotor  codi  (  §  i8,  v.  40  ). 

Un  tal  punto  di  amalgama  per  tutti  gli  Elementi  è  dunque 
una  necessità,  e  ciò  non  potrebbe  esistere,  nisi  terra  tu  aliqua 
parte  eineri^eret,  ut  patct  iiit uniti  (vv.  50-54). 

Passiamo  alla  causa  efficiente.  Con  quali  mezzi  1'  Auctor  Na- 
turac  ottenne  questo  risultato  ?  Nel  §  19  la  posizione,  la  forma, 
e  r  estensione  della  terra  cniergeìis  essendo  definita  con  preci- 
sione, la  sua  elevatezza  viene  attribuita  all'  influenza  delle  stelle 
esistenti  in  ciuci  tratto  di  cielo  corrispondente  (o  dell'  ottavo  cielo) 
per  latitudine  e  longitudine,  essendo  quella  particolare  posizione 
delle  stelle  stata  predeterminata  dal  Creatore  allo  scopo  di  otte- 
nere questo  risultato  sulla  terra  a  benefizio  dell'Umanità.  (§  21, 
vv.  62-72). 

Debbo  notare  che  non  si  vede  qui  con  molta  evidenza  quella 
meravigliosa  anticipazione  delle  idee  scientifiche  moderne,  che 
è  stata  ritenuta  cosi  decisiva  contro  il  diritto  che  ha  questo  Trat- 
tato, di  essere  annoverato  tra  le  opere  di  Dante.  Quantunque  la 
corrente  dell'opinione  siasi  manifestata  negli  ultimi  anni,  come  ho 
di  già  osservato,  fortemente  contraria  ad  ammettere  1'  autenticità 
di  questa  opera,  non  si  deve  supporre  che  sia  stato  sempre  così. 
Fra  i  suoi  difensori  trovansi  i  nomi  del  Torri,  del  Fraticelli,  del 
Giuliani,  dello  Stoppani,  del  Bochmcr  ('),  dello  Schmidt  (■).  D'  al- 
tra parte  è  stata  rigettata  senza  esitazione,  ed  in  qualche  caso 
sprezzantemente,  dal  Tiraboschi,  dall' Arrivabene,  dal  Foscolo,  dal 
Troya,  dallo  Scartazzini,  dal  Bartoli,  dal  Renier  (^)  ecc.  La  Scar- 
tazzini,  sicuro  e  dogmatico  come  sempre,  dichiara:  Per  ainmetlcrc 
che  la  Quaestio  sia  un  lavoro  di  Dante  bisognerebbe  ammettere  un 
miracolo  (^). 


(*)  Il  Bochmcr  ha  proposto  una  scric  di  emendamenti  critici  al  testo,  nel 
Jahrbuch  der  Dante-Gesellschaft,  I,  p.  395. 

l")   Ueber  Dante  s  Stelluiig  in  der  Geschichte  dcr  Kosnxograpìne,  Graz,  1876. 

(')  Queste  asserzioni  sono  state  fatte  in  alcuni  casi  sull'autorità  della  mono- 
grafia Luzio-Renier  nel   Giornale  storico,  di  cui  si  parla  più  oltre. 

(■•)  Prolegoìtieni  p.  ^15. 


-  6  -^ 

Ora,  in  primo  luogo  bisogna  ammettere  francamente  che  la 
mancanza  completa  di  ogni  prova  esterna  è  una  grave  difficoltà 
prima  facir,  e  ciie  le  circostanze  con  le  quali  qucst'  opera  com- 
parve non  son  di  natura  tale  da  diminuire  questa  difficoltà. 

\^enne  per  primo  pubblicata  e,  veramente,  conosciuta  nel  1508, 
quasi  200  anni  dopo  la  morte  di  Dante.  Fu  stampata  per  la  prima 
volta  da  certo  Giovanni  Benedetto  Moncetti  da  Castiglione  Are- 
tino ('),  di  sopra  un  manoscritto  che  egli  diceva  aver  recente- 
mente scoperto,  ma  che,  io  credo,  non  vi  sia  prova  che  nessun 
altro  abbia  mai  veduto.  Ne  si  è  sentito  parlare  di  alcun  altro  mano- 
scritto di  quest'  opera,  la  quale  non  si  trova  mai  citata  dai  primi 
scrittori.  Con  circostanze  così  strane  ed  atte  a  far  concepire  dei 
dubbi,  sarebbe  fuor  di  luogo  sostenere,  senza  alcuna  incertezza, 
r  autenticità  del  Trattato.  Ma  queste  circostanze  non  sono  tali 
dal  renderla  impossibile  ed  è  dunque  permesso  di  esaminare  le 
prove  che  ci  offre  1'  opera  in  se  stessa. 

Il  resultato  di  questo  esame  potrebbe  essere  tale  da  rendere 
impossibile  la  supposizione  dell'autenticità;  e  questo  è  stato  per 
verità  assento  in  forza  di  argomenti  che  ora  esamineremo.  Ma 
d'  altra  parte,  questo  resultato  può  anche  riuscire  ad  una  conclu- 
sione di  autenticità,  o  almeno  di  probabilità,  e  forse  di  probabilità 
al  più  alto  grado,  non  ostante  la  mancanza  di  altre  prove  este- 
riori. Gli  argomenti,  però,  fondati  solamente  su  tali  indizi  in- 
terni, producono  un  cosi  diverso  effetto  sulle  diverse  menti,  che 
non  si  può  aspettarsi  di  ottenere  un  assenso  concorde.  Il  più  che 
si  può  sperare  è  di  dimostrare  che  la  controversia  non  è  defini- 
tivamente esaurita,  che  il  giudizio  non  deve  pronunziarsi  per  di- 
fetto, e  che  coloro  che  ricusano  di  respingere  sommariamente 
il  Trattato  non  debbono  essere  intieramente  messi  al  bando  dagli 
studiosi  moderni.  Tale  è  stata  la  linea  di  condotta  seguita  da  al- 
cuni critici  italiani  per  aver  io  inclusa  quest'  opera  nel    Dante  di 


(')  Credo  si  chiami  ora    Castiglion  fiorentino.  Lo  trovo    cosi    registrato    nel-        y 
l'indice  dei  Comuni,  dove  esistono  non  meno  di  25  luoghi  denominati  Castiglione 
i  quali  devono  essere  distinti  da  vari  appellativi. 


—  7   - 

Oxford;  ed  ancora  più  per  l'opinione  da  me  ripetutamente  espressa 
nel  mio  volume  anteriore  di  Studi  su  Dante  ('),  che  l'autenticità 
di  quest'  opera  non  si  debba  niente  affatto  considerare  fuori  di 
questione. 

I.  —  La  prova  esterna. 

Siccome  abbiamo  digià  ammesso  che  la  prova  esterna  di  que- 
st'opera  è  minima  e  molto  dubbia,  nostro  scopo  precipuo  deve 
esser  quello  di  dimostrare  che  essa  è  semplicemente  negativa  e 
non  necessariamente  contraria;  cosi  che  il  campo  resta  almeno 
libero  per  poter  considerare  l' autenticità  (  se  pur  esiste  )  del- 
l' opera  stessa. 

I  dati  contrari,  basati  sulla  prova  esterna,  ovvero  sulla  assenza 
di  questa,  possono  riassumersi  come  segue  : 

T.  Nessuno  scrittore  antico  cita  un'  opera  dantesca  di  questo 
genere. 

2.  Nessun  altro  ms.  di  quest'opera  è  stato  mai  trovato  o  co- 
nosciuto. 

3.  E  solo  circa  200  anni  dopo  la  morte  di  Dante  che  questo 
ms.  è  stato  dato  alla  luce. 

4.  L'  esistenza  di  questo  ms.  si  basa  sulla  sola  e  non  provata 
asserzione  del  suo  editore  e  presunto  falsario,  Moncetti,  ed  è 
seriamente  screditata  dal  fatto  che  : 

5.  come  pare,  il  ms.  non  fu  mai  veduto  da  nessun  altro  e 
spari  completamente  dopo  la  pubblicazione  del  trattato  (-). 

I.  2.  3.  I  primi  tre  punti  si  possono  esaminare  insieme.  E  vero 
che  nessun  biografo  antico  o  commentatore  fa  menzione  di  que- 
st' opera  o  vi  allude.  Ma,  ritenendo  per  vero  ciò  che  in  essa  è  as- 
serito, la  discussione  ebbe  luogo  soltanto  circa  diciotto  mesi  avanti 
la  morte  di  Dante,  e  non  vi  è  ragione  per  credere  che  fosse 
da  lui  mai  divulgata  né  pubblicata    (se   pur    di    pubblicazione    si 


(')  Sttidies  in  Dante.  Prima  serie^  Oxford,   1896. 

("(  Gli  argomenti  i.  2.  3  sono   considerati    a    pp.    8-9;    4.    a    pp.    9-m;    5-    a 
pp.  14-17. 


—  8  - 

può  parlare  in  quei  tempi).  Probabilmente,  come  un  discorso  letto 
innanzi  ad  una  società,  ovvero  il  ms.  di  una  conferenza,  questo 
documento  venne  poscia  gettato  da  parte  e  dimenticato  o  smar- 
rito, lincile  (secondo  come  si  è  già  riferito)  fu  per  caso  ritrovato 
due  secoli  dopo.  Tali  accidenti  sono  accaduti  spesso  in  altri  casi, 
e  per  opere  di  maggior  importanza  e  di  pili  grande  interesse  di 
questa.  Bisogna  altresì  tener  in  mente  che  il  soggetto  era  supre- 
mamente tecnico  e  tale  da  interessare  un  numero  ben  limitato  di 
lettori  o  di  uditori.  Non  deve  sorprenderci  perciò,  se  il  dotto 
autore  non  venne  ricliiesto  di  pubblicare  il  suo  interessante  di- 
scorso, se  nessuno  si  prese  la  pena  di  copiarlo,  (anche  se  ne  avesse 
avuto  r  occasione),  se  non  venne  mai  a  cognizione  dei  primi  scrit- 
tori che  si  occuparono  di  Dante,  nessun  opera  dei  quali  (sia  notato) 
è  anteriori  ai  quaranta  anni  dopo  la  morte  del  Poeta.  Quanto  facil- 
mente anche  in  un  periodo  di  tempo  molto  minore  può  smarrirsi 
un  opuscolo  simile  (anche  se  pubblicato)'  (')  Non  dimentichiamo 
che  ancora  delle  opere  sue  pili  celebri,  non  rimane  alcuna  traccia 
della  scrittura  di  Dante,  quantunque  vi  sia  evidenza  palpabile  che 
parte  della  Divina  Commedia  stessa,  non  fu  scritta  se  non  nel  1319 
e  forse  nel  1320,  vale  a  dire  meno  di  due  anni  avanti  la  sua 
morte  (-).  Non  vi  è  bisogno  di  aggiungere  che,  se  questa  fosse  la 


(*)  I  Proff.  Luzio  e  Renier  si  fondano  sul  fatto,  che  non  vi  è  nessun  ricordo 
pubblico  di  questa  notevole  discussione  a  Verona,  e  che  nessuno  degli  ecclesia' 
stici  presenti  abbia  cercato  di  ottenerne  una  copia.  Certamente  non  vi  è  mai 
stato  un  appello  più  debole  di  questo  all'  argtttnenium  e  sileittio  !  È  mai  proba 
bile  che  un  incidente  passeggiero  di  questa  natura,  punto  raro  o  notevole  a  que 
tempi,  trovasse  posto  negli  annali  pubblici  e  nelle  cronache  ?  Sappiamo  che  tal 
volta  avvenimenti  di  altissimo  interesse  pubblico  e  di  massima  importanza  sono 
senza  ragione  sfuggiti  all'  attenzione  e  non  registrati  negli  archivi  locali.  Cosi  ho 
veduto  riferito  in  qualche  luogo,  che  gli  Archivi  di  Barcellona  non  fanno  men- 
zione dell'  ingresso  trionfale  di  Colombo,  né  quelli  del  Portogallo  ricordano  il 
viaggio  di  Amerigo  Vespucci. 

(*)  In  verità  se  accettiamo  l'asserzione  del  Boccaccio  (Vita  §  14),  gli  ultimi 
13  canti  del  Paradiso  furono  smarriti  per  oltre  otto  mesi  dopo  la  morte  di  Dante.  Il 
Boccaccio  fa  menzione,  per  la  sua  fonte  di  questa  storia,  di  un  amico  intimo  di 
Dante  e  della  sua  famiglia,  il  quale,  come  lo  provano  documenti  indipendenti,  era 
stato  a  Ravenna  nel  1320  e  dopo.  (  Vedi  il  mio  scritto  Dante  and  his  Early 
Biographers,  London   1890,  p.  52;  e  Guerrini  e  Ricci,  Studi  ecc.,  pp.  23,  24,  38  ecc.). 


—  9  — 

vera  storia  del  nis.  di  Dante  e  della  sua  Conferenza,  il  tempo 
trascorso  avanti  la  sua  scoperta  non  pregiudica  in  nessun  modo 
i  suoi  diritti,  ed  è  probabile  che  nessun'altra  copia  sia  mai  esistita. 

Ed  è  anche  di  qualche  valore  1'  osservare  che  l' interesse  per 
le  opere  di  Dante,  per  circa  200  anni,  si  limitava  interamente  alla 
Divina  Coììinicdia.  Delle  altre  sue  opere  soltanto  il  Convito  era 
stato  pubblicato  quando  questo  Trattato  fu  dato  alla  luce.  Esso 
precedette  il  De  Viilg.  Eloquio  (1529)  di  ventun  anno;  il  De 
Momircliia  (1559J  a  Basilea,  di  cinquantuno;  e,  ciò  che  è  più 
sorprendente,  la  Vita  Nuova  (  1576)  di  circa  settanta  anni  !  È  stato 
invero  7Ìstantpata  il  medesimo  anno  in  cui  la  prima  edizione  della 
Vita  Nuova  venne  alla  luce.  Questo  per  i  primi  tre  punti  che 
realmente  non  presentano  alcuna  difficoltà  seria. 

4.  Il  quarto  è  molto  più  importante.  Noi  naturalmente  doman- 
diamo con  molto  interesse:  che  cosa  si  conosce  del  carattere 
personale  o  letterario  dell'  uomo,  da  cui  viene  questa  asserzione 
di  fatto  di  un'  importanza  cosi  vitale,  e  che,  se  l'asserzione  è  falsa, 
devesi  ritenere  egli  stesso  come  1'  autore  ed  il  falsario  dell'  opera? 

Questo  punto  è  stato  ampiamente  ed  accuratamente  trattato  in 
un  articolo  scritto  da  Alessandro  Luzio  e  da  Rodolfo  Renier  nel 
voi.  XX  del  Giornale  storico  pp.  125-150,  le  cui  argomentazioni 
esamineremo  diffusamente. 

(i)  Lo  scopo  generale  di  quest'  articolo  è  di  dimostrare  che  il 
Moncetti  era  persona  tutt'  affatto  malfida,  vana  e  spregevole,  fa- 
cendo mostra,  nelle  sue  lettere  esistenti,  di  uno  stile  pomposo  e 
senza  gusto,  pieno  di  sé  e  parassitico  in  sommo  grado  Ma  si  ag- 
giunge aver  esso  goduta  una  riputazione  considerevole  come  mate- 
matico e  astrologo,  pretendendo  anche  alla  facoltà  della  profezia. 
I  due  critici  lo  descrivono  come  tutto  imbevuto  di  scienza  medievale. 
Inoltre  era  ritenuto  assai  capace  come  uomo  di  affari,  essendo 
Vicario  Generale  dell'Ordine  Agostiniano  di  Germania,  ed  es- 
sendogli state  affidate  missioni  in  Francia,  in  Germania  ed  anche 
in  Inghilterra,  dove  si  dice,  abbia  ricevute  dimostrazioni  di  stima 
da  Enrico  MII.  La  conclusione  di  tutto  questo  è  che  il  Moncetti 
aveva  per  lo  meno  la  capacità  a  delinquere. 


Ciò  si  può  per  avventura  ammettere  senza  trarne  conseguenze 
ingiuriose.  Ma  noi  osserveremo  su  tutto  ciò  cine  è  stato  detto: 
i)  che  molte  delle  caratteristiche  personali  sopra  menzionate  non 
hanno  rapporto  alcuno  colla  questione  presente;  2)  che  gli  studi 
matematici  ed  altri  studi  analoghi  del  Moncetti  potevano,  senza 
dubbio,  renderlo  atto  a  commettere  una  tale  falsità,  ma  lo  avreb- 
bero posto  altresì  in  pericolo  di  tradirsi  con  cognizioni  anacro- 
nistiche, le  quali  (come  vedremo )mi  credo  in  diritto  di  provare 
che  non  si  trovano  in  questo  trattato;  3)  si  può  certamente  am- 
mettere che  esse  cognizioni  lo  potessero  indurre  ad  oltrepassare 
le  legittime  funzioni  di  editore,  come,  per  il  vero,  le  sue  stesse 
confessioni  ci  porterebbero  a  sospettare;  4)  Se  il  suo  proprio 
stile  era  pomposo  e  tronfio,  nulla  può  esser  più  differente  da 
quello  della  Quaestio.  I  frammenti  dei  suoi  scritti  citati  dagli 
autori  di  quest'articolo  ne  sono  quanto  mai  dissimili;  5)  Gli 
autori  di  quest'  articolo  non  possono  trovare  termini  abbastanza 
forti  ad  esprimere  il  loro  disprezzo  per  il  Moncetti.  Esso  è  mar- 
chiato di  scroccone  e  cerretano,  esso  non  è  fior  di  farina,  ecc. 
ecc.  (').  Questo  non  è  altro  se  non  una  elaborata  e  laboriosa 
Ignoratio  Elenchi. 

Del  resto  gli  autori  non  sembrano  di  accorgersi  che  tanto 
più  spregevole  essi  lo  rendono,  e  tanto  meno  capace  egli  appa- 
risce di  poter  compiere  una  falsificazione  come  questa,  che  noi 
riguardiamo,  se  pure  è  falsificazione,  frutto  di  una  capacità  straor- 
dinaria ed  eccezionale. 

(ii)  In  secondo  luogo  gran  peso  si  attribuisce  all'avere  il 
Moncetti  parimenti  puhhlicato  per  la  prima  volta  un  trattato  del 
cardinale  Egidio  Colonna,  (il  quale  visse  due  secoli  prima,  e  fu 
per  conseguenza  contemporaneo  di  Dante),  cioè  il  Tractatus  de 
formatione  Immani  corporis  in  utero,  che  dedicò  a  Enrico  Vili  di 
Inghilterra.  Si  argomenta  pure  che  anche  in  questo  son  palesi  i 
motivi  della  propria  compiacenza  (^),  come    nel    caso  presente,  e 


(')  pp.   143  e   147. 

!■'>  "  L'intento  del  Moncetti  nel  pubblicarlo  non  sembra  del  tutto  diverso  da 
quello  „  etc.  p.  149. 


—  II  — 

il  Moncetti  descrive  questo  lavoro  come  corrcctus,  rcvisiis,  reno- 
vatns  et  aitclits.  Ma  il  punto  sorprendente  in  quest'argomentazione 
è  che  il  trattato  cosi  attribuito  a  Egidio  Colonna,  è  ritenuto  dagli 
autori  dell'articolo  di  indubbia  autenticità  !  W  solo  fatto,  che  nel 
pubblicarlo  si  fa  mostra  di  vanità,  di  cattivo  gusto,  e  di  licenza 
editoriale,  come  forse  in  quello  della  Quaestio,  è  nulla  più  di  ciò 
potevasi  naturalmente  attendere. 

Quest'  argomento  dunque  non  è  soltanto  di  nessun  rilievo,  ma 
ricade  per  certo  sopra  i  suoi  autori. 

(iii)  Si  suggerisce  che  la  scena  iniziale  o  preliminare  della 
discussione  incorporata  nella  Quaestio  sia  posta  in  Mantova  per 
adulare  il  Gonzaga,  uno  dei  patroni  del  Moncetti.  Gli  autori  sono 
consci  della  facile  obbiezione:  perché  dunque  la  scena  attuale 
della  disputa  medesima  è  posta  in  Verona  e  non  ancora  essa  in 
Mantova  ?  Alla  qual  cosa  essi  non  possono  offrire  che  la  debole 
risposta,  che  non  vi  possiamo  rispondere  senza  conoscere  ulte- 
riori e  maggiori  particolari  della  vita  del  Moncetti  (p.  150). 

(iv)  Vien  notata  come  sospetta  una  frase  che  si  trova  in  una 
lettera  di  condoglianza  alla  regina  di  Francia  sulla  morte  di 
Luigi  XII,  dove  il  Moncetti  si  qualifica  di  iuto'  sauctae  Tlicologiae 
doctores  mintiiitis,  perché  al  principio  della  Quaestio  Dante  è  pre- 
sentato come  qualificante  sé  stesso  in  simili  termini,  "  inter  vere 
philosophantes  minimus  „.  Ma  questa  lettera  del  Moncetti  fu 
scritta  nel  15 15,  mentre  la  Quaestio  fu  pubblicata  nel  1508.  Per- 
ché dunque  il  Moncetti  non  poteva  far  sua  la  frase,  applicandola 
a  sé  medesimo?  Del  resto  l'espressione  attribuito  qui  a  Dante  in 
tutti  i  casi  rassomiglia  strettamente  al  suo  dire  nell'  Epist.  VII! 
§  5-  Q'i'ppc  <ic  ovibus  pasciiis  fesa  C/iristi  minima  una  sum.  Ri- 
scontrisi ancora   Conv.  I.  i.  vv.  67  segg.  e  IV.  xxx.  vv.  15-23  ('). 

(v)  Inoltre  nessuna  prova  vien  prodotta  dagli  autori,  né  ap- 
parisce che  ne  esista  alcuna,  per  dimostrare  che  il  Moncetti  sia 
stato  specialmente  studioso  di  Dante  e  che  abbia  mai  dato  segno 
alcuno  di  prender  qualsiasi  interesse  alle  opere  di  lui.  Sembra  quasi 


(')  V.  più  oltre  in  questo  studio. 


—    12    — 

certo,  che  niun  altro  che  uno  studioso  attento  e  assiduo  abbia  po- 
tuto eseguire  una  simile  falsitìcazione,  evitando  di  esporsi  ogni  mo- 
mento ad  essere  scoperto.  È  egli  probabile  che  un  tale  studioso 
si  potesse  contentare  ticH.i  palma  di  questa  folsilìcazione  imposta 
al  mondo,  unico  frutto  di  quel  "  lungo  studio  e  grande  aiìiorc  „, 
che  lo  avea  posto  in  grado  di  produrla  ? 

(vi)  Diversi  ed  importanti  argomenti,  come  a  me  sembra, 
possono  scaturire  da  una  considerazione  suW  aiilo/'c  particolare 
e  sul  soggetto  speciale  scelti  per  questa  pretesa  falsificazione. 

(a)  Perché  il  Moncetti,  o  alcun  altro  falsificatore,  avrebbe  scelto 
proprio  Dante,  autore  di  opere  che  destavano  allora,  come  abbiamo 
veduto,  (p.  9)  cosi  poco  interesse?  Non  avrebbe  piuttosto  pre- 
ferito alcuni  autori  classici,  il  preteso  ritrovamento  di  qualche 
opera  dei  quali  avrebbe  richiamato  molto  pili  seriamente  1'  atten- 
zione sul  fortunato  scopritore  ? 

(b)  Ma  noi  possiamo  inoltre  dimandare,  anche  supponendo  che 
egli  abbia  per  il  suo  scopo  scelto  l'Alighieri,  perché  avrebbe legli 
preferito  un  soggetto  tanto  differente  da  ogni  altro  trattato  nelle 
opere  conosciute  di  Dante,  un  soggetto  pel  quale  nulla  prova  che 
il  Poeta  abbia  sentito  un  interesse  speciale? 

Ne  aveva  sotto  mano  diversi  altri  molto  più  promettenti  e 
che  quasi  richiamavano  1'  attenzione  del  falsificatore,  quali  quelli 
annunziati  dallo  stesso  Dante,  da  svolgersi  in  alcuni  dei  Trattati 
non  condotti  a  termine  del  Convito,  o  nei  due  altri  libri  del  De 
vujgari  Eloquio. 

(e)  Inoltre,  la  questione  discussa  qui  con  tanta  elaborazione  e 
talvolta  anche  con  tanto  calore,  era  intieramente  fuori  d'  uso  e 
morta  nel  secolo  decimosesto,  non  conservando  nemmeno  un 
interesse  aecademico;  mentre  d'altro  lato  al  tempo  di  Dante  era 
molto  viva.  Né  vi  è  in  vero  alcuna  traccia,  nelle  opere  autentiche 
di  Dante,  per  iscoprire  un  cenno  di  questo  argomento,  che  po- 
tesse servire  di  addentellato  ad  un  falsario. 

Ma  abbondano  le  testimonianze  per  dimostrare  l' interesse  sen- 
tito ai  tempi  dell'  Alighieri  per  siffatta  questione,  e  che  il  modo 
di  vedere  propugnato  qui,  non  è  in  apparenza  quello  generalmente 


—  13  - 

accettato.  Ciò  mi  sembra  di  tanta  importanza,  riferendosi  alla  pro- 
babilità che  Dante  avesse  intrapreso  la  seria  trattazione  di  un 
argomento  al  di  fuori  dei  suoi  temi  consueti,  che  ho  raccolto  un 
gran  numero  di  prove  per  dimostrarlo.  Queste  sono  riportate 
neir  Appendice  per  evitare  qui  una  disgressione  troppo  lunga. 

(d)  Conviene  domandare:  se  il  Moncctti  era  un  uomo  di  va- 
nità cosi  disordinata  ed  al  tempo  stesso  cosi  profondamente  im- 
bevuto delle  cognizioni  scientifiche  del  suo  tempo,  come  vien 
asserito  (v,  sopra  p.  9),  è  mai  probabile  che  egli  si  sia  fatta 
sfuggire  r  opportunità  di  spiegare  la  sua  erudizione,  correggendo 
con  note  i  rozzi  concetti  e  le  teorie  fisiche  fuori  d'  uso,  che  ab- 
bondano nell'opera  e  che  (data  l'ipotesi)  egli  stesso  vi  avrebbe 
coscientemente  introdotte?  Da  qualunque  lato  si  voglia  conside- 
rare, vi  sarebbe  una  straordinaria  mancanza  di  movente  in  una 
falsificazione  come  sarebbe  questa.  Il  Trattato  in  fatti  non  sem- 
bra aver  attirato  1'  attenzione,  come  a  quell'  epoca  si  sarebbe  po- 
tuto aspettare. 

(e)  Ma  vi  è  un  altra  prova  negli  errori  che  si  trovano  in  questo 
Trattato,  oltre  la  negligenza  scientifica,  errori  che  è  difficile  di 
spiegare  ammettendo  l' ipotesi  di  una  falsificazione  ('). 

La  disposizione  degli  argomenti  nei  §§  14  e  segg.,  specialmente 
come  sono  indicati  dall'  intestazione  di  quei  paragrafi,  è  notevol- 
mente confusa.  In  alcuni  paragrafi  (specialmente  il  §  18)  la  punteg- 
giatura e  la  divisione  delle  frasi  sono  cosi  sbagliate,  che  se  ne  smar- 
risce r  argomentazione  e  persino  il  senso.  Ed  ancora  vi  sono  molte 
singole  parole  che  sono  palesemente  mal  decifrate,  tanto  che 
talvolta  creano  un  controsenso  e  talvolta  dicono  precisamente  il 
contrario  di  ciò  che  avrebbero  dovuto  significare.  Eccone  alcuni 
esempi: 

§  IO,  V.  7  excentrica  invece  di  concentrica. 

§  12,  V.  53  fluilatis  invece  di  gravitatis. 

§  20,  V.  54  altcriiis  invece  di  iilterius  ecc. 


(')  Io  sono  debitore  di  questo  argomento,  come  di  molti  altri,  all'  egregio 
dantofilo  D.  Shadwell,  che  ha  pure  suggerite  le  correzioni  date  sopra,  ed  altre 
che  si  possono  riscontrare  nella  lista  inserita  nel  Dante  di  O.xford,  p.  423. 


—   14  — 

(ira  questi  errori  possono  facilmente  derivare,  da  falsa  inter- 
pretazione, da  errato  deciframento,  o  dalla  lezione  poco  intelligi- 
bile di  un  nis.  copiato  da  chi  sa  chi  200  anni  prima;  ma  come 
potrebbero  trovar  posto  ncll'  autografo  di  un  falsificatore  ? 

L'  ipotesi,  che  errori  come  questi  vi  possono  essere  introdotti 
con  r  intenzione  di  tendere  una  trappola  per  isviare  i  critici,  è 
troppo  assurda  per  aver  bisogno  di  essere  confutata  sul  serio. 

5.  Ci  rimane  ora  da  considerare  l'ultimo  dei  cinque  punti,  cioè 
della  circostanza  che  dà  molto  a  sospettare,  come  si  dice,  della 
subitanea  scomparsa  del  manoscritto  originale,  e  vedremo  che 
questo  non  è  un  caso  né  cosi  serio,  né  cosi  eccezionale,  come 
può  apparire  a  prima  vista. 

(i)  Vi  sono  non  soltanto  molti  altri  casi  generalmente  cono- 
sciuti, nei  quali  opere  importanti  del  mondo  antico,  sono  soprav- 
visute  in  un  solo  manoscritto;  ma  vi  son  pure  diversi  altri  casi 
nei  quali  quei  mss.,  dopo  la  loro  pubblicazione  per  la  stampa, 
sono  spariti  misteriosamente  ed  interamente  e  sembrano  non 
esistere  più. 

