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Full text of "Brani inediti dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni"

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Opere  di  Alessandro  Manzoni 


EDIZIONE  HOEPLI 


Voi.  II. 

(in  due  parti) 


BRANI  INEDITI 


DEI 


Promessi  Sposi 


DI 


ALESSANDRO  MANZONI 

PER   CURA 
DI  GIOVANNI  SFORZA 


PARTE  IL 

SECONDA    EDIZIONE    ACCRESCIUTA 


Milano  -  ULRICO  HOEPLI  -  Editore 

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BRANI  INEDITI 

DEI 

PROMESSI  SPOSI 


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BRANI  INEDITI 


DEI 


Promessi  Sposi 


DI 


ALESSANDRO  MANZONI 

PER  CURA 
DI  GIOVANNI  SFORZA 


PARTE  II. 

Seconda   edizione   accresciuta 


Ulrico  Hoepli 

EDITORE    LIBRAIO   DELLA   REAL   CASA 
MILANO 

I905 


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PROPRIETÀ   LETTERARIA 


Milano,  1905  -  Tipografìa  Umberto  Allegretti,  Via  Orti. 


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INDICE  DELLA  SECONDA  PARTE 


Le  prime  accoglienze  ai  «  Promessi  Sposi»,  studio 

di  Giovanni  Sforza ix 

XII.  —  Fuga  di  Don  Rodrigo 353 

XIII.  —  Ritorno  di  Lucia  al  suo  paese    ....      363 

XIV.  —  Visita  del  Conte  del  Sagrato  a  Lucia.     .       373 

XV.  —  Cure  del  Cardinal   Federigo  per  mettere 

al  sicuro  Lucia 387 

XVI.  —  Il  tozzo  di  pane  e  il  bicchier  d'acqua  del 
Cardinal  Federigo 395 

XVII.  —  La  carestia  del  1628  -  Ragioni,  rimedi  e 
moti  dell'opinione  pubblica  nelle  carestie    .     .       405 

XVIII.  —  Don  Ferrante  e  la  sua  famiglia    .     .     .       433 

XIX.  —  Il  passaggio  de'  Lanzichenecchi.     .     .     .       465 

XX.  —  Dialogo  sulla  peste  tra  Don  Ferrante  e  il 
Signor  Lucio 495 

XXI.  —  La  peste  a  Bergamo  -  Ritorno  di  Fermo  al 
paese  nativo  -  Suo  incontro  con  Don  Abbondio 

e  con  Agnese 525 

XXII.  —  Fermo  trova  Lucia  nel  lazzeretto  .     .     .       557 

XXIII.  —  Scioglimento  del  voto  di  Lucia  e  morte 

di  Don  Rodrigo 579 

Appendici 595 

J.  —  Il  principio  del  Romanzo  nella  prima  minuta      597 


I  (>«)•!■  Ili 


—      Vili      — 


II.  —  Il   principio  del    Romanzo  nella  seconda 

minuta 604 

III.  —  Il  principio  del  Romanzo  nella  copia  per 

la  Censura 607 

IV.  —  La  fine  del  Romanzo  nella  prima  minuta      611 

V.  —  La  Serva  di  Don  Abbondio 618 

VI.  —  La  confessione    di    Lucia    e    il   consiglio 
d'Agnese 626 

VII.  —  Una  disgressione 642 

VIII.  —  Il  Padre    Cristoforo    ripreso  dal   Guar- 
diano di  Pescarenico 648 

IX.  —  Il  tentativo  fallito   del  matrimonio  clan- 
destino nella  prima  e  nella  seconda  minuta.       653 

X.  —  Le  correzioni  air  «  Addio  ai  monti  »    .     .       676 

XI.  —  L'Innominato;   brano  della  seconda  mi- 
nuta, stralciato  poi  dall'Autore 688 

XII.  —    Descrizione    dell'autografo    della    prima 
minuta  dei  «  Promessi  Sposi  » 712 


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LE    PRIME    ACCOGLIENZE 

AI 

«PROMESSI  SPOSI» 


Alessandro  Manzoni.  -  P.  II. 


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I. 


Giulia,  la  primogenita  del  Manzoni,  scriveva  al 
Fauriel  T8 luglio  del  '27:  «Debbo  dirvi  che  abbiamo 
«  provato  un  gran  piacere  nel  vedere  il  lieto  successo 
«  del  libro  del  babbo.  In  verità,  superò  non  solo  la 
«nostra  aspettativa,  ma  ogni  speranza;  in  meno  di 
«  venti  giorni  se  ne  vendettero  più  di  600  esemplari. 
«  È  un  vero  furore  ;  non  si  parla  d'altro  ;  nelle  stesse 
«anticamere  i  servitori  si  tassano  per  poterlo  com- 
«prare.  Il  babbo  è  assediato  da  visite  e  da  lettere 
«  d'ogni  specie  e  d'ogni  maniera  ;  furono  già  pubbli- 
«cati  alcuni  articoli  intieramente  favorevoli  ed  altri 
«se  ne  annunziano». 

Non  senza  una  trepidazione  grande  l'aveva  final- 
mente dato  fuori,  come  si  rileva  dalle  lettere  che  il 
Tommaseo,  allora  a  Milano  e  in  familiarità  con  lui, 
era  andato  di  mano  in  mano  scrivendo  a  Giampietro 
Vieusseux  (*).   «Il  suo    romanzo   è  addormentato»: 


(*)  Barbi  M.,  Alessandro  Manzoni  e  il  suo  romanzo 
nel  carteggio  del  Tommaseo  col  Vieusseux  ;  nella  Miscel- 


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—      XII      — 

(così  il  12  novembre  del  '26)  «  egli  teme  di  pubbli- 
«  cario,  tanta  è  la  nausea  che  ispira  a  ogni  bene  l'a- 
«  spetto  di  quella  canaglia  che  ha  parte  nella  BibUo- 
«  teca  Italiana  ».  E  di  lì  a  dodici  giorni  :  «  Egli  s'era 
«scuorato  un  po\  non  per  tema  di  que'  vili  imbe- 
«  cilli,  ma  per  quella  stanchezza  di  mente  che  nasce 
«al  pensiero  di  vedere  male  accolta  un'opera  che 
«costò  tanta  pena,  e  che,  dic'egli,  non  fa  male  a 
«  nessuno.  Io  temo,  soggiungea,  che  mi  vogliano  far 
«scontare  la  troppa  aspettazione  ch'egli  hanno  di 
«questo  libro:  aspettazione  della  quale,  a  dir  vero, 
«  non  è  mia  la  colpa  ».  Gli  tornava  a  scrivere  il  2  de- 
cembre:  «  Manzoni  ripiglierà  il  suo  romanzo,  da  cui 
«l'aveva  scuorato  lo  zelo  dell'amicizia;  voglio  dire 
«le  critiche    fatte    al    20.   canto  del  Grossi  »(l).    In 


lanea  di  studi  critici^  edita  in  onore  di  Arturo  Graf>  Ber- 
gamo, 1903;  pp.  235-256. 

(')  /  Lombardi  alla  prima  crociata,  canti  quindici  di 
Tommaso  Grossi,  Milano,  presso  Vincenzo  Ferrano, 
1826;  tre  voi.  in-8.°  di  pp.  VII-143,  152  e  163,  dettero 
occasione,  come  ebbe  a  dire  Ermes  Visconti,  a  «  un  di- 
«luvio  di  libercoletti,  quasi  tutti  pessimi,  prò  e  contro  », 
comparsi  alla  luce  tra  l'aprile  e  il  maggio  del  1826,  per 
la  più  parte.  Cfr.  Vismara  A.,  Bibliografia  di  Tommaso 
Grossi ,  Como,  Ostinelli,  1886,  pp.  37-40.  A  confessione 
del  Tommaseo,  il  Manzoni,  «  uomo  di  pace,  non  lesse 
«  di  tutte  quelle  scritture  che  l'articolo  nostro  :  fu  poi  for- 
«  zato  a  leggere  quel  di  Parenti,  che  lo  fece,  dic'egli,  star 
«male  per  quindici  giorni».  Anche  «l'articolo  nostro», 


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—      XIII      — 

un'altra,  senza  data,  ma  del  febbraio  o  del  marzo 
del  '27,  soggiunge:  «Manzoni  è  all'ultimo  capitolo 
«  ancora.  Ma  incomincia  a  stampare  l'altra  metà  del- 
«  l'ultimo  tomo  ;  onde  innanzi  alla  fine  dell'anno  si 
«  può  sperare  di  veder  il  Romanzo  alla  luce  (*).  De- 
v'essere un  gran  gridare,  un  gran  sentenziare  de' 


cioè  il  secondo  di  quelli  che  il  Tommaseo  inserì  nell'^*- 
tologia,  di  Firenze  [n.°  LXX,  ottobre  1826,  pp.  3-30],  al 
Manzoni  dispiacque.  «  Con  quella  sincerità  ch'è  sua  pro- 
«pria,  ma  che  mi  onora,  disse  d'aver  letto  l'articolo,  e 
«  che  gli  pareva  impossibile  che  fosse  mio.  —  E  perchè  ? 
«  Vi  traspare  forse  l'astio  ?  L*  invidia  ?  Io  mi  conosco  abietto 
«  sì,  ma  non  tanto  da  invidiare  al  buon  Grossi.  —  Astio 
«  no,  ma  disprezzo.  Pare  che  le  lodi  ella  le  abbia  con- 
cesse alla  compassione  e  al  riguardo  degli  amici  del 
«  Grossi  ;  ma  le  abbia  insieme  attemperate,  anzi  sepolte 
«sotto  la  censura  e  il  biasimo». 

L'articolo  di  Marcantonio  Parenti  (nato  a  Monte- 
cuccolo  nel  Frignano  il  30  gennaio  1788  e  morto  a  Mo- 
dena il  23  giugno  del  1862),  che  fece  giustamente  indi- 
gnare il  Manzoni,  sfuggì  alla  diligenza  del  Vismara.  S'in- 
titola: Riflessioni  sulla  Mitologia  e  sul  Romanticismo  in 
occasione  che  si  pubblica  per  la  prima  volta  II  Doroteo 
dell'  Ottonelli.  Si  legge  a  pp.  401-418  del  tom.  IX  e  a 
pp.  3-41  del  tom.  X  delle  Memorie  di  religione ',  di  mo- 
rale e  di  letteratura,  di  Modena. 

(*)  In  una  lettera  del  febbraio  '26  aveva  scritto,  par- 
lando del  -Romanzo  :  «  prima  della  gita  pedestre,  non  può 
finirlo».  Si  trattava  di  un  «viaggio  pedestre  di  Manzoni 
nel  Bergamasco  »,  che  il  Vieusseux  riteneva  desse  «  luogo 
a  qualche  bella  descrizione  nel  suo  romanzo  ». 


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—      XIV      — 

«  Classici.  E  la  Biblioteca  Italiana  come  lo  prenderà 
«  d'alto  in  basso  !  »  Gli  torna  a  scrivere  il  12  maggio: 
«Manzoni  non  ha  cominciato  ancora  a  stampare 
«l'altra  metà  dell'ultimo  tomo;  ma  non  va,  mi  dice, 
«  in  campagna,  se  non  se  pubblicatolo.  Io  godo  d'an- 
«  darmene  via  :  penerei  a  sentire  la  lotta  che  forse 
«  gli  si  prepara,  e  forse  non  potrei  non  mischiar- 
«  mivi  ». 

Per  «benevolenza  modesta»  dell'autore,  aveva 
egli  letta  gran  parte,  «innanzi  che  data  alla  luce», 
di  «quella  immortale  più  storia  che  romanzo»;  e, 
nel  confidarlo  al  Vieusseux,  la  .diceva  «  divina  cosa  ». 
Ne  lesse  anche  de'  tratti  al  Rosmini,  «che,  passeg- 
«  giando  la  sua  stanza,  sorrideva  e  ammirava  »  (*). 
Avvenuta  la  pubblicazione,  seguitò  a  ragguagliare 
l'amico  della  varia  fortuna  del  Romanzo.  «  I  giudicii 
«  sono  ancor  vaghi  »,  gli  scriveva  il  20  di  giugno. 
«  Il  pubblico  è  incerto;  il  nome  di  Manzoni  lo  preme 
«  e  incute  rispetto.  La  virtù  ha  i  suoi  diritti  ».  E  di 


(*)  Il  Rosmini,  il  23  novembre  del  '26,  scriveva  al  prof. 
Pier  Alessandro  Paravia:  «Leggo  di  questi  giorni  il  Ro- 
«  manzo  del  Manzoni,  che  parmi  una  maraviglia.  Egli  mei 
«comunica  per  sua  gentilezza:  io  me  ne  inebrio,  e  penso 
«  che  all'  Italia  apparirà  come  cosa  nuova  :  e  a  sì  limpido 
«  lume  novellamente  acceso,  a  lei  parrà  esserle  accresciuto 
«  il  veder  della  mente.  Che  cognizione  dell'uman  cuore  ! 
«che  verità!  che  bontà,  la  quale  ovunque  trabocca  da 
«un  cuor  ricolmo!  » 


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—      XV      — 

lì  a  quattro  giorni  :  «  A  Zaiotti  e  ad  Ambrosoli  il 
«  romanzo  del  Manzoni  non  piace.  Dicono  che  non 
«conosce  la  lingua;  che  il  secondo  tomo  (l)  merite- 
«  rebbe  di  andar  tutto  al  diavolo,  ch'è  un  disturbo 
«  dall'azione,  che  negli  altri  però  V azione  (sentite  i 
«  pedanti  !)  cammina  bene.  A  molti  piace  molto  :  tutti 
«  però  ci  trovano  troppi  particolari  :  quelli  che  sanno 
«scrivere  ci  trovano  delle  improprietà,  e  difetto  di 
«  numero.  Alcuni  colloqui  si  notarono  come  eccessi- 
«vamente  veri.  Si  confessa  però  ch'è  un  modello 
«  di  stile  romanziero.  Una  signora  ha  trovato  ottimo 
«il  titolo  di  storia  (2),  perchè,  dice,  par  tutto  vero. 
«  Un'altra,  malissimo  prevenuta,  dovette  pur  pian- 
«  gere.  S'accorse,  per  altro,  ch'era  un  libro  pericoloso  % 
«  perchè  i  contadini  vi  fanno  miglior  figura  che  i 
«  nobili.  L'istesso  padre  Cristoforo,  diceva  ella,  è  un 
«  mercante.  V'ebbe  chi  ha  trovato  che  Manzoni  guasta 
«la  letteratura,  perchè....  perch'è  inarrivabile \  onde 
«  quelli  che  l'imitano,  noi  potendo  agguagliare,  non 
«  fanno  che  inezie.  Ad  altri   parve  leggiero,  e  insi- 


(')  Il  secondo  tomo  della  prima  edizione  abbraccia  i 
capitoli  XII-XXIV. 

(2)  Per  testimonianza  della  Gazzetta  di  Milano,  «  fu 
«  voce  generale  »  che  il  titolo  di  storia  milanese  del  se- 
colo XVII t  scoperta  e  rifatta  «  altro  non  significhi  se  non 
«che  l'autore  tolse  qua  e  là  da  croniche  e  storie  molti 
«particolari  della  sua  opera,  ma  che  il  merito  di  averla 
«tessuta  s  ordinata  sia  tutta  di  sua  spettanza». 


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—     XVI     — 


«  gnificànte  il  titolo  :  ad  altri  voluminosa  la  forma. 
«  Una  famiglia  inglese,  che  lo  voleva  comperare,  se 
«  ne  tenne;  perchè  lo  trova  non  libro  da  viaggio,  ma 
«da  chiesa;  non  romanzo,  ma  Bibbia».  Il  18  di  lu- 
glio seguitava  a  informarlo:  «  Parliam  di  Manzoni.... 
«  Si  diceva  che  il  suo  merito  è  di  nulla  tralasciare, 
«  neppure  le  menome  circostanze,  le  menome  pieghe 
«del  cuore;  si  lodava  l'artifizio  della  narrazione  e 
«  dei  passaggi  ;  e  che  quel  libro  doveva  studiarsi  an- 
«che  per  la  lingua;  e  che  nel  secondo  tomo  quella 
«conversione  è  mirabilmente  preparata  e  descritta; 
«e  che  la  prolissità  non  annoia;  e  che  il  terzo  tomo 
«  è  di  tutti  il  più  bello  ;  che  quella  peste  è  cosa  so- 
«vrana,  quel  lazzeretto  dalla  potenza  della  pittura 
«aggrandito.  Quest'ultima  espressione  annuncia  un 
«  ingegno  che  giudica  un  punto  più  elevato  del  so- 
«lito:  e  questi  sono  gF  ingegni  a  cui  deve  piacere 
«  Manzoni.  Era  ben  piacevole,  nei  primi  giorni  in  cui 
«  l'opinione  pareva  pendere  più  al  male  che  al  bene, 
«  il  vedere  l'accanimento  di  certe  bestiucce  letterarie 
«  a  trovare  i  difetti,  in  quel  libro  in  cui  poco  innanzi 
«  non  sapevano  cercare  che  pregi.  E  per  aver  trovato 
«in  un  luogo  marmaglia  d'erbe>  a  gridare:  vedete 
«che  improprietà....  con  un'aria  che  inviluppava 
«di  disprezzo  tutto  il  libro  quant'era.  Una  donna 
«che,  malgrado  la  presunzione  contraria,  è  forzata 
«  a  piangere  in  quella  lettura,  vai  bene  un  articolo: 
«  Io  confesso  d'aver  pianto  anch'io  al  terzo  tomo  :  e 
«un  giorno  dell'anno  passato  clje  fummo  da   Man- 


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—      XVII      — 


«  zoni  a  Brusuglio  e  ch'io  leggeva  quella  medesima 
«conversione  del  tomo  secondo,  la  trepidazione  si 
«  leggea  chiara  nel  volto  di  tutti  gli  udenti  e  del 
«  medesimo  autore.  Quest'è  il  caso  in  cui  un  au- 
«  tore  può  senza  orgoglio  lodare  sé  stesso.  Ma  se 
«volete  un  giudicio  d'altro  genere,  e  non  meno 
«  onorevole  :  un  vecchio,  letto  il  primo  tomo,  tro- 
«  vava  piacere  a  riportare  le  cose  lette,  e  narrarle 
«anche  a  chi  le  sapea:  e  prima  che  il  libro  uscisse, 
«  il  legatore  (poiché  Manzoni  si  fece  legare  le  copie 
«  in  casa)  il  legatore  veniva  congratulandosi  con  lui 
«  del  merito  di  quell'opera,  e  gliene  ripeteva  alcun 
«  passo  nel  suo  dialetto,  mostrando  d'averlo  tutto  in- 
«  teso  benissimo.  I  giudizii  dei  letterati  sono  ben  di- 
«  versi.  Non  so  se  io  v'abbia  scritto  di  colui  che  tro- 
«vava  mirabile  soprattutto  nel  primo  tomo  la  pa- 
«gina  113  (');  quasi   che   in   un'opera   del  Manzoni 


(!)  È  la  scena  nella  quale  il  P.  Cristoforo  chiede  per- 
dono al  fratello  dell'uomo  che  odiava  cordialmente,  e  che 
uccise.  A  quella  scena  sublime,  taluno  de'  parenti,  «che, 
«  per  la  cinquantesima  volta,  avrebbe  raccontato  come  il 
«  conte  Muzio  suo  padre  aveva  saputo  in  quella  famosa 
«  congiuntura,  far  stare  a  dovere  il  marchese  Stanislao, 
«  ch'era  quel  rodomonte  che  ognun  sa,  parlò  invece  delle 
«  penitenze  e  della  pazienza  mirabile  d'un  fra  Simone, 
«  morto  molt'anni  prima  ».  È  un  accenno  alla  vendetta 
che  prese  il  conte  Muzio  Pallavicino  contro  il  marchese 
Stanislao  Piasio  ;  tremenda  tragedia  della  quale  in  Cremona 
si  parlò  per  gran  tempo  e  ne  son  piene  le  sue  cronache. 

Ai.kssandro  Manzoni.  -  P.  II.  b 


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—      XVIII    — 


«  fosse  possibile  o  lecito  prescerre  una  pagina.  Altri 
«  trovava  da  lodare  quegli  occhi  del  frate,  parago- 
«  nati  a  due  cavalli  bizzarri.  Nei  quali  elogi  voi  forse, 
«cosi  di  lontano,  non  potrete  sentire  quanto  di  ve- 
lenoso ci  sia  (*).  Questi  vili,  non  potendo  sfogarsi 
«  sull'ingegno,  gli  mettono  a  conto  e  il  lungo  studio 
«  ed  il  lungo  tempo  occupato,  e  la  sua  stessa  virtù  ». 
Soggiungeva  poi:  «  Quello  che  offenderà  molti,  cer- 
«  tamente,  è  la  troppa  religione  che  c'è.  Per  apprezzar 
«quel  lavoro  e  comprenderlo,  conviene  aver  lungo 
«tempo  conversato  con  l'autore;  conoscere  le  sue 
«idee  letterarie  e  politiche,  il  suo  modo  di  vedere 
«  le  cose.  Ed  ancora  non  basta  :  la  storia  di  quel  se- 
«colo  egli  Tha  studiata  nelle  prime  fonti,  e  ne*  ri- 
«voli  più  solitarii:  tante  bellezze  che  paiono  di  in- 
«  venzione  sono  storiche,  sono  inspirate  dal  fatto,  eh 'è 
«  quanto  a  dire  sono  doppie  bellezze.  Così  tante  sot- 
«tili  allusioni,  che  racchiudono  il  germe  d'un  si- 
«  stema.  E  v'ebbe  chi  trovò  migliore  il  Castello  di 
«  Trezso/»  Lasciata  la  Lombardia  e  tornato  nella 
nativa  Dalmazia,  il  Tommaseo  seguita  a  parlar  de' 
Promessi  Sposi  nelle  sue  lettere  al  Vieusseux.  «  Da 
«  Milano  »  (così  in  una  del    17  d'agosto)  «  si  scrive 


(*)  Io,  per  verità,  non  ci  so  vedere  tutto  il  veleno  che 
ci  vede  il  Tommaseo.  È  gente  di  corta  levatura,  che  es- 
sendo incapace  d'abbracciare  con  uno  sguardo  solo  la 
bellezza  dell'insieme,  la  gusta  ne'  brani  che  la  colpiscono 
maggiormente. 


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—      XIX      — 


«  che  le  mille  copie  del  Romanzo  son  tutte  spacciate; 
«  che  qualcuno  ne  ride  in  segreto,  che  Monti  chiac- 
«chiera  dello  stile (*);  che  i  più  tacciono;  che  molti 
«  applaudono,  purché  però  lo  si  chiami  non  romanzo, 
«  ma  storia.  Sento  che  a  Padova  piacque  molto  alle 
«  donne  ». 

Giacomo  Leopardi  ritrae  al  vivo  l'opinione  pub- 
blica d'allora  intorno  ai  Promessi  Sposi,  in  una  let- 
tera che  scrisse,  da  Firenze,  il  23  agosto  del  '27,  al 


(l)  Il  Monti  però  ne  scrisse  al  Manzoni  con  viva  am- 
mirazione. «  Papadopoli  e  Prina  »  (son  sue  parole)  «  mi 
«  aveano  messo  in  core  la  dolce  speranza  che  mi  avreste 
«presto  consolato  d'una  vostra  desideratissima  visita. 
«  Deluso  di  questa  lusinga,  e  temendo  che  la  mia  im- 
«  minente  mossa  per  Roma  mi  tolga  la  consolazione  di 
«  più  rivedervi,  poiché  Pun  dì  più  che  l'altro  sento  avvi- 
«  cinarsi  il  mio  fine,  mi  presento  in  iscritto  per  dirvi  che 
«  vado  ad  aspettarvi  in  cielo,  dove  ho  certa  speranza  di 
«  rivedervi  a  suo  tempo.  Intanto  prima  che  il  mio  don 
«  Abbondio  m 'intuoni  il  proficiscere>  vo'  dirvi  che  ho  ri- 
«  cevuto  i  vostri  Sposi  Promessi^  e  di  essi  dirò  quello  che 
«già  dissi  del  Carmagnola:  vorrei  esserne  io  l'autore.  Ho 
«  letta  la  vostra  novella,  e  finitane  la  lettura,  mi  son  sen- 
«tito  meglio  nel  core.  Sì,  mio  caro  Manzoni;  il  vostro 
«  ingegno  è  mirabile,  e  il  vostro  core  è  una  fontana  d'ine- 
«sauribili  affetti,  ciò  che  rende  singolare  il  vostro  scri- 
«  vere  e  vi  pone  in  un'altezza,  cui  solo  possono  aggiun- 
«  gere  i  pauci  qtios  aequus  amavi t  fupiter>  al  modo  stesso 
«  che  pochi  possono  amarvi  e  stimarvi  come  il  tutto  vo- 
«stro  Monti  ». 


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—      XX      — 

libraio  milanese  Antonio  Fortunato  Stella  :  «  Del  ro- 
«  manzo  di  Manzoni  (del  quale  io  solamente  ho  sen- 
«tito  leggere  alcune  pagine)  le  dirò  in  confidenza 
«che  qui  le  persone  di  gusto  lo  trovano  molto  in- 
«  feriore  all'aspettazione.  Gli  altri  generalmente  lo 
«lodano».  Le  «persone  di  gusto»,  cioè  i  letterati, 
erano  partigiane,  più  o  meno,  de'  vecchi  pregiudizi 
della  scuola  classica,  e  per  conseguenza  il  Manzoni, 
che  aveva  voltato  le  spalle  a  questa  scuola,  dando 
un  avviamento  nuovo  all'arte,  era  agli  occhi  loro  uno 
scrittore  fuori  di  strada.  Tutti  però  si  accordavano 
nel  riconoscergli  un  grande  ingegno,  ma  con  questa 
differenza  :  per  gli  arrabbiati  era  né  più  né  meno  un 
Attila  della  letteratura  e  dove  metteva  le  mani  gua- 
stava ogni  cosa:  i  temperati,  pur  trovando  ne'  suoi 
scritti  un'infinità  di  difetti,  vi  scorgevano  però  de' 
tratti  di  singolare  bellezza  ;  tratti  che  non  mancavano 
di  gustare  con  ammirazione  schietta  e  sentita.  È  utile 
e  curioso  il  rievocare  il  ricordo  di  questa  battaglia 
tra  le  «persone  di  gusto»  e  gli  «altri»;  i  quali, 
oggetto,  sulle  prime,  di  compassione,  anzi  di  disprezzo, 
finirono  poi  col  vincere;  tanta  e  così  irresistibile  fu 
la  forza  della  verità. 

Fin  dal  novembre  del  '21  Giuseppe  Carpani,  uno 
degli  arrabbiati,  scriveva  all'Acerbi,  in  quel  tempo 
direttore  della  Biblioteca  Italiana  :  «  Manzoni  avrebbe 
«  ingegno  da  fare  cose  bellissime  e  originali  ;  bat- 
«  tendo  la  via  che  batte,  non  farà  che  pazzie  stram- 
«  palate,  sparse  di  qualche  scintilla  di  luce,   che   si 


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—      XXI 


«  perde  nelle  tenebre  del  tutto  »  0).  A  Torino,  Tab.  Mi- 
chele Ponza,  dal  suo  Annotatore  Piemontese,  scagliava 
questi  fulmini  :  «  Io  reputo  classico  tutto  ciò  che  in 


(!)  A  Mario  Pieri  sapeva  un  po'  duro  che  «  il  dottis- 
«  simo  e  classico  Niccolini  siasi  degnato  di  accostarsi  ai 
«  Romantici  ;  e  tanto  più  che  in  quel  tempo  appunto  cor- 
«  revano  alcune  sentenze  del  signor  Capo-Romantico  Man- 
«  zoni,  le  quali  facevano  stomacare  gli  uomini  di  buon 
«  senno  e  sogghignare  gli  stolti  giovinastri  della  sua  scuola. 
«  Allorché  uscì,  per  esempio,  quel  bellissimo  sermone  del 
«  Monti  in  difesa  della  Mitologia,  e  contra  coloro  i  quali 
«  volevano  proscriverla,  il  signor  Manzoni  andava  dicendo 
«  esser  quello  il  ventottesimo  bullettino  del  Classicismo, 
«  accennando  al  ventottesimo  e  ultimo  di  Napoleone  ;  e 
«  quando  uscì  il  poema  del  Grossi,  /  Lombardi  alla  prima 
«  Crociata ,  il  medesimo  Manzoni  recitava  per  lo  senno  a 
«  mente  gl'interi  canti  di  quel  poema,  e  i  fanatici  Roman- 
«  tici,  suoi  seguaci,  andavano  esclamando  :  Povero  Tasso! 
«  Povero  Tasso!  O  povero  Tasso!  Ora  nessuno  ignora  di 
«  qual  ridicolo  andarono  ricoperte  dalla  giusta  Italia  quelle 
«  stolte  sentenze  ».  Il  Pieri  vide  per  la  prima  volta  «  il 
corifèo  del  Romanticismo  in  Italia  »  (così  chiama  il  Man- 
zoni) in  casa  Vieusseux  e  poi  lo  "frequentò  «  alla  locanda 
«  delle  Quattro  nazioni  Lungarno,  dove  albergava  con 
«  tutta  la  sua  famiglia,  cioè  madre,  moglie  e  sei  figliuoli, 
«  per  quei  tre  o  quattro  mesi  ch'ei  si  trattenne  in  Firenze  » 
nel  1827.  «  La  sua  fìsonomia  palesa  a  chi  l'osserva  »  (son 
sue  parole)  «  animo  gentile  ed  alto  ingegno.  In  Milano 
«  io  non  l'avea  cercato  mai,  per  non  rompere  la  vita  so- 
«  litaria  ch'egli  amava  di  condurre  in  mezzo  alla  sua  fa- 
«  miglia  ;  la  quale,  secondo  allora  si  diceva,  offeriva  il 
«  modello  delle  ottime  famiglie.  Egli  è  agiato  di  beni  di 


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—      XXII      — 


«sé  non  ammette  confusione  di  genere.  Il  giardino 
«  italiano  è  classico  e  l'inglese  è  romantico  ;  la  pianta 
«  ed  il  fabbricato  di  Torino  è  classico,  quello  di  Mi- 


«  fortuna,  ma  non  gode  salute  né  egli,  né  la  sua  donna. 
«  È  uomo  religioso  (dicono)  e  galantuomo.  Peccato  che 
«  sia  invaso  dalla  romanticomania  !  Ma  egli  forse  direbbe 
«di  me:  peccato  ch'egli  sia  invaso  dalla  classicomania!... 
«  Ma  dopo  averlo  frequentato,  mi  vennero  udite  in  bocca 
«  sua  tante  e  sì  strane  sentenze  da  trasecolare  ;  né  io  so 
«  tenere  per  uomo  modesto,  e  forse  neppur  vero  religioso, 
«  chi  si  vuol  creare  capo-setta,  e  tratta  con  gran  disprezzo 
«  i  più  grandi  uomini  dell'Italiana  letteratura,  e  sopra  tutto 
«  il  grandissimo  e  infelicissimo  Torquato  Tasso.  Indi  a 
«  dieci  anni  mi  venne  per  caso  in  mano  una  sua  scrittura 
«inedita,  che  mi  fece  variare  il  mio  primo  sentimento 
«  e  raffermare  nel  secondo,  siccome  quella  che  me  lo 
«  rappresentava  un  fanatico,  il  quale  per  poco  non  si 
«  recherebbe  a  distruggere,  come  papa  Gregorio,  tutt'  i 
«  libri  classici.  Essa  è  in  forma  di  lettera,  con  questo  ti- 
«  tolo  :  Sopra  i  diversi  sistemi  di  Poesia,  lettera  di  Ales- 
«  saftdro  Manzoni,  in  risposta  a  rispettabile  amico  di  To- 
«  rino  (ch'è  il  fanatico  vecchio  Azeglio),  1823,  Né  alcuno 
«  immaginarsi  saprebbe  le  assurdità  che  quello  scritto  con- 
«  tiene.  Il  Romanticismo,  egli  dice,  si  propone  il  vero, 
«  l'utile,  il  buono,  il  ragionevole.  E  giacché  egli  non  fa 
«  che  asserire  senza  provare,  e  propone  un  Romanticismo 
«  tutto  suo,  e  non  qual  si  vede  nella  pratica  degli  scrittori 
«  romantici  ;  io  risponderò  francamente  del  no  ;  ed  avrò, 
«  ciò  che  a  lui  manca,  per  miei  argomenti  il  fatto  reale  ; 
«  e  dirò  all'incontro,  che  il  Romanticismo  si  propone  il 
«  falso,  lo  strano,  il  disordine,  la  deformità  del  vizio,  lo 
«  scandaloso,  il  delitto,  l'assurdo.  Vedi  tutte  le  opere  de' 


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—     XXIII     — 

«  lano  romantico  ;  l'abito  nero  con  pantaloni  bianchi 
«  è  romantico,  l'abito  tutto  nero  con  calzoni  corti  è 
«  classico  ;  la  musica  di  Cimarosa  è  classica,  quella 
«  di  Rossini  romantica  ;  le  commedie  di  Destouches, 
«  di  Regnard  e  di  Goldoni  sono  classiche,  quelle  di 
«  Kotzebue  e  di  altri  scrittori  nordofili,  gallofili,  stra- 
«nofìli  sono  romantiche;   le  tragedie  d'Alfieri  sono 


«  Romantici  in  ogni  genere  di  letteratura,  ed  anche  nelle 
«  belle  arti  :  vedi  la  grande  opera  drammatica,  il  Dottor 
«  Fausto ,  del  vostro  principe  Goethe,  per  cui  vi  sentite 
«  struggere  d'ammirazione,  anzi  che  voi  adorate  qual  nume. 
«  E  quali  sono  i  protagonisti  e  gli  eroi  de*  signori  Roman- 
«  tici  ?  I  carnefici,  i  ladri,  gli  scellerati  d'ogni  maniera,  o 
«  contadini,  o  buffoni,  e  simili  personaggi:  e  le  scene  che 
«  ci  presentano  son  tutte  degne  di  loro,  e  ci  tocca  veder 
«  su  i  teatri  i  patiboli  e  le  torture,  ed  ogni  sorta  di  sacri- 
«  legi.  Ecco  la  tendenza  religiosa,  e  il  bel  vero,  e  l'utile, 
«  e  il  buono,  e  il  ragionevole  del  Romanticismo,  come 
«  pretende  il  signor  Manzoni  ».  Cfr.  Della  vita  di  Mario 
Pieri,  corcirese,  scritta  da  lui  medesimo,  libri  sei,  Firenze, 
coi  tipi  di  Felice  Le  Monnier,  1850;  voi.  II,  pp.  63  e  67-69. 
Anche  a  pp.  369-370  del  tom.  IV  delle  Opere,  Firenze, 
Le  Monnier,  185 1,  scaglia  le  sue  folgori  contro  il  Man- 
zoni, e  trova  il  Conte  di  Carmagnola  «  tragedia  senza  capo 
«  né  coda,  e  senza  quasi  nessuno  di  que'  pregi  che  ren- 
«  dono  bella,  e  di  assai  malagevole  composizione,  una  tra- 
«  gedia  ».  Riconosce  però  che  «  vi  ha  di  be'  versi,  di  belli 
«  e  profondi  concetti,  qualche  bella  parlata  ;  ma  né  un 
«  atto,  né  un'intera  scena  che  corrano  bene  ».  Né  lo  ri- 
sparmia nel  dialogo  :  La  letteratura  classica  e  la  romantica , 
che  si  legge  a  pp.  101-178  del  tom.  Ili  delle  Opere  stesse. 


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—      XXIV     — 

«  classiche,  quelle  del  Manzoni  sono  romantiche. 
«  Dunque,  dove  è  ordine,  armonia,  regolarità  è  clas- 
«  sicismo  ;  dove  mancano  queste  condizioni  è  roman- 
«  ticismo  ».  Giovita  Scalvini  scriveva:  «La  poesia 
«  romantica  fu  trovata  da  Cam  figliuolo  di  Noè.  Ne* 
«  quaranta  giorni  che  si  trovò  nell'arca,  egli  fece  un 
«  poema  dove  descriveva  tutto  ciò  che  aveva  'd'in- 
corno. Unì  le  idee  più  disparate,  perchè  vedeva 
«presso  sé  l'agnello  e  il  lupo;  vedeva  fuori  i  pesci 
«  sulle  cime  dei  monti  :  la  sua  musica,  le  strida  de' 
«moribondi».  E  per  mettere  alla  gogna  i  romantici 
ideava  il  dramma  :  La  creazione  del  mondo  e  la  fine  y 
con  questi  attori:  «Il  caos,  le  stelle,  le  tenebre,  la 
«  luce,  il  diavolo,  il  serpente.  Gli  animali  di  Daniele. 
«  Il  teschio  di  Adamo.  La  cometa  che  accompagnò 
«  i  re  Magi.  Il  libro  dei  sette  sigilli.  Enos.  Il  ca- 
«  vallo  della  morte.  Il  bue,  l'asino,  il  corvo  ».  Scene  : 
«  La  creazione  :  una  conversazione  patetica  fra  Eva 
«  e  il  serpente.  Il  diluvio.  Un  soliloquio  del  corvo 
«  sulla  carogna  che  sta  per  beccare  ».  Carlo  Botta 
scriveva  da  Parigi  :  «  Io  ho  in  odio,  peggiormente 
«  che  le  serpi,  la  peste  che  certi  ragazzacci,  vili 
«schiavi  delle  idee  forastiere,  vanno  via  via  semi- 
«  nando  nella  letteratura  italiana.  Io  gli  chiamo  tra- 
«  ditori  dell'Italia,  e  veramente  sono.  Ma  ciò  procede, 
«  parte  da  superbia,  parte  da  giudizio  corrotto  ;  su- 
«  perbia,  in  servitù  di  Caledonia  e  d'Ercinia,  giudizio 
«  corrotto  con  impertinenza  e  sfacciataggine  ».  Gli 
battè  le  mani  il    Giornale  Arcadico  di   Roma  :   «  Sì 


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—      XXV      — 

«  certo,  o  Carlo  Botta,  sfumerà  questa  infame  conta- 
«  minazione  :  tempo  verrà,  né  forse  è  lontano,  che 
«  gì'  italiani  si  vergogneranno  di  tanti  romantici  vitu- 
«  perii,  levati  ora  alle  stelle  dai  goffi  imbrattacarte 
«  e  ciarlatani  di  certi  giornali  :  e  frutto  di  questa  ver- 
«  gogna  sarà  il  gittare  sdegnosamente  alle  fiamme 
«  tutto  in  un  fascio  quel  bastardume  A'inni,  di  tra- 
«gedie,  di  romanzi,  di  che  ora,  parte  ridono  e  parte 
«  fremono  i  veri  sapienti  della  nazione  »  (!). 

A  difesa  de'  Romantici  si  levò  animoso  Giuseppe 
Mazzini.  «  Gli  uomini  che  in  tutti  i  loro  scritti  ane- 
«  lano  al  perfezionamento  dei  loro  concittadini  ;  che 
«  avvampano  per  quanto  di  bello  e  sublime  splende 
«su  questa  terra;  che  hanno  una  lagrima  per  ogni 
«  sciagura  che  affligga  la  loro  patria,  un  sorriso  per 
«  ogni  gioia  che  la  rallegri  ;  gli  uomini  a*  quali  il  vero 
«  è  fine,  la  natura  e  il  cuore  son  mezzi;  che  traspor- 
«  tano  il  genio  per  vie  non  corrotte  dalla  imitazione, 
«  non  guaste  dalla  servilità  de'  precetti  ;  che  a  favole, 
«  vuote  di  senso  per  noi,  sostituiscono  una  credenza 
«che  tragge  l'animo  a  spaziare  pei  campi  dell'infi- 
«  nito  ;  gli  uomini  che  s'aggirano  religiosi  tra  le  ro- 
«  vine  dell'antica  grandezza  e  dissotterrano  a  conforto 
«  dei  nipoti  ogni  reliquia  dei  tempi  trascorsi  ;  questi 
«  uomini  non  tradiscon  la  patria;  non  son  vili  schiavi 
«  delle  idee  forestiere.  Essi  vogliono   dare   all'Italia 

(')  Giornale  Arcadico  ;  tom.  XXXII  [1828],  pp.  366-367. 


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—      XXVI     — 

«  una  letteratura  originale,  nazionale  ;  una  letteratura 
«  che  non  sia  un  suono  di  musica  fuggitivo,  che  ti 
«  moke  l'orecchio,  e  trapassa;  ma  una  interprete  elo- 
«quente  degli  affetti,  delle  idee,  dei  bisogni,  e  del 
«  movimento  sociale.  Ogni  secolo  modifica  potente- 
«  mente  gli  uomini  e  le  cose;  ogni  secolo  imprime 
«una  direzione  particolare  all'umano  intelletto...  I 
«veri  Romantici  non  sono  né  boreali,  né  scozzesi; 
«sono  italiani,  come  Dante,  quando  fondava  una 
«letteratura,  a  cui  non  mancava  di  Romantico  che 
«  il  nome  »  ('). 

Il  Rosmini  fin  dal  maggio  del  '26  aveva  scritto 
a  don  Antonio  Soini  :  «  Col  Manzoni  abbiamo  par- 
«lato  di  voi.  Che  bontà  di  questo  sommo  poeta! 
«  Che  affabilità  !  Che  anima  sparsa  in  sul  volto  tutto  e 
«in  sulle  labbra!  Egli  lavora  nel  suo  romanzo  assi- 
«  duo.  Temo  assai  della  sua  prosa;  non  dubito  delle 
«  immagini  e  dei  nobili  sentimenti  :  di  quello  spirito 
«  non  possono  che  uscire  emule  alla  natura  sublime, 
«  questi  degni  della  nostra  immensa  destinazione.  Ma 
«  la  lingua?  Non  può  crearsela  questa  lo  spirito,  alto 
«quanto  si  voglia;  gli  bisogna  ricorrere  per  essa 
«alla  dotta  memoria;  e  temo  che  questa  non  sia 
«  stata  arricchita  per  tempo  di  cotal  merce.  Pare  però 
«  che  egli  stesso  lo  senta  ;   e  se   lo  sente,  lo  studio 


(*)  Indicatore  Genovese,  n.°  nt  9  agosto  1828.  Cfr.  Maz- 
zini G.,  Scritti  editi  e  inediti  (4.*  edizione);  II,  57-61. 


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—      XXVII      — 

«assiduo,  ancorché  un  po'  tardi,  acconcerà  forse  la 
«trascuranza  dell'età  prima».  L'ab.  Giuseppe  Ma- 
nuzzi,  richiesto  dal  P.  Antonio  Cesari,  che  cosa 
pensassero  a  Firenze  de'  Promessi  Sposi y  gli  rispose, 
suonarne  «  orrevolmente  la  fama,  sì  per  l'invenzione, 
«  sì  per  la  lingua,  e  sopratutto  per  la  profondissima 
«  cognizione  del  cuore  umano  ».  Ma  però  soggiun- 
geva: «Da  alquanti  brani  ch'io  ne  lessi,  la  lingua 
«  certamente  non  è  della  migliore  :  anzi,  secondo  me, 
«  poco  buona,  e  peggiore  lo  stile.  Già  voi  sapete  es- 
«sere  il  Manzoni  un  forte  campione  dei  romantici: 
«  di  che  non  è  da  meravigliare  se  trova  lodatori  in 
«  gran  numero.  Leggeste  voi  nulla  di  suo?  che  ve 
«ne  pare?  scrivetemene».  Il  Cesari  gli  rispose:  «  Ho 
«  letto  i  Promessi  Sposi  del  Manzoni  ;  mi  ci  parve 
«  trovare  suoi  difetti  ;  quanto  ad  episodi  o  digres- 
«  sioni,  che  non  s'innestano  col  fatto  (è  ciò  che  tiene 
«  il  lettore  forse  a  disagio);  quanto  a  lingua,  egli  ha 
«studiato  i  nostri  maestri,  ma  i  Comici  sopratutto. 
«  Del  resto  nella  eleganza  dello  scriver  grave  e  na- 
«  turale,  egli  è  ancora  addietro:  ma  credo  che  in 
«poco,  si  farà  grande  scrittore.  Nel  colore,  nella 
«forza,  neir espressione  tuttavia  vale  assai:  nelle  pit- 
«  turette  fiamminghe  è  maraviglioso  ;  come  altresì  nel 
«toccare  le  passioni,  gli  affetti  e  movimenti  tutti  del 
«cuore,  fino  a'  più  minuti,  mi  par  gran  maestro.  In- 
«  gegno  ha  altissimo,  acuto  e  facondo  assaissimo.  De' 
«suoi  Inni  il  migliore  mi  sembra  quello  della  Pen- 
«tecoste\  sono  però  sparsi  tutti,  qual  più,  qual  meno, 


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—      XXVIII      — - 

«  di  concetti  pellegrini,  che  egli  solo  era  atto  a  tro- 
«vare.  Risplende  poi  la  sua  pietà  e  religione:  e 
«  certo  quel  romanzo  è  un  trionfo  della  virtù  ;  e  farà 
«  troppo  più  frutto,  che  nessun  altro  quaresimale  ». 
Il  Cesari  (l)  poi  finiva  una  sua  lettera  airab.  Gae- 
tano Della  Casa  :  «  Mi  direte  degli  Sposi  del  Man- 
«zoni  e  de*  difetti  che  ci  noterete;  a  vedere  se  ci 
«  scontriamo.  Ma  bellezze  grandi  !  »  Che  cosa  gli  ri- 
spondesse non  so.  Giuseppe  Pederzani,  al  quale  pure 
ne  aveva  domandato,  gli  replicava  :  «  Del  Manzoni 
«  ho  letto  un  tomo  e  mezzo  il  passato  autunno  ;  e 
«più  avanti  non  potetti,  perchè  chi  mei  prestò,  sei 
«  portò  poi  a  Milano,  che  fu  il  Rosmini  prete.  N'ebbi 
«piacer  molto,  e  certo  ha  tutti  que*  meriti  che  voi 
«  dite  ;  tranne  forse  questo  solo,  che  a  voi  sembra, 
«  rispetto  alla  lingua,  avere  egli  studiato  ne'  classici 
«più  di  quel  che  pare  a  me;  ma  io  debbo  stare  al 
«  giudizio  vostro.  Anche  mi  son  paruti  troppo  lunghi 
«  e  noiosi  quegli  episodi  :  ma  qui  posso  aver  torto 
«facilmente:  imperciocché  comprendo  bene,  che  in 
«fine  formano  la  materia  dell'opera.  Forse  alla  se- 
«  conda  lettura  non  mi  parrà  più  così.  A  ogni  modo, 
«  scritto  assai  dilettevole  e  buono  ». 

Un  altro  pedante  de'  più  arrabbiati,  il  corcirese 


(!)  Il  Cesari  lasciò  manoscritti  alcuni  Pensieri  sui  Pro- 
messi Sposi,  che  vedranno  la  luce  ne'  suoi  Opuscoli  lin- 
guistici e  letterari,  che  sta  raccogliendo  e  ordinando  il 
sig.  Giuseppe  Guidetti  di  Reggio  dell'Emilia. 


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—      XXIX      — 

Mario  Pieri,  così  discorre  de'  Promessi  Sposi  nelle 
sue  Memorie,  che  son  rimaste  inedite: 

«Firenze,  15  agosto  1827.  Ho  letto  i  primi  due 
«  capitoli  (non  potei  averlo  che  per  pochi  momenti) 
«  del  romanzo  di  A.  Manzoni,  del  quale  non  dirò 
«  nulla  fino  a  tanto  che  non  l'avrò  letto  tutto,  benché 
«  in  quegli  stessi  capitoli  io  abbia  inciampato  in  più 
«  d'una  cosa  di  cattivo  gusto,  senza  dir  dello  stile, 
«che  mi  sembrò  cosi  tra  il  milanese  ed  il  francese. 
«  E  questi  godono  fama  di  grandi  scrittori  ! 

«  Firenze,  6  ottobre  1827.  Leggo  i  Promessi  Sposi, 
«che  ora  mi  stancano  colla  soverchia  prolissità  e 
«colle  minutissime  descrizioni. 

«7,  domenica.  Il  viaggio  di  Renzo  (nel  romanzo 
«  del  Manzoni),  da  Milano  a  Bergamo,  è  una  bellis- 
«  sima  cosa,  e  quivi  stanno  bene  anche  quelle  minu- 
«tezze  e  particolarità,  che  ci  vengono  tanto  spesso 
«  innanzi  fino  al  fastidio  in  quel  libro.  Grande  inge- 
«gno  è  il  Manzoni,  ed  è  un  gran  peccato  ch'egli 
«  voglia  farsi  il  corifeo  del  falso  gusto  in  Italia  !  Ho 
«  consumato  gran  parte  del  giorno  (dalle  due  alle 
«sei)  alle  Cascine,  passeggiando  e  leggendo  i  Pro- 
«  messi  Sposi,  La  mattina  ho  letto  una  prefazione, 
«che  il  signor  Camillo  Ugoni  pose  alla  testa  d'una 
«edizione  parigina  delle  poesie  del  Manzoni,  in  cui 
«quel  letterato  bresciano,  romantico  per  la  vita,  de- 
«  lira,  al  solito,  sui  bisogni  del  nostro  secolo,  sul 
«  dramma  storico,  sull'arte  e  sulla  natura,  sopra  una  li- 
«  berta  ch'egli  chiama  Scolastica,  ch'egli  attribuisce 


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—      XXX      — 

«all'Alfieri,  e  ai  seguaci  de*  classici,  e  simili  follie. 
«  Povera  letteratura  italiana,  ecco  i  tuoi  sostegni  !  Che 
«  mai  diverrà  questo  secolo,  quando  Monti  e  Pinde- 
«  monte  non  saranno  più  tra  di  noi  ! 

«  Firenze,  22  ottobre  1827.  Ho  terminato  finalmente 
«  i  Promessi  Sposi,  libro  che,  a  malgrado  del  falso 
«  gusto,  delle  lungaggini  eccessive,  delle  troppo  mi- 
«  nute  descrizioni,  e  simili  altre  tedescherie,  manifesta 
«un  grande  ingegno  nel  suo  autore,  oltre  l'animo 
«  gentile  e  gli  egregi  costumi  ». 

Chi  vide  e  gustò  le  bellezze  de*  Promessi  Sposi 
appena  che  uscirono  dal  torchio  fu  Pietro  Giordani  ; 
e  da  Firenze,  dove  allora  abitava,  andò  manife- 
stando agli  amici  le  impressioni  ricevute  da  quella 
lettura.  Il  21  settembre  del  '27  scriveva  a  Francesco 
Testa  0)  :  «  Del  Manzoni  siamo  perfettamente  d'ac- 
«  cordo:  eccellente  pittore,  benché  fiammingo.  Egli 
«  è  ora  qui  :  amabilissima  e  modestissima  persona  : 
«  riverito  e  amato  da  tutti,  onorato  straordinariamente 
«dalla  Corte».  E  che  nel  romanzo  ci  sia  del  fiam- 


(L)  In  una  lettera  del  Giordani  al  Testa,  scritta  da  Mi- 
lano il  5  novembre  1821,  si  legge:  «  Vidi  la  canzone  »  [// 
Cinque  Maggio]  «del  Manzoni;  lodata  da  molti.  Non  di- 
«  sputo  sull'argomento:  ognun  dice  quello  che  vuole.  Ma 
«a  me  pare  (quanto  alla  frase)  che  alle  volte  non  abbia 
«  saputo  dire  quel  che  voleva  ;  e  alle  volte  non  so  che 
«  cosa  volesse  dire.  È  bello  il  suo  Inno  sulla  Risurrezione 
«  di  Cristo  ». 


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—      XXXI      — 

mingo,  è  vero;  ma  lì  dove  ha  maggiore  bellezza, 
bellezza  ineffabile.  Il  15  d'ottobre  chiedeva  a  Laz- 
zaro Papi  :  «  È  venuto  costà  [a  Lucca]  il  romanzo  di 
«Manzoni?  Com'è  piaciuto?...  Manzoni  fu  qui  molti 
«  giorni  ;  ebbe  grandi  accoglienze  da  tutti  ;  e  straor- 
«  dinario  onore  dalla  Corte.  È  uomo  di  molta  e  ama- 
«bile  modestia,  e  belle  maniere....  In  Roma  ora  è 
«proibito  di  vendere  il  romanzo  di  Manzoni,  che 
«  pur  vi  entrò  con  amplissime  licenze  »  (!).  Il  22  del 
mese  stesso  torna  a  scrivere  al  Testa:  «Manzoni, 
«amabilissimo  per  la  modestia  e  la  bontà  e  l'inge- 
«  gno,  dev'esser  partito  assai  contento  di  Firenze,  e 
«più  contento  della  Corte,  che  l'ha  onorato  straor- 
«  dinariamente.  Del  suo  libro,  poiché  volete,  vi  dirò 
«  che  mi  è  piaciuto.  Ci  vedo  un'assai  fedele  pittura 
«  dello  Stato  di  Milano  in  que'  tre  anni  miserabilis- 
«  simi  28,  29  e  30.  Verità  somma  e  finitissima  ne'  dia- 
«  loghi  e  ne'  caratteri.  Nobilissimo  il  carattere  del 
«Cardinale:  naturalissimi  tutti  gli  altri  inferiori:  la 
«stolidezza  e  la  ferocia  dei  dominatori  stranieri  ef- 
«  ficacemente  rappresentata  :  un  modello  di  religione 
«  tollerabile,  e  anche  utile.  Cominciano  a  insorgergli 
«  contradittori  al  solito:  ma  credo  che  il  libro  vin- 
«  cera  e  durerà.  A  me  i  difetti  paion  pochi  e  leggieri: 
«  i  pregi  moltissimi  e  non  piccoli.  E  poi  è  il  primo 


(!)  Giordani  P.,  Lettere  inedite  a  Lazzaro  Papi,  Lucca, 
tip.  di  Gio.  Baccelli,  1851  ;  pag.  105. 


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XXXII      — 


«  romanzo  leggibile  che  sia  sorto  in  Italia  :  è  adatto 
«  a  molte  sorti  di  lettori  :  s'insinua  nelle  menti  :  vi  ger- 
«  mogHerà  qualche  buon  pensiero.  Eccovi  contentato, 
«  mio  caro  :  v'ho  detto  quel  che  penso  ;  e  non  per  po- 
«  litica,  come  m'imputano  alcuni  :  e  non  pensano  che 
«  uno  che  non  si  cura  né  del  papa  né  dei  re,  non  ha  ca- 
«  gion  di  mentire  per  Manzoni,  che  biasimato  non  può 
«  mandarmi  in  galera,  né  lodato  può  farmi  cardinale 
«  o  ciambellaio  ».  Cosi  ne  scrive  a  Giuseppe  Bian- 
chetti il  13  decembre:  «  Il  Romanzo  di  Manzoni  mi 
«  par  bello  come  lavoro  letterario  ;  ma  stupenda  cosa 
«  e  divina  come  aiuto  alle  menti  del  popolo.  Io  credo 
«  che  farà  un  gran  bene  ;  e  i  nemici  del  bene  se  ne  ac- 
«  corgeran  tardi.  Grande  amor  del  bene,  e  gran  po- 
«  tenza  e  arte  di  farlo  si  vede  in  quell'ingegno  ».  Di 
nuovo  al  Testa  il  25  dello  stesso  mese  :  «  Ho  letto  più 
«  di  venti  romanzi  di  Walter  ;  e  quanti  ancora  me  ne 
«restano!...  Non  mi  maraviglio  che  in  tutta  Europa 
«  piaccia  molto  il  libro  di  Manzoni  ;  e  ne  godo.  In 
«  Italia  vorrei  che  fosse  letto  a  Dan  usque  ad  Ne- 
«  phtali  :  vorrei  che  fosse  riletto,  predicato  in  tutte  le 
«  chiese  e  in  tutte  le  osterie,  imparato  a  memoria. 
«  Se  lo  guardate  come  libro  letterario,  ci  sarà  forse 
«un  poco  da  dire;  secondo  la  varietà  de*  gusti  e 
«delle  abitudini.  Ma  come  libro  del  popolo,  come 
«catechismo  (elementare;  bisognava  cominciare  dal 
«poco)  messo  in  dramma;  mi  pare  stupendo,  di- 
«vino.  Oh  lasciatelo  lodare:  gl'impostori  e  gli  op- 
«  pressori    se    ne    accorgeranno   poi   (ma  tardi)   che 


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—      XXXIII      — 

«profonda  testa,  che  potente  leva  è,  chi  ha  posto 
«  tanta  cura  in  apparir  semplice,  e  quasi  minchione  : 
«ma  minchione  a  chi?  agl'impostori  e  agli  oppres- 
«sori,  che  sempre  furono  e  saranno  minchionissimi. 
«  Oh  perchè  non  ha  Italia  venti  libri  simili  !»  E  al 
Bianchetti  1*8  luglio  del  '31  :  «  Bellissimo  e  utilissimo 
«il  vostro  Discorso  sui  romanzi  storici,  che  io  credo 
«si  potrebbero  far  belli,  e  al  nostro  popolo  proficui; 
«  purché  si  seguisse  la  via  di  Manzoni.  Ma  chi  ha  la 
«sua  anima?  Di  tutti  gli  altri  che  ho  veduti,  nes- 
«  suno  mi  piacque  ;  anzi  mi  dispiacquero  assai  :  imi- 
«tazioni,  e  ben  cattive  e  torte  .dello  Scott.  Invece  di 
«  scrivere  contro  tal  genere  (se  pur  è  vero  che  scrive) 
«bisognerebbe  pregare  Manzoni  che  facesse  un  se- 
«  condo  lavoro  simile  ;  e  sarebbe  una  vera  salute  per 
«la  povera  Italia.  Gli  altri,  che  dopo  lui  hanno  gua- 
«  stato  e  guastano  il  mestiere,  bisognerebbe  pregarli 
«a  tacersi,  e  aspettare  che  sorga  un  Manzoni  se- 
«  condo  »  (!). 


(*)  Il  6  luglio  del  '32  scriveva  a  Ferdinando  Grillen- 
zoni,  a  Genova:  «Sarà  costì  il  Manzoni;  ed  ella  lo  vedrà 
«  dal  Marchese  [Di  Negro].  Io  la  prego  di  ossequiarlo 
«da  mia  parte;  e  di  scrivermene  poi  copiosamente  ».  E 
il  24  del  mese  stesso  :  «  Mi  piace  che  abbia  veduto  Man- 
«  zoni  ;  e  la  prego  di  rammentarle  una  mia  veramente  af- 
«  fettuosa  venerazione  ;  perchè  io  lo  tengo  per  uomo  glo- 
«  rioso  e  utile  all'Italia...  Veda  un  poco  se  è  vero  quel  che 
«dice  quel  giornale,  che  ora  Manzoni  siasi  dato  a  studi 

Alessandro  Manzoni,  -  P.  IL  e 


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—      XXXIV      — 


Giambattista  Niccolini  a  Firenze  e  Felice  Bellotti 
a  Milano  non  si  fidavano  del  proprio  giudizio  e 
aspettavano  quello  «  del  sesso  gentile  ».  Il  Niccolini 


«  di  purismo  ;  e  in  che  forma  :  e  che  cosa  sta  ora  lavo- 
rando. E  veda  un  poco  (ma  con  garbo)  se  conosce  le 
«  cose  di  Leopardi,  e  che  opinione  ne  ha  ».  Il  30  gliene 
tratta  di  nuovo:  «  Le  ripeterò  che  bramo  di  sapere  se 
«  Manzoni  è  costì  per  salute,  o  per  piacere.  Desidero  che 
«sia  per  solo  piacere.  Egli  ha  la  coscienza  e  l'Europa, 
«che  devono  rendergli  inutili  le  ammirazioni  di  tutti  i 
«  pari  miei  :  ma  io  confesso  che  mi  fa  un  vero  piacere 
e  l'ammirarlo.  E  prego  V.  S.  d' imprimersi  bene  in  mente 
«  i  suoi  discorsi,  per  potermene  far  godere  in  qualche  modo. 
«  Io  sento  un  pungente  dispiacere  di  non  esser  costi,  e 
«  potere  ascoltarlo.  Se  io  fossi  capace  di  fare  una  Deca 
«di  Livio  (mi  pare  dir  molto),  io  cambierei  questo  pia- 
«  cere  col  piacere  di  udir  lui.  E,  per  ispalancare  il  fondo 
«dell'animo  mio,  ci  sono  alcuni  (non  molti)  ch'io  posso 
«  ascoltar  volentieri  ;  ma  egli  è  il  solo  eh'  io  veramente 
«desidero  di  potere  udire,  e  in  quelle  cose  ch'io  non 
«  so,  o  alle  quali  non  ho  pensato  ;  e  in  quelle  nelle  quali 
«  non  penso  ora  come  lui.  Egli  è  il  solo  (Dio  perdonami 
«  questa  sciocchezza)  dal  quale  io  desidererei  imparare. 
«  Facilmente  mi  accorderei  seco  circa  i  romanzi  storici 
«  (come  si  chiaman  ora),  né  piangerei  se  il  mondo  non  ne 
«  vedesse  più.  Ma  non  consento  di  porre  in  quel  genere 
«  i  Promessi  Sposi;  che  mi  paiono  uno  stupendo  lavoro 
«  Senofonteo,  un  carissimo  e  utilissimo  lavoro  ;  e  ben 
«  vorrei  che  Manzoni  (ch'egli  solissimo  può)  ne  facesse  un 
«secondo.  Del  resto,  la  sua  sentenza  su  tutte  le  finzioni 
«  è  nobilissima;  è  degna  dell'intelletto  giunto  al  suo  equa- 


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—      XXXV      — 

era  «  impaziente  »  da  un  pezzo  di  vedere  i  Promessi 
Sposi  del  Manzoni  e  /  Lombardi  alla  prima  cro- 
ciata del  Grossi,  «avendo  in  gran  concetto  il  loro 
«  ingegno  »  ;  come  scrisse  al  conte  Fracavalli  il  20  de- 
cembre  del  '25.  Neil*  aprile  del  '26  chiedeva  a 
Felice  Bellotti  :  «  Il  romanzo  del  Manzoni  quando 
uscirà  ?  »  Gli  rispose  il  29  :  «  Del  romanzo  di  Man- 
«  zoni  altra  notizia  non  posso  darvi,  se  non  che  tra 
«  un  mese  si  comincerà  la  stampa  del  terzo  ed  ul- 
«  timo  tomo,  essendo  già  finiti  i  due  primi,  che  però 
«l'autore  non  vuol  dar  fuori  se  non  insieme  con 
«l'altro.  Sicché  non  penso  che  prima  del  luglio  si 
«  potrà  leggere  ».  Il  2  agosto  del  '27  il  Bellotti  tornò 
a  scrivergli:  «Del  Romanzo  di  Manzoni,  del  quale 
«eravate  curioso,  or  che  l'avrete  letto,  che  ve  ne 
'«pare?  Ha  esso  nel  vostro  senso  adempiuta  l'aspet- 


«tore;  e  la  ricevo  nell'anima;  anzi  già  Pavevo,  e  mi  giova 
«  di  vederla  confermata  da  lui.  Oh  mi  è  ora  un  vero  tor- 
«  mento  al  cuore  non  esser  costì  !  Ella  mi  riverisca  tanto, 
«  con  ogni  effusion  di  sentimento  quel  Manzoni,  che  è 
«proprio  l'idolo  de'  miei  pensieri.  Oh  (mi  viene  in  mente) 
«quanto  son  poco  degni  di  lodarlo  certi  cervellacci  fra- 
«  teschi  ;  come  per  esempio  quel  frataccio  Niccolò  [  Tom- 
<ktnaseó\.  Ma  di  ciò  zitto,  veda:  ch'io  non  voglio  pette- 
«  golezzi.  Ma  se  lei  come  lei  potesse  destramente  sentire 
«  che  cosa  pensa  Manzoni  di  quel  sì  fanatico  e  sconvolto 
«  cervello,  l'avrei  caro.  E  tal  gente  crede  d'avere  la  reli- 
«  gione,  la  poesia,  la  filosofia  di  Manzoni  !  Ma  dov'hanno 
«  la  sua  testa  e  il  suo  cuore  ?  Per  dio,  credo  esserne  meno, 


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—      XXXVI      — 

«tazione  che  se  ne  avea?  Le  donne  di  Toscana  lo 
«  leggono  con  piacere  ?  poiché  di  tal  genere  di  scrit- 
ture alle  donne  principalmente,  ed  al  popolo  non 
«  idiota  e  non  letterato,  si  vuol  lasciare  il  giudizio, 
«  essendo  principalmente  diretto  al  loro  trattenimento 
«  e  vantaggio.  Se  non  che  moltissimo  io  stimo  il  giu- 
«dizio  di  quei  dotti  (ma  son  pochi),  i  quali  sanno 
«farsi  a  giudicare  anche  di  romanzi,  messe  da  parte 
«certe  prevenzioni  e  pretensioni  importune:  e  chi 
«  più  di  voi  sagace  nel  discernere  quali  siano  queste 
«  e  più  giusto  nello'  scartarle  ?  »  Ecco  la  risposta  del 
Niccolini  :  «  Il  Manzoni  è  qui,  ed  ho  imparato  a 
«conoscerlo  di  persona:  voi  sapete  che  i  buoni  si 
«  credono  volentieri  grandi  :  ma  non  temo  che  l'af- 


«  lontano  io,  colla  mia  impotenza  poetica,  e  la  mia  piena 
«  incredulità.  Io  gli  sono  lontano,  e  io  meglio  di  tutti  so 
«il  quanto;  ma  almeno  non  gli  volto  le  spalle  ».  Il  17  d'a- 
gosto rincalza  :  «  Mi  riverisca  senza  fine  Manzoni,  e  molto 
«  le  sue  Signore.  Ma  è  un  eccesso  di  cortesia  il  dire  che 
«  a  lui  abbian  potuto  in  nessun  modo  giovare  le  mie  pa- 
«  role  ;  perchè  io  lo  vidi  troppo  poco,  a  ragione  del  mio 
«  desiderio  ;  e  amai  molto  più  (come  ancora  farei)  di  ascol- 
«  tarlo  che  di  parlare  ;  e  poco,  troppo  poco  potei  goderne, 
«  poiché  tanti  cercavano  di  occuparlo  ». 

Sei  anni  dopo,  il  27  novembre  '38,  scrivendo  parimente 
al  Grillenzoni,  esce  a  dire:  «  Compreso  Walter  Scott,  non 
«  trovo  uno  di  tanti  romanzi,  che  possa  produrre  un  mi- 
«  nimo  bene:  eccetto  l'unico  Manzoni  ;  che  mi  par  sempre 
«  cosa  bellissima  e  utilissima  ». 


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—      XXXVII      — 


«  fetto  m'inganni,  reputandolo  il  primo  ingegno  d'Ita- 
«  Ha  0).  Ho  letto  il  suo  romanzo  tutto  d'un  fiato;  ma 
«non  mi  fido  del  mio  giudizio,  e  aspetto  anch'io 
«  quello  del  sesso  gentile  ». 

Il  Rosmini  piglia  pure  a  ragguagliare  gli  amici 
intorno  la  fortuna  del  libro  :  «  I  Promessi  Spost  sono 
«  avidamente  letti,  a  malgrado  della  lunghezza,  che 
«  da  tutti  sento  notare  »  ;  così  al  Tommaseo,  in  un 
biglietto  del  22  settembre  '27.  L'8  di  novembre  an- 
nunzia a  un  altro  amico  :  «  Il  Manzoni  trionfò  in 
«  Toscana  ;  il  suo  romanzo  è  tradotto  in  francese  :  si 
«  rende  anche  tedesco  e  parlasi  d'una  traduzione  in- 
«  glese.  Sono  di  quei  pochi  uomini  che  fanno  ancora 
«  varcare  il  mare  e  l'alpi  il  nome  italiano  ».  Il  22  di 
decembre  torna  a  ripetere  :  «  De'  Promessi  Sposi  già 
«se  ne  sono  fatte  tredici  edizioni,  credo,  e  traduzioni 


(*)  All'attrice  Maddalena  Pelzet,  la  degna  interpetre 
delle  sue  tragedie,  che  era  allora  a  Milano  prima  donna 
nella  Compagnia  Rattopulo,  scrisse  il  19  febbraio  del  '29  : 
«  Ricordatemi  al  Bertolotti,  alla  cui  tragedia  desidero  un 
«esito  fortunato:  se  io  fossi,  com'egli  dice,  il  primo  dei 
«  tragici  viventi,  bisogna  dire  che  si  stia  male  davvero  : 
«egli  parlerà  del  Manzoni,  le  cui  tragedie,  quantunque 
«non  siano  per  la  scena,  almeno  secondo  le  nostre  abi- 
«  tudini,  contengono  tante  bellezze,  che  il  plauso  delPEu- 
«  ropa  meritamente  lo  corona  sopra  tutti.  Voi  sapete  qual 
«  concetto  io  abbia  fatto  sempre  di  questo  veramente  gran- 
«  d'uomo:  ciò  che  vi  scrivo  a  Milano,  ve  l'ho  detto  a  Fi- 
«  renze.  » 


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—      XXXVIII      — 


«  in  tedesco,  in  inglese,  in  francese.  Pochi  libri  ita- 
«liani  hanno  mai  avuto  tanto  favore  in  Italia».  Al 
Manzoni  poi  scriveva  il  26  marzo  del  '30:  «qui  i 
«Promessi  Sposi  sono  applauditissimi  dal  fiore  di 
«  Roma  ;  e  quelli  che  non  la  cedono  a  nessuno  in 
«  commendarli  e  in  proporli  alla  gioventù  sono  i  Ge- 
«  suiti».  Monaldo  Leopardi  lo  conferma  in  una  let- 
tera a  Giacomo  :  «  Appena  letto  quel  Romanzo  ne 
«  fui  rapito  e  lo  giudicai  prezioso  non  tanto  alle  let- 
«  tere,  quanto  alla  religione  e  alla  morale.  Ebbi  poi 
«  molta  compiacenza  nel  sentire  che  in  Roma  i  con- 
«  fessori  Gesuiti  lo  danno  a  leggere  alle  loro  peni- 
«  tenti  »  ('). 

Nel  settembre  del  1827  Raffaele  Lambruschini,  di- 
scorrendo nell5 Antologia  di  Firenze  d'una  ristampa 
del  Quaresimale  del  Segneri  e  delle  Prediche  alla 
Corte  del  Turchi,  ricordò,  per  incidenza,  i  Promessi 
Sposi,   «  che  ora  sono  nelle  mani   di  tutti  ;  notabile 


(')  In  una  lettera  di  Pierfrancesco  Leopardi  al  fratello 
Giacomo,  del  i°  giugno  '28,  si  legge  :  «  Avendoci  voi 
«scritto  una  volta  che  conoscevate  il  celebre  Manzoni, 
«ho  pensato  di  farvi  cosa  grata  col  mandarvi  una  copia 
«  dei  suoi  Inni.  Volendo  la  marchesa  Roberti  stampare 
«qualche  cosa  per  la  monaca  Rossi,  babbo  le  propose 
«  quest'Inni,  e  vi  fece  la  dedicatoria.  E  vi  mando  questo 
«libro,  più  perchè  leggiate  questa,  che  gY Inni,  perchè 
«  m*  immagino  che  lo  stesso  Manzoni  ve  li  avrà  dati  a 
«  leggere.  Fatemi  dire  in  una  delle  lettere  che  ci  scrive- 
«  rete,  dove  attualmente   si  trovi  il  suddetto   Manzoni  ». 


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—      XXXIX      — 

«  produzione  d'un  uomo  in  cui  non  si  saprebbe  cosa 
«  ammirare  di  più,  se  i  talenti  o  le  doti  del  cuore, 
«  e  di  cui  la  nostra  età  e  la  nostra  Italia  hanno  ra- 
«  gione  d'inorgoglirsi  ».  E  nel  ricordarli,  ne  riportò 
anche  un  brano  :  il  colloquio  tra  il  Cardinal  Federigo 
e  l'Innominato.  «Si  tratta»  (così  il  Lambruschini), 
«  da  una  parte,  di  un  potente,  rinomato  per  ardite 
«  ribalderie  e  per  empietà,  temuto  ed  odiato  da  tutti; 
«dall'altra,  di  un  sant'uomo,  che  trovandosi  nella 
«  più  ardita  impresa  a  cui  si  possa  accingere  un  sacro 
«  oratore,  non  adopra  altre  ragioni  e  altra  eloquenza 
«  che  quella  dei  semplici  e  degli  umili  »  (!).  Lapo  de' 
Ricci  in  una  lettera  inedita  a  Gio.  Pietro  Vieusseux, 
del  25  settembre  1827,  piglia  a  dire:  «L'articolo 
«del  Lambruschini  è  un  capo  d'opera  nel  suo  ge- 
«  nere  ;  i  preti  non  gliene  sapranno  buon  grado,  per- 
«  che  vorrebbero  dominare  ed  esser  asini.  L'ho  letto 
«a  pezzi  e  brani  a  questo  mio  paroco,  giacché  per 
«l'intiero  non  era  possibile  farglici  prestare  atten- 
«zione,  ma  ne  ho  letto  tanto  per  scuoterlo,  e  per 
«commoverlo,  finché  sentendo  il  sublime  colloquio 
«  del  Cardinal  Federigo  coli 'Innominato  ha  dovuto 
«  piangere,  ed  ecco  una  vittoria  per  la  morale  ». 
Lapo  volle  manifestare  anche  a  Gino  Capponi  l'im- 
pressione profonda  che  aveva  ricevuto  dalla   lettura 


(*)  Antologia,  di  Firenze,  tom.  XXVII,  n.  81,  settem- 
bre 1827,  pp.  71-75- 


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—      XL      — 

de'  Promessi  Sposi,  e  gli  scrisse  il  4  gennaio  del  '28  : 
«  Non  mi  riesce  di  levarmi  dal  tavolino  quel  diavolo 
«  di  Manzoni.  Io  credo  di  averlo  letto  per  intiero  sei 
«volte,  e  dieci  volte  l'Innominato  col  Cardinal  Fe- 
«  derigo,  e  sempre  ho  pianto;  come  faceva,  e  forse 
«  più  di  quel  che  faceva,  quello  scellerato  convertito. 
«  Scrissi  a  Vieusseux  che  leggendo  quel  tratto  al  mio 
«  curato,  per  quanto  più  giocatore  che  leggitore,  più 
«bevitore  che  uditore,  lo  feci  piangere;  ho  anche 
«sentito  soffiarsi  il  naso,  ho  veduto  far  contorcimenti 
«ad  alcuno  dei  miei  contadini  (e  non  sono  dei  più 
«delicati  campagnoli),  mentre  glielo  leggeva.  Qual- 
«cheduno,  che  aveva  sentito  leggere  i  Promessi 
«Sposi,  una  sera  ha  lasciato  la  partita  dei  quadri- 
«  gliati  per  venire  alla  panca  di  cucina,  che  è  la  sala 
«  di  riunipne,  per  sentirmi  leggere.  Hanno  tutti  riso 
«a  Don  Abbondio,  ed  hanno  trovato  il  confronto 
«  subito  :  fra  Galdino  è  tale  quale  fra  Bonaventura 
«di  Padda,  diceva  un  altro:  certi  miracoli  senza 
«sugo;  ma  sentito  il  pane  del  perdono  di  fra  Cri- 
«stoforo,  silenzio,  e  pianto  nascosto:  perchè  un  con- 
«  tadino,  che  piange  raramente,  e  soltanto  perchè  gli 
«è  morto  il  bue  o  l'asino,  trova  impossibile  che  si 
«deva  piangere  sentendo  leggere....  Ma  quel  Conte 
«zio!  ne  conosci  tu  con  quel  parlare  misterioso?  io 
«sì.  E  quella  sommossa  di  Milano!  E  Renzo  che 
«  gli  pareva  aver  fatto  amicizia  col  Gran  Cancelliere  ! 
«  E  il  Notaro,  che  dice  che  è  per  pura  formalità  che 
«  lo  fa  condurre  in  prigione  !  E  la  Monaca  per  forza  ! 


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XLI 


«e  che  so  io?  Vi  può  esser  egli  più  verità?  più  ef- 
«fetto?  Io  m'inquieterei  come  il  Prior  Albizzi  con 
«quei  letterati  che  vogliono  giudicarne  letteraria- 
«  mente,  o  che  vorrebbero  far  cambiare  il  romanzo 
«perchè  dicesse  a  loro  modo.  Quel  libro  mi  pare 
«che  non  possa  appartenere  alla  parte  letteraria:  è 
«  un  gran  libro  di  morale  ;  e  tale,  io  crederei,  da  fare 
«  una  rivoluzione  come  il  Don  Quichotte,  se  un  libro 
«  potesse  far  cambiare  gl'istinti  del  cuore  umano  ». 

Mentre  Lapo  de'  Ricci,  che  era  semplicemente  un 
colto  gentiluomo,  non  rifinisce  di  leggere  il  dialogo 
tra  il  Cardinal  Federigo  e  l'Innominato,  e  quel  dia- 
logo gli  strappa  le  lagrime;  un  letterato,  e  famoso, 
Francesco  Domenico  Guerrazzi,  scrive,  che  del  Car- 
dinal Federigo  «  il  Manzoni  potè  fare  un  santo,  ma 
«  non  avrebbe  mai  potuto  farne  un  galantuomo  »  (l). 
Non  c'è  che, dire;  tutti  i  gusti  son  gusti!  Col  P. 
Cristoforo  invece  fu  benevolo;  e  in  un  bizzarro  giro 
che  la  sua  fantasia  fece  fare  al  Romanzo  storico,  me- 
nato che  l'ha  in  Italia  «  per  ricrearsi  »,  lo  conduce 
«  pei  colli  della  Brianza,  dove  conobbe  Renzo  e  Lucia, 
«  prese  tabacco  nella  scatola  di  fra  Cristoforo  (')  :  un 


(*)  Guerrazzi  F.  D.,  Manzoni,  Verdi  e  VAlbo  Rossi- 
niano, Milano,  Tip..  Sociale,  1874;  p.  73. 

(2)  A  proposito  di  questa  scatola  scrive  lo  Stampa  [II, 
87-88]  :  «  Il  Manzoni  raccontò  (e  lo  udii  colle  mie  orecchie) 
«ch'egli  aveva  l'intenzione  di  lasciar  fuori,  come  super- 
«  fluo,  l'episodio  del   P.  Cristoforo  che,   chiamati  a  sé  i 


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—      XLII      — 


«degno  frate  in  verità,  ma  il  Romanzo  dentro  un 
«  orecchio  ai  suoi  amici  susurrava  sommesso,  che  tre 
«quarti  delle  virtù  del  frate  Cristoforo,  Alessandro 
«  Manzoni  le  aveva  tolte  a  nolo  da  lui  »(*). 

Terenzio  Mamiami,  che  era  a  Firenze  nel  1827 
quando  vi  andò  il  Manzoni,   racconta:  «io  l'ho  ve- 


«  due  sposi,  dice  loro  :  Figliuoli!  voglio  che  abbiate  un  ri- 
«  cordo  del  povero  frate,  e  dopo  di  aver  data  loro  la  sca- 
«  tola,  lavorata  con  una  certa  finitezza  cappuccinesca,  con- 
«  tenente  gli  avanzi  di  quel  pane,  dice  loro  :  Fatelo  vedere 
«ai  vostri  figliuoli.  Verranno  in  un  tristo  mondo....  dite 
«loro  che  perdonino  sempre,  sempre!  tutto,  tutto!  e  che 
«preghino  anche  loro,  per  il  povero  frate!  Ma  per  l'ap- 
re punto  il  consigliere  abate  don  Gaetano  Giudici  non  gli 
«permise  assolutamente  quella  ommissione,  dicendo  che 
«  era  il  più  bello  e  commovente  episodio  del  romanzo  ». 
Il  figliastro  gli  chiese  la  ragione  di  questo  taglio  che 
avrebbe  voluto  fare,  e  rispose:  «Che  vuoi!...  a  me  pa- 
«  reva  un  di  più  ». 

(!)  L'editore  Gaspero  Barbèra,  che  il  7  settembre  del  '50 
visitò  il  Guerrazzi  in  prigione,  racconta  :  «  Saputo  che  ero 
«  allora  allora  ritornato  da  un  viaggio  in  Lombardia  e  nel 
«Veneto,  il  discorso  è  caduto  sul  Grossi....  Del  Manzoni 
«  ammirava  più  V  Adelchi  e  il  Carmagnola,  che  non  i  Pro- 
«  messi  Sposi  ;  osservando  che  la  lingua  onde  questi  sono 
«  scritti  non  è  cosa  da  menare  quel  gran  rumore  che  se 
«  ne  faceva,  dacché  quando  un  toscano  parla  anche  da 
«  sguajato,  un  po'  più  un  po'  meno,  dice  quelle  frasi  che 
«  nei  Promessi  Sposi  si  vedono  collocate  a  far  mostra  di 
«sé».  Cfr.  Barbèra  G.,  Memorie  di  un  editore,  Firenze, 
1883;  pp.  81-82. 


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Sai 

^M  '  ^  XLIII      - 


«  duto  impacciato  fuor  modo  degli  encomii  infiniti 
«  che  gli  suonavano  intorno.  Rispondeva  con  parole 
«  poche  ed  avviluppate  e  arrossiva  tuttavia  a  somi- 
«  glianza  di  fanciulla.  Spesso  il  Leopardi  assisteva  a 
«  codeste  apoteosi.  Ed  io,  vedutolo  una  sera  rincan- 
«  tucciato  e  solo,  mentre  il  fiore  de*  letterati  e  degli 
«studiosi  afFollavasi  intorno  al  Manzoni,  lo  incitai  a 
«  manifestare  quello  che  gliene  paresse.  Me  ne  pare 
«  assai  bene,  rispose,  e  godo  che  i  Fiorentini  non  si 
«dimentichino  della  gentilezza  antica  e  dell'essere 
«stati  maravigliosi  nel  culto  dell'arte».  Aggiunge: 
«  Pochi  anni  dopo  io  l'udivo  in  Firenze  esprimere 
«intorno  al  Manzoni  questa  riservata  sentenza.  Che 
«  l'avere  eletto  pel  suo  romanzo  una  dell'epoche  più 
«  sventurate  e  servili  delle  storie  italiane  dee  nascon- 
«  dere  molte  ragioni  ed  assai  poderose  (l)  ;  ma  certo 
«  non  appariscono,  e  sembra  invece  uscire  dal  suo  rac- 


(*)  Il  Giordani  ne'  suoi  Pensieri  per  uno  scritto  sui 
Promessi  Sposi  loda  il  Manzoni  di  «  aver  creato  nuovo 
«  odio  ad  antichi  rei  di  calamità  italiane  »,  al  «  dominatore 
«  straniero  e  lontano,  ignorante  e  crudele,  superstizioso 
«  ed  improvvido  ».  Cfr.  Giordani  P.,  Scritti  editi  e  po- 
stumi; IV,  132-134. 

Giosuè  Carducci,  applaudendo  in  Lecco  «  all'interezza 
«dell'arte  in  Alessandro  Manzoni»,  disse  che  «fece  del 
«  romanzo  la  gran  vendetta  su  '1  dispotismo  straniero  e 
«su  '1  sacerdozio  servile  ed  ateo».  Cfr.  Carducci  G., 
Confessioni  e  battaglie,  serie  seconda,  Bologna,  Zanichelli, 
1902;  pp.  306-309. 


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—      XLIV      — 

«  conto  la  deplorevole  conseguenza  che  del  presente 
«  non  bisogna  zittire,  dacché  gl'Italiani  altre  volte  si 
«  trovarono  molto  peggio  e  l'Austriaco  vale  un  oro 
«a  petto  del  Castigliano»  (l). 

In  due  lettere,  tutte  e  due  dell'8  settembre  '27, 
il  Leopardi  apri  l'animo  suo  al  padre  e  allo  Stella. 
A  quest'ultimo  scriveva  :  «  Io  qui  ho  avuto  il  bene 
«  di  conoscere  personalmente  il  signor  Manzoni,  e  di 
«trattenermi  seco  a  lungo:  uomo  pieno  di  amabilità, 
«e  degno  della  sua  fama».  E  al  padre:  «Tra'  fo- 
«restieri  ho  fatto  conoscenza  e  amicizia  col  famoso 
«  Manzoni  di  Milano,  della  cui  ultima  opera  tutta  l'I- 
«talia  parla».  Di  nuovo  al  padre:  «  Ho  piacere  che 
«ella  abbia  veduto  e  gustato  il  Romanzo  cristiano 
«  del  Manzoni.  È  veramente  una  bell'opera  ;  e  Man- 
«zoni  è  un  bellissimo  animo  e  un  caro  uomo».  E 
al  conte  Antonio  Papadopoli  :  «  Ho  veduto  il  romanzo 
«del  Manzoni;  il  quale,  non  ostante  molti  difetti,  mi 
«piace  assai,  ed  è  certamente  opera  di  un  grande 
«  ingegno  ;  e  tale  ho  conosciuto  il  Manzoni  in  parec- 
«  chi  colloqui  che  ho  avuto  seco  a  Firenze.  È  uomo 
«veramente  amabile  e  rispettabile». 

Il  barone  Giuseppe  Sardagna,  il  25  febbraio  del  '28, 
dava  questi  ragguagli  all'Acerbi,  allora  console  au- 
striaco in  Egitto  :  «  Manzoni  scrisse  un  romanzo  sto- 


0)  Mamiani  T.,  Manzoni  e  Leopardi;  nella  Nuova  An- 
tologia, voi.  XXIII  [1873],  pp.  757-782. 


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«  rico,  /  Promessi  Sposi,  di  cui  certamente  avrete 
«letto  qualche  cosa  anche  in  Alessandria,  giacché 
«  suppongo  che  i  giornali  francesi  almeno  vi  arrivino. 
«  Questo  libro  ebbe  un  successo  universale  in  Italia. 
«  L'autore  vendette  unicamente  mille  copie  della  sua 
«  edizione  originale,  e  se  ne  fecero  già  più  di  sei  ri- 
«  stampe.  In  tutt'altro  paese  questa  produzione  ba- 
«  stava  per  far  la  sua  fortuna  :  in  Italia  il  suo  profitto 
«  fu  di  lire  seimila  a  stento  »  (*).  Col  Sardagna  si 
accorda  il  consigliere  Federigo  De  Mùller,  che  nel 
descrivere  nelle  proprie  Memorie  (*)  una  visita  fatta  al 
Manzoni  nell'agosto  del  '29,  piglia  a  dire  :  «  Gaetano 
«  Cattaneo  mi  raccontò  che  i  Promessi  Sposi  non 
«  hanno  reso  al  Manzoni  più  di  5000  franchi,  mentre  i 
«  librai  ne  hanno  guadagnato  centomila;  che  il  Man- 
«  zoni  non  volle  mai  decidersi  a  fare  una  seconda  edi- 


(*)  Luzio  A.,  Giuseppe  Acerbi  e  la  «  Biblioteca  italiana  »; 
nella  Nuova  Antologia,  serie  IV,  voi.  LXVI,  fase.  23, 
i°  decembre  1896,  p.  481. 

(2)  Il  De  Mailer  del  1829  venne  in  Italia  e  vi  dimorò 
alcuni  mesi.  Nelle  sue  Memorie,  che  son  rimaste  inedite, 
descrìvendo  quel  viaggio,  parla  a  lungo  della  visita  che 
fece  al  Manzoni  a  Brusuglio.  Un  brano  di  questo  episodio 
fu  pubblicato  a  Weimar  nel  1832  col  titolo  :  C.  W.  Mùller, 
Goethe* s  letzte  Ut.  Thaetigkeit,  e  poi  per  intiero  venne 
messo  alle  stampe  nel  1871  da  C.  A.  H.  Burkhardt  nel 
n.  45  del  Magazin  f&r  die  Literatur  des  Auslandes.  Ne 
dette  la  traduzione  L.  Senigaglia  nella  Rivista  contem- 
poranea, di  Firenze,  ann.  I,  voi.  II,  pp.  359-365. 


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—      XLVI      — 

«zione  per  il  suo  editore,  essendo  d'opinione  che 
«vi  sarebbe  stato  molto  da  migliorare,  e  in  tal 
«  modo  dovette  essere  spettatore  che  in  tutte  le 
«più  grandi  città  d'Italia  si  pubblicassero  nuove 
«  edizioni  e  ristampe,  tutte  travisate  ».  Infatti  nel 
1827  —  Tanno  stesso  della  prima  comparsa  de*  Pro- 
messi Sposi  —  furono  subito  ristampati  a  Livorno 
da  G.  P.  Pozzolini,  col  ritratto  dell'autore;  a  Fi- 
renze da  Gaetano  Ducei;  a  Lugano  dal  Veladini; 
a  Napoli  co'  torchi  del  Tramater.  In  Torino  ne 
fece  due  edizioni  Giuseppe  Pomba;  a  Parigi  li  ri- 
produsse due  volte  in  italiano  il  Baudry;  a  Berlino 
vennero  tradotti  in  tedesco  dal  Lessman.  Nel  '28 
il  Del  Majno  li  ristampò  a  Piacenza,  il  Batelli  a  Fi- 
renze ;  il  Pomba  ne  fece  una  terza  edizione  a  Torino; 
il  Baudry  mise  in  vendita  due  altre  sue  edizioni  a 
Parigi;  dove  furono  pur  pubblicate  le  due  traduzioni 
in  francese   del   Rey  Dusseuil  (l)  e  del   Gosselin;  a 


(!)  Les  Fiancés,  histoire  milanaise  du  XVII  siede,  dé- 
couverte  et  re/aite  par  Alexandre  Manzoni  ;  tv  adulte  de 
Vitalien  sur  la  troisième  èdition  par  M.  Rey  Dùssueil, 
Paris,  Ch.  Gosselin  et  A.  Sautelet,  1828;  5  voi.  in-120. 
Prix,  18  francs.  Il  traduttore  vi  premise  un  Essai  sur  le 
rotnan  historique  et  sur  la  littérature  italienne,  che  fu  vol- 
tato in  italiano  dal  giornale  milanese  La  Vespa  [ann.  II, 
i°  semestre,  pp.  225-230  e  276-279],  facendovi,  in  nota, 
alcune  osservazioni  critiche.  «  En  revoyant  «notre  travail  » 
(così  il  Rey  Dussueil  nell'Essai),  «  nous  aurions  pu  faire 
«  aisément  disparaitre  toutes  les  tournures  qui  s'éloignent 


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—      XLVII      — 

Lipsia  uscì  alla  luce  la  traduzione  in  tedesco  del  Bùl- 
low,  a  Pisa  quella  in  inglese  di  Carlo  Seven.  In  di- 
ciotto mesi  si  hanno  dunque  tredici  ristampe,  delle 
quali  nove  fatte  in  Italia,  quattro  a  Parigi  ;  e  cinque 
traduzioni,  due  in  francese,  due  in  tedesco  e  una  in 
inglese. 

L' Elena,  lo  Zucchi  e  Gallo  Gallina  incominciarono 
a  illustrare  il  Romanzo  con  tavole  litografiche  (l).  Nella 
festa  da  ballo  in  costume,  data  a  Milano  nel  carne- 
vale del  '28  dal  conte  Bathiany,  la  quadriglia  che 
destò  maggiore  entusiasmo  fu  quella  di  Don  Rodrigo 
e  dei  bravi,  anch'essa,  insieme  con  gli  altri  costumi, 


«  un  peu  des  tournures  francaises  ;  mais  ce  n'était  point 
«  une  traduction  que  nous  voulions  donner  au  public  ; 
«  c'était,  autant  que  possi  ble,  l'ouvrage  de  M.Manzoni». 
La  Revue  encyclopédique  [tom.  XXXVIII,  pp.  488-490]  gli 
fece  osservare:  «  Pour  donner  au  public  l'ouvrage  de  M. 
«  Manzoni,  il  fai  lai  t  avant  tout  lui  donner  un  livre  bien 
«  écrit  ».  Parlò  di  questa  traduzione  anche  la  Bibliothèque 
univer selle  de  Genève  >  nuova  serie,  tom.  Ili  [1836],  p.  268. 
(')  Il  29  settembre  del  '28  la  Gazzetta  di  Firenze  nel 
suo  n.°  109  dava  questo  annunzio  :  «  La  lettura  del 
«  romanzo  i  Promessi  Sposi  dipinge  air  immaginazione 
«  alcune  scene  con  tanta  forza,  verità  e  precisione,  che 
«  chiunque  sa  far  uso  della  matita  sentesi  invogliato  di 
«  rappresentare  coi  mezzi  dell'arte  pittorica  ciò  che  l'au- 
«  tore  seppe  con  rara  maestria  descrivere.  Il  sig.  Gallina, 
«  valente  artista,  già  noto  per  alcuni  pregiati  lavori,  formò 
«  dodici  composizioni  dei  casi  più  interessanti  del  suddetto 
%  romanzo,  e  queste,   da  lui  stesso  litografate,   verranno 


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—      XLVIII      — 

riprodotta  in  litografìa  (l).  La  Minerva  Ticinese  an- 
nunziava: «Quanto  prima,  con  musica  del  maestro 
«  Caraffa,  deve  comparire  sulle  scene  del  Teatro  ita- 
«  liano  di  Parigi  un*  opera  tratta  dal  sì  applaudito 
«  romanzo  /  Promessi  Sposi  »  (*). 


«  impresse  nello  Stabilimento  Ricordi.  Il  formato  della 
«  stampa  sarà  di  oncie  8  s/4  per  6  !/2J  giusta  dimensione 
«  per  ornamento  di  un  quartiere.  La  collezione  verrà  di- 
«  visa  in  sei  fascicoli,  di  due  stampe  per  ciascuno,  e  se 
«  ne  pubblicherà  un  fascicolo  ogni  mese.  Il  prezzo  di  ogni 
«  stampa  è  fissato  a  paoli  9  in  carta  della  China  e  a  paoli 
«  6  in  carta  velina  ».  L'  Eco  di  Milano  [ann.  II,  n.°  51, 
29  aprile  1829,  p.  204]  le  lodò,  «  tanto  per  P  invenzione, 
«  quanto  per  l'esecuzione  ».  Francesco  Pastori  [Biblio- 
grafia italiana  ossia  Giornale  generale  di  tutto  quanto  si 
stampa  in  Italia,  libri,  carte  geografiche,  litografie  e  no- 
vità musicali,  ann.  I  [1828],  p.  76]  trovò  «  lodevole  »  il 
«  pensiero  del  sig.  Gallina  di  dare  disegnati  in  litografìa 
«  i  quadri  principali  del  bellissimo  romanzo  del  sig.  Man- 
«  zoni  »  ;  ed  ebbe  a  dire  «  che  V  impresa,  ben  pensata  e 
«  lodevolmente  eseguita,  prestava  materia  di  gradevolis- 
«  simo  ornamento  » . 

(1)  Costumi  vestiti  alla  festa  da  ballo  data  dal  Signor 
Conte  Batthyany  (sic),  Milano,  litografia  Elena.  [Ogni  fa- 
scicolo costava  20  lire  italiane]. 

(2)  La  Minerva  Ticinese,  fase.  50,  16  decembre  1829. 


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— -      XLIX      — 


IL 


Non  senza  il  suo  perchè  il  barone  Sardagna  si 
lusingava  che  l'Acerbi  avesse  avuto  notizia  dei  Pro- 
messi Sposi  dai  «  giornali  francesi  »,  quasi  tutti  con- 
cordi nel  lodare  il  nuovo  romanzo,  a  cominciar  dal 
Mémorial  catholique,  dove  ne  parlò  il  conte  O'  Ma- 
hony  (l),  a  venire  alla  Gazette  de  France,  Quest'ultima 
tornò  a  discorrerne  anche  nel  '32,  quando  usci  alla  luce 
la  bella  traduzione  in  francese  del  Montgrand.  «  Ben 
«  mille  romanzi  ci  furon  regalati  da  due  anni  in  qua  » 
(son  parole  della  Gazette}  «  ed  è  anche  troppo  se  di 
«  tutta  questa  farraggine  resterà  un  solo  volume.  Qual 
«  povera  abbondanza  mai  !  E  sarà  vero  che  fra  tanti 
«scrittori,  pieni  d'estro,  di  fantasia,  di  perizia  nel- 
«  l'arte  dello  scrivere,  non  se  ne  trovi  neppur  uno  che 
«  pigli  scrupolosamente  a  investigare  la  feconda  mi- 
niera de'  nostri  fatti  domestici?  E  noi  rimarremo 


(*)  Il  «  giudizio  del  conte  O'  Mahony  sui  Promessi 
Sposi  di  Alessandro  Manzoni  »  fu  ristampato,  con  la  tra- 
duzione italiana  a  fronte,  a  pp.  391-413  del  tom.  Ili  del- 
l' edizione  del  Romanzo  fatta  a  Lugano,  presso  Francesco 
Veladini  e  comp.,  nel  1829. 

Alessandro  Manzoni.  -  P.  IL  d 


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—      L      — 


«  così,  noi  la  nazione  più  letterata  del  mondo,  senza 
«  avere  il  nostro  Walter  Scott  e  il  nostro  Manzoni?  » 
È  un  giudizio,  come  notava  giustamente  V  Eco  di 
Milano,  (che  lo  riportò  traducendolo),  «  da  fare  insu- 
le perbire  l'Italia,  la  quale  ha  dato  i  natali  al  Manzoni,  e 
«  da  convincerla  che  anche  in  paese  straniero  e  rivale 
«si  rende  giustizia  ai  geni  della  sua. nazione  ed  ai 
«loro  capolavori»^).  Proseguiva  il  giornale  fran- 
cese: «  Vedete  qua  il  Manzoni;  si  è  impossessato 
«  degli  annali  del  suo  paese,  e  le  rozze  pietre  son 
«divenute  diamanti  sotto  le  sue  mani....  Non  altro 
«che  col  mettere  in  azione  i  più  reconditi  segreti 
«del  cuore  umano  seppe  trarre  da  un  fondo  sem- 
«plicissimo  le  scene  sue  più  drammatiche  e  più 
«care...  I  Promessi  Sposi  ebbero  fortuna  infinita  in 
«Europa;  e  pure,  questo  romanzo  è  tutto  quanto 
«  appoggiato  a  un  pensiero  affatto  religioso,  anzi,  si 
«potrebbe  dire,  affatto  cattolico». 

Fino  dal  1827  la  Revue  encyclopédique  >  annunziando 
la  comparsa  de*  Promessi  Sposi,  aveva  scritto  :  «  Une 
«  multitude  d'aventures  et  de  caractères  remplissent 
«  le  cadre  de  cet  ingénieux  roman,  Des  incidens  ha- 
«  bilement  disposés,  une  peinture  fidèle  et  animée  des 
«  moeurs  de  cette  epoque,  un  style  toujours  appro- 
«prié  aux  situations,  une  grande  variété  de  tons, 
«  telles  sont  les  qualités  qui  ont  mérité  à  ce  bel  ou- 


(!)  L'Eco,  ann.  VI,  n.  1,  2  gennaio  1833. 


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—      LI      — 

«vrage  le  succès  éclatant  qu'il  vient  d'obtenir  en 
«  Italie,  et  qu'il  va  sans  doute  obtenir  en  France  ». 
La  Revue  promise  di  riparlare  di  questa  «  pro- 
«duction  littéraire  aussi  distinguée,  et  de  payer  un 
«  nouveau  tribut  d'estime  à  l'auteur,  déjà  célèbre  en 
<<  Italie  comme  écrivain  dramatiqueetcomme  poète»^). 
Disgraziatamente  ne  tornò  a  parlare  per  bocca  d'uno 
de'  nostri  esuli,  Francesco  Salfi,  che  raggiunse  ad- 
dirittura il  grottesco  ;  pigliando  perfino  come  buona 
moneta  il  brano  del  «  dilavato  e  graffiato  autografo  » 
che  il  Manzoni  riporta  sul  bel  principio  ;  brano  che  è 
una  contrafazione  perfetta  non  solo  dello  stile  e 
della  lingua,  ma  della  stessa  ortografia  del  Secento. 
Infatti,  dopo  aver  detto,  che  «le  sujet  du  roman  est 
«  tire  d'une  histoire,  peu  connue,  du  chanoine  Joseph 
«  Ripamonti,  et  rédigée  dans  le  style  prétentieux  et 
«  ridicule  du  Secento  »,  soggiunge,  che  il  Manzoni 
«  débute  par  un  fragment  du  manuscrit  de  Ripamonti 
«  et  fait  ainsi  mieux  sentir  la  nécessité  d'en  réformer 
«le  style,  à  fin  d'en  rendre  la  lecture  supportable  a 
«ses  contemporains  ».  Il  Ripamonti  che  diventa  l'au- 
tore dell'immaginario  «  scartafaccio  »  !  È  grossa,  ma 
non  è  la  più  grossa  che  il  critico  sballi.  Nei  Promessi 
Sposi  trova  mancanza  di  coerenza  organica  e  d'in- 
treccio, bassezza  ne'  personaggi.  «  Ce  qui  rend  cette 


(!)  Revue  encyclopèdique,  tom.  XXXVI  [octobre  1827], 
pp.  411-412. 


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—      LII      — 


«  histoire  plus  repoussante  encore»  (seguita  a  scrivere) 
«  c'est  rintervention  des  fossoyeurs,  que  Pauteur  fait 
«  agir  et  parler  trop  longuement.  Shakespeare  s'était 
«permis  de  nous  présenter  pour  quelques  instants 
«  ces  dignes  personnages  s'entretenant  entre  eux. 
«  D'après  son  exemple,  M.  Manzoni  est  alle  bien 
«avant:  il  nous  apprend  leurs  occupations,  leurs 
«friponneries,  leurs  bassesses.  Ces  détails,  quelles 
«  que  soient  les  beautés  qui  s'y  mèlent,  son  trop 
«hideux»  O"  E  cosi,  per  la  prima  volta,  nel  1828, 
la  «  modestia  manzoniana  »  dovette  ricevere  da  un 
critico  ostile  (*)  la  suprema  delle  lodi  per  un  poeta  : 
quella  di  sentirsi   nominare  accanto  a  Shakespeare. 


(*)  Revue  encyclopèdique,  tom.    XXXVIII  [avril  1828], 

PP-  376-389. 

(2)  Non  senza  interesse  sono  due  lettere  del  Niccolini 
a  Salvatore  Viale,  una  del  21  e  una  del  5  luglio  '28.  La 
prima  è  questa:  «  Il  Globo  ha  delle  dottrine  ultra-roman- 
tiche, e  nella  Rivista  il  Salfi  sta  pedantescamente  at- 
«  taccato  ai  precetti  dei  classici.  Questa,  per  chi  la  discerne, 
«è  disputa  in  gran  parte  di  nomi,  ma  pur  divide  la  re- 
«  pubblica  letteraria  in  due  fazioni  e  offusca  coi  pregiu- 
«  dizi  l' intelletto.  Il  Salfi  accusa  il  Manzoni  nel  suo  arti- 
«  colo  sugli  Sposi  promessi  d'essere  fautore  delle  istitu- 
«  zioni  monastiche.  Quest'accusa  è  ingiusta,  e  non  può 
«  cadere  in  mente  di  chiunque  legga  spassionatamente 
«quel  libro,  ed  io  che  intimamente  conosco  l'autore, 
«e  sono  stato  la  persona  colla  quale  ei  più  conversasse 
«in  Firenze,  posso  far  fede  che  la  sua  pietà  è  scevra  di 


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—      LIII      — 

Il  Mamiani  in  un  colloquio  che  ebbe  a  Parigi  col 
Sismondi,  ragionando  della  Morale  cattolica,  l'udì 
concludere  con  queste  parole  :  «  il  vostro  Manzoni 
«argomenta  bene,  ma  i  vostri  preti  lavorano  male; 
«e  poniamo  pure  che  il  regolo  non  sia  distorto,  la 
«  Curia  lo  storce  ella  al  bisogno  e  avvezza  gli  occhi 
«  del  volgo  a  falsar  le  misure.  Oltreché,  non  è  buona 
«quella  forma  di  culto  che  accarezza  le  pericolose 
«tendenze  d'una  stirpe  di  uomini  piuttosto  che  di 
«combatterle....  Ad  ogni  modo,  proseguiva  il  Si- 
«  smondi,  se  nella  Morale  cattolica  si  ammira  un  con- 
«  vincimento  profondo,  una  rara  potenza  dialettica  e 
«certo  sentimento  finissimo  e  delicatissimo  dell'in- 
«  dole  umana  e  del  bene  etico,  non  manca  qua  e  là 
«qualche  sforzo  di  apologista  e  qualche  amplifica- 
«  zione  acconcia  al  proposito  (*).  Invece  ne'  Promessi 


«  superstizione,  e  che  non  ama  i  frati  ».  Nell'altra  scrive  : 
«A  me  premeva  d'investigare  le  ragioni  del  silenzio  del 
«  Salfi,  ma  senza  però  ch'ei  mi  potesse  credere  un  accat- 
«talodi....  Io  amo  più  di  conservare  la  dignità  dell'animo, 
«  che  mostrarmi  ghiotto  d'uno  sciocco  articolo  di  quel  ca- 
«  nuto  e  solenne  buffone.  £  meritamente  io  lo  chiamo  così, 
«  perchè  non  v'è  pazienza  che  sostenga  di  leggere  i  suoi 
«imbratti  sull'opere  ch'escono  in  Italia:  egli  loda  quello 
«che  fra  noi  si  disprezza,  o  s'ignora,  mentre  maltratta  e 
«  calunnia  il  Manzoni,  primo  ornamento  delle  lettere  ita- 
«  liane  >. 

(*)  Giuseppe  Giusti  racconta  in  una  sua  lettera,  scritta 
nell'aprile  del  '36  :  «  Finalmente  ho  parlato  a  Sismondi, 
«e  per  due  volte  mi  son  trattenuto  seco  lungamente 


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—      LIV      — 

«  Sposi  il  Manzoni  è  scrittore  stupendo  e  non  supe- 
«  rabile.  Con  che  arte  ti  pone  innanzi  le  istituzioni 
«cattoliche,  i  frati,  le  monache,  i  voti  non  revoca- 
bili, la  confessione  e  che  so  io?  scegliendo  i  punti 
«  più  favorevoli  di  prospettiva  e  combinando  in  ma- 
«  niera  gli  avvenimenti  che  ogni  colpa  sia  solo  degli 
«uomini,  e  nessuna  delle  dottrine!  Il  fatto  sta  che 
«  un  altro  romanzo  non  c'è  in  Europa,  il  qual  goda 
«forse  di  uguale  celebrità.  Né  il  Manzoni  è  inven- 
«tore  del  genere.  Nemmanco   è   inventore    di   quei 


«  Parlammo  di  Manzoni,  e  qui  apparve  singolarmente 
«  l'uomo  grande.  Io  introdussi  il  discorso  colla  massima 
«delicatezza,  ma  a  bella  posta,  perchè  voleva  chiarirmi 
«  d'un  dubbio,  nato  in  me  alla  prima  lettura  di  quel  libro 
«del  Manzoni,  ove  confuta  gli  ultimi  due  capitoli  della 
«  Storia  delle  Repubbliche.  Sismondi  parlò  di  quell'opera, 
«  dicendo  che  era  ammirato  della  maniera  urbana  con  la 
«  quale  fu  distesa  :  lodò  la  sincerità  dell'autore,  e  ne  com- 
«  pianse  le  ultime  disgrazie,  le  quali,  secondo  lui,  hanno. 
«  contribuito  non  poco  a  confermarlo  ne'  suoi  principii  ; 
«  aggiunse  poi,  sempre  moderatamente,  che  gli  pareva 
«  che  si  fosse  partito  da  un  punto  molto  diverso  dal  suo, 
«  poiché  esso  considerava  le  cose  come  sono  attualmente, 
«  e  Manzoni  come  dovrebbero  essere.  Né  so  dirti  quanto 
«fossi  contento  di  vedere  che  io  non  m'era  ingannato. 
«Credei  bene  di  dirgli  che  gl'Italiani  non  avevano  fatto 
«gran  plauso  a  quel  libro,  e  che  anzi,  senza  scemare  in 
«  nulla  la  debita  reverenza  al  Manzoni,  era  stato  riguar- 
«  dato  piuttosto  come  un  errore,  o  almeno  come  un'opera 
«  suggerita  da  qualcuno  che  lo  avvicina  per  secondi  fini, 
«  i  quali,  dall'altro  canto,  non  capiscono  nell'animo  inte- 
«gerrimo  di  quel  sommo  italiano». 


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—      LV      — 

«  metodi  compendiosi  e  vivi,  o  di  entrar  nel  racconto 
«ex  abrupto  per  via  di  dialoghi  brevi  e  animati,  o 
«di  abbellirlo  e  farlo  evidente  mediante  le  spesse 
«  descrizioni  :  e  queste  condurre  con  maestria  vera- 
«  mente  pittorica  e  qual  direbbesi  del  genere  fiarn- 
«  mingo,  non  intralasciando  particolare  nessuno  an- 
«corchè  minutissimo,  qualora  aiuti  l'intendere  bene 
«  un  carattere,  un'azione,  una  costumanza.  Ma  ciò 
«  ch'è  novissimo  e  farà  immortale  il  vostro  Poeta  per 
«ogni  tempo  fu  il  tessere  una  epopea  così  casta  e 
«  nobile,  governata  da  sì  eletta  moralità,  spirante  un 
«aroma  sì  puro  di  religione,  che  ogni  madre  con- 
«  segna  senza  paura  nessuna  alla  sua  fanciulla  quel 
«  libro,  e  ogni  direttor  di  collegio  e  di  scuola  fa  il 
«simile  agli  alunni  suoi.  Che  dirò  dell'aver  posto 
«con  nuovo  esempio  sul  dinanzi  della  scena  due 
«umili  popolani,  e  nell'ultimo  sfondo  gli  uomini  e 
«  le  cose  accattate  dalla  storia  ?  Qual  concetto  è  più 
«  cristiano  dello  sparger  di  luce  la  probità  rassegnata 
«  della  plebe  lavoratrice  e  raffrontarla  con  le  colpe, 
«le  violenze,  gl'inganni  che  gli  ordini  superiori  ci- 
«  vili  esercitavano  impunemente  sugl'inferiori,  i  quali 
«  invece  erano  e  sono  il  pupillo  naturale  e  perpetuo 
«consegnato  all'umanità  e  sapienza  educativa  dei 
«primi;  e  vedersi  oggi  quel  che  significa  l'aver  tra- 
«  sandato  le  obbligazioni  e  le  cure  della  indeclinabile 
«tutela»  (1). 


(')  Mamiani  T.,  Manzoni  e  Leopardi;  nella  Nuova  An- 
tologia; XXIII,  760-762. 


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—      LVI      — 

Intorno  ai  Promessi  Spost  il  Sismondi  espresse  il 
proprio  pensiero  anche  in  una  lettera  che,  da  Gi- 
nevra, scrisse  a  Camillo  Ugoni  l'n  settembre  del  '29. 
Gli  dice:  «Je  suis  enchanté  d'apprendre  que  vous 
«  préparez  une  nouvelle  édition  de  ses  oeuvres  (*)  : 
«c'est  un  homme  d'un  beau  talent  et  d'un  noble 
«caractère.  J'apprends  avec  bien  de  chagrin  qu'au 
«  lieu  de  préparer  quelque  nouvel  ouvrage  dans  le 
«  genre  du  roman  historique  dont  il  a  fait  un  présent 
«  à  T Italie,  il  écrit  au  contraire  un  grand  livre  contre 
«  ce  genre  d'ouvrages.  Il  y  avait  du  genie  dans  ses 
«Promessi  Sposi ',  il  y  avait  en  mème  tems  Pexem- 
«  pie  du  genre  de  lecture,  qui  peut,  en  dépit  de  la 
«censure,  faire  l'impression  la  plus  generale  et  la 
«  plus  utile  sur  le  public  italien  ».  A  Fulvia,  figlia 
di  Pietro  Verri,  che  fu  moglie  del  colonnello  Jaco- 
petti,  uno  de*  prodi  di  Napoleone,  scriveva  il  22  lu- 
glio del  '30  :  «  Si  vous  voyez  quelque  fois  Manzoni, 
«parlez  lui  de  moi,  dites  lui  mon  admiration  pour 
«  son  talent,  mon  regret  si  vif,  mon  regret  partagé 


(*)  Tragedie  e  poesie  varie  di  Alessandro  Manzoni, 
colle  prose  analoghe  ed  un*  apposita  prefazione  del  barone 
Camillo  Ugoni  —  Quindicesima  edizione  —  Lugano,  Giu- 
seppe Ruggia  e  C,  1830  ;  in  160.  di  pp.  XXVIII-272.  La 
«prefazione»  dell'Ugoni  abbraccia  le  pp.  V-XXVIII  e 
porta  la  data:  «Parigi,  19  novembre  1829».  Ne  diede  un 
cenno  il  Tommaseo  nell'Antologia,  tom.  XXXIX,  n.  151, 
luglio  1830,  p.  136. 


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—      LVII      — 

«par  toute  l'Europe,  de  ce  qu'il  ne  continue  pas  à 
«  marcher  dans  la  carrière  où  il  est  si  glorieusement 
«entré.  Dites  lui  que  jamais  il  n'avait  servi,  que 
«jamais  il  ne  pouvait  servir  si  puissamment  la 
«  cause  à  la  quelle  il  me  reproche  de  ne  point  m'ac- 
«corder  avec  lui,  que  par  le  portrait  du  P.  Cristo- 
foro. Il  y  a  dans  ses  Promessi  Sposi  bien  plus 
«  qu'un  bel  ouvrage  littéraire,  bien  plus  mème  qu'un 
«genre  nouveau  donne  à  l'Italie,  il  y  a  une  bonne 
«action.  Pourquoi  ne  pas  la  répéter  quisqu'il  le 
«  peut?  Par  des  livres  sérieux  on  ne  répand  les  pensées 
«sérieuses  que  parmi  ceux  qui  les  ont  déjà:  mais 
«lui  il  les  a  introduites  dans  un  monde  nouveau, 
«  qui  n'avait  jamais  réfléchi,  qui  n'avait  jamais  mele 
«  les  meilleures  émotions  du  coeur  àses  amusements  ». 
Tra  i  giornali  italiani,  de'  primi  a  parlare  de' 
Promessi  Sposi  fu  //  Nuovo  Ricoglitore,  di  Milano. 
«  S'è  finalmente  veduto  questo  romanzo  del  Man- 
«  zoni,  che  aspettavasi  da  sì  gran  tempo;  ma  le  temps 
«ne  fait  rien  à  l'affaire,  direbbe  anche  qui  oppor- 
«  tunamente  YAlceste  di  Molière  :  non  si  badi  dunque 
«all'aspettazione,  ma  vediamone  l'argomento,  discor- 
«  riamone  la  tessitura  ».  Dopo  averne  esposto  «  l'ar- 
«gomento»  e  «la  tessitura»,  prosegue:  «  Non  sarà 
«già  qui  tutta  la  storia  compresa  ne'  tre  volumi? 
«sento  domandarsi  da  moki.  Signori  miei,  l'è  pro- 
«  prio  qui  tutta  intera,  salvo  certi  tratti  accessorii,  che 
«son  parte,  ma  non  essenziale,  del  romanzo,  e  son 
«molti,  a  dir  vero:  ma  non  vogliate  inferirne  però 


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—      LVIII      — 

«  che  il  romanzo  abbia  ad  essere  una  seccaggine,  un 
«sonnifero,  una  morte:  leggete  prima  e  sentenziate 
«poi,  che  ne  avrete  allora  acquistato  il  diritto:  ma 
«  voi  dite  che  non  volete  comperare  questo  diritto  a 
«  un  cotal  prezzo  ;  ebbene,  udite  adunque,  non  mica 
«  una  sentenza,  ma  quattro  chiacchiere  d'uno  che  ha 
«  già  letto.  Che  le  arti  abbiano  un  codice  di  leggi 
«  giustissime,  chiarissime,  opportunissime,  dalle  quali 
«  uno  non  può  discostarsi  senza  rendersi  ipso  facto 
«  reo  di  oltracotata  prevaricazione,  è  questo  un  teo- 
«  rema  così  evidente  ch'io  non  so  quello  che  mi  direi 
«  o  farei  per  sostenerlo  ;  mi  pare  che  per  difenderlo 
«  torrei  di  battermi  ad  occhi  chiusi  ;  che  poi  sempre 
«  l'effetto  d'un  lavoro  d'arte  risponda  alla  bontà  delle 
«  leggi  e  alla  diligenza  con  cui  furono  seguitate,  gli 
«  è  questo  un  fatto  rinnovatosi  tante  volte,  che  non 
«  vuol  essere  recato  in  dubbio  :  or  dalle  generali  ve- 
«  nendo,  come  l'ordine  prescrive,  a'  particolari,  dico 
«che  l'arte  dello  scrivere  romanzi  ha  sue  leggi,  le 
«quali  vi  comandano  di  scegliere  a  dovere  argo- 
«  mento  e  personaggi ,  che  hanno  ad  essere  o  cose 
«  famose  per  le  storie,  ovvero  imprese  (se  le  create) 
«d'un  conio  di  grandezza  e  di  perfezione  ideale, 
«  che  le  renda  interessanti  e  cospicue  :  v'ingiungono 
«  le  leggi  del  romanzo  d'annodare  i  fili  della  favola, 
«e  come  gli  abbiate  intricati  quanto  bisogna  a  de- 
«  stare  interesse  e  un  soave  stringicuore  in  chi  legge, 
«avete  poi  a  progredire  senza  posa  verso  il  disvi- 
«luppo,   e  quanto   più    difilato    correrete  a  quello, 


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—      LIX     — 

«  tanto  maggiore  riuscirà  il  diletto  che  il  vostro  ro- 
«  manzo  procaccerà  ;  son  poi  vietati  dalle  prefate 
«leggi  i  lunghi  episodi,  i  parlari  dell'autore,  quan- 
«  d'anche  sien  posti  in  bocca  de*  personaggi,  i  brani 
«  di  morale,  e  siffatte  cose,  sotto  pena  che  il  romanzo 
«  cada  di  mano  al  lettore  addormentato  :  questo  pre- 
«  scrivono  le  leggi  del  romanzo,  piene  d'equità,  ma 
«  contro  a  quelle  stanno  molti  fatti  dove  elle  non  eb- 
«bero  alcun  potere,  e,  per  tacere  d'altri  esempi, 
«  parlerò  adesso  dei  Promessi  Sposi.  Il  romanzo  del 
«  Manzoni  va  contro  tutti  gli  ordinamenti  prefati  ; 
«  lascio  stare  l'oscurità  de'  personaggi  che  fanno  da 
«protagonisti,  e  dico  degli  episodi,  che  son  tanti  e 
«sì  lunghi,  che  in  essi  la  storia  de'  Promessi  Sposi 
«si  perde,  e  per  poco  non  diventa  una  cosa  acces- 
«  soria  :  che  è  mai  infatti  la  storia,  che  sopra  ho  de- 
«  scritta,  rispetto  alle  tante  altre  cose  che  ingrossano 
«  questo  libro  ;  in  cui  troviamo  trattati  di  economia 
«  pubblica,  disquisizioni  storiche,  tirate  di  morale, 
«omelie  di  vescovi,  prediche  di  cappuccini,  ecc.? 
«  Per  le  quali  cose,  che  altro  dovrebbe  accadere, 
«stando  alle  leggi  dell'arte,  se  non  istanchezza  in- 
«  finita  nel  lettore,  sbadigli, sonno;  eppure  la  faccenda 
«  cammina  diversamente,  e  ognun  può  vedere  che  il 
«  romanzo  del  Manzoni  corre  rapidamente  per  tutte 
«le  mani  ed  è  letto  con  avidità.  Qual  cosa  conclu- 
«  dano  poi  tanti  leggitori  come  son  giunti  in  fine,  io 
«  non  lo  so,  ma  per  il  fatto  mio  affermo  che  questa 
«lettura  m'ha  trattenuto  piacevolmente  assai,  e  che 


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—      LX      — 


«  m'è  doluto  quando  col  libro  vidi  toccare  il  termine 
«  il  mio  diletto.  Fenomeni  !  casi  strani  !  Ma  vediamo 
«  un  po'  se  ne  venisse  fatto  di  porre  innanzi  alcuna 
«  ragione  ad  intendere  il  caso  strano.  Non  togliamo 
«  più  a  ragionare  delle  leggi  onde  si  governa  il  ro- 
«  manzo,  né  vogliasi  inquisire  se  il  Manzoni  le  abbia 
«  osservate,  e  se  questo  sia  quindi  vero  romanzo,  o 
«che  altro  sia;  da  chi  volesse  contendere  su  questo 
«  punto  io  mi  spiccerei  con  dire  :  amico,  se  noi  vuoi 
«romanzo,  sarà  storia,  sarà  trattato,  sarà  un  saggio, 
«qualcosa  sarà:  e  per  isfuggire  anzi  affatto  ogni 
«  questione  di  titolo ,  lo  chiamo  libro.  Ora ,  in 
«  questo  libro,  l'autore  deviando  ad  ogni  tratto  dalla 
«storia  de*  Promessi  Sposi,  scorre,  come  sopra  io 
«diceva,  a  ragionare  d'altre  cose,  che  hanno  bensì 
«  una  relazione  stretta  col  soggetto  principale,  ma 
«non  era  forse  mestiere  che  vi  si  spendessero  tante 
«  parole.  Pur  non  ostante,  tutte  coteste  cose,  che  sem- 
«  brano  scucite,  le  stanno  bene  insieme,  e  non  man- 
«dano  suoni  discordi,  e  non  isviano  punto  l'animo 
«del  leggitore.  Da  qual  movente  può  egli  derivar 
«questo?  Sarebbe  egli  mai  che  la  condotta  e  il  le- 
«  game  dell'affetto  suppliscono  a  quella  condotta  e  a 
«  quel  legame  che  mancano  apparentemente  nell'o- 
«pera?  Veggo  di  vero  che  essa  è  tutta  intuonata  a 
«un  modo.  L'ingegno  sommo  e  il  cuor  candido  di 
«  chi  dettò  son  le  corde  che  risuonano  da  per  tutto, 
«  son  quelle  che  mantengono  una  soave  consonanza, 
«  che  formano  una  reale  unità,  una  verace  condotta; 


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—      LXI      — 

«quella  condotta  appunto  e  quell'unità  che  ammi- 
seriamo nelle  odi  di  Pindaro,  le  quali  pur  toccano 
«  tante  corde  e  cosF  disparate  da  parer  cose  strambe 
«chi  non  sentisse  che  le  stanno  tutte  come  a  dire 
«entro  lo  stesso  accordo:  e  appunto  d'un  sì  fatto 
«  genere  sono  le  opere  del  Manzoni  ;  ma  non  ci 
«  discostiamo  dai  Promessi  Sposi.  In  questo  libro 
«l'A.  ci  dispiega  un  bel  tratto  di  storia  patria  con 
«accurata  fedeltà,  con  nitido  ordine,  con  sottile  e 
«sana  critica.  In  questo  libro  abbiamo  una  viva 
«pittura  de'  costumi  del  secolo  XVII.  In  questo 
«libro  troviamo  rappresentati  colle  vere  loro  tinte 
«  caratteri  d'ogni  maniera,  d'ogni  cognizione,  d'ogni 
«stato.  Abbiamo  dipinte  orrende  scelleratezze,  che 
«son  toccate  con  pennello  si  gagliardo  da  scuo- 
«  tere  il  cinico  più  gelato  ;  poi  t' imbatti  in  certe 
«scene  gioconde,  dove  la  forza  comica  è  accom- 
«pagnata  ad  una  morale  che  ti  consola;  poi  siam 
«trasportati  in  situazioni  pietose,  commoventissime. 
«Il  pensiero  dell' A.  scorre  leggerissimo  sui  vari 
«soggetti,  né  il  seguirlo  riesce  cosa  grave  alla  nostra 
«  mente,  poiché  o  penetri  acutissimo,  e  sul  fare  di 
«  Sterne,  fin  ne'  più  profondi  recessi  del  cuore  umano, 
«o  si  levi  sublime  con  alti  e  luminosi  concetti,  o 
«rapido  voli  a  raggiungere  idee  lontanissime  e  di- 
«  sparate  onde  farne  ingegnoso  ed  inaspettato  con- 
«fronto,  tu  travedi  sempre  la  mente  dell'A.  tutta 
«intesa  con  costante  perseveranza  a  dei  casi  veri, 
«interamente,  liberamente,  e  non  con   altro  animo, 


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—      LXII      — 

«  tranne  quello  che  ne  abbia  l'umanità  giovamento 
«  e  diletto.  Io  potrei  avvalorare  le  cose  sopraddette, 
«trascrivendo  qui  dal  libro  aldini  luoghi,  belli  in 
«sommo  grado  e  immaginosi.  I  vari  quadri  della  pe- 
«stilenza;  certi  gruppi  del  sollevamento  popolare; 
«  i  passi  drammatici  dove  fa  sì  bello  spicco  quella 
«grande  anima  di  fra  Cristoforo;  il  sogno  di  Don 
«  Rodrigo,  che  pare  uscito  dal  cervello  di  Shakes- 
«peare,  tanto  è  cosa  caldamente  immaginata;  potrei 
«trascrivere  la  descrizione  dei  dintorni  di  Lecco, 
«che  la  è  felice  e  magnifica  quanto  un  quadro  del 
«  Lorenese,  e  molti  altri  passi  potrei  allegare  (se  la 
«  legge  della  brevità  me  lo  concedesse)  per  li  quali 
«si  verrebbe  a  mostrare  quanta  energia,  quale  eie- 
«vatezza,  qual  fonte  d'affetto  e  di  voluttà  squisita 
«  si  contenga  nel  libro  dei  Promessi  Sposi,  comunque 
«alcuni  abbiano  affermato,  né  io  vo'  negarlo,  ch'e' 
«sappia  d'ascetico....  Sì,  signori,  d'ascetico:  e  ne 
«tornerà  per  questo  meno  piacevole  la  lettura?  Ma 
«siamo  anime  forti,  e  queste  debolezze,  che  ponno 
«intertenere  i  pusilli,  non  entrano  punto  nei  nostri 
«spassi,  se  non  quando  le  divengono  soggetto  d'al- 
«  legro  ed  ingegnoso  motteggio  nelle  amene  brigate. 
«V'intendo,  o  signori,  e  capisco  che  vorrete  per 
«  conseguente  essere  anche  persone  di  carattere,  n'è 
«vero?  In  questo  caso  v'è  sicuramente  interdetto  il 
«gusto  di  questa  lettura.  Poiché  fra  le  vostre  mani 
«  un  libro  mezzo  ascetico  potrebbe  farvi  scadere  da 
«quella  reputazione  di  gagliardia....  pensava  perla 


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—      LXIII      — 

« soddisfazion  vostra  a  un  ripiego...  Uditemi;  e  se 
«vi  procacciaste  questo  libro  di  cheto  e  ve  lo  leg- 
«  geste  segretamente?  »  (*). 

Nella  Gazzetta  di  Milano  così  ne  scrisse  Francesco 
Pezzi:  «L'autore  è  chiaro  per  molti  conti.  Nepote 
«  dal  lato  materno  del  gran  Beccaria,  egli  non  si  ri- 
«  stette  ai  lustro  che  gli  deriva  da  questa  affinità. 
«  Giovane  ancora,  il  Manzoni  alzò  grido  di  facile  in- 
«  gegno.  Più  tardo,  salì  i  gioghi  di  Pindo  con  fausto 
«  successo.  Il  carme  in  morte  deirimbonati  sta  presso 
«  ai  Sepolcri  del  Pindemonte,  del  Foscolo,  del  Torti. 
«  Gli  inni  in  onor  di  Maria  spirano  la  soavità  della 
«  grazia  terrestre.  In  altri  lirici  componimenti  la  sua 
«  musa  si  spinse  a  nobile  altezza.  Trattosi  quindi  nel 
«  sentiero  in  cui  quel  d'Asti  raccolse  il  retaggio  della 
«  Greca  Melpomene,  il  Manzoni  volle  trattare  argo- 
«  menti  semplici  sulle  norme  della  scuola  romantica. 
«  Delle  due  tragedie  ch'ei  scrisse  non  rimangono 
«  nella  memoria  che  alcuni  concetti  ed  isolate  bel- 
«  lezze  di  stile.  In  fine  egli  attese  alla  prosa.  Il  Man- 
«  zoni  può  dirsi  il  primo  che  abbia  ora  compiuto  un 
«  vacuo  fra  noi  in  un  ramo  di  letteratura,  nel  quale 
«gli  stranieri  peccano  d'abbondanza.  Sia  storia  o 
«  romanzo,  il  suo  libro  mancava  all'Italia.  Da  lungo 
«  tempo  non  facciam  che  discutere  sul  modo  di  con- 


(')  //  Nuovo  Ricoglitore>  ann.  Ili,  part.  I,  n.  30,  giu- 
gno 1827,  pp.  446-451. 


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—      LXIV      — 

«cepire  e  di  scrivere.  Il  Manzoni  frattanto  non  di- 
«scuteva,  ma  concepiva  e  scriveva.  Il  nuovo  parto 
«  della  sua  mente  incatena  l'attenzione  del  leggitore: 
«crediamo  con  queste  parole  averlo  definito  abba- 
«  stanza.  La  ragione  della  voga  di  quest'opera  salta 
«  agli  occhi  immediatamente.  Varietà  ed  importanza  di 
«  avvenimenti;  pittura  energica  d'usi  e  di  costumanze, 
«  di  cui  non  si  è  perduta  la  traccia  ;  caratteri  viva- 
«  mente  tratteggiati  ;  passioni  poste  in  contrasto,  le 
«vie  dell'animo  ricercate,  e  tutto  ciò  senza  sforzo, 
«senza  l'orpello  dell'esagerazioni,  senza  sussidio  di 
«  mezzi  incomprensibili  ;  ecco  l'origine  prima  da  cui 
«  deriva  quell'allettamento  che  infondesi  alla  lettura 
«  dei  Promessi  Sposi.  Se  a  questo  s'aggiunga  un  bel 
«calcolato  riparto  di  tanti  episodi,  che  presi  isola- 
«  tamente  parrebbe  a  prima  giunta  non  potersi  unire 
«  al  soggetto  fondamentale,  ma  che  vi  si  combinano 
«come  tanti  raggi  nel  centro  d'un  disco,  e  si  avrà 
«  ragione  dell'aura  ond'è  onorato  il  lavoro  del  Man- 
«  zoni.  L'autore  non  attinse  la  principal  vicenda  nar- 
«  ratavi  a  fonte  luminosa,  in  quanto  che  i  veri  pro- 
«tagonisti  dell'azione  non  sono  illustri  per  alcun 
«conto.  Ma  s'egli  non  comincia  a  intertenerci  che 
«  della  promessa  fede  di  due  amanti  poveri  e  oscuri, 
«mano  a  mano  che  va  tessendo  la  loro  istoria,  da 
«  semplice  che  era,  s'avviluppa  con  grande  artificio, 
«  collegandosi  ad  avvenimenti  ed  a  persone  di  grande 
«importanza;  locchè  addoppia  la  sollecitudine  del 
«  leggitore  nel  momento  in  cui  crederebbesi  che  do- 


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—      LXV      — 

«vesse  scemare».  Il  Pezzi  piglia  poi  a  riassumere 
«  le  cose  esposte,  sviluppate  e  condotte  con  finis- 
«  simo  accorgimento  nel  primo  e  nel  secondo  volume 
«  dell'opera  del  Manzoni  »;  promette  di  parlare  «quanto 
«prima  del  terzo  e  ultimo»;  e  di  ragionare  anche, 
«  colla  guida  d'onesta  critica  »,  della  lingua  e  dello 
•stile  usati  dall'autore,  «  non  senza  provare  com'egli, 
«tutto  pieno  del  suo  soggetto,  siasi  mostrato  ad 
«  un  tempo  filosofo,  moralista,  uom  di  mondo  e 
«  pittore  »  (*). 

Curioso  è  il  giudizio  che  ne  dette  il  Corriere  delle 
Dame:  «Appena  uscita  l'opera,  ognuno  si  fece  a 
«  dire  :  è  uscito  un  Romanzo  storico  di  Manzoni.  La 
«celebrità  del  nome  trasse  tosto  numerosissimi  am- 
«  miratori  all'acquisto,  ed  alcuni,  sempre  fermi  nel 
«volerlo  battezzare  Romanzo,  lo  trovarono,  sotto 
«  questo  aspetto,  sterile  e  poco  interessante.  Trattasi, 
«  dicono  quelli,  di  due  paesani  {Renzo  e  Lucia)  che 
«s'hanno  a  sposare  e  che  un  feudatario  prepotente 
«glielo  impedisce  con  ogni  sorta  di  mezzi;  dopo 
«gran  traversie  si  sposano,  e  lì  finisce  la  dolorosa 
«  istoria,  poiché  tutti  gli  altri  fatti  e  narrazioni  s'hanno 
«a  considerare  come  altrettanti  episodi,  e  formano 
«  invece  il  nerbo  del  libro.  —  Io  rispondo  a  questa 
«prima  questione  che  il  rinomato  autore  di  tante 
«  belle  poesie  e  di  ben  altri  lodati  componimenti  non 


(*)  Cfr.  Gazzetta  di  Milano  dell' n  luglio  1827. 
Alessandro  Manzoni,  -  P.  II. 


