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Full text of "Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano"

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DELL'ISTITUTO    STORICO 


ITALIANO 


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PALAZZO    DEI    LINCEI,     GIÀ    CORSINI, 

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ISTITUTO    STORICO 


/ 


ITALIANO 


Bullettino 


DELL'ISTITUTO    STORICO 


ITALIANO 


N.°  IL 


ROMA 

SEDE    DELL'ISTITUTO 
PALAZZO     DEI     LINCEI,     GIÀ     CORSINI, 

ALLA     LUNGAKA 


189 


APR    8196 


Roma,  Forzarli  e  C.  tip.  del  Senato. 


CONTENUTO   DEL  FASCICOLO 


Ricerche  intorno  all'«  Anonimus  Valesianus  II  » ,  per   C.  Ci- 
polla         pag.         7 


Il  «  De  situ  urbis  mediolanensis  »  e  la   Chiesa  ambrosiana 
NEL  SECOLO   X,  per  L.  A.  Ferrai 


RICERCHE 
INTORNO  AIA^'ANONYMUS  VALESIANUS  II 


I  primi  appunti  per  la  compilazione  di  questo  articolo  risal- 
gono al  1883.  Cosi  come  ora  si  trova,  venne  da  me  terminato 
l'ultimo  di  aprile  del  corrente  anno  1891,  siccome  dice  la  data 
che  leggesi  in  calce.  E  voglio  qui  rilevarla,  perchè  essa  indica 
eh'  io  lo  scrissi  avanti  venisse  alla  luce  il  primo  tomo  dei  Chronica 
minora  del  Mommsen.  Avvenuta  questa  pubblicazione,  me  ne 
giovai  particolarmente  per  la  descrizione  del  più  antico  mano- 
scritto àQWAnonymus,  e  per  la  cognizione  del  testo  tramandatoci 
dal  medesimo. 

Circa  il  valore  del  codice  Vaticano-Palatino,  per  la  restitu- 
zione critica  del  testo  dell'antico  opuscolo  storico,  il  Mommsen 
giunse  a  risultati  che  si  accordano  quasi  interamente  coi  miei  ; 
nonostante  che,  da  questo  lato,  al  mio  lavoro  fosse  tolta  buona 
parte  della  sua  ragione  di  essere,  non  mi  decisi  tuttavia  a  sop- 
primerlo. Mi  auguro  che  il  lettore  non  trovi  inutile  una  dichia- 
razione più  ampia  e  particolareggiata  delle  relazioni  che  corrono 
tra  i  due  più  antichi  codici  contenenti  l'aneddoto. 

Le  altre  due  parti  del  mio  scritto,  in  cui  parlo  delle  Histo- 
riae  impcriales  di  Giovanni  Diacono,  dove  è  utilizzato  V Anonymus 
VaUsìiuiiis,  e  dell'  intima  condizione  del  testo  di  quest'ultimo,  non 
si  trovano  distaccate  dalla  prima  parte,  la  quale  serve  ad  esse 
quasi  di  introduzione. 


e.  CIPOLLA 


Non  è  senza  esitazione  ch'io  abbandono  al  pubblico  le  mie 
congetture  sulla  natura  dQll'Anonymus,  e  sulla  possibilità  di  riordi- 
narne i  diversi  brani.  Qualunque  giudizio  possa  venir  proferito 
intorno  alle  mie  supposizioni,  mi  terrò  contento  se  le  mie  parole 
potranno  almeno  riuscire  utili,  col  sollecitare  altri  fra  noi  a  far 
meglio. 

Verona,  i8  agosto  1S91. 

Carlo  Cipolla. 


PS.  Seguendo  il  metodo  adottato  per  le  Fonti,  indicheremo  colle  lettere 
A  e  B  la  colonna  prima  e  seconda  del  retto,  colle  lettere  e  e  d  la  colonna 
prima  e  seconda  del  verso  dei  fogli  del  codice  Veronese  delle  Historiae  iin- 
periales  di  Giovanni  Diacono. 


I. 

Introduzione. 

Il    codice    Meermann-Phillips    (ora   Berlinese) 
e  il  codice  Veronese-Vaticano. 


Sotto  il  nome  di  Anonymus  Vaìesìanus  siamo  usi  intendere  un 
esteso  aneddoto  storico,  che  solitamente,  nelle  stampe,  fa  seguito 
ai  Libri  storici  di  Ammiano  Marcellino.  Lo  pubblicò  per  la 
prima  volta,  nel  163^,  Enrico  Valois;  una  nuova  edizione  ne  pro- 
curò nel  1^81  Adriano  Valois,  e  dal  nome  appunto  dei  primi 
editori  l'autore  di  quell'aneddoto  fu  nominato  Anonymus  Vaìesìa- 
nus. Quando  si  avvertì  che  quell'opuscolo  si  doveva  dividere 
in  due  parti,  da  attribuirsi  a  due  autori  diversi,  il  nome  di  Ano- 
nymus Valesianus  rimase  fermo,  e  soltanto  si  distinse  un  Anony- 
mus I  da  un  Anonymus  IL 

Per  verità  l'opuscolo  si  compone  di  due  parti,  sentitamente 
diverse  l'una  dall'altra.  La  prima  comprende  i  capi  1-35,  e  la 
seconda  i  capi  3^-96.  Portano  nell'antico  manoscritto  le  due 
parti  un  titolo  diverso.  Anche  nelle  vecchie  edizioni  (^^  avevamo 
il  titolo  della  seconda  parte  :  Item  ex  libris  Chronicorum 
Inter  cetera,  quantunque  si  ommettesse  il  titolo  della  prima 
parte,  o,  per  megUo  dire,  se  ne  facesse,  modificandolo,   il  titolo 


(i)  Ho  sott'occhio  tanto  quella  di  Adriano  Valesio,  Parisiis,  1681  (cf. 
ivi,  a  p.  662),  quanto  quella  del  1636  di  Enrico  Valesio,  nella  quale,  a  dif- 
ferenza che  in  quella  di  Adriano,  si  legge  :  «  Et  post  multa  quae  nihil  scitu 
«  dignuni  continebant,  sequebantur  haec  in  ms.  ». 
1* 


IO  e.  CIPOLLA 

dell'  intero  opuscolo  ;  del  che  avremo  occasione  a  dire  più  diffu- 
samente in  seguito.  Anzi,  Enrico  Valesio  aveva  notato  che  nel 
manoscritto  da  lui  adoperato,  tra  la  prima  e  la  seconda  parte  del- 
l'opuscolo, stavano  molte  cose,  ch'egli  aveva  trascurate,  come 
quelle  che  nulla  presentavano  che  fosse  degno  di  pubblicazione. 
Che  cosa  fossero  queste  molte  cose,  lo  si  imparò  solo  negli 
ultimi  anni,  quando  l'antico  manoscritto,  che  si  temeva  perduto, 
fu  nuovamente  trovato  e  studiato. 

La  prima  parte  dell' Anonynius  illustra  sopra  tutto  la  vita  di  Co- 
stantino, mentre  la  seconda  riguarda  la  caduta  dell'  impero  di 
Occidente  e  i  regni  di  Odoacre  e  di  Teoderico. 

Fino  a  questi  ultimi  anni,  bisognava  star  contenti  alla  lezione 
tradizionale,  poiché  il  codice  che  aveva  servito  alle  edizioni  Va- 
lesiane  si  era  occultato.  Era  un  antico  manoscritto  che,  proba- 
bilmente da  Metz,  era  passato  a  Parigi;  quando  lo  studiò  Enrico 
Valois,  esso  si  trovava  nel  collegio  dei  gesuiti  a  Parigi,  cioè  nel- 
l'illustre collegio  Claromontano  (').  Era  stato  nelle  mani  del  ce- 
lebre Giacomo  Sirmond,  che  lo  comunicò  ad  Enrico  Valesio, 
come  quest'ultimo  dichiara  in  calce  alla  prefazione.  Dispersa 
nel  1764  la  biblioteca  di  quel  collegio,  andò  anche  il  nostro 
codice  smarrito  e  fu  perduto  di  vista,  fino  a  che  il  Pertz  n'ebbe 
per  primo  contezza,  e  lo  trovò  in  Inghilterra.  Il  codice  era 
passato  dapprima  nella  collezione  di  Giovanni  Meermann  al- 
l'Aja,  donde,  per  acquisto,  giunse  in  possesso  di  sir  Thomas 
Phillips,  a  Middlehill;  per  disposizione  testamentaria  del  PhilUps 
venne  quindi  in  proprietà  del  rev.  John  E.  A.  Fenwick,  di 
Cheltenham  presso  Glocester,  dove  lo  esaminò  il  prof.  Francesco 
Rùhl  (^),  che  ne  rese  conto  al  pubblico  nel  1875.     Nel   suo  ar- 

(i)  Per  la  storia  del  codice  cf.  C.  Zangemeister,  Zum  Anonymus 
Valesianus  in  Rhein.  Mus.  XXX,  310,  nota,  e  Th.  Mommsen,  Chronica  mi- 
nora, Berolini,  1891,  I,  3. 

(2)  Ueb&r  den  Codex  Meermannianus  des  Anonymus  Valesianus  in  Ada 
societatis  philol.  Lipsiensis,  Lipsiae,  1875,  IV,  368  sgg.  Il  codice  nella  colle- 
zione Meermann  portò  il  n,  794,  in  quella  di  Phillips  il  n.  537,  e  in  quella 
di  Fenwick  ebbe  il  n.  1885.  Quest'ultimo  numero  è  ora  conservato  nella 
Berolinense. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     1 1 

ticolo  egli  descrive  diffusamente  il  codice,  accennando  a  tutto 
il  suo  contenuto.  Certo  egli  non  ne  dice  tutto  quello  che  desi- 
dereremmo saperne;  ma  intanto  è  a  tenere  molto  conto  delle  sue 
comunicazioni.  Dobbiamo  infiuti  essere  debitori  al  Riihl,  erudito 
molto  conosciuto  nel  campo  degli  studi  sull'alto  medio  evo,  e 
più  precisamente  sull'  età  barbarica,  se  noi  per  la  prima  volta 
abbiamo  potuto  formarci  un  concetto  sufficientemente  esatto  in- 
torno al  contenuto  di  quel  manoscritto.  Insieme  col  manoscritto 
contenente  ì'Anonymus,  il  quale  nella  biblioteca  Claromontana 
portava  il  n.  DCLXXX,  nella  biblioteca  stessa  esisteva,  sotto  il 
n.  DCXXVII,  un  altro  codice,  che  in  origine  faceva  un  tutt'uno 
col  primo.  Alcuni  fogh  di  quest'ultimo  manoscritto  passarono 
a  Pietroburgo,  mentre  i  rimanenti  ebbero  col  codice  DCLXXX 
comuni  le  vicende. 

Nel  1887  da  Cheltenham  il  manoscritto  Claromontano 
DCLXXX,  insieme  coi  fogli  colà  esistenti  dell'altro  manoscritto, 
passò  alla  bibUoteca  reale  di  BerHno.  Teodoro  Mommsen  esa- 
minò di  persona  i  manoscritti  di  Cheltenham,  e  ottenne  da  Ba- 
silio Latyschew  la  descrizione  delle  pagine  PetropoHtane;  diede 
per  tal  modo  (')  una  estesa  descrizione  dei  tre  brani  sopravanzati 
del  codice  primitivo,  perfezionando  e  compiendo  le  descrizioni 
fatte  dai  precedenti  eruditi. 

Il  manoscritto  contenente  VAnonymus  (cioè  il  Claromontano 
DCLXXX)  è  un  codice  membranaceo  del  ix  secolo. 

Esso  è  una  miscellanea  storica,  nella  quale  stanno  cuciti,  l'uno 
appresso  all'altro,  parecchi  brani  estratti  da  varie  fonti,  che,  nel 
loro  insieme,  comprendono  una  specie  di  storia  universale.  Fonti 
al  compilatore  di  tale  miscellanea  sono  specialmente  Isidoro, 
lordanis,  Paolo  Diacono  &c.  Le  due  parti  dell' Anoìtymus  Vale- 
sìanus  sono  due  anelli  di  questa. 

Il  codice,  lo  sì  disse,  non  è  completo.  Appartenne,  lo  ve- 
demmo, alla  collezione  PhiUips,  dalla  quale  passò  alla  biblioteca 
Fenwick  e  ora  alla  BeroHnense,  anche  un  altro  codice,  che  in 
origine  non  era  se    non  un  brano  del  codice  primitivo,  di  cui 

(i)  Chron.  min.  I,  3-5. 


12  C.  CIPOLLA 

£iceva  parte  il  manoscritto,  che  contiene  Y Anonymus.  Il  Riihl 
vide  alla  sfuggita  anche  questo  secondo  manoscritto,  ma  non  lo 
esaminò  diligentemente,  poiché  il  signor  Fenwick,  nell'atto  che 
gli  permetteva  di  usare  dei  manoscritti  della  sua  biblioteca,  gli 
imponeva  la  grave  tassa  di  due  sterline  per  ciascuno  dei  codici 
che  egli  desiderava  studiare.  Né  il  Riihl  si  trovò  disposto  a  pa- 
gare altre  cinquanta  lire  per  prendere  in  esame  un  manoscritto 
che  non  aveva  diretto  interesse  per  lui.  Notò  tuttavia  che,  e  per 
il  formato,  e  per  l'argomento,  questo  secondo  manoscritto  va 
unito  al  primo.  L'argomento  é  storico,  e  il  Rùhl  potè  rilevare 
che  conteneva  estratti  da  lordanis.  Ben  vide  tosto  il  Rùhl,  che 
neppure  con  questo  manoscritto  si  giungeva  a  ricostituire  il  co- 
dice originario,  del  quale  facevano  parte  altri  fogli;  forse,  dice 
egli,  se  fosse  possibile  cercare  nella  collezione  Fenwick,  vi  tro- 
veremmo tutte  le  membra  sparse  dell'antico  codice,  che  sarà  stato 
per  avventura  spezzato  in  più  parti  da  qualche  antico  suo  posses- 
sore, desideroso  di  aumentare,  con  questo  facile  sistema,  il  nu- 
mero dei  manoscritti  componenti  la  sua  biblioteca. 

Ma  la  cosa  forse  non  istà  propriamente  cosi;  poiché  dalla 
biblioteca  Fenwick  nuU'altro,  oltre  ai  due  citati  codici,  pervenne 
alla  Berolinense,  che  avesse  relazione  coU'antico  manoscritto,  pur 
troppo  spezzato. 

Bisogna  notare  che  il  manoscritto  attuale  venne  formato  avvi- 
cinando assieme  quaderni  che  in  origine  erano  tra  loro  disgiunti. 

A  ordinare  le  parti  dell'antico  codice,  cosi  miseramente  di- 
viso, giovano  i  numeri  apposti  ai  singoli  fascicoli.  I  fascicoli 
talvolta  sono  «  uniones  »,  talvolta  «  biniones  »,  e  più  frequente- 
mente sono  «  quaterniones  » .  Or  bene,  ciascuno  di  essi,  e  se 
non  proprio  tutti,  almeno  una  buona  parte,  ha  il  proprio  nu- 
mero. Né  basta  questo  indizio,  poiché  ne  abbiamo  anche  un 
altro.  Abbiamo  veduto  che  la  seconda  parte  doìV Anonymus  Fa- 
lesianus  ha  il  proprio  titolo.  Altrettanto  dovrà  ripetersi  della 
prima  parte.  E  altrettanto  ancora  dirassi  delle  altre  parti,  nelle 
quali  si  divide  la  materia  del  volume.  A  ciascuno  di  questi  ti- 
toli trovasi  apposto  un  numero,  che  può  considerarsi  siccome  il 
numero  progressivo  dei  capitoli. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     13 

Il  Rùhl  crede  assai  probabile  che  tanto  i  numeri  dei  capitoli, 
quanto  quelli  dei  fascicoli  non  siano  della  mano  che  scrisse  tutto, 
o,  forse  a  dir  meglio,  quasi  tutto  il  codice.  Sono  stati  aggiunti 
in  tempo  meno  antico,  ma  pur  sempre  antico,  e  degno  di  nota. 

Da  questi  numeri  viene  accertato  che  i  singoli  fascicoli, 
nelle  vicissitudini  alle  quali  andò  soggetto  lo  sventurato  mano- 
scritto, mutarono  di  posto,  per  modo  che  l'attuale  seconda  parte 
dall' Anonymus  Vaksianus  dovea  trovarsi  collocata  anteriormente 
alla  parte  prima.  Infatti  la  parte  prima  vi  porta  per  titolo  : 
Origo  Constantini  imp  er  atoris  (');  e  questo  titolo  è 
preceduto  dal  numero  xv.  Oltracciò  l'ultimo  dei  fogli,  su  cui 
quell'aneddoto  sta  scritto,  apparteneva  ad  un  quaternione  se- 
gnato xxxiiii,  senza  contare  due  fogH,  che  doveano  avere  ap- 
partenuto al  fascicolo  xxxv.  Per  contrario,  la  parte  seconda 
delV  Anonymus  Falesianus,  accanto  al  titolo  :  Item  exlibris 
Chronicorum  Inter  cetera,  reca  una  cifra,  che  sembra  x  W; 
l'aneddoto  è  scritto  sui  quaternioni  xxi,  xxii,  e  sopra  parte  del 
binio  segnato  xxiii. 

Si  potrà  trovar  strano  che  in  una  miscellanea  storica  della 
natura  descritta,  e  nella  quale  con  brani  tolti  da  varie  fonti  si 
intendeva  di  ricomporre  una  storia  seguita,  la  narrazione  dei  re- 
gni di  Odoacre  e  di  Teoderico  avesse  il  suo  posto  dopo  a  quella 
dell'impero  di  Costantino  Magno.  Ma  anche  di  ciò  non  manca 
la  spiegazione,  ed  è  una  spiegazione  che,  se  esatta,  serve  megho 
a  dimostrare  la  ninna  relazione  intrinseca  esistente  tra  le  due  parti 
del  così  detto  Anonymus  Vaksianus.  Il  Rùhl  opina  che  YAnonymas 
Falesianus  I,  o,  se  vuoisi,  la  Origo    Constantini  impera- 


(i)  Nelle  antiche  edizioni  al  complesso  àdV Anonymus  e  più  particolar- 
mente alla  prima  parte  di  esso,  fu  preposta  la  didascalia:  De  Constantio 
Chloro,  Constantino  Magno  et  aliis  imperatoribus  excerpta 
auctoris  ignoti.  Ora  apparisce  chiaro  che  questo  titolo  era  suggerito 
ai  Valesii  non  solamente  dal  contenuto,  ma  anche  dalla  didascalia  dell'opu- 
scolo nel  codice  stesso. 

(2)  Ma  questa  cifra  manca  nella  tavola  data  dal  Mommsen  (p.  4),  ossia 
è  attribuita  agli  estratti  da  Paolo  Diacono,  come  si  dirà.  Il  vini  è  un 
estratto  da  Iordanis. 