Io  farò  menzione  di  uno  o  due,  dei  quali  ho  inteso  parlare; 
altri  ve  ne  saranno  certamente  da  aggiungere.  Io  credo  che  la 
corrispondenza  di  Plinio  con  Traiano  si  fondi  sopra  di  un  ms. 
trovato  a  Parigi  verso  il  1500,  e  veduto  da  varie  persone  avanti 
il  1508,  dopo  di  che  è  totalmente  scomparso.  Uguale  è  il  caso  di 
alcune  opere  di  Cicerone.  Un  amico  m' informa  che  il  secondo 
libro  delle  lettere  a  Bruto  è  stato  pubblicato  per  la  prima  volta 
da  Cratander  (Basilea,  1528),  ma  che  non  se  ne  conosce  alcun 
ms.  Qualche  editore  ha  supposfo  che  fossero  una  falsificazione 
molto  antica,  e  forse  anche  una  falsificazione  contemporanea, 
quantunque  critici  recenti  le  conbiderino  generalmente  genuine, 
ma  in  ogni  caso,  nessuno  pone  in  dubbio  che  Cratander  posse- 
desse un  ms.  dal  quale  egli  stampasse,  e  che  egli  in  ogni  modo 
non  falsificò  le  Lettere,  quantunque  il  ms.  non  sia  stato  più  visto 
dopo  la  pubblicazione.  Lo  stesso  amico  ha  gentilmente  attirato  la 
mia  attenzione  sulla  storia  delle  lettere  di  Cicerone  ad  Attico. 
Esse  furono  scoperte  dal  Petrarca  a  Verona,  ma  il  ms.    che  egli 


—  15   - 

trovò  si  è  perduto.  Un  altro  nis.  fu  trovato  ed  adoperato  da  Cra- 
tander,  ma  e  perduto  anche  questo.  Un  terzo  ms.  fu  prestato  a 
Lanibino  da  uno  stampatore  di  Lione  per  nome  de  Tournes,  ma 
anche  questo  è  scomparso.  E  vero  che  alcune  copie  di  questi  ms. 
sono  state  fatte  ed  esistono  ancora,  ma  la  sorte  di  tutti  questi 
mss.  originali  ci  dimostra  come  la  scomparsa  dei  mss.,  dopo  es- 
sere stati  copiati  o  stampati,  non  sia  cosa  rara.  Inoltre,  un  gran 
numero  dei  mss.  originali  trovati  da  Foggio  sono  andati  smar- 
riti. Questi  contenevano  il  testo  di  varie  Orazioni  di  Cicerone,  la 
cui  autenticità  non  vien  posta  in  dubbio  da  nessuno:  ed  anche 
quelle  di  Asconio,  Valerio  Fiacco,  Manilio,  Silio  Italico,  e  le 
Silvae  di  Stazio.  E  sono  anche  informato  che  la  Satira  attribuita 
a  Sulpicia  (di  circa  settanta  esametri)  si  basa  intieramente  sopra 
un  unico  manoscritto  da  molto  tempo  scomparso.  Ora  non  vi  è 
alcuna  prova  autorevole  o  evidente  per  quest'  opera,  ad  eccezione 
delle  prime  edizioni  del  Merula,  (1498  e  1509)  e  del  Ugoletus  (1499 
e  1510).  Finalmente  Velleio  Paterculo  ci  fu  conservato  unicamente 
in  un  ms.  che  è  stato  smarrito  sul  principio  del  secolo  decimo- 
sesto, quantunque  ne  esista  tuttavia  una  copia  fatta  da  Amerbach 
nel  1516,  r  cditio  princeps  essendo  del  1520.  Il  ms.  stesso  non 
venne  scoperto  che  nel  1515  ('). 


(')  Il  chiarissimo  dantofilo  Dr.  Paget  Toynbee,  attira  la  mia  attenzione  sul  caso 
dell'  importante  e  senza  dubbio  antentico  poema  antico  francese  conosciuto  sotto 
il  titolo  "  Le  Pèlerinage  de  Charlemagne  à  Jérusalem  „,  conservato  in  un  solo 
ms.  ed  una  volta  al  Museo  Britannico,  ora  smarrito.  Mi  ha  ancora  fatto  notare 
im  passo  nel  libro  del  Dr.  Voigt  Petrarque,  Boccace,  et  les  déòu/s  de  l' Huntanisnte 
en  Italie,  dal  quale  ricavo  i  seguenti  altri  particolari  riguardo  ai  frequenti  smar- 
rimenti di  pregevoli  mss.  Diversi  mss.  di  opere  di  Cicerone  trovati  da  Poggio  a 
S.  Gali,  Langres,  ecc.,  sono  spariti  del  tutto.  Un  altro  scoperto  circa  alla  stessa 
epoca,  1422,  (quantunque  non  da  Poggio),  a  Lodi  ebbe  la  stessa  sorte.  In  tutti 
questi  casi  ne  sono  state  fatte  copie  che  sono  sopravvissute  e  su  queste  sole 
(molte  volte)  si  basa  la  nostra  conoscenza  delle  opere  originali.  Il  Voigt  conclude 
cosi.  "  Si  r  on  jette  un  regard  sur  le  noinbre  des  vieux  manuscrits  qui  furent 
pendant  ces  dix  années,  remis  au  jour,  pour  perir  ensuite  et  disparaitre  sans 
retour,  et  qui  constituent  la  plupart  du  temps  les  derniers  restes  d'  un  monument 
littéraire,  on  pourra  se  faire  une  idée  des  services  éminents  rendus  par  ceux  qui 
Ics  ont  découverts  et  sauvés  „  (pag.  241). 


—  i6  — 

È  vero  che  nella  maggior  parte  dei  casi,  se  non  sempre, 
tutti  questi  manoscritti  sono  stati  veduti  da  altre  persone  avanti 
di  essere  smarriti  e  distrutti.  Ma  allorquando  la  noncuranza  e 
l'indifferenza  per  la  conservazione  dei  ms.  originali  era  cosi 
comune,  non  possiamo  dare  grande  importanza  allo  smarrimento 
del  nostro  o  riguardarlo  altrimenti  che  come  casuale. 

Per  quanto  1'  agire  del  Moncetti  possa  parere  strano  a  noi  e 
rechi  danno  al  suo  credito,  non  è  da  ritenersi  incredibile,  non  es- 
sendovi limite  alcuno  alle  stravaganze  del  capriccio  individuale, 
o  alla  trascuraggine,  e  noi  abbiamo  frequentemente  veduto  con- 
dursi in  modo  strano  anche  persone  apparentemente  ragionevoli, 
che  parevano  sul  limite  dell' abberrazione  mentale,  anzi  direi  quasi 
della  pazzia.  Infatti  io  ho  veduto  asserito  in  qualche  luogo  il  pa- 
radosso che  le  leggi  della  probabilità,  quantunque  si  vogliano 
sempre  osservate  dalla  finzione,  non  sembrano  aver  alcuna  forza 
nella  vita  ordinaria. 

(ii)  Ma  vi  è  un  punto  di  vista  dal  quale  un'  azione  simile  è 
ben  lontana  di  essere  cosi  strana  come  apparirebbe  a  noi  se  ac- 
cadesse adesso. 

L' interesse  e  l' importanza  che  si  annette  agli  autografi  ed  ai 
documenti  originali  è  relativamente  moderna.  Prova  ne  sia  la 
scomparsa  remota  e  totale  degli  autografi  di  tutte  le  opere  di 
Dante,  cosicché  i  commentatori  dodici  anni  dopo  la  sua  morte 
si  trovano  a  discutere  sulle  importanti  differenze  di  lezioni  ('). 
Inoltre,  nella  corrispondenza  di  eruditi,  accade  che  un  ms.  dato 
in  prestito,  sia  copiato  nitidamente  ed  esattamente,  e  la  copia  sia 
restituita  al  proprietario  in  vece  dell'  originale,  essendo  ambo  le 
parti  persuase  che  il  proprietario  abbia  fatto  un  buon  baratto  ed 
abbia  ricevuto  '/y'joiy.  yyXy.v.riyj. 

Infatti  un  manoscritto  una  volta  stampato  era  riguardato  come 
una  copia  che  non  valeva  la  pena  di  conservare.  Non  vi  sarebbe 
dunque  nulla  di  strano  tre  o  quattro  secoli  fa,  nella  perdita  o  di- 


(')  V.  le  mie  Contributions  io  the   Textual  Cn'iicism  qf  the  Divina  Commedia, 
Cambridge  1889,  pp.  382-385. 


—  17   - 

struzione  di  questo  nis.  per  parte  del  Moncetti  o  forse  anche 
de*  suoi  stampatori. 

(iii)  Si  potrebbe  anche  del  resto  supporre,  quantunque  non 
vi  sia  necessità,  uno  scopo  sinistro  alla  sua  distruzione,  senza 
andar  sino  al  sospetto  di  falsificazione,  I  professori  Luzio  e  Renier, 
danno  molta  importanza  alla  disordinata  vanità  del  Moncetti. 
Ciò,  lo  può  aver  indotto  a  riserbare  solo  a  sé  stesso  l' unico 
privilegio  di  porre  gli  occhi  su  questo  tesoro,  per  rialzare  il  valore 
della  sua  opera  di  editore,  facendola  quasi  unico  canale  di  tra- 
smissione alla  posterità  di  quest'  opera  di  recente  scoperta.  Si 
sa  che  alcuni  collettori  di  libri  hanno  distrutto  una  copia  dupli- 
cata di  un  qualche  libro  raro  od  opuscolo,  per  assicurarsi  la  vo- 
luttà del  possesso  unico.  Si  potrebbe  ancora  addurre  un  altro 
motivo,  sebbene  meno  probabile.  11  Moncetti  può  aversi  preso 
molte  libertà  circa  il  contenuto  del  ms.  e  lo  ammette  sino  a  un  certo 
punto  anch' egli  nel  titolo  dell'edizione  del  1508,  che  ci  presenta 
come  diligcntcr  et  accurate  correcta  da  lui  stesso.  Se  non  fosse 
che  egli  sembra  piuttosto  fiero  di  ciò,  si  potrebbe  pensare  che 
avesse  buone  ragioni  per  non  volere  che  il  mondo  giudicasse  o 
criticasse  la  sua  opera  di  editore.  Ma  in  ogni  caso  potrebbe 
essergli  piaciuto  di  sottrarla  alla  critica  o  alla  revisione,  rendendo 
cosi  la  sua  edizione  definitiva  ed  inalterabile. 

Su  questo  punto  aggiungeremo  un'  osservazione.  Noi  non  ab- 
biamo, a  causa  della  scomparsa  del  ms.,  nessun  mezzo  per  giu- 
dicare quanto  possa  essere  stato  rimaneggiato  o  quanto  vi 
sia  stato  per  avventura  aggiunto  o  interpolato.  Perciò  se  una  o 
due  tracce  di  anacronismi  vi  si  scoprissero,  tracce  che  noi  asse- 
riamo non  esservi,  queste  potrebbero  far  ritenere  vera  la  sup- 
posizione. Ma  anche  se  noi  ammettessimo  che  la  manipolazione 
del  ms.  fosse  molto  più  estesa  di  quello  che  abbiamo  ragione 
di  supporre,  questo  non  dimostrerebbe,  che  noi  non  avessimo 
un'  opera  genuina  di  Dante,  quantunque  corrotta  e  deteriorata. 
In  ogni  caso  non  è  probabile  che  essa  sia  stata  più  sbadata- 
mente rimaneggiata  del  testo  di  alcune  opere,  riconosciute  auten- 
tiche  (còme    il   Convito),   da    alcuni    editori    moderni.    Fortunata- 

E.  MooRE.  a 


—  i8  — 

mente  l' esistenza  dei  mss.  in  questi    casi    ci    rende    possibile    di 
scorgere  gli  errori  e  di  rimediarvi.  — 

II.  —  Prova  interna. 

Nel  trattare  la  prova  interna  sarà  bene  di  considerare  prima 
gli  argomenti  contrari  {'),  che  si  son  basati  sui  pretesi  ana- 
cronismi riguardo  alle  cognizioni  scientifiche,  perchè  se  tali 
anacronismi  si  trovano  realmente  in  quest'  opera  cadit  quaestio 
(in  più  sensi)  e  la  mano  del  falsificatore  si  scopre  subito.  In 
questo  caso  nessuna  serie  di  prove  fondata  sulla  singolaiità  del 
linguaggio  o  pensiero  Dantesco  può  aver  alcun  valore,  e  nean- 
che destare  interesse,  altro  che  come  misura  dell'  abilità  del  fal- 
sario neir  eseguire  la  sua  falsificazione. 

Ritornando  su  questo  punto  troviamo  tutt'  a  un  tratto  una 
strana  diversità  di  opinioni  per  ciò  che  riguarda  i  dati  di  fatto. 
Alcuni,  dopo  un  esame  accurato,  scoprono  poco  o  niente  al  di  là 
delle  teorie  fisiche  di  già  propagate  (prima  di  Dante)  da  Bru- 
netto Latini,  Ristoro  d' Arezzo,  Giovanni  da  Sacrobosco,  ecc. 
Altri  professano  di  trovarvi  delle  meravigliose  anticipazioni  di 
Leonardo  da  Vinci  e  di  altri  pionieri  della  scienza  moderna,  come 
se  la  mente  di  Dante 

Alle  sue  vision  quasi  è  divina. 

Strano  a  dirsi,  il  principale  avvocato  di  questa  opinione,  lo 
Stoppani,  è  tra  i  più  strenui  difensori  dell'  autenticità  del  Trat- 
tato, e  non,  come  si  potrebbe  supporre,  tra  i  suoi  avversari. 
Ma  esso  è  per  verità  un  alleato  molto  compromettente,  e  la  sua 
rettorica  poco  giudiziosa  ha  fornito  l' armeria,  dalla  quale  gli 
avversari  hanno  tolto  alcune  delle  armi  più  efficaci.  Perchè,  a 
dir  vero,  a  meno  di  esser  preparati,   usando    il    linguaggio   dello 


(')  Gli  argomenti  allegati  in  contrario  o  negativi  son  trattati  nelle  pag.  19 
a  29;  quelli  favorevoli  o  positivi  nelle  pag.  30  e  segg.,  sotto  tre  capi  indicati  a 
pag.  29. 


-   19  — 

Scartazzini,  ad  aninirf/nr  mi  ìitiracolo,  queste  anticipazioni  meravi- 
gliose "  costituiscono  di  fatto  altrettanti  anacronismi  „  e  l' am- 
metterle sarebbe  fatale  per  la  dantesca  paternità  dell'  opera  ('). 
Queste  "  ferite  di  mano  amica  „  sono  invero  i  più  seri  argo- 
menti che  abbiamo  contro  di  noi.  Possiamo  farvi  due  obbiezioni 
generali  avanti  di  considerarle  partitamente. 

(i).  Supponendo  che  queste  "  anticipazioni  „  siano  distintamente 
e  chiaramente  espresse  nel  linguaggio  del  Trattato,  come  se  lo 
immagina  lo  Stoppani,  come  è  che  non  sono  in  nessun  modo 
fatte  notare  dall'autore  quale  novità,  ma  egli  vi  si  riferisce  piuttosto 
come  a  fatti  e  principi  già  riconosciuti? 

(2)  Riassumendo  (con  lo  Stoppani)  l' asserzione  corrente  delle 
circostanze  nelle  quali  esse  furono  esposte 

coram  universo  clero  Veronensi 

queste  strabilianti  eresie  fisiche  (come  avrebbero  dovuto  appa- 
rire ex  Iiypothcsi)  non  avrebbero  dovuto  attirare  l' attenzione  e 
suscitar  controversie  a  un  grado  tale  da  non  lasciar,  per  modo 
di  dire,  morir  1'  argomento  di  morte  naturale,  e  forse  neanche  il 
suo  autore,  e  farlo  subito  cadere  in  dimenticanza? 

Ma  poi,  cosa  sono  queste  meravigliose  anticipazioni  o  anacro- 
nismi esaminati  particolarmente?  Lo  Stoppani  ne  enumera  non 
meno  di  nove,  presagiti,  affermati,  ed  anche  dimostrati,  in  codeste 
poche  pagine,  (')  costituenti,  se  fossero  veri,  un  indizio  pressoché 
fatale  contro  il  suo  proprio  cliente. 

(i)  La  Luna  come  causa  principale  delle  maree;  vedi  il  prin- 
cipio del  §  7:  Aqua  vidctur  maxime  sequi  mottiiìi  Lnnae,  ut  pa- 
tet  in  accessu  et  recessu  maris. 

Si  può -mettere  in  dubbio  il  grado  preciso  di  vera  scienza 
contenuto  in  queste  parole.  Ma  in  ogni  caso  non  eccede  ciò  che 


(')  È  strano  come  spesso  i  ciechi  ammiratori  di  Dante  gli  abbiano  attribuito 
il  dono  della  profezia,  nel  senso  di  chiaroveggenza  degli  avvenimenti  futuri. 

(-)  Giuliani  —  0/>.  Lai.  di  Dante,  II,  pp.  451-462,  dove  è  stampata  la  cu- 
riosa lettera  dello  Stoppani  su  questo  argomento. 


20    

Dante  può  aver  Ietto  in  S.  Tommaso,  Siiiiiiìkj,  I,  Q.  no  Ar/.  3: 
Sten/  y/uxtis  ci  tr/lii.xiis  lìian's  hoìì  coiiscqititiir  foruiaìii  siiòsfan- 
tialcni  (Kjuar,  srd  virtiitcìii  liiìiac.  (Cfr.  I,  O.  105,  Art.  6).  Ed  an- 
che, II,  2'^-"',  Q.  2,  Art.  3:  Siati  aqua  sccuiu/inn  luoliini  pro- 
pn'iiìii  lìioirfur  ad  cciitnini;  scciiiiditiìi  aitkm  ììiolniii  litiìae  move- 
tur  circa  coitnini  sccimdmn  //axii/ii  et  rcjluxiim. 

O  ancora  in  Alberto  Magno,  De  proprictatibiis  clcìììcntontìu. 
Tract.  II,  e.  W,  in  cui  è  detto  che  le  maree  son  dovute  all'in- 
fluenza di  tutti  i  pianeti,  ma  specialmente  a  quella  del  Sole  e 
della  Luna;  perché  il  Sole,  sorgente  del  calore,  attira  l'umidità 
ad  oiniiiiiiu  corporitiii  coelestium  iiiitriiucutitiìi,  mentre  la  Luna, 
qiiod  proprietatis  est  aquac  agisce  sul  mare  connatiiraliter.  An- 
cora una  volta  è  da  notarsi  ciò  che  Dante  stesso  dice  nel  Par. 
XVI,  83: 

E  come  il  volger  del  cicl  della  luna 
Copre  e  discopre  i  liti  senza  posa. 

La  stessa  espressione  scqìii  niotum  Ltinae  rassomiglia 

il  volger  del  ciel  della  Luna, 

e  non  è  certamente  quella  che  avrebbe  scelto  uno  scrittore  che 
avesse  realmente  compreso  la  causa  dell'  azione  della  Luna  sulle 
maree.  Ho  citato  sopra  il  linguaggio  di  Alberto  Magno,  per 
dimostrare  quanto  poco  si  possa  giudicare  del  valore  scientifico 
di  asserzioni  vaghe,  finché  non  è  dato  di  accertarsi  delle  basi 
(spesso  erronee  e  di  nessun  valore)  sulle  quali  si  fondano. 

Ma  anche  Lucano  ha  una  qualche  vaga  nozione  della  rela- 
zione esistente  tra  la  Luna  e  le  Maree  come  l' esprime  nella 
Pliars.  X,  204 

Luna  suis  vicibus  Tctyn  tcrrenaque  miscet.   (') 


(')  li  Toynbee  mi  manda  gentilmente  la  seguente  nota:  *  L'influenza  della 
luna  sulle  maree  è  discussa  da  Plinio  (II,  97)  in  un  passo  che  vien  citato  da 
Vincenzo  di  Beauvay  nello  Speculnnt  naturale  (V.  i8).  Acsliis  inaris  accedere  et 
reciprocare  tnirttiu  est,  veruni  causa  est  in  sole  et    luna.    Bis    iiiler    ciuos    exorlus 


—    21    — 


E,  per  rimontare  più  indietro,  anche  Pytlieas,  e.  330  A  C,  (presso 
Plutarco)  osservò  la  corrispondenza  tra  i  movimenti  delle  Maree 
e  quelli  della  Luna  e  ne  venne  alla  conclusione  di  una  relazione 
di  causa  e  di  effetto    tra    essi.    Come    pure    S.    Basilio  Hoìn.    in 

Ilexani.  \'\  §  11  asserisce:  [ivziò.  Bciicd.)  Eiiriporiun  ìrjluxiis 

repercriiiit  accoloe  coiiversioiiihiis  liiiiac  ordinale  rcspoiulcrc.  Egli 
aggiunge  una  curiosa  osservazione:  quasi  (i/iarc)  rctrorsum  stib- 
trahcrctiir  liinac  respirationibus,  ac  iterimi  ipsiiis  cxspiratioìiibiis, 
ad  propriam  mensuraìu  intpelleretiir. 

Vedi  inoltre^  diverse  teorie  sulle  maree  (inclusa  quella  che  è 
nel  testo)  in  Brunetto  Latini,   Tre'sor  \,  Part.  IV,  e.  125. 

Sembra  evidente,  da  molti  luoghi,  che  l' idea  preponderante 
nella  mente  dell'  autore,  sia  1'  influenza  delle  sfere  stellate,  che  è 
un  pensiero  cosi  prominente  nel  sistema  fisico  ed  etico  dantesco 
(Cfr.  nel  seguito  di  questo  lavoro  le  osservazioni  intorno  al 
§  XXI  della  Quaestio).  Noi  vi  scorgiamo  l' idea  strana  e  poco 
scientifica  che  l' acqua  sia  "  corpus  imitabile  orbis  Lunae  „ 
(§  XXIII  vv.  50  e  segg.  ),  cosicché  vi  si  scorge  una  diffi- 
coltà che  richiede  la  spiegazione,  che  il  movimento  dell'  acqua 
è  movimento  di  elevazione,  mentre  quello  della  Luna  è  cir- 
colare. La  spiegazione  stessa  dimostra  quanto  poco  1'  autore 
sapesse  dell'  azione  della  Luna  sopra  le  maree,  se  arguisce 
perchè  l' acqua  imita  in  certo  modo  la  rivoluzione  della  Luna, 
che  non  è  necessario  di  far  così  in  tutto.  Apparisce  dal  §  7 
che  gli  oppositori  si  basavano  suU'  argomento  che  per  ragione 
di  questa  imitazione  la  superficie  dell'  acqua  debba  essere  eccen- 
trica come  l'orbita  della  Luna,  e  conseguentemente  essa  do- 
vrebbe essere  in  qualche  sito  naturalmente  più  alta  che  la  terra 
asciutta.  L'  autore,  chiunque  egli  sia,  sembra  accettare  il  principio 
assunto,  e  semplicemente  rigettare  la  conclusione.  Vedi  più  oltre 
le  osservaz.  ai  vv.  47  e  seg.  del  §  XXI  della  Quaestio. 


lunae  afflitnnt  bisqiie  renieant  vicenis  quatcniisqiie  setuper  horis.  Il  fenomeno  in 
tempi  posteriori  era  famigliare  a  Macrobio  (circa  430)  e  a  Marziano  Capella 
(circa  470),  ambedue  citati  a  questo  proposito  da  Bartolomeo  Anglico  (circa  1260) 
nel  suo  De  proprietatibits  rerum  (Vili  29). 


(2Ì.  La  seconda  aiìticipazioiic  si  vuol  trovare  noli'  iiììi/oriìiilà  del 
livello  del  mare.  Il  principio  è  enunciato  dall'  autore  come  qual- 
che cosa  di  assolutamente  evidente  e  necessario,  atto  a  dare  una 
risposta  pronta  e  compiuta  alla  teoria  da  lui  contradetta,  cioè  che 
il  mare  sia  sopra  il  livello  della  terra.  Questo  implica  che  o  esso 
noti  è  cotieentn'eo  col  continente  al  centro  comune  della  terra,  e 
perciò  dell'universo  (secondo  le  teorie  cosmiche  prevalenti  in  quel 
tempo),  oppure  che  è  gibboso  in  alcuni  luoghi  (vedi  §  X).  In 
confutazione  si  argomenta:  (i)  qtiod  aqiia  natiiraìitcr  niovetitr  dcor- 
siitn;  e  (2)  (jitod  aqtia  est  labile  corpus  natiiraliter.  (§  XI)  (')  Que- 
sti due  fatti  son  riguardati  come  principi;  e  se  alcuno  negasse 
ambedue  o  uno  di  essi,  egli  sarebbe  al  di  là  dell'argomento  {ib) 
Certamente  non  vi  è  nulla  di  nuovo  nell'  appellarsi  a  fatti  rudi- 
mentali dell'  esperienza  come  questi.  Né  può  il  caso  dell'  oceanp, 
a  ragione  della  ampiezza  sua  differire  da  quello  del  più  piccolo 
stagno.  E  evidente  che  a  questo  si  potrebbe  applicare  il  linguaggio 
di  Aristotile  in  un  caso  simile  oOcèv  to''v'jv  t'ìOto  cia-^ips:  Xiyc'.v  £7:: 
póAo'j  '/,yX  |iopìo'j  toO  T'j'/Svro:,  y)  ir::  &Àr^;  -J^z  \-7^z,  oò  y^p  òtà  |x'.- 
-/.sÓTYjTa  y^  \iv{-J)zz  iipr^zci'.  tò  a'jiJ.(5arvov.  De  Coelo,  li,  xiv  (297, 
b,  7-9).  Finalmente  possiamo  paragonare  di  nuovo  Li  Tre'sor,  I 
part.  III.  e.  106:  /'/  est  propre  nature  des  aignes  qne  elcs  montent 
tant  coni  me  eles  avalent. 

(3),  L'  altro  punto  che  è  notato  come  miracolo  di  fantasia,  è  la 
forza  centripeta,  cioè  la  forza  di  gravità.  Il  passo  sul  quale  prin- 
cipalmente si  fonda  è  citato  nel  §  XVI  vv.  51  5^"^^^.  Potissima 
virtus  gravitatis  est  in  corpore  potissime  petente  cciitnim,  quod 
qtiidem  est  terra:  ergo  ipsa  potessime  attingit  finem  gravitatis, 
qui  est  centrum  mundi.  Ma  questo  non  è  certamente  inteso  nel 
senso  moderno,  quantunque  la  parola  gravitas  vi  si  trovi  (come 
diverse  altre  volte  nel  Trattato);  ma  semplicemente  nel  senso 
che  è  vecchio  quanto  Aristotile,  cioè  che,  siccome  tutti  gli  ele- 
menti hanno  il  loro  loco  proprio  verso  il  quale  essi  tendono, 
quello  della  terra  e  di  altri  corpi  pesi  è  il    centro    del    mondo  e 


(')  V.  più  oltre,  §  XX  vv.  47-51. 


—  23  — 

perciò  dell'universo.  (')  Non  vi  e  nulla  neWa  Oiiarsfio  al  di  là  di 
quanto  ne  attesta  Dante  nel  Coni'.  Ili  (•)  o  anche  nel  passo  pili 
familiare  dcW  In/cnio  XXXII,  73,  74: 

E  mentre  che  andavamo  in  ver  Io  mezzo 
Al  quale  ogni  gravezza  si  raduna; 

e  Ini".  XXX I\'^  no,  in: 

Il  punto 
Al  qual  si  traggon  d'  ogni  parte    i  pesi 

\'edi  ancora  una  volta  De  Moii.  \,  xv,  v,  38:  plitrcs  glebas  dice- 
rei  II  US  coiìcordes,  propkr  condiscendere  omncs  ed  mediiiin. 

Ma  è  inutile  moltiplicare  le  citazioni  sopra  un  punto  cosi  evi- 
dente. 

L'uso  per  nulla  affatto  scientifico  e  deviatore  del  termine  ^tw- 
vitàs  ci  risulterà  dalla  spiegazione  che  ce  ne  dà  il  §  XII:  "  Grave  „ 
et  "  leve  „  snn/  pnssioncs  (^)  corpornni  sinipliciitni  quae  moventiir 
molli  redo]  {*)  et  levia  nioventnr  siirsiun,  gravici  vero  deorsnni.  Qui 


(')  Vedi  il  passo  citato  nei  miei  Studi  su  Dante,  I,  p-  122,  e  Coiiv.  ui  passim 
Aggiungi  ////.  XI  6^,  65;  Il  punto  dell'  Universo  in  su  che  Dite  siede;  e  cfr.  con 
In/.  XXXII,  ^:  fondo  a  tutto  l'universo.  Anche  in  Brunetto  Latini,  Trésor,  L,  I, 
part.  Ili,  e.  105,  leggiamo:  toutes  clioses  se  traient  et  vont  tosjors  aii  plus  bas, 
et  la  plus  basse  e  Uose  et  la  plus  parfonde  qui  soit  au  monde  est  li  poins 
de  In  terre,  ce  est  li  rnileu  dedans,  qui  est  apelcs  abismes,  là  oh  enfers  est 
assis.  E  poco  più  avanti  Brunetto  ha  spiegato  che  una  pietra  cadente  ver- 
rebbe a  riposare  al  centro  della  terra  e  non  procederebbe  più  oltre,  ed  anche 
se  si  potesse  lanciare  oltre  a  questo,  essa  ritornerebbe  sempre  a  quel  punto. 
La  stessa  affermazione  é  fatta  molto  chiaramente  ed  efficacemente  da  Benve- 
nuto, commentando  Inf.  XXXIV,  80  {  II  p.  563  \.  V.  anche  Vincenzo  di  Beauvais, 
Speculuni,  VI,  7. 

(-)  V.  specialmente  i  vv.  8-1 1:  "  le  corpora  semplici  limino  amore  naturato 
in  sé  al  loro  loco  proprio,  e  però  la  terra  sempre  desande  al  centro  „. 

(^)  Cfr.  §  18,  vv.  5-7.  Corpora  simplicia . . . .  regiilariter  in  stiis  parlibus  quali- 
ficantnr  onini  naturali  passione. 

(*)  Motu  recto,  cioè,  (come  espressamente  vien  asserito  dell'elemento  del 
Fuoco  nel  §  XX,  58)  in  linea  diretta,  o  all' insù  ovvero  all' ingiù.  Questo  è  per 
distinguere  i  quattro  Elementi  dalla  Quinta  Essentia  il  cui  movimento  è  dichia- 
rato esser  circolare,  e  la  cui  esistenza  vien    presunta  dalla  ragione  a  priori,  che 


—    24   — 

abbiamo  semplicemente  la  nozione  del  mondo  antico  della  distin- 
zione degli  elementi  (corporo  si)ìiplicia):  Terra  ed  Acqua  aventi 
gravi'tas,  Aria  e  Fuoco  Icvilas,  come  loro  proprietà  {passio- 
iics);  (')  e  le  parole  citate  più  su  ci  mostrano  che  gravitas  non 
appartiene  all'  Aria  e  al  Fuoco,  cosicché  qui  non  vi  è  traccia 
della  Gravila  Universale.  Vedi  inoltre  §  XVI,  vv.  2-6,  51-55,  dove 
è  specialmente  da  notare  1'  espressione  fincììi  gravitati^,  qui  est 
ceiitriaii  uiinidi,  che  semplicemente  ripete  l' idea  dei  passi  che  ab- 
biamo citato  dall'  ////.  XXXII  e  XXXIV  (•).  Finalmente,  vediamo 
come  è  usato  gravi/as  nel  §  VII),  vv.  11  segg.:  cnui  gravitas 
iiisit  natura/iter  terrae,  et  terra  sii  corpus  simplex,  etc.  Vi  è  stata 
mai  una  più  flagrante  Fallacia  Equivocationis,  come  quella  di  soste- 
nere che  dei  passi  simili,  perché  contengono  il  prezioso  termine 
gravitas,  (^)  implichino  una   conoscenza  o    una    anticipazione    del 


vi  debba  essere  un  elemento,  il  quale  produca  la  più  perfetta  forma  (  cioè  circo- 
lare) di  movimento  —  Da  confrontarsi  Alberto  iVlagno,  De  Nat.  Loc.  Tr.  I,  e.  3 
(V.  p.  265)  Locus  igitur  ìgnis  erit  in  concavo  hmae  super  oiiintn  copora  hahciitia 
tiiofian  rccluni. 

