Skip to main content

Full text of "Bollettino della Società di studi valdesi"

See other formats


U&MfCf  Of  PRINCETON 

MAY  I  5  1995 

THEOLOGICAL  SEMINARY 

PER  BX4878   .B64  no. 170-171 

Bollettino  della  Societ/v  di 
studi  valdesi. 


Digitized  by  the  Internet  Archive 
in  2014 


https://archive.org/details/bollettinodellas1701soci 


N.  170 


Giugno  1992 


BaiETTlNO 

DELLA 

SOCIETÀ  DI  STVDI 
VALDESI 


LIBRARY  OF  PRINCETON 


APR  2  0  1995 


THEOLOGICAL  SEMINARY 


BOLLETTINO 
DELLA 

SOCIETÀ  DI  STUDI  VALDESI 


Rivista  di  Studi  e  ricerche  concernenti  il  Valdismo  e  i  movimenti 
di  riforma  religiosa  in  Italia. 


Comitato  scientifico  della  Società:  Giorgio  Spini,  Firenze,  presidente  -  Atti- 
lio Agnoletto,  Milano  -  Enea  Balmas,  Milano  -  Peter  Biller,  York  - 
Pierre  Bolle,  Grenoble  -  Emidio  Campi,  Zurich  -  Salvatore  Caponetto, 
Firenze  -  Alain  Dufour,  Genève  -  Olivier  Fatio,  Genève  -  Massimo 
Firpo,  Torino  -  Arturo  Genre,  Torino  -  Giovanni  Gonnet,  Roma  -  Theo 
Kiefner,  Calw  -  Domenico  Maselli,  Lucca  -  Grado  Merlo,  Milano  - 
Giovanni  Miccoli,  Trieste  -  Pierrette  Paravy,  Grenoble  -  Alexander 
Patschowsky,  Konstanz  -  Susanna  Peyronel,  Milano  -  Paolo  Ricca, 
Roma  -  Ugo  Rozzo,  Udine  -  Luigi  Santini,  Firenze  -  Kurt  Victor  Selge, 
Berlin  -  Aldo  Stella,  Padova  -  Geoffrey  Symcox,  Los  Angeles  -  Gio- 
vanni Tabacco,  Torino. 

Seggio  della  Società:  Giorgio  Rochat,  presidente  -  Giorgio  Tourn,  vicepresi- 
dente -  Bruna  Peyrot,  segretaria  -  Claudio  Pasquet,  cassiere  -  Gabriella 
Ballesio,  archivista  -  Marco  Baltieri,  Daniele  Tron,  membri. 

Direttore  Responsabile:  Augusto  Comba  -  Viale  Dante  54  -  10066  Torre 
Pellice. 

Amministrazione:  Vidi  Beckw'iih  3  -  10066  Torre  Pellice. 

Abbonamento  annuo:  persone  fisiche,  Italia  Lit.  40.000,  estero  Lit.  50.000; 
enti  e  biblioteche:  Italia  Lit.  45.000,  estero  Lit.  55.000; 

Prezzo  del  presente  Bollettino:  Lit.  25.000 

Servirsi  del  c/c  postale  N.  14389100:    Soc.  di  Studi  Valdesi, 
10066  Torre  Pellice. 

I  manoscritti  vanno  inviati  alla  Redazione.  Le  opere  da  recensire  deb- 
bono essere  inviate  in  duplice  copia. 


/ 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


Avevo  accettato  con  entusiasmo  di  partecipare  ad  una  discussione  di  bilancio 
sull'opera  storiografica  di  Giorgio  Spini  per  quanto  era  di  mia  competenza  e  cioè  in 
particolare  sui  suoi  lavori  di  modernista.  Era  anche  un  modo  per  ricostruire  un  itinerario 
che  per  qualche  verso  era  analogo  e  profondamente  innervato  a  quello  dei  maestri  della 
mia  generazione.  Va  detto  che  ciascuno  si  ritaglia,  di  un  autore,  un  percorso 
discontinuo,  che  è  ancora  del  tutto  prestoriografico.  Di  questo  percorso  facevano  parte 
solo  alcuni  libri,  prima  di  tutto  la  Ricerca  dei  libertini  del  1950^  poi  il  volume 
Risorgimento  e  protestanti  ^  del  1956;  poi  ancora  non  solo  il  manuale  scolastico  ^,  una 
grande  avventura  "civile",  che  ha  legato  a  Spini  decine  di  migliaia  di  giovani  insegnanti 
della  scuola  secondaria  che  si  trovavano  a  fare  i  conti  con  i  testi  "defascistizzati",  ma 
non  ripensati,  ma  soprattutto  la  Storia  dell'età  moderna^.  Apparsa  prima  da  Cremonese 
nel  1960,  in  un'edizione  lussuosa,  ma  scarsamente  agevole  (era  uno  dei  pochi  regali  che 
i  docenti  democratici  talvolta  ricevevano  come  premio  delle  proprie  scelte)  poi,  a  partire 
dal  1965,  nella  Piccola  Biblioteca  Einaudi  ^,  che  ne  ha  fatto  la  prima  fortunata  ed  affa- 


^  G.  Spini,  Ricerca  dei  libertini.  La  teoria  delli' impostura  delle  religioni  nel  Seicento  ita- 
liano, Roma,  Editrice  Universale,  1950. 

^  Idem,  Risorgimento  e  protestanti,  Napoli,  ESI,  1956 

^  Idem,  Disegno  storico  della  civiltà  italiana,  I,  Bari,  Macrì,  1947;  II,  Firenze,  Macrì,  1948; 
III,  Roma,  Perrclla,  1949.  Il  manuale  sarebbe  poi  passato  a  Cremonese,  Milano,  per  raggiungere 
nel  1970  la  decima  edizione  con  il  titolo  Disegno  storico  della  civiltà.  Lo  Spini  era  anche  coau- 
tore (con  U.  Olobardi)  di  un  manuale  per  la  media,  Fatti  figure  della  storia,  Roma,  Perrella, 
1952,  voli.  3.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'insegnamento  della  storia  dall'età  della  Sinistra  ad  oggi,  in 
Clio  e  il  centauro  Chirone,  Milano,  B.  Mondadori,  1989,  pp.  11-35.  Per  un  confronto  con  i  pro- 
grammi cfr.  G.  Di  Pietro,  Da  strumento  ideologico  a  disciplina  formativa.  I  programmi  di  storia 
nell'Italia  contemporanea,  Milano,  B.  Mondadori,  1991. 

Idem,  Storia  dell'età  moderna.  Dall'impero  di  Carlo  V all'Illuminismo,  Roma,  Cremonese, 
I960;  Cfr.  G.  Falco,  A  proposito  di  una  nuova  storia  d'Italia,  in  «  Rivista  storica  italiana  »,  n.  1, 
1961,  pp.  83-91. 

5  Idem,  Storia  dell'età  moderna,  Torino,  Einaudi,  1965,  voli.  3  (I,  1515-1598;  II  1598-1661; 


4 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


scinante  opera  di  sintesi  generale  per  l'Università.  Di  questo  percorso  facevano  parte 
gli  interessi  per  i  trattatisti  di  storia  del  Seicento  ^  e,  piìj  tardi,  il  bellissimo  e  coraggioso 
woìumQ  Autobiografia  della  giovane  America,  uscito  sempre  da  Einaudi  nel  1968  ^. 

Come  si  può  vedere,  un  percorso  parziale,  che  ignorava  tutta  una  parte  del  lavoro 
storiografico  di  Spini,  quello  che  riguardava  più  analiticamente  la  formazione  dello 
Stato  toscano  cinquecentesco  (dall'edizione  delle  lettere  di  Cosimo  I  ^,  che  risale  al 
1940,  al  volume  sempre  su  Cosimo  I  e  l'indipendenza  dello  Stato  mediceo,  del  1945  ^, 
ai  lavori  Tra  Rinascimento  e  Riforma  (dalla  rassegna  su  Antonio  Brucioli  del  1940,  al 
volume  dello  stesso  anno  ^°).  Ignorare  qui  ha  un  significato  abbastanza  letterale,  nel 
senso  che  sapevo  che  esistevano,  ma  non  li  avevo  mai  letti.  E  indubbio  che  in  questo 
percorso  discontinuo,  o  per  lo  meno  ricco  di  vuoti,  ha  giocato  profondamente  la  mia 
soggettività  di  studioso.  Ma  non  è  mancato  anche  il  ruolo  di  una  lettura  "torinese",  che 
tendeva  ad  enfatizzare,  di  Spini  come  storico  moderno,  più  il  laico  gobettiano,  o  il 
"libertino"  (non  a  caso  Arrigo  Calumi  aveva  fatto,  partendo  da  una  tradizione  molto 
torinese,  l'elogio  del  libertino  in  senso  antifascista)  mettendo  a  parte  lo  studioso 
dello  Stato  mediceo  e  della  Riforma. 

Ho  avuto  la  fortuna  di  ascoltare  direttamente  Walter  Maturi  quando  recitava,  con  la 
sua  irripetibile  bonomia  partenopea,  quelle  che  una  pietà  postuma  e  necessaria  ha  ri- 
composto come  Interpretazioni  del  Risorgimento  (1962)  Ma  era  stato  proprio  Ma- 
turi, che  aveva  contribuito  alla  "chiamata"  di  Venturi  a  Torino,  per  rafforzare  la  compo- 
nente laica  e  "neoilluminista",  di  cui  oggi  si  è  cominciato  a  fare  la  storia  per  quanto  ri- 
guarda gli  anni  Cinquanta  a  costruire  il  "gobettismo"  come  categoria  storiografica 
complessa,  inserendovi,  oltre  Franco  Venturi,  Nino  Valeri,  Aldo  Garosci  e  Alessandro 
Galante  Garrone,  anche  Giorgio  Spini.  Le  pagine  su  quest'  ultimo  fanno  parte  del  sesto 


III,  1661-1763). 

^  Idem,  /  trattatisti  dell'arte  storica  e  la  Controriforma  italiana,  in  «  Quaderni  di  Belfagor  », 
Pisa,  1948.  Vedilo  ora  in  Barocco  e  puritani.  Studi  sulla  storia  del  Seicento  in  Italia,  Spagna  e 
New  England,  Firenze,  Vallecchi,  1991,  pp.  33-141. 

^  Idem,  Autobiografia  della  giovane  America,  Torino,  Einaudi,  1968. 

^  Cosimo  I  de'  Medici,  Lettere,  a  cura  di  G.  Spini,  con  introduzione  di  A.  Panella,  Firenze, 
Vallecchi,  1940. 

^  Spini,  Cosimo  I  e  l'indipendenza  dello  stato  mediceo,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1945. 
Vedilo  ora  nella  nuova  edizione,  Firenze,  Vallecchi,  1980. 

Idem,  Ira  Rinascimento  e  Riforma,  Antonio  Brucioli,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1940. 

Cajumi,  Pensieri  di  un  libertino,  Torino,  Einaudi,  1950.  Ma  cfr.  la  prima  ed.,  meno  com- 
pleta, Milano,  Longanesi,  1947. 

W.  Maturi,  Interpretazioni  del  Risorgimento,  Torino,  Einaudi,  1962. 

Il  Neo-Illuminismo  italiano.  Cronache  di  filosofia  (1953-1962),  a  cura  di  M.  Pasini-D. 
Rolando,  Milano,  II  Saggiatore,  1991. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


5 


corso,  quello  1956-60  che  avrebbe  dovuto  concludere  esaminando  la  storiografia  più 
recente.  Non  a  caso  entrano  in  un  capitolo  legato  allo  sviluppo  della  storiografia  gobet- 
tiana,  dove  Spini  è  collocato  al  centro,  fra  Venturi  e  Valeri.  Erano  pagine  che  Maturi 
non  avrebbe  più  potuto  rivedere  e  che  risentivano  della  sua  straordinaria  oralità  didat- 
tica. Ma  alcune  sottolineature  appaiono  ancor  oggi  significative,  come  la  implicita,  mo- 
derna storia  di  uno  dei  temi  gobettiani,  «  la  mancata  riforma  religiosa  come  origine 
delle  deficienze  del  carattere  italiano  »  Maturi  la  fa  risalire  alla  tradizione  hegeliana 
meridionale  del  Risorgimento,  ripresa  da  Giovanni  Gentile,  resa  «  un'elegante  disserta- 
zione »  da  Mario  Missiroli  destinata  a  diventare  in  Gobetti  «  una  cosa  seria,  base  del 
suo  apostolato.  Il  protestantesimo  —  aggiunge  Maturi  —  sta  al  Gobetti,  come  il 
giacobinismo  al  Gramsci.  Non  è  solo  un  fenomeno  storico,  è  un  paradigma  etico  »  E 
Maturi  non  poteva  non  ricordare  non  solo  l'articolo  del  Gobetti,  //  nostro 
protestantesimo  ma  anche  la  collaborazione  a  «  Conscientia  ».  la  rivista  del 
protestantesimo  italiano,  che  si  iniziò  a  stampare  a  Roma  nel  1922,  in  cui  compar\'ero 
alcuni  nodi  del  futuro  Risorgimento  senza  eroi  ma  anche  il  lavoro  di  editore 
militante,  a  proposito  della  significativa  opera  di  Giuseppe  Gangale,  Rivoluzione 
protestante  non  a  caso  stampata  dalla  coraggiosa  casa  editrice  torinese,  legata  alle 
riviste  e  al  gruppo  intellettuale  formatosi  con  «  Rivoluzione  liberale  »  e  alla  ricerca  di 


^"^  M.ATURI,  Interpretazioni  del  Risorgimento  cìi.,  pp.  613  sgg. 
^5  Ivi,  p.  658. 

M.  Missiroli,  La  monarchia  socialista,  Bari,  Laterza,  1914.  Ma  cfr.  P.  Gobettl  La  mo- 
narchia socialista,  noia  che  precedeva  in  «  Rivoluzione  liberale  »  «  un  mirabile  studio  premesso 
da  Missiroli  ad  una  nuova  edizione  del  suo  volume  ».  Fra  l'altro  Gobetti  si  chiedeva  «  se  abbia 
senso  da  noi  generalizzare  l'esperienza  anglosassone  e  in\  ocare  anche  per  noi  una  riforma  reli- 
giosa.» Si  domandava  se  non  era  più  realistico  attendersi  «la  conquista  di  una  religiosità  laica  da 
una  praxis  politica  »,  ponendosi  semmai  l'ulteriore  domanda  se  il  marxismo  escludeva  o  meno  il 
riformismo  (P.  Gobetti,  Scritti  politici,  a  cura  di  P.  Spriano,  Torino,  Einaudi,  1960,  p.  350). 

M.ATL'RI,  Interpretazioni  del  Risorgimento  cit.,  p.  658. 

P.  Gobetti,  //  nostro  protestantesimo,  in  Opera  critica,  Torino,  Barelli,  1926.  Ma  cfr.  la 
nota  di  P.  Gobetti,  La  Riforma  in  Italia,  in  cui,  in  polemica  con  Armando  Cavalli,  ribadiva  che 
«  l'assenza  di  una  Riforma  religiosa  in  Italia  non  si  può  riparare  con  un  tardivo  fenomeno  di  imi- 
tazione, oggi  che  nel  ritmo  della  vita  sociale  il  fatto  politico  prevale  sui  fatti  religiosi,  ma  continua 
a  rimanere  viva  un'esperienza  di  protestantesimo  come  noviziato  di  libertà,  di  serietà  morale,  di 
educazione  moderna.  E  anche  "  Conscientia  "  in  quanto  riprende  le  tradizioni  laiche  nazionali,  in 
quanto  utilizza  lutti  gli  sforzi  storici  usali  per  fare  entrare  anche  in  Italia  le  idee  di  tolleranza,  di 
libero  esame,  di  moralità  produttrice,  di  materia  politica,  la  sua  funzione  evidente  è  politica  »  (P. 
Gobetti,  Scrini  politici  cit.,  p.  547).  Ma  per  quanto  riguarda  //  nostro  protestantesimo  (vedilo  ivi, 
pp.  823-826)  dopo  essere  stalo  pubblicalo  su  «Conscientia»  nel  1923,  era  stalo  riedito  su 
«  Rivoluzione  liberale  »  nel  1925.. 

Idem,  Risorgimento  senza  eroi,  Torino,  Bareni,  1926. 

G.  Gangale,  Rivoluzione  protestante,  Torino,  Gobelli,  1925. 


6 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


significative  relazioni  italiane 

Non  voglio  qui  entrare  nel  merito  dell'analisi  di  Maturi  che  investe  soprattutto  Ri- 
sorgimento e  protestanti  come  «  trasposizione  del  mito  del  Piemonte  risorgimentale  non 
nel  grande  mondo  della  civiltà  moderna,  come  avevano  detto  Gobetti  e  Gramsci,  ma  nel 
piccolo  mondo  protestante  italiano  » 

Walter  Maturi,  che  una  finissima,  errabonda  e  quasi  disordinata  curiosità 
intellettuale  salvava  sempre  dalle  ortodossie,  fossero  quelle  del  crocianesimo,  di  un 
certo  liberalismo  conservatore,  o  quelle  ancora  del  risorgimentista  ortodosso,  non  solo 
giudicava  molto  bella  la  Storia  dell'età  moderna,  che  doveva  aver  appena  letto,  ma  se 
ne  spiegava  le  caratteristiche  «  nanative  »  non  solo  cogliendo  un  debole  antico  per  la 
letteratura  dello  storico  fiorentino,  ma  soprattutto  per  l'incontro  con  la  storiografia 
americana  e  la  sua  riscoperta  di  William  Prescott.  Alla  sua  Conquista  del  Perù  lo  stesso 
Spini  avrebbe  dedicato  una  prefazione  nella  quale,  secondo  Maturi,  era  «  sottolineato 
con  entusiasmo  il  momento  romantico  della  storiografia  incarnato  in  Prescott  »  fino 
a  scrivere:  «  Gibbon  e  Voltaire  non  sono  maestri  sufficienti  per  lo  storico:  gli  è 
indispensabile  la  fantasia  di  Walter  Scott  » 

In  qualche  misura  questa  lettura  «  gobettiana  »  e,  soggiungo,  «  neoilluminista  », 
l'aveva  autorizzata  lo  stesso  Spini,  come  mostra  la  finissima  discussione  del  saggio  di 
Franco  Venturi  su  Alberto  Radicati  di  Passerano  uscita  sulla  «  Rassegna  storica  del 
Risorgimento  »  nel  1954  e  ora  riproposta  nel  volume  Barocco  e  puritani.  Studi  sulla 
storia  del  Seicento  in  Italia,  Spagna,  New  England  ancora  come  conclusione  non 
solo  temporale,  ma  anche  ideale  del  discorso.  Si  costituiva  (nel  dialogo  fra  i  due  storici) 
una  complessa  sequenza  fra  libertinismo  e  primo  illuminismo,  in  cui,  vale  la  pena  di 
notarlo,  era  piuttosto  lo  Spini  a  mostrare  cautela  e  a  ridiscutere  il  ruolo  del 
Protestantesimo  nella  formazione  di  Radicati.  Non  a  caso  Venturi,  ringraziando  delle 
osservazioni  e  dei  suggerimenti,  in  particolare  in  quelli  riguardanti  i  rapporti  di  Radicati 
con  l'Olanda  e  della  fortuna  nel  Piemonte  alfieriano,  poteva  concludere:  «  E  questo  un 
campo  in  cui  ancora  molto  resta  da  fare  e  nessuno  meglio  di  Spini  potrà  contribuire  a 
darci  un  quadro  di  quel  passaggio  e  di  quella  contrapposizione  fra  Libertinismo  e 
Illuminismo  che  resta  uno  dei  problemi  più  appassionanti  della  vita  intellettuale  italiana 


2'  Le  Riviste  di  Piero  Gobetti,  a  cura  di  L.  Anderlini-L.  Basso,  Milano,  Feltrinelli,  1962. 

Maturi,  Interpretazioni  del  Risorgimento  cit.,  p.  659. 
2^  W.  Prescott,  Conquista  del  Perù.  Introduzione  di  G.  SPINI,  Firenze,  Le  Maschere,  1959. 

W.  Maturi,  Interpretazioni  del  Risorgimento  c\{.,  pp.  662-663. 
2^  W.  Prescott,  op.  cit.,  introduzione  di  G.  Spini,  p.  xxxv. 

F.  Venturi,  Alberto  Radicati  di  Passerano,  Torino,  Einaudi,  1954. 

G.  Sl'iNl  ,  Barocco  e  puritani  cit..  Dai  libertini  agli  illuministi.  Discussione  su  Alberto 
Radicati  di  Passerano,  pp.  407-427.  Questo  lesto  (e  la  risposta  di  Venturi)  erano  apparsi  sulla 
«  Rassegna  slorica  del  Risorgimento  »  del  1954. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


7 


ed  europea  » 

Non  ho  certamente  la  pretesa  di  riproporre  in  questa  sede  le  complesse  e  spesso 
intricate  matrici  storiografiche  che  animano  e  rendono  così  sorprendente,  viva  e  in 
qualche  misura  irripetibile  l'esperienza  intellettuale  di  Giorgio  Spini.  Ma  anche  a  voler 
limitare  l'esame  a  due  testi  soltanto,  come  la  Ricerca  dei  libertini  e  la  Storia  dell'età 
moderna,  magari  utilizzando  come  chiave  di  lettura  a  latere  la  recentissima  raccolta  Ba- 
rocco e  puritani,  mi  è  sembrato  necessario  delimitare  la  lettura  «  torinese  »,  di  cui  sono 
stato  a  lungo  prigioniero,  per  tentare  di  cogliere  nel  loro  spazio  reale,  per  quanto  mi  è 
possibile,  le  linee  del  discorso.  Da  questo  punto  di  vista  può  essere  interessante  interro- 
gare un  frammento  anche  autobiografico  di  grande  efficacia  ricostruttiva  e  insieme  di 
pittoresca  polemica  che  Spini  ha  premesso  alla  nuova  edizione  e  scrittura  del  Cosimo 
(1980):  «  Questo  libro  si  occupa  di  fatti  accaduti  davvero  e  di  personaggi  con  nome  e 
cognome  anziché  di  ipotesi  ingegnose,  di  fenomeni  di  lunga  durata,  oppure  di  storia  con 
la  "  s  "  minuscola  e  di  "fondi  di  cucina".  Non  tenta  di  applicare  metodi  di  storia  quanti- 
tativa all'evoluzione  in  senso  burocratico-assolutistico  dello  Stato  fiorentino,  elabo- 
rando statistiche  del  consumo  di  carta,  penne  e  inchiostro  dei  funzionari  di  Cosimo  de' 
Medici.  Non  studia  la  vicenda  di  Filippo  Strozzi  alla  luce  di  indagini  sulla  "cultura  ma- 
teriale" partendo  dall'analisi  del  ferro  con  cui  era  fatta  la  spada  che  egli  usò  per  suici- 
darsi. Non  fa  riferimento  ad  "oscure  mitologie  contadine",  né  alla  "cultura  orale".  Per- 
ciò può  darsi  che  a  taluno  sembri  un  po'  fuori  moda.  L'opera  tratta  però  di  una  lotta  per 
il  potere,  che  ebbe  come  teatro  Firenze  fra  il  1537  e  il  1543  e  come  esito  l'affermazione 
del  principato  di  Cosimo  de'  Medici  e  della  sua  piena  sovranità.  Questa  sovranità  durò 
dall'uno  all'altro  dei  Medici  e  poi  dei  Lorena,  fino  al  Risorgimento  italiano,  cioè  per  ol- 
tre tre  secoli  ...  »  In  questo  tempo,  aggiunge  Spini,  «  i  sudditi  di  Firenze  riuscirono 
in  genere  a  non  crepare  di  fame  od  a  crepare  un  po'  meno  dei  sudditi  degli  spagnoli  o 
del  papa.  La  storia  con  la  "  s  "  minuscola  può  essere  molto  piìì  leggiadra  della  vecchia  e 
brutta  Storia  con  la  "  s  "  maiuscola;  però  diffìcilmente  l'una  riesce  a  sfuggire  ai  condi- 
zionamenti dell'altra.  Dunque  anche  la  "  storia  evenemenziale  "  non  è  poi  tutta  da  buttar 
via  ...» 

In  realtà  Spini  stesso  sente  il  bisogno  di  affrontare  più  «  direttamente  perché  nel 
libro  si  avverta  un  certo  sentore  di  "  fuori  moda  ".  Con  tutto  il  rispetto  dovuto  a  due 
sommi  come  il  Machiavelli  e  il  Guicciardini,  è  inevitabile  che  il  mondo  e  gli  uomini 
non  sono  rimasti  fermi  al  Principe  e  alla  Storia  d'Italia.  Hanno  contribuito  a  camminare 
spesso  per  vie  cui  i  due  grandi  fìorentini  non  avevano  posto  mente.  Questo  libro  è  con- 


F.  Venturi,  Franco  Venturi  risponde,  ivi,  pp.  428-433.  La  cit.  a  p.  433. 
Spini,  Cosimo  I  e  l'indipendenza  del  principato  mediceo,  Firenze,  Vallecchi,  1980,  Pro- 
logo, p.  vii. 

■^^  Ivi,  p.  xiii. 


8 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


dotto  sulla  base  dei  documenti  e  della  memorialistica  del  tempo  e  quindi,  attraverso  le 
sue  pagine,  parlano  una  mentalità  e  un  linguaggio  che  sono  remoti  da  noi.  E  sono  tanto 
più  lontani  quanto  più  sono  vicini  a  situazioni  e  locuzioni  di  stampo  machiavelliano  o 
guicciardiniano  »  In  verità,  commenta  Spini,  riprendendo  e  sintetizzando  uno  dei 
temi  forti  della  sua  Storia  dell'età  moderno,  le  premesse  per  grandi  scelte  sulla  storia 
c'erano  già:  fra  queste,  accanto  alla  scoperta  dell'America,  alla  fortuna  di  Erasmo,  alla 
circolazione  dell'  Utopia  di  Tommaso  Moro  (stampata  a  Firenze  fin  dal  1519),  c'è  la  Ri- 
forma, che  appare  sempre  più  come  il  vero  punto  di  partenza  della  modernità:  «  Lutero 
aveva  dato  inizio  alla  Riforma  protestante  da  venti  anni;  le  prime  ondate  di  rivoluzione 
sociale  erano  già  passate  sull'Europa  con  la  guerra  dei  contadini  e  con  gli  anabattisti; 
nel  1536  Calvino  era  giunto  a  Ginevra.  Sta  di  fatto  che  dell'arrivo  di  queste  realtà  i  due 
grandi  maestri  del  realismo  politico  non  si  accorsero  affatto  o  si  accorsero  molto  poco. 
Del  resto,  ai  realisti  politici  capitano  spesso  inconvenienti  di  questo  genere  » 

In  realtà  Spini  dichiara  poi  esplicitamente  che  «  la  vera  ragione  dell'odor  di  vec- 
chiume che  si  può  avvertire  in  queste  pagine  consiste  però  nel  fatto  che  si  tratta  di  un  li- 
bro il  cui  primo  nucleo  risale  ad  oltre  quaranta  anni  or  sono  » 

Nato  come  tesi  di  laurea  a  Firenze  sotto  la  guida  di  Nicolò  Rodolico,  legato  ad  un 
solido  modello  di  storiografia  positivistica,  capace  di  aprirsi  anche  a  certi  tratti  di  storia 
religiosa  e  culturale,  il  lavoro,  dopo  lo  scavo  all'archivio  di  Firenze,  necessitava  di  una 
ricerca  in  quegli  archivi  europei,  in  particolare  in  quello  di  Simancas,  che  Pietro  Egidi 
aveva  aperto  con  un  vasto  programma  di  ricerca  ai  giovani  ambiziosi  storici  italiani, 
primo  fra  tutti  -  anche  se  non  cronologicamente  -  Federico  Chabod  destinato  a  rin- 
novare, attraverso  quell'esperienza,  non  solo  la  storia  dello  Stato  di  Milano,  ma  il  mo- 
dello stesso  della  storia  politica  istituzionale  e  cultural-religiosa.  Spini  —  per  percorrere 
la  stessa  strada  in  anni  più  difficili,  come  quelli  in  cui,  dopo  la  guerra  civile,  si  era 
all'inizio  del  conflitto  mondiale  —  dovette  accettare  alla  fine  del  1940  un  posto  di  let- 
tore di  italiano  a  Santiago,  «  una  specie  di  grosso  villaggio  tutto  costruito  in  pietra 
grigia,  con  un'infinità  di  chiese  e  di  conventi  di  granito  grigio,  un  cielo  grigio  da  cui 
veniva  la  pioggia  almeno  due  volte  al  giorno  »,  e  più  di  un  terzo  degli  abitanti  che  «  non 
era  grigio  perché  era  formato  da  preti,  frati,  gesuiti  e  monache,  tutti  intabarrati  in 
nero  »     Era  un'università  in  cui  Franco  mandava  i  professori  «  malfidi  »  e  questi,  che 


^'  Ivi,  p.  xiv. 

Ivi,  loc.  cil. 
^■^  Ivi,  loc.  cil. 

■^'^  Su  F.  Chabod  cfr.  AA.VV,  Federico  Chabod  nella  cultura  e  nella  vita  contemporanea, 
numero  speciale  della  «  Rivista  slorica  italiana  »,  4,  1960;  dr.  G.  Sasso,  Profilo  di  Federico 
Chabod,  Bari,  Laler/a,  1961.  Cfr.  ancora  AA.VV.,  Federico  Chabod  e  la  «  nuova  storiografia  » 
dal  primo  al  secondo  dopoguerra,  a  cura  di  H.  Vl(ìHZ/l,  Milano,  Jaca  Book,  1984. 
Spini,  Cosimo  Ic'W.,  Prologo,  pp.  XIV. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


9 


avevano  rischiato  la  pelle,  non  avevano  nessuna  voglia  di  aprirsi:  «  quindi  la  loro 
conversazione  era  di  un  colore  piuttosto  grigio  cupo  »  L'unico  vantaggio  di  Santiago 
era  la  sua  vicinanza  al  Portogallo:  la  possibilità  di  seguire  sui  giornali  portoghesi  le 
notizie  di  parte  inglese  sulla  guerra.  Ma  Santiago  gli  consentiva  di  andare  a  Simancas.  Il 
modo  con  cui  Spini  rievoca  l'emozione  dell'impatto  con  questo  essenziale  centro  di 
ricerca  ha  la  stessa  composta  e  solenne  letterarietà  della  straordinaria  rievocazione  che 
Femand  Braudel  ne  aveva  fatto  sulle  pagine  della  «  Rivista  storica  italiana  »  in  morte  di 
Federico  Chabod  Ma  la  magia  un  po'  desolata  del  viaggio  per  la  meseta  fino  «  al 
piede  delle  torve  torri  »,  dove  tra  i  merli  non  mancano  i  corvi  che  gracchiano 
lamentevolmente,  è  interrotta  e  quasi  riscattata  qui  dal  disegno  di  una  rapida,  ironica  ed 
umanissima  vignetta,  in  cui  è  implicito  il  ricordo,  ma  anche  la  sua  estraneità  rispetto  ai 
programmi  di  ricerca  che  lo  avevano  preceduto:  «  Sulla  porta,  stava  un  signore  austero, 
vestito  di  nero,  che  mi  si  presentò  come  lo  archiverò  major  e  sentendo  che  ero  un 
italiano  mi  domandò  se  sapevo  chi  era  stato  il  sefior  Vittorio  di  Tocco.  Risposi  che 
sapevo  che  Vittorio  di  Tocco  era  stato  uno  storico  valente,  morto  in  giovane  età  per  una 
malattia  contratta  appunto  a  Simancas:  "  Sono  io  che  ho  rispedito  in  Italia  il  suo 
cadavere  —  disse  egli  solennemente  e  toccandosi  la  falda  del  cappello  nero  si  inchinò 
—  sempre  a  sua  disposizione,  a  sua  completa  disposizione 

Richiamato  in  Italia  sotto  le  armi  e  ritornato  perché  convinto  di  poter  assistere  alla 
imminente  fine  del  Regime,  avrebbe  dovuto  sostenere  non  solo  i  rimbrotti  del  padre, 
che  lo  aveva  trattato  da  grullo  per  non  essere  espatriato,  ma  anche  due  anni  di  servizio 
militare.  Il  libro,  completato  e  accettato  —  attraverso  Ernesto  Codignola  —  nella 
collana  storica  Vallecchi,  avrebbe  dovuto  attendere  fino  al  1945  dopo  l'S  settembre 
e  la  Resistenza. 