14  C.  CIPOLLA 

toris,  sia  di  altra  e  forse  un  po'  più  antica  mano,  che  il  resto 
del  codice,  compreso  anche  VAnonymns  VaUsianiis  IL  Puossi 
quindi  supporre  che  il  compilatore  della  miscellanea,  dopo  di 
avere  terminato  la  sua  serie  di  aneddoti,  e  così  finito  quel  brano 
storico  da  lui  designato,  siasi  incontrato  nei  fogli  contenenti  la 
narrazione  delle  gesta  di  Costantino,  e  li  abbia  cuciti  alle  sue 
proprie  pagine,  al  termine  della  sua  opera,  affinchè  servissero 
quasi  di  complemento  ad  una  parte  di  essa.  Checché  sia  da  pen- 
sare sull'opinione  del  Rùhl  e  sulla  asserita  diversità  di  mano,  è 
certo  che,  anche  nella  collocazione  di  altri  brani,  non  vediamo 
mantenuto  l'ordine  cronologico. 

In  questo  manoscritto,  dopo  YAnonymus  Valcsìanus  II,  sulla 
quarta  pagina  del  binio  xxiii,  segue,  per  quanto  impariamo  dal 
Riihl  e  dal  Mommsen,  un  estratto  dai  Dialogi  di  san  Gregorio: 
«Ex  libro  dialogorum  s  aneti  Gregorii  papa  e.  lu- 
ce lianus  namque  huius  Romanae  Ecclesiae  »  &c.  La  sesta  pagina 
è  vuota,  e  sulla  settima  e  sull'ottava  abbiamo  un  brano  che  co- 
mincia :  «  Qui  Orestes  suscepto  exercito  »  (')  e  finisce  :  «  ad  Theo- 
«  derichi  presentiam  ».  È  un  piccolo  brano  tolto  da  lordanis  ^^^. 
Vi  si  parla  di  Oreste,  di  Nepote,  di  Glicerio,  di  Augustolo,  di 
Odoacre  e  di  Teoderico.  Fanno  seguito  sui  quaternioni  xxiiii, 
XXV,  XXVI  e  suU'unio  xxvii  alcuni  estratti  da  Paolo  Diacono, 
sotto  il  titolo:  X.  Item  ex  alia  historia.  È  bene  notare 
anche  questo  titolo,  giacché  esso  ci  spiega  quella  parola  «  Item  », 
che  vedemmo  essere  la  prima  anche  nel  titolo  àéX' Anonynms  Va- 
lcsìanus IL  Quanto  poi  agli  estratti  Paolini,  trattasi  solamente 
di  brani  staccati,  come  apprendiamo  da  G.  Waitz  (5). 

Il  Riihl  fece  anche  una  diUgente  collazione  del  testo  dell' ^«0- 
nymiis  Valesiamis  e  la  comunicò  al  Gardthausen,  il  quale  se  ne 
giovò  per  la  sua  edizione.  Sapevasi  che  una  collazione  del  me- 
desimo manoscritto  era  stata  comunicata,  non  era  noto  da  chi, 


(i)  Con  una  v  sovrapposta  alla  o. 

(2)  Getica,  cap.  45-46;  precisamente  il  tratto  che  nell'ed.  del  Mommsen, 
Berlino,  1882,  occupa  i  rr.  2-18  della  p.  120. 

(3)  Script,  rer.  Lang.  et  Ital.  p,  38. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     15 

al  Mommsen,  il  quale  se  ne  giovò  per  alcuni  pochi  punti  fino 
dal  1872  (').  Forse  se  la  procurò  egli  medesimo,  giacché  ora  ap- 
prendiamo che  egli  si  era  recato  a  Cheltenham  (^). 

Niun  altro  manoscritto  era  stato  usufruito  per  l'edizione  dd- 
YAnonymus  VaUsianus  fino  alla  recente  di  Gardthausen,  per  la 
quale  si  adoperò  anche  il  manoscritto  Vaticano-Palatino  927,  che 
ci  dà  quasi  completa  la  seconda  parte  àtW Anonymus  Valcsianus.  È 
un  codice  abbastanza  conosciuto,  dacché  fu  posta  in  pubblico  la  de- 
scrizione fattane  da  Lodovico  Bethmann  (5).  È  tanto  più  notevole 
questo  codice  in  quanto  esso  pure  contiene  una  miscellanea  storica, 
formata  da  estratti  desunti  da  vari  autori,  e  insieme  congiunti  di 
maniera  da  farne  risultare  una  storia  abbastanza  seguita.  È  curioso 
infatti  che  un  aneddoto  così  raro  com'  è  VAnonymus  Valcsianus  ci 
sia  pervenuto  in  due  miscellanee  storiche,  composte  con  iden- 
tico criterio.  Questa  circostanza  era  tanto  evidente  e  tanto  grave 
da  far  tosto  nascere  il  sospetto  che  le  due  compilazioni  non  siano 
vicendevolmente  indipendenti.  Quindi  vediamo  che  senz'altro 
il  Bethmann  (4)  mette  innanzi  tale  ipotesi,  dicendo  che  il  mano- 
scritto Vaticano,  nella  sua  prima  parte,  là  dove  trovasi  anche 
VAnonymus  Valesianus  II,  sia  copia  di  un  manoscritto  più  antico, 
il  cui  autore,  volendo  compilare  una  storia  mondiale,  ma  spe- 
cialmente romana,  usò  il  medesimo  manoscritto  che  sta  a  base 
del  codice  Phillips, 

Il  Waitz  (5),  descrivendo  il  medesimo  manoscritto,  ricorda  la 
ipotesi  proposta  dal  Bethmann  e  la  esplica,  forse  modificandola. 
Non  so  se  sia  tutta  colpa  mia,  ma  non  arrivo  ad  intendere  in 
modo  chiaro  e  distinto  l'opinione  del  Waitz,  ch'egli,  del  resto, 
non  enuncia  come  sua  propria,  ma  come  riproduzione  di  quella 
del  Bethmann.  Farmi  tuttavia  ch'egli  supponga  che  l'attuale  co- 
dice Vaticano  sia,  nella  sua  prima  parte,  copia   di   una  compila- 


(i)  Hermes,  VI,  335-6. 

(2)  Chroii.  min.  p.  3. 

(3)  Archiv,  XII,  345-7. 

(4)  Archiv,  XII,  347. 

(5)  Script,  rer.  Lang.  et  Ital.  p.  37. 


i6  C.  CIPOLLA 

zione  seguita  per  cura  di  uno  scrittore  del  ix-x  secolo,  e  quindi 
posteriore  al  codice  Phillips,  ch'egli  pure  attribuisce  al  ix  secolo. 
Pare  ch'egli  ammetta  non  solo  una  intima  relazione  tra  le  due 
compilazioni  storiche,  ma  ancora  una  figliazione,  almeno  per  qual- 
che porzione  dell'opera,  della  compilazione  Vaticana  dall'altra. 
Infatti  egli  dice  che  l'autore  suddetto  del  secolo  ix-x  non  avendo 
trovato  nella  sua  fonte,  cioè  nel  codice  Phillips,  il  testo  completo 
della  Historia  di  Paolo  Diacono,  ricorse  ad  altro  testo,  anzi  ad 
altri  testi,  giovandosi  fors'anco,  «  fortasse  »,  degli  estratti  del 
codice  Phillips.  Parmi  dunque  che  il  Waitz  si  stacchi  in  ciò  dal 
Bethmann,  che  dove  quest'ultimo  non  parla  di  dipendenza  di- 
retta del  codice  Vaticano  dal  codice  Phillips,  l'altro  la  ammette, 
sebbene  attenui  il  portato  della  sua  asserzione  supponendo  per  la 
compilazione  Vaticana  altre  fonti,  oltre  al  codice  Phillips. 

Il  Mommsen  riproducendo  (')  la  tavola  del  codice  Palatino  927 
nota  che  a  ciascuno  dei  due  codici  mancano  aneddoti  rispettiva- 
mente dati  dall'altro  manoscritto.  E  di  qui  e  dalla  considerazione 
che  nel  Berlinese  la  serie  degH  imperatori  giunge  all'anno  820, 
e  nel  Palatino  all'anno  825,  ne  deduce  che  il  Palatino  dipenda 
dal  Berlinese  bensì,  ma  con  interposto  un  anello,  dovuto  a  mano 
quasi  coeva  del  Berlinese.  Ammette,  ad  ogni  maniera,  un  in- 
timo legame  tra  i  due  manoscritti,  e  in  forma  che,  dove  si  ha 
divergenza  di  lezione,  si  debba  preferire  sempre  la  lezione  del 
Berlinese  ;  anzi  avverte  che  il  testo  si  deve  costituire  sulla  prima 
mano  del  Berlinese,  asserendo  che  dove  nel  Berlinese  si  hanno 
correzioni  della  seconda  mano,  queste  sono  state  riprodotte  e 
aumentate  dall'autore  del  codice  Palatino.  Per  lo  scopo  nostro 
non  è  indispensabile  istituire  una  più  minuta  disamina  sulle  due 
miscellanee,  la  Berlinese  e  la  Palatino- Vaticana;  per  la  quale  sa- 
rebbe necessario  avere  una  più  precisa  cognizione  dei  due  ma- 
noscritti, e  dei  testi  tutti  contenuti  nell'  uno  e  nell'altro.  Ma 
può  ben  essere  utile  il  raffrontare  i  due  codici  in  quella  parte  che 
fa  al  caso  nostro. 

Con  tale  scopo  è  necessario  esaminare  più  dappresso  il  mano- 

(i)  Chron.  min.  p.  260. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     17 

scritto  Vaticano-Palatino  927  (').  Ne  ho  detto  (^)  qualche  cosa 
quando  ne  trassi  il  carme  «  Eu  voce  flebili»,  in  cui  un  anonimo 
poeta  cantò  in  versi  di  lamento  la  caduta  di  Terra  Santa  in  mano 
a  Saladino  (1186).  È  uno  stupendo  manoscritto  che  venne  alla 
Vaticana  nel  secolo  xvir,  insieme  cogli  altri  libri  della  biblioteca 
dell'  università  di  Heidelberg.  Nel  secolo  xii  appartenne  al  mo- 
nastero della  SS.  Trinità  in  Verona,  anzi  fu  appunto  scritto  allora 
da  un  monaco  di  quel  monastero.  A  prova  di  ciò  si  citano  al- 
cuni Annali  veronesi,  che  si  leggono  (e.  214  sgg.)  in  questo 
manoscritto  e  che  furono  diggià  pubblicati  più  vplte.  L'ultimo 
editore,  il  Pertz  (5)^  trovando  che  l'autore  di  questi  Annali  tiene 
fisso  l'occhio  al  monastero  suddetto,  li  intitolò  addirittura  An- 
nales  S.  Trinitatis,  e  non  fece  male.  Questi  Annalcs,  salvo  le  ag- 
giunte, le  quali  appartengono  a  diverse  mani,  pare  siano  stati 
scritti,  o  almeno  cominciati,  nel  1181.  Così  reputarono  il  Pertz 
nella  sua  edizione,  e  il  Bethmann  e  il  Waitz  nei  loro  surricordati 
cenni  intorno  a  tale  manoscritto.  Parlando  di  questo  codice, 
cercai  di  mostrare  che  siffatto  giudizio  non  è  forse  superiore  ad  ogni 
dubbio,  non  essendo  del  tutto  escluso  che  gli  Annali  siano  stati 
cominciati  anche  qualche  anno  prima  del  1181.  Tuttavia  la  di- 
versità non  potendo  essere  che  piccola,  si  potrà  pur  assumere 
come  data  approssimativa  di  loro  compilazione  l'anno  1181  pro- 
posto dagH  eruditi  tedeschi  che  ora  abbiamo  ricordato. 

Siccome  gli  Annali  sono  della  medesima  mano  che  la  com- 
pilazione storica  che  li  precede,  così  anche  questa  dovrà  supporsi 
scritta  verso  il  1 181  ;  e  siccome  di  questa  compilazione  fa  parte, 


(i)  Lo  esaminai  nel  novembre  1889.  Mi  professo  sommamente  grato 
al  eh.  mons.  Isidoro  Carini,  prefetto  della  Vaticana;  la  cortesia  e  la  larghezza 
con  cui  tratta  gli  studiosi  è  troppo  notoria  perchè  ci  sia  bisogno  di  qui  met- 
terla in  evidenza  con  lunghe  parole.  Spero  così  di  poter  dare  del  codice 
Vaticano  una  nozione  più  completa  di  quella  pur  larghissima  che  può  tro- 
varsi presso  il  Gardthausen  ed  il  Mommsen. 

(2)  L'apografo  Vironese-  Vaticano  del  carme  sulla  hnpresa  di  Saladino  contro 
Terra  Santa,  in  fine  a:  T.  Ilgen,  Corrado  march,  di  Monferrato,  traduzione 
di  G.  Cerrato,  Casale  Monferrato,  1890,  p.  133  sgg. 

(3)  Mon.  Germ.  hist.  Script.  XIX,  i  sgg. 
2 


i8  C.  CIPOLLA 

come  abbiamo  detto  più  volte^  YAnonymus  Vaìesianus  II,  cosi 
diremo  che  questo  ci  è  stato  conservato  nel  codice  Vaticano  da 
una  mano  del  1181,  o,  se  cosi  vuoisi,  degli  anni  immediatamente 
precedenti  al  1181. 

A  prova  dell'appartenenza  di  questo  manoscritto  al  mona- 
stero della  SS.  Trinità  ('),  sarà  opportuno  trascrivere  qui  una 
poesia  che,  in  carattere  del  secolo  xii  ex.,  ma  diverso  da  quello 
sohto  del  codice,  si  legge  sul  bel  principio  del  manoscritto  (e.  3). 
Le  poesie  non  sono  molto  rare  in  questo  codice.  Ho  già  detto  che 
vi  si  trova  il  celebre  carme  «  Eu  voce  flebili  ».  Questo  non  è 
certo  da  attribuirsi  a  poeta  veronese;  ma  ad  un  poeta  locale,  quan- 
tunque non  all'amanuense  del  codice,  si  potrà  aggiudicare  il  carme, 
che  parla  dell'appartenenza  del  manoscritto  e  che  qui  riproduco. 
Avvertasi  infatti  che  il  carme  è  in  carattere  diverso  da  quello, 
che  si  riscontra  regolarmente  nel  codice. 

I     Codex  in  quo  legis  iste, 

lector  venerande, 

Sancte  Trinitatis  esse 

scias  sine  fraude, 
5     Cuius  situm  est  ovile 

pulcherrimum  valde, 

Parum  a  Verona  longe, 
8     digna  magna  laude. 

Mons  Oliveti  vocatur 
IO    monticulus  ille 
Quia  ibi  imperator 
cum  equestris  mille 

(i)  II  ms.  esce  dal  monastero  della  SS.  Trinità  in  Monte  Oliveto,  fuori 
delle  antiche  mura  teodericiane.  Una  carta  del  11 15  (presso  Biancolini, 
Chiese  di  Verona,  IV,  755)  lo  dice  «  noviter...  edificatum  extra  urbem  Ve- 
ce ronae  supra  Clevum  in  Monte  Oliveti  ».  Nella  Vita  s.  Guai/ardi  {Ada 
sanctorum,  apr.  Ili,  828  f)  leggiamo:  «tempore  quo  Athesis  fluvius  admo- 
«  dum  crcvit  ita  ut  totius  civitatis  plateas  superaret . . .  Gualfardus  extra  civi- 
«  tatem  Veronam  perrexit:  deinde  Sanctae  Trinitatis  ecclesiam,  non  procul 
«  a  praedicta  civitate  distantem,  petivit  ».  Q.ueste  notizie  mi  furono  comuni- 
cate dal  cortesissimo  signor  Pietro  Sgulmero,  vicebibliotecario  della  Comunale 
di  Verona,  al  quale  mi  dico  obbligatissimo.  Quel  monastero  s'identifica  coll'at- 
tualc  parrocchia  della  SS.  Trinità,  compresa  nel  circuito  delle  mura  odierne. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     19 

Ab  episcopo  qui  pastor 
erat  huius  terre 
Ramos  olive  gratanter 
16    dignus  est  suscipere  (0. 

Nel  codice  le  due  strofe  sono  scritte  staccate  l'una  dall'altra. 
Ciascuna  delle  strofe  è  scritta  sopra  due  colonne,  cosi  che  sulla 
prima  colonna  (di  sinistra)  si  abbiano  tutti  i  versi  di  numero 
dispari,  e  sull'altra  (di  destra)  tutti  quelli  di  numero  pari.  E  sic- 
come le  finali  di  cadauno  di  questi  gruppi  di  quattro  versi  cia- 
scuno, sono  identiche,  tranne  che  nell'ultimo  gruppo,  così  esse 
finali  sono  state  scritte  una  sola  volta,  al  di  fuori  di  una  grafa 
che  raccoghe  i  rispettivi  gruppi.  Le  finali  dei  due  gruppi  della 
prima  strofa  sono  «  e  »  e  «  de  »  ;  e  quella  del  primo  gruppo  della 
seconda  strofa  è  «r».  Quanto  all'ultimo  gruppo,  abbiamo  due 
grafe,  per  le  finaU  «le»  e  «re»,  che  rispettivamente  terminano 
i  due  primi  e  i  due  ultimi  versi  del  gruppo. 

Ma  se  questo  carme  non  va  attribuito  all'amanuense,  a  lui  non 
possiamo  negare  un  altro  breve  carme  (e.  3),  sebbene  questo 
si  debba  riguardare  siccome  aggiunto,  dopo  terminato  il  libro. 
Tale  breve  carme  e'  insegna  molte  cose,  e  tra  l'altro,  che  lo 
scriba  era  proprio  uno  scriba,  nel  senso  che  copiava  libri,  e  che 
anche  la  presente  compilazione  storica  non  la  compose  di  suo 
capo,  ma  la  trascrisse.  E  il  carme  ancora  c'insegna  che  il  nostro 
scriba  era  uomo  non  privo  di  qualche  coltura.     Ecco  i  suoi  versi  : 

Istum  librum  qui  scripsit  salvet  Deus  illum 

Secula  per  cuncta  sua;  donet  ei  bona  multa 

Ut  valeat  multos  et  adhuc  describere  (2)  libros 

Cum  digitisque  suis  ad  scribendum  satis  aptis, 

Atque  in  litterulis  possit  bene  ponere  multis 

Aurum  nec  non  argentum   color,  ad  Domini  quoque  cultura, 

Post  obitumque  suum  Christi  respicere  vultum 

Post  mortem  Magni  super  altum  scandere  regnum  (3). 

(i)  Questo  carme  fu  riprodotto  anche  dal  Mommsen,  Chron.  min.  (p.  259), 
il  quale,  al  v.  16,  propone  ragionevolmente  di  sostituire  «  dignatus  »  a  «  dignus  ». 

(2)  Veramente  la  sillaba  «re»  rimase  nella  penna  allo  scriba. 

(3)  Forse  si  dovrà  costruire:  «regnum  Magni»,  regno  di  Dio. 


e.  CIPOLLA 


Talvolta  raccolse  le  finali,  colla  solita  grafa,  ma  senza  una 
regola  determinata. 

Lo  scriba  è  dunque  un  poeta.  Il  carattere  con  cui  questi  versi 
sono  scritti  combina  col  testo  susseguente,  e  toglie  ogni  dubbio  sulla 
loro  attribuzione.  I  versi  sono  pessimi  e  assai  inferiori  a  quelli 
che  abbiamo  riferito  poco  fa,  e  che  pure  sono  alquanto  scadenti. 
Ma  questi  sono  di  molto  peggiori.  Qualcuno  è  troppo  lungo; 
in  tutti  pare  che  il  poeta  abbia  sacrificato  l'armonia  al  senso,  e 
il  senso  all'armonia.  Tuttavolta  per  un  povero  scriba  è  pur 
qualche  cosa. 