(')  Questa  antiquata  teoria  fisica,  è  svolta  da  B.  Latini  Trésor.  (L.  I,  part.  Ili 
e.  100):  ">'>'n  fu  creata  in  sei  giorni,  e  da  questa  j/'i  sorgono  quattro  elementi, 
due  leggeri  e  due  gravi,  quantunque  tutti  quattro  partecipino  di  queste  due 
qualità  in  grado  e  tempo  differente.  Vedi  anche  De  Mon.  I,  xv,  45:  qnaìitas  una 
formaliter  in  glebis,  scilicei  gravitas,  et  una  in  flaiiimis,  scilicet  Icvitas.  Tale  è  la 
gravitas  della   Quaestio! 

(')  In  verità  si  potrebbe  attribuire  il  merito  di  una  simile  anticipazione  a 
S.  Tommaso  d'Aquino,  in  virtù  del  suo  linguaggio  nella  Smtinta  I,  2''"*,  Q.  26 
art.  I,  quando  dice  che  un  appetito  naturale  nell'uomo  lo  spinge  verso  il  suo 
oggetto,  ed  è  dovuto  alla  connaturalitas  appetentis  ad  id  in  quod  tendit,  quae  dici 
potasi  amor  naturalis  :  sicul  ipsa  connaturalitas  corporis  ad  locum  medium  est 
per  gravitatem  ;  et  potest  dici  amor  naturalis  etc. 

(')  Di  più  Brunetto  Latini,  Trésor  I,  part.  Ili,  e.  L05,  e  Ristoro  d'Arezzo 
(  L.  II,  e.  I.)  danno  una  quantità  di  ragioni  a  priori,  perché  il  mondo  non 
può  aver  avuto  altro  che  una  forma  sferica.  Il  Sacrobosco  (  L.  I,  e.  5,  6)  lo 
prova  con  vari  argomenti,  incluso  quello  che  deriva  dalla  veduta  più  vasta 
da  un  albero  di  una  nave  anziché  dal  suo  ponte  (V.  Quesiio,  §§  V  e  XXIII). 
Ciò  è  illustrato  da  un  diagramma,  che  spiega  perché,  se  la  superfice  dell'ac- 
qua non  fosse  sferica,  la  veduta  dal  ponte  sarebbe  migliore  (cfr.  Qnaestio  §  XXIII 
V.  31.  "  magis  enint  viderent),  perché  la  linea  visuale  sarebbe  più  corta.  Un 
argomento  e  un  diagramma  simili  si  trovano  in  Ruggero  Bacone.  Op.  maj,  part. 


sistema  newtoniano?  Scui  riiicnt  Ncivioìiits  si  aitdirct,  per  usare 
le  parole  del  §  XII,  v.  36.  Vi  è  un'  illustrazione  eccellente  delle 
proprie  parole  dell'autore  sulla  fine  del  §  XII:  divcrsitas  ralionis 
ciiììi  idcìititatc  nomiiiis  cqtitvocalioncni  facit. 

(4).  La  rotondità  o  la  sfericità  della  terra.  Ma  quest'  idea  è 
molto  più  vecchia  di  Dante.  Per  citare  una  sola  autorità,  è  so- 
stenuta da  Alfragano,  Eleni.  Astroit.  e.  Ili,  con  vari  argomenti, 
le  prime  parole  del  capitolo  essendo:  Hand scciis  ìntcr  sapicntcs  con- 
vciiit,  tcrraiìi  mia  citili  a//iia  globosain  esse.  Inoltre  essa  è  vecchia 
quanto  Aristotile.  De  Coclo.  II,  xiv  (297  b.  24-30),  dove,  tra  altri 
argomenti  in  suo  favore,  vien  citato  il  fenomeno  dell'  ecclisse  lu- 
nare. Veramente  ciò  è  anche  più  antico  di  Aristotile,  perchè  è  so- 
stenuto da  Platone  nel  Timeo  (  p.  33),  ed  anche  prima  dai  Pit- 
tagorici,  quantunque  in  ambo  i  casi  apparentemente  sulla  sem- 
plice base  a  priori  della  perfezione  della  figura  circolare  o  sfe- 
rica. 

(5).  E  difficile  di  vedere  come  il  seguente  punto  allegato,  cioè 
che  le  montagne  e  i  continenti  siano  gibbosità  sulla  superfìcie 
del  globo  sferico,  possa  venir  considerato  in  qualsiasi  senso  im 
presagio,  e  perciò  non  occorre  dire  altro.  Il  periodo  nella  Quae- 
stio al  quale  si  riferisce,  è  nel  §  XIX,  vv.  20  segg. 

(6).  Lo  stesso  è  il  caso  per  ciò  che  riguarda  1'  asserzione  che 
la  terra  asciutta  è  congregata  entro  certi  limiti  di  latitudine  e 
longitudine  nell'  emisfero  nordico  esclusivamente.  Questa  era  la 
credenza  generale  dei  geografi  antichi  e  medievali  e  le  spiega- 
zioni molto  chiare  ed  istruttive  su  quest'argomento  nel  §  XI  non 
sono  solamente  Dantesche,  ma  sono  poco  più  di  ciò  che  si  può 
leggere  in  Alfragano,  Eleni  Astron  e.  VI,  un'opera,  che,  come 
ho  già  osservalo  in  molti  luoghi,  era  senza  dubbio  conosciuta 
dallo  stesso  Dante.  Per  una  ricognizione  di  questa  teoria  in 
Dante,  ed  anche  come    una    singolarissima    speculazione    concer- 


IV,  e.   10:  Rclittqititur    quod  aliqttid   impedii   visiirK    illiiis    qui  est   in  navi.   Sed 

itihtl  potest  esse  tiisi  iuinor    spliaericus    aqiiae.    Ergo,    est    sphaericae  figurae 

Questo    linguaggio    rassomiglia    notevolmente   a  quello    delia    Quaestio,  §  XXIII, 
vv.  33-38. 


—    26    — 

nenie  la  sua  causa,  vedi  ////.  XXXIV,  1-21-126,  e  i  miei  Sfiidi  su 
Datile,  II  p.  246. 

Ma  in  ogni  caso,  non  si  può  vedere  del  tutto  quanto  questo  possa 
esser  vero,  sia  come  anticipazione  sia  che  nò.  Lo  Stoppani  stesso 
non  ne  è  sicuro,  giacché  se  ne  scusa  in  questo  modo:  "  Se 
non  è  esatto  1'  asserirlo  per  tutti,  è  verissimo  riguardo  alla  mas- 
sima parte  dei  rilievi  terrestri  „.  Ma  le  asserzioni  della  Quaestio, 
come  pure  quelle  di  Dante  altrove,  vanno  molto  più  lontano 
di  ciò. 

(7).  Il  settimo  punto  è  prima  facic  di  maggiore  importanza. 
È  molto  falsamente  intitolato  Attrazione  Universale  "  la  mutua  at- 
trazione dei  grandi  corpi  dello  spazio,  compresa  la  terra  (p.  455)  „. 
Questa  sarebbe  senza  dubbio  una  sorprendente  anticipazione  della 
dottrina  della  gravitazione  universale,  se  si  trovasse  di  fatto 
nella  Quaestio]  ma  certamente  non  vi  è  nulla  di  ciò.  La  parola 
di  gran  significato  mutua  nella  precedente  citazione,  involge  una 
idea  della  quale  assolutamente  non  vi  è  traccia.  E  il  solo  fon- 
damento per  questa  stupefacente  asserzione  è  un  molto  rozzo 
accenno  dell'  Autore  della  Quaestio,  che  le  montagne  ed  altre 
gibbosità  sulla  superficie  della  Terra  siano  possibilmente  dovute 
alla  virtus  elevans  illis  stellis  quae  sunt  in  regione  coeli  istis  duo- 
Inis  circidiè  contenta  (cioè  tra  l'Equatore  e  il  Circolo  Artico,  e 
perciò  giacente  per  l'appunto  sopra  quella  parte  del  Globo  dove 
la  terra  asciutta  sorge  fuori  dall'  Acqua)  sive  clevet  per  moduvi 
attractionis  ut  niagnes  attrahit  ferriim,  sive  per  modum  pidsionis, 
generando  vapores  pellentes,  ut  in  particularibus  niontuositatibus 
(§  XXI)  (').  Chi  potrebbe  a  mente  sana  trasvisare  questo  tenta- 
tivo e  quest'ipotesi  evidentemente  erronea  per  crearne  la  dottrina 
moderna  dell'  attrazione  reciproca  di  tutti  i  corpi  materiali? 


(1)  Questo  termine  singolare  di  montuosìlas  è  solamente  registrato  come  ri- 
corrente una  sola  volta  dal  Ducange,  cioè  in  Nicolaus  de  Jamsilla,  de  Gestis  Fredc- 
rici  Secundi  (quel  cronista  si  ferma  all'anno  1258).  La  frase  ex  loci  montun- 
sitate  ricorre  in  una  descrizione  delle  vicinanze  della  "  Civitas  Castri  Joan- 
nis  „  che  si  ritiene  sia  ctotclis  aliis  Siciliae  locis  eminentior ;  solo   monte    Gibello 


—   27    — 

(8).  Nella  notevole  asserzione  che  segue,  dcH'  Elasticità  de'  va- 
pori come  forza  motrice  (Giuliani,  Op,  cil.  p.  456),  abbiamo  qual- 
che difficoltà  nel  riconoscere  la  probabile  suggestione  del  periodo 
testé  citato,  che  alcune  delle  lìioiifitositatcs  siano  generate  da  forze 
vulcaniche  esplosive!  Questo  però  non  è  solamente  evidente, 
ma  si  può  ritrovare  nella  Meteora  di  Aristotile  (Vedi  Stndics  in 
Dante,  Series  I  pp.  128,  131,  etc.  ). 

(9).  La  elevazioìic  dei  continenti  è  1'  ultima  di  queste  fantastiche 
anticipazioni  della  scienza  moderna,  ed  è  introdotta  come  una 
sorte  di  gradazione  vincente  di  lunga  mano  per  importanza  storica 
sugli  altri,  [Op.  cit.  p.  456).  E  addotta  come  anticipazione  in 
particolare  della  teoria  geologica  di  Leonardo  da  Vinci,  che  i 
fossili  trovati  sulle  vette  delle  montagne  indichino  che  queste 
fossero  un  giorno  in  fondo  al  mare.  Le  citazioni  già  date  sono 
bastanti  a  dimostrare  come  queste  idee  geologiche  siano  aliene 
dalla  mente  dell'Autore  di  questo  Trattato  ('). 

Sarebbe  difficile  trovare  un'  illustrazione  più  straordinaria  di 
fallacia  di  osservazione,  cioè  quella  di  confondere  dei  fatti  con  le 
induzioni  cavate  da  questi  fatti  ("),  o  di  leggere  in  una  vaga  e 
generica  espressione  un  significato  preciso  e  definito,  che  non 
è  contenuto  in  essa,  ma  che  potrebbe  in  qualche  modo  con  essa 


sìiperexcelsa.  II  Toynbee  m'informa  che  inoniuosilas  è  registrato  nel  Cailìolicoit 
A\  Joannes  de  Janua  (finito  nel  1286)  sotto  iHontmts  :  "  Montuus,  a  tiions  et 
liinc  utoiilHosns  in  eodem  sensu,  idest  plenus  montibus;  unde  hec  rnonUtositas 
iitlis:  „  tiionliiosits  è  dato  neW  Elenie»(arium  Doclriitae  Rudimenttmi  (scritto 
circa  il  1060)  da  Papias.  Il  termine  è  evidentemente  usato  qui  nel  senso  attri- 
buitogli da  Joannes  de  Janua,  cioè  "  locus  plenus  montibus  „. 

(')  Un  passo  nel  contemporaneo  di  Dante,  Ristoro  d'Arezzo,  darebbe  a 
prima  vista  un  colore  molto  più  plausibile  a  questo  diritto  di  anticipazione. 
"  Quella  contrada  là  ove  si  trovano  questi  monti,  là  ove  si  trova  la  rena  e  1'  ossa 
del  pesce,  è  segno  che  per  quella  contrada  fosse  già  il  mare,  o  acqua  in  modo 
di  mare  „.  Ma  qualche  riga  più  sopra  ciò  viene  attribuito  al  Diluvio.  (  L.  VI  e.  8  ). 

(-)  O,  come  osserva  il  Dott.  Shadwell,  confondendo  i  fatti  che  sono  stati 
ordinariamente  osservati  sino  dai  tempi  più  remoti  con  la  interpretazione  scien- 
tifica di  essi,  per  cui  in  molti  casi  abbiam  dovuto  aspettare  lungo  tempo  dopo 
la  morte  di  Dante. 


accordarsi  {').  Se  questo  è  tutto  ciò  che  dir  si  possa  sul  tema  aiia- 
nonismi,  ovvero  nuficipacioni  (fi  scienza  fittiira,  noi  possiamo  con 
sicurezza  sfidare  i  nostri  avversari  a  produrre  una  sola  parola 
od  una  sola  idea  in  quest'  opera,  che,  per  quel  che  riguarda  la 
conoscenza  intima  della  scienza,  non  potesse  essere  stata  emessa 
da  Dante,  o  per  verità  dalla  più  gran  parte  di  coloro  che  lo 
hanno  preceduto  di  molte  generazioni.  Ma  se  la  cosa  sta  in 
questo  modo,  la  questione  cambia  affatto,  e  noi  abbiamo  un  altro 
gravissimo  argomento  contro  l' opinione  che  l' opera  sia  di  un 
falsificatore  recente,  il  quale,  forte  della  sua  educazione  scienti- 
fica, avesse  specialmente  la  capacità  a  delinquere.  Sarebbe  più 
che  difficile,  e  praticamente  quasi  impossibile,  di  evitare  af- 
fatto gli  anacronismi,  quasi  200  anni  dopo  la  data  assunta,  e  con 
le  condizioni  delle  conoscenze  scientifiche  grandemente  cambiate. 

Gli  argomenti  contrari  che  potrebbero  tirarsi  dalla  pretesa 
esistenza  di  cognizioni  scientifiche  anacronistiche  essendo  ora 
messi  da  parte,  procederemo  ad  esaminarne  altri,  derivati  dalla 
supposta  prova  interna  dell'  opera.  La  principale  di  queste  ob- 
biezioni è  derivata  dal  fatto  che  tanto  i  termini  dell'introduzione 
quanto  1'  explicit  non  hanno  il  sapore  dello  stile  di  Dante,  essen- 
dovi registrato  il  suo  proprio  nome.  (Vedi  Purg.  XXX,  63)  Si 
dice  che  Dante  mai  altrove  dà  il  luogo,  la  data,  e  il  motivo  delle 
sue  composizioni  (Vedi  Quaestio,  §§  I  e  XXIV).  A  questo  pos- 
siamo rispondere: 

(i).  Questa  composizione  è  unica  nel  suo  genere  tra  le  opere 
attribuite  a  Dante.  Se  realmente  ha  avuto  origine  nel  modo  come 
si  dice  sia  avvenuto,  niente  di  più  naturale  che  questi  particolari 
siano  stati  notati.  D'altra  parte,  in  quasi  tutte  le  altre  opere  di 
quest'  autore  tali  particolari  sarebbero  stati  fuor  di  luogo  o  fuor 
di  questione.  Eccezione  presso  che  unica  sarebbero  1'  Epistole  ('), 


(')  Un  caso  diverso  è  la  sapiente  osservazione  del  Biagioli,  che,  nel  v.  del- 
l'/;(/!  I,  90:  Ch'ella  mi  fa  tremar  le  vene  e  i  polsi,  Dante  abbia  anticipata  la 
scoperta  dell' Harvey  sulla  circolazione  del  sangue! 

(^)  Certo  io  non  dimentico  (  e  oso  dirlo  adatto  ingiustificabile)  il  grande  scet- 
ticismo di  questi  ultimi  anni  per  ciò  che  riguarda  quasi  tutte  le  £/)<s/o/t  dantesche. 


—   29    - 

ed  in  qualchechina  di  esse  il  tempo  ed  il  luogo  ed  anche  il  nome 
dell'  Autore  è  menzionato. 

(2).  Io  non  contenderò  per  1'  autenticità  di  ogni  parola  e  di  ogni 
periodo  dell*  opera,  come  ella  è  presentemente.  Il  Moncetti  stesso 
ammette,  con  evidente  soddisfazione,  di  aver  contribuito,  per 
una  parte  considerevole,  alla  revisione  editoriale,  ovvero,  come 
noi  preferiamo  di  esprimerci,  si  è  preso  molte  libertà  col  ms. 
<Vedi  sopra,  pp.  io  e  17  ).  E  di  pili  egli  accetta,  come  pare, 
il  complimento  che  gli  fa  un  frate  Gavardi  (')  Practerea  opti- 
scHÌnììi  Daìdis  poctae  Fiorentini  pliiriiiiis  locis  adiiltcrimiììi  In- 
cnbralionibits  minerva  tua  levigatuiii  effccisti.  Non  abbiamo  il  mezzo 
per  determinare  fin  dove  giungessero  le  operazioni  indicate  qui; 
ma  è  evidente  la  probabilità  che  il  Moncetti  abbia  manipolata 
specialmente  l' introduzione  e  la  chiusa  del  libro.  Quantunque 
non  vi  sia  veramente  necessità  di  ammettere  che  ciò  sia  stato, 
pure  l'ammetterlo  basterebbe  a  togliere  ogni  difficoltà  che  potrebbe 
esser  sentita  per  ciò  che  riguarda  i  particolari.  Certamente  nes- 
suno riterrebbe  l'autorità  o  l'autenticità  del  Vangelo  secondo 
S.  Giovanni  minimamente  diminuita,  ove  si  ammettesse  che  V  cxpli- 
cit  nel  XXI,  24,  25  vi  sia  stato  aggiunto  dagli  antichi  Efesii,  o 
anche  da  qualche  copista  sconosciuto  e  recente,  o  da  qualche 
editore  del  Vangelo  stesso. 

Il  campo  è  ora  sgombero  per  la  presentazione  di  tutte  quelle 
prove  positive  dell'  opera,  che  il  contenuto  di  essa  sembra  po- 
terci dare.  La  sostanza  essendo  stata  trovata  libera  da  serie  obie- 
zioni, rimane  a  considerare  /'/  modo  della  stia  esposizione. 

Io  sono  stato  molto  impressionato  dalla  somiglianza  o  dal  paral- 
lelismo con  le  opere  riconosciute  di  Dante,  per  ciò  che  riguarda 

I-  I  pensieri. 

2.  La  maniera  di  esprimersi. 

3.  Le  citazioni. 

Mi  propongo  di  illustrare  questi  tre  punti,  premettendo  che  io 
non  intendo  di  dimenticare  per  nulla  il  carattere  a  doppio  taglio 


(')  Citato  nel   Giorn.  slor.  p.   136. 


—  so- 
di tali  argomenti,  almeno  in  principio  generale,  alcuni  di  questi 
parallelismi  essendo  tali,  quali  avrebbe  potuto  introdurveli  un 
falsificatore  naturalmente  e  di  fermo  proposito.  Se  però  essi  non 
sono  troppo  evidenti,  se  non  sono  interpolati  nel  testo  come 
agglomerati  di  diversa  origine  nella  massa  di  una  roccia,  ma 
fermano  parte  del  tessuto  naturale  del  pensiero  e  dell'  argomenta- 
zione, allora  son  tali  da  oltrepassare  la  capacità  di  chiunque  non 
sia  un  artista  consumato  in  questa  specie  di  imitazioni.  Tali  argo- 
menti, per  verità,  come  la  prova  ricavata  dallo  scritto  di  una 
persona,  impressionano  le  menti  in  modo  molto  diverso.  Ognuno 
si  deve  formare  il  proprio  giudizio  secondo  il  valore  e  la  tendenza 
di  ciascun  argomento;  non  si  può  pretendere  di  ottenere  con 
questo  metodo  nulla  al  di  là  di  conclusioni  più  o  meno  probabili. 

I.  Io  mi  propongo  di  rintracciare  i  parallelismi  di  pensiero, 
esaminandoli  secondo  che  ricorrono  nelle  parti  successive  del 
Trattato. 

//  Paragrafo  d' hitroditzione. 

Non  mi  curo  di  difendere  l'autenticità  di  ogni  particolare  ;  ma 
si  noti  però  (in  qualunque  maniera  si  possa  usare  l'argomento), 
che  quando  Dante  vien  designato  come  inter  vere  pliilosopìian- 
tes  miiiinius,  parole  che  son  ripetute  alla  fine  del  §  XXXIV,  la 
designazione  è  del  tutto  caratteristica.  Il  Coinnlo  principia  e 
finisce  con  una  simile  dichiarazione  di  umiltà.  Vedi  Conv.  I,  i,  68. 
"  Io  adunque  che  non  seggo  alla  beala  mensa  (della  scienza);  ma 
fuggito  dalla  pastura  del  vulgo,  a'  piedi  di  coloro  che  seggono  ri- 
colgo di  quello,  che  da  loro  cade,  ecc  „.  E  ancora  alla  fine  del  Con- 
vito, rivolgendosi  alla  sua  opera  e  da  essa  accommiatandosi,  dice 
che  seguirà  il  metodo  dei  buoni  operai:  "  E  questo  intendo,  non 
come  buono  fabbricatore,  ma  come  scguitatore  di  quello  „  (  IV 
XXX  21  )  cfr.  Ep.  VIII,  §  5  v.  70:  "  De  ovibus  pascuis  lesu  Chrisli 
minima  una  sum.  „ 

Non  pare  necessario  di  dimostrare  che,  quantunque  il  concetto 
popolare  del  carattere  di  Dante,  sin  dai  suoi  primi  biografi,  sia 
quello  di  un  uomo  superbo  e  burbanzoso,  tuttavia  non  vi  è  virtù 


-si- 
che egli    ammiri  ed  esalti  più    dell'  umiltà  ('),  forse    per  il    senti- 
mento che  la  Superbia  fosse  il  suo  peccato  preponderante. 

§  I,  vv.  3-4.  La  denunzia  di  coloro  che  "  giudicano  secondo 
le  apparenze  „  e  1'  acuta  antitesi  tra  1'  apparenza  e  "  la  verità  „ 
è  affatto  nella  maniera  di  Dante.  Il  Giuliani  confronta  molto  op- 
portunamente Pur.  A'XIX,  85-87: 

Voi  non  andate  giù  per  un  sentiero 
Filosofando  ;  tanto  vi  trasporta 
Z.'  amor  dell'  apparenza,  e  il  suo  pensiero. 

e  ancora  (dichiarando  ìnultoties,  h.  I.)  v.  94: 

Per  apparer  ciascun  s'  ingegna,  e  face 
Sue  invenzioni. 

A  questi  passi  aggiungerei  l'antitesi  nella  Cmizonc  II  (pre- 
messa al  Trattato  III  del   Convito)  vv.  82-84: 

Cosi  quand'  ella  la  chiama  orgogliosa 
Non  considera  lei  secondo  il  vero 
Ma  pur  secondo  quel  eh'  a  lei  purea. 

Notando  inoltre  il  linguaggio    nel    commento    di    questi  versi, 

e.  X  vv.  22-25,  " allora   non    giudica  come  uomo  la  persona, 

ma  quasi  com'  altro  animale,  pur  secondo  l' apparenza,  non  se- 
condo la  verità  „,  e  nel  v.  28  questo  è  qualificato  come  sensuale 
giiidicio.  Finalmente  si  può  confrontare  Pnrg.  XXII,  28-30: 

Veramente  più  volte  appaion  cose 
Che  danno  a  dubitar  falsa  matera 
Per  le  vere  ragion  che  sono  ascose; 

e  Par.  II,  56,  57 

Retro  ai  sensi 
Vedi  che  la  ragione  ha  corte  1'  ali. 


(•)  Vedi  Dante  and  his  Biographers,  pp.   1^7-8. 


—  32  — 

§  I,  V.  6.  Il  fervido  culto  della  WMMtà  durante  tutta  la  sua  vita, 
che  qua  si  arroga  1'  autore,  è  intieramente  caratteristica  dantesca  ; 
egli  r  ha  dichiarato  parecchie  volte  nelle  sue  opere  autentiche.  In 
relazione  con  questo  culto  della  verità  il  passo  ben  conosciuto  di 
Xic.  Etìi.  I,  VI,  I  è  citato  non  meno  di  quattro  volle  da  Dante  con  am- 
mirazione pel  sentimento  che  contiene  (').  Osserviamo  che  non  è 
citato  di  nuovo  qui,  come  un  falsificatore  avrebbe  fatto  senza  dub- 
bio. Cosi  noi  abbiamo  Io  stesso  sentimento  e  la  medesima  opinione 
espressi  senza  alcuna  ripetizione  sospettosa  di  forma  o  di  frasi, 
con  cui  sono  cosi  frequentemente  associati  in  Dante.  Del  resto 
oltre  a  questi  passi,  rammenterei  il  culto  entusiastico  per  la  sap- 
pienza,  per  la  Filosofia,  per  la  Verità  (tutti  termini  che  qui  ri- 
corrono) espresso  nel  Coìiv.  Ili,  xi,  74-153.  Notevole  specialmente 
è  r  affermazione  che  della  filosofia  e  cagione  efficiente  la  Verità. 
Vedi  eziandio  Coiiv.  IV,  i,  18.  "  Ond'  io  fatto  amico  di  questa 
Donna  di  sopra  nella  verace  sposizione  nominata  (cioè  la  Filo- 
sofia, vedi  Conv.  II,  xvi,  19,  20)  cominciai  ad  amare  e  a  odiare 
secondo  l'amore  e  l'odio  suo.  Cominciai  dunque  ad  amare  li 
seguitatori  della  verità,  e  odiare  li  seguitatori  dello  errore  e  della 
falsità,  coni'  ella  face  „.  Vedi  ancora  le  parole  di  introduzione 
del  De  Mon.  Notevole  è  anche  il  modo  sprezzante  nel  quale,  sia 
qui  che  nel  Conv.  I,  ix,  egli  denunzia  coloro  pei  quali  1'  obietto 
della  filosofia  si  associa  al  lucro.  Non  son  più  filosofi  (dice),  che 
colui  che  presti  per  prezzo  un  istrumento  sia  un  musico.  ì^tW  Ep. 
IX  §  3  v.  32,  esso  si  qualifica  come  un  philosophiae  domcsticiis, 
ciò  che  si  può  paragonare  con  le  parole  del  presente  passo 
in  amore  veritatis  a  pueritia  inea  continue  suni  nutritus,  e  con 
r  espressione  "  omnibus  in  philosophia  nutritis  „  del  §.  XXI, 
V.  24.  Il  timore  che  esso  esprime  di  diventare  al  vero  timido 
amico,  nel  Par.  XVII,  118,  ricorrerà  alla  mente  di  ognuno. 
Finalmente  sulla  coesistenza  necessaria  dell'  amore  della  Ve- 
rità   coìr  odio    della    Menzogna   insiste    nel    Conv.    IV,    i,    22-41. 


(M  Conv.  IH,  XIV,  79,  segg;  IV,  viii,  142:  De  Mon  HI,  I,   17;  Ef>ist.    Vili  §  5 
V.  84  (  Vedi  Sludies  in  Dante,  I,  Index  p.  339). 


-  33  — 

§  I,  vv.  9,  IO.  Il  doppio  dovere  di  stabilire  la  verità  e  di  respin- 
gere l'errore  è  riconosciuto  ampiamente  nel  Conv.  IV,  ii,  121- 
141,  e  r  ordine  relativo  di  questi  due  procedimenti  è  discusso, 
citando  l' autorità  di  Aristotile,  il  quale  sostiene  che  si  debba 
cominciare  dalla  confutazione  dell'errore.  Questo  è  il  metodo 
seguito  nel  Trattato,  dove  gli  argomenti  conira  son  prima  enu- 
merati per  ordine  e  poi  ribattuti.  Identico  è  il  caso  nel  Convito 
1.  e,  dove  Dante  si  difende  per  aver  adottato  questo  ordine, 
quantunque  il  suo  linguaggio  nel  passo  corrispondente  della 
Canzone  possa  aver  suggerito  il  contrario.  Vedi  più  oltre  ib. 
e.  Ili,  vv.  5-7  e  XVI  vv,  j6-i8. 

§  I,  V.  12.  Lo  scrittore  osserva  che  la  lingua  dell'  invidia  ha 
sempre  più  libero  giuoco  nell'  assenza  della  vittima.  Si  confronti 
con  Conv,  I,  iv,  ove  si  dice  che  per  tre  ragioni  \^.  presenza  di  un 
uomo  diminuisce  il  bene  ed  il  male  che  gli  è  attribuito,  mentre 
nella  sua  rt5òv//sa  ambedue  aumentano  (vv,  5,  9,  57),  L'invidia  è 
una  di  queste  cause,  la  quale,  mentre  è  stimolata  dalla  presenza 
di  alcuno  ('),  è  nel  tempo  stesso  ritenuta  nella  sua  operazione 
dalla  stessa  presenza,  e  conseguentemente  agisce  molto  più  li- 
beramente contro  chi  è  assente  (  vv.  42  e  segg.  ). 

§  IV,  itiit.  La  spiegazione  della  relativa  dignità  dei  quattro 
elementi  nell'ordine  seguente:  Terra,  Acqua,  Aria,  Fuoco,  si  trova 
eziandio  nel  Conv.  Ili,  v,  37,  dove  forma  parte  di  una  teoria 
attribuita  a  Pitagora.  Il  principio  generale  "  nobiliori  corpori 
debetur  nobilior  locus  „  (parole  che  son  ripetute  più  oltre  §  23, 
V.  14)  deriva  direttamente  da  Aristotile,  De  Coelo  II,  xni,  (293, 
a.  30),  come  ho  già  accennato  negli  Studii  su  Dante  I,  p.  128; 
ed  è  interessante  di  osservare,  che  quella  è  la  fonte  riconosciuta 
per  le  notizie  di  Dante  circa  le  opinioni  di  Pitagora  e  di  Platone 
riferite  in  quel  capitolo  del  Convito  (vedi  III,  v.  '  52  e  segg.). 
Osserveremo  che  qui  troviamo  la  piena    conoscenza  dello  stesso 


(')  È  da  osservare  come  nella  Quaestio  "  invidiosus  „  ha  il  significato  di  "  fatto 
segno  ad  invidia  o  ad  odio  „  come  gli  invidiosi  veri  del  Par.  X,  138.  Invidiosi 
occorre  nel  significato  più  usuale  in  Inf.  Ili,  48. 

E.  MooRE.  3 


—  34  - 

capitolo  del  trattato  di  Aristotile;  ma  la  citazione  maggiore  pro- 
viene da  una  parte  diversa  di  questo  trattato,  ed  è  citata  nel  modo 
pili  naturale  ed  appropriato.  Non  è  questa  la  specie  di  somi- 
glianza che  si  può  attendere  da  una  falsificazione. 

§  I\',  V.  6.  La  descrizione  del  pì-iiìiuiii  eoeliini,  o  l'empireo, 
come  iiobilissiiììiim  coiìtiiieiis,  cioè  quello  che  include  in  sé  tutto 
il  rimanente,  può  essere  illustrata  da  diversi  passi  di  Dante,  ma 
la  corrispondenza  risiede  più  neh'  idea  che  nella  forma  precisa 
delle  parole.  Vedi  specialmente  Couv.  II,  iv,  35-37,  ed  Ep.  X  §  24, 
vv.  442-447  ;  §  25,  vv.  454-463,  dove  la  medesima  parola  coiiti- 
ìieiis  è  adoperata.  Confronta  Par.  II  112-114;  XXVII,  113. 