Vale  la  pena  di  interpretare  anche  ciò  che  vi  è  di  implicito.  Spini  dice  che,  dopo 
aver  tribolato  otto  anni  «  dietro  a  Cosimo,  non  ne  potevo  proprio  piiì  e  che,  per  un  quar- 
to di  secolo  dopo  la  pubblicazione,  non  avevo  più  voluto  sentir  parlare  dei  Medici  » 
In  realtà  stava  crescendo,  in  qualche  misura  parallelo,  ma  sempre  più  pervasivo  rispetto 
alla  tematica  prevalentemente  politica,  quell'interesse  per  la  storia  culturale  e  religiosa, 
che  aveva  radici  diverse  dai  modelli  di  storia  filosofica  di  impronta  gentiliana  che  do- 
minavano nelle  facoltà  toscane,  avendo  come  tema  centrale  il  Rinascimento     alla  le- 


36  Ivi,  pp.  XIV-XV. 

3^  F.  Braudel,  Auprès  de  Federico  Chabod,  in  «  Rivista  slorica  iuiliana  »,  numero  speciale 
su  F.  Chabod,  cit.,  pp.  621-624 

3^  G.  Spini,  Cosimo  /  cit..  Prologo,  p.  XV. 
39  Ivi,  p.  XVI. 
Ivi,  loc.  cit. 

'^^  Cfr.  G.  Saitta,  Filosofia  italiana  e  Umanesimo,  Venezia  1928;  Idem.,  L'educazione 
dell'Umanesimo  in  Italia,  Firenze,  1928;  Idem,  Marsilio  Ficino  e  la  filosofia  dell'Umanesimo,  Fi- 


10 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


zione  di  Croce  all'esperienza  di  un  giovane  maestro  come  Delio  Cantimori  che  nel 
1939  aveva  pubblicato  Gli  eretici  d'Italia  Era  lo  stesso  mondo  in  cui  si  stava  deline- 
ando la  grande  e  originale  avventura  di  Eugenio  Garin  Un  mondo  difficile  e  alto  che 
—  da  quanto  ho  capito  —  Giorgio  Spini  seppe  affrontare  mantenendo  fede  alle  proprie 
caratteristiche  psicologiche,  intellettuali  e  religiose:  una  radice  protestante  profonda, 
che  gli  riproponeva  in  storia  sia  il  ruolo  della  responsabilità  individuale,  sia  il  senso  fe- 
condo delle  minoranze,  la  simpatia  non  tanto  per  i  vincitori,  quanto  per  coloro  che, 
sconfitti,  sapevano  mantenere  in  vita  le  loro  idee,  creando  fermenti  per  il  futuro.  C'era 
anche  un  rifiuto  istintivo  per  tutte  le  forme  di  dogmatismo,  politiche  e  religiose.  Ma 
c'era  ancora,  solo  apparentemente  contraddittorio,  un  gusto  dell'avventura,  della  vita 
intesa  anche  come  vitalità  e  senso  del  viaggio,  forse  la  segreta  matrice  di  un  tono 
narrativo  che  avverte  immediatamente  i  sovratoni  e  li  smorza  con  l'autorironia,  in  que- 
sto diverso  sia  dal  tormento  pieno  di  antitesi  cantimoriano,  sia  dalla  istituzionalità  mo- 
numentale e  principesca  di  Chabod. 

Il  senso  fecondo  dell'eresia  si  coglie  nel  modo  di  leggere  Croce,  scegliendo  con 
ciò  non  solo  il  confronto  con  l'inevitabile  Storia  dell'età  barocca  del  1929  e  i  saggi 
successivi,  misurandosi  attentamente  con  le  grandi  pagine  di  storia  della  storiografia, 
ma  soprattutto  tenendo  conto  della  congenialità  profonda  di  quelle  Vite  di  avventura  di 
fede  e  di  passione  in  cui  un  Croce  apparentemente  minore  ed  erudito  inseguiva  per 
l'Europa  eretici  fuggiaschi  e  coerenti  come  il  marchese  di  Vico. 

E  in  un  contesto  del  genere  che  matura  —  accanto  al  lavoro  su  Cosimo  — 
l'interesse  per  Antonio  Brucioli,  in  un  libro  non  a  caso  intitolato  Fra  Rinascimento  e  Ri- 
forma, pubblicato  dalla  Nuova  Italia  nel  1940,  frutto  di  ricerche  che  risalgono  alla  fine 
degli  anni  trenta,  su  una  personalità  secondaria  e  insieme  significativa  di  quel  mondo 
che  vede  la  fine  della  repubblica  (aveva  partecipato  alle  conversazioni  degli  Orti 
Oricellari,  aveva  congiurato  contro  i  Medici  dopo  il  loro  ritorno,  era  stato  esule  a 
Verona  e  in  Francia,  si  era  avvicinato  a  Lione  al  protestantesimo,  ma  quando  era  tornato 


rcnzc,  Le  Monnicr,  1943;  Idem,  // pensiero  italiano  dell'Umanesimo  e  del  Rinascimento,  Bolo- 
gna, Zuffi,  1949-1951,  voli.  3. 

Cfr.  B.  Croce,  Teoria  e  storia  della  storiografia,  Bari,  Laterza,  1917;  Idem,  Storia  della 
storiografia  del  secolo  XIX,  Bari,  Laterza,  1921,  voli.  2;  Idem,  La  Spagna  nella  vita  italiana  du- 
rante la  Rinascenza,  Bari,  Laterza,  1925;  Idem,  Storia  d'Europa  nel  secolo  XIX,  Bari,  Laterza, 
1929;  Idem,  Storia  come  pensiero  e  come  azione,  Bari,  Laterza,  1938. 

^'^  Cfr.  D.  Cantimori,  Gli  eretici  italiani  del  500,  Firenze,  Sansoni,  1939. 

Cfr.  E.  Garin,  Pico  della  Mirandola.  Vita  e  dottrina,  Firenze,  Le  Monnier,  1937;  Idem,  // 
Rinascimento  italiano,  Milano,  ISPI,  1941.  Cfr.  Bibliografia  degli  scritti  di  Eugenio  Garin,  Bari, 
Laterza,  1969. 

Croce,  Storia  dell'età  barocca,  Bari,  Laterza,  1929 

Idem,  Vite  di  avventura,  di  fede  e  di  passione,  Bari,  Laterza,  1947. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


11 


a  Firenze  nel  1527,  per  l'ultima  fiammata  repubblicana,  si  era  scontrato  con  i  piagnoni 
eredi  del  Savonarola;  aveva  ripreso  l'esilio,  trovando  per  un  lungo  tratto  a  Venezia  una 
certa  fortuna  a  contatto  di  quell'industria  tipografica  —  i  Giunti  e  i  Giolito  "^"^  —  che 
stava  compiendo  la  sua  «  rivoluzione  inavvertita  »  Non  aveva  mancato  di  fare 
l'informatore  per  Cosimo;  era  diventato  amico  di  Pietro  Aretino;  aveva  cercato,  con  i 
fratelli,  di  trasformarsi  a  sua  volta  in  editore;  si  era  fatto  autore  e  curatore  di  testi  e  tra- 
duzioni che  l'autunno  del  Rinascimento  e  soprattutto  la  montante  Controriforma  avreb- 
bero denunciato  come  eretici.  Di  qui  la  serie  di  processi  e  condanne  che  mostrano  mise- 
ramente la  sua  parabola  discendente  fino  all'ultimo  documento  che  segna  la  biografia, 
la  supplica  della  moglie  nel  1561  e  poi  il  silenzio,  anche  se  una  mano  ignota  aveva  se- 
gnato sulla  copertina  delle  carte  del  processo  la  data  della  sua  morte  cinque  anni  dopo. 
Il  Brucioli,  «  evangelico  e  non  specificamente  luterano,  magari  vicino  a  Martin  Bucero, 
il  più  serenamente  conciliante  e  comprensivo,  forse,  dei  riformatori  germanici,  il  più 
alieno  da  mortificanti  sottigliezze  diplomatiche,  il  più  vicino  spiritualmente,  insieme 
con  lo  Zwingli,  allo  spirito  della  Rinascenza  italiana  »  è  per  lo  Spini  specchio  della 
media  cultura  italiana,  un  segno  di  quel  Rinascimento  colto  che  avrebbe  dovuto  cedere 
alla  Riforma  come  punto  di  partenza  della  modernità  e  che  avrebbe  conosciuto  le  insidie 
e  i  conformismi  della  Controriforma.  Ma  è  anche  qualcosa  di  più.  La  tortuosità  stessa 
con  cui  si  difende  tende  a  mostrare,  per  lo  Spini,  «  che  quelle  sue  convinzioni  religiose 
non  erano  state  un  capriccio  passeggero  »:  «  Eroe  e  martire  certamente  egli  non  fu. 
Uomo  e  piccolo  uomo  in  mezzo  ad  avvenimenti  ed  a  cose  più  grandi  di  lui,  sincera- 
mente credette  e  cercò  di  mettere  d'accordo  la  propria  cultura  umanistica  e  filosofica  e 
quella  fede  che  a  lui  non  servì  né  a  ben  vivere,  né  a  coraggiosamente  morire,  ma  che  co- 
stituì ugualmente  l'avventura  spirituale  più  profonda,  duratura  e  sincera  della  sua  vita 
travagliata.  Ed  è  con  questo  giudizio  scevro  di  partigiana  esaltazione  inopportuna  e  di 
disprezzo  farisaico  ed  ingiusto,  che  possiamo  chiudere  il  nostro  bilancio  della  vita  av- 
venturosa di  Antonio  Brucioli  uomo  e  credente  » 

Questo  volumetto  precedeva  di  un  decennio  quella  che  resta  la  ricerca  più  com- 
pleta, originale  e  ancor  oggi  sorprendente  di  Giorgio  Spini:  la  Ricerca  dei  Libertini.  La 
teoria  dell'impostura  delle  religioni  nel  Seicento  italiano  (1950).  Confesso  di  non  aver 
potuto  fare  —  anche  per  il  cattivo  stato  delle  biblioteche  italiane,  che  d'estate  diventa 
pessimo  —  quello  che  sarebbe  stato  un  ovvio  e  prezioso  processo  di  analisi:  rileggere, 
cioè,  alla  luce  della  nuova  ampliata  edizione  del  1983,  quello  che  era  l'Urtext,  scritto  fra 


^'  Spini,  Tra  Rinascimento  e  Riforma.  Antonio  Brucioli  cìt. 

'^^  Cfr.  E.  ElSENSTElN,  La  rivoluzione  inavvertita.  La  stampa  come  fattore  di  mutamento,  Bo- 
logna, Il  Mulino,  1985. 

Spini,  Tra  Rinascimento  e  Riforma.  Antonio  Brucioli  cìl.  p.  2 
50  Ivi,  p.  240, 


12 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


il  1948  e  lo  stesso  1950.  Mi  sono  dovuto  accontentare  di  una  lettura  «  regressiva  »,  per 
molti  aspetti  basata  anche  su  una  memoria  attenta,  ma  ormai  lontana,  che  mi  sapesse  ri- 
proporre il  significato  dell'opera  nel  suo  insieme. 

Nella  premessa  alla  seconda  edizione  Spini  stesso  ci  offre  una  chiave  di  lettura 
che  vale  la  pena  di  riprendere:  «  Malgrado  gli  aggiornamenti,  la  Ricerca  dei  libertini  è 
rimasta  sostanzialmente  immutata  rispetto  alla  prima  edizione.  Quindi,  oltre  ad  essere 
un'indagine  su  un  aspetto  della  storia  del  Seicento,  è  essa  stessa  un  documento  storico 
del  tempo  in  cui  fu  scritta.  Era  il  tempo  immediatamente  successivo  al  trionfo  cattolico 
del  18  aprile  1948,  allorché  incombeva  sull'Italia  il  pontificato  di  Pio  XII,  che  sembrava 
rinnovare  lo  spirito  della  Controriforma,  e  ad  esso  si  opponeva  l'ideologia  machiavel- 
liana e  marxista-leninista-stalinista  del  realismo  togliattiano.  Per  quanto  avversarie 
acerrime  l'una  dell'altra,  ambedue  queste  forze  tendono  a  portare  l'Italia  fuori  della 
civiltà  liberale,  figlia  della  Riforma,  valendosi  a  tale  scopo  dei  residui  lasciati  nel  nostro 
paese  dalla  Confroriforma.  Mi  sembravano  pertanto  tornare  di  attualità  rispetto  all'una, 
ma  anche  rispetto  all'altra,  le  tesi  di  Gangale  e  di  Gobetti,  cui  avevo  aderito 
appassionatamente  durante  la  dittatura  fascista  » 

Ciò  che  colpisce  in  questa  rilettura  della  propria  opera  del  1983  è  l'accentuazione 
del  significato  politico  e  quindi  del  carattere  «  metaforico  »  o,  ancora  più  esplicita- 
mente, «  di  racconto  a  chiave  »,  di  tensioni  del  presente  di  allora,  ad  esplicito  discapito 
dell'indagine  storica  «  su  un  momento  dell'Italia  barocca,  condotta  con  ogni  scrupolo  di 
serietà  scientifica  e  di  correttezza  filosofica  »  Nel  riassumere  la  tesi  di  fondo  del  suo 
appassionante  libro,  lo  Spini  del  1983  tendeva  a  rendere  ancora  più  duro  il  giudizio,  già 
implicitamente  critico,  ma  segretamente  contraddetto  dalla  simpatia  ricostruttiva,  nei 
confronti  di  un  universo  di  avventurieri  eterodossi  e  marginali  della  penna  e  della  mo- 
rale, verso  quei  libertini,  che,  lungi  dal  rappresentare  una  alternativa  alla  Controriforma, 
ne  erano  un  prodotto  speculare:  «  Lo  studio  delle  correnti  libertine  dell'Italia  secentesca 
mi  aveva  mostrato  come  esse  fossero  state  state  bensì  perseguitate  dalla  Controriforma, 
ma  non  avessero  mai  ripudiato  la  concezione  presocratica,  iniziatica,  autoritaria  che 
stava  alla  base  della  Controriforma.  Anziché  offrire  alternative  liberanti  alle  strutture 
oppressive  del  tempo  loro,  si  erano  limitati  a  volerle  convertire  in  strumenti  del 
necessario  dominio  dei  sapienti  iniziati  sul  volgo  stolido.  L'aristotelismo  dei  filosofi 
miscredenti  non  era  stato  da  meno  dell'aristotelismo  dei  filosofi  ufficiali  nel  chiudere 
all'Italia  le  vie  del  rinnovamento.  Al  limite,  più  che  l'antagonista  della  controriforma,  il 
libertino  ne  appare  il  parallelo  eterodosso,  o  addirittura  il  figlio:  magari  scapestrato  e 
riottoso,  ma  pur  sempre  il  figlio.  Stupefacenti  coincidenze  sembrano  perciò  delinearsi 


■^^  Idem,  Ricerca  dei  libertini.  Ixi  teoria  dell'impostura  cit.,  ed.  1983,  pp.  IX-X. 
52  Ivi,  p.  X. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


13 


tra  quel  passato  di  tre  secoli  prima  ed  il  presente  » 

Le  analogie  fra  l'Italia  del  Seicento,  chiusa  nel  dilemma  fra  l'Aristotele  ortodosso 
e  quello  eterodosso,  e  la  riscossa  tridentina,  viaggi  della  Madonna  pellegrina  da  una 
parte  e  la  riscoperta  del  Principe  dall'altra,  «  una  filosofia  del  materialismo  altrettanto 
sicura  della  propria  verità  scientifica  quanto  lo  erano  state  nel  Seicento  la  dottrina 
astrologica  e  quella  dei  legislatori-impostori  »,  finiscono  per  dominare,  a  mio  parere 
eccessivamente  e  con  una  forzatura  polemica  che  non  restituisce  appieno  la  tormentata 
complessità  né  del  proprio  itinerario,  né  di  quello  della  realtà,  né  dei  miti  cui  si  riferisce. 
Obiezione  di  coscienza,  allegoria  polemica  di  tempi  assai  più  recenti:  «  Come  tale  fu 
scritto,  con  animo  diviso  fra  la  speranza  che  qualcuno  almeno  ne  avvertisse  il 
significato  di  protesta  sotto  la  scorza  dell'erudizione  e  la  sfiducia  che  ciò  scuotesse 
minimamente  il  clima  greve  incombente:  insomma  uno  stato  d'animo  non  troppo 
dissimile  da  quello  dei  naufraghi  di  un  tempo  che  affidavano  alle  onde  un  loro 
messaggio  chiuso  in  una  bottiglia  » 

Con  tutto  il  rispetto  pèr  questa  lettura  di  Spini,  che  ci  parla  dell'intellettuale  degli 
anni  ottanta,  con  le  sue  analisi,  delusioni  ed  ostinate  e  combattive  speranze,  credo  che 
sia  piuttosto  mio  compito  ritornare  al  significato  prevalentemente  storiografico  del  testo 
del  1950  e  della  sua  effettiva  capacità  di  innovare,  nei  due  sensi  più  ampi:  cioè  sia  per 
quanto  effettivamente  scopriva  direttamente  in  un  mondo  che  per  esempio  Croce  nel 
suo  quadro  dell'età  barocca  aveva  trascurato,  sia  ancora  di  quanto  —  ed  è  stato  molto 
—  suggeriva  ai  ricercatori  che  ne  avrebbero  seguito  le  piste. 

Nel  primo  senso  mi  pare  che,  nonostante  la  indubbia  intelligenza  e  selettività  con 
cui  erano  stati  interrogati  personaggi  come  Bruno,  Campanella  e  Vanini,  le  innovazioni 
più  significative  venissero  piuttosto  dalle  pagine  successive,  quelle  dedicate 
all'Accademia  degli  Incogniti,  alla  ricostruzione  di  figure  come  quelle  di  Loredano,  di 
Ferrante  Pallavicino,  di  Antonio  Rocco,  di  Gerolamo  Brusoni,  alla  monaca  Arcangela 
Tarabotti  e,  in  particolare,  dall'analisi  non  solo  delle  opere,  ma  anche  delle  loro  avven- 
ture, che  tendevano  a  diventare  qualche  volta  più  ricche  e  romanzesche  dei  poveri  ro- 
manzi erotici  di  cui  questi  personaggi  erano  autori. 

La  trama  si  dipana  così  intorno  ad  un  personaggio  centrale,  questo  Ferrante  Palla- 
vicino per  cui  Spini  riprende  quanto  Sarpi  da  vecchio  aveva  detto  di  sé,  ma  con  un  ben 
più  alto  senso  etico  e  religioso,  oltre  che  politico,  che  cioè  sarebbe  stato  più  dannoso 
alla  chiesa  da  morto  che  da  vivo.  Non  è  possibile  seguire  nei  dettagli  questo  viaggio  eu- 
ropeo, che  non  si  riduce  ad  una  positivistica  storia  della  fortuna,  ma  si  arricchisce,  ad 
ogni  tratto,  di  nuovi  percorsi  a  sorpresa,  come  la  vicenda  della  monarchia  dei  Solipsi 


Ivi,  loc.  cit. 
5^  Ivi,  p.  XI. 
Ivi,  pp.  233  sgg. 


14 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


con  le  sue  istanze  più  riformatrici,  o  l'itinerario  di  Gregorio  Leti,  da  Roma  a  Torino,  a 
Ginevra,  poi  in  Francia,  quella  di  Colbert,  che  però  non  lo  volle  fra  gli  artisans  of  glory 
del  re  Sole  poi  ancora  nell'incerta  Inghilterra  che  preparava  la  Glorious  Revolution,  e 
infine  ad  Amsterdam,  dove,  dismessa  quasi  completamente  l'eredità  pallaviciniana,  po- 
teva aprire  relazioni  con  réfugiés  illustri,  come  Bayle  litigare  con  altri  che  facevano 
lo  stesso  mestiere  e  diventare  genero  di  Jean  Ledere  Avventure  di  uomini,  anche  se 
in  questo  caso  non  di  «  fede  e  di  passione  ».  Se  qualche  capitolo  prima  le  congetture  in- 
tomo alla  Monarchia  solipsorum  si  erano  dipanate  come  in  un  poliziesco,  qui  la  vita  di 
Leti  sembra  la  ripetizione  di  uno  schema  già  applicato  al  Ferrante,  ma  con  una 
soluzione  pacificata,  una  sorta  di  happy  end  che  comprende  non  solo  il  matrimonio  con 
una  figlia  di  Jean  Ledere,  ma  anche  l'errabonda  ed  emancipata  vicenda  delle  altre 
due  59. 

L'ultima  parte,  //  tramonto  degli  impostori,  riprende  il  filo  della  teoria 
dell'impostura  negli  spazi  italiani,  da  Roma  a  Napoli  a  Firenze,  dove  l'opera  si  con- 
clude focalizzando  l'attenzione  sulla  definitiva  crisi  di  questo  mito  interpretativo, 
espressa  per  Spini  nelle  Lettere  sull'ateismo  di  Lorenzo  Algarotti.  Come  si  esprime 
Spini,  di  cui  vale  la  pena  ancora  una  volta  di  restituire  la  densità  emotiva:  «  quelle  let- 
tere rappresentavano  veramente,  pure  così  incompiute,  la  conclusione  di  un  ciclo  sto- 
rico, il  superamento  per  forza,  non  più  di  roghi  né  di  catene,  di  una  secolare  vicenda. 
Spogliato  ormai  il  fantasma  libertino  del  suo  fascino  tenebroso  dalla  sorridente  spieta- 
tezza del  segretario  del  Cimento,  anche  l'Italia  d'ora  innanzi  poteva  intraprendere  il  suo 
cammino  verso  avventure  nuove  nel  regno  dello  spirito,  figure  nuove  di  fede  e  di  mi- 
scredenza, incarnazioni  nuove  di  pugna  incessante  delle  eteme  insopprimibili  Città  »  ^. 

Liberandomi,  sia  pure  a  fatica,  della  possibilità  di  usare  questa  frase  come  splen- 
dido escamotage,  uscita  di  sicurezza  per  una  relazione  ormai  già  troppo  lunga,  mi  limito 
ad  osservare  alcune  chiavi  di  lettura  essenziali  del  testo,  che  rimangono  effettivamente 
immutate  nella  riedizione  del  1983.  La  prima  riguarda  gli  spazi:  l'Italia  del  Seicento  è 
giocata  tutta  intorno  a  due  città:  Roma,  città  dell'ortodossia,  ma  anche  dello  speculare 


5°  Cfr.  O.  RaNUM,  Artisans  of  Glory.  Writers  and  Historical  Thought  in  Seventeenth  Century 
France,  Chapel  Hill,  1980. 

Cfr.  E.  Labrousse,  Pierre  Bayle,  La  Haye,  Nijhoff,  1963-1964,  voli.  2,  che  tende  a  collo- 
care Bayle  nella  tradizione  dell'eterodossia  protestante.  Cfr.  per  contro  G.  Cantelli,  Teologia  e 
ateismo.  Saggio  sul  pensiero  filosofico  e  religioso  di  Pierre  Bayle,  Firenze,  La  Nuova  Itzalia, 
1969.  Cfr.  ancora  G.  Paganini,  Analisi  della  fede  e  critica  della  ragione  nella  filosofia  di  Pierre 
Bayle,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1980.  Cfr.  infine  C.  Borghero,  La  certezza  e  la  storia.  Cartesia- 
nesinio,  pirronismo  e  conoscenza  storica,  Milano,  Angeli,  1938,  in  particolare  217  sgg. 

5^  G.  Spini,  Ricerca  dei  libertini,  ed.  1983,  p.  267. 

59  Ivi,  pp.  313-316. 

^  Ivi,  p.  386. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


15 


libertinismo,  ma  soprattutto  Venezia,  che  non  è  più  quella  rinascimentale  che  sarà  stu- 
diata da  Bouwsma^^  e  non  è  quella  eretica  e  vitale  dell'Interdetto  ma  è  lo  spazio 
ideale  per  l'editoria  libertina  e  la  sua  socialità  intellettuale  con  una  significativa  pre- 
senza di  Firenze  e,  più  tardi,  di  Napoli,  mentre  la  piccola  corte  dei  Savoia,  dove  pure 
questi  avventurieri  vissero,  come  nel  caso  di  Brusoni,  e  per  un  momento  dello  stesso 
Leti  ^  ,  è  soltanto  un  punto  di  transito,  magari  per  Ginevra.  Ci  sono  poi  le  grandi  città 
«  esterne  »:  Ginevra  ed  Amsterdam,  giustamente  ricostruite  non  per  la  loro  complessità, 
ma  come  luoghi  di  rifrazione.  Ai  margini  i  grandi  stati,  dalla  Francia  di  Luigi  XIV 
all'Inghilterra  che  non  ha  ancora  compiuto  la  Glorious  Revolution,  mentre  quasi  assenti 
sono  da  una  parte  la  Spagna  e  dell'altra  il  mondo  tedesco.  Questa  geografia  non  è  casua- 
le, ma  ricalca  le  mete  più  usuali  degli  avventurieri  del  Seicento,  che  come  Leti,  dopo 
aver  cercato  la  fortuna  come  artisans  of  glory  di  un  principe,  individuavano  più  o  meno 
acutamente  il  «  nuovo  principe  »,  nell'opinione  pubblica  europea  magari  commet- 
tendo lo  sbaglio  di  continuare  a  pensare  che  la  koinè  europea  fosse  l'italiano,  mentre 
stava  crescendo  irresistibilmente  il  francese  e  quindi  si  condannavano  —  come  capitò 
allo  stesso  Leti  per  gli  anni  nei  quali  sopravvisse  al  Seicento  —  ad  essere  interlocutore 
di  un  mercato  delimitato,  e  forse  sempre  più  pateticamente  ristretto. 

In  questo  senso  mi  sembra  vada  letta  la  conclusione  di  Spini  su  Gregorio  Leti,  che 
«  malgrado  la  sua  monumentale  sfrontatezza  e  la  sua  spettacolare  grossolanità  ebbe  dav- 
vero un  ruolo  non  trascurabile  nell'emancipazione  dell'opinione  pubblica  italiana  ed 
europea  dal  giogo  della  controriforma  all'età  dei  Lumi  »  Una  conclusione  foriera  non 
solo  delle  pagine  oneste,  documentate  e  soprattutto  bibliograficamente  accuratissime  di 
un  allievo  di  Luigi  Firpo  come  Franco  Barcia  ma  che  permette  allo  Spini  nella  se- 
conda edizione  di  assorbire  l'intelligente  e  generale  lavoro  di  Gerhard  Schneider  sul  li- 
bertino 


BouwsMA,  Venezia  e  la  difesa  della  libertà  repubblicana.  I  valori  del  Rinascimento 
nell'età  della  Controriforma,  Bologna,  Il  Mulino,  1977. 

^2  Cfr.  P.  Sarpi,  Opere,  a  cura  di  G.  e  L.  Cozzi,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1969. 

Cfr.  AA.VV.,  Libri  editori  pubblico  nell'Europa  moderna,  a  cura  di  A.  Petrucci,  Bari, 
Laterza,  1977. 

^  Cfr.  G.  Ricuperati,  Dopo  Guichenon.  La  storia  di  casa  Savoia  dal  Tesauro  al  Lama,  in 
AA.VV.,  Da  Carlo  Emanuele  I  a  Vittorio  Amedeo  //,  a  cura  di  G.  lOLl,  Torino,  Tipografia  Metro- 
politana, 1987,  pp.  3-24. 

Cfr.  J.  Habermas,  Storia  e  critica  dell'opinione  pubblica.  Bari,  Laterza,  1964. 
^  G.  Spini,  Ricerca  dei  libertini,  ed.  1983,  cit.,  p.  312. 

Cfr.  F.  Barcia,  Bibliografia  delle  opere  di  Gregorio  Leti.  Milano,  Angeli,  1981;  Idem,  Un 
politico  dell'età  barocca:  Gregorio  Leti.  Milano,  Angeli,  1983;  Idem,  Gregorio  Leti  informatore 
politico  di  principi  italiani,  Milano,  Angeli,  1987. 

Schneider,  //  Ubertino.  Per  una  storia  sociale  della  cultura  borghese  del  XVI  e  del  XVII 
secolo,  Bologna,  Il  Mulino,  1974. 


16 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


Passando  dalle  categorie  di  spazio  a  quelle  di  tempo  o  meglio  di  periodizzazione, 
si  individua  in  questo  libro  un  taglio  che  solo  in  parte  si  ritrova  nella  Storia  dell'età 
moderna:  un  Medioevo  eterodosso  e  padovano  che  è  il  vero  artefice  della  teoria 
dell'impostura  un  Rinascimento  lontano  non  solo  dalla  solarità  di  Jacob  Burck- 
hardt^^, caricaturata  da  Johann  Huizinga^^  ma  anche  da  quella  forte  e  serena  di 
Croce  e  di  Federico  Chabod  che  reagivano  in  modi  diversi  ed  europei  al  nobile 
moralismo  di  Francesco  De  Sanctis  Non  è  neppure  la  preferenza  cantimoriana  per  il 
concetto  di  Umanesimo  che  Hans  Baron  ed  Eugenio  Garin  avrebbero  reso 
«  civile  »,  costruendo  le  premesse  di  un'avventura  atlantica  percorsa  poi  in  tutti  i  suoi 
tratti  da  John  Pocock  ma  a  cui  —  in  modi  diversi  —  non  sarebbero  stati  estranei  né 
Venturi  né  Spini 

In  quest'opera  un  Rinascimento  stretto,  corto  e  poco  creativo,  è  spezzato  imme- 
diatamente dalla  Riforma  protestante,  che  è  la  vera  radice  della  modernità  sia  in  senso 
religioso,  sia  in  senso  politico  e  morale     ma  che  resta  in  gran  parte  estema  allo  spazio 


G.Spini,  Ricerca  dei  libertini,  ed.  1983,  cit.,  pp.  15  sgg. 
'^^  Su  J.  Burckhardt  cfr.  ora,  oltre  al  profilo  di  K.  Lowith,  J.  Burckhardt,  Bari,  Laterza,  1991, 
che  però  risale  al  1936,  M.  Gherardi,  La  scoperta  del  Rinascimento.  L'«  Età  di  Raffaello  »  di  J. 
Burckhardt,  Torino,  Einaudi,  1991. 

'^^  Cfr.  J.  HuiziNGA,  La  mia  via  alla  storia,  a  cura  di  O.  CAPITANI,  Bari,  Laterza,  1967 
Croce,  Storia  dell'età  barocca  cit.  pp.  3  sgg. 
Chabod,  Scritti  sul  Rinascimento.  Torino,  Einaudi,  1967. 
'^^  Cfr.  F.  De  Sanctis,  Storia  della  letteratura  italiana,  a  cura  di  N.  Gallo,  Torino,  Einaudi, 
1962.  Cfr.  AA.VV.,  //  Rinascimento  nell'Ottocento  in  Italia  e  Germania,  a  cura  di  A.  BUCK-C. 
Vasoli,  Bolognajl  Mulino  -  Beriino,  Dunkcr-Humblot,  1989. 

Cantimori,  Studi  di  storia,  Torino,  Einaudi,  1959,  in  particolare  111,  Umanesimo,  Rina- 
scimento, Riforma  dal  Burckhardt  al  Garin,  pp.  139-556;  Idem,  Storici  e  storia.  Metodo,  caratte- 
ristiche e  significato  del  lavoro  storiografico,  Torino,  Einaudi,  1971. 

