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B.SEEBER
BIBLIOTECA STORICO - CRlTICi
DEI 1 A
LETTERATURA DANTESCA
DlKKllA
DA (ì. L. i^ASSKRIM i: da P. PAPA
VII -^ Vili.
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
'899.
FRANCESCO TORRACA
DI UN COMMENTO NUOVO
ALIA
DIVINA COMMEDIA
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899.
Proprietà letteraria.
m.ogna: tipi della ditta Nicola Zanichelli 1899.
GIOSUÈ CARDUCCI
Per invito cortese dei direttori della Biblioteca sto-
rico-critica della letteratura dantesca^ con pochissimi
tagli e poche aggiunte, ristampo la recensione del Com-
mento alla Dipina Commedia del prof. Giacomo Po-
letto, che pubblicai nel Bullettino della Società Dante-
sca italiana (II, 1895) e nella Rassegna bibliografica
della Letteratura Italiana (III, 1895). A ristamparla mi
ha incoraggiato il giudizio di Giosuè Carducci: » più
che recensione è un commento essa stessa, e dà e ac-
cenna gli elementi e i criterii onde oggi dovrebbesi
far un commento nuovo della Commedia » . Ed a
Giosuè Carducci la dedico, nella nuova veste, per
testimonianza di affetto e di riconoscenza.
Roma, agosto iSg^.
F. T.
DI IN COMMI :NT0 movo
ALLA DI VI X A COMMEDIA
TORRACA.
DI UN COMMENro M ()\()
ALLA DIVISA COMMEDIA
Non e " impresa da pigliare a gabbo „ discorrer convenien-
temente d' un così voluminoso commento del poema di Dante (').
Il Poletto vuole non esser giudicato se non da chi 1' abbia letto
per intiero, ed io, che pure 1' ho letto tutto, non esprimerò giu-
dizi, presenterò una serie — forse troppo lunga — di osserva-
zioncelle e di appunti, da cui, chi non 1' abbia esaminata diretta-
mente, potrà, con sufficiente esattezza, trarre un concetto del-
l' opera. Soltanto, a modo d' introduzione, e a titolo d' impres-
sione, dirò qui poche cose del metodo, che il Poletto ha seguito.
Il commento è compilato, in generale, per (jualiiiKjue fatta di
leggitori; in particolare, per " giovani sacerdoti o prossimi al
sacerdozio, e i più di essi già Laureati in filosofia e in Teo-
logia „. E il benemerito autore del Dizionario dantesco si do-
manda: " Posto ciò, dovevo io, avrei potuto occuparmi costante-
mente di certe note di pura forma? E non avrei anzi dovuto,
per la qualità appunto degli alunni, abbondare, troppo più che
in altre scuole non si soglia, di materia filosofico-teologica? „ La
risposta non può non esser affermativa; ma basta aprire, a qual-
siasi pagina, uno qualunque de' tre volumi, per vedere che le chiose
(') La Divina Coniitìcdia di Dante Alighieri con cnntinenlo del prof. Giacomo
Poletto: I, L'Inferno, pp. xxv-748; II, Il Purgatorio, pp. 777; III, Il Paradiso,
pp. 708, Lxxxvi di rimario e 17 d'indice. Tipografia Liturgica di S. Giovanni,
Desclée, Lefcbvre e C. ; Roma, 1894.
di pura tbnna, se così piace chiamarle, le chiose, che spiegano
frasi e parole per sé chiarissime, sono troppe. La parafrasi del
testo, continua, minuziosa, non di rado inutilmente prolissa, in-
vece di aiutare, stanca; invece di chiarire, offusca e affoga. Gio-
vani latti e giià laureati meritavano di non essere trattati come
scolaretti di ginnasio.
La compilazione è condotta su gli altri commenti, antichi e
recenti, tra i quali più spesso adoperati quelli dello Scartazzini
e del Casini, più pregiati quelli del Tommaseo, del Cesari, del
Giuliani. Il Cesari e il Giuliani sono, d'ordinario, scelti ad arbitri
delle questioni più gravi, o più intricate. Or, di commenti fatti
con i commenti, su i commenti, mettendo i commentatori gli uni
contro gli altri, dando biasimo a questo e lodando quello, ne
avevamo già troppi. Ho studiato per conto mio, con quant' at-
tenzione potevo, questo tema, e mi son persuaso che giove-
rebbe, oramai, separare ciò che appartiene alla storia della
critica dantesca, da ciò che direttamente può servire a far inten-
dere il poema. Come, per le lingue, si distingue da un pezzo il
vocabolario storico da quello dell' uso ; così, per la Couwicdia,
sarebbe bene cominciar a distinguere le rassegne delle opinioni
e delle chiose de' commentatori dalla interpretazione giudicata
migliore. Prendiamo un passo controverso: non è vano sfoggio
d' erudizione infilar 1' una dietro all' altra le spiegazioni, che ne
furono tentate, da Iacopo della Lana al Casini, se si è sicuri
d'avere per proprio studio trovata la spiegazione definitiva; ov-
vero si è convinti che la trovò il Tommaseo, poniamo, o il Vel-
lutello? Vero è, molte questioni non son finite, molti passi non
sono ancora stati spiegati in maniera soddisfacente; ma chi si
accinge a dare intero un commento nuovo, ha compiuto davvero
il dover suo quando se la cava ripetendo:
Messo t'ho innanzi; ornai per te ti ciba?
Una parte del commento è occupata da digressioni polemiche,
nelle quali non è preso di mira questo o quel dantista, questo o
- 5 —
quel critico; ma, genericamente e in confuso, i sedicenti critici
liberali, o libertini, o frammassoni. Che spari di questa polvere
un arcade monsignore, il quale non ne possiede altra, passi; ma
il Poletto! E non in lavori d'occasione, non per opporre frizzo
a frizzo, botta a botta; ma in un commento destinato alle scuole,
ai giovani sacerdoti! Anche certe allusioni — quelle, per esempio,
ai governi rapitori, ai governi incameratori — sono per lo meno
inopportune; a ogni modo, rispettiamo Dante quando lo pren-
diamo a pretesto dei nostri sfoghi? Che " a capir Dante per
davvero „ non occorra " il pieno e cordiale consentimento a
quanto egli credeva e sperava, e amava „, si prova troppo facil-
mente: senza eccessiva superbia, crediamo di capire assai bene
Omero e Virgilio, eppure non adoriamo gli dei dell' Olimpo e
dubitiamo che si sia mai combattuta la guerra di Troiai
Miior Giove, e l' inno del poeta resta.
Un commento in parte veramente nuovo potrà esser fatto da
chi, tenendo aperta innanzi la Divina Covwicdia, leggerà gli au-
tori tutti, che Dante conobbe, o potè conoscere e, piuttosto che
ne' tardi chiosatori, studierà la lingua, le opinioni, le allusioni al
costume nelle prose e ne' versi de' contemporanei. Quanta luce
possa venire, da tali indagini, ai concetti e alla forma del poeta,
dimostreranno, se di dimostrazione e' è bisogno, alcuni riscontri,
i quali per quest' unica ragione, — e son lieto me ne offra il
destro l' opera del Poletto — sottopongo all' attenzione degli
studiosi.
I.
Inferno, I, 7. Si confronti V Ecclesiastico ( XLI, i): " O mors,
quam amara est memoria tua „. Tanto è amara, afferma il Poletto,
" non la selva, come vogliono molti, ma la cosa a dire „. Bisognerebbe
dimostrare che nella cosa a dire il poeta trovò il bene {vi trovai),
scorse alte cose {v'ho scorte). " Chi legge altre, e con ciò di
— 6 —
necessità intendo il luoiitr, le fior, gli sforzi del Poeta, l' incontro
di Virgilio, e simili, non s' avvede che tutte queste cose avvennero
fuori e non dentro della selva „. Ma se le n/fr cose " sono quel-
r a/fa fantasia, che il Poeta descrisse, ovvero il soggetto del
Poema „, come si può asserire che Dante le scorse dentro la
selva, o, peggio, ve le trovò? O dovremo intendere, con patente
offesa al buon giudizio e all' arte del poeta, che trovò e scorse
alte cose nella cosa a dire?
I, 20. // las^o del cuore scrisse Dante anche nella ballata Donne
io non so, trascritta nel 1320 in un memoriale bolognese. Il con-
fronto de' due passi simili mostra preferibile la lezione il lago
del cor alla volgata:
Una saetta, che m" asciuga un lago
del cor, pria che sia spenta.
(Cfr. Carducci, Litorno ad alcune rime dei secoli XII e XIV,
p. 167). — I, 23. Una frase del commento può indurre in errore:
" Pelago: è quello che altrove 1' Autore chiama alto sale, cioè V alto
mare, e che può, come qui, intendersi per mare difficile, burrascoso „.
Non è burrascoso il mare quando V acqua solcata dalla nave ri-
torna eguale. Pelago usa Dante per mare profondo ; ma il voca-
bolo, da sé solo, non implica l' idea di difficoltà. Non sarebbe
stato inutile osservare che l' uso di esso non è esclusivamente
dantesco; basti citare a prova due versetti di F. da Barberino
( Doc. d' Amore, sotto Industria, XV, x ) :
a pelago laudato
mal pescare ho trovato.
Né, forse, sarebbe stato inutile notare la frase " Uscito alla riva „.
Cfr. Fatti di Cesai e, II, vni: " Uccidevanoli all'uscire de le navi
<i la riva „.
I, 32. " È malagevole decidere, notò il Blanc, se nella lonza
si debba intendere la lince, la pantera o il %o/>ardo, confonden-
dosi spesso questi animali tra loro „. Recentemente il Casini ha
osservato: " Che il poeta non inventasse egli il nome della lonza,
a'x prova, oltre che per 1' uso fattone nella forma sciolta di /coiizn,
da Brunetto, anche per un documento fiorentino del 1285, dove
a una bestia già racchiusa è dato il nome di /cinicia „, e perché
il nome si trova in un sonetto satirico di Rustico di Filippcj.
Verissimo: in un altro sonetto Rustico [Aiit. Rime Volg., V,
DcccLX ) preferi, forse obbligato dalle leggi del verso, scrivere :
e di leonza e d'altro assai fragore;
ma Palamidesse Bellindoti, — gonfaloniere de' balestrieri a Mon-
tapcrti, quando Dante non era nato ancora, — fini una canzo-
netta di lamento (Ivi, II, ci.xxxviu) dicendo della sua donna:
che s" una Ionica fosse
si perderla natura,
ed avriane pietanza.
Anche qui " abbiamo la lonza col senso di bestia spaventosa,
feroce, ardita „ ; sennonché Ristoro di Arezzo, che bene si può
chiamare uno scienziato, distingueva la lonza dal leopardo : " Lo
segno del leone.... faccia il leone, e la terra e tutti li animali a
sé, come // leopardo, e la lonza, e li animali aldaci che vivono
di ratto „ [Della Conipos. del Mondo, \'II, i ). Dunque, torniamo
ai dubbi di prima. I quali non sono dissipati, anzi aggravati da
altri documenti della raccolta, in cui il Casini ha trovato quello
del 1283. Il 5 aprile del 1291 il Capitano, presenti i Priori, nel
consiglio dei Cento, propose " provisionem faciendam prò Co-
muni Bindo de Luca prò pretio leopardi, in quantitate librarum
L-' florenorum parvorum „. La proposta fu approvata senza di-
scussione; ma nel Consiglio speciale, quello stesso giorno, ser
Salimbene Dietisalvi siirrexit et arcngando la combatté (" salvo
de facto leopardi, quod consuluit quod nichil fiat „): posto a
partito, il fatto del leopardo passò con sessanta voti contro tre.
Nel giugno il Consiglio del Podestà ebbe a trattare del paga-
mento di sessanta soldi e dieci denari a Piero del Maestro prò
ptisfuia /lopordi (Giikrakdi, Le Consi/Z/r dr/Za Rrpiihhl. Fior., II,
pp. 20 e 91). Il Comune, che già prima del 1260 (') teneva a pub-
bliche spese il leone, nell' 85 tenexa una Iriiiìcia, nel 91 un leo-
pardo: era " esposizione „ permanente, non temporanea, come
pare abbia creduto il Casini; perciò riesce difficile ammettere
nell'uso popolare la confusione della loììza col leopardo, cosi net-
tamente distinti nelle discussioni e negli atti de' Consigli citta-
dini ; quasi impossibile ammetterla nel pensiero e nella lingua
di Dante. Cfr. Folgore (xvì: " leggero piiì che lonza o lio-
pardo „.
I, 38-40. L'opinione, " che afferma il mondo creato in primavera „
trovandosi il sole " congiunto colla costellazione dell' Ariete „, si
può vedere enunciata con la dovuta esattezza astronomica in
Macrobio (/;/ Sonni. Sci/>., I, xxi): " Aiunt incipiente die ilio,
qui primus omnium luxit.... qui ideo mundi natalis iure vocitatur,
Arietem in medio coelo fuisse „.
I, 91. È citato \'irgilio: qnovc tenetis iter? A maggior diritto
può essere citato G. Faidit ( " er meillors tener autre viatge „ ),
o Guittone ( " Or pensa di tener altro viaggio „ ). — 1, 105.
Interpretando nazione in senso di domiìiio, il Poletto si lascia an-
dare a una chiosa lunghetta; ma non ha pensato a trovare un
luogo di Dante, o di scrittori del tempo di Dante, in cui la pa-
rola nazione significhi altro da nascita. — I, 106. Delle due spie-
gazioni della locuzione iinìilc Italia, che il Poletto accoglie, una
io r ho sempre creduta proposta primamente da chi o non ri-
cordava punto, o non ricordava bene quando e perché Virgilio
l'avesse usata. Raccontava a Didone Enea (III, 505-522 j:
Provehimur pelago vicina Ceraunia iuxta
unde iter Italiani cursusque brevissimus undis.
Sol ruit interea et montes umbrantur opaci.
(') " Non ardite ora di tenere Leone, che voi già non pertene, e se '1 tenete,
scorciate, ovver cavate lui coda, e oreglie, e denti, e unghi, e '1 depelate tutto.
e in tal guisa potrà figurare voi „. Gcittone, Leti, ai fiorentini (XIV).
- 9 -
lainque riibcsccbat stellis Aurora fugatis
cum procul obscuros Collis hmiiileiiKjiic videmus
lialiatu.
Ora, c|ual parte dell'Italia vede chi viene dall' Epiro per mare?
Non, certo, V Italia laziale. — I, 117. L'autorità di S. Tom-
maso, di S. Paolino e di Dante [EpiM. VI, 2) induce il Po-
letto a opinare: " Non può esservi dubbio di sorta che al
seconda tuorte non debbasi dare il senso d' inferno o di eterna
dannazione: ma sarebbe mestieri al grida dare il significato
di impreca „. Un contemporaneo di Dante, Giordano da Ri-
valto [Fred, iiied., lxu), " per molte ragioni in grande copia
e per la scrittura „, aveva in animo di mostrare " come i dan-
nati desiderano di tornare in nulla, se essere potesse „; ma una
sola ne espose: " Il male, ove non ha nullo mischiamento di bene,
quello è male sommo Cosi è il male de' peccatori privati
d'ogni bene, messi in ogni male; e però e' chiamano la morte
continovamente e non la possono trovare.... Vedendo che delle
pene non possono essere fuori, essendo eglino, vorrebbono vo-
lentieri, e questo disiderano continuamente, di tornare in nulla a
non essere, per campare quelli tormenti; e se si potessono ucci-
dere, volentieri il farebbono mille volte il di, se bisognasse „.
II, 6. " Ritrarrà .... Da tal voce si sente qui l'uomo nelle arti del
disegno versato „. Se tutt' i provenzali, i francesi e gì' italiani, che
prima di Dante usarono " tal voce „, fossero stati versati nelle
arti del disegno, io non so che sarebbe, ora, della fama di Ci-
mabue e. di Giotto. Imaginiamoci Bertran de Born intento a di-
segnare le malefatte del re di Aragona su tavoletta o su parete,
invece di enumerarle in un serventese! — II, 9. Cfr. Gino,
Vedete :
Or si parrà chi à 'n sé nobilitate.
II. 28-30. Il Poletto non crede si possa scorgere in andovvi
un' allusione all' andata di S. Paolo all' Inferno secondo la leg-
genda medioevale; " V andovvi s>\ riferisce semplicemente a 5^-
colo immortale, che, come pur notò il Gasini, significa anche
— IO
il Paradiso „. Qui, se non ni' inganno, son confuse due cose.
Lasciando stare la leggenda, — per la quale non basta più
rinviare all' Ozanani, al \'illari, al d'Ancona, — domando per-
ché non si possa intendere anche l' Inferno compreso nella
locuzione seco/o inuiiorta/c. " Ed io eterno duro „ dice l' iscri-
zione su la porta del " luogo eterno „. Srco/o significò lerra,
vita e inondo; perciò la pettegola del Contrasto di C. dal Camo
minacciava di non cedere, anche se il vago avesse assembrato
tutto quanto V abrrc d'està secolo; perciò in Albertano (III, xni )
si legge: " Chi serve al re.... perde questo secolo e l'altro „; e
ne' Fatti di Cesare (IX, xix) si attribuisce alla Sibilla la profezia
" che a la fine del secolo lo mondo si rimoverà per fuoco „ ; e
Guittone ringraziava Maria, che s' era degnata amarlo
e del secol ritrare
che loco è di bruttezza e di falsia.
Come vita e come niotido, il secolo è mortale e immortale. —
II, 35. Cfr. Francesco da Barberino {Doc. d' Ani., sottu Indu-
stria, xcvi):
E ciaschedun, eh' è saggio,
del fin nel suo coraggio
davanti al cominciare
pensa.
Non era questa 1' occasione di giudicar chiaro " perché savio nel
linguaggio di Dante divenga sinonimo di poeta „. — II, 55. Lapo
Gianni, Onesta rosa:
e gli occhi suoi lucenti come stella.
II, 56. " Piana non intenderei con chi spiega con voce soni-
messa, sibbene chiara, di facile intoidintento „. Anch' io, incorag-
giato da un esempio di ser Brunetto:
ma per piano volgare
ti sia detto 1' affare,
— II —
e da uno di J. Rudel: " lo vers que chantam en plana Icnga
romana. „ — li, 59-60. Cfr. Roman de Troie, 13787-88:
Joufrois, 1402-3:
por aprendre li la inesure
combicn li monz est lons ne dure;
Qu' en tant conme li muiides dure,
nen a si larges criature.
11, 77-78. Cicerone, Somn. Scipionis iv: " In infimoque orbe
Luna radiis Solis accensa convertitur. Infra autem iam nihil est
nisi mortale et caducum, praeter animos munere deorum homi-
num generi datos: supra Lunam sunt aeterna omnia „. — 11, 94:
.SV compiange vale non solo " sente compassione, si duole „,
anche si quercia. U. da Lodi, 1097-98: " L' anema molto se
compiange qel corpo tropo se refrance „. Fatti di Cesare, II, i:
" Marco si parti del luogo e di quello assalto si compianse al se-
nato „. — II, no:
A far lor prò ed a fuggir lor danno. —
Al contrario Amerigo di Pegulhan, En greti pantais: " Fuich
nion prò e vau seguen mon dan „.
Ili, 6. Con tutte le ragioni del Gioberti e del Conti, rimane
strano che l' Inferno sia opera del Primo Amore, se non s' intende:
de/ Volere divino. G. da Rivalto, lxxxiii: " Il volere di Dio è prin-
cipio e cagione di tutte le creature che sono e di tutto ciò eh' è;
e però è principio perfetto. Il podere e savere sono principio, ma
non perfetto.... Il volere, la volontà è principio di tutte 1' opere.
L'amore che è? L' amore viene dalla volontade.... non può essere
sanza volontà né volontà sanza amore: sono una cosa „. — III,
40-43. " Li rifiuta l'Inferno, dacché i dannati, sotto certo rispetto,
avrebbero argomento di gloriarsi d' essere stati, almen nel male, da
più di loro „. A questa interpretazione potrebbe accrescer forza
una sentenza del Convito, II, 33: " Del non potere e del non
sapere bene sé menare, le più volte non è l'uomo vituperato;
12 —
ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere
nojitro si giudica la malizia e la bontade „. Egidio Colonna, Del
Rcgg. dei Priucipi, I, XMi: " E bene ù ditto che i re debbono
intendare al bene comune, che se ellino non intendessero al bene
comune e fossero in istato di potere mal fare e noi facessero,
perciò non dovrebbero essere lodati, ned essere di più gran
merito; perciò che non basta ad essere buono, ed a volere
essere lodato, il guardarsi da i mali operare, ma conviene che
esso adoperi bene „. — 111, 117:
Per cenni, come augel per suo richiamo.
Cecco Angiolieri:
ed io feci per cenni: A me non pare.
Aìit. Rime volg. ( II, cui j :
Andrò sanza richiamo
a lei, che legno e bramo,
com' astore a pernice.
IV, II. Un esempio, non dantesco, di viso per vista. Ristoro,
Vili, XVI : " E guardando nel cielo, veggio If mescolati due co-
lori oppositi, lo chiaro e lo scuro, per la cagione della profondità;
che, quando lo viso entra per lo cielo, non gli truova fondo né
fine, là ov' egli si riposi e rafiggasi su, e spezialmente là ove non
sono le stelle; imperciò che non sono trasparenti che '1 viso le
passi „. — IV, 40. La frase: non per altro rio fu usata anche
in prosa. Tav. Ritonda, lxxii: " Quella lettera era stata fatta per
riconfortare alquanto Ghedino, e non fue per altro rio né per
altro affare „. Cfr. Chiaro, Oni che va:
d' ogni reo trae lo core e mette in pace.
I\', 52-55. Nessun accenno alla tradizione della discesa di
Cristo all'Inferno. Un amico di Dante, Lapo Gianni, alla Morte:
Tu non ti puoi, maligna, qui covrire,
né da ciascun disdire
— 13 —
che non trovasti più di te possente:
ciò fu Cristo potente a la sua morte,
che prese Adamo ed ispezzò le porte
incalciandoti forte:
allora ti spogliò de la vertute,
ed a lo 'iiferno tolse ogne salute. —
1\', 74. " (Jrniiizd, luogo cospicuo, che li diparte, li distingue dal
modo degli altri ecc. „ Questa non è pensata bene: orraiiza non il
castello, bensì la cagione, per cui gli spiriti magni dimorano nel ca-
stello. — IV, 89. " Dal nominar Orazio dalle sue satire, anziché dalle
liriche, non vi par egli che Dante conoscesse, ciò che ormai è am-
messo da tutti, che non nella lirica ma nella satira consiste la prin-
cipal gloria del Venosino? „ Non mi pare. Non solo Dante, ma tutto
il Medio Evo conobbe, studiò, ebbe familiari le satire più delle
liriche. Dante non ricordò mai le odi; citò più volte la Poetica,
una volta accennò ad argomento trattato nelle satire. — IV, 106:
A spiegare perché il castello sia detto nobile non occorreva rife-
rire dal Convito la definizione di nobiltà. Qui, credo, il poeta non
ebbe alcuna intenzione profonda, scrisse una frase d' uso comune.
Cfr. Intelligenzia, st. 60:
In una bella e nobile fortezza
istà la fior d' ogni bieltà sovrana,
in un palazzo eh' è di gran bellezza....
È molto bello, nobile e giocondo..
intorneato di ricca fiumana. —
IV, 114. -A Guittone piaceva " ogni donna e donzella, che basso
e rado favella „. — IV, 123. Gli occhi di Cesare erano simili a
quelli non d' uno sparviero in genere, ma dello sparviero grifagno.
D. de Pradas, Lo Ronians dels auzels cassadors, 311-12, 323-25:
Aquist aun los hueills tan vermeills
com es de mali lo soleills.
Auzel niaic non aura ia
aissi bels hueills com 1' autre a,
que '1 guilfanh non a contrast.
— 14 —
I\', 136. " Pone, rÌLicnc, afferma „. Non si dava, se posso dire,
tanta intensità al senso di questo verbo. Guittone, son. Mi piace:
secondo ciò, dio pone alciuio autore;
r Inttlligi'iicia, st. 306:
e i nomi e la divisa pon l'autore;
e Dante stesso:
siccome il Saggio in suo dittato iione.
V, I. " Primaio, primo.... anche fuor di rima „. Fuor di rima
e in scritture non letterarie, come gli Ordiìiamcnti di S. Maria
del Coiììiiiìc, al pari di sczzaio. — V, 20. Buona 1' osservazione :
Forse Dante meglio che al virgiliano faciìis dcsccnsus Averno
pensava alle parole del Vangelo: Intrate per angustaìu portam ;
quia lata porta et spatiosa via est, qua ducit ad pcrditioneiii „.
Le due citazioni eran già nei commenti dello Scartazzini e del
Casini, il forse era già in quest' ultimo, onde mi viene desiderio
di un riscontro nuovo: " Molto ene la via d'inferno lata e bella
e piacevole all' e-ntrata; e quanto più vai innanzi, più diventa
stretta, tanto che ne la fine ella distrecza a' folli che là entro si
sono messi „ ecc. Conti mar. d' anonimo senese, xii. — V, 39.
" Sommettono: in questo verbo sta tutta la sensibilità della con-
seguente condanna.... nel sommettono è tutto 1' atto della volontà
pervertita „. Anche qui, mi permetto pensare, il poeta seguitò
uso, non ebbe a cercare e scegliere tra varie espressioni la pili
efficace. Leggesi nella Tavola Ritonda (lxxv): " Io non voglio
sottomettere la ragione alla volontà; „ e ne' versi di quel capo
ameno di Folgore:
Ma ben se po' coralmente dolere
chi sommette rason a volontade,
e segue senza freno suo volere.
Risalendo più addietro, in un' antica biografia di B. di Ventadour
trovo citati questi versi di A. di Maroill:
e fuc mon sen e sec ma voluntat,
— 15 —
e questi di G. d' Uisel :
Que enaissi s* avcn de tìn aman
quel sens non a podor contrai talan.
\', 46-48. Lai a me non pare usato nella Coììumdia " in senso di
voce dolorosa, lamentevole, di certi uccelli „ ; perché credo Dante sa-
pesse che i laìs lirici non erano costretti a trattar soltanto temi
tristi: il famoso lais don cliievrefitel, per esempio, è un canto di
gioia. L'n ttovatore nostro, il quale visse parecchi anni ancora dopo
la nascita di Dante, aveva usato la parola a proposito di uccelli ;
ma di uccelli, che si rallegrano, come avevan fatto prima di lui
G. De Borneil, U. Brunet, J. Rudel e chi sa quanti altri :
Si toc m' estaiic en cadena,
er quan neis 1' auzels demena
joi ci plais
fazen vers, vottlas e lais
pel temps qu' csclaira e serena.
Di traendo guai, oltre quelli della Coììimcdia, si potrebbero citare
moltissimi altri esempi. Gino:
Girò traendo dolorosi guai.
\', 67. Quando leggo che in Paris alcuni ravvisano il protagonista
del poemetto popolare Paris e Vienna, per poco con loro non mi
risso. Dovrebbe bastare la menzione di Elena nel terzetto pre-
cedente a far capire che si tratta di Paride; ma, forse, l'ipotesi
piacque e piace a chi non ebbe mai in vita sua occasione di os-
servare quante volte nelle poesie francesi, provenzali e italiane
anteriori alla Coniniedia s' incontrino insieme Paris ed Elena tra
gli esempi di amanti famosi. Vienna, è lecito chiedere, in quale
storia d'amore medioevale si trova nominata? E perché Dante
al famosissimo troiano avrebbe dovuto preferire un oscuro gio-
vinetto, di cui ora per la prima volta sento dire dallo Scartaz-
zini e dal Poletto che fu un cavaliere errante? A quale delle due
Tavole sede mai? Giacché non è da confondere con quel Parides
/' amoroso, il quale comparisce una volta, nel Palamede, travestito
— ró-
da donzella armata; non era brettone, era nato in Vienne del
Dellìnato da un gran signore
che Giacomo per nome era cliiamato.
Il protagonista del poemetto popolare — non anteriore, proba-
bilmente, al Quattrocento — non solo non mori per amore, come
1' Andreoli avverti ('), ma amò di purissimo affetto la giovinetta
\'ienna, e la sposò santamente, e da lei ebbe cinque figliuoli :
perché, dunque, sarebbe stato collocato all' Inferno tra i lussu-
riosi? A proposito di Tristano: il Poletto non nomina quelli, che
fanno " Isotta morta alquanti mesi dopo l' amante „, e sarebbe
vano cercarli tra i più antichi narratori della leggenda e tra i più
autorevoli; certamente l'autore dell'indigesta e tarda compila-
zione del Tristan in prosa non era capace di comprendere e di
sentire la poesia, 1' " éclat douloureux et fascinant „ di quella
leggenda. — V, 103:
Amor, che a nullo amato amar perdona.
" Perdoìia; qui vale fa grazia, concede; risponde al parccre dei
Latini „. Cosi anche altri; ma nessuno reca esempi di questo
uso del verbo nella nostra lingua. Eccone uno. Tristano, ferito
il cavaliere Fellone, " lo voleva trarre a fine „ ; ma, alle pre-
ghiere e alle promesse di lui, " allora Tristano gli perdona la
morte „. [Tav. Ri/., cxiv). — V, 105:
Che, come vedi, ancor non mi abbandona.
(1) L' Andreoli, non Io .Scartazzini, come si legge, per errore, nella prima
ediz. di questo scritto. Credevo allora lo Scariazzini capace di fare una, co-
munque sbagliata, osservazione, col proprio cervello. Ma nemmeno di questo
è capace! Ringrazio i gentili, che gli hanno voluto rimproverare di non avermi
citato mai nelle sue troppe sbrodolature recenti di argomento dantesco; ma io
prevedevo che così avrebbe scartazzineggiato sin da quando ebbi occasione di
levargli quel poco, che ancora gli rimaneva addosso, di merito fallace.
Virtutis expcrs, verbis iactans gloriam
Ignotos fallit, notis est derisui.
V. le mie A'. Rassegne, x.
— 17 —
Il concetto e le parole vengono direttamente, o ni' inganno a
partito, da' romanzi francesi, che diffusero in Italia la conoscenza
di Tristano e d'Isotta e del loro tragico amore:
de Tristram e de la reine,
de lur amur qui tant fu fine,
dunt il ourcnt incinte dolur;
/tuia eii inururenl en un jitr.
" Gli (lue amanti „ narra una \-uIta la nostra Tavola Riloìida,
" ebbono una vita e feciono una morte „; un'altra volta fa dire
alla bionda regina: " Lo di che morrà Tristano, io gli farò com-
pagnia; e se lo re o lo dolore no' mi uccide, io medesima m'uc-
ciderò; imperò che noi siamo stati una vita, e degna cosa è che
noi siamo una morte „. — V, 121-23. " La forma assoluta e
come antonomastica qui usata da Francesca, fa credere ragione-
volmente che non d'altri s'intenda, che di Virgilio „. Ma non
come di Publio Virgilio Marone, dell' autore dell' Eneide, bensì
come di un' ombra, che, al pari di tutti gli altri abitatori della
valle inferna, " ricordandosi e avendo dinanzi alla memoria il
bene eh' ebbe, ed ora si truova cosi caluco, questa memoria lo
affligge sommamente „. (G. da Rivalto, liv). Perciò, dottore non
ha il senso suo solito di doctor, bensi quello di ductor, condut-
tore, guida, come néX Eneide (IX, 226):
ductores Teucrum primi et delecta iuveutus
consilium summis regni de rebus habebant,
cioè nel verso, che segue, terzo, due altri già parafrasati dal no-
stro poeta per dar principio al canto II. Che Dante fosse guidato,
condotto da Virgilio, Francesca aveva potuto arguirlo dalla do-
manda del secondo, quando il primo, chinato il viso, se ne stava
tutto pensoso. Poi, bastava osservare che se uno, ancora vivo,
andava visitando in compagnia di un morto, per 1' aer perso, quelli,
che avevan tinto il mondo di sanguigno, il morto doveva esser guida
al vivo. Per la sentenza, cfr. P. Raimon di Tolosa, Us novels :
que qui non a vezat aver
gran be, plus leu sap sostener
TORRACA. 2
afan, que tals cs belhs e bos,
qu' el maltraitz 1* es plus angoissos
quan li sove "1 benanansa.
E un nitro provenzale (Mahn, Gcdicìitc, 1019):
et es maiers dolors
aquel qu' es ricx cant desvay sa ricors
que si dabans no for estatz manens.
\ , 136. La bocca è fvic di amore, si legge nella Vita Nuova. — V,
137. Dante imaginò Paolo e Francesca intenti a leggere di Lanci-
lotto, come amor lo strinse, e come, per la molta cortesia dell' alto
prcììcipc Galeotto, — tanto migliore della sua fama — potè parlare
a Ginevra, manifestarle il suo amore, baciarla. La lettura, facendo
traboccare que' due cuori innamorati, fu 1' occasione, per cui co-
nobbero i dubbiosi desiri. Tutto questo è imaginazione del poeta,
perché — non mi stancherò di ripeterlo — egli fu il primo e,
per lunga pezza, egli restò solo narratore del tragico caso; ma,
forse, imaginando, ricordava. L' amore de' due cognati, passione
veemente e gentile, indomabile, quasi fatale, è l' amore stesso,
che ad 2ina morte aveva condotto Tristano e Isotta. Or, a che e
come gli amanti della leggenda avevano compreso di amarsi?
" Tristano e Isotta si puosono allo scacchiere a giuocare a scacchi,
come erano usati.... E giucando eglino in tale maniera, aveano
grande talento di bere; e allor addomandaro che lo vino fosse
apportato. E allora Governale e Brandina.... presono il bottacino
là dove era lo beveraggio si amoroso, e sie diedono di questo
bere a Tristano e a Isotta.... E avendo Tristano bevuto questo
beveraggio, egli si maraviglia molto molto, perché sua volontà
né suo pensiero egli in alcuno modo non poteva raffrenare.
'E simile e in tale modo era infiammata madonna Isotta; cioè di
lui: e per tale, l'uno guatava l'altro; e per lo molto mirare,
r uno conosce il disio e la volontà dell' altro. E a quel punto
dimenticarono lo giuoco degli scacchi.... „ {Tav. lò'tonda, xxxiv).
La scena, eccettuati alcuni particolari, è sostanzialmente la stessa.
P'orse, ripeto, Dante, la ricordava mentre componeva il V canto
— 19 -
dell' Iii/cnio, — l' ipotesi trova conferma nelle allusioni al ciclo
di Artu, con le quali comincia e finisce 1' episodio e, meglio, nella
natura e negli effetti dell'amore de' due cognati, in tutto identici
a quelli dell'amore della coppia brettone; — ricordandola, volle
ingentilirla insieme e renderla pili verosimile, piti umana. Vi riusci
con un mezzo ammirabilmente semplice, sostituendo al gioco degli
scacchi la lettura, al botlaciiio il libro di Lancillotto, al beveraggio
la forza d' Amore, " che a nullo amato amar perdona „,
\'I, i8. Cfr. Monte Andrea {Ant. Rime volg., Ili, ccLXxxvn):
che tal colpo si '1 cor de 1' omo squatra.
\'I, 30 e 34. Pugnare e adonare passarono da' provenzali ai
nostri rimatori. — \'I, 36: Frate Giordano, xviii: " Dico prima
che '1 mondo è assimigliato a canna per la vanità sua; sapete
che la canna è cosa vana; pare cosi di fuori, ma dentro è vana
e vota; cosi il mondo è pretta vanità „. — VI, 48. Non ci ma-
raviglieremo di trovar in Dante maggio " pur nel mezzo del
verso „, se rifletteremo che 1' usarono prima di lui Guittone ed
altri, e fu usato anche in prosa. Tavola Ritonda, xliv: " La
reina Isotta fece a Lancialotto lo maggio onore del mondo „. — ■
VI, 96. " Podestà.... si dice tuttavia a Firenze „. E, prima di
Dante, lo scrissero i dittatori, i notai, in latino, i rimatori nostri,
da C. dal Canio all' autore della canzone Biasmar vo', in vol-
gare. — VI, 103 segg. Non so se, dicendo: Ritorna a tua scienza,
Virgilio voglia proprio " richiamare 1' alunno alla filosofia aristo-
telica „. Il 24 ottobre 1305, in Santa Maria Novella, frate Gior-
dano (lxxxvi) insegnava: " Dicono i santi e' savii che '1 corpo
nostro non è uomo per sé, né l'anima non è uomo per sé, no;
ha r uno natura perfetta per sé solo, ma 1' anima e il corpo con-
giunta insieme fanno uomo, sono una natura compiuta e per
fetta.... E però il corpo risusciterà e ricongiugnerassi collo
ispirito „.
VII, 14. L' autore è di avviso che fiacca " qui sia verbo at-
tivo, il cui soggetto è vento, e non già neutro assoluto „. Non
— 20
la pensava cosi maestro Ffancesco da Firenze {.liif. Riiiir i'o/ì;.,
TI, rxcvii):
Vedili' ò per contastare
al vento, perdi' à potcn/a,
pender 1' albore e fiacarc
e cader sanza difenza.
\'II, 20-2I. Non sono sicuro che travaglio valga " dolori morali „
e f>ciìr dolori " materiali „. Si badi, a ogni modo, all' uso di tia-
vaglia femminile, frequentissimo da Odo delle Colonne a — che
so? — alla cronaca fiorentina pubblicata dal Villari: " La quale
3'sola co molta travalgla per lui fue acquistata „. E, spesso,
travaglio e pena si lasciano cogliere insieme. Conti senesi, x :
" Bello amico, in grande pena et in grande travallio vi site
messo per lo vostro mesfatto „; Fatti di Cesare III, v: " Avete
sofferte per me molte travaglie e molte pene, già è diece anni „.
Per seipa cfr. Monte, Ant. Rime volg., Ili, cclxxxviii:
serv' è dei servi chi cosi si scipa.
\'II, 53. " \'ita sconoscente è quanto vita ignobile, dissennata,
senza intelletto „. La parola fu usitata nella lirica provenzale e
nell'italiana cortigiana. Sozzi non significò soltanto " macchiati
di avarizia e di prodigalità „. Questo non ha voluto intendere
r autore, ma la sua frase può produrre equivoco. Albertano,
III, XIV : " Altresì è sozzo ad essere lodato dai sozzi, come lo-
dare le sozze cose „, " 1' amor di sozzi non ti può dare a man-
giare, se non sozza cosa „. — VII, 58. Cfr. Guittone, Lett. xxxvii:
" Poni ad amburo (al prodigo e all'avaro) lo freno di largezza;
cioè tenere, e dare quel che dei „. E, nella canzone Tanto so-
vente, 69:
e fa veder eh' acquisti, tcgna o dia.
Domanda il commentatore: " Mondo pillerò non si potrebbe ni-
tendere per mondo o vita presente, in questo senso che i pro-
dighi e gli avari non ebbero contentezza e pace in questo mondo,
e ora hanno l'Inferno? „ Non mi pare: questo mondo, la terra^
21
1(1 iiolcc mondo, è ricordato sempre con doloroso rimpianto dai
dannati? — \'II, 64. La perifrasi piacque al Latini nel Tcsorctlo:
" Che già sotto la luna Non si trova persona ecc. „
\'III, 20. yl (jiicsia volta per significar tempo, come al Poletto
piace, non luogr», si legge nella Tav. Ritotida, lxxx : " Cotesta
assembraglia fac adunare la rcina Ginevra, solo perché Lancio-
lotto torni a corte; ma, in verità, ch'ella l' àe fallata a questa
volta „. — \'I1I, 36. Guido Cavalcanti:
Vedete eh' i' son un che vo piangendo.
\'1I1, T07. G. di Borneil, A ben cliantar: " La bon' esperansa 'ni
pais „; Chiaro, canz. Oi Lasso, st. 4':
che non credo eh' agia core
cui non mette 'n isperanza bona.
Monte, son. Per nio/fa goitc :
E di ciò molta gente si notrica,
ciascun vivendone a speranza bona.
Fiore di virili, xxxvii: " La buona speranza non ti abbandona
mai, ma datti buon conforto infra gli amici „. — Vili, 118-19.
" Espressione potente, creata da lui, verso della quale ogni altra
sarebbe fievole „. Creata da lui, ex niliilo, non direi: Monte, nella
canzone Più sofferir, 60, aveva scritto:
ora eh' io son, com' io vi dico, raso
d' ognunque cosa eh' ave in me vertute.
IX, 48. -l tallio vale a questo solo.... dunque erra chi a tanto
spiega intanto, in questo mentre. „ E chi spiegasse allora, in quel
punto, come in francese:
actant se teut et outre s' en ala?
'/'avola Ri/onda, xcvi: " E a tanto lo sindaco fa dare alle
trombe „ ; Liòro di Fioravaìtte liv : " A tanto giunse Io re e
disse „ ; Fatti di Cesare \\ xv: " A tanto fu la battaglia si di
presso, che ecc. „. — IX, 50. Libro de' Sette Savi: " Forte co-
minciarono a gridare e a battersi a palme e istracciarsi i loro
capegli „.
X, 36. Quantunque abbia letto e citi il De Sanctus, temo non
abbia il nostro commentatore compreso bene il carattere di Fa-
rinata e la diflerenza tra esso e quello di Capaneo: " Il baldo
sprezzatore della vita futura pare, pur provandone si terribili ef-
fetti, che non abbia smesso punto dal suo orgoglioso disprezzo;
ma come a Capaneo forse questa permanente superbia è castigo
maggiore della stessa fiamma, che il succia „. Capaneo era un
fanfarone, Farinata un magnanimo. " L' uomo di gran cuore e di
grand' animo pare che abbia gli altri in dispetto, conciosiacosaché
per loro opera né per loro parole elll non lassa a fai-e l'opere
di virtù „. Cosi Egidio Colonna (II, xxv ) ; e Dante {Convito,
I, XI ): " Sempre il magnanimo si magnifica in suo cuore; e
cosi lo pusillanimo per contrario sempre si tiene meno che non
è „. — X, 39. " Conto io derivo da comptiis, nobile, ornato. „
In tal caso, il discepolo avrebbe ricevuto dal maestro un consi-
glio inutile, perché, per dire chi erano stati i maggiori suoi, non
ebbe davvero bisogno di fare un discorso nobile od ornato.
Meglio, come già inclinava a proporre il Zingarelli, tener la pa-
rola equivalente al francese coiiite e al provenzale coindr, ma non
nel solo senso di pulito, adorilo: nel senso, piuttosto, di gentile,
grazioso, amabile. Non altrimenti 1' usò 1' autore della ballata E do-
nale conforto ( Ant. Rime volg., III, cccxvi ) :
E donale conforto,
conta pulzella, per tua cortesia,
a quillo che t' à porto
tutto so core e messo in tua balia, ^
e, per quanto è possibile capire, Ser Clone (Ivi, IV, p. 207):
Umilemerte — sue paraule conte
sanza rancura — per te si ben son porte,
in rima con conte per cognite. — X, 57. Anche tidto spento detto
del suspìcare merita la lode di espressione potente — il Poletto
— 23 —
non gliela dà — ; ma nenimcn essa è creazione di Dante. Monte
(.hit. Rime volg., Ili, ccLXXxix, 47-48):
tutto mio posso,
dove voler poria, è tutto spento.
Comincia a diventarmi simpatico questo noioso !
X, 61-63. Il Poletto giudica indecifrabile ancora " questo punto „.
Mi piace non conceda di riferire a Dio la frase Coltti che attende
la; mi dispiace ricordi il pellegrinaggio di Guido alla tomba di
San Giacomo " a Tolosa „.... come prova della religiosittà di lui.
Non ha avuto notizia del sonetto di Niccola Muscia:
Ecci venuto Guido a Campostello ?
Guido si parti dai compagni " senza dicer vacci „, asserendo che
" non v' era botio „.
La spiegazione del disdegno di Guido, mentre questo com-
mento si veniva stampando, faceva, dirò con l' amico Mazzoni,
molto cammino. Il Mazzoni (\) riassume e compie le interpreta-
zioni proposte: " Io Dante non vengo da me solo, vengo con
una scorta fidata (e ciò, per attenuare il vanto che gli verrebbe
àdW altezza d' ingegno); la quale scorta, per questa via, io spero
che mi condurrà fino a colei che fu ed è il sospiro della mia
vita, e di cui Guido non si curò né si cura „. Concordo con lui
in tutto, meno l' ultima frase. Con opportune citazioni di poeti
nostri e di un provenzale egli dimostra, come meglio non si
potrebbe desiderare, che disdegno è qui voce del gergo amo-
roso; ma non ha considerato che la persona disdegnosa è sem-
pre la donna, unicamente la donna e che disdegno ha signifi-
cato ben più grave di noncuranza. Di testimonianza di disdegno
maschile, come direbbe 1' amico A. Zenatti (') rammento solo la
canzone Oi lassa di Odo delle Colonne:
ed or m' à a disdegnanza
e fammi sconoscenza;
{}) Nozze Ciait-Sappa Flaiidiuel, p. 69.
(^1 II disdegno di Guido nella Cultura, 11-22 luglio
— 24 -
ma l'eccezione è solo apparente, perché Odo rappresenta una
donna nelle condizioni, che por gli uomini innamorati erano or-
dinarie. Tristano — qualche altra citazione non nuocerà — il
valoroso Tristano, il fiore della cavalleria, fu una volta costretto
a dire alla franche vaine:
Alias, kc je lant ai vcsquu,
quant je cest de vus ai vòu,
ke vus cn dcsdein me tenes
et pur si vii ore me avez ;
e a ricordarle il tempo felice:
quant vus me amastes semz desdeing
(Bartsch, Chrest. de l' anc. Francais; Trislran). Cino da Pistoia
scrisse, proprio come Dante, avere in disdegno: ma la disdegnosa
gentilezza, della quale egli sforzavasi a non dolersi, era della sua
donna:
Or, donna, se a la vostra signoria
piace avere in disdegno il mio servire,
saver dovete che lo meo desire
non in ver desse disdegnar a voi. (M
E un' altra volta :
Io sento si il disdegno,
che voi mostrate contr' al mirar mio,
eh' a veder non vi vegno.
Ciò posto, il soggetto di ebbe, non è, non può essere Guido.
Beatrice, o si consideri come donna, o come simbolo della Fede,
della Teologia, di quel che si vuole, era troppo alto collocata
nella mente del poeta, perché egli osasse pur di pensare, o, peggio,
di dire, che qualcuno aveva potuto non solo non curarsi di lei
ma averla a disdegno.
A fermare d' un tratto il Mazzoni su là via, su la buona via,
già per tanta parte percorsa, dev' esser valso — non Io dice, ma
s' indovina' — quella, che Isidoro Del Lungo, scherzando, chiamò
(') Cosi il Rice. 2846. Il cod. Vat. 3214 : " non e inver disse disdegnare ad
coi „. Le stampe : " Non in ver debbe „.
" alchimia lessicografica (') „. " l'cr quanto „ — secondo 1' al-
chimia — " siano grandi i capricci del vocabolo " cui „.... non
è fra essi compreso.... che il sullodato " cui „ pussa signilìcare
" a tale persona, la quale, ad ciiiii qncììi, ad cani qnam, o, peggio
ancora, ad ntni qui, ad laiii qiiac „. Pure, io — per necessità
registro qui me — avevo osservato: questo cui vale a chi; non
di rado, a chi si deve tradurre in a cohti, a quello, il quale {il
t/uale soggetto). Aggiungo un a cui in vece di a chi dalla can-
zone Lo snaiìiorato core di Chiaro :
Amor è dato a cui
ha cortesia, ha pregio, ed ha" piacere.
Infine, non so se la Crusca li abbia registrati, ho non soltanto
da citare degli a chi, ma anche due cui, capricciosi quanto si vuole,
capricciosissimi anzi, fratelli carnali del cui dantesco. Chiaro Da-
vanzati {La gioia) descrive la sua donna:
h suoi cavai dorati,
e li cigh moretti
e volti com' archetti,
con due occhi morati,
li denti minotetti
( di perle son serrati ),
labra vermiglie, li color rosati,
cui mira, par che tutte gioi' saetti.
Ossia : Pare che ella saetti tutte gioie a quello, il quale mira i suoi
capelli e il resto; se non si preferisce, posto un punto e virgola
alla fine del penultimo verso : Pare a quello, il quale la viira, che
ella saetti tutte gioie. lacopone, nella frottola, con limpidezza
maggiore :
cui bee 1' acqua torbida
non li creder la chiara;
ossia : Non affidare l' acqua chiara a quello, il quale beve la
torbida.
(M // disdegno di Guido, N. Antologia del t° nov. 1880. È ricomparso nel
voi. Dal Secolo e dal Poema di Dante ; Bologna, Zanichelli, 1898.
-só-
li subito drizzarsi di Cavalcante, 1' interrogazione afìannosa,
angosciosa, eh' egli rivolge a Dante, il suo ricader supino, dipen-
dono da queir ebbe, supposto pronunziato appunto per produrre
tali e tante conseguenze. Il poeta, dunque, lo pensò ben bene
prima di lasciarselo uscir dalla penna. Possibile, se fosse riferito
al disdegno di Guido per Virgilio, che Dante non avesse riflet-
tuto : " Ebbe; non l'ha più, non l'ha ora a disdegno; vien a
mancare perciò, il fondamento all'asserzione mia: vado per l' In-
ferno condotto da persona, di cui Guido vostro non si curò
quanto mi curai io? „ Ma, in verità, del disdegno di Guido per
X'^irgilio non s'è trovata alcuna prova seria; né si potrebbe tro-
varne del disdegno di lui per Beatrice. Questa non è mai pura
personificazione, conserva sempre qualcosa della donna reale.
Quale opinione dovremmo farci dell' amante, se apponesse al-
l'amico la colpa di non aver anch' egli amato Beatrice? Ammesso
alluda solo a Beatrice simboleggiante un qualunque essere o con-
cetto astratto, intopperemmo nella difficoltà d' imaginarla in preda
all'ira, al dispetto, alla vendetta, proprio quando Guido avrebbe
cessato di noti curarla.
XI, 7-9. Il Poletto, nella tomba, che guarda papa Anastasio,
non vede altro " che un' opposizione diabolica.... „ per render
vano il viaggio di Dante, " facendo titubare la fede di lui nella
verace e ineffabile guida del Papa come organo dello Spirito
Santo „. E Dante non mostrerebbe di essersene punto accorto!
— XI, 22 segg. La distribuzione de' peccati si confronti col ca-
pitolo XVIII del Fiore di Virtù. Il Poletto reca alquante righe di
Cicerone dal De Officiis (I, xni, 41): gioverebbe leggere e me-
ditare anche i paragrafi precedenti. — XI, 49. " Suggella, tien
come sotto sigillo, tien fissi e chiusi in sé „ ecc. Però del segno
suo sembra allusione alla pena. — XI, 52-56. Fiore di Virili, xx:
" Tradimento si è propriamente a tradire altrui d' alcuna cosa,
di che altri si fida „. Cfr. G. de la Tor:
Qant hom reigna vas cellui falsament,
qui r onra c'\ scrv e l'ama finament,
ses traiment
per piegs de hom temer
de lui que d' autre, qui voi dir Io ver,
per que ccl en cui hom plus se tia,
scs fadia
pot mielz l' om enganar,
quel col de cui hom sap qes deu gardar.
— XI, 83-84. Cicerone, De Off., I, 8. " In omni iniustitia per-
multum interest, utruni perturbatione aliqua animi, quae plerum-
que brevis est et ad tempus, an consulto et cogitata fiat iniuria.
Leviora enim sunt ea, quae repentino aliquo motu accidunt, quani
ea, quae meditata et praeparata inferuntur „. — XI, 97 segg. II
poeta accenna alla " Filosofia „ e alla sua " Arte „, perciò si
capisce che qui pone concetti di Aristotile; ma non sarebbe meglio
ritrovarli e addurli a dichiarazione del testo, che arguirli più o
meno esattamente dal testo? Chi non avesse a mano, o non vo-
lesse, o non potesse consultare Aristotile, legga un capitolo di
frate Egidio (II, III, ix). Usiirierc è della lingua nostra antica e-
della provenzale.
XIII, 19. Marco Polo, xxvii: " \'i viene un vento talvolta du-
rante la state di verso Io sabbione „. — XIII, 25. Questa " riu-
nione di più voci simili „ e la ripetizione in principio di parola
della stessa sillaba, ha un nome in rettorica, e fu in certi tempi
e per certi popoli unica forma poetica. La Rctli. ad Hcrcnn.
(IV, 14), conosciutissima nel Duecento, consentiva la iradiictio,
" cum idem verbum crebrius ponatur, non modo non offendat
animum, sed etiam concinniorem orationem reddat. „ Anche, tra
gli ornamenti dello stesso genere, comprendeva " cum idem
verbum ponitur modo in hac, modo in altera re „, come fece
Dante più volte. — XIII, 40. La similitudine dello stizzo, vera-
mente " una delle più preziose del poema „, giaceva in germe
in una canzone di G. Faidit { Jaiizcns):
.... el cor m' art e dels huoills plor
de dolor
eissament cum la vert leigna,
qu' el fuoc arden
plora soven.
— 28 —
Do la lezione del eanzoniere yl; in altri 1' ultimo verso è: />/orrt//
s' cni/^rrii. — Xlll, 55. " Mi lasci prendere dall' allettamento di
ragionare con voi „ a me pare la sola interpretazione giusta. Per
convincersene, basta considerare che la metafora non si restringe
alle ultime parole del terzetto (ni' iiivcsc/ii), anzi comincia dal
primo verso [in' (i(frsc/ii). Con l'esca, annota il Poletto, " s'atti-
rano i pesci all'amo „: si, ed anche gli uccelli alla pania, onde
Guittone sentenziò ( Liif. I) : " Affamato uccello sostene di pren-
dere esca o' crede laccio „. Adescato, V uccello s' invesca, come
sapeva bene il Petrarca:
Di di in di vo cangiando il viso e '1 pelo;
né però smorso i dolce ittescati ami,
né sbranco i verdi ed invescati rami,
dell' arbor, che né sol cura né gielo.
Non conosco esempi (V invescarsi per ai'C)- impaccio nel parlare;
abbondano nella Connncdia e altrove quelli, in cui, propriamente
o metaforicamente, vale lasciarsi fermare^ trattenere, proidere.Ser
Brunetto, messo in forza d' Amore, volle muoversi credendosi
campare,
ma non potetti andare,
eh' io vi era si invescato
che già da nullo lato
potea mover lo passo.
XIII, 58-60. Il Moore rimanda a Isaia, xxii, 22; io sin dal 1880
indicai l' imagine, adattata al protonotaro (non " cancelliere „) in
una epistola di Niccolò da Rocca: " Tanquam Imperli claviger
claudit, et nemo aperit et nemo claudit „.
XIII, 63. Il Poletto adotta la lezione lo sonno e i polsi, la quale
è sostenuta dal Moore, quantunque all'altra riconosca l'appoggio
di parecchi manoscritti autorevoli e di antichi commentatori, tra
cui Iacopo della Lana, e quantunque nella sua ristampa dell' In-
ferno le dia luogo: le vene e i polsi. Senz'entrare in discussioni
fisiologiche, o d'altro genere (ma non senza ricordare un verso
del Dittamondo : " che il sangue per le vene torni ai polsi „ ) io
— 29 —
dico che Dante scrisse qui, come nel primo canto, le vene e i
polsi, perché era frase d'uso. G. dall'Orto l ^liiior i' veglio):
non ho polso né vena,
che del tormento suo non \\ sovegna.
Tavola Riloinla (i): " Vw tanto greve lor caduta, che non si sen-
tiano né polso né vena „; (cxiv) " Lo cavaliere non batteva né
polsi né vena, e giaceva come corpo morto „ (cxxix) " Cadde in
terra tramortita, e non si sentla né polso né vena „; ecc. — XIII,
69. " Tamaro in tristi lutti, bella antitesi „. Bella, non intera-
mente nuova, anzi non rara. Chiaro {Aiit. Rime volg.. Ili, cciv ;
j' en passe et des lìieilleurs):
e r alegranza mi torna in rancura.
XIII, 49. J'isioiie (li Tiigdalo, i: " Quando 1' anima mia si parti
dal corpo „. — XIII, 100. Il Poletto traduce vermena in piccola
pianta; il Casini tradusse in piccolo arboscello, lo Scartazzini,
sempre amante di apparir singolare, in giovane ramuscello, ce-
spiiglietto ! \'ediamo di accostarci un poco più al vero.
Primum cana salix madefacto vimine parum
texitur in puppim.
aveva raccontato Lucano (IV, 131); J. de Tuim ( Yst. de J. Cesar,
IV ) tradusse e chiosò: " Et fist taire petites nes d* osieres, dont
il avoit grant plentet parmi la praerie „ ; lo scrittore de' Fatti di
Cesare (VI, in) abbreviò: " E fecero burchi di vermene „.
— XIII, 105. " Quest' iiom è spesso nel Poema in senso di al-
cuno, altri, e simili „. Nel poema soltanto? — XIII, 117. " Ogni
rosta, ogni ostacolo od impedimento, che loro si frapponesse, cioè
i rami e gli arbusti, che loro attraversavano la via, „ Toglierei
r idea dell* impedimento, desunta dal Daniello e confortata del-
l'autorità del Perazzini. Ogiìi rosta vale ogni frasca. Vedasi nel-
r Esopo senese la favola xxxin, nella quale " meriggiando uno
vecchio al meriggio d'uno albero con una rosta in mano, e istando
in suoi millanti „, fu annoiato da una mosca, " e volendola fé-
— 30 —
rire dava a sé medesimo „ e infine le disse, tra l'altro: " se la
più picciolina foglia che à la mia rosta, solo una volta ti colga,
morrai e cadcrai in terra. ,, Ristoro (Vili, xxiii): " E se noi sa-
remo nella stufa calda, e costrigncremo 1' aere colla rosta o con
altro, sentiremo l'aire freddo per lo viso ecc. „ — XIII, 126:
Come veltri eh' useisser di catena.
Al Poletto la struttura del verso ramnìcnta l'altro:
e come quei che con lena all'annata.
Gliel' avrà rammentato per antitesi. Altra volta, (son. Sonar òrac-
chetti) Dante scrisse:
e di guinzagli uscir veltri correnti.
XIII, 134:
Che t' e giovato di me fare schermo?
Cfr. Fatti di Cesare, IX, xxxiii: " Cesare combatteva con irato
intendimento, e quando clli non poteva riparare a' colpi, si faceva
schermo di Tolomeo. „
XIV, 12. Vedano i filologi, se pure è necessario, qual valore
abbia l'ipotesi che randa possa esser voce passata dalla lingua
nostra alla tedesca. A me sembra più utile trascrivere due versi
di Monte {Ant. Rime voìg., III, ccxci):
che par che luce espanda
com' a la randa — del giorno la stella.
Chi sa perché, là, dove Bertran de Born dice del re Riccardo:
N' oncas fai el, anz assetja els a randa,
il Thomas traduca: à l' cìivi? Il Raynouard cita dalla tenzone di
Folchetto di Lunel con Gerardo Riquier:
tan que s' an colcar a randa
de si dons,
tr traduce: " còte a còte. „
_ 31 —
Xl\', 30. " 1 suoni aperti di questo verso, nota il \'enturi,
esprimono la larghezza dei fiocchi lentamente cadenti „. Forse
Dante aveva letto in un sonetto del suo primo amico:
e bianca neve scender senza venti,
c nella canzone di Francesco Ismera, suo coetaneo:
veder fioccar la neve senza venti.
XIV, 43-44. Albertano (111, xv): " Disse Ovidio: o tu che vinci
tutte le cose, vinci l' ira „. — XIV, 90. Albertano (III, xiii): " Chi
odia la loquacità ammorta malizia „.
XV, 3. " Guizzanti', terra di Fiandra, di cui oggi non resta
{)iu traccia.... e forse la traccia non ci fu mai, perché nessuno
seppe mai di questo luogo additare 1' esistenza. „ Singolare scet-
ticismo, e strano, chi rifletta che il Poletto riferisce le notizie, che
di Guizzante raccolse il Della \'edova! Dell'esistenza di Guiz-
zante in Fiandra ecco una testimonianza, anteriore d' oltre un se-
colo al \'illani, in un pianto di B. De Born [Moii cliau):
Fransa tro Compenha
de plorar nos tenha
e Flandres de Gan
trol port de Guissan.
Il Thomas cita un verso della Cli. de Roland:
De Besencpun tres qu' as porz de Guitsand.
XV, 88. " Corso, vita avvenire; e tal voce in questo signifi-
cato, io proposi alla Crusca nell' ediz. che ora si stampa „. La
Crusca avrà riflettuto che il significato non 1' ebbe da Dante. Monte
{Ant. Rime volg., Ili, cclxxxv):
èmmi rimase che la vol(.>ntate
e potestate — di conoscer mio corso.
-Ma altrove Monte stesso (cclxxxix )
e s' io son morto e spento
lo corso di mia vita ora n'è prova.
— 32 —
X\'. 94. " Arra, non è iiierccdr, come spiegano alcuni, sibbene
ciò clic comunemente diciam caparra „. L' osservazione giustis-
sima merita il rincalzo d'un esempio. Tavola Rifonda (xi): " Et
allora Lancilotto tanto amava la reina Ginevara, che loro adopa-
rarono si et in tal modo, che fero il pagamento amoroso della
dilettosa arra che nel principio s'avevano donata; cioè che dal
mirare vennero al baciare; et venendo a l'abbracciare „ ecc. Cfr.
Rodi, de F/aiiwiica, 3506-10:
" Non voil aiso per don prciidas,
mais per arras, que sapias
que beus ai encor a donar. „
— " Seiner, fai ss' il, si Dieus mi gar,
cestas arras valon ben do. „
X\', 108. Frate Egidio (II, 11, xi): " Lerciandosi e' panni laida
mente „; Albertano (III, xni): " Chi toccherà la pece sera lercio „.
XVI, 67. Chiaro {Anf. Rime volg., Ili, cclix):
Ove dimora e posa
Cortesia e valore?
X\'1I, 8. " Arrivò, in significato attivo, unico esempio questo
che in tale significazione rechino i Dizionari „. Su per givi lo stesso
aveva notato il Casini. CTr. Le Roììtan de Troie, 2194:
totes lor nes ( ils ) i arrivcrent,
e il Canz. Cìiig., 454: " A questo porto amor m' ha arrivato „. —
XVII, 39. " Mena, il continuo menar delle mani, ovvero la tresca
di esse „. Sembra strano al Poletto che tutti, " non esclusi i Voca-
bolari „, spieghino stato, condizione; ma pili di tutti resta egli lon-
tano dal significato proprio, che è costume, condotta, maniera. Onde
ser Brunetto, delle quattro figliuole della sua Imperadrice:
.... or mi parean tutt' una,
or mi parean divise
e 'n quattro parti mise,
SI eh' ognuna per sene
tenea sue proprie mene.
— 33 —
Guittone {Soi'eutc vegio) tra i mezzi di acquistar onore, poneva:
Far di sé bella mena
con vita adorna e gientc.
G. dall'Orto { Amore, i' prego):
non avrò in oblio,
qual hai ver me, signor, tenuta mena.
Si vegga neir EuschIioììicìi di G. Le Brun il ritratto ideale della
donna:
dels flancs e dels costats,
dels autres locs privaz,
deu esser d' aitai mena
com a tal loc covena.
E si consulti B. de Born ( Chaziitz ) :
Tant es d' amorosa mena ,
qua morrai, si no m' estrena
d' un doutz bais.
XVII, 121. Tutti leggono scoscio, e il Poletto commenta: " È l'atto
che fa r uomo per discender da oggetto su cui era a cavalcioni,
cioè aprir delle cosce, allargar le cosce; tanto è vero, che preso
di nuova paura, il Poeta dichiara tosto che si raccosciò, che
vieppiù strinse le cosce ai fianchi di Gerione. Vuol dunque si-
gnificarci, che avendo visto que' fuochi e sentiti que' pianti, co-
minciò a sentir paura del momento che arrivato laggiù, sarebbe
dovuto discendere di groppa a Gerione „. La frase, dunque,
fortemente ellittica, sottintenderebbe un pensando o un prevedendo,
In verità, mi parrebbe più logico ricongiungere //// più timido
con la rappresentazione, che il poeta ha già fatta, e non breve-
mente, del sentimento da lui provato al trovarsi " nell' aer d' ogni
parte „. Aveva avuto già grande paura; quando, sporti gli occhi
in giù, vide fuochi e senti pianti, ebbe paura maggiore di quella
di prima, e si raccosciò tutto tremando. Se raccosciarsi vuol dire
stringer le cosce, Dante avrebbe trovato un bel modo di prepa-
rarsi a scendere dalla schiena di Goriorie ! D' altra parte, che si
TORRACA 3
— 34 —
«.lebba leggere scoscio, come tutti ritengono, non giurerei. Quali
e quanti altri scrittori lo usarono? Osservo che otto codici, in-
dicati dal Moore, recano sfascio; poi, apro un volume della yhi-
tic/ic Rime volgari, (III, cclxxxvhi) e vi trovo:
Qual è più alto se gli dà lo stoscio;
ed è si ben lo scroscio,
si è mortale il colpo, e ciò conoscio,
non v' ha rimedio, si lo spengne tutto.
Xe apro un altro (V, cmv) e vi trovo:
Intenda, 'ntenda chi più montat' è alto
e pensi ben ciascun client' è lo scroscio:
faciendo di caduta poi Io salto,
non si trova rimedio in tale stoscio.
L' analogia di questi passi con quello di Dante è evidente, si
per il concetto, e si per le rime. Ora, ne' versi di Monte stoscio
una volta significa, se non erro, urlone, spinta; un' altra volta
mina, o l'atto di precipitar giù; tutt' e due le volte non si al-
lude all' atto di aprire o di allargare le cosce,
XVII, 128. Cecco Angiolieri: " Tornare' senza logro di
Paranoia „. Il Poletto giudica: " Nello stesso senso (di logoro)
i Francesi hanno Icnrre, e i Tedeschi ludcr. „ Veramente, luder,
in tedesco, vai quanto carogna in Italiano. " Dal latino Itidicrum „
non direi, nemmeno con un " forse „, trattandosi di caccia ve-
nutaci dalla Germania. — XMII, 114. Frate Giordano lxxiii:
" Non ha istalla né privado al mondo più puzzolente „. —
XVIII, 134-35. Secondo il Moore, non direttamente dall' Eunuco
di Terenzio, da una citazione di Cicerone trasse Dante la ri-
sposta di Taide. Fiore di Virtù, xvii: " Il savio signore ripren-
dilo quando egli falla, se tu vuoi avere grazia appo lui „. —
XIX, 37. " Garbatissima risposta „ ; ma non si direbbe, per non
risalire più indietro, traduzione d'un verso di B. Zorgi { Novt
laissarai) :
per que m' es bel tot aisso qu' a leis platz?
— 35 —
XIX, 113. Fiore di virili, xii: " Santo Cipriano dice: Gli avari
si possono propriamente chiamare pagani, i quali adorano gì' idoli
dell'oro e dell'aigento „. — XX, 97. Guittone, Sovvnle :
Però non mi riprenda
alcun omo, ma apprenda
e vcggia avanti più eh' io non gli assenno.
XXI, 42. Cecco Angiolieri:
parm' esser certo ch'ella direbbe: ila.
XXI, 45. Furo fu usato fuor di rima e in prosa, e ricorreva a
ogni momento su le labbra di que' lucchesi, di cui il Bongi rac-
colse le frasi ingiuriose per entro i protocolli criminali del Tre-
cento. — XXI, 48. Il Poletto per non ha luogo " intende sem-
plicemente: qui non e' e „ ; né sa " perché si voglia altrimenti „.
Ma consideri questo passo de' Fatti di Cesare ( I, xx ) : " Paura
non ha qui punto di luogo, che Cicerone nostro consolo è si
guarnito d' arme e di cavalieri, che non dovemo neuna cosa dot-
tare „, dove la prima frase traduce il latino di Sallustio {Bell.
CatiL, 51): " De timore, supervacaneum est disserere „. —
XXII, I segg. Folgore xvii:
F.l martidi gli do un novo mondo,
udir sonar trombette e '.amburelli,
armar pedon, cavalieri e donzelli,
e campane a martello dicer: Don do:
e sonar a raccolta i trombatori,
e sufuli e flauti e ciramelle....
Come ognun vede, con ragione il Poletto scrive di ceìinaniella:
" La voce aveva fin dai tempi più antichi forme diverse.,,; ma
ha torto di dubitare che fosse consuetudine generale usar lo
strumento in guerra. La Tavola Ritonda, cxxxv: " E venendo
r altro giorno. Io re Artù fa dare alle campane a martello, e so-
nare le trombe e cennamelle; e a quello suono, tutta la baronia
si prende ad armare „ ; dove il Polidori, da un registro senese
del 1325, pose la notizia: " Matheio di Cenino ciaramella {sona-
- 36-
tare ih) del Clioniune „. Il Y)c\ G\\xà.\ce [Una legge suntuaria e.cc.)
pubblicò un ordine di pagamento dato da Carlo duca di Ca-
labria, il 31 maggio 1328, a favore di Penino de Stella: " quas
solvit tubatoribus Civitatis Baronie et Tubatoribus Ccramellato-
ribus et aliis Istrionibus comestabulorum venientium cum gente
armigera de partibus Lombardie ad servitia nostra ecc. „ De'cor-
ridori e del loro ufHzio Egidio Colonna (III, ni, x): " In ciascuna
ischiera il prenze die mettare alcuna persona che sia iscorritore
sopra ad alcuno cavallo forte e possente, si eh' elli possa andare
innanzi e 'ndrieto, secondo che bisogno fusse, per iscontrare ai
nemici; che nullo male è si grande, quando l'uomo l'ha preve-
duto „. B. de Born, Be' vi platz — dell' attribuzione pare non si
possa dubitar più, dopo le considerazioni del Clédat e dello
Chabaneau — :
E platz mi quan li corredor
fan las gens e 1' aver fugir,
e platz mi quan vei apres lor
gran re d' armatz ensems venir.
In Firenze, quando s' era deliberato di far esercito generale,
si ordinava " quod pulsetur cotidie campana Comunis prò exer-
citu, secundum morem actenus observatum „, come si legge
nelle Consulte. — Nel testo, dopo l' apostrofe : O Aretini, si
dovrebbe porre due punti, o un punto e virgola, perché il se-
condo vidi non si riferisce ai corridori, bensi a gualdane, tornea-
menti, giostre, di cui non si può credere si facessero soltanto in
Arezzo, checché ne dicano il postillatore del Codice Caetani e
il Bianchi. — XXII, 15. Il verso, giudica esattamento il Poletto,
non ha relazione con luoghi biblici. Leggo nella Tavola Ritonda,
XXVI : " E quie si afferma la parola usata che dice cosie: Gli
mercatanti anno botteghe, e gli bevitori anno taverne, e'giuo-
catori anno i tavolieri; e ogni simile con simile „. Era, dunque,
modo proverbiale. — XXII, 85. Clii ha letto le rime di Guittone,
di Monte, di Cino, i Conti degli antichi cavalieri, e altre scritture
toscane anteriori alla Cotnrnedia, o contemporanee, non può a
— 37 —
meno di maravigliarsi a sentire ripetere che di piano sia frase
sarda. — XXII, 123. Credo abbia buon diritto il Poletto di
considerare proposto quale sinonimo di capo. A chi obbiettava
che, dunque, " Ciampolo prima salfò, e poi, dopo aver spiccato
il suo salto, si sciolse dalle braccia di Barbariccia „, il Casini
rispose bene: " Il poeta descrive queste due azioni come con-
temporanee, come avvenute in itii punto „. Aggiungerei: non fu
lo sciogliersi dalle braccia del diavolo conseguenza dello sforzo
fatto per saltare? Proposto per capo o governatore non s'incontra
solo nella Commedia. Fatti di Cesare, IX, xxxvii: " Elli lassò
uno proposto a la terra; „ lvi : " Elli stabili proposti in luogo
di pretori. „ 289. — XXII, 149. Pieraccio Tedaldi, vi:
Sono impaniato come tordo in pegola.
XXIII, IO. Fiore di l'irtiì, xxxvii: " Seneca dice: La cupi-
dità ecc., si come è finito un pensiero, l'altro si comincia „.
Perché ricorrere ai " giri concentrici, che del continuo sono
prodotti dal medesimo centro? „ — XXIII, 22. Tostamente non
solo " nella Vita Xiiova, „ ma anche altrove. Albertano, I, vi :
" E per lungo tempo pensa, e fa tostamente; perciò che la to-
steza fa la cosa graziosa „. — XXIII, 116-17. Dante s' era già
servito del consiglio di Caifas, adattandolo nel sonetto Chi
guarderà :
destinata mi fu questa finita,
dacch' uomo conveniva esser disfatto
perch' altri fosse di pericol tratto. .
XXIV, 14. In poca d' ora scrissero nei secoli xiii e xiv molto
più spesso di in poco d' ora; forse la prima lezione è la vera.
l'incastro usò il poeta, non solo qui e nel Purgatorio, anche
nelle liriche:
Com' più mi fere Amor co' suoi vincastri.
XXIV, 43. La spiegazione: " Quando fui su, la forza de* miei
polmoni era si esausta eh' io „ ecc., la quale il Poletto, senza
- 38 -
sottoporla ad esame, accetta da altri commentatori, offende la
Grammatica e il \'ocabolario. Del polmoìi non è un genitivo, un
complemento di specificazione; del sta per dal come nel verso 87
del XXI del Paradiso:
La cui virtù....
mi leva sovra me tanto, eli' io veggio
la somma Essenzia, della quale è munta.
Questo per la Grammatica; quanto al Vocabolario, lena italiano,
nel Duecento e nel Trecento, corrisponde al provenzale ales,
alena, al francese alane {lialcinc), 7-espiro, soffio, fiato. Quante
volte non fu celebrata V aulente lena di Madonna; quante volte
non fu asserito
che la pantera à 'n sé tale natura
eh' a la sua lena traggon gli animali!
Bisogna, dunque, intendere: " Quando fui su, avevo tanto poco
fiato ne' polmoni „ ecc. Guittone, Ai Dea :
a gran pena
agio tanto di lena
che for tragga di bocca la favella.
XX1\', 45. Bonagiunta da Lucca, son. Però clic sete :
e prego Dio che '1 mio frutto aggia saggio
che vi talenti nella prima giunta.
XXI\', 122. Ser Brunetto:
e piovvero in Inferno
in fuoco sempiterno.
XXIV, 127. Conti senesi, ix: " E si come elli la tenne per
levare, l'ostia se n' andoe si eh' elli non seppe che si facesse, si
li mucciò de le dita „. Roman de Roti, 372-3:
e ceo que il porter ne poent
en terre mucent e enfoent.
Nel Voyage de Charlemagnc à Je'rus. et Constant., Ogier pone
termine al suo gab affermando :
mult iert fols li reis Hugue, s' il ne se vait mucier.
— 39 —
XX\', ) segg. F. da Barberino, Doc. d'Ani, (sotto Doci-
Jilii, x\ Il ):
Quel, che leva
le mani a Dio spesso, bestemmiando
o d' altrui mal pregando.
Che il far le fiche " fosse proprio dei Pistoiesi „, credat jiidacus
A pel la.
E puote dir: Se Dio mi benedica,
tropp' ò del su' quand' i' 1" ò tra le braccia:
e facciagli sott' al mantel la fica,
insegna a Bellaccoglienza quella brava Vecchia del Fiore. Mezzo
secolo prima, a dir poco, D. de Pradas aveva minacciato ai falsi
lusingatori :
per mal de vos farai la figlia
als gilos.
Cfr. il Roììi. de Jan/re :
E '1 li fes la figa denant....
e non 1' en fes jes una sola
ans r cn a faiclias mais de tres.
XXV, 8o. Monte [ Aiit. Rime volg., Ili, cclxxxvi):
Ha si mortale istato,
che quanti son li ben per lui son cassi.
XX\', 138. " Parlare e sputare sono atti proprii e specifici del-
l'uomo „. Non v'ha dubbio, checché altri abbia fantasticato; ma
perché, mentre Buoso fugge zufolando,
r altro dietro a lui parlando sputa ?
Non, a parer mio, per dimostrare che è ridivenuto uomo, o, meglio,
ombra; e nemmeno in atto di disprezzo. Dove sarebbero andati
a cacciarsi l'alterezza, la dignità, l'orgoglio! E perché il Caval-
canti dice:
Io vo' che Buoso corra,
com' ho fati' io, carpon, jier questa valle?
Io voglio! dunque, sapeva di poter costringere Buoso a correre.
Se non ho le traveggole, la scena fu ispirata al poeta dalla ore-
— 40 -
denza popolare nelle virtù delle formole magiche, carmina, e dello
i>puto. Sappiamo da Plinio {Naf. Ilist., XXVIII, iv, 7) " hominum
vero in primis ieiuiiam salivam centra serpentes praesidio esse „.
Altrove Plinio stesso insegna (\'ll, 11, 15): " Et tamen omnibus
hominibus centra serpentes inest venenum, feruntque ictus sa-
livae, ut ferventis aquae contactum fugere. Quod si in fauces pe-
netraverit, etiam mori: idque maxime humani ieiuni oris „. Gior-
dano da Rivalto (ix) raccolse la superstizione, come pare, dal
popolo: " Onde dicesi di certe erbe Come dello sputo del-
l'uomo, eh' è veleno del serpente, ed all'uomo non fa male „.
Contro la podagra si recitava tre volte la formola : " Ve-
nenum veneno vincitur, saliva ieiuna vinci non potest „ e si spu-
tava tre volte. " Maxima est enim vis, quam tribuunt homines
superstitiosi spuendo; nulla paene actio magica sine saliva effici-
tur : terna despucre praedicatione in oinni medicina mos est atque ita
cffcctus adiuvare (Plin. XXVIll, 36); atque ita a Plauto [Capi.
550) " morbus qui sputatur „ commemoratur. (IIeim^ Incantam.
Magica). Fors' anche il poeta rammentava un'altra credenza
popolare, che prima di lui aveva raccolta Bartolommeo Zorzi
{At ressi) :
car r US tenetz del serpen
queis lonha del home nut.
Cfr. il Bestiario tosco-veneziano, 5: " E quando lo vede alcun
omo che sia nudo, si fuze (lo serpente) da lui instesso et à gran
paura. „
XXVI. 90 segg. " Non honestum consilium, at utile, ut aliquis
fortasse dixerit, regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus ,
cani nxore, cum filio. L'Uum tu decus in cotidianis laboribus et
periculis cum hac tranquillitate conferendum putas? Ego vero
istam contemnendam et abiciendam, quoniam, quae honesta non
sit, ne utilem quidem esse arbitror „. Da questo passo di Cice-
rone (De Offic, HI, 26), Dante potè trarre l'alto concetto di Ulisse,
che senza ambagi manifesta, pur condannandolo alla fiamma per-
petua dell' ottava bolgia. L' orazion piccola non la paragonerei,
— 41 —
come fa il Poletto, a quella di Enea {^Eii., i, 197-207: l'eroe
troiano consolava de' recenti mali i compagni, col ricordo di
altri più gravi e con la certezza dell'arrivo ai lidi latini; l'eroe
greco esorta i frati già vecchi e tardi a un viaggio, di cui non
può predire la fine, sol per amore di virtù e di conoscenza. Le
parole di Ulisse mi ricordano quelle di Alessandro nel poema di
P'ilippo Gualtiero, che Arrigo da Settimello, alla fine del secolo xii,
il cronista faentino Tolosano, nella prima metà del secolo xiii, co-
nobbero e adoperarono [Alcxatifi., x, 311 segg. ) :
Nunc quia nil mando peragcndum rcstat in isto,
ne tamen adsuetus armorum langueat usus,
eia, qttacraniHs alio sub sole iacentes
antipodnni populos, ne gloria nostra relinqual
vel virtus quid ine.vpertum quo crescere fiossit,
vel quo perpetui mereatur oanninis odas.
Ma, più probabilmente, Dante s' inspiro ai versi bellissimi di
Orazio [Epist. I, 11, 17-26):
Rursus quid virtus et quid sapientia possit,
utile proposuit nobis exemplar Ulixen,
qui domitor Troiae inultoritnt providus urbis
et ntores hontinum inspexit latunique per aeqitnr,
dum sibi, dum sociis reditum parai, aspera multa
pertulit, adversis rerum inmersabilis undis.
sirenum voces et Circae pocula nosti:
quae si cum sociis stultus cupidusque bibisset,
sub domina meretrice fuisset turpis et excors,
vixisset caiiis iuniundus vel antica luto sus.
XXVI, 136. Fa/ti di Cesare (I, xx): " S'avvidero che loro gloria
{laetitia) era tornata in pianto „. Toniar }^^x diventare, cambiarsi,
niiitarsi, è del provenzale. Basti un esempio. P. Vidal, Noju fai:
Quel jois d'amor torn' en planhs et en plors.
XXVII, 21. " Se la voce issa è da Dante messa in bocca a
un Toscano di Lucca (nel Purgatorio), per qual motivo dovrà
dirsi lombarda „? Non basta: la voce si trova, secondo la lezione
più probabile [Canz. Palat. 418, 53) in una danza del lucchese:
— 42 —
" \'oi pulzelle novelle, si belle, issa vo' intendete „. A Guido da
Monteteltro, romagnolo, vissuto troppo più a lungo nell' Italia set-
tentrionale e in Romagna che non in Toscana, le parole di Vir-
gilio — ma non il modo come questi le pronunzia — rammen-
tano, forse, le contrade d' Italia, ove era solito udirle, a preferenza
di altre. Aizzare è in un sonetto dantesco :
Sonar bracchctti, cacciator' aizzare.
XXVII, 83. Pcntnto e confesso e rendersi paiono, negli antichi
testi, Avino, Avolio e Ottone. B. Zorzi, Aissi:
e' aissi cum es de quant dieus voi grazire
rendutz, qu' estai penedens e confes,
dove è da osservare che rendutz significa frate; perciò la spiega-
zione migliore del verso di Dante può non essere quella del Po-
letto : " ritornai a Dio „. Non affermo che non possa essere,
altre volte, infatti, nel rendersi non è inclusa V idea del convento.
Tavola Rit., cxiv: " E Tristano vedendo ciò, si à grande
paura, e rendesi molto pentuto, e raccomandasi a Cristo croce-
fisso, e mette mano alla spada „. — XXVII, 129. Non credano i
giovani al Cesari, citato a questo luogo, che Dante si sia foggiato
di capo suo " questo suo rancnrare „. Non è certo, secondo al-
cuni, che da' provenzali passasse il verbo ai lirici nostri; ma cer-
tamente da questi passò a Dante. Chiaro Davanzati:
Di ciò pensando, temo e mi rancuro.
XXVIII, 22. " Veggia, botte (voce antiquata; però vezza o
vezzia vi sono ancora in qualche dialetto dell'alta Italia) „, Il
Casini aveva scritto: " voce arcaica rimasta viva in qualche dia-
letto dell'Italia superiore „. E lo Scartazzini: " voce d'origine
ignota.... Vezza e vezzia per botte vivono nel Bergamasco „. Sta
a vedere che Dante l' imparò quando si recò ad ossequiare Ar-
rigo Vii:
E quivi son le vegge del sapino,
dov' a vernaccia e greco ed alzur vino,
— 43 —
conta r Iiitilligoizia ( st. 69 ). Invri^ctarc valeva quanto imbottare.
" V'inuni invegetatum seu inibotatuni in burgo Levanti non possit
vendi ad minutuni „ trovò il Rossi {G/oss. uieiiiocvalc ligioc) in
un documento genovese. — XX\'III, 26. Cecco Angiolicri :
Se non gli secca 'I cuor e la corata.
XXN'III, 33. Fatti di Cesare, IX, xi.iv: " E' suoi capelli di drieto
faceva mettane avanti e fare ciuft'etto, si che.... li giacevano a la
fronte dinanzi „. — XX\'II1, 38. Tavola Rit., xcvn: " Io met-
teroe ai taglio della spada quanti cavalieri vi troverrò „. Accis»ia,
opina il Poletto, non può spiegarsi adornare, acconciare, abbigliare
per antifrasi o per ironia, perché " qui non ci può essere né an-
tifrasi, né ironia, non permesse dalla frase 5/ crudelmente „. Gli
deve essere sfuggito che il Zingarelli, con le parole di Maometto,
confrontò quelle di Griffolino:
è Vanni Schicchi,
e va rabbioso altrui cosi conciando.
XX\'III, 43. Musare dovrebbe essere accostato al provenzale
muzar e al francese muser. — XXX'III, 123. Semplice si, ed effi-
cace l'esclamazione di B. de Born; ma, nel modo come si pre-
senta, già usata in versi da Chiaro [Ant. Rime volg., III, cc.xvi ) :
che per tempo aspettare dico : O me !
e da Monte (Ivi, cclxxxix):
Ahi me lasso, ben ò che dire : O me !
XXIX, 46-49. Si confrontino con questi di messer Onesto da
Bologna:
Se li tormenti e' dolor eh' omo ha conti
fossero insieme tutti in uno loco.
XXIX, 85. Ancora messer Onesto:
ò troppo forte cosa
il donare di quel che 1 cor dismaglia.
XXIX, 138 Messer Onesto a messer Cino:
Siete voi, messer Cin, se ben v' adocchio ?
— 44 —
XXX, 43- /^'^""«^ (irlla tonna non vuol dire la uiigliorc ca-
valla, ne la più hrlla, se non errò il Passavanti nel Trattato della
Scienza: " E dicono che le donne della torma, che guidano l'altre,
sono Erodia che fece uccidere san Giovanni Batista e la Diana
antica dea de' Greci „.
XXX, 53. Convcrtr non vuol dire, qui, né assiiuila, né rivolge
a lunghi dove non dovrebbe, se non errò frate Giordano (lix.):
" L' idropico, quanto più mangia e bee, quegli omori si corrom-
pono tutti e convertonsi in mali omori flemmatici „. — XXX, 102.
Il più comune de' significati di croio, presso i nostri antichi e
presso i Provenzali, è spregevole, vile.
XXXI, 4. Non mi pare spiegato bene od' io: " Intesi narrare
dagli antichi poeti „. Erano frequentissime le allusioni alla lancia
di Peleo nelle liriche provenzali e nelle italiane. Uno de' due ri-
matori faentini ricordati nel De Viilgari Eloqiientia :
a Pelleus la posso assimigliare
feruto di sua lancia ;
non guerrìa mai s' altr' ore
con ella il loco no lo riferisse.
Altr' ore penso di dover leggere col Nannucci ( il codice Pala-
tino 418: altror), non altrove, come leggono altri, perché la lancia
non poteva esser cagione " di buona mancia „ se non ferendo
proprio là, dove prima aveva ferito. Forse messer Tommaso co-
nobbe e fuse insieme entrambe le lezioni del paragone di B. di
Ventadour, che traduceva: si autra vetz e si per cis loc no s' cu
fezcs ferir. Anche alle menzioni di Dedalo, di Narciso, della fe-
nice, e a qualche altra, Dante potè essere condotto da remini-
scenze di scritture in lingua d' oc e in lingua di sì; con questo
non nego eh' egli le rifoggiasse su gli esemplari classici.
XXXIII, ij5. " /)/^/;'o wn'wrwa/ sta ghiacciata, gela qui dietro
a me „. Va da sé; ma che vale propriamente vernare in questo
luogo? Era opportuno dirlo qui, non nel commento al canto xxx
del Paradiso. Un sonetto di Dante contro Forese comincia:
Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
— 45 —
potrebbe dir che la l'osse vernata
ove si fa '1 cristallo in quel paese.
Tra parentesi, meglio che da un proverbio riferito nella Cronaca
del Villani, 1' ultimo verso di questo sonetto riceve lume dal di-
scorso della madre di madonna Sismonda nella novella del Boc-
caccio (vu, 8): " Ti potevano cosi orrevolmente acconciare in
casa i conti Guidi con un pezzo di pane „. — XXXIII, 150.
*' L' esser villano, mancando alla data parola, fu cortesia verso di
lui, che, per traditore si meritava ben peggio „. Credo si debba
ordinare in altro modo la frase: ed essere villano a lui fu cortesia.
Forse passò per la mente del poeta quel di Ovidio { Melani.,
VI, 633):
.... scelus est pietas in coniuge Tereo;
o un motto popolare, che Garzo aveva incluso tra i suoi pro-
verbi: " Villania in cui regna Cortesia lo disdegna „, o una sen-
tenza di Guittone {Altra fiata, 126):
e se languisse a morte,
crudele essere lui merzede tegno.
L'imperatore Federico II ( P. de Vineis Epist. V, 11): " instar
enim pietatis est, in huiusmodi sceleris correctione fuisse cru-
delem. „
G. d' Uisel, Ben f eira:
car egalmen s' ataing a cortesia
e' om fassa enoi als enoios quii l'an.
E Lanfranco Cigala, Ges ev non sai:
.... segon dreg non es ges traimenz
trair trachor; qu' aissi tot engalmenz
com es trair son amie malvcstatz,
es son trachor trair pretz e bontatz.
XXXI\', 98. Burella, ai tempi di Dante, era, in Firenze, il nome
di una prigione, ricordata non di rado nelle Consulte ( " Super
expendendo libras l in reparatione carcerum Burelle et Pal-
eacze „ ; " proposuit dominus G. potestas de locatione Borelle „).
-46-
Il nome proprio diventò presto eomune. Avendo innanzi il testo
del Roiiuiii de la Rose, dove è scritto :
Si convient quc de prison saille,
l'autore del Fiore fece dire dalla \'ccchia (clxxxv):
e torni suso
e tragga 1' altro fuor della burella.
II.
Purgatorio, I, 7. All' autore sembra bella e vera 1' osserva-
zione del Cesari: la luce di Venere non era tanta da coprire la
costellazione de' Pesci; " questo velare, non tanto il prese Dante
per figura da velo, quanto dal velare che i pittori fanno i lor
quadri „. Non so se sin dai tempi di Cimabue e di Giotto si
usasse condurre sopra i quadri quella " tempera di colore assai
lieve, che a modo di velo trasparente ne lascia veder le figure
di sotto, con piacevole temperamento di quel nuovo colore „, so
che nel Convito (II, xiv) si legge della stella di Mercurio: " Più
va velata de' raggi del sole, che nuli' altra stella E (la Dialet-
tica ) va più velata che nulla altra scienza, in quanto procede con
più sofistici e probabili argomenti, più che altra „. — In una nota,
alla fine del canto, sono raccolti dal Convito e dal De Monarchia
i giudizi di Dante su Catone: Catone, liberato dal limbo quando
Cristo vi discese, salirà dopo il giudizio finale al Paradiso, perché
il poeta lo ha imaginato " illuminato della fede in Cristo „, non
vedendo più in lui il suicida, " ma l'uomo dalla rigida virtù, anzi
il più virtuoso di tutta quanta 1' antichità, che per amor della li-
bertà morale aveva fatto getto della vita „. L' ammirazione e la
venerazione per 1' Uticense nacquero nel poeta dal solo studio
degli scrittori antichi, o concorse a generarle una qualche tradi-
zione scolastica leggendaria? Sarebbe da ricercare. In una rozza
scrittura, certamente anteriore alla Commedia, vedo attribuita a
S. Agostino, severissimo giudice di Catone, un' opinione molto
— 47 —
ili versa da quella del santo vescovo, e, per ciò stesso, non
molto diversa da quella del poeta. " L'nde santo Augustino,
sovra la morte tale de Catone, disse che la morte d' om tale
come Catone, che convenevole era asciitpio dovesse essere e fitsse,
a quelli ch'erano lora e deveano venire, sempre de volere franchi
pria volere morire che vivere servi e sotto signoria „. Cauli di
.hd. Cai'., XVI. — I, 13. .1 Lapidari, del zaffiro:
Kar il est clers, et sa bealté
semole le ciel et sa clarté....
Ali pur ciel samblent li pluisor
d" oriant qui getent luisor.
11 Notar Giacomo: " Ca s' este orientale Lo zaffiro assai più vale „.
II, 52. F. da Barberino, Reggini. (V, xxi): " Sta donna Non
dee mostrar d' esser tropo maestra. Anzi selvaggia e nova Sé ri-
trovando neir ovre d' amore. „ Cfr. Cino, Lo grati disio:
Selvaggia n' è '1 bel nome,
né fuor di soa proprietà lo tiro,
s' ancor vo' dir selvaggia, cioè strana
d' ogni pietà, di cui siete lontana.
E cfr. Ser Nofìb d' Oltrarno, La dilettanza. — II, 122. Non è ne-
cessario scendere fino al Poliziano, né ricorrere al Crescenzi per
trovar esempi di scoglio nel senso di pelle. Lapo Gianni, Novelle:
" Lo scoglio di doglienza Ave gittato come face il cervo. „ Al
tempo di Dante viveva anche il verbo discogliare: in un contrasto
tra G. Orlandi e una donna, questa dice:
perché la bona spera
fermat' ho nel coraggio,
per simigliare serpe che discoglia.
Ili, 27. " Brandizio ; Brindisi, che i Lat. appellavano Brnndti-
siuni e Briindisiiitu „. E che i contemporanei di Dante chiama-
vano Brandizio in Italia (Lntelligenzia, 121: " Partisi allora ed a
Brandizio gìo „ ), Braiidis in Francia, Branditz in Provenza.
— Ili, 126. Cfr. Palamidesse, Ant. Rime volg., IV, dcxcix:
Or legga un' altra faccia del Saltero.
-48-
111. 135. Se la lezione fuor del verde non è " convalidata dai ma-
noscritti „, perché accogliere le chiose, alle quali dette occasione?
E, accogliendole, perché non correggerle e compierle? La novella
del Sacchetti, dove è menzione del verde delle candele, è la xii;
alla tarda testimonianza del Daniello si può aggiungere quella
d' un contemporaneo di Dante (Cane. Clu'i^., 410):
Sì se' condoli' al verde, Ciampolino,
che già del candellier hai ars' un poco ;
a mal tuo grado rimarrai del gioco,
poi r han condotlo si' dadi del Mino.
— IV, I-I2. Roììi. de Flamenca, 2380-91 :
E lui li sen aii tal usage
qne se 1' us formis so message
r autre de re non s' entremela,
mais tota s' ententio meta
a lui aiudar e servir
si que lui aion un consir;
e per cesta rason s' ave
qui pessa fort que meinz ne ve,
men sen e men parla et au,
et ja noi toc hom trop suau
cel colp non sentirà ne geis;
zo ve chascus per si meteis.
Ristoro, II, i: Nonché a molte cose, ma pur a due non può
intendere una volta, né 1' anima dell' uomo, né quella della bestia;
però che stando uomo attento a udire non vede; e se l'uomo
mira ben fiso come 'I dipintore, suona la campana e non 1' ode, e
non se ne addae „. Giordano da Rivalto (xl): " Quando il
pensiero opera forte in alcuna cosa o in alcuno luogo, non vedi
quello che ti passa dinanzi agli occhi; perocché l'anima nostra
non è di grande vertude, che possa intendere a due cose; ma
quando intendi bene a una e èvvi bene astratto, si perde all'altra;
e però non vede, né ode, né sente cogli altri sensi „. — V, 37.
L' espressione vapori accesi " si riferisce naturalmente ad ambedue
i fenomeni delle stelle cadenti e dei lampi tra le nuvole d'Agosto „.
Naturalmente, perché rispecchia un' opinione de' tempi di Dante.
- 49 -
Ristoro d'Arezzo (\'II, ii): " Questo (vapore igneo) infianinian-
tlosi e facendo fuoco e fuggendo, va facendo roniore entro per
lo vapore acqueo.... e vedemo la fiamma, la quale noi chiamiamo
baleno.... La folgore è vapore igneo „. E (MI, v): " Vedemo la
notte correre entro per l' aere fiamme di fuoco, e dissolvere e
venire meno. E alquanti non savi credono eh' elle sieno stelle,
che caggino del cielo e vengano meno.... E la cagione di questa
fiamma può essere secondo questa via: che stando l'aere asciutto
e secco, per lo calore s' infiamma lo vapore nell' aere, e corre lo
vapore infiammato entro per 1' aere „. Su per giii lo stesso in-
segnava a' suoi ascoltatori G. da Rivallo [PrrcL iiicd., xxxii).
— V, 100-108. " E la parola ecc.; 1' ultima parola che dissi fu il
nome di Maria da me invocato in quella distretta; atto suprema-
mente bello, e invenzione degnissima dell' amor di Dante a Maria,
che ecc. „ Che 1' atto di Buonconte sia supremamente bello, vo-
glio ammettere; che l'invenzione sia di Dante, no, perché Dante
non fece se non giovarsi, com' egli sapeva, di una credenza co-
mune, della quale si posson trovare documenti nelle tante raccolte
dei Miracoli della Madonna. Rispetto alla lagrimetta, meglio di un
passo di S. Agostino, troppo indeterminato, calza a proposito
questo di Giordano da Rivalto, iv: " E qui, cioè in questo
mondo, solo una lagrima che vegna di buon cuore, di contrizione
di suoi peccati, è di grande virtude; che spegne e disfà il pec-
cato, e quanti n' avessi, e scampati dalle pene del ninferno, e
merita vita eterna „. — V, 109-114. Sarebbe stato utile avvertire
che timido, detto di vapore, non è un riempitivo^ è la parola
propria, perché gli antichi distinguevano il vapore umido o acqueo
del vapore aereo, dal terrestre, dall' igneo. Tra le varie spiega-
zioni proposte de' vv. 112-114, il Poletto preferisce, come la più
semplice, quella del Lombardi, la quale si fonda sul presupposto
falso che il diavolo possa qualche volta aver bisogno di farsi
venire, di fuori o di dentro non so, il mal volere. Dire: — il dia-
volo accoppiò la cattiva volontà con l' intelletto, a bella posta,
per sfogare l' ira sua sul cadavere di Buonconte — , significa non
vedere che Dante ha espressamente notato, del diavolo : Pur mal
TORRACA. I
— 50 —
chiede, solamente il male, sempre il male. Io credo che i due
verbi glitnsc e mosse debbano stare insieme in figura di chiasmo:
// diavolo (quel mal volere, che chiede solo male) radunò il va-
pore e mosse il vento. Potrei anche accettare la costruzione :
accoppiò e mosse il vapore e il vento, se non mi costringesse
ad attenermi all' altra il rispetto dovuto a Torquato Tasso. Il
quale parafrasò i versi di Dante a questo modo ( Genis., \\\,
st. 114Ì:
Ma la scliiera inlcnial
sendole ciò permesso, in un inonuii/o
r aria in nube restrinse, e )nosse il vento.
L' inciso con l' intelletto è spiegato dal terzetto precedente, al
quale non si è posta sufficiente attenzione. Oh, qual bisogno aveva
Buonconte di fare a Dante una lezioncina di meteorologia? Dante
sapeva — e Buonconte lo dichiara, non per mera cortesia — come
il vapore si muti in pioggia; perché, dunque, dirglielo? Perché
il vapore, che si converti nella pioggia, per la quale gonfiatosi
r Archiano trascinò il corpo all' Arno, non si raccolse secondo
le leggi naturali; ma per volontà del diavolo, il quale, d'altra
parte, non ebbe ad affaticarsi materialmente a raccoglierlo, ba-
standogli a ciò un suo comando. Tanto è vero, che anche gli altri
fenomeni sono attribuiti alla volontcà del diavolo: egli copri di
nebbia la valle, egli fece intento il cielo di sopra. Ristoro, VII, iv:
" Dacché gli elementi di sé non si possono muovere, né fare
generazione, né altri accidenti, se non per la virtù del cielo, e' tro-
veremo ingenerato e mosso, e impulsare in una contrada una ope-
razione terribile di vento, lo quale diradicherà li alberi, e farà
grandissimi accidenti, e gli elementi di loro noi possono fare, se
non Io fa d' essi altra virtude „. Il giorno della battaglia di Cam-
paldino, alla vii'tù del cielo si sostituì quella del diavolo. Per
r ultimo verso si confronti la Vita Nuova „ ; " Amore.... cominciò
a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria, /><?;-/« z'/r///
che gli dava la mia imaginazione, che mi convenia fare compiuta-
mente tutti i suoi piaceri „.
\'I, 20. " Inveggia; voce antiquata, invidia „. CtV. G. Guinizelli,
Tcgìiol, st. 4" :
onde '1 giorno ne porta grand' envcggia.
E Cecco Angiolieri, Da te:
perché del mio v" inveghi pili che Mino.
Fu scritto anche invcggimìicìito.
\'I, 149-51. La similitudine dell'inferma è parsa a taluno imi-
tata da una canzone attribuita a P. della Vigna e a Stefano di
Messina :
e piango per usagio
come fa lo malato
che si sente aggravato
e dotta in suo coragio,
che per lamento li par spesse fiate
li passi parte di ria volontate.
Però, in questi^ e ne' versi di A. di Maroill, che questi parafra-
sano, il malato si lamenta soltanto; invece l'inferma di Dante
non può trovar posa in su le piume,
ma, con dar volta, suo dolore scherma.
Se Dante ebbe, qui, bisogno di ricevere ispirazione da altro scrit-
tore, e non bastò a dargliela Arrigo da Settimello (I, 187 segg. ),
gliela potè oflVire Peirol {Pos de lìion joi):
pero se remuda
malautes, car mieills cuda
en autra part garir.
Vili, 19-21. Dichiara il Poletto: " A me parrebbe, come parve ad
altri, una cosa abbastanza strana e poco men che inesplicabile in
cervello sano prendere un tuono tanto cattedratico e dire al mio
uditorio: Aguzzate l'intelletto, state bene attenti, perchè qui la cosa,
die debbo dirvi, è facilissima ad intendersi. Io invece intendo tutto
al contrario; intendo che il Poeta, conscio che lo scernere a prima
giunta certe verità nascoste sotto il velame dell' allegoria, non è
da tutti, avverte con serietà il suo lettore a starsene bene attento.
— 52 —
perché la cosa importa, dacchc facilmente, per la sua sottigliezza,
potrebbe essere non ravvisata, e il lettore potrebbe passar oltre
senza badarvi „. Bisognerebbe provare che, scrivendo fiurpnssar
di'fifro, il poeta volesse intendere passar olire con 1' aggiunta del
senza badarvi; bisognerebbe provare che la cosa velata sia, se mi
si permette lo strano aggettivo, non meno Irapassabile del velo.
Certo, il poeta dice sottile il velo, non la cosa velata ; 1' allegoria
non il senso di essa. Il Poletto sente il tono cattedratico perché
attribuisce all' imperativo aguzza e a tutta la frase senso più grave,
maggior valore che, in verità, non abbia. Appunto perché il velo
è leggerissimo e 1' occhio può subito e facilmente cogliere sotto
di esso la verità, a questa guardi il lettore, più che al velo; non
essendo mestiere fatica nella sposizione dell' allegoria, badi alla
sentenza ( Convito, IV, i). Le parole sono proprio quelle di Ca-
pocchio:
aguzza ver me 1' occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda;
nelle quali nessuno s' è mai sognato di trovar tono cattedratico.
Che trapassar dentro (non oltre) il velo sia facile, lo mostra bene
il Berardinelli, del quale accetta l'opinione il Poletto: " Quanto
al significato, apparisce chiaro „ ecc. ; " la cosa è chiara baste-
volmente per sé „ ecc.
Vili, 45. Cfr. Barberino [Reggini., Ili, iv, 7): " Et la giente
che sciese poi di costoro è stata sempre molto gratiosa ap-
presso di qualunque è stato Re „; Libro de' Sette Savi: " Fiemi
molto gratioso essere io quello che possi dire „ ecc. Perché alle
anime della valletta sarà cosa assai gradita vedere Dante e Vir-
gilio? si domanda il Poletto, e risponde: " Sordello sapeva che
i due viandanti sarebbero stati graziosamente accolti da quelle
grandi ombre, perché Virgilio era famoso; e in quanto lor gloria
(dei poeti?) è frutto del ben fare e del sapere, è lume di Dio, e
perciò dee tornar degna di riverenza anche all' altro mondo „.
A farlo apposta, Sordello non presenta Virgilio alle grandi ombre;
ne' colloqui con Nino Visconti e con Corrado Malaspina, dell'esser
— 53 —
egli poeta, Dante non parla mai I Perché sarebbe stato a quelle
anime grazioso vedere i due viandanti? Verrebbe voglia di rispon-
dere: Dio buono! Stavano li da tanto tempo senz'aver veduto
facce nuove! — Vili, 114. Il soniiiio siitallo, a parere del nostro
autore, è il cielo, non la vetta del Purgatorio; ma le sue ragioni,
desunte da un altro luogo del Piti-i^atorio, valgono poco, perché
nessuno iia detto a Corrado ciò, che Dante dice a Marco Lom-
bardo: " Dio vuol che io veggia la sua corte „. — Vili, 1 15-129.
Cfr. Tav. Ril., lui : " Sire, novelle vere v' apporto, assai grandi
e maravigliose certamente „; lvu: " Noi siamo di lontane con-
trade e non fummo già mai in questi paesi „. Il Poletto nota:
Ei; è certo riferito a' paesi, e ciò richiede la sintassi; non si ca-
pisce perché lo Scartazzini e il Casini vogliano riferirlo ai pa-
renti di Corrado, come idea anticipata; dei parenti chiaramente
si parla dopo „. Però Corrado aveva già accennato ai suoi. I paesi
palesi non è modo di dire semplice e d'uso; pure, l'asserzione,
che segue: " La fama.... grida la contrada „ sembra dare ragione
al commentatore. — Vili, 131. Il soggetto non è capo reo, è
mondo: " benché il mondo volgendo gli occhi alle cose transi-
torie, vada per via storta.... e il senso non solo torna piano, ma
contiene chiaro e necessario confronto fra la casa Malaspina, che
andava per via diritta e verace, e il resto del mondo „. Sarà;
ma tra le altre spiegazioni, con quella, che intende " Roma capo
del guelfismo „, avrebbe dovuto trovar posto questa: " la curia
romana „.
I/>sa caput mundi venalis curia Papae
prostat, et infirmai cantera membra caput.
Sono versi di A. da Settimello (III, 199), a' quali volendo, si
raccoglierebbero innumerevoli riscontri nella poesia satirica dei
secoli xn e xiii.
IX, 1-9. La concubina di Titone antico, secondo il Poletto, è
r aurora solare sorgente all' estremo lembo orientale del Purga-
torio; il freddo animale, la costellazione de' Pesci, con la quale
nasceva " e doveva nascere „ I' Aurora, perché il sole si trovava
— 54 —
in Ariete; i passi con che sale la Notte, le liiiiuìc o rrr.sr del Zo-
liiaco; l'ora iiiJicata dal poeta, le iimliei (^ un quarto di notte. In
sostanza, egli adotta 1' opinione del Mossotti, confutata vittoriosa-
mente in più parti dal Ponta. Or, se tutto ciò è vero, non s' in-
tende perché il freddo animale, nell' indice dell' opera, si trovi
registrato sotto la parola scorpio; ma come può esser vero, se
prima non si rimuovono le gravi obbiezioni del Moore ( Tiiucs
Rcfcr. ili the Div. Coiitni.): Freddo animale al singolare è im-
proprio, r allusione alla coda del pesce è ridicola, la costella-
zione de' Pesci non ha stelle cospicue, perciò la bella descrizione
del verso 4 non avrebbe senso?
Agli argomenti recati dal Moore per dimostrare che il freddo
animale sia proprio lo scorpione, si possono aggiungere alcuni
altri. Dante, asseriscono, non poteva mettersi in contraddizione
con \'irgilio, il quale disse ardens lo scorpione; ma, lasciando
qui di ricercare il significato esatto di questo ardens, che per al-
cuni è cupido, bramoso (a sentire Virgilio la costellazione dello
Scorpione si contraeva per lasciar posto all'astro di Ottaviano);
Dante poteva bene non accettare un' opinione di \''irgilio, se di
opinione si tratta, per attenersi alla scienza del tempo suo. La
scienza, per bocca di un maestro, che Dante stimava moltissimo
(Alberto Magno, De aniiìialibus, xxvi), classificava lo scorpione
tra gli animali senza sangue, freddi: " Et quia talia frigida sunt „!
Secondo la scienza del tempo, chi ben guardi, il poeta prima in-
dicò la classe {freddo animale), poi l'individuo [che con la coda
percuote la gente). Alberto Magno empi quasi mezza colonna enu-
merando i malefici effetti della puntura dello scorpione, o, per
parlar più preciso, della coda, giacché " non potest fern^e, nisi ad
dorsum in modum arcus caudam recurvet „. Anche oggi quella
puntura è temuta; ai tempi di Dante sembra fosse proverbiale il
motto: " Lo scorpione lusinga con la faccia e con la coda
punge „ {Fiore di virtù, xiv; cfr. G. Faidit, Motit a amors :
" Mas r usatge de 1' escorpion te, Qu' aucei rizen „). Se-
condo la Mitologia, lo scorpione del Zodiaco è trasformazione
di quello, che {non ego, non primus, veteres cecinere poetae) punì
— DD —
Orione colpevole di aver tentato di violare, o di aver violato
Diana.
Horrct vulnus adhuc et spicula tincta vcnciio
flebilis Orion,
racconta Germanico ul-W Aratcn, ed egli stesso, altrove, spiega
la frase:
et scorpion ultima cauda
spicula torquentem.
Orione fu, dunque, percosso dalla coda dell' aracnide. Lo Scartaz-
zini giudica usata molto impropriamente la parola percossa a si-
gnificare la ferita prodotta, dice lui, tlal pungiglione ; perù se il
vocabolario non mentisce, i latini usarono ictus nel senso di
colpo o di percossa, e non solo i poeti scrissero : acri scorpios
ietti, accr et ictu scorpios {Astrott., II, 213,236), anche il maggior
naturalista latino scrisse {Ilist. ìiat., XI, xxv, 87): " semper cauda
in ictu est, nulloque momento meditari cessat, ne quando desit
occasioni. F'erit et obliquo ictu et inflexo „. Plinio stesso (XXVIII,
X, 155) raccolse la credenza che, chi voleva guarire della ferita,
doveva all' orecchio di un asino confessarsi perctissum a scor-
pione ('). Se, infine, ricordiamo le influenze alla costellazione dello
Scorpione attribuite, vedremo, anche per questo rispetto, perspicua
e propria l'espressione dantesca. Secondo Manilio (IV, 217):
Scorpios armatae metuendus cuspide caudae
qua, sua cum Phoebi currum per sidera ducit,
rimatur terras, et sulcis semina miscet,
in bcllum ardentes animos, et Martia corda
efficit, et multo gaudentem sanguine Syllam ;
e, dopo parecchie altre imputazioni dello stesso genere:
tantus amor pugnae, discuntque per otia bellum,
et quodcumque nepse studium producitur astro.
Manilio e gli altri maestri di astrologia assegnarono lo Scorpione
al pianeta di Marte, perché " il reo desidera di stare col reo „.
(') Cfr. Hist. ìiat., XXVIII, ni, 32; " rursus a scorpione aliquando per-
cussi „ ecc.
Ristoro di Arezzo, del quale sono queste parole, e elle — si
rammenti, — seriveva nel ]282, ei ofìVe il più chiaro commento
del verso dantesco: " E lo scorpione è rio e velenoso, ed uc-
cide altrui, ed ha dietro imo coda Inni^a, loscosa, col pnngelloiic
in sommo, per fedire e per pugncre a iradiiìiento „ ( Comp. d.
Moììdo, 111, ni).
Il Poletto crede che al momento, di cui Dante discorre, l' au-
rora solare spuntava alle Colonne d' Ercole; ma io non comprendo
come possa conciliare questo con altri dati astronomici da lui
ammessi senza discussione.
Solem quis dicere falsimi
audcat ?
Se, quando il sole spunta nel Purgatoi'io, tramonta a Gerusa-
lemme, è mezzanotte al Gange e mezzogiorno alle Colonne; se
quando al Purgatorio è mezzogiorno, la notte comincia " a sten-
dere la sua ombra „ al Marocco; è chiaro che, quando il sole
tramonta al Purgatorio, a Gerusalemme spunta 1' aurora, è mez-
zanotte al Marocco, è mezzogiorno al Gange. Lo disse Dante
stesso al principio del canto XVII della seconda cantica. Al tra-
monto, e subito dopo, mentre " 1' aer s' annerava „, Dante, nella
valletta dell' Antipurgatorio, riconosce Nino di Gallura e comincia
a discorrere con lui. Il colloquio è interrotto dall' apparizione
delle tre facelle, della quale dà breve spiegazione Virgilio, e dalla
venuta del serpente, che gli Angeli discacciano. Quindi il poeta
è interrogato da Corrado Malaspina, gli risponde, e da lui ode
una profezia. Tutte queste " circostanze „, a parere del Poletto,
si seguirono in tempo non minore di " circa quattr' ore „. Vera-
mente, posto che d' aprile il sole tramonta alle 6,24, se Dante si
fosse addormentato alle 11 e qualche minuto, le circostanze si
.sarebbero seguite in piii di quattro ore; ma chi vorrà credere sul
serio necessario tanto tempo perché avvenisse ciò, che egli racconta
— pure riferendo i suoi colloqui con le anime — in trenta terzine?
Mentre al Purgatorio, come abbiamo veduto, il sole tramon-
tava, a Gerusalemme spuntava 1' aurora. Due ore e mezzo dopo
- 57 -
( la notte aveva fatto due passi " e il terzo già chinava in giuso
r ale „ ) r aurora aveva percorso 37 gradi e 30 minuti circa e
perciò, s'imbiancava al balzo d'oriente, ({'Italia, non dell'emisfero
australe ; d' Italia, che secondo la geografia dantesca, dista da
Gerusalemme 45 gradi ('). tra d' aprile, " stando lo sole nel segno
di ariete „, quando — dice Ristoro - il sole " venendo la mat-
tina di sotto terra, non sale al diritto per gir su all' orizzonte,
anzi viene a schincio allato all' orizonte poco sotto terra.... si
che '1 suo splendore allumina quello orizonte sopra terra grande
spazio di tempo, anzi che '1 sole sia sopra terra „. Per conse-
guenza, mentre al Purgatorio erano due ore e mezzo di notte,
pallida....
Tithoni croccum liiiqucns Aurora cubile,
al balzo d' oriente, in Italia, s' imbiancava. Giova rammentare il
verso di Virgilio ai difensori à^W aurora lunare e al paladino di
Titano aìilico; ma piti giova notare la corrispondenza di s' ini-
hiancava a pallida.
" Il segno che sorge e cade col sole, sta sempre nascosto „,
sappiamo da Macrobio, ed anche: " quando il sole tramonta in
Ariete, subito vediamo sorgere la Libra, e il Toro apparisce vi-
cino air Oceano. „ Ma essendo — uso le parole del Poletto — la
^Libra " diametralmente opposta all' Ariete „, ne segue che, quando
il sole sorge in Ariete, la Libra tramonta.
Occiduusque aries spatium tempusque cadendi
quod tenet, in tantum chelae consurgere perstant,
dice Manilio (III, 292-93), e Germanico (630-33):
Nam si Phaebeos currus, dura longa venit nox,
occasu sequitur, rursus fugit oceanum ortu
crune simul chelis fulgens ;
ossia (cfr. M. Capella, Vili, 844 segg.): l'Ariete sale per un'ora
e venti minuti, discende in due ore e quaranta; la Libra sale per
(1) Questa opinione è stata sostenuta anche dal Cipolla nel Giorn. storico
^ella Leit. Hai.
diu- ore e quaranta minuti, cli>;cendc in un' ora e venti minuti.
Perciò, al sorger dell'aurora in Ariete, questa costellazione scom-
pare, e si vede alla parte opposta dell' orizzonte la Libra.
E che ha, tutto questo, a vedere con lo Scorpione? Rispondo
subito: la Libra e lo Scorpione sono tutt' uno, perché la Libra
non è se non parte dello Scorpione. Macrobio, nel passo allegato,
avverte [In Sonni. Scip., I, xvni): " Libratn, id est Scorpii
cìiclas; „ Marciano Capella (Vili, 839) insegna: " Zodiacus....
aequales duodecim signorum integrat portiones, sed undccim habet
sigila: Scorpius enim tam suum spatium corpore quam chelis oc-
cupat Librae, cuius superiorem partem pedes Virginis occupant,
viaiorcm vero Scorpius, denique chelas — quam Libram dicimus,
— quidam dixere Graii „. Anche Germanico, una volta o due, passa
dalla Vergine allo Scorpione senza menzionare la Libra:
Hinc Nemaeus erit iuxta leo ; tum pia virgo;
scorpios hinc duplo quam cctcra possidet orbe,
sidera, per chelas geminato lumine fulgens.
Le quali parole ci permettono di figurarci la bionda testa del-
l'Aurora adorna come di due mezze lune di brillanti, mentre era
difficile, prima, figurarcela adorna d' un monile in forma di scor-
pione. Dice lo Scoliaste di Germanico: " Scorpio habet stellas
XIX : in singulo cornu binas, primas maiores, insequentes claras'
et obscuram unam, in fronte ni quarum una clarior in media, in
dorsum in clarae, in ventre duae, in cauda v, in aculeo iv,
summa x et novem. Ex his priores, fjiiae siiiit in coniiòi/s eiiis iv
duae clarae duae obscurae, Librae adsignantnr fjiiae Chela: dicuntur „.
Il IO aprile il sole ha già percorso due terzi della distanza,
che separa il primo punto dell' Ariete dal primo punto del Toro,
e perché quando il sole sorge in Toro si vede tutto lo Scorpione,
credo che il io di aprile Dante poteva imaginar visibili, con le
stelle anteriori di esso, anche le altre; tanto pili che la riforma
gregoriana era ancora di là da venire.
Si dirà: conosceva Dante codesti scrittori? Certo, che io
sappia, non citò in alcuna delle sue opere Macrobio, ma ho in
— 59 —
animo di dimostrare che non l'ignorava; certo, non citò Ristoro
di Arezzo, ma ricordò Alfragano e Alcazel, su i quali Ristoro
aveva mietuto per la sua bella compilazione; però conosceva
Virgilio, e nelle Groii^ichr (I, 32-35) aveva letto:
anne novom tardis sidus te mcnsibus addas,
qua locus Erigonen inter chelasque sequentis
panditur ( ipse libi iam bracchia contrahit ardens
Scorpius et cali iusta plus parte relinquit);
conosceva Lucano, e aveva letto nella Farsaglia (I, 658-60):
tu qui llagrante minacem
Scorpios incendis cauda, chelasque peruris
quid tantum Gradive paras ?
Bracììia die chele! insegnava una delle tante opere grammaticali
del Medio Evo. Infine, Dante conosceva le Mclaìiiorfosi, e vi
aveva letto (II, 195 segg. ):
Est locus, in geminos ubi brachia concavat arcus
Scorpius, et cauda flexisque utrimque lacertis
porrigit in spatium stgiiormii iiteinbm duortim,
che in buon italiano vuol dire:
Evvi un lungo nel elei, dove le braccia
lo Scorpion ricurva in getnin'arco,
e il vasto spazio di due segni abbraccia
e coda e branche ripiegando in arco.
IX, 13-15. " Delle due sorelle (Progne e Filomela), secondo
il più de' poeti, la trasformata in rondine fu Progne, e Filomela
in usignuolo; ma Dante ha seguito l'altrui opinione ( cfr, Piirg.,
XVII, 19), eh' è di Probo, di Libanio e di Strabene „. Su per
givi, lo dicono anche altri. Ma perché prendere priiìii guai per
allusione alla trasformazione di Filomela in uccello, e non alla
sventura atroce della innocente giovinetta? Cfr. Carmina Ba-
rai la Aiìiat. etc. 108 :
philomena queritur
antiqua de iactura.
— 6o —
E forse i primi ^iiai non sono quella sventura, sono le grida
della giovinetta oltraggiata
frustra clamato sa;pc parente,
sajpc sonore sua, niagnis super omnia Divis.
Losi s'intende meglio suoi primi e megWo a iiir/iioria: ricordando
quanto e come invano gridò e pianse, Filomela manda ora tristi
lai. Cuoi nella Commrdia ha sempre il significato di grida do-
lorose.
X, 2. Giordano da Rivalto, lxvi: " Tutto il nostro peccato
sta pure nel malo amore, per amare le cose troppo e disordina-
tamente: questo è il malo amore de' mondani; perocché tutte le
cose di questo mondo o sono male ad amarle, o sono nocive
a te „. — X, 32. L' Intclligciizia, st. 59:
e giammai Policleto intagliadura
non fece al mondo più propriamente.
X, 52. " Storia, bellissima! storia per Dante è 1' £';/r'/^/<', storia la
Tcbaidc di Stazio, e storia un fatto narrato dalla Bibbia; perché
la storia vera, piti che di fatti si deve far maestra di ragioni,
dacché più insegnano le ragioni che i fatti „. Ecco un' asserzione
e una sentenza, di cui questo non era il luogo. Dante adopera il
vocabolo storia nel senso tecnico. Ristoro (I, vii): " A modo
delli savi artefici che fanno la nobilissima operazione mossaica,
ad adornare od a storiare le pareti e pavimenti de' palazzi
de' grandi imperadori e de' grandi re e de' grandi templi.... E '1
cielo pare che sia ordinato e istoriato di figure d' animali e
pesci dalle stelle, quasi al modo musaico „. Veggansi gli storici
della pittura e i trattatisti, il Vasari e 1' Alberti.
XI, 60. Cfr. Tav. Rit., xeni: " Non so io se voi già mai
l'udiste ricordare „: " Non so io se giammai voi l'udiste menzo-
nare „. — XI, 85. " Intendo che 1' Oderisi voglia dire, che s' ei
fosse vissuto, tanto si sarebbe collo studio adoperato, che prima
di lasciarsi vincere. Franco avrebbe dovuto sudar per bene: e tal
concetto onora Oderisi, mentre 1' altro parmi indegno di lui e del
Poeta. „ Lasciamo stare la dignità o meno dei concetti; perché
-ol-
ii Poletto non ha dimostrato che 1' interpretazione sua convenga
al sì corlcse? — XI, 95. Tener lo catììpo non è " preso dal man-
tenersi accampato „ ; cniupo qui vale lizza, aringo, luogo dove si
feriscono torneamenti e si corrono giostre, non accampamento;
tener lo campo potrebbe tradursi col verso del Boccaccio:
e sopra il campo vincitor si stava,
se, piuttosto, non allude ai mantetiitori o tenitori, che, in campo
aperto, sostenevano l'assalto di altri cavalieri. — XI, 100-109.
Tutto il passo merita d* essere avvicinato a uno del Sogno di Sci-
pione, vi-vii: " Ipsi autem qui de nobis loquuntur, quam loquentur
diu?... Non modo non aeternam, sed ne diuturnam quidem gloria
adsequi possumus.... Quanti est ista hominum gloria, quae perti-
nere vix ad unius anni partem exiguam potest „? Il Poletto, a
rincalzo e buona spiegazione del concetto di Dante, reca un tratto
di Boezio {Pini. Consol., II, pr. vii) onde il poeta, pare, desunse
il confronto tra lo spazio di mille anni e l'eternità. — XI, 115-117.
Cfr. Canzon. Cliig., 180 e 373:
che per vertù del sol nasce la rosa
e quel medesmo fa cader le foglie.
— XI, 118. " Ver dir., parole giuste, veraci „. Locuzione fre-
quentissima negli scrittori del Duecento, usata anche avverbial-
mente. C. Davanzali {Ant. Rime volg., Ili, ccxxvii):
e ben si può ridire
che fosse, a lo ver dire,
oltre misura di ciò far fallente.
I. Mostacci (Ivi, I, xLiv):
Ch' io non fui mai allegro- né confortato,
se da voi non n'avesse, a lo ver dire.
XI, 139. Tcsorctto:
E s' io parlassi scuro ;
Fiore (li Virtù, xxxviii: " il quintodecimo vizio si è favellare
troppo scuro „.
— 62 —
XII, 55'5S- l^''iiitc, che io sappia, non cita mai Giustino, in
nessuna delle sue opere; perciò non dirci dell' abbreviatorc di
Trogo Pompeo: " la cui opera Dante certo conosceva „. Del
resto, per narrare il " crudo scempio che le' Tamiri „ e per ri-
petere le parole della fiera regina, non aveva bisogno di ricor-
rere a Giustino; gli bastava Paolo Orosio, che veramente conobbe
e nel De Monarchia citò a proposito di Semiramide e di Vesoge
(non " Vesore „) poco prima di toccar di Ciro e di Tamiri. —
— XII, 65. Il Poletto traduce: " Chi fu mai si eccellente artefice
nel dipingere e nello scolpire, che sapesse rendere con tanta ve-
rità le figure e i lor movimenti „? A me riesce, lo confesso, un
po' stentato, se non strano, 1' uso di ombra per effigie o figura,
Capirei, sino a un certo punto, delle figure di persone; ma Voinhra
di " Troia in cenere e in caverne „ non mi va. Forse riusciremo
a intender meglio se, tornando un poco indietro, considereremo
che il marmo della ripa era adorno d' iii/ag/i, che /;/ esso era />/-
lag/iato V angelo Gabriele, intagliato il carro e i buoi dell' Arca
ecc., che il piano della cornice aveva figure segnate, simili a quelle
delle trombe terragne; e se ricorderemo il paragone usato dal
poeta a significare con quanta esattezza e bellezza gì' intagli ri-
producevano il vero:
si propriamente
come figura in cera si suggella.
Ciò fatto, leggiamo in Ristoro ( VII, x, " Guardando nella cera
impremuta e nobilitata, vedemovi molte e svariate cose intagliate,
le quali ella ha ricevuto dal suggello „ ( Guittone osserva: " In
ferro più che 'n ciera tene E vale intaglia „). E più oltre (VII,
in, 2): " Lo suggello nella figura ch'egli ha in sé, in tale luogo
è cupo e in tale luogo è basso; e nel luogo cupo per non errare
porta la cera assai, poca per empiere lo basso „. Nella impronta,
a' luoghi cupi del suggello corrispondono le parti rilevate, a' bassi
le parti piane. Or se quelle chiamassimo tratti e queste ombre,
non avremmo chiaro e intero il concetto del poeta? — XII, 93.