Ma  lo  scriba  era  non  solo  poeta,  ma  anche  artista.  E  nel 
codice  sono  frequenti  abbastanza  i  disegni  a  penna,  collocati 
qua  e  colà  ad  illustrazione  del  testo.  Di  già,  proprio  qui  sul 
principio,  e.  3  B  ('),  troviamo  un  duplice  schizzo  a  penna.  Sotto 
due  intercolunni,  uno  per  ciascuno,  stanno  due  prelati,  palu- 
dati, il  cui  atteggiamento  è  quello  di.  starsene  conversando  tra 
loro.  Sulle  teste  di  essi  leggonsi  rispettivamente  le  due  leg- 
gende: AUGUSTiNUS  EPS,  e:  OROSius  PBR.  E  non  senza  motivo 
troviamo  qui  sant'Agostino  ed  Orosio.  Poiché  il  primo  anello 
della  miscellanea  storica  (e.  4)  è  un  estratto  da  Orosio,  che 
scrisse  per  volere  di  sant'Agostino  (^)  ;  quelle  due  figure  quindi 
significano  che  sant'Agostino  ordinò  ad  Orosio  di  scrivere  i  suoi 
libri  storici.  Sulla  sesta  carta  ecco  che  ci  si  presenta  la  figura  di 
un  uomo  di  lettere;  è  barbuto;  siede  in  mezzo  a  libri  ed  a  ro- 
toli. Sulla  sua  testa  corre  la  leggenda  :  pompeius  trogus.  EgH 
non  è  solo,  poiché  al  lato  destro  c'è  uno  scriba,  che  volge  la 
testa  al  letterato.  Lo  scriba  siede  in  atto  di  scrivere,  e  sulla  sua 
testa  sta  il  motto  :  iustinus  adbreviator  eius.  Guardando 
queste  figure,  il  pensiero  corre  alla  notissima  miniatura  del  codice 
Nazionale  parigino  degli  Annali  del  Caffaro,  dove  stanno  ritratti 
«  Cafarus  »  e   «  Macobrius  ».     Sono  seduti  ambedue,  ma  in  di- 


(i)  I  due  primi  fogli  del  codice  sono  stati  lasciati  bianchi. 

(2)  Cf.  e.  57.  Più  sotto,  dando  la  tavola  del  codice,  riferiremo  dalla 
e.  57  quanto  riguarda  l'ordine  dato  da  sani'  Agostino  ad  Orosio  di  scrivere 
i  suoi  libri  storici. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     21 

verso  atteggiamento.  Caffaro,  gestendo  colla  mano  destra  e  tutto 
nei  suoi  pensieri,  sta  dettando,  mentre  l'altro  scrive  obbediente  ('). 
Di  qui  si  comprende  che  non  è  originale  dell'amanuense  vero- 
nese il  pensiero  ch'egli  espresse  disegnando  le  figure  di  Pompeo 
Trogo  e  di  Giustino,  abbreviatore  delle  sue  storie.  Ma  suo  è 
il  pensiero  di  mettere  quelle  figure  in  quel  posto,  dove  stanno 
con  giusto  motivo.  Poiché  a  e,  6  cominciano  gli  estratti  da 
Trogo  Pompeo:  «Historiarum  Pompeii  Trogi  epi- 
«TOMA.  LiBER  PRiMUs  INCIPIT  (^).  P  R I  N  clpio  rerum 
«  gentium  » . 

Non  mi  fermerò  a  descrivere  ad  uno  ad  uno  tutti  i  tratti  a 
penna  di  questo  codice.  Il  disegno  più  complicato  e  ricco  di 
figure  è  quello  che  occupa  una  gran  parte  della  e.  135  b,  e  che 
precede  il  capitolo:  Prologus  quid  sit  Germania  &  que 
gentes  eam  inhabitent.  Con  questo  capitolo  comincia  la 
storia  longobarda  di  Paolo.  Il  disegno,  a  cui  alludiamo,  si  stende 
sopra  due  zone.  Nella  superiore  di  esse,  c'è  una  scena  di  cava- 
lieri emigranti  ;  li  precede  un  cavaliero,  che  impugna  una  lancia, 
dalla  cui  asta  sventola  una  bandiera.  A  costui  viene  appresso, 
sedente  sopra  una  mula,  con  sella  femminile,  una  donna,  presso 
alla  cui  testa  si  legge:  «  Mater  ducum,  nomine  Gambara  ». 
Scritta  in  rosso,  corre  sopra  la  scena  la  seguente  leggenda:  «  Egres- 
«  sio  Uuinilorum  de  Scandinavia  quorum  duces  fuerunt  Ibor  et 
«  Aigio  ». 

Nella  seconda  zona  continua  il  medesimo  soggetto.  Quattro 
bovi,  sospinti  innanzi  da  uomini  armati  di  bastoni  e  preceduti  e 
guidati  da  altri  uomini;  connessa  a  ciò  è  una  figura  mitologica, 
combattuta  da  guerrieri. 

Da  queste  rappresentanze  non  possono  scindersi  quelle  della 
e.  136 A.  Quivi  abbiamo,  disposta  pure  sopra  due  zone,  una 
doppia  e    bella  scena   di   guerrieri   a  cavallo,  in   marcia.     Nella 

(i)  L.  T.  Belgrano,  Annali  genovesi  di  Caffaro,  I,  tav.  iii,  nei  Fonti  per  la 
storia  d' Italia  pubblicati  dall'Istituto  Storico  Italiano,  Genova,  1890. 

(2)  Per  la  paleografia  osservo  che  la  prima  e  la  terza  i  di  incipit 
sono  tagliate  trasversalmente.  E  cosi  la  i  di  epitoma,  come  pure  im- 
mediatamente dopo  la  prima  i  di  Principio. 


e.  CIPOLLA 


zona  superiore  i  guerrieri  sono  preceduti  da  un  re,  pure  a  ca- 
vallo, coronato  e  armato  di  lancia,  dalla  cui  asta  sventola  una 
bandiera:  egli  sta  per  entrare  in  un  edificio.  Sopra  alla  scena 
corre  in  rosso  la  leggenda  esplicativa  :  «  Adventus  Langobardo- 
«  rum  in  Italiam,  quorum  rex  iam  decimus  erat  Alboinus». 

Tra  gli  altri  disegni  rilevo  quello  che  precede  il  capitolo 
(e.  122  b):  De  primo  adventu  Gothorum  ad  Italiam  et 
Roma  capta.  Sono  figurati  due  guerrieri  a  cavallo,  nell'atto 
di  furiosamente  combattersi.  Ambedue  i  guerrieri  sono  armati 
di  maglia  il  petto,  le  braccia  e  le  gambe,  hanno  la  testa  difesa 
da  un  elmo  e  proteggono  il  proprio  corpo  con  un  grande  scudo. 
Sono  provvisti  di  spada  e  di  lancia.  Sopra  la  testa  del  guerriero 
collocato  a  destra  di  chi  guarda,  sta  scritto:  «  Odoachar  .  rex  ». 
Accanto  alla  testa  dell'altro:  «  Theodericus  .  rex  ».  È  dunque  un 
duello  tra  Odoacre  e  Teoderico.  Siffatto  duello  non  è  mai  av- 
venuto, se  prendiamo  la  voce  duello  nel  suo  significato  materiale. 
Ma  questo  duello  simboleggia  la  guerra  a  morte,  combattutasi 
tra  i  due  re,  la  quale  costituisce  la  parte  precipua  òqH' Anonytnus 
Valesianiis  IL 

E  l'esito  del  cozzo  è  abbastanza  bene  indicato  dall'artista.  Il 
combattimento  non  è  finito:  Odoacre  non  è  ancora  stato  trafitto 
dalla  lancia  del  suo  nemico.  Eppure  si  prevede  come  la  pugna 
andrà  a  terminare,  poiché  Odoacre  piega  leggermente  il  corpo 
all' indietro,  mentre  Teoderico  è  immobile,  fisso   sulla  sua  sella. 

Se  consideriamo  queste  figure  per  determinare  il  loro  valore 
artistico,  non  possiamo  a  meno  di  riconoscerne  i  molti  difetti. 
I  cavalli  specialmente  sono  riusciti  assai  male.  C'è  il  cavallo  di 
Odoacre,  con  un  collo  lungo  e  sottile:  le  sue  gambe  non  hanno 
alcuna  agilità,  anzi  sembrano  ripiegarsi,  come  se  il  cavallo  si  ada- 
giasse per  terra.  Un  po'  migliore  è  il  cavallo  di  Teoderico,  ma 
c'è  una  grave  sproporzione  tra  le  gambe  anteriori,  assai  piccole, 
e  le  posteriori,  eccessivamente  lunghe.  Le  code  dei  due  cavalli 
sono  meschine  assai  e  senza  alcun  movimento.  Le  orecchie  del 
cavallo  di  Teoderico  sembrano  asinine.  Molto  migliori  sono 
i  due  re.  Non  ci  sono  gravi  sproporzioni  nelle  parti  dei  corpi, 
come  avviene  nei  corpi  dei  due  cavalli.     Non  c'è,  e  non  ci  può 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «     25 

essere  espressione  nei  volti  ;  ma  accontentiamoci  di  veder  ripro- 
dotte con  giusto  e  lodevole  verismo  le  armi  difensive  ed  offensive 
dei  due  guerrieri.  E  ancora  non  si  può  negare  che  nel  tutto 
insieme  non  vi  sia  una  qualche  animazione  e  una  vera  aggiusta- 
tezza e  congruenza  nelle  mosse. 

Or  bene,  questo  soggetto  non  si  considererà  siccome  nuovo 
del  tutto.  Pure  a  Verona,  sulla  facciata  della  basilica  di  S.  Zeno, 
terminata  appena  pochi  decenni  prima  che  questo  codice  venisse 
composto,  si  vedevano  e  si  vedono  anche  oggidì  alcune  preziose 
sculture,  che  per  certo,  anche  per  sole  ragioni  paleografiche,  non 
si  possono  reputare  posteriori  alla  metà  incirca  del  xii  secolo. 
In  quelle  sculture  si  rappresenta  un  duello  tra  due  guerrieri  a 
piedi,  e,  in  altro  riquadro,  un  duello  tra  due  guerrieri  a  cavallo. 
Se  volessimo  scendere  a  raffronti  minuti,  dovremmo  riconoscere 
che  la  conformità  tra  la  scultura  zenoniana  e  il  disegno  a  penna 
del  nostro  codice  è  appena  relativa.  Poiché  nella  scultura  uno 
dei  due  combattenti  a  cavallo  sta  per  cadere  riverso,  attraversato 
il  petto  dalla  lancia  dell'avversario.  Tuttavia,  nel  complesso,  le 
due  rappresentanze  si  rassomigliano  ;  e  anche  in  alcuni  particolari 
si  possono  rilevare  senza  dubbio  tra  di  esse  molti  punti  di  contatto. 

Il  Bethmann  (')  ha  già  dato  la  tavola  del  codice;  in  forma 
più  completa  ce  la  diede  testé  anche  il  Mommsen  (^\ 

C.     3  b:     Opus  excerptum  ex  libro  Orosii  secundo. 

C.     6  b:     Historiarum  Pompei!  Trogi  epitome.     Liber  primus  incipit. 

C.  18:     De  sex  huius  seculi  etatibus. 

C.  32:     Excerptum  ex  chronica  Eusebìi. 

C.  46:     Regnum  Romanorum. 

C.  47  :     Epythoma  ex  libris  Eutropi  Victorini  historici  de  consulibus. 

C.  57  :  Epythoma  ex  libro  Orosii  presbiteri,  quo  ipse  hortatu  sancti  Augu- 
stini  de  clarissimorum  hystoricorum  libris  Pompei  videlicet  Trogi  et  lustini 
adbreviatoris  eius,  Suetonii  Tranquilli,  Cornelii  Taciti,  Salustii,  Eutropi,  Livii, 
Polimbrii,  Valerli,  Claudii,  Galbae  et  Anthiae  pulcherrimo  ordine  defloravit. 

C.  59:     Pompeius  Trogus. 


(i)  Archiv,  XII,  345  sgg.     La  tavola  del    Bethmann  fu  riprodotta  dal- 
I'Ohnesorge,  Der  A  non.  Vales.  de  Co  n  st  an  ti  n  0  ,  K\el,  1885,  p.  2. 
(2)  Chron.  min.  pp.  259-60. 


24  e.  CIPOLLA 

C.  59:     Estratti  da  Orosio,  con  elenco  d'imperatori. 

C.  74  B  :  Opus  excerptum  ex  historia  ecclesiastica  Cassyodori  Senatoris 
quam  ipse  de  tribus  grecis  auctoribus  defloravit;  uno  scilicet  Theodorito,  etc. 

C.  i22b:  De  primo  adventu  Gothorum  ad  Italiam  et  Roma  capta  (da 
Isidoro). 

Segue  di  Attila  fino  alla  e.  125  b  ('). 

C.  126.  De  adventu  Oduacher  regis  Cyrorum  et  Erulorum  in  Italia 
et  quomodo  rex  Theodericus  eum  fuerit  persecutus.  * 

E,  preceduti  da  questa  didascalia,  cominciano  i  primi  capi  del- 
VAnonymus  VaUsianus  II,  il  quale  termina  al  principio  della  e.  132  a. 
Il  codice  Vaticano  non  dà  tutt' intero  il  testo  del  codice  Meer- 
mann-Phillips.  Alcuni  brani  ne  ommette,  e,  in  compenso,  inse- 
risce nel  testo  vari  e  lunghi  tratti  dell'opera  Getica  di  lordanis. 

Non  avvertirono  il  Bethmann  e  il  Mommsen  che  dXVAnonymus 
Valesianus  II  qui  fa  seguito  (e.  132)  un  tratto  dei  Diaìogi  di 
san  Gregorio,  ma  senza  alcun  titolo.  È  il  tratto  ben  noto,  nel 
quale  si  narra  che  re  Teoderico  si  sprofondò  nel  vulcano  di  Lipari. 
Comincia  :   «  lulianus  namque  ». 

Dalla  tavola  del  codice  Meermann-Phillips  pubblicata  dal 
Riihl  (^),  apparisce  che  quel  medesimo  brano  dei  Dialogi  di  san 
Gregorio  fu  aggiunto,  in  calce  all' Anonymus  Valesianus  II,  anche 
in  detto  manoscritto.  Nel  codice  Palatino-Vaticano,  dXV Anonymus 
Valesianus  II  fa  seguito  (e.  132  b  sgg.)  un  brevissimo  sunto  della 
caduta  del  regno  goto.  Colla  e.  135  b  comincia  la  storia  longo- 
barda di  Paolo  Diacono,  della  quale  il  testo  fu,  secondo  il  Waitz, 
desunto  da  vari  archetipi,  senza,  forse,  «  fortasse  »,  trascurare 
gli  estratti  paolini  del  codice  Meermann-Phillips.  La  storia  dì 
Paolo  nel  codice  Vaticano  viene  continuata  sino  all'anno  825  <^5). 
Donde  dipenda  questa  continuazione  non  è  accertato. 

E  cosi  ha  termine  la  miscellanea  storica  di  cui  si  è  detto  : 
l'autore   aveva    raggiunto    il  suo  scopo,    narrando  la  storia    del 

(i)  Cf.  loRDANis,  Gel.  p.  34. 

(2)  Nessuna  indicazione  trovasi  presso  il  Mommsen,  Chron.  min.  I,  5. 

(3)  Q.uesta  continuazione,  data  solamente  dal  presente  codice,  fu  pub- 
blicata dal  Waitz,  Script,  rei:  Lang.  pp.  200-203. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     25 

mondo,  dalle  più  remote  notizie,  sin  dopo  alla  morte  di  Carlo 
Magno  (814).  Come  contenuto,  quello  che  segue  nulla  ha  a 
che  fare  con  quanto  descrivemmo  finora. 

Il  primo  aneddoto  successivo  è  costituito  {ce.  214  B-216)  dagli 
Annales  ì  quali,  fino  al  ii8r,  sono  scritti  (tranne  le  aggiunte, 
dichiarazioni  &c.)  da  quell'amanuense,  al  quale  dobbiamo  attri- 
buire quanto  precede. 

Inutile  sarebbe  enumerare  ciò  che  viene  in  appresso.  Basti 
ricordare  che  tra  gli  ultimi  aneddoti,  scritti  da  varie  mani,  trovasi 
anche  (ce.  218  a-2i8b)  il  bellissimo  carme  «  Eu  voce  flebili  », 
col  quale  i  Cristiani  lamentarono  la  rovina  di  loro  potenza  in 
Oriente,  e  la  perdita  della  Palestina,  conquistata  da  Saladino. 

Carlo  Zangemeister  <^'),  nel  1875,  diede  un  resoconto  abba- 
stanza diffuso  del  codice  Palatino,  per  quanto  riguarda  i  testi  di 
lordanis  e  ddY Ano?iymus  Vaìesianus  II.  Aggiunse  a  ciò  alcune 
discussioni  sulla  lezione  di  certi  passi,  nonché  la  proposta  di  pa- 
recchie racconciature  di  testo.  Egli  tuttavia  non  pubblicò  la  col- 
lazione da  lui  istituita  del  testo  à.Q\\'Anonymiis,  ma  la  consegnò 
a  Vittore  Gardthausen;  e  costui  se  ne  giovò  per  la  sua  edizione, 
ricordando  appunto  la  benevolenza  usatagli  dallo  Zangemeister. 
Tuttavia  forse  si  può  dubitare  che  non  in  ogni  singolo  passo  lo 
Zangemeister  e  il  Gardthausen  abbiano  riferito  con  piena  esat- 
tezza la  lezione  del  codice  Vaticano.  Nel  novembre  del  1889, 
avendo  avuto  occasione  di  trascrivere  per  intero  da  quel  mano- 
scritto i  capitoli  tolti  daìV Anonymus  Vaìesianus  II,  credo  di  tro- 
varmi in  grado  di  rettificare  in  qualche  luogo  la  collazione 
predetta.  Ma  ora  abbiamo  una  collazione  nuova,  quella  del 
Mommsen. 

Questa  pure  non  si  può  riguardare  come  del  tutto  completa, 
poiché  al  Mommsen  non  poteva  interessare  di  riprodurre  per 
intero  le  lezioni  di  un  manoscritto,  che  egli  giustamente  riguar- 
dava come  di  secondario  valore. 

«  Sulla  relazione  del  codice  Palatino  col  codice  Phillips  si  é 
«pienamente  all'oscuro  ».     Questo  é  il  risultato  degli  studi  re- 
fi) Rhein.  Mus.  XXX,  368  sgg. 


26  e.  CIPOLLA 


centi,  riassunto  in  poche  parole  da  Guglielmo  Ohnesorge  ^'\ 
Ora  il  Mommsen  è  giunto  a  conclusioni  assodate;  a  noi  resterà 
di  rafforzare,  con  osservazioni  speciali,  le  conclusioni  dell'  illustre 
tedesco. 