§  VI,  vv.  5-7  "  ciiiiis  oppositum  vidcìims;  qiiare  oppositum 

cius  ex  quo  sequehatiir  est  vernili  „.  Lo  scrittore  qui  si  riferisce 
al  comune  principio  logico,  che  la  negazione  della  conseguenza 
di  una  proposizione  ipotetica,  giustifica  la  negazione  dell'  ante- 
cedente. Il  principio  è,  come  dico,  comune,  e  perciò  prendo  nota, 
senza  annettervi  troppa  importanza,  della  sua  enunciazione  in  De 
Moìì.  II  xn,  26,  dove  è  riferito  con  termini  più  tecnici:  "  Con- 
scqitens  est  falsiim,  ergo  contradictorium  antcccdentis  est  veriim  ,, 
e  di  nuovo  con  termini,  che  rassomigliano  maggiormente  al  passo 
della  Quaestio  in  De  Moìi.  II,  xiii,  3:  "  hoc  auteni  est  falsum ;  ergo 
contradictorium  ejus  ex  quo  sequitur  est  veruni  „.  Vedi  di  nuovo 
più  oltre  §  X,   vv.    11-13. 

§  X,  V.  IO.  "  Ut  subtiliter  inspicienti  satis  manifestum  est  „.  Il 
Giuliani  saggiamente  confronta  le  forme  simili  di  esprimersi,  "  c/n 
guarda  sottilmente  {Inf.  XXXI,  53)  e  "  se  ben  si  pensa  sottilmente  „ 
{Conv.U,  IX,  107).  A  queste  possiamo  aggiungere:  Par.  VII,  88, 
89  :  "  se  tu  badi  Ben  sottilmente  „  e  V  uso  nello  stesso  senso  del 
verbo  assottigliarsi  in  Par.  XIX,  82,  e  XXVIII,  63.  Conv.  IV,  l^ 
59  rassomiglia  ancor  maggiormente  ai  termini  del  nostro  passo: 
siccome  veder  può  chi  mira  sottilmente.  Come  pure  le  seguenti  : 
Conv.  II,  XIV  143,  e  xv  24-25. 

§  XIII,  vv.  34-36.  Noi  abbiamo  qui  una  ripetizione  quasi  ver- 
batim  delle  parole  che  si  trovano  nel  De  Mon.  I,  xiv,  init.  Da 
confrontarsi  ancora  ib.  vv.  15  scgg.  Quantunque  questo  concetto 


—  as- 
si ritrovi  esplicitamente  in  Aristotile  (665^  14,  15,  per  cui  vedi  i 
miei  Studi,  \,  p.  116),  non  è  dato  come  citazione  né  qui  né  in 
De  Moli.  1.  e.  La  somiglianza  dei  due  passi  è  perciò  strettissima 
per  ogni  verso.  Il  principio  generale  a  cui  si  riferisce  è  eviden- 
temente appropriato  tanto  in  un  caso  come  nell' altro,  quantunque 
la  sua  applicazione  sia  affatto  diversa,  e,  come  sembra  a  me, 
nulla  può  essere  pili  naturale  che  uno  scrittore  riproduca  un 
principio  favorito  e  comune  di  questa  specie  in  tali  circostanze. 
Ma  devo  ripetere  che  io  non  annetto  gran  peso  d' argomenta- 
zione a  queste  coincidenze,  quantunque  debba  confessare  che 
sono  impressionato  favorevolmente  da  esse  e  da  altre.  Concedo 
che  se  ne  possa  giudicare  in  modo  diverso,  ma  sostengo  che 
mentre  ciò  non  basta  a  provare  che  Dante  sia  1'  autore  del  trat- 
tato, è  pertanto  quello  appunto  che  se  ne  potrebbe  aspettare  se 
egli  lo  fosse. 

§  XVI,  V.  47.  "  Potissima  viriiis  potissime  attingit  finem,  „  ecc. 
Da  raffrontare  con  questo  principio  Conv.  I,  v,  71,  segg.:  "  Cia- 
scuna cosa  è  virtuosa  in  sua  natura,  che  fa  quello  a  che  ella  è 
ordinata  „.  Come  altrove  spesso,  abbiamo  qui  simili  pensieri 
senza  sospetta  somiglianza  di  espressione. 

§  XVIII,  V.  6.  Credo  di  aver  osservato  che  quando  Dante 
trae  dei  confronti  dagli  Elementi,  non  avendo  occasione  di  no- 
minarli tutti  quattro,  sceglie  la  Terra  e  il  Fuoco,  forse  perché 
essi  formano  i  due  estremi.  Per  esempio:  Conv.  Ili,  111,8  segg.,  (')  e 
di  nuovo  Vulg.  Eloq.  I,  xvi,  51,  dove  si  legge  per  vero  "  magis.... 
in  hac,  [scil.  minerà]  (")  quam  in  elemento;  in  igne  quam  in  terra  „. 
Ancora,  De  Mon.  I,  xv,  38-48,  dove  questi  elementi  e  loro  pro- 
prietà sono  contrapposte  nei  termini  di  "  glebae  „  e  "  flammae  „. 

Qui  abbiamo  lo  stesso  caso,  e  la  somiglianza  è  troppo  sottile 
per  essere  stata  designata  da  un  falsificatore. 


(')  "  Gli  elementi  hanno  un'  affezione  naturale  in  loro  stessi  per  il  proprio 
luogo,  e  per  conseguenza  la  iena  discende  sempre  al  centro;  \\  fuoco  s'innalza 
verso  il  cielo  della  Luna.  „ 

(-Ì  Da  notare  che  i  minerali  qui  son  distinti  dagli  elementi,  come  anche  in 
De  Moit.  I,  iir,  49,  e  in  Conv.  Ili,  in,  8-15. 


-  36  - 

^  X\'I1I,  vv.  20  segg.  Il  seguente  passo  è  al  tutto  saturo  di 
pensieri  e  di  espressioni  dantesche.  In  primo  luogo  noi  abbiamo 
la  distinzione  notevole  tra  Natura  Uiiivcrsalis  e  Natura  Particti- 
/iris.  Ho  scritto  una  nota  su  questo  soggetto  nei  miei  Studi  su 
Dante,  l,  p.  155,  alla  quale  rimando  i  lettori.  Da  questa  appa- 
risce che  Dante  nelle  sue  opere  riconosciute  impiega  questa 
distinzione,  a  vari  scopi,  non  meno  di  quattro  volte  ('),  e  che 
probabilmente  la  tolse  da  Alberto  Magno.  Io  1'  ho  trovata  di  poi 
anche  in  S.  Tommaso,  S/iiiuna,  I,  O.  22,  Art.  2,  specialmente  §  2 
della   CoticlKsio. 

La  causa  che  annulla  la  perfezione  dei  disegni  della  natura 
(o  di  Dio)  è  la  sordità  della  materia,  [inobcdientiam  matcriae)» 
Questo  non  è  per  certo  un  pensiero  peregrino;  è  però  molto  co- 
mune altrove  in  Dante:  ad  es.  Par.  I,  129,  XIII,  67-78;  Conv.lW, 
II,  30;  VI,  60;  vn,  20,  46,  segg.,  IV,  xxi,  77,  104;  V.  El.  I,  xvi, 
46  segg.;  De  Moti.  II,  11,  20-37  (e  sitpra,  v.  14). 

In  alcuni  di  questi  passi  (e  specialmente  nell' ultimo)  si  fa  os- 
servare che  Dio,  Natura  ed  Arte  son  situati  per  questo  rispetto 
similmente,  "  quod  {scil.  coelum)  organum  est  artis  divinae,  quam 
naturam  communiter  appellant  „.  Da  confrontare  De  Mon.,  I,  in,  18, 
"  Deus  ae.'rriìiis  arte  sua  quae  natura  est  „  ed  il  passo  ben  cono- 
sciuto dell'  ////.  XI,  97-105. 

§  X\'1I1,  vv.  29  segg.  Abbiamo  poi  l'argomento,  nei  vv.  29-31, 
che  la  perfezione  richiede  che  tutte  \e /orme  possibili,  di  cui  è 
capace  la  materia  prima,  debbano  diventare  attuali  e  non  rima- 
nere potenziali  o  non  sviluppate.  Vedi  di  nuovo,  qualche  verso 
più  sotto  (  V.  39):  "  Si  oiiiues  istae  forìuae  non  cssent  scnipcr  in 
actìi,  motor  coeli  deficerct  ab  ititegritatc  diffusionis  Sìtae  bonitatis  ('), 


(1)  Cioè,  Co)iv.  I.  VII,  54  seg.  Ili,  iv,  98  seg.  IV.  ix,  15-33,  xxvi,  18-20. 

(')  Anche  il  concetto,  che  una  tale  attività  non  sviluppata  sarebbe  una  dimi- 
nuzione della  difTusione  della  botttà  di  Dio  —  dove  si  poteva  forse  aspettare 
piuttosto  che  fosse  diminuito  il  potere  o  la  perfezione  dell'  opera  di  Lui  —  è 
uno  di  quelli  familiari  a  Dante.  Vedi  De  Mon.  I,  viii,  15-17:  "  Oituiii  totum  univer- 
sum niliil  aliud  sii  quam  vestigium  quoddani  divinae  bonilatis.  „  Ed  ancora  ib.  II, 
II,  15  segg.  "  Es(  enim  natura  in   mente  primi  motoris,  qui   Deus   est,  deinde  in 


—  37  - 

quoti  ìioìi  est  diccndiim.  „  Questo  è  precisamente  l'argomento  impie- 
gato da  Dante  in  Par.  XXIX,  37,  segg.  per  confutare  V  opinione 
di  San  Girolamo,  cioè  che  molti  secoli  siano  trascorsi  dalla  crea- 
zione degli  Angeli  a  quella  dell'Universo  {T  altro  inotidu,  v.  39), 
e  arguisce  che  non  solamente  la  Santa  Scrittura  prova  il  con- 
trario, ma  la  ragione  dimostra  che  gli  Angeli,  i  quali  sono  i 
"  motori  „  dei  Cieli  e  di  tutte  le  Stelle  e  Pianeti,  non  dovreb- 
bero essere  rimasti  tanto  tempo  senza  la  loro  perfezione  (vv. 
43-45).  Perché  cosi  le  loro  funzioni  sarebbero  rimaste  dormienti  ; 
esistendo  soltanto  iv  ^'rj-}.\yv.  e  non  iv  ivcoyì'.a,  "  qnod  ìioìi  est 
diceiidiiiìi.  „ 

Né  questo  luogo  del  Paradiso  è  il  solo  nel  quale  sia  enun- 
ciato siffatto  principio  e  adoperato  come  argomento.  Si  ripete  di 
nuovo  in  De  Moìi.  I,  ni,  24-29,  e  più  particolarmente  ib.  vv.  73, 
segg.  "  Siciit  necessc  est  [scil.  esse)  ììiiiltitiidineiìi  reriuii  generabi- 
liuììi,  ut  potentia  tota  materiae  primae  semper  sub  actu  sit,  aliter 
csset  dare  poteiUiaììi  scparataiìi,  qiiod  est  ùìipossibilc    „.    E    (come 


coeh  laiiqiiam  in  organo,  quo  mediante  siinililudo  bonitatis  aciernae  in  Jlnilaniein 
inateriani  explicatur.  Aggiungi  Par.  II,  130-8;  xiii  52  segg.,  XXIX  16-18  e  Conv. 
Ili,  VII,  11-13.  "  Ov' é  da  sapere  che  la  divina  bontà  in  tutte  le  cose  discende;  e 
altrimenti  essere  non  potrebbero  „,   e  molti  altri  passi. 

(')  Nel  Conv.  IV,  i,  64  Dante  dice  che  nella  sua  gioventù  si  dilettava  in  modo 
speciale  di  speculare  sull'origine  della  prima  materia  degli  elementi.  La  definizione 
di  prima  materia  data  da  Alberto  Magno  illustra  il  passo  presente:  "  Substantia 
in  potestate  existens  et  nullam  omnino  formam  habens  in  actu  „  (de  Coelo  et 
Mundo  I.  Tr  iir,  e.  4).  A  maggiore  illustrazione  della  dottrina  della  prima  ma- 
teria, come  si  trova  nella  Quaestio,  §  18,  si  può  aggiungere  che  S.  Agostino  fa 
una  distinzione  uguale  tra  la  prima  materia  e  gli  elementi.  Esso  ritiene  che 
la  creazione  della  prima  fu  1'  opera  del  primo  giorno,  e  che  quella  degli  Elementi, 
dell'Acqua  e  della  Terra,  fu  rispettivamente  opera  del  Secondo  e  Terzo  giorno. 
Oltre  ad  alcuni  altri  passi  del  De  Genesi  ad  Literam,  il  seguente  può  esser 
citato  dal  L.  II,  e.  24.  Commentando  la  Gen.  I,  i,  egli  dice:  "  NihiI  aliud  his 
verbis  quam  materiae  corporalis  informitateni  insinuare  [Scriptura  voluit],  eligens 
eam  usitatius  appellare  quam  obscurius....  cujus  iiiformitatem  usitato,  ut  dixi,  vo- 
cabulo  vel  terrae  vel  aquae  Scriptura  praedixit  „.  Egli  aggiunge  che  la  creazione 
degli  Elementi  (o  species  propriae)  dell'Acqua  e  della  Terra  è  indicata  nelle 
parole  "  Congregentur  aquae  et  appareat  arida  „.  S.  Tommaso  interpreta  cosi 
la  opinione  di  S.  Agostino:  "  Ideo  per  congregationem  aquarum  et  apparentiam 
aridae  impressio  talium  formarum  designatur  „:  (Stimma,  I,  Q.  69  Art.  i  ). 


-38- 

//.  /.  )  Averroes  è  citato  a  sostegno  di  ciò,  ma  da  un'  opera  di- 
versa, cioè  "  in  Commento  super  iis  quae  de  Anima  „.  Vedi  pili 
oltre  De  Moti.  I,  iv,  1-4. 

È  da  osservare  come  in  questo  punto  ed  in  altri  della  Oitaestio 
si  ritrovino  i  principi  danteschi,  naturali  e  facili,  senza  la  minima 
apparenza  di  esservi  stati  intenzionalmente  intromessi,  per  la  so- 
luzione di  problemi  affatto  nuovi. 

Inoltre  1'  espressione  luotor  codi  è  usata  esattamente  come  in 
De  Alon.  I,  ix,  io  segg.  "  Et  (jiitiiii  coclitiii  ioti  un  unico  luofii, 
scilicct  primi  viohilis,  et  unico  motore,  qui  Deus  est,  regiilctur  in 
omnibus  suis  partihus,  motibus,  et  motoribus,  ecc.  Cfr.  Par.  II, 
127-132.  Ed  anche  in  Ep.  X  §  20  init.,  il  primo  verso  del  Pa- 
radiso 

La  gloria  di  colui  che  tutto  move 

è  parafrasato  cosi:  gloria  primi  moforis,  qui  Deus  est,  ecc. 

Quindi  abbiamo  la  dottrina  familiare  a  Dante  delle  complessioni 
ovvero  qualità,  che,  essendo  aggiunte  alla  semplice  forma  della 
materia  prima,  producono  le  differenti  specie  di  esistenze  mate- 
riali o  corporali.  "  formae  materialcs  generabiliuni  et  corruptibi- 
lium  „.  Tutte  queste  forme  di  esistenze,  eccettuati  gli  elementi 
stessi,  implicano  una  miscela  o  combinazione  di  qualità.  La 
causa  finale  degli  elementi  è  per  servire  lo  scopo  di  queste 
"  miscele  „  e  render  cosi  possibile  tutte  le  varie  forme  di  esi- 
stenza corporale.  Da  questo  punto  di  vista  le  forme  di  esistenza 
che  ne  resultano  son  descritte  come  mixta  e  gli  elementi  stessi 
come  miscibilia.  Evidentemente  (seguita  l'argomentazione)  non 
vi  può  esser  mixtio,  a  meno  che  le  miscibilia  possano  venire  in 
contatto,  onde  la  necessità  che  vi  debba  essere  nell'  universo 
un  qualche  punto  comune  di  riunione  per  tutti  gli  elementi.  Ma 
questo  non  potrebbe  accadere,  se  la  terra  in  un  punto  o  nell'altro 
non    s' innalzasse    dall'  acqua    ('),    poiché    cosi,    e    soltanto   cosi, 


(')  Questa  è  dunque  la    causa  finale    della    parziale    elevazione    della  Terra, 
V.  XIX,  V.  6  e  XX,  V.  6. 


—  39  — 

possono  la  terra,  1'  acqua,  1'  aria  ed  il  fuoco  trovare  un  comune 
punto  di  contatto.  Se  invece  questo  punto  non  esistesse,  allora 
diverse  tra  le  forme  di  esistenze  corporali  non  si  potrebbero  mai 
sviluppare  e  rimarrebbero  "  potenziali  „  soltanto,  e  non  "  ///  adii  „, 
"  (]iio(l  non  est  ci  ice  nd uni  „. 

Ma  poi,  come  si  può  egli  adempiere  questo  scopo  della  Na- 
tura Universale?  (')  La  Natura  Particolare  o,  come  vien  detta  qui, 
Simplex  Natura,  della  Terra  si  deve  muovere  solamente  all'  iiigii't. 
Perciò  vi  deve  essere  in  essa  qualche  altra  influenza  [alia  natura)  (■), 
per  controbilanciarla  e  renderle  possibile  di  alzarsi,  "  ut  mixtio 
sit  possibilis  „  {§  19,  V.  6),  e  raggiungere  in  questo  modo  il  fine 
della  Aratura  Universale.  Cosi  essa  diventerebbe  capace  fuor  di 
sua  natura  (')  di  innalzarsi  parzialmente  {"'),  per  mezzo  della  in- 
fluenza dei  cieli  "  tanqitani  obedicns  a  praecipicnle  „  (")  (  v.  60). 

Finalmente  questa  tendenza  verso  1'  alto,  controbilanciando  la 
"  naturale  „  tendenza  verso  il  basso  dell'  elemento  Terra,  vien 
illustrata  dal  caso  parallello  della  stessa  natura  umana,  che  gli 
appetiti  e  le  passioni  spingono  naturalmente  all'  ingiù.  Pure 
quando  essa  si  sottomette  alla  ragione  può  sfuggire  alla  sua 
propria  tendenza  ("  a  proprio  impelli  retrahuntur  „).  Ognuno  a 
cui  sia  familiare  il  Convito  e  il  De  Monarchia  deve  riconoscere 
come  tutto  questo  sia  completamente    dantesco.  Il   sitbicctinn   mi- 


(')  Cfr.  Conv.  Ili,  iv,  98:  "  la  Natura  Universale,  cioè  Iddio  „. 

(^)  Cfr.  il  modo  in  cui  1'  espressione  a.'ù:<]  r:;  yJTt^  t?;  Vu^vf;  è  usata  in  Nic, 
Etli.  \,  XII r,  15,  e  V.  pure  §  19  w  ^,  dove  Matura  qaedani  è  ugualmente  contrap- 
posta a  simplex  uatura. 

(•')  Come  dice  Dante  nel  caso  inverso  di  fuoco  cadetile  da  una  nuvola  in 
Par.  xxiii,  ^2. 

(■*)  Vedi  anche  §  19,  v.  20  dove  quest'espressione  m />ar/f  è  spiegata  ancora 
meglio  dall'asserzione  che  la  "  Terra  emergit  per  gibbum,  et  non  per  centralem 
circulum  circumferentiae  „.  Cosi  la  terra  eniergeits  forma  un  rigonfio  o  escre- 
scenza sulla  regolare  circonferenza  dell'elemento  terra,  la  cui  parte  maggiore  é 
nella  sua  posizione  naturale  sotto  la  sfera  dell'acqua.  È  importante  l'insistere  su 
questo  punto,  come  si  legge  al  v.  7:  "  Secundum  haec  salvatur  concentricitas 
terrae  et  aquae  „. 

(■')  Cfr.  C07-SO  toj  7Ta7,'yC5  izo'jiTtziv  t:  Nic.  Etli.  I,  XIII,  19,  notando  soprattutto 
che  Aristotile  parla  qui  della  pars  coiiciipiscibilis.  Vedi  §  XVIII,  v.  62. 


—  40  - 

xtiim  et  coiiiplcxi'onattiìH  rammenta  la  dicitura  del  De  Mon.  I,  ni, 
49,  dove  i  minerali  son  distinti  dagli  elementi  e  son  detti  coni- 
plcxioiaia  (M.  Vedi  anche  Cotiv.  HI,  iii,  14,  dove  i  minerali  sono 
dati  come  i  più  semplici  esempi  di  carponi  coiìiposfc,  e  confronta 
il  termine  corpo  misto  ib.  v.  45.  Inoltre  le  tendenze  in  alto  e  in 
basso  delle  differenti  parti  della  natura  umana  ci  son  familiari 
in  Dante  dal  Conv.  Ili,  m  41-91  e  dal  Viilg.  Eloq.  II,  11  46-55. 
Il  termine  speciale  proprius  impctns  qui  ci  rammenta  l' impeto 
primo  del  Par.  I,  134;  ma  V  impeto  primo  di  quel  passo  contrasta 
col  proprius  impctus  delle  parti  speciali  della  nostra  natura,  a  cui 
qui  si  riferisce.  Quest'  ultimo  corrisponderebbe  piuttosto  al  falso 
piacere  del  passo  citato  del  Paradiso.  Vedi  tutto  il  contesto, 
vv,  130-135,  dove  è  espresso  lo  stesso  conflitto  che  è  indicato 
nella  frase  della  Quaestio,  quantunque  il  risultato  del  conflitto  sia 
differente  nei  due  casi.  L' impeto  primo  non  deviato  può  esser 
illustrato  dai  bellissimi  luoghi  del  Par.  IV  124-132  e  Conv.  IV, 
xii  140  segg. 

In  grazia  delle  accurate  ricerche  dei  professori  Luzio  e  Renier, 
per  ciò  che  riguardo  il  carattere  e  le  attitudini  del  Moncetti,  ri- 
tengo il  medesimo  più  capace  d' inventare  un  altro  canto  della 
Divina  Commedia,  che  di  falsificare  questo  diciottesimo  paragrafo 
della  Quaestio. 

§  XIX.  Sarebbe  impossibile  di  dare  un'  idea  più  esatta  e  più 
concisa  del  sistema  geografico  di  Dante,  o  più  dantesca  nel 
linguaggio  e  nell'  espressione,  che  quella  contenuta  in  questo  pa- 
ragrafo. Nello  stesso  tempo  non  vi  posso  scorgere  né  una  copia 
diretta,  né  un  incastonatura  di  singole  frasi,  quale  sarebbe   stato 


(')  Il  passo  difficilissimo  del  Par.  VII,  139  segg.  dovrebbe  altresì  essere  con- 
frontato. In  esso  abbiamo,  gli  Angeli  e  1'  Anima  Umana  descritti  come  emananti 
direttamente  da  Dio  (v.  124),  all' opposto  degli  elementi,  delle  cose  combinate  da 
tali  Elementi  (vv.  133-134),  e  delle  anime  delle  piante  e  dei  hv\ìt\  (di complession 
potemiaia,  vv.  139-140),  cose  tutte  che  vengono  ad  esistere  per  mezzo  di  un 
atto  creativo  separato,  o  per  la  influenza  sviluppatrice  di  ciò  che  è  già  stato 
creato.  I  primi  sono  conseguentemente  (come  se  ne  arguisce)  immortali,  mentre 
gli  ultimi  non  sono  tali.  Con  ciò  si  può  confrontare  l' argomentazione  in  De 
Mon.  I,   iir    60-62. 


—  41  — 

tentato  di  fare  un  falsificatore  dal  notorio  capitolo  quinto  del 
Terzo  Trattato  del  Convito. 

§  XIX,  V.  69.  Il  riferirsi  alquanto  sprezzantemente  alla  donna 
nelle  parole  "  sicnt  lìiatiifcsliiiii  esse  potcst  ctiani  uiitlicribits  „ 
è  (bisogna  ammetterlo  con  dispiacere)  affatto  dantesco.  Nella 
introduzione  del  De  ì^ulg.  Eloq.  Dante  giustifica  lo  scopo  che 
si  prefigge,  per  la  ragione,  che  una  lingua  comune  è  indispen- 
sabile a  tutti  e  "  non  solamente  gli  uomini,  ma  anche  le  donne 
ed  i  fanciulli  si  sforzano  di  conseguirla  per  quanto  la  natura 
permette  „!  (  l'^idg.  Eloq.  I,  i  6-7).  Nel  e.  IV  delio  stesso  Trat- 
tato Dante  crede  che  la  lingua  parlata  sia  uscita  dapprima 
dalla  bocca  dell'uomo,  piuttosto  che  da  quello  della  donna,  quan- 
tunque il  primo  detto  ricordato  nella  Bibbia  sia  quello  "  della 
presuntuosissima  Eva  „  (').  Non  è  conveniente  supporre  ("  incon- 
venienter  putatur  „  )  che  un  atto  cosi  nobile,  qual'  è  il  favellare, 
sia  per  la  prima  volta  derivato  dalla  donna  piuttosto  che  dal- 
l' uomo.  Ed  anche  confronta  il  Conv.  IV,  xix  segg.,  dove,  dopo  aver 
citato  il  detto  di  Aristotile  che  cti^ùìc  sia  fuor  di  luogo  in  uomini 
nel  fior  degli  anni  e  di  carattere  elevato,  perché  questi  non  deb- 
bono mai  far  cosa  da  sentirne  vergogna,  Dante  dice  che  questo 
non  può  applicarsi  ai  giovani  o  alle  donne,  perché  a  loro  non  si 
richiede  tanto  a  questo  riguardo  (vv.  88-89).  Inoltre  nell' £"/».  X, 
§  IO,  vv.  224-225  il  linguaggio  della  Commedia  è  detto  "  remis- 
sus  et  humilis,  quia  loquutio  vulgaris,  in  qua  et  mulierculae  com- 
municant  „  ("). 

§  XX,  v.  27.  La  menzione  che  si  fa  qui  degli  eclissi  solari, 
come  resultanti  dall'  interposizione  della  Luna  tra  la  Terra  e  il 
Sole,  rassomiglia  ad  un  passo  del  Conv.  II,  ni,  57.  Là  il  fenomeno 
è  ritenuto  come  prova  del  fatto  della  posizione  della  Luna,  qua 
la  scoperta  di  questo  fatto  per  questo  mezzo  è  data  per  illustrare 


(1)  Cfr.  Pitrg.  XXIX,  24-30. 

('-')  Ristoro  d'Arezzo  (un  monaco)  scrive  in  questo  stesso  senso:  "  questa 
lana,  a  cagione  di  sua  viltà,  potremo  dire  per  ragione  ch'ella  sia  femmina!  „ 
(L.  Ili,  7). 


-  42  — 

la  maniera  con  la  quale  si  arriva  alla  conoscenza  per  lo  stimolo 
di  indagini  procedenti  dagli  effetti  alle  cause,  o  per  il  desiderio 
di  poter  spiegare  cose  insolite.  Questo  processo  viene  esemplifi- 
cato dalla  questione  attuale,  cioè  l' investigazione  della  causa 
dell'  elevarsi  della  terra.  Segue  un'  argomentazione  affatto  dan- 
tesca: Questo  sollevamento  non  può  esser  dovuto  a  nessuno  dei 
quattro  Elementi,  Terra,  Acqua,  Aria  o  Fuoco,  per  varie  ragioni  ; 
resta  dunque,  che  esso  (sollevamento)  si  debba  al  Cocliim,  pro- 
babilmente essendo  la  quinta  csscjitia,  che  è  anche  variamente 
designata,  come  Adlicr  o  Coclmii.  (Vedi  dichiarato  ciò  nei 
miei  Studi  I,  pp.  124,  3oo)(').  Dunque,  siccome  vi  sono  diversi 
Cieli,  a  quale  si  deve  attribuire  quest'influenza  di  elevazione? 
Non  a  quello  della  Luna,  perché  agirebbe  ugualmente  sopra  i 
due  emisferi.  Qui  è  sottinteso  chiaramente  l'assenza  di  terra  nel- 
r  emisfero  meridionale,  alla  quale  Dante  si  riferisce  cosi  spesso, 
quantunque  non  1'  affermi  in  nessun  luogo  esplicitamenti.\ 

La  declinazione  uguale  dall'  Equatore  al  Nord  e  al  Sud  nel 
caso  della  Luna  (come  è  in  seguito  asserito)  è  descritta  cosi  da 
Alfragano:  "  Eccentrici  Lunae  planum....  a  zodiaci  plano  deflectit 
ad  septentrionem  et  austrum  declinatione  rata  et  immutabili  „ 
(e.  xviii,  p.  68).  Il  contradittore  quindi  parrebbe  dovesse  sostenere 
che  l'eccentricità  dell'orbita  della  Luna  sia  la  causa  per  cui  essa 
eserciti  questa  influenza  elevatrice  tanto  maggiore  nell'  emisfero 
settentrionale.  L'  autore  risponde  a  ciò,  che  se  si  tenesse  conto 
dell'  eccentricità  dell'  orbita  della  Luna,  (■)  la  sua  influenza  sarebbe 
maggiore  nell'  emisfero  meridionale  che  in  quello  settentrionale. 
Questo  implica  che  essa  è  più  vicina  alla  terra  dalla  parte  meridio- 
nale dell'  Equatore.  Non  ne  trovo  alcuna  traccia  né  in  Afragano, 


(')  A  questi  passi  possiamo  aggiungere  Sacrobosco,  de  Sphaera,  I,  e.  2: 
"  Circa  elementarem  quidem  regionem  aetherea  regio,  lucida  ab  omni  variatione 
sua  immutabili  essentia  immunis  existens,  motu  continuo  circulariter  incedit,  et 
haec  a  Philosophis  quinta  nuncupatur  essentia.  Cuius  novem  sunt  sphaerae  „  ecc. 
quindi  i  nove  Cieli  sono  enumerati  nell'  ordine  consueto. 

(-)  Che  r  orbita  della  luna  sia  eccentrica  è  ritenuto  fuor  di  dubbio  anche  nei 
§§  7  e  23. 


"  43   - 

né  altrove  ;  ma  se  fosse  aftermato  in  qualche  luogo  che  I'  eccen- 
trico centro  dell'  orbita  della  Luna  fosse  al  Nord  del  centro 
della  Terra,  ne  risulterebbe  naturalmente  la  conclusione  sopra 
accennata. 