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—      LXVI      — 

«  comincia  dal  dire  sua  propria  quest'opera,  e  quan- 
«  d'anche  la  si  fosse,  egli  l'ha  intitolata:  Storia  mi- 
«  lanese  del  secolo  X  VII  ;  perchè  dunque  la  si  vuole 
«un  Romanzo f  Certo  che  se  si  fosse  inteso  di  of- 
«  frirci  un  romanzo  storico  sulle  tracce  di  Walter 
«Scott  doveasi  innalzare  fra  più  nobili  subbietti  la 
«scelta  de'  protagonisti,  onde  l'interesse  general- 
«  mente  eccitato  venisse  per  le  avventure  di  perso- 
«naggi  degni  veramente  d'istoria.  Ma  non  vediamo 
«  noi  forse  che  appunto  l'illustre  Scozzese,  costretto 
«  a  non  smuovere  se  non  storicamente  dalle  capitali 
«  o  dai  determinati  luoghi  i  suoi  personaggi  illustri, 
«  inganna  poi  e  tradisce  il  lettore,  facendo  in  un  luogo 
«accadere  cose  avvenute  le  mille  miglia  lontane,  e 
«ravvicinando  epoche  distantissime  fra  loro,  e  con- 
«  fondendo  le  costumanze  e  gli  usi  tutti  propri  di 
«  diverse  età,  soltanto  per  dare  in  un  solo  Romanzo 
«storico  l'idea  completa  di  varie  avventure,  di  varie 
«  costumanze,  e  per  stringere  in  un'epoca  sola  i  vari 
«  periodi  di  una  vita  illustre  ?  Meno  male  sarà  dun- 
«  que  che  ideali  sieno  i  personaggi  e  tali  da  potere 
«esser  mandati  qua  e  là  ove  più  brama  l'autore, 
«  purché  storiche  sieno  le  relazioni  de'  fatti  che  con- 
«  tiene  il  libro.  —  Meglio  sarebbe,  lo  dicon  tutti  e 
«  lo  dico  anch'io,  che  la  scelta  cadesse  sopra  un'av- 
«  ventura  d'illustri  persone,  e  gli  storici  episodi  cor- 
«  rispondessero  a  que'  tempi,  per  istruirne  il  lettore; 
«  ma  qui  sta  la  difficoltà,  e  non  già  la  difficoltà  di 
«  invenzione,  ma  la  difficoltà  di  rinvenire  fatti  inte- 


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—      LVII      — 

«ressanti,  contemporanei  ad  avventure  particolari  e 
«specialmente  amorose  di  persone  degne* di  storia. 
«  —  Risponderà  taluno,  che  è  assai  comodo  formare 
«  un  romanzo  di  tal  sorta,  poiché  non  è  alla  fin  fine 
«  che  una  cronaca  di  quel  determinato  tempo,  colle- 
«  gata  ad  una  novella  amorosa  qualunque  ella  siasi. 
« —  Sia  pur  facile  e  comodo  l'inventare  una  novel- 
«  letta  amorosa  per  condire  quell'arida  parte  storica* 
«  che  vuol  narrarsi,  non  sarà  comodo,  né  a  tutti  fa- 
«cile  sicuramente  far  buona  scelta  dell'epoca  che 
«vuol  presentarsi,  far  che  succosamente  sieno  le 
«cose  narrate,  e  la  sana  filosofia,  la  buona  morale, 
«la  vera  politica  venga  alla  mente  del  lettore  me- 
«  diante  la  narrazione  medesima;  non  sarà  comodo 
«  il  frugare  centinaia  di  volumi  e  manoscritti  per  de- 
«  terminare  alcune  verità  dapprima  mal  note;  non 
«sarà  facile  di  belle  e  commoventi  pitture  descrit- 
«tive  adornare  l'opera  che  si  offre;  né  sarà  tanto  co- 
«  modo  e  facile  mantenere  le  varie  persone  nel  loro 
«vero  carattere,  e  fare  che  le  ammonizioni  di  un 
«cardinale  Federigo  Borromeo  sembrino  da  quel 
«  medesimo  chiarissimo  porporato  dettate  e  pronun- 
«ziate;  che  le  espressioni  di  un  prepotente  signore 
«sieno  le  vere  e  le  sempre  udite;  che  la  compas- 
«  sione  fraterna  di  un  P.  Cristoforo  dipinga  una  rara 
«  pietà,  ma  probabile  altronde  in  persone  benemerite 
«  a  Dio  ;  che  i  tristi  effetti  di  una  forzata  monacale 
«  reclusione  sieno  que'  tanti  mali  che  vediamo  nel- 
«  l'opera  del  Manzoni  vivamente  scolpiti;  non  sarà 


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—      LVIII      — 

«  facile,  né  comodo,  in  fine,  far  sì  che  in  ogni  parte 
«dell'opera  rilucente  ed  esaltata  veggasi  la  virtù, 
«sotto  rozzi  panni,  e  in  tutt'altri  depresso  e  anni- 
«  chilito  il  vizio.  —  Voi  dunque,  proseguon  gli  altri, 
«  ce  lo  date  per  un  capo  d'opera,  per  un  non  plus 
«  ultra:  ed  io,  che  pur  vorrei  mi  si  prestasse  la  debil 
«  penna  a  que'  maggiori  elogi  che  amo  tributare  ad 
«A.  Manzoni,  dirò  che  questo  libro  è  bello,  interes- 
sante e  migliore  di  tanti  altri  che  menarono  in 
«  questi  ultimi  tempi  gran  rumore  :  ma  non  perciò  lo 
«veggo  privo  di  qualche  pecca,  né  tale  da  dirsi  in- 
«  superabile.  È  prima,  fra  le  cose  ch'io  prenderei  a 
«  censurare,  una  prolissità  che  sfinisce  e  stucca  in  più 
«d'un  luogo;  e  basti,  p'er  accennarne  uno,  il  dire  che 
«  la  sommossa,  accaduta  in  Milano  per  la  carezza  del 
«  pane,  e  il  saccheggio  che  voleasi  dare  ad  una  bot- 
«  tega  di  fornaio,  fa  muovere  il  Gran  Cancelliere 
«  Ferrer  per  sedare  il  tumulto,  e  14  pagine,  belle, 
«  lunghe  e  larghe,  come  sono,  tutte  vengono  impie- 
«  gate  a  descriverci  l'andata  non  più  di  cento  passi 
«  della  carrozza  di  Ferrer,  circondata  dal  popolo.  — 
«Viene,  in  secondo  luogo,  l'inutilità  di  alcune  no- 
«  zioni  che  non  fanno  bella,  né  più  interessante  l'o- 
«  pera,  e  fra  queste  quello  sciocco  e  lungo  contrasto 
«  fra  Bortolo  e  Renzo,  il  quale  di  tutto  avea  bisogno 
«  fuorché  di  perdersi  a  cicalare  sul  nome  di  bagiano 
«con  cui  sogliono  i  Bergamaschi  distinguere  i  Mi- 
«lanesi.  —  Renzo  poi  lo  trovo  talvolta  ingenuo  fuor 
«  di  misura,  tal  altra  perspicace  oltre  la  naturale  sua 


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—      LXIX     — 

«condizione,  ed  atto  a  riportarmi  perfino  un'intiera 
«predica  del  P.  Felice;  in  qualche  incontro  mancante 
«troppo  di  un  necessario  ardimento  e  facile  a  con- 
«  fondersi  pel  più  piccolo  imbarazzo,  ed  altrove  di 
«  una  fortezza  d'animo  che  lo  innalza  all'eroismo,  e 
«pronto  a  pronunciar  sentenze  ed  a  filosofare  più 
«  che  non  gli  convenga  ;  furibondo  amante  della  sua 
«  Lucia,  talora  passa  molt'ore  e  giorni  senza  pur 
«rammentarla;  tratto  alla  città  per  quell'amore  di 
«cui  tutto  vive,  n'è  dimentico  e  spogliato  per  se- 
«guire  que'  tumulti  che  fanno  d'ordinario  allonta- 
«  nare  anche  1  meno  timidi  ed  i  più  avvezzi  alle  po- 
«  polari  sommosse.  Illetterato,  com'egli  è,  tiene  cor- 
«  rispondenza  col  mezzo  di  un  amico  con  Agnese, 
«madre  di  Lucia,  la  quale,  fra  l'altre,  accompagna 
«una  sua  lettera  di  un  soccorso  a  lui  di  cinquanta 
«scudi....  e  come  dunque  sta  in  seguito  che  Renzo 
«non  avesse  fatto  confidenza  a  nessuno  di  quel  de- 
«naro  avuto?...  È  Renzo  perciò  l'unico  personaggio 
«  intorno  al  quale  potrebbero  insorgere  ben  fondate 
«  censure,  e  d'uopo  avrebbe  d'una  lima  accurata  la 
«  parte  che  lo  risguarda.  —  Ma,  insieme  strette  tutte 
«queste  cose,  non  appariscono  che  nei  fra  mezzo  a 
«tante  bellezze;  e  le  copie  di  quest'opera  furono  in 
«meno  di  due  mesi  tutte  spacciate,  e  se  ne  fa  ri- 
«  stampa  a  Torino,  a  Livorno,  e  si  stanno  prepa- 
«rando  comiche  rappresentazioni,  tratte  dall'opera 
«medesima,  e  finalmente  si  è  aperta  associazione  a 
«dodici  tavole  litografiche,  che  i  punti  più  interes- 


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—      LXX      — 


«  santi  della  storia  rappresenteranno,  essendo  affidata 
«  a  valenti  artisti  l'esecuzione  dei  disegni  »  (l  ). 

La  Vespa,  un  altro  de*  giornali  milanesi  d'allora, 
invece  si  avventò  contro  il  nuovo  romanzo  con  rabbia 
feroce  ;  e  chi  scese  in  campo  a  farne  strazio  fu  il  suo 
«  compilatore  »  Felice  Romani.  «  Sepolta  per  tre  anni 
«  nel  magazzino  del  Ferrano,  esce  finalmente  alla 
«  luce  questa  vecchia  ringiovanita,  di  cui  si  dicevano 
«  le  meraviglie  dai  pochi  che  l'aveano  veduta  e  dai 
«molti  che  l'avean  da  vedere.  Esce  finalmente  alla 
«luce:  e  corrono  staffette  per  l'Italia,  e  galoppano 
«corrieri  oltre  monti  ad  annunziare  la  comparsa 
«  della  Bella  del  secolo  XVII,  abbigliata  alla  foggia 
«  del  secolo  XIX.  Gli  amici  dell' A.  la  van  portando 
«in  trionfo  per  le  vie,  per  le  case,  pei  caffè:  bella! 
«  dice  un  giornalista  :  bella  !  ripete  un  libraio  :  bella 
«  di  qua,  bella  di  là,  bellissima,  arci  bellissima,  me- 
«ravigliosa!  Ch'io  pure  possa  darti  un'occhiata,  o 
«  veneranda  virago,  che  meni  tanto  trionfo,  e  fai  gi- 
«  rare  il  cervello  di  tutti  i  Narcisi  della  nostra  let- 
«teratura!  —  Ahimè,  o  lettori,  io  l'ho  veduta....  Io 
«non  conosco  il  Manzoni  né  per  benefici,  riè  per 
«ingiurie  ch'io  n'abbia  ricevute,  né  ho  mai  potuto 
«  e  voluto  frugare  nella  sua  coscienza  per  giudicare 
«della  sua  pietà.    Le  verità   sociali    e    cristiane  son 


(*)  Corriere  delle  Dame,  n.  36,  8  settembre  1827,  pa- 
gine 285-287. 


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—      LXXI      — 


«  meritorie  d'innanzi  a  Dio  e  d'innanzi  ai  Governi  : 
«  e  il  mio  cuore  e  la  mia  voce  venera  e  loda  chi  le 
«  possiede  veracemente  :  ma  esse  non  accrescon  dram- 
me ma  di  merito  sulla  bilancia  ove  si  pesano  i  lette- 
«  rati.  Questi  van  giudicati  dagli  scritti  ;  ed  io  plaudo 
«  al  Manzoni  come  lirico  di  vaglia,  quando  leggo  i 
«  suoi  versi  in  morte  di  Carlo  Imbonati,  qualche 
«  squarcio  degli  Inni  sacri  e  la  battaglia  di  Maclodio; 
«  ma  cattivo  tragico  lo  chiamo  quando  esamino  il 
«  Conte  di  Carmagnola  e  l'Adelchi,  né  lo  reputo  mi- 
«  glior  romanziere  quando  svolgo....  — Alto  là,  non 
«  è  ancor  deciso  se  /  Promessi  Sposi  siano  un  ro- 
«  manzo,  o  una  storia.  —  Tanto  peggio  per  l'autore! 
«se  siete  ancora  indecisi  sul  genere  del  componi- 
«  mento.  Voi  date  campo  ai  maledici  di  poter  dire 
«  ch'ei  non  è  né  romanzo,  né  storia.  Ma  questo  non 
«  voglio  dir  io  ;  e  poiché  i  Promessi  Sposi  è  pur 
«  forza  che  sian  qualche  cosa,  li  riguarderò  come  un 
«romanzo  fondato  sulla  storia.  E  i  più  concorrono 
«in  siffatta  opinione.  Non  udite  voi  tutto  il  giorno 
«  gridare  a  gola  aperta  :  finalmente  abbiamo  un 
«  Walter  Scott  anche  noi  !  finalmente  il  Manzoni  ha 
«riempiuto  un  gran  vuoto  che  nella  nostra  lettera- 
«  tura  esisteva.  Benigni  lettori  !  lasciatemi  dire  quat- 
«tro  parole  a  costoro». 

Risparmio  queste  «  quattro  parole  »  ai  lettori  e 
seguito  a  spigolare.  «Al  Manzoni  è  piaciuto  com- 
«  porre  un  romanzo  storico,  e  come  tale  fu  ac- 
«  colto    dal    pubblico,   e    il    rapido  smercio    che    in 


V      / 


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—      LXXI1      — 

«poco  tempo  egli  ottenne,  prova  abbastanza  ch'ei 
«fu  giudicato  eccellente.  Più  vera  sentenza,  o  let- 
«  tori,  non  fu  mai  proferita,  né  più  umiliante  per 
«  certe  gloriole  letterarie,  di  quella  che  ai  Romani 
«  scrittori  gridava  il  Venosino  poeta,  cioè  che  i  libri 
«hanno  anch'essi  il  loro  destino.  E  sapete  voi  da 
«  che  cosa  dipende  siffatto  destino  ?  Se  Orazio  non 
«Tha  detto,  io  ve  lo  dico:  dipende  da  mille  pas- 
«  sioncelle  che  in  ogni  tempo  governarono  la  repub- 
«  blica  letteraria,  dalle  mire  dei  lodatori,  dall'influenza 
«  dei  lodati,  e  più  di  tutto  dalle  stravaganze  del 
«secolo.  Né  a  questo  io  faccio  torto,  affibbiandogli 
«qualche  stravaganza,  poiché  i  passati  aveano  an- 
«  ch'essi  le  loro.  Se  qualcuno  fra  i  Secentisti  avesse 
«  osato  menare  la  sferza  contro  il  mal  gusto  de*  suoi 
«  tempi  e  dire  a  quel  Re  di  Francia  che  premiava 
«  di  tant'oro  il  più  detestabile  sonetto  del  nostro 
«  Parnaso  :  Sire,  quest'atto  di  vostra  munificenza  sarà 
«  biasimato  da  tutti  i  secoli  futuri  ;  costui  ne  avrebbe 
«riportate  le  beffe  dei  suoi  contemporanei,  e  non 
«avrebbe  trovato  un  solo  che  facesse  ragione  alla 
«sua  giusta  censura.  Noi,  per  ventura,  viviamo  a 
«  giorni  in  cui  le  stravaganze  dei  letterati  non  sona 
«  premiate  dai  Re  ;  e  se  son  mille  i  bizzarri  cervelli 
«che  ad  esse  corrono  dietro,  pochi  non  sono  i  sa- 
«  pienti  che  fanno  argine  alla  corrente  e  sono  cu- 
«stodi  del  bello  e  del  vero.  Pago  del  suffragio  di 
«questi,  io  non  farò  conto  della  disapprovazione  di 
«  quelli  ;  ed  esaminando  liberamente  il  romanzo  sto- 


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—      LXXIII      — 

«rico  del  Manzoni,  mi  studierò  di  provare  ch'ei 
«pecca  d'invenzione,  di  condotta,  di  caratteri,  di 
«  stile  ;  e  che  paragonandolo  a  quelli  del  Walter 
«  Scott,  gli  è  ristesso  che  scoprire  agli  stranieri  le 

«nostre  miserie Peggior  epoca  della  storia  mi- 

«  lanese  non  poteva  egli  scegliere  per  base  del  suo 
«  romanzo  :  l'epoca  della  dominazione  spagnuola,  in 
«  cui  due  nazioni,  anche  straniere,  entravano  in  guerra 
«  per  contendersi  un  piccolo  principato.  Spento  era 
«  il  valore,  morta  ogni  idea  generosa,  e  la  fame  e  la 
«  peste  desolavano  queste  infelici  contrade.  Ditemi 
«  ora,  o  lettori,  qual  sarà  il  soggetto  di  un  romanzo, 
«che  si  raggira  intorno  a  tal  epoca?  Quali  saranno 
«  le  imprese  dei  Milanesi,  perchè  il  romanzo  è  inti- 
«  tolato  Storia  Milanese?  O,  per  tacer  delle  imprese 
«  della  nazione,  quali  almeno  saranno  i  fatti  di  un 
«  qualcheduno  fra  i  Milanesi,  quali  le  vicende  di  lui, 
«o  vere,  o  immaginarie,  che  si  colleghino  colle  vi- 
«  cende  pubbliche,  e  formino  insieme  un  compiuto  e 
«commovente  quadro  dei  tempi?  Quali  saranno  gli 
«eroi?  Forse  l'ambizioso  Governator  di  Milano  pro- 
«  motore  della  guerra  che  si  accende  in  Italia?  Forse 
«  il  coraggioso  Duca  di  Nevers,  che  difende  animo- 
«samente  i  diritti  della  sua  casa?  Forse  il  Marchese 
«  Spinola,  che  viene  a  correggere  gli  errori  del  Cor- 
«  dova  ?  Forse  gli  oppugnatori  o  i  difensori  di  Ca- 
«  sale,  di  Vercelli  e  di  Torino,  Spagnuoli  o  Francesi 
«  che  sieno,  Alemanni  o  Italiani,  poiché  tali  sono  gli 
«eroi  e  le  vicende   di  quell'epoca?   Né   un  solo  di 


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—     LXXIV     — 

«cotesti  personaggi  è  l'eroe  del  romanzo,  né  una 
«  sola  di  siffatte  vicende  forma  il  soggetto  dell'istoria 
«  scoperta  e  rifatta  dal  Manzoni.  Renzo  Tramaglino 
«e  Lucia  Mondella,  due  poveri  lavoratori  del  con- 
«  tado  di  Como,  sono  gli  eroi  per  cui  dobbiamo  inte- 
«  ressarci  ;  se  si  sposeranno,  o  no,  è  V  importante  vi- 

«cenda  che  tener  deve  gli  animi  nostri  sospesi 

«Eccovi,  o  lettori,  tutto  il  tessuto  di  questa  istoria 
«milanese  rifatta:  e  s'ella  è  cosa  che  meriti  il  nome 
«  di  storia,  giudicatelo  voi....  Ditemi,  per  vostra  fede, 
«il  soggetto  è  egli  interessante?  Due  contadini,  che 
«per  prepotenza  di  un  nobile  e  per  dappocaggine 
«  di  un  curato  non  si  possono  sposare,  sono  essi  gli 
«eroi  da  collegare  degnamente  ad  un'epoca  storica 
«  qualunque  ella  sia?  E  questa  epoca  storica  vi  par 
«  ella  bene  svolta  e  presentata  nel  suo  più  bel  punto 
«di  vista?  E  che  cosa  avete  imparato  dalle  vicende 
«dei  vostri  maggiori,  per  cui  possiate  gloriarvi,  o 
«almeno  intenerirvi  e  piangere  con  quel  generoso 
«sentimento  che  ispirano  le  nobili  sventure?  Gen- 
«  tiluomini  scapestrati  o  sciagurati,  popolo  avvilito  o 
«affamato,  peste  fomentata  per  ignavia  dei  domina- 
«  tori  e  per  ignoranza  dei  dominati  !  Dov'è  un  sen- 
«timento  generoso,  un  nobile  affetto,  una  grande 
«passione?  Dov'è  un  eroe  su  cui  riposino  con  com- 
«  piacenza  i  vostri  occhi  affaticati  dallo  schifo  spet- 
«  tacolo  che  avete  dinanzi?  Dove  un  grand'uomo,  che 
«  comparisca  qual  faro  nella  notte  di  quest'epoca  te- 
«nebrosa?  Il  solo  cardinal   Borromeo,   personaggio 


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—      LXXV      — 

«  episodico,  è  Tunica  figura  che  spicca  in  certo  qual 
«  modo  in  questo  quadro  disgustoso.  Ma  se  l'A.  vo- 
«leva  introdurre  il  cardinal  Borromeo,  perchè  con- 
«  finarlo  in  un  villaggio  ad  affaticarsi  intorno  a  cose 
«  di  sì  lieve  momento  ?  E  un  uomo  di  tanta  autorità 
«  non  poteva  essere  posto  in  situazione  più  degna  di 
«lui?  E  i  vizi  dei  tempi  non  gli  presentavano  più 
«  vasto  campo  ove  luminose  apparissero  le  sue  virtù  ? 
«  È  bensì  vero  che  ei  divide  il  suo  pane  cogli  affa- 
«mati,  che  si  adopera  ad  allontanare  il  flagello  della 
«peste,  che  si  mostra  pieno  di  cristiana  carità:  ma 
«tutto  ciò  è  raccontato  per  incidenza,  e  in  nulla 
«  coopera  all'andamento  dell'azione,  alla  sostanza  del 
«soggetto.  E  dove  pure  ciò  fosse,  il  cardinal  Bor- 
«  romeo  era  egli  un  personaggio  da  romanzo  ?  ». 

Il  Pezzi  nella  Gazzetta  di  Milano  pigliò  le  difese 
del  Manzoni,  scrivendo,  tra  le  altre  cose:  «  Il  voler  nei 
«  romanzi  restringere  l'importanza  dei  principali  per- 
«sonaggi  alle  sole  classi  elevate,  sarebbe  lo  stesso 
«che  stendere  un  piede  alla  catena  quando  si  può 
«  esser  liberi.  Con  un  tal  principio  infinità  di  romanzi 
«  bellissimi  avrebbero  avuto  l'ostracismo.  Ci  ha  gran- 
«  dezza  d'animo,  virtù  luminose,  importanza  in  tutte 
«le  condizioni.  E  quanto  più  l'umiltà  di  alcune  è 
«posta  in  conflitto  colla  baldanza  d'alcune  altre, 
«  tanto  maggiore  è  quell'  effetto  drammatico  che 
«  debbe  essere  lo  scopo  delle  opere  destinate  a  com- 
«  muovere.  Che  la  storia  sia  combinata  colla  finzione 
«  e  questa  con  quella,  in  guisa  che  l'una  non  possa 


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—      LXXVI      — 

«  stare  senza  dell'altra,  il  prova  l'opera  del  Manzoni; 
«per  riguardo  alla  quale  anzi  non  esitiamo  a  dire 
«che  la  finzione  è  talmente  fusa  nella  storia,  che 
«  non  si  saprebbe  scernere  l'una  dall'altra.  Infatti, 
«da  questa  fusione  appunto,  a  cui  l'autore  volse  i 
«  maggiori  suoi  studi,  deriva  l'interessamento  che 
«desta  la  lettura  d'un  romanzo,  che,  a  parer  nostro, 
«veste  tutti  i  caratteri  della  verità.  In  quanto  al 
«  modo,  nessuno  potrà  negarlo  alle  venture  dei  Pro- 
«  messi  Sposi)  poiché  dal  cominciamento  allo  svi- 
«  luppo,  la  condotta,  piana  e  regolare,  s'unisce  natu- 
«  Talmente  a  episodi  senza  incontrare  ostacoli.  In 
«  quanto  allo  scopo,  esso  è  semplicissimo,  perchè  mo- 
«  rale,  né  sapremmo  al  certo  indicarne  un  migliore. 
«  In  fine,  che  l'azione  conservi  una  tal  quale  unità 
«  e  che  gli  episodi  siano  connessi  all'azione  in  modo 
«  di  concorrere  all'andamento  di  essa,  è  provato  del 
«  pari  nell'opera  del  Manzoni  con  questo  argomento: 
«  tolga  la  Vespa  un  solo  degli  episodi  importanti 
«dall'opera  stessa  e  ne  vedrà  l'orditura  scompagi- 
«  nata  in  modo  da  non  potersene  raccapezzare  il  filo. 
«Se  la  Vespa  voleva  di  botto  veramente  dar  nel 
«segno  col  pungolo,  l'opera  presentavate  un  lato 
«  vulnerabile  in  alcune  prolissità,  in  certe  minutezze 
«  ed  in  parecchie  locuzioni  non  lodevoli  ;  le  quali 
«  cose,  quantunque  possano  riguardarsi  come  lievi 
«  macchie  in  molta  luce,  sarebbero  da  sopprimere,  o 
«  da  emendare  t>  Q). 


(*)  Gazzetta  di  Milano  del  15  ottobre  1827. 


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—      LXXVII      — 

Il  Romani,  che  non  era  uomo  da  perdersi  ne* 
panni,  non  ci  si  perse,  e  così  prese  a  ribattere  le 
critiche:  «Sapete  voi,  o  lettori,  che  si  è  risposto  fi- 
nora? —  L'edizione  fu  esaurita  in  pochi  giorni.  — 
«  Lo  so  anch'io.  —  Moltissimi  leggitori,  che  nonfu- 
«  rono  in  tempo  di  procurarsela,  la  chiesero  a  pre- 
ssato. —  Questi  furono  i  più  fortunati.  —  Molti 
«  altri,  per  averne  gli  esemplari,  li  pagarono  il  dop- 
«pio  e  il  triplo.  — E  i  più  sfortunati  furono  questi. 
«  —  Per  tacere  dei  Fogli  italiani,  quelli  dell'estero 
«  ne  fanno  gli  elogi.  —  Pesateli  bene.  —  Se  ne  pre- 
sparano  nuove  edizioni,  traduzioni,  incisioni,  pil- 
ature, ecc.  ecc.  —  Se  ne  son  fatte  per  libri  peggiori 
«di  questo.  —  L'autore  è  festeggiato  in  patria  e 
«fuori.  —  Davvero  che  ci  .ho  gusto.  —  Ma  lo  smercio, 
«  le  edizioni,  le  lodi  dei  giornali,  le  feste  degli  amici 
«  e  le  mense  reali  (l),  e  mille  altre  vie  di  farsi  largo 


(!)  Da  una  lettera  di  Giovanni  Pagni  (il  noto  Fari- 
nello Semoli  delle  baruffe  del  Monti  con  la  Crusca)  al  mar- 
chese Gian  Giacomo  Trivulzio,  scritta  da  Firenze  il  5  ot- 
tobre 1827,  tolgo  questo  brano  :  «  Ha  passato  in  Toscana, 
«tra  Livorno  e  Firenze,  una  cinquantina  di  giorni  il  ce- 
«  lebre  Manzoni,  decoro  di  questa  capitale.  Non  può  cre- 
«dere  quanto  sia  stato  onorato  e  distinto  dalla  maggior 
«  parte  dei  letterati  e  dei  nobili  più  culti,  che  si  son  dati 
«  la  premura  di  conoscerlo  e  di  ammirarne  il  carattere. 
«  S.  A.  R.  [il  Granduca  Leopoldo  II~\  lo  ha  invitato  alla 
«sua  mensa,  trattenendosi  molto  con  esso  lui  ed  ha  vo- 
«luto  mostrargli  in   persona  la  preziosa  ricchissima  sua 


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—      LXXVI1I      — 


«in  letteratura,  come  provano  che  il  soggetto  dei 
«Promessi  Sposi  sia  interessante?  —  E  la  pubblica 
«opinione  la  conti  tu  per  niente,  direte  voi?  —  Alle 
«  volte  molto,  alle  volte  poco,  dirò  io.  Non  ho  forse 
«udito,  in  Italia,  fischiare  ad  una  tragedia  dell' Al- 
«  fieri  ed  applaudire  a  Santa  Margherita  da  Cor- 
«tonaf  Preferire  al  Tasso  i  Lombardi  alla  prima 
«crociata?  Vilipendere  il  Chiabrera  ed  altri  sommi 
«poeti  ed  encomiare  le  Melodie  liriche?  Nausearsi 
«  delle  tragedie  dell'Alfieri  e  dilettarsi  perfino  di  Ser 
«  Gianni  Caracciolo?  (l).  —  Che  il  soggetto  dei  Pro- 
«  messi  Sposi  sia  interessante,  lo  prova  la  spontanea 
«  universal  confessione  di  quanti  lo  lessero  in  buona 


«  biblioteca.  Io  ho  avuto  il  giacere  di  far  compagnia  alla 
«  sua  famiglia,  che  avevo  conosciuta  a  Milano,  e  che,  do- 
«tata  di  morali  virtù,  è  degna  di  tanto  padre  di  famiglia». 
(l)  È  un'allusione  al  Sergianni  Caracciolo >  dramma  sto- 
rico del  prof.  G.  B.  De  Cristoforis,  Milano,  1826  ;  in-8°. 
del  quale  parlò  il  Tommaseo  nell'Antologia,  n.  LXIX, 
settembre  1826,  pp.  104-111.  Alle  Melodie  liriche  di  Sa- 
muele Biava  di  Bergamo  dette  «  gran  lode  »  il  Cantù  nel 
Ricoglitore.  Invece  la  Biblioteca  italiana  «  tolse  a  provare  che 
«  poteano  mostrarsi  ai  giovani  come  agli  Spartani  l' ilota 
«  ubriaco.  Il  colpo  era  diretto  a  sbalzarlo  d'impiego  :  ma  uscì 
«  una  risposta,  forte  sino  alla  violenza,  e  segnata  C.  C. ,  dove 
«  era  difeso  il  Biava  e  investito  il  suo  avversario.  Fu  atto 
«generoso,  perchè  quell'avversario  avea  in  mano  i  pro- 
accessi  e  potea  mandarlo  allo  Spielberg;  onde  va  data 
«  lode  al  difensore,  che  era  Carlo  Cattaneo».  Cfr.  Cantù  C. , 
Italiani  illustri  ritratti;  III,  79. 


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—     LXXIX      — 

«fede,  di  non  averne  potuto  sospendere  la  lettura  che 
«a  malincuore ',  e  con  impazienza  di  riprenderla.  — 
«  Gli  è  giusto  a  cotesti  lettori  di;  buona  fede  ch'io 
«  cerco  aprir  gli  occhi,  e  ch'io  grido  :  Signori  miei, 
«  non  è  tutto  oro  quel  che  luce  :  non  badate  all'ap- 
re parenza,  esaminate  la  sostanza  *  (*). 

Il  Romani,  benché  scrivesse  in  fine  al  terzo  de' 
suoi  articoli  :  «  sarà  continuato  » ,  non  proseguì  ;  tanta 
e  così  generale  fu  l'indignazione  che  si  levò  contro 
di  lui,  da  ridurlo  al  silenzio.  Con  rabbia  feroce  aveva 
dilaniato  i  Lombardi  alla  prima  crociata  del  Grossi  ; 
questa  nuova  rabbia  contro  il  romanzo  del  Manzoni 
era  la  seconda  di  cambio.  Gli  fu  detto  basta,  e 
intese. 

Chi  passò  il  segno  anche  più  del  Romani  nel 
malmenare  i  Promessi  Sposi  fu  l'ab.  Giuseppe  Sal- 
vagnoli  Marchetti  di   Empoli  (*)  ;  e  il  «  sunto  »  che 


C)  La  Vespa,  ann.  I  [1827],  pp.  17-20,  38-43  e  96-103. 

(2)  Nacque  V  8  settembre  del  1799  ;  involto  nelle  cospi- 
razioni del  'ai,  «  negò  denunziare  i  compagni  ed  ebbe  da 
«  Ferdinando  III,  Granduca  di  Toscana,  per  carcere  un 
«  convento  di  frati  in  paese  ameno,  di  dove  lo  trasse  a 
«  Roma  lo  zio  monsignore  [Giovanni']  Marchetti,  dotto  uo- 
«  mo,  ma  più  illiberale  del  Principe  lorenese,  che  fu  ben 
«  lieto  dell'esser  libero  da  quel  prigione  ».  Cfr.  Tommaseo 
N.,  Di  Giampietro  Vieusseux  e  dell'andamento  della  civiltà 
italiana  in  un  quarto  di  secolo,  memorie,  Firenze,  1863  ; 
p.  44.  <  Passati  gli  anni  successivi  in  privati  impieghi,  non 
«  però  alieni   da'  cari   studi,    in  Rimini  e  indi  a   Roma, 


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LXXX 


ne  fece  merita  d'essere  dissepolto.  «  Bel  modo  in 
«vero  d'istruire  le  donne!  Empir  loro  la  testa  di 
«stravaganze,  di  sciocchezze,  di  fatti  e  di   passioni 


«  appena  tornato  a  Empoli  nel  settembre  del  '29,  fu  sor- 
«  preso  da  febbri  violente,  che  si  volsero  in  tisi,  e  il  16 
«  decembre  tolto  a*  viventi  » .  Così  il  Montani  [Anto- 
logia,  n.°  108,  decembre  1829,  pp.  96-97],  che  aggiunge  : 
«  Ei  meditava,  dicesi,  un'opera  storica;  e  forse  per  con- 
«  sacrarvisi  avea  rifiutata  la  sopraintendenza  agli  studi  nel 
«  Seminario  di  S.  Marino,  offertagli  dal  celebre  Borghesi 
«  a  nome  de'  magistrati  di  quella  Repubblica. . . .  Ultimo 
«  scritto  di  lui,  e  soggetto  d'ancor  recenti,  né  punto  blande 
«  censure,  fu  quello  sugi*  Inni  del  Manzoni.  Io  tremava,  lo 
«  confesso,  al  pensiero  che  queste  censure  potessero,  nello 
«  stato  in  cui  egli  trova  vasi,  pervenire  al  suo  orecchio.... 
«  Innamorato  delle  forme  classiche,  siccome  quegli  che 
«  dall'  adolescenza  fu  sempre  co'  latini  e  co'  greci,  e  co* 
«  nostri  che  meglio  li  imitarono,  ove  gli  parve  di  trovar 
«  meno  di  queste  forme,  gli  parve  trovar  meno  di  poesia. 
«  Così,  trattandosi  di  teorie  (veggasi  la  maggior  parte  de' 
«  suoi  articoli  dell'  Arcadico)  ove  gli  parve  di  trovar  di- 
«  screpanza  da'  principii  de'  classici,  gli  parve  di  trovare 
«  opposizione  assoluta  da'  principii  del  gusto  ». 

Appunto  neir  Arcadico  [xxxvi  ;  305]  discorrendo  della 
versione  delle  Odi  di  Pindaro  fatta  da  Giuseppe  Borghi 
prese  a  mordere  «  la  miserabile  e  bislacca  e  torta  foggia 
«  di  metri  regalataci  con  tante  altre  cose  non  poetiche  e 
«  non  italiane  da  Alessandro  Manzoni  ».  Il  Borghi,  in  una 
lettera  a  Gaetano  Cioni,  stampata  nell'Antologia  [n.°  87, 
marzo  1828,  pp.  166-167],  sorse  a  difesa  del  Poeta;  ma 
riroso  critico,  duro  più  che  mai  in  quel  suo  giudizio, 
diede  fuori  lo  scritto  :  Intorno  gV  Inni  sacri  di  Alessandro 


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—      LXXXI      — 

«  fuori  del  naturale,  che  invece  d'insegnarti  il  vero 
«  e  di  dilettarti  col  bello,  col  buono,  ti  traggo.no  la 
«  mente  all'errore  e  il  cuore  al  disordinamento  delle 
«passioni,  insomma  alla  follia.  Che  utile  verrà  mai 
«  alle  donne,  se  in  uno  stile  bislacco  e  pieno  zeppo 
«  di  similitudini  sconce,  e  che  in  nulla  tengono  al 
«  paragone  ;  di  metafore  ardite  e  stravaganti  ;  di  pa- 
«  role  non  italiane,  e  proprie  di  un  cattivo  dialetto; 
«  di  frasi,  composte  d'idee  e  di  parole  fra  sé  con- 
trarie; che  utile,  io  dico,  ne  verrà  mai  alle  donne, 
«  se,  fra  tanta  sozzurra,  tu  mostrerai  a  colori  vivis- 
«  simi  un  parroco,  che  tradisce  per  paura  il  suo  alto 
«ministero;  un  signorotto,  che  ruba  le  fanciulle,  e 
«  fa  uccidere  chi  gli  dice  una  mezza  parola  in  con- 


Manzoni  dubbi *#  Giuseppe  Salva gnoli  Marchetti,  Roma 
1829.  Presso  la  Libreria  Moderna,  Via  del  Corso  n.°  348 
[In  Macerata,  presso  Benedetto  di  Antonio  Cortesi];  in-16.0 
di  pp.  xxiv-112.  A  questi  «biasimi  da  pedante»,  come 
li  chiama  il  Tommaseo,  Y  Arcadico  [xlii,  131]  applaudì 
di  gran  cuore.  La  Biblioteca  italiana  [tom.  55,  luglio  1829, 
pp.  1-20],  pur  non  menandogli  buone  tutte  quante  le 
censure,  concluse:  t  II  parlare  di  originalità,  di  nuova 
«  scuola,  d' ingegno  divino,  di  culto,  è  un  sostituire  l'en- 
«  tusiasmo  alla  ragione,  un  traviare  il  giudizio  dei  giovani 
«  e  dar  nascimento  a  quelle  tante  poesie  che  il  Manzoni 
«  non  vorrebbe  al  certo  aver  fatte  e  nemmanco  approvate, 
«  e  non  di  meno  si  credono  manzoniane  ».  Enrico  Mayer, 
peraltro,  nell'  Antologia  [n.°  104,  agosto  1829,  pp.  92-99] 
prese  «  a  difendere  »  (son  parole  del  Tommaseo)  «  non 
«  tanto  il  nome  dell'Italiano  poeta,    quanto  l'onore  d'I- 

Alrssandro  Manzoni,  -  P.  IL  / 


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—      LXXXII      — 


«trario;  un  cugino  di  questo  birbo,  che  a  furia  di 
«  scherni  più  e  più  lo  aizza  al  malfare  ;  un  zio,  che 
«  atterrisce  un  provinciale  di  cappuccini  e  lo  forza  a 
«  mandar  cento  miglia  lontano  un  buon  frate,  che 
«voleva  opporsi  al  nipote,  perchè  tanto  male  non 
«  mandasse  ad  effetto  ;  una  signora,  fatta  monaca  per 
«forza,  che  rompe  sfacciatamente  i  suoi  voti,  che 
«  fa  uscire  di  vita  la  sua  conversa,  la  quale  si  è  ac- 
«  corta  della  sua  tresca,  e  che  finalmente  consegna, 
«  perchè  ne  sia  fatto  scempio  d'iniquità,  a  quel  birbo 
«  signorotto  un'innocente  fanciulla,  a  lei  sotto  la  fede 
«  dell'ospitalità,  o  sotto  la  parola  d'oVore  affidata; 
«  una  fanciulla  imbecille,  che  trema  al  bene  e  al  male 
«  e  che  crede  di  aver  fatto  voto  di  verginità  perchè 


«  talia  »,  e  «  lo  difese  con  alto  sentimento  dell'arte  e  con 
«  facondia  cordiale  » .  Videro  pure  la  luce  le  Osservazioni 
di  un  giovane  italiano  sui  Dubbi  del  signor  Giuseppe  Sal- 
vagnoli  Marchetti  intorno  agli  Inni  sacri  di  Alessandro 
Manzoni,  Reggio,  tip.  Toreggiani  e  comp.,  mdcccxxx; 
in-16.0  di  pp.  230.  Sono  di  Luigi  Fratti,  che,  sebbene  pre- 
gato dalla  modestia  del  Poeta  a  «  mettere  da  banda  »  il 
lavoro,  per  consiglio  del  P.  Bottini  gesuita,  lo  diede  alle, 
stampe.  Cfr.  intorno  a  questa  controversia:  Gambini  Carlo, 
Richiamo  di  alcune  verità  manifestate  nel  1829  dal  Salva- 
gnoli  sugli  Inni  sacri  del  Manzoni,  Milano,  tip.  Galli  e 
Raimondi,  [1882]  ;  in-16. °  di  pp.  12.  —  Intorno  gì*  Inni 
sacri  di  Alessandro  Manzoni  dubbi  di  Giuseppe  Salva- 
gnoli  Marchetti,  ristampati  con  aggiunte,  informa  di 
dialogo,  fatte  da  Federico  Balsimelli,  Bologna,  tipografia 
pont.  Mareggiani,  1882;  in-16.0  di  pp.  360. 


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—      LXXXII1      — 


«si  è  messa  una  corona  al  collo;  uno  scimunito  la- 
«naro,  che  mentre  dovea  fuggire  il  potente  che  lo 
«inseguiva,  si  ubbriaca  in  un'osteria  e  a  tutti  rac- 
«  conta  dall'a  fino  alla  z  le  cose  sue;  un  signore, 
«anche  più  birbone  dell'altro,  che  fa  d'ogni  erba  un 
«  fascio,  e  che  per  le  lacrime  di  una  ragazza  (e  chi 
«  sa  quante  ne  aveva  rubate,  e  alle  lacrime  di  quante 
«mai  aveva  insultato!)  diviene  un  agnello?  Basterà 
«  forse  il  contrapporre  a  tanto  male  e  a  tanta  scioc- 
«  chezza  la  vera  carità  e  franca  di  un  buon  cappuc- 
«  cino,  e  l'angelico  carattere  di  un  santo  arcivescovo? 
«No  davvero:  che,  pur  troppo,  nella  gioventù  gli 
«esempi  del  male  fanno  sì  forte  impressione,  che 
«non  bastano  a  cancellarla,  cento  mila  volte  dupli- 
«cati  esempi  di  bene.  Ed  è  troppo  grave  errore  e 
«troppo  nociva  cosa  il  dipingere  agli  uomini,  e  spe- 
«cialmente  ai  giovani,  le  scelleraggini,  e  le  conver- 
«  sioni  al  bene  sì  repentine  e  sì  facili,  che  essi  pos- 
«sano  trarre  per  conseguenza:  —  Operiamo  pur 
«male  a  nostro  talento  quanto  ci  piace \  alla  fine, 
«  quando  saremo  stanchi ',  ci  volgeremo  a  Dio,  ed  egli 
«non  ci  ributterà,  purché  tenghiamo  sempre  sopra 
«  il  letto  l'immagine  del  Crocefisso  e  della  Madonna. 
«  —  Queste  son  dottrine  che  rovesciano  ogni  legge 
«  divina  e  umana  e  che  riducono  la  società  ad  una 
«selva  di  bruti,  oVe  chi  ha  più  denari,  e  in  conse- 
«  guenza  più  forza,  opprime,  strazia  e  divora  il  suo 
«fratello,  insultando  all'umana  giustizia;  persuaso 
«che  la  divina  non  ha  saette  per  coloro  che  hanno 


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—      LXXXIV      — 


:  fisso  in  cuore  di  ritornare   a  Dio  quando  saranno 
tutte  sbramate  le  voglie  e  tutte  spente  le  passioni. 
:  Oh  !  la  divina  morale  !  »  (l). 


III. 


Del  romanzo  si  occupò  anche  un  valentissimo  giu- 
reconsulto, il  prof.  Giovanni  Carmignani,  e  lo  fece 
soggetto  di  un  dialogo  tra  un  critico  e  un  giorna- 
lista (*).  Il  giornalista  loda  sempre  e  sempre  difende; 
il  critico  biasima  e  va  cercando  addirittura  il  pelo 


(*)  Questo  «  sunto  »  si  legge  in  una  recensione  che  il 
Salvagnoli  Marchetti  fece  delle  Prose  scelte  del  principe 
don  Pietro  Odescalchi,  e  che  inserì  nel  Giornale  Arcadico, 
tom.  42,  aprile-giugno  1829,  pp.  95-109.  La  recensione  e 
il  «  sunto  »  gli  attirarono  sulle  spalle  alcune  sferzate  della 
Biblioteca  italiana  [tom.  55,  luglio  1829,  pp.  29-31],  che  lo 
fecero  talmente  andare  in  furore,  da  scrivere  :  «  a  ingiurie 
«  si  fatte,  quali  sono  le  vostre,  meglio  si  converrebbe,  se 
«  fosse  lecito,  rispondere  con  la  spada  che  con  la  penna  ». 
Cfr.  Giornale  Arcadico,  tom.  cit.,  pp.  355-364. 

(2)  Nuovo  Giornale  de*  letterati,  di  Pisa,  tom.  XV.  Let- 
teratura, scienze  morali  e  arti  liberali  [1827],  pp.  215-232 
e  tom.  XVI.  Letteratura,  ecc.  [1828],  pp.  64-93. 


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—      LXXXV      — 

nelFovo;  finisce  però  col  ricredersi,  e  conchiude: 
«  Eccomi  pure  a  me  : 

il  finto 

mio  rigore  abbandono, 

«  E  sapete  perchè  mi  piacque  essere  rigoroso  !  perchè 
«  nel  romanzo  mi  punse  la  frase  derisoria  ch'io  c'in- 
«  contrai  contro  quel  Metastasio,  co'  versi  del  quale 
«chiudo  adesso  il  nostro  colloquio,  non  essendomi 
«sembrato,  che  l'anima  più  drammatica,  che  abbia 
«  natura  prodotta,  dovesse  deridersi  come  pittrice  di 
«eroi  paragonabili  a  gente  da  piazza  e  da  trivio. 
«  Del  resto,  io  sono  d'avviso,  che  il  romanzo  è  una 
«originale  e  classica  produzione;  che  son  sogni  e 
«  ciance  i  supposti  plagi  dal  Walter  Scott  nelle  Pri- 
«gioni  di  Edimburgo  e  ne'  Puritani  di  Scozia;  che 
«  l'A.  ha  finalmente  dato  un  romanzo  alla  prosa  ita- 
«  liana  e  ha  fatto  cessare  l'antico  e  giusto  rimpro- 
«vero  dell' Arteaga  allorché  nelle  sue  note  alla  dis- 
«sertazione  del  Borsa  rinfacciava  alla  Italia  di  non 
«avere  un  S.  Real  ed  un  Marmontel;  che,  prescin- 
«  dendo  da  certa  mancanza  di  più  verisimil  cemento 
«nella  struttura  dell'azione  del  romanzo,  il  merito 
«  della  esecuzione  vince  sempre  e  riscatta  qualunque 
«  più  minuto  difetto  dell'opera.  E  poiché  incominciai 
«col  mostrarmi  nemico  del  romanticismo,  ingenua- 
«  mente  vi  dico,  che  se  vi  ha  componimento  nel  quale 
«quel  genere  possa  essere,  onde  servire  all'effetto, 


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—      LXXXVI      — 


«  adottato,  egli  è  certamente  il  componimento  in  prosa 
«e  il  romanzo». 

De'  tanti  appunti  fatti  dal  critico  a'  Promessi 
Sposi,  uno  mi  sembra  degno  di  nota.  Toccando  della 
«  mala  voglia  »  con  la  quale  Lucia  «  si  presta  a  sor- 
«  prendere  il  parroco»,  trova  che  l'espediente  del  matri- 
monio clandestino  «  non  era  certo  peccaminoso  »,  ma 
«  di  tale  evidente  giustizia,  che,  prescindendo  dalla 
«  logica  dell'amore,  se  ella  ne  aveva  pure  per  Renzo, 
«  doveva  a  lei  dimostrarla  il  rifiuto  d'un  parroco  igno- 
rante, pauroso,  avaro  e  usuraio,  come  l'Autor  lo 
«dipinge».  Poi,  in  nota,  aggiunge:  «Le  denunzie 
«erano  già  fatte  e  il  matrimonio  non  poteva  dirsi 
«  più  clandestino,  non  rilevando  molto  la  sua  cele- 
«  orazione  in  luogo  non  sacro.  Sancez,  De  matrim., 
«lib.  Ili,  disp.  15,  n.  20.  E  qualora  le  denunzie  non 
«  fossero  state  fatte,  i  migliori  moralisti  son  concordi 
«  nel  dire,  che  quando  il  matrimonio  è  ritardato  dal- 
«  l' immaginevole  rifiuto  del  parroco,  non  è  pecca- 
«minoso  il  sorprenderlo,  per  contrarlo.  Paul.  Ga- 
«briel.  Antoine,  TheoL  MoraL  univ.  tractat.  de 
«  matrimonio,  §  13,  not.  3.  Ecco  dunque  un  romanzo, 
«  il  qual  poggia  tutto  sopra  un  errore  di  gius  cano- 
«  nico  e  sopra  un  error  di  morale  ». 

Al  Carmignani  è  però  sfuggito  un  altro  piccolo 
scappuccio  del  Manzoni.  Fa  del  P.  Cristoforo  il 
confessore  di  Lucia;  ora,  la  giovane  fidanzata,  nel 
1628,  non  poteva  confessarsi  da  lui,  perchè  «  i  cap- 
«  puccini  di  quei  tempi,  giusta  l' inibizione  delle  loro 


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—     LXXXVII       - 


«costituzioni,  tolta  solo  qualche  tempo  dopo,  non 
«  confessavano  assolutamente  persone  estranee  all'Or- 
«  dine  (*)  ». 

Un  critico  milanese,  a  cui  piacque  di  restare  ano- 
nimo 0),  prese  a  leggere  i  Promessi  Sposi;  e  seb- 
bene, durante  la  lettura,  non  venisse  «  giammai  sce- 
«mandosi»in  lui  la  «stima  grandissima»  che  aveva 
per  «  quel  celeberrimo  autore,  di  cui  tanto  è  vulgata 
«la  fama,  che  non  pur  nell'itala  terra,  ma  in  tutte 
«le  più  colte  nazioni  è  molto  apprezzato»;  nel  ro- 
manzo trovò  quella  «  imperfettibilità  »,  che  è  «  indi- 
«  visibile  compagna  de*  figliuoli  di  Eva  ».  Pensò 
dunque  di  «  schiccherare  un  foglio  d'alcuni  cenni  cri- 
«  tici  intorno  a  ciò  che  di  meno  pregevole  e  di  meno 
«consonante  al  rimanente  »  vi  aveva  rinvenuto; 
manifestando  nel  tempo  stesso  «  le  bellezze  an- 
«cora  dell'opera,  benché  con  minore  verbosità  dei 
«  difetti  ».  Lasciando  in  pace  le  «  bellezze  »,  diamo 
un  saggio  dei  «  difetti  »  che  la  fantasia  del  critico 
nota:  «Renzo  ed  Agnese  volevano   che  Lucia  par- 


(')  P.  Felice  da  Mezzana  cappuccino ,  Cenni  sul  P. 
Cristoforo  del  Manzoni,  Crema,  tip.  S.  Pantaleone  di  L. 
Meleri,  1899;  p.  6. 

(2)  Sui  Promessi  Sposi,  storia  milanese  del  sec.  XVH> 
scoperta  e  rifatta  da  Alessandro  Manzoni,  ragionamento 
critico  di  Don  Anonimo  >  autore  di  varj  opuscoli  pubbli- 
cati colle  iniziali  P.°  G.°  S-P.°t  Milano,  coi  torchi  di  Omo- 
bono  Manini,  dicembre  1827;  in-160.  di  pp.  64. 


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—      LXXXVIÌI      — 


«lasse  di  che  le  avvenne  con  don  Rodrigo:  Oravi 
«dirò  tutto ,  rispose  Lucia,  asciugandosi  gli  occhi  col 
«grembiale.  Se  l'A.  laddove  dipinge   Lucia  vestita 
«nel  giorno  nuziale  me  l'ha  presentata,   oltre  agli 
«  spilli  e  al  rimanente,  con  due  calze  vermiglie,  con 
«  due  pianelle  di  seta  a  ricami,  e  mi  ha  passato  sotto 
«  silenzio  il  grembiale,  io  fui  necessitato  di  attingere 
«  ch'ella  in  quel  dì  non  lo  cingesse.  Adesso  poi  veggio 
«  che  appunto  in  quel  medesimo   giorno,  e  non  an- 
«  cora  tramutata   di   panni,   si  terse   le   lagrime   col 
«  grembiale.  Com'è  questa  faccenda?...  O  Lucia  aveva 
«  il  grembiale,  o  Lucia  non  lo  aveva;  una  delle  due. 
«  Se  lo  aveva,  inavvedutamente  l'Autore:  i.°  ha  tra- 
«  scurato    di    farlo   conoscere  al  proprio  leggitore  ; 
«  2.0  gli  ha  dato  verun  prezzo,  facendogli  esercitare 
«  l'officio  del  moccichino,  mentre,  se  a  tutto  l'abito 
«  doveva  aver  consonanza,  saria  pur  valuto  qualche 
«  cosa.  Se  all'  incontro  non  lo  aveva  dapprima,  o  l' A. 
«  ha  preso  adesso  un  abbaglio,  o  fa  duopo  argomen- 
«  tare,  non  che  inserire  negli  annali,  che  =  uno  spi- 
«  rito,  nel  giorno  8  di  novembre  dell'anno  di  nostra 
«redenzione  1628,  ha  cinto   di  un  grembiale   Lucia 
«  Mondella,  mentr'essa  stava  per  favellare  di  don  Ro- 
«  drigo  con  Agnese  sua  madre  e  con  Renzo  Trama- 
«  glino  suo  innamorato  =  ».  Eccoci  ad  Agnese,  che, 
in  casa  del  sarto,  si  abbocca  col  Cardinal  Federigo 
e  svela  le  colpe  di  Don  Abbondio.  «  Udire  una  fem- 
«  niina  »  (nota  il  critico)  «  inveir  quasi,  e  dinanzi  al 
«  Cardinale,  e  contra  il  proprio   curato,   e  perchè  ? 


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—      LXXXIX      — 


«  perchè  questi,  onde  scansare  di  perir  tosto,  ha  pro- 
«  rogato  il  giorno  delle  nozze  :  ov'è  colui  che  non 
«saria  preso  da  escandescenza  contro  della  donna 
«  crudele,  e  non  cercherebbe  di  turargli  la  bocca  e 
«  di  troncargli  nella  strozza  le  parole,  ove  la  donna 
«  non  fosse  una  larva  che  lo  eludesse?  Ma  la  pas- 
«  sione  del  leggitore  vuole  pur  trovare  il  suo  sfogo  ; 
«  siedi'  essa,  riversandosi  almeno  sopra  le  pagine 
«  istesse,  che  ha  dinanzi,  chi  sa  quante  insieme  a 
«  quelle  ne  andranno  vittima  !  Il  mio  tirare  di  penna 
«  è  sicuramente  il  minor  male  ». 

Giuseppe  Veladoni  riconosce  «  che  le  menti  di 
«  tutti  gli  italiani,  e  si  potrebbe  anche  dire  di  molta 
«  parte  d'Europa,  restarono  sopraffatte  di  meraviglia, 
«  da  entusiasmo  e  da  vero  diletto  »  a  leggere  i  Pro- 
messi Sposi.  «Una  tanta  opera....  non  poteva  esser 
«  pensata  e  scritta  che  da  un  profondo  filosofo,  da 
«  un  vero  conoscitore  del  cuore  umano  e  da  una 
«  penna  condotta  dai  sentimenti  più  vivi  di  religione 
«e  di  patria....  Per  me,  credo  impossibile  ohe  siavi 
«  uomo  di  cuore  che  non  abbia  da  rimaner  commosso 
«  sino  alle  lagrime  in  più  e  più  luoghi  di  questa  mi- 
«  rabile  prosa. . . .  Essa  è  un  libro  che  non  perirà  mai  e 
«  farà  sempre  grande  onore  all'Italia  del  secolo  XIX. 
«  Ma  che?  Non  ha  dunque  difetti?  Sì,  ne  ha  :  ma  tutti 
«  compensati  da  una  straordinaria  bellezza  e  sodezza, 
«  così  di  pensieri,  come  di  stile,  considerati  anche  in 
«  sé  stessi.  Sono,  per  esempio,  moltissime  le  parti 
«  che  potrebbero  essere  capaci  di  utile  restringimento, 


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—    xc    — 

«e  queste  per  non  raffreddare  di  troppo  il  calore 
«  della  storia  principale.  Tale,  per  esempio,  la  lunga 
«conversazione,  di  cui  è  testimonio  fra  Cristoforo, 
«  quando  trova  a  tavola  don  Rodrigo.  Ma  non  è  forse 
«  quella  conversazione  medesima  una  pittura  vera  e 
«fedele  delle  follie  che  passavano  per  la  mente  dei 
«  grandi  d'allora?  Dissero  alcuni  altri,  che  la  storia 
«  di  Lucia  e  di  Renzo,  cioè  del  matrimonio  di  due 
«  villici,  è  cosa  troppo  piccola  per  farne  il  soggetto 
«  di  un'opera  di  tre  volumi,  ond'è  che  le  parti  ac- 
«  cessone  soffocare  dovevano  il  principale.  Ma  non 
«  è  forse  vero,  che  per  questo  appunto  che  il  matri- 
«  monio  di  due  villici  è  una  piccolissima  cosa,  tanto 
«  più  rie  risulta  quindi  l'evidenza  di  questa  gran  ve- 
«rità,  che  in  quei  bruttissimi  tempi,  mentre  i  grandi, 
«avendo  paura  uno  dell'altro,  si  rispettavano  a  vi- 
«cenda,  tutta  la  loro  prepotenza  andava  poi  a  sca- 
«  ricarsi  nell'oppressione  dei  piccoli?  Volete  sapere 
«dove  io  non  saprei  come  validamente  difendere  il 
«grande  autore?  Egli  è  sull'orrenda,  scandalosa  e 
«  ributtante  comparsa,  che  malgrado  l' industria  usata 
«dal  religiosissimo  autore  nell'accennare  le  cose,  fa 
«nullameno  in  quest'opera  quell' indegnissima  mo- 
«  naca.  Ben  vedo  e  conosco  che  lo  scopo  morale  del 
«  grand 'autore,  anche  in  questo  caso,  fu  quello  di 
«far  vedere  a  quali  orrendi  termini  riesca  una  vo- 
«  cazione  forzata,  e  quanto  grande  peccato  era  egli 
«  quello  delle  famiglie  di  un  tempo,  che  monacavano 
«le  figlie  per  viste  economiche  e  mondane   affatto. 


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—      XCI      — 

«  Ma  il  danno  e  lo  scandalo  di  quella  pittura  è  troppo 
«  potente  per  concepire  la  speranza  che  fra  cento  let- 
«tori  possano  li  novantanove  raccogliere  il  frutto 
«  dell'esempio,  e  non  rimaner  invece  amareggiati  dal 
«fiele.  E  se  anche  il  danno  non  fosse  che  per  uno 
«solo?»^). 

A  Torino,  Federico  Govean  così  salutava  la  com- 
parsa de'  Promessi  Sposi  :  «  Mancava  all'  Italia  un 
«  buon  romanzo  »,  che  potesse  rivaleggiare  con  quelli 
del  Lesage,  del  Cervantes  e  dello  Scott.  «  Sorse 
«quella  benedett'anima  del  Manzoni,  onore  e  lume 
«d'Italia,  e  non  contento  di  avere  tentato  una  forse 
«dannosa  rivoluzione  nella  drammatica,  e  di  aver 
«migliorata  la  lirica  moderna,  volle  far  dono  all'I- 
«talia  di  un  romanzo,  ma  di  un  vero  romanzo;  opera 
«degna  di  non  altro  ingegno  se  non  di  quello  che 
«  dettò  la  Pasqua  e  il  Cinque  Maggio  ».  L'avv.  Mo- 
desto Paroletti  notava  :  «  Un  cospicuo  letterato  pie- 
«montese,  che  già  ebbe  tentato  il  romanzo  allego- 
«rico,  aveva  quindi  intrapreso  di  battere  le  orme 
«di  Walter  Scott,  pubblicando  due  storiette,  scin- 
«tillanti  di  erudizione....  Nelle  altre  contrade  d'I- 
«  talia  parecchi  autori  stavano  in  procinto  di  calar 
«anch'essi  nell'arena  romanzesca  per  farvi  pompa 


(l)  Giornale  dell'  italiana  letteratura^  compilato  da  una 
società  di  letterati  italiani  sotto  la  direzione  ed  a  spese  di 
Nicolò  da  Rio,  tom.  LXV  della  serie  intiera,  serie  IV, 
tom.  I  [Padova,  tip.  del  Seminario,    1828],   pp.    265-268. 


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—      XCII      — 

«dei  loro  lavori,  fra  cui  giova  distinguere  il  Ca- 
«stello  di  Trezzo  e  la  Battaglia  di  Benevento;  e 
«quelli  in  cui,  fra  i  subalpini,  un  dottor  tortonese 
«faceva  pur  mostra  di  beir ingegno,  la  Sibilla  Oda- 
«leta,  cioè,  seguita  dalla  Fidanzata  Ligure.  Ma  la 
«  fama  loro  doveva  ecclissarsi  dal  romanzo  de'  Pro- 
«messi  Sposi  di  Alessandro  Manzoni:  perchè,  alla 
«chiarezza  d'un  tanto  nome,  ottenendo  quest'opera 
«la  maggiorità  de*  suffragi,  allettando  i  più  schivi, 
«  piacendo  ai  dotti  e  facendosi  leggere  da  ogni  per- 
«  sona,  fu  acclamata  qual  libro  popolare  in  Italia  ». 
Ne  loda  lo  stile,  la  scelta  e  la  condotta  dell'argo- 
mento. «  Fra  tutte  le  difficoltà  non  era  la  minore 
«  quella  dello  stile  in  cui  si  avesse  a  dettare.  Do- 
«  vendo  purgarlo  da  ogni  sentore  d'imitazione  stra- 
«  niera,  perchè  ai  dì  nostri  ogni  cosa  si  desidera  nelle 
«  prette  forme  italiane,  e  dovendo  nullameno  ren- 
«  derlo  grato  pei  modi  del  dire,  ognuno  può  giudi- 
«care  quanto  malagevole  fosse  tal  cosa;  mentre,  se 
«  importava  di  dare  il  bando  ai  modi  francesi,  per 
«  contro,  era  necessario  lo  schivare  quell'andamento 
«  stucchevole  che  presenta  all'orecchio  dei  più  lo  stile 
«  cruscante.  E  questa  può  affermarsi  essere  stata  vittoria 
«  grande  riportata  dal  Manzoni,  perchè  lo  stile  del  suo 
«  romanzo  è  schietto  italiano,  senza  macchia  d'affetta- 
«  zione;  è  classico  senza  arcaismi  ;  ed  è  purgato,  non 
«  senza  una  qualche  tinta  di  popolarità,  che  molto  ag- 
«  giunge  alla  verità  de'  ragguagli.  Stile  insomma  da 
«  poter  servire  di  modello  a  chiunque  voglia  scrivere 


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—    xeni    — 

«romanzi  italiani  ».  Dopo  averne  con  ammirazione 
schietta  e  sentita  rilevato  le  grandi  bellezze,  tocca  de' 
difetti.  «  È  danno  che  questo  libro,  il  quale  da  ro- 
«  manzesco  può  pigliar  nome  di  storico,  nelle  parti  più 
«  importanti  diventi  prolisso  di  soverchio  e  alquanto 
«  noioso.  A  lato  delle  inimitabili  descrizioni  rapide, 
«  vive  e  ben  accennate,  come  quelle  del  lago  di  Lecco, 
«della  notte  in  cui  battevano  i  bravi  condotti  dal 
«  Griso  per  rapire  gli  sposi,  ed  imprendevano  questi 
«a  sorprendere  il  parroco,  e  poi  del  muoversi  del 
«  P.  Cristoforo  da  Pescarenico,  e  dello  scappare  Renzo 
«  di  là  dall' Adda,  riprova  il  lettore  un  fastidio  grande 
«  per  le  cotanto  prolungate  e  sminuzzate  due  descri- 
«  zioni  della  carestia  e  della  pestilenza  »  (*). 

Il  prof.  Giuseppe  Chiappa,  dell'  Università  di 
Pavia  (2),  dice  che  «  i  così  detti  romanzi  istorici  sono 
«  una  sì  fatta  contraffazione  dell'  istoria  che  non  pos- 
«sono  venir  lodati  di  giusta  e  sincera  lode.  Quel 
«mescere  il  reale  all'immaginario,  quel  confondere 
«il  vero  al  falso,  e   il  naturale  al  fittizio,  non   può 


(')  Rivista  letteraria  dei  libri  che  si  stamparono  in  To- 
rino negli  anni  1827  e  1828,  Torino,  per  gli  eredi  Botta, 
1829;  pp.  119-120  e  138-146. 

(2)  Chiappa  G.,  Sui  Romanzi  in  generale  ed  in  parti- 
colare  sul  Ger olimi  ossia  Nano  di  una  Principessa  del- 
l'autore della  Sibilla  Odatela  ;  in  La  Minerva  Ticinese  > 
giornale  di  scienze ì  lettere >  artiy  teatri  e  notizie  patrie, 
fascicolo  37,  16  settembre  1829;  pp.  635-637. 


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—      XCIV      — 

«  dare  che  una  mostruosa  opera  e  quasi  ibrida  e  ba- 
«  starda  ».  Soggiunge  però  :  «  ma  ove  la  finzione  sia 
«ben  innestata  sul  fatto  istorico,  e  che  quella  non 
«sia  che  un  colore,  o  mezzo,  per  isvolgere  e  mo- 
«  strare  lo  stato  reale  delle  cose,  serbando  in  ogni 
«luogo  le  leggi  della  convenienza  e  del  verisimile, 
«  ne  potrà  risultare  un  utilissimo  lavoro.  E  tale  è  il 
«celebre  romanzo  del  Manzoni».  Ne  tesse  le  lodi, 
ne  segnala  le  bellezze  ;  poi  conclude  :  «  Nessun  altro 
«  romanzo  venuto  dopo,  ha  potuto  appena  toccare  a 
«  un  terzo  della  gloria  durevole  del  romanzo  di  Ales- 
«  Sandro  Manzoni.  Lo  stile  poi  si  è,  quanto  si  ri- 
«  chiede,  convenevole  al  soggetto.  Egli  è  vivo,  ani- 
«  mato,  franco  e  pieno  di  forza.  Solo  si  fa  desiderare 
«più  purgata  la  lingua.  Ma  oltreché  finge  l'A. 
«averlo  ridotto  da  una  cronaca  di  que'  tempi  cor- 
«  rotti,  egli  non  ha  poi  volto  lo  ingegno  che  alla 
«chiarezza  e  all'evidenza,  schifando  ogni  artificio- 
«sità  e  leziosaggine.  Ed  in  ciò  è  ottimamente  rie- 
«  scito,  conciossiachè  nulla  siavi  che  in  quanto  a  in- 
«  telligenza  abbia  mai  dato  luogo  a  lagnanza.  Ed  in 
«ciò  egli  ha  conseguito  il  principale  scopo  di  ogni 
«scrittura,  quello  di  rendersi  intelligibile  e  chiaris- 
«  simo  a  tutti  »  (*). 


(*)  Anche  Trussardo  Caleppio  volle  scoccare  i  suoi  ful- 
mini contro  il  nuovo  romanzo,  censurandolo  acerbamente 
nell5  Almanacco  critico  pel  1830  di  un  militare  in  ritiro, 


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—    xcv    — 

Due  de'  nostri  esuli,  Giovita  Scalvini  e  Pietro 
Giannone,  presero  a  esaminare  il  romanzo  del  Man- 
zoni. Giuseppe  Pecchio  scriveva  da  Brighton  il  io  gen- 
naio del  '30  a  Antonio  Panizzi  :  «  La  Rivista  ita- 
«  liana  si  stampa.  {Pellegrino]  Rossi  ha  scritto  Tln- 
«  troduzione,  Scalvini  un  bellissimo  articolo  sui  Pro- 
«  messi  Sposi,  [Giovanni]  Arrivabene  uno  su  gli 
«  Istituti  de'  poveri  de'  Paesi  Bassi.  Si  spera  di 
«  avere  dei  collaboratori  tedeschi  di  primo  grido.  Si 
«avranno  traduzioni  dallo  svedese.  Quindi  mi  si 
«scrive  che  passò  stagione  di  osservazioni,  e  giunta 
«  è  quella  di  dar  spalla  all'impresa.  E  vero,  e  biso- 
«gnerebbe  sostenerla  con  decoro  almeno  per  un 
«  anno  »  (l).  La  Rivista  ebbe  vita,  ma  per  due  mesi 
soltanto,  e  vi  fece  la  sua  comparsa  Particolo  dello 
Scalvini  (2);  addirittura  «bellissimo»,  anzi  quanto 
di  meglio  venne  allora  pensato  e  scritto  intorno  a* 
Promessi  Sposi.  E  fu  giustizia  il  toglierlo  dalla  di- 


Milano, Manini,  1829  ;  in-160.  Cfr.  Robecchi,  L.  Questione 
classico  romantica,  saggio  d'una  bibliografia  ;  in  Poesie 
di  Carlo  Porta  rivedute  sugli  originali  e  annotate  da  un 
milanese y  Milano,  tip.  Ditta  Wilmant  di  G.  Botili! li  e  C, 
1887;  p.  707. 

(1)  Lettere  ad  Antonio  Panizzi  dt  uomini  illustri  e  di 
amici  italiani  (1823-1870)  pubblicate  da  L.  Fagan,  Firenze, 
Barbèra,  1880;  p.  80. 

(2)  Dei  Promessi  Sposi  di  Alessandro  Manzoni.  Arti- 
colo primo,  Lugano,  coi  tipi  di  Gius.  Rnggia  e  comp., 
1831;  in-8°.  di  pp.  56.  E  firmato:  A.  H.  J. 


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—      XCVI      — 

menticanza  colpevole  in  cui  giaceva,  il  ristamparlo 
e  il  divulgarlo  (l)  a  onore  della  critica  e  del  nome 
italiano. 

Il  Giannone  nel  giornale  L'Esule,  che  incominciò 
a  stamparsi  a  Parigi  nel  settembre  del  '32  con  a  lato 
la  traduzione  in  francese;  e  lo  dirigevano  Giuseppe 
Cannonieri,  Angelo  Frignani  e  Federigo  Pescantini; 
non  si  limitò  a  parlare  del  romanzo,  trattò  anche  del 
Carmagnola  e  dell'  Adelchi,   de*    Carmi  e  degl'Inni 


(l)  Fu  ristampato  a  Brescia  nel  1883  dallo  Stabilimento 
stereo-tipografico  di  G.  Bersi  e  C;  in-8°.  di  pp.  46.  Nella 
breve  avvertenza  è  detto:  «  Il  manoscritto  sopra  del  quale 
«  fu  condotta  la  presente  edizione  è  una  copia  precisa, 
«identica  air  autografo  lasciato  dell'esimio  autore;  non 
«  già  copia  od  estratto  da  quei  pochissimi  esemplari  che 
«vennero  alla  pubblica  luce  l'anno  1833»  {correggi: 
1831]  «  in  un  periodico  mensile,  compilato  da  molti  esuli 
«italiani  a  Parigi;  periodico  ch'ebbe  vita  di  più  poco 
«  che  due  mesi  e  dal  quale  furono  ritratte  poche  copie 
«  per  regalo  ad  amici  e  parenti  ».  Sebbene  «  compilato 
«  da  molti  esuli  italiani  a  Parigi  »,  però  si  stampava  a 
Lugano  coi  torchi  di  Giuseppe  Ruggia.  Negli  Scritti  ai 
Giovita  Scalvini  ordinati  per  cura  di  N.  Tommaseo, 
con  suo  proemio  e  altre  illustrazioni,  Firenze,  Felice  Le 
Monnier,  1860;  in-16.0  di  pp.  xvi-400,  non  fu  riprodotto 
l'articolo  «  bellissimo  »  sul  Romanzo  del  Manzoni,  benché 
promesso  dall'editore  stesso  nella  prefazione  :  «  De'  lavori 
«  suoi  critici  recherò  quasi  per  intero  le  considerazioni 
«  sull'Ortis  del  Foscolo,  e  quelle  sui  Promessi  Sposi,  degne 
«dell'opera».  Questo  articolo,  col  titolo:  Considerazioni 


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—      XCVII      — 

sacri  (*).  Del  romanzo  ne  dette  un  largo  sunto,  poi 
pigliò  a  farne  Tesarne.  «  Un  lettore  difficile  »  (son 
sue  parole)  «  esigerebbe  forse  un  piano  più  magnifico, 
«  e  condizione  e  caratteri  meno  comuni  ne'  due,  che 
«  dan  pure  il  titolo  all'opera.  Le  avventure  de'  pro- 
«  messi  sposi  son  esse  le  principali,  a  cui  s'aggiun- 
«  gono  come  episodi  il  cappuccino  Cristoforo,  la  mo- 
«naca,il  moto  de'  Milanesi,  l'innominato,  il  cardi- 
«nale,  la  fame,  il  passaggio  d'un  esercito,  la  peste 
«e  in  generale  la  condizion  di  que'  tempi,  o  vice- 
«  versa ?  Renzo  che  è?  Un  filatore  di  seta,  onestis- 
«  simo  giovine  per  altro,  e,  come  dice  egli  stesso,  un 
«buon  figliuolo  ;  ma  né  distinto  per  altezza  di  sensi, 
«  né  per  vigor  di  carattere,  né  per  altro  che  dia  lu- 
«stro  e  importanza.  Interessa,  non  per  sé,  ma  per 
«  la  persecuzione  di  Don  Rodrigo.  Ne'  moti  di  Mi- 
«  lano  soltanto  acquista  qualche  valor  che  gli  è  pro- 
«  prio,  e  nella   costanza   del   suo   amor    per  Lucia. 


critiche  scritte  nel  1829  da  Giovita  Scalvini,  venne  pre- 
messo all'edizione  de'  Promessi  Sposi  fatta  a  Firenze  nel 
1884  da'  Successori  Le  Monnier,  ecc. 

(*)  Giannone  P.,  Delle  opere  di  Alessandro  Manzoni; 
in  U  Esule  >  giornale  di  letteratura  italiana  antica  e  mo- 
derna —  Tomo  primo.  —  Parigi,  dai  torchi  di  Pihan  De- 
laforest  (Morinval),  me  des  Bons-enfants,  34,  M.  DCCC. 
XXXIII;  pp.  262-302.  La  traduzione  in  francese,  che  l'ac- 
compagna, è  del  sig.  Lemonier,  autore  dei  Souvenir s 
d'Italie. 

Alessandro  Manzoni,  -  P.  II.  g 


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—      XCVIII      — 

«  Questa  poi  è  anche  minore  di  lui,  e  se  non  si  tro- 
«  vasse  nel  castello  dell'innominato,  ov'è  bella  vera- 
«  mente  e  per  dolore  ineffabile  e  per  isventura,  la 
«sua  rassegnazione  abituale  ci  parrebbe  mancanza 
«d'ogni  umana  affezione.  Il  medio  evo  offriva  av- 
venimenti più  splendidi  e  caratteri  d'un'energia 
«  che  spaventa,  per  così  dire.  Che  importa  che  nel- 
«  l'avvilimento  in  cui  sono  gl'Italiani,  sappiano  che 
«  altre  volte  sono  stati  così,  per  trovare  un  esempio 
«e  una  scusa  forse  alla  loro  ignavia  presente?  Nel 
«vedersi  presentare  un  quadro  d'oppressione  attiva 
«da  una  parte  e  di  passiva  stupidezza  dall'altra,  si 
«consoleranno  forse  perchè  que'  tristi  tempi  passa- 
«  rono,  e  soffriranno  quindi  pazientemente  i  mali  che 
«rimangono  loro,  perchè  in  cumulo  minore?  Ma  che 
«  han  mai  guadagnato  ?  I  pessimi  de'  mali  che  gra- 
«van  sempre  sovr'essi,  terribili,  insistenti,  mortali: 
«la  divisione  e  '1  dominio  straniero.  Ecco  ciò  che 
«  un  lettore  severo,  un  lettore  che  riferisca  ogn' opera 
«  alla  gloria  e  all'utilità  della  patria,  le  uniche  non 
«usurane  e  generose  davvero,  potrebbe  osservare 
«  riguardo  alla  scelta  del  soggetto  ;  ma  questa  scelta 
«  non  era  nell'arbitrio  dell'A.  per  la  difficoltà  de' 
«  tempi  e  de'  luoghi,  e  gli  è  costato,  ne  portiam  ferma 
«opinione,  mille  volte  più  sforzo  d'ingegno,  il  cer- 
«  cario  e  il  combinarlo  così,  che  se  avesse  fatto  al- 
«  trimenti.  Discutiamo  dunque  sul  piano  com'è,  senza 
«  cercare  più  oltre.  Il  sig.  Manzoni  volendo,  e  noi 
«ne  siamo  convinti   non  solo,  ma  certi,  anzi  tratto 


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—      XCIX      — 

«  ci  proverebbe,  non  che  così  dovess'essere,  ma  che 
«  poteva  essere  solamente  così. 

«Questo  fatto,  sì  breve;  semplice  e  chiaro,  ha 
«  però  tali  episodi  e  schiarimenti  così  allungati,  che 
«  distraggon  l'attenzione  da  esso.  Quanto  a  questi 
«  ultimi,  l'insistere  che  si  fa,  e  nel  bel  principio  del- 
«  l'opera,  su  la  inutilità  de'  decreti  contro  i  bravi, 
«  basterà,  crediamo,  a  provare,  che  le  digressioni  non 
«son  sempre  né  felici,  né  brevi.  Quanto  a'  primi, 
«  quello  della  monaca  di  Monza  fa  accorgere  che 
«  dovria  finire  molto  più  presto.  Gli  altri,  la  fame 
«cioè,  e  il  guasto  prodotto  dal  passaggio  degl'im- 
«periali,  e  la  descrizione  della  peste,  nel  tempo 
«  stesso  che  mostran  la  forza  d'ingegno  e  di  pennello 
«  di  chi  ha  saputo  dipingerli  con  sì  terribile  evidenza, 
«  potrebbero  spingere  su  le  labbra  a  più  d'uno  la 
«  breve,  ma  calzante  sentenza  :  non  erat  hic  locus.  Le 
«  pagine  che  riguardano  il  cardinal  Federigo  sono 
«  protratte  in  modo  da  farci  credere  che  l'autore  te- 
«  messe  che  quel  prelato  non  fosse  conosciuto  abba- 
te stanza,  e  ne  faccia  perciò  il  panegirico;  e  quelle 
«  poi  ove  si  parla  del  carattere  e  degli  studi  di  don 
«  Ferrante,  sembrano,  e  quasi  per  confessione  dello 
«  stesso  scrittore,  veramente  perdute.  Ma  vi  sono  due 
«  altri  episodi,  due,  l'uno  per  la  brevità,  l'altro  pel 
«legame  immediato  alla  narrazion  principale,  en- 
«trambi  per  verità  di  colori  e  per  interesse  fortis- 
«  simo,  la  cui  bellezza  è  rara  veramente  e  mirabile; 
«  gli  eventi  del  P.  Cristoforo  quand'era  al  secolo,  e 


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—    e    — 

«  l'apparizione  sulla  scena  dell'innominato.  Peccato 
«che  il  primo,  a  cui  ci  eravamo  tanto  affezionati, 
«  scompaia  quasi  al  cominciare,  e  non  ritorni  che  al 
«finir  dell'azione;  e  l'altro,  il  di  cui  carattere  è  gi- 
«gantesco  senz'essere  esagerato,  non  produca  qual- 
«  che  cosa  di  veramente  straordinario  e  solenne  come 
«l'indole  sua!  Nella  storia  ciò  accade  sovente;  ma 
«nel  romanzo,  e  sia  pure  storico  quanto  vuoisi,  lo 
«  scrittore  non  ha  il  privilegio  d'intendere  con  ogni 
«sforzo  all'effetto  dell'arte? 

«  Da  questo  rapido  cenno  delle  cose  che  ci  sem- 
«  brano  mende  nell'esecuzione  del  piano  tale  qual'è, 
«  può  indursi  che  lo  stile  sia  generalmente  diffuso  ; 
«  e  difatti  a  noi  pare  così.  In  quanto  a  lingua,  l'A. 
«  ha,  più  spesso  che  non  si  vorrebbe,  fatt'uso  di  pa- 
«role,  d'idiotismi  e  di  maniere  proprie  del  luogo 
«  ove  l'avvenimento  si  compie.  Omero  formava  la  sua 
«  lingua  maravigliosa  da'  differenti  dialetti  di  Grecia, 
«  Dante  da  quelli  d'Italia,  ma  questi  due  esseri 
«  straordinari  erano  i  primi.  Gli  altri  grandi  venuti 
«dopo  di  loro,  non  l'hanno  più  fatto,  e  la  ragione 
«n'è  chiara;  non  ne  avevan  bisogno,  né  credevano 
«  o  bello  o  necessario  tentare  ciò  che  i  tempi  non 
«concedevano  più.  Potrebbe  aggiungersi  anche,  e 
«  senza  tema  d'errare,  che  la  continua  tendenza  ad 
«  essere  facile,  e  stretto  il  più  che  si  può  alla  natura 
«  delle  cose,  abbia  fatto  trapassare  d'un  salto  l'A. 
«su  certi  modi,  che  appartengono  alla  lingua  par- 
«  lata  sì,  ma  non  sempre  alla  grammaticale. 


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—      CI      — 

«  Rispetto  allo  scopo  morale  di  questo  lavoro,  a 
«  noi  sembra  che  sia  e  la  purità  del  costume  e  la 
«  sommissione  ai  decreti  della  Provvidenza  suprema  ; 
«  due  grandi  insegnamenti  ambedue,  il  primo  d'una 
«  utilità  generale  e  che  balza  agli  occhi  d'ognuno, 
«  perchè  limpido  come  la  luce  del  sole  ;  il  secondo 
«  d'un  immenso  conforto  nelle  sventure,  allorché  sono 
«  consumate  e  irreparabili,  ma  che  può  avere  un'in- 
«  fluenza  rovinosa  e  veramente  fatale  nell'atto  in  che 
«  le  sventure  ti  sovrastano  o  percuotono,  essendo  al- 
«  lora,  com'è  difatti,  soggetto  a  tante  interpretazioni 
«  ed  applicazioni  quanti  sono  i  caratteri  degli  uomini, 
«  i  loro  interessi,  le  passioni,  le  circostanze  di  fami- 
«  glia,  di  patria,  di  religione,  etc.  etc.  Perchè,  quale 
«  sulla  terra  può  dirti  sicuramente  :  —  Questa  sven- 
«  tura  ti  viene  dal  cielo,  e  convien  rassegnarviti  ; 
«  questa  no,  e  puoi  e  devi  lottare  contro  di  essa?  — 
«  È  forse  che  la  lunga  tolleranza  de'  popoli,  riguardo 
«agli  atti  crudelissimi  e  nefandi  della  prepotenza 
«feudale  e  dell'inquisizione,  deriva  tanto  da  questo 
«  elemento  astutamente  impiegato,  quanto  dal  timore 
«  che  si  ha  d'una  potenza  stabilita,  sia  pure  qualun- 
«que,  e  dalla  naturale  tendenza  degl'individui  alla 
«calma,  ove  il  moto  offra  un  evidente  pericolo.  Gli 
«ambiziosi  vestano  poi  il  manto  dell'umiltà  o  quel 
«degli  onori,  l'hanno,  e  spesso  pur  troppo!  usato  a 
«lor  fini  privati:  in  altre  parole,  l'altare  ed  il  trono, 
«o  meglio  ancora,  il  potere  spirituale  ed  il  tempo- 
«  rale,  i  quali  per  quanto  altro  possa  parere  a'  poco 


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—    cu    — 

«veggenti,  si  collegano  in  essenza  fra  loro,  e  sono 
«per  ogni  società  costituita  quello  che  l'anima  e  il 
«  corpo  sono  per  l'uomo,  hanno  fatto  di  esso  ciò  che 
«  un  avaro  fa  d'una  mina  d'oro  o  d'argento.  In  fine 
«  è  tal  arma  che,  secondo  la  man  che  la  tratta,  può 
«essere  spada  e  scudo  a  vicenda,  può  salvare  un 
«  popolo  dall'infamia  del  servaggio,  e  farvelo  piegare 
«  vilmente.  Ma  ne'  Promessi  Sposi  quest'elemento  è 
«esso  presentato  nella  sua  parte  buona  o  cattiva? 
«  Noi  oseremmo  dare  un  tal  giudizio,  quando,  non 
«per  induzione  soltanto,  ma  per  esperienza  potes- 
«  simo  veramente  sapere  qual'è  l'impressione  che  la- 
«scia  nel  comun  de'  lettori.  Certo  è  intanto  che 
«  nelle  circostanze  e  ne'  tempi  che  corrono,  la  virtù 
«della  rassegnazione  non  è  quella  che  occorre  alla 
«nostra  povera  patria:  la  sua  sventura  può  essere 
«  combattuta  e  vinta  da  una  volontà  forte  e  tenace, 
«  temprata  dalla  prudenza.  Che  se  niai,  oltre  lo  scopo 
«che  abbiam  creduto  dovere  accennare,  si  dicesse 
«che  v'è  quello  anche  di  far  conoscere  i  tempi  e 
«  promovere  il  debito  abborri  mento  contro  i  privile- 
«giati,  un  giudice  severo  risponderebbe  nel  primo 
«caso,  che  un  tale  ufficio  tocca  alla  storia;  e  nel 
«  secondo,  che  è  prodezza  intempestiva  l'aprire  ferite 
«  in  un  corpo  già  da  tanto  tempo  cadavere.  La  feu- 
«dalità,  questo  mostro  immanissimo,  non  somiglia 
«all'idra  della  favola:  le  sue  teste  cadute  né  si  ri- 
«produsser  finora,  né  si  riprodurranno  mai  più. 
«  Presentato  ed  accennato  così  il  linguaggio  della 


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—      CHI      — 

«censura,  ci  si  permetta  ora  passare  alla  seconda 
«  parte  della  critica,  non  meno  utile  e  più  piacevole 
«  a  un  tempo  ;  né  faccia  maraviglia  il  vedere  lodato 
«ciò  che  ci  è  parso  finora  dar  luogo  a  qualche  ri- 
«  gida  osservazione  ;  non  v'ha  cosa,  che  non  possa 
«offrire  due  aspetti.  E  primamente  nella  scelta  di 
«  due  protagonisti  volgari,  il  sig.  Manzoni  ha  mo- 
«  strato  avere  un  concetto,  più  sensato  non  solo,  ma 
«più  generoso  ed  umano  della  generalità  de'  ro- 
«  manzieri  presenti.  Perchè  mostrare  di  credere  che 
«qualche  classe  della  società  solamente  meriti  la 
«menzione  e  gli  onori  dell'eloquenza,  ed  il  resto, 
«  che  pure  è  base  di  tutto  e  fa  vivere  queste  classi 
«  medesime,  debba  essere  condannato  all'oblio? Strana 
«  contradizione  questa  con  lo  spirito  del  secolo  e  col 
«  vantare  che  fanno  i  più  celebrati  scrittori  la  dignità 
«  dell'umana  natura,  la  quale  col  fatto  paiono  restrin- 
«gere  poi  a  sola  qualche  frazione  di  uomini!  Ne' 
«Promessi  Sposi  le  debolezze,  gli  errori,  i  vizi  e  i 
«delitti  de'  potenti  si  presentano  tai  quai  sono,  e 
«  non  con  quell'aria  d'amabile  storditaggine,  d'inte- 
«  resse  e  di  grandezza  quasi,  di  cui  li  adornano  e  li 
«accarezzan  sì  spesso  gli  altri  scrittori  di  simil  ge- 
«nere;  i  quali,  magnificando  i  tempi  feudali,  non 
«  sembrano  neppur  dubitare  che  posson  mettere  cosi 
«in  forse  il  loro  titolo  di  promotori,  sostenitori  o 
«  fautori  almeno  de'  dritti  imperscrutibili  che  la  na- 
«  tura  ci  accorda.  Ma  tranne  il  romanziere  Britannico, 
«  che  l'ha  fatto  con  cognizione  di  causa,  e  con  animo, 


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—      CIV      — 

«per  quanto  esser  mai  possa,  deliberato,  gli  altri, 
«  illusi  non  sappiamo  eia  quale  malia,  hanno  seguito 
«la  corrente,  senza  pensare  ad  altro  scopo  che  alla 
«  novità  ;  ma  speriamo  che  siano  per  avvedersene  in 
«  tempo.  Il  nostr' A.  non  è  caduto  in  tal  fallo  ;  e  per 
«  certo,  leggendo  quest'opera,  nessuno  risentirà  mai 
«  la  più  picciola  brama  d'essere  distinto  da'  suoi  fra- 
«  telli  per  qualche  privilegio  mostruoso,  ereditato  od 
«  usurpato  sovr'essi. 

«  Intanto  la  ricchezza,  la  varietà,  l'evidenza  delle 
«  descrizioni,  sono  pregi  che  distinguono  quest'opera 
«  dal  principio  alla  fine.  Gli  episodi,  quelli  stessi  che 
«sono  meno  giustificabili,  offrono  tale  abbondanza 
«di  cose,  di  pensieri,  d'interesse,  e  tanta  conoscenza 
«  del  cuore  umano,  che  appunto  per  questo  distrag- 
«  gono  dall'azion  principale.  Commove  e  desta  un'an- 
«sia  crescente  il  vedere  con  quali  malizie  finissime 
«  la  religiosa  di  Monza  sia  tratta  a  compiere  l'intiero 
«  sacrifizio  di  sé,  e  non  si  può  a  meno,  nel  condan- 
«nar  le  sue  colpe,  di  sentirne  un'affannosa  pietà. 
«  L'ammutinamento  de'  Milanesi  è  descritto  sì  viva- 
«  mente,  le  particolarità  ne  sono  sì  vere,  che  vedi 
«agitartisi  tutta  quella  calca  su  gli  occhi,  ne  distin- 
«gui  i  volti,  ne  ascolti  la  voce.  L'ebbrietà  perfino 
«  del  povero  Renzo  non  ti  percuote  meno  dell'astuzia 
«per  la  quale  il  bargello  riesce  a  carpirgli  il  nome 
«  di  bocca.  Ma  ciò  che  supera  ogni  lode  è  Lucia  nel 
«castello  dell'Innominato.  L'immagine  d'un  essere 
«debole  ed  innocuo  di  fronte  ad  un  altro  sì  formi- 


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—    cv    — 

«  dabile  e  spietato,  e  la  vittoria  del  primo,  racchiu- 
«  dono  in  sé  un  profondissimo  senso  di  morale,  che 
«fa  palpitare  d'un  impeto  di  speranza  e  d'ardire, 
«  ed  eleva  ogni  anima  ben  nata.  I  pensieri  di  quel- 
l'uomo feroce,  que'  pensieri  che  lo  traggono  a 
«disperare,  e  l'altro  che  gli  arresta  la  mano;  tutta 
«  quella  notte  infine  offrono  un  tal  che  di  sì  terribil- 
«  mente  vero,  misterioso  e  solenne,  che  a  noi  sembra 
«poco  il  dire  che  negli  altri  lavori  di  simil  genere 
«non  v'ha  brano  che  possa  paragonarsi  a  questo. 
«  Né  si  creda  che  dopo  un  tal  quadro  la  fantasia  e 
«  il  cuor  del  poeta  mostrino  esaurimento  o  stan- 
«chezza.  La  descrizione  della  fame,  e  più  ancora 
«  quella  della  peste,  fanno  veracemente  rabbrividire. 
«  In  quest'  ultima  il  sogno  di  don  Rodrigo  nella 
«notte  stessa  che  n'è  colpito,  basterebbe  esso  solo 
«a  far  conoscere  quanto  l'A.  senta  avanti  nell'arte 
«somma  che  segue  sì  dappresso  la  natura  senza 
«scoprirsi;  e  la  madre  che  reca  la  sua  bambinella 
«morta  a'  monatti,  è  tal  misto  di  desolazioni,  di 
«  pietà,  di  amore,  di  dolor  rassegnato,  che,  breve  e 
«  toccato  di  volo,  com'è,  ti  si  scolpisce  indelebilmente 
«in  pensiero.  Questi  due  brani  stanno,  a  parer  no- 
«  stro,  con  vantaggio  in  faccia  a  tutto  lo  splendore, 
«  l'abbondanza  e  la  verità  di  quella  vivace  e  straor- 
«dinaria  pittura.  I  caratteri  sono  disegnati  a  tratti 
«  sì  giusti  ed  arditi  e  sostenuti  con  sì  gran  maestria, 
«  che  non  si  smentono  mai  ;  e  quello  di  don  Abbon- 
«  dio  in  particolare  è  nel  suo   genere   d'una  verità 


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—    evi    — 

«che  dispera.  Quel  colore  locale  che  non  t'induce 
«  mai  in  errore,  quell'esattezza  di  fatti  che  non  si 
«trova  mai 

Dans  les  romans  où  l'on  apprend  l'histoire> 

«come  ha  cantato  scherzando  un  savio  francese  (l), 
«  sono  qualità  che,  unite  ad  uno  stile  pieno  di  vita, 
«  e  vario  sempre  secondo  gli  accidenti,  e  ad  una 
«lingua  facile,  ricca,  armoniosa,  assicurerebbero  la 
«fama  di  questo  libro,  quand'anche  non  vantasse 
«  altri  meriti,  e,  come  speriamo  aver  dimostrato,  di 
«  gran  lunga  maggiori. 

«  Quantunque  questo  genere,  per  quanto  ci  pare, 
«  non  debba  porre  gran  radici  in  Italia,  perchè  nel- 
«  l'ampissimo  campo  delle  lettere,  offre  gli  stessi  ca- 
«ratteri  degl'Ibridi  fra  le  piante,  pure  trattato  da 
«  chi,  oltre  la  forza  d'ingegno,  si  figga  un  alto,  un 
«  utile  proposito  in  mente,  può  produrre  nobilissimi 
«  effetti  ». 


0)  M.  de  Gourbillon. 


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—    ctni    — 


IV. 


De*  tanti  giudizi  dati  da'  giornali  d'allora  in- 
torno a*  Promessi  Sposi,  due  levarono  un  gran  ru-  * 
more:  quello  della  Biblioteca  italiana  e  quello  del- 
V Antologia:  ma  l'eco  di  quest'ultimo, scritto  da  Nic- 
colò Tommaseo  (*),  si  dileguò  ben  presto  ;  non  così 
l'eco  dell'altro,  uscito  dalla  penna  di  Paride  Zaiotti  (?), 
in  voce  di  critico  ingegnoso  e  acuto  tra'  partigiani 
della  vecchia  scuola.  Fin  dal  '24,  appunto  nella  Bi- 
blioteca italiana,  aveva  scritto   un  lunghissimo  arti- 


(!)  Antologia,  n.  82,  ottobre  1827,  pp.  101-119.  L'ar- 
ticolo, invece  del  Tommaseo,  doveva  scriverlo  il  dott.  Gae- 
tano Cioni,  come  si  rileva  da  una  lettera  di  Giuseppe 
Montani,  del  16  di  settembre  :  «  L'articolo  sugli  Sposi  Pro- 
«  messi  lo  fa  il  dottor  Cioni.  Manzoni  è  qui  [a  Firenze] 
«adorato  da  tutti.  Il  Granduca  ha  voluto  veder  lui  e  il 
«  suo  bambino,  che  sempre  lo  accompagna.  Gli  ha  fatta, 
«mi  dicono,  la  più  affettuosa  accoglienza».  Il  i.°  agosto 
aveva  scritto  :  «  Aspettiamo  di  giorno  in  giorno  il  Man- 
«  zoni,  e  mai  non  lo  vediamo.  Del  suo  romanzo  (crede- 
«  resti  ?)  non  è  ancor  giunta  copia,  se  non  al  Batelli,  che 
«  gli  fa  il  brutto  complimento  di  ristamparglielo  ». 

(2)  Biblioteca  italiana,  n.  141,  settembre  1827,  pp.  422- 
472  ;  e  n.  142,  ottobre  1827,  pp.  32-81. 


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—     CVIII     — 

colo  intorno  all'Adelchi,  diviso  in  due  parti  (l);  ma 
la  Censura  austriaca  (è  proprio  il  caso  di  ripetere: 
Tu  quoque,  Brute/)  ne  corresse  e  mutilò  alcuni  brani, 
con  grave  dispiacere  del  critico,  che  li  mandò  a  leg- 
gere manoscritti  al  Manzoni;  il  quale,  vinto  dal 
tratto  cortese,  fu  forzato  a  rispondergli  e  a  ringra- 
ziarlo (a). 

L'incarico  di  scrivere  la  rassegna  de*  Promessi 
Sposi  l'accettò  contro  voglia:  era  un  libro  che  non 
gli"  andava  a  sangue  ;  lo  riteneva  «  sotto  alcuni  rap- 
porti» inferiore  alla  Sibilla  del  Varese  che,  a  suo 
giudizio,  «  era  un  romanzo,  cosa  che  non  osava  dire 
«  degli  Sposi  promessi  ».  La  scrisse  finalmente,  dopo 
essersela  fatta  aspettare  un  gran  pezzo;  per  conclu- 
dere :  «  bello  è  questo  romanzo,  ma  il  Manzoni  potea 
«  fare  anche  di  più  ».  E  si  accordò  con  lui  il  Tom- 
maseo ripetendo  :  «  dall'ingegno  e  dall'animo  di  Man- 
«  zoni  si  deve  pretender  di  più  »  (a).  Erano  due  delle 


(*)  La  prima  fu  stampata  a  pp.  322-337  del  t.  XXXIV 
[marzo  1824]  ;  la  seconda  a  pp.  145-172  del  tom.  XXXV 
[aprile  1824]. 

(2)  Pubblicai  questa  lettera,  scritta  da  Brusuglio  il  6  lu- 
glio del/ 24,  in  Milano  vecchia,  strenna  del  Pio  Istituto  dei 
Rachitici  di  Milano ,  Anno  IX,  Milano,  tip.  Bernardoni  di 
C.  Rebeschini  e  C,  1889;  pp.  51-58. 

(8)  Come  si  accorda  quello  che  il  Tommaseo  scrisse 
de'  Promessi  Sposi  nelle  sue  lettere  al  Vieusseux  con 
quello  che  stampò  nell5  Antologia  f  È  un  repentino  volta- 
faccia: non  si  può  chiamare  con  altro  nome.  Il  Barbi  si 


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—     CIX     — 

tante  «  persone  di  gusto  »,  che  «  lo  trovavano  molto 
«  inferiore  all'aspettazione  ». 

Un  bibliofilo  romagnolo,  Giacomo  Manzoni  idi 
Lugo,  il  futuro  ministro  della  Repubblica  Romana, 
inviando  al  P.  Alessandro  Checcucci  l'articolo  dello 


domanda:  «  Ma  è  stato  preso  proprio  pel  suo  verso  quel- 
l'articolo? Ne  dubito.  Occorre,  a  intenderlo  bene,  una 
«ricerca  psicologica  sul  Tommaseo  uomo  e  scrittore,  e 
«storica  sull'ambiente,  e  dimenticare  l'impressione  che 
«fa  oggi  generalmente  il  romanzo...  E  non  può  essere, 
«  che  dove  il  Tommaseo  tocca  d'alcuni  difetti,  avesse  in 
«animo  d'attenuarli  e  giustificarli,  e  che  l'intendimento 
«  apologetico  non  appaia  chiaro,  o  perchè  così  ha  voluto 
«l'autore,  o  per  mancanza  di  quei  nessi  logici  e  formali 
«che  egli  era  solito  trascurare?  Avrebbe  così  ottenuto  ef- 
«  fetto  contrario  a  quel  che  si  proponeva  ;  ma,  si  sa,  altro 
«  è  scrivere,  altro  riuscire  a  farsi  intendere  !  »  Questa  spie- 
gazione, per  quanto  ingegnosa,  non  mi  persuade.  Leg- 
gendo le  postille  e  l'articolo  si  vede  che  a  ogni  istante 
la  viva  e  sincera  ammirazione  del  Tommaseo  per  i  Pro- 
messi Sposi  è  come  troncata  dagli  occulti  paragoni  ch'egli 
fa  inconsapevolmente  tra  il  Manzoni  e  sé  stesso  ;  e  ap- 
punto quel  continuo  guardare  a  sé  stesso  gli  svia  il  giu- 
dizio. Mentre  riconosceva  che  il  grande  Poeta  aveva  «  di- 
«vinizzata  la  lirica,  ricreata  la  tragedia,  insegnata  agl'I ta- 
«  liani  la  vera  via  della  storia  »,  e  che  in  tutti  questi  campi 
gli  era  superiore  ;  ho  il  convincimento  che  come  romanziere 
ritenesse  di  stargli  alla  pari  e  anche  di  sorpassarlo.  In  fin 
de'  conti  che  cosa  significano  le  sue  tante  censure  e  cor- 
rezioni ai  Promessi  Sposi?  Significano:  Avrei  fatto  me- 
glio io! 


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—    ex    — 

Zaiotti:  Del  romanzo  in  generale  e  dei  Promessi  Sposi 
di  Alessandro  Manzoni  discorsi  due,  l'accompagnava 
con  questa  lettera:  «Vi  mando  il  libro  dello  Zaiotti, 
«di  cui  vi  parlai.  E  certamente  questo  vi  sarà  dono 
«gratissimo,  che  due  prose  di  questo  genere,  cosi 
«  ben  condotte,  e  scritte  con  pari  facondia  e  modestia 
«forse  non  le  ha  l'Italia  nostra.  Fra  le  lodi  le  più 
«smodate  che  da  ogni  parte  son  piovute  e  piovono 
«sopra  il  romanzo  del  Manzoni,  fra  il  grido  che  lo 
«proclama  capo-scuola  del  Romanzo  storico  e  prin- 
«cipe  dei  romanzieri  italiani,  levarsi  in  piedi  e  pub- 
«blicare  una  censura  di  101  pagine,  giusta  dalla 
«  prima  all'ultima  parola,  sempre  dignitosa  senza  iat- 
«tanza,  sempre  riverente  senza  viltà,  scriverla  con 
«istile  che  ogni  letterato  vorrebbe  invidiargli,  piano, 
«armonioso  e  variatissimo,  e  divulgarla,  e  trovar 
«plauso  in  Milano,  sotto  gli  occhi  del  Manzoni,  nel 
«teatro  delle  maggiori  sue  glorie,  è  impresa  ardua 
«  davvero  ».  Il  P.  Checcucci  si  affrettò  a  fare  una 
nuova  edizione  di  «  questi  due  maravigliosi  discorsi, 
«sì  perchè  chi  non  l'ebbe  ancora  alle  mani  potesse 
«ammirarvi  la  vasta  dottrina,  la  stupenda  eloquenza, 
«  la  profonda  erudizione  ed  il  retto  giudizio  di  quel- 
«  l'esimio  scrittore;  sì  perchè  i  giovani  specialmente, 
«  usi  a  muoversi  più  per  affetto  che  per  ragione,  nel 
«  giudicare  delle  opere,  sebbene  d'uomini  grandi  e 
«  giustamente  reputati,  prendano  piuttosto  norma  dalle 
«regole  invariabili  dell'arte,  che  dal  prestigio  del- 
«  l'opinione,  alcune  volte  sospetta  e  ben  sovente  non 


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—      CXI      — 

«  buona  ».  Il  Checcucci  battezzò  «  quinta  »  la  sua 
edizione  (*),  ignorando  che  1*  autore  stesso  già  ne 
aveva  fatta  una  «sesta»  a  Venezia (8);  nella  quale, 
per  bocca  del  tipografo,  manifesta  V  intendimento  suo: 
quello  di  «preservare  il  cuore  e  l'ingegno»  degli 
italiani  «  dalle  dannose  influenze  che  recar  potevano 
«  i  grandi  esempi  di  Gualtiero  Scott  e  di  Alessandro 
«  Manzoni  ». 

Lo  Zaiotti,  a  cui  non  manca  né  erudizione,  né  ur- 
banità, né  qualche  acuta  osservazione  particolare,  in 
fondo  ammirava  il  Manzoni,  ma  come  poeta  e  poeta 
lirico  soprattutto.  Fedele  alla  scuola  de*  classici,  che 
proscrive  in  letteratura  quanto  non  ha  faccia  d'an- 
tico, parlò  del  Manzoni  tragico  col  preconcetto  che 
fosse  fuori  di  strada  :  «  perchè  vorrà  egli  ostinarsi  ad 
«esser  meno  di  Sofocle,  quando  l'Italia  gli  offre  la 
«  corona  di  Pindaro  ?  »  Parlò  del  Manzoni  romanziere 
col  convincimento  che  il  romanzo  storico  sia  da  ri- 
gettarsi ;  e  appunto  perchè  un  grande  ingegno  si  era 
dato  a  coltivarlo,  gli  parve  una  missione  riparatrice 


(!)  Del  Romanzo  in  generale  e  dei  Promessi  Sposi  di 
Alessandro  Manzoni  discorsi  due  —  Quinta  edizione ',  Ur- 
bino, coi  tipi  della  V.  Capp.  del  SS.  Sacram.  per  Giu- 
seppe Rondini,  1846  ;  in-160.  di  pp.  ViII-142. 

(2)  Del  Romanzo  in  generale  e  dei  Promessi  Sposi,  ro- 
manzo di  Manzoni,  discorsi  due.  Sesta  edizione,  accresciuta 
d*  altri  scritti.  In  Venezia,  nella  Tip.  Emiliana,  MDCCCXL; 
in-16.0  di  pp.  VI-236. 


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—      CX1I      — 

flagellare  quel  nuovo  genere  senza  pietà.  A  difesa 
del  romanzo  storico  (*)  si  levò  animoso  Giuseppe  Maz- 
zini; pur  confessando  (ed  era  giustizia)  che  «l'au- 
«  tore  dei  due  discorsi  scrivendo  a  lungo  del  romanzo 
«  d'Alessandro  Manzoni,  il  fece  con  sì  gentile  animo 
«e  tanto  affetto  del  vero,  da  insegnare  ad  ognuno, 
«  come  la  critica  debba  trattarsi  ».  Nota  che  lo  Za- 
iotti,  «prevalendosi  della  fama  che  circonda  il  caro 
«nome  del  Manzoni,  attribuisce  unicamente  a  vizio 
«  del  genere  il  difetto  d'  interesse  e  calore  ch'ei  trova 
«  nei  Promessi  Sposi.  Forse  il  difetto  si  esagera,  e 
«  più  d'una  donna  gentile  che  ha  palpitato  sui  casi 
«dell'ingenua  Lucia  e  impallidito  al  ritratto  dell'In- 
«  nominato,  accusa  il  giudizio  di  rigidezza;  ma  fos- 
«s'anche  vero,  che  trarne?  L'ingegno  del  Manzoni 
«è  vastissimo;  ma  a  nessuno  è  dato  balzar  fuori,  in 
«  un  genere  nuovo,  perfetto  come   Pallade  dal  capo 


(*)  Trovò  un  difensore  anche  in  Giuseppe  Bianchetti 
di  Treviso.  Cfr.  Sopra  i  Romanzi  storici  [lettera]  Al  ba- 
rone cav.  Ferdinando  Porro,  Milano;  in  Giornale  sulle 
scienze  e  lettere  delle  Provincie  Venete,  n.°  107-108  del 
voi.  VI  della  Continuazione,  bimestre  di  settembre  e  ot- 
tobre 1830.  Fu  ristampata  a  pp\  71-114  dei  Discorsi  cri- 
tici intorno  alla  questione  se  giovi  di  ammettere  o  no  nella 
letteratura  italiana  il  Romanzo  storico,  Treviso,  coi  tipi 
di  Gio.  Paluello  del  fu  Antonio,  mdcccxxxii  ;  in-16.0  ed 
a  pp.  503-522  del  libro:  Dei  lettori  e  dei  parlatori,  saggi 
due  di  Giuseppe  Bianchetti  —  Alcune  lettere  di  lui  me- 
desitno,  Firenze,  Felice  Le  Monnier,    1858  ;  in-16.0 


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—     CXIII      — 

«  di  Giove.  Fors'egli  avrebbe  dovuto  scegliere  i  suoi 
«personaggi  ideali  in  una  condizione,  che  ammet- 
tesse, se  non  più  amore,  modi  almeno  d'esprimerlo 
«  più  caldi,  e  mezzi  maggiori  d'azione.  Fors'anco  il 
«fine  ch'egli  ebbe  di  rischiarare  un  oscuro  periodo 
«del  secolo  XVII  si  svela  troppo  apertamente  ad 
«ogni  capitolo,  sicché  n'è  riuscita  piuttosto  una  storia 
«resa  dilettevole  da  romanzesche  avventure  innesta- 
«tevi,  che  un  romanzo  fatto  utile  dall'intreccio  d'un 
«quadro  storico »(l). 

Nell'esaminare  V Adelchi  lo  Zaiotti  ne  propose  un 
nuovo  disegno,  «dove  il  notabile  si  è  che  violando 
«la  storia,  viensi  a  provare  come  la  storia  sia  ne- 
«cessaria  a  poesia»  (*).  Anche  nell'esaminare  i  Pro- 
messi Sposi  suggerì  de'  mutamenti  ;  questo,  tra  gli 
altri:  «anche  il  luogo,  in  cui  l'ottimo  frate»  [il 
P.  Cristoforo]  «viene  ricondotto  sopra  la  scena,  ne 
«sembra  da  collocarsi  fra  quelli  che  permettevano 

«all'autore  di  aprire  più  largamente  in  suo  volo 

«Era  giusto  che  il  tribolato  servo  del  Signore  rac- 
«  cogliesse  finalmente  la  palma  di  quel  suo  lungo 
«martirio,  e  felice  era  stata  l'idea  del  Manzoni  di 
«presentarcelo  afflitto  di  peste,  e  tuttavia  occupato 


(*)  Indicatore  Genovese,  n.  5,  6  e  7,  giugno  1828.  Cfr. 
Mazzini  G.,  Scritti  editi  ed  inediti  [quarta  edizione],  vo- 
lume II,  Letteratura  voi.  I,  pp.  41-51. 

(2)  Tommaseo  N.,  Studi  critici,  Venezia,  Andruzzi, 
I,  290. 


Alessandro  Manzoni  •  P.  IL 


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—      CXIV      — 

«a  confortare  gl'infermi:  anche  l'aver  colà  ridotto 
«don  Rodrigo,  ed  uniti  così  l'oppressore,  il  difen- 
«  sore  e  le  vittime,  era  degno  di  massima  lode,  perchè 

«dava  campo  ai  più   gagliardi  contrasti Ma  di- 

«remo  noi  che  fosse  impossibile  il  far  meglio  che 
«  raccontarci  così  in  due  parole  le  morti  di  don  Ro- 
«  drigo  e  di  padre  Cristoforo?  Il  Manzoni,  meditando 
«  su  quella  situazione,  avrebbe  senza  dubbio  trovato 
«qualche  alto  concetto,  al  quale  noi  non  potremmo 
«né  di  lontano  mai  arrivare:  tuttavia  chi  ne  vieta 
«  di  esporre  anche  un  nostro  pensiero?  Renzo,  che 
«ha  già  rinvenuta  la  sua  Lucia,  torna  dal  frate  per 
«narrargli  l'impedimento  del  voto  ed  implorarne 
«l'aiuto:  ma  il  frate,  oppresso  dalla  gravezza  del 
«  male,  è  caduto  presso  il  letto  di  don  Rodrigo  che 
«  soccorreva,  né  v'è  più  speranza  ch'ei  si  possa  rial- 
«zare.  Le  preghiere  di  Renzo  gli  vanno  all'anima, 
«ma  la  morte  già  vicina  lo  ha  disteso  su  quella 
«terra  a  cui  sarà  ricongiunto  fra  poco.  Corri,  egli 
«  dice  coir  ultimo  avanzo  della  cadente  sua  voce,  corri 
«da  Lucia  e  qua  la  conduci,  prima  che  venga  la 
«  chiamata  di  Dio.  Il  povero  Renzo  vola  alla  capan- 
«  netta  della  fanciulla,  che  con  passi  vacillanti,  pal- 
«  lida  pallida,  lo  segue,  finché  giungono  a  quei  due 
«  moribondi,  che  aspettano  una  sì  diversa  mercede. 
«Ecco  gli  accusatori,  il  testimonio  ed  il  reo:  il  Giu- 
«  dice  sta  più  in  alto,  e  fra  pochi  minuti  l'irrevoca- 
«  bile  sentenza  sarà  pronunciata.  Gran  Dio,  non  en- 
«  trare  in    giudizio   co'  tuoi  miseri   servi  !   Noi  non 


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—    cxv    — 


/ 


«osiamo  proceder  più  oltre,  che  l'ingegno  ne  cade 
«  innanzi  a  tanto  orrore  e  a  tanta  pietà  :  ma  che  non 
«avrebbe  saputo  fare  il  Manzoni?  Gli  effetti  della 
«Grazia  erano  già  stati  descritti  nell'Innominato; 
«  qui  rimaneva  a  mostrarci  la  disperata  morte  del  re- 
«  probo,  e  il  quadro  riusciva  perfetto,  perchè  11  presso 
«ne  consolava  la  placida  dipartita  del  giusto.  Una 
«  maledizione  su  gli  sposi  e  sopra  sé  stesso  è  uscita 
«  da  Rodrigo,  padre  Cristoforo  ha  sciolto  il  voto,  e 
«  benedetti  i  due  giovani.  Un  profondo  silenzio  è 
«succeduto  a  quelle  parole:  tutto  è  finito.  Si  sepa- 
«  rino  quei  due  corpi,  che  più  non  saranno  vicini  in 
«  eterno.  Guai  a  chi  non  intende  la  muta  lezione  che 
«  s'innalza  dalla  polvere  di  quella  capanna  !  È  impos- 
«  sibile  che  i  lettori  non  si  dolgano  pensando  al  ma- 
«  raviglioso  partito  che  la  mente  e  il  cuore  del  Man- 
«  zoni  avrebbero  tratto  da  tanta  passione  :  ma  anche 
«  qui  è  sempre  necessario  ripetere,  che  senza  mutare 
«  l'orditura  del  romanzo  non  poteva  arrischiarsi  una 
«  scena  sì  viva.  La  narrazione  degli  avvenimenti  suc- 
«  cessivi  dopo  quell'impeto  d'affetti  non  era  più  tol- 
«  lerabile,  ed  ivi  stesso,  davanti  a  quel  letto  di  morte, 
«  Renzo  e  Lucia  doveano  rinnovare  il  loro  giura- 
«  mento,  abbandonata  ogni  più  minuta  conclusione 
«alla  fantasia  de'  lettori»^). 


(*)  E  altrove  :   «  Vogliamo  almeno  terminare  con   un 
«  voto,  che  è  certo  comune  a  tutta  l'Italia.  Perchè  il.Man- 


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—     CXVI     — 

Nell'ottobre  del  '27  mentre  a  Milano  usciva  alla 
luce  il  compimento  di  questi  discorsi,  Niccolò  Tom- 
maseo veleggiava  per  l'Adriatico,  e  parte  negli  ozi 
della  traversata,  parte  in  mezzo  alle  isole  della  sua 
Dalmazia  e  nel  porto  d'Ancona  fece  una  quantità  di 
postille  (l)  sopra  un  esemplare  de*  Promessi  Sposi 
donatogli  dal  Manzoni.  Alcune  sono  in  lode;  le  più 


«  zoni,  così  grande  poeta,  non  ha  intramesso  alla  sua  prosa 
«alcun  verso?  Perchè  non  ha  egli  seguito  l'esempio  del 
«suo  Goethe  e  di  tanti  altri  illustri  romanzieri,  che  ne 
«aggiunsero  questo  diletto?  La  materia  di  frequente 
«si  prestava  volentieri  alla  poesia....  Chi  non  vorrebbe 
«ascoltare  il  divoto  cantico  e  le  laudi  dei  valligiani  che 
«  s'affollano  con  santa  allegrezza  incontro  al  Cardinal  Fe- 
«  derigo?  Chi  non  intenderebbe  un  orecchio  bramoso  alle 
«giulive  canzoni  di  guerra  dei  soldati  che  vanno  all'im- 
«  presa  di  Mantova?  Tutti  ricordavano  il  sublime  canto 
«  per  la  battaglia  di  Maclodio,  tutti  aspettavano  rinnovata 
«  quella  robusta  armonia.  Né  mancherà,  in  ispecie  fra  co- 
«loro  che  più  strettamente  appartengono  alla  scuola  ro- 
«mantica,  chi  si  dolga  di  non  sentire  espressa  la  canzo- 
«naccia  de'  monatti,  che  viene  appena  accennata». 

(*)  Fin  dal  1890  ne  dette  un  saggio  il  prof.  Emilio 
Teza  [Postille  inedite  di  N.  Tommaseo  ai  «Promessi 
Sposi  »  ;  nella  Nuova  Antologia^  serie  III,  voi.  XXVII, 
pp.  560-566]  ;  poi,  nel  1897,  vennero  stampate  per  intiero 
da  Giuseppe  Rigutini.  Cfr.  Postille  inedite  di  Niccolò 
Tommaseo,  precedute  da  un  discorso  critico  e  accompa- 
gnate da  osservazioni^  Firenze,  R.  Bemporad  &  figlio, 
1897;  in-160.  di  pp.  VIII-332. 


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—      CXVII      — 

in  biasimo  e  non  senza  acrimonia  (l).  Il  Manzoni, 
raccontata  la  favola  dello  «  scartafaccio  »,  soggiunge  : 
«  Ed  ecco  l'origine  del  presente  libro  ».  Il  Tommaseo 
chiosa  :  «  Questo  non  iscusa  la  bugia.  Si  dirà  che  il 
«  Romanzo  è  tutto  una  bugia.  Io  rispondo  che  men- 
«tire  non  è  mai  bello».  Ritiene  «che  più  naturale 
«  sarebbe  stato,  invece  di  villani  (?),  scegliere  una  fa- 


(*)  Eccone  un  saggio  :  «  È  affettato  —  Pesante  —  È  da 
buffone:  tuono  che  l'autore  assume  talvolta  —  È  brutto 

—  È  duro  —  Non  mi  piace  —  Miseria  —  Piccolezza  — 
Cattivo  —  Inezia  —  Importuno  —  Non  va  —  Quanta  roba  ! 

—  È  goffo  —  Mal  detto  —  Pedantesco  —  Affettazione 

—  Pare  un  goffo  dialogo  di  Goldoni  —  Rettoricume  — 
Bassezza  —  Evviva  i  soliloqui  !  —  È  vecchiume  —  È  un 
guazzabuglio  questo  periodo  —  Malissimo  detto  —  Inezia 
grande  —  Lungherie  misere  —  Falso  —  È  ridicolo  —  È 
da  retore  e  mostra  la  stanchezza  dell'autore  —  Affettato 
e  prolisso  —  Gretto  e  stracco  »  ;  e  giù  di  questo  tono,  con 
mano  sempre  prodiga. 

(*)  I  critici  si  trovarono  concordi  nel  biasimare  il  Man- 
zoni d'avere  scelto  a  protagonisti  due  operai;  all' infuori 
ero  del  Sismondi ,  del  Pezzi,  del  Giannone  e  di  pochi 
altri,  tra'  quali  Giovita  Seal  vini,  che  scrisse:  «  Ha  scelto 
«  Renzo  e  Lucia  per  isvergognare  e  ridurre  al  niente  i 
«Rodrighi  e  gli  Egidii;  per  additarne  come  l'occhio  di 
«  Dio,  dinanzi  il  quale  cessa  ogni  disuguaglianza,  sappia 
«scernere  infra  la  turba  %y ignobili  e  spregevoli  che  in 
«lui  bene  confidano,  e  la  sua  mano  sollevarli  sulla  mal- 
«  vagita  illustre  e  tremenda...  Vuoisi  dunque  considerare 
«  Renzo  e  Lucia  come  un  simbolo  di  tutti  i  deboli,  di 
«  tutti  quelli  che  soffrono,   e  ai  quali  la  giustizia  è  do- 

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—      CXVIII      — 


«miglia  di  città,  povera,  ma  gentile,  che  anche  al- 
«  lora  era  modo  di  dar  risalto  anche  ai  quadri  cam- 
«pestri».  Trova  «che  don  Abbondio  in  questo  ro- 
«  manzo  fa  troppa  figura,  occupa  troppo  spazio  »  ; 
gli  sembra  «  scarso  di  sovrane  bellezze  tutto  ciò  che  » 
nel  secondo  tomo  «  appartiene  al  cardinal  Federigo 
«  e  all'Innominato  »;  e  giudica  si  convertisse  «troppo 
«  rabbiosamente  »  (l).  Dei  resto,  a  mettere  in  evidenza 


«vuta...  Che  se  a  qualcuno  e'  paiono  troppo  piccioli, 
«  perch'ei  sia  curante  dei  loro  umili  casi,  pensi  che  a  lui 
«  per  l'appunto  il  Manzoni  li  propone  in  esempio  ;  affinchè 
«  corregga  il  suo  orgoglio  ;  né  da  loro  rivolga  indifferente 
«  gli  sguardi,  senza  dirizzarli  verso  Colui  che  li  ha  posti 
«sulla  terra,  ascolta  le  loro  imprecazioni,  e  non  li  lascerà 
«  cadere  :  chi  non  può  stare  con  loro,  come  prossimo,  se 
«ne  faccia  scala  a  sani  pensieri  fuori  e  più  alti  di  loro». 
(!)  Nel  dar  conto  nell'Antologia  [n.  93,  settembre  1828, 
pp.  120-132]  d'un  mediocrissimo  romanzo  francese:  Ger- 
trude, par  mad.  Hortense  Allart  de  Thérase,  Flo- 
rence, Ciardetti,  1827,  scriveva  :  «  Tutto  ciò  ch'è  grande, 
«è  difficile:  e  però  quant'è  più  l'altezza  a  cui  si  tende, 
«  più  frequente  è  il  pericolo  della  caduta.  Troppo  insi- 
«stere  sulla  storia  dell'uomo  interiore,  può  generare  fa- 
«  cilmente  sazietà  e  noia  ;  può  torre  al  poeta  la  forza  e  lo 
«spazio  di  rappresentare  i  segni  e  gli  effetti  della  pas- 
«  sione;  può  renderlo  affettatamente  minuzioso  ed  ardito 
«  a  spacciare  de'  fatti  dell'anima  passionata,  i  risultati  o 
«  della  fredda  meditazione,  o  d'un 'esperienza  angusta,  im- 
«  matura.  La  maggior  difficoltà  sta  nel  cogliere  appunto 
«  la  reale  gradazione  dell'  affetto  ;  e  mostrando  il  passaggio 
«dell'anima  dall'un  grado  all'altro,   esser  vero.   Questa 


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—     CXIX     — 


i  biasimi  tutti,  bisognerebbe  trascrivere  le  postille  in 
grandissima  parte,  e  con  le  postille  l'ostico  giudizio  che 


«  difficoltà  non  mi  par  superata  in  un  de'  tratti  più  mi- 
«  rabili  de'  Promessi  Sposi;  la  conversione  dell'  Innomi- 
«  nato.  Le  disposizioni  di  quell'anima  annoiata  del  male, 
«  i  primi  tocchi  della  pietà  eh 'è,  già  per  sé  medesima  un 
«  cambiamento  in  quel  cuore  ferreo,  la  confusione  che  lo 
«  assale  alla  vista  della  sua  vittima,  tutto  è  fin  qui  sovra- 
«  namente  cólto,  è  quasi  tutto  con  egual  potenza  indicato. 
«Ma  quando  siamo  alla  notte,  i  sentimenti  di  rabbia,  di 
«  disperazione,  d'orgoglio  che  l'assalgono  con  tanta  furia 
«  di  quanta  è  capace  un'anima  ancora  verde  nel  delitto, 
«  non  mi  paiono  direttamente  condurre  a  un  così  prossimo 
«  cambiamento.  Un  carattere  come  P  Innominato,  e  non 
«  cangiato  ancora,  non  ricevere  alcuna  impressione  di 
«  sdegno,  d'orgoglio  da  quel  suo  passaggio  in  mezzo  alla 
«folla  meravigliata  e  sospettosa,  non  mi  par  verisimile. 
«  La  storia  dice  che  P  Innominato,  dopo  avuto  un  collo- 
«  quio  col  Borromeo,  cangiò  vita:  ma  non  dice,  parmi, 
«  che  l'Innominato  sia  ito  a  cercare  la  presenza  del  ve- 
«  scovo,  in  mezzo  alla  moltitudine  radunata,  in  un  giorno 
«  ch'era  giorno  di  festa  per  tutto  il  dintorno.  Egli  scende 
«tutto  irritato  di  quella  gioia  comune,  scende  non  per 
«altro  che  per  saperne  il  motivo,  e  va  difilato  a  cercare 
«  dell'arcivescovo  di  Milano.  Forse  il  passo  parrebbe  men 
«brusco,  se  PA.  avesse  dipinti  i  sentimenti  che,  cammin 
«  facendo,  agitavano  quell'anima  umiliata.  Ma  umiliarla 
«  conveniva  dapprima,  umiliarla  agli  occhi  suoi  propri  ; 
«  giacché  la  stanchezza  del  male  non  genera  che  maggior 
«  perversità,  quando  non  conduca  ad  arrossire  della  pro- 
«pria  bassezza.  Io  so  bene  che  descritti  tutti  i  gradi  in- 
«  termedii  della  conversione,  la  cosa  sarebbe  troppo  ita 


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—    cxx    — 

inseri  nélV  Antologia  Q);  dove  la  lode  è  sempre  mi- 
surata, il  desiderio  di  censurare  vivissimo  sempre  ; 
e  la  lode  rivolta  non  al  libro,  ma  all'uomo,  «  grande 
e  per  cuore  e  per  ingegno  »,  «  ingegno  mirabile  », 
«  sovrano  ingegno  »,  «  ingegno  divino  »,  «  uomo  di- 
vino »,  «  genio  e  cuore  apertissimo  »,  «  il  giusto  so- 
litario», «il  poeta  del  meglio»,  che  si  era  perfino 
«  abbassato  a  donarci  un  romanzo  »  ;  divinizzazione  (') 


e  in  lungo,  so  che  allora  sarebbe  stato  assai  più  diffìcile 
«rendere  teatrale  e  romanzesca  quella  conversione:  so 
«in  fine  che  nella  pittura  del  nostro  Manzoni,  c'è  tanta 
«profondità  da  ammirare,  che  non  è  quasi  lecito  il  mo- 
«  strare  desiderio  di  quello  che  manca». 

(*)  L1 Antologia  [n.  116,  agosto  1830;  pp.  140-142]  tornò 
a  parlare  de*  Promessi  Sposi  pigliando  occasione  dalla  ri- 
stampa che  ne  fece  a  Firenze,  nel  '30,  la  tipografìa  Pas- 
sigli, Borghi  e  C.  in  un  voi.  in-8.°  e  in  sei  volumetti 
in-32.0  con  vignette.  Dell'articolo,  scritto  dal  Montani, 
è  notevole  questo  brano:  «Walter  Scott,  ha  già  detto 
«  qualcuno,  va  dalla  storia  al  romanzo,  Manzoni  dal  ro- 
«  manzo  alla  storia.  Da  questo  loro  andamento  diverso 
«risulta  che  ciò  che  nelle  composizioni  dell'uno  forma, 
«  per  così  dire,  lo  sfondo  delle  composizioni  medesime, 
«  in  quello  dell'altro  forma  il  soggetto  principale.  Quindi 
«  non  fa  meraviglia  ciò  che  da  un  anno  si  va  bucinando, 
«  e  in  un  giornale  assai  recente  si  narra  senza  mistero, 
«  che  il  Manzoni  in  uno  scritto,  che  verrà  presto  alla  luce, 
«sul  romanzo  storico,  si  separi  interamente  da  Walter 
«  Scott.  Può  egli  non  separarsene  in  teorica,  quando  in 
«pratica  ne  va  tanto  lontano?». 

(2)  Singolare  è  questa  lettera  del  Tommaseo  al  Vieus- 


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—     CXXI     — 

che  dispiacque  al  Leopardi,  «perchè  ha  dell'adula- 
torio, e  gli  eccessi  non  sono  mai  lodevoli». 

Il  Tommaseo  a  mano  a  mano  andò  temperando  e 
modificando  quel  severo  giudizio,  e  quando  nel  '43 
ristampò  ne'  suoi  Studi  critici  il  vecchio  articolo  del- 
V Antologia  molto  vi  tolse,  non  solo  per  condensar 
meglio  il  pensiero,  ma  anche  per  renderlo  meno  aspro 


seux,  scritta  da  Milano  il  12  novembre  del  '26  :  €  Man- 
ie zoni  forse  per  la  primavera  vegnente  verrà  con  la  fa- 
«  miglia  a  Firenze Del  resto,  se  egli  venisse  a  Fi- 
le renze ,  vedreste  un  uomo  che  dall'assenza  di  ogni 
«singolarità  è  reso  agli  occhi  d'ognuno  che  non  gli 
«dissomigli,  affatto  singolare  e  mirabile.  Una  statura  co- 
«  mime,  un  volto  allungato,  vaiuolato,  oscuro,  ma  im- 
«  presso  di  quella  bontà  che  l'ingegno,  non  che  guastarla, 
«rende  più  sincera  e  profonda:  una  voce  di  modestia  e 
«  quasi  di  timidità,  cui  lo  stesso  balbettare  un  poco  giunge 
«  come  un  vezzo  alle  parole,  che  paiono  escir  più  mature, 
«  più  desiderate  :  un  vestito  dimesso,  un  piglio  semplice, 
«un  tuono  famigliare,  una  mite  sapienza  che  irradia  per 
«  riflessimento  tutto  ciò  che  a  lui  s'avvicina....  Questo  è 
«  l'uomo  direste,  il  cui  nome  sarà  simile  di  qui  a  mill'anni, 
«  adorato,  com'io  venero  oggi  il  suo  volto.  Questo  è  l'uomo 
«  che  in  ogni  via  che  calcò  impresse  un'orma  indelebile  ; 
«che  ha  divinizzata  la  tragedia,  che  ha  insegnata  agl'I- 
«  taliani  la  vera  via  della  storia  ;  che  ha  fatto  il  romanzo 
«  la  lettura  del  Genio  e  della  Virtù  ;  ch'ebbe  amici  i  più 
«  buoni  del  secol  suo  ;  che  fu  pio,  semplice,  generoso  ; 
«  che  trasse  il  suo  genio  dal  cuore  :  e  potreste  aggiungere 
«  (questo  è  forse  il  maggiore  degli  encomii)  che  fu  visto 
«  più  d'una  volta  piangere  sulle  sventure  degl'infelici  ». 


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—      CXXII      — 

e  meno  reciso  (l).  V'aggiunse  un  accenno  alla  lingua 
adoperata  dal  Manzoni  ne*  Promessi  Sposi;  punto  che 
fin  allora  non  aveva  toccato  altro  che  in  una  lettera 
confidenziale  a  Cesare  Cantù,  scritta  da  Parigi  Tu  gen- 
naio del  '37.  Gli  dice:  «Godo  che  il  Manzoni  pensi 
«  a  ristampare  il  romanzo,  egli  stesso  ;  e  tanto  meglio 
«  se  con  mutazioni  e  con  giunte.  Non  ponga  indugio; 
«non  badi  a1  suoi  scrupoli  troppi,  né  agli  sdottora- 
«  menti  dei  consiglieri  immancabili,  de*  quali  è  prov- 
«  veduto  appunto  chi  non  ne  ha  bisogno.  Lasci  stare 
«ogni  cosa,  muti  solo  qualche  parola  o  qualche 
«modo,  se  vuole:  e  anche  questo  con  carità,  senza 
«  spellare  vivi  quel  Renzo  e  quella  Lucia  »  (*).  Le 
parole  aggiunte  al  vecchio  scritto  son  queste  :  «  Nella 
«  dicitura  senti  meditazione  e  cura  continua.  Io  non 
«  dirò  se  per  tal  cura  Manzoni  sia  giunto  a  vera- 
«  mente  italiana  proprietà  di  linguaggio  e  snellezza 
«  di  stile  :  ma  certo  è  che  ne'  modi  lombardi  e  fran- 
«  cesi  o  non  acconciamente  toscani  della  prima  stampa, 
«  quanto  nelle  docili  e  felici  (sebbene  non  sufficienti) 
«correzioni    della  stampa   recente,  è    copia  grande 


(*)  Il  Rigutini  ristampò  il  vecchio  articolo  dell5 Anto- 
logia in  fronte  alle  Postille  [pp.  1-21],  ma  senza  accen- 
nare per  nulla  ai  tanti  cambiamenti  che  vi  aveva  fatto 
l'autore  nell'edizione  del  '43  ed  ai  lievi  ritocchi  di  quella 
del  '58. 