" Al primo gradino d' ogni scala delle sette cornici sta un an-
-63-
gelo, che toglie le reliquie degli effetti del peccato a chi sale
alla cornice superiore „. Se questo è vero, come può esser vera
l'asserzione della p. 301: " Dove /« capo la scala per ascendere
al cerchio superiore l'angelo leva dalla fronte del Poeta uno
dei P, a significare che quel dato peccato è ornai spento e per-
donato „? A Ogni modo, chi non avesse mai letto il Purgatorio
potrebbe credere che tutti e sette i P sieno cancellati 1' un dopo
r altro, da altrettanti angeli, cosa non vera per 1' ultimo P.
XIII, 2. Tra risega e rilega quale lezione preferisce l'autore?
Il Moore sta per risega, termine tecnico. Chi vuole rilega non
bada che 1' idea si ripeterebbe al verso 4. — XIII, 32. 11 Poletto,
seguendo 1' esempio di altri pone qui alcune righe del De Amicitia
di Cicerone; ma il grido: " Io sono Oreste „ - se le voci de-
gli angeli sono " altrettanti testi citati a ricordare alle anime
esempi contrari all' invidia „ - richiama invece un luogo del De
Fiiiibits {\, 22) : " Qui clamores vulgi atque imperitorum exci-
tantur in theatris, cum illa dicuntur:
Ego sum Orestcs,
contraque ab altero:
Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes !
Cum autem etiam exitus ab utroque datur conturbato errantique
regi: - Ambo ergo una necarier precamur, - quotiens hoc agitur,
ecquandone nisi admirationibus maximis „ ? — XIII, 61 scgg. Cfr.
Le Breviari d'Amor, 13551-64:
ditz US prezicaires:
" Sapchatz que truans et laynes
m' an essenhat de Dieu preguar *
quar truans quan voi demandar
almorna, per so qu' om li do
plus voluntiers ses dir de no,
demostra may aquel logual
de son cors on a mais de mal,
e si a re sa sobra se
non cura que jan mostre re
- 64-
perso qu' oin n" aia pietat
quan lo veiia fort desayzat,
e li n' aia mais de merce
e mais de grat li fassa be. „
Il Polctto prende dal Casini la cUlìnizione ó\ prrdoìio : " Perdono
e prrdonanca dissero gli antichi quelle feste religiose, alle quali
accorrevano molte genti „ ecc. Dissero gli antichi del Dugento,
dissero i meno antichi del Cinquecento e del Seicento - testimoni
il Tansillo e il Basile -, dicono ancora i nostri contemporanei.
Ricordo aver sentito cantare una canzone popolare, nella quale
una giovinetta pregava la mamma di condurla a/ perdono il giorno
di S. Giovanni. — XIII, 70-71. " A tutte quelle anime gli occhi
son chiusi con una cucitura di fìk) di ferro, come suol farsi agli
sparvieri selvaggi per poterli addomesticare „. Non diversamente
lo Scartazzini e il Casini. Ma suo/ farsi che? Forare e cucire; la
similitudine non si estende al fil di ferro; agli sparvieri gli occhi
si chiudevano con fil di refe, non di ferro. Mi maraviglierei che
lo Scartazzini non avesse fatto questa necessaria avvertenza,
pure avendo citato il libro di Federico II De arte vcnandi cimi
avilms, se la citazione non fosse sbagliata. (Cfr. II, xxxvii, dove
è minuziosamente descritta l'operazione della cigliatura). A di-
chiarazione del secondo verso, trascriverò un passo del De Arte
(II, XLv): " Falcone posito in malleolo cum captus fit agrestis
(ecco il selvaggio di Dante), protinus ciliandus est, nam si non
ciliaretur, statim fieret agrestior ad visum faciei humanse, et cae-
terorum quae videre non consuevit, et tderetiir magno conamine
ad evadendnm, ex quo conamine distraheret et disrumperet pennas
suas et sua membra (ecco il queto non dimora) „. Il Poletto, lo
Scartazzini e gli altri, che tengono sparvier grifagno come equi-
valente a selvaggio, • senza ricorrere a Dodo di Pradas - avreb-
bero potuto leggere nel Tesoro di ser Brunetto: " E sappiate che
tutti gli uccelli feditori sono di tre maniere, cioè nidiaci, ramaci
e grifagni. Il nidiace è quello, che V uomo cava di nido, e nutri-
calo e piglia per sicurtade. Ramace è quello che già ha volato
ed ha preso alcuna preda. Grifagni sono quelli, che son presi al-
- 65 -
V entrata di verno, e che sono mudati, e che hanno gli occhi
rossi come fuoco „. Lo sparviero grifagno continuava ad essere
grifagno anche quando non era più sr/vaggio, quando era già
divenuto jiiaiiicro; lo sparviero nidiace e il ìaiìiacc erano anch' essi
selvaggi prima d'addomesticarsi. Caso mai non bastasse l'esempio
d'un antico rimatore nostro {Cane. Palat., 418, 16):
Ben ho veduto giocindo da forc
li selvaggi sparveri
prendere e far maneri diventare,
valga l'autorità di G. di Borneil {No pitesc) a togliere ogni
dubbio:
L'autr'ier sompniey en pascer
un somnhe, que 'm fctz esbaudir,
d' un esparvier raniatge,
que s' era sus mon pong pauzatz
e si 'm semblav' adoniesgatz.
Ano non vi tan salvatge !
Mas pueys fon tiiainiers e privatz,
e de bons getz apreisonatz.
XIII, 123. Cfr. Pietro \'idal {Be/s aniics):
aissi m' es gaugz e deleitz e sabors,
cum an l'auzel, quan s' alegron pels nius
del cortes temps, que vezon aparer.
XIV, 143. Da Canio, che non significò so\o freno, sembra nato
il verbo iìicaniare. Chiaro Davanzati {Ani. Rime volg., Ili, ccxxix):
■" Cosi forte (amor) m' incama D' albore sanza rama „. — X\', 15.
Clic, o eh' è? — XV, 61-63. Si paragonino con un pensiero di
Federico II: " Scientiarum generosa possessio in plures dispers^i
non deperit et distributa per partes minorationis detrimenta non
sentit „. — X\', 133-135. L'autore difende la spiegazione comune,
la quale costringe un verso e mezzo ( /' occhio che non vede
Quando disanimato il corpo giace) ad essere semplice perifrasi di
occhio corporeo. Proporrei di spiegare: Non dimandai: cìie hai?
come fa chi, guardando solo con 1' occliio, non vede, non s' ac-
TORRACA. 5
— 66 —
corgc di avere innanzi un cadavere; ossia, congiungerei, il clic
del secondo verso col chi, da cui è preceduto. Come si può dire
occhio che non vede, V occhio del corpo, che pure guarda, se non
è occhio di cieco? Guardare pur con l' occhio vale, a parer mio,.
guardare disattento o distratto: si può guardare e non vedere,
come Dante stesso nota altrove. — X\'I, 27. " Calcndc chiama-
vano i Latini il primo di ciasun mese „. Chi non lo sa, de' gio-
vani studiosi del divino poema? Era da notare la desinenza della
parola, disusata per noi, frequentissima nel Duecento. Ristoro
d'Arezzo (\'III, xxii): " Si vanno mutando e variando tutti li
cominciamenti e le fini, e le solennità, e li calendi e li termini
dell' anno.... Poniamo che la solennità, o '1 termine, o lo 'ncomin-
ciamento o '1 calendi s'incominci ecc. „ — ^ XVII, 19, " Empiezza,
empietà „. Ma Cecco Angiolieri, che cinicamente ostentava X em-
pietà sua verso suo padre, a proposito del padre usci a dire:
Vedete ben s' i debbi aver empiezza:
vedendolo 1" altr' ier mastro Taddeo,
disse : e" non morrà che di vecchiezza.
Un' altra volta, narrò di sua madre :
ed i' vidi mia madre a me venire
empiosamente con malvagia cera.
Cfr. Canz. Chig., 457 :
ed hai si 'nvolto tutto 'ntorno 'ntorno
d' empiezza, d' ira, di noia e d' affanno.
XVIII, 28-30. Chiaro Davanzati {Ant. Rime vo/g., IV, cccli)
L' amore ha la natura de lo foco,
ch'ai primo par di picciola possanza,
sormonta e sale in grand' altura il poco.
X\'III, 83. Non credo che il poeta designi unicamente Mantova,
e mi pare inopportuno citare la perifrasi /a gran villa {sopra Y
bel fiume d' Arno, bisognava aggiungere) per Firenze. Piti che
- 67 -
villa è indeterminato, come chi dicesse: più clic qualunque altra
villa. E, davvero, perché si potesse senz' alcun dubbio scorgere
qui un confronto tra Pietole e Mantova, sarebbe necessario met-
tere fuor di dubbio che Pietole sia mai slata nominata pili di
Mantova. Virgilio, per darsi a conoscere a Sordello, non co-
mincia il suo discorso da Pietole, bensì da Mantova ; e Beatrice
non chiama Virgilio anima cortese pietolana o pietolese, bensi
mantovana.
XIX, 19-24. Né il Poletto, né altri recenti commentatori hanno
osservato che il canto della sirena, nel sogno di Dante, è come
r ultima e, naturalmente, più perfetta elaborazione di un motivo
frequente ne' versi de' rimatori, che lo precedettero di non molti
anni, o furono contemporanei alla sua giovinezza. Guglielmo Be-
roardi (ma la canz. é attribuita anche a P. della Vigna e al
Notar Giacomo), aveva scritto [Ani. Riiuc volg., II, clxxix):
Son rotto come nave,
che pere per lo canto
che tanno tanto dolzc le serene :
lo marinai' s' obria,
perde, e va per tal via
che perir lo convene;
e Maestro Rinuccino (ivi, I\', dui):
Si come il marinaro la serena,
ca lo disvia co lo dolze canto
e poi li dà tempesta per inganno.
Quei rimatori, forse (cfr. Canz. Palai., 418, 42), piuttosto che i
Bestiari o il Fiore di Virtù, preferi di seguire Dante; o a quelli
piuttosto che a questi fu ricondotto dalla sua memoria, giacché
non rappresentò i marinai prima addormentati " in sul legno „,
e poi uccisi.
Veramente, dice il Poletto, ripetendo un' osservazione tradi-
zionale, chi fece deviare Ulisse dal suo cammino, fu Circe, " ma
Circe non era Sirena,.... onde bisogna dire eh' egli, non cono-
scendo r Odissea, facesse di Circe una Sirena „. Ma se Dante
— 68 —
non conosceva 1' Ocfissra, sapeva /////a (/iiaìila V Riicidc ; sapeva
bene, per conseguenza, che gli scogli delle sirene ( V, 864) erano
abbastanza lontani da Gaeta (VII, i-io), dove, " prima che si
Enea la nominasse „, Circe aveva per piti di un anno trattenuto
Ulisse! Lo sapeva cosi bene, che credette Ulisse, come Enea,
passato da quegli scogli al mare presso Gaeta; infatti, imaginò
che, partito da Circe, X eroe avesse intrapreso verso occidente,
non verso mezzogiorno, l' ultimo suo viaggio. Non conosceva
r Odissea; ma aveva letto nel De Finibus Bonorum et Malorum,
che ricordò nel Convito, questi versi di Omero tradotti in latino
da Cicerone ( \'. 18 ):
O decus Argolicum, quin puppim flectis, Ulixes,
auribus ut nostros possis agnoscere cantus!
Nani iiemo liaec umquam est transvectus caerula cursu,
quin prius adstiteiit vocum dulcedine captus,
post variis avido satiatus pectore musis
doctior ad patrias lapsus pervencrit oras, ecc.
Dante potè credere che Ulisse, avido di sapere, avesse ceduto
all'invito; tanto più che a questa credenza lo tiravàin certo
modo Cicerone stesso con l'osservazione seguente: " Vidit Ho-
merus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus vir irre-
titus teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sa-
pientiae cupido patria esse cariorem „.
XIX, 26-28. La donna santa e presta, la quale appare in sogno
al poeta prima ancora che la Sirena abbia richiusa sua bocca, è
Beatrice: cosi, secondo il nostro autore, " riesce più vitale l'or-
ganismo del Poema „. Oh, dunque, nel poema la vita la spiriamo o
inoculiamo noi, quando e dove ci piace? E se si provasse che quella
donna non è Beatrice, 1' organesimo del poema in che e perché
ne scapiterebbe? Io non credo sia Beatrice, perché anche so-
gnando, di lei, dopo decenne sete, dopo aver percorso l'Inferno
e r Antipurgatorio e tre gironi del Purgatorio per ritrovarla, di
lei r innamorato e pentito e bramoso poeta non chiederebbe :
— Chi è questa? Anche in sogno la riconoscerebbe. Per me, la
Sirena, non è, né in senso largo, né in senso stretto, la cupi-
- 69 -
digin, la quale è già bene rappresentata cialla Lupa ; io non vedo
perché, essendo piaciuto al Poeta prendere il simbolo dalla dot-
trina comune e dalle opinioni correnti al suo tempo, non si debba
in quelle cercare la spiegazione di esso. " Puossi appropriare il
vizio della lusinga alla Sirena.... Lusinga è contrario vizio della
Correzione „ con ciò, che precede e segue nel fortunato libretto
di Tommaso Gozzadini. S' intende la Lusinga de' beni e de' pia-
ceri mondani, ingannevoli e fallaci come il canto della Sirena,
onde accade di dover lamentare, con maestro Rmuccmo:
Così la gioia m' è cangiata in pena,
e riso, lasso! m' è tornato in pianto!
per mia follia ho raddoppiato il danno.
Inteso a questo modo, il sogno si adatta convenientemente, come
deve, a ciò, che Dante vedrà nelle ultime tre cornici del Purga-
torio, dove si piange il troppo amore al bene " che non fa 1' uom
felice „.
XIX, 103 segg. Adriano V, secondo gli Ami. /anitcìis., in
papa trentacinque giorni, non trentotto. Le parole, che Dante gli
fa pronunziare, sono dal commentatore parafrasate cosi: " Provai
quanto pesa il manto papale a chi lo guarda, Io ambisce con
occhio di cupidigie mondane, a chi lo desidera con intenti pro-
fani.... E infatti, come si possono spiegare altrimenti i versi 107-
iio? Quanti sforzi avrà mai potuto fare in trentotto giorni di
papato per serbare immune dal fango umano la dignità ponti-
ficia? „ È permesso obbiettare che il manto, a chi lo ambisce
da lontano, sia pure dal fango, non può pesare) che, in genere,
una cosa ambita, non può far sentire il suo peso se non quando
è stata già ottenuta. " E dice santo Gregorio una ricca parola;
dice che 'I bene del mondo, anzi eh' egli s'abbia si si ama molto,
ma poi che l'hai non l'ami cosi; e la ragione si è, che prima
speravi e credevi che in quello fosse uno grande bene; ma poi
quando il cerchi e pruovi non truovi quello che credevi, ma
truovici molto poco bene, e talora non niente, ma molto con-
trario. Molto si disidera il cardinalato, pare un grande fatto;
— 70 —
quando e fatto cardinale amalo vienicno, non ci truova quello
che credeva.... La persona vede il cardinale, il papa, crede che
sia una beata cosa molto, e non è cosi, anzi è tutto il contrario ;
e si vedi che se poi vengono a questo istato, si si dolgono, e
non ci trovano quello bene che credeano, né quella pace né
quello riposo, anzi molta amaritudine „. Cosi G. da Rivalto, Lvni
e Lxxv. Non è necessario nella frase n cìii dal fango il guarda
vedere unicamente un' allusione personale. — XIX, 132. L' autore
accetta e sostiene la lezione dritta; non comprende " in che un
cristiano peccherebbe di superbo, se dicesse che la sua onesta e
retta coscienza gli suggerì d'inginocchiarsi innanzi a un papa;
codesta non è superbia, è una semplice professione della propria
fede „. Il Moore direbbe: " Significa non aver punto capito il
passo „. Non v'ha dubbio, riesce alquanto contorta la frase:
" La mia coscienza, essendo io ritto (in piedi), mi rimorse (dallo
stare cosi ritto); ma se non è un caso che alle parole del poeta
il papa immediatamente risponda: " Drizza le gambe „, se c'è
relazione tra questo drizza e l' aggettivo del verso precedente ;
pare più probabile doversi leggere dritto che non dritta. — Mi
sono inginocchiato, perché ho riflettuto che facevo male a stare
ritto. — Ma rizzati, perché fai male a stare inginocchiato !
XX, J0-13. " Lupa l'avarizia, ma Lupa anco la prodigalità „.
Di che sente fame senza fine cupa la prodigalità? — XX, 82-84.
La chiosa è dell' Ottimo, che, a proposito dell' avarizia, traduce
alquanti versi di Alano de Insulis; sennonché, dove Alano ri-
corre alla storia e alla leggenda classica per illustrare il concetto
che l'avarizia doma qualunque forza, vince qualunque virtù, il
Poletto, per ciascun personaggio, cita i versi della Commedia,
ne' quali di esso personaggio è menzione. Cosi accade, per esempio,
che Alano sentenzii: " Penelope pone giii la vergogna della sua
castitade „, e il commentatore ricordi tra parentesi: " cfr. Inf.
XXVI, 96 „. Apriamo V Inferno al luogo indicato e leggiamo:
né il debito amore,
lo qual dovea Penelope far lieta !
— 71 —
" Dove vai? „ " Le son cipolle „. Di simili richiami, o rinvii,
tutto il commento è pieno, inutilmente pieno, giacche non giovano
punto a rischiarare le difficoltà del testo, o a dare più piano e
compiuto il concetto dell'autore; servono solo, e male, a distrarre
il lettore. Qui — come altrove — non aiuta il passo di Alano a
commentare Dante; è costretta la Divina Commedia, Inferìio,
Purgatorio e Paradiso, a chiosare la non molto fedele traduzione
d' un mazzetto di luoghi comuni racimolati da Alano. E la chiosa,
che è peggio, ci sta come il cavolo a merenda. Se io dicessi
che calzerebbe meglio una diecina di esametri d' Orazio ( S^/. Il,
V, 75-83), chi vorrebbe darmi torto?
XXI, 50. " Figlia di Taumante, arco baleno. Secondo la mi-
tologia, Iride era figlia di Taumante, e ancella di Giunone „. Cer-
tamente; anche non è men certo che Dante non poteva consul-
tare né r Enciclopedia popolare, né un qualsiasi Dizionario delle
Favole. Lo Scartazzini, a questo punto, accumula citazioni di
Esiodo, di Ovidio, di Virgilio, di Stazio: tolte di mezzo la Teo-
gonia e le Selve, che Dante non conosceva, in tutt' i versi del
sulmonese e del mantovano si parla di Iride, non della paternità
di lei, tranne in uno {Metaìii., XIV, 845), dove è detta vergine
taiDìiantea. D' ora in poi, sarà meglio rimandare 1' amico lettore
al De Natura Deorimi (III, 20): " Et ob eam causam, quia spe-
ciem habeat admirabilem, Tliaiiììiaìite dicitiir Iris esse nata,,. — XXI,
56-57. " Noìi so come, è da riferirsi al si nasconda „. Non pare. Il
monte del Purgatorio, dice Stazio, trema forse più giù, o poco, o
molto; ma, " per vento ecc. „ non tremo mai quassù. Il non so come
si congiunge benissimo col non tremò; né questo era il tempo, né
il luogo di restringere in un breve inciso una teoria de' terremoti.
XXII, 67-69. Opportuna la citazione, dal commento del Casini,
della similitudine di ser Paolo Zoppo. Hanno fantasticato che
Dante riprendesse qui un' imagine, piaciuta prima all' autore del
Ritmo Cassinese, a P. Raimon di Tolosa, a fra Guittone e, ag-
giungerò, all'autore del Joufrois (3350-51):
Ausi con li cirges, qui s' art
por autrui alumer devant,
e a mcsser Iacopo Mostacci:
cosi come canilela, che rischiare
prendendo foco, dà ad altra vedere.
Nella similitudine dantesca la candela non è neppur nominata;
né vi traspare il concetto, che agli altri rimatori piacque rilevare,
del benefìzio da essa procurato col danno suo, struggendosi.
" Arde sé e consumasi, e altri allumina „ direbbe frate Gior-
dano. A Paolo Zoppo e a Dante il lume importa assai meno di
chi lo porta. Cfr. i versi di Ennio recati da Cicerone nel De Of-
ficiis (I, XVI ):
Homo, qui erranti comiter inonstrat viam,
quasi lumen de suo luminc acccndat, facit,
e il sonetto di Bonagiunta al Guinizelli, Voi eh' avete.
XXII, 109-111. " Quivi; nell'Inferno, non già nel Limbo.... il
(juivi del v. 109 non si dovrebbe riferire a ciìigliio, sibbene a
earcere cieco del v. 103 „. Difficilmente si può consentire. Vir-
gilio, per non meno di nove versi, parla del Limbo : siamo nel
primo cinghio, ragioniamo, Euripide v' è nosco. Possibile che, al
decimo verso, col quivi, passi a discorrere dell' Inferno in genere?
XXIII, 4. " Figliuole.... non per necessità di rima, come è il
solito ritornello di molti, ma perché gli antichi cosi alcune volte
usavano anche in prosa, come notò il Cesari „. Proprio cosi, e
meglio dell'opinione del Cesari varrebbe qualche esempio (ne
ho pronto uno di Albertano, IV, xxxiv: " Filliuole, non siano li
atti o li fatti tuoi in molte cose „ ). Sennonché la stessa osser-
vazione doveva essere ripetuta molte altre volte. — XXIII, 58.
Il sfoglia: " risentita metafora, dice il Cesari, cioè vi nuda di
carne e lasciavi come stecchi riarsi „. Risentila, non nego; ma
non nuova. Guittone, Amor non ò:
che se '1 mal me ne sfoglia;
Chiaro Davanzati, /// voi:
Ma quanto vivo sanza cor più doglio,
e sfoglio — d' orgoglio
la mia persona, che cor no la mena;
— 73 —
un anonimo:
Si son montato in doglia,
che mi conven far voglia — di mostrare
lo mal eh' en gioi mi sfoglia
e tutto mi rinvoglia — di penare.
{Ali/. Rime volg., Ili, ccx e cccxvii). — XXIII, 72 e 86. Cfr. A.
de Marcili, Aissi cimi ccl qiie aiic, secondo la lezione del Canz. A.
l'ero plazens e dolz e ses martire
mi sembla '1 mal per lo ben q' ieu n'aten.
Il concetto si trova innumerevoli volte nelle rime de' provenzali
e de' loro imitatori italiani. — XXIII, 112. " Forese non chiede
già a Dante diiHiiii chi tu sei, come spiega il Casini, eh' ei troppo
ben lo conosceva; ma si gli chiede come sia che essendo ancor
vivo abbia potuto far un tal viaggio „. Infatti, Forese, dopo aver
guardato fiso il poeta, esclama: " Qual grazia mi è questa? „
segno che 1' ha riconosciuto, e non gli chiede chi sia, ma qual
sorte gli sia toccata (" Dimmi il ver di te „). Se Forese non
r avesse riconosciuto, Dante non avrebbe potuto, rispondendo
alla preghiera di lui: " Fa che più non mi ti celi „, alludere alla
loro amicizia e familiarità senza neppur dire il suo nome.
XXIV, 39. Fiore di Virtù, xiv: " Ermes dice: Il cane ama
l'osso infino che v' ha su da piluccare „. — XXIV, 43. Cfr. G. de
Cabestanh, Li douz:
Q' una no porta benda
q' en prezes per esmenda
jaser etc.
Che cosa era la benda, che Gentucca, nel 1300, non portava an-
cora? II Poletto rimanda al commento del v. 74 del canto VIII
del Purgatorio, dove si legge che '* bende non sono che i veli
del capo „. Ma la benda di Gentucca non era un velo, come non
era velo la benda di Flamenca, di cui tanto poco era contento
l'innamorato Guglielmo [Roiit. d. Flain., 4007 segg.):
Li benda sai que m' a trait
quel tene las aurellas serradas.
— 74 —
bendas mal fosscs liane obradas!
penduts fos qui bendas fes primas,
quar hom non las poc far tan primas,
la vista d' ome non afTolIon !
Et ad home 1' ausir non tollon !
Era, spiega il Meyer, " un bandeau couvrant les oreilles et le
bas du visage. On lit en efFet dans la vie de Guillem de Balaun
qu' une dame „ baisset sa benda per lui bayzar „, mouvenient
impossible avec un voile „ ecc. Il biografo tolse questo partico-
lare da una poesia di Guglielmo (Mon vrrs):
quan baisset vas me sa benda
e 'm quis francamen esmenda ecc.
Cfr. Uc di S. Cir (Servii):
bianca vermeilla ses menda
es la cara sotz la benda.
Descrivendo i costumi degl' Italiani al tempo di Federico II, Fran-
cesco Pipino notava: " Ornatus capitis non pretiosus erat virgi-
nibus. Matronac vittis latis tempora et gcnas ami mento vitlabant „.
— XXIV, 6i. L'autore sta per la lezione gradire. Il Moore os-
serva { Coiitriò., 415), e l'osservazione mi pare degnissima di
considerazione: " C'è dell'ironia appropriata e naturalmente
dantesca nell' antitesi tra guardare qui e vede del verso se-
guente „.
XXV'I, 42. Il Poletto vorrebbe, col Perez, trovare un senso
allegorico nell'allusione de' lussuriosi a Pasifae ed al torello: " a
non trovare troppo strana 1' allegoria, basta por mente al signifi-
cato della parola iauriis nella prima strofa dell' ode d' Orazio, e
al veleno con cui Enone esclama in Ovidio: Graia juvenca venit.
E pur troppo, in tale senso, il comune e vivo linguaggio tiene
ambedue i nomi di toro e di vacca „. In tale senso? Il nome di
/o)'o non mi pare si dia a chi soddisfa la donna " imbrutita in
suo appetito „, bensì all' infelice compagno della donna. — XXVI,
98. È accettata e difesa con una certa vivacità l' interpretazione
~ /:> ~
del Costa: " Degli altri migliori poeti, ;///>/, cioè a me cari „.
Secondo il Poletto, " non si potrà mai dire Tizio è viio miglior,
per dire che Tizio e migliore di me „. Non è questipne di quello,
che si potrà; ma di quello, che a Dante piacque dire. Un con-
temporaneo di Dante, ne' Docitiiicnli d' Amore, ci lasciò questo
avvertimento sotto Discrezione, li, 20:
Pensa se tu eccedi
li tuoi maggiori,
e sotto Docilità quest'altro (\'1II, 5):
In casa tua rimani
a rietro, se son tuo' maggior, o pari ;
e se minor, non pari
altro che saggio, se tu simii fai.
L'interpretazione del Costa lascia ììiiglior senza il complemento
necessario: poeti migliori di chi?
XXVII, 45. Manca al vocabolo poììie l'avvertenza: " Non per
necessità di rima; ma perché gli antichi cosi alcune volte usa-
rono „. E non solo fuor di runa, ne' versi; anche in prosa. —
XX\'II, 49. " Bogliente, bollente „. Manca la stessa avvertenza.
Frate Giordano, xlvu: " E come il mare bogliente, nel quale
non è requie „. — XXVII, 80-84. Cfr. V Intelligenzia, st. 83:
" Come pastor vegliante sovra '1 gregge „. — XX VII, 94 e 95.
L' autore non si risolve ad accettare una delle due opinioni,
che riferisce; quella de' più: " Nell'ora che Venere mandava i
suoi primi raggi sul Monte „, e quella dell' Ottimo, il quale " in-
tende quel prima nel senso di prima volta, nella costituzione del
mondo „. Si badi che nel giorno della creazione, della costitu-
zione del mondo, \^enere sorse con la Bilancia (Macrobio, ///
Somn. Scip., I, xxi), non già con i Pesci, con i quali, invece,
nasceva, secondo il Bianchi, quando il poeta, presso al Paradiso
terrestre, vide in sogno Lia. — XXVII, 105. " Miraglio, spec-
chio, da mirare „. Benissimo; ma venne ai nostri antichissimi
rimatori dal provenzale. Perché B. di Ventadorn aveva cantato :
eia 'm fetz a mos huels vezer
en un miralh qua molt mi piai.
- 76-
Mirallis! pois me mirei en te,
in'an mori li sospir de preon;
P)ondie Dietaiuti, alla sua volta, cantò:
Ohimè, chiaro miragho ed amoroso,
si per lo primo sguardo
v' imaginaì, ond' ardo,
né del mio cor non fui mai poderoso.
Bisognava notare tutto giortio. Fatti di Cesare, III, v, vi: " Sarà
tutto giorno Pompeo signore di Roma?.... Lelio tutto giorno an-
dava davanti al primiero fronte della battaglia „.
XXVIII, 50-51. Anche il Poletto per la primavera, che Pro-
serpina perdette quando fu rapita, intende i fiori, che la divina
giovinetta aveva raccolti nel grembo della veste, collecti Jlores.
Se questa è la spiegazione migliore, perché poi giudicare " op-
portunamente „ citati dal Tommaseo il ver purpureum di Virgilio
e il me ti' andava per la miova primavera cantando del Boccaccio?
Temo che i collecti Jlores di Ovidio abbiano, con la solita pre-
potenza degli ultimi venuti, fatto dimenticare i fiori non colti.
I commentatori, a sostegno dell' opinione loro, citano dal Para-
diso (xxx, 63):
due rive
dipinte di mirabil primavera;
e non riflettono che in questo verso mirabile non si tratta punto
di fiori colti. — XXVIII, 121. Cfr. Bondie Dietaiuti, Quando l' aire:
e r agua surge chiara de la vena.
Patti di Cesare, III, vi: " Ha intorno quattordici fiumi di dolci
acque, e queste nascono di fontane e di vene d' alpi „.
XXIX, 147. Brolo, che significava precisamente? " Al modo
lombardo orto ov' è verdura „ come " fin dal suo tempo notò il
Buti? „ O giardino, secondo spiegò il Muratori? Ovvero siepe,
che piacque al Giuliani? Pare, senz'esser ben chiaro, che il com-
mentatore pieghi ad accettare quest' ultimo significato. Ma, in
— Il —
lingua d' oc e in lingua d'w'/Ia parola non significò, o non sempre
significò siepe, né giardino, né orto; piuttosto foresta, bosco, bo-
schetto. Non è possibile imaginare una siepe, e tanto meno un
orto o un giardino di frassini; pure, pel hnilli frcsni vediamo
passare i cavalieri a squadre nel Girart de Rossi/fio. Di boschetti
ramosi, piiì esattamente che non di orti o giardini, cantava A.
Daniel:
l.'aur' amara fais broills brancutz
clarzir quel dous" espeiss' ab Ébills,
versi, che Dante riferi nel De Vii/gari Eloqiicntia. Guglielmo de
la Tor si paragonò alle donne, c'Alixandrc irohct ci broill, le quali
erano cosi fatte
que non podion ses morir
outra 1' ombra del bruoill anar.
Giova porre qui un passo dell' antica " ballatina „ :
E ili mi boschetto — se mise ad andare
Senti r oseleto — si dolce cantare.
Oi bel lusignolo, — torna nel mio brolo:
Oi bel lusignolo, — torna )iel mìo brolo.
XXX, 94-99. A questi versi manca una chiosa, direi, psicologica.
Perché Dante, il quale i fieri rimproveri di Beatrice ascolta s€n::a
Iag7-ii)ie e sospiri, quando intende che gli angeli lo compatiscono
scoppia in pianto? Io ho più volte pensato che quest'episodio,
questi versi, aiutino mirabilmente a spiegare perché, nel cerchio
secondo dell'Inferno, Paolo pianga. — XXX, 115. Vita miova,
qui, come nel titolo del celebre libretto, non significa " vita gio-
vanile o dell' adolescenza, sibbene la rigenerazione in Dante ope-
rata per l'amore di Beatrice „. Sarà; ma rigenerazione da che?
Quale rigenerazione se, nella sua vita nuova. Dante era virtual-
mente tale che
ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova?
- 78-
La rigenerazione, a ogni modo, sarebbe stata d' assai breve du-
rata (" alcun tempo „ ). — XXX, 133. G. da Rivalto, x: " Se
l'uomo è al mondo, e Iddio lo spira ch'egli esca del mondo
e venga a religione, questo ispirare è il duca Iddio, che ti vuole
trarre dalla ischiera ove tu se' e metterti a migliore; ma se tue
non se' ispirato ecc. „. — XXX, 136-138. E approvata l'opinione
che, per i trascorsi di Dante, fiere cose gli scrisse Guido Caval-
canti nel sonetto /' vegno. Io sostenni che il sonetto fu tenuto
documento de' trascorsi di Dante, solo perché non s' era ricordato
in qual senso i contemporanei suoi, ed egli stesso, usavano le pa-
role vile, vibncìite, virtù.
XXXI, 66. Cfr. Antiche Rime volgari V, cmlii:
dicovi eh' io ne son forte pentuta,
e parmi dimorare in vita sana,
essendomi si ben riconosciuta.
XXXI, 116. " Per sola curiosità si legga a questo punto quante
virtuose diavolerie allo smeraldo attribuisca l' Ottimo „, Prima
gli furono attribuite dai Lapidari: X Ottimo, se non erro, tradu-
ceva da Alberto Magno, De Mineralibiis, II, xvii. — XXXI, 132.
Delle varie spiegazioni date a caribo il Poletto non dice quale
gli sembri migliore. Nota che il Buti legge gariho; non aggiunge
che i provenzali dicevano garips. Il passo è stato recentemente
discusso dal Flamini, il quale spiega: " Danzando alla loro an-
gelica armonia, alla loro angelica nota „. Io intendevo per caribo
aria o motivo di danza. Il Biadene [Var. Lett. e Ling.) ha tro-
vato questa definizione di F. da Barberino : " consonium antiquitus
dicebatur omnis inventio verborum que super aliquo caribo, nota,
stampita, vel similibus componebantur, precompositis sonis: hodie
verba talia nomen soni vel sonum fabricantis secuntur „. Anche
ha trovato nell' Ameto, " caribo „ in rima con tribo, proprio
come nella terzina del Purgatorio. Il Marchesini {S(. di FU Rom. 4)
si lasciò sfuggire: " Notisi che Dante usò /« /r/Z'o, ma la proposta
dantesca non piacque, e la forma non attecchì „. Ma Dante una
volta sola usò la parola, e al maschile: " del pili alto tribo „. In
— 79 —
provenzale trips divenne qualche volta femminile: tribo femminile
aì legge nella parafrasi lombarda del Nciiitiuiìi Laedi {Arc/i.
Gioii. li., VII, 31): " e in tute quelle tribo no gli era un in-
fermo „.
XXXII, 5. Avcaii parete dì non caler. Il Poletto spiega: " Di
non darsi pensiero di mirar altra cosa „, lasciando nel lettore il
dubbio se egli abbia o no posto mente al valore grammaticale
della locuzione. Di non caler sostantivo ecco due esempi proven-
zali, tutt' e due di Folclietto da Marsiglia { C/ianian volgra, 4;
Uns volers, 5): " Ai gran doptanza Que mi vos fai oblidar non
calers — Pero laissatz non calers „. Non caler è nel sonetto di
Dante a Lippo.
XXXIII, 40-45. Il Messo di Dio e il veltro sono lo stesso
personaggio e simboleggiano un Imperatore. Riassumo e non di-
scuto per non andare troppo lontano. Osservo, per finire, che
fuia era del linguaggio vivo, come si può vedere nell' importante
saggio del Bongi { Propugnatore 'H. S., III, 13-14): " Va intende,
sossa fuia, che fuoco di Sancto Antonio ti possa venire ne le
tuoi carni e di figliuolti!.... „
III.
Paradiso, I, 16 segg. Al pari di altri suoi predecessori, il
Poletto accumula citazioni di classici inutilmente. Che giova citare
Ovidio? Il sulmonese dice solo che il Parnaso aveva due vertici.
Che giova citare Stazio? Il napoletano — nel verso 522 del V
della Tebaide, non nel 32 del VII — ricorda solo cornila Parnassi.
Gioverebbe additare un luogo di scrittore antico, dove si trovas-
sero insieme 1' un giogo di Parnasso e l'altro, e Cirra: di quello
si potrebbe affermare che Dante se ne fosse ricordato; tutto il
resto è vano sfoggio di erudizione. Nel V della Farsaglia trovo
insieme, in non grande spazio (70-100), Parnassns gemino petit
acthcra colle, nnoqiie iiigo Parnasse latebas, Cirrhaea per antra. —
— 8o -
I, 34. Nt)ii occorreva compulsare il Coiivi/o per persuadersi che
i^raii fìiìiìiiììtì seconda poca favilla. Chi non sa il motto latino, di
cui questo verso è traduzione quasi letterale? Di riscontri, se
ve ne fosse bisogno, se ne potrebbero addurre a dozzine. Mazeo
di Rico:
I.a mia favilla in gran foco e tornata.
Cino da Pistoia:
Gran foco nasce di poca favilla.
I, 38. Lucerna " non doveva essere triviale al tempo del Poeta. „
Certamente, no : paragonavano il Sole alla lucerna anche gli scien-
ziati. Ristoro (I, xvni): " E poi troviamo il quarto cielo, nel
quale è una stella sola grande, la maggiore che sia, piena di luce,
la quale allumina tutto il mondo, ed è in questo mondo come la
lucerna nella casa, e fue chiamata dalli savi Sole „. — I, 48.
Buona l'osservazione sul creduto costume dell'aquila; migliore
sarebbe stata con una piccola giunta: rimatori provenzali e ita-
liani ne tolsero spesso uno de' termini di loro similitudini. Alcuni
si contentarono d' un breve cenno, altri — p. e. Ciuncio — vi
spesero intorno parecchi versi. — I, 94. Cfr. B. de Born, Anc no 's
piioc :
que de tot joi si desvest.
I, 99. Ristoro (I\', II): " E mestieri per forza di ragione che....
sieno quattro corpi contrari ed opposti l'uno all'altro, li quali
noi chiamiamo elimenti.... E perché la spera del fuoco fue pili
nobile, e più sottile e più lieve, ponemola di sopra; e perché la
spera dell' aire è meno sottile e meno lieve di quella del fu"oco,
ponemola di sotto a quella del fuoco. „ — I, 141. Si deve leggere:
Com' a terra quieto fuoco vivo?
E in pochissimi codici; più di sessanta, enumerati dal Moore,
offrono quiete in, e il Moore acutamente addita la relazione tra
in quiete e in te del primo verso della terzina: come quiete in
— 8i —
fuoco vivo farebbe maraviglia, a terra; cosi in te farebbe niara*
viglia r assiderti, qui.
Vedete pur lo foco,
che, fin che sente legna,
infiamma e non si spegna,
né po' stare nascoso,
aveva cantato Arrigo Testa; e frate Giordano (xxxvi) aveva
insegnato: " Vedi il fuoco, mentre ch'egli arde, non resta mai
un punto, e poi eh' egli è spento e' rimangono i carboni accesi e
parti che si riposi. Ingannato se': non si riposa mai, no, mai.
Or non vedi che sempre arde e consuma il carbone, e viene
faccendo cenere a poco a poco, e non resta insino che non 1' ha
consumato? Sicché contino vamente si muta e non istà in istato
niente „.
II, 21. Se la velocità si deve riferire al cielo, il Poletto ha
ragione d' intendere per del il primo Mobile. Ma vediamo noi
come e quanto il cielo Mobile si muova? Dante { Conv. II, iv)
ci fa sapere: " la sua velocità è quasi incomprensibile! „ Il poeta,
credo, allude alla velocità delia vista, degli sguardi. Dunque: la
sete del regno deiforme ne portava quasi con la velocità con cui
vedete il cielo; non già : con la velocità di movimento del primo
Mobile. — II, 51. Ristoro, III, viii: " Alcuni sono poco savi, e
di poco savere e intendimento.... e.... dicono che (nella Luna) vi
vedieno Caino e Abel „. Chiaro:
Dunque saria ragione
che 'n aira e 'n foco
come Caino stesse. —
lì, 107. Non soltanto il terreno, il suolo, ma tutto ciò, che sta di
sotto della neve, rimane nudo ai colpi de' raggi caldi. — II, 112.
Cfr. frate Giordano, xlvii: " Pace, secondo che dicono i santi, i
filosofi, significa riposo, stato ove non è nullo mutamento „.
Ili, 88 segg. Frate Giordano, in: " Considera il Sole eh' è pur
uno, e godonne tutti quelli del mondo; ma chi ne gode più chi
meno, secondo eh' ha migliori occhi e più purgati. Cosi i beati e
gli angeli, secondo che sono più nobili e più puri, cosi godono
TORRACA. 6
— 82 —
di Dio ; axvegnachc tutti siano puri, ma tuttavia nella purità
ha gradi „.
VI, 35-36. Il Poletto non credo che questi due versi " sieno
come un interrompimento narrativo del poeta, onde per soggetto
di coììiìnciò dovrebbe intendersi Giustiniano „. Gli pare, invece,
" che se 1' Aquila segui di Troia in Italia Enea, prestabilito padre
dell' Impero, ella dovette appunto cominciare a mostrare la sua
virfii colle prime imprese d' Enea in Italia „, Pare anche a me.
La parentesi narrativa, l' avvertenza del poeta capiterebbe op-
portuna e naturale se Giustiniano cominciasse ora il suo discorso;
ma ha già parlato per più di trenta versi. — VI, 94-96. Il nostro
commentatore move " una questione non toccata da altri „ e
" assai grave „. Per bocca di Giustiniano, Dante dice chiara-
mente " Carlo Magno.... aver operato per autorità dell' Aquila....
cioè in virtù della imperiale autorità, ond' era rivestito; sta bene;
ma come, se nel capo decimo del lib. III della Monarchia Dante
ne dichiara che l' elezione del re Franco fu illegittima, perché
Michael impcrabat apud Costantinopolim ? „ Ecco: Dante, in quel
luogo del De Monarchia, non esprime un'opinione sua, riferisce
uno degli argomenti di coloro, i quali asserivano auctoritatem
Impcrii ab auctoritate Ecclesia; dependere : " adirne dicunt, quod
Adrianus Papa Carolum Magnum sibi et Ecclesiae advocavit etc,
et quod Carolus ab eo recepit Imperli dignitatem, non obstante
quod Michael etc. Propter quod dicunt quod omnes qui fuerunt
Romanorum imperatores post ipsum, et ipse advocati Ecclesiae
sunt, et debent ab Ecclesia advocari. Ex quo etiam sequeretur
illa dependentia etc. „ Contro questo argomento Dante oppone
la massima: usurpatio iuris non facit ins! L'usurpazione, per liii^
sarebbe stata colpa non di Carlomagno, ma del papa.... Infatti,
soggiunge : " Nam si sic, eodem modo auctoritas Ecclesiae pro-
baretur dependere ab Imperatore ; postquam Otto Imperator
Leonem Papam restituit, et Benedictum deposuit, nec non in
exilium in Saxoniam duxit. „ Secondo l' antica tesi ghibellina,
difesa nel secondo libro del De Monarchia, Y impero del mondo
spettava de iure al popolo romano.
- 83-
VII, 139-42. " Lo raggio e il moto delle luci sante tira (trae
al loro essere, informa) l'anima d'ogni bruto, che sono di com-
plessione potenziata a ciò. „ Questa costruzione, approvata dal
Poletto e da altri moderni ira' iiiii^^/iori, non s'accorda col senso,
che essi credono di scorgervi, e fa dire al poeta quel, che " lui
non pensò mai „. Si costruisca, invece: " Lo raggio e il moto
delle luci sante tira di complessione potenziata l'anima d'ogni
bruto e delle piante. „ Di sta per <ùì; e il senso è: i bruti e le
piante vivono quando le stelle, col raggio e col moto loro, hanno
mescolato gli elementi e postili in quelle condizioni, in cui bruti
e piante possono vivere. " Li elimenti sono contrari l' uno al-
l' altro, e non hanno in loro potenza di mescolarsi insieme, ne di
fare di loro alcuna generazione, se non per la virtnde del cielo e
del suo movimento, che gli mescola insieme e fanne la genera-
zione, come sono le piante, e li animali e le minerie, le quali egli
ha in sé di fare come lo suggello la cera.... E se'I cielo colla
sua virtude ha in sé di fare cotale forma e cotale complessione,
la lattuga; ha di farla fredda e umida, e secondo grado mesco-
lerà li elementi insieme, e sarà più acqua che fuoco, tanto quanto
sarà mestieri, e faranne sempre li omori li quali si convengono
a ciò, e trarragli dalla terra a passo a passo, sempre facendone
la lattuga, e recheralla alla forma e alla complessione eh' egli ha
in sé di fare. „ Ristoro, \'II, 11, 4. Lo stesso si dica del porro
^' e cosi di tutte le piante „ e " quasi similmente „ degli animali.
\'I1I, 1-3. L'amore " impuro, sensuale „, fu deiio folle dai
Provenzali, poi dai lirici nostri. Scrisse Chiaro Davanzati a una
donna:
Non è più degna cosa di volere
intra noi due amar di folle amore ;
ma di cortese, puro e di piacere.
Gli astrologi assegnavano al pianeta di Venere il dominio su
" tutte le bellezze.... tutti li giuochi e li solazzi.... tutte l' alle-
grezze.... giolari, uomini di corte, cantatori d'amore e suonatori „
-84 -
(Ristoro, III, v). E Dante pose nel cielo di Venere il trovatore
Folchetto di Marsiglia.
Mai non mi capitano sott' occhio, mai non mi tornano a mente
questi versi, che io non ripensi alla questione della data della
canzone ì'oi c/ic ìhIvik/cik/o. La cita in questo canto Carlo Mar-
tello, morto nel 1295; ma il prof. Angeletti, forte dell'autorità di
Alfragano, non la crede composta prima del 1296. Alfragano,
infatti, dice: " Revolvit epicyclum.... Venus i Anno Persico, 7
mensibus et 9 diebus fere „; e Dante, nel Convito, racconta d'aver
veduto la prima volta la donna gentile tanto tempo dopo la
morte di Beatrice, quanto ne impiega Venere a percorrere due
volte il suo epiciclo. Sono, dunque, trentotto mesi e 18 giorni
(l'anno persiano era di 12 mesi di irciita gionii giusti, a che
non pose mente l'Angeletti), ai quali bisogna aggiungere i trenta
mesi circa, passati, secondo un altro luogo del Convito, da quando
il poeta, per la lettura di Boezio e di Cicerone, cominciò a
imaginare la filosofia come una donna gentile, a quando, per
aver frequentato le scuole de' religiosi e le dispute de' filoso-
fanti, fu preso da tanto amore per essa filosofia che " apri la
bocca nel parlare della canzone „. Cosi arriviamo al marzo
del 1296. Eppure, Carlo Martello, morto nel 1295, cita il primo
verso in modo da lasciar intendere di aver letto, ovvero udito
la canzone prima di andarsene al terzo cielo!
Si attenne scrupolosamente ai computi di Alfragano il poeta?
Credo se ne possa dubitare. L' opinione mia nasce dal fatto che
Iacopo figliuolo di Dante, nel Dottrinale (XV), assegna al giro
di Venere nell' epiciclo soli sette mesi e nove giorni.
Venus in sette mesi
e nove di compresi
il suo epicico gira....
E perché differiscono da quelli di Alfragano anche gli anni, i
mesi e i giorni, che Iacopo assegna al giro di Giove e di Sa-
turno ne' loro epicicli, mi pare lecito supporre che la fonte di-
retta di questa parte del Dottrinale non fosse Alfragano. Or se
-85-
il figliuolo risolutamente affermò che Venere percorre 1' epiciclo
in 219 giorni, non è molto probabile che cosi pensasse anche il
padre?
\'11I, 67-69. CtV. Ovidio { Mt'/ani., V, 346 segg. ) :
Vasta giganteis ingesta est insula mcmbris
Trinacris
Dextra sed Ausonio manus est subiecta Peloro ;
laeva, Pachyne, tibi.
IX. 123. Scrive il Poletto: " Lo Scartazzini.... trova altra
spiegazione, riferendo l'espressione {con l'ima e l'altra palma)
a Giosuè, del quale nell' Ecclesiastico è detto: quam gloriam
adeptiis est in tollcndo manus stias; cioè levando a Dio le mani
pregando. „ Lo Scartazzini, benché non ignaro delle sacre carte,
vi ha pescato un granchio grosso questa volta. La città di Ge-
rico, dove le spie di Giosuè " ingressi sunt domum mulieris me-
retricis, nomine Raab „, fu presa perché le mura di essa cad-
dero al suono delle trombe e alle grida degli Ebrei (Lib. Josue,
vii); il versetto dtW Ecclesiastico allude invece alla presa di Hai
(Lib. Josiie, vili, 18-26): " Josue vero non contraxit manum,
quam in sublime porrexerat, tenens clypeum donec interficerentur
omnes habitatores Hai „, secondo gli aveva comandato il Signore.
Tenens clypeum; dunque, non " colle mani giunte „ ! Se per
r una e l' altra palma non si devono intendere le mani, con cui
Raab tenne la corda per far discendere dalla sua finestra gli
esploratori ebrei; sarà vietato di opinare che una palma simbo-
leggi il martirio sofferto su la croce, l' altra la gloria della ri-
surrezione ?
X, 137. Un curioso sbaglio dà occasione a una più curiosa
digressioncella. " Leggendo; insegnando; ma i maestri d'allora
leggevano davvero la lezione (ond'eran chiamati lettori); e leg-
gere suppone essersi preparata la lezione; ciò se forse era un
danno alla drammatica e alla mimica di certi saltaincattedra (tal
voce, è bene avvertirlo, fu a consimile proposito adoperata dal
Tommaseo), perché [se?) non lasciava luogo al caldo dell' im-
— 86 —
provvisazione, toglieva almeno certi scandali „ ecc. Mi dispiace;
ma Sigieri e gli altri lettori non leggevano la loro lezione, scritta
prima; leggevano il testo, su cui facevano il loro corso, le Isti-
tiizioìii, poniamo, o Ippocrate, o un trattato di Aristotile, e cosi
via. Boncompagno, perciò, mentre dichiarava di non aver imitato la
Rettorica di Cicerone, pur non avendola mai biasimata, poteva
asserire: " Nunquam enim memini me Tullium legisse. „ E il
Boccaccio — un dantista non avrebbe dovuto dimenticarlo — fu
eletto " ad legendum librum qui vulgariter appellatur // Dante „.
Invidiosi veri per degni d' invidia non mi dispiace. — X, 140.
Non mi dispiace nemmeno monaca per sposa di Dio.
XI, 76-79. Se concordia, lieti sembianti, amore a maraviglia
e dolce sguardo sono quattro soggetti di faceano; fa maraviglia
che Dante usasse la locuzione faceano esser cagione, impropria,
lunga, incomoda, per significare: destavano. Il P^ilomusi-Guelfi
propose di ordinare il terzetto a questo modo: " Amore e ma-
raviglia e dolce sguardo facevano essere la loro concordia e i
loro lieti sembianti cagione di pensieri santi. „ — XI, 138. L' in-
finito corregger divenne nome, correggier, nella mente di alcuni
commentatori, perché nel Trecento si usava scrivere corregiere
per correggere.
F. da Barberino, Regg., ix, 224:
E dove forse dassè non potesse,
o non sapesse corregier, dimandi.
F. degli liberti, canz. Di quel, 88:
che spesso Io correggier, per ver dire,
lo mal far d' uno, a mille ne fa bene.
XII, 7 e segg. Passino nostre muse per nostri poeti; ma nostre
sirene per nostre cantatrici come potrebbero passare? Quando
mai, da chi mai le cantatrici, senz' intenzione adulatoria, furon
dette sirene? Meglio supporre allusione a strumenti musicali.
Muse erano le cornamuse (cfr. Bartsch, Romanz. iind Past.y
-87 -
III, 27: " Guis qui leur cante et kalernele En la muse au grant
bourdon „: La Pauthcrc d' Amors, 162: " Psalterions, muscs, dou-
ceines „); fu, se ben ricordo, nome di strumento serena, cer-
tamente nome d'un componimento poetico provenzale; delle Si-
rene favolose, non tanto per proverbio e in sentenza si soleva
ricordare il canto, quanto gli allettamenti del canto pericolosi.
Però nostre non sconviene alle Sirene mitologiche. Chiede il
Poletto: " Come Dante ci avrebbe appiccicato 1' aggettivo nostre? „
Ma nostre qui sta per terrene, in antitesi con quelle dolci tube
celesti : cfr. Mussafia Moìuon. ant. di dial. ital. ( C, 268 segg. ) :
.... sot' el cel nesun verso se canta
né de syrena, né de simphonia,
né de strumento altro nesun ke sia
si deletevolo en lo cor de 1' omo ecc.
Anche altrove il canto delle Sirene è, come potrebbe essere nel
verso di Dante, messo insieme con suoni di strumenti musicali
a formar un termine di confronto con i canti del Paradiso. Gia-
comino da Verona, delle voci dei beati:
E ben ve digo ancora enver sen<;a bosia,
ke, quant' a le soe voxe, el befe ve paria
oldir cera né rota né organo né symphonia
né sirena né aiguana né altra consa ke sia.
Il meno peggio, se le mie ipotesi non piacessero, sarebbe: " Quello
che noi crediamo e diciamo del canto delle Muse e delle Si-
rene. „ — XII, 26-27. ^^ paragone deriva dalla lirica cortigiana:
i due occhi debbono chiudersi e levarsi a un tempo; uno di
essi non può muoversi e levarsi da solo:
Per fermo, ben sapete
che d' un occhio vedire
non poria, per ciertanza,
che ciascuno visagio
da lui avesse veduta.
" Visagio Sta qui per ciascuno dei due organi destinati a ve-
dere „, avverte il Gaspary {La Se. poet. Sicil., p. loi ), — XII,»
— 88 —
55- Nella nota, piuttosto lunga, al vocabolo drudo, mancano ri-
scontri provenzali, de' quali non si può fare a meno, e italiani di
scrittori anteriori a Dante. Agli altri significati si aggiunga quello
di amico intimo, prediletto. " Il papa 1' à... per suo drudo più pri-
vato „ reca l'antica (ma di quanto?) cantilena giullaresca toscana;
la Cronaca pubblicata dal Villari, all'anno 1226: " Questi, Gre-
gorio IX) era imprima cardinale vescovo d'Ostia, ed era il più
drudo caro amico che Io 'nperadore Federico avesse in corte. „
— XII, 57. Dante a S. Domenico dà le lodi, che Pietro Vidal
aveva date ai Genovesi ( Onant ìwm ) :
Son a lors amics amoros
et als nemics orgolhos.
Cfr. R. de \'aqueiras [Erani rcqiiier):
qu' ilh es als pros plazens et acolndans
et als avols es d' ergulhos semblans.
XII, 67-72.
E perché fosse, quale era, in costrutto,
quinci si mosse Spirito a nomarlo,
dal possessivo, di cui era tutto.
Domenico fu detto : ed io ne parlo
si come dell' agricola, che Cristo
elesse all' orto suo per aiutarlo.
Spero di non essere compreso tra i scctatores ignorantiac se ri-
ferirò due strofette di Guittone aretino.
O nome ben seguitato
e onorato dal fatto,
Domenico degno nomato,
a dontiiie dato for patto !
Chi tanto fu per Dio tratto,
già fa miir anni, in vertute,
d' onni salute coltore?
- 89-
Agricola a nostro Signore,
non terra, ma cori coltando,
Fede, Speranz' e Amore
con vivo valor sementando,
oh quanti beni, pugnando!
Fai diserti giardini
con pomi di fino savore.
QueL Guittone, solito in vocabiilis atqtie constructionc plebcsccre,
ebbe talora pensieri, imagini, epiteti non indegni di Dante. —
XII, 8o-8i. Dobbiamo spiegare Dante con Dante? Ebbene, in-
vece di ricorrere a S. Girolamo e ad altri etimologizzatori, sen-
tiamo come egli — senza, si badi, aver bisogno del vocabo-
lario ebraico — interpretasse il nome Giovanna (V. N., xxiv):
* E lo nome di questa donna era Giovanna.... tanto è quanto
dire Primavera, perché lo suo nome Giovanna è da quel Gio-
vanni, lo quale precedette la vera luce, dicendo: Ego vox da-
niantis in deserto: parate viani Domini. „ — XII, 99. " Il Ce-
sari avvisa che Dante avesse qui l'occhio ai versi di Lucrezio:
quum moUis aquae „ ecc. Conobbe Dante il poema di Lucrezio?
Posso ingannarmi ; ma credo di no. — XII,. 144, Discreto latino
mi pare reso poco bene dalla traduzione del Poletto: " discorso
retto, ben pensato. „ Più esatto, per quel, che della discrezione
si legge nel Convito, mi parrebbe: reverente. Tommaso aveva
discorso di S. Francesco con grande rispetto; Bonaventura, in
sostanza, mette fine alle sue parole ripetendo il pensiero del-
l'introduzione: ha parlato in lode di S. Domenico, perché Tom-
maso aveva /ave/iato si bene di S. Francesco.
XIII, 40-41. Il petto di Cristo, forato dalla lancia, soddisfece po-
scia e prima, tanto, che vince la bilancia d'ogni colpa; ossia:
la morte di Cristo valse a sanar le colpe commesse e dopo e
prima di essa. Le due spiegazioni egualmente accettabili per il
Poletto trascurano o rompono il legame, che unisce soddisfece
con poscia e prima. — XIII, r34-35. Imagine usata spesso.
Chiaro:
Perch' io veggio del pruno uscir la rosa.
— 90 —
XIV. 117. Ingegno ed nrfe vanno di conserva nelle rime de*"
provenzali e de' nostri. " Fin amors me dona '1 geing e l'art ,^
canta E. Caircl [.Ibril), ed anche:
Sotilsmen trai
e desten per travers
falsa amistatz ab engeing et ab art.
Allo Stesso modo B. de Born [Ges de far):
tant es subtils mos genhs e m' artz,
R. di-Miraval (" Amors dona l'art e '1 geing „) e cento altri.
Per conseguenza, appare incompiuta, se non proprio inesatta la
chiosa: " Con diversi mezzi, come imposte, stuoie, tende. „
XV, 77. Mancano gli esempi di igiiali " come numero sin-
golare. „ Eccone uno di frate Giordano (xxv): " Iddio.... rice-
valo dalle sozzure e fallo iguali co' prencipi del popolo suo. „ —
XV, 92. Cognazione usa Dante alla latina, intendendo " quibus
maioribus, quibus consanguineis „ (V. Cicerone, De Invent., I, xxiv).
— XV, loi. Se la lezione migliore è gonne contigiate, perché
lasciare donne nel testo? Anche io credo che, nel bel mezzo
dell' enumerazione di ornamenti donneschi, non possano conve-
nientemente trovar posto le donne stesse. Audefroi le Bastart
narrò d'Isabella, che aspettava Gerardo:
Vestue fu la dame par cointise.
Nella sirventesca di Pietro Base, una donna si lamenta d' una
legge suntuaria, e dice:
la sentura in' esclaia
qua yeu solia senchar;
lassa ! non 1' aus portar. —
XV, io6. Il poeta si ricordò dell'osservazione di Cicerone {De
Off., I, 39 I : " In domo clari hominis, in quam et hospites multi
recipiendi et admittenda hominum cuiusque modi multitudo, adhi-
— 91 —
benda cura est laxitatis; aliter ampia domus dedecori saepe do-
mino fit, si est in ea solitudo. „ — XV, 107. Frate Egidio (II,
xvii): " Sardanapalo.... era si nontemperato, ched elli s' era tutto
dato ai diletti de le femmine e de la lussuria, e non usciva fuore
de la sua camera per andare a parlare ad alcuno barone del suo
reame.... Che tutte le sue parole, e tutto il suo intendimento era
ne la camera in seguire le sue malvagie volontà di lussuria. „
Potranno le parole di Egidio essere suggello, che sganni chi
vuole si restringa 1' allusione " al lusso e alla morbidezza delle
abitazioni „? Si badi che cantera, [chambre, cambra, zambra)
significò propriamente la camera da letto. (') — XV. 116. Molto
prima del Sacchetti, molto prima di Dante le donne, e non della
sola Firenze, usavano biacche e belletti. Sarà necessario ricor-
dare gli allegri contrasti del monaco di Montaudon, riferire la te-
stimonianza di Boncompagno: " Scio quod illas diligere consue-
visti, que suas facies cerusa et unguento citrino dealbant, que
rubent ex appositione bambacelli et florere videntur ex coloribus
appositis „? Si veda quel che dice frate Egidio (I, xvii) del
" fardo, per lo quale le femmine si dipingono vermiglie o bianche,
cioè bambagello o biacca „, e, nelle Rime Genovesi, V invettiva
contra eas qui pingnnt faciem, e il sonetto di C. Angiolieri Quando
mia donna.
XVI, IO. Cfr. Salimbene: " UH de Apulia et Sicilia et romani
Imperatori et summo Pontifici dicunt tu; et tanien appellant eum
Dominum, dicentes; tu Messer. „ Il Poletto, seguendo il Casini,
biasima i commentatori antichi d' esser caduti in errore, perché
fecero risalire il primo uso del voi, in Roma, ai tempi di Giulio
(') Leggo nel fase. 3 del voi. IV (maggio 1897) del Bullettino della Società
dantesca, p. 131, che neW j4cadeniy (4, 352, n. 1279) il Paget Toynbee „ trova
la fonte dell'allusione di Dante a Sardanapalo in questo passo del De regimine
principum di Egidio Romano, autore che il poeta conosceva certamente, giacché
lo cita nel Convivio (W, 34): si decet etc. Il qual passo cosi suona nell'antica
traduzione italiana (e. 1288). " Quello re Sardanapalo era si non temperato ,,.
e via di seguito sino a " lussuria „. Il recensore non ha ricordato che il riscontro-
era già, per mezzo mio, comparso nel Bullettino del 1895 (voi. II, p. 203).
— 92 —
Cesare. Non l"u de' soli commentatori questa opinione. Fatti di
Cesare, W, vii: " Andonne a Roma. Li Romani che v'erano, li
fecero grande onore, dicendo centra loro costumanza: boi andiate
e ben vegnatc; che solevano dicere a uno solo uomo : ben venglii,
òen vadi tu. „
XVII, 58. " Sa di sa/e ecc.; costa caro. „ Ma Dante parla di
pane comperato co' suoi danari, o di pane ottenuto dalla pietà
altrui? Intende del prezzo, o del sapore? — XVII, 83-84. " Qui
la voce affanni.... significa le fatiche, le cure in servizio del pub-
blico bene. „ Oh, e perché, dunque, censurare il Tommaseo di
avere spiegato: le onorate fatiche? 11 poeta, o m'inganno, loda
Cane cosi di non curar le ricchezze, come di non curar dispia-
ceri, travagli (altro non significa affanno). — XVII, 129. Sembra
proverbiale. Cecco Angiolieri:
Là dove non mi prude, si mi gratto.
Guido Orlandi:
come quei che rogna gratta,
che sente '1 mal quand' cHi e scorticato.
E un trovatore (B. di Pradas?) non credette offendere la sua
dama affermando:
gratar me fai lai on nom pru. —
XVIII, 46. Rinoardo, 1' eroe di Aliscans, fu cognato di Gu-
glielmo d' Oringa. Compi imprese straordinarie arnlato d' una
pertica, o bastone, per cui è conosciuto nell' epopea francese
come Rainouart ati tinel. — XVIII, 109-111:
Quei che dipinge li, non ha chi il guidi,
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù, eh' è forma per li nidi.
E una parentesi, in cui Dante s' indugia un momento, dopo aver
narrato come le luci de' beati avevano preso figura di aquila;
— 93 —
perciò non vedo la necessità di intender /or;;/^; nel senso scola-
stico di essenza. Anche, trattandosi di una digressioncella, a cui
dà occasione quel maraviglioso coniporsi delle luci in figura di
aquila, non vedo la necessità di prender tiùù' per altro che per
nidi di uccelli. Non congiungerei in un solo concetto, in una
proposizione sola, esso guida e quella virtiì: non Dio diretta-
mente, secondo le dottrine professate dal poeta, bensì le intel-
ligenze e i moti del cielo producevano su la terra le varie forme
viventi; perciò lascerei stare da sé le parole esso guida. La virtù
[del cielo) operando su gli elementi, dà vita, tra le altre creature,
anche agli uccelli; per entro i nidi, ne' nidi, assume forme di
uccelli. — Altra volta, pensando che, secondo le dottrine di Dante
e del tempo suo, 1' essere vivente, la creatura occupava il quinto
gradino d'una scala: Dio, l'intelligenza, il cielo, la virtù, l'effetto
della virtù, scrissi : " Dante dice che la virtù si rammenta da lui
{Dio), possiamo, dunque, intendere: la virtù si rammenta di pro-
ceder da Dio; si rammenta, perché non guidata immediatamente
da lui. „ E citavo Ristoro (VII, in, iv): " Quella virtude, la quale
è dal cielo, e' ha a significare e ad operare sopra la spezie „ ecc.,
e il De Vulgari Eloquentia (I, xvi): " Sicut simplicissima substan-
tiarum, quae Deus est, qui in homine magis redolet quam in
bruto, in animali quam in pianta, in hac quam in minerà, in hac
quam in igne, in igne quam in terra. „ Ora, per determinare il
valore grammaticale della locuzione da lui si rammenta, confron-
terei il passo con ciò, che, nel canto vii del Purgatorio, si legge
della probità:
e questo vuole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Resta a vedere se l'ultimo verso non si debba scrivere cosi:
quella virtù, che forma per li nidi.
XIX, 14-15. Il Poletto pensa, come pensava il Perazzini, che
l'Aquila dica: " la gloria celeste non si lascia acquistare dal
— 94 --
solo desiderio, se non è congiunto alle buone opere „, e che il
Poeta " ribadisca il chiodo „ aflermando altrove:
Regniifit coelonnn violenza paté
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate.
Ora, caldo amore e viva speranza in che, o quanto differiscono
da desìo.'' Per questo riscontro, appunto, si prova che vincere ha
significato diverso ne' due passi diversi. L'Aquila dice: la gloria
resta sempre di gran lunga superiore a qualunque desiderio. —
XIX, 34. Federico II si vantava d'aver portato dall'Oriente in
Europa l'uso di mansuefare i falconi col cappello: " et usum ca-
pelli sic approbatum a nobis, moderni nostri citra mare ha-
buerunt. „
XX, 103-105. Frate Giordano, xxxii: " Vedete qui che dicono
i santi, che i pagani non fuoro al tutto sanza alcuna fede; impe-
rocché tra pagani fuoro molti di quelli che credettono Cristo,
eziandio anzi eh' egli incarnasse . . . Sicché si truova di molti pa-
gani, che ebbero fede in Cristo e aspettavanlo, e che '1 deside-
raro, e molti ne morirò nella fede sua, credendo e sperando che
dovesse venire, avvegnaché non fosse ancora venuto ; i quali, cre-
dono i santi, che tutti sieno salvi. „ — XX, 138. Frate Giordano,
XX : " Sono (gli angeli) congiunti lui in una voluntade, che ciò
che vuole Iddio si voglion eglino. „
XXIII, I segg. Il testo ha: gli son grati, la nota commenta
aggrati. \J ardente affetto non è quello dell'uccello per i figli;
bensì la brama di vedere spuntare il Sole, e la locuzione va con-
frontata con il tu hai cotanto affetto di Francesca. — XXIII, 130.
" Si soffolce... qui trattandosi d'arche, vale è contenuto, sta den-
tro, quasi poggiasi in loro. „ Piuttosto: si adutui, si addensa.
XXIV, 75. Ne' versi del Notar Giacomo, Pisa non tiene in-
terna, ma teme interna d' orgogliosa gente (e pare si debba spie-
gare nel senso del provenzale tensa, disputa, tenzone, contesa, non
in quello di intendimento, che piacque al Borgognoni); perciò
— 95 —
non possono servire a provare che intcnza valga, nel verso di
Dante, denominazione o comelto. — XXI\', 141. " Sofferà, soffre,
ammette. „ Anche consente, pernietle, come in questo caso. " Terra
tu cum o sofers? „ domandava una volta G. di Borneill.
XXV, 19-22. Si paragonino con un' imagine di U. Brunet
{Ah plazer ) :
e '1 colombet pel gaug d'estiu
mesclon un amoros tornei,
que dui e dui fant lur dompnei,
qua par c'amors baizan los liu.
Pande è in Guittone (" come certo in {scrittura pande „) e in
altri. — XXV 135. " Fischio, dato dal nocchiero per segnale di
riposo, o per rallentare il corso della nave. „ Se ciò fosse, non
avrebbero tutt' i torti quelli, a' quali 1' " immagine „ non sembra
molto conveniente. A me pare si tratti del suono d' un piccolo
strumento, zufolo, fischietto, (fraschetto nell'Ariosto), non della
bocca del nocchiero.
XXVI, 22. Non comprendo perché " il vaglio porti all' idea
di farina ■„,. Altro è vaglio, altro è staccio. — XXVI, 62. Amor
torto e amor diritto sono del frasario della lirica cortigiana pro-
venzale e italiana. Chiaro (Ani. Rime volg., Ili, ccl):
...io veggio un uom morto d'amore
per dritto amare ed esser servidore,
a suo poder, di donna tuttavia.
XX\"I, 74. " Nescia, inconsapevole, priva di discernimento „,
e basta. C'era da dir tanto! 11 Zingarelli: " Nescio, lat. ncscius.
Il Nannucci, Voci e Locuz. 209, lo confronta col prov. nesci.
E ozioso dire che non si può trattare d' importazione. Può con-
frontarsi la frase italiana non fare il nesci. „ E anche questo
può parer poco. Dante prese scusso scusso dal latino il voca-
bolo? Lo prese dalla lingua parlata in Firenze? Finché non si
risponde a una di queste due domande con un bel si, non sarà
ozioso pensare al provenzale ned o nesci^ visto e considerato
- 96 -
quanta pavte della nostra primitiva lingua poetica dal provenzale
discenda. Il vocabolo s'incontra in un sonetto di Chiaro:
I\Iolti omini vanno ragionando
dicendo che 1" amore è degna cosa,
e face il lolle assai gire amendando,
lo scarso largo con grazia copiosa,
lo nescie ben saccente sermonando,
lo vile prò', e la noia gioiosa.
Vi s' incontra perchè Chiaro traduceva da Amerigo di Pegulhan
( Cd que s' irais ) :
Ancara trob mais de ben en Amor
que '1 vii fai car, e '1 neci gcn parlan
e r escars lare, e leial lo truan
e '1 fol savi ecc.
XXVI, 85-86. Paragone ovvio, che Dante ha rinfrescato e nobi-
litato nel terzo verso.
B. de Ventadorn, Lo rosstgnols:
Aissi cum lo rams si pleia
lai o lo vens lo vai menan.
XXVI, 99. Ant. Rime volg., cui:
Co' nvoglia amorta foco
Amor pure accendendo.
XXVI, 124 segg. Domanda il Poletto: " Vi par egli presumibile
che in circa dieci anni... Dante, coi meschini sussidi che la filo-
logia poteva porgere allora, abbia potuto fare tali studi ecc. da
credersi in dovere, in cosa di tanto momento, di ritrattare un'opi-
nione sostenuta un decennio prima, (quella che la lingua di
Adamo fosse rimasta agli Ebrei anche dopo la dispersione delle
genti) e di accamparne e sostenere un'altra radicalmente contra-
ria? „ E perché no? Ritrattò l'opinione su le macchie della Luna!
Sussidi filologici non gli bisognavano e, certamente, egli non li
cercò; gli bastava più attento esame del racconto biblico, ovvero
più diligente uso del criterio, eh' egli ebbe, della mutabilità delle
— 97 —
lingue. Gli bastava pensare: 11 peccato di Adamo condannò lui e
i discendenti all'imo d'ogni malore; perché mai, in tanta sven-
tura, doveva rimanere illesa la lingua parlata da Adamo nel Pa-
radiso terrestre? — XXVI, 130. Frate Egidio III, 11, xxii: " Na-
turale cosa è che l'uomo favelli, e la natura lo 'nsegna all'uomo;
ma la Tavellatura qual sia, o tedesca, o francesca, o toscana, la
natura non la insegna, anzi conviene che 1' uomo la 'mpari da sé
o per altrui. „
XXVII, 136-38.
Cosi si fa la pelle bianca, nera,
nel primo aspetto, della bella figlia
di quel oh' apporta mane e lascia sera.
Sinché il terzetto sarà interpunto al modo che si vede, non po-
trà essere compreso. Tra le molte proposte, il Poletto si sente
" indotto a starsene colla spiegazione comune „ — ma qual' è?
— e nella bella figlia del Sole, scorge la natura umana, pure
affermando „ che nella frase non è possibile intender altro che
il Sole fisico „. Si sente indotto, tra l'altro, dal fatto che, secondo
Aristotile, citato nel .De Monarchia, " generat homo hominem et
sol „. Ma Dante, mentre si serve del Filosofo, lo corregge:
" Humanum genus filius est codi quod est perfectissimum in
omni opere suo „! Hiiiuanitìu gcnits non è lo stesso che natura
umana, come deve riconoscere chiunque legga solo il principio
del De Monarchia (I, iii): non può mutar sesso, passando dal
latino in italiano, se non a condizione di mutar significato.
Umanità, che io sappia, per humanum gcnus, non si diceva ai
tempi di Dante.
A mio credere, qui si parla proprio di pelle, ma non d' uno
stesso uomo, prima fanciullo, poi maturo; della pelle degli uo-
mini, che, secondo le razze, diremmo noi, secondo i climi, dice-
vano al tempo di Dante, in alcuni luoghi della terra è bianca,
in altri nera. " E s' egli si truova crimate che faccia li uomini
bianchi, per lo suo opposito è mestieri che si truovi climati, che
faccia li uomini neri „ dice Ristoro (VI, x). E dove stanno,
TORRACA. n
- 98 -
quali sono gli uomini neri? Risponda Macrobio (/// Soinn. Scip.^
II, x): " Circa Oceani oras non nisi Aethiopes habitant, quos-
vicinia solis usque ad speciem nigri coloris exussit. „ — Gli Etiopi
furono condotti a Troia dal loro re Mennone:
eoasquc acics et nigri I^Iemnonis arma
vide stupefatto Enea rappresentate nel tempio di Cartagine
( Acn., l, 489). Mennone, testimone Ovidio ( Metani., XIII, 575 segg, )
era figliuolo di Titone e dell'Aurora, la bella figlia del Sole! Per
conseguenza, il poeta ha voluto dire: cosi la pelle bianca degli
uomini diventa nera là dove priuiamentc apparisce l' Aurora, —
ovvero : nei luoghi, che /' Aurora vede prima di tutti gli altri, o,
infine : ne' luoghi dove, donde prima è veduta /' Aurora. Non si
tratta, giova avvertire, di erudizioni difficili e peregrine; Ovidio
e Virgilio tutti sanno quanto fossero famigliari a Dante; Ditti
di Creta, Darete Frigio, Benóit de Saint-More — il cui poema
Guittone di Arezzo possedeva e, a volte, citava e traduceva —
narravano a chierici e a laici le imprese e la fine immatura di
Mennone figliuol dell' Aurora, duce di Etiopi e d' Indi. G. di
Chàtillon aveva attribuito ad Alessandro il disegno di cercare
adustas
Aethiopum gentes et inhospita Memnonis arva,
Aurorae sedes atque invia solis adire.
La locuzione nel primo aspetto, per la sua concisione, per-
mette non meno di tre, forse più di tre spiegazioni. Aspectits
vale lo sguardo, la vista, la figura, V apparenza, il carattere e
chi più ne ha, ne aggiunga. Mette conto di cercare se altri passi
di Dante possano chiarir questo; uno del Purgatorio (XXXIII,
loS'S) abbastanza oscuro per sé, non aiuta se non a confermare
vario e quasi sempre difficile a cogliere il significato del voca-
bolo aspetto:
E più corrusco, e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come gli aspetti, fassi.
— 99 —
I commentatori hanno molto almanaccato; ma il nodo, il
groppo, — come ^/i aspetti — hanno evitato, o fìnto di non sen-
tirselo sotto la mano. Alla spiegazione dei pili, la quale ha essa
bisogno di Edipi — : " Il qual meriggio non si fa a tutte le re-
gioni in un luogo, ma a chi qua, a chi là, secondo i gradi del-
l' Equatore che le regioni co' loro vari meridiani intersecano „ —
posso sostituire una notizia più chiara, togliendola da Ristoro
(I, XXIII ): " E troviamo lo cerchio del mezzo cielo, che ne passa
da oriente a occidente, lo quale ne sta tuttavia sopra capo, se-
gando il cerchio del mezzo die per mezzo; in qualunque parte
noi andremo, dal settentrione al mezzo die, ed e contra, sempre
verrà con noi stando sopra quel cerchio, stando sopra capo, an-
dando noi sotto lo cerchio del mezzo die, lo quale non starà
fermo, ed e centra.... E '1 cerchio del mezzo die, segandolo {i!
cercìiio del mezzo ciclo) per mezzo, ne verrà tuttavia col sega-
mento sopra capo, e moverassi secondo il nostro andare „. In
altre parole, il meridiano varia secondo la diversa posizione no-
stra; dovunque noi ci troviamo, sul capo nostro passa il meri-
diano. Vien quasi voglia di considerare aspetti come voce verbale
e d'intendere: il meridiano si fa qua e là, secondo che lo guardi,
gli rivolgi r occhio di qua o di là. Ma consultiamo Macrobio ( In
Somn. Scip., I, xv): " Duo {circuii).... meridianus et horizon,
non scribuntur in sphaera, quia certuni locum habere non possunt,
sed prò diversitate circunspicientis habitantisve varientur. Meri-
dianus est in quem Sol cum super hominum verticem venerit,
ipsum diem medium efficiendo designai. Et quia globositas terras
habitationes omnium aequales sibi esse non patitur, non eodem
pars coeli omnium verticem despicit. Et ideo unus omnibus me-
ridianus esse non poterit, sed singulis gentibus super verticem
suum proprius meridianus efficitur „.
XXVIII, 55-56. " Finora non sappiamo che alcun codice abbia
la lezione esemplato, onde la non si può accogliere per verun
conto „. Or come va che, nell' edizione piccola della Commedia,
curata dal Poletto, sia stata accolta?
Il Poletto disputa lungamente per riuscire a provare che nei
due versi:
Udir conviemmi ancor come 1' esemplo
e r esemplare non vanno d' un modo,
tanto valga esemplo quanto cseiiiplarc. Ma se Dante, altre volte,
usò indifferentemente le due parole a denotare il modello, V ar-
chetipo e simili, qui, ponendole l' una di fronte all' altra, volle,
dare ad ognuna il valore proprio. Che, nel primo verso, esemplo
stia per il mondo sensibile e, nel secondo, esemplare per il mondo
soprasensibile, si può provare con la scorta del linguaggio can-
celleresco del tempo di Dante e con l' autorità de' grammatici
del Medio Evo. Leggiamo nelle Consulte che, nel 1291, l'amba-
sciatore di Siena Ser Giovanni Paganelli annunziò ai Fiorentini
aver il Papa mandato una certa lettera, " de qua litera idem
Ser Johannes reduxit exemplum.... in quadam cedula „. E leg-
giamo nel Graccismus (XI, 81-82):
Exemplar liber est, exemplum quod trahis inde:
exemplum trahitur, exemplar dicito de quo.
XXVIII, 8991. " Credo che il Poeta volesse dire.... che, mo-
vendosi e levandosi ora per dimostrare la letizia, che provavano,
gli Angeli, pur rimanendo dentro al loro cerchio rispettivo, si
mostrassero come scintille, in quella guisa che da un ciocco arso
sbattuto si staccano e si levano le scintille (e questa immagine
r abbiamo già veduta più addietro....) e queste scintille eran tante,
che non si potevano numerare „. Le faville de' ciocchi arsi per-
cossi surgono, dice il poeta; quando il ferro è arroventato, disfa-
villa dice il poeta stesso, ossia manda faville fuori di sé; disfa-
villare da alcunché si legge nel Purgatorio (" ed onde ogni scienza
disfavilla „): non si può, dunque, non si deve credere che gli
Angeli si mostrassero come scintille pur rimanendo dentro alloro
cerchio rispettivo. Non solo si mostravano fuori de' cerchi, ma
ognuna seguiva il cerchio proprio [lo incendio), girava perché il
cerchio continuava il suo giro. — XXVIII, 103. " Vonno, vanno „.
lOI —
Piuttosto: volvono o volgolo, come, da /oòòo^/o, /»o;/;/o nel terzetto
precedente.
XXIX, 143-45. Frate Giordano xix: " Come lo specchio
quando è intero che mostri una faccia, e quando 1' hai rotto in
più parti, in tutte è interamente quel medesimo volto „. — XXXI,
105- " Qualcuno intende che aulica faìna si riferisca al cominciar
della divozione per la Veronica; qualche altro, il desiderio del
pellegrino, che ne senti parlare da fanciullo, onde il desiderio di
vederla in lui si fece si vivo „. L' una e 1' altra spiegazione non
danno un senso chiaro, facilmente intelligibile. Perché la lezione
vera non potrebbe essere antica fame? La giustifica, anzi la ri-
chiede il resto del verso : non si sazia. E cosi antica e cosi forte
la brama del pellegrino, che, a vedere la santa imagine, egli non
può d' un sol tratto saziarsi, ma sta a mirarla intento fin che si
mostra.
XXXIII, 15. Frequente ne' rimatori del Duecento, e quasi non
dissi proverbiale. Chiaro [Ani. Riìiie volg., \\\, cc.xxix):
.... amor mi fa volere
sanza 1' ale volare :
Monte (ivi, cclxxxhi):
E senza 1' ale prender puote volo,
ed anche (V, dcci.xvm):
Prendo il mio volo com'augiel senz'ali. —
XXXIII, 62-63. Cfr. R. Bovarelli, Al cor:
don tals doussors inz al cor me dissen,
qe 'm ten lo cors frese e gai e rizen. —
XXXIII, 80.81. Cfr. Chiaro {Ant. Rime volg., Ili, ccxxvi):
Giungendo ben miei rai con quei del Sole. —
I02
XXXlll, 90. " Il Monti, alludendo all'impresa degli Argonauti,
poetò:
Quando Jason dal Pelio
Spinse nel mar gli abeti,
Il primo corse a fendere
Il casto seno a Teti „.
Povero Monti I Poveri versi! Mi rincrescerebbe finire con la
censura d' una citazione sbagliata, se da siffatte censure si fosse
astenuto il Poletto. Dunque.... vniiam daìints, con quel, che tutti
sanno.
IV
Questo novissimo ed amplissimo commento del poema sacro,
oltre che riassumere o, se si preferisce, assommare gli studi lunghi
e amorosi di ben " cinque lustri „; oltre che mostrare come
Dante sia inteso e spiegato su e dalla cattedra speciale, la quale
il Pontefice, " lasciando ad altri le ciancie sonore „, volle " in
" Roma erigere all' Allighieri „ ; riassume, assomma, mostra le
condizioni presenti della critica dantesca cattolica e, per certi ri-
spetti, di tutta quanta la critica dantesca. Secondo me, sarebbe
tempo, e ne offrirebbe occasione opportuna il lavoro del Poletto,
di chiudere questi rivi e aprirne di nuovi, con metodi più schiet-
tamente moderni, pili veramente critici. La giustezza del concetto,
che accenno, ed esso concetto scaturiscono dall'esame diligente,
che ho fatto, di queste duemiladugento pagine; ma, perché le
osservazioni mie erano, per necessità, numerosissime, alcune
ne ho tenute per me; altre ne ho messe insieme nei fogli,
che precedono ; qui raccoglierò parecchie di quelle — non
tutte — che si riferiscono alla illustrazione propriamente storica
del poema. È la parte non so, col rispetto dovuto all'autore, se
più debole o meno curata del commento; ma si capisce sia cosi:
anche non volendo tener conto degli errori materiali di storia e
di cronologia, devo dire con rincrescimento che il Poletto non
~ 103 —
Ila fatto, quasi sempre, se non servirsi de' commenti anteriori al
suo. Non ha iniziato indagini per proprio conto; non s'è curato •
<ii informarsi delle indagini altrui, nemmeno di quelle rese di
pubblica ragione prima del 1890. Ma la via lunga mi sospinge e,
senz' altro, vengo agli appunti.
Inferno, V, 94-96. " Secondo le ultime ricerche del Tonini „
scrive il Poletto, " il lugubre fatto „ della morte di Paolo Mala-
testa e di Francesca da Polenta avvenne " nel 1276 „. Veramente,
il Tonini fu, nell' affermare, meno risoluto; a ogni modo. Paolo
viveva ancora nel 1282-83, quando tenne in Firenze la carica di
Capitano del popolo.
VI, 51. Oltre il rimatore Ciacco dell'Anguillaia, conosciamo
un Ciacco di Buoninsegna per mezzo d' un documento del 1264;
possiamo, perciò, ritenere fosse nome Ciacco, non soprannome:
di nomi, che a noi paiono strani, si farebbe una curiosa raccolta
nelle cronache e nelle carte fiorentine e non fiorentine del Du-
^ento. Se il Ciacco dantesco avesse avuto altro nome " battesi-
male „, Dante, il quale non nasconde una certa pietà per lui, non
gli avrebbe, forse, detto bruscamente: " Ciacco, il tuo affanno „ ecc .
non lo avrebbe, voglio dire, chiamato col nomignolo dispregia-
tivo. Se potesse provarsi che il goloso dell' Inferno dantesco e il
rimatore furono una stessa persona, non per questo dovremmo
•crederlo " non fiorentino „; l'Anguillaia era nel contado di Fi-
renze, e il cod. vaticano 3793 porta il contrasto Gemma laziosa
sotto il nome di " Ciacco dell'Anguillaia di Firenze „. Al più,
nelle prime due parole del verso:
voi cittadini mi chiamaste Ciacco,
potremmo scorgere l' intenzione di distinguere gli abitanti della
città da quelli del contado; ma Dante altrove usò cittadini nel
senso di concittadini. — VI, 70. Piace al Poletto l' interpretazione
dell* Andreoli : " che la parte Nera sormonti con l'aiuto di uno,
cui ella già fin d' ora sta lusingando „. Ma quell' uno, Carlo di
A'alois, fu semplice strumento di Bonifazio Vili. Risalendo a
piaggia, plaga, come, su le orme del Blanc, fa il Poletto, non si
— I04 —
riesce a cavare uiì concetto clìiaro dal frs/c pingi^ia dantesco;
perciò non sarà inopportuno ricordare che plaidcjar o plan'ar
provenzale e phxidicr francese ebbero, con altri signilicati, quello-
di trattare, accordare. Se Ciacco dicesse : " La parte Nera pre-
varrà con r aiuto aperto, con le armi di uno, il quale ora sta
facendo trattative „, il verso si risolverebbe senza stento in un'an-
titesi tra la forza usata dopo e i tentativi nascosti e tortuosi di
prima. Questo, non 1' altro di destreggiarsi, stare in fra due, pare
a me il significato di piaggiare in un passo del Villani riferito>
dal Casini: " Molti che alla prima avean tenuto col cardinale, si
furono rivolti per gli sdegni che vedeano; e i grandi di Parte
Nera, e simili quelli che piaggiavano col cardinale, si guernirona
d'arme e di gente „. Ma, forse. Dante, non trasse a sentenza
lontana dalla propria e usuale il vocabolo; forse qui, al pari di
plaidejar provenzale, di plaidier francese, di plaide^ar lombardo-
(è ne' Proverbi del Patecchio, 523 : " Se tu dei plaide(;ar con om
posent ni mato. Se tu poi si t' acorda „), piaggiare vale sempli-
cemente contendere, litigare, piatire, perché sincope di piateggiare^
di cui ci restano esempi nel volgarizzamento del Regg. dei Prin-
cipi di E. Romano (III, 11, 20: " le parti che piateggiano — il
causo donde 1' uomo piateggia „ ecc. ) e nel Dottrinale di Jacopo-
di Dante (XLVIII):
Cavalicr per difesa
ci dà per ogni offesa
che sia fatta al minore,
che non abbia vigore
di poter piateggiare
per sua ragion francare.
Piateggiare fu legittimo figliuolo di placitare, equivalente nel la-
tino del Medio Evo a litigare e, anche, a chiamare in giudizio-
come si può vedere nel Du Cange. Se ciò fosse, niente di meglio!
Perché proprio nell'aprile del 1300, su per giù ne' giorni, in cui
pili tardi il poeta doveva imaginare accaduto il suo incontro con
Ciacco neir Inferno, proprio allora, su la terra, il papa Boni-
fazio Vili ingiungeva al Comune di Firenze di desistere dal prò-
- I05 -
cesso contro tre fiorentini accusati di mercanteggiare in Corte df
Roma la libertà della patria; minacciava " pena della scomunica
e interdetto e della nullità d' ogni sentenza „ ; citava perentoria-
mente alla sua presenza Lapo Saltarelli e gli altri due fiorentini
tam inique et pcniitiosc delatioìiis hiiiiisìiiodi, ut dìtitnr, auctorcs
precipuos, sotto pena cxcomiiiiiiiicatiuiiis et perpetue iiiltahilitatis ad
oiiines lionores et qneenmquc officia. (') Si rammenti che il 15 giu-
gno 1300 fu consegnata ai priori, tra i quali era Dante, la " con-
dannazione fatta dal podestà messer Gherardino da Gambara,.
sotto la signoria precedente, il 18 di aprile „, di que' tre mac-
chinatori ai danni della libertà di Firenze e di tutta Toscana ,,.
a vantaggio del papa ('). Se, dunque, Ciacco dicesse: " Mentre
che io ti parlo, il papa piatisce; fra tre soli aiuterà con la forza
i Neri „, nessun altro passo del poema sarebbe al pari di questo^
traduzione esattissima di fatto storicamente accertato.
VI, 80. " Arrigo, dei Giandonati, secondo alcuni; secondo
altri, de' Fifantì, uno di que' che presero parte all' uccisione di
Buondelmonte nel 1215 „. Solita chiosa; però all'uccisione di
Buondelmonte partecipò Odarrigo ( in alcuni testi Oddo Arrighi)
non già Arrigo Fifanti. In buon punto mi giunge il bel volume
pubblicato per cura del Santini ( Docum. dell' antica Costit. deC
Comune di Firenze; Firenze, Vieusseux, 1895) in cui trovo Ar-
rigo Avvocati tra i consiglieri del 1216 e, insieme con Iacopo
Rusticucci, tra i consiglieri del Podestà nel 1237.
Vili, 32 segg. Un Filippo Argenti non s' è ancora, che ia
sappia, scoperto ne' documenti, dove possiamo spigolar notizie
" degli Adimari „. Un Filippo quondam domini Bernardi de Adi-
mariis qui dicitur Morsellus fu, nel 1266, registrato nell' estimo
de'danni patiti dai Guelfi ( Delizie degli Erud. Tose, VII, 256 segg. ).
IX, 112 segg. De' sepolcri di Adi trattava brevemente un ca-
pitoletto della Cronaca attribuita a Turpino (XXVIII), lungamente
(') Levi, Bonifazio Vili e le sue relazioni col Connine di Firenze, pp. 40
segg. e 90.
(*) Del Lu.ngo, Un doc. ined. del Priorato di Dante; nel Bull. d. soc. Dant., 189C..
— io6 —
un capitolo (XC) degli O/ia Iiiipcn'alin di Gervasio di Tilbury.
Eran creduti lavoro de' primissimi cristiani delle Gallie; Gervasio
assicura che Cristo apparve a posta per benedirli, e narra un
fatto avvenuto nicn di dicci anni prima che egli queste cose scri-
vesse ( I2II ).
X, 53. Fu veramente epicureo il padre di Guido Cavalcanti?
O non tornò mai alla fede? Se a lui fu indirizzata una canzone
di Guittone d' Arezzo, è lecito dubitare che Dante fosse esatta-
mente informato. Scrive l'aretino:
A messer Cavalcante e a messer Lapo
va, mia canzone, e di' lor eh' audit' aggio
che '1 sommo onorato signoraggio
pugnan di conquistar tornando a vita;
e, se tu sai, li aita ....
digli che afTermin lor cori a volere
seguire ogni piacere
di colui, che per tutto è nostro capo.
XI, 119. Quando Federico II mori, Manfredi non poteva " am-
bire all'Impero „, perché viveva Corrado. Ciò mostra quanto
sia verosimile il dicesi, che al Poletto non è rincresciuto racco-
gliere dai cronisti e commentatori guelfi.
XII, 107. " Alessandro non può essere che Alessandro di Fere
in Tessaglia, delle cui ferocissime violenze e crudeltà parlano
A^alerio Massimo e Diodoro Siculo ed altri „. Si noti che in una
stessa pagina del De nfficiis di Cicerone (II, 7), Dante lesse bia-
simi di Dionisio e di Alessandro Fereo. — XII, 112. 11 Poletto
crede che il figliuolo di Obizzo d' Este, uccisore del padre se-
condo il poeta, sia designato a questo modo " non perché figlia-
stro davvero, ma per 1' enormità del delitto „. La stessa opinione
espresse il Bartoli, e a me pare accettabile. Di una madre cattiva,
snaturata, fu detto e si dice madrigna; Claudiano e Arrigo da
Settimello rimproverarono, l'uno alla Natura, l'altro alla Fortuna,
il subito mutarsi di madre in madrigna; Cecco Angiolieri disse
a proposito di sua madre [Canz. Cliig., 435):
E eh' i' sia suo figliuolo a me non pare,
ma figliastro;
— lUJ —
Dante stesso scrisse altrove (Par. XVl, 59-60):
Se la gente, che al mondo più traligna,
non fosse stata a Cesare noverca,
ma, come madre, a suo figliuol benigna.
Allo stesso modo un figliuolo perfido, uccisore del proprio padre,
potè esser detto figliastro. Un passo del Partenopc.x, del quale il
Du Gange recò due soli versi, potrebbe, se non erro, recar lume
alla questione. Narra l'autore (297 segg.) come Anchise tradì i
Troiani, e come poi fuggi:
Anchises a ses nes en vait
puisqu' il ot la fait son atrait,
et ses Jillaslres Enéas,
car certes ses Jils n' est il pas,
car Enéas est dols et pis;
si n' avoit pas consence en Gris,
de grans biens faire soveniers,
et sages et buens cavaliers,
et Anchises est pleins d' envie
de contens et de félonie.
" Da cattiva radice „, soggiunge il troverò, " esce cattivo frutto,
perciò dico che Enea non era figliuolo d' Anchise „,
XII, 137. Il Cristofori pubblicò, nel 1890, alcuni atti di un
processo ordinato da Clemente I\', nel quarto anno del suo pon-
tificato, proseguito per ordine di Gregorio X, contro Ranieri dei
Pazzi incolpato di aver ucciso, ferito e derubato un vescovo, un
arcidiacono, parecchi chierici e non so quanti laici mentre, per la
Toscana, viaggiavano tutti insieme alla volta di Roma. Ammessa
per vera la notizia dell' Ottimo: " Questi (R. de' Pazzi) fu a rubar
li prelati della Ghiesa di Roma per comandamento di Federigo II
imperadore delli Romani, circa li anni del signore mille dugento
ventotto „, bisognerebbe ripetere il proverbio: " Il lupo perde il
pelo, ma non il vizio „. Ma 1' Ottimo sbagliò la data del ruba-
mento de' prelati e, forse, confuse in uno fatti separati 1' un dal-
l' altro da non meno di venticinque anni. Ranieri de' Pazzi non
viveva più nel 1280 {Delizie, IX, 193).
— io8 —
Xlll, 58. Pier della \'igna fu protonotario e logoteta, non
" eanceliiere del regno „. — XIII, 75. I primi versi dell' epitaffio
di Federico non sono citati esattamente: eccoli, secondo la lezione
del Capasso ( Hisf. Diplotii., p. 3 ) :
Si probitas, sensus, virtutum copia, census,
nobilitas orti possent obsistere morti,
non foret extinctus Fridericus qui jacct intus.
Ed ecco la versione di tutto 1' epitaffio — rimasta sconosciuta,
pare, agli studiosi dell'antica poesia — che fece, prima del 1273,
un cronista, probabilmente siciliano:
Se la Origene del nobile sangue
senso, probità, virtù et ricchezi
resistentia facexero et mitigizi
alla crudele morte, che sempre langue,
non forrea della vita extinto
Re Federico, che qui jace dentro.
Mille cento (dugento) L più che uno
erano cursi che si naque colui,
che ce portò salutifero duno,
quando 1' anima de Re Federico
alli vermi lassò lo corpo mendico;
passò da questo mundo in quella dia
che se fa la festa ad Santa Lucia.
XIII, I20. Il Carducci giudicò diretto a questo Lano il sonetto
Dossento sciidelin de diaìiiaiiti, che egli trasse da un memoriale
bolognese del 1293, e che ora si può leggere, in forma molto-
pili corretta, tra le rime di Cecco Angiolieri nel Canzoniere Chi-
giano (398). E Cecco stesso scrisse un' altra volta (445) :
Giugiole di quaresima a 1" uscita
e sucina fra 1' entrar di fevraio
e mandorle novelle di gennaio
mandar vorrei io a Lan, eh' è gioi compita,
ch'io l'amo più che nessun uom la vita,
ed ei mi tien per suo, e sono e paio.
Qui Cecco lo loda molto di bellezza, ma....
ma non dico cosi de la bontade,
né del senno, perciò eh' i' mentirla;
— I09 —
invece, nel primo sonetto l'aveva lodato e di bellezza e di
senno (').
XIV, 133. Dicono guelfo Iacopo di Sant'Andrea, e il Bartoli
suppose " la sua qualità di guelfo non fosse affatto estranea alla
scelta che di lui fece il poeta per popolare la mesta selva „. Sta,
però, il fatto che, nel 1237, Iacopo appare con altri fedeli di Fe-
derico II tra i testimoni di diplomi imperiali (') e che, nel 1239, si
recò al campo imperiale con Azzo d' Este. Visto venire alla sua
volta Ezelino, il marchese mandò innanzi Iacopo ed Ailo de' Com-
pagni, i quali " pregarono cortesemente Ecelino di ritirarsi o
alla diritta o alla sinistra, come pili gli piacesse ; ed Ecelino avendo
ciò fatto, ciascuno passò colle sue genti senza alcun disordine „.
Poco dopo, il 13 giugno. Federico fulminò severa sentenza contro
il marchese ribelle e contro i seguaci di lui; ma Iacopo non è
tra i condannati".
XV, no. Francesco d'Accorso — del quale molte notizie
avrebbe potuto raccogliere il Poletto nell' ultima edizione del Sarti,
e un aneddoto nelle Novelle antiche — , confessatosi colpevole di
aver esercitato 1' usura, ebbe da Niccolò IV comando " male parta
pauperibus largir! vel in pios usus erogare „ (^) Nel 1283 com-
però una casa da Venedico Caccianemico; nel 1292, al suo nipo-
tino Bartolommeo " adhuc in cunis vagienti et vix bimo, uxorem
destinavit Peregrinam Venetici Caccianemici viri nobilissimi filiam
paris etatulae, cum qua constituta dos est et sponsalia rite con-
tracta „. — XV, 112 segg. " Andrea de' Mozzi... fu da Bonifazio Vili
traslato alla sede di Vicenza, dove mori l'anno appresso il 26
agosto „. Appresso a quale?
XVI, 41-44. Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci posse-
devano case contigue in S. Michele in Palchetto. Altre case pos-
{^) Cfr. Navone, Le rime di Folgore ecc., lvi n.
(') Huillard-Bréholles, Hist. diplom., V, 122-23; Vergi, St. degli Ezelim,
III, 115-
(3) PoTTHAST, Reg. pOttt. II.
sedeva Iacopo in S. Lorenzo al IMugnone [Delizie, VII, 258):
viveva ancora nel 1266.
XMII, 50. " ì\'ticdico Caccianimico.... si crede morisse tra il
1290 e il 1300 „. I termini sono con troppa larghezza indicati. —
" Alcuni lo fanno uomo di sangue e di corrucci; altri lo dicono
cavaliere nobile, probo e valoroso „. Se badiamo clic probo e
valoroso avevano identico significato, non diremo col Poletto che
i chiosatori e gli storici " non vanno d' accordo „ nel definire
l'indole di Venedico. Ma perché non consultarli, gli storici? Essi
direbbero: Venedico, nel 1264, fu podestà d' Imola; nel 67, si ado-
però con i frati Gaudenti Loderingo e Catalano, e con molti altri,
a riconciliare le parti bolognesi venute al sangue, ma, pochi mesi
dopo, aiutava suo fratello Caccianemico (e tutt' e due erano isti-
gati dal padre) a uccidere Guido di Gruamonte, soprannominato
Palteiia, loro cugino; nel 73, fu de' primi a prender le armi contro
i Lambertazzi; nel 73-74, andò capitano del popolo a Modena e
nel 75 podestà a Milano; nel 79, con altri quarantanove de' Gè
remei, giurò pace a' Lambertazzi; nell* 83, tenne la podesteria d
Pistoia, dove alcuni credono lo vedesse Dante; nell' 87, fu man
dato a confine per aver suscitato rumore a favore de' Lamber
tazzi. Della parentela, che contrasse con lui Francesco d'Accorso
ho già fatto cenno. — XVIII, 122. " Dante conobbe Alessio In
terminelli.... probabilmente nel tempo eh' egli fu a Lucca „. Ma
quando fu a Lucca Dante? Gentucca gli fece piacere la sua città
parecchi anni dopo il 1300; Alessio nel 1300 si batteva la zucca
nelle Malebolge.
XXIV, 128-29. Dice Dante al suo duca:
e dimanda qual colpa quaggiù il pinsc
eh' io il vidi uom già di sangue e di corrucci.
Il commentatore spiega: " Il vidi, il conobbi „. Facile chiosa; ma
dove, come, quando? Il prof. A. Chiappelli si propose questo
stesso quesito tre anni or sono [La Cultura, 20 marzo 1892,
n. 12) e, ragionandovi intorno con il suo solito acume, mostrò
di supporre che Dante avesse conosciuto Vanni Fucci in Pistoia,
dove nel 1295 tenne la podesteria Mainetto degli Scali " che fu
poi suo compagno d' esilio „, e dove nel 1296 fu capitano del
popolo Palmieri degli Altoviti, " cioè appunto uno dei quattro
condannati con Dante nel 1302 „. Altre considerazioni aggiunse
il dotto professore dell' Università di Napoli a meglio render pro-
babile, se ho bene inteso, una o più andate del poeta a Pistoia.
Io le credo, mi affretto a dichiarare, assai probabili, quante volte
ricordo qual breve distanza separi Firenze da Pistoia, e quali
fossero le relazioni delle due città fra il 1290 e il 1300; nondi-
meno, un documento, non so se osservato da altri, m' invita a
pensare che il poeta potè vedere il ladro pistoiese fuori di Pi-
stoia e fuori di Firenze.
Dopo la battaglia di Campaldino, dal 1289 al 1293, Firenze,
alleata di Nino giudice di Gallura, combattendo guerra lunga e
quasi ininterrotta con Pisa, ebbe bisogno di soldati, e — come
pare — non bastandole le forze proprie e degli alleati, condusse
a' suoi stipendi parecchie masnade di venturieri, stranieri e ita-
liani. Straniero era il capitano supremo dell' esercito, il vincitore
di Campaldino, quell'Amerigo di Narbona, in grazia del quale
— e fu r ultima volta, forse — la moribonda poesia provenzale
trattò, con interessamento e con aff"etto, di cose italiane: la critica
nostra, occupatissima a rintracciar notizie del balio di Amerigo,
non pare se ne sia accorta. Comandavano piccole o grosse squadre
e compagnie, bene e puntualmente pagate dal Comune, Manente
da Sarteano, Stefano da Bibbiena, Bulgarino da Sarteano, Gu-
glielmo Catalani, Michele da Arezzo, Naldo da Perugia, Francesco
da Rieti, tutti certamente italiani, Giovanni di Chesta e Ruggero
di Lilla, che paiono francesi, venuti, è lecito supporre, con Ame-
rigo. Di tutti costoro, sia per il soldo loro dovuto, sia per le
operazioni militari, alle quali partecipavano, dovettero spesso
discorrere i consigli del Comune; di parecchi de' loro seguaci
dovettero a cagione de' cavalli, de' muli, de' ronzini " mortuis,
seu perditis, vel quomodocumque amissis „, per i quali il Co-
mune concedeva un compenso. Il 22 luglio 1292 il consiglio del
Capitano fu invitato a deliberare " super emendatione facienda
— 112 —
\'.\NM FiLio Fvccii DE PiSTORio de masnada domini Rogerii de
Lilla, de quodam equo, in quantitate triginta duorum florenorum
auri „ (') Da questa notizia ricaviamo che X'anni Fucci militò
sotto le bandiere iìorentine nella guerra contro Pisa, nella quale
•" prestò anch' egli servizio „ Dante Alighieri.
XX\'. 43. " Di Cianfa, da questo in fuori eh' ei fu della fa-
miglia de' Donati, nulla san dirci i commentatori „. Ebbene, ag-
giungiamo che nel 1280 era de* cavalieri aureati gueltì [Delizie,
IX, 104), nel 1282 uno de' consiglieri del Capitano per il Sesto
di Porta S. Pietro ( Cousultc, I, 135). — XX\', 148. Piiccius Sciau-
^atus et fila furono banditi nel 1268; Puccitis Sciancatiis de Gali-
gariis fu tle' Ghibellini, che giurarono pace a' Guelfi nel 1280
{Delizie, Vili, 218; IX, 92).
XX\'II; 46-48. Non riesco a indovinare dove il Poletto abbia
trovato che i Riminesi donarono \'errucchio ai Malatesta: è come
dire che i Ravennati donarono Polenta agli antenati di Fran-
cesca. Malatestino non fu " primogenito di Malatesta il Vecchio „
(e dire che il nostro commentatore cita altrove il Tonini!).
XXVIII, 16-19. Nessun cronista o documento contemporaneo
narra che il conte di Caserta " avendo avuto l' incarico di difen-
dere quel passo importantissimo (di Ceperano), lasciò libero varco
alle truppe nemiche „. Il passo di Ceperano fu lasciato senza
difese da Manfredi; Riccardo conte di Caserta difendeva San Ger-
mano. Ad Alardo di Vallery il Poletto, indotto forse dall' auto-
rità del Casini, regala la carica di consigliere di re Carlo d' Angiò ;
errore, perché il valoroso connestabile di Champagne capitò im-
provvisamente e quasi per caso a Tagliacozzo. " A celle heure
-et à cel point que li roys Charles ordenoit sa gent ainsi et ses
batailles, Erars de Waleri, chevaliers preus et renommez, et autre
chevalier de France qui repairoieni d' outre-mer par la terre de
Puille, vindrent en 1' ost le roy Charlon aussi comme angle que
Diex y eùt envoyez „ ecc. (*) Quanto prode e cortese cavaliere
(') Gherardi, Le Consnlle ecc., II, p. 200.
(*) Cfr. Oeuvres compleUs de Rutebeuf, par A. Jl'binal, III, 44, dove sono
raccolte molte notizie del vecchio guerriero.
— 113 —
fosse messer Alardo, si vede da una delle cento Novelle antiche
(ediz. Biagi, V ). — XXN'^III, 135. Non pure " i cronisti „; ma i
novellatori, i biografi antichi di Bertran de Born e lo stesso Ber-
tran chiamarono re giovane il principe Enrico primogenito di En-
rico li (re, perché coronato nel 1170J:
quar reis joves aviatz nom agut.
Per conseguenza, non è se non una sofisticheria mantenere nel
testo: re Giovanni. Domando: quali " antichi cronisti ci dipin-
gono Bertrando prode guerriero, ma inquieto e seminatore di
discordie? „ Il Thomas, invece, ci apprende: " Aucun des chro-
niqueurs officiels des regnes d' Henri II et de Richard Coeur-de
Lion ne semole connaìtre ce personnage. Seul, un moine obscur
de r abbaye de Saint-Martial.... prononce le nom de Bertran de
Born; mais sans faire allusion à son ròle politique „. Il Thomas
pubblicò il suo libro nel 1888.
XXIX, 27. Tra le case danneggiate da' Ghibellini, delle quali
fu compilato V elenco nel 1266, è notata " domum aliquantulum
" destructam „, nel popolo di S. Martino, appartenente a Geri del
Bello {Delizie, VII, 259). — XXIX, 109. Antichi e moderni non
sanno di Grififolino, se non ciò, che Dante ne dice: l'Acquarone
ritiene che V alchimista fu messo al fuoco al tempo del vescovo
Buonfiglio, " il quale resse la Chiesa sanese dal 1216 al 1252 „.
Sennonché Magister Grifolinns de Arczio viveva ancora nel 1259,
in Bologna, ascritto alla Società de' Toschi (^). — XXIX, 125-27.
Posto che quello Stricca e quel Niccolò, che Capocchio loda ironi-
camente, si debbano ritenere de' Salimbeni e non di altra casata, si
riferiscono ad essi due documenti del 1287 pubblicati dal Cristofori
{Misceli, stor. Rom., I, vii, 231-32). Per avere occupato alcune
terre del monastero di S. Salvatore del Monte Amiata, furono
citati a nome del papa " dominos Johannem, Strictam, Berta-
conem et Nicolaum de Salimbenis milites civitatis Senarum „.
(1) Gaudenzi, Stai, delle soc. del Pop. di Bologna, p. 414.
TORRACA.
— 114 —
Non so se alluda alla hiioìia sciiiiia un verso d' un sonetto, vera-
mente, verso la fine, molto oscuro di Cecco Angiolieri ( Canz.
Chig. 442):
Forse che riguardato par capocchio.
Ne fece un cenno il D'Ancona negli Studi di Crit. e St. lett., dove
e da notare che della putente Magna non indica la patria di Berto
Rinieri, ma il luogo, dond' è scritto e mandato a Berto il sonetto
Salute manda ecc. — XXIX, 131. Ignoro se altri abbia pensato
che Caccia d'Asciano potrebbe essere 1' autore della canzone
Per forza di piacer lontana cosa
è prossimana al core
(i due versi, belli, meritano d'essere citati insieme), la quale, nel
canzoniere vaticano 3793, sta sotto il nome di Caccia da Siena.
XXX, 44. Simone Donati " nipote di Buoso „ — fratello, se-
condo i documenti — qual vantaggio poteva aspettarsi dalla morte
di lui, che aveva eredi diretti? A questa circostanza non hanno
posto attenzione i commentatori, e nemmeno gli eruditi, che della
falsificazione del testamento hanno discorso. L' inganno dovette
essere ordito dal figlio di Buoso, Taddeo, il quale, giunta la volta
sua di testare, promise, e obbligò il proprio figliuolo a promettere
" solvere omnia legata olim facta et relieta per Dom. Buosum
patrem dicti Taddei „ [Delizie, IX, 123). Buoso viveva ancora
nel 1280.
XXXII, 69. Carlino D. Ciuppis de Pazzis il 2 luglio 1302 era
compreso tra i condannati ghibellini; il 3 agosto fu cancellato per
balia data ai Priori sopra ciò (Delizie, IX, loi). — XXXII, 119.
Sia pure " calunniosa 1' accusa „ di tradimento fatta a quel di
Beccheria; è certo che i Fiorentini giudicarono avesse buon fon-
damento. I " numerosi documenti „ prodotti a dimostrarla " ca-
lunniosa „, dimostrano solo che il papa, i Pavesi e gli scrittori
ecclesiastici adottarono opinione diversa da quella dei Fiorentini.
Opporre all' autorità del Villani la testimonianza del Malespini,
a questi lumi di critica storica, può parere, se non altro, un' in-
genuità, — XXXIl, 121. Gianni de Soldancriis recano le Coìisulte
ed altre carte della seconda meta del Duecento; lic Soldaìicriis
vi si legge anche di altre persone della famiglia (Gualteronus,
Tiniosus, Belioctus, Guido, GrifìTus de So/dancnis); perciò la le-
zione esatta del verso pare questa:
Gianni tie' Soldanier credo che sia,
e farebbe il paio con quella del XIV del Piirgalorio:
O Ugolin rf*' Fantolin, sicuro ecc.
XXXIII, 75. Secondo il Poletto, il conte Ugolino, vinto dal
digiuno il dolore, non mangiò la carne de' suoi, ma ne fece " come
un tentativo „. Dante non aveva ancora posto mano alla Divina
Co/iDiicdia, quando un altro fiorentino notava nel suo quaderno
di appunti storici: " E cosi morirono d' inopia fame tutti e cinque,
ciò fue il conte Ugolino, Uguiccione, Brigata, Anselmuccio e
Guelfo; e quivi si trovò che ['11110 mangiò de le carni all'altro „ (')
XXXIV, 97-98. " Il Buti: I signori usano di chiamare le loro
sale cainniinatf, massimamente in Lombardia „. Verissimo; ma
anche a Firenze. " Die iovis XXII februarii. Congregatìs dominis
Xllcim et duobus sapientibus prò sextu, congregatis in pallatio
Comunis in caminata Potestatis „ {Consulte, I, 11). " Credo di
aver provato in altro luogo che Burella fu nome proprio d' una
prigione in Firenze: cosi si spiega perché Dante stimasse neces-
sario avvertire d' essersi trovato in una burella naturale. La Bu-
rella era nel Gardingo, vicino alla cappella di S. Firenze; il
Comune la teneva in fitto.
Purgatorio, IX, 118. Manfredi mori il 26 febbraio 1266; ma
non " a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun pugliese „. Il Po-
letto stesso, in altra occasione, non cade in questo sbaglio, né io
Io noterei, se egli, qua e là, non fosse piuttosto acerbo nelle cen-
sure di sviste e di dimenticanze.
(1) Cronica Fiorentina, in Villari, / primi due sec. della St. di Firenze, II,
p. 251. Sembra sfuggita a tutti la testimonianza dell'annalista genovese del tempo.
— ii6 —
\', 64. A proposito di Iacopo del Cassero, meritavano d'essere
ricordate alcune dotte e acute pagine di I. 1>(.1 Lungo. W si legge
r epitafììo di Iacopo :
Italie sydus Martiniis copia legum
aggrcditur fidus doctorum conscia reguin
ecc., in versi, chi negherebbe?, " feroci „, ma non " leonini „.
L' arte poetica del Medio Evo li diceva collaterali, ovvero vciitrini
e caudati, perché " in ventre id est in medio et in cauda id est
in fine habent concinnitatem „. — V, 136. Anni sono, un bel di-
scorso del Del Lungo fece sperare chiuse una buona volta le
dispute su questo verso. Il Poletto le riapre; ma non con molta
chiarezza, giacché nel testo stampa disposa iido, nel commento
legge e chiosa disposata. Alle prove raccolte dal Del Lungo per
dimostrare che 1' inanellare e il disposare erano atti simultanei e
r uno compimento dell' altro, si aggiunga la testimonianza di F.
da Barberino {I^cgg. Vj:
Ma non vi lascio del di dell' anello,
quando si dicon le parole e' hanno
a fare intero il matrimon tra loro....
Le man non porga a colui che la tiene,
quando l'anello a lei si dona;
ina prima aspetti che quasi sforzata
la man sia presa.... •
Cosi ancor quand' ella è dimandata:
— Vole' voi consentire? in cotale
o simili parole,
aspetti r una e le due, e la terza
faccia soave e piana sua risposta....
poi si rimane colle donne
anzi che vada a lui....
Avien che questo giorno
ella si mena a lui.
La spiegazione, che piti " arride „ al Poletto: sei sa colui, il quale,
facendosi marito, me aveva avuto per prima moglie, non solo intro-
duce a forza nelle parole della Pia allusioni, che non contengono,
ma le costringe a far zuffa con la grammatica e col senso co-
— 117 —
niiinc, perche in verità ella direbbe : y</t7//^/6>.s7 ;//(7;7A> ad un'altra,
;;// aveva presa per moi^/ir.
\'l, i8. " A Marzucco indirizzò fra Guittone una canzone „.
Si, ed anche una lettera, nella quale ricordò un prestito fatto al
^' nobile molto e magno seculare „, quando fu assessore di
Arezzo, dal padre suo V'iva di Michele. Messer Marzucco di
messer Scornigiano giudice fu de' iiirisperiti sindici conimitnis
Pisani, che nel 1276 intervennero alle stipulazioni della pace con
Firenze.
Xlll, 121. " Xon fili; non ci tu mai (in Lunigiana) prima
del 1300; quando v'andò dapprima fu nel 1306, dopo la visita
che nell'agosto fece in Padova all'amico Giotto „. Di questa
visita il Poletto si mostra, qui ed altrove, tanto sicuro, che par
quasi crudeltà chiedergliene le prove. Certamente non è una
prova r epigrafe di Carlo Leoni. Oggi si dubita sinanche del-
l' andata del poeta a Padova nel 1306.
XI, 80. " Tengo per certo che mentre scriveva qui il nome
■di Agobbio, in riguardo ad Oderisi, dovesse rammentarsi d' altro
Eugubino, suo feroce nemico e persecutore, voglio dire Gante
de' Gabrielli.... e forse si rammentava d' altro cittadino di Gubbio
di Rosone de' Gabrieli „ ecc. Altri potrebbe tenere, invece, per
certo che, mentre scriveva questa frase. Dante dovesse rammen-
tarsi del lupo il' Agobbio.... — XI, 95. La risposta, che Benve-
nuto attribuisce a Giotto: Piiigo de die, scd fingo de nocte, era
stata pronunziata molti secoli prima da L. Mallio, qui optimiis
pictor Roniae ìiabebatiir secondo Macrobio [Satiir., II, 11). Tanto
è vero che Dante la udisse dall'amico suo in Padova! — XI, 97
segg. Nel passo:
cosi ha tolto r uno all' altro Guido
la gloria della lingua,
il commentatore intende " Guido dalle Colonne superato in ec-
cellenza da Guido Guinicelli „, e ciò non solo reputa vero, ma
pargli " che ci metta in largo campo, e ci richiami alla mente il
— ii8 —
periodo bolognese della nostra letteratura, vieppiù bello del pe-
riodo siciliano „. Potrei opporre: A Guido delle Colonne Dante
non dette mai lode speciale, non attribuì meriti di caposcuola;
potrei osservare: se il Poletto non giudica Guido Cavalcanti
tale da " non che vincere, pur pareggiare il merito e la lode
che r Allighieri si ampiamente concede al Guinicelli „, dal canto
suo Guido delle Colonne fu tal rimatore, che non dovette essere
gran merito per il Guinizelli 1' averlo superato. Ma badiamo ad
altro. Ha tolto dice Oderisi, e si deve intendere di tempo non
troppo lontano dal 1300 e, fors' anche, di persona tuttora viva
in quell'anno {civ. pciiucllcggia l'Vanco, l' onore è tutto or suo,
ora Giotto ha il grido)) il Guinizelli era morto nel 1276! Né
basta: se Oderisi, ossia Dante, facesse un confronto tra il rima-
tore bolognese e il messinese, con quanto rispetto alla cronologia
direbbe: il bolognese ha tolto la gloria della lingua al messinese?
Guido delle Colonne visse ancora più di dieci anni dopo la morte
del Guinizelli.
XIV. Le notizie, raccolte qui da' commenti antichi, di Guido
del Duca e de' romagnoli, eh' egli nomina, sono tutte inesatte
o monche; (^) ma commenti e scritture antiche non ignote al
Poletto non sono stati da lui esaminati con molta attenzione.
Due volte, infatti, dice che il compagno di Guido nella cor-
nice degl' invidiosi era Ranieri Paolucci o de' Paolucci da Cai-
boli; ma i Calboli s'imparentarono co' Paolucci molto tardi nel
secolo XIV. Più volte, qua e là, ricorre al Novellino; ma non
ricorda la novelletta, in cui messer Rinieri da Calvoli è rappre-
sentato in atto di pregar d' amore la donna di messer Lizo da
Valbona, mentre quest' ultimo " era dopo la parete de la camera „.
Tra Benvenuto da Imola e Pietro di Dante non sa vedere chi
racconti meglio un aneddoto di Guido del Duca e di Arrigo Mai-
nardi ; ma dimentica che esso aneddoto è riferito nel Novellina
a tre cavalieri di Romagna, uno de' quali Messer Polo Traver-
(■') Cfr. nella N. Anloìogia del i." settembre 1893 il mio articolo Le rimem^
brame di Guido del Duca.
— 119 —
sario. Non riesce a determinare se Folcieri da Calboli fosse po-
destà di Firenze nel 1302 o nel 1303; ma non ha nemmeno cer-
cato se mai di lui si potessero ricordare altre podesterie ed altri
fatti. A proposito, la nota : " Per ìiipotc alcuni intendono che
Folcieri fosse figlio d'un figlio „, simile a troppe altre, lascia
bene capire come il Poletto abbia studiato le allusioni storiche
del poema. Quegli alcmu e quegli altri sono i commentatori.
Bastava aprire il Cantinelli, scrittore sincrono, per sapere sicu-
ramente che Folcieri non fu figlio d' un figlio di Ranieri. Al
modo stesso, bastava aprire Salimbene per evitar di scrivere:
" Dicono che (Pier Traversaro) maritasse una sua figliuola a
Stefano re d' Ungheria „. Stefano d' Ungheria duca di Slavonia
sposò Traversaria pronipote di Pietro: non egli, bensì un fi-
gliuolo di lui e d* una Morosini fu re di Ungheria.
XX, 71. Carlo di Valois " secondo il Compagni „ entrò in
Firenze " il 4 novembre del 1301 „. Anche i sostenitori del-
l' autenticità della Cronaca riconoscono che la data è sbagliata :
fu " il di d' Ognissanti „.
XXII, 67-72. La similitudine di " quei, che porta il lume dietro
e sé non giova „ 1' abbiamo " in Paolo Zoppo, poeta della prima
metà del secolo XIII „. Della seconda.
Messer Paulo, di Bologna nato
e di Castel chiamato dalle genti,
nel 1268 vende una sua casa in Castello; parecchi anni dopo sì
pacificò con i monaci di S. Procolo, ai quali aveva fatto guerra
lunga e viva.
XXIV, 23. Di Martino IV non direi : " Prima Simone dai
Torso „, bensì, più esattamente: Simone di Brie o di Brian,
cardinale di S. Cecilia prima di diventar papa. Della forma dal
Torso noterei che non è solo nella Commedia, e del peccato, di
cui Martino è punito, avvertirei che gli è imputato anche dal
cronista Francesco Pipino, il quale, scriveva prima della pubbli-^
cazione della Commedia. — XXIV, 31. Messer Marchesino degR
Orgogliosi, figliuolo di Superbo, nel 1296 fu podestà di Faenza.
— XXIV, 43-45. Non nuova, ma non è punto inutile ripeterla,
r avvertenza : " Meglio è dire che Gentucca fu una donna luc-
chese che fu cara a Dante; sul resto non è serio l'insistere.,.,
perché non se ne sa nulla „. Non intendo, però, per quale ra-
gione, nella frase di Bonagiunta: " come ch'uom la riprenda „,
questo qualcuno potrebbe benissimo esser Dante medesimo, per
quello che disse in biasimo di Lucca, che ognun v' era barat-
tiere „. L'odi è come dire ////// e nessuno, e la frase era comunis-
sima, cosi indeterminata, in Italia, in Francia, in Provenza.
Ans diraii tiiit: Mi no pot om reprendre
de mil mal plait,
tolgo, a caso, da una poesia di B. de Born. Il colloquio di Bo-
nagiunta con Dante avviene nell' aprile del 1300, quando il primo
era morto da quattro anni, quando il secondo, probabilmente,
non aveva nemmeno imaginato di dover porre nell'Inferno un
anziano di S. Zita e nel Purgatorio Bonagiunta. — XXIV, 83-84-
II Casini crede che il poeta avesse rappresentato la fine di Corso
Donati come miracolosa, " immaginando eh' ei fosse tratto a coda
di cavallo verso l' Inferno „. Il Poletto crede, invece, che " quel-
r esser tratto dalla bestia verso la valle ecc., altro non significa
se non che il cavallo furiosamente correndo trascinava alla morte
quello scellerato „. Per trarre Corso all' Inferno in corpo ed
anima, la bestia avrebbe dovuto esser quella, che, secondo la
leggenda, portò Teodorico da Verona all'Etna, un diavolo in
forma di cavallo. Se Corso fosse stato veramente tratto verso
r Inferno, perché la bestia lo avrebbe percosso, lasciando " il
corpo vilmente disfatto „ a Firenze, presso la badia di S. Salvi?
XXVI, 92. Il Guinizelli " nel 1274 co' suoi compagni fu
cacciato in esilio, e mori due anni appresso, come affermano, a
\'erona „. Come affermano si riferisce alla data, ovvero al luogo
della morte? Il Poletto, che più volte ha dovuto cercare il senso
esatto di frasi dantesche rese men chiare da incisi come questo
— 121 —
SUO, avrebbe dovuto evitarlo. Gli atti relativi all' eredità del
poeta e alla tutela del figliuolo minorenne, pubblicati da L. Frati,
sono del 3 e del 13 novembre 1276. — XXVI, 1 18-120. Prose
di ronuiiiz:, secondo il Poletto, è allusione ai romanzi francesi in
prosa, alle Arturi regis oììibagcs piilcìicrrimae del De Viilgari
Eloqui'iitia. " Il Guinicelli affermò che Arnaldo in lingua d' oc, per
eccellenza di stile, fu pili glorioso di lui, che scrisse in lingua
di 6/' versi d'amore; e cosi vinse ogni più illustre scrittore di
romanzi in lingua d' oi7, dunque fra gli scrittori suoi contempo-
ranei delle tre lingue sorelle Arnaldo Daniello per invenzione e
per passione passò innanzi a tutti „. Resta dubbio che i versi
d' amore comprendano le poesie del Guinizelli e degli altri elo-
quenti italiani, preposti nel De l^itlgari Eloqiieiitia, per perfe-
zione e dolcezza, agli stessi provenzali ; non è esatto porre Ar-
naldo Daniello tra i contemporanei del Guinizelli. — 124-26. Da
qual documento si rileva che Guittone nacque nel 1220? Non è
stato inopportuno avvertire che Dante, in Firenze, potè conoscer
l'aretino; forse sarebbe stato non meno opportuno ricordare che
il nome Guittone, intorno al quale si almanaccò non poco, nella
seconda metà del Duecento era frequentissimo a Firenze e in
tutta Toscana. Il terzo verso è spiegato cosi: " Fin che il vero
vinse // grido con un numero di persone maggiore di quello
degli stolti, che a quel grido andavano dietro „. Ma Dante non
scrisse: il grido, bensì: di grido in grido, e perciò, mi sembra
non al grido, al pregio dato solo a Guittone si deve riferire Y af-
fermazione: r ha vinto il ver. Chi ben consideri, più persone non
significa numero di censori di Guittone più grande di quello
d^' molti anticìn stolti, che avevan lodato lui solo; piiì persone,
grammaticalmente e aritmeticamente, sono meno di molti. Infine,
come restringere a differenza di cifre la questione, proprio là
dove Dante distingue l' opinione accolta senza discuterla, per
fama, dall' opinione nata dopo che arte o ragione si sono fatte
ascoltare ?