II.  Baron,  La  crisi  del  primo  Rinascimento  italiano.  Umanesimo  civile  e  libertà  repubbli- 
cana in  un'età  di  classicismo  e  di  tirannide,  Firenze,  Sansoni,  1970  (prima  ed.  in  inglese,  Prin- 
ceton, Princeton  University  Press,  1955,  voli.  2;  cfr.  anche  dello  stesso  In  Search  of  Florentine 
Civic  Humanism.  Essays  on  the  Transition  from  Medieval  to  the  Modern  Thought,  Princeton, 
Princeton  University  Press,  1988,  voli.  2. 

Garin,  Scienza  e  vita  civile  nel  Rinascimento  italiano,  Bari,  Laterza,  1965. 
Pocock,  //  momento  machiavelliano.  Il  pensiero  politico  fiorentino  e  la  tradizione  re- 
pubblicana anglosassone,  Bologna,  Il  Mulino,  1980,  voli.  2  (il  lesto  in  inglese  ò  del  1976).  Cfr. 
anche  Idem,  Politica,  linguaggio,  storia.  Scritti  scelti,  a  cura  di  E.  A.  Albertoni,  Milano,  Comu- 
nità, 1990. 

Cfr.  F.  Venturi,  Utopia  e  riforma  nell'Illuminismo,  Torino,  Einaudi,  1970,  ma  cfr.  soprat- 
tutto, dello  stesso,  Settecento  riformatore,  Torino,  Einaudi,  1969;  1976;  1984;  1987;  1990,  in  par- 
ticolare i  voli.  Ili  e  IV,  quest'ultimo  in  2  tomi.  Per  quanto  riguarda  Spini,  oltre  al  citato  Autobio- 
grafia della  giovane  America,  cfr.  soprattutto  i  saggi  raccolti  in  Barocco  e  puritani  cit. 

G.  Spini,  Ricerca  dei  libertini,  ed.  1983,  cit. ,  p.  27. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


17 


italiano,  pur  creando  destini  individuali  e  fermenti  significativi,  e  da  una  Controriforma, 
di  cui  il  libertinismo  finisce  per  essere  una  dimensione  più  speculare  che  alternativa.  In 
questo  senso  stupisce  l'assenza  nel  saggio  del  1950  di  un  qualsiasi  accenno  al  pur 
grande  e  sbagliato  libro  di  Lucien  Febvre,  Le  problème  de  l'incroyance  au  XVIIme  siè- 
cle libro  del  1942,  contro  le  cui  tesi  di  fondo  l'opera  di  Spini  rappresenta  un  dossier 
documentario  precoce  e  più  articolato  di  quanto  non  avrebbe  fatto  di  lì  a  poco  uno  stu- 
dioso come  Henri  Busson  autore  ben  presente  a  Spini  per  il  suo  lavoro  del  1933  sul 
pensiero  religioso  da  Charron  a  Pascal.  Spini  cita  Febvre  nella  seconda  edizione,  ma 
solo  a  proposito  dei  saggi  raccolti  in  -Am  coeur  religieux  du  XVIme  siècle    del  1957. 

Un'altra  assenza  singolare  è  quella  di  René  Pintard,  il  cui  rarissimo  Le  libertinage 
érudit  del  1943  è  citato  una  sola  volta  nella  seconda  edizione.  Non  mancano  invece  i 
classici  (da  Charbonnel  che  fin  dal  1917  aveva  individuato  la  matrice  padovana, 
all'inevitabile  Lachèvre  contro  la  cui  erudizione  —  ostile  al  libertinismo  e  protratta 
per  undici  volumi  —  si  è  accanito  più  recentemente  lo  Schneider  cui  lo  Spini  ha  la- 
sciato l'onore  di  essere  il  primo  ad  urtare  frontalmene  le  tesi  ùe\Y Incroyance  di  Febvre. 
Un'ultima  assenza,  che  si  estende  dalla  prima  alla  seconda  stesura,  e  quindi  difficil- 
mente è  casuale,  riguarda  Paul  Hazard  e  il  suo  La  Crise  de  la  conscience  européenne 
del  1935,  tradotto  da  Einaudi  undici  anni  dopo  per  la  penna  di  uno  dei  più  raffinati 
intellettuali  laici  della  tradizione  «  libertina  »  e  illuministica  torinese.  Paolo  Serini. 
Assenza  non  casuale,  dicevo,  in  quanto  nasce  dal  fatto  che  Spini  insegue  il  tramonto  di 
una  teoria  dell'impostura  delle  religioni  nello  stesso  spazio  e  tempo,  cronologico  ma 
anche  ideologico,  che  Paul  Hazard  vede  come  crisi  sì,  ma  anche  crogiuolo  dei  valori 
dell'Illuminismo.  Il  fatto  è  che,  all'interno  di  questa  crisi,  quali  che  siano  i  termini 
cronologici  che  si  adottano,  la  teoria  dell'impostura  delle  religioni,  della  corporeità 
dell'anima,  della  negazione  di  spazi  come  Purgatorio  e  Inferno,  ripartono  per  un  altro 
viaggio,  quello  dell'Illuminismo.  Da  questo  punto  di  vista  —  colto  giustamente  da 
Vittor  Ivo  Comparato  nella  raccolta  di  saggi,  che  conservano  una  freschezza  e  vitalità 

L.  Febvre,  //  problema  dell'incredulità  nel  XVI  secolo.  La  religione  di  Rabelais,  con  in- 
troduzione di  A.  J.  GUREVic,  Torino,  Einaudi,  1978  (ma  la  prima  ed.  francese  era  del  1942). 

Cfr.  H.  BussON,  La  pensée  religieuse  de  Charron  à  Pascal,  Paris,  Vrin,  1933.  Ma  cfr. 
dello  stesso,  La  religton  des  classiques  (1660-1685),  Paris,  PUF,  1948. 
83  L.  Febvre,  Au  coeur  religieux  du  XVI  siècle,  Paris,  SEVPEN,  1 958. 

Pintard,  Le  libertinage  érudit  dans  la  première  moitié  du  XVII  siècle,  Paris,  1943.  Ma 
cfr.  ora  la  nuova  edizione  con  aggiunte,  Genève-Paris,  Slatkine,  1983. 

8^  Charbonnel,  La  pensée  italienne  du  XVI  siècle  e  le  courant  libertin,  Paris,  Champion, 
1917. 

8^  Lachèvre,  Le  libertinage  en  France,  Paris,  Champion,  191 1-1924. 
8^  Cfr.  G.  Schneider,  //  libertino  cit. 

88  Hazard,  La  crise  de  la  conscience  européenne  (1685-1715),  Paris,  Boivin,  1935,  voli.  3. 
La  trad,  italiana,  di  P.  Serini,  Torino,  Einaudi,  1946. 


2 


18 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


sorprendenti  —  Spini  in  quel  notevole  contributo  sui  trattatisti  deir«  ars  historica  »  fa 
notare  come,  fra  uomini  quali  Brusoni  e  Leti  da  una  parte  e  Giannone,  Vico  e  Muratori 
dall'altra,  ci  siano  in  fondo  pochi  decenni  di  scarto  e  per  alcune  opere  pochi  anni,  ma 
come  invece  la  distanza  sia  incommensurabile  ^. 

E  questo  mi  fa  tornare  al  tema  da  cui  sono  partito,  che  è  riproposto  oggi  nella  rac- 
colta di  saggi  usciti  nel  1991,  cioè  al  dibattito  con  Venturi  sull'illuminismo  di  Alberto 
Radicati  di  Passerano.  Nel  1954  Spini  finiva  per  proporre  una  lettura  «  libertina  »  contro 
quella  «  illuministica  »  di  Franco  Venturi,  la  stessa  lettura  «  libertina  »  che  Sergio  Ber- 
telli ha  fatto  riemergere  —  in  qualche  misura  in  antitesi  con  la  mia  parte  di  una  comune 
antologia,  ma  soprattutto  con  il  mio  libro  che  individuava,  come  aveva  fatto  Venturi 
per  il  Radicati,  un  altro  inquietante  e  più  complesso  viaggio  nella  cultura  radicale 
dell'Illuminismo  europeo.  Radicati  e  Giannone  non  la  trovavano  la  teoria 
dell'impostura  nella  tradizione  libertina:  la  riscoprivano  dal  free  thinking,  che  a  sua 
volta  rileggeva  Giordano  Bruno  attraverso  Toland  Ma  era  ormai  una  cosa  diversa, 
anche  se  il  mutamento  ideologico  e  religioso  finiva  per  investire  non  solo  i  modelli 
comportamentali  (il  concubinato  di  Giannone)  ma  anche  la  ricerca  di  protezione  in 
ambienti  aristocratici  libertini  (principe  Eugenio  a  Vienna,  famiglia  Pisani  e  Alessandro 
Trivulzio  a  Venezia)  Ma  a  segno  che  le  origini  dell'illuminismo  italiano  sono  una 
cosa  complessa  c'è  il  fatto  che  Giannone  fu  protetto  e  forse  salvato  da  Muratori 

Ho  già  discusso  implicitamente  della  periodizzazione  della  Storia  dell'età  mo- 
derna, che  è  stato  per  oltre  un  decennio  il  libro  istituzionale  dei  corsi  di  Storia  moderna 


Cfr.  V.  I.  Comparato,  Presentazione  a  G.  Spini,  Barocco  e  puritani  cit.,  p.  6  sgg. 
^Ivi,  pp.  407-433. 

Cfr.  P.  Giannone,  Opere,  a  cura  di  S.  Bertelli  -  G.  Ricuperati,  Milano-Napoli,  Ric- 
ciardi, 1971.  Fra  i  lettori  che  hanno  rilevato  la  diversità  d'interpretazione,  cfr.  F.  Ajello,  Pietro 
Giannone  tra  libertini  e  illuministi,  in  Arcana  iuris.  Diritto  e  politica  nel  Settecento  italiano,  Na- 
poli, Jovcne,  1976,  pp.  229-274.  Cfr.  ancora  AA.VV.,  Pietro  Giannone  e  il  suo  tempo,  a  cura  di 
F.  Ajello,  Napoli,  Jovene,  1980,  voli.  2.  Cfr.  anche  G.  Galasso,  La  filosofia  in  soccorso  de'  go- 
verni. La  cultura  napoletana  del  Settecento,  Napoli,  Guida,  1989,  pp.  297-336. 

Cfr.  ora  S.  Ricci,  La  fortuna  del  pensiero  di  G.  Bruno.  1600-1750,  Prefazione  di  E. 
Garin,  Firenze,  Le  lettere,  1990. 

Cfr.  P.  Giannone,  Vita  scritta  da  lui  medesimo,  in  Opere  cit.,  p.  84  sgg.,  dove  il  Giannone 
racconta  la  genesi  della  scrittura  Dell'antico  concubinato  de'  romani  ritenuto  nell'Imperio  anche 
dopp  la  conversione  di  Costantino  Magno,  destinato  a  far  parte  AoXV Apologia  dell'Istoria  civile. 

Cfr.  oltre  al  mio  L'esperienza  civile  e  religiosa  di  Pietro  Giannone  cit.,  S.  BERTELLI, 
Giannoniana.  Autografi,  manoscritti  e  documenti  della  fortuna  di  Pietro  Giannone,  Milano-Na- 
poli, Ricciardi,  1968,  pp.  526-530.  Per  i  rapporti  di  Giannone  con  il  principe  Eugenio  cfr.  ora  G. 
Ricuperati,  In  margine  alla  biografia  di  Eugenio:  un  principe  fra  libertinismo  e  illuminismo  ra- 
dicale, in  AA.VV.,  L'Europa  nel  XVII  secolo.  Studi  in  onore  di  Paolo  Alatri,  Napoli,  ESI,  s. 
a.,pp.  445-460. 

Cfr.  P.  Giannone,  Vita  scritta  da  lui  medesimo  cit.,  in  Opere,  p.  301. 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno 


19 


a  Torino  e  di  cui  ciascuno  di  noi  ha  in  mente  i  vividi  e  folgoranti  ritratti  di  personaggi 
come  Richelieu  e  Olivares    o  le  grandi  tipologie  generali,  come  l'età  dell'Olandese 
o  le  pagine  dolenti,  ma  anche  ricche  di  senso  largo  della  costruzione,  sulla  guerra  dei 
Trent' anni 

In  chiusura  posso  dire  che  la  periodizzazione  che  si  apre  con  la  Riforma  (la  data 
del  1515  indica  solo  che  siamo  alla  vigilia  di  quella  che  Spini  definisce  una  Rivolu- 
zione) si  chiude  spezzando  l'età  dei  Lumi  al  1763,  con  la  fine  della  guerra  dei  Sette 
anni.  È  implicito  il  discorso,  che  ci  porterebbe  lontano,  di  una  età  delle  rivoluzioni 
atlantiche  ormai  diversificata  dai  Lumi  ma  così  significativa  da  comprendere  in  essi 
tutto  Montesquieu,  buona  parte  di  Voltaire,  una  parte  di  Rousseau,  ma  spezzando  a 
metà  l'Encyclopédie  ed  escludendo  quel  dibattito  sul  diritto  di  punire  che  finirà  per  far 
parte  di  quello  più  generale  sull'ineguaglianza  Significa  escludere  Holbach,  la 
maturità  di  Diderot  e  la  sua  grande  avventura  con  il  testo  di  Raynal  Per  quanto  ri- 
guarda gli  spazi  italiani  significa  non  solo  spaccare  a  metà  uomini  vivi  e  grandi  come 
Verri,  Beccaria,  o  Genovesi,  ma  non  comprendere  per  nulla  il  gigantesco  tentativo  di 
sintesi  di  un  Filangieri  E  un  discorso  simile  si  potrebbe  fare  per  l'Inghilterra  di  Gib- 
bon o  la  Scozia  di  Adam  Smith.  Naturalmente  quando  dico  comprendere,  con  un  uomo 
come  Spini,  non  voglio  intendere  capire  o  conoscere.  Intendo  la  scelta  di  considerare  o 
meno  un  segmento  di  spazio:  una  scelta  non  solo  consapevole,  ma  di  cui  ho  cercato  con 
rispetto,  ammirazione  e  libertà  di  delineare  le  radici  profonde.  E  le  radici  sono,  a  mio 
parere,  che  il  vero  punto  di  rottura  che  segna  l'inizio  del  mondo  moderno  è  rappresen- 
tato dalla  Riforma,  da  cui  derivano  tutti  i  fermenti  progressisti.  L'Illuminismo  non  è  al- 
tro che  una  delle  secolarizzazioni  che  nascono  su  questa  radice  profonda  della  moder- 
nità. E  così  anche  il  Risorgimento  lungo  di  Spini  che  comincia  dalla  Glorieuse  Ren- 
trée dei  Valdesi       è  sì  una  lettura  di  Gobetti,  ma  di  un  Gobetti  scoperto  attraverso 


G.  Spini,  Sloria  dell'età  moderna,  ed.  1967,  cit.,  II,  p.  552  sgg. 
97  Ivi,  p.  589  sgg. 
9^  Ivi,  p.589  sgg. 
99  Ivi,  I,  P.  29  sgg. 

Cfr.  F.  Venturi,  Settecento  riformatore  cit.,  IV,  che  cita  R.  R.  Palmer,  L'era  delle  Ri- 
voluzioni democratiche,  Milano,  Rizzoli,  1971. 
Idem,  Utopia  e  riforma  cit. 

M.  DUCHET,  Diderot  et  l'Histoire  des  deux  Indes  ou  l'Ecriture  fragmentaire,  Paris,  Nb.ct, 
1978.  Cfr.  anche  D.  Diderot,  Pensées  détachées.  Contribution  à  l'Histoire  des  deux  Indes,  a  cura 
di  G.  L.  GOGGI,  Siena,  1976;  Idem,  Mélanges  et  morceaux  divers.  Contributions  à  l'Histoire  des 
deux  Indes,  Siena,  1977. 

G.  Filangieri,  La  scienza  della  legislazione,  con  introduzione  di  V.  Frosini,  Roma,  Po- 
ligrafico dello  Stalo,  1984,  voli.  2. 

G.  Spini,  Risorgimento  e  protestanti,  nuova  ed.,  Milano,  Mondadori,  1989. 

Idem,  //  Glorioso  Rimpatrio  dei  Valdesi.  Contesto  e  significato,  in  AA.VV.,  Dall'Europa 


20 


GIUSEPPE  RICUPERATI 


Gangale,  come  egli  stesso  ha  correttamente  avvertito  nella  prefazione  alla  Ricerca  dei 
libertini  del  1983.'  E  in  questa  sottile,  ma  non  trascurabile  differenza,  fra  laici  che  nella 
secolarizzazione  delle  riforme  sono  disposti  ad  accettare  il  senso  religioso  ed  etico  di  un 
tempo  della  speranza  e  a  cercare  di  vincere  il  cieco  naturalismo  del  presente,  e  uomini 
religiosi  e  laici,  che  dalla  Riforma  con  la  «  R  »  maiuscola  ricavarono  la  secola- 
rizzazione e  la  capacità  di  trasformare  il  mondo  con  l'ottimismo  della  ragione,  si  rende 
possibile  il  dialogo  che  si  rinnova  ogni  anno  —  con  intensità  diversa  —  qui  a  Torre  Pel- 
lice. 

E  che,  per  quanto  mi  riguarda,  è  cominciato  qui:  quando  —  anch'io  sotto  la  naja, 
forse  il  più  maldestro  soldato  dell'esercito  italiano,  come  ricorda  spesso  Antonio  Ro- 
tondò —  presentai  nel  1963  il  mio  progetto  di  lavoro  su  Giannone  ed  ebbi  —  fra 
l'altro  —  il  piacere  di  conoscere  di  persona,  dopo  averli  almeno  in  parte  letti,  Giorgio 
Spini  e  Delio  Cantimori. 

GIUSEPPE  RICUPERATI 


alle  valli  valdesi.  Ani  del  convegno  «  Il  glorioso  rimpairio  1689-1989  »,  Torino,  Claudiana,  1990, 
pp.  13-19. 

Cfr.  il  mio  ormai  lontano  Istoria  civile  e  storia  ecclesiastica  in  Pietro  Giannone,  presen- 
talo a  Torre  Pcllicc  al  V  Congresso  di  sludi  sulla  Riforma  e  i  movimcnli  religiosi,  agosto  1962,  e 
pubblicato  sul  «  BoUellino  della  Società  di  Sludi  valdesi  »,  1963,  pp.  25-40,  che  ò  ormai  solo  la 
leslimonian/.a  di  un  programma  di  ricerche  in  parte  realizzalo. 


Giorgio  Spini  storico  deirAmerica  Puritana 


Voglio  parlarvi  deW Autobiografia  della  giovane  America  K  Certamente,  Giorgio 
Spini  ha  scritto  saggi  suggestivi  su  aspetti  del  puritanesimo  americano,  come  dice  giu- 
stamente Vittor  Ivo  Comparato  nell'introduzione  alla  bella  raccolta  Barocco  e  puri- 
tani ^.  Ma  wtW Autobiografia  c'è  qualcosa  di  piìj:  un  quadro  ampio  e  insieme  ravvici- 
nato delle  opere  e  delle  persone  intente  ad  elaborare  una  storia  insieme  fattuale  e  ideale 
della  vicenda  del  puritanesimo  nel  Massachusetts,  via  via  che  questa  vicenda  si  svol- 
geva nelle  loro  proprie  vite.  Giustamente  è  intitolata  «  autobiografia  »,  perché  si  tratta 
proprio  del  farsi  storia  di  individui  i  quali,  nelle  vicissitudini  e  nelle  illuminazioni  per- 
sonali, vedono  anche  il  dipanarsi  e  il  palesarsi  di  una  vicenda  di  gruppo  che  stimano 
importante  per  tutto  il  protestantesimo  e  in  cui  la  loro  presenza  pensante  si  trasfigura  e 
trascende  il  dato  materiale;  tuttavia,  come  mostra  Spini,  è  sempre  questo  il  punto  di 
partenza  di  ogni  rifiessione.  Cosicché  la  preoccupazione  «  barocca  »  della  mortalità,  e  la 
dolorosa  attenzione  per  il  reale  materiale  e  la  sua  inaffidabilità,  vengono  ad  essere  tra- 
sposte e  «  riscattate  ». 

Così  il  farsi  storia  si  propone  com.e  tema  civile  dal  cuore  religioso;  tema  tanto  di 
fendo  che  ne  potremo  riscontrare  i  distanti  echi  nel  ferx'ore  con  cui  schiere  di  giovani 
del  New  England  rivoluzionario,  benché  fortemente  laicizzati,  sentiranno  la  necessità  di 
farsi  storia  e  di  fare  storia  tenendo  diari;  e  quest'opera,  rimasta  unica  nel  campo  degli 
studi  sul  puritanesimo  del  New  England,  ci  illumina  in  modo  prezioso  e,  vorrei  dire, 
insostituibile.  Ci  consente  di  seguire,  già  dagli  albori  dell'esperienza  del  New  England, 
la  sottile  interazione  tra  ciò  che  è  laico  e  ciò  che  è  religioso  e  quindi  di  davvero 
discernere  il  disintrecciarsi  di  questi  filoni  col  passaggio  al  Settecento,  ma  insieme  di 
coglierne  le  trasposizioni  —  che  rendono  la  lunga  durata  terrena  di  cose  che  il  Seicento 
avrebbe  riconosciuto  come  «  sembianti  »  «  analoghi  »  —  niente  affatto  «  riti  »  comme- 
morativi e  «  congelati  »,  come  Hall,  Bailyn  e  altri  studiosi  americani  ora  sostengono, 
bensì,  come  ci  mostra  Spini,  luoghi  deputati  in  cui  il  tempo,  con  luci  e  forme  di  vita 
nuova,  ha  operato  mutamenti. 


Giorgio  Spini,  Autobiografia  della  giovane  America,  Torino,  Einaudi,  1968. 
2  Giorgio  Spini,  Barocco  e  puritani,  Firenze,  Vallecchi,  1991. 


22 


LORETTA  VALZ  MANNUCCI 


A  questo  punto,  si  deve  fare  una  precisazione:  la  Autobiografia,  che  è  del  1968  e 
che  è  l'esito  di  un  decennio  di  riflessioni  e  ricerche,  esamina  la  storiografia  americana 
dai  «  padri  pellegrini  »  all'indipendenza,  ponendosi  sempre  «  dalla  parte  dei  soggetti  » 
che  si  esaminano  e  si  definiscono.  E  proprio  questa  impostazione  consente  di  rendere 
conto  dell'importante  elaborazione  dell'immagine  di  sé  e  del  suo  divenire  nel  New  En- 
gland; da  inglese-congregazionalista-separata,  ma  partecipe  della  vicenda  inglese,  a  pa- 
triottica e  plurima,  americana-congregazionalista,  pronta  a  stabilire  rapporti  con  altri 
protestanti  inglesi,  ma  non  più  parte  della  vicenda  inglese.  Ma  essa  inoltre  evita  di  porre 
i  puritani  del  New  England  come  America  tout  court,  perché  l'estensione  del  discorso  al 
Settecento  e  la  sua  scala  pluriregionale  ci  mostrano  anche  la  nascita  di  una  storiografia 
auto-cosciente  nel  sud,  di  taglio  assai  diversa,  in  quanto  prodotto  di  um  forma  mentis 
diversa.  Cosicché  i  puritani  del  New  England  hanno  la  loro  dimensione  quantitativa  - 
rurali  alla  periferia  del  mondo  inglese  e  gruppo  tra  gruppi  inglesi  che  colonizzano  la 
costa  atlantica  del  continente  nordamericano  -  senza  che  questo  debba  limitare  la  loro 
dimensione  di  elaborazione  teorica  e  ideale. 

Come  ebbe  a  dire  Perry  Miller  nella  prefazione  all'edizione  paperback  del 
(1961)  di  quel  suo  New  England  Mind.  The  Seventeenth  Century,  che  alla  sua  comparsa 
nel  1939  trasformò  gli  studi  sul  puritanesimo  americano:  «  nel  campo  degli  studi, 
ventidue  anni  sono  tanti  perché  un  libro  viva  ancora  ».  U Autobiografia  è  ancora  viva  e, 
vorrei  dire,  attende  ancora  chi  abbia  il  vigore  intellettuale  e  la  cultura  per  raccoglierne  i 
tanti  suggerimenti  per  ulteriori  studi.  E  penso  in  primo  luogo  agli  studiosi  americani,  i 
quali,  a  differenza  dei  puritani  del  Seicento  di  cui  si  occupano,  non  sanno  leggere 
l'italiano  e  non  pensano  che  dalla  cultura  europea  possa  venire  luce  su  «  cose  nostre  ». 
Cotton  Mather,  nota  Spini,  non  solo  pubblicò  i  suoi  Magnalia  Christi  americana  a 
Londra,  non  solo  associò  molti  degli  eroi  del  suo  racconto  dell'esperienza  del 
Massachusetts  a  figure  classiche  ed  europee  oltreché  a  figure  bibliche,  ma  inviò  l'opera 
a  vari  uomini  di  cultura  europei,  ritenendosi  parte  di  un  mondo  ideale  intemazionale,  al 
cui  sviluppo  complessivo  contribuiva  la  vicenda  di  ogni  sua  parte  e  le  cui  periferie  po- 
tevano anche  essere,  come  pensava  Giordano  Bruno,  centri. 

Il  libro  si  apre  con  la  storiografia  dei  «  padri  pellegrini  »  che  precedettero,  dal 
1620  in  poi,  i  puritani,  fondando  a  Plymouth  sull'istmo  di  Cape  Cod,  che  chiude  la  va- 
sta e  frastagliata  baia  del  Massachusetts,  un  insediamento  coscientemente  separato 
dall'Inghilterra  e  caratterizzato  dalle  utopiche  speranze  comunitarie.  Si  passa  poi  alla 


GIORGIO  SPINI  STORICO  DELL'AMERICA  PURITANA 


23 


storiografia  dei  puritani,  gruppo  più  numeroso,  «  pratico  »,  finanziariamente  pili  solido, 
che,  dopo  aver  creato  nel  1628  un  punto  d'approdo,  nel  1630  arriva  in  forze  e  crea  mol- 
teplici insediamenti;  mantiene  regolari  contatti  con  l'Inghilterra,  considerandosi  parte- 
cipe diretto  delle  vicende  allora  in  corso,  che  porteranno  di  lì  ad  un  decennio  all'inizio 
della  guerra  tra  Parlamento  e  re.  Tirate  le  somme  di  questo  primo  momento,  la  secondr 
parte  del  volume  si  intitola  l'età  dei  Mather  e,  senza  trascurare  le  figure  minori  che  ser- 
vono anzi  a  mostrare  la  complessità,  la  varietà  di  angolazioni  e,  insieme,  i  tratti 
continuativi,  si  dedica  ad  Increase  e  a  Cotton  Mather.  Le  due  lunghe  vite  di  padre  e 
figlio  contengono  in  sé  molte  sfaccettature,  aree  di  apertura  e  aree  di  ristagno, 
esibiscono  negli  atti  e  negli  scritti  la  complessità  del  secolo  e,  insieme,  il  lavorio  di 
chiarimento  che  l'attenzione  al  dato  reale  impone.  Increase  è  esaminato  in  una  polemica 
con  William  Hubbard  sul  senso  della  guerra  indiana  detta  del  «  re  Filippo  »,  che  scoppia 
in  concomitanza  con  pressioni  politiche  inglesi  e  problemi  sociali  e  generazionali,  e 
turbano  il  senso  di  sé  che  la  precedente  storiografia  aveva  proposto  come  autentico  e 
che  era  il  supporto  principale  della  legittimità  dello  «  Stato  »  puritano. 

Successivamente  si  vede  come  la  vasta  raccolta  di  «  casi  »  e  di  «  provvidenze  »  a 
cui  Increase  mette  mano  nel  momento  in  cui  pare  che  ovunque  il  protestantesimo  sia 
battuto,  si  ricolleghi  al  discorso  sulla  guerra  indiana  di  pochi  anni  prima.  Infine,  salvata 
una  sorta  di  autonomia  del  Massachusetts  rispetto  allo  stato  inglese  -  causa  per  la  quale 
Increase  era  andato  a  perorare  in  Inghilterra  -  grazie  al  «  miracolo  »  della  «  gloriosa 
rivoluzione  »  che,  senza  sangue,  assicura  l'InghilteiTa  al  protestantesimo  -  si  vede  come 
si  ripropone  in  tutt'altro  tono  la  necessità  di  una  storia  che  giustifichi  e  legittimi  la 
pretesa  di  essere  «  altro  ».  Laddove  l'autogoverno  è  inquadrato  in  uno  schema  reale  e 
alle  chiese  congregazionaliste  si  affiancano  non  soltanto  altre  chiese  evangeliche,  ma 
anche  la  chiesa  di  stato  inglese  (l'anglicana);  e  il  voto,  primo  diritto  di  tutti  i  m.embri 
delle  congregazioni  che  ne  facessero  richiesta  a  prescindere  dal  censo  (e  soltanto  loro)  è 
ora  diritto  anche  di  quegli  anglicani  che  soddisfano  ai  criteri  metropolitani  di  censo. 

I  MagnaJìa  Christi  americana  tentano  dunque  questo.  E  Spini  qui  ci  offre  un'ana- 
lisi del  piano  dell'opera  e  dei  suoi  tempi  di  scrittura  che  illumina  in  modo  nuovo  il  suo 
senso  e,  insieme,  ci  mostra  in  atto  la  trasformazione  di  Cotton.  Non  possiamo  qui  se- 
guire r  argomentazione,  ma  non  posso  non  dire  che  offre  tanti  spunti  per  la  compren- 
sione della  successiva  vicenda  americana  e  per  lo  studio  di  alcuni  aspetti  della  lettera- 
tura seicentesca  da  rendere  il  libro  importante  già  di  per  se  stesso. 


24 


LORETTA  VALZ  MANNUCCI 


Ma  ora  vorrei  accennare,  senza  purtroppo  potere  fare  di  più,  ad  alcuni  temi  che 
Spini  rivela  essere  centrali  in  questa  storiografia.  Primo  fra  tutti  quello  degli  indiani. 
Essi  sono  al  centro  di  questa  elaborazione.  Simbolo  stesso  del  continente  già 
dall'iconografia  cartografica  del  Cinquecento,  sono  anche  occasione  di  esame 
«  antropologico  »  e  di  contro-immagine  per  la  loro  definizione.  Un  indiano  aiuta  i  padri 
pellegrini  a  superare  il  primo  terribile  inverno;  ma  gli  indiani  uccidono  i  coloni;  e 
tuttavia  gli  indiani  si  convertono.  Tra  le  prime  preoccupazioni  dei  puritani  c'è  quella  di 
creare  un  centro  di  istruzione  superiore  -  il  college  di  Harvard  si  apre  nel  1636  -  in  cui 
si  cerca  di  istruire  gli  indiani  nella  fede  cristiana.  Si  studiano  le  lingue  indiane  e  si  cerca 
di  tradurre  la  Bibbia.  Sono  tutte  cose  che,  per  esempio,  sono  state  raccomandate  alla 
Virginia  dai  membri  puritani  della  compagna  fondatrice,  e  poi  dal  re.  Ma  lì  gli  indiani  si 
massacrano  subito  e  basta.  I  puritani  del  New  England,  invece,  vedono  proprio  nella 
presenza/differenza  degli  indiani  la  conferma  della  loro  completezza  umana.  La 
conversione  degli  indiani  diventa  pertanto  la  prova  del  carattere  ispirato  del  loro  agire. 
Non  sono  soltanto  inglesi  a  disagio  che  costruiscono  istituzioni  che  trovano  più 
confacenti  ai  loro  bisogni  di  evangelici,  ma  protestanti  più  «  veri  »:  quelli  che  possono 
trarre  l'uomo  naturale  dall'oscurità  delle  foreste  e  portarlo  nella  luce  della  chiesa;  da 
«  fuori  »,  «  dentro  ». 