(2)  //  primo  esilio  di  Nicolò  Tommaseo  1834- 1839,  let- 
tere di  lui  a  Cesare  Cantù,  Milano,  Cogliati,  1904;  p.  102. 


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—      CXXIII      — 

«d'ammaestramenti  agli  amatori  dell'arte»  (l).  Il 
primo  giudizio  nella  sostanza  non  lo  mutò  mai.  Già 
vecchio,  a  un  amico,  che  voleva  scrivere  intorno  a* 
Promessi  Sposi  dava  per  consiglio:  «Com'egli»  [il 
Manzoni]  «senta  e  ritragga  la  natura  visibile  è  al- 
«tresl  da  notare;  il  cielo,  i  monti;  gli  alberi,  le 
«acque;  i  suoni,  i  colori;  se  non  che  alla  freschezza 
«  del  sentimento  e  alla  maestria  dello  stile,  in  quanto 
«  lo  stile  è  concetto,  non  direi  corrispondere  sempre, 
«  anzi  di  rado,  la  freschezza  e  franchezza  dello  stile 
«in  quant'è  lingua  e  armonia».  Poi  soggiungeva: 
«  All'arte  proprio  direi,  che  nell'esame  di  tale  lavoro 
«  non  sia  da  dare  peso  se  non  in  quanto  essa  è  mo- 
«  ralità  ».  Voleva  «  della  lingua  e  del  numero  »  de' 
Promessi  Sposi  studiasse  «  quel  che  c'è  di  straniero, 
«d'incerto,  d'improprio,  di  prolisso  senza  necessità 
«  di  chiarezza  »  (2). 

Giambattista  Bazzoni  (3),  uno  degli   emuli,  volle 


(')  Tommaseo  N.,  Studi  critici;  I,  304-312. 

Cfr.  Ispirazione  e  arte  o  lo  scrittore  educato  dalla  so- 
cietà e  educatore ,  studi  di  Niccolò  Tommaseo,  Firenze, 
Felice  Le  Monnier,  1858;  pp.  417-426. 

(2)  Tommaseo  N.  Dizionario  estetico >,  Firenze,  Succes- 
sori Le  Monnier,  1867,  pp.  622-623. 

(3)  Nacque  a  Novara  il  12  febbraio  del  1803;  si  laureò 
in  legge  a  Pavia;  presa  la  carriera  della  magistratura,  al 
pane  onorato  del  suo  forte  Piemonte  e  de'  suoi  vecchi 
Re  preferì  quello  dell'Austria,  e  morì  il  9  ottobre  del 
1850,  consigliere  dell'I,  e  R.  Tribunale  criminale  di  Milano. 


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—      CXXIV     — 

egli  pure  dire  la  sua.  «  I  Promessi  Sposi  s'udirono 
«annunziare  tanto  tempo  innanzi  che  apparissero 
«al  pubblico,  ch'ebbero  tutto  il  campo  di  ricevere 
«  dalle  mani  abilissime  del  loro  valente  autore  quella 
«forbita,  lucente  e  veramente  nuziale  acconciatura 
«di  cui  egli  seppe  adornarli.  V'ha  in  quei  libri 
«  una  inimitabile  proprietà  di  vocaboli,  espressioni 
«  fine,  vere,  calzanti  :  vi  si  trova  per  tutto  una  vita, 
«  un' indagine  profonda  del  cuore,  delle  circostanze, 
«delle  cause;  un  nesso  invisibile,  ma  universale, 
«efficace,  che  offre  pascolo  a  tutti  i  gradi  d'intel- 
«  ligenza  ;  è  un  complesso  insomma  di  quadri  affatto 
«nuovi  e  sublimi.  È  vero  però  che  vi  si  rinvenne 
«un  lato  vulnerabile  come  il  calcagno  nel  fatato 
«corpo  d'Achille;  ma  però  le  saette  ad  essi  sca- 
«  gliate  dai  nostri  Paridi  non  li  ferirono  si  addentro 
«da  togliere  loro  la  vita,  che  durerà  anzi  sempre 
«  robustissima  ». 

Ombra  di  Giambattista  Bazzoni,  che  ti  aggiri  tra 
le  rovine  dimenticate  del  tuo  Castello  di  Trezzo, 
metti  il  cuore  in  pace:  non  ebbero  da  quelle  saette 
neppure  scalfita  la  pelle;  del  resto,  così  dura,  che 
sfida  i  secoli! 

Torino,  27  marzo  7903. 

Giovanni  Sforza. 


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XI. 


Fuga  di  Don  Rodrigo. 


Alessandro  Manzoni. 


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Ma  quella  dea  che  ha  (mirabile  a  dirsi  !)  tanti 
occhi,  quante  penne,  e  tante  lingue,  quanti  occhi, 
e  (ma  questo  pare  più  naturale)  tante  bocche,  quante 
lingue,  e  finalmente  tante  orecchie,  quanti  occhi, 
lingue  e  bocche  (debb'essere  una  bella  dea),  questa 
ultima  sorella  di  Ceo  e  di  Encelado,  partorita  dalla 
Terra  in  un  momento  di  collera;  veloce  al  passo  e 
al  volo,  che  cammina  sul  suolo  e  nasconde  il  capo 
tra  le  nuvole,  che  vola  di  notte  per  l'ombra  del 
cielo  e  della  terra,  né  mai  vela  gli  occhi  al  sonno; 
e  di  giorno  siede  sui  comignoli  dei  tetti,  o  su  le 
torri,  e  spaventa  le  città,  portando  attorno  il  finto 
e  il  vero  indifferentemente,  costei  aveva  già,  prima 
della  notte,  diffusa  nei  paesi  circonvicini  la  storia 
delle  avventure  di  quel  giorno.  Per  fare  intendere 
al  lettore  questa  particolarità,  abbiamo  usurpato"  for- 
inole che,  a  dir  vero,  appartengono  esclusivamente 
alla  poesia,  ma  saremo  scusati  da  coloro,  i  quali 
sanno  che  ad   imprimere  vivamente   una  immagine 


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~     356    - 

nelle  fantasie  il  mezzo  più  efficace  è  l'allegoria,  e  sin- 
golarmente quella  già  nota  e  consecrata  delle  antiche 
favole:  perchè  quando  si  vuol  fare  immaginar  bene 
una  cosa,  bisogna  rappresentarne  un'altra:  così  fatto 
è  l'ingegno  umano  quando  è  coltivato  con  diligenza. 
Siccome  però  a  voler  cavare  dalle  allegorie  il  senso 
vero  ed  ultimo,  quello  che  si  vuol  trasmettere,  è  ne- 
cessario in  ultimo  pensare  alle  cose  che  le  allegorie 
fanno  intendere,  così  non  lasceremo  di  dire  che  tutti 
gli  abitanti  del  contorno,  che  erano  convenuti  quel 
giorno  in  Chiuso,  tornando  la  sera  alle  case  loro, 
raccontarono  ciò  che  avevano  veduto,  ripeterono  ciò 
che  avevano  inteso,  commentando  le  circostanze 
che  per  sé  non  avrebbero  bastato  a  dare  idea  d'un 
fatto  compiuto,  e  inventarono  gli  episodj  che  erano 
indispensabili  per  dare  continuità  alla  storia.  Ma  il 
fondo  delle  loro  relazioni  era  vero;  e  questo  fondo 
aveva  abbondantemente  di  che  eccitare  una  grande 
maraviglia  e  un  grande  interesse.  Il  Conte  del  Sa- 
grato era  nome  d'una  terribile  celebrità  nei  con- 
torni e  assai  più  lontano,  e  una  conversione  tanto 
inaspettata  e  che  doveva  portare  tanti  cangiamenti, 
era  argomento  all'universale  di  una  pia  maraviglia, 
di  esultazione,  e  di  riconoscenza  a  Dio,  e  di  nuova 
venerazione  per  l'uomo  di  Dio,  che  ne  era  stato  lo 
stromento.  E  quello  che  rendeva  ancor  più  interes- 
sante quella  conversione  era  l'averne  veduto  un  ef- 
fetto immediato,  un  testimonio  vivo,  già  tanto  inte- 
ressante per  sé:   una  povera  giovane  restituita  vo- 


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—     357     — 

lontariamente  dal  carcere  privato  alla  libertà  e  alle 
braccia  di  sua  madre.  Ma  pei  parrocchiani  di  Don 
Abbondio  l'interesse  era  ancor  più  grande  che  per 
gli  altri  ;  per  essi  la  povera  giovane  era  Lucia,  quella 
Lucia  che  avevano  veduta  fra  loro  modesta,  bella, 
irreprensibile,  allegra,  che  avevano  pianta  sommes- 
samente smarrita,  della  quale  si  sussurravano  mille 
notizie  diverse  e  tutte  lagrimevoli,  della  quale  ora 
i  suoi  vicini  potevano  dire:  l'abbiamo  veduta  noi 
oggi  con  Agnese  andare  dal  Cardinale,  che  le  voleva 
parlare  in  persona.  Al  mattino  vegnente  la  fama  si 
posò  anche  sul  comignolo  del  castellotto  di  Don  Ro- 
drigo; ed  è  facile  immaginarsi  che  la  novella  ch'ella 
portava  fece  sull'animo  suo  tutt'altro  effetto  che  sul- 
l'animo di  quella  povera  moltitudine.  Quella  Lucia, 
ch'egli  aspettava  da  un  giorno  all'altro  d'avere  se- 
gretamente negli  artigli,  ora  pubblicamente  libera; 
sventate  e  divolgate  ad  un  punto  le  sue  trame  ab- 
ominevoli, e  quel  suo  alleato  nel  quale  egli  fidava, 
che  con  la  sua  cooperazione  doveva  dare  l'autorità 
del  terrore  al  fatto,  e  far  morire  il  biasimo  anche 
nelle  bocche  dei  più  arditi,  ora  disertato,  divenuto 
un  oggetto  di  fiducia  per  gli  avversarj.  Don  Ro- 
drigo si  sforzava  di  ridere  e  guardava  in  faccia  ai 
suoi  bravi  per  attignere  coraggio  o  indifferenza,  ma 
s'accorgeva  che  i  bravi  guardavano  in  faccia  a  lui 
con  la  stessa  intenzione  ;  e  per  non  trovare  il  coraggio 
il  mezzo  più  sicuro  è  di  essere  in  molti  a  cercarlo: 
anche  quel  poco  che  ognuno  si  sentiva  se  ne  va:  il 


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-    358     - 

Griso  stesso  (l)  era  avvilito.  Costoro  s'erano  tutti  ra- 
dunati nel  castello  come  in  un  asilo,  perchè  non  pa- 
reva loro  di  star  bene  in  nessun  altro  luogo.  Girando 
il  mattino,  s'erano  avveduti  che  tirava  un'aria  estrania, 
inusitata  :  avevano  osservata  su  tutti  i  volti  una  esal- 
tazione, una  risolutezza,  che  aveva  abbattuta  la  loro, 
che  veniva  in  gran  parte  dall'abitudine  di  mostrarla 
soli.  Prima  d'allora  quando  un  contadino  s'avveniva 
in  uno  scherano,  e  vedeva  in  lui  non  solo  la  forza  sua 
e  le  armi  che  portava,  ma  tutta  la  potenza  dei  suoi 
compagni  e  del  capo,  passava  a  canto  con  una  umile 
riverenza  ;  se  fosse  stato  insultato  lo  avrebbe  tollerato 
in  pace,  perchè  era  certo  che  gli  altri  che  lo  aves- 
sero veduto  sarebbero  stati  molto  contenti  di  esserne 
fuori  e  non  avrebbe  avuto  un  ausiliario:  ma  ora, 
l'occasione  di  esternare  un  sentimento  unanime  aveva 
fatta  sentire  a  tutti  una  fratellanza,  una  comunione 
d'idee  e  di  causa;  ognuno  era  certo  che  la  cosa  era 
intesa  da  mille  come  da  lui  ;  e  ognuno,  comunicando 
agli  altri  il  suo  nuovo  coraggio,  ne  riceveva  da  essi, 
per  la  ragione  inversa  di  quello  che  era  accaduto  ai 
bravi  e  a  Don  Rodrigo.  La  conversione  del  Conte, 


(l)  Il  Visconti  fa  in  margine  l'osservazione  seguente  : 
«  Lascerei  come  una  inezia  questo  cenno  sul  Griso.  Ha  del 
rettorico  o  per  dir  meglio  del  Tassesco: 

Argante,  Argante  stesso  ad  un  gran  urto 
Di  Rinaldo  abbattuto  appena  è  surto. 


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—     359     — 

la  liberazione  di  Lucia  era  l'argomento  dei  discorsi 
di  tutti  quelli  che  s'incontravano;  la  gente  si  fer- 
mava in  crocchj  a  parlarne;  un  bravo  che  passasse 
in  veduta  dei  crocchj  aveva  tutti  gli  occhj  addosso 
a  sé,  e  la  espressione  di  tutti  quegli  sguardi  era  una, 
quella  dell'orrore.  Tutti  parlavano  sicuramente  della 
pietà  cheavevano  provata,  del  timore  che  avevano  avuto 
per  quella  innocente,  mettevano  fuori  i  pensieri  che 
avevano  compressi  o  comunicati  sotto  voce  alla  sfug- 
gita, è  trovando  una  conformità  agli  altri,  sentivano 
che  a  quei  pensieri  era  unita  una  forza.  La  giustizia 
aveva  trionfato,  il  cielo  s'era  manifestato  per  l'inno- 
cente, e  questa  manifestazione,  che  pareva  una  pro- 
messa d'ajuto,  accresceva  ancor  più  l'animo  di  tutti. 
Un  potente  scellerato  aveva  pubblicamente  abjurata 
col  fatto  la  iniquità,  e  l'aveva  cosi  vilipesa  e  inde- 
bolita nello  stesso  tempo.  L'iniquità  era  conosciuta, 
e  perdendo  un  protettore  terribile,  aveva  acquistato 
un  nemico  pur  terribile,  un  cardinale,  un  santo,  un 
nobile,  uno  che  aveva  mezzi  di  persuasione,  di  forza, 
di  autorità,  di  aderenze.  Quello  poi  che  rinforzava 
l'effetto  di  tutte  queste  considerazioni  era  la  notizia 
sparsa  che  il  Cardinale  veniva  a  visitare  anche  quella 
parrocchia,  che  si  fermerebbe  qualche  tempo  nei  con- 
torni, che  vi  sarebbe  folla  d'uomini  condotti  dallo 
stesso  sentimento  pio,  avverso  alla  ingiustizia.  E  già 
si  diceva  che  il  castellano  di  Lecco,  quello  spagnuolo 
per  cui  il  Podestà  aveva  tanta  stima,  si  disponeva 
ad  incontrare  il  Cardinale,  in  gran  pompa,  coi  suoi 


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—     360     — 

soldati  :  tutta  la  forza,  tutto  lo  splendore  era  per  la 
pietà  e  per  la  giustizia.  Ognuno  pensava  che  gli  scel- 
lerati avrebbero  dovuto  convertirsi  come  il  Conte,  o 
perdersi  d'animo  e  fuggire. 

Don  Rodrigo,  dopo  non  breve  esitazione,  prese  que- 
st'ultimo partito.  La  violenza  quando  è  assistita  dalla 
fortuna  ama  a  mostrarsi,  ella  ha  con  sé  come  un  ar- 
gomento della  sua  bontà,  o  della  sua  ragionevolezza, 
poiché  ottiene  il  suo  intento;  ma  quando  è  abban- 
donata dalla  fortuna,  quando  non  valgono  altri  ar- 
gomenti che  quelli  del  diritto,  del  senso  universale 
della  giustizia,  che  le  mancano  quando  appare  non 
solo  come  ingiustizia,  ma  come  sbaglio,  allora  la 
violenza  vorrebbe  nascondersi  anche  a  sé  stessa.  Don 
Rodrigo  pensava  che  cosa  mai  avrebbe  potuto  fare 
di  conveniente  che  stesse  bene  in  quei  giorni,  e  non 
trovava  nulla,  nemmeno  un  soggetto  di  discorso  con 
chi  venisse  a  visitarlo.  E,  d'altra  parte,  s'immagi- 
nava bene  che  nessuno  sarebbe  venuto.  Quei  signori 
che  lo  avevano  adulato  fin'allora,  si  sarebbero  allora 
avveduti  ch'egli  era  un  ribaldo,  il  Podestà  doveva 
in  quei  momenti  far  dimenticare  le  sue  relazioni  con 
l'uomo,  che  avrebbe  dovuto  reprimere  e  punire;  al 
più  il  dottor  Duplica  (l),  il  quale  non  voleva  mai 
inimicarsi  senza  speranza  un  signore,  sarebbe  stato 


(!)  È  il  famoso  Azzecca-garbugli,    che    prima   chiamò 
Bettola,  poi  Duplica.  (Ed.) 


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-     36i     - 

quei  giorni  a  poltrire  in  letto,  per  potergli  dire  un 
giorno  che  una  malattia  gli  aveva  tolto  il  bene  di 
ossequiare  il  signor  Don  Rodrigo.  Questi  non  ve- 
deva così  distintamente  tutte  queste  disposizioni,  ma 
le  sentiva  confusamente  come  per  istinto.  D'altra 
parte,  come  condursi  col  Cardinale?  Tutti  i  signori 
del  contorno  sarebbero  andati  a  visitarlo,  ed  egli 
rimanersi  solo  a  casa?  Che  direbbe  lo  zio  del  Con- 
siglio segreto  ?  Andare  dinanzi  al  Cardinale,  egli  ? 
gran  Dio  ! 

Ordinò  dunque  che  tutto  si  apparecchiasse  pel  ri- 
torno in  città,  e  al  più  presto.  Quando  la  carrozza 
fu  pronta,  vi  fece  salire  tre  bravi  :  il  Griso,  come  il 
più  terribile  (l),  fu  posto  all'avanguardia  sulla  serpe, 
tutto  armato;  al  resto  della  famiglia  fu  dato  ordine 
di  venire  a  Milano  l'indomani,  e  si  partì.  Dopo  i 
primi  passi,  Don  Rodrigo  vide  coi  suoi  occhi  la  via 
piena  di  viandanti  che  andavano  in  folla  a  Maggia- 
nico,  altri  per  vedere  il  Cardinale,  per  assistere  alla 
solennità  :  giovani,  vecchi,  benestanti  e  poveri  in  quan- 
tità, che  sapevano  di  non  tornare  con  le  mani  vuote. 
Guardò  alla  sfuggita  e  conobbe  in  un  punto  su  tanti 
volti  quale  era  il  sentimento  universale  per  lui  :  fre- 
mette, si  promise  di  vendicarsi,  ma  s'accorse  che  la 
menoma  dimostrazione  in  quel  momento  poteva  far 
nascere  una  guerra  della  quale   l'evento   finale  non 


O  Valente.  [Postilla  del  Visconti]. 


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—     3^2     — 

sarebbe  stato  dubbio:  dissimulò  dunque,  ritirò  la 
testa  nella  carrozza,  guardò  i  suoi  bravi  e  lesse  sui 
loro  volti  pallidi  il  desiderio  di  esser  fuori  di  quella 
processione  e  lontani  dal  paese.  Sentì  un  romore 
dietro,  stette  in  silenzio,  tendendo  l'orecchio,  e  com- 
prese che  erano  urli  e  fischj.  Allora  mormorò  fra  i 
denti:  vorrei  che  il  Griso  avesse  giudizio,  che  non 
mi  facesse  scene.  Avrebbe  voluto  dare  al  Griso  questo 
consiglio  della  paura,  ma  la  paura  gli  comandava  di 
non  muoversi,  di  non  farsi  vedere,  e  stette  in  quella 
ansietà  inoperosa  fino  a  che  la  carrozza,  giunta  al 
punto  dove  la  strada  si  divideva,  imboccò  quella  che 
conduceva  a  Milano  e  si  separò  dalla  folla  che  te- 
neva a  Maggianico.  Don  Rodrigo  e  i  suoi  scherani 
respirarono  allora  dallo  spavento,  ma  i  pensieri  che 
rimasero  a  Don  Rodrigo  non  furono  molto  più  se- 
reni. Il  cocchiere  sferzò  i  cavalli  per  allontanarsi  al 
più  presto,  e  tutti  i  viaggiatori,  senza  dir  motto,  lo 
lodarono  in  cuore  e  si  rallegrarono  sentendo  che  la 
carrozza  andava  velocemente,  senza  impedimenti,  in 
una  strada  solitaria.  Buon  viaggio  (1). 


(*)    Quest'  episodio  è   un   brano    del   capitolo    III    del 
tornò  III.  (Ed.) 


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XII. 

Ritorno  di  Lucia  al  suo  paese. 


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Ma  se  le  accoglienze  dei  paesani  di  Lucia  al  Car- 
dinale non  poterono  essere  più  clamorose,  né  più 
calde  di  quelle  che  gli  avevano  fatte  per  tutto  at- 
torno, avevano  però  una  espressione  di  una  ricono- 
scenza speciale,  che  Federigo  potè  distinguere  :  anzi 
egli  intese  più  d'una  volta  nelle  benedizioni  che  gli 
erano  date,  unito  al  suo  nome  suonare  quello  di  Lucia. 
Il  buon  vecchio  tripudiò  in  cuore  e  per  quella  gioja 
che  dà  sempre  agli  onesti  il  vedere  l'espressione  pub- 
blica d'un  sentimento  onesto  ed  umano  e  perchè  con 
un  tal  favore  del  popolo  gli  parve  che  Lucia  potesse 
con  sicurezza  tornare,  almeno  per  allora,  a  casa  sua. 
Ritiratosi  pertanto,  come  abbiam  detto,  nella  casa 
di  Don  Abbondio,  il  Cardinale  s'informò  da  lui  e 
da  qualche  altro  prete  su  lo  stato  delle  cose  per  rap- 
porto a  Lucia,  e  potè  esser  certo  che  ogni  pericolo 
era  cessato  per  lei,  giacché  il  suo  gran  nimico  e  gli 
scherani  di  questo  se  n'erano  iti  con  la  coda  tra  le 
gambe,  e  quand'anche  fossero  stati  sfrontati  a  segno 
di  rimanere,  i  difensori  di  Lucia  sarebbero  stati  dieci 


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—     366     — 

volte  in  numero  più  del  bisogno.  Quando  ebbe  questa 
certezza,  Federigo  ordinò  che  l'indomani  di  buon 
mattino  la  sua  lettiga  andasse  a  prendere  Lucia  e  la 
madre,  e  impose  all'ajutante  di  camera  che  si  por- 
tassero provvigioni  di  vitto  alla  casetta  delle  donne, 
perchè  le  poverette  e  Lucia  principalmente  non  pro- 
vasse quei  mancamenti  e  quei  disagj  che  le  avreb- 
bero renduti  increscevoli  i  primi  momenti  del  ritorno, 
e  prolungato  in  certo  modo  il  sentimento  amaro  del- 
l'assenza. 

All'indomani,  alzatosi  al  solito  di  buon  mattino, 
attese  il  Cardinale  alle  consuete  operazioni,  s'intrat- 
tenne alquanto  col  Conte  del  Sagrato,  il  quale  non 
aveva  mancato  di  venire  a  quella  stazione  della  vi- 
sita, come  negli  altri  giorni,  poscia  andò  nella  chiesa, 
come  era  uso.  Le  funzioni  non  erano  ancora  termi- 
nate, che  Lucia  giunse  con  Agnese  alla  soglia  della 
casetta  paterna.  Agnese  aveva  parlato  per  tutta  la 
strada;  la  sua  gioja,  pel  ritorno  trionfale,  la  gioja 
di  ricondurre  salva  a  casa  la  figlia  da  tanti  pericoli, 
la  gioja  d'esser  divenuta  conoscenza  di  Monsignore 
illustrissimo,  l'aspettazione  dell'accoglimento  che  le 
farebbero  i  parenti,  i  conoscenti,  tutti  i  paesani  erano 
sentimenti  espansivi  e  distinti  che  si  prestavano  assai 
bene  alla  sua  loquacità  naturale.  Ma  i  sentimenti  di 
Lucia  erano  misti,  intralciati,  ripugnanti:  erano  di 
quelli  sui  quali  la  mente  s'appoggia  con  una  insi- 
stenza dolorosa  per  distinguerli  e  per  assoggettarli  ; 
di  quei  sentimenti  che  non  cercano  di  esser  comu- 


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—     3^7     — 

nicati,  né  trovano  ancora  la  parola  che  li  rappresenti. 
Rivedeva  ella  la  sua  casa,  quella  dove  aveva  pas- 
sati tanti  anni  tranquilli,  che  aveva  tanto  desiderato 
e  sì  poco  sperato  di  rivedere,  ma  quella  casa  che 
non  era  stata  per  lei  un  asilo,  quella  casa  dove  aveva 
data  una  promessa  che  non  credeva  di  poter  più  at- 
tenere, dove  aveva  tante  volte  fantasticato  un  avve- 
nire, divenuto  ora  impossibile.  Era  terribilmente  in 
forse  di  Fermo  :  Agnese  non  le  aveva  potuto  dire  se 
non  quello  ch'ella  stessa  sapeva  confusamente  ;  che 
Ferino,  cioè,  dopo  il  tumulto  di  Milano  del  giorno 
di  San  Martino,  aveva  dovuto  fuggire  dalla  città  e 
uscire  dallo  Stato  per  porsi  in  salvo.  E  quand'anche 
Fermo  fosse  tornato  tranquillamente,  le  ansietà  di 
Lucia  si  sarebbero  cangiate,  ma  non  avrebbero  cessato, 
perchè  ella  non  poteva  più  esser  sua.  Tremava  ancora 
nel  pensiero  che  Fermo  potesse  essere  informato  del 
suo  ratto,  della  sua  prigionia,  e  non  sapesse  esatta- 
mente com'ella  aveva  fuggito  ogni  pericolo  ;  la  pove- 
retta, mentre  aveva  rinunziato  a  Fermo,  avrebbe  vo- 
luto ch'egli  sapesse  ch'ella  era  in  tutta  degna  di  lui. 
Avrebbe  voluto  che  Fermo  fosse  informato  del  voto 
ch'ella  aveva  fatto,  senza  ch'ella  glielo  dicesse,  che 
egli  l'approvasse  con  dolore,  che  non  pensasse  mai 
ad  altra,  né  più  a  lei,  o  per  meglio  dire,  giacché 
questa  non  era  l'idea  precisa  di  Lucia,  avrebbe  vo- 
luto che  Fermo  facesse  tutti  i  giorni  una  risoluzione 
di  non  più  pensare  a  lei  ;  che  si  fosse  ben  ricordato 
che  era  suo   dovere  di  dimenticarla.    L'assenza  del 


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-     368     — 

Padre  Cristoforo  accresceva  ed  esacerbava  tutti  questi 
cordoglj  :  le  mancava  l'ajuto  e  il  consiglio;  quegli  a 
cui  ella  confidava  anche  i  mezzi  pensieri,  quegli  le 
cui  parole  la  rendevano  sempre  più  tranquilla  e  più 
conscia  di  sé  stessa.  Quanto  a  Don  Rodrigo,  egli 
era  messo,  almeno  per  qualche  tempo,  fuori  del  caso 
di  far  paura,  e  la  rimembranza  di  quest'uomo,  trista 
certo  e  orrenda  per  Lucia,  non  accresceva  però  le 
sue  inquietudini.  Pensava  però  che  Don  Rodrigo  sa- 
rebbe tornato  e  rimasto  e  che  il  Cardinale  non  avrebbe 
potuto  sempre  aver  Pocchio  sopra  di  lei  per  difen- 
derla, e  da  questo  pensiero  deduceva  la  necessità  di 
trovare  qualche  dimora  più  sicura,  e  sperava  che  il 
Cardinale  stesso  ne  avrebbe  tolto  l' incarico. 

Così,  dopo  d'avere  abbracciata  la  zia,  che  l'ac- 
colse piangendo,  Lucia  la  lasciò  con  Agnese,  che  se 
ne  impadronì  per  raccontarle  tante  tante  cose,  e  si  ri- 
tirò nella  sua  stanza..  Ivi,  dopo  d'aver  ringraziato  Dio 
dell'averla  ricondotta  quivi,  oltre  e  contra  la  speranza, 
si  mise  a  rivisitare  tutte  le  sue  masserizie,  come  per 
provare  se  potesse  ricominciare  la  sua  vita  passata; 
ma  non  v'era  oggetto  nella  casa,  non  v'era  angolo 
al  quale  non  fossero  associate  idee  divenute  dolorose 
e  ripugnanti.  Lucia  prese  come  macchinalmente  il  suo 
arcolajo  e  sedette  a  dipanare  la  matassa  di  seta  che 
aveva  lasciata  a  mezzo  quando  Fermo  venne  a  pi- 
gliarla per  la  spedizione  del  matrimonio  clandestino. 

Dopo  pochi  momenti  ecco  giungere  Perpetua 
affannata  a  dire  che  Monsignore,  tornato  di  chiesa, 


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—   369    — 

aveva  chiesto  se  Lucia  era  arrivata,  e  che  udendo 
di  sì,  aveva  ordinato  che  fosse  tosto  chiamata.  Il  si- 
gnor Curato  poi,  aggiunse  Perpetua  sottovoce,  mi 
ha  imposto  di  dirvi,  o  Lucia,  che  vi  ricordiate  del 
parere  che  vi  ha  dato  a  Chiuso:  ehm?  sapete?  di 
non  dir  nulla  di  quel  tale  affare;  Agnese,  m'inten- 
dete? del  matrimonio,  guardatevi  dal  parlarne,  perchè, 
perchè  i  Cardinali  passano  e  i  curati  restano.  Le  due 
donne  si  guatarono  in  viso,  come  per  dire  l'una  all'al- 
tra: ora  mò?  non  siamo  più  in  tempo.  Ma  Agnese,  fatta 
una  faccia  tosta,  disse  a  Lucia  :  certo  non  bisogna 
dir  nulla;  e  mettendo  la  bocca  all'orecchio  di  Lucia 
continuò:  del  matrimonio  clandestino.  Guaj,  vedi,  è 
un  guaj  grosso.  Lucia  con  queste  due  ingiunzioni, 
l'una  delle  quali  era  ineseguibile,  e  l'altra  poteva  di- 
pendere dalle  domande  che  il  Cardinale  le  avrebbe 
fatte,  s'incamminò,  tutta  pensierosa  e  agitata,  con  le 
due  donne,  alla  casa  del  curato.  Per  la  via  incontra- 
rono la  folla,  che  uscita  dalla  chiesa  si  diffondeva 
nel  contorno  ;  e  Lucia  fu  accolta  con  acclamazioni  (*), 
e  fermata  ad  ogni  passo  da  saluti,  fra  i  quali,  ver- 
gognosa, con  gli  occhi  bassi  e  gonfj,  entrò  nella  casa 
parrocchiale,  e  fu  tosto  condotta  nella  stanza  dov'era 
Federigo,  il  quale  la  ricevè  con  le  solite  precauzioni. 


(*)  Lascerei  queste  righe,  per  dare  maggiore  brevità, 
e  perchè  queste  acclamazioni  sono  cosa  troppo  simile  alle 
altre  in  cui  Lucia  fu  nominata  plaudendo  al  Cardinale. 
[Postilla  del  Visconti]. 


Alessandro  Manzoni. 


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—     37o     ~ 

Dopo  alcune  inchieste  cortesi  sul  suo  viaggio,  sul 
piacere  ch'ella  aveva  provato  nel  rivedere  la  sua 
casa,  Federigo  la  interrogò  di  nuovo  sull'affare  del 
matrimonio.  Lucia  dovette  rispondere  e  raccontò  tutta 
la  faccenda  fino  al  clandestino,  dove  si  fermò  come 
un  cavallo  che  ha  veduto  un'ombra,  e  rista  con  una 
sosta  improvvisa  é  singolare,  che  non  è  quella  solita 
d'allora  che  è  giunto  al  termine  del  suo  viaggio.  Fe- 
derigo, che  s'avvide  di  qualche  cosa,  domandò  a 
Lucia  che  risoluzione  avesse  presa  ella,  sua  madre, 
lo  sposo  quando  si  videro  chiusa  la  via  a  quella 
unione  che  desideravano  e  che  chiedevano  legittima- 
mente. Agnese  udendo  questo,  cominciò  a  far  certi 
visacci  a  Lucia,  cercando  di  non  lasciarli  scorgere  al 
Cardinale  (cosa  non  molto  facile),  e  questi  visacci 
volevano  dire  :  rispondi  :  niente,  abbiamo  aspettato 
con  pazienza.  Lucia  stava  interdetta:  Federigo,  che 
vedeva  tutto  —  1'  avrebbe  veduto  un  cieco  nato  — 
disse  ad  Agnese,  con  un  contegno  tranquillo  e  serio  : 
Perchè  non  lasciate  esser  sincera  la  vostra  figlia?  e 
volto  a  Lucia  :  parlate  liberamente,  continuò  :  Dio  vi 
ha  assistita:  dategli  gloria  con  dire  la  verità.  Lucia 
allora  spiattellò  tutta  la  storia  del  clandestino,  e  la 
narrazione  divenne  allora  liscia,  verisimile  e  ben  con- 
gegnata. 

—  Avete  confessata  una  colpa,  disse  tranquilla- 
mente Federigo:  Dio  ve  la  perdoni  e....  a  chi  v'ha 
dato  una  tentazione  cosi  forte  di  commetterla.  Ma 
d'ora  in  poi,  buona  figliuola,   e  voi,  buona  donna, 


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—     371     — 

non  fate  più  di  quelle  cose  che  non  raccontereste 
volentieri. 

Quindi  passò  a  chiedere  a  Lucia  dove  fosse  Fermo; 
che  ora  il  matrimonio  poteva  e  doveva  esser  tosto 
conchiuso. 

Questo  era  un  punto  ancor  più  rematico.  Le  dirò 
io....  cominciava  Agnese,  ma  il  Cardinale  le  diede 
un'occhiata,  la  quale  significava,  ch'egli  sperava  la 
verità  più  da  Lucia  che  da  lei,  onde  Agnese  am- 
mutì; e  Lucia  singhiozzando,  rispose:  Fermo,  povero 
giovane,  non  è  qui  ;  s'è  trovato  in  quei  garbugli  di 
Milano  e  ha  dovuto  fuggire;  ma  son  certa  ch'egli 
non  ha  fatto  male,  perchè  era  un  giovane  di  timor 
di  Dio. 

— •  Ma  che  ha  fatto  in  quel  giorno?  chiese  ancora 
il  Cardinale:  quale  è  la  sua  colpa? 

—  Non  ne  sappiamo  di  più,  rispose  Lucia. 

Il  Cardinale,  giacché  altri  non  v'era  a  cui  do- 
mandare, si  volse  ad  Agnese,  la  quale,  rianimata, 
disse:  Se  volessi  potrei  inventare  una  storia  per  con- 
tentare Vissignoria  illustrissima,  ma  sono  incapace 
d'ingannare  una  gran  persona,  come  Ella  è;  e  non 
sappiamo  proprio  niente  di  più. 

—  Dio  buono  !  disse  il  Cardinale  :  insidie,  colpe, 
sciagure,  incertezze,  ecco  il  mondo  dei  grandi  e  dei 
piccioli.  Ma  voi,  disse  a  Lucia,  che  pensate  adunque 
di  fare  intanto? 

—  Io,  rispose  Lucia,  io  vedo  che  il  Signore  ha 
deciso  altrimenti  di  me,  che  non  mi  vuole  in  quello 


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—     372     — 

stato,  e  ho  messo  il  mio  cuore  in  pace.  E  se  trovassi 
dove  vivere  tranquillamente,  fuor  d'ogni  pericolo; 
se  potessi  esser  ricevuta  conversa  in  un  monastero.... 
consecrarmi  a  Dio.... 

—  Oh  che  furia!  sclamò  Agnese. 

—  Voi  vi  siete  promessa,  buona  giovane,  disse 
Federigo:  vi  siete 'allora  risoluta  a  promettere  senza 
riflessione,  leggermente? 

—  Questo  no,  disse  Lucia  arrossando. 

—  Bene,  disse  Federigo,  potrebbe  ora  dunque 
esser  leggiero  il  ritrattarvi.  Se  quest'uomo  fosse  in- 
nocente, se  potesse  sposarvi,  che  mutamento  è  ac- 
caduto nelle  vostre  relazioni?  Nessun  altro  che  una 
serie  di  sventure  ad  ambedue,  e  non  è  questa  una 
ragione  per  separarvi.  Questo  non  è  il  momento  di 
pigliare  una  risoluzione.  Sospendete,  fate  ricerche, 
aspettate  che  Iddio  vi  riveli  più  chiaramente  la  sua 
volontà.  L'asilo  (l)  intanto  ve  lo  troverò  io. 

Lucia  fu  tentata  più  d'una  volta  di  rivelare  il 
voto,  ma  una  vergogna  insuperabile  la  ritenne.  Fe- 
derigo l'assicurò  che  non  sarebbe  partito  da  quei 
contorni  prima  d'avere  stabilito  qualche  cosa  per  lei  ; 
e  dopo  qualche  altra  parola  di  consolazione  e  di  av- 
viso la  lasciò  partire  con  Agnese  (*). 


(*)  Un  asilo,  caro  Alessandro,  pare  che  il  Cardinale 
voglia  metterla  in  monastero  a  fare  il  noviziato.  [Postilla 
del  Visconti]. 

(2j  È  un  brano  del  capitolo  IV  del  tomo  III.  (Ed.) 


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XIII. 

Visita  del  Conte  del  Sagrato  a  Lucia. 


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Abbiamo  detto  che  il  Conte  del  Sagrato  era  ve- 
nuto ogni  mattina  a  quella  chiesa  che  il  Cardinale 
visitava  in  quel  giorno.  Stava  alquanto  con  lui  in 
quell'ora  di  riposo  che  precedeva  il  pranzo,  e  poi 
ripartiva.  Ma  in  questo  giorno  egli  era  venuto  con 
un  disegno,  che  fu  cagione  di  farlo  rimanere  più  tardi. 
Sapeva  il  Conte  che  Lucia  doveva  tornare  alla  sua 
casa  :  il  Cardinale  lo  aveva  informato  di  questo,  anzi 
gliene  aveva  chiesto  consiglio  :  perchè,  dove  si  trat- 
tava di  pericolo  e  di  cautela,  di  bravi  e  di  tiranni, 
non  v'era  uomo  più  al  caso  di  dare  un  buon  consi- 
glio (*)  :  e  il  Conte  aveva  confortato  il  Cardinale  ad 


(*)  Il  consiglio  chiesto  dal  Cardinale  mi  piace,  ma  assai. 
Rialza  in  un  modo  inaspettato  il  Conte  dopo  la  sua  con- 
versione, lo  rende  sempre  più  vivo.  Ma  bada  bene:  che 
il  Cardinale  aveva  ordinato  la  lettiga  subito  dopo  aver 
parlato  coi  preti,  e  l'ultimo  consiglio  dev'essere  quello 
del  Conte,  come  il  più  di  peso.  Non  ti  spiacerebbe  di 
soggiungere  in  quel  luogo  dopo  le  parole  :  Quando  ebbe 


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—     376     — 

installare  pure  sicuramente  Lucia  nel  suo  pacifico  al- 
bergo. Prevedendo  egli  dunque  che  quel  giorno  Lucia 
si  sarebbe  trovata  dal  Cardinale,  non  vi  si  presentò 
all'ora  consueta,  ma  stette  nella  chiesa,  aspettando 
l'ora  in  cui  il  Cardinale  era  solito  di  desinare,  e 
quando  questa  gli  parve  dover  esser  giunta,  entrò 
nella  cucina,  dove  Perpetua  stava  in  grandi  faccende, 
e  le  chiese,  con  umile  affabilità,  di  potere  ivi  tratte- 
nersi ad  attendere  che  il  pranzo  fosse  finito,  per  chie- 
dere udienza  a  Monsignore.  Chi  entra  in  una  cucina 
in  un  giorno  di  cerimonie  è  sempre  il  mal  venuto; 
ma  il  Conte  aveva  una  antica  riputazione  di  ribalderia 
e  una  recente  di  santità,  '  che  imposero  anche  a  Per- 
petua, la  quale,  per  levarsi  dattorno  nel  modo  più 
gentile  quell'incomodo  arnese,  propose  al  Conte  d'en- 
trare nella  sala  del  pranzo.  —  Si  faccia  avanti,  dis- 
sella, sulla  mia  parola  :  Monsignore  la  vedrà  molto 
volentieri;  e  anche  il  mio  padrone  e  tutta  la  com- 
pagnia: non  faccia  cerimonie. 

Ma  il  Conte  disse  di  nuovo  che  desiderava  di 
attendere  ivi  in  un  canto.  Perpetua  lo  fece  sedere  al 
posto  d'onore  della  cucina,  nel  banco  sotto  la  cappa 
del  cammino,  dicendo  :  Vossignoria  starà  come  potrà: 
veramente  avrebbe  fatto  meglio  d'entrare  coi  signori, 


questa  certezza,  nella  quale  fu  riconfermato  dall'opinione 
d'un  altro  personaggio,  di  cui  lasceremo  per  ora  che  il 
lettore  indovini  il  nome,  Federigo  ordinò,  ecc.?  [Postilla 
del  Visconti]. 


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—     377     — 

che  quello  è  il  suo  posto  :  basta,  com'ella  vuole  :  mi 
scusi  se  non  posso  fare  il  mio  dovere  a  tenerle  com- 
pagnia, perchè  oggi  ho  tante  faccende  :  ella  vede.  Il 
Conte  sedette,  ringraziò,  e  cavato  un  tozzo  di  pane(l), 
che  aveva  portato  con  sé,  si  diede  a  mangiare.  Quando 
Perpetua  vide  questo,  non  lo  volle  patire.  —  Come? 
un  signore  suo  pari  !  non  sarà  mai  detto  ch'ella  faccia 
questo  torto  alla  mia  cucina.  Ecco,  si  serva,  mangi 
di  questo:  e  lasci  fare  a  me  per  mandare  in  tavola 
il  piatto  senza  un  segno:  non  faccia  complimenti: 
che  serve?  —  E  come  il  Conte  rifiutava,  Perpetua 
gli  si  avvicinò  all'orecchio  e  gli  disse  a  bassa  voce  : 
—  Via,  signor  Conte;  che  scrupoli  son  questi?  so 
quello  che  posso  fare;  la  padrona  sono  io  qui.  —  Ma 
tutto  fu  inutile.  Il  Conte  ringraziò  di  nuovo,  e  con- 
tinuò a  rodere  ostinatamente  il  suo  pane. 

Quando  poi  da  quello  che  accadeva  in  cucina 
s'avvide  che  erano  cessati  i  cibi  e  levate  le  mense, 
fece  chiedere  udienza  a  Federigo,  dal  quale  fu  tosto 
fatto  introdurre. 

—  Monsignore,  diss'egli,  quando  gli  fu  in  pre- 
senza, questo  è  un  giorno  di  festa  singolare  per  questo 
paese  e  per  voi:  ma  in  questa  allegrezza  comune, 
io,  io  ho  una  parte  ben  diversa  da  tutti  gli  altri  ;  il 
gaudio  puro  e  sgombro  della   liberazione  d'una  in- 


(*)   Tozzo  di  pane  mi  pare  troppo  da  pitocco,  direi  un 
pane.  [Postilla  del  Visconti]. 


—     378     — 

nocente  non  è  per  colui  che  l'aveva  vilmente  oppressa, 
angariata.  A  me  conviene  dunque  un  contegno  e  un 
linguaggio  particolare  ;  lasciate  che  io  faccia  oggi  la 
mia  parte;  approvate  che  io  vada  ad  implorare  un 
perdono  da  quella  innocente,  ch'io  mi  umilj  dinanzi 
a  lei,  che  le  confessi  il  mio  orribile  torto,  e  che  ri- 
ceva dalla  sua  bocca  innocente  dei  rimproveri,  che 
non  saranno  certo  condegni  alla  mia  iniquità,  ma  che 
serviranno  in  parte  ad  espiarla. 

Federigo  intese  con  gioja  questa  proposizione;  e 
pel  Conte,  a  cui  questo  passo  sarebbe  un  progresso 
nel  bene  e  una  consolazione  nello  stesso  tempo  ;  e 
per  Lucia,  alla  quale  lo  spettacolo  della  forza  umiliata 
volontariamente,  sarebbe  un  conforto,  un  rincoramento 
dopo  tanti  terrori;  e  pel  trionfo  della  pietà,  e  per 
l'edificazione  dei  buoni;  e  finalmente  perchè  una  ri- 
parazione pubblica  e  clamorosa  attirerebbe  ancor  più 
gli  sguardi  sopra  Lucia,  e  sul  suo  pericolo  (*),  sarebbe 
una  più  aperta  manifestazione  del  soccorso  che  Dio 
le  aveva  dato,  la  renderebbe  come  sacra,  e  così  più 
sicura  da  ogni  nuovo  attentato  dello  sciaurato  suo 
persecutore.  Approvò  egli  dunque  con  vive  e  liete 
parole  la  proposizione  e  aggiunse  :  —  Dite  :  dite  se 
l'offesa  la  più  ardentemente  bramata,  la  più  lunga- 


(l)  Lascerei  e  sul  suo  pericolo,  che  imbroglia;  pare 
che  fosse  attualmente  in  qualche  pericolo  per  parte  di 
Rodrigo.  [Postilla  del  Visconti]. 


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—     379     — 

mente  meditata,   la  meglio  riuscita  reca  mai  tanta 
dolcezza  quanto  una  umile  e  volontaria  riparazione? 

—  Ah!  la  dolcezza  sarebbe  intera,  rispose  il  Conte, 
se  la  riparazione  potesse  esserlo,  se  il  pentimento,  se 
l'espiazione  la  più  operosa,  la  più  laboriosa  potesse 
fare  che  il  male  non  fosse  fatto,  che  i  dolori  non  fos- 
sero stati  sentiti. 

—  Ma  v'è  ben  Quegli,  rispose  Federigo,  che 
può  far  di  più;  che  può  cavare  il  bene  dal  male,  dare 
pei  dolori  sofferti  il  centuplo  di  gioja,  fargli  bene- 
dire a  chi  gli  ha  sofferti.  E  quando  voi  fate  per  Lui 
e  con  Lui  quel  poco  che  v'è  concesso  di  fare,  Egli 
farà  il  resto:  Egli  farà  che  del  male  passato  non 
resti  a  quella  poveretta  che  un  argomento  di  rico- 
noscenza e  di  speranza,  e  a  voi  di  una  afflizione  umile 
e  salutare  ('). 

Detto  questo,  il  Cardinale  chiamò  il  curato,  e  gli 
impose  che  facesse  avvisare  Lucia  del  disegno  del 
Conte,  e  le  dicesse  ch'egli  stesso  la  pregava  di  ac- 
coglierlo. Partito  il  curato,  Federigo  richiese  il  Conte 
che  aspettasse  tanto  che  Lucia  potesse  essere  av- 
vertita. 


(*)  Di  fianco  alla  presente  risposta  di  Federigo  e  alle 
parole  del  Conte  :  Ah!  la  dolcezza,  ecc.  il  Visconti  scrisse  : 
«  Lascerei  questi  due  punti  :  non  bisogna  poi  essere  pro- 
digo di  riflessioni  ascetiche  in  un  Romanzo.  Anche  per 
l'edificazione  de*  lettori  —  non  ridere  tu,  sebbene  io  rida 
di  me  stesso  —  è  meglio  presentare  più  che  si  può  con 
disinvoltura  le  idee  Cristiane  ».  (Ed.) 


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—    380    — 

Dopo  qualche  momento  il  Conte  usci  dalla  casa 
di  Don  Abbondio  e  s'avviò  a  quella  di  Lucia  tra  una 
folla  di  spettatori,  fra  i  quali  era  già  corsa  la  notizia 
di,  ciò  che  si  preparava. 

La  forza,  che  spontanea,  non  vinta,  non  strascinata, 
non  minacciata,  si  abbassa  dinanzi  alla  giustizia,  che 
riconosce  nella  innocenza  debole  un  potere,  e  domanda 
grazia  da  essa,  è  un  fenomeno  tanto  bello  e  tanto 
raro,  che  beato  chi  può  ammirarlo  una  volta  in  sua 
vita.  Quei  buoni  terrieri  (in  quel  momento  erano  tutti 
buoni)  non  si  saziavano  di  guardare  il  Conte,  lo  se- 
guivano, lo  circondavano  in  tumulto,  lo  colmavano 
di  benedizioni.  Tanta  è  la  bellezza  della  giustizia: 
per  tarda  ch'ella  sia,  innamora  sempre  quando  è  vo- 
lontaria :  quelli  che  dopo  aver  fatti  patir  gli  uomini 
si  vendicano  dell'odio  loro,  che  gli  tormenta,  col  fargli 
patire  ancor  più,  non  pensano  che  quell'odio  è  pronto 
a  cangiarsi  in  favore,  in  riconoscenza,  al  momento 
che  una  risoluzione  pietosa,  un  ravvedimento,  anche 
senza  confessione,  faccia  cessare  i  patimenti. 

Il  Conte  camminava  ad  occhi  bassi  e  col  volto  in- 
fiammato, tutto  compunto  e  tutto  esaltato,  che  po- 
teva sembrare  un  re  condotto  in  catene  al  trionfo,  o 
il  capitano  trionfatore,  e  Don  Abbondio  camminava 
al  suo  fianco  e  pareva...  Don  Abbondio. 

Giunti  alla  casetta  di  Lucia,  il  curato  fece  entrare 
il  Conte,  e  con  ambe  le  mani  ritenne  la  folla,  o  al- 
meno le  comandò  che  si  rattenesse,  tanto  che  potè 
chiuder  l'uscio,  e  lasciarla  al  di  fuori. 


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-     38i     - 

Lucia,  tutta  vergognosa,  condotta  dalla  madre,  si 
fece  incontro  al  Conte,  il  quale,  trattenendosi  vicino 
alla  porta,  nell'atteggiamento  di  un  colpevole,  le  disse 
con  voce  sommessa  :  Perdono  :  io  son  quello  che  v'Jia 
offesa,  tormentata:  ho  messe  le  mani  sopra  di  voi, 
vilmente,  a  tradimento,  senza  pietà,  senza  un  pretesto, 
perchè  era  un  iniquo  :  ho  sentito  le  vostre  preghiere, 
e  le  ho  rifiutate:  ho  veduto  le  vostre  lagrime,  e  son 
partito  da  voi  senza  esaudirvi.  Vi  ho  fatta  tremare 
senza  che  voi  m'aveste  offeso,  perchè  era  più  forte 
di  voi  e  scellerato.  Perdonatemi  quel  viaggio,  per- 
donatemi quel  colloquio,  perdonatemi  quella  notte; 
perdonatemi,  se  potete. 

—  S'io  le  perdono!  rispose  Lucia.  Dio  s'è  ser- 
vito di  lei  per  salvarmi.  Io  ero  nelle  unghie  di  chi 
mi  voleva  perdere,  e  ne  sono  uscita  col  suo  ajuto. 
Dal  momento  ch'ella  m'è  comparsa  innanzi,  che  io 
ho  potuto  parlarle,  ho  cominciato  a  sperare  ;  sentiva 
in  cuore  qualche  cosa  che  mi  diceva  ch'ella  mi  avrebbe 
fatto  del  bene.  Così  Dio  mi  perdoni,  come  io  le  per- 
dono. 

—  Brava  figliuola!  disse  Don  Abbondio,  così  si 
deve  parlare  :  fate  bene  a  perdonare,  perchè  Dio  lo 
comanda  ;  e  già  quando  anche  non  voleste,  che  utile 
ve  ne  verrebbe?  Voi  non  potete  vendicarvi,  e  non 
fareste  altro  che  rodervi  inutilmente.  Oh  se  tutti  pen- 
sassero a  questo  modo,  sarebbe  un  bel  vivere  a  questo 
mondo  ! 

—  È  vero,  disse  Agnese,   che  questa  mia  pove- 


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-     382     - 

retta  ha  patito  molto...  ma  bisogna  poi  anche  dire 
che  noi  poveretti  non  siamo  avvezzi  a  vedere  i  signori 
venirci  a  domandar  perdono. 

—  Dio  vi  benedica,  disse  il  Conte,  e  vi  compensi 
con  altrettanta  e  più  consolazione  i  mali  che  io  vi 
ho  fatti,  tutti  quelli  che  avete  sofferti.  Indi  soggiunse 
titubando  :  Come  sarei  contento  se  potessi  far  qual- 
che cosa  per  voi  ! 

—  Preghi  per  me,  disse  Lucia,  ora  ch'è  divenuto 
santo. 

—  Quello  ch'io  sono  stato,  lo  so  pur  troppo 
anch'io  :  quello  ch'io  ora  sia,  Dio  solo  lo  sa,  ri- 
spose il  Conte...  Ma  voi,  in  questa  vostra  orribile  scia- 
gura... in  questa  mia  scelleratezza...  non  avete  avuto 
soltanto  timori  e  crepacuori...  La  vostra  famiglia... 
una  famiglia  quieta  e  stabilita...  i  vostri  lavori,  l'av- 
viamento... voi  avete  sofferti  danni  d'ogni  genere... 
se  osassi...  se  osassi  parlare  di  compensar  questi,  io 
che  v'ho  fatto  tanto  male,  che  non  potrò  compensar 
mai...  ma  Dio  è  ricco...  frattanto  datemi  questa  prova 
di  perdono...  accettate,  e  qui  cavò,  con  peritanza  quasi 
puerile^),  un  rotolo  di  tasca...  accettate  questa  pic- 
ciola  restituzione...  non  mi  umiliate  con  un  rifiuto. 

—  No,  no,  disse  Lucia:  Dio  mi   ha  provveduta 


(*)  Leverei  la  peritanza  quasi  puerile ,  per  stare  alle 
parole  del  Ripamonti  ;  vorrei  che  avesse  sempre  il  Conte 
nostro  qualche  cosa  di  soldatesca  [Postilla  del  Visconti]. 


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-     3»3     - 

abbastanza  :  v'ha  tanti  poverelli  che  patiscono  la  fame: 
io  non  ho  bisogno... 

—  Deh!  non  non  rifiutate,  replicò  il  Conte  con 
umile  istanza:  se  sapeste  !  questa  somma...  questo  nu- 
mero... pesa  tanto  in  mano  mia...  e  sarei  tanto  sollevato 
se  l'accettaste...  Non  mi  farete  questa  grazia,  per  mo- 
strarmi che  m'avete  perdonato?  e  vedendo  che  il 
volto  d'Agnese  esprimeva  il  consenso  che  il  volto  e 
le  parole  di  Lucia  negavano,  presentò  alla  madre  il 
rotolo,  implorando,  pur  con  lo  sguardo,  il  consenso  di 
Lucia  (1). 

—  Grazie,  disse  Agnese  al  Conte;  e  tu,  continuò 
rivolta  a  Lucia,  ora  non  parli  bene.  Questo  signore 
lo  fa  pel  bene  dell'anima  sua,  e  noi  poveri  non  dob- 
biamo esser  superbi.  Così  dicendo  svolse  il  rotolo  e 
sclamò  :  Oro  ! 

—  Vostra  madre  ha  ragione,  disse  Don  Abbondio: 
accettate  quello  che  Dio  vi  manda,  e  se  vorrete  farne 
del  bene,  non  mancheranno  occasioni.  Così  facessero 
tutti  !  Così  Iddio  toccasse  il  cuore  a  qualchedun  altro 
e  gli  spirasse  di  compensare  anche  me,  povero  prete, 
delle  spese  che  ho  dovuto  fare  in  medicine  per  quella 
maledetta...  Voleva  dire  paura,  ma  ebbe  paura  di 
parlare  imprudentemente  e  si  fermò. 


(l)  Leverei  implorando,  ecc.  per  la  ragione  dianzi  detta, 
e  perchè  il  Conte  era  uomo  avvezzo  ad  agire,  e  chi  è  av- 
vezzo ad  agire  fa  addirittura.  Doveva  beneficare  con  quella 
risoluzione  con  cui  dava  dapprima  de'  colpi  di  spada. 
[Postilla  del  Visconti]. 


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-     3»4     — 

—  Vi  ringrazio  della  vostra  degnazione,  disse  il 
Conte  a  Lucia,  e  del  vostro  perdono.  E  se  mai  in 
qualunque  caso  voi  credete  ch'io  possa  esservi  utile, 
voi  sapete...  pur  troppo...  dove  io  dimoro.  Il  giorno 
in  cui  mi  sarà  dato  di  fare  qualche  cosa  per  voi,  sarà 
un  giorno  lieto  per  me  :  mi  parrà  allora  che  Dio  mi 
abbia  veramente  perdonato. 

—  Ecco  che  cosa  vuol  dire  avere  studiato  !  disse 
Agnese  :  appena  Dio  tocca  il  cuore,  si  parla  subito 
come  un  predicatore. 

Lucia  ringraziò  pure  il  Conte,  il  quale,  dopo  d'aver 
ripetute  parole  di  scusa  (l)  e  di  umiliazione  e  di  tene- 
rezza, si  congedò,  uscì  con  Don  Abbondio,  e  sulla 
porta  si  divisero.  Il  Conte,  tra  le  acclamazioni  della 
folla,  prese  la  via  che  conduceva  al  suo  castello,  e 
Don  Abbondio  tornò  a  casa. 

Appena  le  due  donne  furono  sole,  Agnese  svolse 
il  rotolo  e  in  fretta  in  fretta  si  diede  a  noverare.  Du- 
gento  scudi  d'oro  !  sclamò  poi  ;  quanta  grazia  di  Dio. 
Non  patiremo  più  la  fame  certamente. 

—  Mamma,  disse  Lucia,  poiché  quel  signore  ci 
ha  costrette  ad  accettare  questo  dono  e  ha  preteso 
che  fosse  una  restituzione....  quei  denari  non  sono 
tutti  nostri.  Non  siamo  noi  sole  che  abbiamo  sof- 
terti  danni....  non  sono  io  sola  che  abbia  dovuto  fug- 


(*)  Non  sarebbe  meglio,  di  pentimento  e  di  affezione? 
[Postilla  del  Visconti]. 


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-     3«5     -     . 

gire,  intralasciare  i  miei  lavori.  Io -sono  tornata  fi- 
nalmente.... e  se  non  istarò  qui,  ho  almeno  chi  pensa 
a  me,  chi  non  mi  lascerà  mancare  di  nulla....  Un 
altro  è  lontano,  e  Dio  sa  quando  potrà  tornare.  Mi 
parrebbe  di  aver  rubati  quei  denari,  se  almeno  al- 
meno non  gli  dividessi  con  lui. 

—  Glieli  porterai  in  dote,  disse  Agnese,  studian- 
dosi di  rotolare  come  prima  gli  scudi,  che,  facendo 
pancia  da  una  parte  o  dall'altra,  sfuggivano  dalle  sue 
mani  inesperte. 

—  Non  parliamo  di  queste  cose,  mamma,  disse 
Lucia  sospirando;  non  ne  parliamo.  Se  Dio  avesse 
voluto....  ah!  le  cose  non  sarebbero  andate  a  quel 
modo.  Non  era  destinato  che  fossimo...  non  ci  pen- 
siamo per  carità. 

—  Ma  s'egli  torna,  voleva  cominciare  Agnese. 

—  È  lontano,  è  profugo,  ramingo...  ah!  c'è  altro 
da  pensare  :  forse  egli  stenta,  forse  non  ha  pane  da 
mangiare.  Forse  con  questo  ajuto  egli  potrà  collo- 
carsi bene  altrove,  farsi  un  avviamento,  uno  stato... 

—  Ohe!  disse  Agnese,  tu  non  pensi  più  a  lui?... 

—  Penso  a  toglierlo  d'angustia  e  di  bisogno,  ri- 
spose in  fretta  Lucia.  Questo  lo  possiamo  fare;  al 
resto  provvederà  Iddio. 

Agnese  era  onesta  e  buona,  e  per  quanto  le  pia- 
cessero quei  begli  scudi  giallognoli,  non  avrebbe  po- 
tuto possederli  con  un  contento  puro  e  tranquillo 
quando  le  fossero  divenuti  in  mano  un  testimonio 
di  dura  e  bassa  avarizia.  Consentì  ella  dunque  a  desti - 

Alessandro  Manzoni.  25 


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—     386     - 

narne  la  metà  a  Fermo  e  promise  a  Lucia  che  avrebbe 
cercato  tosto  il  mezzo  di  farglieli  tenere  sicuramente. 
Ma  Agnese  era  rimasta  colpita  di  quella  nuova  ras- 
segnazione di  Lucia  all'assenza  del  suo  promesso 
sposo,  e  non  lasciò  di  tentarla  con  interrogazioni  di- 
rette, tortuose,  calzanti,  subdole,  pervenirne  all'acqua 
chiara.  Lucia  però  seppe  per  allora  e  per  qualche 
tempo  schermirsi  dal  soddisfare  alla  curiosità  materna, 
allegando  sempre  che  era  inutile  il  pensare  a  cose  che 
le  circostanze  rendevano  impossibili  (l). 


(*)  È  un  altro  brano  del  capitolo  IV.  «  La  scena  del 
Conte  merita  un  capitolo  a  parte  »,  scrisse  il  Visconti  in 
margine  al  principio  dell'episodio;  soggiungendo:  «In 
questa  porzione  del  Romanzo  giovano,  mi  pare,  i  periodi 
piuttosto  brevi  :  e  contenenti  un  oggetto  solo,  per  quanto 
si  può.  Dunque  :  Capitolo...  (quello  che  sarà).  //  Conte  del 
Sagrato  era  venuto,  ecc.  » .  Arrivato  poi  alle  parole  :  ren- 
devano impossibili,  tornò  a  notare  :  «  Qui  finirei  il  capitolo. 
Al  seguente  ci  penserai  tu,  mentre  vuoi  cangiare,  come 
mi  hai  detto,  il  modo  di  mandare  Lucia  in  quella  casa  di 
signori  ».  (Ed.) 


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XV. 

Cure  del  Cardinal  Federigo  per  mettere 
al  sicuro  Lucia. 


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Il  Cardinale  aveva  risoluto  di  partire  quella  sera, 
di  là  (!),  per  portarsi  ad  una  parrocchia  vicina  ;  ma 
partiva  cpl  dispiacere  di  non  avere  ancora  potuto 
provvedere  Lucia  d'un  asilo  ;  e  quantunque  tutto  pa- 
resse ivi  sicuro  per  essa,  pure  il  cuore  del  buon  vec- 
chio non  era  abbastanza  tranquillo.  Per  avere  la  cer- 
tezza che  desiderava,  egli  non  si  rivolse  a  Don  Ab- 
bondio, perchè  teneva  per  fermo  (e  nessuno  dirà 
ch'egli  giudicasse  temerariamente)  che  Don  Abbondio 
per  rispondere  Monsignor  sì,  o  Monsignor  no,  avrebbe 
consultato  piuttosto  1*  interesse  e  la  sicurezza  sua  pro- 
pria, che  quella  di  Lucia.  Commise  egli  adunque  al 
suo  cappellano  crocifero  di  aggirarsi  fra  il  popolo  e 
di  osservare  lo  stato  delle  cose,  la  disposizione  degli 
animi,  di  vedere  se  v'era  rimasta  in  paese  gente  di 
mala  intenzione,  se  insomma  si  poteva  partire  col 
cuore  quieto,  lasciando  Lucia  nel  luogo  dove  alcuni 
giorni  prima  non  era  stata  sicura.  Il  cappellano  fece 


(')  Dal  paese  di  Lucia.  (Ed.) 


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—     39Q     — 

ciò  che  gli  era  stato  imposto;  parlò  al  sagrestano, 
agli  anziani,  al  console,  e  da  tutti  fu  accertato  che 
nulla  v'era  da  temere.  Anzi,  appena  si  ebbe  sentore 
di  questa  inquietudine  del  Cardinale,  in  un  momento, 
giovani  e  vecchj  s'offersero  di  guardare  la  casa  di 
Lucia,  con  quella  risoluzione,  con  queir  ardore  con 
cui  si  veggono  offrire  le  alleanze  ad  un  principe  vit- 
torioso. —  Son  qua  io,  diceva  l'uno  —  tocca  a  me, 
diceva  l'altro  —  io  son  cugino,  gridava  un  terzo  — 
io,  io  che  non  ho  paura  di  brutti  musi,  schiamaz- 
zava il  quarto,  e  così  fino  al  centesimo.  Non  si  sa- 
rebbe potuto  credere  che  Lucia  pochi  giorni  prima 
avesse  dovuto  fuggire  segretamente  da  quello  stesso 
paese.  Perchè  costoro  non  si  presentavano  quando 
v'era  il  bisogno?  Eh!  perchè  v'era  il  bisogno. 

Avuta  questa  sicurezza,  il  Cardinale  partì,  fa- 
cendo ancora  ripetere  a  Lucia  ch'egli  non  si  sarebbe 
scostato  da  quei  contorni  prima  d'aver  provveduto 
alla  sua  sorte.  Infatti,  egli  andò  sempre  in  quei  giorni 
ripensando  al  modo  di  compire  questa  sua  opera  e 
ricercando  in  ogni  persona,  in  ogni  circostanza  se 
poteva  farne  un  mezzo  al  suo  benefico  intento.  A 
forza  di  attendere  e  di  ricercare,  l'occasione  si  pre- 
sentò. Visitando  una  di  quelle  parrocchie,  ricevette 
Federigo  fra  le  altre  visite,  che  accorrevano  da  ogni 
parte,  quella  d'una  famiglia  potente  di  Milano, 
che  villeggiava  in   quelle  vicinanze  (!).    Don   Vale- 


te A  cominciare  dalle  parole  :   Visitando  una  di  quelle 


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—     39i     — 

riano  (l),  capo  di  casa,  Donna  Margherita  (2)>  sua  mo- 
glie, Donna  Ersilia,  loro  unica  figlia,  e  Donna  Bea- 
trice, sorella  del  capo  di  casa,  rimasta  vedova  nel 
primo  anno  di  matrimonio  e  ritornata  a  vivere  riti- 
ratamente in  casa.  Dei  primi  tre  il  Cardinale  non 
aveva  conoscenza  molto  vicina:  sapeva  soltanto  che 
la  famiglia,  benché  molto  distinta,  pure  non  faceva 
terrore,  che  Don  Valeriano  non  aveva  riputazione  di 
soverchiante  e  di  tiranno;  e  questo  merito  negativo 
bastava  in  quei  tempi  a  conciliare  ad  una  famiglia 
potente  la  stima  e  la  fiducia  dei  più  savj.  Oltre  di 
che,  Donna  Beatrice  era  nota  a  Federigo  assai  più 
da  vicino;  le  abitudini  di  una  vita  tutta  consecrata 
alla  pietà  e  alla  assistenza  dei  poveri,  le  avevano  data, 
senza  ch'ella  se  ne  curasse,  una  riputazione  di  san- 


parrocchie,  ecc.  fino  a  quelle  :  dalle  zanne  del  lupo,  con 
cui  ha  fine  questo  tratto  del  Romanzo,  il  Manzoni  die  di 
frego  a  ogni  cosa,,  scrivendo  in  margine  :  «  Invece  di  questa 
visita,  ecc.  sia  Don  Abbondio  che  avendo  saputo  come 
Donna  Prassede  cercava  una  donna  di  servizio,  suggerisca 
ad  Agnese  di  proporre  Lucia  ;  e  lo  faccia  per  mostrare  in- 
teressamento, e  per  isbrigarsene  nello  stesso  tempo.  Agnese 
vada  da  Donna  Prassede,  che  villeggia  a  qualche  miglio 
di  là  e  deve  partire  air  indomani  per  Milano.  Lucia  è  ac- 
cettata. Il  Conte  e  le  conseguenze  si  raccontino  nel  capi- 
tolo IX».  (Ed.) 

(*)  Lo  ribattezzò  poi  col  nome  di  Don  Ferrante.  Quello 
di  Valeriano  gli  fu  suggerito  dal  «  gran  Valeriano  Casti- 
glione »,  autore  dello  Statista  regnante.  (Ed.) 

(2)  Divenne  poi  Donna  Prassede.  (Ed.) 


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—     392     — 

tità,  e  il  Cardinale,  in  più  occasioni,  incontrandosi 
con  essa  nelle  stesse  intenzioni  e  nelle  stesse  occu- 
pazioni, aveva  avuto  campo  di  accertarsi  che  quella 
riputazione  non  era  menzognera.  Quando  adunque 
questa  visita  gli  fu  annunziata,  propose  egli  di  tro- 
vare il  modo  che  Lucia  andasse  in  quella  casa;  ma 
non  dovette  studiar  molto  a  condurre  il  discorso  do- 
v'egli  desiderava  :  perchè  l'affare  di  Lucia  era  stato 
tanto  clamoroso,  che  Don  Valeriano  non  mancò  di 
parlarne,  per  fare  un  complimento  al  suo  liberatore. 
Questi  allora,  dopo  d'aver  modestamente  rifiutate  le 
lodi,  ch'egli  sapeva  di  non  meritare,  raccontando  sem- 
plicemente il  fatto  e  togliendone  tutto  ciò  che  la 
fama  vi  aveva  aggiunto  in  suo  onore,  aggiunse  che 
però  tutto  non  era  finito,  che  quella  povera  giovane, 
uscita  da  un  tanto  pericolo,  non  era  pure  in  sicuro, 
non  aveva  un  asilo,  e  che  certamente  avrebbe  com- 
piuta una  opera  incominciata  da  Dio  chi  l'avesse  rac- 
colta. Don  Valeriano  guardò  in  faccia  a  Donna  Mar- 
gherita, la  quale  assentì  con  una  occhiata  :  Donna  Bea- 
trice, non  guardata  da  loro,  gli  guardò  entrambi  con 
ansietà  per  vedere  se  avevano  inteso,  se  avrebbero 
fatto  vista  d'intendere:  Donna  Ersilia  continuò  a  guar- 
dare la  croce  del  Cardinale,  la  porpora,  a  seguire 
con  l'occhio  la  mano,  per  osservare  l'anello,  che  erano 
le  cose  per  le  quali  s'era  fatta  una  festa  di  venire 
a  far  quella  visita.  Don  Valeriano  offerse  al  Cardi- 
nale di  prendere  Lucia  al  servizio  della  casa,  o  come 
il  Cardinale  avrebbe  desiderato.  Il  Cardinale  accettò 


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—     393     — 

lietamente  :  fece  avvertire  Lucia  ed  Agnese,  le  quali 
vennero  all'obbedienza  :  Lucia  fu  consegnata  a  Donna 
Margherita  e  posta  ai  servizj  di  Ersilia.  Don  Vale- 
riano  fu  molto  contento  d'avere  esercitata  una  pro- 
tezione :  Donna  Margherita  di  avere  in  casa  una  per- 
sona, alla  quale  potè  metter  nome:  quella  giovane 
che  mi  è  stata  affidata  dal  signor  Cardinale  arci- 
vescovo; Donna  Beatrice,  di  vedere  in  sicuro  una 
innocente,  e  di  poterla  soccorrere  e  consolare  ;  Donna 
Ersilia,  d'avere  una  donna  al  suo  servizio  con  la 
quale  potere  parlare  senza  che  le  fosse  dato  sulla 
voce.  Lucia  pure  fu  contenta  di  avere  una  destina- 
zione che  la  toglieva  da  quel  contrasto  doloroso  tra 
il  voto  e  il  cuore;  Agnese,  di  vedere  la  sua  figlia 
in  salvo  e  in  casa  di  signori  ;  e  finalmente  il  Cardi- 
nale, di  aver  messa  quella  pecorella  al  sicuro  dalle 
zanne  del  lupo  (*). 


(*)  È  un  brano  anche  questo  del  capitolo  IV.  (Ed.) 


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XVI. 

Il  tozzo  di  pane  e  il  bicchier  d'acqua  del 
Cardinal  Federigo. 


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Prima  però  di  staccarci  da  Federigo  non  possiamo 
a  meno  di  non  raccontare  un  tratto  accaduto  nella 
visita  da  lui  fatta  in  quei  contorni  (*)  ;  perchè  questo 
racconto,  quale  lo  troviamo  nel  nostro  manoscritto 
e  altrove,  serve  assai  a  dipingere  i  costumi  di  quel 
tempo,  tanto  lontani  dai  nostri  e  osservabilissimi  per 
una  certa  pienezza  d'entusiasmo,  per  una  esplosione 
di  sentimenti  clamorosa,  per  un  impeto  veemente, 
come  troppo  spesso  al  male,  così  pure  qualche  volta 
verso  ciò  che  era  veramente  stimabile.  Oltre  di  che, 
Federigo  è  personaggio  tanto  amabile,  nelle  sue 
azioni  anche  le  più  comuni  v'è  sempre  una  tale  espres- 
sione di  gentilezza,  di  bontà,  che  fa  riposarvi  sopra 
la  fantasia  con  diletto,  e  cogliere  ogni  pretesto  per 
rimanere  il  più  che  si  possa  in  una  tale  compagnia  ; 
che  se  qualche  lettore  osasse  dire  che  noi  ve  lo  ab- 
biamo trattenuto  troppo  a  lungo,   osasse  confessare 


(*)  Nel  paese  di  Lucia.  (Ed,) 


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-     398     - 

d'aver  provato  un  momento  di  noja,  bisognerebbe 
concluderne  delle  due  cose  Puna:  o  che  noi  raccon- 
tiamo in  modo  da  annojare,  anche  con  una  materia 
interessante,  o  che  questo  lettore  ha  un  animo  ine- 
ducato al  bello  morale,  avverso  al  decente,  al  buono, 
istupidito  nelle  basse  voglie,  curvo  all'istinto  irra- 
zionale. Ma  il  primo  di  questi  due  supposti  è  ma- 
nifestamente improbabile  a  parer  nostro.  Veniamo 
al  racconto. 

Dalle  chiese  delle  quali  abbiamo  parlato  si  era 
Federigo  trasportato  a  visitar  quelle  della  valle  di 
San  Martino,  che  era  allora  nel  dominio  veneto  e 
nella  diocesi  milanese;  e  per  tutto  dov' egli  si  an- 
dava fermando,  oltre  la  folla  dei  parrocchiani,  la 
chiesa,  la  piazza,  la  terra  formicolavano  di  moltitu- 
dine accorsa  dai  luoghi  circonvicini.  In  una  di  quelle 
terre,  avendo  egli  sbrigate  nella  sera  stessa  del  suo 
arrivo  le  principali  faccende,  aveva  egli  disegnato  di 
partire  prima  del  pranzo,  per  giungere  più  tosto  alla 
stazione  vicina.  Era  la  chiesa,  dov'egli  si  trovava, 
posta  sulla  cima  d'un  lento  pendìo,  che  terminava 
in  una  vasta  pianura.  Celebrati  i  santi  misteri,  si 
volse  egli  dall'altare  per  favellare  al  popolo,  e  sten- 
dendo dinanzi  a  sé  il  guardo,  che  dalla  elevazione 
dell'altare  poteva  trascorrere,  per  la  porta  spalan- 
cata, sul  pendìo  e  nel  piano  sottoposto,  vide,  dalla 
balaustrata  del  presbitero,  nella  chiesa,  sul  pendìo, 
nel  piano  una  calca  non  interrotta,  come  un  sel- 
ciato continuo   di  teste    e    di   volti  ;    se    non    che, 


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—     399     — 

al  di  fuori,  quella  superficie  uniforme  era  interrotta 
da  tende  alzate,  che  facevano  parere  quel  luogo  un 
campo,  o  una  fiera;  guardando  poi  più  fisamente, 
scorse  fra  quella  moltitudine  abiti  diversi  di  ricchezza 
e  di  foggia,  che  dinotavano  una  varietà  di  condi- 
zioni e  di  paesi.  Chiese  egli  a  chi  lo  serviva  più 
da  vicino,  che  cosa  volesse  dire  quel  concorso;  e 
gli  fu  dettò,  che  era  gente  accorsa  da  tutta  la  dio- 
cesi di  Bergamo,  e  dalla  città  stessa,  per  vederlo, 
per  udirlo.  E  perchè,  diss'egli,  non  gli  accoglieremo 
noi  gentilmente  come  si  conviene  con  ospiti?  Quindi 
dette  alcune  parole  di  insegnamento  e  di  salute  ai 
popolani,  che  non  avendo  avuto  viaggio  da  fare  ave- 
vano i  primi  occupata  tutta  la  chiesa,  propose  loro 
che  facessero  gli  onori  di  casa  e  cedessero  il  luogo 
a  quegli  estranei,  che  erano  venuti  da  lontano  per 
sentire  un  vescovo.  La  voce  corse  tosto  per  la  chiesa 
e  per  lo  spazio  di  fuori  ;  questi  uscivano  e  cedevano 
il  luogo  con  pronta  cortesia,  quegli  entravano  con 
ritegno  e  con  rendimenti  di  grazie  :  contadini  e  si- 
gnori parevano  in  quel  momento  gente  bene  edu- 
cata. Cangiata  a  poco  a  poco  l'udienza,  il  Cardinale 
parlò  a  quei  sopravvenuti  come  gli  dettava  la  sua 
abituale  carità  e  la  simpatia  particolare  che  aveva 
eccitata  in  lui  quella  ardente  e  comune  volontà,  la 
quale  egli  si  sforzava  di  credere  attirata  in  tutto  dal 
suo  ministero  e  per  nulla  da  una  inclinazione  alla 
sua  persona.  Terminato  il  discorso,  benedisse  egli 
tutto  quel  concorso,  lo  accomiatò,  e  si  dispose  a  par- 


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—     4°°     — 

tire.  Salito  sulla  sua  mula,  si  mosse  col  suo  seguito, 
in  mezzo  a  quella  moltitudine,  ma  dopo  alquanto 
viaggio,  quando  credeva  d'abbandonarla,  s'avvide 
che  la  moltitudine  lo  seguiva.  Si  volse  egli  allora, 
ristette  in  faccia  a  quella  e  la  benedisse  di  nuovo, 
come  per  congedarla  ultimamente.  Ma  rimessosi  in 
via,  s'accorse  che  non  era  niente,  e  che  la  proces- 
sione continuava.  Li  fece  pregare  di  ritornarsene  e 
di  non  aggravare  inutilmente  la  stanchezza  del  cam- 
mino già  fatto,  ma  tutto  fu  inutile  :  gli  era  come  un 
dire  al  fiume  torna  indietro.  Si  erano  già  fatte  più 
miglia  di  cammino,  l'ora  era  tarda,  quando  il  Car- 
dinale, che  era  digiuno  e  già  da  lungo  tempo  com- 
batteva con  la  fame,  sentendo  mancarsi  le  forze  e 
visto  che  quel  giorno  gli  era  forza  desinare  in  pub- 
blico, si  fermò  sulla  cima  d'una  salita,  dove  vide 
spicciare  una  sorgente  da  una  roccia  che  fiancheg- 
giava il  cammino  e  chiese,  così  a  cavallo,  che  gli 
fosse  servito  il  pranzo.  L'ajutante  di  camera  tolse  da 
un  cestello  un-  pezzo  di  pane  e  glielo  presentò.  Fe- 
derigo lo  prese,  indi  chiese  che  gli  fosse  riempiuto 
un  bicchiere  a  quella  sorgente.  Mentre  questo  si  fa- 
ceva, cominciò  Federigo  a  banchettare,  non  senza 
un  qualche  pudore  per  tutti  quegli  spettatori,  e  chiuse 
il  banchetto  col  bicchiere  d'acqua,  che  gli  fu  porto. 
Quando  tutta  quella  folla  vide  quali  erano  le  mense 
d'un  uomo  così  dovizioso  e  così  affaticato,  insorse 
un  grido  di  maraviglia,  un  gemito  di  compunzione  : 
e  questi  sentimenti  crebbero  quando,  fra  quegli  ac- 


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—    4oi     — 

corsi,  alcuni,  i  quali  conoscevano  più  degli  altri  le 
costumanze  del  Cardinale,  affermarono  che  questo 
era  il  suo  solito  pranzo  quando  doveva  farlo  in  cam- 
mino, e  che  quello  che  gli  era  imbandito  in  casa 
non  ne  differiva  di  molto.  I  poveri  si  rimproveravano 
la  loro  intolleranza  nel  disagio,  i  ricchi  la  loro  in- 
temperanza; e  quivi  tosto  molti  fra  questi  distribui- 
rono ai  bisognosi  i  danari  che  si  trovavano  in  dosso. 
Il  Cardinale,  così  ristorato,  pregò  i  più  vicini  che 
finalmente  tornassero  e  persuadessero  gli  altri  a  tor- 
nare, e  alzata  la  mano  su  tutta  la  turba,  che  egli 
dominava  da  quella  altura,  la  benedisse  di  nuovo, 
stendendo  poi  verso  di  quella  affettuosamente  ambe 
le  mani  in  atto  di  saluto.  La  turba  rispose  con  nuove 
acclamazioni,  e  non  osando  più  resistere  al  desiderio 
di  quell'uomo,  si  rivolse  e  tornò  addietro.  Federigo 
proseguì  il  suo  cammino. 

Venga  ora  un  uomo  ben  eloquente  e  si  provi  a 
dare  uno  splendore  di  gloria  a  quel  pranzo  del  Car- 
dinale, a  renderlo  un  soggetto  frequente  di  ammi- 
razióne e  di  memoria;  non  gli  verrà  fatto.  È  forse 
da  dire  che  queste  virtù  di  semplicità  e  di  tempe- 
ranza non  danno  mai  alla  fantasia  degli  uomini  di 
che  ammirare?  non  già,  poiché  si  parla  tuttavia  delle 
magre  cene  di  quel  Curio  mal  pettinato,  come  lo 
chiamò  Orazio  ;  è  viva  e  comune  la  memoria  del  sa- 
lino di  Fabricio  e  del  suo  piattello,  sostenuto  da  un 
picciuoletto  di  corno.  E  perchè  dunque  il  tozzo  di 
pane  di  Federigo  e  il  suo  bicchier  d'acqua  non  po- 

Alhssandro  Manzoni.  26 


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—     4°2     — 

tranno  ottenere  una  simile  immortalità  di  gloria?  Se 
alcuno  ha  in  pronto  una  cagione  ragionevole  di  questa 
differenza,  la  dica;  per  me  non  ho  potuto  trovarne 
che  una,  ed  è:  che  il  cardinale  Federigo  non  ha 
mai  ammazzato  nessuno.  La  più  parte  degli  uomini, 
parlo  degli  uomini  colti,  non  consente  ammirare  le 
virtù  frugali  ed  astinenti  che  in  coloro  i  quali  ec- 
citano con  virtù  feroci  un'altra  ammirazione  di  ter- 
rore: non  risguarda  quelle  come  virtù,  che  quando 
sieno  unite  ad  un  profondo  sentimento  d'orgoglio 
e  di  disprezzo  per  qualche  parte  del  genere  umano. 
Se  quel  tozzo  di  pane  fosse  stato  mangiato  da  un 
generale  in  presenza  di  ventimila  cadaveri,  sarebbe 
in  tutti  i  discorsi,  in  tutti  i  libri;  nessun  fedele 
umanista  avrebbe  potuto  evitare  di  farvi  sopra  al- 
meno una  amplificazione  in  vita  sua.  Eppure,  la 
ragione  dice  che  quel  tozzo  di  pane,  solo  cibo  d'un 
uomo  che  avrebbe  potuto  nuotare  nelle  delizie,  e 
che  se  ne  asteneva  per  un  sentimento  profondo 
della  dignità  umana,  e  per  dar  pane  a  chi  ne  man- 
cava; quel  tozzo  di  pane,  mangiato  tra  le  fatìche 
d'un  ministero  di  misericordia,  di  pace  '  e  di  pietà, 
dovrebb'  essere  una  rimembranza  più  cara  agli  uo- 
mini che  non  quel  salino  e  quel  piattello,  che  co- 
priva la  mensa  d'un  uomo,  che  era  sobrio  per  po- 
tere esser  forte  contra  gli  uomini  (*);   che  si  accon- 


(!)  Segue,  cancellato  :  «  che  nella  sua  povertà  privata, 
godeva  della  potenza  soverchiatrice,  della  cupida  ambi- 
zione ».  (Ed.) 


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403 


.tentava  di  essere  un  povero  Fabricio,  perchè  fosse 
un  potente  Romano.  Le  idee  di  cui  si  componeva 
il  sentimento  temperante  di  questo  erano  superbe, 
ostili,  sprezzanti,  superficiali  (*);  quelle  di  Federigo, 
umane,  gentili,  benevole,  profonde.  In  quello  stesso 
convito  di  Pirro,  dove  Fabricio  dette  quelle  prove 
della  sua  fermezza  e  della  sua  astinenza,  lasciò  egli 
trasparire  manifestamente  quel  suo  animo:  ivi,  all'u- 
dire le  dottrine  epicuree  esposte  da  Cinea,  disse  egli 
quelle  atroci  parole,  tanto  lodate  dagli  antichi,  e,  chi 
lo  crederebbe?  dai  moderni  (2):  Oh  Ercole!  (il  santo 
era  degno  del  voto)  oh  Ercole  !  diss'egli,  fa  che  queste 
dottrine  sieno  ricevute  dai  Sanniti  e  da  Pirro  fin 
tanto  che  saranno  nemici  del  popolo  romano.  Ma  il 
nostro  mangiator  di  pane  avrebbe  avuto  orrore  di 
sé,  se  avesse  potuto  anche  un   momento  desiderare 


(*)  Segue,  cancellato  :  «  superficiali  :  se  fossero  diven- 
tate comuni,  se  molti  uomini  di  tutte  le  nazioni  le  aves- 
sero ricevute  e  messe  in  pratica,  fossero  divenuti  virtuosi 
come  Fabricio,  vi  sarebbero  state  molte  nazioni  forti  per  la 
loro  temperanza  e  avide  di  dominare,  le  qua[li].  (Ed.) 

(*)  Di  fianco  al  periodo,  che  incomincia  colla  parola  : 
superficiali  e  che  termina  qui,  il  Manzoni  segnò  una  linea 
e  scrisse  in  margine  :  «  Direi,  se  si  può,  che  quelle  idee 
adottate  universalmente  avrebbero  prodotti  uomini  poveri 
e  forti  e  ambiziosi  :  non  migliorato  il  mondo,  etc.  queste 
invece  avrebbero  introdotta  una  equa  e  pacifica  distribu- 
zione delle  cose  necessarie,  poveri  soccorsi  e  ricchi  asti- 
nenti :  cresciuta  la  pazienza  a  misura  che  ne  sarebbe  sce- 
mato il  bisogno».  (Ed.) 


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—     404     — 

la  perversità  ai  suoi  nemici,  ai  nemici  del  suo  po- 
polo. Egli  desiderava  la  giustizia,  la  fortezza,  la  so- 
brietà a  tutti,  la  desiderava  per  loro,  per  sé,  per  la 
gloria  del  Dio  di  tutti,  la  desiderava,  e  tutta  la  sua 
vita  fu  spesa  a  promuoverla.  La  sua  benevolenza  non 
era  nazionale,  né  aristocratica,  egli  non  aveva  bisogno 
di  odiare  una  parte  del  genere  umano  per  amarne 
un'altra  :  si  faceva  povero  non  per  insultare,  non  per 
dominare,  ma  per  dividere  la  condizione  dei  suoi 
fratelli  poveri  e  per  migliorarla.  A  dispetto  di  tutta 
la  storia,  di  tutta  la  morale,  di  tutta  la  rettorica,  Fe- 
derigo Borromeo  era  più  grand* uomo  che  Fabricio, 
o,  per  meglio  dire,  Federigo  era  veramente  gran- 
d'uomo,  per  quanto  un  sì  magnifico  epiteto  può  stare 
con  un  sì  misero  sostantivo  Q. 


(')  Col  racconto  di  questo  episodio  della  vita  del  car- 
dinal Federigo  ha  termine  il  capitolo  IV  del  tomo  III 
della  prima  minuta.  (Ed.) 


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XVII. 


La  carestia  del  1628  —  Ragioni,  rimedi 
e  moti  dell'opinione  pubblica  nelle  ca- 
RESTIE. 


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Era  quello  il  secondo  anno  di  scarso  raccolto  : 
nel  primo  era  stata  piuttosto  scarsità  che  carestia: 
le  provvigioni  rimaste  degli  anni  grassi  antecedenti 
avevano  supplito  tanto  o  quanto  al  difetto  di  quello 
e  la  popolazione  era  giunta  al  nuovo  raccolto  non 
satolla  e  non  affamata,  ma  certo  affatto  sprovveduta. 
Ora,  il  nuovo  raccolto,  nel  quale  erano  riposte  tutte 
le  speranze,  fu  scarso,  come  abbiam  detto,  e  lo  fu 
d'assai  più  del  primo,  in  parte  per  maggiore  con- 
trarietà delle  stagioni,  e  in  parte  per  colpa  orrenda 
degli  uomini.  Si  guerreggiava  allora  in  Italia,  e  non 
lontano  dal  Milanese,  il  quale  si  trovò  soggetto  ad 
alloggiamenti  di  truppe  e  a  gravezze  straordinarie. 
Queste  furono  tanto  intollerabili,  e  le  estorsioni,  le 
rubberie,  il  guasto  della  soldatesca  portati  a  tal  segno, 
che  molte  possessioni  erano  rimaste  abbandonate, 
molte  campagne  incolte,  e  molti  contadini  erano  andati 
accattando  quel  vitto  che  avrebbero  procacciato  a  sé 
e  ad  altri  col  lavoro  delle  loro  braccia  (1).  E   dove 


(!)  Lampugnano,  La  pestilenza  seguita  in  Milano,  Mi- 
lano, 1634,  pag.  19.  [Nota  del  Manzoni]. 


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—     408     — 

pure  s'era  coltivato,  le  seminagioni  erano  state  scarse, 
perchè  l'agricoltore,  tentato  dall'urgente  bisogno, 
aveva  sottratta  e  consumata  una  parte  e  la  migliore 
del  grano  che  doveva  esser  destinato  a  quelle.  Ot- 
tenuto appena  il  raccolto,  la  guerra  stessa,  che  era 
stata  la  principale  cagione  a  renderlo  scarso,  fu  la 
prima  a  divorarne  una  gran  parte.  Le  depredazioni 
parziali,  le  provvigioni  per  l'esercito,  e  lo  sprecamento 
infinito  delle  une  e  dell'altre  fecero  tosto  un  tale  squar- 
cio in  quel  misero  raccolto,  che  la  fame  fu  preveduta, 
quasi  sentita  sotto  la  messe  stessa.  I  territorj  che 
circondano  il  Milanese,  in  parte  afflitti  dalla  guerra, 
e  tutti  dalla  sterilità  comune  di  quell'anno,  non  la- 
sciavano speranza  di  cavarne  ajuto  di  viveri.  Sorse 
quindi  quel  sentimento  di  ansia  e  di  terrore  nei  più, 
di  gioja  avara  e  crudele  in  alcuni,  che  nasce  da  una 
cognizione  confusa,  ma  viva,  della  sproporzione  tra 
il  bisogno  di  nutrimento  e  i  mezzi  di  soddisfarlo, 
tra  il  grano  e  la  fame  :  e  questo  sentimento  produsse 
il  suo  effetto  naturale,  inevitabile:  la  ricerca  premu- 
rosa, e  l'offerta  stentata  del  grano;  quindi  il  rinca- 
ramento. 

Questa  sproporzione  è  uno  di  quei  mali  che  spa- 
ventano la  terra,  perchè  pesano  ad  un  tempo  sur  una 
moltitudine:  quando  un  tal  male  esiste,  i  migliori 
mezzi  per  alleggerirlo,  (giacché  toglierlo  non  è  in 
potere  dell'uomo)  sono  tutte  quelle  cose  che  possono 
diffonderlo  più  equabilmente,  farne  sopportare  al  mag- 
gior numero,  a  tutti  i  viventi,  se  fosse  possibile,  una 


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—     4Q9     — 

picciola  porzione,  affinchè  a  nessuno  ne  tocchi  una 
porzione  superiore  alle  forze  dell'uomo;  fare  che  quel 
male  sia  un  incomodo  per  tutti,  piuttosto  che  l'an- 
goscia mortale  per  molti,  e  la  morte  per  alcuni. 
Quindi  il  primo,  il  più  certo  e  il  più  semplice  mezzo 
di  alleggiamelo  comune  è  l'astinenza  volontaria  dei 
doviziosi,  che  si  privino  di  uria  parte  di  nutrimento 
per  lasciarne  di  più  alla  massa  del  consumo  univer- 
sale. Poi  tutto  quello  che  può  aumentare  nelle  mani 
degl'indigenti  i  mezzi  di  acquistarsi  il  vitto,  in  pro- 
porzione dell'aumento  delle  difficoltà,  cioè  del  rin- 
caramene. Aumento  quindi  delle  mercedi,  e  nuovi 
guadagni  offerti  per  mezzo  di  nuovi  lavori  ai  molti 
a  cui  cessano  in  quelle  circostanze  i  lavori  e  i  gua- 
dagni usati.  Questo  mezzo  però  sarebbe  uno  scarso 
rimedio,  sarebbe  anzi  un  accrescimento  del  male,  se 
non  fosse  accompagnato  dalla  cura  attenta,  assidua 
di  somministrare  il  vitto  anche  a  quei  molti  che  per 
debolezza,  o  per  infermità,  non  lo  possono  ottenere 
col  lavoro:  si  avrebbero  allora  dei  lavoratori  ben  nu- 
triti e  degli  impotenti  morti  di  fame  :  e  la  beneficenza 
sarebbe  crudele  per  molti  (1).  A  questi  ultimi  non 
si  può  provvedere  altrimenti  che  con  l'elemosina, 
tanto  sapientemente  comandata  dalla  religione  :  quella 


(*)  Quest'inciso,  mi  pare,  imbarazza  la  serie  delle  idee, 
massimamente  perchè  beneficenza  significa  più  diretta- 
mente dono  gratuito,  che  una  ricerca  di  lavoro.  [Postilla 
del  Visconti]. 


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—    4io     — 

elemosina  di  cui  molti  scrittori  hanno  enumerati  e 
censurati  amaramente  gli  abusi.  Né  a  torto  ;  poiché 
é  utile  scoprire  e  censurare  gli  abusi  dovunque  s'in- 
trudano: è  però  cosa  trista  e  dannosa  che  in  sog- 
getto di  tanta  importanza  non  si  sieno  quasi  consi- 
derati che  gli  abusi  ;  e  sarebbe  da  desiderare  che  al- 
cuno pigliasse  la  bella  e  forse  nuova  impresa  di 
ragionare  del  buon  uso  della  elemosina,  di  mostrare 
convella  sia  uno  dei  mezzi  più  potenti,  più  semplici, 
e  certo  più  irresponsabili  a  tutti  quei  fini  (l)  che  si  pro- 
pone una  saggia  e  ragionata  economia  pubblica. 

Questi,  che  abbiamo  accennati,  sono  certamente  i 
principali  e  più  sicuri  rimedj  alla  penuria  delle  sus- 
sistenze ;  e  quando  si  fossero  posti  in  opera,  il  meglio 
da  farsi  sarebbe  sopportare  quella  parte  inevitabile 
di  patimento  con  tranquillità  e  con  rassegnazione, 
giacché  tutte  le  ire,  tutte  le  declamazioni,  tutti  i  falsi 
ragionamenti  non  ponnò  far  nascere  una  spiga  di  fru- 
mento, né  accelerare  di  cinque  minuti  il  nuovo  rac- 
colto, che  deve  mettere  alla  disposizione  degli  uomini 
una  nuova  massa  di  sussistenza. 

Ma,  oltre  i  mezzi  per  render  tollerabile  quel  male, 
ve  n'ha  pur  troppo,  e  moltissimi,  per  esacerbarlo,  per 
accrescerlo,  per  rendere  più  trista  e  complicata  una 
situazione  che  lo  è  già  tanto  per  sé  ;  e  questi  mezzi 


(*)  A  molti  di  quei  fini,  se   non   m' inganno.    [Postilla 
del  Visconti]. 


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—    4H     — 

sono  stati,  per  l'ordinario,  più  adoperati  dei  primi,  e. 
si  possono  ridurre  a  due  capi  principali  :  le  idee  del 
popolo,  e  i  provvedimenti  dei  magistrati.  Nella  epoca 
di  cui  parliamo,  le  idee  e  i  provvedimenti  concorsero 
potentemente  a  produrre  quel  tristo  effetto  in  un  grado 
singolare. 

Nei  tempi  di  carestia,  là  carestia  è  il  soggetto  di 
tutti  i  discorsi  :  fatto  ben  naturale,  ma  degno  di  molta 
osservazione  e  di  commento.  Tutti  ragionano  delle 
cause  del  male,  tutti  propongono  i  veri  rimedj,  tutti 
dissertano  di  principj  generali,  di  commercio,  di  mo- 
nopolio, di  accapparramento,  di  importazione,  di  espor- 
tazione, di  circolazione.  Ma  la  maggior  parte  non  si 
è  occupata  mai  in  vita  sua  di  questa  materia:  i  primi 
pensieri  sono  giudizj,  e  V  applicazione  dei  principj 
precede  alla  ricerca  di  essi.  Guaj  allora  a  quegli  che 
hanno  pensato  a  questi  principj  nel  tempo  in  cui  nes- 
suno vi  pensava  ;  guaj  a  quegli  che  danno  più  degli 
altri  un  senso  preciso  a  quelle  parole  che  tutti  pro- 
feriscono; guaj  a  quegli  che  hanno  esaminati  con  una 
vista  generale  i  fatti  che  sono  l'argomento  della  di- 
scussione comune  !  Essi  soli  non  sono  ammessi  a  par- 
lare: essi  debbono  vedere  pazientemente  discorrere 
i  sofismi  precipitati  e  baldanzosi  della  ignoranza, 
perchè  chi  può  fermare  il  sofisma?  la  ragione  in  bocca 
loro  è  paradosso,  e  quando  non  si  avesse  altro  da 
opporle,  basterebbe  quella  accusa  che  le  si  fa  di  es- 
sere stata  sui  libri.  La  parola  che  suona  alto,  che 
signoreggia  in   quelle  dolorose  circostanze  è  quella 


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—     412     — 

della  irriflessione:  ma  cessata  la  carestia,  cessano  tutti 
i  discorsi;  nessuno  ne  vuol  più  parlare,  né  sentire  a 
parlare:  i  libri,  se  quell'epoca  ne  ha  prodotti  che 
trattino  di  quella  materia,  sono  per  lo  più  un  soggetto 
di  contraddizione  per  un  momento,  e  rimangono 
dopo  quasi  dimenticati  :  la  società  è  in  quel  caso  si- 
mile ad  un  povero  scapestrato,  il  quale,  trovandosi 
all'estremo,  non  ha  parlato  d'altro  che  di  novissimi 
e  di  penitenza  ;  convalescente,  accoglie  ancora  il  prete 
per  urbanità;  guarito,  allontana  da  sé  tutti  i  pensieri 
di  quel  momento  del  terrore. 

Cessi  il  cielo  che  alcuno  rinfacci  ostilmente  l'igno- 
ranza ad  un  popolo  che  non  ha  mai  avuto  maestri, 
né  ozio  ;  l'irritazione  fanatica  ad  un  popolo  che  non 
trova  pane  col  suo  lavoro.  Ma  quegli  che  meritano 
rimproveri  acerbi  e  severi,  quégli  che  per  utile  loro 
e  d'altrui  vorrebbero  essere  sborbottati  come  ragaz- 
zacci capar bj,  tanto  che  si  correggessero,  sono  co- 
loro, i  quali  potrebbero  meditare  a  loro  agio  sui  fatti 
simili,  esaminare  le  conseguenze,  i  giudizj,  i  sistemi 
che  ne  hanno  cavati  gli  scrittori,  pesare  le  osserva- 
zioni e  le  opinioni,  e  procacciarsi  così  una  opinione 
ragionata;  e  non  lo  fanno  mai;  ma,  al  momento  del 
serra  serra,  escono  in  campo  a  sentenziare  furiosa- 
mente, cominciano  a  pensare  con  la  voce  e  studiano 
dalla  cattedra,  coprono,  vilipendono,  calunniano  le 
voci  che  nascono  da  un  antico  pensiero,  ripetono  in 
un  linguaggio  meno  incolto  e  più  strano  i  giudizj 
storti,  le  idee  appassionate  del  popolo,  e  diffondono 


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—    413     — 

ed  accrescono  la  stortura  e  la  passione,  si  oppongono 
ferocemente  a  tutti  quei  raziocinj  che  potrebbero  il- 
luminare l'opinione  dell'universale  sulla  natura  e  sulla 
misura  del  male,  ricondurre  gli  spiriti  ad  una  rifles- 
sione più  tranquilla,  e  stornare  quelle  risoluzioni  che 
lo  peggiorano  :  e  infervorati  in  queste  degne  imprese 
non  si  spaventano  col  pensiero  della  loro  ignoranza; 
anzi  ne  cavano  argomento  di  gloria  e  di  fiducia;  e 
a  tutte  le  obiezioni,  (o  alla  metà  delle  obiezioni,  perchè 
di  rado  lasciano  terminare  una  frase  ad  un  galan- 
tuomo) rispondono  con  quell'inverecondo  sproposito: 
noi  non  vogliamo  teorie;  non  riflettendo  nemmeno 
che  quelle  che  essi  sputano  tutto  il  dì  sono  pur  teorie  ; 
diverse  da  quelle  dei  loro  avversarj,  in  ciò  soltanto 
che  non  sono  fondate  sulla  cognizione,  o  almeno  sulla 
ricerca  dei  fatti. 

Le  storture  del  popolo  e  di  questi  che  abbiamo 
detto  intorno  alla  carestia  sono  molteplici  per  sé,  e 
infinite  nelle  loro  applicazioni  e  nei  loro  rivolgi- 
menti ;  molte  si  possono  vedere  enumerate  in  alcuni 
libri  che  le  hanno  esaminate  e  ribattute  con  più  sa- 
gacità  e  pazienza  che  profitto;  ma  si  possono  forse 
ridurre  a  due  capi  principali.  Il  primo  è  l'opinione 
che  il  male  non  esista,  che  il  difetto  di  sussistenze 
sia  soltanto  una  apparenza,  nata  da  combinazioni  per- 
fide degli  uomini.  Questa  opinione  viene  sempre 
espressa  e  ripetuta  con  una  formola  concisa,  come 
tutte  quelle  che  racchiudono  un  errore  o  un  equi- 
voco:  il  grano  c'è.  Proposizione  ambigua,  che  può 


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—     414     — 

intendere  una  verità  fatua  e  inconcludente,  o  una  af- 
fermazione temeraria  e  fanatica.  Poiché  se  con  quelle 
inconsiderate  parole  si  vuol  dire  che  esiste  una  in- 
determinata quantità  di  biade,  si  dice  il  vero,  ma 
che  cosa  s'insegna?  che  cosa  si  vuol  concludere? 
quella  non  è,  né  può  essere  la  questione.  Ognun  sa 
che  i  grani  si  raccolgono  una  volta  l'anno,  o  a  certe 
distanze,  e  che  si  consumano  alla  giornata  :  tra  l'un 
raccolto  e  l'altro  ci  debbe  dunque  esser  grano  più 
o  meno:  se  non  ce  ne  fosse  assolutamente,  non  si 
parlerebbe  più  di  stentare,  ma  di  morire,  e  tutti,  e 
in  pochi  giorni.  Se  poi  dicendo:  il  grano  c'è,  s'in- 
tende (come  s'intende)  che  ne  esista  una  quantità 
eguale  al  consumo  ordinario,  proporzionata  al  bi- 
sogno, o  al  desiderio  della  popolazione;  come  mai 
una  tal  cosa  si  afferma  senza  conoscere,  senza  poter 
conoscere,  senza  cercar  di  conoscere  il  fatto  su  cui 
si  forma  il  giudizio:  la  quantità  del  grano  esistente? 
Eppure  un  fatto,  che  con  le  più  minute  indagini,  coi 
calcoli  più  scrupolosi,  con  l'esame  il  più  freddo  non 
si  conosce  mai  con  precisione,  è  continuamente  af- 
fermato con  sicurezza,  senza  indagini,  senza  calcoli, 
senza  esame  :  un  fatto,  che  appena  si  può  conoscere 
approssimativamente  per  gli  indizj  del  prezzo,  della 
ricerca,  della  distribuzione,  del  consumo,  si  afferma 
assolutamente  contra  la  testimonianza  di  tutti  questi 
indizj. 

L'altra  stortura,  conseguente  da  questa,  e  pur  ma- 
dornale, è  nel  supporre  che  il  male  sia  il  caro  prezzo 


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—    415    — 

del  grano:  mentre  questo  non  è  che  un  effetto  del 
male  vero,  la  sproporzione  tra  il  grano  e  il  bisogno; 
è  un  effetto,  e  un  doloroso,  deplorabile,  funesto, 
acerbo,  accumulate  quanti  epiteti  vorrete,  non  sa- 
ranno mai  troppi:  ma  il  sostantivo  è:  rimedio.  Il 
caro  prezzo  è  un  rimedio,  considerato  parzialmente 
per  un  territorio,  perchè  vi  attrae  il  grano  dai  paesi 
dove  è  meno  scarso,  e  quindi  a  minor  costo:  è  un 
rimedio  considerato  generalmente,  perchè,  forzando 
pur  troppo  migliaia  d'uomini  a  diffalcare  una  parte 
del  consumo  ordinario,  è  cagione  che  si  risparmj,  si 
distribuisca  per  tutto  l'anno  fino  al  raccolto  la  scarsa 
e  mancante  vittovaglia.  Se  una  forza  qualunque  po- 
tesse illudere,  addormentare  fino  alla  fine  tutti  i  ter- 
rori, tutte  le  cupidigie,  di  modo  che  in  un  anno, 
scarso  generalmente,  il  prezzo  rimanesse  basso  come 
negli  anni  abbondanti,  ne  avverrebbe  certamente  che 
il  consumo,  fin  che  grano  vi  fosse,  sarebbe  eguale  a 
quello  degli  anni  abbondanti  :  si  viverebbe  lietamente 
a  discrezione  per  qualche  tempo:  e  l'ultimo  effetto 
di  questo  terribile  beneficio  sarebbe  di  fare  sparire 
tutta  la  provvigione  qualche  mese  prima  del  raccolto. 
Il  linguaggio  di  coloro  che  hanno  ben  fitte  in 
testa  queste  due  storture  è  accetto  al  popolo,  che  pa- 
tisce ;  e  la  cosa  è  troppo  naturale  :  non  riconoscendo 
il  male  nella  natura  delle  cose,  attribuendolo  tutto 
alla  perversità  umana,  essi  mostrano  nello  stesso  tempo 
una  compassione,  che  pare  più  sincera  per  chi  soffre, 
un  grande  orrore  per  chi  fa  soffrire,  e  fanno  sempre 


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—     416     — 

intravedere  la  possibilità  d'un  rimedio  pronto  ed  as- 
soluto. Ma  quegli  i  quali  veggono  chiaramente  la 
realtà  del  male,  non  hanno  cose  gradite  da  dire  a 
chi  lo  sopporta;  poiché  chi,  dopo  d'aver  suggeriti 
alcuni  rimedj  per  minorare  il  male,  confessa  che 
molto  è  senza  rimedio,  e  raccomanda  la  rassegna- 
zione, può  difficilmente  far  credere  che  compatisce 
chi  nega  all'addolorato  che  la  causa  prima,  unica 
del  suo  dolore,  sia  nella  volontà  scellerata  di  alcuni; 
converrà  che  abbia  ben  fama  di  onesto  e  di  umano 
perchè  l'addolorato  si  contenti  di  crederlo  cieco  e 
insensato,  e  non  lo  chiami  atroce,  fautore,  complice 
di  quelli  che  creano  il  dolore.  Sono  i  chiaroveg- 
genti, in  quel  caso,  come  un  medico,  che  giunga 
al  letto  d'un  infermo  circondatò  da  una  famiglia 
amante  e  ignorante,  dove  si  trovi  un  ciarlatano  il  quale 
assevera  che  il  male  è  tutto  nella  cecità,  o  nella  im- 
postura dei  medici,  e  ch'egli  tiene  un'ampollina  dov'è 
la  salute.  Se  il  medico,  il  quale  vede  che  la  ma- 
lattia è  incurabile,  si  lascia  uscire  dalla  chiostra  dei 
denti  questo  suo  parere,  la  famiglia  lo  riguarderà 
come  un  pazzo  crudele  che  desidera  di  veder  morire 
le  persone. 

Queste  false  idee  che,  a  malgrado  di  tanti  scritti 
ragionati  e  dell'aumento  di  tante  cognizioni,  vivono 
tuttavia  latenti  e  come  addormentate  nella  mente  di 
moltissimi,  pronte  a  ricomparire  quando  una  penuria 
(che  Dio  tenga  lontana)  dia  loro  occasione  di  mo- 
strarsi, erano  ben  più  universali,  più  pertinacemente 


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—     417     — 

tenute,  più  furibondamente  applicate  nei  tempi  della 
nostra  storia,  nei  quali  l'ignoranza  era  tanto  più  ge- 
nerale, e  la  scienza,  che  era  pure  di  pochi,  consisteva 
in  un  peripateticismo,  inteso  come  si  poteva  e  appli- 
cato come  si  voleva  a  tutte  le  quistioni  possibili  di 
ogni  genere,  in  tempi  in  cui  non  esisteva  ancora  l'eco- 
nomia politica,  voglio  dire  la  scritta  e  ridotta  in  trat- 
tati, perchè  l'economia  politica  di  fatto  esiste  nella 
società  necessariamente,  più  o  meno  spropositata. 

Gli  sventurati  abitanti  della  campagna  avevano 
veduta  la  scarsità  del  raccolto,  avevano  vedute  e  sof- 
ferte le  atroci  dissipazioni  della  soldatesca,  e  gli  sven- 
turati abitanti  della  città  le  avevano  pure  intese  rac- 
contare :  ma  quando  la  carestia  cominciò  a  farsi  sen- 
tire, né  gli  uni,  né  gli  altri  volevano  accagionare  di 
un  tanto  male  una  causa  passata  e  irrevocabile.  Come 
se  non  avessero  veduto  nulla,  o  tutto  dimenticato, 
essi  attribuivano  il  caro  prezzo  soltanto  alla  crudele 
ingordigia  di  quegli  che  possedevano  il  grano.  E  una 
circostanza  speciale  avrebbe  dovuto  pure  avvertirli 
di  esaminare  più  freddamente,  se  l'esame  freddo  fosse 
possibile  in  quei  casi.  L'anno  antecedente  era  pure 
stato  scarso;  e  si  era  per  tutto  quell'anno  gridato 
contra  gli  accapparratori  come  contra  la  sola  cagione 
della  carezza  ;  si  era  detto  che  il  grano  abbondava, 
ma  era  tenuto  chiuso,  stivato,  murato  nei  granaj  degli 
avari.  Ora  l'anno  era  passato,  si  era  fatto  il  nuovo 
raccolto  ;  sarebbe  stata  cosa  molto  naturale  ricercare 
se  quel  grano  era  stato  finalmente  venduto,   o  no. 

Alessandro  Manzoni.  27 


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—    418     — 

Nel  primo  caso,  avrebbero  dovuto  gli  uomini  con- 
chiudere che  sbrano  dunque  ingannati  nell'affermare 
che  il  grano  abbondava,  poiché  s'era  venduto  a  caro 
prezzo  fino  al  raccolto,  appena  aveva  bastato.  Che 
se  il  grano  dell'anno  antecedente  non  era  venduto, 
esisteva  dunque;  i  capitali  degli  avari,  i  granaj  erano 
occupati;  come  dunque  potevano  essi  fare  ancora 
nuove  incette?  Ma  la  popolazione,  sfogando  sempre 
il  suo  dolore  con  imprecazioni,  non  pensava  che  le 
ultime  contraddicevano  alle  prime.  Si  diceva  anche 
che  molti  accapparravano  i  grani  per  ispedirli  in  altri 
paesi;  e  in  questi  altri  paesi  si  gridava  che  i  grani 
erano  spediti  a  Milano.  Tutti  quelli  che  ne  possede- 
vano erano  oggetto  di  minaccia  e  di  abbominazione  : 
i  possessori  che  non  lo  vendevano  erano  tiranni; 
quegli  che  lo  comperavano  per  rivenderlo,  mostri  ad- 
dirittura; i  fornaj  che  ne  facevano  provvista,  scelle- 
rati che  volevano  ritirarlo  dal  commercio  e  imporgli 
il  prezzo  che  sarebbe  piaciuto  alla  loro  avidità.  Che 
ognuno  provvedesse  la  quantità  che  poteva  essergli 
necessaria  fino  al  raccolto,  era  cosa  impossibile.  Quindi 
se  la  popolazione  avesse  voluto  o  potuto  rendersi  un 
conto  esatto  delle  sue  idee  e  dei  suoi  desiderj,  avrebbe 
trovato  eh*  ella  voleva  che  il  grano  non  fosse  in 
nessun  luogo.  Il  prezzo,  straordinario  al  momento 
stesso  del  raccolto,  crebbe  nell'autunno,  crebbe  straor- 
dinariamente al  cominciare  dell'inverno,  e  col  prezzo 
crebbe  il  fremito  e  il  clamore  del  popolo,  il  quale 
accusava  già  apertamente  i  magistrati  di  negligenza, 
anzi  di  connivenza,  con  coloro  che  lo  affamavano. 


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—     419     — 

Non  è  però  da  dire  che  i  magistrati  non  facessero 
dalla  parte  loro  molti  spropositi  ;  ma  questi  erano,  in 
numero  e  in  grossezza,  ancora  ben  lontani  dai  desi- 
derj  e  dalle  richieste  del  popolo.  Il  maneggio  delle 
cose  forza  a  riflettere  anche  quelli  che  sono  più  ne- 
mici della  riflessione;  e  chi  deve  operare  o  coman- 
dare direttamente  scorge  talvolta,  anche  a  mal  suo 
grado,  anche  chiudendo  gli  occhi,  V  impossibilità  o 
l'assurdità  d'un  provvedimento  che  è  domandato  con 
furore  dai  molti  che  lo  stimano  giusto,  e  lo  credono 
agevole.  Oltre  di  che,  l'effetto  immediato  di  quegli 
spropositi  era  di  esacerbare  la  condizione  universale  ; 
si  sentiva  crescere  il  male  ;  e  l'aumento  si  attribuiva 
non  già  alla  efficacia  funesta  degli  spropositi  fatti, 
ma  al  non  farne  abbastanza  (l).  Era  stato  tassato  il 
prezzo  massimo  del  riso  a  lire  quaranta  imperiali  il 
mòggio  per  la  città  di  Milano  (8)  :  la  conseguenza 
fu  che  quegli  che  possedevano  riso  e  potevano  ven- 


(*)  Qui  il  Manzoni  aggiunse,  in  margine,  ma  poi  can- 
cellò :  «  Gli  uomini  facevano  allora  quello  che  pur  troppo 
hanno  fatto  quasi  sempre.  Dicono  intollerabile  la  sventura 
quando  è  ancora  in  picciol  grado,  la  rassegnazione  sembra 
loro  impossibile  quando  è  ancor  facile:  s'ingegnano  tanto 
che  la  rendono  più  grave,  e  che  la  spingono  talvolta  ad 
un  segno,  in  cui  non  resta  più  nemmeno  ad  essi  la  forza 
necessaria  per  essere  impazienti,  ed  hanno,  ben  più  della 
rassegnazione,  lo  stupore  »,  (Ed.) 

(2)  Il  Manzoni  vi  ha  scritto  di  fianco  :  «  Grida  del  2  Ago- 
sto 1628  ».  (Ed.) 


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—     420     — 

derlo  a  molto  maggior  prezzo  per  tutto  'altrove,  non 
ne  spedirono  più  un  grano  alla  città;  e  questa  si 
trovò  senza  riso.  Altro  editto  che*  tassa  il  riso  allo 
stesso  prezzo  massimo  per  tutto  lo  Stato  :  altra  con- 
seguenza, che  i  possessori  ricusino  di  vendere  ad  un 
prezzo  comandato  quella  merce  a  cui  la  rarità  ne  ha 
assegnato  un  maggiore.  Ordine  di  vendere  il  genere 
a  chiunque  ne  offra  il  prezzo  tassato:  industria  dei 
possessori  a  nasconderlo,  per  poter  rispondere  :  non 
ne  ho.  Pene  severe,  indeterminate,  arbitrarie  a  chi  lo 
nasconde:  nuova  industria,  nuovi  aguzzamenti  d'in- 
gegno, nuovi  trovati  per  evitare  le  pene  senza  esser 
danneggiato.  Comparvero  allora,  come  dovevano  com- 
parire, di  quegli  uomini  i  quali  conoscono  a  perfe^ 
zione  l'arte  di  eludere  gli  editti,  arte  tanto  più  fa- 
cile, quanto  più  gli  editti  sono  assurdi.  Costoro, 
osservato  lo  stato  delle  cose,  fatte  le  loro  ragioni, 
trovarono  che  comperando  il  riso  ad  un  prezzo  molto 
maggiore  dell'assegnato  arbitrariamente,  si  poteva 
fare  ancor  molto  guadagno:  offersero  quel  prezzo  ai 
possessori,  i  quali  non  rispondevano  di  non  aver  riso 
da  vendere  a  chi  lo  pagava  più  di  quello  che  co- 
mandava la  legge.  Questi  nuovi  compratori  trovavano 
poi  il  modo  di  rivendere  il  riso  a  maggior  prezzo 
agli  Stati  vicini,  dove  non  v'era  tassa,  o  di  conser- 
varlo nascosto  in  onta  degli  editti  :  il  modo  consiste, 
come  ognun  sa,  nello  studiare  non  tanto  la  volontà 
unica  donde  è  uscita  la  legge,  quanto  le  volontà  mol- 
teplici, varie,  più  vicine,  che  debbono  eseguirla,  e  nel 


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—     421     — 

trovare  i  mezzi  di  eludere  queste  volontà,  o  di  com- 
perarne la  complicità. 

Quello  che  si  è  detto  del  riso  accadeva  di  tutti  gli 
altri  grani:  come  il  possederli,  il  farne  commercio, 
era  un  rischio  dell'avere  e  della  persona,  un  sog- 
getto di  terrore,  un  peso  di  sospetto  pubblico,  quasi 
un  marchio  d' infamia,  così  avvenne  che  questo  com- 
mercio non  fosse  quasi  più  ricercato  che  dagli  uomini 
i  più  esperti  ad  eludere  il  rischio,  i  più  agguerriti 
contra  l'odio  e  contra  l'infamia;  i  quali  sapevano 
come  tutte  queste  cose,  affrontate  e  sofferte  con  una 
certa  sapienza  particolare,   possono   fruttare  danari. 

La  scarsità  del  frumento  e  i  mezzi  posti  in  opera 
per  renderlo  più  comune  lo  avevano  fatto  salire  ad 
un  prezzo  esorbitante.  Si  vendeva  cinquanta  lire  il 
moggio,  se  crediamo  al  Ripamonti,  allora  vivente: 
settanta,  anzi  ottanta,  se  vogliamo  stare  al  detto  di 
Alessandro  Tadino,  medico  riputatissimo  di  quei 
tempi,  che  scrisse  anch'egli  (a  dir  vero,  con  le  go- 
mita) una  storia  della  peste  e  della  carestia  che  l'a- 
veva preceduta.  Ma  supponendo  anche  esagerata 
l'asserzione  di  quest'ultimo,  il  prezzo  attestato  dal 
Ripamonti  era  tale  da  porre  in  angustia  una  gran 
parte  della  popolazione. 

I  mali  nei  loro  cominciamenti  producono  nel- 
l'uomo, generalmente  parlando,  una  irritazione  più 
forte  del  dolore.  Sclama  egli,  da  prima,  che  i  mali  sono 
intollerabili,  che  sono  giunti  all'estremo,  e  tanto  fa, 
tanto  s'ingegna,  tanto  s'arrabatta,  che. coi  suoi  sforzi 


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—      422      — 

crea  egli  questo  estremo,  che  naturalmente  non  sa- 
rebbe arrivato:  s'accorge  allora  che  si  può  soffrire 
molto  di  più  di  quello  ch'egli  aveva  creduto  dap- 
prima, ogni  nuovo  colpo  gli  rivela  una  nuova  facoltà 
di  patire  e  di  accomodarsi,  ch'egli  non  sospettava  in 
sé  stesso;  e  salta  per  lo  più  dalla  rabbia  all'abbatti- 
mento, senza  aver  toccata  la  rassegnazione. 

Per  sua  sventura  il  popolo  milanese  trovò  in  quella 
occasione  l'uomo  secondo  i  suoi  desiderj,  l'uomo  che 
partecipava  delle  sue  idee,  e  che,  assecondandole,  gli 
procurò  una  gioja  corta  e  fallace,  a  cui  doveva  suc- 
cedere un  nuovo  dolore  senza  disinganno,  un  nuovo 
furore,  l'ebbrezza  del  delitto,  lo  spavento  delle  pene, 
e  quindi  la  tranquillità  stupida  della  disperazione 
impotente. 

Il  governatore  di  Milano,  Gonzalo  Fernandez  di 
Cordova,  si  trovava  allora  a  campo  sotto  Casale,  per 
una  guerra,  atroce  nella  condotta,  orrenda  nelle  con- 
seguenze, ,e  nata  da  certi  pettegolezzi,  dei  quali  par- 
leremo più  tardi  e  più  laconicamente  che  sarà  pos- 
sibile (').    Nella  sua  assenza  governava  lo  Stato  il 


(')  Eccone  il  racconto  :  «  Non  la  guerra  propriamente 
«  detta,  ma  un  passaggio  di  truppe,  più  funesto  agli  abitanti 
«  che  nessuna  guerra  più  accanita,  desolò  una  parte  del 
«  Milanese,  e  condusse  la  peste,  dalla  quale  nessun  angolo 
«  di  quel  paese  fu  salvo.  Ci  conviene  ora  accennare  breve- 
«  mente  le  origini  di  tanta  rovina.  Vincenzo  I  Gonzaga, 
«  Duca  di  Mantova,  era  morto  nel  1612,  lasciando  tre  figli. 


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—     423     — 

gran  cancelliere  Antonio  Ferrer.  Questi,  stordito  dai 
richiami  continui  e  crescenti  del  popolo,  stordito  dal 
vedere  che  tutti  i  provvedimenti  già  dati,  invece  di 
togliere  il  male,  lo  avevano  accresciuto,  non  sapendo 
più  che  fare  e  persuaso  che  qualche  cosa  bisognava 
pur  fare,  s'appigliò  al  partito  di  quelli  che  non  veg- 
gono nelle  cose  reali  un  elemento  ragionevole  di  de- 
terminazione :  fece  un'ipotesi.  Suppose  che  il  frumento 
si  vendesse  trentatre  lire  il  moggio,  né  più  né  meno. 
Ammessa  l'ipotesi,  tutte  le  cose  si  raddrizzavano  e 
correvano  a  verso.  Il  prezzo  del  pane  si  trovava  pro- 
porzionato alle  facoltà  della  massima  parte,  cessavano 
quindi  i  patimenti,  le  minacce,  le  angustie;  era  un 
altro  vivere.  Animato  e  rallegrato  dallo  spettacolo  che 
la  sua  fantasia  aveva  creato,  Antonio  Ferrer  fece  un 
altro  passo:  pensò  che  quel  lieto  vivere  si  sarebbe 
ricondotto  se  si  fosse  potuto  far  discendere  il  pane 
al  prezzo  corrispondente  a  quel  prezzo  ipotetico  del 
frumento.  Procedendo  col  pensiero,  trovò  che  un  suo 
ordine  poteva  produrre  questo  effetto;  e  conchiuse 
che  bisognava  dar  l'ordine.  Il  pover'uomo  non  badò 


«  Il  primo,  Francesco,  morì  nello  stesso  anno,  e  non  ri- 
«  mase  di  lui  che  una  figlia,  per  nome  Maria  ;  Ferdinando, 
«  che  dopo  di  lui  tenne  lo  Stato,  morì  senza  prole  legittima 
«nel  1626;  Vincenzo  II,  l'ultimo  dei  fratelli,  gli  succedette 
«  in  età  di  32  anni,  già  consumato  dagli  stravizi,  senza  spe- 
«  ranza  di  prole  e  manifestamente  vicino  al  sepolcro.  Già 
«  molte  ambizioni,  molte  cupidigie,  molti  sospetti  stavano 


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—     424     — 

che  cosa  fosse  conchiudere  dal  supposto  al  fatto,  ope- 
rare come  se  le  cose  fossero  in  uno  stato  diverso  da 


«  all'erta  aspettando  ch'egli  vi  scendesse.  Ma  egli  aveva  in- 
«stituito  erede  per  testamento  Carlo  Gonzaga,  Duca  di  Ne- 
«  vers,  del  resto  suo  parente  più  prossimo.  E  per  assicu- 
«  curare  l'effetto  di  questa  disposizione,  aveva  segretamente 
«  fatto  scrivere  al  Nevers  che  mandasse  a  Mantova  il  figlio, 
«  pur  Carlo,  Duca  di  Rethel,  affinchè  al  momento  che  il 
«  ducato  verrebbe  a  vacare,  potesse  pigliarne  il  possesso  in 
«  nome  del  padre.  Ma,  oltre  il  ducato  di  Mantova,  dalla 
«  successione  del  quale  erano  per  investitura  escluse  le 
«  femine,  Vincenzo  lasciava  pur  quello  del  Monferrato,  al 
«  quale,  pel  complicato,  confuso,  incerto,  variamente  ap- 
«  plicabile  diritto  pubblico  d'allora,  Maria,  nipote  di  Vin- 
«  cenzo,  poteva  aver  qualche  ragione.  Per  togliere  ogni 
«  soggetto  ed  ogni  pretesto  di  dissensioni,  pensò  il  Duca 
«Vincenzo,  o  chi  pensava  per  lui,  a  dare  quella  Maria 
«  in  moglie  al  Duca  di  Rethel,  che  aveva  fatto  chiamare. 
«  L'aspettato  giovane  arrivò  che  il  Duca  Vincenzo  era  agli 
«estremi:  le  nozze,  che  questi  aveva  proposto,  si  fecero 
«  nella  notte  dopo  il  25  Dicembre  1628,  mentre  egli  mo- 
«  riva. 

«  La  morte  e  il  matrimonio  terminano  per  lo  più  le 
«  tragedie  e  le  commedie  del  teatro,  ma  danno  sovente 
«  principio  alle  tragedie  e  alle  commedie  della  vita  reale. 
«  Al  mattino  lo  sposo  comparve  in  grande  abito  da  lutto, 
«  assunse  il  titolo  di  Principe  di  Mantova,  e  padrone  delle 
«armi  e  della  cittadella,  fu  senza  difficoltà  riconosciuto 
«  dagli  abitanti.  Ma  v'era  altri  a  questo  mondo  che  ave- 
«  vano  qualche  cosa  da  dire  in  quella  faccenda. 

«  Luigi  XI II  re  di  Francia  o  per  dir  meglio  il  Car- 
«  dinaie  di  Richelieu,  sosteneva  il  Nevers,  uomo  d'origine 


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—     425     — 


quello  in  cui  erano:   non  pose  mente  a  distinguere 
che  quel  tale  prezzo  moderato  era  un  bene  in  quanto 


«italiana,  ma  nato  francese;  anzi  aveva  egli,  il  Cardinale, 
«  per  mezzo  di  legati,  avuta  gran  parte  nel  testamento 
«  del  Duca  Vincenzo.  Don  Filippo  IV,*  o  per  dir  meglio 
«  il  Duca  d'Olivares,  non  poteva  patire  che  un  principe 
«  francese  venisse  a  stabilirsi  in  Italia,  e  sosteneva  le  pre- 
«  tenzioni  di  Don  Ferrante  Gonzaga,  parente  più  lontano  ' 
«  del  Duca  Vincenzo. 

«  Carlo  Emmanuele  Duca  di  Savoja  aveva  pure  an- 
«  tiche  pretenzioni  sul  Monferrato  ;  i  Veneziani,  ai  quali 
«  dava  ombra  la  grande  potenza  spagnuola  in  Italia,  favo- 
«  rivano  il  Duca  di  Rethel,  ma  con  trattati,  con  promesse 
«e  con  minacce;  e  Urbano  VIII,  inclinato  a  quel  Duca  e 
«  sopra  tutto  alla  pace,  ajutava,  come  poteva,  queste  due 
«  cause  con  raccomandazioni  e  con  proposte  di  accomo- 
«  damenti.  Finalmente  l'imperatore  Ferdinando  II  pre- 
tendeva che  il  Duca  di  Nevers,  erede  trasversale,  non 
«  aveva  potuto  senza  il  suo  consenso  impossessarsi  di  feudi 
«  dell'impero,  la  successione  ai  quali  era  rivendicata  da 
«  altri.  Richiedeva  quindi  che  il  possesso  degli  Stati  fosse 
«  depositato  presso  di  lui,  finch'egli  gli  aggiudicasse  per 
«  sentenza,  e  citò  il  Duca  di  Nevers  con  tutte  le  forma- 
«  lità  allora  in  uso.  V'erano  poi  altre  pretenzioni  secon- 
«darie  e  più  intralciate,  che  passiamo  sotto  silenzio,  per 
«  non  annojare  il  lettore,  il  quale  comincia  forse  a  mor- 
«morare;  e  certamente  non  saprà  abbastanza  apprezzare 
«  la  fatica  che  facciamo  per  restringere  in  brevi  parole 
«  tutta  questa  parte  di  storia.  Il  Duca  d'Olivares,  istigato 
«  continuamente  dal  Cordova ,  governatore  di  Milano, 
«  strinse  un  trattato  col  Duca  di  Savoja  contra  il  novello 
«  Duca  di  Mantova.  Questi  si  pose  sulla  difesa,  si  venne 


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—     426    — 

fosse  stato  conseguenza  naturale  della  proporzione 
tra  la  ricerca  e  la  quantità  esistente,  ma  non  un  bene 
per  sé,  e  in  ogni  modo.  Non  pensò  a  niente  di  tutto 
questo;  fece  come  una  donna  di  mezza  età  che  per 
ringiovinire  alterasse  la  cifra  della  sua  fede  di  bat- 
tesimo.   L'ordine  fu  dato,  promulgato  ed  eseguito. 