Paradiso, III, 118. Costanza era zia, non " sorella „ di Gu-
gliemo II il buono. Federico Barbarossa nacque molti anni prima
del 1165: vincere un capitano di undici anni sarebbe stato grande
gloria per i Lombardi, a Legnano? Se Dante " rispetto alla casa
sveva non tiene conto né di Corrado III, predecessore del Bar-
barossa, né di Corrado IV, figlio e successore di Federico II „,.
non diremo lo faccia " perché non si diedero pensiero delle cose
" d'Italia „; ma perche Corrado III signore di Franconia non
poteva esser compreso tra i z'cnli di Soave, e perché Corrado IV
non fu imperatore, e regnò soli quattro anni.
Vili, 119. " La dimora dell'Alighieri in Napoli „ nella se-
conda metà del 1294, è di quelle ipotesi, a cui gi' investigatori
più recenti e pili diligenti della vita del poeta non prestano fede.
— Vili, 77. Ai commentatori futuri gioverà sapere che il Croce (*)
intende solo l' avarizia nell' espressione avara povertà di Cata-
logna e non vi riconosce allusione ai signori Catalani venuti con
Roberto, dopo la sua prigionia, nel Regno, per questa buona
ragione: nessuno ha ancora addotto le prove " che Roberto
d' Angiò si servisse di Catalani negli uffizi del regno e avesse
presso di sé molti cortigiani Catalani „.
IX, 54. " Lasciando.... la Malta del lago di Bolsena, della
quale non abbiamo indizio „. il Poletto crede si tratti di una
prigione fatta in Viterbo, secondo il Della Tuccia, " allato alla
porta di ponte Tremoli, la quale era chiamata la Malta, dove il
Papa metteva i suoi prigioni „. Qualcosa più d' un indizio ci
offre la Cronaca pubblicata dal Villari, sotto Tanno 1294: " Elli
(papa Bonifazio Vili) messer Rinieri Ghiberti di Firenze, gran
maestro, fece mettere nella Malta, forte prigione nel lago di
Bolsena „. — IX, 94. " Dice 1' Ottimo, e credono i più de' mo-
derni, che Folchetto fosse figlio d' un mercante genovese chia-
mato Anfuso, stanziatosi in quella città „. E come no, se tanto
i moderni, quanto 1' Ottimo, seguono 1' antica biografia del trova-
tore? " Folquetz de Marseilla si fon de Marseilla, fils d' un mer-
cadier que fo de Genoa, que ac nom ser Amfos „. Non affer-
ei Primi contatti fra Spagna e Italia, p. 24.
— 123 —
merei che Folchetto " esordi alla sua carriera poetica alla corte
di Alfonso I conte di Provenza „, e quest' ultimo indicherei me-
glio col suo titolo di re (Alfonso II) d'Aragona. Tra le ragioni,
dalle quali il trovatore potè essere indotto a partirsi dalla corte
di Barrai del Balzo, perché omettere proprio quella sola, che le
antiche biografie danno?
XII, 140. La forma calavrcsc può parere una singolarità, e
non e. Parlando dell'abate Gioachino a punto, la Cronaca pub-
blicata dal Villari ha: " In questo tempo per il valoroso e
savio huomo " messer Jovacchino abate in Calaira „. Folco di
Calavra chiama il canzoniere vaticano 3793 messer Folco Ruffo,
r autore della canzone D' Amor distretto : il Contrasto di Cielo
ha Calabra. Non so chi abbia potuto dar a credere al Poletto
che il luogo selvaggio tra 1' Albula e il Neto, dove si ritirò Gioa-
chino, si chiamasse " Santa Fiora „. Con diploma del 1221 Fe-
derico II confermò i privilegi ottenuti prima al monastero " di
Fiore „: sorgeva li presso sia detto per gli studiosi della
leggenda carolingia — e serviva di termine a possessi del mona-
stero, tra il Neto e il Savuto, la Pietra di Carlomagiio ('). La
chiesa dell'abbazia fu dedicata a S. Giovanni Battista; " il paese,
che più tardi vi si formò attorno, riunendo insieme i due nomi,
fu detto e si chiama tuttora S. Giovanni in Fiore (-). „ Aggiran-
dosi anche questa volta tra alcuni ed altri, il Poletto non riesce a
mettere insieme notizie esatte: il dotto libro del nostro Tocco
gli è ignoto.
XV, 120. Cfr. Giordano da Rivallo (VII): " Come quando
l'uomo ha una sua donna e va in Francia, e acciocch' ella sia
ben guardata, si la lascierà il marito a guardia a un suo caro
amico; ma se costei piacesse tanto a costui che l'è dato a
guardia, eh' ella ne dimenticasse il marito e lasciasselo, questa
sarebbe adulteria „. Il caso non doveva essere raro, se il predi-
catore stimò non inutile occuparsene.
(Vi Arcluv. Stor. />. le Prov. Napol, XIV, p. 151.
(2) Tocco, U Eresia nel Medio Evo; Firenze, Sansoni, 1884, p. 278.
— 124 —
X\'I, 152-53. Ripetendo un'affermazione di altri commenta-
tori, il Poletto scrive non " restar notizia „ che il giglio fioren-
tino fosse mai stato " ad asta posto a ritroso „ per qualche
scontìtta. Quando i Senesi, vittoriosi a Montaperti, rientrarono
nella loro città, " innanzi a tutti andava uno cicli' imbasciatori
de' Fiorentini.,., ed era a cavallo in su un asino, e strascinava
la bandiera ovvero standardo del Comune di Firenze ed esso
imbasciadore aveva voltato il volto verso la bandiera, e la coda
dell' asino aveva per briglia. „
XX\', 6. " Di questo animo di Dante, alto e sereno, avver-
sante cosi da ogni sopruso come da ogni bassezza, è certissimo
documento la Epistola all' Amico Fiorenti/io „. Ahimè, non pili
certissimo da quando il Barbi [Bullctt. d. soc. Dant., II, i.^-a.*")
ha mostrato che dal ribandimento del 1316 erano esclusi " omnes
et singuli qui quacunque de causa per dominum Cantem de Ga-
briellibus de Eugubio.... fuerunt condempnati et exbanniti „. Ma
è vietato supporre che coloro, da' quali Dante ebbe la notizia,
non conoscessero esattamente tutto il tenore (\€i\?^ provvisione? {^)
XX\'II, 22-27. Il Poletto non nega che qui si tratti di Boni-
fazio Vili; ma soggiunge: " Altrove però fu detto chiaramente
*' Vicario di Cristo „. Da chi? Da Ugo Capeto. Qui è S. Pietro,
il primo degli apostoli, il primo papa, il quale non riconosce
Bonifazio per suo legittimo successore.
XXIX, 124. L' " uso vigente „ a Firenze, nel Veneto e tut-
tavia in qualche paese della Sicilia „, ebbe legale sanzione nello
Statuto di Albenga: " Nutriens semper emendet damnum, exce-
ptis duobus porcis sancti Antonii, qui libenter possint quomodo-
cumque ire et stare. „.
[}) Questo ed altri buoni argomenti ha adoperato il Mazzoni a difesa del-
l'autenticità dell'epistola nel Bull. d. soc. Dant. Ital., V. pp. 97 segg. (marzo-
aprile 1898). Cfr. le mie Nuove Rassegne; Livorno, Vigo, 1894, pp. 263 segg.
EKRArA. CORRIGE.
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VOLUMI PUBBLICATI
Il i.° fascicolo contenente:
PAGET TOYNBEE
RIGEPiGlIE E AOTE DANTESCHE
SERIE PRLAIA
TRADUZIONE DALL' INGLESE CON IMPORTANTI AGGIUNTE
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 1, 25
Il *2.'* e S."* fascicolo contenente:
ENRICO ROSTAGNO
LA VITA DI DANTE
TESTO DEL COSÌ DETTO COMPENDIO
ATTRIBUITO A
GIOVANNI BOCCACCIO
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 3 —
Il 4.° fascicolo contenente :
NICOLA ZINGARELLI
LA PERSONALITÀ STORICA
DI
FOLGHETTO DI MARSIGLIA
NELLA « COMEDTA >> DI DANTE
CON APPENDICE
Nuova edizione accresciuta e corretta.
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 1, 50
Il 5** fascicolo contenente:
EGIDIO GORRA
IL SOGGETTIVISMO DI DANTE
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 2.
Il G° fascicolo contenente:
FELICE TOCCO
QUEL CHE NON C È NELLA DIVINA COMMEDIA
DANTE E L'ERESIA
CON DOCUMENTI
E CON LA RISTAMPA DELLE QUESTIONI DANTESCHE
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 2.
Il 7-8" fascicolo contenente :
FRANCESCO TORRACA
DI UN COMMENTO NUOVO
ALLA
DIVINA COMMEDIA
Questo volume si vende anche separato al prezzo di L. 3.
BIBLIOTECA STORICO ■ CRITICA
DELLA
LETTERATURA DANTESCA
DIRETTA
DA G. L. PASSERINI e da P. PAPA
IX -X.
I^>OLOGXA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899.
FRANCESCO NOVATI
INDAGINI E POSTILLE
DANTESCHE
SERIE PRIMA.
Se Dante abhiu mai puliMicanieiito insegnato — Pascua pieriis dettiutn
resonabat avenis — La suprema aspirazione di Dante — Come Manfredi
s'è salvato — La " Squilla di lontano „ è quella dell'are Maria? —
' La vipera che '1 melanese accampa „ — Appendice : A. Lattes, La
campana serale nei secoli XIII e XIV secondo gli statnti delle città
italiane.
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899.
Proprietà letteraria.
BOLOGNA: TIPI DELLA DITTA ZANICHELLI, 1899.
Al sen. GAETANO NEGRI
PRESIDENTE DEL COMITATO MILANESE
DELLA SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA
Illustre Senatore,
Tra i benefici de' quali io vado al massimo poeta
nostro debitore (e son parecchi^ a dir vero, e di l'aria
natura), questo reputar soglio singolarissimo^ che nel
suo nome e sotto gli auspici suoi a me sia stato con-
cesso stringer con Lei i vincoli d' un' amiciiia^ die il
tempo, grandissimo saggiatore di cosiffatte leghe, ha
resi man mano più saldi e più tenaci. Se innanzi che
ad un medesimo intento gli sfiorii nostri i' accomunas-
sero, alla sincera reverenda per /' austera nobiltà del
suo carattere, la dignità somma della vita, già s' accop-
piava neW animo mio la più calda ammirazione per
r altera dell' ingegno, mirabilmente vario in Lei, pro-
fiondo ed arguto; a cotesti sentimenti, dopoché ebbi la
ventura di sempre più avvicinar La, venne a disposarsi,
caldissima, la simpatia destata dalla bontà, dalla cortesia,
che in Lei regnano sovrane. Consenta Ella dunque,
ottimo Senatore, che del mio devoto affetto io mi faccia
lecito porgerLe oggi un pubblico segno, inscrivendo in
fronte a questo librìccino il di Lei nome, caro in Italia
ad ogni spirito colto e gentile. Tenue è come per mole
così per pregio il libretto ; ma ri si ragiona di Dante^
e taluni degli scritti eh' esso racchiude, allorché furono
letti dinanzi a quel dotto consesso eh' Ella sì degna-
mente presiede., trovarono presso di Lei assentimento e
favore. Gradisca pertanto tale quale è la picciola offerta,
e continui a volermi bene.
Milano, novembre 1899.
// suo aff.mo
Franxesco Novati.
AVVERTENZA
Degli scritti qui riuniti il primo, il secondo ed il terzo possono dirsi inlicrainenle
nuovi, giacche se in una lettera aperta all'amico e collega carissimo prof. Mi-
chele Scherillo, pubblicata nella Biblioteca delle Scuole Italiane { a. Vili, serie 2^,
n. 17-181, mi si porse occasione d'esprimere quel ch'io pensassi intorno alla te-
stimonianza d' Ubaldo da Gubbio ed al valore che le si doveva attribuire, pur la
questione del preteso insegnamento di Dante a Ravenna vi fu ( né si poteva
altrimenti ) semplicemente accennata. I tre ultimi invece videro già la luce nei
Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (Serie II, v. XXXI,
p. 366 seg. ), e ne fu fatta poi a cura del solerte editore comm. U. Hoepli un'edi-
zione a parte di cencinquanta copie, ora interamente esaurita. In questa ri-
stampa ebbero tutti da me nuove cure. Anche 1' erudita nota del prof. Alessandro
Lattes sulla „ Campana serale nei sec. XIII e XIV „ è stata in servigio di essa
dal dotto e cortese autore ampliata e rifatta.
1.
SK DANTE
AlililA MAI in BBLICAMKXTK INSEGNATO
I.
Notissima a quanti son cultori degli studi danteschi è 1' allu-
sione air Alighieri, sue a teueris anuis adolescentie prcceptor, che
messer Ubaldo di Bastiano da Gubbio ha introdotta nel Telente-
logio; e non meno noto è come sul valore da attribuire a codesta
testimonianza abbiano a lungo tenzonato i biografi; giacché
mentre alcuni si fondavan sopra di essa per asserire che Dante
soggiornò anche a Gubbio, altri negavano tale sua andata al-
l' umbra cittadina, additando il Teleutelogio quasi fonte torbido ed
impuro. La via più spiccia per definire la controversia sarebbe
stata questa sola: riprendere in esame il declamatorio libretto
dell' Eugubino e cercar di mettere in chiaro quando e dove fosse
stato composto, e quindi dedurne un giudizio suU' attendibilità
delle sue asserzioni: pure a ciò niuno de' contendenti volse il pen-
siero fino agli ultimi tempi. Era riserbato al prof. Nicola Zingarelli
il merito di risolvere in gran parte la controversia con quell' eru-
dito ed acuto scrittarello eh' egli ha intitolato La data del Teleu-
telogio. (•) Grazie alle sue diligenti ricerche l' incertezza in cui era-
vamo sinora rimasti intorno al tempo ed al luogo che videro na-
scere r opericciuola dell' Eugubino si può dire definitivamente
dissipata. Ubaldo di Bastiano da Gubbio, già scolaro di diritto
canonico e civile in Bologna, lasciata questa città, passava a di-
morare in Firenze nella seconda metà del 1326, quando stava
per entrarvi ( o v' era pur allora entrato ) in qualità di Signore,
colla consorte, lo zio, Giovanni, principe di Morea, ed un fulgido
- 8 -
codazzo di " signori e cavalieri e baroni, Franceschi e Proenzali e
" Catelani e del Regno e Napoletani „ ('), Carlo duca di Calabria.
La signoria Angioina era destinata a durar poco ed a lasciare di
sé ne' governati memorie tutt' altro che gradite; pure in quel mo-
mento la parte Guelfa ed insieme con essa molti de' grassi po-
polani e mercatanti che più tardi dissero corna de' " Pugliesi „,
acclamava festosa e giubilante il sospirato campione ; colui che
doveva liberare Firenze dal più fiero degli avversari suoi: l'in-
domabile Castruccio. L' entusiasmo essendo di natura sua conta-
gioso, non ci farà maraviglia che si comunicasse anche al buon
Ubaldo da Gubbio, il quale reputò quella propizia occasione per
mandare in pubblico il proprio trattato, raccomandandolo non
soltanto alla protezione del vescovo di Firenze, da cui, secondo
io credo, ei dipendeva (^), ma a quella altresì del duca di Calabria;
principe non " troppo savio „, per dir vero, chi dia retta al Vil-
lani {*); ma forse dal paterno esempio stimolato e spinto ad atteg-
giarsi ancor egli qualche volta in fautore di letterati e di poeti.
Di qui consegue pertanto che le parole dall' Eugubino dedicate
alla memoria di Dante possano esser stimate, come dichiara lo
Zingarelli, „ la pili antica notizia biografica che dell' Alighieri
" conosciamo sinora, anteriore, sembra, anche a quella, ben pili
" importante d' altronde, che scrisse Giovanni Villani {■'} „.
La " pili antica notizia biografica „ s'è detto; ma all'anti-
chità va pari l' interesse ? Ecco una domanda alla quale non si
può rispondere molto facilmente. Innanzi tutto bisogna distin-
guere cosa da cosa. Or di due cose appunto discorre l'Eugubino:
della soverchia indulgenza con cui il poeta avrebbe ceduto agli
stimoli della carne, e dell' insegnamento che dal poeta stesso gli
sarebbe stato impartito. La prima asserzione non può avere agli
occhi nostri, tenuto conto della forma rettoricamente vaga con cui
è espressa C^j, importanza vera. — " Quanto soverchiamente esso
" fosse ad amore sottoposto assai chiaro è già mostrato „, di-
remo anche noi col Boccaccio ('), perché quella di messer Ubaldo
possa giudicarsi autorevole testimonianza. Più ragguardevole per
— 9 —
fermo è invece l'altra notizia, come ognuno intende. Ma quale
ne è il fondamento?
Che Dante sia stato realmente maestro d' Ubaldo, quando costui
usciva di puerizia, niuno ha messo prima d'ora in forse; né dalla
comune sentenza si dilunga lo Zingarelli. 11 quale anzi, tanto è
alieno dal sospetto che il passo del Teleittclogio sia suscettibile
d' un' interpretazione diversa da quella che da più di cent' anni
gli viene assegnata, pur respingendo come assurdo, anzi quasi
quasi grottesco, il dubbio che 1' esule fiorentino abbia mai potuto
recarsi a Gubbio all' intento d' erudirvi il giovinetto Ubaldo, pone
innanzi la congettura, già, per verità, accennata alla sfuggita
dal Mazzatinti (**), che l'Eugubino piuttosto siasi portato (in età
tenera assai ) a Bologna, quand' appunto 1' Alighieri v' aveva posto
dimora. Nel qual caso non già nel 1318, secondoché un tempo si
era stimato, bensì ad una decina d' anni prima sarebbe da asse-
gnare la relazione del futuro autore del Teleutdogio col poeta
divino.
Or se questa relazione ha davvero esistito, essa porge
un' aperta prova che Dante, negli anni dolorosi dell' esilio " mise
" a profitto qualche volta le sorgenti della sua coltura „, facendo
il maestro di scuola. Né ciò deve recarci meraviglia, a giudizio
dello Zingarelli. " Oramai tutti o quasi — scriv' egli difatti — sì
'' piegano ad ammettere con Corrado Ricci che Dante insegnasse
" nello Studio ravennate, forse rettorica, latina o volgare che fosse,
" probabilmente l'una e l'altra insieme O „. Se, quand'era ospite
di Guido Novello da Polenta, il trattatista della volgare eloquenza
professò dunque rettorica, perché dovrà parerci strano eh' egli abbia
insegnato anche parecchio tempo prima, anche a Bologna, allorché
conduceva in questa città una vita di studio? Vero è, avverte
sempre lo Zingarelli, che al figliuol di Bastiano, se gli fu affidato
ancor fanciullo. Dante non potè certo dare un' istruzione di ca-
rattere molto elevato ("^). E che per questo ? Come, piegando la
fronte alla ferrea legge della necessità, 1' esule fiorentino si fece
più tardi retore a Ravenna, cosi sarà diventato, anni prima, pre-
cettore a Bologna.
A me (perché dissimularlo?) quest'ipotesi spiace, e tanto più
spiace in quanto non ho mai saputo né so acconciarmi ad en-
trare nella schiera di coloro che all' ipotesi escogitata dal Ricci
non soltanto danno lode d' " ingegnosa „ ( lode eh' io non vo' cer-
tamente diniegarle ), ma " si piegano ,, altresì a giutiicarla pro-
babile. Sicché prima d' additare, come, o m' inganno, ha fatto lo
Zingarelli, nel passo del Tcleiitdogio che stiamo esaminando, un
nuovo e solido argomento in favore della sentenza che Dante
abbia mai o in Bologna o in Ravenna ovvero altrove insegnato,
vuoi in forma pubblica, vuoi in forma privata, preferirei andare
ricercando se non vi sia modo di dare alle parole di messer
Ubaldo un' interpretazione la quale ne modifichi essenzialmente
il significato.
Ora la maniera e' è, e, a mio vedere, assai semplice. Chi può
difatti forzarci a ritenere che lo scrittore del Telcittrlogio abbia
proprio voluto alludere colle parole sopra riferite ad un vero e
reale insegnamento eh' egli ricevuto avesse dalla viva voce del-
l'Alighieri? Non può, al contrario, messer Ubaldo essersi accon-
tentato di designar costui quale " suo precettore „, alla maniera
istessa con cui l' autore della divina Comedia si piace dal pro-
prio canto appellar " dottore „, autore, " maestro „, " pedagogo „
Virgilio? (") Non si tratterà, insomma, d'una pura e semplice
figura rettorica, colla quale l'Eugubino ha inteso manifestare al
pari di molt' altri l'ammirazione schietta e vivace che ridestava
in lui il poeta divino?
Né renda alcuno esitante ad accogliere questa mia novella in-
terpretazione quanto lo Zingarelli ha osservato intorno all' uso
fatto qui da Ubaldo della parola praeceptor, per definire i rapporti
che sarebbero corsi tra lui e l' Alighieri. Se dessimo retta al-
l'egregio critico, codesto vocabolo in bocca ad Ubaldo starebbe ad
indicare che l' insegnamento impartitogli dal poeta fu, come 1' età
sua tenera richiedeva, umile, elementare (''). Ma, a nostr' avviso,
lo Zingarelli s'è qui lasciato traviare dal ricordo del significato
speciale che in tempi relativamente assai recenti il vocabolo
praeceptor è venuto ad assumere nel comune discorso. Nel lin-
— II —
guaggio medievale però la parola non solo aveva mantenute tutte
le accezioni che possedeva già nell* uso classico, ma ne aveva
altresì acquistate delle nuove (''). Sotto la penna dei nostri
trecentisti pertanto essa non denota soltanto chi attenda ad erudire
un giovane nelle arti liberali, ma, in più largo senso, chiunque
faccia opera di maestro, non già addottrinando dalla cattedra
gli scolari, ma componendo nella quieta solitudine della propria
stanza scritture atte ad eccitare nell' animo di chi le legga, gio-
vane o vecchio eh' egli sia, sensi di stupore e d' ammirazione.
Talché niun titolo pili onorifico di questo suole scendere dalla
penna del Boccaccio ogni qualvolta egli scriva al Petrarca {"); e
r esempio del Boccaccio è seguito da quant' altri vogliono ono-
rare nel cantor di Scipione il propugnatore indefesso della dot-
trina e della poesia antica ('^). Altrettanto tocca più tardi al pro-
secutore di quest' opera gloriosa, a Coluccio Salutati ("'). E come
i grandi viventi, si fregiano di siffatta qualifica i trapassati; e
r aggettivo, già attribuito al Salvatore dalle Sacre Carte, passa a
designare il filosofo " morale „, Aristotele, per opera di Dante
stesso! ('")
Ma qui taluno potrebb' ancora obbiettare: s'ammetta pure che
pracccptor nel citato luogo del Tclciitclogio, sia adoperato in senso
allegorico. Però nella frase d'Ubaldo v'ha qualcosa di più; ei
chiama Dante suo " precettore nei teneri anni dell'adolescenza „.
Possibil mai che, cosi dicendo, non abbia voluto asserire proprio
altro, se non che fin da quando ei mosse i primi passi nell' ar-
ringo degli studi, s' affisò come in sua guida nel poeta fioren-
tino? E perché no? Giovanni Boccaccio, sforzandosi di giustifi-
care in cospetto al Petrarca il fervente culto eh' egli professava
all' Alighieri, non assevera forse che questi a lui, giovinetto, fu
primo duce, prima face negli studi ? ('**) Ed il veneto Paolo di Ber-
nardo non s'esprime anch' egli nella stessa guisa, anzi (curiosa
coincidenza) colle parole medesime di cui si giova l'Eugubino,
per manifestare tutta la devota sua ammirazione verso il Pe-
trarca ? Ab annis enim tencris — ei gli scrive — mirari te cepi,
te colui, te diicem habui, postremo te imaginarium vite tcstem vo-
Int.... C^). Perché dovremo noi mostrarci adesso riluttanti a cre-
dere che, al pari del Boccaccio, il figliuol di Bastiano da Gubbio
abbia eletto tìn dall'adolescenza prima a guida, a maestro, a
testimone immaginario della sua vita di pensiero colui che, oltre
ad aver divulgato tra V ostile stupore del „ clero „ e la curiosità
commossa del volgo il mirabil suo viaggio oltremondano, aveva
pur tratte fuori le „ nuove rime „, composto il Convivio, dettato
il De ìiwnarchia ?
Di quanto siamo venuti sin qui ragionando logica conclusione
sarebbe quella che Ubaldo da Gubbio mai non conobbe l' Ali-
ghieri, " se non come per fama uoni s'innamora „; e tale in
realtà è la mia persuasione.
A rafforzare la quale pur troppo niun valido argomento ci è
lecito dedurre dalle ampollose pagine del Telcutelogio, ricchissimo
di vacue ciancie filosofiche, ma poverissimo d' allusioni alle vi-
cende individuali di chi 1' ha elaborato. Pure se non fosse teme-
rità soverchia quella di voler trarre partito da tenuissimi indizi,
noi oseremmo dire che anche la cronologia della vita d' Ubaldo,
per quel tanto che se ne può intravvedere, parlerebbe in nostro
favore. Dai pochi versicoli che servono di chiusa al Telcutelogio
rilevasi difatti che 1' Eugubino, allorché lo stava scrivendo, trat-
tenevasi in Bologna, assorto nello studio d' entrambe le leggi \^^).
Ma se verso il 1326, prima di passare a Firenze, egli era
pur sempre scolaro, difficile riuscirà di credere che avesse rag-
giunta un'età molto matura; tutt' al più si sarà avvicinato alla
trentina (■'). Ed in tal caso, quando l' Alighieri si trattenne per
qualche tempo in Bologna, vale a dire circa il 1308, Ubaldo non
era davvero in grado di riceverne ammaestramenti di sorta!
Ove r interpretazione nostra raccolga dunque, siccome ne ho
fondata speranza, il favorevole suffragio dei competenti, l' impor-
tanza della notizia dantesca inserita nel Telcutelogio ne verrà, se
non distrutta, attenuata d' assai. Priva di qualsiasi valore per la
biografia dell' Alighieri, essa non meriterà d' essere d' ora innanzi
menzionata dai critici se non come prova indiretta si ma nota-
bile dei giganteschi passi che dopo la divulgazione totale della
— 13 —
Conu'iù'ti aveva percorso la fama del poeta divino. L'apoteosi di
Dante è già incominciata ("). Per Ubaldo, come per tutti, o quasi
tutti, gli scrittori del tempo, egli non è pili soltanto l'artista ricco
de' più bei doni della natura, il dotto onusto di tutti i tesori della
scienza; è qualcosa di più alto, di più sacro: il primo poeta volgare
emulo degli antichi.
II.
Questo ch'ora abbiam fatto non è se non un primo passo sulla
via che intendiamo percorrere. Più forse del generale consenso
ha contribuito a mantenere fedele lo Zingarelli alla vulgata inter-
pretazione del passo testé discusso del Tcleutclogio, una tal qual
fiducia da lui riposta nella bontà di quell' ipotesi che, dopo essere
stata accolta al suo primo apparire da diffidenza grande e mal
celato scetticismo, venne poi, a poco a poco, guadagnando siffat-
tamente terreno da strappare all' autore d' un recentissimo libro
intorno a Dante la veramente straordinaria confessione che non
si ha per combatterla verun argomento di peso (*'^). Secondo
quest' ipotesi il poeta sarebbesi recato a Ravenna non già, com' é
vecchia fama, ospite di Guido Novello da Polenta, ma in quella
vece pubblico lettore di rettorica volgare nello Studio. Campione
di siffatta sentenza è un valente cultore delle storiche discipline,
esperto conoscitore di cose ravennati, Corrado Ricci ; il quale,
dopo averla primamente espressa in un libriccino di polemiche
dantesche, uscito in luce molt'anni or sono, si è dato cura di
ripresentarla al pubblico in un recente e poderoso volume ('^), cir-
condata di quante prove ei giudicò confacenti a renderla pro-
babile.
Le prove raccolte dal Ricci son desse di tale natura da poter
sostenere vittoriosamente 1' urto d' una critica la quale, non paga
delle apparenze, voglia andar fino al fondo della questione? Per
esser schietto io non ne son troppo persuaso, e della riluttanza
che provo ad accettare la nuova opinione intorno alle cagioni
che guidarono Dante a Ravenna, verrò adesso, com' è doveroso,
adducendo i motivi.
— 14 —
11 maggiore e più saldo argomento in favore dell' ipotesi che
vogliamo combattere, è ofìerto, come aveva già notato il Hartoli,
ed i sostenitori di essa confessano, dalle parole con cui Giovanni
Boccaccio, dopo aver nella \'ita di Dante narrato come costui,
mosso dalle profferte di Guido Novello, s' inducesse ad elegger
dimora in Ravenna, soggiunge: " E quivi con le sue dimostrazioni
" fece più scolari in poesia e massimamente nella volgare (^■') „.
Le altre testimonianze, addotte per provare che in codest' asserto
del biografo autorevolissimo deesi scorgere un' esplicita allusione
air insegnamento pubblico, uflìciale, di rcttorica affidato a Dante
dai Ravennati; e cioè a dire certi grossi versi di Simone Ser-
dini da Siena, detto il Saviozzo, un passo della Vita di Dante
compilata nella prima metà del quattrocento da Giannozzo Ma-
netti, nonché taluni inconcludenti aneddoti che spettano ad età
anche più tarda; languidi echi quali sono tutte della dichiarazione
boccaccesca, non debbono esser giudicate degne di discussione (^^).
Or trascurando per il momento ( e dico per il momento, giacché
torneremo ben presto ad occuparcene), là questione se le parole
del Boccaccio significhino realmente tutto quanto si fa loro si-
gnificare; accontentiamoci di ricercare adesso se a priori sia
ammissibile, in relazione a ciò che sappiamo della vita e de' co-
stumi del tempo, la supposizione che 1' Alighieri abbia tenuto in
Ravenna una cattedra di rettorica volgare o, secondoché altri
più cautamente sostiene, una cattedra dalla quale, insieme alla
latina, egli avrebbe insegnato altresì la poesia volgare (^').
Ed innanzi tutto: sui primi del Trecento fioriva o per lo meno
viveva ancora in Ravenna un pubblico Studio? Qui coloro i quali
vagheggian Dante trasformato in dottore s' abbattono ad un primo
e non lievissimo intoppo, giacché i più moderni ed autorevoli
storici delle università italiane s'accordano nel ritenere che su-
gli inizi del secolo dodicesimo la celebre scuola giuridica di Ra-
venna, cedendo ai fati che l' incalzavano, si chiudesse per non
riaprirsi mai più. Sicché il nome della città, dove brillò per tanti
secoli un vividissimo focolare di legale dottrina, si cerca in-
vano neir elenco de' nostri Studi nel sec. XIII e nel XIV (■''). Il
Ricci però s' 0 industriato a provare come qualche vestigio delle
antiche scuole ancor durasse in Ravenna al principio del Trecento,
ed ha recato innanzi i nomi di due ignoti maestri, chiamati 1' uno
a leggervi grammatica nel 1304, 1' altro logica, medicina e filosofia
nel 1333 (""). Certo ciò non dimostra gran cosa in favore della
continuità della tradizione universitaria in Ravenna; ma noi non
vogliamo parere di soverchio esigenti, ed acconsentiamo quindi
ad ammettere che un avanzo dell' antichissimo Studio si mante-
nesse pur sempre nella sede dei Polentani, quando vi pose stanza
r esule fiorentino. Il segreto della nostra condiscendenza non è
tale d'altronde che ci torni increscioso svelarlo: a noi di fatti
non importa tanto di mettere in dubbio che a Ravenna conti-
nuasse ad esistere nel primo ventennio del secolo decimoquarto
una larva, un' ombra dello Studio vetusto, quanto di mostrare
come sia altamente improbabile che in quello Studio, qualunque
esso fosse, potesse trovar luogo una cattedra di rettorica volgare.
Ma, innanzi tutto, facciamo ad intenderci. Che cosa vogliono
dire queste parole: rettorica volgare?
Tra i monumenti letterari del nostro Dugento noi ci abbattiamo
in un libro che é compendio della Rettorica ad Erennio, allor
creduta, com'è notissimo, di Cicerone; compendio dettato origi-
nariamente da un Bolognese, ammiratore di re Manfredi, e rifatto
più tardi, per quanto sembra, da un Toscano (■^'^j. Il trattatello,
detto Fior di Rettorica nelle numerose redazioni più o men com-
piute, rimaneggiate, corrette che ce ne sono pervenute, mira però
sempre al medesimo fine : ad ammaestrare cioè i " laici che hanno
" valente intendimento „, i " gentili uomini volgari „, ne' precetti
oratori, cosicché possano, pur ignorando il latino, " ornatamente
" favellare „ neh' idioma materno. Il fine che si propongono
dunque gli autori ed i rifacitori del nostro libro è, come si vede,
meglio civile e politico che letterario ; si tratta infatti di dar modo
a coloro che non sanno di lettere d' avvalersi cionondimanco
delle loro facoltà naturali, non già per gareggiare sterilmente coi
dotti, ma per farsi largo nella società contemporanea: di metterli
in grado di recitare un' orazione, che — perfetta nella forma,
— i6 —
compiuta ed ordinata nella disposizione delle sue parti od infine
recitata a dovere — taccia trionfare la causa dal dicitor soste-
nuta. Ora il sorgere ed il diffondersi di siffatti trattati assai ben
si comprende in una società quale l' Italiana de' secoli XIII-XIV,
in cui gli " idioti „, i " laici „ partecipavano in maniera così
larga, spesso anzi cosi preponderante, al reggimento della pub-
blica cosa, e r umilissimo tra gli artefici, da un giorno all' altro,
poteva salire alle maggiofi cariche del proprio comune; ma non
prova esso insieme eloquentemente come nelle scuole secondarie
e superiori d'allora non s'avesse traccia d'un insegnamento del
volgare? Giacché sarebbe grave errore, a mio giudizio, quello di
credere che coteste scritture siano dovute a grammatici, o di
immaginare che taluna tra esse abbia mai potuto servire come
libro di testo in una scuola d' arti. Se noi non sappiamo oggi
chi Fra Guidotto si fosse, possiamo tuttavia dal titolo che va
congiunto al suo nome dedurre eh' egli non appartenne né al
chiericato né alla classe degli insegnanti (''); in quanto a Bono
Giamboni poi ben s' accordano i mss. nel dirci eh' ei fu giu-
" dice di legge (^^) „. II Fior di Rdtorica pertanto, al pari di
qualche altro libro congenere e non meno noto ai nostri lettori,
nuli' altro ci rappresenta se non il risultato dello sforzo isolato, in-
dividuale, per soddisfare ad una necessità sociale che si veniva
facendo sempre più urgente ed imperiosa; ma che, data la rigida
ed immutabile costituzione delle scuole secondarie e superiori,
non si poteva altrimenti appagare. Al disdegno della scienza
ufficiale suppliva pertanto, come meglio le tornava fattibile, l' ini-
ziativa particolare.
Quest' impulso medesimo, come die origine alle versioni vol-
gari, che videro però alquanto più tardi la luce, di talune fra le
Artcs dictandi, le quali avean goduto di maggior credito sui pri-
mordi del secolo decimoquarto ('•'); cosi provocò anche (cosa che
merita d'essere adesso da noi più peculiarmente considerata) i
primi tentativi di dare forma teorica e magistrale all' arte del
dire in rima; arte abbandonata fin allora all' inspirazione, al gusto,
al capriccio individuale, quantunque 1' esempio degli " eccellenti
" dottori „ giovasse già a frenare gli arbitri ed additasse ai volon-
terosi la via da seguire. A gran torto quindi, chi si piacque pre-
sentarci r Alighieri sotto la cappa di lettore dello Studio raven-
nate, oltreché taluni testi, del tutto estranei alla controversia che
adesso si dibatte, ha citato 1' esistenza dell' Ars r/iytinnica d' An-
tonio da Tempo come una luminosa prova che, sul nascere del
Trecento, la poesia volgare s'insegnava già nelle scuole. Egli è
proprio l'opposto; e nel trattato del giudice padovano, ove il
conoscessero più che di nome non ricercherebbero gli avver-
sari nostri un conforto alle loro audaci supposizioni. Chiunque
abbia posto gli occhi sopra il proemio da Antonio messo in
fronte al suo libro sa bene com' egli, timoroso che altri non 1' ac-
cusi d' avere sprecato tempo e fatica, occupandosi di cosi " modica
" scienza „, alleghi a giustificazione propria il fatto che nessuno,
per quanto a lui constasse, aveva mai prima d' allora stimata
degna di trattazione la poesia volgare; sicché, bramando egli
rendere servigio agli indotti che ignorano il latino, erasi accinto
a riordinare la materia ancora indigesta ed a sanzionare coli' au-
torità della legge quanto per lo innanzi si osservava soltanto in
omaggio all'esempio de' pivi celebrati tra i dicitori ('^) Ma
non son questi i concetti stessi che avevano stimolato Fra Gui-
dotto e messer Bono Giamboni a traslatare di latino in volgare la
Rettorica di Tullio? Anche il libro d'Antonio da Tempo adunque,
come il trattatello ritmico di Francesco da Barberino ed il mag-
gior volume dantesco, è il portato delle stesse cause, il frutto
del medesimo sforzo per rialzare l' idioma volgare, nobilitarlo,
riavvicinarlo al latino, ad onta della ripugnanza che per esso
prova il chiericato. Ed ancora una volta chi assume codest' inca-
rico non è già un grammatico o un retore; bensì invece un uomo
di legge, un magistrato, che se ebbe occasione d' assidersi infinite
volte sulla sedia giudiziale, sopra la cattedra non sali certo mai(^^).
Bisogna proprio persuadercene; tutto o quasi tutto quanto s'è
fatto in Italia nei primi due secoU in favor del volgare, negletto e
dispregiato dai dotti e quindi inesorabilmente escluso dalle scuole
secondarie e superiori, si compi in seno di quella classe che ne
NOVATI. 2
— i8 —
aveva fin da tempi remoti avvertita l' importanza, e s' era sfor-
zata, come meglio aveva potuto, in servigio degli ideali suoi per
indole essenzialmente civili, di farne oggetto d' un umile, elemen-
tare ammaestramento (^'').
Possiamo quindi affermarlo senza titubanza: no, nessun Studio
italiano accolse mai nella schiera dei suoi docenti, prima che il
sole del Rinascimento non rifulgesse altissimo sull' orizzonte, un
maestro il quale, sulle tracce di Tullio, impartisse precetti di vol-
gare eloquenza o ammaestrasse i discepoli suoi a comporre so-
netti e canzoni ovvero canzoni e sonetti altrui commentasse
e dichiarasse cosi come avrebbe esposti i carmi di Virgilio o
d' Orazio. Figuriamoci se ciò poteva verificarsi dunque a Ra-
venna, nel primo ventennio del Trecento, ai giorni ne' quali la
Comcdia divina cominciava appena a diffondersi, cantata a pezzi
e bocconi su per i trivi dai giullari (^") ! Per credere ad un avve-
nimento cosi strano, cosi contrario a tutto quanto ci è noto di
quegli uomini, di quell' età, farebbe mestieri aver dinanzi l' atto
ufficiale con cui Dante fu chiamato dal comune di Ravenna a
legger o rettorica o poesia volgare, e poi e poi si stenterebbe
ancora a prestar fede ai nostri occhi !
Si badi bene però. Cosi dicendo io non voglio negare meno-
mamente che in Ravenna, alla corte del gentile signore da Po-
lenta, il " vecchio divino „, nidlius dogmatis expers, come si com-
piacerà dirlo Giovanni da Bologna, tribuendo a lui la lode che
Macrobio aveva rivolta a Virgilio (^^), sia stato circondato da
un'eletta, numerosa schiera di studiosi, ammiratori del suo ingegno,
della sua dottrina, avidi di tesoreggiare gli insegnamenti suoi (^^).
Ma questo, com' è agevole ad intendere, nulla ha a che veder
colla cattedra. Perché Dante potesse avviare Menghino Mezzani,
ser Piero Giardini, ser Dino Perini, il Polentano stesso pe' flo-
ridi sentieri del novello Parnaso, non occorreva davvero eh' ei
levasse il pane di bocca ad un maestro solenne e " conventato „
di rettorica o di poesia!
- 19
III.
" Convcntalo „, ho detto, e non senza motivo. Taluno infatti,
pur consentendo meco nel ritenere sonnnamente improbabile che
il poeta fiorentino abbia speso gli estremi suoi giorni leggendo
nello Studio ravennate una materia del tutto ignota ai programmi
universitari del tempo suo, potrebbe tuttavia, fisso nell' idea che
le " dimostrazioni „ fatte dall' Alighieri ai propri amici siano state
vere lezioni cattedratiche, interpellarci a questo modo: Siam
d' accordo. Cattedre di rettorica o di poesia volgare non ne
esistevano allora in niun luogo, e men che meno a Ravenna. Però
ogni Studio che meritasse d'essere detto tale, vantava a que'giorni
accanto alla cattedra di rettorica un' altra di poesia latina C''),
donde s' insegnavano le regole della versificazione metrica, e
s' esponevano generalmente i quattro grandi autori : Virgilio,
Ovidio " maggiore „, Stazio, Lucano (^'). Perché non dovremo
noi ammettere che Dante abbia coperto siffatta cattedra? Chi
vorrà dubitare che quel grand' uomo non sapesse dichiarare
r alta " Eneida „, o le " crude armi della doppia tristizia di
" locasta „, o i fasti di colui che " Farsalia percosse „, in guisa
da lasciare le mille miglia lontano qualsiasi più sufficiente mae-
stro dell' età sua? Certo nessuno.
Sta bene, rispondesi. Ma aveva egli qualità per far ciò? Co-
loro che son cosi pronti ad affidargli or questa or quella cattedra,
dimenticano con soverchia facilità, a mio crédere, che 1' Alighieri
non consegui mai verun grado magistrale, veruna laurea dotto-
rale; che fu insomma semplicemente un " laico „; laico mera-
viglioso, si, ma laico, Ei si venne a trovar quindi fatalmente in
una condizione, nella quale 1' insegnamento superiore doveva
rimanergli sempre inaccessibile. La libertà d' insegnare, grandis-
sima, per quanto s' afferma, nello Studio bolognese, quand' era
nei suoi principi {*'}, aveva sofferto col volger dei secoli tante e
tali restrizioni, che già a mezzo il Dugento non poteva far pili
parte della facoltà giuridica chi non avesse cosi privatamente
20 —
come pubblicamente, re et iioiìiine, conseguito il titolo di dot-
tore (*^). Quanto avveniva nel collegio dei giuristi non tardò a
ripetersi pur nell'altro de' medici e degli artisti [*^)', cosicché gli
scolari stessi, ai quali per tradizionale diritto solevano essere
affidate alcune straordinarie letture, piinia ti' iniziare i corsi loro
dovettero in omaggio agli statuti dare solenne affidamento che
si sarebbero conventati dentro i termini loro prefissi; altrimenti
ogni fatica da essi durata consideravasi vana e rimaneva senza
compenso (^"'l. Soli gli insegnanti di talune arti inferiori, come a
dire la grammatica e la chirurgia, fui'ono in massima esone-
rati, se crediamo agli statuti del 1432, dall' obbligo del con-
vento (^'^),
Le norme stesse, che dal secolo Xlll in poi disciplinarono
neir università di Bologna 1' elezione dei docenti, vigevano negli
altri Studi italiani già esistenti, ed entrarono in vigore in quanti
sorsero più tardi, i quali modellarono le loro costituzioni sull' esem-
pio della Bolognese (^'). Da ciò consegue che se nel periodo di
tempo in cui l' Alighieri abitò Ravenna, vi fiori uno Studio ed
in questo Studio si volle istituire una cattedra, vuoi di rettorica
vuoi di poesia, il conferimento di sifl"atta cattedra ebbe ad essere
eseguito in base alle prescrizioni osservate cosi a Bologna come
a Padova, cosi a Roma come a Firenze, insomma dapertutto.
Ed in tal caso Dante, a cui niuno aveva mai infilzato in dito il
simbolico anello, dovette rinunziare alla speranza di conseguirla^
ove di simil speranza si fosse nudrito.
Si sarà egli dunque rassegnato il fiorentino sdegnoso e della
grandezza sua consapevole, poiché la via dell'insegnamento su-
periore gli era preclusa, ad ammaestrare i giovinetti se non pro-
prio negli elementi primi dello scibile, nella grammatica, a mo' di
pedagogo umilissimo? Tanto sarebbe da credere ove s' accogliesse
r interpretazione che C. Ricci dà nel libro suo agli esametri coi
quali s'inizia la prim' ecloga dantesca:
Forte recensentes pastas de more capellas,
Tunc ego sub quercu, meus et Meliboeus eramus
— 21
Ora in questi versi, che noi sareninio a prima vista inclinati
a considerare come una semplice e non troppo felice parafrasi
di quelli onde prende incominciamento la settima tra le ecloghe
virgiliane (*-) ; in questi versi, dico, 1' anonimo autore delle glosse
conservate nel cod. Laurcnziano V\. XXIX, 8, discopre un signi-
ficato simbolico; che per lui rccenscrc capellas equivale infatti a
iimìicrarc scliolarcs. Ecco dunque un nuovo e forte argomento
per sostenere che a Ravenna Dante insegnava ! Ma v' ha di più.
Già il Macri- Leone, collegando il de lìtorc a j-eceiisoitcs; (il che a
tìie pare arbitrario ed erroneo ('")) aveva osservato: „ L' abitu-
„ dine di recoiscre capdlas o numerare scliolares, de more ( si noti
„ bene ), presuppone una certa dimora in quel luogo (^*') „. Ed
il Ricci, accettando la proposta, la rafforza e nel de more vede
adombrata anche una „ continuità ordinata e regolata nell' inse-
„ gnamento ('') „. Gran maestro quel Dante ! Alla dottrina egli
disposava dunque anche quell' altra qualità tanto preziosa in un
insegnante che è la diligenza !
In verità a noi riuscirebbe assai facile sbarazzarci da ogni
impiccio respingendo addirittura come arbitraria e fallace 1' espli-
cazione dell' Anonimo ; né saremmo i primi, che 1' anima buona
del Giuliani già ce ne ha dato 1' esempio (■'-). Codesto rimedio però
non ci capacita, esso è troppo eroico per i nostri gusti, tanto più
che all' autorità dell' anonimo glossatore noi siamo disposti a mo-
strarci molto più ossequiosi di quant' altri abbia fatto mai sinora.
E, d'altronde, è cosi costante (e ben se n'avvide già il Macri-
Leone) in Dante e nell'amico suo Giovanni la consuetudine di
additare sotto le simboliche figure de' giovenchi, delle pecore, dei
capretti, i discepoli d' età pili o meno matura (■■''j, che non ci
par proprio lecito qualificare qui di visionario 1' Anonimo. Anche
per noi dunque le caprette simboleggiano gli scolari; ma che
l'Alighieri ne sia stato il pastore, o, fuor di metafora, il maestro,
questa è un' altra faccenda.
Esaminiamo, lettor paziente, un poco meglio il testo che ci sta
dinanzi. Melibeo, sotto il qual nome s' asconde, come ci insegna
il glossatore, un concittadino del poeta, esule al pari di lui, ser
Dino Perini ('*], arde dalla curiositfi di conoscere l'epistola che
^topso (Giovanni del Virgilio) ha inviata a Titiro (l'Alighieri).
Questi si fa giuoco del suo giovane amico per qualche po' di
tempo, e quindi esce a dirgli con linguaggio anzi che no ruvidetto:
Stulte, quid insanis ? tua cura, capellae
Te potius poscunt, quamquam mala coenula turbet.
„ A te, egli soggiunge poi, sono ignoti i pascoli, cui adombra
„ l'alta vetta del Menalo, . , . que' pascoli, ne' quali, mentre i gio-
„ venchi folleggiano tra l'erbe, Mopso contempla giocondo l'opere
„ degli uomini e degli Dei, e con dar poscia fiato alle canne di-
„ schiude le intime gioie ... „. E Melibeo di rimando:
si Mopsus, ait, decaiilat in lierbis
Ignotis, ignota tamen sua carmina possim,
Te monstrante, mais vagulis prodiscerc e a p r i s (^'').
E in questi luoghi pertanto ed alla fine dell' Ecloga in un terzo
passo, che è stato sinora interpretato nella più strana guisa del
mondo (^'^), a Melibeo è sempre assegnata la custodia dell' ircino
gregge; a quel Melibeo, dico, che appunto per essere un rozzo
capraio, non può, a giudizio di Titiro, gustare né comprendere i
canti di Mopso, il bifolco d' Arcadia. Ma Titiro è dunque ben su-
periore per condizione al suo amico, se questi lo implora qual
maestro, e Mopso gli rivolge le sue canzoni ! Squarciamo adesso
il velo trasparentissimo dell'allegoria; che cosa si dovrà dedurre
da quanto abbiam veduto se non che ser Dino Perini insegnava
ai fanciulli ravennati la grammatica, pur di guadagnarsi un tozzo
di pane, la grama Genetta, che per la scarsezza e l' inopia a lui,
amante de' buoni bocconi, riusciva molesta? Ser Dino, notaio,
come il titolo suo ci addita, ben poteva, spinto dal bisogno, tra-
mutarsi in maestro di scuola ("J. Ma che altrettanto facesse Dante
Alighieri è troppo forte a pensare.
In verità, chi asserisce che il cantore dell' oltretomba si con-
ducesse a Ravenna lettore non si saprebbe bene di che cosa.
— 23 —
in uno Studio di problematica esistenza, non cela il proposito suo
di combattere la tradizionale opinione che alla dolorosa povertà
del poeta invecchiato e stanco, errabondo per le città di Romagna,
sia venuto con signorile munificenza in aiuto Guido Novello da
Polenta. Ed io credo d' indovinare le ragioni che rendono incre-
scioso a taluni ammiratori dell' Alighieri il pensiero eh' egli chiu-
desse la vita sua travagliata, „ ospite mantenuto " del tirannello
ravennate.
Giudicano per avventura costoro che l' immagine del vate
giustiziere ne esca, sebben lievemente, pur alcun poco sminuita;
giacché a chi gli si mostrava largo di favori e di doni, egli non
poteva certo rispondere con atti che d'ossequio non fossero; i
quali per ciò appunto mal parrebbero convenirsi a quella sua
sdegnosissima anima insofferente d'ogni legame servile. Io però
confesso di non dividere codesto modo di vedere. Agli occhi di
Dante, che fu prima di tutto e sopra tutto l'uomo del suo tempo,
non potè mai sembrare indecoroso il ricevere benefìzi e compensi
da coloro che la natura o la fortuna avessero collocati sui pili
alti fastigi della società contemporanea; né egli ebbe a provare
mai quel rettorico abborrimento contro la tirannide, che manife-
starono colle parole meglio che coi fatti, il Petrarca, il Boccaccio,
ed in genere tutti gli amici e discepoli loro, ne' quali i sentimenti
repubblicani degli avi rifermentavano innocui per effetto dell' am-
mirazione ardentissima votata all' antichità (^^). Uomo di corte.
Dante usò le corti e vi si piacque; che se fé' segno di satirici
strali, d' invettive fiere e sanguinose taluni tra i signori italiani
del suo tempo, ciò fu perch' essi venivano meno alle generose
tradizioni familiari, erano „ tornati in bastardi „ ; e, come tali,,
meritavano d' essere vituperati e derisi. Ma se le trombe di Si-
cilia ed i corni degli Estensi e le tibie degli altri grandi avessero
dato diverso suono, il poeta non avrebbe certo scagliato contro
di loro il biblico radia! Sicché accanto a coloro, i quali colle
virtù a principe convenienti sapevano blandire i suoi ideali, rin-
focolare le speranze sue, il Ghibellino austero non sdegnò mai
soffermarsi, ed il salire per le scale dei loro palagi se ebbe tal-
- 24 -
volta a senibrai-gli " duro ", inni mai gli parve indecoroso. E
come s'intenderebbe altiimenti quel suo rallungare per anni ed
anni d' una in altra corte, quel farsi ospite qua de' Malaspina, dei
Guidi, degli Ordelaffi, là degli Scaligeri e de' Polentani? Uom di
corte, uom d' affari, a cui, come già per taluni degli antichi trova-
dori, eh' egli ammirava tanto, la lingua fu sempre e spada ed elmo,
Dante era nato per la vita agitata ed affaccendata; non già per l'esi-
stenza placida, uniforme, modesta, del maestro di scuola. Che se
davvero egli avesse stimato desiderabile cercare nell'insegnamento
un tranquillo rifugio contro ogni tempesta, come mai non sareb-
besi indotto a procacciarselo molto tempo prima ? Proprio solo
a cinquant' anni suonati, a Ravenna, egli ebbe modo di accorgersi
che, insegnando, poteva vivere, vivere povero, ma libero ?
Temeraria impresa eli' è adunque, a mio credere, quella di
sostituire un' ipotesi, campata, allo stringere de' conti, in aria, ad
un fatto il quale vanta in proprio favore testimonianze ragguar-
devoli per numero, per tempo, per qualità. Che Guido Novello
abbia " richiesto di special grazia a Dante quello eh' egli sapeva
" che Dante dovea a lui domandare; cioè che seco gli piacesse
" di dover essere (°^) „ , non solo afferma il Boccaccio, a cui fa
eco Filippo Villani (^'^), ma asseriscono anche i contemporanei.
Giovanni Del Virgilio, scrivendo all' Alighieri stesso, si piace
mettere in chiaro quanto il Polentano l'ami e lo tenga da conto:
sicché finisce per giudicare follia la speranza che il " vecchio di-
" vino " si scosti dal fianco di Guido per recarsi da lui:
Mopse .... quid ? es demens ! quia non permittct lolas
Comis et urbanus, duni sunt tua rustica dona .... ("').
y
E poco appresso, intento al triste ufficio di commemorare coi
propri versi 1' amico perduto, non scorderà d' aggiungere come
piamente l' avesse accolto nel suo grembo il signor di Ra-
venna:
Qucm pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
Gaudet honorati continuisse ducis (•"'').
A queste attestazioni, già note, vado lieto d' aggiungerne adesso
una fin qui trascurata, 1* importanza della quale non sfuggirà ad
alcuno. Giovanni da Ravenna, il celebre cancelliere de* due Fran-
ceschi da Carrara, toccando in una sua inedita scrittura della
larghezza colla quale Bernardino da Polenta venne in aiuto del
Boccaccio, soggiunge : Citiiis aule aviis Guido sic Daiìtis prisciilia
gloriabatitr, ut )ioii ìiioiio ad ììuIuìii ciiiicta siippcditaret, verinn
ctiam /aiiKjuaiii privatus ciiis coììvcrsatioiic familiariter uterctur C^'),
Mo detto rilevantissimo questo passo. Se è certo dilatti che Gio-
vanni ebbe a lasciare Ravenna in età assai giovanile, pure nulla
ci vieta di credere che nel tempo della sua fanciullezza, quando
durava ancor vivace e fresca colà la memoria del soggiorno fat-
tovi dall' Alighieri, egli abbia udito spessissimo discorrere di lui.
Ed anche supponendo che altri non gliene avesse parlato, chi sa
quante volte dovette tenergliene parola più tardi suo padre,
maestro Conversino, il quale certo aveva veduto il poeta, e forse
era stato in rapporti con lui! La testimonianza del Ravennate
può sempre essere considerata da noi quasi quella d' un contem-
poraneo di Dante.
Vorremo rigettare dopo di ciò l' opinione tradizionale, che
s' appoggia a cosi validi sostegni, per accettarne una fondata su
basi ipotetiche e malfide ? Sarebbe davvero un imitare il cane
della favola che lasciò la carne per 1' ombra. Ovvio riesce quindi
conchiudere che nulla concede d' asserire che T Alighieri abbia
mai pubblicamente insegnato vuoi a Bologna vuoi a Ravenna.
Non a Bologna, perché le ambigue parole dell' autore del Telai-
telogio sono suscettibili d' un' interpretazione assai remota da quella
che si è sempre data loro, pili per consuetudine che per rifles-
sione; non a Ravenna, giacché non è ammissibile che ai giorni
del nostro lo Studio di quella città possedesse una cattedra o di
rettorica o di poesia volgare. Che se una cattedra di poesia la-
tina vi fu, l'Alighieri non ebbe facoltà di conseguirla; e d'inse-
gnare infine grammatica ai ragazzi, grazie alla generosa ospita-
lità del Polentano, ei non potè davvero mai sentire il bisogno.
NOTE
(') N. ZiNr.ARF.i.i.i, La data del " Telentcìogio „ (Per la biografia di Dante),
estr. dagli Studi di lett. Hai, Napoli, 1899, v. I, p. 180 sgg.
(') G. Villani, Ist. Fior. lib. X, cap. I. E ci". F.- 1". Perrens, Hist. de Florence,
Paris, 1879, to. IV, p. 98 sgg
(') Neil'" epistola nuncupatoria „ al prelato (F'rancesco Silvestri da Cingoli,
clic occupò la sede vescovile dal 15 marzo 1323 al 21 ottobre 13^1; cf. Euhel,
Ilier. calli, trt. aevi, Monasterii, 1898, p. 260), Ubaldo cosigli dichiara: " Mearum
" virium habenas habetis in manibus, retrahentes aut relaxantes easdem prò libitu
" voluntatis „... E quindi aggiunge: " Deus autem omnipotens claram vestram prae-
" san ti a m mihi quatn plurimuin reverendam dignetur per longissiina tempora
" conservare „. Cf. Berardelli, Codd. onni. lai. et italic. qui iitss. in bibl. SS.
Ioli, et Pauli Venetiar. asservantnr Calai, in Nuova race, d' Opusc, Venezia,
1783, to. XXXVIII, n. 2, pp. 153. Di qui mi par lecito congetturare che I' Eugu-
bino tenesse qualche ufficio presso la curia vescovile di Firenze. Ho però vana-
mente ricercato il nome suo ne' Monumenti della Chiesa Fiorentina raccolti e
pubblicati dal Lami.
(*) Op. cit., lib. X, cap. CIX.
(') Op. cit., p. H.
(') Non sarà sfuggita, pensiamo, anche ad altri la singolare rassomiglianza
che intercede tra le parole con cui Ubaldo censura l' inclinazione smoderata di
Dante verso i piaceri del senso (" Hec illa est que Dantem inter humana
" ingenia nature dotibus coruscantem et omnium morum habitibus rutilantem,
" adulterinis amplexibus venenavit „), e quelle onde F. Villani s'è giovato a ricordare
i trascorsi di ser Brunetto: " Profecto virtutum omnium habitu felix, si repentine
" libidinis aculeos impudicos potuisset arcere „; Pii. Villani, Lib. de Civ. Fior,
fainos. civibus, ed. Galletti, p. 11. Certo l'accordo è casuale; ma in entrambi
gli scrittori appar manifesto il medesimo sforzo di nascondere più che riesca pos-
sibile una verità ingrata.
(') La vita di Dante scr. da G. D., ed. Macri-Leonc, Firenze, 1888, p. 44.
C) G. Mazzatinti, // Teletit. di Ub. di Seb. da Gubbio, ecc., in Arch. Sior.
Ital., serie IV, to. VII, 1881, p. 266. II nostro amico però partiva dal presupposto
che Ubaldo avesse conosciuto Dante, mentre attendeva in Bologna " agli studi
" di giurisprudenza „; opinione che mal s'accorda colle dichiarazioni dell'Eugu-
bino medesimo.
— 28 —
(') Op. cit., p. 14.
(!*') Op. cit., loc. cit.
(") E si può aggiungere anche Aristotele: ci". Conv. I, ix, 63.
(«» Op. cit., p. 14.
(") Già presso i classici praeccptor e non soltanto qui docci, ma anche qui
inbct: cfr. Forceluni, s. v.; ed appunto di qui discende il nuovo valore di " prin-
cipe „, " signore „, " magistrato „, che la parola assume presso gli scrittori
medievali. Oltreché i Cotniics Palatii furono quindi chiamati praeceptores anche
taluni dignitari d' ordini monastici e cavallereschi, com' è agevole vedere in Du
Gange, s. v.
('*) CoRAZZiNi, Le leti, edite cd iiicd. di DI. G. B., Firenze, 1877, p. 47, 51,
123, 195, 374, 335, 354, 377, ecc.
('') Ci. p. es. la lettera di Francesco da Fiano al Petrarca, che com. : Favor
ingfiis ( cod. Vatic. Ottobon. 2992, e. 26 n): " Vale, mi pater et preceptor
" doctissime, vale, poeta clarissime, vale, peritissime orator „, ecc.
Il Boccaccio pure è ben due volte chiamato " venerabilis praeceptor meus „
da Benvenuto da Imola ( Coiiun., ed. Lacaita, Inf. e. II, to. I, p. 79; Par. e. XVI,
to. V, p. 164); ma io non ho voluto citare nel testo siffatt' esempio, perché il
Rambaldi parla del Boccaccio come " lettore „ della Coniedia; e quindi in certo
modo come d' un vero e proprio " precettore „.
(**) " Cum igitur die quodam cum optimo meo preceptor e Colucyo in
" suo studio residerem . . .. „; lett. di Lorenzo d'Antonio Ridolfi a Gianfrancesco
de' Mannelli in cod. Panciatich. 147, e. 11 u. Mi è avvenuto già di ricordare come
il Ridolfi attribuisca il titolo di suo " precettore „ ad ogni persona un po' colta
con cui si trovi a carteggiare; sicché ritroviamo dichiarati tali, insieme al Salu-
tati, Giovanni di messer Scolare da Firenze, Zenobio Niccolai, maestro Giovanni
da Monticchiello, fra Maurizio Massi, fra Martino da Signa!
{^') Cfr. IsAi. LV, 4; S. Lue. Vili, 45, XVil, 13. Cf. anche De inon. Ili, i: " prae-
* ceptor morum Philosophus „; Epist. Vili, 5: " habeo praeceptorem Philosophum „.
— Anche Seneca è chiamato per antonomasia " praeceptor morum „ da Francesco
Nelli; cfr. H. Cochin, Un ami de Péirarquc : Lettres de F. Nelli à Petr., Paris,
1892, Lett. XVIII, p. 244.
('■') Cf. Petrarchae De reo. /ani. lib. XXI, ep. XV, ed. Fracassetti, to. Ili,
p. 108 sg.: " Inseris nominatim hanc huius officii tui excusationem, quod ille libi
" adolescentulo primus studiorum dux et prima fax fuerit „.
(") Cf. G. VoiGT, Die Briefsammlungen Petrarca' s, ecc., Miinchen, 1882, p. 81.
C"*) Credo opportuno riferirli, tanto più che nell'opuscolo dello Zingarelli,
dove pure si leggono ( p. 6), il senso ne riesce oscuro a cagione di taluni errori
tipografici :
lUis Ubaldum me mater dulcis alcbat
Temporibus, mihi sacra patrum decreta ministrans,
Urbibus Italiae spcculum, Bononia; cuncta
Murmura qui vici Parcarum te duce nacto,
Lumine cuncta regens Verbi, pater optime, mundi.
— 29 -
(Quest'ultimo e il verso stesso col quale incomincia il primo carme del Teletite-
ìogio). Trattandosi d'un lavoro di mole non indiflercnte, io suppongo, come già
da principio mi venne fatto d'accennare ( v. p. 8), che Ubaldo avesse composto
a Bologna n°gli anni precedenti al 1326 il libro che pubblicò poi a Firenze,
in occasione della venuta di Carlo di Calabria. Alla congettura dello Zingarelli,
che forse il Telentelogio non fosse ancora compiuto, allorché il principe Angioino
s'allontanò da Firenze ( op. cit., p. 12), sembrano contraddire i versi sopra citati.
(*') Per verità Ubaldo si esprime a proposito dei suoi studi in guisa così
enfaticamente vaga (" iuris utriusque fluentis pauhilum madidus „ ), che mal si
può comprendere se, quando dedicava il proprio libro al vescovo di Firenze,
fosse soltanto baccelliere (si noti il paulitltim uiadidus\) o se invece avesse già
ottenuta la laurea /// utroque. Siccome però a conseguire questa dieci anni erano
sufficienti (giacché del tcnv>o speso nello studio del diritto civile si teneva conto
a chi volesse poi conventarsi nel canonico, e viceversa: cf. H. Rashdali,, The
Uinversilies of Europe in the ttiiddle ages, Oxford, MDCCCXCV, v. (, p. 222); cosi
il calcolo nostro tornerebbe in tutti i modi.
C'*) Altrove m' era sembrato di poter asserire che Ubaldo in un passo del
Telentelogio, già riferito dal Mazzatintt, op. cit., p. 271, avesse, forse il primo,
rilevato il carattere di poeta " nazionale „ per eccellenza dell' Alighieri, chiaman-
dolo il " Virgilio italiano „: cfr. La bibliot. delle Scuole Hai. a. Vili, serie II, 1899,
p. 198; elogio che, mezzo secolo dopo, ricorre sulla bocca del Salutati e del Boc-
caccio. Ma in realtà, secondochc mi ha fatto accorto 1' amico prof. Zingarelli, nel
luogo del Telentelogio non di Dante, ma di Virgilio deesi propriamente tener
dall' Eugubino discorso.
("') Vo' alludere a F. X. Kraus, che nel suo Dante, Sein lebcii ti. seiit n'erh,
ecc., Berlin, 1897, ''b- I, p- 114. scrive: " Man sieht im Grunde niclit, was gegen
" diese Annahme einzuwenden wiire „.
(■*) C. Rieri, L' ultimo rifugio di D. A., Milano, 1891, cap. XV, p. 78 sgg.
(»*) Op. cit. §. 6, p. 31.
e") Non credo che molti tra i dantisti vorranno col Ricci dir " autorevole „
il Manetti, che nell' opera sua sui tre poeti fiorentini ha, per quanto spetta all' Ali-
ghieri, inserita " eine unbedeutende Compilation aus Boccaccio, Villani und Bruni,
" ohne irgend eine namhafte Notiz hinzuzufflgen „ (Kraus, op. cit., p. io); e
le parole del quale, ad ogni modo, non hanno la portata loro attribuita, come
vedremo fra breve. Che i " dottori di scienza „ poi, convenuti alle esequie del
poeta, secondoché asserisce l' Ottimo, fossero professori dello Studio ravignano,
si può ben congetturare, se talenta; ma come provarlo?
(^') Il temperamento é proposto dallo Zingarelli, op. cit., p. 14.
('^) Cfr. H. Rashdall, op. cit., v. I, p. 117 sg. H. Denifle, £)/<? Uiiiversitdteit
des Mittelalters bis 1400, Berlin, 1885, di Ravenna e della scuola sua non dice
parola.
(*'•") Il Ricci ricorda anche un Ugo di Riccio, iuris civilis professor, che si tro-
vava a Ravenna nel 1298. Ma dal documento ch'egli stesso ha pubblicato (op.
cit., App. II, doc. II, p. 412) si rileva che il detto Ugo fungeva da vicario del
podestà di Ravenna (il pisano Giacomo Gaetani) per alcuni mesi di quell'anno.
— 30 —
Ci". S. Bekxholi, Govniii di Rai-, r <ii Noni., I^avemia, 1898, p. 29. Si tratta
dunque d' un pubblico uflìcialc che, probabilmente, se ne sarà tornato via col po-
destà che r aveva salariato. F. iun's civiiis professor nel linguaggio del tempo, in
casi come questo, equivale semplicemente a perilus, a docior e simili.
(^") Cf. A. Gazzam, Frate Giiidollo da Bologna, studio storico-critico, Bologna,
1884; F. Tocco, //Fiordi reltor. e le sue pri)icip. redac. sec. i codd. fiorentini in
Giorn. stor. della leti. Hai, v. XIV, 1889, p. 337 sgg.
('') Diversamente opina il Gazzani; ma cf. Giorn. slor. della leti, ital., IV,
1884, p. 273.
(32j Qf Tocco, op. cit., p. 364.
C) Ui queste versioni io ne conosco tre, tutte e tre date alla luce nella se-
conda metà del sec. XIV, e sono le seguenti:
I. La Drieve Introdtictione a dittare, pubblicata di sull'unico cod., che or sia
conosciuto ( il Riccard. 2323, del sec. XIV ex. ) da F. Zambrini in Bologna del
1854; la quale non è già, come il Ricci, op. cit., p. 82, sembra aver supposto,
un'opera dettata in volgare dal suo autore, bensì in quella vece un'assai libera
traduzione, con copiose aggiunte, fatta da un fiorentino, vissuto tra il 1350 ed
il 1390, dell' yi/'s dictaniinis di Giovanni di Bonaiidrea, celebre notaio bolognese,
che insegnò rettorica nel patrio studio dal 1292(7) al 1321: cf. Fantuzzi, Notizie
degli Scritt. Boi., to. II, p. 375 sg.; Corradi, Notizie sui profess. di latin, nello
Studio di Boi., Bologna, 1887, par. I, p. 47 sg. Il libretto di Giovanni godette
nel secolo in cui fu composto d' un' immensa diflusione, della quale stanno a
farci testimonianza i numerosi mss. che ancora ne esistono; ecco perché l'ano-
nimo fiorentino giudicò utile traslatarlo, pur notando che in molte cose le " con-
" suetudini „ de' suoi giorni erano in contraddizione colle regole dell' autore.
2. L' arte del dittare che, inedita, si conserva nel cod. Magliabech. VI, 10, 5
(sec. XV in.), la quale altro non è se non un molto libero rifacimento, eseguito
nella prima metà del Quattrocento da un ignoto scrittore toscano, dell' Illutni-
ftatoriuiii ossia Iiitroductoriiiiii de arte dictaniinis di maestro Giovanbattista da
S. Giovanni di Moriana, dettatore fiorito suU' inizio del Trecento, intorno al quale
è per adesso a vedere quanto ha scritto R. .Sabbadini, Storia e crii, di ale. testi
latini in Museo ital. di antic/i. class., v. Ili, 1890, p. 401 sgg.
3. La praticità di maestro Laurentio di Aquilegia, essa pure inedita come la
precedente, che si rinviene unita al Fior di Rettorica nella redazione Giamboniana
e ad altre scritture spettanti all' ars dictandi nel cod. Marciano It. ci. X, 124
(sec. XV in.), ci presenta una traslazione assai fedele della Practica dictaniinis
del famoso maestro friulano, il quale, com'è noto, insegnò, oltreché a Bologna, a
Parigi tra il 1298 ed il 1302 (cf. il mio Influsso del pens. lat. sulla e tv. del pop.
ital. nel nt. e!^, p. 250 e la recensione di L. Delisle in Joiirn. des Savants, di-
cembre 1898, p. 745 sg.). Oltre ai qui enumerati altri volgarizzamenti di scritture
spettanti alla scienza del dettare potranno forse rinvenirsi in mss. non ancora
esplorati, ma non stimo probabile che ulteriori scoperte valgano a smentire il
nostro asserto che siffatto lavorio di traduzioni abbia avuto voga soltanto a
mezzo il Trecento.
('*) " His itaque considcratis et quod de rithimis vulgaribus per aliquam
— 31 —
" artem, quae mcis fuerit oculis aut auribus intimata, non fuit per aliquos prae-
" ccdentcs aliquid sub regulis aut detcrminato modo vel exemplis hucusque
" theorice nuncupatum, quod ad doctrinam aliquam saltem radium in huiusmodi
" licet modica scientia possct accedere, sed solum quidam cursus et consuetudo
" rithimandi quae, ut puto, a bonis et dignis veteribus liabuit principium; quod
* quidcm est per rithimatores quasi accidentaliter et pratice, non autem magi-
* straliter usitatum etc — ea que circa hoc per expcrimenta rerum et praticani
" per alios rithimantes vidi hactenus observari.. . . in quandam, licet parvam,
" artem et doctrinam et regulas redigere meditavi „; Delle rime volg. Irati.
«li A. da Tempo, ed. Grion, Bologna, 1869, p. 69 sg.; il passo è collazionato sul
cod. Braideiise AF. X. 30, e. 1 a. Che il da Tempo nel 1332 ignorasse d'esser
stato preceduto dall' Alighieri non può farci meraviglia: chi conobbe in quel-
V età il De vttlgari eloqueiitia ? Che se ad alcuno cotesto libro poteva venir tra
mani, colui doveva esser davvero il giudice padovano, fiorito in città dottissima
e tra amici che col latino coltivavan anche il volgare, di cui più d' uno anzi
vantavasi ( tale il Quirini) d'aver in Dante il proprio " maestro e pedagogo „.
l") Ci. Grion, op. cit, p. 5 sgg. e S. Morplrgo, Rime iited. di G. Quirini e A.
da Tempo in Arch. Stor. per Trieste, l'Istria ed il Trentino, voi. I, i88i, p. 154 sg.
('") Cf. su questo punto il mio libro L'influsso del pens. lat., p. 81 e n. 224
sg., non che i fonti ivi allegati.
{") Che i giullari si fossero impadroniti di una parte almeno della Comedia
assevera nel suo Carmen, secondo è ben noto, Giovanni Del Virgilio; e la cosa
è data come sicura da un critico avvezzo a pesar bene le proprie parole, il
D' Ovidio ( Tre discussioni dantesche, Napoli, 1897, p. 12 e 14 ).
j3tj " Virgilius nullius disciplinae expers „: Macr., Comm. in Sonni. Scip. \, vi, 44.
(") Questo, e non altro, è anche il senso del passo di G. Manetti, che il Ricci
ha riferito, un po' sciupacchiato, a p. 82 del suo libro: " Ravennae igitur com-
" plures annos reliquum vitae suae commoratus, nonnuUos sane homines egre-
" giosque viros poeticam egregie prae ceteris edocuit compluresque egregios
" praestantis ingenii viros materno sermone ita erudivit, ut nonnulli ex his
" vulgares, ut aiunt, non vulgares poetas haberentur „. Manetti Vita Dantis in
Ph. Villani Liber, ed. Galletti, p. 78. A presiedere in Bologna un ugual circolo
d'ammiratori suoi (nel quale però ai " viri „ sarebbersi mescolati, com'era natu-
rale, anche i giovani), invita chiaramente anche Giovanni Del Virgilio il poeta
divino coi versi 67-69 dell' Ecloga sua:
Huc ades: huc venient qui te pervisere gliscent,
Parrhasii iuvenesque senes, et carmina laeti
Qui nova mìrari cupiantque antiqua doceri.
A Bologna pure Dante avrebbe dovuto dunque " con le sue dimostrazioni „ fare
" più scolari in poesia e massimamente nella vulgare „; tuttavia ninno, ch'io
sappia, ha mai dedotto di qui che Giovanni gli proponesse d' aprir una scuola
di rettorica o di poesia!
(*■') Forse m' inganno, ma m' è sembrato che da taluni si tenda a confondere
in una sola due cattedre che furono, ai tempi dell' Alighieri, affatto diverse 1' una
— 32 -
ilall'altra: quella di rcttorica e quella di poesia. Or quantunque l'origiiie dell'errore
riesca evidente a ehi rammenti come spesso avvenisse nel sec. decimoquarto
che ad un medesimo insegnante entrambe s'affidassero, pure non sarà inoppor-
tuno chiarir bene le cose. Osserviamo a quest'intento quanto si verificò a Bolo-
gna nel 1331, l'anno appunto in cui Dante mori. Gli storiografi dello Studio ci
attestano che, essendo allor passato di questa vita scr Giovanni di Bonandrea,
notaio e retore famoso, come s' è già accennato, il quale da più anni insegnaci
nello Studio insieme alla Rettorica anche la Poesia, gli fu dato per successore
nella prima di queste cattedre Bertolino Benincasa da Canolo, altro dottore non
meno celebre, che prese a leggere il Tullio nuovo ed a spiegare la sunima dicla-
ìutuis di Bonandrea (Fantuzzi, op. cit., loc. cit.; Mazzetti, Rep. de' Profess. dell' Uni-
vcrs. di Bologna, Bologna, 18^7, p. 48). Contemporaneamente però, volendo esau-
dire i voti della scolaresca, il comune incaricò Giovanni Del Virgilio di assumere
r insegnamento della poesia : " teneatur et debeat quolibet anno legere et dare
" versificaturam et poesim arbitrio audientium et quibuslibet duobus annis dictos
" quatuor auctores „ ; ved. Macrì-Leone, La biicol. lat. nella leiter. ital. del sec. XIV,
Torino, 1889, p. 57. Più tardi, nel corso del sec. XIV, si ripetè nuovamente il
caso che un medesimo dottore coprisse insieme nello Studio bolognese la cat-
tedra di rettorica e quella di poesia: tra i Rotuli dello Studio, edili dal Dallarc
I / Rat. dei Lettori, Legisti e Artisti, dello Stitd. Bologn. dal 1384 al i^gg, Bo-
logna, 1888, V. I, p. 7), noi ne rinveniamo difatti uno del 1388-89, in cui maestro
Bartolomeo di Puglia, celebrato dottore di quel tempo ( cf. Salutati, Episto-
lario, Roma, 1893, '^'- 'f' P- 3-13 )r è eletto " ad lecturam Rectorice et Auctorum „;
ed il salario suo, da cinquanta, vien quindi portato a cento lire bolognesi. Anche
Giovanni de' Malpaghini nel 1397 in Firenze alla lettura della Rettorica congiun-
geva quella degli " Autori „. Cf. Gherardi, Stat. dell' Univ. e Studio Fior., Fi-
renze, 1881, Parte II, Doc. CV, p. 369.
(■") Dico " generalmente „, perché i quattro surricordati si consideravano gli
" auctores „ per eccellenza; ma quando al maestro o agli uditori fosse piaciuto,
la scelta poteva cadere anche sopra altri scrittori dell'antichità, vuoi poeti vuoi
prosatori. L'atto d'elezione di Giovanni Del Virgilio testé citato gì' impone di
leggere " dictos quatuor auctores et quoscumque alios auctores prò libito audi-
" torum, sed quolibet anno duos ad voluntatem audientium „: ed anche il Malpa-
ghini a Firenze vien chiamato " ad legendum unum auctorcm, hystoricum, mo-
" ralem aut poetam quolibet anno „.
(*^) Cf. Rashdai.l, op. cit., V. I, p. 206 sg.
(■") Cf. C. Malagola, Statuti delle Univers. e dei Collegi dello Studio Bologn.,
Bologna, MDCCCLXXXVIII, Stat. dell' Univ. dei Giuristi, 1317, lib. II, p. 37;
1432, lib. II, p. 97. E cfr. anche Dallaki, op. cit., v. I, p. VII e Proemi dei
Rotuli, p. XIX.
{**) Cf. .Malagola, op. cit., Stat. dell' Univers. di Medie, e d'Arti, 1405,
rubr. XLII, p. 254; rubr. L, p. 257.
(") Cf. Malagola, op. cit.. .Stat. dell' Univ. dei Giur., 1432, lib. II, p. 97;
Dallari, op. cit., V. I, p. XII e sgg. ; p. XIX, ecc.
(**) Ved. Malagola, op. cit., p. 254 e cfr. Rasiidall, op. cit., v. I, p. 2(2 e
- 33 -
2^7- Le cose però non dovettero andar sempre nello stesso modo. Per ciò che
spetta alla grammatica, la rubr. XLII degli Statuti de' Medici e degli Artisti,
dopo aver decretato che niuno possa insegnar a Bologna " in aliqua scientia or-
" dinarie, nisi fuerit conventuatus „, e stabilite le pene non solo per il docente che
violasse siffatta disposizione, ma anche per chiunque andasse ad udirlo; sog-
giunge: " legcntcs in gramatica . .. . non teneantur ad predicta. „ Però quest'esen-
zione è subito temperata dalla clausola: " nisi esset prò utilitate Universitatis
" scolarium ; tunc sibi exhibeatur terminus duorum vel trium mensium, si fuerit
" obtentum per maiorem partem diete Universitatis „. Per il " bene „ dell' Uni-
versità (frase molto vaga!) si potevano obbligare dunque anche i grammatici
che volessero leggere nello Studio a conventarsi. Ma v'ha di più. Sullo scorcio
del Trecento l'obbligo del convento era già imposto loro anche per le letture
" straordinarie „. E diffatti ne' Rotuli dal r38.<-85 accanto agli insegnanti ordi-
nari di grammatica, noi rinveniamo due scolari incaricati di leggere la stessa
materia; ma cosi all'uno come all'altro è nel documento rammentato l'impegno
assunto d' addottorarsi dentro un lasso di tempo prestabilito ( due mesi scarsi
per il primo, quasi sei per il secondo): alias uulìunt salaritim pcrcipiat : v. D.\i.-
LARI, Op. Cit., V. I, p. 5.
(*'') A Padova non solo non " potevano essere professori ordinari! e straor-
" dinarii se non dottori „ (Glori.\, Montini, della Univ. di Padova ( 1222-1 jiS)
in Meni, del R. Istil. Veneto, XXII, par. Il, 1885, p. 395 sgg. ); ma ai gramma-
tici stessi, che leggevano nello Studio, correva 1' obbligo d' essere " conventati
" et approbati „, come attestano gli statuti comunali del 1259 (cf. Gloria, op. cit.,
P- 375. e Denifle, op. cit., v. I, p. 800). Altrettanto seguiva ad Arezzo, dove gli
statuti del 1255 impongono che " nullus audeat legcre ordinarie in civitate Aretina
" nec in gramatica nec dialectica nec in medicina, nisi sit legitime et publice et
" in generali conventu examinatus et approbatus et licentiatus quod possit in
" sua scientia ubique regere „ : cf. F. von Savigny, Gesch. des Rómisch. Rechts
ini Mittelalter, Heidelberg, 1822, v. Ili, p. 6^5. E cosi pure decretavano gli statuti
dello Studio romano ( v. F. M. Renazze, Storia dell' Univ. degli Studi di Roma,
Roma, MDCCCIII, to. I, App. al lib. I, Doc. XXXIV, p. 271), ed altresì quelli della
Università Fiorentina, " lauda bilem cons u etudinem in omnibus gene-
" ralibus Studiis observatam, in hoc nostro Studio inmitantes „: Ghe-
RARDi, op. cit., Stat. rubr. I.XXIII, p. 81.
(") ViRG. Bue. Ecl. VII, 1-2:
Forte sub arguta consederat ilice Daphnis,
Compulcrantque greges Corydon et Thyrsis in unum, etc.
(^') Secondoché indica la collocazione delle parole, la quale qui s' accorda
collo svolgimento del pensiero, de more deesi riferire a pastas: Melibeo e Titiro
passano in rassegna le caprette, dopoché queste " tornano dal pasco „ pasciute,
com'è costume (cf. Virg. Ecl. IX, 23-24).
C'") F. Macrì-Leone, op. cit., p. log.
(") Op. cit., p. 8^.
NOVATI. 3
— 34 —
(") Cf. opere ialine di D. A., reintegrate nel testo con nuovi coinm., Firenze,
i88a, V. II, p. 326.
^") Macrì-Leone, op. cit., p. 109 sg.
(") Ricci, op. cit., p. 99 sg.
(") Ecl. I, vv. 9-26.
('*) Manifestato il proposito suo d' inviare a Mopso dicci vaselli di latte,
Titiro chiude il suo discorso con un" ultima raccomandazione, alquanto ironica,
a Melibeo:
Tu tamcn interdum caprns mediterò pctulcos.
Et duris crustis discas infigere dentes;
e quindi l'Ecloga stessa ha fine ( v. 65-68). Or intorno al significato di questi
versi il Dionisi ; che pur troppo è passato e passa ancora come uno dei più fe-
lici interpreti delle Ecloghe dantesche, mentre di solito non ne imbrocca una;
esce fuori con la seguente incredibile diceria: " Queste io le ho per parole di
" Ser Dino Perini, di Melibeo; colle quali egli insinui a Titiro, cioè a Dante, che
" mediti a quando a quando peiulcos ... capros, vale a dire i Grandi alla sua parte
" contrarj, per guardarsene; e i personaggi degni d'infamia, per inserirne anche
" nel Purgatorio la riprensione o la satira; e che s'avvezzi a masticar con pa-
" zienza il pane degli altri, che ha sette croste, ovvero il pane della povertà, eh' è
" per sé stesso durissimo „. Serie di Aneddoti, n. IV, Verona, Erede Merlo,
MDCCLXXXVIII, p. 9. Si può dar di peggio! Eppure codesta fantastica spiega-
zione ha fatto fortuna. La ripete tal quale il Fraticelli; il Giuliani la loda (bellis-
sima questa, che dopo averla adottata nel commento (op. cit., p. 332), a p. 335
se ne scorda, e nel tradurre 1' ecloga, lascia i due versi a Titiro!): solo il P.\-
SQUALiGO, Ecloghe di G. del Virg. e di D. Aligli., Lonigo, 1887, p. 45, la respinge,
perché: " stando alla nuda lettera, non vi ha dubbio che il discorso è qui di
" Dante a Melibeo „; in compenso però, fisso nell'idea che Dante sia or Titiro
or Melibeo, cava partito dai due versi per un inintelligibile sproloquio. Or tutto
questo a me pare un voler chiudere gli occhi per non vedere. In primo luogo è
impossibile togliere a Dante i due versi: la é questione di senso comune. In se-
condo poi come si fa ad immaginare che i " capri petulci „ sian altra cosa dai
soliti scolari, " cura „ di Melibeo, altre due volte indicati colla stessa parola
neir Ecloga? Bisogna proprio non capir nulla del linguaggio bucolico per supporre
che sotto le spoglie de' capretti lascivi (che tanto vale il petulci del testo)
Dante potesse nascondere i " grandi alla sua parte contrarli „ o i personaggi
da infamare nella Comedia\ Ma ove a costoro egli si fosse dato briga d' alludere,
ben altre fiere g!i avrebbero prestato il lor nome! Né meno assurda è la spiega-
zione del verso seguente. Dante (s'è già veduto) ama rimproverare scherzosa-
mente a Melibeo che i carmi di Mopso " non sono pane pe' suoi denti „. E qui
ripete il rimbrotto: " Mentr' io attendo a mugnere, tu occupati delle capre, ed
" impara a metter i denti nelle dure croste „, cioè stude in his, come dice il
glossatore anonimo: " cerca di farti più dotto „. E se abbisognasse una prova
che questo, e non altro, è il senso vero del verso, noi additeremmo tosto 1' ecloga
— 35 —
colla quale Giovanni Del Virgilio ha risposto alla dantesca. Il maestro bolognese
vi si dice pronto a ricambiare il latte di pecora che Dante gli invierà con altret-
tanto latte di giovenca, allor allora spremuto, " quo dura queant mollescere
" crusta „ (v. 93). O di quali croste si parla qui, in grazia, se non di quelle
appunto che Mclibeo durava fatica a rosicchiare? Che e' entran dunque il pane
altrui " dalle sette croste „ ed il pan della povertà, e gli altri sogni del Dionisi?
('") Nulla tornava più agevole ad un notaio del scc. XIV di quello che tra-
sformarsi in maestro di grammatica, data la strettissima parentela, ond' erano
allora insieme congiunte le scuole d' ars uo/an'a e d' ars diciaHdi. Ved. in pro-
posito quel mio vecchio lavoro che è La giovinezza di Coluccio Salutali, Torino,
1888, p. 66 sgg. — Sopra il Perini avrò occasione di ritornare in un nuovo lavoro.
('■*) Occorre forse rammentare tutto lo scalpore fatto dal Boccaccio, a cui
s" unirono e il Nelli e il Bruni e, più tardi, anche il Salutati, allorché il Petrarca
ebbe a recarsi presso de' Visconti? La lettera che Giovanni diresse al suo vene
rato amico in quell'occasione ribocca d'indignazione e di paroloni (cf. Corazzini,
op. cit., p. -17 sgg.); eppure l'autore di essa, quando la necessità a ciò l'indusse
non sdegnò d' accettare, anche lui, 1' ospitalità ed i benefici di " tiranni „, come
Francesco Ordelafti, Ostasio e Bernardino da Polenta. Lungo discorso potrebbes
fare intorno a quest' argomento, né privo d' interesse. Ma qui soltanto avvertiremo
a mostrar come siasi andato facendo sempre maggiore l' influsso dell' antichità
anche in quest' ordine d' idee, sulle menti degli amici e discepoli del Petrarca e
del Boccaccio, che a parecchi di costoro sembrava riprovevole audacia quella
che consigliò l'Alighieri a cacciar nel più cupo dell'Inferno gli uccisori di Cesare,
tanto che il Salutati dovette sorgere nel De tyraiitno a difendere contro di loro
il suo glorioso concittadino.
(") Vita di Dante, § 5, p. 30.
(•^) Op. cit., ed. Galletti, p. io.
(") Ecl. I, vv. 80-81.
(") Cfr. Vita di Dante, § 6, p. 33.
C'ì De eligibilis vitae genere in cod. della Nazionale di Parigi, Fonds Lat.
€49^, e. 12 A.
II.
PASCUA PIKRIIS
DEMUM RESONABAT AVENIS
I.
Si può dirlo senz'essere ingiusti verso chicchessia: tra i
tanti cultori degli studi danteschi, i quali dallo scorcio del se-
colo XMII in poi ebbero ad occuparsi della corrispondenza
poetica corsa tra l'Alighieri e Giovanni Del Virgilio, il solo che
abbia dato prova sicura d' averne riconosciuto il vero carattere
e ben compresa tutta l' importanza, è stato Francesco Macri-Leone.
Pur troppo anche a lui la " livida Atropo „ ruppe a mezzo il
giocondo lavoro; sicché del libro ch'egli aveva vagheggiato in-
torno alla Bucolica latina nella letteratura nostra del Trecento,
la prima parte soltanto potè vedere la luce; ed anche questa,
messa sgraziatamente a stampa dall' autore, mentre si trovava
lontano da ogni centro di cultura, martellato dalla brama di pro-
cacciarsi alla lesta un " titolo „, che lo riconducesse in meno
inospitale soggiorno; usci fuori portando impressi i dannosi vestigi
di quella fretta, che " dismaga 1' onestade „ non degli uomini sol-
tanto, ma altresì delle opere loro (*). Ad onta di ciò, ripeto, il
giovine critico leccese, dotato com' era di svegliata ingegno e di
non scarso acume, seppe giudicare le ecloghe dei due trecentisti
con molta maggiore finezza di quella mostrata da tutti i predecessori
suoi, e levare quindi di mezzo come non pochi altri pregiudizi
intorno ad esse diffusi ('), anche un' erronea opinione che, tenuta
com'era da letterati per fama chiarisssimi, minacciava d'abbuiare
sempre più la questione in luogo di chiarirla. Aveva in vero
fatto dapprima capolino tra gli studiosi per opera di Giorgio
Voigt la credenza che Dante si fosse preso giuoco del consiglia
— 40 —
datogli dal retore bolognese d' abbandonare per la latina la vol-
gar poesia, e " scherzando „ V avesse respinto (■'); poscia era
sopraggiunto il Gaspary ad asserire come 1' " impronta prosun-
" zione „ dell' interprete di Virgilio fosse sembrata tale al poeta
divino che a rintuzzarla si confacesse non già aperto sdegno
o manifesto dileggio, bensì invece una sottile ironia. Per conse-
guire appunto tale intento egli avrebbe divisato d' assumere, ri-
spondendo a Giovanni, le spoglie dell' antico Titiro, di cavare
da quella maroniana zampogna, cui da secoli ninno più aveva
distese le mani, novelle armonie. Sotto l' involucro pastorale
quanto di rude o d' offensivo poteva serbare il pensiero dan-
tesco sarebbesi ammorzato e rammorbidito senza scemare d' effi-
cacia; per tal guisa il vecchio simbolo bucolico, compenetrato
dal vigoroso soffio di uno spirito nuovo, da ozioso trastullo ri-
diveniva vera forma d' arte (*). Codesta sentenza del valoroso
tedesco andò a genio a parecchi; sicché il Pasqualigo da un
canto, dall'altro Antonio Lubin s'industriarono a ricercar poi
nel testo dei due pastorali componimenti inviati da Dante a Gio-
vanni, i passi donde, a lor giudizio, il sarcasmo velato e la dis-
simulata ironia meglio parevano appalesarsi (^), Il Macri-Leene
al contrario giudicò del tutto fallace, coni' era in realtà, questo
modo di vedere del Gaspary e de' seguaci suoi; ne faticò molto
a dimostrare il suo assunto. Non v' ha, egli avvertiva rettamente,
alcun sapore di scherzo, e men che meno poi d' ironia, nel lin-
guaggio di Dante. Ben lungi dal considerarlo quasi un arrogante
grammaticuzzo, che vuol sedere a scranna, giudice di quanto
non sa né può comprendere, Titiro tratta Mopso come un amico
schietto e devoto, della cui stima s* onora, del cui affetto si com-
piace. E le lodi eh' ei si degna tributargli ben potranno forse
parer a noi oggi ampollose, ma giammai menzognere e beffarde.
" Per carità, conchiude il Macri-Leone, non attoschiamo, coi no-
*' stri sottili vapori di critici, il profumo soave d' affetto sincero
" e di benevolenza cortese, che emana da questi graziosi fiori di
" poesia sbocciata già al cominciare della nostra primavera let-
'' teraria, e ancora non avvizziti „ f').
— 41 —
Come pur dianzi accennavo, la causa tolta a difendere dal
compianto Macri-Leone era di tale bontà, che la vittoria non po-
teva mancargli, anche quand' egli per raggiungerla avesse con
minor vigoria combattuto. E difatti oggi non v'ha più alcuno
disposto a farsi campione vuoi clcH' una vuoi dell' altra delle due
opinioni dal Macri-Leone respinte. Pure, ove al Gaspary re-
stasse, eh' io noi credo, ancora qualche fautore, riuscirebbe age-
vole a noi, rafforzando di nuove obbiezioni il manipolo di quelle
già addotte, costringerlo a piegare in ritirata.
Supponiam dunque per un istante, che il poeta illustre, of-
feso dall' audace e non richiesto consiglio del maestro bolo-
gnese, si fosse davvero proposto di rintuzzarne la baldanza con
velati ed arguti rimbrotti. Possiamo noi credere che in tal caso
ei sarebbe stato pago a pungerne la protervia con le allusioni,
recondite tanto da riuscire inintelligibili, al " bianco paziente „,
al " canaletto „ umile, che accoglie e guida giii per il declivio
del monte le linfe che sovra la cima zampillano, ai " turpi orec-
" chi „ di re Mida, alla morte del protervo Pireneo? (") Ben più
naturale sarebbe ritenere che anche in quegli amplissimi elogi
da lui prodigati al suo contradditore, 1' Alighieri avesse versato
qualche stilla di fiele. Sicché, quand' egli scrive che Mopso suole
air ombra del Menalo, nei fioriti prati d' Arcadia, dar fiato alle
pastorali canne con si inaudita dolcezza da rinnovare i prodigi
d'Orfeo, giacché
dulce melos armenta sequantur,
Placatique ruant campis de monte leones.
Et refluant undae, frondes et Maenala nutent; (')
noi dovremmo restare incerti se vedere in siffatte parole una
lode sincera o una garbata canzonatura. Ma Giovanni a co-
dest'ecloga, presentatagli quasi un vaso, che ha intriso il labbro
di un " soave licore „, mentre contiene in fondo de' " succhi
" amari „, s' aff'retta a rispondere immediatamente con un'altra,
nella quale l' ammirazione per il " divin vecchio „, che manife-
stavasi già tanto grande nel primo suo carme, par fatta mag-
— 42 —
giore, pili intensa, soprattutto più afifcttuosa, O come mai? Egli
dunque non ha capito nulla? Ha preso per moneta buona e
sonante le sarcastiche lodi tributategli? Possibile che un'ironia,
la quale balza evidente agli occhi de' critici, nati cinque secoli
dopo, sia rimasta inavvertita a colui che ne era il bersaglio?
Ma v'ha dell'altro. L'ecloga di Dante sarebbe stata dettata per
difendere il volgare dagli attacchi di Giovanni, anzi, addirittura
di tutto quello stuolo di dotti, che il maestro bolognese rappre-
sentava; ed in essa non si rinvien parola che accenni ai meriti
vilipesi, ai conculcati diritti di quell' idioma in cui l' Alighieri
aveva dettato la Comcdia?
Adagio un poco: la difesa del volgare c'è; odo rispondermi
da più parti; ed agli altri s'aggiungerebbe qui, ove fosse vivo,
anche il Macri-Leone. Giacché egli pure, il valente giovine, dopo
avere intravveduta la via che si doveva battere per discoprire il
vero, non ha saputo percorrerla tutta quanta; ma, ad un tratto,
ricalcando le proprie vestigia, è tornato a mescolarsi alla schiera
di coloro che aveva cosi felicemente sorpassati. Chiarito infatti
che neir animo di Dante non allignò mai pensiero alcuno meno
che benevolo e cortese verso Giovanni Del Virgilio; laonde è
vano ricercare ne' versi a lui diretti traccia di scherno o di mal
animo; egli soggiunge che l'Alighieri volle disarmare con altro
mezzo, ben più nobile e degno, il suo contradditore: vale a dire
" facendogli gustare i prodotti della sua originale e ricchissima
" Musa volgare „ (^). Or cosi affermando, il Macri-Leone ha
adottata una sentenza che, per essere da tutti comunemente te-
nuta, non per questo dee dirsi, a parer nostro, prossima al vero.
Poiché il vero, a compendiarlo in poche parole, è tale: Dante,
ben lungi dal rigettare, vuoi scherzoso vuoi ironico, il suggeri-
mento di Giovanni, dichiara non solo d'accettarlo, ma s'accinge
tosto a metterlo in esecuzione. So che codest' asserto farà inar-
care le ciglia a più d' uno ("*). Ma io non chieggo che d' essere
ascoltato prima di venir giudicato; e quindi, bandito ogni in-
dugio, m'affretto ad esporre le cagioni che hanno prodotta in
me siffatta persuasione.
— 43 —
IL
La mia dimostrazione si i'on'ierà adesso unicamente sopra
l'analisi di quel brano della prima tra le ecloghe dantesche, il
quale, benché sia stato, quasi a sazietà, discusso da quanti eb-
bero sin qui occasione non solo di studiare la corrispondenza
dell' esule fiorentino col professore bolognese, ma di discutere
altresì la rilevantissima questione del come, del dove, del quando
la Conicdia sia per intero uscita alla luce; pure non è mai stato
rettamente interpretato da alcuno. Ben sanno dunque i lettori,
come, dopo avere rivelato con un movimento mirabile di giusta
alterezza, tale da richiamare per bellezza ed efficacia di forma e
di pensiero il superbo slancio lirico del Paradiso (XXV, 1-9), la
sua suprema aspirazione — quella cioè di ricevere in Firenze
la laurea — , Dante, quasi colpito ad un tratto da molesto ri-
cordo, si rivolga al giovine Melibeo, interrogando: " Ma, il con-
" cederà Mopso? „ — " Mopso... e che? „; chiede a sua volta
Melibeo. E Titiro allora:
Comica nonne vides ipsum reprehendere verba,
Tum quia foemineo resonant attrita labello,
Tum quia Castalias pudet acceptare sorores?
Ipse ego respondi: versus iterumque relegi,
Mopse, tuos
Melibeo scrolla allora le spalle, e poi :
Quid faciemus, ait, Mopsuin revocare volentes?
A codesta domanda Titiro risponde coi versi divenuti oramai
famosi :
Est mecum, quam noscis^ ovis gratissima, dixi.
Ubera vix quae ferre potest, tam lactis abundans;
Rupe sub ingenti carptas modo ruminat herbas;
Nulli iuncta gregi, nullis assuetaque caulis,
Sponte venire solet, nunquam vi, poscere mulctram.
Hanc ego praeslolor manibus mulgere paratis;
Hac iniplebo decem missurus vascula Mopso (")•
— 4+ —
Or qual " dottrina „ si nasconde sotto il velame allegorico
in questi esametri ? Monsignor Dionisi nell' edizion sua delle
ecloghe, appoggiandosi all' autorità dell' Anonimo glossatore del
cod. Laurenziano PI. XXIX, 8, e soprattutto fidando nella po-
stilla, che la parola ovis spiega come òucolicnin canncn, stimò
che Dante alludere qui volesse all' ecloga stessa che stava scri-
vendo. Egli interpretò dunque 1' intero brano, testé letto, in que-
sta guisa: " Che faremo, disse (Melibeo), volendo noi rinvitarlo
" (Mopso)? cioè, s'intende, bisogna (come spiega 1' anonimo) in
" qualche modo rispondergli; se no, e' non ci scriverà più „.
Per ovviare a siffatto danno, 1' Alighieri " consigliasi ecloga la-
" tina mandargli, eh' è questa istessa, in cui egli sotto la persona
" di Titiro finge tener sermone con Melibeo „; ecloga, della
quale i dieci vasetti di latte riescono " simbolo certissimo '* „.
Ed in prova sempre maggiore di ciò il Dionisi adduce anche le
parole di Giovanni Del Virgilio, il quale nell' ecloga sua alla
Dantesca responsiva manifesta, in persona di Mopso, il disegno
di mandare a Titiro altrettanto latte quanto costui gliene volle
donare:
tot mandabinius illi
Vascula, quot nobis promisit Tityrus ipsc (").
" Ora Mopso col suo latte non intese che la ecloga stessa,
" ove questo dice; dunque a giudizio di maestro Giovanni anche
" Titiro nel suo regalo di latte promesso a Mopso non poteva
" non intendere 1' ecloga stessa, ove tal cosa annunziava „. Per
verità a creder questo può riuscire di qualche incomodo il pro-
misit del testo (o non aveva forse Dante già effettivamente man-
data all' amico 1' ecloga sua?). Ma la difficoltà sarà tolta di mezzo,
ove al promisit si sostituisca un praemisit ('^).
Tale r esplicazione del Dionisi, che, pur nascondendo in sé
stessa una particella di verità, non riesce tuttavia nel complesso
accettabile, né presentasi, almeno in apparenza, soddisfacente e
persuasiva. Non è a stupire pertanto che contro di essa siano
insorti più tardi quanti vollero far materia degli studi loro le
— 45 —
ecloghe dantesche. E tutti stimarono, combattendo 1* erudito ve-
ronese di combattere insieme l'Anonimo trecentista; nel che,
come or ora vedremo, s'ingannarono a partito.
Tra coloro, che più s' affaticarono a confutare il Dionisi, un
luogo segnalato però spetta, dopo Filippo Scolari ('•'), al padre
Marco Giovanni Penta, non tanto perché ei sia stato, come affer-
mava il Giuliani (""'), " uno dei maggiori dantisti del nostro secolo „,
quanto perché l'opinione da lui propugnata in una prolissa scrit-
tura, inserita nel Giornale Arcadico del 1848 ('^), tiene oggi an-
cora il campo, né ha mai, eh' io sappia, rinvenuto oppositori.
E poiché contro il Ponta dunque a noi tocca combattere, cosi
gioverà esporne prima con imparziale chiarezza i ragionamenti.
" La corrispondenza poetica di Dante e Giovanni Del Vlr-
" gilio „ : questo è il titolo che la dissertazione del " savio e
•' dottissimo „ Somasco porta in fronte; pure cadrebbe in er-
rore chi stimasse che della corrispondenza stessa s' occupi es-
senzialmente r Autore. In realtà a lui essa è non già fine, ma
mezzo per raggiungere il proprio intento: quello di provare,
contro la sentenza d' Ugo Foscolo, che il " poema sacro „, ben
lungi dall' essere ancora ignoto al pubblico quando Dante mori,
era già stato dato tutt' intero alla luce fin dal 1319, salvoché gli
ultimi tredici canti del Paradiso ('^). Or siccome l' enimmatica
allusione all' agna da lui posseduta ed ai dieci mastelli di latte
che proponevasi mugnerne, introdotta dall' Alighieri nella prima
sua ecloga, sembrò al Ponta offerire un valido sostegno alla tesi
di cui s'era fatto patrocinatore; ben si capisce da ciò com'egli
abbia fatto tesoro di ogni argomento, vuoi da altri già addotto
vuoi da lui stesso escogitato, pur di mostrare vana ed infon-
data la sentenza che nella pecora simbolica si celasse 1' ecloga
latina.
Comincia dunque il Ponta dal negare che la domanda di Me-
libeo a Titiro: quid facicmus... Mopsiwi revocare z'o/(?«/<'5, debba,
come il Dionisi aveva creduto, esser intesa cosi: " Che farem
" noi, volendo rinvitar Mopso, acciocché torni a scriverci „ —
Revocare non ha qui, egli dice, la forza che in altri casi pos-
- 46 -
siede di " rinvitarc „, bensì quella, che gli è pure coniunissinia, di
" indurre altrui a mutar sentenza, maniera d' agire „, e simili ('").
Melibeo non chiede quindi che cosa occorra fare, perché Mopso,
invitato, riscriva, ma perché egli, cangiando d' avviso, si pieghi
a concedere che Dante sia coronato per la poesia italiana (^'^).
Premesso questo, assai chiaro si scorge come il dono che Titiro
dichiarasi disposto ad inviare a Mopso, de' dieci vasi di latte
spremuto dalle poppe della sua pecora prediletta, non possa in
veruna guisa essere simbolo di quanto concerne l' ecloga e
r idioma latino. Prima di ricercare il senso allegorico delle scrit-
ture altrui, continua argomentando il Ponta, dee chi legge inten-
derne bene quello letterale. Or che leggiamo noi nell' ecloga
dantesca? Per espressa testimonianza di Titiro, Melibeo ci è
presentato in essa " uomo cosi tutto volgare ed idiota che nulla
" si conosce del parlare latino tenuto da Mopso a Titiro nel
" cariìtcìi antecedente „: sicché riesce ragionevole asserire es-
sergli sconosciuto il fonte da cui sgorga la poesia latina (^^).
Dall' altro canto Titiro asserisce che Melibeo ben conosce la sua
pecora. Ora, s'ei conosce la pecora, dee conoscere anche il latte
ch'essa suol dare; ma, in tal caso, né la pecora né il latte pos-
sono simboleggiar la poesia latina; quindi torna assurdo il cre-
dere che i dieci vasetti debbansi identificare coli' ecloga dantesca.
E poi, chi ben guardi, le qualità tutte dell' allegorica agnella
mal si confanno alla poesia latina. Scrive infatti Dante non solo
ch'essa è nota a Melibeo, uomo illetterato, ma che a lui stesso
è carissima, che abbonda di latte, che è schiva delle altre greggi,
e non usa in alcun altro ovile, docile e mansueta cosi da venire
al mastello spontanea, senza che mai alcuno la debba sforzare.
" Or e quando mai Dante frequentò questa sorta di verseg-
" giare? Quando mostrossi più appassionato di questa, che della
** poesia italiana? come fé' conoscere che questa pecora usasse...
'' di presentarsi spontanea alla mugnitura di Dante, il quale
" pei versi latini... sino a quel tempo non fu mai conosciuto
" poeta? „ (%
Se non è dunque la musa, 1' ecloga latina, che sarà mai co-
— 47 —
dest' agnella? Che sarà? risponde il l'onta. Essa è la musa ita-
liana, " la quale senza fallo può dirsi e carissima a Dante, e
" nota a Melibeo, e abbondantissima di latte poetico italiano, e
*' schiva degli altri ovili e degli altri greggi, avendo nulla di
" comune cogli altri poeti italiani, se pur n'eccettui l'esteriorità
" del verso: né gii manca il pregio della docilità di prestarsi
" volonterosa e spontanea ai desideri del mistico pastore „ ('•').
Dalle gonfie poppe di essa Dante " mungerà tosto dieci mastel-
" letti di latte, simbolo di altrettanti canti della Conniicdia, per
" mandarli a Mopso: acciocché, sottintendi, veduto si bel dono,
" muti pensiero per modo sulla Coniijudia, da dover credere il
*' suo autore degno della poetica corona „ ("'); e questi canti
apparterranno alla sola parte del poema, che ancora non era
pubblicata, cioè al Paradiso. Cosi le dieci misure di latte sono
" il vero simbolo degli ultimi dieci canti, che ancor mancavano
" al pieno compimento del poema sacrato: i quali però non
*' erano a quei giorni composti, ma 1' autore intentamente vi si
" era occupato: Rupe sub ingenti carptas modo rnniinat ìierbas :
" Hanc ego praestolor manibiis miilgere paratis „ ('•').
L' interpretazione del Ponta, ingegnosa senza dubbio e sot-
tile, consegui una fortuna grandissima. Nessuno infatti, da cin-
quant' anni a questa parte, s' è levato mai ad impugnarne la
sostanziale bontà; se dissenso vi fu, esso s'aggirò sempre fino
ad ora intorno a punti di secondaria importanza. Cosi i dantisti
pili recenti non s' accordarono tutti coli' " onor della somasca
*' congregazione „ nel considerare la " gratissima agnella „ quasi
mito della musa italiana ovvero della fantasia dell' artista. Se il
Macri-Leone consente in ciò ancora col Ponta ('''), il Pasqualigo,
al contrario, preferisce riconoscere in quella " la Coniincdia o,
" meglio, la Musa della Commedia, la quale era nuovissima, cioè
" fuori affatto da ogni altro modo di poetare „ (^'); definizione
che lascia, in quant' a chiarezza, a desiderare parecchio. Il Giu-
liani pure dal canto suo, si compiacque ravvisare nell' agna " la
" materia preparata alla Cantica del Paradiso, ed anzi la Can-
" tica stessa, alla quale nessuno mai aveva posto, non che la mano,
-48-
" neppur il pensiero „ (""l. Anche nello stabilir il vero signifi-
cato de' dieci mastelli di latte sorse disputa tra gli interpreti,
eil a taluni piacque 1' avviso del Punta che de' dieci ultimi canti
del Paradiso si trattasse ('^) ; mentre altri giudicò siffatt' asserto
ardito troppo (come realmente è), e privo di valido sostegno,
sicché amò meglio non precisar nulla {^^). Il Pasqualigo invece,
sempre fecondo é\ peregrini pensamenti, identificò senz' altro
coi simbolici mastelli non già gli ultimi, bensì i primi dieci canti
del Paratiisol (^'). Ad onta di codesti dispareri l'accordo fu però
e rimase unanime nel ritenere simboleggiata sotto le spoglie della
mistica agnella, vuoi in una vuoi in altra parvenza, la poesia
volgare, e ne' dieci vasi di latte altrettanti canti della Comedia,
anzi più precisamente del Paradiso, che Dante prefiggevasi man-
dare a Giovanni Del Virgilio, per indurlo a mutar d' opinione
sul conto della poesia volgare, ed a concedergli quindi di conse-
guire il sospirato alloro, senz' aver fatto prova alcuna del valor
suo nel campo della lingua latina (^^).
III.
Sembrerà quindi forse a parecchi una temerità bella e buona
la mia di voler scuotere dalle fondamenta 1' edificio innalzato dal
Ponta e da tanti autorevoli critici giudicato sinora solidissimo.
Ma, se non sono giuoco d'un* illusione, facile mi riuscirà dimo-
strare come siffatta fabbrica partecipi della natura di quella che
" sul Pireneo „ aveva elevata Atlante per tenervi sicuramente
Ruggero. Non appena le magiche olle vanno, per mano di Bra-
damante, in frantumi, ecco il colle farsi deserto,
Né muro appar né torre in alcun lato,
Come se mai Castel non vi sia stato (").
L' olla del mago è, nel caso presente, la dichiarazione, eh' io
reputo nell' essenza sua interamente fallace, data dal Ponta del
concetto che informa e regge la macchina simbolica del carme
— 49 —
dantesco. A Giovanni Del Virgilio, il quale gli ha mosso spon-
tanee, caldissime istanze, perché, dopo avere prodigato cosi libe-
ralmente al volgo i tesori della sua inspirazione e della sua
scienza, ei si prenda finalmente pensiero anche dei dotti, scriva
cioè anche per loro; perché, se gli sta a cuore la sua fama, le
aggiunga ali al dorso, facendo uso dell' idioma, il quale, non ri-
stretto dentro angusti confini, irraggia per tutto il mondo e tra
loro afìfratella i poeti ed i saggi d'ogni paese; Dante risponde-
rebbe colla promessa d' inviargli ancora de' versi italiani. Ma
perché? Per farlo persuaso, rispondesi, dell'eccellenza della Co-
media, per mostrargli che, a torto, egli dispregia, al pari di tutti
i " chierici „ contemporanei, gli idiomi nazionali. " Era quello il
" solo mezzo per difendere contro 1' umanista le ragioni del vol-
" gare! „ esclama il Macri-Leone. " Mandargli dcccìu vascida di
" poesia bucolica latina, sarebbe stato un dargli causa vinta! „ (^').
Sta bene; ma chi v'autorizza a credere che tanta ingenuità
albergasse in petto all'Alighieri? Come poteva egli pensar sul
serio che Giovanni, il quale aveva proprio allora allora espresso
il vivo rammarico che in lui e ne' colleghi suoi tutti destava
r ostinazione del grande poeta a scrivere in volgare, e per ade-
scarlo a cantare latinamente gli faceva balenare dinanzi agli occhi
la promessa di leggere dalla cattedra, in pieno Studio, i suoi
" futuri „ componimenti, e d' impetrargli quindi la tant' ambita
corona (^'j; mutasse parere e linguaggio dopo siffatt' invio.'' La
cosa si potrebbe comprendere, ove fossimo certi che il maestro
bolognese nulla avesse mai letto della Couicdia. Ma, a farlo
apposta, noi siam sicuri del contrario! Or se Giovanni cono-
sceva ed ammirava altamente ( " altamente „ dico, giacché è
sogno d'infermo l'asserire, come altri ha fatto, che nel carme da
lui inviato a Dante si parli con scarsa reverenza del sacro
poema) {^^), X Iiifcnio, il Purgatorio, e, come i più vogliono, anche
una parte del Paradiso (^"), eppur non aveva fatto getto delle
sue antiche opinioni; come e perché sarebbesi egli indotto ad
abiurarle, dopo avere esaminato il nuovo manipolo di canti invia-
togli? Che cosa mai in essi canti avrebb' egli rinvenuto di cosi
NOVATI. 4
_ 50 —
straordinariamente nuovo e sublime da indurlo a rinunziare ad
una convinzione lungamente nudrita, che tutto ci l'ivela saldis-
sima, e che tale esser doveva dilatti, poiché dopo di lui conti-
nuarono a tenerla i letterati dell' Europa intera per quasi due
secoli? (^^).
Ma ciò non basta. All' ecloga dantesca il Del Virgilio s'af-
fretta a rispondere con un carme della stessa natura, nel quale
r ammirazione sua, il suo affetto, il suo culto per 1' Alighieri pa-
iono farsi, s'è già notato, anche maggiori; come maggiori e più
incalzanti divengono gli inviti, perché il " divin vecchio „ voglia
recarsi a Bologna. Giovanni non esita ora più a chiamare Dante
un nuovo Virgilio, anzi Virgilio stesso redivivo, e gli promette
applausi, corone, omaggi, onori convenienti alla grandezza sua {^").
Or donde trae dessa alimento questa nuova e più ardente vampa
d'entusiasmo, che riscalda il petto all'interprete acclamato dei
sommi autori latini? Dalla lettura dei dieci canti della Comedia,
che l'Alighieri aveva detto di mandargli? No davvero, giacché
i critici s' accordano ormai tutti nel ritenere che la promessa
fosse rimasta senz' effetto ('"). Ciò che commuove ed esalta Gio-
vanni è il fatto — importantissimo — che Dante siasi indotto a
dettare un poemetto latino, abbia cioè ceduto ai suoi consigli,
appagata la brama cosi vivamente manifestatagli, offerto insomma
al maestro bolognese ed ai compagni suoi, studio callcntibus,
quel pretesto, di cui andavano avidamente in traccia per poter
mescere alle lodi del volgo profano gli encomi loro!
Né basta ancora. Smanioso di manifestar i sentimenti che
dentro gli ribollono, il Bolognese non solo, deposte le tibie, dà
di piglio anch'esso alla pastorale zampogna; ma, giunto al ter-
mine del suo canto, promette all'amico di ricambiare i suoi doni.
Tu m' hai voluto, dice, far lieto di dieci vaselli pieni di latte
spremuto dalle poppe della tua agnella; io, dal mio canto, ne
riempirò per te altrettanti col latte della mia giovenca (■*'). Or
che vuoi dir con questo Giovanni? Ch'egli avrebbe mandata
a Dante 1' ecloga cui stava scrivendo, risponderebbero il Dionisi
ed il Ponta. Ma dell' infelicità di siffatta risposta, come già il
Giuliani ('"j, s' ù avveduto anche il Macri-Leone (^'). Perché, a
designare un' " unica „ ecloga, Giovanni adoprerebbe la figura
stessa usata dall' Ah'ghieri per denotar " dieci „ componimenti?
Non poteva egli dire ottimamente che, in contraccambio de' " dieci „
vasi promessi, avrebbe donato " un „ mastello? Per spiegare
quest'altro imbroglio, il Macri-Leone ricorre ad un espediente,
che... non spiega nulla: " Mopso — ei scrive — s'avvicina
" (alla sua giovenca] con l'intenzione di mandare a Titiro tanti
*' vasi di latte quanti quello gliene avea promessi. Badiamo:
" con l'intenzione, ma non nel fatto; perché egli stesso aggiunge
" dopo: ' ma forse è superbia mandar latte a un pastore '. Cosi
*' i vascula, di cui parla Giovanni, non sono neppure l' ecloga
*' che egli manda a Dante, ma i canti che gli promette; i quali,
^' a differenza di quelli di Dante, non sarebbero volgari, ma
*' latini, non " latte di pecora „, ma di " vacca „; distinzione
** che nel linguaggio bucolico non dev'essere trascurata, e che
" ci mostra la superiorità in cui la poesia latina era tenuta ri-
" spetto alla volgare „ {**).
Apriamo qui una breve parentesi. La trovata che il latte di
vacca stia qui a designare la poesia latina, mentre quello di pe-
cora denoterebbe il volgare, spetta al p. Ponta (^''), ed è graziosa
assai; ma è permesso dubitare che sia altrettanto vera. Vi è modo
di spiegare infatti più pianamente e naturalmente la qualità che
Giovanni attribuisce alla propria Musa, chiamandola bucula. Basterà
ricordare che Dante, introducendo l'amico in quel suo fantastico
mondo pastorale, si è piaciuto imporgli il nome di Mopso (^^),
e crearlo non già un pecoraio, come aveva fatto per sé stesso, o
un guardiano di capre, come per Melibeo, bensì un bifolco (^').
Postosi sulle orme dell'Alighieri, Giovanni, come ha mantenuto
il nome di Mopso (^■-), cosi ha, naturalmente, conservato d' esso
Mopso r ufficio. " Dacché devi cantar nelle selve, egli dice a sé
"" stesso, t'oda Titiro cantare qual bifolco:
Audiat in silvis et te cantare bubulcum (*'). „
Ma un bifolco non può avere a sua disposizione altro latte
■che non sia di giovenca; è ovvio quindi che Mopso offra ap-
punto a Titiro cotal ilono. K tanto poco egli è disposto a cre-
dere il latte della biicitla sua supcriore a quello dell' ovis di Ti-
tiio, che, dopo aver manifestata l'intenzione propria, soggiunge:
scd ìac pastori fors csl vìandare siiprròìnii C^"). Ora ei pecche-
rebbe doppiamente d' arroganza se, oltre a permettersi d' offrir
del latte ad un pastore, aggiungesse: Bada bene, il latte ch'io
ti dò vai molto meglio di quello che tu m' hai profferto, che il
tuo è di pecora ed il mio di vacca!
O come si fa dunque, ci sia lecito questo po' di sfogo, a non
vedere V insulsaggine, la fiacchezza, e persino 1' assurdità di tutti
codesti discorsi? Dante, sollecitato da Giovanni Del Virgilio a far
paghi i suoi voti, condivisi da quanti son uomini dotti, col com-
porre de' poemi latini, gli indirizza un' ecloga, che finisce colla pro-
messa di mandargli de'... versi volgari, anzi propriamente, dieci
canti, non uno di pili, non uno di meno, della Coìurdia. L' altro,,
che s' era fin allora scalmanato a pregarlo perché facesse per
l'appunto il contrario, s'accheta a un tratto; e, quasi immemore
di quanto aveva cosi insistentemente richiesto, promette di ri-
cambiare ciò che non gli era stato inviato con dieci componi-
menti suoi. Di qual genere? Volgari forse? La cosa, sebbene a
prima vista un po' strana, riuscirebbe in fondo spiegabile. Una
volta che Giovanni ha trovato anch' esso la sua strada di Da-
masco e s' è miracolosamente convertito al culto del volgare^
perché non potrebbe aver adoperato questo e non il latino? (•''}
Ma che! rispondono. Egli manderà dieci vasi di latte di vacca,
e non di pecora; dunque dieci componimenti latini. A qual fine?
Niuno ne sa nulla. E, per colmare la misura. Dante torna si a
scrivergli, fa grandi lodi dell' amico, ma delle reciproche pro-
messe non fiata più. O l'arruffata matassa!
Eppure non abbiamo ancora vuotato il sacco del tutto. In
fondo sta il meglio.
Cosi nell' ecloga dell' Alighieri come in quella a lui diretta
dal maestro bolognese v' ha un punto oscuro, che il brav' uomo
del Ponta s'è ben guardato dal toccare; e l'esempio suo hanno
studiosamente seguito coloro che vennero poi; " studiosamente „,
-sa-
dico, perche non mi par possibile che tanti critici acuti e dih-
genti siano passati accanto ad una cosi grossa diflìcoltà senz' av-
vertirne r esistenza. A Mopso Titiro promette dieci vaselli di
latte; Mopso dal canto suo si profferisce pronto a rinviarne a
Titiro altri dieci. Perché dieci? Questo numero non può esser
uscito a caso né dalla penna dell'uno né da quella dell'altro:
deve avere la sua ragione di esistere. In un genere di poesia
coni' è il pastorale, i cultori del quale contemplano il loro grande
modello, la Bucolica virgiliana, con gli occhi stessi con cui l'aveano
veduta i grammatici latini del V e del VI secolo. Donato,
Servio, Fulgenzio Planciade (^'); se proprio ogni parola non ha
un senso mistico, certo ogni numero però racchiude un simbolo.
Ma il p. Ponta, il quale in servigio delle ipotesi proprie non esita
a fare ricorso alla diversità che intercede tra il latte di vacca e
quel di pecora, non si cura di rendere ragione d' un particolare,
importante per sé medesimo, importantissimo poi, ove si rifletta
che chi scrive è il " buono accoglitore „ dei numeri per eccellenza.
Dante Alighieri! Se questi si fosse lasciato scappare dalla penna
un " tredici „, che bazza per il Ponta! Egli avrebbe rinvenuto
in quel numero, e non certo a torto, un prezioso, un impagabile
argomento per sostenere che i canti del poema sacro, promessi
dall' esule illustre all' amico, erano davvero gli ultimi tredici del
Paradiso, tanto ansiosamente dopo la morte di Dante ricercati.
Ma perché i vaselli sono dieci, il loro numero nulla dovrà qui
significare? Crcdal Jiidaeus Apclla — direbbe Orazio — non ego.
Noi ci aggiriamo dunque (la cosa è ormai ben manifesta),
come tanti cavalieri dell'Ariosto, dentro un ingannevole labirinto,
per scioglierci dal quale sarebbe proprio necessario l' anello
d' Angelica, quel!' anello, intendo, che
Centra il mal degli incanti ha medicina.
E se il poter dell' anello fosse tale che, per sciorre noi, con-
venisse distruggere dalle fondamenta l' edificio architettato dal
Ponta, il male sarebbe poi molto grande? Io noi credo. Ma
innanzi tutto esiste il talismano?
— 54 —
Si, esso esiste, e chi sta in atto di porgercelo è il vecchio
postillatore Laurenziano, sempre citato, ma ben di rado ascol-
tato; la riputazione del quale, vilipesa a torto da più d'un ac-
chiappanuvole di mia conoscenza, è stata rivendicata si dal Macri-
Leone {•'^), ma non cosi vigorosamente e dottamente, che 1' opera
di riparazione possa dirsi del tutto compiuta. Ed a compierla
provvederemo noi; ma più tardi, non qui; che ormai è tempo di
venire ad una definitiva soluzione del problema di cui ci stiamo
occupando.
IV.
Come accennammo già sul principio di questa nostra scrit-
tura, alla parola ovis, che ricorre nel verso 58 dell' ecloga dan-
tesca, dove s' inizia la descrizione della simbolica agnella, il
commentatore Laurenziano postilla: bitcolictim Carmen. Alla glossa
pose mente il Dionisi e la volle far sua, ma e' la intese a ro-
vescio. Stimò, cioè, e nella stess' erronea opinione persevera-
rono poi tutti, i suoi pochi fautori ed i suoi numerosi avversari,
che r Anonimo con siffatte parole designar volesse 1' ecloga la-
tina che Dante stava appunto scrivendo. Or credere ciò equiva-
leva ad affermare, affatto gratuitamente per verità, che l' Ano-
nimo ignorasse il vero valore de' termini de' quali si serviva. Né
egli né alcuno difatti, che avesse pratica di scrittori latini a quel
tempo, si sarebbe fatto lecito d' usare le parole bncoliciim Car-
men per additare un' " ecloga „, un solo componimento di carat-
tere pastorale; giacché era noto che bucolicnm carmen impiega-
vasi unicamente a designare un " complesso di componimenti
" pastorali „, una riunione di ecloghe ("^). Ma ai giorni dell'Ano-
nimo, come a quelli, dai suoi ben poco lontani, dell' Alighieri,
non conoscevasi che un solo monumento letterario, al quale cotal
titolo convenisse, il Bucolicnn libcr di Virgilio ("'•''). Questo appunto
s' è proposto d' indicarci il Postillatore, e non altro che questo
aveva certamente voluto additare ai lettori suoi 1' Alighieri.