Le  possibili  ripercussioni  appaiono  immense  a  chi  trae  da  ogni  «  cosa  »  un  con- 
cetto. Potrebbero  essere  così  fonte  della  trasformazione  del  protestantesimo  inglese;  e  - 
se  gli  indiani  fossero  stati  (come  gli  storici  sostenevano  con  crescente  convinzione, 
mentre  la  situazione  reale  del  New  England  diventava  sempre  più  problematica)  i 
discendenti  delle  tribù' disperse  d'Israele  -  perfino  del  mondo.  Gli  indiani  quindi  si 
mostrano  fondamentali  non  tanto  nell'elaborazione  della  società  civile,  nel  modo  di 
coltivare  la  terra  o  nella  realizzazione  di  progetti  di  espansione  sul  territorio,  quanto 
come  controparte  di  un'autodefinizione  necessaria,  condizione  di  legittimità.  La  storia 
degli  scontri  con  gli  indiani,  come  quella  della  loro  vita  e  della  loro  conversione,  che  ne 
è  il  completamento  speculare,  è,  mostra  Spini,  presente  in  tutta  la  storiografia  del 
secolo.  E  la  durezza  con  la  quale  i  puritani  rispondono  infine  agli  attacchi  indiani  e 
l'esultanza  con  cui  vedono  la  mano  della  provvidenza  nella  loro  distruzione,  diventano 
quindi  comprensibili.  La  tentazione  di  demonizzare  l'indiano  che  si  ribella,  che  «  fa 
l'indiano  »,  non  ha  quindi  bisogno  della  psicoanalisi  per  trovare  spiegazione,  se 
inquadrata  nell'ambito  puritano  del  secolo.  L'indiano  è  realtà  materiale  di  cui  si  studia 
la  lingua,  si  osservano  gli  usi;  che  si  cerca  di  convertire,  si  combatte  se  necessario.  Ma 
come  ogni  altra  realtà  materiale  è,  per  questo  mondo,  anche  un  «  segno  ». 


GIORGIO  SPINI  STORICO  DELL'AMERICA  PURITANA 


25 


Ecco  un  secondo  tema:  il  quotidiano  come  messaggio,  ossia  la  visione  doppia 
della  realtà  come  vicenda  spicciola  che  si  svolge  e  come  «  segno  »  della  presenza  divina 
ravvicinata:  la  storia,  nel  senso  del  susseguirsi  di  eventi,  come  Storia  con  la  «  S  »  maiu- 
scola. La  convinzione  che  la  realtà  sia  sempre  anche  «  segno  »  attraversa  gli  autori  che 
Spini  ci  presenta,  e  li  accomuna  nell'attenzione  minuziosa  al  dettaglio,  nel  gusto  -  vor- 
rei dire  nell'entusiasmo  -  per  la  quantità  e  per  l'elencazione  di  ogni  aneddoto,  di  ogni 
fenomeno.  Spini  definisce  Cotton  Mather  «  cantastorie  »,  ed  è  una  definizione 
sorprendente  per  chi  conosce  il  resto  della  letteratura  su  Mather,  ma  convince,  e  cambia 
molte  prospettive.  Increase,  padre  di  Cotton,  che  Spini  vede  anche  sotto  il  profilo  di 
«  naturalista  »  e  «  giornalista  »,  fa  appello  ai  colleghi  reverendi  del  Massachusetts  per 
raccogliere  il  racconto  di  ogni  «  prodigio  »  e  «  provvidenza  »  di  cui  si  ha  memoria  tra  il 
popolo.  Si  scriverà  anche  un  libro  sui  tuoni  «  significanti  ».  Certo  nel  volgere  del  secolo 
questo  collezionare  cambia  certo  segno,  e  Spini  mostra  brillantemente  come  nei 
Magnalia  -  scritti  negli  ultimi  anni  '90,  dopo  i  processi  di  stregoneria  di  Salem,  anche 
se  inglobano  scritti  precedenti,  e  verranno  pubblicati  nel  1702  -  Cotton  Mather  ormai 
includa  le  «  provvidenze  »  in  un  libro  a  sé,  inframmezzate  quasi  come  interpolazione  in 
un  discorso  sulla  vicenda  puritana  nel  New  England,  che  fa  già  sentire  l'avvicinarsi 
dell'Illuminismo  settecentesco.  Ma  colpisce  anche  la  ricchezza  letteraria, 
l'immaginazione,  la  vitalità  di  fondo  di  questo  mondo  di  prodigi  riferiti  e  la  sua 
vivacità:  si  sente  un  gusto  del  racconto  accanto  ai  focolari  di  una  popolazione  addestrata 
a  guardare  dentro  e  oltre  le  cose,  gusto  che  può  certamente  diventare  in  momenti  di  crisi 
particolare  foriero  di  episodi  come  quello  di  Salem,  ma  che  ci  mostra  anche  un  mondo 
in  cui  il  reale  è  meno  gravido  di  fame  e  di  dolore  di  quello  coevo  europeo. 

E  qui  si  affiancano  altri  due  temi  di  grande  interesse.  Da  un  lato  questi  repertori  di 
provvidenze  e  prodigi,  a  cui  si  dedicano  le  migliori  menti  della  comunità,  ma  anche  i 
puritani  piìi  semplici,  sono  affini  metodologicamente  alla  nascente  mentalità  scientifica, 
che  proprio  in  questo  secolo  separa  la  ragione  in  razionalità  ordinatrice  e  momento  in- 
tuitivo di  contatto  diretto  con  la  realtà  (il  vero).  Come  Milton,  che  pubblica  Paradise 
Lost  e  Paradise  Regained  proprio  nel  momento  in  cui  Increase  Mather  raccoglie  le  sue 
provvidenze,  i  Mather,  il  padre  non  meno  del  figlio,  si  riconoscono  nella  Royal  Society, 
nella  nuova  sperimentalità  medica,  nella  nascente  antropologia.  Giustamente  Spini 
rileva  come  l'ultima  battaglia  ideale  di  Increase  fu,  nel  primo  decennio  del  Settecento, 
quella  per  la  vaccinazione  antivaiolosa.  Sorge  spontanea  la  curiosità  per  un  esame  di 
questi  compendi,  che  troppo  spesso  hanno  solo  imbarazzato  e  infastidito  lo  studioso 
«  scientifico  »,  mentre  Spini  ci  convince  che  rappresentano  una  entrée  ,  preziosa  perché 
«  senza  arte  »,  nella  visione  di  sé  e  del  mondo  dei  puritani  di  ogni  ceto.  Se  i  Magnalia 


26  LORETTA  VALZ  MANNUCCI 


sono  Stati  tanto  letti  nel  New  England  durante  il  Settecento,  non  é  stato  certamente  a 
causa  dell'erudizione  e  dell'impianto  di  riferimento  classico,  ma  proprio  per  ciò  che  vi 
era  di  comprensibile,  di  ciò  che  rendeva  la  vita  quotidiana  dei  molti  materia  degna  di 
cronaca.  Erano,  i  Magnalìa,  alta  e  bassa  letteratura  nello  stesso  tempo,  e  così  si 
potrebbe  dire  di  tutte  le  opere  che  compongono  la  storiografia  puritana  del  Seicento: 
quella  che  rimane  in  manoscritto  non  meno  di  quella  che  è  stampata.  E  questo  perché  il 
pubblico  a  cui  deve  indirizzarsi  è  un  pubblico  esteso,  in  cui  i  semplici  predominano 
anche  se  i  dotti  sono  molti:  un  pubblico  «  congregazione  »,  e  un  pubblico 
«  cittadino/elettore  ».  Questo  tratto  stilistico  è  squisitamente  politico  ancorché  religioso 
(si  vedano  gli  scritti  puritani  inglesi  dell'epoca,  che  mostrano  questo  doppio  registro 
soltanto  tra  gli  estremisti  studiati  da  Hill). 

Da  questo  viene  il  secondo  tema  che  le  provvidenze  suggeriscono.  Il  materiale 
veniva  raccolto  per  giustificare  e  legittimare  la  specificità  eccezionale  della  vicenda 
puritana  nel  New  England  -  scopo  ideologioco  e  ideale  vitale  per  difendere  la  stessa 
esistenza  del  New  England  come  situazione  istituzionale  e  comunitaria  all'interno  non 
meno  che  nel  mondo  estemo.  Per  funzionare,  questo  stato  doveva  essere  sostenuto  dalla 
convinzione  del  maggior  numero  possibile  di  abitanti  perché  senza  questo  era  uno  stato 
come  altri.  Ma  gli  episodi,  la  materia  prima  che  consentiva  una  difesa  trascendente  della 
legittimità  dello  stato,  non  potevano  che  venire  dal  popolo  nella  sua  molteplicità,  di  di- 
versi membri  delle  congregazioni,  sia  pure  attraverso  la  trascrizione  dei  loro  pastori.  E 
così  essi  si  vedevano  riflessi  di  fronte  a  se  stessi  come  prova,  e  quindi  centro,  della 
bontà  dello  stato.  Cosicché  sono  i  laici,  membri  delle  congregazioni,  che  giustificano  e 
«  salvano  »  lo  stato  (e  questi  membri  possono  anche  essere  donne  e  bambini,  coltivatori 
o  servi).  In  pieno  Seicento  ciò  che  i  colti  elaborano  e  rendono  parte  di  un  discorso  alto, 
con  antenati  illustri  e  secolari,  è  un  popolo  repubblicano,  al  quale  mancherà  forse  un 
senso  di  individualità  come  verrà  proposta  nel  secolo  successivo,  ma  non  manca  un 
senso  di  sé  come  entità  discreta  -  e  qui  si  trova  conferma  in  Milton  e  Bunyan  -  con  una 
propria  dignità  riconosciuta  dalla  comunità/stato. 

Ci  sarebbero  molte  altre  cose  da  dire.  Ne  dico  solo  un  paio.  Prima  di  tutto,  questo 
libro  consente  di  rintracciare  le  origini  del  mito  dei  padri  pellegrini  come  capostipiti 
americani.  Solo  dieci  anni  dopo  la  fondazione  di  Plymouth,  William  Bradford  mette 
mano  ad  una  storia  di  questa  impresa,  affinché  i  figli  dei  figli  possano  sapere  perché  i 
loro  avi  hanno  lasciato  l'Europa  e  che  cosa  hanno  tentato  di  fare  in  terra  americana. 
Bradford  intraprende  quest'opera,  a  cui  dà  un  tono  letterario  insieme  alto  e  intimo,  pro- 


GIORGIO  SPINI  STORICO  DELL'AMERICA  PURITANA 


27 


prio  perché  gli  sembra  che  il  senso  ideale  della  vicenda  si  stia  già  perdendo.  Questa 
opera  storica  così  cosciente  e  mirata  non  verrà  pubblicata  fino  all'Ottocento.  Ma  il  ma- 
noscritto passa  di  mano  in  mano,  e  la  storiografia  che  conta  nel  formarsi  di  una  visione 
del  New  England  la  usa  per  tutto  il  Seicento  e  oltre.  Così  Bradford  viene  trasposto  e 
«  dilatato  »;  diventa  il  nume  tutelare  di  un'esperienza  che  non  è  la  sua  e  il  suo  slancio 
ideale  viene  trasferito  a  sostegno  di  un  mondo  istituzionale  molto  più  moderato  e  di  un 
sentire  meno  utopico. 

È  grazie  a  Bradford  che  si  può  leggere  il  Winthrop,  che  propone  Boston  come  «  la 
città  sulla  collina  »  in  chiave  di  proposta  di  un  rinnovamento  assoluto  di  tutti  i  rapporti 
umani,  mentre  chi  legge  il  diario  per  intero  (e  anche  Winthrop  non  viene  pubblicato  nel 
periodo  prerivoluzionario)  si  avvede  che  egli  pensa  soltanto  al  presente  e  all'organizza- 
zione pratica  di  un  punto  di  riferimento  utile  ad  affermazioni  nel  mondo  protestante  in- 
glese. Così,  attraverso  l'utilizzazione  di  Bradford,  e  lo  spostamento  del  momento  di  ini- 
zio della  storia  del  New  England  degli  storici  successivi,  possiamo  anche  rintracciare  la 
filologia  dell'immagine  americana  che  verrà  proposta  da  alcuni  esponenti  del  New  En- 
gland in  periodo  rivoluzionario  come  immagine  nazionale. 

Un'ultima  annotazione  mi  pare  importante:  Spini  rintraccia  con  molta  chiarezza  la 
nascila  e  il  rafforzarsi  di  un  discorso  sulla  libertà  spirituale  che  parte  già  nel  momento 
cromwelliano  e  che  ricollega  i  puritani  del  New  England  al  mondo  più  «  di  sinistra  » 
della  rivoluzione  inglese,  dove,  dal  momento  che  non  potevano  essere  previsti,  i 
«  prodigi  »  e  le  «  provvidenze  »  del  Signore  potevano  esprimersi  anche  attraverso  i  di- 
scorsi di  personaggi  improbabili  -  come  i  quinto-monarchisti  o  le  profetesse  -  e  questi 
dovevano  essere  «  tollerati  »  fintantoché  non  costituissero  minaccia  per  le  istituzioni  (e 
qui  il  comportam.cnto  di  Winthrop  rispetto  a  Roger  William  e  alla  Hutchinson  si  ridi- 
mensiona nel  contesto  storico).  Spini  nota  come  questo  sia  già  moltissimo  rispetto  alla 
situazione  dei  protestanti  in  Europa;  il  che  sfocerà,  negli  anni  intorno  al  1720,  in 
discorsi  «  illum.inati  »  di  tenore  non  diverso  da  quelli  dei  laici  europei  successivi. 

Concludo  con  una  parola  su  Giorgio  Spini  stesso.  Questa  opera  mostra  in  ogni  sua 
pagina  la  personalità  e  l'esperienza  umana  di  Spini:  protestante  in  un  paese  cattolico, 
antifascista  in  un  regime  fascista,  toscano  di  spirito  e  di  grande  vitalità.  Come  aveva 
raccomandato  in  un  saggio  degli  anni  cinquanta,  si  cala  nel  mondo  del  Seicento;  guarda, 
con  sforzo  di  immaginazione,  attraverso  gli  occhi  di  uomini  che  si  sentivano  anche  loro 


28 


LORETTA  VALZ  MANNUCCI 


dentro  e  fuori  del  mondo  e  tendevano  a  crearne  un  nuovo  migliore.  Li  ha  in  simpatia  -  e 
le  pregevoli  biografie  (non  utili  soltanto  agli  italiani,  come  con  sottile  «  umiltà  puri- 
tana »  dice  nell'introduzione)  lo  mostrano.  Ma  li  valuta  anche.  Li  vede  nella  loro  di- 
mensione e  ambiente;  ma  li  pone  anche  -  come  essi  stessi  desideravano  -  nell'ampio 
quadro  della  cultura  e  della  storia  europee.  Li  storicizza,  ma,  anche,  non  esita  a  accen- 
nare in  margine  a  consonanze  attuali.  Non  avrebbero  potuto  chiedere  di  meglio  quando, 
allora,  speravano,  come  altrove  Spini  ci  dice,  di  ottenere  l'attenzione  di  certi  riformatori 
italiani  e  di  essere  accostati  a  loro. 

LORETTA  VALZ  MANNUCCI 


Risorgimento  e  Protestanti  nella 
storiografia  d:  Giorgio  Spini 


Risorgimento  e  protestanti  di  Giorgio  Spini  è  e  resterà  una  delle  non  molte  opere 
che,  reagendo  a  una  tradizione  inveterata,  piuttosto  provinciale,  dei  nostri  studi, 
collocano  il  Risorgimento  sullo  sfondo  europeo  e,  per  certi  suoi  aspetti,  anche  extraeu- 
ropeo. Potremmo  ricordare,  come  data  iniziale  di  questo  mutamento  di  rotta,  la  grande 
relazione  di  Franco  Venturi  al  congresso  di  Storia  del  Risorgimento  del  1953  a  Firenze. 
Per  questa  nuova  sensibilità,  l'opera  di  Spini,  attento  com'egli  è  alla  circolazione  delle 
idee,  dei  sentimenti,  delle  fedi  religiose,  da  un  paese  all'altro  nel  vasto  mondo,  diventa 
quasi  un  capitolo  essenziale  della  storia  del  protestantesimo  nel  secolo  decimonono,  e 
insieme  del  percorso  del  Risorgimento  italiano,  strettamente  congiunti  l'uno  all'altro  da 
un  legame  spesso  sfuggito  agli  storici.  Lo  stesso  angolo  visuale  -  la  collocazione  del 
Risorgimento  sullo  sfondo  della  storia  europea  -  ritroviamo  nell'altro  suo  classico  libro 
sui  moti  del  1821  in  Piemonte. 

Per  venire  subito  ai  motivi  protestanti  presenti  nel  Risorgimento  italiano,  rile- 
viamo, dalle  pagine  di  Spini,  la  tenuità  degli  elementi  di  continuità  storica  tra  i  riforma- 
tori italiani  del  Cinquecento  e  le  correnti  protestanti  dell'età  risorgimentale.  L'unico  se- 
rio e  persistente  legame  di  continuità  col  passato  della  penisola  è  costituito  dalla  pre- 
senza dei  Valdesi  nelle  montagne  del  Piemonte.  Del  tutto  isolato  resta  il  corso  della 
cabale  italique,  cioè  delle  famiglie  di  Ginevra  oriunde  di  Lucca.  L'unico,  consistente 
legame  fra  il  protestantesimo  del  passato  e  l'età  del  Risorgimento  è  dato  dalle  vicende 
dei  Valdesi.  Ma  gli  italiani  del  Seicento  hanno  per  lo  più  ignorato  o  dimenticato  quei 
«  quattro  villani  fanatici,  ostinati  -  chissà  mai  perché  -  nel  preferire  il  massacro  alla 
messa  ».  (Bella  è  la  pagina  di  Spini  sulla  Glorieuse  Rentrée  del  1689,  come  pure  quelle 
che,  sulle  orme  di  Franco  Venturi,  ha  dedicato  ad  Alberto  Radicati  di  Passerano). 

I  sovrani  sabaudi  apprezzano  i  Valdesi  per  la  loro  fierezza  e  laboriosità,  e  il  loro 
valore  come  soldati,  ma  li  guardano  con  preoccupazione  e  sospetto,  rinchiudendoli  e 
isolandoli  nelle  loro  vallate  come  in  un  ghetto.  In  via  generale,  l'Italia  del  Settecento 
ignora  o  si  mostra  sorda  alle  voci  di  un  mondo  così  remoto.  Baretti  è  il  primo  degli 


30 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


scrittori  italiani  a  occuparsi  dei  Valdesi,  dopo  un  silenzio  di  secoli  sulle  correnti  del 
mondo  protestante.  Ma  la  presenza  protestante  in  Italia  si  fa  attiva  con  la  rivoluzione 
francese  e  poi  nel  periodo  napoleonico,  specialmente  nelle  Valli  valdesi,  per  opera  di 
una  classe  dirigente  ormai  in  una  fase  di  trapasso  dal  calvinismo  dei  padri  a  posizioni 
che  potremmo  dire  illuministe,  di  un  illuminismo  interpretato  come  evoluzione  del 
moralismo  puritano.  Il  fatto  politicamente  e  socialmente  caratteristico  è  che  in  tale 
classe  dirigente  -  costituita  per  lo  più  da  borghesi,  da  intellettuali,  da  pastori  spesso  di 
idee  liberali  avanzate,  perfino  giacobineggianti  -  la  base  popolare,  cioè  i  valligiani,  i 
contadini  ,  i  montanari,  non  vedono  degli  avversari  (come  per  lo  più  avviene  in  altre 
parti  d'Italia),  bensì  degli  alleati  nella  lotta  contro  i  residui  feudali  e  soprattutto  nella 
comune  difesa  della  libertà  religiosa.  Nel  1797,  questi  montanari  si  schiereranno,  a 
Bricherasio,  al  fianco  dei  giacobini;  e  nel  1799  saranno  ancora  a  fianco  dei  giacobini  e 
dei  francesi  contro  gli  invasori  austro-russi  e  i  contadini  sanfedisti  della  pianura,  la 
canaille  catholique  (all'opposto  di  quanto  avviene  nella  Repubblica  Partenopea). 

E  ben  si  comprende  perché  i  Valdesi  preferiscano  essere  annessi  alla  Francia 
piuttosto  che  restare  in  un  piccolo  Piemonte  dominato  dalla  tradizione  cattolica.  Dopo 
Marengo,  in  effetti,  è  stato  instaurato  un  regime  di  eguaglianza  civile,  con  l'abolizione 
di  restrizioni  gravanti  da  secoli.  Si  può  dire  che  gli  anni  del  regime  francese  sono  per 
quelle  valli  un'età  felice.  Solo  negli  ultimi  anni  dell'Impero  il  conformismo  si  farà  più 
pesante  per  tutti.  Naturalmente,  sotto  l'Impero  napoleonico,  non  è  tutto  roseo,  per  i 
Valdesi  come  per  le  altre  minoranze  religiose.  Già  le  costituzioni  repubblicane  del 
1796-97  erano  state  assai  prudenti  sul  problema  della  libertà  religiosa.  E,  qualche  anno 
dopo,  il  regime  del  Codice  civile  e  del  concordato  napoleonico  si  sarebbe  informato  al 
crudo  principio  utilitario  della  necessità  che  la  Chiesa  concorresse  a  tenere  a  freno  i 
sudditi,  secondo  il  motto  spregiudicato  «  pane,  forca,  preti  ».  Il  problema  etico-religioso 
era  assai  poco  sentito. 

Il  Risorgimento,  considerato  dall'angolo  visuale  di  Giorgio  Spini  -  ossia  come 
«  atto  tra  i  più  memorabili  »  -  ha  inizio  quando  si  avverte  il  valore  del  momento  etico- 
religioso  accanto  a  quello  del  momento  politico.  Più  precipuamente,  l'alba  di  questo 
Risorgimento  si  riassume  in  un  nome:  Coppet;  ossia  nel  liberalismo  ginevrino,  nel 
mondo  della  Riforma  che  lancia  il  suo  messaggio  all'Italia.  È  il  momento  nel  quale  gli 
italiani  colti,  gli  spiriti  liberi,  volgono  entusiasti  lo  sguardo  a  Ginevra,  a  Sismondi,  a 
Madame  de  Staël,  a  Benjamin  Constant.  Lo  storico  Sismondi,  con  la  sua  celebre  storia 
delle  repubbliche  del  medio  evo,  indirizza  le  menti  a  impostare  il  problema  italiano  in 
termini  di  riforma  etico-religiosa  anziché  di  Realpolitik.  (E  si  noti,  qualcosa  di  simile, 
sempre  in  nome  di  Sismondi  e  sotto  lo  stimolo  del  suo  pensiero,  accadrà  nel  nostro  se- 
colo, verso  la  fine  del  regime  fascista,  in  Toscana,  con  i  primi  numeri  della  rivista 
«  Argomenti  »,  presto  soffocata  dal  regime,  ma  seminatrice  di  nuove  idee,  confluite  nel 


RISORGIMENTO  E  PROTESTANTI  NELLA  STORIOGRARA  DI  G.  SPINI 


31 


liberalsocialismo  e  nel  partito  d'azione,  l'uno  e  l'altro  ancora  clandestini.  Un  lievito 
protestante  par  di  cogliere  qua  e  là  nei  due  movimenti  sotterranei.  Nell'Ottocento  come 
Novecento,  l'orma  di  Sismoni  è  evidente. 

Questo  influsso  ginevrino  è  una  soltanto  delle  varie  correnti  che  Spini  colloca  agli 
inizi  del  nostro  Risorgimento.  Ma  è  indubbio  che,  fra  tutte,  la  temperie  di  Coppet,  in- 
trisa di  spirito  protestante,  ha  un  forte  peso;  non  solo  morale,  ma  politico.  Scelgo,  ad 
esempio,  questa  frase  di  Benjamin  Constant:  «  Les  écrivains  ne  contemplent  que  la  ca- 
ste usurpatrice.  Nous  fixons  nos  regards  sur  les  castes  opprimées...  Quand  les  victimes 
ne  sont  plus  agenouillées,  les  sacrificateurs  disparaissent  ».  Una  regola  che  vale  per  le 
caste,  come  per  le  fedi  religiose,  o  le  nazioni.  E  anche  questo  un  messaggio  protestante 
all'Italia  del  Risorgimento. 

Giustamente  Spini  osserva  che  questo  liberalismo  ginevrino  (questo 
«  ginevrismo  »,  come  qualcuno  lo  chiama)  appare  comprensibile  e  accettabile  anche  da 
vecchi  giacobini  dell'età  napoleonica  (come  il  siciliano  Giovanni  Gambini,  rifugiatosi 
in  Svizzera  dopo  la  caduta  di  Napoleone),  in  quanto  riconosce  apertamente  la  positività 
storica  del  processo  che  va  dall'Illuminismo  alla  rivoluzione  francese,  pur  rifiutando  i 
metodi  del  Terrore  e  del  dispotismo  cesareo,  ma  non  lascia  indifferente  neppure  la 
destra  conservatrice,  per  il  suo  appellarsi  alle  tradizioni  prerivoluzionarie  e  (con 
Sismondi)  addirittura  medievali. 

E  un  grande  momento  della  coscienza  morale  europea,  che  già  l'Omodeo  aveva 
splendidamente  rievocato:  un  momento  nel  quale  Spini  individua  benissimo,  nonostante 
la  difficoltà  della  ricerca,  il  lievito  protestante.  E  questa,  direi,  l'importanza  storiogra- 
fica di  questo  lavoro  di  Spini:  per  la  sua  capacità  di  mettere  così  bene  in  luce  la  sorgente 
ispiratrice  di  Coppet  su  intere  generazioni  risorgimentali,  dagli  uomini  del 
«  Conciliatore  »  (specialmente  un  Ludovico  di  Breme)  al  Vieusseux  deir«  Antologia  », 
dal  primo  romanticismo  mazziniano  a  Cavour.  E  così  pure  dobbiamo  ricordare,  sempre 
sotto  la  guida  di  Spini,  e  sempre  a  Ginevra,  dopo  il  fulgido  momento  di  Coppet,  le 
correnti  protestanti  neosociniane,  e  il  Réveil,  il  Risveglio  francosvizzero;  e  in  Inghilterra 
gli  evangelicals.  E  infine  il  sovrapporsi  e  il  contrastare  fra  loro  di  queste  correnti,  da 
una  generazione  all'altra,  come  nel  caso  del  conflitto  tra  Risvegliati  e  Sociniani  a 
Ginevra. 

Una  delle  tesi  storiche  di  Sismondi  e  degli  scrittori  ginevrini,  a  cominciare  dalla 
Signora  di  Staël,  è  che  gli  eccessi  e  gli  errori  stessi  della  Rivoluzione  francese  si 
possono  considerare  come  la  nemesi  storica  per  le  persecuzioni  di  cui  erano  stati  vittime 
i  protestanti  in  Francia.  Osservo  che  questa  è  una  tesi  che  sarà  ripresa  molti  anni  dopo 
da  Edgar  Quinet;  e  ricordo  di  avere  trovato  a  Parigi,  alla  Bibliothèque  Nationale, 
diverse  lettere  di  italiani  -  per  lo  più  democratici,  e  dissidenti  o  apertamente  rivoltosi 
nei  confronti  della  Chiesa  romana,  e  taluni  fattisi  protestanti  -  a  Quinet.  Ho  passato 


32 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


queste  lettere  a  Isa  Guerrini  Angrisani,  che  le  ha  utilizzate  in  un  bel  libro  su  Quinet  e 
l'Italia.  Altrettanto  interessanti  sono  le  lettere  di  Quinet  a  Garibaldi  e  a  Mazzini). 

È  noto  che  i  Valdesi,  sempre  protetti  dai  diplomatici  inglesi,  godranno  della  soli- 
darietà e  dell'appoggio  dei  protestanti  stranieri:  svizzeri,  britannici,  tedeschi.  Non  man- 
cano neppure,  a  proposito  di  queste  correnti  di  simpatia,  angherie  poliziesche  e  vessa- 
zioni urtanti  e  sospetti  perfino  ridicoli  sui  turisti  stranieri  che  a  ondate  crescenti  afflui- 
scono in  queste  valli.  Tipico  è  il  caso  di  due  innocenti  misses  inglesi,  spiate  e  pedinate  a 
ogni  passo  in  Torre  Pellice,  quasi  che  fossero  temibili  emissari  della  Carboneria  o  dei 
Sublimi  Maestri  Perfetti.  Non  meno  curioso  è  il  fatto  che  tanto  tardassero  i  turisti 
italiani  a  «  scoprire  »  queste  valli,  e  i  costumi  e  l'alto  livello  di  civiltà  dei  loro  abitanti: 
come  accadde  a  Edmondo  De  Amicis,  quando,  villeggiante  nel  Pinerolese,  mise  per  la 
prima  volta  il  piede  x\t\V Israele  delle  Alpi,  rimanendone  profondamente  colpito,  come 
ci  attesta  uno  dei  suoi  libri  migliori,  dei  più  informati  e  pensati  e  sentiti  da  lui. 

Ma  il  tema  dei  rapporti  fra  il  Risorgimento  e  i  protestanti  è  suscettibile  ancora  di 
essere  considerato  sotto  vari  punti  di  vista. 

Dopo  le  crisi  rivoluzionarie  del  1820-21  e  fino  al  1848,  aumentano  i  sospetti  dei 
governi  italiani  nei  confronti  delle  scuole  laucasteriane,  o  delle  società  bibliche:  le  une  e 
le  altre  di  ispirazione  protestante,  e  osteggiate  o  addirittura  travolte  da  stolidi 
provvedimenti  polizieschi.  Le  iniziative  di  Federico  Gonfalonieri  sono  spezzate. 
Tuttavia  in  altre  parti  della  penisola  si  respira  un'aura  più  tollerante.  Nella  Toscana  di 
Vieusseux,  Lambruschini  apre  nuove  scuole  e  pratica  metodi  pedagogici  di  ispirazione 
protestante.  Il  «  ginevrismo  »  ha  ormai  attecchito  nella  cultura  e  nella  società  italiana. 
Nel  1821  ha  inizio  r«  Antologia»  di  Vieusseux,  che  morrà  nel  1834:  sono  anni  di 
splendido  rigoglio  culturale  ed  etico-politico.  Fra  i  collaboratori,  qui  ricordo  uno  solo, 
Francesco  Forti,  imparentato  con  Sismondi,  e  a  lui  per  molti  versi  vicino.  Sarebbe  finito 
su  posizioni  conservatrici.  Ma  il  giudizio  di  Spini  su  di  lui  è,  mi  pare,  troppo  severo.  In 
realtà,  aveva  respirato  l'aria  staëliana,  di  Coppet,  di  Ginevra.  Particolarmente  bella, 
sulla  «  Antologia  »,  la  recensione  delle  storie  della  rivoluzione  francese  di  Thiers  e  di 
Mignet. 

Giustamente  severo  è  lo  Spini  nel  rilevare  certe  angustie  della  classe  dirigente 
valdese,  fino  a  un  ricambio  generazionale  che  ravviverà  la  cultura  e  la  coscienza 
politica  dei  valligiani.  Anche  questo  è  un  pregio  dell'opera:  la  spassionata  nettezza  dei 
giudizi,  lo  scorgere  bene  le  ombre  accanto  alle  vivide  luci  di  questo  microcosmo 
valdese;  che  pure,  nel  giro  di  non  molti  anni,  torna  ad  essere  una  minuscola  avanguardia 
di  spirito  europeo;  è  così  intento  alla  diffusione  della  sua  fede,  da  diffondere  nelle  valli 
la  Bibbia  in  non  poche  migliaia  di  copie:  una  quantità  stupefacente,  se  commisurata  al 
numero  dei  valligiani. 

Particolarmente  ricche  sono  le  pagine  sugli  esuli  politici  della  penisola  che,  da  un 


RISORGIMENTO  E  PROTESTANTI  NELLA  STORIOGRAFIA  DI  G.  SPINI 


33 


decennio  all'altro,  vengono  a  contatto  con  civiltà  piiì  avanzate,  di  fede  protestante:  un 
incontro  assai  fruttuoso,  specialmente  dopo  il  1830,  nell'accesa  temperie  creata  dalle 
Paroles  d'un  croyant  di  Lamennais  e  dai  testi  della  «  Giovine  Italia  »,  dall'apice  della 
propaganda  sansimoniana  per  un  nuovo  cristianesimo,  dalla  Polonia  martire  di 
Mickiewicz. 