Prima  di  procedere  a  ulteriori  ricerche  ci  sia  lecito  rilevare 
un  fatto,  oramai  universalmente  ammesso,  che  cioè  VAnonymiis 
Vahsianus  I,  anche  per  stile,  per  lingua,  per  modo  di  concepire  ed 
ordinare  i  pensieri,  non  ha  nulla  a  che  fare  coli' Aiionyiìius  Vahsia- 
nus IL  Se  potea  sembrare  che  i  due  brani  avessero  qualche  mutua 
relazione,  finché  gli  avevamo  soltanto  nelle  edizioni  dei  Valois, 
scoperto  il  codice  Meermann  anche  quell'apparenza  svanisce.  I 
due  brani  vi  stanno  disgiunti,  e  V Anonymus  Vaìesiajiiis  I  segue,  in- 
vece che  precedere  l'altro,  ed  è  forse  dovuto  a  mano  diversa  ^^\ 

(i)  Op.  cit.  p.  4. 

(2)  Tutti  non  sono  peraltro  della  stessa  opinione.  Qui  ci  sia  permesso  di 
accennare  ad  un  recentissimo  giudizio  di  Carlo  Frick,  Ziir  Texlkritik  tind  Sprache 
desAnon.  Vales.  (m:  Commentationes  Wolffliniatìae,  Lipsiae,  Teubner,  1891, 
p.  339  sgg.),  il  quale  pensa  che  il  Bethmann  (Archiv,  XII,  345  sgg.)  siasi  in- 
gannato asserendo  che  il  cod.  P  sia  una  copia  deWAnon.  Vales.  II,  con  alcuni 
brani  di  lordanis  qua  e  colà  interpolati.  Il  Frick  invece  lo  giudica  un  indipen- 
dente lavoro  medioevale  compilato  coll'uso  di  due  fonti,  YAnon.  Vales.  e  la 
Getica  di  lordanis.  E  a  prova  di  ciò  dà  Io  specchio  dei  brani  che  in  P  sono 
tolti  dalla  prima  e  dalla  seconda  fonte. 

Non  vorrei  mostrarmi  oppositore,  ma  parmi  che  la  controversia  possa  es- 
sere ridotta  a  questione  di  parole.  Con  titolo  speciale,  in  P  comincia  la 
trascrizione  deir^«o«.  Vales.;  di  esso  poi  si  ommettono  sei  passi,  dei  quali  due 
sono  suppliti  con  brani  di  lordanis.  Poi  segue  la  trascrizione  dell'Anonimo 
sino  alla  fine.  I  due  brani  di  lordanis  sostituiscono:  a)  i  capi  49-50,  /')  i 
capi  54  (da  «  igitur  coactus  >))-59-  In  questi  luoghi  lo  scriba  preferì  una 
narrazione  o  più  completa,  o  più  vivace,  essendo  VAnon.  laconico  o  di- 
fettoso. La  tela  del  racconto  è  quindi  data  dall' ^«0;/.,  del  quale  lo 
scriba  tralascia  qualche  particolarità,  che  crede  inutile  (ce.  49-51-2,  67-70); 
se  omise  il  cap.  60  (da  «  sic  gubernavit  »),  lo  avrà  fatto  perchè  gli  elogi 
qui  prodigati  al  re  ostrogoto  gli  saranno  sembrati  in  contraddizione  coi  rim- 
proveri mossigli  poi  àzWAnon.  Cosi  stando  le  cose,  mal  si  comprende 
come  si  possa  recedere  dall'opinione  del  Bethmann.  Del  resto,  sono  que- 
stioni che  non  toccano  il  vivo  dell'argomento. 

Dell'articolo  del  Frick  ci  occuperemo  ora,  in  quanto  esso  tende  ad  af- 
fermare l'intima  relazione  esistente  tra  VAnon.  1  e  VAnon.  II. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »    27 

Tuttavia  anche  prima  che  ritornasse  alla  luce  il  codice  Meer- 
mann,  l'opinione  che  si  trattasse  di  due  autori  diversi  erasi  fatta 
strada.  Il  Mommsen  osservò  che  nell'  Anonymus  I  si  fa  uso 
della  divisione  provinciale  del  297  circa,  la  quale  ci  fu  conservata 
in  un  prezioso  manoscritto  della  biblioteca  Capitolare  di  Verona, 
e  non  della  divisione  provinciale,  che  sta  nella  Notitia  diguitatum, 
e  che  quindi  appartiene  al  400  circa.  Francesco  Gòrres  (')  ripro- 
dusse l'osservazione  del  Mommsen,  e  notò  la  grande  diversitcà 
dello  stile  tra  i  due  brani,  accusando  il  Teuffel  di  non  averla 
sufficientemente  avvertita  nella  sua  Storia  della  letteratura  romana. 
Ma  il  Teuffel  (^),  in  un  breve  articolo  di  risposta,  asserì  che  la 
differenza  dello  stile  non  gU  era  sfuggita,  e  svolse,  in  poche  pa- 
role, questo  argom^to  a  provare  che  i  due  brani  sono  da  attri- 
buirsi a  due  autori.  Oechsli  (5)  rilevò  che  lo  stile  àtìV Anony- 
mus II  è  spesso  sgrammaticato,  mentre  quello  deW Anonymus  I  è 
passabile,  e  ne  dedusse  la  certezza  che  i  due  brani  provengono 
da  due  mani.  L'argomento  dello  stile  fu  svolto  ampiamente,  e 
con  minute  osservazioni  grammaticah,  da  Ohnesorge  W  ;  il  quale 
all'argomento  dello  stile  (5),  altri  ne  aggiunse,  e  non  pochi.    Anche 


(i)  Zur  Kritik  des  Anon.  Vales.  in  Jahrh.  fiìr  class.  Phìlol.  CXI  (1875), 
201  sgg. 

(2)  lahrh.  XCI,  390. 

(3)  Ueber  dieHis  tori  a  Mi  s  e  ella  Uh.  XII-XFIII  una  dm  Ano  ny  m  u  s 
Valesianus  II,  Zùrich,  1873,  pp.  71-2. 

(4)  Der  Anon.   Vales.  &c.,  Kiel,  1885,  p.  io  sgg. 

(5)  Negli  ultimi  mesi  Carlo  Frick,  nel  citato  suo  lavoro,  giunse  a 
diflFerenti  conclusionL  Egli  ritiene  di  aver  provato  che  le  medesime  forme, 
declinazioni,  coniugazioni  &c.  si  trovano  in  ambedue  le  parti  deWAnon.  VaUs. 
Ma  afferma  assai  più  che  non  provi  ;  anzi  gli  esempi  ch'egli  adduce  dimo- 
strano che  gli  errori  di  scrittura  e  le  sgrammaticature  sono  assai  minori  in 
Anon.  I,  che  non  in  Anon.  II.  Di  niun  valore  sembra  per  esempio  il  passo: 
«  collectam  ingenti  multitudine  »  che  il  Frick  cita  a  provare  Tabi.  sing.  in  -a. 
Come  diremo,  il  Frick  non  distingue  ciò  che  in  fatto  di  errori  si  debba  at- 
tribuire ai  testi  originali,  e  ciò  che  bisogna  addebitare  ai  copisti.  Sicché  la 
conclusione  finale,  dove  egli  dice  «  almeno  nella  loro  forma  attuale 
«  i  due  brani  non  vanno  aggiudicati  a  due  scrittori  »,  si  deve  accettare  solo 
con  ampie  riserve,    e  col    vantaggio    della    riferita   limitazione.     Nell'ultima 


28  e.  CIPOLLA 

non  annettendo  a  ciascuno  di  essi  un'  eguale  importanza,  è  gio- 
coforza ammettere  che  V Anonymus  I  è  laconico  e  freddo,  mentre 
l'altro  è  pieno  di  aneddoti,  specialmente  intorno  a  Teoderico  :  il 
suo  stile,  come  è  deplorevole  dal  lato  della  grammatica,  cosi  in- 
vece è,  sotto  altro  aspetto,  attraente,  perchè  artistico,  drammatico, 
tutto  vita. 

Ohnesorge  insiste  assai,  e  forse  più,  sopra  un'altra  differenza  tra 
i  due  brani,  il  secondo  dei  quali  è  ispirato  a  concetti  religiosi, 
che  invece  mancano  al  primo.  Questo  è,  in  parte,  vero,  poiché 
nel  secondo  spesseggia  l'invocazione  a  Dio,  e  gli  ultimi  atti  del 
regno  di  Teoderico  sono  giudicati,  non  solo  dal  punto  di  vista  po- 
litico, ma  anche  con  criteri  schiettamente  religiosi.  È  tuttavia  un 
fatto,  che  anche  neW Anonymus  I  abbiamo  alcuni  punti  nei  quali  0) 
si  tocca  delle  cose  religiose,  stigmatizzando  le  persecuzioni.  È  ben 
vero  che  Ohnesorge  vorrebbe  espungerU  come  interpolazioni,  ma 
egli  stesso,  alla  fine,  è  costretto  a  girar  di  parole,  e  a  riconoscere 
che  a  dimostrarlo  non  ha  ragioni  di  valore  assoluto. 

Uno  dei  quattro  capitoli,  su  cui  cadono  i  dubbi  di  Ohnesorge, 
contiene  l'indicazione  dei  consoH  sotto  i  quali  avvenne  un  dato 
fatto.  E  anche  qui  quel  critico  trova  motivi  per  pensare  ad 
una  interpolazione,  poiché  egli  osserva  che  in  niun  altro  luogo 
V Anonymus  I  ha  simile  esattezza  cronologica.  Anzi  su  questa 
mancanza  di  precisione  in  fatto  di  cronologia  egli  crede  di  fon- 
darsi per  notare  una  divergenza  di  metodo  tra  Y Anonymus  I  e 
Y Anonymus  II,  dove  invece  le  indicazioni  cronologiche  sono  molto 
frequenti.  Ma,  anche  per  far  risaltare  tale  diversità,  si  è  costretti  a 
supporre  una  interpolazione  là  dove  altra  ragione  non  se  n'a- 
vrebbe. È  un  fatto  verissimo  che  nei' Anonymus  II  l'elemento  re- 
ligioso e  la  cura  dell'esattezza  cronologica  spiccano  assai  più  che 
non  n&ÌY Ano7iymus  I.  Ma  non  é  agevole  l'andare  più  avanti  colle 
aff"ermazioni  e  il  trarne  deduzioni  arrischiate. 

parte  del  suo  articolo,  il  Frick  promette  di  spiegar  meglio  il  suo  pensiero, 
in  avvenire;  attendiamo  con  desiderio  il  suo  nuovo  lavoro,  che  riuscirà  senza 
dubbio,  come  è  il  presente,  pieno  d'interesse  per  la  novità  e  la  pazienza  delle 
indagini. 

(i)  V.  cap.  8,  20,  29,  53. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  >,     29 

Del  resto  non  è  proprio  il  caso  di  andar  cercando  con  tanta 
cura  le  differenze  tra  i  due  brani,  mentre  se  ne  hanno  tante  e 
cosi  gravi  e  così  sicure,  da  poter  essere  pienamente  tranquilli 
sulla  deduzione  ultima.  Se  ce  ne  fosse  bisogno,  si  potrebbe  tut- 
tavia discutere  il  capitolo  n,  dove  sembra  che  YAnonymus  I 
faccia  chiaramente  conoscere  di  scrivere  mentre  l'impero  romano 
era  ancora  in  piedi  e  saldo  :  «  a  Constantino  autem  omnes  semper 
«  christiani  imperatores  usque  hodiernum  diem  creati  sunt,  ex- 
«  cepto  luliano  &c.  ».  Ohnesorge  riguarda,  lo  vedemmo,  quel 
passo  come  interpolato;  dal  che  deduce  che  il  testo  genuino  è 
più  antico  dell'epoca  alla  quale  il  passo  stesso  allude.  Egli  pensa 
che  lo  si  possa  quindi  ritenere  dell'età  stessa  di  Costantino. 

Quel  passo  tuttavia  che,  a  primo  aspetto,  sembra  così  per- 
suasivo, va  soggetto  ad  un  dubbio,  poiché  esso  corrisponde  ad 
Orosio,  VII,  28,  2;  ed  è  cosa  controversa  questa,  se  le  corri- 
spondenze tra  YAnonymus  I  e  Orosio  dipendano  da  ciò  che  il 
primo  abbia  copiato  dal  secondo,  o  viceversa. 

Francesco  Gòrres  opina  che  V Anonymus  I  possa  appartenere 
al  390  circa;  e  quanto  aìY Anonymus  II,  discusse  le  opinioni  di 
Dahn  e  di  Witershein,  lo  attribuisce  alla  metà  del  vi  secolo. 
Holder-Egger  (')  riguarda  come  opinione  generalmente  accettata 
quella  che  distingue  le  due  mani.  SuìY Anonymus  I  è  incertis- 
simo, dicendo  che  siamo  all'oscuro  sia  sull'autore,  sia  sul  tempo 
di  sua  compilazione.  Riguardo  zYY Anonymus  II,  mette  innanzi 
ciò  che  ne  dissero  il  Pallmann  ed  il  Waitz,  e  finisce  per  aderire 
all'opinione  che  vedemmo  proposta  dal  Gòrres. 

Il  Mommsen  (^)  testé  osservò  che  YAnonymus,  occupandosi  delle 
relazioni  giuridiche  tra  Anastasio  e  Teoderico,  sembra  indicare 
ch'egli  vivesse  durante  le  guerre  civili,  seguite  alla  caduta  del 
regno  ostrogoto.  Ciò  significa,  nella  seconda  metà  incirca  del 
VI  secolo. 

(i)  Ncues  Archiv,  I,  316-24. 
(2)  Chron.  min.  I,  261. 


30 


C.  CIPOLLA 


IL 

Relazioni     tra    il  codice    Meermann  -  Phillips 
e    il    codice    Veronese- Vaticano. 

Passiamo  a  parlare  delle  relazioni  del  testo  tra  il  codice  Meer- 
mann-Phillips,  ora  Berlinese,  e  il  codice  Vaticano-Veronese.  Ve- 
dremo che  tra  i  due  testi  corre  un'  intima  relazione,  spesse  volte 
accordandosi  anche  nel  dare  ambedue  alcune  lezioni  manifesta- 
mente errate  ;  tuttavia  non  saprei  asseverare  che  il  Vaticano-Ve- 
ronese dipenda  direttamente  e  immediatamente  dall'altro  ('). 

Premetto  che  nel  codice  P  distingueremo,  per  quanto  pos- 
siamo, accuratamente  la  seconda  dalla  prima  mano.  Talvolta, 
ma  non  di  sovente,  il  testo  originariamente  appare  scritto  con 
qualche  trascuratezza.  Il  correttore  (^)  è  uomo  di  qualche  inge- 
gno critico.  Dalla  natura  delle  sue  congetture  non  pare  che  le 
facesse  seguendo  un  nuovo  testo  ch'egh  collazionasse  con  quello 
che  volea  correggere.  Le  correzioni  sono  tali  invece  da  farci 
credere  che  le  facesse  di  suo  capo;  e  perciò,  se  questo  è  vera- 
mente, egli  non  doveva  essere  un  copista  manuale.  Dalla  forma 
dei  caratteri,  il  correttore  è  presso  a  poco  contemporaneo  al  testo 
primitivo.  Se  questo  spetta  al  1181  in  circa,  quello  sarà  della 
fine  del  secolo  xii. 

Dicemmo  che  talora  il  testo  è,  pur  di  prima  mano,  abba- 
stanza corretto;  tuttavia  qualche  grave  inesattezza  si  trova.  Al 
§  88(5)  abbiamo:  «  ex  Ravenna  ».  Lascio  «  ex  »,  che  Adriano 
Valesio  sostituì  con  «  rex  »    (in  ciò  seguito  anche  dal  Gardthau- 


(i)  Per  brevità  chiameremo  M  il  codice  Meermann-Phillips  e  P  il  co- 
dice Palatino-Vaticano,  già  Veronese;  e  ciò  per  adottare  le  vecchie  sigle 
proposte  nella  edizione  del  Gardthausen.  Il  Mommsen  indica  con  B  il  primo 
ms.,  conservando  la  P  per  il  secondo. 

(2)  Lo  diremo  P*,  per  usare  della  sigla  adoperata  dal  Gardthausen. 

(3)  Ed.  Gardthausen,  p.  303,  r.  12;  ed.  Mommsen,  p.  329". 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     31 


sen,  e  dal  Mominsen),  e  rilevo  soltanto  «  Ravenna  ».  Al  §  93  "^'^ 
in  luogo  di  «  sanus  »,  si  ha:  «  san'us  »,  che  verrebbe  a  dire 
«  sanusus  ».  Questo  non  toglie  che  altrove  anche  il  testo  stesso 
ci  comparisca  siccome  il  prodotto  di  un  lavoro  critico^  che  forse 
può  dipendere  non  solamente  dallo  scriba  che  lo  trascrisse,  ma 
ancora  dal  testo  adoperato  alla  trascrizione,  e  nel  quale  si  fosse 
ormai  esercitato  l'ingegno  di  qualche  racconciatore  di  testi  (^). 
Spiego  il  mio  pensiero  con  qualche  esempio,  che  potrà,  spero, 
servir  di  conferma  a  questa  proposizione.  Al  §  45^^\  mentre  M 
legge  «intra  Pannonia  »,  P  dà  «intra  Pannoniam».  Poco  ap- 
presso'^'') leggesi  nel  codice  M:  «  benedictionis  ad  eum  intuitum 
«  deverterunt  »,  dove  si  parla  di  Odoacre  e  di  altri  barbari,  i  quali, 
per  desiderio  di  essere  b  e  ne  detti,  piegarono  il  loro 
cammino,  e  s'indirizzarono  alla  cella  di  san  Severino.  Il  codice 
P  legge, qui:  «  intuitu  »,  concordandosi  col  testo  genuino  della 
Fita  s.  Sevcrini  di  Eugippio  (^5).  Ben  è  vero,  si  può  anche  sup- 
porre che  il  codice  P  in  questi  luoghi  dipenda  direttamente  da 
Eugippio,  ovvero  si  attenga  ad  un  codice  dQWAnonymus,  nel  quale 
il  testo  eugippiano  originario  siasi  direttamente  conservato  qui 
in  buona  condizione. 

Di  queste  due  supposizioni,  la  prima  non  ha  alcun  fonda- 
mento, mentre  nel  codice  P  non  troviamo  alcuna  traccia  d'in- 
fluenza diretta  subita  dalla  Fita  s.  Sevcrini  di  Eugippio.     La  se- 

(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  304,  r.  18;  ed.  Mommsen,  p.  32936. 

(2)  Mi  pare  che  si  possa,  fra  le  altre  correzioni  di  prima  mano,  an- 
noverare anche  questa  (§71,  Gardthausen,  p.  299,  r.  4;  cf.  ed.  Mommsen, 
p.  324):  «  muros  alios  »  sostituito  a  «  muris  aliis  »,  dove  va  osservato  che 
anche  «  muris  aliis  »  è  lezione  degna  di  rimarco,  per  questo  che  fu  ispirata 
dal  desiderio  di  migliorare  il  testo,  dando  al  periodo  un  senso  più  piano. 
Del  resto  sono  parecchie  le  modificazioni  fatte  da  P,  tra  le  quali  dà  nell'oc- 
chio, p.  es.,  al  cap.  83  la  voce  «  malignus  »  sostituita  a  «  diabolus  ».  Sopra 
queste  mutazioni  si  fermò  il  Frick,  Commcnt.  ÌVòlfflinianae,  p.  342,  per  mo- 
strare il  carattere  di  posteriorità  che  ha  il  suo  testo  in  confronto  con  quello 
del  cod.     M.  Frick  non  determinò  la  relazione  esistente  fra  i  testi  dei  due  mss. 

(5)  Ed.  Gardthausen,  p.  291,  r.  24;  cf.  ed.  Mommsen,  p.  314. 