Ecco spiegato 1' enimma; ne faceva mestieri per riuscirvi d'un
nuovo Edipo, come ognuno vede! \J ovis gratissima, che Dante
:5.-) —
tien presso di sé, ù nient' altro che la Bucolica virgiliana. Ben si
comprende quindi che tutte le peregrine qualità accennate dal
poeta si riscontrino in essa. Gratissima a Dante (e come po-
trebb' essere altrimenti, ove si ripensi il culto di cui proseguiva
il " cantor de' bucolici carmi „?), essa rumina all'ombra d' un' in-
gente rupe (il Menalo, la poesia teocritea?); non usa con verun
gregge, né ad alcun ovile è accostumata, quia, postilla qui il
nostro " duca „, non invcnitur alind opus bucolicum in lingua
latina {^'^); è copiosissima di latte non solo, ma accorre spontanea
a farsi mungere, perché il canto bucolico non costa fatica di
sorta al poeta, ma sgorga pronto dall' estro ("'"). Come poi dalle
turgide mamme di cotesta pecora possa Dante far disegno di spre-
mere tanto latte da riempirne dieci vaselli, non è più adesso un
mistero per noi. Non consta forse di dieci ecloghe la bucolica
virgiliana? Ed a questo numero non s' attenne forse il Manto-
vano per imitare Teocrito, che a dieci de' suoi mimica aveva
dato per soggetto scene pastorali? (•'^) Come Virgilio segui Teo-
crito, Dante seguirà Virgilio {■'^). Ei detterà pertanto un nuovo
Bucolicon, formato da dieci ecloghe; e sarà questo il Carmen va-
iisonnm, che Giovanni lo ha supplicato di vergare; il monumento
in cui tutti i dotti del mondo potranno ammirare la spontaneità
della sua vena poetica, la profondità della sua dottrina, 1' eccel-
lenza dell' arte sua.
Chiarito questo punto essenziale, tutto il resto si chiarisce a
sua volta. Egli è cosi ben naturale che all' annunzio, forse inat-
teso, della deliberazione presa da Dante ed incominciata ad at-
tuare colla composizione d' una prima ecloga, Giovanni Del Vir-
gilio abbia provato in cuore, commisto a molta e legittima com-
piacenza, un certo sentimento d' emulazione. Amant alterna Ca-
nicnae, ei deve aver pensato tra sé. Dante intende dunque scri-
vere dieci ecloghe, quante per l'appunto ne ha scritte Virgilio?
Ebbene io, vocalis verna Maronis, ne detterò altrettante a mia
volta. Ed eccolo accingersi, rotto ogni indugio, all'impresa ('^").
Né Dante dal canto suo vorrebbe esser da meno; ma, ricevuta
la risposta dell' amico, medita già quel che debba riscrivergli,
_ 56 -
quando d' improvviso, a stornarlo da si gradita occupazione,
nuovi pensieri, ben più gravi e molesti, sopraggiungono. Costretto
a recarsi a Venezia in servigio del Polentano, e fors' anche
— perché no? — a passare da Piacenza, ove Galeazzo Visconti
l'attende; ei non ritorna che molti mesi dopo al suo fido
asilo, infermo, stanco, bramoso di quiete (^^). E di nuovo pone
mano al lavoro e détta la seconda ecloga all' amico che 1' attende
ansioso...; ma la morte lo coglie, e la bucolica, a mala pena
iniziHta, è interrotta per sempre {^'"). Ecco perché, quando egli
assume 1' ufficio pietoso di celebrare in un breve epigramma il
poeta illustre, il diletto maestro, Giovanni Del Virgilio esce fuori
con quel distico, tanto spesso citato, né mai, ci sia permesso
affermarlo, prima d'ora inteso a dovere:
Pascua pieriis demum resonabat avenis;
Atropos, heu, lectum livida rupit opus.
Si rifletta un momento. Se il divino poeta avesse scritte soltanto
le due ecloghe a noi pervenute, senza verun' intenzione, come
taluno ha detto C^^), di proseguir il lavoro, mandando compagne
alle prime altre non poche; come mai al Bolognese sarebbe sal-
tato in capo di scrivere che 1' ultima fatica letteraria intrapresa
da Dante era un Bucolicon, e che la Parca invidiosa gli spezzò
tra mano il filo dell'opera eletta?
Cosi sciolto r incanto, il castello è sparito.
V.
Che siffatta irreparabile scomparsa debba essere veduta con
rammarico da qualcuno non è punto improbabile; ma che i pili,
dopo quanto si è detto, possano o vogliano persistere a non stimarla
avvenuta, questo, per essere schietto, a me sembra incredibile.
I fatti son fatti, la Dio mercé; ed una volta che sian assodati, ai
critici degni di tal nome non è lecito né fingere d' ignorarli né
sforzarsi d' attenuarli a vantaggio di vecchie opinioni, forse at-
traenti, ma, più che dubbie, dimostrate addirittura fallaci. Ora
— 57 —
niun fatto, se non ni' inganno, e a giudicare più accertato di
quello che noi ci siamo industriati sin qui a rimettere in luce.
Naturalmente neppur io mi dissimulo che possa provocare qual-
che meraviglia il veder 1' Alighieri, considerato sempre, e ben a
ragione, come il grande propugnator del volgare, piegarsi sullo
stremo di sua vita, quand' ormai la Coiiicdia divina era con-
dotta a compimento, non già a dettare per suo spasso qualche
metrica epistola agli amici, bensì a comporre un vero e proprio
poema latino sopra il modello virgiliano. Ma, una volta che la
cosa sia provata vera, quel che di meglio resta a fare è mettersi
alla ricerca delle cause, le quali poterono tanto sull' animo del
poeta da consigliargli di dedicare alcuni anni della sua ancor
verde vecchiezza (alcuni anni, dico, giacché ragionevole è sup-
porre eh' ei non sospettasse affatto di dover finire cosi immatu-
ramente) a codesta intrapresa. Siccome però assumere una si-
mile ricerca significa sollevare molte ed assai delicate questioni,
cosi a noi basterà per adesso di tentare un problema molto più
modesto: indagare cioè semplicemente i motivi onde l'Alighieri
fu indotto, quand' ebbe preso il partito di dar saggio della propria
eccellenza anche nel campo forse fin allora intentato della poesia
latina C'M, a proporsi la geniale fatica di restaurare in Italia il
culto della bucolica virgiliana. Vero è bene che difficile riesce,
secondoché già osservò il Macri-Leone, " per non dire impossi-
" bile, indagare le ragioni segrete che determinarono il genio
" alla scelta delia sua forma d'arte „ (-'); ma oggi siffatta diffi-
coltà, per quanto grave sempre, può parere per avventura minore;
oggi, dico, che intorno alla genesi delle ecloghe dantesche assai
più ci è noto che il Macri-Leone non sapesse o sperasse mai di
sapere.
Esortato da Giovanni Del Virgilio, " allora famosissimo e
" gran poeta „, suo " singularissimo amico „, per usare le pa-
role del Boccaccio C^*^), a cantare gli avvenimenti politici e le
guerresche vicende dell'ultimo settennio (1313-1319), gli ^''oi
eh' erano apparsi, quasi sanguigne meteore, sul fosco cielo della
travagliata Italia, ad imboccare, insomma, l'epica tromba cui nes-
- 58-
suno ardiva jiiù dare fiato, Dante, clic teneva sempre presentì
agli occhi della mente le pagine immortali della sua " scorta
" saputa e fida „, ebbe a rammentar tosto quel bellissimo luogo
dell' ccloga VI, in cui Virgilio narra come a lui, che già s' ap-
prestava ad assecondare i desideri di Varo, Febo vellicasse dol-
cemente l'orecchio per dissuaderlo da si arduo cimento:
Ciim canercm rcges et proclia, Cynthius aiirein
VcUit el admonuit: Pastorem, Tityre, p i n g u i s
Pascere oportet ovis, deductum dicere Carmen (").
Quest' amorevole consiglio, di cui il Mantovano diceva aver fatto
subito suo prò, non andò perduto neppure per il suo alunno de-
voto. Giovanni, deve essersi detto Dante, mi chiede un poema
epico. La domanda è un po' troppo indiscreta: io non mi tengo
da tanto. Ma in parte almeno lo vo' far pago. Non solo è muta
da secoli, com' ei lamenta, la tromba che celebrò le armi d' Enea,
ma giace altresì negletta la zampogna con cui Titiro seppe, nelle
ideali campagne di Siciha, esaltar Dafni ed Alessi. Ebbene io
farò risorgere dal profondo sonno la musa campestre ; mercé
mia l'Italia riudrà i canti della sua più gloriosa stagione; Titiro
novello, dacché a me pure un Dio hacc olia fecit, canterò al-
l' ombra densa de' pini le greggi ed i pastori.
Tale io oserei pertanto immaginare la genesi di cotest' opera
dell'Alighieri, per indole, per forma, per inspirazione diversa
tanto da quella che l'aveva " fatto per più anni macro „, e che
sola doveva arrecargli l'immortalità; ma che, ad onta di tutto,
si confaceva mirabilmente a talune intellettuali inclinazioni del
poeta, soddisfaceva certe attitudini e consuetudini dell' ingegno
di lui. Appassionato cultore di simboli, com' egli fu sernpre,
avvezzo a ricercare avidamente significati riposti nelle scritture
altrui ed a celarne pur volontieri molti e reconditi nelle proprie
(quanto o quanto reconditi, narratel voi, commentatori infelici,
che v' ostinate a volte, con si candida ingenuità, a spiegare l' ine-
splicabile!); Dante non poteva a meno d'ammirare e gustare
profondamente la bucolica virgiliana, nella quale sotto il velo
~ 59 -
leggero e grazioso della favola pastorale, dividendo una cre-
denza antica ed universale, egli discopriva sensi ben più arcani
e sublimi di quelli che in realtà vi si nascondessero. Talché,
quando formò il pensiero di scriver anche in latino un' opera
che rendesse testimonianza del suo altissimo intelletto, ei fu na-
turalmente condotto a dar la preferenza a quel genere bucolico
che gli concedeva ancora una volta di dissimulare sotto la let-
terale parvenza, che la moltitudine non doveva " trapassare „,
quella " dottrina „, che ai " pochi „ soltanto era lecito attingere,
que* pochi già chiamati dattorno a sé col superbo invito del Pa-
radiso :
Metter potete ben per 1' alto sale
Vostro navigio, servando mio solco,
Dinanzi all' acqua che ritorna equalc (°*).
Io andrei in conseguenza molto a rilento prima d' accogliere la
sentenza enunziata dal Macn'-Leone nella chiusa del suo libro,
che cosi il tentativo di Dante (rimasto quasi ignoto per mol-
t' anni e privo di vera efficacia sopra le posteriori vicende della
poesia pastorale tra noi), come la rigogliosa fioritura del ge-
nere bucolico, ond' è contrassegnata in Italia la seconda metà
del Trecento, derivino l'origine da un solo e medesimo fattore:
r influsso di giorno in giorno crescente dell' umanesimo C^"). Che
ciò possa sostenersi in riguardo al Petrarca ed a tutta la scuola
da lui capitanata, non nego ('*'); ma per quel che spetta all' Ah'-
ghieri, schiettamente mi pare insostenibile ("^). Meglio assai che
l'uomo, il quale al soffio dello spirito antico rinascente, dell'uma-
nesimo che già batte alle porte, sente sorgere, prender forma e
colore dinanzi alla sua immaginativa un mondo ignoto di poetici
fantasmi, io scorgo in Dante, che si accinge a dotare la lettera-
tura latina d'un nuovo Biicolicon, il pensatore ancor tutto imbe-
vuto di quelle vecchie dottrine mistiche e filosofiche, le quali, pullu-
late in seno alle scuole semipagane della decadenza romana, erano
state accolte e trasmesse d' una in altra generazione dai dotti
del medio evo con relisriosa si ma non oculata venerazione.
NOTE
(') Dell'eccessiva fretta non solo ci porge indizio la scorrezione davvero
soverchia di quanti son testi latini, vuoi editi vuoi inediti, inseriti via via nel
libro (agli esempi addotti dal Gioni. storico della lett. ital. XV, 1890, p. 290,
quant' altri se ne potrebbero aggiungere! ma basterà per tutti quello curiosis-
simo segnalato ivi più tardi dal Belloni; Giorn. XXII, 1893, 369 sg.); bensi anche
ne rinveniamo la prova nelle lacune che certe parti della trattazione (l'introdu-
zione soprattutto) presentano, e nell'elaborazione imperfetta de' materiali stessi
che r Autore aveva a sua disposizione. Sicché il tema che, per quanto spetta
alla bucolica postdantesca, è in gran parte ancora intentato, vorrà essere ripreso
o prima o poi da capo. Ma chi ambisca assumerlo dovrà ricordare che i monu-
menti bucolici della seconda metà del Trecento giacciono ancora quasi tutti ine-
diti ed ignoti nelle nostre biblioteche; sicché, per far opera definitiva, occorrono
lunghe indagini e seria preparazione.
(*) La questione dell' autenticità delle ccloghe è stata svolta da lui con
siffatta larghezza, che, sebbene tutto non sia stato certamente ancor detto in
proposito, dovrebbesi però considerare in massima come definita. E tale io la
considero da tempo, laonde non arrivo a comprendere come critici forniti di
molto acume e di copiosa dottrina s'indugino ancora in dubbi che son meri ca-
villi. Cfr. Kraus, op. cit., p. 286, ma insieme Cian in BiiUctt. della Soc. Dctiit. It.,
N. S., v. V, 1898, p. 137 sg.
(') Die IViederbeleb. des class. Alieith. ^ od. Lehnerdt. Berlin, 1893, v. I, p. 13.
{*) Ecco le parole stesse del compianto scrittore: " Dante antwortete mit
" einem lateinischen Hirtengedichte, welches, erfiillt von edlen Gedanken, von
" dem stolzen Bewusstsein des grossen Kflnstlers, mit feiner Ironie die
" naseweise Zudringlichkeit zurOckweist und hoch iiber dem steht,
" was man nachher von solchen Gedichten in Italien geschrieben hat; die pa-
" storale Einkleidung ist hier keine mnssige Spielerei, sondern wirkliches Mittel
" der Kunst, wo offe ne Rede schroffund verletzend gewesen wàre»-
Ccsch. der Italien. Liter., Berlin, 1885, v. I, p. 295.
(*) F. Pasqualigo, Egloghe di Giov. del Virg. e di D. A.... recate a miglior
lesione, ecc., Lonigo, 1887; e la recensione di questo libro inserita da A. Lubin
jn La Cultura, a. VII, voi. 9, 1888, p. 33 sgg.
(*) Op. cit., p. 116.
— 62 —
(') ClV. rAsguALic.o, op. cit., p. 34, 70, 77; Liiun, op. cit., p. 35 sg.
.(') Ecì. 1, 21-23.
(') Op. cit., p. 115. Lo stesso concetto è espresso in torma quasi identica a
p. 80, 92, 107.
('") Specie a chi, come succede al Kraus, op. cit., p. 286, misconosca a tal
segno il carattere della corrisponden/a dantesca da uscir fuori a dire che 1' Ali-
ghieri difficilmente dovette trovare il tempo necessario " nx einem solchem
" Scherz „ !
(>') Ed. I, 51-64.
('") [I. DioMSi] Serie di Aneddoti ntiiiicro IV, Verona, MDCCLXXXVIII,
cap. XIX, p. 108.
(") Ecl. resf>., 94-95.
('*) DioN[si, op. cit., p. 15, n. 59.
(") / versi latini di Giov. Del Virg. e di Dante Alligh. ree. in versi ital. ed
illustr. da F. S., Venezia, 1845. A pag. 45 e 141 di quest'indigesta raccolta sono
però enunziate le idee stesse che il Ponta ha poi sviluppate e date per proprie.
('•) Opere lat. di D. A., v. II, p. 321.
(}'') Sulla corrispoìid. poet. di Dante e Giov. del Virg., deduzioni di M. G. Penta
in Gior)talc Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti, v. CXVI, Luglio, Ag. e Sett.,
Roma, 1848, p. 326 sgg. A p. 372, dove il lavoro s'arresta, leggesi l'avvertenza:
Sarà continuato.
(*') Questa tesi, che l' A. erasi prefisso di svolgere nel suo lavoro, è del
resto enunziata in un " Sommario „, posto in fronte all'articolo stesso.
(") II Ponta, op. cit., p. 360, scrive anzi che " il revocare si in latino e si in
" italiano ha più naturalmente il significato di indurre altrui a mutare sentenza,
" maniera di agire, e simili „, che non l'altro di " richiamare „, " rifivitare „;
ma ciò non è punto conforme a verità. Per ciò che concerne al latino, basta
dare un' occhiata agli esempì raccolti dal Porcellini, s. v., per riconoscere che
il significato fondamentale e più comune del verbo é pur sempre quello di retro
vaco, abeunteiM vacando retraho, reduco, rursuni voco, e non già l' altro di re-
trailo, abduco, avoco. E in quanto all' italiano, il solo esempio dantesco a cui il
Ponta stesso sta pago di rinviare, riesce dubbio, poiché le parole di Beatrice: " Né
" impetrare ispirazion mi valse, Con le quali ed in sogno ed altrimenti Lo
" rivocai „ ( Purg. XXX, 133-35); si possono spiegare come meglio piace nel-
l'uno o nell'altro modo. Ed in un altro luogo del Poema poi {Par. XI, 135) " ri-
" vocare „ è indubbiamente adoperato nel senso di " richiamare „. Questo ci giova
aver di passaggio notato, perché i lettori sappiano che, forti dell' appoggio da-
toci dal commentatore trecentista, disapproviamo la interpretazione del Ponta,
adottata invece, che s' intende, dal Giuliani, op. cit., p. 335, e dal Pasqualigo,
op. cit., p. 44, i quali traducono quindi " revocare „ con " volgere „, " far
" disdire „.
(*") Ponta, op. cit., p. 361. II Giuliani invece (op. cit., p. 331 ) con una di
quelle sue peregrine volate, allontanandosi da tutti gli altri interpreti, parafrasa
cosi la interrogazione di Dante: concedat Mopsus? " E il consentirà maestro
* Giovanni, che tanto sublime materia sia da me poetando trattata in volgare?
- 63 -
" E che potrà egli ridire? soggiunge l'amico Dino a Dante „. Non si potrebbe
svisar peggio il pensiero dell'Alighieri!
(") PoNTA, op. cit., p. 362 sg. L' ignoranza di Melibco, il quale sarebbe di-
giuno tanto d' ogni pur elementare cognizione della lingua latina, che Dante tro-
verebbesi costretto " ad esporre in concetto l' intera poesia di Mopso „, perché
egli possa formarsene un' idea, è semplicemente un parto della fantasia del Ponta,
il quale, pur di raggiungere il suo fine, non indietreggia nemmeno dinanzi alla
necessità d'ammettere che un sere, un notaio, non sapesse sillaba di latino; il
che è assurdo e grottesco ad un tempo. Noi abbiamo già veduto come l'Alighieri
accusi anzi 1' amico di presunzione, perché osa credersi da tanto da intendere e
gustare, egli, umile maestro di scuola, 1' alta poesia di un dotto come il profes-
sore bolognese. Però, quando si decide ad appagare la curiosità del Perini, non
solo gliene legge intero il carme, ma, volendo aver da lui consiglio sul contegno
da tenere con Giovanni, torna a rileggerglielo! {versus iter 11 11: q uè telegi,
Mopse, luos).
(") PoNTA, op. cit., p. 365.
(-') Po.NTA, op. cit., loc. cit. E cfr. altresì p. 350, dov' è recata una spiega-
zione alquanto diversa, ma pur essa molto sottile.
('*) PoNTA, op. cit., p. 350.
(■"') PoNTA, op. cit., p. 351-52.
("'•) Op. cit., p. 107 e cfr. p. 80. Lo stesso è a dire di G. Carducci, Della
varia fortuna di Dante, Disc. I, in Stilili letterari, Livorno, 187^, p. 256 sg.
('') Op. cit., p. 4^ e 45.
('') Op. cit., p. 331.
(-'•) Tra gli altri al Carducci, Studi cit., p. 258, che credette per di più
rinvenire nei v. 44-45 dell' £■«:/. resp. un'allusione al principio del e. XXV del
Paradiso, il quale, a suo avviso, " doveva essere un degli ultimi fra i dieci
" mandati dal poeta a G. del Virgilio ».
('") Tali il Giuliani, op. cit., p. 332, che però non dà verun' esplicazione del
suo inusitato riserbo, ed il Macrì-Leone, op. cit., p. 108, n. i, il quale invece
respinge come infondata la congettura del Ponta.
(") Non voglio defraudare i lettori della dilettevole sua elucubrazione : " Né
" sarebbe fuor di ragione il pensare, che, quand'egli scriveva quest' Ecloga,
" avesse già forniti i dieci primi canti del Paradiso, raffigurati nei dieci vaselli
" di latte, e che la sua musa si stesse meditando, ovvero ruminando, 1' unde-
" cimo canto, nel quale è descritto appunto queir alto monte, alle cui falde (?)
" e la città di Assisi, patria di S. Francesco „. Op. cit., p. 44. Cosi dunque
r " ingente rupe „, nella quale il Dionisi riputava simboleggiata la montagna del
Purgatorio, si trasforma nel Subasio! E pensare che chi scriveva siffatte stra-
vaganze, respingeva poi come " frivole, strane, capricciose, fantastiche „, le
glosse dell' Anonimo trecentista !
C) Non deesi infatti passare qui sotto silenzio, come, a giudizio del Giu-
liani e del Pasqualigo, Dante titubasse a poetar latinamente per timore d' incor-
rere " la pubblica derisione „ (Giuliani, op. cit., p. 329); ed anzi, come dice
senza cerimonie il Pasqualigo (op. cit., p. 39), di " provocare i fischi
- 64-
" ile' I e t tera ti grandi e piccoli „ (Povero Dante, anche de' " piccoli „
avea paura!) Or si noti che di siffatta originale opinione, la quale mostra ad
esuberanza quanto profonda fosse in entrambi la conoscenza delle condizioni
nelle quali versavano le lettere latine in Italia ai tempi dell'Alighieri, e come
equamente di quest'ultimo apprezzassero la dottrina; i due valentuomini non
sanno recar innanzi altra prova da quella in fuori offerta loro dai vv. 39-40 del-
l'Ecl. I, del sommo fiorentino:
Quantos balatus colles et prata sonabunt
Si, viridante coma, fidibus peana ciebo !
Sicché le grida d'esultanza, onde il poeta si piace immaginare da grandi e pic-
coli accolto l'inno di trionfo ch'egli inalzerebbe il giorno in cui gli cingesse le
tempie il sospirato alloro, divengono " fischi „ per il Pasqualigo! Cfr. Macrì-Leone,
op. cit., p. 79, n. I. Il LuBiN (op. cit., p. 35), si allontana dal Pasqualigo nella
versione eh' ei pure reca di questi versi; ma neppur egli li ha rettamente intesi.
(") Ariosto, Ori. Fin: IV, 38.
(") Op. cit., p. 107.
(") Canu. 35-38; 41.
('*) Strana cosa! Queir istesso p. Ponta, il quale pertinacemente sostiene
che Giovanni nel 1319 " ebbe tra mano, oltre tutti quelli della prima e della se-
" conda, anche parecchi canti dell'ultima parte del sacrato poema „ (op. cit.,
p. 340 sg. ), che di questo pertanto, " previa una posata lettura „, possedette
una " chiara, distinta e piena cognizione „, donde sorse in lui la persuasione che
nella Comedia, ad onta della volgar forma, era " ricco di profonda dotfrina il
" concetto, cosi che appena Platone avrebbe saputo ammirarne la piena bel-
" lezza „; quell' istesso p. Ponta, dico, quasi non avvedendosi della grossolana
contraddizione in cui cade, ripete in pari tempo, non una, ma due, ma tre volte!
che a nuli' altro il maestro bolognese mirava, inviando all'Alighieri il suo carme,
se non a " consigliarlo e scongiurarlo per ciò che i poeti più alletta, la gloria,
" a desistere pur una volta dalla continuazione della sua Comedia volgare „
(op. cit., p. 331, 347); tanto che Dante, rispondendogli, si sforzò di rivocarlo
" dal disprezzo manifestato intorno al suo poema: cosa che altamente dovea
" toccare il cuor del poeta „ (op. cit., p. 361). Or si può dare incoerenza
maggiore? Ma se Giovanni conosceva nel 1319 quasi che tutta la Comedia, come
poteva frullargli per il capo la bizzarra idea di " scongiurar „ Dante a non conti-
nuare un lavoro già quasi condotto a compimento? E se del poema sacro si
mostrava, come il Ponta medesimo vuole, ammirator convinto nel Carmen, come
in pari tempo avrebbe dato segno di disprezzarlo? Ma ciò che riesce più singo-
lare ancora è constatare come le idee del Ponta abbiano rinvenuti consenzienti
il Giuliani ed il Pasqualigo. De' quali il primo le adotta senza scoprirsi però
troppo, more solito (op. cit., p. 332); mentre l'altro, meno accorto, cosi fa di-
scorrere Giovanni con Dante: " Lascia adunque il volgare, e attienti al latino;
" e pur a questo attenendoti, metti da parte 1' astruso soggetto della Comedia,
" e canta quello che ti dico io... „ ( op. cit., p. 42). Eppure ci voleva tanto
poco a capire che Giovanni, ben lungi dal metter fuori la ridicola pretesa che
-65 -
l'Alighieri interrompesse la Cotnedia, non intese dirgli se non questo: " Or che
" il poema mirabile è pressoché fìnito, quando tu intenda cantar di bel nuovo,
" non rivolgerti più ai volgari, ma pensa un poco anche ai dotti, e scrivi una
" buona volta per noi, parlandoci di avvenimenti contemporanei che, se tu non
" li canti, rimarranno ignoti! „.
('■) E la cosa può esser vera, ma se mai, non davvero per le ragioni che i
più soglion addurre, dal Ponta in poi, a provarla tale.
C*) Il Macri-Leone, op. cit., p. 78, è giunto a qualificare uno " stolto pregiu-
" dizio „ quello dei dotti del Trecento che la lingua latina fosse superiore alla
volgare. Via, tanto " stolto „ allora non lo si poteva dire, specie se si rifletta
che la Coìiiedia non era ancor uscita alla luce!
(") Ed. resp. 33-35; 65-67 sgg.
('") Cf. Macrì-Leone, op. cit., p. 108.
(*') Ed. resp. 94-95.
(*') Giuliani, op. cit., p. 341.
{*') Macrì-Leone, op. cit., p. 107 sg.
(**) Op. cit., p. 108.
(") Op. cit., p. 363 sgg.
('•) Le ragioni, onde 1' Alighieri e stato indotto ad attribuire a Giovanni il
nome di Mopso, furono senza dubbio parecchie. I lettori ricorderanno in primo
luogo come nell' Ecl. quinta Virgilio introduca a celebrare la memoria di Dafni
estinto due pastori, entrambi eccellenti nel canto: Mopso cioè e Menalca. Mopso,
nel quale gli antichi commentatori riconoscono Emilio Macro, invitato da Me-
nalca, inizia la poetica commemorazione, ripetendo a mo' di canto continuato
r epicedio, che in forma di componimento amcbeo aveva pur mo' inciso, mentre
lo stava improvvisando, sulla scorza d'un faggio. E quand'egli ha finito, Me-
nalca gli esprime la propria ammirazione con parole divenute famose (vv. 45-49):
Tale tuum Carmen nobis, divine poeta,
Quale sopor fessis in gramine, quale per aestum
Dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.
Nec calamis solum aequiparas sed voce magistrum.
Nulla di più probabile che il ricordo di questo magnifico elogio abbia consi-
gliato Dante a chiamar Mopso l' amico. Ma v' ha di più. Secondo la favola si
•disse Mopso uno de' Lapiti, figliuolo d'Ampykos, nell'arte divinatoria espertissimo,
il quale si recò cogli Argonauti alla conquista del vello d' oro. E col nome stesso
chiamossi un altro celebre favoloso indovino, il figlio di Manto, fortunato rivale
di Calcante: cf. W. H. Roscher, Aus/iihilicli. Lexik. dei- Grieclt. 11. Rodi. Mytiio-
logie, Leipzig, 1890-97, v. Il, e. 3207 sgg.
Or quest' istesso Mopso spesse volte confuso col primo, fu rammentato
anche da Teodulo sulla fine di quella sua Ecloga, che godette nell' età di mezzo
tanta faina, e servi per secoli, al pari del poemetto di Arrigo da Settimello,
dell' Esopo, del Faceto, ecc., come primo libro di lettura nelle scuole. Cfr. Lib.
Theodoli in And. odo nior., Lugduni, 1538, p. 34. Al pari di tutti i contemporanei
suoi anche Dante, da fanciullo, dovette leggere, anzi mandar a memoria addirittura.
No VATI. 5
— 66 —
l'ascetico poemetto Jcl vetusto scrittore; di qui l'orse un altro ne lieve impulso
ad assegnare all' amico un nome per tanti rispetti divulgatissimo.
(•") Facendo di Giovanni un bifolco, l'Alighieri evidentemente s'è piaciuto
alludere al cospicuo grado che quegli teneva nell'insegnamento. I suoi uditoli
infatti, come ci fa avvertire 1' anonimo Laurcnziano, perche adulti, potevansi pa-
ragonare a giovenchi, non già a capretti o ad agnelli, ai quali per la tenera età
loro meritavano d' esser invece ravvicinati quelli di ser Dino Perini.
{■") Allorché, parecchi anni più tardi, il Del Virgilio dettò 1' ecloga al Mus-
sato edita dal nAXDiNi ( Calai, codd. r.iss. latin, bibl. Med. Lato:, to. Il, e. 9 sgg. )
di sul cod. Laur. PI. XXIX, 8, a far manifesta l' infelicità sua ei prese il nome
di Moeris (da u.ci*'-a ^faltnii: cosi il Boccaccio in una delle sue ecloghe chiamerà
poi Dorilos un personaggio, da doris, che in greco (?) vale " amaritudo „ : cfr.
HoRTis, Studi sulle ofi. lat. del Bocc., p. ^3); ma non passò sotto silenzio quello
che consentito gli aveva Dante in tempi più avventurati ( v. 182-83):
Mopsus enim fuerat quondam, modo nomine Moeris
Dicitur.
{*") Ecl. resp. 30. Anche nell' ecloga testé citata al ]\Ius=ato rinveniamo
un'allusione di Giovanni alla sua " bucula „ (v. 150), che, a cagione del silenzio
mantenuto dal glossatore, ci rimane alquant' oscura.
("") Ecl. resp. 96. Il Pont.\, op. cit., p. 368, usci proprio fuori del seminato,
quando traduceva questo verso cosi : " A quel pastore vuoisi mandar latte su-
" perbo „ ! Nessuno, per fortuna, 1' ha seguito. Ma nemmeno il Macri-Leone però
era esatto, quando scriveva: " Ma forse è superbia a un tal pastore mandare
del latte „ ( op. cit., p. 84); giacché: " quel tale non vi mis' io „, potrebbe
dirgli il Del Virgilio.
('■') Quest'idea si è presentata anche alla mente del Lubin, op. cit., p. 37, n. i.
(^*) Niuna prova più caratteristica di codesta tendenza noi potremmo citare
di quella offerta dal Petrarca medesimo nella singolare dichiarazione allegorica
da lui tentata dalla prima tra le ecloghe virgiliane (cf. De Xolhac, Pétrarqne et
V humanisnie, Paris, 1892, p. 122 sgg.), ove non ce ne fornisse una anche più
eloquente il commento all' intiero Bitcolicoii, che in servigio del proprio inse-
gnamento dettò Benvenuto Rambaldi. In questo suo lavoro ( che si legge nel
cod. 109 della Governativa di Cremona, e. i a sgg.) l'Imolese ha portato tan-
t' oltre la ricerca maniaca del significato simbolico, da lasciar indietro di molto
non solo il Petrarca ed il Boccaccio, ma Fulgenzio medesimo!
(") Op. cit., p. 98 sg.
C) Non credo necessario raccogliere prove di tale asserzione. Ad ogni modo
può riuscir opportuno ricordare come il Petrarca, seguito da tutti i contempo-
ranei suoi, sia solito designare in siffatta guisa la raccolta delle proprie ecloghe,
mentre che, ove dell'una o dell'altra di esse gli avvenga di far parola, usa a de-
notarla o il termine poetico à' ecloga cj quelli più semplici di par/icula e capi-
tulnm. " Bucolicum Carmen duodecim eclogis distinctum scribere orsus „ (Fani.
lib. X, ep. IV, ed. Fracassetti, II, 85): " Bucolici carminis particulam saltem
" unam „ (cioè un' ecloga, Var. ep. XLIX, voi. cit., 438); " ad carmen bucoli-
- 67 -
* cum unum capitulum sive, ut in re poetica non nisi poeticis utar verbis, celo-
" gam unam addidi „ {Var. ep. XLII, ed. cit., Ili, ^lo), ecc. Anche le due eclo-
ghe dantesche son chiamate dal Manetti, Fi/a Daiilis, ed. Galletti, p. 82, buco-
licum Carmen; cosi come le sedici del Boccaccio (" bucolicum quippe carmen
" per sexdccim eclogas egregie distinxit „; Vita Bocc, p. 92). Altrettanto
fanno il Salutati, dov' ei ragiona delle sue ecloghe (Epistolario lib. Ili, ep. IX,
V. I, p. 157), e Giovanni Boni d'Arezzo, che l'opera propria definisce " Bucolica
" partita in eclogis „; cf. E. C.vrrara, Giov. L. de Bonis d'Arezzo e le sue np,
iucd. in Ardi. Stor. Lonib., a. XXV, 1898, p. 342.
(") Secondo il DiONisr, op. cit., p. 9, quando Dante scriveva, " non erano
" state per anco scoperte 1' ecloghe di Calfurnio (sic) „; la quale opinione difficil-
mente vorrà adottare oggi chi rammenti come al Petrarca ne avesse promesso
una copia per l'appunto un concittadino del Dionisi, Guglielmo da Pastrengo !
Cf. De Noliiac, op. cit., p. 173. Ad ogni modo questo è certo però che non solo
l' Alighieri, ma anche Giovanni del Virgilio, come risulta dai v. 6 segg. del"
r ecloga sua al Mussato, il Boccaccio, il Salutati, il Rambaldi, insomma pressoché
tutti i pili dotti uomini del Trecento, ignorarono l'esistenza del mediocre poeta
siculo, come quella dell' ancor più mediocre Nemesiano.
(") Strano a dirsi! Tutti gli illustratori delle ecloghe dantesche hanno rife-
rito questa glossa, in cui tanto chiaramente si allude alla Bucolica virgiliana; 5-i
son dati cura d'avvertire che d'essa appunto si trattava... e nessuno poi s'è
mai domandato che stesse a fare qui l'accenno all'opera del poeta latino, se
Y ovis era 1' ecloga di Dante o, peggio che peggio, la musa della Comedia!
('■'') La glossa dell' Anonimo a questo luogo è poco intelligibile, giacché egli
sembra credere che Dante parli di sé stesso, mentre per la retta intelligenza del
passo torna forse necessario riferirne le parole a Virgilio.
(") Cf. TuEOCRiTt Idyllia, ed. Fritzsche, Lipsiae, 1868, v. I, p. 6, n. La cosa
è rilevata da Servio: " Sane sciendum VII eclogas esse mere rusticas; quas
" Theocritus .X. habet; hic in tribù s a bucolico Carmine, sed cum
" excusatione discessit „: v. Servii Coiuìii. in Virg. Bue, ed. Lion, Got-
tingac, 1826, V. II, p. 96. Non è a tacere poi che già nell'antichità volevasi scor-
gere un'allusione alle dieci ecloghe offerte da Virgilio ad Augusto, nelle parole
di Menalca (Ed. Ili, vv. 70-71):
Quod potui, puero silvestri ex arbore leda
Aurea mala decem misi...
La qual' opinione, riprovata da Servio (op. cit., v. II, p. 116), ha rinvenuto al
contrario, com'era naturale, molto favore presso i commentatori medievali; e
basti qui citar di nuovo Benvenuto da Imola (cf. cod. Crem. cit., e. 12 b). Servio
avrà magari ragione; ma che nel luogo or riferito di Virgilio quel numero non
abbia però verun significato, par duro ad ammettere, ove si ricordi come Pro-
perzio torni anch' egli a ripeterlo in quella tra le sue Elegie (II, xxxiv, 69), eh' >•
tutta intessuta di reminiscenze virgiliane.
('"') Tra i poeti bucolici del sec. XIV non son pochi coloro i quali, ad imita-
zione del Mantovano, vollero che dieci e non più fossero le ecloghe loro. Que
— 68 —
St'c a dire dell' autore, sin qui non idciUificato, del Ihtcoìicttni cniiiicii, attribuito
senza una ragione al mondo al Mussato (cf. Minoia, Della vita e delle opere
di A. M., Roma, 1884, p. 198); di Giovanni Boni d'Arezzo, le ccloghe del quale
son state testé studiate dal Carrara, ecc. Anche il Biicolicoii petrarchesco, in
origine, sembra si modellasse pur in questo sul vir,u:iliano. Accanto a costoro
però non mancò chi o non curasse di raggiungere il numero tradizionale o si
proponesse di superarlo: il Salutati, Domenico Silvestri, il Boccaccio, ecc.
('"'") È curioso a notare come il pensiero che i componimenti coi quali Gio-
vanni Del Virgilio intendeva ricambiare il dono di Dante, dovessero essére d'in-
dole pastorale, sia balenato anche alla mente del Giuliani, op. cit., p. 341. Ma
fu un baleno e nulla più.
(*") Sull'andata a Venezia v. F. Villani, op. cit., p. io sg.; e cfr. Ricci, op.
cit., p. 145 sgg., il quale però intorno alla data del ritorno di Dante a Ravenna
tiene opinione diversa da quella ora espressa e che già manifestò G. Bklloni,
Sopra un passo dell' ed. resp. di Giov. del Virg. a Dante, in Giorn. star, della
Ictt. ital. XXII, 369 sg. — Che 1' Alighieri poi in seguito al ben noto invito di Ga-
leazzo Visconti si recasse realmente a Ravenna sostiene il Della Giovanna,
Dante mago, in Rivista d' Italia, a. I, v. II, 1898, p. 138; e, quantunque il Passe-
rini, Giorn. Dani., -a. IV, 1897, p. 129, si opponga, inclinerei a crederlo ancor io.
(*■■') Troppo nota è l' importante postilla dell' Anonimo Laurcnziano in pro-
posito (cf. Belloni, op. cit., loc. cit.), perché giovi qui riferirla.
C^) Macrì-Leone, op. cit., p. 120.
(*') " Intentato forse „ ho detto in omaggio alla comune credenza; ma era desso
realmente tale per l'Alighieri? Io ne dubito assai. Di un uomo, il quale fin dalla
gioventù aveva tanta famigliarità coi poeti latini quanta egli n'ebbe (cf. Boc-
caccio, Vita di D., § 2, p. Il), come si può credere che solo sullo stremo di sua
vita s'inducesse a scrivere in esametri latini, " all'unico fine, come direbbe il Lubin,
' di mostrare col fatto di saperne fare? „ Filippo di Gino Rinuccini in quella
sua vitarella del poeta, che pubblicò nelle Delizie degli Eruditi Toscani to. XII,
Monumenti, il p. Idelfonso di S. Luigi, laddove tocca degli scritti di lui, dice che
in latino, oltre che le opere a tutti note, " scrisse alcuna Egloga, ancora scrisse
" molte 'epistole in prosa e in versi „ (p. 253). Alla testimonianza del buon
messer Filippo io non annetto gran peso; ma che quant' egli dice debba essere
il vero mi pare difficile negare. Sicché, per mio conto, io non esito a credere
che le ecloghe ci rappresentino una tenue parte di questo poetico bagaglio del-
l'Alighieri che il tempo ci ha sventuratamente involato.
C) Mackì-Leone, op. cit., p. 119.
(«■■') Vita di Dante, § 6, p. 33.
e-') Bue. Ecl. VI, 3-5.
{'■'') Par. II, 13-15.
(''') Cf. op. cit., p. 121 sg.
C") Rileveremo altrove le manifeste tracce che dello studio fatto dal Boc-
caccio del Bucolicon dantesco si rinvengono nelle ecloghe del Certaldese.
(") In realtà le cause di questa fioritura sono probabilmente meno involute
e complesse di quanto il Macri-Leone immaginasse; e l'azione dell'antichità ri-
- 69 -
nascente lui l'orse avuto in essa una parte notabilmente inferiore a quella che il
valoroso giovane inclinava ad attribuirle. Giovanni Boccaccio — la cosa ci sem-
bra sicura — non sarebbesi mai accinto a dettar ecloghe simboliche, ove l'esem-
pio del Petrarca, il suo inclito " precettore „, non 1' avesse a ciò potentemente
stimolato; del Petrarca, dico, al quale, come pure si sa, egli dava il vanto d'aver
rinnovata, nobilitandola, dopo secoli d'abbandono, la poesia pastorale. E tutti co-
loro che nella seconda metà del sec. XIV cantarono lo selve e gli armenti, Ia-
copo Allegretti e Cecco Meletti, entrambi da Porli, Coluccio Salutati, il Silvestri,
Giovanni de Bonis, per non ricordare che i più noti, neppur essi si sarebbero
certo invaghiti di siffatto genere poetico, ove ad infervorarli all' impresa non
fosse sempre stato lor presente il pensiero che il Petrarca ed il Boccaccio ave-
vano fatto e facevano altrettanto. La larga produzione bucolica del Trecento è
dunque dovuta quasi unicamente all'influsso della dittatura letteraria del Petrarca.
Ed in costui il disegno di comporre ecloghe piene di astruse allegorie deesi
creder germogliato e maturato al soffio dello spirito nuovo, dell' antichità risor-
gente? A me non pare davvero. Se prestiam fede a quanto egli stesso ci racconta,
il pensiero di comporre un Bucolicon venne a messer Francesco li per li, in un
momento d'ozio; e noi non ci allontaneremmo forse dal vero se congetturassimo
che gli fosse quasi ad insaputa sua suggerito dalla preocupazione, onde fu domi-
nata la sua vita artistica tutta intera: quella d'emulare Virgilio. Bello dovette
parergli che, quando all' Eneide doveva grandeggiar accanto I' Africa, anche un
Bucolicon nuovo venisse a contrastar l'antico grido al latino. Com'è chiaro, in
tutto ciò r influsso dell' Umanesimo ha ben poco a che vedere. Si tratta essen-
zialmente d' un movimento artificioso, che non risponde se non in apparenza
alle aspirazioni nuove del tempo, e che ritrova la sua ragione d' essere nella
moda, nello spirito d'imitazione, sempre cosi potente nel campo letterario, e.
soprattutto, nel culto ardentissimo, onde tutti i dotti d'allora avevano circon-
dato il Petrarca. Tant' è vero ciò che in uno di costoro, nel quale più nitida e
viva sembra esser stata la visione di quello che sarebbe riuscito il vero rinasci-
mento classico (voglio parlare del .Salutati), il " folle amore „ nudrito in gio-
ventù per la poesia bucolica aveva cogli anni finito per tramutarsi in una
schietta e mal dissimulata avversione. Sicché, da vecchio, non soltanto Coluccio
mostrava di far poco o nessun conto delle ecloghe proprie, ma s' impazientava
ove altri gliene inviasse, trovando sconveniente all' età sua Io scioglier " indo-
" vinelli „ ; e giungeva persino a scrivere che se nel lungo viaggio attraverso i
secoli la Bucolica di Virgilio non avesse avuta a compagna V Eneide, difficilmente
sarebbe giunta sino a noi!
III.
LA supi<i:ma aspirazioni: di dante
I.
A nessuno tra i commentatori e gli studiosi della Coiìicdia
era accaduto mai di dubitare che l' interpretazione tradizional-
mente data ai famosi terzetti, onde s' inizia il canto XX\' del
Paradiso, potesse giudicarsi discutibile, anzi addirittura fallace,
prima che a dichiararla tale non sorgesse risoluto il Todeschini.
Fin allora tutti s'erano trovati infatti d'accordo nel ritenere che,
accennando all' intenzione da lui nudrita di " prendere il cap-
" pello „ in sul fonte stesso, dov' era entrato " nella fede che fa
" conte l'anime a Dio „, Dante avesse voluto riaffermare ancora
una volta quella speranza di potere " per la poesi allo inusitato
" e pomposo onore della coronazione dell' alloro pervenire (') „,
dalla quale soltanto, come ci è ben noto per le attestazioni sue
e d'altri non pochi, aveva tratto aiuto e conforto nel faticoso e
lungo cammino. Pure si universal consenso non impedi all' erudito
vicentino di chiamare " affatto vana ed insussistente „ la comune
opinione. " Si potrebbe dare — cosi scriveva egli in un breve
saggio sopra codest' argomento — un concetto più miserabile di
" questo: io prenderò la corona poetica sul fonte del mio batte-
" simo, perché quivi io entrai nella fede cristiana, e perché
" S. Pietro in cielo approvò la mia fede! Si deve ammettere
" senza dubbio che qui la voce cappello significhi la insegna
" del dottorato, giacché si sa bene che nei tempi del poeta im-
" ponevasi un cappello o una berretta a coloro, eh' erano con-
— 74 —
" ventati in ijiialclie scienza; ma lìantc n^n poteva intendere
" qui d' esser conventato o creato dottore se non in quella dot-
" trina di cui ricorda la professione anticamente latta e 1' appro-
" vazione recentemente ottenutane. Qui non si tratta che di fede
" e di scienza teologica; dunque la laurea di cui ijui si parla
" essere non può che la laurea in divinità, o vogliamo dire in
" teologia. Né il fonte battesimale era già luogo oppoituno a
" conseguirsi una laurea d' indole diversa „.
" Ninna università d' Italia — continua il Toileschini — eon-
" cedeva ancora nei tempi dell' Allighieri la berretta o il cap-
" pello di lettore in teologia; ma Dante in mezzo agli anni ilei
" suo esilio era accorso alle scuole teologiche di Parigi, e di là
" certamente egli trasse quella idea che domina nei versi ora
" da noi esaminati Dante poteva credere con valido fonda-
" mento di essere pur egli meritevole dell' onore di quella ber-
" retta; ma unendosi in lui alla giusta estimazione del proprio
" sapere un vivo desiderio di ritornare in patria, non seppe ini-
" maginare più grata ricompensa alle proprie gloriose fatiche,
" che assumere il carattere di maestro in tlivinità in quel luogo
" medesimo, dove egli era stato ricevuto alla fede cristiana.
" E giova non poco a dar ragione del desiderio manifestato dal
" poeta ed a mostrarcene tutta la convenienza, quell' uso di F'i-
" renze rammentatoci a questo luogo dall' Antico, che s' onoras-
" sero nel Battistero di san Giovanni, quando venivano li
" scienziati da Bologna „.
" Contro l'assunto che ne' versi, di cui facciamo parola, si
" parli della berretta teologica e non dell'alloro poetico, assai
" poco valgono le considerazioni, che ivi Dante accenni al suo
" poema, e additi sé stesso come poeta. Il poema è qui tratto
" in campo come fonte della fiducia di tornare in patria; e la
" qualità di poeta si mette in mostra per doppia ragione, vale a
" dire, e pel nome che 1' Allighieri ne godeva in Firenze prima
" dell' esilio, e per 1' opera del poema, tessuto di poi. Io tornerò
" in Firenze poeta, dice egli, come vi fui conosciuto e celebrato
" altra volta, ma vi sarò poeta d'altra età e d'altro tenore; e
— /:) —
per le nuove e divine cose eh' io canto, su quel fonte ove
entrai nel consorzio delle cose divine, potrò esser dichiarato
maestro in divinità. La laurea poetica potevano dargliela i Fio-
rentini prima dell' esilio, perché avevano già riconosciuto lui
siccome il maggiore dei loro poeti : col poema sacro, e spe-
cialmente colle dottrine teologiche professate nel Purac/iso,
Dante aveva acquistato diritto ad una laurea d' altra natura.
Oh come gli interpreti tentano talvolta di far apparire Dante
dissennato! Nel momento, in cui egli si gloria dell'approvazione
ottenuta da S. Pietro, sognano ch'egli ravvolgesse in mente
il pensiero della ghirlanda d'Apollo „ (•).
IL
Così dunque il Todeschini; del quale ci è sembrato prezzo
dell' opera far conoscere ai lettori nostri l' ipotesi rivestita di
quella forma stessa, ond' egli s' era giovato a significarla. Ipotesi,
non v' ha dubbio, fantasticamente ardita, ma che nessuno tuttavia
s' è dato sin qui la briga di confutare. Vero è che il silenzio,
cosi rigorosamente mantenuto intorno ad essa da pressoché tutti
gli interpreti della Conirdia, puossi ascrivere a disdegno (^); ma,
ove della singolare taciturnità questa per 1' appunto dovesse cre-
dersi la causa, ci permetteremmo d' osservare che il disdegno ci
pare assai fuori di luogo.
Pure niuno più di noi è lontano dal consentire col dantista
vicentino nell'opinione che la laurea, vagheggiata dall'Alighieri,
sia stata quella di teologia. Troppi e troppo gravi, per vero, sono
gli ostacoli, contro i quali una sentenza di tal genere viene a dare
di cozzo, perché non ci si debba stupire che un uomo erudito ed
ingegnoso, quale fu il Todeschini, o non li abbia a bella prima
avvertiti o, fattone accorto, siasi lusingato di scansarli. In realtà
egli stesso ha preveduto la più facile tra le obbiezioni che gli sa-
rebbero state mosse: come, di grazia, poteva Dante sperare di con-
seguire in Firenze la laurea teologica, se ai di suoi nessuna tra
le città italiane, che andavano superbe d'uno Studio (di cui Fi-
- 76 -
renze mancava), aveva facoltà di conferirla? (*) — ed ha iniina-
ginato d' eluderla, afFermando che il divine^ poeta s' era portato
a Parigi già molto tempo innanzi, ed in cpiell' università aveva
con onor grande e non minore profitto atteso ai teologici studi.
Ma, pur troppo per il Todeschini, 1' andata tii Dante oltremonti
è tutt' altro che provata fin ora (•''); né maggiore solidità pre-
senta r attestazione del Boccaccio, da Filippo Villani ripetuta,
che delle " scuole della teologia " ei sia stato colà frequentatore
assiduo e, per vittorie conseguite disputando, famoso ("). Però,
quand' anche risultasse accertato, come per adesso non è, che il
poeta nostro fu a Parigi, ed in quello Studio si dedicò alle scienze
divine, ne conseguirebbe forse che nella sua breve dimora egli
avesse acquistato il diritto di domandare più tardi ai propri con-
cittadini una laurea in teologia? Chiunque conosca, non diremo
a fondo, ma appena appena superficialmente, quali fossero le
norme immutabili e rigorose, ond' era regolata nelle scuole pari-
gine la carriera di quanti aspiravano al convento in divinità,
non potrà a meno di sorridere al pensiero che si sia da taluno
creduto sul serio che Dante potesse o volesse percorrerla! Lo
studente in teologia, rammento cose che sono senza dubbio assai
note ai lettori, sia che avesse qualità d' ecclesiastico, sia che
fosse un secolare (nel qual caso trattavasi quasi sempre d'un
maestro d'arti), doveva studiare sei anni, prima d'ottenere il
permesso di presentarsi a quell'esame, che, felicemente superato,
lo elevava al baccellierato col grado di " biblico ordinario „, se
chierico, o di " cursore „, se laico. Dopo di che, per trasfor-
marsi in " baccelliere formato „, e procacciarsi la licenza, al fu-
turo dottore occorrevano altri tre anni d' indefesse fatiche scola-
stiche; trascorsi i quali, e sostenuta una nuova solenne prova,
che dicevasi " tentativa „, ove niun altro ostacolo si frapponesse,
egli veniva assunto finalmente con pubblica cerimonia, la ùirrel-
fatto, alla dignità magistrale ('). O non avevo io ragione d' os-
servare che il voler far passare l'Alighieri per una siffatta tra-
fila di lezioni, di esami, di prove, è idea degnissima di riso?
Nel " vico degli strami „, ove ei l' abbia davvero frequentato,
— 77 —
l'esule fiorentino non consumò neppur un terzo; ma che dico
un terzo? nemmeno un quarto forse, del tempo che riesciva in-
dispensabile per conquistare la sospirata " cedola „ d' ammis-
sione ai candidati baccellieri.
Non perdiamo dunque noi adesso altro tempo a confutare
un'opinione cosi priva di solido fondamento, come quella si è che
Dante abbia mai accarezzato il bizzarro disegno di sollecitare dai
propri concittadini un titolo onorifico eh' egli non era in grado di
pretendere né quelli avevano autorità di concedere; e volgiamoci
invece a dimostrare quanto sia vano l'altro, gratuito, asserto del
Todeschini, che, ove s' interpretino, come s' è sempre fatto, dal
secolo decimoquarto in poi, i terzetti 3 e 4 del XXV del Paradiso,
facciasi esprimere al sommo scrittore nostro un concetto scon-
veniente, anzi addirittura " miserabile „. Che Dante, fatto certo
dallo sfolgorar pili vivo dell' " apostolico lume „, il qual gli gira,
letiziando, la fronte, che " nel dir „ gli piacque, ne cavi argo-
mento a reputarsi degno ormai del poetico alloro; non può pa-
rere strano se non a chi ignori; cosa per verità troppo nota,
perché sia d' ignorarla concesso; quale conto Dante, al pari di
tutti i contemporanei suoi, facesse della poesia. Se Aristotele in
un luogo famosissimo della Metafisica aveva affermato che ne' poeti
dovean vedersi i primi teologizzanti ('*); se altri antichi s'erano
accordati col " maestro di color che sanno „ nel sostenere che
tutt' uno in origine formar dovettero la poesia, la filosofia mo-
rale, la teologia; e codest' opinione, accolta da Massimo Tirio,
da Strabone, da Plutarco, da Eusebio, ritrovò poscia consenzienti,
per non dir che di questi, e Lattanzio e S. Agostino ("); chi
vorrà giudicar strano che, sugli inizi del Trecento, l' Alighieri, al
pari d' Albertino Mussato e di maestro Guicciardo da Bologna,
doctor doctorum in gramatica, fosse profondamente convinto che
il ministero di poeta paragonar si poteva ad un sacerdozio, e
che al poeta stesso, al vate, competeva a buon dritto il nome
di " teologo „, posto che con solenni autorità riusciva fatto di
provare " che la teologia e la poesia quasi una cosa si pos-
" sono dire, dove uno medesimo sia il subbietto; anzi
- 78-
" che la teologia ni un' altra cosa è che una poesia
" di Dio „ ("^)? Nulla di più naturale pertanto che nel momento
appunto in cui immaginò solennemente riconosciuta la propria
ortodossia, lassiì nel cielo, dal vicario di Cristo, egli sia ritornato
col pensiero a quella coronazione poetica, la quale avrebbe do-
vuto annunziarlo quaggiù nel mondo, teologo insieme e poeta.
Del resto, non avea egli già fatto qualcosa di simile, iniziando
la cantica del Piìradiso? Allora, tutto compreso della grandezza
del cimento a cui s' esponeva, erasi affrettato ad invocare pro-
pizio il " buono Apollo „, perché, fatto " vaso del suo valore „,
toccar potesse la meta desiderata:
O divina virtù, se mi ti presti
Tanto, che 1' ombra del beato regno
Segnata nel mio capo io manifesti,
Venir vedrà' mi al tuo diletto legno,
E coronarmi allor di quelle foglie,
Che la materia e tu mi farai degno (").
Ora, mercé 1' aiuto implorato, egli ha varcato già 1'" alto sale „;
la nave sua tocca già il porto, ed il " beato regno „, del quale
si diceva pago di " manifestare „ l' ombra soltanto, quale ei
r aveva nel suo capo fermata, è balzato fuori, rutilante d' incre-
dibil fulgore e di soprannaturale bellezza, dalla sua titanica fan-
tasia. Come possiamo stupirci che in codest' istante di suprema
compiacenza l' artista sublime stenda, desideroso, la mano alla
" fronda peneia „, di cui anela a cingersi il crine, che, biondo
un tempo, or s'è fatto d'argento? Non v' è davvero ragione di
dubitarne: a Firenze, in quel suo bel San Giovanni, dove sole-
vansi onorare, come 1' Ottimo ci attesta, " gli scienziati, quando
" vengono da Bologna „ ('"), niun' altra corona che la febea
non fosse, agognò mai di vedere collocata sul proprio capo il
teologo-poeta.
I
— 79 —
III.
Ma se bizzarra ed inaccettabile risulta la pretesa del Tode-
schini (li protiitare ai posteri l'Alighieri incappucciato di vaio
come un solenne maestro di sacra teologia (*^), non tutte le os-
servazioni colle quali egli s'era ingegnato a rinfiancare la disgra-
ziata sua congettura, debbono giudicarsi immeritevoli della nostra
attenzione. Ed una soprattutto, a niiu avviso, vale la pena d' es-
sere qui esaminata e discussa: quella cioè concernente al vero si-
gnificato della frase: " prendere il cappello „, adoperata dal poeta
per designare la particolare onoranza, alla quale egli aspirava.
" Cappello: la corona d'alloro. Cosi tutti „; nota laconica-
mente lo Scartazzini nella più recente edizione del suo utile
commento C^). Che tutti, proprio tutti, affermino questo, non si
potrebbe a rigor di termini asserire {'^); certa cosa è tuttavia
che la massima parte degli interpreti danteschi in codesta sen-
tenza concorre. Ma dicon bene i pili? Qui sta il punto. Mettiamo
in sodo innanzi tutto che quante volte Dante s' è trovato a ri-
cordare la suprema sua aspirazione, non ha mai involuto in am-
bagi, in oscure espressioni, in enimmatiche spoglie il proprio pen-
siero; ma s' è piaciuto, anzi, estrinsecarlo nella maniera pili
piana, col più esplicito linguaggio. Ad Apollo nel I del Paradiso
egli chiede 1' " amato alloro „, le " foglie „ del suo " diletto
" legno „, la " fronda peneia „ ; e sol di lauro, sol di serti
" penei „, ne' quali, all' " alta vergine „, tramutatasi in pianta,
s' intrecceranno 1' edera e il mirto, doctariiìn pracuiia fronlimn,
discorre nell' egloghe (*^). Superfluo aggiungere che soltanto di
" laurea de lauro „, coni' allora si diceva, parlano sempre, toc-
cando delle speranze dal divino poeta nudrite, e Giovanni Del \'ir-
gilio ed il Boccaccio (''). Perché dunque, dovendo nel passo, che
adesso esaminiamo, esprimere un' idea, da lui già tant' altre volte
nettamente formulata, viene egli fuori, il poeta, con una frase
cosi precisa ed in pari tempo però cosi differente da quelle
sempre per lo innanzi adoperate: " prenderò il cappello „?
— 8o —
Differente? odo qui rispondeinii. E perché differente? O non
e " cappello „, come 1' usa in questo luogo 1' Aligliieri, un galli-
cismo per " ghirlanda „?
Certo: " cosi dicono tutti „, ripeterò anch'io alla mia volta ('").
Ma quale fondamento ha la comune persuasione? Per verità
nessuno. Che in Francia, in forza dell' uso generalmente adot-
tato da giovini e donzelle di portare la fronte ricinta d' un serto
di rose o d' altri fiori in luogo d' un cappello, la voce cliapel,
accanto al significato suo primitivo, abbia sviluppato per esten-
sione r altro di " ghirlanda „, " corona „, sta benissimo (^^). Ma
che r usanza di chiamare " cappello „ una corona di fiori e di
foglie, varcate le Alpi, siasi tra di noi trapiantata, e più partico-
larmente in Toscana nei secoli XIII e XIV fatta comune; co-
mune, intendo, a tal segno da concedere a Dante di valersi
dell' uno in luogo dell' altro vocabolo, senza timor veruno di riu-
scire oscuro ai lettori e d'ingenerare nella mente loro qualche
equivoco; io non veggo davvero come si possa provare. A buon
conto, oltre il preteso esempio dantesco, niun altro di " cappello „
" ghirlanda „ ci presentano i dizionari {^°), ove quello non sia,
tratto dal Decameron, che non prova nulla di nulla. Scrive difatti
nella Novella I'' della Giornata I" il Boccaccio, che ser Ciapperello
da Prato era in Parigi ser Ciappelletto chiamato, perché " non sap-
" piendo li Franceschi che si volesse dir Ciapperello „ credevano
" che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare,
" a dir venisse „. Le quali parole del novellator certaldese po-
tranno bensì essere addotte, ove ad altri piacesse, per confer-
mare una volta di piti che " secondo il volgare di Francia
cìiapel equivaleva a " ghirlanda „; ma non giovano né punto
né poco a dimostrare che altrettanto succedesse nel volgare
italiano.
Prima d' asserire pertanto, quasi si trattasse di fatto indi-
scusso ed indiscutibile, che nel terzetto del Paradiso, di cui an-
diamo ragionando, la frase: " prenderò 'I cappello „ corrisponde
perfettamente a quest'altra: " io mi cingerò il capo d'una co-
" rona d' alloro „ ; sarebbe d' uopo che i fautori di cotest' interpre-
— 8i —
tazione cominciassero dal raccogliere le prove che in Toscana,
ai di dell'Alighieri, a designare una ghirlanda si usava corrente-
mente il gallicismo " cappello „. Ma sarebbe, temiamo, una ri-
cerca destinata a non recar frutto veruno.
O allora? Allora viene naturalmente fatto di domandarci se
per avventura non avesse colto nel segno il Todeschini, quando
sosteneva che qui, sulla bocca di Dante, la voce " cappello „
nuli* altro vuole significare se non l' insegna del dottorato, quella
copertura del capo, cioè, che, varia per materia e per foggia, a
seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze, pure conti-
nuossi per tutta 1' età di mezzo ad offerire a coloro i quali nel-
r una o nell'altra scienza conventavansi, simbolo manifesto di
gloria, di carità, di giustizia (•'). Ma il Todeschini s' incaponi,
come abbiamo veduto, a volere riconoscere nel " cappello „, che
Dante dichiarasi disposto a " prendere „, quello che s' imponeva
ai maestri di sacra teologia; noi invece siamo per credere che
il poeta divino abbia vagheggiato un titolo meno pomposo si,
ma nel tempo stesso assai più consentaneo, per l' indole sua,
agli studi da lui prediletti; un titolo eh' ei poteva agevolmente
procacciarsi anche senza varcare le Alpi; a Bologna, per esem-
pio, e con altrettanta facilità farsi riconoscere e riconfermare a
Firenze: quello cioè di dottore in arti.
Non si dica, di grazia, superflua questa mia supposizione, né
mi si accusi d'aver sgombrato il terreno dai ruderi dell'edificio
voluto innalzare dal Todeschini, per erigervi una nuova fabbrica
a mio capriccio. Tra l' ipotesi, eh' io m' ero proposto di sfatare
definitivamente, e quella che mi permetto adesso d' enunziare,
corre una differenza grandissima, quale può intercedere cioè tra
un ragionamento campato in aria ed uno che si fonda sopra
l'attento esame de' fatti e della realtà. Poteva l'Alighieri; cosi io
mi sono domandato e mi domando; conseguire la laurea in poe-
sia senza essere prima passato per un' altra cerimonia prelimi-
nare, senz' avere ottenuto il titolo di dottore in grammatica
ossia il convento in arti? Qui sta il nodo della questione, che
nessuno sinora s'era proposta; giacché, anche in questo caso,
NOVATI. 6
— 82 —
come in altri parecchi, i biografi del divino poeta hanno sempre
preso le mosse, quasi direi inconsciamente, dal curioso principio
che alle norme, lo quali governavano in maniera determinata,
precisa, la vita sociale, ed a cui non si derogava mai per motivo
veruno, nel secolo decimoquarto, Dante, perché era Dante, abbia
potuto sottrarsi. Di qui è sorta l' idea del Todeschini che il poeta,
benché secolare non solo, ma marito e padre, senz' avere mai
raggiunto verun grado nella gerarchia clericale, solo per avere
seguito non sappiamo quali corsi nello Studio parigino, avesse
potuto aspirare nientemeno che ad una laurea in sacra teologia;
di qui r altra credenza, eh' io mi son pure sforzato di compro-
vare fallace ed inane, che, ad onta di cotesta sua condizione di
laico, r Alighieri fosse potuto salire sopra una cattedra di retto-
rica o di poesia. Ma i contemporanei di Dante non 1' hanno cer-
tamente considerato mai come sogliono considerarlo i suoi cri-
tici, nati la bazzecola di sei secoli più tardi! Ammettiamo pure
che, specie negli ultimi anni della sua travagliata esistenza, la
fama dell' esule fiorentino avesse disteso più largo volo in Italia,
che non soltanto il volgare avesse appreso ad ammirarlo, ma
molti dotti a lor volta lo reputassero poeta insigne, profondo
scienziato. Ma da ciò ad ammettere che in favor suo si potessero
infrangere leggi e violare consuetudini sancite dal tempo e rigo-
rosamente osservate da tutti ci corre, come ognun scorge, di
molto. Non crederei pertanto prudente conchiudere che la pub-
blicazione integrale, definitiva della Comcdia sarebbe stata baste-
vole, perché 1' Alighieri raggiungesse il sospirato premio di tante
e diuturne fatiche, prima d' aver cercato di mettere bene in chiaro,
se pure è possibile riuscirvi, che cosa veramente fosse, ai giorni
di Dante, la laurea poetica, ed a quali condizioni essa venisse
abitualmente conceduta.
IV.
Che alla fronda sacra ad Apollo nessuno de' contemporanei
suoi rivolgesse bramoso il pensiero, oltreché nell' ecloga sua
-83 -
prima, asserisce, tra scorato e sdegnoso, in un luogo notissimo
del Paradiso, l'Alighieri medesimo:
Si rade volte, padre, se ne coglie,
Per trionfare o Cesare o Poeta,
(Colpa e vergogna delle umane voglie)
Che partorir letizia in sulla lieta
Delfica deità dovria la fronda
Peneia, quando alcun di sé asseta; (")
t? della veracità di cotesti melanconici asserti del poeta sorgono
a loro volta testimoni cosi Orso conte dell' Anguillara e senator
romano nel diploma da lui conceduto al Petrarca, ('^) come Gio-
vanni Boccaccio, il quale, pur scrivendo dopoché ed il Petrarca
appunto e Zanobi da Strada s' eran cinti del simbolico serto la
fronte, definisce l' onore vanamente vagheggiato dall' esule fio-
rentino, " pomposo „ non meno che " inusitato „ (^^). Tuttavia
chi gittasse uno sguardo sovra quell' indigesto zibaldone, in cui
\'incenzo Lancetti s' è ingegnato a raccogliere le notizie concer-
nenti ai poeti laureati " d' ogni tempo e d' ogni nazione „, (")
sarebbe a prima giunta portato a giudicare che 1' usanza di
coronare d' alloro i poeti non fosse tra il due ed il trecento ca-
duta in tanta dimenticanza quanta dalle parole dell' Alighieri ri-
sulterebbe. Non meno di sei difatti sono gli scrittori che, ove
prestassimo fede al poligrafo cremonese, dovremmo ritener in
cent'anni all' incirca giunti al possesso della ghirlanda febea: due
stranieri: un inglese, cioè, Roberto Baston, un francese, Adenet:
e cinque italiani: Boncompagno da Signa, frate Pacifico, Niccolò
di Giunta di Boldrone, Bono da Bergamo ed Albertino Mussato (^'"').
Disgraziatamente però anche a questa ponderosa compilazione
lancettesca vollero presiedere le solite Muse dell'autore, la fretta
e la sciatteria; ed egli, pur d'impinguare i propri cataloghi, ha
fatto, come suol dirsi, d' ogni erba fascio. Sicché se noi sotto-
porremo adesso ad un rapido esame i fonti, ond' ebbe a giovarsi
per gratificare i sei personaggi testé enumerati del titolo di
poeti laureati, non tarderemo a riconoscere come ai più tra di
- 84 -
loro una critica imparzialnionte severa debba affrettarsi a strap-
pare dalle chiome 1' alloro fuor di ragione usurpato.
Che il carmelitano inglese Roberto Baston, compositore di
ritmi satirici e morali in latino e volgare, sia stato sui primi del
secolo XI\' onorato della poetica ghirlantia, è affermato dal Lan-
cetti sul fragile fondamento portogli dalle seguenti parole di
Giovanni Baie, il noto illustratore della storia letteraria della
Gran Brettagna fiorito nel sedicesimo secolo: Hiinc rlidorcm ne
poctani O.xotiii Inurcattwi seenni accepit rex Edviiardus pn'niits
in Scot l'atti ittinis, anno Doni ini 1^04, ut in futura Strivr/itirnsis
eastrt fortissimi ohsidione, insigniter gesta describerd. ('") Ma chi
rammenti come sia stata consuetudine costante nelle britanniche
scuole d' insignir del titolo di " poeti laureati „ quanti, usciti vit-
toriosi dalle prove che la legge imponeva, conseguissero il grado
accademico di " dottori in grammatica „ ; ('*') potrà a buon dritto
meravigliarsi che, tra milT altri graduati negli Studi d' Oxford e
di Cambridge, i quali nel corso de' secoli XV e XVI consegui-
rono con si modico sudore il sacro ramo d' alloro, Vincenzo
Lancetti sia proprio andato a scegliere, per introdurlo nelle tavole
sue, lo sfortunato abbate di Scarborough, il quale, dopo avere
seguitato in Scozia il suo sovrano coli' intento di celebrarne ir»
eroico stile i trionfi, caduto poi nelle mani de' nemici, si trovò,
per salvar la propria vita, costretto a descriverne non meno ador-
namente, secondo il poter suo, le sconfitte. (")
Se r intrusione dell' oscuro monaco inglese nel " numerato ,^
drappello de' laureati trecentisti, si può comprendere ed anche,,
fino ad un certo segno, giustificare ('"), quella d' Adenet all'op-
posto rimane davvero senza scusa. Pur ammettendo che le
cognizioni del Lancetti in fatto di storia letteraria medievale
non sian state mai molto profonde, riesce tuttavia incredibile
eh' egli ignorasse come il titolo di " re „, onde il noto autore
del Cleoviadés soleva far cosi ingenua pompa ne' propri poemi^
traesse origine da costumanze poetiche dell' età di mezzo, le
quali nulla ebbero mai di comune colla laurea sospirata dai dotti.
Ove non si volesse dunque menar buona a Paulin Paris la con-
-85 -
gliiettura che Adenet fosse stato dal conte di Fiandra, presso di
cui visse anni molti, assunto all' ulììcio di " re de' menestrelli „,
ufficio che in molte corti principesche d' allora solevasi affidare
a que' trovieri, i quali, pur facendo professione di poesia, sovrain-
tendevano insieme alle feste ed ai sollazzi de' lor signori, ed eser-
citavano un' autorità, pia o meno riconosciuta, sulla varia ed
irrequieta famiglia giullaresca a cui appartenevano (^'); si potrà
sempre supporre eh' egli si fosse guadagnata la corona, di cui an-
dava tanto orgoglioso, in una di quelle gare solite ad indirsi ogni
anno dai Pnis, già ai suoi giorni fiorenti in parecchie città della
Francia, ad Arras, a Lille, a Valenciennes. (^') Ma sia che si
tratti d' un impiego di corte o d' una poetica onorificenza, certa
cosa si è che il menestrello, caro a Guido di Dampierre, neppure
nei momenti de' suoi maggiori trionfi sognò mai d' insinuarsi,
grazie al proprio diadema d'orpello, nella schiera sacra de' " vati „,
accanto a Virgilio ed a Stazio!
Nello stesso equivoco in cui è caduto rispetto ad Adenet le
Roi, noi sospettiamo che il Lancetti sia scivolato anche per
quanto concerne a fra Pacifico, sebbene in questo caso il suo
errore riesca attenuato agli occhi nostri dal vedere come altri
eruditi, assai pili sagaci di lui, siansi lasciati cogliere all' amo
istesso eh' egli ha tanto avidamente abboccato. Il Tiraboschi in-
fatti, che s' era dapprima mostrato molto esitante a pronunciarsi, ed
il Ginguené, sulle sue orme, non dubitano di collocare tra i poeti
laureati l' impareggiabile compagno del Serafico d' Assisi, fondan-
dosi su quanto di lui lasciò scritto nella seconda vita del Santo
fra Tommaso da Celano : Erat in Marchia Anconitana saecularis
quidam sui oblitus et Dei nesciiis, qui se totani prostitucrat vanitali.
Vocabatur nomen eius rex versniitn, eo qnod princeps foret
lasciva cantantium et inventor saecu/ariuni cantionutn : ut paucis
dicam, nsqne adeo gloria mundi extulerat hominem, quod ab
imperatore fuerat pomposissime coronatus. ('*) Ma né il dotto au-
tore della Storia della letteratura italiana, né altri dopo di lui, (^*)
sembrano essersi avveduti dell' assurdo a cui si va incontro sup-
ponendo che r incoronazione del giullare della Marca Anconitana,
- 86 -
eseguita, come pare probabile, da Federigo II, (•'^) possa esser
stata una cerimonia che arieggiasse anche da lontano quella cui
aspirar doveva pili tardi Dante, e di cui furono in realtà protagonisti
e il Mussato e il Petrarca. Colui, che divenne fra Pacitìco, la " pia
" madre „ de' Francescani, (*'] fu semplicemente nei tempi della
sua gioconda giovinezza — su questo non può correre dubbio —
un rimatore volgare, autore d' amorose e profane canzoni, il
quale, musico eccellente, disposava ai " motti „ lascivi i molli
" suoni „ lor convenienti; (■*") corrispondeva insomma perfetta-
mente a quello che è il tipo da noi ben conosciuto del giullare
o, se più piace, del trovatore. Sicché se il titolo di re de' versi,
sotto il quale egli era in tutt' Italia conosciuto, gli fu, come afferma
recisamente san Bonaventura, (^^) conferito dall' imperatore in
occasione della sua solenne coronazione, noi potremo da ciò cavar
argomento a ritenere che il serto, ond' egli venne insignito dalla
mano regale, non sia già stato quello formato colle fronde del-
l' " alta vergine peneia „, ma semplicemente un diadema sullo
stampo dell' altro, che già vedemmo aver ricinto il capo a più e
più menestrelli di Francia, d'Inghilterra, di Fiandra; un diadema
intendo, dal cui aureo cerchio spuntavano sempre fuori le corna
munite di sonagli del giullaresco cappuccio. E chi non scorge a
prima giunta quanto riesca inverosimile che un sovrano fornito
di somma dottrina, quale fu Federigo II, abbia potuto indursi a
dividere con un cantore volgare l'alloro di Cesare? (^^)
Messi cosi definitivamente in disparte codesti candidati alla
laurea, che per una o per altra ragione ce ne sono apparsi del
tutto immeritevoli, volgiamoci a considerare i titoli dei rimanenti,
i quali, per essere stati grammatici e dottori d'arti, assai più
legittimamente potrebbero ritenersi possessori di quella corona
che " assetava „ 1' autore della Comcdia divina. Anche qui però
dovremo proceder subito ad eliminarne più d'uno: Boncompagno
da Signa innanzi tutto, giacché il gaio maestro toscano non ha
verun diritto alla qualità di " laureato „. Vero è bene che nel
1215, in Bologna, se prestiamo fede al suo racconto, alla pre-
senza dell' " università dei professori di diritto canonico e ci-
- 87 -
" vile „, d'altri dottori e d'una moltitudine di scolari, uno de' suoi
libri, il Boncompagnus, venne recitato, approvato e coronato
d'alloro; (*") ma laureare un libro, come ognuno comprende, non
equivale a laurearne 1' autore. La notevole cerimonia, che il cele-
bre dettatore ha descritta con legittima soddisfazione nelle ultime
linee della sua opera, rientra quindi nel numero di quelle che
sappiamo essere state più d' una volta celebrate in Italia e fuori
nei pubblici Studi; (^') ma colla " coronazione dell'alloro „, di
cui noi discorriamo, non ha proprio nulla a che vedere.
Allontanato Boncompagno, ci rimane da rimuovere dal seggio
eh' egli pure ha abusivamente occupato, un ultimo involontario
usurpatore, e cioè a dire Niccolò di Giunta di Boldrone. E per
riuscirvi non dovremo durare verun travaglio. Se il nome ©scu-
rissimo di cotesto grammatico fiorentino si trova registrato tra
quelli dei poeti coronati, ciò è dovuto ad un madornal granchio
pescato dal Lancetti, il quale, avendo inteso a sproposito certo
periodo d' una scrittura di Ferdinando Fossi, immaginò che que-
st' erudito attribuisse a Niccolò il titolo di laureato, mentre egli
altro non s' era prefisso di avvertire se non che in un docu-
mento sincrono al nome di Niccolò seguiva 1' onorifico qualifi-
cativo di doctor graììimaticac. ('')
Cosi, a furia d' eliminazioni, non più che due rimangono i
personaggi, ai quali si può tener per fermo che fosse concessa
sugli inizi del Trecento la simbolica ghirlanda: Bono da Ber-
gamo ed Albertino Mussato. Le melanconiche riflessioni dell'Ali-
ghieri corrispondono pertanto esattamente al vero; il serto ed il
nome di poeta eran proprio quasi spenti in que' giorni ne' quali
egli assorgeva coli' alta fantasia alla conquista d' arcani mondi
ideali.
Di cotesti due personaggi non più che uno però è a giudicare
meritevole della nostra considerazione: Albertino Mussato. Da
lui solo difatti, mentre Bono da Bergamo scompare, inaflferrabil
- 88 -
fantasma, per entro la secolar notte d' obblio che lo ravvolge, {*^)
noi possiamo conseguire i ragguagli atti a farci comprendere
che cosa fu, che cosa significò la coronazione poetica ai giorni
suoi, ai giorni di Dante.
Ma la solenne cerimonia, compiutasi in suo onore a Padova
nel 1315,1^^) non è degna soltanto d'attento esame per il valido mo-
tivo, che, grazie alle minuziose descrizioni tramandatene da colui
il quale ne fu il protagonista, ci è nota in ogni suo particolare.
Essa raggiungerà altresì una nuova e forse inattesa importanza
agli occhi nostri, ove ci avvenga di riflettere come tra coloro
che pili avidamente ne ascoltarono in Italia il racconto, vada
fuori di dubbio enumerato 1' Alighieri. Ora se io esiterei ad asse-
rire che r incoronazione del Mussato abbia proprio accesa in
petto al poeta divino quella favilla, onde doveva esser secondata
poi si gran fiamma, non dubito invece d'affermare ch'essa coo-
però fortemente ad accrescerla, a ringagliardirla. E di questo
mio convincimento reputo cosa assai agevole recare innanzi sif-
fatte prove che valgano a trasfonderlo nell' animo de' leggitori.
Ignorò Dante, finché visse, amando e sognando, nel " dolcis-
" simo seno „ della sua diletta Firenze, pur il nome d' Albertino
Mussato? Quando si pensi che già negli estremi anni del secolo
decimoterzo, l' illegittimo frutto degli amori di Viviano del Musso,
dopo aver trascorsa la triste giovinezza, intento a ricopiare " Ca-
" toni „ per sfamare sé stesso ed i derelitti fratelli, era, mercé l'al-
tezza del suo ingegno, pervenuto in patria ai pubblici onori, alla
ricchezza, alla fama; {*^') la cosa parrà ben poco probabile. Ma
s' ammetta pure che a Dante, prima d' intraprendere il doloroso
pellegrinaggio dell' esule, persino il nome d' Albertino fosse ri-
masto sconosciuto. Possiamo noi credere eh' egli abbia perdurato
a lungo in siffatt' ignoranza, posto che " lo primo suo rifugio e
" '1 primo ostello „ si trovò ad essere, com'egli stesso c'insegna.
Verona? Sarebbe assurdo il supporlo. Quante e quante volte, al
contrario, ne' giorni che trascorse ospite del " gran Lombardo „
€Ì dovette udir parlare di colui, nel quale tutti riconoscevano
r uomo principale di Padova, or con accenti d' ammirazione per
- 89 -
la versatilità del suo acuto intelletto, la feconda abbondanza della
sua poetica vena; or con parole di sdegno e di minaccia per il
calcolato ardimento, con cui, a difesa degli insidiati dritti della
città natale, fronteggiava i disegni ambiziosi della corte scaligera?
La bella e complessa figura del Mussato, magistrato e poeta,
storico e giureconsulto, uomo d' armi e di toga, che manteneva
rapporti di letteraria amicizia con quanti nella Marca Trivigiana
avessero grido di dotti; e, sebbene trattasse con maestra penna
r idioma sacro di Roma, piacevasi talvolta fare prova di sé anche
nel dispregiato volgare, non potè dunque a meno d' imprimersi
fortemente nel pensiero dell' Alighieri, di suscitare nell' animo suo
un insieme di sentimenti, tra i quali la stima, fors' anche la sim-
patia, ebbero certo il sopravvento.
La discesa d' Arrigo Wl in Italia dovette poi rendere più in-
tensa siffatta simpatia in cuore al poeta divino. Come potè questi
mirare d' allora in poi con occhio indifferente l' uomo, il quale
consacrava tutta l' autorità che gli proveniva dall' alta stima in
patria e fuori conseguita, a servir quella causa, di cui anch' egli
affrettava coi più fervidi voti il trionfo? Gli avvenimenti che con-
sigliavano ad Albertino di dettar le sue istorie, non strappavan
forse le epistole, calde or d' entusiasmo or di sdegno, all' Ali-
ghieri? Non attendevano entrambi, il Padovano non meno che
il Fiorentino, dal successor di Cesare e d' Augusto la salute della
città loro, anzi d'Italia tutta? Se nelle sale de' comunali palagi
di Milano, di Torino, di Genova, oppur sotto le tende degli ac-
campamenti di Cremona e di Brescia, in mezzo ai fedeli accorsi
d' ogni parte a stringersi intorno all' imperiale vessillo. Dante
abbia o no incontrato Albertino, io non so dire; né vorrei con
ipotesi, per quanto ragionevoli, prive però di solide basi, sce-
mare la virtù persuasiva che sprigionasi dal semplice riaccosta-
mento di questi nomi, di questi fatti, di queste date. {*'') Ma niuno,
penso, m' infliggerà la taccia di temerario divulgatore di vuote
congetture, se ripeterò ancora una volta come torni impossibile
credere che in giorni pari a quelli, 1' Alighieri non abbia seguito
con attento sguardo i passi di colui, dinanzi al quale ogni porta
— 90 —
s'apriva, elio Margherita di Brabaiitc, la consorte d'Arrigo, ac-
coglieva tra i pili fidi nelle scerete sue stanze, che il sire di Lus-
semburgo colmava a tal segno di favori da fargli dire che niun
italiano mai fu certo di lui più caro al suo cuore. (^")
Ed ecco, quando il cielo, che s' era imporporato de' crocei ba-
gliori preannunziaiiti il sospirato mattino, torna sinistramente te-
nebroso, quando coli' improvvisa scomparsa del suo imperiai pro-
tettore, tutto intorno a Dante ruina; ecco il Mussato toccare in-
vece il fastigio supremo della gloria. Padova, liberata dal terrore
dell' imminente tirannide scaligera, memore de' benefici, onde
l'aveva colmata il suo alunno, superba del lustro ch'egli le pro-
caccia, ridestando ad un tempo dal sonno secolare la musa di
Seneca e quella di Livio, gli consente,, esultante, l'alloro. Dov'eia
in quel momento l'Alighieri? Noi l'ignoriamo pur troppo. Ma
dovunque ei fosse arrivato, " legno senza vele e senza governo
" portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora
" la dolorosa povertà „ (^*); certo non tardo ad avere notizia del-
l' inaudito avvenimento, per cui tutt' Italia s* era commossa. E se
ripensando alla ventura di colui ch'aveva scritto V Eccrinidc, più
acuta forse lo punse la trafittura di " quella piaga della fortuna,
" che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata „;
e più amaro lo colse il sentimento della " viltà „, in cui con la
persona sua eran 1' opere del suo ingegno al cospetto di molti
cadute ;(*^) pure, come 1' un pensiero dall'altro germoglia, ei fini
forse per ravvisare nella solenne onoranza con novello esempio
tributata ad un poeta, quasi un presagio della propria futura gran-
dezza. Né dopo d'allora il proposito di cingersi anch'esso il capo
del serto peneio ebbe ad abbandonarlo mai più.
Che se in lui per avventura la speranza di levarsi tant' alto
da raggiungere, anzi superare, il Mussato, avesse alquanto rimesso
col tempo del suo vigore, aitici doveva assumere la cura di riat-
tizzarla. Quale è invero lo scrittore contemporaneo, il poeta vi-
vente, che m quei suoi versi, destinati a suscitare tanto tumulto
d' affetti nel cuore di Dante, giudica a lui unicamente paragona-
bile Giovanni Del Virgilio? Albertino Mussato. " Se tu mi sprezzi,
- 91 -
dice il retore bolognese, tra serio e scherzoso, al vecchio divino,
" bada a te, io mi torrò la sete col frigio Musone:
Me contcmne; sitim phrygio Musone Icvabo. l^**)
Né sono ciance le sue. Giacché, piti tardi, quando Dante è
sceso nella tomba, ei ricorre davvero, come al solo poeta che
onori l'Italia, ad Albertino, e per propiziarsi l'animo di lui, che,
profugo dalla patria, prova ancora una volta, come sia acerbo l'esilio;
gli rammenta che non sdegnò di cantar seco un altro grande,
vittima illustre delle discordie cittadine, quel Titiro, che all' om-
bra della selva risonante sul lito di Chiassi, strinse tra le pro-
prie braccia 1' agreste musa virgiliana. (^')
VI.
Avvertita cosi, anche per altra via, la singolare importanza
della cerimonia celebratasi in Padova, rispetto alle ricerche di cui
ci stiamo occupando, passiamo adesso a farne oggetto di rapido
esame. Né questa è, come pur dianzi notavasi, disagevole intra-
presa, imperocché lo stesso Mussato ci offre il modo di condurla
ad effetto.
Una sua metrica epistola, diretta al grammatico Giovanni,
racchiude invero una minuta descrizione di tutta la festa, in cui
egli ottenne l'alloro i;'"^). Che se qua e là noi lo troviamo co-
stretto dalla necessità in cui versava di narrar con poetico lin-
guaggio cose che in sé nuli' avevano di poetico, a servirsi
d* espressioni alquanto ambigue ed enfatiche, ciò non scema di
molto, checché altri ne abbia pensato, l' autorità del suo rac-
conto (^').
Narra dunque Albertino che il collegio degli Artisti; formato,
com'è ben noto, dai soli dottori, i quali insegnavano arti, filosofia e
medicina nello Studio patavino (•''^); venuto, in seguito alla pubblica-
zione deWEcerinide, nella determinazione d' onorarne 1' autore col
conferirgli la laurea, dopo essersi, previamente assicurato il con-
— 92 —
senso del vescovo, del rettore e fors' anche degli altri colleglli,
sollecitò i magistrati cittadini ad autorizzare e convalidare in-
sieme colla presenza loro la solenne cerimonia. Stabilito il tutto,
la testa tu fissata per il 3 dicembre. In quel giorno dunque tac-
quero i tribunali e le scuole, le botteghe si chiusero, le officine
rimasero deserte ("''J. La cittadinanza in folla si riversò nel comunale
palagio, dove il Mussato fu condotto con gran pompa, accompagnato
dai Gastaldioni, dal collegio de' Giudici, da tutta quanta 1' Univer-
sità ("^). Ed ivi, meiitr' egli invano tentava d' allontanare da sé
un onore di cui reputavasi immeritevole, dal vescovo o dal ret-
tore (che si trattasse del primo però, capo supremo della scuola,
meglio che del secondo io reputo credibile), gli fu imposta sul
capo una ghirlanda, nella quale alle sacre fronde del lauro s' in-
trecciavano foglie d' edera e ramoscelli di mirto ("'). Compiuta cosi
la coronazione e stesone per man di notaio pubblico strumento
che tutti i dottori presenti sottoscrissero, il novello laureato venne
a suon di trombe riaccompagnato solennemente a casa. Se du-
rante la cerimonia siano stati pronunziati discorsi, non ci dice il
Mussato ; ma chi vorrà supporre eh' egli stesso ed i promotori
suoi abbiano rinunciato a fare sfoggio di tutta la loro eloquenza,
in un' occasione tanto propizia? {■'^) E pare altresì che nel corso
della festa siasi fatta pubblica lettura dell' Ecerinide {^").
Ora, che cosa abbiamo noi qui? Una solennità interamente
nuova; nuova, intendo, tanto nell'essenza come nelle parvenze
sue; o non piuttosto una cerimonia, la quale si riconnette con
altre già conosciute, tanto da poter esserne considerata quasi
un'emanazione, ovvero, se meglio piaccia, un'amplificazione? Se
noi dessimo retta a Jacopo Burckhardt, codesta domanda sa-
rebbe destinata a rimanere senza risposta, giacché, per suo giu-
dizio, della " coronazione dell' alloro „, quale si piacque idoleg-
giarla in Italia quella eh' ei chiama la " prima generazione di
^ poeti-filologi „, torna impossibile additar l'origine e precisare i
riti. Non I' origine, perché essa si perde nella notte dell' età me-
dievale: non i riti, giacché questi non giunsero mai a rivestire
caratteri determinati e concreti. " Si trattava, dice il Burckhardt,
— 93 —
" d'una dimostrazione pubblica, d'una manifestazion visibile della
" gloria letteraria, e per questo motivo appunto la laurea fu sempre
" qualcosa di mobile, di variabile „ ("").
Siffatte conclusioni del genialissimo scrittore tedesco vogliono
esser accolte con grande cautela, perché, dato che racchiudano
un fondo di vero, esso è intorbidato però e corrotto da inesattezze
non lievi.
Ed innanzi tutto: se noi avessimo prove che 1' usanza d' inco-
ronare i poeti, ancor viva in Roma pur nell' estrema decadenza
degli studi e dell' impero, si fosse oscuramente mantenuta per
tutta quanta l'età di mezzo, sicché tratto tratto della persistenza
sua uscisse fuori qualche indizio, io comprenderei l' asserto del
Burckhardt che la sorgente di essa, per quanto irreperibile, debba
essere assegnata alla " notte medievale „. Ma se ciò devesi re-
putar falso, poiché di siffatta consuetudine non rinveniamo né in
Italia né fuori vestigio veruno (^'); se la laurea, quale vagheg-
giarono Dante, il Mussato, ed, a tacere d' altri, il Petrarca, ci
rappresenta un vero e schietto ritorno a tradizioni classiche, ob-
bliate dal medio evo, che il rinascimento, fin dai primi suoi passi,
si sforza di richiamare in vigore, che e' entrano qui 1' età di mezzo
e le tenebre sue? D'altronde, sia che la laurea trecentistica deb-
basi giudicare quasi propaggine inattesa di consuetudini antiche,
delle quali mai non s'era del tutto obliterato il ricordo; sia che
piaccia invece considerarla come il portato d' un atteggiamento
nuovo della coscienza italiana, rinascente a novella vita di pen-
siero; com'è possibile immaginare ch'essa non abbia mai avuto
altra norma che il capriccio individuale non fosse, in un tempo
nel quale ogni cosa volevasi ancor sottoposta a regole fìsse, pre-
cise, e si tentava ostinatamente d' imporre leggi anche a ciò che
per sua indole sembrar doveva ad ogni legge ribelle? Vero è bene
che il Burckhardt immagina Dante nell' atto di coronarsi, di sua
propria mano!, del sospirato alloro, curvo su quelle fonti di
san Giovanni, dov' anch' egli, al pari d' infiniti altri figliuoli di
Firenze, era stato battezzato C'"^); ma noi, forse per povertà di
fantasia, non arriviamo a figurarci l'Alighieri, che, dichiaratosi
— 94 —
da sé stesso poeta, s' acconcia in capo il serto d' Apollo, con
quel medesimo gesto con cui, cinquecent' anni più tardi, in Notre-
Dame, Napoleone I si cingerà di propria mano la corona im-
periale!
Ma a che perdere il tempo in oziose discussioni? Basta in
realtà esaminare con un po' d' attenzione la cerimonia celebrata
in Padova il 3 dicembre 1315, per riconoscere eh' essa si collega
strettissimamente con quella che da pili secoli solevasi eseguire,
ad ogni momento, in qualunque città d' Italia la quale possedesse
uno Studio generale: voglio dire il " convento „.
Le rassomiglianze tra le due cerimonie sono tali e tante che
negarle sarebbe quanto negare 1' evidenza. Chi delibera di dare
la laurea al Mussato? Il collegio degli Artisti, uno dei tre, cioè,
ai quali negli Studi medievali era riserbato di decidere se un
candidato alla licenza in diritto, in arti o in teologia, fosse di tale
onore meritevole (^^). Chi impone il serto in capo al laureando?
Il vescovo, sembra; vale a dire quell'autorità, a cui nello Studio
padovano spettava, in seguito ai pontificali decreti, il diritto di
conferire il berretto dottorale ai candidati di qualsivoglia facoltà;
diritto che in Bologna esercitava 1' arcidiacono, a Parigi il can-
celliere di Notre-Dame e a volte quello pure di S. Genoviefìfa C^^).
Alla coronazione d'Albertino assistono tutti i dottori dello Studio,
i quali autenticano poscia colle sottoscrizioni loro 1' atto notarile,
che deve attestare solennemente la validità di quant' è stato com-
piuto. Or che cosa avrà contenuto codest' atto? La pura e sem-
plice descrizione della cerimonia? La cosa è poco probabile.
Verisimile invece riesce il credere che, come sappiamo essersi
sempre fatto in occasione di addottoramenti nel sec. XIII e
nel XIV, alla descrizione dell'accaduto vi fosse aggiunta la no-
tizia dei privilegi e dei diritti, de' quali il laureato era stato posto
in possesso (''•'); primissimo tra tutti quella liì)cra polcstas . . . . (ani
in liac sanctissima urbe .... quaiii alibicwnquc locoriim Icgcndi,
dispiitandi atqiie inlcrprdmidi vdcriun scripturas et novos a se
ipso libros et pocmata componendi; quell'autorizzazione, id uhi
et quoties sibi placuerit, possit huiusmodi atque alios actiis poeti-
— 95 —
COS.... soloìiiiitrr cxcrccrc; che vediamo, trentott'anni dopo, at-
tribuiti in un documento ufficiale, il diploma di laurea rila-
sciatogli dal Senator di Roma, al Petrarca ('"^). Ed in siffatto
diritto ognuno che possegga qualche notizia della legislazione
scolastica d' allora, non tarderà a ravvisare quel iiis ithiciiiìKjite
docendì, che in ogni Studio la conseguita licenza assicurar soleva
al novello dottore ("").
Ma qui non è tutto. \'\ son altri fatti ancora che giovano a
confermare sempre più come vincoli numerosi e tenaci stringes-
sero nel secolo di Dante il convento alla laurea poetica.
Prima che il cantor di Scipione, acceso dall'ambizion nobilissima
di ritornare al Campidoglio il vanto da secoli obbliato di veder
accorrere alle sue sacre pendici quanti fosser vaghi del delfico
alloro, facesse sorgere coli' efficacia delle sue parole e con quella
anche maggiore dell' esempio nell' animo dei suoi amici, dei suoi
ammiratori, di tutti i contemporanei insomma, la persuasione che
niun' altra coronazione poetica potesse dirsi tale, ove a Roma
non fosse stata conferita \^^)\ del privilegio di creare i poeti si
credevano legittimi possessori que' corpi appunto, ai quali spet-
tava di concedere 1' addottoramento in arti, cioè a dire i collegi
degli Artisti. Sono i coìisortcs Studii, i magistri, che assumono,
come s' è veduto, 1* iniziativa delle onoranze tributate in Padova al
Mussato ; e se congettureremo che ad essi pure sia andato più
tardi debitore della sua laurea Bono da Bergamo, non cadremo
probabilmente in errore. Quanto succedeva tra noi, avveniva pure
oltremonti; al Petrarca infatti, se crediamo alle sue affermazioni,
l'offerta dell'alloro giunse da Parigi per mezzo del cancelliere del-
l'Università; ora costui dovette, com'è ben chiaro, nella qualità
sua di capo supremo della scuola, trasmettere al poeta una pro-
posta, eh' era stata probabilmente presentata dal collegio dei dot-
tori d' arti all' intera Università (*^).
Ad un certo momento però nell' esercizio di codesto privi-
legio noi vediamo gareggiare coi collegi universitari delle auto-
rità ben più elevate, ma in generale prive di competenza
scientifica e letteraria: vale a dire i principi. Che Carlo IV di
- 96-
Boemia s'arrogasse la facoltà di creare i poeti, tutti sanno;
tant' è vero eh' egli incoronò di sua mano in Pisa il 15 maggio
del 1355 quel mediocre grammatico di Zanobi (""). Ma il " ce-
" sare germanico „ fece di pili. Oltre a concedere egli stesso la
laurea poetica, diede facoltà altrui di Aire altrettanto; a Firenze
per cagion d' esempio, la quale ebbe poi a valersi assai larga
mente di questo permesso nel corso del secolo decimoquinto f^)
Or donde nasceva nel sovrano boemo, in codesto " barbaro ca
" muffato da imperatore „, come lo chiama Francesco Nelli ('-)
la persuasione che, coronando i poeti, egli esercitasse un'alta
sua prerogativa ? Dicono eh' egli " partisse dall' ipotesi che il
" diritto d' incoronare i poeti avesse neh' antichità appartenuto
" agli imperatori romani „ ('^); ma questa spiegazione non è fatta,
lo confesso, per appagarmi. Carlo IV era tutt' altro che un igno-
rante, amava circondarsi d' uomini dotti, e non poteva quindi
credere troppo facilmente alla realtà d' un fatto, del quale le storie
non gli fornivano esempio veruno {'*).
D' altro canto noi sappiamo bene che il Petrarca, quand' ancor
non aveva concepito l' ambizioso disegno di farsi coronare in
Campidoglio, vagheggiava la speranza di ricevere 1' alloro in Na-
poli dalle mani di re Roberto ("^). E ciò torna quanto a dire che
costui credevasi licenziato a concederlo. Eppure ei non poteva
certo nudrire l' illusione, di cui si pasceva Carlo IV, d' essere il
legittimo successore d' Augusto ! Se entrambi codesti principi
adunque credettero di possedere il medesimo diritto, la ragione
dovrà ricercarsene in qualche facoltà comune cosi all' uno come
all' altro. E quest' è la facoltà di creare i dottori.
In qual maniera il re di Boemia legittimasse siffatta pretesa;
aggravata anche stavolta dal fatto eh' egli, primo tra gli imperatori,
aggiunse ai privilegi de' conti palatini quello ancora di concedere
il berretto dottorale ai candidati in diritto civile; non sa dirci il Fi-
cker, il quale sta pago ad avvertire come il fatto, che per avventura
potrebbe trovare qualche fondamento nelle costituzioni universitarie
boeme, ove esse ci fossero meglio conosciute, costituiva però una
vera novità per l'Italia; ed una novità che fu assai male accolta
— 97 —
dalle Università della penisola ("''). In mancanza di sicure notizie
si può dunque sospettare che noi ci troviamo dinanzi alla ten-
denza, che contraddistinse il governo di Carlo IV, d'ampliare
fuor di modo il campo entro cui la potenza imperiale doveva
esercitarsi. Come imperatore, il cesare boemo consideravasi fonte
d'ogni diritto; qual meraviglia che colui il quale fondava a sua
posta le Università, nominasse anche i dottori?
In quanto a Roberto d' Angiò le sue pretensioni si spiegano
assai facilmente. A tutti invero è noto come 1' università di Na-
poli sia stata retta fin dalle origini a mezzo di costituzioni inte-
ramente diverse da quelle, ond' erano regolati tutti gli altri Studi
italiani. Federigo II aveva riserbato a sé stesso o delegato al
suo gran cancelliere, come altri solenni offici, quello pure delle
promozioni ("l; ed i re Angioini si mostrarono sempre cosi ge-
losi di tale prerogativa, che rifiutarono di riconoscere ogn' altra
laurea che non fosse quella da loro impartita. Avvenne quindi più
d'una volta nel corso del sec. XIII, che un dottore forestiere
per aprirsi l'adito ad una cattedra nello Studio partenopeo si
rassegnasse a subire di nuovo quegli esami, grazie ai quali già
altrove ei s'era procacciato il convento, e quind' anche il diritto,
non sempre, come si vede, rispettato, d' insegnare dovunque
liberamente! ('^)
Da tutto quanto siamo venuti esponendo limpidissima scatu-
risce la conseguenza che ai tempi dell'Alighieri (e, si potrebbe
aggiungere senza tema d'errare, anche a quelli del Petrarca) (■^),
la coronazione poetica era dall' universale considerata come una
cerimonia d' alto valore scientifico, d' indole eminentemente acca-
demica, e strettamente collegata al convento, di cui con lievi
modificazioni riproduceva il processo, i riti, i particolari simbo-
lici e caratteristici. Non ci sarà dunque adesso cagione di mera-
viglia il constatare come sotto la penna degli scrittori trecen-
tisti ricorra indifferentemente in vece del vocabolo " laurea „
r altro di " convento „, quasiché entrambi la stessa cosa signifi-
chino. Non ci stupiremo udendo l' Ottimo chiamar la laurea
" convento di scienza poetica „ ; non ci farà specie vedere 1' Ano-
NOVATI. 7
-98 -
nimo Laurenziano postillar al verso 41 dell' ecloga prima tra le
dantesche:
Scd timcam saltus et rura ignara deorum;
tiiuciìììi : l'dcst c ouvcniar { Bonoiiic; oppur Zenone da Pistoia
nella Pietosa fonte parlarci in questa forma dell' incoronazione di
Francesco Petrarca:
E anni trentasette eran correnti
Della sua vita, quand' il re Ruberto
Si giusto giudicò che si conventi
Nell'alta poesia; (^0)
e non ci parrà infine punto strano che Dante stesso, a designare
quella solennità, dalla quale si riprometteva " il nome che pili
" dura e piti onora „, abbia adoperata la frase: " prenderò '1
" cappello „.
VII.
Raccogliamo dunque, per venire ad una conchiusione, le
sparse fila di quest' ormai lungo ragionamento. Dalle ricerche,
attraverso a difficoltà non lievi condotte a compimento, è risul-
tato come la coronazione poetica, bramata da Dante, fosse onore
talmente inusitato in que' giorni, che soltanto un poeta potè con-
seguirla, il Mussato. E r esame del come costui giungesse al
possesso dell' alloro, ci confermò sempre più nella persuasione
che la " laurea de lauro „ sia stata allora considerata quale il
premio della scienza (che poesia e scienza volevano dire lo stesso),
di cui solo i dotti potevano disporre a vantaggio de' dottissimi.
Se dopo di ciò noi ci proporremo ancora la domanda: poteva
Dante in virtii d' un poema volgare, per quanto eccellente, otte-
nere siffatto premio, cingere 1' alloro, di cui si cinse Albertino e
doveva più tardi inghirlandarsi il Petrarca?; dovremo rispon-
dere di no.
\'i sono delle opinioni, false o vere, poco monta, cosi tenaci,
cosi radicate, cosi comunemente tenute, che contro di esse ogni
- 99 -
sforzo individuale si fiacca, ogni piiì icrnia volontà si spunta;
delle quali riesce a trionfare solo chi di tutto e di tutti trionfa
sempre: il tempo. La convinzione che la lingua degna della poesia
e della scienza fosse unicamente la latina devesi stimar una di
queste. Anche se la Comcdia fosse uscita alla luce vivente il suo
autore, ed avesse a lui, ancor vestito di polpe, procacciata 1' im-
mensa popolarità, onde lo ricinse estinto ; tutti coloro che nel
sec. decimoquarto godean nome di dotti, avrebbero continuato a
deplorare che un' altissima mente, capace d' emulare Omero e
Virgilio, si fosse abbassata a prodigare perle ai porci, coprendo
le suore Castalie di cenci indegnissimi (■'). Giovanni Del Virgilio
sorse interprete di siffatto rammarico (per noi cosi strano e
grottesco, ma cosi logico e naturale a que' tempi), ed intimò al-
l'Alighieri di placare il dotto stuolo de'" chierici „, di cantare,
latinamente, fatti degni dell' epica musa. A questo patto, ma a
questo patto soltanto, si profferse pronto a procurargli quel titolo
che i suoi colleghi padovani avevano al Mussato largito; che più?
gli lasciò sperare che avrebbe fatto pe' suoi nuovi poemi quanto
per r Eceriìiidc aveano operato e Castellano e Guicciardo : li
avrebbe cioè letti e dichiarati dall'alto di quella cattedra, dond'espo-
neva i carmi di \'irgilio e d' Ovidio (*').
Quale tumulto d' alTetti la profferta di Giovanni suscitasse
neir animo di Dante già s' ebbe occasion d' avvertire, né occorre
ripetere adesso. Basti dire eh' ei s' arrese al consiglio dell' amico,
e pose mano al Carmen bncoliciiiìi, non tanto per fare cosa grata
a lui, quanto all'intento d'allontanare il solo, il vero ostacolo,
che poteva impedirgli l'acquisto della fronda desiata. Quand'egli
avesse alla Coniecù'a divina congiunto il poema, per cui riviver
doveva la musa di Titiro, chi avrebbe ardito di contrastargli il
" cappello „? E chi vietargli di sovrapporvi l'alloro?
Ma qui prevedo un'obbiezione che fa d'uopo distruggere. Se
Dante era risoluto a mostrarsi degno d' un vero convento, come
poteva nudrir lusinga d' ottenerlo a Firenze, dove non esisteva
uno Studio, e quindi mancava un consesso di dotti, cui tornasse
lecito fare in suo prò quant' avevano fatto gli Artisti padovani
— lOO —
por il Mussato e fecer poi i parigini e re Roberto per il Pe-
trarca? Occorre ricordare a questo punto un fatto che nessuno,
o m'inganno, ha finora rilevato. Pochi mesi prima che Dante
esalasse l' anima grande, Firenze aveva pubblicamente manife-
stato il proposito di creare nel suo seno una completa istitu-
zione di studi superiori. " Posto che nelle città regali debbonsi
" insegnare le leggi ed ogni altra scienza • — cosi comincia la prov-
visione legalmente approvata dai Consigli il 14 maggio 1321 —
" giusto è che in Firenze, città regale e di tutta eccellenza adorna,
" fiorisca uno Studio generale „ (•'^•'). Ma uno Studio generale non
s' apre cosi all'improvviso, né basta a crearlo un decreto! Perché
i Fiorentini nella primavera del 1321 giudicassero opportuno di
bandire all' Italia tutta la grande novella, forza è credere che le
trattative avviate col pontefice, col. re di Napoli, con persone
d' ogni grado e d' ogni fatta, fossero non solo da tempo iniziate,
ma condotte anche a buon fine {^*). Nulla di più probabile per-
tanto che Dante, prima ancora di ricevere l' invito del retore
bolognese, fosse a cognizione di quello che dai concittadini suoi
nel suo « bello ovile „ s'apparecchiava; sicché la speranza di
prender ivi il cappello, soggiogando imperiosa il suo cuore, abbia
avuto virtù di fargli parere men verde, men fresca, men bella la
fronda che gli offeriva Bologna.
NOTE
(') Boccaccio, l'Ha di Dante, § 8, p. 47.
(•) Scritti SII Dante, raccolti da B. Bressan, Vicenza, 1872, v. Il, p. 315 segg.,
* Sulla retta intelligenza del terzo e del quarto ternario del canto XXV del Pa-
" radiso „. 11 concetto che Dante sperasse farsi coronar non solo come " poeta „
ma altresì come " teologo „, trovasi già di passaggio accennato da Philalethes,
D. A.' s Gòtti. Coiiidciie, Leipzig, 1868, III Theil, p. 3^0; ed in nube si rinviene
anche in una postilla del p. Lombardi, La D. C. di D. A., Roma. MDCCCXXI,
to. HI, p. 362.
(') Fa eccezione lo Scaktazzini, La D. C. di D. A., Leipzig, 1882, v. Ili,
p. 669, il quale combatte bensì l' ipotesi del Todeschini, che dice " stiracchiata,
" violente, contro natura „, ma, all' infuori d' un solo, non reca contro di essa
verun valido argomento.
{*) Neil' università di Bologna lo studio della teologia non ebbe ad iniziarsi
che nel 1352, auspice Innocenzo VI. .Su questa peculiarità degli Studi italiani
d'essersi mantenuti nei primi secoli della loro esistenza interamente estranci al
movimento teologico, cf. Rashdall, op. cit., v. I, p. 251 sgg.
(') Cf. Bartoli, Storia della lett. ital., Firenze, 1884, v. V, p. 211 sgg.; Ga-
SPARV, Storia della lett. ital., trad. Zingarelli, v. I, p. 24.^ sgg.; Kraus, op. cit.,
pag. 67 sgg.
('■) Boccaccio, Vita di Dante, § 5, p. 29; Geneal. deor. gent., Basileae,
MDXXXII, lib. XV, cap. VI, p. 389; Villani, op. cit., p. 9.
(") Cf. Rasiiuall, op. cit., V. I, p. 462 sgg.; e v. anche P. Feret, Les origines
de l' iinivers. de Paris et som organisat. aii XII' et att XIII' si'ecles in Reviie des
qiiest. histor., to. LII, 1892, p. 361.
O Aristot. Metaphys. \, ni, 5.
\') Max. Tyrii Dissertationes, ed. Reiske, Lipsiae, MDCCLXXIV, par. I,
p. 167, Diss. X ; Stkabon. Geograph. I, 11, 3 sgg.; Plutarchi De Pythiae orac.
XVllI, De auiniae procreai, in Tiinaeo XXXIII, 7; S. Augustix. De civit. Dei
lib. XV'III, cap. XIV, XXIV ; Fir.m. Lactantii Div. Institut. libri, ed. Brandt, lib. V,
cap. v; ecc.
('") Boccaccio, l'ita di Dente, § 10, p. 56. Gli argomenti stessi addotti qui
e con maggiore larghezza sviluppati nel libro cit. delle Geneal. dal Boccaccio,
— I02 —
aveva già tratti fuori Albertino ne' vari componimenti da lui delicati alla difesa
della poesia (Ep. IV, ad Joniiii. gì-niiini. f^rofrss.; Kp. VII, /// laiideiii pocticiie ;
Ep. XVIII, Ad Frati-. Ioaiiii. de MiìiiIihì ( v. A. Mi'ssati Tiagocdiac ctc, in
Graevii 77»rs. aii/ù/. et histor. Itnliac, I.ugduni Batavor., MDCCXXII, to. VI
par. II, e. 40 sgg.) AH' ultimo di essi appunto, la replica cioè del Mussato a frate
Giovannino da Mantova, perchè tale, a suo avviso, che dimostra vittoriosamente
" nobilem artcm poeticam fuisse et esse; et esse non modo ethicam sed theo-
" logam „, rimanda i lettori del Commento da lui dettato ^nW Eceriitidc, mae-
stro Guicciardo. Ved. Mussato Eccrinidc, ed. L. Padrin. Bologna, 1900, p. 246.
(") Par. I, 22-27.
(") L' Ottimo Conili!, drllti D. C, testo ined. d' un contempor. di Dante, Pisa,
MDCCCXXIX, to. Ili, p. 543.
(") Nulla forse può giovare a mettere meglio in luce 1' enorme diversità che
intercedeva tra il modo di pensare de' teologi veri e de' poeti-teologi, ai giorni
dell'Alighieri, delle parole colle quali il domenicano Giovannino da Mantova ini-
zia la sua confutazione delle ragioni recate innanzi da Albertino pv.-r provare
l'origine " divina „ dell'arte poetica: " Circa quam quaestionem . . . dubia pro-
" saice quam metrice potius movere disposui, ne, doctor, vidercr sacrae
" theologiac iniuriam facerc, me poeticis regulis obligando. „ Guauvu
Tlics. cit., e. 51.
(") La D. C. di D. A., 3 Milano, Hoepli, 1899, p. 949.
('") Tra i commentatori antichi taluni, come a dire Iacopo della Lana, 1' Ano-
nimo Fiorentino, ecc., evitano di pronunziarsi in proposito. Tra i moderni poi
devesi ricordare S. R. Minich, Sulla sintesi della D. C, considerazioni, Padova,
1854, p. 28 sgg., il quale ha proposta di tutto il passo (e quind' anche della frase
" prenderò '1 cappello „) un'interpretazione simbolica, di cui già il Todeschini,
op. cit., to. II, p. 319 sgg., ha fatto giustizia.
("••) Cf. Ecl. I, 33, 34-35, 40, 42, 43-44, 50; Ed. II, 36-37.
('") Cf loH. DE Viro. Carni. 38; Ecl. resp. 66; Boccaccio, Vita di D., § 8,
p. 47 ; § II, p. 59; Amor. Vis. cap. V; Gcitcal. loc. cit.; Carmen ad F. Pctr. in
CoRAZZiNi, op. cit., p. 53 sgg.
('■"j Come un " gallicismo „ dantesco, " cappello „ per " ghirlanda, corona „
oltreché dai soliti commentatori, è registrato altresì dal Nannucci, Analisi crit.
dei verbi ital. investig. nella loro prim. orig., Firenze, 1843, p. 351; dallo Zinoa-
KELLi, Parol: e forme della D. C. aliene dal dial. fior., in Studi di Filol. Rom.,
Roma, 1884, V. I, p. 120; e dal Parodi, La rima e i vocab. in rima nella D. C.
in Bull, della Soc. Dani. II., N. .S., 1896, v. IH, p. 145. Niuno però di questi valorosi
uomini adduce a conforto dell'asserzione tradizionale un fatto, un esempio nuovo.
('") Dicendo " Francia „ voglio, naturalmente accennare anche al territorio
occitanico. Cf. Littré, Diction. de la langiie franf. to. Ili, p. 555; Hatzfeld-
Darmesteter, Dictionn. géiiir. de la langue franf., s. v.; Burguy, Granitn. de la
lingue d' Oli, v. Ili, p. 59; Diez, E. W. I, 86.
('") Quelli, intendo, del Ghirardini, del Tommaseo, delllo .Scarabelli, i quali
tutti, forti del preteso esempio dantesco, introducono tra i significati di " cappello „
quello pur di " ghirlanda „. Il Vocabol.rio della Crusca invece non lo registra;
- I03 -
ma ciò dipende da un' involontaria dimenticanza, giacché sotto la v. " incappel-
" larsi „ vediamo i Compilatori prendersi cura di avvertirci che la parola vale
" incoronarsi, inghirlandarsi... conforme al significato che aveva cappello per
" Corona, Ghirlanda „. — Anche di questo significato attribuito ad " incappellarsi „,
esaminati gli esempi che se ne adducono, ci pare più che lecito dubitare.
Aggiungo poi qui, a confermare sempre più la mia opinione, che neppur
nei dialetti nostri più ricchi di gallicismi, è avvenuto a me e ad altri di rinve-
nire " cappello „ col significato di " ghirlanda „.
(") Cf. le pagine che il Rashdall, op. cit., v. II, cap. xiv, p. 639 sgg.,
dedica alla descrizione delle vesti de' professori nonché degli scolari nel medio
evo. Tra le altre particolarità si trova appunto additata questa che nelle fa-
coltà di legge e di medicina alla " berretta „, riserbata ai teologi, era abitualmente
sostituito un " pileum „ (quindi un " berrettino „), più o meno rassomigliante
al berretto rotondo, ancora usato in speciali circostanze dai dottori delle stesse
facoltà ad Oxford ed a Cambridge. (Op. cit., p. 642.).
Intorno al significato simbolico del " birretum „ rinvengonsi in un documento
padovano del 1392 queste dilucidazioni: " Hiis biretum addicitur, quod pil-
" leolum b. pater Geronimus nominavit, testura breve, latissimum caritate
(cf. S. HiERON. Ep. LXXXV, n. 6), quod iure capiti sopponitur, quoniam, te-
stante Apostolo (S. Paul. Ep. ad Eph. III, 19), " eminere scientiam scientie
" caritatcm „ (sic! leggi: " eminere decet scientie caritatem „?) Cf. Gloria,
/ ttiomtnt. padov., 1318-1^05 v. II, p. 267, n. 1838. In un diploma fiorentino, di al-
quanti anni più tardo (M33), s'asserisce poi che il conferimento del " birretum „
avviene " in signum gloriae et coronae lustitiae „ ; Gher.xrdf, Statuii, par. II, p. 439,
n. CLXXXI. In un terzo perugino, del 1482, modellato però sovra un esemplare
molto antico, il berretto, tolto dal sacro altare, dee ornar il capo del nuovo dot-
tore " ad gloriam et laudem magni Dei „; M. Morici, Un diploma di laurea in
medie, dell' Univ. di Perugia, Firenze, 1899, p. 11.
(=>») Farad. I, 28-33.
(*') " Hoc nempe poeticum decus aetate nostra, quod dolenter referimus,
« incertum qua seu ingeniorum tarditate, sed temporum malitia usque adeo
" oblitum esse videmus, ut etiam quid per ipsum poetae nomen importetur,
" pene incognitum nostris hominibus habeatur Sane autcm poetas egregios
" in morem triumphantium accepimus in Capitolio coronari, usque adeo et in
" desuetudinem nobis abiit illa solemnitas, ut iam a mille trecentis annis nullum
" ibi legamus tali honore decoratum „. Di questo notabile documento, più volte
messo a stampa ( cf. Hortis, Scritti ined. di F. Fetr., Trieste, 1874, p. 8 sgg.),
non possediamo però un'edizione critica. Io mi son valso della riproduzione fat-
tane dal Renazzi, op. cit., v. I, p. 263 sgg., n. XXVII, che non è né migliore
né peggiore di quelle ricordate dal Hortis.
(-*) Vita di D., 1. cit. Anche Zanobi da Strada nell' orazione da lui composta
in occasione della sua laurea, dice a Carlo IV lo stesso, per proprio conto:
" Nam hoc tempore, cum pene (in) totum lapsa huius studii a tot ante saeculis
" cura esset, tu et in hoc homuncione praecipue decus poetici honoris exsu-
" scitas „; Ved. A. Wesselofsky, Boccaccio, Pietroburgo, 1894, v. II, p. 659.
— I04 —
(^*) Mi'iii. ini. ai podi laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, 1839.
('*) Cf. Par. Il, cap. I, Poeti laur. nei sec. XIII e XIV, p. 8a sgg.
<?'') Scriptor. illnstr. iiiaiot: Britanniae ... Catalog., liasileae, MDLVII, Cent. I\',
P- 369-
(*■") Ct". Tu. \V.\RTON, The liisl. of English Poctiy ftoin the dose of the elev.
tó the conimene, of the eighleenth cent., London, 182^, v. II, p. .^41 sgg. (L'edi-
zione del 1840 non m' è slata accessibile).
(^") Per la vita e le opere del Baston, oltreché il libro testé citato del Baie
e quello del PiTS, Relation, histoiic. de rebus anglic., Parisiis, 1609: v. anche il
Wartox. op. cit., V. II, p. 64, al quale il Lancetti, op. cit., p. 89, muove, non
so come, l'infondata accusa d'averne del tutto taciuto.
('*') Se il Baston, come affermasi, segui davvero Edoardo I in Scozia, col-
r incarico di cantarne le gesta, egli ha qualche diritto d" essere considerato come
un poeta di corte, e quindi di venire riaccostato " idealmente „ a quegli ufficiali
della casa reale d'Inghilterra, che, più tardi, assunsero il titolo di poeti laureati.
Ma d'altro canto chiamare cosi il carmelitano non è lecito, giacché, prima di John
Ka\-, fiorito ai giorni d'Edoardo IV (1472-1483), niuno tra i poeti di corte nella
Gran Brettagna, ove diasi fede al Warton (op. e loc. cit., p. 440), assunse siffatta
denominazione. Del resto, quand' anche si riuscisse a stabilire, contro l' avviso
dell" erudito or citato, che alla corte inglese i versificatori stipendiati dal sovrano
anche prima del Kay furono detti " poeti laureati „, sapendo noi che questo
titolo non altro indicava allora in Inghilterra che un " graduated rhetorician „
(Wartox, op. e loc. cit., p. 443), non risulterebbe da ciò confermata la pre-
tesa del Lancetti di annoverare tra i colleghi del Petrarca anche Roberto
Baston.
{") Cf Hist. littér. de la France, to. XX, p. 675 sgg.
(^') Per i Puis in genere v. Paris, La littér. franf. au m. a.," § 127. Sopra
quello d' Arras, uno dei più celebri, e sulla poetica sovranità eh' esso conferiva
ai trovieri, cf. adesso H. Guy, Essai sur la vie et les oeuvres littér. du trouvere
Adan de le Halle, Paris, 1898, Introd., p. XXXII sgg., e specialmente L sgg.
Per r istituzione analoga di Valenciennes veggasi poi il vecchio e raro libro
di G. A. J. Hécart, Serventois et sottes Chans. couronnés à Valenc. tirés des
mss. de la Bibl. du Roi ', Paris, Mercklein, 1834.
(") B. ToMM. da Celano Lm vita seconda... di S. Fr. d' Assisi, ed. L. Amoni,
Roma, 1880, p. 158, cap. XLIX. — Tiraboschi, Star, della leti, ital., Milano,
MDCCCXXIII, to. IV, lib. Ili, p. 577 sgg.; Ginguené, Hiit. liti, d' Italie, Milan,
MDCCCXX, to. I, p. 315.
('*) Citerò per tutti colui, al quale il Lanxetti, op. cit., p. 84, dà il vanto d' avere
chiarito cosi tutto quanto concerne a fra Pacifico, da " togliere ogni avanzo di dubbio
" alla più severa e incontentabile critica „, vale a dire G. Carbone Cantai.a-
MESSA, autore delle Meni. int. i Letter. e gli Artisti della città di Ascoli nel Piceno,
Ascoli, MDCCCXXX, p. 23 sgg. In realtà invece lo scrittore ascolano s'è limi-
tato a far proprie tutte le asserzioni gratuite e le strampalate ipotesi dal p. G. A.
da Mendrisio, dall' Appiani, dal Panelli accumulate intorno al compagno di
S. Francesco; l'origine, la famiglia, le vicende del quale, prima del suo ingresso
— I05 —
nell'ordine minoritico, rimangono tuttora ravvolte dal pili fitto mistero. Nuli' altro
che una falsificazione sono anche i versi volgari attribuitigli; cf. Gaspakv, op.
eit., V. I, p. 123 e 432. — Una copiosa bibliografia su Fra Pacifico in Sauatieh,
Speciilu»! perfectionis, Paris, 1898, cap. 59, p. 108.
('^) Cf. quanto osserva in proposito il TiRABosciit, op. cit., Ice. cit., p. 578, n. a.
(") Cf. Tho.mae Tl'sci, Gesta iuiper. et ponti/, in Man. Geriii. Ilist., .Script.,
XXII, e. 492.
(") Questo era stato già ben veduto dall' antico volgarizzatore della Vita
di S. Francesco scritta da S. Bonaventura, il quale chiama Fra Pacifico " uno
" grande dicitore in rima, el quale pello suo trovare bellissimo.... era chia-
" mato re di versi e di canzone „: cf. Misceli. Frane, v. II, 1887, e. 158. Ed
altrettanto hanno ripetuto 1' Affò, Vision. Pi-ec. della poesia volg., Milano, I82^,
p. 65, ed il TiRABOSCHi, op. cit., loc. cit. Siccome però, se diamo retta alle pa-
role degli scrittori francescani più antichi. Fra Pacifico fu eccellente nella musica
( lo Specnl. perfect. lo dice, non una sola volta, " nobilis et curialis doctor can-
" torum „): cosi io non ho difficoltà a credere che, dopo la sua rinunzia alle va-
nità'mondane, abbia composti e musicati, come Fra Enrico da Pisa, canti ascetici,
sequenze, laudi ecc., anche in latino.
(^') " Inter quos quidam saecularium cantionuni curiosus inventor, qui ab
" imperatore propter hoc fuerat coronatus et exinde rex versuum dictus. „
S. BoNAVExruRAE Vita b. Fr. in Ada Sanct. Octobris, Antverpiae, MDCCLXVIII,
to. II, e. 752, § 50.
(") Chi obbiettasse che anche Federigo II amò poetare in volgare, mostre-
rebbe di non sapere quale concetto s' avesse a quel tempo delle virtù caval-
leresche, onde un principe doveva essere adorno. Colla musica e colle amorose
canzoni s'acquistava grido d'uomo " cortese „, non si saliva al Parnaso! Ora
" messere lo imperadore „, eh' era " loico e cherico grande „, come Dante il
dice, sapeva questo meglio di chicchessia.
(*") Cf. RocKiNGER, Bri>/stell. u. Fornielbiich. des XI bis XIV jahrh., Mun-
chen, 1863, I, 174. Che nel 1226 lo stesso libro fosse di nuovo " letto ed appro-
" vato „ nella cattedrale padovana, come afferma B. Colfi, Di un aniichiss. coniiii.
all' Ecer. di A. M. in Rassegna Emiliana, Modena, 1889, a. II, p. 625, non mi
par lecito desumere dalle parole dell' A., il quale, distinguendo il tempo della
lettura e della coronazione, " tempus recitacionis, „ cioè il 1215, da quello della
pubblicazione, " tempus dacionis „, cioè il 1226, sembra voler alludere a due
cerimonie del tutto diverse. Trattandosi del resto d'uno spirito cosi bizzarro
come fu Boncompagno, rimane sempre il sospetto eh' egli ci voglia giocare
qualche tiro. La corona d'alloro al proprio libro potrebb' averla imposta quindi
ci medesimo, in conformità a quanto dice nel dialogo tra lui e l'opera stessa:
" Demum ad conferendum perpetuum robur institucioni iam facte super caput
" tuum laureatam pono coronam „. Op. cit., p. 131. Certa cosa è infatti che di
libri solennemente approvati serbiamo molti ricordi, di libri " laureati „, questo
solo.
(") Cf. Colfi, op. cit., p. 624 sgg., il quale, a proposito dell'approvazione
pubblica data dal collegio degli Artisti di Padova al commento di Guicciardo e
— io6 —
Castellano, opportunamente rammenta come nel sec. XII t.ilc onoranza, oltreché
al Bouco>ìif>agHHS del dettatore da Signa, sia toccata piiranco alle Croniche di
Rolandino (13 Aprile 1262). A queste notizie, spettanti a Padova, si può ag-
giungerne un' altra, da cui rilevasi come la consuetudine vigesse anche oltre-
monti: nello Studio parigino infatti, tra il 1298 ed il 1302, la Rhctorìca dictaminis
di maestro Lorenzo d' Aquileia nor^ solo meritò " solempnis recitationis gloria
* decorar! „, ma, come attesta il suo autore, venne poi anche " solempniter ap-
" probata „. Cf. L'influsso del peiis. lai., " ecc., p. 254.