Un  punto  resta,  mi  pare,  aperto  alla  discussione.  Spini  sostiene  che  l'impetuosa 
comparsa  di  Mazzini  sulla  scena  politica  italiana  ed  europea  segna  un  momento  di  crisi 
per  l'Italia  del  Risorgimento  e  dell'Europa  protestante.  E  ciò  in  quanto  Mazzini  (egli 
dice)  condanna  risolutamente  la  gioventij,  specialmente  francese  e  italiana,  che  ha 
risposto  all'appello  dei  liberali  dottrinari  come  Cousin  e  Guizot,  ma  poi,  delusa  dalla 
timidezza  conservatrice  del  regime  di  juste  milieu,  nel  quale  si  sono  arenati  quei  vecchi 
liberali  del  1830,  ha  affievolito  o  perduto  quello  spirito  arditamente  rivoluzionario  che  il 
fondatore  della  Giovine  Italia  vorrebbe  imprimerle,  rimanendo  «  romantica,  eclettica, 
protestante  »:  una  definizione  che,  all'indomani  della  rivoluzione  di  luglio,  sulle  labbra 
di  Mazzini  suona  come  un  biasimo,  coinvolgente  anche  il  protestantesimo.  A  me  non 
pare  che  questo  atteggiamento  del  giovane  rivoluzionario  ligure  verso  il  protestantesimo 
sia,  all'inizio  degli  anni  Trenta,  intonato  a  ripudio  e  condanna.  Si  tratta  piuttosto  di  un 
atteggiamento  analogo  a  quello  che,  in  quegli  stessi  anni,  Mazzini  ha  assunto  verso  la 
Rivoluzione  francese  (su  di  che,  mi  permetto  di  rimandare,  per  brevità,  a  un  mio  recente 
saggio:  Mazzini  e  la  rivoluzione  francese,  nel  volume  di  studi  in  onore  di  Emilia 
Morelli,  pubblicato  a  cura  dell'Istituto  mazziniano  di  Genova).  Un  atteggiamento  di 
preoccupata  rivalità,  da  pane  del  fondatore  della  Giovine  Italia',  di  timore  che  altre 
correnti  ideali  -  fra  cui  il  romanticismo,  l'eclettismo  di  Cousin,  e  il  protestantesimo  (o 
filoprotestantesimo)  alla  Guizot  -  possano  sottrargli  i  nuovi  adepti  che  va 
disperatamente  cercando.  Vorrei  sapere  che  cosa  pensa  l'amico  Spini  di  questo  punto.  È 
sempre  compito  dello  storico  mettere  in  luce  l'incrociarsi  di  tutte  le  correnti  e  gli  stimoli 
ideali,  anche  fra  loro  contrastanti  e  gareggianti,  dai  quali  esce,  come  in  un  crogiuolo,  il 
nostro  Risorgimento.  Su  questo  piano  di  ricerche,  proprio  Spini  ci  dimostra  in  modo 
eccellente  (e  non  era  facile  impresa)  quanto  sia  profonda  ed  efficace  l'impronta 
protestante. 

Sono  questi  gli  anni  nei  quali  dalla  Svizzera  Vinet  porta  in  primo  piano  il  pro- 
blema della  libertà  religiosa,  nel  pesante  clima  dell'enciclica  Mirari  vos.  E'  ben  nota 
l'influenza  di  Vinet  sul  giovane  Cavour,  come  ci  dimostrano  le  ricerche  di  Francesco 
Ruffini,  integrate  e  arricchite  da  un  amico  che  qui  sento  il  dovere  di  ricordare:  Ettore 
Passerin  d'  Entrèves.  Quel  che  non  dobbiamo  dimenticare  mai  (e  Spini  ce  lo  dimostra 
con  chiarezza)  è  che  questa  influenza  di  Vinet  e  dell'evangelismo  franco-svizzero,  que- 
sta lotta  per  la  libertà  religiosa  condotta  con  toni  sempre  più  accentuati  contro  il  Papato, 
il  suo  dominio  temporale  e  le  sue  pretese  confessionali,  portano  irrimediabilmente  allo 


3 


34 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


scontro  politico  con  le  forze  intese  a  conservare  lo  status  quo  europeo.  Di  qui  l'ostile 
diffidenza  di  Méttemich,  i  furori  di  Gregorio  XVI  e  del  conte  Solaro  della  Margarita,  o 
della  «Voce  della  verità  »  del  principe  di  Canosa.  Così  il  «  filovaldismo  »  (ricordate  i 
celebri  versi  di  Milton),  il  retaggio  puritano,  il  Réveil  si  trasformano  in  fiducia  negli 
italiani,  ai  quali  spetta  di  condurre  una  rivoluzione  antipapale.  Riaffiora  il  tema  della 
distruzione  di  Babilonia,  la  grande  meretrice,  identificata  con  Roma  papale.  E  con 
perfetto  parallelismo  rispetto  alla  radicale  avversione  di  Méttemich  tanto  per  i  moderati 
quanto  per  i  rivoluzionari  italiani,  il  mondo  protestante,  specialmente  britannico, 
comincia  a  puntare  non  solo  sui  moderati  della  penisola,  ma  sui  rivoluzionari,  più 
decisi  nel  loro  proposito  di  distruggere  Babilonia  -  Roma.  Così  il  pugnace  anelito  degli 
evangelicals  britannici  diventa  uno  degli  impulsi  che  concorrono  al  moto 
risorgimentale. 

Di  particolare  importanza  sono  i  contatti  del  protestantesimo,  nelle  sue  varie  ten- 
denze, con  la  cerchia  toscana  del  Vieusseux  e  del  Lambruschini.  Di  questi  rapporti,  da 
tanto  tempo  noti  in  linea  generale.  Spini  ci  dà  un  racconto  minuto  e  preciso,  con 
episodi  raccontati  in  uno  stile  efficacissimo  e  con  un  brio  quasi  sbarazzino, 
toscanamente  arguto.  Sono  pagine  ancora  godibilissime.  Assai  belle  quelle  su 
Lambruschini  e  il  conte  Guicciardini,  o  Mademoiselle  Calandrini.  Il  gruppo  toscano 
rifiuta  il  protestantesimo  in  quanto  religione  del  libero  esame,  ma  afferma  una  sua 
posizione  ideale  di  cattolicesimo  evangelico  che  -  dice  Spini  -  dovrebbe  costituire  il 
juste  milieu  fra  V«  anarchia  »  dei  protestanti  e  il  «  dogmatismo  »  di  quelli  che  lo  stesso 
Lambruschini  definisce  i  «  turchi  del  cattolicesimo  »  (una  definizione,  questa,  che 
sembra  quasi  discendere  dagli  spiriti  polemici  del  giansenismo  toscano  del  Settecento, 
negli  anni  del  granduca  Pietro  Leopoldo  e  del  vescovo  Scipione  de'  Ricci). 

Lambruschini  e  Vieusseux  saranno  magari  avversi  ai  tentativi  di  troppo  aperta  e 
polemica  propaganda  protestante.  Ma  il  loro  ideale  ecumenico  e  il  loro  disegno  di  pro- 
gressiva riforma  non  provengono  dalla  tradizione  teologica  del  cattolicesimo,  ma  piut- 
tosto -  e  siamo  sempre  risospinti  sul  coir.mino  che  qui  ho  rapidamente  ricordato  -  dagli 
analoghi  principi  di  Coppet  e  da  tutte  le  correnti  che  si  sono  succedute  nell'alveo  del 
protestantesimo.  Per  questo  Lambruschini  e  i  suoi  compagni  mantengono  relazioni  cor- 
diali con  Sismondi  e  il  pastoraìo  sociniano  di  Ginevra,  e  poi  con  chi  si  staccherà  dal  ra- 
zionalismo sociniano  per  accostarsi  a  posizioni  pietistiche  o  neo-ortodosse.  Anche  le 
iniziative  pedagogiche  risentono  di  questo  ambiente  ideale.  Nella  Guida  dell'Educatore 
Lambruschini  rivendicherà  come  propria  «  un'opera  tutta  morale  e  (ardisco  dirlo)  evan- 
gelica ».  Dice  benissimo  Spini  su  questo  punto  essenziale:  «  L'abile  diplomazia  del 
Viesseux  e  il  latitudinarismo  dottrinale  del  Lambruschini,  insieme  all'anelito  comune  al 
rinnnovamento  delle  coscienze  e  della  società,  o  alla  comune  lotta  contro  la  vecchia  Ita- 
lia retorica,  sanfedista,  codina,  consentono  non  solo  la  convivenza  tra  protestanti  e  cat- 


RISORGIMENTO  E  PROTESTANTI  NELLA  STORIOGRAHA  DI  G.  SPINI 


35 


tolico-riformatori,  ma  addirittura  quella  -  oltralpe  tanto  difficile  -  fra  l'antico  retaggio 
sociniano  ed  i  virgulti  nuovi  rampollanti  dal  terreno  del  Réveil».  In  questo  gruppo  to- 
scano, nel  quale  già  spicca  la  bella  figura  del  conte  Guicciardini,  comparirà  alla  fine, 
accanto  ai  più  anziani,  o,  come  dice  affettuosamente  Spini,  ai  «  vecchioni  »  di  Palazzo 
Buondelmonti,  il  più  giovane  Bettino  Ricasoli. 

In  questi  anni,  che  precedono  la  grande  crisi  del  Quarantotto,  ci  saranno  ancora,  in 
Piemonte,  momenti  difficili  per  i  Valdesi:  restrizioni  irritanti  e  mortificanti,  espulsioni 
di  Valdesi  residenti  fuori  delle  valli,  il  perpetuarsi  degli  antichi  editti  anche  dopo  il 
Codice  Albertino  del  1837,  e  l'irrigidirsi  del  cocciuto  Solaro  della  Margarita,  che  ha  già 
un  piede  nella  tomba.  Ma  i  contatti  degli  italiani  col  mondo  protestante  si  intensificano 
sempre  di  più,  anche  al  di  là  dell'Atlantico.  I  protestanti  americani  puntano  sulla  sinistra 
democratica  e  repubblicana,  e  ammireranno  ben  presto  Mazzini,  specialmente  dopo  la 
Repubblica  Romana  del  1849;  mentre  Mazzini  manterrà  ancora  per  anni,  nei  confronti 
del  protestantesimo,  qualche  diffidente  sospetto;  ma  non  direi  una  «  sprezzante 
avversione  »,  per  quel  che  ho  accennato  poco  fa. 

Tutto,  negli  anni  quaranta,  va  rapidamente  mutando.  Nelle  Valli  valdesi,  la  vec- 
chia e  ormai  sonnolenta  classe  dirigente  è  scesa  nella  tomba;  e  subentrano  gli  uomini 
formati  alla  scuola  di  Vinet,  del  Réveil  ginevrino,  del  pietismo  tedesco,  come  i  Malan,  i 
Geymonat,  i  Melile.  Mentre  in  Toscana  si  prolungheranno  e  accentueranno,  anche  negli 
anni  cinquanta,  le  tribolazioni  giudiziarie  e  poliziesche,  come  nel  celebre  e  patetico  caso 
Madiai,  che  tanta  eco  avrà  al  di  là  della  Manica  e  dell'Atlantico.  Ma  questi  toscani  non 
mollano.  Dice  Spini:  «  C'è  una  vena  di  rigorismo  piagnone  e  di  estremismo  libertario 
che  sonnecchia  in  fondo  all'animo  di  tanti  toscani  ».  Questa  felice  notazione  di  sapore 
locale  mi  fa  tornare  alla  mente  quelle,  più  volte  insistite,  sul  ben  diverso  carattere  dei 
montanari  valdesi,  sui  loro  scarponi  che  lasciano  durevoli  orme,  e  anche  sulla  loro  cauta 
lentezza  di  bougia-nèn.  Osservazioni  argute  e  scherzose,  le  une  e  le  altre,  che  ci 
strappano  un  sorriso,  ma  toccano,  riconosciamolo,  qualcosa  di  autenticamente  reale. 

Comunque,  con  l'ondata  di  riforme  nella  penisola,  dal  1847  in  poi,  e  con  la  crisi 
del  Quarantotto  in  Europa,  tutto  precipita.  Cadono,  una  dopo  l'altra,  le  discriminazioni 
contro  gli  acattolici,  protestanti  ed  ebrei:  almeno  le  più  odiose.  La  Repubblica  Romana 
acquista  un  rilievo  decisivo  nel  rapporto  fra  il  Risorgimento  e  i  protestanti.  Mazzini  e 
Garibaldi  appaiono  fuori  d'Italia  come  gli  imminenti  distruttori  di  Babilonia  -  Roma, 
«  gli  angeli  del  Signore  contro  le  schiere  di  Satana  ».  Di  qui,  da  questa  atmosfera  anche 
religiosa,  trae  alimento  il  travolgente  entusiasmo  degli  inglesi  per  la  causa  italiana.  È  un 
vero  delirio,  che  afferra  anche  uomini  posati,  insigni  politici,  come  John  Russel, 
Palmerston,  e  il  genero  di  Russel,  Shaftesbury:  tutti  sostenitori  della  crociata  del  Bene 
contro  il  Male.  Ma  si  tratta  di  cose  ben  note. 

A  qualcosa  d'altro  resta  da  accennare,  all'affluire  nei  paesi  anglosassoni,  e 


36 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


Specialmente  in  Inghilterra,  di  esuli  italiani  dopo  gli  eventi  del  1848-49,  e  al  volgersi  di 
molti  di  loro  al  protestantesimo;  e,  inversamente,  all'entusiastica  simpatia  con  cui  molti 
di  questi  esuli  sono  accolti,  tanto  più  negli  anni  in  cui  gli  inglesi  sono  riscaldati  contro 
la  Papal  Aggression.  Con  molti  di  questi  emigrati  italiani  al  di  là  della  Manica,  Spini  è 
piuttosto  severo:  perfin  troppo  col  celebre  Gabriele  Rossetti  (il  padre  di  Dante 
Gabriele),  fuggito  da  Napoli  dopo  la  rivoluzione  del  1820,  e  fattosi  protestante  dopo 
molti  anni  di  soggiorno  londinese.  Era  sempre  rimasto  un  facile  versaiolo  metastasiano, 
fin  da  quando,  nei  giorni  stessi  di  quella  rivolzione,  aveva  inneggiato  al  suo  vittorioso 
esordio  con  un  carme  diventato  subito  famoso,  di  movenza  incorreggibilmente 
metastasiana,  che  -  ricordo  ancora  -  cominciava  così:  «  Sei  pur  bella  con  gli  astri  sul 
crine/che  scintillan  quai  vivi  zaffiri;/  è  pur  dolce  quel  fiato  che  spiri,/  porporina  foriera 
del  dì  ».  La  mia  indulgenza  per  lui  nasce  dal  fatto  che,  quando  ero  ragazzo,  frugando  in 
casa  fra  le  carte  di  un  mio  antenato  d'acquisto,  che  era  stato  carbonaro,  condannato  a 
morte,  e  scampato  grazie  alla  precipitosa  fuga  in  esilio,  avevo  scoperto  un  suo  libretto 
di  appunti,  in  cui  erano  ricopiate,  oltre  alla  famosa  ora  ricordata,  altre  poesie  di  quei 
lontani  giorni  rivoluzionari,  inedite  (fra  cui  una  di  Rossetti),  e  da  me  pubblicate  nella 
prima  giovinezza.  Fu  allora,  da  quelle  carte,  che  nacque  la  mia  passione  per  la  storia. 
Invoco  per  questo  da  Giorgio  Spini  un  po'  di  pietà  per  il  verseggiatore  Gabriele 
Rossetti,  che  ha  pagato  con  un  lungo  e  stentato  esilio  la  sua  candida  passione  per  la  li- 
bertà e  poi  per  il  protestantesimo:  una  passione  trasfusa  in  volumoni  illeggibili,  e  scritti, 
figuratevi  un  po',  con  ûno  stile  ...  da  Metastasio  in  prosa! 

Un  altro  facile  bersaglio  dell'ironia  di  Spini  è  il  barnabita  Alessandro  Gavazzi, 
convertitosi  anch'esso  al  protestantesimo:  un  protestantesimo  da  quattro  soldi,  privo  di 
cultura,  di  pensiero  autentico,  di  fede  profonda.  Era  un  predicatore  piuttosto 
«  trombone  »,  che  infiammava  le  folle,  prima  in  Italia,  e  poi  a  Londra,  e  in  Canada,  me- 
scolando il  Vangelo  alle  invettive  contro  l'Austria;  a  suo  modo  sincero,  ma  insopporta- 
bilmente demagogo  e  piazzaiolo;  il  «  Savonarola  delle  piazze  »,  come  qualcuno  allora 
lo  designò. 

Mi  sia  qui  consentito  un  piccolo  ricordo  personale.  Alla  precisa  ed  equilibrata 
biografia  di  Gavazzi,  pubblicata  nel  1955  da  Luigi  Santini,  io  dedicai  uno  dei  miei  primi 
elzeviri  sul  giornale  «  La  Stampa  »,  il  26  ottobre  1955,  nel  quale  avvertivo  i  lettori  che 
del  problema  dei  rapporti  fra  Risorgimento  e  Protestantesimo  Giorgio  Spini  aveva  già 
parlato  in  alcuni  convegni,  e  su  quel  tema  stava  preparando  un  ampio  studio  (che  difatti 
sarebbe  uscito  l'anno  dopo,  nel  1956,  in  prima  edizione).  Questo  mio  articoletto  di 
trentasei  anni  fa  si  chiudeva  con  queste  parole:  «  Non  attraverso  le  invettive  dal  pulpito 
o  dalla  piazza,  ma  solo  nella  pensosa  e  sofferta  intimità  delle  coscienze,  una  riforma 
religiosa  può  farsi  realtà  ».  Oggi  non  posso  che  pensare  allo  stesso  modo.  E  mi  fa 
piacere  di  essere,  anche  in  questo,  all'unisono  con  l'amico  Giorgio. 


RISORGIMENTO  E  PROTESTANTI  NELLA  STORIOGRAFIA  DI  G.  SPINI 


37 


A  proposito  di  queste  correnti  di  propaganda  protestante  a  livello  popolare,  cultu- 
ralmente modesto,  vorrei,  prima  di  chiudere,  dire  ancora  qualcosa  di  un  altro  bel  libro  di 
Spini.  L'Evangelo  e  il  berretto  frigio.  Storia  della  Chiesa  Cristiana  libera  in  Italia, 
1870-1904,  edita  dalla  Claudiana.  «  Una  società  di  cui  fanno  parte  tutti  i  ladri,  i  be- 
stemmiatori, i  falsari,  i  donnaiuoli,  i  lenoni,  le  ruffiane  e  perfino  gli  onorevoli  condut- 
tore delle  case  di  tolleranza  »:  con  questa  ineguagliabile  finezza  di  linguaggio  un  foglio 
cattolico  del  1878  definiva  la  Chiesa  cristiana  libera  in  Italia.  E  un  segno,  fra  tanti,  del 
clima  difficile  e  ostile  nel  quale  sorse  e  si  diffuse  e  alla  fine  si  estinse  un  non  insignifi- 
cante movimento  evangelico  del  secolo  scorso,  fatto  di  esigui  nuclei  che,  rampollati  dal 
ceppo  dell'evangelismo  risorgimentale  -  del  quale  ho  parlato  poco  fa  -,  non  erano  con- 
fluiti nell'alveo  tradizionale  della  Chiesa  valdese,  la  cui  rigorosa  disciplina  di  stampo 
presbiteriano  appariva  ad  essi  troppo  rigida,  ma  avevano  piuttosto  tratto  qualche  ispira- 
zione dalle  «  chiese  libere  »  suscitate  dal  Risveglio. 

Spini  ci  racconta  con  la  sua  verve  le  minute  vicende  di  questo  movimento,  affer- 
matosi prima  in  Piemonte,  poi  in  altre  regioni  dell'Italia  settentrionale  e  centrale,  con 
qualche  propaggine  al  Sud.  Era  costituito,  in  prevalenza,  da  gente  umile,  che  si  sforzava 
di  diffondere  l'Evangelo  fra  i  ceti  economicamente  e  culturalmente  più  depressi. 
Quest'opera  di  proselitismo  era  affidata,  prima  di  tutti,  ai  «  colportori  »,  che  portavano 
nelle  campagne  Bibbie  e  opuscoli,  in  quantità  sorprendenti,  se  si  pensa  alla  miseria  e 
alla  diffusione  dell'analfabetismo:  oscuri  «  operai  del  Signore  »,  di  scarsa  cultura,  ma 
puri,  entusiasti,  coraggiosi.  Di  questi  pionieri  di  una  fede  intrepida  e  battagliera  Spini  ci 
ha  fornito  alcuni  ritratti  efficacissimi. 

A  loro  si  univano,  con  mansioni  più  elevate,  altri  volonterosi:  o  protestanti  stra- 
nieri, o  preti  e  frati  italiani  in  rotta  con  la  chiesa  cattolica  (uno  dei  più  focosi  e  indomiti 
era  il  Gavazzi  sopra  citato).  E  proprio  da  questo  convergere  di  forze  eterogenee  dove- 
vano nascere  le  prime  difficoltà  del  movimento.  Perché  da  un  lato  gli  stranieri,  meno 
poveri  degli  altri,  cercavano  di  affermare  le  loro  discipline  e  dottrine,  e  dall'altro  gli  ex- 
cattolici sognavano  prima  di  tutto  una  rigenerazione  politica,  che  sottraesse  il  popolo 
all'influenza  del  Papato,  ed  erano  pertanto  spinti  ad  accentuare  le  note  anticlericali  a 
scapito  di  quelle  puramente  evangeliche. 

Questo  movimento  ebbe  così,  fin  dall'inizio,  una  coloritura  politica,  si  legò  alla 
Sinistra  democratico-radicale  (e  perfino  alla  massoneria),  si  mescolò  alle  rivolte  a 
sfondo  sociale  qua  e  là  serpeggianti,  e  condivise  le  sofferenze  del  popolo,  in  un  confuso 
moto  di  protesta  che  era  insieme  religioso  e  politico  e  sociale.  Fu  questo  il  carattere 
fondamentale  del  movimento,  ottimamente  illustratoci  da  Spini.  Uno  dei  meriti  mag- 
giori del  movimento  fu  quello  di  avere  promosso  la  creazione  di  nuove  scuole,  e  for- 
mato maestri  elementari  nelle  zone  più  arretrate. 

Innumerevoli  furono  gli  episodi  d'  intolleranza  e  di  persecuzione.  Le  leggi,  i  giù- 


38 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


dici,  le  autorità  di  polizia,  il  clero,  le  classi  padronali  spesso  si  unirono  in  una  spietata 
linea  repressiva.  Solo  dopo  la  breccia  di  Porta  Pia  e,  sei  anni  più  tardi,  con  l'avvento 
della  Sinistra,  gli  ingenui  seguaci  di  queste  chiese  «  libere  »  si  aprirono  alla  speranza  di 
una  grande  rivoluzione  anche  religiosa  in  Italia.  Ma  anche  quando  la  borghesia  demo- 
cratica parve  dar  loro  ascolto,  si  trattò  in  realtà  di  un  superficiale  curiosità  e  tutt'al  piìi 
di  un  interesse  assai  tiepido  per  gli  aspetti  essenzialmente  anticlericali  del  movimento. 

Anche  i  difficili  rapporti  con  la  Chiesa  Valdese  (politicamente  ancorata  a  posi- 
zioni moderate,  diffidente  e  chiusa  nelle  sue  valli,  forte  di  un'innegabile  superiorità 
culturale  e  organizzativa,  e  preoccupata  di  non  perdere  le  posizioni  tradizionali)  si  con- 
clusero con  un'amara  capitolazione.  Gli  spiriti  giacobini  dei  primi  decenni  si  stempera- 
rono via  via,  sino  a  raggiungere  il  piìi  «  melenso  conformismo  »;  e  il  movimento  finì 
per  essere  risucchiato  o  dalla  Chiesa  Valdese  o  dalle  chiese  metodiste  di  modello 
inglese  o  americano,  e  parve  dileguare  nel  nulla. 

Ma,  come  dimostra  lo  stesso  ripullulare  di  queste  «  eresie  »  in  alcune  regioni  ita- 
liane, e  poi  al  di  là  dell'Oceano  tra  gli  emigrati,  esso  fu  la  risposta,  modesta  fin  che  si 
vuole,  a  un'esigenza  profondamente  sentita.  «  Chi  predicava  il  Vangelo  domenica  dopo 
domenica,  magari  con  poca  cultura  e  molta  semplicità  d'animo,  non  faceva  baccano,  e 
quindi  non  ha  lasciato  gran  che  traccia  di  sé  ».  Comunque,  questa  genuina  e  ricorrente 
spinta  in  senso  evangelico  fu,  al  di  là  di  ogni  contraria  apparenza,  un  fatto  reale,  e  in 
qualche  modo  qua  e  là  sopravvisse. 

Ma  torniamo,  per  chiudere,  alla  principale  opera  su  Risorgimento  e  protestanti  di 
Giorgio  Spini.  Il  quale,  dopo  aver  posto  in  netta  evidenza  la  vacuità  retorica  di  certi  ita- 
liani convertiti  al  protestantesimo,  mette  in  splendido  risalto  altre  cose  -  come  egli  le 
definisce  -  «  serie  e  rispettabili  »:  come  la  subitanea  e  grande  fortuna  di  Mazzini  fra  gli 
inglesi,  il  loro  entusiasmo  millenaristico  di  fronte  al  linguaggio  profetico  e  biblico  del 
Ligure  (e  come  non  concluderne  che  Mazzini  e  la  Bibbia  andavano  perfettamente 
d'accordo?),  o  come  l'austero  conte  Guicciardini,  o  la  stupenda  figura  dell'abruzzese 
Teodorico  Pietrocola  -  Rossetti.  Commenta  Spini:  «  Vi  era  la  speranza,  illuminata  da 
bagliori  di  Apocalisse,  in  una  vittoria  finale,  di  cui  il  rovesciamento  di  Babilonia  - 
Roma  sarebbe  stato  l'atto  culminante.  Purtroppo,  i  fatti  avrebbero  rivelato  quanto 
illusoria  fosse  tale  speranza  e  quanto  difficile  ancora  sarebbe  stato  il  cammino  della 
libertà  religiosa  in  Italia,  perfino  nell'ora  di  maggior  successo  del  moto  liberal- 
nazionale  ».  Alla  fine,  all'indomani  della  breccia  di  Porta  Pia,  si  sarebbe  installata  a 
Roma  l'ala  di  Alessandro  Gavazzi.  E  Spini  conclude:  «  Un'età  era  finita,  e  se  ne  apriva 
un'altra.  Era  destinata  a  durare  oltre  un  mezzo  secolo,  fino  a  quando  Giuseppe  Gangale 
e  "Conscientia",  nel  solco  di  Piero  Gobetti  e  di  "Rivoluzione  liberale",  avrebbero 
opposto  il  fantasma  di  Calvino  all'Italia  cattolica  e  littoria  di  Mussolini  ».  E  ancora: 
«  Contro  ogni  ragionevolezza,  l'Italia  evangelica  non  sparì;  anzi,  guadagnò  via  via  altro 


RISORGIMENTO  E  PROTESTANTI  NELLA  STORIOGRAFIA  DI  G.  SPINI 


39 


terreno,  e  infine,  attraverso  il  sangue  e  le  lacrime  della  Resistenza,  acquistò  il  diritto  non 
solo  di  esistere,  ma  di  essere  una  delle  componenti  della  realtà  italiana  ». 

Grazie,  caro  Giorgio,  di  averci  aiutato,  con  i  tuoi  alti  studi,  a  tener  vive  le  grandi 
speranze  accese  dal  Risorgimento  e  dalla  Resistenza. 


ALESSANDRO  GALANTE  GARRONE 


Giorgio  Spini,  storico  militante  dell'evangelismo  italiano 


La  rinascita  del  Protestantesimo  in  Italia 

In  Risorgimento  e  Protestanti  \  oltre  ad  esservi  tutto  ciò  di  cui  ha  parlato  Ga- 
lante Garrone,  c'è  anche  una  vera  e  propria  storia  dell'espansione  evangelica  in  Italia:  la 
tesi  che  soggiace  a  questa  narrazione  è  il  rifiuto  della  «  leggenda  dell'origine  gianseni- 
stica »  del  protestantesimo  italiano  ottocentesco  2.  Assistiamo  così  alla  nascita  di  tutta 
una  rete  di  capisaldi  stranieri  nell'Italia  del  Settecento  (Trieste,  Bergamo,  Livorno,  Ve- 
nezia, Napoli,  Torino);  capisaldi  che  «  stranieri  »  lo  sono  solo  fino  a  un  certo  punto;  da 
una  parte  vi  sono  infatti  delle  comunità  di  lingua  italiana  (Bergamo)  attentissime  alla 
cultura  del  nostro  Paese;  dall'altra  vi  sono  delle  «  cappelle  d'ambasciata  »  pronte  a  far 
da  base  sia  a  un  dialogo  interculturale  sia  a  una  vera  e  propria  testimonianza  evangelica; 
ci  sono  infine  quelle  «  fughe  »  verso  il  mondo  protestante  estero,  che  non  sono  delle 
semplici  evasioni,  se  danno  origine  all'anti-Enciclopedia  del  De  Felice,  o  alla  famiglia 
di  Jean-Paul  Marat. 

In  piena  epoca  napoleonica  (1808)  assistiamo  poi  alla  prima  offensiva  delle  So- 
cietà Bibliche  in  Italia:  un  tema  questo  sul  quale  Spini  tornerà,  con  amore,  varie  volte 
nel  corso  della  sua  carriera  di  studioso  ^. 

Così,  quando  il  Risorgimento  si  dispiega  in  tutta  la  sua  forza,  le  adesioni  al  prote- 
stantesimo avvengono  secondo  tre  direttrici  assai  diverse  tra  di  loro: 

a)  per  attrazione:  è  il  caso  di  Gabriele  Rossetti,  e  di  tanti  altri  che  entrano  nell'or- 
bita della  tradizione  anglicana. 

b)  per  espansione:  è  il  caso  dei  valdesi,  a  cui  Spini  dedica  delle  splendide  pagine 


'   2^  Cd.  Milano,  Mondadori,  1989. 

^  Op.  cit.,  pp.  8-9,  con  molle  illustrazioni  in  seguito. 

^  Vedi  Un  episodio  ignorato  del  Risorgimento;  le  società  bibliche  in  Italia,  «  BSSV  », 
LXXVI  (1955),  pp.  24-57;  Ancora  sul  Nuovo  Testamento  nella  Repubblica  Romana,  «  Protc- 
stanlcsimo  »,  XI  (1956);  Le  Società  bibliche  e  l'Italia  del  Risorgimento,  «  Protestantesimo  », 
XXVI  (1971),  pp.  666-673. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


41 


in  questo,  come  in  tanti  altri  suoi  scritti. 

c)  per  germinazione  spontanea:  è  il  caso  delle  chiese  degli  esuli  (Corfù,  Malta, 
Londra),  della  loro  appassionata  fusione  (talvolta  confusione)  di  spiritualità  evangelica 
e  pathos  risorgimentale.  Spini  non  nasconde  nessuno  dei  limiti  di  questi  uom.ini,  talora 
dei  loro  peccati:  dice  a  chiare  lettere  che  Achilli  era  un  cialtrone,  che  altri  erano  dei  su- 
perficiali deplorevoli;  eppure,  senza  il  minimo  dubbio,  è  qui  che  batte  il  suo  cuore:  lo  si 
vede  nella  descrizione  filologicamente  ineccepibile  ma  «  partigiana  »  (nel  senso  alto 
della  parola)  delle  vicende  del  primo  evangelismo  toscano.  L'anno  della  conversione  di 
Piero  Guicciardini  (1836)  è  per  lui  in  qualche  modo  il  Wendepimkt,  il  punto  di  svolta  in 
cui  il  protestantesimo  cessa  di  essere  solo  ghetto  valdese  o  colonia  straniera,  e  ridiventa 
movimento:  certo,  la  conversione  del  Guicciardini  consente  a  Spini  di  convalidare  la  sua 
tesi,  che  è  quella  della  sostanziale  convergenza  fra  Kulturprotestantismiis  (Sismondi, 
Vieusseux),  e  fede  evangelica  nel  quadro  del  moto  risorgimentale.  Ma  gli  consente  an- 
che di  mettere  in  luce  un  dato  inoppugnabile,  e  da  troppi  taciuto:  il  protestantesimo  ri- 
nasce in  Italia  come  moto  popolare  e  democratico.  Lo  dimostrano  le  centinaia  di  docu- 
menti scavati  con  mirabile  tenacia  dall'Autore  negli  archivi  più  diversi  (spesso,  negli 
archivi  di  polizia  ...):  questi  «  convertiti  »  che  sfidano  la  galera  e  l'esilio  sono  stagnini, 
muratori,  braccianti,  manovali;  sono  il  nascente  proletariato  italiano,  con  buona  pace  (e, 
speriamo,  cattiva  coscienza)  di  chi  proclama  superficiali  equazioni  tra  «  protestantesimo 
e  borghesia  ». 