(4)  Ed.  Gardthausen,  §  46,  p.  291,  r.  27;  cf.  ed.  Mommsen,  p.  314. 

(5)  Ed.  H.  Sauppe,  Berolini,  1877,  §  7,  p.  11. 


32  e.  CIPOLLA 

conda  ipotesi,  quantunque  non  presenti  nulla  di  assurdo,  e  abbia 
anzi  alcune  apparenze  di  probabilità,  tuttavia  è  resa  un  po'  diffi- 
cile dal  f;itto,  che  tra  M  ed  Eugippio  si  trova  una  maggiore  re- 
lazione che  non  tra  P  ed  Eugippio.  E  questo  è  manifestamente 
provato  dai  due  passi  seguenti,  e  specialmente  dal  secondo. 

Nel  §  47,  parlandosi  di  Odoacre,  che  per  secondare  la  do- 
manda fattagliene  da  san  Severino,  prosciolse  dal  bando  certo 
Ambrogio,  nella  Vita  s.  Sevenni  di  Eugippio  (■)  leggesi  :  «  cuius 
«  Odoacer  gratulabundus  paruit  imperatis  ».  Ed  il  codice  M 
ha  :  «  cuius  Odoachar  gratulabundus  paruit  imperati  »  (^).  Il 
codice  P  ristabilisce  il  senso:  «  cui  Odoachar  gratulabundus  pa- 
«  ruit  imperanti»^').  Pare  qui  che  il  codice  M  presenti  una  lezione 
media  tra  quella  genuina  di  Eugippio,  che  chiede  «  cuius... im- 
«  peratis  »,  e  quella  àtìV Anonynius  Falesiamis,  nella  sua  forma 
attuale  che  esige:  «  cui.. .  imperanti  ».  Potrebbe  dunque  sembrare 
che  il  codice  P  conservasse  proprio  la  giusta  lezione  dell'^wo- 
nymiis.  iMa  non  bisogna  nascondersi  che  facilmente  puossi  anche 
ammettere  che  P  abbia  mutato  «  cuius  »  in  «  cui  »,  per  dare  un 
senso  a  parole  che  non  l'avevano;  e  ignorandosi  il  vero  testo 
eugippiano,  la  correzione  cadde  sopra  una  parola  rimasta  inte- 
gra, invece  che  sopra  una  parola  sbagliata.  A  favore  di  questa 
spiegazione  parla  lo  spirito  critico  che  puossi  riscontrare  in  P, 
anche  nella  sua  forma  primitiva.  E  anche  l'incertezza  del  co- 
dice M  riguardo  alla  parola  «  imperati  »  potrebbe  fornire  un  ar- 
gomento favorevole  a  tale  supposizione.  Ma  è  necessario  di 
aggiungere  qui  qualche  altra  spiegazione. 

Infatti  per  sostenere  la  proposta  ipotesi,  bisogna  ricorrere  ad 
un'altra  ipotesi  sulla  relazione  tra  il  codice  M  ed  il  codice  P,  e 
sopra  di  questi  codici  e  l'originale  àolV Anonymus.  Bisogna  am- 
mettere che  VAnonymus  avesse  qui  riprodotto  il  testo  preciso  di 
Eugippio,  e  questo  è  credibilissimo,  con  «  cuius  -  imperatis  », 
In  M  il  testo  fu  alterato  in  «  cuius  -  imperati  »,  e  un  correttore 


(i)  Ed.  cit.  §  32,  p.  24. 

(2)  Tuttavia  la  corretta  lezione  del  cod.  M  reca  qui:  «  imperanti  ». 

(3)  Questo  tratto  fu  aggiunto  in  margine  di  prima  mano. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     35 

antico  per  dare  un  senso  alla  parola  «  imperati  »,  la  ridusse  a 
«  imperanti  »,  coll'introduzione  della  n.  Se  si  potesse  ammet- 
tere la  figliazione  di  P  da  M,  sarebbe  qui  agevole  il  dire,  che 
bastava  la  sostituzione  congetturale  di  «  cui  »  a  «  cuius  »  per 
avere  la  lezione  attuale  di  P.  La  colleganza  di  P  ad  M  anzi 
è  strettissima;  poiché  P  si  dimostra  influenzato  non  tanto  dal- 
l'errore di  penna  «imperati»,  quanto  anche  dalla  cattiva  corre- 
zione «  imperanti  ». 

•Più  chiaro  d'assai  è  il  secondo  esempio  datoci  dal  §  48  ('). 
Narrasi  di  san  Severino,  il  quale  udendo  intorno  a  lui  encomiarsi 
da  taluni  un  re,  e  chiedendo  di  chi  si  parlasse,  gli  fu  risposto  :  di 
Odoacre.  Nella  quale  occasione,  egli  profetizzò  che  Odoacre 
avrebbe  avuto  un  regno  di  13  oppure  14  anni. 

Eugippio  (^^  scrive  :  «  Respondentibus  :  Odoacrem,  Odoacer, 
«  inquit,  qui  integer  Inter  tredecim  ...  ».  Nel  codice  M  leggiamo: 
«  respondentibus  Odoacrem,  inquit  qui  dixit  eis  inter  tredecim  ». 
E  nel  codice  P:  «  respondentibus  Odoachrem,  qui  dixit  eis  inter 
«tredecim...».  La  soppressione  del  nome  «Odoacer»  non 
distrugge  il  senso;  tuttavia  è  poco  probabile  nel  testo  genuino 
doiV Anonymus,  mentre  era  facilissimo  che  uno  scriba  lo  ommet- 
tesse,  tratto  in  errore  dalla  precedente  voce  «  Odoacrem  ».  Ma 
assolutamente  inconcepibile  è  la  presenza  simultanea  di  «  inquit  » 
e  «  dixit  eis  »  che  vediamo  in  M.  Il  testo  è  ristabilito  in  P,  in 
modo  peraltro  da  segnare  un  distacco  da  Eugippio.  Infatti,  se 
la  voce  «  inquit  »  ricorda  il  testo  eugippiano,  la  frase  «  qui  dixit  » 
vuol  essere  derivata  da  un'altra  fonte,  questa  fonte  sarà  o  YAno- 
nymus  Valesianus  nella  sua  forma  originaria  o  piuttosto  il  compi- 
latore del  codice  M.  Quindi  concluderemo  che,  nel  passo  esa- 
minato, P  ha  quella  sola  espressione  che  vedemmo  indipendente 
da  Eugippio,  mentre  M  ha  questa  forma  avvicinata  stranamente 
con  quella  che  invece  dipende  dal  vero  e  genuino  testo  eugip- 
piano. Sembra  quindi  che  nel  codice  M  si  abbiano  le  traccie  di 
una  influenza  della  Vita  s.  Severini  eugippiana,  indipendente  da 

(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  292,  r.  20;  p.  293,  r.  17. 
(2)  Loc.  cit. 

3 


34  C.  CIPOLLA 

rimaneggiamenti.  Può  ora  cercarsi  se  all'antico  compilatore  o 
allo  scriba  del  codice  M  sia  da  attribuirsi  la  frase  «  qui  dixit  eis  », 
che  potrebbe  essere  nient'altro  che  una  interpolazione  dovuta 
all'epitomatore;  questa  è  l'opinione  del  Mommsen  ('),  la  quale 
può  offrire  alla  critica  qualche  lato  vulnerabile.  In  ogni  modo 
è  certo  quanto  ci  proponemmo  di  provare,  che  cioè  la  relazione 
tra  M  e  Eugippio  è  più  stretta,  che  non  tra  P  ed  Eugippio  (^). 
E  quindi  riesce  probabile  che  le  lezioni  «  Pannoniam  »  e  «  intuitu  » 
provengano  piuttosto  da  congettura,  che  non  da  tradizione  di- 
retta. Non  si  dimentichi  tuttavia,  che  qui  si  parla  di  probabilità 
e  non  di  certezza  ;  poiché  non  è  del  tutto  assurdo  il  supporre  che, 
sia  pure  per  caso,  in  questo  passo  il  testo  genuino  siasi  conser- 
vato, di  trascrizione  in  trascrizione,  fino  a  giungere  ad  un  mano- 
scritto, che  in  altri  e  gravi  casi  si  stacca  assai  dalla  fonte  primi- 
tiva, ovvero  siasi  per  altra  strada  presentato  al  copista  di  P.  Dico 
questo,  parlando  in  maniera  assoluta;  poiché  in  realtà  quanto  più 
approfondiamo  l'esame  della  reciproca  relazione  tra  M  e  P,  tanto 
più  chiare  ne  vediamo  le  attinenze  reciproche. 

Con  maggiore  certezza  e  ampiezza  possiamo  concedere  attitu- 
dine critica  all'antico  correttore.  Comincio  tuttavia  dall'osservare 
che,  per  quanto  posso  giudicarne,  il  correttore  di  P,  che  é  presso 
a  poco  contemporaneo  al  primo  scriba,  rivide  il  testo  che  corresse 
sopra  la  fonte  di  esso.  Me  ne  persuade  il  capitolo  78  ^'^  Qui 
il  codice  P  leggeva  originariamente  :  «  ita  ut  in  ecclesia  clama- 
«retur»,  ommettendo  la  voce  «  ei  »,  che  nel  codice  Meermann- 
Phillips  segue  ad  «ut».  Il  correttore  aggiunse  questa  voce; 
evidentemente  non  poteva  inventarla. 

Altro  esempio  del  medesimo  fatto  forse  lo  troviamo  nel 
capitolo  84,  dove  M  legge    «praecipjtari  »,   secondo  Gardthau- 

r 

(i)  Chron.  min.  p.  261. 

(2)  L'unica  ragione  seria,  o  piuttosto  speciosa,  in  contrario  potrebbe 
desumersi  dalla  voce  «  invitatus  »  del  cap.  47;  di  ciò  parleremo  trattando  delle 
divergenze  tra  M  e  P,  senza  tuttavia  giungere  ad  altro  risultato,  se  non  questo, 
che  sopra  una  sola  parola  non  si  può  costruire  un'  ipotesi  in  contraddizione 
con  dati  numerosi  ed  evidenti. 

(3)  Ed.  Gardthausen,  p.  300,  r.  22. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     35 

sen  <^'),  o  «  precipitati  »  secondo  Mommsen  ^^\  Per  render  più 
chiaro  il  senso,  lo  scriba  del  codice  P  sostituì  «  praecipitati  sunt  »  ; 
ma  il  correttore  rimise  la  voce  «  praecipitari  »  ;  né  so  se  potesse 
immaginarla  per  congetturai^').  Tuttavia  in  gran  numero  di  casi 
è  necessario  invece  ammettere  nel  correttore  un  vero  spirito  di 
ricerca  critica  e  congetturale.  Raccolgo  alcuni  esempi.  Al  §36(4) 
«  mox  venìens  Ravennam  »  leggono  M  e  P;  ma  il  correttore  di  P 
mutò  «  veniens  »  in  «  venit  »,  per  rimettere,  a  suo  giudizio,  il 
senso  ^5).  Al  §  4^  '^^^:  «sua  vertice  contingeret  »  leggono  M<^7)  e  P, 
ma  il  correttore  di  P,  secondo  la  grammatica,  cambiò  «  sua  »  in 
«suo».  Il  passo  dipende  dalla  Fifa  s.  St't'mm  di  Eugippio,  dove 
pure  abbiamo  «  suo  vertice  ».  Né  si  può  leggere  diversamente. 
Al  §  ^5  ^^\  il  codice  M  reca:  «  Eodem  tempore  intentio  orta  est  ». 
Nel  codice  P  la  terza  parola  é  «  contentio  »,  lezione  addottata 
dal  Gardthausen,  ma  non  dal  Mommsen;  ma  la  sillaba  «  con  »  vi 
é  in  rasura,  forse  di  mano  appunto  del  correttore,  e  sostituita  a 
una  sillaba  ora  illeggibile,  ma  che  assai  agevolmente  potrà  sup- 
porsi  sia  «in».  Al  §  71  <^9):  «  palatium  usque  ad  perfectum 
«  fecit,  quem  non  dedicavit  ».  Così  leggono  M  e  P,  ma  in 
quest'ultimo  codice,  il  correttore,  per  raggiustare  la  gramma- 
tica, sostituì  «quem»  con  «  quod  ».  Al  §  73  ('°)  :  «  sexaginta 
«  modios  tritici  in  solidum  ipsius  tempore  fuerunt  ».  Cosi 
legge  M,  e  così  scrisse  anche  la  prima  mano  del  codice  P.  Ma 
la    grammatica   è   offesa,   sicché   Gardthausen    trovò    opportuno 

(i)  Ed.  cit.  p.  302,  rr.  12-3. 

(2)  Ed.  cit.  p.  327^^. 

(3)  Siccome  il  Mommsen  legge  «  praecipitati  »  nel  cod.  ora  Berlinese, 
così  naturalmente  crede  che  k  praecipitari  »  sia  una  acuta  congettura  del 
correttore  di  P.     Bisognerebbe  verificare  nuovamente  la  lezione  del  codice. 

(4)  Ed,  Gardthausen,  p.  289,  r.  16;  ed.  Mommsen,  p.  306. 

(5)  Evidentemente  egli  ignorava  che  VAnonymus  usava  il  participio  in 
luogo  dell'indicativo  presente. 

(6)  Ed.  Gardthausen,  p.  292,  r.  i;  ed.  Mommsen,  p.  314. 

(7)  Secondo  Mommsen  forse  leggeva  «  suo  »  la  prima  mano  di  M. 

(8)  Ed.  Gardthausen,  p.  297,  r.  22;  ed.  Mommsen,  p.  324-5. 

(9)  Ed,  Gardthausen,  p.  298,  r.  28-9;  ed.  Mommsen,  p.  324. 
(io)  Ed.  Gardthausen,  p.  299,  r.  16-7;  ed.  Mommsen,  p.  324-7. 


36  C.  CIPOLLA 

mutare  «  fuerunt  »  in  «  emerunt  «.  Invece  nel  codice  P,  il  so- 
lito correttore  (come  pare)  cercò  di  racconciare  il  testo,  cambiando 
«  modios  »  in  a  modii  ».  Al  §  84  <^')  il  codice  M  ha  «  terre  mota 
«  frequenter  fuerunt  ».  Nel  codice  P  probabilmente  ^^^  leggevasi 
del  pari  «  terremota  »,  ma  ora  vediamo  raschiata  V  ultima  let- 
tera, e  alla  t  apposto  il  segno  di  abbreviazione  ' ,  per  indicare  la 
sillaba  us.  Ne  abbiamo  la  lezione  «  terremotus  »,  la  quale  fu 
accolta  dal  Gardthausen,  ma  non  ha  in  suo  favore  se  non  l'opi- 
nione dell'antico  critico  (5).  Al  §  87  ^^^t)  «ducti  in  custodia»  hanno 
M  e  P  ;  ma  il  correttore  del  secondo  codice  trovando  che  il  senso 
esigeva  «  sunt  »,  ve  l'aggiunse.  Al  §  stesso  (5)  «  qui  mox  » 
hanno  M  e  P.  Siccome  al  posto  di  «  qui  »  (=  Boezio),  do- 
vrebbe stare  un  accusativo,  così  già  Francesco  Rùhl  (^^  aveva 
proposto  di  sostituire  quella  parola  con  «  quem  ».  Il  correttore 
dì  P  modificò  infatti  «  qui  »  in  «  quem  ».  Gardthausen  propose 
«  moxque  ».  Al  §  89  (')  «  quibus  mihi  iniunxeris  »  hanno  M 
e  P;  ma  il  correttore  di  P,  in  grazia  della  grammatica,  mutò 
l'ablativo  «  quibus  »  nell'accusativo  «  quas  ».  Forse  la  mede- 
sima emendazione  era  stata  tentata  nel  manoscritto. 

In  parecchi  punti  la  relazione  tra  M  e  P  è  strettissima,  e  tale 
da  farci  concludere  che  non  possono  i  due  codici  considerarsi 
come  a  vicenda  indipendenti.  Qui  tuttavia  bisogna,  avanti  di 
procedere,  notare  alcune  cose. 

Nel  codice  Meermann  il  testo  primitivo  fu  corretto  da  più  mani, 
e  non  è  dello  scopo  di  queste  ricerche  l'esaminare  il  valore  critico 
delle  correzioni.    Gardthausen  ne  tenne  conto  diligente.    Il  Frick^^) 


(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  502,  r.  15;  ed.  Mommsen,  p.  326-7. 

(2)  Tuttavia    il   Mommsen   opina    clic   di    prima    mano  vi    si   leggesse 
«  terremota  «. 

(3)  E  quindi  Mommsen  legge  :  «  terre  mota  ». 

(4)  Ed.  Gardthausen,  p.  303,  r.  4;  ed.  Mommsen,  pp.  328-9. 

(5)  Ed.  Gardthausen,  p.  303,  r.  7;  ed.  Mommsen,  p.  329. 

(6)  Ucber  dm  Codex  Meermannianus  des  Anonymus  Valesianus  cit.  IV, 
368  sgg. 

(7)  Ed.  Gardthausen,  p.  503,  r.  24;  ed.  Mommsen,  p.  328. 

(8)  Op.  cit.  p.  342. 


I 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  .>     37 

invece  le  riguarda  come  assolutamente  inutili;  e  l'autorevole  giu- 
dizio del  Mommsen  non  è  guari  differente.  A  noi  possono 
tornare  utili  assai,  indipendentemente  da  ogni  questione  sulla  ri- 
costituzione del  testo  delY  Jnonymus,  per  determinare  il  grado 
di  relazione  che  intercede  tra  M  e  P;  bisogna  vedere  cioè  se  P 
riproduca  il  testo  originario  di  M,  o  le  sue  correzioni.  È  poi 
chiaro  che,  se  si  accetta  l'opinione  del  Frick,  le  correzioni  di  M 
sono  modificazioni  fatte  con  criterio  soggettivo;  e  quindi  la  loro 
concordia  con  P  proverebbe  senz'altro  che  P  attinse  proprio  dal- 
l'attuale codice  M,  e  non  da  un  testo  parallelo. 

Sono  importanti  le  coincidenze  tra  M  e  P  dove  si  tratti  di  er- 
rori di  scrittura.  Ma  è  molto  difficile  il  poter  conoscere,  almeno 
in  non  pochi  casi,  se  si  tratti  di  un  errore  di  scrittura,  ovvero  di 
una  forma  stilistica  da  attribuirsi  aW Anoìiyinus,  e~non  da  riguar- 
darsi come  una  specialità,  dirò  così,  accidentale  del  codice  M. 

Il  dottor  Frick  è  a  questo  proposito  molto  ardito.  Per  quanta 
stima  si  abbia  a  fare  dei  suoi  spogli  grammaticali,  io  dubito 
molto  che  un  linguista  possa  acquietarsi  ai  suoi  risultati.  Poiché 
egli  tien  conto  ad  un  modo  di  tutte  le  lezioni  del  codice  M  (nella 
sua  forma  primitiva)  e  non  appena  trova  una  deviazione  dalle  or- 
dinarie regole  grammaticali,  la  registra,  siccome  una  specialità; 
anzi  impHcitamente  o  esplicitamente  la  riferisce  al  testo  dell' ^wo- 
nymus.  In  questo  trovo  due  punti  nei  quali  non  saprei  seguire 
l'egregio  critico.  Prima  di  tutto  mi  pare  che  una  forma  gramma- 
ticale non  possa  stabilirsi  come  peculiare  ad  una  scrittura,  quando 
se  ne  può  citare  appena  un  esempio,  o  poco  più.  E,  in  secondo 
luogo,  sarebbe  necessario  esaminar  bene  quello  che  si  debba  at- 
tribuire al  copista;  anzi  per  poter  giungere,  in  questo  argomento, 
a  buoni  risultati,  bisognerebbe  studiare  come  nel  codice  M  siano 
stati  trattati  ^')  gii  altri  estratti  che  appartengono  a  testi  a  noi  noti 
per  altre  e  forse  migliori  fonti. 