Alfragano  (e.  XXI)  ci  dà  il  ììiiiiiiiiinii  e  il  niaxiniiiin  della 
distanza  della  Luna  in  109,037  e  208,542  miglia  rispettivamente, 
quest'  ultima  corrispondente  al  Jìiininiinn  della  distanza  del  pros- 
simo cielo,  cioè  quello  di  Mercurio  (e  cosi  nel  caso  dei  Cieli 
successivi).  Ma  io  non  ho  trovato  nulla  che  implichi  che  il  nii- 
jiiniinn  della  distanza,  o  Perigeo,  fosse  associato  colla  sua  posi- 
zione al  Sud  dell'Equatore,  come  sembra  sottinteso  nel  testo. 
Era  conosciuto  per  certo,  che  il  sole  è  in  fatto  più  vicino  alla 
terra  quando  si  trova  nell'  emisfero  meridionale  di  essa  o,  tecni- 
camente parlando,  che  il  suo  Perigeo  accade  allora,  mentre  si  ha 
il  suo  Apogeo  quando  esso  è  al  Nord  dell'  Equatore  (').  Sembra 
probabile  che  si  sia  creduto  che  questo  fosse  applicabile  anche 
alla  Luna,  nel  qual  caso  si  avrebbero  le  condizioni  contenute  nel 
testo.  Inoltre  le  parole  d' introduzione  del  §  21  sembrano  estendere 
le  Slesse  conclusioni  anche  ai  Pianeti.  Evidentemente  un  tale 
Apogeo  e  Perigeo  fisso  è  fuor  di  questione  nel  caso  dei  Pianeti, 
giacché  essi  di  fatto  non  girano  intorno  alla  terra.  Ma  siccome 
Dante  se  li  immaginava  giranti  tutti  cosi  eccentricamente,  non 
vi  è  nulla  prima  facic  d' impossibile  nella  supposizione  di  un 
Apogeo  e  di  un  Perigeo  fisso,  quantunque  non  si  sia  potuto  mai 
verificare  né  confermare  con  1'  osservazione. 

La  credenza  sembra  però  essere  stata  alquanto  persistente, 
giacché  troviamo  Galileo,  nelle  sue  Opere  Astronomiche  (voi.  II, 
p.  87,  ed.  1843)  combattere  un' obiezione  al  sistema  copernicano, 
basata  suU'  asserzione  che  Copernico  sosteneva  un  apogeo  fisso 
di  Venere,  mentre  "  1'  auge  di  Venere  non  è    immobile    come  il 


(')  V.  Ristoro  d'Arezzo,  L.  I.  23:  "  sotto  la  rivoluzione  dell' opposito  del- 
l'auge (Apogeo)  del  sole,  lo  quale  è  quasi  18  gradi  in  Sagittario;  imperciò  che 
il  Sole,  stando  in  quel  punto,  va  più  presso  alla  terra  che  in  nulla  altra  parte  „. 
Cosi  dice  anche  Ruggero  Bacone,  Op.  Maj.  P.  IV,  e.  iv  (I,  p.  137):  "  Oppositum 
augis  (cioè  Perigeo  del  Sole)  est  in  Sagittario  „. 


—  44  — 

medesimo   credette  „.  Nel  caso  della  Luna  l'opinione  di  un  Apogeo 
fisso  è  ugualmente  erronea. 

§  XXI.  La  possibilità  deli'  influenza  di  ciascuno  dei  Cicli  pla- 
netari è  dunque  esclusa  da  queste  considerazioni,  e  da  quella  del 
Pn'ìiiiiiìi  ììiobilc  col  suo  carattere  assolutamente  equo  ed  omo- 
geneo ('),  cosicché  non  avrebbe  potuto  influenzare  un  emisfero 
pili  dell'  altro.  Ciò  ci  conduce  per  mezzo  di  un  processo  di  esclu- 
sione air  ottavo  Cielo  Stellato,  il  quale  ha  una  varietà  di  stelle 
e  di  costellazioni,  e  conseguentemente  esercita  vari  gradi  di  in- 
lluenza  nelle  sue  varie  parti.  Questa  è  precisamente  la  dottrina 
espressa  da  Dante  in  Par.  II.  115- 138;  dove  possiamo  notare 
specialmente  i  vv.  115-117: 

"   Lo  ciel  seguente,  ch'ha  tante  vedute, 
Queir  esser  parte  per  diverse  essenze 
Da  lui  distinte  e  da  lui  contenute. 

II  parallellesimo  è  spesso  molto  stretto.  Cfr.  i  vv.  1214  con 
Par.  II,  130-138;  i  vv,  14-17,  con  Par.  64-66,  115-117,  137  segg.[; 
i  vv.  16-17  con  Par.  70-121.  (Cfr.  §  XX,  v.  59);  il  v.  25,  con 
Par.  139. 

Da  notarsi  altresì  1'  uso  simile  di  vultiis,  nella  citazione  tolta 
da  Tolomeo  (v.  30),  con  volti  usato  nel  Par.  II,  66. 

Non  dobbiamo  mancare  di  osservare  come  lo  scrittore  ritiene 
essere  l' opinione  dell'  influenza  delle  stelle  cosi  fondamentale  e 
fuori  di  ogni  questione  possibile,  che  egli  vi  applica  (implicita- 
mente) il  dicliim  ben  noto  di  Aristotile,  ^)  che  coloro  che  negano 
principi  fondamentali  sono  fuor  di  corte  in  argomento.  Questa 
credenza  per  vero  primeggia  talmente  in  diverse  opere  di  Dante, 
ed  egli  vi  insiste  per  modo,  che  non  vai  la  pena  di  illustrarla 
con  citazioni.  Un  passo  solo  può  bastare,  nel  quale  (come  qui) 
essa  è  affermata  come  una  verità  quasi  assiomatica.  Vedi  Conv.  II, 
XIV,  27  segg.  "  Della  quale  induzione....  cioè  della  generazione  su- 


(')  Si  può  confrontare  ciò  con  Par.  XXVII,   loo  e  loi,  De  Moit.,  \,  ix,   il. 
(*)  Cfr.  supra  §  XI,  v.  9;   Conv.  IV,  xv,  162;  De  Mon.  Ili,  iir,  122. 


-  45  — 

stanziale,  //////  /  filosofi  concordano  clic  i  cicli  sono  cagione,  avve- 
gnaché diversamente  questo  pongano  „. 

§  XXI,  V.  27.  La  superiore  efficacia  e  influenza  delle  Stelle 
nella  vicinanza  dell'  Equatore,  che  è  sottintesa  nei  vv.  25-29,  ed 
ancora  esemplificata  dal  caso  discusso  nel  \^  40  e  segg.,  verrebbe 
spiegata  da  più  di  un  passo  in  Dante.  Vedi  specialmente  Conv.  II, 
JV,  75.  "  Onde  le  stelle  del  cielo  stellato  son  più  piene  di  virtù 
tra  loro,  quanto  più  sono  presso  a  questo  cerchio  ,,  {scil.  lo 
cerchio  equatore,  cfr.  ih.  vv.  85-86).  Qui  di  nuovo,  nel  nostro 
testo,  notiamo  che  non  vi  è  direttamente  né  manifestamente  ripe- 
tizione di  questo  o  di  qualsiasi  passo  precedente.  Non  è  asserito 
assolutamente  (come  con  tutta  probabilità  avrebbe  fatto  un  falsifica- 
tore), che  vi  è  questa  superiorità  di  influenza  nelle  Stelle  Equi- 
noziali; le  parole  sono  semplicemente  queste:  "  alia  virtus  est  „, 
(  V.  27)  e  ancora  al  v.  40,  la  più  grande  intensità  d' intluenza  non 
è  formalmente  espressa,  quantunque  noi  comprendiamo  che  essa 
è  "  in  fondo  alla  mente  dello  scrittore  „.  Questa  non  è  opera  di 
un  falsario. 

Le  proposizioni  alternative  e  affatto  scevre  di  carattere  scien- 
tifico dei  vv.  42-46  possono  essere  raccomandate  a  coloro  che 
immaginano  meravigliose  anticipazioni  di  teorie  fisiche  moderne 
nella  Quaestio.  In  una  di  queste  alternative  possiamo  ritrovare  la 
familiarità  dell'autore  colla  strana  opinione  di  Aristotele,  che  qual- 
cheduna  delle  montagne  abbia  avuto  origine  dalla  forza  espulsiva 
dei  vapori  che  si  spingevano  all'  insù  nelle  viscere  della  Terra. 
Questo  si  trova  in  una  parte  del  Mctcor.,  che  era  per  certo 
ben  conosciuto  da  Dante,  come  già  ho  dimostrato  nei  miei  Studi 
I,  pp.  130-131  ecc.  Vedi  ancora  la  lista  dei  passi  del  Mctcor.  II, 
citati  neir  indice  della  stessa  opera,  a  pag.  336. 

§  XXI,  vv.  47  segg.  Ho  di  già  parlato  (vedi  pag.  21)  della 
supposta  difficoltà  che  involge  il  movimento  delle  acque  nella 
marea,  essendo  questo  di  elevazione  ("  motus  rectus  „  §  XII, 
vv.  40-42)  e  non  circolare,  quantunque  sia  cagionato  dal  Cielo 
della  luna,  e  indicato  come  "  imitante  „  il  detto  Cielo  che  ha  movi- 
mento circolare.  (Vedi  §§  VII  e  anche  xxiii  vv.  49  segg. )  Questa 


-46  - 

supposta  anomalia  è  trattata  specificatamente  nel  §xxin,  ma  qui  si 
obbietta  la  stessa  difficoltà  per  ciò  che  riguarda  il  limite  della 
tetra  asciutla  a  i8o''  di  longitudine  (vedi  su  questo  il  §  XIX). 
Se  questa  elevazione  è  cagionata  (come  si  sostiene  qui)  dall' in- 
fluenza dell'ottavo  Cielo,  il  cui  movimento  è  circolare,  perché 
(si  obbietta)  l'elevazione  non  è  anch' essa  circolare?  Vale  a  dire, 
perché  vien  limitata  a  i8o''  tra  i  360''?  La  risposta  data  è  vera- 
mente sorprendente:  "  quia  materia  non  sufficiebat  ad  tantam 
elevationem!  „  In  altre  parole,  "  non  vi  era  materia  abbastanza 
per  andar  pili  oltre  „. 

La  grossolana  e  quasi  sprezzante  audacia  di  una  tale  spiega- 
zione, specialmente  quando  la  troviamo  posta-  come  punto  di  par- 
tenza per  una  solenne  denunzia  di  quelli  che  son  troppo  presun- 
tuosi per  indagare  la  ragione  delle  cose,  (') 

Qual  più  a  riguardar  oltre  si  mette, 

è  cosi  sorprendente  e  originale,  che  non  saprei  concepire  come 
un  falsificatore  potesse  essere  tanto  sfacciato  da  inventarla.  Nel 
tempo  stesso  non  solamente  lo  spirito  di  essa  è  affatto  caratte- 
ristico di  Dante,  ma  anche  la  stessa  bizzarra  dottrina  è  illustrata 
dall'  lìif.  XXXIV,  121-126,  dove  si  dichiara  che  la  terra  asciutta, 
che  ora  si  è  radunata  nell'  emisfero  settentrionale,  era  originaria- 
mente in  quello  meridionale.  Lucifero,  quando  venne  espulso  dal 
cielo,  vi  cadde,  ed  essa  dal  timore  di  lui  si  copri  del  mare  a 
guisa  di  velo  e  "  venne  al  nostro  emisfero  „. 

Da  questa  parte  cadde  giù  dal  cielo: 

E  la  terra  che  pria  di  qua  si  sporse 

Per  paura  di  lui  fé'  del  mar  velo, 
E  venne  all'emisperio  nostro. 

Ciò  implicherebbe  in  fatto  che  non  vi  fosse  materia  sufficiente 
per  ambedue. 

Ma  questo  non  è  tutto,  dobbiamo  notare  inoltre  il  principio 
contenuto  nell'  obiezione  trattata  qui,  e  nuovamente  nel  §  XXIII, 

(•)  Furg.  XXIV,  61. 


—  47   - 

vv.  49  segg.,  giacché  esso  era  ben  familiare  a  Dante  e  sembra 
che  sia  stato  accettato  da  lui  come  una  verità.  \'^edi  Coiiv.  Ili,  ii, 
35-41  :  "  Onde  conciossiacosaché  ciascuno  effetto  ritenga  della 
natura  della  sua  cagione,  siccome  dice  Alpetragio,  quando  afferma 
che  quello  eh'  è  causato  da  corpo  circulare  ha  in  alcuno  modo 
circulare  essere  „  ('),  Ed  anche  Coiiv.  IV,  xxiii,  47  segg.  "  Cia- 
scuno effetto,  in  quanto  effetto  è,  riceve  la  similitudine  della  sua 
cagione,  quanto  è  più  possibile  di  ritenere  „.  L'applicazione 
del  principio  che  segue  è  meritevole  della  nostra  più  grande 
attenzione.  Tutta  la  nostra  vita  riceve  la  sua  forma  dall'  in- 
fluenza dei  cieli,  ma  questa  influenza  non  si  effettua  per  mezzo 
di  un  cerchio  completo  {cerchio  compiuto),  ma  soltanto  per  mezzo 
di  quella  parte  dei  cieli  che  trova  al  di  sopra  di  noi,  cioè  un 
scmicercliio  formante  un  arco;  conseguentemente  Xtì  vita  dell' uomo, 
come  quella  di  tutte  le  altre  creature,  rassomiglia  a  un  arco! 
"  convengono  essere  quasi  ad  immagine  d'  arco  assimiglianti  „. 
In  questo  strano  argomento  osserviamo  il  principio  preciso,  il 
cui  riconoscimento  cagiona  la  difficoltà  di  questo  passo,  vv.  47-49, 
ed  anche  del  §  XXIII,  vv.  49-52.  Il  nostro  autore  ne  ammette 
qui  la    forza    e    sente  che  abbisogna  di  una  risposta  ("). 

Quale  falsificatore  avrebbe  voluto  perdere  1'  occasione  di  richia- 
mare l'attenzione  sul  principio  generale,  che  non  sarebbe  troppo 
evidente  ai  suoi  lettori,  e  sul  quale  riposa  tutta  l' efficacia  del- 
l'obbiezione?  A  Dante  stesso  non  ne  occorre  la  necessità. 


(')  Cfr.  l'espressione  del  Par.  Vili,  127  "  La  circiilar  uaiiira  eh' e  suggello 
Alla  cera  mortai  „. 

('-)  Se  abbisognassero  maggiori  prove  per  dimostrare  la  familiarità  di  Dante 
con  questo  principio,  si  confronti  De  Mon.  I,  xiii,  13  segg.  "  Nihil  igitur  agit, 
nisi  tale  existens,  quale  patiens  fieri  debet;  propter  quod  Philosophus....  Omne, 
inquit,  quod  reducitur  de  potentia  in  actum  reducitur  per  tale  existens  in  actu  „. 
E  la  Caiisoite,  iii,  52-53. 

Poi  chi  pinge  figura 
Se  non  può  esser  lei,  non  la  può  porre. 

E  ancora  Couv.  IV,  x,  80-82:  "  tutte  le  cose  che  fanno  alcuna  cosa,  conviene 
essere  prima  quella  perfettamente  in  quello  essere.  „ 


-48- 

Osserviamo  poscia  il  punto  pai'ticolarc,  nel  quale  si  suppone 
consistere  la  pìrsunzioìic.  Sta  forse  nel  dimandare  pcrclic  l'eleva- 
zione avverrebbe  al  Nord  piuttosto  che  al  Sud?  e  tale  domanda 
è  presuntuosa  per  il  fatto  che  implica  l'altra:  perche  vi  sono  più 
stelle  nell'emisfero  settentrionale  che  in  quello  meridionale?  Ciò 
sarebbe  come,  dice  Aristotile,  se  si  domandasse  perché  i  cieli  girano 
dall'  Est  all'  Ovest  e  non  dall'  Ovest  all'  Est.  Vedi  vv.  55  segg. 
(cosi  in  Coiiv.  II,  \"i  148  segg.  Dante  ritiene  del  pari  oggetto  di 
presunzione  l' indagare  la  causa  precisa  della  rivoluzione  del 
Priìììuni  Mobile).  Poiché  non  si  può  dubitare  (dice  in  questo 
punto  lo  scrittore),  che  se  parve  a  Dio  ben  fatto,  che  la  Terra 
fosse  elevata  da  questa  parte,  perché  era  meglio  che  fosse 
cosi  (v.  68),  Egli  ordinasse  che  le  Stelle,  per  mezzo  della  cui  in- 
fluenza questo  resultato  fu  ottenuto,  fossero  situate  in  modo  da 
ottenerlo:  "  simul  et  virtuatum  est  coelum  ad  agendum  et  terra 
potentiata  ad  patiendum  „  (vv.  70-72).  Vedi  anche  vv.  34-36: 
"  quod  similitudo  virtualis  agentis  consistat  in  illa  regione  coeli 
quae  operit  hanc  terram  detectam   „. 

§  XXI,  fiìi.  V,  70.  È  da  osservare  finalmente  la  tacita  opinione, 
che  i  cieli  e  la  loro  influenza  forniscano  l' istrumento,  ovvero  la 
causa  efficiente,  per  mezzo  della  quale  gli  intendimenti  di  Dio 
nel  mondo  vengono  naturalmente  attuati.  Questo  è  chiaramente 
il  principio  generale  implicito  qui,  quantunque  non  vi  sia  intro- 
dotto. Quanto  ciò  sia  dantesco  può  vedersi  dal  De  Moii.  II,  n, 
15  segg.  "  Est  enim  natura  in  mente  primi  motoris,  qui  Deus 
est,  deinde  in  coclo  ianqnam  in  organo,  quo  mediante  similitudo 
bonitatis  aeternae  in  fluitantem  materiam  explicatur  „  ('),  ed 
anche  ib  v.  25:  "  quum  Deus  ultimum  perfectionis  attingat,  ^/ /;/- 
strwnentum  ejus  (quod  coelwn  est)  „  ecc.;  e  ib.  v.  31,  vien  di- 
chiarato che  ogni  mancanza  di  effetti  è  "  praeter  intentionem 
Dei  naturantis  et  codi  „.  Vedi  anche  Ep.  V  §  8,  dove  Dante  af- 
ferma, come  qualche  volta  Dio  impieghi  degli  agenti  umani  per 
conseguire  dei  resultati  che   sembrano    al    di   là    di    ogni    sforzo 


(')  Citato  sopra,  ad  altro  proposito  a  p.  37,  n. 


—  49  — 

umano,  ed  in  questo  caso  esso  opera  "  per  homines,  tanqnoni 
per  coclos  iiovos  ('). 

§  XXII.  Certamente  è  affatto  nello  spirito  di  Dante  la  de- 
nunzia della  presuntuosa  speculazione,  dal  §  XXI,  v.  54  in  avanti, 
come  pure  il  pio  riconoscimento  della  Sapienza  Divina  e  della 
Divina  Provvidenza  rivelate  dal  Fenomeno  dell'  Universo.  Da 
confrontarsi  Couv.  III,  v,  196  segg.,  IV,  xxi,  49,  segg..  Par.  X, 
13-21  e  parecchi  altri  luoghi.  In  fine  il  linguaggio  adoperato 
nel  §  XXII  si  può  confrontare  con  quello  del  Conv.  IV,  v, 
7-10,  69-79;  De  Mon.  II,  XI,  64,  segg.,  xiii  59;  Ep.  X  §  28, 
vv.  531-569,  ecc.  Neil'  Ep.  X  §  2,  v.  36.  "  Spiritum  Sanctum 
audiat  „  può  essere  paragonato  con  la  frase  "  audiat  propriam 
Creatoris  vocem   „  ecc.  //.  /.  v.  19. 

§  XXIII,  vv.  25-38.  Farmi  degno  di  esser  notato,  come  un 
falsificatore  dovesse  esser  tentato  di  ripetere  alcun  che  del  lin- 
guaggio o  delle  spiegazioni  o  delle  citazioni  aristoteliche  del  Conv. 
IV,  vm,  42-83,  dove  è  trattato  diffusamente  questo  medesimo 
soggetto  della  fallacia  della  prova  dei  sensi.  Ma  di  questo  non  si 
trova  alcuna  traccia. 

§  XXIV.  Ho  già  ammesso  che  non  son  premuroso  di  sostenere 
r  autenticità  dell'  cxplicit,  come  sta,  quantunque  non  veda  difficoltà 
veruna  per  accettarlo.  È  per  1'  appunto  questa  parte  quella  in  cui 
la  licenza  dell'editore  avrebbe  uno  scopo  più  naturale  (confronta 
la  sottoscrizione  delle  Epistole  di  S.  Paolo  )  ;  ma  contiene  una 
deliziosissima  punta  di  sarcasmo,  sotto  ogni  rapporto  degna  dello 
stesso  Dante,  contro  quelli  del  clero  veronese  che  non  si  cu- 
rarono di  assistere  a  questa  conferenza.  (Vedi  vv.  7-13).  Gli 
assenti  sono  persone  che  non  vogliono  né  accettare  le  pro- 
posizioni fatte  da  altri,  né  venire  ad  ascoltare  ciò  che  quelli 
hanno  da  dire.  A  riguardo  di  quest'  ultimo  punto  vengono  de- 
scritti come  uomini  di  una  tale  profonda  umiltà  questi  "  Spiritus 


(')  Si  potrebbe  forse  confrontare  con  questa  un'  espressione  di  Alberto  Magno 
quando  parla  degli  effetti  [virtiites)  delle  differenti  località  sulla  generazione. 
"  Philosophi....  praecipiunt  considerare  virtutes  locorum  quasi  stellas  secundas  „. 
De  Nat.  Locontin  „.  Tract.  II,  Cap.   i  /in.  (  v.  p.  280). 

E.   MODRE.  4 


—  50  — 

Sancii  pauperes  „  ('),  che  per  evitare  sino  1'  apparenza  di  rico- 
noscere il  merito  —  negli  altri  —  ricusano  di  essere  presenti  ai 
loro  discorsi.  La  concezione  originale  di  una  falsa  umiltà,  che  rifiuta 
di  riconoscere  il  merito  ìicg/i  altri,  la  quale  umiltà  infatti  gli  uo- 
mini addimostrano  per  mezzo  di  "  un  sentimento  interno  delle 
imperfezioni  altrui  „,  può  bene  essere  scaturita  dalla  penna  di 
colui  che  chiede  scasa  ironicamente  di  rivolgersi  ai  Cardinali, 
quantunque  laico,  "  vedendo  che  non  abuso  di  nessun  ufficio  pa- 
storale, perche  non  ho  ricchezze  „  ('). 

Io  non  ho  trovato  altrove  (quantunque  sembri  essere  in  ar- 
monia col  pensiero  medievale)  che  la  nascita  del  nostro  Signore 
come  pure  la  sua  Risurrezione  siano  avvenute  di  Domenica  (vedi 
V.  17).  Si  può  aggiungere  che  il  20  gennaio  del  1320  cadde  ap- 
punto di  Domenica,  cioè  la  Seconda  Domenica    dopo    1'  Epifania. 

2.  Passiamo  ora  al  Parallellisnio  nelle  singole  espressioni. 

A  queste  rassomiglianze  di  pensiero  e  di  opinioni  con  quelle 
di  Dante  aggiungerò  alcuni  parallelismi,  tra  i  molti  che  ho  os- 
servati, nello  stile  e  nelle  espressioni  particolari.  Quantunque  la 
presenza  di  tali  rassomiglianze  non  provi  esser  Dante  l' autore, 
perché  1*  imitazione  di  questi  punti  sarebbe  facile,  però  la  loro 
assenza  sarebbe  importante  per  negarlo  addirittura,  e  (come  ho 
già  notato  altrove)  se  Dante  fosse  in  realtà  il  vero  autore,  esse 
vi  sarebbero  certamente. 

Debbo  osservare,  forse,  di  volo,  1'  uso  proprio  del  verbo  existere 
per  l'ordinario  verbo  sostantivo,  come  in  I,  v.  2;  V,  v.  8;  XIX, 
V.  45;  XXIIl,  V.  29  ecc.  Cosi  usato  trovasi  ripetutamente  nel 
De  Mon.  (e  i  passi  son  troppo  numerosi  per  poterli  citare),  e 
di  nuovo  nel  De  Vttlg.  Eloq.  I,  xv,  12,  etc.  Ma  io  non  annetto 
molta  importanza  a  questo,  perchè  ho  riscontrato  che  non  è 
cosi  raro  negli  scrittori  di  quel  tempo. 


(')  Cfr.  l'espressione  pauperes  Dei  in  Par.  XII,  93;  e  pauperes  Chrisli  in  De 
Mon.  II,  XII,  4  e  III,  x,  130;  e  con  la  frase  minia  cavitate  ardentes  (  v.  8)  con- 
fronta l'altra,  caritate  arserunt,  del  De  Mon.  Ili,  iii,  67. 

(')  Cfr.  Ep.  Vili  §  5,  vv.  72-73. 


-  51   - 

i^  I\',  \-.  6.  L'  uso  dell'  attivo  continenti  e  parallelo  a  quello 
del  passivo  contento  in  /;//.  II,  77  e  Par.  II,  114. 

§  \,  V.   13,  dorso  maris  Cfr.  Conv.  Ili,  v,  83,  94,  (/osso  de/  mare. 

§  \  1,  V.  3  (e  altrove)  terra  detecta;  Conv.  Ili,  v,  73,  terra 
discoperta. 

§  XI,  /;///.  Ad  cvidctiani  igitnr  dicendornni  duo  snpponenda 
sunl.  Confrontare  Vu/g.  Eioq.  II,  11,  46:  Ad  quorum  evidentiam 
sciendum  est  qnod  ecc.;  e  De  Moti.  Ili,  iv,  45,  46.  Ad  me/iorem 
ìiujus  et  a/iarum  factarum  so/utionum  evidentiam,  advertendum  ecc. 

§  XII,  v.  28.  La  singolare  espressione  g/eba  terrac  che  si 
trova  qui,  può  essere  confrontata  con  quella  del  De  Mon.  I,  xv, 
38,  dove  si  ha  p/urcs  g/ebas  in  contrapposto  con  plures  f/ammas, 
designandosi  cosi  gli  elementi  Terra  e  Fuoco. 

§  XII,  V.  36,  rideret  Aristotctes  si  audiret.  Cfr.  Conv.  IV,  xv, 
59.  Senza  dubbio  forse  riderebbe  Aristoti/e  udendo. 

§  XV,  66.  Questa  designazione  strana  e  semi-poetica,  del- 
l' Oceano  come  Amphitrite,  si  ritrova  di  nuovo  in  Ep.  VII,  §  3, 
V.  58,  fluctus  Amplìitritis  attingens  {'). 

§  X\'III,  V.  46.  L'  uso  del  termine  strettamente  tecnico  "  co)ìi- 
p/cxionatuìH  „  come  in  De  Mon.  I,  ni,  49,  è  stato  ricordato 
sopra  a  p.  40. 

§  XIX,  V.  63.  Con  ve/  quasi  che  equivale  a  un  dipresso  cfr.  Par. 
I,  44,   Ta/  foce  quasi,  precisamente  nello  stesso  senso. 

§  XX,  vv.  42,  48.  La  frase  ripetuta  più  volte  per  se  loqiiendo 
si  trova  parimente  in  De  Mon.  II,  vi,  26. 

§  XX,  V.  58.  ìiabcat  reduci.  Questo  curioso  costrutto  latino 
trovasi  di  nuovo  in  De  Mon.  III,  xii,  60,  87,  90,  100.  E  l'ho  no- 
tato ancora  in  De  Vu/g.  E/oq.  I,  111,  17,  "  cum  (se.  genus  huma- 
num)  aliquid  a  ratione  accipere  habeat  „. 

Nel  §  \'  e  di  nuovo  nel  §  X\'III  Averrocs  è  citato  semplice- 


(M  Probabilmente  seguendo  la  fraseologia  di  Alberto  Magno,  che  designa  di 
frequente  1'  Oceano  col  nome  di  Anfitrite;  p.  e.  Meteor.  II,  Tr.  II,  e.  12  init.  "  aquae 
sive  siut  tu  AtJiphittite,  site  siut  in  coicavitatibus  „.  Ed  anche  ibid.  e.  vi,  De  Aat. 
Loc.  Tr.  I,  e.  9  ecc,  In  Meteor.  II,  Tr.  in,  e.  9  noi  leggiamo:  "  AwphUrix  (sic» 
tst  ergo  locus  proprtus  et  p>rimus  onìutuììi  aquaruìtt  „. 


—  52  — 

mente  come  Comnicn/ator.  Da  paragonarsi  con  Coiiv.  IV,  xiii, 
68,  chi  intende  il  Comoitatore  nel  terzo  dell'Anima.  In  De  Mon.  \, 
III,  76  troviamo  una  forma  alquanto  differente  di  citazione:  "  Aver- 
rois  in  Connnento  super  iis  qnae  de  Anima  „.  In  questi  due  passi, 
come  pure  nel  §  \',  è  citato  il  medesimo  Commentario  di  Aver- 
roes  sul  de  Anima,  sebbene  i  passi  citati  siano  differenti,  mentre 
nel  §  XVIII  è  \xx\' opera  diversa  a  cui  l'autore  si  riferisce.  Il  re- 
sultato generale  è  ancora  di  dimostrare  una  familiarità  con  le 
opere  di  colui  "  che  il  gran  comento  feo  „,  ed  un'analogia  nella 
forma  delle  citazioni,  senza  che  vi  sia  alcuna  ripetizione  di  esse. 

Nei  §§  VI  e  XXIII,  s' introduce  una  citazione  da  Aristotile  colla 
formula  "  nt  patet  per  philosophnm  in  Meteoris  siiis.  „  Possiamo 
confrontare  con  questo  Ep.  X,  §  io,  v.  229,  "  nt  per  Horatiitni  pa- 
tere potest  in  sua  Poetica  „;  e  §  XXXIII,  v.  614,  "  id  patet  per  Io- 
hanncm  ibi  „  (Cfr.  §  VII,  v,  141).  Vedi  ancora  De  Mon.  Ili,  vn,  19, 
"  id  patet  ex  iis  qnae  de  Syllogismo  simpliciter  „/  Ep.  X,  §  io,  v. 
202,  "  ut  patet  per  Senecam  in  suis  Tragoediis  „;  v.  205,  "  ut  patet 
per  Tcrentiimi  in  suis  Comoediis  „;  e  spesso  altrove.  In  fatti,  l'uso 
di  patet  in  una  gran  varietà  di  frasi  deve  colpire  tutti  coloro 
che  leggono  le  opere  latine  di  Dante.  Pure  quantunque  si  ripeta 
molto  spesso  in  questo  Trattato,  ho  trovate  di  rado  ripetute 
esattamente  queste  frasi:  p.  e.  O.  XV,  24;  XIX  70,  cfr.  con 
De  Mon.  II,  vi,  67,  ecc. 

Sotto  questo  paragrafo  si  può  notare  la  somiglianza  esatta  della 
costruzione  degli  argomenti,  dei  loro  particolari  tecnici,  e  delle 
loro  formule  logiche,  con  quelli  del  De  Monarchia,  e  per  vero 
anche  del  Convito,  tenuto  conto  della  differenza  della  lingua  in 
quest'  ultimo  caso.  Da  notarsi  l'  uso  frequente  di  instanlia,  £V7T«7tc, 
[IX,  v.  8  ('),  XVIII,  V.  I,  XIX,  V.  3,  ecc.  e  cfr.  De  Mon.  II,  vi, 
67,  III,  V,  35:  Cotw.  IV,  XXII,  98  ecc.  Noi  abbiamo  instanzia 
ancora  usata  cosi  nel  Par.  II  94I,  distinctio  [cfr.  De  Mon.  Ili,  iv. 