Ma  la  stessa  aria  si  respira,  sostanzialmente,  nelle  belle  pagine  che  Spini  dedica 
air«  espansione  dei  Valdesi  »  ^:  anche  questa  chiesa,  rinnovata  dal  Risveglio  e  riquali- 
ficata da  Beckwith,  punta  decisamente  sul  popolo,  anche  se  avrà  sempre  un  occhio  di 
riguardo  per  l'aristocrazia  liberale  che  si  prepara  a  «  fare  l'Italia  »,  e  poi  a  governarla 
con  subalpina  fermezza.  Anche  nel  valdismo  c'è  un  po'  di  questa  fermezza  accentuata 
dal  tenace  retaggio  calvinista:  e  l'Autore  non  manca  di  metterla  in  rilievo,  sia  pure  con 
vivo  affetto  e  talvolta  con  malcelata  ammirazione.  Forse  per  questo  sono  così  belle  le 
sue  pagine  su  «  Torino  capitale  morale  d'Italia  »  ^  ,  dove  la  Torino  del  «  decennio  » 
viene  vista  in  uno  dei  suoi  aspetti  pili  inediti  ^  ma  non  meno  importanti:  rincontro-scon- 
tro tra  la  vecchia  chiesa  valdese  e  i  nuovi  movimenti:  da  una  parte  i  giobertiani  divenuti 
evangelici,  troppo  inclini  a  confondere  la  creatività  storica  del  Risorgimento  con  le 
possibilità  d'una  profonda  riforma  religiosa;  in  mezzo  i  Valdesi,  calvinisti  risvegliati  ma 
fedeli  al  binomio  popolo-chiesa,  dall'altra  i  futuri  «  fratelli  »:  una  chiesa  biblicista, 
escatologizzante,  impareggiabile  formatrice  di  anime  e  di  coscienze:  da  quest'ultimo 


Risorgimento  e  Protestanti  cit.,  pp.  277  sgg. 
^  Op.  cit.  pp.  307  sgg. 

^  Ma  già  Luigi  Santini  ne  aveva  parlalo  lucidamente:  Protestantesimo  e  laicismo  in  Italia 
negli  ultimi  cento  anni,  in  «  Protestantesimo  »,  VI  (1951). 


42 


GIORGIO  BOUCHARD 


movimento  nascerà,  dice  Spini  una  sorta  di  «  Bible  belt  »  monferrino  che  va  da  Asti  a 
Stradella,  e  che  durerà  fino  ad  oggi.  Manco  a  dirlo,  questo  «  Bible  belt  »  sarà  fatto  di 
piccoli  contadini,  non  di  piccoli  borghesi  né  di  letterati,  anche  se  il  suo  infaticabile  ani- 
matore sarà  un  ex  garibaldino:  Teodorico  Pietrocola  Rossetti.  È  interessante  notare, 
come  fa  ripetutamente  l'Autore,  che  il  primo  evangelismo  italiano  è  guidato  da  un 
gruppo  dirigente  largamente  piemontese:  ciò  è  vero  naturalmente  per  i  Valdesi,  ma  an- 
che per  i  «  Fratelli  »,  poi  per  i  «  Liberi  »  e  per  tanti  altri. 

Intanto  però  l'unità  d'Italia  si  è  fatta,  e  il  protestantesimo  si  è  diffuso  dovunque. 
Non  tuttavia  in  modo  omogeneo:  in  Sicilia,  per  esempio,  piìi  che  un  movimento  evange- 
lico, c'è  stata  una  diffusione  del  protestantesimo:  non  c'è  dunque  da  stupirsi  che  qui 
siano  in  testa  i  Valdesi,  guidati  da  quel  grosso  personaggio  mitteleuropeo  ^  che  fu  Gior- 
gio Appia:  qui  forse,  l'inclinazione  popolare  dei  Valdesi  si  attenua  un  po'.  Lo  stesso 
Giorgio  Appia  è  alle  origini  del  valdismo  napoletano,  dove  peraltro  prevalgono  i  fattori 
di  movimento:  Pietro  Taglialatela,  Vincenzo  Sciarelli  e  un  gruppo  di  intelligenti 
«  missionari  »  inglesi  saranno  all'origine  della  grande  vicenda  del  metodismo  parteno- 
peo. 

Ma  in  quest'epoca  (anni  '60)  la  capitale  dell'evangelismo  italiano  è  ormai  Fi- 
renze, e  lo  resterà  a  lungo:  sia  perché  nel  '64  diventa  la  capitale  del  Regno,  sia  soprat- 
tutto perché  ora  si  raccolgono  i  frutti  della  seminagione  compiuta  durante  i  lunghi  de- 
cenni di  preparazione  (1836-1859). 

Su  questo  si  conclude  il  libro:  i  sogni  del  Risorgimento  non  si  sono  avverati,  ma  è 
nata  l'Italia  evangelica^,  minuscola  ma  robusta  e  vivace.  Spini  la  chiama  «  un'Italia 
evangelica  omogenea  e  discorde  »:  omogenea  per  impostazioni  teologiche  (il  Risveglio) 
e  per  composizione  sociologica  (le  classi  lavoratrici)  ma  discorde  a  motivo  delle  diverse 
opzioni  politiche  e  delle  svariate  appartenenze  denominazionali:  cavouriani  i  Valdesi, 
mazziniani  e  garibaldini  i  Liberi,  apolitici  i  Fratelli.  Un  microcosmo  articolato,  qualche 
volta  un  po'  rissoso,  verso  il  quale  Spini  non  nasconde  una  simpatia  che  va  ben  al  di  là 
della  pura  appartenenza  anagrafica:  è  della  sua  chiesa  che  Spini  ci  parla  in  queste  pa- 
gine indimenticabili,  la  cui  validità  scientifica  non  nasconde  l'afflato  della  passione. 

La  classica  ricerca  di  Risorgimento  e  protestanti  ha  trovato  un  felice  comple- 
mento nella  relazione  tenuta  da  Spini  ad  Agape  nell'estate  del  1969  durante  un  conve- 


'  Op.  cit.,  pp.  31 1  sgg. 

^  G.  Appia  era  nato  a  Francoforte  (cfr.  Spini,  op.  cit.,  pp.  351  sgg.).  Suo  fratello  Paolo  aveva 
accompagnalo  Henri  Dunant,  fondatore  della  Croce  Rossa,  alla  battaglia  di  Solferino:  anche  la 
valoriz/azione  del  carattere  esplicitamente  evangelico  di  questa  iniziativa  è  opera  di  Giorgio 
Spini. 

^  Op.  cit.,  pp.  335  sgg. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


43 


gno  di  studio  promosso  dalla  Federazione  delle  chiese  evangeliche  in  Italia 

Se  Risorgimento  e  Protestanti  si  apriva  con  la  distruzione  della  «  leggenda 
dell'origine  giansenistica  »  dell'evangelismo  italiano,  questa  relazione  ridimensiona  un 
classico  «  mito  valdese  »:  quello  secondo  cui  la  libertà  religiosa  si  sarebbe 
gradualmente  diffusa  in  Italia  sulla  scia  della  conquista  piemontese,  e  che  le  Patenti 
Albertine  del  XVII  febbraio  1848  avrebbero  segnato  una  svolta  irreversibile  e 
indiscussa.  Spini  chiama  lepidamente  questa  visione  «  mitologia  del  XVII  Febbraio 
e  si  diverte  a  demolirla:  i  contenuti  delle  patenti  erano  già  tutti  nello  statuto 
concesso  due  giorni  prima  dal  Granduca  di  Toscana,  il  quale  a  sua  volta  si  era  limitato  a 
copiare  la  Patente  di  Tolleranza  concessa  da  Giuseppe  II  d'Austria  nel  1781. 

D'altra  parte,  è  pur  vero  che  dopo  il  '48-'49  tutti  gli  stati  italiani  (e  anche 
l'Austria)  sperimentano  una  marcata  svolta  a  destra,  col  suo  corteo  di  soprusi  e  di  intol- 
leranze religiose,  mentre  il  Piemonte  conserva  lo  Statuto:  ma  i  magnanimi  governanti 
del  Piemonte  liberale  cercano  di  attenersi,  in  tema  di  religione,  a  una  interpretazione 
«  giuseppistica  »  delle  libertà  statutarie:  libertà  di  coscienza  e  di  culto,  ma  nessuna  ma- 
nifestazione pubblica  della  fede,  e  soprattutto,  per  favore,  niente  propaganda!  II  decen- 
nio cavouriano  è  perciò  per  i  Valdesi  (e  ancor  di  più  per  i  Liberi  e  i  Fratelli)  un 
decennio  di  aspre  lotte  per  l'effettiva  libertà  religiosa:  arresto  dopo  arresto,  processo 
dopo  processo,  gli  evangelici  conquisteranno,  per  così  dire,  sul  campo,  il  diritto  a  una 
pubblica  testimonianza  della  loro  fede. 

Ma  proprio  in  quanto  lottano  per  se  stessi,  cioè  per  la  libertà  della  predicazione, 
questi  protestanti  danno  un  notevole  contributo  alla  evoluzione  democratica  dell'Italia 
liberale,  finché  col  codice  Zanardelli  (1889)  scomparirà  praticamente  ogni  residuo  re- 
pressivo. L'evangelismo  italiano  e  la  stessa  chiesa  valdese  escono  dunque  bene  da  que- 
sta simpatica  demolizione  del  «  mito  del  XVII  febbraio  »:  le  patenti  albertine,  lungi 
dall'essere  quella  charte  octroyée  di  cui  parla  talvolta  l'agiografia  valdese,  si  rivelano 
per  quello  che  sono  state  davvero  nella  storia:  un'arma  coraggiosamente  impugnata  da 
una  minoranza  intelligente  e  combattiva:  e  l'esito  della  lotta  non  era  scontato,  se  è  vero, 
come  è  vero,  che  i  risultati  del  Risorgimento  furono  messi  in  dubbio  per  decenni  dalle 
forze  reazionarie,  e  che  la  stessa  classe  dirigente  liberale  aspirava,  quasi  ad  ogni  costo, 
ad  una  conciliazione  con  la  chiesa  cattolica     La  passione  del  militante  evangelico  non 


G.  Spini,  Rapporti  delle  chiese  evangeliche  con  lo  Sialo  durante  il  Risorgimento,  in 
AA.VV.,  La  posizione  delle  chiese  evangeliche  di  fronte  allo  sialo,  Claudiana,  Torino  1970. 

Poiché  non  tutti  sono  tenuti  a  conoscere  «  intus  et  in  cute  »  la  cultura  valdese,  ricordo  che 
la  festa  del  XVII  costituisce  il  momento  più  allo  di  lutto  l'anno  ecclesiastico  valdese,  e  registra  li- 
velli di  partecipazione  popolare  superiori  a  qualsiasi  altra  manifestazione:  ò  la  festa  della  libertà. 

La  generazione  di  Giorgio  Spini  ha  vissuto  un'esperienza  singolarmente  simile  a  quella 
del  «  decennio  »:  dopo  il  1948  i  protestanti  italiani  si  trovarono  infatti  a  dover  combattere  una 
grossa  battaglia  per  la  libertà  religiosa  sulla  base  di  un  testo  costituzionale  (art.  8)  diverso  da  ciò 


44 


GIORGIO  BOUCHARD 


fa  tuttavia  velo  al  rigore  dello  storico,  e  Spini  non  manca  di  mettere  in  rilievo  le 
inclinazioni  sabaude  dei  valdesi,  e  le  tendenze  crispine  e  massoniche  di  molti  altri: 
primi  fra  tutti  gli  evangelici  «  Liberi  ».  Ma  con  questo  siamo  giunti  a  un  altro  capitolo 
della  fatica  storiografica  del  nostro  Autore. 

La  parabola  del  metodismo  italiano 

Com'è  noto,  Spini  appartiene  alla  componente  metodista  della  «  Chiesa  Evange- 
lica Valdese  »  la  rilevanza  socio-culturale  di  questa  «  minoranza  nella  minoranza  »  ), 
in  parte  dovuta  al  fatto  che  essa  risale  a  tre  diverse  radici  storiche:  le  due  «  missioni  »  (e 
poi  chiese)  metodiste  e  la  Chiesa  Libera.  Ci  sia  dunque  concesso  raccogliere  sotto 
un'unica  voce  le  ricerche  dedicate  dal  nostro  Autore  a  queste  tre  diverse  realtà  e  al  loro 
complesso  intrecciarsi  in  una  vicenda  degna  di  nota. 

Lo  studio  più  originale  e  rilevante  in  questo  campo  è  sicuramente  L'Evangelo  e  il 
berretto  frigio  Sviluppando  temi  già  felicemente  impostati  da  Luigi  Santini  Spini 
delinea  con  affetto  ma  senza  indulgenza  la  vicenda  di  un  movimento  evangelico  nato  da 
un'appassionata  partecipazione  alle  sorti  del  Risorgimento  italiano:  gli  uomini  che  nel 
1870  fondano  la  «  Chiesa  Cristiana  Libera  in  Italia  »  sono  tutti  membri  attivi  della  sini- 
stra democratica:  sono  mazziniani,  garibaldini,  o  perlomeno  onesti  combattenti  della 
battaglia  di  San  Martino.  Molti  sono  operai,  artigiani,  contadini:  l'Italia  delle  Cinque 
Giornate,  di  Calatafimi  e  del  Volturno  che  si  raduna  in  queste  assemblee,  e  vi  porta  tutta 
la  sua  passione  e,  perché  no,  tutta  la  sua  ingenuità.  Spini  è  severo  con  questa  chiesa  che 
«  parte  col  piede  sbagliato  »  e  si  trova  presto  bloccata  tra  i  «  Fratelli  »  guicciardiniani 
a  sinistra  e  la  «  muraglia  valdese  »  a  destra  ma  non  nasconde  la  sua  simpatia  per  il 
suo  primo  gruppo  dirigente  (quasi  tutto  piemontese:  Beruatto,  Borgia,  De  Michelis),  per 
la  sua  capacità  di  creare  saldi  nuclei  contadini  (primo  fra  tutti:  Lusema  S.  Giovanni,  la 
ben  nota  «  cappella  dei  Jalla  »)  e  viceversa  di  stabilire  solidi  legami  con  gli  Stati  Uniti 
d'America,  uno  dei  grandi  miti  della  sinistra  risorgimentale. 

Con  la  Sinistra  al  potere  (1876)  la  Chiesa  Libera  raggiunge  il  suo  apogeo:  70  co- 


che essi  desideravano,  ma  pur  adatto  ad  essere  brandito  come  un'arma  democratica. 

Il  Patto  d'Integrazione  tra  le  chiese  valdesi  e  metodiste  è  stato  approvato  nel  1975  e  pie- 
namente attuato  nel  1979. 

Sottotitolo:  Storia  della  Chiesa  Cristiana  Libera  in  Italia,  1870-1904,  Claudiana,  Torino 

1971. 

Alessandro  Gavazzi,  Aspetti  del  problema  religioso  del  Risorgimento,  STEM,  Modena 

1955. 

L'Evangelo  e  il  berretto  frigio  cit.,  p.  47. 
^'7  Op.  cit..  p.  58. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


45 


munita  fra  grandi  e  piccole,  molte  scuole,  una  bella  Facoltà  teologica  a  Roma  Ponte 
Sant'Angelo  (ancora  oggi  uno  degli  «  altri  luoghi  »  del  metodismo),  un  leader  di  grande 
prestigio  (Gavazzi).  La  struttura  è  presbiteriana,  come  il  grande  finanziatore  di  questa 
chiesa  (lo  scozzese  McDougall);  ma  Spini  mette  in  rilievo  come  manchi  a  questo 
gruppo  variegato  una  adeguata  riflessione  teologica:  e  così,  quando  le  speranze  destate 
dalla  Sinistra  cominceranno  a  svanire,  la  Chiesa  Libera  si  avvierà  verso  il  declino.  Di 
questo  declino  Spini  non  nasconde  proprio  nulla.  L'estremo  tentativo  gavazziano  (il 
progetto  di  unione  coi  Valdesi)  viene  descritto  e  documentato,  ma  si  fanno  anche  rile- 
vare le  «  ragioni  dei  Valdesi  »:  come  potevano  rinunciare  al  loro  nome  proprio  nel  mo- 
mento in  cui  si  profilava  la  Conciliazione  tra  stato  e  chiesa  cattolica  (con  conseguente 
emarginazione  dei  protestanti),  e  il  richiamo  alle  Patenti  Albertine  poteva  diventare 
l'unico  baluardo  di  libertà? 

Particolarmente  critica  si  fa  la  disamina  storica  quando  Spini  affronta  l'ultimo  pe- 
riodo di  vita  della  chiesa  libera  ribattezzata  «  Chiesa  Evangelica  Italiana  »  dal  suo 
nuovo  leader,  Saverio  Fera:  questo  ex  garibaldino  divenuto  massone  gestì  la  chiesa  con 
pugno  di  ferro,  pagando  ampio  tributo  alla  crispina  politica  di  grandezza:  sia  pratican- 
dola come  chiesa  sia  appoggiando  il  regime  di  Francesco  Crispi  perfino  nella  sua  lotta 
contro  il  nascente  movimento  socialista.  Davanti  a  questo  dirizzone,  alcuni  degli  uomini 
migliori  (come  Beruatto)  passarono  alle  missioni  metodiste  o  alla  chiesa  valdese  (come 
il  presidente  Borgia,  o  il  filosofo  Santi  Felici);  alla  fine,  fallito  un  ultimo  tentativo  di  ri- 
lancio. Fera  pattuì  direttamente  con  le  due  missioni  metodiste  «  una  specie  di  liquida- 
zione in  blocco  della  Chiesa  Evangelica  Italiana  »  ^O;  il  trattamento  fu  signorile  e  fra- 
temo,  ma  le  comunità  divennero  wesleyane  o  episcopali  senza  che  si  serbasse  memo- 
ria d'una  esperienza  che  non  avrebbe  dovuto  essere  rimossa. 

E  il  libro  di  Spini,  benché  severo,  ci  permette  di  superare  definitivamente  questa 
rimozione:  tra  i  nostri  ascendenti  ci  sono  anche  questi  singolari  evangelici  in  camicia 
rossa,  e  la  loro  forza  spirituale  non  si  è  tutta  stemperata  nel  suo  esito  Crispino  e  masso- 
nico: prova  ne  sia  non  solo  la  vitalità  (ormai  piìi  che  secolare)  delle  comunità  fondate 
durante  il  Risorgimento  ma  anche  la  straordinaria  capacità  evangelistica  manifestata 
dai  «  liberi  »  anche  nei  momenti  della  loro  peggiore  crisi:  a  fine  secolo  nascono  chiese 
come  Forano  Sabina  (oggi  valdese),  e  Scicli,  che  diventerà  uno  dei  «  punti  forti  »  del 
metodismo  meridionale.  Sempre  dall'iniziativa  dei  Liberi  nascono  a  quell'epoca  diverse 
chiese  italiane  in  America  del  Nord:  a  ragione  conclude  Spini:  //  germe  del  tribolato 


Op.cit.,p.  156. 
^9  Dal  1890  al  1904. 
20  Op.  cit.,p.  217. 


Tre  invece  passarono  ai  Valdesi,  qualcuna  ai  BaUisii. 
22  Op.  cit.,p.  179. 


46 


GIORGIO  BOUCHARD 


evangelismo  libero  del  Risorgimento  continua  a  dar  frutti  E  continua  a  darli,  a 
nostro  avviso,  in  un  certo  «  ethos  »  politico-culturale  che  caratterizza  la  componente 
metodista  della  nostra  chiesa. 

Al  metodismo  vero  e  proprio  Spini  ha  poi  dedicato  vari  studi.  Cominciano  col  più 
recente  si  tratta  di  una  magistrale  rievocazione  dello  spirito  con  cui  il  vescovo  Burt 
gestì  la  chiesa  metodista  episcopale  in  Italia  tra  la  fine  dell'Ottocento  e  l'inizio  del  No- 
vecento: culto  del  modello  anglosassone,  aperta  scelta  massonica  ed  anticlericale,  viva 
attenzione  per  la  formazione  culturale  delle  élites  danno  forma  a  una  chiesa  presti- 
giosa ma  fragile,  che  reggerà  con  fatica  la  crisi  degli  anni  '30:  e  tanto  meno  reggerà 
l'ottimismo  di  questo  ex  operaio  inglese  che  vedeva  nella  borghesia  italiana  una  forza 
potenzialmente  protestante  quando  già  si  profilava  l'ombra  del  Patto  Gentiloni.  Più  che 
di  metodismo,  conclude  Spini,  si  trattava  di  masson-evangelismo.  Eppure,  anche  questa 
realtà  fa  parte  della  nostra  storia,  sia  pure  criticamente  rivisitata  come  ha  fatto  lo  Spini 
sulla  base  di  ricerche  di  prima  mano  condotte  negli  archivi  della  Drew  University 
(Madison,  New  Jersey,  USA). 

Al  metodismo  italiano  nel  suo  insieme.  Spini  ha  invece  dedicato  due  saggi  di  li- 
vello diverso:  il  primo  ^6  è  una  commossa  rievocazione  dell' «  avventura  metodista  »  in 
Italia,  pronunciata  nel  momento  in  cui  questa  chiesa  raggiungeva  la  sua  piena  autono- 
mia e  si  impegnava  a  favore  dell'unità  dell'evangelismo  italiano,  sia  promuovendone  il 
processo  federativo,  sia  orientandosi  verso  l'integrazione  coi  valdesi.  Il  secondo,  pub- 
blicato per  ora  in  inglese  è  invece  uno  studio  più  elaborato,  che  delinea  un  quadro 
completo  della  presenza  metodista  in  Italia  dall'arrivo  di  Piggot  fino  ad  oggi.  A  diffe- 
renza de  //  Vangelo  e  il  berretto  Frigio,  e  del  recente  studio  sul  vescovo  Burt,  il  testo  è 
forse  un  po'  ottimistico,  ma  ha  l'incomparabile  pregio  di  far  sfilare  davanti  ai  nostri  oc- 
chi, vividamente,  le  «  grandi  dinastie  »  che  hanno  fatto  il  metodismo  italiano:  i  Tagliala- 
tela,  i  Santi,  i  Nitti,  gli  Sbaffi;  ma  anche  gli  isolati  come  Jacopo  Lombardini,  che  ritro- 
veremo più  avanti.  Ne  viene  fuori  una  storia  appassionante,  degna  di  entrare  in  quella 
koiné  storico-narrativa  che  è  tanta  parte  dell'autocoscienza  protestante  italiana.  In  que- 
sto senso,  è  chiaro  che  la  prossima  pubblicazione  in  italiano  di  questo  testo  verrà  a  col- 
mare un  vuoto  molto  sentito. 


^-^  Op.  cit.,  pag.  197. 

//  «  grande  disegno  »  di  William  Burt  e  l'Italia  laica:  relazione  tenuta  al  Convegno  inter- 
nazionale di  studio  su  //  metodismo  italiano,  Roma  17-19  Ottobre  1991:  di  prossima  pubblica- 
zione negli  Alti  del  convegno  stesso. 

Uno  degli  istituii  fondati  dal  Burt,  il  Crandon,  ebbe  tra  i  suoi  allievi  Ugo  La  Malfa. 

Testimoni  dell'Evangelo  in  Italia.  Conferenza  tenuta  in  occasione  del  Centenario  della 
Chiesa  Melodista  in  Italia  (1961)  e  pubblicalo  a  cura  della  Chiesa  slessa. 

In  0.  Tourn  e  Altri,  You  are  my  Witnesses,  edizioni  Claudiana  ma  pubblicato  a  cura  della 
American  Waldensian  Society  di  New  York  nel  1989. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


47 


Evangelici  e  democrazia 

Un  terzo  settore  in  cui  Spini  è  stato  molto  attivo  come  storico  (e  non  solo  come 
storico)  è  stata  la  ricerca  del  rapporto  che  corre  ed  è  corso  tra  la  testimonianza  evange- 
lica e  i  movimenti  di  trasformazione  socio-politica  del  Paese:  sia  positivamente,  quando 
si  tratta  di  partecipare  a  spinte  di  emancipazione;  sia  negativamente,  quando  bisogna  re- 
sistere a  ondate  regressive  come  il  fascismo;  sia  dialetticamente,  quando  si  tratta  di 
contribuire  in  modo  attivo  e  se  necessario  conflittuale,  alla  evoluzione  di  una  democra- 
zia incompiuta  (come  quella  italiana  nel  «  lungo  dopoguerra  »  che  va  dal  1945  fin  quasi 
ad  oggi). 

A  partire  da  un  suo  fondamentale  articolo  del  1968  attraverso  un  saggio  del 
1979  e  fino  a  una  recente,  densissima  introduzione  a  un  volume  a  più  voci.  Spini 
conduce  un  discorso  molto  chiaro:  i  movimenti  evangelici  si  sono  sempre  accompagnati 
alle  trasformazioni  sociali  e  di  queste  trasformazioni  sono  spesso  stati  un  fattore  non  in- 
differente. La  fioritura  di  gruppi  valdesi,  metodisti,  battisti,  nelle  aree  di  più  intense 
lotte  bracciantili  -  da  Felonica  Po  (MN)  a  Mottola  (TA),  tra  la  fine  dell'Ottocento  e 
l'inizio  del  Novecento  -  il  sorgere,  proprio  nella  stessa  epoca,  di  comunità  evangeliche 
tra  gli  operai  di  Temi  o  di  Sestri  Ponente  documenta  questa  non  casuale  coincidenza.  E 
Spini  ha  cura  di  notare  che  in  questi  movimenti  gli  evangelici  seppero  investire  alcuni 
dei  loro  uomini  migliori:  da  Giuseppe  Banchetti  a  Liutprando  Saccomani,  fino  a  quel 
Lucio  Schirò  che  nella  sua  Scicli  seppe  coniugare  l'iniziativa  culturale  e  sociale  con  una 
lunga  militanza  antifascista. 

Per  cui,  dopo  aver  simpaticamente  ricordato  che  Tatiana  Schucht,  la  cognata  di 
Gramsci,  era  metodista  ^\  egli  può  serenamente  concludere  che  la  vicenda  dell'evange- 
lismo italiano  «  è  stata  spesso  una  storia  di  umili  »,  «  la  storia  di  un  non  conformismo 
ormai  più  che  secolare  »:  «  spesso  è  la  stcria  di  una  componente  della  società  italiana, 
che  non  ha  mai  cessato  di  proporre  ai  propri  connazionali  alternative  o  problemi,  che  in 
un  modo  o  nell'altro  hanno  finito  per  lasciare  comunque  un  segno  » 


Movimenli  evangelici  neW  Italia  contemporanea,  in  «Rivista  S  lorica  Italiana»,  LXXX 
(1968). 

/  movimenti  evangelici  popolari  nelle  Puglie,  in  AA.VV.,  Meridionalismo  democratico  e 
socialismo.  La  vicenda  politica  e  intellettuale  di  Tommaso  Fiore,  De  Donato,  Bari  1979. 

Un  mesticraccio:  ma  re  vale  la  pena,  in  AA.VV.,  Movimenti  evangelici  in  Italia 
dall'Unità  ad  oggi,  Claudiana,  Tonno  1990. 

Op.cit.,  p.  II. 
3-  Op.  cit.,  p.  Vili 


48 


GIORGIO  BOUCHARD 


Questo  «  segno  »,  Spini  lo  aveva  puntualmente  individuato  anche  nell'atteggia- 
mento di  tanti  evangelici  italiani  di  fronte  al  fascismo:  su  questo  tema  Spini  non  ha  con- 
dotto delle  ricerche  sistematiche,  ma  ci  ha  dato  alcuni  vividi  contributi,  che  in  parte  val- 
gono come  spunti  di  ricerca  storica,  in  parte  serviranno  come  fonti  per  gli  storici  futuri: 
alludo  alla  commossa  commemorazione  di  Jacopo  Lombardini  tenuta  a  Gragnana  nel 
1953  e  all' ancor  più  toccante  rievocazione  di  Giovanni  Miegge,  che  per  la  genera- 
zione di  Spini  è  stato  maestro  di  teologia  e  di  libertà  Ma  Lombardini  e  Miegge  sono 
personalità  relativamente  assai  note:  quasi  dimenticata  era  invece  la  figura  di  Ferdi- 
nando Geremia  fino  al  convegno  del  1979,  poi  sfociato  in  un  bel  volume  a  piìj  voci 
dove  Spini  mette  giustamente  in  luce  l'impegno  evangelico  di  questo  antifascista  La 
tesi  che  soggiace  a  tutte  queste  rievocazioni  è  abbastanza  esplicita:  malgrado  viltà  e  ce- 
dimenti, la  «  linea  maestra  della  storia  evangelica  italiana  passa  per  l'antifascismo  »; 
questa  tesi  diventa  esplicita  nell'introduzione  di  Spini  a  una  tavola  rotonda  della  Società 
di  Studi  valdesi  ^"^  come  nell'articolo  dedicato  al  «  tasto  dolente  »  delle  leggi  razziali 
È  sicuramente  merito  di  Spini  l'aver  ricordato  l'atteggiamento  di  limpida  fermezza  as- 
sunto da  Mario  Falchi,  quando  tanti  cedevano  o  tacevano. 

Ma  qui  lo  storico  si  fonde  ormai  col  militante:  militante  evangelico  e  militante 
democratico:  molti  scritti  del  dopoguerra  sono  dedicati  all'ardua  battaglia  per  la  libertà 
religiosa.  Ne  citiamo  solo  due:  il  contributo  a  un  numero  speciale  del  «  Ponte  »  tutto 
dedicato  al  tema  «  Chiesa  e  democrazia  »  e  l'articolo,  sempre  sul  «  Ponte  »,  in  difesa 
dei  Pentecostali  e  degli  altri  gruppi  evangelici  spietatamente  emarginati  dall'Italia  de- 
mocristiana e  centrista  di  Mario  Sceiba  e  di  Alcide  De  Gasperi 

Esula  dal  mio  compito  -  e  dal  lavoro  di  Spini  come  storico  -  l'analisi  delle  centi- 
naia di  interventi  pubblicati  in  quegli  anni  a  favore  della  libertà  religiosa:  allora  fu  una 
pattuglia  di  evangelici,  insieme  a  una  pattuglia  di  laici,  a  tenere  alta  la  bandiera  del  plu- 
ralismo; e  i  frutti  si  raccolsero  solo  dopo  molti  anni. 


Ora  pubblicata  in  appendice  a  S.  MASTROGIOVANNI,  Un  protestante  nella  Resistenza, 
2^  ed. ,  Claudiana,  Torino  1985,  pp.  193  sgg. 

L'avventura  intellettuale  e  civile  di  Giovanni  Miegge,  in  «  Il  Ponte  »,  agosto-settembre 

1961. 