(*') V. le CongeUiire di utt Socio Etrusco (M. Maccioni) sopra una carta
papir. dell' Arch. Diploin. di S. A. R. il Ser. Pietro Leop. Arcid. d' Austria Grand,
di Tose, ecc., con la prefazione dell'Editore (Ferd. Fossi), Firenze, MDCCLXXXI,
p. XXIII sgg.
Di Niccolò di Giunta nulla sappiamo; ma vien fatto di pensare eh' egli possa
aver avuto qualche rapporto col concittadino e coetaneo suo Tommaso di Giunta,
mediocre rimatore, che uno de' suoi sonetti indirizza per l'appunto ad un Nic-
colò. Cf. Renier, Sonetti ined. di Tonini, di Giitutn e d' alivi rimatori del sec. XIV,
Ancona, 1883, Nozze Scipioni-Ferri, p. 15.
(*') Cf. TiRABOScnr, op. cit., to. V, par. II, p. 881, il quale non die prova
tuttavia del suo consueto acume, quando propose d' identificare Bono con quel-
r amico e corrispondente di Lovato e d'Albertino, eh' ei chiama erroneamente
" Bonatino „, mentre si tratta invece di Bovetino de' Bovetini da Mantova, pro-
fessore di decreti e canonico della cattedrale di Padova: cf. L. P[adrin], Lu-
pati de Lupatis, Bov. de Bovetinis... Carmina quaed., Padova, 1887, p. 56. Il Padrin
stesso, d'altronde, si è fuorviato completamente, tentando di far una sola persona
di Bono e di quel Paolo de' Boni, cambista padovano, detto " poeta „, del quale
il nome ricorre in documenti del tempo. Se qualcosa intorno a Bono si sa di
sicuro è che fu per origine bergamasco!:
Nunc quoniam numerare labor quot Cymbria nuper,
Saecula Pergameum viderunt nostra poetam,
Cui rigidos strinxit laurus Paduana capillos,
Nomine requc bonus:
cantò il Petrarca nell'epistola diretta forse a Bruzzo Visconti (Carni, lib. II, xi);
e questi tre versi, come ognuno sa, sono l' unica testimonianza dell' esistenza
d' un Bono, che ottenne a Padova 1' alloro di poeta.
(**) Questa data è stata testé collocata fuor d'ogni incertezza dal Padrin,
Ecerinide, Introd., p. X.
(*') Cf. U. Marchesint, Docum. ined. su A. M. in Propugnatore, N. .S., v. I,
par. II, 1888, p. 396 sgg. Intorno al Mussato in quest'ultimi quindici anni molto,
fors' anche troppo, si è scritto e da molti; ma una biografia degna di lui manca
tuttora, né prima ch'escano in luce tutte le opere sue, cosi edite che inedite, resti-
tuite da una critica sagace all' integrità primitiva, sarà il caso di pensare a dettarla.
(■"'') Ma pochi si sono proposti il quesito che nel testo s' accenna ; tra gli
altri G. Zanella, A. M. o delle guerre fra Padov. e Vicent. al tempo di Dante,
— I07 —
in Scrìtti vari, Firenze, 1877, p. 394 sgg. ), il quale inclina a rispondere affermati-
vamente (op. cit., p. 412, 416 ) ; ed ora anche il CARDUCct, Della Ecerinide e di A. M.,
in Padrin, op. cit., p. 281, che in quella vece non si pronunzia. K dilatti proba-
bile è che Dante si sia recato prima o poi a Padova; probabile pure ch'egli
.^bbia in qualchcduna delle città surricordate venerala la maestà d'Arrigo; ma
come darne le prove? Cf. B.\rtoli, op. cit., v. V, p. 232 sgg.; Kraus, op. cit.
P- 77-
(*') Cr. Epist. II, /;/ landcni D. Ilciirici inip. in Op. cit., e. 36, dove tra altro
ei scrive:
Gratia multa tibi prò me, mitissime Caesar,
Accedant animae praemia digna tuae,
Quod tibi cis Alpes non me dilectior alter,
Carior aut nostra sub regione fuit.
Tu mihi munificus supra quaesita fuisti;
Solus ab imperio prodiga dona tuli.
Quali siano stati questi " doni eccessivi „ egli spiega poi largamente nel
trattato inedito intitolato Liber de lite fortimae et natiirae, che si legge nel cod.
ms. 5. I. 5. della Colombina di Siviglia, e. 31 a sgg. E cf. anche De gestis Italie,
lib. IV, rubr. II, in Muratori, R. I. S. to. X, e. 618 sg.
{**} Dante, Cohv. \, iii, ed. Moore, p. 240.
[*'') Couv. ibid.
e*') loH. DE ViRG. Ed. resp. 88. E cf. Giorn. stor. della leti, it., XXII, 354 sgg.
C') loH. DE ViRG. Elei. ad. A. M. in Bandini, op. e Ice. cit., e. 11.
(") È quella pubblicata come la IV in Op. cit. e. 40.
('') Non basta stare in guardia e porre in guardia i lettori contro " 1' amore
" d'Albertino per le frasi eleganti ed i sonori emistichi, „ e contro le amplifi-
cazioni di cui si sono compiaciuti i di lui biografi, come ha fatto il Golfi, op.
cit., p. 627, al quale appunto alludiamo. Conviene altresì cercar d' intendere a
dovere le parole del Mussato, e non già accontentarsi d'asserire, quand'appa-
iano oscure o difficili, che il poeta giovasi di frasi fatte, anche quando non
" esprimano esattamente il suo concetto. „ Se il Colfi si fosse regolato in cotal
modo, la ricostruzione da lui tentata della festa padovana del 1315, la quale, in
omaggio al vero, pur cosi com'è, segna un notabile progresso sovra le antece-
denti, sarebbe andata immune dai non pochi e non lievi errori, ond' è ora gua-
stata. Il critico non avrebbe innanzi tutto persistito nella comune ma fallace
opinione che le due epistole del Mussato, numerate, a dispetto della cronologia,
come I e IV, siano destinate a descrivere una sola e medesima cerimonia, a
brev' intervallo di tempo ripetuta; ma sarebbesi facilmente avveduto come nel
primo carme (il IV in Opera, e. 40) Albertino lumeggi in tutti i particolari che
la distinsero, la propria laurea; nell'altro (il I) si piaccia ragguagliarci intorno
alle peculiarità, ond' andava caratterizzata la novella solennità, che, a perpetuo
ricordo della laurea da lui conseguita, il comune di Padova aveva deliberato si
celebrasse tutti gli anni ad epoca determinata. Ove poi egli si fosse dato briga
— io8 -
di ricercare come ai di del Mussato funzionassero le scuole superiori, e non
avesse quindi ignorato che col titolo di Collrgiiiiit Aiiislanmi s'indicava unica-
mente in Piidova sugli inizi del sec. XIV il collegio dei Dottori artisti, cioè
medici, filosofi, e grammatici, dodici di numero e retti da un Priore ( et". Glokia,
/ nioii. cit., p. 375 sg. ), il Golfi si sarebbe certamente ben guardato dal definire
quel corpo a cui il Mussato andò debitore della laurea, come il " collegio dei
* letterati (!) di Padova, che contava fra i suoi membri più autorevoli i dottori
" dello Studio „: op. cit,, p. 623, 625, ecc. — Ancora: se delle consuetudini
inerenti al convento avesse maggiori notizie posseduto, avvedendosi come dai
novelli dottori si facesse sempre distribuzióne di guanti di capretto ai dottori
che li avevano esaminati e promossi, e ciò in obbedienza agli statuti universitari
( cf. Gloui.-\, op. cit., p. .13^ ; R.\shdall, op. cit., v. I, p. 231 ), non avrebbe più
definito come un " particolare aggiunto dalla fantasia del poeta „ l' espresso
accenno che Albertino fa all'obbligo incombente al Priore del collegio d'offe-
rirgli annualmente un paio di guanti di capretto: Oi iiabitque inanus ttostras de
tegniiiie caprae. E se finalmente non si fosse messo in capo che il Mussato ado-
perava frasi fatte " anche quando non esprimevano esattamente il suo concetto „,
non sarebbesi indotto ad affermare che il distico:
Doctorum series, Studii reverentia nostri,
Signavit titulis singula gesta suis,
significar voglia che, dopo la lettura dell' Ecerinide, " i principali dottori dello
" Studio apposero il loro nome alle opere di Albertino „ (op. cit. p. 626-27);
ma non avrebbe esitato a rilevarne il vero senso: che i dottori presenti cioè
sottoscrissero il diploma di laurea in cui per ordine era descritto tutto quanto
aveva avuto luogo (singula gesia).
Parecchie altre osservazioni potremmo muovere al Golfi. Ma basti quanto
s' è detto a dimostrargli che per far della vera critica storica non basta intessere
alquante paginette
Di più, di poi, di ma, di se, di forsi,
Di pur, di assai parole senza effetti.
(") Giò risulta nitidamente dalle parole di Giovanni da Naone: cf. P.\drin,
Ecennide, p. XIV.
(") Gf. Efiisi. cit., v. 18-21:
Utque die sacra nulla sub lite vacavit,
lustitiae teniiit curia nulla patres;
Nec fora nostra dabant ullas venalia merces,
Artifices operas dcstituere suas.
Anche da questi versi il Golfi (op. cit., p. 627 sg.) cava argomento per accusare
il Mussato d' aver voluto far credere che perfin la plebe comprendesse e gu-
— I09 —
stassc la sua tragedia! Ma che c'entra qui la tragedia? Il poeta narra semplice-
mente che tutti, nobili ed ignobili, ricchi e poveri, dotti ed ignoranti, accorsero a
vederlo coronare poeta! Che vi può essere di più naturale di ciò?
(*°) Che la festa siasi celebrata " in palazzo „, e non già nel pubblico Studio,
come altri pensò, dimostra la deliberazione del collegio dei giudici d'intervenirvi,
presa il di innanzi e fatta conoscere dal Padrin, op. cit., p. X.
C"") Alla parte presa dal vescovo all' incoronazion sua accenna il Mussato
con due parole sole: Annuii antistes. E di qui poco si può cavare davvero; sicché,
ove altri inclinasse a credere che la corona, consenziente il prelato, fosse im-
posta al poeta dal Priore del collegio degli Artisti forse sarebbe nel vero.
{'") L' intervento di Alberto di Sassonia, allora rettore dello Studio, è signi-
ficato poi cosi dal Mussato : plausit praeconia Saxo. E se pensiamo al valore
della frase facere o perageie praeconia, usata dai buoni scrittori latini, non po-
trem intendere se non questo: che il Rettore pronunziò un panegirico del
laureato. Egli avrebbe dunque fatto in tale occasione quanto nei conventi, nelle
promozioni dottorali soleva far a Bologna l' arcidiacono o il dottore che ne te-
neva le veci: cf. Savignv, op. cit., v. Ili, p. 195.
(''■') Cf. Padrin, op. cit., p. XII.
e") Cf. La civilisat. en Italie aii tenips de la Retiaiss., trad. .Schmidt, Paris,
1885, to. I, p. 254 sgg. Mi duole non aver ancora alle mani la nuova edizione del
testo tedesco curata dal Geiger.
C"') Taluno, il quale abbia notato come, se non in Italia, certo oltremonti
siasi conferito durante l'età di mezzo il titolo à' Archipoeta a parecchi cultori
della poesia, potrebbe per avventura concepir il sospetto che cotale denomina-
zione fosse adoperata allora per distinguere i poeti " dotti „, forse i laureati, dai
verseggiatori " volgari. „ Ora son qui ad avvertire più cose. Che al pari di
quello di " re „, il nome d' Archipoeta abbia servito a denotare la supremazia
conferita per volontà d' un principe ad un troviero sopra gli altri menestrelli e
giullari non può parer dubbio, ove s" attenda a ciò che scrivono sul conto del
versificatore normanno Enrico d'Avranches, vissuto alla corte d'Enrico III d'In-
ghilterra (1207-1272), il Warton, op. cit., V. I, p. 50, ed il Michel, La Chans.de
Rol. et le Roni. de Roncevaii.x, Paris, 1869, Préf, p. XXV sgg. In pari tempo però
non è lecito negare che lo stesso titolo d' Archipoeta abbia servito altrove, prima
e poi, a segnalare 1' eccezional valore artistico raggiunto da chi ne veniva insignito,
e che, quindi, siasi attribuito anche a scrittori non volgari, ma latini, quali turono e
r anonimo goliardo tedesco che celebrò in ritmi famosi le imprese del Barbarossa
in Germania ed in Italia, dove scese in compagnia di Rinaldo di Dassel, arcive-
scovo di Colonia e cancelliere imperiale (cf. Wattenkach, Dciitschl. Gcschichts-
qiiellen *■, v. II, p. 474 sg. ), e l'altro " vagus clericus... " Nicolaus nomine, quem
" vocant Archipoetam „, di cui circa il 1220 parla Cesario di Heisterbach ( cf.
Reumont in Ardi. Star. Hai, Ser. I, 1849, App., to. VII, p. 509 ?g.). A nessuno però
sfuggirà il significato singolare di questo fatto: che il medesimo onorifico titolo
sia stato in Germania tra il sec. XII ed il XIII concesso a due poeti, non appartenenti
già alla classe autorevole dei dotti, bensì alla disgraziata casta de' " vaganti „;
a due versificatori, che usavano si il latino, ma se n' avvalevano unicamente per
dettare componimenti d'un genere ibrido, ignoto all'antichità, oscillante tra lo
scolastico ed il giullaresco, e che nessuno considerava né molto nobile, né molto
serio: in una parola, de' componimenti ritmici. Tant' è vero questo, che il go-
liardo protetto dal cancelliere imperiale, ove gli appartenga realmente la Con-
fcssio notissima, avrebbe in codesto suo capolavoro additata nettamente egli
stesso la distanza che separava lui, trutanno, che scriveva senza studio, secondo
r ispirazione del momento, dai chierici solenni, tutti intenti ad imitare i classici,
per creare opere imperiture (Cnriii. Bui:, p. 69, str. 15,17):
leiunant et abstinent Mihi nunquam spiritus
poetarum chori: poetriae datur
vitant rixas publicas nisi prius fuerit
et tumultus fori: venter bene salur;
et, ut opus faciant, cum in arce cerebri
quod non possit mori, Rachus dominatur,
moriuntur studio, in me Phoebus irruit
subditi labori. et miranda fatur.
Non mi par dunque di sbagliare affermando che al titolo é' Are Inpoeta siasi
sempre nell' età medievale accoppiato un certo non so che di giocoso, di giulla-
resco, che avrebbe trattenuto gli uomini d' allora dal servirsene per esaltare
(poniamo) Gualtiero di Chàtillon o Alano da Lilla. E di qui si potrebbe cavare
anche modo a meglio comprendere come il titolo stesso, quando fu risuscitato
dal circolo di begli umori che faccano in Roma corona a Leone X, siasi usato
per burla, non per davvero.
(•"'-) Il veder che Dante designa poi con tanta precisione come luogo dove
la sospirata festa dovrebbe effettuarsi, il " fonte del suo battesmo „, suggerisce
al Burckhardt quest'altra osservazione: " Sembra che l'Alighieri abbia vagheg-
" giato una festa per metà religiosa. „ Al che vien voglia di chiedere: E come
avrebbe potuto fare diversamente? Quale cerimonia, rassomigliante a quella di
cui egli bramava divenire protagonista, poteva non essere allora per metà reli-
giosa? Lasciamo in disparte il Petrarca, che spezza con meditata violenza la
tradizione medievale, e guardiamoci invece dattorno. Che vediam noi? Vediamo
dal sec. XII al XVI le promozioni dottorali avvenire tutte e dovunque col con-
senso e coli' intervento delle più alte dignità ecclesiastiche cittadme; loro natu-
rale sede stimarsi sempre e dapertutto le cattedrali; sicché, ove si contravvenga
a tale consuetudine, si bandiscono a bella posta decreti per punire i contrav-
ventori (cf. Gherardi, Statuti, par. \, p. 172, doc. LXXIII); ove proprio s'esca
dal recinto del tempio, la cerimonia ha luogo però nel palazzo del vescovo
(V. Rashdalt, op. cit., I, 473; GnEKARDi, op. cit., par. 11, p. 439, doc. CLXXXIÌ:
le insegne della dignità magistrale, prima d' essere concesse al nuovo dottore,
sono collocate sul sacro altare. Che più? Una cerimonia maggiormente vicina
alla laurea che il convento non sia, l'approvazione solenne d'opere didattiche
o storiche si compie pure nella chiesa; il Boneompagmis a Padova è pubblicato
nella cattedrale, presenti il vescovo ed il legato apostolico; le Croniche di Ko-
— Ili —
landiiio sono approvate dai dottori dello Studio patavino nella chiesa di S. Ur-
bano. Quale meraviglia che Dante si scorgesse ncll' immaginazione sua già co-
ronato d' alloro in quel tempio, eh' era 1' orgoglio di Firenze innanzi che S. Maria
del Fiore fosse sorta; in quel tempio, dove egli stesso aveva chi sa quante
volte veduto, secondoché 1' Ottimo attesta, onorarsi gli " scienziati „ , quando
tornavano da Bologna?
e"'*) Cf. Savigny, op. cit., V. HI, p. 205 s^.; Rashdall, op. cit., v. I, p. 225
sg.; 450; Gloria, Mohuiii. 1222-1318, p. 434.
("') Cf. Savigny, op. cit., v. Ili, p. 205 sgg., 267 sgg., 336; Rashdall, op.
cit., v. 1, 225, 229; 452, 473; Gloria, op. cit., p. 369.
("'') Ved. i più antichi diplomi dottorali raccolti dal Savigny, op. cit., v. Ili,
app. VII, p. 626; e particolarmente quello dato ad un giudice bresciano nel 1277
dal vescovo di Reggio, e l'altro conferito in Bologna nel 1314 a Gino da Pistoia.
{"'^) Renazzi, op. cit. p. 265: e cf. Hgrtis, Scritti ined., p. 8.
('"'') Veggasi difatti quale stretta relazione, non sostanziale soltanto ma for-
male, interceda tra codesta formola usata dal senator di Roma e quella, di cui
valevasi in ■ Parigi il cancelliere di S. Genovieffa per creare i dottori in arti
(Rashdall, op. cit., v. I, p. 452): " Et ego auctoritate apostolorum Petri et
" Pauli in hac parte mihi commissa do vobis licentiam legendi, regendi,
" disputanti et determinandi ceterosque actus scholasticos seu magi-
" strales exercendi in facultate artium Parisiis et ubique ter-
" raruin „. Cf. anche Gloria, op. cit., p. 436.
C") Questo convincimento spira, come si sa, profondissimo dalle epistole del
Nelli ( CocHix, op. cit., ep. XVII, p. 234 sg. ) e del Boccaccio ( Corazzini, op.
cit., p. 189 sgg.). Cf. Burckhardt, op. cit., v. I, p. 255; Voigt, Die Wiederbel.,
V. I, p. 455: HoRTis, op. cit., p. 8 sgg.
(''") Cf. F. Petrarcae Ep. ad poster, in F. P. Epistolae Fainil., ed. Fracas-
sctti, V. I, p. 7 sg.
("") Suir incoronazione di Zanobi v. Hortis, Studi sulle op. Int. del Bocc.,
p. 272 sgg.; Renier, Liriche ed. e ined. di Fazio d. Ub., Firenze, 1883, p. CCV
sgg.; C. Frati, Un' epist. ined. di G. B. in Propugnatore, N. .S.^ v. I, par. II, 1888,
P- 31 sgg.; Wesselofsky, Boccaccio, v. II, p. 167 sg.
Anche la cerimonia pisana, per quanto ne sappiamo, riprodusse con maggior
pompa ma assai fedelmente nell' insieme il tipo tradizionale del convento. Se
non avvenne in chiesa, ebbe però luogo " super grados marmoreos circum
" stringentes ecclesiam „ (il Duomo), immediatamente dopo una solenne funzione
religiosa. II sovrano non solo baciò in bocca Zanobi, ma dopo avergli imposto
la laurea in capo, gli infilò in dito un anello :
semper
Ante oculos mihi Caesar erit, procerumque corona
Et quae caesareo venerunt oscula ab ore,
Annulus ac digito iam desponsata poesis.
Cosi cantava lo Stradino medesimo (Frati, op. cit., p. 50). Or chi ignora come
il bacio al neo-dottore e 1' apposizione dell' anello al dito di lui, " in signum de-
— I 12 ~
" sponsationis scientic „, fossero " insignia doctoratus „, che non mancavano
mai nei conventi? Ved. Rashdai.i., op. cit., v. I, p. 229 sg, ; Gloria, op. cit.,
p. 436; Moli. 1318-1405, V. 1, p. 107.
("') Non ci e giunto pur troppo né il testo del privilegio di laureare i poeti,
che ai Fiorentini avrebbe largito Carlo IV, né alcun ragguaglio, dirò cosi, uf-
ficiale ch'esso abbia un tempo esistito, giacché nel diploma im]ierinle del 2 gen-
naio 1364 ( cf. Gherardi, op. cit., par. I, p. 139, doc. XXIX ) non se ne tocca
affatto. Tuttavia della reale esistenza sua non par lecito dubitare. Coliiccio Sa-
lutati già disteso sulla bara, " fu coronato poeta per deliberazione de' signiori
" e collegi... per un'alturità che gran tempo fa ebbono e Fiorentini da Carlo
" imperadore „ : dice sotto 1' a. 1406 il Priorista Panciatichiano 112 della Nazionale
di Firenze, e. 106 n ; e grazie a codest' " alturità „, che altri fonti già noti ram-
mentano, anche Leonardo e Carlo d' Arezzo conseguirono dopo morte la corona
d' alloro.
Come mai nel sec. XIV i Pratesi abbiano dal canto loro potuto insignir
della laurea Convenevole, secondoché attesta il Petrarca, Ep. Seti. lib. X\'I, i,
confessiamo d' ignorare.
C^) CocHiN, op. e loc. cit.
("') Cf. BURCKH.XRDT, Op. cit., V. I, p. 255. y
C*) Per l'interesse, tutt' altro che tenue, che Carlo IV mostrò sempre verso
gli studi storici e letterari, v. C. Hòfi.er, Die Zei/ dei- Lnxciithiirgischen Kaiser,
Wien, 1857, p. 49 sgg.
("') Cf intorno a ciò Bartoli, op. cit., v. VII, p. 38 sgg. ; G.vsp.vrv, op. cit.,
V- 1/ p- 353. ecc.
C') I. FiCKER, Forscìiitiig. sur Reiclis-ii. Reclitsgescìi. Italieiis, Innsbruck, 1869,
V. II, p. 107, § 263.
('') Cf S.wiG.VY, op. cit., V. Ili, p. 304; Rashdall, op. cit., V. II, par. I, p. 25.
[''■) Ved. il caso di Iacopo da Belvisio, reputato dottore del sec. XllI, come
ci vien narrato dal S.wigxy, op. cit., v. Ili, p. 305.
("") Quanto di schiettamente medievale nella sostanza non men che nella
forma conserva ancora la cerimonia capitolina, malgrado i tentativi fatti dal
Petrarca per ricondurla alle classiche tradizioni! Né egli né i suoi promotori
seppero o ardirono in realtà allontanarsi dalle più tra le consuetudini, delle
quali l'età loro soleva esigere l'osservanza; sicché tutto fini per passare nel
modo consueto. Il Petrarca si sottopose prima, spontaneamente, ad esami al-
trettanto severi quant' erano quelli " tremendi e rigorosi „, attraverso i quali
giungevasi negli .Studi al magistero; poscia munito del " regio testimonio „,
chiese ai magistrati di Roma (chiese, si badi bene, giacché contro l'asserto che
la corona gli fosse dai Romani stessi offerta parla chiaro il privilegio di laurea);
di poter conseguire in Campidoglio l'onorificenza bramata. Fu esaudito; ma la
cerimonia doveva essere presieduta da un rappresentante del re Roberto; e'
sol quando risultò manifesta l' impossibilità che codest' inviato giungesse in
tempo, il .Senatore di Roma deliberò d'incoronare di sua mano il poeta, dichia-
rando tuttavia di farlo " auctoritate praefati domini Regis „ (significantissima
per noi siffatta precedenza assegnata a Roberto); e, quindi, del senato e del
— 113 —
popolo romano. Insiem colla laurea il Petrarca fu insignito della " potestas
" ubique legendi „, già da noi dichiarata, e di tutti i privilegi, immunità ed
onori, " quibus hic vcl ubique terrarum uti possunt vel posse sunt soliti libe-
" ralium et honestarum artium professores „. E questa è, insomma, e 1' ha ve-
duto anche Hortis, op. cit. p. 12, una * promozione „ magistrale in piena regola,
un " convento „ beli' e buono.
Dopo di che viene naturale il domandare se siano proprio nel vero tutti
coloro i quali, sulle orme d' alcuni amici e contemporanei del Petrarca, hanno
gareggiato fin qui nel descriverci la cerimonia del 9 aprile 1343 come un fatto
di enorme importanza, un raggio di luce che rompe inattesa le tenebre d' un
età oscurissima (Rcumont), iniziatore d'una nuova era di cultura ( Gregorovius );
tale insomma che la rinnovazione morale ed intellettiva di Roma ne fu avvan-
taggiata assai più che dalla sommossa di Cola di Rienzi (Hortis). Certo chiunque
pensi e scriva cosi, fa il giuoco del Petrarca, il quale si sforzò, dissimulando abil-
mente i maneggi, mercé de' quali, forte dell'appoggio di pochi potenti, era
riuscito a piegare ai propri disegni un volgo incapace di comprendere i moventi
segreti della sua condotta; di far comparire la cerimonia, di cui fu il prota-
gonista, come un avvenimento nuovo, inaudito. Ma fare il giuoco del Petrarca,
non è giovare alla storia.
("") Zen. da Pistoi.\, La piet. fonte, ed. Zambrini, Bologna, 1874, cap. VII,
terz. 39-40, p. 54.
C) Coluccio stesso, che aveva ereditato dal Boccaccio il culto per l'Ali-
ghieri, non sa però nascondere il rammarico che 1' uso del volgare avesse im-
pedito al cantore dell'oltretomba d'alzarsi al disopra d'Omero e di Virgilio:
" Sentio tamen alìum recte — scriveva a Leongiovanni Pierleoni —, nisi fallor, tam
" latiali quam graeco praeferendum Homero, si latine potuisset sicut ma-
" terni sermonis elegantia, cecinisse „ Epistolario lib. XII, ep. VII, v. Ili, p. 491.
C') Cf. pag. 49 di questo volume.
(") Gherardi, op. cit., par. I, p. 107 sgg., doc. I.
('*) Credo d'aver dimostrato fin dal 1883, contro l'opinione del Morelli (in
Gherardi, op. cit., p. XXXIV sg. ) che lo Studio nel 1321 era già aperto, e vi
leggevano in diritto Osberto Follati da Cremona ed Andrea Ciafferi (Giorn. Stor.
della letler. ital., v. I, p. 103). Ora aggiungerò che fin dal principio del 1320 si
trovava anche a Firenze ad insegnarvi " in arte grammatica et in aliis artibus
" et scientiis , (vale a dire logica e filosofia), quel Guicciardo da Bologna, cele-
berrimo grammatico, al quale si deve il commento all' Ecerinide del Mussato,
con cui ebbe cordiali rapporti d' amicizia. Guicciardo si trattenne a Firenze
almeno tre anni: cf. Gherardi, op. cit., par. II, doc. I, 9-1 1 Ag. 1320; p. 278-79,
doc. Ili, IV, 25-27 febbr. 1321, 28 febbr. — i marzo 1322. Questa interessante
notizia rimase del tutto sconosciuta a quanti s' occuparono negli ultimi tempi
del fratello di Bertoluzzo: cf. cosi P.\drix, Lup. de Lup. Canti., p. 44; Colfi, op.
cit., p. 425 sg. E chi sa se la presenza di lui, qui in partibus omnibus Lombar-
diae qttam Tusciae doctor doctorum in gramatica reputatttr, come scriveva un
contemporaneo, fu senz'effetto sovra i disegni di Dante?
NOVATI. 8
IV.
COMK MANFREDI S' K SALVATO.
La salvazione di Manfredi è tal problema che die sempre pa-
recchio filo da torcere ai commentatori di Dante; agli ortodossi
soprattutto, i quali non seppero mai troppo da che parte rifarsi
per dimostrare non aver il poeta peccato d' irriverenza verso la
Santa Chiesa, fingendo che uno scomunicato avesse potuto ritro-
vare presso Dio quella misericordia che dai ministri di lui eragli
stata inesorabilmente diiiiegata ('); tanto pili che dall'altro canto
quanti non sono della Chiesa soverchiamente teneri si sono ralle-
grati sempre nell' udir l' Alighieri sentenziare con tant' austera
fierezza, che per maledizione di sacerdoti
si non si perde
Che non possa tornar 1' eterno amore,
Mentre che la speranza ha fior del verde (-) ;
e ne hanno dedotto che Dante nel far grazia a Manfredi erasi
proposto un elevatissimo fine politico e morale {^). Ma comunque
sia di ciò, che non è del mio istituto d' impacciarmene, accanto
a cotesto quesito ne rimane pur sempre oscuro un altro: su quali
fondamenti cioè il poeta abbia poggiata V affermazione sua co-
tanto franca ed aperta che lo Svevo non è dannato, anzi salvo,
benché un alto " divieto „ lo costringa ad errare fuor de' gironi,
in cui le anime purganti s' affinano,
Per ogni tempo eh' egli è stato trenta
In sua presunzion, se tal decreto
Più corto per buon preghi non diventa (*).
— n8 —
Or alla soluzione di siffatto quesito vorrei io contribuire, ove mi
torni possibile, colle brevi note che seguono.
Per chi consideri le opinioni religiose e politiche dell' Alighieri
e ripensi l' inesorabil condanna da lui pronunziata contro il grande
Federigo II, rinchiuso in eterno dentr' una delle infocate arche
che fanno " varo „ il luogo della città, " che ha nome Dite „,
la salvazion di Manfredi si deve presentare certo a tutta prima
quasi inesplicabile. Della Chiesa anche il figlio era stato innanzi
tutto nemico; meri acerbo del padre, quest' è vero (''), ma nemico
insomma, e tale nemico che mori scomunicato. Pure la ribellion
contro Roma non è il pili grave de' suoi peccati. Ei n'ha com-
messo di maggiori; ed anche senza tener calcolo delle assurde
accuse, onde 1' odio guelfo tentò insozzarne la fama; — accuse alle
quali r animo generoso di Dante sdegnò per fermo di prestar
fede — d' " orribili „ addirittura. Non ebbe egli grido, ahimé
troppo ben fondato, di miscredente (")? Non condusse vita, come
il Villani direbbe, " epicurea „, sicché, ove fortuna gli avesse
più lungamente sorriso, Italia tutta sarebbe per opera sua tornata
in " fonte di libidine? „ C). Non corse voce ch'egli con arti ne-
fande fosse solito sollecitare l'aiuto di potenze infernali? (■")
Certo in tutto questo cumulo d' accuse lanciate contro il principe
svevo, r Alighieri avrebbe ritrovata la più ampia giustificazione
dell' operato suo, quando nel " caldo „ monumento, dove aveva
gittato il magnanimo Federigo, si fosse deciso a precipitare pur
esso Manfredi.
Il poeta volle invece, quest' è fuori di dubbio, sottrarre uno
almeno di quegli " illustri eroi „, intorno al capo de' quali aveva
nel De viilgari eloqnentia intrecciato si fulgido serto di gloria f ).
agli orrori d' averno. E Manfredi fu il prescelto; mezzo a ciò la
sua conversione in fin di vita. Or di cotesto ritorno a Dio, che
il " nipote di Costanza imperatrice „ avrebbe compiuto dopo che
gli fu " rotta la persona di due punte mortali „, onde derivò
contezza il poeta? Volle egli, com' è stato argutamente affermato,
valersi ancora una volta di quel " diritto di grazia „, che s' era
come a dir riserbato per salvare alcuni celebri peccatori ('°j; o
— 119 —
fu in quella vece guidato e direi quasi sforzato a mostrarsi be-
nigno verso Manfredi da voci che corressero ai suoi giorni in-
torno alla morte del principe biondo ed infelice, e lo volessero
redento ad onta de' papali divieti?
Questi dubbi s' erano affacciati già alla mente de' pili antichi
commentatori della Comcdia; e tra gli altri udiamo esprimerli
con maggiore vivezza que' due che godettero d' una particolare
estimazione a' tempi loro, perché gravi e reputati dottori: Fran-
cesco da Buti cioè e Benvenuto da Imola, Intento a sciogliere
r ingarbugliato nodo della scomunica, che pareva dichiarata dal
poeta inefficace, il maestro pisano scrive: " Et avendo proposito
" (lo scomunicato) di ritornare (all'obbedienza) e volendo; ma
" non potendo, sopravvenendo la morte, anco è tanta la miseri-
" cordia di Dio che lo riceve nella sua grazia; e se questo pro-
" posito e questa volontà fusse nota ai pastori, ancora elli lo ri-
" metterebbeno L' autore nostro finge che questo pentimento
" fusse nel re Manfredi quando venne a la morte, per mostrare
" questa sentenzia e dichiaragione sopra questo dubbio, la quale
" è verissima; ma se lo re Manfredi ebbe questa contrizione a
" la fine, questo non sa se non Dio „ ("). Ed il Rambaldi a sua
volta: Et Ine nota quod aliqiii dicunt quod Manfrcdus in cxtremo
rcdivit ad Deimx; sed certe istud scire non potuit poeta, quia Man-
frcdus iìicogniitis morttms est in medio ardore belli . ... ('").
Or s'avvertano qui le parole di Benvenuto: " taluni dicono
" che Manfredi sul punto di morte tornasse a Dio „; le quali, o
m'inganno, concedono legittimo appiglio a congetturare che ai
tempi del grammatico imolese vigesse ancora una tradizione, in
base alla quale si narrava che lo Svevo, prima di spirare 1' anima
invitta, si fosse rivolto, proprio come Dante vuole, a quell'infi-
nita Giustizia che è insieme infinita Clemenza. Posto quindi che
siffatt' opinione corresse per la penisola, già vivo 1' Alighieri, dif-
ficilmente si potrebbe negare eh' ei 1' avesse conosciuta e se ne
fosse fatto 1' eco nel poema immortale.
Però taluno osserverà forse che le parole di Benvenuto sono
in fin de' conti troppo vaghe, perché lecito divenga cavarne ap-
I20
poggio per un' ipotesi di tal fatta. Chi ci assicura invero che la
diceria da lui raccolta sia proprio anteriore all' apparizione della
Conicdia? E se invece di riconoscere in essa il fonte, dond' è
scaturito 1' episodio dantesco, si dovesse semplicemente vedervi
una derivazione di questo? In mezzo secolo e più il tempo non
sarebbe davvero mancato, perché una credenza che la lettura
della Comcdia aveva fatto germogliar nella mente di molti, si
fosse radicata cosi da parer sorta indipendentemente da quella.
In tal caso si correrebbe il rischio di scambiare colla causa
r effetto.
Non manca però, e conviene ascriverlo a nostra buona ven-
tura, il modo d' approfondire alcun poco l' indagine e di metter
in sodo che le voci, cui allude il Rambaldi, dovettero realmente
propalarsi tra le genti italiane prima ancora che Dante ponesse
mano al sacrato poema. Un racconto, al quale coteste voci hanno
pòrto argomento, ci è difatti pervenuto in due redazioni, diverse
per età, per indole, per provenienza; e poiché fin qui nessuna
di esse è stata presa in seria considerazione, cosi penso non
riuscirà superfluo sottoporle ad accurata disamina ('^).
Dacché niun uomo vivente poteva, secondo la comune sen-
tenza, farsi testimone della conversion di Manfredi e malleva-
dore quindi della salvezza sua, fu giuocoforza ricorrere, per con-
seguire d' entrambe notizia, a mezzi soprannaturali. Ed ecco
quanto a tal proposito ci sa narrare l' Anonimo commentator
fiorentino, tratto alla luce dal Fanfani: " A la cagione per che
" r Auttore mette qui il re Manfredi fra gli eletti, si risponde che
" due furono le cagioni; 1' una che 1' Auttore vuole dimostrare,
" per confortare altrui, acciò che niuno si disperi, che Iddio,
" quantunque 1' uomo sia peccatore, se nello estremo della vita
" si pente, il riceve a misericordia .... La seconda cagione fu
" però che si truova che Gonstanzia fu giustissima et buona
" donna; onde, sappiendo ella la vita del padre suo, eh' era stata
" disonesta, et nimico di Santa Chiesa, essendo uno santissimo
" romito in Cicilia a quello tempo, in una montagna presso a
" Mongibello, questa Gostanza andò a lui, et pregollo che pre-
— 121
" gasse Iddio che gli rivelasse se il re Manfredi era perduto o
" no. Il romito, fatta l' oratione et il prego a Dio, gli disse
" coninie Iddio gii rivelò che Manfredi era fra gli eletti in Pur-
" gatorio „ (•<).
Ma questa divina rivelazione, ond' è, senza accennarla, pre-
supposta la conversione del moribondo sovrano, non fu la sola
che soddisfacesse la bramosia di conoscerne le sorti oltremon-
dane, viva certo tra i contemporanei suoi. Al cielo infatti viene
a contrapporsi 1' inferno, e della salvezza di Manfredi, curioso a
dirsi!, sorge mallevadore quello spirito maligno con cui, a dar
retta alla guelfa leggenda, il figlio di Federigo II aveva stretti
vivendo patti abbominevoli ('^). Codesta nuova versione del rac-
conto, nella quale un ossesso pugliese prende il posto dell'eremita
siciliano, cosi come il demonio quello di Dio, ci è offerta dal ca-
pitoletto seguente dell' Imago mundi di fra Jacopo da Acqui:
Quid factum est de anima kegis Manfredi
Posi lux fuit iti Apulia quidam obscssus a dyabolo et loquc-
batur de divcrsis, qucm quidam iiitcrrogavit dicens : " die mi/ii
" si sa/vus est rex Manfredus „. cui respondit dyabolus: " quitique
" vcrba salvaruiit eum, sicut tibi dicet comes Hcttricus de illis quin-
" qne ver bis „. qui respondit dicens: " quando rex Manfredus ce-
cidit in morte, ultima verba sua fucrunt ista : Deus propitius esto
ìiiilii peccatori. „ ("^).
Siamo cosi di fronte a due narrazioni, le quali, sebbene a
tutta prima, perché mirano a mettere in chiaro lo stesso fatto
— la salvazione di Manfredi — e si valgono per riuscirvi del
medesimo espediente, — la rivelazione soprannaturale — sem-
brino aver molto di comune, in realtà poi, più minutamente esa-
minate, finiscono per apparirci 1' una indipendente dall' altra. Nella
prima infatti è la figlia stessa dell'estinto che, incerta sulla sorte
toccatagli, si rivolge ad un pio solitario, e ne consegue un ora-
colo atto a dissipare i suoi timori; nella seconda invece un ignoto
purchessia, spronato dalla curiosità, sollecita il diavolo, entrato
in corpo ad un ossesso, perche voglia fargli palese che sia se-
guito del re svevo dopo la morte. Ed il demonio lo compiace
bensf, ma solo in parte; che dopo aver affermato essere l'anima
di Manfredi in luogo di salute, lascia la cura di spiegare come e
perché ciò sia avvenuto ad un nuovo personaggio, un uomo,
cioè, che è chiamato il " conte Enrico „. Come si vede, quanto
compiuto, coerente nella semplicità sua risulta il primo racconto,
tanto incompleto, sconnesso, oscuro s' appalesa invece il secondo.
Ad onta di ciò, se taluno domandasse quale de' due ci sembri
degno di maggiore considerazione, io non esiterei un momento
ad asserire che la palma spetta a quello tramandatoci dal cronista
piemontese. E la ragione di siffatta preferenza risulterà manifesta
da quanto or vengo a dire.
Certo neppure la novelletta, di cui l'Anonimo commentator
fiorentino, vissuto, com' è noto, sul cader del Trecento, s' è fatto
l'espositore, non deesi disdegnare. Sgombrato dopo un po' d' esi-
tazione il sospetto che a farla nascere abbia cooperato 1* influsso
dell'episodio dantesco, io non vedrei motivo di negare ch'essa
trovi il suo fondamento in una tradizione popolare. Era ben na-
turale che il pensiero di far intervenire Costanza, buona e pia
principessa, in prò dell' anima paterna, germogliasse spontaneo
nella commossa fantasia di quanti erano stati sudditi di Manfredi
e sotto la " mala signoria „ del lupo angioino non avevano tar-
dato a rimpiangere, accorati, il saggio e benefico governo del-
l' " agnello „ svevo. Dirò di più. Non sarebbe nemmeno impro-
babile che r aneddoto conservato dal tardo glossatore avesse
una base nella realtà; che, cioè, l'andata di Costanza ad un ere-
mita siciliano in fama di santità fosse veramente avvenuta. D'ana-
coreti, basiliani o no, poco monta, che godesser nome di profeti
e di santi, nell' isola del fuoco dovevano trovarsene ancora non
pochi sullo scorcio del Dugento ('"); né io vorrei respingere come
assurda l'ipotesi che la " genitrice dell' onor di Cicilia e d'Ara-
" gona „ avesse affrontati i disagi d' un' aspra salita per sollecitar
da uno di loro il responso atto a ridonarle la calma ed a ravvi-
vare, confortandolo di speranza, il suo zelo per il bene.
— 123 -
Pure la narrazione cosi scucita di fra Jacopo d' Acqui eccita
in noi curiosità più intensa, perché ci presenta de' problemi ai
quali non riesce facile il porgere adeguata risposta. Ed innanzi
tutto avvertiamo che su di essa il poema sacro non ha davvero
esercitato alcun influsso. Né dico questo, perché io tenga per
fermo che tra il 1330 ed il 1340, gli anni cioè ne' quali il Bellin-
geri compilò l'opera sua ('*), la Comedia fosse ancora scono-
sciuta in F^iemonte; anche se le cose stessero difatti cosi, niun
conforto ne deriverebbe all' opinione nostra, giacché Jacopo
d' Acqui, da buon domenicano qual fu, non rimase certo rin-
chiuso tutta la vita nell' angusta cerchia della città nativa, ma di
mondo ebbe a vederne parecchio; sicché non potè mancargli, o
prima o poi, il destro di gettare gli occhi sul sacro volume. Ma,
dato pure ch'egli abbia tenuto tra mani la Comedia, certo è
eh' essa in nessun luogo del suo libro ha lasciato traccia. E il
fatto riesce tanto pili degno di nota, in quanto che la cronaca di fra
Jacopo altro non è se non un centone messo insieme senza cri-
tica, ma in pari tempo (vantaggio non lieve per noi) senza ri-
tocchi ('^). Or tutto quel che concerne alle vicende della casa di
Svevia vi apparisce esposto in cotal maniera da poterlo ragione-
volmente supporre scaturito da fonti che, se non saranno a dir
schiettamente popolari, possono però e debbono giudicarsi tali,
in cui elementi popolareschi assai nitidamente si rispecchiassero.
E questo, che risulta chiaro per Federigo II, per Pier della Vigna,
ma sopra tutto per Corradino ('"), ci sembra essersi verificato
anche per Manfredi.
Se dopo queste premesse ci faremo a studiare con maggior
attenzione la novelletta dell' Imago mundi, non tarderemo ad
accorgerci com' essa abbia a considerarsi quasi il sunto molto
sommario ed imperfetto d' una più ampia narrazione anteriore ('').
Che Manfredi sia in luogo di salute v' è dichiarato dalle asser-
zioni di due testimoni: quella dell'indemoniato e l'altra, che
giunge proprio inattesa, d' un personaggio qualificato come il
" conte Enrico „. Or chi è costui, del quale si parla come d' in-
dividuo ben conosciuto, mentre nessuna notizia ne è stata per
— 124 —
1" innanzi arrecata? Clic lia egli a vedere nel racconto del Bel-
lingeri ? E perché a lui è noto quanto tutti gli altri ignorano, le
parole cioè pronunziate da Manfredi agonizzante? A coteste in-
terrogazioni fra Jacopo, se potesse udirle, non saprebbe davvero
che cosa rispondere; ma esse avrebbero certamente trovata una
piena soddisfazione, ove a noi fosse giunto il testo, eh' egli ha
cosi malamente riepilogato. Quel testo, a mio avviso, dovett' es-
sere insomma un' esposizione pili o meno poetica e romanzesca
delle vicende ultime di Manfredi, in cui sulla morte sua eran dati
ragguagli che niun' altra delle fonti oggi conosciute ci ha conser-
vati. E tra essi probabilmente notavasi anche questo: che Man-
fredi non cadde già, inosservato ed ignoto, quando più ferveva
la battaglia, ma fu assistito, moribondo, da un fedele, il quale non
erasi mai scostato dal suo fianco, al pari dell' eroico Teobaldo
degli Annibaldi, ma che, più fortunato di lui, aveva potuto sot-
trarsi vivo al brutale furore de' " ribaldi „ francesi f ^).
Or codesto " conte Enrico „ che raccolse, secondo la tradi-
zione imperfettamente riferita dallo scrittore deW linaio ìiiundi,
le parole supreme dello Svevo, sarà desso da identificare con
qualche personaggio realmente vissuto? Per verità le narrazioni
storiche della rotta famosa non serbano memoria che tra i Conti
i quali nel febbraio del 1266 facevano scorta a Manfredi, uno ve
ne fosse cosi nominato; ma, come ben si comprende, questo si-
lenzio non può essere giudicato tanto grave da obbligarci ad
escludere la probabilità che nell' esercito svevo militasse in al-
lora un conte Enrico. Tanto più che se noi ci volgiamo a ri-
cercare nei documenti contemporanei qualche notizia sopra co-
loro i quali più efficacemente colla spada e col senno aiutarono
il principe di Taranto a ricuperare dopo la morte di Corrado
r eredità paterna, non tarderemo a mettere in sodo come in
mezzo ad essi abbia primeggiato più d' un Enrico. Passiamo or
dunque brevemente in rassegna questi gagliardi sostenitori della
causa sveva, per tentar di rintracciare colui, al quale il racconto
dell' Acquense vuol essere riferito.
Primo tra loro ci si affaccia Enrico conte di Sparvara, illustre
rampollo di queir antico e nobilissimo ceppo de' conti palatini di
Lomello, il quale sugli inizi del secolo tredicesimo s' era già in
pili rami partito ("). Nato da una stirpe che, dopo aver domi-
nato per secoli, quasi sovrana, in Pavia, era stata costretta ad
irscirne dall' indomabile energia tli quel volgo che assorgeva a
dignità di popolo nel nascente comune; e rifugiatasi nel contado,
aveva dovuto poi ritornare umiliata e vinta a vivere dentro la
cerchia delle mura cittadine, posciaché i Pavesi a furia ebbero
smantellata e distrutta la superba sua rocca {^*); Enrico di Sparvara
nutriva naturalmente in cuore sentimenti ghibellini. Le più antiche
notizie che noi possediamo intorno a lui ce lo mostrano infatti
già entrato nelle buone grazie dell' imperator Federigo, il quale nel
febbraio 1219, con suo diploma dato dai dintorni di Spira, confer-
mava ad Enrico di Guido ed a Roffino di Roffino di lui cugino tutti
i privilegi che la casa di Lomello vantava ab antico C^''). Ma colla
Chiesa invece il conte di Sparvara non sembra si curasse troppo
di mantenere buoni rapporti, se ne giudichiamo dal fatto che, mol-
t' anni dopo, e cioè nel 1237, il vescovo di Pavia era costretto a
fulminare contro di lui, colpevole di violenze a danno di certe
monache d' Acqui, la scomunica {'"''). A questi contrasti colle
autorità ecclesiastiche dovettero probabilmente accoppiarsene altri
non meno fieri coi comuni di Pavia e di Vercelli, i quali tutti
ebbero 1' effetto di rendere il feudatario di Lomello sempre più
propenso alla parte dell' impero, da cui soltanto poteva sperare
soccorso; né s'ingannava, giacché quando nel 1248 Federigo II
si recò a Vercelli e vi si trattenne più mesi, egli impose a quel
comune, che appunto a lui s' era rivolto per ottenere giustizia
pe' canonici della cattedrale contro i soprusi de' conti di Lomello,
quale podestà Enrico di Sparvara ('"). La sparizione del sovrano
illustre, avvenuta di li a poco, non scemò nel nostro 1' attacca-
mento alla dinastia sveva; anzi i rapporti suoi coi figli di Fede-
rigo divennero più stretti. Ed infatti nel 1253 noi lo vediamo,
disceso nel!' Italia meridionale ed insignito del titolo di conte di
Marsico, reggere in qualità di regio capitano e giustiziere la terra
di Lavoro ed il contado di Molise {'^).
120
Alla morte di Corrado, mentre Roma fa ogni suo sforzo per
strappare al principe di Taranto il retaggio paterno, Enrico da
Sparvara figura tra i più strenui campioni di Manfredi. Né sono
soltanto documenti cancellereschi che ci parlano allora di lui; ma
delle sue gesta si fanno banditori anche gli storici. L'espugna-
zione di Foggia (2 die. 1254) cosi, il primo notabile fatto d'armi
di quella campagna, che doveva condurre Manfredi all'acquisto
dell'agognata corona, fu dovuta in gran parte all'audace sua
iniziativa ('^}. Più tardi, quando 1' esercito papale s' era raccolto a
Guardia de' Lombardi, egli assunse di nuovo una pericolosa mis-
sione, che, grazie all' avvedutezza di cui die prova, riusci a buon
fine (^^). Sicché nel febbraio del 1256, nella corte tenuta a Bar-
letta, poiché la vittoria gli aveva arriso, il nuovo sovrano ricon-
fermava al barone lombardo, meritato premio di tanti servigi,
la contea di Marsico nuovo, già concedutagli da Federigo o da
Corrado (^').
Che in questo prode, il quale fu cosi cordialmente devoto ai
tre ultimi principi svevi, fosse da riconoscere il " conte Enrico „
invocato da irà Jacopo d'Acqui in testimone del suo racconto,
io credetti tempo addietro probabile, soprattutto perché stimavo
che nella patria del cronista il nome di quell' illustre personaggio
dovesse aver suonato, anche mezzo secolo dopo la sua scom-
parsa, famigliare ancora o almen noto a moltissimi. Ma cosi con-
getturando, non avevo posto mente ad un fatto, che tuttavia pili
d' uno tra i recenti storici dell' età sveva erasi curato di porre
in rilievo: quello cioè, che un documento spettante ai primissimi
tempi del reggimento angioino rende invece molto legittima
r ipotesi che il conte di Sparvara si fosse spento qualche anno
innanzi alla rotta famosa, dove il fiore della baronia sveva trovò
si triste fine. In un' inquisizione sui feudi, che re Carlo fece di-
fatti eseguire all' intento di ridonare a coloro, i quali n' erano stati
spogliati dagli Svevi, le terre ch'avevano per 1' addietro posse-
dute, è ricordato come Ruggeri de* conti di Sanseverino recupe-
rasse la contea di Marsico che, tolta a lui, era stata concessa
prima ad Enrico di Sparvara e poi a Riccardo Filangeri. Or
— 127 —
come ben s' intende, Manfredi non avrebbe certo potuto con sif-
fatto dono beneficare il suo favorito, ove il feudo di Marsico non
fosse per la morte del conte Enrico divenuto vacante (■"^).
Tale era già 1' opinione di Giuseppe di Cesare ('"*), che il pro-
fessor Pasquale Del Giudice culi' autorità sua conferma, aggiun-
gendo insieme come il nome d' Enrico da Sparvara dopo il 1256
non s' incontri più nelle storie (■'^). Ed io non veggo maniera di
dissentire da critici tanto competenti. Mi sembra tuttavolta non
inutile osservare come non sia del tutto esatta la seconda asser-
zione, che d' Enrico si taccia interamente il nome dai cronisti a
partire dall' a. 1256. In realtà noi lo rinveniamo ancora molto
tempo appresso. Giunti infatti col racconto loro al 1271, gli An-
nali piacentini ghibellini espongono come in quell' anno il conte
Enrichetto di Sparvara, cittadino pavese, si portasse oltremonti
per sollecitare Federigo III, re di Sicilia e di Germania, in nome
del proprio comune e d'altri collegati, ad affrettare la sua discesa
nella penisola ("). Ora se noi dessimo retta a chi compilò gli
indici del tomo decimottavo de' Monumenta Germam'ae histo-
rica (''), cotest' Enrichetto dovrebbe essere identificato coli' altro,
del quale siamo sin qui andati esponendo succintamente le
vicende.
È questo credibile? No davvero. Enrichetto, conte di Spar-
vara, di cui ragiona 1' Annalista piacentino, è certamente il mede-
simo che, dieci anni dopo, nel 1281-82, si rinviene a Vercelli in
qualità di podestà del comune ('*'). Si tratta quindi, come chiaro
risulta, d' un nipote oppur d' un cugino del conte di Marsico, na-
turalmente molto più giovine di lui ed a lui sopravvissuto. Però
anche quest' Enrico, chiamato, second' io penso, Enrichetto, per
distinguerlo dal valoroso espugnatore di Foggia, fu tra coloro i
quali condivisero le sorti di Manfredi. Il suo nome figura infatti
in mezzo a quelli de' baroni, che circondavano il principe di Ta-
ranto, prestantcs ei consiliiuìi, anxiliiaìi et favor em, in quella let-
tera del 25 marzo 1255, colla quale papa Alessandro IV, rendendo
conto al mondo intero del " colloquio „ da lui tenuto in Napoli
coi fedeli suoi, dichiara il ribelle figliuolo di Federigo II decaduto
— 128 -
da ogni suo titolo ed onore (^'*). Nulla di più probabile che En-
richetto da Sparvara abbia, come le folgori papali, sfidati pure
a Benevento i brandi angioini.
Nel conte di Loniello che, a differenza dell' altro pili anziano,
Jacopo da Acqui, potrebbe avere conosciuto di persona {^^), a noi
riescirebbe lecito per siffatta guisa riconoscere il misterioso te-
stimone dell' agonia di Manfredi, di cui andiamo in traccia, se un
terzo personaggio non si facesse innanzi a vantar ancor esso
qualche diritto alla nostra attenzione. E questi Enrico di Filippo
conte di Ventimiglia, chiamato talvolta anch' egli ne' documenti
contemporanei col diminutivo d' Enrichetto, il quale trapiantò nel-
r isola di Sicilia 1' antica sua stirpe. Marito d' Isabella contessa
di Gerace, investito da Manfredi, che lo diceva suo fedele e con-
sanguineo, di molti feudi e tra gli altri del contado d' Ischia
maggiore, mandato verso il 1260 dal sovrano svevo a reggere in
qualità di suo vicario la Marca Anconitana {*^); il valoroso ba-
rone fu, come ben si comprende, compagno a Manfredi negli
ultimi casi di sua vita; prese parte alla battaglia fatale e, seb-
bene vi corresse grave pericolo, giunse ad uscirne incolume, ri-
parando, secondoché scrive Saba Malaspina, in Sicilia (^'). E due
anni appresso tra i partigiani di Corradino, che nell' agosto si rac-
colsero a convegno presso d' Ischia, egli pure ricompare {*^).
Non a torto pertanto potrebbe qualcuno vedere nel consan-
guineo di Manfredi, la vita del quale si prolungò fino quasi al-
l'ultimo decennio del secolo tredicesimo (^^), colui che ne raccolse
le parole novissime. Ma le mie preferenze sarebbero pur sempre,
debbo confessarlo, per il barone pavese, per Enrico di Sparvara,
che non solo, come s'ebbe già occasione di accennare, fu ancor
egli coetaneo o quasi dell'autore dell' Imago mundi, ma nel corso
della sua esistenza si trovò probabilmente ad avere, al pari del
suo congiunto ed omonimo, il conte di Marsico, come possessore
di feudali diritti, frequenti relazioni con istituti e persone spet-
tanti a quella città per l'appunto, donde il cronista aveva tratto
i natali {*^}.
Ma, dacché siamo in cammino, non potremmo noi far ancora
— 129 —
un passo innanzi e cercar di stabilire qual fosse cotesta narra-
zione della battaglia di Benevento, in cui tanto notabil parte era
stata concessa al valoroso conte di Sparvara? Il racconto del-
l' Imago mundi, può forse, cosi mutilo coni' è, recare qualche lume
anche sopra questo punto. Le parole che, per quanto si raccoglie
da esso, Manfredi avrebbe pronunciato innanzi di morire, sareb-
bero state le seguenti : Deus propitius csto niilii peccatori. Ora io
non credo d' andare lungi dal vero riconoscendo in queste
cinque parole, che si pretendono uscite di bocca allo Svevo
spirante, un verso ritmico di quattordici sillabe; un verso, il
quale, singolare combinazione! è quasi identico ad altro che
forma parte d' un componimento goliardico, venuto alla luce nel
secolo dodicesimo ed in Francia, ma divulgatosi rapidamente per
tutt* Europa, e cosi popolare ancora tra noi quasi cent' anni dopo,
che fra Salimbene non disdegnò di trascriverlo intero nella Cro-
naca sua, la Confcssio Priviatis :
Tunc occurrent citius angelorum chori :
Sit Deus propitius mi hi peccatori (■*■•).
Ma se la suprema prece di Manfredi era nel documento di cui
Jacopo da Acqui ci ha conservato comecchessia un compendio,
racchiusa dentro 1' ambito d' un verso, non sarà lecito congettu-
rare che il documento stesso fosse per intiero versificato? Ove
s' accogliesse codest' ipotesi, noi potremmo concludere che a com-
pilare il suo capitoletto 1' autore dell' Imago mundi siasi giovato
d' un ritmico componimento latino, nel quale coi modi stessi che
furono tra di noi a mezzo il Dugento tanto graditi ai dettatori
di poesie bellicose e politiche, ma con sentimenti ghibellini, erasi
cantata la pugna presso Benevento e pianta la morte di Man-
fredi (^•=).
Che l'Alighieri poi abbia conosciuto 1' una o l'altra delle due
tradizioni fin qui analizzate, le quali tendevano per diversa via al
fine medesimo, io non oserei affermare; ma la cosa in ogni modo
avrebbe scarsa importanza. Giacché questo premeva a noi di met-
NoVATf. 9
— I30 —
tere in chiaro: che il pensiero di collocare Manfredi tra gli eletti,
piinia ancora che 1' Alighieri lo concepisse, era già sorto spon-
taneo nella coscienza di una parte almeno degli Italiani, i quali
r aveano in piti e varie guise manifestato, opponendo cosi una
magnanima resistenza al furor cieco d' accusatori che non teme-
vano di profanare la santità della morte (^'). E poiché quest' in-
tento si è raggiunto, mi sembra lecito afiFermare che la salvazione
di Manfredi non germinò nella fantasia del poeta, ma gli fu sug-
gerita dalla tradizione {*^). Studioso, quale ei fu, di leggende e
di popolari racconti, Dante dovette, giovine ancora, porger avido
orecchio a quanto gli venivan narrando i rappresentanti di quella
generazione, che ne aveva veduti i trionfi e la caduta, intorno
all'illustre figliuolo di Federigo II. E l'asserzione con insistenza
ripetuta che Manfredi non fosse morto impenitente, ma avesse
finito la parola nel nome divino, sicché crudele ed ingiusto era
stato il rifiuto di comporne la salma in terra consacrata, egli ac-
colse neir altissima mente per trarne più tardi inspirazione ad un
episodio sublime come poesia, solenne come ammaestramento.
NOTE
(') Cfr. ad es. G. Poletto, Dizionario Dantesco, Siena, 1886, v. IV, p. 219 e
V. anche l'edizione da lui curata della Coiitedia, Roma, 1894, v. II, p. 62.
("') Pnrg. Ili, 133 sgg.
(3) Cfr. F". d' Ovidio, E. Little, L' Eit/er de Dante in Nuova Antologia, se-
rie li, V. XV, 1879, p. 756 sgg.
{*) Purg. Ili, 139 sgg.
(^) Fitit in/esttis ecclesiae, dice il Ranibaldi, licet pater plus .... Cfr. Benven.
DE Rambaldis de Imola Coment, sup. D. A. Conioediant, ed. Lacaita, Florentiae,
MDCCCLXXXVII, tom. Ili, p. 109.
C") Cfr. G. Villani, Istorie fiorentine, lib. VI, cap. XLVl, LXXXVIII, ecc.
(") Unde si magno tempore vixisset, posuisset totani Ytaliatn in fontetn
libidinis (1. ita?) quod Ecclesia ad minimum devenisset. Cosi Fra Jacopo da
Acqui, Cliroiiicon Iinaginis mundi in Alonum. Hist. Patriae, Script, tom. Ili,
e. 1592, in quel capitolo De vanitatibus regis Manfredi, che è la descrizione della
corte di Puglia qual poteva farla un giullare, ma riprodurla un frate.
(**) Nel Rliytlimtis de Victoria Caroli, che è stato pubblicato da A. Blsson,
Die Scìilacht bei Alba swiscli. Konradin u. Karl von Anjou, 1268 in Deutsche
Zeitschr. fi'ir Gcscliichtswissenschaft, v. IV, 1890, p. 275 sgg., si leggono questi
versi :
Matfredus, qui magi e e nitebatur carte,
Novit de qua Carolus servicbat arte.
Cfr. anche Cian, Sulle orme del Veltro, Messina, 1897, P- 28.
(9) Cfr. De vulg. elocj. I, xii.
i}'^) Cfr. F. d'Ovidio, Guido da Montefeliro nella D. C. in Nuova Antologia,
serie III, v. XXXIX, 1892, p. 236 sgg.
(!') Franc. da Buti, Coiiim. sopra la D. C. di D. A., ed. Giannini, Pisa,
1858, tom. Il, p. 71.
(12) Op. e loc. cit. Degli altri commentatori antichi nessuno reca intorno
alla morte ed alla salvazione di Mjtnfredi ragguagli che valgano la pena d'essere
citati da noi.
(13) Al racconto di Iacopo da Acqui ha fatto una fuggevole allusione il Ne-
CRONi, La tomba di re Manfredi, in L'Alighieri, a. I. 1890, p. 105, e le sue parole
sono state riprodotte letteralmente dal Poletto, La D. C, v. II, p. 69. Un' altra
— 132 —
allusione si p^l^ rinvenire presso il Torraca, La scuota pocl. sic, in TV. Atìt.^
Serie III, v. I.IV, 1894, p. ^6ó. Della narrazione dell' Anonimo Fiorentino ninno
invece, eh' io sappia, prima d' ora ha discorso.
('^) Comiiifiito alla D. C. d' Anonimo Fiorentino del sec. XIV ora. per
la prima volta stamp. a cura di P. F anfani, Bologna, 1868, tom. II, p. 5) sggr.
[}•') Alle profezie in odio di Manfredi, che furon edite rial Lami e dal Bozzo,
ed altresì dal Winkei.mann, l'erse auf Kónig Manfred u. Karl von Anjou in
Forschuugen zar Dentsch. Gescli., XVIII, 1878, p. 477 sgg., e ricordate testé dal
CiAN, op. cit., p. 26 Sgg., devesi aggiungere pur quella che sta nel cod. I.aur.
Santa Croce PI. XX sin., 9, in calce alla trascrizione dell'opera di Valerio Mas-
simo. Essa ha questo di curioso che vien attribuita cosi qui, come in un ms.
Muoni, al diavolo : Versus diaboli contra Man/redimi. Cfr. Bandini, Cai. Codd.
Lai. Bibl. Med. Laiir., tom. 1\', e. 150 sg.
('<') Chronic. cit., e 1505.
('") Cfr. P. P. Rodotà, Dell' orig., progresso e stato presente del rito greco in
Italia, Roma, MDCCLVIII-LX, lom. II, lib. II, cap. VII, p. 131.
(18) Per il tempo in cui il Bellingeri dettò la oronaca v. la prefazione pre-
messa da G. Avogadro, all'edizione eh' ci ne curò, op. cit., p. 7.
(•") Un lavoro accurato d' indagine sui fonti dell' Imago mundi rimane ancora a
fare; per taluni recenti studi su di essa v. però Potthast, Bibl. In'st. m. aevi"^, I, 631.
('") E noto come della morte di Corradino Fra Jacopo dia particolari eh' ei
dice tolti dal racconto d' un testimonio oculare : Et qui fttit omnibus hiis prae-
sens scripto rnandavit . . . . Chron. cit., e. 1598.
(^') Anche il racconto della calata di Corradino in Italia si rivela a chi Io
legga con attenzione come uno stringatissimo sunto di più diffusa esposizione.
(^*) Cfr. Sabae Malaspinae, Rer. Sicular. lib. IH, cap. XIII in Muratori,
Rer. It. Scr. Vili, e. 829-30: lu.vta cadaver Manfredi compertum est corpus Theo-
baldi de Aniballis, qui semper in pugna Manfreduin e vestigio sequebatur.
('^) Questi rami, che nella seconda metà del sec. XII erano tre, salirono in
due secoli circa, a dodici, per quanto assevera il Dionisotti, Lomello ed i conti
palatini \n Illustrazioni star, corograf. della reg. subalpina, Torino, 1898, p. 15;
ma i principali rimasero però sempre quelli di Langosco e di Sparvara, il primo
de' quali vive tuttora, mentre il secondo s' estinse sulla fine del secolo XVIII
( cf. Dio.NisoTTi, op. cit., p. 15, n. 3) in Teodoro figlio di Francesco. I signori di
.Sparvara aveano tolto il nome da una terra della Lomellina, situata presso Gam-
barana ed oggi scomparsa ( da .Sparvara si nomina tuttavia anche adesso una
fraz. del comune di Gagliavola, Prov. di Pavia); la quale appare già ricordata
sotto la forma Sparoaria in un documento nonantolano del 993; cf. Robolini,
Notizie apparten. alla storia della sua patria, Pavia, 1826, voi. II, p. 280. E Spar-
varia dicevasi pur sempre nel sec. XIII ; ma nelle storie, per colpa de' copisti,
questo nome soffri alterazioni non lievi, talché il conte Enrico vedesi da più
scrittori, anche recenti, ricordato erroneamente quale signore di Sparnaria, Sper-
naria, Spreveria, ecc.
('^) Da Pavia i conti di Lomello furono cacciati nel 1024; la distruzione del
loro borgo e castello, perpetrata dai Pavesi, segui poi nel 1 155. Per la storia
— 133 —
antichissima di questa famiglia, della quale le origini rimangono oscure, oltreché
il GiuLiM, Mem. spett. alla storia. ... di Milano, Milano, 1854, v. II, p. 107, III,
439, ed il RoBOLiM, op. cit., voi. IV, parte I, p. 372 segg., v. anche G. Casalis,
Dizion. geogr. star, stalist. coiiuiierc. degli Sta/i di S. M. il Re di Sardegna, To-
rino, 1841, V. IX, p. 931 sgg. 11 lavoro testé citato del Dionisotti ofTre altresì
parecchie notizie; ma, come succede quasi sempre degli scritti di quel!" erudito,
è faragginoso ed inesatto.
(?5j Come risulta da tal documento, dato alla luce dal Roisolim, op. cit.,
V. IV, par. I, p. 375 sg., Enrico era figlio di Guido d' Aicardo. V. anche Dio.msotti,
op. cit. p. 15.
(•*') I documenti, che concernono alle contese insorte tra il conte di Lomello
ed il monastero di S. Maria d' Acqui, a cagione del convento detto " delle
Donne „, edificato sotto il titolo di S. Michele del Bosco su quel di Zibido
< sicché dicevasi ecclesifi S. Michaelis de Zebede), nella terra di Marza, sono stati
pubblicati da G. A. Moriondo, Monumenta Aquensia, Taurini, MDCCLXXXIX,
Pars I, e. 493 sg., n. 59, 60; Par. 11, e. 854. E cfr. pure Robolint, op. cit., v. IV,
par. I, p. 425.
(-") Ved. V. Mandklli, // connine di Vercelli nel ni. evo, Vercelli, 1858, to. I,
p. 308 sgg. Dai documenti consultati da quest' egregio erudito rilevasi che Enrico
durò in carica per un anno, a cominciare dal 1269. Egli intitolavasi Enricus pa-
lalinus Comes Lauinelli imperiali mandalo potestas Vercellarmn. Nel giugno del 1250
gli vediamo sostituito un suo congiunto, Goffredo di Langosco (Manuelli, op.
cit., to. Ili, App. Il, p. 276 sg. ).
('") Tanto risulta da un diploma di Corrado IV' in data 17 nov. 1253, che fu
ripubblicato da E. Winkel.mann, Ada Imperli inedita saec. XIII et XIV, Inn-
sbruck, 1880, v. I, p. 409 sg., n. 491, e che merita considerazione anche per
il fatto che vi appaiono fuse insieme in un solo ufficiale le funzioni del Capitano
e quelle del Giustiziere: cf. Ficker, Forsclning. cur Reichs-und Rechtsgesch. Ita-
ìiens, Innsbruck, 1868, v. I, § 203, 14; Capasso, Ilisl. diplom. regni Siciliae inde
ab a. i2jo ad a. 1266, in Atti della R. Accad. di Archeol., ecc., Napoli, 1874, v.
VI, par. Il, p. 56, n. 104: Boeh.mek, Regesta Imperli, W, Die Regesten des Kaiser-
reichs, 1198-1272, ed. Ficker, Innsbruck, 1882, p. 8^^, n. 4Ó15.
(?^) Cf. Nicolai de Iamsilla (o chi altri egli sia) Ilist. in Muratori /?«■>-. It.
Scr.io. Vili, e. 536; e cf. pure gli altri fonti contemporanei additati dal Capasso
op. cit., p. 87, n. 179, e dal Boeh.mer, op. cit., p. 856.
(30) Iamsilla, op. cit., e. 562 sgg. Il conte Enrico si parti da Montesano il
I giugno 1255 per esplorare le mosse de' papalini ch'erano a Bulfida. Allonta-
natosi dai suoi, cadde nelle mani de' nemici, ma, non avendo costoro indovinato
chi egli si fosse, potè svignarsela, grazie alla scaltrezza propria, ed all'aiuto d'un
manipolo d'arcieri saraceni che sovraggiunse opportuno.
Nel giugno del 1256 poi, lasciato da Manfredi nella terra di Lavoro come suo
capitano generale, espugnò i castelli di Sora e di Rocca d' Arce, che ancor op-
ponevano resistenza, talché ridusse tutt' intera quella provincia all' ubbidienza
verso il novello sovrano: cf. Iamsilla, op. cit., e. 581; Capasso, op. cit., p. 121,
n. 242; B0EH.MER, op. cit., p. 860.
— 134 —
(•''•) C(. Iamsii.la, op. cit., 0. 578 sg.; Capasso, op. cit., p. 115, n. 233; Boehmer,
op. cit., p. 859 sg., n. 4654: Dei. Giudice, Rice. Filangieri al lempo di Feder. II.,
di Corrado e di Manfredi in Arch. Star, per le Prov. Napoletane, a. XVII, 1892,
P- 537> 5-<2. Il Del Giudice, a proposito di questa investitura, notava essere
" dubbio „ se la prima concessione del feudo di Marsico novo al conte Enrico
tosse stata fatta da Federigo o da Manfredi; ma il documento del 1253, già da
noi citato, non lascia adito a dubbiezza di sorta: il da Sparvara non potè otte-
nere Marsico che da Federigo o da Corrado, se già nel 1253 n^ risulta in-
vestito.
('-) Il testo originale dell'Inquisizione è andato smarrito (cf. Dei. Giudice
op. cit., XVII, 542), talché oggi non se ne ha che un magro sunto, inserito dal
De Lellis ne'" Notamenti „ suoi sui fascicoli Angioini dell'Archivio di Napoli,
fatto conoscere dal Minieri-Riccio, / notamenti di M. Spinelli difesi ed illustrati,
p. 253. Cf. Capasso, op. cit., p. 349.
(33) G. di Cesare, Storia di Ma>ifrcdi re di Sicilia e di Puglia, Napoli, 1837,
V. I. p. 185.
(^*) Op. cit., XVII, p. 542, nota.
(35) Ann. Plac. Gihell. in Mon. Gerin. Hist., Script, to. XVIII, p. 553: " Eodem
" tempore comes Anrigetus de Sparroeria, civis Papié, prò comuni Papié
* ivit in Alamaniam ad ortandum et adcellerandum adventum domni Frederici
" tertii regis Scicilie et theutonicorum, qui cotidie prestollantur. Et predicta
" omnia acta sunt et tractata per marchionem Montisferati de voluntate domini
" Ricardi de Onibalibus et domni Octaviani et Oberti de Cotonaria et aliorum
" cardinalium ecclesie Romane, ad quorum curiam dictus Marchio de mense
* madii pcrrexit, etc. „. Cf. Robolini, op. cit., v. IV, part. I, p. 170 sgg., 181, il
quale, oltre questo, ricorda altri fatti, che valgono a provare come, ad onta della
sciagurata fine di Corradino (23 ap. 1268), non avesse cessato di prevalere in
Pavia la fazione ghibellina, di cui i conti di Langosco, Sparvara, Gambarana, i
signori di Sannazzaro, Pescarolo, ecc., erano i capi.
(36) Ved. p. 841.
(3") Maxdelli, op. cit., to. Ili, p, 278: " 1281. Podestà " Comes Enricus de
* Sparvaria „; p. 279: " 1282. Podestà " Enricus de .Sparvaria Comes Palatinus
" de Lomello „.
(3*) * In eodem quoque colloquio, presente ibi multitudine fidelium copiosa,
" comitem Henriketum de Sperveria.... et omnes alios familiares et
" fautores predicti Manfredi manifeste inonuimus eisque stride precepimus,
" ut a prefato Manfredo omnino discedcrent „. Lett. di papa Alessandro IV
in WiN'KELMAXN, op. cit., v. Il, p. 726 Sg., n. 1044.
(3^) Ove si supponga che Enrichetto fosse nato nel 1235, egli avrebbe toccato
i vent' anni al momento del colloquio di Napoli ed i trenta allorché prese parte
alla battaglia di Benevento. Talché quando si concedesse eh' egli sia vissuto an-
cora quarant' anni, la sua morte potrebbe reputarsi seguita verso il 1315. Ma
ne' primi lustri del sec. XIV era già uomo fatto per fermo anche l'autore del-
l' Imago ntundi.
(*") Parecchie buone notizie intorno a lui raccolse già illustrando la genea-
— 135 —
logia de' conti di Ventimiglia, da documenti sincroni P. Gioffredo, Storta delle
Alpi marittime in Moìt. Hist. Patriae, Script., II, e. 598 sgg. Altre ne aggiunsero
poscia G. Capasso nella sua già citata Hist, p. 201, n. 338, 338; p. 205, n. 3^3,
p. 313, n. 358: p. 313, n. 516, ecc.; e quindi, in tempi recentissimi, F. Savio,
/ conti di Ventimiglia nei sec. XI, XII e XIII in Giorn. Ligustico, XX, 1893,
p. ^56, .\6\ sg. Della parentela ond' era legato il conte d' Ischia a Manfredi è
resa testimonianza in un diploma di costui, che si può leggere in Winkelmann,
op. cit., V. I, p. 416 sg., n. 501.
(^') S. Malaspina Rer. Siciilar. Historia lib. Ili, cap. XII, in Muratori, Rer.
It. Scr. to. Vili, e. 829: " Galvanus, inquam, et Fredericus, Enricus etiam,
" qui Gallicorum faciem expavescens, in Siciliam profugus applicat, de Man-
" fredino exercitu tot supersunt „.
{**) Cf. Capasso, op. cit., p. 205, n. 3^3.
(<3) I documenti più recenti per data che lo ricordino, spettano al 1285; cf.
Savio, op. cit., p. 461.
{**) Fratr. Salimbenis Chronicon, Parmae MDCCCLVII, p. 44. Un' illustra-
zione critica e storica insieme della Coitfessio si può vedere in Hauréau, Notice
sur un ms. de la reine Christine etc, in Notic. et Extr. des Mss. de la Bibl. Nat.,
to. XXIX, par. II, p. 253 sgg. Nel verso che ci interessa, a tacer d' altre varianti,
alcuni codd. in luogo di mihi, dato da Salimbene, recano tanto oppure huic.
(<5) Non vogliamo però passar sotto silenzio come la prece che Manfredi
avrebbe mormorata morendo, risonasse spesse volte nell' iden t i e a forma, sulla
bocca del Serafico d' Assisi, quando più era assorto nelle mistiche sue contem-
plazioni. Ecco invero quanto scrive colui, eh' io persisto a ritenere il più antico
e più autorevole biografo di S. Francesco, fra Tommaso da Celano: " Quadam
" vero die .... locum orationis petit, sicut et saepissime faciebat, ubi, cum diu
" perseverarci... frequentcr replicans verbum illud: Deus, propitius esto
" mihi peccatori, quaedam laetitia indicibilis . . . . sensim coepit cordis eius
" intima superinfundere, etc. „: B. Tomm. da Celano Vita prima di S. F. d' A.,
ed. Amoni, Roma, 1880, cap. XI, p. 52. Or questo curioso riscontro è tale da
far nascere in noi il sospetto che la preghiera di Manfredi fosse una vera e
propria giaculatoria sorta forse in tempi ben anteriori al secolo XIII ed in questo
poi divulgatissima; talché l'ipotesi nostra che la forma ritmica, della quale nella
cronaca di fra Iacopo da Acqui appare vestita, potesse rinvenire la sua ragione
d' essere nel fatto eh' era stata dedotta da un componimento in versi ; ne ver-
rebbe scossa. E tornerebbe allora forse più conveniente il congetturare che la
pia orazione si stimasse possedere qualche arcana efficacia; il che, come a tutti
è noto, credevasi, nell' età di mezzo, d' assai preci e formulette e scongiuri. Co-
munque sia di ciò, noi ricaveremo ad ogni modo anche da questo fatto, che ci
e sembrato necessario additare agli studiosi, un incitamento a procedere sempre
guardinghi (e non già " timidi „, come s'è lasciato un po' a torto sfuggire dalla
penna a proposito delle presenti indagini nostre, un egregio collega) sul terreno
tanto lubrico delle ipotesi. Le affermazioni " recise „ stanno bene, allorché pos-
sono recarsi innanzi a risolvere controversie storiche o letterarie de' fatti certi,
— 136 —
de" dati positivi; non già quando ci si trovi costretti a ricercare pazientemente,
e solo per via di congetture, quello che si stima dover essere il vero.
(<S) Ci". F. Lenormant, a travet s l' ApuHe et la Lticaine, Paris, 1883, v. I,
p. 106 sgg.
V.
LA < SQUILLA DI LONTANO » E QUELLA
DELL' A VE MARIA ?
Era già 1' ora, che volge '1 disio
A' naviganti, e intenerisce il core.
Lo di eh' han detto ai dolci amici: a Dio;
E che lo novo peregrin d' amore
Punge, se ode squilla di lontano.
Che paia '1 giorno pianger che si muore.
Pttrg., Vili, 1-6.
Se noi diamo un'occhiata a tutti i commentatori moderni, in
mezzo alle manifestazioni pressoché identiche d' un' ammirazione
sincera per quanto tradizionale, noi scorgeremo far sempre capo
lino una medesima asserzione: La squilla di lontano, che, udita
dal novo peregrino, gli punge si forte il core, è quella che suona
y Ave Maria. " Squilla — dice il padre Lombardi (e cito qui di
preferenza, come ben s' intende, tra gli interpreti danteschi ta-
luni più soliti a lavorare di testa che di forbici) — campana, che
" con mesto suono e quasi da morto, come tra cattolici si pra-
" tica nel suonare su 1' imbrunir dell' aria 1' Ave Maria ed in al-
" cuni paesi anche il De profundis, sembri piangere il terminare
" del giorno „ ('). Ed un altro padre, il Cesari, colla consueta
sua vivacità: " Non vi par sentire quel fioco tintin dell' Avem-
" maria che suoni in qualche villa a due o tre miglia? Il quale,
" per cagione della luce, che è quasi morta tutta, e di quel si-
" lenzio, vi par proprio un sonare a morto? „ ("). E Brunone
Bianchi : " La campana a cui si vuole accennare é quella che
" invita all'Ave Maria della sera, e che veramente udita in qual-
— 140 —
" clic distanza quando ogni cosa si tace e l'ombra s'avanza,
" pare che pianga il giorno che finisce .... E qui si noti come
" r Alighieri non solo rispetta religiosamente i donimi della Santa
" Chiesa, ma anche le pie credenze e le divote osservanze, onde
" a tempo sa trar partito per toccare il cuore dei suoi leggi-
" tori „ (^). E la stessa canzone ripetono concordi il Venturi, il
Biagioli, il Fraticelli, il Bennassuti, il Poletto, ed altri ancora,
Semplici e qiieti, e lo 'nipcrchc non sanno (').
Se dai moderni, trascurando quelli del quattro e del cinque-
cento {^], noi discendiamo agli espositori più antichi del poema
divino, r aftermazione che la squilla dantesca sia quella deW Ave
Maria, non ci si presenta all' opposto se non presso un solo.
Benvenuto da Imola, il quale cosi dichiara il verso quinto: " se
" ode squilla di lontano „ : Idesi si audii canipanain pn/santeni a
loiige ad Ave Maria ('). Gli altri trecentisti o parafrasano vaga-
mente le parole dell' Alighieri, senz' identificare però la " squilla „
con un bronzo sacro che dia il segnale d' una determinata ora-
zione, quali Francesco da Buti e l' Anonimo Fiorentino ("), o,
come r Ottimo, il Della Lana, 1' Anonimo Cassinese e fra Gio-
vanni da Serravalle, mettono innanzi altre spiegazioni su cui ri-
tornerò tra poco.
Or la questione ch'io mi propongo di svolgere nella presente
postilla sta tutta qui : Allorché Dante scriveva, 1' uso di salutare
la Vergine col suono de' bronzi sacri e non sacri, " quando cade
" il die „, neir ora appunto in cui secondo la comune credenza
Gabriele le disse: ave; era veramente diffuso in Italia?
Come di tant' altre pie consuetudini, cosi anche di questa la
storia è stata già da tempo e più e più volte indagata, ma non
senza intorbidarla e falsarla spesso con inesatte ed infondate
asserzioni. Parecchi tra i men recenti scrittori s' accordarono cosi
nel diffondere la credenza che 1' uso di salutare con rintocchi di
campana la Vergine, dopo il tramonto, fosse stato stabilito da
Urbano II (1088-1099) in occasione della Crociata ch'egli aveva
bandita; e che, caduto poscia in abbandono, avesse rinvenuto in
— 141 —
Gregorio IX (1227-1241) un nuovo ed efficace promotore (*). Altri
ancora, sulla fede d' un quattrocentista, ufficiale encomiatore di
san Bonaventura, s' è affrettato ad attribuire al pio francescano
l'introduzione della devota osservanza ("); " grazie a lui V Aìi-
" ^n'/its, poetico appello, partito dall' umile campanile de' Minori,
" volò — dice r Ozanam — di torre in torre ad allietare il con-
" tadino sul solco, il viandante sul cammino „ (^'). Ma coleste
disparate opinioni non hanno verun fondamento storico, non reg-
gono alla critica, né possono reputarsi degne di fede, come a
tempo loro provarono il Mabillon, il Lambertini, il Trombelli ("),
e conferman oggi pienamente i più competenti trattatisti di scienze
ecclesiastiche ('^). Anzi il dotto autore degli Annali di s. Bene-
detto ed il futuro papa Benedetto XIV son andati tant' oltre da
sentenziare che la pia costumanza di render omaggio col suono
dell' Angelus a Maria Vergine non ebbe inizio innanzi al secolo
sedicesimo; ed in questo s'ingannarono a partito.
Per verità al devoto costume, già adottato prima d' allora in
una chiesa francese, quella di Saintes (^^), ricordata per l' ap-
punto a titolo d' onore dal pontefice, diede solenne principio Gio-
vanni XXII, il quale nel 1318, terz' anno del suo pontificato,
emanò a tal intento una bolla solo parzialmente pubblicata dal
Rinaldi ('^). Stabilivasi con essa che in quolibet noctis crcpiisciilo
campana pulsdiir d (leggi ut?) ad sonum eiusdem ipsi fideles
pracmissae salutationis vcrbum diccrcnt {^^'). A stimolar poi meglio
lo zelo de' fedeli stessi il papa concedette dieci giorni d' indul-
genza a chiunque ciò volesse osservare; ed altri ancora ne ag-
giunse nel 1327, anno dodicesimo del suo regno, con nuova bolla
in data 7 maggio, che fu pur essa dal Rinaldi messa alla luce ("').
E verso il medesimo tempo, forse uno o due anni dopo, alla pre-
scrizione della sera un' altra par ne facesse seguire, cosa fin qui
non avvertita, concernente al mattino ('•). Così 1' Ave Maria volò
davvero d' allora in poi di torre in torre due volte al giorno.
Quando ai rintocchi dell' aurora e del vespro venissero poscia
ad aggiungersi quelli del mezzogiorno, a noi non importa adesso
chiarire (^^).
— 142 —
11 non spregevole dono ti' imlulgenze, di cui papa Giovanni XXll
aveva voluto largheggiare con quanti si piegassero ad assecon-
dare il suo divoto instituto, contribuì certo efficacemente a pro-
muovere nella cristianità tutta quanta 1' usanza di salutare al tra-
monto la \'crgine col suono delle squille non meno sacre che
profane. Le città nostre andarono a gara nell' adottarla ; e che
in Pavia nel 1330 vigesse già da un bel pezzo ce ne reca testi-
monianza autorevole quel canonico Giovanni da Mangano, che
scrisse il /iòcr de laxidibus civitatis Ticincnsis, edito come ade-
spoto dal Muratori (^^). Lo stesso è a ripetere per Piacenza; in
quanto a Milano l' introduzione della religiosa osservanza si col-
lega strettamente ad un problema ch'io non posso per il mo-
mento risolvere: quello cioè della data emortuale di fra Bonvesin
della Riva, a cui l' iscrizione, collocata già sul suo sepolcro in
San Francesco, dà il vanto d' aver primo fatto risuonare 1' Ave
Maria in città non men che in contado: qui primo fccit pulsavi
campanas ad Ave Maria Mcdiolani et in comitatu (^"). Ma poiché
in tutti i modi la vita del dabbene Umiliato non può essersi pro-
lungata molto al di là del quarto lustro del secolo quattordice-
simo, lecito è conchiudere che tra le repubbliche lombarde Mi-
lano dovett' esser delle prime a far propria la novella osservanza.
Or se non è quella dell' Ave Maria, non ancor suonata tra
noi quando l' Alighieri poetava, la " squilla di lontano „ che sarà
dessa mai? Qui ci troviamo in presenza di due soluzioni entrambe
probabili e confortate di prove; esaminiamole dunque e vediamo
poi quale sia da preferire.
Durante tutta l'età medievale come al di là de' monti cosi
anche al di qua vigoreggiò il costume di segnalare con rintocchi
di campana lo spirare del giorno. Primo effetto di questo suono,
che spesso dal bronzo stesso, onde si sprigionava, assunse il
nome di " squilla „ (''), era che i tavernieri cessassero di vender
vino e chiudessero gli ospizi loro; tantoché, sebbene a seconda
de' luoghi, come il Rezasco ce ne assicura, portasse nomi di-
versi (■*), la campana serale potè in taluni paesi esser chiamata
la " campana de' bevitori „ ("j.
— 143 —
Quant' air ora in cui la squilla facevasi udire non possediamo
gran copia di notizie; ma quelle che ci son giunte concedono di
stabilire che per lo più sonava quando il giorno stava per ter-
minare. Generalmente è detto infatti che sonava de scro; a Pisa
all'ora solita (l'ora cioè stabilita dai magistrati, variabile proba-
bilmente a seconda delle stagioni), ex quo obscunttii est; a Pia-
cenza — ma siamo già dopo il 1336 — si distingue la campana
che suona circa lioram cotnplctorii, in omaggio alla Vergine, dalla
serale che squilla /// prima liora noctis fiora consueta: a Pavia
altresì la ski//a ad lioraìii constilutam dalla campana del comune
che suona pur 1' Ave Maria ^^). Come si vede, dapertutto i rin-
tocchi della campana si facevano insomma sentire, quando " l'aer
s' annerava „, dapertutto davano principio alla notte legale, to-
gliendo modo a chicchessia d' uscire dalle città o dai borghi e,
quel eh' era peggio, d' entrarvi.
Or son questi i suoni che pungono il pellegrino dantesco?
Tale è 1' opinione d' un antico commentatore della Comedia, fra
Giovanni da Serravalle, reputatissimo teologo, oratore, professore
ed anche diplomatico ('''), del quale 1' opera poderosa solo da
pochi anni, come i lettori nostri non ignorano, è stata fatta di
pubblica ragione: Quando fxt sero, scriv' egli, si peregrini audiunt
pulsare imam campanam, que vocatur in Ytalia squilla, quae si-
gnificat finem dici, pungunt se, idest conantur velocius ire, propter
applicare ad portam antequam claudatur (^^').
La spiegazione che il buon Francescano dà qui della " squilla
" di lontano „ si fonda dunque in parte sopra un' interpretazione
del testo di Dante, che noi non possiam davvero approvare. Tra-
durre infatti, com'egli fa, i versi:
E che lo novo peregrin d' amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia '1 giorno pianger che si muore;
in questa maniera:
Et quod tiovtts peregrinus aiiiotis
Pmigit se, si audii sqiiillani a longe,
Oitc appareat dietn plorate qui inorititr ; ('-"j
— 144 ~
e non solo falsare il pensiero di Dante, ma far troppo buon mer-
cato della grammatica. Sicché, sebbene anche ad altri glossatori
della Comcdia, contemporanei di fra Giovanni, quali il Rambaldi ed il
Della Lana, sia parso di discernere in mezzo a quel miscuglio d'af-
fetti che al viandante suscitano in petto i rintocchi della notturna
campana, anche il timore di non giungere in tempo a procac-
ciarsi un sicuro asilo per la notte, la prima notte eh' ei passerà
in paese straniero, tra gente ignota ij*)\ noi staremo contenti a
pensare che la mestizia, ond' è ingombra la mente del " novo
" peregrino „, non tragga origine da preoccupazioni cosi medio-
cremente poetiche, ma sgorghi tutta dall' amoroso desiderio
de' cari lontani.
Ma, pur ammesso ciò, nulla ci vieterebbe di consentire nel-
r opinione di fra Giovanni che la squilla dantesca sia semplice-
mente la campana serale, la squilla del coprifuoco, se non ci ve-
nisse innanzi un' altra esplicazione, la quale, oltre ad avere per
se r autorità d' interpreti non meno stimati, s' avvantaggia sulla
precedente in ciò che essa meglio giova a farci gustare nella
squisita armonia che ne governa i più piccoli particolari il quadro
mirabile colorito dal poeta.
Come dicemmo incominciando, tanto 1' Ottimo quanto Iacopo
della Lana e 1' Anonimo Cassinese s' accordano nel porgere una
medesima interpretazione delle parole " se ode squilla di lon-
" tano „. Scrive il primo: " E dice che '1 nuovo pellegrino, cioè
" eh' è nuovamente entrato nella peregrinazione, al quale pare avere
" poco camminato il di, ed avere a fare lungo viaggio, e ode di
" lunge sonare alcuna campana a compieta fino all'ora
" del finente di, è punto di cura e di sollecitudine „ (^^). Ed il
secondo: " Quando elli ode squilla, cioè campana che li notifichi
" la morte del giorno, cioè le compiete, che hanno a signifi-
" care eh' elle suonano nel compimento del giorno „ ('"). Il terzo
infine: Xaiit qiiaìido piilsatiir ad compiei or inni vidctur
quod campana ploret dient, co quod moritiir, idcst finitur (^').
Ecco dunque quella ch'io reputo la vera spiegazione de' versi
sin qui discussi. La squilla che il pellegrino ode da lungi è la
— 145 —
stessa che al tramontar del sole chiama i religiosi a cantare
compieta, 1' ultima delle ore canoniche, la quale, come il nome suo
dichiara, compie e chiude tutti gli uffizi diurni C'^). Di essa ve-
ramente si può asserire " che par che pianga il giorno che si
" muore. „
E che Dante avesse proprio nell'ora di compieta fermo il pen-
siero, noi sempre meglio ce ne renderem persuasi, se prenderemo
rapidamente in esame la maniera con cui ne' canti VII ed Vili è
dal poeta descritto il momento nel quale la scena si svolge. Che
fanno invero le anime elette, sedenti " in sul verde e 'n su fiori „
della valletta ridente, " prima che '1 poco sole s' annidi „ ? Esse
cantano la Sahr regina: l'orazione che la Chiesa recita a com-
pieta (^^). E non appena l' astro radioso è disceso sotto 1' oriz-
zonte, una tra esse, surta in piedi, chiede " con mano l' ascol-
" tare „, e poscia:
Te iucis ante si devotamente
Le usci di bocca e con si dolci note
Che fece me a me uscir di mente.
Ma r inno eh' ella intuona e gli altri spiriti bennati ripetono si
dolcemente in coro,
Avendo gli occhi alle superne rote,
è appunto quello che la Chiesa medesima suole cantare a com-
pieta per implorare da Dio aiuto e custodia contro le tentazioni
notturne:
Te litcis ante tefiitinttm,
Rerum creator, poscinnts
Ut prò tua cleitieittia
Sis pracsul et custodia (3<).
In conclusione. Che Dante abbia potuto curvare la fronte,
quando correva per 1' aria l' umile saluto a Maria, com' è stato
testé poeticamente affermato, non vorrò negar io adesso, benché
sarebbe innanzi tutto a vedere se negli anni che precedettero la
morte sua, e cioè tra il 1318 ed il 1321, la consuetudine pia, cal-
NOVATI. IO
— 146 —
deggiata da papa Giovanni XXII, avesse già preso radice in Ve-
rona o in Ravenna. Ma che nella meravigliosa pittura con cui
l'ottavo del PKVi^atorio s'inizia entri come elemento un accenno
air Ave Maria, ci par da negare recisamente. Al poeta divino
non sarebbe certo sembrato opportuno né riverente il ricavare
— come i suoi recenti commentatori pretendono eh' egli abbia
fatto — solo un' allusione alla melanconia che suol suscitare nel-
r animo nostro il tramonto, da quel saluto alla Vergine, il quale
secondo la volontà della Chiesa, pur allora solennemente mani-
festata, doveva essere rendimento caloroso di grazie, significa-
zione di letizia per l' accompimento del pili gaudioso tra i mi-
steri : r Annunciazione (•'^■').
NOTE
(1) La D. Coniniidia di D. A., corretta, spiegata e difesa dal P. B. Lom-
bardi, tom. II, Pili};., Roma, MDCCCXXI, p. :oa.
(?) Bellesze della D. C. di D. A., dialoghi, v. Il, Milano, Silvestri, 1840,
p. 105 seg.
(3) La Cominedia di D. A. dichiar. da B. Bianchi, Firenze, 1868, p. 302.
(<) P. Venturi, La D. C. di D. A., Firenze, 1830, tom. II, p. 74; G. Bia-
<;[OLi, La D. C. di D. A., Parigi, 1819, tom. Il, p. 119: Fraticelli, La D. C. di
D. A., Firenze, 1873, p. 300; Bennassuti, La D. C. di D. A. col e omm. cattolico,
Verona, 1867, v. II, p. 186; Poletto, La D. C. di D. A., Roma, 1894, v. II,
p. 170.
(^) Cfr. Renier, Un commento a Dante del sec. XV in Giorn. stor. della lett.
ital. IV, i88.j, p. 36 sg., per il giudizio da recare intorno ai commentatori di
quell'epoca. Il Barzizza, il Landino, il Daniello, il Vellutello nulla recano dij resto
su questo argomento che a noi giovi ricordare.
{f') Comm. cit., V. Ili, p. 219.
{") Da Buti, op. cit., V. II, p. 173: " se ode squilla; cioè campana piccula....
' che; cioè la quale campana, paia il giorno pianger ; cioè che paia col suono
" suo dolersi e lamentarsi del giorno, che viene meno, ecc. — Anon. Fior., op.
" cit., V. II, p. 131 : " Et similmente a colui che cammina per terra quando da
" lungi ode alcuna squilla, eh' è segno che si faccia notte, gì' intenerisce il
" cuore, ecc. „.
(*) Tali sono A. Wion, Lignum vitae ornainent. et dee. Eccles. in V lib. di-
vis., Venetiis, MDXCV, lib. V, p. 655; D. e C. Magri, Hierole.xicon, s. v. Sai»-
tatio Angelica, ecc. E v. altresì Moroni, Dizioti. d' eriidis. stor. eccles., v. II, Ve-
nezia, 1840, p. 81, s. V. Angelus Domini.
(') Alludo alla scrittura intitolata: Octaviani a Martinis Sinuessani u. i. doc-
toris de vita et tniraculis S. Bonaventurae oratio, qua posiulatur a Si.xto IV s. p.
in Divorum referri numerutn, edita negli Ada Sanctorum, lulii tom. Ili, e. 826,
Antverpiae, MDCCXXIII, dove si legge quanto segue : Idem etiam piissimus cultor
gloriosae Virginis matris lesus instituit, ut fratres populum ìiortarentur ad salu-
tandum eamdem signo campanae quod post completorium datur. Ma qual fede
possa prestarsi ad un panegirista, che scriveva quasi due secoli dopo l' elogiato,
e non doveva certo sottoporre a troppo sottile disamina ciò che andava racco-
- 148 -
gliendo in di lui lode, ognuno può di per se stesso considerare. Cfr. del resto Du
Gange, s. v. angelus.
('9) A. F. OzANAM, Oriivifs comf^lelcs, toni. V, Paris, 1882, p. 118.
('M Cf. Mahili-ON, Acta Sauctor. orci. S. Dcncdicti in saecul. class, distrib.
Saec. Quintum. Venetiis, MDCI.XVIII-MDCCl, Pracf., ^ 122, p. LX; Benedicti XIV
ponti/, max. olini Prosperi card, de Laiubertiiiis, Institulioii. Ecclesiastic. tom. I,
ed. IV latina, Parmae, MDCCLXII, Instit. XIII, p. 43, n. 11 ; Io. Chrys. Trombelli,
Afariae saHciissitnac l'ita et gesta, toni. V, Bononiae, MDCCLXIV, par. II dis-
sert. VII, De ter rcpetita singulis diebus definito temporis intervallo.... angelica
salutatione, p. 303 sgg.
('') Cf LicHTENBERGER, Encyclopédie des scieitces religieuses, Paris, 1877,
tom. I, p. 308; VVetzer ì4. Welte 's, Kirc/ieii/e.vicoit', Freiburg, 1882, v. I, col.
846, s. V. Angelus Domini.
(53) Saintes é una piccola città del dipartimento della Charente-inférieure,
sulla sinistra della Charente, con un porto. Fu sede di un vescovo fin da
tempo remoto; cf. Gnllia Christiana, tom. Il, p. 105-j sgg.; Gams, Ser. ep. eccl.
cath., p. 623.
('*) Cf. O. Rayxai.dus, Annales Ecclesiast. ab a. MCXCVIII, etc, ed. Mansi,
Lucac, MDCCL, tom. V, p. iii. Il fatto che papa Giovanni citi unicamente la
chiesa di Saintes siccome quella in cui fioriva la devota costumanza eh' era suo
desiderio veder diffusa in tutto 1' orbe cristiano, mi par da solo bastevole a di-
mostrare che prima d'allora nulla di simile, almeno a saputa della Curia Ro-
mana, soleva usarsi altrove. Giacché in caso diverso riuscirebber inesplicabili la
menzione di una sola chiesa ed il silenzio serbato su quant' altre avessero prima
d' allora osservata 1' usanza medesima. Non è poi a tacere una particolarità che
il Rinaldi omette di raccontare, ma che è riferita da uno scrittore abbastanza
antico, quel fra Giovanni Nj'der, autore di molte opere ascetiche, tra le quali il
noto Formicarium, che si vuol morto circa il 1^38; cf. Chevalier, Rép. des
some, histor. du m. a., e. 1647. Or bene costui in un suo sermone sull'Annun-
ciazione, che a me non è riuscito però di vedere, narra che papa Giovanni XXII
si determinò a stabilire l'usanza deW Ave Maria serale dopo uno strepitoso mi-
racolo compiuto in Avignone dalla Vergine stessa a vantaggio d' un tal suo
devoto condannato al rogo. Di tal fatto maestro Giovanni assicura se vidisse in
publico instrumento litterae autenticae, come dice il reverendo padre fra Pei.barto
ije Te.mesvar nel suo Stellariunt coronae gloriosiss. Virgiuis, etc, Venetiis,
MDLXXXVI, lib. XII, part. II, artic. II, p. 218. E cf. anche Tro.mbelli, op. cit.,
p. 307, n. 12.
('•'') Queste parole son tolte dalla bolla del 1327, di cui or ora toccheremo,
perché di quella del 1318 il Rinaldi, invece di riprodurre alla lettera la parte
che unicamente premerebbe conoscere, è stato contento a dare un riassunto,
mentre riferisce per esteso le lodi prodigate alla Vergine dal pontefice: squarcio
d'eloquenza del quale noi avremmo anche fatto a meno!
n*) Cf. Raynaldi, op. cit., p. 36J. La bolla, diretta: Angelo episcopo Viter-
biensi nostro in Urbe vicario, è datata : Avinion. non. maii anno XI.
(•") .S'è affermato e si continua ad affermare ( cf. Wetzer-Welte, op. cit..
— 149 —
col. 84-;), che il documento più antico da cui risulti come all' istituzione dell' /4z/<>
Maria serale tenesse dietro ben presto quella del mattino, sia la disposizione presa
nel 1368 dai membri della sinodo adunata a Lavaur (Dipartim. del Tarn, Francia
meridionale), con cui si stabilisce e si ordina: sub poeiia excoimimnicalioitis quod
singulis et continnis diebus reclores et curati provinciarum ttostrariini, iiuilibet per
se vel aliuui, circa sulis ortittn, pttlsent seu piilsari faciant una»i campanant per
tnodtim et forniam qitibHS trahitur de sera, quando pulsatttr prò Ave Maria ;
Conci/. Vaurense liab. a. MCCCLXVIII, cap. CXXVll, in Baluzius, Concilia
Galliae SVarbonensis, Parisiis, MDCLXVIII, p. 283 sg. Ma nessuno s' è, per quanto
sembra, avveduto che un testo italiano, anteriore di trentotto anni alla sinodo
francese, ci dimostra 1' Ave Maria del mattino già nel 1330 stabilita cosi al di là
come al di qua dei monti. Leggesi infatti in quel Liber de laudibus Papiae, che
il proposto G. Bosisio fin dal 1851 dimostrò essere stato scritto nel 1330 in Avi-
gnone da Giovanni Mangano, pavese, canonico di Valenza ed avvocato della Curia
romana, quest'esplicita aflermazione : Praeter atiteui qiiotidianuru illud sigHttm,
quod Jìt in si-ro ad salntandant Virginem gloriosani, institutum est alitid
nttper in inaile fieri panlo post signum Aurorae ad eanidem salutetn reite-
randani, siculi in locis plurintis observ atur. Cf. Muratori, Rer. II. Scr'
tom. XI, e. 29, cap. XIV'; Bosisio, Ricerche ini. alla persona dell' Anonimo Tici-
nese in Cassetta Provinciale di Pavia, 27 gennaio 1857.
C) Cf. Trombelli, op. cit., n. 16, p. 308 sg.; Wetzer-Welte, op. e loc. cit.
Un passo della Somma di Sant'Antonino, arcivescovo di Firenze, spesso citato
ad altro fine, ci dà la prova che tra il 1416 ed il 1459 in Toscana 1' uso di suonar
V Ave Maria del mezzogiorno non s'era ancora introdotto: Statuii insuper Ec-
clesia singulis aiebus pulsari ter canipanas ecclesiarum de sero et iterttm
de tnane. Ad quid nisi ut ìionoretur beata Maria et laudetur ex salutatione an-
gelica? B. Anto.mm Sunnnae Sununar. tom. IV, Lugduni, MDXLII, tit. XV,
cap. XXIV, § III. Ma in Francia esso vigeva già certamente dai primi anni del
secolo XV.
(>9) Cfr. la nota 17.
(50) Cf. TiRABOSCHi, l'ct. HumiUator. nionum., Mediolani, MDCCLXVI, v. I,
diss. IV. par. IH, XXVI, p. 299 sg. ; Forcella, Iscris. delle Chiese e degli altri edi-
fici di Milano, Milano, 1890, v. Ili, n. 84, p. 73. Tutte le illazioni che il Tiraboschi
aveva creduto di poter ricavare dall' epitafio di Bonvesin rispetto al tempo in
cui \' Ave Maria si cominciò a suonare in Milano, sono state distrutte dalla sco-
perta del testamento del 13 13, che ci mostra il della Riva ancor vivo nel terzo
lustro del sec. XIV. Il Tiraboschi lo credeva morto su per giù vent' anni prima.
(^') Cf. Rezasco, Dizionario del linguaggio ital. star, ed ainmin., Firenze,
i88i, p. 1121, s. v. Squilla. E cf. anche Du Cange, s. v. skella.
(--) Op. cit., p. 504, s. v. Guardia, n. xxx.
(-•') G. Mangano, Lib. de land. cit. in Muratori, op. cit., e. 27.
(-■') Cf r erudita nota sulla campana serale, che 1' egregio collega prof. Ales-
sandro Lattes s' è piaciuto a mia preghiera dettare, e che noi ripubblichiamo per
sua cortese concessione in appendice.
(-^) Intorno a costui, che ben può considerarsi ancora quale un trecentista,
— 15° —
mi sia lecito rimandare a quant' io ne ho scritto nel BtiìlcUnto della Soc. Daiit.
hai. n. 7, dicembre 1891, p. 12 sgg. ; e nel Giorii. slot: della leti. Hai., XXIX^
1897. p. 565 sg.
(-^) Fr. Ioh. de Serravalle ord. niitior., rpisc. et />iiiic. Fintiani, traiixlatio
et conictttiint tot. libri D. A., eie, Prati, MDCCCXCI, p. 512. Secondo la sua
consuetudine di ripeter sempre «n pajo di volte le proprie spiegazioni, poco
dopo il dabben frate le rida con qualche aggiunta: Puugil, scilicet sollicitat, se
si audit squillam, idcst campaitaiii, quae pulsatur, die tuorientc, idest cessante ;
quia illa campana videtur plorare dieni morientein sive cessanteiit. In Gallia sic
pulsatur de srro talis campana, quod sonus ille videtur quidem ( leggi : quidam .' )
planctus diei ccssantis. Op. cit., p. 513.
(2') Op. cit., p. 512.
(''^l Scrive difatti Benvenuto, op. cit., p. 219: vel die: che, idest qui novus
peregrinus ita punctus amore videtur deplorare quod nimis cito noctescat antequain
hospitetur. Ed il Della Lana, op. cit:, v. II, p. 91 : " Ancora per uno altro esem-
" pio mostra quella ora, e dice: ella era simile a quella che punge e fa trat-
" tare più tosto il pellegrino „.
(-') Op. cit., toni. II, p. 109.
P) Op. cit., V. II, p. 91.
(31) // Cod. Cassinese della D. C. per la prima volta letteralm. messo a
stampa, Monte Cassino, 1865, p. 230. Questa è chiosa marginale al v. 6 del
canto Vili. Al v. i ed al 5 ricorrono poi altre postille interlineari; che sulle pa-
role " era già 1' ora „ sta scritto completorii, e sulle seguenti " se ode squilla „ :
sonantem ad conipletorium.
(38) Cf. Du Gange s. v. completa^ completorium. Come e' insegna il Vocabo-
lario della Crusca s. v. compieta, questa voce è stata ed è oggi ancora adope-
rata a designare il tempo in cui si recita, il suono delle campane che l'annun-
ziano, e genericamente per estensione il fare della sera, la sera, ecc.
(33) Cf. Cod. Cassin. cit., glossa al v. 18: Te lucis: que salve regina et ymnus
iste caniatur in completorio.
(3<) Cf. POLETTO, op. cit., p. I71.
(3'') Cf. Trombelli, op. cit., p. 312, n. 25 sgg.
VI.
LA VIPKHA CHKL MFLANESE ACCAMPA
Purg. Vili, 80.
Laddove Nino, giudice di Gallura, lamenta che la moglie sua,
dimentica de' giuramenti, abbia nel velo di sposa mutate le bende
vedovili, egli esclama, acceso di " dritto zelo „ :
Non le farà si bella sepoltura
La vipera che '1 melanese accampa,
Com' avria fatto il gallo di Gallura.
Or che la " vipera „ stia qui a denotare i Visconti, niun
dubbio. Ma che ha egli voluto dir Dante aggiungendo eh' essa
" il melanese accampa „?
Nei manoscritti cotesto verso si rinviene offerto in due modi.
Parecchi, e vanno tra i migliori, leggono " '1 melanese „ {');
altri " i melanesi „; e questa discrepanza di lezione, che s' é na-
turalmente riprodotta e perpetuata nelle stampe, segna anche, non
vorrei proprio dir sempre, ma nella maggior parte de' casi, una
diversità d' interpretazione. Giacché, mentre molti tra coloro che
leggono: " il melanese „. spiegano: " la vipera che il Visconti,
" o il popolo di Milano che nel Visconti riconosce il proprio si-
" gnore, porta nel campo dello scudo „ ; quanti adottano la va-
riante: " i melanesi „, intendono comunemente: " la vipera che
" conduce in campo a battaglia i milanesi „.
De' vecchi interpreti danteschi nessuno eh' io vegga accoglie
la sentenza, secondo la quale " accampare „ varrebbe quanto
" portar nel campo dello scudo „ ('). De' moderni invece non
pochi r han fatta propria: il Cesari, il Bianchi, il Fraticelli, il
Bennassuti (^). E costoro, cred' io, son stati indotti a ciò dall' au-
— 154 —
torità della Crusca, la quale nel suo Vocabolario cosi dice
d' " accampare „ : " Trovasi per avere, portare nel campo dello
" scudo o dell'arma gentilizia „ (*); ma quand' è questione poi
d' allegare gli esempì, non sa segnalarne se non uno solo, che è
precisamente il luogo dantesco, di cui ora discutiamo.
Ma quali argomenti s' adducono a sostegno di siffatta inter-
pretazione? Ch' io sappia, nessuno. Ove si provasse dunque che
le ragioni messe innanzi per confortar la contraria opinione son
valevoli, questa dovrebbe tosto venir ripudiata. Tuttavia neppur
dell' altra spiegazione data ad " accampare „, condurre cioè
i soldati in campo; si può dire che i propugnatori suoi sappiano
rincalzarla d' efficaci prove. Due commentatori antichi. Benvenuto
cioè e fra Giovanni da Serravalle, stanno per essa, ma non si
curano di porgerne veruna giustificazione (^); in quant' ai mo-
derni, dal Lombardi in poi, essi per darne ragione citan tutti con
concordia mirabile una testimonianza, la quale invece di raffor-
zare l'asserto loro riesce a distruggerlo! E valga il vero. La te-
stimonianza a cui alludiamo è dedotta da certa dissertazione le-
gale, data alle stampe nel 1748 dal conte Gabriele Verri, per
sollecitare il Fisco a reprimere con maggiore severità gli abusi
eh' erano invalsi in materia d' insegne e di titoli nobiliari ("). Or
qui, toccando per incidenza dello stemma visconteo-sforzesco,
dopo averne fatto risalire V origine al duello seguito in Palestina
tra Ottone Visconti ed un campione saraceno che portava per
insegna un serpente, il giureconsulto milanese continua, facendo
proprie le parole di Carlo Sigonio: Oiiaiii oh rem maiores nostri,
ut Sigo/n'us tradi't, pnhlico decreto sanxerunt, ne post hac castra
Mediolancnsium locarentiir, nisi vipereo signo ante in aliqua ar-
bore constituto {'). Or posto che a questa consuetudine abbia vo-
luto veramente alludere 1' Alighieri nel noto verso, come si potrà
continuare a interpretar questo: " la vipera che i Milanesi recano
" in campo per insegna „, secondochè, ad eccezion d'un solo (*),
hanno fatto sin qui tutti i moderni commentatori? Converrà in-
vece spiegarlo: " la vipera che attenda i Milanesi, che concede
" loro di prendere gli alloggiamenti „.
'ro
Che questa sia la vera, la sola legittima interpretazione del
passo dantesco, risulta chiaro infatti, ove si metta mano ad in-
terrogare altri fonti, per credito e per antichità pili degni di fede,
che non siano le Istorie del Sigonio e, peggio che mai, le dis-
sertazioni fiscali del Verri. Ed innanzi tutto in questa spiega-
zione noi vediamo concordare tre tra i più stimati commenti an-
tichi: quello di Pietro Alighieri, di Francesco da Buti, di Jacopo
Della Lana. Succinti i due primi: Vipera, citiits vcxillum priits
ponitiir in campo per Mcdioìancnscs ex privilegio antiquo; dice il
tìgliuol del poeta ("). Ed il grammatico pisano : " la vipera ....
" che quelli di Melano tegnano per maggiore impresa, quando
" s' accampano in nessuno luogo per cagione di guerra „ ("j.
E con copia maggiore di particolari il terzo: " E dice che i Mi-
" /atiesi accampa, perché si è giurisdizione di quella arma, che
" sempre quando li Milanesi vanno in oste, dove si pone quella
" insegna, si pone il campo: e fine che quella bandiera non è
" posta, è grande bando a ponere altra insegna, ed è stato
" sempre e per tempo di parte guelfa e per tempo di parte ghi-
" bellina „ (").
Tutto questo, che con tanta chiarezza espone il commentatore
bolognese, aveva già parecchi lustri innanzi affermato in più
d' una tra le sue storiche compilazioni il milanese Galvano della
Fiamma: Dicit cronica de Barzanorc — cosi egli nella Cronica
niaior — (jitod Conninilas parentele Viceconiitnni hoc privilegitim
contulii, qnod acies exercitus Mediolani nuìiquam castra fìgerent
nisi vexillnm Vicecomitum in arbore crectuni conspicercnt ('•). Alla
sagacia di Giorgio Giulini questa notizia non isfuggi, come era
ben naturale, e neppure il partito che se ne poteva trarre per
meglio illustrare il luogo del Purgatorio; ma 1' aff"ermazione del
Domenicano che il privilegio, di cui godeva sugli inizi del se-
colo XIV r impresa de' Visconti, fosse stato concesso loro ab an-
tiquo dal comune di Milano lo trovò, e si capisce, incredulo. " Che
" ai di lui tempi — scriveva egli, pertanto, accennando a fra
" Galvano — ciò si usasse io lo credo facilmente, perché allora
„ la famiglia Visconti era signora di Milano .... Ma che si prati-
- 156 -
" casse anche prima, quantlo tìoriva la nostra repubblica, il
" Fiamma non lo farà credere facilmente ad alcuno „ ('^).
Kppurc, stavolta è proprio forza che gli crediamo. Ed ecco
perche. Recando innanzi .la notizia del privilegio largito dai Mi-
lanesi alla casata d' Ottone Visconti in memoria dell' eroica av-
ventura di costui, il cronista non ha fatto, come gli succede tanto
di frequente, ehe ricopiare quasi alla lettera una distinzione del
De ìììagtìdlibits urbis Mediolani, opera, come si sa, di fra Bon-
vesin della Riva. E questi espone il fatto in tale maniera da non
lasciare adito a dubbio veruno: Offertur quoque ah ipso \Comuni\
alieni de nobilissimo Vicccomitum genere, qui dignior videatur, ve-
xilluni quoddani cuin vipera indico figurata colore quendam sara-
ccnum rubcuìiì transglucienteni : nec alienti castranietatur noster
exercitus nisi prius visa fucrit vipera super arborem aliquam lo-
cata consistere ('^).
Le deduzioni che da queste parole dell'accurato cronografo
si possono ricavare, sono, come ognun vede, parecchie. Il bra-
v' uomo, che scriveva nel 1288, allorché Milano era, almeno in
apparenza, ancora padrona di sé stessa e conservava tutte le
istituzioni comunali, non poteva avere alcun interesse ad alterare
la verità ed a spacciar per antica una consuetudine che tale non
fosse stata. Devesi dunque ritener come sicuro che nel secolo
decimoterzo 1' esercito milanese non s' accampasse mai, se prima
non avesse veduto librarsi in alto il vessillo che la città soleva
offrire ad un Visconti.
Intorno all' origine di siffatta usanza, la quale apre la via a
sospettare che l' insegna della vipera fosse in antico propria del
comune di Milano, e non già, come sostiene la vulgatissima tra-
dizione, della famiglia che doveva renderla poi tanto famosa, non
è qui il caso d' istituire ricerche. A noi basti per ora aver messo
in sodo come delle interpretazioni prima d'ora proposte del
verso dantesco che si era preso in esame, una sola sia esatta,
quella cioè che i più tra i commentatori avevano fin qui ignorata
o negletta. E 1' Accademia della Crusca opererà saviamente se
a documentare il proprio asserto che " accampare „ possiede
— i.i7 —
anche, tra gli altri, il significato di " portare nel campo dello
" scudo „, andrà in cerca di testimonianze pili sicure di quella
che il passo del Purgatorio è capace d' offrirle.
NOTE
(1) De' quattro, sui quali il Wittc ha fondata la propria edizione, tre, il Laur.
Pianta Croce, il Berlinese ed il Cactani, danno questa lezione : cf. Witte, La
D. C. di D. A., Berlino, MDCCCLXII, p. 286; Cod. Cassinese cit., p. 228; ed in
essa consente anche 1' Antaldiano, sicché il Lombardi, op. cit., p. no, l'adottò,
lodandola. Ma il Witte s'attenne nel testo all'altra, che è la vulgata; ed a
torto, secondo me, l' ha seguito il Moore, Tutte le opere di D. A.^ Oxford,
MDCCCXCIV, p. 63. Ma sia poi che si preferisca il singolare o il plurale, sarà da
scriver sempre " melanese „ e " melanesi „, poiché cosi e non altrimenti per
fermo pronunziò e scrisse da buon toscano l'Alighieri.
(-') L'Ottimo, op. cit., II, 116, nulla dice; I' Anonimo Fiorentino, op. cit., II,
136, se la cava scrivendo: " la vipera eh" è l'arme de' Visconti da Melano „.
(3) Cesari, op. cit., Dial. III, v. II, p. 116; Bianchi, op. cit., p. 306; Frati-
cELi.i, op. cit., p. 304 ; Bennassuti, op. cit., V. II, p. 199.
\}) Vocab. degli Accad. della Crusca^', Firenze, 18Ó3, v. I, p. 77.
{■>} Benvenuto, op. cit., tom. HI, p. 231: Dicil ergo: la vipera, insignium
l'icecontitttiii de Mediolano ; che i iiiilanesi accnuipa, idest, quam mediolatienses
portoni in campo. — G. da Serravalle, op. cit., p. 516: [Viceconiites] qui por-
tant prò arniis viperam, scilicet serpentelli, quatti etiaiii Mediolaneiises [portant]
in cainpum, quando vadunt in e.xercitiiin. — Altrettanto asserisce I'Anoni.mo
Cassinese, op. cit., p. 230.
(•"l Cf Lombardi, op. e loc. cit., ; Tommaseo, Commedia di D. A., Venezia,
'837, p. 65; Milano, 1854, p. 338; P0LETT0, op. cit., p. 183.
{") De titiilis et insigniis teniperandis Dissertatio fiscalis Gabr. comitis Verri
etc, Mediolani, MDCCXLVIII. § XL, p. 35. Il luogo del Sigonio, che il Verri ha
fatto proprio, si legge in C. Sigonii, Hisioriariim de regno Italiae libri qitindc-
cim, Venetiis, MDLXXIIII, p. 385.
(*) Questa " rara avis „ è il re di Sassonia, che, fondandosi sulle testimo-
nianze allegate del Sigonio e del V'erri, traduce il nostro verso cosi:
" Die Viper, d" runter Mailands \'olk sich lagert „
(^) P. Allegherii, Super Dantis ips. genit. Comoed. Commciitariutit, cur. V.
Nannucci, Florentiae, MDCCCXXXXV, p. 351.
— i6o —
(10) Da Bvti, op. cit.. v. Il, p. i8i sg.
(>M Della Lana, op. cit., v. II, p. 94. Giustizia vuole che avvertiamo come
anche il Poletto riferisca queste parole del Laneo; ma ne ricava poco frutto,
perché spiega pur sempre : " è stendardo ai Milanesi nelle battaglie „ 1' " ac-
" campa „ dantesco.
('"ì C(. Croii. mai., ed. Ceruti, in Misceli, di st. ital., tom. VII, Torino, 1869,
p- 743. E vedi altresì Maiiipul. Etor. in Muratori, Rer. II. Sc^-. XVI, cap. CXLl,
col. Ó17 sg.
(•3) GiVLiNi, Meni, speli, alla sloiia, ecc., Milano, 1854, v. Il, p. 681.
('^) B. De Rippa, De magn. uri). Med. cap. V. dist. xxiii in Bulkttino del
r. Islit. stor. ital. n. 20, 1898, p. 150.
APPENDICE
NOVATI.
LA CAMPANA SERALE NEI SECOLI XIII E XIV
SECONDO GLI STATUTI DELLE CITTÀ ITALIANE
Dell' uso di suonare ogni sera la campana del comune per
indicare il principio della notte, i documenti a me noti parlano
sino dal principio del sec. XIII, come d'un fatto ben conosciuto,
intorno a cui non ù necessaria alcuna spiegazione, e valgono
quindi a provarne 1' esistenza anche per parecchi anni anteriori
alla loro data. Chi volesse però ricercare negli antichi Statuti il
testo d' una precisa deliberazione delle Assemblee Comunali in
proposito farebbe quasi dappertutto opera vana, poiché questa,
come molte altre usanze paesane, sorse da sé spontaneamente
e si diffuse dappertutto, avendo trovato in ogni comune grande
o piccolo condizioni favorevoli. La necessità di vegliare diligen-
temente contro le aggressioni notturne di nemici esterni e contro
pericolosi tentativi d' interni malfattori, mantenne sempre nelle
nostre città e borghi ordinati servizi di sentinelle e ronde a tu-
tela delle vite e delle robe degli abitanti: gli statuti ne parlano
quasi in tutti i comuni liberi, e nelle terre soggette a signoria le
guaite (guardie semplici) e le scaragiiaitc (guardie a schiera) si
ricordano più volte quale prova di soggezione nei frequenti pro-
cessi fra signori e dipendenti che volevano emanciparsi ('). È fa-
cile comprendere, come essendo affatto sconosciuta la pubblica
illuminazione delle vie, nessuno uscisse di notte senza esservi
spinto da urgente bisogno, e quei custodi guardassero con so-
spetto i passanti, massime se sprovvisti di lume, e tenessero
d' occhio le taverne, costante rifugio d' avventori di malaffare,
come in somma il giungere della sera portasse con sé un cumulo
di cure e diligenze maggiori. D'altra parte i cittadini erano av-
vezzi ad esser richiamati dalle campane, non solo alle Chiese e
— 164 —
ai doveri religiosi, ma anche ai loro obblighi civili, sia che do-
vessero accorrere all' Arengo per discutere intorno alla cosa pub-
blica, o prepararsi alla difesa contro esterni invasori, o prestar
man forte per arrestare i progressi di qualche incendio, rapida-
mente divampante tra le case di legno e i tetti di paglia: certo
la campana pubblica suonò anche per chiamare a raccolta le
guardie notturne, cui spettava il servizio di custodia o per turno
o per ufficio, ed in molti luoghi la suonata serale porta il nome
di campana dei cusfocù' o della guardia. Essa veniva nello stesso
tempo a ricordare alle persone dabbene eh' era giunta 1' ora
di rientrare tranquillamente nelle case loro per evitare ogni so-
spetto ed ogni confusione pericolosa con gente di mali propo-
siti: ad Asti la campana si chiama dei ladroni perché contro di
essi è particolarmente rivolta.
Basta un' occhiata all' elenco delle fonti statutarie, che si trova
in fine di questa Nota, per rilevare che la consuetudine di suonar
ogni sera la campana della notte era diffusa nei sec. XIII e XIV
in ogni regione d'Italia: solo pel Napoletano non mi fu possibile
consultare alcuna fonte contemporanea, ed il Ciccaglione ('), pur
facendo menzione dei provvedimenti municipali a tutela della si-
curezza pubblica, affatto uguali a quelli delle altre città italiane,
si per le taverne, si per 1' uscir di notte, non parla d' alcun se-
gnale vespertino, che fosse dato per fissare il momento in cui
quelli dovevano essere applicati.
Il documento più antico che io conosco è una carta Novarese
del 1222 (^), ove fra altre riforme disciplinari introdotte dai de-
legati dell' Arcivescovo di Milano pei canonici del Duomo di No-
vara, si prescrive ai custodi della Chiesa di recarvisi a dormire
ìiora qua pulsatur ad canipotiain quc pidsatur ut ìiiiltiis vadat per
civitatem sine liimine. Queste parole ci mostrano veramente l'usanza
già introdotta da qualche tempo e ce ne additano lo scopo ori-
ginario, provvedere alla tutela dei cittadini e separare le persone
dabbene da quelle di dubbia fama. Pochi anni dopo nel 1229 il
Podestà di S. Gemignano condannava un tale che si era lasciato
cogliere fuori di casa senza lume dopo il terzo segnale (^), e
possiamo anche ricordare gli statuti seguenti che fanno precisa
menzione della suonata serale nella prima metà del sec. XIII:
Padova, ove la data del capitolo è indicata colla formula, ivi
assai frequente, stalnliim vetus conditimi ante millcsinuun ducente-
simiint trigesimiim sextiiin,
Pinerolo, di cui gli statuti portano la data 1220 e possono
- i65 -
conservarla, sebbene siano pervenuti a noi in una redazione po-
steriore di sessant* anni, perché il loro contenuto prova che subi-
rono soltanto lievi modificazioni ('^),
Biella e \'iterbo, le cui leggi hanno rispettivamente la data
1245 e 1251,
Ravenna, dove tutti gli elementi cronologici concordemente
provano che il nucleo degli statuti editi dal Fantuzzi appartiene
al tempo indicato,
Brescia, dove i capitoli che contengono il giuramento delle
guardie notturne — in prima persona, manifesto indizio d'anti-
chità remota — spettano pure secondo ogni probabilità a quel
periodo, benché ci siano giunti nella riforma degli statuti che fu
fatta nel 1277.