(')  Si  osser%'i  ancora  /i.  /.  l'uso  singolare  del  verbo  instare  corrispondente  a 
questo:  "  Instabitur  centra  dcinostrata,  et  solvetur  instantia  „  e  si  confronti  col 
passo  del  De  Mon.,  Ili,  vir,  23:  "  si  quis  instarci  de  vicarii  aequivalentia,  inu- 
tilis  est  iìistartlia  „. 


—  53  — 

126,  vili,  15  ecc. 1,  dcli'nitiiiatio  (§  XI,  v.  8),  iiitcrciìiptio,  solvere  e 
dissolvere  rutiones  o  ari^inneiita.  Tutto  questo  è  cosi  familiare  ai 
lettori  del  De  Monarchia,  che  un'  illustrazione  speciale  non  è  ne- 
cessaria. Da  notarsi  anche  le  foriìiitlae  per  la  chiusa  di  un'  argo- 
mentazione, come:  ///  de  se  potei  \(J.  §  Xl\',  v.  8  e  De  Man;  1,  viii, 
28,  111,  II,  25  ecc.]  ///  potei  intuenti  [O.  §  X\'lll,  v.  54,  cfr.  saprà, 
p.  34]  ovvero,  sicnt  niani/estiini  esse  potest  [O.  §  XIX  v.  69,  pa- 
ragonato con  De  Man.  1,  iv,  30;  xii,  38J.  Ed  anche  si  con- 
fronti il  ripudio  brusco  di  un  argomento  contrario  in  De  Alon. 
Ili,  xi,  14:  Dico  qnod  niliil  diettnt,  con  §  XXlll,  v.  11:  dico  qnod 
non  est  veruni.  Aggiungi  a  questo  anche  §  XXllI^  v.  40:  dico 
qnod  ilio  ratio  fnndotnr  in  falso;  et  ideo  nihil  est;  e  v,  45:  sed 
istitd  est  valde  puerile,  ecc.  Si  confronti  ancora  concedo  ininoreni 
in  §  xxin,  V.  16  con  la  medesima  formula  in  De  Mon.  Ili, 
vili,  23. 

Queste  somiglianze,  o  molte  di  esse,  potrebbero  esser  senza 
dubbio  facilmente  opera  di  un  falsificatore,  ma,  come  ho  già 
fatto  osservare,  ciò  non  è  in  se  stesso  un  argomento  per  contro, 
giacché  vi  si  troverebbero  certamente,  se  1'  opera  fosse  autentica. 
Ma  noi  siamo  anche  colpiti  non  tanto  dalla  ripetizione  mecca- 
nica di  frasi  identiche,  quanto  dalla  stretta  somiglianza  della  ma- 
niera, si  potrebbe  quasi  dire  del  manierismo,  col  quale  gli  argo- 
menti successivi  son  addotti  ed  eliminati. 

3.    CU  ozio  ni. 

Ci  rimane  a  trattare  delle  citazioni  che  si  trovano  in  questa 
opera,  e  che  sono,  al  pari  di  quelle  delle  opere  riconosciute 
di  Dante,  molto  numerose.  Le  confronteremo  per  T  ordine  e 
per  le  fonti  loro  e  per  le  formole  con  cui  sono  introdotte.  Nella 
prima  serie  dei  miei  Studi  su  Dante  ho  notato  ventidue  ci- 
tazioni dirette  e  formali,  e  dieci  riferimenti,  taluni  dei  quali  sono 
esatti,  come  delle  vere  e  proprie  citazioni,  ed  altri  più  o  meno 
probabili,  in  tutto  trentadue  (').  Ventiquattro  derivano  da  Aristotile, 
sei  dalle  S.  Scritture,  una  da  Orosio  e  una  da  Tolomeo. 


(')  La  lista  è  stampata  alla  fine  di  questo  saggio,  colle  citazioni  numerate  per 
facilitare  i  riscontri. 


—  54  - 

La  proporzione  maggiore  delle  citazioni  Aristoteliche  si  deve 
al  soggetto  trattato.  Quelle  dalla  Scrittura,  che  Dante  conosceva 
bene  in  ogni  sua  parte,  non  hanno  bisogno  di  osservazione 
alcuna,  eccetto  per  quel  passo,  Roiìi.  XI,  33,  che  è  citato  da 
Dante  altre  due  volte,  cioè  nel  Cotivito  e  nel  De  Monarcliia.  Una 
citazione  da  Orosio  era  naturalmente  da  aspettarsela  se  Dante 
doveva  trattare  un  soggetto  geografico,  come  nella  Quaestio  §  19. 
Lo  stesso  capitoto  di  Orosio  è  citato  da  Dante  nel  De  Moti.  II, 
ni.  87.  La  citazione  da  Tolomeo  è  data  vagamente  e  senza  rife- 
rirsi in  modo  speciale  alla  sua  fonte,  come  in  due  altri  luoghi 
dove  è  citato  da  Dante,  entrambi  del   Conv.  II.  xiv. 

Per  ciò  che  riguarda  le  citazioni  aristoteliche  (servendoci  per 
indicarle  dei  numeri  marginali  della  lista  stampata  ùt/ra  p.  61  ) 
possono  analizzarsi  come  segue: 

(I)  Le  seguenti  citazioni  sono  state  realmente  fatte  da  Dante 
altrove  : 

I  numeri  (4)  e  (17)  si  trovano  in  Convito  e  De  Monarcliiay 
(io)  e  (11)  sono  ambedue  molto  familiari;  (18)  si  trova  nel  Con- 
vito, ma  in  termini  assai  differenti.  A  questi  possiamo  forse  ag- 
giungere il  (9),  che  quantunque  non  sia  stato  dato  né  qui  né  in 
De  Mon.  I,  xiv  {ter),  come  citazione  formale,  è  evidentemente  la 
riproduzione  di  uno  o  più  passi  di  Aristotile.  Vedi  i  miei  Studi 
I,  p.  116. 

(II)  I  passi  seguenti  non  sono  stati  formalmente  citati  altrove,, 
ma  altre  numerose  citazioni  o  referimenti  sottintesi  si  trovano, 
che  derivano  dallo  stesso  capitolo  o  dallo  stesso  libro  del  Trat- 
tato Aristotelico. 

Cosi  il  (3)  è  da  Metcor.  II.,  un  libro  al  quale  probabilmente 
Dante  si  riferisce  otto  volte.  Vedi  Stadi  \,  p.  336. 

II  (5)  da  Nic.  Etli.  I,  VII,  capitolo  che  Dante  cita  altrove  sei 
volte  o  semplicemente  vi  si  riferisce. 

Il  (13)  da  Nic.  Eth.  I,  xiii,  capitolo  ben  conosciuto  da  Dante. 
Il  (23)  da  De  Coelo  II,  e  il  (32)    da  Meteor.  I,  ambedue  Trat- 
tati ben  noti  a  Dante. 

Si  potrebbe  far  menzione  qui  del  numero  (6),  che  quantunque 


—    OD    — 

derivi  dal  De  Coelo,  si  trova  nel  Libro  IV  di  quel   Trattato,  che 
non  è  citato  altrove  da  Dante. 

(Ili)  Ai  seguenti  si  riferisce  chiaramente,  quantunque  non  li 
citi  formalmente,  e  sono  luoghi  di  Trattati  famigliari  a  Dante: 

I  numeri  (2),  (8),  (12),  dal  De  Coda,  Libro  II. 

II  (20)  Mctaph.  A  II. 

Il  (26)  §  XXII,  vv.  3-5.  Questa  reminiscenza  evidentemente  di 
Aristotile  è  interessante,  perché  s' incontra  quale  citazione  for- 
male in  Conv.  IV.  xiii,  71,  72.  e  in  ambo  i  casi  troviamo  la 
s/essa  sittgolare  differetiza  dui  lesto  di  Aristotile,  la  quale,  come 
ho  rilevato  nei  miei  Studi  su  Dante  I,  p.  105,  è  probabilmente 
dovuto  air  esser  citata  indirettamente  attraverso  il  linguaggio  di 
S.  Tomaso  d'  Aquino.  Questa  certamente  ha  tutto  1'  aspetto  di  una 
genuina  involontaj-ia  coincidenza. 

(IV)  I  seguenti  o  non  presentano  importanza,  o  sono  dubbiosi: 
I  numeri  (16),  (19),  (21),  (22).  (Son  stati   tutti    dati    solamente 

sotto  la  Classe  e,  eccettuato  il  (21)  che  è  segnato  b,  ma  la    diffe- 
renza è  soltanto  di  opinione). 

(V)  Vi  sono  tre  citazioni  prese  da  due  delle  opere  logiche  di 
Aristotile,  cioè  Catcg.  e  Prior  Anal.,  di  entrambe  le  quali  Dante 
nelle  sue  opere  mostra  di  avere  conoscenza,  se  non  famigliarità. 
La  trattazione  formale  logica  del  soggetto  in  questione  rende- 
rebbe tali  riferimenti  probabili  e  naturali. 

Vedi  i  numeri  (i),  (7).  (14). 

Non  vi  è  sicuramente  nulla  in  questa  analisi  che  tradisca  la 
mano  del  falsificatore,  e  tanto  il  carattere  delle  citazioni,  in 
(II)  e  (III),  come  il  fatto  di  essere  quivi  un  maggior  numero 
di  citazioni  che  in  (I)  è,  per  quel  che  vale,  un  indizio  di  auten- 
ticità. 

Un  falsificatore  avrebbe  probabilmente  copiato  e  ripetuto  delle 
citazioni  identiche,  e  non  sarebbe  stato  cosi  sottile  da  ricercarne 
altre  dalla  stessa  opera,  o,  come  nel  caso  di  Averroes,  da  una 
opera  diversa  dello  stesso  autore  citato  nominatim. 

Ci  rimane  a  considerare  alcuni  punti  nelle  formule  di  citazione. 

(a)  I  libri  della  Meteora  son  citati  due   volte    con    la   formola 


-56  - 

"  utpatct  per  Pìiilosoplinm  in  Mctcoris  siiis  „  (§§  VI  e  XXIII)  (').  Ora 
è  da  notarsi  che,  quantunque  occorrano  numerose  citazioni  nelle 
opere  riconosciute  di  Dante  da  questo  Trattato  (io  ne  ho  notato 
circa  venti  più  o  meno  probabili),  in  nessun  luogo  Dante  lo  cita 
direttamente   o   col  suo  titolo  (vedi  Sliidi  su   Dante,  I,  Indice  I). 

(^)  Le  due  citazioni  di  già  mentovate  dalle  Categorie  sono 
date  come  provenienti  dai  Pracdicanicnta  (§§  n)  e  dagli  Ante- 
praedicanienta,  dove  è  citato  il  cap.  I  (§  xn).  Questo  trattato  è 
nominato  una  sola  volta  da  Dante,  cioè  nel  De  Mon.  III.  xv.  58, 
e  là  come  doctrina  Praedicanicntorinn.  IS'on  vi  è  dunque  qui  nulla 
di  più  da  osservare. 

(Y)  Nel  caso  della  citazione  dal  Prior.  Anal.  (§xix,  v.i  9),  la 
formula  è  singolare,  "  id  illc  dicit  in  prinio  Priorum  „.  \'i  è  sola- 
mente un^ altra  citazione  diretta  da  quest'opera,  cioè  in  De  Mon. 
Ili,  VII,  19,  dove  la  formola  è  "  ut  patct  ex  iis  quac  de  Syllogismo 
simpliciter  „.  Non  vi  è  assolutamente  nulla  in  questa  piccola  diffe- 
renza, eccetto  che,  per  quel  che  vale,  è  contro  alla  teoria  della  fal- 
sificazione. Possiamo  osservare  che  Dante  stesso  ha  per  Io  meno 
tre  formule  diverse  per  citare  la  Metafisica  di  Aristotile,  Meta- 
phisica  [o  in  Conv.  ecc.  Metafisica);  Prima  PJiilosophia  {Conv.  e 
De  Mon.),  e  "  in  iis  quac  de  simpliciter  Ente  „  (De  Mon.),  E  vi 
sono  anche  due  formole  differenti  per  la  citazione  dell'  Etica  e 
due  per  la  Fisica. 

(9)  La  stessa  considerazione  si  può  applicare  alla  citazione 
del  De  Coelo  et  Mundo,  in  uno  dei  tre  luoghi  in  cui  esso  è  ri- 
cordato, ma  semplicemente  col  titolo  di  De  Coelo  (§  xxi.  v.  55). 
Anche  questo  si  trova  in  Ep.  X.  §  xxvii.  v.  511  (■),  quantunque 
la  forma  più  completa  ricorra  costantemente  nel   Convito. 


(')  Su  questa  formola  di  citazione  vedi  sopra  p.  52. 

(^)  E  a  mia  cognizione  che  in  questi  ultimi  anni  l'autenticità  di  quest'Epi- 
stola è  stata  discussa,  ma,  come  a  me  sembra,  molto  capricciosamente,  e  su 
base  del  tutto  vacillante.  Vorrei  richiamare  1'  atten'^ione  suU'  importanza  del  fatto 
accennato  dal  Sig.  Toynbee,  che  l'etimologia  di  Tragedia  data  nel  §  x  viene 
direttamente  da  Uguccione.  Non  soltanto  Uguccione  è  citato  esplicitamente  da 
Dante    per   nozioni  di  questo  genere  in  Conv.  IV,  vi,  ma  il  Toynbee  ha  provato 


—  57  — 

(ì)  L'  unica  difficoltà  che  rimane,  se  pure  è  una  difficoltà,  nella 
citazione  col  titolo  della  Meteora,  può  spiegarsi  benissimo  con 
r  isolamento,  in  riguardo  alla  data,  di  quest'  ultimissima  opera  di 
Dante.  Ma  per  vero  non  abbisogna  di  spiegazione,  perché  abbiamo 
veduto  che  Dante  non  adopera  una  rigida  uniformità  nelle  sue. 
formole  di  citazioni,  ed  è  probabile  che  il  fatto  della  disformità 
sarebbe  stato  evitato  dal  falsificatore  in  proporzione  appunto 
della  sua  erudizione,  specialmente  da  un  cosi  preciso  osserva- 
tore, come  abbiamo  veduto  che  fosse  in  questo  caso  l' autore 
supposto. 

Trattando  delle  citazioni  che  si  trovano  in  quest'  opera,  farò 
menzione  di  un  altro  argomento  che  mi  sembra  di  gran  valore. 
Mi  accadde  di  osservare;  leggendo  la  monografia  del  Dr.  Schmidt 
già  ricordata  ('),  che  egli  riteneva  che  1'  autore  di  questo  Trat- 
tato avesse  preso  molto  dalla  Composizione  del  Mondo  di  Ristoro 
di  Arezzo.  Fui  colpito  dalla  importanza  di  questo  fatto,  ove  fosse 
indubbiamente  accertato,  per  l'autenticità  dell'opera. 

La  data  dell'opera  di  Ristoro,  che  è  qualificato  dal  suo  edi- 
tore (Narducci)  come  1'  Humboldt  del  secolo  decimoterzo,  è  del  1282 
e  poteva  dunque  essere  stata  facilmente  accessibile    a   Dante  (■). 


che  Dante  si  serve  costantemente  di  Uguccione  per  le  sue  etimologie,  quan- 
tunque non  lo  riconosca  in  nessun  luogo.  Il  Toynbee  ha  argomentato,  per  ciò 
che  si  riferisce  all'  Epist.  X  (come  ho  fatto  io  nell'  ultima  pagina)  che  un  falsi- 
ficatore non  si  sarebbe  accertato  di  questa  fonte  oscura  delle  etimologie  di 
Dante  per  quindi  adoperarla  una  volta,  e  questo  sotto  1'  anonimo,  immaginando 
che  la  sua  opera  in  tal  modo  guadagnasse  parvenza  di  probabilità. 

(')  Si  dovrebbe  rilevare  che  il  Saggio  del  Dr.  Schmidt  non  concerne  la  di- 
sputa dell'  autore  della  Quaestio.  Esso  ritiene  che  sia  un'  opera  autentica  di 
Dante,  e  questo  è  il  punto  di  partenza  di  tutta  la  sua  argomentazione  che  è, 
come  accenna  il  suo  titolo  {Dante' s  Slellung  in  der  Gescliicitte  der  Kosniogra- 
pine),  di  determinare  il  posto  che  occupa  Dante  nello  sviluppo  delle  cognizioni 
fisiche.  11  saggio  sulla  Quaestio  è  solamente  la  prima  parte  del  soggetto;  ma  la 
seconda,  che  avrebbe  dovuto  trattare  delle  prove  raccolte  dalle  altre  opere  dan- 
tesche, sembra  non  esser  mai  stala  pubblicata. 

O  Sulle  cognizioni  di  Dante  e  1'  uso  da  lui  fatto  della  letteratura  contempo- 
ranea o  recente.  Vedi  infra,  Appendice,  p.  70. 


-  58  - 

Ma,  dopo,  r  opera  di  Ristoro  rimase  sconosciuta  per  secoli  ('). 
Fu  pubblicata  per  la  prima  volta  nel  1858  dal  Narducci;  ristam- 
pata coir  aggiunta  di  una  riproduzione  testuale  del  nis.  Chigi, 
nell'anno  seguente;  e  ripubblicata  in  12,  a  buon  mercato  dal 
Daelli  e  C.  (Milano)  nel  1864.  Una  comunicazione  fu  fatta  all'Ac- 
cademia della  Crusca  nel  1815  da  Francesco  Fontani,  descrivendo 
brevemente  quest'  opera  come  se  fosse  una  scoperta  fatta  tra  i 
niss.  della  Bibl.  Riccardiana  e  principalmente  trattandola  come 
testo  di  lingua.  Egli  parla  di  Ristoro  come  di  uno  che  non  si 
conosce  che  di  puro  nome,  e  aggiunge  che  tutti  i  suoi  sforzi  per 
trovare  qualche  notizia  di  lui  ad  Arezzo  o  altrove  sono  riusciti 
intieramente  vani  (*).  Ciò  dimostra  quanto  completamente  sia  stata 
dimenticata  la  parola  del  frate  di  Arezzo.  Io  ho  raccolta  in  una  nota 
di  supplemento,  qualche  prova  per  dimostrare,  (i)  che  Dante  co- 
nosceva quasi  per  certo  quest'opera  di  Ristoro:  (2)  che  non  vi 
può  esser  dubbio  che  1'  autore  della  Quaestio  la  conoscesse.  Se 
ciò  fosse  domanderei  francamente: 

(I)  Quale  possibilità  vi  fosse  per  il  Moncetti,  o  chiunque  altro 
al  suo  tempo,  di  prender  cognizione  del  Trattato  di  Ristoro. 
(II)  E,  dato  che  l'avesse  conosciuto,  quale  probabilità  vi  era  di 
aver  studiato  per  lo  scopo  della  sua  falsificazione,  uno  scrit- 
tore oscuro,  che  Dante  non  rammenta  neppur  una  volta,  e  che 
non  vi  era  ragione  prima  facie  di  supporre  che  esso  lo  cono- 
scesse ?  (Ili)  Supponendo  che  un  falsificatore  avesse  potuto  cono- 
scere uno  dei  mss.  di  Ristoro,  sarebbe  stata  l' autorità  di  esso 
la  principale  se  non  la  sola  in  questa  disusata  questione. 

Non  è  presumibile  dunque  che  invece  di  seguirla,  il  falsario 
abbia  preso  una  linea  indipendente  ed  anche  opposta,  a  riguardo 
delle  pili  fondamentali  proposizioni  che  vi  si  affermano.  Questo 
esso  fa  nei  seguenti  punti  importanti:  (i)  Il  soggetto  fonda- 
mentale della  stessa  tesi,  perché  Ristoro  sostiene  che  l' acqua 
del  mare  è  più  alta  della  terra.    (2)  La    spiegazione,  con    questo 


(')  Solo  di  5  mss.  si  conosce  l'esistenza,  tre  a  Firenze  e  due  a  Roma, 
('j  V.  r  introduzione  all'  edizione  del  Narducci  p.  v. 


—  59  ^ 

mezzo,  dello  scaturire  delle  sorgenti  sulle  vette  delle  montagne, 
giacché  il  peso  della  massa  sovrapposta  spinge  l'acqua  a  traverso 
gl'interstizi  e  canali  sotteranei  (che  son  paragonati  alle  vene) 
della  terra  spugnosa,  cosi  che  la  sua  riapparizione  nelle  grandi  ai- 
ture  è  solamente  il  resultato  naturale  dell'  acqua  che  ritrova  il  pro- 
prio livello  (').  Questa  opinione  è  posta  in  ridicolo  dall'  autore  della 
Quaestio,  come  quella  di  "  vulgares  et  phisicorum  argumenlorum 
ignari  „,  e  come  "  valdc  puerile  (')  (§  xiii,  vv.  41-48).  (3)  Il  modus 
operandi  dell'  emergenza  della  terra  asciutta,  secondo  Ristoro,  non 
è,  come  si  asserisce  nella  Quaestio,  l'elevazione  della  terra  (§  xxi 
vv.  40  segg.);  ma  il  rovesciarsi  all' indietro  e  l'accavallarsi  del- 
l' acqua,  per  lo  che  la  terra  vien  lasciata  nuda,  quantunque  occupi 
la  sua  posizione  naturale  in  sua  spliacra  (^). 

Non  si  può  immaginare,  che  un  falsificatore  del  secolo  deci- 
mosesto, se  avesse  mai  adoperato  1'  opera,  1'  avrebbe  trattata  in 
questo  modo.  Se  Dante  stesso  1'  avesse  conosciuta  (come  io  spero 
di  dimostrare),  nulla  sarebbe  più  naturale,  e  la  fresca  divulgazione 
di  queste  credenze  erronee  può  essere  uno  de*  suoi  motivi  per 
determinare  in  questo  modo  la  questione. 

In  conclusione,  io  ripeto  che  so  bene  come  nessuna  serie  di 
argomenti  di  probabilità  interna  possa  mai  stabilire  1'  autenticità 
di  un'opera  come  questa;  ma  credo  che  essi  possano  essere,  ed 
in  questo  caso  sono,  bastanti  a  giustificare  la  richiesta  che  que- 
sta questione  sia  ritenuta  ancora  aperta.  Tali  considerazioni  (come 
ho  già  ammesso)  impressionano  in  modo  diverso  le  diverse  menti. 
Io  posso  dire  soltanto,  per  ciò  che  mi  riguarda,  che  pili  studio 
quest'  opera  e  più  son  convinto  che  essa  è  interamente  dantesca 
in  quel  che  sia  stile,  lingua,  e  forma  di  pensiero.  Se  la  prova 
interna  soltanto  potesse  mai  provare  1'  autenticità  di  un'  opera,  io 


(')  Quindi  una  continua  circolazione  di  acqua:  "  Secondo  questa  via  potemo 
per  ragione  dire  che  1'  acqua  corre  giù  per  lo  fiume  sia  già  corsa  molte  volte,  e 
r  acqua  che  piuove  sia  già  piovuta  molte  volte  „.  L.  VI.  e.  7  (p.  85). 

(-)  Dante  stesso  ha  una  spiegazione  migliore  del  fenomeno.  V.  Purg.  V.  109- 
111,  115  e  seg.;  XXVIII,   121-132;  Studi  su  Dante  I,  pp.   133,  134,  300. 

(')   V.  infra,  Appendice. 


-  6o  — 

non  saprei  immaginare  un  caso  nel  quale  essa  fosse  più  convin- 
cente di  questo.  La  difficoltà  di  supporre  che  qualcun  altro  1'  ab- 
bia scritta,  (e  più  d'ogni  altro  il  Moncetti  per  le  ragioni  già 
esposte)  mi  sembra  quasi  insuperabile.  Ma  questa  impressione 
soggettiva,  non  può  aver  peso  alcuno  per  coloro  che  non  la 
dividono.  Per  citare  le  parole  del  Lowell,  per  ciò  che  si  riferisce 
air  autenticità  di  alcune  delle  opere  di  Shakespeare  che  sono  in 
discussione:  "  È  qualcosa  molto  difficile  a  definirsi,  l' impressione 
che  ci  convince  senza  argomento,  „  ma  essa  "  vai  meglio  di  ogni 
argomento  „.  È  in  ogni  caso,  per  coloro  che  la  sentono,  come 
quella  sicurezza  interna,  che  lo  stesso  scrittore  oppone  altrove  al 
"  dubbio  camuffato  alla  vista  in  abito  formale  di  prova  „. 

A  meno  dunque  che  non  vengano  prove  più  concludenti  di 
quelle  già  prodotte  per  la  falsificazione,  io  senza  esitare  riterrò 
che  questa  sia  un'  opera  autentica  di  Dante,  guasta  probabilmente 
in  alcuno  de'  suoi  particolari,  ma  però  sempre  in  tutti  i  suoi  punti 
essenziali  uscita  dalla  medesima  mente  e  dalla  medesima  penna  a 
cui  dobbiamo  la  Divina  Commedia,  il  De  Monarchia  e  il  Convito. 
Se  questo  è  vero,  sarò  fiero  di  aver  contribuito,  per  quanto  in 
grado  minimo^  a  liberarla  dal  sospetto,  per  non  dire  dalla  con- 
danna generale,  sotto  la  quale  essa  è  di  recente  caduta. 


CITAZIONI  NELLA 
QUAESTIO  DE  AQUA  ET  TERRA  (') 

(  Ristamp.  dagli  Slitdt  stt  Duiilc,  I,  p.  394) 


(Il 

lì. 

(2) 

b. 

(3) 

a. 

(A) 

a. 

(5) 

a. 

(6) 

a. 

(7) 

a. 

(8) 

b. 

«9) 

b. 

(IO) 

a. 

(ti) 

a 

(12) 

b. 

(13) 

a. 

(14) 

a. 

(15) 

a. 

(16) 

e. 

(17) 

a. 

(18) 

a. 

(19) 

e. 

(20) 

b. 

(21) 

b. 

(22) 

e. 

(23) 

a. 

(24) 

a. 

(25) 

a. 

(26)  *. 

(27) 

a. 

(28) 

a. 

(29^ 

a. 

(30) 

a. 

(31) 

a. 

(32) 

a. 

(Juacstio,  II.  v.  5 

IV  iiiil;  XVIII.  V.    14 
VI.  V.   12.  .     . 
XI.  V.   II.  .     . 

XI.  V.   14.  .     . 

XII.  V.  44   .     . 

XII.  V.  56  .     . 
„           XIII.  vv.   12-30 

XIII.  V.  35-  . 
XIII.  V.  41.  , 
XIII.  V.  42.  . 
XVI.  vv.  5<-55 

XVIII.  V.  68   . 

XIX.  VV.   i8-20 

XIX.  V.  43.     . 

XX.  vv.  ^-6  . 
XX.  V.  16  .  . 
XX.  V.  23  .  . 
XX.  VV.  25-28 
XX.  V.  28  .     . 

XX.  VV.  39-54 

XXI.  VV.  44-46 
XXI.  V.  55-  - 
XXI.  V.  3>- 

XXI.  V.  69. 

XXII.  V.  3  . 
XXII.  V.  6  . 
XXII.  V.  9  . 
XXII.  V.  II 
XXII.  V.  15 

XXII.  V.  20 

XXIII.  V.  47 


Ar.  Catcg.  Vili,  (io  a.   11). 

Ar.  De  Coelo  II.  xtii.  (293  a.  30). 

Ar.  Meteor.  II.  lu  fin.  (356  a.  33-61. 

Ar.  Pliys.  I.  II.  {185  a.    1-3V 

Ar.  Eth.  I.  VII.  21  (1098  b.  3). 

Ar.  De  Coelo  IV.  i  (307  b.  31). 

Ar.  Categ.  I  init.  (i  a.   i  4). 

Ar,  De  Coelo  II.  iv  (287  b.  4-i4'. 

Ar.  Part.  Anim.  HI.  iv  (665  b.  14,5). 

Ar.  De  Coelo  I.  iv  (271  a.  33)  ('). 

Ar.  Gen.  Anim.  II.  vi  (744  a.  36»  (3). 

Ar.  De  Coelo  II.  xiv  (296  b.  9-18). 

Ar.  Eth.  I.  .xiii.  15-17  (1 102  b.  13  segg) 

Ar.  Anal.  Pr.  I.  xli  (49  b.  34  segg). 

Oros.  Adv.  Pag.  I.  u.  7,  13. 

Ar.  Anal.  Post.  II.  vir  {93  a.  20). 

Ar.  Eth.  I.  II r.  4  {1094  b.  23-25). 

Ar.  Phys.  I.  i.   (184  a.   16  segg.). 

Ar.  Metaph.  H.  iv  (1044  b.   10-15). 

Ar.  Metaph.  A.  u.  (982  b.  12). 

Ar.  De  Mundo,  iii  (292  b.  35  segg.). 

Ar.  Meteor.II.  viir.  (366  b.  15  a  367  «4) 

Ar.  De  Coelo  II.  v.  (287  b.  26-31). 

Ptolom.     ...    -     ? 

Gen.  I.  9. 

Ar.  Eth.  X.  VII.  8  (1177  b.  31  segg.). 

job.  XI.  7. 

Psal.  CXXXVIII.  6. 

Is.  LV.  9. 

Rom.  XI.  33. 

lohan.  VIII.  21. 

Ar.  Meteor.  I.  ix  (346  b.  23-31). 


(')  Le  lettere  a.,  b.  e.  della  seconda  colonna  indicano  le  tre  classi  in  cui 
sono  state  aggruppate  le  citazioni:  (a)  citazioni  dirette  e  riconosciute;  (b)  ri- 
ferimenti certi  senza  citazione  formale;  (e)  allusioni  di  maggiore  o  minore 
probabilità. 

(')  E  altrove. 

(^)  Pure  altrove  nel  L.  II. 


APPENDICE 


DANTE  E  RISTORO  D'  AREZZO 


Per  non  interrompere  il  testo  con  una  digressione  troppo 
lunga  (')  ho  riunito  qui  le  ragioni  principali  pei-  le  quali  io  credo 
(!)  elle  Dante  conoscesse  l'opera  del  suo  contemporaneo  Ristoro 
di  Arezzo,  di  qualche  anno  più  vecchio,  intitolata  La  composi- 
zione dei  Mondo,  che  fu  scritta  nel  1282;  (II)  che  all' autore  della 
Oittiestio  era  certamente  famigliare  (e  quest'ultimo  è  eviden- 
temente il  più  importante  dei  due  punti  per  le  ragioni  spie- 
gate nel  testo  a  p.  58);  (III)  che  la  questione  discussa  qui  era  an- 
cora aperta  e  non  definita  al  tempo  di  Dante  ed  eccitava  l'interesse 
di  coloro,  che  erano  ///  pìiilosophia  nidrili  {§  xxi),  o,  come  si  di- 
rebbe ora,  uomini  di  scienza. 