AA.VV.,  Macerie  della  storia  e  speranza  cristiana,  Liviana  Editrice,  Padova  1981. 
•^^  Op.  cit.,  pp.  109  sgg.:  Nella  chiesa  evangelica. 

■^^  Motivazioni  cristiane  dell'opposizione  al  fascismo,  in  «BSSV»,  dicembre  1976. 

■^^  Gli  evangelici  italiani  di  fronte  alle  leggi  razziali,  in  «  Il  Ponte  »  XXIV  (1978),  pp.  1353- 
58  (Rist.  in  Discriminazione  e  persecuzione  degli  ebrei  nell'Italia  fascista,  a  cura  di  U.  Caffaz, 
Consiglio  Regionale  della  Toscana,  Firenze  1988,  pp.  97-99). 

minoranze  protestanti  in  Italia,  in  «  Il  Ponte  »,  1950. 

'^^^  Im  persecuzione  contro  gli  evangelici  in  Italia,  in  «  II  Ponte  »,  1953. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


49 


L'organizzatore  della  cultura 

Si  è  detto  di  Benedetto  Croce  che  è  stato  importante  non  solo  per  i  libri  che  ha 
scritto,  ma  anche  per  quelli  che  ha  fatto  scrivere  (e  pubblicare).  Lo  stesso  può  dirsi,  nel 
nostro  campo,  per  Giorgio  Spini:  scrittore  prolifico  e  intenso,  egli  ha  anche  saputo  tro- 
vare il  tempo  di  svolgere  il  ruolo  di  vero  e  proprio  «  organizzatore  della  cultura  prote- 
stante »  in  Italia.  Cito  solo  i  due  esempi  più  macroscopici: 

1)  le  «  giornate  storiche  »,  che  tanto  respiro  hanno  dato  alla  nostra  Società,  sono 
nate  da  una  straordinaria  sinergia  tra  Spini  e  Augusto  Armand  Hugon,  dove  ciascuno  ha 
portato  in  dote  la  sua  visione  e  le  sue  peculiari  capacità  personali  e  professionali. 

2)  la  collana  della  editrice  Claudiana,  dedicata  alla  «  Storia  del  movimento  evan- 
gelico in  Italia  »:  aperta  da  uno  studio  dello  stesso  Spini  ^\  la  collana  è  ormai  giunta  al 
settimo  volume  e  si  è  distinta  per  equilibrio  e  varietà  di  temi;  Metodisti  e  Fratelli,  Av- 
ventisti ed  Esercito  della  Salvezza  vi  hanno  trovato  collocazione  onorevole,  spesso  ad 
opera  di  ricercatori  che  appartengono  al  loro  stesso  ambito  (unica  eccezione:  Viallet, 
forse  un  po'  duro  verso  il  valdismo  del  ventennio). 

Questi  i  risultati  visibili  e  diretti  del  lavoro  di  Spini  come  «  organizzatore  di  cul- 
tura ».  Ma  ci  sarebbe  da  indagare  neir«  indotto  »:  quante  ricerche  sono  state  fatte  e 
pubblicate  altrove  per  influenza  diretta  o  indiretta  di  Giorgio  Spini?  Penso  al  lavoro  di 
giovani  storici  come  Giorgio  Vola  e  Massimo  Rubboli,  penso  alla  stessa  pubblicazione 
del  libro  di  Mastrogiovanni  su  Lombardini  Ma  su  questo,  solo  una  futura  indagine 
scientifica  (ovvero  una  completa  confessione  dell'indiziato)  potrà  fare  luce  adeguata. 

I  risultati  di  questo  lavoro  di  organizzatore  di  cultura  sono  invece  già  visibili,  e 
consistono,  a  mio  avviso,  nella  tenace  diffusione  di  un  sano  storicismo  nei  gruppi  diri- 
genti del  mondo  evangelico  italiano,  e  anche  fuori  di  esso.  Mentre  tanta  cultura  storica 
italiana  sembrava  avvitarsi  su  di  un  marxismo  tautologico  o  subire  la  deriva  verso  la 
prestigiosa  histoire  de  longue  durée,  Spini  è  stato  un  limpido  fautore  óqW histoire  évé- 
nementielle, e  ha  sempre  vigorosamente  resistito  contro  tutti  i  tentativi  di  ridurre  i  fatti 
della  storia  a  semplice  epifenomeno  dei  mutamenti  della  famosa  «  struttura  ». 

È  perciò  comprensibile  che  il  metodista  Spini  sia  diventato  maestro  di  tanti  Val- 
desi, a  cominciare  dal  sottoscritto:  è  infatti  parte  essenziale  della  nostra  identità  il  poter 
narrare  e  rinarrare  la  nostra  storia,  nel  contesto  più  ampio  della  storia  del  protestante- 
simo e  del  mondo  moderno.  A  questa  narrazione,  o  per  meglio  dire  alla  rielaborazione 


Il  già  citato  L' ex-angelo  e  il  berretto  frigio. 
Cfr.  nota  33. 

'^^  Penso  ad  esempio  SLÌVincurx'atio  ideologica  delle  opere  di  un  Ambrogio  Donini,  che  pure 
era  uomo  di  grandi  capacità  scientifiche. 


4 


50 


GIORGIO  BOUCHARD 


di  questo  «  racconto  »  che  si  è  compiuta  negli  ultimi  trent'anni,  Spini  ha  dato  un  contri- 
buto fondamentale:  è  anche  e  soprattutto  grazie  a  lui  se  il  protestantesimo  italiano,  in 
esso  la  chiesa  valdese,  dispone  di  una  «  identità  narrativa  »,  ricca  e  articolata:  e  ciò 
proprio  nel  momento  della  crisi  dei  «  grands  récits  »  laici  e  rivoluzionari.  Lo  si  è  visto 
in  occasione  delle  celebrazioni  del  «  Rimpatrio  »,  visibilmente  impostate  sulla  base  di 
una  ipotesi  «  spiniana  »  ^.  Ma  con  questo  ci  avviciniamo  alla  conclusione  di  questo  in- 
tervento, il  cui  carattere  molto  «  impegnato  »  e  poco  scientifico  risulta  ormai  del  tutto 
evidente. 


Giorgio  Spini  creatore  di  miti 

Tutta  l'opera  storiografica  di  Spini  è  sottesa  da  una  serie  (anzi,  da  un  sistema)  di 
idee,  che  mi  permetterei  di  definire  «  miti  »  nel  senso  alto  della  parola,  cioè  di  intuizioni 
interpretative  che  vengono  poi  via  via  verificate  ed  esplicitate  nel  corso  della  ricerca:  la 
cosa  è  valida  anzitutto  per  la  Storia  dell'età  moderncâ^,  ma  affiora  anche  in  molti  altri 
scritti,  come  V  Autobiografìa  della  giovane  America:  il  mito  (di  derivazione,  direi,  he- 
geliana) che  solo  con  la  Riforma  comincia  davvero  la  storia  della  modernità  e  della  li- 
bertà, e  che  il  contributo  dato  dai  protestanti  (nei  vari  secoli)  allo  sviluppo  della  demo- 
crazia, della  laicità,  degli  stessi  movimenti  socialisti  è  molto  più  grande  di  quanto  co- 
munemente si  pensi"^^.  Per  quanto  riguarda  il  mondo  angloamericano  questa  tesi  ha  delle 
sicure  convergenze  con  le  idee  di  Perry  Miller:  ma  una  trattazione  di  questo  settore 
esula  dal  compito  che  mi  è  stato  affidato. 

Per  restare  nel  tema  dirò  dunque,  che  a  parer  mio,  le  ricerche  di  Spini  sulla  storia 
dell'evangelismo  italiano  suggeriscono  due  «  miti  »  principali:  il  primo,  e  più  impor- 


La  relazione  della  Tavola  al  Sinodo  1986  (pag.23)  nel  segnalare  l'iniziativa  della  SSV 
parla  di  grande  Europa  democratica  che  proprio  allora  fscil.  nel  1689)  stava  nascendo,  e  con- 
clude: Ricordare  e  rivendicare  questo  intreccio  d'Italia  e  d'Europa,  di  protestantesimo  e  di  de- 
mocrazia, di  fede  evangelica  e  di  costruzione  di  una  società  aperta,  significa  certo  accettare  il 
Giudizio  sulla  nostra  storia,  ma  significa  anche  formulare  delle  ipotesi  nuove  sul  nostro  futuro  e 
sulle  nostre  responsabilità.  Questa  impostazione  fu  oggetto  di  controversia,  soprattutto  nel  sinodo 
1987  e  sulla  stampa  nell'inverno  1987-88,  ma  poi  venne  sostanzialmente  recepita  e,  ci  sia  con- 
cesso dirlo,  confermala  dai  fatti  del  1989.  Cfr.  AA.VV.,  //  glorioso  Rimpatrio  dei  Valdesi, 
Claudiana-SSV,  Torino  1988  e  AA.VV.,  Dall'Europa  alle  Valli  valdesi  (Atti  del  XXIX 
Convegno  storico,  raccolti  da  Albert  de  Lange),  Claudiana-SSV,  Torino,  1990. 

A  quel  tempo,  a  mia  memoria,  solo  Furio  Diaz  colse  il  significato  della  tesi  centrale  di 
Spini:  «  L'Espresso  »  sintomaticamente  titolava  la  sua  recensione:  // fattore  religioso. 

Spini  ha  riaffermalo  con  piena  consapevolezza  l'importanza  di  questa  sua  tesi  nel 
Discorso  inaugurale  alle  giornale  sloriche  del  1989,  dedicale  al  Glorioso  Rimpatrio.  Vedi  il  già 
citalo  Dall'Europa  alle  Valli  Valdesi,  pp.  13  sgg. 


GIORGIO  SPINI,  STORICO  MILITANTE  DELL'EVANGELISMO  ITALIANO 


51 


tante,  sottolinea  il  ruolo  centrale  svolto  dalla  cultura  protestante  nella  rielaborazione 
delle  idee  della  rivoluzione  francese  dopo  la  catastrofe  napoleonica:  il  moderno  liberali- 
smo nasce  in  terra  protestante  sia  da  persone  appartenenti  al  Kultiirprotestanìismus 
(Madame  de  Staël,  Benjamin  Constant,  Sismondi)  sia  da  uomini  che  possono  essere  de- 
finiti come  veri  e  propri  évangéliques:  evangelici  confessanti.  È  il  mito  di  Coppet,  della 
capacità  protestante  di  creare  civiltà  là  dove  un  grandioso  esperimento  (come  la 
Rivoluzione  francese)  è  moralmente  fallito.  Quando  ho  letto  per  la  prima  volta 
Risorgimento  e  Protestanti ,  ne  sono  rimasto  enormemente  colpito:  tutta  la  mia  genera- 
zione di  intellettuali  protestanti  italiani  si  stava  rendendo  conto  che  la  rivoluzione 
bolscevica  era,  appunto,  moralmente  fallita,  ma  nessuno  di  noi  aveva  voglia  di  tornare 
indietro  verso  il  liberalismo  borghese  o  peggio  verso  una  restaurazione  cristiana.  La  vi- 
vacità del  marxismo  indipendente,  i  sogni  effimeri  del  '68  e  l'ambiguo  mito  cinese 
hanno  per  un  tempo  offuscato  questa  prospettiva,  ma  dal  1975  in  poi  (Poi  Pot!)  esso  è 
tornato  ad  imporsi  a  molti  di  noi:  con  la  parabola  di  Coppet,  Spini  ci  proponeva  di  rie- 
laborare evangelicamente  la  tradizione  socialista  dopo  la  catastrofe  morale  dell'espe- 
rienza sovietica.  Non  so  fino  a  che  punto  Spini  abbia  coscientemente  fatto  uso  della 
«  metafora  di  Coppet  »:  certo,  essa  è  stata  efficacissima,  ed  è  alla  base  della  mia  fiducia 
d'un  possibile  contributo  protestante  alla  rinascita  di  un  «  socialismo  dal  volto  umano  ». 

E  con  questo  arriviamo  al  secondo  dei  «  miti  »  di  Spini:  il  carattere  popolare  e 
democratico  dell'evangelismo  italiano  ottocentesco,  e  il  suo  tendenziale  muoversi  verso 
opzioni  di  tipo  socialista. 

Certo,  Spini  è  sapiente  e  accurato  nel  delineare  i  contorni  di  questo  «  mito  »:  da 
una  parte  egli  rileva  come,  prima  ancora  che  si  verificassero  a  Firenze  le  prime  conver- 
sioni (1836),  l'Europa  protestante  della  liberaldemocrazia  (Sismondi,  Vieusseux)  cata- 
lizzasse l'incipiente  Risorgimento  italiano.  Il  rapporto  Risorgimento-Protestanti  avviene 
dunque  al  livello  della  piìj  alta  cultura  del  secolo;  ma  subito  dopo  Spini  fa  notare  che 
quando  le  conversioni  diventano  numerose,  esse  toccano  essenzialmente  il  popolo,  e 
aumentano  proprio  con  l'aumentare  delle  lotte  sociali  a  fine  secolo:  il  movimento 
evangelico  nasce  dunque  pieno  di  spiriti  risorgimentali,  ma  prelude  al  socialismo.  In  un 
paese  dove  la  vulgata  progressista  tortura  e  assassina  Max  Weber  pur  di  fargli  dire  che 
protestantesimo  e  borghesia  sono  (quasi  )  la  stessa  cosa,  non  è  facile  sostenere  tesi 
come  queste.  Abbiamo  visto  sopra  come  esse  siano  filologicamente  fondate,  ma  ciò  non 
toglie  che  esse  svolgano  una  ragguardevole  funzione  mitopoietica. 

Spini,  in  questo,  non  è  solo;  l'altro  grande  creatore  di  «  miti  protestanti  »  è  stato 
Giuseppe  Gangale.  Ma  ciò  che  in  Gangale  era  mito  d'una  minoranza  eroica  (il  senso 
dell'elezione),  in  Spini  è  più  pacatamente  la  «  dottrina  della  componente  »:  il  protestan- 
tesimo, emarginato  ed  espulso  dall'Italia,  torna  ad  esserne  parte  viva  come  nel 
Cinquecento;  e,  quanto  piìj  si  impegna  sui  fronti  strettamente  «  religiosi  »  (la  pietà 


52 


GIORGIO  BOUCHARD 


cristiana,  la  lettura  biblica)  tanto  più  si  qualifica,  irresistibilmente,  come  «  spirito  » 
d'una  Società  aperta  fondata  nel  binomio  «  giustizia  e  libertà  ». 

Nell'opera  e  nella  vita  di  Spini  questa  «  dottrina  della  componente  »  ha  svolto  un 
ruolo  centrale.  Da  ciò  l'incredibile  quantità  di  tempo  e  di  energia  che  quest'uomo  dalla 
fibra  del  ricercatore  ha  saputo  dedicare  a  una  vera  e  propria  «  carriera  »  di  militante 
evangelico  "^^i  «  predicatore  laico  »,  vice-presidente  del  Congresso  Evangelico  del 
1965  membro  autorevole  delle  delegazioni  che  hanno  trattato  le  Intese  con  lo  Stato 
italiano  (prima  per  conto  delle  chiese  valdesi  e  metodiste,  poi  per  le  Assemblee  di  Dio); 
data  r Integrazione,  Spini  è  stato  per  sette  anni  (1979-86)  membro  della  Tavola  valdese; 
ero  allora  suo  collega,  e  devo  dire  che  si  è  trattato  di  un'esperienza  indimenticabile;  ta- 
lune divergenze  politiche  non  impedivano  una  sostanziale  concordia  e  un  notevole  ar- 
ricchimento intellettuale.  Mi  sia  dunque  concesso  concludere  questa  relazione,  con  un 
ricordo  personale:  era  l'estate  1956  e  noi  «  giovani  pastori  »  di  scuola  barthiana  ci  tro- 
vavamo tutti  ad  Agape  per  le  «  giornate  teologiche  ».  Spini  ci  chiamò  in  un  angolo  del 
grande  salone  e  ci  interpellò  bruscamente:  «  Che  cosa  volete  essere:  la  chiesa  nazionale 
delle  Valli  valdesi  che  manda  dei  missionari  verso  l'Italia  irredenta?  O  siete  disposti  ad 
essere  la  chiesa  per  tutti  gli  italiani  ?  Se  scegliete  la  prima  strada,  sappiate  che  fra 
trent'anni  sarete  la  metà  di  adesso  ». 

Dopo  quella  sera  del  1956,  mi  sono  trovato  a  svolgere  il  servizio  pastorale  nelle 
circostanze  più  diverse:  ma  quelle  parole  sono  sempre  rimaste  nel  mio  cuore,  come  uno 
stimolo  e  un  incoraggiamento.  A  pensarci  bene,  sono  state  la  mia  vera  consacrazione  a 
quello  che  i  nostri  padri  chiamavano  il  Santo  Ministerio. 

GIORGIO  BOUCHARD 


Lo  Spini  «  civis  cvangclicus  »  emerge  con  grande  chiarezza  in  una  recente  intervista  con- 
cessa alla  rivista  «  Confronti  »  (giugno  1991)  e  inlilolata:  //  mestiere  dello  storico,  la  vocazione 
del  credente. 

AO 

Da  cui  ò  naia,  abbastanza  direttamente,  l'aUuale  Federazione  delie  chiese  evangeliche  in 

Italia. 


Intervento  conclusivo  di  Giorgio  Spini 


Sono  molto  grato  a  tutti  voi  dell'affetto  e  della  bontà  -  fin  troppa  bontà,  direi  - 
con  cui  avete  voluto  ricordare  il  mio  cammino  negli  studi  storici  durante  lo  scorso 
mezzo  secolo.  Anzi,  per  essere  esatti,  si  tratta  di  più  di  mezzo  secolo,  in  quanto  fu  nel 
1935  che  entrai  per  la  prima  volta  all'Archivio  di  Stato  di  Firenze  per  una  ricerca  sto- 
rica. Non  avevo  ancora  vent'anni  e  non  volevano  ammettermi  in  sala  di  studio  perché 
non  ero  maggiorenne.  La  ricerca  in  questione  era  intorno  a  quell'Antonio  Brucioli,  su 
cui  pili  tardi  pubblicai  un  volumetto,  e  me  l'aveva  suggerita  Ferdinando  Geremia,  un 
metodista  di  Padova,  militante  di  «  Giustizia  e  Libertà  »,  che  non  poteva  farla  egli 
stesso  perché  aveva  avuto  la  salute  minata  da  carcere  e  confino,  tanto  che  finì  col 
morire  prematuramente.  A  decifrare  le  scritture  del  Cinquecento  mi  insegnò  con  grande 
bontà  e  pazienza  Anna  Maria  Enriquez,  allora  giovane  funzionarla  dell'Archivio,  poi 
morta  anch'essa  prematuramente  da  eroina  nella  Resistenza.  In  quella  sala  di  studio  vidi 
lavorare  anche  un  signore  biondo,  ancora  giovane,  molto  distinto:  Nello  Rosselli. 

Mi  sento  commosso,  è  inevitabile.  Forse  per  dominare  la  commozione  la  cosa  mi- 
gliore sarà  che  cerchi  di  storicizzare  anche  me  stesso  e  il  mio  lavoro.  Direi  obiettivo  col- 
locarlo nell'area  storiografica  che  ha  avuto  come  maestri  Federico  Chabod,  Alessandro 
Galante  Garrone,  Leo  Valiani,  Franco  Venturi;  dunque  in  quella  che  si  potrebbe  chia- 
mare la  storiografia  degli  uomini  del  partito  d'Azione.  Questa  storiografìa  aveva  alle 
spalle,  come  precedente  diretto,  lo  storicismo  di  Benedetto  Croce,  e  in  particolare  opere 
come  la  Storia  d'Italia  del  1928  e  la  Storia  d'Europa  del  1935.  Muoveva  anch'essa  da 
una  concezione  della  storia  come  storia  della  libertà.  Si  distaccava  tuttavia 
dall'ortodossia  crociana  in  quanto  intendeva  passare  da  una  libertà  formale  e  di  fatto  eli- 
taria a  una  libertà  che  fosse  anche  emancipazione  economico-sociale  e  avesse  un  pre- 
ciso carattere  democratico. 

Nel  mio  caso  personale,  v'era  un  motivo  ulteriore  di  distacco  dalla  linea  crociana. 
Appartenevo  a  una  generazione  di  giovani,  che  sentivano  scandire  il  tempo  da  una  sorta 
di  orologio  funebre,  cioè  dall'avvicinarsi,  un  passo  dopo  l'altro-,  dello  scoppio  di  una 
nuovaf  guerra  mondiale  in  cui  saremmo  stati  mandati  tutti  al  macello.  Non  per  nulla  quel 


54 


GIORGIO  SPINI 


mio  primo  ingresso  in  archivio  aveva  coinciso  con  la  vittoria  della  barbarie  hitleriana 
nel  cuore  dell'Europa.  Era  comprensibile  che  trovassi  insopportabile  la  marmorea  im- 
passibilità con  cui  da  parte  crociana  si  continuava  a  nutrire  fiducia  nella  razionalità  della 
storia.  Altrettanto  comprensibile  era  che  sentissi  il  richiamo  di  tutt' altri  maestri:  Kierke- 
gaard, Dostoevskij,  Karl  Barth,  per  esempio. 

Tuttavia,  quali  che  fossero  le  tendenze  personali  dei  singoli,  la  storiografia 
«  azionista  »  aveva  la  caratteristica  comune  fondamentale  di  essere  una  storiografia  di 
antifascisti.  Dunque  era  anzitutto  una  storiografia  da  cui  veniva  respinto  totalmente  il 
nazionalismo  arrogante  e  provinciale  del  regime,  insieme  al  culto  della  forza  bruta  ad 
esso  associato.  Era  una  storiografia  che  si  qualificava  per  la  sua  apertura  vigorosa  a  pro- 
spettive intemazionali,  persino  quando  si  occupava  di  vicende  italiane,  e  per  la  sua  at- 
tenzione particolare  alla  circolazione  delle  idee  attraverso  le  frontiere  e  gli  spazi  geogra- 
fici. Di  questa  impostazione  fui  seguace  convinto  fino  da  quando,  all'indomani  della 
laurea,  cercai  di  trasformare  la  mia  tesi  in  uno  studio  su  Cosimo  I  dei  Medici,  che  rifiu- 
tasse la  tradizionale  impostazione  toscana  e  ponesse  l'accento  avanti  tutto  sul  rapporto 
della  Toscana  con  l'Impero  di  Carlo  V  e  la  potenza  spagnola.  A  una  tale  impostazione 
direi  di  essere  stato  coerente  in  ogni  momento  del  mio  lavoro  negli  studi  storici.  Ad  essa 
continuo  ad  essere  fedele  anche  adesso,  sebbene  in  Italia  l'ultimo  grido  della  moda 
sembri  essere  una  rinnovata  chiusura  di  orizzonti  e  una  rinascita  dello  strapaese,  magari 
in  veste  civettuola  di  micro-storia,  derivanti  da  un  aborrimento  compunto  dei  misfatti 
del  mondo  occidentale. 

Nel  mio  caso,  l'apertura  a  prospettive  internazionali  in  genere  e  in  particolare  ai 
problemi  della  circolazione  delle  idee,  era  facilitata,  ovviamente,  da  un  retroterra  prote- 
stante. In  Italia,  nella  ccterie  degli  storici  si  è  disposti  ad  accordare  interesse  anche  al 
fattore  protestante  nella  storia,  ma  a  patto  che  si  tratti  di  storia  del  see.  XVI.  Si  ammette 
senza  difficoltà  che  nei  manuali  di  storia  vi  sia  un  capitolo  sulla  Riforma  contrappcsato 
da  un  altro  sulla  Controriforma.  Ma  lo  si  considera  un  capitolo  chiuso,  che  se  ne  sta 
tranquillo  nel  suo  angolo:  non  come  un  discorso  aperto,  che  dura  ancora  ai  nostri  giorni, 
arricchendosi  via  via  di  sviluppi  nuovi.  Anche  per  la  cultura  laica  italiana  il  protestante- 
simo, a  un  certo  punto  della  storia,  sparisce,  inabissandosi  chissà  come  nel  «  pensiero 
moderno  ».  Che  Bacone  o  Locke,  Pestalozzi  e  Hegel,  abbiano  qualcosetla  a  che  fare  col 
protestantesimo,  pure  appartenendo  indubbiamente  all'area  del  «  pensiero  m.oderno  »,  è 
pudicamcntë  tnciuto.  Appunto  contro  questa  mitologia,  così  diffusa  in  Italia,  ho  combat- 
tuto durante  tutta  la  mia  vita  di  studioso.  E  forse  è  proprio  per  questo  che  di  Riforma  del 
sec.  XVI  me  ne  sono  occupato  abbastanza  poco.  Viceversa,  mi  sono  appassionato  a 
esplorare  il  ruolo  rivestito  dal  fattore  protestante  nella  storia,  soprattutto  dal  Seicento  in 
poi. 

Ilo  avuto  tanto  interesse  per  il  Seicento  perché  è  stato  il  secolo  di  un  dramma 


INTERVENTO  DI  G.  SPINI 


55 


grandioso:  lo  scontro  tra  una  massiccia  controrivoluzione  cattolica,  giunta  assai  vicino  a 
conseguire  il  suo  obiettivo  dello  sradicamento  dell'eresia  col  ferro  e  col  fuoco,  e  una 
resistenza  protestante  così  vivida  da  fronteggiare  la  potenza  gigantesca  delle  monarchie 
della  Spagna  e  del  Re  Sole  e  oltre  a  ciò  da  avviare  una  sorta  di  Riforma  della  Riforma, 
destinata  a  poderosi  sviluppi  nell'avvenire,  legando  la  causa  protestante  a  quella  della 
libertà.  Mi  sia  anzi  consentito  di  ricordare  che  proprio  per  questo  interesse  verso  il  Sei- 
cento sono  arrivato  a  superare  il  recinto  della  storia  europea  e  ad  occuparmi  anche  di 
storia  americana.  Mi  sembra  però  che  considerazioni  analoghe  si  possano  fare  anche  per 
gli  studi  sul  Risorgimento,  sia  quelli  raccolti  adesso  nel  volume  Incontri  europei  e  ame- 
ricani del  Risorgimento,  sia  quelli  comparsi  a  suo  tempo  col  titolo  Risorgimento  e  pro- 
testanti. Pure  nel  loro  caso,  infatti,  è  ben  visibile  uno  sforzo  di  riconsiderare  anche  una 
vicenda  così  cara  al  nazionalismo  patriottardo,  come  quella  del  Risorgimento,  in 
un'ottica  intemazionale,  e  di  investigare  l'incidenza  del  fattore  protestante  sulla  nascita 
stessa  dell'Italia  odierna. 

A  questo  punto,  però,  credo  doverosa  un'autocritica.  Debbo  ammettere  di  avere 
sbagliato,  facendo  una  sorta  di  salto  dal  Seicento  all'Ottocento,  senza  fermarmi  a  consi- 
derare il  Settecento  con  attenzione  adeguata.  Ho  sbagliato  perché  non  ho  tenuto  abba- 
stanza in  conto  il  carattere  poderosamente  innovatore  del  secolo  XVIII,  mentre  avrei 
dovuto  ricordarmi  che  dopo  Newton  e  Wesley,  Rousseau  e  Jefferson,  neanche  il  mondo 
protestante  è  stato  piià  lo  stesso  di  prima.  Mi  sono  pentito  di  questo  sbaglio  soprattutto 
negli  anni  scorsi,  mentre  lavoravo  a  una  storia  delle  origini  del  socialismo,  che  ho  ap- 
pena terminato  e  spero  di  pubblicare  l'anno  prossimo.  Purtroppo  è  tardi  per  rimediare. 

D'altra  parte,  arrivato  ormai  vicino  alla  conclusione  del  mio  cammino,  mi  sembra 
di  potere  constatare,  in  tutta  obiettività,  di  essere  stato  abbastanza  coerente  con  le  con- 
vinzioni sposate  fino  dalla  prima  gioventù.  Certo,  non  posso  dire  di  essere  stato  uno  sto- 
rico «  al  di  sopra  della  mischia  ».  Nella  mischia  mi  sono  gettato  sempre,  e  con  molto 
gusto.  Quale  piìi  quale  meno,  tutte  le  opere  che  ho  scritto  sono  state  scritte  per  combat- 
tere una  battaglia  o  sostenere  una  tesi.  Credo  che  a  leggerle  lo  si  avverta  chiaramente. 
Ma  forse  non  è  tutta  colpa  mia  se  mi  sono  trovato  a  dovere  fare  i  conti  col  fascismo  dap- 
prima, col  dopo-fascismo  di  De  Gasperi  e  di  Sceiba  poi,  con  i  deliri  per  le  dittature 
rosse  più  tardi ,  e  più  tardi  ancora  con  altre  compagnie  non  precisamente  gradevoli. 

Non  sta  a  me  giudicare  se  i  miei  lavori  valgono  qualcosa,  oppure  valgono  poco  e 
magari  punto.  Ma  belli  o  brutti  che  siano,  mi  sembra  che  siano  quanto  meno  la  prova  di 
un  impegno,  che  non  si  è  mai  lasciato  sviare  da  mode  capricciose  e  sempre  è  rimasto 
ancorato  a  convinzioni  profonde.  E  questo  -  lasciatemelo  dire  -  mi  fa  arrivare  alla  con- 
clusione del  mio  lungo  lavoro  con  una  grande  serenità. 


GIORGIO  SPINI 


SUMMARY  OF  THE  ARTICLES 


Giorgio  Spini:  lo  storico  moderno,  by  Giuseppe  Ricuperati. 

As  Professor  of  History  of  the  Modem  Age  at  the  University  of  Torino,  Giuseppe  Ricuperati 
expresses  his  appraisement  of  the  conspicuos  work  in  this  field  by  Giorgio  Spini.  Especially 
notable  are  Storia  dell'Età  moderna  (1960,  and  many  subseguent  issues)  and  Ricerca  dei  Libertini 
(1950),  a  very  original  exploration  of  the  radical  intellectuals  in  XVIl^^  century  Europe. 

Giorgio  Spini  storico  dell'America  Puritana,  by  Loretta  Valz  Mannucci. 

Spini  himself  explains  that  his  research  into  the  peculiarities  of  the  XVII^century's  religious 
events  in  Europe  caused  his  deep  interest  in  the  rise  of  a  new  civilization  in  the  Americas,  where 
the  Pilgrim  Fathers  landed. 

Risorgimento  e  Protestanti  nella  storiografia  di  Giorgio  Spini  ,  by  Alessandro  Galante 
Garrone. 

Another  side  of  the  Spini's  wide  historiography:  Italian  Risorgimento  and  its  relations  with 
Protestantism,  a  question  never  investigated,  of  which  Galante  Garrone,  a  most  distinguished 
"risorgimentista",  speaks  with  great  admiration. 

Giorgio  Spini,  storico  militante  dell'evangelismo  italiano,  by  Giorgio  Bouchard. 

Spini  is  not  only,  with  his  many  works,  the  most  important  historian  of  Italian  Protestants, 
but  —  as  witnessed  by  Giorgio  Bouchard  —  one  of  the  leading  personalities  of  the  Waldesian- 
Methodist  Church  of  Italy. 

Intervento  conclusivo  di  Giorgio  Spini. 

Spini's  response,  with  his  personal  views  about  the  sources  and  the  aims  of  his  historical 
work. 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRAFICHE 


Richard  Fritz,  Eimveiìnmg  des  Waldenserdenkmals  im  ehemaligen  Ortsteil  Wiirmbcrg-Luceme 
anlàssUch  des  Gemeindefesîes  der  evangelischen  Kirchengeméinde  Wurmberg/Neubrental 
am  23.  Jiini  1991,  Pforzheim  1991,  30  pp.  con  ill. 