Noteremo invece al contrario che a Vercelli può credersi non
esistesse ancora nel 1241 1' usanza della suonata serale, perché
agli osti si prescrive d' interrompere la vendita del vino ad ve-
sf>ei'os, e non si fa cenno del segnale, come suole dappertutto.
A Bologna 1' uso sembra veramente introdotto intorno al 1260,
perché le annuali riforme degli statuti non ne parlano prima e
se ne trova menzione soltanto in un' ordinanza del podestà del
1261, come nella revisione del 1260 fu aggiunto un capitolo re-
lativo alla suonata mattutina.
D' una campana vespertina parla anche il poema De regimine
et sapiciitia potestatis (''), composto, secondo 1' editore Ceruti, da
Orfino da Lodi alla metà del secojo XIll, nei versi che seguono:
Seiiiper ni est tiioris resone/ campana laboris,
Arlibns inipletis paveat campana qiiietis,
Tunc cito pince» na referat preciosa falerna,
Non ibi cisterna faveat sed darà taberna.
Non vorrei però affermare con certezza che essi si riferiscano
alle suonate che indicavano il principio del giorno e della notte,
e che il terzo verso parli ai modesti tavernari, obbligati a metter
fuori dell'uscio i bevitori ostinati: forse vi si accenna invece sol-
tanto alla campanella che annunciava 1' apertura e la chiusura dei
pubblici uffici nel palazzo del podestà ed all' obbligo per lui di
mantenersi sobrio per tutta la giornata.
Dove fosse collocata la campana spesso si tace, qualche volta
si nomina solo la e. coinnnis, altre volte quella del Duomo o della
Chiesa; a Casale doveva essere sulla piazza principale, perché è
detta e. de platea. A Bologna era sulla torre di S. Pietro, a Pi-
— i66 —
stola sul campanile del Duomo e si chiamava la campana di Bel-
tramo, a Siena emigrò da una torre privata all' altra, finché fu
costrutto nel 1345 il campanile nel palazzo pubblico. A Nizza in-
contriamo la campana corni/; a Pinerolo gli statuti più antichi
usano la voce tintinttahiilimi, i posteriori 1' altra campana, e non
so se per questa diversità di parola si possa credere che dap-
prima s'adoperasse un campanello, suonato forse a mano per le
vie, pili tardi una campana fissa.
Quanto al tempo, è detto che si suona de sevo o al tcinpo
consueto, appunto perché si tratta d' una pratica introdotta per
consuetudine. A Pisa si comincia ex quo ohsciinim est, a Chieri
citm bene nox fiicrit^ a Piacenza /// prima ìiora noctis, ad Asti
circa ìwram complciorii : a Siena e Tortona, come ordinano i
magistrati, a Firenze almeno sul principio del sec. XV, post ve-
spcras tra le 23 e le 24 ("). Queste formule incerte lasciano ben
comprendere che l'ora doveva mutare secondo la stagione.
In qualche città i rintocchi serali per l' ordine pubblico si
mantengono separati dai segnali religiosi, p. es. a Piacenza si
distinguono dalla sonata circa ìxoram completorii, fatta solo in
onor di Maria, propter sahitationem beate Virginis Marie fiendam :
cosi a Pavia altra cosa è la schilla ad lioram constitutani, altra
r Ave Maria suonata dalla campana del comune (*). A Pistoia si
prescrive che si diano con quest' ultima tutti i segni ad horas
consuetas di giorno e di notte secundum ecclesiasticam consnetn-
dinem, quando tacciono i bronzi della Chiesa: altrove, come ve-
dremo, qualche divieto comincia subito post sonnm Ave Marie.
Davansi per lo più tre segnali con tre suonate diverse, due
a Pinerolo ed Arona, una sola a Biella, Rivalta, Nizza: a Bo-
logna si suonava ad sogatn cioè a martello a tocchi staccati, a
Siena e Tortona ad destensum, e a Siena per una magna ìwra:
sette tocchi s' usavano a Pavia, venti aliqitantnliim rari a Pia-
cenza, a Bologna si provvede solo per la campana del mattino.
Curiose prescrizioni si leggono negli statuti di Chieri : il primo
ed il secondo segno dovevano esser dati dalla Chiesa di S. Maria,
il terzo da quella di S. Giorgio; l'uno a notte fatta, il successivo
dopo tanto tempo che bastasse ad una persona d' importanza,
ttiiles vel aliqtia magna persona, per cenare a suo agio; l'ultimo
quando fosse trascorso un intervallo sufficiente, perché un uomo
o donna potesse andare quietamente da un punto all' altro della
città.
La notte legale principia dopo il segnale, quasi dappertutto
- i67 -
dopo il terzo, e parecchi statuti ne fanno dichiarazione espHcita:
cosi Alberico da Rosate, giureconsulto lombardo morto nel 1354,
riferendo le parole di un giurista piti antico, Guido da Suzzara,
morto prima del 1292, ricorda l' esistenza a Padova della cam-
pana deputata ad segregandimi dictu a noctc, siciU coiiiiiiiiiiitcr est
iti onuiihas civitatihiis (^). Da quel momento si applicano i provve-
dimenti di polizia per la sicurezza degli abitanti e cominciano
r ufficio loro le guardie di notte, chiamate in Sicilia scinrtcrii o
maestri di sciiirta ('"j, rese alacri dalla responsabilità personale cui
sono esposte pei furti e danneggiamenti commessi durante la loro
vigilanza, se non possono denunciarne 1' autore. Inoltre le pene
e multe pei delitti compiuti di notte si aumentano, spesso del
doppio, talora anche pili, dopo l'ultimo segnale, a Pistoia e Lucca
dopo il primo, e perciò a Pisa e Firenze la suonata serale riceve
il nome di e. prò pena dupli.
Regola comune a tutti gli Statuti è questa, che non si pos-
sono tenere le porte aperte né si può girare per la città e sob-
borghi se non col lume, od almeno portando con sé del fuoco
in modo visibile: a Parma fu vietato dapprima anche andare col
lume, e questa regola fu modificata nel 1262: a Genova la squilla
serale dei monasteri si chiamava campana degli zoppi, perché
suonava prima e lasciava loro il tempo di rincasare adagio ("|.
Questa regola non era però cosi assoluta da non patire alcun' ec-
cezione, e s' intende anzitutto che si potesse sottrarvisi per debito
d' ufficio, per ragioni di servizio pubblico, o con licenza speciale
del magistrato; inoltre si ammettono pure giustificazioni urgenti
o manifeste, di cui gli statuti danno esempi diversi, o riser-
vano il giudizio all'arbitrio del podestà. Questo fu espressamente
sancito a Monza nel 1379 con uno statuto singolare deroga-
tivo alla norma comune. Cosi secondo i luoghi sono esenti da
pena quelli che partono per un viaggio o ne ritornano, quelli
che accorrono alla campana a stormo in caso d' incendio, cor-
rono in cerca di medico, prete, levatrice o barbiere per salassi,
o si recano in tal qualità dov' é richiesta 1' opera propria, e chi
va di buon mattino al lavoro, come devono fare scolari, fornai e
contadini che pernottano lunge dalle loro terre nei centri abitati.
A Vercelli si proscioglie da ogni multa anche \\ /amulns portans
torticiam, il cero, ad doiìiinntii suiim.
In parecchi statuti le persone di buona fama hanno altresi li-
cenza di passeggiare soli o con qualche vicino innanzi alla casa
propria ed alle contigue, non più di tre o cinque, e per le con-
— i68 —
dizioni igieniche delle abitazioni si permette anche d' uscire per
soddisfare qualche bisogno fisico vicino alla cantonata. In alcune
città (Bologna, Firenze, Pisa, Treviso, Como, Milano, Cremona,
Lodi) è proibito espressamente di suonare di notte strumenti
musicali, liuto o viola per le vie, e giova credere che gli inna-
morati italiani preterissero le ore del mattino per esprimere i
loro sentimenti colle note armoniose, dacché quegli statuti parlano
solo di mattinate e non fanno mai menzione di serenate.
I contravventori sono puniti con multe, pili gravi se portano
armi: le guardie li denunciano al giudice all' indomani, e possono
arrestarli subito, se sono persone sconosciute o sospette, salvoché
diano malleveria di presentarsi personalmente al mattino seguente.
A Pavia si stabilisce perfino una presunzione legale contro chi
è trovato di notte fuor di casa, e se in quella notte fu commesso
qualche delitto in città, lo si considera subito come imputato e
si comincia ad istruire il processo contro di lui: s' invita pure
con bando publico chiunque avesse sofferto per qualche delitto
o ne avesse conoscenza, a farne l' immediata denuncia.
Altra regola generale è 1' obbligo imposto a' tavernieri di por
fine alla vendita minuta del vino, mandare a casa gli avventori
e chiuder l'osteria: essi devono provvedervi per lo più al primo
segnale, a Pisa al secondo, perché i bevitori abbiano tempo di
rincasare prima del terzo, e la prima suonata riceve perciò il
nome di campana dei tavernai, e. potatorum a Pavia, come si chiama
senz' altro vigneron nella Francia settentrionale ('^). Si può cre-
dere che tale divieto non esistesse ancora a Siena nel 1259 e
non vi fosse obbligatoria la chiusura delle taverne, dacché vi si
vieta espressamente ai custodi notturni di trattenersi in esse nelle
ore in cui devono esercitare la loro vigilanza: agli abitanti di
Nizza siffatta norma parve assai grave ed impetrarono due volte
dal siniscalco di Provenza che fosse mantenuta solo per gli osti
di mestiere, e si concedesse in via d' eccezione ai privati di poter
vendere il proprio vino al minuto a qualsiasi ora del giorno in
casa propria per mezzo dei propri servi.
Alcuni statuti danno invece ai cittadini licenza di mandare a
comperare del vino coi loro recipienti anche dopo la campana
per consumarlo in famiglia, purché i vasi in cui si trasporta non
siano del bettoliere: altri permettono a questo di dar a bere
dopo il segnale ai forestieri che alloggiano nella stessa taverna.
A Venezia nel 1360 il vinaio, che teneva osteria entro il Fon-
daco dei Tedeschi, fu messo in contravvenzione per aver violato
— 169 —
la proibizione comune, ma ne fu poi liberato, dacché gli avven-
tori colti dai custodi col bicchiere alla mano dopo la suonata
serale erano tedeschi dormienti nel Fondaco, e quei mercanti
vogliono sempre ìiaberc vininn quocicìis voìitiit, alitcr fraiigcreiit
Itostium ('*).
Non mancarono qua e là norme e divieti speciali che appa-
riscono connessi colle varie condizioni locali. L' acqua sudicia si
può gettare per le vie soltanto di notte, ed in qualche luogo
— S. Gemignano, Corleone, Iglesias — anche le immondizie,
che altrove non è mai lecito buttare per le strade: a Pisa se
chi vi contravviene è un servo, gli statuti impongono al padrone
di pagar la multa, ma tcncntnr imputare famulo sai famulae in
suo salario coiìiputarc. La pulitura delle cloache ed a Pistoia la
preparazione del sego è permessa soltanto dopo la campana: a
Pinerolo, come a Riva di Trento ('^), anche le bestie non pos-
sono trovarsi fuori del recinto ove sogliono essere chiuse la
notte: a Voghera e Viterbo invece la macellazione degli animali
è interdetta nel periodo notturno, probabilmente ad evitare le
operazioni clandestine su animali malati con danno della salute
pubblica. Qualche proibizione locale comincia subito post sonum
Ave Marie, p. es. ad Ivrea per 1' andare a caccia nel distretto, a
Bene pel tenere in casa meretrici o ribaldi, a Piacenza pel trat-
tenersi nei conventi femminili. Gli statuti de' calzolai di Lodi im-
pongono pure di cessare dal lavoro al primo suono dell' Ave
Maria nelle vigilie delle feste ('^).
Gli statuti accennano in generale altresì ad una campana del
mattino, dalla quale comincia il giorno, ma per lo più bastano i
segnali delle Chiese che invitano i fedeli religiosi e laici alle
preci mattutine: qualche legge dichiara esplicitamente che il
giorno legale ha principio da essi. Non sembra difficile scoprire
la ragione della differenza; la campana serale ha maggiore im-
portanza ed è quasi sempre una campana pubblica, perché prov-
vede alla sicurezza generale, ed è pili urgente e necessario fis-
sare r inizio della notte, dacché le male azioni si commettono
più facilmente quando le tenebre si vanno facendo più fitte, an-
ziché nelle ultime ore, quando si diradano. A Pisa e Casale la
campana comunale suona anche al mattino, a Piacenza e Pavia
essa stessa dà due segnali, uno per l'Ave Maria e l'altro perla
fine della notte legale. A Bologna si ha l' unico esempio d' uno
statuto esplicito introdotto nella redazione del 1260 per ordinare
la suonata mattutina della campana di S. Pietro: prima fu im-
posto che suonasse a martello pel tempo sufficiente a chi usciva
di cittcà per allontanarsi d' un miglio, sett' anni dopo furono pre-
scritti quindici tocchi rari e cinque spessi.
Alessandro Lattes.
Le bozze di questa Nota erano sul punto di venir licenziate,
quando trovai un documento Alessandrino, che avrebbe dovuto
essere ricordato prima d' ogni altro, perché anteriore di sedici
anni alla carta Novarese sopraccitata. E desso uno statuto o sen-
tenza del 1206, con cui si condannano a perpetua infamia ed
incapacità due guardie del Comune, perché senz'averne auto-
rità concessero licenza ad un cittadino di tener giuoco in sua
casa et potiim ibi volenti bus biberc dar et post campaìiaui , anzi vi
giuocarono essi medesimi ad tabulas cantra staiittiiin ("'). Questo
documento, che conferma tutte le osservazioni già fatte nelle
pagine precedenti, si legge nel codice che si conserva nell* Ar-
chivio comunale d'Alessandria col nome Libcr crucis, dove fu-
rono trascritti molti documenti importanti ed insigni per la storia
del Comune,
NOTE
(') V. p. es. nel mio libro: // diritto cnnsuetmlinario delle città lombarde, Mi-
lano 1899, p. 380, not. i8^.
(') CiccAGLioNE, La legisl. econoni. /ìitaitz. e di polizia nei niitiiicipi dell' It.
nterid. nel Filangieri voi. XI, Milano, 1886, par. I, p. 528, n. 27.
(?) Monuni. /list. patr. edita inssu Caroli Alberti, Cliartaruni I, Torino, 1836,
n. 858, col. 1278.
{*) Pecori, Storia della terra di S. Geinigiiano, Firenze, 1853, p. 711, not.
(^) Cfr. Carutti, Storia di Pinerolo, - Pinerolo, 1897, p. 68.
(^) Miscellan. di storia italiana, voi. VII, Torino, 1866, p. 57.
(") Statuto Florentiae, Friburgo, 1778-83, Statuti del 1415, III, 34.
(*) Mangano, Lib. de latidibiis Papiae ap. Muratori, R. I. S. ( ov' è pubbli-
cato anonimo ), XI, 29, cap. XIV.
(*) Alberico da Ros.^te, Lectura super Digesto velcri, Lugduni, 1534, I, f. 1561:
ad l. More romano tit. De feriis et dilationibus ( Dig. Il, 12, 8).
C'') Per le origini della voce v. Sicir,iANO-ViLi,ANEUv.\ op. cit. per le Consiie-
tud. di Palermo, p. 4 io.
(11) Statuto dei padri del Comune della Rcp. Genovese, Genova, 1886, p. XI. II.
(1-) GoDEFRCY, Dict. de l' anc. langue frang., Vili, 235, s. v. Vigneron.
(13) SiMONSFELD, Dcr foiidaco dei Tedeschi, Stuttgard, 1887, I, tiuin. 1852.
(1^) S/rt/«</i' di Riva, ed. Gar, Trento, 1861, Stat. 1274, § 8^.
(15) Miscellan. di st. ital. cit., Statuta caligarioruni Laude, I2S3 (?), art. VII.
(""') Gasp.\rolo, Code.v qui Liber Crucis tmncupatur e tabularlo Ale.vandrino,
Roma, 1899, p. Ili, n. 92.
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— 174 —
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1579- ^- 70» 7i> 86.
Piacenza 1336: Statata varia civitatis Placentiae, Parma, 1860, I,
35, V, 22, 23: Statuti dei chierici 1337, p. 554.
— 175 —
Arona 1386: Mss. Trivulziano n. 1318, e. 155, 156.
Cremona 1387: Statata civitatis Cnnio/iac, Cremona, 1578,0. 122,
123, 183, 184.
Lodi 1390: Statata coììinmiiitatis Laudac, Milano, 1537, f. 8t, 84, iii.
Vigevano line sec. XIV: Mss. Trivulziano n. 865, e. 12.
Pavia 1393: Statata civitatis et priiicipatas Papié, Pa\ia, 1590,
crini, e. 40 a 43, 81.
Padova ante 1236: Statati del cornane di P. dal sec. XII al 12SJ,
cclit. Gloria, Padova, 1873, e, 784.
Vicenza 1264: Stat. del coìiiane di V., Venezia, 1886, p. 75, 177,
194, 265 (Banni del 1275).
Verona 1272-76: Stat. mss. nella Bibliot. comunale, III, 145, IV,
56, ed aggiunte 1296, in fine del lib. III.
Mantova 1303: D'Arco, Stadi inforno al manie, di Mantova,
Mantova, 1871, I, 43, 61, 69.
Venezia 1319: Capitolare inedito dei capi di sestiere ap. Fertile,
op. cit., loc. cit.
Verona 1328: Stat. mss. nella Bibliot. comunale, III, 115, IV, 38.
Treviso 1329-39: Statata provisionesqae dacales civitatis Tarvisii,
Venezia, 1574, 1. I, tract. Ili, e. 24 a 26, 1. Ili, tract. VI,
e. 14 a 18.
Ravenna sec. XIII: Fantuzzi, Monam. ravennati dei seco/i di mezzo,
X'cnezia, 1801-04, IV, e. 156, 269 bis.
Parma 1255: Monam. histor. ad provincias Parm. et Placeìit. per-
tiìientia, I, Parma, 1855, p. 160, 350, 355.
Bologna 1260-61: Statati di B. dal 124^ al '6y, ed. Frati, Bo-
l(i<ina, 1877, IV, 8a, X, 39, io6f, voi. III, 557, §§ 12 a 19.
Parma 1266 a 1304: Mon. citt. Stat. Parmae, II, Parma, 1857,
193. — Ibid. 1316 a 1315: ibid., III, Parma, 1859, 264.
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a 35-
- 176 -
S. GemignanO 1255: Pixori, Sforia di S. Gnu., Firenze, 1853, I,
44., 111. 46. 64.
Siena Stot. del commic, \'26'2.\ Il constitulo del coni, di Siena,
ed. Zdekaier, Milano, 1897, I, 169, 258, 260, 302 a 304;
487. 503; III, 7.
FÌreilZ3 Sftif. dei podestà 1-2^4: Rondoni / più antielii frntiuìienti
del constittdo fiorentino nelle Pidìbìicaz. dell' htit. di Studi su-
periori, XI, e. 5, 23, 24, e le note ai medesimi pei capp. cor-
rispondenti degli stat. del capitano 1321 e del podestà 1324.
Pistoia Stat. del podestà 12S6: Statiitiini Potestatis coniunis Pi-
s/orii, ed. Zdekai-kr, Milano, 1888, I, 48 a 51 ; III, 19, 66:
Tract. itidicis de daninis datis, 623, 66.
Fisa Breve Pisani Coniiinis 12S6 : Stat. ined. della città di Pisa,
ed. BoNAiNi, Firenze, 1852, III, 5, 48.
Chianciano 1287: Statuti di Chianciano, Orvieto, 1874, e. 328.
Lucca 1308: Meni, e dociini. per servire alla st. di Lucca, Lucca,
1867, III, par. III, 14, 94.
Lucca 1346: Bandi Lucchesi nella Collez. di opere ined. e rare,
ed. BoNGi, Bologna, 1863, p. 123, 133, 142, 178.
Viterbo 1251: Documenti di storia italiana, Firenze, 1872, IV, 66,
100, 128.
Roma 1363: Statuti della città di Roma, ed. Re, Roma, 1883, II,
97, 148; III, 96, T23.
Palermo sec. XIII: Consuetudini di Palermo, ed. Sìciliaso-'Villa-
NUEVA nei Docum. per servire alla st. di Sicilia, Palermo,
1895, ser. II, voi. IV, e. 60, colle note, pag. 406 a 413,
Alcamo Stat. delle Gabelle 1367: in Docum. citt.. Pai, 1876, se-
ri.- Il, voi. I, p. 54.
Corleone Assise della terra, sec. XIV in Docum. citt.. Pai. 1880,
voi. II, e. 50, 92, 107, 130, 140. — Nelle Consuetudini del
sec. XIV (ibid.j il e. XLI è identico al cap. succitato delle
Palermitane.
Sassari 1316: C.ode.v diplomaticus Sardinie in Mon. ìiist. patr.,
Torino, 1861, I, 70; III, 17.
Iglesias 1327 : Ibid. Codex diplom. ecclesiensis, Torino, 1877, II,
33- 34. 79-
INDICE
Dedica . - fag. i
Avvertenza „ 3
I. Se Dante abbia mai pubblicamente insegnato 7
II. Pascua pieriis demum rtsonabat avenis „ 37
III. La suprema aspirazione di Dante „ 73
IV'. Come Manfredi s' è salvato „ 115
V. La " squilla di lontano „ è quella àe\\' Ave Marta? „ 137
VI. " La vipera che '1 melanese accampa „ „ 151
Appendice: A. Lattes, La campana serale nei secoli XIII e XIV se-
condo gli statuti delle città italiane „ 161
NOVATI.
Biblioteca Storico-critica della Lette-
ratura Dantesca diretta da G. L. Pas-
serini e da P. Papa.
FASCICOLI PUBBLICATI:
1. Paget Toynbee - RICERCHE E NOTE DAN-
TESCHE, Serie T L. 1 25
2.-3. Enrico Rostagno — LA VITA DI DANTE,
testo del così detto Compendio attribuito a
G. Boccaccio. „ 3 —
4. Nicola Zingarelli - LA PERSONALITÀ STORICA
DI FOLCHETTO DI MARSIGLIA nella Co me dia
di Dante „ 1 50
5. Egidio Gorra — IL SOGGETTIVISMO DI DANTE
„ 2 -
6. Felice Tocco QUEL CHE NON C È NELLA
DIVINA COMMEDIA o DANTE E L'ERESIA.
„ 2 -
7.°-8. Francesco Torraca - DI UN COMMENTO
NUOVO ALLA DIVINA COMMEDIA. „ 3 -
9.'^ -10. Francesco Novati — INDAGINI E POSTILLE
DANTESCHE „ 3 -
I fascicoli si pubblicano uno al mese in formato
di-8: il loro prezzo sarà stabilito volta per volta in
ragione del numero delle pagine.
Si può anche sottoscrivere la prima serie di 12 fa-
scicoli per sole lire 12 (estero franchi 16) che si pa-
gano anticipatamente.
BIRLIOTEr.A STORICO - r,RITICA
DELI.A
LETTERATURA DANTESCA
DIRETTA
DA G. L. PASSERINI k da P. PAPA
XI.
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899.
EDWARD ARMSTRONG
i; IDEALE POLITICO DI DANTE
JOHN EARLE
LA '' VITA NOVA „ DI DANTE
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899
Proprietà letteraria.
BOLOONA: TIPI DELLA DITTA ZANICHELLI, 1900.
E. ARMSTRONG
L' IDEALE POLITICO DI DANTE
L' IDKALi: PULII ICO DI DANTK (')
Non è invero tra i fortunati uomini di stato che bisogna ricer-
care nella storia i sognatori d' ideali politici; si può anzi affermare
che la fortuna letteraria d' un simile ideale è inversamente pro-
porzionato alla fortuna politica di chi ne è autore.
Questo perchè il successo letterario sta nel " sentimento „
nel suo stridente contrasto col vero, e l' ideale politico, seb-
bene si atteggi a disegno del futuro, non è poi in verità che una
fantastica immagine del passato; dice ciò che " avrebbe dovuto
essere „, non ciò che " sarà „ ; segna il tramontare di un
vecchio ordinamento, anziché il nascere di uno nuovo ed in
rispetto all' autore — s' egli è mai stato uomo politico — non è
già Qn programma, ma sibbene l'apologia della sua causa.
Perciò non deve meravigliare se l' Italia nel periodo d' ind
pendenza, che corre dalla caduta degli Hohenstaufen alla dom
nazione Spagnuola, abbia prodotto due grandi ideali politici:
De Monarchia di Dante ed // Principe del Machiavelli, pur non
riuscendo, se togliamo Venezia, a stabilire un duraturo assetto
politico.
Vi è tanta analogia nella condizione di questi due scrittori,
che viene quasi spontaneo il considerarli unitamente per un mo-
mento. Entrambi furono Fiorentini e avevano tenuta un' alta ma-
(') Questo scritto comparve originariamente nella Cliiirclt Otiarterìy Review
(fase, dell'aprile 1890), donde noi l'abbiamo tratto col cortese consenso del-
l' Autore.
gistratura, furono trascinati entrambi (uio ad un certo punto
oltre le proprie originali opinioni e nel lìcìre degli anni si videro
entrambi condannati ad ozio politico, e sebbene si mantenessero
sempre dopo la caduta in stretti rapporti con i maggiorenti del
tempo, non poterono avere alcuna seria influenza. Ambedue si
addolorarono per la incurabile discordia delle singole città, so-
gnarono ambedue un' Italia unita, ed insieme videro nel po-
tere temporale della Chiesa uno dei principali ostacoli al loro
ideale; tanto per l'uno quanto per l'altro l'attuarsi del sogno
parve dipendere da un solo, conosciuto uomo. Quanto a poesia,
veramente fra Dante ed il Machiavelli corre la stessa differenza
che vi è fra Giuliano e Lorenzo de' Medici e l' imperatore Ar-
rigo VII, pur tuttavia ebbero comune la speranza di un pratico
successo.
Tanto il De Monarchia quanto // Principe sono epitaffi di
ordinamenti morti e come tutti gli epitaffi dicono ciò che il morto
avrebbe dovuto essere o ciò che si spera esso divenga.
Mentre la conclusione dell' uno ed il proemio dell' altro sono
dichiaratamente basati sulla storia, pure né 1' uno né 1' altro è,
come la Politica di Aristotile, la grammatica di un ordinamento
esistente. Quello che più non viveva quando il Machiavelli scrisse
era in verità un ordinamento nazionale, poiché poggiava sull'esclu-
sione dello straniero, ma ne cagionò la morte la debolezza dell'idea
unitaria interna. L' ordinamento invece considerato da Dante
andò a male per la mancanza di vivo sentimento di nazionalità;
ma Dante, non curando questo male, voleva ad ogni costo rinno-
vare r unità. Questa è la ragione per la quale 1' opera di Dante
riesci un epitaffio soltanto, mentre quella del Machiavelli fu un
epitaffio si, ma con promessa di vita futura.
Abbiamo posto che il De Monarchia fosse un ideale politico
e certamente lo crediamo, ma ci manca assai il non sapere con
certezza in quali circostanze ed a qual fine Dante lo scrivesse:
se cioè quest' opera fosse come il credo della sua conversione al
Ghibellinismo teorico, prima della lotta fra Bonifacio Vili e la co-
rona di Francia; se dovesse essere un opuscolo politico inteso
— 3 —
come aiuto immediato alla causa di Arrigo VII, o finalmente se
un'apologia od un epitaffio della causa quando era già perduta.
Vi è altra incertezza intorno alle attinenze di quest' opera con le
altre del medesimo autore. La Commedia, il Convito, le Epistole.
sono piene di allusioni alla vita contemporanea, mentre il De Mo-
narchia non ne contiene forse alcuna. E forse quest' opera una
esposizione di principii generali, la premessa maggiore, mentre
la minore e la conclusione politica è nelle altre? È insomma uno
scritto che ha preceduto gli altri tanto per il pensiero quanto per
il tempo? Ovvero il risultato astratto della esperienza politica,
intorno alla quale erano stati gittati giù appunti nelle altre opere,
quasi in un diario?
Fortunatamente, se negli altri scritti vi è pur qualche scon-
cordanza nei luoghi di minor momento, non vi sono contradizioni
in quanto alla teoria generale. Se il De Moìiarcìiia è stato scritto
durante il regno di Alberto d' Austria, esso ci mostra ugualmente
la fede politica di Dante quale egli la mantenne durante e dopo
il regno di Arrigo VII, e per il suo carattere astratto e per 1' or-
dinamento logico essa è la miglior base possibile per un raffronto
dell'ideale con ciò che era in realtà la politica del giorno.-
E notevole che Dante al principio stesso dell' opera affermi
d' essere l' inventore d' una nuova teoria intorno alla monarchia
temporale. Da questa affermazione si sono volute trarre conse-
guenze intorno alla data dell'opera; senonclic durante tutta la
vita politica di Dante, ed anche prima, la teoria della monarchia
universale era un luogo comune che ha occupato l' intera vita di
molti diplomatici e giureconsulti. La novità apportatavi da Dante
sta in ciò che egli la connette con la metafìsica e la tratta con
severo metodo logico. In questo modo la teoria è passata dalle
mani del giurista a quelle del filosofo, prendendo nel mutare un
novissimo aspetto. Il giureconsulto considera i diritti dell'impero
ed i doveri dell'umanità; il filosofo, che si occupa dei diritti che
ha l'umanità per poter raggiungere il suo fine, pensa invece ai
diritti dell' imperatore. Il sovrano non è che il mezzo col quale
r umanità può raggiungere la pienezza del suo potere ed occu-
— 4 —
pare il posto clic le è assegnato nell' oriliiiaincnto dell' universo.
Il giureconsulto chiama l'imperatore " Signore di tutti „, mentre
il filosofo lo dice " servo di tutti „; al modo stesso che il Pontefice
è Siri'iis Scrvoniììi Dei, V imperatore non è che il ministro della
libera umanità.
Quale dunque è il fine della " universalis civilitas „ di questa
umanità? Ce lo dice Dante stesso: " Est actuare semper totam
potentiam intellectus possibilis, per prius ad speculandum, et se-
cundario propter hoc ad operandum per suam estensionem „ (').
Per raggiungere il qual fine principale mezzo è la pace e
questa dipende dalla giustizia; ora non essendo la giustizia pos-
sibile fi-a poteri che si equivalgono, è necessario un solo ed uni-
versale giudice.
Egli deve avere potenza e volontà bastevoli per essere il più
equo ; la sua giustizia non può essere intralciata dalla cupidigia,
poiché egli nulla avrà da desiderare, il suo dominio non ha altri
limiti che 1' Oceano. Se pur la cupidigia offusca la giustizia,
amore poi l' illumina, amore che è cosa propria del sovrano, es-
sendoché è più vicino all' umanità degli altri principi. Il suo
operare è simile a quello dell'umanità, lo dice il Convito; il
sovrano ha relazione con l' uomo compiutamente, ove gli altri
signori r hanno solo in parte. Siccome la giustizia è un mezzo
per raggiungere la felicità umana, il sovrano non è altro che il
ministro dell' umanità, onde essa diventi libera; esiste per i suoi
sudditi, non questi per lui.
Nella monarchia solamente 1' uomo vive per sé stesso e non
a vantaggio d'altri, perché è perfettamente libero. E base di questa
libertà la " libertas arbitrii „, l'indipendenza cioè dell'intelletto
dall' appetito, indipendenza che soli gli esseri intelligenti posseg-
gono del tutto. Libertà e governo sono strettamente vincolati:
" Evigilate igitur omnes, et assurgite regi vestro, incolae Italiae,
non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati. (^) „
Questo è ciò che ci fa felici qua giù e ci renderà poscia simili
(1» De Mon. I, 4.
(^ Dante Episl. V, 6.
agli dei. Questa libertà è esenziale alla perfezione delle nostre
qualità intellettuali: " Pax cum libertate „ diventa dunque il motto
dell' impero. Questa è la base filosofica dell' opera di Dante, per
mezzo della quale egli ci porge i principii fondamentali.
Senonché ora sorge un nuovo intoppo: a chi spetta di diritto
l'impero? E a questo punto Dante trova nei lettori ignoranza di
fatti e disaccordo circa le conseguenze da cavarne. V è chi nega
i diritti del Popolo romano e chi nemmeno ne conosce le ragioni.
Il diritto deriva dalla volontà di Dio, e se riesciremo a dimo-
strare che Roma ebbe il suo impero per volere di Dio, lo avrà avuto
giustamente. Roma ha il più bel titolo di nobiltà, poiché le viene dai
fondatori il sangue più puro derivante dalle tre divisioni del mondo;
tutte le nazioni hanno combattuto per l' impero ed in ciascun
giudizio della spada la sapienza divina ha dato ragione a Roma.
Chi mira al bene comune lo fa a scopo di giustizia, poiché ap-
punto in essa sta il bene comune; ora Roma nel soggiogare il
mondo mirava a questo bene comune: la sua storia è una lunga
prova di sacrifizio. " Omni cupiditate submota, quae reipublicae
semper adversa est, et universali pace cum libertate dilecta, populus
ille sanctus, pius et gloriosus, propria commoda neglexisse vide-
tur ut publica prò salute humani generis procurarci. Unde recte
illud scriptum est: Roinanii/n iinpcrimn de fonte nascitur pietatis. „ (')
La natura stessa ha formato Roma per l'impero, poiché la
legge naturale è inseparabile dalla giustizia. Nel preparare i
mezzi per il fine dell' uomo la natura destina alcuni uomini per
l'ubbidienza, altri per il comando e similmente fa con i popoli; di
questi quale meglio del romano fu mai preparato per l' impero
universale? Altre città potranno essere prime nell'arte o nelle
scienze, ma senza dubbio Roma fu fatta perché imperasse.
Ma pur riconoscendo Roma quale sede dell' universale reg-
gimento, deve proprio essere sovrano 1' imperatore? Negano i
Decretalisti e riferiscono alla S. Sede tutte quante le prove che
Dante adduce in favore dell'impero. Perciò Dante, che nel secondo
(i) De Monarchia II, 5.
— 6 —
libro aveva per difendere Roma " scossi sul soglio tutti i re
della terra „, deve nel terzo combattere gli avvocati pontifici,
*' gente ignara di teologia e di filosofia che afferma in mala
fede essere le tradizioni della Chiesa le basi della religione „ (').
Ora nel trattare tali questioni Dante non deve ammaestrare
circa i principi fondamentali, ma sibbene cercare di combattere
prove contrarie; perciò è che, mentre il primo libro è sopra tutto
filosofico ed il secondo storico, il terzo riesce, per essere del
tutto polemico, il più vero, il più interessante ed il più efficace
presso i lettori moderni ; e nel medesimo tempo somiglia mag-
giormente alle altre apologie dell' impero precedenti o susseguenti
il De Monarchia.
Dante inoltre, pur combattendo le pretese pontificie, non lascia
di approfondire il suo concetto dell' impero. Per primi ribatte gli
argomenti tratti dalla Scrittura intorno al prevalere del sacerdote
sul principe, poscia quelli metafisici patrocinanti una unità nella
quale T imperatore sia sottoposto al Pontefice. In vano i Deere-
talisti forzano la mano alla storia e fanno legge della donazione
di Costantino e delle susseguenti concessioni; Dante risponde
loro, dover andare il diritto avanti il giudice, come l' impero va
prima dell' imperatore. Costantino non aveva diritto alcuno di fare
donazione di ciò che era dell' impero, né la Chiesa di accet-
tarlo, poiché egli non poteva alienare ciò che non gli appar-
teneva " Poterai tamen imperator, in patrocinium Ecclesiae, pa-
trimonium et alia deputare, immoto semper superiori dominio,
cuius unitas divisionem non patitur. Poterat et Vicarius Dei re-
cipere, non tanquam possessionem sed tanquam fructum prò Ec-
clesia, prò Christi pauperibus dispensator „ (*). L' imperatore po-
teva concedere e la Chiesa accettare solamente a titolo d' usu-
frutto ed a vantaggio dei poveri.
Se poi Carlomagno è diventato \ Advocaiiis e perciò il vassallo
della Chiesa, " usurpatio iuris non facit ius „ ; l' Impero è anteriore
(1) De MoM., Ili, 3-
{-) De Moti. Ili, IO.
alla Chiesa, Cristo stesso ne riconobbe il potere temporale (se
Costantino non lo avesse avuto, non avrebbe potuto fare dona-
zioni alla Chiesa e questa avrebbe commesso un abuso accet-
tandole). Ora nessuna legge, né divina, né nazionale, né univer-
sale, ha fatto passare mai questa potestà in mano alla Chiesa;
essa non se la poteva attribuire da sola, né l'Imperatore poteva
concedergliela; la " virtus auctorizandi imperiuni nostrae morta-
litatis „ è contraria alla sua natura stessa. Quale è dunque la
relazione che corre tra essa e l'Impero?
L' uomo è un mezzo fra il corruttibile e l' incorruttibile, ha
due nature, ciascuna delle quali ha il proprio fine; santità in
questa vita e santità nell'altra; la via per raggiungere quest' ultimo
scopo sta nella dottrina spirituale e nelle virtù teologali e ne è
guida il Pontefice. Il primo fine invece si raggiunge con la dot-
trina filosofica, con le virtù morali e con quelle dell'intelletto:
r imperatore doma con la pace le contrarie onde di passione.
Questo è dunque l'ufficio dell'impero. " Ut in areola ista morta-
lium libere cum pace vivatur „ ('). Siccome poi l' ordinamento
della terra è simile a quello dei cieli cosi solamente chi ha or-
dinato i cieli può dare al guardiano della terra gli " utilia do-
cumenta libertatis ac pacis „ (^). Dio solo elegge. Egli solo con-
ferma, ed i cosidetti elettori non sono che suoi ministri. Il De
Monarcliia conduce dunque ad un imperatore che abbia per mis-
sione di istituire la pace universale per mezzo della giustizia;
egli è il servo della libera umanità e gli altri principi sono suoi
deputati. Il diritto gli viene dal Popolo romano, ma la sua legge
deve essere assoluta, né può essere intralciata o menomata dalla
giurisdizione, né dalla legge delle cose spirituali.
Quest' ideale non aveva probabilità alcuna di essere attuato,
finché i mezzi consistevano in un' imperatore quale Alberto
d' Austria, in principi quali Filippo il bello e Carlo di Napoli od
in un Pontefice quale Bonifacio VIII. Se non fosse stato per
(I) De Moli. Ili, i6.
r assunzione al trono di Arrigo VII e per 1' andata dei Papi ad
Avignone, il De Monarchia sarebbe riescilo inutile e senza con-
cordanza storica.
Solamente durante il regno di Arrigo MI l' ideale di Dante
ebbe qualche attinenza col vero. Il materiale dato dalla storia
consiste da un lato nell' imperatore stesso e negli elementi che
in teoria sembravano poter essere favorevoli, cioè gli interessi
del Ghibellinismo e 1' ambizione del Popolo romano, e dall' altro
in quelli che secondo ogni probabilità si sarebbero opposti all' av-
verarsi dell' ideale, cioè i vantati diritti della resistente unità del
Papato sotto forma d' impero e lo spirito di nazionalità che com-
batteva l'unità sotto qualsiasi forma. Se carattere dell'impero
doveva essere l'universalità, cioè l'assenza d'interessi locali e
di attriti nazionali — • un che al di sopra dei contrastanti interessi
e delle fazioni — allora il carattere personale ed il modo di vita
di Arrigo di Lussenburgo ne facevano un imperatore ideale ;
e se il De Monarchia è stato scritto prima della sua ascen-
sione al trono, Dante si è mostrato veramente profeta, oltreché
filosofo.
Arrigo come imperatore aveva la men definita nazionalità che
si potesse sperare; principe dell' impero Germanico era eletto
dagli elettori Tedeschi unanimi; ma veniva dal confine di Francia,
era stato educato alla corte francese e parlava francese, la sua
elezione era patrocinata dal fratello, I' elettore di Treviri, sempre
il più francese fra gli elettori, e perciò la sua candidatura riesciva
gradita alla Corte di Francia. Ora i suoi interessi fin da principio
erano in Italia, che egli stesso riguardava quale luogo di partenza
per la Terra santa.
Il Papa infatti gradiva l'elezione; un Pontefice francese non
poteva che temere il minacciato trapasso dell'impero dai Te-
deschi ai Francesi, senza contare che 1' aumento d' influenza im-
periale in Italia avrebbe arrestato l' ingrandire della monarchia
Napoletana, minaccia alla indipendenza degli Stati Pontifici. Ep-
pure il re dei Germani avrebbe a mala pena certo soggiaciuto
ad un Pontefice Francese.
— 9 —
Arrigo era di gran lunga in condizioni più vantaggiose degli
Ilabsburg e l'assenza del Papa gli apriva le porte di Roma.
Il possedere egli un piccolo principato di otto o nove città
non poteva certamente creargli un legame qualsiasi di naziona-
lità; è vero che la cessione della Boemia al figliuolo fu il prin-
cipio della grande potenza territoriale della casa di Lussemburgo,
ma pare che Arrigo non mirasse affatto a questo. È certo che la
sua politica, al contrario di quella degli Habsburg suoi anteces-
sori, e di quella di Luigi di Baviera suo successore, non fu punto
indirizzata ad accrescimento territoriale per vantaggio proprio.
Egli usò del matrimonio per amicarsi principi potenti, ma lo fece
come gli imperatori antichi per assicurarsi la fedeltà dei vice-
rettori dell' impero, non perché col tempo le loro proprietà
territoriali venissero per eredità ad accrescere quella della sua
casa. Se poi in Italia mancarono ad Arrigo i vantaggi materiali
di Federico II, non gli si misero dinanzi al valico delle Alpi gli
ostacoli che per 60 anni ne avevano chiuso il passo agli altri
imperatori tedeschi.
Roberto di Napoli era allora allora salito al trono, aveva un
titolo incerto, e Federico di Sicilia sarebbe stato per lui per lo
meno un rivale. Gli effetti della tragedia di Bonifacio VIII non
potranno mai essere troppo valutate, anzi erano tanto maggiori
inquantoché si trattava di uno dei pontefici più potenti. Non
ostante il crescere successivo del dominio temporale, il papato
non riebbe mai pili la suprema autorità in Italia. La teoria
Guelfa, se teoria fu mai, di una federazione italiana dei municipi
con a capo il Pontefice italiano, perdette ogni prestigio. Il Pon-
tefice non fu più italiano, i municipi Lombardi caddero quasi tutti
in mano ai despoti, quelli Toscani si divisero in fazioni, fra le
quali è ben difficile distinguere un'unica linea di condotta. Le
classi inferiori, che non avevano posa sotto quei tirannelli, nobili
o borghesi che fossero, ed agognavano almeno un mutare di pa-
droni, sperarono in Arrigo, come nel 1494 spereranno in Carlo VIII
" Plebs omnis Italiae, quae novis semper trahi ducibus quaerit,
lege fatorum aeterna, venientem Caesarem jam manifestis oplabat
IO
applausibus (') „. Roma senza corte né commercio era pronta ad
accogliere un imperatore od un Pontefice che le rendesse la prospe-
rità materiale e traducesse in realtà le sue aspirazioni a ritornare
centro del mondo. " Fama incrcbesccbat Pop. Roni. praesertimque
plebem commodis suarum rerum Regem exojìtare (-) „. Potè poi
più di tutto l'essere Arrigo, in tanta demoralizzazione, l'unico
principe che avesse un'alto ideale, quello stesso che Dante descrive,
cioè di un regno di pace e giustizia che fosse una liberazione da
un'incosciente tirannide; stato questo che se pur non poteva
essere universale, almeno poteva essere comune alla Germania
ch'egli aveva pacificato, ed all'Italia della quale egli diveniva
arbitro. Non avrebbe avuto per capitale una città venutagli in
retaggio dalla sua casa, ma Roma stessa; avrebbe usato il potere
per servire quello spirituale della Chiesa e per difenderne gli in-
teressi temporali. E perciò che studiando la storia di Arrigo pare
di leggere il De Monarchia punto per punto. Vediamo il pe-
riodo visionario filosofico nel quale egli tenta di stabilire la pace
universale; il periodo storico nel quale egli sacrifica ogni cosa
pur di rinnovare l' unione dell' Impero con Roma, e finalmente
e inevitabilmente la polemica quando è costretto a combattere
la rivalità del Pontefice e dei suoi alleati. Il continuo parlare di
pace e giustizia che si nota nei cronisti di Arrigo non si deve
considerare come un luogo comune di panegirico regale, perché
ciò si riscontra nei Tedeschi come negli Italiani, nei Ghibellini
come nei Guelfi moderati, quale il Villani.
Il suo governo nel Lussemburgo è lodato : " Quod in eo via
justitiae et trames equitatis bases suas fixerit; nam per comitatum
Lutzelburgensem mercatoribus et aliis peregrinantibus major fuit
securitas quam sit in aliquibus provinciis ecclesiarum immu-
nitas (^) „. Pare proprio che pace e giustizia fossero caratteri-
stiche della sua famiglia. Il cronista di Baldovino da Treviri, dopo
(') Ferretus Vicentinus: Muratori IX, 1055.
('■=1 Mussato. L. Ili, e. 7: Muratori, X, ^08.
(') Pcrtz, XVII, 70: Annales Worm.
— II —
aver lodato in Arrigo queste medesime virtù, dice di lui " jude.x
justissimus, semper illum gerens animum. Juste iudicate, fìlii ho-
minum (') „. Dal Lussemburgo la sua fama passò in Germania,
una cronaca di Salzburg dice di lui: " de quo multa bona, et
maxime quod pacis amator et justus judex csset, quasi per totam
Alemaniam dicebatur (-) „. L'annalista di Zwettel crede che: " la
sua morte ebbe per causa l' essere il mondo indegno di lui,
poiché da Carlomagno in poi non vi fu chi gli somigliasse. Il
suo ardore per la giustizia ed il carattere religioso della sua vita
lo resero pari ai re dell'Antico e del Nuovo Testamento „.
Quando scese in Italia la forma pratica che doveva prendere il
regno di pace e di giustizia fu naturalmente il ripristino dei vicari
imperiali, che dovevano mettere ordine nell' intrico di tiranni e
di libertà comunali. Dovevano invero continuare ad esistere i mu-
nicipi, ma solamente come complemento della giurisdizione im-
periale; erano stati tanti germi di discordie, dovevano ora for-
mare insieme una gran leva d' unità. I nomi di parte Guelfa e
Ghibellina dovevano dimenticarsi. Cosi suonavano le lettere im-
periali: " Universos Christicolas sibi cordi esse componendos (') „.
Tale fu il tenore del discorso imperiale ai Lombardi, pronunziato
dal trono posto dinanzi a S. Ambrogio il giorno che cinse la co-
rona di ferro: " Intentionis erat nullam partem tenere, ubique po-
nere pacem, omnes expulsos introducere (""J „. E fu allora che ad un
fedele esule di Vercelli, il quale diceva aver sofferto assai a ca-
gione dell' impero, cui purtuttavia avrebbe seguitato a servire con
ogni sua possa, rispose di non poter credere che i travagli gli
fossero venuti dall' impero, perché in Lombardia egli non par-
teggiava, che non vi era venuto per alcuna parte, ma sibbene
per tutti quanti ("').
(') Baluze., Mise. Hist., I, 314.
e") Contiti. Canonicormii S. Rudberti Salisburgensis: Pertz, XI, 319.
(3| Lettera ai Pisani: Mussato lib. V: Muratori X, 406.
[*) Nicolai Episc. Bottoni. Relatio: Muratori IX, 89^; ed. Heyck p. 2.
(') Ibid. " Nostro intendimento era di volere i Forentini tutti, e non partiti, a
buoni fedeli „. Villani IX, 7. Lo stesso a IX 15 dice, che la gente era cosi scossa
12 --
Questo serio e religioso piincipc renano faceva veramente uno
strano contrasto con i signori italiani d' allora. Suo unico piacere-
era la pace; lo dice il Compagni: " La sua vita non era in so-
nare, né in uccellare, né in solazzi, ma in continui consigli,
e a pacificare i discordanti e assettare i vicari per le terre „ (').
La missione gli veniva direttamente da Dio ed era, aggiunge,
di abbattere i tiranni per modo che non ce ne rimanesse un solo,
e perciò " venne giù, discendendo di terra in terra, mettendo
pace come fusse uno agnolo di Dio „ (^). Clemente stesso lo indi-
cava quale messia di pace " Vivat rex Salamon. Salamon inter-
pretatus pacificus rex, nani et ipse talis est, pacem enim diligit,
pacem quaerit et amplectitur, et pacem procurat, nani Teutoni hoc
videntes a bellorum strepitibus quierunt et quiescunt .... nani
ubicumque fuit ita pacem procuravit quod in veritate dicere pos-
sumus : In pace factns est ejus lociis „ (^). Ma più notevole
ancora, quando si raffronti con la teoria di Dante, è un passo
della Cronaca di Baldovino di Treviri, nella quale cosi parla di
Arrigo: " Merito illud propheticum cius dcbuit auribus insonare:
Specie Ina quoad iustitiam humanitatis et ad vitam activam, ei
pulcliritiidine tua, scil. honorum operum divinitatis et ad vitani
speculativam, intende, prospere procede, et regna „ {*). Dante non
avrebbe certo potuto nel primo libro esprimere l'idea sua meglio
di questo: " Simplex animus [qui] totaliter aspirabat dare pacem
mundo „ (^).
Né fu Arrigo meno ardente di Dante nel voler che la pace fosse
compagna inseparabile di una legge universale con un solo legisla-
tore. L'universalità dell'Impero è impressa perfino sul suo sigillo:
dalla sua fama di giustizia e di paciere, che se non fosse stato per l'indugio a
Brescia avrebbe potuto impadronirsi di Toscana, Roma e Napoli senza colpo
ferire.
(') Dino Comp. Cronica, Uh. III. 26. Ediz. Del Lungo, II. 363.
(^) Ibid. lib. III. 24. Ediz. cit. II, 355.
(') Bonaìni. Jicta Henrici VII, I, 2.
{*) Baluze. Mise. Misi. I, jij.
C") Johannes de Cermenate: Muratori IX, 1237.
- 13 —
" Ego coronarum corona imindique caput, conlìrmo principi po-
testatem sibique subjicio civitates gentiumque nationes. Tueantur
aquilae gloriani nieam „. Questa stessa universalità è impressa
in egual modo sui comuni indipendenti e sui feudi pontifici. Nel
suo Editto del 1313, egli parla " dell' Impero romano nella
cui pace riposa l' ordine di tutto il mondo, e del divino co-
mando che ogni anima dovrebb' essere soggetta all' Imperatore
romano „ ('). Né viene esclusa Napoli in forza dell' alta sovranità
pontificia, " Regnum Siciliae et specialiter insula Siciliae sicut et
ceterae provinciae sunt de Imperio, totus enim mundus impera-
toris est „ (').
E di quest' impero deve essere centro Roma col " suo popolo
fedelissimo, col suo caro senato, col quale egli viene a passare
giorni pieni di letizia „. A noi questo diritto divino ed incontra-
stabile di Roma appare la parte pili fantastica ed inattuabile
dell'ideale dantesco e dell'ambizione di Arrigo; ai suoi con-
siglieri militari poi parve una vera e propria stoltezza. E so-
lamente in Roma ferveva di rimando un' uguale ambizione ed un
ideale simile ai loro, che non si curava di tempo né di parte. Non
ora solamente, ma ogni volta che il dilagare della nobiltà teuto-
nica fu arrestato per un momento da un sopravvanzare della
democrazia, insieme col tisico vivere delle libertà municipali ri-
prese a fiorire la bella aspirazione ad un Imperio universale. Poco
importava che l'impero fosse passato in mano ai Tedeschi; che
fosse maggiormente vincolata la libertà d'elezione, non già dalle
grandi cariche imperiali, ma dal possesso di certe terre anche
oltre i confini dell'antico impero; che non fosse più necessaria
di aver prima l'incoronazione e l'acclamazione popolare, poiché
se ne era fatto senza per 60 anni. " Roma „ dice il Gregorovius
" è r unico luogo ove i fantasimi del passato non svaniscono
mai „. Gli imperatori, se volevano che il loro titolo avesse un
significato, non potevano fare a meno di ricongiungesi a Roma.
(') Pertz, IV', 544. Coustitutiones Heiirici VII.
(•) Dònniges, Ada Heinici VII, II, 6j.
- 1+ —
Se poi il Pontelìce temeva la presenza dell' Imperatore in Roma
e ne era partito in fretta, è pure indubitato ehe solamente con
questa unione egli avrebbe potuto avere un' influenza veia sul-
r Impero. Infatti 1' ultimo imperatore coronato in Roma fu anche
r ultimo sul quale la S. Sede ebbe autorità. Presso gli Hohen-
staufen questa idea doveva servire alla dominazione in It^dia ;
per Luigi di Baviera fu un pretesto ad osteggiare un Pontefice
rivale, per Arrigo poi segnò la cima della sua ambizione; egli
seguiva le orme degli Ottoni. Invano 1' Arcivescovo di Magonza
10 scongiurò ad abbandonare il disegno di passare le Alpi e a
contentarsi del regno di Germania (').
A Roma il suo successo pratico dipendeva da cause estranee
alla teoria, dalle forze cioè rispettive dei Colonna, degli Orsini
e delle famiglie loro alleate; dalla probabile vittoria del cavaliere
germanico sulle barricate di Napoli e finalmente dal maggiore o
minore tempo che avrebbero impiegato i Fiorentini a mandare
avanti la leva della parte Guelfa di Toscana. Ma bisogna fare
astrazione anche da ciò; la vera probabilità di successo non stava
nella fortuna dei combattimenti in campo aperto; sibbene piuttostcj
nella alleanza del monarca universale con la democrazia romana.
11 Senato concede all' Imperatore la giurisdizione sulla città, egli
convoca un parlamento ai piedi del Campidoglio e diecimila cit-
tadini rappresentano gli elettori di tutto il mondo. Siccome è
sbarrata la via a S. Pietro, la commissione Pontificia non ha
autorità per incoronare in Laterano. Senonché il dare la corona
non spetta al papa, sibbene al popolo. " Ex plebiscito obtentum
est Cardinales Reipublicae suasionibus precibusque coronam dare,
sin autem coercendos per tribunos populumque Romanum „ (•).
Ed infine l' incoronazione fu fatta mercé l' imposizione del popolo
ai Cardinali. Arrigo credeva fermamente che l' impero del mondo
(') " Nel primo consiglio fu ofeso da' Fiorentini, perché a' preghi loro l'ai-
ci%'escovo di Mag?.nza lo consigliava che non passasse, e che li bastava essere
re della Magna, mettendoli in gran dubio e pericolo il passare in Italia. „ Dino
Compagni, Cronica, III. 24. Ediz. cit. p. 353.
(^) Mussato, Vili, e. 7. Muratori, X, 460.
_ 15 —
dipendesse dal possesso delle fortezze di Roma. Se pur riesciva
a niaiitcncrsi in Roma che era la capitale dell'impero, egli pensava
che " ceteras terras tanquam appendicias suum veluti caput respec-
tare „ ('). " Perché sono io qui venuto? „ chiedeva ai Romani " So-
lamente per far si che il popolo romano, ora mal noto nel resto
del mondo, possa riprendere il governo sotto l'egida e col titolo
della maestà dei Cesari „. Quando i nobili tedeschi ed i capi
Ghibellini si ritirarono, il popolo non voleva che Arrigo li se-
guisse, egli poteva rimanere a Tivoli che pur era terra romana (').
Dopo la sua partenza poi fu richiamato dall' improvviso sollevarsi
del popolo guidato dall' Arlotti. A Roma le rivoluzioni non erano
che reazioni. L'Arlotti fu schiacciato ed Arrigo mori; toccò a
Luigi di Baviera di accettare la corona del popolo romano (^).
Pure il Petrarca opina che se Arrigo fosse vissuto " Romani
regnantem et liberrimos Italiae populos ac felicissimos reli-
quisset „ (/).
Se il Papa e l' Imperatore dovevano governare regni separati,
è peccato che avessero insieme una sola capitale. Quando la
monarchia con Arrigo VII si stabili sul Laterano, e sul Quirinale
con Vittorio Emanuele, il Witicano fu loro sempre troppo vi-
cino. Non bastò il Tevere a separare il potere spirituale dal
temporale ed infatti il ponte S. Angelo fu sempre il naturale
campo di battaglia.
Un viaggio imperiale a Roma fu sempre il pomo della discordia
fra r elemento Guelfo ed il Ghibellino, la pietra di paragone che
mostrava quanto vera fosse la professata amicizia della S. Sede
per r Impero. Ed in ciò il viaggio di Arrigo non fu certamente
un'eccezione; mostrò con quanta proprietà egli fosse stato chia-
(') Mussato vili, cap. 3: Muratori, X, 451.
(-) Ferretus Viccntinus: Muratori IX, 1106.
(•'') " Compertiim est, dispositis ad huius [Arlotti] plebisque ad libitum rebus,
praecipue potentioribus fusis, omnia haec parari Caesari, ipsum evocandum in
urbem, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe re-
cogniturum „. Mussato, XI, cap. 12. Muratori, X, 508.
{*) Petrarca, Lederà a Carlo IV.
— i6 —
niato r imperatore Guelfo ed in qual modo egli realizzasse le
vedute Ghibelline intorno alle i-(.lazit)ni tra Chiesa e Stato.
Qui vengono a galla tutti i punti controversi. Fin dove egli
considerava che le due autorità fossero indipendenti per origine
e distinte per funzioni? Che significato aveva la donazione di
Costantino in generale ed in particolare riguardo alle pretese
pontificie in Italia? Fu in verità investitura di feudo da parte
del sovrano l'incoronazione di Carlomagno? E che cosa signi-
ficava il pericoloso titolo di Advocalus? Aveva forse un signifi-
cato tecnico feudale o fu usato secondo quello originario e per
un atto singolo? Vera la prima ipotesi, che l'imperatore cioè
stesse alla chiesa in generale come di solito 1' Advocattis stava
ai Vescovadi od alle abbazzie (dato cioè che fosse il protettore
della Chiesa legalmente costituito, che esercitava i diritti di giu-
stizia temporale che essa non poteva da sé stessa esercitare),
quale era sull'Impero il valore di questo titolo? Era un feudo
concesso dalla Chiesa, alla quale l' Advocatus prestasse poi in
cambio il suo appoggio, o era forse un possesso che 1' Advocatus
aveva prima di assumere quest'ufficio?
Dalle quali questioni si saliva poi ad altre più pratiche. L'au-
torità d'Arrigo era anteriore o posteriore alla sua incoronazione?
Era egli Cocsar dal momento della elezione o da quando aveva
avuto la corona col consenso papale? Potè l'ignoranza delle
condizioni del Papa infirmare l' atto di consacrazione compiuto
dalla commissione pontificia?
Tali questioni si presentarono ad Arrigo la prima volta du-
rante il viaggio a Roma; a lui, come a Dante, il Ghibellinismo
teorico dovette parere probabilmente un frutto in ritardo. Egli
dunque fu detto l' imperatore Guelfo; la Corte pontificia non trovò
espressione più mite di quella di spergiuro per indicare la sua
azione in Roma('), basando quest' accusa su due documenti: sulla
(') " Quia inultum jam videbatur prosperar! Papa Clemens, sumpta occasione
ex parte Ruperti regis Siciliae, opposuit se imperatori, imponendo ei perjurium
ut habetur in Constitutionibus Clementinis, cap. Romani principis „. Pertz XIV,
418. Gesta Arch. Magd.
— 17 —
lettera originale di Arrigo chiedente la riconferma papale alla sua
elezione e su di un documento publicato a Losanna nel quale
dava guarantigia di mantenere le promesse in quella lettera con-
tenuta ('). Ma essi poi non contraddicono tanto alla teoria di
Dante, se facciamo eccezione di quanto si riferisce al titolo del
Papa negli stati pontifici. Perfino il domininm siipcrius, come
lo chiamerebbe Dante, è appena rispettato.
Nessun decreto può essere emanato senza il consenso ed
avanti il parere del Papa, l' Imperatore ed i suoi non possono
esercitare alcuna giurisdizione, né tenersi alcuna terra. Come
Advocatus e Defensor Ecdcsiae \ Imperatore si obbliga di difen-
dere il territorio pontificio e di far si che i suoi vicari di Lom-
bardia e di Toscana giurino di fare lo stesso. Ora il rendere
giustizia nelle città pontificie spettava all' Imperatore in persona,
solo quando era fra le loro mure, mentre gli Imperatori di prima
la rendevano in Roma senza farne questione. Questa concessione
mostrava che Roma non era città imperiale nel vero senso della
parola. Senonché il fatto di non citare solamente la donazione di
Costantino, ma anche la conferma di questa per opera degli Im-
peratori successivi, e l'essere la promessa d'Arrigo VII fatta in
forma di un' altra conferma, proverebbe che in fondo la sovra-
nità non era mai stata alienata e che le temporalità della chiesa
erano un feudo avuto dall' Impero, feudo tuttavia tenuto in con-
dizioni affatto speciali. Cosi la pensava Arrigo. Fino dal 131 1,
prima di qualsiasi screzio con la chiesa, il Bando di Firenze di-
ceva: " exemplo Christi, cujus vicem ipsa regalis dignitas in
terris circa temporalia noscitur obtenere „ ('). E Nicolò di Bu-
trinto fa dire ad Arrigo : " Imperator et rex Robertus non subi-
ciuntur ecclesie equaliter quantum ad temporalia, quia unus est
deffensor et advocatus nihil habens ab ecclesia de temporalibus,
alius est subditus et vasallus, 'suum regnum ab ecclesia habens.
(1) Pertz IV, 494; ibid. 501-3.
(«) Pertz IV, 519.
Armstrong.
-- i8 —
Dicebant adlnic quod si ut vasallum ecclesie in teniporalis per-
mitteret se duci per sanctitatem vestram, quod esset perjurus,
cuni jura imperii diminueret; que tamen juravit non diminuere
sed augere „ (').
Fattasi maggiore la resistenza all' Imperatore, le idee imperiali
divennero più chiare. Se pure con la sua lettera Arrigo aveva
rotto i patti di Losanna, la condotta ambigua di Clemente V rese
inevitabile la contesa anche contro il suo volere. L' occupazione
a mano armata di Roma fu provocata dalla resistenza militare
delle truppe napolitane e da quella dei feudatari papali, gli Orisini.
Ben complessa era la questione, Arrigo entrava in Roma dopo
accordi col Papa e accompagnato dalla commissione pontificia,
che doveva incoronarlo in S. Pietro. Ma la via a S. Pietro
era chiusa dallo stesso Vicario pontificio di Romagna, il quale
prima aveva anche contrastato 1' entrata di Roma a Ponte Molle.
L' imperatore dovette per forza accettare la giurisdizione vietata,
non potendola la commissione Pontificia esercitare per la grande
impopolarità, e perfino gli fu imposta l' incoronazione non po-
tendo egli protrarla tanto da rimanere poi privo dell' appoggio
delle truppe Tedesche e di quelle dell'Italia settentrionale; do-
vette inoltre accettarla per salvare la minacciata vita dei commis-
sari. Questi riferirono al Papa, ed era la verità, che l'avevano
consacrato nel Laterano in seguito alla violenza.
E dopo r incoronazione ecco sorgere un gran numero di
questioni, delle quali prima non s'era fatto parola: L'Imperatore
non doveva mai attaccare Napoli; non fare un armistizio d'un
anno con Re Roberto, non doveva andar via da Roma né dagli
Stati pontefici il giorno stesso della incoronazione, non doveva
ritornare senza il consenso del Papa e finalmente doveva dichia-
rare di non aver acquistato alcun nuovo diritto per dimora in
Roma né per imprigionamento di cittadini né per occupazione di
fortezze.
(') Ed. Heyck. p. 63.
— 19 —
Siffatte pretese provocarono la pubblicazione del manifesto
d' Arrigo, aperta e completa dichiarazione di fede ghibellina e
pienamente d' accordo con i principi fondamentali del De Mo-
narchia ('). " Nos fuimus et semper esse volumus defensor et
piigil sacrosancte Romane Ecclesie in omnibus suis Juribus, sed
nos non sumus astricti alicui ad juramentum iìdelitatis nec unquam
juranientum fecimus.... nec scimus quod antecessores nostri
hoc Juramentum unquam fecerunt „ (^).
L' Imperatore riceve il potere dalla mano dei suoi elettori so-
lamente e ciò si accorda con l' idea di Dante, che cioè il volere
di Dio, il quale solo può disporre del potere temporale, si mani-
festi direttamente per mezzo degli elettori. E finalmente il Papa
non può ordinare all' Imperatore di lasciare Roma, essendo essa
a capo dell' impero e città imperiale. Questa è l' ultima parola
dell' Imperialismo, parola tanto più autorevole in quanto pronun-
ciata dal più ortodosso, dal più pio, dal più morale degli impe-
ratori, dall' uomo per cui Clemente dovette pronunciare un elogio
funebre, non ostante che stesse per intentargli un processo; dal-
l' uomo infine che si comunicava ogni mese e che non volle sal-
var la vita liberandosi dal veleno che come aveva potuto temere,
gli era stato somministrato nella particola ('), Inoltre questa di-
chiarazione non era stata fatta nella foga d'una lite, né in se-
guito ad alcuno screzio personale fra il Pontefice e l' Impe-
ratore {*).
('l " Quamvis Papa non teneatur inungere fatuum vel hereticum in impera-
torem .... tamen non ideo sequitur quod sola electio Romani Principis ci jus non
tribuat iinperandi, quemadmodum enim sola Papac electio ei omnem tribuit po-
testatem et administrationem, quia nomo est eo superior in spiritualibus, ita
quidem et Romano principi sola electio eius omnem tribuit potestatem, quia non
eo superior in temporalibus „. DOnniges. Ada Hetirici VII. II, 6i.
(•-) Ibid. II. 5^-5, et seq.
(') Pertz, XVI, 423: Ainiales Lubicenses; Historiens des GauUs et de la
France, XXII, 140. GeftVoi de Paris.
{*) Pertz XI, 665: Contiti. Zwetlensis Tertia ; Pertz, XVI, 423: Ann. Lu-
bicenses.
— 20 —
Nella contesa con gli Hohenstaufen i due poteri lottarono con
la forza brutale, mentre Arrigo e Clemente si attaccarono, per
dir cosi, con i guanti; quanto perdettero d" entusiasmo nella gara
fu guadagnato in conoscenza delle regole di combattimento. La
vita d' Arrigo, mai deliberatamente ostile al Pontificato, illustra
la filosofia dell' Impero, ed è perciò che seguendola pare di leg-
gere il De Monarchia. Arrigo a differenza dei suoi predecessori
proclama appena coronato 1' universalità dei suoi disegni, quando
appunto r unità era più desiderata; predica pace e giustizia quando
questa era arma di partito e quella purtroppo vana parola. Egli
promette una libertà che, se non altro in teoria, era assai più
larga di quella goduta sotto l' irresponsabile reggimento d' un
despota Lombardo, assai più alta di quella tanto vantata di Fi-
renze, la quale era privilegio solo di una parte, di una fazione.
" Si perfidiam Italorum inexpertus agnovisset dolosque vitasset,
merito labentes Imperli partes, depressosque tyrannide populos,
in salubrem stationis libertatem reformasset „ ('). E che è ciò se
non l'analisi del primo libro del De Monarchia?
Parallelamente al secondo corre il nebuloso, fantastico periodo
del regno d'Arrigo nella capitale che non " istruisce l'ignorante „
né " convince il litigante „. Qui si vede la teoria dei diritti mondiali
del popolo Romano e del suo rappresentante e poi appare che
questo popolo nemmeno è libero di camminare per le proprie vie;
risposta sufficiente alla teoria " che l' impero romano è fondato
sulla violenza e su quella si mantiene „. Si vede un Imperatore
al di sopra delle nazionalità e dei partiti, perché in fatti i suoi
Tedeschi e Ghibellini l' hanno abbandonato.
Ma più chiaro ancora appare il parallelo col terzo libro di
Dante. I principi filosofici sono stati controversi, ma s' ignora la
giustificazione storica. Ora si deve considerare la ragione di quelli
che solamente litigavano e si deve trovare una prova di verità dei
principi imperiali nelle contradizioni dei nemici. E qui l'impresa di-
venta più facile. Si tratta di demolire due teorie altrettanto sprov-
(') Ferretus Viccntinus : Muratori, IX, 1059.
— 21 —
viste di praticità. Tutti gli argomenti colpiscono il segno e sono
quelli medesimi che serviranno alla generazione a venire, a Luigi di
Baviera ed ai suoi tempi. La battaglia fu vinta, se non per l' im-
pero universale, certamente contro 1' universale potere temporale
della Chiesa. Perciò parrebbe che il sistema politico di Dante
non fosse poi del tutto ideale. O questo libro aveva per base
la vita di Arrigo \'II, o appena scritto sorse un sovrano a mo-
strarne la praticità. Ma d' altra parte la possibilità pratica sva-
nisce: se Dante era un'idealista, lo era pure Arrigo VII e gli
ideali d' amendue avrebbero dovuto applicarsi ad una generazione
singolarmente disadatta alle fantasia ed eminentemente positiva,
generazione d' avvocati e di avventurieri.
Quali erano gli strumenti di cui disponeva Arrigo? i Te-
deschi forse? Per loro era passata l'età giovanile delle armi
e dell' espansione. Non al cavaliere, ma al contadino ed al
mercante era affidato nel secolo decimoquarto la espansione del
teutonismo, perciò Arrigo aveva poco sèguito in Germania. Era
cosa vana il dire alla stolida gens Teuionicornm che la sovranità
del mondo era la sposa loro destinata e che dovevano accettare
l'impero dell'universo; vano il far loro intendere che gli uffici,
le prefetture e le pili alte cariche del " Senatus Populusque Ro-
manus „ erano vacanti per essi ('). Tutto questo non li allettava,
rispondevano non essere ancor venuto il momento per sobbar-
carsi a tanta impresa. Anche fra quelli che partirono, pochi parve
avessero alcuna ambizione politica o territoriale. Speravano più
nella parte individuale di bottino che in nuove terre o nuovi uf-
fici. Molti dei più illustri erano tedeschi soltanto di parte, non di
patria; piuttosto erano Fiamminghi, Borgognoni, Savoiardi o del
Delfinato. E la stessa famiglia di Arrigo era ben poco tedesca:
egli per primo era francese; suo figlio un cavaliere errante senza
nazionalità, Carlo IV padre dei Tedeschi, ma per adozione, e
Wenzel era Czeco.
(') Mussato, I, cap. 8: Muratori, X, 329.
22
Lo stesso Sigismondo era più popolare altrove che in Ger-
mania. Ma se Arrigo non poteva diventare capo d' una nuova
migrazione teutonica, poteva poi appoggiarsi sui Ghibellini ita-
liani? Se essi avessero veramente costituito il partito della no-
biltà rurale — Teutonica per origine — avrebbero potuto gio-
vare all' ideale, combattendo in nome dell' unità e del feudale-
simo contro lo spirito di separatismo municipale, che spirava da
Roma. Senonché la nobiltà rurale non era Ghibellina, come nem-
meno era Guelfa quella borghese delle città. Se i Colonna erano
d'origine tedesca, lo erano pure gli Orsini. I signori dell'altipiano
umbro e toscano, pure d'origine tedesca, erano altrettanto Guelfi
che Ghibellini, anzi i più tenaci fra i Guelfi, i Malatesta, erano
tedeschi. I Malaspina ed i Guidi avevano altrettanti rami Guelfi
quanti ne contavano Ghibellini. In Firenze stessa i Cerchi che
rappresentavano il partito del progresso, della ricca borghesia,
s' allearono con la parte Ghibellina della città. Nessun alto prin-
cipio dunque poteva guidare dei partiti determinati solamente
dai feudi di famiglia e dalle gelosie locali. Gli avventurieri
Ghibellini si valevano delle invasioni imperiali allo stesso modo
che i Guelfi approfittavano dell' appoggio Angioino, cioè solo
per fini personali. I titoli entravano per qualche cosa; un vi-
cariato imperiale contava più di uno papale, perché il sovrano
ne era meno vicino. Gli Estensi tuttavia si mantennero al si-
curo tenendoli amendue.
Se alcun alto principio esiste, sta appunto nella negazione di
principio e cioè nel più schietto individualismo; ciò che guada-
gnava il nobile avventuriero lo teneva per sé. Né fu questa
costumanza esclusiva del secolo decimoquarto, né speciale d' Italia.
L' impero per secoli e secoli aveva cercato di crearsi una classe
di dipendenti, la quale seguendo il suo dilagare tenesse pur
sempre contatto col centro, ma questi dipendenti non rimane-
vano mai tali, divenivano signori. Arrigo fece l'ultimo tentativo,
costituendo vicariati imperiali neh' Italia settentrionale per rial-
lacciare la giustizia municipale con l'imperiale, ma la prova
falli appena fatta. Molte volte questi vicari erano i signori
— 23 —
stessi, per modo che l' ufficio non dava loro che un titolo
di pili.
E questa fu una delle cause pili frequenti di rivolta; i Cre-
monesi dicevano che Arrigo non era un re, ma sibbene un
tiranno " Cuni tyrannides in urbibus exercendas decreverit, anti-
quatos tyrannos titulis imperialibus approbans „ ('). Un oratore
Padovano disse ai suoi concittadini, che Arrigo era un distrut-
tore sbrigliato per il mondo. " Et qui incolae nobilium oppido-
rum? Incolae nempe tyranni veteres, vicariorum imperii inducti
vocabulis „ ("). Questa era una causa frequente di rivolta, e la
pili grande di tutte, quella di Brescia, fu istigata da uno degli
stessi vicari d' Arrigo.
Arrigo poi fu spinto tanto dall' uso generale quanto dal cattivo
stato delle sue finanze alla simonia e gli antichi tiranni ebbero
naturalmente la precedenza nel comperare (^). E ciò è confermato,
oltreché dall' ostile Mussato, anche dal lodatore Ferreto di Vi-
cenza. " Tum primum Caesar pretio corruptus perfidisque suorum
hortatibus fasces magistratusque omnes venum exposuit (*} „.
Arrigo era del tutto persuaso della mancanza d'un principio
ordinatore nella lotta dei partiti; egli vedeva come Dante, che
" mentre i Guelfi si ribellavano contro il potere imperiale, i Ghi-
bellini se lo attribuivano „ e capi che 1' unità del potere imperiale
era possibile solo con la distruzione dei partiti. Infatti odiava i nomi
Guelfo e Ghibellino " cuncta absoluto amplectens imperio ^') „.
Le guerre in Italia erano provocate non solamente dalle di-
verse parti in seno alle città, ma anche dagli esuli che ne erano
banditi e che all' infuori della guerra e dell'intrigo non avevano
occupazione, perciò uno dei primi atti d' Arrigo fu quello di ri-
(') Mussato, II, cap. io: Muratori, X, 358.
(^) ibid. 416.
(') Villani: " E cosi tutte l'altre terre di Lombardia lasciò a tiranno, non
possendo altro per lo suo malo stato, e da ciascuno ebbe moneta assai, e pri-
vilegiolli delle dette signorie. „
(*) Feretus, lib. IV: Muratori, IX, 1064.
(^1 Mussato, I 13: Muratori, X, 3^0.
- 24 —
chiamare tutti gli esuli di qualunque partito. Usò poi la medesima
imparzialità nella nomina dei vicari. Ma un uomo solo non po-
teva domare la lotta dei partiti in Italia, né arrestare la generale
tendenza d'isolamento; appunto il richiamo degli esuli fu cagione
della maggior parte delle rivolte che scoppiarono subito dopo la
partenza d' Arrigo. Il Cronista d' Asti non incolpa Arrigo delle
rivoluzioni occorse nell' Italia settentrionale, ma piuttosto le at-
tribuisce agli errori nazionali: " Variis pestibus merito afflicti
sunt Lombardi, quoniam Henricus Romanorum rex inculpabilis
fuit, quia venerat tamquam Rex mansuctus ad pacilìcandum Lom-
bardos, nec potuit, quia pars praenominata Guelfa non potuit esse
vicina illorum, quibus dominari solebat, et Gibellini voluerunt
antiqua opprobria vindicare; et ideo comparantur anguillae, quae
neque per caput, neque per caudam manu teneri non potest ('). „
Perciò la parzialità s' impose; una posizione al disopra dei
partiti significava isolamento. Avendo dunque bisogno di aiuto
per la spedizione di Roma, Arrigo dovette per forza divenire
capo parte e scelse per amici i maggiorenti Ghibellini. Dino
Compagni ci spiega tutto questo mutamento: la dichiarazione
dell'imperatore di non essere uomo di parte C), le lamentele dei
Ghibellini, perché egli non aveva in grazia che i Guelfi, poi quelle
di questi perché egli prediligeva i Ghibellini, e finalmente la
lenta defezione dei Guelfi che avevano meno bisogno della sua
protezione e la sosta finale a Roma, quando Arrigo " intendendo
le ingiurie gli erano fatte da' Guelfi di Toscana, e trovando i
Ghibellini che con lui s'accostavano di buona volontà, mutò
proposito e accostossi con loro: e verso loro rivolse l'amore e
la benivolenzia che prima aveva co' Guelfi; e propesesi d'aiu-
tarli e rimetterli in casa loro, e i Guelfi Neri tenere per nimici,
e quelli perseguitare f"^) „.
(') Chron. Astense, cap. LXI : Muratori, XI, 234.
(') L. III. e. 26. Del Lungo, Dìmo Compagni e la sua cronica. Firenze, 1879.
II, 361-62.
<•) Dino Compagni, IH, 36. Ediz. cit. p. 407-8.
— 25 —
Né erano questi Ghibellini, che Arrigo seguiva, monarchici
teorici come Dante, ma sibbene uomini dello stampo d' Uguccione
della Faggiuola, Can Grande e Matteo Visconti, che non erano
ammaliati da alcuna bella e sentimentale visione di pace univer-
sale, né d'universale sovrano; uomini, che non prendevano a
modello un passato immaginario e conducevano l' Italia ad una
nuova vita tanto naturale quanto nazionale. Ribelli contro la
Chiesa quanto contro l' impero, non avevano per fine la contem-
plazione filosofica, ma piuttosto la prosperità materiale da rag-
giungersi indifferentemente sia con la pace sia con la guerra;
avevano per giustizia il loro proprio volere, e quanto a libertà,
essi non l' intendevano concessa che alla propria persona. Un
detto del più grande di queste creature di Arrigo, di Matteo
Visconti, è poi diventato il credo dei suoi successori. " Ego sum
et Papa et Imperator et dominus in terris meis „. Veramente
fi-a questi eroi del secolo decimoquarto noi troviamo molte fi-
gure che avrebbero fatto la gioia del Machiavelli, ma che erano
ben distanti dal sovrano ideale pensato da Dante. Pure erano i
soli strumenti di cui Arrigo disponesse.
Il Castelar ha detto essere impossibile fondare una repubblica
ove non esistono repubblicani; Arrigo s'accorse di non poter
fondare 1' impero per mancanza d' imperialisti. Inoltre Arrigo non
era adatto ad essere un capo parte, la sua personalità ed il suo
programma repugnavano a questa sua nova posizione. Né egli, né
Dante potevano poi predicare pace, giustizia e libertà, ed essere
partigiani al tempo stesso. Mentre Dante era allontanato dai
partiti per la sua alterigia ed impazienza. Arrigo non sapeva
starci in mezzo per l' eccessiva dolcezza di carattere e per la
sua irresolutezza. Ben presto, al cominciare della spedizione, Ni-
colò da Butrinto notò questa sua mancanza di decisione. Un
certo pavese, non badando alle minacce del suo vescovo Guelfo,
andò ad unirsi ad Arrigo e allora il Conte Filippone, fratello
del vescovo ed in quel tempo presso all' imperatore, inviò 1' or-
dine di distruggergli la casa e gli averi. Arrigo non fece punto
rimprovero a Filippone per quest' atto, ma anzi se lo tenne vi-
— 26 —
cino come consigliere. Nicolò nella supplica al Papa a proposito
di questo fatto scrive: " In conscentia niea ego ex tunc minus
in animo meo ipsum regem reputavi et quod ipse nunquam bene
faceret justitiam nec de malis hominibus magni studerei facere
justitiam quod supra modum mihi displicebat (') „ Anche un
verso della Cronaca rimata attribuita a GeofFroi de Paris forse
ci mostra l'opinione pubblica:
" Une chose ot, que trop piteux
Estoit, e ce li fist damage;
Car homme de trop grant pitie
Est souvente fojx despitié (") „.
E d' altra parte gli elementi di resistenza erano formidabili.
Tutti quanti i principi di Dante e d' Arrigo urtavano qualche
interesse materiale dentro o fuori d' Italia. Tanto l' indipendenza
municipale di Toscana e Lombardia, quanto quella dinastica di
Napoli erano armate contro il campione dell'unità imperiale. Il
sentimento nazionale francese non pativa i vantati diritti dell' im-
peratore romano, come quello italiano non sopportava un re te-
desco. Si aggiunga la S. Sede che usava delle armi spirituali
per impedire il soqquadro del potere temporale. Ma di questo è
già stato detto abbastanza.
Principio contro principio, la lotta fu decisa né lasciamoci
ingannare dalla importanza che le fu data sotto Luigi di Baviera.
Il succedersi di violenza e di rimorso nell' anima di un sozzo e
superstizioso soldato non costituiscono una prova abbastanza
sicura della supremazia pontificia. Alla fine del secolo decimo-
quinto vedremo un Vitellozzo Vitelli implorare l' assoluzione da
Alessandro avanti d' essere strozzato dal figlio d' Alessandro
stesso. I trionfi passeggeri di Giovanni XXII e di Benedetto XII
si debbone attribuire alle qualità personali di Luigi ed ai bisogni
politici dei suoi avversari, e non dipendevano dal potere della
S. Sede.
(') Muratori, IX, 891 ; ed. Heyck, 7.
(') Historiens des Gaules et de la France, XXII, 126.
Nello sforzo supremo d'Arrigo per ripristinare 1' impero, il
Papato appare un fattore inoperoso: l'influenza temporalistica di
Clemente né agevolò il cominciare della lotta né potè determi-
narne la conclusione. Le armi spirituali si spuntarono contro un
imperatore convinto della giustizia della sua causa e dell* inte-
meratezza della sua vita: la scomunica non spaventò il più re-
ligioso principe del tempo. La questione se si potesse o no lan-
ciare la scomunica su di un imperatore che difendeva i diritti
dell' impero è discussa con calma, senza passione né abusi. Fu
deciso che la scomunica non era possibile. Questa questione ed
il terzo libro del De Monaìxhia concludono le ragioni dell' im-
pero contro la S. Sede.
Riesce più difficile 1' attribuire un giusto valore agli altri ele-
menti contrari. Mettendo da parte per un momento la Francia
non impegnata direttamente nella lotta, bisogna saper sceverare
la opposizione alla monarchia da parte dei municipii dal vero
sentimento nazionale, che se da un lato aveva provato per espe-
rienza tutto il danno del passaggio dei soldati tedeschi, vi tro-
vava dall' altro una liberazione dalla tirannide municipale. Ed è
poi assai difficile lo stabilire fino a che punto Dante, il Compagni
e lo stesso Villani interpretavano I' opinione popolare circa alla
teoretica supremazia di Roma. Che questa teoria esistesse e che
non fnsse propria di Roma sola o delle menti speculative, lo
provarono gli avvenimenti del regno di Luigi ed ancor più Io
mostrò r attitudine delle città italiane, quali Firenze e Venezia
riguardo al Rienzi. Si può tuttavia affermare questo con certezza,
che cioè gli interessi materiali che spingevano al mantenimento
delle indipendenze municipali erano più forti di quelli che ne
consigliavano l' abolizione, ed in secondo luogo che lo svolgi-
mento barbarico dell' impero si ricordava assai più che non la
sua derivazione Romana.
La discordia fra le famiglie potenti ed il popolo, le paure di
quelle e le vaghe speranze di questo sono assai bene spiegate
dal seguente brano di Landolfo Colonna: " Res nova et dura
videbatur quibusdam Italicis atque Tuscis, et maxime qui popu-
— 28 —
liini regere videbantur, cum scxaginta quinque annis et amplius
a deposicione ab imperio ultinia Fredcrici sine iniperatoris do-
minio perstitissent, quod ejus dominio denuo subderentur a quo
se existimabant in perpetuum liberatos: sed propter tyrannidis
grave jugum, quod in cives suos exercuerant, merebantur ut
tyrannidi subderentur, et hoc ipsum minor populus praecipere
affectabat ('l „.
Siano pur tali le condizioni del secolo decimosecondo e de-
cimoterzo, ciò non toglie che anche nel decimoquarto vi sia
ben poco da rallegrarsi e che corresse grande divario fra la
teorica del governo e la sua reale costituzione. Non appare
chiaro che le tiranniche famiglie delle città Guelfe di Lombardia
o quelle oligarchiche di Toscana ardessero di più puro amore
per la libertà che non quelle Ghibelline. Prima della morte di
Arrigo Firenze dette la sua costituzione in mano a Roberto di
Napoli per cinque anni e dopo fece facoltà al suo fratello minore
di designarle i magistrati. Ciò nonostante v'era differenza fra
lo stringere un contratto per un tempo determinato e con con-
dizioni speciali ed il riconoscere i diritti dell' impero indipendenti
da tempo e condizioni. Né erano questi vantati diritti del tutto
nominali. Arrigo pretendeva d' esercitare il diritto di nomina dei
magistrati, certamente poi di sceglierli fra i candidati che gli
fossero presentati, voleva mutare gli statuti cittadini e tenere
milizie nelle fortezze. Attestano i documenti come fossero impe-
riose le domande d'uomini e di denaro non meno moleste certo
per non esser sempre esaudite. Gli interessi delle famiglie prin-
cipali erano danneggiati dal ritorno degli esuli. Il Villani lascia
intendere che se non fosse stato per il timore i Fiorentini avreb-
bero riconosciuto l' imperatore. Tanto più moleste erano le pre-
tese dell' imperatore per il fatto che i municipi se ne credevano
del tutto liberi e per sempre. È vero che di tanto in tanto erano
stati nominati vicari imperiali in Toscana, come, per esempio,
(') Historiots de la Gattle et de la France, voi. XXIII: Breviariuiit Historicimt
J-Mitdulphi de Coluniita.
- 29 —
nel 1281, 1286 e 1296, ma il loro potere non s' era mai esteso
fino alle città. Tuttavia l' imperatore trovava difficoltà anche nei
paesi che non gli erano apertamente ostili. Pisa gli sottomise
gli statuti, ma Genova brontolò ed anche resistette. " Henricus
novitates plures voluit Januae faccre nec potuit, vo](_!iat habere
castrum Januae et deponere Abbatem Popoli nec potuit (') „.
Cosi scriveva il cronista di Asti. I veneziani rifiutarono di giu-
rare fedeltà, " Unde nullam bonam causam scio „ aggiungeva
Nicolò di Butrinto " nisi quia sunt de quinta essentia, nec Deum
nec Ecclesiam, nec Imperatorem, nec mare, nec terram volunt
recognoscere 0 „. Nemmeno la proposta fatta di permettere
loro la guardia della Brenta potè piegarli. Perfino la Ghibellina
Verona non ubbidì all' ordine dell' imperatore di riammettere gli
esuli Guelfi.
Insormontabile dunque era la differenza fra Dante ed i po-
litici veri; egli mirava alla legge, questi alla esecuzione pratica
di essa. Dante ammetteva la legge municipale solo come compi-
mento necessario di quella imperiale, gli altri non volevano sapere
di vicari imperiali, considerandoli come intrusi, venuti per sop-
piantarli. Perciò gli interessi delle famiglie, il sentimento tradi-
zionale e le ragioni pecuniarie congiuravano insieme a favorire
la resistenza attiva o passiva dei municipi contro un risuscitato
impero. In Toscana poi la resistenza di municipale divenne pro-
vinciale, quivi la parte Guelfa era ancora più salda e compatta
della vecchia lega Lombarda. Quasi prese la forma di una sta-
bile federazione. Inoltre la conoscenza pratica dei cosi detti li-
beratori fece passare il popolo dalla parte delle oligarchie.
I Guelfi non costituivano un partito nazionale, come nemmeno
i Ghibellini ne costituivano uno tedesco; ma il fatto dell'esi-
stenza di questa parte bene organizzata che in Toscana poteva
tanto, e 1* aver essa a nemico 1' imperatore che era Tedesco fece
rinascere quell' istintivo e generale odio della razza latina per la
(') Muratori, XI, 235.
(') Ed. Heyck, 15.
— 30 —
germanica. Si osservi con quanta cura Dante nasconde 1' origine
forestiera dell' impero e come invece insista sulla sua derivazione
romana. Appena egli ricorda la concessione fatta a Carlo Magno
e degli elettori non scrive che per diminuirne 1' importanza.
Gli autori del tempo portano una quantità di e5empi di questa
rivalità che esisteva, non tanto fra le famiglie Guelfe e Ghibel-
line, quanto nel popolo. Ciò non prova affatto che si vagheg-
giasse un' Italia unita, ma che esisteva una semplice antipatia
per i Tedeschi.
Fin dal principio v' è un grido del popolo di Milano che pre-
suppone una tregua fra le fazioni interne a fine di combattere
lo straniero: " Moriantur Teutonici omnes; pax est inter Domi-
num Guidonem et Dominum Matthaeum (') „. Lo stesso Giovanni
da Cermenate, Ghibellino, parla della " Stolida gens Germaniae
ninium praedae avida ac disciplinae militaris ignara (^) „. E Ro-
berto di Napoli certamente intrepretava il desiderio nazionale
quando implorava dal Papa di non sanzionare l' elezione del-
l' imperatore.
" Reges Romani consueverunt eligi de lingua Germanica,
quae consuevit producere gentem acerbam et intractabilem, quae
raagis adhaeret barbaricae feritati quam Christianae professioni
Unde cum Germani cum Gallicis non habeant convenienciam,
immo repugnanciam, et cum Italicis non conveniant, cavendum
est quod Germana feritas inter tot reges et naciones non pro-
ducant scandala, et dulcedinem Italiae in amaritudinem non con-
vertat (^^j „.
I Guelfi si fecero un piedistallo di questa naturale antipatia
degli italiani per i tedeschi e parlarono per bocca di Firenze:
" Nunquam nobis probari potuit Imperator qui in Italiani bar-
baras copias ducat, quum id potius cavendum ut hanc nobilissi-
mam provinciam a barbarorum manibus vindicaret {*} „. Dante
(') Nicolai Episc. Buirontini Relatio: Muratori, IX, 897; ci. Heyck, 18.
(") Muratori, IX, 1274.
(^) Bonaini, Ada Henrici VII, I, 236.
(*) Theiner, I, p. 1077: Lettera dei fiorentini ad Arrigo VII.
— 31 —
può aver ragione nel giudicare la moralità politica della oligar-
chia Guelfa di Firenze; ma certo i documenti addotti dal Bonaini
sono una gran prova della sua forza. Questa lega unisce le grandi
e le piccole città di Toscana appianandovi le discordie; arruola
milizie fra le popolazioni rurali, ferma convogli e squadre Ghibel-
line sulla via di Pisa che andavano a unirsi con Arrigo. Le amba-
sciarle fra Napoli ed Avignone si seguono, mille intrighi vengono
orditi per impedire che i due mal sicuri alleati si rompano fede
patteggiando ciascuno per conto proprio con 1' impero. Si ricono-
sce r opera dei fiorentini in ogni sommossa di Lombardia, men-
tre poi mandano a Roma quanti uomini di senno possono. Dietro
a Firenze i-' era Napoli, il potere più compatto d'Italia e dietro
a Napoli stava la Francia. La resistenza opposta dalla Francia
all'impero, e fino a un certo segno anche quella di Napoli, aveva
tutt' altro carattere di quella incerta ed indeterminata che gli
opponeva l' Italia in generale. Era veramente la guerra dichia-
rata alle alte supremazie ornai vecchie ed esautorate da stati
saldi ed organizzati che avevano per appoggio tutta la loro sto-
ria, il loro sistema di governo e le loro ben note ambizioni.
Non si trattava dell'antipatia popolare per una lingua forestiera;
ma essa ha una giustificazione legale e filosofica. La Francia
combatteva il nemico della propria indipendenza nazionale, fosse
poi stato questi 1' imperatore od il pontefice. Le opere legali o
politiche che videro la luce a Parigi al principio del secolo si
riferivano, è vero, alla controversia fra Filippo e Bonifacio \'III,
attacavano la chiesa : ma questa e l' impero erano cosi stretta-
mente connesse che gli attacchi diretti all' una non potevano
non ripercuotersi sull' altro. La più lunga ed ordinata fra queste
opere, il trattato di Giovanni di Parigi, alle volte corre paral-
lelamente al De Monarchia, usa gli stessi argomenti, porta i me-
desimi esempi e riesce in alcuni punti una discussione in con-
tradittorio. Considera i beni della Chiesa sotto lo stesso punto
di vista; cioè quasi un " possesso „ e non una " proprietà „,
ha la medesima opinione circa la precedenza tanto nel pensiero
quanto nel tempo del potere temporale, ed è concorde nel non
— 32 —
giudicare valida la donazione di Costantino. Se il Pontefice come
vicario di Cristo era signore temporale, Costantino non poteva
dargli alcuna cosa; gli atti di un imperatore non potevano pre-
giudicare quelli del suo successore. Identiche sono le risposte
agli argomenti tratti dalla scrittura e dalla storia dal partito pa-
pale, senonchè, le parole di Giovanni da Parigi erano più ar-
dite: " Mystica theologia non est argumentativa nisi accipiatur
ejus probatio ex alia scriptura (') „. " Ubi quaeritur de pote-
state Papae in temporalibus, efficax est testimonium Imperatoris
prò Papa; et non est multum efficax testimonium Papae prò se
ipso, nisi dictum Papae fiilciatur auctoritate Scripturae sacrae vai
scripturae Canonicae (^) „. " Nella storia si possono trovare molti
esempi di sottomissione, tanto per l' imperatore quanto per il
Papa, ma " Injuria non facit ius „ L' uomo deve raggiungere
un fine terreno ed ultra terreno, all' uno ci guida il principe, al-
l' altro il sacerdote, siccome poi quest' ultima meta è più nobile
dell' altra, cosi il Pontefice è superiore al principe. Ciò non to-
glie che il potere temporale per essere derivato da quello spiri-
tuale non debba essere a questo uguale. Nella famiglia il maestro
conduce ad un fine più elevato che non il medico, né perciò
deve essere questi a quello soggetto nell' indicare la medicina;
il paterfamilias non ha certo sottomesso il medico al maestro
qnoad hoc (^). Con questo dunque Giovanni da Parigi riconosce
la necessità della monarchia " Regnum est regimem multitudinis
perfectae ad commune bonum ordinatum ab uno (^) „. L'uomo
è nato per vivere in società per potere soddisfare ai bisogni
della sua natura. Se ognuno cercasse solamente il proprio bene,
la società si sfascerebbe, perciò per il bene comune questa deve
essere regolata da uno solo, poiché è più facile che uno solo
mantenga la pace e si sacrifichi per il bene di tutti. Inoltre in
tutta la natura prevale la legge dell' unità. Ma la concordia fra
(>) Goldast, Monarchia, ed. 1668 II, 128.
(=) Ibid. 129.
(^1 Ibid. 113.
(*) Ibid. loi.
— 33 —
i due scrittori cessa dinanzi alla parola " perfectae „. Affatto
diversa per ciascuno d' essi è la circonferenza dei circoli di cui
la monarchia è il centro. Per Giovanni da Parigi la monarchia
non è universale, ma nazionale: in materia spirituale per legge
divina è necessario che ci sia un solo supremo potere, non cosi
in materia temporale " Non sic autem fideles laici sic habent
ex iure divino, quod subsint in temporalibus uni monarchae su-
premo (') „. " Ma l'istinto naturale, che deriva da Dio, li induce
a vivere in società (civiliter et in communitate), fra loro stessi
debbono scegliersi i capi a fine d' essere felici, ma li sceglie-
ranno differenti a seconda della differenza delle diverse società.
Nessuna tendenza nazionale né legge divina li obbliga ad una
unica gerarchia superiore. Gli uomini differiscono più nel corpo
che neir anima e perciò il governo secolare è diverso dallo spi-
rituale. Un uomo solo non può governare il mondo nelle cose
secolari come nelle spirituali, infatti un potere è spiritiialis e
r altro è maniialis, ed egli non potrebbe provvedere a popoli
lontani gli uni dagli altri. La proprietà temporale, a differenza
di quella della Chiesa, è del tutto privata e non ha bisogno
d'essere spartita in comune; né il Papa né l' imperatore possono
tassarla se non per il bene di tutti. Una è la fede Cattolica e
perciò una deve essere la mente che la dirige, la vita invece e
la civiltà sono molteplici per ragioni climatiche e geografiche.
Non è possibile una sola legge, perché ciò che sarebbe bene
per una natura sarebbe male per un' altra. Aristotile e S. Ago-
stino la pensano così: " Melius et magis pacifice regebatur res-
publica cum uniuscuiuscumque vel unumquodque regimen suae
patriae terminis finiebatur.... Causa destructionis Imp. Rom. fuit
ambitio propria dominandi vel provocandi alienas injurias (^) „.
Che cosa dunque deve .comprendere l'unità? Essa deve avere
base etnica. Ammettendo pure che Costantino avesse dato l' im-
pero al Papa — cosa che non fece né poteva fare — questa
(') Goldast, Monarchia, ed. 1668, II, ni.
(=) Ibid. 112.
Armstrong.
— 34 —
donazione non includeva i Franchi, perché, se la Gallia era ve-
ramente soggetta air impero, non lo erano né lo erano mai stati
i Franchi, che, se anche fossero stati, ora erano libri per pre-
scrizione, allo stesso modo che l' Italia era libera dal dominio
dei Franchi sebbene avesse ubbidito un tempo ai loro imperatori.
L' impero Orientale è indipendente da quello Occidentale per
prescrizione, perché dunque non potranno altri popoli invocare
la stessa ragione per la loro libertà? Tanto pili che l'Impero
Romano fu fondato con la violenza. Il mondo non ha mai goduta
tanta pace come prima e dopo dell' impero universale. " Melius
est plures pluribus regibus dominari quam unum toti mundo (^) „.
Non può sfuggire l'importanza di quest'opera: essa vide la luce
tre o quattro anni dopo la supposta dimora di Dante a Parigi e,
a meno che la teoria del Witte intorno alla maggiore antichità
del De Monarchia sia vera, il libro dell' Alighieri potrebbe averla
avuta per modello od essere stato scritto per contraddirla.
L' opera di Giovanni da Parigi è in tutto simile al terzo libro
del De Monarchia, in tutto opposta al secondo, ed in parte si
accorda, in parte differisce dal primo.
È vero che le analogie possono dipendere dall' identità delle
fonti, poiché si riconosce in ambedue l' influenza di S, Tomaso
d' Aquino. Dififeriscono tutte e due dalla conclusione del De Re-
gimine Principimi, ma insieme vi attinsero gli argomenti che
convenivano al loro assunto. Il trattato di Giovanni da Parigi è
tutt' altro che una esercitazione accademica, ben più del De Mo-
narchia esso rappresenta la viva opinione del tempo. I re Franchi
volevano ridurre l' impero ad un principato nazionale, se poi
doveva essere di più, lo volevano per sé stessi ('), e questo i
Tedeschi sapevano. Gli annali di Lubecca, a proposito dell'ascen-
sione d'Arrigo al trono, cosi s'esprimono " Eo tempore (1309)
{») Ibid. 141.
('J Conf. due opere attribuite a Pierre du Bois. Vedi Dupuy : llist. du di/-
feretid d' enlre le Pape Boitiface Vili et Philippe le Bel, e N. de Wailly, Mé-
Mioires de l' Instit. Nat. de France : Académie des Jitscriptions et Belles Let-
tres, XVIII (2).
- 35 —
quia Reges Alemanniae minus aspirabant post Fredericum impe-
ratorcni ail Iiabciuluni iniperiuni, videbatur Francigenis derisorium
quod se scriberent reges Romanorum (') „. Se Dante trova un
competitore in Giovanni da Parigi, Arrigo VII trova un rivale
al suo idealismo nella praticità di Roberto di Napoli; la sua let-
tera sopra citata critica tutta quanta la concezione medievale
dell' impero e ne scuote le basi filosofiche di uniformità. L' im-
pero era stato acquistato con la violenza, perciò non poteva du-
rare, altrimenti sarebbe andato contro natura. Dunque l' impero
Romano-Germanico non ha origine divina, il re dei tedeschi
è il nemico naturale di Francia e di Napoli, egli avrebbe dovuto
da quella riconquistare le cosidette terre imperiali al di là della
Saona e vincere questo che era principale ostacolo al suo do-
minio in Italia. Il diritto di dominio cambia, hanno avuto l' im-
perio i Caldei e gli Egiziani e 1' hanno pur perduto, quello di
Roma si è ridotto sopra pochi villaggi. L' elezione di un Tedesco
pregiudica Francia, Italia e Napoli, è cagione di scandalo a tutti
i principi " qui sunt in piena et pacifica libertate dominii et pò-
testatis eorum, nec in aliquo subsunt aut obediunt imperatori,
excepto rege Boemie. „ Gli imperatori possono invocare antiche
scritture, ma i re possono invocare la prescrizioni. Questa è la
negazione contenuta nei due primi libri di Dante e nei due primi
capitoli della vita di Arrigo; noi sentiamo che Roberto tanto in
teoria come in armi è dalla parte della ragione. I contemporanei
non poterono vedere ciò con egual chiarezza. Il Villani ci dice
che gli autorevoli del tempo credevano, che se non fosse stato
per la sua morte improvvisa, Arrigo avrebbe preso Napoli, poi
tutta r ItaFia e molte altre terre; gli stessi Greci e Saraceni erano
in grande angoscia per la riescila dell' impresa (^). Il cronista di
Baldovino credeva che il sole della fede cattolica fosse stato
oscurato da un eclissi o da una cometa, perché " illud gloriosum
Rom. Imp. vere fuerat revocatum, coadunatum et in maxima
0) Pertz, XVI, ^2i: Ann. Lubicenses.
(*) Villani, IX. 53.
-36-
parte restaurntum, ciijus recuperationis finis immincbat, quod
ista niors pessima, toti Catholicae fìdei nociva, pessime prolii-
bebat (') „. Ma l'effettuazione dell'ideale dantesco di monarchia
universale non dipendeva unicamente dalla vita o dalla morte di
Arrigo. Questa non era che un episodio della lotta di parte fra
Guelfi e Ghibellini: episodio che permise ai Ghibellini d'Arezzo
di mutare il colore del cavallo che portavano sullo stemma di
bianco a nero e dette agio ai Guelfi di Reggio di costringere i
nemici a mettere delle candele sulle loro finestre, episodio che i
Pisani, uomini pratici lamentarono come una delle massime di-
sgrazie " perché avevano speso in lui più di due miglioni di fiorini
d' oro, e non ne aveano fatto prò nesuno, e rimaneano in briga
grandissima senza avere moneta (^) „.
Le ragioni che fecero rimanere il De Monarchia un' aspira-
zione ideale sono più profonde che non questo episodio. Se gli
angusti limiti d' una città guelfa non potevano soddisfare Dante,
che all'amico fiorentino scriveva: " nonne solis astrorumque spe-
cula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potere spe-
culari ubique sub coelo? „ ( '') ; cosi l'impero d'Arrigo " de in-
violabili iure fluctus Amphitritis attingens, vix ab inutili unda
Oceani se circumcingi dignatur (^) „, non poteva essere conte-
nuto nei limiti d' Italia né d' Europa. La corona ed il trono che
Dante vide essere preparati per il superbo Arrigo non erano di
questo mondo, non era la corona di ferro, che l'Italia aveva
impegnata ("j né il trono Romano, al quale essa chiudeva la via.
Forse noi non sentiamo allo stesso modo d'allora, e le no-
stre simpatie non s' accordano con i tempi, forse la critica dei
posteri appunto, per mancanza di simpatia, è troppo severa.
Forse anche Dante " per lo suo sapere fu alquanto presuntuoso
(') Baluze, Mise. Hisl. I, 319.
(-) Baluze, I, 453: Chron. Pisanuìu.
{'\ Epist. IX.
(«1 Epist. VII.
{') La corona ferrea era stata impegnata dai Della Torre; Lande da .Siena
aveva fatta fare una nuova che il Villani descrive, IX 9.
— 37 —
e schivo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosofo mal grazioso
non bene sapea conversare coi laici (') „ forse era troppo uso
a " garrire e sclamare a guisa di poeta (') „. Può darsi che non
si potesse dire con verità di Arrigo che " se i mali straordi-
nari dell' Italia erano allora capaci di rimedio, non si potea
scegliere medico più a proposito di questo (^) „. A mala pena
però noi ci persuadiamo delle parole del Compagni : " I luomo
savio di nobile sangue, giusto e famoso, di gran lealtà, prò' d' armi
e di nobile schiatta, huomo di grande ingegno, e di gran tem-
peranza {*) „, perché ci viene in mente in vece l' ironico detto
del Pisano
" Omo di buona vita e di pogo senno „.
e) Villani Giov.^ lib. IX. e. 136.
(-) Ibid.
(') Muratori, .-iiin. d' It., Vili, 72.
{*) D. Compagni, HI, 23, Ediz, cit. p, 350.
(') Sardo, Cion. Pisana LII. Arcliiv. Stor. Ital. VI (2) 94. Altro interessante
racconto della spedizione d'Arrigo VII nei Documenti di Storia Italiana, voi. VI:
Cronache dei secoli XIII e XIV, Firenze 1876: " Diario di Ser. Giovanni di Lemme
da Comugnori. „ Lo scrittore vide Arrigo VII nel tempo di una sua visita a Pisa
E A R LE
LA VITA NOVA DI DANTE
LA VITA XOVA DI DANTE (')
Quando il Boccaccio divulgò la notìzia che la Beatrice di
Dante era figlia di Folco Portinari, dette la spinta all' interpetra-
zione letterale della " Vita Nuova „, e il movimento non è an-
cora cessato. Fin da quei remoti tempi alla famiglia Portinari è
toccata una parte dell' interesse che desta in noi tutto ciò che
si connette storicamente col grande poeta medioevale. E per
una specie di congruenza naturale, sebbene non per conseguenza
necessaria, la storia romantica dell' amore del poeta per Bea-
trice è stata intesa in senso personale e reale.
La " Vita Nuova „ è interpretata come una testimonianza di
fatti, la quale benché mescolata di misticismo fantastico, è ancora
ritenuta sostanzialmente storica e autobiografica.
Posto ciò, il motivo della " Vita Nuova „ ha il suo fonda-
mento nell'amore di Dante per Beatrice Portinari; e poiché la
" Commedia „ é inseparabile dalla " Vita Nuova „, il complesso
di quel vasto concetto e l' occupazione intellettuale di tutta la
vita del poeta, che questi due lavori insieme rappresentano, sono
derivati come naturale conseguenza da quella passione, che la
vista di Beatrice Portinari accese nel cuore di Dante, quando
questi aveva nove anni.
Non vogliamo fermarci a discutere quanto ciò sia naturale o
possibile. Possiamo immaginare in astratto, quasi tutta la serie
(•) Questo scritto è estratto dal n. 367, voi. clxxxiv della Quarterly Review
(luglio 1896) dove vide prima la luce. La traduzione è stata eseguita col per-
messo dell' illustre Autore, al quale ci professiamo gratissimi.
— 42 —
di conseguenze resultanti dall' eccitamento di una potente pas-
sione, in gioventù. Ma questo non può farci credere, che un
uomo come Dante si sia messo a comporre di proposito la rive-
lazione dei suoi più intimi sentimenti, come quella contenuta
nella " \'ita Nuova „ intesa materialmente.
Si potrebbe opporre in verità che egli ha rivelato abbastanza
sé stesso e i suoi pensieri nella " Commedia „; ma questa pub-
blicità è drammatica, ed è ristretta a fatti d' universale interesse;
mentre in tutto ciò che è domestico e personale Dante si è
mantenuto in una dignitosa reticenza. Non ci ha detto nulla circa
il padre o la madre, il fratello o la sorella; niente di sua mo-
glie o dei suoi figli, o delle circostanze del suo matrimonio.
L' unico punto, nel quale si possa dire che abbia infranto la sua
abituale riservatezza, riguarda il suo esilio; ed in questo, anche
se dovesse ritenersi come privato e personale, bisogna conside-
rare che i suoi sentimenti erano troppo acuti per esser repressi.
Quando obbiezioni di questo genere furono fatte contro l' in-
terpetrazione letterale della " Vita Nuova „, la risposta pronta
da parte dei letteralisti è stata, che non dobbiamo giudicare di
Dante come si potrebbe di uomini ordinarli, poiché egli fu supe-
riore al comune degli uomini, sia per la forza delle sue impres-
sioni, sia per le sue facoltà intellettuali. Si può ammettere la su-
periorità di Dante; ma questa considerazione non rimuove la
nostra difficoltà. E per parlare poi in generale, non siamo favo-
revolmente disposti verso qualsiasi argomento basato sulle diffe-
renze fra il grande poeta e il resto dell'umanità. Poiché qua-
lunque arte e qualunque critica, deve dipendere dai principi co-
muni dell* animo umano, e ad essi deve riportarsi.
Al tempo stesso é da notare che il progresso della critica
storica ha inteso a distruggere l' autorità del Boccaccio. Foco
monta che risulti da documenti l' esistenza della famiglia Porti-
nari: questa famiglia è indubbiamente storica, ma cosa vale il
racconto del Boccaccio, che identifica la Beatrice di Dante con
la Beatrice Portinari? Nel quarto volume. Prolegomeni, dell'edi-
zione grande della " Divina Commedia „, curata dallo Scartaz-
— 43 —
Zini, la nota principale è il discredito che pesa sul Boccaccio
come biografo di Dante. Egli viene considerato come semplice
romanziere, come uno scrittore privo di senso storico, che non si
dette pensiero di accertarsi della verità anche quando gli restava
facile il farlo; raramente un suo racconto vien trovato degno di
fede; di regola non si pon mente alle sue asserzioni, è un lo-
quace e vuoto narratore, un ciarliere, che si avvicina al ciarla-
tano. Il Boccaccio è stato il principale sostegno dell' interpetra-
zione letterale; ma questo è il carattere che gli ha aggiudicato
lo Scartazzini, benché egli stesso aderisca all' opinione dei lette-
ralisti, pur rifiutando la testimonianza del Boccaccio riguardante
Beatrice Portinari.
Di fatti vi è una ragione più forte dell' autorità del Boc-
caccio, anche se avvalorata dalla data della morte di Beatrice:
vi è il racconto meravigliosamente verosimile, che sembra cosi
spontaneo, cosi concreto, e cosi convincente, che non ostante i
poetici e mistici contorni, trasporta il lettore soggiogato, e lo
rende propenso ad accettare V opinione del D' Ancona, che la
" Vita Nuova „ sia " una ingenua e piena confessione di ciò che
v'era di più intimo e segreto nel cuore dell'amante „ (').
L' interpetrazione allegorica ha una genealogia venerabile, sia
che la testimonianza indiretta e negativa di Pietro, figlio di Dante,
si ammetta o no. La via fu preparata nel secolo XV dalla cri-
tica del Filelfo, il quale pretendeva che Beatrice fosse una figura
puramente immaginaria. Ma solo nel 1723 un' interpetrazione al-
legorica fu metodicamente svolta, quando il Dott. Anton Maria
Biscioni pubblicò gli scritti in prosa di Dante, con un' importante
prefazione, nella quale sosteneva che Beatrice era il simbolo della
Sapienza. Questo studio non è soltanto notevole per 1' originalità,
ma anche per la sobrietà della forma e del giudizio.
Questo è quanto si può dire degli interpreti allegorici in ge-
nerale. Gabriele Rossetti riprese a trattare 1' argomento e dimo-
strò con sua propria soddisfazione che la " Vita Nuova „ è un
(M La Vita Nuova di D. A. Pisa, 1872, p. XXVIII.
— +4 —
libello ghibellino dissimulato in un criptograiiima simbolico. A giu-
dicare dagli sforzi fatti per combattere questa teoria (tra i quali
quello di Arturo Hallam lodato da R. W. Church), ne inferiamo
che fosse presa sul serio a quell'epoca; ma non possiamo oc-
cuparcene ora, non avendo essa tenuto in seguito altro posto
nella letteratura che quello di una curiosità.
Di tutti gli studi che hanno seguito le linee tracciate dal Bi-
scioni, il pili ampio è quello del Gietmann ('). Egli vede in
Beatrice un costante simbolo della Chiesa, e questo sistema
segue con diligente uniformità. La sua coscienziosa interpetra-
zione quasi sempre ricompensa il lettore, anche in quei punti
dove non è convincente. In fatti l' autore vuol provar troppo, e
nel suo sforzo di scoprire qualcosa a favore della sua teoria in
ogni incidente della " Vita Nuova „, egli oltrepassa quel che si
richiede nell' interpetrazione di un' allegoria, e procede come se
fosse occupato alla soluzione di un prolungato enigma (^).
Ma lasciando altri sistemi, noi tenteremo di esporre l' inter-
petrazione allegorica quale l' intendiamo noi, ed in questo tenta-
tivo bisogna cominciare con una costatazione storica che è della
più grande importanza. Il carattere di quella fioritura primaverile
della moderna poesia, di cui Dante è il più cospicuo prodotto,
risulta chiaro dal fatto che il miglior lavoro dell' epoca fu steso
in forma di allegoria. Dal XII al XIV secolo, i poemi più origi-
nali e più ricchi di osservazioni sul carattere e sul vivere umano,
tanto scritti in latino che nelle parlate volgari, furono allegorici.
Questa è asserzione sicura e al di sopra di qualsiasi discussione.
II tempo ha già deciso quali debbano esser ritenute le migliori
opere di quel periodo. Quei lavori in volgare che sono ancora
in fama, come Le Roman de Renart, Le roiìiaii de la rose, Piers
the Ploivnian sono tutti allegorici.
(') Beatrice, Getst uiid Kern der Dante 'sclien Dichtmigen. — Freiburg in
Breisgau, 1889.
(') Questo elementare errore è comune ugualmente ad ambo le parti. Uno
degli eterni argomenti dei letteralisti contro gli allegoristi è il seguente : " Come
spiegate la quantità di particolari realistici, ai quali non può attribuirsi un si-
gnificato allegorico? „.
— 45 —
A questi si devono aggiungere: la Perla, un poema allego-
rico del XIV sec, che è stato restituito alla letteratura dal si-
gnor Gollancz, nella sua edizione del 1891 ; ed il poema latino
Anticlaudianns di Alano de Insulis, metafisico e poeta del XII sec,
un nome il quale, per quanto oscuro a noi adesso, ebbe gran
voga fra gli scienziati del suo tempo, e anche molto dopo.
Quest' ultimo è un poema allegorico, sul quale avremo occasione
di tornare in seguito. La transizione realistica del XiV sec. fu
il preludio del Rinascimento, e da quel tempo la tendenza al
realismo è costantemente aumentata, mentre 1' avversione all' al-
legoria ha fatto nascere una positiva corrente contraria a quel
genere di composizione.
E poiché il pubblico al presente è mal disposto all' alle-
goria, succede naturalmente che i letteralisti raccolgono da
questa circostanza un certo vantaggio polemico. È uso di quella
scuola di screditare l' interpetrazione allegorica con un certo
tono sprezzante, come se la pura allegoria fosse indegna del
soggetto che stiamo considerando: si può guadagnare cosi un
vantaggio temporaneo, ma difficilmente esso può rendersi dura-
turo, essendo deboli le fondamenta. Giudicare un lavoro del XIII
sec. con le norme e i pregiudizi del XIX, è assurdo; deve es-
sere misurato alla stregua del gusto che prevaleva ai suoi tempi,
quando la composizione allegorica era altamente in onore.
L' autorità del Boccaccio ha cospirato col moderno disgusto
per r allegoria a favorire il prevalente assenso all' interpetra-
zione letterale della Vita Nuova, poiché la Vita Nuova è il
campo di battaglia di questa controversia. Veruna seria differenza
d'opinione esiste riguardo alla Beatrice della Divina Coniiiiedia:
tutti s' accontentano di riconoscere in essa una figura simbo-
lica; ma questa funzione vien presa dai letteralisti come se fosse
uno sviluppo della Beatrice della " Vita Nuova „, nella cui narra
zione essi sostengono che si tratti di una persona reale. I lette
ralisti non negano la presenza dell' allegoria nella " Vita Nuova „
ma la credono un ingrandimento accessorio e lo sviluppo d
una storia originalmente vera ed umana. Ciò che noi soste
-46-
nianio e dianictralnicnto opposto a questa teoria. La narrazione
è fin nei suoi germi un'allegoria, e la sua vera sfera è spirituale
dal principio alla fine; non pertanto può aver cavato molti ele-
menti dalle circostanze attuali della vita, o può oflrirci punti di
contatto con la cronoK)gia e con la storia.
La " \'ita Nuova „ registra Un conflitto, ma non di passioni
che hanno la loro sede nella materia; un conflitto che era però
imperfettamente inteso da colui, il quale più o meno ne fu il
soggetto, e lo ritrasse in quella specie di ragionamento figurato,
che più si avvicina alle sue vaghe impressioni; per conseguenza
non era in suo potere di delinearlo in termini propri di prosa
filosofica. Il conflitto, che il sentimento e la fede tradizionali so-
stengono contro r invadenza intellettuale del raziocinio, è a noi
familiare adesso, e molti, anche di comune levatura, sono capaci
mercé una coltura tradizionale di descrivere questa lotta nei
confini riconosciuti dell' analisi psicologica. Ma di scritture siffatte
abbiamo appena qualche esempio nel sec. XIII, e certamente
nessuno in linguaggi volgari.
Dante ha un grande concetto, ma non ne è completamente
padrone, non sa ridurlo ad una chiara analisi; ma sa dipingerlo
in vaghe similitudini di analogia ed allegoria. Questo non è stato
abbastanza inteso da alcuni sostenitori della interpetrazione alle-
gorica. Per esempio, il Gietmann è troppo minuzioso nelle ana-
logie che cerca di stabilire fra le circostanze della storia esteriore
e i particolari di significato allegorico. È necessario ammettere
che r allegoria contenga alcune cose che non possono venire
tradotte, e per contrario molte altre, che sono come un velo alla
indeterminatezza del pensiero del poeta. E appunto perché egli
non può precisamente spiegare, accuratamente delineare e acu-
tamente definire il suo concetto, l'allegoria conviene al suo pen-
siero, e stava pronta pel suo uso, come l' unico strumento let-
terario di un certo valore che a quel tempo era perfetto ed
opportuno.
Ciò che dà importanza a questa disputa su Beatrice è il fatto,
che il segreto concetto di Dante è certamente figurato in Bea-
— 47 —
trice. Per rispetto alla Cotiuìiedia tutti io riconoscono; ma la
controversia sta in ciò, che noi sosteniamo ciie Beatrice ha un
solo e medesimo carattere dal principio alla fine, dalla [irima
pagina della Vita Nuova, al termine del Paradiso.
La questione di Beatrice è realmente limitata alla Vita Nuova,
e verte circa la giusta interpretazione di questo piccolo libro e
la vera relazione di esso con la Coniinedia. Può il carattere di
Beatrice essere, come dicono i letteralisti, una cosa nella Vita
Nuova e un'altra nella Commedia? È dessa una fanciulla in carne
e ossa nella Vita Nuova, la quale gradatamente diventa una crea-
tura divina nella Coniiiiedia? È più che un'oggetto di curiosità let-
teraria r accertare in quale ordine di idee fosse realmente il Poeta.
Il presente stato della disputa è imperfetto al più alto grado;
il disaccordo nell' opinione minaccia di diventare fazioso. Qua-
lunque ragionamento è riconosciuto buono, solo se appoggia la
tesi che lo scrittore sostiene; e le prove più degne di fede
sono messe in dubbio quando attraversano il sentiero del dispu-
tante. In questo modo le difficoltà insite per natura al soggetto
sono accresciute. Vi sono certamente alcuni fatti che devono
essere riconosciuti indiscutibili, e se questo non è ammesso, ogni
speranza di progresso negli studi danteschi vien meno. Perciò,
prima di andare avanti vogliamo fissare alcuni punti, che, a nostro
avviso, dovrebbero essere generalmente accettati e messi fuori
di ogni controversia. Senza questa concessione nulla di sicuro
potremo stabilire, e staremo sempre come sopra una palude va-
cillante, senza poter giungere a nessuna conclusione positiva.
I. — Il primo sonetto della Vita Nuova è quel che vuol
essere, cioè, una vera copia di quel sonetto enigmatico, che
Dante aveva fatto molto tempo prima e che girava fra gli amici.
Che fosse cosi divulgato è evidente dalle risposte che abbiamo
tuttora e che sono accettate da tutti per genuine. Simile divul-
gazione renderebbe quasi impossibile qualunque mutamento so-
stanziale, e l'opinione dello Scartazzini {Prolegomeni, p. i68), che
il sonetto abbia da ritenersi probabilmente alterato, è gratuita, e
fatta a posta per distruggere uno dei punti più sicuri della ricerca.
-48-
2. — Per la (hniia gentile si deve intendere doìiiia filosofia,
secondo la spiegazione che Dante stesso dà nel Convito. Gli ar-
gomenti in contrario del Witte e dello Scartazzini sono ineffi-
caci, o soltanto efficaci a scuotere i fondamenti della discussione.
Noi dobbiamo accettare come pura verità 1' attestazione di Dante,
o accusarlo di falso: non vi è scampo fra questa alternativa.
3. — La mirabil visione del e. 43 è identificata con la Divina
Comnicdia, come è inteso generalmente, e le obbiezioni dello
Scartazzini che tendono ad infirmare questo fatto, [Prolegomeni,
p. 317) non possono essere ammesse.
4. — Questo punto è il più importante di tutti. Dobbiamo
scrutare le operazioni mentali di Dante, come quelle di un uomo
costituito come noi; negando a noi stessi questa facoltà, ci di-
chiariamo medesimamente incapaci di critica. Nessun peso di
autorità dovrebbe indurci ad esitare nel riconoscimento e nel-
r affermazione di questo diritto naturale.
Non occorre una grande conoscenza della letteratura dantesca
per accorgersi, che tanto gli allegoristi che i letteralisti hanno
molti argomenti plausibili da ciascuna parte, e che si gli uni che
gli altri confidano nella forza delle loro rispettive posizioni. Ciò
non di meno, la ragione deve stare da un lato solo. Occorre un
seguito d' argomentazioni potenti e noi crediamo che vi siano
gli elementi necessari, e riteniamo che la vittoria sarà final-
mente di quella teoria che si mostrerà più capace di risolvere
le principali difficoltà e di mostrare nel sistema del nostro au-
tore un intento continuato ed un disegno consistente. A questa
prova avremo qualche volta occasione di richiamarci in seguito.
Lo Scartazzini riconosce un ostacolo in quella parte del racconto,
ove è detto che l' amante, quando senti per la prima volta la voce
di Beatrice, cominciò subito a disperare della vita di lei (').
(') " Dante salta un periodo di nove anni, in capo al quale periodo rive-
dendola ed udendone il gentil saluto, gli parve di vedere tutti i termini della
sua beatitudine. Se non che questa sua beatitudine e amareggiata dal presenti-
mento di morte della sua donna, che insurge non sappiamo perché nella mente
del diciotenne poeta „. Prolegomeni, p, 319.
— 49 —
Lo Scartazzini ammette che vi è un dubbio non risolto, nel-
r anticipare ciie fa l' autore la morte di Beatrice. Se noi cre-
diamo di leggere un semplice racconto d' amore giovanile, certa-
mente ci sarà difficile di capire come un innamorato diciottenne,
che ha ricevuto allora allora il suo primo incoraggiamento, possa
in queir istante medesimo temere per la vita della sua donna.
Ma questa difficoltà può essere appianata, accettando la più an-
tica soluzione allegorica, cioè quella che Beatrice sia un simbolo
della Teologia.
Dapprima bisogna porre attenzione a certe circostanze che
Io Scartazzini ha trascurate nel suo breve sommario. Al primo
apparire al poeta nell' infanzia, Beatrice avea una veste di colore
umile ed onesto, sanguigno; e in quel tempo l'amore nacque, ma
non vi era comunicazione di parole. Al secondo incontro, nove
anni dopo, il suo abito era di colore bianchissimo, ed ella cammi-
nava in mezzo a due gentildonne più anziane di lei, e fu allora
che porse a Dante con ineffabile cortesia quel saluto, che gli fu
come un lampo di dolcissima beatitudine. Queste particolarità non
devono essere trascurate, perché sono essenziali, e la storia non
è la medesima senza di esse.
11 colore chermisi significa che all' età di nove anni la reli-
gione e circonfusa dagli affetti; e il bianco puro dei diciotto anni
è l'apprendimento della divina verità con fede illuminata; tutto
questo è anche confermato dall'appoggio delle due donne più
anziane che sono ai lati di Beatrice, che certamente stanno a
denotare la Fede e la Ragione.
E come i due incontri sono differenti per il colore delle vesti
di Beatrice, cosi pure per i segni di comunicazione espressa fra
i due amanti. Il che vuol dire che a nove anni non vi era che
una fede semplice ed implicita, mentre a diciotto vi si aggiun-
geva altresì un atto esplicito della ragione.
Con questo risveglio di attività intellettuale l' apprensione,
che la teologia non ha alcun saldo fondamento nel progresso
scientifico di questo mondo, comincia a fare il suo primo in-
gresso nella mente indagatrice. Per noi questa spiegazione è
Earle. 4
— 50 —
sufficiente; tuttavia noi non ci contentiamo della soluzione di
ciascuna difficoltà presa singolarmente, ma piuttosto ci affidiamo ad
una serie di soluzioni, le quali sono potenti non separatamente,
ma combinate insieme, perché ci porgono indizi sicuri, perché
sono organicamente collegate fra loro, ed infine perché tendono
a stabilire un motivo e un principio solido d' interpetrazione.