«  alle  mani,  Carlo  Èmmanuele  invase  il  Monferrato,  e  Cor- 
«  dova  pose  l'assedio  a  Casale.  Il  Duca  di  Mantova,  stretto 
«  da  due  nemici  potenti,  invocava  gli  amici  ;  ma  i  Vene- 
«  ziani  non  volevano  muoversi  se  il  Re  di  Francia  non 
«  mandava  un  esercito  in  Italia,  e  il  Re  di  Francia,  o  il 
«  Cardinal  di  Richelieu,  era  impegnato  nell'assedio  della 
«Rocella.  Presa  questa,  parati  o  vinti  certi  intrighi  im- 
«  brogliatissimi  di  Corte,  il  Re  e  il  Cardinale  s'affacciarono 
«  all'  Italia  con  un  esercito,  chiesero  il  passo  al  Duca  di 
«Savoja;  si  trattò,  non  si  conchiuse,  si  venne  alle  mani, 
«  i  Francesi  superarono  e  acquistarono  terreno,  si  trattò 
«  di  nuovo,  il  passo  fu  accordato,  il  Re  e  il  Cardinale  s'a- 
«  vanzarono,  trassero  agli  accordi  il  Cordova  spaventato, 
«  gli  fecero  levare  l'assedio  di  Casale,  vi  posero  guerni- 
«gione  francese,  e  tornarono  a  casa  trionfanti,  e  accom- 
«  pagnati  da  due  sonetti  dell'  Achillini.  11  primo,  quello 
«che  comincia  col  famoso  verso: 

Sudate,  o  fuochi,  a  Preparar  metalli, 

«è  tutto  di  lode;  l'altro  è  di  consiglio,  perchè  la  poesia 
«  ha  sempre  avuto  questo  nobile  privilegio  di  ravvolgere 
«  avvisi  sapientissimi  e  insegnamenti  reconditi  negli  idoli 
«  lusinghieri  della  fantasia  e  nella  magica  armonia  dei 
«  numeri.  L' Achillini  consigliava  il  Re  di  Francia,  vinci- 
«  tore  della  Roccella  e  liberatore  di  Casale,  di  tentare  l'im- 


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—    427     — 

Ordini  meno  iniqui  e  meno  insani  avevano  tro- 
vato nelle  volontà,  nella  natura  stessa  delle  cose, 
ostacoli  invincibili,  ed  erano  rimasti  senza  esecuzione, 
ma  alla  esecuzione  di  questo  vegliava  il  popolo,  il 
quale,  come  era  ben  naturale,  l'aveva  accolto  con  un 
grido  di  esultazione;  e  vedendo  finalmente  esaudito 


«presa  del  Santo  Sepolcro,  né  più  né  meno.  Però  il 
«  Cardinale  di  Richelieu  non  ne  fece  nulla  :  convien  dire 
«che  avesse  altro  in  testa.  Ma  i  Veneziani,  che  allo  scen- 
«dere  de'  Francesi,  s'eran  dichiarati  e  mossi,  istavano 
«  per  legati  e  per  lettere  presso  il  Cardinale  perchè  l'e- 
«sercito  da  lui  condotto  non  tornasse  indietro,  e  addu- 
«  ce  vano  mille  ragioni,  per  provare  che  non  era  da  far 
«conto  su  quei  trattati;  ma  il  Cardinale  badò  alla  prosa 
«dei  Veneziani  come  ai  versi  dell'Achillini.  La  guerra 
«  continuò  infatti  contro  il  Duca  di  Mantova.  Questi  aveva 
«  fatte  e  andava  facendo  tutte  le  sommessioni  immaginabili 
«all'imperatore  a  fine  di  placarlo  e  di  piegarlo  ad  accor- 
«  dargli  l'investitura.  Ma  Ferdinando  stava  fermo  in  esi- 
«gere  che  i  ducati  fossero  a  lui  ceduti  in  deposito;  e 
«  irritato  dalle  ripulse  del  Duca,  più  che  ammansato  dalle 
«  sue  riverenze  ;  irritato  di  più  dell'aver  questi  domandato 
«il  soccorso  francese,  stimolato  dalla  Corte  di  Madrid,  si 
«  dichiarò  anch'egli  nemico  del  Duca  di  Mantova.  L'eser- 
«  cito  Alemanno,  di  circa  trentasei  mila  uomini,  ragunato 
«sotto  il  comando  del  Conte  di  Colalto,  ebbe  ordine  di 
«portarsi  all'impresa  di  Mantova  ;  la  vanguardia  che,  già 
«  da  qualche  tempo  aveva  occupato  ostilmente  il  paese 
«de'  Grigioni,  si  diffuse  per  la  Valtellina  e  ai  20  di  set- 
«  tembre  entrò  nello  Stato  di  Milano  ».  Questo  brano  è 
tolto  dal  capitolo  I  del  tomo  IV.  (Ed.) 


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—     428     — 

e  convertito  in  legge  il  suo  desiderio,  non  sofferiva 
che  fosse  da  burla.  Il  popolo  accorse  tostò  ai  forni 
a  domandare  il  pane  a  quel  prezzo  legale,  e  lo  do- 
mandò con  quell'aria  di  risolutezza  e  di  minaccia  che 
danno  la  forza  e  la  legge  insieme  unite. 

Se  era  naturale  che  il  popolo  esultasse,  non  lo 
era  meno  che  strillassero  i  fornaj  :  un  politico  avrebbe 
potuto  dire  che  quello  era  il  caso  di  fare  soffrire  un 
picciol  numero  per  sollevare  e  tranquillare  una  gran 
moltitudine:  ma  il  male  era  che  questo  picciol  nu- 
mero era  appunto  quello  che  doveva  e  che  poteva 
solo  dare  in  fatto  quello  che  la  legge  comandava  e 
prometteva  in  parole  ;  e  a  produrre  l'effetto  non  ba- 
stava che  i  fornaj  avessero  ricevuto  un  ordine  pre- 
ciso, non  bastava  che  avessero  molta  paura,  che  fos- 
sero disposti  a  sopportare  l'ultima  rovina  delle  so- 
stanze per  salvare  la  persona:  era  necessario  che 
potessero.  Ora,  la  cosa  comandata,  era  non  solo  do- 
lorosa per  essi,  ma  diveniva  di  giorno  in  giorno  più 
difficile  ;  ma  doveva  arrivare  un  momento  in  cui  sa- 
rebbe stata  impossibile.  Il  popolo  stesso  affrettava 
questo  momento  :  quantunque  gridasse  risolutamente 
e  tenesse  confusamente  che  quel  prezzo  stabilito  era 
equo,  ragionevole,  sentiva  però  anche  confusamente 
che  esso  era  come  in  guerra  con  tutto  il  resto  delle 
cose,  che  era  l'effetto  d'una  volontà  e  non  della  na- 
tura, e  prevedeva  pure  confusamente  che  la  cosa  non 
avrebbe  potuto  andar  così  sempre,  né  a  lungo.  Ap- 
profittava quindi  del  momento  di  baldoria,  assediava 


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—     429     — 

continuamente  i  forni,  come  dice  il  Ripamonti,  si  af- 
faccendava a  carpire  quel  pane  che  gli  era  dato  quasi 
da  una  ventura  momentanea,  e  la  sua  pressa  indi- 
screta gareggiava  con  la  fretta  e  col  travaglio  dei 
fornaj.  Così  quella  cieca  moltitudine  consumava  im- 
provvidamente in  poco  tempo,  e  sparnazzava  in  parte 
la  scarsa  e  preziosa  provvigione,  la  quale  però  do- 
veva servirgli  per  tutto  l'anno.  I  fornaj,  costretti  ad 
affacchinare  e  a  scalmanarsi  *  per  discapitare,  pone- 
vano in  opera  tutte  le  arti  per  far  perder  tempo  ai 
chieditori  di  pane,  senza  irritarli  all'estremo,  adul- 
teravano il  pane  con  tutte  quelle  sostanze  che,  senza 
troppo  lasciarsi  distinguere,  ne  accrescessero  il  peso,  e 
intanto  non  rifinivano  di  domandare  che  la  legge  fosse 
abrogata.  Ma  Antonio  Ferrer  stava  immoto  a  tutti 
i  richiami,  come  Enea  agli  scongiuri  di  Didone  (*). 
Generalmente  parlando  è  impresa  delle  più  ardue 
quella  di  smuovere  un  uomo  da  una  sua  ipotesi  :  con 
meno  fatica  gli  si  farà  rinnegare  l'evidenza  dei  fatti, 
perchè  finalmente  l'evidenza  l'ha  trovata;  ma  l'ipo- 
tesi l'ha  fatta  egli  ;  e  l'ha  fatta,  non  per  ozio,  né  per 
ispasso,  ma  per  un  gran  bisogno  che  ne  aveva,  per 
uscire  da  un  impaccio.  Oltre  questa  cagione  generale, 
si  può  supporre,  senza  temerità,  che  quell'uomo,  ben- 
ché dagli  effetti  avesse  dovuto  conoscere  quanto  il  suo 


(l)  Lascerei  questo  paragone  così  intempestivo  in  ma- 
teria così  triste.  [Postilla  del  Visconti]. 


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430 


ordine  era  stato  pazzo,  non  voleva  rivocarlo  egli  e 
perdere  così  tutto  il  favore  del  popolo,  anzi  cangiarlo 
in  furore;  giacché  certamente  il  popolo  l'avrebbe 
creduto  subornato  e  corrotto,  se  avesse  tolto  ciò  che 
egli  aveva  stabilito  come  giusto.  Prevedeva  egli 
dunque  che  la  cosa  non  sarebbe  durata,  ma  lasciava 
ad  altri  la  briga  di  dichiararla  cessata  legalmente. 
Come  però  spesse  volte  bisogna  rispondere  qualche 
cosa  ai  richiami  che  non  si  vogliono  soddisfare,  An- 
tonio Ferrer  rispondeva  ai  fornaj,  a  tutti  quelli  che 
per  uficio  erano  costretti  parlargli  dello  stato  an- 
gustioso  delle  cose,  rispondeva  che  i  fornaj  avevano 
guadagnato  assai  in  passato,  e  che  era  giusto  che 
tollerassero  allora  quella  picciola  perdita.  I  fornaj  re- 
plicavano che  non  avevano  fatto  questi  guadagni,  e 
che  non  potevano  più  reggere  alla  perdita  presente  ; 
Antonio  Ferrer  ripigliava  che  avrebbero  guadagnato 
nell'avvenire,  che  sarebbero  venuti  anni  migliori,  che 
insomma  il  tempo  avrebbe  rimediato  a  tutto  (l). 

Il  tempo  è  una  gran  bella  cosa:  gli  uomini  lo 
accusano,  è  vero,  di  due  difetti:  d'esser  troppo  corto 
e  d'esser  troppo  lungo;  di  passare  troppo  tardamente, 
e  d'essere  passato  troppo  in  fretta:  ma  la  cagione 
primaria  di  questi  inconvenienti  è  negli  uomini  stessi, 
e  non  nel  tempo,  il  quale  per  sé  è  una  gran  bella 


(')  Qui  termina  il  capitolo  V  del    tomo    III.    Il  brano 
che  segue  è  il  principio  del  capitolo  VI.  (Ed.) 


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—     43i     — 

cosa:   ed   è  proprio  un  peccato   che  nissuno  finora 
abbia  saputo  dire  precisamente  che  cosa  egli  sia. 

In  questo  caso  però  il  tempo  non  poteva  essere 
d'alcuno  ajuto,  anzi,  a  dir  vero,  gl'inconvenienti  erano 
di  quelli  che  col  durare  si  fanno  più  gravi.  I  fornaj 
avevano  protestato  fin  da  principio,  che  se  la  legge 
non  veniva  tolta,  essi  avrebbero  gettata  la  pala  nel 
forno  e  abbandonate  le  botteghe  ;  e  non  lo  avevano 
ancor  fatto,  perchè  sono  di  quelle  cose  alle  quali  gli 
uomini  si  appigliano  solo  all'estremo,  e  perchè  spe- 
ravano di  dì  in  dì  che  Antonio  Ferrer,  gran  cancel- 
liere, sarebbe  restato  capace,  o  qualche  altro  in  vece 
sua.  Alla  fine  i  Decurioni  (un  magistrato  municipale) 
vedendo  che  la  minaccia  de'  fornaj  sarebbe  divenuta 
un  fatto,  scrissero  al  governatore,  ragguagliandolo 
dello  stato  delle  cose  e  chiedendogli  un  provvedi- 
mento. Probabilmente  il  signor  Gonzalo  Fernandez  di 
Cordova  avrà  avuto  molto  a  cuore  di  trovare  un 
mezzo  per  nutrire  stabilmente  molti  uomini;  ma  in 
quel  momento,  impedito  egli  e  assorto  in  una  faccenda 
più  urgente,  quella  di  farne  ammazzare  molti  altri, 
non  potè  occuparsi  della  prima  e  ne  diede  l' incarico 
ad  una  commissione,  ch'egli  compose  del  presidente 
del  Senato,  dei  presidenti  dei  due  magistrati  ordi- 
nario e  straordinario  e  di  due  questori.  Si  riunirono 
essi  tosto,  o,  come  si  diceva  allora  spagnolescamente, 
si  giuntarono:  e  dopo  mille  riverenze,  preamboli, 
sospiri,  proposizioni  in  aria,  reticenze,  tergiversa- 
zioni, spinti  sempre  tutti  verso  un  solo  punto  da  una 


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—     432     — 

necessità  sentita  da  tutti,  conscj  che  tiravano  un  gran 
dado,  ma  convinti  che  altro  non  si  poteva  fare,  con- 
chiusero ad  aumentare  il  prezzo  del  pane,  riavvici- 
nandolo alla  proporzione  del  prezzo  reale  del  fru- 
mento; e  si  separarono  nello  stato  d'animo  d'un 
minatore  che  avesse  dato  fuoco  ad  una  mina  non 
caricata  da  lui,  prevedendo  bene  uno  scoppio,  ma 
non  sapendo  né  quando,  né  quale  egli  sarebbe. 


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XVIII. 

Don  Ferrante  e  la  sua  famiglia. 


Alessandro  Manzoni.  28 


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Dobbiamo  ora  far  conoscere  al  lettore  i  perso- 
naggi coi  quali  si  trovava  Lucia. 

Don  Ferrante  (l),  capo  di  casa,  ultimo  rampollo 
d'una  famiglia  illustre,  che  pur  troppo  terminava  in 
lui,  uomo  tra  la  virilità  e  la  vecchiezza,  era  di  me- 
diocre statura,  e  tendeva  un  pochetto  al  pingue, 
portava  un  cappello  ornato  di  molte  ricche  piume, 
alcune  delle  quali,  spezzate  nel  mezzo,  cadevano 
penzoloni,  e  d'altre  non  rimaneva  che  un  torzo. 
Sotto  a  quel  cappello  si  stendevano  due  folti  so- 
praccigli, due  occhi  sempre  in  giro  orizzontalmente, 
due  guancie  pienotte  per  sé,  e  che  si  enfiavano  ancor 
più  di  tratto  in  tratto  e  si  ricomponevano  mandando 
un  soffio  prolungato,  come  se  avesse  da  raffreddare 
una  minestra  ;  sotto  la  faccia  girava  intorno  al  collo 
un'ampia  lattuga  di  merktti  finissimi  di  Fiandra,  la- 


(!)  Prima,    come  fu   detto,   gli   pose  nome  Valeri  ano  ; 
poi  lo  ribattezzò  Don  Ferrante.  (Ed.) 


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—     436     — 

cera  in  qualche  parte  e  lorda  da  per  tutto  :  una  cappa 
di.-.C1),  sfilacciata  qua  e  là,  gli  cadeva  dalle  spalle, 
una  spada,  col  manico  di  argento  mirabilmente  cesel- 
lato e  col  fodero  spelato,  gli  pendeva  dalla  cintura  ; 
due  manichini,  della  stessa  materia  e  nello  stesso 
stato  della  gorgiera,  uscivano  dalle  maniche  strette 
dell'abito,  e  un  ricco  anello  di  diamanti  sfolgorava 
talvolta  nell'una  delle  due  sudicie  sue  mani;  talvolta, 
perchè  quell'anello  passava  anche  una  gran  parte  della 
sua  vita  nello  scrigno  d'un  usurajo;  e  in  quegli  inter- 
valli Don  Ferrante  gestiva  alquanto  meno  del  solito." 
Questo  contrasto  nel  suo  abito  esteriore  nasceva 
da  altri  contrasti  del  suo  carattere  e  delle  sue  cir- 
costanze: Don  Ferrante,  portato  al  fasto  e  alla  tra- 
scuraggine,  era  anche  ricco  e  povero.  Già  da  molto 
tempo  aveva  egli  divorato  a  furia  di  sfarzo,  e  la- 
sciato divorare  a  furia  di  negligenza  e  d'imperizia,  il 
suo  patrimonio  libero  ;  e  sarebbe  egli  rimasto  povero 
del  tutto  e  per  sempre,  se  un  suo  sapiente  antenato  non 
avesse  anticipatamente  provveduto  a  quel  caso,  isti- 
tuendo un  pingue  fedecommesso.  Don  Ferrante  quindi, 
benché  nell'animo  non  fosse  molto  dissimile  dal  sel- 
vaggio di  Montesquieu,  non  poteva,  com'egli,  abbatter 
l'albero  per  cogliere  il  frutto,  e  non  poteva  far  altro 
che  lanciar  pietre  al  frutto  per  farlo  cadere  acerbo 
e  ammaccato.  Viveva  di  prestiti  :  e  per  trovarne  do- 


(l)  Lacuna  dell'originale.  (Ed.) 


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—     437     — 

veva  ricorrere  ai  più  spietati  usuraj,  e  subire  le  più 
rigide  leggi  che  essi  sapessero  inventare  e  per  sup- 
plire alla  legge  comune,  che  non  dava  loro  alcun 
mezzo  di  ricuperare  il  prestato,  e  per  pagarsi  del 
rischio.  E  siccome  nelle  idee  di  Don  Ferrante  le 
pompe  e  il  fasto  tenevano  il  primo  luogo,  così  alle 
pompe  e  al  fasto  erano  tosto  consecrati  i  denari  che 
toccavano  le  sue  mani;  e  il  necessario  pativa.  In 
mezzo  a  queste  cure  incessanti,  Don  Ferrante  non 
aveva  lasciato  di  coltivare  il  suo  ingegno,  e  senza 
essere  un  dotto  di  mestiere,  poteva  passare  per  uno 
degli  uomini  colti  del  suo  tempo.  Possedeva  una  li- 
breria di  varie  materie,  la  quale  per  poco  non  aggiun- 
geva ai  cento  volumi  (*)  :  e  aveva  impiegato  su  quelli 
abbastanza  tempo  e  studio  per  avere  una  cognizione 
fondata  nelle  scienze  più  importanti  e  più  in  voga; 


(*)  Francesco  D'Ovidio  [Manzoni  e  Cervantes;  in  Di- 
scussioni manzoniane,  Città  di  Castello,  Lapi,  1886;  pa- 
gine 68-72]  col  solito  suo  acume  paragonò  la  biblioteca 
di  don  Quijote  con  quella  di  don  Ferrante.  Lorenzo 
Stoppato  [La  Biblioteca  di  don  Ferrante,  Milano,  tip.  Bor- 
tolotti  di  Giuseppe  Prato,  1887;  in-160  di  pp.  59]  ne  fece 
soggetto  di  una  geniale  conferenza,  letta  a  Milano,  il 
17  febbraio  1887,  nella  sala  dell'  esposizione  permanente 
di  belle  arti.  Cfr.  pure:  I  Don  Ferranti  ossia  i  moderni 
avvocati  della  peste  ;  in  La  Civiltà  cattolica,  anno  XIII, 
serie  V,  voi.  II,  quaderno  291  di  tutta  la  collezione, 
3  maggio  1862,  pp.  257-268.  —  Bacci-  O.,  Don  Ferrante 
nei  «  Promessi  Sposi  »;  in  Saggi  letterari,  Firenze,  Bar- 
bèra, 1898;  pp.  87-129.  (Ed.) 


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—     43»     — 

teneva  i  principj  e  quindi  non  era  mai  impacciato 
nelle  applicazioni.  L'astrologia  era  uno  di  quei  rami 
dell'umano  sapere  nei  quali  Don  Ferrante  era  ver- 
sato. Sapeva  non  solo  i  nomi  e  le  qualità  delle  do- 
dici case  del  cielo,  le  influenze  che  hanno  in  cia- 
scuna i  diversi  pianeti,  ma  conosceva  anche  in  parte 
la  storia  della  scienza,  la  quale  è  ragione  della 
scienza  stessa:  ne  conosceva  i  cominciamenti,  il  pro- 
gresso: come  era  nata  neir Assiria,  e  ci  doveva  na- 
scere: giacché  essendo  il  cielo  un  gran  libro,  e  il 
cielo  deir Assiria  molto  sereno,  è  naturale  che  ivi  si 
cominci  a  leggere  dove  i  libri  sono  più  chiari  e  in- 
telligibili. Sapeva  a  memoria  un  buon  numero  delle 
più  stupende  e  clamorose  predizioni  che  si  sono  av- 
verate in  varii  tempi  :  e  aveva  in  pronto  gli  argo- 
menti principali  che  servivano  a  difendere  la  scienza 
contro  i  dubbj  e  le  obiezioni  dei  cervelli  balzani  degli 
uomini  superficiali  e  presuntuosi,  che  ne  parlavano 
con  poco  rispetto  ;  perchè  anche  a  quel  tempo  v'era 
degli  uomini  così  fatti.  Della  magìa  aveva  pure  una 
cognizione  più  che  mediocre,  acquistata  non  già  con 
la  rea  intenzione  di  esercitarla,  ma  per  ornamento 
dell'ingegno,  e  per  conoscere  le  arti  così  dannose 
dei  maghi  e  delle  streghe,  e  potere  così  entrare  a 
parte  della  guerra  che  tutti  gli  uomini  probi  e  d'in- 
gegno facevano  a  quei  nemici  del  genere  umano.  Il 
suo  maestro  e  il  suo  autore  era  quel  gran  Martino 
del  Rio,  il  quale  nelle  sue  disquisizioni  magiche 
aveva  trattata  la  materia  a  fondo,  aveva  sciolti  tutti 


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—     439     — 

i  dubbj  e  stabiliti  i  principj ,  che  per  quasi  due  secoli 
divennero  la  norma  della  maggior  parte  dei  letterati 
e  dei  tribunali,  quel  Martino  del  Rio  che  con  le  sue 
dotte  fatiche  ha  fatto  ardere  tante  streghe  e  tanti 
stregoni,  e  che  ha  saputo  col  vigore  dei  suoi  ragio- 
namenti dominare  tanto  sulla  opinione  pubblica,  che 
il  metter  dubbio  su  la  esistenza  delle  streghe  era  di- 
ventato un  indizio  di  stregheria.  A  un  bisogno  Don 
Ferrante  sapeva  parlare  ordinatamente  e  anche  lucu- 
lentamente  del  maleficio  amatorio,  del  maleficio  ostile 
e  del  maleficio  sonnifero,  che  sono  i  cardini  della 
scienza,  e  conosceva  i  segreti  dei  congressi  delle 
streghe  come  se  vi  avesse  assistito.  Aveva  più  che 
una  tintura  della  storia  in  grande,  per  aver  letta 
più  d'una  volta  quella  eccellente  storia  universale  del 
Bugatti;  possedeva  poi  singolarmente  quella  del  tempo 
dei  paladini,  che  aveva  studiata  nei  Reali  di  Francia. 
Per  la  politica  positiva  aveva  egli  principalmente  ri- 
volte le  opere  dell' immortale  Boterò;  e  conosceva 
assai  bene  la  politica  di  Spagna,  di  Francia,  del- 
l'Impero,  dei  Veneziani  e  di  tutti  i  principali  Stati 
Cristiani,  e  poteva  pur  dare  una  occhiatina  anche  nel 
Divano.  Per  la  politica  speculativa  il  suo  uomo  era 
stato  per  gran  tempo  il  Segretario  Fiorentino,  ma 
questi  dovette  scendere  al  secondo  posto  nel  con- 
cetto di  Don  Ferrante  e  cedere  il  primo  a  quel 
gran  Valeriano  Castiglione,  che  in  quello  stesso 
anno  aveva  dato  alla  luce  la  sua  opera  dello  Statista 
Regnante,  dove  tutti  gli  arcani   i   più  profondi  e   i 


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—    44o     — 

più  reconditi  precetti  della  ragione  di  Stato  sono 
trattati  con  un  ordine  nuovo  e  sublime.  E  bisogna 
confessare  che  il  nostro  Don  Ferrante  prevenne  il 
giudizio  del  mondo  sul  merito  del  Castiglione.  Poco 
dopo,  Urbano  Vili  lo  onorò  delle  sue  lodi;  Luigi  XIII, 
per  consiglio  del  Cardinale  di  Richelieu,  lo  chiamò 
in  Francia,  per  esservi  istoriografo  ;  Carlo  Emanuele 
dipoi  gli  affidò  lo  stesso  ufizio;  il  Cardinale  Bor- 
ghese e  Pietro  Toledo  viceré  di  Napoli  lo  pregarono, 
invano  però,  di  scrivere  storie  :  e  fu  finalmente  procla- 
mato il  primo  scrittore  dei  suoi  tempi.  Quanto  alla 
storia  naturale  non  aveva,  a  dir  vero,  attinto  alle 
fonti  e  non  teneva  nella  sua  biblioteca  né  Aristotele, 
né  Plinio,  né  Dioscoride,  giacché,  come  abbiam  detto, 
Don  Ferrante  non  era  un  professore,  ma  un  uomo 
colto  semplicemente  ;  sapeva  però  le  cose  le  più  im- 
portanti e  le  più  degne  di  osservazione,  e  a  tempo 
e  luogo  poteva  fare  una  descrizione  esatta  dei  draghi 
e  delle  sirene,  e  dire  a  proposito  che  la  remora,  quel 
pescerello,  ferma  una  nave  nell'alto,  che  Tunica  fe- 
nice rinasce  dalle  sue  ceneri,  che  la  salamandra  è 
incombustibile,  che  il  cristallo  non  è  altro  che  ghiaccio 
lentamente  indurato.  Ma  la  materia  nella  quale  Don 
Ferrante  era  profondo  assolutamente  era  la  scienza 
cavalleresca,  e  bisognava  sentirlo  parlare  di  offese, 
di  soddisfazioni,  di  paci,  di  mentite.  Paris  del  Pozzo, 
TlJrrea,  l'Albergato,  il  Muzio,  la  Gerusalemme  li- 
berata e  la  conquistata,  i  Dialoghi  della  nobiltà  e 
quello  della  pace  di  Torquato  Tasso  gli  aveva  a  me- 


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—     441     — 

nadito  ;  i  Consigli  e  i  Discorsi  cavallereschi  di  Fran- 
cesco Birago  erano  forse  i  libri  più  logori  della  stia 
biblioteca.  Anzi  Don  Ferrante  affermava,  o  faceva 
intendere  spesso,  che  quel  grand' uomo  non  aveva 
sdegnato  di  consultarlo  su  certi  casi  più  rematici  ;  e 
parlando  talvolta  di  quelle  opere  con  quella  venera- 
zione che  meritavano,  e  che,  per  verità,  ottenevano 
da  tutti,  Don  Ferrante  aggiungeva  misteriosamente: 
Basta:  ho  messo  anch'io  un  zampino  in  quei  libri. 
Ma  gli  studj  solidi  non  avevano  talmente  occu- 
pati gli  ozj  di  Don  Ferrante  che  non  ne  restasse 
qualche  parte  anche  alle  lettere  amene  :  e  senza  con- 
tare il  Pastorfido,  che  al  pari  di  tutti  gli  uomini  colti 
di  quel  tempo  egli  aveva  pressoché  tutto  a  memoria, 
non  gli  erano  ignoti  né  il  Marino,  né  il  Ciampoli, 
né  il  Cesarini,  né  il  Testi:  ma  soprattutto  aveva  fatto 
uno  studio  particolare  (')  di  quel  libretto  che  conte- 


0)  Segue,  cancellato  :  «  delle  poche  rime  stampate  e 
di  quelle  poche  prose  di  Claudio  Achillini  »  ;  e  poi  :  «  delle 
rime  stampate,  del  discorso  accademico  e  delle  poche  let- 
tere di  Claudio  Achillini».  Qui  il  Manzoni  accenna  senza 
dubbio  alle  Rune  \  e  Prose  \  di  Claudio  |  Achillini.  |  In 
questa  nuova  impressione  \  accresciute  di  molti  sonetti,  \ 
et  altre  coinpositioni  \  non  più  stampate  :  \  Con  aggiunta  di 
diverse  \  Bellissime  Lettere  di  Proposta,  e  \  Risposta  del 
medesimo  autore.  |  In  Venetia,  M.DC.LVI.  |  Per  Gia- 
como Bortoli.  |  Con  licenza  de'  Superiori;  in-120.  È  questa 
infatti  la  prima  volta  che  furono  raccolte  e  stampate  le 
«  poche  lettere  »  dell'Achillini,  mentre  le  sue  Rime  ave- 


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—     442     — 

neva  le  rime  di  Claudio  Achillini;  libretto  nel  quale 
diceva  Don  Ferrante,  tutto,  tutto,  fino  alla  protesta 
sulle  parole  Fato,  Sorte,  Destino  e  somiglianti,  era 
pensiero  pellegrino  ed  arguto.  Aveva  poi  un  teso- 
retto,  una  raccolta  manoscritta  di  alcune  lettere  dello 


vano  avuto  una  quantità  di  edizioni.  Essendo  state  rac- 
colte e  stampate  nel  1656,  non  potevano  figurare  nella 
biblioteca  di  Don  Ferrante,  morto  nel  1630;  il  Manzoni 
cancellò  dunque  l'accenno  e  corse  al  ripiego  di  fargli  in- 
vece possedere  «  una  raccolta  manoscritta  di  alcune  let- 
tere» dello  stesso  grand'uomo.  «Poche  lettere»,  (nota  il 
mio  amico  Luigi  D'Isengard),  «  ma  c'è  da  imparare  una 
«  nuova  maniera  di  estetica  :  —  //  sonetto  inviatomi  da 
«  V.  S.  è  cosa  ang elica ,  per  non  dire  un  angelo  in  versi.  I 
«  due  terzetti  sono  due  Chori  di  Grazie.  La  chiusura  è  una 
«  prigionia  di  maraviglie.  —  Dopo  il  qual  giudizio  non  è 
«  da  mettere  in  dubbio  che  il  maggior  poeta  di  quanti  ne 
«  nascessero,  o  tra  i  Toscani ',  o  tra  i  Latini,  o  tra  i  Greci, 
«  o  tra  gli  Hebrei  sia  Giambattista  Marini  ;  e  non  è  da 
«  stupire  che  la  sacra  eloquenza  fosse  tutta  nel  saio  d'un 
«  cappuccino  così  macilente  e  confitto  e  sepolto  dentro  ai 
«Panni,  che  si  vede,  anzi  non  si  vede,  e  non  si  ode  che  una 
«  lana  agitata  che  sgrida,  un  mantello  vocale,  un  cappuccio 
«  che  atterrisce  ;  un  fuoco  che  scintilla  fuori  dalle  ceneri, 
«  una  nuvola  bigia  che  tuona  spaventi,  una  penitenza  spi- 
«  rante,  un  sacco  di  querele  che  si  riversa  addosso  ai  pec- 
«  catori.  Oh  Dio,  quanto  è  vero,  che  questo  è  il  vero  modo 
«di  predicare;  e  se  tutti  i  predicatori  fossero  tali,  so 
«  certo,  che  più  consideratamente  camminerebbe  il  mondo  ». 
Cfr.  D'Isengard  L.,  Claudio  Achillini  e  Don  Ferrante; 
in  La  Rassegna  nazionale,  di  Firenze,  anno  XX,  voi.  CIV, 
fascicolo  del  i°  dicembre  1898;  pp.  629-636.  (Ed.) 


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—     443     ~ 

stesso  grand* uomo;  e  su  quelle  si  studiava  di  mo- 
dellare quelle  che  gli  occorrevano  di  scrivere  per 
qualche  negozio,  o  per  isciogliere  qualche  ingegnoso 
quesito,  che  gli  veniva  proposto;  e,  a  dir  vero,  le 
lettere  di  Don  Ferrante  erano  ricercate  con  qualche 
avidità,  e  giravano  di  mano  in  mano  per  la  scelta  e 
la  copia  dei  concetti  e  delle  immagini  ardite,  e  sopra 
tutto  pel  modo  sempre  ingegnoso  di  porre  la  que- 
stione e  di  guardare  le  cose:  stavano  però  male  di 
grammatica  e  di  ortografìa  (1). 

Vi  sarebbero  molte  altre  cose  da  dire  chi  volesse 
compire  il  ritratto  di  questo  personaggio,  ma,  per 
amore  della  brevità,  ce  ne  passeremo,  tanto  più  ch'egli 
non  ha  quasi  parte  attiva  nella  nostra  storia.  Veniamo 
dunque  alla  sua  signora  consorte. 


(*)  Segue,  cancellato  :  «  Non  vorrei  con  tutto  questo 
che  alcuno  pigliasse  Don  Ferrante  per  un  uomo  straor- 
dinario, perchè  avendo  studiato  un  po'  tutta  la  sua  vita 
ed  inclinando  ora  alla  vecchiezza,  fra  gli  autori  che  te- 
neva in  stima  particolare  contasse  molti  recenti,  alcuni 
viventi,  e  alcuni  perfino  assai  più  giovani  di  lui.  Don  Fer- 
rante era  quello  che  doveva  essere,  quello  che  sono  sempre 
stati  e  saranno  sempre  gli  uomini  provetti,  i  quali  già  da 
gran  tempo  hanno  veduto  dove  stia  la  perfezione  del  sa- 
pere, hanno  adottato  un  sistema,  e  chiuso  il  numero  delle 
loro  idee.  La  loro  avversione,  i  loro  sospetti,  le  loro  ire 
non  sono  già  contra  gli  uomini  nuovi,  ma  contra  le  idee 
nuove  ;  anzi  se  fra  i  giovani  sorge  taluno,  che  ricevendo 
con  molta  venerazione  le  dottrine  che  trova  trionfanti,  le 


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—    444    — 

Donna  Prassede,  per  ciò  che  risguarda  il  sapere, 
era  molto  al  di  sotto  del  suo  marito.  Il  suo  ingegno, 
a  dir  vero,  non  era  niente  straordinario,  ed  essa  non 
si  era  mai  data  una  gran  briga  di  coltivarlo,  almeno 
sui  libri.  Ma  siccome  la  mente  umana  non  può  vi- 
vere senza  idee,  così  Donna  Prassede  aveva  le  sue, 
e  si  governava  con  esse,  come  dicono  che  si  dovrebbe 
fare  cogli  amici.  Ne  aveva  poche,  ma  quelle  poche 
le  amava  cordialmente  e  si  fidava  in  esse  interamente 
e  non  le  avrebbe  cangiate  ad  istigazione  di  nessuno. 
Avrebbe  anche  avuto,  com'era  giusto,  una  gran  voglia 
di  farle  predominare  in  casa:  e  pare  che  il  carattere 
trascurato  (l)  di  Don  Ferrante  avrebbe  dovuto  servire 
a  maraviglia  a  questo  desiderio  della  consorte:  ma 
v'era  un  grande  ostacolo.  La  più  parte  delle  idee  in 
questo  mondo  non  possono  esser  messe  ad  esecuzione 
senza  danari  ;  ora  Don  Ferrante,  poco  o  nulla  curan- 


studia,  vi  si  affonda  dentro,  e  le  estende  e  dà  loro  un 
nuovo  lume,  i  provetti  riconoscono  il  suo  merito  e  lo 
esaltano  con  ammirabile  imparzialità.  Oh!  se  al  tempo  di 
Don  Ferrante  fossero  venuti  oltre  giovani  che  avessero 
ardito  riesaminare  quelle  idee  che  dovevano  soltanto  ri- 
cevere ed  applicare,  giovani  che  avessero  frugato  in  tutti 
quegli  assiomi,  di  quegli  che  invece  di  dire  :  Capisco,  di- 
cono: Perchè?  avreste  veduto  come  Don  Ferrante  gli 
avrebbe  pettinati,  ma  per  buona  sorte  non  ve  n'era  uno». 
(Ed.) 

(l)  Nell'autografo,  forse  per  una  svista,  c'è  scritto  :  stra- 
scurato. (Ed.) 


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—     445     — 

dosi    del    governo    della   casa,  aveva   però    ritenuto 
sempre  presso  di  sé  il  ministero  delle  finanze;  e,  a 
dir  vero,  gli  affari   ne   erano   tanto   complicati,   che 
ormai  nessun  altro  che  egli    avrebbe   potuto   inten 
dervi  qualche  cosa. 

Aveva  Donna  Prassede  il  suo  spillatico,  pattuito 
nel  contratto  nuziale,  e  allo  spirare  d'ogni  termine, 
dopo  un  po'  di  guerra,  un  po'  di  schiamazzo,  molte 
minacce  di  svergognare  il  marito  in  faccia  ai  parenti, 
veniva  essa  a  capo  di  riscuotere  la  somma  che  le  era 
dovuta.  Ma  fuor  di  questo,  tutta  l'eloquenza,  tutta 
l'insistenza,  tutte  le  arti  di  Donna  Prassede  non 
avrebbero  potuto  tirare  un  danajo  dalla  borsa  di 
Don  Ferrante.  Le  entrate,  prima  che  si  toccassero, 
erano  impegnate  a  pagar  debiti  urgenti,  o  destinate 
a  soddisfare  qualche  genio  fastoso  di  Don  Ferrante. 
Non  rimaneva  dunque  a  Donna  Prassede  altro  do- 
minio che  su  la  sua  persona,  sul  modo  d'impiegare 
il  suo  tempo,  su  le  persone  addette  specialmente  al 
suo  servizio  :  cose  tutte  nelle  quali  Don  Ferrante  la- 
sciava fare;  poteva  ella  in  somma  dare  tutti  gli  or- 
dini l'esecuzione  dei  quali  non  portasse  una  spesa, 
o  che  non  fossero  in  opposizione  alle  abitudini  e  alle 
volontà  risolute  di  Don  Ferrante.  La  sua  gran  voglia 
di  comandare,  ristretta  in  questo  picciol  campo,  vi 
si  esercitava  con  una  energia  singolare.  Donna  Pras- 
sade  profondeva  pareri  e  correzioni  a  quelli  che  vo- 
levano, e  ancor  più  a  quelli  che  dovevano  sentirla: 
e  per  quanto  dipendeva  da  lei,  non  avrebbe  lasciato 


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deviar  nessuno  d'un  punto  dalla  via  retta.  Perchè, 
a  dire  il  vero,  questa  smania  di  dominio  non  nasceva 
in  lei  da  alcuna  vista  interessata  ;  era  puro  desiderio 
del  bene  ;  ma  il  bene  ella  lo  intendeva  a  suo  modo, 
lo  discerneva  istantaneamente  in  qualunque  alterna- 
tiva, in  qualunque  complicazione  di  casi  le  si  fosse 
affacciata  da  esaminare:  e  quando  una  volta  aveva 
veduto  e  detto  che  quello  era  il  bene,  non  era  pos- 
sibile ch'ella  cangiasse  di  parere;  e  per  farlo  riu- 
scire, predicava  ed  operava  fin  tanto  che  avesse  ot- 
tenuto l'intento,  o  la  cosa  fosse  divenuta  impossibile: 
nel  qual  caso  non  lasciava  di  predicare,  per  convin- 
cere tutti  che  avrebbe  dovuto  riuscire. 

La  signorina  Ersilia,  anzi  Silietta,  giacché  come 
amici  di  casa  noi  possiamo  chiamarla  col  diminutivo 
famigliare  che  usavano  i  suoi  parenti,  Silietta  era  un 
personaggio  non  troppo  facile  da  descriversi,  né  da 
definirsi.  Le  sue  fattezze  erano  senza  difetti  e  senza 
espressione  :  i  suoi  due  grandi  occhi  grigj  non  si  mo- 
vevano che  quando  si  moveva  tutta  la  testa;  teneva 
la  bocca  sempre  semiaperta,  come  se  ad  ogni  mo- 
mento sentisse  una  leggiera  maraviglia:  rideva  spesso 
e  sorrideva  di  rado;  parlava  lentamente  e  placida- 
mente, ma  volentieri  e  a  lungo  tutte  le  volte  che  al- 
cuno dei  suoi  parenti  non  fosse  presente  a  darle  su 
la  voce.  Intendeva  a  stento,  e  talvolta  a  rovescio, 
quel  che, altri  dicesse;  e  quando  ciò  le  accadeva  con 
persona  che  ne  mostrasse  impazienza,  Silietta  si  scu- 
sava con  dire:  son  corta  d'ingegno;  cosa  che  s'era 


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—     447     — 

intesa  dire  spesso  da  Don  Ferrante  e  da  Donna  Pras- 
sede  e  dalle  suore  che  l'avevano  avuta  in  cura.  Era 
destinata  al  chiostro,  per  la  ragione,  facile  ad  indo- 
vinarsi, che  Don  Ferrante  non  poteva  certamente 
darle  una  dote  proporzionata  al  partito  che  sarebbe 
convenuto  alla  sua  nascita  e  al  grado  che  teneva  la 
casa.  Su  questa  sua  destinazione  non  sapremmo,  per 
verità,  dire  quali  fossero  i  suoi  sentimenti.  Non  vi 
aveva  avversione,  inclinazione  nemmeno  :  risguardava 
questa  destinazione  come  una  cosa  a  cui  altri  aveva 
dovuto  pensare  ed  aveva  pensato,  e  che  per  lei  era 
indifferente,  a  un  di  presso  come  Tesserle  stato  posto 
più  tosto  un  nome  che  un  altro  ;  anzi  la  risguardava 
quasi  una  conseguenza  naturale  del  suo  sesso  e  delle 
circostanze  della  sua  famiglia;  e  ripeteva  sovente  ciò 
che  le  era  stato  detto  nell'infanzia  da  una  sua  go- 
vernante :  se  fossi  nata  un  maschio,  sarei  un  gran  si- 
gnore. Ma  la  cosa  era  fatta,  e  Silietta  sapeva  bene 
che  non  si  nasce  due  volte. 

Sotto  due  padroni,  così  diversi  di  inclinazioni  e  di 
occupazioni,  (giacché  Silietta,  e  per  Tordine  naturale 
delle  cose,  e  per  indole,  non  si  contava  come  pa- 
drona) la  famiglia  era  come  divisa  in  due  classi  ;  anzi 
in  due  partiti,  ognuno  dei  quali  aveva  nella  famiglia 
stessa  un  capo;  le  due  persone  cioè  che  erano  più 
innanzi  nella  confidenza  dell'uno  e  dell'altro  padrone. 
Prospero,  il  maggiordòmo  di  casa  e  il  favorito  di  Don 
Ferrante,  faceto  e  rispettoso,  disinvolto  e  composto, 
dotto  a  tutto  fare  e  a  tutto  soffrire,  abile  a  trattare  gli 


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affari  e  a  parlare  senza  mai  proferire  le  parole  che  po- 
tevano far  sentire  gl'impicci  o  offendere  la  dignità  del 
padrone,  sapeva  suggerir  a  proposito  un  invito  da  fare 
onore  alla  casa,  trovare  un  cammeo  prezioso,  un 
quadro  raro,  ogni  volta  che  una  rata  di  pagamento 
stava  per  entrare  nella  cassa  di  Don  Ferrante  :  e  sa- 
peva trovare  un  prestatore  ogni  volta  che  la  cassa 
era  asciutta.  L'antesignano  dell'altro  partito,  la  go- 
vernatrice  favorita  di  Donna  Prassede,  era  nominata 
molto  variamente.  Il  suo  nome  proprio  era  Marghe- 
rita, ma  dalla  padrona  era  chiamata  Ghita,  dalle  donne 
inferiori  a  lei  e  dai  paggi  di  Donna  Prassede,  si- 
gnora Ghitina;  e  dai  servitori  di  Don  Ferrante,  quando 
parlavano  fra  di  loro,  non  era  mai  menzionata  altri- 
menti che  la  signora  Chitarra.  Pretendevano  costoro 
che  il  suo  collo  lungo,  la  sua  testa  in  fuori,  le  sue 
spalle  schiacciate,  la  vita  serrata  dal  busto  e  le  anche 
allargate  le  facessero  somigliare  alla  forma  di  quello 
strumento  :  e  che  la  sua  voce  acuta,  scordata  e  sal- 
tellante imitasse  appunto  ilsuono  che  esso  dà  quando 
è  strimpellato  da  una  mano  inesperta.  Esercitava  essa, 
sotto  gli  ordini  immediati  della  padrona,  la  più  se- 
vera vigilanza  sulle'  persone  che  dipendevano  da 
questa,  ed  era  ministra  di  tutto  il  bene  ch'ella  po- 
teva fare  in  casa  e  fuori.  Ma  quanto  alla  gente  di 
Don  Ferrante,  essa  non  poteva  fare  altro  che  notare 
tutte  le  azioni  disordinate  che  essi  commettevano,  di- 
sapprovare con  qualche  cenno,  o  al  più  con  qualche 
frizzo,  e  riferire  poi  il  tutto  alla  padrona,   la  quale 


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pure  non  poteva  fare  altro  che  gemere  con  lei.  Pro- 
spero, com'è  naturale,  era  l'oggetto  principale  di  av- 
versione per  Donna  Prassede;  ma  inviolabile,  com'egli 
era,  se  ne  burlava  in  cuore,  non  lasciando  però  di 
corrispondere  con  riverenze  profonde  agli  sgarbi  della 
padrona,  che  rendeva  poi  con  usura  in  tutte  le  oc- 
casioni alla  signora  Chitarra.  Benché  questi  due  capi 
col  loro  predominio  fossero  passabilmente  incomodi 
ognuno  alla  parte  della  famiglia  che  dirigeva,  pure 
l'una  parte  e  l'altra  aveva  sposate  le  passioni  e  le 
animosità  del  suo  capo;  l'una  faceva  crocchio  a  mor- 
morare dell'altra;  quando  si  trovavano  in  presenza, 
si  scambiavano  visacci,  e  talvolta  parolacce;  cerca- 
vano scambievolmente  di  farsi  scomparire  e  d'im- 
pacciarsi a  vicenda  nella  esecuzione  degli  ordini  ri- 
cevuti. Don  Ferrante  però  aveva  appena  qualche  sen- 
tore di  questa  guerra  sorda,  perchè  egli  non  osser- 
vava molto,  e  Prospero  non  si  curava  di  parlargli 
di  malinconie  ;  e  le  querele  della  moglie  le  attribuiva 
Don  Ferrante  ad  inquietudine  di  carattere,  a  giuoco 
di  fantasia,  come  le  domande  di  quattrini.  Silietta, 
senza  prender  parte  attiva,  secondava  coi  voti,  e, 
quando  le  era  permesso,  con  le  parole,  il  partito 
della  signora  Ghitina. 

Lucia  si  trovava  esclusivamente  sotto  l'autorità  di 
Donna  Prassede,  la  quale  certamente  non  intendeva 
di  lasciare  questa  autorità  in  ozio.  Si  proponeva  ella, 
a  dir  vero,  di  farsi  ben  servire  da  Lucia  nella  parte 
che  le  aveva  assegnata;  ma,  oltre  questo  fine,   che 

Alessandro  Manzoni.  29 


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—     450     — 

era  semplicemente  di  giustizia,  Donna  Prassede  ne 
aveva  un  altro  di  carità,  disinteressata  a  suo  modo, 
che  le  stava  a  cuore  ancor  più  del  primo,  ed  era 
di  far  del  bene  a  Lucia,  la  quale  le  pareva  averne 
gran  bisogno.  Perchè  tutto  ciò  che  Donna  Pras- 
sede aveva  udito  in  campagna,  per  la  voce  pub- 
blica, della  innocenza  di  quella  giovane,  le  afferma- 
zioni magnifiche  ed  energiche  di  Agnese  quando  era 
venuta  a  proporle  la  figlia,  il  volto,  il  contegno  mo- 
desto, la  condotta  stessa  così  irreprensibile  di  Lucia 
non  bastavano  a  produrre  un  pieno  convincimento 
nella  mente  di  Donna  Prassede:  e  non  poteva  essa 
persuadersi  che  una  giovane  contadina  avesse  levato 
tanto  romore  di  sé,  fosse  passata  per  tanti  accidenti, 
senza  averne  cercato  nessuno,  senza  essersi  gittata 
un  po'  all'acqua,  come  si  dice,  senza  essere  almeno 
una  testa  leggiera.  Donna  Prassede  teneva  per  re- 
gola generale  che  a  voler  far  del  bene  bisogna  pensar 
male:  la  sua  voglia  di  dominare,  di  operare  su  gli 
altri,  che  anche  ai  suoi  occhi  proprj  prendeva  la  ma- 
schera di  carità  disinteressata,  era  come  il  ciarlatano 
che  non  dice  mai  a  chi  viene  a  consultarlo  :  voi  state 
bene;  perchè  allora  a  che  servirebbe  l'orvietano?  Ol- 
tracciò, l'aver  ricoverata,  sottratta  al  pericolo  d'una 
infame  persecuzione  una  povera  giovane,  era  un'opera 
certamente  non  senza  gloria;  però  in  questo  Donna 
Prassede  non  era  più  che  uno  stromento  quasi  pas- 
sivo, e  la  parte  che  le  era  toccata  non  domandava 
altro  che  un  po'  di  buona  volontà,  senza  efficacia  di 


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—     45i     ~ 

azione  e  senza  esercizio  di  senno,  era  più  un  assenso 
che  una  impresa.  Ma  dopo  aver  ricoverata  la  povera 
giovane,  emendare  anche  il  suo  cervello  un  po'  bal- 
zano, rimetterla  sulla  buona  strada,  questo  sarebbe 
stato  non  solo  compire,  ma  rassettare  l'opera  del 
cardinale  Federigo,  il  quale  era,  a  dir  vero,  un  degno 
,  prelato,  un  uomo  del  Signore,  dotto  anche  sui  libri, 
ma  quanto  ad  esperienza  di  mondo,  a  discernimento 
di  persone,  non  ne  aveva  molto:  questa  insomma 
sarebbe  stata  gloria;  e  perchè  Donna  Prassede  po- 
tesse ottenerla,  era  necessario  che  Lucia  avesse  il  cer- 
vello un  po'  balzano,  e  avesse  fatto  almeno  qualche 
passo  su  una  cattiva  strada.  Per  averne  qualche  prova 
positiva  Donna  Prassede  richiese  qua  e  là  informa- 
zioni intorno  a  quel  Fermo  a  cui  Lucia  era  stata 
promessa,  e  sulle  avventure,  sulla  fuga  del  quale 
Donna  Prassede  aveva  intese  in  villa  voci  -confuse; 
discorsi,  ma  tutte  poco  buone.  Le  informazioni  furono 
quali  dovevano  essere,  che  quel  giovane  era  un  fa- 
cinoroso, venuto  a  Milano  per  metterlo  sossopra,  per 
fare  il  capopopolo,  ch'era  stato  nelle  mani  dei  birri,  a 
un  pelo  della  forca;  e  se  ora  respirava  tuttavia  in 
paese  straniero,  lo  doveva  alla  sua  audacia  nel  resi- 
stere alla  giustizia  e  alla  celerità  delle  sue  gambe. 
Questa  notizia  confermò  il  giudizio  di  Donna  Pras- 
sede e  le  diede  materia  per  le  sue  operazioni.  Dimmi 
con  chi  tratti  e  ti  dirò  chi  sei,  è  un  proverbio;  e 
come  tutti  i  proverbj  non  solo  è  infallibile,  ma  ha 
anche  la  facoltà  di  rendere  infallibile  Y  applicazione 


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—     452     — 

che  ne  fa  chi  lo  cita.  Lucia  aveva  dunque  infallibil- 
mente, non  già  tutti  i  vizj,  che  sarebbe  stato  dir 
troppo,  ma  una  inclinazione  ai  vizj  di  Fermo  :  questo 
fu  il  giudizio  di  Donna  Prassede.  E  il  bene  da  farsi 
era  non  solo  d'impedire  che  Lucia  ricadesse  mai 
nelle  mani  di  Fermo,  ch'ella  avesse  con  lui  la  me- 
noma corrispondenza;  bisognava  andare  alla  radice, 
al  più  difficile,  guarire  Lucia,  farle  far  giudizio,  to- 
gliere da  quel  cervellino  l'attacco  per  colui  :  attacco 
che,  a  dir  vero,  era  il  solo  vizio  essenziale  di  Lucia. 
Questa  allora  sarebbe  divenuta  al  tutto  una  buona 
creatura;  e  chi  avrebbe  avuto  tutto  il  merito  dell'  im- 
presa? Donna  Prassede. 

La  prima  parte  di  questo  disegno,  la  parte  mate- 
riale, la  vigilanza  esteriore  sopra  Lucia,  era  partico- 
larmente affidata  alle  cure  di  Ghita.  Doveva  essa  te- 
nerle sempre  gli  occhi  addosso,  accompagnarla  alla 
chiesa,  spiare  s'ella  parlava  a  qualcheduno,  se  qual- 
cheduno  le  faceva  un  cenno,  osservare  attentamente 
che  qualche  messo  nascosto  non  le  si  accostasse.  Com- 
presa e  piena  dell'uficio  che  le  era  imposto,  Ghita 
nella  via  andava  sempre  con  gli  occhi  sbarrati  e 
sospettosi  ;  e  siccome  il  volto  di  Lucia  attraeva  spesso 
e  fermava  gli  sguardi,  così  la  guardiana  si  trovava 
spesso  nel  caso  di  fare  il  viso  dell'arme  ai  guarda- 
tori,  o  almeno  di  far  loro  intendere  ch'ella  vegliava 
e  che  la  loro  mira  era  sventata  :  e  quando  s'avve- 
deva che  la  sua  aria  di  sospetto  e  di  minaccia  fem- 
minile, invece  di  stornare  i  tentativi,   avrebbe  pro- 


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—     453     — 

vocata  P insolenza,  pericolo  comunissimo  a  quei  tempi, 
allora  accelerava  il  passo  e  lo  faceva  accelerare  a 
Lucia.  In  chiesa  poi,  se  uno  di  quegli  che  si  trova- 
vano sui  banchi  vicini  aveva  guardato  attentamente 
a  Lucia,  o  aveva  tossito,  Ghita,  continuando  a  mor- 
morare le  sue  orazioni,  non  pensava  più  che  a  guar- 
dare il  suo  deposito.  Aveva  inoltre  P  incarico  di  fru- 
gare, quando  lo  poteva  senza  essere  scoperta,  nelle 
tasche  di  Lucia,  per  vedere  se  mai  ella  ricevesse 
qualche  lettera.  Questa  precauzione  avrebbe  potuto 
sembrare  inutile,  giacché,  e  qui  dobbiamo  aperta- 
mente confessare  una  cosa,  che  finora  si  è  appena 
indicata  e  lasciata  indovinare,  la  nostra  eroina  non 
sapeva  leggere  ;  ma  Ghita  pensava  che  le  precauzioni 
non  sono  mai  troppe.  Quello  poi  che  in  questo  pro- 
cedere vi  poteva  essere  d'indelicato,  non  riteneva 
Ghita  per  nulla;  essa  non  vi  sospettava  nemmeno 
nulla  di  simile;  non  conosceva  né  la  parola,  né  P  idea; 
anzi  la  parola  in  questo  senso  non  esiste  neppure  ai 
nostri  giorni  nella  lingua  pura,  e  noi  adoperandola 
sappiamo  d'essere  incorsi  in  un  brutto  neologismo. 
Finalmente  doveva  Ghita  cercare  di  scovare  nei  di- 
scorsi di  Lucia  se  mai  ella  avesse  qualche  speranza, 
se  qualche  pratica  fosse  ordita,  farla  ciarlare  artifi- 
ciosamente su  tutti  quegli  incidenti  che  avevano  dato 
a  Ghita  qualche  sospetto. 

Ebbene,  signori  miei,  tutta  questa  gran  macchina 
di  cure  e  di  operazioni,  tutto  questo  lavorare  sot- 
t'acqua non  dava  quasi  nessun  incomodo  a  Lucia,  o 


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—     454     — 

per  dir  meglio,  ella  non  se  ne  avvedeva,  e  benché 
non  potesse  a  meno  di  non  sentire  qualche  cosa  di . 
minuto  e  di  pettegolo  nella  sollecitudine  continua  di 
Ghita,  pure  lo  attribuiva  alla  indole  di  lei  e  non  mai 
ad  un  disegno  profondo  e  comandato.  I  pensieri  di 
Lucia,  quel  pensiero  ch'era  divenuto  lo  scopo  prin- 
cipale della  sua  vita,  la  portava  alla  ritiratezza,  ad 
astenersi  da  ogni  comunicazione,  e  quindi  ella  non 
era  avvertita  dolorosamente  di  ciò  che  altri  facesse 
per  rivolgerla  ad  un  punto  al  quale  ella  tendeva  na- 
turalmente. In  altri  tempi  quella  situazione  così  nuova, 
cosi  opposta  alle  sue  abitudini,  cosi  lontana  dalle  sue 
affezioni,  le  sarebbe  stata  penosissima,  ma  la  facilità 
ch'ella  vi  trovava  di  ottenere  quel,  suo  scopo  faceva 
ch'ella  vi  stesse  con  rassegnazione,  e  quasi  vi  ripo- 
sasse, se  non  con  piacere,  almeno  col  desiderio  di 
farsela  piacere.  E  il  suo  scopo  era  tuttavia  quello  di 
cui  abbiamo  già  parlato  :  scordarsi  di  Fermo.  Si  stu- 
diava ella  quindi  di  rinchiudere  tutte  le  sue  idee 
nella  casa  dove  era  stata  allogata,  di  ristringerla  alle 
sue  occupazioni,  si  métteva  con  grande  intenzione  a 
tutte  le  cose  che  le  erano  comandate,  si  rallegrava 
tutte  le  volte  che  vedeva  dinanzi  a  sé  molti  doveri 
che  occupassero  tutta  la  sua  giornata,  che  non  le 
dessero  agio  di  correre  con  la  mente  a  desiderj  vani 
e  colpevoli,  di  smarrirsi  nelle  memorie  d'un  passato 
irreparabile.  Le  memorie  tornavano  però  sovente  a 
tormentarla;  l'immagine  della  madre  era  sempre  la 
prima  a  presentarsi;    e   mentre  Lucia  si  fermava  a 


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—     455     — 

contemplarla  con  sicurezza,  con  una  mesta  affezione, 
l'immagine  di  Fermo,  che  le  stava  dietro  nascosta, 
si  mostrava.  Lucia  voleva  respingerla  tosto  ;  ma  l'im- 
magine, che  non  voleva  andarsene,  aveva  un  buon 
pretesto,  ed  era  sempre  lo  stesso,  per  obbligare  Lucia 
a  trattenerla  almeno  un  momento,  le  ricordava  in 
aria  trista  e  non  senza  rimprovero  i*  pericoli  che 
Fermo  aveva  corsi,  e  quelli  che  forse  gli  soprasta- 
vano ancora,  le  rimostrava  che  quando  anche  un  nuovo 
dovere  può  far  rinunziare  ad  un  affetto  già  così  le- 
cito, già  così  caro,  non  deve,  non  vuol  però  togliere 
la  pietà,  la  sollecitudine,  la  carità  del  prossimo.  Lucia 
combatteva,  rivolgeva  la  mente  ad  altre  immagini, 
ma  tutte  erano  tinte  di  quella  prima,  tutte  la  richia- 
mavano. I  luoghi,  le  persone:  Don  Abbondio  avrebbe 
dovuto  pronunziare  quelle  parole  per  cui  ella  sarebbe 
stata  di  Fermo:  i  consigli,  le  cure  del  Padre  Cristo- 
foro per  chi  erano?  per  Lucia  e  per  Fermo:  fino  il 
monastero  di  Monza,  finjo  il  castello  del  Conte,  fino 
il  cardinale  Federigo,  tutto  si  legava  a  Fermo,  e 
molte  volte  Lucia,  ripensando  a  tutto  questo,  si  ac- 
corgeva ch'ella  si  era  immaginata  di  raccontar  tutto 
a  Fermo.  Con  tutto  ciò,  ella  combatteva,  e  la  guerra 
sarebbe  stata  se  non  sempre  vinta,  pure  meno  aspra 
e  meno  dolorosa;  Lucia  avrebbe  potuto,  se  non  ot- 
tenere lo  scopo,  almeno  andargli  sempre  da  presso, 
se  questo  scopo  non  fosse  stato  anche  quello  di 
Donna  Prassede. 

La  brava  signora,  per  toglier  Fermo  dall'animo 


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—     456     — 

di  Lucia,  non  aveva  trovato  mezzo  migliore  che  di 
parlargliene  spesso.  La  faceva  chiamare  a  sé,  e  se- 
duta sur  una  gran  seggiola,  con  le  mani  posate  e  di- 
stese sui  bracciuoli,  di  qua  e  di  là  dei  quali  pende- 
vano le  maniche  della  zimarra  di  damasco  rabe- 
scato a  fiori,  che  era  stato  l'abito  di  moda  nei  bei 
giorni  di  Dònna  Prassede  nel  tempo  in  cui  v'era 
buona  fede  e  semplicità,  in  cui  tutti,  fino  ai  giovani, 
erano  savj  ed  onesti,  col  volto  imprigionato  tra  un 
cappuccio  di  taffetà  nero,  che  copriva  la  fronte,  e 
una  enorme  lattuga,  che  girava  intorno  alla  gola  e 
sul  mento,  Donna  Prassede  ricominciava  la  sua  pre- 
dica, per  provare  a  Lucia  eh'  ella  non  doveva  più 
pensare  a  colui.  La  povera  Lucia  protestava  da  prin- 
cipio con  voce  angosciosa  e  timida,  ch'ella  non  pen- 
sava a  nessuno.  Donna  Prassede  non  voleva  mai  stare 
a  questa  ragione  e  ne  aveva  molte  da  opporre.  So 
come  vanno  le  cose,  diceva  ella,  conosco  il  mondo, 
so  come  son  fatte  le  giovani;  se  v'è  un  ribaldo,  è 
sempre  il  più  accetto.  Fate  che  per  qualche  acci- 
dente non  possano  sposare  un  galantuomo,  un  uomo 
di  giudizio,  si  rassegnano  tosto;  ma  se  è  uno  sca- 
vezzacollo, non  se  lo  possono  cavar  dal  cuore.  Eh, 
figlia  mia,  non  basta  dire  non  penso  a  nessuno, 
vogliono  esser  fatti,  fatti  e  non  parole.  Così,  se- 
guendo una  sua  idea,  che  è  anche  quella  di  molti 
altri,  che  per  far  passare  in  una  testa  repugnante 
i  proprj  sentimenti,  bisogna  esprimerli  con  molta 
efficacia,    adoperare   i   termini   i   più   forti  ed  anche 


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esagerati,  Donna  Prassede  non  risparmiava  i  titoli  al 
povero  assente,  lo  nominava  come  un  oggetto  d'or- 
rore, di  schifo,  faceva  sentire  che  sarebbe  stata  cosa 
inconcepibile,  mostruosa,  che  alcuno  potesse  avere 
interessamento  e  peggio  inclinazione  per  colui.  Cosi 
ella  otteneva  [appunto  l'intento  opposto  a  quello 
ch'ella  si  proponeva.  Lucia  cercava  di  dimenticar 
Fermo;  ma  quando  una  parola  sgraziata  e  nemica 
glielo  voleva  a  forza  rimettere  nella  mente  in  un 
aspetto  odioso  e  spregevole,  allora  tutte  le  antiche 
memorie  si  risvegliavano  ed  accorrevano  per  respin- 
gere una  immagine  tanto  diversa  dalla  immagine  in 
cui  quella  mente  era  stata  avvezza  a  compiacersi. 
Il  disprezzo  con  che  il  nome  di  Fermo  era  proferito 
faceva  ricordare  a  Lucia  la  condotta,  il  contegno,  il 
buon  nome  di  Fermo,  tutte  le  ragioni  per  cui  ella  lo 
aveva  stimato;  l'odio  faceva  risorgere  più  risoluto  l'in- 
teresse; l'idea  confusa  dei  pericoli  ch'egli  aveva  corsi, 
anche  dei  falli  ch'egli  poteva  aver  forse  commessi, 
pericoli  e  falli  che  Donna  Prassede  rinfacciava  a  Lucia 
con  eguale  amarezza,  come  un  eguale  motivo  di  av- 
versione, suscitavano  più  viva  e  più  profonda  la  pietà, 
e  da  tutti  questi  sentimenti  rinasceva  quell'amore  che 
Lucia  si  studiava  tanto  di  estinguere.  L'amore,  ac- 
consentito o  combattuto  che  sia,  dà  a  tutti  i  discorsi 
una  forza  e  un  vigore  suo  proprio.  Lucia  diventava 
coraggiosa  e  giustificava  Fermo,  e  Donna  Prassede 
approfittava  di  quelle  parole  come  d'una  confessione, 
per  provare  a  Lucia  che  non  era  vero   ch'ella  non 


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-     45»     — 

pensasse  più  a  lui.  E  con  questa  prova  in  mano  la- 
vorava sempre  più  animosamente  sull'animo  di  Lucia, 
facendole  vedere  chi  era  colui  ch'ella  ardiva  pure  di 
difendere.  E  che  doveva  ringraziare  il  cielo  che  la 
cosa  fosse  finita  a  quel  modo,  altrimenti  le  sarebbe 
toccato  un  bel  fiore  di  virtù.  Buon  per  lui  che  le 
gambe  lo  avevano  servito  bene,  altrimenti  avrebbe 
fatto  una  bella  figura,  avrebbe  tenuto  compagnia  a 
quei  quattro  altri  '  galantuomini Quando  la  gros- 
solana signora  toccava  tasti,  d'un  suono  così  orribile, 
la  povera  Lucia  non  poteva  più  fare  altro  che  pren- 
dere con  la  sinistra  il  grembiale,  portarlo  al  volto 
per  nasconderlo  e  per  ricevere  le  lagrime  che  le  sgor- 
gavano dirottamente. 

Se  Donna  Prassede  avesse  parlato  cosi  per  un  odio 
antico,  per  fare  vendetta  di  qualche  affronto  crudele, 
l'aspetto  del  dolore  che  producevano  le  sue  parole 
gliele  avrebbero  forse  fatte  morire  in  bocca,  o  can- 
giare in  parole  più  dolci;  ma  Donna  Prassede  par- 
lava per  fare  il  bene,  e  non  si  lasciava  smuovere  :  a 
quel  modo  che  un  grido  supplichevole,  un  gemito 
di  terrore  potrà  ben  fermare  l'arme  d'un  nemico,  ma 
non  il  ferro  d'un  chirurgo.  Fatte  ingojare  a  Lucia 
tutte  le  amare  parole  ch'ella  credeva  necessarie  pel 
bene  di  lei,  Donna  Prassede,  che  non  era  trista  in 
fondo,  la  rimandava  con  qualche  parola  di  conforto 
e  di  lode,  e  rimaneva  sempre  soddisfatta  di  avere 
acconciato  un  po'  il  cuore  di  quella  giovane.  Ac- 
conciato come  una  gala  di  mussolo  stirata  da  un  ma- 


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-     459     — 

guano.  La  povera  Lucia,  riconoscendo  la  buona  in- 
tenzione, pregava  però  caldamente  che  queste  prove 
d'interessamento  le  fossero  risparmiate. 

Donna  Prassede  aveva  nel  fondo  del  suo  cuore  un 
altro  disegno  sopra  Lucia,  che  sarebbe  stato  il  com- 
pimento dell'opera.  Silietta  si  compiaceva  molto  nella 
compagnia  di  quella  giovane,  che  era  la  sola  in  casa 
che  le  desse  retta  e  la  lasciasse  parlare;  e  Donna 
Prassede  pensava  che  si  sarebbe  fatto  un  gran  be- 
nefizio a  Silietta  e  a  Lucia  stessa  se  si  fosse  potuto 
farle  nascere  la  vocazione  di  andar  conversa  nel  mo- 
nastero dove  Silietta  doveva  esser  monaca  (l).  Quivi 
Lucia  sarebbe  stata  fuori  d'ogni  pericolo  per  sempre, 
e  la  buona  opera  di  Donna  Prassede  sarebbe  stata 
più  evidente,  più  conosciuta  ;  Lucia  sarebbe  divenuta 
un  monumento  parlante  della  sapiente  benevolenza 
della  sua  padrona.  Non  ne  aveva  però  fatta  la  pro- 


(l)  Di  Silietta  il  Manzoni  parla  di  nuovo  nel  capitolo  I 
del  tomo  IV.  «Dalla  fine  dell'anno  1628»,  (così  scrive) 
«  alla  quale  siamo  pervenuti  con  la  narrazione,  in  sino 
alla  metà  del  1630,  i  nostri  personaggi,  quale  per  ele- 
zione e  quale  per  necessità,  si  rimasero  a  un  di  presso 
nello  stato  in  cui  gli  abbiamo  lasciati  :  e  la  loro  vita  non 
offre  in  questo  tempo  quasi  un  avvenimento  che  ci  sembri 
degno  di  menzione.  Noi  non  poniamo,  per  esempio,  tra 
gli  avvenimenti  memorabili  la  vestizione  di  Silietta,  come 
non  si  considera  per  una  epoca  importante  nella  storia 
astronomica  una  piccola  eclissi  preveduta  e  calcolata  e 
non  visibile  in  Europa  ».  Il  tratto  però  che  riguarda  Si- 
lietta è  cancellato.  (Ed.j 


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—     460     — 

posizione  a  Lucia,  ma  con  quell'arte  sopraffina  che 
possedeva,  cercava  tutte  le  occasioni  per  far  nascere 
spontaneamente  nel  cuore  di  Lucia  questo  desiderio. 
A  poco  a  poco  queste  insinuazioni  divenivano  più 
frequenti  e  più  chiare;  e  Lucia  cominciava  a  com- 
prenderle, ma  però  senza  che  le  cominciasse  la  voglia 
di  acconsentirvi  (1).  V  era  nulladimeno  per  essa  un 
gran  vantaggio,  che  Donna  Prassede  cadeva  meno 
spesso,  e  con  meno  impeto,  su  quel  primo,  più  do- 
loroso argomento;  tanto  più  doloroso,  perchè  Lucia 
non  aveva  con  chi  esilararsi  della  tristezza  angosciosa 
che  quei  discorsacci  le  cagionavano.  La  nostra  Agnese 
era  lontana,  a  casa  sua,  dove  pensava  sempre  a  Lucia 
e  andava  spesso  alla  villa  di  Donna  Prassede  per 
saper  le  nuove  di  Lucia  ;  e  le  nuove  le  erano  sempre 
date  ottime,  coi  saluti  della  figlia.  La  buona  donna 
si  struggeva  di  rivederla,  ma  andar  fino  a  Milano  ! 
In  quei  tempi,  con  quelle  strade,  con  quella  scarsezza 
di  comunicazioni,  coi  bravi,  coi  boschi,  quella  era 
quasi  una  impresa  di  cavalleria  errante  ;  e  Agnese  si 
rassegnava  all'idea  di  esser  lontana  da  sua  figlia 
come  ai  nostri  giorni  farebbe  una  madre,  della  con- 
dizione di  Agnese,  che  avesse  una  figliata  collocata 
in  Inghilterra  (2). 


(*)  In  margine  il  Manzoni  notò  poi  questo  pensiero  : 
«  La  signora  le  aveva  lasciata  una  impressione  confusa, 
ma  spiacevole,  etc.  ».  (Ed.) 

(')  Segue,  ma  cancellato  :  Fine  del  tomo  III,  u  Mar- 


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46 1 


zo  1823.  Questo  brano  forma  il  Capitolo  IX  appunto  del 
tomo  III  della  prima  minuta.  Vi  aggiunse  quest'altro 
brano:  «  La  povera  donna  aveva  un'altra  faccenda  su  le 
braccia  :  la  corrispondenza  con  Fermo.  Quantunque  egli 
non  trovasse  bel  paese  quello  dove  non  era  Lucia,  pure 
sapendo  che  egli  stava  sui  registri  di  Milano,  non  ardiva 
scostarsi  dall'asilo.  Faceva  scrivere  ad  Agnese,  per  chie- 
derle nuove  della  figlia  ;  dico  faceva  scrivere,  perchè  i 
nostri  eroi,  simili  in  ciò  a  quelli  d'Omero,  non  conosce- 
vano l'uso  dell'abbici.  Agnese  si  faceva  leggere  e  inter- 
pretare le  lettere,  e  incaricava  pure  altri  della  risposta. 
Chi  ha  avuto  occasione  di  veder  mai  carteggi  di  questa 
specie,  sa  come  son  fatti  e  come  intesi.  Colui  che  fa  scri- 
vere dà  al  segretario  un  tema  ravviluppato  e  confuso; 
questi,  parte  frantende,  parte  vuol  correggere,  parte  esa- 
gerare per  ottener  meglio  l' intento,  parte  non  lo  esprimere 
come  lo  ha  inteso;  quegli  a  cui  la  lettera  è  indiritta,  se 
la  fa  leggere  ;  capisce  poco  ;  il  lettore  diventa  allora  in- 
terprete e  con  le  sue  spiegazioni  imbroglia  anche  di  più 
quel  poco  di  filo  che  l'altro  aveva  afferrato:  di  modo  che 
le  due  parti  finiscono  a  comprendersi  fra  loro  come  due 
filosofi  trascendentali.  Il  peggio  è  quando  la  situazione 
della  quale  si  vuol  render  conto  è  complicata  e  i  disegni 
e  le  proposte  che  si  vogliono  fare  sono  contingenti  e  con- 
dizionate. Tale  era  il  caso  di  Fermo.  Il  suo  disegno  era 
di  stabilirsi  a  Bergamo,  di  viver  quivi  della  sua  professione 
e  di  farsi  con  quella  anche  un  po'  di  scorta,  di  preparare 
un  buon  letto  a  Lucia  e  che  allora  essa  venisse  a  Bergamo 
con  la  madre  ed  ivi  si  concludessero  le  nozze.  Ma  i  tempi 
non  erano  propizii.  L'amore,  che  dipinge  le  cose  facili, 
bastava  bensì  a  persuadere  a  Fermo  che  il  suo  disegno 
si  sarebbe  potuto  eseguire  in  seguito;  ma  non  poteva  na- 
scondergli che  per  allora  era  ineseguibile.  Bisognava  adun- 
que che  Fermo  facesse  intendere  ad  Agnese  questo  mi- 
scuglio di  speranze  fondate,  anzi  certe,  di  impaccio  attuale, 


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462     — 


di  sì  nell'avvenire  e  di  no  nel  presente.  Agnese  ricevette 
la  lettera  dopo  il  ritorno  da  Monza,  intese  e  fece  rispon- 
dere come  potè.  Il  ratto  di  Lucia  fece  tanto  strepito  che 
la  voce  ne  giunse  a  Fermo,  ma  per  buona  ventura  insieme 
con  quella  della  liberazione.  Pure  ognuno  può  immagi- 
narsi quali  fossero  le  sue  angustie.  Se  Lucia  fosse  rimasta 
nel  suo  paese,  Fermo  certamente  non  si  sarebbe  tenuto 
dall'andarvi  :  di  nascosto,  di  notte,  travestito,  per  balze, 
per  greppi,  come  che  fosse,  vi  sarebbe  andato.  Ma  egli 
seppe  anche  che  Lucia  era  partita  per  Milano;  e  in  tale 
circostanza,  non  solo  il  pericolo  diventava  per  Fermo,  in- 
comparabilmente maggiore,  ma  il  tentativo  incomparabil- 
mente più  difficile  e  l'evento  quasi  disperato.  Dovette 
egli  dunque  contentarsi  di  chiedere  schiarimenti  ad  Agnese. 
La  buona  donna  trovò  il  mezzo  di  fargli  avere,  per  mezzo 
d'un  mercante  quei  cento  scudi,  che  Lucia  aveva  destinati 
a  lui,  ed  una  lettera,  nella  quale  v'era  l'intenzione  di 
metterlo  al  fatto  di  tutto  l'accaduto.  Ma  questa  lettera 
non  isgombrò  le  inquietudini  e  le  ansietà  di  Fermo  ;  anzi 
i  cento  scudi  le  accrebbero:  giacché,  pensava  egli,  ora 
che  Lucia,  per  una  ventura  inaspettata,  possiede  tanto  che 
basta  perchè  noi  possiamo  viver  qui  marito  e  moglie,  per- 
chè non  viene  ella  e  mi  manda  invece  questi  denari,  come 
un  dono,  come  una  elemosina,  come...  e  qui  Fermo  si 
sentiva  scoppiare...  come  un  congedo?  Voglio  io  denari 
da  lei?  E  se  ella  non  è  mia,  pensa  ch'io  possa  da  lei 
ricevere  qualche  cosa  ?  Per  quanto  Agnese  avesse  cercato 
di  fargli  scriver  chiaro  che  Lucia  dallo  spavento  in  poi 
si  trovava  quale  egli  l'aveva  lasciata,  Fermo  alla  vista  di 
quei  denari  e  dati  a  quel  modo  era  assalito  da  mille  dubbi 
torbidi  e  strani.  Le  lettere  che  egli  faceva  scrivere  a  Lucia, 
cadevano  tutte  in  mano  di  Donna  Prassede,  la  quale  certo 
non  le  consegnava  a  cui  erano  indiritte,  ma,  pel  meglio, 
le  leggeva  e  si  regolava  su  le  notizie  che  ne  ricavava. 
Fermo,  sempre  più  inquieto,  chiedeva  ad  Agnese  la  spie- 


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463 


gazione  di  quei  dubbii  e  del  silenzio  di  Lucia.  Quand'an- 
che Agnese  avesse  saputo  scrivere,  non  avrebbe  potuto 
soddisfare  il  poveretto,  perchè  la  cagione  del  silenzio  le 
era  .ignota,  ed  essa  pure  non  capiva  bene  il  contegno  di 
Lucia  con  Fermo.  La  spiegazione  di  tutto  era  nel  voto 
fatto  da  Lucia,  e  che  essa  non  aveva  confidato  né  meno 
alla  madre.  La  corrispondenza  andava  sempre  più  imbro- 
gliandosi fin  che  essa  fu  interrotta  dagli  avvenimenti  che 
racconteremo  nel  volume  seguente.  Fine  del  tomo  III». 
(Ed.) 


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XIX. 

Il  passaggio  de'  lanzichenecchi. 


Alessandro  Manzoni.  30 


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La  milizia,  a  quei  tempi,  era  ancora  in  molte  parti 
d'Europa  composta  in  gran  parte  di  venturieri,  che 
si  ponevano  al  soldo  di  condottieri  di  professione,  i 
quali  andavano  poi  coi  loro  drappelli  al  servizio  di 
questo  o  di  quel  principe.  Oltre  le  paghe,  sulle  quali 
non  era  da  fare  assegnamento  certo,  quello  che  de- 
terminava gli  uomini  ad  arruolarsi  era  la  speranza 
del  saccheggio  e  tutte  le  vaghezze  della  licenza.  Di- 
sciplina generale  non  v'era  in  un  esercito,  né  avrebbe 
potuto  conciliarsi  con  le  varie  autorità  private  dei 
condottieri  :  e  questi,  prima  di  tutto,  non  si  curavano 
di  mantenere  una  disciplina  particolare  nei  loro  reg- 
gimenti, perchè  non  avevano  per  questa  parte  re- 
sponsabilità verso  nessuno  ;  e  quand'anche  alcuno  di 
essi,  a  cose  pari,  avesse  pur  desiderato  di  contenere 
i  suoi  soldati  in  un  qualche  rispetto  per  le  proprietà 
e  per  le  persone  degli  abitanti,  questo  disegno  sa- 
rebbe stato  per  lo  più  o  contrario  ai  suoi  interessi, 
o  superiore  alle  sue  forze.  Perchè  soldati  di  quella 
sorte  o  si  sarebbero  rivoltati,  o  avrebbero  tosto  de- 


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—     468     — 

serte  le  bandiere  di  un  comandante  nemico  della  vio- 
lenza e  del  saccheggio.  Oltre  di  che,  siccome  i  prin- 
cipi nel  comperare  i  soldati  pensavano  più  ad  averne 
in  gran  numero  per  assicurare  le  imprese,  che  a  pro- 
porzionare il  numero  alla  loro  facoltà  di  pagare,  la 
quale  era  ordinariamente  molto  scarsa,  cosi  le  paghe 
erano  per  lo  più  ritardate  e  mancanti;  e  le  spoglie 
dei  paesi  dove  passava  l'esercito  divenivano  come 
un  supplemento  tacitamente  convenuto  degli  sti- 
pendj.  Quindi  i  soldati  di  quel  tempo  e  per  le  ten- 
denze che  gli  avevano  tratti  a  scegliere  quella  pro- 
fessione, e  per  le  abitudini  di  essa  formavano  come 
una  collezione  di  tutte  le  nequizie  che  può  dare  la 
natura  umana  nel  suo  maggior  grado  di  perverti- 
mento. Ma  quelli  che  allora  scendevano  nel  Milanese 
erano  poi  il  più  bel  fiore  di  quella  farina;  erano  in 
gran  parte  gli  stessi  che  guidati  dall'atroce  Wal- 
lenstein  avevano  poco  prima  desolata  la  Germania 
in  quelle  guerre  tanto  impropriamente  chiamate  di 
religione,  poiché  queste  stesse  masnade  che  avevano 
combattuto  per  la  parte  che  protestava  di  sostenere 
la  religione  cattolica  erano  composte  in  parte  di  lu- 
terani. 

L'annunzio  della  venuta  di  costoro  portò  il  ter- 
rore nei  distretti  per  dove  avevano  a  passare:  nelle 
altre  parti  si  diceva  :  povera  gente  !  stanno  freschi  : 
chi  sa  come  gli  acconciano  coloro  !  vedrete  che  non 
lasceranno  loro  altro  che  gli  occhi  per  piangere  :  sia 
lodato  Dio  che  non  passeranno  per  di  qua.  Ma  chi 


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—   469   — 

sapeva  che  quell'esercito  portava  la  peste  con  sé,  e 
l'aveva  già  disseminata  nei  luoghi  dove  aveva  stan- 
ziato, sentiva  qualche  cosa  di  più  che  una  fredda 
pietà  per  altrui.  La  maggior  parte  però  degli  abi- 
tanti del  Milanese  o  non  lo  voleva  credere,  o  non 
se  ne  curava,  o  con  quella  fiducia,  senza  motivi, 
cosi  strana  e  così  comune,  diceva:  Poh!  che  ha  da 
venire  la  peste  da  noi  ? 

Colico,  sulle  rive  del  lago  di  Como,  presso  alla 
foce  dell'Adda,  fu  la  prima  terra  che  toccarono  quei 
demonj  ;  dopo  e  d'averla  messa  a  sacco,  l'arsero  ad- 
dirittura ;  se  per  rabbia  di  non  avervi  trovato  abba- 
stanza bottino,  o  pel  diletto  di  fare  una  baldoria, 
non  si  sa.  Di  là,  senza  curarsi  d'itinerario,  né  di 
poste  assegnate,  ma  guardando  solo  dove  fosse  più 
da  sperarsi  bottino,  si  gettarono  sopra  Bellano,  lieto 
paese  sulle  falde  d'un  monte  e  alla  riva  del  lago. 
Gli  abitanti,  ammoniti  dall'esempio  recente  e  dalla 
prossima  mina,  avevano  o  nascoste  sotterra,  o  tra- 
sportate in  fretta  sui  monti  le  cose  più  preziose  e 
le  più  facili  a  trasportarsi;  e  molti  di  essi  s'erano 
appiattati  lassù,  abbandonando  le  case.  Con  tanto 
più  di  furore  v'entrarono  quelle  masnade,  e  delle  cose 
lasciate  presero  tutto  ciò  che  poteva  loro  servire  e 
sperperarono  ed  arsero  il  resto,  mobili,  botti,  travi. 
Quegli  che  erano  rimasti  colla  speranza  di  preser- 
vare i  loro  averi,  ne  videro  la  distruzione,  videro 
l'abominevole  sfrenatezza,  e  per  sopra  più  soggiac- 
quero agli  strapazzi,  alle  percosse  e  alle   ferite.   Né 


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—     47o    — 

i  campi  all'intorno  furono  risparmiati  ;  la  vendemmia, 
somma  speranza  dei  terrazzani  in  quell'anno  cala- 
mitoso, sparve  in  un  momento  ;  coll'uve  furono  ster- 
pate le  viti,  gli  alberi  abbattuti  col  frutto,  molti  casali 
incendiati.  Appena  cessarono  di  farsi  udire  le  trombe 
che  avevan  sonata  la  partenza  d'un  reggimento,  un 
nuovo  squillo  dall'altra  parte  annunziava  terribilmente 
l'arrivo  di  altra  simile,  anzi  peggiore  brigata.  I  so- 
pra wegnenti,  trovando  la  distruzione  dove  avreb- 
bero voluto  portarla,  si  vendicavano  su  le  cose  e  su 
le  persone  che  capitavano  loro  alle  mani,  come  di  un 
furto  che  fosse  stato  loro  fatto  :  e  tanta  cupidigia  fru- 
strata tornava  tutta  in  furore.  Qualche  memoria  del 
guasto  di  quel  paese  ci  rimane  in  alcune  lettere  di 
Sigismondo  Boldoni,  scrittore  riputatissimo  ai  suoi 
tempi,  e  che  forse  avrebbe  acquistato  un  nome  più 
esteso  e  più  autorevole  anche  presso  ai  posteri  se 
non  fosse  morto  all'uscire  della  giovinezza,  e  sopra 
tutto  se  quei  pochi  anni  gli  avesse  vissuti  in  un  se- 
colo in  cui  fosse  stato  possibile  concepire  nuove  idee 
d'una  precisione  e  d'una  importanza  perpetua,  e  per 
esporle  trovare  quello  stile  che  vive.  Questi,  sulle 
prime,  .non  aveva  voluto  fuggire,  e  parte  cercando  di 
avere  ad  alloggio  ufiziali,  parte  chiamando  soccorso  di 
soldati  italiani  ivi  stanziati,  era  venuto  a  capo  di  pre- 
servare la  sua  casa,  e  di  difenderla  poi  quando  fu  mi- 
nacciata :  e  racconta  agli  amici  i  suoi  pericoli  e  gli  ul- 
timi disastri.  V'è  pure  in  una  di  quelle  sue  lettere 
un  tratto  singolare,  che  merita  d'esser  ricordato.  Il 


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—     471     — 

tenente  del  colonnello  Merode,  il  cui  reggimento  era 
venuto  pel  primo,  entrato  nel  giardino  di  Sigismondo, 
accennò  un  boschetto  e  domandò  che  razza  di  piante 
fossero  quelle  e  che  frutto  portassero.  —  Ahi  bar- 
baro !  pensò  il  Boldoni  :  non  conosce  l'alloro.  —  E 
conchiuse  fra  sé,  che  da  tal  gente  non  era  da  spe- 
rarsi misericordia  (*).  Desolato  quel  territorio,  le  fe- 
roci locuste  si  gettarono  nella  Valsassina.  È  un 
gruppo  di  montagne  e  di  valli,  paese  poco  visitato 
dal  sole,  intersecato  da  torrenti,  petroso  e  selvatico 
negli  accessi,  ma  per  entro  rivestito  in  gran  parte 
di  ricchi  pascoli,  e  più  fertile  che  non  l'annunzi  il 
suo  nome:  ha  varie  terre,  quale  sul  pendìo,  quale 
nel  fondo,  a  luogo  a  luogo  assai  vasto  perchè  si 
possa  chiamarlo  pianura:  e  sur  alcuni  monti  più  er- 
bosi sono  sparse  bianche  e  picciole  casette,  che  da 
lontano  raffigurano  quasi  un  gregge  sbandato  al  pa- 
scolo.  Non  vi  mancavano  possessori   agiati,    ma  la 


(')  A  Sigismondo  Boldoni,  che  visse  dal  1597  al  1630, 
l'u  settembre  del  1899  fu  eretto  un  monumento  nel  suo 
nativo  Bellano.  L'ab.  Luigi  Vitali  nel  discorso  inaugurale, 
che  pronunziò,  diceva:  «il  Boldoni,  in  alcune  sue  lettere, 
con  viva  e  commovente  verità,  ci  descrive  una  delle  molte 
discese  dei  barbari,  il  passaggio  dei  Lanzichenecchi,  de- 
scrizione che  forse  ha  ispirato  alcune  delle  belle  pagine 
dell'immortale  romanzo  /  Promessi  Sposi  » .  Cfr.  Vitali  L., 
Patria  e  Religione  %  cotmnemor azione,  Milano,  Cogliati, 
!9°3;  PP»  534-535-  Da  quelle  lettere  trasse  infatti  più  d'una 
ispirazione  il  Manzoni.  (Ed.) 


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—     472     — 

più  parte  degli  abitanti  erano  e  sono  tuttavia  man- 
driani, i  quali  vi  dimorano  nelle  stagioni  più  miti  e 
passano  al  piano  i  mesi  più  rigidi.  La  fama  spaven- 
tosa della  sorte  di  Bellano  precedeva  le  truppe,  e  i 
valligiani  s'erano  presso  che  tutti  rifuggiti  sulle  somme 
alture,  lasciando  deposte  sotterra  presso  le  case  le 
loro  ricchezze,  e  cacciando  dinanzi  a  sé  le  mandrie, 
che  sono  la  principale.  Ma  i  saccheggiatori,  ai  quali 
non  bastava  quello  che  era  stato  loro  abbandonato, 
e  a  cui  le  arti  di  preservazione  degli  abitanti  ave- 
vano suggerite  nuove  armi  di  offesa  e  di  depreda- 
zione, si  diedero  a  rintracciarli.  Quelli  che  erano  stati 
più  lenti  a  fuggire,  o  che  furono  sorpresi  nei  loro 
nascondigli,  strascinati  giù  pei  greppi  a  minacce,  a 
percosse,  ricondotti  nei  villaggi,  erano  quivi  sottoposti 
alle  torture  che  può  inventare  la  cupidigia  più  cru- 
dele, perchè  rivelassero  i  tesori  nascosti.  Due  pas- 
sioni ben  diverse,  ma  egualmente  potenti,  l'avidità 
e  il  terrore,  supplivano  alle  convenzioni  del  linguaggio 
e  si  spiegavano  fra  di  loro  in  un  rapido  e  terribile 
dialogo.  I  gemiti,  le  voci  supplichevoli,  le  mani 
giunte  al  petto,  o  stese  al  cielo  non  impetravano  che 
nuovi  strazj  :  l'infelice,  che  si  prostrava  ad  abbrac- 
ciare le  ginocchia  dei  suoi  oppressori,  era  rialzato  a 
forza  di  percosse.  Colui  che  aveva  riposto  sotterra  o 
danaro  o  suppellettili,  o  a  cui  il  vicino,  per  far 
pompa  di  previdenza  e  di  sicurezza  nei  suoi  ripieghi, 
aveva  confidato  il  luogo  del  suo  deposito,  si  stimava 
felice  di  avere  con  che  acchetare   quella  perversità, 


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~     473     ~ 

accennava  premurosamente  e  con  aria  di  sommessa  e 
quasi  amichevole  intelligenza  ai  soldati,  che  lo  se- 
guissero, e  mostrava  loro  la  terra  di  recente  smossa, 
o  l'armadio  murato  di  fresco  ;  e  cercava  di  sguizzare 
fra  mezzo,  i  saccheggiatori,  che,  ciechi  per  ingordigia, 
si  gettavano  a  gara  sulla  preda. 

Dalla  Valsassina  il  temporale  discese  nel  terri- 
torio di  Lecco  (*). 

Le  contingenze  infelici  della  vita  umana  son  tante, 
che  non  di  rado  l'uomo  oppresso  da  una  sventura 
può  consolarsi  col  pensiero  d'altro  male  o  di  peggio 
che  senza  quella  sventura  gli  sarebbe  capitato  infal- 
libilmente. Se  la  infame  passione  di  Don  Rodrigo 
non  fosse  venuta  a  turbare  i  placidi  destini  di  Fermo 
e  di  Lucia,  essi,  dopo  d'aver  passato  un  anno  d'inopia, 
contra  la  quale  chi  sa  se  le  loro  facoltà  avrebbero 
bastato,  si  sarebbero  ora  trovati,  probabilmente  con 
un  bambinello,  esposti  nel  loro  paese  a  quella  or- 
renda furia  militare,  costretti  a  fuggire;  e  quando  aves- 
sero schivati  tutti  i  pericoli  della  persona,  tornando 
poi  a  casa  non  v'avrebbero  trovate  che  le  muraglie, 
e  quelle  mezzo  diroccate  e  i  segni  perversi  e  luridi 
del  sozzo  torrente  che  v'era  passato.  Questi  guai 
sembrano  ora  leggieri  al  paragone  di  ciò  che  Lucia 
e  Fermo  hanno  sofferto  in   quella  vece,  ma  allora, 


(!)Qui  termina  il  capitolo  I  del  tomo  IV  e  incomincia 
quello  II.  (Ed.) 


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—     474     — 

non  v'essendo  il  paragone  e  non  potendo  essi  nem- 
men  per  sogno  immaginare  come  possibili  tutte  le 
traversie  che  abbiamo  narrate,  quel  minor  male  sa- 
rebbe ad  essi  paruto  il  colmo  della  infelicità.  Co- 
munque sia,  in  mezzo  a  tanti  mali  fu  una  ventura 
per  entrambi  l'esser  lontani  da  casa  loro  in  quel 
brutto  momento. 

E  Agnese?  Agnese  si  trovava  mò  proprio  nel- 
l'intrigo. Vengono;  hanno  saccheggiata  Cortenova, 
hanno  dato  il  fuoco  a  Primaluna,  disertato  Introbbio, 
Pasturo,  Barzio,  si  sono  veduti  a  Ballabio,  son  qui, 
son  qui;  cosi  la  fama  andava  di  momento  in  mo- 
mento crescendo  e  avvicinando  il  terrore.  Alcuni  di 
quei  ppveri  valligiani,  che  invece  di  rintanarsi  sui 
monti,  dove  forse  non  sarebbero  stati  sicuri,  avevano 
stimata  miglior  via  di  fuga,  precorrere  il  nemico, 
giungevano  ansanti,  spaventati,  in  disordine,  come 
reliquie  d'un  esercito  disfatto  e  inseguito,  e  raccon- 
tavano cose  orribili  della  crudeltà  dei  soldati,  prin- 
cipalmente contra  coloro  che  fossero  o  paressero  opu- 
lenti. Agnese  aveva  ancora  una  ventina  di  quegli 
scudi  d'oro  che  il  Conte  del  Sagrato  le  aveva  do- 
nati cosi  a  proposito  e  quasi  per  ispirito  di  profezia  ; 
che  in  quell'anno,  senza  quell'ajuto  di  costa,  la  po- 
veretta sarebbe  stata  ridotta  a  morire  di  stento,  o  a 
pitoccare  disperatamente,  come  tanti  altri.  Ma  dopo 
d'aver  sentifi  i  vantaggi  della  ricchezza,  Agnese  ne 
provava  ora  tutte  le  cure  e  i  terrori.  È  ben  vero 
ch'ella  aveva  sempre  dissimulata  prudentemente  quella 


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~     475     — 

ricchezza,  e  il  solo  che  fosse  del  segreto  era  Don 
Abbondio,  che  era  stato  testimonio  del  dono,  ed  al 
quale  essa  ricorreva  per  fargli  di  tempo  in  tempo 
cambiare  uno  scudo  in  picciola  moneta.  Ma  una  in- 
discrezione poteva  avere  tradito  il  segreto,  o  un  so- 
spetto averlo  indovinato,  e  allora  il  pericolo  sarebbe 
stato  terribile  e  la  fuga  mal  sicura.  Poiché  era  cosa 
nota  che  nei  luoghi  dove  la  soldatesca  era  già  pas- 
sata, uomini,  ai  quali  in  verità  non  si  saprebbe  tro- 
vare un  epiteto,  o  per  invidia,  o  per  isperanza  di 
premio,  avevano  guidati  quei  masnadieri  al  nascon- 
diglio di  qualche  lor  paesano  denaroso,  segnandolo 
così  allo  spoglio  ed  ai  tormenti.  Per  queste  ragioni 
Agnese  fluttuava  in  un  dubbio  tempestoso  :  più  volte, 
vedendo  passare  qualche  frotta  de*  suoi  paesani  che 
tiravano  verso  i  monti,  s'era  mossa  per  mettersi  in 
loro  compagnia;  e  poi  ristava,  pensando  con  racca- 
priccio ai  pericoli  che  l'asilo  stesso  poteva  essere  per 
lei.  Ma  dove  trovare  quello  che  le  desse  la  sicurezza 
particolare  di  ch'ella  aveva  bisogno?  Maneggiando 
e  rimaneggiando  quegli  scudi  d'oro,  svolgendoli  e 
rincartocciandoli,  togliendoli  di  seno  per  riporveli 
meglio,  le  sovvenne  di  colui  che  glieli  aveva  dati, 
delle  sue  proferte,  del  suo  castello  posto  al  confine  e 
in  alto  come  il  nido  dell'aquila  ;  e  si  fermò  tosto  nel 
pensiero  di  cercarsi  l'asilo  colà.  Aveva  già  sotter- 
rate, nascoste  sul  solajo,  riposte  alla  meglio  le  mas- 
serizie più  grosse;  sbarrò,  come  potè,  le  finestre; 
tolse  un  fardello,  dove  aveva  ragunato  ciò  che  le  sue 


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—    476     — 

forze  bastavano  a  portare;  ravvolse  per  l'ultima  volta 
quegli  scudi  d'oro  e  li  cacciò  sotto  il  busto,  tra  la 
camicia  e  la  pelle,  uscì  di  casa,  chiuse  la  porta,  più 
per  non  trascurare  una  formalità,  che  per  fiducia  che 
avesse  in  quei  gangheri  e  in  quelle  imposte,  si  mise 
la  chiave  in  tasca  e  s'avviò.  Trovandosi  così  soletta 
in  istrada,  pensò  quanto  le  sarebbe  stato  prezioso  un 
compagno  in  quel  tragitto.  Ma  voleva  esser  galan- 
tuomo, galantuomo  a  tutte  prove,  superiore  ad  ogni: 
sospetto  e  più  forte  d'ogni  tentazione.  Dove  trovarlo 
anche  questo?  Il  curato?  Perchè  no?  la  casa  paroc- 
chiale  è  a  pochi  passi,  tentiamo. 

Chi  non  ha  veduto  Don  Abbondio  in  quel  giorno 
non  ha  un'idea  vera  dell'impaccio.  I  nemici  che  si 
avvicinavano  erano  i  più  terribili  che  egli  avesse  mai 
avuti  a  fronte,  e  quelli  contra  cui  erano  più  inutili 
tutte  le  sue  armi,  tutti  i  suoi  stratagemmi.  Non  era 
gente  da  ammansarsi  colla  pieghevolezza  e  colla  som- 
messione,  molto  meno  da  contenersi  colFautorità. 
Non  v'era  salute  che  nella  fuga  ;  ma,  primo  di  tutti 
a  risolverla,  Don  Abbondio  era  poi  rimasto  indietro 
di  molti  per  le  difficoltà  che  trovava  nella  fuga  stessa 
e  per  le  condizioni  ch'egli  vi  aveva  voluto  porre. 
L'ertezza  del  cammino  lo  spaventava,  e  questo  spa- 
vento gli  aveva  fatto  perder  qualche  tempo  a  voler 
persuadere  or  l'uno,  or  l'altro  dei  suoi  parrocchiani 
che  lo  portassero  in  lettiga;  ma,  in  verità,  quello 
non  era  momento  da  trovar  lettighieri.  Era  pure  an- 
dato pregando  tutti  quelli  che  avevano  buone  spalle 


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—     477     — 

che  per  amore  del  loro  curato  si  caricassero  delle 
sue  masserizie,  delle  sue  provvigioni,  anche  dei  suoi 
mobili,  per  portarli  in  alto  e  riporli  in  salvo  ;  ma  si 
era  indirizzato  ad  uomini  occupati  a  scegliere  tra  i 
pochi  loro  averi  quello  che  si  poteva  trafugare,  la- 
sciando con  dolore  il  resto  alle  voglie  dei  ladri:  e 
nessuno  aveva  spalle  da  allogare  a  Don  Abbondio. 
Pensava  final  mente  a  nascondere  il  tutto  sul  luogo, 
ma  la  cosa  era  per  sé  difficile,  e  il  tempo  stringeva. 
Di  più,  non  aveva  ancora  saputo  scegliere  un  asilo, 
e,  senza  farne  mostra,  era  tormentato  dallo  stesso 
timore  che  Agnese.  Girava  il  poveruomo  per  la 
casa,  tutto  affannato  e  stralunato,  non  sapendo  che 
farsi;  se  la  prendeva,  quando  col  duca  di  Nivers, 
come  diceva  egli,  che  avrebbe  potuto  rimanersi  in 
Francia  e  voleva  a  forza  esser  duca  di  Mantova, 
quando  col  duca  di  Savoja,  che  voleva  ingrandirsi, 
quando  coir  imperatore,  che  stava  su  certi  puntigli, 
e  quando  con  Don  Gonzalo  di  Cordova,  che  non 
aveva  saputo  mandare  quei  diavoli  per  un'altra  strada. 
Bestemmiava  ancor  più  la  durezza  dei  suoi  paroc- 
chiani,  che  non  volevano  dargli  ajuto.  Oh  che  gente! 
sclamava,  che  gente!  ognuno  pensa  a  sé!  non  c'è 
carità!  Si  faceva  alla  finestra  e  chiamava  quelli  che 
passavano,  con  una  certa  voce  mezzo  piagnolente  (l) 
e  mezzo  rimbrottevole.  Venite   a  dare  una  mano  al 


(l)  Prima  scrisse:  piang olente.  (Ed.) 


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-     478     - 

vostro  curato,  se  avete  viscere  di  misericordia;  non 
siate  così  cani.  Ajutatemi  a  portar  via  quei  pochi 
stracci,  quei  pochi  stracci,  ripeteva,  perchè  nessuno 
sospettasse  ch'egli  avesse  cose  preziose  da  salvare. 
Aspettatemi  che  venga  anch'io  con  voi;  aspettate 
almeno  che  siate  quindici  o  venti,  tanto  da  potermi 
guardare,  ch'io  non  sia  abbandonato.  Volete  voi  la- 
sciarmi solo  in  man  dei  cani?  Meritereste  che  il  vo- 
stro parroco  fosse  spogliato,  ammazzato.  Miseri- 
cordia! Fermatevi  dunque.  Eh!  tiran  di  lungo.  Oh 
che  gente! 

Bisogna  dire  che  Don  Abbondio  fosse  ben  acce- 
cato dalla  paura  per  parlare  a  quel  modo.  Quegli,  a 
cui  egli  faceva  quelle  preghiere  e  quei  rimproveri, 
passavano  dinanzi  alla  sua  casa  curvi  sotto  il  peso 
delle  robe  loro,  quale  trascinandosi  dietro  la  sua  vac- 
cherella, quale  traendosi  dietro  i  figli,  che  a  stento 
lo  seguivano,  e  la  donna,  che  portava  quelli  che  non 
potevano  camminare,  quale  reggendo  un  vecchio  o 
un  infermo.  Altri  tornavano  scarichi  dal  monte  a  rac- 
cogliere altre  masserizie  finché  reggessero  le  forze  e 
lo  permettesse  il  pericolo.  Alcuni  di  loro  non  ri- 
spondevano a  Don  Abbondio,  altri  diceva  :  eh  si  ! 
s'ingegni  anch'ella,  signor  curato.  —  Oh  povero  me! 
oh  che  gente!  ripeteva  egli.  Ognuno  pensa  a  sé; 
ognuno  pensa  a  sé;  e  a  me  nessuno  vuol  pensare. 

Per  buona  sorte,  Perpetua  aveva  conservato  assai 
più  sangue  freddo  e  operava  e  dava  consigli  come 
Caterina  I  aveva  fatto  nel  campo  alle  rive  del  Pruth 


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—    479     — 

quando  Pietro,  stretto  tra  i  Turchi  e  i  Tartari,  non 
trovando  uscitane  consiglio,  era  caduto  d'animo, non 
sapeva  a  che  partito  appigliarsi  e  non  aveva  più  energia 
che  per  isfogarsi  in  querele  e  in  rimproveri.  Per- 
petua, ben  convinta  che  non  era  da  fare  assegna- 
mento sopra  altri,  aveva  fatto  due  fardelli,  uno*  per 
sé,  uno  per  Don  Abbondio,  e  poi  in  fretta  e  in  furia 
sparpagliava  il  resto  delle  masserizie  nei  bugigatti 
più  nascosti  della  casa,  sul  solajo,  sotto  il  pagliajo, 
dietro  i  tini.  Quando  questa  faccenda  fosse  termi- 
nata alla  meglio,  ella  aveva  proposto  di  presentare 
a  Don  Abbondio  il  fardelletto  destinato  per  lui  e  di 
intimargli  di  partire,  giacché  in  quel  momento  era 
cosa  evidente  che  il  padrone  non  era  in  caso  di  go- 
vernarsi, e  pel  suo  meglio  bisognava  comandargli. 
È  però  vero  che  Perpetua  aveva  creduto  di  ricono- 
scere una  simile  necessità  in  mille  altri  casi  che  a 
gran  pezza  non  erano  urgenti  come  il  presente. 

In  questo  frattempo  sopravvenne  Agnese,  e  co- 
municata la  sua  risoluzione,  fece  intendere  a  Don  Ab- 
bondio ch'ella  poteva  essere  opportuna  anche  per  lui. 

—  Dite  davvero,  Agnese?  disse  Don  Abbondio. 

—  È  un  buon  parere,  signor  padrone,  disse  Per- 
petua: andiamo  senza  perder  tempo. 

—  Senza  perder  tempo,  disse  Don  Abbondio, 
perchè  costoro  possono  giungere  da  un  momento  al- 
l'altro. Ma  saremo  sicuri  in  casa  di  quel  signore?  Eh  ! 

—  Andiamo,  disse  Perpetua;  sicuri  come  in  chiesa: 
gli  parlerò  io  :  siamo  amici  :  è  stato  nella  mia  cucina 


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—    480     — 

quieto  come  un  agnello:  è  diventato  un  «omo  del  Si- 
gnore. 

—  Male  non  me  ne  vorrà  fare,  che  dite  eh?  sa- 
rebbe un  peccato  senza  costrutto  :  quelle  poche  volte 
che  ho  dovuto  trovarmi  con  lui,  sono  sempre  stato 
così  compito!  Andiamo,  ma  la  mia  povera  roba  IO). 

—  Anch'io  ho  dovuto  lasciar  quasi  tutto  il  poco 
fatto  mio,  che  sano  una  povera  vedova,  disse  Agnese. 

—  Sia  fatta  la  volontà  di  Dio,  disse  Don  Ab- 
bondio: e  intanto  Perpetua  gli  diede  il  fardello.,  di- 
cendo: porti  questo,  ch'io  porto  quest'altro. 

—  Oh  poveretto  me  !  disse  Dan  Abbondio.  Che 
ci  avete  messo? 

—  Camicie  e  abiti,  rispose  Perpetua;  indi,  fattasi 
all'orecchio  di  Don  Abbondio,  domandò  sotto  voce: 
i  danari  li  ha  in  tasca? 

—  Sì,  zitto,  zitto,  per  amor  del  cielo,  rispose  Don 
Abbondio,  e  prese  il  fardello.  Sentite,  Perpetua,  riprese 
poi  tosto,  al  momento  di  partire,  tirate  fuori  qualche 
altro  abito  che  Agnese  farà  questo  servizio  al  suo 
curato  di  portarlo. 

—  Ma  non  vede  che  ho  preso  con  me  tutto  quello 
di  mio  che  poteva  portare?  disse  Agnese. 

—  Oh  me  poveretto  !  mormorò  Don  Abbondio, 
ognuno   pensa  a  sé.    Andiamo,  andiamo.  Perpetua, 


(!)  Segue,  cancellato:  «La  vita,  signor  curato,  la  vita, 
disse  Perpetua».  (Ed.) 


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—     *48i     — 

chiudete  bene  la  porta  :  alla  custodia  di  Dio.  Aspet- 
tate.... ma  no,  no,  peggio:  sono  la  metà  luterani! 
misericordia! 

Don  Abbondio  rispondeva  cosi  ad  una  proposi- 
zione che  s'era  fatta  e  che  alla  prima  gli  era  paruta 
un  bel  trovato  per  preservare  la  casa.  Voleva  staccare 
dalla  chiesa  il  quadro  del  Santo  protettore  e  affiggerlo 
al  di  fuori  su  la  porta,  per  indicare  che  la  casa  era  sacra 
e  per  fare  in  modo  che  non  potesse  essere  intaccata 
che  per  mezzo  d'una  profanazione;  ma  s'avvide  tosto 
che  quel  mezzo  di  difesa,  molto  debole  per  sé  contra 
soldati  avidi  di  rapina,  poteva  in  questo  caso  dive- 
nire una  provocazione  a  far  peggio,  giacché  fra  quei 
soldati  v'era  di  molti  ai  quali  uno  sberleffo  fatto  col- 
l'alabarda  all'immagine  d'un  Santo  sarebbe  sembrato 
un'opera  meritoria,  una  espiazione  anticipata  del  sac- 
cheggio. 

Data  una  occhiata  lagrimosa  alla  casa,  Don  Ab- 
bondio s' incamminò  colle  due  vecchie  amazzoni  e 
per  tutta  la  via  non  fece  altro  che  sospirare,  lagnarsi 
dell'abbandono  in  cui  l'avevano  lasciato  i  suoi  par- 
rocchiani, domandare  a  Perpetua  dove  avesse  ripósta 
la  tal  cosa  e  la  tal  altra,  e  se  credeva  che  non  le 
avrebbero  trovate:  enumerare  tutte  le  ragioni  per 
le  quali  il  Conte  sarebbe  stato  peggiore  d'un  cane 
se  gli  avesse  fatto  male,  e  divisare  dove  si  sarebbe 
potuto  cercare  un  asilo  se  quello  a  cui  si  andava  fosse 
mal  sicuro. 

Giunti   presso  al  castello,  videro  un  gran  movi- 

Alessandro  Manzoni.  31 


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—     482     — 

mento,  gente  che  andava,  gente  che  veniva,  uomini 
in  arme  appostati,  altri  che  giravano  in  ronda  a  tre, 
a  quattro,  tanto  che  Don  Abbondio  cominciò  a  scrol- 
lare il  capo  e  a  dire:  Che  è  questa  faccenda?  Ma 
Perpetua  gli  spiegò  tosto  che  quegli  erano  eviden- 
temente uomini  che  vegliavano  alla  sicurezza  del  ca- 
stello, e  di  quelli  che,  come  si  vedeva,  andavano  ivi 
a  rifuggirsi'. 

—  Ohimè  !  ohimè  !  disse  Don  Abbondio  :  vedo 
che  qui  si  voglion  fare  delle  pazzie  ;  '  farsi  scorgere 
appunto  quando  più  si  vorrebbe  stare  zitti,  rannic- 
chiati, senza  né  meno  fiatare.  Basta:  vedremo:  se 
fanno  pazzie  per  tirarsi  addosso  la  burrasca,  dei  monti 
ce  n'è,  e  i  precipizj  non  mi  fanno  paura:  quando  si 
tratti  di  salvare  la  pelle,  ho  coraggio  anch'io  quanto 
chi  che  sia,  andrei  in  mezzo  al  fuoco. 

Dette  sotto  voce  queste  parole,  Don  Abbondio 
proseguiva  lentamente,  guardando  con  attenzione  a 
quegli  armati,  e  cercando  di  comporre  il  volto  alla 
indifferenza  e  di  non  lasciar  trasparire  il  suo  pen- 
siero, che  diceva  dentro:  Scommetterei  che  questo 
gradasso  ha  caro  che  sia  venuto  un  flagello  così  or- 
ribile per  avere  il  pretesto  di  fare  un  po'  di  rimesco- 
lamento. Oh  che  gente!  Oh  che  gente! 

Del  resto,  le  cose  erano  quivi  come  Perpetua  le 
aveva  immaginate.  Al  castello  del  Conte  era  rimasta 
unita  una  antica  opinione  di  sicurezza  e  di  potenza  ; 
e  i  nuovi  costumi  del  signore  ne  avevano  cancellata 
affatto  l'idea  di  oppressione  e  di  terrore  ;  dimodoché 


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-     483     — 

la  gente  del  contorno  dalla  banda  del  Milanese  vi 
accorreva  come  ad  un  asilo,  forte  e  pietoso  nello 
stesso  tempo.  Il  Conte,  lieto  di  essere  un  oggetto  di 
fiducia  a  quei  deboli  che  aveva  tanto  spaventati  ed 
oppressi,  raccolse  tosto  i  primi  che  si  presentarono. 
Ma  un  tal  uomo  non  avrebbe  potuto  considerare  la 
sua  casa  come  un  asilo  disarmato,  un  nascondiglio 
di  paura,  né  starsi  con  le  mani  in  mano  quando  ad 
ogni  momento  poteva  presentarsi  un'occasione  di  me- 
narle santamente.  Fece  addirittura  tirar  giù  dal  so- 
lajo  le  armi  irrugginite,  le  fece  ripulire  in  fretta,  ne 
distribuì  ai  servitori.  Quindi  a  misura  che  accorre- 
vano fuggiaschi,  egli  trasceglieva  gli  uomini  capaci 
di  portare  le  armi,  dava  loro  moschetti  e  partigiane. 
Quando  la  provvigione  fu  esaurita,  ne  fece  raccogliere 
all'intorno  :  e  scompartiva  gli  uficj  a  quei  nuovi  sol- 
dati; altri  mandava  in  ronda,  altri  più  lontano  per 
esplorare,  altri  stavano  raccolti  per  porsi  in  difesa. 
Quando  uno  era  entrato  nel  castello  ed  era  passato 
in  rivista  dal  signore,  diveniva  verso  di  lui  come  un 
soldato  col  suo  antico  ufiziale,  tanto  il  Conte  pos- 
sedeva quella  forte  risolutezza  che  piega  le  volontà, 
e'  quella  parola  che  toglie  il  pensiero  di  fare  diver- 
samente da  quello  ch'ella  suona.  Aveva  allogate  le 
donne  e  i  fanciulli  nelle  stanze  più  riposte;  i  letti 
erano  pei  vecchj  e  per  gl'infermi  :  una  gran  sala  ser- 
viva di  magazzino  per  le  robe  che  erano  portate  su 
dai  rifuggiti  :  tutto  era  collocato  in  ordine,  con  nu- 
meri, dei  quali  il  corrispondente  era  dato  ai  padroni  ; 


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484 


ed  alla  porta  della  sala  era  posto  come  un  corpo  di 
guardia;  chi  aveva  portate  provvigioni,  viveva  di 
quelle,  e  i  poveri  erano  nutriti  dal  Conte  con  razioni, 
che  si  distribuivano  regolarmente  come  in  un  campo. 
Egli,  come  l'Ariosto  sognò  di  Carlo  in  Parigi,  di 
qua,  di  là,  non  istava  mai  fermo:  dava  ordini,  visi- 
tava posti,  metteva  a -luogo  quelli  che  arrivavano, 
governava  ogni  cosa;  e  dove  nascesse  qualche  gar- 
buglio, qualche  contesa,  si  mostrava,  e  tutto  era 
finito. 

Era  appunto  su  la  porta  quando  giunsero  i  nostri 
pellegrini  ;  gli  riconobbe  tutti  e  tre  e  gli  accolse  tutti 
con  pronta  cordialità;  ma  alla  madre  di  Lucia  fece 
una  accoglienza  particolare,  nella  quale  traspariva 
come  una  gratitudine  perchè  ella  gli  desse  ora  una 
occasione  di  compensare  alquanto  in  quello  stesso 
castello  la  terribile  ospitalità  che  vi  aveva  trovato  la 
figlia. 

—  Bene  avete  fatto,  brava  donna,  disse  il  Conte, 
di  cercare  qui  un  ricovero.  Bene  avete  fatto  di  ri- 
cordarvi di  me:  fate  stima  di  essere  in  casa  vostra. 
Voi  ci  portate  la  benedizione. 

—  Oh  appunto  !  rispose  Agnese,  sono  venuta  à 
darle  incomodo. 

Il  Conte  le  chiese  con  premura  novelle  di  Lucia, 
e  quelle  udite,  si  rivolse  a  Don  Abbondio,  e  disse  : 
La  ringrazio,  signor  curato,  ch'ella  si  degni  scegliere 
un  asilo  in  questa  casa. 

—  Manco  male  che  conosce  i  suoi  meriti,  pensò 


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—    485     — 

Don  Abbondio,  e  cominciò  per  rispondere  :  In  questi 
frangenti....  in  queste  circostanze....  non  si....  lutto 

è Ma,  vedendo  che  la  frase  così  cominciata  non 

poteva  venire  a  bene,  la  convertì  in  un  inchino  pro- 
fondo. 

—  Son  già  arrivati  alla  sua  parrocchia  coloro  ? 
domandò  il  Conte. 

—  Dio  liberi  !  rispose  Don  Abbondio  :  Dio  liberi  ! 
Non  sarei  qui,  vivo  e  sano,  ad  implorare  la  prote- 
zione del  signor  Conte. 

—  Si  faccia  cuore,  ripigliò  questi  :  qua  su  non 
verranno;  ma  se  volessero  tentar  la  prova,  siamo 
pronti  a  riceverli.  In  ogni  caso  la  sua  presenza  è 
preziosa,  signor  curato:  ella  potrà  animare  questa 
buona  gente  alla  difesa  della  vita  di  tanti  de- 
boli, della  pudicizia  di  tante  donne,  che  confidano 
in  noi. 

—  Un  corno,  disse  fra  sé  Don  Abbondio. 

—  Ella  potrà,  proseguì  il  Conte,  assistere  quelli 
fra  noi  che  lasciassero  la  vita  in  questa  impresa  di 
misericordia. 

—  Signor  Conte,  disse  Don  Abbondio,  sarà  quel 
-che  Dio  vorrà.  E  così  dicendo  girava  la  testa  a  guar- 
dare qual  fosse  la  più  vicina  e  la  più  alta  delle  cime 
che  dominavano  il  promontorio  su  cui  era  posto  il 
castello,  per  fissarsi  uno  scampo  dove  in  quel  caso 
poter  benedire  i  combattenti. 

Non  rimaneva  nel  castello  più  che  un  letto  libero, 
e  fu  dato,  com'era  giusto,  a  Don  Abbondio,  prete 


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486 


e  vecchio.  Ma  il  Conte,  memore  della  notte  che  Lucia 
aveva  quivi  passata,  non  avrebbe  potuto  sofferire  che 
la  madre  di  lei  dormisse  su  la  paglia.  Fece  quindi 
portare  il  suo  letto  nel  dormitorio  delle  donne  e  di- 
sporlo  quivi  per  Agnese,  intimando  ai  servi  che  si 
guardassero  bene  dal  dire  che  quello  era  il  letto  del 
padrone:  e  nella  sua  stanza  fece  in  quella  vece  por- 
tare una  bracciata  di  paglia. 

Quindici  giorni  circa  passarono  i  nostri  rifuggiti 
nel  castello;  quindici  giorni  di  batticuore  e  di  so- 
spetto, di  spauracchi  subitanei  e  di  rincoranti  non  è 
vero>  di  vigilie,  di  allarmi,  di  pericoli,  che,  grazie  al 
cielo,  tutti  svanirono  senza  danno.  Il  castello  era  fuor 
di  strada  e  quei  pochi  demonj  di  lanzichenecchi  sban- 
dati, che  capitavano  alle  falde  del  promontorio,  veg- 
gendo  su  per  la  via  uomini  in  arme,  e  non  sapendo 
quanti  più  ve  ne  fosse  in  alto,  più  curiosi  allora  di 
preda  che  di  battaglia,  se  ne  tornava  pel  loro  meglio. 
Oltracciò,  la  parte  dell'esercito  che  nella  marcia  si  di- 
stendeva lungo  l'estremo  confine,  aveva  un  interesse 
urgente  di  tenersi  raccolta  e  all'erta  e  di  non  disper- 
dersi troppo  a  buscare.  Sull'altro  confine  era  rac- 
colta una  forza  dei  Veneziani,  la  quale,  sotto  il  co- 
mando di  Marco  Giustiniani,  provveditore  all'armi 
in  Bergamo,  era  destinata  a  costeggiare  l'esercito 
alemanno  per  tutto  quel  tratto  del  suo  passaggio  che 
toccasse  i  confini  della  Repubblica  ;  e  a  questa  forza 
avevano  dato  nome  di  squadrone  volante.  Alla  pre- 
senza di   questi,   che  certo  non  erano  amici,  e  che 


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-     4»7     — 

vedendo  un  bel  tratto  potevano  far  da  nemici,  biso- 
gnava camminare  con  giudizio;  e  questa  fu  princi- 
palmente la  cagione  per  cui  il  castello  non  fu  mo- 
lestato. Ma  anche  questa,  che  in  fatto  era  salute,  fu 
pel  volgo  inerme  che  vi  era  ricoverato,  e  per  Don  Ab- 
bondio principalmente,  un  aumento  d'inquietudine: 
poiché  se  il  confine  veneto  fosse  stato  sguernito,  Don 
Abbondio  certamente  l'avrebbe  varcato  e  sarebbe  an- 
dato innanzi  innanzi  fino  a  che  non  avesse  più  in- 
teso parlare  di  lanzichenecchi.  Ma  ora,  il  poveretto 
non  aveva  più  rifugio;  l'accesso  ai  monti,  oltre  la 
fatica,  era  pieno  di  pericoli  pei  predoni  che  potevano 
trovarsi  su  la  via:  e  attraversare  lo  squadrone  vo- 
lante sarebbe  stato  lo  stesso  che  correre  in  bocca  al 
lupo  :  giacché  quella  era  una  marmaglia  ragunaticcia 
d'uomini  tagliati  a  un  dipresso  alla  misura  dei  lan- 
zichenecchi; e  nel  paese  che  le  era  dato  a  proteg- 
gere faceva  il  peggio  che  poteva. 

Ognuno  può  immaginarsi  come  il  povero  Don  Ab- 
bondio passasse  quei  quindici  giorni.  Stavasi  colle 
donne,  coi  vecchj  e  coi  fanciulli  nel  luogo  il  più  ri- 
posto del  castello:  di  tempo  in  tempo  la  paura  lo 
cacciava  fuori  a  domandar  novelle,  e  rare  erano  quelle 
che  non  gli  accrescessero  lo  spavento.  L'aspetto  del- 
l'armi, dei  preparativi  di  difesa,  da  una  parte,  lo 
rincorava  alquanto;  dall'altra,  gli  era  intollerabile,  fa- 
cendogli immaginare  tutte  quelle  bagattelle  in  mo- 
vimento a  far  carne.  Si  percoteva  il  petto  e  le  guance, 
pensando  alla  minchioneria  che  aveva  fatta.  Mi  son 


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—     488     ~ 

messo  in  gabbia  da  me  stesso  (l),  diceva  tra  sé,  so- 
spirando. Oh  che  bestia!  mi  sono  lasciato  condurre 
da  due  pettegole.  E  in  questo  pensiero  s'infuriava 
tanto  che  più  d'una  volta  tirò  da  parte  Perpetua  per 
isfogarsi  in  improperj  contra  di  essa.  Ma  quando  Per- 
petua, giustificandosi,  alzava  la  voce,  Don  Abbondio 
la  faceva  tacere  e  cessava  di  garrire  anch'egli,  tutto 
impaurito  che  non  nascesse  qualche  scandalo,  e  il 
Conte,  tornando  all'antica  natura,  non  facesse  il  dia- 
volo. Don  Abbondio  sedeva  alla  tavola  del  Conte, 
che  in  quell'accampamento  era  come  la  tavola  dello 
stato  maggiore:  v'erano  i  signori  del  contorno,  che 
facevano  da  ufiziali,  le  signore  e  qualche  prete.  La 
tavola  era  lieta:  il  Conte,  da  buon  generale,  met- 
teva in  campo  e  intratteneva  discorsi  atti  ad  ispirare 
risoluzione,  a  ravvicinare  gli  animi,  a  mettere  i  pen- 
sieri in  comune,  perchè  i  pensieri  solitarj  sono  più 
vicini  allo  scoraggiamento.  Bisognava  dunque  par- 
lare e  ridere,  e  si  rideva  ;  ma  per  Don  Abbondio  era 
un  supplizio  :  e  quando  il  Conte  gli  rivolgeva  in  par- 
ticolare il  discorso  per  animarlo  un  pochetto,  egli 
allora,  sforzandosi  di  mangiare  e  di  ridere,  faceva 
in  una  volta  due  smorfie  che  gli  davano  una  figura 
veramente  compassionevole. 

Ma  tutte  le  cose  hanno  veramente  un  termine: 
passano  i  cavalli  di  Wallenstein,  passano  i  fanti  di 


(')  In    margine  il  Manzoni    aggiunse:  «son    venuto   a 
fuggir  l'acqua  sotto  una  grondaja  ».  (Ed.) 


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-     4*9     - 

Merode,  passano  i  cavalli  d'Anhalt,  passano  i  fanti 
di  Brandeburgo,  e  poi  i  cavalli  di  Montecuccoli,  e 
poi  quelli  di  Ferrari,  passa  Altringer,  passa  Fursten- 
berg,  passa  Colloredo,  passano  i  Croati;  quando 
piacque  al  cielo  passò  anche  Galasso,  che  fu  l'ultimo. 
Lo  squadrone  volante  de'  Veneziani  si  mosse  an- 
ch'esso per  tener  dietro  al  movimento  dell'esercito 
alemanno  su  la  riva  opposta  dell'Adda,  fin  dove  ella 
era  confine  fra  i  due  Stati,  e  portarsi  poi  sull'Oglio 
a  fare  la  stessa  processione.  Quando  le  due  retro- 
guardie furono  distanti  una  giornata  dal  castello,  gli 
ospiti  ne  uscirono  come  uno  stormo  di  passeri  si  spar- 
paglia all'intorno  dai  palchi  aerei  e  fronzati  d'una 
gran  quercia,  dove  erano  accorse  a  ricoverarsi  dalla 
tempesta.  Don  Abbondio  avrebbe  voluto  gittarsid'un 
volo  al  suo  nido,  per  mirar  tosto  cogli  occhj  proprj 
il  suo  dolore  e  il  guasto  che  v'era  stato  fatto,  e  nello 
stesso  tempo  perchè  i  barberini,  vedendo  la  casa  ab- 
bandonata, non  venissero  a  portar  via  quello  che  i 
barbari  avevan  potuto  lasciare.  E  poi  per  quanto  il 
Conte  avesse  dato  segni  e  prove  d'esser  divenuto  un 
galantuomo,  Don  Abbondio  non  l'aveva  potuto  guar- 
dar mai  in  volto  senza  ricordarsi  dell'uomo  brusco 
che  era  stato  altre  volte,  e  non  istava  con  lui  di  buon 
animo,  massime  in  picciola  brigata.  Ma,  dall'altra 
parte,  lo  riteneva  la  paura  di  abbattersi  in  qualche 
lanzichenecco  sbandato,  rimasto  addietro  alla  busca, 
e  di  affogare  in  porto.  Era  quindi  sempre  su  le  mosse 
e  sempre  s'indugiava,  domandando  novelle  dei  con- 


Y 

^Digi 


—    49°    — 

torni  a  tutti  coloro  che  giungevano  al  castello  ;  e  le 
novelle  erano  dolorose.  Quei  pochi,  rimasti  colla  spe- 
ranza di  guardar  le  case,  o  discesi  troppo  presto,  si 
erano  trovati  sbigottiti,  storditi  dalle  percosse  e  dallo 
spavento;  ogni  arredo,  ogni  masserizia  sparita,  e  in 
quella  vece  nelle  case  un  impatto  di  strame,  tizzoni 
di  mobili  arsi,  greppi  di  stoviglie  sfracellate  per 
istrazio  dopo  avervi  bevuto  il  vino  rubato,  schifezze 
d'ogni  genere,  un  tanfo  che  toglieva  il  respiro,  di- 
modoché ognuno  tornando  con  ansia  alla  casa  de- 
relitta ne  usciva  alla  prima  con  fastidio  e  doveva 
farsi  forza  a  poco  a  poco  per  rientrarvi  a  renderla  di 
nuovo  abitabile.  In  qualche  luogo  il  padrone,  avan- 
zando così  per  la  sua  casa,  udiva  un  gemito  ;  guar- 
dava con  sospetto  che  fosse  :  era  un  soldato,  che  lan- 
guiva infermo,  che  spirava:  e  il  padrone  ristava  a 
quello  spettacolo  con  un  senso  misto  di  ribrezzo  e 
di  pietà,  di  rancore  e  di  spavento,  scorgendo  nel  volto 
livido,  nelle  membra  macchiate  del  giacente  l'imma- 
gine confusa,  ma  terribile  della  peste,  che  fino  allora 
forse  egli  aveva  sprezzata  come  un  sognò  lontano. 
Il  Conte,  argomentando  da  queste  relazioni,  che 
Agnese,  se  si  fosse  affrettata  di  tornare,  non  avrebbe 
però  trovato  nulla  da  guardare,  la  ritenne  per  due 
o  tre  giorni;  e  intanto  raccolse,  di  quello  che  gli 
rimaneva,  un  po'  di  provvigione,  fece  mettere  in- 
sieme un  po'  di  biancheria,  qualche  mobile,  qualche 
attrezzo  di  cucina,  e,  caricatone  un  baroccio,  volle  che 
Agnese  partisse  su  quello  con  quella  poca  scorta  e 


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—    491     — 

la  fece  accompagnare  da  due  suoi  tarchiati  servi,  or- 
dinando loro  che  aiutassero  la  povera  donna  a  ripu- 
lire la  sua  casa.  Agnese  partì  dopo  molte  ripulse 
cerimoniose  e  mille  rendimenti  di  grazie,  e  Don  Ab- 
bondio e  Perpetua  le  andarono  in  compagnia. 

La  strada  fu  trista  per  lo  spettacolo  continuo  della 
distruzione  e  della  disperazione  ;  ma  la  giunta  fu  più 
trista  ancora.  Alla  esclamazione,  cento  volte  ripetuta, 
di  povera  gente,  succedette  il  povero  me:  parola  che, 
generalmente  parlando,  esce  da  una  parte  più  profonda. 

Cogli  ajuti  del  Conte,  Agnese  potè  quel  primo 
giorno  spazzare  il  suo  povero  abituro,  ricogliere 
qualche  masserizia  sparsa  qua  e  là  nell'orto  e  nel 
campo,  scavare  ciò  che  aveva  deposto  sotterra,  e  tra 
con  questi  rimasugli  e  con  quel  di  più  che  il  Conte 
le  aveva  dato  appresso,  allogarsi  in  casa,  se  non 
come  prima,  almeno  in  modo  da  poterci  stare  pas- 
sabilmente, anzi  da  eccitare  l'invidia  dei  suoi  pae- 
sani. Ma  il  povero  Don  Abbondio  questa  volta  ebbe 
campo  e  ragione  più  che  mai  di  sclamare  :  oh  che 
gente!  oh  che  gente!  La  sua  casa  era  la  più  mal- 
trattata del  villaggio,  perchè  era  la  più  apparente; 
e  gli  ospiti  eroi,  sospettando  che  ci  dovesse  esser 
più  che  altrove  ricchezza  nascosta,  vi  avevano  im- 
piegato più  ostinate  cure  a  metter  tutto  sossopra.  Il 
sospetto  non  era  mal  fondato,  né  le  cure  erano  state 
inutili:  e  Perpetua,  mettendo  il  piede  su  là  soglia, 
tra  mezzo  i  mobili  spezzati,  i  fogli  lacerati  e  le  piume 
delle  sue  galline,  scorse  tosto  con  raccapriccio  fran- 


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—     492     — 

turni  e  brani  di  quelle  cose  ch'ella  pensava  aver  meglio 
appiattate  ;  e  dovette  confessare  che  i  lanzichenecchi 
avevan  più  ingegno  a  scovare,  ch'ella  non  avesse  a 
nascondere.  Don  Abbondio,  spinto  innanzi  dall'ansia 
di  vedere  i  fatti  suoi,  e  rispinto  dal  ribrezzo  e  dal- 
l'orrore, metteva  il  capo  alla  porta  d'una  stanza  e 
lo  ritraeva,  dava  tre  passi  e  ristava.  Quale  spettacolo  ! 
Ogni  stanza,  oltre  il  guasto  che  presentava,  dava 
tosto  l'idea  del  guasto  generale;  i  segni  d'un  vasto 
saccheggio  erano  ragunati  in  un  picciolo  angolo, 
come  idee  sottintese  in  un  periodo  scritto  da  un 
uomo  di  garbo.  Sul  focolare  della  cucina,  per  esempio, 
si  vedevano  più  tizzoni  spenti,  i  quali  accennavano 
ancora  d'essere  stati  un  bracciuolo  di  seggiola,  il 
piede  d'un  trespolo,  un'imposta  d'armadio,  una  doga 
del  botticino  dove  Don  Abbondio  teneva  il  vino  che 
per  una  lunga  esperienza  aveva  riconosciuto  il  mi- 
gliore amico  del  suo  stomaco.  Di  questi  e  di  tanti 
altri  mobili  non  restavano  che  rottami,  un  po'  di  ce- 
nere e  di  carboni  spenti;  e  con  quei  carboni,  come 
per  compenso  e  per  un  complimento  al  padrone,  i 
guastatori  avevano  schiccherate  le  pareti  di  fantoc- 
ciacci,  ingegnandosi  con  berretti  quadri  e  altre  divise 
di  raffigurarne  dei  preti  e  studiandosi  di  farli  orribili 
e  ridicolosi;  intento  che,  per  verità,  non  poteva  fal- 
lire a  tali  artisti. 