I.  Ristoro  e  Dante. 

Vi  sono  molti  passi  in  Ristoro,  che  hanno  una  grande  somi- 
glianza nel  pensiero  e  nelle  espressioni  con  quelli  che  si  trovano 
nelle  opere  riconosciute  di  Dante,  ma  io  non  ci  annetto  impor- 
tanza, perché  si  ritrovano  eziandio  in  altri  autori  che  erano  ac- 
cessibili a  Dante  e  dei  quali  egli  certamente  si  era  valso,  come 
Alfragano,  Alberto  Magno,  Brunetto  Latini  ecc.  Tali,  per  esem- 
pio, sarebbero  la  posizione  relativa  degli  elementi,  tanto  intcr 
se,  che  in  rapporto  colle  sfere  planetarie;  le  caratteristiche  dei 
quattro  elementi  in  rapporto  con  le  "  contrarie  qualitadi  „  di 
caldo,  di  freddo,  di  umido  e  di  secco,  come  pure  le  applicazioni 
di  queste  qualità  alle  quattro  stagioni  (come  in  Conv.  IV.  xxni), 
la  miscela  degli  elementi,  condizione  necessaria  alla  generazione 
o  allo  sviluppo  dei  minerali,  .delle  piante,  degli  animali   ecc.  ecc. 


(M  Perché,  come  dice  Dante  stesso,  scusandosi  di  una  lunga  digressione:  "  li 
ItiMghi  capitoli  sono  nemici  alla  tneinoria.  Conv.  „  IV.  iv.   133. 

E.  MooRE.  5 


-  66  — 

I  punti  seguenti  sembrano  però  (in  grado  diverso)  dimostrare 
qualche  relazione  precisa  tra  i  due  autori. 

(1)  Coni'.  III.  V.  142  segg.  Dante  chiaramente  descrive  la  ri- 
voluzione del  Sole  nel  giorno  dell'  Equinozio  come  si  potrebbe 
vedere  dal  Polo  Nord,  cioè  "  girare  il  mondo  intorno  giù  alla 
terra,  ovvero  al  mare  come  una  mola  {cio(f  con  rivoltiziotie  oriz- 
zontale) della  quale  non  paia  più  che  mezzo  il  corpo  suo  „.  Lo 
stesso  paragone  si  trova  in  Ristoro,  I.  e.  -23  (p.  28)  "  a  modo 
di  macina  „.  Questo  però  può  esser  stato  tolto  da  Alfragano 
"  molae  trusatilis  instar  „  (e.  VII).  , 

Non  è  questo  invece  il  caso  per  la  singolare  descrizione  che 
segue  della  elevazione  graduale  giornaliera  del  Sole  per  giorni 
novantuno  e  un  quarto,  finché  arrivi  al  Tropico  del  Cancro,  cosi 
che  il  sentiero  che  descrive  sarà  a  spirale  "  a  gnisa  di  una  vile 
(li  tot  torchio.  „  Ciò  è  ancora  ripetuto  da  Dante  in  Par.  X. 
32.  33: 

Si  girava  per  le  spire 

In  che  più  tosto  ognora  s'  appresenta. 

Ora  questo  non  solamente  è  descritto  esattamente  da  Ristoro 
nello  stesso  luogo,  ma  vi  è  aggiunto  un  diagramma  della  spirale, 

II  sentiero  del  Sole  è  graficamente  indicato  come  "  una  via 
descritta  ed  avvolta  a  circonda  sopra  la  terra  365  volte  e  quarta, 
la  quale  fuor  tali  savi  che  la  chiamaro  spira;  e  troviamola  av- 
volta dintorno  alla  terra  come  un  filo  avvolto  su  per  uno  bastone  „. 

(2)  Di  nuovo,  nello  stesso  capitolo  del  Convito,  vv.  188,  189, 
Dante  osserva  che  1'  Equatore  "  due  volte  1'  anno  ha  la  state  gran- 
dissima di  calore  [cioè  agli  Equinozi)  e  due  piccioli  verni  „  {cioè 
ai  Tropici).  Questo  si  trova  ancora  nello  stesso  capitolo  di  Ri- 
storo (p.  32),  ma  non  si  trova  in  Alfragano  (').  Ristoro  vi  ricorre 
di  nuovo  nel  L.  VI.  e.  9.'  e.  11  e  altrove. 

(3)  La  dottrina  dell'amore  dei  diversi  elementi  per  il  loro 
posto,  descritta  da  Dante  in  Conv.  III.  in.  8.  segg.  "  le  corpora 
semplici  hanno  amore  naturato  in  sé  al  loro  loco  proprio  „ 
si  trova    in    termini    quasi    uguali    in    Ristoro,    L.    VI    Dist.    vii 


(')  Si  dovrebbe  aggiungere  che  si  trova  in  un  altro  autore  che  era  per  lo 
meno  accessibile  a  Dante,  Joannes  de  Sacrobosco  (morto  nel  1256)  de  Sphaera 
L.  Ili  e  4). 


-  67  - 

(pag.  96):  "  ciascheduno  desidera  d'andare  et  di  stare    nel   suo 
luogo  e  non  altrove  „. 

(4)  La  metafora  usata  si  spesso  da  Dante  del  sn^^^^cUo  e  della 
eoa  (p.  e.  Puf^.  XVIII.  38:  Par.  I  40.  41;  II  130132;  Vili.  127; 
XIII.  67-69,;  De'  Mon.,  II.  II.  74  ecc.)  si  trova  ripetutamente  in 
Ristoro.  L'  ho  notata  almeno  sei  o  sette  volte.  Un  passo  solo  bi- 
sogna citare,  come  quello  che  contiene  un  esempio  singolare  di 
questa  analogia,  dal  L.  VI.  e.  3.  (p.  69).  Lo  scrittore  prova  che 
vi  devono  essere  montagne  e  vallate  dentro  la  terra,  perché  essa 
£ome  cera  prende  l' impressione  del  cielo  come  suggello,  e  il 
cielo  può  considerarsi  esser  moìitiioso  e  falloso,  perché  le  stelle 
essendo  a  varie  distanze  dalla  terra  noi  dovremmo  ascendere  e 
discendere  dall'una  all'altra.  Vedi  anche  L.  VII.  Part.  i.  e.  2 
(pp.  96.  97). 

(5)  Il  benefico  effetto  dell'  inclinazione  precisa  data  allo  Zo- 
diaco, e  le  disastrose  conseguenze  sulla  "  generazione  „  delle 
piante  e  degli  animali,  se  essa  fosse  differente,  è  spiegato  ampia- 
mente da  Ristoro,  L.  II.  e.  3.  (p.  37)  e  altrove,  come  è  da  Dante 
nel  Par.  X,  13-21.  Vedi  specialmente  Ristoro  /.  e.  dove  si  dice 
che  r  inclinazione  dello  Zodiaco  è  il  meglio  possibile,  "  che  sia 
utile  alla  generazione  „  e  anche  "  pare  che  se  il  sole  non  si  po- 
tesse dilungare  né  appressare  alle  parti  della  terra  la  generazione 
perirà,  né  la  terra  né  1'  acqua  non  potrebbe  far  frutto.  „  Cfr. 
Par.  X.  16-21  e  specialmente  il  v.  18: 

E  quasi  ogni  potenza  quaggiù  morta. 

Ed  anche  coi  versi  19.  20: 

E  se  dal  dritto  più  o  men  lontano 
Fosse  il  partire,  ecc. 

si  confronti   Ristoro  :    "    E    proveremo    eh'  egli    non    può    essere 
declinato  né  più  né  meno  ch'egli  è,  ch'egli  non  facesse  danno  „. 

(6)  L' intera  dottrina  degli  Angeli  motori  delle  diverse  sfere 
celesti,  quantunque  si  debba,  senza  dubbio,  trovare  anche  altrove, 
è  esposta  da  Ristoro  con  dicitura  singolarmente  simile  a  quella 
di  Dante  nel  Convito.  Vedi  Conv.  II.  11.  61-65  "  .  .  .  .  Certe  In- 
telligenze, ovvero  per  piti  usato  modo  volemo  dire  Angeli  „;  e  II. 
V.  5-8  "  li  movitori  di  quello  sono  Sustanze  separate  da  n^ateria, 
cioè  Intelligenze,  le  quali  la  volgare  gente  chiama  Angeli  „, 


—  ÒS- 
SI raffronti  Ristoro  I.  e.  23  (p.  32  vicd.)  "  Pon  niente  al  cielo  che 
si  volge.  Or  chi  il  volge?  conviene  di  necessità  che  sia  spirito 
questo;  diciamo  noi  che  sono  angeli;  i  savi  ben  videro  questo, 
e  dissero  che  questi  erano  spiriti  d' intelligenza....  sono  mossi  da 
spinti  intellettuali,  i  quali  non  veggiamo  „.  E  quindi  nella  p.  134 
(Dist.  Vili  e.  2)  troviamo  la  parola  propria  mtc'7tdc re  a.pp\ìca.tSi  ed 
loro  modus  operandi,  come  in  Dante  Canz.  I.  v.  i,  e  Conv.  II. 
VI.  151.  „  Quanti  sono  li  corpi  principali  e  perpetui  nel  mondo, 
tante  sono  intelligenze,  le  quali  intendono  in  operazione  ecc.  „  e 
qualche  verso  più  sotto:  "  le  quali  intendono  sopra  la  genera- 
zione „. 

(7)  Nel  Conv.  II,  xv  Dante  descrive  le  conseguenze  fatali  che 
deriverebbero,  se  la  rivoluzione  dei  Cieli,  e  particolarmente  quella 
del  Priniuni  jnobile  che  era  comunicata  a  tutti  gli  altri,  fosse  so- 
spesa, e  conclude;  —  "  Di  vero  non  sarebbe  quaggiù  genera- 
zione, né  vita  d'animale  e  di  piante....  ma  tutto  l'universo  sarebbe 
disordinato  „  ecc. 

Cfr.  con  questo  Ristoro:  Dist.  VII  Part.  II  e.  4  (p.  loi  )  : 
"  Se  la  virtude  del  cielo  si  cessasse  e  lo  cielo  non  si  movesse, 
le  piante  e  li  animali  e  le  minerie,  le  quali  son  fatte  delli  omori 
delli  quattro  elimenti  discevererebberosi  (//  ins.  Rice,  più  antico 
ha:  se  desciorreano )  e  disfarebbensi  tutte,  e  ciascheduno  omore 
tornerebbe  al  suo  elimento:  lo  caldo  tornerebbe  alla  spera  del 
fuoco  e  lo  freddo  tornerebbe  alla  spera  dell'acqua,  e  l'umido 
tornerebbe  alla  spera  dell'  aire,  e  lo  secco  tornerebbe  alla  spera 
della  terra,  e  giammai  non  se  ne  farebbe  generazione  nulla;  se- 
condo lo  suggello  che  si  guastasse,  che  non  farebbe  operazione 
nella  cera  e  la  cera  non  si  troverebbe  lavorata.  „ 

Si  confronti  Par.  Vili,  12,  dove  è  descritta  Venere  come  la 
stella 

Che  il  sol  vagheggia  or  da  coppa  or  da  ciglio, 

con  Ristoro,  I.  e.  18.  (  p.  17  fin.),  dove  si  dice  di  Venere  "  scin- 
tillare e  vagheggiare.  ...  e  accompagna  e  va  tuttavia  quasi  col 
sole,  e  quando  le  va  dinanzi  e  quando  dietro. 

ig)  Anche  Ristoro  [Dist.  VIII.  e.  6  p.  139)  dichiara  che  i  sette 
pianeti  hanno  una  speciale  corrispondenza  colle  sette  scienze  del 
Trivium  e  del  Quadrivium.  Inoltre  dice  che  la  Luna  corrisponde 
alla  Grammatica,  Mercurio  alla  Dialettica  e  Venere  alla  Musica, 
ma  non  procede  più  oltre  nel  paragone.    Ognuno  si  rammenterà 


-  69  - 

con  quale  minuzia  Dante  elabora  simili  analogie  per  tutti  i  pia- 
neti (come  per  i  tre  Cieli  rimanenti)  in  Conv.  II.  xiv.  Si  deve 
osservare  che  nel  caso  della  Luna  e  di  Mercurio  le  Scienze  attri- 
buite ad  essi  da  Dante  e  da  Ristoro  sono  le  stesse;  ma  che  Dante 
associa  Venere  colla  Rettorica  e  Ristoro  colia  Musica. 

(io)  In  un  passo  ben  conosciuto  del  Piirg.  VI.  78  Dante  de- 
scrive r  Italia 

non  doluta  di  Provincie,  ma  bordello, 

volendo  significare  che  essa  aveva  perduto  il  suo  primo  titolo 
onorevole. 

Ora  Ristoro.  Dist.  VII.  e.  6  (p.  116)  ha  la  stessa  identica 
frase,  "  Italia  la  quale  è  donna  di  tutte  le  Provincie  „. 

(11)  Come  somiglianza  minore,  che  però  molto  probabilmente 
può  essere  casuale,  io  vorrei  notare  1'  espressione  della  lucerna 
del  mondo  applicata  da  Dante  al  Sole  mPar.  l,  38,  ed  anche  da 
Ristoro  in  J.  e.  18  (p.  17)  "  è  in  questo  mondo  come  lucerna 
nella  casa  „.  Inoltre  dice  che  si  chiama  "  Sole  quasi  solo  in  que- 
sto mondo  „  ! 

(12)  Vi  è  una  spiegazione  delle  Macchie  Lunari  in  Ristoro 
corrispondente  esattamente  con  quella  adottata  da  Dante  in  Conv. 
IL  xiv:  73-76,  e  quindi  da  lui  repudiata  suU'  autorità  dichiarata  di 
Beatrice  in  Par.  II,  59  segg.  Ristoro  (in  un  periodo  alquanto 
oscuro,  L.  Ili,  e.  8.  p.  67)  spiega  che  alcune  parti  della  Luna 
sono  dure,  opache  [ottuoso],  lucenti.  Queste  parti,  come  uno  spec- 
chio, ricevono  la  luce,  cosicché  essa  (luce)  può  esser  passata, 
tratta  o  gettata  sopra  altri  oggetti  {passare,  trarre,  gittare,  sono  i 
verbi  usati).  Questo  è  il  caso  delle  stelle.  Altre  parti  della  Luna 
sono  morbide,  trasparenti,  scure.  Queste  non  possono  "  ricever  „ 
la  luce  e  trasmetterla,  ma  la  "  ritengono  „  esse  stesse,  cosicché 
non  si  riflette  sopra  altri  oggetti.  Tale  è  il  caso  della  Terra  0). 
Si  confronti  con  questo  ciò  che  Dante  discorre  nel  Convito  1.  e 
"  la  quale  (l'ombra)  non  è  altro  che  rarità  del  suo  corpo,  alla 
quale  non  possono  terminare  i  raggi  del  sole  e  ripercuotersi  cosi 


(')  Su  questa  antitesi  fra  la  terra  e  le  stelle  si  insiste,  perché  la  luna,  avendo 
una  posizione  intermedia  fra  le  stelle  che  sono  tutta  luce  e  la  terra  che  è  tutta 
oscura,  partecipa  necessariamente  della  natura  di  entrambe.  Questo  stesso  prin- 
cipio, applicato  però  in  modo  diverso,  è  formulato  da  Dante  in  De  Mon.  III. 
XVI.  32. 


—  70  — 

come  nell'altre  parti.  "  La  rarità  di  Dante  corrisponde  alle  parti 
lunari  morbide,  trasparenti  od  oscure  di  Ristoro,  ed  in  ambedue  i 
casi  il  tratto  principale  è  l'  incopacità  (//riflettere  la  luce.  E  non  so- 
lamente questa  spiegazione  si  trova  in  Ristoro,  ma  non  si  trova,  per 
quanto  io  sappia,  in  nessun  altra  delle  fonti  da  cui  è  probabile  che 
Dante  potesse  attingerla.  Non  vi  è  nulla  di  simile  in  Alfragano,  in 
Brunetto  Latini,  in  Ruggiero  Bacone,  o  in  Alberto  Magno.  Alberto 
è  il  solo  tra  questi  autori  che  tratti  un  simile  soggetlo,  e  la  sua 
spiegazione  non  ha  nulla  di  comune  con  questa  (vedi  De  Coda 
et  Mtnido,  L.  II.  Tr.  ni.  e.  8).  Un  altro  passo  però  è  citato  dal 
Toynbee  dal  De  Jiivcnttitc  et  Senectiite,  dove  la  "  terrestris  na- 
tura „,  della  Luna  è  considerata  come  la  causa  della  ritenzione 
di  parte  della  luce  del  Sole.  Ma  il  Toynbee  considera  il  De  Su- 
bstaiitia  Orbis  di  Averroes  essere  la  fonte  della  imperfetta  "  «Teo- 
ria Lunare  „  di  Dante,  come  è  data  nel  Convito  l.  e.  Siccome 
questa  stessa  opera  è  citata  (da  Dante?)  nella  Quaestio,  §  i8,  una 
tale  origine  non  è  improbabile.  Ma  la  spiegazione  minuziosa  del 
modus  operandi  di  queste  dense  e  rare  parti  della  Luna  nel  ri- 
flettere o  assorbire  la  luce  solare  rassomiglia  molto  pili  al  dire 
di  Ristoro  che  non  a  quello  di  Averroes  o  di  Alberto  Magno. 
Mi  sembra  perciò  molto  probabile  che  Dante  abbia  derivato  la 
sua  teoria  da  Ristoro. 

Questi  sono  alcuni  resultati  raccolti  da  un  rapido  esame  del- 
l' opera  di  Ristoro.  È  probabile  che  uno  studio  pili  accurato  for- 
nisca ulteriori  ravvicinamenti.  Che  Dante  conoscesse  e  usasse 
liberamente  gli  scritti  di  vari  altri  suoi  contemporanei,  è  positivo, 
p.  e,  (i)  il  Tesoretto  di  Brunetto  Latini.  V.  Nannucci,  Manuale  della 
Letteratura,  I  p.  461,  ove  si  dà  un  numero  considerevole  di  passi 
della  Divina  Commedia,  nei  quali  son  ripetute  frasi  ed  espres- 
sioni del  Tesoretto.  Ma  che  egli  facesse  prò  del  Tesoro  o  Trésor 
è  fuor  di  dubbio  (cfr.  /;//.  XV  119).  (2)  Guido  Guinicelli  è  fre- 
quentemente imitato  e  usato  da  Dante.  V.  Nannucci,  Op.  cit., 
pp.  46-48.  (3)  Anche  Jacopone  da  Todi  (morto  nel  1306)  ib.  pp: 
384-386.  (4)  Bernardo  di  Ventadour  (')  sembra  certamente  aver  for- 
nito la  similitudine  della  lodola  nel  Par.  XX.  73-75.  (5)  Un'  altra 
bellissima  similitudine  nel  Purg.  XXII.  67-69,  sembra  che  sia 
stata  tolta  direttamente  da  messer  Polo  da  Reggio  (e.  1239)  come 
è  notato  dallo  Scartazzini  nella  sua  nota  //.  /. 


f')  V.  i  miei  Studi  su  Dante,  I,  p.  303. 


—  71  — 

E  difficile  capire  in  che  modo  fossero  conosciute  dai  contem- 
poranei cosi  bene  alcune  opere,  prima  dell'  invenzione  della  stampa, 
o  se  si  usasse  di  fare  delle  pubblicazioni  nel  vero  senso  della 
parole,  ma  che  esse  fossero  conosciute  è  ben  accertato. 

II.  Ristoro  e  la  "  ouaestio  „ 

Passiamo  ora  al  secondo  punto  e  molto  più  importante,  cioè 
che  all'  autore  della  (Jiiacstio  fosse  noto  il    Trattato  di  Ristoro. 

Questo  si  sarebbe  naturalmente  aspettato,  se  Dante  ne  fosse 
1'  autc^re  ;  ma  non  sarebbe  concepibile  nel  caso  di  una  falsifica- 
zione del  secolo  decimosesto  per  le  ragioni  esposte  sopra  a  p.  58. 

La  cosa  principale  che  ci  colpisce  in  Ristoro  è  l' idea  predo- 
minante che  r  elevazione  della  Terra  sia  cagionata  dall'  influenza 
delle  stelle.  Senza  quest'  influenza  la  terra  sarebbe  naturalmente 
tutta  ricoperta  di  acqua,  perché  la  sfera  dell'  acqua  è  al  di  sopra 
di  quella  della  Terra.  Vedi  intcr  alia,  I,  e.  20  (  pag.  19)  "  Con 
ciò  sia  cosa  che  li  elementi  sieno  sperici,  e  compia  T  una  spera 
l'altra,  appare,  secondo  ragione,  che  la  terra  debbia  essere  co- 
perta air  intorno  dall'  acqua....  E  noi  troviamo  una  parte  della  terra 
scoperta  dall'acqua;  e  secondo  i  savi  è  la  quarta  parte  (')  sco- 
perta, si  che  tre  parti  rimane  sotto  l'acqua:  ed  in  questo  luogo 
troviamo  una  grande  forza,  e  la  terra  è  levata  per  forza  dello 
suo  luogo,  e  stae  rilevata  per  forza  sopra  T  acqua,  e  T  acqua  per 
forza  cessata  via:  e  questa  forza  fue  a  cagione  della  congiura- 
zione delle  pianete  e  delli  animali  e'  abitano  sopra  la  terra  „ 
{cioè  i  segni  (Iella  Zodiaco).  "  E  troviamla  scoperta  inverso  la 
parte  di  settentrione,  sotto  quella  parte  del  cielo  la  quale  è  più 
stellata  „.  Vedi  più  oltre  L.  \'I,  e.  2,  (  p.  78)  dove  è  asserito  che 
se  questa  influenza  venisse  a  interrompersi,  l'acqua  ritornerebbe 
di  nuovo  a  ricoprire  la  terra.  "  Se  la  virtù  del  cielo,  che  dee 
tenere  T  acqua  cessata  che  non  spanda,  per  mantenere  la  terra 
scoperta,  si  cessasse  e  andasse  via,  T  acqua  cessata  converrebbe 
en  suo  loco,  e  coprirea  tutta  la  terra.  „  È  appena  necessario 
di  dimostrare  la  corrispondenza  che  vi  è  di  questo  con  la  teoria 
esposta  nella  Quaestio,  §  xxi,  dove  notiamo  particolarmente  che 
l'elevazione    nell'Emisfero    Settentrionale,    tra    l'Equatore  ed    il 


(')  Quarta  parte  abbiamo  anche  nel  L.  VI.  e.  2,  e  vi  si  aggiunge  che  perciò 
la  chiamarono  quarta  abitabile.  Cosi  pure  nel  e.  7.  Cfr.  Quaestio  §  2:  "  quam 
communiter  quartain  habitabilein  appcilamus  „. 


Circolo  Polare,  è  dovuta  alla  forza  supcriore  delle  stelle  in  quella 
jrgione  dei  cieli  (vv.  40.12:  vedi  inoltre  vv.  70-72).  Ora  questo 
viene  asserito  ripetutamente  da  Ristoro.  Ho  osservato  inoltre 
più  di  dieci  luoghi,  in  cui  esso  si  ferma  sul  fatto  che  I'  Emisfero 
settentrionale  ha  un  numero  maggiore  di  stelle,  e  che  queste 
stelle  hanno  un'  importanza  maggiore  e  maggior  magnificenza  di 
quelle  dell'Emisfero  meridionale.  In  alcuni  luoghi  egli  collega 
questo  fatto  colla  posizione  corrispondente  della  "  Icrra  dctecta  „ 
p.  e.  proprio  al  principio  (L.  I.  e.  2):  "  E  vedemmo  la  parte 
di  settentrione,  la  quale  è  inverso  lo  polo  artico,  spessa  e  vestita 
di  stelle,  e  la  parte  del  mezzodì,  la  quale  è  inverso  lo  polo  an- 
tartico, a  quello  rispetto  rada  e  ignuda  de  stelle  „.  Ed  anche 
L.  IV,  e.  4:  "  là  ove  sono  le  molte  figure  e  le  molte  stelle,  in 
quella  parte  dee  essere  per  ragione  molta  virtude,  e  molta  po- 
tenza, e  molta  operazione  „.  Vedi  L.  VI.  e.  i,  citato  a  p.  83  e 
L.  I.  e.  20,  a  p.  71.  Ancora  L.  I.  e.  9  e  io  Dist.  viii.  e.  12  (bis)  ecc. 
Particolarmente  ncH'  ultimo  periodo  citato,  egli  confuta  la  dot- 
trina di  Averroes  che  1'  Emisfero  meridionale  fosse  probabilmente 
abitato  come  il  settentrionale,  perché  "  utui  grandissijiia  inconve- 
nienza „  ne  avverrebbe,  cioè,  che  in  tal  caso  l'Emisfero  meridio- 
nale sarebbe  anch'  esso  "  pieno  e  soffolto  di  stelle  „  ed  invece 
accade  il  contrario  {'). 

E  si  accenna  anche  nella  Quaestio,  §  xxi.  v.  21,  che  non  so- 
lamente il  numero  e  la  magnificenza  delle  stelle  nordiche,  ma  le 
figure  e  le  forme  delle  costellazioni,  che  non  possono  non  aver 
una  ragion  d' essere,  debbono  esser  prese  in  considerazione, 
dapoi  che  non  solamente  le  diverse  stelle,  ma  anche  le  diverse 
costellazioni  variano  il  grado  d' influenza.  Questo  si  trova  an- 
cora diverse  volte  in  Ristoro,  che  parla  della  maggior  dignità 
delle  figure  rappresentate  da  certe  costellazioni,    che    si   trovano 


(')  È  note%'ole  che,  mentre  anche  Alberto  Magno  attribuisce  1'  emergenza  della 
terra  alle  stelle,  il  modus  operandi  è  affatto  difìerente,  perché  suppone  che  il 
sole  e  le  stelle  asciughino  la  "  qualità  „  di  Ituiiiidum.  "  Quae  qitidein  (scil.  aqua) 
totam  (  terram)  operire  deberet,  si  motus  solis  et  aliarum  stellarum  eam  in  parte 
non  exsiccaret.  „  Ed  anche,  parlando  del  sole  e  delle  stelle  esso  dice  citando 
Albumassar:  "  Oportet,  quod  cxsiccent  in  ea  humidum  in  locis  super  quae  sunt 
anguli  acuti  radiorum,  et  in  locis  super  quae  radii  perpendiculariter  incidunt.  „ 
Poi  si  serve  di  questo  per  argomentare  che  la  stessa  condizione  esiste  nell'Emi- 
sfero meridionale,  che  probabilmente  ha  terra  e  "  climata  „  simili  a  quelli  del 
nord,  e  che  non  si  .possa  accettare  la  credenza  generale  che  quest'  Emisfero  sia 
ricoperto  dalle  acque.  De  Nat.  Locoìitin,  Tr.  I.  (;.  xn. 


—  73  — 

per  la  maggior  parte  nell'  Emisfero  nordico.  Egli  nota  pure,  come 
molte  di  esse  hanno  il  loro  capo  verso  il  Nord  ed  i  loro  piedi 
verso  il  Sud,  e  ne  ricava  un  nuovo  indizio  della  superiorità  di 
quella  parte  dei  Cieli  (L.  I.  e.  9,  io:  IV.  4;  VI,  i,  ecc.).  Inoltre 
in  Dist.  vin.  e.  12  questo  vien  dato  come  una  ragiono  contraria 
all'  esservi  terra  alcuna  nell'  Emisfero  meridionale,  perché  avendo 
le  costellazioni  il  loro  dorso  girato  verso  quel!'  Emisfero  "  per 
ragione  dee  essere  impedita  la  loro  operazione,  da  non  potere 
adoperare  „  !  (p.  147). 

Quindi  riguardo  al  modus  operandi  di  questa  influenza  stel- 
lare, Ristoro  suggerisce  due  teorie  alternative  { L.  VI.  e.  2).  Esso 
dice  che  possiamo  supporre  la  vertute  del  cielo  o  di  avere  alzata 
la  terra  fuori  dell*  acqua,  oppure  di  aver  respinto  1'  acqua  per 
modo  che  per  il  restringersi  di  essa  la  terra  rimase  scoperta, 
mentre  la  sua  posizione  non  fu  cambiata.  Egli  adotta  quest'  ul- 
tima ipotesi  per  varie  ragioni  che  noi  non  ripeteremo  (').  L'  au- 
tore della  Ottaestio  suggerisce  anch'esso  due  alternative  nel 
§  XXI.  vv.  42  segg.:  o  attrazione  come  quella  della  calamita  (che 
è  la  stessa  della  prima  suggerita  da  Ristoro),  o  repulsione  (non 
nel  senso  della  seconda  spiegazione  di  Ristoro,  quantunque  questa 
implichi  pure  una  specie  di  repulsione),  generando  dei  vapori  che 
forzino  la  terra  in  certo  modo  a  protuberare  "  ut  in  particula- 
ribus  montuositatibus  „.  Questo  si  riferisce,  senza  dubbio,  alla 
generazione  dei  coni  vulcanici,  processo  descritto  minutamente 
da  Ristoro  come  una  delle  cause  della  generazione  delle  mon- 
tagne nella  Dist.  \\\.  part.  4,  e.  6  (p.  115)  (una  ventosità  che 
s'ingenera  nel  ventre  della  terra)  e  nel  L.  VI.  e.  8  (p.  86):  "  e 
anche  potrebbe  ctifiare  la  terra  su  e  fare  lo  monte.  „ 

Particolarmente,  la  metafora  della  calamita  è  applicata  al  pro- 
cesso dell'  attrazione  stellare  nella  Ottaestio,  §  xxi.  v.  43,  e 
viene  adoprata  più  di  una  volta  da  Ristoro,  p.  e.  L.  VI.  e.  i  (il 
capitolo  citato  infra),  e.  vii,  ed  in  altri  luoghi  (').  Si  può  aggiun- 
gere che  Ristoro  spiega  ogni  cosa  coli'  influenza  delle  stelle, 
e  questo  ci  colpisce  di  più  per  la    frequenza    con    cui   si    ripete. 


(')  Suir  importante  applicazione  pratica  in  Ristoro  della  sua  teoria  del  re- 
stringersi delle  acque,  per  spiegare  la  ragione  delle  origini  delle  sorgenti  nelle 
alture,  v.  siif>ra,  p.  ^^  fin.  Cfr.  specialmente  Ristoro,  L.  VI.  e.  7  {passim),  e  i  passi 
citati  iii/ra  pp.  76,  77. 

(')  Uno  degli  aspetti  più  singolari  dell'  opera  di  Ristoro  è  la  sua  confusione,' 
di  modo  che  troviamo  la  medesima  affermazione  ripetuta  molte  e  molte  volte. 