Yì è un pensiero fondamentale che informa tanto la Vita
Xuoi'a che la Divina Coiiiinedia, dando ad entrambe una più
interna unità. Questo pensiero è la supremazia della Teologia
sulla Filosofia, della Fede sopra la Scienza. Noi ci aspettiamo
che qualche lettore ci domandi, se sia possibile che questo
conflitto fra la Fede e la Scienza sia stato sentito fortemente
da Dante. Per la nostra presente controversia questo è un
punto di cosi vitale importanza, che bisogna cercare di to-
gliere ogni dubbio. Vogliamo perciò addurre, a dilucidarlo, due
categorie d' argomentazioni, 1' una di carattere generale riguardo
i tempi, r altra personale, rispetto al poeta. Per la prima, pos-
siamo riferirci ai capitoli in principio del De Imitatione, che mo-
strano una grande sfiducia nella scienza come dannosa al senti-
mento religioso.
Invero tutto il periodo scolastico, se guardiamo ai suoi punti
culminanti, avrà l' apparenza di essere stato meno un conflitto
fra il realismo e il nominalismo, che fra la Fede e la Scienza.
L' una è quistione solo dottrinale e transitoria; l'altra è una
quistione universale, la quale dappertutto accompagna il pro-
gresso dell' umana coltura. Ogni crisi del periodo scolastico
si aggira su questa controversia. Verso la fine del XII sec. vi
fu una grande reazione, un ritrarsi della mente religiosa dal
movimento razionalista, nel quale il misticismo riguadagnò il suo
dominio.
Un esempio tipico di questa rivoluzione è Alanus de Insulis
(Alain de Lille), il quale, essendo un famoso maestro nella scuola
di Parigi, uno che sapeva ridurre i misteri a una prova mate-
matica, subì un grande mutamento, e da allora concesse la sua
scienza al mondo, non per via di argomenti, ma di simboli e al-
— 51 —
legorie. La storia della sua conversione divenne una parabola.
Arrivato all' apice della celebrità, destò grande aspettativa, annun-
ziando eh' egli avrebbe dimostrato pubblicamente il mistero della
Trinità. La mattina del giorno fissato a ciò egli passeggiava
lungo la Senna, e vide un bambino che prendeva l' acqua dal
fiume e la versava in una buca nella sabbia. " Cosa fai li, pic-
cino? „ " Voglio versare tutta l'acqua in questa buca finché il
fiume non sia secco „. " E quando avrai finito la tua bisogna,
bimbo? „. Prima che voi terminiate il disegno che avete in mente „.
" Quale disegno? „ " Intendete far parata della vostra scienza
spiegando il mistero della Trinità; il vostro è un proponimento
pili difficile del mio „.
Poi nel sec. XIII segui il trionfo della Filosofia, alla quale
successe la conciliazione degli elementi discordanti; la quale,
compiuta da due illustri domenicani, Alberto Magno e Tommaso
d' Aquino, durò qualche secolo ed è per molti ancora soddisfa-
cente. Ma in sostanza non è possibile nessuna conciliazione du-
revole di tal fatta: gli interessi che si suppone accordati sono
divisi alla loro base da un abisso insormontabile.
Per un'anima credente Dio è molto vicino e può da tutti es-
sere conosciuto; per un intelletto nudrito di scienza Egli è smi-
suratamente lontano, inaccessibile ed inconoscibile. Questa radi-
cale differenza era già saputa dall' autore del Libro di Job; ar-
deva nella memoria della Chiesa per l'eresia gnostica; era troppo
rigidamente rafforzata in pratica da Gregorio il Grande, con la
sua insistenza sulla profanità di qualunque studio che non fosse
consacrato dall' autorità della Chiesa. Qui vi sono due parti in-
conciliabili, ognuna delle quali separatamente contiene delia ve-
rità, ma si guardano 1' un l'altra in perpetua antinomia; e però
vi deve sempre essere qualcosa di falso e di sofistico in qua-
lunque sistema che pretenda alla loro conciliazione.
E in questo consiste la debolezza della teologia scolastica.
Se nel progresso degli studi si manifestava una grave scissura
fra la Fede e la Scienza, naturalmente succedeva che lo zelo
religioso nei dotti bruciava d' ardente desiderio di fare un ponte
_- 52 —
suir abisso, e di rimettere 1' unità e 1' armonia fra le due grandi
sorgenti del pensiero umano. Già nel XII sec. questo stato di
cose era cessato. Il primo grande esempio di uno sforzo verso
la riconciliazione fu dato in questo secolo da un ebreo, IVIosé
Maimonides, il quale nacque nel 1135 e mori nel 1204. Il suo
libro intitolato " La guida dell' errante „, fu giudicato dall' Hau-
réau „ il più bel monumento di filosofia prodotto dagli Ebrei, il
loro vero classico, la cui influenza durò tanto che ancora splende
nelle pagine dello Spinoza e del Mendelssohn „ (').
Lo stesso secolo produsse due opere col medesimo titolo di
Sminila Tìicologiae, e scritte con lo stesso scopo : 1' una di Ro-
berto di Melun, e l'altra di Stefano Langton, che divenne poi
Arcivescovo di Canterbury. Nel secolo decimoterzo, uomini di
varie scuole e sètte misero fuori le loro Snmma, e una degna
di speciale menzione e che apparve verso il 1225, sotto il titolo
di Siiiiiììia Philippi Canccllarii, era di Filippo di Grève, Cancel-
liere dell' Università di Parigi. In queste opere i metodi filosofici
erano applicati a quistioni teologiche, ed esse tendevano a diven-
tare enciclopediche. La Siuìinia di Alessandro Hales, il dottore
irrefragabile, nativo di Gloucestershire, e che mori nel 1245,
crebbe a tali proporzioni per la elaborazione successiva di altre
mani, che Ruggero Bacone, fiorito nella seguente generazione,
diceva che era plus quam pondiis iiniiis equi. Ma nonostante que-
sta lunga serie di esperimenti, quando Alberto Magno intraprese
il medesimo compito, iniziò una nuova èra nella teologia filoso-
fica, e l'opera che lo rese cosi celebre fu compiuta dal suo di-
scepolo Tommaso d' Aquino al punto, che non rimase nulla da
aggiungere in questo campo ai cultori che vennero dopo. Alberto
Magno e Tommaso d'Aquino sono in teologia le autorità di
Dante, che sta ai loro piedi.
Non per questo però egli si lascia preoccupare dalla loro
sottigliezza, né abbagliare dal loro splendore; egli serba la pro-
I* Histoire de la Phiiosophie Scolastique, Paris, i38o, par. II, p. 43.
— 53 —
pria indipendenza di pensiero e di giudizio. Egli intuisce l' im-
possibilità naturale di un completo accordo fra la Teologia e la
Filosofia; pure ammirandole ambedue, una solane predilige. Egli
sa che la Filosofia è di questo mondo, non cosi la Teologia.
Questa terra non può essere la dimora stabile per la sua donna
prediletta, essa deve essere trasportata in altra sfera, deve in-
fatti morire; ma egli non cessa perciò di essere fedele a lei,
quantunque per qualche momento possa essere sedotto e tra-
viato. Una volta infatti dopo la sua sparizione il suo pensiero le
fu infedele, ed egli s'innamorò della Filosofia; ma dopo alcun
tempo si penti e tornò al suo primo amore, 1' unico nel quale la
sua anima trovasse soddisfazione e pace. Dante più che cono-
scere, forse sentiva che la Scienza non può mai supplire la re-
ligione, né sostituirsi ad essa, ma che tuttavia può essere utile,
promovendo un esame critico di dottrine, che si connettono più
o meno da vicino con la religione.
Cosi abbiamo cercato di dimostrare, con una scorsa generale
fra le controversie di quel tempo, che il conflitto tra fede e
scienza era grave e dominava le menti dei pensatori.
Adesso passiamo alla prova particolare data dagli scritti di
Dante, e che formerà la seconda parte della nostra argomenta-
zione. Otterremo maggior chiarezza, accomodando i nostri esempi
su di un disegno ben definito, e illustrando questa parte dell' ar-
gomentazione: 1° con la Vita Nuova, 2" con la Coììììucdia, 3" con
r una e 1' altra di queste due opere.
Cominciamo dalla Vita Nuova, e vediamo come in essa sia
evidente la supremazia della Teologia. Prima di tutto, vi è de-
scritta quella scena, nella quale Dante essendo in chiesa guardava
Beatrice, ma parve agli osservatori eh' egli guardasse un' altra
donna, che stava in linea retta fra il suo occhio e il vero og-
getto della sua attenzione. Il secondo quadro è dove la bella
Giovanna — per la sua freschezza chiamata Primavera — fu
vista passeggiare precedendo Beatrice. Il terzo è quando, dopo
la morte di Beatrice, lo sguardo compassionevole di quella donna
alla finestra consolò 1' afflitto innamorato, e dopo egli vergognan-
— 54 —
dosi della sua infedeltà, tornò al suo primo amore eon nuova
intensità di passione. Queste tre scene sono tre emblemi, posti
simmetricamente in ciascuna delle tre partizioni di qursU) li-
bricino.
Queste pitture emblematiche esprimono con vari aspetti la
suprema eccellenza della Teologia, nonostante l'incanto quasi
irresistibile della Filosofia. Qui noteremo il grado di certezza al
quale possono arrivare le immagini, quando sono in questo modo
ripetute, poste e variate.
Cosi viene offerto un compenso, per la dubbiezza della storia
allegorica, al lettore circospetto, a chi lo iìitcìidc ( Vita Nuova,
cap. 7-8). Il metodo è scritturale e apocalittico e potrebbe essere
illustrato dal Libro di Daniele e dall' Apocalisse, se lo spazio lo
permettesse.
Noi intendiamo che un importante scopo possa celarsi nel-
l'adozione di questo metodo ternario. Sembra infatti che sia stato
adoperato affinché una guida al segreto intendimento possa rin-
tracciarsi nell'oscurità della velata allegoria. Per mezzo di que-
sto metodo apocalittico è stato provveduto ad una via sicura
d' interpetrazione, e forse l'unica che può alla fine assicurare
l'accordo unanime fra i commentatori. Questo è un punto che va
illustrato con un esempio. Uno dei passi più discussi è quello
risguardante la donna alla finestra. Il Witte è cosi convinto che
fosse realmente una gentildonna fiorentina, eh' egli si sforza di
confutare il preciso racconto di Dante, che gli sta contro, nel
Convito. Questa attitudine cosi sicura è basata sulla forma, la con-
creta e palpabile forma della descrizione originale nella Vita Nuova.
Quando un critico si pianta risolutamente su un terreno sogget-
tivo, difficilmente può esserne scacciato, tranne che da una prova
di natura anche più esteriore. E di nessun profitto trar fuori
impressioni soggettive di allegoria contro soggettive impressioni
di fatto. Ma quando si scopre che questo è il terzo di una serie
sistematicamente distribuita di quadri emblematici rappresentanti
lo stesso sentimento sotto vari aspetti, e quel sentimento appunto
asserito da colui che meglio doveva conoscerlo, la tenacità dei
— 55 —
più illustri veterani non deve vergognarsi di arrendersi. Questo
è un esempio di quel che si possa sperare dall' apocalittica guida
d' interpetrazione che 1' autore ha provveduto.
Nella Coiìiinedia le relazioni fra la fede e la Ragione e le
loro diverse parti sono ripetutamente accennate e variamente
illustrate, come nel Purg. Ili, 34-36; XXXI, iii. Ma noi desi-
deriamo richiamare l' attenzione su alcune prove fino adesso
trascurate. Al principio del poema il mistico pellegrino sì perde
in una foresta di confusione, e quando finalmente si leva e vede
dinanzi a sé le serene cime della Scienza, egli seguita con fatica
a salire. Che // dilettoso monte significhi il colle della Scienza di-
mostrativa, è chiaro dal verso:
„ Si che il pie fermo sempre era il più basso „.
Il punto più basso è il più stabile nella dimostrazione, perché
Te proposizioni che sostengono l'edificio dell'argomento sono per
certo le più basse, fintanto che si giunge ai fondamenti che sono
i più sicuri di tutti, poiché consistono di assiomatiche verità.
E che questo verso richieda siffatta interpetrazione è confermato
in modo molto importante. I commentatori differiscono circa il
senso materiale di esso, quanto ad intenderlo come una descri-
zione meccanica di una salita, e forse non del tutto esatta; ma
per l'allegoria è quasi sufficiente: il poeta pensava più al suo
significato allegorico che al letterale.
Ora il cammino gli è chiuso dal terrore di bestie feroci; poi
il suo procedere è disviato dall' ambasciata di Beatrice e dalla
scorta di Virgilio. Egli è tolto dall' orgogliosa ambizione della
Scienza, e messo per una strada che lo condurrà a Beatrice.
In altri termini egli abbandona il sentiero della Sapienza per
quello dell' Amore. Qui possiamo ricordare quelle parole di
S. Paolo: La Scienza esalta, ma l' amore edifica, e una sentenza
di Alberto Magno: La Filosofia è la voce della Scienza, ma la
Teologia quella dell' amore. Il pellegrino sta per giungere al dif-
ficile passo, perché // timore del Signore è il principio della sa-
pienza. Là felicità cercata, è quella che si appunta nella Scienza.
-56-
Avendo passato le due regioni dei divini giudizi, egli viene a
parlare di Beatrice nel Purg. XXX, 73 ; con un luminoso verso
che saluta (.la lontano, e che ci pone in immediata continuità col
Prologo :
Guardaci ben, ben sem, ben som Beatrice.
" Io sono infatti Beatrice, che ti richiama da quella orgogliosa
e presuntuosa via, quando volevi in verità scalare il monte della
Scienza, e io sono quella che ti ho portato in questo paradiso
terrestre, che (come dovevi sapere, e infatti sapevi) è la vera
sede dell' umana felicità. „ Questo è il significato della terzina
che ha tanto tormentato i commentatori e dalla quale non hanno
ancora tratto un senso ragionevole.
Sul verso 74 lo Scartazzini ha condensato in due fitte pagine
di carattere minuto le suggestioni degli interpreti, dalle quali
scegliendo la migliore, si arriva alla conclusione, che il verso
è ironico! Nulla è più alieno dalla situazione in cui si trova il
Poeta; il rimprovero è a posto, ma non la derisione. E poi il
mostruoso accozzo che farebbe coi versi seguenti:
Come degnasti di accedere al monte?
Non sapei tu che qui é 1' uom felice?
La seconda domanda renderebbe vana la prima, e a nessuno
è riuscito di stabilire una sensato nesso fra loro. La spiegazione
comune è davvero molto imperfetta, cioè, che il primo verso
sia ironico il secondo serio. Tutta questa esegesi si poggia sulla
sbagliata opinione che il monte di cui si parla sia quello sul
quale si trova Beatrice. Per provare che questo è erroneo basta
solo osservare che l' enfatico (jiii del verso 75 è antitesi a
// monte, e perciò il monte accennato deve essere qualche cosa
di diverso dal luogo in cui si svolge la scena presente. Il monte
indicato non è // sacro monte, Purg. XIX, 38, chiamato anche
// santo monte XXVIII, 12, ma è // dilettoso monte del Prologo.
Si ammetta questo e tutte le difficoltà svaniranno e si vedrà a
— 57 —
bella prima che nel Canto seguente, XXXI, 28-30, il poeta ha,
secondo un metodo favorito, espresso in altri termini il senso di
questo verso enigmatico, stemperandolo in una terzina.
Yl sono forti indicazioni, benché alcune nascoste, che Dante
riguardava il verso Giianhìci hcn, come una chiave. Questo è il
verso centrale del Canto, e il suo numero è il 73, ogni cifra del
quale e di valore sacro, e la loro somma forma il numero per-
fetto IO. Da ogni lato di questo centro i versi sono 72, e qui le
cifre sommano a 9. 11 numero del Canto nella Cantica è 30, un
multiplo sacro del numero perfetto. Né questo è tutto: il numero
di questo Canto principale fra i 100 Canti del poema è 64, dove
le cifre sommano a io; ha 63 Canti avanti a sé e 36 dopo, nei
quali due numeri le cifre fanno 9.
Queste simmetrie aritmetiche non devono essere sprezzate
dalla critica che vorrebbe penetrare nel pensiero di Dante, per-
ché sono perfettamente dantesche, ed erano senza dubbio di
vera utilità a lui stesso nella costruzione dell' edifizio della sua
grande opera, né vi è bisogno di dubitare che fossero anche
destinate a futuri iìli conduttori, per ricompensare quelli che
s' ingegnassero attentamente di scoprirle. A noi sembrano dire
che qui, Purg. XXX, 73-5, è depositata la chiave che potrebbe
aprirci le segrete origini di questo grande argomento; poiché
questo passo ci rimanda a un punto che sta fuori del poema, e
prima del suo principio. È implicito che il pellegrino si è mosso
alla ricerca della felicità, e che egli aveva stabilito i suoi piani
non saggiamente, anzi perfino perversamente. Il rimprovero di
Beatrice colpisce la primitiva risoluzione che sta dietro 1' azione
del poema: " Perché hai voluto andare al monte? Non sapevi tu
che qui è la sede della felicità? „
Il motivo manifesto del suo muoversi era di trovare la felicità,
ed egli sapeva che questa non si trovava sul colle della Scienza:
chiunque altro può sperare di trovarla ivi, egli no. Perciò la sua
decisione era contro la sua migliore opinione; egli aveva peccato
contro la sua intelligenza, ed egli era stato liberato dalle conse-
guenze del suo errore; e qui e' era ragione abbastanza per co-
-58-
minciare con rimprovero, ma non con ironia! Ci sembra fuori
dubbio che, spogliata dell' allegoria, la vera accusa sia questa,
che egli cioè aveva negletto la Teologia per correr dietro alla
Filosofia. Se questa fosse la vera soluzione di un'antica diflìcoltà
allora sarebbe un saldo appoggio all' opinione nostra, che il pen-
siero fondamentale di Dante è la supremazia della Fede. Il poeta
descrivendo l' umana ricerca della scienza, che è la medesima
cosa della felicità, ha assegnato un uftìcio secondario a quella
filosofia, che è la voce della scienza, e ha riservato il più alto
posto per la Teologia che è la voce dell'Amore. Il suo giudizio
si trova in uno dei più profondi poemi del nostro secolo:
" Who loves not Knowledge ? Who shall rail
Against her beauty ? May she mix
With men and prosper ! Who shall fix
Her pillars ? Let her vvork prevali.
. . . Let her Know her place;
She is the second, not the first (').
Avendo dimostrato adesso che questo è un pensiero fondamen-
tale nella Commedia, come nella Vita Nuova, resta da provare
lo stesso con argomenti presi dalle due opere insieme. La tra-
scendente natura della Teologia è il segreto pernio del movi-
mento nella Vita Nuova; ma se contempliamo questo libriccino
in relazione con la Commedia, troveremo allora che è manife-
stamente il principio che dà unità a queste due opere. La natura
della Teologia che tutto abbraccia è rappresentata al principio
della Vita Nuova dall' amore neh' età infantile, e nuovamente
viene ritratta alla fine del Paradiso dall' umana apprensione della
Natura Divina, per mezzo di una misteriosa intuizione senza
r aiuto di argomento dialettico. Tra questi estremi poli — il primo
avanti che sia sviluppato l'intelletto, l'altro dopo che il suo
corso è finito, — i due lavori sono inclusi, e il pensiero fonda-
(') Tennyson — In vtenioriam, cxiv.
— 59 —
mentale di tutto il disegno è manifesto, fuori di ogni possibile
errore.
Il sistema allegorico di Dante si concentra su Beatrice. E per
la giusta esegesi di Beatrice è bene ricordare questo, che l' idea
che rappresenta, per quanto vera, non è improntata di rigida
uniformità. Come la luna, essa ha le sue fasi; i suoi aspetti va-
riano con la stagione e le occasioni, ma la variazione di essi è
senza incostanze, poiché tutti naturalmente si fondono in una
verità principale e comprensiva. La sua figura ricorda quella
della Filosofìa in Boezio: —
" Statura discrctioìiis aìiihiguac. Nam mine quidoìi ad comnm-
ìicììi scse hoiìiiììiinn moisurani coìiibebat, mine vero pulsare cacliun
atiiiiiin ver tic is cacii/iii/ie videbatiir ; qnae cinn eapiit altiiis extulis-
set, ipsiiiìi ctiam caelitiii pciictrabat, respicieìitiiuiique lioìiiiinui fra-
strabatiir intuitimi (').
Quando diciamo che Beatrice rappresenta la Teologia, non
intendiamo con ciò la Teologia scolastica, che era assimilata
quanto più possibilmente alla Scienza e alla Filosofia. No, la
Teologia intesa qui è precisamente quella che è distinta dalla
scienza dimostrativa, nò conformabile ad essa. Non è la Teo-
logia come sistema dialettico, ma come principio di convinzione,
il principio della Fede; e ciò è reso manifesto dall'identifica-
zione di Beatrice con la Chiesa di Cristo, Che simile identifica-
zione sia intesa dall' autore della Vita Nuova è un punto che
non possiamo lasciare nell'incertezza. Quali che siano i vari
aspetti di Beatrice, essi tutti si confondono nella Chiesa come
nella loro unità collettiva; e vi sono passi notevolissimi da cui
questa stessa idea emerge in tutta la sua integrità e pienezza.
Questo è il significato di quegli attributi superumani che sono
profusi su Beatrice, e dei quali il D'Ancona crede che basti dire:
Nella ardente fantasia del poeta, l' amata diventa un essere supe-
riore all' umana condizione ("). Essa è un nuovo e gentile miracolo
(') De Consolatione Philosophiae, I. i.
\j) D' ANCONA — Vita Nuova, p. xxxiv.
— 6o —
che Dio ha donato al mondo, e che i santi nell' alto del cielo
reclamano a voce alta; essa è un tipo vivente della perfetta bel-
lezza, fisica e morale; Dio intende di far di lei una cosa nuova/
passando fra la folla, essa spande intorno a sé una strana e
soprannaturale fragranza, uno spirito divino d'amore, d'umiltà,
di pace. I letteralisti non sono mai cosi impacciati come di fronte
a questi attributi, che per loro non sono altro se non appassio-
nate esagerazioni. Noi al contrario sosteniamo che queste sublimi
espressioni sono interamente immuni di esagerazione, che esse
convenientemente corrispondono alla Chiesa di Cristo, secondo
l'idea che l'autore aveva nella sua mente; e perciò non pos-
siamo accordarci col Prof, d' Ancona, che basti cioè a spiegarle
pienamente la sua formola: AV/A? ardente faìdasia del poeta, l' aiìiaia
diventa un essere superiore all' iiììiaiia condizione.
Tale interpetrazione presume che il vero soggetto del discorso
non sia affatto sovrumano, ma soltanto cosi rappresentato da un
ardente imaginazione, che trasporta il poeta al di là dei limiti
del senso comune, per dar la stura ad una rapsodia che non può
essere in nessun modo ridotta ad un qualche significato reale.
Simile commento ha perciò per effetto di accusare Dante di un
basso artifizio di composizione rettorica, che egli in anticipa-
zione ha ripudiato, poiché cosi intendiamo lo sdegnoso passo:
Grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cosa sotto forma di
figura o di colore rettorico, e poscia dotnandaio non sapesse dinu-
dare le sue parole da cotal veste, in guisa che avessero verace in-
tendimento. E (jucsto mio primo amico ed io, ne sapemo bene di
quelli che cosi rimano stoltamente (').
Si potrebbe, usando una forma indiretta di discorso, più en-
faticamente negare la frivolezza di scherzare con lo stile figurato?
Certamente il Biscioni aveva ragione, quando suggerì che questo
passo era destinato da Dante ad ammonire 1' attento lettore.
Ma fortunatamente possiamo giustificare questi attributi di
Beatrice con un esempio di grande rilievo, nell' esposizione del
(■) Vita Nuova e. xxxv.
— 6i —
quale un'altra delle precipue ditTicoItà sarà, sperianic», schia-
rita. Non vi e esempio nel quale 1' esagerazione paia più smisu-
rata, che quando vien detto di Beatrice nella prima canzone, che
al Cielo non manca se non lei, e che il Cielo non ha altri difetti
se non quello causato dalla sua mancanza.
Se questo non potesse spiegarsi altrimenti che come un' effu-
sione tlcir ardente fantasia, sarebbe una frenesia strana senza re-
gola né legge, qualche cosa che non ha posto nell'arte; e in questo
caso si potrebbe esser costretti a cercar rifugio nella proposta
del D' Ancona, che sostiene davvero, che la J'i/a Nova itoti è un
prodotto dell' arte, ma semplicemente dell' ispirazione. Non ci fer-
meremo a domandare se l' arte e l' ispirazione siano inconcilia-
bili, poiché il rifugio è solo ipotetico, e non temiamo di dovervi
ricorrere.
Il modo con cui lo Scartazzini tratta questa difficoltà della
prima canzone, è piuttosto leggero. Egli dice così: — " Questa
canzone contiene veramente alcuni passi oscuri ed enigmatici;
del resto essa non oltrepassa i limiti dell' umano. Se un amante
dice che l' idolo suo è desiderato in cielo, al quale esso solo
manca, non si può negare essere questa un' esagerazione un
po' forte. Eppure esagerazioni consimili non sono insolite nella
poesia erotica „ (').
Non lo sono? Il critico non adduce un solo esempio parallelo;
omissione che non possiamo fìngere di deplorare, perchè nep-
pure un mucchio di esempi avrebbe potuto rendere accetta la sua
argomentazione. Egli è completamente fuori di traccia, perché in
questo caso non si tratta di esagerazione. L' intenzione di Dante
è affatto sobria, basata su buone autorità e suscettibile di esser
provata.
Era una dottrina accettata dai teologi medioevali, che la crea-
zione dell' uomo fosse destinata a riempire il vuoto causato dal-
l'espulsione degli angeli ribelli; e che la Chiesa sia l' istrumento
(') Prolegomeni p. 172.
— 62 —
pel quale gli ordini celesti hanno da ricuperare il loro dovuto
compimento. Questa credenza è accer.nata da Dante nel Con-
vito ('). Cosi che noi abbiamo qui un fondo ortodosso per 1' as-
serzione che il Cielo non manca che di Beatrice, solo se suppo-
niamo che nella figura di Beatrice Dante avesse in pensiero la
Chiesa.
È la variabilità nel simbolismo dei suoi principali caratteri che
inganna il commentatore di Dante. Abbiamo visto che nella prima
Canzone Beatrice è la Chiesa arzlùK, semplicemente e piena-
mente. Nel X del Paradiso, d' altra parte, essa rappresenta la
Chiesa non in questo modo generico, ma in una sua fase, cioè
come la manifestazione della Potenza di Dio. Fondati suW Apocal.
XII. I, dove si è sempre creduto che la donna nel sole figurasse
la Chiesa, questo e i canti seguenti sono stati influenzati nella loro
genesi dalle parole di S. Paolo: (') " Acciocché nel tempo pre-
sente sia data a conoscere ai principati e alle podestà, nei luoghi
celesti, per la chiesa, la molto varia sapienza di Dio. „
Una simile variazione accompagna il carattere dell' Amore
nella Vi'ia Alitava. In alcuni punti esso non è che la personifica-
zione dell' ardore di Dante, in altri è invece il Cristo, come nel
e. 12, dove, se ammettiamo questo più alto valore simbolico,
sparisce ogni difficoltà in quella misteriosa espressione: Ego
tanquaìii ceiitrum circuii, cui simili modo se habciit circnmferentiae
partes; tu autem non sic.
Se sosteniamo che 1' essenziale natura della Vita Nuova è
allegorica, la quistione se Beatrice fosse realmente una persona
che Dante amò non viene né affermata né negata. Noi non pro-
pugnamo la negativa, perché è naturale anzi che no, di supporre
che delle tenere memorie abbiano animata la penna dell' autore.
Ma se una volta ci si accerta che il libro è essenzialmente un' al-
legoria, allora l' interesse di questa quistione diventa secondario.
Che differenza farebbe nel nostro giudizio intorno al Pilgrini 's
(') li. 6.
O III. IO.
- 63 -
P/ogrcss, se si potesse sapere, cosa di cui infatti si può appena
dubitare, che le scene e i casi della vita di Bunyan vi sono
rappresentati? Non per questo sarebbe meno un'allegoria.
Proviamoci adesso a tradurre l'allegoria, non linea per linea
e parola per parola, ma liberamente, tenendo conto non solo di
quel che sembra voglia dire, ma di quello altresì che sembra
suggerire. Al tempo stesso non cercheremo di toglierle del tutto
quel cliiaroscnro di allegoria, esponendola alla luce di una realtà
ordinaria. Forse vi sono dei punti che non hanno nessun intimo
significato e che non appartengono all' allegoria, ma soltanto alla
parte esteriore, aggiunti unicamente per mandare avanti la storia
e darle una verosomiglianza. Altri punti ci sembrano pieni di un
significato spirituale e non di meno non possiamo assegnare ad
essi alcuna certezza. Di questa specie è il bel corso di acqua lim-
pida, che in due occasioni ( cap. IX e XIX ) scorre lungo la via
del nostro pellegrino.
Vogliamo perciò soltanto disegnare alcuni contorni principali,
lasciando ancora una parte del campo da esplorare ai lettori
diligenti.
I. Alla fine del mio nono anno provai forti impressioni di
religione. Era il tempo della mia Confermazione e della prima
Communione. Ero pieno di reverenza per le mirabili verità infuse
nella mia mente da quelli che più amavo; e tutto il mio essere
era infiammato dal roseo splendore di un primo amore. I miei
sentimenti erano estatici ma costanti; e quel tempo segna il prin-
cipio di una Vita Nuova.
" Da quel tempo in poi ero cosi compiutamente sotto l' in-
fluenza di quel divino principio, che 1' anima mia era come spo-
sata all' amore celeste, ed era nei precetti e nei comandamenti
della Chiesa che questa passione trovava il suo proprio sodisfa-
cimento. Spesse volte questa mi conduceva alla congregazione
dei fedeli, dove avevo incontri col mio giovane angelo, e questi
incontri erano cosi soavi che in tutta la mia infanzia sarei andato
frequentemente in cerca di un rinnovamento di questi piaceri, e
- 64-
scorgevo lei cosi nobile e ammirabile in tutti i suoi portamenti
che di lei si poteva sicuramente dire il detto di Omero: " Non
sembrava figlia di un mortale, ma di Dio „. Con tutto ciò la
mia religione non era atìatto fanatismo ; ma ovunque si facesse
sentire la voce della Ragione, io sempre prestavo l' orecchio
attentamente. Di queste reminiscenze voglio però ricordare sol-
tanto alcuni punti principali, quelli che nel mio libro di ricordi
sono indicati sotto grandi paragrafi.
" Coni' io crebbi in età, le tinte cambiarono. La rosea luce della
commozione si mutò impercettibilmente nella luce bianca della
fede intellettuale. Ogni giorno che passava pareva mi aprisse
qualche nuova, spirituale, intima conoscenza; e ciò che da prin-
cipio soltanto mi era stato rivelato dagli affetti, pareva adesso lo
comprendessi per mezzo dell' intelletto. Nuova luce ed orizzonti
più vasti mi erano concessi ogni tanto, simili ad un grazioso
saluto di qualche essere superiore. Se penso al passato, mi pare
che la mia Religione era sorretta da una parte dalla Fede, dal-
l' altra dalla Ragione. Cosi sembra fosse lo stato della mia mente
nel mio diciottesimo anno. Mi proposi di fare della religione la
principale aspirazione della mia vita. Per fortificarmi in questa
risoluzione, feci un enigmatico sonetto a guisa di visione, e lo
mandai ad amici poeti. Alcuni di essi risposero, ed uno mi so-
migliava vagamente nei miei sentimenti; ma però non ci fu al-
cuno che avesse la più remota idea della mia intenzione a quel-
r epoca. In quell' enigmatico sonetto dedicavo il mio cuore alla
religione e alla Chiesa.
" Mi applicai talmente allo studio della sacra letteratura che
i miei spiriti animali cominciarono a languire, e divenni cosi
emaciato che i miei amici s'impensierirono di me; mentre altri,
con intento punto gentile, si davano attorno per penetrare il mio
segreto. Essendomi accorto della natura della loro curiosità, e
desiderando di essere ad un tempo gentile e cauto, dissi loro che
Amore mi aveva preso. Quando la loro curiosità li spinse pili
avanti per chiedere dell' oggetto del mio amore, li guardai sor-
ridendo e tacqui.
-65 -
" Non avendo l' intenzione di farmi credere un teologo, na-
scondevo la mia vera occupazione sotto forma di studi secolari
di astronomia, di astrologia, di poesia antica. Queste occupazioni
avevano il sorriso del pubblico favore, che mancava alla teo-
logia; almeno per un laico. Con questi pretesti seguitai i miei
studi sulla Scrittura, che chiamavo la città nella quale Dio aveva
posto la mia beatitudine. Detti pure alla mia felicità un nome di
donna, chiamandola Beatrice. Per di più ebbi la fantasia di regi-
strare il suo nome fra le donne onorate dei tempi antichi, e a
quello scopo raccolsi i nomi di donne elette della Bibbia, stu-
diando dove sarebbe il posto più atto a Beatrice. I nomi am-
montarono a sessanta, e queste le chiamavo le più belle donne
della Città di Dio. Sembrerà sorprendente, ma fu cosi che non
potei contentare il mio pensiero, se non mettendo Beatrice al
nono posto, subito dopo lìachele, In questo modo : Eva, Adah,
Zillah; Sara, Hagaz, Rebecca; Lia, Rachele, Beatrice.
" Dovei accorgermi che la teologia non può essere coltivata
in modo soddisfacente senza la luce di altri studi, letteratura se-
colare, scienza e filosofia. Colsi ogni opportunità per allargare
le mie cognizioni, e quando ero arrivato fin dove potevo in un
soggetto o il mio interesse per esso si era esaurito, ne prendevo
un' altro usando sempre questi studi laici come un riparo fra me
e quella impertinente curiosità offesa dalla mia seria applicazione.
Ma col crescere della mia avidità, la mia attenzione si divise:
non avevo più la mia antica semplicità di aspirazione, e divenni
meno sensibile all' angelico saluto. Le finzioni e le pretese con
le quali avevo sperato di ingannare gli altri, avevano finito per
ingannare me e avevo quasi cessato di sentire la voce di quella
" il cui più lieve bisbiglio mi commove più
che tutte le ordinate ragioni del mondo. „
" Allora decisi di rinunziare alle finzioni, e di professare aper-
tamente la fede e 1' amore che era in me, e che era stato mio
dall' infanzia. Al tempo stesso confessai francamente il gusto che
avevo acquistato per alcuni rami della scienza laica. Questo non
Earle. 5
— 66 —
era vantaggioso per me rispetto agli ecclesiastici, che diffidavano
di me a causa delle mie tendenze laiche. Ero guardato fredda-
mente da quelli che avrebbero dovuto essere i miei naturali al-
leati, e non avevo conforto né al di fuori né al di dentro. Perù
seguitai a nutrire la mia imaginazione della mirabile bellezza
della verità rivelata e a mantenere la mia devozione adorando
la donna del mio pensiero. Nonostante la mia risoluzione, vi
erano momenti nei quali soccombevo al mio dolore, scrivendo
lamentosi sonetti, e lagnandomi in modo vile. Pensavo troppo
a me stesso e alle mie afflizioni; la mia religione era ansiosa e
capricciosa. Da queste alternative del mio spirito fui tratto fuori
da un caso che mi farò a raccontare.
" 2. Una nuova esaltazione di mente fu prodotta in me da una
causa cosi inaspettata, che il racconto può esserne interessante.
Conoscovo molte nobili dame che vivevano nei piaceri della vita
mondana, e che sapendo le mie favorite occupazioni cosi aliene
dalle loro, mi onorarono della loro speciale curiosità. In un' oc-
casione che ero in loro compagnia, alcune se la ridevano piano,
a parte fra di loro; altre mi guardavano e aspettavano di sen-
tire quel che avrei detto ; altre ancora discorrevano insieme. U
quest'ultimo gruppo una, voltandosi verso di me, mi chiamò
per nome e disse: " La tua adorazione è strana; pare non t
renda felice; a che cosa aspiri? „ " Aspiro alla lode della ce
leste bellezza „. " Questo suona molto diflferente dalle tue lu
gubri poesie, che si aggirano tutte intorno alla tua compas
sionevole condizione. „ Queste giuste parole mi fecero vergo
gnare della mia tristezza, e risolvetti che da quel momento in
poi avrei cambiato i miei lamenti, in una voce di glorificazione.
" Lasciai da banda la mia tristezza e decisi di non aver altro
pensiero che la lode della mia divina innamorata. In ciò trovai
una sublime esaltazione di mente, che per altro non era senza
una corrispondente paura. Mi avvidi nuovamente che essa, benché
stesse in questo mondo, non era di qui; e l'antica trepidazione
che dovesse essere trasportata in un' altra sfera mi ritornò. La
vidi perfino in sogno trasportata verso il cielo in una luminosa
- 67 -
nuvola, accompagnata da una innumerevole schiera di angeli.
E tutto ciò era misteriosamente connesso ad un interesse pro-
gressivo per altri soggetti: poiché cominciai ad accorgermi che
gli studi secolari sono intesi a portare nuovi raggi di luce anche
nelle pagine della verità rivelata, e che la Scienza rispetto alla
Teologia è ciò che il Precursore era rispetto a Cristo.
" 3. Ma l'estasi lungamente sostenuta portò la reazione. II
mio eccessivo entusiasmo fini nella pigrizia e neh' apatia; pa-
reva come se quella che amavo non fosse più alla portata dei
miei affetti. Quando ebbi ancora un momento di riflessione, trovai
che la mia spirituale dilettazione era assopita, mentre si faceva
pili acuta la mia curiosità intellettuale, e mi sentivo più traspor-
tato verso la Scienza che verso la Teologia. Soggiogato dalla
più esatta forma di dimostrazione, permisi che retrocedessero le
più alte e vaghe aspirazioni, finché la loro lontananza mi im-
pauri. Allora mi fermai e corsi in armi contro questa schiavitù
intellettuale. Tornai al mio primo amore con animo risoluto, e il
mio primo amore mi apparve con quel roseo splendore che ec-
citò i miei affetti il primo giorno della mia Vita Nuova.
" Mentre alla Teologia veniva cosi ridata la sua naturale su-
premazia, avevo fatto un terzo passo nella scoperta della infe-
riore e dipendente natura dell' insegnamento secolare. E in questi
studi ebbi anche un'altra mira. Più mi accorgevo dell'altezza
della Teologia, e come essa si elevi sola al di sopra delle defi-
nizioni scolastiche e dei processi sillogistici, e più comprendevo
che nelle cose divine si richiede una speciale delicatezza e un
tatto finissimo. Il soggetto è troppo etereo per esser trattato
vocahitlis propriis; i suoi ragionamenti possono più altamente
essere intesi con le analogie, attraverso le figure dell' allegoria
e della poesia.
" Ma, ahimé! la nostra favella figurata italiana è sorda e non
sviluppata; ed è cosi per ogni soggetto tranne uno, cioè quello
dell' amore, nel quale è stato ingegnosamente esercitata da una
numerosa schiera di poeti lirici; e questa è la sola maniera di
allegoria che presentemente è utile nella nostra lingua volgare.
— 68 —
Ecco dunque una ragione perché io coltivai ogni ramo della
scienza; per trovare principalmente materia da allargare il giro
della nostra poesia, la quale cosi potrà servirmi a dimostrare la
beatitudine della celeste sapienza in un modo più degno di qua-
lunque altro che mai sia stato tentato fin qui. „
In questo tentativo di dclineare il contenuto vero della Ft/a
Nuova abbiamo diligentemente conservato 1' /o dell' originale; ma
non si deve supporre che riguardiamo questa storia come un
racconto personale, né come una parte di velata autobiografia.
Questa idea è stata una prolifica sorgente di confijsione. Dei
biografi hanno preso alcune parti della Fiia Nuova e le hanno
cucite con passi del Convito o della Coiniiiedia, come per farne in
apparenza una storia compatta. Noi neghiamo che la Vita Nuova
possa usarsi in questo modo. Il suo vero significato è intimo e
mentale, mentre l'apparente storia non è che una veste. Che molto
dell' esperienza dell' autore ci sia li conservato, certamente lo sap-
piamo; ma r intento del libro non è autobiografico, e a noi riesce
impossibile distinguere ciò che è personale da ciò che non è.
Il proponimento è di tracciare il cammino destinato all' uomo
quando aspira alla perfezione della sua natura e si metta a ri-
cercare la felicità nella scienza. L' io non è l' io dell' uomo Dante
Alighieri, ma del pellegrino ideale che Dante personifica, o come
altrimenti dice lo Scartazzini, " il mistico viatore „, o " il mi-
stico pellegrino „. La Vita Nuova è imbevuta di verità, e la sua
veridicità colpisce la mente di ogni lettore. Ma è possibile ac-
corgersi di ciò e tuttavia sbagliare, poiché essa è una verità,
non di ordine storico e biografico, m.a poetica, mistica, universale,
che pur valendosi della esperienza e dei ricordi, non regola i
fatti secondo le circostanze di tempo e di luogo. Inoltre li rior-
dina liberamente alla luce di un' ardente imaginazione, ed in ser-
vizio del pensiero spirituale che vuole esporre.
Vi è un libro di Francesco W. Newman, pubblicato nel 1850,
col titolo di " Fasi della Fede; o capitoli della storia della mia
Fede „. I^er movente e tendenza è proprio 1' opposto del libro
-69 -
di Dante, poiché propugna il principio che la scienza è la misura
delia verità in materia di fede. Nonpertanto il suo disegno, come
apologia, e i suoi generali rapporti col pensiero dell' autore lo
fanno analogo alla l'ita Nuova, per modo che i due libri si so-
migliano. Il libro del Newman ha la forma di ricordi personali,
ha la parola Storia nel suo titolo, e potrebbe facilmente scam-
biarsi per una memoria autobiografica, senza l' avvertenza della
Prefazione. Questa noi vogliamo citare, perché, imUatis niiilandis,
sembra ripetere il caso della Vita Nuova.
" La forma storica è stata deliberatamente scelta, perché pili
facile ed interessante pel lettore; ma non si deve credere che
r autore dia in generale la sua storia intima e meno ancora
un'autobiografia. Il progresso della sua. fede è il solo oggetto;
altri ne sono introdotti sia come illustrazione di quello, sia come
digressioni da quello suggerite „.
In questo libro del Signor Newman sono incidenti, avventure
e anche conversazioni, che certamente sono fatti reali; special-
mente il racconto diffuso delle sue discussioni giovanili in Oxford
col suo fratello maggiore, che divenne poi il Cardinale Newman.
Dove tali narrazioni si accordano con ciò che noi conosciamo
assai bene da altre fonti, volentieri accettiamo la loro verità sto-
rica. Cosi pure nella Vi/a Nuova, due dati di fatto stanno saldi,
come Jachin e Boaz, uno in principio e l'altro alla fine del libro,
essendo pienamente attestati da altra testimonianza; conseguen-
temente non abbiamo esitato a dare ad essi un valore assioma-
tico per r intento di questa argomentazione. Ma ciò non ci avvi-
cina ad una soluzione del problema, sia il 9 giugno 1290 una
data vera o fantastica (').
Vi è molta storia in quel libro; con tutto ciò il libro non è
storico; e non può senza altra prova conferire un valore storico
a nessuno dei racconti che contiene.
(1) Nell'edizione di Oxford delle Opere di Dante notiamo, che nella Vita
Nuova, e. 30, dove si tratta di questa famosa data, la lezione Italia si è intro-
dotta per errore. Il Dr. Moore (Acadeiiiy, 2 dee. 1894) ha dimostrato che la vera
lezione è Arabia.
Ma qui sorge naturale la domanda: Se questo libriccino è es-
senzialmente un' allegoria, come mai fu ritenuto generalmente per
una narrazione di fatti? Se questo è un errore, in che modo
daremo ragione del suo diffondersi? Crediamo che a questa
domanda vi possa essere risposta, e che il tentativo per rispon-
dervi metta in luce l' immediato e peculiare motivo della Vi'ia
Nuova.
Volendo trattare dell' opinione prevalente dobbiamo ricor-
darci su che cosa essa è basata. Abbiamo già considerato
V asserzione del Boccaccio e la data assegnata alla morte di
Beatrice. Questi sono i due soli fatti che i ■ letteralisti possono
addurre in sostegno della loro tesi. Ma vi è un' altra influenza, che
sta al di fuori dell' argomento, pur essendo più forte di questo :
vogliamo dire lo stile e la maniera stessa della Vita Nuova.
Quella naturalezza e semplicità, quella forma cosi realistica e
concreta, quella ricca varietà di particolari impedisce al lettore
di stare in guardia e lo persuade ad accettare il racconto
come un fatto reale, quantunque circondato da un' aureola di
misticismo. E appunto in questa semplicità e apparenza realisiica
la tenacità dell'interpretazione letterale è radicata; mentre que-
sta apparenza è certamente illusoria. Questo libriccino è ve-
ramente un lavoro di calcolata ingenuità e di studiato artifizio.
La scoperta del Signor Eliot Norton basta da sé stessa ad as-
sicurarci quanta parte d'invenzione sia stata profusa nell'ordina-
mento di esso. Se tanta cura era dedicata all' architettura interna
che è affatto nascosta, si può mai supporre che l'esterna e visibile
superficie del discorso sia realmente lavoro facile e spensierato
come ne ha l'apparenza?
Dunque, se una volta è ani messo che vi è lì tutto quest' ar-
tifizio, non possiamo fare a meno di domandare quale ne sia stato
il motivo. Il motivo di tanta invenzione deve connettersi col di-
segno principale della mente di Dante, se egli aveva realmente tale
disegno. Ma noi sappiamo dall' ultima parte della Viia Allieva che
egli meditava e stava per eseguire un grande proponimento, e che
questo suo annunzio fosse perfettamente sincero, è per noi, come
— 71 —
abbiamo già detto, una verità assiomatica. Quando Dante scrisse
la l'Ha Nuova contemplava già la sua grande Visione. Questo
fatto incontestabile ci offre un punto di partenza. L' ultimo pa-
ragrafo della V^ita Nuova rivela la sua genesi; perché quel para-
grafo rappresenta la congiunzione di essa con la Coinnicdia. Il
sacro poema, mentre era ancora in preparazione, gettò fuori la
Vita Nuova come un germoglio.
Sotto quale rispetto la Vita Nuova doveva secondare il disegno
della Commedia? Uno sguardo alla condizione letteraria del
poeta suggerirà la risposta a questa domanda. Dante era andato
cercando una personificazione per rappresentare la Scienza di-
vina, e questa ricerca non fu per lui agevole. Un personaggio
molto conosciuto doveva rappresentare la scienza della Ragione
naturale, ma chi personificava la celeste Scienza che viene
dalla Fede? La principale azione della Commedia si reggeva su
questa personificazione, la quale, per di più, era creazione pro-
pria e speciale del poeta. A quel posto importante non avrebbe
ammesso un fantasma poco solido, un Nome descrittivo o sim-
bolico, come si usava nelle personificazioni epiche di quel
tempo. Alanus de Insulis, nel suo Auticlaudianus, aveva rappre-
sentata le Virtù riunite in consiglio nel palazzo di Madonna
Natura, e li sulla proposta della Ragione fu deciso di mandare
la Prudenza e la Ragione insieme come in deputazione al trono
dell'Altissimo, per chiedere un favore da Lui. Gli ambasciatori
di ciascuna Virtù si mettono in cammino su di un carro tirato
da cinque cavalli (che sono i cinque Sensi), la Ragione fa da
cocchiere. Essendo arrivati ad una certa altezza, i cavalli rifiu-
tano di andare avanti. A questo punto si vede avvicinarsi un' au-
gusta signora che è la Teologia : vuol condurre la Prudenza al
compimento della sua missione, ma solo a patto che essa con-
gedi la sua compagna indiscreta, la Ragione. Quando si avvici-
nano agli abbaglianti splendori, il cuore della Prudenza viene a
mancare, ed essa sviene. Qui appare la Fede e la rialza: così
sorretta essa arriva innanzi al trono.
Sotto simili nomi astratti e fisfure simboliche erano introdotti
— 72 —
dei caratteri nella più alta poesia del dodicesimo e tredicesimo
secolo. In quell' epopea satirica che sorse nei Paesi Bassi, e
di cui r esempio pivi conosciuto è " Rainardo la Volpe „
i caratteri umani sono simboleggiati sotto nomi di animali. Ma
il poema che ebbe la maggior voga europea nella gioventù di
Dante fu il " Roman de la Rose „. In questo famoso poema
sociale i caratteri hanno ognuno nomi descrittivi: Belacueil (Bella
Accoglienza) Dangier (Autorità), Déduit (Piacere), Barat (In-
ganno), ecc.
Dante non voleva far nulla di simile nella sua Coiumedia:
la coscienza della sua grande potenza realistica si accordava col
suo senso dell' arte, per escludere i simboli e le astrazioni e
mettere in vece loro delle persone; e meno che mai, avrebbe
ammesso simile invenzione poco solida nel posto più vitale di
tutti. Egli dunque ha voluto un personaggio vero con un nome
già conosciuto al mondo, e perciò compose la Vita Nuova per
stabilire la probabile esistenza di una tal persona, per far cono-
scere al mondo la carriera terrestre della sua mistica Beatrice.
Furono le esigenze dell' arte sua che Dante aveva in vista
quando si mise a scrivere la Vita Nuova; ciò che era più profondo
nel suo pensiero non si mostrava in quel momento ai suoi occhi
come essenziale. Il suo disegno immediato era di dare a Bea-
trice un carattere solidamente terrestre, e in questo è riuscito
(forse) al di là del suo desiderio. I suoi caratteri spirituali
sono invero riccamente accumulati nei velati recessi dell' in-
terno; ma tutto questo sembra secondario agli occhi abbagliati
dal libero e naturale e grazioso movimento della superficie.
E questa superficie esterna è quella che effettua, eccedendo
r immediato disegno dell' autore. Spinto dal motivo di fare
di Beatrice una persona storica, mostrò le sue meravigliose
forze di narrazione realistica, e raccontò la sua storia nebulosa
in modo tale da darle la solidità di una esperienza personale.
Poiché essa era vuota, egli seppe quasi compensare ciò con
un' atmosfera di mistero, e dare al racconto quell' impronta di
realtà velata che fino a questo momento tiene il mondo in dubbio.
— 73 —
La sua idea era di rappresentare la vita terrestre di Bea-
trice come se fosse stata in relazioni sentimentali (benché su-
blimi e distanti) con lui fin dall'infanzia. Per muovere di li, aveva
un solido punto d' appoggio pel suo piede. Alcuni anni prima
aveva fatto circolare un sonetto che aveva provocato altri sonetti
in risposta, e questa era una circostanza ben conosciuta del pas-
sato. Il fatto ebbe una certa notorietà e questa notorietà era
adesso utile per dare alla nuova storia un' aria di verosimi-
glianza; e Dante davvero se ne valse! Qui ci troviamo di fronte
alla più organica questione sulla struttura della Vita Nuova.
Quale relazione vi è fra quell'antico sonetto e questo nuovo
libro? In quell'antico sonetto il poeta è sorpreso, nelle silen-
ziose veglie della notte, dalla subita apparizione di Amore, in
tale terribile maestà che non può ricordarlo senza tremare. Il
possente visitatore pare allegro, quando tiene nella sua mano il
cuore del poeta, mentre fra le sue braccia riposa Madoìiiia, av-
volta in un panno e addormentata. Egli la sveglia, e col cuore
ardente gentilmente la ristora, benché riluttante; dopo di che se
ne parte piangendo.
Si può mai errare, affermando che un solo Personaggio risponde
al carattere d'Amore come è dato in questo sonetto? Un solo,
il quale è cosi in alto da avere in sua balia il cuore umano, e
che nello stesso tempo è cosi umile che sia ricordato per aver
pianto? E chi è la seconda figura? Si può dubitare che in
Madoìiìia si debba vedere la Chiesa, la Sposa che obbedisce
allo Sposo Divino, perfino mentre si ritira dall' ufficio impo-
stole? Il suo ritirarsi come pure il suo sonno era probabilmente
una riflessione sulla languida e impreparata condizione della
Chiesa nella mente dell' autore. Amore venne allegramente al-
l' atto di dedicazione, ma parti in lagrime. Non sono queste le
lacrime di Cristo su Gerusalemme? Se dunque questa spiega-
zione è corretta, i personaggi di questo emblema sono Cristo,
la Chiesa, e il poeta. L'ardente passione della sua anima è ac-
cettata da Cristo e ne dispone in maniera tale, che ei si trova
legato e identificato con la Chiesa di Cristo. Questa interpetra-
— 74 —
zione concilia ogni elemento nell' enigma, trova anche conferma
in molti passi della Jlfa Nuova, ed è completamente ratificata
da tutto il motivo della Connncdi'a. Negli anni che seguirono la
composizione di questo antico sonetto 1' artistico disegno aveva
maturato; il Poeta aveva adottato Beatrice come la concreta
rappresentante della sua ricerca, ed intraprese a scrivere la Vita
Nuova per farla conoscere personalmente, e per darle " una di-
mora locale ed un nome „. Egli cominciò conseguentemente con
r identificare la figura dormente, nell' antico sonetto, colla perso-
nalità di Beatrice adottata di recente. Il procedimento era dei
pili legittimi, in quanto che ambedue erano espressioni genuine
di un medesimo non mai interrotto pensiero; eppure l'adatta-
mento è piuttosto violento, perché quel pensiero era passato
coir andar del tempo ad una fase nuova. Quello che nella con-
cezione originale non era che una pittura emblematica di una
mentale attitudine, era adesso rivestito di storiche relazioni e di
terrestri contorni; e l'emblema di un'idea astratta si era trasfor-
mata in un personaggio concreto capace di figurare in un poema
epico.
L'adattamento dell'antico sonetto alla sua nuova collocazione
fu certamente fatto con tutta quella circospezione che è richiesta
da un' opera di critica. L' autore conclude la prosa che riguarda
il primo sonetto con un astuto tratto di artistica simulazione.
Dice: " Lo verace giudizio del detto sogno non fu veduto allora
per alcuno, ma ora è manifesto alli più semplici. „ Come nel la-
voro di un ebanista una linea di impercettibili pallini copre una
commessura, cosi questa piccola frase finale con la sua aria di
ingenuità e di casualità unisce strettamente 1' antica visione del
Cuore Ardente con la personalità, introdotta di fresco, di Bea-
trice. Cosi i più semplici non sono stati i soli ad accettare questa
ingannevole suggestione, e la figura dormente, che originaria-
mente significa la Chiesa di Cristo, fu identificata con Beatrice,
la donna amata dal poeta.
Non è scopo del nostro assunto di diminuire 1' umana realtà
di Beatrice; ma ciò che sosteniamo è questo: che nella Vita
— /D —
Nuova essa occupa il secondo luogo e nun il primo; che essa
vi è stata introdotta e aggiunta per ragioni artistiche; che la sua
personalità è stata frammista nella tessitura della Vita Nuova e
della Coiiuìicch'a, ma che non costituisce il principio e la sor-
gente delle due opere; principio e sorgente che si trovano in-
vece in quella spirituale idea, della quale Beatrice è il simbolo e
la figura personificata.
Questo antico sonetto, preso cosi per un nuovo punto di par-
tenza, esercita un' importante influenza sulla struttura del libro.
Per essere appunto un sonetto, diviene il parente di una serie
di altri sonetti, formanti la base dell' architettura e della sim-
metria del libro. Per aver natura di visione, diventa la sorgente
e r origine del suo elemento apocalittico. Altre visioni sono svi-
luppate, conservando il piano simmetrico, fino al numero di sei,
con promessa di una settima. Questa relazione di sei e sette ap-
partiene al metodo apocalittico. Tra i più cospicui caratteri del-
l'Apocalisse sono tre visioni che tutte concorrono nel sette: sette
sigilli, sette trombe, sette fiale. Nello spiegare queste visioni è
costantemente osservato un ordine speciale, cioè che sei parti
sempre si rassomigliano, e che la settima è sospesa, prolungata;
la settima è separata dalla sesta da un episodio, o intervallo di
tempo che viene colmato da un' altra azione. E in questo si ri-
conosce r ispirazione della più vitale continuità neh' ordine della
l^ita Nuova. Sei visioni sono sviluppate e una settima è annun-
ziata. Questa serie pervade tutto il lavoro come una specie di
midollo spinale, e ne fa un solo organismo con la Commedia (').
Passiamo adesso a considerare la base meccanica sulla quale
questo piccolo libro è stato costruito. Dante dava molto impor-
tanza a questo sistema, al tempo stesso lo nascondeva cosi ac-
curatamente che rimase dubbio fino al nostro secolo. Il Signor
Eliot Norton nel 1867, pose in luce la traccia di una intera sim-
(') Qui dobbiamo notare che questo ordine di sei visioni e della settima
differita è frainteso dal Witte, che ha contato 1' ultimo sonetto come la settima
visione; mentre non è una visione, ma un volo della poetica fantasia, il che è
differente.
- 76-
meti'ia clic indica non soltanto una bizzarra ingenuità, ma anclie
una grande maturità di disegno e di proponimento. In questa
piano nascosto la seconda canzone sta come punto centrale.
Come distanze simmetriche da questa poesia centrale sono poste
la prima canzone e la terza. Queste due poesie hanno un' affinità
reciproca nella successione di strofe e di concetti, e manifesta-
mente sono designate a corrispondersi. Lo spazio fra la prima
canzone e la seconda è occupato da quattro sonetti; e lo spazio
corrispondente fra la seconda canzone e la terza, contiene quattro
poesie delle quali tre sono sonetti. Il gruppo chiuso fra queste
tre canzoni forma il culmine centrale del libro; e le parti da
ogni lato di esso sono simmetricamente corrispondenti I' una al-
l'altra. Il culmine centrale è preceduto da dieci poesie, delle quali
nove sono dei sonetti, ed è pure seguito da dieci poesie delle
quali nove- sono sonetti. Il Witte può ben a ragione esclamare,
nella sua ammirazione per questa scoperta, che una simmetria
cosi completa non può essere accidentale.
La scoperta di questa costruzione studiata è una nuova fonte
di luce per l' interpetrazione del libro. Prima e anzitutto ci porge
un prezioso indizio, richiamando la nostra attenzione sulla supre-
mazia gerarchica della canzone centrale. Questa poesia sorpassa
tutto il resto, e sta con singolare distinzione nel mezzo di trenta
componimenti minori, quindici per parte, fra i quali altri due pure
eminenti, la prima e la terza canzone, stanno come sostegni, ma
di grado inferiore da entrambi i lati. La prima canzone" è una
poesia nella quale, benché la perdita di Beatrice sia temuta, il
tono è contento e pieno di speranza, perché è stata risparmiata;
la terza canzone è un canto funebre per la sua morte naturale
che è già accaduta, ma un canto funebre dominato da un grido
di trionfo. Mentre la seconda canzone, quella centrale, è una vi-
sione della translazione di Beatrice al Paradiso, col lamento di
tutto il creato per la sua dipartita; e questa scena, benché senza
realtà e visionaria, benché mera estasi di fantasia, e tale dichia-
rata nella poesia stessa (essendo Beatrice ancora sulla terra), è^
— // —
ciò non di meno, il cuore e lo scopo dell' intero lavoro, il punto
culminante del disegno dell'autore.
Inoltre è da notare che la relazione della Canzone centrale
con le due subalterne è tale da fare delle tre un poetico gruppo
di variazioni sopra il medesimo tema, il transito di Beatrice. Pa-
rimenti, la relazione della canzone centrale con le due poesie
più distanti, il primo sonetto e il venticinquesimo, è la stessa
benché meno distinta. Cosi il pensiero che unisce il libro in
unità è quello del transito di Beatrice. L' intimo significato del
pensiero è cosi notevolmente manifestato, segnalando il fatto
che lo stesso pensiero occupa la poesia centrale e il primo e
l'ultimo Sonetto, di modo che questo transito di Beatrice (non
la sua morte naturale ma la sua traslazione celeste ) corona il
più alto pinnacolo dell' intiera struttura, e allo stesso tempo lo
pervade fino alle sue estremità. Se consideriamo che la morte
naturale di Beatrice è stata aggiunta, come una cosa fuori del
proposito principale, mentre il suo passaggio ad un' altra sfera
sta in principio, in mezzo e da ultimo; possiamo credere essere
la J'ifa Nuova sotto forma di un racconto letterale, altro che un
lavoro di arte imaginativa e un' allegoria? La traslazione di Bea-
trice al paradiso in una nuvola bianca, con un seguito di angeli
seguaci, è una giustificazione della natura sovrumana della Teo-
logia?
Qui faremo punto e raccoglieremo i risultati del nostro ar-
gomentare e li metteremo accanto all' interpetrazione letterale. Lo
Scartazzini incomincia il discorso intorno della Vila Nuova con
un breve cenno sulla composizione del libro. Egli scrive: " Dopo
la morte di Beatrice, Dante raccolse un certo numero di poesie
liriche, che erano state composte a tempo di lei e al momento della
sua morte; le forni di un commentario storico e di divisioni sco-
lastiche, e cosi formò il suo primo libro, la Vita Nuova. „ Ancora
enuncia cosi l'intento dell'autore: " Il disegno dell'autore era
di dare un commentario autentico ai suoi versi amorosi, e al
tempo stesso di costruire un monumento alla sua Beatrice. „ La
nostra investigazione ci porta ad un apprezzamento molto dif-
- 78-
ferente del libro, per quel ehe riguarda la sua opportunità, il
suo motivo, e la sua composizione. Ci permettiamo di sup-
porre che esso ebbe occasione dalla meditazione del poeta sul
disegno della sua Commedia, meditazione che lo condusse a scor-
gere la necessità di personificai^e sostanzialmente il carattere
principale, in quella grande intrapresa. Conseguentemente, che
lo scopo e il motivo immediato della Vita Nuova doveva acqui-
stare al suo personaggio principale una reputazione storica, e,
questa affatto indipendentemente dalla quistione se Beatrice fosse
o no una persona reale. In terzo luogo, riguardo alla sua strut-
tura non vediamo nessuna ragione per credere che la Vita Nuova
fosse una compilazione di poesie già composte, ma riteniamo
piuttosto che le poesie furono scritte ciascuna per il posto che
adesso occupa, eccettuato il primo sonetto. Insomma la nostra
conclusione è questa: che la Vita Nuova è una storia allegorica
del conflitto fra la Fede e la Scienza, e che in questo conflitto
sta il suo intimo e vero significato. La forma esterna di storia
è stata determinata da un motivo di un ordine più superficiale
— il motivo artistico, — il quale richiedeva che Beatrice fosse
fornita di un ricordo storico per far rilevare la convenienza del
posto destinatole nella Commedia. La Vita Nuova e la Commedia.
rappresentano una continuità di pensiero, del quale i principali
culmini hanno la loro riprova neW f/i/eruo i e ii.; Purgatorio
XXX, e seg. ; Paradiso x. xxx e xxxiii. La Vita Nuova contiene,
ma le nasconde sotto una realistica storia d' amore, le titubanze
di Dante circa la principale quistione del secolo in cui egli vi-
veva. Come la Virtù e il Piacere contendevano per il possesso
morale di Ercole, cosi la Fede e la Scienza si disputavano il pos-
sesso intellettuale del pellegrino del secolo XIII. E questa conclu-
sione non è punto infirmata dalla questione, se l'amore di Dante
per Beatrice fosse reale o fittizio. Il nostro argomento lascia
posto a qualunque varietà di opinione su quel soggetto, che è
affatto estraneo al motivo e all' origine della Vita Nuova. Se
Beatrice era o no realmente una persona, e se, tale essendo, fu
una donna che egli amò, o se fu per lui soltanto qualche stella
— 79 —
più specialmente luminosa, o, in terzo luogo, se gli furili soltanto
un nome, quel che appare evidente, in ogni caso, è che essa fu
aggiunta quale iniagine poetica, dopo che la Coiiiiiicdia era già
abbozzata nella niente del poeta.
In favore dell' interpretazione che sottomettiamo qui al lettore
possiamo affermare, che essa è la meglio provata, che rimuove
pili liifficoltà di qualunque altra, e che ci porge un disegno con-
sistente e uno sviluppo continuato dal Iitcipit l'ita Xava fino
all' ultimo canto del Paradiso.
Questo studio del Prof. Earle, che ci è parso meritevole di esser meglio
conosciuto in Italia, per la originalità delle idee che egli porta nell' interpetra-
zione della l^ita Nuova, fu esaminato criticamente dal prof. Guido Mazzoni nel
Bullettitto della Società dantesca italiana (gennaio 1899). All'acuta recensione
del prof. Mazzoni rimandiamo il lettore che abbia vaghezza di vedere in che
maniera siano state discusse fra noi le conclusioni del dantista inglese.
La Direzione.
INDICE
E. ARMSTRONG.
L' ideale politico di Dante Pag: i
J. EAKLK.
La Vita Nova di Dante , . ,39
BIBLIOTECA STORICO - CRITICA
DELLA
LETTERATURA DANTESCA
DIRETTA
DA G. L. PASSERINI e da P. PAPA
XII.
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899.
DOTI. EDOARDO MOORE
L' AUTENTICITÀ
DKLLA
QUAESTIO DE ADUA ET TERRA
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
1899
Proprietà letteraria.
Bologna, Tipi della Ditta Zanichelli, 1901.
L' AUTENTICITÀ
QUAESTIO DE AQUA ET TERRA.
E. MOORE.
" Io, che .il volto di tanti avversari parlo in questo
Trattato, non posso brevemente parlare. Onde se le
mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli „.
CoNV. IV. vili. vv. 93-96.
E invalsa da vario tempo la moda, specialmente tra gli Italiani,
di considerare la falsità della Quccstio de Aqua et Terra come
una conclusione indiscutibile e fuori di ogni seria discussione. Io
stesso, nel preparare il testo della edizione dantesca di Oxford ('),
partecipai all'opinione prevalente (come apparisce tuttavia dal
Proemio) e tanto vi partecipai, che persino esitai a ristampare il
Trattato tra le opere di Dante. Ma nel rivedere le prove di
stampa fui colpito da un certo che di autenticità, e dal carattere
interamente dantesco, non solamente negli stessi argomenti ma
altresì nella forma e nei particolari della lingua con cui erano
espressi. Questa impressione è stata tanto mai accresciuta da un
esame più accurato, che io desidero di invitare i cultori di Dante
a ristudiare la questione.
Si ritiene che questo Trattato, cosi poco letto, sia un discorso
fatto da Dante nel 20 gennaio 1320, al cospetto del clero riunito
di \^erona, con la eccezione di pochi, la cui assenza è commentata
sarcasticamente nell' explicit, che costituisce l' ultimo paragrafo.
Era inteso a definire un quesito, che Dante aveva sentito solle-
(') Tutte le opere di Dante Alighieri nuovmiiente rivedute nel testo, dal Dr. E.
MooRE, Oxford, 1894. Le indicazioni dei versi delle opere in prosa di Dante
sono fatte secondo la numerazione di quesf edizione.
- 4 —
vare e trattare poco soddisfacentemente, mentre era a Mantova.
La Ourstiotic era per sommi capi questa, come è esposta nel § 2:
può l'Acqua nella sua propria sfera, o circonferenza naturale,
essere in un luogo qualunque pili alta della terra asciutta, cioè
del!a parte abitabile della Terra ? Questo deriva dalla credenza
medievale comunemente accettata, che le sfere dei quattro Ele-
menti posassero concentricamente al di sopra o al di fuori 1' una
dell'altra nell'ordine seguente: Terra, Acqua, Aria, Fuoco, (') e
che conseguentemente il /r?co />;7)/);7V) dell' Elemento Acqua (Co«f.
Ili, iii) fosse al di sopra dell' ElemcMito Terra. Scopo di questo
Trattato è di provare che la suddetta questione debba essere
risoluta negativamente (^).
La soluzione adottata è la seguente. E vero che 1' Elemento
Acqua nella sua propria sfera sta al di sopra dell' Elemento
Terra, e questo è fatto accertato sopra i tre quarti della super-
ficie del globo. Ma in nessun luogo è al di sopra del livello della
terra detccta ovvero cmergens, la quale, secondo la credenza al-
lora in voga, costituiva circa un quarto della superficie del globo,
essendo comunemente descritta come la quarta habitabilis. Ma
questa occupa una posizione eccezionale rapporto alla sfera re-
golare ovvero naturale circonferenza dell' Elemento Terra (^). Essa
è una escrescenza gibbosa su quella superficie sferica (§ 19 v. 20),
e, rozzamente parlando, nella forma di mezza luna (ib. v. 6'2);et
sccundiim haec salvatur concentricitas terrae et aquae (ib. v, 7). Le
cause finali ed efficienti (§ 9 v. 9) di questa protuberanza ecce-
zionale sono esposte molto chiaramente.
La causa finale è che vi possono essere alcuni luoghi, ove
tutti gli Elementi (miscibilia) possono incontrarsi e combinarsi in
ogni forma possibile di esistenza corporea {corpora mista et com-
plexionata), perchè se qualche forma potenziale di esistenza re-
(') Vedi la prima serie dei miei Sludies in Dante, Oxford 1896, pag. 122, 124, 300.
(*) Che tale questione fosse generalmente discussa al tempo di Dante, vedasi
più sotto pp. 12 segg.
(') V- § XXIII vv. 18-23. .
stasse senza sviluppo /;/ atto, ciò implicherebbe un difetto nelle
opere del viotor codi ( § i8, v. 40 ).
Un tal punto di amalgama per tutti gli Elementi è dunque
una necessità, e ciò non potrebbe esistere, nisi terra tu aliqua
parte eineri^eret, ut patct iiit uniti (vv. 50-54).
Passiamo alla causa efficiente. Con quali mezzi 1' Auctor Na-
turac ottenne questo risultato ? Nel § 19 la posizione, la forma,
e r estensione della terra cniergeìis essendo definita con preci-
sione, la sua elevatezza viene attribuita all' influenza delle stelle
esistenti in ciuci tratto di cielo corrispondente (o dell' ottavo cielo)
per latitudine e longitudine, essendo quella particolare posizione
delle stelle stata predeterminata dal Creatore allo scopo di otte-
nere questo risultato sulla terra a benefizio dell'Umanità. (§ 21,
vv. 62-72).
Debbo notare che non si vede qui con molta evidenza quella
meravigliosa anticipazione delle idee scientifiche moderne, che
è stata ritenuta cosi decisiva contro il diritto che ha questo Trat-
tato, di essere annoverato tra le opere di Dante. Quantunque la
corrente dell'opinione siasi manifestata negli ultimi anni, come ho
di già osservato, fortemente contraria ad ammettere 1' autenticità
di questa opera, non si deve supporre che sia stato sempre così.
Fra i suoi difensori trovansi i nomi del Torri, del Fraticelli, del
Giuliani, dello Stoppani, del Bochmcr ('), dello Schmidt (■). D' al-
tra parte è stata rigettata senza esitazione, ed in qualche caso
sprezzantemente, dal Tiraboschi, dall' Arrivabene, dal Foscolo, dal
Troya, dallo Scartazzini, dal Bartoli, dal Renier (^) ecc. La Scar-
tazzini, sicuro e dogmatico come sempre, dichiara: Per ainmetlcrc
che la Quaestio sia un lavoro di Dante bisognerebbe ammettere un
miracolo (^).
(*) Il Bochmcr ha proposto una scric di emendamenti critici al testo, nel
Jahrbuch der Dante-Gesellschaft, I, p. 395.
l") Ueber Dante s Stelluiig in der Geschichte dcr Kosnxograpìne, Graz, 1876.
(') Queste asserzioni sono state fatte in alcuni casi sull'autorità della mono-
grafia Luzio-Renier nel Giornale storico, di cui si parla più oltre.
(■•) Prolegoìtieni p. ^15.
- 6 -^
Ora, in primo luogo bisogna ammettere francamente che la
mancanza completa di ogni prova esterna è una grave difficoltà
prima facir, e ciie le circostanze con le quali qucst' opera com-
parve non son di natura tale da diminuire questa difficoltà.
\^enne per primo pubblicata e, veramente, conosciuta nel 1508,
quasi 200 anni dopo la morte di Dante. Fu stampata per la prima
volta da certo Giovanni Benedetto Moncetti da Castiglione Are-
tino ('), di sopra un manoscritto che egli diceva aver recente-
mente scoperto, ma che, io credo, non vi sia prova che nessun
altro abbia mai veduto. Ne si è sentito parlare di alcun altro mano-
scritto di quest' opera, la quale non si trova mai citata dai primi
scrittori. Con circostanze così strane ed atte a far concepire dei
dubbi, sarebbe fuor di luogo sostenere, senza alcuna incertezza,
r autenticità del Trattato. Ma queste circostanze non sono tali
dal renderla impossibile ed è dunque permesso di esaminare le
prove che ci offre 1' opera in se stessa.
Il resultato di questo esame potrebbe essere tale da rendere
impossibile la supposizione dell'autenticità; e questo è stato per
verità assento in forza di argomenti che ora esamineremo. Ma
d' altra parte, questo resultato può anche riuscire ad una conclu-
sione di autenticità, o almeno di probabilità, e forse di probabilità
al più alto grado, non ostante la mancanza di altre prove este-
riori. Gli argomenti, però, fondati solamente su tali indizi in-
terni, producono un cosi diverso effetto sulle diverse menti, che
non si può aspettarsi di ottenere un assenso concorde. Il più che
si può sperare è di dimostrare che la controversia non è defini-
tivamente esaurita, che il giudizio non deve pronunziarsi per di-
fetto, e che coloro che ricusano di respingere sommariamente
il Trattato non debbono essere intieramente messi al bando dagli
studiosi moderni. Tale è stata la linea di condotta seguita da al-
cuni critici italiani per aver io inclusa quest' opera nel Dante di
(') Credo si chiami ora Castiglion fiorentino. Lo trovo cosi registrato nel- y
l'indice dei Comuni, dove esistono non meno di 25 luoghi denominati Castiglione
i quali devono essere distinti da vari appellativi.
— 7 -
Oxford; ed ancora più per l'opinione da me ripetutamente espressa
nel mio volume anteriore di Studi su Dante ('), che l'autenticità
di quest' opera non si debba niente affatto considerare fuori di
questione.
I. — La prova esterna.
Siccome abbiamo digià ammesso che la prova esterna di que-
st'opera è minima e molto dubbia, nostro scopo precipuo deve
esser quello di dimostrare che essa è semplicemente negativa e
non necessariamente contraria; cosi che il campo resta almeno
libero per poter considerare l' autenticità ( se pur esiste ) del-
l' opera stessa.
I dati contrari, basati sulla prova esterna, ovvero sulla assenza
di questa, possono riassumersi come segue :
T. Nessuno scrittore antico cita un' opera dantesca di questo
genere.
2. Nessun altro ms. di quest'opera è stato mai trovato o co-
nosciuto.
3. E solo circa 200 anni dopo la morte di Dante che questo
ms. è stato dato alla luce.
4. L' esistenza di questo ms. si basa sulla sola e non provata
asserzione del suo editore e presunto falsario, Moncetti, ed è
seriamente screditata dal fatto che :
5. come pare, il ms. non fu mai veduto da nessun altro e
spari completamente dopo la pubblicazione del trattato (-).
I. 2. 3. I primi tre punti si possono esaminare insieme. E vero
che nessun biografo antico o commentatore fa menzione di que-
st' opera o vi allude. Ma, ritenendo per vero ciò che in essa è as-
serito, la discussione ebbe luogo soltanto circa diciotto mesi avanti
la morte di Dante, e non vi è ragione per credere che fosse
da lui mai divulgata né pubblicata (se pur di pubblicazione si
(') Sttidies in Dante. Prima serie^ Oxford, 1896.
("( Gli argomenti i. 2. 3 sono considerati a pp. 8-9; 4. a pp. 9-m; 5- a
pp. 14-17.
— 8 -
può parlare in quei tempi). Probabilmente, come un discorso letto
innanzi ad una società, ovvero il ms. di una conferenza, questo
documento venne poscia gettato da parte e dimenticato o smar-
rito, lincile (secondo come si è già riferito) fu per caso ritrovato
due secoli dopo. Tali accidenti sono accaduti spesso in altri casi,
e per opere di maggior importanza e di pili grande interesse di
questa. Bisogna altresì tener in mente che il soggetto era supre-
mamente tecnico e tale da interessare un numero ben limitato di
lettori o di uditori. Non deve sorprenderci perciò, se il dotto
autore non venne ricliiesto di pubblicare il suo interessante di-
scorso, se nessuno si prese la pena di copiarlo, (anche se ne avesse
avuto r occasione), se non venne mai a cognizione dei primi scrit-
tori che si occuparono di Dante, nessun opera dei quali (sia notato)
è anteriori ai quaranta anni dopo la morte del Poeta. Quanto facil-
mente anche in un periodo di tempo molto minore può smarrirsi
un opuscolo simile (anche se pubblicato)' (') Non dimentichiamo
che ancora delle opere sue pili celebri, non rimane alcuna traccia
della scrittura di Dante, quantunque vi sia evidenza palpabile che
parte della Divina Commedia stessa, non fu scritta se non nel 1319
e forse nel 1320, vale a dire meno di due anni avanti la sua
morte (-). Non vi è bisogno di aggiungere che, se questa fosse la
(*) I Proff. Luzio e Renier si fondano sul fatto, che non vi è nessun ricordo
pubblico di questa notevole discussione a Verona, e che nessuno degli ecclesia'
stici presenti abbia cercato di ottenerne una copia. Certamente non vi è mai
stato un appello più debole di questo all' argtttnenium e sileittio ! È mai proba
bile che un incidente passeggiero di questa natura, punto raro o notevole a que
tempi, trovasse posto negli annali pubblici e nelle cronache ? Sappiamo che tal
volta avvenimenti di altissimo interesse pubblico e di massima importanza sono
senza ragione sfuggiti all' attenzione e non registrati negli archivi locali. Cosi ho
veduto riferito in qualche luogo, che gli Archivi di Barcellona non fanno men-
zione dell' ingresso trionfale di Colombo, né quelli del Portogallo ricordano il
viaggio di Amerigo Vespucci.
(*) In verità se accettiamo l'asserzione del Boccaccio (Vita § 14), gli ultimi
13 canti del Paradiso furono smarriti per oltre otto mesi dopo la morte di Dante. Il
Boccaccio fa menzione, per la sua fonte di questa storia, di un amico intimo di
Dante e della sua famiglia, il quale, come lo provano documenti indipendenti, era
stato a Ravenna nel 1320 e dopo. ( Vedi il mio scritto Dante and his Early
Biographers, London 1890, p. 52; e Guerrini e Ricci, Studi ecc., pp. 23, 24, 38 ecc.).
— 9 —
vera storia del nis. di Dante e della sua Conferenza, il tempo
trascorso avanti la sua scoperta non pregiudica in nessun modo
i suoi diritti, ed è probabile che nessun'altra copia sia mai esistita.
Ed è anche di qualche valore 1' osservare che l' interesse per
le opere di Dante, per circa 200 anni, si limitava interamente alla
Divina Coììinicdia. Delle altre sue opere soltanto il Convito era
stato pubblicato quando questo Trattato fu dato alla luce. Esso
precedette il De Viilg. Eloquio (1529) di ventun anno; il De
Momircliia (1559J a Basilea, di cinquantuno; e, ciò che è più
sorprendente, la Vita Nuova ( 1576) di circa settanta anni ! È stato
invero 7Ìstantpata il medesimo anno in cui la prima edizione della
Vita Nuova venne alla luce. Questo per i primi tre punti che
realmente non presentano alcuna difficoltà seria.
4. Il quarto è molto più importante. Noi naturalmente doman-
diamo con molto interesse: che cosa si conosce del carattere
personale o letterario dell' uomo, da cui viene questa asserzione
di fatto di un' importanza cosi vitale, e che, se l'asserzione è falsa,
devesi ritenere egli stesso come 1' autore ed il falsario dell' opera?
Questo punto è stato ampiamente ed accuratamente trattato in
un articolo scritto da Alessandro Luzio e da Rodolfo Renier nel
voi. XX del Giornale storico pp. 125-150, le cui argomentazioni
esamineremo diffusamente.
(i) Lo scopo generale di quest' articolo è di dimostrare che il
Moncetti era persona tutt' affatto malfida, vana e spregevole, fa-
cendo mostra, nelle sue lettere esistenti, di uno stile pomposo e
senza gusto, pieno di sé e parassitico in sommo grado Ma si ag-
giunge aver esso goduta una riputazione considerevole come mate-
matico e astrologo, pretendendo anche alla facoltà della profezia.
I due critici lo descrivono come tutto imbevuto di scienza medievale.
Inoltre era ritenuto assai capace come uomo di affari, essendo
Vicario Generale dell'Ordine Agostiniano di Germania, ed es-
sendogli state affidate missioni in Francia, in Germania ed anche
in Inghilterra, dove si dice, abbia ricevute dimostrazioni di stima
da Enrico MII. La conclusione di tutto questo è che il Moncetti
aveva per lo meno la capacità a delinquere.
Ciò si può per avventura ammettere senza trarne conseguenze
ingiuriose. Ma noi osserveremo su tutto ciò cine è stato detto:
i) che molte delle caratteristiche personali sopra menzionate non
hanno rapporto alcuno colla questione presente; 2) che gli studi
matematici ed altri studi analoghi del Moncetti potevano, senza
dubbio, renderlo atto a commettere una tale falsità, ma lo avreb-
bero posto altresì in pericolo di tradirsi con cognizioni anacro-
nistiche, le quali (come vedremo )mi credo in diritto di provare
che non si trovano in questo trattato; 3) si può certamente am-
mettere che esse cognizioni lo potessero indurre ad oltrepassare
le legittime funzioni di editore, come, per il vero, le sue stesse
confessioni ci porterebbero a sospettare; 4) Se il suo proprio
stile era pomposo e tronfio, nulla può esser più differente da
quello della Quaestio. I frammenti dei suoi scritti citati dagli
autori di quest'articolo ne sono quanto mai dissimili; 5) Gli
autori di quest' articolo non possono trovare termini abbastanza
forti ad esprimere il loro disprezzo per il Moncetti. Esso è mar-
chiato di scroccone e cerretano, esso non è fior di farina, ecc.
ecc. ('). Questo non è altro se non una elaborata e laboriosa
Ignoratio Elenchi.
Del resto gli autori non sembrano di accorgersi che tanto
più spregevole essi lo rendono, e tanto meno capace egli appa-
risce di poter compiere una falsificazione come questa, che noi
riguardiamo, se pure è falsificazione, frutto di una capacità straor-
dinaria ed eccezionale.
(ii) In secondo luogo gran peso si attribuisce all'avere il
Moncetti parimenti puhhlicato per la prima volta un trattato del
cardinale Egidio Colonna, (il quale visse due secoli prima, e fu
per conseguenza contemporaneo di Dante), cioè il Tractatus de
formatione Immani corporis in utero, che dedicò a Enrico Vili di
Inghilterra. Si argomenta pure che anche in questo son palesi i
motivi della propria compiacenza (^), come nel caso presente, e
(') pp. 143 e 147.
!■'> " L'intento del Moncetti nel pubblicarlo non sembra del tutto diverso da
quello „ etc. p. 149.
— II —
il Moncetti descrive questo lavoro come corrcctus, rcvisiis, reno-
vatns et aitclits. Ma il punto sorprendente in quest'argomentazione
è che il trattato cosi attribuito a Egidio Colonna, è ritenuto dagli
autori dell'articolo di indubbia autenticità ! W solo fatto, che nel
pubblicarlo si fa mostra di vanità, di cattivo gusto, e di licenza
editoriale, come forse in quello della Quaestio, è nulla più di ciò
potevasi naturalmente attendere.
Quest' argomento dunque non è soltanto di nessun rilievo, ma
ricade per certo sopra i suoi autori.
(iii) Si suggerisce che la scena iniziale o preliminare della
discussione incorporata nella Quaestio sia posta in Mantova per
adulare il Gonzaga, uno dei patroni del Moncetti. Gli autori sono
consci della facile obbiezione: perché dunque la scena attuale
della disputa medesima è posta in Verona e non ancora essa in
Mantova ? Alla qual cosa essi non possono offrire che la debole
risposta, che non vi possiamo rispondere senza conoscere ulte-
riori e maggiori particolari della vita del Moncetti (p. 150).
(iv) Vien notata come sospetta una frase che si trova in una
lettera di condoglianza alla regina di Francia sulla morte di
Luigi XII, dove il Moncetti si qualifica di iuto' sauctae Tlicologiae
doctores mintiiitis, perché al principio della Quaestio Dante è pre-
sentato come qualificante sé stesso in simili termini, " inter vere
philosophantes minimus „. Ma questa lettera del Moncetti fu
scritta nel 15 15, mentre la Quaestio fu pubblicata nel 1508. Per-
ché dunque il Moncetti non poteva far sua la frase, applicandola
a sé medesimo? Del resto l'espressione attribuito qui a Dante in
tutti i casi rassomiglia strettamente al suo dire nell' Epist. VII!
§ 5- Q'i'ppc <ic ovibus pasciiis fesa C/iristi minima una sum. Ri-
scontrisi ancora Conv. I. i. vv. 67 segg. e IV. xxx. vv. 15-23 (').
(v) Inoltre nessuna prova vien prodotta dagli autori, né ap-
parisce che ne esista alcuna, per dimostrare che il Moncetti sia
stato specialmente studioso di Dante e che abbia mai dato segno
alcuno di prender qualsiasi interesse alle opere di lui. Sembra quasi
(') V. più oltre in questo studio.
— 12 —
certo, che niun altro che uno studioso attento e assiduo abbia po-
tuto eseguire una simile falsitìcazione, evitando di esporsi ogni mo-
mento ad essere scoperto. È egli probabile che un tale studioso
si potesse contentare ticH.i palma di questa folsilìcazione imposta
al mondo, unico frutto di quel " lungo studio e grande aiìiorc „,
che lo avea posto in grado di produrla ?
(vi) Diversi ed importanti argomenti, come a me sembra,
possono scaturire da una considerazione suW aiilo/'c particolare
e sul soggetto speciale scelti per questa pretesa falsificazione.
(a) Perché il Moncetti, o alcun altro falsificatore, avrebbe scelto
proprio Dante, autore di opere che destavano allora, come abbiamo
veduto, (p. 9) cosi poco interesse? Non avrebbe piuttosto pre-
ferito alcuni autori classici, il preteso ritrovamento di qualche
opera dei quali avrebbe richiamato molto pili seriamente 1' atten-
zione sul fortunato scopritore ?
(b) Ma noi possiamo inoltre dimandare, anche supponendo che
egli abbia per il suo scopo scelto l'Alighieri, perché avrebbe legli
preferito un soggetto tanto differente da ogni altro trattato nelle
opere conosciute di Dante, un soggetto pel quale nulla prova che
il Poeta abbia sentito un interesse speciale?
Ne aveva sotto mano diversi altri molto più promettenti e
che quasi richiamavano 1' attenzione del falsificatore, quali quelli
annunziati dallo stesso Dante, da svolgersi in alcuni dei Trattati
non condotti a termine del Convito, o nei due altri libri del De
vujgari Eloquio.
(e) Inoltre, la questione discussa qui con tanta elaborazione e
talvolta anche con tanto calore, era intieramente fuori d' uso e
morta nel secolo decimosesto, non conservando nemmeno un
interesse aecademico; mentre d'altro lato al tempo di Dante era
molto viva. Né vi è in vero alcuna traccia, nelle opere autentiche
di Dante, per iscoprire un cenno di questo argomento, che po-
tesse servire di addentellato ad un falsario.
Ma abbondano le testimonianze per dimostrare l' interesse sen-
tito ai tempi dell' Alighieri per siffatta questione, e che il modo
di vedere propugnato qui, non è in apparenza quello generalmente
— 13 -
accettato. Ciò mi sembra di tanta importanza, riferendosi alla pro-
babilità che Dante avesse intrapreso la seria trattazione di un
argomento al di fuori dei suoi temi consueti, che ho raccolto un
gran numero di prove per dimostrarlo. Queste sono riportate
neir Appendice per evitare qui una disgressione troppo lunga.
(d) Conviene domandare: se il Moncctti era un uomo di va-
nità cosi disordinata ed al tempo stesso cosi profondamente im-
bevuto delle cognizioni scientifiche del suo tempo, come vien
asserito (v, sopra p. 9), è mai probabile che egli si sia fatta
sfuggire r opportunità di spiegare la sua erudizione, correggendo
con note i rozzi concetti e le teorie fisiche fuori d' uso, che ab-
bondano nell'opera e che (data l'ipotesi) egli stesso vi avrebbe
coscientemente introdotte? Da qualunque lato si voglia conside-
rare, vi sarebbe una straordinaria mancanza di movente in una
falsificazione come sarebbe questa. Il Trattato in fatti non sem-
bra aver attirato 1' attenzione, come a quell' epoca si sarebbe po-
tuto aspettare.
(e) Ma vi è un altra prova negli errori che si trovano in questo
Trattato, oltre la negligenza scientifica, errori che è difficile di
spiegare ammettendo l' ipotesi di una falsificazione (').
La disposizione degli argomenti nei §§ 14 e segg., specialmente
come sono indicati dall' intestazione di quei paragrafi, è notevol-
mente confusa. In alcuni paragrafi (specialmente il § 18) la punteg-
giatura e la divisione delle frasi sono cosi sbagliate, che se ne smar-
risce r argomentazione e persino il senso. Ed ancora vi sono molte
singole parole che sono palesemente mal decifrate, tanto che
talvolta creano un controsenso e talvolta dicono precisamente il
contrario di ciò che avrebbero dovuto significare. Eccone alcuni
esempi:
§ IO, V. 7 excentrica invece di concentrica.
§ 12, V. 53 fluilatis invece di gravitatis.
§ 20, V. 54 altcriiis invece di iilterius ecc.
(') Io sono debitore di questo argomento, come di molti altri, all' egregio
dantofilo D. Shadwell, che ha pure suggerite le correzioni date sopra, ed altre
che si possono riscontrare nella lista inserita nel Dante di O.xford, p. 423.
— 14 —
(ira questi errori possono facilmente derivare, da falsa inter-
pretazione, da errato deciframento, o dalla lezione poco intelligi-
bile di un nis. copiato da chi sa chi 200 anni prima; ma come
potrebbero trovar posto ncll' autografo di un falsificatore ?
L' ipotesi, che errori come questi vi possono essere introdotti
con r intenzione di tendere una trappola per isviare i critici, è
troppo assurda per aver bisogno di essere confutata sul serio.
5. Ci rimane ora da considerare l'ultimo dei cinque punti, cioè
della circostanza che dà molto a sospettare, come si dice, della
subitanea scomparsa del manoscritto originale, e vedremo che
questo non è un caso né cosi serio, né cosi eccezionale, come
può apparire a prima vista.
(i) Vi sono non soltanto molti altri casi generalmente cono-
sciuti, nei quali opere importanti del mondo antico, sono soprav-
visute in un solo manoscritto; ma vi son pure diversi altri casi
nei quali quei mss., dopo la loro pubblicazione per la stampa,
sono spariti misteriosamente ed interamente e sembrano non
esistere più.
Io farò menzione di uno o due, dei quali ho inteso parlare;
altri ve ne saranno certamente da aggiungere. Io credo che la
corrispondenza di Plinio con Traiano si fondi sopra di un ms.
trovato a Parigi verso il 1500, e veduto da varie persone avanti
il 1508, dopo di che è totalmente scomparso. Uguale è il caso di
alcune opere di Cicerone. Un amico m' informa che il secondo
libro delle lettere a Bruto è stato pubblicato per la prima volta
da Cratander (Basilea, 1528), ma che non se ne conosce alcun
ms. Qualche editore ha supposfo che fossero una falsificazione
molto antica, e forse anche una falsificazione contemporanea,
quantunque critici recenti le conbiderino generalmente genuine,
ma in ogni caso, nessuno pone in dubbio che Cratander posse-
desse un ms. dal quale egli stampasse, e che egli in ogni modo
non falsificò le Lettere, quantunque il ms. non sia stato più visto
dopo la pubblicazione. Lo stesso amico ha gentilmente attirato la
mia attenzione sulla storia delle lettere di Cicerone ad Attico.
Esse furono scoperte dal Petrarca a Verona, ma il ms. che egli
— 15 -
trovò si è perduto. Un altro nis. fu trovato ed adoperato da Cra-
tander, ma e perduto anche questo. Un terzo ms. fu prestato a
Lanibino da uno stampatore di Lione per nome de Tournes, ma
anche questo è scomparso. E vero che alcune copie di questi ms.
sono state fatte ed esistono ancora, ma la sorte di tutti questi
mss. originali ci dimostra come la scomparsa dei mss., dopo es-
sere stati copiati o stampati, non sia cosa rara. Inoltre, un gran
numero dei mss. originali trovati da Foggio sono andati smar-
riti. Questi contenevano il testo di varie Orazioni di Cicerone, la
cui autenticità non vien posta in dubbio da nessuno: ed anche
quelle di Asconio, Valerio Fiacco, Manilio, Silio Italico, e le
Silvae di Stazio. E sono anche informato che la Satira attribuita
a Sulpicia (di circa settanta esametri) si basa intieramente sopra
un unico manoscritto da molto tempo scomparso. Ora non vi è
alcuna prova autorevole o evidente per quest' opera, ad eccezione
delle prime edizioni del Merula, (1498 e 1509) e del Ugoletus (1499
e 1510). Finalmente Velleio Paterculo ci fu conservato unicamente
in un ms. che è stato smarrito sul principio del secolo decimo-
sesto, quantunque ne esista tuttavia una copia fatta da Amerbach
nel 1516, r cditio princeps essendo del 1520. Il ms. stesso non
venne scoperto che nel 1515 (').
(') Il chiarissimo dantofilo Dr. Paget Toynbee, attira la mia attenzione sul caso
dell' importante e senza dubbio antentico poema antico francese conosciuto sotto
il titolo " Le Pèlerinage de Charlemagne à Jérusalem „, conservato in un solo
ms. ed una volta al Museo Britannico, ora smarrito. Mi ha ancora fatto notare
im passo nel libro del Dr. Voigt Petrarque, Boccace, et les déòu/s de l' Huntanisnte
en Italie, dal quale ricavo i seguenti altri particolari riguardo ai frequenti smar-
rimenti di pregevoli mss. Diversi mss. di opere di Cicerone trovati da Poggio a
S. Gali, Langres, ecc., sono spariti del tutto. Un altro scoperto circa alla stessa
epoca, 1422, (quantunque non da Poggio), a Lodi ebbe la stessa sorte. In tutti
questi casi ne sono state fatte copie che sono sopravvissute e su queste sole
(molte volte) si basa la nostra conoscenza delle opere originali. Il Voigt conclude
cosi. " Si r on jette un regard sur le noinbre des vieux manuscrits qui furent
pendant ces dix années, remis au jour, pour perir ensuite et disparaitre sans
retour, et qui constituent la plupart du temps les derniers restes d' un monument
littéraire, on pourra se faire une idée des services éminents rendus par ceux qui
Ics ont découverts et sauvés „ (pag. 241).
— i6 —
È vero che nella maggior parte dei casi, se non sempre,
tutti questi manoscritti sono stati veduti da altre persone avanti
di essere smarriti e distrutti. Ma allorquando la noncuranza e
l'indifferenza per la conservazione dei ms. originali era cosi
comune, non possiamo dare grande importanza allo smarrimento
del nostro o riguardarlo altrimenti che come casuale.
Per quanto 1' agire del Moncetti possa parere strano a noi e
rechi danno al suo credito, non è da ritenersi incredibile, non es-
sendovi limite alcuno alle stravaganze del capriccio individuale,
o alla trascuraggine, e noi abbiamo frequentemente veduto con-
dursi in modo strano anche persone apparentemente ragionevoli,
che parevano sul limite dell' abberrazione mentale, anzi direi quasi
della pazzia. Infatti io ho veduto asserito in qualche luogo il pa-
radosso che le leggi della probabilità, quantunque si vogliano
sempre osservate dalla finzione, non sembrano aver alcuna forza
nella vita ordinaria.
(ii) Ma vi è un punto di vista dal quale un' azione simile è
ben lontana di essere cosi strana come apparirebbe a noi se ac-
cadesse adesso.
L' interesse e l' importanza che si annette agli autografi ed ai
documenti originali è relativamente moderna. Prova ne sia la
scomparsa remota e totale degli autografi di tutte le opere di
Dante, cosicché i commentatori dodici anni dopo la sua morte
si trovano a discutere sulle importanti differenze di lezioni (').
Inoltre, nella corrispondenza di eruditi, accade che un ms. dato
in prestito, sia copiato nitidamente ed esattamente, e la copia sia
restituita al proprietario in vece dell' originale, essendo ambo le
parti persuase che il proprietario abbia fatto un buon baratto ed
abbia ricevuto '/y'joiy. yyXy.v.riyj.
Infatti un manoscritto una volta stampato era riguardato come
una copia che non valeva la pena di conservare. Non vi sarebbe
dunque nulla di strano tre o quattro secoli fa, nella perdita o di-
(') V. le mie Contributions io the Textual Cn'iicism qf the Divina Commedia,
Cambridge 1889, pp. 382-385.
— 17 -
struzione di questo nis. per parte del Moncetti o forse anche
de* suoi stampatori.
(iii) Si potrebbe anche del resto supporre, quantunque non
vi sia necessità, uno scopo sinistro alla sua distruzione, senza
andar sino al sospetto di falsificazione, I professori Luzio e Renier,
danno molta importanza alla disordinata vanità del Moncetti.
Ciò, lo può aver indotto a riserbare solo a sé stesso l' unico
privilegio di porre gli occhi su questo tesoro, per rialzare il valore
della sua opera di editore, facendola quasi unico canale di tra-
smissione alla posterità di quest' opera di recente scoperta. Si
sa che alcuni collettori di libri hanno distrutto una copia dupli-
cata di un qualche libro raro od opuscolo, per assicurarsi la vo-
luttà del possesso unico. Si potrebbe ancora addurre un altro
motivo, sebbene meno probabile. 11 Moncetti può aversi preso
molte libertà circa il contenuto del ms. e lo ammette sino a un certo
punto anch' egli nel titolo dell'edizione del 1508, che ci presenta
come diligcntcr et accurate correcta da lui stesso. Se non fosse
che egli sembra piuttosto fiero di ciò, si potrebbe pensare che
avesse buone ragioni per non volere che il mondo giudicasse o
criticasse la sua opera di editore. Ma in ogni caso potrebbe
essergli piaciuto di sottrarla alla critica o alla revisione, rendendo
cosi la sua edizione definitiva ed inalterabile.
Su questo punto aggiungeremo un' osservazione. Noi non ab-
biamo, a causa della scomparsa del ms., nessun mezzo per giu-
dicare quanto possa essere stato rimaneggiato o quanto vi
sia stato per avventura aggiunto o interpolato. Perciò se una o
due tracce di anacronismi vi si scoprissero, tracce che noi asse-
riamo non esservi, queste potrebbero far ritenere vera la sup-
posizione. Ma anche se noi ammettessimo che la manipolazione
del ms. fosse molto più estesa di quello che abbiamo ragione
di supporre, questo non dimostrerebbe, che noi non avessimo
un' opera genuina di Dante, quantunque corrotta e deteriorata.
In ogni caso non è probabile che essa sia stata più sbadata-
mente rimaneggiata del testo di alcune opere, riconosciute auten-
tiche (còme il Convito), da alcuni editori moderni. Fortunata-
E. MooRE. a
— i8 —
mente l' esistenza dei mss. in questi casi ci rende possibile di
scorgere gli errori e di rimediarvi. —
II. — Prova interna.
Nel trattare la prova interna sarà bene di considerare prima
gli argomenti contrari {'), che si son basati sui pretesi ana-
cronismi riguardo alle cognizioni scientifiche, perchè se tali
anacronismi si trovano realmente in quest' opera cadit quaestio
(in più sensi) e la mano del falsificatore si scopre subito. In
questo caso nessuna serie di prove fondata sulla singolaiità del
linguaggio o pensiero Dantesco può aver alcun valore, e nean-
che destare interesse, altro che come misura dell' abilità del fal-
sario neir eseguire la sua falsificazione.
Ritornando su questo punto troviamo tutt' a un tratto una
strana diversità di opinioni per ciò che riguarda i dati di fatto.
Alcuni, dopo un esame accurato, scoprono poco o niente al di là
delle teorie fisiche di già propagate (prima di Dante) da Bru-
netto Latini, Ristoro d' Arezzo, Giovanni da Sacrobosco, ecc.
Altri professano di trovarvi delle meravigliose anticipazioni di
Leonardo da Vinci e di altri pionieri della scienza moderna, come
se la mente di Dante
Alle sue vision quasi è divina.
Strano a dirsi, il principale avvocato di questa opinione, lo
Stoppani, è tra i più strenui difensori dell' autenticità del Trat-
tato, e non, come si potrebbe supporre, tra i suoi avversari.
Ma esso è per verità un alleato molto compromettente, e la sua
rettorica poco giudiziosa ha fornito l' armeria, dalla quale gli
avversari hanno tolto alcune delle armi più efficaci. Perchè, a
dir vero, a meno di esser preparati, usando il linguaggio dello
(') Gli argomenti allegati in contrario o negativi son trattati nelle pag. 19
a 29; quelli favorevoli o positivi nelle pag. 30 e segg., sotto tre capi indicati a
pag. 29.
- 19 —
Scartazzini, ad aninirf/nr mi ìitiracolo, queste anticipazioni meravi-
gliose " costituiscono di fatto altrettanti anacronismi „ e l' am-
metterle sarebbe fatale per la dantesca paternità dell' opera (').
Queste " ferite di mano amica „ sono invero i più seri argo-
menti che abbiamo contro di noi. Possiamo farvi due obbiezioni
generali avanti di considerarle partitamente.
(i). Supponendo che queste " anticipazioni „ siano distintamente
e chiaramente espresse nel linguaggio del Trattato, come se lo
immagina lo Stoppani, come è che non sono in nessun modo
fatte notare dall'autore quale novità, ma egli vi si riferisce piuttosto
come a fatti e principi già riconosciuti?
(2) Riassumendo (con lo Stoppani) l' asserzione corrente delle
circostanze nelle quali esse furono esposte
coram universo clero Veronensi
queste strabilianti eresie fisiche (come avrebbero dovuto appa-
rire ex Iiypothcsi) non avrebbero dovuto attirare l' attenzione e
suscitar controversie a un grado tale da non lasciar, per modo
di dire, morir 1' argomento di morte naturale, e forse neanche il
suo autore, e farlo subito cadere in dimenticanza?
Ma poi, cosa sono queste meravigliose anticipazioni o anacro-
nismi esaminati particolarmente? Lo Stoppani ne enumera non
meno di nove, presagiti, affermati, ed anche dimostrati, in codeste
poche pagine, (') costituenti, se fossero veri, un indizio pressoché
fatale contro il suo proprio cliente.
(i) La Luna come causa principale delle maree; vedi il prin-
cipio del § 7: Aqua vidctur maxime sequi mottiiìi Lnnae, ut pa-
tet in accessu et recessu maris.
Si può -mettere in dubbio il grado preciso di vera scienza
contenuto in queste parole. Ma in ogni caso non eccede ciò che
(') È strano come spesso i ciechi ammiratori di Dante gli abbiano attribuito
il dono della profezia, nel senso di chiaroveggenza degli avvenimenti futuri.
(-) Giuliani — 0/>. Lai. di Dante, II, pp. 451-462, dove è stampata la cu-
riosa lettera dello Stoppani su questo argomento.
20
Dante può aver Ietto in S. Tommaso, Siiiiiiìkj, I, Q. no Ar/. 3:
Sten/ y/uxtis ci tr/lii.xiis lìian's hoìì coiiscqititiir foruiaìii siiòsfan-
tialcni (Kjuar, srd virtiitcìii liiìiac. (Cfr. I, O. 105, Art. 6). Ed an-
che, II, 2'^-"', Q. 2, Art. 3: Siati aqua sccuiu/inn luoliini pro-
pn'iiìii lìioirfur ad cciitnini; scciiiiditiìi aitkm ììiolniii litiìae move-
tur circa coitnini sccimdmn //axii/ii et rcjluxiim.
O ancora in Alberto Magno, De proprictatibiis clcìììcntontìu.
Tract. II, e. W, in cui è detto che le maree son dovute all'in-
fluenza di tutti i pianeti, ma specialmente a quella del Sole e
della Luna; perché il Sole, sorgente del calore, attira l'umidità
ad oiniiiiiiu corporitiii coelestium iiiitriiucutitiìi, mentre la Luna,
qiiod proprietatis est aquac agisce sul mare connatiiraliter. An-
cora una volta è da notarsi ciò che Dante stesso dice nel Par.
XVI, 83:
E come il volger del cicl della luna
Copre e discopre i liti senza posa.
La stessa espressione scqìii niotum Ltinae rassomiglia
il volger del ciel della Luna,
e non è certamente quella che avrebbe scelto uno scrittore che
avesse realmente compreso la causa dell' azione della Luna sulle
maree. Ho citato sopra il linguaggio di Alberto Magno, per
dimostrare quanto poco si possa giudicare del valore scientifico
di asserzioni vaghe, finché non è dato di accertarsi delle basi
(spesso erronee e di nessun valore) sulle quali si fondano.
Ma anche Lucano ha una qualche vaga nozione della rela-
zione esistente tra la Luna e le Maree come l' esprime nella
Pliars. X, 204
Luna suis vicibus Tctyn tcrrenaque miscet. (')
(') li Toynbee mi manda gentilmente la seguente nota: * L'influenza della
luna sulle maree è discussa da Plinio (II, 97) in un passo che vien citato da
Vincenzo di Beauvay nello Speculnnt naturale (V. i8). Acsliis inaris accedere et
reciprocare tnirttiu est, veruni causa est in sole et luna. Bis iiiler ciuos exorlus
— 21 —
E, per rimontare più indietro, anche Pytlieas, e. 330 A C, (presso
Plutarco) osservò la corrispondenza tra i movimenti delle Maree
e quelli della Luna e ne venne alla conclusione di una relazione
di causa e di effetto tra essi. Come pure S. Basilio Hoìn. in
Ilexani. \'\ § 11 asserisce: [ivziò. Bciicd.) Eiiriporiun ìrjluxiis
repercriiiit accoloe coiiversioiiihiis liiiiac ordinale rcspoiulcrc. Egli
aggiunge una curiosa osservazione: quasi (i/iarc) rctrorsum stib-
trahcrctiir liinac respirationibus, ac iterimi ipsiiis cxspiratioìiibiis,
ad propriam mensuraìu intpelleretiir.
Vedi inoltre^ diverse teorie sulle maree (inclusa quella che è
nel testo) in Brunetto Latini, Tre'sor \, Part. IV, e. 125.
Sembra evidente, da molti luoghi, che l' idea preponderante
nella mente dell' autore, sia 1' influenza delle sfere stellate, che è
un pensiero cosi prominente nel sistema fisico ed etico dantesco
(Cfr. nel seguito di questo lavoro le osservazioni intorno al
§ XXI della Quaestio). Noi vi scorgiamo l' idea strana e poco
scientifica che l' acqua sia " corpus imitabile orbis Lunae „
(§ XXIII vv. 50 e segg. ), cosicché vi si scorge una diffi-
coltà che richiede la spiegazione, che il movimento dell' acqua
è movimento di elevazione, mentre quello della Luna è cir-
colare. La spiegazione stessa dimostra quanto poco 1' autore
sapesse dell' azione della Luna sopra le maree, se arguisce
perchè l' acqua imita in certo modo la rivoluzione della Luna,
che non è necessario di far così in tutto. Apparisce dal § 7
che gli oppositori si basavano suU' argomento che per ragione
di questa imitazione la superficie dell' acqua debba essere eccen-
trica come l'orbita della Luna, e conseguentemente essa do-
vrebbe essere in qualche sito naturalmente più alta che la terra
asciutta. L' autore, chiunque egli sia, sembra accettare il principio
assunto, e semplicemente rigettare la conclusione. Vedi più oltre
le osservaz. ai vv. 47 e seg. del § XXI della Quaestio.
lunae afflitnnt bisqiie renieant vicenis quatcniisqiie setuper horis. Il fenomeno in
tempi posteriori era famigliare a Macrobio (circa 430) e a Marziano Capella
(circa 470), ambedue citati a questo proposito da Bartolomeo Anglico (circa 1260)
nel suo De proprietatibits rerum (Vili 29).
(2Ì. La seconda aiìticipazioiic si vuol trovare noli' iiììi/oriìiilà del
livello del mare. Il principio è enunciato dall' autore come qual-
che cosa di assolutamente evidente e necessario, atto a dare una
risposta pronta e compiuta alla teoria da lui contradetta, cioè che
il mare sia sopra il livello della terra. Questo implica che o esso
noti è cotieentn'eo col continente al centro comune della terra, e
perciò dell'universo (secondo le teorie cosmiche prevalenti in quel
tempo), oppure che è gibboso in alcuni luoghi (vedi § X). In
confutazione si argomenta: (i) qtiod aqiia natiiraìitcr niovetitr dcor-
siitn; e (2) (jitod aqtia est labile corpus natiiraliter. (§ XI) (') Que-
sti due fatti son riguardati come principi; e se alcuno negasse
ambedue o uno di essi, egli sarebbe al di là dell'argomento {ib)
Certamente non vi è nulla di nuovo nell' appellarsi a fatti rudi-
mentali dell' esperienza come questi. Né può il caso dell' oceanp,
a ragione della ampiezza sua differire da quello del più piccolo
stagno. E evidente che a questo si potrebbe applicare il linguaggio
di Aristotile in un caso simile oOcèv to''v'jv t'ìOto cia-^ips: Xiyc'.v £7::
póAo'j '/,yX |iopìo'j toO T'j'/Svro:, y) ir:: &Àr^; -J^z \-7^z, oò y^p òtà |x'.-
-/.sÓTYjTa y^ \iv{-J)zz iipr^zci'. tò a'jiJ.(5arvov. De Coelo, li, xiv (297,
b, 7-9). Finalmente possiamo paragonare di nuovo Li Tre'sor, I
part. III. e. 106: /'/ est propre nature des aignes qne elcs montent
tant coni me eles avalent.
(3), L' altro punto che è notato come miracolo di fantasia, è la
forza centripeta, cioè la forza di gravità. Il passo sul quale prin-
cipalmente si fonda è citato nel § XVI vv. 51 5^"^^^. Potissima
virtus gravitatis est in corpore potissime petente cciitnim, quod
qtiidem est terra: ergo ipsa potessime attingit finem gravitatis,
qui est centrum mundi. Ma questo non è certamente inteso nel
senso moderno, quantunque la parola gravitas vi si trovi (come
diverse altre volte nel Trattato); ma semplicemente nel senso
che è vecchio quanto Aristotile, cioè che, siccome tutti gli ele-
menti hanno il loro loco proprio verso il quale essi tendono,
quello della terra e di altri corpi pesi è il centro del mondo e
(') V. più oltre, § XX vv. 47-51.
— 23 —
perciò dell'universo. (') Non vi e nulla neWa Oiiarsfio al di là di
quanto ne attesta Dante nel Coni'. Ili (•) o anche nel passo pili
familiare dcW In/cnio XXXII, 73, 74:
E mentre che andavamo in ver Io mezzo
Al quale ogni gravezza si raduna;
e Ini". XXX I\'^ no, in:
Il punto
Al qual si traggon d' ogni parte i pesi
\'edi ancora una volta De Moii. \, xv, v, 38: plitrcs glebas dice-
rei II US coiìcordes, propkr condiscendere omncs ed mediiiin.
Ma è inutile moltiplicare le citazioni sopra un punto cosi evi-
dente.
L'uso per nulla affatto scientifico e deviatore del termine ^tw-
vitàs ci risulterà dalla spiegazione che ce ne dà il § XII: " Grave „
et " leve „ snn/ pnssioncs (^) corpornni sinipliciitni quae moventiir
molli redo] {*) et levia nioventnr siirsiun, gravici vero deorsnni. Qui
(') Vedi il passo citato nei miei Studi su Dante, I, p- 122, e Coiiv. ui passim
Aggiungi ////. XI 6^, 65; Il punto dell' Universo in su che Dite siede; e cfr. con
In/. XXXII, ^: fondo a tutto l'universo. Anche in Brunetto Latini, Trésor, L, I,
part. Ili, e. 105, leggiamo: toutes clioses se traient et vont tosjors aii plus bas,
et la plus basse e Uose et la plus parfonde qui soit au monde est li poins
de In terre, ce est li rnileu dedans, qui est apelcs abismes, là oh enfers est
assis. E poco più avanti Brunetto ha spiegato che una pietra cadente ver-
rebbe a riposare al centro della terra e non procederebbe più oltre, ed anche
se si potesse lanciare oltre a questo, essa ritornerebbe sempre a quel punto.
La stessa affermazione é fatta molto chiaramente ed efficacemente da Benve-
nuto, commentando Inf. XXXIV, 80 { II p. 563 \. V. anche Vincenzo di Beauvais,
Speculuni, VI, 7.
(-) V. specialmente i vv. 8-1 1: " le corpora semplici limino amore naturato
in sé al loro loco proprio, e però la terra sempre desande al centro „.
(^) Cfr. § 18, vv. 5-7. Corpora simplicia . . . . regiilariter in stiis parlibus quali-
ficantnr onini naturali passione.
(*) Motu recto, cioè, (come espressamente vien asserito dell'elemento del
Fuoco nel § XX, 58) in linea diretta, o all' insù ovvero all' ingiù. Questo è per
distinguere i quattro Elementi dalla Quinta Essentia il cui movimento è dichia-
rato esser circolare, e la cui esistenza vien presunta dalla ragione a priori, che
— 24 —
abbiamo semplicemente la nozione del mondo antico della distin-
zione degli elementi (corporo si)ìiplicia): Terra ed Acqua aventi
gravi'tas, Aria e Fuoco Icvilas, come loro proprietà {passio-
iics); (') e le parole citate più su ci mostrano che gravitas non
appartiene all' Aria e al Fuoco, cosicché qui non vi è traccia
della Gravila Universale. Vedi inoltre § XVI, vv. 2-6, 51-55, dove
è specialmente da notare 1' espressione fincììi gravitati^, qui est
ceiitriaii uiinidi, che semplicemente ripete l' idea dei passi che ab-
biamo citato dall' ////. XXXII e XXXIV (•). Finalmente, vediamo
come è usato gravi/as nel § VII), vv. 11 segg.: cnui gravitas
iiisit natura/iter terrae, et terra sii corpus simplex, etc. Vi è stata
mai una più flagrante Fallacia Equivocationis, come quella di soste-
nere che dei passi simili, perché contengono il prezioso termine
gravitas, (^) implichino una conoscenza o una anticipazione del
vi debba essere un elemento, il quale produca la più perfetta forma ( cioè circo-
lare) di movimento — Da confrontarsi Alberto iVlagno, De Nat. Loc. Tr. I, e. 3
(V. p. 265) Locus igitur ìgnis erit in concavo hmae super oiiintn copora hahciitia
tiiofian rccluni.
(') Questa antiquata teoria fisica, è svolta da B. Latini Trésor. (L. I, part. Ili
e. 100): ">'>'n fu creata in sei giorni, e da questa j/'i sorgono quattro elementi,
due leggeri e due gravi, quantunque tutti quattro partecipino di queste due
qualità in grado e tempo differente. Vedi anche De Mon. I, xv, 45: qnaìitas una
formaliter in glebis, scilicei gravitas, et una in flaiiimis, scilicet Icvitas. Tale è la
gravitas della Quaestio!
(') In verità si potrebbe attribuire il merito di una simile anticipazione a
S. Tommaso d'Aquino, in virtù del suo linguaggio nella Smtinta I, 2''"*, Q. 26
art. I, quando dice che un appetito naturale nell'uomo lo spinge verso il suo
oggetto, ed è dovuto alla connaturalitas appetentis ad id in quod tendit, quae dici
potasi amor naturalis : sicul ipsa connaturalitas corporis ad locum medium est
per gravitatem ; et potest dici amor naturalis etc.
(') Di più Brunetto Latini, Trésor I, part. Ili, e. L05, e Ristoro d'Arezzo
( L. II, e. I.) danno una quantità di ragioni a priori, perché il mondo non
può aver avuto altro che una forma sferica. Il Sacrobosco ( L. I, e. 5, 6) lo
prova con vari argomenti, incluso quello che deriva dalla veduta più vasta
da un albero di una nave anziché dal suo ponte (V. Quesiio, §§ V e XXIII).
Ciò è illustrato da un diagramma, che spiega perché, se la superfice dell'ac-
qua non fosse sferica, la veduta dal ponte sarebbe migliore (cfr. Qnaestio § XXIII
V. 31. " magis enint viderent), perché la linea visuale sarebbe più corta. Un
argomento e un diagramma simili si trovano in Ruggero Bacone. Op. maj, part.
sistema newtoniano? Scui riiicnt Ncivioìiits si aitdirct, per usare
le parole del § XII, v. 36. Vi è un' illustrazione eccellente delle
proprie parole dell'autore sulla fine del § XII: divcrsitas ralionis
ciiììi idcìititatc nomiiiis cqtitvocalioncni facit.
(4). La rotondità o la sfericità della terra. Ma quest' idea è
molto più vecchia di Dante. Per citare una sola autorità, è so-
stenuta da Alfragano, Eleni. Astroit. e. Ili, con vari argomenti,
le prime parole del capitolo essendo: Hand scciis ìntcr sapicntcs con-
vciiit, tcrraiìi mia citili a//iia globosain esse. Inoltre essa è vecchia
quanto Aristotile. De Coclo. II, xiv (297 b. 24-30), dove, tra altri
argomenti in suo favore, vien citato il fenomeno dell' ecclisse lu-
nare. Veramente ciò è anche più antico di Aristotile, perchè è so-
stenuto da Platone nel Timeo ( p. 33), ed anche prima dai Pit-
tagorici, quantunque in ambo i casi apparentemente sulla sem-
plice base a priori della perfezione della figura circolare o sfe-
rica.
(5). E difficile di vedere come il seguente punto allegato, cioè
che le montagne e i continenti siano gibbosità sulla superfìcie
del globo sferico, possa venir considerato in qualsiasi senso im
presagio, e perciò non occorre dire altro. Il periodo nella Quae-
stio al quale si riferisce, è nel § XIX, vv. 20 segg.
(6). Lo stesso è il caso per ciò che riguarda 1' asserzione che
la terra asciutta è congregata entro certi limiti di latitudine e
longitudine nell' emisfero nordico esclusivamente. Questa era la
credenza generale dei geografi antichi e medievali e le spiega-
zioni molto chiare ed istruttive su quest'argomento nel § XI non
sono solamente Dantesche, ma sono poco più di ciò che si può
leggere in Alfragano, Eleni Astron e. VI, un'opera, che, come
ho già osservalo in molti luoghi, era senza dubbio conosciuta
dallo stesso Dante. Per una ricognizione di questa teoria in
Dante, ed anche come una singolarissima speculazione concer-
IV, e. 10: Rclittqititur quod aliqttid impedii visiirK illiiis qui est in navi. Sed
itihtl potest esse tiisi iuinor spliaericus aqiiae. Ergo, est sphaericae figurae
Questo linguaggio rassomiglia notevolmente a quello delia Quaestio, § XXIII,
vv. 33-38.
— 26 —
nenie la sua causa, vedi ////. XXXIV, 1-21-126, e i miei Sfiidi su
Datile, II p. 246.
Ma in ogni caso, non si può vedere del tutto quanto questo possa
esser vero, sia come anticipazione sia che nò. Lo Stoppani stesso
non ne è sicuro, giacché se ne scusa in questo modo: " Se
non è esatto 1' asserirlo per tutti, è verissimo riguardo alla mas-
sima parte dei rilievi terrestri „. Ma le asserzioni della Quaestio,
come pure quelle di Dante altrove, vanno molto più lontano
di ciò.
(7). Il settimo punto è prima facic di maggiore importanza.
È molto falsamente intitolato Attrazione Universale " la mutua at-
trazione dei grandi corpi dello spazio, compresa la terra (p. 455) „.
Questa sarebbe senza dubbio una sorprendente anticipazione della
dottrina della gravitazione universale, se si trovasse di fatto
nella Quaestio] ma certamente non vi è nulla di ciò. La parola
di gran significato mutua nella precedente citazione, involge una
idea della quale assolutamente non vi è traccia. E il solo fon-
damento per questa stupefacente asserzione è un molto rozzo
accenno dell' Autore della Quaestio, che le montagne ed altre
gibbosità sulla superficie della Terra siano possibilmente dovute
alla virtus elevans illis stellis quae sunt in regione coeli istis duo-
Inis circidiè contenta (cioè tra l'Equatore e il Circolo Artico, e
perciò giacente per l'appunto sopra quella parte del Globo dove
la terra asciutta sorge fuori dall' Acqua) sive clevet per moduvi
attractionis ut niagnes attrahit ferriim, sive per modum pidsionis,
generando vapores pellentes, ut in particularibus niontuositatibus
(§ XXI) ('). Chi potrebbe a mente sana trasvisare questo tenta-
tivo e quest'ipotesi evidentemente erronea per crearne la dottrina
moderna dell' attrazione reciproca di tutti i corpi materiali?
(1) Questo termine singolare di montuosìlas è solamente registrato come ri-
corrente una sola volta dal Ducange, cioè in Nicolaus de Jamsilla, de Gestis Fredc-
rici Secundi (quel cronista si ferma all'anno 1258). La frase ex loci montun-
sitate ricorre in una descrizione delle vicinanze della " Civitas Castri Joan-
nis „ che si ritiene sia ctotclis aliis Siciliae locis eminentior ; solo monte Gibello
— 27 —
(8). Nella notevole asserzione che segue, dcH' Elasticità de' va-
pori come forza motrice (Giuliani, Op, cil. p. 456), abbiamo qual-
che difficoltà nel riconoscere la probabile suggestione del periodo
testé citato, che alcune delle lìioiifitositatcs siano generate da forze
vulcaniche esplosive! Questo però non è solamente evidente,
ma si può ritrovare nella Meteora di Aristotile (Vedi Stndics in
Dante, Series I pp. 128, 131, etc. ).
(9). La elevazioìic dei continenti è 1' ultima di queste fantastiche
anticipazioni della scienza moderna, ed è introdotta come una
sorte di gradazione vincente di lunga mano per importanza storica
sugli altri, [Op. cit. p. 456). E addotta come anticipazione in
particolare della teoria geologica di Leonardo da Vinci, che i
fossili trovati sulle vette delle montagne indichino che queste
fossero un giorno in fondo al mare. Le citazioni già date sono
bastanti a dimostrare come queste idee geologiche siano aliene
dalla mente dell'Autore di questo Trattato (').
Sarebbe difficile trovare un' illustrazione più straordinaria di
fallacia di osservazione, cioè quella di confondere dei fatti con le
induzioni cavate da questi fatti ("), o di leggere in una vaga e
generica espressione un significato preciso e definito, che non
è contenuto in essa, ma che potrebbe in qualche modo con essa
sìiperexcelsa. II Toynbee m'informa che inoniuosilas è registrato nel Cailìolicoit
A\ Joannes de Janua (finito nel 1286) sotto iHontmts : " Montuus, a tiions et
liinc utoiilHosns in eodem sensu, idest plenus montibus; unde hec rnonUtositas
iitlis: „ tiionliiosits è dato neW Elenie»(arium Doclriitae Rudimenttmi (scritto
circa il 1060) da Papias. Il termine è evidentemente usato qui nel senso attri-
buitogli da Joannes de Janua, cioè " locus plenus montibus „.
(') Un passo nel contemporaneo di Dante, Ristoro d'Arezzo, darebbe a
prima vista un colore molto più plausibile a questo diritto di anticipazione.
" Quella contrada là ove si trovano questi monti, là ove si trova la rena e 1' ossa
del pesce, è segno che per quella contrada fosse già il mare, o acqua in modo
di mare „. Ma qualche riga più sopra ciò viene attribuito al Diluvio. ( L. VI e. 8 ).
(-) O, come osserva il Dott. Shadwell, confondendo i fatti che sono stati
ordinariamente osservati sino dai tempi più remoti con la interpretazione scien-
tifica di essi, per cui in molti casi abbiam dovuto aspettare lungo tempo dopo
la morte di Dante.
accordarsi {'). Se questo è tutto ciò che dir si possa sul tema aiia-
nonismi, ovvero nuficipacioni (fi scienza fittiira, noi possiamo con
sicurezza sfidare i nostri avversari a produrre una sola parola
od una sola idea in quest' opera, che, per quel che riguarda la
conoscenza intima della scienza, non potesse essere stata emessa
da Dante, o per verità dalla più gran parte di coloro che lo
hanno preceduto di molte generazioni. Ma se la cosa sta in
questo modo, la questione cambia affatto, e noi abbiamo un altro
gravissimo argomento contro l' opinione che l' opera sia di un
falsificatore recente, il quale, forte della sua educazione scienti-
fica, avesse specialmente la capacità a delinquere. Sarebbe più
che difficile, e praticamente quasi impossibile, di evitare af-
fatto gli anacronismi, quasi 200 anni dopo la data assunta, e con
le condizioni delle conoscenze scientifiche grandemente cambiate.
Gli argomenti contrari che potrebbero tirarsi dalla pretesa
esistenza di cognizioni scientifiche anacronistiche essendo ora
messi da parte, procederemo ad esaminarne altri, derivati dalla
supposta prova interna dell' opera. La principale di queste ob-
biezioni è derivata dal fatto che tanto i termini dell'introduzione
quanto 1' explicit non hanno il sapore dello stile di Dante, essen-
dovi registrato il suo proprio nome. (Vedi Purg. XXX, 63) Si
dice che Dante mai altrove dà il luogo, la data, e il motivo delle
sue composizioni (Vedi Quaestio, §§ I e XXIV). A questo pos-
siamo rispondere:
(i). Questa composizione è unica nel suo genere tra le opere
attribuite a Dante. Se realmente ha avuto origine nel modo come
si dice sia avvenuto, niente di più naturale che questi particolari
siano stati notati. D'altra parte, in quasi tutte le altre opere di
quest' autore tali particolari sarebbero stati fuor di luogo o fuor
di questione. Eccezione presso che unica sarebbero 1' Epistole ('),
(') Un caso diverso è la sapiente osservazione del Biagioli, che, nel v. del-
l'/;(/! I, 90: Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi, Dante abbia anticipata la
scoperta dell' Harvey sulla circolazione del sangue!