Don  Abbondio,  mettendosi  le  mani  in  que'  due 
suoi  ciuffetti  grigi  su  le  tempie,  balzò  di  casa  come 
un  forsennato  e  andò  di  porta  in  porta  a  gagnolare, 


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—     493     — 

a  scongiurare  quegli,  che  tornati  da  qualche  giorno 
avevano  assestate  alla  meglio  le  case  loro,  che  ve- 
nissero a  dare  un  po'  di  governo  alla  sua;  e  nello 
stesso  viaggio,  guardava  anche  chi  fosse  più  fornito 
di  roba  salvata  dalla  rapina,  e  accattava  in  prestito 
da  chi  una  panca,  da  chi  una  coltre,  da  ehi  un  piatto, 
da  chi  una  pentola  ;  .tanto  "  che  con  gli  ajuti  e  con  le 
prestanze  potè  accamparsi  quel  giorno  in  casa,  per 
riconquistarla  e  riordinarla  poi  tutta  a  poco  a  poco. 
Passati  quei  primi  giorni  e  nel  tempo  appunto  delle 
brighe  e  delle  spese,  Don  Abbondio  ebbe  con  sé 
stesso  e  con  Perpetua  una  guerra  assai  fastidiosa. 
.Perpetua,  parte  con  la  sua  vista,  acuta  come  il  fiuto 
di  un  bracco,  parte  con  la  sua  abilità  a  far  ciarlare 
la  gente,  scoperse  che  molte  masserizie  del  suo  pa- 
drone non  erano  già  state  sciupate  dai  barbari,  ma 
erano  sane  e  salve  in  paese  nelle  mani  dei  barbe- 
rini:  ne  fece  tosto  avvertito  Don  Abbondio,  perchè 
si  facesse  rendere  il  suo.  Ma  Don  Abbondio  non  vo- 
leva sentir  toccare  questa  corda  :  non  già  che  gli  di- 
spiacesse assai  vedersi  così  rubato  a  man  salva  e  sa- 
pere il  fatto  suo  in  mano  d'altri,  ma  quegli  che  se 
lo  tenevano  erano  i  più  terribili  e  bizzarri  arieti  del 
suo  gregge;  quegli  dai  quali  Don  Abbondio  aveva 
sempre  sofferto  ogni  cosa,  piuttosto  che  provocarli 
al  cozzo,  che  aveva  sempre  accarezzati  e  lodati  come 
i  più  savj  ed  esemplari.  Sicché  sopra  il  rovello  e  il 
danno  aveva  egli  a  tollerare  anche  le  baruffe  con  Per- 
petua, e  di  queste  baruffe  ve  n'era  una  tutte  le  volte 


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che  Don  Abbondio  si  lagnava  di  qualche  mancanza, 
domandava  qualcheduno  di  quegli  utensili  che  altri 
aveva  fatti  suoi. 

—  Vada  a  cercarlo  al  tale,  che  lo  ha,  diceva  Per- 
petua, e  che  non  lo  avrebbe  tenuto  fino  a  quest'ora 
se  non  avesse  che  fare  con  un...  buon  uomo. 

—  Zitto,  zitto,  Perpetua,  zitto. 

—  Zitto,  zitto,  rispondeva  Perpetua,  e  così  ella  si 
lascerebbe  mangiar  gli  occhi  del  capo.  Rubare  agli 
altri  è  peccato,  ma  a  lei  è  peccato  non  rubare. 

—  Oh  che  spropositi  !  oh  che  spropositi  !  scla- 
mava Don  Abbondio.  Ma  sapete  pure....  Col  nome 
del  cielo....  volete  la  mia  morte!... 

La  baruffa  andava  talvolta  in  lungo,  ma  Don  Ab- 
bondio rimaneva  sempre  vincitore,  perchè  quando  si 
trattava  di  paura,  egli  mostrava  una  risoluzione  e 
una  virtù  tale  che  Perpetua  sentiva  di  non  poter  com- 
petere, e  taceva  la  prima.  Tutto  quello  che  fece  Don 
Abbondio  fu  di  gittare  in  predica  qualche  motto  sul 
dovere  di  restituire  e  su  la  trista  sorte  di  chi  va  al- 
l'altro mondo  carico  dell'altrui;  ma. lo  diceva  con 
certe  perifrasi,  con  un  riserbo,  con  una  delicatezza 
da  fare  onore  ad  un  predicatore  di  Corte*  E  pure, 
appena  quelle  parole  erano  uscite,  gli  pareva  che 
fossero  state  troppe  e  troppo  ardite,  e  per  riparare  un 
qualche  brutto  effetto  che  ne  potesse  venire,  passava 
tosto  a  parlare  dell'ira  e  della  mansuetudine  e  del 
gran  male  che  è  l'infierire  contra  quelli  che  non  vo- 
gliono né  possono  far  difesa. 


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XX. 

Dialogo  sulla  peste  tra   Don  Ferrante  e 
il  Signor  Lucio. 


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Poco  dissimili  dai  ragionamenti  che  il  popolo  ur- 
lava nelle  vie  erano  quelli  che  i  signori  schiamaz- 
zavano nelle  sale.  I  dotti  poi,  convenendo  per  la  più 
parte  nella  opinione  comune,  la  sostenevano  però  con 
argomenti  un  po'  più  reconditi  e  si  scatenavano  contra 
il  tribunale  e  contra  quei  pochi  medici  con  uno 
sdegno  e  con  uno  scherno  più  filosofico.  Per  darcene 
un  saggio,  Fautore  del  manoscritto  riferisce  una  di- 
sputa occorsa  in  una  brigata  signorile  tra  il  nostro 
Don  Ferrante  e  un  Magnifico  Signor  Lucio,  del 
quale  l'autore,  tacendo  il  cognome,  accenna  alcune 
qualità.  Era  costui  professore  d'ignoranza  e  dilet- 
tante d'enciclopedia  ;  si  vantava  di  non  aver  mai  stu- 
diato, e  ciò  non  ostante,  anzi  per  questo  appunto, 
pretendeva  decidere  d'ogni  cosa;  perchè  i  libri,  di- 
ceva egli,  fanno  perdere  il  buon  senso.  Ammetteva 
bene  una  scienza  che  si  poteva  acquistare  colla  espe- 
rienza e  comunicare  per  mezzo  della  parola:  teneva 
che  si  possano  scoprire  verità;  anzi  non  è  da  dire 
quante  verità   egli    credesse   di  conoscere;   ma  nei 

Alessandro  Manzoni.  32 


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-     498     - 

libri,   non  so  per  quale  raziocinio,   supponeva  che 
non  si  potesse  consegnare  altro  che  bugie. 

Si  strepitava  in  quella  brigata  contra  i  regola- 
menti della  Sanità,  che,  divenendo  di  giorno  in  giorno 
più  risoluti,  cominciavano  a  non  far  distinzione  di 
persone  e  assoggettavano  anche  i  potenti  ad  una  vi- 
gilanza incomoda. 

—  Tutto  questo,  diceva  il  Signor  Lucio,  in  grazia 
dei  libri,  dei  sistemi,  delle  dottrine  che  hanno  scal- 
data la  testa  d'alcuni,  i  quali,  per  nostra  sciagura, 
comandano.  Non  è  ella  cosa  che  fa  rabbia  e  pietà 
nello  stesso  tempo  il  vedere  quel  buon  vecchio  di 
Settala,  che  potrebbe  fare  il  medico  con  giudizio  e 
servirsi  della  sua  buona  pratica  acquistata  in  ses- 
santanni e  del  buon  senso  che  gli  ha  dato  la  natura, 
vederlo,  dico,  perduto  dietro  sogni  ridicoli,  incapar- 
bito contra  il  sentimento  d'un  pubblico  intero,  inna- 
morato di  quella  sua  idea  pazza  del  contagio  ;  perchè  ? 
perchè  l'ha  trovata  nei  suoi  autori.  Scienziati,  scien- 
ziati; gente  fatta  a  posta  per  creare  gl'impicci. 

—  Piano,  piano,  disse  Don  Ferrante;  il  quale, 
benché  occupato  a  dissertare  in  un  altro  crocchio, 
aveva  intesa  quella  scappata  del  Signor  Lucio.  Piano, 
piano;  se  si  tocca  la  scienza,  son  qua  io  a  difen- 
derla. 

—  Don  Ferrante  fa  da  buon  cavaliere  a  prènder 
le  parti  d'una  dama  che  gli  comparte  -  tanti  favori, 
disse  una  signora  ;  e  il  tratto  riscosse  un  mormorio 
di  applauso  da  tutta  la  brigata. 


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—    499     — 

—  Quand'anche  ciò  fosse  vero,  disse  Don  Fer- 
rante, dopo  aver  pensato  soltanto  per  un  mezzo  mi- 
nuto, una  tale  parzialità  sarebbe  da  attribuirsi  non 
al  mio  debol  merito,  ma  alla  innata  benignità  del 
sesso.  Comunque  sia,  continuò  egli,  son  qui  a  pro- 
vare che  la  scienza  non  ha  colpa  in  quegli  spropo- 
siti che  si  metton  fuori  sotto  il  suo  nome. 

—  Don  Ferrante,  con  tutto  il  suo  ingegno,  non 
mi  potrà  sostenere,  rispose  il  Signor  Lucio,  che  tutte 
quelle  belle  ragioni  che  si  dicono  da  alcuni  per  far 
credere  che  vi  sia  la  peste,  il  contagio,  o  che  so  io, 
non  sieno  cavate  dalla  scienza. 

—  Dica  dalla  superficie,  Signor  Lucio,  dalla  su- 
perficie, rispose  Don  Ferrante.  Anzi  la  scienza,  chi 
la  scava  un  po'  al  fondo,  dice  tutto  il  contrario  e  in- 
segna chiaramente  che  il  contagio  è  una  cosa  im- 
possibile, una  chimera,  un  non-ente. 

—  Sono  cose  che  le  donne  possano  intendere? 
domandò  quella  signora. 

—  La  materia  è  un  po'  spinosa,  disse  Don  Fer- 
rante; ma  vedrò  di  renderla  trattabile.  Dico  dunque, 
che  in  rerum  natura  non  vi  ha  che  due  generi  di 
cose  ;  sostanze  $  accidenti  :  ora  il  decantato  contagio 
non  può  essere  né  dell'uno,  né  dell'altro  genere  ; 
dunque  non  può  esistere  in  rerum  natura.  Le  so- 
stanze   prego  di  tener  dietro  al  filo  del  ragiona- 
mento   sono  semplici,  o  composte.  Sostanza  sem- 
plice il  contagio  non  è;  e  si  prova  in  due  parole: 
non  è  sostanza  aerea,  perchè  se  fosse,  volerebbe  tosto 


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—    5<>o     — 

alla  sua  sfera,  e  non  potrebbe  rimanersi  a  danneg- 
giare i  corpi  :  non  è  acqua,  perchè  bagnerebbe  ;  non 
è  ignea,  perchè  brucerebbe  ;  non  è  terrea,  perchè 
sarebbe  visibile.  Sostanza  composta,  né  meno,  perchè 
tutte  le  sostanze  composte  si  fanno  discernere  all'oc- 
chio, o  al  tatto;  e  fra  tutti  i  signori  medici  non  vi 
sarà  quell'Argo  che  possa  dire  d'aver  veduto;  non 
vi  sarà  quel  Briareo  che  possa  dire  di  aver  toccato 
questo  contagio.  Oh  benissimo  ;  vediamo  ora  se  può 
essere  accidente.  Peggio  che  peggio.  Ci  dicono  questi 
signori  che  il  contagio  si  comunica  da  un  corpo  al- 
l'altro; sarebbe  dunque  un  accidente  trasportato.  Ah! 
ah!  un  accidente  trasportato:  due  parole  che  coz- 
zano, che  ripugnano,  che  stanno  insieme  come  Ari- 
stotele e  scimunito;  due  parole  da  fare  sgangherar 
dalle  risa  le  panche  delle  scuole,  da  fare  scontorcere 
la  filosofia,  la  quale  tiene,  insegna,  pone  per  fonda- 
mento che  gli  accidenti  non  possono  mai  mai  passare 
da  un  soggetto  all'altro.  Mi  pare  che  la  cosa  sia  evi- 
dente. 

—  Intanto,  disse  il  Signor  Lucio,  senza  tutti 
questi  argomenti,  col  semplice  buon  senso,  tutti  i 
galantuomini  e  il  popolo  stesso  sanno  benissimo  che 
questo  contagio  è  un  sogno. 

—  Non  lo  sanno;  perdoni,  rispose  Don  Ferrante, 
lo  indovinano  a  caso,  come  atomi  sènza  cervello  che, 
girando  senza  saper  dove,  concorressero  a  comporre 
una  figura  regolare.  Mi  dica  un  po',  di  grazia,  se  sa- 
pranno poi  dire  la  cagione  vera  di  questa  mortalità. 


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—     5oi     — 

—  Oh  bella  !  disse  il  Signor  Lucio  ;  la  cagione  è 
chiara;  in  tutti  i  tempi  si  muore;  in  alcuni  le  morti 
sono  più  frequenti,  perchè  v'ha  più  malattie;  e  questo 
é  il  caso  nostro. 

—  Sì,  disse  Don  Ferrante;  ma  la  malattia,  la 
cagione  prima  delle  malattie? 

—  Né  qui  pure  c'è  sotto  gran  misterio,  rispose 
il  Signor  Lucio  :  la  carestia,  la  mala  vita  hanno  ca- 
gionate le  malattie. 

—  Tutto  bene,  disse  Don  Ferrante,  ma  la  ca- 
gione prima? 

—  Io  non  so  che  cosa  ella  intenda  per  cagione 
prima,  disse  Don  Lucio. 

—  Ora  vede  ella  se  bisogna  poi  ricorrere  alla 
scienza,  disse  Don  Ferrante.  Per  trovare  la  cagione 
prima  delle  malattie,  della  carestia,  di.  tutti  questi 
infortunj,  quella  che  spiega  tutto  e- che  fa  tutto,  bi- 
sogna andar  molto  in  fondo,  anzi  molto  in  alto,  bi- 
sogna cercarla  ìfegli  aspetti  dei  pianeti.  Perchè  non 
si  vuol  fare  come  il  volgo,  che  guarda  in  su,  vede 
le  stelle  e  le  considera  come  tante  capocchie  di  spilli 
confitti  in  un  torsello:  ha  bene  inteso  dire  che  le 
stelle  influiscono,  ma  non  va  poi  a  cercare  né  come, 
né  quando.  Abbiamo  il  libro  aperto  dinanzi  agli 
occhi,  scritto  a  caratteri  di  luce;  non  si  tratta  che 
di  saper  leggere.  Ed  ecco  che  due  anni  fa  comparve 
quella  gran  cometa,  causata  dalla  congiunzione  di 
Saturno  e  di  Giove,  apparet  cometa  magnus  in  cardine 
dextro,  la  quale  indicava  chiaramente  che  Tanno  sus~ 


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—      5<>2      — 

seguente,  che  è  poi  Tanno  passato,  doveva  regnare 
una  terribile  carestia,  come  si  è  trovata  la  spiega- 
zione in  quest'anno,  con  quelle  parole  tanto  chiare 
e  tanto  terribili:  Fames  in  Italia  morsque  vigebit 
ubique.  Che  se  i  dotti  le  avessero  trovate  prima,  non 
sarebbero  mancati  gli  increduli  che  se  ne  facessero 
beffe  ;  ma  dopo  il  fatto  anche  i  più  ostinati  debbono 
tacere.  Ed  ora,  a  furia  di  osservare  e  di  calcolare, 
da  quella  congiunzione  funesta  si  è  ricavata  un'altra 
predizione  egualmente  chiara  ;  così  non  fosse  ! 

Tutti  stavano  ansiosamente  attenti  ;  Don  Ferrante 
levò  la  destra  come  se  stesse  per  proferire  un  giu- 
ramento, la  sua  fronte  si  corrugò,  la  sua  voce  prese 
un  tuono  lugubre  e  solenne,  e  articolò  la  formola 
terribile  :  mortales  parai  morbos;  miranda  videntur. 

—  O  poveretti  noi  !  disse  una  signora,  e,  rivolta 
al  suo  vicino,  chiese  che  cosa  volesse  dire  quel  latino. 

—  Le  prime  parole,  rispose  egli,  voglion  dire 
che  il  morbo  appare  mortale:  il  resto  è  una  escla- 
mazione che  non  significa  niente  (*). 


(*)  Segue,  cancellato:  «Il  Signor  Lucio  volle  ancora 
opporsi,  ma  l'impressione  di  terrore  che  Don  Ferrante 
aveva  prodotto  su  gli  uditori,  gli  rendeva  poco  disposti  a 
sentire  la  forza  delle  opposizioni.  Io  non  so  niente,  disse 
il  primo,  di  tutte  queste  predizioni  ;  so  però  che  senza  di 
esse  si  capisce  benissimo  perchè  ora  tanti  muojano  :  muo- 
iono perchè  è  venuta  la  loro  ora.  Nessuno  badò  all'argo- 
mento del  Signor  Lucio».  (Ed.) 


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—     503     — 

Don  Ferrante  continuò:  Ecco  la  cagione  prima 
della  mortalità,  ecco  dove  sta  Terrore  di  questi  pochi 
medici  che  voglion  fare  il  singolare  e  resistere  alPe- 
videnza  e  credono  di  spaventarci  con  un  grande  ap- 
parato di  dottrina,  come  se,  alla  fine,  avessero  a  fare 
soltanto  con  gente  che  non  abbia  mai  toccato  il  limen 
della  filosofia.  Non  basta  parlare,  a  proposito  e  a 
sproposito,,  di  vibici,  di  esantemi,  di  antraci,  di  bu- 
boni  violacei,  di  furoncoli  nigricanti  :  tutte  cose  belle 
e  buone,  tutte  parole  rispettabili:  ma  che  non  fanno 
niente  alla  questione.... 

—  Eppure,  disse  il  Signor  Lucio  risolutamente, 
perchè  gli  pareva  di  avere  alle  mani  una  buona  ra- 
gione, eppure  anche  quei  medici  non  negano  che 
T aspetto  dei  pianeti  presagisca  malanni.... 

—  E  qui  li  voglio,  interruppe  Don  Ferrante  ;  qui 
dà  in  fuora  lo  sproposito.  Confessano  questi  signori, 
perchè  a  negare  un  tal  fatto  ci  andrebbe  troppo  co- 
raggio, confessano  che  tutto  il  male  è  causato  dalle 
influenze  maligne,  e  poi,  e  poi  vengono  a  dirci  che 
si  comunica  da  un  uomo  all'altro.  Chi  ha  mai  inteso 
che  si  possano  comunicare  le  influenze?  in  quel  caso 
gli  uomini  sarebbero  gli  uni  agli  altri  come  tanti 
pianeti.  Confessano  che  il  male  è  causato  dalle  in- 
fluenze e  dicono  poi:  state  lontani  dagli  infermi,  non 
toccate  le  robe  infette,  e  schiferete  il  male  :  come  se 
le  influenze,  discese  dai  corpi  celesti  in  questo  mondo 
sublunare,  potessero  schifarsi;  come  se  quando  le 
stelle    inclinano   al    castigo  si   potesse   declinare   la 


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—     504    — 

loro  potenza  con  certe  precauzioni  ridicole  ;  come  se 
giovasse  sfuggire  il  contatto  materiale  dei  corpi  ter- 
reni, quando  chi  ci  perseguita  è  il  contatto  virtuale 
dei  corpi  celesti.  Per  me  credo  che  anche  questo  ac- 
cecamento dei  medici,  e  appunto  dei  medici,  che  hanno 
la  mestola  in  mano,  sia  un  effetto  di  quella  costitu- 
zione maligna  che  domina  in  questo  anno  sciagurato, 
acciocché,  per  giunta  di  tanti  mali,  ci  tocchi  anche  il 
flagello  dei  regolamenti. 

Tutti  quegli  uditori  erano  persuasi  fin  da  prima 
che  il  male  non  era  contagioso  ;  sapevano  che  era 
comparsa  quella  cometa;  avevano  inteso  dire  che 
l'aspetto  dei  pianeti  in  quell'anno  era  funesto,  ma 
da  tutte  queste  idee  non  avevano  mai  pensato  a 
cavar  quel  sugo  che  Don  Ferrante  espresse  nella 
sua  bella  argomentazione.  Uscirono  tutti  di  quivi 
più  atterriti  di  prima  e  nello  stesso  tempo  più  irri- 
tati contra  i  regolamenti  e  più  disposti  a  trascurare 
come  inutili  tutte  le  cautele.  Lo  stesso  contraddit- 
tore Signor  Lucio  parti  da  quella  disputa  più  pen- 
soso, perchè  le  predizioni  astrologiche  erano  di  quelle 
cose  ch'egli  riponeva  non  nei  sogni  della  scienza, 
ma  nei  canoni  del  buon  senso. 

Quando  ora  si  considera  quali  cose  fossero  a  quei 
tempi  tenute  generalmente  per  vere,  con  che  fronte 
sicura  sostenute  e  predicate,  con  che  fiducia  appli- 
cate ai  casi  e  alle  deliberazioni  della  vita,  si  prova 
facilmente  per  gli  uomini  di  quella  generazione  una 
compassione  mista  di  sprezzo  e  di  rabbia,  e  una  certa 


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—     505     — 

compiacenza  di  noi  stessi  ;  non  si  può  a  meno  di  non 
pensare  che  se  uno  di  noi  avesse  potuto  trovarsi  in 
quella  età  con  le  idee  presenti  sarebbe  stato  in  molte 
cose  l'uomo  il  più  illuminato  e  nello  stesso  tempo  il 
bersaglio  di  tutte  le  contraddizioni  (*). 

Ma  dietro  questa  compiacenza  viene  anche  facil- 
mente un  sospetto.  E  se  anche  noi  ora  viventi  te- 
nessimo per  verissime  cose  che  sieno  per  dar  molto 
da  ridere  alle  età  venture?  cose  da  far  dire  un  giorno: 
pare  impossibile  che  quei  nostri  vecchj  con  tanta  pre- 
tensione di  coltura  fossero  incocciati  di  errori  tanto 
marchiani.  E  perchè  no?  Guardandoci  indietro,  noi 
troviamo  in  ogni  tempo  una  persuasione  generale, 
quasi  unanime  d'idee  la  cui  falsità  è  per  noi  mani- 
festa; vediamo  quéste  idee  ammesse  senza  dibatti- 
mento, affermate  senza  prove,  anzi  adoperate  alla 
giornata  a  provarne  altre,  dominanti  insomma  per 
una,  due,  più  generazioni,  talvolta  senza  proteste, 
senza  richiami.  Talvolta  però  ne  troviamo  alcuni,  ma 
o  non  ascoltati,  o  derisi,  o  trattati  seriamente  male  : 


(')  Il  Manzoni  aveva  in  animo  di  rimaneggiare  tutto  il 
rimanente  di  questo  brano.  Infatti  v'incollò  un  fogliolino, 
che  dice:  «Deduzione  più  logica:  i.)  generazioni;  e  di- 
«  venute  poi  il  ludibrio  delle  generazioni  susseguenti  ; 
«2.)  Sarebbe  una  storia  fino  a  più  di  ammirazione \  3.) 
«  Talvolta  senza  richiami,  etc.  fino  a  rifiutata  awertita- 
«  mettte  \  4.)  Conclusione  :  Ma  una  siffatta  storia ,  etc.  Ri- 
«  fondere  il  tutto  per  adattarlo  alla  nuova  deduzione».  (Ed.) 


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—     5<>6     — 

cosa  che  ci  fa  strabiliare,  vedendo  noi  ora  quanto 
fossero  ragionevoli,  come  esprimessero  verità  le  più 
ovvie,  anzi  tanto  ovvie  che  l'annunziarle  ora  con  im- 
portanza farebbe  ridere  per  un  altro  verso.  Questi 
richiami  si  trovano  per  lo  più  sparsi,  gittati  come  di 
passaggio,  per  occasione,  nelle  opere  di  sommi  scrit- 
tori, o  con  più  diretta  intenzione,  con  qualche  mag- 
giore insistenza  in  libri  strani  e  sconnessi,  dove  ar- 
dite verità  sono  confuse  con  arditi  spropositi  e  con 
istravaganze  volgari.  Dal  che  si  vede  quanto  fosse 
prepotente  l'autorità  di  quelle  idee  ;  giacché  non  ar- 
divano impugnarle  che  gli  uomini  difesi  da  una  gran 
fama,  o  i  fanti  perduti,  per  così  dire,  della  lettera- 
tura, gli  scrittori  che  non  temevano  più,  o  che  am- 
bivano la  riputazione  incomoda  e*  pericolosa  di  amici 
del  paradosso.  Volendo  poi  tener  dietro  al  corso  e 
alle  vicende  di  quelle  idee,  si  trova  generalmente  che 
dopo  quei  primi  assalti  staccati,  comparve  qualche 
scrittore  pensante  e  metodico  a  combatterle  in  re- 
gola. Allora  un  trambusto  da  non  dire  :  quelle  idee, 
disturbate  seriamente  nel  loro  antico  e  legale  pos- 
sesso, sono  sempre  state  difese  con  sicurezza  e  con 
ardore.»  Si  sarebbe  detto  ch'elle  non  fossero  mai  state 
così  forti,  così  inconcusse,  come  in  quel  momento: 
ma'  noi  posteri,  che  vediamo  la  cosa  finita,  possiamo 
giudicare  che  forza  era  quella.  Egli  era  come  quando 
uno  va  di  notte  con  un  lumicino  a  dar  fuoco  ad  un  ve- 
spajo;  gli  abitatori  sbucano  in  furia;  è  un  batter 
d'ale,  un  avventarsi,  un  ronzio    terribile;   pare  che 


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—     507     — 

vadano  ad  una  conquista,  o  che  celebrino  una  vit- 
toria ;  ma  guardate  al  nido,  e  vedrete  ch'egli  arde  ; 
v'accorgete  che  tutto  quel  concitamento  nasce  dal- 
l'impaccio di  non  sapere  dove  andarsi  ad  alloggiare. 

E  cosa  degna  di  osservazione  come  tutte  quelle 
guerre  si  rassomiglino:  in  tutte  i  difensori  furono 
costretti  a  variare  ad  ogni  momento  il  sistema  della 
difesa  ;  ad  abbandonare  ogni  giorno  argomenti  pro- 
posti con  somma  fidanza  e  ad  inventarne  dei  nuovi, 
a  misura  che  i  primi  erano  malconci  e  renduti  in- 
servibili. Alcuni  di  quei  nuovi  argomenti  furono  tal- 
volta molto  arguti;  ma  per  chi  voleva  riflettere, 
l'epoca  stessa  della  scoperta  era  un  pregiudizio  contra 
di  essi  ;  poiché' sarebbe  cosa  troppo  strana  che  dopo 
cento  o  dugent'anni  di  persuasione  e  di  consenso  in 
una  opinione  si  trovino  tutto  ad  un  tratto  le  ragioni 
fondamentali  che  la  fanno  esser  vera.  Un  altro  punto 
notabile  di  conformità  che  hanno  avuto  quelle  guerre 
fu  questo,  che  sempre  si  sono  andati  a  scovare,  un 
po'  tardi,  tutti  i  richiami  antichi  contra  quelle  idee, 
per  far  vedere  che  lo  scrittore  il  quale  veniva  in 
campo  a  combatterle  non  diceva  nulla  di  nuovo.  E 
quelli  che  si  presero  di  tali  brighe  non  s'avvedevano 
che  era  un  darsi  della  scure  in  sul  pie:  venivano  a 
provare  che  la  verità  era  già  stata  annunziata  da 
molto  tempo,  che  era  stata  posta  loro  dinanzi,  e  che 
essi  non  l'avevano  avvertita,  o  l'avevano  rifiutata  av- 
vertitamente. 

Sarebbe  una  storia  molto  curiosa  quella  di  tutte 


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—     5<>8    — 

le  idee  che  hanno  così  regnato  nelle  diverse  età, 
delle  origini,  dei  progressi  e  della  caduta  loro.  Si 
vedrebbero  le  più  solenni  stravaganze  raccolte  insieme 
e  tenute  da  una  circostanza  comune,  di  essere  state 
universalmente  avute  in  conto  di  verità  incontrasta- 
bili. Si  direbbe  :  nel  tal  sècolo  il  negare  la  tal  cosa, 
che  ora  nessuno* vorrebbe  affermare,  vi  avrebbe  fatto 
mandare  ai  pazzerelli  ;  nel  tal  altro,  l'affermare  la  tal 
altra,  che  ora  nessuno  vorrebbe  porre  in  dubbio, 
vi  avrebbe  fatto  andar  prigione  ;  in  quello,  la  tal  pro- 
posizione vi  avrebbe  fatto  perdere  ogni  eredita;  in 
quell'altro,  era  appena  lecito  avventurarla  al  tale 
grand' uomo,  e  con  molta  precauzione,  con  aria  du- 
bitativa, aggiungendovi  per  correzione  la  tal  altra 
cosa,  che  ora  per  noi  e  fin  d'allora  era  forse  per  lui 
stesso  una  sciocchezza  badiale.  Si  vedrebbe  un  tale 
errore  proposta  da  prima  con  timidità,  sostenuto  con 
modestia,  combattuto  acremente,  diffuso  lentamente 
fra  i  contrasti,  aver  poi  dominato  con  lunga  ed  uni- 
versale tirannia  :  tal  altro,  annunziato  con  pompa, 
come  una  scoperta,  e  tosto  ricevuto  :  tale  nato,  cre- 
duto e  morto  in  un  paese  :  tale,  recato  da  di  fuori  e 
ricevuto  con  gratitudine  ;  tale,  sorto  tra  il  popolo  il- 
letterato, e  a  poco  a  poco  ammessa  dai  dotti,  ri- 
dotto da  essi  in  sistema,  e  restituito  agli  inventori 
con  corredo  di  dottrine;  tale,  scovato  in  un  libro 
vecchio;  tale,  immaginato  da  un  corpo ,  da  un  uomo 
autorevole;  tale,  messo  fuori  da  un  uomo  senza  ere- 
dita e  senza  merito,  aver  latto  grande  fortuna,  perchè 


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—     5©9     ~ 

conforme  ad  altre  idee  storte  già  dominanti  e  ad  una 
generale  disposizione  degli  ingegni:  e  per  troncare 
con  una  delle  specie  più  singolari  una  lista,  che  sa- 
rebbe troppo  difficile  e  troppo  lungo  il  compiere,  si 
vedrebbe  tale  errore  tenuto  fermamente,  amato,  pre- 
dicato con  ardore  fanatico  dagli  uomini  i  più  colti 
e  pensatori  di  un'epoca,  e  rispinto  dal  popolo  e  dalla 
folla  dei  dotti  minori,  quando  per  amore  di  preven- 
zioni diverse,  e  quando  per  le  vere  e  buone  ragioni  : 
dimodoché  su  quel  punto  i  posteri  non  trovano  da 
compatire  in  un'epoca  che  gli  uomini  pei  quali  hanno 
più  di  ammirazione. 

Ma  una  storia  siffatta,  oltre  la  curiosità,  potrebbe 
avere  anche  uno  scopo  importante.  Osservando  riu- 
nite tante  opinioni  false  e  credute,  si  verrebbero  cer- 
tamente a  scoprire  molti  caratteri  generali,  comuni 
a  tutte,  cosi  nella  indole  loro,  come  nel  modo  con 
cui  sono  invalse,  nelle  circostanze  che  le  hanno  fatte 
ricevere  e  sostenere,  nei  rapporti  loro  con  altre  opi- 
nioni, o  con  interessi,  eccetera.  Questi  caratteri  sco- 
perti, potrebbero  poi  servire  come  di  uno  scandaglio 
per  noi  :  si  potrebbe  osservare  se  fra  le  idee,  dominanti 
al  nostro  tempo,  ve  n'abbia  alcune  nelle  quali  questi 
caratteri  si  trovino  ;  e  cavarne  un  indizio  per  osser- 
varle con  più  attenzione,  con  uno  sguardo  più  libero 
e  più  fermo,  e  con  un  certo  sospetto,  per  vedere  se 
mai  non  fossero  di  quelle  che  una  età  impone  a  sé 
stessa  come  un  giogo,  che  le  età  venture  scuotono 
poi  da  sé  con  isdegno.  Giacché  è  cosa  troppo  pro- 


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—     5io    — 

babile  che  anche  noi  ne  abbiamo  di  tali,  e  sarebbe 
pretensione  troppo  tracotante  il  crederci  esenti  da 
una  sciagura,  comune  a  tutti  i  nostri  predecessori.  Io 
credo  che  molte  delle  nostre  opinioni  attuali  si  tro- 
verebbero avere  di  quei  caratteri  ;  anzi  alcuno  di  essi  vi 
è  tanto  manifestamente,  che,  senza  studio,  alla  prima 
occhiata  si  può  scorgere.  Citiamone  uno  dei  più 
estrinseci  ed  apparenti,  e  che  si  ravvisa  in  tutti  gli 
errori  antichi,  ora  riconosciuti  tali:  un  errore  della 
discussione,  un'ombra,  una  ritrosaggine,  una  subita  at- 
tenzione a  rispingere  con  ira  o  con  beffe  ogni  dubbio, 
un  ricorrere  tosto  all'autorità  dei  morti  e  al  consenso 
dei  vivi  per  chiamar  tante  voci  in  soccorso  a  coprire 
quella  che  Voleva  rendere  un  suono  diverso.  Ora, 
mettiamoci  un  po'  la  mano  alla  coscienza:  quante 
dottrine  non  predichiamo  e  non  sosteniamo  noi  a 
questo  modo  ?  Se  v'ha  chi  lo  nega,  è  facile,  non  dirò 
farlo  ricredere,  ma  costringerlo  a  somministrare  egli 
stesso  una  prova  novella  del  fatto  che  non  vuol  con- 
fessare. Se  uno  venisse  ora  a  dire,   per  esempio:  è 

egli  veramente,  inappellabilmente  provato  che 

Eh  ma!  signori,  voi  mi  fate  già  la  cera  brusca  !  Per- 
donate, non  vado  oltre,  tronco  la  frase  sacrilega; 
ripiglio  il  manoscritto  del  mio  autore  e  torno  alla 
storia  (*). 


C)  Il  Manzoni  soppresse  questo  dialogo,  con  il  quale 
termina  il  capitolo  III  del  tomo  IV  della  prima  minuta; 
ma,  nel  capitolo  XXXVII  del  testo  definitivo,  raccontando 


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—     5H     — 

come  morì  don  Ferrante,  non  mancò  di  esporre  quello 
che  esso  pensava  intorno  la  peste.  Ecco  le  parole  del 
Manzoni:  «Di  donna  Prassede,  quando  si  dice  eh*  era 
«morta,  è  detto  tutto;  ma  intorno  a  don  Ferrante,  trat- 
«  tandosi  ch'era  stato  dotto,  l'anonimo  ha  creduto  d'esten- 
«  dersi  un  po'  più  ;  e  noi,  a  nostro  rischio,  trascriveremo 
«  a  un  di  presso  quello  che  ne  lasciò  scritto. 

«  Dice  adunque  che,  al  primo  parlar  che  si  fece  di 
«peste,  don  Ferrante  fu  uno  de'  più  risoluti  a  negarla, 
«  e  che  sostenne  costantemente  fino  all'ultimo,  quell'opi- 
«  nione;  non  già  con  ischiamazzi,  come  il  popolo;  ma  con 
«ragionamenti,  ai  quali  nessuno  potrà  dire  almeno  che 
«mancasse  la  concatenazione. 

«  In  rerum  natura^  diceva,  non  ci  son  che  due  generi 
«di  cose:  sostanze  e  accidenti;  e  se  io  provo  che  il 
«  contagio  non  può  esser  né  l'uno  né  1'  altro,  avrò  pro- 
«  vato  che  non  esiste,  che  è  una  chimera.  E  son  qui.  Le 
«  sostanze  sono,  o  spirituali,  o  materiali.  Che  il  contagio 
«  sia  sostanza  spirituale,  è  uno  sproposito  che  nessuno 
«vorrebbe  sostenere;  sicché  è  inutile  parlarne.  Le  sostanze 
«  materiali  sono,  o  semplici,  o  composte.  Ora,  sostanza  sem- 
«  plice  il  contagio  non  è  ;  e  si  dimostra  in  quattro  parole. 
«  Non  è  sostanza  aerea;  perchè,  se  .fosse  tale,  in  vece  di  pas- 
«  sar  da  un  corpo  all'altro,  volerebbe  subito  alla  sua  sfera. 
«  Non  è  acquea  ;  perchè  bagnerebbe,  e  verrebbe  asciugata 
«  da'  venti.  Non  è  ignea  ;  perchè  brucerebbe.  Non  è  ter- 
«  rea  ;  perchè  sarebbe  visibile.  Sostanza  composta,  nep- 
«  pure  ;  perchè  a  ogni  modo  dovrebbe  esser  sensibile  al- 
«  l'occhio  o  al  tatto;  e  questo  contagio,  chi  l'ha  veduto? 
«  chi  l'ha  toccato  ?  Riman  da  vedere  se  possa  essere  acci- 
«  dente.  Peggio  che  peggio.  Ci  dicono  questi  signori  dot- 
«  tori  che  si  comunica  da  un  corpo  all'altro  ;  che  questo 
«  è  il  loro  achille,  questo  il  pretesto  per  far  tante  prescri- 
«  zioni  senza  costrutto.  Ora,  supponendolo  accidente,  ver- 
«  rebbe  a  essere  un  accidente  trasportato  :  due  parole  che 


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—     512     — 

«fanno  ai  calci,  non  essendoci,  in  tutta  la  filosofia,  cosa 
«  più  chiara,  più  liquida  di  questa  :  che  un  accidente  non 
«può  passar  da  un  soggetto  all'altro.  Che  se,  per  evitar 
«  questa  Scilla,  si  riducono  a  dire  che  sia  accidente  pro- 
«  dotto,  danno  in  Cariddi  ;  perchè,  se  è  prodotto,  dunque 
«  non  si  comunica,  non  si  propaga,  come  vanno  blaterando. 
«  Posti  questi  princìpi,  cosa  serve  venirci  tanto  a  parlare 
«  di  vibici,  di  esantemi,  d'  antraci ...  ? 

«  Tutte  corbellerie,  scappò  fuori  una  volta  un  tale. 

«No,  no,  riprese  don  Ferrante:  non  dico  questo: 
«  la  scienza  è  scienza  ;  solo  bisogna  saperla  adoprare.  Vi- 
«bici,  esantemi,  antraci,  parotidi,  bubboni  violacei,  fu- 
«  roncoli  nigricanti,  son  tutte  parole  rispettabili,  che  hanno 
«il  loro  significato  bell'e  buono;  ma  dico  che  non  han 
«  che  fare  con  la  questione.  Chi  nega  che  ci  possa  essere 
«  di  queste  cose,  anzi  che  ce  ne  sia  ?  Tutto  sta  a  veder 
«  di  dove  vengano. 

«  Qui  cominciavano  i  guai  anche  per  don  Ferrante.  Fin 
«che  non  faceva  che  dare  addosso  all'opinion  del  con- 
«  tagio,  trovava  per  tutto  orecchi  attenti  e  ben  disposti  : 
«  perchè  non  si  può  spiegare  quanto  sia  grande  l'autorità 
«  d'un  dotto  di  professione,  allorché  vuol  dimostrare  agli 
«  altri  le  cose  di  cui  sono  già  persuasi.  Ma  quando  veniva 
«  a  distinguere,  e  a  voler  dimostrare  che  l'errore  di  que' 
«  medici  non  consisteva  già  nell 'affermare  che  ci  fosse  un 
«  male  terribile  e  generale;  ma  nell 'assegnarne  la  cagione; 
«  allora  (parlo  de'  primi  tempi,  in  cui  non  si  voleva  sentir 
«discorrere  di  peste),  allora,  in  vece  d'orecchi,  trovava" 
«lingue  ribelli,  intrattabili;  allora,  di  predicare  a  disteso 
«  era  finita  ;  e  la  sua  dottrina  non  poteva  più  metterla 
«  fuori,  che  a  pezzi  e  bocconi. 

«La  c'è  pur  troppo  la  vera  cagione,  diceva;  e  son 
«  costretti  a  riconoscerla  anche  quelli  che  sostengono  poi 
«quell'altra  così  in  aria....  La  neghino  un  poco,  se  pos- 
«sono,  quella  fatale  congiunzione  di  Saturno  con  Giove. 


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—     513     — 

«  E  quando  mai  s'è  sentito  dire  che  l'influenze  si  propa- 
«ghino...?  E  lor  signori  mi  vorranno  negar  l'influenze? 
«  Mi  negheranno  che  ci  sian  degli  astri?  O  mi  vorranno 
«dire  che  stian  lassù  a  far  nulla,  come  tante  capocchie 
«di  spilli  ficcati  in  un  guancialino...?  Ma  quel  che  non 
«  mi  può  entrare,  è  di  questi  signori  medici  ;  confessare 
«  che  ci  troviamo  sotto  una  congiunzione  cosi  maligna,  e 
«  poi  venirci  a  dire,  con  faccia  tosta  :  non  toccate  qui,  non 
«  toccate  là,  e  sarete  sicuri  !  Cóme  se  questo  schivare  il 
«contatto  materiale  de'  corpi  terreni,  potesse  impedir 
«l'effetto  virtuale  de'  corpi  celesti!  E  tanto  affannarsi  a 
«  bruciar  de*  cenci  !  Povera  gente  !  brucerete  Giove  ?  bru- 
«cerete  Saturno? 

«His  fretusy  vale  a  dire  su  questi  bei  fondamenti,  non 
«  prese  nessuna  precauzione  contro  la  peste  ;  gli  s'attaccò  ; 
«  andò  a  letto,  a  morire,  come  un  eroe  di  Metastasio, 
«prendendosela  con  le  stelle». 

Olindo  Guerrini  [Achìllini  e  Manzoni;  in  La  Rassegna 
settimanale y  di  Roma,  voi.  Ili,  n.°  59,  16  febbraio  1879, 
pp.  130-131]  notava,  per  il  primo,  che  il  ragionamento 
posto  dal  Manzoni  in  bocca  a  don  Ferrante,  lo  «  copiò  di 
«  sana  pianta,  senza  dirci  dove  l'avesse  preso  »,  e  ne  in- 
dicava la  fonte  :  una  lettera  di  Claudio  Achillini  ad  Ago- 
stino Mascardi.  Tornava  a  trattare  la  questione,  con  grande 
serenità  e  molto  garbo,  Luigi  d'Isengard  {Claudio  Achil- 
lini e  don  Ferrante  ;  in  La  Rassegna  nazionale,  di  Firenze, 
anno  XX,  voi.  104,  i°  decembre  1898,  pp.  629-636.] 

Agostino  Mascardi  di  Sarzana,  che, visse  dal  1591  al 
1640  ed  ebbe  grido  tra'  letterati  d'allora,  mentre  a  Milano 
e  nel  resto  d'Italia  infieriva  la  peste  e  correvano  le  più 
strane  e  orribili  voci  intorno  gli  untori,  scriveva  all'  Achil- 
lini :  «  Ditemi,  di  grazia,  signor  Claudio,  che  credete  delle 
«cose' di  Milano?  Non  parlo  degli  accidenti  di  guerra  e 
«della  peste,  che  pervia  d'ordinario  contagio  si  propaga, 
«ma  di  quell'altra,  che  si  dice  esser  seminata  dagli  110- 

Alkssandro  Manzoni.  33 


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—     514     — 

«  mini  con  mistura  d'incanto.  Io  per  me,  come  non  sono 
«dei  più  arrendevoli  a  creder  tutto  quello  che  si  attri- 
ce buisce  al  diavolo,  così  non  lodo  l'ostinata  credulità  di 
«certi  filosofastri,  che,  per  far  troppo  del  saccente,  danno 
«  nell'infedele.  Che  in  altri  tempi  si  sia  trovata  cotal  sorte 
«  di  peste,  dalla  malvagità  degli  uomini  appiccata  con 
«diverse  misture,  è  notissimo».  Qui  tira  in  ballo  Seneca 
e  Tito  Livio,  Paolo  Diacono  e  Procopio,  Pomponio  Leto 
e  Gregorio  Nisseno,  Evagrio,  Cedreno  e  Sigiberto;  poi 
prosegue  :  «  Può  nondimeno  accadere  che  la  moltitudine, 
«  credula  al  suo  peggiore  e  inchinata  alla  superstizione, 
«  v'aggiunga  molte  cose  del  suo,  in  virtù  dell'eccessivo 
«  timore  che  la  toglie  di  senno.  Però,  figliuole  della  paura 
«  e  della  sciocchezza  stimo  io  quelle  larve  di  Principi,  di 
«  vecchi  e  di  palazzi,  delle  quali  s'empiono  i  fogli  di  Lom- 
«  bardia,  quando  non  sieno  macchine  mal  composte  di 
«  qualche  ingegno,  più  curioso  che  discreto,  per  dar  ma- 
«  teria  di  spavento  alla  plebe,  e  agli  uomini  sensati  o  dj 
«  riso  o  di  sdegno.  È  certo  nondimeno  che  nelle  pubbliche 
«  calamità  gli  autori  antichi  osservano  molte  fiere  visioni, 
«o  vere,  o  immaginate  dalla  paura....  Tantoché,  per  ab- 
«  battere  dalle  sue  fondamenta  Milano,  era  necessario  che 
«  alla  fame  compassionevole,  alle  violenze  di  barbara  sol- 
«datesca,  alle  ruine  di  tanti  anni  di  guerra,  alle  stragi 
«  della  peste  comune,  s'aggiungesse  il  veleno,  dirò  insa- 
«nabile,  se  è  composto  fin  nell'Inferno  con  liquori  nel 
«nostro  mondo  non  conosciuti». 

L'Achillini  gli  rispondeva  dalla  sua  villa  al  Sasso,  nella 
valle  del  Reno,  dove  s'era  rifugiato  per  paura  del  con- 
tagio :  «  È  toccato  alla  peste  lo  svegliare  il  mio  nome  che 
«dormiva  sotto  i  ricchi  padiglioni  della  vostra  memoria: 
«  né  voglio  già  ringraziamela,  perchè  non  merita  grazie 
«  una  siffatta  disgrazia  ;  t  ben  rendo  grazie  a  voi  che  co- 
«  tanto  m'avete  onorato  con  la  vostra  eloquentissima  ed 
«  eruditissima  lettera,  alla  quale  come  potrò  mai  rispon- 


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—     515     — 

«  dere  a  parte  a  parte,  se,  subito  ch'io  Pebbi  ricevuta,  ven- 
«  nero  a  me  alcuni  gentiluomini  bolognesi,  fra  i  quali  un 
«  Paride  letterato  la  riconobbe  per  un' Elena  e  me  la  rubò?... 
«  Voi  mi  richièdete  il  mio  senso  intorno  agli  spettri  di  Mi- 
«  lano  e  alla  magica  peste  portata  dalla  fama  su  certi  fogli 
«  curiosi,  che  vanno  attorno.  Qui,  o  ragioniamo  del  potere, 
«  o  del  fatto.  Se  del  potere,  chiara  cosa  è,  e  la  teologia 
«  non  ci  lascia  dubitare,  che  il  Demonio  può  naturalmente 
«  queste  e  cose  maggiori,  purché  Dio  non  gli  sottragga  il 
«potere:  intendo  però,  s'egli  eserciterà  le  sue  forze  na- 
«  turali  dentro  alla  latitudine  del  moto  locale,  trasportando 
«  e  applicando  gli  agenti  alle  materie  :  perchè  se  noi  cre- 
«  dessimo  che  nei  predicamenti  della  qualità,  della  quan- 
tità o  della  sostanza  egli  potesse  immediatamente  prò- 
«  durre  sì  fatti  termini,  noi,  s'io  non  m'inganno,  faressimo 
«errore.  Se  poi  ragioniamo  del  fatto,  certo  che  per  le 
«  continue  relazioni  che  vengono  da  Milano,  anche  in 
«  quest'ultimo  spaccio,  io  molto  agevolmente  m'induco  a 
«crederlo;  ma  non  già  credo  quelle  favolose  circostanze 
«  che  questa  estate  andavano  attorno,  le  inverisimilitudini 
«  delle  quali  erano  troppe  note  a  chi  leggeva  quei  fogli  : 
«  e  che  altre  volte  siano  avvenute  sì  fatte  pestilenze,  o  col 
«  concorso  del  Demonio,  o  con  l'arte  ignuda  degli  uomini, 
«  oltre  le  nobilissime  autorità  addotte  da  voi,  io  mi  ri- 
«  metto  ad  un  certo  trattatello  manuscritto,  che  va  attorno, 
«  il  cui  titolo  è  :  De  peste  tnanufacta,  nel  quale  sono  re- 
«gistrate  molte  altre  autorità  di  simil  fatto;  ma  quello 
«  che  mi  confonde  l'ingegno  si  è  come  si  trovino  uomini 
«  di  barbarie  tanto  inumana,  che  cospirino  coi  Diavoli  alla 
«  distruzione  di  tutta  la  propria  spezie.  Io  qui  impazzirei 
«col  pensarvi,  e  però  vengo  ad  un'altra  non  meno  cu- 
«riosa  maraviglia,  e  chieggo  a  voi  che  cosa  è  egli  mai 
«  questo  fomite,  o  seminario  pestifero,  che  resta  impresso 
«  nei  panni  e  con  fecondità  così  tragica  fruttifica  la  morte 
«  delle  famiglie  e  dei  popoli  interi  ?  È  egli  accidente,  o  so- 


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-     5i6     - 

«stanza?  Se  accidente,  o  è  trasportato,  o  prodotto,  al 
«  primo  modo  repugna  la  filosofìa,  la  quale  non  ammette 
«  il  passaggio  degli  accidenti  da  un  soggetto  all'altro .  Al 
«secondo  pare  che  ripugni  il  non  potersi  intendere  con 
«quale  energia  possa  l'appestato  tradurre  dalle  radici  o 
«  dalle  potenze  dei  panni  agli  atti  una  si  fatta  qualità,  oltre 
«  che  non  sarebbe  agevol  cosa  lo  assegnare  in  quale  spezie 
«  di  qualità  dovesse  riporsi.  Se  è  sostanza,  come  vogliono 
«tutti  gli  antichi  e  Greci  e  Latini,  o  è  semplice,  o  è  com- 
«  posta  :  se  semplice,  o  ella  è  area,  e  perchè  in  breve 
«  tempo  non  vola  alla  sua  sfera,  liberandone  i  panni  ?  O  è 
«  acquea,  e  perchè  non  bagna,  o  non  è  dall'ambiente, 
«  tante  volte  accidentalmente  secco,  disseccata  e  consu- 
«mata?  O  è  ignea,  e  perchè  non  abbrugia?  O  è  terrea,» 
«e  perchè  non  si  vede,  o  col  tatto  non  si  sente?  Se  è  so- 
«  stanza  composta,  torno  a  dire  che  dovrebbe,  o  coir  oc* 
«  chio,  o  col  tatto  discernersi  ;  e  pure  egli  è  verissimo  che 
«  un  panno  bianco,  mondissimo  agli  occhi  nostri,  uccide- 
«  rebbe  una  città  intera  ». 

Queste  lettere,  che  subito  furon  date  alle  stampe,  le- 
varono un  gran  rumore  e  più  volte  tornarono  a  veder  la 
luce.  La  prima  edizione  ha  questo  titolo:  Due  lettere  | 
Vuna  |  Del  Mascardi  ali*  Achillini  |  L' altra  \  DelVAehil* 
lini  al  Mascardi  \  sopra  le  presenti  calamità.  \  Dedicate  al- 
l' Illustriss.  Signora  \  D.  Maria  P epoli  \  Contessa  di  Ca- 
stiglione, Sparvi,  |  EBarragazza.  \  In  Bologna ,  per  Fran- 
cesco Casanio  1630.  Con  licenza  de'  Superiori  \  Ad  istanza 
di  Bartolotneo  Cavalieri  et  Cesare  Ingegneri;  in-40  picc. 
di  pp.  24.  Furono  riprodotte:  In  Firenze,  MDCXXXL  \ 
Nella  Stamperia  di  Pietro  Nesti  al  Sole  \  con  licenza  de' 
superiori;  in-40  di  pp.  16  —  In  Roma,  Per  Lodovico  Gru 
gnaniy  MDCXXXL  |  Con  Licenza  de"  Superiori  ;  in-40  di 
pp.  20  —  e  In  Roma,  et  in  Milano  \  Ad  istanza  di  Gio*  Batt. 
Bidelli  |  MDCXXXI;  in-180  di  pp.  32.  Poi  vennero  inserite 
nella  raccolta  delle  Rime  e  prose  dell' Achillini,  stampata  a 


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-    517    — 

Venezia  nel  1656, 1673,  ecc.  È  probabile  che  il  Manzoni  leg- 
gesse la  lettera  ispiratrice  in  una  di  queste  ultime  edizioni  ; 
ma  non  si  può  escludere  che  potesse  avere  avuto  tra  mano 
anche  una  delle  altre  stampe»  sebbene  assai  rare.  Infatti 
consultò  un  numero  grande  di  libri  e  di  opuscoli  intorno  alla 
peste  del  1630;  quanti  ne  potè  trovare.  E  poi  pizzicava  di  bi- 
bliofilo. Sta  li  a  provarlo  un  esemplare,  postillato  di  suo  pu- 
gno, della  Serie  \  de'  \  testi  di  lingua  \  usati  a  stampa  nel  Vo- 
cabolario |  degli  Accademici  della  Crusca  \  con  aggiunte  \ 
di  altre  edizioni  da  accreditati  scrittori  molto  pregiate,  \ 
e  di  osservazioni  critico-bibliografiche.  \  Bassano  MDCCCV. 
Dalla  Tipografia  Remondiniana  \  con  R.  permissione /  in-8°; 
che  si  conserva  nella  librerìa  di  Brusuglio. 

Il  prof.  Lorenzo  Stoppato  [La  Biblioteca  di  Don  Fer- 
rante, Milano,  tip.  Bortolotti  di  G.  Prato,  1887  ;  pp.  47-49] 
pigliò  le  difese  di  don  Ferrante,  ponendogli  in  bocca  questa 
risposta  al  Guerrini  :  «  Caro  signor  mio,  Ella  mi  imputa  di 
«  plagio?  Ma  non  sa  Ella  che  il  distinguere  fra  sostanza  e  ac- 
«  cidenle  è  una  delle  formule  più  consuete  e  precise  della  fì- 
«  losofia  aristotelica,  e  che  l'applicazione  della  formula  im- 
«  porta  uno  sviluppo  eguale  di  ragionamento,  per  ogni 
«  caso  ?  Che  non  varia  altro  che  la  materia  alla  quale  viene 
€  applicata?  E  mi  crede  così  da  poco  da  aver  bisogno  di 
«  copiare  un  ragionamento,  come  farebbe  uno  scolaretto  ? 
«E  Lei  mi  fa  un  gran  caso  dell'aver  io  considerata  la 
«peste  come  sostanza  e  come  accidente?  Ma  non  sa  che 
«gli  scolastici  hanno  disputato  per  fino  se  Dio  fosse  ac- 
«  cidente  o  sostanza  ».  Fin  qui  la  difesa  non  fa  una  grinza  ; 
dove  zoppica  è  in  quello  che  segue  :  «  Né  mi  venga  a 
«dire  che  io  ho  copiato  dall' Achillini....  Dica  piuttosto 
«che  anche  l'Achillini  ha  copiato  quel  ragionamento,  e  lo 
«ha  copiato  precisamente  da  Massimiliano  Viani  di  Pal- 
«  lanza.  Costui  infatti,  nei  suoi  Dialoghi  su  i  rimedi  ef- 
«ficacissimi  per  guardarsi  dal  mal  contagioso,  stampati  a 
«  Milano,   dal  Rolla,   Tanno   1630,   a  pag.  40  »  [correggi 


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-    5i8    - 

pp.  44-45]»  «scrive:  —  Per  compiacervi  dirò  quello  che 
«  dice  alcuno  filosofo  sopra  tali  particolari,  circa  il  punto 
«che  sii  questo  fomite,  o  seminario  pestifero....  Se  egli 
«  sii  accidente,  o  sustanza.  Se  accidente,  o  è  trasportato, 
«o  è  prodotto.  Al  primo  modo  repugna  la  filosofia,  la 
«  qual  non  ammette  passaggio  degli  accidenti  da  un  sog- 
«  getto  all'altro....  Se  sustanza,  o  è  semplice,  o  è  com- 
«  posta.  Se  è  semplice,  o  ella  è  aerea,  e  perchè  in  breve 
«tempo  non  vola  alla  sua  sfera?  O  è  acquea,  e  perchè, 
«o  non  bagna,  o  non  è  dall'ambiente,  tante  volte  acci- 
«  dentalmente  secco,  disseccata  e  consumata?  O  è  ignea, 
«  e  perchè  non  abbrucia  ?  O  è  terrea,  e  perchè,  o  non  si 
«  vede,  o  col  tatto  non  si  sente  ?  Se  è  sostanza  composta, 
«  dicono  che  dovrebbe,  o  con  rocchio,  o  col  tatto  discer- 
«nersi....  Quanto  poi  alla  generazione  di  questo  male, 
«  può  seguire  per  alterazione  o  corrozione  d'aere,  cioè  per 
«l'aere  viziato  e  corrotto  per  aspetti  nemici  di  stelle  — ». 
Lo  Stoppato  conchiude  :  «  Eccovi,  caro  signor  critico,  che 
«  anche  il  vostro  Achillini  è  un  plagiario  e  ha  copiato  ad 
«  litteram  dal  Viani  ». 

Ho  qui  dinanzi  il  suo  libro  e  comincio  col  trascriverne 
il  titolo  :  Remedii  efficacissimi  \  per  \  guardarsi  dal  mal  con- 
taggioso,  |  Accioche  non  vadi  infettando  i  Vicini,  \  ttè  faccia 
progresso  ;  \  con  altri  avertimene  \  necessarii  per  tali  bi- 
sogni, |  Opera  \  composta  in  forma  di  Dialogo  \  da  Massi- 
migli  ano  Viani  |  di  Pallanza  \  Per  beneficio  publico.  \  In 
Milano,  |  Appresso  Carlo  Francesco  Rolla  Stampai.  \  vi- 
cino al  Ver  zar  o.  È  un  volumetto  in-8°  di  pp.  51,  oltre 
8  in  principio  e  3  in  fine.  L'anno  manca;  ma  si  deduce 
dalla  lettera  dedicatoria  del  Viani  Ali1 III.»*0  Magistrato 
della  Sanità  dello  Stato  di  Milano,  scritta  da  «  Milano  li  23. 
Giugno  1657»;  nonché  dall'approvazione  del  Magistrato 
stesso,  che  è  del  27  del  medesimo  mese.  In  questa  ap- 
provazione si  commenda  anche  il  libro,  e  si  esortano  le 
Comunità,   «per  il  loro  particolare  beneficio,  a  provve- 


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—     519     — 

«  dersene  d'una  copia,  prohibendosi  a  ciascun  stampatore 
«  et  ad  ogni  altra  persona  il  stampare»  far  stampare,  o  in- 
«  trodurre  da  di  fuori  di  questo  Stato  per  anni  dodici  pros- 
«  simi  avvenire  la  medesima  opera  ;  et  ciò  sotto  pene  pe- 
cuniarie et  anco  corporali».  Ecco  dunque  provato  che 
l'Achillini  non  è  per  nulla  un  plagiario.  Lo  sarà  il  Man- 
zoni? Osserva  Luigi  Morandi  [cfr.  La  Perseveranza  del 
19  febbraio  1879]  :  non  solo  non  può  parlarsi  «  di  plagio, 
«ma  neppure  d'imitazione,  almeno  nel  senso  più  ovvio 
«che  si  dà  a  questa  parola»  ;  è  «una  trovata  storica», 
la  quale  prova  che  anche  i  personaggi  e  i  fatti  inventati, 
furono  dal  Manzoni  «  coloriti  con  tinte  ricavate  da  fatti  e 
«  da  personaggi  consimili  e  realmente  storici  di  quel 
«  tempo  ».  Ribadisce  Orazio  Bacci  :  «  Non  si  potrebbe  par- 
«  lar  mai  di  un  plagio,  sibbene  di  un  substrato  storico  — 
«  quasi  direi  —  che  V  autore  volle  dare  alla  sua  figura  ; 
«e  la  citazione  dèlia  fonte  non  era  necessaria,  né  forse 
«artisticamente  possibile».  Notevole  è  poi  ciò  che  scrive 
il  D'Isengard:  «Che  il  Manzoni,  volendo  ritrarre  nel  suo 
«romanzo  la  Lombardia  del  secolo  XVII,  abbia  fatto 
«  uno  studio  accuratissimo  di  queir  età,  dei  luoghi,  dei 
«costumi,  dei  caratteri  e  degli  avvenimenti,  è  cosa  risa- 
«puta....  Non  si  contentò  di  studiare  quel  secolo  nelle 
«  linee  principali,  ma  scese  ai  particolari  ;  ben  sapendo  che 
«  i  fatti  minimi,  come  insegnò  Bacone,  giovano  a  spie- 
«  gare  i  fatti  massimi.  Colla  virtù  assimilativa  dei  grandi 
«ingegni,  e  coir  industriosa  abilità  delle  api,  fabbricava  il 
«  suo  miele.  Nel  libro  di  Stefano  Stampa  si  legge  :  —  Una 
«  volta  mi  mostrò  nel  Ripamonti  (*)  il  testo  somigliantissimo 
«  della  predica  del  padre   Felice,    dicendo  :   —    Vedi  son 


(*)  Qui  lo  Stampa  è  tradito  dalla  memoria.  Gli  mostrò 
invece  il  La  Croce,  dove  a  pag.  77  si  riporta  la  predica. 

(Ed.) 


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—     5*>     — 

«  quasi  le  stesse  parole  delle  quali  mi  som  servito  io.  — 
«  Della  lettera  dell'  Achillini  avrebbe  potuto  dire  egual- 
«  mente:  Vedete,  per  far  parlare  a  don  Ferrante  il  lin- 
guaggio della  pedanteria,  con  tutti  gli  errori  e  le  su- 
«  perstizioni  del  tempo,  non  m'è  parso  vero  di  trovare  in 
«quella  lettera  il  fatto  mio.  Ma  come  l'orpello  dell' A- 
«chillini  nel  crogiuolo  manzoniano  sia  divenuto  oro  pu- 
lissimo, questo  è  un  segreto  dell'arte  ».  Giuseppe  Galli 
\Un' operetta  inedita  del  Card.  Federico  Borromeo  sopra 
la  peste  in  Milano  ed  i  «  Promessi  Sposi  »  ;  ne\V  Archivio 
storico  lombardo ,  ami.  XXX,  voi.  XX,  pp.  1 10-137]  scoprì 
che  il  Manzoni  approfittò  di  un'opinione  espressa  dal  Lam- 
pugnano  a  p.  13  del  suo  libro:  La  peste  seguita  a  Milano 
Panno  iójo,  stampato  nel  1634,  per  metterla  in  bocca  a 
don  Ferrante.  L'opinione  del  Lampugnano  è  questa  :  «  Né 
«  finalmente  mi  dà  l'animo  di  concedere  che  la  peste  sia 
«  qualità  contagiosa.  Perchè  sarebbe  accidente.  Né  po- 
«  tendo  l'accidente  essere  contrario  alla  sostanza,  non  ca- 
«  pisco  come  possa  da  subietto  in  subietto  passare  ad 
«  operare  la  corruzione  ».  Sentiamo  adesso  la  medesima 
opinione  uscita  dal  crogiuolo  manzoniano  :  «  Riman  da 
«  vedere  se  possa  essere  accidente.  Peggio  che  peggio. 
«  Ci  dicono  questi  signori  dottori  che  si  comunica  da  un 
«corpo  all'altro;  che  questo  è  il  loro  achille,  questo  il 
«  pretesto  per  far  tante  prescrizioni  senza  costrutto.  Ora, 
«  supponendolo  accidente,  verrebbe  a  essere  un  accidente 
«  trasportato  :  due  parole  che  fanno  ai  calci,  non  essen- 
«  doci,  in  tutta  la  filosofìa,  cosa  più  chiara,  più  liquida  di 
«  questa  :  che  un  accidente  non  può  passar  da  un  sog- 
«  getto  all'altro  ». 

Il  Manzoni  dice  che  nella  «  sciènza  cavalleresca  »  don 
Ferrante  «  meritava  e  godeva  il  titolo  di  professore  »,  e 
non  a  torto,  giacché  «  aveva  nella  sua  libreria,  e  si  può  dire 
«  in  testa,  le  opere  degli  scrittori  più  riputati  in  tal  ma- 
«  teria:  Paride  dal  Pozzo,  Fausto  da   Longiano,   l'Urrea, 


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—     521     — 

«  il  Muzio,   il    Romei,   1* Albergato,    il   Forno   primo  e  il 
«  Forno  secondo  di  Torquato  Tasso  ». 

//  Forno  o  vero  della  nobiltà,  dialogo  del  signor  Tor- 
quato Tasso ,  vide  la  luce  a  Vicenza,  nel  1581,  per  Pierin 
Libraro;  il  Trattato  del  modo  di  ridurre  a  pace  l'inimi- 
citie  private ,  di  Fabio  Albergati,  fu  pubblicato  a  Roma, 
co*  torchi  dello  Zannetti,  nel  1583  ;  i  Discorsi  cavallere- 
schi del  conte  Annibale  Romei,  divisi  in  cinque  giornate, 
vennero  impressi  a  Venezia  dallo  Zilettt  nel  1585.  Di  Gi- 
rolamo Muzio,  giustinopolitano ,  si  hanno  ben  cinque 
opere:  Le  Risposte  cavalleresche ',  Venezia,  Giolito,  1551; 
//  Duello,  Venezia,  Giolito,  1558  ;  La  Faustina,  delVarmi 
cavalleresche  a*  Principi  e  cavalieri  d'onore,  Venezia, 
Valgrisi,  1560;  Il  CavalierOy  Roma,  Biado,  1569;  Il  Gen- 
iti h uomo,  distinto  m  tre  dialoghi,  Venezia,  Valvassori, 
1575.  Lo  spagnuolo  Girolamo  d'Urrea  è  autore  del  Dia- 
logo del  vero  onore  militare ,  nel  quale  si  definiscono 
tutte  le  querele  che  possono  occorrere  fra  l'uno  e  l'altro 
uomo,  con  notabili  esetnpi  di  antichi  e  moderni,  che  fu 
tradotto  in  italiano  da  Girolamo  Ulloa  e  stampato  a 
Venezia  dal  Sessa  nel  1569.  Di  Fausto  da  Longiano 
si  ha  //  Gentilhuomo,  diviso  in  due  parti,  Venezia,  1542 
e  1544;  e  11  Duello  regolato  alle  leggi  dell'onore,  con 
tutti  i  cartelli  missivi  e  responsivi,  Venezia,  Valgrisi,  1552; 
e  di  Paride  dal  Pozzo  i  Libri  IX  del  Duello,  Venezia,. 
1521.  Oltre  questi  «  antichi  »,  c'era  un  suo  contempo- 
raneo, che  don  Ferrante  riteneva  «  l'autore  degli  au- 
tori», il  «celebre  Francesco  Birago».  E  anzi  il  Man- 
zoni nota  che  «  fin  da  quando  venner  fuori  i  Discorsi  ca- 
«  Valter eschi  di  quell'insigne  scrittore,  don  Ferrante  pro- 
«  n ostico,  senza  esitazione,  che  quest'opera  avrebbe  ro- 
«  vinata  l'autorità  dell' Olevano,  e  sarebbe  rimasta,  insieme 
«  con  l'altre  sue  nobili  sorelle,  come  codice  di  primaria 
«  autorità  presso  i  posteri  » .  Li  Discorsi  cavallereschi  del 
Signor  Francesco  Birago,  Signore   di  Melone  e  di  Si- 


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—      522      — 

ciano ,  ne'  quali,  con  rifiutar  la  dottrina  cavalleresca  del 
Signor  Gio;  Battista  Olevano,  s'insegna  a  ranchettare  ho- 
norevolmente  le  querele  nate  per  cagione  d'hottore,  ebbero 
una  prima  edizione  a  Milano,  dal  Bidelli,  nel  1622,  che 
poi  li  ristampò  «  riveduti  et  accresciuti  »  nel  1628.  Oltre 
un  Trattato  cinegetico,  o  vero  della  Caccia,  Milano,  Bi- 
delli, 1628,  il  Birago  compose  tre  altre  opere  cavalleresche, 
«  nobili  sorelle  »  de*  Discorsi,  cioè:  Dichiaratione  et  av- 
vertimenti poetici,  istorici,  politici,  cavallereschi  e  morali 
sulla  Gerusalemme  conquistata  del  Tasso,  Milano,  Soma- 
sco,  1616  ;  Consigli  cavallereschi,  ne'  quali  si  ragiona  circa 
il  modo  di  far  le  paci,  con  un'Apologia  cavalleresca  per 
il  Sig.  Torquato  Tasso,  Milano,  Bidelli,  1623;  e  le  Deci- 
sioni  cavalleresche.  Si  hanno  insieme  raccolte  col  titolo  : 
Opere  cavalleresche  del  Signor  Francesco  Birago,  di- 
stinte in  quattro  libri,  cioè:  Discorsi,  Consigli  libro  I  e 
II  e  Decisioni,  Bologna,  Longhi,  1686  ;  in-40. 

Il  dott.  Ubaldo  Mazzini  {La  Cavalleria  nei  Promessi 
Sposi,  nuovo  contributo  alla  ricerca  dei  fonti  manzoniani', 
nella  Rassegna  nazionale,  di  Firenze,  ann.  XXI,  voi.  109 
della  collezione,  16  settembre  1899,  pp.  333-346],  ritiene  che 
il  Manzoni  «ha  avuto  per  guida  un'opera  soltanto  d'un 
«  solo  di  quegli  autori  » ,  i  Consigli  cavallereschi  del  Bi- 
rago. «  Gli  altri  autori  e  le  loro  opere  »  (così  il  Maz- 
zini) «  ha  trovato  citati  ne*  Consigli  ad  ogni  capitolo,  ad 
«  ogni  pagina,  e  parecchie  volte  :  con  questo  però  non 
«  voglio  escludere  che  egli  li  abbia  consultati  ;  ma  più 
«  letti  che  studiati,  come  direbbe  egli  stesso  ».  No:  il  Man- 
zoni era  troppo  coscienzioso,  troppo  diligente,  per  con- 
tentarsi di  bere  a  una  sola  fontana;  gli  ha  letti  tutti,  gli 
ha  tutti  studiati  ;  c'è  da  giurarlo.  Scorrendo  i  Consigli  (è 
sempre  il  Mazzini  che  scrive)  «  non  solo  è  facilissimo  tro- 
«  varvi  il  riscontro  con  alcuni  passi  dei  Promessi  Sposi, 
«  ma  ben  si  comprende  ancora  come  abbia  fatto  del  Bi- 
«  rago  l'autore  prediletto  di  don  Ferrante,  il  suo  amico; 


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—    523     - 

«  come  lo  elevi  sopra  tutti  gli  altri,  e  il  perchè  della  pro- 
«  fezia  intorno  alFOlevano.  Ultimo  venuto  nella  nobile 
«  falange  dei  trattatisti  dell' honor  e,  contemporaneo  e  com- 
«  patriota  di  don  Ferrante,  il  Birago,  per  lo  stile,  il  gu- 
«  sto,  il  modo  di  argomentare  caratteristico  dell'età  in  cui 
«  visse,  è  ben  naturale  che  tanto  andasse  a'  versi  di  don 
«  Ferrante....  Si  può  pensare  che  lo  stesso  nome  di  don 
«  Ferrante  il  Manzoni  l'abbia  tratto  dai  Consigli  del  Bi- 
«  rag°>  giacché  nel  Consiglio  IV,  in  cui  si  esamina  il  caso 
«  di  chi  pretende  essergli  stato  venuto  meno  della  parola,  si 
«  tratta  appunto  della  vertenza  insorta  tra  certo  signor 
«  Ferante  Nova  ed  il  signor  Giovaniacomo  Latuada  ». 

Intorno  a  questa  incarnazione  d'un  dotto  del  Seicento, 
morto,  «  come  un  eroe  di  Metastasio,  prendendosela  con 
«le  stelle»,  è  pure  da  consultarsi:  Albertazzi  A.,  Don 
Ferrante,  in  Fanfulla  della  Domenica,  ann.  XXII,  n.  6. 
(Ed.) 


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XXL 

La  peste  a  Bergamo  —  Ritorno  di  Fermo 

al   paese   nativo   suo   incontro   con 

Don  Abbondio  e  con  Agnese. 


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Lasciando  ora  Don  Rodrigo  nel  suo  tristo  rico- 
vero (')  ci  conviene  andare  in  cerca  d'un  personaggio' 
separato  da  lui  per  condizione,  per  abitudini  e  per 
inclinazioni,  e  la  storia  del  quale  non  sarebbe  mai 
stata  immischiata  alla  sua,  se  egli  non  lo  avesse  vo- 
luto a  forza.  Fermo,  del  quale  intendiamo  parlare, 
aveva  campucchiato  quell'anno  della  carestia,  parte 
col  suo  lavoro,  parte  coi  soccorsi  di  quel  suo  buon 
parente  ;  alla  fine,  per  non  essergli  troppo  a  carico, 
intaccò  i  cento  scudi  di  Lucia,  ma  col  proposito  di 
restituire,  se  mai  Lucia  non  fosse  più  quella  per  lui. 
Il  passaggio  della  soldatesca  interruppe  quelle  scarse 
e  imbrogliate  comunicazioni  di  pensieri  e  di  notizie 
che  passavano  tra  lui  ed  Agnese.  Dietro  la  solda- 
tesca venne  la  peste,  ai  primi  avvisi  della  quale  i 
magistrati  di  Bergamo  interdissero  il  commercio  col 
territorio  milanese  finitimo,   mandarono   commissarj 


0)  Il  lazzeretto.  (Ed.) 


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-     528     - 

ad  invigilare  al  confine,  fecero  por  guardie  e  can- 
celli. Pure,  come  era  accaduto  nel  Milanese,  la  di- 
sobbedienza fu  più  attenta,  più  destra,  più  ingegnosa 
che  la  vigilanza;  gli  abitanti  del  confine  berga- 
masco non  credevano  né  pur  essi  molto  alla  peste  e 
trattavano  di  soppiatto  coi  loro  vicini;  e,  con  molta 
fatica  e  con  molto  pericolo,  ottennero  di  potere  avere 
anch'essi  la  peste  in  casa.  Entrata  che  fu,  invase 
poco  a  poco  il  contado,  poi  i  sobborghi  di  Bergamo, 
poi  la  città  (*).  La  peste  di  Bergamo,  e  nei  modi  con 


(*)  Il  canònico  Giovanni  Finazzi,  amico  del  Manzoni, 
pubblicava  a  pp.  409-485  del  tom.  VI  della  Miscellanea 
di  storia  italiana,  edita  per  cura  della  Regia  Deputazione 
di  storia  patria,  Torino,  Stamperia  Reale,  1865,  la  Rela- 
zione della  carestia  e  della  peste  di  Bergamo  e  suo  territorio 
negli  anni  1620  e  1630,  scritta  da  Marc' Antonio  Benaglio, 
premettendovi,  tra  le  altre,  queste  parole  :  «  Chi  volesse 
«  la  storia  della  peste  di  Bergamo  del  1630,  la  e*  è  (dice 
«il  Manzoni  al  cap.  XXXIII  de'  suoi  Promessi  Sposi), 
«scritta  per  ordine  pubblico  da  un  tal  Lorenzo  Ghirar- 
«  delti  :  libro  raro  però  e  sconosciuto,  quantunque  contenga 
«  forse  più  roba,  che  tutte  insieme  le  descrizioni  più  celebri 
«  di  pestilenze.  E  quantunque  il  Ghirardelli,  come  pubblico 
«cancelliere  della  città  e  dell'offizio  di  sanità,  fosse  uno 
«  di  quegli  uomini,  ai  quali  (per  dirlo  collo  stesso  Manzoni 
«  nella  Colonna  infame)  in  qualche  caso  può  esser  coman- 
«  dato  e  proibito  di  scrivere  la  storia,  nondimeno  pel  ca- 
«  rattere  di  onoratezza  e  lealtà  sua  propria,  e  pel  savio 
«  e  liberale  incarico  raccomandatogli  dal  voto  del  maggior 
«  consiglio  della  stessa  città,  con  rara  accuratezza  dei  più 
«  minuti  dettagli  (come  appunto  portava   la   parte   presa 


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—     529     ~ 


cui  si  propagò,  e  in  tutti  i  suoi  accidenti,  presenta 
molti  tratti  di  somiglianza  notabile  con  quelli  del 
Milanese.  Come  ia- questo  paese,  così  nel  bergamasco, 
dopo  scoverta  la  peste,  si  trovò  ch'ella  si  sarebbe 
dovuta  prevedere  per  evidenti  segni  astrologici  e  per 
inauditi  portenti  ;  v'ebbe  pure  la  incredulità  di  molti 
abitanti,  e  la  negligenza  delle  precauzioni  ;  v'ebbero 


«  in  proposito  il  26  dicembre  163 1  dal  maggior  consiglio) 
«  descrisse  le  vicende  e  il  successo  di  quella  peste  dai 
«primi  pronostici  che  se  n'  ebbe  e  dai  primi  principii 
«  ond'  essa  pullulò  e  andò  set pendo  nel  territorio,  con  i 
«  Progressi,  accrescimenti  e  strage  atrocissima,  così  nella 
«  città,  come  nel  contado  ;  narrando  e  descrivendo  non  solo 
«  li  ordini  e  provvisioni  fatte  dal  Magistrato  della  sanità 
«per  la  preservazione  universale,  ma  anco  gli  errori  oc- 
«  corsi  per  aversi  poco  esperienza  di  sì  fatti  maneggi,  con 
«filo  continuato  di  narrar  veramente  tutte  le  cose  più  no- 
«  labili,  con  l'ordine  e  serie  de'  tempi,  sino  all'  intiera  e 
«  totale  estirpazione.  Ma  di  quella  peste,  che  fu  sì  fiera  e 
«  desolante,  oltre  al  Ghirardelli,  altri  de'  nostri  lasciarono 
«  più  o  meno  dettagliate  memorie,  che  se  fossero  pub- 
blicate tornerebbero  per  avventura  di  non  inutile  com- 
«  mento  o  supplemento  alla  storia  di  esso  Ghirardelli,  e 
«  potrebber  recare  alcune  particolarità  di  fatti,  da  far  jne- 
«  glio  conoscere  quel  tratto  di  storia  patria,  più  famoso 
«  che  conosciuto.  Ora  fra  gli  scrittori  di  così  fatte  memòrie 
«  crediamo  di  dover  prescegliere  Marc'Antonio  Benaglio, 
«  cancelliere  che  fu  del  venerando  consorzio  della  mise- 
«  ricordia  :  che  in  più  succoso  e  vivace  stile,  che  non  fa- 
«  cesse  per  avventura  il  Ghirardelli,  ce  ne  lasciò  una  dotta 
«  e  coscienziosa  Relazione  ».  (Ed.) 

Alessandro  Manzoni.  34 


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—     53o     - 

i  dispareri  fra  i  medici,  Tinesecuzione  degli  ordini 
e  il  rilasciamento  nei  magistrati  stessi,  nato  da  una 
falsa  fiducia  che  il  male  fosse  cessato.  Quivi  pure 
una  processione,  contrastata  con  ragioni  savie  e  vo- 
luta con  fanatismo,  diffuse  rapidamente  il  contagio 
nella  città  ;  quivi  pure  molte  vite  generosamente  sa- 
grificate  in  prò'  del  prossimo  da  cittadini,  e  partico- 
larmente da  ecclesiastici  ;  quivi  pure  licenza  e  avanie 
degli  infermieri  e  becchini,  che  ivi  erano  chiamati  net- 
tezzini,  come  in  Milano  monatti  ;  quivi  pure  preserva- 
tivi e  rimedi  strani  o  superstiziosi.  Quivi  pure,  come  in 
Milano,  subitanei  spaventi  per  voci  sparse  di  sorprese 
nemiche,  sognate  dalla  paura,  o  inventate  dalla  mali- 
zia ;  e  finalmente,  per  non  dir  tutto,  quivi  pure  all'udire 
che  in  Milano  v'era  gente  che  disseminava  il  contagio 
con  unzioni,  nacque  un  terrore  che  il  simile  non  avve- 
nisse, anzi  parve  di  vedere  unti  i  catenacci  e  i  martelli 
delle  porte  e  le  pile  delle  chiese  (').  Ma  la  cosa  non 


(')  Dal  capitolo  IV  del  tomo  IV  tolgo  il  seguente  brano 
riguardante  gli  untori  :  «  La  cagione  d'un  così  subito  e 
«  portentoso  aumento  del  male  fu  data  a  voce  di  popolo 
«  agli  untori:  si  disse  con  asseveranza  e  si  ripetè  con  fu- 
«  rore,  che  quegli  uomini,  congiurati  allo  sterminio  della 
«  città,  prendendo  il  destro  della  processione,  che  l'aveva 
«posta  tutta  unita,  per  così  dire,  in  loro  balìa,  avevano 
«  unti  in  quel  giorno  quanti  avevano  potuto,  e  sparso  tutto 
«  il  cammino  di  polveri  venefiche,  per  le  quali  il  contagio 
«  s'era  appiccato  alle  vesti,  ai  piedi  scalzi,  anche  alle  scarpe 
«  dei  di  voti  &   inavvertiti  pellegrinanti.    L'opinione   delle 


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andò  oltre;  e  come  in  questo  particolare,  così  nel  resto, 
gli  accidenti  tristi,  che  abbiam  toccati,  furono  in  Ber- 
gamo men  gravi,   meno   portentosi;    T  incrudeltà  fu 


«  unzioni,  che  fino  allora  non  aveva  prodotta  che  una  vaga 
«  inquietudine  e  ciarle,  dopo  questo,  ch'ella  prendeva 
«per  un  gran  fatto,  cominciò  a  partorire  ben  altri  effetti. 
«  Due  principali  furono  distinti  e  notati  dal  Ripamonti, 
«  uomo  che,  in  molti  punti,  liberandosi  e  segregandosi 
«  dalla  opinione  pubblica  dei  suoi  tempi,  volse  la  mira 
«  delle  sue  osservazioni  alle  cose  appunto  che  nessuno,  o 
«  quasi  nessuno  avvertiva,  esaminò  quella  opinione  stessa, 
«  mutò  sovente  i  termini  della  questione,  fu  solo  a  di- 
«  scernere  e  a  dire  molte  verità,  e  fece  intendere  che  molte 
«  ancora  ne  dissimulava,  molte  ne  indeboliva  per  non  ir- 
«  ritare  il  giudizio  pubblico,  il  quale,  come  traspare  chia- 
«  ramente  dalla  sua  storia,  gli  faceva  una  gran  paura  e 
«  una  gran  compassione  nel  tempo  stesso.  Un  effetto  fu 
«che  i  magistrati,  tutti  i  potenti,  ingolfati  in  ispeculazioni 
«  politiche,  divagati  e  avviluppati  colla  mente  nei  segreti 
«  delle  corti  per  arzigogolare  quale  dei  principi,  quale 
«  dei  re  stranieri  potesse  essere  il  capo  della  trama,  non 
«  pensavano  a  quello  che  era  da  provvedersi  nelle  ur- 
«  genti  congiunture  della  peste  ;  e  spaventati  poi  dalla 
«vastità  supposta  e  dalla  oscurità  stessa  delle  insidie, 
«si  abbandonavano  sempre  più  a  quella  stanca  trascu- 
«ratezza,  che  è  compagna  della  disperazione.  L'altro  effetto 
«  più  deplorabile,  atróce,  fu  di  estendere,  di  facilitare,  di 
«  irritare  i  sospetti  e  di  giustificare,  di  santificare  tutte  le 
«  offese  più  crudeli,  che  quei  sospetti  potevano  suggerire. 
«Non  solo  dallo  straniero,  dal  nimico,  dalla  via  pubblica 
«si  temeva,  ma  si  guardava  alle  mani  dell'amico,  del 
«  servo,  del  congiunto,  ma  si  poneva  il  piede  con  sospetto 


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532     — 


meno  ostinata,  men  clamorosa,  la  trascuranza  men 
crassa,  la  superstizione  meno  feroce,  la  violenza  meno 
bestiale  e  meno  impunita.  Di  questa  differenza  v'era 


«  per  la  casa.  Ma  orribil  cosa  !  si  tremava  al  contatto  della 
«  mensa,  del  letto  nuziale.  Il  viandante  straniero  che,  non 
«  ben  sapendo  fra  che  uomini  si  trovava,  si  rallentasse  a  ba- 
«  loccare  sul  cammino,  o  che  stanco  si  sdraiasse  per  ripo- 
«  sare,  il  mendico  che  per  città  si  accostava  altrui  tendendo 
«  la  mano,  colui  che  inavvertitamente  toccasse  la  parete 
«  di  una  casa,  l'affrettato  che  urtasse,  altri  per  via,  erano 
«untori;  al  terribile  grido  d'accusa  accorrevano  quanti 
«  avevan  potuto  udirlo;  l'infelice  era  oppresso,  straziato, 
«talvolta  morto  dalle  percosse,  o  trascinato  alle  carceri, 
«  tra  gli  urli  e  sotto  le  battiture,  benediceva  nel  suo  cuore 
«  affranto  quelle  porte,  e  vi  entrava  come  dalla  tempesta 
«  nel-  porto.  E  quante  volte  saranno  accorsi  alle  grida, 
«  avranno  partecipato  al  furore  comune  di  quegli  stessi 
«  che  più  tardi  poi  dovevano  esser  vittime  d'un  simile 
«  furore. 

«  Così  l' irreligione  esacerbava  la  sciagura  che  una  ap- 
«  plicazione  falsa  ed  arbitraria  della  religione  aveva  estesa 
«ed  accresciuta.  Dico  l' irreligione,  perchè  se  l'ignoranza 
«  e  la  falsa  scienza  delle  cose  fisiche,  e  tutte  le  altre  ca- 
«  gioni,  di  cui  abbiamo  parlato  di  sopra,  poterono  far  ri- 
«  cevere  comunemente  l'opinione  astratta  di  unzioni  e  di 
«  congiure,  furono  certamente  le  disposizioni  anti-cristiane 
«  di  quel  popolo  corrotto,  che  rendettero  quella  opinione 
«  attiva  e  feroce  neh"  applicazione.  Nessuna  ignoranza 
«  avrebbe  bastato  a  così  orrendi  effetti,  quando  fosse  stata 
«  congiunta  con  quel  sentimento  pio  che  prepara  gli  animi 
«  alla  tranquillità  ed  alla  riflessione,  che  avverte  a  pensar 
«  di  nuovo  quando  il  pensiero  diventa  un    giudizio,    una 


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—    533 


molte  cagioni,  alcune  presenti,  altre  antiche,  quale 
nelle  persone  e  quale  nelle  cose  ;  la  ricerca  delle  quali 
cagioni  è  fuori  affatto  del  nostro  argomento.  Quello 


«  azione  su  le  persone,  se  fosse  stata  insomma  congiunta 
«  con  quella  carità  che  è  paziente,  benigna,  che  non  si 
«  irrita,  che  non  pensa  il  male,  che  tutto  soffre.  Ma  l' in- 
«  tolleranza  della  sventura,  la  disciplina  e  Poblio  delle 
«  speranze  superiori  a  tutte  le  sventure  del  tempo,  Tor- 
«  rore  pusillanime  e  furioso  della  morte  erano  le  cagioni 
«  che  mantenevano  negli  animi  una  irritazione  avida  di 
«  sfogo  e  di  vendetta,  e  quindi  sempre  in  cerca  di  fatti 
«  che  ne  dessero  l'occasione,  quindi  ancora  pronta  a  tro- 
«  var  questi  fatti  ad  ogni  momento. 

«  Il  Ripamonti  riferisce  due  esempi  di  quel  furor  po- 
«  polare,  avvertendo  bene  i  suoi  lettori  di  averli  trascelti 
«  non  già  perchè  fossero  dei  più  atroci  fra  quegli  che  acca- 
«  devano  alla  giornata,  ma  perchè  di  quei  due  egli  fu  te- 
«  stimonio. 

«  I  magistrati,  i  quali  avrebbero  dovuto  reprimere  e 
«  punire  queir  iniquo  furore,  lo  imitarono  e  lo  sorpassa- 
«  rono  con  giudizj  motivati  e  ponderati  al  pari  di  quei  po- 
«  polari,  che  abbiam  riferiti,  con  carneficine  più  lente,  più 
«studiate,  più  infernali.  Passare  questi  giudizj  sotto  si- 
«  letizio  sarebbe  ommettere  una  parte  troppo  essenziale 
«della  storia  di  quel  tempo  disastroso;  il  raccontarli  ci 
«  condurrebbe  o  ci  trarrebbe  troppo  fuori  del  nostro  sen- 
«  tiero.  Gli  abbiamo  dunque  riserbati  ad  un'appendice, 
«che  terrà  dietro  a  questa  storia,  alla  quale  ritorniamo 
«  ora  ;  e  davvero  ». 

Nel  capitolo  V  del  tomo  IV  della  prima  minuta  il 
Manzoni  prese  a  trattare  esclusivamente  del  processo  degli 


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—     534     — 


che  ora  importa  di  sapere  si  è  che  Fermo  contrasse 
la  peste,  e  la  superò  felicemente.  Tornato  alla  vita, 
dopo  d'averla  disperata,  dopo  quell'abbandono  e  quel- 


untori;  poi  stralciò  que'  fogli,  per  formarne  un'appendice 
al  Romanzo,  svolgendo  il  soggetto  in  modo  più  largo.  Se 
ne  conserva  il  primo  sbozzo,  già  intitolato:  Capitolo  Vy 
poi  Appendice  storica  su  la  Colonna  infame.  Sono  60  fogli 
di  4  pp.  l'uno,  il  primo  de*  quali  non  è  numerato  :  gli 
altri  portano  la  numerazione  1-59,  fatta  dal  Manzoni  stesso. 
Alcuni  fogli  serbano,  ma  cancellata,  la  numerazione  che 
ebbero  quando  fecero  parte  del  manoscritto  del  Romanzo 
e  sono:  53,  divenuto  I;  54-57,  divenuti  2-5;  62-67,  dive- 
nuti 10-15;  65-67,  ripetuti,  diventati  18-20;  68-70,  mutati 
in  21-23.  Comincia:  «Due  femminelle,  Catterina  Rosa  e 
Ottavia  Boni,  trovandosi  sgraziatamente  alla  finestra  di 
buon  mattino  il  giorno  21  di  giugno  »  ;  finisce  :  «  e  noi 
con  uno  scopo  ben  meno  importante,  e  con  tanto  minor 
corredo  d'  ingegno,  ci  siamo  però  proposti  di  fare  ciò  che 
non  era  ancor  stato  fatto  » . 

Quando  il  Manzoni  depose  il  pensiero  di  stamparla  in- 
sieme col  Romanzo  e  invece  stabilì  di  farne  una  pubbli- 
cazione separata,  la  intitolò  :  Storia  della  Colonna  infame ', 
e  vi  premise  queste  parole  :  «  Fra  i  molti  giudizj  legali 
«  che  nel  1630  e  al  di  là,  furono  portati  in  Milano,  su  per- 
«  sone  accusate  d'aver  propagata  la  peste  con  unzioni,  uno 
«  parve  ai  giudici  così  degno  di  memoria,  che  decretarono 
«  un  pubblico  monumento  a  mantenergliela  ;  e  fu  quella  co- 
lonna nominata  infame,  che  stette  in  piedi  cento  qua- 
«  rantott'anni.  E  in  questo  eglino  s'apponevano:  il  giu- 
«  dizio  fu  veramente  memorabile.  Ma  un  monumento  non 
«  è  una  storia:  anzi  talvolta  è,  non  solo  meno,  ma  qualche 
«  cosa  di  contrario  alla  storia.   Ma  se  quei  giudici  non  ci 


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535 


l'abbatti  mento,  sentì  egli  rinascere  più  che  mai  fresche 
e  rigogliose  le  speranze,  le  cure  e  i  desiderj  della  vita, 
cioè  pensò  più  che  mai  a  Lucia,  alle  antiche  affezioni, 


«avessero  dunque  lasciato  altro,  ci  avrebbero  dati,  per 
«  verità,  ben  pochi  mezzi  per  conoscere  ciò  di  che  vole- 
«  vano  farci  ricordare.  Ma,  senza  volerlo,  e  probabilmente 
«  senza  pensarvi,  essi  furono  occasione  che  altri,  proba- 
«  bilmente  ancora  senza  averne  1*  intenzione,  conservasse 
«  al  pubblico  i  materiali  bastanti  per  la  storia  di  quel  giu- 
«  dizio.  In  mezzo  a  quei  tapini  accusati  si  trovò,  per  le 
«  singolari  circostanze  che  racconteremo,  un  uomo  di  gran 
«condizione.  Quest'uomo,  potendo  .per  la  sua  giustifica- 
«zione  ricorrere  a  mezzi  dei  quali  gli  altri  non  avevano 
«  per  avventura  nemmeno  l'idea,  e  che  non  sarebbero  stati 
«  in  poter  loro  quand'anche  i  difensori  gli  avessero  loro 
«  suggeriti,  quest'uomo,  dico,  pubblicò  con  le  sue  difese 
«e  in  appoggio  di  quelle,  un  grande  estratto  del  processo, 
«  che,  come  a  reo  costituito,  gli  fu  comunicato.  Su  quel  vo- 
«  lume,  che  non  debb'essere  mai  stato  comune,  ed  ora  è 
«  singolarmente  raro,  si  è  principalmente  compilata  la  se- 
«  guente  storia.  Il  soggetto  di  essa  è  il  giudizio  dei  due 
«  condannati,  il  nome  dei  quali  fu  iscritto  nel  monumento, 
«  e  quello  dell'uomo  di  condizione  che  fu  assoluto.  Degli 
«  altri  avviluppati  in  quello  sciaguratissimo  affare  si  citerà 
«  ciò  che  serve  ad  integrare  la  storia  principale,  o  anche 
«  quei  tratti  che  per  la  loro  singolarità  e  importanza  loro 
«  possono  parere  sempre  opportuni,  e  che  uno  non  sa- 
«  prebbe  risolversi  ad  ommettere,  quando  vi  sia  un  ap- 
«  piglio  per  farli  conoscere». 

In  fine  allo  sbozzo  dell'  Appendice  il  Mauzoni  scrisse  la 
seguente  dichiarazione:  «Alcuni  libri,  collezioni,  mano- 
«scritti,  rarissimi,  ed  anche  unici,  da  cui  l'autore  ha  rica- 


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-     536     - 

agli  antichi  disegni,  alla  incertezza  in  cui  era  da  tanto 
tempo  dei  pensieri  di  essa,  e  alla  nuova  terribile  incer- 
tezza della  salute,  della  vita  di  lei,  in  quel  tempo  dove 


«  vato  molte  notizie  per  questo  lavoro,  e  per  quello  che 
«  lo  precede,  gli  furono  comunicati  con  molta  gentilezza, 
«  e  lasciati  con  molta  sofferenza  o  da  amici,  o  da  per- 
«  sone  ch'egli  non  ha  l'onore  di  conoscere  personalmente, 
«  ma  che  per  obbligar  qualcheduno  non  hanno  bisogno 
«  di  conoscerlo.  Si  degnino  tutti  di  gradire  l'attestato  della 
«sua  gratitudine,  e  l'omaggio  reso  ad  una  cortesia  che  in 
«altri  casi  potrebbe  essere  di  molto  vantaggio  alle  let- 
«  te  re  ». 

Tra  le  carte  del  Manzoni  si  trovano  alcuni  fascicoli, 
che  egli  stesso  intitolò  :  Estratti  e  citazioni  per  servire 
alla  descrizione  della  peste  y  al  processo  degli  untori,  alla 
storia  politica  di  quel  secolo .  Son  copie  di  documenti  tratti 
dall'Archivio  Civico  e  dall'Archivio  di  S.  Fedele  di  Mi- 
lano, ^spogli  di  gride,  appunti  presi  da  manoscritti  e  da 
opere  a  stampa.  Con  la  guida  di  questi  Estratti  e  delle 
citazioni  che  il  Manzoni  stesso  fece  ne'  capitoli  XXVIII, 
XXXI  e  XXXII  de'  Promessi  Sposi,  do  qui  un  elenco 
delle  fonti  alle  quali  attinse  nel  descrivere  la  carestia  e 
la  peste  famosa. 

Josephi  Ripamonti!  |  canonici  scalensis  \  chronistae 
vrbis  |  Mediolani  \  Historiae patriae  [decadis  V  \  libri  VI,  \ 
Mediolani  |  Ex  Regio  Palatio,  Apud  Io:  Baptistam  et 
Iulium  Caesarem  Malatestam  Regios  Typographos,  senza 
anno;  in-40  di  pp.  419,  oltre  42  in  principio  e  1  in  fine 
non  numerate  ;  col  ritratto  del  Ripamonti,  disegnato  dallo 
Storer  e  inciso  in  rame  dal  Blanc. 

Josephi  Ripamontii  |  canonici  scalensis  \  chronistae 
yrbis  Mediolani  \  de  Peste  \  quaefvit  anno  CU  \  D  CXXX.  \ 


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—     537     — 

il  vivere  e  l'esser  sano  era  una  come  eccezione  alla 
regola.  Tutte  queste  passioni  crescevano  nelF animo  di 
Fermo  di  pari  passo  che  il  vigore  nelle  sue  membra  ; 


libri  V.  |  desvmpti  \  ex  Annalibvs  \  vrbis  \  qvos  LX.  \  De- 
cvrionvm  \  avtoritate  \  scribebat  (In  fine:)  Mediolani  |  Apud 
Malatestas,  Regios  ac  Ducales  |  Typographos,  senza  anno  ; 
in-4°  di  pp.  411,  oltre  12  in  principio  e  1  in  fine  non  nume- 
rate. [Nel  primo  libro  tratta  della  carestia  e  della  peste,  nel 
secondo  degli  untori  ;  il  terzo  ha  per  soggetto  le  geste  del 
cardinale  Federigo  Borromeo  e  del  clero  durante  il  contagio; 
nel  quarto  parla  del  Magistrato  di  Sanità  ;  nel  quinto  para- 
gona la  peste  del  1630  con  quelle  precedenti.  Le  postille 
che  vi  fece  il  Manzoni  sono  a  stampa  a  pp.  449-453  del 
voi.  II  delle  sue  Opere  inedite  o  rare.  Cfr.  anche  :  La  Peste 
di  Milano  del  1630  libri  cinque,  cavati  dagli  Annali  della 
città  e  scritti  per  ordine  dei  XL  Decurioni  dal  canonico 
della  Scala  Giuseppe  Ripamonti,  istorio  grafo  milanese, 
volgarizzati  per  la  prima  volta  daW  originale  latino  da 
Francesco  Cusani,  con  introduzione  e  note,  Milano,  ti- 
pografia e  libreria  Pirotta,  1841  ;  in-8°  gr.  di  pp.  XXXVI- 
362.  —  Cfr.  pure:  Cusani  F.,  Paolo  Moriggia  e  Giuseppe 
Ripamonti,  storici  milanesi;  nell'Archivio  storico  lom- 
òardo,  ann.  IV,  fac.  I,  31  marzo  1877,  pp.  43-69]. 

Borromeo  card.  Federigo,  De  pestilentia  quae  Me- 
diolani anno  1630  magnam  stragem  edidit;  ms.  nella  Bi- 
blioteca Ambrosiana  di  Milano.  [Cfr.  Galli  G.  Un1  operetta 
del  card.  Federico  Borromeo  sopra  la  peste  ed  i  «  Pro- 
messi Sposi  »  ;  né\Y Archivio  storico  lombardo,  serie  III, 
ann.  XXX  [1903],  voi.  XX,  pp.  110-137].  Il  Manzoni  ne 
possedette  una  copia  fatta  dall'ab.  Bentivoglio,  che  gli  fu 
procurata  dal  suo  amico  Gaetano  Cattaneo.  Sulla  peste 
-conobbe  anche  il  Ms.°  Vezzoli. 


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-     538     - 

e  quando  queste  furono  ben  riconfortate,  egli,  con  la 
risolutezza  d'un  giovane  convalescente,  disse  in  sé 
stesso  :  andrò  e  vedrò  io  come  stanno  le  cose.  Il  pe- 


Preservatione  \  dalla  peste  \  scritta  dal  sig.  Protome- 
dico |  Lodovico  |  Settala  |  con  privilegio.  |  In  Milano  | 
Per  Giovali  Battista  Bidelli.  |  M.  DC.  XXX;  in-8°  di 
pp.  60. 

Cvra  |  locale  \  de*  tvtnori  \  peslilentiali,  |  che  sono  il 
Buòone,  V  Antrace,  o  Car-  \  boncolo,  df  i  Furoncoli.  \ 
Contenente  tutto  quello,  che  si  ha  da  fare  \  esteriormente 
nella  cura  di  questi  mali.  \  Tolta  dal  Libro  della  cura  della 
Peste  |  del  Signor  Protofisico  Lodovico  |  Settala.  |  In 
Milano,    |    Per   Giovan    Battista    Bidelli.    1629;    in-8°    di 

PP-  32. 

La  peste  del  |  MDCXXX  |  Tragedia  nouamenle  \  com- 
posta |  dal  padre  \  Fra  Benedetto  Cinq vanta  |  Teologo, 
e  Predicatore  \  generale  \  De  Minori  Osservanti  \  Fra  li 
Accademici  Pacifici  \  detto  il  Seluaggio;  in-240  di  pp.  239, 
senza  anno  e  note  tipografiche.  [Il  permesso  della  stampa, 
dato  in  Milano  da  fra  Leone  Rossi,  Ministro  provinciale, 
è  del  «  io  genaro  1632  »  ;  la  lettera  dedicatoria  del  Cinquanta 
a  «  Gio.  Battista  Calvanzano,  Mercante  Pio  e  diuoto  »,  è 
data  dal  Convento  di  Santa  Maria  della  Pace  in  Milano 
il  «  6  genaro  1632  ».  Parecchi  versi  di  questa  tragedia 
furon  dal  Manzoni  trascritti  ne'  suoi  Estratti.~\ 

La  pestilenza  \  segvita  in  Milano  \  L'anno  1630  \  rac- 
contata da  |  D.  Agostino  Lampvgnano  |  Priore  di  San 
Simpliciano  \  Al  Serenissimo  \  Carlo  primo  Gonzaga  \  Dvca 
di  |  Mantova,  Monferrato ,  Neuers,  j  Vmena,  Rethel,  etc.  \ 
In  Milano  per  Carlo  Ferrandi,  |  con  licenza  de'  Supe- 
riori. |  1634  ;  in-12  di  pp.  82. 

Raggvaglio  \  dell*  origine  \  et  giornali  svccessi  \  della 


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ir  ■:■■ 

—    539    —      ■*)-;,  .. 

ricolo  della  cattura  gli  dava  poca  molestia;  da  quello 
che  si  passava  in  Bergamo  egli  vedeva  che  la  peste 
assorbiva  o  affogava  tutte  le  sollecitudini,  ch'ella  era 


gran  peste  \  Contagiosa ,  Venefica  &  Malefica  seguita  nétta 
Città  |  di  Milano  &  suo  Ducato  dall'  Anno  1629.  \  fino  al- 
l' Anno  1632.  |  Con  le  loro  successive  Provisioni  &  Or- 
dini. |  Aggiuntovi  un  breue  Compendio  delle  più  segnalate 
specie  di  Peste  \  in  diuersi  tempi  occorse  \  diviso  in  dve 
parti  |  Dalla  Creatione  del  Mondo  fino  alla-  nascita  del 
Signore,  \  Et  da  N.  S.  fino  alti  presenti  tempi.  |  Con  di- 
versi antidoti  \  Descritti  da  Alessandro  Tadino  Medico 
Fisico  |  Colle giato  &  de'  Conseruatori  deW Illustriss.  Tri- 
bunale |  della  Sanità  dello  Stato  di  Milano.  \  All'Itilo 
Sig.r  Francesco  Orrigone  Vicario  \  di  Prolusione  della 
Città  &  Ducato  di  Milano.  |  In  Milano.  M.  DC.  IIL.  |  Per 
Filippo  Ghisolfi.  Ad  instanza  di  Gio.  Battista  Bidelli,  j  Con 
licenza  de'  Superiori  &  Priuilegio;  in-40  di  pp.  151,  oltre 
8  in  principio  e  1  in  fine  senza  numerare. 

Atteggiamento  \  dello  |  Stato  di  Milano  \  per  \  Le  Im- 
poste, e  loro  Ripartimenti.  \  Opera  di  |  Carlo  Girolamo 
Cavatio  I  prosapia  de'  Conti  della  Som  agli  a,  |  Genti- 
Ihuomo  Milanese,  \  giovevole  \  Per  rappresentare  alla  Cat- 
tolica Maestà  \  del  Re  N.  S.  |  Filippo  IV.  il  Grande  \  L'A- 
more Costante  del  Dominio,  \  E  la  forma  facile  di  Benigno 
solleuamento.  \  Honorevole  \  Per  le  Prodezze  de  Cittadini.  I 
Dilettevole  \  Per  le  Storie,  ed  Inf or  mattoni.  \  Dedicata  a 
gli  Illustrissimi  Signori  \  Vicario,  e  Sessanta  \  del  Con- 
siglio Gefierale  \  della  Città  di  Milano.  |  In  Milano  M.  DC. 
LUI.  |  Nella  Reg.  Due.  Corte,  per  Gio.  Battista,  e  Giulio 
Cesare  fratelli  |  Malatesta  Stampatori  Reg.  Cam.  &  della 
Città;  in-fol.  di  pp.  732,  oltre  58  in  principio  e  76  in  fine 
senza  numerazione. 


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come  un  obblivione,  o  un  giubileo  generale  per  tutte 
le  cose  passate  ;  vedeva  che  i  magistrati  avevano  ben 
poca  forza  e  poca  voglia  d'agire  contra  i  delitti  della 


Vita  |  di  |  Federico  \  Borromeo  \  Carditiale  del  Titolo 
di  Santa  Maria  degli  Angeli,  \  ed  Arcivescovo  di  Milano,  \ 
Compilata  \  da  Francesco  Rivola  |  Sacerdote  Milanese,  \ 
e  dedicata  da'  Conservatori  \  Della  Biblioteca ,  e  Collegio 
Ambrosiano  \  Alla  Santità  di  Nostro  Sig.  Papa  \  Ales- 
sandro Settimo.  |  In  Milano,  |  Per  Dionisio  Gariboldi. 
M.  DC.  LVI.  ;  in-4°  di  pp.  769,  oltre  24  in  principio  e  55 
in  fine  non  numerate. 

//  |  memorando  contagio  \  seguito  in  Bergamo  Vanno 
1630.  |  historia  \  scritta  d'ordine  Pub  lieo  \  da  Lorenzo 
Ghirardelli  I  libri  otto.  \  Consacrata  \  all'immortalità  \ 
della  stessa  III >«*"  Città  \  di  Bergamo.  |  In  Bergamo,  M. 
DC.  LXXXI.  |  Per  li  Fratelli  Rossi  Stampatori  di  essa 
Città.  |  Con  licenza  de*  Superiori;  in-40  di  pp.  361,  oltre 
S  in  principio  e  1  in  fine  senza  numerazione. 

Memorie  \  delle  cose  notabili  \  successe  in  Milano  intorno 
al  |  mal  contaggioso  Panno  1630.  \  Del  riccorso  da  Signori 
della  città  a  Padri  Capuccini  \  per  il  Governo  del  Lazza- 
retto. |  Come  fu  destinato  il  Molto  Rpv.  Padre  Felice  da 
Milano  della  \  Nobilissima  Famiglia  de  Casati,  ed  il  Rev. 
Padre  Michele  \  da  Milano  della  Famiglia  de*  Marchesi 
Pozzobonelli.  \  De'  Portamenti  d'essi  Padri  in  quelle  ca- 
lamità; e  come  entrasse  \  la  Peste  ne'  Conventi  loro.  \  Delle 
ammirabili  azioni,  ed  affannose  fatiche  d' Eccellentissima 
Carità  \  dell'  Illustrissimo  Signor  Marchese  \  Don  Gian- 
battista  Ar conati  \  di  Gloriosa  ricordanza,  luce  splendidis- 
sima di  que1  tempi,  \  Reg.  Senatore,  e  Presidente  della 
Sanità.  \  Del  bel  passaggio  all'  Eternità  di  molti  Capuccini 
Vittime  di  \    Carità,    E  d'  altri  risanati  per  intercessione 


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54i     — 


giornata,  e  tanto  meno  contra  reati  ormai  rancidi  ;  e 
sapeva,  per  la  voce  pubblica,  che  in  Milano  il  rilascia- 
mento d'ogni  disciplina  buona  e   cattiva  era  ancor 


della  Gran  \  Vergine  Miracolosa  delle  Grazie  \  Nella 
Chiesa  delli  Mollo  Reverendi  Padri  Domenicani  \  in  Porta 
Vercellina.  \  Con  in  fine  tre  Capitoli  in  compendio  della 
purga  |  delle  cose  infette,  e  sospette  usata,  \  Raccolte  da 
Don  Pio  La  Croce,  |  Consagrate  \  all' Illustrissimo  Signore 
il  Sig.  |  Don  Giuseppe  Arconati  \  Marchese  di  Busto  Ga- 
rollo  |  Arconate,  etc.  |  In  Milano  Nelle  Stampe  di  Giu- 
seppe Maganza.  1730;  in-40  di  pp.  92,  oltre  8  in  principio 
e  2  in  fine  senza  numerazione. 

Del  conte  Pietro  Verri  consultò  e  cita  la  Storia  di  Milano 
e  le  Osservazioni  sulla  tortura,  che  postillò;  come  po- 
stillò il  suo  discorso  De W Annona.  Cfr.  Opere  inedite  o 
rare  di  A.  M.  voi.  II,  pp.  122-124  e  374-386.  Cita  pure 
il  trattato  Del  governo  della  peste  di  Lodovico  Antonio 
Muratori,    edizione  modenese  del  1714;    cita  Del  morbo 

petecchiale e  degli  altri  contagi  in  generale,   opera 

del  doti.  F.  Enrico  Acerbi  ;  l'amico  e  medico  suo. 

Cfr.  inoltre  :  Ghiron  I.,  Documenti  ad  illustrazione  dei 
«Promessi  Sposi»  e  della  peste  dell1  anno  1630;  neìVAr- 
chivio  storico  lombardo,  ann.  V,  fase.  4  [31  dicembre  1878], 

PP-  749-758. 

Degli  Estratti  manzoniani  ne  trascriverò  qualche  brano, 
per  saggio. 

«  Danno  portato  dai  soldati  veneziani.  Ghirarfdelli], 
«P-  55-  —  Processione,  p.  161.  —  Sintomi  della  peste, 
«  p.  224.  —  Unzioni,  p.  244.  —  Inumanità  dei  nettezzini, 
«p.  252.  —  Non  furono  mai  veduti  tanti  frutti  pendere 
«dagli  arbori,  etc,  p.  258.  —  Mortalità:  città  e  borghi, 
«9)533;    territorio,    47,322,  p.  341.  —  Continuò  la  mor- 


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più  grande.  Oltre  di  che,  egli  si  proponeva  di  cangiar 
nome,  di  procedere  con  cautela,  e  di  scoprir  paese, 
e  prender  voce  nel  suo  paesetto  natale,  prima  che 
avventurarsi  in  Milano.  Con  questo  disegno,  egli  lasciò 
in  deposito  presso  un  buon  prete  (quel  suo  fidato 
parente  era  morto  di  peste)  gran  parte  degli  scudi 
che  gli  rimanevano,  ne  prese  pochetti  con  sé,  si  tolse 
un  pajo  di  pani,  un  po'  di  companatico  e  un  fia- 
schetta di  vino  pel  viaggio,  e  si  mosse  da  Bergamo 
sul  finire  di  luglio,  pochi  giorni  da  poi  che  Don  Ro- 
drigo era  stato  portato  al  lazzeretto. 

I  pochi,  che  erano  guariti  dalla  peste,  si  trovavano 
in  mezzo  all'altra  popolazione  come  una  razza  pri- 
vilegiata. Una  grandissima  parte  della  gente  languiva 


«  talità,  sicché  più  d'un  terzo  fu  trovato  mancar  di  peste 
«  —  Esenzioni  per  io  anni  ai  forestieri  in  Bergamo , 
«p.  356». 

«  Deputati  delle  parrocchie.  Rip[amonti],  p.  58  —  io  cai. 
«  maii,  p.  75  —  Quatuor  homines  deprehensos  esse,  etc, 
«p.  in  —  Lazzeretto  e  P.re  Felice,  p.  128  —  Diluvio  ai 
«  23  di  luglio,  p.  131  —  Sed  belli  graviores  esse  curas, 
«  p.  245  ». 

«Viveva  in  un  certo  castello,  etc.  Rivola,  p.  254  — 
«Card.  Fed.  Borromeo  raccomanda  ai  parochi  che  incul- 
«  chino  il  dovere  di  rivelare  la  malattia  contagiosa,  p.  582 
«  —  Condotte  a  termine  di  salire  in  fin  sopra  i  tetti,  etc, 
«p.  759»- 

«  Morti  della  peste  in  Milano,  1630.  Ripamonti,  pa- 
«  ghie  228-229,  morti  140,000.  Vedere  il  luogo,  dove  le 
«  ragioni  per  cui  il  calcolo  sembra  a  lui  stesso  al  di  qua 


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inferma,  moriva,  e  quegli  che  non  avevano  contratto 
il  male  ne  vivevano  in  un  continuo  terrore;  come 
ogni  oggetto  poteva  col  tocco  esser  cagione  di  morte, 
così  di  tutto  si  guardavano;  i  passi  erano  misurati 
e  sospettosi,  i  movimenti  ritrosi,  irresoluti,  fretta  ed 
esitazione  in  un  tempo,  un  allarme  incessante,  una 
disposizione  a  fuggire,  e  con  tutto  questo  il  pensiero 
sempre  vivo  che  forse  tante  precauzioni  erano  inutili, 
forse  il  male  era  già  fatto.  I  pochi  risanati  invece, 
non  temendo  più  del  contagio,  camminavano  ed  ope- 
ravano senza  tutte  quelle  precauzioni,  e  l'aspetto  della 
incertezza  altrui  cresceva  in  molte  occasioni  la  fiducia 
e  la  scioltezza  loro:  erano  come  i  cavalieri  dell'un- 
decimo  secolo,  coperti  d'elmo,  di  visiera,  di  corazza, 


«  del  vero  —  Tadino,  p.  136,  morti  185,558  —  Somaglia, 
«  p.  500,  morti  180,000  —  Rivola,  p.  584  (a  mezzo  settem- 
bre), morti  122,000  —  Ms.°  Vezzoli,  p.  73,  morti  122,464 
«  —  Lampugnani,  pag.  67  (la  stessa  avvertenza  che  al 
«Ripamonti),  morti  160,000». 

In  un  foglio  volante,  non  però  di  mano  del  Manzoni, 
si  legge:  «Il  giorno  21  giugno  a  Milano  il  sole  leva  a 
«  4.1*  12.',  tramonta  a  7.  48.  Era  uso  in  Italia  incomin- 
«  ciare  a  contare  le  ore  o  al  preciso  tramonto,  o  ad  una 
«  mezz'ora  dopo  di  esso.  Nel  primo  caso  le  8  ore  italiane 
«corrispondono  a  3.  48  della  mattina,  ossia  24  minuti 
«prima  del  levare  del  sole;  che  è  precisamente  all'aurora. 
«  Se  si  contino  le  24. h  mezz'ora  dopo  il  tramonto,  lo  che 
«è  il  20  caso,  le  8  ore  corrispondono  a  4.  18  dell'orologio 
«  francese,  perciò  6  minuti  prima'  del  levar  del  sole.  In 
«  Milano  si  contava  dunque  le  24  al  preciso  tramonto».  (Ed.) 


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di  cosciali,  di  gambiere,  con  una  buona  lancia  nella 
destra,  un  buon  brocchiere  alla  sinistra,  una  buona 
spada  al  fianco,  una  buona  provvigione  di  giavel- 
lotti, sur  un  buon  palafreno,  agile  air  inseguimento 
ed  alla  ritratta,  in  mezzo  ad  una  marmaglia  di  vil- 
lani a  piede,  ignudi  d'armatura,  e  poco  coperti  di 
vestimenti,  che  per  offesa  e  per  difesa  non  avevano 
che  due  braccia  e  due  gambe,  e  il  resto  delle  membra 
non  atto  ad  altro  che  a  toccar  percosse.  L'  immunità 
del  pericolo  ispira  il  sentimento  e  dà  il  contegno  del 
coraggio;  è  la  parte  meno  nobile,  ma  spesso  una 
gran  parte  di  esso;  e  questa  verità  si  è  sapiente- 
mente trasfusa  nella  nostra  lingua,  dove  il  vocabolo 
sicuro ,  che*  in  origine  vale  fuor  di  pericolo,  fu  tra- 
slato a  significare  anche  ardito.  Con  questa  baldezza, 
temperata  però  dalle  inquietudini  che  noi  sappiamo 
e  dalla  pietà  di  tanti  mali  altrui,  camminava  Fermo 
in  un  bel  mattino  d'estate,  per  coste  amene,  donde 
ad  ogni  tratto  si  scopre  un  nuovo  prospetto,  per  verdi 
pianure,  sotto  un  cielo  ridente,  tra  il  fresco  e  spez- 
zato luccicare  della  rugiada,  all'aria  frizzante  del- 
l'alba e  al  soave  calore  del  sole  obbliquo,  appena 
comparso  sull'orizzonte.  Ma  dove  appariva  l'uomo, 
dove  si  vedevano  i  segni  della  sua  dimora,  del  suo 
passaggio,  spariva  tutta  la  bellezza  di  quello  spetta- 
colo: erano  villaggi  deserti,  animati  soltanto  da  ge- 
miti, attraversati  da  qualche  cadavere,  che  era  por- 
tato alla  fossa  senza  accompagnamento,  senza  ro- 
more  di  canto  funebre  :  qua  e  là  uomini  sparuti,  che 


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-     545     — 

erravano,  infermi  che  uscivano  disperati  dal  coviglio, 
per  morire  all'aria  aperta,  birboni  che  agguantavano 
dove  fosse  da  spogliare  impunemente.  Fermo  cercò 
di  schivare  tutte  le  parti  abitate,  venendo  pei  campi  ; 
sul  mezzo  giorno  si  riposò  in  un  bosco,  vicino  ad 
una  sorgente,  ivi  si  rifocillò  col  cibo  che  aveva  por- 
tato seco  ;  lasciò  passare  le  ore  più  infocate,  riprese 
la  sua  strada;  cominciò  a  riveder  luoghi  noti,  misti 
alle  memorie  della  sua  fanciullezza,  e  due.  ore  circa 
prima  del  tramonto  scoperse  il  suopaesetto.  Alla  prima 
vista  Fermo  ristette  un  momento,  come  sopraffatto 
dalle  rimembranze  e  dai  pensieri  dell'avvenire,  e  ri- 
preso fiato,  procedette,  entrò  nel  paese.  L'aspetto  era 
come  quello  di  tutti  gli  altri  che  Fermo  aveva  do- 
vuti vedere;  ma  la  tristezza  fu  ben  più  forte  che 
egli  non  l'avesse  ancor  provata.  Guardò  se  vedeva 
attorno  qualche  suo  conoscente,  qualche  persona  viva: 
nessuno;  le  porte  chiuse,  o  abbandonate;  avanzando, 
scorse  un  uomo  seduto  sul  limitare,  lo  guardò,  durò 
fatica  a  riconoscerlo,  travisato  com'era  dal  male(1); 
ma  non  fu  riconosciuto  da  esso,  che  gli  piantò  in 
faccia  due  occhj  insensati,  e  non  fece  motto.  Fermo 
lo  chiamò  per  nome,  non  ne  ebbe  risposta,  e  più  che 
mai  accorato  si  avviò  alla  sua  casa.  Ella  era  quale 
l'avevano  lasciata  i  lanzichenecchi:  senza  imposte, 
diroccata  qua  e  là,  qua  e   là   affumicata,  e  dentro 


(!)  In  margine  il    Manzoni   vi  scrisse  :    «  Stupido  :    gli 
parve  Gervaso  ed  era  Tonio  ».  (Ed.) 

Alessandro  Manzoni.  35 


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—     546     — 

vuota,  ma  non  già  pulita,  che  vi  rimaneva  ancor  lo 
strame  che  era  stato  letto  ai  soldati.  Ne  uscì  Fermo 
in  fretta  inorridito,  ritirando  l'occhio  dallo  spetta- 
colo e  la  mente  dai  pensieri  e  dai  ricordi  che  quello 
spettacolo  faceva  nascere,  e  si  incamminò  alla  casa 
d'Agnese,  con  l'ansia  di  rivedere  un  volto  amico,  di 
udire  da  lei  ciò  che  tanto  gli  stava  a  cuore,  e  col 
battito  di  non  ritrovarla,  di  non  ritrovar  pure  chi 
gli  sapesse  dire  s'ella  viveva. 

Per  giungervi,  doveva  Fermo  passare  su  la  piaz- 
zetta della  chiesa,  dov'era  pure  la  casa  del  curato. 
Quando  fu  in  luogo  donde  la  piazza  si  poteva  ve- 
dere, guardò  egli  alla  casa  del  curato,  e  vide  una 
finestra  aperta  e  nel  vano  di  quella  un  non  so  che 
di  bianco-giallastro  in  campo  nero,  una  figura  im- 
mobile, appoggiata  ad  un  lato  della  finestra.  Era  Don 
Abbondio  in  persona,  e  ad  una  certa  distanza  poteva 
parere  un  vecchio  ritratto  di  qualche  togato,  scialbo 
per  natura,  per  l'arte  del  pittore  e  per  l'opera  del 
tempo,  appeso  di  traverso  fuori  al  muro,  per  la  buona 
intenzione  di  ornare  qualche  solennità.  Fermo,  che 
aveva  sospettato  chi  doveva  essere,  arrivato  su  la 
piazza,  lo  riconobbe,  e  da  prima,  tornandogli  a  mente 
che  egli  era  una  delle  cagioni  delle  sue  traversie, 
sentì  rivivere  un  po'  di  stizza  e  volle  passar  di  lungo. 
Ma  tosto,  l'antico  rispetto  pel  curato,  quel  desiderio 
di  sentire  una  voce  umana  e  conosciuta,  così  potente 
in  quelle  circostanze,  la  speranza  di  risapere  da  lui 
qualche  cosa  che   gì' importasse,  vinsero   nell'animo 


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di  Fermo,  che  si  arrestò,  fece  una  riverenza,  e  diriz- 
zando il  volto  alla  finestra,  disse  :  —  Oh,  signor  cu- 
rato, come  sta  ella  in  questi  tempi  ?  —  Don  Abbondio 
aveva  guatato  costui  che  veniva,  gli  era  sembrato  di 
riconoscerlo;  ma  quando  sentì  la  voce  che  non  gii 
lasciava  più  dubbio  —  Per  amor  del  cielo  !  disse, 
voi  qui?  Che  venite  a  fare  in  queste  parti?  Dio  vi 
guardi!  Vi  pare  egli,  con  quella  poca  bagattella  di 
cattura ? 

—  Oh  via,  signor  curato,  disse  Fermo  non  senza 
dispetto,  mi  vuol  ella  fare  anche  la  spia? 

—  Parlo  per  vostro  bene,  disse  Don  Abbondio, 
che  nessuno  ci  sente.  Chi  volete  che  ci  senta.  Non 
vedete  che  son  tutti  morti  ?  Che  venite  a  cercare  fra 
queste  belle  allegrie  ?  Andate,  tornate  dove  siete 
stato  finora  ;  non  venite  a  porre  in  imbroglio  voi  e 
me  ;  perchè  quando  si  tratti  di  castigar  voi  e  di  tor- 
mentare me,  pò  ver  uomo,  vi  sarà  dei  vivi  ancora. 

—  Signor  curato,  mi  saprebbe  ella  dar  qualche 
nuova  di  Lucia? 

—  Oh  Dio  benedetto  !  ancor  di  questi  grilli  avete 
in  capo?  Oh  poveri  noi!  che  serve  che  vengano  i 
flagelli,  se  gli  uomini  non  voglion  far  giudizio  !  E 
la  peste,  figliuolo,  la  peste?  Non  sapete  che  c'è  la 
peste  ? 

—  Ella  deve  ricordarsi,  signor  curato,  disse  Fermo 

con  voce  alquanto  risentita,  che  Lucia  ed  io 

non  eramo  grilli. 

—  Oh!  disse   Don   Abbondio,   figliuol  caro,  voi 


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avete  sempre  avuto  il  timor  di  Dio,  spero  che  non 
sarete  cangiato.  Per  questo  vi  parlo  con  libertà,  da 
vero  padre,  perchè  vi  ho  sempre  voluto  bene.  So  io 
quel  che  dico,  questo  non  è  paese  per  voi  :  se  vi  do- 
vesse accadere  qualche  disgrazia  —  e  già,  pur  troppo, 
non  la  schivereste  —  che  crepacuore  per  me!  La 
cattura  è  terribile;  v'è  un  fuoco  contro  di  voi  !  E  poi 
la  peste.... 

—  La  peste  l'ho  avuta,  disse  Fermo,  son  gua- 
rito, e  non  ho  più  paura. 

—  Vedete  che  avviso  vi  ha  mandato  il  cielo,  per 
farvi  pensare  al  sodo....  Anch'io  l'ho  avuta  e  son 
qui  per  miracolo. 

—  Ma  di  Lucia  non  mi  sa  ella  dir  nulla? 

—  Figliuol  caro,  che  volete  ch'io  vi  dica?  Non 
ne  so  nulla:  è  in  Milano;  cioè  v'era:  di  chi  può 
dirsi  ora,  v'è?  Sarà  morta:  muojono  tanti. 

—  Ma  noi  siam  pur  vivi,  e.... 

—  Per  miracolo,  figliuolo,  per  miracolo.  E  il 
frutto  che  ne  dobbiam  trarre  è  di  cacciar  tutte  le 
bazzecole  dalla  testa.  In  Milano,  figliuolo!  chi  vive 
in  Milano?  Questo  è  un  purgatorio,  ma  quello  è  l'in- 
ferno. Non  vi  passasse  mai  pel  capo.... 

—  E  Agnese,  signor  curato? 

—  Agnese  è  qui  :  e  per  miracolo  non  ha  contratta 
la  peste  finora  ;  ma  si  guarda,  si  guarda  ;  ha  giu- 
dizio, non  vuol  vedere  nessuno;  non  le  andate  fra 
piedi,  che  le  fareste  dispiacere. 

—  Sia  lodato  Dio;  ma  ella  né  mi  vuole  aju tare, 
né  vuole  che  altri  m'ajuti. 


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—     549     — 

—  Che  dite,  figliuolo?  io  son  tutto  per  voi,  e 
parlo  perchè  vi  voglio  bene;  e  perciò  vi  torno  a  dire: 
non  vi  passasse  mai  pel  capo....  Dio  guardi!  In  Mi- 
lano !  Sapete  come  state  !  Una  cattura  di  quella  sorte  ! 
un  impegno!  e  con  tanti  nemici  che  avete!  Dio  li 
beri!  e  poi,  so  io  quel  che  dico,  potreste  trovare. 

chi  sa?  gente  che  vuol  bene,   ma gente  che  si 

piglia  impegni  di  proteggere,  e  poi sostenere.. 

cozzare....  basta,  parlo  con  tutto  il  rispetto...  ma 
Dio  solo  è  da  per  tutto...  Si  vuole,  si  comanda,  si 
promette,  si  fa  l'impegno....  si  scompiglia  la  matassa 
e  si  dà  in  mano  al  curato  perchè  la  riordini....  e  eh 
ne  va  col  capo  rotto  è  il  curato....  Fate  a  modo  mio 
tornate  dove  siete  stato  finora. 

—  Basta,  disse  Fermo,  non  mi  aspettava  da  lei 
più  soccorso  di  quello  che  mi  abbia  avuto.  Io  non 
intendo  tutti  questi  suoi  discorsi;  ma  poi  che  ella 
non  ha  altri  consigli  da  darmi,  si  contenti  ch'io  faccia 
a  modo  mio. 

—  No,  Fermo,  per  amor  del  cielo,  non  mi  fate 
un  marrone  :  non  mettete  in  imbroglio  me  e  voi.  Ab- 
biate compassione  d'un  pover  uomo,  che  ha  bisogno 
di  quiete  ;  e  sarebbe  giusto  finalmente  che  la  godesse. 
Quello  che  ho  patito  io,  vedete,  non  lo  ha  patito 
nessuno.  Ne  ho  passate  d'ogni  sorte:  spaventi,  cre- 
pacuori, fatiche:  è  venuta  la  carestia,  e  m'è  toccato 
di  veder  persone  morirmi  di  fame  su  gli  occhi.  Ho 
dovuto  fuggire  di  casa,  e  nessuno  mi  volle  ajutare; 
ho  trovato  cuori  duri  come  selci  ;  e  i  soldati  m'hanno 


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sperperato  ogni  cosa.  E  sono  stato..-.,  e  ho  dovuto.., 
e  basta....  sono  stato  ricoverato  da  un  degno  signore.... 
basta  so  io  quello  che  ho  patito.  E  poi  la  peste  !  ho 
dovuto  assistere  agli  appestati....  e  ne  ho  avute  io 
delle  cure,  sa  il  cielo!  ma  l'ho  presa  anch'io,  e  son 
qui  vittima  della  mia  carità;  d'allora  in  poi  non  son 
più  quello.  Perpetua  è  morta,  mi  ha  abbandonato  in 
questi  guaj  ;  e  mi  tocca  servirmi  da  me,  povero,  vec- 
chio e  malandato,  come  sono.  Ecco  che  appena  comin- 
ciava a  star  bene,  e  voi  venite  per  darmi  nuovi  tra- 
vagli.... 

—  Signor  curato*  disse  Fermo,  io  le  desidero 
ogni  bene;  e  del  travaglio  ella  ne  può  bene  aver 
dato  a  me,  ma  non  io  a  lei,  in  fede  mia.  La  spia 
ella  non  me  la  vorrà  fare;  del  resto,  io  mi  rimetto  nelle 
mani  di  Dio.  Attenda  a  guarir  bene,  signor  curato. 

—  Sentite,  sentite,  —  continuava  Don  Abbondio, 
ma  Fermo  aveva  già  fatta  una  riverenza  di  risoluto- 
congedo,  e  camminava  verso  la  casetta  di  Lucia. 

—  Oh  povero  me!  questo  ci  mancava!  continuò- 
a  barbottare  fra  sé  Don  Abbondio,  ritirandosi  dalla 
finestra.  Povero  me  !  Se  costui  va  a  Milano,  se  trova 
Lucia,  se  tornano  alle  loro  antiche  pretese,  ecco  rin- 
novato l'imbroglio.  Un  Cardinale  che  dirà:  voglio 
che  si  faccia  il  matrimonio;  un  signore  che  dice,  non 
voglio:  ed  io  tra  l'incudine  e  il  martello.  Basta.... 
disse  poi  soffiando,  dopo  d'avere  alquanto  pensato.... 
muore  tanta  gente. . . .  che  dovessero  rimanere  al  mondo- 
tutti  quelli  che  si  divertono  a  mettere  le  pulci  nel- 
l'orecchio di  me  pò  ver  uomo  ! 


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—     55i     — 

Intanto  Fermo  arrivò  alla  casetta  d'Agnese,  la 
quale  casetta,  se  il  lettore  se  ne  ricorda,  era  fuori 
del  villaggio,  solitaria.  Alla  vista  di  quel  luogo  una 
nuova  tempesta  sorse  nel  cuore  di  Fermo  ;  diede  egli 
un  gran  sospiro,  e  bussò. 

—  Chi  è  là?  gridò  da  dentro  la  voce  d'Agnese: 
state  lontano  ;  non  bazzicate  intorno  alla  porta  ;  verrò 
a  parlarvi  dalla  finestra.  —  Son  io,  rispose  Fermo  ; 
ma  Agnese,  non  aspettando  a  basso  la  risposta,  aveva 
fatte  in  fretta  le  scale  e  apriva  la  finestra.  —  Son  io; 
mi  conoscete?  disse  ancor  Fermo,  quando  la  vide. 
—  Oh  Madonna  santissima  !  sclamò  Agnese  :  voi  ?  — 
Io,  rispose  Fermo  ;  sono  il  benvenuto? 

—  Oh  figliuolo  !  sclamò  di  nuovo  Agnese,  quanto 
vi  avrei  desiderato,  se  non  avessi  avuto  paura  per 
voi?  Ma  ora  che  venite  voi  a  fare? 

—  A  saper  nuove  di  Lucia  e  di  voi,  rispose  Fermo. 
A  vedere  se  tutti  si  sono  scordati  di  me.  Che  n'è  di 
Lucia? 

—  Figliuolo,  sono  mesi  che  non  ne  ho  notizia  : 
prima  di  quel  tempo  ella  stava  bene  di  salute;  ma 
ora  chi  può  sapere....? 

—  Io  andrò  a  vedere,  io  vi  porterò  nuova  di  vo- 
stra figlia,  disse  Fermo  risolutamente. 

—  Voi?  disse  Agnese:  ma  e...  mi  capite.  Basta.... 

—  Volete  aprirmi  e  parleremo  più   liberamente  ? 

—  E  la  peste,  figliuolo? 

—  Grazie  al  cielo  ella  non  ha  ammazzato  me  ed 
io  ho  ammazzato  lei,  e  son  sano  e  salvo,  come  mi. 
vedete.  Aprite  con  sicurezza. 