(i)  Bisogna  peraltro  non  dimenticare  che  nel  codice  M  VAnon.  Vales.  I 
affermasi  di  mano  diversa  àalVAiioii.  ì'alcs.  II,  e  quindi  non  vale  forse  il  me- 
desimo criterio  per  i  due  testi.  Della  mano  stessa,  che  scrisse  VAnon.  Vales,  II, 
sono  i  pochi  frammenti  della  HisL  Langoh.  di  Paolo  Diacono,  che  furono 


38  C.  CIPOLLA 

Era  indispensabile  che  il  Frick,  quando  studiava  una  data  forma 
linguistica,  esaminasse  se  essa  ricorre  sempre  nei  medesimi  casi, 
o  almeno  di  sovente;  poiché  incontrandola  appena  qualche  volta 
e  contraddetta  dall'uso  ordinario,  si  ha  qualche  arca^  Xsyójisvov  che 
non  dice  nulla. 

Alcune  forme  dal  Frick  messe  in  rilievo,  temo  che  abbiano 
pochissimo  valore.  E,  per  principiare  dalla  prima,  egli  nota  il 
genitivo  singolare  della  prima  declinazione  «Rome»,  «terre», 
senza  il  dittongo  se.  È  una  peculiarità  ortografica  e  non  altro. 
Come  esempio  di  ablativo  singolare  della  prima  declinazione 
in  -am  cita  dall' Anonymus  /,  §  21,  «  vastata  -  Moessiam  »,  dove  il 
testo  completo  ha:  «  vastata  Trachia  et  Moessiam  »,  ed  è  age- 
vole il  supporre  che  la  finale  -m,  rappresentata  da  una  linea  d'ab- 
breviazione sovrapposta  all'ultima  a,  non  sia  che  un  errore  di 
scrittura  <^'). 

Altri  fatti  di  simile  natura  si  possono  addurre  qui,  sceglien- 
doh  tra  le  citazioni  del  Frick.  Egli  ammette,  per  la  quinta  de- 
clinazione, l'ablativo  singolare  «  diem  »  citando  §  73,  p.  299, 
r.  16,  Mommsen,  p.  324 3^;  potea  aggiungere  anche  §  5^,  p.  295, 


collazionati  coU'edizione  Muratoriana  da  G.  E.  Pertz.  Ma  è  di  già  un  elemento 
di  dubbiezza  il  fatto  di  una  collazione  con  una  stampa;  eppoi  la  collazione 
stessa  ci  è  nota  solamente  dai  pochi  passi,  scelti  e  comunicati  dal  Waitz  nella 
sua  edizione  di  detta  Historia  di  Paolo.  Si  sa  che  nell'apparato  critico  a  quel 
testo  il  Waitz  non  riproduce  tutte  le  varianti  dei  vari  codici,  ma  solo  quelle 
che  gli  parvero  caratteristiche.  Tuttavia  vi  trovai  a  notare  l'accusativo 
«  omniaque  tempora  »  (Paolo,  lib.  II,  cap.  i)  (=  «  omni  tempore  »)  che  ri- 
sponde a  «  totum  modum,  o  «  totum  modo  »  (=  «  omni  modo  »)  del  cod.  M 
(ed.  Gardthausen,  p.  299,  r.  13;  ed.  Mommsen,  324-536),  di  cui  parlò  Frick, 
op.  cit.  p.  346.  Anche  nella  Historia  di  Paolo  intervenne  l'opera  del  cor- 
rettore, come  vedesi  nelle  note  al  lib.  II,  cap.  4;  dove  il  cod.  leggeva  «  lusti- 
«  niano  »,  il  correttore  mutò  in  «  Instino  ».  Avverto  che  il  Mommsen  (p.  6) 
attribuisce  all'cpitomatore  certe  curiose  forme  sgrammaticate. 

(i)  Escludendo  un  errore  di  scrittura  in  questa  o  altra  frase  simile 
(§  63,  «  accepta  uxorem  »),  si  può  supporre  un  falso  accusativo  in  «  Moes- 
«  siam  »  e  «uxorem»,  quasi  fossero  voci  rette  dai  rispettivi  participi;  ma 
non  parmi  sia  il  caso  di  parlare  di  un  ablativo  singolare  in  -am.  Ai  luoghi 
citati  il  MoM.MSEN  non  riferisce  neppure  le  lezioni  «  Moessiam  »  e  «  uxorem  ». 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     39 

r.  4,  Mommsen,  p.  320  '^.  Ma  dovea  anche  notare  che  altrove  (') 
si  ha  «  die  ».  Si  sa  come  si  scriveva  nel  ix  secolo;  or  bene  come 
puossi  distinguere,  senza  prove  sicure,  ciò  che  addebiteremo  al 
copista  o  all'  excerptatore,  e  ciò  che  faremo  risalire  all'originale  ? 

Parlando  della  seconda  declinazione,  Frick  cita  un  genitivo 
in  -iae  invece  che  in  -ii,  in  «  Dalmatiae  »  per  «  Dalmatii  »  ;  ma 
ognun  vede  che  qui  il  copista  confuse  Tusitatissimo  nome  della 
regione,  col  meno  comune  nome  personale. 

Questo  tuttavia  non  impedisce  di  ammettere  che  in  altri  punti 
il  Frick  non  dica  giusto.  Quando  dimostra  che  in  molti  e  molti 
luoghi  VAnonymus  II  forma  l'accusativo  singolare  della  seconda 
declinazione  in  -o,  sembra  cogliere  nel  segno,  tanto  più  che  si 
tratta  di  un  idiotismo  abbastanza  comune.  Non  so  se  riferire 
alla  fonte  la  frase  «  totum  modo  »  per  «  omni  modo  »  ^^\  che 
leggesi  nel  testo  primitivo  di  M,  quantunque  un  correttore  ve 
l'abbia  cancellata.  Gli  daremo  ragione  quando  trova  da  notare 
con  molta  frequenza  in  Anonymus  II 1'  accusativo  singolare  in  -e 
(senza  la  m).  Forse  può  non  aver  torto  dando  importanza  ai 
tre  esempi  (3)  di  «  Ravennatis  »  per  «Ravennae».  Più  probabil- 
mente avrà  ragione  segnando  «  comis  »  per  «  cometes  »  (*),  dove 
dubitando  che  altri  lo  tratti  da  fantastico,  rimanda  a  due  luoghi 
di  Agnello  Ravennate,  in  cui  s'incontra  l'identica  forma;  può  tut- 
tavia osservarsi  che  VAnonymus  II  spetta  alla  metà  incirca  del  vi 
secolo,  mentre  Agnello  è  d'assai  posteriore.  Qualche  sicurezza  ho 
quando  trovo  scambiato  il  genere  alle  voci  «  corpus  »,  «  saxum  », 
«  edictum  »,  «  palatium  »  (5)^  quantunque  siasi  sempre  nell'incer- 

(i)  Ed.  Gardthausen,  §  74,  p.  299,  r.  22  (M.  324"^);  §  94,  p.  304,  r.  24 
(M.  328^°);  §  95,p.  305,  r.  3  (M.  328^^). 

(2)  Ed.  Gardthausen,  §  73,  p.  299,  r.  13  (M.  324-536).  Mommsen  legge: 
«  totum  modo  »,  e  Gardthausen  :  «  totum  modum  ». 

(3)  Ed.  Gardthausen,  §  81-2, p.  301,  rr.  io  e  20  (M.  326-7^",  3263^); 
§  84,  p.  302,  r.  IO  (M.  327"'). 

(4)  Ed.  Gardthausen,  §  84,  p.  302,  r.  14  (M.  326-7 ''3). 

(5)  Ed.  Gardthausen,  §93,  p,  304,  r.  21  (M.  3283S);  ^  ^5^  p.  ^05,  r.  8 
(M.  328 '^§);  §  60,  p.  296,  r.  2  (M.  322-3 '^^  dove  si  propone  di  leggere: 
«  quo  ius  »  in  luogo  di  «  quem  eius  »  del  codice  M);  §  71,  p.  298,  r.  28 
(M.  324^5). 


40  C.  CIPOLLA 

tezza.  Il  Mommsen  <^')  è  disposto  ad  attribuire  tutte  queste  forme 
all'epitomatore  o  allo  scriba.  Più  probabilmente  ha  ragione  il 
Frick,  quando  lo  segnala  scambio  di  «  sui  »  per  «  eius  »,  «  ipse  » 
per  «  hic  »,  «  erit  »  per  «  fuerit  ».  Ma  anche  nei  verbi  non 
sempre  dice  giusto,  e  non  ha  valore  l'esempio  di  «  vinctus  »  per 
«  victus  »  ch'egli  rilevò  neW Anonymus  VaUsianus  I  (^). 

L'uso  del  relativo  «  qui  »  per  «  que  »  occorre  più  volte  (5). 
Il  Frick  poteva  anche  aggiungere  che  qui  si  tratta  di  non  raro 
idiotismo.  Poiché  una  grave  deficienza  negli  spogli  del  Frick  è  la 
quasi  completa  mancanza  di  ogni  confronto  con  la  lingua  usata 
dagli  scrittori  che  si  possono  considerare  presso  a  poco  come  con- 
temporanei all'  Anonymus  IL  Un  esempio  ne  reca  una  iscrizione 
testé  pubblicata  dal  chiarissimo  G.  Gatti  '^4).  Tuttavia  il  Frick 
doveva  citare  che  altrove  (5)  si  ha  proprio  «  que  »,  senza  va- 
rianti. Ben  facilmente  dobbiamo  dargli  ragione,  quando  (^^  mette 
innanzi  l'uso  singolare  delle  costruzioni  participiali.  E  infatti 
troviamo  «  veniens  »  per  «  venit  ».  Ne  parleremo  in  appresso. 
Qui  peraltro  noto  che  anche  in  questo  campo  non  bisogna  esa- 
gerare. Si  trova  anche  «  accepta  fide  »  (?)  come  un  vero  abla- 
tivo assoluto. 

Di  qui  si  comprende  coni'  io  stimi  che  le  deduzioni  del  Frick 
non  possano  accettarsi  senza  molte  e  molte  restrizioni. 


(i)  Chroii.  min.  p.  262. 

(2)  Ed.  Gardthausen,  §  12,  p.  285,  r.  12  (M.  8 '9). 

(3)  Ed.  Gardthausen,  §  58,  p.  295,  r.  16  (M.  323');  §  62,  p.  297, 
rr.    3  e  6  (M.  322-337.39);  §  62,  p.  296,  r.  28  (M.  322-336). 

(4)  Bulleitino  della  Commissione  archeologica  comunale  di  Roma,  Roma, 
1891,  XIX,  77.  «  Quemdam  curtem  nostrani  »  dice  Lotario  I  in  un  diploma 
del  4  maggio  839  (Muratori,  Anlicj.  hai.  I,  579-80).  Un  altro  esempio  mi 
si  presenta  in  una  iscrizione  di  Acqui  in  Piemonte  :  f  hic  req.viescit  in 
pace  I  B.  M.  maria  Q.VI  vixiT  |  IN  HOC  SECVLO  |  &c.  C.  I.  L.  V,  2,  n.  7 5  29  5 
Cazzerà,  Iscrizioni  cristiane  del  Piemonte,  Torino,  p.  63  ;  lozzi,  //  Piemonte 
sacro,  Acqui,  I,  33. 

(5)  Ed.  Cardthausen,  §  62,  p.  296,  r,  20  (M.  3223°);  §  84,  p.  302, 
r.  14  (M.  326^3). 

(6)  Op.  cit.  pp.  3^16-7, 

(7)  Ed.  Gardthausen,  §  54,  p.  294,  r.  25  (M.  3203). 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »    41 

Ora  comincerò  dal  raccogliere  le  principali  somiglianze  fra 
M  e  P,  tenendo  d'occhio  a  sfuggire  quei  punti  che  il  Frick  ha 
con  minore  insuccesso  tentato  di  provare  essere  peculiarità  hn- 
guistiche  da  attribuirsi  alla  fonte  stessa,  nella  più  antica  sua  forma. 

Gap.  37,  p.  290,  r.  3  (M.  308  '^  che  congettura:  «Scirorum») 
«  Cyrorum  »  M  P.  Gap.  45,  291,  22  (M.  314^^,  che  congettura 
«  regno  »):  «  in  regnum  »  M  P.  Gap.  45,  291,  21  (M.  314^^) 
«  deposito  ))  M""  P  (').  Gap.  46,  292,  i  (M.  314^'^):  «  sua  ver- 
«  tice  »  M  P,  salvo  che  il  correttore  di  P  mutò  in  «  suo».W 
Frick  adduce  questo  passo,  come  unico  esempio  di  un  maschile 
mutato  in  femminile.  Ma  perchè  non  pensare  a  un  errore  di 
penna  ?  Il  passo  è  la  trascrizione  di  un  brano  della  Fita  s.  Se- 
verini  di  Eugippio  dove  pure  leggiamo:  «  suo  ».  Gap.  46, 
292,  2  (M.  3 14 3''):  «  incHnasset  »  P  M,  senza  «  se  »,  pronome 
richiesto  dal  senso  e  che  non  manca  nel  luogo  corrispondente 
della  Vita  s.  Severini  di  Eugippio  ^^\  Gap.  46,  292,  3  (M.  315  '): 
«  gloriosum  se  (corr.  «  esse»)  forte  cognovit  »  M;  «  gloriosum 
«  esse  forete  cognovit  »  P,  ma  colla  prima  e  di  «  forete  »  raschiata, 
così  da  leggersi  «  forte  ».  La  lezione  genuina  è  presto  so- 
stituita a  mezzo  del  testo  di  Eugippio:  «  se  fore  ».  Gap.  46, 
292,  3  (M.  315'):  «inquid»  M' P.  Gap.  48,  293,  i  (M.  315^), 
la  voce  «  integer  »,  che  si  trova  nel  corrispondente  passo  della 
Vita  s.  Severini  di  Eugippio,  venne  ommessa  da  ambedue  i  ma- 
noscritti. Gap.  50,  293,  13:  «  At  vero  Odoacer  («Odoachar»  P)  » 
M'  P,  «  Et  »  M'.  Gap.  ^3,  294,  15  (M.  31(3^°):  «  Festum  »  M  P, 
in  luogo  forse  di  «  Faustum  »,  voce  congetturata  da  tutti  gli  edi- 
tori, tranne  che  dal  Mommsen  ('^\     Gap.  53-4,  294,  12  (M.  316^^, 

(i)  In  M  di  prima  mano  leggesi:  «  deposi...  ». 

(2)  Se  stiamo  al  Mommsen,  la  prima  mano  di  M  forse  leggeva  :  «  suo  »  ; 
ma  egli  crede  che  P  legga  senz'altro:  «  suo  »,  e  non  distingue  la  lezione 
originaria  dalla  correzione. 

(3)  Mommsen,  per  congettura,  aggiunge  il  «  se  ». 

(4)  In  questo  medesimo  cap.  53,  p.  294,  r.  6,  ambedue  i  codici  leggono 
«  Cremona  »,  dove  Holder-Egger,  N.  Archiv,  I,  319,  crede  si  debba  leg- 
gere «Ravenna».  Egli  dice  che,  pur  secondo  l'attestazione  dell'.'Z/iOH.  Teo- 
derico  prima  era  andato  a  Ravenna  e  di  là  doveva  muovere  verso  Milano.     Ma 

3* 


42  e.  CIPOLLA 


318^)  e  19:  «Pineta»  M^  (sostituito  a  «  Peneta  »  o  «  Penita  »), 
«  Pineta,  Pinneta  »  P.  Gap.  54,  294,  22  :  «  in  fluvio  Vccente  »  M, 
«  in  fluvio  Vecentc  »  P  ^'\  Secondo  Gardtliausen  e  Mommsen  de- 
vesi leggere:  «in fluvio  Sedente».  Gap.  60,295,21  (M.  322-3") 
«  perperam  »  M'  (?)  P,  «  perpere  »  M\  Gap.  62,  297,  9 
«  dum»  M  P,  forse  per  «  tum  ».  Gap.  65,  297,  22  (M.  324') 
«  intentio  »  M;  se  ora  P  ha  «  contentio  »,  le  prime  lettere  cont 
sono,  come  pare,  del  correttore,  sicché  sembra  che  la  lezione  ori- 
ginaria anche  di  questo  codice  fosse  «intentio».  Gardthausen 
accettò  «  contentio  »,  lezione  che  peraltro  si  dovrà  riguardare 
niente  più  che  come  una  congettura  dell'antico  scriba  veronese  W. 
Gap.  65,  297,  24  (M.  324-5  ""):  «  ei  »  M  P,  in  luogo  di  «  eo  », 
o  di  «  et»  delle  edizioni.  Gap.  66,  298,  4  (M.  324-5'):  «  in- 
«  violabiHter  »  M^  P.  Gap.  73,  299,  17  e  18  (M.  324-5  ''^■^):  «mo- 
«  dios  tritici .  . .  fuerunt  et  vinum  triginta  anforas  »  M  P,  ma  il 
correttore  di  P  mutò  «  modios  »  in  «  modii  »  e  «  anforas  » 
in  «  anfore  ».  Frick  invece  conserva  i  due  accusativi  e  li  dà 
come  esempio,  ma  unico,  di  un  accusativo  per  un  nominativo. 
Gardthausen  mutò  «  fuerunt  »  in  «  emerunt  ».  Gap.  74,  299,  23 
(M.  324-5"^):  «  infra  »  M^  P.  Gap.  74,  299,  28  -  300,  i 
(M.  324-5  ^^y.  «  se  («  sae  »  M)  conlocaverunt  »  M*  P  (5).  Gap.  81, 
301,11:  «  laudent  »  M  (cioè  la  lezione  originaria),  «  ludent  » 
M",  «  ludunt  »  P  f^^).  Gap.  82,  301,  23  (M.  326^3):  «  frustati  » 
M,«  frustrati»  P;  Enrico  Valesio  aveva  proposto  «  fustati  »,  ora 


tale  ragione  per  escludere  «  Cremona  »  vale  solo  fino  a  un  certo  punto, 
poiché  non  è  provato  che  Teoderico  da  Ravenna  non  potesse  essere  venuto 
a  Cremona.  La  condizione  lacunosa  del  testo  lascia  luogo  a  simili  dubbi, 
(i)  Gardthausen  registra  «  Uecente  »  come  lezione  di  ambedue  i  ma- 
noscritti. Nel  cod.  P  la  seconda  e  la  terza  e  sono  cedigliate;  non  posso 
controllare  la  lezione  esatta  di  M  se  non  colle  testimonianze  del  Gardthausen 
e  del  Mommsen. 

(2)  Con  ragione  il  Mommsen  mantiene  «  intentio  ». 