(^) Certo io non dimentico ( e oso dirlo adatto ingiustificabile) il grande scet-
ticismo di questi ultimi anni per ciò che riguarda quasi tutte le £/)<s/o/t dantesche.
— 29 -
ed in qualchechina di esse il tempo ed il luogo ed anche il nome
dell' Autore è menzionato.
(2). Io non contenderò per 1' autenticità di ogni parola e di ogni
periodo dell* opera, come ella è presentemente. Il Moncetti stesso
ammette, con evidente soddisfazione, di aver contribuito, per
una parte considerevole, alla revisione editoriale, ovvero, come
noi preferiamo di esprimerci, si è preso molte libertà col ms.
<Vedi sopra, pp. io e 17 ). E di pili egli accetta, come pare,
il complimento che gli fa un frate Gavardi (') Practerea opti-
scHÌnììi Daìdis poctae Fiorentini pliiriiiiis locis adiiltcrimiììi In-
cnbralionibits minerva tua levigatuiii effccisti. Non abbiamo il mezzo
per determinare fin dove giungessero le operazioni indicate qui;
ma è evidente la probabilità che il Moncetti abbia manipolata
specialmente l' introduzione e la chiusa del libro. Quantunque
non vi sia veramente necessità di ammettere che ciò sia stato,
pure l'ammetterlo basterebbe a togliere ogni difficoltà che potrebbe
esser sentita per ciò che riguarda i particolari. Certamente nes-
suno riterrebbe l'autorità o l'autenticità del Vangelo secondo
S. Giovanni minimamente diminuita, ove si ammettesse che V cxpli-
cit nel XXI, 24, 25 vi sia stato aggiunto dagli antichi Efesii, o
anche da qualche copista sconosciuto e recente, o da qualche
editore del Vangelo stesso.
Il campo è ora sgombero per la presentazione di tutte quelle
prove positive dell' opera, che il contenuto di essa sembra po-
terci dare. La sostanza essendo stata trovata libera da serie obie-
zioni, rimane a considerare /'/ modo della stia esposizione.
Io sono stato molto impressionato dalla somiglianza o dal paral-
lelismo con le opere riconosciute di Dante, per ciò che riguarda
I- I pensieri.
2. La maniera di esprimersi.
3. Le citazioni.
Mi propongo di illustrare questi tre punti, premettendo che io
non intendo di dimenticare per nulla il carattere a doppio taglio
(') Citato nel Giorn. slor. p. 136.
— so-
di tali argomenti, almeno in principio generale, alcuni di questi
parallelismi essendo tali, quali avrebbe potuto introdurveli un
falsificatore naturalmente e di fermo proposito. Se però essi non
sono troppo evidenti, se non sono interpolati nel testo come
agglomerati di diversa origine nella massa di una roccia, ma
fermano parte del tessuto naturale del pensiero e dell' argomenta-
zione, allora son tali da oltrepassare la capacità di chiunque non
sia un artista consumato in questa specie di imitazioni. Tali argo-
menti, per verità, come la prova ricavata dallo scritto di una
persona, impressionano le menti in modo molto diverso. Ognuno
si deve formare il proprio giudizio secondo il valore e la tendenza
di ciascun argomento; non si può pretendere di ottenere con
questo metodo nulla al di là di conclusioni più o meno probabili.
I. Io mi propongo di rintracciare i parallelismi di pensiero,
esaminandoli secondo che ricorrono nelle parti successive del
Trattato.
// Paragrafo d' hitroditzione.
Non mi curo di difendere l'autenticità di ogni particolare ; ma
si noti però (in qualunque maniera si possa usare l'argomento),
che quando Dante vien designato come inter vere pliilosopìian-
tes miiiinius, parole che son ripetute alla fine del § XXXIV, la
designazione è del tutto caratteristica. Il Coinnlo principia e
finisce con una simile dichiarazione di umiltà. Vedi Conv. I, i, 68.
" Io adunque che non seggo alla beala mensa (della scienza); ma
fuggito dalla pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggono ri-
colgo di quello, che da loro cade, ecc „. E ancora alla fine del Con-
vito, rivolgendosi alla sua opera e da essa accommiatandosi, dice
che seguirà il metodo dei buoni operai: " E questo intendo, non
come buono fabbricatore, ma come scguitatore di quello „ ( IV
XXX 21 ) cfr. Ep. VIII, § 5 v. 70: " De ovibus pascuis lesu Chrisli
minima una sum. „
Non pare necessario di dimostrare che, quantunque il concetto
popolare del carattere di Dante, sin dai suoi primi biografi, sia
quello di un uomo superbo e burbanzoso, tuttavia non vi è virtù
-si-
che egli ammiri ed esalti più dell' umiltà ('), forse per il senti-
mento che la Superbia fosse il suo peccato preponderante.
§ I, vv. 3-4. La denunzia di coloro che " giudicano secondo
le apparenze „ e 1' acuta antitesi tra 1' apparenza e " la verità „
è affatto nella maniera di Dante. Il Giuliani confronta molto op-
portunamente Pur. A'XIX, 85-87:
Voi non andate giù per un sentiero
Filosofando ; tanto vi trasporta
Z.' amor dell' apparenza, e il suo pensiero.
e ancora (dichiarando ìnultoties, h. I.) v. 94:
Per apparer ciascun s' ingegna, e face
Sue invenzioni.
A questi passi aggiungerei l'antitesi nella Cmizonc II (pre-
messa al Trattato III del Convito) vv. 82-84:
Cosi quand' ella la chiama orgogliosa
Non considera lei secondo il vero
Ma pur secondo quel eh' a lei purea.
Notando inoltre il linguaggio nel commento di questi versi,
e. X vv. 22-25, " allora non giudica come uomo la persona,
ma quasi com' altro animale, pur secondo l' apparenza, non se-
condo la verità „, e nel v. 28 questo è qualificato come sensuale
giiidicio. Finalmente si può confrontare Pnrg. XXII, 28-30:
Veramente più volte appaion cose
Che danno a dubitar falsa matera
Per le vere ragion che sono ascose;
e Par. II, 56, 57
Retro ai sensi
Vedi che la ragione ha corte 1' ali.
(•) Vedi Dante and his Biographers, pp. 1^7-8.
— 32 —
§ I, V. 6. Il fervido culto della WMMtà durante tutta la sua vita,
che qua si arroga 1' autore, è intieramente caratteristica dantesca ;
egli r ha dichiarato parecchie volte nelle sue opere autentiche. In
relazione con questo culto della verità il passo ben conosciuto di
Xic. Etìi. I, VI, I è citato non meno di quattro volle da Dante con am-
mirazione pel sentimento che contiene ('). Osserviamo che non è
citato di nuovo qui, come un falsificatore avrebbe fatto senza dub-
bio. Cosi noi abbiamo Io stesso sentimento e la medesima opinione
espressi senza alcuna ripetizione sospettosa di forma o di frasi,
con cui sono cosi frequentemente associati in Dante. Del resto
oltre a questi passi, rammenterei il culto entusiastico per la sap-
pienza, per la Filosofia, per la Verità (tutti termini che qui ri-
corrono) espresso nel Coìiv. Ili, xi, 74-153. Notevole specialmente
è r affermazione che della filosofia e cagione efficiente la Verità.
Vedi eziandio Coiiv. IV, i, 18. " Ond' io fatto amico di questa
Donna di sopra nella verace sposizione nominata (cioè la Filo-
sofia, vedi Conv. II, xvi, 19, 20) cominciai ad amare e a odiare
secondo l'amore e l'odio suo. Cominciai dunque ad amare li
seguitatori della verità, e odiare li seguitatori dello errore e della
falsità, coni' ella face „. Vedi ancora le parole di introduzione
del De Mon. Notevole è anche il modo sprezzante nel quale, sia
qui che nel Conv. I, ix, egli denunzia coloro pei quali 1' obietto
della filosofia si associa al lucro. Non son più filosofi (dice), che
colui che presti per prezzo un istrumento sia un musico. ì^tW Ep.
IX § 3 v. 32, esso si qualifica come un philosophiae domcsticiis,
ciò che si può paragonare con le parole del presente passo
in amore veritatis a pueritia inea continue suni nutritus, e con
r espressione " omnibus in philosophia nutritis „ del §. XXI,
V. 24. Il timore che esso esprime di diventare al vero timido
amico, nel Par. XVII, 118, ricorrerà alla mente di ognuno.
Finalmente sulla coesistenza necessaria dell' amore della Ve-
rità coìr odio della Menzogna insiste nel Conv. IV, i, 22-41.
(M Conv. IH, XIV, 79, segg; IV, viii, 142: De Mon HI, I, 17; Ef>ist. Vili § 5
V. 84 ( Vedi Sludies in Dante, I, Index p. 339).
- 33 —
§ I, vv. 9, IO. Il doppio dovere di stabilire la verità e di respin-
gere l'errore è riconosciuto ampiamente nel Conv. IV, ii, 121-
141, e r ordine relativo di questi due procedimenti è discusso,
citando l' autorità di Aristotile, il quale sostiene che si debba
cominciare dalla confutazione dell'errore. Questo è il metodo
seguito nel Trattato, dove gli argomenti conira son prima enu-
merati per ordine e poi ribattuti. Identico è il caso nel Convito
1. e, dove Dante si difende per aver adottato questo ordine,
quantunque il suo linguaggio nel passo corrispondente della
Canzone possa aver suggerito il contrario. Vedi più oltre ib.
e. Ili, vv. 5-7 e XVI vv, j6-i8.
§ I, V. 12. Lo scrittore osserva che la lingua dell' invidia ha
sempre più libero giuoco nell' assenza della vittima. Si confronti
con Conv, I, iv, ove si dice che per tre ragioni \^. presenza di un
uomo diminuisce il bene ed il male che gli è attribuito, mentre
nella sua rt5òv//sa ambedue aumentano (vv, 5, 9, 57), L'invidia è
una di queste cause, la quale, mentre è stimolata dalla presenza
di alcuno ('), è nel tempo stesso ritenuta nella sua operazione
dalla stessa presenza, e conseguentemente agisce molto più li-
beramente contro chi è assente ( vv. 42 e segg. ).
§ IV, itiit. La spiegazione della relativa dignità dei quattro
elementi nell'ordine seguente: Terra, Acqua, Aria, Fuoco, si trova
eziandio nel Conv. Ili, v, 37, dove forma parte di una teoria
attribuita a Pitagora. Il principio generale " nobiliori corpori
debetur nobilior locus „ (parole che son ripetute più oltre § 23,
V. 14) deriva direttamente da Aristotile, De Coelo II, xni, (293,
a. 30), come ho già accennato negli Studii su Dante I, p. 128;
ed è interessante di osservare, che quella è la fonte riconosciuta
per le notizie di Dante circa le opinioni di Pitagora e di Platone
riferite in quel capitolo del Convito (vedi III, v. ' 52 e segg.).
Osserveremo che qui troviamo la piena conoscenza dello stesso
(') È da osservare come nella Quaestio " invidiosus „ ha il significato di " fatto
segno ad invidia o ad odio „ come gli invidiosi veri del Par. X, 138. Invidiosi
occorre nel significato più usuale in Inf. Ili, 48.
E. MooRE. 3
— 34 -
capitolo del trattato di Aristotile; ma la citazione maggiore pro-
viene da una parte diversa di questo trattato, ed è citata nel modo
pili naturale ed appropriato. Non è questa la specie di somi-
glianza che si può attendere da una falsificazione.
§ I\', V. 6. La descrizione del pì-iiìiuiii eoeliini, o l'empireo,
come iiobilissiiììiim coiìtiiieiis, cioè quello che include in sé tutto
il rimanente, può essere illustrata da diversi passi di Dante, ma
la corrispondenza risiede più neh' idea che nella forma precisa
delle parole. Vedi specialmente Couv. II, iv, 35-37, ed Ep. X § 24,
vv. 442-447 ; § 25, vv. 454-463, dove la medesima parola coiiti-
ìieiis è adoperata. Confronta Par. II 112-114; XXVII, 113.
§ VI, vv. 5-7 " ciiiiis oppositum vidcìims; qiiare oppositum
cius ex quo sequehatiir est vernili „. Lo scrittore qui si riferisce
al comune principio logico, che la negazione della conseguenza
di una proposizione ipotetica, giustifica la negazione dell' ante-
cedente. Il principio è, come dico, comune, e perciò prendo nota,
senza annettervi troppa importanza, della sua enunciazione in De
Moìì. II xn, 26, dove è riferito con termini più tecnici: " Con-
scqitens est falsiim, ergo contradictorium antcccdentis est veriim ,,
e di nuovo con termini, che rassomigliano maggiormente al passo
della Quaestio in De Moìi. II, xiii, 3: " hoc auteni est falsum ; ergo
contradictorium ejus ex quo sequitur est veruni „. Vedi di nuovo
più oltre § X, vv. 11-13.
§ X, V. IO. " Ut subtiliter inspicienti satis manifestum est „. Il
Giuliani saggiamente confronta le forme simili di esprimersi, " c/n
guarda sottilmente {Inf. XXXI, 53) e " se ben si pensa sottilmente „
{Conv.U, IX, 107). A queste possiamo aggiungere: Par. VII, 88,
89 : " se tu badi Ben sottilmente „ e V uso nello stesso senso del
verbo assottigliarsi in Par. XIX, 82, e XXVIII, 63. Conv. IV, l^
59 rassomiglia ancor maggiormente ai termini del nostro passo:
siccome veder può chi mira sottilmente. Come pure le seguenti :
Conv. II, XIV 143, e xv 24-25.
§ XIII, vv. 34-36. Noi abbiamo qui una ripetizione quasi ver-
batim delle parole che si trovano nel De Mon. I, xiv, init. Da
confrontarsi ancora ib. vv. 15 scgg. Quantunque questo concetto
— as-
si ritrovi esplicitamente in Aristotile (665^ 14, 15, per cui vedi i
miei Studi, \, p. 116), non è dato come citazione né qui né in
De Moli. 1. e. La somiglianza dei due passi è perciò strettissima
per ogni verso. Il principio generale a cui si riferisce è eviden-
temente appropriato tanto in un caso come nell' altro, quantunque
la sua applicazione sia affatto diversa, e, come sembra a me,
nulla può essere pili naturale che uno scrittore riproduca un
principio favorito e comune di questa specie in tali circostanze.
Ma devo ripetere che io non annetto gran peso d' argomenta-
zione a queste coincidenze, quantunque debba confessare che
sono impressionato favorevolmente da esse e da altre. Concedo
che se ne possa giudicare in modo diverso, ma sostengo che
mentre ciò non basta a provare che Dante sia 1' autore del trat-
tato, è pertanto quello appunto che se ne potrebbe aspettare se
egli lo fosse.
§ XVI, V. 47. " Potissima viriiis potissime attingit finem, „ ecc.
Da raffrontare con questo principio Conv. I, v, 71, segg.: " Cia-
scuna cosa è virtuosa in sua natura, che fa quello a che ella è
ordinata „. Come altrove spesso, abbiamo qui simili pensieri
senza sospetta somiglianza di espressione.
§ XVIII, V. 6. Credo di aver osservato che quando Dante
trae dei confronti dagli Elementi, non avendo occasione di no-
minarli tutti quattro, sceglie la Terra e il Fuoco, forse perché
essi formano i due estremi. Per esempio: Conv. Ili, 111,8 segg., (') e
di nuovo Vulg. Eloq. I, xvi, 51, dove si legge per vero " magis....
in hac, [scil. minerà] (") quam in elemento; in igne quam in terra „.
Ancora, De Mon. I, xv, 38-48, dove questi elementi e loro pro-
prietà sono contrapposte nei termini di " glebae „ e " flammae „.
Qui abbiamo lo stesso caso, e la somiglianza è troppo sottile
per essere stata designata da un falsificatore.
(') " Gli elementi hanno un' affezione naturale in loro stessi per il proprio
luogo, e per conseguenza la iena discende sempre al centro; \\ fuoco s'innalza
verso il cielo della Luna. „
(-Ì Da notare che i minerali qui son distinti dagli elementi, come anche in
De Moit. I, iir, 49, e in Conv. Ili, in, 8-15.
- 36 -
^ X\'I1I, vv. 20 segg. Il seguente passo è al tutto saturo di
pensieri e di espressioni dantesche. In primo luogo noi abbiamo
la distinzione notevole tra Natura Uiiivcrsalis e Natura Particti-
/iris. Ho scritto una nota su questo soggetto nei miei Studi su
Dante, l, p. 155, alla quale rimando i lettori. Da questa appa-
risce che Dante nelle sue opere riconosciute impiega questa
distinzione, a vari scopi, non meno di quattro volte ('), e che
probabilmente la tolse da Alberto Magno. Io 1' ho trovata di poi
anche in S. Tommaso, S/iiiuna, I, O. 22, Art. 2, specialmente § 2
della CoticlKsio.
La causa che annulla la perfezione dei disegni della natura
(o di Dio) è la sordità della materia, [inobcdientiam matcriae)»
Questo non è per certo un pensiero peregrino; è però molto co-
mune altrove in Dante: ad es. Par. I, 129, XIII, 67-78; Conv.lW,
II, 30; VI, 60; vn, 20, 46, segg., IV, xxi, 77, 104; V. El. I, xvi,
46 segg.; De Moti. II, 11, 20-37 (e sitpra, v. 14).
In alcuni di questi passi (e specialmente nell' ultimo) si fa os-
servare che Dio, Natura ed Arte son situati per questo rispetto
similmente, " quod {scil. coelum) organum est artis divinae, quam
naturam communiter appellant „. Da confrontare De Mon., I, in, 18,
" Deus ae.'rriìiis arte sua quae natura est „ ed il passo ben cono-
sciuto dell' ////. XI, 97-105.
§ X\'1I1, vv. 29 segg. Abbiamo poi l'argomento, nei vv. 29-31,
che la perfezione richiede che tutte \e /orme possibili, di cui è
capace la materia prima, debbano diventare attuali e non rima-
nere potenziali o non sviluppate. Vedi di nuovo, qualche verso
più sotto ( V. 39): " Si oiiiues istae forìuae non cssent scnipcr in
actìi, motor coeli deficerct ab ititegritatc diffusionis Sìtae bonitatis ('),
(1) Cioè, Co)iv. I. VII, 54 seg. Ili, iv, 98 seg. IV. ix, 15-33, xxvi, 18-20.
(') Anche il concetto, che una tale attività non sviluppata sarebbe una dimi-
nuzione della difTusione della botttà di Dio — dove si poteva forse aspettare
piuttosto che fosse diminuito il potere o la perfezione dell' opera di Lui — è
uno di quelli familiari a Dante. Vedi De Mon. I, viii, 15-17: " Oituiii totum univer-
sum niliil aliud sii quam vestigium quoddani divinae bonilatis. „ Ed ancora ib. II,
II, 15 segg. " Es( enim natura in mente primi motoris, qui Deus est, deinde in
— 37 -
quoti ìioìi est diccndiim. „ Questo è precisamente l'argomento impie-
gato da Dante in Par. XXIX, 37, segg. per confutare V opinione
di San Girolamo, cioè che molti secoli siano trascorsi dalla crea-
zione degli Angeli a quella dell'Universo {T altro inotidu, v. 39),
e arguisce che non solamente la Santa Scrittura prova il con-
trario, ma la ragione dimostra che gli Angeli, i quali sono i
" motori „ dei Cieli e di tutte le Stelle e Pianeti, non dovreb-
bero essere rimasti tanto tempo senza la loro perfezione (vv.
43-45). Perché cosi le loro funzioni sarebbero rimaste dormienti ;
esistendo soltanto iv ^'rj-}.\yv. e non iv ivcoyì'.a, " qnod ìioìi est
diceiidiiiìi. „
Né questo luogo del Paradiso è il solo nel quale sia enun-
ciato siffatto principio e adoperato come argomento. Si ripete di
nuovo in De Moìi. I, ni, 24-29, e più particolarmente ib. vv. 73,
segg. " Siciit necessc est [scil. esse) ììiiiltitiidineiìi reriuii generabi-
liuììi, ut potentia tota materiae primae semper sub actu sit, aliter
csset dare poteiUiaììi scparataiìi, qiiod est ùìipossibilc „. E (come
coeh laiiqiiam in organo, quo mediante siinililudo bonitatis aciernae in Jlnilaniein
inateriani explicatur. Aggiungi Par. II, 130-8; xiii 52 segg., XXIX 16-18 e Conv.
Ili, VII, 11-13. " Ov' é da sapere che la divina bontà in tutte le cose discende; e
altrimenti essere non potrebbero „, e molti altri passi.
(') Nel Conv. IV, i, 64 Dante dice che nella sua gioventù si dilettava in modo
speciale di speculare sull'origine della prima materia degli elementi. La definizione
di prima materia data da Alberto Magno illustra il passo presente: " Substantia
in potestate existens et nullam omnino formam habens in actu „ (de Coelo et
Mundo I. Tr iir, e. 4). A maggiore illustrazione della dottrina della prima ma-
teria, come si trova nella Quaestio, § 18, si può aggiungere che S. Agostino fa
una distinzione uguale tra la prima materia e gli elementi. Esso ritiene che
la creazione della prima fu 1' opera del primo giorno, e che quella degli Elementi,
dell'Acqua e della Terra, fu rispettivamente opera del Secondo e Terzo giorno.
Oltre ad alcuni altri passi del De Genesi ad Literam, il seguente può esser
citato dal L. II, e. 24. Commentando la Gen. I, i, egli dice: " NihiI aliud his
verbis quam materiae corporalis informitateni insinuare [Scriptura voluit], eligens
eam usitatius appellare quam obscurius.... cujus iiiformitatem usitato, ut dixi, vo-
cabulo vel terrae vel aquae Scriptura praedixit „. Egli aggiunge che la creazione
degli Elementi (o species propriae) dell'Acqua e della Terra è indicata nelle
parole " Congregentur aquae et appareat arida „. S. Tommaso interpreta cosi
la opinione di S. Agostino: " Ideo per congregationem aquarum et apparentiam
aridae impressio talium formarum designatur „: (Stimma, I, Q. 69 Art. i ).
-38-
//. /. ) Averroes è citato a sostegno di ciò, ma da un' opera di-
versa, cioè " in Commento super iis quae de Anima „. Vedi pili
oltre De Moti. I, iv, 1-4.
È da osservare come in questo punto ed in altri della Oitaestio
si ritrovino i principi danteschi, naturali e facili, senza la minima
apparenza di esservi stati intenzionalmente intromessi, per la so-
luzione di problemi affatto nuovi.
Inoltre 1' espressione luotor codi è usata esattamente come in
De Alon. I, ix, io segg. " Et (jiitiiii coclitiii ioti un unico luofii,
scilicct primi viohilis, et unico motore, qui Deus est, regiilctur in
omnibus suis partihus, motibus, et motoribus, ecc. Cfr. Par. II,
127-132. Ed anche in Ep. X § 20 init., il primo verso del Pa-
radiso
La gloria di colui che tutto move
è parafrasato cosi: gloria primi moforis, qui Deus est, ecc.
Quindi abbiamo la dottrina familiare a Dante delle complessioni
ovvero qualità, che, essendo aggiunte alla semplice forma della
materia prima, producono le differenti specie di esistenze mate-
riali o corporali. " formae materialcs generabiliuni et corruptibi-
lium „. Tutte queste forme di esistenze, eccettuati gli elementi
stessi, implicano una miscela o combinazione di qualità. La
causa finale degli elementi è per servire lo scopo di queste
" miscele „ e render cosi possibile tutte le varie forme di esi-
stenza corporale. Da questo punto di vista le forme di esistenza
che ne resultano son descritte come mixta e gli elementi stessi
come miscibilia. Evidentemente (seguita l'argomentazione) non
vi può esser mixtio, a meno che le miscibilia possano venire in
contatto, onde la necessità che vi debba essere nell' universo
un qualche punto comune di riunione per tutti gli elementi. Ma
questo non potrebbe accadere, se la terra in un punto o nell'altro
non s' innalzasse dall' acqua ('), poiché cosi, e soltanto cosi,
(') Questa è dunque la causa finale della parziale elevazione della Terra,
V. XIX, V. 6 e XX, V. 6.
— 39 —
possono la terra, 1' acqua, 1' aria ed il fuoco trovare un comune
punto di contatto. Se invece questo punto non esistesse, allora
diverse tra le forme di esistenze corporali non si potrebbero mai
sviluppare e rimarrebbero " potenziali „ soltanto, e non " /// adii „,
" (]iio(l non est ci ice nd uni „.
Ma poi, come si può egli adempiere questo scopo della Na-
tura Universale? (') La Natura Particolare o, come vien detta qui,
Simplex Natura, della Terra si deve muovere solamente all' iiigii't.
Perciò vi deve essere in essa qualche altra influenza [alia natura) (■),
per controbilanciarla e renderle possibile di alzarsi, " ut mixtio
sit possibilis „ {§ 19, V. 6), e raggiungere in questo modo il fine
della Aratura Universale. Cosi essa diventerebbe capace fuor di
sua natura (') di innalzarsi parzialmente {"'), per mezzo della in-
fluenza dei cieli " tanqitani obedicns a praecipicnle „ (") ( v. 60).
Finalmente questa tendenza verso 1' alto, controbilanciando la
" naturale „ tendenza verso il basso dell' elemento Terra, vien
illustrata dal caso parallello della stessa natura umana, che gli
appetiti e le passioni spingono naturalmente all' ingiù. Pure
quando essa si sottomette alla ragione può sfuggire alla sua
propria tendenza (" a proprio impelli retrahuntur „). Ognuno a
cui sia familiare il Convito e il De Monarchia deve riconoscere
come tutto questo sia completamente dantesco. Il sitbicctinn mi-
(') Cfr. Conv. Ili, iv, 98: " la Natura Universale, cioè Iddio „.
(^) Cfr. il modo in cui 1' espressione a.'ù:<] r:; yJTt^ t?; Vu^vf; è usata in Nic,
Etli. \, XII r, 15, e V. pure § 19 w ^, dove Matura qaedani è ugualmente contrap-
posta a simplex uatura.
(•') Come dice Dante nel caso inverso di fuoco cadetile da una nuvola in
Par. xxiii, ^2.
(■*) Vedi anche § 19, v. 20 dove quest'espressione m />ar/f è spiegata ancora
meglio dall'asserzione che la " Terra emergit per gibbum, et non per centralem
circulum circumferentiae „. Cosi la terra eniergeits forma un rigonfio o escre-
scenza sulla regolare circonferenza dell'elemento terra, la cui parte maggiore é
nella sua posizione naturale sotto la sfera dell'acqua. È importante l'insistere su
questo punto, come si legge al v. 7: " Secundum haec salvatur concentricitas
terrae et aquae „.
(■') Cfr. C07-SO toj 7Ta7,'yC5 izo'jiTtziv t: Nic. Etli. I, XIII, 19, notando soprattutto
che Aristotile parla qui della pars coiiciipiscibilis. Vedi § XVIII, v. 62.
— 40 -
xtiim et coiiiplcxi'onattiìH rammenta la dicitura del De Mon. I, ni,
49, dove i minerali son distinti dagli elementi e son detti coni-
plcxioiaia (M. Vedi anche Cotiv. HI, iii, 14, dove i minerali sono
dati come i più semplici esempi di carponi coiìiposfc, e confronta
il termine corpo misto ib. v. 45. Inoltre le tendenze in alto e in
basso delle differenti parti della natura umana ci son familiari
in Dante dal Conv. Ili, m 41-91 e dal Viilg. Eloq. II, 11 46-55.
Il termine speciale proprius impctns qui ci rammenta l' impeto
primo del Par. I, 134; ma V impeto primo di quel passo contrasta
col proprius impctus delle parti speciali della nostra natura, a cui
qui si riferisce. Quest' ultimo corrisponderebbe piuttosto al falso
piacere del passo citato del Paradiso. Vedi tutto il contesto,
vv, 130-135, dove è espresso lo stesso conflitto che è indicato
nella frase della Quaestio, quantunque il risultato del conflitto sia
differente nei due casi. L' impeto primo non deviato può esser
illustrato dai bellissimi luoghi del Par. IV 124-132 e Conv. IV,
xii 140 segg.
In grazia delle accurate ricerche dei professori Luzio e Renier,
per ciò che riguardo il carattere e le attitudini del Moncetti, ri-
tengo il medesimo più capace d' inventare un altro canto della
Divina Commedia, che di falsificare questo diciottesimo paragrafo
della Quaestio.
§ XIX. Sarebbe impossibile di dare un' idea più esatta e più
concisa del sistema geografico di Dante, o più dantesca nel
linguaggio e nell' espressione, che quella contenuta in questo pa-
ragrafo. Nello stesso tempo non vi posso scorgere né una copia
diretta, né un incastonatura di singole frasi, quale sarebbe stato
(') Il passo difficilissimo del Par. VII, 139 segg. dovrebbe altresì essere con-
frontato. In esso abbiamo, gli Angeli e 1' Anima Umana descritti come emananti
direttamente da Dio (v. 124), all' opposto degli elementi, delle cose combinate da
tali Elementi (vv. 133-134), e delle anime delle piante e dei hv\ìt\ (di complession
potemiaia, vv. 139-140), cose tutte che vengono ad esistere per mezzo di un
atto creativo separato, o per la influenza sviluppatrice di ciò che è già stato
creato. I primi sono conseguentemente (come se ne arguisce) immortali, mentre
gli ultimi non sono tali. Con ciò si può confrontare l' argomentazione in De
Mon. I, iir 60-62.
— 41 —
tentato di fare un falsificatore dal notorio capitolo quinto del
Terzo Trattato del Convito.
§ XIX, V. 69. Il riferirsi alquanto sprezzantemente alla donna
nelle parole " sicnt lìiatiifcsliiiii esse potcst ctiani uiitlicribits „
è (bisogna ammetterlo con dispiacere) affatto dantesco. Nella
introduzione del De ì^ulg. Eloq. Dante giustifica lo scopo che
si prefigge, per la ragione, che una lingua comune è indispen-
sabile a tutti e " non solamente gli uomini, ma anche le donne
ed i fanciulli si sforzano di conseguirla per quanto la natura
permette „! ( l'^idg. Eloq. I, i 6-7). Nel e. IV delio stesso Trat-
tato Dante crede che la lingua parlata sia uscita dapprima
dalla bocca dell'uomo, piuttosto che da quello della donna, quan-
tunque il primo detto ricordato nella Bibbia sia quello " della
presuntuosissima Eva „ ('). Non è conveniente supporre (" incon-
venienter putatur „ ) che un atto cosi nobile, qual' è il favellare,
sia per la prima volta derivato dalla donna piuttosto che dal-
l' uomo. Ed anche confronta il Conv. IV, xix segg., dove, dopo aver
citato il detto di Aristotile che cti^ùìc sia fuor di luogo in uomini
nel fior degli anni e di carattere elevato, perché questi non deb-
bono mai far cosa da sentirne vergogna, Dante dice che questo
non può applicarsi ai giovani o alle donne, perché a loro non si
richiede tanto a questo riguardo (vv. 88-89). Inoltre nell' £"/». X,
§ IO, vv. 224-225 il linguaggio della Commedia è detto " remis-
sus et humilis, quia loquutio vulgaris, in qua et mulierculae com-
municant „ (").
§ XX, v. 27. La menzione che si fa qui degli eclissi solari,
come resultanti dall' interposizione della Luna tra la Terra e il
Sole, rassomiglia ad un passo del Conv. II, ni, 57. Là il fenomeno
è ritenuto come prova del fatto della posizione della Luna, qua
la scoperta di questo fatto per questo mezzo è data per illustrare
(1) Cfr. Pitrg. XXIX, 24-30.
('-') Ristoro d'Arezzo (un monaco) scrive in questo stesso senso: " questa
lana, a cagione di sua viltà, potremo dire per ragione ch'ella sia femmina! „
(L. Ili, 7).
- 42 —
la maniera con la quale si arriva alla conoscenza per lo stimolo
di indagini procedenti dagli effetti alle cause, o per il desiderio
di poter spiegare cose insolite. Questo processo viene esemplifi-
cato dalla questione attuale, cioè l' investigazione della causa
dell' elevarsi della terra. Segue un' argomentazione affatto dan-
tesca: Questo sollevamento non può esser dovuto a nessuno dei
quattro Elementi, Terra, Acqua, Aria o Fuoco, per varie ragioni ;
resta dunque, che esso (sollevamento) si debba al Cocliim, pro-
babilmente essendo la quinta csscjitia, che è anche variamente
designata, come Adlicr o Coclmii. (Vedi dichiarato ciò nei
miei Studi I, pp. 124, 3oo)('). Dunque, siccome vi sono diversi
Cieli, a quale si deve attribuire quest'influenza di elevazione?
Non a quello della Luna, perché agirebbe ugualmente sopra i
due emisferi. Qui è sottinteso chiaramente l'assenza di terra nel-
r emisfero meridionale, alla quale Dante si riferisce cosi spesso,
quantunque non 1' affermi in nessun luogo esplicitamenti.\
La declinazione uguale dall' Equatore al Nord e al Sud nel
caso della Luna (come è in seguito asserito) è descritta cosi da
Alfragano: " Eccentrici Lunae planum.... a zodiaci plano deflectit
ad septentrionem et austrum declinatione rata et immutabili „
(e. xviii, p. 68). Il contradittore quindi parrebbe dovesse sostenere
che l'eccentricità dell'orbita della Luna sia la causa per cui essa
eserciti questa influenza elevatrice tanto maggiore nell' emisfero
settentrionale. L' autore risponde a ciò, che se si tenesse conto
dell' eccentricità dell' orbita della Luna, (■) la sua influenza sarebbe
maggiore nell' emisfero meridionale che in quello settentrionale.
Questo implica che essa è più vicina alla terra dalla parte meridio-
nale dell' Equatore. Non ne trovo alcuna traccia né in Afragano,
(') A questi passi possiamo aggiungere Sacrobosco, de Sphaera, I, e. 2:
" Circa elementarem quidem regionem aetherea regio, lucida ab omni variatione
sua immutabili essentia immunis existens, motu continuo circulariter incedit, et
haec a Philosophis quinta nuncupatur essentia. Cuius novem sunt sphaerae „ ecc.
quindi i nove Cieli sono enumerati nell' ordine consueto.
(-) Che r orbita della luna sia eccentrica è ritenuto fuor di dubbio anche nei
§§ 7 e 23.
" 43 -
né altrove ; ma se fosse aftermato in qualche luogo che I' eccen-
trico centro dell' orbita della Luna fosse al Nord del centro
della Terra, ne risulterebbe naturalmente la conclusione sopra
accennata.
Alfragano (e. XXI) ci dà il ììiiiiiiiiinii e il niaxiniiiin della
distanza della Luna in 109,037 e 208,542 miglia rispettivamente,
quest' ultima corrispondente al Jìiininiinn della distanza del pros-
simo cielo, cioè quello di Mercurio (e cosi nel caso dei Cieli
successivi). Ma io non ho trovato nulla che implichi che il nii-
jiiniinn della distanza, o Perigeo, fosse associato colla sua posi-
zione al Sud dell'Equatore, come sembra sottinteso nel testo.
Era conosciuto per certo, che il sole è in fatto più vicino alla
terra quando si trova nell' emisfero meridionale di essa o, tecni-
camente parlando, che il suo Perigeo accade allora, mentre si ha
il suo Apogeo quando esso è al Nord dell' Equatore ('). Sembra
probabile che si sia creduto che questo fosse applicabile anche
alla Luna, nel qual caso si avrebbero le condizioni contenute nel
testo. Inoltre le parole d' introduzione del § 21 sembrano estendere
le Slesse conclusioni anche ai Pianeti. Evidentemente un tale
Apogeo e Perigeo fisso è fuor di questione nel caso dei Pianeti,
giacché essi di fatto non girano intorno alla terra. Ma siccome
Dante se li immaginava giranti tutti cosi eccentricamente, non
vi è nulla prima facic d' impossibile nella supposizione di un
Apogeo e di un Perigeo fisso, quantunque non si sia potuto mai
verificare né confermare con 1' osservazione.
La credenza sembra però essere stata alquanto persistente,
giacché troviamo Galileo, nelle sue Opere Astronomiche (voi. II,
p. 87, ed. 1843) combattere un' obiezione al sistema copernicano,
basata suU' asserzione che Copernico sosteneva un apogeo fisso
di Venere, mentre " 1' auge di Venere non è immobile come il
(') V. Ristoro d'Arezzo, L. I. 23: " sotto la rivoluzione dell' opposito del-
l'auge (Apogeo) del sole, lo quale è quasi 18 gradi in Sagittario; imperciò che
il Sole, stando in quel punto, va più presso alla terra che in nulla altra parte „.
Cosi dice anche Ruggero Bacone, Op. Maj. P. IV, e. iv (I, p. 137): " Oppositum
augis (cioè Perigeo del Sole) est in Sagittario „.
— 44 —
medesimo credette „. Nel caso della Luna l'opinione di un Apogeo
fisso è ugualmente erronea.
§ XXI. La possibilità deli' influenza di ciascuno dei Cicli pla-
netari è dunque esclusa da queste considerazioni, e da quella del
Pn'ìiiiiiìi ììiobilc col suo carattere assolutamente equo ed omo-
geneo ('), cosicché non avrebbe potuto influenzare un emisfero
pili dell' altro. Ciò ci conduce per mezzo di un processo di esclu-
sione air ottavo Cielo Stellato, il quale ha una varietà di stelle
e di costellazioni, e conseguentemente esercita vari gradi di in-
lluenza nelle sue varie parti. Questa è precisamente la dottrina
espressa da Dante in Par. II. 115- 138; dove possiamo notare
specialmente i vv. 115-117:
" Lo ciel seguente, ch'ha tante vedute,
Queir esser parte per diverse essenze
Da lui distinte e da lui contenute.
II parallellesimo è spesso molto stretto. Cfr. i vv. 1214 con
Par. II, 130-138; i vv, 14-17, con Par. 64-66, 115-117, 137 segg.[;
i vv. 16-17 con Par. 70-121. (Cfr. § XX, v. 59); il v. 25, con
Par. 139.
Da notarsi altresì 1' uso simile di vultiis, nella citazione tolta
da Tolomeo (v. 30), con volti usato nel Par. II, 66.
Non dobbiamo mancare di osservare come lo scrittore ritiene
essere l' opinione dell' influenza delle stelle cosi fondamentale e
fuori di ogni questione possibile, che egli vi applica (implicita-
mente) il dicliim ben noto di Aristotile, ^) che coloro che negano
principi fondamentali sono fuor di corte in argomento. Questa
credenza per vero primeggia talmente in diverse opere di Dante,
ed egli vi insiste per modo, che non vai la pena di illustrarla
con citazioni. Un passo solo può bastare, nel quale (come qui)
essa è affermata come una verità quasi assiomatica. Vedi Conv. II,
XIV, 27 segg. " Della quale induzione.... cioè della generazione su-
(') Si può confrontare ciò con Par. XXVII, loo e loi, De Moit., \, ix, il.
(*) Cfr. supra § XI, v. 9; Conv. IV, xv, 162; De Mon. Ili, iir, 122.
- 45 —
stanziale, ////// / filosofi concordano clic i cicli sono cagione, avve-
gnaché diversamente questo pongano „.
§ XXI, V. 27. La superiore efficacia e influenza delle Stelle
nella vicinanza dell' Equatore, che è sottintesa nei vv. 25-29, ed
ancora esemplificata dal caso discusso nel \^ 40 e segg., verrebbe
spiegata da più di un passo in Dante. Vedi specialmente Conv. II,
JV, 75. " Onde le stelle del cielo stellato son più piene di virtù
tra loro, quanto più sono presso a questo cerchio ,, {scil. lo
cerchio equatore, cfr. ih. vv. 85-86). Qui di nuovo, nel nostro
testo, notiamo che non vi è direttamente né manifestamente ripe-
tizione di questo o di qualsiasi passo precedente. Non è asserito
assolutamente (come con tutta probabilità avrebbe fatto un falsifica-
tore), che vi è questa superiorità di influenza nelle Stelle Equi-
noziali; le parole sono semplicemente queste: " alia virtus est „,
( V. 27) e ancora al v. 40, la più grande intensità d' intluenza non
è formalmente espressa, quantunque noi comprendiamo che essa
è " in fondo alla mente dello scrittore „. Questa non è opera di
un falsario.
Le proposizioni alternative e affatto scevre di carattere scien-
tifico dei vv. 42-46 possono essere raccomandate a coloro che
immaginano meravigliose anticipazioni di teorie fisiche moderne
nella Quaestio. In una di queste alternative possiamo ritrovare la
familiarità dell'autore colla strana opinione di Aristotele, che qual-
cheduna delle montagne abbia avuto origine dalla forza espulsiva
dei vapori che si spingevano all' insù nelle viscere della Terra.
Questo si trova in una parte del Mctcor., che era per certo
ben conosciuto da Dante, come già ho dimostrato nei miei Studi
I, pp. 130-131 ecc. Vedi ancora la lista dei passi del Mctcor. II,
citati neir indice della stessa opera, a pag. 336.
§ XXI, vv. 47 segg. Ho di già parlato (vedi pag. 21) della
supposta difficoltà che involge il movimento delle acque nella
marea, essendo questo di elevazione (" motus rectus „ § XII,
vv. 40-42) e non circolare, quantunque sia cagionato dal Cielo
della luna, e indicato come " imitante „ il detto Cielo che ha movi-
mento circolare. (Vedi §§ VII e anche xxiii vv. 49 segg. ) Questa
-46 -
supposta anomalia è trattata specificatamente nel §xxin, ma qui si
obbietta la stessa difficoltà per ciò che riguarda il limite della
tetra asciutla a i8o'' di longitudine (vedi su questo il § XIX).
Se questa elevazione è cagionata (come si sostiene qui) dall' in-
fluenza dell'ottavo Cielo, il cui movimento è circolare, perché
(si obbietta) l'elevazione non è anch' essa circolare? Vale a dire,
perché vien limitata a i8o'' tra i 360''? La risposta data è vera-
mente sorprendente: " quia materia non sufficiebat ad tantam
elevationem! „ In altre parole, " non vi era materia abbastanza
per andar pili oltre „.
La grossolana e quasi sprezzante audacia di una tale spiega-
zione, specialmente quando la troviamo posta- come punto di par-
tenza per una solenne denunzia di quelli che son troppo presun-
tuosi per indagare la ragione delle cose, (')
Qual più a riguardar oltre si mette,
è cosi sorprendente e originale, che non saprei concepire come
un falsificatore potesse essere tanto sfacciato da inventarla. Nel
tempo stesso non solamente lo spirito di essa è affatto caratte-
ristico di Dante, ma anche la stessa bizzarra dottrina è illustrata
dall' lìif. XXXIV, 121-126, dove si dichiara che la terra asciutta,
che ora si è radunata nell' emisfero settentrionale, era originaria-
mente in quello meridionale. Lucifero, quando venne espulso dal
cielo, vi cadde, ed essa dal timore di lui si copri del mare a
guisa di velo e " venne al nostro emisfero „.
Da questa parte cadde giù dal cielo:
E la terra che pria di qua si sporse
Per paura di lui fé' del mar velo,
E venne all'emisperio nostro.
Ciò implicherebbe in fatto che non vi fosse materia sufficiente
per ambedue.
Ma questo non è tutto, dobbiamo notare inoltre il principio
contenuto nell' obiezione trattata qui, e nuovamente nel § XXIII,
(•) Furg. XXIV, 61.
— 47 -
vv. 49 segg., giacché esso era ben familiare a Dante e sembra
che sia stato accettato da lui come una verità. \'^edi Coiiv. Ili, ii,
35-41 : " Onde conciossiacosaché ciascuno effetto ritenga della
natura della sua cagione, siccome dice Alpetragio, quando afferma
che quello eh' è causato da corpo circulare ha in alcuno modo
circulare essere „ ('), Ed anche Coiiv. IV, xxiii, 47 segg. " Cia-
scuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine della sua
cagione, quanto è più possibile di ritenere „. L'applicazione
del principio che segue è meritevole della nostra più grande
attenzione. Tutta la nostra vita riceve la sua forma dall' in-
fluenza dei cieli, ma questa influenza non si effettua per mezzo
di un cerchio completo {cerchio compiuto), ma soltanto per mezzo
di quella parte dei cieli che trova al di sopra di noi, cioè un
scmicercliio formante un arco; conseguentemente Xtì vita dell' uomo,
come quella di tutte le altre creature, rassomiglia a un arco!
" convengono essere quasi ad immagine d' arco assimiglianti „.
In questo strano argomento osserviamo il principio preciso, il
cui riconoscimento cagiona la difficoltà di questo passo, vv. 47-49,
ed anche del § XXIII, vv. 49-52. Il nostro autore ne ammette
qui la forza e sente che abbisogna di una risposta (").
Quale falsificatore avrebbe voluto perdere 1' occasione di richia-
mare l'attenzione sul principio generale, che non sarebbe troppo
evidente ai suoi lettori, e sul quale riposa tutta l' efficacia del-
l'obbiezione? A Dante stesso non ne occorre la necessità.
(') Cfr. l'espressione del Par. Vili, 127 " La circiilar uaiiira eh' e suggello
Alla cera mortai „.
('-) Se abbisognassero maggiori prove per dimostrare la familiarità di Dante
con questo principio, si confronti De Mon. I, xiii, 13 segg. " Nihil igitur agit,
nisi tale existens, quale patiens fieri debet; propter quod Philosophus.... Omne,
inquit, quod reducitur de potentia in actum reducitur per tale existens in actu „.
E la Caiisoite, iii, 52-53.
Poi chi pinge figura
Se non può esser lei, non la può porre.
E ancora Couv. IV, x, 80-82: " tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene
essere prima quella perfettamente in quello essere. „
-48-
Osserviamo poscia il punto pai'ticolarc, nel quale si suppone
consistere la pìrsunzioìic. Sta forse nel dimandare pcrclic l'eleva-
zione avverrebbe al Nord piuttosto che al Sud? e tale domanda
è presuntuosa per il fatto che implica l'altra: perche vi sono più
stelle nell'emisfero settentrionale che in quello meridionale? Ciò
sarebbe come, dice Aristotile, se si domandasse perché i cieli girano
dall' Est all' Ovest e non dall' Ovest all' Est. Vedi vv. 55 segg.
(cosi in Coiiv. II, \"i 148 segg. Dante ritiene del pari oggetto di
presunzione l' indagare la causa precisa della rivoluzione del
Priìììuni Mobile). Poiché non si può dubitare (dice in questo
punto lo scrittore), che se parve a Dio ben fatto, che la Terra
fosse elevata da questa parte, perché era meglio che fosse
cosi (v. 68), Egli ordinasse che le Stelle, per mezzo della cui in-
fluenza questo resultato fu ottenuto, fossero situate in modo da
ottenerlo: " simul et virtuatum est coelum ad agendum et terra
potentiata ad patiendum „ (vv. 70-72). Vedi anche vv. 34-36:
" quod similitudo virtualis agentis consistat in illa regione coeli
quae operit hanc terram detectam „.
§ XXI, fiìi. V, 70. È da osservare finalmente la tacita opinione,
che i cieli e la loro influenza forniscano l' istrumento, ovvero la
causa efficiente, per mezzo della quale gli intendimenti di Dio
nel mondo vengono naturalmente attuati. Questo è chiaramente
il principio generale implicito qui, quantunque non vi sia intro-
dotto. Quanto ciò sia dantesco può vedersi dal De Moii. II, n,
15 segg. " Est enim natura in mente primi motoris, qui Deus
est, deinde in coclo ianqnam in organo, quo mediante similitudo
bonitatis aeternae in fluitantem materiam explicatur „ ('), ed
anche ib v. 25: " quum Deus ultimum perfectionis attingat, ^/ /;/-
strwnentum ejus (quod coelwn est) „ ecc.; e ib. v. 31, vien di-
chiarato che ogni mancanza di effetti è " praeter intentionem
Dei naturantis et codi „. Vedi anche Ep. V § 8, dove Dante af-
ferma, come qualche volta Dio impieghi degli agenti umani per
conseguire dei resultati che sembrano al di là di ogni sforzo
(') Citato sopra, ad altro proposito a p. 37, n.
— 49 —
umano, ed in questo caso esso opera " per homines, tanqnoni
per coclos iiovos (').
§ XXII. Certamente è affatto nello spirito di Dante la de-
nunzia della presuntuosa speculazione, dal § XXI, v. 54 in avanti,
come pure il pio riconoscimento della Sapienza Divina e della
Divina Provvidenza rivelate dal Fenomeno dell' Universo. Da
confrontarsi Couv. III, v, 196 segg., IV, xxi, 49, segg.. Par. X,
13-21 e parecchi altri luoghi. In fine il linguaggio adoperato
nel § XXII si può confrontare con quello del Conv. IV, v,
7-10, 69-79; De Mon. II, XI, 64, segg., xiii 59; Ep. X § 28,
vv. 531-569, ecc. Neil' Ep. X § 2, v. 36. " Spiritum Sanctum
audiat „ può essere paragonato con la frase " audiat propriam
Creatoris vocem „ ecc. //. /. v. 19.
§ XXIII, vv. 25-38. Farmi degno di esser notato, come un
falsificatore dovesse esser tentato di ripetere alcun che del lin-
guaggio o delle spiegazioni o delle citazioni aristoteliche del Conv.
IV, vm, 42-83, dove è trattato diffusamente questo medesimo
soggetto della fallacia della prova dei sensi. Ma di questo non si
trova alcuna traccia.
§ XXIV. Ho già ammesso che non son premuroso di sostenere
r autenticità dell' cxplicit, come sta, quantunque non veda difficoltà
veruna per accettarlo. È per 1' appunto questa parte quella in cui
la licenza dell'editore avrebbe uno scopo più naturale (confronta
la sottoscrizione delle Epistole di S. Paolo ) ; ma contiene una
deliziosissima punta di sarcasmo, sotto ogni rapporto degna dello
stesso Dante, contro quelli del clero veronese che non si cu-
rarono di assistere a questa conferenza. (Vedi vv. 7-13). Gli
assenti sono persone che non vogliono né accettare le pro-
posizioni fatte da altri, né venire ad ascoltare ciò che quelli
hanno da dire. A riguardo di quest' ultimo punto vengono de-
scritti come uomini di una tale profonda umiltà questi " Spiritus
(') Si potrebbe forse confrontare con questa un' espressione di Alberto Magno
quando parla degli effetti [virtiites) delle differenti località sulla generazione.
" Philosophi.... praecipiunt considerare virtutes locorum quasi stellas secundas „.
De Nat. Locontin „. Tract. II, Cap. i /in. ( v. p. 280).
E. MODRE. 4
— 50 —
Sancii pauperes „ ('), che per evitare sino 1' apparenza di rico-
noscere il merito — negli altri — ricusano di essere presenti ai
loro discorsi. La concezione originale di una falsa umiltà, che rifiuta
di riconoscere il merito ìicg/i altri, la quale umiltà infatti gli uo-
mini addimostrano per mezzo di " un sentimento interno delle
imperfezioni altrui „, può bene essere scaturita dalla penna di
colui che chiede scasa ironicamente di rivolgersi ai Cardinali,
quantunque laico, " vedendo che non abuso di nessun ufficio pa-
storale, perche non ho ricchezze „ (').
Io non ho trovato altrove (quantunque sembri essere in ar-
monia col pensiero medievale) che la nascita del nostro Signore
come pure la sua Risurrezione siano avvenute di Domenica (vedi
V. 17). Si può aggiungere che il 20 gennaio del 1320 cadde ap-
punto di Domenica, cioè la Seconda Domenica dopo 1' Epifania.
2. Passiamo ora al Parallellisnio nelle singole espressioni.
A queste rassomiglianze di pensiero e di opinioni con quelle
di Dante aggiungerò alcuni parallelismi, tra i molti che ho os-
servati, nello stile e nelle espressioni particolari. Quantunque la
presenza di tali rassomiglianze non provi esser Dante l' autore,
perché 1* imitazione di questi punti sarebbe facile, però la loro
assenza sarebbe importante per negarlo addirittura, e (come ho
già notato altrove) se Dante fosse in realtà il vero autore, esse
vi sarebbero certamente.
Debbo osservare, forse, di volo, 1' uso proprio del verbo existere
per l'ordinario verbo sostantivo, come in I, v. 2; V, v. 8; XIX,
V. 45; XXIIl, V. 29 ecc. Cosi usato trovasi ripetutamente nel
De Mon. (e i passi son troppo numerosi per poterli citare), e
di nuovo nel De Vttlg. Eloq. I, xv, 12, etc. Ma io non annetto
molta importanza a questo, perchè ho riscontrato che non è
cosi raro negli scrittori di quel tempo.
(') Cfr. l'espressione pauperes Dei in Par. XII, 93; e pauperes Chrisli in De
Mon. II, XII, 4 e III, x, 130; e con la frase minia cavitate ardentes ( v. 8) con-
fronta l'altra, caritate arserunt, del De Mon. Ili, iii, 67.
(') Cfr. Ep. Vili § 5, vv. 72-73.
- 51 -
i^ I\', \-. 6. L' uso dell' attivo continenti e parallelo a quello
del passivo contento in /;//. II, 77 e Par. II, 114.
§ \, V. 13, dorso maris Cfr. Conv. Ili, v, 83, 94, (/osso de/ mare.
§ \ 1, V. 3 (e altrove) terra detecta; Conv. Ili, v, 73, terra
discoperta.
§ XI, /;///. Ad cvidctiani igitnr dicendornni duo snpponenda
sunl. Confrontare Vu/g. Eioq. II, 11, 46: Ad quorum evidentiam
sciendum est qnod ecc.; e De Moti. Ili, iv, 45, 46. Ad me/iorem
ìiujus et a/iarum factarum so/utionum evidentiam, advertendum ecc.
§ XII, v. 28. La singolare espressione g/eba terrac che si
trova qui, può essere confrontata con quella del De Mon. I, xv,
38, dove si ha p/urcs g/ebas in contrapposto con plures f/ammas,
designandosi cosi gli elementi Terra e Fuoco.
§ XII, V. 36, rideret Aristotctes si audiret. Cfr. Conv. IV, xv,
59. Senza dubbio forse riderebbe Aristoti/e udendo.
§ XV, 66. Questa designazione strana e semi-poetica, del-
l' Oceano come Amphitrite, si ritrova di nuovo in Ep. VII, § 3,
V. 58, fluctus Amplìitritis attingens {').
§ X\'III, V. 46. L' uso del termine strettamente tecnico " co)ìi-
p/cxionatuìH „ come in De Mon. I, ni, 49, è stato ricordato
sopra a p. 40.
§ XIX, V. 63. Con ve/ quasi che equivale a un dipresso cfr. Par.
I, 44, Ta/ foce quasi, precisamente nello stesso senso.
§ XX, vv. 42, 48. La frase ripetuta più volte per se loqiiendo
si trova parimente in De Mon. II, vi, 26.
§ XX, V. 58. ìiabcat reduci. Questo curioso costrutto latino
trovasi di nuovo in De Mon. III, xii, 60, 87, 90, 100. E l'ho no-
tato ancora in De Vu/g. E/oq. I, 111, 17, " cum (se. genus huma-
num) aliquid a ratione accipere habeat „.
Nel § \' e di nuovo nel § X\'III Averrocs è citato semplice-
(M Probabilmente seguendo la fraseologia di Alberto Magno, che designa di
frequente 1' Oceano col nome di Anfitrite; p. e. Meteor. II, Tr. II, e. 12 init. " aquae
sive siut tu AtJiphittite, site siut in coicavitatibus „. Ed anche ibid. e. vi, De Aat.
Loc. Tr. I, e. 9 ecc, In Meteor. II, Tr. in, e. 9 noi leggiamo: " AwphUrix (sic»
tst ergo locus proprtus et p>rimus onìutuììi aquaruìtt „.
— 52 —
mente come Comnicn/ator. Da paragonarsi con Coiiv. IV, xiii,
68, chi intende il Comoitatore nel terzo dell'Anima. In De Mon. \,
III, 76 troviamo una forma alquanto differente di citazione: " Aver-
rois in Connnento super iis qnae de Anima „. In questi due passi,
come pure nel § \', è citato il medesimo Commentario di Aver-
roes sul de Anima, sebbene i passi citati siano differenti, mentre
nel § XVIII è \xx\' opera diversa a cui l'autore si riferisce. Il re-
sultato generale è ancora di dimostrare una familiarità con le
opere di colui " che il gran comento feo „, ed un'analogia nella
forma delle citazioni, senza che vi sia alcuna ripetizione di esse.
Nei §§ VI e XXIII, s' introduce una citazione da Aristotile colla
formula " nt patet per philosophnm in Meteoris siiis. „ Possiamo
confrontare con questo Ep. X, § io, v. 229, " nt per Horatiitni pa-
tere potest in sua Poetica „; e § XXXIII, v. 614, " id patet per Io-
hanncm ibi „ (Cfr. § VII, v, 141). Vedi ancora De Mon. Ili, vn, 19,
" id patet ex iis qnae de Syllogismo simpliciter „/ Ep. X, § io, v.
202, " ut patet per Senecam in suis Tragoediis „; v. 205, " ut patet
per Tcrentiimi in suis Comoediis „; e spesso altrove. In fatti, l'uso
di patet in una gran varietà di frasi deve colpire tutti coloro
che leggono le opere latine di Dante. Pure quantunque si ripeta
molto spesso in questo Trattato, ho trovate di rado ripetute
esattamente queste frasi: p. e. O. XV, 24; XIX 70, cfr. con
De Mon. II, vi, 67, ecc.
Sotto questo paragrafo si può notare la somiglianza esatta della
costruzione degli argomenti, dei loro particolari tecnici, e delle
loro formule logiche, con quelli del De Monarchia, e per vero
anche del Convito, tenuto conto della differenza della lingua in
quest' ultimo caso. Da notarsi l' uso frequente di instanlia, £V7T«7tc,
[IX, v. 8 ('), XVIII, V. I, XIX, V. 3, ecc. e cfr. De Mon. II, vi,
67, III, V, 35: Cotw. IV, XXII, 98 ecc. Noi abbiamo instanzia
ancora usata cosi nel Par. II 94I, distinctio [cfr. De Mon. Ili, iv.
(') Si osser%'i ancora /i. /. l'uso singolare del verbo instare corrispondente a
questo: " Instabitur centra dcinostrata, et solvetur instantia „ e si confronti col
passo del De Mon., Ili, vir, 23: " si quis instarci de vicarii aequivalentia, inu-
tilis est iìistartlia „.
— 53 —
126, vili, 15 ecc. 1, dcli'nitiiiatio (§ XI, v. 8), iiitcrciìiptio, solvere e
dissolvere rutiones o ari^inneiita. Tutto questo è cosi familiare ai
lettori del De Monarchia, che un' illustrazione speciale non è ne-
cessaria. Da notarsi anche le foriìiitlae per la chiusa di un' argo-
mentazione, come: /// de se potei \(J. § Xl\', v. 8 e De Man; 1, viii,
28, 111, II, 25 ecc.] /// potei intuenti [O. § X\'lll, v. 54, cfr. saprà,
p. 34] ovvero, sicnt niani/estiini esse potest [O. § XIX v. 69, pa-
ragonato con De Man. 1, iv, 30; xii, 38J. Ed anche si con-
fronti il ripudio brusco di un argomento contrario in De Alon.
Ili, xi, 14: Dico qnod niliil diettnt, con § XXlll, v. 11: dico qnod
non est veruni. Aggiungi a questo anche § XXllI^ v. 40: dico
qnod ilio ratio fnndotnr in falso; et ideo nihil est; e v, 45: sed
istitd est valde puerile, ecc. Si confronti ancora concedo ininoreni
in § xxin, V. 16 con la medesima formula in De Mon. Ili,
vili, 23.
Queste somiglianze, o molte di esse, potrebbero esser senza
dubbio facilmente opera di un falsificatore, ma, come ho già
fatto osservare, ciò non è in se stesso un argomento per contro,
giacché vi si troverebbero certamente, se 1' opera fosse autentica.
Ma noi siamo anche colpiti non tanto dalla ripetizione mecca-
nica di frasi identiche, quanto dalla stretta somiglianza della ma-
niera, si potrebbe quasi dire del manierismo, col quale gli argo-
menti successivi son addotti ed eliminati.
3. CU ozio ni.
Ci rimane a trattare delle citazioni che si trovano in questa
opera, e che sono, al pari di quelle delle opere riconosciute
di Dante, molto numerose. Le confronteremo per T ordine e
per le fonti loro e per le formole con cui sono introdotte. Nella
prima serie dei miei Studi su Dante ho notato ventidue ci-
tazioni dirette e formali, e dieci riferimenti, taluni dei quali sono
esatti, come delle vere e proprie citazioni, ed altri più o meno
probabili, in tutto trentadue ('). Ventiquattro derivano da Aristotile,
sei dalle S. Scritture, una da Orosio e una da Tolomeo.
(') La lista è stampata alla fine di questo saggio, colle citazioni numerate per
facilitare i riscontri.
— 54 -
La proporzione maggiore delle citazioni Aristoteliche si deve
al soggetto trattato. Quelle dalla Scrittura, che Dante conosceva
bene in ogni sua parte, non hanno bisogno di osservazione
alcuna, eccetto per quel passo, Roiìi. XI, 33, che è citato da
Dante altre due volte, cioè nel Cotivito e nel De Monarcliia. Una
citazione da Orosio era naturalmente da aspettarsela se Dante
doveva trattare un soggetto geografico, come nella Quaestio § 19.
Lo stesso capitoto di Orosio è citato da Dante nel De Moti. II,
ni. 87. La citazione da Tolomeo è data vagamente e senza rife-
rirsi in modo speciale alla sua fonte, come in due altri luoghi
dove è citato da Dante, entrambi del Conv. II. xiv.
Per ciò che riguarda le citazioni aristoteliche (servendoci per
indicarle dei numeri marginali della lista stampata ùt/ra p. 61 )
possono analizzarsi come segue:
(I) Le seguenti citazioni sono state realmente fatte da Dante
altrove :
I numeri (4) e (17) si trovano in Convito e De Monarcliiay
(io) e (11) sono ambedue molto familiari; (18) si trova nel Con-
vito, ma in termini assai differenti. A questi possiamo forse ag-
giungere il (9), che quantunque non sia stato dato né qui né in
De Mon. I, xiv {ter), come citazione formale, è evidentemente la
riproduzione di uno o più passi di Aristotile. Vedi i miei Studi
I, p. 116.
(II) I passi seguenti non sono stati formalmente citati altrove,,
ma altre numerose citazioni o referimenti sottintesi si trovano,
che derivano dallo stesso capitolo o dallo stesso libro del Trat-
tato Aristotelico.
Cosi il (3) è da Metcor. II., un libro al quale probabilmente
Dante si riferisce otto volte. Vedi Stadi \, p. 336.
II (5) da Nic. Etli. I, VII, capitolo che Dante cita altrove sei
volte o semplicemente vi si riferisce.
Il (13) da Nic. Eth. I, xiii, capitolo ben conosciuto da Dante.
Il (23) da De Coelo II, e il (32) da Meteor. I, ambedue Trat-
tati ben noti a Dante.
Si potrebbe far menzione qui del numero (6), che quantunque
— OD —
derivi dal De Coelo, si trova nel Libro IV di quel Trattato, che
non è citato altrove da Dante.
(Ili) Ai seguenti si riferisce chiaramente, quantunque non li
citi formalmente, e sono luoghi di Trattati famigliari a Dante:
I numeri (2), (8), (12), dal De Coda, Libro II.
II (20) Mctaph. A II.
Il (26) § XXII, vv. 3-5. Questa reminiscenza evidentemente di
Aristotile è interessante, perché s' incontra quale citazione for-
male in Conv. IV. xiii, 71, 72. e in ambo i casi troviamo la
s/essa sittgolare differetiza dui lesto di Aristotile, la quale, come
ho rilevato nei miei Studi su Dante I, p. 105, è probabilmente
dovuto air esser citata indirettamente attraverso il linguaggio di
S. Tomaso d' Aquino. Questa certamente ha tutto 1' aspetto di una
genuina involontaj-ia coincidenza.
(IV) I seguenti o non presentano importanza, o sono dubbiosi:
I numeri (16), (19), (21), (22). (Son stati tutti dati solamente
sotto la Classe e, eccettuato il (21) che è segnato b, ma la diffe-
renza è soltanto di opinione).
(V) Vi sono tre citazioni prese da due delle opere logiche di
Aristotile, cioè Catcg. e Prior Anal., di entrambe le quali Dante
nelle sue opere mostra di avere conoscenza, se non famigliarità.
La trattazione formale logica del soggetto in questione rende-
rebbe tali riferimenti probabili e naturali.
Vedi i numeri (i), (7). (14).
Non vi è sicuramente nulla in questa analisi che tradisca la
mano del falsificatore, e tanto il carattere delle citazioni, in
(II) e (III), come il fatto di essere quivi un maggior numero
di citazioni che in (I) è, per quel che vale, un indizio di auten-
ticità.
Un falsificatore avrebbe probabilmente copiato e ripetuto delle
citazioni identiche, e non sarebbe stato cosi sottile da ricercarne
altre dalla stessa opera, o, come nel caso di Averroes, da una
opera diversa dello stesso autore citato nominatim.
Ci rimane a considerare alcuni punti nelle formule di citazione.
(a) I libri della Meteora son citati due volte con la formola
-56 -
" utpatct per Pìiilosoplinm in Mctcoris siiis „ (§§ VI e XXIII) ('). Ora
è da notarsi che, quantunque occorrano numerose citazioni nelle
opere riconosciute di Dante da questo Trattato (io ne ho notato
circa venti più o meno probabili), in nessun luogo Dante lo cita
direttamente o col suo titolo (vedi Sliidi su Dante, I, Indice I).
(^) Le due citazioni di già mentovate dalle Categorie sono
date come provenienti dai Pracdicanicnta (§§ n) e dagli Ante-
praedicanienta, dove è citato il cap. I (§ xn). Questo trattato è
nominato una sola volta da Dante, cioè nel De Mon. III. xv. 58,
e là come doctrina Praedicanicntorinn. IS'on vi è dunque qui nulla
di più da osservare.
(Y) Nel caso della citazione dal Prior. Anal. (§xix, v.i 9), la
formula è singolare, " id illc dicit in prinio Priorum „. \'i è sola-
mente un^ altra citazione diretta da quest'opera, cioè in De Mon.
Ili, VII, 19, dove la formola è " ut patct ex iis quac de Syllogismo
simpliciter „. Non vi è assolutamente nulla in questa piccola diffe-
renza, eccetto che, per quel che vale, è contro alla teoria della fal-
sificazione. Possiamo osservare che Dante stesso ha per Io meno
tre formule diverse per citare la Metafisica di Aristotile, Meta-
phisica [o in Conv. ecc. Metafisica); Prima PJiilosophia {Conv. e
De Mon.), e " in iis quac de simpliciter Ente „ (De Mon.), E vi
sono anche due formole differenti per la citazione dell' Etica e
due per la Fisica.
(9) La stessa considerazione si può applicare alla citazione
del De Coelo et Mundo, in uno dei tre luoghi in cui esso è ri-
cordato, ma semplicemente col titolo di De Coelo (§ xxi. v. 55).
Anche questo si trova in Ep. X. § xxvii. v. 511 (■), quantunque
la forma più completa ricorra costantemente nel Convito.
(') Su questa formola di citazione vedi sopra p. 52.
(^) E a mia cognizione che in questi ultimi anni l'autenticità di quest'Epi-
stola è stata discussa, ma, come a me sembra, molto capricciosamente, e su
base del tutto vacillante. Vorrei richiamare 1' atten'^ione suU' importanza del fatto
accennato dal Sig. Toynbee, che l'etimologia di Tragedia data nel § x viene
direttamente da Uguccione. Non soltanto Uguccione è citato esplicitamente da
Dante per nozioni di questo genere in Conv. IV, vi, ma il Toynbee ha provato
— 57 —
(ì) L' unica difficoltà che rimane, se pure è una difficoltà, nella
citazione col titolo della Meteora, può spiegarsi benissimo con
r isolamento, in riguardo alla data, di quest' ultimissima opera di
Dante. Ma per vero non abbisogna di spiegazione, perché abbiamo
veduto che Dante non adopera una rigida uniformità nelle sue.
formole di citazioni, ed è probabile che il fatto della disformità
sarebbe stato evitato dal falsificatore in proporzione appunto
della sua erudizione, specialmente da un cosi preciso osserva-
tore, come abbiamo veduto che fosse in questo caso l' autore
supposto.
Trattando delle citazioni che si trovano in quest' opera, farò
menzione di un altro argomento che mi sembra di gran valore.
Mi accadde di osservare; leggendo la monografia del Dr. Schmidt
già ricordata ('), che egli riteneva che 1' autore di questo Trat-
tato avesse preso molto dalla Composizione del Mondo di Ristoro
di Arezzo. Fui colpito dalla importanza di questo fatto, ove fosse
indubbiamente accertato, per l'autenticità dell'opera.
La data dell'opera di Ristoro, che è qualificato dal suo edi-
tore (Narducci) come 1' Humboldt del secolo decimoterzo, è del 1282
e poteva dunque essere stata facilmente accessibile a Dante (■).
che Dante si serve costantemente di Uguccione per le sue etimologie, quan-
tunque non lo riconosca in nessun luogo. Il Toynbee ha argomentato, per ciò
che si riferisce all' Epist. X (come ho fatto io nell' ultima pagina) che un falsi-
ficatore non si sarebbe accertato di questa fonte oscura delle etimologie di
Dante per quindi adoperarla una volta, e questo sotto 1' anonimo, immaginando
che la sua opera in tal modo guadagnasse parvenza di probabilità.
(') Si dovrebbe rilevare che il Saggio del Dr. Schmidt non concerne la di-
sputa dell' autore della Quaestio. Esso ritiene che sia un' opera autentica di
Dante, e questo è il punto di partenza di tutta la sua argomentazione che è,
come accenna il suo titolo {Dante' s Slellung in der Gescliicitte der Kosniogra-
pine), di determinare il posto che occupa Dante nello sviluppo delle cognizioni
fisiche. 11 saggio sulla Quaestio è solamente la prima parte del soggetto; ma la
seconda, che avrebbe dovuto trattare delle prove raccolte dalle altre opere dan-
tesche, sembra non esser mai stala pubblicata.
O Sulle cognizioni di Dante e 1' uso da lui fatto della letteratura contempo-
ranea o recente. Vedi infra, Appendice, p. 70.
- 58 -
Ma, dopo, r opera di Ristoro rimase sconosciuta per secoli (').
Fu pubblicata per la prima volta nel 1858 dal Narducci; ristam-
pata coir aggiunta di una riproduzione testuale del nis. Chigi,
nell'anno seguente; e ripubblicata in 12, a buon mercato dal
Daelli e C. (Milano) nel 1864. Una comunicazione fu fatta all'Ac-
cademia della Crusca nel 1815 da Francesco Fontani, descrivendo
brevemente quest' opera come se fosse una scoperta fatta tra i
niss. della Bibl. Riccardiana e principalmente trattandola come
testo di lingua. Egli parla di Ristoro come di uno che non si
conosce che di puro nome, e aggiunge che tutti i suoi sforzi per
trovare qualche notizia di lui ad Arezzo o altrove sono riusciti
intieramente vani (*). Ciò dimostra quanto completamente sia stata
dimenticata la parola del frate di Arezzo. Io ho raccolta in una nota
di supplemento, qualche prova per dimostrare, (i) che Dante co-
nosceva quasi per certo quest'opera di Ristoro: (2) che non vi
può esser dubbio che 1' autore della Quaestio la conoscesse. Se
ciò fosse domanderei francamente:
(I) Quale possibilità vi fosse per il Moncetti, o chiunque altro
al suo tempo, di prender cognizione del Trattato di Ristoro.
(II) E, dato che l'avesse conosciuto, quale probabilità vi era di
aver studiato per lo scopo della sua falsificazione, uno scrit-
tore oscuro, che Dante non rammenta neppur una volta, e che
non vi era ragione prima facie di supporre che esso lo cono-
scesse ? (Ili) Supponendo che un falsificatore avesse potuto cono-
scere uno dei mss. di Ristoro, sarebbe stata l' autorità di esso
la principale se non la sola in questa disusata questione.
Non è presumibile dunque che invece di seguirla, il falsario
abbia preso una linea indipendente ed anche opposta, a riguardo
delle pili fondamentali proposizioni che vi si affermano. Questo
esso fa nei seguenti punti importanti: (i) Il soggetto fonda-
mentale della stessa tesi, perché Ristoro sostiene che l' acqua
del mare è più alta della terra. (2) La spiegazione, con questo
(') Solo di 5 mss. si conosce l'esistenza, tre a Firenze e due a Roma,
('j V. r introduzione all' edizione del Narducci p. v.
— 59 ^
mezzo, dello scaturire delle sorgenti sulle vette delle montagne,
giacché il peso della massa sovrapposta spinge l'acqua a traverso
gl'interstizi e canali sotteranei (che son paragonati alle vene)
della terra spugnosa, cosi che la sua riapparizione nelle grandi ai-
ture è solamente il resultato naturale dell' acqua che ritrova il pro-
prio livello ('). Questa opinione è posta in ridicolo dall' autore della
Quaestio, come quella di " vulgares et phisicorum argumenlorum
ignari „, e come " valdc puerile (') (§ xiii, vv. 41-48). (3) Il modus
operandi dell' emergenza della terra asciutta, secondo Ristoro, non
è, come si asserisce nella Quaestio, l'elevazione della terra (§ xxi
vv. 40 segg.); ma il rovesciarsi all' indietro e l'accavallarsi del-
l' acqua, per lo che la terra vien lasciata nuda, quantunque occupi
la sua posizione naturale in sua spliacra (^).
Non si può immaginare, che un falsificatore del secolo deci-
mosesto, se avesse mai adoperato 1' opera, 1' avrebbe trattata in
questo modo. Se Dante stesso 1' avesse conosciuta (come io spero
di dimostrare), nulla sarebbe più naturale, e la fresca divulgazione
di queste credenze erronee può essere uno de* suoi motivi per
determinare in questo modo la questione.
In conclusione, io ripeto che so bene come nessuna serie di
argomenti di probabilità interna possa mai stabilire 1' autenticità
di un'opera come questa; ma credo che essi possano essere, ed
in questo caso sono, bastanti a giustificare la richiesta che que-
sta questione sia ritenuta ancora aperta. Tali considerazioni (come
ho già ammesso) impressionano in modo diverso le diverse menti.
Io posso dire soltanto, per ciò che mi riguarda, che pili studio
quest' opera e più son convinto che essa è interamente dantesca
in quel che sia stile, lingua, e forma di pensiero. Se la prova
interna soltanto potesse mai provare 1' autenticità di un' opera, io
(') Quindi una continua circolazione di acqua: " Secondo questa via potemo
per ragione dire che 1' acqua corre giù per lo fiume sia già corsa molte volte, e
r acqua che piuove sia già piovuta molte volte „. L. VI. e. 7 (p. 85).
(-) Dante stesso ha una spiegazione migliore del fenomeno. V. Purg. V. 109-
111, 115 e seg.; XXVIII, 121-132; Studi su Dante I, pp. 133, 134, 300.
(') V. infra, Appendice.
- 6o —
non saprei immaginare un caso nel quale essa fosse più convin-
cente di questo. La difficoltà di supporre che qualcun altro 1' ab-
bia scritta, (e più d'ogni altro il Moncetti per le ragioni già
esposte) mi sembra quasi insuperabile. Ma questa impressione
soggettiva, non può aver peso alcuno per coloro che non la
dividono. Per citare le parole del Lowell, per ciò che si riferisce
air autenticità di alcune delle opere di Shakespeare che sono in
discussione: " È qualcosa molto difficile a definirsi, l' impressione
che ci convince senza argomento, „ ma essa " vai meglio di ogni
argomento „. È in ogni caso, per coloro che la sentono, come
quella sicurezza interna, che lo stesso scrittore oppone altrove al
" dubbio camuffato alla vista in abito formale di prova „.
A meno dunque che non vengano prove più concludenti di
quelle già prodotte per la falsificazione, io senza esitare riterrò
che questa sia un' opera autentica di Dante, guasta probabilmente
in alcuno de' suoi particolari, ma però sempre in tutti i suoi punti
essenziali uscita dalla medesima mente e dalla medesima penna a
cui dobbiamo la Divina Commedia, il De Monarchia e il Convito.
Se questo è vero, sarò fiero di aver contribuito, per quanto in
grado minimo^ a liberarla dal sospetto, per non dire dalla con-
danna generale, sotto la quale essa è di recente caduta.
CITAZIONI NELLA
QUAESTIO DE AQUA ET TERRA (')
( Ristamp. dagli Slitdt stt Duiilc, I, p. 394)
(Il
lì.
(2)
b.
(3)
a.
(A)
a.
(5)
a.
(6)
a.
(7)
a.
(8)
b.
«9)
b.
(IO)
a.
(ti)
a
(12)
b.
(13)
a.
(14)
a.
(15)
a.
(16)
e.
(17)
a.
(18)
a.
(19)
e.
(20)
b.
(21)
b.
(22)
e.
(23)
a.
(24)
a.
(25)
a.
(26) *.
(27)
a.
(28)
a.
(29^
a.
(30)
a.
(31)
a.
(32)
a.
(Juacstio, II. v. 5
IV iiiil; XVIII. V. 14
VI. V. 12. . .
XI. V. II. . .
XI. V. 14. . .
XII. V. 44 . .
XII. V. 56 . .
„ XIII. vv. 12-30
XIII. V. 35- .
XIII. V. 41. ,
XIII. V. 42. .
XVI. vv. 5<-55
XVIII. V. 68 .
XIX. VV. i8-20
XIX. V. 43. .
XX. vv. ^-6 .
XX. V. 16 . .
XX. V. 23 . .
XX. VV. 25-28
XX. V. 28 . .
XX. VV. 39-54
XXI. VV. 44-46
XXI. V. 55- -
XXI. V. 3>-
XXI. V. 69.
XXII. V. 3 .
XXII. V. 6 .
XXII. V. 9 .
XXII. V. II
XXII. V. 15
XXII. V. 20
XXIII. V. 47
Ar. Catcg. Vili, (io a. 11).
Ar. De Coelo II. xtii. (293 a. 30).
Ar. Meteor. II. lu fin. (356 a. 33-61.
Ar. Pliys. I. II. {185 a. 1-3V
Ar. Eth. I. VII. 21 (1098 b. 3).
Ar. De Coelo IV. i (307 b. 31).
Ar. Categ. I init. (i a. i 4).
Ar, De Coelo II. iv (287 b. 4-i4'.
Ar. Part. Anim. HI. iv (665 b. 14,5).
Ar. De Coelo I. iv (271 a. 33) (').
Ar. Gen. Anim. II. vi (744 a. 36» (3).
Ar. De Coelo II. xiv (296 b. 9-18).
Ar. Eth. I. .xiii. 15-17 (1 102 b. 13 segg)
Ar. Anal. Pr. I. xli (49 b. 34 segg).
Oros. Adv. Pag. I. u. 7, 13.
Ar. Anal. Post. II. vir {93 a. 20).
Ar. Eth. I. II r. 4 {1094 b. 23-25).
Ar. Phys. I. i. (184 a. 16 segg.).
Ar. Metaph. H. iv (1044 b. 10-15).
Ar. Metaph. A. u. (982 b. 12).
Ar. De Mundo, iii (292 b. 35 segg.).
Ar. Meteor.II. viir. (366 b. 15 a 367 «4)
Ar. De Coelo II. v. (287 b. 26-31).
Ptolom. ... - ?
Gen. I. 9.
Ar. Eth. X. VII. 8 (1177 b. 31 segg.).
job. XI. 7.
Psal. CXXXVIII. 6.
Is. LV. 9.
Rom. XI. 33.
lohan. VIII. 21.
Ar. Meteor. I. ix (346 b. 23-31).
(') Le lettere a., b. e. della seconda colonna indicano le tre classi in cui
sono state aggruppate le citazioni: (a) citazioni dirette e riconosciute; (b) ri-
ferimenti certi senza citazione formale; (e) allusioni di maggiore o minore
probabilità.
(') E altrove.
(^) Pure altrove nel L. II.
APPENDICE
DANTE E RISTORO D' AREZZO
Per non interrompere il testo con una digressione troppo
lunga (') ho riunito qui le ragioni principali pei- le quali io credo
(!) elle Dante conoscesse l'opera del suo contemporaneo Ristoro
di Arezzo, di qualche anno più vecchio, intitolata La composi-
zione dei Mondo, che fu scritta nel 1282; (II) che all' autore della
Oittiestio era certamente famigliare (e quest'ultimo è eviden-
temente il più importante dei due punti per le ragioni spie-
gate nel testo a p. 58); (III) che la questione discussa qui era an-
cora aperta e non definita al tempo di Dante ed eccitava l'interesse
di coloro, che erano /// pìiilosophia nidrili {§ xxi), o, come si di-
rebbe ora, uomini di scienza.
I. Ristoro e Dante.
Vi sono molti passi in Ristoro, che hanno una grande somi-
glianza nel pensiero e nelle espressioni con quelli che si trovano
nelle opere riconosciute di Dante, ma io non ci annetto impor-
tanza, perché si ritrovano eziandio in altri autori che erano ac-
cessibili a Dante e dei quali egli certamente si era valso, come
Alfragano, Alberto Magno, Brunetto Latini ecc. Tali, per esem-
pio, sarebbero la posizione relativa degli elementi, tanto intcr
se, che in rapporto colle sfere planetarie; le caratteristiche dei
quattro elementi in rapporto con le " contrarie qualitadi „ di
caldo, di freddo, di umido e di secco, come pure le applicazioni
di queste qualità alle quattro stagioni (come in Conv. IV. xxni),
la miscela degli elementi, condizione necessaria alla generazione
o allo sviluppo dei minerali, .delle piante, degli animali ecc. ecc.
(M Perché, come dice Dante stesso, scusandosi di una lunga digressione: " li
ItiMghi capitoli sono nemici alla tneinoria. Conv. „ IV. iv. 133.
E. MooRE. 5
- 66 —
I punti seguenti sembrano però (in grado diverso) dimostrare
qualche relazione precisa tra i due autori.
(1) Coni'. III. V. 142 segg. Dante chiaramente descrive la ri-
voluzione del Sole nel giorno dell' Equinozio come si potrebbe
vedere dal Polo Nord, cioè " girare il mondo intorno giù alla
terra, ovvero al mare come una mola {cio(f con rivoltiziotie oriz-
zontale) della quale non paia più che mezzo il corpo suo „. Lo
stesso paragone si trova in Ristoro, I. e. -23 (p. 28) " a modo
di macina „. Questo però può esser stato tolto da Alfragano
" molae trusatilis instar „ (e. VII). ,
Non è questo invece il caso per la singolare descrizione che
segue della elevazione graduale giornaliera del Sole per giorni
novantuno e un quarto, finché arrivi al Tropico del Cancro, cosi
che il sentiero che descrive sarà a spirale " a gnisa di una vile
(li tot torchio. „ Ciò è ancora ripetuto da Dante in Par. X.
32. 33:
Si girava per le spire
In che più tosto ognora s' appresenta.
Ora questo non solamente è descritto esattamente da Ristoro
nello stesso luogo, ma vi è aggiunto un diagramma della spirale,
II sentiero del Sole è graficamente indicato come " una via
descritta ed avvolta a circonda sopra la terra 365 volte e quarta,
la quale fuor tali savi che la chiamaro spira; e troviamola av-
volta dintorno alla terra come un filo avvolto su per uno bastone „.
(2) Di nuovo, nello stesso capitolo del Convito, vv. 188, 189,
Dante osserva che 1' Equatore " due volte 1' anno ha la state gran-
dissima di calore [cioè agli Equinozi) e due piccioli verni „ {cioè
ai Tropici). Questo si trova ancora nello stesso capitolo di Ri-
storo (p. 32), ma non si trova in Alfragano ('). Ristoro vi ricorre
di nuovo nel L. VI. e. 9.' e. 11 e altrove.
(3) La dottrina dell'amore dei diversi elementi per il loro
posto, descritta da Dante in Conv. III. in. 8. segg. " le corpora
semplici hanno amore naturato in sé al loro loco proprio „
si trova in termini quasi uguali in Ristoro, L. VI Dist. vii
(') Si dovrebbe aggiungere che si trova in un altro autore che era per lo
meno accessibile a Dante, Joannes de Sacrobosco (morto nel 1256) de Sphaera
L. Ili e 4).
- 67 -
(pag. 96): " ciascheduno desidera d'andare et di stare nel suo
luogo e non altrove „.
(4) La metafora usata si spesso da Dante del sn^^^^cUo e della
eoa (p. e. Puf^. XVIII. 38: Par. I 40. 41; II 130132; Vili. 127;
XIII. 67-69,; De' Mon., II. II. 74 ecc.) si trova ripetutamente in
Ristoro. L' ho notata almeno sei o sette volte. Un passo solo bi-
sogna citare, come quello che contiene un esempio singolare di
questa analogia, dal L. VI. e. 3. (p. 69). Lo scrittore prova che
vi devono essere montagne e vallate dentro la terra, perché essa
£ome cera prende l' impressione del cielo come suggello, e il
cielo può considerarsi esser moìitiioso e falloso, perché le stelle
essendo a varie distanze dalla terra noi dovremmo ascendere e
discendere dall'una all'altra. Vedi anche L. VII. Part. i. e. 2
(pp. 96. 97).
(5) Il benefico effetto dell' inclinazione precisa data allo Zo-
diaco, e le disastrose conseguenze sulla " generazione „ delle
piante e degli animali, se essa fosse differente, è spiegato ampia-
mente da Ristoro, L. II. e. 3. (p. 37) e altrove, come è da Dante
nel Par. X, 13-21. Vedi specialmente Ristoro /. e. dove si dice
che r inclinazione dello Zodiaco è il meglio possibile, " che sia
utile alla generazione „ e anche " pare che se il sole non si po-
tesse dilungare né appressare alle parti della terra la generazione
perirà, né la terra né 1' acqua non potrebbe far frutto. „ Cfr.
Par. X. 16-21 e specialmente il v. 18:
E quasi ogni potenza quaggiù morta.
Ed anche coi versi 19. 20:
E se dal dritto più o men lontano
Fosse il partire, ecc.
si confronti Ristoro : " E proveremo eh' egli non può essere
declinato né più né meno ch'egli è, ch'egli non facesse danno „.
(6) L' intera dottrina degli Angeli motori delle diverse sfere
celesti, quantunque si debba, senza dubbio, trovare anche altrove,
è esposta da Ristoro con dicitura singolarmente simile a quella
di Dante nel Convito. Vedi Conv. II. 11. 61-65 " . . . . Certe In-
telligenze, ovvero per piti usato modo volemo dire Angeli „; e II.
V. 5-8 " li movitori di quello sono Sustanze separate da n^ateria,
cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiama Angeli „,
— ÒS-
SI raffronti Ristoro I. e. 23 (p. 32 vicd.) " Pon niente al cielo che
si volge. Or chi il volge? conviene di necessità che sia spirito
questo; diciamo noi che sono angeli; i savi ben videro questo,
e dissero che questi erano spiriti d' intelligenza.... sono mossi da
spinti intellettuali, i quali non veggiamo „. E quindi nella p. 134
(Dist. Vili e. 2) troviamo la parola propria mtc'7tdc re a.pp\ìca.tSi ed
loro modus operandi, come in Dante Canz. I. v. i, e Conv. II.
VI. 151. „ Quanti sono li corpi principali e perpetui nel mondo,
tante sono intelligenze, le quali intendono in operazione ecc. „ e
qualche verso più sotto: " le quali intendono sopra la genera-
zione „.
(7) Nel Conv. II, xv Dante descrive le conseguenze fatali che
deriverebbero, se la rivoluzione dei Cieli, e particolarmente quella
del Priniuni jnobile che era comunicata a tutti gli altri, fosse so-
spesa, e conclude; — " Di vero non sarebbe quaggiù genera-
zione, né vita d'animale e di piante.... ma tutto l'universo sarebbe
disordinato „ ecc.
Cfr. con questo Ristoro: Dist. VII Part. II e. 4 (p. loi ) :
" Se la virtude del cielo si cessasse e lo cielo non si movesse,
le piante e li animali e le minerie, le quali son fatte delli omori
delli quattro elimenti discevererebberosi (// ins. Rice, più antico
ha: se desciorreano ) e disfarebbensi tutte, e ciascheduno omore
tornerebbe al suo elimento: lo caldo tornerebbe alla spera del
fuoco e lo freddo tornerebbe alla spera dell'acqua, e l'umido
tornerebbe alla spera dell' aire, e lo secco tornerebbe alla spera
della terra, e giammai non se ne farebbe generazione nulla; se-
condo lo suggello che si guastasse, che non farebbe operazione
nella cera e la cera non si troverebbe lavorata. „
Si confronti Par. Vili, 12, dove è descritta Venere come la
stella
Che il sol vagheggia or da coppa or da ciglio,
con Ristoro, I. e. 18. ( p. 17 fin.), dove si dice di Venere " scin-
tillare e vagheggiare. ... e accompagna e va tuttavia quasi col
sole, e quando le va dinanzi e quando dietro.
ig) Anche Ristoro [Dist. VIII. e. 6 p. 139) dichiara che i sette
pianeti hanno una speciale corrispondenza colle sette scienze del
Trivium e del Quadrivium. Inoltre dice che la Luna corrisponde
alla Grammatica, Mercurio alla Dialettica e Venere alla Musica,
ma non procede più oltre nel paragone. Ognuno si rammenterà
- 69 -
con quale minuzia Dante elabora simili analogie per tutti i pia-
neti (come per i tre Cieli rimanenti) in Conv. II. xiv. Si deve
osservare che nel caso della Luna e di Mercurio le Scienze attri-
buite ad essi da Dante e da Ristoro sono le stesse; ma che Dante
associa Venere colla Rettorica e Ristoro colia Musica.
(io) In un passo ben conosciuto del Piirg. VI. 78 Dante de-
scrive r Italia
non doluta di Provincie, ma bordello,
volendo significare che essa aveva perduto il suo primo titolo
onorevole.
Ora Ristoro. Dist. VII. e. 6 (p. 116) ha la stessa identica
frase, " Italia la quale è donna di tutte le Provincie „.
(11) Come somiglianza minore, che però molto probabilmente
può essere casuale, io vorrei notare 1' espressione della lucerna
del mondo applicata da Dante al Sole mPar. l, 38, ed anche da
Ristoro in J. e. 18 (p. 17) " è in questo mondo come lucerna
nella casa „. Inoltre dice che si chiama " Sole quasi solo in que-
sto mondo „ !
(12) Vi è una spiegazione delle Macchie Lunari in Ristoro
corrispondente esattamente con quella adottata da Dante in Conv.
IL xiv: 73-76, e quindi da lui repudiata suU' autorità dichiarata di
Beatrice in Par. II, 59 segg. Ristoro (in un periodo alquanto
oscuro, L. Ili, e. 8. p. 67) spiega che alcune parti della Luna
sono dure, opache [ottuoso], lucenti. Queste parti, come uno spec-
chio, ricevono la luce, cosicché essa (luce) può esser passata,
tratta o gettata sopra altri oggetti {passare, trarre, gittare, sono i
verbi usati). Questo è il caso delle stelle. Altre parti della Luna
sono morbide, trasparenti, scure. Queste non possono " ricever „
la luce e trasmetterla, ma la " ritengono „ esse stesse, cosicché
non si riflette sopra altri oggetti. Tale è il caso della Terra 0).
Si confronti con questo ciò che Dante discorre nel Convito 1. e
" la quale (l'ombra) non è altro che rarità del suo corpo, alla
quale non possono terminare i raggi del sole e ripercuotersi cosi
(') Su questa antitesi fra la terra e le stelle si insiste, perché la luna, avendo
una posizione intermedia fra le stelle che sono tutta luce e la terra che è tutta
oscura, partecipa necessariamente della natura di entrambe. Questo stesso prin-
cipio, applicato però in modo diverso, è formulato da Dante in De Mon. III.
XVI. 32.
— 70 —
come nell'altre parti. " La rarità di Dante corrisponde alle parti
lunari morbide, trasparenti od oscure di Ristoro, ed in ambedue i
casi il tratto principale è l' incopacità (//riflettere la luce. E non so-
lamente questa spiegazione si trova in Ristoro, ma non si trova, per
quanto io sappia, in nessun altra delle fonti da cui è probabile che
Dante potesse attingerla. Non vi è nulla di simile in Alfragano, in
Brunetto Latini, in Ruggiero Bacone, o in Alberto Magno. Alberto
è il solo tra questi autori che tratti un simile soggetlo, e la sua
spiegazione non ha nulla di comune con questa (vedi De Coda
et Mtnido, L. II. Tr. ni. e. 8). Un altro passo però è citato dal
Toynbee dal De Jiivcnttitc et Senectiite, dove la " terrestris na-
tura „, della Luna è considerata come la causa della ritenzione
di parte della luce del Sole. Ma il Toynbee considera il De Su-
bstaiitia Orbis di Averroes essere la fonte della imperfetta " «Teo-
ria Lunare „ di Dante, come è data nel Convito l. e. Siccome
questa stessa opera è citata (da Dante?) nella Quaestio, § i8, una
tale origine non è improbabile. Ma la spiegazione minuziosa del
modus operandi di queste dense e rare parti della Luna nel ri-
flettere o assorbire la luce solare rassomiglia molto pili al dire
di Ristoro che non a quello di Averroes o di Alberto Magno.
Mi sembra perciò molto probabile che Dante abbia derivato la
sua teoria da Ristoro.
Questi sono alcuni resultati raccolti da un rapido esame del-
l' opera di Ristoro. È probabile che uno studio pili accurato for-
nisca ulteriori ravvicinamenti. Che Dante conoscesse e usasse
liberamente gli scritti di vari altri suoi contemporanei, è positivo,
p. e, (i) il Tesoretto di Brunetto Latini. V. Nannucci, Manuale della
Letteratura, I p. 461, ove si dà un numero considerevole di passi
della Divina Commedia, nei quali son ripetute frasi ed espres-
sioni del Tesoretto. Ma che egli facesse prò del Tesoro o Trésor
è fuor di dubbio (cfr. /;//. XV 119). (2) Guido Guinicelli è fre-
quentemente imitato e usato da Dante. V. Nannucci, Op. cit.,
pp. 46-48. (3) Anche Jacopone da Todi (morto nel 1306) ib. pp:
384-386. (4) Bernardo di Ventadour (') sembra certamente aver for-
nito la similitudine della lodola nel Par. XX. 73-75. (5) Un' altra
bellissima similitudine nel Purg. XXII. 67-69, sembra che sia
stata tolta direttamente da messer Polo da Reggio (e. 1239) come
è notato dallo Scartazzini nella sua nota //. /.
f') V. i miei Studi su Dante, I, p. 303.
— 71 —
E difficile capire in che modo fossero conosciute dai contem-
poranei cosi bene alcune opere, prima dell' invenzione della stampa,
o se si usasse di fare delle pubblicazioni nel vero senso della
parole, ma che esse fossero conosciute è ben accertato.
II. Ristoro e la " ouaestio „
Passiamo ora al secondo punto e molto più importante, cioè
che all' autore della (Jiiacstio fosse noto il Trattato di Ristoro.
Questo si sarebbe naturalmente aspettato, se Dante ne fosse
1' autc^re ; ma non sarebbe concepibile nel caso di una falsifica-
zione del secolo decimosesto per le ragioni esposte sopra a p. 58.
La cosa principale che ci colpisce in Ristoro è l' idea predo-
minante che r elevazione della Terra sia cagionata dall' influenza
delle stelle. Senza quest' influenza la terra sarebbe naturalmente
tutta ricoperta di acqua, perché la sfera dell' acqua è al di sopra
di quella della Terra. Vedi intcr alia, I, e. 20 ( pag. 19) " Con
ciò sia cosa che li elementi sieno sperici, e compia T una spera
l'altra, appare, secondo ragione, che la terra debbia essere co-
perta air intorno dall' acqua.... E noi troviamo una parte della terra
scoperta dall'acqua; e secondo i savi è la quarta parte (') sco-
perta, si che tre parti rimane sotto l'acqua: ed in questo luogo
troviamo una grande forza, e la terra è levata per forza dello
suo luogo, e stae rilevata per forza sopra T acqua, e T acqua per
forza cessata via: e questa forza fue a cagione della congiura-
zione delle pianete e delli animali e' abitano sopra la terra „
{cioè i segni (Iella Zodiaco). " E troviamla scoperta inverso la
parte di settentrione, sotto quella parte del cielo la quale è più
stellata „. Vedi più oltre L. \'I, e. 2, ( p. 78) dove è asserito che
se questa influenza venisse a interrompersi, l'acqua ritornerebbe
di nuovo a ricoprire la terra. " Se la virtù del cielo, che dee
tenere T acqua cessata che non spanda, per mantenere la terra
scoperta, si cessasse e andasse via, T acqua cessata converrebbe
en suo loco, e coprirea tutta la terra. „ È appena necessario
di dimostrare la corrispondenza che vi è di questo con la teoria
esposta nella Quaestio, § xxi, dove notiamo particolarmente che
l'elevazione nell'Emisfero Settentrionale, tra l'Equatore ed il
(') Quarta parte abbiamo anche nel L. VI. e. 2, e vi si aggiunge che perciò
la chiamarono quarta abitabile. Cosi pure nel e. 7. Cfr. Quaestio § 2: " quam
communiter quartain habitabilein appcilamus „.
Circolo Polare, è dovuta alla forza supcriore delle stelle in quella
jrgione dei cieli (vv. 40.12: vedi inoltre vv. 70-72). Ora questo
viene asserito ripetutamente da Ristoro. Ho osservato inoltre
più di dieci luoghi, in cui esso si ferma sul fatto che I' Emisfero
settentrionale ha un numero maggiore di stelle, e che queste
stelle hanno un' importanza maggiore e maggior magnificenza di
quelle dell'Emisfero meridionale. In alcuni luoghi egli collega
questo fatto colla posizione corrispondente della " Icrra dctecta „
p. e. proprio al principio (L. I. e. 2): " E vedemmo la parte
di settentrione, la quale è inverso lo polo artico, spessa e vestita
di stelle, e la parte del mezzodì, la quale è inverso lo polo an-
tartico, a quello rispetto rada e ignuda de stelle „. Ed anche
L. IV, e. 4: " là ove sono le molte figure e le molte stelle, in
quella parte dee essere per ragione molta virtude, e molta po-
tenza, e molta operazione „. Vedi L. VI. e. i, citato a p. 83 e
L. I. e. 20, a p. 71. Ancora L. I. e. 9 e io Dist. viii. e. 12 (bis) ecc.
Particolarmente ncH' ultimo periodo citato, egli confuta la dot-
trina di Averroes che 1' Emisfero meridionale fosse probabilmente
abitato come il settentrionale, perché " utui grandissijiia inconve-
nienza „ ne avverrebbe, cioè, che in tal caso l'Emisfero meridio-
nale sarebbe anch' esso " pieno e soffolto di stelle „ ed invece
accade il contrario {').
E si accenna anche nella Quaestio, § xxi. v. 21, che non so-
lamente il numero e la magnificenza delle stelle nordiche, ma le
figure e le forme delle costellazioni, che non possono non aver
una ragion d' essere, debbono esser prese in considerazione,
dapoi che non solamente le diverse stelle, ma anche le diverse
costellazioni variano il grado d' influenza. Questo si trova an-
cora diverse volte in Ristoro, che parla della maggior dignità
delle figure rappresentate da certe costellazioni, che si trovano
(') È note%'ole che, mentre anche Alberto Magno attribuisce 1' emergenza della
terra alle stelle, il modus operandi è affatto difìerente, perché suppone che il
sole e le stelle asciughino la " qualità „ di Ituiiiidum. " Quae qitidein (scil. aqua)
totam ( terram) operire deberet, si motus solis et aliarum stellarum eam in parte
non exsiccaret. „ Ed anche, parlando del sole e delle stelle esso dice citando
Albumassar: " Oportet, quod cxsiccent in ea humidum in locis super quae sunt
anguli acuti radiorum, et in locis super quae radii perpendiculariter incidunt. „
Poi si serve di questo per argomentare che la stessa condizione esiste nell'Emi-
sfero meridionale, che probabilmente ha terra e " climata „ simili a quelli del
nord, e che non si .possa accettare la credenza generale che quest' Emisfero sia
ricoperto dalle acque. De Nat. Locoìitin, Tr. I. (;. xn.
— 73 —
per la maggior parte nell' Emisfero nordico. Egli nota pure, come
molte di esse hanno il loro capo verso il Nord ed i loro piedi
verso il Sud, e ne ricava un nuovo indizio della superiorità di
quella parte dei Cieli (L. I. e. 9, io: IV. 4; VI, i, ecc.). Inoltre
in Dist. vin. e. 12 questo vien dato come una ragiono contraria
all' esservi terra alcuna nell' Emisfero meridionale, perché avendo
le costellazioni il loro dorso girato verso quel!' Emisfero " per
ragione dee essere impedita la loro operazione, da non potere
adoperare „ ! (p. 147).
Quindi riguardo al modus operandi di questa influenza stel-
lare, Ristoro suggerisce due teorie alternative { L. VI. e. 2). Esso
dice che possiamo supporre la vertute del cielo o di avere alzata
la terra fuori dell* acqua, oppure di aver respinto 1' acqua per
modo che per il restringersi di essa la terra rimase scoperta,
mentre la sua posizione non fu cambiata. Egli adotta quest' ul-
tima ipotesi per varie ragioni che noi non ripeteremo ('). L' au-
tore della Ottaestio suggerisce anch'esso due alternative nel
§ XXI. vv. 42 segg.: o attrazione come quella della calamita (che
è la stessa della prima suggerita da Ristoro), o repulsione (non
nel senso della seconda spiegazione di Ristoro, quantunque questa
implichi pure una specie di repulsione), generando dei vapori che
forzino la terra in certo modo a protuberare " ut in particula-
ribus montuositatibus „. Questo si riferisce, senza dubbio, alla
generazione dei coni vulcanici, processo descritto minutamente
da Ristoro come una delle cause della generazione delle mon-
tagne nella Dist. \\\. part. 4, e. 6 (p. 115) (una ventosità che
s'ingenera nel ventre della terra) e nel L. VI. e. 8 (p. 86): " e
anche potrebbe ctifiare la terra su e fare lo monte. „
Particolarmente, la metafora della calamita è applicata al pro-
cesso dell' attrazione stellare nella Ottaestio, § xxi. v. 43, e
viene adoprata più di una volta da Ristoro, p. e. L. VI. e. i (il
capitolo citato infra), e. vii, ed in altri luoghi ('). Si può aggiun-
gere che Ristoro spiega ogni cosa coli' influenza delle stelle,
e questo ci colpisce di più per la frequenza con cui si ripete.
(') Suir importante applicazione pratica in Ristoro della sua teoria del re-
stringersi delle acque, per spiegare la ragione delle origini delle sorgenti nelle
alture, v. siif>ra, p. ^^ fin. Cfr. specialmente Ristoro, L. VI. e. 7 {passim), e i passi
citati iii/ra pp. 76, 77.
(') Uno degli aspetti più singolari dell' opera di Ristoro è la sua confusione,'
di modo che troviamo la medesima affermazione ripetuta molte e molte volte.
Cosi spiega (come abbiamo già veduto) il contorno irregolare
della superfìcie della Terra ; la divisione in sette climata è per
V o per adone dei pianeti {\.. \\. e. 9, \'III. e. 16); tutti i feno-
meni della natura e gli avvenimenti della vita umana ( L. VII.
e. 4) sono attribuiti alle stelle. I£sse sollevano anche pietre, neve,
grandine, pioggia ecc. nell' aria, la quale non ha in se, per na-
tura, nessuna di queste cose, le quali ricadono di nuovo sulla
terra. Caldo e freddo, secco e inondazioni accadendo " fuori di
ragione „ son cagionati " per la congiurazione delle stelle, che
{sforzano la ragione. „ Il Diluvio Universale fu cagionato nello
stesso modo (L. VI. e. 13). A ciò segue una curiosa spiegazione
razionalista (per un monaco del secolo decimoterzo) sulla pre-
veggenza di Noè. Se mai tali circostanze si dovessero ripetere,
" se alcuno savio sarà in quelle parti, che sappia bene della
scienza delle stelle, provvederassi d'innanzi e vedrà (?) sé e
tutta la sua famiglia, secondo che si dice che fece lo savio Noè;
che si provide innanzi, per la scienza che gli fue data, e guardò
sé e tutta la sua famiglia dal pericolo del diluvio nell' arca. „
L' autore della Quaestio nel § xix descrive tre volte la forma
emergente della Terra come semilunare. Vedi v. 61: " Sic patet
quod terram emergentem oportet habere figuram semilunii, vel
quasi. „ (cosi anche siipra, vv. 24 e 34). Cosi dice Ristoro,
L. VI. e. II, fin (p. 90): " Ed avemo la terra scoperta come
è la figura della luna quando noi la veggiamo mezza (') „. E un
poco più innanzi nello stesso capitolo Ristoro dichiara che:
" r acqua é cessata della terra circolarmente, come ella dee es-
sere per ragione alla spera della terra. „ Si raffronti con questo
la dicitura della Quaestio § xix. vv. 29-33.
In ultimo il singolare argomento della Quaestio § xviii, è
stato sufficientemente spiegato, cioè (') che la causa finale della
terra dctccta era di render possibile la generazione, ovvero lo
sviluppo di tutte le specie di esistenze concrete. (Vedi vv. 42-54).
Questa è precisamente la spiegazione di Ristoro. Vedi L. VI.
e. 7 (p. 84): " a cagione della generazione è cessata e ammol-
lata r una acqua sopra la terra „ e similmente in altri luoghi.
(Un capitolo di saggio dell'opera di Ristoro è stampato
infra, pp. 83, 84).
{}) Alberto Magno, De Nat. Loc. Tr. in. e. i. lo descrive come una specie
di trapezio a lati sferici : * haec habitatio quadrangola est inter quattuor
arcus. „
(') Vedi supra, pp. 4 ad fin., 38...
/o
Mi attento adesso con qualche fiducia ad affermare che 1' au-
tore della Quaestio conosceva il trattato di Ristoro di Arezzo.
Astrazion fatta dai punti minori di somiglianza, è importante
il notare che (per quanto a me consta) questo è la sola fonie
dalla quale l' autore abbia potuto derivare il tratto singolare e
fondamentale della sua teoria, cioè la virtits elcvans delle stelle
e costellazioni nordiche. Mentre ciò è di gran rilievo in Ri-
storo, (') non si trova in nessun altro degli autori che ho citati
cosi sovente, (^) e particolarmente manca affatto in Alberto
Magno, (^) il quale, mentre riconosce l' influenza delle stelle a
questo riguardo, (i) non ha veruna nozione di una virtus clcvans
ma di una " virtits cxsiccans „ [sitpra, p. 72 n.); e (2) ben lungi
dal credere nella virtù superiore delle stelle dell' Emisfero nor-
dico, argomenta per 1' abitabilità dell' Emisfero meridionale, per-
ché le stelle avrebbero dovuto produrre qui lo stesso effetto
come là [ihid.). Non si può dunque ritenere che una opinione
unica quanto strana, sia stata intuita da due scrittori. differenti
affatto indipendentemente. Se dunque 1' autore della Quaestio si
valse dell' opera di Ristoro, abbiamo un altro valido argomento
per ritenere che non fosse nessun altro fuorché lo stesso Dante,
per le ragioni espresse nel testo, siipra p. 58.
III. Il problema della " quaestio „.
Ora procederò a dimostrare che il problema della Quaestio
era una questione ancora aperta e piena d' interesse al tempo
di Dante, e quindi è probabile che potesse attirare la sua at-
tenzione.
In primo luogo notiamo questo: il sistema di Cosmogonia, ac-
cettato generalmente in quel tempo, era che i dieci Cieli e le
quattro sfere degli elementi giacciono concentricamente e suc-
cessivamente r uno sopra l' altro, senza alcun vuoto framezzo,
cosicché la gibbosità dell'uno riempie la concavità dell'altro, come
(') Ricorderemo che Ristoro ritiene clie 1' influenza elevante si esercitava
siiir .Acqua e non sulla Terra, ( supra, p. 73).
(') Un altro caso simile è stato osservato supra p. 70.
(') Quanto Dante debba ad Alberto Magno in questioni di Astronomia e di
Fisica si può riscontrare nel Dizionario del Toynbee, alla voce: Alberto di Co-
lonia.
- 76 -
si esprime Ristoro ('). Ciò si trova anche in Alfragano, in Al-
berto Magno ('l, in Giovanni da Sacrobosco, in Brunetto Latini
e in Ruggero Bacone. Conseguentemente il problema discusso
nella Otiars/io presentava una seria difficoltà, che urgeva risol-
vere. Perché, se per legge di natura la sfera dell'Acqua è al
di sopra della Terra, come può spiegarsi 1' anomalia della terra
asciutta o " /erra dctccta „? ^)
In secondo luogo si scorge che l'opinione sostenuta qui non
era punto ammessa generalmente, anzi tutto all' opposto.
(i) Il cosidetto maestro di Dante, Brunetto Latini, propugna
r opinione respinta dalla Quaestio, e, al pari di Ristoro, se ne
vale per spiegare la presenza delle sorgenti sulle vette delle
montagne. Vedi Trcsor, I part. in. e. io6. Egli si dà conto di
ciò colla supposizione che la terra sia penetrata da canali, a
traverso i quali l' acqua scorre come il sangue nelle vene del
corpo; e come l'acqua ritrova sempre il suo livello e /'/ mare
e pili allo, della terra, il fenomeno è soddisfacentemente spiegato.
" Et il est voirs que la mers siet sor la terre, selonc ce que li
contes a devisé ca en arriere au chapitre des Elemens (cioè
e. 105,) donc est eie plus haute que la terre; et se la mers
est plus haute, donc n' est il mie merveille des fontaines qui
sordent sor les hautismes montagnes, car il est propre nature
des aigues que eles montent tant comme eles avalent. „ Io ho
citato distesamente questo brano, perché Brunetto sostiene chia-
ramente non solo che 1' elemento Acqua ha il suo proprio loco
al di sopra dell' Elemento Terra, ma che il mare stesso è al di
sopra della terra.
(2) Di nuovo Ristoro di Arezzo, L. VI. e. 7 ci presenta
due spiegazioni alternative dello stesso fenomeno. Una di esse
corrisponde in effetto con quella data più sopra: " Può bene
salire 1' acqua nel monte secondo questa via,.... con ciò sia cosa
che r acqua sia sperica et per ragione debbia coprire tutta la
(') Per esempio L. III. e. 5 e. 7, e altrove.
(') Phys. L. IV. Tr. I. e. xi; De Nat. Loc. Tr. I e in (v. p. 265) e molti
altri luoghi. In De Prop. Eleni. Tr. II. e. i si discute la questione se la
confricazione di queste sfere contigue produce suono: cosi anche J^istoro
L. Vili. 19.
(') È curioso di vedere come Alberto Magno lotta con la difficoltà in Me-
tcor. il. Tr. HI. e. 11. sebbene egli non tratti la questione precisa posta dalla
Ouaeslio.
— 77 —
terra intorno intorno, secondo questa via sarà pi/i alta /' acqita
della terra. „ Quindi, dopo avere spiegato che un quarto della terra
non è coperto dall' acqua, ciò essendo dovuto all' essere 1' acqua
" cessata e ammollata (') sopra la terra a cagione della genera-
zione „ ('), continua: " E la terra ragionevolmente de' stare di
sotto all'acqua, imperciò ch'ella è più grave; e l'acqua dee stare
di sopra, e iiiai^giortiiente più suso, imperciò ch'ella è ammollata
r una sopra 1' altra... e 1' acqua che è mollata, la qual tiene le tre
parti della terra, è pili alla che la terra; grava la parte di sopra
quella di sotto e imprieme inverso la terra; truova la terra spu-
gnola per la virtude del cielo e forata.... E l'acqua, che passa
entro per li pertugi della terra, quando viene di salire al monte,
di sé non può, ma il grande peso dell' acqua ammollata, la qual
è più alto della terra e del monte, prieme e caccia 1' una acqua
r altra entro per li pertugi e forati, e per forza la fa andare a
sommo il monte. „
E da notare soprattutto quella specie di argomento a fortiori '\n-
trodotto qui da nmggioriiieiìte ecc. Esso riguarda l' acqua come
riversata all' indietro dalla terra asciutta e aiimiassata conseguen-
temente a una maggior altezza che non avrebbe 1* acqua in altra
guisa, e la pressione aumentata che ne risulta preme lo strato
più basso dell' acqua in su, a traverso la terra, fino alle vette
delle più alte montagne, le quali però sono anche esse al di sotto
del livello della " spera „ dell' elemento acqua. Ristoro dunque
mantiene chiaramente 1' opinione che è impugnata nella Quaestio.
L' altra spiegazione suggerita da Ristoro del fenomeno, è la
seguente: " .... che la virtù del ciel.... tragga l'acqua su nella
terra e specialmente a sommo i monti, con.ie la virtude della ca-
lamita trae a sd il ferro.... adunque la sua virtude trarrà 1' acqua
a sommo i monti coiìie la calamita lo ferro. „ (Cf. Quaestio,
§ XXI. V.' 43).
(3) Poi anche nel Commento conosciuto sotto il nome de\-
Y Anonimo Fiorentino (del principio del secolo decimoquinto),
(') La parola niiuiiolhila che è usata varie %'olte da Ristoro, sembra aver
per sinonimo " cessala. „ Non posso trovar traccia del suo significato nel Gran
Di3., né nel nuovo Dizionario della Crusca, né altrove; ma allo scrittore, io
credo, deve essere permesso di interpetrare la sua propria fraseologia, e quel
senso sembra adattarsi a tutte le frasi dove si trova la parola. 11 Vocabolario
del Tramater dà desinere, cessare per significato di " mollare. „
{') Cfr. Quaestio, § xviii vv. .43-54.
ad ////. XXXI\'. 76 scgg. leggiamo: — " Che l'acqua sia sopra
la terra appare chiaro, però che sopra a qualunque montagna è
più alta vi si truova acqua, e se V iiiarr non /osse più allo che
la terra, vi mancherebbe e non vi si troverebbe acqua. „
(4) Di pili anche S. Tommaso d' Aquino ha la medesima opi-
nione. In Sminila I. Q. 69. Art. i § 2, commentando il significato
delle parole " Apparisca la terra asciutta „ , esso riporta tre spie-
gazioni, ma preferisce la seguente: " ut aquae in majorem alti-
tudinem sint elevatae in loco ubi sunt congregatae. Nam mare
est altiits terra, ut experimento compertum est in mari rubro. „
(5) Son debitore al Toynbee della seguente prova aggiunta,
che la questione era tuttora aperta.
Il Libro ili Sidrach (circa 1250) ed. Bartoli; Bologna, 1868.
Cap. CCXXXVII (p. 272): " Lo re domanda; quale è più alto
o la terra o lo mare? Sidrac risponde; " La terra è assai più
alta che '1 mare. Se il mare fosse più alto che la terra, ella (sic)
coprirebbe la terra. Questo potete voi vedere apertamente; pi-
gliate uno vasello, e enpietelo pieno d' acqua, raso col vasello,
cioè coli' orlo, e l' acqua si terrà senza ispandere, se il vasello
non si tocca; e se voi mettete anche uno poco d'acqua, ella sa-
glierà d' ogni parte, e spande sopra 1' orlo del vasello. Altressi
averebbe se lo mare fosse più alto che la terra, lo mare {span-
derebbe da tutte parti e coprirebbe la terra. „
// Libro (li Novelle et di bel Parlare Gientilc (circa 1285) ed.
Biagi; Firenze, 1880, cv. (p. 103): — " Qual è più alto tra
lo mare o la terra? — La terra si è più alta assai che Ilo mare;
che Ila più bassa ripa del mondo è più alta che '1 mare. Et se
Ilo mare fosse più alto che Ila terra, elli la coprerebbe tutta
d' acqua d' ongni parte. „
La conclusione generale sembrerebbe essere :
1. Che non solamente è probabile che Dante stesso avesse
conoscenza dell' opera di Ristoro, ma pare che vi sia prova certa
che ciò fosse.
2. Che l'autore della Quaestio (sia pur Dante o chiunque
altro) tolse probabilmente da Ristoro il tratto più culminante e
cospicuo del suo trattato, cioè la teoria per la quale si rende
conto della anomalia apparente che la terra sia più alta del-
l' acqua per l' influenza delle stelle dell' Emisfero nordico.
3. Che mentre questa teoria primeggia in Ristoro, non si
trova (per quanto mi è noto) in nessun altro scrittore, che con
qualche probabilità Dante abbia potuto consultare, certamente
— 79 —
non si trova (per quanto a me consta) in Alfragano, B. Latini,
Alberto Magno, Sacrobosco ecc.
4. Che Ristoro, quantunque accessibile a Dante, non era pro-
babile fosse stato né conosciuto, né sentito mentovare da un fal-
sificatore posteriore.
5. Che il problema discusso nella Quaestio era di vivo interesse
e di discussione generale al tempo di Dante, e infatti, " indeter-
minatum restabat „ (Q. § i). Era dunque probabile che avesse at-
tirata la sua attenzione. E da ciò la necessità di una cosi seria
ed elaborata confutazione.
RISTORO D" AREZZO
Composizione del inondo L. \'I. e. J.
Reputo utile di riprodurre un capitolo caratteri-
stico di Ristoro, perché il lettore possa giudicare del
suo stile generale e del suo tono, e vedere quanto
siano analoghi a quelli dei pensieri svolti nella Quaestio:
tanto più che la sua opera non è facilmente accessibile,
(Questo capitolo preferisco dare secondo il testo Riccar-
diano 2164 antichissimo, al quale non è sempre con-
forme quello a stampa del Narducci.
" Poi ke noi avenio mosso e volto lo cielo, e asegnata
la cascione perk' elii se volge en quella parte là o' elli va, e anco
avenio asegnata la cascione perké li pianeti se movono da oc-
cidente ad oriente: vedemo che l'operazione del celo non pò
essare ella generazione, se la terra non è scoperta da l'aqua (').
Cum ciò sia cosa ke 1' aqua sia sperica, per rascione dea coprire
tutta la terra egualemente entorno entorno.
Vediamo sotto quale parte del cielo la terra possa essare sco-
perta, e quale parte del cielo la possa scoprire per mantenere
scoperta, per adoperali su; s'ella pò essare scoperta dala parte
de settentrione, o da quella del mezo die.
Per rascione dee essare scoperta dala parte più forte del
cielo e pili piena de virtude, come quella de settentrione; ka
noi vedemo la parte de settentrione essare fortiiìcata e piena
de figure, e spessa e sofolta de grandisima moltitudine de stelle;
(') Cfr. Q. xviir vv. 505:1 .
E. MOORE.
— 82 -
e la parte del mezo die rada e debele de poke figure e de poke fi-
gure e de poke stelle a quello respetto; et en quella parte spessa,
là o'so le molte figure e grandissima moltitudine de stelle, quella
parte dea essare forte, e ine dea essare per rascione molta vir-
t.ide, e molta potentia e molta operazione. Et quella parte rada
de poke figure e de poke figure e de poke stelle a quello respecto,
quella parte dea essare debele in operazione, a quello respecto, e
avere meno operazione e meno virtude. Adonque trovamo la
parte de settentrione più forte e più potente per adoperare ella
terra de quella del mezzo die, e potemola chiamare per rascione
p.irte dericta, enperciò k' ella è più forte; e potemola kiamare
per rascione parte de sopra, acciò ke Ili animali del zodiaco ten-
gono rcvolto lo capo eia parte de sopra en quella parte; e la
parte del mezzo die potemo kiamare per rascione parte manca,
enperciò k' ella è più rada e pili debele, de poke figure e de
poke stelle; e potemola kiamare per rascione parte de sotto,
aciò ke Ili animali del zodiaco tengono revolti li piei en quella
parte. Adonque è mestieri per forza de rascione ke la terra sia
scoperta dal' aqua eia parte dericta del cielo, la quale è più
spessa, e più forte e più potente: la quale potemo kiamare per
rascione parte de sopra, come quella de settentrione, la quale ù
piena de figure e de grandissima moltitudine de stelle.
Se lo cielo dea adoperare sopra la terra, secondo ke po-
gnono li savi, questa parte spessa del cielo per rascione dea es-
sare piena de virtude e de potentia, per potere scoprire la terra
dal' aqua e per mantenerla scoperta, per adoparalli su maggiur-
mente kè la calamita de' sostenere e de' trarre a sé lo ferro, e se
la kalamita non avesse virtude de trare a sé e de sostenere lo
ferro, lo ferro non sarea trato e non andarea ad essa. Et se lo
cielo non avesse virtute de scoprire la terra e de mantenerla
scoperta, non potarea adoparali su la sua operazione, e la ge-
nerazione non sarea, lo mondo guasto. Et se lo cielo ha vir-
tude per fare operazione sopra la terra, è mestieri k' elli abia
virtude per cessare via 1' aqua e de mantenere la terra scoperta
e spetialmente enverso la parte più forte del cielo, come quella
de settentrione. Et li savi s' acordano tutti, ke li corpi de sopra
abiano signoria e potentia sopra quelli de sotto. „
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Nota sulla parola " Auge „.
Questa parola, che nel significato equivale ad " Apogeo „ e
comune a tutte le opere medievali che si riferiscono all' astro-
nomia.
In queste il " perigeo „ è generalmente indicato come " o/>-
f)ositiini aiigis „, cosi in Ristoro, Ruggero Bacone, ecc. ecc, quan-
tunque anche (come talvolta in Ristoro) con un'altra parola
araba trascritta letteralmente zcinizaar, ovvero getizaar. La so-
miglianza della parola " auge „ e " apogeo „ sembra essere ac-
cidentale e questo termine non proviene dagli astronomi Greci,
ma da quelli Arabi. Anj m arabo è il termine tecnico per " apsis
summa stellarum „ ed è usato metaforicamente per ogni sommità.
Come termine astronomico si dice che provenga al pari di molti
altri da una parola Persiana cioè aiik. In Latino è trascritto alla
lettera generalmente per auge, atigis, ma Ruggero Bacone dà au.x
per nominativo ('). La stessa parola è usata in Italiano in geo-
metria per il pili alto punto di una curva; e metaforicamente per
il più alto punto, acme, grado o perfezione di alcuna cosa, p. e.
/' auge della gloria, della felicità, della perfezione. Si ritrova nello
stesso senso nello spagnolo e nel portoghese. Anche in Inglese
oltre all'esser in uso come termine tecnico astronomico, si tro-
vano esempi del secolo decimosettimo del suo uso metaforico
p. e. " They were in the auge or zenith of their first love. „
Anche la parola apogeo si trova con simile significato metafo-
rico in Inglese antico, ed in uno autore recente come Motley,
che scrive " The trade of the Netherlands had b}' no means
reached Its apogee. „ Pareva da principio difficile di connettere
r idea di gradazione, perfezione ecc. con quella di apogeo. Ma
è chiaramente il resultato del concetto Tolemaico che il centro
della Terra fosse il centro dell' Universo, e cosi il suo punto pili
basso, e perciò quanto maggiore fosse la distanza di qualsiasi
cosa dalla terra, tanto più alta essa sarebbe [^). Ciò può essere
illustrato dai seguenti passi. Quaestio § xv, v. 13: " Quum
(') P. e. Op. tìiaj. \. p. 137. Cosi pure in una delle traduzioni latine di Al-
fragano, cioè Ediz. 1590.
(') La nomenclatura sopravissuta de' pianeti " superiori „ e " inferiori „ ne e
un altro esempio.
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omne remotius a centro niuiuli sit altius „ ecc. ('), Ristoro, I.
e. 20: " da qualunque parte noi niovemo da questo punto (cioè
il centro della terra) andiamo verso il cielo e alla ùisii (^); „
II), e. 12: " vediamo una volta il pianeto esser al/o, di' lungi alla
terra.... e un' altra volta lo vedemo basso, appressato alla terra; e
quella parte del cerchio eh' è più levata dalla terra, eh' è chiamata
auge, ecc. „ cosi in altri passi. Parimenti Sacrobosco, de Spluiera,
I. 8: " quidquid a medio movetur versus circumferentiam coeli
ascettdit. (Da ciò ne arguisce l'immobilità della Terra, perché, se
si movesse, dovrebbe ascendere, cosa impossibile). Vedi anclie un
passo del Tresor di B. Latini ed uno di Benvenuto, supra,
pp. 22, 23.
L' auge della Luna sembra essere stato confuso da alcuni
scrittori con la sua Opposizione al Sole. Cosi Ruggero Bacone
Op. Maj. part. \W " Sed Ptolemaeus consideravit quod dia-
meter Lunae non aequatur secundum aspectum diametro Solis,
nisi quando Luna est in longitudine sua maxima. Et hoc est
quando Luna est in auge epicycli, et epic^^clus in auge ec-
centrici, et hoc est iteriim quando tst piena. „ Il Dott. Schmidt,
al quale debbo quest' ultima citazione, ricorda pure Delambre,
Hist. Astron. Anc, come segue: " Le diamètre de la Lune lui
(scil. Ptolémée) parut le méme que celui du soleil, lorsque dans
les oppositions elle est à 1' apogée de son épicycle. „
(') Cfr. Quaestio, § in. v. 9; XII. v. 24.
(^( Dante riconosce questo nell' /«/. XXXIV. 79 segg., quando dice che dopo
che egli e Virgilio hanno passato il centro della Terra, quantunque continuasse
nella stessa direzione, si trovò ascendendo,
Si che in inferno io credea tornar anche.
Similmente Platone, descrivendo la maniera colla quale i fiumi hanno la loro
sergente nel gran baratro del Tartaro che trapassa l'intera Terra, e tornano a
scorrere in esso (112 A, B) dichiara che non possono passare al di là del centro:
" Cjjiri-j ò' è'J-zì-j l/.'r.r(f,ej'7i ij.{yjji ToC //e'^ou /.«Stevat, Trs'oa e' oJ. òi-^vvzt; -/àfj i'/poTtpo:;
ro': pi'j;i.aii zi ?/«T£o«j&ev •/''•/vet«! /;.f/--o;. „ (112 E).
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