Nel  1698  ca.,  3000  Ira  ugonotti  e  Valdesi  di  nascita  francese  (come  per  esempio  Enrico  Ar- 
naud) furono  espulsi  dalle  Valli  valdesi  piemontesi.  Nel  1699  una  piccola  parte  di  questi  rifugiati 
(una  lista  del  15  maggio  1702,  inserita  nel  nostro  opuscolo,  conta  264  persone)  fu  insediata  nel 
Wiirttemberg  a  Wurmberg,  un  piccolo  paese  vicino  a  Pforzheim.  Il  quartiere  di  Wurmberg,  a  loro 
destinato,  fu  chiamato  «  Lucerne  ».  Questo  nome  deriva  dal  fatto  che,  anche  se  quasi  tutti  questi 
coloni  erano  originari  del  Queyras,  essi  per  alcuni  anni,  probabilmente  dal  1690  in  poi,  avevano 
vissuto  nella  «  vai  Lucerne  »  (vai  Pellice).  Il  primo  pastore  della  colonia  fu  Cyrus  Scion,  parteci- 
pante al  Glorioso  Rimpatrio.  L'opuscolo  in  questione  è  stato  pubblicato  in  occasione 
dell'inaugurazione  di  un  monumento  commemorativo  a  Wurmberg  il  23  giugno  1991.  Il  monu- 
mento consiste  di  due  lastre  di  pietra  di  Lusema  (scavate  nella  cava  di  Morel  a  Rorà)  e  di  alcune 
lapidi  provenienti  dal  Queyras.  Sulla  lastra  principale  del  monumento  e  stata  posta  la  seguente 
iscrizione:  «  Colonie  Lucerne  de  la  Communauté  du  Queyras  et  Lucerne  établie  Wourmberg 
1699-1824  ».  L'opuscolo  è  di  carattere  commemorativo  e  non  riporta  nuovi  dati  storiografici  se  si 
prescinde  dall'elenco  summenzionato. 

Albert  de  LaxNGE 


58 


SEGNALAZIONI  DIBLIOGRAnCHE 


«  Berichte  aus  der  Waldcnserforschung  »,  8  (1991)  n°  16,  e  9  (1992)  n.  17. 

In  questa  rivista,  pubblicata  in  privato  da  Theo  Kicfner,  si  trovano  articoli,  recensioni  e 
comunicazioni  riguardanti  la  storia  valdese,  soprattutto  dell'età  moderna.  Nei  numeri  16  e  17 
Hans  Joachim  Schmitt  continua  la  pubblicazione  di  un  piccolo  dizionario  di  parole  ed 
espressioni  francesi  particolari,  come  si  trovano  nei  documenti  valdesi  tardo-seicenteschi.  Nel 
numero  17  Theo  Kiefner  inizia  la  publicazione  (in  lingua  tedesca)  di  una  parte  di  alcuni  ma- 
noscritti dall'archivio  Jean  Jalla.  Si  tratta  di  una  copia  degli  atti  del  concistoro  di  Fenestrelle  dal 
1628  fino  al  1663  e  di  una  storia  famigliare  di  Jean  Blanc,  segretario  di  questo  concistoro.  Per 
evitare  malintesi:  Kiefner  non  pubblica  in  traduzione  i  documenti  originali  («  appena  leggibili  »), 
ma  le  trascrizioni  di  Jean  Jalla.  Nel  numero  17  infine  Kiefner  dà  una  recensione  molto  critica 
dell'articolo  di  Herbert  Ma  as,  Warum  die  Kartoffel  im  Raum  von  Niirnberg  und  Erlangen 
Potacke  heisst,  in:  «  Erlanger  Bausteine  zur  frànkischcn  Hcimatforschung  »,  29  (1991),  pp.  227- 
247.  Giustamente  Kiefner  rimprovera  all'autore  di  ripetere  alcune  leggende  attorno 
all'introduzione  delle  patate  in  Germania  da  parte  dei  Valdesi.  Kiefner  rinuncia  a  queste 
leggende,  ma  sembra  convinto  che  gli  «  ugonotti  »  (Kiefner  non  li  considera  valdesi)  Antoine 
Seignoret  di  Wurmberg  e  Enrico  Arnaud  veramente  abbiano  introdotto  le  patate  nel  Wiirttemberg. 

Albert  de  Lance 


Fredric  Hartweg  e  Steffi  Jersch-Wenzel  (eds.).  Die  Hugenotten  und  das  Refuge:  Deutschland 
und  Europa.  Beitrage  zu  einer  Tagung  (Einzelvcroffentlichungen  der  Historischen 
Kommission  zu  Berlin,  Band  74),  Colloquium  Verlag,  Berlin  1990. 

In  questo  libro  collcttanco,  che  contiene  gli  atti  di  un  convegno  tenuto  nel  settembre  1985  a 
Berlino,  si  trovano  due  relazioni  che  riguardano  la  storia  valdese.  In  primo  luogo  si  tratta  del  con- 
tributo di  Theo  Kiefner,  Die  Waldenser  (pp.  165-177).  Il  titolo  non  è  molto  adeguato.  In  realtà 
l'articolo  descrive  specialmente  l'insediamento,  nel  1699,  dei  Valdesi  della  vai  Perosa  e  della  vai 
Pragelato  nel  Wiirttemberg  (pp.  167-168;  169-173)  e  poi  il  loro  inserimento  nella  chiesa  luterana 
del  Wiirttemberg  durante  l'Ottocento  (pp.  173-175).  Per  Kiefner  non  c'è  nessun  dubbio  che  si 
possa  distinguere,  oltre  ai  Valdesi  piemontesi  (o  «  sabaudi  »,  come  egli  preferisce  definirli), 
anche  i  Valdesi  delfinatesi  (cioè  quelli  della  vai  Pragelato)  e  gli  Ugonotti  delfinatesi  (per  es. 
quelli  del  Queyras,  insediati  a  Wurmberg,  o  la  persona  stessa  di  Henri  Arnaud).  Kiefner  sostiene 
però  che  dal  punto  di  vista  religioso  non  vi  era  alcuna  differenza  tra  questi  tre  gruppi:  tutti  e  tre 
erano  «  calvinisti  ».  Una  volta  arrivati  in  Germania,  i  rifugiati  della  vai  Pragelato  e  della  vai 
Perosa  preferivano  definirsi  valdesi,  con  lo  scopo  di  distinguersi  dagli  altri  riformati  francesi  o 
ugonotti  (cfr.  Kiefner,  p.  165). 

Il  secondo  contributo  ò  quello  di  Gabriel  AuDisio,  Migrations  vaudoises  (p.  179-185).  Anche 
qui  il  titolo  risulta  poco  adeguato,  perche  l'autore  si  limita  principalmente  al  periodo  successivo 
alla  Revoca  dell'Editto  di  Nantes.  Audisio  si  interessa  specialmente  al  problema  dell'identità  val- 
dese in  questi  anni  di  dispersione.  Sulla  base  di  lettere  scritte  nel  1685/86  dall'Intendente  del 
Dclfinalo,  Lcbrct,  il  Nostro  mostra  che  le  autorità  francesi  non  consideravano  i  Valdesi  della  vai 
Pragelato  come  un  gruppo  con  un  carattere  religioso  specifico,  ma  come  parte  della  massa  dei 
«  calvinisti  »,  degli  aderenti  alla  «  Religione  Pretesa  Riformata  »  in  Francia.  Audisio  riconosce 
però,  referendosi  a  Kiefner,  che  una  volta  arrivati  in  Germania  i  pragelalesi  sostennero  di  voler 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRAFICHE 


59 


essere  «  buoni  Valdesi  »  come  i  loro  padri.  Che  cosa  però  significava  concretamente  questa  iden- 
tità cosiddetta  «  valdese  »?  Non  si  può  trovarla  in  una  loro  vita  religiosa  particolare,  perchè  i 
pragelatesi  erano  riformati  come  tutti  gli  altri  Ugonotti  rifugiati  del  Sud  della  Francia.  Dunque: 
«  La  recherche  de  critères  d'identité  vaudoise  s'avère  indispensable  »  (p.  185).  Invano,  però,  si 
cercherebbe  un'abbozzo  di  risposta  nel  saggio  di  Audisio.  Esso  suggerisce  soltanto  una  pista  di 
ricerca,  cioè  uno  studio  socio-culturale  sulle  lingue  utilizzate  nelle  colonie  valdesi  e  sulla  loro 
politica  matrimoniale.  «  Il  est  vraisemblable  toutefois  qu'ici  [en  Allemagne],  comme  en  France, 
ce  qui  fut  sauvegardé  de  l'héritage  vaudois  ce  ne  fut  pas  tant  des  traits  religieux  -  ils  étaient  des 
Huguenots  -  que  des  caractères  socio-culturels  comme  la  langue  »  (p.  185). 

Albert  de  Lange 


Barbara  Dlemeyer,  Die  «  reformierte  iMndeskirche  »  in  der  Landgrafschaft  Hessen-Homburg. 
Zur  Rechtsgeschichîe  der  franzôsisch-reformierîen  Gemeinden  (Milteilungen  des  Vereins 
fur  Geschichte  und  Landeskunde  zu  Bad  Homburg  vor  der  Hhe,  Heft  40),  Bad  Homburg 
vor  der  Hhe  1991. 

In  quest'opuscolo  l'Autrice  studia  la  fondazione  delle  colonie  ugonotte  e  valdesi  e  della 
chiesa  riformata  nel  langraviato  dell'Assia-Homburg  nel  quadro  delle  «  eterne  »  liti  giuridiche  tra 
la  casata  dell'Assia-Homburg  e  quella  dell'Assia-Darmstadt.  Interessanti  per  la  storia  valdese 
sono  piuttosto  le  pagine  dedicate  alla  colonia  valdese  di  Dornholzhausen  e  al  suo  primo  pastore 
David  Jordan.  L'autrice  pubblica  un  manoscritto  del  pastore  Jean-Christophe  Roques  degli  anni 
1759-1768,  in  cui  viene  descritta  la  storia  dell'introduzione  del  culto  riformato  nel  langraviato. 
Per  Roques  i  Valdesi  di  Dornholzhausen  (che  egli  erroneamente  considera  di  origine  piemontese) 
sono  chiaramente  un  gruppo  distinto  dagli  Ugonotti:  la  loro  fede  è  una  «  dem  Papsttum  entgegen- 
gesetzte  und  seit  viclcn  Jahrhundcrten  unvcrfiilscht  bcwahrte  mit  den  Reformicrten  hereinkom- 
mende  Glaube  »  (p.  16).  I  Valdesi  si  distinguono  dunque  non  tanto  per  il  contenuto  della  loro  fede 
(che  è  anti-cattolica  e  riformata),  ma  per  il  fatto  che  avevano  avuto  già  convinzioni  riformate 
secoli  prima  della  Riforma  e  che  le  conservarono  sempre  in  modo  puro.  Nella  coscienza  dei 
Valdesi  dopo  la  Riforma,  di  essere  stati  «  riformati  prima  della  Riforma  »,  si  trova,  a  mio  avviso, 
anche  un  motivo  religioso  per  la  continuità  dell'identità  valdese  in  Germania. 

Albert  de  Lange 


Costituzione  di  un  gruppo  di  lavoro  della  Deutsche  Waldenservereinigung. 

Nel  1991  la  Deutsche  Waldenservereinigung  ha  preso  l'iniziativa  della  costituzione  di  un 
gruppo  di  lavoro  per  lo  studio  della  storia  dei  Valdesi  in  Germania.  Coordinatore  è  Albert  de 
Lange.  Il  gruppo  vorrebbe  rilanciare  l'interesse  per  la  storia  nella  Deutsche 
Waldenservereinigung.  Per  questo  si  prevedono  la  pubblicazione  di  opuscoli  storici  divulgativi  e 
l'organizzazione  di  giornale  storiche.  La  prima  giornata  storica  è  prevista  per  il  1995  e  dovrebbe 


60 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRAHCHE 


occuparsi  degli  storici  valdesi  in  Germania,  come  per  esempio  F.  von  Moser,  J.  J.  Herzog,  F. 
Bender,  K.  H.  Klaiber  e  D.  Bonin.  Speriamo  di  poter  comunicare  un  programma  completo  nel 
corso  del  1993. 

AdL 


Giovanni  Antonio  Colangelo,  //  movimento  evangelico  in  Lucania  tra  il  1920  e  il  1958, 
Romeo  Porfirio  editore,  Molitemo  -  Napoli  1989,  pp.  95,  £.  15.000. 

Accurata  ricostruzione  della  nascita  e  dello  sviluppo  delle  comunità  salutiste  di  Atena  Lu- 
cana, Braide  e  Brienza,  adiacenti  anche  se  amministrativamente  separate  (Atena  Lucana  rientra 
nella  provincia  di  Salerno,  Braide  è  una  frazione  di  Brienza,  che  fa  capo  alla  provincia  di  Po- 
tenza). Comunità  nate  dalla  predicazione  di  Francesco  Gaimari  (convertitosi  nel  1917  negli  Stati 
Uniti)  e  cresciute  con  alterne  vicende  grazie  all'  attività  di  diversi  ufficiali  dell'Esercito  della  sal- 
vezza, in  particolare  Elena  Sibille,  Leone  Calzi  e  Antonio  Longo.  11  volumetto  si  segnala  anche 
per  l'attenta  descrizione  della  vita  dei  contadini  della  zona,  per  la  discussione  e  presentazione 
delle  fonti  per  lo  studio  deirev,angclizzazione  meridionale  e  per  il  piccolo,  ma  utile  corredo  di 
fotografie.  11  tono  non  è  mai  agiografico,  le  crisi  delle  comunità  sono  ricordate  coi»  c^erietà.  Inte- 
ressanti anche  le  note  sulla  collaborazione  tra  l'Esercito  della  salvezza  e  le  sezioni  comuniste  lo- 
cali negli  anni  '50,  sulla  modernizzazione  sociale  e  culturale  portata  dalla  penetrazione 
evangelica  e  sulla  capacità  di  reazione  del  clero  cattolico  su  diversi  piani:  minacce  e  repressione 
tradizionali,  sviluppo  della  presenza  (nuovi  templi,  parrocchie  e  iniziative  sociali),  rinnovamento 
della  predicazione  e  della  catechesi.  In  complesso  la  storia  di  una  piccola  comunità  evangelica,  da 
indicare  come  modello  a  quanti  hanno  a  cuore  lo  studio  e  la  testimonianza  della  diffusione 
articolata  della  evangelizzazione. 

Giorgio  Rochat 


Giovanni  Antonio  Colangelo,  La  costruzione  di  un  tempio  metodista  wesleyano  a  Salerno  ne- 
gli anni  venti,  «  Rassegna  storica  salernitana  »,  n.  13  (senza  indicazione  di  data),  pp.  241- 
255. 

Con  un'attenta  utilizzazione  dell'archivio  della  chiesa  metodista  e  dell'archivio  diocesano  di 
Salerno,  l'autore  ricostruisce  i  tentativi  del  pastore  Roberto  Rosa  per  la  costruzione  di  un  tempio 
melodista  a  Salerno  nel  1928  e  la  mobilitazione  del  clero  cattolico  per  impedire  quella  che  era  av- 
vertita come  «  un'  onta  »  immeritata.  La  documentazione  si  integra  bene  con  quella  della  dire- 
zione centrale  della  polizia,  presentata  nel  mio  volume  Regime  fascista  e  chiese  evangeliche,  pp. 
73-74.  Grazie  all'intervento  presso  Mussolini  di  padre  Tacchi  Venturi  (negoziatore  per  il  Vati- 
cano dei  Patti  lalcrancnsi),  la  costruzione  del  tempio  fu  bloccata  e  le  autorità  locali,  senza  avere  il 
coraggio  di  annunciare  a  Rosa  la  decisione  del  duce,  presero  tempo  con  una  serie  di  risibili  prete- 
sti, poi  espropriarono  il  terreno  melodista.  Una  vicenda  di  «  ordinaria  normalità  »  nell'Italia  fa- 
scista. 

Giorgio  Rochat 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRARCHE 


61 


AA.VV.,  La  France  protestante,  histoire  et  lieux  de  mémoire,  sous  la  direction  de  Henri  Dubief  et 
Jacques  Poujol,  Max  Chaleil,  Montpellier  1992,  pp.  444. 

Il  volume  è  frutto  di  una  iniziativa  nata  nel  quadro  del  primo  convegno  dei  musei  protestanti 
nel  1986  e  destinata  a  rispondere  a  esigenze  e  programmi  di  lavoro  sorti  in  quella  sede.  Due  es- 
senzialmente sono  gli  scopi:  formare  e  creare  informazione  destinata  al  pubblico  sempre  più  nu- 
meroso che  si  avvicenda  nei  luoghi  della  memoria  storica  del  Protestantesimo,  come  in  tutti  i 
luoghi  di  memoria,  musei,  santuari,  mostre;  contribuire  alla  formazione  della  coscienza  di  una 
identità  delle  nuove  generazioni  protestanti,  sempre  meno  consapevoli  del  patrimonio  della 
propria  comunità.  Patrocinato  dal  settimanale  «Réforme»,  il  progetto  prevede  in  un  primo  tempo 
la  pubblicazione  di  un  opuscolo  informativo  sulla  storia  del  Protestantesimo,  ma  si  amplia  nel 
corso  del  tempo  e  giunge  a  termine  con  la  pubblicazione  del  presente  volume,  che  corrisponde 
pienamente  alle  attese  e  al  progetto.  Riccamente  illustrato,  redatto  da  competenti  con  uno  stile  di 
ottimo  livello,  divulgativo  ma  di  notevole  informazione,  il  volume  è  diviso  in  due  parti.  La 
prima,  in  5  capitoli  corrispondenti  ai  secoli  XVI-XX,  ripercorre  le  vicende  del  Protestantesimo 
francese  fino  all'età  contemporanea;  la  seconda  parte,  più  ampia,  riprende  il  materiale  e  lo 
completa  sotto  l'ottica  geografica.  Partendo  dalla  capitale  e  percorrendo  via  via  le  province  si 
ritrovano  eventi,  incontri,  personaggi,  si  scoprono  luoghi,  si  tesse  insomma  la  fitta  rete  della 
vicenda  ugonotta  su  percorsi  che  possono  diventare  persino  itinerari  turistici.  Perchè  non  tentare 
alcunché  di  simile  da  noi?  La  bella  e  documentata  brochure  edita  dagli  evangelici  fiorentini  alcuni 
anni  or  sono,  la  monumentale  opera  di  Caponetto  sulla  Riforma  del  XVI  secolo  italiano,  sono  due 
riferimenti  esemplari.  Varrebbe  la  pena  di  pensarci  un  istante  per  rispondere  anche  noi  alle  due 
esigenze  dei  fratelli  francesi:  informare  e  formare. 

Giorgio  Tourn 


Pier  Francesco  Bellinello,  Mmora/ìze  etniche  nel  Sud,  Editoriale  Bios,  Cosenza  1991,  pp. 
1 12,  diagrammi  e  cartine  n.t.  e  due  grandi  carte  f.t. 

In  questo  suo  lavoro,  Bellinello  si  propone  l'analisi,  limitatamente  alla  presenza  di  alloglotti 
nell'Italia  meridionale,  degli  «  aspetti  più  caratteristici  di  ogni  etnia:  l'origine  storica,  lo  sviluppo 
demografico  e  la  consistenza  linguistica,  la  conservazione  della  propria  identità  etnica,  l'unità 
culturale  e  l'ergologia  ».  Le  minoranze  prese  in  esame  sono  «  gli  Albanesi,  i  Greci  di  Calabria  e 
della  penisola  Salentina,  i  Serbo-Croati  del  Molise,  gli  Occitano- Valdesi  di  Calabria  e  la  nomade 
comunità  degli  Zingari  »,  nonché  le  colonie  gallo-italiche  della  Sicilia.  Sull'argomento,  B.  era  già 
intervenuto  in  un  articolo  dal  titolo:  Le  minoranze  etniche  e  linguistiche  in  Calabria,  (in:  «  Studi 
e  Ricerche  di  Geografia  »,  XII,  fase.  I,  1989,  69-77).  Si  tratta  di  un  lavoro  che  per  certi  aspetti, 
come  l'impegno  profuso  nella  ricerca  dei  dati  sulla  consistenza  demografica  e  linguistica  delle 
comunità  investigate,  sarebbe  meritevole,  ma  che  lascia  piuttosto  perplessi  per  la  sua  approssima- 
zione, persino  grammaticale.  Delego  ad  altri,  più  competenti  in  materia,  il  compito  di  valutare  le 
analisi  relative  alle  altre  minoranze.  Ci  vogliamo  fermare  qui  un  istante  a  esaminare  -  per 
giustificare  il  giudizio  appena  espresso  -  quanto  B.  scrive  (pp.  102  e  sgg.)  sulle  colonie  Calabro- 


62 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRAHCHE 


valdesi.  E  comincio  con  il  rilevare,  scorrendo  queste  pagine,  che  gli  occitani  in  Calabria  non  mi 
risultano  essere  «  attualmente  presenti  »  (p.  102)  a  San  Sisto  (non  Sisto,  come  riportano  le  due 
carte  f.t.)  e  a  San  Vincenzo  la  Costa;  ma  solo  a  Guardia,  dove  sembra  che  venisse  concentrato  un 
buon  numero  degli  scampati  alle  stragi  del  1561  per  essere  sottoposti  a  stretta  sorveglianza  da 
parte  del  clero  cattolico.  Su  San  Vincenzo,  in  realtà,  B.  si  ricrede  (p.  105  e  cartina  f.t.)  e  non 
fornisce  poi,  nella  tabella  apposita  (datata  1988),  alcun  dato  numerico;  ma  per  San  Sisto  sono 
indicati  238  «  abitanti  che  parlano  la  madre  lingua  »,  cioè  quasi  il  15%,  mentre  un  controllo 
effettuato  sul  posto  nel  settembre  di  quest'anno,  sia  a  San  Vincenzo  sia  a  San  Sisto,  ha 
confermato  quanto  mi  constava  e  cioè  che  la  pariata  vi  è  completamente  estinta  e  sconosciuta.  Su 
quali  informazioni  si  basano  i  dati  che  B.  ci  propone? 

Va  poi  detto  che  dalla  data  della  repressione  -  son  più  di  quattrocento  anni  -  gli  occitani  di 
Calabria  non  «  professano  »  (p.  102)  piti,  perche  ne  sono  stati  impediti,  il  Valdismo. 
Correttamente,  nell'altro  suo  lavoro  appena  citato,  B.  osservava  che  la  loro  religione  «  fu 
definitivamente  repressa  con  il  genocidio  »;  e  nel  libro  stesso  (p.l05)  si  accenna  al  «  divieto 
assoluto  »  fatto  ai  coloni  «  di  professare  il  Valdismo  ».  E  va  ancora  rilevato  che  questa 
«  religione  »  non  è  un  movimento  «  sorto  verso  la  fine  del  secolo  XII  in  Provenza  »,  ma  a  Lione,' 
dove  operavano  quei  «  Poveri  »  che  vengono  richiamali  del  tutto  fuori  luogo  e  in  modo  confuso  - 
come  confuse  del  resto  sono  tutte  le  notizie  storiche  qui  fornite  -  nella  nota  2  di  p.  102.  Gli 
«  impervi  monti  del  Piemonte  »  sui  quali  trovarono  rifugio  i  Valdesi  dalle  «  pianure  della  Francia 
meridionale  »  non  comprendono  «  Valloise  [Vallouise!]  e  Argentiere  »,  che  si  trovano  sul 
versante  opposto  delle  Alpi.  Presentare  poi,  nel  conlesto  generale  della  storia  valdese,  l'eccidio  di 
Montalto  Uffugo  (l'ottantina  di  sgozzali  sulla  scalinata  della  chiesa)  come  «  storico  »  (p.  102), 
che  significa?  Che  gli  altri,  sempre  «  in  difesa  della  giusta  religione  »  (ibid.),  non  lo  sono?  II 
«  rapporto  da  Montalto  Uffugo  del  27  giugno  1567  »,  che  descrive  un  altro  massacro  di  Calabro- 
Valdesi,  quello  degli  86  guardioli  che,  «  scorticali  vivi,  e  poi  fenduti  in  due  parti  furono  a  questo 
modo  attaccali  a  pali  piantati  per  tal  uopo  lungo  la  strada  per  la  lunghezza  di  trentasei  miglia  » 
(riporto  qui  il  brano  riferito  da  B.,  in  quanto  nella  sua  citazione,  a  p.  104,  nota  4,  è  mutilo  e 
scorretto)  -  è  in  realtà  del  1561,  ò  cioè  contemporaneo  e,  come  gli  altri  spediti  allora  da  Montalto, 
di  mano  di  un  testimone  oculare  ^ 

Come  spiega  B.  o,  per  meglio  dire,  perche  non  ci  spiega  se  sono  «  Occitano- Valdesi  »  i 
coloni  che  si  insediarono  in  Calabria  e  anche  in  Puglia,  perché  qui  abbiamo  una  parlata  «  non 
occitanica,  ma  francoprovcnzale  »  (p.  103)?^  Donde  viene  la  notizia  che  i  Calabro-Valdesi 
scesero  nel  Meridione  «  a  partire  dal  1269  fino  al  1447  »  (p.l02;  ma  a  p.  103  si  parla  di  1370)? 
Che  cosa  lo  avrebbe  impedito,  dopo,  per  almeno  un  secolo?  O  non  confonde  forse  B.  questo 
termine  ad  quem  con  il  1477,  data  in  cui  ebbero  luogo  i  due  soli  viaggi  per  mare  verso  le  colonie 
di  cui  ci  resta  precisa  documentazione  scritta?  ^ 


^  Cfr.  Luigi  Amabile,  //  Santo  Officio  della  Inquisizione  in  Napoli.  Narrazione  con  molti  do- 
cumenti inediti.  Città  di  Castello  1892,  249-250. 

^  Cfr.,  tra  i  vari  interventi  di  Jean  Gonnet  sull'argomento.  Provenzali  e  franco-provenzali  in 
Daunia:  riflessioni  su  alcune  ipotesi  di  lavoro,  in:  «  Novel  Temp  »,  24-25,  Sampeyre  (CN)  1985, 
29-35  (e  bibliografia  ivi  citala). 

^  Cfr.,  A.  Genre,  A  proposito  degli  studi  sulla  parlata  e  l'origine  dei  Calabro-Valdesi,  in: 
«  BALI  »,  8-10,  1984,  Postilla  alla  p.  23;  e  ora  la  documentazione  completa,  in  originale  e  in  tra- 
duzione italiana,  in  A.  Genre  (a  cura  di),  Naulisamentum  Navigli  pro  Valdensibus,  in:  «  Novel 
Temp  »,  39,  Sampeyre  (CN),  8-26. 


SEGNALAZIONI  BIBLIOGRAFICHE 


63 


Sarebbe  anche  interessante  conoscere  i  criteri  di  calcolo  che  stanno  a  monte  dei  dati  numerici 
relativi  agli  abitanti  di  Guardia,  1459,  e  agli  occitanofoni,  1263  (cioè  1*86,5%),  riferiti  al  1988.  La 
prima  cifra  sembrerebbe  in  effetti  riferirsi  alla  popolazione  dell'intero  Comune,  che  comprende 
anche  la  Marina,  dove  vivono  alcune  famiglie  originarie,  o  nelle  quali  uno  dei  coniugi  è 
originario,  di  Guardia  Paese,  ma  dove  i  figli  parlano  calabrese;  ma  non  è  chiaro  come  si  sia  giunti 
al  computo  della  seconda.  In  ogni  caso,  la  popolazione  dell'intero  Comune  (Paese,  Marina  e  case 
sparse)  ammonta,  secondo  i  dati  dell'ultimo  censimento  fornitimi  dal  Municipio,  a  1605  abitanti; 
e  un  controllo  da  me  effettuato  a  Guardia  Paese,  strada  per  strada  e  famiglia  per  famiglia, 
nell'aprile  del  1990,  con  l'aiuto  di  ricercatori  locali,  ha  dato  questi  risultati:  449  abitanti,  di  cui 
341  (76%)  occitanofoni  e  108  no  (o  con  competenza  solo  passiva,  in  quanto  provenienti, 
attraverso  matrimoni,  ecc.,  dalle  località  vicine  di  Cetraro,  Acquappesa,  ecc.).  A  questi  vanno 
aggiunti  una  cinquantina  di  occitanofoni  della  Marina,  che  però,  isolati  dalla  loro  comunità 
d'origine,  hanno  scarse  occasioni  di  servirsi  delia  loro  parlata  e  nessuna  probabilità  di  trasmetterla 
ai  discendenti.  Non  è  inoltre  corretto  affermare  che  «  l'idioma  è  parlato  in  prevalenza  da  persone 
anziane  »,  in  quanto  quel  76%  comprende,  come  chiunque  può  verificare,  tutte  le  fasce  d'età.  Si 
potrà  semmai  dire  che  nell'occitano  dei  più  giovani  la  parlata  delle  comunità  linguistiche 
circostanti  ha  provocato  danni  più  vistosi,  così  come  avviene  del  resto  per  l'occitano  delle  aree 
d'origine.  Nel  suo  articolo  del  1989,  B.  parlava  poi  di  comunanza  di  lingua  tra  gli  abitanti  di 
Guardia  e  i  Valdesi  del  Piemonte,  mentre  nel  libro  afferma  che  il  dialetto  di  entrambi  «  dovrebbe 
essere  simile,  ma  non  lo  è  ». 

Circa  il  costume  tradizionale  femminile,  B.  scrive  che  le  sue  «  caratteristiche,  coniugate  con 
l'acconciatura  dei  capelli,  si  riscontrerebbero  non  solo  nelle  classiche  [?]  valli  del  Pellice,  della 
Germanasca  e  del  Chisone,  ma  anche  in  quelle  saluzzesi  e  persino  in  Val  d'Aosta  a  Cogne  »  (p. 
105)  e  rimanda,  con  una  nota,  a  uno  dei  miei  scritti  sulla  questione  guardiola  nel  quale  dimostro 
esattamente  il  contrario.  E  così  via,  fino  a  dire  che  il  guardiolo  «  è  una  lingua  orale,  dal  momento 
che  non  esistono  norme  grammaticali  »  (ibid.). 

Insomma,  chi  aprirà  il  libro  di  B.  con  l'intento  di  informarsi  sulle  colonie  calabrovaldesi  di 
ieri  e  di  oggi  e,  indirettamente,  sui  Valdesi,  sulle  ragioni  storiche  della  loro  presenza  lì  e  nei 
luoghi  d'origine,  ne  uscirà  frastornato  e  con  le  idee  a  dir  poco  confuse.  Un  vero  peccato,  perché  è 
andata  persa  l'occasione  per  fare  il  punto  su  questa  interessante  realtà  storico-linguistica, 
sintetizzando  le  importanti  conclusioni  che  sono  emerse  dai  più  recenti  studi. 

Arturo  Genre 

Osvaldo  Coisson  et  Alberto  Santacroce,  Index  Analitique  des  dix-neuf  premiers  Bulletins 
d'études  préhistoriques  alpines  (1968  -  1987),  Société  Valdôtaine  de  Préhistoire  et 
d'Archéologie,  Aoste  1990  [ma  1991]. 

Il  nostro  presidente  onorario,  Osvaldo  Coïsson,  non  ci  onora  soltanto  con  la  sua  presenza  e 
con  la  sua  attenzione,  e  con  i  suoi  lavori  eruditi  o  creativi  sul  mondo  valdese  e  sull'area  occitana. 
L'opera  sua  varca  monti  e  valli  e  si  manifesta  propizia  per  quella  Valle  d'Aosta  che  Rollier,  con 
lui  ai  tempi  di  GL,  abbinava  a  "queste  valli"  nelle  sue  proposte  d'autonomia  non  solo  culturale. 
Un  prestigioso  lavoro  erudito,  questo  Index,  tanto  erudito  da  risultare  creativo. 

Augusto  Comba 


A.  Genre,  A  proposito  degli  studi  sulla  parlata  e  l'origine  dei  Calabro-Valdesi,  in: 
«  Bollettino  dell'Atlante  Linguistico  Italiano  »,  8-10,  Torino  1984-86,  5-25. 


•^4 


1  1012  01474  7804 


BW  LIBRARY  USE  ONLY