(3)  Secondo  Gardthausen  la  seconda  mano  di  M  legge:  «  saec...l[o]- 
«  caverunt  »,  e  la  prima  :  «  culucaverunt  (?)  ».  Secondo  Mommsen  la  seconda: 
«  saelòcaverunt »,  e  la  prima:  «  saeculicaverunt  ». 

(4)  Seguo  qui  la  lezione  di  Mommsen,  mentre  quella  divergente  di 
Gardthausen  è  poco  chiara. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     43 

il  Mommsen,  adducendo  un  esempio  tolto  dall'editto  di  Liut- 
prando,  conferma  «  frustati  ».  Gap.  82,  301,  24  (M.  326-7-"): 
«  Euthericum  »  M;  «  Eutherico  »  P,  ma  forse  con  traccia  di 
correzione  in  fine  alla  voce.  <^')  Gap.  84,  302,  14  (M.  326-7 '*3): 
«  pendens  »  M  P,  che  parmi  errore  per  «splendens».  Ho  pen- 
sato se  ci  fosse  modo  di  difendere  «  pendens  »,  quasi  la  stella 
pendesse,  così  come  «  imminebat  »  la  luna  descritta  da  Orazio. 
Ma  non  so  decidermi  ad  ammettere  un  traslato  di  tanta  arditezza. 
L'avrei  accettato,  se  fosse  stato  possibile  difenderlo  con  qualche 
raffronto  biblico,  e  specialmente  colla  stella  apparsa  ai  re  magi. 
L'unico  passo  che  qui  potrebbe  addursi  è  Matteo,  11,  9  :  «  Stella 
«  quam  viderant  in  Oriente,  antecedebat  eos,  usquedum  veniens 
«  staret  supra,  ubi  erat  puer  »  .  Così  nella  volgata;  ma  lo  «  staret 
«  supra  »  dell'Evangelo  ha  ben  altro  motivo  di  essere,  che  non 
il  «  pendens  »  dei  nostri  codici.  Siccome  è  opinione  di  alcuni, 
anche  gravi  scrittori,  come  il  Pallmann,  che  YAnonymus  Vaìesianus 
abbia  forse  scritto  in  Verona,  cosi  cercai  se  la  versio  Feronensis  ^''> 
desse  qui  qualche  lezione  che  facesse  per  noi  ;  ma  nel  luogo  che 
c'interessa  essa  dice,  con  poca  differenza  dalla  volgata,  solamente 
cosi:  «  usquedum  venit  et  stetit  supra  puerum  ».  Il  Mommsen 
accettò  il  «  pendens  »  dei  codici,  ma  senza  sufìragarlo  con  raf- 
fronti. Gap.  84,  302,  15  (M.  326-7"*):  «terremota»  M;  P 
nella  prima  lezione  avea:  «  terre  mot..  »,  dove  la  lettera  finale 
era  forse  a  od  u,  ma  fu  raschiata  dal  correttore  per  sostituirla  col 
segno  d'abbreviazione  indicante  us  =  «  terremotus  ».  M'  :  «  terre 
«mota»  ed  M^:  «terre  motu».  Gap.  86,  303,  i  (M.  328-9"): 
«  rex  dolum  Romanis  tenebat  »  iM  P,  che  reputasi  un  errore  per 
«  tendebat  »,  lezione  per  la  prima  volta  proposta  da  Adriano  Va- 
lesio  ed  ora  seguita  anche  dal  Mommsen.  Per  bene  apprezzare 
il  valore  di  questo  luogo  bisogna  avvertire  che  qui  Y Anonymus 
Vaìesianus,  scrivendo  «  sed  rex  dolum  Romanis  ten[d]ebat  et 
«  querebat  quem  ad  modum  eos  interficeret  »  (p.  303,  r.  1-2; 
M.  328-9 '^"J),  copia  le  parole  evangehche  riguardanti  le  macchina- 


(i)  Mommsen  crede  che  l'originaria  lezione  di  P  fosse:  «  Eutherico  ». 
(2)  Ed.  Bianchini,  Evang.  quadruplex,  1,  1,9. 


44  C.  CIPOLLA 

zioni  dei  sacerdoti  giudaici  contro  Gesù  Cristo.  Matteo,  xxvi, 
4,  scrive:  «  et  consilium  fecerunt  ut  lesum  dolo  tenerent,  et 
«  occiderent  » .  Marco,  xiv,  i  :  «  et  querebant  summi  sa- 
«  cerdotes  et  scriba  quomodo  eum  dolo  tenerent  et  occide- 
«  rent  » .  Luca,  xxir,  2  :  «  et  querebant  principes  sacerdo- 
«  tum  et  scribe,  quomodo  lesum  interficerent  ».  Stanno  bene 
il  «  tenere  »  e  il  «  dolum  »,  ma  con  queste  due  voci  Y Anonymus 
dovea  dire:  «  dolo  Romanos  tenebat  ».  Non  so  se  uno  scrit- 
tore cosi  scorretto  come  il  nostro  anonimo  non  potesse  fare  una 
simile  confusione.  Ma  è  più  probabile  ammettere  che  il  testo  pri- 
mitivo o  avesse  «  rex  dolo  Romanos  tenebat  »  o,  come  era  più 
rispondente  al  senso  voluto  dall'autore,  scrivesse  bensì  «  rex 
«  dolum  Romanis  »,  ma  a  «  tenebat  »  sostituisse  qualche  altro 
vocabolo.  E  quest'  altra  parola  potea  essere  anche  «  tende- 
«  bat».  Nulla  del  resto  di  più  facile  che  l'excerptatore  o  un  co- 
pista, sentendosi  risonare  nell'orecchio  la  nota  frase  evangelica, 
ce  l'abbia  rimessa  qui  tutta  intera,  senza  curarsi  che  il  senso  ne 
andasse  sciupato.  Gap.  87,  303,  7  (M.  328-9^):  «  Qui  mox  » 
M  P,  dove  il  correttore  di  P  modificò  l'ultima  lettera  di  «  qui  »  ri- 
ducendola, pare,  ad  una  e,  col  segno  di  abbreviazione  (=  «  quem  »). 
Frick  sostiene  «  qui  »  e  lo  dà  come  unico  esempio  del  relativo 
nominativo  in  luogo  del  relativo  accusativo.  Gli  altri  critici  in- 
vece, e  credo  con  più  di  ragione,  s'industriano  di  emendare  il 
testo  corretto;  anche  Mommsen  legge:  «  quem  »  (').  Gap.  88, 
303,  12  (M.  328-9'^):  «  ex  Ravenna  »  M  P  ^'^'>,  dove  è  certo 
da  leggersi:  «  rex  Ravennam  »  o  «  Ravenna  »,  perchè  si  tratta 
ivi  di  dire  che  Teoderico  si  recò  a  Ravenna,  dove  chiamò  alla 
sua  presenza  il  pontefice  Giovanni  I.  Gap.  89,  303, 24  (M.  328-9''°): 
«  quibus  »   M  P  (5)j  che  il  correttore  di  P  sostituì  con  «  quas  ». 

(i)  Se  una  congettura  del  Mommsen  fosse  sicura,  potremmo  qui  segnare 
anche:  Gap.  87,  303,  8  (M.  328-91'°):  «  misìt  rex  et  fecit  »  M  P,  in  luogo 
di  :  <f  misere  fecit  ». 

(2)  Per  scrupolo  di  esattezza  avverto  che  P  legge:  «  exrauen  na  ».  Pe- 
raltro si  noti  che  certi  distacchi  di  sillabe,  anche  non  giustificati,  sono  ab- 
bastanza comuni  in  quel  ms.,  ma  non  hanno  alcun  valore. 

(3)  Secondo  Mommsen  forse  il  correttore  di  M  uvea  già  segnato  «  quas  ». 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «    45 

Suppongo  che  «  quibiis  »  sia  un  errore,  in  cui  incappò  l'excerpta- 
tore  o  un  copista,  ingannato  dalle  precedenti  parole:  «  in  aliis 
«  causis  »  (0.  Gap.  92,  304,  io  (M.  328-9^°):  «  dolo  »  M  P, 
errore  manifesto  per  «  dolore  »  (^).  Gap.  93,  304,  12  (M.  328-9^*): 
«  igitur  »  IVr  P.  Gap.  93,  304,  17  (M.  328^'):  «  pervenisset  » 
M  P.  Zangemeister  propose  e  Gardthausen  accettò  «  pervenis- 
«  sent  »,  ma  è  sostenibile  «  pervenisset  »,  come  legge  il  Momm- 
sen,  il  quale  poi  sostituisce  a  «  lectus  »  (G.  304,  17;  M.  328-9^'), 
dato  da  M  P,  «  latus  ». 

Di  fronte  a  questi  punti  di  contatto,  abbiamo  da  registrare 
anche  parecchie  notevoH  divergenze.  A  diminuirle,  possono  farsi 
alcune  supposizioni  a  seconda  dei  casi:  errori  di  scrittura,  con- 
getture critiche  &c.  Giovano  queste  supposizioni  ad  avvicinare  il 
codice  P  al  codice  M  ?  Al  lettore  il  giudizio.  Noi  citeremo  una 
serie  di  fatti. 

Gominciamo  dal  cap.  45,  p.  291,  r.  25  (M.  314^°):  «  eius  »  M, 
«  ei  »  P.  Il  senso  è  migliore  con  «  eius  »,  ma  anche  «  ei  » 
non  è  un  assurdo.  Può  facilmente  supporsi  la  ommissione  del 
segno  abbreviativo  dopo  «  ei  ».  Gap.  4^,  292,  3  (M.  315'): 
v(  vade  dicenti  »  M,  «  vale  dicenti  »  P.  La  voce  «  vade  »  è  un 
errore  manifesto.  Gap.  47,  292,  5  (M.  315^):  «  interim  »  M, 
«  igitur  »  P.  Gap.  47,  292,  ii~2  (M.  315  ^■7):  «  per  litteras 
«  invitatur  »  M,  «  invitatus  »  P.  Si  può  supporre  una  facile  con- 
gettura di  P  ;  tuttavia  è  notevole  che  legge  «  invitatus  »  anche  la 
Fifa  s.  Sevcrinl  di  Eugippio,  della  quale  non  apparisce  che  lo 
scriba  del  codice  P  abbia  fatto  uso  diretto.  Gap.  48,  292,  20-293, 
I  (M.  3 15  '5"4)  :  «  inquit  qui  dixit  eis  »  M,  «  qui  dixit  eis  »  P,  dove 
il  codice  P  sopprimendo  la  voce  «  inquit  »,  che  sembra  dipendere 
direttamente  dal  testo  di  Eugippio,  mostra  di  non  aver  cono- 
scenza di  quest'ultimo  scrittore.     Gap.  62,  296,  15  (M.  322-3  ^'): 


(i)  Il  MoMMSEN  accetta  «  quibus  »,  come  lezione  esatta. 

(2)  Nel  Lexicon  del  De  Vit,  II,  780,  si  troverà  citata  una  iscrizione  na- 
poletana in  cui  è  dubbio  se  la  voce  «  dolus  »  sia  stata  adoperata  in  luogo 
di  «  dolor  ».  Ma,  fosse  anche  certo,  ciò  che  è  dubbioso,  questo  non  sa- 
rebbe sufficiente  a  giustificare  il  passo  dell'^MO».  Falcs.,qua.\e  è  dato  dai  due  mss. 


46  C.  CIPOLLA 

«  quaequo  »  M,  «  qui  quoquo  »  P.  Gardthausen  legge  «  quoquo  » , 
e  lo  segue  il  Mommsen.  Gap.  62,  29(3,  16  (M.  322  ^^):  «  sponde- 
«rat»  M,  «  spoponderat  »  P,  con  facile  congettura.  Gap.  ^2,296,21 
(M.  322  3°):  «  ad  »  M,  «  at  »  P  ('>.  Gap.  62,  297,  i  (M.  322-3  3*^): 
«  conspec  »  M  (rimanendo,  alla  fine  della  pagina,  tronca  la  voce), 
«  conspectu  »  P.  Gap.  62,  297,  5  (M.  322-3  ^^)  :  «  in  curibus  » 
M  <^^),  «  in  curia  »  P  <^3),  Gap.  62,  297,  io  (M.  322-3"'):  «  pol- 
«  litus  »  M,  «  poUicitus  »  P.  Gap.  63,  297,  15:  «  Arevagni  » 
M,  «  Areécagni»  P  (con  patente  errore  di  lettura).  Gap.  ^3,  297, 
17  (M.  322-3"^):  «  Gundebai  »  M,  «  Gundebaudi  »  P.  Gap.  6^, 
297,  25  (ìM.  324-5"):  «  facta  pace  »  M,  «  post  factam  pacem  » 
P,  modificazione  stilistica  che  Gardthausen,  credo  inopportuna- 
mente, adottò  nel  suo  testo.  Frick  la  riguarda  come  un  bel- 
l'esempio dell'  uso  del  participio  peculiare  al  nostro  scrittore. 
Anche  Mommsen  legge:  «  post  facta  pace  ».  Gap.  75,  300,  5 
(M.  32^-7'):  «  qui  »  M,  «  quis  »  P.  Gap.  75,  300,  io 
(M.  326-73):  «  potes  te  »  M,  «  post  te  »  P.  Gap.  78,  300,  23 
(M.  326-7'''):  «  in  trinitate  lanceola  non  mittis  »  M,  «  in  trini- 
«  tatem  lanceolam  mittis  »  P;  la  diversità  più  grave,  in  ap- 
parenza almeno,  consiste  nella  ommissione  della  negativa  «  non  » , 
poiché  l'accusativo  sostituito  all'  ablativo  può  provenire  da  con- 
gettura. Ma  anche  la  ommissione  di  «  non  »,  non  è  poi  cosa 
di  rilievo;  poiché,  se  si  osserva,  mettasi  o  no  la  «  non  »,  il  senso 
resta  quello;  muta  appena  il  modo,  non  la  sostanza  della  espres- 
sione. Gap.  81,  301,  Il  (M.  326-7^^):  «  laudent  »  M, corretto  in: 
«ludent»;  «ludunt»  P.  Gardthausen  accettò  quest'ultima  le- 
zione, ma  il  senso  manca  con  tutte  del  pari.  Mommsen,  aderendo 
all'opinione  del  Gardthausen,  riconosce  incerto  il  passo.  Gap.  82, 
301,  24  (M.  3 26-7  3"):  «  data  praecepta  »  M,  «  dato  precepto  »  P. 
Gardthausen  preferì  questa  seconda  lezione,  ma  non  so  se  abbia 

(i)  Mommsen,  non  nota  la  variante:  «  ad  ». 

(2)  Secondo  Mommsen  qui  M  legge:  «  in  curibus  »,  ma  secondo  Gardt 
HAUSEN  legge:  «  in  auribus  ». 

(3)  Frick,  op.  cit.  p.  342,  riguarda  «  in  curia  »  come  un'arbitraria  mu- 
tazione dovuta  a  P,  e  conferma  la  lezione  attribuita  ad  M,  rammentando 
la  frase  «  auribus  intimare  »  che  si  legge  presso  Marziano  Capella  ed  altri. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     47 

scelto  bene.  La  frase  «  data  praecepta  «  forse  presuppone  il  verbo 
«  sunt  »  '^^\  ommesso  frequentemente  dal  nostro  scrittore.  Am- 
mettendo solamente  tale  oramissione,  il  plurale  «  data  praecepta  » 
meglio  si  accorda  col  Eitto  che  il  comando  fu  dato  a  più  persone  ; 
né  basta,  poiché  con  «  data  praecepta  »  siamo  costretti  a  formare 
una  proposizione  a  sé  fino  ad  «  episcopum  »,  staccandone  quanto 
segue  :  «  secundum  hunc  tenorem  praecepit,  et  ita  adimpletum 
«est»  (ed.  Gardt.  p.  302,  r.  1-2;  ed.  Mommsen,  p.  526  3^)  (^),  e 
in  ciò  si  ha  un  vantaggio,  poiché  viene  tolta  la  difficoltà  prove- 
niente dalla  ripetizione  del  concetto  di  comandare,  nella  mede- 
sima proposizione.  Gap.  83,  302,  3  (M.  32^-72^):  «diabolus» 
M,  «  malignus  »  P.  Gap.  85,  302,  17  (M.  32^-7'*'):  «  inventa» 
M,  «  facta  »  P  :  quest'  ultima  lezione  é  un  manifesto  errore. 
Gap.  95,  305,  2  (M.  328-9 '^3):  «  fluxu  »  M,  «  qui  fluxu  »  P, 
dove  Gardthausen,  seguito  dal  Mommsen,  propone:  «  fluxum  ». 
Vi  si  oppone  Frick.  Gap.  95,  305,  3  (M.  328-9'''*):  «  quo  re 
«  gaudebat  »  M;  nel  codice  P  dapprima  erasi  scritto  semplicemente: 
«  quo  gaudebat  »,  ma  poi,  fra  queste  due  voci,  forse  di  mano 
del  correttore,  fu  aggiunto:  «  se  ».  E  «  se  »  accettano  Gardt- 
hausen e  Mommsen,  quantunque  il  senso  zoppichi.  L'autore 
vuol  significare  che  Teoderico  perdette  il  regno  e  la  vita  nel 
giorno  medesimo  «  quo  (se)  gaudebat  ecclesias  invadere  »,  in 
conformità  agU  ordini  da  lui  impartiti.  Ora  é  chiaro  che  il 
pronome  «se»  ha  poca  ragione  di  essere.  Gap.  96,  305,  5  (M. 
328-9  *'^)  :  «  exalaret  »  M,  «  animam  exalaret  »  P.  Gap.  96,  305,  8 
(M.  328-9"^):  «  saxum  ingentem  quem  »  M,  «  saxum  ingentem 
«  (corretto  in  «  ingens  »  ;  ma  di  qual  mano  ?)  quod  »   P. 

In  questo  elenco  abbiamo  trascurato  parecchie  divergenze  di 
minor  conto. 

Adesso  che  il  lettore  ha  sott'  occhio,  in  due  quadri,  le  diver- 
genze e  le  somiglianze  più  rilevanti,  che  disgiungono  e  avvici- 


(i)  Invece  Frick  crede  che  l'autore  abbia  assunto  «  praeceptum  »  come 
nome  di  genere  femminile. 

(2)  Il  Mommsen  (326-735)  vorrebbe  formare  una  sola  proposizione  sino 
ad  «  adimpletum  »  sopprimendo  «  praecepit  »,  e,  al  fine,  «  est  ». 