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—     552     — 

—  Scendo  ad  aprire,  rispose  Agnese;  oh  con 
quanta  consolazione  v'avrei  riveduto.  Ma  ora,  bi- 
sogna ch'io  vi  preghi  di  starmi  lontano. 

—  Come  vorrete,  rispose  Fermo. 

—  State  ad  aspettarmi  nel  mezzo  della  strada  ; 
quando  aprirò,  non  vi  affacciate  alla  porta  ;  lascia- 
temi rientrare;  poi  entrerete  e  vi  porrete  in  un  an- 
golo, lontano  da  me,  e  ci  parleremo  ;  le  parole  non 
hanno  bisogno  di  toccarsi.  Oh  quante  cose  ho  da 
dirvi  ! 

—  Ed  io  a  voi,  rispose  Fermo. 

Agnese  calò  in  fretta  le  scale,  giunta  alla  porta, 
avvisò  ancora  Fermo  che  stesse  discosto,  aprì,  rientrò 
fino  in  fondo  alla  stanza;  Fermo  entrò  pure,  prese 
un  trespolo,  lo  portò  in  un  angolo,  vi  si  pose  a  se- 
dere, guardando  intorno,  ricordandosi  di  tanti  mo- 
menti passati  in  quel  luogo,  e  sospirando;  Agnese 
andò  a  richiuder  la  porta  e  venne  a  sedersi  nell'an- 
golo opposto.  E  subito  cominciò  come  una  sfida  d' in- 
chieste. 

—  Come  vi  siete  fidato  di  venir  da  queste  parti  ? 

—  Perchè  Lucia  non  mi  ha  mai  risposto? 

—  Come  avete  potuto  fuggire? 

—  E  perchè  non  venire  dove  io  era  in  sicuro, 
piuttosto  che  mandarmi  denari? 

—  Chi  v'ha  strascinato  in  quei  garbugli? 

—  Quanto  tempo  Lucia  è  stata  in  quello  spa- 
vento? e  come  è  andata  propriamente  la  cosa? 

Fatte  le  prime  interrogazioni  più  pressanti,  ognuno 


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—     553     — 

cominciò  a  rispondere  brevemente  a  quelle  del  com- 
pagno. Fermo  finalmente  pregò  Agnese  ch'ella  rac- 
contasse per  disteso  tutta  la  sua  storia,  promettendo 
di  soddisfarla  egli  poi  della  propria.  Così  Fermo  co- 
nobbe per  la  prima  volta  daddovero  le  triste  vicende 
di  Lucia,  e  l'esito  inaspettato.  Tremò,  fremè,  impal- 
lidì cento  volte  a  quel  racconto  ;  ora  diede  dei  pugni 
all'aria  ed  ora  giunse  le  mani  in  atto  di  ringrazia- 
mento; maledisse  la  Signora,  benedisse  il  Cardinale, 
diede  maledizioni  e  benedizioni  al  Conte  del  Sagrato, 
invocò  ora  la  vendetta,  ora  il  perdono  del  cielo  sopra 
Don  Rodrigo.  Ma  un  punto  rimaneva  tuttavia  oscuro, 
né  Agnese  sapeva  dilucidarlo.  Perchè  non  è  venuta 
con  me?  con  me,  suo  promesso?  con  me,  che  doveva, 
che  poteva  divenir  suo  marito?  che  ostacolo  v'era 
più?  non  sarebbero  mancati  che  i  denari,  e  il  cielo 
gli  aveva  mandati.  Agnese  non  seppe  dire,  se  non 
ciò  ch'ella  aveva  pur  pensato  :  che  Lucia  fosse  ri- 
masta tanto  stordita  e  sgomentata  da  quegli  orribili 
accidenti,  che  non  le  rimanesse  più  forza  da  voler 
nulla,  e  fosse  disgustata  d'ogni  cosa. 

—  Oh?  andrò  io  a  saperlo  da  lei,  disse  Fermo; 
voglio  vedere  l'acqua  chiara.  Ella  era  mia;  mi  si 
era  promessa;  io  non  ho  fatto  niente  per  demeri- 
tarla; e  se  non  mi  vuol  più e  qui  avrebbe  pianto 

se  gli  uomini  non  si  vergognassero  di  piangere:  se 
non  mi  vuol  più,  me  lo  ha  a  dire  di  sua  propria 
bocca,  e  mi  deve  dire  il  perchè. 

Agnese  cercò  di  racconsolarlo,  e  lo  chiese  della 


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554 


sua  storia,  che  Fermo  le  narrò  sinceramente.  Questa 
storia  fece  molto  piacere  ad  Agnese  e  le  rimise  Fermo 
neir antico  buon  concetto.  —  Voleva  ben  dire  io; 
sclamava  essa  di  tratto  in  tratto.  Se  sapeste  come  la 
raccontavano  qui,  in  cento  maniere,  l'una  peggio  del- 
l'altra. Ma  voi  non  me  l'avete  mai  fatta  scrivere  ben 
chiara. 

—  E  voi,  madonna,  disse  Fermo,  non  mi  avete  mai 
data  soddisfazione  sopra  quello  che  io  voleva  sapere. 

—  Basta,  disse  Agnese,  lodato  Dio  che  abbiam 
potuto  parlarci  una  volta  ;  valgon  più  quattro  parole 
sincere  di  due  ignoranti  che  tutti  gli  scarabocchj  di 
questi  sapienti.  Ma  voi  come  vi  fidate  di  andare  a 
Milano,  dove  vi  hanno  tanto  cercato,  dove....? 

—  Chi  mi  conoscerà  !  rispose  Fermo,  non  m'hanno 
visto  che  un  momento;  e  il  nome....  ne  piglierò  un 
altro  ;  non  ci  vuol  gran  lettera  per  questo  ;  e  poi  chi 
volete  che  pensi  a  me  ora?  Hanno  da  pensare  alla 
peste.  Sono  tutti  in  confusione.  Muojono  come  le  mo- 
sche, a  quel  che  si  dice Ah!  pur  che  viva  Lucia! 

—  Dio  lo  voglia  !  sclamò  Agnese  ;  e  lo  vorrà,  io 
spero.  Quella  poveretta  innocente  ha  tanto  patito  ! 
Dio  gli  conterà  tutto  quel  male,  per  salvarla  ora, 
Ah  !  Fermo  io  ho  buona  speranza  ;  andate  pure  ;  mi 
sento  tutta  riconfortata  dall'avervi  veduto.  Sento  una 
voce  che  mi  dice  che  i  guai  sono  alla  fine  ;  e  che 
passeremo  ancora  insieme  dei  buoni  momenti. 

Fermo  chiese  del  Padre  Cristoforo,  e  Agnese  non 
li  seppe  dir  altro  se  non  ch'egli  era  a  Palermo,  che 


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—     555     — 

è  un  sito  lontano  lontano,  di  là  dal  mare.  Scontento, 
e  perchè  sperava  da  lui  ajuto  e  consiglio,  e  perchè 
desiderava  di  raccontare  a  lui  pure  la  storia  genuina  ; 
e  perchè  avrebbe  riveduto  volentieri  quell'uomo  pel 
quale  sentiva  tanta  venerazione  e  tanta  riconoscenza. 
Disse  però:  brav'  uomo!  vero  religioso!  è  meglio 
ch'egli  sia  fuori  di  questi  guai  e  di  questi  pericoli. 
Agnese  offerse  a  Fermo  l'ospitalità  per  quella 
notte,  con  molte  prescrizioni  sanitarie  però  di  lon- 
tananza, di  cautela,  di  non  toccar  questo,  di  non 
avvicinarsi  a  quell'altro  luogo.  Fermo  accettò  l'ospi- 
talità ben  volentieri  e  promise  tutti  i  riguardi  che 
Agnese  desiderava.  Era  venuta  l'ora  della  cena,  e  la 
massaja  si  diede  ad  ammanirla.  Pose  al  fuoco  la  pen- 
tola per  cucinarvi  la  polenta.  Fermo,  da  giovane  ben 
educato,  voleva  risparmiare  la  fatica  alla  donna  e  fare 
egli  il  lavoro:  ma  Agnese,  levando  la  mano:  guar- 
datevi bene  dal  toccar  nulla,  disse;  lasciate  fare  a  me. 
Fermo  ubbidì  ;  ed  ella  prese  la  farina,  la  gettò  nel- 
l'acqua, la  rimenava  dicendo  :  Eh  !  altre  volte  era 
Lucia!  basta  il  cuor  mi  dice  che  la  mia  poveretta 
verrà  con  me,  e  presto;  e  che  staremo  tutti  in  buona 
compagnia.  Fermo  sospirava.  Agnese  versò  la  po- 
lenta, raccomandando  sempre  a  Fermo  di  non  si  muo- 
vere, di  non  toccare  ;  poi  andò  a  mugnere  la  vacca r 
tornò  con  una  brocca  di  latte,  dicendo:  vedete:  quella 
povera  bestia  da  sei  mesi  è  la  mia  unica  compagnia. 
Prese  un  bel  pezzo  di  polenta,  lo  ripose  sur  un  piat- 
tello, lo  sporse  a  Fermo,  stando  più  lontana  che  po- 


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-     556     - 

teva,  e  stringendosi  con'  l'altra  mano  la  gonna  d'  in- 
torno alla  persona,  perchè  non  istrisciasse  agli  abiti 
di  Fermo  ;  quindi,  allo  stesso  modo,  gli  sporse  una 
scodella  di  latte.  Nel  tempo  della  cena  si  parlò  dei 
disegni  di  Fermo,  Agnese  gli  diede  istruzioni  sul 
nome  dei  padroni  di  Lucia;  gli  comunicò  le  notizie 
confuse  ch'ella  aveva  sul  luogo  della  loro  dimora; 
e  questi  discorsi  gli  tennero  a  veglia  qualche  ora 
dopo  la  cena.  Finalmente  Agnese  indicò  all'ospite  la 
stanza  dov'egli  doveva  coricarsi  :  era  quella  di  Lucia. 
Fermo  amò  meglio  di  andarsi  a  gettare  sul  picciolo 
fenile,  adducendo  motivi  di  precauzione  per  la  salute. 
Prima  dell'alba  erano  entrambi  in  piedi.  Agnese  diede 
a  Fermo  due  pani  e  due  raviggiuoli,  fattura  delle 
sue  mani,  gli  riempì  di  vino  il  fiaschetto  ch'egli 
aveva  portato  con  sé,  dicendo:  in  questi  tempi  po- 
treste morir  di  fame  prima  di  trovare  chi  vi  desse 
da  mangiare.  Il  congedo  fu  quale  ognuno  può  im- 
maginarselo, pieno  di  tenerezza,  di  accoramento  e  di 
speranza.  Fermo  partì,  viaggiò  tutto  quel  giorno,  e 
avrebbe  potuto  la  sera  entrare  in  Milano,  ma  pensò 
che  avrebbe  trovato  più  facilmente  un  ricovero  al  di 
fuori.  Ristette  di  fatti  in  una  cascina  deserta,  a  un 
miglio  dalla  città.  Dormì  su  4e  stoppie,  e  all'  alba, 
levatosi,  si  avviò  e  fece  la  sua  seconda  entrata  in 
Milano,  che  gli  comparve  di  un  aspetto  più  tristo  e 
più  strano  d'assai  che  non  era  stato  la  prima  volta  (l). 


0)  Questo  brano  è  tolto  dal  capitolo  V  del  tomo  IV.  (Ed.) 


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XXII. 

Fermo  trova  Lucia  nel  lazzeretto. 


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All'intorno  del  picciolo  tempio  v'era  un  picciolo 
spazio  sgombro  di  capanne,  e  Fermo,  giungendovi, 
lo  vide  occupato  da  una  folla,  distinta  in  ragazzi,  in 
donne  e  in  uomini,  tutti  composti  e  in  gran  silenzio, 
fra  il  quale  si  udiva  distintamente  una  voce  alta  ed 
oratoria,  che  veniva  dal  tempio.  Questo,  elevato  d'al- 
cuni gradi  al  di  sopra  del  suolo,  non  aveva  allora 
altro  sostegno  che  le  colonne,  disposte  in  circolo; 
nel  mezzo  v'era  un  altare,  che  si  poteva  vedere  da 
tutti  i  punti  del  lazzeretto,  per  mezzo  agli  interco- 
lunnj  vuoti,  che  in  oggi  sono  murati.  Ritto  sulla  pre- 
della dell'altare  stava  un  cappuccino,  alto  della  per- 
sona, fra  la  virilità  e  la  vecchiezza;  teneva  con  la 
destra  una  croce,  posata  al  suolo,  che  gli  soprav- 
vanzava  il  capo  di  tutto  il  traverso;  e  con  l'altra  mano 
accompagnava  di  gesti  il  discorso  che  andava  fa- 
cendo. Era  questi  il  Padre  Felice,  sopraintendente  del 
lazzeretto.  Fermo,  giunto  sull'orlo  di  quella  adu- 
nanza, avrebbe  voluto  avanzarsi  a  trascorrerla  e  cer- 
care ciò  che  gli  stava  a  cuore  ;  ma,  senza  contare  un 


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—     560     — 

altro  cappuccino  che,  con  un  aspetto  tanto  severo, 
anzi  burbero,  quanto  quello  dell'oratore  era  pietoso, 
stava  ritto  in  mezzo  alla  brigata  per  tener  l'ordine; 
quella  quiete  generale,  quell'attento  silenzio  e  quella 
unica  voce  bastarono  ad  avvertire  il  nostro  ansioso 
che  ogni  movimento  sarebbe  stato  in  quel  luogo  scom- 
piglio e  irriverenza.  Stette  egli  dunque  alla  estre- 
mità della  brigata  ad  aspettare  e  udì  la  perorazione 
di  quel  singolare  oratore. 

Diamo  adunque,  diceva  egli,  un  ultimo  sguardo  a 
questo  luogo  di  miserie  e  di  misericordia,  pensando 
quanti  vi  sono  entrati >  quanti  ne  sono  stati  tratti 
fuora  per  la  fossa,  quanti  vi  rimangono,  quanti  pochi 
al  paragone  siam  noi,  che  ne  usciamo  non  illesi,  ma 
salvi,  ma  colla  voce  da  lodarne  Iddio.  L'anima  no- 
stra ha  guadato  il  torrente;  l'anima  nostra  ha  gua- 
date le  acque  soverchiatrici :  benedetto  il  Signore! 
Benedetto  nella  giustizia,  benedetto  nella  misericordia, 
benedetto  nella  morte,  benedetto  nella  salvezza,  be- 
nedetto nel  discernimento  ch'Egli  ha  fatto  di  noi  in 
questo  sì  vasto,  sì  smisurato  eccidio!  Ah  possa  es- 
sere questo  un  discernimento  di  clemenza!  possa  la 
nostra  condotta,  da  questo  momento,  esserne  un  in- 
dizio manifesto!  Attraversando  questo  mare  di  guaj, 
diamo  uno  sguardo  di  pietà  e  di  conforto  a  quegli 
che  si  dibattono  tuttavia  con  la  tempesta,  e  dei  quali, 
oh  quanto  pochi,  potranno,  come  noi,  afferrare  un 
porto  terreno.  Ci  vedano  uscirne  rendendo  grazie  per 
noi  ed  elevando  preghiere  per  essi  !  Attraversando  la 


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_     56i     - 

città,  già  sì  popolosa»  noi,  scarsa  restituzione  dell'im- 
menso tributo  ch'essa  mandò  in  questo  luogo,  mo- 
striamo agli  scarsi  suoi  abitatori  un  popolo  scemato  sì, 
ma  rigenerato.  Procediamo  con  la  compunzione  nel 
volto  e  coi  cantici  su  le  labbra.  Quegli  che  son  ri- 
tornati nella  pienezza  dell'antico  vigore  porgano  un 
braccio  soccorrevole  ai  fiacchi;  gli  adulti  reggano  i 
teneri,  i  giovani  sostengano  con  riverenza  e  con 
amore  i  vecchj,  ai  quali  la  salute  ritornata  non  ap- 
porta che  pochi  giorni  di  stento.  E  se  in  questo  sog- 
giorno di  prova,  in  questo  stesso  crogiuolo  di  pur- 
gazione abbiam  peccato;  se  abbiamo  abusato  anche 
dei  flagelli,  se  abbiamo  sciupati  i  doni  e  le  ricchezze 
dello  sdegno,  come  già  quelli  della  benignità;  eb- 
bene !  non  abbiam  però  potuto  esaurire  il  tesoro  del 
perdono;  ricorriamo  ad  esso  di  nuovo.   Per  me 

E  qui  Taratore  fece  pausa, straordinariamente  com- 
mosso; poi  tolse  una  corda,  che  gli  stava  ai  piedi, 
se  l'avvinghiò  al  collo,  come  ad  un  malfattore,  cadde 
ginocchioni  e  proseguì  : 

Per  me  e  per  tutti  i  miei  compagni,  i  quali,  seb- 
bene immeritevoli,  siamo  stati  per  una  ineffabile 
degnazione  trascelti  all'alto  privilegio  di  servir  Cristo 
in  voi;  se,  come  pur  troppo,  njon  abbiamo  degna- 
mente corrisposto  ad  un  tanto  favore,  se  non  abbiam 

degnamente  adempiuto,  un  sì   grande   ministero 

perdonateci  !  Se  la  fiacchezza  o  la  ritrosia  della  carne 
ci  ha  resi  men  pronti  ai  vostri  bisogni,  alle  vostre 
chiamate,  perdonateci!   se  Una   ingiusta  impazienza, 

Alessandro  Manzoni.  36 


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t 

-  562  - 


se  una  noja  colpevole  ci  ha  fatto  talvolta  nei  vostri 
mali  mostrarvi  un  volto  severo  e  fastidito,  perdona- 
teci !  se  la  corruttela  d'Adamo  ci  ha  fatto  trascorrere 
in  qualche  azione  che  vi  sia  stata  cagione  di  tristezza 
e  di  scandalo,  perdonateci!  Nessuno  porti  fuor  di 
qui  altra  amaritudine  che  delle  sue  proprie  colpe! 

Cosi  detto,  stette  egli  ginocchioni,  come  aspettando 
un  segno  che  l'umile  e  cordiale  suo  prego  era  ac- 
cetto ed  esaudito.  Un  singhiozzo,  un  pianto,  un  ge- 
mito universale  si  levò  da  quella  turba  a  rispondere. 
Dopo  qualche  momento  il  frate  s'alzò,  prese  la  croce 
ad  ambe  le  mani  e  l'inalberò;  scese  dalla  predelia  e 
quivi  depose  i  sandali  ;  gridò  ad  alta  voce  :  andiamo 
in  pace;  poi  intonò  il  Miserere ;  e  scalzo,  portando 
dinanzi  a  sé  quell'alta  croce  pesante,  scese  gli  sca- 
glioni del  tempio  dalla  parte  rivolta  alla  porta  me- 
ridionale del  lazzeretto  che  «bocca  dinanzi  alia  mura 
della  città,  e  s'incamminò  verso  quella.  Dietro  lui 
s'avviò  la  torma  dei  fanciulletti,  di  quelli  cioè  che 
potevano  reggersi  e  sapevano  condursi  da  sé;  poi  le 
donne,  alcune  delle  quali  tenevan  per  mano  o  nelle 
braccia  fanciulline,  o  bambini,  e  con  fioca  voce  can- 
tavano il  salmo  intonato  dal  guidatore;  poi  gli  uo- 
mini, pur  cantando  ;  poi  carri  di  convalescenti  e  delle 
bagaglie  di  quei  che  partivano;  quelle  che  in  tanta 
confusione  s'eran  potuto  serbare  e  raccogliere.  Ultimo 
veniva  quell'altro  cappuccino  che  abbiamo  menzio- 
nato, con  un  gran  vincastro  in  mano;  e  coi  cenni 
di  quello,  con  gli  occhi  e  con  la  voce  teneva  in  sesto 


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563 


il  convoglio.  Era  questi  un  Padre  Michele  Pozzobo- 
nelli,  il  coadiutore  più  autorevole,  e  come  il  primo 
ministro  del  Padre  Felice,  in  quel  regno  di  desola- 
zione. 

Fermo,  tosto  ch'ebbe  veduto  questo  scender  dal 
tempio,  e  notato  da  che  parte  s'avviava,  entrò  di 
nuovo  fra  le  capanne  per  pigliare  i  passi  innanzi, 
senza  dare  né  ricever  disturbo,  e  sboccar  poi  di  nuovo 
su  la  strada  per  dove  la  processione  doveva  passare. 
Dalla  porta  meridionale  al  tempio  v'era  infatti  come 
una  strada,  uno  spazio  che  s'era  lasciato  sgombro  di 
capanne  per  dar  passaggio  ai  carri  degli  infermi,  che 
per  lo  più  entravano  da  quella  porta,  e  da  quello 
spazio  poi  si  distribuivano  a  dritta  e  a  sinistra,  come 
si  poteva.  Fermo  riuscì  su  quella,  al  mezzo  incirca, 
e  vide  venire  il  vecchio  crocifero,  lo  vide  passare, 
vide  passare  i  ragazzi  e  poi  con  un  gran  battito  di 
cuore  esaminò  le  donne,  che  pur  passavano;  e  lo 
potè  fare  a  suo  agio,  perchè  elle  procedevano  a  due 
a  due.  Passa,  passa;  guarda,  guarda;  qui  non  v'è, 
qui  né  pure:  più  che  la  metà  è  passata;  poche  ne 
rimangono;  compajono  le  ultime  della  fila  femminile  ; 
ecco  gli  uomini  ;  Lucia  non  v'era.  Quanta  speranza 
svanita!  Rimanevano  però  i  carri  ancora:  Fermo  gli 
vedeva  venire;  e  i  primi  erano  carichi  di  donne. 
Stette  dunque  aspettando  ;  lasciò  passare  la  schiera 
degli  uomini  ;  guardò  ad  uno  ad  uno  quei  carri.  Pas- 
savano lentamente,  si  arrestavano  talvolta,  come  ac- 
cade nelle  processioni  e  nelle  marce  d'ogni  genere, 


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—     564     — 

di  modo  che  Fermo  potè  aver  la  trista  certezza  che 
nessuna  di  quelle  donne-  era  sfuggita  alla  sua  vista, 
e  che  Lucia  non  v'era.  Le  braccia  gli  caddero  quando 
si  vide  finire  in  mano  l'unico,  o  almeno  il  più  forte 
filo  delle  sue  speranze.  Anche  prima  di  vedere  tra- 
scorrere quella  per  lui  sì  trista  rassegna,  egli  sen- 
tiva pur  troppo  quanto  era  più  probabile  che  Lucia 
fosse  nel  numero  dei  tanti  portati  fuora  dal  lazze- 
retto sui  carri,  che  dei  pochi  risanati:  ma  pure,  come 
si  suole,  egli  metteva  il  suo  desiderio  sul  guscio  della 
speranza  e  faceva  traboccare  le  bilance  da  quella 
parte.  Ma  ora  egli  credeva  di  dovere  esser  certo  che 
Lucia  non  era  tra  i  guariti,  né  tra  i  convalescenti: 
la  contingenza  più  lieta  per  lui,  Tunica  sua  speranza 
(quale  speranza  !)  era  ormai  ch'ella  fosse  ivi  languente, 
ma  viva.  Passato  tutto  il  convoglio,  passato  il  Padre 
Michele,  Fermo  si  mise,  senza  troppo  pensare  dove 
andasse,  su  quella  via  rimasta  sgombra,  e  le  sue 
gambe  lo  portarono  dinanzi  al  tempio.  Quivi  gli  ven- 
nero alla  mente  le  parole  del  buon  frate  Cristoforo: 
Se  non  ve  la  scorgi,  fa  cuore  tuttavia....  Cercala  con 
rassegnazione (l).  Si  prostrò  su  gli  scaglioni  del  tempio, 


(')  Nel  precedente  capitolo,  che  è  il  settimo  del  tomo 
q  mrto,  il  Manzoni,  tra  le  altre  cose,  descrisse  l'incontro 
di  Fermo  col  Padre  Cristoforo  nel  lazzeretto.  Ma  di  quel 
capitolo  non  restano  che  dei  frammenti;  e  la  scena  del- 
l' incontro  in  gran  parte  è  perita.  Eccone  un  saggio:  «  Gran 
Dio  !  »  (è  il  Padre  Cristoforo   che  parla)  «  questo  -flagello 


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-     565     - 

fece  a  Dio  una  preghiera,  o,  per  dir  meglio,  un  vi- 
luppo di  parole  scompigliate,    di  frasi  interrotte,  di 


non  corregge  il  mondo  :  è  una  grandine  che  percuote  una 
vigna  già  maledetta  :  tanti  grappoli  abbatte,  e  quei  che 
rimangono  son  più  tristi,  più  agresti,  più  guasti  di  prima. 
Tu  stesso,  qui  dove  l'uomo  non  dovrebbe  aver  cuore  che 
per  la  misericordia,  tu  odiavi  ancora  ! 

Fermo  non  disse  nulla,  ma  il  suo  volto  esprimeva  il 
pentimento. 

—  Or  va,  disse  il  Padre,  alzandosi  ;  Iddio  benedica  le 
lue  ricerche. 

—  Vuol  dire,  Padre,  ch'io  la  troverò?  richiese  Fermo 
ansiosamente,  come  se  parlasse  ad  un  uomo  che  ne  po- 
tesse saper  più  di  lui. 

—  Cercala  con  perseveranza,  rispose  il  Padre,  cercala 
con  rassegnazione.  Iddio  può  fare  che  tu  la  trovi,  ma  non 
te  V  ha  promesso. Ti  ha  promesso  di  perdonare  tutti  i  tuoi 
falli,  se  tu  perdoni  a  chi  t'ha  offeso  ;  ti  ha  promesso  di 
renderti  felice  per  sempre  al  fine  di  questa  vita,  se  tu  os- 
servi la  sua  legge.  Non  ti  basta?  Va,  e  qualunque  sia  il 
frutto  della  tua  ricerca,  vieni  a  darmene  contezza  ;  noi 
ringrazieremo  Iddio  insieme.  Così  dicendo,  egli  pose  le 
mani  su  le  spalle  di  Fermo,  e  stette  un  momento  colla 
faccia  elevata,  in  atto  di  preghiera  e  di  benedizione.  Poi, 
staccandosi,  disse  :  Intanto  io  pregherò  per  voi  :  assistendo 
a  questi  nostri  fratelli,  io  pregherò  per  voi. 

Fermo  si  prostrò  ginocchioni,  stette  un  momento,  con 
le  mani  compresse  al  volto,  piangendo  e  pregando,  s'alzò, 
guardò  intorno,  uscì  dalla  capanna,  e  si  diresse  alla  chiesa, 
come  gli  aveva  indicato  il  cappuccino.  Egli  era  scomparso, 
e  andava  cercando  intorno  dove  fosse  più  bisogno  della 
sua  assistenza».  (Ed.) 


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-     566     — 

esclamazioni,  di  domande,  di  proteste,  di  disdette, 
uno  di  quei  discorsi  che  non  si  fanno  agli  uomini, 
perchè  non  hanno  abbastanza  penetrazione  per  inten- 
derli, né  sofferenza  per  ascoltarli;  non  sono  abba- 
stanza grandi  per  sentirne  compassione  senza  di- 
sprezzo. Si  levò  di  là  più  rincorato  e  si  avviò.  Dal 
tempio  alla  porta  che  divide  il  lato  settentrionale,  a 
cui  tendeva  Fermo,  scorreva,  come  dalla  parte  op- 
posta, un  viale  sgombro  di  capanne,  e  si  sarebbe  po- 
tuto chiamare  la  via  dei  morti,  perchè  ivi  facevano 
capo  e  giravano  i  carri  che  portavano  alla  fossa  di 
San  Gregorio  le  centinaja  che  perivano  ogni  giorno 
nel  lazzeretto.  Fermo  scelse  quella  via  come  la  meno 
impedita  e  la  più  breve,  e  studiando  il  passo  alla 
meglio,  tra  rincontro  continuo  dei  carri  e  l'inciampo 
frequente  di  altri  tristissimi  ingombri,  pervenne  a  pochi 
passi  dalla  porta.  Ma  quivi  un  accorrimento  di  carri 
vuoti  che  entravano,  di  colmi  che  uscivano,  faceva  in 
quel  punto  un  tale  imbarazzo/ che  Fermo,  anziché  af- 
frontarlo, o  aspettare  lo  sgombro,  stimò  meglio  di 
entrare  tra  le  capanne  per  riuscire  di  quindi  al  fabbri- 
cato. Le  capanne  in  quel  luogo  eran  tutte  abitate  da 
donne,  ed  egli  procedeva  lentamente  d'una  in  altra, 
guardando.  Or,  mentre  passando,  come  per  un  vi- 
colo, tra  due  di  queste,  l'una  delle  quali  aveva  l'aper- 
tura sul  suo  passaggio,  e  l'altra  rivolta  dalla  parte 
opposta,  egli  metteva  il  capo  nella  prima,  sentì  ve- 
nire dall'altra,  per  lo  fesso  delle  assacce  ond'era  con- 
nessa, sentì  venire  una  voce....  una  voce,  giusto  cielo  ì 


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567 


che  egli  avrebbe  distinta  in  un  coro  di  cento  can- 
tanti, e  che,  con  una  modulazioni  di  tenerezza  e  di 
confidenza,  ignota  ancora  al  suo  orecchio,  articolava 
parole  che  forse  in  altri  tempi  erano  state  pensate 
per  lui,  ma  che  certamente  non  gli  erano  mai  state 
proferite:  Non  dubitate;  son  qui  tutta  per  voi;  non 
vi  abbandonerò  mai. 

Se  Fermo  non  mise  uno  strido,  non  fu  perchè  lo 
rattenesse  il  riguardo  di  fare  scandalo,  il  timore  di 
farsi  troppo  scorgere  e  d'essere  preso,  o  cacciato; 
fu  perchè  gli  mancò  la  voce.  Le  ginocchia  gli  tre- 
marono sotto,  la  vista-  gli  s'appannò  un  momento; 
ma  come  accade  per  lo  più  quando  dopo  una  gran 
sorpresa  rimane  qualche  cosa  d'importante  da  farsi, . 
o  da  sapere,  l'animo  gli  ritornò  tosto,  e  più  conci- 
tato di  prima.  In  tre  balzi  girò  la  capanna,  fu  su  la 
porta,  vide  una  donna  inclinata  sur  un  letto,  che  an- 
dava assestando. 

Lucia!  chiamò  Fermo,  con  gran  forza  e  sottovoce 
ad  un  tempo:    Lucia! 

Trabalzò  ella  a  quella  chiamata,  a  quella  voce, 
credette  di  sognare,  si  volse  precipitosamente,  vide 
che  non  era  sogno,  e  gridò  :  Oh  Signore  benedetto  l 
Fermo  rimase  su  la  porta,  tacito  e  ansante,  e  Lucia 
pure,  dopo  quel  grido,  stette  immota  in  silenzio  più 
tempo  che  non  bisogni  a  raccontare  in  compendio  le 
sue  vicende  dal  punto  in  cui  l'abbiamo  lasciata. 

Ella  era  sempre  rimasta  nella  casa  di  Don  Fer- 
rante; e  fino  ad  un  certo   tempo   sotto   la  vigilanza. 


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—     5*8     — 

severa  di  Donna  Prassede.  Ma,  allo  spiegarsi  della 
peste,  questa  signora,  messe  da  un  canto  tutte  le  altre 
cure,  dimenticate  tutte  le  brighe,  non  solo  le  sue 
proprie,  ma  anche  quelle  di  cui  prima  andava  tanto 
volentieri  in  cerca,  non  ebbe  più  che  un  pensiero,  di 
guardarsi  dal  pericolo  comune.  Pensò  ella  che  per 
fare  del  bene,  la  prima  condizione  è  di  essere  in  vita, 
e,  per  allora,  volle  assicurar  questa.  Quanto  al  pros- 
simo, non  pensò  più  a  regolarlo,  ma  soltanto  a  te- 
nerselo lontano,  tanto  che  non  li  comunicasse  la  pe- 
stilenza. Don  Ferrante,  invece,  persuaso  che  tutte  le 
precauzioni  immaginabili  non- avrebbero  potuto  fare 
che  la  congiunzione  di  Saturno  con  Giove  non  fosse 
avvenuta,  né  stornare  le  conseguenze  di  un  avveni- 
mento di  quella  sorte,  non  cangiò  nulla  al  suo  te- 
nore solito  di  vita,  e  contrasse  la  pestilenza,  che  (') 
in  un  giorno  lo  spicciò.  Donna  Prassede  Q  s'era  ri- 


(!)  Segue,  cancellato  :  «  lo  spicciò  in  pochissimo  tempo, 
«  Il  signor  Prospero  gli  tenne  dietro.  Lucia,  alla  quale 
«  erano  toccati  i  servigj  più  ».  E  di  nuovo:  «  Don  Ferrante 
«l'appiccò  al  suo  Prospero,  questi  ad  una  donna  di  casa, 
«e  questa  a  Lucia».  (Ed.) 

(?)  Aveva  scritto,  ma  cancellò:  «Il  primo  pensiero  di 
«  Donna  Prassede  dopo  questa  disgrazia  fu  di  congedar 
«  Prospero,  e  tutta  l'altra  gente  di  Don  Ferrante,  ma  né 
«  Prospero,  né  gli  altri  gliene  diedero  il  tempo,  perchè 
«  egli  il  primo  e  tosto  gli  altri  in  fila  s' infermarono,  e 
«  furono  ».  Segue,  pur  cancellato:  «  Donna  Prassede,  com- 
«  battuta  tra  il  timore  di  tenersi  un  appestato  in  casa  e 
«  il  timore  di  attirarvi  i  monatti,  non  risolse  nulla,  ma  stette 
■«  in  una  stanza  remota,  aspettando  che  ».  (Ed.) 


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—     5^9     — 

tirata  con  la  signora  Ghita  nella  stanza  più  remota 
della  casa  ;  Prospero,  che  alla  morte  di  Don  Ferrante 
era  certo  di  dovere  andare  a  spasso,  pensava  a  farsi 
un  po'  di  fardello  ;  il  resto  della  famiglia  seguiva  il 
suo  esempio;  e  il  povero  astrologo  sarebbe  morto 
abbandonato,  se  Lucia  non  avesse  avuta  la  carità  di 
prestargli  qualche  servigio.  Il  giorno  stesso  in  cui 
Don  Ferrante  mori,  Lucia  fu  presa  da  un  gran  so- 
pore, rimase  come  insensata,  e  cadde  senza  forze: 
Donna  Prassede  ordinò  tosto  che(')  ella  fosse  por- 
tata nella  via,  ad  aspettare  un  carro  o  una  bussola 
che  la  portasse  al  lazzeretto.  Così  fu  fatto,  e  così 
avvenne.  Lucia,  deposta  in  quella  capannuccia,  stette 
alcuni  giorni  fuori  di  sé,  senza  prender  cibo,  né  ri- 
medi, lottando  il  vigore  della  natura  con  la  violenza 
del  male,  e  non  riprese  l'uso  delle  sue  facoltà  se  non 
quando  il  male  fu  superato.  Ma  quale  risvegliamento! 
in  quel  tumulto  di  morte,  in  quello  scompiglio  di 
guai,  senza  vedere  un  volto  conosciuto,  senza  udire 
una  voce  famigliare  !  Pure  in  quel  tempo,  come  in 
tutte  le  grandi  calamità,  la  vista  o  il  racconto  e  l'a- 
spettazione continua  dei  mali  rendeva  preparati  a 
tutto  anche  gli  animi  i  meno  agguerriti  ;  questa  pre- 
parazione, la  gran  ragione  della  necessità,  la  cascag- 
gine stessa  che  il  male  aveva  lasciata  addosso  a  Lucia, 
la  fecero  avvezzare  ben  tosto  alla  sua  situazione  ;  la 


(x)  Prima  scrisse  :  «  quando  si  sentisse  appressare  un  carro 
del  lazzeretto  ».  (Ed.) 


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—     570    — 

fiducia  in  Dio  gliela  raddolcì.  La  capannuccia  non 
capiva  che  due  letti,  o  covili  che  fossero:  in  pochi 
giorni  Lucia  cangiò  più  volte  di  compagnia.  Final- 
mente, quando  ella  cominciava  a  potersi  reggere,  vi 
fu  portata  una  donna,  che  era  moglie,  anzi  vedova 
d'un  ricco  mercante  di  stoffe,  madre,  anzi  orba  di  due 
figli  :  la  peste  le  aveva  tutto  portato  via.  Questa,  ri- 
masta sola  in  casa,  e  sentendosi  pure  colpita  dal 
morbo,  aveva  chiamato  un  commissario  della  Sanità, 
che  conosceva  per  sua  buona  sorte,  e  che  per  una 
sorte  ancor  più  rara  era  un  galantuomo,  e  gli  aveva 
raccomandata  sé  e  la  sua  casa.  Egli  la  fece  chiudere 
e  sigillare,  promise  di  vegliarla,  e  fece  portare  la 
donna  al  lazzeretto,  con  tutta  quella  cura  particolare 
che  si  poteva  in  quelle  circostanze.  Lucia  assistette 
la  sua  compagna,  che  superò  pure  la  malattia,  e, 
come  è  facile  ad  intendersi,  tra  quella  che  prestava 
si  pietosi  servigj ,  e  quella  che  gli  riceveva,  ambedue 
deserte,  buone  ambedue,  s'era  formata  una  stret- 
tissima amicizia. 

La  vedova,  prima  di  venire  al  lazzeretto,  aveva 
nascosta  nella  sua  casa  una  buona  somma  di  danari, 
e  vi  aveva  lasciate  molte  mercanzie,  protette  dal  si- 
gillo pubblico,  e  ancor  più  dalla  indifferenza  dei  mo- 
natti per  le  robe  che  non  fossero  di  pronto  uso  o  di 
facile  smercio.  Trovandosi  quindi  sola  e  doviziosa,, 
ella  aveva  proposto  a  Lucia  di  tenerla  con  sé,  come 
una  sua  figlia,  e  Lucia,  ringraziando  Dio  che  le  aveva 
preparato  un  asilo,  e  la  buona  donna  che  glielo  of- 


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57i 


feriva,  lo  aveva  accettato,  ma  solo  per  qualche  tempo , 
tanto  che  potesse  aver  notizie  di  sua  madre,  e  pen- 
sare a  prendere  una  risoluzione  stabile.  Ciò.  ch'ella 
aveva  promesso  alla  sua  compagna  era  di  non  ab- 
bandonarla finch'ella  non  potesse  uscire  dal  lazze- 
retto; e  perciò  Lucia  non  s'era  unita  ai  convale- 
scenti che  erano  partiti  quel  giorno  alla  guida  del 
Padre  Felice.  Ma  la  buona  vedova,  avvezza  a  quella 
dolce  compagnia,  e  atterrita  dal  solo  pensiero  di  re- 
starne priva,  nella  desolazione,  esprimeva  di  tempo 
in  tempo  quel  suo  terrore  e  si  faceva  rinnovare  da 
Lucia  la  promessa  in  cui  trovava  la  quiete  dell'animo 
suo.  E  per  dissipare  appunto  una  di  queste  dubi- 
tanze, Lucia  aveva  dette  le  soavi  parole  che  colpirono 
l'orecchio  di  Fermo,  e  che  abbiamo  riferite. 

Fermo  era  dimorato  su  la  porta;  e  di  là  il  sua 
secondo  sguardo  s'era  rivolto  su  la  persona  alla  quale 
quelle  parole  erano  state  dirette;  e  fu  molto  contenta 
quando  vide  a  che  sesso  ella  apparteneva. 

—  Ah!  siete  viva  e  v'ho  trovata!  diss'egli,  quanda 
potè  ricuperar  la  parola;  ed  entrò  nella  capanna. 

—  Voi!  sclamò  Lucia. 

—  Son  venuto  qui  per  cercarvi,  e  v'ho  trovata  l 
rispose  Fermo. 

—  E  la  peste? 

—  L'ho  avuta. 

—  Ah  !  fece  Lucia  con  un  gran  respiro,  che  signi- 
ficava assai  più  che  un  :  me  ne  rallegro  infinitamente. 
—  Ma  come qui? 


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572 


—  Son  venuto  a  cercarvi  in  Milano,  appena  ho 
potuto  ;  m'hanno  detto  ch'eravate  qui  ;  ci  son  ve- 
nuto. 

—  Oh  Signore  !  disse  Lucia,  stringendo  le  mani 
giunte,  alzando  gli  occhi  al  cielo,  e  con  una  voce 
che  i  singhiozzi  stavano  per  interrompere.  Poi,  come 
entrata  di  repente  in  un  altro  pensiero,  chiese  ansio- 
samente: Sapete  qualche  cosa  di  mia  madre? 

—  L'ho  veduta  jeri;  è  sana,  vi  saluta,  e  potete 
credere....  era  tutta  in  pensiero  per  voi,  e  sospira 
di  vedervi. 

Lucia  rispose  con  un  altro  respiro  di  consolazione. 

Fermo  continuò  :  —  Sospira  di  vedervi,  e  crede.... 
tiene  per  sicuro Ma  voi, voi  mi  parete  stu- 
pita   ch'io  sia  venuto  a  cercarvi.  Io....  son  sempre 

lo  stesso....  non  vi  ricordate ...?  che  è  avvenuto,  Lucia? 

—  Tante  cose!  rispose  ella  sospirando. 

—  Ecco  !  disse  Fermo  :  sa  il  cielo  che  cosa  v'a- 
vranno detto  di  mei 

—  Che  importa,  rispose  Lucia,  quel  che  dica  la 
gente? 

—  Dunque.... 

—  Dunque. ...  io  credeva. . . .  che  dopo  tanto  tempo. . . . 
<lopo  tanti  guai....  non  avreste  più  pensato  a  me. 

—  L'avete  creduto?  e  me  lo  dite?  quando  son  qui.... 

—  L'ho  creduto,  disse  Lucia,  troncando  in  fretta 
le  parole  appassionate  di  Férmo,  l'ho  creduto,  perchè 
sarebbe  stato  meglio....  è  meglio. 

Lucia  aveva  sempre  tenuti    gli   occhi   bassi  ;    ma 


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573 


proferendo,  non  senza  fatica,  queste  parole,  chinò 
anche  la  testa  e  la  tenne  appoggiata  sul  petto,  come 
per  riposarsi  d'un  grande  sforzo.  * 

—  È  meglio!  disse  Fermo,  stordito  e  contristato 
di  quel  mistero,  e  guardando  fiso  nel  volto  di  Lucia, 
per  trovarvi  la  spiegazione  di  quelle  tronche  ed  oscure 
parole.  È  meglio!  che  cosa  v'ho  fatto  io?  è  colpa 
mia  se....  Non  sono  io  quello  a  cui  avete  promesso? 
Che  vi  mancava  perchè  foste  mia?  un  momento.... 
e....  ma  gli  ho  perdonato.  Non  siete  voi  più  quella....? 

Dopo  tanto  sperare!  dopo  tanto  pensare  a  voi  !  dopo 

Parlate  chiaro;  dite  che  non  mi  volete  più;  dite  il 
perchè;  non  mi  fate 

—  Fermo,  disse  con  voce  più  riposata  e  solenne 
Lucia,  che,  mentre  egli  parlava,  aveva  cercato  di  rac- 
cogliere tutte  le  sue  forze.  —  Fermo,  ascoltatemi 
tranquillamente  :  pensate  dove  siamo  :  vedete  questa 
buona  creatura  che  ha  bisogno  di  quiete:  ascoltatemi. 
Io  non  sarò  mai  di  nessuno...  e  non  posso  più  esser 
vostra. 

—  No,  non  l'avete  detta  voi  questa  parola,  ri- 
spose Fermo;  no,  che  non  l'ascolto:  che  ho  fatto  io? 
perchè?  chi  ve  l'ha  detto?  chi  è  entrato  tra  voi  e 
me?  chi  c'è  entrato?  voglio  saperlo. 

—  Zitto,  zitto,  non  andate  avanti,  per  amor  del 
cielo,  disse  Lucia.  Quando  lo  saprete,  se  siete  an- 
cora quello  di  prima,  se  temete  Dio  come  una  volta, 
non  direte  cosi. 

—  Parlate,  per  amor  del  cielo! 


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574 


—  Sapete  voi  in  che  casi,  in  che  spaventi  io  mi 
son  trovata,  in  che  pericoli? 

—  Lo  so,  lo  so,  e....  gli  ho  perdonato. 

—  Ora,  sappiate  quello  che  nessuno,  né  pure  mia 
madre,  ha  udito  finora  dalla  mia  bocca.  In  una  notte.... 
Vergine  santissima  !  qual  notte  !...  lontana  da  ogni  soc- 
corso.... senza  speranza  di  liberazione...  sola...  io  sola, 
in  mezzo....  all'inferno,  ho  guardato  in  su,  ho  do- 
mandato l'ajuto  di  quel  solo  che  può  fare  i  mira- 
coli.... ho  domandato  un  miracolo,  e  ho  dovuto  fare 
una  promessa....  mi  son  votata  alla  Madonna  che  se, 
per  sua  intercessione,  io  usciva  salva  da  quel  peri- 
colo, non sarei  mai  stata  sposa  d'un  uomo. 

—  Ahi!  che  avete  fatto!  sclamò  dolorosamente 
Fermo:  che  avete  fatto! 

—  Ho  ottenuto  il  miracolo,  riprese  Lucia:  la  Ma- 
donna mi  ha  salvata. 

—  Bastava  pregarla,  e  vi  avrebbe  salvata.  Che 
avete  fatto!  Che  avete  fatto!  Non  dovevate  fare  un 
tal  voto. 

—  L'ho  fatto:  che  giova  parlarne  più?  Che  giova 
pentirsi?  Pentirsi?  No,  no,  Dio  liberi!  Egli  pure  è 
sempre  a  tempo  a  pentirsi  d'avermi  salvata.  Può  la- 
sciarmi cadere  ancora  in  un  pericolo,  e  allora,  chi 
pregherei  io?  che  promessa  potrei  fare? 

—  Lucia,  disse  Fermo,  e  se  non  fosse  il  voto....? 
dite;  sareste  la  stessa  per  me? 

—  Uomo  senza  cuore  !  rispose  Lucia,  contenendo 
le  lagrime,  quando  mi  avreste  fatte  dire  delle  parole 


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575 


inutili,  delle  parole  che  mi  farebbero  male,  delle  pa- 
role che  sarebbero  forse  peccati,  sareste  voi  contento? 
Partite,  scordatevi  di  me:  non  eravamo  destinati; 
ci  rivedremo  lassù.  Dopo  queste  parole,  le  lagrime 
soverchiarono,  e  fra  i  singhiozzi  ella  continuò:  dite  „ 
a  mia  madre  ch'io  son  guarita,  che  ho  trovata  questa 
buona  amica  che  pensa  a  me  ;  ditele  che  spero  ch'ella 
sarà  preservata  da  questi  guai,  che  Dio  provvederà 
a  tutto,  e  che  ci  rivedremo.  Partite,  per  amor  del  cielo; 
e  non  vi  ricordate  di  me  che  quando  pregate  il  Si- 
gnore. 

—  Lucia,  disse  Fermo,  con  tuono  riposato  e  so- 
lenne egli  pure  ;  noi  siamo  due  poveri  figliuoli  senza 
studio:  quel  brav'uomo,  quel  gran  religioso,  quel 
nostro  padre,  il  Padre  Cristoforo 

—  Ebbene? 

—  È  qui,  nel  lazzeretto,  ad  assistere  gli  appe- 
stati. 

—  È  qui  !  disse  Lucia  :  ah  !  non  mi  fa  maraviglia  : 
oh  se  potessi  vederlo,  sentir  la  sua  voce!  È  egli  sano? 

—  È  in  piedi,  disse  Fermo,  ma  il  suo  volto 

Dio  voglia  che  sieno  gli  anni  e  le  fatiche  ! 

—  Voi  l'avete  veduto!  disse  Lucia. 

—  L'ho  veduto  e  gli  ho  parlato,  rispose  Fermo  : 
egli  mi  ha  fatto  animo  a  cercarvi,  mi  ha  fatto  pro- 
mettere che  tornerei  a  rendergli  conto  delle  mie  ri- 
cerche. Corro  da  lui:  egli  ci  ha  sempre  ajutati;  e 
spero  che  ci  ajuterà  anche  in  questa  occasione. 

—  Che  dite  voi?  che  volete  ch'egli   faccia?  pre- 


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—     576     — 

ghiamo  Dio  che  ci  ajuti....  che  vi  ajuti  a  sopportare» 
Ditegli  che  io  ho  sempre  pregato  per  lui;  che,  se  può, 
venga  a  trovarmi,  a  consolarmi,  e  voi voi 

Non  tornate  più  qui,  per  amor  del  cielo,  voleva 
ella  dire,  ma  non  lo  disse  (l).  Dopo  fatto  quel  voto 
Lucia  aveva  sempre  creduto  di  essersi  legata  irrevo- 
cabilmente, e  non  aveva  supposto  mai  che  alcuna  auto- 
rità potesse  annullare  un  patto  col  cielo;  aveva  ri- 
spinto  come  colpevole  il  pensiero  stesso,  e  non  aveva 
mai  confidato  a  persona  il  suo  doloroso  segreto.  Ma 
quando  Fermo  parlò  d'una  speranza  nel  Padre  Cri- 
stoforo, quella  stessa  speranza  confusa,  entrò  nel  cuore 
di  Lucia;  le  balenò  nella  mente  un:  chi  sa?  intra- 
vide come  non   impossibile  che  il  Padre   Cristoforo 

potrebbe  trovar  qualche  mezzo e  in  quel  dubbio 

ella  stimò  inutile  di  dire  risolutamente  a  Fermo  :  non 
tornate.  Egli  partì  senza  far  altre  parole,  come  un 
uomo  che  pensa  di  tornar  ben  tosto,  e  Ravviò  alia 
capanna  del  buorl  frate. 

La  vedova,  compagna  di  Lucia,  era  rimasta  con 
gli  occhi  sbarrati  a  guardare  quel  personaggio  sco- 
nosciuto e  ad  udire  quel  dialogo,  nuovo  per  lei; 
giacché  Lucia,  la  quale,  come  si  è  potuto  vedere  in 
altre  parti  di  questa  storia,  era  molto  discreta,   non 


(*)  Segue,  cancellato:  «Quando  Lucia  nella  sua  ango- 
«  scia  aveva  fatto  quel  voto,  non  credeva  (e,  se  mal  non 
«  mi  ricordo,  abbiam  fatta  questa  riflessione  a  suo  tempo) 
«  che».  (Ed.) 


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—     577     — 

le  aveva  mai  parlato  né  della  sua  promessa  di  ma- 
trimonio, né  per  conseguenza  delle  vicende  conse- 
guenti. Ma  ora  non  potè  scusarsi  di  fargliene  il  rac- 
conto :  e,  a  dir  vero,  la  disposizione  d'animo  di  Lucia, 
in  quel  momento  s'accordava  assai  bene  con  le  voglie, 
curiose  e  benevole  ad  un  tempo,  della  vedova.  Quelle 
memorie,  compresse  e  rispinte  pertanto  tempo,  s'erano 
ora  presentate  tutte  in  tanta  folla  e  con  tanto  impeto 
all'animo  di  Lucia,  che  il  parlarne  diveniva  per  lei 
quasi  uno  sforzo  necessario.  Dopo  aver  dunque  ri- 
sposto alla  meglio  ai  rimproveri  che  la  vedova  le 
fece  di  un  tanto  segreto  tenuto  con  lei,  cominciò  il 
racconto,  che  fu  spesso  interrotto  dai  suoi  singhiozzi 
e  dalle  esclamazioni  e  dalle  inchieste  della  ascolta- 
trice  (l). 


(')  È  il  principio  del  capitolo  Vili  del  tomo  IV.  (Ed.) 


Alessandro  Manzoni.  37 


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XXIII. 

Scioglimento  del  voto  di  Lucia  e  morte  di 
Don  Rodrigo. 


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Fermo  intanto  era  giunto  alla  capannuccia  del  Padre 
Cristoforo,  e  avendolo  veduto  lì  fuori,  che,  pregando, 
chiudeva  gli  occhi  ad  un  morente,  si  era  ritirato  nella 
capannuccia,  senza  dar  voce,  né  far  segno  che  turbasse 
quel  pio  e  doloroso  uficio.  Quando  il  poveretto  fu  spac- 
ciato, Fermo  si  mostrò,  e  il  Padre  Cristoforo  andò  a 
lui,  che  tosto  gli  racccmtò  la  lietissima  scoperta  ch'egli 
aveva  fatta  di  Lucia  viva  e  sana  e  quell'altra  scoperta 
che  era  venuta  come  a  tradimento  a  guastargli  una 
tanta  consolazione.  Benché  egli,  in  questa  parte  del 
racconto,  volesse  aver  l'aria  di  chi  propone  un  dubbio 
superiore  ai  suoi  lumi,  aspettando  il  giudizio  d'un 
sapiente,  pure  non  lasciò  scappare  nessuna  occasione 
di  qualificare  d'imprudenza  e  di  pazzia  quel  voto,  che 
veniva  per  lui  così  male  a  proposito.  Così  faceva  sen- 
tire che,  per  la  parte  sua,  il  giudizio  era  bell'e  fatto  ; 
e  intanto  guardava  attentamente  al  volto  del  Padre 
Cristoforo,  per  iscoprireun  pensiero,  dal  quale  avrebbe 
potuto  dipendere  la  sua  sorte.  Ma  non  potendo  leg- 
gervi nulla,  terminò  con  una  aperta  domanda:  Che 


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-     582.   - 

ne  dice,  Padre?  Il  Padre  stava  pensoso:  combattuto 
fra  il  desiderio  di  rivedere  Lucia  e  la  speranza  di 
consolarla  forse,  e  il  timore  di  rendersi  colpevole, 
abbandonando  per  qualche  tempo  i  suoi  infermi.  Dopo 
essere  cosi  rimasto  alquanto,  pronunziò  ad  alta  voce 
la  conclusione  del  dibattimento  che  era  stato  tra  i 
suoi  pensieri.  Ho  un  dovere  con  quella  creatura,  dis- 
s'egli.  Dio  l'aveva  in  altri  tempi  indirizzata  a  me, 
ed  ora  non  me  l'ha  fatta  venir  così  presso  perch'io 
ricusi  di  esserle  utile.  Andiamo. 

Lasciò  per  la  seconda  volta  i  suoi  ammalati  alla 
cura  del  Padre  Vittore  e  si  mosse  con  Fermo. 

Questi  andava  innanzi  tacito,  facendo  la  guida  per 
quel  triste  labirinto,  e  dirigendosi  al  viale  per  cui 
era  passato  la  prima  volta,  e  il  frate,  pur  tacito,  gli 
teneva  dietro. 

Gli  oggetti,  che  ad  ogni  mutar  di  passo  si  succe- 
devano alla  vista,  tenevano  occupato  l'animo  di  quella 
compunzione  che  non  trova  parole;  e  in  quel  mo- 
mento su  quel  mesto  spettacolo  pareva  che  scendesse 
e  pesasse  una  mestizia  più  cupa  e  più  grave  dell'or- 
dinario. 

Una  nuvola  comparsa  all'occidente  aveva  a  poco  a 
poco  coperto  tutto  il  cielo  :  e  alla  oscurità  crescente 
avresti  detto  che  il  giorno  era  finito,  se  il  sole,  lon- 
tano ancor  forse  due  ore  dal  tramonto,  non  avesse 
mostrato,  come  dietro  ad  un  velo  spesso  ed  immobile, 
il  suo  disco  grande  e  biancastro,  donde  partivano  non 
vivi  raggi  e  diretti,  ma  un  barlume  scialbo  e  circonfuso, 


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-     583     - 

che  mandava  (')  una  caldura  morta  e  gravosa.  L'aria 
non  dava  un  soffio,  non  si  vedeva  muovere  una  tenda 
delle  baracche,  né  piegar  la  cima  d'un  pioppo  nelle 
campagne  d'intorno.  Solo  si  vedeva  la  rondine,  sdruc- 
ciolando rapidamente  dall'alto,  rasentare  con  l'ali  tese, 
per  un  picciol  tratto,  la  superfìcie  ingombra  e  con- 
fusa di  quel  terreno  ;  e  tosto  risalire,  volteggiare  per 
l'aria  in  cerchi  veloci  e  piombar  di  nuovo.  Un'afa 
faticosa  prostrava  gli  animi  con  una  oppressione  straor- 
dinaria. La  lotta  del  morire  era  più  affannosa;  i  ge- 
miti dei  languenti  erano  soppressi  dall'ambascia;  il 
movimento  delle  opere  era  stanco,  rallentato,  come 
sospeso;  quella  dubbia  luce  dava  al  colore  della  morte 
e  della  infermità  un  non  so  che  di  più  livido;  un 
non  so  che  di  più  squallido  all'abbattimento  onde 
erano  atteggiate  le  figure  dei  sani;  e  su  quel  luogo 
di  desolazione  non  era  forse  ancor  passata  un'ora 
amara  al  par  di  questa. 

Eppure  quegli  che  sopravvissero  rammentarono 
quell'ora  con  gioja  per  tutta  la  vita;  era  la  prepara- 
zione d'una  burrasca,  che  scoppiò  la  notte,  e  menò 
poi  per  due  giorni  una  pioggia  continua,  dopo  la 
quale  il  contagio  cessò  quasi  ad  un  tratto.  Sotto  il 
fascio  di  quella  comune  gravezza,  procedevano  il 
giovane  e  il  vecchio,  con  la  fronte  bassa  il  primo  e 
con  l'animo  diviso  fra  lo  studio  della  via,  fra  l'orrore 


(')  Il  Manzoni  sopra  mandava  ha  scritto  pioveva.  (Ed.) 


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—     584     — 

delle  cose  che  vedeva  e  l'ansietà  del  suo  destino  fu- 
turo; e  l'altro  levando  di  tratto  in  tratto  al  cielo 
la  faccia  smunta,  come  per  cercare  un  più  libero  re- 
spiro, e  per  secondare  con  quell'atto  una  speranza 
interna.  —  È  qui,  disse  Fermo  con  voce  tremante, 
accennando  la  capanna;  e  v'entrarono,  che  Lucia,  col 
volto  lagrimoso,  stava  proseguendo  il  suo  racconto. 
Al  riveder  Fermo  ella  trasalì,  e  al  vedere  il  Padre 
Cristoforo  balzò  dal  saccone  di  paglia,  ov'era  seduta, 
e  gli  si  gettò  incontro  sulla  porta.  —  Oh  Padre!... 
Signore  Iddio  !  come  sta  ella?  soggiunse  poi  tosto, 
vedendogli  i  segni  della  morte  in  volto.  —  Come 
Dio  vuole,  mia  buona  figlia,  rispose  il  frate  ;  e  presto 
spero  starò  bene  affatto. 

—  Come?....  disse  Lucia. 

—  Come  Dio  vorrà,  riprese  egli  tosto:  Parliamo 
ora  di  voi,  per  cui  son  venuto. 

—  Oh  Padre  !  quanto  tempo  !  quante  cose  !  disse 
Lucia. 

—  Quante  cose!  ripetè  il  frate.  E  certo,  se  fossimo 
là  ai  vostri  monti,  seduti  in  su  la  porta  della  casetta  di 
quella  buona  Agnese,  mi  lascerei  andar  volentieri  a 
farne  lunghi  discorsi.  Ma  qui  il  tempo  è  misurato. 
E  tosto,  trattala  in  disparte  in  un  angolo  della  ca- 
panna, continuò  :  Fermo  mi  ha  detto  che  avete  fatto 
voto  di  non  maritarvi. 

—  È  vero,  rispose  Lucia  arrossando. 

—  Avete  voi  pensato  allora,  proseguì  il  vecchio, 
che  voi  avevate  un  impegno  solenne  di  matrimonio, 


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-     585     — 

e  che  offerivate  alla  Vergine  una  libertà  della  quale 
avevate  già  disposto?  E  che  riprendevate  una  parola 
già  data,  senza  sapere  se  quegli  che  l'aveva  ricevuta 
avrebbe  consentito  a  restituirvela  ? 

—  Ho  fatto  male?  chiese  Lucia  con  sorpresa,  e 
con  un  rimorso  che  non  era  tutto  doloroso. 

—  Avete  voi  confidato  a  nessuno  questo  vostro 
nuovo  impegno?  interrogò  di  nuovo  il  frate:  avete 
chiesto  consiglio? 

—  Non  ho  ardito,  rispose  Lucia. 

—  Ed  ora,  proseguì  egli,  che  vi  dice  il  vostro 
cuore  di  quel  voto? 

—  Che  vuol  ella  che  me  ne  dica?  rispose  Lucia, 
arrossando  più  che  mai  e  chiudendo  quasi  del  tutto 
gli  occhi,  ch'erano  già  chini  a  terra. 

—  Se  non  lo  aveste  fatto,  lo  fareste? 

—  Se....  non  fossi  in  quel  pericolo....  in  un  grande 
pericolo....  e  poi  se  non  è  permesso....  non  lo  farei. 

—  Se  non  lo  aveste  fatto,  sareste  tuttavia  riso- 
luta di  sposare  quell'uomo  a  cui  avevate  promesso  ? 

—  Io  credeva....  che  fosse  male  il  pensarvi....  ma 
poi  ch'ella  me  ne  domanda....  oh  Padre  sì! 

Fermo  intanto  adocchiava  ansiosamente  verso  quel- 
l'angolo, e  la  vedova  anch'essa  stava  in  una  tacita 
aspettazione.  Il  frate  si  fece  presso  a  loro,  accennando 
a  Lucia,  che  lo  seguì  con  gli  occhi  bassi.  Allora  egli, 
con  voce  spiegata,  le  rivolse  questa  nuova  interroga- 
zione :  Credete  voi  che  la  santa  madre  Chiesa  ha  ri- 
cevuta da  Dio  l'autorità  di  sciogliere  e  di  legare? 


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—     5«6     — 

—  Lo  credo,  rispose  Lucia. 

—  Credete  voi  dunque  che  ella  possa  in  suo  nome 
ricevere,  confermare,  o  rimettere  i  voti  che  gli  son 
fatti,  interpretando  la  sua  volontà  in  questo,  come  nel 
perdono  dei  peccati,  e  usando  una  potestà  che  tiene 
da  lui? 

—  Lo  credo,  rispose  ancora  Lucia. 

—  Domandate  voi  alla  Chiesa  di  essere  sciolta  dal 
voto  di  verginità,  che  avete  fatto,  o  inteso  di  fare  alla 
Madre  santissima  di  Dio? 

—  Lo  domando,  rispose  Lucia,  con  una  prontezza, 
alla  quale  Fermo  non  ebbe  nulla  a  desiderare,  e  che 
potrà  parere  forse  troppa  a  chi,  non  essendo  stato 
presente  a  quell'atto,  non  rifletta  che  la  solennità  della 
richiesta,  l'aria  autorevole  di  chi  l'ha  fatta,  non  la- 
sciavan  luogo  a  titubamenti  leziosi,  e  che  ivi  la  ve- 
recondia doveva  essere  tutta  nella  sincerità. 

—  Ed  io,  disse  allora  il  buon  frate  con  tuono 
ancor  più  solenne,  prego  umilmente  la  Vergine,  re- 
gina di  tutti  i  santi,  che  abbia  sempre  per  aggradito 
il  sentimento  del  vostro  divoto  e  travagliato  sacri- 
ficio, e  lo  offra  al  suo  e  nostro  Signore  ;  e  con  l'au- 
torità, che  la  Chiesa  mi  ha  affidata,  vi  sciolgo  dal 
voto,  annullando  ciò  che  vi  potè  essere  d'inconsi- 
derato, e  liberandovi  da  ogni  obbligazione,  se  ne  avete 
contratta. 

Non  parleremo  dell'effetto  che  queste  parole  pro- 
dussero nell'animo  dei  due  giovani  :  la  buona  vedova 
era  tutta  commossa.  Il  frate  continuò,  rivolto  a  Lucia: 


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-     587     - 

Siate  moglie  pudica,  moglie  affettuosa,  moglie  con- 
tenta di  quella  contentezza  che  conduce  all'eterna. 
Questo  Iddio  ha  voluto  e  vuole  da  voi.  Quindi 
levò  le  mani  verso  i  due  giovani,  come  per  parlare 
ad  ambedue.  Essi  caddero  ginocchioni  ai  suoi  piedi, 
ed  egli,  tutto  assorto,  e  quasi  senza  avvedersi  di  quel- 
Tatto,  stese  le  mani  su  le  loro  teste  e  stette  un  mo- 
mento pensoso.  Erano  nel  fondo  della  capanna,  come 
chiusi  tra  quello  e  il  letto  della  vedova,  che  teneva 
gli  occhi  fissi  su  di  loro  ;  i  giovani  inginocchiati  con 
la  fronte  bassa,  e  il  frate  ritto  dinanzi  a  loro,  con  le 
spalle  rivoltate  alla  porta. 

—  Figliuoli,  disse  egli,  che  ho  amati  e  che  amerò 
sempre,  ricordatevi  che  se  la  Chiesa  vi  assolve  da 
un  sagrificio,  non  lo  fa  per  procurarvi  le  consola- 
zioni di  questa  vita,  che  deve  esser  tutta  un  sagri- 
ficio, ma  per  mettervi  su  la  via  della  santificazione. 
Amatevi,  come  compagni  di  viaggio,  col  pensiero  di 
avere  a  lasciarvi,  con  la  speranza  di  ritrovarvi  an- 
cora e  per  sempre.  Rendete  grazie  al  cielo,  che  vi  ha 
condotti  a  questo  stato  non  con  le  allegrezze  turbo- 
lente e-passeggiere,  ma  coi  travagli  e  fra  le  miserie, 
per  disporvi  ad  una  gioja  raccolta,  temperata  e  con- 
tinua. E  nei  vostri  discorsi  qualche  volta,  e  sempre 
nelle  vostre  preghiere,  ricordatevi.... 

Queste  parole,  che  rinchiudevano  come  un  pre- 
sentimento e  un  tristo  addio,  rinnovarono  nell*  animo 
di  Lucia  l'impressione  dolorosa  che  le  aveva  pro- 
dotta l'aspetto  di  chi  le  proferiva.  Levò  ella  gli  occhi 


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-     588     - 

quasi  involontariamente,  tutta  commossa,  a  riguar- 
darlo di  nuovo;  ma  insieme  con  l'oggetto  che  cer- 
cava il  suo  sguardo,  un  altro  inaspettato  le  se  ne  of- 
ferse su  la  porta  della  capanna,  alla  vista  del  quale 
ella  mandò  uno  strido  repentino.  Tutti  gli  occhi  si 
rivolsero  a  quella  parte  donde  le  era  venuta  quella 
subita  commozione  (1). 

Ritto  sul  mezzo  dell'uscio  stava  un  uomo,  smorto, 
rabbuffato  i  capegli  e  la  barba,  scalzo,  nudo  le  gambe, 
le  braccia,  il  petto,  e  nel  resto  mal  coperto  di  avanzi 
di  biancheria,  pendenti  qua  e  là  a  brani  e  a  filaccica; 
stava,  con  la  bocca  semi-aperta,  guatando  le  persone 
raccolte  nella  capanna,  con  certi  occhi,  nei  quali  si 
dipingeva  ad  un  punto  l'attenzione  e  la  dissensa- 
tezza; dal  volto  traspariva  un  misto  di  furore  e  di 
paura,  e  in  tutta  la  persona  una  attitudine  di  curio- 
sità e  di  sospetto,  uno  stare  inquieto,  una  disposi- 
zione a  levarsi,  non  si  sarebbe  saputo  se  per  fuggire, 
o  per  inseguire.  Ma  in  quello  sfiguramento  Lucia 
aveva  tosto  riconosciuto  Don  Rodrigo,  e  tosto  lo  ri- 
conobbero gli  altri  due.  Quell'infelice,  da  una  ca- 
panna, posta  lungo  il  viale,  nella  quale  era  stato  git- 
tato,  e  dove  era  rimasto  tutti  quei  giorni  languente 
e  fuor  di  sé,  aveva  veduto  passarsi  davanti  Fermo  e 
poi  il  Padre  Cristoforo,  senza  esser  veduto  da  loro. 


(*)  Qui  finisce  il  capitolo  Vili  e  incomincia  quello  IX. 

(Ed.) 


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—     589     — 

Quella  comparsa  aveva  suscitato  nella  sua  mente  scon- 
volta l'antico  furore  e  il  desiderio  della  vendetta, 
covato  per  tanto  tempo,  e  insieme  un  certo  spavento, 
e  con  questo  ancora  una  smania  di  accertarsi,  di  af- 
ferrare distintamente  con  la  vista  quelle  immagini 
odiose,  che  le  erano  come  sfumate  dinanzi.  In  una  tal 
confusione  di  passioni,  o  piuttosto  in  un  tale  delirio, 
s'era  egli  alzato  dal  suo  miserabile  strame,  e  aveva 
tenuto  dietro  da  lontano  a  quei  due.  Ma  quando 
essi,  uscendo  dalla  via,  s' internarono  nelle  capanne, 
il  frenetico  non  aveva  ben  saputa  ritenere  la  traccia 
loro,  né  discernere  il  punto  preciso  per  cui  essi 
erano  entrati  in  quel  labirinto.  Entratovi  anch' egli 
da  un  altro  punto,  poco  distante,  non  vedendo  più 
quegli  che  cercava,  ma  dominato  tuttavia  dalla  stessa 
fantasia,  era  andato  a  guardare  di  capanna  in  ca- 
panna, tanto  che  s'era  trovato  a  quella  in  cui,  met- 
tendo il  capo  su  la  porta,  aveva  riveduto  in  iscorcio 
quelle  figure.  Quivi,  ristando  stupidamente  intento, 
udì  quella  voce  ben  conosciuta,  che  nel  suo  castello 
aveva  intuonata  al  suo  orecchio  una  predica,  tron- 
cata allora  da  lui  con  rabbia  e  con  disprezzo,  ma 
che  aveva  però  lasciata  nel  suo  animo  una  impres- 
sione che  s'era  risvegliata  nel  tristo  sogno  precursore 
della  malattia.  Quella  voce  lo  teneva  immobile,  a 
quel  modo  che  altre  volte  si  credeva  che  le  biscie 
stessero  all'incanto,  quando  Lucia  s'accorse  di  lui. 
Dopo  la  sorpresa,  il  primo  sentimento  di  quella 
poveretta  fu  una  grande  paura  :  il  primo  sentimento 


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—     59o    — 

del  Padre  Cristoforo  e  di  Fermo,  bisogna  dirlo  a 
loro  onore,  fu  una  grande  compassione.  Entrambi  si 
mossero  verso  queir  infermo  stravolto,  per  soccorrerlo 
e  per  vedere  di  tranquillarlo;  ma  egli,  a  quelle 
mosse,  preso  da  un  inesprimibile  sgomento,  si  mise 
in  volta  e  a  gambe  verso  la  strada  di  mezzo  ;  e,  su  per 
quella,  verso  la  chiesa.  Il  frate  e  il  giovane  lo  segui- 
rono fin  sul  viale,  e  di  quivi  lo  seguivano  pure  col 
guardo:  dopo  una  breve  corsa  egli  s'abbattè  presso 
ad  un  cavallo  dei  monatti  che,  sciolto,  con  la  ca- 
vezza pendente  e  col  capo  a  terra,  rodeva  la  sua  pro- 
fenda: il  furibondo  afferrò  la  cavezza,  balzò  su  la 
schiena  del  cavallo,  e  percotendogli  il  collo,  la  testa, 
le  orecchie  coi  pugni,  la  pancia  con  le  calcagna,  e 
spaventandolo  con  gli  urli,  lo  fece  muovere  e  poi 
andare  di  tutta  carriera.  Un  romore  si  levò  air  in- 
torno, un  grido  di  piglia,  piglia  ;  altri  fuggiva,  altri 
accorreva  per  arrestare  il  cavallo,  ma  questo,  spinto 
dal  demente,  e  spaventato  da  quei  che  tentavano  di 
avvicinarglisi,  s'innalberava  e  scappava  vie  più  verso 
il  tempio. 

I  due,  dei  quali  egli  era  stato  altre  volte  nemico, 
tornarono  tutti  compresi  alla  capanna,  dove  Lucia 
stava  ancora  tutta  tremante. 

—  Giudizii  di  Dio  !  disse  il  Padre  Cristoforo  :  pre- 
ghiamo per  quell'infelice.  Dopo  un  momento  di  si- 
lenzio, il  pensiero  che  venne  a  tutti  fu  di  concertare 
insieme  quello  che  era  da  farsi:  e  i  concerti  furon 
questi  :  che  Fermo  partirebbe  tosto,  giacché  ivi  non 


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—     59i     — 

v'era  ospitalità  da  offerirgli,  cercherebbe  un  ricovero 
per  la  notte  in  qualche  albergo,  e  all'  indomani  si  ri- 
metterebbe in  via  pel  suo  paese,  porterebbe  ad  Agnese 
le  nuove  della  sua  Lucia,  andrebbe  poi  a  Bergamo 
a  disporre  la  casa  dove  intendeva  di  stabilirsi  con  la 
moglie  e  con  la  suocera;  e  tornerebbe  poi  ad  aspet- 
tare Lucia  nel  suo  paese,  dove  dovevano  celebrarsi 
le  nozze  :  ne  avvertirebbe  intanto  Don  Abbondio,  il 
quale  era  da  sperarsi  che,  invece  di  frapporre  nuove 
difficoltà,  sarebbe  vergognoso  di  quelle  che  aveva 
frapposte  altra  volta.  Quanto  a  Lucia,  ella  protestò, 
prima  d'ogni  cosa,  che  non  si  staccherebbe  dalla  sua 
buona  compagna,  fin  che  questa  non  fosse  affatto 
guarita,  e  ristabilita  nella  sua  casa.  Il  Padre  la  lodò, 
Fermo  non  v'ebbe  nulla  a  ridire,  e  la  vedova,  tutta 
commossa,  promise  che  accompagnerebbe  essa  Lucia 
a  casa  e  la  consegnerebbe  a  sua  madre. 

—  E  voglio*  farle  il  corredo,  aggiunse  all'orecchio 
del  Padre,  a  cui  aveva  fatto  cenno  di  avvicinarsi. 

—  Dio  vi  benedica,  le  rispose  il  buon  vecchio. 

—  E  tu,  disse  poi  a  Fermo,  che  stai  qui  tardando? 
il  tempo,  come  vedi,  si  fa  più  nero  e  la  notte  si  av- 
vicina: affrettati  di  cercare  un  ricovero. 

Convien  dire  ancora,  ad  onore  di  Fermo,  che  in 
quel  momento  non  gli  doleva  tanto  lo  staccarsi  da 
Lucia,  appena  trovata,  è  vero,  ma  ch'egli  contava  di 
riveder  presto,  quanto  dal  Padre  Cristoforo,  che  re- 
stava lì  a  morire. 

—  Ci  rivedremo,  Padre?   disse  il  buon  giovane. 


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—     592     — 

—  Se  Dio  vorrà  e  quando  Egli  vorrà,  rispose  il 
frate,  vincendo  una  commozione,  che  andava  cre- 
scendo. Va,  va,  che  non  c'è  tempo  da  perdere. 

Fermo  disse,  con  voce  accorata,  riverisco,  al  Padre, 
che  lo  benedisse  e  gli  strinse  la  mano:  disse  addio 
a  Lucia  e  alla  vedova,  sopprimendo  :  un  arrivederci 
presto,  che  gli  veniva  su  le  labbra  ;  poi  spiccatosi  in 
fretta,  partì. 

—  Vi  raccomando  l'una  all'altra,  buone  creature, 
disse  il  frate,  e  fece  atto  pure  di  andarsene  ;  ma,  nel 
dare  a  Lucia  uno  sguardo  di  commiato,  vide  nel- 
l'aspetto di  lei,  mista  alla  commozione,  una  grande 
inquietudine;  s'avvisò  tosto  di  ciò  che  poteva  esserne 
la  cagione,  e  disse:  Di  che  state  inquieta? 

—  Quell'uomo....!  disse  Lucia. 

—  Poveretto  !  rispose  il  frate,  non  è  più  in  caso 
di  far  paura  a  nessuno  :  non  lo  vedrete  più,  siatene 
certa.  Pure,  soggiunse  dopo  d'aver  pensato  un  mo- 
mento, per  ogni  altro  evento,  sarà  meglio  ch'io  vi 
raccomandi  a  qualcheduno  dei  nostri.  Così  detto,  uscì, 
girò  un  poco  in  ronda,  finché  trovò  un  cappuccino, 
e  condottolo  alla  capanna,  gli  mostrò  le  due  donne, 
e  gli  disse:  Sono  due  derelitte:  vi  prego  di  averne 
una  cura  particolare.  Vi  lascio  con  Dio,  disse  poi 
alle  donne,  e  uscì  dalla  capanna.  Lucia  lagrimando 
lo  seguiva,  egli  le  imponeva  che  tornasse,  e  così  si 
trovarono  entrambi  sulla  grande  strada,  dove  videro 
una  folla  di  monatti,  che  accorreva  in  tumulto,  gri- 
dando: aspetta,  aspetta,  ad  altri  monatti,  che  guida- 


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—     593     — 

vano  un  carro  verso  la  porta.  Il  carro  si  fermò  quasi 
davanti  ai  nostri  due  amici  ;  quei  monatti  sopraggiun- 
sero tosto  ansanti;  e  due,  che  portavano  un  morto, 
lo  gittarono  sul  carro,  dicendo  un  d'essi  :  mettetelo 
bene  in  fondo  costui,  che  non  torni  a  cavallo,  a  farci 
tribolare. 

—  Che  diavolo  è  stato?  disse  più  d'uno  di  quei 
carrettieri. 

—  Il  diavolo,  rispose  il  monatto,  l'aveva  in  corpo 
costui:  è  andato  su  e  giù  Anch'ebbe  fiato;  se  durava 
ancora,  faceva  crepare  il  cavallo  :  ma  è  crepato  egli , 
e  allora,  per  amore,  o  per  forza,  ha  dovuto  venir  giù. 

Il  Padre  Cristoforo,  rivolto  allora  a  Lucia,  le  disse: 
ricordatevi  di  pregare  per  questa  povera  anima,  voi 
e  vostro  marito,  per  tutta  la  vita,  e  di  far  pregare 
i  vostri  figliuoli,  se  Dio  ve  ne  concede.  Tornate 
alla  vostra  compagna.  Iddio  sia  sempre  con  voi.  Dette 
queste  parole,  prese  in  fretta  il  viale,  per  andarsene 
alla  sua  stazione;  Lucia,  compunta  di  quella  sepa- 
razione e  atterrita  dallo  spettacolo,  tornò  a  capo 
basso  e  col  petto  ansante  alla  sua  capanna,  e  Don  Ro- 
drigo, su  la  cima  d'un  tristo  mucchio,  fra  lo  strepito 
e  le  bestemmie,  usciva  dal  lazzeretto  per  andarsene 
alla  fossa. 


-  ) 

'  V 

Alessandro  Manzoni.  .  „    /        38 


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APPENDICI 


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I. 

Il  principio  del  Romanzo  nella  prima  minuta. 

24  Aprile  1821. 
Cap.  I. 

Il  Curato  di 

Quel  ramo  del  lago  di  Como  d'onde  esce  l'Adda 
e  che  giace  fra  due  catene  non  interrotte  di  monti 
da  settentrione  a  mezzogiorno,  dopo  aver  formati 
varj  seni  e  per  così  dire  piccioli. golfi  d'ineguale 
grandezza,  si  viene  tutto  ad  un  tratto  a  ristringere  ; 
ivi  il  fluttuamento  delle  onde  si  cangia  in  un  corso 
diretto  e  continuato,  di  modo  che  dalla  riva  si  può, 
per  dir  così,  segnare  il  punto  dove  il  lago  divien 
fiume  (l).  Il  ponte,  che  in  quel  luogo  congiunge  le  due 


(')  Sarà  curioso  e  utile  il  vedere  di  quali  e  quante  cor- 
rezioni e  pentimenti  VA.  tempestò  questo  primo  periodo 
e  quello  seguente.  Scrivo  in  corsivo  e  metto  tra  parentesi 
quadre  le  parole  cancellate  :  «  [Quel  ramo  del  lago  di  Como 
[che]  donde  esce  l'Adda]  [Alla  estremità  del  ramo~]  [Sulla 
riva  meridionale  del  ramo  del  [Lario~\  Lario  che]  Quel 
ramo  del  lago  di  Como  d'onde  esce  l'Adda  e  che  giace  fra 
due  catene  non  interrotte  di  monti  da  settentrione  a  mezzo- 
giorno, dopo  aver  formati  varj  seni  e  per  così  dire  piccioli 


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—     59»     - 

rive,  rende  ancor  più  sensibile  all'occhio  ed  all'o- 
recchio questa  trasformazione  :  poiché  gli  argini  per- 
pendicolari, che  lo  fiancheggiano,  non  lasciano  venir 


golfi  d'ineguale  grandezza,  si  [ristringe  alla  fine]  [viene  alla 
fine  a  ristringer  per  tal  modo  che]  [ristringe]  viene  tutto 
ad  un  tratto  a  ristringere  [per  tal  modo,  e  [ri]  avvicina  le 
sue  [ri]  due  riviere  a  segno  che  si  può  [dire]  fissare  che  a 
quel  punto  il  lago  cessi  e  ilfiutne  cominci  [.]  [si  può  manife- 
sta] e  a  cambiare  V  ondeggiamento]  ivi  il  fluttuamento  [vario] 
delle  onde  si  cangia  in  un  corso  [diretto  e  seguito  che] 
diretto  e  continuato  di  modo  che  [si  può]  dalla  riva  si 
può  per  dir  così  segnare  il  punto  dove  il  lago  divien  fiume. 
Il  ponte  che  in  quel  luogo  congiunge  le  due  rive,  [e  che 
aumenta  il  corso  [dell'acqua]  e  il  rumore  fluviale  dell'acqua 
[dell'  acqua]  e  le  dà  [per  così]  un  rumore  per  così  dire  flu- 
viale [compisce  all'occhiò]  [rendotw]  rende  ancor  più  sensi- 
bile all'occhio  questa  trasformazione]'»,  A  questo  punto  si 
legge  in  margine:  *[gli  argini  [che  non  lasciano  batter] 
perpendicolari  che  non  lasciano  venir  le  onde  a  battere  sulla 
riva  ma  le  costringono  in  un  letto,  e  le  fanno  correre  sotto 
gli  archi  con  uno  strepito  per  così  dire  assolutamente  flu- 
viale]». Quindi  prosegue  nella  colonna:  «  prendono]  [rende 
ancor  più  sensibile  all'occhio  ed  alla  fantasia  [ed  ali]  questa 
subita  trasformazione  :]  rende  ancor  più  sensibile  all'occhio 
ed  all'orecchio  questa  trasformazione  :  [poiché  gli  argini 
[non  lasciano]  perpendicolari  che  lo  fiancheggiano  non  {perni] 
lasciano]  [poiché  cessano  le  rive]  [poiché  gli  argini  perpen- 
dicolari che  lo  fiancheggiano  non  lasciano  ven]  [poiché  ivi 
cessano  le  rive]  [poiché  gli  argini  perpendicolari  che  lo 
fiancheggiano  non  lasciano]  [poiché  invece  di  batter  sovra] 
poiché  gli  argini  perpendicolari  che  lo  fiancheggiano  non 
lasciano  venir  le  onde  a  battere  sulla  riva  ma  le  avviano 
rapide  sotto  gli  archi;  [e  l'uo]  [e  chi]  [e  l'uomo  seduto 
presso]  [e  stando  presso  gli  argini]  [e  dove]  e  presso  a 
quegli  argini  uno  può  quasi  sentire  il  doppio  e  diverso 
rumore  dell'acqua,  [e  dove  ella]  la  quale  qui  viene  a  rom- 
persi in  [onde  sul/]  piccioli  cavalloni  sull'arena,  e  [dove 
scorre  travolta  dai]  a  pochi  passi  tagliata  dalle  pile  di 
macigno  scorre  sotto  gli  archi  con  uno  strepito  per  così 
dire  fluviale».  (Ed.) 


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—     599     — 

le  onde  a  battere  sulle  rive,  ma  le  avviano  rapide 
sotto  gli  archi;  e  presso  a  quegli  argini  uno  può 
quasi  sentire  il  doppio  e  diverso  rumore  dell'acqua, 
la  quale  qui  viene  a  rompersi  in  piccioli  cavalloni 
sull'arena,  e  a  pochi  passi,  tagliata  dalle  pile  di  ma- 
cigno, scorre  sotto  gli  archi  con  uno  strepito  per 
così  dire  fluviale.  Dalla  parte  che  guarda  a  setten- 
trione, e  che  a  quel  punto  si  può  chiamare  la  riva 
destra  dell'Adda,  il  ponte  posa  sopra  un  argine  ad- 
dossato alla  estrema  falda  del  Monte  di  S.  Michele; 
il  quale  si  bagnerebbe  nel  fiume  se  l'argine  non  vi 
fosse  frapposto.  Ma  dall'opposto  lato  il  ponte  è  ap- 
poggiato al  lembo  di  una  riviera  che  scende  verso 
il  lago  con  un  molle  pendìo,  sul  quale  per  lungo 
tratto  il  passeggero  può  quasi  credere  di  scorrere 
una  perfetta  pianura.  Questa  riviera  è  manifestamente 
formata  da  tre  grossi  torrenti,  i  quali,  spingendo  la 
ghiaja,  i  ciottoli  e  i  massi  rotolati  dal  monte,  hanno 
a  poco  a  poco  spinte  le  rive  avanti  nel  lago,  ed  erano 
abbastanza  vicini  perchè  le  ghiaje  gettate  da  essi  a 
destra  e  a  sinistra  abbiano  potuto  col  tempo  toccarsi 
e  formare  un  terreno  sodo.  Allora  hanno  cominciato 
a  correre  in  un  letto  alquanto  più  regolare,  poiché 
questi  stessi  depositi  hanno  loro  servito  d'argine,  e 
il  successivo  loro  impicciolimento,  cagionato  dall'ab- 
bassamento dei  monti,  dal  diboscamento,  e  dalla  di- 
spersione delle  acque,  gli  ha  rinchiusi  in  un  letto  più 
angusto.  Così  il  terreno  che  li  divide  ha  potuto  es- 
sere abitato  e  coltivato  dagli  uomini.  Il  lembo  della 
riviera  che  viene  a  morire  nel  lago  è  di  nuda  e  grossa 
arena  presso  ai  torrenti,  e  uliginoso  negli  intervalli, 
ma  appena  appena  dove  il  terreno  s'alza  al  di  sopra 
delle  escrescenze  del  lago  e  del  traripamento  della 
foce  dei  torrenti,  ivi  tutto  è  prati,  campagne  e  vi- 
gneti, e  questo  tratto  d'ineguale  lunghezza  è  in  al- 


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—     6oo    — 

cuni  luoghi  forse  d'un  miglio.  Dove  il  pendìo  di- 
venta più  ripido  son  più  frequenti,  e  assai  più  lo 
erano  per  lo  passato,  gli  ulivi  ;  al  di  sopra  di  questi 
e  sulle  falde  antiche  dei  monti  cominciano  le  selve 
di  castagni,  e  al  di  sopra  di  queste  sorgono  le  ul- 
time creste  dei  monti,  in  parte  nudo  e  bruno  macigno, 
in  parte  rivestite  di  pascoli  verdissimi,  in  parte  co- 
perte di  carpini,  di  faggi  e  di  qualche  abete.  Fra 
questi  alberi  crescono  pure  varie  specie  di  sorbi  e 
di  dafani,  il  cameceraso,  il  rododendro  ferrugigno  ed 
altre  piante  montane,  le  quali  rallegrano  e  sorpren- 
dono il  cittadino  dilettante  di  giardini,  che  per  la 
prima  volta  le  vede  in  quei  boschi,  e  che  non  aven- 
dole incontrate  che  negli  orti  e  nei  giardini,  è  av- 
vezzo a  considerarle  colla  fantasia  come  quasi  un  pro- 
dotto della  coltura  artificiale  piuttosto  che  una  spon- 
tanea creazione  della  natura.  Dove  poi  la  mano  del- 
l'uomo ha  potuto  portare  una  più  fruttifera  coltiva- 
zione, fino  presso  alle  vette  non  ha  lasciato  di  farlo, 
e  si  vedono  di  tratto  in  tratto  dei  piccioli  vigneti 
posti  su  un  rapido  pendìo  e  che  terminano  col  nudo 
sasso  del  comignolo.  La  riviera  è  tutta  sparsa  di 
case  e  di  villaggi:  altri  alla  riva  del  lago,  anzi  nel 
lago  stesso  quando  le  sue  acque  s'innalzano  per  le 
pioggie,  altri  sui  varj  punti  del  pendìo,  fino  al  punto 
dove  la  montagna  è  nuda,  perpendicolare  ed  inabi- 
tabile. Lecco  è  la  principale  di  queste  terre  e  dà  il 
nome  alla  riviera:  un  grosso  borgo  a  questi  tempi 
e  che  altre  volte  aveva  l'onore  di  essere  un  discre- 
tamente forte  castello;  onore  al  quale  andava  unito 
il  piacere  di  avervi  una  stabile  guarnigione  ed  un 
comandante,  che  all'epoca  in  cui  accade  la  storia  che 
siamo  per  narrare  era  spagnuolo.  Dall'una  all'altra 
di  queste  terre,  dalle  montagne  al  lago,  da  una  mon- 
tagna all'altra  corrono  molte  stradicciuole,  ora  erte, 


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—     6oi     — 

ora  dolcemente  pendenti,  ora  piane,  chiuse  per  lo 
più  da  muri  fatti  di  grossi  ciottoloni  e  coperti  qua 
e  là  di  antiche  edere,  le  quali  dopo  aver  colle  barbe 
divorato  il  cemento,  ficcano  le  barbe  stesse  fra  un 
sasso  e  l'altro  e  servono  esse  di  cemento  al  muro, 
che  tutto  nascondono.  Di  tempo  in  tempo  invece  di 
muri  passano  le  anguste  strade  fra  siepi,  nelle  quali 
al  pruno  e  al  biancospino  s'intreccia  di  tratto  in 
tratto  il  melagrano,  il  gelsomino,  il  lilac  e  il  fila- 
delfo.  Una  di  queste  strade  percorre  tutta  la  riviera, 
ora  abbassandosi,  ora  tirando  più  verso  il  monte, 
ora  in  mezzo  le  vigne,  ed  ora  sulla  linea  che  divide 
i  colti  dalle  selve.  Questa  strada  è  talvolta  seppel- 
lita fra  due  muri  che  superano  la  testa  del  passeg- 
gero, dimodoché  egli  non  vede  altro  che  il  cielo  e 
le  vette  dei  monti  :  ma  spesso  lascia  un  libero  campo 
alla  vista,  la  quale  quasi  ad  ogni  passo  scopre  nuovi, 
àmpii  e  bellissimi  prospetti.  Poiché  guardando  verso 
settentrione  tu.  vedi  il  lago  chiuso  nei  monti  che 
sporgono  innanzi  e  rientrano  e  formano  ad  ogni  tratto 
seni  o  ameni  o  tetri,  finché  la  vista  si  perde  in  uno 
sfondo  azzurro  di  acque  e  di  montagne  ;  verso  mez- 
zogiorno vedi  l'Adda,  che,  appena  uscita  dagli  archi 
del  ponte,  torna  a  pigliar  figura  di  lago,  e  poi  si 
ristringe  ancora  e  scorre  come  fiume,  dove  il  letto  è 
occupato  da  banchi  di  sabbia  portati  da  torrenti,  che 
formano  come  tanti  istmi  :  dimodoché  l'acqua  si  vede 
prolungarsi  fino  all'orizzonte  come  una  larga  e  lu- 
cida spira.  Sul  capo  hai  i  massi  nudi  e  giganteschi 
e  le  foreste,  e  guardando  sotto  di  te  e  in  faccia, 
vedi  il  lungo  pendìo,  distinto  dalle  varie  colture,  che 
sembrano  striscie  di  varj  verdi,  il  ponte  ed  un  breve 
tratto  di  fiume  fra  due  larghi  e  limpidi  stagni,  e  po- 
scia, risalendo  collo  sguardo,  lo  arresti  sul  Monte 
Barro,  che  ti  sorge  in  faccia  e  chiude  il  lago  dal- 


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—      602      — 

l'altra  parte.  Ma  non  termina  quel  monte  la  vista  da 
ogni  parte,  poiché  di  promontorio  in  promontorio 
declina  fino  ad  una  valle  che  lo  separa  dal  monte 
vicino;  e  come  in  alcune  parti  la  stradetta  si  eleva 
al  di  sopra  del  livello  di  questa  valle,  da  quei  punti 
il  tuo  occhio  segue  tra  i  due  monti  che  hai  in  pro- 
spetto un'apertura,  che  dalla  valle  ti  lascia  travedere 
qualche  parte  dell'amenissimo  piano  che  è  posto  al 
mezzogiorno  del  Monte  Barro.  La  giacitura  della 
riviera,  i  contorni  e  le  viste  lontane  tutto  concorrono 
a  renderlo  un  paese  che  chiamerei  uno  dei  più  belli 
del  mondo,  se  avendovi  passata  una  gran  parte  della 
infanzia  e  della  puerizia  e  le  vacanze  autunnali  della 
prima  giovinezza,  non  riflettessi  che  è  impossibile  dare 
un  giudizio  spassionato  dei  paesi  a  cui  sono  asso- 
ciate le  memorie  di  quegli  anni  (l). 


(*)  Nella  Guida  di  Lecco,  sue  valli  e  suoi  laghi,  com- 
pilata da  Giuseppe  Fumagalli,  con  topografia  descrittiva 
del  romanzo  «  I  Promessi  Sposi  » ,  e  scritti  vari  di  An- 
tonio Ghislanzoni,  del  doti.  Giovanni  Pozzi  e  di  altri 
autori,  Lecco,  Vincenzo  Andreotti  detto  Busall,  editore 
[Milano,  Stab.  G.  Civelli,  1882];  in-160,  con  una  carta  to- 
pografica, si  afferma  che  i  panorami  del  territorio  di  Lecco 
non  si  possono  ritrarre  per  virtù  di  parole  e  che  il  Manzoni 
non  riuscì  in  questa  descrizione,  e  non  ottenne  l' intento 
neanche  con  l'addio,  il  quale  ci  commuove  fortemente  sol 
perchè  in  esso  «sta  la  sintesi  di  tutti  quei  dolori  che  lo 
«  determinarono  »  [p.  50].  B.  Zumbini  [/  Promessi  Sposi  e 
il  Lago  di  Lecco;  in  Studi  di  letteratura  italiana,  Firenze, 
Successori  Le  Monnier,  1892,  pp.  280-281]  fa  notare  «a 
«  codesti  egregi  autori  »  che,  «  trattandosi  di  cose  del  Man- 
«  zoni,  era  meglio  se  ne  ragionasse  con  minor  disinvol- 
«  tura  »,  poi  soggiunge  :  «  mi  pare  evidente  che  il  Manzoni 
«  abbia  adoperata  la  descrizione  non  già  per  far  visibili 
«  alla  mente  le  cose,  quali  sono  nella  loro  realtà,  ma  piut- 
tosto per  derivarne  nuovo  pregio  a  quella  rappresenta- 
«  zione  di  fatti  umani,  eh*  era  il  suo  più  alto  intento.    E 


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6o3 


Su  questa  stradetta  veniva  lentamente,  dicendo 
Tufizio  ed  avviandosi  verso  casa,  una  bella  sera  di 
autunno  dell'anno  1628,  il  curato  di  una  di  quelle 
terre  che  abbiamo  accennate  di  sopra  (l). 


«  ciò  fece  con  quella  profonda  consapevolezza  di  fini  e  di 
«  mezzi,  di  cui  diede  chiare  prove  in  ogni  altro  suo  lavoro, 
«e  con  quel  raziocinio  che  in  lui  non  fu  meno  meravi- 
«  glioso  delle  facoltà  poetiche.  E  veramente,  da  ogni  par- 
«  ticolare  di  quella  descrizione  e  da  tutto  ciò  che  seguita 
«  nel  romanzo,  s'  intende  com'egli  volesse  destare  in  noi 
«l'immagine  di  un  dolce  e  riposato  ostello,  i  cui  abitatori 
«  sarebbero  stati  felicissimi,  se  non  li  avesse  contristati  la 
«  violenza  de'  signorotti  paesani  e  degli  Spagnuoli  ».  (Ed.) 
(')  Cfr.  Sforza  Gio.,  Saggio  di  una  ediziotie  critica  dei 
Promessi  Sposi,  Bologna,  tipografìa  Zamorani  e  Alber- 
tazzi,  MDCCC  XCVIII  ;  in-fol. 


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II. 

Il   principio   del   Romanzo   nella    seconda 

MINUTA. 

Gli  Sposi  promessi. 
Cap.  I. 

Quel  ramo  del  lago  di  Como  che  volge  a  mez- 
zogiorno, chiuso  e  come  guidato  da  due  catene  non 
interrotte  di  monti,  stendendosi  in  seni  e  golfi  d'i- 
neguale grandezza,  a  seconda  dello  sporgere  e  del 
rientrare  di  quelli,  viene  quasi  tutto  ad  un  tratto  a 
ristringersi  e  a  prender  corso  ed  aspetto  di  fiume 
tra  una  montagna  ed  un'ampia  riviera,  formata  len- 
tamente dal  deposito  di  tre  grossi  e  vicini  torrenti. 
Il  lungo  ponte,  che  in  quel  luogo  congiunge  le  due 
rive,  rende  ancor  più  sensibile  all'occhio  questa  tra- 
sformazione, e  par  che  divida  il  lago  dall' Adda.  A 
diritta,  la  testa  del  ponte  posa  su  le  radici  del  monte 
Sanmichele;  l'altra  è  piantata  nel  lembo  della  ri- 
viera, che  scende  con  lento  pendìo,  appoggiata  alle 
falde  della  montagna  nominata  il  Resegone  dai  molti 
suoi  comignoli  acuti  e  separati  a  guisa  d'una  sega. 
Il  lembo  estremo,  interciso  dalle  foci  dei  torrenti,  è 
di  nuda  e  grossa  ghiaja,  e  ad  intervalli  uliginoso. 
Ma  dove  il  terreno  comincia  a  sollevarsi  sopra  le 


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—    605     — 

escrescenze  del  lago  e  il  traripamento  dei  torrenti, 
tutto  è  prati,  campi  e  vigneti,  sparsi  di  ville  e  di 
paesetti  ;  al  di  sopra,  dove  l'erta  si  fa  più  ripida,  e 
il  monte  comincia  a  separarsi  in  promontorii  e  in 
valli,  sono  selve  di  castagni,  di  carpini,  di  faggi,  e 
al  di  sopra  ancora  le  ultime  creste  dei  monti,  in  parte 
nudo  ed  eretto  macigno,  in  parte  rivestite  di  verdis- 
simi pascoli  o  di  foreste,  e  cosparse  di  casali  e  di 
tugurii.  Lecco,  la  principale  di  quelle  terre,  e  che 
dà  nome  al  territorio,  giace  su  la  riva  del  lago,  anzi 
viene  in  parte  a  trovarsi  nel  lago  stesso,  quando  egli 
ingrossa:  un  borgo  considerevole  al  giorno  d'oggi, 
e  che  s' incammina  a  diventare  città.  Ai  tempi  in  cui 
accaddero  i  fatti  che  siamo  per  narrare,  Lecco  era 
di  più  un  passabilmente  forte  castello,  e  aveva  per- 
ciò l'onore  di  alloggiare  un  comandante,  e  il  van- 
taggio di  possedere  una  stabile  guarnigione  di  sol- 
dati spagnuoli,  che  insegnavano  la  modestia  alle  fan- 
ciulle e  alle  donne  del  paese,  accarezzavano  di  tempo 
in  tempo  qualche  marito,  qualche  padre,  qualche  fra- 
tello, e  sul  finire  dell'estate  non  mancavano  mai  di 
spandersi  nelle  vigne  per  attaccare  qualche  grappolo 
ai  tralci,  ed  aumentare  così  la  vendemmia. 

Dall'una  all'altra  di  quelle  terre,  dalle  alture  al 
lago,  da  una  altura  all'altra,  giù  per  le  picciole  valli 
interposte,  correvano,  e  corrono  tuttavia  molte  stra- 
dicciuole,  ora  erte,  ora  dolcemente  inclinate,  or  piane, 
chiuse  per  lo  più  da  muri  composti  di  grossi  ciot- 
toli, e  rivestiti  qua  e  là  di  antiche  edere,  che  dopo 
aver  divorato  colle  barbe  il  cemento,  ne  fanno  le 
veci,  e  tengono  legato  il  muro,  che  fanno  verdeg- 
giare. Per  qualche  tratto  quelle  stradicciuole  sono 
affondate  e  come  sepolte  fra  i  muri,  di  modo  che  il 
passeggiero,  levando  il  guardo,  non  vede  altro  che  il 
cielo  e  qualche  vetta  di  monte;  ad  altri  intervalli  il 


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—     606     — 

muro,  che  dalla  parte  più  bassa  sostiene  la  strada  a 
guisa  di  bastione,  non  s' innalza  sul  suolo  di  quella  più 
che  un  parapetto,  e  quivi  la  vista  del  viandante  può 
spaziare  per  varii  ed  amenissimi  prospetti.  Verso  set- 
tentrione domina  l'azzurro  piano  del  lago,  tagliato  da 
istmi  e  da  promontorii,  e  su  le  rive  paesetti  che  Tonda 
riflette  capovolti  ;  a  mezzogiorno  l'Adda  che  appena 
uscita  dagli  archi  del  ponte  si  allarga  di  nuovo  in 
picciolo  lago,  poi  si  ristringe,  e  serpeggia,  e  si  pro- 
lunga fino  all'orizzonte  in  larga  e  lucida  spira:  sul 
capo  del  riguardante  si  mostrano  i  massi  elevati,  ine- 
guali delle  montagne,  sotto  di  lui  il  pendìo  coltivato, 
i  paesetti,  il  ponte,  in  faccia  la  riva  opposta  del  lago, 
e  risalendo  per  essa  il  monte  che  lo  chiude. 

Per  una  di  queste  stradicciuole  tornava  lentamente 
dal  passeggio  verso  casa,  al  cadere  del  giorno  7  di 
novembre  dell'anno  1628,  il  curato  (questa  è  la  prima 
reticenza  del  nostro  autore)  d'una  delle  terre  accen- 
nate di  sopra. 


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III. 

Il  principio  del  Romanzo  nella  copia  per 
la  Censura  (x). 

Gli  Sposi  promessi. 
Cap.  I. 

Quel  ramo  del  lago  di  Como,  che  volge  a  mez- 
zogiorno, chiuso  e  come  guidato  da  due  catene  non 
interrotte  di  monti,  stendendosi  in  seni  e  golfi  d'i- 
neguale grandezza,  a  seconda  dello  sporgere  e  del 
rientrare  di  quelli,  viene  quasi  tutto  ad  un  tratto  a 
ristringersi  tra  una  montagna,  ed  un'ampia  riviera 
formata  lentamente  dal  deposito  di  tre  grossi,  e  vi- 
cini torrenti  ;  e  prende  quivi  corso  ed  aspetto  di  fiume. 
Il  lungo  ponte,  che  in  quel  luogo  congiunge  le  due 
rive,  rende  ancor  più  sensibile  all'occhio  questa  tra- 
sformazione e  par  che  divida  il  lago  dall'Adda.  A 
diritta,  la  testa  del  ponte  posa  su  le  radici  del  monte 


(l)  Racconta  lo  Stampa  [Alessandro  Manzoni  y  la  sua 
famiglia ,  *  suoi  amici;  II,  175]:  «Il  Manzoni  non  diede 
«  ad  altri  da  ricopiare  il  suo  romanzo,  e  udii  raccontare 
«  da  lui  stesso  che  finito  il  romanzo  ed  avendo  sul  tavolo 
«  il  mucchio  di  carte  che  lo  componeva,  invitato  dal 
«  Grossi  a  darlo  allo  stampatore,  gli  rispose:  —  Oh  giusto! 


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—     608     — 

Sanmichele  ;  l'altra  è  piantata  nel  lembo  della  riviera 
che  scende  con  lento  pendio,  appoggiata  alle  falde 
della  montagna  nominata  il  Resegone  dai  molti  suoi 
comignoli  acuti  e  separati,  a  guisa  dei  denti  ^una 
sega.  Il  lembo  estremo,  interciso  dalle  foci  dei  tor- 
renti, è  di  nuda  e  grossa  ghiaja  e  ad  intervalli  uli- 
ginoso. Ma  dove  il  terreno  comincia  a  sollevarsi  al 
di  sopra  delle  escrescenze  del  lago  e  del  traripamento 
dei  torrenti,  tutto  è  prati,  campi  e  vigneti,  sparsi  di 
ville  e  di  paesetti.  Più  su,  dove  l'erta  si  fa  più  ri- 
pida, ed  il  monte  comincia  a  separarsi  in  promon- 
torii  ed  in  valli,  sono  selve  di  castagni,  di  carpini, 
di  faggi.  Più  su  ancora  le  ultime  creste  dei  monti, 


«  ora  bisogna  copiarlo  per  porlo  in  netto,  perchè  lo  stam- 
pe patore  possa  raccapezzarsi.  —  Ebbene,  fallo  copiare, 
«  disse  il  Grossi.  —  Oh  giusto!  bisogna  che  lo  copi  io 
«  stesso,  per  fare  in  pari  tempo  quelle  correzioni  che  sa- 
«  ranno  del  caso.  —  Come  !  esclamò  il  Grossi,  vuoi  fare 
«  la  fatica  bestiale  di  copiare  tutto  quel  mucchio  di  carta  ? 
«  Ma  sei  pazzo!  —  Che  vuoi  che  ti  dica?  Non  posso  fare  a 
«  meno.  Bisogna  che  faccia  alla  mia  maniera.  —  Ed  ebbe 
«  la  pazienza  di  copiare  lui  stesso  tutto  il  manoscritto  dei 
«  Promessi  Sposiy  e  mi  pareva  che  nel  raccontare  tal  cosa 
«  ne  provasse  una  certa  soddisfazione  ».  Lo  Stampa  nel- 
Taffermar  questo  è  stato  tradito  dalla  memoria.  Il  Man- 
zoni, condotta  a  fine  la  prima  minuta,  non  poteva  darla 
a  copiare  ad  altri,  perchè  non  si  trattava  di  una  trascri- 
zione, bensì  di  un  rifacimento,  che  bisognava  scrivesse  da 
per  sé;  come  infatti  fece.  Della  copia  per  la  Censura, 
che  è  d'altra  mano,  ed  è  la  trascrizione  della  seconda  mi- 
nuta, resta  soltanto  il  primo  volume  ;  gli  altri  due  sono 
andati  perduti.  Dunque  il  consiglio  del  Grossi,  se  pur  lo 
dette,  fu  accolto  e  seguito.  Questa  copia  ha  molte  corre- 
zioni autografe  del  Manzoni,  che  a  volte  rifa  di  suo  pugno 
anche  de*  lunghi  brani,  o  in  margine,  o  incollando  sul 
manoscritto  qualche  brandello  di  carta.  Nel  presente  sag- 
gio, che  ne  do,  stampo  in  carattere  corsivo  le  correzioni 
di  mano  di  lui.  (Ed.) 


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—     609     — 

in  parte  nudo  ed  eretto  macigno,  in  parte  rivestite 
di  verdissimi  pascoli  o  di  foreste,  e  cosparse  di  ca- 
sali e  di  tugurii.  Lecco,  la  principale  di  quelle  terre, 
e  che  dà  nome  al  territorio,  giace  su  la  riva  del 
lago,  anzi  viene  in  parte  a  trovarsi  nel  lago  stesso, 
quando  egli  ingrossa:  un  borgo  considerevole  al 
giorno  d'oggi,  e  che  s'incammina  a  diventare  città. 
Ài  tempi  in  cu?  accaddero  i  fatti  che  siamo  per  nar- 
rare, Lecco  era  di  più  un  passabilmente  forte  ca- 
stello, ed  aveva  perciò  l'onore  di  alloggiare  un  co- 
mandante, ed  il  vantaggio  di  possedere  una  stabile 
guarnigione  di  soldati  spagnoli,  che  insegnavano  la 
modestia  alle  fanciulle  ed  alle  donne  del  paese,  acca- 
rezzavano di  tempo  in  tempo  qualche  marito,  qual- 
che padre,  qualche  fratello;  e  sul  finire  dell'estate 
non  mancavano  mai  di  spandersi  nelle  vigne  per  at- 
taccare qualche  grappolo  ai  tralci,  ed  aumentare  così 
la  vendemmia.  Dall'una  all'altra  di  quelle  terre, 
dalle  alture  al  lago,  da  una  altura  all'altra,  giù  per 
le  picciole  valli  interposte,  correvano  e  corrono  tut- 
tavia molte  stradicciuole,  ora  erte,  ora  dolcemente 
inclinate,  or  piane,  chiuse  per  lo  più  da  muri  com- 
posti di  grossi  ciottoli,  e  rivestiti  qua  e  là  di  antiche 
edere  che  divorando  colle  barbe  il  cemento,  si  pongono 
in  suo  luogo,  e  tengono  collegato  il  muro,  che  tutto 
d'esse  verdeggia.  Per  qualche  tratto  so?w  quelle  stra- 
dicciuole affondate  e  come  sepolte  fra  i  muri,  di  modo 
che  il  passeggiero,  levando  il  guardo  non  iscopre  altro 
che  il  cielo  e  qualche  vetta  di  monte.  Altrove  son  ter- 
rapieni, o  giranti  sull'orlo  d'una  spianata,  o  sporgenti 
in  fuora  dal  pendio  come  un  lungo  scaglione,  soste- 
nuti  da  muraglie  che  piombano  erte  al  di  fuori  a 
guisa  di  bastione,  ma  sul  sentiero  non  sorgono  che 
ad  altezza  di  parapetto;  e  quivi  la  vista  del  vian- 
dante può  spaziare  pervarii,  ed  amenissimi  prospetti. 

Alessandro  Manzoni.  39 


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—     6io     — 

Verso  settentrione,  domina  l'azzurro  piano  del  lago, 
tagliato  da  istmi,  e  da  promontorii,  e  su  le  rive  pae- 
setti  che  Tonda  riflette  capovolti;  a  mezzogiorno 
l'Adda  che  appena  uscita  dagli  archi  del  ponte  si 
allarga  di  nuovo  in  piccolo  lago,  poi  si  ristringe  e 
serpeggia  e  si  prolunga  fino  all'orizzonte  in  larga  e 
lucida  spira  :  sul  capo  del  riguardante  si  mostrano  i 
massi  elevati,  ineguali  delle  montagne:  al  di  sotto  il 
pendio  coltivato,  i  paesetti,  il  ponte:  in  faccia  la  riva 
opposta  del  lago,  e  risalendo  per  essa,  il  monte  che 
lo  chiude. 

Per  una  di  queste  stradicciuole  tornava  lentamente 
dal  passeggio  verso  casa,  al  cadere  del  giorno  7  di 
novembre  dell'anno  1628,  don  Abbondio***  curato 
d'una  delle  terre  accennate  di  sopra.  (Il  nostro  autore 
non  la  nomina;  ed  è  questa  la  sua  prima  reticenza}. 


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IV. 

La  fine  del  Romanzo  nella  prima  minuta. 


Il  tempo,  che  scorse  tra  le  pubblicazioni  e  le  nozze 
fu  impiegato  dagli  sposi  ai  preparativi  pel  trasloca- 
mento  a  Bergamo  e  pel  trasporto  colà  del  loro  mo- 
dico avere,  e  Agnese,  la  quale,  come  il  lettore  se 
n'è  avveduto,  pareva  sempre  voler  dominare  nei  di- 
scorsi, ma  in  fatto,  povera  donna,  viveva  per  gli  altri 
e  faceva  a  modo  dei  suoi  figlj,  anche  in  questo  caso 
si  arrabattò  per  la  causa  comune  :  la  vedova  anch'essa 
non  lasciava  di  dare  una  mano. 

Forse  taluno  di  quegli  che  credono  di  veder  me- 
glio negli  affari  altrui,  a  prima  giunta,  che  non  vegga 
colui  di  cui  sono  gli  affari,  dopo  avervi  molto  pen- 
sato, domanderà  per  qual  motivo  quella  famiglia  vo- 
lesse abbandonare  il  luogo  natale,  la  sua  casuccia, 
il  suo  picciol  fondo,  ora  che  era  tolto  di  mezzo  colui 
che  gV impediva  di  posarvisi  tranquillamente.  Per  tre 
ragioni  principalmente. 

La  prima:  quantunque  Fermo  allora  non  rice- 
vesse alcuna  inquietudine  per  quella  sua  impresa  di 
Milano,  e  la  cattura  fosse  un  titolo  inoperoso,  pure 
un  sospetto,  una  reminiscenza,  un  mal  uficio,  poteva 
far  risorgere  l'antica  querela  e  rimetterlo  in  Dio  sa 
quale  impiccio. 


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—      6l2       — 

La  seconda  è  una  di  quelle  ragioni  che  nel  par- 
lare astratto  non  si  contano  quasi  per  nulla,  ma  che 
nel  caso  concreto  sono  più  potenti  a  determinare  che 
molte  altre.  Ciò  che  Fermo  aveva  sofferto  e  temuto 
nel  suo  paese  gliel'aveva  reso  spiacevole:  il  suo  paese 
gli  ricordava  le  angherie  d'un  soverchiatore,  i  pe- 
ricoli della  prigione  e  di  peggio,  poi  il  furore  del 
popolo,  che  lo  cercava  a  morte.  Memorie  di  questo 
genere  disgustano  l'uomo  da^  luoghi  che  le  richia- 
mano, e  se  quei  luoghi  sono  la  patria,  ne  lo  disgu- 
stano tanto  più,  appunto  perchè  gli  guardava  prima 
con  fiducia  e  con  affezione.  Anche  il  bambolo  riposa 
volentieri  sul  seno  della  nutrice,  rifugge  a  quello  da 
tutti  i  terrori,  cerca  con  avidità  la  poppa,  che  lo  ha 
nutricato  fin  allora,  e  s'accheta  quando  l'ha  presa: 
ma  se  la  nutrice,  per  divezzarlo,  intinge  la  poppa 
d'assenzio,  il  bambino  torce  con  dolore  e  con  pianto 
il  labbro  da  quella  nuova  amaritudine,  e  desidera  un 
cibo  diverso. 

Finalmente,  i  nostri  sposi  erano  entrambi  lavo- 
ratori di  seta  :  triste  circostanze  gli  avevano  costretti 
a  dismettere  per  molto  tempo  la  loro  professione; 
ma  né  l'uno,  né  l'altro  aveva  amore  all'ozio;  e  il 
loro  disegno  era  di  ripigliare  tosto  il  lavoro,  per  vivere 
tranquillamente  e  onestamente,  e  per  nutrire  ed  al- 
levare i  figliuoli,  che  speravano,  come  tutti  gli  sposi 
fanno.  Ora,  l'industria  della  seta,  come  tutte  le  altre, 
era  già  decaduta  spaventosamente  nel  Milanese,  prima 
di  quelle  recenti  sciagure;  e  queste  le  avevan  poi 
dato  l'ultimo  crollo.  Non  è  questo  il  luogo  di  de- 
scrivere quello  stato  di  cose  e  di  toccarne  le  cagioni. 
Già  molte,  nemiche  d'ogni  industria  e  d'ogni  pro- 
sperità, appajono  anche  troppo  in  questa  lunga  storia; 
chi  volesse  conoscere  le  più  immediate  legga,  se  non 
le  ha  lette,  le  belle   memorie  storiche  del   conte  P. 


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-     6i3     - 

Verri  sulla  economia  pubblica  dello  Stato  di  Milano  ; 
e  se  vuol  conoscere  più  a  fondo,  frughi  nei  docu- 
menti originali  da  cui  quel  valentuomo  ha  cavate  le 
sue  memorie.  Basti  a  noi  il  dire  che  l'uomo,  il  quale 
aveva  abilità  e  voglia  di  lavorare,  stentava  nel  Mila- 
nese, e  che  nel  Bergamasco,  come  in  altri  Stati  vi- 
cini, si  offerivano  esenzioni,  privilegii  ed  altri  inco- 
raggiamenti ai  lavoratori  che  volessero  trasportar- 
visi.  Questa  differenza  fece  uscire  una  folla  di  operaj 
e  rivivere  in  quegli  Stati  molte  manifatture  che  pe- 
rirono nel  Milanese,  dove  avevano  fiorito.  Differente, 
per  conseguenza,  era  anche  l'aspetto  dei  due  paesi. 
In  Bergamo  (non  vogliam  dire  che  fosse  il  paradiso 
terrestre)  dopo  la  pestilenza,  si  vedevano  tuttavia  i 
tristi  segni  e  i  tristi  effetti  di  quella  :  la  spopolazione, 
le  terre  incolte,  l'ardire  cresciuto  nei  ribaldi,  le  abi- 
tudini dell'ozio  e  del  vagabondare  :  ma  in  quella  pe- 
tulanza stessa  v'era  una  cert'aria  di  allegria,  nata,  se 
non  dalla  abbondanza,  almeno  dalla  sufficienza  dei 
mezzi  e  dei  capitali  :  quegli  poi  che  avevano  voglia 
di  far  bene  trovavano  in  quei  capitali  una  facilità 
grande  e  pronta.  Ma  nel  Milanese  una  cagione  viva 
e  incessante  di  miseria  sopravviveva  alle  miserie  della 
peste:  un  sistema  che  onorava  l'orgoglio  ozioso,  che 
favoriva  la  soverchieria  perturbatrice,  che  alimentava 
tutti  gli  studj  del  raggiro  e  delle  ciarle,  un  sistema 
oppressivo  e  impotente,  insensato  e  immutabile,  un 
sistema  di  rapine  e  di  ostacoli,  impediva  l'industria, 
la  pace  e  l'allegria. 

Scelta  dunque  un'altra  patria,  i  nostri  eroi  erano 
però  impacciati  del  come  convertire  in  danaro  i  pochi 
beni  che  dovevano  lasciare  nel  paese  dove  erano  nati  : 
ma  la  fortuna  —  non  osiamo  dire  la  provvidenza  — 
la  fortuna,  che  voleva  favorirli  in  tutto,  come  uno 
scrittore  che  voglia  terminar  lietamente  una  storia 


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—     6i4     — 

inventata  per  ozio,  trovò  un  ripiego  anche  a  questo. 
I  beni  di  Don  Rodrigo  erano  passati  per  fedecom- 
messo  ad  un  parente  lontano,  il  quale  era  un  uomo 
di  ben  diverso  conio,  un  galantuomo,  un  amico  del 
cardinal  Federigo.  Prima  di  andare  a  prender  pos- 
sesso di  quella  eredità,  trovandosi  egli  col  cardinale, 
gliene  parlò.  —  Avrete  forse  una  occasione  di  far 
del  bene  e  di  riparare  il  male  che  ha  fatto  Don  Ro- 
drigo, gli  disse  il  Cardinale,  e  gli  raccontò  in  suc- 
cinto la  persecuzione  fatta  da  quello  sgraziato  ai 
nostri  sposi  e  il  danno  di  ogni  genere  che  ne  ave- 
van  patito.  Se  son  vivi  tuttora,  soggiunse,  non  vi 
prego  di  far  loro  del  bene,  che  con  voi  non  fa  bi- 
sogno ;  ma  di  darmi  notizia  di  loro,  e  di  dire  a  quella 
buona  giovane  ch'io  mi  ricordo  sempre  di  lei  e  mi 
raccomando  alle  sue  orazioni.  Il  galantuomo,  appena 
giunto  al  castellotto,  si  fece  indicare  il  villaggio  degli 
sposi  e  si  presentò  al  curato.  Don  Abbondio,  al  ve- 
dere il  nuovo  padrone  di  quella  altre  volte  caverna 
di  ladroni,  umano,  cortese,  affabile,  rispettoso  verso 
i  preti,  voglioso  di  far  del  bene,  non  si  può  dire 
quanto  ne  fosse  edificato.  E  quando  quel  signore  lo 
richiese  di  Fermo  e  di  Lucia  e  gli  manifestò  le  sue 
intenzioni  benevole,  Don  Abbondio  non  solo  si  prestò 
volentieri  a  secondarle,  ma  lo  fece  con  una  ispira- 
zione molto,  felice. 

—  Signor  mio,  diss'egli,  questa  buona  gente  è 
risoluta  di  lasciar  questo  '  paese  ;  e  il  miglior  servizio 
ch'ella  possa  render  loro  è  di  comperare  quei  pochiN 
fondi  che  tengono  qui.  A  lei  potrà  convenire  di  ag- 
giungerli ai  suoi  possessi,  e  quella  gente  si  troverà 
fuori  d'un  grande  impiccio. 

Il  signore  gradì  la  proposta,  anzi  con  molto  garbo 
richiese  Don  Abbondio  se  non  gli  sarebbe  dispiaciuto 
di  condurlo  a  vedere  quei  fondi  e  insieme  a  cono- 
scere quella  brava  gente. 


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—    6i5     - 

—  È  un  onore  immortale,  disse  Don  Abbondio, 
facendo  una  gran  riverenza;  e  andò  in  trionfo  alla 
casa  di  Lucia  con  quel  signore,  il  quale  fece  la  pro- 
posta, che  fu  molto  gradita.  Il  prezzo  fu  rimesso  a 
Don  Abbondio,  a  cui  il  signore  disse  all'orecchio 
che  lo  stabilisse  molto  alto.  Don  Abbondio  cosi  fece  : 
ma  il  signore  volle  aggiungere  qualche  cosa  :  e  per 
interrompere  i  ringraziamenti  dei  venditori,  gli  in- 
vitò a  pranzo  nel  suo  castello  pel  giorno  dopo  quello 
delle  nozze. 

Quel  giorno  benedetto  venne  finalmente  ;  gli  sposi 
promessi  furono  marito  e  moglie  ;  il  banchetto  fu  molto 
lieto.  Il  giorno  seguente  ognuno  può  immaginarsi 
quali  fossero  i  sentimenti  degli  sposi  e  quelli  di  Don 
Abbondio,  entrando  non  solo  con  sicurezza,  ma  con 
accoglimento  ospitale  ed  onorevole  nel  castello  che, 
era  stato  di  Don  Rodrigo  :  a  render  compiuta  la  festa 
mancava  il  Padre  Cristoforo,  ma  egli  era  andato  a 
star  meglio.  Non  possiamo  però  ommettere  una  cir- 
costanza singolare  di  quel  convito:  il  padrone  non 
vi  sedè,  allegando  che  il  pranzare  a  quell'ora  non 
si  confaceva  al  suo  stomaco.  Ma  la  vera  cagione  fu 
(oh  miseria  umana  !)  che  quel  brav'uomo  non  aveva 
saputo  risolversi  a  sedere  a  mensa  con  due  artigiani  : 
egli,  che  si  sarebbe  recato  ad  onore  di  prestar  loro 
i  più  bassi  servigj,  in  una  malattia.  Tanto  anche  a 
chi  è  esercitato  a  vincere  le  più  forti  passioni  è  dif- 
ficile il  vincere  una  picciola  abitudine  di  pregiudizio, 
quando  un  dovere  inflessibile  e  chiaro  non  comandi 
la  vittoria. 

Il  terzo  giorno,  la  buona  vedova,  con  molte  la- 
grime e  con  quelle  promesse  di  rivedersi  che  si  fanno 
anche  quando  si  ignora  se  e  quando  si  potranno 
adempire,  si  staccò  dalla  sua  Lucia  e  tornò  a  Mi- 
lano: e  gli  sposi  con  la  buona  Agnese,  che  tutti   e 


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—     6i6     — 

due  ora  chiamavano  mamma,  preso  commiato  da  Don 
Abbondio,  diedero  un  addio,  che  non  fu  senza  un  po' 
di  crepacuore,  ai  loro  monti,  e  s'avviarono  a  Bergamo. 
Avrebbero  certamente  divertito  dalla  loro  strada  per 
fare  una  visita  al  Conte  del  Sagrato,  ma  il  terribile 
uomo  era  morto  di  peste,  contratta  nell' assistere  ai 
primi  appestati. 

La  picciola  colonia  prosperò  nel  suo  nuovo  stabi- 
limento col  lavoro  e  con  la  buona  condotta.  Dopo 
nove  mesi  Agnese  ebbe  un  bamboccio  da  portare  at- 
torno, e  a  cui  dare  dei  baci,  chiamandolo  cattivaccio. 
Ella  visse  abbastanza  per  poter  dire  che  la  sua  Lucia 
era  stata  una  bella  giovane  e  per  sentir  chiamar  bella 
giovane  una  Agnese,  che  Lucia  le  diede  qualche  anno 
dopo  il  primo  figliuolo  (*).  Fermo  pigliava  sovente  pia- 
cere a  contare  le  sue  avventure,  e  aggiungeva  sempre  : 
d'allora  in  poi  ho  imparato  a  non  mischiarmi  a  quei 
che  gridano  in  piazza,  a  non  fare  la  tal  cosa,  a  guar- 
darmi dalla  tal  altra.  Lucia  però  non  si  trovava  ap- 


(*)  Il  Manzoni  nel  testo  definitivo  si  diffuse  maggior- 
mente a  raccontare  la  vita  de*  suoi  protagonisti  anche 
dopo  maritati.  Parlandone  a  uno  de*  propri  congiunti,  che 
lo  lodava  appunto  per  questo,  gli  disse  :  «  Che  vuoi  ?  sarò 
«  probabilmente  criticato  di  avere  diminuito  l'effetto  della 
«  fine  del  romanzo  continuando  a  descrivere  la  vita  dei 
«due  sposi.  Ma  anche  a  me  piace  di  più  il  lieto  fine;  e 
«  non  ho  potuto  trattenermi  dalla  tentazione  di  stare  un 
«  po'  ancora  in  compagnia  de*  miei  burattini  ».  Lo  racconta 
lo  Stampa  [Alessandro  Manzoni,  la  sua  famiglia,  i  suoi 
amici,  appunti  e  memorie;  II,  177];  e  aggiunge  [p.  183]: 
il  Manzoni  *  non  si  sarebbe  accinto  a  scrivere  un  altro 
«  romanzo  sul  tipo  de'  Promessi  Sposi,  ma  ebbe  una  volta 
«  la  tentazione  di  scrivere  un  altro  romanzo  di  genere  fan- 
«  tastico,  di  cui  pur  troppo  non  mi  ricordo  il  titolo  che 
«  doveva  portare  e  la  sua  traccia  generale  ;  ma  la  seppi  ». 
(Ed.) 


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—     6i7     — 

pagata  di  questa  morale  :  le  pareva  confusamente  che 
qualche  cosa  le  mancasse.  A  forza  di  sentir  ripetere 
la  stessa  canzone  e  di  pensarvi  ad  ogni  volta,  ella 
disse  un  giorno  a  Fermo  :  Ed  io,  che  debbo  io  avere 
imparato?  io  non  sono  andata  a  cercare  i  guaj,  e  i 
guaj  sono  venuti  a  cercarmi.  Quando  tu  non  volessi 
dire,  aggiunse  ella,  soavemente  sorridendo,  che  il 
mio  sproposito  sia  stato  quello  di  volerti  bene  e  di 
promettermi  a  te.  Fermo  quella  volta  rimase  impac- 
ciato, e  Lucia,  pensandovi  ancor  meglio,  conchiuse 
che  le  scappate  attirano  bensì  ordinariamente  de*  guaj; 
ma  che  la  condotta  la  più  cauta,  la  più  innocente 
non  assicura  da  quelli:  e  che  quando  essi  vengono, 
o  per  colpa,  o  senza  colpa,  la  fiducia  in  Dio  gli  rad- 
dolcisce e  gli  rende  utili  per  una  vita  migliore.  Questa 
conclusione,  benché  trovata  da  una  donnicciuola,  ci 
è  sembrata  così  opportuna,  che  abbiamo  pensato  di 
proporla  come  il  costrutto  morale  di  tutti  gli  avve- 
nimenti che  abbiamo  narrati,  e  di  terminare  con  essa 
la  nostra  storia. 

17  settembre  1823. 


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V. 

La  Serva  di  Don  Abbondio. 


Colla  compagnia  di  questi  pensieri  [Don  Ab- 
bondio] giunse  a  casa,  chiuse  diligentemente  la  porta 
e  andò  a  gettarsi  su  un  seggiolone  nel  suo  salotto, 
dove  la  sua  serva  Vittoria  Q)  stava  parecchiando  la 
tavola  per  la  solita  cena.  Poche  cose  a  questo  mondo 
sono  più  difficili  a  nascondersi  di  quello  che  sieno 
i  pensieri  sul  volto  d'un  curato  agli  occhi  della  serva. 
Ma  lo  spavento  e  l'agitazione  di  Don  Abbondio  erano 
così  vivamente  dipinti  negli  occhi,  negli  atti  e  in 
tutta  la  persona,  che  per  distinguerli  non  vi  sareb- 
bero bisognati  gli  occhi  della  vecchia  Vittoria. 

—  Ma  che  cosa  ha,  signor  padrone? 

— .Niente,  niente. 

Questa  risposta  di  formalità,  Vittoria  se  la  doveva 


(*)  Nella  stessa  prima  minuta  la  ribattezzò  poi  Perpetua; 
nome,  come  tanti  altri  de*  Promessi  Sposi,  divenuto  fa- 
moso. In  uno  studio  molto  geniale  del  Graziadei  [La 
Serva  di  Don  Abbondio,  Palermo,  Reber,  1903]  si  legge  : 
«  In  quella  casa,  piccola,  che  in  tre  passi  si  traversa  una 
«stanza  e  s'è  nell'altra,  non  v'ha  di  grande  che  il  buon 
«  senso  di  Perpetua,  e  solo  la  lingua  di  lei  si  move  in 
«fretta».   (Ed.) 


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—    619     — 

aspettare,  e  non  la  contò  "per  una  risposta,  e  pro- 
seguì : 

—  Come,  niente?  Signor  padrone,  ella  ha  avuto 
uno  spavento:  vuol  darmi  ad  intendere?... 

—  Quando  dico  niente,  ripigliò  Don  Abbondio 
con  impazienza,  o  è  niente,  o  è  cosa  che  non  posso 
dire. 

Vittoria,  vedendolo  più  presso  alla  confessione 
che  non  avrebbe  sperato  in  due  botte  e  risposte,  andò 
sempre  più  incalzando.  —  Che  non  può  dire  nem- 
meno a  me  ?  Oh  bella,  chi  si  piglierà  cura  della  sua 
salute?  Chi  rimedierà. . . . 

—  Tacete,  tacete,  e  non  parecchiate  altro,  che 
questa  sera  non  cenerò. 

Quando  Vittoria  intese  questo,  fu  certa  che  v'era 
una  cosa  da  sapersi  e  che  la  cosa  era  grave,  e  giurò 
a  sé  stessa  di  non  lasciare  andare  a  dormire  il  cu- 
rato senza  averla  saputa.  . 

—  Ma,  signor  padrone,  per  l'amor  di  Dio  mi 
dica  che  cosa  ha:  vuol  ella  ch'io  sappia  da  altra 
parte  che  cosa  le  è  accaduto? 

—  Si,  si,  da  brava,  andate  a  fare  schiamazzo, 
a  metter  la  gente  in  sospetto. 

—  Ma  io  non  dirò  niente,  se  ella  mi  toglie  da 
questa  inquietudine. 

—  Non  direte  niente,  come  quando  siete  corsa  a 
ripetere  alla  serva  del  curato  nostro  vicino  tutti  i  miei 
lamenti  contro  il  suo  padrone,  e  m'avete  messo  nel 
caso  di  domandargli  scusa,  come  quando.... 

Vittoria  sarebbe  qui  montata  sulle  furie  se  non 
avesse  avuto  un  secreto  da  scavare,  e  se  non  avesse 
pensato  che  nulla  allontana  da  questo  intento  come 
il  piatire  sopra  cose  estranee.  Interruppe  dunque  Don 
Abbondio,  ma  in  aria  sommessa: 

—  Oh,  per  amor  del  cielo,  che  va  ella  mai   ri- 


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—     620    — 

mescolando  :  sono  stata  ben  castigata  ;  non  aveva  cre- 
duto far  male,  e  dopo  d'allora  guarda  che  mi  sia 
uscita  una  parola.  Signor  padrone,  se  io  parlo.... 

—  Via,  via,  non  giurate. 

—  Ma  vorrei  poterla  soccorrere,  chi  sa  che  io 
non  abbia  un  povero  parere  da  darle.  Io  l'ho  sempre 
servita  di  cuore  e  con  attenzione,  ma  ella  sa,  e  qui 
fece  una  voce  da  piangere,  ella  sa  che  i  misterj  non 
li  posso  soffrire.  Una  serva   fedele  ha  da  sapere.... 