Cosi  spiega  (come  abbiamo  già  veduto)  il  contorno  irregolare 
della  superfìcie  della  Terra  ;  la  divisione  in  sette  climata  è  per 
V  o per  adone  dei  pianeti  {\..  \\.  e.  9,  \'III.  e.  16);  tutti  i  feno- 
meni della  natura  e  gli  avvenimenti  della  vita  umana  (  L.  VII. 
e.  4)  sono  attribuiti  alle  stelle.  I£sse  sollevano  anche  pietre,  neve, 
grandine,  pioggia  ecc.  nell'  aria,  la  quale  non  ha  in  se,  per  na- 
tura, nessuna  di  queste  cose,  le  quali  ricadono  di  nuovo  sulla 
terra.  Caldo  e  freddo,  secco  e  inondazioni  accadendo  "  fuori  di 
ragione  „  son  cagionati  "  per  la  congiurazione  delle  stelle,  che 
{sforzano  la  ragione.  „  Il  Diluvio  Universale  fu  cagionato  nello 
stesso  modo  (L.  VI.  e.  13).  A  ciò  segue  una  curiosa  spiegazione 
razionalista  (per  un  monaco  del  secolo  decimoterzo)  sulla  pre- 
veggenza di  Noè.  Se  mai  tali  circostanze  si  dovessero  ripetere, 
"  se  alcuno  savio  sarà  in  quelle  parti,  che  sappia  bene  della 
scienza  delle  stelle,  provvederassi  d'innanzi  e  vedrà  (?)  sé  e 
tutta  la  sua  famiglia,  secondo  che  si  dice  che  fece  lo  savio  Noè; 
che  si  provide  innanzi,  per  la  scienza  che  gli  fue  data,  e  guardò 
sé  e  tutta  la  sua    famiglia  dal    pericolo    del    diluvio    nell'  arca.    „ 

L'  autore  della  Quaestio  nel  §  xix  descrive  tre  volte  la  forma 
emergente  della  Terra  come  semilunare.  Vedi  v.  61:  "  Sic  patet 
quod  terram  emergentem  oportet  habere  figuram  semilunii,  vel 
quasi.  „  (cosi  anche  siipra,  vv.  24  e  34).  Cosi  dice  Ristoro, 
L.  VI.  e.  II,  fin  (p.  90):  "  Ed  avemo  la  terra  scoperta  come 
è  la  figura  della  luna  quando  noi  la  veggiamo  mezza  (')  „.  E  un 
poco  più  innanzi  nello  stesso  capitolo  Ristoro  dichiara  che: 
"  r  acqua  é  cessata  della  terra  circolarmente,  come  ella  dee  es- 
sere per  ragione  alla  spera  della  terra.  „  Si  raffronti  con  questo 
la  dicitura  della  Quaestio  §  xix.  vv.  29-33. 

In  ultimo  il  singolare  argomento  della  Quaestio  §  xviii,  è 
stato  sufficientemente  spiegato,  cioè  (')  che  la  causa  finale  della 
terra  dctccta  era  di  render  possibile  la  generazione,  ovvero  lo 
sviluppo  di  tutte  le  specie  di  esistenze  concrete.  (Vedi  vv.  42-54). 
Questa  è  precisamente  la  spiegazione  di  Ristoro.  Vedi  L.  VI. 
e.  7  (p.  84):  "  a  cagione  della  generazione  è  cessata  e  ammol- 
lata r  una  acqua  sopra  la  terra  „  e  similmente  in  altri  luoghi. 

(Un  capitolo  di  saggio  dell'opera  di  Ristoro  è  stampato 
infra,  pp.  83,  84). 


{})  Alberto  Magno,  De  Nat.  Loc.  Tr.  in.  e.  i.  lo  descrive  come  una  specie 
di  trapezio  a  lati  sferici  :  *  haec  habitatio  quadrangola  est  inter  quattuor 
arcus.  „ 

(')  Vedi  supra,  pp.  4  ad  fin.,  38... 


/o 


Mi  attento  adesso  con  qualche  fiducia  ad  affermare  che  1'  au- 
tore della  Quaestio  conosceva  il  trattato  di  Ristoro  di  Arezzo. 
Astrazion  fatta  dai  punti  minori  di  somiglianza,  è  importante 
il  notare  che  (per  quanto  a  me  consta)  questo  è  la  sola  fonie 
dalla  quale  l' autore  abbia  potuto  derivare  il  tratto  singolare  e 
fondamentale  della  sua  teoria,  cioè  la  virtits  elcvans  delle  stelle 
e  costellazioni  nordiche.  Mentre  ciò  è  di  gran  rilievo  in  Ri- 
storo, (')  non  si  trova  in  nessun  altro  degli  autori  che  ho  citati 
cosi  sovente,  (^)  e  particolarmente  manca  affatto  in  Alberto 
Magno,  (^)  il  quale,  mentre  riconosce  l' influenza  delle  stelle  a 
questo  riguardo,  (i)  non  ha  veruna  nozione  di  una  virtus  clcvans 
ma  di  una  "  virtits  cxsiccans  „  [sitpra,  p.  72  n.);  e  (2)  ben  lungi 
dal  credere  nella  virtù  superiore  delle  stelle  dell'  Emisfero  nor- 
dico, argomenta  per  1'  abitabilità  dell'  Emisfero  meridionale,  per- 
ché le  stelle  avrebbero  dovuto  produrre  qui  lo  stesso  effetto 
come  là  [ihid.).  Non  si  può  dunque  ritenere  che  una  opinione 
unica  quanto  strana,  sia  stata  intuita  da  due  scrittori. differenti 
affatto  indipendentemente.  Se  dunque  1'  autore  della  Quaestio  si 
valse  dell'  opera  di  Ristoro,  abbiamo  un  altro  valido  argomento 
per  ritenere  che  non  fosse  nessun  altro  fuorché  lo  stesso  Dante, 
per  le  ragioni  espresse  nel  testo,  siipra  p.  58. 


III.  Il  problema  della  "  quaestio  „. 

Ora  procederò  a  dimostrare  che  il  problema  della  Quaestio 
era  una  questione  ancora  aperta  e  piena  d' interesse  al  tempo 
di  Dante,  e  quindi  è  probabile  che  potesse  attirare  la  sua  at- 
tenzione. 

In  primo  luogo  notiamo  questo:  il  sistema  di  Cosmogonia,  ac- 
cettato generalmente  in  quel  tempo,  era  che  i  dieci  Cieli  e  le 
quattro  sfere  degli  elementi  giacciono  concentricamente  e  suc- 
cessivamente r  uno  sopra  l' altro,  senza  alcun  vuoto  framezzo, 
cosicché  la  gibbosità  dell'uno  riempie  la  concavità  dell'altro,  come 


(')  Ricorderemo  che  Ristoro  ritiene  clie  1'  influenza  elevante  si  esercitava 
siiir  .Acqua  e  non  sulla  Terra,  (  supra,  p.  73). 

(')  Un  altro  caso  simile  è  stato  osservato  supra  p.  70. 

(')  Quanto  Dante  debba  ad  Alberto  Magno  in  questioni  di  Astronomia  e  di 
Fisica  si  può  riscontrare  nel  Dizionario  del  Toynbee,  alla  voce:  Alberto  di  Co- 
lonia. 


-  76  - 

si  esprime  Ristoro  (').  Ciò  si  trova  anche  in  Alfragano,  in  Al- 
berto Magno  ('l,  in  Giovanni  da  Sacrobosco,  in  Brunetto  Latini 
e  in  Ruggero  Bacone.  Conseguentemente  il  problema  discusso 
nella  Otiars/io  presentava  una  seria  difficoltà,  che  urgeva  risol- 
vere. Perché,  se  per  legge  di  natura  la  sfera  dell'Acqua  è  al 
di  sopra  della  Terra,  come  può  spiegarsi  1'  anomalia  della  terra 
asciutta  o  "  /erra  dctccta  „?  ^) 

In  secondo  luogo  si  scorge  che  l'opinione  sostenuta  qui  non 
era  punto  ammessa  generalmente,  anzi  tutto  all'  opposto. 

(i)  Il  cosidetto  maestro  di  Dante,  Brunetto  Latini,  propugna 
r  opinione  respinta  dalla  Quaestio,  e,  al  pari  di  Ristoro,  se  ne 
vale  per  spiegare  la  presenza  delle  sorgenti  sulle  vette  delle 
montagne.  Vedi  Trcsor,  I  part.  in.  e.  io6.  Egli  si  dà  conto  di 
ciò  colla  supposizione  che  la  terra  sia  penetrata  da  canali,  a 
traverso  i  quali  l' acqua  scorre  come  il  sangue  nelle  vene  del 
corpo;  e  come  l'acqua  ritrova  sempre  il  suo  livello  e  /'/  mare 
e  pili  allo,  della  terra,  il  fenomeno  è  soddisfacentemente  spiegato. 
"  Et  il  est  voirs  que  la  mers  siet  sor  la  terre,  selonc  ce  que  li 
contes  a  devisé  ca  en  arriere  au  chapitre  des  Elemens  (cioè 
e.  105,)  donc  est  eie  plus  haute  que  la  terre;  et  se  la  mers 
est  plus  haute,  donc  n'  est  il  mie  merveille  des  fontaines  qui 
sordent  sor  les  hautismes  montagnes,  car  il  est  propre  nature 
des  aigues  que  eles  montent  tant  comme  eles  avalent.  „  Io  ho 
citato  distesamente  questo  brano,  perché  Brunetto  sostiene  chia- 
ramente non  solo  che  1'  elemento  Acqua  ha  il  suo  proprio  loco 
al  di  sopra  dell'  Elemento  Terra,  ma  che  il  mare  stesso  è  al  di 
sopra  della  terra. 

(2)  Di  nuovo  Ristoro  di  Arezzo,  L.  VI.  e.  7  ci  presenta 
due  spiegazioni  alternative  dello  stesso  fenomeno.  Una  di  esse 
corrisponde  in  effetto  con  quella  data  più  sopra:  "  Può  bene 
salire  1'  acqua  nel  monte  secondo  questa  via,....  con  ciò  sia  cosa 
che  r  acqua  sia  sperica  et    per    ragione    debbia    coprire    tutta  la 


(')  Per  esempio  L.  III.  e.  5  e.  7,  e  altrove. 

(')  Phys.  L.  IV.  Tr.  I.  e.  xi;  De  Nat.  Loc.  Tr.  I  e  in  (v.  p.  265)  e  molti 
altri  luoghi.  In  De  Prop.  Eleni.  Tr.  II.  e.  i  si  discute  la  questione  se  la 
confricazione  di  queste  sfere  contigue  produce  suono:  cosi  anche  J^istoro 
L.  Vili.  19. 

(')  È  curioso  di  vedere  come  Alberto  Magno  lotta  con  la  difficoltà  in  Me- 
tcor.  il.  Tr.  HI.  e.  11.  sebbene  egli  non  tratti  la  questione  precisa  posta  dalla 
Ouaeslio. 


—  77  — 

terra  intorno  intorno,  secondo  questa  via  sarà  pi/i  alta  /'  acqita 
della  terra.  „  Quindi,  dopo  avere  spiegato  che  un  quarto  della  terra 
non  è  coperto  dall'  acqua,  ciò  essendo  dovuto  all'  essere  1'  acqua 
"  cessata  e  ammollata  (')  sopra  la  terra  a  cagione  della  genera- 
zione „  ('),  continua:  "  E  la  terra  ragionevolmente  de' stare  di 
sotto  all'acqua,  imperciò  ch'ella  è  più  grave;  e  l'acqua  dee  stare 
di  sopra,  e  iiiai^giortiiente  più  suso,  imperciò  ch'ella  è  ammollata 
r  una  sopra  1'  altra...  e  1'  acqua  che  è  mollata,  la  qual  tiene  le  tre 
parti  della  terra,  è  pili  alla  che  la  terra;  grava  la  parte  di  sopra 
quella  di  sotto  e  imprieme  inverso  la  terra;  truova  la  terra  spu- 
gnola per  la  virtude  del  cielo  e  forata....  E  l'acqua,  che  passa 
entro  per  li  pertugi  della  terra,  quando  viene  di  salire  al  monte, 
di  sé  non  può,  ma  il  grande  peso  dell'  acqua  ammollata,  la  qual 
è  più  alto  della  terra  e  del  monte,  prieme  e  caccia  1'  una  acqua 
r  altra  entro  per  li  pertugi  e  forati,  e  per  forza  la  fa  andare  a 
sommo  il  monte.   „ 

E  da  notare  soprattutto  quella  specie  di  argomento  a  fortiori  '\n- 
trodotto  qui  da  nmggioriiieiìte  ecc.  Esso  riguarda  l' acqua  come 
riversata  all'  indietro  dalla  terra  asciutta  e  aiimiassata  conseguen- 
temente a  una  maggior  altezza  che  non  avrebbe  1*  acqua  in  altra 
guisa,  e  la  pressione  aumentata  che  ne  risulta  preme  lo  strato 
più  basso  dell'  acqua  in  su,  a  traverso  la  terra,  fino  alle  vette 
delle  più  alte  montagne,  le  quali  però  sono  anche  esse  al  di  sotto 
del  livello  della  "  spera  „  dell'  elemento  acqua.  Ristoro  dunque 
mantiene  chiaramente  1'  opinione  che  è  impugnata  nella  Quaestio. 
L' altra  spiegazione  suggerita  da  Ristoro  del  fenomeno,  è  la 
seguente:  "  ....  che  la  virtù  del  ciel....  tragga  l'acqua  su  nella 
terra  e  specialmente  a  sommo  i  monti,  con.ie  la  virtude  della  ca- 
lamita trae  a  sd  il  ferro....  adunque  la  sua  virtude  trarrà  1'  acqua 
a  sommo  i  monti  coiìie  la  calamita  lo  ferro.  „  (Cf.  Quaestio, 
§  XXI.  V.'  43). 

(3)  Poi  anche  nel  Commento  conosciuto  sotto  il  nome  de\- 
Y Anonimo  Fiorentino    (del    principio    del    secolo    decimoquinto), 


(')  La  parola  niiuiiolhila  che  è  usata  varie  %'olte  da  Ristoro,  sembra  aver 
per  sinonimo  "  cessala.  „  Non  posso  trovar  traccia  del  suo  significato  nel  Gran 
Di3.,  né  nel  nuovo  Dizionario  della  Crusca,  né  altrove;  ma  allo  scrittore,  io 
credo,  deve  essere  permesso  di  interpetrare  la  sua  propria  fraseologia,  e  quel 
senso  sembra  adattarsi  a  tutte  le  frasi  dove  si  trova  la  parola.  11  Vocabolario 
del  Tramater  dà  desinere,  cessare  per  significato  di  "  mollare.  „ 

{')  Cfr.  Quaestio,  §  xviii  vv.  .43-54. 


ad  ////.  XXXI\'.  76  scgg.  leggiamo:  —  "  Che  l'acqua  sia  sopra 
la  terra  appare  chiaro,  però  che  sopra  a  qualunque  montagna  è 
più  alta  vi  si  truova  acqua,  e  se  V  iiiarr  non  /osse  più  allo  che 
la  terra,  vi  mancherebbe  e  non  vi  si  troverebbe  acqua.  „ 

(4)  Di  pili  anche  S.  Tommaso  d' Aquino  ha  la  medesima  opi- 
nione. In  Sminila  I.  Q.  69.  Art.  i  §  2,  commentando  il  significato 
delle  parole  "  Apparisca  la  terra  asciutta  „ ,  esso  riporta  tre  spie- 
gazioni, ma  preferisce  la  seguente:  "  ut  aquae  in  majorem  alti- 
tudinem  sint  elevatae  in  loco  ubi  sunt  congregatae.  Nam  mare 
est  altiits  terra,  ut  experimento  compertum  est    in    mari   rubro.  „ 

(5)  Son  debitore  al  Toynbee  della  seguente  prova  aggiunta, 
che  la  questione  era  tuttora  aperta. 

Il  Libro  ili  Sidrach  (circa  1250)  ed.  Bartoli;  Bologna,  1868. 
Cap.  CCXXXVII  (p.  272):  "  Lo  re  domanda;  quale  è  più  alto 
o  la  terra  o  lo  mare?  Sidrac  risponde;  "  La  terra  è  assai  più 
alta  che  '1  mare.  Se  il  mare  fosse  più  alto  che  la  terra,  ella  (sic) 
coprirebbe  la  terra.  Questo  potete  voi  vedere  apertamente;  pi- 
gliate uno  vasello,  e  enpietelo  pieno  d' acqua,  raso  col  vasello, 
cioè  coli'  orlo,  e  l' acqua  si  terrà  senza  ispandere,  se  il  vasello 
non  si  tocca;  e  se  voi  mettete  anche  uno  poco  d'acqua,  ella  sa- 
glierà  d'  ogni  parte,  e  spande  sopra  1'  orlo  del  vasello.  Altressi 
averebbe  se  lo  mare  fosse  più  alto  che  la  terra,  lo  mare  {span- 
derebbe da  tutte  parti  e  coprirebbe  la  terra.  „ 

//  Libro  (li  Novelle  et  di  bel  Parlare  Gientilc  (circa  1285)  ed. 
Biagi;  Firenze,  1880,  cv.  (p.  103):  —  "  Qual  è  più  alto  tra 
lo  mare  o  la  terra?  —  La  terra  si  è  più  alta  assai  che  Ilo  mare; 
che  Ila  più  bassa  ripa  del  mondo  è  più  alta  che  '1  mare.  Et  se 
Ilo  mare  fosse  più  alto  che  Ila  terra,  elli  la  coprerebbe  tutta 
d'  acqua  d'  ongni  parte.  „ 

La  conclusione  generale  sembrerebbe  essere  : 

1.  Che  non  solamente  è  probabile  che  Dante  stesso  avesse 
conoscenza  dell'  opera  di  Ristoro,  ma  pare  che  vi  sia  prova  certa 
che  ciò  fosse. 

2.  Che  l'autore  della  Quaestio  (sia  pur  Dante  o  chiunque 
altro)  tolse  probabilmente  da  Ristoro  il  tratto  più  culminante  e 
cospicuo  del  suo  trattato,  cioè  la  teoria  per  la  quale  si  rende 
conto  della  anomalia  apparente  che  la  terra  sia  più  alta  del- 
l' acqua  per  l' influenza  delle  stelle  dell'  Emisfero  nordico. 

3.  Che  mentre  questa  teoria  primeggia  in  Ristoro,  non  si 
trova  (per  quanto  mi  è  noto)  in  nessun  altro  scrittore,  che  con 
qualche   probabilità  Dante    abbia    potuto    consultare,    certamente 


—  79  — 

non  si  trova  (per   quanto    a  me  consta)  in  Alfragano,  B.  Latini, 
Alberto  Magno,  Sacrobosco  ecc. 

4.  Che  Ristoro,  quantunque  accessibile  a  Dante,  non  era  pro- 
babile fosse  stato  né  conosciuto,  né  sentito  mentovare  da  un  fal- 
sificatore posteriore. 

5.  Che  il  problema  discusso  nella  Quaestio  era  di  vivo  interesse 
e  di  discussione  generale  al  tempo  di  Dante,  e  infatti,  "  indeter- 
minatum  restabat  „  (Q.  §  i).  Era  dunque  probabile  che  avesse  at- 
tirata la  sua  attenzione.  E  da  ciò  la  necessità  di  una  cosi  seria 
ed  elaborata  confutazione. 


RISTORO  D"  AREZZO 


Composizione  del  inondo  L.  \'I.  e.  J. 

Reputo  utile  di  riprodurre  un  capitolo  caratteri- 
stico di  Ristoro,  perché  il  lettore  possa  giudicare  del 
suo  stile  generale  e  del  suo  tono,  e  vedere  quanto 
siano  analoghi  a  quelli  dei  pensieri  svolti  nella  Quaestio: 
tanto  più  che  la  sua  opera  non  è  facilmente  accessibile, 
(Questo  capitolo  preferisco  dare  secondo  il  testo  Riccar- 
diano  2164  antichissimo,  al  quale  non  è  sempre  con- 
forme quello  a  stampa  del  Narducci. 

"  Poi  ke  noi  avenio  mosso  e  volto  lo  cielo,  e  asegnata 
la  cascione  perk'  elii  se  volge  en  quella  parte  là  o'  elli  va,  e  anco 
avenio  asegnata  la  cascione  perké  li  pianeti  se  movono  da  oc- 
cidente ad  oriente:  vedemo  che  l'operazione  del  celo  non  pò 
essare  ella  generazione,  se  la  terra  non  è  scoperta  da  l'aqua  ('). 
Cum  ciò  sia  cosa  ke  1'  aqua  sia  sperica,  per  rascione  dea  coprire 
tutta  la  terra  egualemente  entorno  entorno. 

Vediamo  sotto  quale  parte  del  cielo  la  terra  possa  essare  sco- 
perta, e  quale  parte  del  cielo  la  possa  scoprire  per  mantenere 
scoperta,  per  adoperali  su;  s'ella  pò  essare  scoperta  dala  parte 
de  settentrione,  o  da  quella  del  mezo  die. 

Per  rascione  dee  essare  scoperta  dala  parte  più  forte  del 
cielo  e  pili  piena  de  virtude,  come  quella  de  settentrione;  ka 
noi  vedemo  la  parte  de  settentrione  essare  fortiiìcata  e  piena 
de  figure,  e  spessa  e  sofolta  de  grandisima  moltitudine  de  stelle; 


(')  Cfr.  Q.  xviir  vv.  505:1 . 
E.   MOORE. 


—   82    - 

e  la  parte  del  mezo  die  rada  e  debele  de  poke  figure  e  de  poke  fi- 
gure e  de  poke  stelle  a  quello  respetto;  et  en  quella  parte  spessa, 
là  o'so  le  molte  figure  e  grandissima  moltitudine  de  stelle,  quella 
parte  dea  essare  forte,  e  ine  dea  essare  per  rascione  molta  vir- 
t.ide,  e  molta  potentia  e  molta  operazione.  Et  quella  parte  rada 
de  poke  figure  e  de  poke  figure  e  de  poke  stelle  a  quello  respecto, 
quella  parte  dea  essare  debele  in  operazione,  a  quello  respecto,  e 
avere  meno  operazione  e  meno  virtude.  Adonque  trovamo  la 
parte  de  settentrione  più  forte  e  più  potente  per  adoperare  ella 
terra  de  quella  del  mezzo  die,  e  potemola  chiamare  per  rascione 
p.irte  dericta,  enperciò  k' ella  è  più  forte;  e  potemola  kiamare 
per  rascione  parte  de  sopra,  acciò  ke  Ili  animali  del  zodiaco  ten- 
gono rcvolto  lo  capo  eia  parte  de  sopra  en  quella  parte;  e  la 
parte  del  mezzo  die  potemo  kiamare  per  rascione  parte  manca, 
enperciò  k'  ella  è  più  rada  e  pili  debele,  de  poke  figure  e  de 
poke  stelle;  e  potemola  kiamare  per  rascione  parte  de  sotto, 
aciò  ke  Ili  animali  del  zodiaco  tengono  revolti  li  piei  en  quella 
parte.  Adonque  è  mestieri  per  forza  de  rascione  ke  la  terra  sia 
scoperta  dal'  aqua  eia  parte  dericta  del  cielo,  la  quale  è  più 
spessa,  e  più  forte  e  più  potente:  la  quale  potemo  kiamare  per 
rascione  parte  de  sopra,  come  quella  de  settentrione,  la  quale  ù 
piena  de  figure  e  de  grandissima  moltitudine  de  stelle. 

Se  lo  cielo  dea  adoperare  sopra  la  terra,  secondo  ke  po- 
gnono  li  savi,  questa  parte  spessa  del  cielo  per  rascione  dea  es- 
sare piena  de  virtude  e  de  potentia,  per  potere  scoprire  la  terra 
dal' aqua  e  per  mantenerla  scoperta,  per  adoparalli  su  maggiur- 
mente  kè  la  calamita  de'  sostenere  e  de'  trarre  a  sé  lo  ferro,  e  se 
la  kalamita  non  avesse  virtude  de  trare  a  sé  e  de  sostenere  lo 
ferro,  lo  ferro  non  sarea  trato  e  non  andarea  ad  essa.  Et  se  lo 
cielo  non  avesse  virtute  de  scoprire  la  terra  e  de  mantenerla 
scoperta,  non  potarea  adoparali  su  la  sua  operazione,  e  la  ge- 
nerazione non  sarea,  lo  mondo  guasto.  Et  se  lo  cielo  ha  vir- 
tude per  fare  operazione  sopra  la  terra,  è  mestieri  k'  elli  abia 
virtude  per  cessare  via  1'  aqua  e  de  mantenere  la  terra  scoperta 
e  spetialmente  enverso  la  parte  più  forte  del  cielo,  come  quella 
de  settentrione.  Et  li  savi  s'  acordano  tutti,  ke  li  corpi  de  sopra 
abiano  signoria  e  potentia  sopra  quelli  de  sotto.  „ 


-  83  - 


Nota  sulla  parola  "  Auge  „. 

Questa  parola,  che  nel  significato  equivale  ad  "  Apogeo  „  e 
comune  a  tutte  le  opere  medievali  che  si  riferiscono  all'  astro- 
nomia. 

In  queste  il  "  perigeo  „  è  generalmente  indicato  come  "  o/>- 
f)ositiini  aiigis  „,  cosi  in  Ristoro,  Ruggero  Bacone,  ecc.  ecc,  quan- 
tunque anche  (come  talvolta  in  Ristoro)  con  un'altra  parola 
araba  trascritta  letteralmente  zcinizaar,  ovvero  getizaar.  La  so- 
miglianza della  parola  "  auge  „  e  "  apogeo  „  sembra  essere  ac- 
cidentale e  questo  termine  non  proviene  dagli  astronomi  Greci, 
ma  da  quelli  Arabi.  Anj  m  arabo  è  il  termine  tecnico  per  "  apsis 
summa  stellarum  „  ed  è  usato  metaforicamente  per  ogni  sommità. 
Come  termine  astronomico  si  dice  che  provenga  al  pari  di  molti 
altri  da  una  parola  Persiana  cioè  aiik.  In  Latino  è  trascritto  alla 
lettera  generalmente  per  auge,  atigis,  ma  Ruggero  Bacone  dà  au.x 
per  nominativo  (').  La  stessa  parola  è  usata  in  Italiano  in  geo- 
metria per  il  pili  alto  punto  di  una  curva;  e  metaforicamente  per 
il  più  alto  punto,  acme,  grado  o  perfezione  di  alcuna  cosa,  p.  e. 
/'  auge  della  gloria,  della  felicità,  della  perfezione.  Si  ritrova  nello 
stesso  senso  nello  spagnolo  e  nel  portoghese.  Anche  in  Inglese 
oltre  all'esser  in  uso  come  termine  tecnico  astronomico,  si  tro- 
vano esempi  del  secolo  decimosettimo  del  suo  uso  metaforico 
p.  e.  "  They  were  in  the  auge  or  zenith  of  their  first  love.  „ 
Anche  la  parola  apogeo  si  trova  con  simile  significato  metafo- 
rico in  Inglese  antico,  ed  in  uno  autore  recente  come  Motley, 
che  scrive  "  The  trade  of  the  Netherlands  had  b}'  no  means 
reached  Its  apogee.  „  Pareva  da  principio  difficile  di  connettere 
r  idea  di  gradazione,  perfezione  ecc.  con  quella  di  apogeo.  Ma 
è  chiaramente  il  resultato  del  concetto  Tolemaico  che  il  centro 
della  Terra  fosse  il  centro  dell'  Universo,  e  cosi  il  suo  punto  pili 
basso,  e  perciò  quanto  maggiore  fosse  la  distanza  di  qualsiasi 
cosa  dalla  terra,  tanto  più  alta  essa  sarebbe  [^).  Ciò  può  essere 
illustrato    dai    seguenti    passi.    Quaestio    §   xv,    v.    13:    "    Quum 


(')  P.  e.  Op.  tìiaj.  \.  p.  137.  Cosi  pure  in  una  delle  traduzioni  latine  di  Al- 
fragano,  cioè  Ediz.  1590. 

(')  La  nomenclatura  sopravissuta  de'  pianeti  "  superiori  „  e  "  inferiori  „  ne  e 
un  altro  esempio. 


-  84  - 

omne  remotius  a  centro  niuiuli  sit  altius  „  ecc.  ('),  Ristoro,  I. 
e.  20:  "  da  qualunque  parte  noi  niovemo  da  questo  punto  (cioè 
il  centro  della  terra)  andiamo  verso  il  cielo  e  alla  ùisii  (^);  „ 
II),  e.  12:  "  vediamo  una  volta  il  pianeto  esser  al/o,  di'  lungi  alla 
terra....  e  un'  altra  volta  lo  vedemo  basso,  appressato  alla  terra;  e 
quella  parte  del  cerchio  eh'  è  più  levata  dalla  terra,  eh'  è  chiamata 
auge,  ecc.  „  cosi  in  altri  passi.  Parimenti  Sacrobosco,  de  Spluiera, 
I.  8:  "  quidquid  a  medio  movetur  versus  circumferentiam  coeli 
ascettdit.  (Da  ciò  ne  arguisce  l'immobilità  della  Terra,  perché,  se 
si  movesse,  dovrebbe  ascendere,  cosa  impossibile).  Vedi  anclie  un 
passo  del  Tresor  di  B.  Latini  ed  uno  di  Benvenuto,  supra, 
pp.  22,  23. 

L' auge  della  Luna  sembra  essere  stato  confuso  da  alcuni 
scrittori  con  la  sua  Opposizione  al  Sole.  Cosi  Ruggero  Bacone 
Op.  Maj.  part.  \W  "  Sed  Ptolemaeus  consideravit  quod  dia- 
meter  Lunae  non  aequatur  secundum  aspectum  diametro  Solis, 
nisi  quando  Luna  est  in  longitudine  sua  maxima.  Et  hoc  est 
quando  Luna  est  in  auge  epicycli,  et  epic^^clus  in  auge  ec- 
centrici, et  hoc  est  iteriim  quando  tst  piena.  „  Il  Dott.  Schmidt, 
al  quale  debbo  quest'  ultima  citazione,  ricorda  pure  Delambre, 
Hist.  Astron.  Anc,  come  segue:  "  Le  diamètre  de  la  Lune  lui 
(scil.  Ptolémée)  parut  le  méme  que  celui  du  soleil,  lorsque  dans 
les  oppositions  elle  est  à  1'  apogée  de  son  épicycle.  „ 


(')  Cfr.   Quaestio,  §  in.  v.  9;  XII.  v.  24. 

(^(  Dante  riconosce  questo  nell' /«/.  XXXIV.  79  segg.,  quando  dice  che  dopo 
che  egli  e  Virgilio  hanno  passato  il  centro  della  Terra,  quantunque  continuasse 
nella  stessa  direzione,  si  trovò  ascendendo, 

Si  che  in  inferno  io  credea  tornar  anche. 

Similmente  Platone,  descrivendo  la  maniera  colla  quale  i  fiumi  hanno  la  loro 
sergente  nel  gran  baratro  del  Tartaro  che  trapassa  l'intera  Terra,  e  tornano  a 
scorrere  in  esso  (112  A,  B)  dichiara  che  non  possono  passare  al  di  là  del  centro: 
"  Cjjiri-j  ò' è'J-zì-j  l/.'r.r(f,ej'7i  ij.{yjji  ToC  //e'^ou  /.«Stevat,  Trs'oa  e' oJ.  òi-^vvzt;  -/àfj  i'/poTtpo:; 
ro':    pi'j;i.aii  zi  ?/«T£o«j&ev  •/''•/vet«!  /;.f/--o;.   „  (112  E). 


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