In  fondo  il  curato  aveva  voglia  di  scaricare  il 
peso  del  suo  cuore,  onde  fattigli  ripetere  seriamente 
i  più  grandi  giuramenti,  le  narrò  il  miserabile  caso: 
mentre  la  buona  Vittoria,  tra  la  gioja  del  trionfo  e 
l'inquietudine  del  fatto,  che  non  poteva  esser  lieto, 
spalancò  gli  orecchi  e  ristette  colla  posata  alzata  nel 
pugno,  che  tenne  puntato  sulla  tavola. 

—  Misericordia!  Sclamò  Vittoria:  oh  gente  senza 
timor  di  Dio,  oh  prepotenti,  oh  superbi,  oh  calpe- 
statori dei  poverelli,  oh  tizzoni  d'  inferno  ! 

—  Zitto,  zitto,  a  che  serve  tutto  questo? 

—  Ma  come  farà,  signor  padrone? 

—  Oh!  vedete,  disse  il  curato  in  collera,  i  bei 
pareri  che  mi  dà  costei?  Viene  a  domandarmi  come 
farò,  come  farò,  come  se  fosse  ella  nell'impiccio  e 
che  toccasse  a  me  cavamela. 

—  Sa  il  cielo  se  me  ne  spiace,  signor  padrone; 
ma  bisogna  pensarci. 

—  Sicuro,  e  nell'imbroglio  son  io. 

—  Pur  troppo,  disse  Vittoria,  ma  non  si  lasci  spa- 
ventare :  eh  !  se  costoro  potessero  aver  fatti  come 
parole,  il  mondo  sarebbe  loro:  Dio  lascia  fare,  ma 
non  strafare:  e  qualche  volta  cane  che  abbaja  non 
morde. 

—  Lo  conoscete  voi  questo  cane  ?  e  sapete  quante 
volte  ha  morso?... 


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—      621       — 

—  Lo  conosco  e  so  bene  che.... 

—  Zitto,  zitto,  questo  non  serve. 

—  Signor  padrone,  ella  ci  penserà  questa  notte, 
ma  intanto  non  cominci  a  rovinarsi  la  salute  per 
questo:  mangi  un  boccone. 

—  Ma,  se  non  ho  voglia. 

—  Ma  se  le  farà  bene  ;  e,  detto  questo,  si  avvi- 
cinò al  seggiolone  dov'era  il  curato  e  lo  mòsse  al- 
quanto, come  per  dargli  la  leva:  il  curato  si  alzò,  ella 
spinse  il  seggiolone  vicino  alla  tavola:  il  curato  vi 
si  ripose,  e  mangiato  un  boccone  di  mala  voglia,  fa- 
cendo di  tempo  in  tempo  qualche  esclamazione,  come: 
Una  bagattella!  ad  un  galantuomo  par  mio,  ed  altre 
simili,  se  ne  andò  a  letto  colla  intenzione  di  consul- 
tare tranquillamente  e  ordinatamente  sui  casi  suoi  (*). 

La  consulta  fu  tempestosa  e  durò  tutta  la  notte. 
L'egoismo,  la  debolezza  e  la  paura  vi  si  trovavano 
come  in  casa  loro,  l'astuzia  doveva  quindi  essere  inci- 
tata e  ricevere  l'incarico  di  proporre  il  partito,  e  così 
fu.  Senza  annojare  il  lettore  colla  relazione  di  tutte  le 
fluttuazioni,  dei  ripieghi  accettati  e  rigettati,  basterà 
il  dire  che  il  partito  di  fare  quello  che  si  doveva, 
senza  darsi  per  inteso  della  minaccia,  non  fu  nemmeno 
discusso,  che  si  pensò  a  quello  di  assentarsi,  tanto 
da  aspettare  qualche  benefìzio  dal  tempo,  ma  questo 
anche  fu  rigettato,  perchè  non  v'era  spazio  per  ese- 
guirlo. La  celebrazione  del  matrimonio  era  stabilita 
pel  giorno  vegnente,  e  una  partenza  di  buon  mattino, 
senza  lasciare  nessuna  disposizione,  avrebbe  avuto 
tutto  il  colore  d'una  fuga,  ed  espóneva  a  molti  im- 
picci e  rendiconti.  Fu  però  riservato  questo  ripiego 


(*)  Qui  termina  il  capitolo  I   del  tomo  I  della   prima 
minuta,  e  incomincia  il  capitolo  II.  (Ed.) 


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—      622      — 

per  l'ultimo,  cercando  intanto  di  guadagnar  tempo 
e  di  agire  sulla  parte  più  debole.  Don  Abbondio  si 
preparò  a  questo  esperimento,  passò  in  rassegna  tutti 
i  mezzi  di  superiorità  e  d'influenza  che  l'autorità,  la 
scienza  (in  paragone  di  Fermo)  e  la  pratica  gli  da- 
vano sopra  quel  povero  giovane,  e  pensò  al  modo  di 
farli  giuocare.  Questi  bei  trovati  di  Don  Abbondio 
appariranno  più  chiaramente  nel  discorso  ch'egli  ebbe 
con  Fermo.  Fermo  non  si  fece  aspettare. 

L'accoglimento  freddo  e  imbarazzato,  l'impazienza 
e  quasi  la  collera,  il  tuono  continuo  di  rimbrotto, 
senza  un  perchè,  quel  farsi  nuovo  del  matrimonio, 
che  pure  era  concertato  per  quel  giorno,  e  non  ri- 
cusando mai  di  farlo  quando  che  sia,  parlare  però 
come  se  fosse  cosa  da  più  non  pensarvi,  le  insinua- 
zioni fatte  a  Fermo  di  metterne  il  pensiero  da  un 
canto  ;  il  complesso  insomma  delle  parole  di  Don  Ab- 
bondio presentava  un  senso  così  incoerente  e  poco 
ragionevole,  che  a  Fermo,  ripensandovi  così  nell'u- 
scire,  non  rimase  più  dubbio  che  non  vi  fosse  di  più, 
anzi  tutt'altro  di  quello  che  Don  Abbondio  aveva 
detto.  Stette  Fermo  in  forse  di  ritornare  al  curato 
per  incalzarlo  a  parlare,  ma,  sentendosi  caldo,  temette 
di  non  passare  i  limiti  del  rispetto,  pensò  alla  fin 
fine  che  una  settimana  non  ha  più  di  sette  giorni, 
e  si  avviò  per  portare  alla  sposa  questa  triste  nuova. 
Sull'uscio  del  curato  abbattè  in  Vittoria,  che  andava 
per  una  sua  faccenda,  e  tosto  pensò  che  forse  da  essa 
avrebbe  potuto  cavar  qualche  cosa,  e,  salutatala,  entrò 
in  discorso  con  lei. 

—  Sperava    che  saremmo  oggi  stati  allegri  in-  , 
sieme,  Vittoria. 

—  Ma  !  quel  che  Dio  vuole,*  povero  Fermino.  . 

—  Ditemi  un  poco,  quale  è  la  vera  ragione  del 


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—     623     — 

signor  curato  per  non  celebrare  il  matrimonio  oggi, 
come  s'era  convenuto. 

—  Oh!  vi  pare  ch'io  sappia  i  secreti  del  signor 
curato?  —  È  inutile  avvertire  che  Vittoria  pronunziò 
queste  parole  come  si  usa  quando  non  si  vuole  esser 
creduto. 

—  Via,  ditemi  quel  che  sapete;  ajutate  un  po- 
vero figliuolo. 

—  Mala  cosa  nascer  povero,  il  mio  Fermino. 
Per  timore  di  annojare  il  lettore  non  trascriverò 

tutto  il  dialogo  ;  dirò  soltanto  che  Vittoria,  fedele  ai 
suoi  giuramenti,  non  disse  nulla  positivamente,  ma 
trovò  yn  modo  per  combinare  il  rigore  dei  suoi  do- 
veri colla  voglia  di  parlare.  Invece  di  raccontare  a 
Fermo  ciò  ch'ella  sapeva,  gli  fece  tante  interroga- 
zioni, e  che  toccavano  talmente  il  fatto,  noto  a  Vit- 
toria, che  avrebbero  messo  sulla  via  anche  un  uomo 
meno  svegliato  di  Fermo,  e  meno  interessato  a  sco- 
prire la  verità.  Gli  chiese  se  non  s'era  accorto,  che 
qualche  signore,  qualche  prepotente  avesse  get- 
tati gli  occhi  sopra  Lucia,  etc;  parlò  dei  rischj  che 
un  curato  corre  a  fare  il  suo  dovere  ;  del  timore  che 
uno  scellerato  impunito  può  incutere  ad  un  galan- 
tuomo; fece  insomma  intender  tanto,  che  a  Fermo 
non  mancava  più  che  di  sapere  un  nome.  Finalmente, 
per  timore,  come  si  dice,  di  cantare,  si  separò  da 
Fermo,  raccomandandogli  caldamente  di  non  ridir 
nulla  di  ciò  che  le  aveva  detto. 

—  Che  volete  ch'io  taccia,  disse  Fermo,  se  non 
mi  avete  voluto  dir  nulla. 

—  Eh!  non  è  vero  che  non  vi  ho  detto  nulla? 
Me  ne  potrete  esser  testimonio,  ma  vi  raccomando 
il  segreto.  —  Così  dicendo,  si  mise  a  correre  per  un 
viottolo  che  conduceva  al  luogo  ov'ella  era  avviata. 
Fermo,  che  aveva  acquistata  tutta  la  certezza  che  una 


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—     624     — 

trama  iniqua  era  ordita  contro  di  lui,  e  che  il  curato 
la  sapeva,  non  potè  più  tenersi,  e  tornò  in  fretta  alla 
casa  di  quello,  risoluto  di  non  uscire  prima  di  sa- 
pere i  fatti  suoi,  che  gli  altri  sapevano  così  bene. 
Entrò  dal  curato. 

—  Mi  promettete  ora,  disse  il  curato,  di  non  dir 
niente  ? 

Fermo,  senza  rispondere,  gli  chiese  di  nuovo  per- 
dono, e 

da  lui,  che  molto  anco  volea 
Chiedere  e  udir,  guai  lume  al  soffio  sparve. 

Don  Abbondio,  dopo  d'averlo  invano  richiamato, 
tornò  in  casa,  cercò  Vittoria;  Vittoria  non  v'era;  egli 
non  sapeva  più  quello  che  si  facesse. 

Spesse  volte  è  accaduto  a  personaggi  assai  più 
importanti  di  Don  Abbondio  di  trovarsi  in  situa- 
zioni imbrogliate  a  segno  di  non  sapere  quale  deter- 
minazione prendere,  e  non  avendo  nulla  di  opportuno 
da  fare,  e  non  potendo  stare  senza  far  nulla  senza  una 
buona  ragione,  trovarono  che  una  febbre  è  una  ragione 
ottima,  e  si  posero  al  letto  colla  febbre.  Questo  disim- 
pegno Don  Abbondio  non  ebbe  bisogno  d'andarlo  a 
cercare,  perchè  se  lo  trovò  naturalmente.  Lo  spa- 
vento del  giorno  .passato,  l'agitazione  della  notte  e 
lo  spavento  replicato  di  quella  mattina  lo  servirono 
a  maraviglia.  Si  ripose  sul  seggiolone  tremando  dal 
brivido  e  guardandosi  le  unghie  e  sospirando  ;  giunse 
finalmente  Vittoria.  Risparmio  al  lettore  i  rimpro- 
veri e  le  scuse.  Basti  dire  che  Don  Abbondio  ordinò 
a  Vittoria  di  chiamare  due  contadini  suoi  affidati  e 
di  tenerli  come  a  guardia  della  casa,  e  di  far  sapere 
che  il  curato  aveva  la  febbre.  Dati  questi  ordini,  si . 


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625 


pose  a  letto,  dove  noi  lo  lasceremo  senza  più  occu- 
parci di  lui  un  tratto  di  tempo,  nel  quale  egli  cessa 
d'avere  un  rapporto  diretto  colla  nostra  storia.  Sol- 
tanto per  prestarmi  alla  debolezza  di  quei  lettori  che 
non  capiscono  che  l'uomo  timido,  il  quale  lascia  di 
fare  il  suo  dovere  per  ispavento,  merita  meno  pietà 
dello  scellerato  consumato,  il  quale,  cercando  il  male 
e  facendolo  spontaneamente,  mostra  almeno  di  avere 
una  gran  forza  d'animo  e  di  sentire  le  alte  passioni, 
e  che  potrebbero  essere  solleciti  per  quel  meschino, 
credo  di  doverli  informare  che  Don  Abbondio  non 
morì  di  quella  febbre. 


Alkssandro  Manzoni. 


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VI. 


La  confessione  di  Lucia  e  il  consiglio  di 
Agnese. 


Parla  !  parla  !  Parlate  !  parlate  !  gridavano  in  una 
volta  la  madre  e  Fermo.  Lucia  (l),  atterrita,  coster- 


(*)  Luigi  Settembrini  [Lezioni  di  letteratura  italiana, 
settima  edizione;  III,  315]  si  domanda:  «Come  sono  gli 
«  occhi  di  Lucia  ?»  E  risponde  :  «  Non  si  sa  ;  essi  li  teneva 
«  quasi  sempre  chinati  a  terra  per  pudore.  Un  altro  poeta, 
«  e  specialmente  un  francese,  quali  occhi  avrebbe  dati  a 
«  quella  fanciulla  !  »  Nella  prima  minuta  la  descrizione  degli 
occhi  di  Lucia  c'era,  ma  nella  stessa  prima  minuta  la  can- 
cellò. Ecco  il  passo.  Scrivo  in  corsivo  e  metto  tra  due 
parentesi  la  parte  a  cui  dette  di  frego.  «Oltre  questo, 
«che  era  l'ornamento  particolare  di  quel  giorno,  Lucia 
«  aveva  quello  quotidiano  di  una  modesta  bellezza  [.  Questo 
«era  l'ornamento  particolare  di  quel  giorno ,  tna  Lucia  ne 
«  aveva  un  quotidiano,  che  consisteva  in  due  occhi  fieri,  vivi 
«  e  modesti,  e  in  un  volto  di  una  regolare  e  non  comune 
«bellezza']',  la  quale  era  allora  accresciuta  e  per  dir  così 
«abbellita  dalle  varie  affezioni  dell'animo  suo  in  quel 
«  giorno.  Poiché  appariva  nei  suoi  tratti  una  gioja  non 
«senza  un  leggier  turbamento,  un  misto  d'impazienza  e 
«  di  timore,  e  quella  specie  di  accoramento  tranquillo  che 
«ad  ora  ad  ora  si  mostra  sul  volto  delle  spose,  e  che 
«  temperato  dalle  emozioni  gioconde  e  liete,  non  turba  la 
«  bellezza,  ma  l'accresce  e  le  dà  un  carattere  particolare  ». 


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—     627     — 

nata,  vergognosa,  singhiozzando,  arrossando,  sclamò: 
Santissima  Vergine  !  Chi  avrebbe  creduto  che  le  cose 
sarebbero  giunte  a  questo  segno  !  Quel  senza  timore 
di  Dio  di  Don  Rodrigo  veniva  spesso  alla  filanda 
a  vederci  trarre  la  seta.  Andava  da  un  fornello  al- 
l'altro, facendo  a  questa  e  a  quella  mille  vezzi,  Puno 
peggio  dell'altro:  a  chi  ne  diceva  una  trista,  a  chi 
una  peggio  e  si  pigliava  tante  libertà:  chi  fuggiva, 
chi  gridava;  e,  pur  troppo,  v'era  chi  lasciava  fare. 
Se  ci  lamentavamo  al  padrone,  egli  diceva:  badate 


Il  consigliere  Federico  de  Miiller  raccontando  nelle 
proprie  Memorie  una  visita  che  fece  al  Manzoni  a  Brusu- 
glio,  nell'agosto  del  1829,  scrive:  «Discorremmo  molto 
«  dei  Promessi  Sposi.  Io  gli  detti  copia  d'una  lettera  in 
«  cui  una  amica,  di  molto  ingegno,  si  manifesta  molto 
«entusiasta  di  questa  opera.  Ne  ebbe  gran  gioia;  ma 
«contro  l'osservazione  che  vi  si  trova,  esser  cioè  Lucia 
«più  un  ideale  che  una  vera  figura  d'italiana,  affermò 
«subito  che  la  purezza  e  la  castità  delle  contadine  lom- 
«  barde  supera  ogni  aspettativa,  e  che  egli  ritrasse  Lucia 
«  fedelmente  dal  vero.  Madama  »  \Enrichettd\  «  Manzoni 
«s'accordava  in  ciò  perfettamente  con  lui,  e  m'assicurò 
«che  tra  le  contadinelle  di  que'  contorni  esiste  una  tale 
«esagerata  morigeratezza  e  ritrosia,  da  costringerle  a  ben 
«  guardarsi,  quando  vanno  la  domenica  a  passeggiare  col 
«  fidanzato,  dal  prenderlo  per  la  mano  e  dall 'esser  fami- 
«gliari  con  lui,  se  non  vogliono  correr  pericolo  di  venir 
«diffamate  dal  popolino». 

Racconta  lo  Stampa  {Alessandro  Manzoni,  la  sua  fa- 
miglia, i  suoi  amici;  II,  167]:  «Un  giorno  il  Manzoni, 
«  al  caminetto  del  suo  studio,  mi  domandò  spontanea- 
«  mente  e  senza  che  me  l'aspettassi:  —  Dimmi  un  po', 
«non  ti  pare  che,  come  contadina,  abbia  idealizzato  un 
«po'  troppo  la  Lucia?  —  Risposi  francamente:  —  No! 
«  perchè  ho  avuto  occasione  di  conoscere  qualche  conta- 
«  dina  che  aveva  dei  sentimenti  puri  ed  un  cuore  delicato 
«  come  quello  della  tua  Lucia.  —  Mi  parve  che  gradisse 
«  molto  questa  risposta  e  che  rimanesse  molto  soddisfatto 
«di  questa  mia  assicurazione».  (Ed.) 


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—     628     — 

a  fare  il  fatto  vostro,  non  gli  date  ansa,  sono  scherzi, 
e  borbottava  poi  :  gli  è  un  cavaliere,  gli  è  un  uomo 
che  può  fare  del  male;  è  un  uomo  che  sa  mostrare 
il  viso.  Quel  tristo  veniva  talvolta  con  alcuni  suoi 
amici,  gente  come  lui.  Un  giorno  mi  trovò  mentre 
io  usciva  e  mi  volle  tirar  in  disparte,  e  si  prese  con 
me  più  libertà  :  io  gli  sfuggii,  ed  egli  mi  disse  in  col- 
lera: ci  vedremo:  i  suoi  amici  ridevano  di  lui  ed 
egli  era  ancor  più  arrabbiato.  Allora  io  pensai  di  non 
andar  più  alla  filanda,  feci  un  po'  di  baruffa  colla 
Marcellina,  per  aver  un  pretesto,  e  vi  ricorderete, 
mamma,  eh*  io  vi  dissi  che  non  ci  andrei.  Ma  la  fi- 
landa era  sul  finire,  per  grazia  di  Dio;  e  per  quei 
pochi  giorni  io  stetti  sempre  in  mezzo  alle  altre,  di 
modo  ch'egli  non  mi  potè  cogliere.  Ma  la  persecu- 
zione non  fini  :  colui  mi  aspettava  quando  io  andava 
al  mercato,  e  "vi  ricorderete,  mamma,  ch'io  vi  dissi 
che  aveva  paura  d'andar  sola,  e  non  ci  andai  più: 
mi  aspettava  quand'  io  andava  a  lavare,  ad  ogni  passo  : 
io  non  dissi  nulla;  forse  ho  fatto  male:  ma  pregai 
tanto  Fermo  che  affrettasse  le  nozze:  pensava  che 
quando  sarei  sua  moglie  colui  non  ardirebbe  più  tor- 
mentarmi; ed  ora....  Qui  le  parole  della  povera  Lucia 
furono  tronche  da  un  violento  scoppio  di  pianto. 

—  Birbone  !  assassino  !  dannato  !  sclamava  Fermo, 
correndo  su  e  giù  per  la  stanza,  e  mettendo  di  tratto 
in  tratto  la  mano  sul  manico  del  suo  coltello. 

—  Ma  perchè  non  parlare  a  tua  madre?  disse 
Agnese:  se  io  l'avessi  saputo  prima.... 

Lucia  non  rispose,  perchè  la  risposta,  che  si  sen- 
tiva in  mente,  non  era  da  darsi  a  sua  madre:  tutto 
il  vicinato  ne  sarebbe  stato  informato.  I  singulti  di 
Lucia  la  dispensavano  dall'obbligo  di  parlare. 

—  Non  ne  hai  tu  fatto  parola  con  nessuno?  ri- 
dimandò Agnese. 


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—     629     — 

—  Si,   mamma,   l'ho  detto  al  Padre  Galdino  (l) 
in  confessione. 

—  Hai  fatto  bene,  ma  dovevi  dirlo  anche  a  tua 
madre.  E  che  ti  ha  detto  il  Padre  Galdino? 


(')  Lo  ribattezzò  col  nome  di  Padre  Cristoforo  nel  capi- 
tolo IV  del  tomo  I  della  stessa  prima  minuta  ;  nella  quale,  da 
principio,  lo  fece  anche  guardiano  del  convento  di  Pesca- 
renico ;  carica,  per  altro,  che  gli  tolse  quasi  subito.  Il  nome 
di  Galdino  lo  dette  invece  al  cercatore  delle  noci,  prima 
da  lui  chiamato  fra  Canziano.  Costui  fa  la  sua  comparsa 
nel  capitolo  III  del  tomo  I.  «S'ode  picchiare  all'uscio 
«  e  nello  stesso  momento  un  sommesso,  ma  distinto  Deo 
«gratias.  Lucia,  immaginandosi  chi  poteva  essere,  corse 
«  ad  aprire  ;  e  allora,  fatto  un  inchino,  entrò  infatti  un 
«  laico  cercatore  cappuccino  colla  sua  bisaccia  pendente 
«alla  spalla  sinistra,  e  l'imboccatura  di  essa  attorcigliata 
«  e  stretta  nelle  due  mani  sul  petto.  — :  Fra*  Canziano, 
«  dissero  le  due  donne.  —  Il  Signore  sia  con  voi,  disse 
«  il  frate  :  vengo  per  la  cerca  delle  noci  ;  e  come  il  rac- 
«  colto  è  stato  buono,  voi  ne  darete  a  Dio  la  sua  parte, 
«  affinchè  ve  ne  dia  un  altro  eguale  o  migliore  l'anno 
«  venturo  ;  se  però  i  nostri  peccati  non  attireranno  qual- 
«che  castigo.  —  Lucia,  vanne  a  pigliare  le  noci  pei  pa- 
«  dri,  disse  Agnese  ».  Mentre  la  figlia  eseguisce  la  com- 
missione, fra  Canziano  racconta  alla  madre  il  miracolo 
delle  noci,  avvenuto  in  Romagna,  dove  egli  era  stato 
cercatore  ;  e  avvenuto  al  tempo  del  «  padre  Agapito  »  (ri- 
battezzato nel  testo  definitivo  padre  Macario)^  «  che  era 
«un  santo».  Poi  così  prosegue  il  racconto:  «Qui  ricom- 
«  parve  Lucia  col  grembiule  tanto  carico  di  noci  che  lo 
«  poteva  reggere  a  fatica,  tenendo  i  due  capi  sospesi  colle 
«  braccia  tese  e  allungate.  Mentre  fra  Canziano  si  tolse 
«  la  bisaccia  dalle  spalle,  la  pose  in  terra  e  aprì  la  bocca 
«  di  quella  per  introdurvi  l'abbondante  elemosina,  la  madre 
«  fece  un  volto  attonito  e  severo  a  Lucia,  per  la  sua  pro- 
«  digalità;  ma  Lucia  le  diede  un'occhiata,  che  voleva  dire: 
«mi  giustificherò.  Fra  Canziano  proruppe  in  elogj,  in  au- 
«gurj,  in  promesse,  in  ringraziamenti;  e,  rimessa  la  bi- 
«  saccia,  si  avviò;  ma  Lucia,  fermatolo:  —  Vorrei  una 
«  carità  da  voi,  disse.  Vorrei  che  diceste  al  Padre  Galdino 


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—    630    — 

—  Mi  ha  detto  che  cercassi  di  evitare  colui  ;  che 
non  vedendomi,  non  si  curerebbe  più  di  me;  che  af- 


«  che  ho  bisogno  di  parlargli  di  somma  premura  ;  e  che 
«mi  faccia  la  carità  di  venire  da  noi  poverette  subito  su- 
«bito,  perchè  io  non  posso  venire  alla  chiesa. 

—  «  Non  volete  altro  ?  non  passerà  un'ora  che  lo  dirò 
«al  Padre  Galdino. 

—  «  Non  mi  fallate. 

—  «State  tranquilla;  e  così  detto,  partì,  un  po'  più 
«  curvo  e  più  contento  che  non  quando  era  arrivato. 

«  Il  Padre  Galdino  era  un  uomo  di  molta  autorità  fra  i 
«suoi  e  in  tutto  il  contorno;  eppure  fra  Canziano  non 
«  fece  nessuna  osservazione  a  questa  specie  di  ordine  che 
«  gli  si  mandava  da  una  donnicciuola  di  venire  da  lei  ;  la 
«commissione  non  gli  parve  strana  niente  più  che  se 
«  gli  si  fosse  commesso  di  avvertire  il  Padre  Galdino  che 
«  il  Vicario  di  Provvisione  e  i  Sessanta  del  Consiglio  ge- 
«  nerale  della  Città  di  Milano  lo  richiedevano  per  man- 
«  darlo  ambasciatore  a  Don  Filippo  Quarto,  Re  di  Ca- 
«  stiglia,  di  Leone,  etc.  Non  vi  era  nulla  di  troppo  basso, 
«né  di  troppo  elevato  per  un  cappuccino:  servire  talvolta 
«gl'infimi,  ed  esser  serviti  dai  potenti;  entrare  nei  pa- 
«  lazzi  e  nei  tugurii  colla  stessa  aria  mista  di  umiltà  e  di 
«  padronanza  ;  essere  nella  stessa  casa  un  soggetto  di  pas- 
«  satempo,  e  un  personaggio  senza  il  quale  non  si  decideva 
«  nulla  ;  cercare  la  limosina  da  per  tutto,  e  farla  a  tutti 
«  quelli  che  la  chiedevano  al  convento  ;  a  tutto  era  av- 
«  vezzo  un  cappuccino,  e  faceva  tutto  a  un  dipresso  colla 
«stessa  naturalezza,  e  non  si  stupiva  di  nulla.  Uscendo 
«  dal  suo  convento  per  qualche  affare,  non  era  impossibile 
«  che  prima  di  tornarsene  si  abbattesse,  o  in  un  principe 
«che  gli  baciasse  umilmente  la  punta  del  cordone,  o  in 
«  una  mano  di  ragazzacci  che,  fingendo  di  essere  alle  mani 
«  fra  di  loro,  gli  bruttassero  la  barba  di  fango.  La  parola 
«frate  in  quei  tempi  era  proferita  colla  più  gran  venera- 
«  zione  e  col  più  profondo  disprezzo  ;  era  un  elogio  e  un'in- 
«  giuria  :  i  cappuccini  forse  più  di  tutti  gli  altri  riunivano 
«  questi  due  estremi,  perchè  senza  ricchezze,  facendo  più 
«  aperta  professione  di  umiliazioni,  si  esponevano  più  fa- 
«cilmente  al  vilipendio,  e  alla  venerazione  che  possono 
«  venire  da  questa  condotta.    La  considerazione  poi  data 


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-     63i     - 

frettassi  le  nozze;  e  che  se  durava  la  persecuzione, 
egli  ci  penserebbe. 


«  generalmente  al  loro  Ordine  li  poneva  nel  caso  sovente 
«  di  giovare  e  di  nuocere  ai  privati,  di  essere  grandi  ajuti 
«  e  grandi  ostacoli,  e  da  quindi  anche  la  varietà  del  sen- 
timento che  si  aveva  per  essi,  e  delle  opinioni  sul 
«conto  loro.  Varii  pure  e  moltiformi  erano  e  dovevano 
«  essere  i  motivi  che  conducevano  gli  uomini  ad  arruo- 
«  larsi  in  un  esercito  così  fatto.  Uomini  compresi  della 
«  eccellenza  di  quello  stato,  che  allora  era  esaltata  uni- 
«  versalmente  ;  altri  per  acquistare  una  considerazione 
«alla  quale  non  sarebbero  mai  giunti^  vivendo,  come  allora 
«si  viveva,  nel  secolo;  altri  per  fuggire  una  persecuzione, 
«  per  cavarsi  da  un  impiccio  ;  altri  dopo  una  grande  sven- 
«  tura,  disgustati  del  mondo  ;  talvolta  principi,  o  fastiditi 
«o  atterriti  del  loro  potere;  molti  perchè  di  quelli  che 
«  entrano  in  una  carriera  per  la  sola  ragione  che  la  ve- 
«dono  aperta;  molti  per  un  sentimento  vero  di  amor  di 
«Dio  e  degli  uomini,  per  l'intenzione  di  essere  virtuosi 
«  ed  utili  ;  e  questa  loro  intenzione  (perchè  quando  si  è 
«  persuasi  d'una  verità  bisogna  dirla;  l'adulazione  ad  una 
«opinione  predominante  ha  tutti  i  caratteri  indegni  di 
«  quella  che  si  usa  verso  i  potenti),  questa  loro  intenzione 
«non  era  una  pia  illusione,  l'errore  d'un  buon  cuore  e 
«  d'una  mente  leggiera,  come  potrebbe  parére,  e  come 
«  pare  talvolta  a  chi  non  sa,  o  non  considera  le  circostanze 
«e  l'idee  di  quei  tempi:  era  una  intenzione  ragionata, 
«formata  da  una  osservazione  delle  cose  reali;  e  in  fatti 
«  con  queste  intenzioni  molti,  abbracciando  quello  stato,  fa- 
«  cevano  del  bene  tutta  la  loro  vita;  anzi  molti,  che  sa- 
«  rebbero  stati  uomini  pericolosi,  che  avrebbero  accresciuti 
«i  mali  della  società,  diventavano  utili  con  quell'abito 
«indosso.  Ho  fatta  tutta  questa  tiritera,  perchè  nessuno 
«trovi  inverisimile  che  fra  Canziano,  senza  fare  alcuna 
«obbiezione,  senza  stupirsi,  si  sia  incaricato  di  dire  nul- 
«  lameno  che  al  Padre  Guardiano  che  s' incomodasse  a 
«  portarsi  da  una  donnicciuola,  che  aveva  bisogno  di  par- 
«  largii  ». 

Il  mutamento  del  nome  seguì,  come  s'è  detto,  nel 
capitolo  IV,  che  prima  intitolò  :  //  Padre  Guidino,  e  poi  : 
//  Padre   Cristoforo \   e  seguì   dopo   che   n'ebbe  scritte 


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—     632     — 

—  Oh  che  imbroglio!  che  imbroglio!  riprese  la 
madre. 


alcune  pagine.  Son  queste  :  «  Era  un  bel  mattino  di  no- 
«  vembre;  la  luce  era  diffusa  sui  monti  e  sul  lago:  le  più 
«  alte  cime  erano  dorate  dal  sole  non  ancora  comparso 
«  sull'orizzonte,  ma  che  stava  per  ispuntare  dietro  a  quella 
«  montagna,  che  dalla  sua  forma  è  chiamata  il  Resegone 
«(Segone),  quando  il  Padre  Galdino,  a  cui  fra  Canziano 
«  aveva  esposta  fedelmente  l'ambasciata,  si  avviò  dal  suo 
«  convento  per  salire  alla  casetta  di  Lucia.  Il  cielo  era 
«  sereno  e  un  venticello  d'autunno  staccando  le  foglie 
«  inaridite  del  gelso  le  portava  qua  e  là.  Dal  viottolo  guar- 
«  dando  sopra  le  picciole  siepi  e  sui  muricciuoli  si  vede- 
«vano  splendere  le  viti  per  le  foglie  colorate  di  diversi 
«rossi,  e  i  campi,  già  seminati  e  lavorati  di  fresco,  spicca- 
«  vano  dall'altro  terreno  come  lunghi  strati  di  drappi 
«  oscuri  stesi  sul  suolo.  L'aspetto  della  terra  era  lieto,  ma 
«gli  uomini  che  si  vedevano  pei  campi  o  sulla  via  mo- 
«stravano  nel  volto  l'abbattimento  e  la  cura.  Ad  ogni 
«  tratto  s' incontravano  sulla  via  mendichi  laceri  e  maci- 
«  lenti,  invecchiati  nel  mestiere,  ma  fra  i  quali  molti  si  co- 
«  noscevano  per  forestieri,  che  la  fame  aveva  cacciati  da 
«  luoghi  più  miserabili,  dove  la  carità  consueta  non  aveva 
«  mezzi  per  nutrirli  ;  e  che  passando  a  canto  ai  pitocchi 
«  indigeni  del  cantone  gli  guardavano  con  diffidenza  e  ne 
«  erano  guardati  in  cagnesco  come  usurpatori.  Di  tempo 
«in  tempo  si  vedevano  alcuni,  i  quali  dal  volto,  dal  modo 
«  e  dall'abito  mostravano  di  non  aver  mai  tesa  la  mano 
«  e  di  essere  ora  indotti  a  farlo  dalla  necessità.  Passavano 
«  cheti  a  canto  al  Padre  Galdino,  facendogli  umilmente  di 
«  cappello,  senza  dirgli  nulla,  perchè  la  sola  parola  che 
«  indirizzavano  ai  passeggieri  era  per  chiedere  l'elemosina, 
«  e  un  cappuccino,  come  ognun  sa,  non  aveva  niente.  Ma 
«  il  buon  Padre  Galdino  si  volgeva  a  quelli  che  appari- 
«  vano  più  estenuati,  più  avviliti,  e  diceva  loro  in  aria 
«  di  compassione  :  —  Andate  al  convento,  fratello  ;  finché 
«  ci  sarà  un  tozzo  per  noi,  lo  divideremo.  —  I  contadini, 
«sparsi  pei  campi,  non  rallegravano  più  la  scena  di  quello 
«  che  facessero  i  poverelli.  Salutavano  essi  umilmente  il 
«  Padre  Galdino,  e  quelli  a  cui  egli  domandava  come  l'an- 
«  dasse  :  —  Come  vuole,  padre?  rispondevano:  lava  ma- 


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—     633     — 

Férmo  si  arrestò  tutt'ad  un  tratto  ;  guardò  Lucia 
con  un  atto  di  tenerezza  accorata  e  rabbiosa  e  disse  : 
questa  è  l'ultima  che  fa  quel  birbone. 

—  Ah  no,  Fermo,  per  amor  del  cielo,  gridò  Lucia, 


«  lissimo.  —  Alcuni,  che  in  tempi  ordinari  non  avrebbero 
«  osato  fermare  e  interrogare  il  Padre  Guardiano,  fatti  più 
«  animosi  per  la  miseria  dei  tempi,  gli  dicevano  :  —  Come 
«anderà  questa  faccenda,  Padre  Galdino? 

«  —  Sperate  in  Dio,  che  non  vi  abbandonerà.  Povera 
«  gente  !  Il  raccolto  è  proprio  andato  male  ? 

«  —  Grano  non  ne  abbiamo  per  due  mesi,  le  castagne 
«  sono  fallate,  e  il  lavoro  cessa  da  tutte  le  bande. 

«  Questa  vista  e  questi  discorsi  crescevano  vie  più  la 
«  mestizia  del  buon  cappuccino,  il  quale  camminava  già 
«  col  tristo  presentimento  in  cuore  di  andare  ad  udire  una 
«  qualche  sventura. 

«  Ma  perchè  pigliava  egli  tanto  a  cuore  gli  affari  di 
«  Lucia?  E  perchè  al  primo  avviso  si  era  egli  mosso  come 
«  ad  una  chiamata  del  Padre  Provinciale  ?  E  chi  era  questo 
«  Padre  Cristoforo  ?  » 

Ecco  la  prima  volta  che  dà  al  frate  il  nuovo  nome. 
Ne  fa  questa  pittura  :  «  Il  Padre  Cristoforo  da  Cremona 
«  era  un  uomo  di  circa  sessanta  anni  »  (poi  corresse  :  più 
presso  ai  sessanta  che  ai  cinquantanni)  :  «  e  il  suo  aspetto 
«  come  i  suoi  modi  annunziavano  un  antico  e  continuo 
«  combattimento  tra  una  natura  prosperosa,  robesta,  un'in- 
«  dole  ardente,  avventata,  impetuosa  e  una  legge  imposta 
«  alla  natura  e  all'  indole  da  una  volontà  efficace  e  co- 
«  stante.  Il  suo  capo,  calvo  e  coperto  all'intorno,  secondo 
«  il  rito  cappuccinesco,  di  una  corona  di  capelli,  che  l'età 
«  aveva  renduti  bianchi,  si  alzava  di  tempo  in  tempo  per 
«  un  movimento  di  spiriti  inquieti  e  tosto  si  abbassava 
«  per  riflessioni  di  umiltà.  La  barba,  lunga  e  canuta,  che 
«  gli  copriva  il  mento  e  parte  delle  guance,  faceva  ancor 
«  più  risaltare  le  forme  rilevate,  alle  quali  una  antica  abi- 
tudine di  astinenza  aveva  dato  più  di  gravità  che  tolto 
«di  espressione,  e  due  occhj  vivi,  pronti,  che  di  tratto 
«  in  tratto  sfolgoravano  con  vivacità  repentina  :  come  due 
«cavalli  bizzarri  condotti  a  mano  da  un  cocchiere  col 
«  quale  sanno  per  costume  che  non  si  può  vincerla,  pure 


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—    634    — 

gettandogli  quasi  le  braccia  al  collo.  No,  per  amor 
del  cielo.  Dio  c'è  anche  pei  poveri.  Come  volete 
ch'egli  ci  ajuti  se  facciamo  del  male? 

—  No  no,  per  amor  del  cielo,  ripeteva  Agnese. 


«  fanno  di  tratto  in  tratto  qualche  salto,  che  termina  su- 
«bito  con  una  buona  stirata  di  briglie. 

«  Il  signor  Ludovico  (così  fu  nominato  dal  suo  padrino 
«quegli  che  facendosi  poi  frate  prese  il  nome  di  Cristo- 
«foro),  il  signor  Ludovico  era  figlio  d'un  ricco  mercante 
«cremonese,  il  quale  negli  ultimi  anni  suoi,  vedovo  e 
«  con  questo  unico  figlio,  rinunziò  al  commercio,  comperò 
«beni  stabili,  si  pose  a  vivere  da  signore,  cercò  di  far 
«dimenticare  che  era  stato  mercante,  e  avrebbe  voluto 
«  dimenticarlo  egli  stesso.  Ma  il  fondaco,  le  balle,  il  brac- 
«  ciò  gli  tornavano  sempre  alla  fantasia,  come  l'ombra  di 
«  Banco  a  Macbeth  ». 

Per  quali  ragioni  l'Autore  prima  lo  chiamò  Galdino  e  poi 
Cristoforo?  Damiano  Muoni  [L'antico  Stato  di  Rotnano  di 
Lombardia  ed  altri  Comuni  del  suo  Mandamento,  cenni  sto- 
riciy  documenti  e  regesti,  Milano,  Brigola,  1871  ;  pp.  243-244] 
rinvenne  negli  Archivi  di  Finanza  di  Milano  «un  docu- 
«  mento  del  massimo  interesse  »,  che  «  potrebbesi  deno- 
«  minare  :  Incarico  impartito  il  21  ottobre  1646  dal  Rev. 
«/*.  Cristoforo  da  Como,  Guardiano  di  Monza,  a  frate 
«  Lorenzo  da  Novara,  Ministro  Provinciale \  per  verificare 
«  quali  furono  i  PP,  Cappuccini,  che  si  distinsero  in  cari- 
<ktatevoli  servigi,  massitne  all'epoca  della  peste  del  1630». 
Il  P.  Felice  da  Mezzana,  cappuccino,  [Cenni  sul  Padre 
Cristoforo  del  Manzoni,  Crema,  tip.  S.  Pantaleone  di 
L.  Meleri,  1899;  p.  12]  osserva  giustamente  che  è  un  ti- 
tolo «  dato  con  inesattezza,  perchè  da  esso  titolo  risulta 
«  il  guaio  che  un  inferiore  {Guardiano)  darebbe  ordini  ad 
«  un  superiore  {Provinciale)  ».  Propone  dunque  che  invece 
s'intitoli  :  Processo  autentico,  istituito  per  commissione  Ge- 
neralizia, sui  Cappuccini  assistenti  al  lazzeretto  e  sul  ser- 
vizio ivi  prestato  nella  pestilenza  del  1630,  compilato  Vanno 
1646.  Da  questo  Processo  risulta  che  il  P.  Vittore,  uno 
de'  superstiti,  dichiarò  che  tra  i  cappuccini  che  prestarono 
l'opera  loro  nel  lazzeretto  di  Milano  vi  fu  anche  il  «  Padre 
«  Fra  Cristoforo  Picenardi  da   Cremona,    sacerdote,  che 


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—     635     — 

—  Fermo  !  disse  Lucia,  voi  avete  un  mestiere  ed 
io  so  lavorare,  andiamo  lontano  tanto  che  costui  non 
senta  più  parlare  di  noi. 


«  mori  nel  mese  di  giugno  del  suddetto  anno  1630  di 
«  peste,  stimata  da  lui  catarro,  ma  dagli  altri  tutti  giudi- 
«cata  vera  peste,  havendo  servito  con  molto  fervore  di 
«  carità  et  esempii  religiosi  a*  poveri  appestati  ».  Fra  Bo- 
nifacio, laico,  altro  dei  superstiti,  depose  che  il  «  Padre 
«Fra  Cristoforo  servi  e  morì  di  peste  al  lazzeretto»;  e  il 
P.  Felice  Casati,  terzo  e  ultimo  dei  superstiti,  ripetè  che 
il  «  Padre  Fra  Cristoforo  servì  nel  lazzeretto  e  vi  lasciò 
«la  vita».  La  scoperta  fece  chiasso,  e  il  «documento» 
fu  mostrato  al  Manzoni,  il  quale  corse  nella  sua  libreria 
e  tornò  con  le  Memorie  delle  cose  notabili  successe  in  Mi- 
lano intorno  al  mal  contagioso  ranno  1630 ,  ec.  raccolte 
da  Don  Pio  La  Croce,  In  Milano,  nelle  Stampe  di  Giu- 
seppe M  aganza,  1730;  in-40.  Son  le  memorie  stesse  che  cita 
nel  cap.  XXXII  de'  Promessi  Sposi,  dicendole  tratte 
«  evidentemente  da  scritto  inedito  d'autore  vissuto  al  tempo 
«della  pestilenza;  se  pure  non  è  una  semplice  edizione, 
«piuttosto  che  una  nuova  compilazione».  Tornò  dunque 
con  queste  Memorie  e  lesse  al  suo  visitatore  quello  che 
vi  sta  scritto  a  pag.  12.  «Nelli  stessi  giorni;»  (così  il 
La  Croce)  «  il  P.  Cristoforo  da  Cremona,  sacerdote,  molto 
«avanti  già  eletto  a  quel  servizio,  tolti  gli  ostacoli  che 
«  fin  allora  gliel'avevano  impedito,  alla  fine  entrò  nel  de- 
«siderato  arringo:  e  ben  si  può  dire  desiderato,  perchè 
«  più  volte  fu  udito  dire  :  —  Io  ardo  di  desiderio  di 
«andare  a  morire  per  Gesù  Cristo,  ed  ora  mi  pare  mil- 
«  l'anni.  —  Desiderio  che  ebbe  poi  felicissimo  V  effetto 
«  corrispondente,  a'  io  pure  di  giugno,  morendo  di  peste 
«  per  il  servizio  di  quei  poveri,  nella  persona  de'  quali 
«serviva  il  suo  diletto  Gesù».  Gfr.  Stoppani  A.  I primi 
anni  di  Alessandro  Manzoni,  spigolature,  Milano,  Ber- 
nardoni,  1874;  pp.  135-138. 

Il  Muoni  tira  la  conseguenza  che,  «  giusta  siffatto  do- 
«  cumento,  il  P.  Cristoforo  anziché  essere  al  mondo  un 
«Ludovico,  nato  da  un  semplice  mercante  di  provincia, 
«apparterrebbe  in  quella  vece  all'antica  e  patrizia  fami- 
«glia  dei  Picenardi  di  Cremona».  Il  «documento»  in- 
vece prova  soltanto  che  il  P.  Cristoforo,  morto  di  peste 


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-     636    — 

—  Ah!  Lucia!  e  poi?  non  siamo  ancora   marito 
e  moglie  :  il  curato  vorrà  farci  la  fede  di  stato  libero  ? 


al  lazzeretto,  apparteneva  alla  famiglia  Picenardi  di  Cre- 
mona. Ora,  siccome  a  Cremona  delle  famiglie  Picenardi 
ce  n'erano  parecchie,  alcune  patrizie,  altre  no,  resta  a 
vedersi  da  quale  di  esse  sia  uscito.  Della  «  nobilissima 
famiglia  dei  Picenardi  »  già  l'aveva  detto  il  P.  Mas- 
simo Bertani  da  Valenza  [Anna/i  Cappuccini,  part.  Ili, 
voi.  Ili,  n.°  30];  ma  ottantaquattro  anni  dopo  la  morte 
del  P.  Cristoforo  e  senza  darne  nessuna  prova.  Ai  giorni 
nostri  se  n'è  fatto  caldo  sostenitore  Don  Luigi  Lucchini, 
che  più  volte  è  sceso  in  campo.  Cfr.  Fra  Cristoforo  dei 
Promessi  Sposi,  personaggio  storico  cremonese,  illustra- 
zione documentata,  scene  della  braveria  cremonese,  Bozzolo, 
tip.  Arini,  1902,  in-8.°  —  Commentario  dei  Promessi  Sposi, 
ovvero  la  rivelazione  di  tutti  i  personaggi  anonimi,  Boz- 
zolo, tip.  Commerciale,  1902,  in-8.°  —  Lo  stesso,  Seconda 
edizione,  riccamente  illustrata  da  medaglioni,  Lecco,  tip. 
arciv.  del  Resegone,  1904,  in-8.°  Le  sue  conclusioni  son 
queste.  Trova  ne'  libri  de'  battezzati  di  Cremona  un  Lo- 
dovico, figlio  di  Giuseppe  Picenardi  e  di  Susanna  Cellana, 
nato  il  5  decembre  1568,  non  però  appartenente  ai  «rami 
«  più  cospicui  del  casato  »,  ma  alle  «  altre  famiglie  dei  Pi- 
«cenardi,  ricche  di  censo,  senza  però  un  cenno  di  110- 
«  biltà  »  ;  e  trova  che  questo  Lodovico  era  uno  spadaccino 
e  un  attaccabrighe,  in  discordia  con  la  prepotente  e  san- 
guinaria famiglia  cremonese  degli  Ariberti.  Esclama  :  que- 
sto è"  il  Picenardi  che  si  fece  cappuccino,  e  tutto  quello  che 
scrive  il  Manzoni  del  P.  Cristoforo  è  la  biografia  di  lui,  «  non 
«  un  parto  inverosimile,  creato  dalla  fantasia  del  roman- 
«  ziere  ».  Il  P.  Felice  da  Mezzana  (_Op.  cit.  ;  pp.  7-8]  gli 
risponde  :  «  che  ci  sia  stato  un  Lodovico  nella  nobile  fami- 
«  glia  Picenardi  poco  importa,  e  il  Lucchini  avrebbe  do- 
«  vuto  fare  a  meno  della  fede  di  nascita  ;  si  dovrebbe  mo- 
«  strare:  i.°  che  questi  si  fece  cappuccino  ;  2.0  qual  fu  la 
«causa  che  diede  l'ultimo  colpo  alla  sua  vocazione».  Il 
Lucchini  non  riesce  a  dimostrare  né  una  cosa,  né  l'altra; 
e  «  dopo  d'aver  avuta  la  bella  ventura  di  poter  assodare, 
«  con  documenti  e  prove  abbastanza  copiose,  la  vita  dram- 
«  matica  di  Lodovico  Picenardi,  è  abbandonato  dalla  capric- 
«  ciosa  fortuna  nel  momento  più  bello,  quando  trattavasi 


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—     637     — 

non  saremo  pigliati  come  vagabondi  ?  dove  andarci 
a  porre? 


«  di  trovare,  stabilire,  assodare  storicamente  l'ultimo  atto, 
«  o  lo  scioglimento  del  dramma  ». 

Pio  La  Croce  nelle  sue  Memorie y  oltre  il  P.  Cristoforo 
da  Cremona  e  tanti  e  tanti  altri  cappuccini  che  presta- 
rono l'opera  loro  generosa  durante  l'infierire  della  peste, 
rammenta  anche  un  P.  Galdino  della  Brusada,  non  già 
laico,  ma  sacerdote,  che  «con  purità  particolare»  servì 
egli  pure  gli  appestati.  Il  Manzoni  dette  dunque  questo 
nome  di  Galdino  al  tipo  ideale  di  cappuccino  che  andava 
immaginando;  nome  già  portato  da  un  arcivescovo  di  Mi- 
lano, che  fu  cardinale  e  santo,  e  talmente  caritatevole  da 
restare  in  proverbio  il  pane  di  S.  Galdino.  Ma  poi  trovando 
nelle  stesse  Memorie  rammentato  un  P.  Cristoforo  da  Cre- 
mona, morto  nel  lazzeretto  assistendo  gli  appestati;  appunto 
per  aver  egli  fatto  olocausto  della  vita  in  quel  tremendo 
luogo  di  dolore,  fu  in  lui  e  col  suo  nome  che  idealizzò  il 
proprio  eroe  della  carità  cristiana.  E  a  fra  Canziano  dette  il 
nome  di  Galdino;  il  «  nome  soltanto,  si  badi  »;  e  ripensando 
al  proverbio  milanese  elpan  de  San  Galdin,  «  di  qui  dovè 
«  forse  venire  al  romanziere  l' idea  di  metter  quel  nome 
«  ad  un  frate  cercatore  ;  da  lui  destinato  a  rappresentare 
«  uno  degli  aspetti  della  vita  conventuale  »,  come  nota  col 
suo  solito  acume  il  D'Ovidio  [Fra  Galdino;  in  Le  corre- 
zioni ai  Promessi  Sposi  e  la  questione  della  lingua,  Napoli, 
Morano,  1893;  pp.  259-260].  Racconta  lo  Stampa  [Op.  cit.  ; 
II,  149]  :  «  Un  giorno  che  il  Manzoni  sorrideva  delle  sciocche 
«accuse  di  bigottismo  che  gli  erano  affibbiate....  venne 
«  fuori  a  dire  :  —  Non  hanno  capito  che  ho  messo  a  posta 
«  nel  romanzo  quel  personaggio  di  fra  Galdino  per  porre  in 
«  ridicolo  per  l'appunto  i  pregiudizi  bigotti  ?  —  ».  Il  Man- 
zoni, discorrendo  col  Bonghi,  ebbe  a  dire:  «M'hanno  chi 
«  lodato,  chi  rimproverato  d'aver  voluto  rimettere  in  onore 
«  i  Cappuccini.  Non  ci  ho  neppure  pensato.  Gli  ho  messi 
•  «  così  nel  mio  romanzo,  perchè  mi  son  parsi  una  forza  viva 
«  e  attiva  in  quei  tempi.  Ora,  non  gii  credo  più  utili  alla 
«religione».  Cfr.  D'Ovidio  F.,  I  pensieri  inediti  del  Bon- 
ghi-, in  Simpatie,  Palermo,  Sandron,  1903,  p.  79. 

Óltre  il  D'Ovidio,  si  occuparono  di  fra  Galdino,  Luigi 
Ercolani,  Fra  Galdino  a  Francesco   D'Ovidio,  Reggio, 


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-     638     - 

Lucia  ricadde  nel  pianto.  Sentite,  disse  Agnese; 
sentitemi,  che  son  vecchia.  Era  questa  una  confes- 


tip.  Lipari,  1879;  in-8°;  Alderino  Bondi,  Fra  Galditio, 
nella  Psiche,  di  Palermo,  ann.  XVI,  n.°  21,  i°  novem- 
bre 1899  ;  e  Francesco  Lo  Parco,  Due  frati  nei  «  Pro- 
messi Sposi  »,  Ariano,  Stab.  tipografico  Appulo-Irpino,  1901; 
in-8.°  Di  fra  Galdino  tratta  a  pp.  5-17  e  44-46;  l'altro  frate 
è  il  P.  Cristoforo. 

Luigi  Sailer  [//  P.  Cristo/oro  nel  Romanzo  e  nella 
Storia;  in  Discussioni  manzoniane ',  Città  di  Castello,  Lapi, 
1886,  pp.  147-196]  trova  «  parecchi  riscontri  curiosi  »  tra 
Alfonso  III  d'Este  che,  rinunziata  la  corona  ducale  di 
Modena,  si  fece  cappuccino,  e  il  frate  manzoniano.  Nic- 
colò Rodolico  [L'abdicazione  di  Alfonso  III  d'Este, 
Acireale,  tip.  dell'Etna,  1901,  pp.  87-92]  non  crede  «  esatto 
«storicamente  il  continuo  trascendere,  che  il  Sailer  nota, 
«  delle  virtù  effettive  ed  eroiche  del  Principe,  in  eccessi 
«  viziosi  di  cui  appariscono  tutti  i  germi  nel  P.  Cristoforo 
«del  Manzoni».  Per  il  Rodolico  «la  splendida  figura  del 
«  P.  Cristoforo  non  ha,  per  la  sua  verosimiglianza,  bisogno 
«  di  riprove  istoriche  in  episodii  della  vita  del  Duca  cap- 
«puccino.  Essa  vive  nell'anima  buona  eterna  dell' Uma- 
«  nità,  che  ama  il  P.  Cristoforo,  poiché  corrisponde  a  ciò 
«che  è  in  essa  di  veramente  buono,  di  quel  Buono  che 
«  talvolta,  come  scintilla  del  fuoco  divino,  sprizza  di  luce 
«nelle  azioni  umane  dei  padri  Cristo  fori  della  Storia». 
Rodolfo  Renier  [Un  riscontro  al  serio  accidente  per 
cui  indossò  la  tonaca  P.  Cristoforo  ;  in  Giornale  storico 
della  letteratura  italiana,  XXXVIII,  247-250]  nega  che  il 
Manzoni  «abbia  in  modo  alcuno  esemplato  il  Duca  cap- 
«  puccino.  Troppe  e  troppo  palesi  sono  le  diversità.  Ma 
«  se  il  Manzoni  conobbe  la  storia  di  Alfonso  (e  chi  sappia 
«quanto  accurata  sia  stata  sempre  la  sua  preparazione 
«  storica  non  dubiterà  che  l'abbia  conosciuta),  è  probabile, 
«  anzi  quasi  certo,  che  da  essa  tolse  più  d'una  ispirazione 
«  per  delineare,  in  conformità  allo  spirito  del  tempo,  la 
«  figura  di  Lodovico-Cristoforo».  In  un  brano  della  prima 
minuta,  che  ho  riportato  qui  sopra,  il  Manzoni  annovera 
tra  quelli  che  si  fecero  cappuccini  «  talvolta  Principi,  o 
fastiditi,  o  atterriti  del  loro  potere  ».  È  un  accenno  ad  Al- 
fonso III,  la  cui  vita  ritengo  abbia  appresa  dal  Muratori, 


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—     639     — 

sione  che  la  buona  Agnese  faceva  di  rado,  in  caso 
di  somma  necessità  e  quando  si  trattava  di  dar  fede 
alle  sue  parole.  Io  ho  veduto  un  poco  il  mondo  :  non 
bisogna  spaventarsi  troppo:  il  diavolo  non  è  mai  brutto 
come  si  dipinge  ;  e  a  noi  povera  gente  le  cose  pajono 
talvolta  imbrogliate,  imbrogliate,  perchè  non  abbiamo 
la  pratica  per  uscirne.  Io  ho  veduto  molte  volte  dei  casi 


non  già  nelle  biografie  che  ne  scrissero  il  P.  Giovanni  da 
Sestola,  il  P.  Giuseppe  Maria  Mozzarella  e  il  P.  Gaspero 
De  Rougnes. 

Giovanni  Livi  [//  duello  del  Padre  Cristoforo  in  re- 
lazione a  documenti  del  tempo;  nella  Nuova  Antologia^ 
fascicolo  del  16  giugno  1899J  rintracciò  una  grida  de*  Ret- 
tori di  Brescia  del  5  maggio  1589,  con  la  quale,  «consi- 
«  derando  con  quanta  facilità  il  più  delle  volte,  per  causa 
«  della  sola  precedentia  della  strada,  succedono  homicidii 
«de  importanza  »,  si  ordina,  sotto  gravi  pene,  «che  nel- 
«  T  avenire  ....  incontrandosi  gentilhomini  o  altre  persone 
«  che  pretendino  la  superiorità  della  strada,  sempre  quello 
«  che  caminarà  dalla  banda  del  muro  con  la  mano  destra 
«  verso  a  esso  muro  non  sia,  né  possa  essere  sforciato  a 
«  partirsi  da  suo  luogo,  nel  qual  modo  l'uno  et  l'altro  ha- 
«  vera  la  banda  destra».  Il  Manzoni  anche  nell'episodio 
del  duello  di  Lodovico  dipinge  i  tempi  con  tale  verità,  che 
se  ne  ha  la  piena  conferma  ne'  documenti.  Questo  prova 
la  grida,  e  niente  altro  ;  ma  che  la  grida  fosse  conosciuta 
da  lui,  che  gliela  potessero  avere  inviata  o  Camillo  Ugoni, 
o  il  Mompiani,  o  Giambattista  Pagani,  come  vuole  il  Livi, 
è  un  correr  troppo.  A  buon  conto,  quando  il  Manzoni 
scriveva  il  romanzo,  il  Mompiani  era  sotto  processo;  l'U- 
goni  in  esilio;  il  Pagani  non  si  occupò  mai  di  ricerche 
erudite. 

Il  prof.  Rodolfo  Renier  riporta  una  curiosa  lettera  d'Isa- 
bella Gonzaga  al  marito,  che  è  del  17  decembre  1507,  nella 
quale  lo  ragguaglia  che  a  Mantova,  «  essendosi  incontrati  a 
«  caso,  suso  uno  cantono,  messer  Francisco  Suardo  et  Zoan 
«  Lodovico  da  Gonzaga,  per  non  cedersi  l'un  l'altro  la  via, 
«sono  stati  fermi  più  de  nn'hora,  contendendo  de  prece- 
«  dentia,   l'uno   per  esser  ca valer,  l'altro  de  la  casa  del 


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—    640    — 

che  parevano  disperati:  un  buon  parere  d'un  uomo 
che  aveva  studiato  aggiustò  tutto.  Fate  a  modo  mio, 
Fermo.  Pigliate  quei  quattro  capponi,  poveretti  !  che 
doveva  sgozzare  io  questa  mattina  pel  banchetto  :  te- 
neteli bene  stretti  per  le  gambe,  andate  a  Lecco  : 
sapete  dove  abita  il  dottor  Pèttola?  (*).  —  Lo  so  be- 
nissimo. —  Bene,  andate  da  lui,  presentategli  i  cap- 


«  Gonzaga».  Finalmente  ebbero  un'idea  felice:  «se  vol- 
«  tarono  l'uno  al  contrario  de  l'altro,  ritornando  per  la  via 
«  dove  erano  venuti  ». 

Il  marchese  Bartolommeo  Ariberti  di  Cremona,  tro- 
vandosi a  Bologna,  fu  richiesto  d'aiuto  da  Niccolò  So- 
resina,  suo  concittadino,  che  essendo  venuto  a  litigio  col 
figlio  del  Doge  di  Venezia,  là  studente,  temeva  «che, 
«  accompagnato  dalla  sua  numerosa  fazione  di  venti  o 
«  venticinque  che  si  fussero  fra  servidori  e  scolari  »,  avesse 
«risoluto  di  affrontarlo  e  di  torgli  il  muro».  Il  marchese 
gli  dette  braccio  e  «  si  trasse  pertanto  avanti  il  suo  came- 
«  rata,  per  sostener  quel  muro  e  quella  mano  che  gli  si 
«  doveva,  e  che  gli  avversari,  co'  quali  egli  né  haveva 
«  conoscenza,  né  alcun  disparere,  tentavano  fuor  di  ra- 
«  gione  di  usurparsi.  A  quest'atto,  che  parve  ardito  a  chi 
«  supponeva  di  non  trovar  resistenza,  ma  di  potersi  ingo- 
«iare  a  man  franca  col  grosso  numero  dei  seguaci  Pav- 
«  versano,  tratte  dall'una  e  dall'altra  parte  le  spade,  cam- 
«  peggio  la  bravura  del  marchese  sì  fattamente,  che  ca- 
«gionò  terrore  agli  oppositori  e  meraviglia  grande  agli 
«spettatori,  vedendolo,  con  cinque  sole  persone,  passare 
«  avanti  vittoriosamente  ed  illeso,  sostenere  al  maggior 
«colmo  l'honore  all'amico  ed  a  sé».  Vita  del  Marchese 
Bartolomeo  Ariberti ,  dedicata  all'Illustriss.  Signore  il 
Sig.  Marchese  Girolamo  Ariberti  da  Gienserico  Franco- 
mono Scirtibargamo  [Giacomo  Ariberti],  In  Gormalta, 
senza  note  tipografiche,  [1649];  pp.  8-10.  Cfr.  anche:  Ma- 
nacorda G.,  //  duello  di  Lodovico  e  un  duello  storico  ;  nel 
Giornale  storico  della  letteratura  italiana;  XLIV,  273-276. 
Di  questi  esempi,  rovistando  per  gli  archivi,  ce  n'è  da 
trovarne  un'infinità.  (Ed.) 

(*)  Nella  stessa  prima  minuta  cancellò  qui  e  altrove 
questo  nome,  sostituendovi  quello  di    Duplica,    che    poi 


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—    641     — 

poni:  perchè,  vedete,  quando  si  vede  che  uno  può 
regalare,  gli  si  dà  retta.  Contategli  tutto  il  fatto,  e 
domandategli  parere.  Eh  ne  ho  visto  io  della  gente 
che  non  sapevano  dove  dar  del  capo,  che  andando 
a  consultarsi  con  lui  non  trovavano  la  strada,  e  dopo 
d'avergli  parlato  tornarono  a  casa  vispi  come  un  tin- 
cotto  che  saltellando  nella  barca,  per  disperazione, 
cade  nell'acqua  e  si  trova  in  casa  sua.  Fate  così, 
Fermo. 

Nelle  situazioni  molto  imbrogliate  il  parere  che 
piace  più  è  quello  di  pigliar  tempo  per  avere  un 
altro  parere  definitivo  :  ogni  consiglio  che  suggerisca 
una  risoluzione  presenta  ostacoli,  difficoltà,  nuovi 
imbrogli  :  ma  questo,  di  consigliarsi  di  nuovo  e  me- 
glio, è  semplice,  non  nuoce  e  nello  stesso  tempo  dà 
una  lusinga  indeterminata  che  per  questo  mezzo  si 
troverà  una  uscita  (l). 


nella  seconda  minuta  diventò  Azzecca-garbugli.  E  can- 
cellò anche  il  nome  della  serva  di  lui,  che  nella  prima 
minuta  era  Felicitia.  (Ed.) 

(!)  Quest'episodio  è  tolto  dal  capitolo  III  del  tomo  I 
della  prima  minuta.  (Ed.) 


Alessandro  Manzoni. 


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VII.     . 
Una  digressione. 


Bisogna  confessare  che  nei  romanzi  e  nelle  opere 
teatrali,  generalmente  parlando,  si  vive  meglio  che 
a  questo  mondo:  ben  è  vero  che  vi  s'incontrano 
birboni  più  feroci,  più  diabolici,  più  colossali,  scel- 
leraggini  più  raffinate,  più  ingegnose,  più  recondite, 
più  ardite,  che  non  nel  corso  reale  degli  avveni- 
menti; ma  vi  ha  pure  dei  grandi  vantaggi,  ed  uno 
che  basta  a  compensare  molti  mali,  uno  dei  più 
invidiabili  si  è  che  gli  onesti,  quelli  che  difendono 
la  causa  giusta,  per  quanto  sierio  inferiori  di  forze 
e  battuti  dalla  fortuna,  hanno  sempre  in  faccia  dei- 
Tempio,  ancor  che  trionfante,  una  sicurezza,  una  ri- 
soluzione, una  superiorità  di  animo  e  di  linguaggio 
che  dà  loro  la  buona  coscienza,  e  che  la  buona  co- 
scienza non  dà  sempre  agli  uomini  realmente  viventi. 
Questi,  quando  abbiano  dalla  parte  loro  la  giustizia 
senza  la  forza,  e  vogliano  pure  ottenere  qualche  cosa 
difficile  in  favore  della  giustizia,  sono  obbligati  a  pen- 
sare ai  mezzi  per  giungere  a  questo  loro  fine,  e  i 
mezzi  sono  tanto  scarsi,  e  per  porli  in  opera  senza 
guastare  la  faccenda  si  incontrano  tanti  ostacoli,  fa 
bisogno  di  tanti  riguardi,  che  da  tutte   queste  con- 


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—     643     — 

siderazioni  si  trovano  posti  necessariamente  in  uno 
stato  di  esitazione,  di  cautela  e  di  studio  che  gli  fa 
sovente  scomparire  in  faccia  ai  loro  avversarj,  riso- 
luti ed  incoraggiati  dalla  forza  e  dalla  abitudine  di 
vincere,  e  spesse  volte,  convien  dirlo,  dal  favore  o 
sciocco,  o  perverso  degli  spettatori.  L'uomo  retto 
sente,  a  dir  vero,  con  certezza  e  con  ardore  la  giu- 
stizia della  sua  ragione,  ma  questa  sua  idea  è  un  risul- 
tato, una  conseguenza  d'una  serie  di  ragionamenti  e 
di  sentimenti,  per  la  quale  è  trascorso  il  suo  animo  : 
se  egli  la  esprime,  fa  ridere  l'avversario,  il  quale 
per  un'altra  serie  d'idee  è  giunto  e  si  è  posto  in  un 
risultato  opposto:  e  pur  troppo,  tolti  alcuni  casi, 
l'uomo  che  non  ha  che  sé  per  testimonio  e  per  appro- 
vatore  e  che  vede  negli  altri  contraddizione  e  scherno 
perde  facilmente  fiducia,  e  <yasi  quasi  è  disposto  a  du- 
bitare, o  almeno  si  trova  in  quello  stato  di  contrasto 
che  fa  comparire  l'uomo  imbarazzato.  Avvien  quindi 
spesse  volte  che  un  ribaldo  mostra  in  tutti  i  suoi 
atti  una  disinvoltura,  una  soddisfazione  che  si  pren- 
derebbe quasi  per  la  serenità  della  buona  coscienza, 
se  fosse  più  placida  e  più  composta,  è  che  l'uomo 
onesto  e  nella  espressione  esteriore  e  nell'animo  in- 
terno mostra  e  prova  talvolta  una  specie  d'angustia 
e  di  vergogna,  che  si  crederebbe  rimorso,  dimodo- 
ché a  poco  a  poco  finisce  per  essere  soperchiato  non 
solo  nei  fatti,  ma  anche  nel  discorso  e  nel  contegno, 
e  sta  come  un  supplichevole  e  quasi  come  un  reo 
dinanzi  a  colui  che  lo  è  veramente. 

Si  è  fatta  questa  riflessione  per  ispiegare  come 
il  buon  Padre  Cristoforo,  il  quale  veniva  per  doman- 
dare a  Don  Rodrigo  l'adempimento  della  più  stretta 
giustizia  e  la  cessazione  della  più  vile  iniquità,  si  ri- 
mase come  confuso  e  vergognoso  quando  si  trovò 
così  solo  con  tutte   le  sue   buone  ragioni  in  mezzo 


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—     644     — 

ad  un  crocchio  romoroso  e  indisciplinato  di  amici  di 
Don  Rodrigo,  e  in  sua  presenza  (*). 

In  mezzo  a  questo  trambusto  vennero  i  servi  a 
torre  le  mense,  ricevendo  e  dando  urtoni  e  gomitate  : 
quindi  si  pose  sul  desco  molle  un  gran  piatto  pirami- 


(')  Il  Padre  Cristoforo  assiste  al  pranzo  di  Don  Ro- 
drigo. «Era  questi  in  capo  alla  tavola:  alla  sua  destra 
«sedeva  il  giovane  Conte  Orazio»,  [divenuto  poi  Attilio 
nel  testo  definitivo],  «  cugino  di  Don  Rodrigo,  suo  com- 
«pagno  di  libertinaggio  e  di  soperchieria,  e  che  villeg- 
«  giava  con  lui  ;  alla  sinistra  il  Podestà,  che  Don  Rodrigo 
«  aveva  invitato  non  senza  perchè,  potendo  trovarsi  in  un 
«impegno  dal  quale  si  sarebbe  cavato  meglio  quando  la 
«  Giustizia  fosse  tutta  disposta  in  favor  suo.  Il  Podestà 
«  mostrava  di  ricevere  Tonpre  di  sedere  famigliarmente  a 
«tavola  d'un  cavaliere  con* un  rispetto  misto  però  d'una 
«certa  libertà  che  gli  dava  il  suo  ufìcio;  accanto  a  lui  e 
«  con  un  rispetto  il  più  puro  e  il  più  sviscerato  sedeva  il 
«  nostro  dottor  Duplica,  il  quale  avrebbe  voluto  essere  il 
«  protetto  di  tutti  quelli  che  eran  da  più  di  lui  e  il  pro- 
«  tettore  di  tutti  quelli  che  gli  erano  inferiori  :  due  o  tre 
«altri  convitati  di  ancor  minore  importanza  attendevano 
«  a  mangiare  e  a  sorridere  con  una  adulazione  ancor  più 
«passiva  di  quella  del  dottore:  e  quando  questi  appro- 
«  vava  con  un  argomento,  o  con  una  lode,  che  voleva  esser 
«ragionata,  essi  non  sapevano  dire  più  in  là  di:  certa- 
«  mente  ». 

La  disputa  cavalleresca,  nella  quale  il  conte  cugino  e 
il  Podestà  erano  di  contrario  parere  e  in  cui  bisognò  che 
anche  il  Padre  Cristoforo  dicesse  come  la  pensava,  fu 
suggerita  al  Manzoni  dal  Birago.  Il  dott.  Ubaldo  Mazzini 
nello  scritto  già  ricordato:  La  Cavalleria  nei  Promessi 
Sposi,  prova,  che  «  il  luogo  dei  Consigli  del  Birago  che  ci 
«  mostra  a  luce  meridiana  esser  quel  libro  il  vero  fonte  a 
«  cui  ha  attinto  è  il  Consiglio  II,  cioè  il  caso  di  bastonate 
«  date  ad  un  portator  di  sfida,  che  trova  riscontro  nel  ca- 
«  pitolo  V  dei  Promessi  Sposi.  Non  solo  qui  il  caso  è  per- 
«  fettamente  identico;  ma  identici  sono  i  personaggi,  iden- 
«  tiche  le  citazioni,  spesso  identiche  le  parole  ».  (Ed.) 


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—    645     — 

dale  di  marroni  arrostiti,  e  si  portarono  fiaschi  di  vino 
più  prelibato,  di  quello  che  in  Lombardia  si  chiama 
vino  della  chiavetta,  e  del  quale,  per  un  privilegio  sin- 
golare, ogni  proprietario  ha  sempre  il  migliore  del 
contorno.  Gli  elogj  del  vino,  com'era  giusto,  ebbero 
una  parte  della  conversazione,  senza  però  cangiarla 
del  tutto:  il  gridìo  continuò  per  una  buona  mezz'ora: 
le  parole  che  si  sentivano  più  spesso  erano  ambrosia 
e  impiccarli.  Finalmente  Don  Rodrigo  si  alzò  e  con 
esso  tutta  la  rubiconda  brigata:  e  Don  Rodrigo,  fatte 
le  sue  scuse  agli  ospiti,  si  avvicinò  al  Padre  Cristo- 
foro e  lo  condusse  seco  in  una  stanza  vicina  C). 

Ognuno  può  avere  osservato  che  dalla  peritosa 
spòsa  di  contado  fino  a fino  all'uomo  il  più  di- 
sinvolto e  imperturbabile,  e,  per  dirla  in  milanese, 
il  più  navigato,  tutti  hanno  certi  loro  gesti  fami- 
gliari, certi  moti  insignificanti,  dei  quali  fanno  uso 
quasi  involontariamente,  quando  trovandosi  con  per- 
sone, colle  quali  non  sieno  molto  addomesticati,  non 
sanno  troppo  che  dire,  o  aspettano  il  momento  di 
dir  cosa  la  quale  non  è  attesa,  né  sarà  molto  gra- 
devole a  chi  deve  intenderla.  La  differenza  che  passa 
tra  gì'  intrigati  e  i  navigati  (son  costretto  a  prendere 
entrambi  i  vocaboli  dal  dialetto  del  mio  paese,  il 
quale  non  manca  d'uomini  dell'una  e  dell'altra  specie) 
la  differenza  è  che  i  primi  coi  loro  moti  incerti  e  va- 
cillanti e  goffi  mostrano  sempre  più  il  loro  imbarazzo 
e  vi  si  vanno  sempre  più  affondando,  mentre  negli 
altri  questo  disimpegno  è  nello  stesso  tempo  un  eser- 
cizio di  eleganza  e  di  superiorità.   Tutte  le  classi 


(*)  A  questo  punto  termina  il  capitolo  V  del  tomo  I 
della  prima  minuta  e  incomincia  quello  VI,  intitolato: 
Peggio  che  peggio.  (Ed.) 


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—    646     — 

hanno  una  provvisione  particolare  e  caratteristica  di 
questi  atti,  e  questa  distinzione  era  più  osservabile 
nei  tempi  in  cui  le  classi  erano  più  distinte  per  abi- 
tudini e  anche  pel  costume  di  vestire,  il  quale  si  pre- 
stava naturalmente  ad  usi  diversi  di  questo  genere. 
Si  potrebbe  qui  fare  una  erudita  enumerazione  di 
questi  gesti,  cominciando  dai  personaggi  più  celebri 
e  dalle  condizioni  più  note  degli  antichi  Romani,  o 
anche  degli  Egizj,  ma  sarebbe  troppo  provocare 
T  impazienza  del  lettore,  avido  certamente  di  seguire 
la  nostra  interessante  storia.  Diremo  soltanto  che  gli 
atti  più  usuali  dei  cappuccini  per  avere,  come  dicono 
i  francesi,  une  contenance>  erano  di  accarezzarsi  la 
barba,  di  fare  scorrere  il  berrettino  innanzi  indietro 
dal  sincipite  all'occipite,  di  porre  la  mano  destra 
nella  larga  manica  sinistra  e  viceversa,  o  di  stirarsi 
il  cordone,  o  di  palpare  ad  uno  ad  uno  i  grossi  pa- 
ternostri del  rosario,  che  tenevano  appeso  alla  cintola. 
Questa  ultima  operazione  appunto  faceva  il  Padre 
Cristoforo  quando  si  trovò  da  solo  a  solo  con  Don 
Rodrigo  ;  di  modo  che  si  avrebbe  creduto  che  vi  po- 
nesse molta  occupazione,  ma  il  lettore  sa  che  il  buon 
Padre  era  preoccupato  da  tutt'altro.  Del  contegno 
di  Don  Rodrigo  non  occorre  parlare,  giacché  ognun 
sa  che  nessuno  è  tanto  sciolto,  franco,  sgranchiato, 
quanto  un  ribaldo  dopo  un  buon  desinare.  Stava  egli 
però  con  qualche  curiosità  e  con  qualche  sospetto  di 
quello  che  il  Padre  fosse  per  dirgli  ;  sospetto  che  il 
contegno  un  po'  irresoluto  del  Padre  aveva  quasi  can- 
giato in  certezza,  gli  accennò  con  sussiego  che  sedesse, 
si  pose  egli  pure  a  sedere,  e  ruppe  il  silenzio  con 
queste  parole:  —  In  che  posso  obbedirla,  Padre?  — 
Questo  era  il  suono  delle  parole,  ma  il  modo  con 
cui  erano  proferite  voleva  dire  chiaramente:  frate, 
bada  a  chi  tu  parli,  e  a  quello  che  dirai. 


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—     647     — 

Il  tuono  insolente  di  quest'invito  servì  mirabil- 
mente a  togliere  ogni  imbarazzo  al  Padre  Cristo- 
foro; perchè,  risvegliando  quell'uomo  vecchio  che  il 
Padre  non  aveva  mai  del  tutto  spogliato,  mise  in  moto 
quello  che  v'era  in  lui  di  più  franco  e  di  più  riso- 
luto: cosicché,  invece  di  farsi  animo,  dovett'egli  fre- 
nare l'impeto  che  lo  spingeva  a  rispondere  sullo 
stesso  tuono,  per  non  guastare  l'opera  delicata  che 
stava  per  intraprendere.  Onde,  con  modesta,  ma  as- 
soluta franchezza,  rispose  :  —  Signor  Don  Rodrigo, 
il  mio  sacro  ministero  mi  obbliga  a  passare  un  of- 
ficio con  vossignoria.  Io  desidero  ardentemente  che 
nessuna  mia  parola  possa  spiacerle,  e  per  antivenire 
ad  ogni  disgusto,  debbo  assicurarla  che  in  tutto  quello 
ch'io  sono  per  dire  io  ho  di  mira  il  bene  di  lei,  quanto 
quello  di  qualunque  altra  persona.  —  Don  Rodrigo 
non  rispose  che  allungando  il  volto,  stringendo  le 
labbra,  aggrottando  le  ciglia  e  dando  ai  suoi  occhi 
una  espressione  ancor  più  minacciosa  e  sprezzante. 


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Vili. 

Il  Padre  Cristoforo  ripreso  dal  Guardiano 
di  Pescarenico. 


Intanto  il  Padre  Cristoforo,  benché  fiaccato  e 
frollo  delle  corse,  dei  disagj,  delle  inquietudini  e  delle 
parlate  di  quel  giorno  (*),  aveva  presa  correndo  la 
via  per  giungere  al  più  presto  al  convento,  e  andava 
saltelloni  giù  per  quel  viottolo  sassoso,  torto  e  reso 
ancor  più  difficile  .dalla  oscurità;  andava  il  povero 
frate,  parte  ruminando  gli  accidenti  della  giornata 
e  quello  che  poteva  soprastare,  parte  pensando  al- 


(l)  È  la  giornata  che,  chiamato  da  Lucia,  corre  alla 
sua  casetta,  e  trova  la  giovane  in  angoscia  per  l'impedito 
matrimonio  e  per  le  persecuzioni  di  don  Rodrigo.  Il  Padre 
Cristoforo,  dopo,  «  si  avviò  al  suo  convento.  Ivi  andò  in 
«coro  a  cantare  terza  e  sesta,  s'assise  alla  parca  mensa, 
«  e  allora  più  parca  del  solito  per  la  carestia  che  comin- 
«  eia  va  a  farsi  sentire  dappertutto,  e  dopo  raccomandati  al 
«Vicario  gli  affari  del  suo  piccolo  regno,  si  pose  in  via 
«verso  il  covile  dell'orso,  che  si  trattava  di  ammansare; 
«  senza  avere,  a  vero  dire,  molta  speranza  del  buon  successo 
«  del  suo  tentativo  ».  Di  ritorno  dal  «  castelletto  di  don  Ro- 
«  drigo  » ,  corre  di  nuovo  alla  casetta  di  Lucia,  «  nell'atti- 
tudine di  un  generale  »  che  ha  «  perduta,  senza  sua  colpa, 
una  battaglia».  (Ed). 


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—    649    — 

l'accoglienza  che  riceverebbe  al  convento  giungen- 
dovi a  notte  già  fitta.  Vi  giunse  pur  finalmente, 
mezzo  sconquassato,  e  toccò  modestamente  il  cam- 
panello, aspettando  quel  che  Dio  fosse  per  mandare. 
Il  frate  portinajo  aperse  e  accolse  il  nostro  figliuol 
prodigo  con  quel  maladetto  misto  di  sussiego,  di 
soddisfazione,  di  clemenza,  di  commiserazione  e  di 
mistero,  che  gli  uomini  (tranne  l'uno  per  milione) 
mostrano  sempre  in  faccia  di  colui  che  per  qualche 
suo  fallo,  o  anche  per  qualche  sventura,  sembra  loro 
stare  in  cattivi  panni.  Il  Padre  Guardiano  le  vuol 
parlare,  disse  costui  al  nostro  amico,  il  quale  seguì 
la  sua  scorta  pei  lunghi  corridoj  e  per  le  scale,  ras- 
segnato a  toccare  una  buona  gridata  e  in  angustia 
di  ricevere  una  penitenza  la  quale  gì' impedisse  di 
potere  all'indomani  trovarsi  col  servo  di  Don  Ro- 
drigo e  fare  per  gl'innocenti  suoi  protetti  ciò  che 
il  caso  avesse  richiesto. 

Giunto  alla  cella  del  Guardiano,  bussò  sommes- 
samente, e  vista  la  faccia  seria  del  Guardiano,  si 
pose  le  mani  al  petto,  curvò  la  persona,  chinò  la 
testa  sul  petto  e  disse:  Padre,  son  balordo.  Era 
questa,  chi  noi  sapesse,  la  formola  usata  dai  cappuc- 
cini per  confessarsi  in  colpa  al  loro  superiore.  Bi- 
sogna sapere  che  il  Guardiano  era  contento  in  fondo 
del  cuore  che  il  Padre  Cristoforo  avesse  commesso 
un  mancamento.  Un  lettore  di  otto  anni  potrebbe 
qui  domandare  :  perchè  faceva  il  volto  serio,  se  era 
contento?  e  gli  si  risponderebbe,  che  appunto  era 
contento  perchè  il  Padre  Cristoforo  gli  aveva  dato 
il  diritto  di  fargli  il  volto  serio.  La  condotta  del  no- 
stro amico  era  tanto  irreprensibile  che  il  Guardiano 
non  aveva  mai  avuto  occasione  di  far  uso  sopra  lui 
della  sua  autorità,  voglio  dire  della  autorità  di  ri- 
prendere e  di  punire,   e  alla  prima  occasione  che 


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—    650    — 

ne  aveva,  gli  pareva  di  esser  daddovero  il  Padre 
Guardiano.  In  oltre  il  Padre  Cristoforo,  senza  fare 
il  dottore,  senza  disputare,  dava  però  a  dividere 
chiaramente  di  non  approvare  alcuni  tratti  della 
condotta  e  della  politica  dei  suoi  confratelli  e  del 
suo  capo,  e  più  d'una  volta  aveva  ricusato  di  ope- 
rare di  concerto  con  gli  altri;  biasimandoli  cosi  in- 
direttamente, ma  chiaramente:  dal  che  veniva  che 
i  frati  e  il  Guardiano  avevano  per  lui  più  rispetto 
che  amore.  E  il  rispetto  veniva,  in  parte,  anche  dalla 
fama  di  santo  che  il  Padre  Cristoforo  aveva  al  di 
fuori,  e  che  apportava  al  convento  onore  e  limosine. 
Non  è  quindi  da  stupirsi  se  il  Guardiano  si  dilet- 
tasse nel  vedersi  davanti  balordo  quel  Padre  Cristo- 
foro e  gustasse  a  lenti  sorsi  l'umiliazione  di  lui  e  il 
sentimento  della  propria  autorità. 

—  È  questa  l'ora,  diss'egli  gravemente,  di  ritor- 
nare al  convento? 

—  Padre,  confesso  che  dovrei  esser  rientrato  da 
molto  tempo. 

—  E  perchè  vi  siete  dunque  tanto  indugiato? 
perchè  avete  violata  una  regola,  che  conoscete  così 
bene  ?  m 

—  Fui  trattenuto  da  un'opera  di  misericordia. 

Il  Guardiano  sapeva  che  il  reo  era  incapace  di 
mentire,  e  vide  tosto  che  se  avesse  voluto  andar  più 
ricercando,  avrebbe  facilmente  fatto  rivelare  al  Padre 
Cristoforo  cose  che  tornerebbero  in  suo  onore  :  onde 
gli  parve  meglio  fargli  una  ammonizione  generale  sul 
fallo  di  cui  si  era  riconosciuto  colpevole.  Gli  disse 
che  preporre  le  opere  Volontarie  di  misericordia  al- 
l'obbedienza era  segno  di  orgoglio  e  di  amore  alla 
propria  volontà  :  che  non  era  bene  quel  bene  che  non 
è  fatto  secondo  le  regole  :  che  bisogna  prima  fare  il 
dovere  e  poi  attendere  alle  opere  di  surerogazione  : 


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-    65i     - 

e  altre  cose  di  questo  genere.  Aggiunse  poi  che  egli, 
Padre  Cristoforo  balordo,  doveva  conoscere  di  quanta 
importanza  fosse  la  regola  da  lui  infranta  e  per  la 
disciplina  e  per  evitare  ogni  scandalo;  ma  che  per 
l'età  sua  e  per  esser  questo  il  primo  suo  fallo  contro 
la  regola,  e  perchè  si  teneva  certo  che  non  v'era 
altro  che  la  violazione  della  regola,  si  contentava 
per  questa  volta  ch'egli  prima  di  coricarsi  recitasse 
un  miserere  colle  braccia  alzate:  e  cosi  lo  congedò 
e  si  gittò  sul  duro  suo  pagliaccio,  più  soddisfatto 
però  che  se  si  fosse  posto  sul  letto  il  più  delicato, 
poiché  non  è  da  dire  quanta  consolazione  si  senta 
nel  far  fare  agli  altri  il  loro  dovere,  e  nel  ripren- 
derli quando  se  ne  allontanano. 

Questa  fu  la  mercede  che  il  nostro  Padre  Cristo- 
foro ebbe  della  sua  giornata,  spesa  come  abbiam 
detto.  Tristo  chi  ne  aspetta  altre  in  questo  mondo. 
Egli  recitò  il  suo  buon  miserere  e  lo  conchiuse  di- 
cendo: Dio,  fate  misericordia  a  me  e  a  quel  pove- 
retto che  io....  toccate  il  cuore  di  Don  Rodrigo, 
tenete  la  mano  in  testa  ài  povero  Fermo,  salvate 
Lucia  e  benedite  il  Padre  Guardiano  (*).  Abbiate 
pietà  dei  peccatori,  dei  penitenti,  dei  giusti,  dei  fe- 
deli e  degli  infedeli,  degli  oppressi  e  degli  oppres- 
sori, dei  cappuccini,  dei  zoccolanti  e  di  tutti  i  re- 
golari, di  tutti  gli  ecclesiastici  e  di  tutti  i  laici,  dei 
popoli  e  dei  principi,  dei  carcerati,  dei  giudici,  dei 
banditi,  dei  ladri,  dei  birri,  delle  vedove,  dei  pu- 
pilli, dei  bravi,  dei  zingari,  degli   indemoniati,    dei 


(')  Segue,  cancellato:  «Quindi  si  gittò  egli  pure  sul 
suo  canile,  dove  lo  lasceremo  dormire,  che  ne  ha  biso- 
gno». Quello  che  vien  dopo,  raggiunse  poi.  (Ed.). 


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—    652    — 

vivi  e  dei  morti.  Cosi  sia.  Quindi  si  gettò  anch'egli 
sul  suo  canile,  dove  lo  lasceremo  dormire,  che  ne  ha 
bisogno  (*). 


(*)  Questo  brano  è  tolto  dal  capitolo  VII  del  tomo  I 
della  prima' minuta.  (Ed.) 


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IX. 


Il  tentativo  fallito  del  matrimonio  clan- 
destino. 


A)  PRIMA  minuta» 

Tra  il  primo  concetto  di  una  impresa  terribile  e 
l'adempimento,  ha  detto  uno  scrittore  privo  di  buon 
gusto,  P  intervallo  è  un  sogno  di  fantasmi  e  di  paure. 
Lucia  era  nelle  angosce  di  questo  sogno.  Agnese,  la 
stessa  Agnese,  così  risoluta  e  disposta  all'operare,  era 
sopra  pensiero,  e  trovava  a  stento  le  parole  per  rin- 
corare la  poveretta.  Ma  al  momento  in  cui  l'azione  co- 
mincia e  l'animo  che  fino  allora  tollerava  i  pensieri  che 
gli  passavano  sopra,  cacciandosi  a  vicenda  e  tornando, 
è  costretto  a  comandare  una  risoluzione  e  a  dirigere 
le  azioni  del  corpo,  allora  egli  si  trova  tutto  trasfor- 
mato: al  terrore  e  al  coraggio,  che  lo  agitavano,  suc- 
cede un  nuovo  terrore,  e  un  nuovo  coraggio:  l'im- 
presa si  affaccia  alla  mente  come  una  apparizione 
nuova,  inaspettata;  si  scoprono  mezzi  e  ostacoli  non 
pensati  ;  ciò  che  sembrava  più  difficile  si  trova  fatto 
quasi  da  sé,  l'immaginazione  si  ferma  spaventata,  le 
membra  niegano  di  moversi  dinanzi  ad  un  passo 
che  era  sembrato  il  più  agevole  :  il  cuore  manca  alle 
promesse  che  aveva  fatte  con  più  sicurezza. 


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—     654     — 

Quando  s'  intese  bussare  sommessamente  alla 
porta  (l),  Lucia  fu  presa  da  tanto  terrore,  che  risol- 
vette in  quel  momento  di  soffrire  ogni  cosa,  di  esser 
sempre  divisa  da  Fermo,  piuttosto  che  eseguire  la 
risoluzione  presa;  ma  quando  Fermo,. entrato,  disse: 
son  qui,  andiamo;  quando  tutti  si  mostrarono  pronti 
ad  avviarsi  senza  esitazione,  come  a  cosa  già  deter- 
minata, Lucia,  come  strascinata,  prese  tremando  un 
braccio  della  madre  e  un  braccio  di  Fermo  e  s'avviò 
colla  brigata  avventurosa. 

Zitti,  zitti,  nelle  tenebre,  a  passo  misurato,  giun- 
sero dinanzi  alla  casa  del  nostro  Don  Abbondio,  il 
quale  era  ben  lontano  pover  uomo  !  dal  pensare  che 
una  tanta  burrasca  si  addensasse  sul  suo  capo.  Qui 
si  separarono,  come  erano  convenuti:  e  la  coppia 
innocente,  per  un  viottolo  tortuoso,  che  girava  attorno 
all'orto  del  curato,  e  sdrucciolando  poi  sommessa- 
mente dietro  il  muro  di  fianco  della  casa,  venne  a 
porsi  presso  all'angolo  di  essa  ;  Fermo  e  Lucia,  per 
trovarsi  nel  luogo  più  vicino  alla  porta  ed  entrare 
quando  il  destro  verrebbe;  Agnese,  per  uscire  ad 
incontrare  Perpetua  nel  momento  opportuno.  Toni, 
destro,  col  disutilaccio  di  Gervaso,  che  non  sapeva 
far  nulla  da  sé,  e  senza  il  quale  non  si  poteva  far 
nulla,  si  affacciarono  bravamente  alla  porta  e  tocca- 
rono il  martello. 

—  Chi  è?  gridò  una  voce  alla  finestra,  che  si 
aperse  in  quel  momento:  era  la  voce  di  Perpetua. 
Malati  non  ce  n'è,  dovrei  saperlo  :  è  forse  accaduta 
qualche  disgrazia? 

—  Son  io,  rispose  Tonio,  con  mio  fratello,  che 
abbiamo  bisogno  di  parlare  col  signor  curato. 


(*)  Era  Fermo,  il  quale  menava  con  sé  Tonio  e  Gervaso, 
che  dovevano  servire  da  testimoni  al  matrimonio.  (Ed.) 


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-     655     - 

—  È  ora  questa  da  cristiani?  rispose  agramente 
Perpetua:  che  discrezione?  tornate  domani. 

—  Sentite:  tornerò,  o  non  tornerò:  mi  trovavo 
alcuni  pochi  soldi  per  pagare  al  signor  curato  quel 
debituccio  che  sapete:  ma  se  non  si  può,  aspetterò 
un'altra  occasione:  questi  so  come  spenderli,  e  verrò 
quando  ne  abbia  guadagnati  degli  altri. 

—  Aspettate,  aspettate:  vado  e  torno:  ma  perchè 
venire  a  quest'ora? 

—  Se  Torà  potete  cangiarla,  io  non  m'oppongo  : 
per  me  son  qui;  e  se  non  mi  volete,  me  ne  vado. 

—  No  no,  aspettate  un  momento;  torno  con  la 
risposta. 

Cosi  dicendo  richiuse  la  finestra  :  a  questo  punto 
Agnese  si  spiccò  dai  promessi,  e,  detto  sotto  voce  a 
Lucia:  coraggio;  è  un  momento;  gli  è  come  far  cavare 
un  dente,  venne  a  porsi  dinanzi  la  fronte  della  casa, 
aspettando  che  Perpetua  aprisse,  per  far  vista  di 
passare. 

Perpetua  venne  infatti  tostamente,  ed  aperse  la 
porta,  e  disse:  dove  siete? 

Quando  i  due  fratelli  si  mostravano,  Agnese  passò 
dinanzi  a  loro,  e  salutò  Perpetua,  fermandosi  un  mo- 
mento sui  due  piedi. 

Buona  sera,  Agnese,  disse  Perpetua,  donde  a  que- 
st'ora? 

—  Vengo  dalla  filanda,  rispose  Agnese,  e  se  sa- 
peste.... mi  sono  indugiata  appunto  in  grazia  vostra. 

—  Oh  perchè?  riprese  Perpetua:  indi,  rivolta  ai 
due  fratelli:  entrate  disse,  salite  pure,  che  vengo 
anch'io.  —  Quegli  entrarono. 

—  Perchè,  ripigliò  Agnese,  una  donna  pettegola  ! 
non  sanno  le  cose  e  voglion  parlare....  credereste? 
si  ostinava  a  dire  che  non  vi  siete  sposata  con  Beppo, 
perchè  egli  non  vi  ha  voluto.  Io  sosteneva  che  voi 
l'avete  rifiutato.... 


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—     656     — 

—  Certo,  sono  stata  io;  ma  chi  è  costei? 

—  Questo  non  fa....  ma  non  potete  credere  quanto 
mi  sia  spiaciuto  di  non  saper  ben  bene  tutta  la  storia, 
per  confonder  colei. 

—  È  una  bugiarderia,  disse  Perpetua,  la  più  nera. 
Sentite  come  andò  la  faccenda,  e  ho  testimonj,  ve- 
dete. Ehi,  Tonio,  socchiudete  la  porta,  e  salite  pure, 
ch'io  verrò  poi.  Tonio  rispose  di  dentro  che  si.  Per- 
petua cominciò  la  sua  storia  e  Agnese  si  avviò  verso 
l'angolo  della  casa,  opposto  a  quello  dietro  cui  erano 
in  agguato  i  due  giovani,  e  quando  pur  passo  passo 
vi  fu  giunta,  lo  voltò,  seguita  da  Perpetua:  e  vol- 
tatolo, tossì  per  dar  segno.  Il  segno  fu  inteso,  e 
Fermo  traendo  Lucia,  la  quale  correva  come  un  le- 
protto inseguito,  in  punta  di  pie  vennero  fino  alla 
porta,  l'aprirono  delicatamente  e  si  trovarono  nel  ve- 
stibolo coi  due  fratelli,  che  gli  stavano  aspettando. 
Chiusero  sommessamente  il  chiavistello  (*)  per  di 
dentro  e  salirono  insieme,  mentre  Agnese  moltipli- 
cava le  inchieste,  per  trattenere  la  fante.  I  quattro 
congiurati,  tutti  diversamente  commossi,  ascesero  le 
scale,  e  posati  che  furono  sul  pianerottolo  :  Toni  disse 
ad  alta  voce  :  Deo  gratias,  ed  entrò  col  fratello,  mentre 
Don  Abbondio,  che  gli  aspettava,  rispose:  Avanti. 
Fermo  e  Lucia  ristettero  dietro  la  porta  :  senza  muo- 
versi, senza  alitare  :  l'orecchio  il  più  fino  non  avrebbe 
potuto  ivi  intender  altro  che  il  battito  del  cuore  di 
Lucia.  Toni,  entrato,  socchiuse  la  porta  dietro  di  sé. 
Don  Abbondio,  convalescente  della  febbre,  e  non 
guarito  della  paura,  stava  seduto  su  un  vecchio  seg- 
giolone, ravvolto  in  una  vecchia  zimarra,  coperto  il 
capo  d'un  vecchio  camauro,  sotto  il  quale  si  vedeva 


-  (!)  Variante:  «  saliscendo».  (Ed.) 


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-     657     - 

uno  sguardo  sospettoso  e  teso,  un  lungo  naso,  e  fra 
due  guance  pendenti  una  bocca  quale  ognuno  l'ha 
dopo  d'aver  sorbita  una  ostica  medicina.  Aveva  di- 
nanzi a  sé  una  vecchia  tavola  e  sulla  tavola  una  pic- 
ciola  lucerna,  che  mandava  una  luce  scarsa  sulla  ta- 
vola e  sui  dintorni,  e  lasciava  il  resto  nelle  tenebre. 
Presso  alla  lucerna,  era  il  breviale,  e  aperto  dinanzi 
a  Don  Abbondio  il  Quaresimale  (l). 

—  Ah!  ah!   fu  il  saluto  di  Don  Abbondio. 

—  Il  signor  curato  dirà  che  siamo  venuti  tardi, 
disse  Toni  inchinandosi,  come  pure  fece  più  goffa- 
mente Gervaso. 

—  Venite  tardi  in  tutti  i  modi,  rispose  Don  Ab- 
bondio. Basta,  vediamo. 

—  Sono  venticinque  buone  lire  di  quelle  con  San- 
t'Ambrogio a  cavallo,  disse  Toni,  cavando  un  grup- 
petto di  tasca. 

—  Vediamo,  replicò  il  curato:  le  prese,  le  volse 
e  le  rivolse  e  le  numerò,  e  furono  trovate  irrepren- 
sibili. 

—  Ora,  signor  curato,  mi  darà  gli  orecchini  e  la 
collana  della  mia  povera  Tecla. 

—  È  giusto,  rispose  Don  Abbondio;  e  andò  ad 
un  armadio  e  cacciata  una  chiave,  guardandosi  in- 
torno, come  per  tener  lontani  gli  spettatori,  aperse 
una  parte  d'imposta,  riempi  l'apertura  colla  persona, 
introdusse  la  testa  per  guardare  e  un  braccio  per  ri- 
tirare il  pegno;  lo  ritirò,  chiuse  l'armadio,  svolse  la 
carta  dov'era  il  pegno,  e  guardatolo,  c'è  tutto?  disse, 
indi  lo  consegnò  a  Toni. 

—  Ora,  disse  Toni,  mi  favorisca  di  una  riga  di 
quitanza. 


(*)  La  felice  trovata  di  Cameade,  come  vedremo,  ba- 
lenò alla  mente  del  Manzoni  nella  seconda  minuta.  (Ed.) 
Alessandro  Manzoni.  42 


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—     658     — 

—  Non  vi  fidate?  rispose  bruscamente  Don  Ab- 
bondio. Ecco,  volete  darmi  anche  quest'incomodo. 

—  Che  dice  mai?  s'io  mi  fido,  signor  curato:. ma 
dalla  vita  alla  morte.... 

—  Bene,  bene,  come  volete.  Oh  che  seccatura! 
Bisognerà  ch'io  ponga  inchiostro  nel  calamajo.  Per- 
petua! dov'è  costei?  Perpetua!    - 

—  Perpetua  era  da  basso,  tutta  affacendata  a  pre- 
pararle da  cena  :  la  lasci  stare,  signor  curato  :  anche 
il  calamajo,  che  farà  più  presto. 

Cosi,  brontolando,  tirò  un  cassettino  dal  tavolo, 
ne  tolse  carta,  penna  e  calamajo,  e  si  pose  a  scri- 
vere, dettandosi  ad  alta  voce  la  composizione.  Frat- 
tando  Toni  e  Gervaso,  com'era  convenuto,  si  posero 
dinanzi  allo  scrittore  in  modo  da  toglierli  la  veduta 
della  porta;  e  come  per  ozio  andavano  soffregando 
coi  piedi  il  pavimento,  per  dar  agio  ai  di  fuori  di 
venire  avanti  senza  essere  intesi.  Don  Abbondio, 
tutto  nella  sua  quitanza,  non  badava  ad  altro.  Al 
fruscio  dei  quattro  piedi  Fermo  strinse  la  mano  di 
Lucia  per  darle  risoluzione,  la  pigliò  con  sé  e  pian 
piano  entrarono  nella  porta,  Lucia  più  morta  che  viva, 
e  si  collocarono  dietro  i  due  fratelli.  Don  Abbondio, 
finito  ch'ebbe  di  scrivere,  rilesse  attentamente  da  sé, 
quindi  fatta  lettura  ad  alta  voce,  prima  di  alzare  gli 
occhi  dalla  carta:  sarete  contento?  disse,  e  preso  il  fo- 
glio lo  porse  a  Toni.  Toni,  allungando  la  mano  per  pi- 
gliarlo, si  ritirò  da  una  parte,  Gervaso  dall'altra,  e  i 
due  sposi  apparvero  in  mezzo  (l)  come  all'alzare  d'un 


(')  Segue  cancellato  :  «  Don  Abbondio  non  aveva  avuto 
«  tempo  di  spaventarsi,  né  di  maravigliarsi,  né  di  vedere, 
«  che  Fermo  aveva  già  pronunziate  le  parole  magiche  : 
«  Signor  curato,  in  presenza  di  questi  testimonj,  questa 
«  è  mia  moglie  ».  (Ed.) 


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—     659     ~ 


sipario.  Don  Abbondio  intravide,  vide,  si  spaventò, 
si  stupì,  s'infuriò,  pensò,  prese  una  risoluzione,  tutto 
questo  nel  tempo  che  Fermo  impiegò  a  proferire  le 
parole  magiche  :  Signor  curato,  in  presenza  di  questi 
testimonj,  questa  è  mia  moglie.  Le  labbra  di  Fermo 
non  erano  ancor  tornate  in  riposo,  che  Don  Ab- 
bondio aveva  già  lasciata  cadere  la  quitanza  fatta, 
afferrata  colla  manca  e  sollevata  la  lucerna  e  tirato 
colla  destra  a  sé  un  tappeto,  che  copriva  il  tavolo, 
gettando  a  terra  il  breviale  e  il  quaresimale,  e  bal- 
zando tra  la  seggiola  e  il  tavolo  s'era  avvicinato  a 
Lucia;  la  poveretta  con  voce  tremante  aveva  ap- 
pena potuto  dire:  e  questo....  che  Don  Abbondio 
gli  aveva  gettato  scortesemente  il  tappeto  sulla 
testa  e  sul  volto,  e  tenendoglielo  colle  mani  rav- 
volto e  stretto  sulla  bocca,  perch'ella  non  potesse 
proseguire,  gridava  a  testa,  come  un  toro  ferito  :  tra- 
dimento !  tradimento  !  ajuto  !  ajuto!  Il  lucignolo  della 
lucerna,  che  Don  Abbondio  aveva  lasciata  cadere  a 
terra,  si  moriva  mandando  un  ultimo  chiarore,  e  la 
povera  Lucia,  appoggiata  a  Fermo,  coperta  così  di 
quel  ruvido  velo,  pareva  una  statua  sbozzata  in  creta, 
a  cui  un  rozzo  fattore  dell'artefice  copre  la  testa  con 
un  umido  panno.  Cessata  ogni  luce,  Don  Abbondio 
lasciò  la  poveretta,  la  quale  già  per  sé  non  avrebbe 
più  potuto  proseguire,  e  pratico  com'era  del  luogo, 
trovò  tosto  a  tentone  la  porta  della  stanza  vicina, 
v'entrò,  vi  si  chiuse  e  continuò  a  gridare:  tradi- 
mento !  Perpetua  !  accorr' uomo  :  gente  in  casa  !  clan- 
destino :  tre  anni  di  sospensione  !  una  schioppettata  ! 
fuori  di  questa  casa  !  fuori  di  questa  casa  !  Perpetua  ! 
dov'è  costei!  Nella  stanza  tutto  era  confusione.  Fermo, 
inseguendo  come  poteva  il  curato,  aveva  strascinata 
con  sé  Lucia  alla  porta  e  bussava  gridando  :  apra, 
apra,  non  faccia  schiamazzo  :  apfa,  o  la  vedremo.  Toni, 


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—     66o    — 

curvo  a  terra,  girava  le  mani  sul  pavimento  per  tro- 
vare la  sua  quitanza,  e  Gervaso,  spiritato,  gridava 
e  andava  cercando  la  porta  della  scala  per  porsi  in 
salvo. 

Don  Abbondio,  vedendo  che  il  nimico  non  voleva 
sgomberare,  si  fece  ad  una  finestra  che  dava  sul 
sagrato,  a  gridare  ajuto.  Batteva  la  più  bella  luna 
del  mondo,  e  l'ombra  della  chiesa  e  del  campanile 
si  disegnava  sulle  erbe  lucenti  del  sagrato  :  per  quel- 
T  ombra  veniva  tranquillamente  (l)  con  un  gran 
mazzo  di  chiavi  pendente  alla  mano  il  sagrista,  il 
quale,  dopo  suonata  l'avemaria,  era  rimasto  a  sco- 
pare la  chiesa  e  a  governare  gli  arredi  dell'altare. 
Lorenzo!  gridò  il  curato,  accorrete,  gente  in  casa! 
ajuto.  Lorenzo  si  sbigottì;  ma  con  quella  rapidità 
d'ingegno  che  danno  i  casi  urgenti,  pensò  tosto  al 
modo  di  dare  al  curato  più  soccorso  ch'egli  non  chie- 
deva e  di  farlo  senza  suo  rischio.  Corse  indietro  alla 
porta  della  chiesa,  scelse  nel  mazzo  la  grossissima 
chiave,  aperse,  entrò,  andò  difilato  al  campanile, 
prese  la  corda  della  più  grossa  campana  e  tirò  a  mar- 
tello (2). 


B)  SECONDA  MINUTA. 

Tra  il  primo  concetto  d'una  impresa  terribile  e 
l'adempimento  (ha  detto  un  barbaro  (3)  che  non  era 


(1)  Segue  cancellato:  «il  sagrestano».  (Ed.) 

(2)  È  un  brano  del  capitolo  VII  del  tomo  I  della  prima 
minuta.  (Ed.) 

(3)  Prima  scrisse  :  «  (ha  detto  un  barbaro  che  di  tanto 
«in  tanto  esce  in  qualche  bella  scappata  d'ingegno,  ma 
«  che  nel  complesso  non  può  non  accontentar  noi  gente 


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66i     — 


privo  d'ingegno)  l'intervallo  è   un  sogno  pieno  di 
fantasmi  e  di  paure.  Lucia  era  da  molte  ore  nell'an- 


ce di  gusto  raffinato,  avvezza  a  composizioni  così  continua- 
le mente  ragionevoli,  così  rigorosamente  sensate)  ».  Nel 
testo  definitivo  è  rimasto:  «Tra  il  primo  pensiero  d'una 
«  impresa  terribile,  e  l'esecuzione  di  essa,  (ha  detto  un 
«  barbaro  che  non  era  privo  d' ingegno)  1'  intervallo  è  un 
«  sogno,  pieno  di  fantasmi  e  di  paure  ».  Il  barbaro  è  Sha- 
kespeare, il  quale  espresse  questo  pensiero  nell'atto  secondo 
del  suo  Julius  Caesar.  Il  reverendo  Carlo  Seven,  che  prese 
a  tradurre  in  inglese  i  Promessi  Sposi  appena  vennero  alla 
luce,  arrivato  a  questo  passo,  dette  in  furore  e  scrisse  al 
Manzoni  una  lettera  stizzosissima,  chiedendogli  conto  e 
spiegazione  di  un  tal  giudizio.  N'ebbe  la  seguente  risposta, 
che  ha  la  data  del  25  gennaio  1828.  «  Pregiatissimo  Si- 
«gnore,  Si  ricorda  Ella  di  quel  personaggio  della  com- 
«  media,  il  quale,  strapazzato  e  battuto  dalla  sua  sposa, 
«per  sospetto  geloso,  si  rallegra  tutto  di  quegli  sdegni, 
«  benedice  quelle  percosse,  che  gli  sono  testimonianze 
«d'amore?  Ora,  pensi  che  tale,  a  un  di  presso,  è  il  mio 
«  sentimento,  nel  veder  Lei  così  in  collera  contro  di  me, 
«  per  difendere  il  mio  Shakespeare  :  giacché,  quantunque 
«io  non  sappia  un  iota  d'inglese,  e  quindi  non  conosca 
«  il  gran  poeta  che  per  via  di  traduzioni,  pure  ne  son  sì 
«  caldo  ammiratore,  che  quasi  quasi  ci  patisco  se  altri 
«pretende  esserlo  più  di  me.  E  un  tempo  ch'io  me  la 
«pigliava  più  calda  che  non  adesso  per  la  poesia  e  pei 
«  poeti,  non  le  so  dire  quanta  rabbia  mi  facessero  quelle 
«  così  rabbiose  e  così  inconsiderate  sentenze  di  Voltaire  e 
«de'  suoi  discepoli  sulle  cose  di  Shakespeare.  E  forse  più 
«  ancor  delle  ingiurie  mi  spiaceva  quel  modo  strano  di 
«lodarlo  dicendo  che,  in  mezzo  a  una  serie  di  strava- 
«  ganze,  egli  esce  di  tempo  in  tempo  in  mirabili  scappate 
«  di  genio:  come  se  la  voce  del  genio,  che  in  quei  luoghi 
«  leva,  per  dir  così,  un  grido,  non  fosse  quella  stessa  che 
«  parla  altrove  ;  come  se  la  stessa  potenza,  che  ivi  fa  di 
«  sé  una  mostra  straordinaria,  non  si  mostrasse,  con  meno 
«scoppio,  ma  con  maravigliosa  continuità,  nella  pittura 
«di  tante  e  tanto  varie  passioni,  nel  linguaggio  di  tanti 
«  caratteri  e  di  tante  situazioni,  così  umano  e  così  poetico, 


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—     662     — 


gosce  di  questo  sogno  :  e  Agnese,  la  stessa  Agnese, 
l'autrice  del  consiglio,  stava  sopra  pensiero,   e  tro- 


«  così  inaspettato  e  così  naturale  ;  linguaggio  cui  non  trova 
«se  non  la  natura  nei  casi  reali,  e  la  poesia  nelle  sue  più 
«  alte  e  profonde  inspirazioni  ;  come  se  la  stessa  potenza 
«  non  apparisse  nella  scelta,  nella  condotta,  nella  progres- 
«  sione  degli  avvenimenti  e  degli  affetti,  nell'ordine,  così 
«  negletto  in  apparenza  e  così  seguito  in  effetto,  che  uno 
«non  sa  se  debba  attribuirlo  a  un  mirabile  istinto,  o  ad 
«un  mirabile  artificio:  o  piuttosto  v'è  straordinariamente 
«dell'uno  e  dell'altro,  etc.  etc.  E  appunto  contro  quel 
«  sentimento  di  Voltaire  (sul  quale,  del  resto,  è  stato  detto 
«  da  altri,  prima  di  me,  meglio  ch'io  non  saprei  mai  dire) 
«io  me  la  son  voluta  prendere  con  quella  mia  frase  iro- 
«  nica  ;  la  quale,  intesa  da  Lei  in  senso  proprio,  non 
«maraviglia  che  l'abbia  così  scandalizzata.  Ma,  poiché 
«Ella  l'ha  intesa  così,  mi  domanderà  certamente  come 
«  io  abbia  creduto  che  Ella  l'avesse  a  intendere  altrimenti. 
«  Le  dirò  che  mi  son  fidato,  prima  di  tutto,  nelle  parole 
«stesse;  le  quali,  se  Ella  vi  pon  niente,  son  tanto  strane, 
«a  pigliarle  sul  serio,  che  m'è  sembrato  che  avvisassero 
«  per  sé  di  doverle  pigliare  pel  verso  opposto.  Quelli  che 
«  han  voluto  metter  più  basso  Shakespeare,  lo  hanno  detto 
«un  genio  rozzo,  indisciplinato,  ma  tutt'altro  che  volgare: 
«la  mia  proposizione,  intesa  secondo  la  lettera,  verrebbe 
«a  dirlo  un  ingegno  barbaro  e  mediocre.  E  un  giudizio, 
«  così  lontano  da  tutti  i  giudizi,  riuscirebbe  ancor  più  strano 
«  e  inintelligibile  nella  circostanza  in  cui  è  messo  fuori,  a 
«proposito  cioè  d'un  luogo  famoso,  d'un  passo  che,  anche 
•  «  da  quelli  che  non  apprezzano  lo  scrittore,  è  conosciuto 
«  e  citato  come  uno  dei  più  nobili  di  tutta  la  poesia.  Ol- 
«  tracciò,  io  mi  son  fidato  nella  supposizione  che  i  miei 
«lettori  (dei  quali,  coni' Ella  dee  aver  veduto,  io  prono- 
«  sticava  al  mio  libro  un  numero  ben  minore  di  quello 
«  che  gli  ha  dato  la  sorte)  conoscessero  la  mia  ammira- 
«  zione  per  Shakespeare,  e  da  questa  conoscenza  fossero 
«  guidati  a  interpretare  (se  ve  n'era  bisogno)  le  mie  parole. 
«Ma  come  l'avevano  a  conoscere?  mi  domanderà  Ella  di 
«  nuovo.  Per  un  mezzo  che  mi  viene  a  punto  per  fare 
«  una  mia  vendetta,  una  vendetta  proprio  di  quelle  atroci, 


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—     663     — 

vava  a  stento  parole  per  rincorare  la  figlia.    Ma  al 
momento  del  destarsi,  al  momento  in  cui  si  vuol  por 


«alla  moda  di  noi  altri  italiani,  per  castigarla,  s'Ella  mi 
«permette,  dell'aver  pensato  così  male  di  me.  E  il  suo 
«  castigo  sarà  di  leggere  una  mia  lettera,  in  francese,  in- 
«  tórno  alle  unità  drammatiche,  lunga  di  molte  buone  pa- 
«  gine  e  pubblicata  già  da  qualche  anno.  Ma  io  veggo 
«ch'Ella  domanda  misericordia,  e  non  voglio  esser  cru- 
«dele:  ridurrò  dunque  la  pena  allo  stretto  necessario;  e, 
«  per  uscir  di  scherzo,  la  pregherò  di  guardare  nell'edi- 
«  zione,  fatta  costì  la  Pisa]  da  codesto  sig.  Capurro,  di  varie 
«  mie  corbellerie,  i  luoghi  di  quella  lettera  dove  è  parlato 
«di  Shakespeare.  E  sono,  alla  pag.  409,  un  piccolo  con- 
«  fronto  tra  il  concetto  generale  dell'Otello  e  quello  della 
«  Zaira  di  Voltaire.  Poi,  alla  pag.  414,  dove,  confes- 
«sando  che  non  mi  gusta  la  mescolanza  del  serio  e  del 
«  giocoso  nei  drammi  di  Shakespeare,  Ella  vedrà  s' io 
«  rinnego  l'uomo,  e  se  dibatto  punto  della  mia  ammira- 
«  zione  per  esso.  Alla  421,  dove,  per  la  parte  mia,  Shake- 
«  speare  non  è  quasi  altro  che  nominato,  ma  vedrà  come 
«e  in  che  compagnia:  quivi  poi  son  riferite  osservazioni 
«  d'un  mio  amico,  le  quali  Ella  leggerà  sicuramente  con 
«  piacere.  Finalmente,  s' io  ho  ben  frugato  per  tutto,  alla 
«  pag.  429,  dove  comincia  un  transunto  del  Riccardo  II  ; 
«  un  transunto  magro  e  atto  forse  a  dimostrare  che  chi 
«  V  ha  steso  abbia  poco  veduto  in  Shakespeare  ;  ma  non 
«  certamente  che  vi  abbia  poco  guardato.  Ciò  non  di  meno, 
«l'effetto  che  la  mia  frase  ha  prodotto  in  Lei  così  con- 
«trario  al  mio  intento,  mi  dà  giusto  sospetto  di  non  es- 
«  sermi  spiegato  così  chiaro  come  avrei  dovuto,  e  mi  fa 
«temere  che  un  effetto  simile  non  sia  prodotto  nel  più 
«degli  altri  lettori  ch'io  avrò  da  Lei:  sicché,  non  solo  io 
«  consento  (come  Ella  gentilmente  mi  propone)  ;  ma  la 
«  prego  eh'  Ella  voglia  prevenire  ogni  simile  interpreta- 
«  zione  in  quel  modo  che  le  parrà  migliore.  Le  rendo 
«nuove  grazie  dell'onore  che  Ella  mi  fa  coli' occuparsi 
«della  mia  favola-storia;  e  sento  lietamente  la  speranza 
«  che  Ella  mi  dà  di  potere  presto  aver  quello  di  cono- 
«  scerla  personalmente  e  di  esprimerle  a  viva  voce  la  mia 
«  riconoscenza  e  i  sentimenti  dell'alta  stima,  coi  quali  mi 


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—     664     — 

mano  all'azione,  l'animo  si  trova  tutto  trasformato. 
Al  terrore  e  al  coraggio,  che  vi  battagliavano,  suc- 
cede un  altro  terrore,  un  altro  coraggio:  l'impresa 
si  affaccia  alla  mente  come  una  nuova  apparizione: 
ciò  che  più  si  apprendeva  da  prima  sembra  talvolta 


«  pregio  di  rassegnarmele  Dev.mo  obb.mo  servitore  Ales- 
«  sandro  Manzoni  ». 

Carlo  Seven  stampò  la  lettera  a  pp.  XI-XVII  della 
Preface  che  sta  in  fronte  al  voi.  I  della  sua  traduzione, 
accompagnandola  con  queste  parole  :  «  This  passage  » 
(l'accenno  al  barbaro  che  non  èra  privo  d'ingegno)  «  con- 
«  tains  a  sentiment  from  Shakespeare  ;  and  1  was  struck, 
«  as  every  one  who  reads  it  must  be,  with  the  paren- 
«thetical  remark;  in  which  the  author  styles  the  King  of 
«  Bards  a  barbarian  not  entirely  destitute  of  talent.  Indi- 
ce gnant,  as  a  loyal  subject  should  be  at  the  aspersions 
«of  a  rebel,  I  dared  to  fling  the  gauntlet  at  his  feet; 
«and  in  a  letter  to  M.  Manzoni  (to  which  I  was  encou- 
«  raged  by  a  previous  communication),  I  charged  him 
«  zealously  if  feebly,  with  his  crime.  In  the  reply,  which 
«  I  am  permitted  to  annex  at  foot,  he  condescends  to 
«rebut  the  charge;  and  extend  a  friendly  hand,  where  I 
«looked  for  a  hostile  glaive.  He  alleges,  as  will  be  seen, 
«  that  the  passage  is  ironical  —  but  I  will  not  spoil  the 
«  defence  by  garbling  it.  Let  the  Reader  consider  it  with 
«  attention  ;  and  while  attracted  by  the  beauty  of  the 
«  Autor's  style  —  the  force  and  warmth  of  his  panegyric 
«on  Shakespeare:  while  admiring  the  ingenious  mode 
«by  which  he  deprecates  our  English  prejudices  —  let 
«him  recommend  to  this  highly  gifted  individuai,  hence- 
«  forward  to  be  less  frugai  of  a  note  of  ad  mi  rati  on  !  And 
«  let  him  add,  in  the  language  of  one  among  the  consum- 
«mate  masters  of  Irony  that  England  has  had  to  boast 

«  To  statesmen  when  we  give  a  wipe, 

«  We  print  it  in  Italie  type». 

Cfr.  The  betrothed  lovers  ;  \  a  \  milanese  tale  of  the 
XVII  th,  ceniury:  \  trans lated  \  front  the  italian  \  of\  Ales- 
sandro Manzoni.  |  In  three  volumes.  \  VoL  I  |  Pisa  :  |  Nic- 
colo Capurro,  Lungarno  |  1828;  pp.  VIII-X. 


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—    665     — 

divenuto  in  un  punto  agevole  :  talvolta  s' ingrandisce 
l'ostacolo  che  appena  si  era  avvertito,  l'immagina- 
zione si  arretra  spaventata,  le  membra  negano  il  loro 
uficio,  e  il  cuore  manca  alle  promesse  che  aveva  fatte 
con  più  sicurezza  (l). 

Al  bussare  sommesso  di  Fermo,  Lucia  fu  presa 
da  tanto  terrore,  che  risolvette  in  quel  momento  di 
soffrire  ogni  cosa,  di  esser  sempre  divisa  da  lui,  piut- 
tosto che  eseguire  la  risoluzione  presa;  ma  quando 
Fermo  si  fu  mostrato,  ed  ebbe  detto:  son  qui,  an- 
diamo ;  quando  tutti  si  mostrarono  pronti  ad  avviarsi 
senza  esitazione,  come  a  cosa  stabilita,  irrevocabile, 
Lucia  non  ebbe  spazio  né  cuore  d' intromettere  dif- 
ficoltà ;  e,  come  strascinata,  prese  tremando  un  braccio 
della  madre,  un  braccio  del  promesso  sposo,  e  s'avviò, 
senza  far  motto,  colla  brigata  avventuriera. 

Zitti,  zitti,  nelle  tenebre,  a  passo  misurato  usci- 
rono dalla  porta  e  presero  la  strada  fuori  del  paese. 
La  più  dritta  e  corta  era  di  attraversarlo  per  dive- 
nire all'altro  capo,  dov'era  la  casa  di  don  Abbondio: 
ma  scelsero  la  più  lunga  onde  camminare  inosser- 
vati. Per  una  giravolta  di  stradicciuole  al  di  fuori, 
giunsero  in  breve  presso  alla  meta,  e  quivi  si  divi- 
sero. I  due  promessi  rimasero  nascosti  dietro  l'an- 
golo della  casa,  Agnese  con  essi,  ma  dinanzi,  per  ac- 
correre in  tempo  ad  incontrare  Perpetua  e  ad  impa- 
dronirsene: Tonio  col  disutilaccio  di  Gervaso,  che 
non  sapeva  far  nulla  da  sé,  e  senza  il  quale  non 
si  poteva  far  nulla,  si  affacciarono  bravamente  alla 
porta  e  toccarono  il  martello. 


(!)  Segue  cancellato  :  «  Un  matrimonio  clandestino  era 
«  per  Lucia  Zarella  quello  che  l'uccisione  d'un  dittatore 
«  per  Marco  Bruto  ».  (Ed.) 


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—     666    — 

—  Chi  è,  a  quest'ora?  gridò  una  voce  alla  fine- 
stra, che  si  aperse  in  quel  momento  :  era  la  voce  di 
Perpetua.  Malati  non  ce  n'è,  ch'io  sappia:  è  forse 
accaduta  qualche  disgrazia? 

—  Son  io,  rispose  Tonio,  con  mio  fratello,  che 
abbiamo  bisogno  di  parlare  col  signor  curato. 

—  È  ora  da  cristiani  questa?  rispose  agramente 
Perpetua:  che  discrezione!  tornate  domani. 

—  Sentite:  tornerò,  o  non  tornerò:  ho  riscossi 
non  so  che  danari,  e  veniva  a  saldare  quel  debituccio 
che  sapete:  aveva  qui  venticinque  belle  berlinghe 
nuove:  ma  se  non  si  può,  pazienza:  questi  so  come 
spenderli,  e  tornerò  quando  ne  abbia  riscossi  degli  altri. 

—  Aspettate,  aspettate:  vado  e  torno:  ma  perchè 
venire  a  quest'ora? 

—  Se  Torà  potete  cangiarla,  io  non  m'oppongo  : 
per  me  son  qui;  e  se  non  mi  volete,  me  ne  vado. 

—  No,  no  :  aspettate  un  momento  ;  torno  con  la 
risposta. 

Cosi  dicendo  richiuse  la  finestra  :  a  questo  punto 
Agnese  si  spiccò  dai  promessi,  e  detto  sotto  voce  a 
Lucia:  coraggio;  è  un  momento;  gli  è  come  far  ca- 
vare un  dente,  venne  a  porsi  lungo  la  fronte  della 
casa,  poco  lontano  dalla  porta,  aspettando  che  tor- 
nasse Perpetua,  per  giungerle  addosso  (1). 


(!)  Segue  cancellato:  «Perpetua  era  salita  a  portar 
«  l'ambasciata  a  don  Abbondio,  il  quale,  convalescente 
«  della  febbre  dello  spavento,  anzi  più  guarito  (quanto 
«  alla  febbre)  che  non  volesse  lasciar  credere,  stava  sul 
«  suo  seggiolone,  con  un  libricciuolo  aperto  dinanzi.  11 
«  poveruomo,  tanto  era  lontano  dal  pensare  alla  burrasca 
«  che  gli  si  addensava  sul  capo  !  andava  cercando  nella 
«  sua  memoria  chi  fosse  stato  Cameade.  Bisogna  sapere 
«  che  don  Abbondio  si  ».  Il  Manzoni  nel  correggere  la 
copia  per  la  Censura  troncò  qui  il  capitolo,  e  di  quello 
che  segue  ne  formò  il  principio  del  capitolo  Vili.   (Ed.) 


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—     667     — 

—  Cameade  !  chi  era  costui  ?  ruminava  tra  sé  don 
Abbondio,  seduto  sul  suo  seggiolone  nella  stanza  da 
letto,  con  un  libricciuolo  aperto  dinanzi,  quando  Per- 
petua entrò  a  portargli  l'imbasciata.  Cameade!  questo 
nome  mi  par  bene  di  averlo  inteso  o  letto;  doveva 
essere  un  uomo  di  studio,  un  lettera tone  del  tempo 
antico  :  è  un  nome  di  quelli  :  ma  chi  diavolo  era  co- 
stui? Tanto  il  pover  uomo  era  lontano  dal  pensare 
alla  burrasca  che  gli  si  addensava  sul  capo  !  Bisogna 
sapere  che  don  Abbondio  si  dilettava  di  leggere 
qualche  linea  ogni  giorno,  e  un  curato  suo  vicino, 
che  aveva  un  po'  di  libreria,  gli  prestava  un  libro 
dopo  l'altro,  il  primo  che  gli  veniva  alle  mani.  Quello 
su  cui  meditava  in  quel  momento  don  Abbondio, 
convalescente  della  febbre  dello  spavento,  anzi  più 
guarito  (quanto  alla  febbre)  che  non  volesse  lasciar 
credere,  era  un  panegirico  in  onore  di  san  Carlo, 
detto  con  molta  enfasi,  e  udito  con  molta  ammira- 
zione, nel  duomo  di  Milano,  due  anni  prima.  Il  santo 
vi  era  paragonato,  per  l'amore  dello  studio,  ad  Ar- 
chimede; e  fin  qui  don  Abbondio  non  trovava  in- 
ciampo ;  perchè  Archimede  ne  ha  fatte  di  così  belle  (l), 


(!)  A  proposito  dell'accenno  a  Cameade  il  prof.  Nino 
Tamassia  [Due  note  manzoniane;  in  Giornale  storico  della 
letteratura  italiana;  XXI,  182]  scrive:  «chiedere  perchè 
«il  Manzoni  tirò  fuori  il  nome  di  quel  letteratone  del 
«tempo  antico,  sembrerebbe  forse  una  stranezza  beli*  e 
«  buona:  e  pure  non  è  così.  Accostiamo  alle  parole  messe 
«  in  bocca  di  don  Abbondio  queste  altre  di  un  dialogo  di 
«Agostino  [Contra  Academicos,  cap.  Ili,  n.°7;  in  Opera, 
«ed.  Venet.  1833,  I,  p.  305]:  Tarn  Licentius:  Cameade s, 
«  inquity  Ubi  sapiens  non  videtur  t  Ego,  ait,  Graecus  non 
«sum,  nescio  Carneades  iste  qui  fuerit.  Non  coincide  la 
«domanda  di  don  Abbondio:  Cameade!  Chi  era  costui? 
«  con  la  frase  di  Agostino  :  nescio  Carneades  iste  qui  fuerit? 
«  11  Manzoni  aveva  studiato  il  gran  dottore  africano,  e  ne 


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—     668    — 


ha  fatto  dir  tanto  di  sé,  che  per  saperne  qualche  cosa, 
non  fa  mestieri  una  erudizione  molto  vasta.  Ma  dopo 


€  fa  fede  la  lettera  sua  al  Poujoulat nella  quale,  da 

€  par  suo,  cerca  di  determinare  dove  precisamente  sor- 
cgesse  il  celebre  Cassiacum,  ove  Agostino  si  era  ritirato 
€con  la  madre,  il  figlio  e  gli  altri  amici,  per  prepararsi 
cai  battesimo.  E  notisi  che  il  dialogo  cantra  Academicos 
€  è  opera  nata  dalla  conversazione  di  Agostino  e  de'  com- 
€  pagni,  durante  il  tranquillo  soggiorno  di  Cassiaco.  Non 
€  parrà  dunque  più  strana,  dopo  queste  considerazioni, 
€  l'ipotesi  che  il  Manzoni,  scrìvendo  i  Promessi  Sposi, 
€  ricordasse  il  nescio  Carneades  iste  qui  fuerit,  e  lo  fa- 
€  cesse  dire  al  povero  don  Abbondio,  come  saggio  della 
€  non  troppo  ampia  cultura  del  clero  d'allora  ». 

Proprio  dopo  le  parole  della  seconda  minuta,  che  ho 
stampate:  «  perchè  Archimede  ne  ha  fatte  di  cosi  belle», 
il  Manzoni  scrìsse,  ma  cancellò  :  €  che  non  occorre  esser 
€  molto  erudito  per  saperne  qualche  cosa.  Ceda  Cameade , 
«  proseguiva  poi  il  panegirico.  Cameade  !  ruminava  tra  sé 
«  il  lettore  :  chi  era  costui?  mi  par  bene....  Perpetua  entrò 
«ed  espose  la  domanda  di  Tonio».  È  evidente:  la  fonte 
alla  quale  attinse  il  Manzoni,  non  si  deve  cercare  nel 
passo  di  S.  Agostino,  ma  nel  «  panegirico  in  onore  di 
€  S.  Carlo,  detto  con  molta  enfasi,  e  udito  con  molta  am- 
c  mi  razione,  nel  duomo  di  Milano,  due  anni  prima  ».  Il 
Lucchini  [Contentarlo  dei  Promessi  Sposi,  ovvero  la  ri- 
velazione di  tutti  i  personaggi  anonimi ,  Lecco,  1904; 
pp.  129-130]  afferma  recisamente  :  eli  libro  sul  quale  me- 
editava  in  quel  momento  don  Abbondio....  era  un  pane- 
egirico  in  onore  di  S.  Carlo....  Quel  panegirico....  avea 
€  per  titolo  La  Fenice,  e  il  suo  autore  fu  Lucio  Giuseppe 
«  Avogadro  della  Congregazione  di  Somasca  e  professore 
e  di  teologia  a  S.  Maria  Segreta  in  Milano,  ove  era  pre- 
€  vosto  ».  La  Fenice,  or  ottone  in  lode  di  S.  Carlo  Borro- 
meo.... di  Don  Lutio*  Gioskppe  Avogadro,  fu  recitata 
alti  4  di  Novembre  1652;  venne  stampata  €  in  Milano  » 
appunto  nel  MDCLII,  e  non  c'è  rammentato  nemmen 
per  sogno  Cameade!  Si  tratta  invece  d'un  altro  panegirico, 
recitato  nel  1626.  Bisogna  frugare  per  le  Biblioteche  di  Mi- 
lano e  scovarlo.  L'ho  tentato,  ma  per  ora  senza  frutto. 
Coraggio  e  avanti;  la  fortuna  arrìda  al  nuovo  Colombo \ 
(Ed.) 


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669 


Archimede,  l'oratore  chiamava  a  paragone  anche  Car- 
neade:  e  quivi  il  lettore  era  rimasto  arrenato.  Per- 
petua annunziò  la  visita  di  Tonio. 

—  A  quest'ora?  disse  anch'egli  don  Abbondio, 
com'era  naturale. 

—  Che  vuol  ella?  non  hanno  discrezione:  ma  se 
non  lo  piglia  al  volo.... 

—  Se  non  lo  piglio  ora,  sa  il  cielo  quando  lo 
potrò  pigliare.  Fatelo  venire.  Ehi  !  ehi  !  siete  poi  ben 
sicura  che  sia  egli,  Tonio? 

—  Diavolo  !  rispose  Perpetua,  e  scese,  aperse  la 
porta,  e  disse  :  dove  siete? 

Tonio  si  mostrò;  e  in  quel  momento  si  mostrò 
pure  Agnese,  come  se  passasse  di  quivi,  e  salutò 
Perpetua  per  nome,  fermandosi  sui  due  piedi. 

.    —  Buona  sera,  Agnese,  disse  Perpetua  :  donde  si 
viene  a  quest'ora? 

—  Vengo  dalla  filanda,  e  se  sapeste....  mi  sono 
indugiata  appunto  in  grazia  vostra. 

—  Oh  perchè?  domandò  Perpetua:  e,  rivolta  ai 
due  fratelli:  entrate,  disse,  che  vengo  anch'io. 

—  Perchè,  ripigliò  Agnese,  una  donna  di  quelle 
che  non  sanno  le  cose,  e  voglion  parlare....  crede- 
reste? si  ostinava  a  dire  che  voi  non  vi  siete  spo- 
sata con  Beppo  Suolavecchia,  né  con  Anselmo  Lun- 
ghigna  (*),  perchè  non  vi  hanno  voluta.  Io  soste- 
neva che  voi  gli  avete  rifiutati,  l'uno  e  l'altro.... 

—  Sicuro.  Oh  la  bugiarda  !  la  bugiardona  !  chi  è 
costei  ? 

—  Ve  lo  dirò  ;  ma  non  potete  credere  quanto  mi 
sia  spiaciuto  di  non  saper  bene  tutta  la  storia,  per 
confonder  colei. 


(*)  Prima  aveva  scritto  :  «  Beppo  Calcarello  »   e   «  An- 
selmo Stacchi».  (Ed.) 


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—    670    — 

È  una  bugiarderia,  disse  Perpetua,  la  più  infame  ! 
Quanto  a  Beppo,  tutti  sanno,  e  hanno  potuto  ve- 
dere.... Ehi,  Tonio!  socchiudete  la  porta,  e  salite 
pure,  ch'io  vengo. 

Tonio  rispose  di  dentro  che  si  ;  e  Perpetua  pro- 
segui la  sua  narrazione  appassionata.  In  faccia  alla 
porta  di  don  Abbondio  si  apriva  tra  due  casipole 
una  stradetta,  la  quale  non  correva  diritta  più  che 
la  lunghezza  di  quelle,  e  volgeva,  dietro  ad  una  di 
esse,  nei  campi.  Agnese  vi  s'avviò,  come  se  volesse 
trarsi  alquanto  in  disparte  per  parlare  più  libera- 
mente :  e  veggendo  poi  che  la  narratrice  le  veniva 
dietro  smemorata,  voltò  il  canto,  non  senza  un  gran 
palpito,  e  Perpetua  dietro.  Agnese  allora  tossì  forte. 
Era  il  segno:  Fermo  lo  intese,  fece  animo  a  Lucia  con 
una  stretta  di  braccio,  ed  entrambi,  iji  punta  di  piedi, 
voltarono  anch'essi  il  lor  canto,  strisciaron  quatti 
quatti  rasente  il  muro,  vennero  alla  porta,  l'aprirono 
dilicatamente  ;  uno  e  due,  cheti  e  chinati,  furono  nel- 
l'andito, dove  trovarono  i  due  fratelli  ad  aspettare. 
Fermo  abbassò  pian  piano  il  saliscendo  nel  mona- 
chetto: e  tutti  quattro  su  per  le  scale,  non  facendo 
pur  romore  per  due.  Giunti  sul  pianerottolo,  i  due 
fratelli  si  fecero  in  faccia  alla  porta  della  stanza  che 
era  di  fianco  alla  scala;  gli  sposi  si  strinsero  alla 
parete. 

—  Deo  gratias,  disse  Tonio,  a  voce  spiegata. 

—  Tonio,  eh?  Entrate,  rispose  la  voce  di  dentro. 
Il  chiamato  schiuse  le  imposte  appena  quanto  era 

necessario  per  passare  egli,  e  il  fratel  dietro.  La  riga 
di  luce  che  uscì  d'improvviso  per  quella  apertura, 
e  scorse  a  traverso  il  pavimento  oscuro  del  piane- 
rottolo, fece  trepidare  Lucia,  come  s'ella  fosse  sco- 
verta. Entrati  i  fratelli,  Tonio  si  richiuse  dietro  le 
imposte:  gli*  sposi  rimasero   immobili  nelle   tenebre 


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—    671     — 

con  le  orecchie  tese,  tenendo  il  fiato:  il  romore  più 
forte  era  il  battito  del  cuore  di  Lucia. 

Don  Abbondio  stava,  come  abbiam  detto,  sur 
una  vecchia  seggiola,  ravvolto  in  una  vecchia  zimarra, 
imbacuccato  in  un  vecchio  berretto  a  foggia  di  ca- 
mauro, che  gli  faceva  cornice  intorno  alla  faccia.  Due 
folte  ciocche  che  scappavano  fuor  del  berretto,  due 
folti  sopraccigli,  due  folti  mustacchi,  un  folto  pizzo 
pel  lungo  del  mento,  tutti  canuti  e  sparsi  su  quella 
faccia  brunazza  e  rugosa,  parevano  cespugli  nevicosi 
sporgenti  da  un  dirupo. 

—  Ah  !  ah  !  fu  il  suo  saluto,  mentre  si  cavava  gli 
occhiali  e  li  riponeva  nel  libricciuolo.  ' 

—  Dirà  il  signor  curato  che  son  venuto  tardi: 
disse  Tonio,  inchinandosi,  come  pure  fece,  ma  più 
goffamente  Gervaso. 

—  Sicuro  che  è  tardi.  Sono  ammalato,  vedete. 

—  Oh  !  me  ne  spiace. 

—  L'avrete  inteso  dire:  sono  ammalato;  e  non 
so  quando  potrò  lasciarmi  vedere....  Ma  perchè  vi 
siete  tirato  dietro  quel....  quel  figliuolo? 

—  Così  per  compagnia,  signor  curato. 

—  Basta,  vediamo. 

—  Sono  venticinque  berlinghe  nuove,  di  quelle 
col  sant'Ambrogio  a  cavallo,  disse  Tonio,  cavandosi 
un  gruppetto  di  tasca. 

—  Vediamo,  replicò  don  Abbondio:  e  le  prese, 
si  rimesse  gli  occhiali,  le  volse,  le  rivolse,  le  noverò, 
le  trovò  irreprensibili. 

—  Ora,  signor  curato,  mi  darà  la  collana  della 
mia  povera  Tecla. 

—  È  giusto,  rispose  don  Abbondio;  e  andò  ad 
un  armadio,  e  cacciata  una  chiave,  guardandosi  in- 
torno come  per  tener  lontani  gli  spettatori,  aperse 
una  parte  d'imposta,  riempi  l'apertura  colla  persona, 


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—    672    — 

introdusse  la  testa  per  guardare  e  un  braccio  per  ri- 
tirare il  pegno;  lo  ritirò,  chiuse  l'armadio,  svolse  il 
cartoccino,  disse:  va  bene?  lo  ripiegò  e  lo  consegnò 
a  Tonio. 

—  Ora,  disse  questi,  si  contenti  di  farmi  una  riga 
di  quitanza. 

—  Anche  questa!  disse  don  Abbondio.  Le  sanno 
tutte  :  ih  !  come  è  divenuto  sospettoso  il  mondo  !  Non 
vi  fidate  di  me? 

—  Che  dic'ella,  signor  curato?  s'io  mi  fido!  ma, 
dalla  vita  alla  morte.... 

—  Bene,  bene. 

Così  brontolando  tirò  a  sé  un  cassettino  del  ta- 
volo ;  ne  tolse  carta,  penna  e  calamaio  ;  e  si  pose  a 
scrivere,  ripetendo  a  viva  voce  le  parole  a  misura 
che  gli  uscivano  dalla  penna.  Frattanto  Tonio,  e  ad 
un  suo  cenno  Gervaso,  si  posero  in  piedi  dinanzi  al 
tavolo  in  modo  di  togliere  allo  scrittore  la  vista  della 
porta;  e  come  per  ozio  andavano  soffregando  coi 
piedi  il  pavimento,  per  dar  segno  a  quei  di  fuori 
che  entrassero,  e  per  isconfondere  nello  stesso  tempo 
il  romore  delle  loro  pedate.  Don  Abbondio,  attuffato 
nella  sua  scrittura,  non  badava  ad  altro.  Al  fruscio 
dei  quattro  piedi,  Fermo  strinse  la  mano  a  Lucia 
per  darle  coraggio,  e  pian  piano  entrarono,  Lucia 
più  morta  che  viva;  e  si  appostarono  dietro  i  due 
fratelli.  Frattanto  don  Abbondio,  finito  di  scrivere, 
rilesse  attentamente,  senza  sollevar  gli  occhi  dalla 
carta;  la  piegò,  dicendo:  sarete  contento  ora?  e  to- 
gliendosi con  una  mano  gli  occhiali  dal  naso,  sporse 
con  l'altra  il  foglio  a  Tonio,  levando  la  faccia.  Tonio, 
stendendo  la  destra  a  prenderlo,  si  ritirò  da  una 
parte;  Gervaso,  ad  un  cenno,  dall'altra:  ed  ecco,  come 
al  dividersi  d'una  scena,  apparire  nel  mezzo  Fermo 
e  Lucia.  Don  Abbondio  intrawide,  vide,  si  spaventò, 


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—     673     — 

si  stupì,  s'infuriò,  pensò,  prese  una  risoluzione:  tutto 
questo  nel  tempo  che  Fermo  mise  a  proferire  le  pa- 
role: signor  curato,  in  presenza  di  questi  testimoni i, 
questa  è  mia  moglie.  Le  sue  labbra  non  erano  an- 
cora tornate  in  riposo,  che  don  Abbondio  aveva 
già  lasciata  cadere  la  quitanza,  afferrata  colla  manca 
e  sollevata  la  lucerna,  ghermito  con  la  destra  il  tap- 
peto, che  copriva  la  tavola,  e  tiratolo  a  sé  con  furia, 
gittando  a  terra  libro,  carta,  calamaio  e  polverino; 
e  balzando  tra  la  seggiola  e  la  tavola,  s'era  avvici- 
nato a  Lucia.  La  poveretta  con  quella  sua  voce  soave, 
e  allora  tutta  tremante,  aveva  appena  potuto  profe- 
rire: e  questo....  che  don  Abbondio  le  aveva  git- 
tata scortesemente  il  tappeto  sulla  testa  e  sul  volto, 
per  impedirle  di  pronunziare  intera  la  forinola.  E 
per  tenerle  meglio  quel  drappo  ravvolto  intorno  alla 
bocca,  lasciò  cadere  la  lucerna:  gridando  intanto  a 
testa,  come  un  toro  ferito:  Perpetua,  Perpetua,  tra- 
dimento, aiuto  !  Il  lucignolo,  morente  sul  pavimento, 
mandava  una  luce  languida  e  saltellante  sopra  Lucia, 
la  quale,  affatto  smarrita,  non  tentava  pure  di  svi- 
lupparsi, e  stava  come  una  statua  sbozzata  in  creta, 
sovra  la  quale  l'artefice  ha  gittata  un  umido  panno. 
Cessata  ogni  luce,  don  Abbondio  lasciò  la  poveretta, 
e  andò  cercando  a  tentone  la  porta  d'una  stanza  vi- 
cina, la  trovò,  v'entrò,  si  chiuse  dentro,  gridando 
tuttavia:  Perpetua,  tradimento,  aiuto,  fuori  di  questa 
casa,  fuori  di  questa  casa.  Nell'altra  stanza  tutto  era 
confusione  :  Fermo,  cercando  di  cogliere  il  curato,  e 
remigando  colle  mani,  come  se  facesse  a  gatta  cieca, 
era  giunto  alla  porta,  e  bussava,  gridando  :  apra, 
apra,  non  faccia  schiammazzo.  Lucia  chiamava  Fermo 
con  voce  fioca,  e  diceva  supplicando:  andiamo,  an- 
diamo, per  amor  di  Dio.  Tonio,  carpone,  andava  sco- 
pando colle  mani  il   pavimento,    per  adunghiare  la 

Alessandro  Manzoni.  43 


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—    674    — 

sua  quitanza.  Gervaso  spiritato  gridava,  e  trasaltava, 
cercando  la  porta  della  scala,  per  uscire  a  salva- 
mento. 

In  mezzo  a  questo  serra  serra,  non  possiamo  la- 
sciare di  arrestarci  un  momento  a  fare  una  riflessione. 
Fermo,  il  quale  strepitava  di  notte  in  casa  altrui, 
che  vi  s'era  tramesso  di  soppiatto,  e  teneva  il  pa- 
drone stesso  assediato  in  una  stanza,  ha  tutta  l'ap- 
parenza d'un  oppressore:  eppure,  alla  fine  del  fatto, 
egli  era  l'oppresso.  Don  Abbondio,  sorpreso,  messo 
in  fuga,  spaventato,  mentre  attendeva  tranquillamente 
ai  fatti  suoi,  parrebbe  la  vittima:  eppure  egli  era  in 
realtà  l'ingiusto.  Così  va  sovente  il  mondo....  Vo- 
glio dire,  cosi  andava  nel  secolo  decimo  settimo. 

L'assediato,  veggendo  che  il  nemico  non  isgo Al- 
berava, aperse  una  finestra  che  dava  in  sul  sagrato, 
e  si  diede  a  gridare  :  aiuto  !  Batteva  la  più  bella  luna 
del  mondo:  e  l'ombra  della  chiesa  e  del  campanile 
si  disegnava  bruna  e  distinta  (l)  sul  piano  verde  e 
liscio  del  sagrato.  Per  quell'ombra  veniva  tranquil- 
lamente, con  un  gran  mazzo  di  chiavi  pendente  alla 
mano,  il  sagrista,  il  quale,  dopo  suonata  l'avemaria, 
era  rimasto  a  governare  non  so  che  arredi  dell'al- 
tare. A  quel  gridìo  levò  egli  la  testa. 

—  Lorenzo  (2)  !  gridò  don  Abbondio  :  accorrete  : 
gente  in  casa:  aiuto!  aiuto! 

Lorenzo,  quantunque  sbigottito,  non  perdette  la 
testa;  trovò  in  su  l'istante  ch'egli  poteva  dar  più 
aiuto  che  non  gliene  fosse  domandato,  senza  cac- 
ciarsi egli  nel  tafferuglio,  quale  eh' e'   fosse.    Corse 


(!)  Le  parole  :  «  bruna  e  distinta  »  furono  aggiunte  dopo, 
in  margine.  (Ed.) 

(2)  Nella  copia  per  la  Censura  e  nella  stampa  lo  ribat- 
tezzò Ambrogio,  (Ed.) 


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—     675     — 

indietro  alla  porta  della  chiesa;  tolse  nel  mazzo  la 
grossissima  chiave,  entrò,  andò  difilato  al  campanile, 
prese  la  corda  della  campana  maggiore  e  suonò  a 
martello  (*). 


(!)  È  un  brano  del  capitolo  VII  del  tomo  I  della  se- 
conda minuta.  (Ed.) 


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X. 

Le  correzioni  all'    «  Addio  ai  monti  > . 

A)  Prima  stesura. 

I  viaggiatori  silenziosi,  volgendosi  addietro,  guar- 
davano [il  paese]  le  montagne  e  il  paese,  che  la  luna 
illuminava.  Si  distinguevano  i  villaggi,  i  campanili, 
le  capanne  :  il  castellotto  di  Don  Rodrigo  colla  vec- 
chia sua  torre  [sovrastava  fra  le  capanne  e  le  signo- 
reggiava] alto  sulle  capanne  pareva  un  [superbo]  fe- 
roce ritto  nelle  tenebre  che  [medita  il  delitto]  in  mezzo 
ad  una  folla  di  coricati  nel  sonno  [stesse]  vegliasse 
meditando  un  delitto.  Lucia  [scorreva  coli' occhi]  lo 
vide,  e  rabbrividì;  scerse  coir occhio  verso  il  sito 
della  sua  umile  casa,  vide  un  pezzo  di. muro  bianco 
che  usciva  da  una  macchia  verde  scura,  riconobbe 
la  [ca]  sua  casetta,  e  il  fico  che  ombreggiava  la  stessa: 
e  seduta  com'era  sul  fondo  della  barca,  poggiò  il 
gomito  sulla  sponda,  chinò  su  quello  la  fronte  come 
per  dormire;  e  pianse  segretamente. 

Addio,  monti  [ritti  negli  abissi  dell'acque]  [ap- 
poggiati negli  abissi  delle  acque  ed  elevati  verso  il 
cielo;]  posati  sugli  abissi  dell'acque  ed  elevati  al 
cielo;  cime  ineguali,  conosciute  a  colui  [che  vi  guardò 


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—    677     — 

colle  prime  sue  occhiate}  che  fissò  sopra  di  voi  i 
primi  suoi  sguardi,  e  che  visse  fra  voi,  come  egli 
distingue  all'aspetto  [gli  uomini  coi]  l'uno  dall'altro 
i  suoi  famigliari,  [valli  segrete]  valloni  segreti,  ville 
sparse  e  biancheggianti  sul  pendìo  come  branco  di- 
sperso di  pecore  pascenti,  addio  !  Quanto  [spiace- 
vole] è  [doloroso  il  lascia]  tristo  il  lasciarvi  a  chi  vi 
conosce  dall'infanzia!  quanto  è  nojoso  l'aspetto  della 
pianura  [che  fastidisce  l'occhio  e  lo  conduce  per  lon- 
tani spazj  dov'egli  non  trova  che]  dove  [quello]  [lo 
spazio  che  si  percorre  somiglia  a  q]  il  sito  a  cui  si 
aggiunse  è  simile  a  quello  che  si  è  lasciato  addietro, 
dove  l'occhio  [fastidito]  cerca  invano  [negli]  nel 
lungo  spazio,  dove  riposarsi  e  [guardare]  contemplare, 
e  si  [abbassa]  ritira  fastidito  come  dal  fondo  d'un 
quadro  su  cui  l'artefice  non  abbia  ancor  figurata  al- 
cuna immagine  della  creazione.  Che  importa  che  nei 
[deserti]  piani  deserti  surgano  città  superbe  ed  af- 
follate? il  montanaro  che  le  passeggia  [non  può  stu- 
pirsi degli  edificj]  avvezzo  alle  alture  di  Dio,  non 
'  sente  il  diletto  della  maraviglia  nel  mirare  edificj  che 
il  cittadino  chiama  [alti]  elevati  perchè  gli  ha  fatti 
egli  ponendo  a  fatica  pietra  sopra  pietra.  Le  vie  che 
[si  lodano]  hanno  vanto  di  ampiezza,  gli  sembrano 
valli  [anguste]  troppo  anguste  ;  [ed  [egli]  egli  sa]  l'afa 
immobile  lo  opprime,  ed  egli  che  nella  vita  operosa 
del  monte  non  [aveva]  [pensava  alla  sanità  che  at- 
tor quando]  aveva  forse  provato  altro  malore  che  la 
fatica,  divenuto  [sospettoso]  timido  e  delicato  come 
il  cittadino,  [parla]  si  lagna  del  clima  e  della  tem- 
perie, e  dice  che  morrà  se  non  torna  ai  suoi  monti. 
Egli  che  sorto  col  sole  non  riposava  che  al  mezzo 
giorno,  e  [alla  sera]  al  cessare  delle  fatiche  diurne, 
[ora]  passa  le  ore  intere  nell'ozio  malinconico  ripen- 
sando alle  sue  montagne. 


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—     678     — 

Ma  questi  sono  piccioli  dolori  (*).  L'uomo  sa  tor- 
mentar l'uomo  \>iell' animo]  nel  cuore;  e  amareg- 
giargli il  pensiero  di  modo  che  anche  la  memoria 
dei  [temp{\  momenti  [lieti  già  pa]  passati  lietamente 
[gli  porta  un  rancore]  [senza]  [non  misto  di  com- 
piacenza] [invece  è  tutta  dolorosa.  Addio,  casa  natale] 
affacciandosi  ad  esso  perde  ogni  bellezza,  e  porta  un 
rancore  non  temperato  da  alcuna  compiacenza;  è 
tutta  dolorosa  :  reca  all'afflitto  una  certa  maraviglia 
che  abbia  potuto  altre  volte  godere,  e  non  desi- 
dera più  quelle  contentezze  delle  quali  non  gli  par 
più  capace  la  sua  mente  trasformata  (*).  Addio,  casa 
natale,  casa  dei  primi  passi,  dei  primi  giuochi,  delle 
prime  speranze  ;  casa  [dalla]  nella  quale  sedendo  con 
un  pensiero  s'imparò  a  distinguere  [dalle  orme  degli] 
[fra  i  passi  degli  uomini]  dal  romore  delle  orme  co- 
muni il  romore  d'un 'orma  desiderata  con  un  miste- 
rioso timore.  Addio,  addio  casa  altrui,  nella  quale  la 
fantasia  [commossa,  e]  intenta,  e  sicura  vedeva  [il sog- 
giorno] [si  era  fabbricato  il]  un  soggiorno  di  [compagna] 
sposa,  e  di  compagna.  Addio,  Chiesa  dove  nella  prima 
[in/]  puerizia  si  stette  in  silenzio  e  [colla  gravita]  con 
adulta  gravità,  dove  si  [cantò]  cantarono  colle  com- 
pagne le  lodi  del  Signore,  dove  ognuno  esponeva 
tacitamente  le  sue  preghiere  a  Colui  che  tutte  le  in- 
tende e  le  può  tutte  esaudire  ;  Chiesa,  dove  era  pre- 


(*)  Fin  qui  il  brano  è  tolto  dal  foglio  che  il  Manzoni 
numerò  prima  90,  poi  92,  e  che  nella  nuova  numerazione 
a  matita  è  il  68-69.  Questo  foglio  appartiene  al  tomo  primo 
della  prima  minuta.  Il  brano  che  segue  è  tolto  dal  fo- 
glio 91,  numerato  recentemente  66-67.  (Ed.) 

(*)  Il  Manzoni  notò  in  margine  :  «  Dolore  speciale  :  la 
«  contemplazione  della  perversità  d'una  mente  simile  alla 
«  nostra  :  idea  predominante  in  chi  è  afflitto  dal  suo  si- 
«  mile  ».  (Ed.) 


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—     679     — 

parato  un  rito,  dove  l'approvazione  e  la  benedizione 
di  Dio  doveva  aggiungere  all'ebbrezza  della  gioja 
il  gaudio  tranquillo  e  solenne  della  santità.  Addio! 
Il  serpente  nel  suo  viaggio  [tortuoso  e]  torto  e  insi- 
dioso, si  posta  talvolta  vicino  all'abitazione  dell'uomo, 
e  vi  pone  il  suo  nido,  vi  conduce  la  sua  famiglia, 
[e  l'uomo  che]  riempie  il  suolo  e  se  ne  impadronisce  ; 
[ne  scaccia  l'uomo  il  quale]  perchè  l'uomo  il  quale  ad 
ogni  passo  incontra  il  [reitile]  velenoso  vicino  pronto 
ad  avventarglisi,  che  è  obbligato  di  guardarsi  e  di  non 
dar  passo  senza  sospetto,  che  trema  pei  suoi  figli 
[abbandona  la  sua  abitazione,  maledice  il  serpente 
sente]  sente  venirsi  in  odio  la  sua  dimora,  maledice 
[il  vicino  nuovo]  il  rettile  usurpatore,  e  parte.  E  l'uomo 
pure  caccia  talvolta  l'uomo  [dalla]  sulla  terra  come 
se  [fosse  una]  gli  fosse  destinato  per  preda  :  [fino  a 
quel  giorno  in  cui]  allora  il  debole  non  può  che 
fuggire  dalla  faccia  del  potente  oltraggioso  :  [fino  a 
quel  giorno  in  cui]  [un  giorno  poi]  ma  i  passi  affan- 
nosi del  debole  sono  contati,  e  un  giorno  ne  sarà 
chiesta  ragione. 

La  barca  giunta  alla  riva,  urtando  sull'arena  [tra] 
scosse  Lucia,  la  quale  [si  alzò  asciuganti]  dopo  avere 
asciugate  in  segreto  le  lagrime,  si  alzò  come  dal 
sonno. 


E)  Seconda  stesura. 

I  passeggieri  silenziosi,  volgendosi  addietro,  guar- 
davano le  montagne  e  il  paese  rischiarato  dalla  luna, 
e  svariato  qua  e  là  di  grandi  ombre.  Si  distingue- 
vano i  villaggi,  le  case,  le  capanne:  il  castellotto  di 
don  Rodrigo  colla  vecchia  sua  torre,  elevato  sulle 
casucce  ammucchiate  alla  falda  del  promontorio,  pa- 


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—    680     — 

reva  un  feroce  che  ritto  nelle  tenebre  sopra  una  folla  di 
giacenti  addormentati,  vegliasse  meditando  un  de- 
litto. Lucia  lo  vide,  e  rabbrividì;  discese  coll'occhio 
a  traverso  la  china  fino  al  suo  paesello:  [affisò  l'e- 
stremità] guardò  fiso  all'estremità,  scerse  la  sua  ca- 
setta, scerse  la  chioma  folta  del  fico  che  usciva  [da/] 
di  sopra  il  muro:  e  seduta  com'era  sul  fondo  della 
barca,  appoggiò  il  gomito  sulla  sponda,  chinò  su 
quello  la  fronte  come  per  dormire;  e  pianse  segre- 
tamente. 

Addio,  montagne  sorgenti  dalle  acque  ed  .[ele- 
vate a]  erette  al  cielo;  cime  ineguali,  conosciute  a 
chi  è  nato  fra  voi,  e  distinte  nella  sua  mente  non 
meno  che  lo  sieno  gli  aspetti  dei  suoi  più  famigliari  ; 
valloni  segreti,  ville  sparse  e  biancheggianti  sul 
pendìo,  come  branchi  di  pecore  pascenti,  addio  ! 
Quanto  è  tristo  il  passo  dell'indigena  che  si  allon- 
tana da  voi  !  [Quegli]  A  quello  stesso  che  volonta- 
riamente vi  volge  le  spalle,  [che  va  a  procacciarsi  for- 
tuna, [sente  ad  un  tratto]  [vede  nella]  [vede  e  corre  a]  [e] 
dirizzato  a  procacciarsi  fortuna,  si  disabbelliscono  in 
quel  momento  i  sogni  della  ricchezza,  e  nulla  gli 
sembra  [più]  desiderabile  se  non  il  soggiornare  tra 
voi.  Il  suo  occhio  si  ritrae  fastidito  [dal  vuoto  uni- 
forme aspetto  della  pianura  [dalla  u....]e  affaticato] 
e  stanco  dalla  uniforme  ampiezza  della  pianura  ;  [di- 
nanzi agli  edificii  delle  città  affollate  [egli  pensa] 
egli  entra]  l'aere  gli  simiglia  gravoso  e  senza  vita: 
egli  entra  mesto  e  disattento  nelle  città  tumultuose  ; 
e  dinanzi  agli  edificii  ammirati  dallo  straniero,  egli 
pensa  [con  diletto  affannoso]  con  amore  affannoso  [ai 
suoi  monti]  al  camperello  [che  egli  s,...  del  vicino  su 
cui  egli  ha  posti  gli  occhi  prima  di  partire]  a  cui 
egli  ha  posto  [add]  gli  occhi  addosso  da  gran  tempo, 
ch'egli  si   compererà  tornando  a  casa  dovizioso,  e 


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—     681     — 

[pel  quale  solo  si]  per  amore  [del  quale}  di  cui  egli 
si  affatica  ad  acquistare,  e  sopporta  il  tedio  di  viver 
lontano  da*  suoi  monti. 

Ma  chi  [mai]  non  aveva  mai  spinto  al  di  là  di  quelli 
pure  un  desiderio,  né  una  vaghezza  aerea,  chi  aveva 
composti  e  intrecciati  con  l' immagine  di  quelli  tutti  i 
disegni  dell'avvenire,  d'un  avvenire  sospirato  segreta- 
mente, e  che  [pareva]  si  credeva  certo  e  imminente,  e 
ne  è  sbalzato  [lungi]  da  una  forza  perversa!  [lungi] 
e  strappato  in  una  volta  [dalle]  alle  costumanze  più 
care  [e  alle  più  care  speranze]  e  turbato  nelle  più 
care  speranze  !  [e  parte  senza  sapere  fra  qua]  s'avvia 
in  cerca  di  stranieri  che  non  ha  mai  desiderato  di 
conoscere,  e  [senza]  non  può  colla  immaginazione 
[precorrere  al]  trascorrere  per  uno  spazio  misurato 
all'assenza,  al  momento  stabilito  del  ritorno!  Addio, 
casa  natale,  dove  sedendo  con  un  pensiero  [nascosto] 
segreto  s'imparò  a  distinguere  dal  romore  delle  orme 
comuni  il  romore  d'un'orma  desiderata  con  un  mi- 
sterioso timore.  Addio,  casa  ancora  straniera,  casa 
guardata  tante  volte  alla  sfuggita  passando  e  non 
senza  rossore,  nella  quale  la  [fantasia]  mente  [vedeva] 
si  compiaceva  di  figurarsi  un  tranquillo  e  perpetuo 
soggiorno  di  sposa.  Addio,  chiesa,  dove  [era]  si  can- 
tarono tante  volte  le  lodi  del  Signore,  dove  era  pro- 
messo [un],  preparato  un  rito,  dove  il  sospiro  segreto 
[dell'animo]  del  cuore  doveva  essere  solennemente 
benedetto,  e  l'amore  chiamarsi  santo;  addio! 

Di  tal  genere,  se  non  tali  affatto,  erano  i  pensieri 
di  Lucia,  e  poco  dissimili  i  pensieri  degli  altri  due 
pellegrini,  mentre  [il  battello]  la  barca  gli  andava  av- 
vicinando alla  destra  riva  dell'Adda  (*). 


(*)  Si  legge  in  margine  del  foglio  già  ricordato,  che  il 
Manzoni  numerò  prima  90,  poi  92.  (Ed.) 


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—    682     — 


C)  Terza  stesura. 

L'onda  segata  dalla  barca,  riunendosi  dietro  la 
poppa,  segnava  una  striscia  [.fuggente  che]  increspata, 
che  si  andava  allontanando  dal  lido.  I  passeggieri 
silenziosi ,  [volgendosi  [addietr. . .]  indietro,  guardavano 
le  moni. . .]  [coi  dorsi  volti  a  quello,  ma  [coi  voli  colle  fac- 
ce [piegate]  converse  [rivolte  indietro,]  [girate  indietro] 
[seduti  colle  spalle  converse]  coi  dorsi  volti  a  quello, 
[ma  coi  volti  girati]  e  la  faccia  conversa  indietro, 
guardavano  le  montagne  e  il  paese  rischiarato  dalla 
luna,  e  svariato  qua  e  là  di  grandi  ombre.  Si  discer- 
nevano i  villaggi,  le  case,  le  capanne:  il  castellotto 
di  don  Rodrigo,  colla  [vecchia]  sua  torre  piatta,  ele- 
vato [sulle]  sopra  le  casucce  ammucchiate  alla  falda 
del  promontorio,  pareva  un  feroce,  che  ritto  nelle 
tenebre  sopra  una  [folla]  compagnia  di  giacenti  ad- 
dormentati, vegliasse,  meditando  un  delitto.  Lucia  lo 
vide,  e  rabbrividì;  discese  coll'occhio  a  traverso  la 
china,  fino  al  suo  paesello  ;  guardò  fiso  all'estremità, 
scerse  la  sua  casetta,  scerse  la  chioma  folta  del  fico 
che  sopravanzava  [le  muraglie]  sulla  cinta  del  cortile  ; 
scerse  la  [sua]  finestra  della  sua  stanza:  e  seduta 
com'era  sul  fondo  della  barca,  appoggiò  il  gomito 
sulla  sponda,  chinò  su  quello  la  fronte,  come  per 
dormire;  e  pianse  segretamente. 

Addio,  montagne  sorgenti  dalle  acque,  ed  erette 
al  cielo;  cime  ineguali,  [conosciute]  note  a  chi  è  [nato] 
cresciuto  tra  voi,  e  [distinte]  impresse  nella  sua  mente 
non  meno  che  lo  sia  l'aspetto  dei  suoi  più  famigliari; 
torrenti  dei  quali  egli  [riconosce  il  fragore]  distingue 
lo  scroscio,  come  il  suono  delle  voci  domestiche  : 
ville  sparse  e  biancheggianti  sul  pendìo,  come  bran- 


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—     683     — 

chi  di  pecore  pascenti  ;  addio  !  Quanto  è  tristo  il 
passo  dell'indigena  che  si  allontana  da  voi!  Alla 
fantasia  di  quello  stesso  che  {volontariamente  vi  lascia] 
[si  parte  da  voi  in  cerca  del  guadagno,]  [si  di]  se  ne 
parte  volontariamente,  a  procacciarsi  guadagno,  si 
disabbelliscono  in  quel  momento  i  sogni  della  fortuna; 
egli  [non  sa  capire  come  ab]  si  maraviglia  d'essersi 
potuto  risolvere,  e  tornerebbe  allora  indietro,  se  non 
pensasse  che  un  giorno  tornerà  dovizioso.  [A  misura 
ch'egli  discende]  Quanto  più  s'avanza  nel  piano,  il 
suo  occhio  si  ritrae  fastidito  e  stanco  da  quella  am- 
piezza uniforme;  l'aere  gli  simiglia  gravoso  e  senza 
vita;  egli  s' inoltra  mesto  e  disattento  nelle  città  tu- 
multuose ;  le  case  aggiunte  a  case,  le  vie  che  sboccano 
nelle  vie  [gli  tolgono  il  fiato]  pare  che  gli  tolgano 
il  fiato;  e  dinanzi  agli  edifizii  ammirati  [agiti  dallo 
straniero,  egli  pensa  con  desiderio  inquieto  [alla 
casuccid]  al  camperello  del  suo  paese,  alla  cas uccia  a 
cui  egli  ha  già  posti  gli  occhi  addosso  da  gran  tempo, 
e  che  compererà,  tornando  ricco  a'  suoi  monti. 

Ma  chi  non  aveva  mai  spinto  al  di  là  di  quelli 
né  pure  un  desiderio  sfuggevole,  chi  aveva  ^intrec- 
ciati] composti  e  intrecciati  con  essi  tutti  i  disegni 
dell'avvenire,  d'un  avvenire  tacitamente  bramato,  [e] 
che  pareva  [ormai]  certo  ormai  e  imminente,  e  ne  è 
sbalzato  [da  una  forza]  lontano  da  una  forza  per- 
versa !  Chi  strappato  ad  un  tempo  alle  più  care  costu- 
manze, e  sturbato  nelle  più  care  speranze,  [s'avvia] 
lascia  quei  monti  per  avviarsi  in  traccia  di  stranieri 
che  non  ha  mai  desiderato  di  conoscere;  e  non  può 
colla  immaginazione  trascorrere  ad  un  momento  sta- 
bilito [del]  pel  ritorno  !  Addio,  casa  natale,  dove 
sedendo  con  un  pensiero  occulto,  s' imparò  a  di- 
stinguere dal  romore  delle  orme  «comuni  il  romore 
d'un' orma  aspettata  con  un  misterioso  timore.  Ad- 


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—    684     — 

dio,  casa  ancora  straniera,  casa  sogguardata  tante 
volte  alla  sfuggita,  passando,  e  non  senza  rossore; 
nella  quale  la  mente  si  compiaceva  di  figurarsi  un 
soggiorno  tranquillo  e  perpetuo  di  sposa.  Addio, 
chiesa,  [nella  quale  si  cantarono  tante  volte  le  lodi  del 
Signore]  dove  la  mente  si  rasserenò  tante  volte,  e  tante 
cure  svanirono,  cantando  le  lodi  del  Signore  ;  dove  era 
promesso,  preparato  un  rito,  dove  il  sospiro  segreto 
del  cuore  doveva  essere  solennemente  benedetto,  e 
l'amore  chiamarsi  santo  :  addio  !  Quegli  che  dava  a 
voi  tanta  giocondità  è  dapertutto  ;  ed  Egli  non  turba 
mai  la  gioia  dei  suoi  figli,  se  non  per  prepararne 
loro  una  più  certa  e  maggiore. 

Di  tal  genere,  se  non  tali  appunto,  erano  i  pen- 
sieri di  Lucia,  e  poco  dissimili  i  pensieri  degli  altri 
due  pellegrini,  mentre  la  barca  gli  andava,  avvici- 
nando alla  destra  riva  dell'Adda  (*). 


D)  Il  testo  della  prima  edizione,  con  le  cor- 
rezioni   DI    QUELLA    DEL    1840,    RIVEDUTA  DAL- 

l'autore  (2). 

I  passeggieri  silenziosi,  {colla  faccia  rivolta]  con 
la  testa  voltata  indietro,  guardavano  [le  montagne']  i 
monti,  e  il  paese  rischiarato  dalla  luna,  e  [svariato] 
variato  qua  e  là  di  [grandi]  grand'ombre.  Si  [discer- 
nevano] distinguevano  i  villaggi,  le  case,  le.  capanne  : 
il  palazzotto  di  don  Rodrigo,  [colla]  con  la  sua  torre 
piatta,    elevato  sopra   le   casucce  ammucchiate  alla 


(*)  Si  legge  nel  capitolo  Vili  del  tomo  I  della  seconda 
minuta.  In  realtà  è  la  terza  stesura.   (Ed.) 

(2)  Le  parole  tra*parentesi  quadre,  in  carattere  corsivo, 
son  quelle  della  vecchia  edizione  originale,  che  mutò.  (Ed.) 


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—     685     - 

falda  del  promontorio,  pareva  un  feroce  che,  ritto 
nelle  tenebre,  {sopra  una]  in  mezzo  a  una  compagnia 
[di  giacenti]  d'addormentati,  vegliasse,  meditando 
un  delitto.  Lucia  lo  vide,  e  rabbrividì:  [discese  col- 
l'occhio  a  traverso  la  china]  scese  con  l'occhio  giù. 
giù  per  la  china,  fino  al  suo  paesello,  guardò  [fiso] 
fisso  {.alla]  all'estremità,  [scerse]  scoprì  la  sua  casetta, 
[scersé]  scoprì  la  chioma  folta  del  fico  che  sopra- 
vanzava [sulla  cinta  del  cortile]  il  muro  del  cortile, 
[scerse]  scoprì  la  finestra  della  sua  [stanza]  camera; 
e,  seduta,  com'era,  [sul]  nel  fondo  della  barca,  [ap- 
poggiò il  gomito]  posò  il  braccio  sulla  sponda,  [chinò] 
posò  {su  quello]  sul  braccio  la  fronte,  come  per  dor- 
mire, e  pianse  segretamente. 

Addio,  [montagne]  monti  sorgenti  [dalle]  dall'acque, 
ed  [erette]  elevati  al  cielo  ;  cime  [ineguali]  inuguali, 
note  a  chi  è  cresciuto  tra  voi,  e  impresse  nella  sua 
mente,  non  meno  che  sia  l'aspetto  [dei]  de'  suoi  più 
[famigliari]  familiari;  torrenti,  [dei]  de'  quali  {egli] 
distingue  lo  scroscio,  come  il  suono  delle  voci  do- 
mestiche; ville  sparse  e  biancheggianti  sul  [pendìo] 
pendio,  come  branchi  di  pecore  pascenti;  addio! 
Quanto  è  tristo  il  passo  di  chi,  cresciuto  tra  voi,  se 
ne  allontana!  Alla  fantasia  di  quello  stesso  che  se 
ne  parte  volontariamente,  tratto  dalla  speranza  di  fare 
altrove  fortuna,  si  disabbelliscono,  in  quel  momento, 
i. sogni  della  ricchezza;  egli  si  maraviglia  d'essersi 
potuto  risolvere,  e  tornerebbe  allora  indietro,  se  non 
pensasse  che,  un  giorno,  tornerà  dovizioso.  Quanto 
più  s'avanza  nel  piano,  il  suo  occhio  si  [ritrae  fasti- 
dito e  stanco]  ritira,  disgustato  e  stanco,  da  [quella] 
quell'ampiezza  uniforme;  [l'aere]  l'aria  gli  [simiglia 
gravoso  e  senza  vita]  par  gravosa  e  morta;  s'inoltra 
mesto  e  disattento  nelle  città  tumultuose  ;  le  case  ag- 
giunte a  case,  le  [vie]  strade  che  sboccano  nelle  [vie] 


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—     686     — 

strade,  pare  che  gli  [tolgano]  levino  il  respiro;  e  [di- 
nanzi] davanti  agli  [edifizii]  edifizi  ammirati  dallo 
straniero  [egli]  pensa,  con  desiderio  inquieto,  al 
[camperello]  campicello  del  suo  paese,  alla  casuccia 
a  cui  [egli]  ha  già  [posti]  messi  gli  occhi  addosso, 
da  gran  tempo,  e  che  comprerà,  tornando  ricco  a* 
suoi  monti. 

Ma  chi  non  aveva  mai  spinto  al  di  là  di  quelli 
[né  pure]  neppure  un  desiderio  [sfuggevole]  fuggi- 
tivo, chi  aveva  composti  in  essi  tutti  i  disegni  del- 
l'avvenire, e  [ne  è]  n'è  sbalzato  lontano,  da  una  forza 
perversa!  Chi,  [strappato]  staccato  [ad]  a  un  tempo 
[alle]  dalle  più  care  abitudini,  e  [sturbato]  disturbato 
nelle  più  care  speranze,  lascia  [quei]  que'  monti,  per 
avviarsi  in  traccia  di  [stranieri]  sconosciuti  che  non 
ha  mai  desiderato  di  conoscere,  e  non  può  [colla] 
con  l'immaginazione  [trascorrere]  arrivare  [ad]  a  un 
momento  stabilito  [pel]  per  il  ritorno  !  Addio,  casa 
[natale]  natia,  dove,  sedendo,  con  un  pensiero  oc- 
culto, s'imparò  a  distinguere  dal  [romore]  rumore 
[delle  orme]  de'  passi  comuni  il  [romore]  rumore 
[di  un'orma  aspettata]  d'un  passo  aspettato  con  un 
misterioso  timore.  Addio,  casa  ancora  straniera,  casa 
sogguardata  tante  volte  alla  sfuggita,  passando,  e 
non  senza  rossore  ;  nella  quale  la  mente  si  [compia- 
ceva di  figurarsi]  figurava  un  soggiorno  tranquillo 
e  perpetuo  di  sposa.  Addio,  chiesa,  dove  l'animo 
tornò  tante  volte  sereno,  cantando  le  lodi  del  Si- 
gnore; [dove  era]  dov'era  promesso,  preparato  un 
rito  ;  dove  il  sospiro  segreto  del  cuore  doveva  essere 
solennemente  benedetto,  e  l'amore  venir  comandato, 
e  chiamarsi  santo;  addio!  [Quegli  che]  Chi  dava  a 
voi  tanta  giocondità  è  [da]  per  tutto  ;  [ed  Egli]  e  non 
turba  mai  la  gioia  [dei]  de'  suoi  figli,  se  non  per  pre- 
pararne loro  una  più  certa  e  [maggiore]  più  grande. 


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—     687— 

Di  tal  genere,  se  non  tali  appunto,  erano  i  pen- 
sieri di  Lucia,  e  poco  [dissimili]  diversi  i  pensieri 
degli  altri  due  pellegrini,  mentre  la  barca  gli  an- 
dava avvicinando  alla  \_destra  riva]  riva  destra  del- 
l'Adda (l). 


(!.)  Il  prof.  Giovanni  Negri  [Sui  Promessi  Sposi  di 
Alessandro  Manzoni,  cotntnenti  critici,  estetici  e  biblici; 
premessovi  uno  studio  su  V  opinione  del  Manzoni  e  quella 
del  Fogazzaro  intorno  all'amore,  Milano,  Scuola  tip.  Sa- 
lesiana, 1903  ;  part.  I,  pp.  149-157]  fa  alcune  osservazioni 
intorno  a  questo  «Addio*,  piene  di  finezza  e  d'acume. 
(Ed.) 


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XI. 


L'Innominato;  brano  della  seconda  minuta, 

STRALCIATO    POI    DALL'AUTORE  (z). 


Nello  schizzo  che  siam  per  dare  della  vita  e  del 
carattere  di  queir  innominato  noi  collocheremo  alcuni 
passi  del  Ripamonti,  tra  ducendoli  alla  meglio  dal  suo 
bel  latino  (v).  Pel  rimanente  non  abbiamo  altra  au- 
torità che  quella  del  nostro  manoscritto. 


(!)  L'autografo  di  questo  brano  forma  il  fascicolo  se- 
condo de*  Fogli  staccati  dai  Promessi  Sposi.  Il  M.  lo  tolse 
via  dal  tomo  II  della  seconda  minuta,  dove  occupava  il 
foglio  75  (già  93)  e  i  fogli  successivi  76-86.  (Ed.) 

(2)  Ecco  nel  loro  «  bel  latino  »  i  passi  del  Ripamonti 
che  riguardano  l'Innominato:  «  Memorano  casum  unius, 
«  qui  procerum  urbis  quum  haud  sane  ultimus  esset,  rura 
«  sibi  urbem  fecerat,  ac  magnitudine  facinorum,  iudicia, 
«  iudicesque  et  fasces  ipsos  imperiumque  cohtemnebat. 
«  Posito  in  extremis  provinciae  finibus  domicilio,  solutam 
«quandam  ac  sui  iuris  vitam  agebat,  receptator  exulum 
«  et  exul  aliquandiu  ipse,  postea  redux,  eousque  progres- 
«  sus,  ut  externi  principis  uxorem,  cum  ad  maritum  sponsa 
«  deduceretur,  raperet  sibique  haberet,  ac  iusto  denique 
«  matrimonio  iungeret  et  nuptias  illas  innuptas  celebrari 
«  nostra  aetas  vidit.  Domus  erat  illa  velut  cruenta  offi- 
«cina  mandatorum,  capite  damnati  servi  et  capitimi  ob- 
«  truncatores  :  non  coquo,    non  aquariolo  cessare  licitum 


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—     689     — 

L'innominato  era  un  tiranno,  nel  senso  che  si  dava 
allora  alla  parola,  che  non  mi  andaste  ad  accusar  per 


«  erat  :  pueris  imbutae  sanguine  manus  :  et  facili  in  Ce- 
«  nomanos,  Bergomatesve  transitu,  tanto  magis  contumax 
«  adversus  edicta  maiestatemque  imperii  huius  familia  tota 
«  erat.  Herus  ipse  cum  solum  aliquando,  nescio,  qua 
«  de  causa  vertere  statuisset,  adeo  modeste  id,  adeoque 
«occultus,  trepidusve  fecit,  ut  per  mediam  urbem  cum 
«  suis  canibus  haud  sine  tubae  etiam  sonitu  transveheretur, 
«  regiaeque  ipsi  obequitaret,  ac  Regio  Gubernatori  dicenda 
«  convitia  portae  cnstodibus  in  transitu  mandaret.  De  hoc 
«  nomine  fama  erat,  tanquam  domitis  etiam  adversus  Ec- 
«  clesiae  leges  et  mysteria  fraenis,  in  praecipitia  penitus 
«  ac  derupta  abiret.  Sicut  ingewia  eiusmodi  sunt,  nun- 
«  quam  id  obiisse  mysterium  aiebant,  ut  peccata  confite- 
«  retur.  Voluit  iste  accedere  ad  Cardinalem,  cum  haud 
«  procul  terribili  domicilio,  visitationis  ordine,  incessuque 
«  constitisset.  Facile  benigneque  admittitur.  Duas  am- 
«  plius  horas  in  colloquio  retentus  est.  Quae  dieta  fuerint 
«  haud  sane  comperimus,  quia  neque  Cardinalem  inter- 
«  rogare  quisquam  nostrum  super  ea  re  auderet,  neque 
«  alter  ille  quicquam  est  effatus.  Tanta  certe  mutatio  re- 
«  pente  facta  est  animi  et  vitae  morumque  illius,  ut  miri- 
«  fica  et  magna  et  nova  res  ad  colloquii  virtù tem  et  effi- 
«  caciam  haud  ditbie  referretur  :  opusque  Cardinalis  id 
«  familia  tota  illa  gladiatorum  agnosceret,  ac,  velut  erepta 
«  sibi  stipe,  detestaretur.  Etiam  alia  per  utramque  provin- 
«  ciam  locis  opportunis  dispersa  familia  quam  truculenti 
«nutus  et  patratae  vel  patrandae  caedes  aiebant,  man- 
«suefacto  nero,  duceque  sensere  damnum.  Simul  pleri- 
«  qui  procerum  urbis  multa  et  occulta  consiliorum  atro- 
ce cium  funestarumque  rerum  societate  cum  eo  coniuncti 
«  postea  quam  ea  quae  communicata  et  inchoata  facinora 
«  habebant,  relinqui  ab  eo  deserique  senserunt,  intellexere 
«  simul,  id  quod  erat,  diversa  itinera  vitae  ingressum  neque 
«  tantae  rei  mutationisque  authorem  ignoravere.  Et  exter- 
«norum  quoque  Principimi  nonnulli,  quibus  particeps  et 
«  minister  alicuius  saepe  magnae  caedis  ex  longinquo  ipse 
«fuerat,  si  ve  qui  auxilia  et  ministros  ei  saepe  miserant, 
«cito  sensere  mutationem.  Sed  causam  anxii  exquirebant, 
«donec  hanc  etiam  pertulit  fama  et  nuntiavit.  Ego  sicut 

Alessandro  Manzoni.  44 


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—     690     — 

giacobino  :  tiranni,  nell'uso  comune  e  nelle  gride  erano 
nominati  coloro  che  col  mezzo  dei  loro  servi  o  bravi, 
resistevano  più  o  meno  agli  ordini  ed  alla  forza  pub- 
blica, e  ne  esercitavano  una  arbitraria,    capricciosa, 


«  augendae  rei  causa  nihil  ex  vano  attulisse  velim  :  ita  ne 
«  his  quidem  demere  fidem  debeo,  quae  comperta  habe- 
«  mus.  Vidi  paulo  post  eum  virum  in  cruda  adhuc  viri- 
«  dique  senecta,  nihil  ex  pristina  ferocia  retinentem  prae- 
«ter  vestigia  et  notas,  quarum  argumento  natura  unum- 
«  quemque  nostrum  insiti  vitii  reum  facit.  Et  has  tamen 
«  ipsas  recens  assumpta  mansuetudo  castigabat  scilicet 
«  atque  inflectebat,  ut  quasi  magno  verbere  victam  et  do- 
«  mitam  esse  naturam  appareret  >.  Cfr.  Iosephi  Ripamonti, 
canonici  scalensis,  chronistae  urbis  Mediolani,  Historiae 
patriae  decadis  V  libri  VI.  Mediolani,  ex  regio  Palatio, 
apud  Jo.  Baptistam  et  Julium  Caesarem  Malatestam, 
regios  typographos,  senza  anno;  pp.  308-311. 

Dell' Innominato  ne  tocca  anche  Francesco  Ri  vola,  bio- 
grafo di  Federigo  Borromeo.  Ecco  quello  che  scrive: 
«  Così  copiosi  ed  abbondevoli  furono  i  frutti  che  dalla  spi- 
ritual visita  della  sua  diocesi  colse  Federico,  che  non 
«  mi  dà  il  cuore  di  potergli  qui  tutti  sotto  gli  occhi  d'o- 

«  gnuno  pienamente  rappresentare Viveva  in  un  certo 

«  castello,  confinante  col  dominio  di  straniero  Principe,  un 
e  Signore  altrettanto  potente  per  ricchezze,  quanto  nobile 
«  per  nascita,  il  quale,  datosi  ad  ogni  maniera  di  misfatti, 
«  opprimeva  con  la  sua  potenza  quando  l'uno,  quando 
e  l'altro  degli  habitatori,  arbitro  facendosi  degli  altrui  af- 
«  fari,  così  pubblici,  come  privati  ;  e  minacciando,  anzi  of- 
«  fendendo  chiunque  a'  suoi  cenni  ardito  havesse  di  con- 
«  trariare  ;  intanto  che  fatto  era  terrore  di  tutti  que'  con- 
torni. Giunto  in  quelle  parti  Federico  la  sua  diocesi 
«  visitando,  volle  con  esso  abboccarsi,  per  veder  pure  di 
«distorlo  dalla  mala  via  e  di  ridurlo  a  porto  di  salute;  e 
«  tanto  disse,  rappresentandogli  con  pastoral  zelo  il  suo 
«stato  miserabile  ed  il  pericolo  dell'eterna  dannatione, 
«  che  lo  dispose  all'ammenda  e  fece  sì  che  da  quel  giorno 
«  innanzi,  con  maraviglia  di  quanti  erano  de'  suoi  depra- 
«  vati  costumi  molto  ben  informati,  deposta  ogni  presun- 
«  tuosa  alterigia  e  ferocia,  tutto  mite,  piacevole  ed  osse- 


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—    691     — 

più  o  meno  iniqua  sopra  i  meno  possenti.  Fra  quelli 
ai  quali  le  ricchezze  e  la  nascita  rendevano,  in  quella 
condizione  di  tempi,  possibile  una  tale  tirannia,  ben 
radi  erano  che  non  ne  usassero  un  pochetto,  almeno 


«  quioso  verso  di  tutti  dimostrassi,  né  fu  mai  più  alcuno 
«  che  d'un  minimo  suo  eccesso  potesse  ragionevolmente 
«dolersi».  Cfr.  Vita  di  Federico  Borromeo,  Cardinale 
del  Titolo  di  S.  Maria  degli  Angeli  ed  Arcivescovo  di 
Milano,  compilata  da  Francesco  Ri  vola,  sacerdote  mi- 
lane  se,  e  dedicata  da*  Conservatori  della  Biblioteca  e  Col-  , 
legio  •  Ambrosiano  alla  Santità  di  Nostro  Sig.  Papa 
Alessandro  Settimo.  In  Milano.  Per  Dionisio  Gariboldi, 
MDCLVI;  pp.  253-255. 

Ne  parla  pure  Biagio  Guenzati  nel  cap.  22  del  lib.  II 
della  sua  Vita  di  Federigo  Borromeo,  Car dittale  di  Santa 
Maria  degli  Angioli,  Arcivescovo  di  Milano,  compilata  di 
nuovo  e  accresciuta,  che  si  conserva  inedita  nella  Biblio- 
teca Ambrosiana.  Sqjive  :  «  Ammirò  ancora  il  mondo  con- 
vertire le  Tigri  di  crudeltà  in  Agnelli  mansueti,  e 
«  squagliati  in  lagrime  di  penitenza  li  cuori  più  indiaman- 
«  titi  per  le  destre  maniere  di  Federigo.  Tra  li  confini  del 
«  dominio  Milanese,  Veneto  e  de'  Grigioni  godeva  asilo 
«  securo  un  mostro  di  fierezza,  cui  per  altro  rendeva  au- 
torevole e  temuto  la  nobiltà  del  sangue  e  la  potenza. 
«Questo,  raccogliendo  tutta  la  feccia  dell'iniquità,  che 
«per  purgarsi  cacciavano  fuori  gli  Stati  confinanti,  aveva 
«  al  suo  comando  squadre  di  sgherri  e  tagliacantoni,  che 
«pascevansi  colle  stragi  e  col  sangue,  svenando  vittime 
«  umane  all'altrui  odio.  A  quel  castello,  come  al  tribu- 
«  naie  di  Eaco  o  di  Radamanto,  ricorrevano  tutti  gli  avidi 
«  di  crudeli  vendette  ;  in  quello  macchinavansi  tradimenti 
«  e  spacciavansi  sentenze  di  morte,  che  venivano  eseguite 
«in  mille  guise  da  palliati  carnefici».  Qui  racconta  varie 
imprese  di  lui;  poi  prosegue:  «  Portatosi  dunque  in  quei 
«  contorni  il  Cardinale,  ebbe  ad  albergare  ancora  in  quella 
«piccola  Terra  ove  risiedeva  questo  Ministro  di  Morte. 
«  Volle  questi,  forse  per  compiere  solo  al  debito  della 
«sua  nascita  cospicua,  visitarlo  e  si  trattenne  segreta- 
«  mente  con  esso  per  due  ore.  Non  si  penetrò  di  che  si 
«  discorresse  fra  loro  ;  né  meno  il  Cardinale  mai  lo  palesò  ». 


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—    692     — 

in  certe  occasioni,  talvolta  forse  senza  averne  una 
coscienza  ben  distinta;  molti  la  usavano  come  una 
professione;  fra  i  molti  spiccava  quest'uno.  Unico 
erede  d'una  famiglia  primaria,  nato  con  un  talento 


In  una  grida  dèi  io  marzo  1603,  pubblicata  «  In  Mi- 
lano, per  Pandolfo  et  Marco  Tullio  Malatesti,  Stampatori 
Regi  Camerali  »,  il  Governatore  di  Milano,  Don  Pietro  En- 
riquez de  Azevedo  conte  di  Fuentes,  «  conosciuto  per 
«  esperienza  di  quanto  commodo  et  utilità  sia  stata  a  questo 
«Stato  la  grida  d'ordine  suo  pubblicata  sotto  li  12  marzo 
«  1601  contra  banditi  et  assassini  et  altri  facinorosi  ;  et 
«  desiderosa  l'Eccellenza  sua  che  questi  sudditi,  tanto  af- 
«  fetionati  alla  Maestà  Catholica  et  da  lei  commessi  al  suo 
«governo,  possano  vivere  con  quella  maggior  quiete  et 
«  sicurezza  che  sia  possibile  et  i  malfattori  siano  castigati 
«  et  distrutti,  ha  deliberato  (col  parere  ancora  del  Consi- 
«  glio  Secreto  et  del  Senato)  che  la  sudetta  grida  si  rinovi 
«nel  modo  et  forma  che  segue:  Commanda  S.  E.  che 
«  niuno,  di  qual  conditione  si  sia,  ardisca  ricettare,  né 
«  alloggiare,  o  dare  alcuno  aiuto  o  favore  in  qualsivoglia 
«  maniera  ad  alcuno  condannato  capitalmente  di  morte 
«  naturale,  et  bandito,  o  assassino,  sotto  pena  della  vita 
«  et  confiscatione  de'  beni  ;  né  si  ammetterà  escusatione 
«  a'  padri  o  fratelli  o  altri  parenti  che  habbiano  ricettato 
«o  dato  aiuto  a  figliuoli,  fratelli  o  altri  parenti,  i  quali 
«siano  banditi,  o  assassini».  Qui  seguono  sei  pagine  di 
stampa  fittissima  nelle  quali  il  Governatore  ordina  alle 
varie  autorità  di  ammazzare,  scorticare  e  impiccare  oltre 
dugento  banditi,  di  cui  dà  il  nome;  poi  prosegue:  «Et 
«perchè  sono  dispiaciuti  oltre  modo  a  S.  E.  gli  eccessi 
«  seguiti  nella  persona  di  Lucia  Vertemate,  moglie  che 
«fu  di  Gio.  Battista  Piacenza,  et  nella  persona  di  Gero- 
«nimo  Cusano  et  suo  figlio;  et  parimente  gli  enormi  et 
«brutti  misfatti  commessi  da  Francesco  Bernardino  Vi- 
«  sconte,  uno  de'  feudatarij  di  Brignano  Geradadda  e 
«da'  suoi  seguaci;  concede  S.  E.  che  qualunque  conse- 
«  gnerà  vivo  o  ammazzerà  alcuno  degli  infrascritti,  oltre 
«  il  premio  pecuniario  promesso  nelle  gride,  possa  liberare 
«  due  banditi  per  qualsivoglia  caso,  fuorché  gli  eccettuati 
«in  questa  grida».  Dà  quindi  il  «Nome  de'  banditi  per 


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—     693     — 

superbo,  imperioso,  feroce,  cresciuto  fra  l'apparato 
d'una  grande  opulenza  e  d'una  gran  forza  dome- 
stica, fra  il  chinar  riverente  di  facce  bellicose  e  le 
dimostrazioni  d'una  servilità  pronta   a   tutto  intra- 


la  morte  della  Vertemate,  »  il  «  Nome  de'  banditi  per  la 
morte  de*  Cusani,  »  e  «  Li  nomi  di  Francesco  Bernardino 
Visconte  et  suoi  seguaci  banditi  » ,  che  son  questi  :  «  Fran- 
«  cesco  Bernardino  Visconte  di  Brignano  sudetto;  Pompeo, 
«suo  uccellatore,  habitante  in  Brignano;  Battista  Boldono, 
«  Cesare  Zallatino  et  Dominico  Rozzono,  detto  il  Pelato, 
«  tutti  tre  habitanti  in  Triviglio  ;  Gio.  Battista  Nicoletto 
«  da  Caravaggio;  l'appellato  il  Casale  da1  Bagnolo  Cremo- 
«  nese  ;  Camilino  di  Salamone  Parmigiano,  altre  volte  ha- 
«  bitante  nel  detto  luogo  di  Brignano  in  casa  del  detto 
«  Francesco  Bernardino  Visconte  ».  Quindi  prosegue:  «  Né 
«  vuole  S.  E.  che  li  sudetti  condannati  per  la  morte  delli 
«detti  Vertemate  et  Cusani  et  per  li  già  detti  delitti  di 
«  Francesco  Bernardino  Visconte  et  complici  possano  go- 
«  dere  del  beneficio  della  presente  grida  ;  anzi  li  dichiara 
«per  sempre  indegni  di  liberatione  et  di  potere  habitare 
#«in  questo  Stato,  salvo  però  se  alcuno  dei  sudetti  com- 
«plici  ci  consegnasse  o  ammazzasse  il  principale,  cioè  il 
«  Conte  Francesco  da  Vimercate,  o  Carlo  Cusano,  o  Fran- 
«  cesco  Bernardino  Visconte,  in  tal  caso  quel  tale  possa 
«  godere  del  detto  beneficio  di  questa  grida,  et  non  altra- 
«  mente  » . 

La  grida,  secondo  il  solito,  non  produsse  nessun  ef- 
fetto ;  e  senza  nessunissimo  effetto  fu  rinnovata  il  30  mag- 
gio del  1609  e  il  2  giugno  del  1614.  Bregnano,  castello 
anche  al  giorno  d'oggi  di  proprietà  de'  Visconti,  resta 
dove  il  Milanese  confina  col  Bergamasco.  «  I  tempi  ri- 
•  «  sponderebbero.  »  (scrive  il  Cantù)  :  «  l'uomo  era  terri- 
«  bile  :  la  grandezza  e  potenza  di  quella  famiglia,  illustre 
«  e  allora  e  adesso,  poteva  trattener  la  penna  degli  sto- 
«  rici  :  veggano  i  lettori  qual  peso  sia  a  dare  a  questo  sup- 
«  posto,  del  quale  noi  ci  professiamo  debitori  allo  stesso 
«Manzoni».  Cfr.  Cantù  C.  Sulla  storia  lombarda  del  se- 
colo XVII  ragionamenti  per  commento  ai  Promessi  Sposi 
di  Alessandro  Manzoni,  Milano,  coi  tipi  di  Luigi  Nervetti, 
1832;  pp.  56-57- 


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—    694    — 

prendere,  fra  il  concerto  di  cento  voci  che  esalta- 
vano a  gara  la  potenza  della  casa;  e  divenuto  pa- 
drone in  età  assai  giovanile,  egli  non  fu  contento 
della  porzione  di  superiorità  che  avevano  goduta  i 
suoi  maggiori.  Queglino  erano  riveriti;  egli  volle 
esser  terribile  :  eran  lasciati  stare  anche  dai  più  po- 
tenti e  irrequieti;  a  lui  pareva  di  scadere,  quando 
non  facesse  stare  nessuno  :  erano  per  lo  più  rimasti 


Francesco  Bernardino  era  figlio  di  Giambattista  Vi- 
sconti e  di  Paola  Benzoni  di  Crema.  Il  Litta  [Famiglia 
Visconti  di  Milano,  tav.  Vili]  lo  dice  «  assoggettato  alla 
confisca  nel  1603  per  commessi  misfatti  »  ;  né  altro  ag- 
giunge di  lui.  Del  padre  scrive:  «  Del  consiglio  de*  LX  De- 
«  curioni,  fatto  cittadino  di  Cremona  nel  1570.  Nel  1577 
«  era  capitano  generale  delle  cacce.  Dilapidatore  al  giuoco 
«del  proprio  patrimonio,  morì  in  Brignano  nel  1595». 
Dice  che  lascio  tre  maschi:  Francesco  Bernardino,  Ga- 
leazzo ed  Ercole.  Quest'ultimo  era  naturale  ;  come,  delle 
tre  femmine,  furono  naturali  Giulia  e  Maddalena;  legit- 
tima, Caterina,  che  sposò  Ersilio  Del  Maino. 

Afferma  il  Cusani  che  il  canonico  Giuseppe  Ripamonti 
«  faceva  parte  del  seguito  del  cardinale  Federigo  Borromeo 
«  nella  visita  pastorale  della  pieve  di  Treviglio  nel  1608, 
«  ove  ebbe  luogo  la  conversione  del  famigerato  Bernardino 
«Visconti,  feudatario  del  vicino  Brignano,  cui  piacque  a 
«  Manzoni  appellare  l'Innominato».  Cfr.  Cusani  F.,  Paolo 
Moriggia  e  Giuseppe  Ripamonti ',  storici  milanesi;  nell'^4*'- 
chivio  storico  lombardo,  ann.  IV  [1877],  fase.  I,  pag.  58. 
Della  conversione  del  Visconti  ne  aveva  già  discorso  nel 
giornale  La  Perseveranza  del  14-16  luglio  1876.  Dopo  di 
lui  ne  trattarono:  F.  D'Ovidio,  Due  parole  sull1  Inno- 
minato t  neh" Illustrazione  italiana  del  27  maggio  1894; 
A.  Graf,  Perchè  si  ravvede  l'Innominato?  in  Foscolo, 
Manzoni,  Leopardi^  saggif  Torino,  Loescher,  1898,  pa- 
gine 1 13-138;  e  G.  Negri,  La  conversiotte  dell' Innominato 
e  il  convito  della  Grazia,  e  Se  la  conversione  dell'Inno- 
minato fu  per  il  Manzoni  un  miracolo,  in  Sui  Promessi 
Sposi  di  A.  M.  commenti  critici,  estetici  e  biblici)  Milano, 
Scuola  tip.  Salesiana,  1903,  part.  II,  pp.  157-282.  (Ed.) 


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—     695     — 

al  di  sopra  in  ogni  impegno  dove  avessero  parte; 
egli  volle  essere  arbitro  negli  altrui,  in  quelli  dove 
non  aveva  pure  un  pretesto  per  intromettersi.  Già 
da  più  generazioni  la  sua  casa  spiccava  per  una  son- 
tuosità principesca;  egli  riformò  tutto  quello  sfoggio 
di  conviti,  di  caccie,  di  torneamenti,  e  ne  impiegò 
il  costo  in  aumento  di  forza,  in  bravi,  in  armi,  in 
ispedizioni.  Passava  allora  una  gran  parte  del  tempo 
in  città,  e  quivi  la  sua  prima  occupazione  o  il  suo  di- 
vertimento fu  di  andare  in  cerca  di  quelli  che  nella 
turba  dei  soverchiatori  di  mestiere  erano  i  più  fami- 
gerati, di  pararsi  loro  dinanzi  in  qualunque  occa- 
sione, per  tastarli,  per  provarsi  con  loro  e  diminuire 
quella  loro  gran  riputazione,  o  farsegli  amici,  d* un'a- 
micizia però  subordinata  dalla  parte  loro,  che  era 
la  sola  che  gli  piacesse,  la  sola,  per  dir  così,  ch'egli 
sapesse  intendere.  In  poco  tempo  ne  ridusse  molti 
a  desistere  da  ogni  rivalità  e  a  dargli  la  mano  in 
ogni  congiuntura,  ne  conciò  male  qualcheduno  dei 
più  superbi  e  indomiti,  e  n'ebbe  molti  amici  al  modo 
ch'egli  desiderava.  Nessun  d'essi  lo  avrebbe  confes- 
sato, ma  tutti  sentivano  alla  sua  presenza,  e  pen- 
sando a  lui,  una  certa  inferiorità,  che  gli  sforzava  a 
risguardarlo  e  a  trattarlo  piuttosto  come  un  capo, 
che  come  un  amico.  Nel  fatto  però  egli  veniva  ad 
essere  il  faccendone,  lo  strumento  di  tutti  coloro,  e 
alle  volte  in  affari  in  cui  la  cooperazione  sarebbe 
sembrata  anche  a  lui  vile,  obbrobriosa,  se  non  vi 
fosse  entrata  la  difficoltà  e  la  forza,  cose  che  nel 
concetto  comune,  e  più  nel  suo,  nobilitavano  tutto. 
Era  a  quei  tempi  cosa  trita  e  quotidiana,  massime 
fra  i  soverchiatori  di  professione,  il  richiedere  negli 
impegni  scabrosi  l'aiuto  e  l'opera  degli  amici  ;  cosa 
disonorevole  il  rifiutarla  senza  buone  ragioni  ;  e  perchè 
l'ingiustizia  o  il  perìcolo   dell'impresa  fossero  con- 


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—  696  — 

tate  come  tali,  bisognava  che  arrivassero  a  un  grande 
eccesso.  Una  simile  consuetudine,  che  era  pei  tiranni 
un  mezzo  e  un  carico  del  mestiere,  secondo  le  oc- 
casioni, doveva  naturalmente  dar  molte  faccende  a 
un  tiranno  come  questo.  I  molti  suoi  amici  avevano 
molte  e  varie  passioni  da  soddisfare  ;  la  predominante 
in  lui  era  quella  di  far  cose  vietate  e  difficili,  e  di 
non  iscapitare,  massime  appo  loro,  di  quel  gran  con- 
cetto di  audacia  e  di  potenza.  Pigliava  quindi  facil- 
mente i  loro  impegni,  concorreva  alle  loro  spedi- 
zioni e  le  dirigeva  ;  mandava  i  suoi  bravi  a  minacciare 
i  loro  rivali  di  amorazzi  e  di  precedenze;  a  questo 
faceva  intimare  che  non  passasse  nella  tal  contrada, 
a  quello  che  non  persistesse  nella  tal  lite,  risguar- 
dava  il  renitente  come  suo  nemico  personale,  lo  af- 
frontava nella  via  con  un  pretesto,  e  gli  dava  una 
pena  infamante  sulla  superficie  del  corpo,  o  una  più 
nobile  al  di  dentro,  secondo  la  condizione  della  per- 
sona. E  in  quanti  ebbe  di  questi  scontri,  in  tanti  ri- 
mase al  di  sopra,  più  gagliardo,  più  coraggioso,  più 
destro,  com'era,  e  meglio  accompagnato  d'ogni  altro. 
Per  una  strada  tale,  e  di  quel  passo,  non  si  poteva, 
manco  in  allora,  andar  lungo  tempo  senza  incon- 
trarsi colla  giustizia.  Ben  è  vero  che  l'innominato 
non  lasciava  di  adoperare  tutte  le  cautele  usitate  dagli 
altri  per  eluderla  e  scansarla;  e  massime  nelle  cose 
più  gravi,  come  per  esempio  quando  si  trattasse  d'un 
omicidio  premeditato,  o  d'un  ratto,  andava  travestito, 
cercava  i  luoghi,  aspettava  i  momenti  scuri:  anche 
i  suoi  bravi  a  fare  le  intimazioni  più  arrischiate  e  le 
spedizioni  più  atroci,  andavano  acconciati  in  forma, 
parlavano  in  modo,  da  lasciar  conoscere  a  cui  ap- 
partenevano, quanto  era  necessario  per  incuter  più 
terrore,  non  tanto  che  bastasse  a  provare  che  appar- 
tenevano a  lui.  Di  modo  che  ad  ognuno  di  quei  suoi 


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attentati,  la  giustizia  non  aveva  fatta  altra  dimostra- 
zione che  di  pubblicare  una  di  quelle  gride,  chia- 
mate d'impunità,  colle  quali  si  prometteva  questa  e 
un  premio  al  complice  che  facesse  conoscere  l'autor 
principale  o  i  principali  autori  del  delitto,  dando  in- 
dizii  sufficienti  a  procedere:  gride  che  nei  casi  di 
quest'uomo  non  avevano  mai  prodotto  alcun  effetto, 
per  ragioni  che  in  parte  s'indovinano  facilmente,  e 
che  in  parte  accenneremo  in  appresso.  Quanto  alle 
violenze  ch'egli  aveva  commesse  a  fronte  scoperta, 
in  pien  meriggio,  nella  via,  v'era  ad  una  per  una  il 
verso  di  rappresentarle  come  necessitate  dalla  difesa, 
o  dall'onore,  il  codice  del  quale  era  allora  molto  più 
rigido  e  sofistico  riguardo  alle  offese,  e  infinitamente 
più  largo  riguardo  alla  misura  e  ai  modi  delle  sod- 
disfazioni, che  non  lo  sia  al  presente  ;  e  nello  stesso 
tempo  era  più  considerato  come  obbligatorio  anche 
dove  fosse  in  opposizione  colle  leggi,  non  solo  dal 
più  dei  privati,  ma  anche  da  quelli  che  promulga- 
vano ed  eseguivano  le  leggi.  Con  questi  mezzi  un 
uomo  del  suo  grado  poteva  assicurarsi  l'impunità  di 
mal  fare,  fino  ad  un  certo  segno  ;  ma  costui  passava 
tutti  i  segni.  Ne  faceva  più  che  nessun  altro  del  suo 
mestiere;  offendeva  piccoli  e  grandi  senza  distinzione; 
e  nello  stesso  tempo  trascurava  altri  mezzi  indispen- 
sabili anche  per  fare  impunemente  meno  di  lui. 

Gli  altri  tiranni  (prescindo  da  alcuni  disperati, 
che  in  guerra  aperta  colle  potestà  e  colla  società, 
vivevano  or  raminghi,  or  rintanati  nei  loro  Castel- 
lacci,  e  stavano  anche  alla  strada  come  veri  capi  di 
masnadieri;  parlo  di  quelli  che  volevano  abitare  in 
città  e  godere  i  comodi,  gli  spassi,  gli  onori  della 
vita  civile)  gli  altri  tiranni  mantenevano  più  ade- 
renze che  fosse  possibile  col  poter  legale,  si  valevano 
delle  parentele,  coltivavano  cogli  ufici  e  col  corteggio 


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le  amicizie  degli  uomini  più  graduati  si  obligavano 
i  subalterni  colle  protezioni  e  con  certi  atti  di  cor- 
tesia degnevole,  e  avevano  dipendenti  e  creati  fino 
tra  gli  infimi  esecutori,  ai  quali  compensavano  le  mi- 
nacce coi  regali.  Cercavano  insomma  di  tenere  una 
mano  su  le  bilance  della  giustizia,  per  farle  tracol- 
lare dalla  parte  loro  in  una  occasione,  in  un'altra 
farle  sparire  che  non  si  trovassero,  per  darle  anche, 
se  veniva  un  bel  tratto,  su  la  testa  di  qualcheduno 
che  non  avevano  potuto  finire  colle  armi  della  vio- 
lenza privata.  Costui,  all'opposto,  dopo  essersi  ini- 
micati molti  potenti,  dei  quali  aveva  toccati  in  varie 
occasioni  i  protetti,  gli  amici,  i  congiunti,  non  solo 
aveva  sempre  sdegnato  di  fare  il  più  leggiero  uficio 
per  raddolcire  quegli  odii  e  per  soddisfare  quegli 
orgogli  irritati,  ma  non  s'era  né  anche  curato  mai 
di  procacciarsi  almeno  amici  egualmente  potenti  da 
contrapporre  a  quelli.  Le  sommissioni,  le  pratiche, 
anco  le  cerimonie  necessarie  a  questo  fine,-  gli  erano 
insopportabili:  affettare  una  gran  noncuranza  per 
ogni  autorità  era  un  elemento  della  sua  passione,  uno 
di  quei  piaceri  per  cui  egli  affrontava  tanti  pericoli 
e  faceva  tante  male  vite.  I  suoi  parenti  stessi,  che 
ne  aveva  più  d'uno  in  alti  posti,  oltre  che  gli  era 
lor  divenuto  un  peso  con  quel  suo  metterli  sempre 
a  petto  or  d'un  collega,  or  d'un  superiore,  col  porli 
sempre  al  partito  di  combattere  con  rischio,  o  di  ce- 
dere con  diminuzione  di  credito,  se  gli  era  poi  anche 
disgustati  col  suo  tratto  verso  di  loro.  Avrebbero 
essi  voluto  difenderlo,  ma  insieme  regolarlo;  rat- 
toppar bensì  certe  sue  malefatte,  ma  tenersi  in  pos- 
sesso di  fargliene  qualche  buona  riprensione,  e  di 
prescrivergli  norme  di  prudenza  e  di  moderazione 
per  l'avvenire  :  egli  con  quel  suo  animo  precipitoso 
e  ricalcitrante  aveva  altamente  sdegnato    favori    di 


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—     699     — 

quella  sorte.  Con  tutto  ciò,  queglino,  per  l'onor  del 
nome,  avevano  continuato  per  qualche  tempo  a  so- 
stenerlo; ma  finalmente,  vedendo  meglio  d'ogni  altro, 
nella  regione  delle  nuvole  dove  abitavano,  il  grosso 
temporale  formato  contro  di  lui  ;  informati  che  dalla 
bocca  stessa  del  governatore  erano  usciti  certi  tuoni 
sordi  e  cupi,  per  non  commettere  il  loro  credito  nel 
sostegno  d'una  causa  che  alla  fine  doveva  esser  per- 
duta, s'erano  ridotti  a  far  vista  di  abbandonarla  vo- 
lontariamente, a  mostrarsi  irritati  più  che  altri  contra 
il  loro  scandaloso  parente,  a  far  gli  antichi  romani, 
e  lasciarsi  intendere  che,  mettendo  le  leggi  e  l'or- 
dine publico  innanzi  agli  affetti  privati,  avrebbero 
lasciato  un  libero  corso  alla  giustizia.  Con  lui  non 
potevano  altro  che  mandargli  avvisi  di  tempo  in 
tempo,  che  s'egli  tirava  innanzi  a  quel  modo,  non 
facesse  più  conto  della  loro  assistenza.  Quanto  agli 
amici  dell'innominato,  essi  non  erano  per  lo  più  gente 
che  avesse  voce  per  sé  in  quel  capitolo:'  alcuni,  è 
vero,  imparentati  con  togati  potenti,  facevano  con 
essi  a  favore  dell'innominato  gli  ufici  ch'egli  sde- 
gnava; ma  tali  ufici  indiretti  avevano  poca  forza 
contra  le  ire  radicate  e  le  pratiche  degli  avversarli, 
occulte,  in  parte,  per  timore,  ma  calde  e  insistenti. 
Le  cose  erano  in  questo  stato,  quando  una  mat- 
tina si  trovò  in  una  via  il  cadavere  malamente  tra- 
fitto d'un  uomo  ch'egli  odiava:  (il  manoscritto  non 
dice  di  più),  e  la  voce  publica  disegnò  tosto  l'inno- 
minato come  autore  del  fatto.  In  senato,  nel  palazzo 
del  governatore,  nei  gabinetti  dei  potenti,  nemici 
dell'  innominato,  si  mormorò  che  era  venuta  la  volta 
di  dar  finalmente  un  grande  esempio.  Il  capitano  di 
giustizia  ricevette  ordine  segreto  di  procedere  alla 
cattura.  Ordini  tali  contra  tali  uomini  era  ancor  più 
difficile  l'eseguirli  che  il  darli  :  bisognava  non  lasciar 


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—     7°°    — 

traspirar  nulla  dell'intenzione,  per  sorprendere  il 
nemico,  e  insieme  dar  molte  disposizioni  e  mettere 
in  campo  forze  straordinarie.  Di  queste  forze  poi  non 
si  poteva  far  capitale  che  fino  ad  un  certo  segno: 
quando  si  aveva  che  fare  con  un  tiranno  di  cono- 
sciuta bravura,  e  circondato  da  una  mano  di  dispe- 
rati, il  più  dei  birri  vi  andavano  di  mala  voglia,  al- 
cuni si  rincantucciavano  anche  per  non  lasciarsi  tro- 
vare, o  nel  bello  della  spedizione  la  davano  a  gambe, 
o  abbassate  le  armi  e  cavato  il  cappello  dicevano: 
illustrissimo  signore,  vada  pure  liberamente,  che  noi 
non  siamo  per  fargli  male.  E  quand'anche  nessun 
di  loro  avesse  intelligenze  coi  bravi  del  tiranno,  che 
si  voleva  prendere,  se  ne  sarebbe  trovato  più  d'uno 
che  pel  solo  amore  della  pace  avrebbe  cercato  qualche 
mezzo  di  farlo  avvertire;  acciocché,  fuggendo,  to- 
gliesse sé  ed  altri  d'impaccio.  Come  che  la  cosa  an- 
dasse in  questo  caso,  l'innominato  ebbe  tosto  avviso 
da  più  d'un  luogo  dell'ordine  fulminato  contra  di 
lui.  Non  pensò  pure  di  mettersi  in  salvo  colla  fuga, 
non  si  curò  di  rimpiattarsi,  si  mostrò  anzi  in  publico 
più  del  solito  con  un  più  grande  accompagnamento, 
per  guardia  insieme  e  per  ostentazione,  non  rimise 
punto  della  sua  solita  arroganza;  anzi  spiò  attenta- 
mente se  qualche  parente  del  morto  gli  passasse  di- 
nanzi con  aria  di  provocazione,  se  alcuno  de'  suoi 
nemici  coperti  volesse  in  quella  occasione  alzare  un 
po'  la  cresta  e  uscire  appena  appena  dei  termini  con- 
sueti di  rispetto,  deliberato  e  desideroso  di  farne  in 
tali  circostanze  qualche  dimostrazione  più  strepi- 
tosa. 

In  questo  mezzo  fu  avvertito  che  un  bargello,  fa- 
moso per  varie  prese  difficili,  scaltrito  negli  agguati 
e  intrepido  negli  assalti,  coraggioso  per  natura  e  ob- 
bligato ad  esserlo  sempre  più  per  conservare  la  sua 


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riputazione  di  coraggio,  essendogli  stata  questa  volta- 
promessa  da  certi  potenti  una  grossa  somma  di  da- 
nari se  facesse  il  colpo,  ne  aveva  preso  l'impegno, 
e  che  troverebbe  egli  il  modo  di  metter  la  musoliera 
all'orso  e  di  menarlo  legato  in  gabbia.  Da  quel  mo- 
mento la  vita  del  bargello  divenne  un  tormento  per 
Tinnominato;  se  lo  sentiva,  per  dir  così,  pesare  su 
le  spalle.  Per  adescarlo  e  crescergli  animo,  finse  d'es- 
sere entrato  in  timore,  si  tenne  chiuso  in  casa,  fece 
sparger  voce  di  volere  sfrattar  di  soppiatto  e  trave- 
stito. Molta  gente  diceva  che  s'eran  veduti  altri  bir- 
boni dopo  averne  fatte  tante  e  tante  perdere  in  un 
tratto  quel  gran  rigoglio  quando  la  loro  ora  era  ve- 
nuta; gli  amici  non  sapevano  più  che  pensare;  egli 
rintanato  coi  suoi  bravi  non  si  lasciava  veder  da 
nessuno.  I  birri,  che  fino  allora  avevano  giucato  dalla 
lunga,  cominciarono  a  ronzare  in  frotte  nei  contorni 
della  casa,  a  tenersi  ai  canti  della  via:  il  bargello 
li  metteva  a  posto,  li  moveva,  dirigeva  ogni  cosa, 
girava  travestito,  teneva  e  faceva  tener  l'occhio,  ora 
alla  porta,  ora  agli  sbocchi  della  via,  sbirciava  con 
certi  suoi  occhi  cervieri  chiunque  uscisse  di  qua  o 
di  là,  temendo  sempre  che  il  suo  uomo  non  gli  scap- 
passe sotto  qualche  travisamento.  Ma  l'uomo,  che 
pensava  a  fargli  tutt' altro  tiro  che  quello,  avvertito 
un  dì  sul  vespero  che  il  bargello  vigilante  s'era  pian- 
tato ad  un  canto  della  via,  chiama  un  suo  ragaz- 
zaccio, ch'egli  andava  allevando  al  patibolo,  gli  pone 
una  valigetta  su  le  spalle,  e  lo  ammaestra  che  esca 
da  quel  canto,  strisciando  dietro  il  muro  a  guisa  di 
chi  vorrebbe  passare  inosservato.  Mosso  questo  zim- 
bello, egli  mette  l'occhio  a  un  pertugetto  d'una  im- 
posta chiusa,  per  vedere  che  accade  nella  via,  e  pochi 
istanti  dopo  vede  birri  a  due,  a  tre  venire  innanzi 
e  allogarsi   dietro  gli  angoli   di   questa  e  di  quella 


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—     702     — 

<casa  vicina,  e  poi  avanzarsi  il  bargello  in  persona, 
entrare  in  una  porta,  star  qualche  momento,  uscire,  en- 
trare in  un'altra  più  vicina,  far  capolino,  guardar  fuori. 

Lascia  in  vedetta  a  quel  pertugio  un  servo  che 
desse  un  gran  fischio  quando  il  bargello  porrebbe  il 
pie  nella  via  e  verrebbe  verso  la  casa,  scende  in 
fretta  con  molti  altri,  e  li  fa  star  pronti  in  arme  sotto 
il  portico;  egli  cheto  cheto  va  nell'androne  a  porsi 
a  canto  una  parete,  tenendo  colla  destra  il  cane  e  il 
grilletto,  colla  sinistra  la  canna  d'una  sua  carabina, 
terribilmente  famosa  al  pari  di  lui.  Un  fischio,  un 
salto  alla  soglia,  una  sguardata,  una  mira,  uno  scoppio, 
il  bargello  per  terra,  tutto  ciò  avvenne  in  sei  secondi. 
L'assassino  rientrò  subitamente,  chiamò  i  bravi,  e 
alla  testa  loro  piombò  addosso  ai  birri,  che,  sorpresi 
dal  colpo  e  sopraffatti  dal  numero,  la  diedero  a 
gambe  Q). 

La  città  fu  piena  del  caso.  La  notizia  ne  giunse 
al  palazzo  di  giustizia  coi  birri  più  corridori  :  il  ca- 
pitano corse  a  darla  al  governatore.  Per  l'ordinario 
i  governatori  non  s'impacciavano  in  queste  faccende  : 
non  già  che  fosse  massima  di  lasciar  fare  i  tribunali; 
era  anzi  massima  che  i  governatori  potessero  non 
solo  far  le  leggi,  ma  applicarle,  derogare,  dispensare, 
dare  in  ogni  caso  gli  ordini  che  loro  paressero  a 
proposito.  Molti  infatti  ne  venivan  dati  in  loro  nome; 
ma  per  lo  più  non  v'era  altro  che  il  nome  ;  l'atten- 
zione, la  volontà  e  l'opera  loro  si  esercitava  in  tut- 
t'altri  oggetti. 

Chi  nasce  in  questo  mondo  nei  tempi  ordinarii, 
dice  il   manoscritto  (7),  è  come  un   sonatore  d'una 


(!)  Qui  finiva  il  capitolo  XIX  e  incominciava  quello  XX. 
(Ed.) 

(2)  Prima  scrisse  :  «  Chi  nasce  in  questo   mondo,   dice 


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~     703     ~ 

grande  orchestra  in  una  festa,  che  si  sveglia  nel 
mezzo  d'una  sonata  e  d'una  danza,  e  trova  una  mu- 
sica avviata,  un  tuono,  una  misura:  bada  un  mo- 
mento, per  capirla  bene,  e  poi  piglia  il  suo  stro- 
mento  (l)  e  cerca  d'entrare  in  concerto.  Così  quegli 
spagnuoli,  che  nascevano  per  essere  governatori  dello 
Stato  di  Milano,  trovavano  una  musica  avviata  di 
faccende  in  corso,  un  gran  numero  d'idee  stabilite 
e  predominanti,  e  fra  l'altre  questa:  che  la  potenza 
spagnuola  aveva,  o  voleva,  o  doveva  avere  su  tutta 
L'Italia,  almeno  un  predominio.  Quando  uno  veniva 
spedito  a  questo  governo,  vi  portava  l'idea  fissa  che 
mantenere  ed  estendere  questo  predominio  doveva 
essere  la  sua  grande  occupazione.  Lo  era  in  fatti,  e 
lo  sarebbe  stata,  quand'anche,  egli,  per  impossibile, 
non  avesse  avute  né  istruzioni,  né  inclinazioni  a  ciò. 
Perchè  trovava  incamminata  un'altra  macchina  op- 
posta e  complicatissima,  mossa  continuamente  da 
altre  potenze,  che  non  volevano  quella  storia  del 
predominio,  e  ne  stavano  sempre  in  sospetto,  si 
trovava  a  fronte  e  da  ogni  lato  un  vasto  e  confuso 
sistema  di  resistenze,  di  difese,  di  offese,  contra  il 
quale    gli    bisognava    pure    ingegnarsi.    Bisognava 


il  manoscritto,  e  principalmente  chi  nasce  nei  luoghi  dove 
si  maneggiano  i  grandi  affari  ».  (Ed.) 

(!)  Prima  scrisse  :  «  ed  entra  in  concerto.  Si  dà  qualche 
volta  il  caso  che  un  sonatore  con  disposizioni  straordi- 
narie si  svegli  tra  una  sonata  e  l'altra,  mentre  gli  stra- 
nienti sono  in  disarmonia  e  si  litiga  perchè  ognuno  vor- 
rebbe dare  il  tuono:  lo  dà  egli,  fa  sonare  e  ballare  a  modo 
suo  fino  a  un  certo  segno,  mena  la  danza,  come  si  dice 
in  proverbio,  e  per  lo  più  la  mena  in  modo  che  finisce 
col  farsi  rompere  il  suo  stromento  in  mano  e  dar  tutti  gli 
altri  su  la  testa:  ma  queste  sono  eccezioni  che  non  fanno 
al  nostro  proposito  ».  (Ed.) 


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704 


dunque  vigilare  tutti  i  principi  e  gli  Stati  d'Italia, 
mantener  questi  nella  devozione  consueta,  contener 
quegli  altri,  o  spaventarli,  attirarli,  conoscere  i 
loro  pensieri ,  inimicarli ,  o  riconciliarli ,  secondo 
le  occorrenze:  un  mondo  di  cose.  Oltracciò  i  go- 
vernatori erano  capitani  generali  e  conducevano  in 
persona  le  guerre,  che  avevano  fatte  nascere,  o  che 
non  era  loro  riuscito  d'impedire,  in  Italia,  o  che  vi 
si  facevano  come  parte  di  guerre  più  generali.  Ave- 
vano quindi  sempre  gli  occhi  e  le  mani  in  quella 
grande  matassa  che  avevano  trovata  scompigliata,  e 
scompigliata  lasciavano  partendo  dal  governo,  o  dal 
mondo;  e  non  restava  loro  troppo  ozio  per  le  cose 
di  governo  interiore  :  le  facevano  fare,  o  le  lasciavan 
fare,  mettevano  di  gran  ghirigori  in  fondo  a  molte 
carte,  su  le  quali  era  scritto  che  eglino  erano  riso- 
luti che  le  tali  cose  andassero  al  tal  modo,  senza 
curarsi  poi  di  sapere  né  il  che,  né  il  perchè,  fuor 
che  in  alcuni  casi  in  cui  per  qualche  cagione  straor- 
dinaria avevano  essi  realmente  una  volontà,  o  una 
ne  veniva  loro  inspirata.  Il  caso  dell'innominato  era 
di  questi:  i  suoi  molti  e  grandi  nimici  lo  avevano 
dipinto  al  governatore  come  uno  spirito  rubello,  un 
perturbatore  sedizioso,  un  uomo  la  cui  audacia  e 
impunità  nel  delitto  accusavano  d'impotenza  o  di 
trascuraggine  la  pubblica  autorità;  e  nel  vero  non 
era  calunnia.  Il  governatore,  già  irritato,  al  ricevere 
di  quella  notizia,  ritenne  il  capitano,  ebbe  a  sé  membri 
del  consiglio  segreto,  senatori,  altri  magistrati;  si 
tenne  consulta.  Intanto  colui  che  ne  era  il  soggetto, 
rientrato  in  casa,  e  ben  rinchiuso,  aveva  pigliata  la 
risoluzione  di  non  si  muovere  e  si  preparava  ad  ogni 
evento;  ma  in  quella  notte  stessa,  qualche  amico, 
venuto  a  lui  di  soppiatto,  gli  comunicò  di  avere  avuto 
avviso  segreto  e  certo  che  il  governatore  aveva  per- 


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705 


sonalmente  preso  impegno  in  quell'affare,  ed  era  de- 
liberato di  fare  all'ultimo  uscir  del  castello  un  corpo 
di  moschettieri  che  si  unisse  ai  birri  e  desse  l'as- 
salto alla  casa.  Non  era  più  il  caso  di  esitare:  le 
forze  d'un  privato,  anche  nel  supposto  inverisimile 
che  in  tanto  pericolo  fossero  per  serbarglisi  costanti, 
non  potevano  competere  con  un  tale  avversario,  ogni 
volta  che  volesse  davvero  adoperar  tutte  le  sue.  Sul 
far  del  giorno  l'innominato  uscì  con  tutti  i  suoi 
bravi,  e  si  andò  a  ritirare  in  un  convento  vicino.  In 
quei  luoghi  gli  ospiti  pari  suoi,  accompagnati,  o  no, 
dovevano  esser  sofferti,  anzi  accolti,  quand'anche  fos- 
sero tu tt' altro  che  desiderati  ;  e  la  forza  secolare  non 
supponeva  pure  che  fosse  possibile  d'introdurvisi.  Un 
tal  passo  acquetò  anche  un  poco  la  furia,  e  indebolì 
l'impegno  del  governatore:  perchè  nei  casi  in  cui 
si  trattava  più  di  vincere  un  puntiglio  che  di  punire 
un  reo,  la  fuga  di  questo  in  un  asilo  poteva  parere 
una  specie  di  soddisfazione  alla  potestà  civile,  un 
confessare  che  non  si  ardiva  di  farle  fronte  nel  campo 
della  sua  giurisdizione;  e  per  un  uomo,  che  ha  molti 
affari  grossi,  poco  basta  a  raffreddarlo  in  uno  che 
non  sia  dei  principali.  Però  comparve  in  quel  giorno 
una  grida  del  governatore  stesso,  colla  quale  a  chi 
consegnasse  vivo  l'innominato  nelle  mani  della  giu- 
stizia, in  maniera  che  sopra  di  lui  ella  potesse  eser- 
cire li  suoi  atti,  venivano  promessi  mille  scudi  di 
premio  e  la  liberazione  di  quattro  banditi,  l'impu- 
nità propria  al  consegnante,  s'egli  fosse  complice,  e 
la  liberazione,  s'egli  fosse  bandito,  purché  non  lo 
fosse  per  certi  casi  riservati. 

Vorrei  poter  risparmiare  al  lettore  tutte  queste 
notizie  e  riflessioni  generali  su  le  opinioni,  gli  usi, 
le  istituzioni  di  que'  tempi,  e. condurlo  speditamente 
di  fatto  in  fatto  fino  al  termine  della  storia;   ma  i 

Alessandro  Manzoni.  '         45 


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706 


fatti  che  mi  tocca  di  raccontare  sono  talvolta  così 
dissimili  dall'andare  comune  dei  nostri  giorni,  così 
estranei  alla  nostra  esperienza,  che  a  dar  loro  un 
certo  grado  di  chiarezza,  mi  par  pure  indispensabile 
di  spiegare  alquanto  lo  stato  di  cose  nel  quale  e  pel 
quale  potevano  essere.  Altrimenti,  a  quelli  che  non 
hanno  fatti  studii  particolari  sopra  quell'epoca,  sa- 
rebbe come  presentare  un  osso  d'uno  di  questi  ani- 
maloni  di  razze  perdute,  senza  dare  un  po'  di  de- 
scrizione dello  scheletro,  o  di  quel  tanto  che  se  n'è 
potuto  trovare  e  mettere  insieme,  per  la  quale  si 
vegga  come  quell'osso  giucava.  S'io  dicessi  sempli- 
cemente che  tutte  le  promesse  di  quella  grida  non 
produssero  alcun  effetto,  senza  darne  alcuna  ragione, 
forse  a  taluno  la  cosa  potrebbe  parere  strana  e  in- 
verosimile; due  parole  dunque,  abbiate  pazienza, 
anche  su  questo  proposito. 

L'intento  delle  gride,  chiamate  d'impunità,  e  che 
appunto  avevano  un  nome  proprio  per  esser  molto 
frequenti,  l'intento  era,  come  ognun  vede,  d'indurre 
i  rei  medesimi  a  farsi  ministri  della  giustizia,  e  di 
seminare  la  diffidenza  fra  loro.  Perduta  la  speranza 
e  abbandonata  la  pretensione  di  ottener  l'effetto  in- 
tero degli  editti,  si  voleva  almeno,  col  sagrifizio  d'una 
porzione  del  publico  esempio,  assicurarne  un'altra,  e 
la  più  importante.  Ma,  senza  parlare  della  sensatezza 
dell'intento,  né  del  merito  morale  dei  mezzi,  che 
questi,  in  moltissimi  casi,  riuscissero  inefficaci  a  con- 
seguirlo, ne  abbiamo  la  prova  in  molte  gride  d'im- 
punità contra  uno  o  più  banditi,  ripublicate  molti 
anni  dopo  la  prima  publicazione.  L'impunità  d'un 
delitto  era  un  premio  di  poco  valore  per  complici 
che  d'ordinario  ne  avevano  addosso  molti  altri,  e 
che  intanto  godevano,  con  fatica,  è  vero,  una  impu- 
nità intera  all'ombra  del  loro  capo.   La  liberazione 


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707 


era  un  debole  allettamento  per  banditi  che  non  vi- 
vevano, né  volevano  vivere  se  non  di  quelle  cose 
per  le  quali  s'incorreva  nel  bando.  Di  più,  per  ot- 
tenere questi  vantaggi,  quali  che  fossero,  il  complice 
o  il  bandito  doveva  necessariamente  aver  che  fare 
con  la  giustizia,  confidarsi  ad  una  autorità  cavillosa 
e  malfida,  la  quale  certamente  desiderava  più  di  ster- 
minarlo che  di  dargli  una  ricompensa,  e  che  dispo- 
neva di  procedure  complicatissime,  e  non  solo  ope- 
rava ad  arbitrio,  ma  ne  aveva  consecrato  anche  il 
nome.  Quanto  a  quell'esca  del  premio  pecuniario, 
ella  non  poteva  tentare  che  una  classe  di  persone: 
le  gride  costituivano  birro  o  carnefice  ogni  cittadino 
che  avesse  voluto  farne  l'uficio  e  meritarne  la  paga; 
ma  l'uso  della  forza  publica  e  le  idee  comuni  ten- 
devano a  tutt'altro  che  a  far  risguardare  come  ono- 
revole e  virtuosa  una  tale  cooperazione  del  privato 
a  quella  forza,  e  nessun  uomo  dabbene  e  pacifico 
avrebbe  voluto  affrontare  un  pericolo  e  l'infamia, 
né  vincere  una  ripugnanza  fondata  in  gran  parte 
sopra  motivi  onesti,  per  amore  degli  scudi.  Non  re- 
stavano dunque  che  i  facinorosi  di  professione,  e  gli 
scherani  stessi  del  tiranno  ;  ma  quando  uno  di  questi 
fosse  riuscito  a  far  sicuramente  il  suo  colpo,  doveva 
poi  aspettarsi  la  vendetta  di  lui,  se,  preso,  egli  tor- 
nava in  libertà,  o  dei  suoi  parenti  ed  amici,  s'egli 
fosse  stato  morto;  doveva,  dico,  aspettarsela  con  cer- 
tezza, in  un  tempo  in  cui  la  vendetta  era  dai  più 
tenuta  come  una  obligazione  d'onore,  e  l'assassinio 
in  questi  casi  non  era  contato  fra  quelle  azioni  che 
lo  tolgono.  Tutto  ciò  quando  l'impresa  di  prendere 
o  di  uccidere  un  tiranno  fosse  stata  per  sé  agevole  ; 
ma  i  tiranni  adoperavano  anch'essi  naturalmente  tutti 
i  mezzi  che  potevano,  per  assicurarsi  con  tra  la  forza 
aperta  e  contra  le  insidie  ;  di  questi  mezzi  ne  avevano 


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—     708     — 

assai;  e  quel  che  è  osservabile,  le  gride  stesse,  fatte 
contra  di  essi,  ne  suggerivano,  ne  somministravano 
loro  alcuni,  e  dei  più  potenti. 

Le  società  civili  (ancora  un  momento  di  pazienza) 
sono  state  spesso  paragonate  al  corpo  umano,  i  le- 
gislatori ai  medici,  le  leggi  alle  medicine:  e  in  fatti 
queste  cose  si  somigliano  molto,  se  non  altro  in  ciò, 
che  son  tutte  cose  assai  curiose.  Hanno  poi  altre  so- 
miglianze parziali;  eccone  una.  Un  medico  ammi- 
nistra un  rimedio  ad  intenzione  che  faccia  nel  corpo 
una  tale  operazione,  che  il  rimedio  fa,  o  non  fa,  ma 
ne  fa  poi  sovente  altre  che  il  medico  non  ha  volute, 
né  prevedute,  che  non  riconoscerà  come  conseguenze 
del  suo  fatto,  quando  si  manifestino,  ma  dirà:  oh, 
vedete  un  po'  che  scherzi  fa  la  natura!  Lo  stesso 
accade  sovente  in  fatto  di  leggi  :  e  siccome  poi  le 
società  civili  sono  infermi  di  lunga  vita,  sono,  per 
servirci  di,fun  modo  proverbiale,  di  quelle  conche 
fesse  che  bastano  un  pezzo,  così  alle  volte,  appena 
dopo  cento,  dugento,  trecent'anni,  si  comincia  a  so- 
spettare, ad  aver  sentore,  che  certe  doglie  vecchie 
d'un  corpo  sociale,  certi  sintomi  stravaganti  e  non 
mai  spiegati,  sono  effetti  d'uno  specifico  mirabile  ap- 
plicato o  cacciato  giù  fin  da  quel  tempo  per  ordine 
d'un  medico  Valente,  (parlo  in  metafora)  o  per  consulto 
di  più  valenti  medici.  V'ha  anche  alcuni  di  questi 
effetti,  né  voluti,  né  preveduti  dal  legislatore,  che 
danno  incuori  immediatamente.  Le  gride,  di  cui  par- 
liamo, dovevano  produrre  inevitabilmente  questo  : 
che  i  tiranni,  quanto  più  erano  minacciati  da  quelle, 
tanto  più  si  tenessero  intorno  di  quei  malfattori  segna- 
lati, ai  quali  le  gride  non  promettevano  grazia,  e  che 
non  avendo  altra  speranza  di  salvezza  'che  nel  loro 
signore,  non  solo  non  erano  tentati  d'ordirgli  insidie, 
ma  interessati  a  guardarlo  dalle  altrui.  Così  quegli  atti 


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709 


legislativi  tendevano,  non  per  intenzione,  ma  in  fatto, 
a  riunire  i  più  perniciosi  e  determinati  ribaldi,  da- 
vano, per  così  dire,  un  nuovo  bisogno  e  un  nuovo 
indicamento  di  organizzazione  alle  forze  nemiche 
della  giustizia  in  tutti  i  sensi  di  questa  parola.  Che 
se,  per  uscire  da  questo  inconveniente,  si  fosse  estesa 
ad  ogni  classe  di  colpevoli  la  promessa  delF  impu- 
nità e  della  liberazione,  si  cadeva  nell'altro  terribile 
di  rinunziare  anche  alla  speranza,  alla  volontà,  di 
non  lasciar  senza  pena  almeno  certi  più  atroci  mi- 
sfatti. Con  queste  osservazioni  si  capisce  tanto  o 
quanto  il  come  a  nessuno  venisse  voglia  di  pren- 
dere il  tiranno  innominato,  né  tanti  altri  banditi 
come  lui. 

In  quell'asilo  egli  dovette  pensare  ai  casi  suoi. 
Grazia  dall'autorità  non  era  da  sperarne,  né  manco 
egli  era  inclinato  a  ricorrere  ad  un  tale  rimedio;  ri- 
maner quivi  rinchiuso,  a  che  fare  ?  e  fin  quando  ? 
Uscirne,  e  tornare  a  casa  sua  a  far  la  vita  di  prima, 
non  era  cosa  riuscibile,  al  punto  a  cui  aveva  spinte 
le  cose.  Risolvette  dunque  di  sfrattar  dallo  Stato. 
Suppongo  che  a  questa  circostanza  debba  riferirsi  un 
tratto  della  sua  vita,  che  è  menzionato  nella  storia 
sopra  citata  del  Ripamonti,  un  tratto  che  basterebbe 
a  dare  un'idea  dell'uomo,  e  che  noi  riporteremo 
perciò,  traducendolo  alla  meglio  dall'energico  latino 
di  quello  scrittore:  «Una  volta»,  die' egli,  «che  costui, 
«  non  so  per  qual  cagione,  volle  sgombrare  il  paese, 
«la  paura  che  mostrò,  il  riguardo  e  la  segretezza 
«che  usò,  furono  tali:  traversò  la  città  a  cavallo, 
«  con  un  seguito  di  cani  »  (gli  uomini  si  sottinten- 
dono) «  a  suon  di  tromba  ;  e  passando  dinanzi  al 
«palazzo  di  Corte,  lasciò  alle  guardie  un'imbasciata 
«  di  villanie  pel  governatore  ».  Uscito  ch'ei  fu  dello 
Stato,  si  publicò  un  altro  bando  che  ne  lo   dichia- 


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7io 


rava  cacciato,  e  gli  levava  la  protezione  regia,  sì  che, 
tornando,  potesse  esser  fatto  prigione  e  impunemente 
offeso  da  tutti,  mantenute  le  promesse  anteriori;  e 
aggiunta  la  liberazione  di  quattro  banditi  a  chi  lo 
consegnasse  vivo  o  morto.  Dove  egli  andasse  a  po- 
sarsi, o  dove  errasse,  che  facesse  fuori  e  quanto 
tempo  vi  rimanesse,  né  il  manoscritto  lo  dice,  né 
altrove  ne  ho  trovata  menzione:  trovo  soltanto  che 
una  mattina  egli  pigliò  il  partito  di  tornarsene  in 
paese.  O  fosse  cangiato  quel  governatore  che  s'era 
dichiarato  suo  nemico  personale;  fossero  mancati  di 
vita  o  decaduti  di  potenza  alcuni  de'  suoi  più  capi- 
tali nemici,  o  venuti  in  potenza  de*  suoi  amici;  o 
fosse  levato  il  bando  per  qualche  potentissima  rac- 
comandazione (che  anche  un  tal  supposto  è  verisi- 
mile in  quella  condizione  di  tempi);  o  fossero  nate 
altre  circostanze  qualunque  da  inspirargli  una  nuova 
sicurezza,  o  quel  suo  animo  gliene  tenesse  luogo, 
certo  è  ch'egli  stimò  di  poter  tornare  liberamente  a 
casa  sua  e  di  stabilirvisi,  e  vi  tornò  infatti,  non  però 
in  Milano,  ma  in  un  castello  d'un  suo  feudo  su 
l'estremo  confine  col  territorio  bergamasco,  e  allora 
collo  Stato  Veneto.  È  parimente  certo  che  nella  sua 
assenza  egli  non  aveva  rotte  le  pratiche,  né  inter- 
messe le  corrispondenze  con  que'  tali  suoi  amici,  e 
che  stabilito  nel  suo  castello  continuò  ad  essere  unito 
con  loro,  per  tradurre  letteralmente  dal  Ripamonti, 
«  in  lega  occulta  di  consigli  atroci  e  di  cose  funeste  ». 
Pare  anzi  che  quel  terribile  faccendone  di  misfatti 
approfittasse  dell'esiglio  per  estendere  tali  corrispon- 
denze, e  contraesse  allora  in  più  alti  luoghi  certe 
nuove  terribili  pratiche,  delle  quali  il  Ripamonti 
parla  con  una  sua  brevità  misteriosa:  «  Anche  al- 
«  cuni  principi  esteri  »,  dice  questo  scrittore,  «  si  val- 
«sero  più  volte  dell'opera  sua  per  qualche   impor- 


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—     7n     — 

«  tante  uccisione,  e  in  più  d'un  caso  gli  spedirono 
«  da  lontano  rinforzi  di  gente  che  servisse  a  ciò 
«  sotto  i  suoi  ordini  ».  Noi  abbiamo  ben  fatto  il  pos- 
sibile per  trovar  qualche  più  distinto  particolare  d'un 
fatto  così  importante  alla  cognizione  e  del  personaggio 
e  dello  stato  della  società  in  quel  tempo  ;  ma  senza 
effetto.  La  storia,  e  massime  quella  dei  costumi,  è 
nei  libri,  come  nei  musei  d'anticaglie,  a  pezzi  e  boc- 
coni, e  troppo  spesso,  principalmente  nei  libri,  se  ne 
trova  di  quelli  che  non  si  possono  mettere  insieme 
con  altri  pezzi  e  con  altri  bocconi,  tanto  da  vederne 
una  figura,  e  da  ricavarne  una  notizia  (*). 


(*)  Segue  cancellato:  «  Il  castello  dell'innominato  era 
posto  a  cavaliere  ad  una  valle  angusta  ed  uggiosa,  su  la 
cima  d'un  poggio,  che  sporge  in  fuori  da  un'aspra  gio- 
gaia di  monti,  ed  è,  non  si  saprebbe  ben  dire,  se  con- 
giunto ad  essa,  o  separato,  per  un  mucchio  di  greppi  e 
di  dirupi  e  per  un  andirivieni  di  tane  e  di  precipizii,  così 
sul  di  dietro,  come  sui  fianchi.  Il  lato,  che  risponde  nella 
valle,  è  il  solo  accessibile  :  è  un  pendìo  anzi  erto  che  no, 
ma  continuo,  a  pascoli  in  alto,  a  colture  nella  più  bassa 
falda,  e  sparso  qua  e  là  di  abituri  ».  Ferdinando  Ra- 
nalli  \DegJi  ammaestramenti  di  letteratura  libri  quattro , 
Firenze,  Le  Monnier,  1863;  voi.  Ili,  pp.  211-213]  dice 
corna  della  descrizione  del  castello  dell'Innominato  fatta 
dal  Manzoni,  e  riporta  la  descrizione  di  un  altro  castello 
fatta  dal  Bartoli,  che  leva  al  cielo;  senza  accorgersi  che 
appunto  in  quel  raffronto  sta  la  vittoria  dell'autore  de' 
Promessi  Sposi,  da  lui  voluto  annientare  !  (Ed.) 


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XII. 

Descrizione  dell'autografo  della  prima  mi- 
nuta de'    «  Promessi  Sposi  »  (x). 

i)  «  Introduzione  ». 

Fogli  6  in-fol.  di  pp.  4  Timo.  Il  primo  non  è  nu- 
merato, gli  altri  hanno  la  numerazione  alla  romana 
II-VI,  fatta  dal  Manzoni  stesso.  Comincia:  «  L'Histo- 
ria  si  può  veramente  »;  finisce:  «  non  sarebbe  pure 
inteso  ».  È  il  primo  sbozzo  autografo,  ed  è  scritto  a 
colonna,  come  tutto  il  Romanzo.  Forma  il  n.  i.A  de' 
Fogli  staccati  dai  «  Promessi  Sposi  ».  Fu  stampato  da 
me  a  pp.  183-194  del  voi.  I   degli  Scritti  postumi, 

2)  [Fogli  di  scarto  del  primo  abbozzo  afe//' Introdu- 
zione]. 

Fogli  2  in-fol.  di  4  pp.  per  ciascuno.  Il  Manzoni, 
di  sua  mano,  numerò  col  III  il  primo  di  questi  due 
fogli,  ma  poi  dette  di  frego  a  quel  numero  e  lo  mutò 


(l)  Si  conserva  nella  Sala  Manzoniana  della  Braidense; 
dove  si  trovano  pure  la  seconda  minuta,  anch'essa  tutta  di 
pugno  del  Manzoni  ;  la  copia  per  la  Censura,  d'altra  mano, 
ma  corretta  da  lui;  e  i  Fogli  staccati  dai  Promessi  Sposi, 
parimente  autografi.  (Ed.) 


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in  II.bis  II  secondo  fu  da  lui  numerato  III.  Comin- 
ciano :  «  Ogni  epoca  letteraria  »;  finiscono  :  «  a  quelle 
nostre,  sacrificando».  Formano  il  fascicolo  n.  i.B  de* 
Fogli  staccati  dai  «  Promessi  Sposi  ».  Sono  a  stampa 
a  pp.  194-198  del  voi.  I  degli  Scritti  postumi. 

3)  «  Introduzione  ». 

Abbraccia  4  fogli  in-fol.  di  4  pp.  l'uno,  il  primo 
senza  numerazione,  gli  altri  numerati  dal  Manzoni  2-4. 
L'ultima  pagina  del  quarto  foglio  è  bianca.  Comincia: 
«  La  Storia  si  può  veramente  »;  finisce  :  «  del  molto 
più  che  egli  stesso  vi  ha  speso  ».  Sta  in  fronte  alla 
prima  minuta  del  Romanzo;  ma  in  realtà  è  la  se- 
conda minuta  dell'  Introduzione.  Fu  stampata  a  pp.  198- 
204  del  voi.  I  degli  Scritti  postumi. 

4)  «  Capitolo  I.  Il  curato  di ». 

È  il  primo  capitolo  del  tomo  primo,  con  questa 
data,  su  in  alto:  24  Aprile  182 1.  Si  compone  de*  fogli: 
I,  2-5  e  8-14.  Di  quest'ultimo  è  scritta  soltanto  la  prima 
colonna.  De'  fogli  mancanti  6  e  7,  il  6  fu  trasportato 
dal  Manzoni  nella  seconda  minuta,  dove  si  trova.  Gli 
mutò  il  numero,  prima  in  7,  poi  in  8,  rimastogli. 
Il  foglio  7  nella  seconda  minuta  ebbe  prima  il  numero 
8,  poi  quello  9.  Di  esso,  peraltro,  stracciò  le  due  ul- 
time pagine  e  ve  ne  sostituì  due  nuove.  Le  due  pa- 
gine vecchie  hanno  adesso  il  n.  17.  Il  capitolo  co- 
mincia: «Quel  ramo  del  lago  di  Como»;  finisce: 
«  ordinatamente  sui  casi  suoi  ». 

5)  «  Cap.  II.  Fermo  ». 

Si  compone  de*  fogli  15,  17-23.'  Di  quest'ultimo 
è  scritta  soltanto  la  prima  colonna.  Il  Manzoni  tra- 


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—     714     - 

sportò  nella  seconda  minuta  le  due  prime  pagine  del 
foglio  16;  e  lasciò  nella  prima  le  due  ultime  pagine 
del  foglio  stesso.  Il  capitolo  comincia  :  «  La  consulta 
fu  tempestosa  e  durò  tutta  la  notte  »;  finisce  :  «  che 
noi  racconteremo  nel  seguente  capitolo  ». 

6)  «  Cap.  III.  II  causidico  ». 

Prima  era  intitolato:  «Don  Rodrigo».  Si  com- 
poneva de*  fogli  24-34,  che  FA.  trasportò  tutti  quanti 
nella  seconda  minuta,  dove  hanno  la  nuova  nume- 
razione 47-68.  Incomincia  :  «  I  tre  rimasti  a  con- 
siglio »;  finisce:  «Tanto  è  vero  che  un  uomo  col- 
pito da  grandi  dolori  non  sa  più  quello  che  si  dica  ». 

7)  «  Cap.  IV.  Il  Padre  Cristoforo». 

Prima  era  intitolato:  «  Il  Padre  Galdino  ».  Si 
compone  de'  fogli  rimasti  35-38.  I  fogli  39-46  furono 
dal  Manzoni  trasportati  nella  seconda  minuta.  Co- 
mincia: «  Era  un  bel  mattino  di  novembre»;  finisce: 
«  dicendo  ad  una  voce  :  Oh  Padre  Guardiano  !  » 

8)  «  Cap.    V.  Il  tentativo  ». 

Si  componeva  de*  fogli  47-58,  che  il  Manzoni  tra- 
sportò nella  seconda  minuta.  Comincia  :  «  Il  qual 
Padre  Guardiano  »  ;  finisce  :  «  lo  condusse  seco  in 
una  stanza  vicina  ». 

9)  «  Cap.    VI.  Peggio  che  peggio  ». 

Si  componeva  de*  fogli  59-67,  che  FA.  trasportò 
nella  seconda  minuta,  ma  cancellandovi  quasi  per  in- 
tiero la  prima  stesura  e  tornando  a  riscrivere  il  ca- 


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—     715     — 

pitolo.  Nella  prima  minuta  è  rimasto  soltanto  il 
foglio  68.  Il  capitolo  comincia:  «  Ognuno  può  avere  »; 
finisce:  «  di  non  dir  parola  del  disegno  contrastato  ». 

io)  «  Capitolo    VII  La  sorpresa  ». 

Il  Manzoni  trasportò  nella  seconda  minuta  i  fogli 
69-80;  lasciando  nella  prima  soltanto  il  foglio  81. 
Comincia  :  «  Il  Padre  Cristoforo  arrivava  nell'attitu- 
dine d'  un  buon  generale  »  ;  finisce  :  «  e  la  povera 
Lucia  appoggiata  ». 

11)  «  Capitolo    Vili  La  fuga». 

De'  fogli  che  lo  formano  sono  rimasti  1*82,  P83, 
il  91  e  il  92.  Quest'ultimo  era  prima  numerato  90. 
Il  Manzoni  trasportò  nella  seconda  minuta  il  foglio  84, 
che  divenne  86,  1*85  mutato  in  87,  1*87  trasformato 
in  89,  T88  diventato  90,  e  1*89  cambiato  in  91.  Il 
vecchio  foglio  86  manca.  Con  questo  capitolo  finisce 
il  tomo  primo.  Comincia:  «  Ton,  ton,  ton,  ton,  i 
contadini»;  finisce:  «viveva  delle  sue  stesse  spe- 
ranze ». 

12)  «  Cap.  I  Digressione  —  La  Signora  ». 

Prima  aveva  per  titolo  :  «  Cap.  IX.  Disgressione  »; 
divenne  poi,  invece  dell'ultimo  capitolo  del  tomo  I," 
il  capitolo  I  del  tomo  II.  I  fogli  che  lo  compongono 
hanno  la  vecchia  numerazione  manzoniana  92-101, 
ma  cancellata;  uno  soltanto,  l'ile  ultimo,  ha  quella 
nuova,  pur  datagli  dal  Manzoni.  Comincia:  «Avendo 
posto  in  fronte  a  questo  scritto  »  ;  finisce  :  «  con  la 
Signora  a  subire  Tesarne  ». 


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13)  «  Capitolo  IL  La  Signora  tuttavia  ». 

Si  compone  de'  fogli  12-23.  H  capitolo  termina 
nella  seconda  colonna  dell'ultimo  di  questi  fogli.  Co- 
mincia: «  Le  parole  della  Signora»;  finisce:  «  si  sa- 
rebbe fatta  per  lo  meglio  ». 

14)  «  Capitolo  III». 

Si  compone  de'  fogli  24-34.  Comincia  :  «  V'ha  dei 
momenti  in  cui  l'animo  »  ;  finisce  :  «  poteva  esser  un 
gran. soccorso  ». 

15)  «  Capitolo  IV». 

Si  compone  de*  fogli  35-45.  Comincia:  «Appena 
cessati  gl'inchini  »;  finisce  :  «  e  come  diremo  nel  se- 
guente capitolo  ». 

16)  «  Capitolo    V». 

Si  compone  de*  fogli  46-53.  Comincia:  «Il  quar- 
tiere dove  abitavano  le  educande  »;  finisce  :  «  con  un 
colpo  la  lasciò  senza  vita  ». 

17)  «  Capitolo    VI». 

Si  compone  de*  fogli  54-59.  Disgraziatamente  man- 
cano i  fogli  60-61.  Comincia:  «Accorse  al  romore 
Egidio  »;  finisce:  «  non  da  un  vecchio  calvo  e  bar- 
buto ». 

18)  «  Capitolo    VII». 

Si  compone  de*  fogli  62-74.  Comincia  :  «  Come 
una  truppa  di  segugi  »  ;  finisce  :  «  era  appunto  per 
lui  quel  che  il  diavolo  fece  ». 


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—     717     — 


19)  «  Capitolo    Vili». 

Si  compone  de'  fogli  75-87.  Comincia:  «  Il  mat- 
tino seguente  »  ;  finisce  :  «  la  via  che  gli  era  pre- 
scritta ». 


20)  «  Capitolo  IX  ». 

Si  compone  de'  fogli  88-95  e  95  7*"99«  Comincia  : 
«  Quando  Egidio  si  avvenne  »;  finisce  :  «  essere  esenti 
da  ogni  perplessità  ». 

21)  «  Capitolo  X». 

Si  compone  de'  fogli  100-116.  Comincia  :  «  La  car- 
rozza correva  tuttavia  »  ;  finisce  :  «  e  mescolandovi 
del  vostro  il  meno  che  sarà  possibile  ».  In  calce  poi 
porta  scritto:  «  Fine  del  2.0  volume  ». 

22)  «  Cap.  I». 

È  il  capitolo  I  del  tomo  III,  e  su  in  alto  porta 
scritto:  28  8bre  1822.  Si  compone  de'  fogli  1-11. 
Comincia  :  «  Il  Cardinale  Federigo  secondo  il  suo  co- 
stume »;  finisce:  «  seguirono  posatamente  la  lettiga  ». 

23)  «  Capitolo  II». 

Ha  principio  alla  terza  colonna  del  foglio  11  e 
abbraccia  i  fogli  12-24.  Comincia:  «  La  casupola  del 
curato  »;  finisce  :  «  il  nome  del  Conte  del  Sagrato 
non  ricompare  poi  più  nel  manoscritto  ». 


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24)  «  Capitolo  III», 

Si  compone  de*  fogli  25-30.  Comincia  :  «  Quando 
il  Cardinale,  terminate  le  funzioni,  si  ritirò»;  finisce: 
«  pregò  egli  il  curato  di  portarsi  a  Chiuso  e  di  far 
sapere  a  Lucia  ch'egli  pensava  a  Lei  e  che  stesse  di 
buon  .animo  ». 

25)  {Capitolo  IV]. 

Il  Manzoni  si  scordò  d'intestarlo,  ed  Ermes  Vi- 
sconti vi  scrisse  :  «  Cafi.  {quello  che  sarà)  ».  Abbraccia 
i  fogli  S^0-  Comincia:  «  Dopo  due,  tre  o  quattro 
giorni  spesi  dal  Cardinale  nella  visita  »;  finisce  :  «  per 
quanto  un  sì  magnifico  epiteto  può  stare  con  un  sì 
misero  sostantivo  ». 


26)  «  Capitolo    V». 

Abbraccia  i  fogli  51-64.  I  fogli  però  52-64,  prima 
avevano  un'altra  numerazione:  il  52  era  51,  e  via  di 
seguito.  Comincia  :  «  Ho  visto  più  volte  un  caro  fan- 
ciullo (vispo  a  dir  vero  più  del  bisogno  »  ;  finisce  : 
«  che  sarebbero  venuti  anni  migliori,  che  insomma  il 
tempo  avrebbe  rimediato  a  tutto  ». 

27)  «  Capitolo    VI». 

Si  compone  de'  fogli  65-77.  I  fogli  65  e  66,  prima 
erano  numerati  64  e  65.  Comincia:  «  Il  tempo  è  una 
gran  bella  cosa  :  gli  uomini  lo  accusano  è  vero  di 
due  difetti  »;  finisce  :  «  Prendiamo  dunque  gli  uomini 
come  sono,  raccontando  quello  che  hanno  fatto  ». 


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28)  {Capitolo    VI  fi. 

Abbraccia  i  fogli  78-86  e  le  due  prime  colonne 
del  foglio  87.  L'intestatura:  Capitolo  Vff  fu  can- 
cellata dal  Manzoni,  che  per  un  istante  vagheggiò 
di  farne  la  prosecuzione  del  capitolo  precedente  ;  pen- 
siero che  poi  depose.  Comincia  :  «  La  folla  che  al- 
l'avviarsi della  carrozza  s'era  tutta  messa  in  movi- 
mento, per  tenerle  dietro,  cominciò  a  disperdersi  »; 
finisce  :  «  o  a  maggior  pena  pecuniaria  o  corporale  ad 
arbitrio  di  Sua  Eccellenza.  Obbligatissimo  alle  sue 
grazie  ». 

29)  «  Capitolo    Vfff». 

Ha  principio  alla  terza  colonna  del  foglio  87  e  ab' 
braccia  i  fogli  88-99.  Incomincia  :  «  A  queste  parole 
giunse  egli  alla  soglia  del  palazzo  del  Capitano  di 
Giustizia»;  finisce:  «Lasceremo  per  ora  Fermo, 
giacché  si  trova  in  una  situazione  tollerabile  e  tor- 
neremo colla  sua  e  nostra  Lucia  ». 

30)  «  Capitolo  fX  ». 

Abbraccia  i  fogli  100-110.  Comincia:  «  Dobbiamo 
ora  far  conoscere  al  lettore  i  personaggi  coi  quali  si 
trovava  Lucia»;  finisce:  «come  ai  giorni  nostri  fa- 
rebbe una  madre  della  condizione  di  Agnese  che 
avesse  una  figliata  collocata  in  Inghilterra  ».  Segue, 
ma  cancellato:  «  Fine  del  tomo  fff  11  marzo  1823  »; 
poi,  senza  cancellare,   e  aggiunto   dopo:  «segue». 

31)  [Aggiunta  al  Capitolo  fX\ 

Si  compone  de'  fogli  111-113.  Comincia:  «  La  po- 
vera donna  aveva  un'altra  faccenda  su  le  braccia:  la 


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corrispondenza  con  Fermo  »;  finisce  :  «  fin  che  ella  fu 
interrotta  dagli  avvenimenti,  che  racconteremo  nel  vo- 
lume seguente  »;  e  poi:  «  Fine  del  tomo  III».  Questa 
aggiunta  è  formata  dei  fogli  58  e  59  del  tomo  IV,  che 
stralciò  di  là,  dandogli  i  numeri  1 11  e  112,  e  del  nuovo 
foglio  113.  Nel  vecchio  foglio  58  cancellò  le  due  prime 
colonne,  contenenti  un  brano  che  incominciava  :  «  Fatte 
le  parti,  i  monatti  lo  posero  [Don  Rodrigo]  nella 
bussola  e  lo  portarono  al  lazzeretto»:  e  che  finiva: 
«  Fermo  era  sempre  rimasto  a  Bergamo,  dove  era 
andato  a  porsi  in  salvo  ». 


32)  «  Capitolo  I». 

È  il  capitolo  I  del  tomo  IV.  Abbraccia  i  fogli  1-13. 
Comincia:  «  Dalla  fine  dell'anno  1628  alla  quale  siamo 
pervenuti  colla  narrazione  »;  finisce  :  «  Dalla  Valsas- 
sina  il  temporale  discese  nel   territorio  di  Lecco  ». 


33)  «  Capitolo  II». 

Si  compone  de*  fogli  14-25.  Comincia:  «  Le  con- 
tingenze infelici  della  vita  umana  »;  finisce:  «vesti- 
menta  o  cose  di  qualunque  genere  infette  ».  L'ultimo 
brano  però  si  legge  in  margine  alla  prima  colonna 
del  foglio  26. 

34)  «  Capitolo  III». 

Si  compone  de*  fogli  26-37.  H  2&>  prima  era  27. 
Comincia:  «Il  giorno  22  d'Ottobre  di  quell'anno  1629, 
Pietro  Antonio  Lovato  »;  finisce  :  «  ripiglio  il  mano- 
scritto del  mio  autore  e  torno  alla  storia  ». 


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—      721 


35)  «  Capitolo  IV». 

Si  compone  de*  fogli  38-53.  Il  capitolo  però  ter- 
mina nella  prima  colonna  dell'ultimo  di  questi  fogli. 
Comincia:  «Andavano  intanto  coll'avanzare  della 
primavera  sempre  più  spesseggiando  »;  finisce  :  «  Gli 
abbiamo  dunque  riserbati  ad  un'appendice,  che  terrà 
dietro  a  questa  storia,  alla  quale  ritorniamo  ora;  e 
davvero  ». 

36)  «  Capitolo    V». 

Comincia  nella  seconda  colonna  del  foglio  53  e 
abbraccia  i  fogli  54-66.  Principia  così  :  «  Una  sera, 
verso  il  mezzo  d'Agosto,  Don  Rodrigo  tornava  alla 
sua  casa  in  Milano  »;  finisce  :  «  e  fece  la  sua  seconda 
entrata  in  Milano,  che  gli  comparve  in  un  aspetto 
più  tristo  e  più  strano  d'assai  che  non  era  stato  la 
prima  volta  ». 

37)  «  Capitolo    VI». 

Non  restano  di  questo  capitolo  che  i  fogli  67-73. 
Comincia  :  «  S'io  avessi  ad  inventare  una  storia  »  ; 
resta  in  tronco  con  le  parole  :  «  ma  egli  era  presso 
al  termine  della  via,  d'una  via  ». 

38)  [Capitolo    Vili. 

Di  questo  capitolo  manca  il  principio;  de'  fogli 
che  lo  componevano  rimangono  quelli  82-94.  Nella 
quarta  colonna  di  questo  ultimo  foglio  ha  principio 
il  capitolo  Vili.  Ciò  che  resta  comincia  con  una  co- 

Alhssandro  Manzoni.  46 


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—      722      — 

lonna  tutta  cancellata,  che  dalle  parole  :  «  il  favore 
degli  uomini  benevoli  »  arriva  alle  parole  «  dai  suoi 
nemici,  i  quali  del  resto  ».  Il  capitolo  finisce  :  «  an- 
dava cercando  intorno  dove  fosse  più  bisogno  della 
sua  assistenza  ». 


39)  «  Capitolo    Vili». 

Comincia,  come  s'è  detto,  nella  quarta  colonna 
del  foglio  94  e  abbraccia  i  fogli  95-109.  Comincia: 
«All'intorno  del  picciolo  tempio»;  finisce:  «si  ri- 
volsero a  quella  parte  donde  le  era  venuta  quella 
subita  commozione  ». 


40)  «  Capitolo  IX». 

Si  compone  de'fogli  1 10-120.  Comincia:  «Ritto 
sul  mezzo  dell'uscio  »;  finisce:  «  e  di  terminare  con 
essa  la  nostra  storia».  Poi  vi  sta  scritto:  «77  set- 
tembre 1823  ». 


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FINE  DELLA  PARTE  SECONDA. 


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Opere  «  Alessandro  Manzoni 

edite  da  ULRICO  flOEPLI 

H& 


Sono  pubblicali: 

I  PfOIQeSSl  SpOSÌ|  illustrati  con  40  tavole  tratte  da  di- 
segni originali  di  Gaetano  Previati,  e  preceduti  da  uno 
Studio  su  Gli  anni  di  noviziato  poetico  del  Manzoni  di 
Michele  Scherillo    . L.  5f  — 

Prani  inediti  dei  Promessi  Sposi  di  Ales- 
sandro JVlanZOI)Ì*  in  due  parti  inseparabili,  per  cura 
di  Giovanni   Sforza L.  8, — 

Entro  il  1905  si  pubblicherà  : 

Tragedie*  Odi,  Poemetti  :  con  una  introduzione  di 

Michele  Scherillo. 
In  preparazione: 

Gl'Inni  sacri  e  la  Morale  cattolica  (la  parte  edita 

e  T  inedita,  e  le  varie  appendici),  con  una  introduzione  di 
Michele  Scherillo. 

Carteggio  Manzoniano  edito  e  inedito  —  Lettere 

di  Lui  e  a  Lui,  per  cura  di  Giovanni  Sforza,  (bis  volumi). 

Varietà  Manzoniane  inedite,  per  cura  di  Giovanni 

Sforza. 

Iia  storia  della  Colonna  Infante*  w  Discorso  sopra 

alcuni  punti  della  Storia  longobardica  in  Italia,   ed   altri 
scritti;  con  una  introduzione  di  Michele  Scherillo. 


Dirigere  Commissioni  e  Vaglia  all'  Editore  Ulrico  fioepli  -  Alitano. 


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il  IS  BOOK  ON  THE  DATE  DUE.  THE  PENAC 
WILL  INCREA8E  TO  SO  CENT8  ON  THE  FOURTH 
DAY  AND  TO  $1.00  ON  THE  8EVENTH  DAY 
OVERDUE. 


SEP.    20  1&K 


FEB   10  1933 


i     .\W  ^1  1936 


APR  16  1936 


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^0\l     3  1931 

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FEB    9     1938 


JUL     2   1938 
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