48  C.  CIPOLLA 

nano  i  due  manoscritti,  potrà  darne  un  giudizio  da  sé.  Risalta 
subito,  elle  le  somiglianze  sono  quanto  numerose,  altrettanto  con- 
cludenti. Poiché  si  spingono  fino  alla  riproduzione  di  una  lunga 
serie  di  errori,  di  sviste,  di  accidenti  grafici.  Non  così  può 
dirsi  delle  dissomiglianze,  delle  quali  niuna  forse  è  tale  da  costi- 
tuire una  prova  indiscutibile  per  separare  i  due  testi.  In  qualche 
luogo  abbiamo  sostituzione  di  parole,  come  (§  83)  «  malignus  » 
in  luogo  di  «  diabolus  »  &c.  ;  ma  che  cosa  concluderne  ?  Quando 
P  legge  «  facta  occasione  »  (§  85)  in  luogo  di  «  inventa  occa- 
«  sione  »,  che  è  la  lezione  di  M,  non  possiamo  pensare  se  non  ad 
un  lapsus  calami.  Quando  P  (§  95)  legge:  «  animam  exalaret  », 
invece  dell'  «  exalaret  »  del  codice  M,  abbiamo  una  completazione 
della  frase,  la  quale  pareva  rimasta  monca;  ma  tutto  fa  credere 
che  quella  completazione  dipenda  solo  dall'ingegno  critico  del 
trascrittore.  Pochi,  anzi  pochissimi  sono  i  passi  un  po'  gravi  e 
che  lascino  luogo  a  sospettare  davvero  che  i  due  testi  siano  in- 
dipendenti. Noto  al  capo  47  «  invitatus  »  in  luogo  dell'errore 
«  invitatur  »  del  codice  P.  Ma  trattandosi  di  pochissimi  luoghi, 
se  ne  può  cavare  ben  poco.  Quindi  concluderemo  :  P  viene 
molto,  ma  molto  dappresso  ad  M,  e  se  anche  non  si  voglia  am- 
mettere che  ne  sia  una  pura  e  semplice  trascrizione,  certo  è  che 
esso  non  appartiene  ad  una  diversa  famigHa  di  quello,  anzi  è  ad 
esso  unito  nel  modo  più  intimo. 

Questa  relazione  è  fatta  più  grave  e  sensibile  dal  fatto 
che  P  riproduce  le  correzioni  di  seconda  mano  introdotte  nel 
codice  M. 

Trovandosi  i  due  codici  in  tale  relazione  di  affinità,  sarà  bene 
notare  che  P  è  inferiore  ad  M,  ed  è  verso  di  esso  in  relazione 
di  dipendenza.  A  stabilire  questa  speciale  relazione  non  è  suffi- 
ciente il  fatto  che  P  è  del  secolo  xii,  ed  M  del  ix.  Poiché, 
tranne  il  caso  in  cui  si  vogHa  considerare  P  siccome  nient' altro 
che  una  trascrizione  di  M,  ci  sarebbe  luogo  a  supporre  che 
la  fonte  di  P  possa  essere  più  antica  di  M.  E  quindi  si  po- 
trebbe chiedere  se  non  forse.il  testo  esemplare  del  codice  più 
antico  dipendesse  dal  più  moderno  o  almeno  fosse  ad  esso  in- 
feriore. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     49 

Tale  ipotesi,  già  di  per  sé  abbastanza  ardita,  è  esclusa  dal 
fatto  che  in  P  mancano  molti  brani  esistenti  in  M,  e  non  vice- 
versa.    Ecco  la  serie  delle  mancanze  in  P  : 

i.°  Parte  del  cap.  38,  da  «  et  quia  »,  p.  290,  r.  7  (M.  310^), 
a  tutto  il  cap.  44,  p.  291,  r.  19  (M.  314  *^);  brano  non  sostituito, 

2°  Cap.  49^  e  parte  del  cap.  50,  sino  a  «  victus  fugit  », 
p.  293,  rr.  3-13  (M.  31^''''').  Questo  brano  è  sostituito  da  lunghi 
estratti  di  lordanis. 

3.°  Cap.  51-2,  p.  293,  r.  18  -  p.  293,  r.  4  (M.  316);  da 
nulla  sostituito. 

4.°  Parte  del  cap.  54,  da  «  igitur  coactus  »,  p.  294,  r.  23 
(M.  320'),  fino  a  ((  annos  .xxxiii.  »  del  cap.  59,  p.  295,  r.  18 
(M.  322^);  brano  sostituito  da  un  breve  tratto  di  lordanis. 

5."  Quasi  intero  il  cap.  60,  da  «  sic  gubernavit»,  p.  295, 
r.  21  (M.  322 ''^);  da  nulla  sostituito. 

6°  Cap.  6j,  6S,  6^  e  parte  del  70  sino  a  «  omnibus  gen- 
«  tibus  »,  p.  298,  r.  25  (M.  324**:  «  omnes  gentes  »);  da  nulla 
sostituito. 

Non  e'  è  più  bisogno  di  altre  prove  ;  ma  a  meglio  mostrare 
la  posteriorità  del  testo  P  in  confronto  dell'altro,  è  ancora  op- 
portuno rilevare  che  in  M  sono  indicate  alcune  lacune  delle  quali 
o  non  resta  più  alcun  segno  in  P,  o  forse  ne  resta  un  segno 
caratteristico.  Tali  lacune  sono:  prima  del  capitolo  57,  p.  295,  tra 
il  r.  7  e  r  8,  il  codice  M  segna  la  lacuna  di  una  linea  (').  Come 
si  è  veduto,  il  codice  P  ommette  il  brano  in  cui  cade  questa  la- 
cuna. Prima  del  cap.  79,  p.  300,  tra  il  r.  25  e  il  26  (M.  32^-7'^); 
qui  il  codice  P  non  accenna  a  lacuna,  ma  scrive  in  lettere  grosse 
il  principio,  cioè  il  primo  rigo  del  cap.  79,  in  questa  forma: 
«  Igitur  rex  Theodericus  ixLiTTE]ratus  erat,  et  sic  »  &c.  Capi- 
tolo 88,  303,  15  (M.  329"^):  avanti  ad  «  Item  credens  »  il  co- 
dice M  ha  una  lacuna  di  un  quarto  di  Hnea.  Nel  codice  P  si 
ha  la  voce  «  Item  »   colla  maiuscola  iniziale,  e  nuli' altro. 


(i)  Nell'ed.  del  Mommsen,  il  cap.  57  non  comincia  con  «  Theodericus  », 
come  nell'ed.  Gardthausen,  ma  un  po'  prima  con  «  Et  morìtur  ».  La  lacuna 
incontrasi  prima  di  «  Theodericus  »    e  non  la  trovo   indicata  dal  Mommsen. 

4 


so  C.  CIPOLLA 

Dalle  ragioni  che  abbiamo  discorso,  mi  pare  che  si  possa 
concludere  qualche  cosa.  Specialmente  i  seguenti  punti  mi  sem- 
brano sufficientemente  assodati:  a)  il  codice  P  non  solamente  è 
posteriore  di  epoca  ad  M,  ma  anche  il  testo  ch'esso  ci  dà  è  in- 
feriore a  quello  del  codice  P;  b)  il  codice  P  dipende  o  diretta- 
mente o  quasi  direttamente  da  M,  sicché  non  è  escluso  che  ne 
sia  una  trascrizione,  fors'anco  senza  copie  intermediarie (').  Questo 
secondo  punto,  anche  se  non  se  ne  avessero  altri  argomenti,  sarebbe 
sempre  assicurato  dalla  circostanza  che  il  codice  P  apparisce  come 
una  pura  e  semplice  trascrizione  di  altra  miscellanea  storica.  Lo 
scriba,  come  si  è  veduto,  si  prese  la  cura  di  dircelo,  in  un  carme, 
che  abbiamo  poc'  anzi  trascritto;  infatti  in  quel  carme  lo  scriba 
manifesta  sé  stesso  non  come  autore,  ma  come  trascrittore  di  Ubri. 

Da  questo  consegue  che  per  l'edizione  critica  del  testo  del- 
VAnonymus  Vaìcsìanus  II  il  codice  P  ha  pochissimo  valore.  Le 
varianti  possono  considerarsi  in  generale  o  come  errori  di  scrit- 
tura, o  come  sostituzioni,  giudiziose  forse,  ma  ad  ogni  modo  arbi- 
trarie. Se  quindi  il  codice  P  giova  assai  poco  per  la  fissazione 
del  testo,  non  ha  neanche  molta  importanza  per  la  soluzione  di 
un  quesito  più  grave  e  di  ordine  generale  :  possiamo  supporre 
che  il  testo  attuale  deli' Anonymus  sia  una  pura  collezione  di  passi 
staccati,  desunti  per  un  determinato  scopo  d'erudizione  dal  testo 
genuino  ?  Questa  supposizione,  questo  dubbio  non  possono  venire 
eliminati,  se  non  per  mezzo  di  una  ricerca  d'ordine  interno,  dal 
momento  che  i  sussidi  esteriori  della  critica  ci  vengono  a  man- 

(i)  Nell'elenco  delle  somiglianze  tra  M  e  P  ne  abbiamo  notate  parecchie 
nelle  quali  quest'ultimo  codice  riproduceva  le  correzioni  successivamente  in- 
trodotte nel  primo  ms.  Sicché  saremmo  quasi  autorizzati  a  conchiudere  che 
il  codice  P  dipenda  direttamente  dal  codice  M.  Ma  siccome  sulle  correzioni 
di  M  non  è  stata  forse  ancora  pronunciata  l'ultima  parola,  cosi  è  meglio  la- 
sciare per  ora  sospeso  su  questo  punto  il  nostro  giudizio  definitivo  ed  accon- 
tentarci di  una  probabilità.  Il  Mommsen  non  raccolse  nelle  note  tutto  il 
corredo  delle  varianti.  E  poi  prima  di  dare  un  giudizio  preciso  sopra  la  re- 
lazione interposta  tra  i  due  codici,  basandosi  soltanto  sopra  un  aneddoto  in 
essi  contenuto,  sarebbe  necessario  istituire  un  esame  minutissimo  di  tutt' in- 
teri i  due  mss.  A  questo  esame  andiamo  sempre  più  avvicinandoci,  quan- 
tunque ne  siamo  ancora  abbastanza  lontani. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «     51 

care,  per  l'esclusione  del  codice  P.  Finché  due  erano  i  codici, 
si  potea  ammettere  infatti  che,  nelle  sue  linee  generali,  il  testo 
risultasse  assodato.     Ma  ora  la  questione  muta  di  aspetto. 

Prima  tuttavia  di  toccare  siffatta  questione,  dobbiamo  dire 
alcun  che  di  un'altra  antica  compilazione  storica,  che  contiene 
VAiionymns  Vaìesianus,  e  di  cui  finora  si  ebbe  scarsissima  notizia, 
almeno  al  presente  riguardo. 


IH. 

Giovanni    da    Verona 
e  V  Au  07iym  tis    Va  le  si  a  n  u  s  II. 

Fino  dal  187^  ^^'^  ebbi  occasione  di  rilevare  che  ì'Anonymus 
Valesiamis,  nella  parte  che  riguarda  la  storia  di  Odoacre  e  di 
Teoderico,  era  stato  usufruito  al  principio  del  secolo  xiv  da  un 
veronese,  che  per  ordinario  si  conosce  sotto  il  nome  di  Gio- 
vanni Diacono  o  Giovanni  Mansionario.  E  anche  ultimamente, 
parlando  della  leggenda  di  re  Teoderico  in  Verona  (^),  ritornai 
di  nuovo  sopra  questo  argomento,  ma  senza  svilupparlo.  Men- 
tre rimando  il  lettore  a  quell'articolo,  per  alcune  notizie  bibHo- 
grafiche,  mi  propongo  ora  di  rilevare  se  e  quale  importanza  ab- 
biano le  Historiae  imperiaìes  di  Giovanni  Diacono  per  la  critica 
del  testo  à.Q\V Aìionyìnus  Vaìesianns. 

Per  lo  scopo  nostro  non  credetti  necessario  di  consultare  il 
codice  ValliceUiano  delle  Historiae,  accontentandomi  dello  stu- 
pendo codice,  che  di  esse  si  conserva  nella  biblioteca  Capitolare 
di  Verona,  CCIV  '^'X  È  un  magnifico  codice  membranaceo  in  fo- 
gho,  a  due  colonne,  colle  iniziali  miniate  e  talvolta  arricchite  da 
gentili  ornamenti,  a  colori  o  a  doratura.    Esso  appartiene  alla  prima 

(i)  Ardi.   Veneto,  VI,  386  (a.   1876). 

(2)  Arch.  stor.  it.,  Firenze,  1890,  ser.  V,  voi.  VI,  457  sgg. 

(3)  Per  la  bibliografia  relativa  a  questo  codice  sono  a  consultarsi  le 
erudite  notizie  che  ne  dà  l'illustre  mons.  G.  B.  Giullari,  Arcb.  Veneto, 
XVIII,  20. 


52  e.  CIPOLLA 

metà  del  secolo  xiv,  e  quindi  può  considerarsi  presso  a  poco  come 
contemporaneo  all'autore.  Il  carattere  è  bello,  regolare,  ma  con 
qualche  scorrezione.  Abbondano  le  abbreviature.  I  titoli  dei 
capitoli  sono  in  rosso. 

Per  i  confronti  col  codice  Vaticano-Palatino  mi  giovai  bensì 
della  collazione  frittane  da  C.  Zangemeister,  e  da  questo  comuni- 
cata al  dottor  Vittorio  Gardthausen  ^-^\  nonché  della  edizione  del 
Mommsen;  ma  sopra  tutto  mi  servii  della  copia  che,  per  quella 
parte  che  contiene  YAnonynms  Falesiamis'^^\  ne  feci  io  stesso  nel 
novembre   1889. 

La  collazione  del  Rùhl  è  in  generale  fatta  assai  esattamente; 
tuttavia  qualche  differenza  si  può  notare,  e  non  sempre  le  diver- 
genze o  le  omissioni  sono  del  tutto  inutili  a  rilevarsi.  Qui  terrò 
conto  anche  delle  correzioni  che  una  mano  quasi  contemporanea 
introdusse  non  di  rado  nel  testo  di  questo  codice.  La  collazione 
comunicata  dal  Mommsen  non  credo  arrivi  ad  esaurire  ogni  no- 
stro desiderio,  rappresentando  anche  in  ogni  più  minuta  e  più 
inutile  particolarità  il  codice  Vaticano. 

Nel  codice  Vaticano  (e.  126)  si  comincia  a  far  uso  dell' ^«0- 
nymus  Falesianus  col  capitolo  intitolato  :  De  adventu  Oduachar 
regis  Cyrorum  et  Erulorum  in  Italia  et  quomodo 
rex  Theodericus  eum  fuerit  persecutus.  E  nelle 
Historiae  imperiales  di  Giovanni,  codice  Veronese,  e.  125  b, 
col  capitolo:  Qualiter  Odoacar  Herulorum  rex  invasit 
Italiani. 

Comincia  Giovanni  :  «  Cum  autem  ^eno  imperavit  apud 
«  Constantinopolim  et  Italya  multis  oppressa  calamitatibus  foret 
«  imperatoris  auxiUo  desolata,  gens  Cyrorum,  Herulorum,  Rugo- 
«  rum  et  Turcihngorum,  de  finibus  Germanie  prorumpens,  cum 
«  validissimo  exercitu  Ytaliam  invasit  ».  Le  prime  parole  sono 
quasi  identiche  a  quelle  con  cui  ha  principio  il  citato  capitolo  del 
codice  Palatino,  e  che  sono  pure  le  iniziali  doli' Anonymiis  Fale- 
sianus II  nel  codice  Phillips,  cioè  :  «  Igitur  imperante  ^enone  au- 


(i)  Amm.  Marcell.  Rer.  gest.  libri,  Lipsiae,   1875,  II,  289  sgg. 
(2)  Fol.  126  sgg. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «     53 

«  gusto  Constantinopolim  »  ('\  ì^eìYAnonynms  VaUsianus  segue  un 
cenno  sulle  calamità  d'Italia  e  sulla  rapida  successione  degli  impe- 
ratori ;  ciò  che  Giovanni  Diacono  riassunse  nelle  poche  parole  qui 
riferite.  Egli  continua  poi  parlando  dei  «  Cyri  »  &c.  Nell'^- 
nonymus  Vahsianiis  il  tratto  corrispondente  è  questo:  «  Superve- 
«  niente  autem  Odoachar  cum  gente  Cyrorum  ».  Ma  gli  Eruli, 
se  qui  sono  taciuti,  vengono  ricordati  nella  riferita  didascalia  del 
capitolo;  i  Turcilingi  poi  ed  i  Rugi  vengono  rammentati  poco 
dopo,  in  un  tratto  desunto  da  lordanis  ed  interpolato  nel  testo 
Palatino-Vaticano  dell' Anonymus  Valesianiis  ^^\  in  sostituzione  del 
capitolo  49,  e  delle  prime  linee  del  capitolo  50,  che  furono  om- 
messe  ^^\  Il  concetto  che  Odoacre  abbia  invaso,  dal  di  fuori, 
l'Italia,  è  in  contraddizione  colla  verità  storica,  mentre  Odoacre  era 
soldato  negli  eserciti  imperiali,  allorché  i  Germani  lo  posero  alla  loro 
testa.  Quel  concetto  è  dedotto  da  fonte  diversa  dulV Anonymus 
VaUsiaìiiis.     Quale  sia  questa  fonte,  lo  vedremo  in  appresso. 

Prosegue  Giovanni  dandoci  un  ritratto  di  Odoacre,  che  egli 
desume  pure  dalla  sua  fonte,  ma  non  proprio  a  questo  luogo, 
sibbene  da  un  passo  un  po'  posteriore.  Scrive  egli  infatti  : 
«  Horum  rex  erat  nomine  Odoacar,  vir  strenuus,  statura  proce- 
«  rus,  in  disciplina  militari  peritus.  cuius  pater  Edico  dictus  est, 
«  vir  plebeius  et  ex  infima  prosapia  genitus».  Qui,  dopo  aver 
saltato  parecchie  linee  del  suo  testo,  dove  si  parlava  di  Glicerio, 
Nepote  ed  Oreste,  cerca  le  notizie  biografiche  sopra  Odoacre,  che 
leggeva  alla  e.  260  a  (+).  Come  è  suo  costume,  ritocca  la  di- 
zione, ma  qualche  frase  la  conserva  :  «  Edico  dictus,  statura  pro- 
te  cerus  ».  Ben  è  vero  che  VAnonymus  VaUsianus  non  dice  che 
Edicone  fosse  uomo  plebeo  e  d' infima  prosapia;  ma  Giovanni  lo 
deduceva  dal  fatto,  che  Odoacre  vestiva  molto  umilmente,  al- 
lorché si  presentò  a  san  Severino. 

(i)  Avvertasi  che  cito  sempre  secondo  il  ms.  Vaticano,  pur  tenendo 
d'occhio  alla  ed.  Gardthausen  e  a  quella  del  Mommsen,  che  devono  star 
sempre  presenti  al  lettore. 

(2)  C.  127  A,  al  fine. 

(3)  Gardthausen,  op.  cit.  p.  293,  rr.  3-15;  Mommsen,  5171-17. 

(4)  Ed.  Gardthausen,  p.  291;  Mommsen,  p.  314. 


54 


C.  CIPOLLA 


Dicemmo  che  Giovanni  Diacono  saltò  non  poche  linee  del 
manoscritto  Vaticano  ^^^;  queste  naturalmente  si  trovano  tutte  nel 
testo  comune,  nel  quale  ad  esse  seguono  varie  notizie  sopra  l'im- 
peratore Zenone  ^^\ 

Prosegue  Giovanni  scrivendo  : 

De  hoc  Odoacre  in  librìs  vite  beati  Severini  monachi  legltur,  quod  ei 
predictus  sanctus  vir  prophetico  spiritu  revelavit,  quod  futurus  esset  rex 
Ytah'e.  nam  dum  quodam  tempore  quidam  barbari  Turcilingi  venirent  in 
Ytaliam,  contigit  eos  transire  per  Panuonias,  ubi  beatus  Severinus  religiosam 
vitam  ducebat.  predicti  ergo  viri,  audita  fama  sanctitatis  eius,  venerunt 
ad  eum  ut  tanti  patris  benedictionem  haberent.  inter  quos  erat  Odoacar 
tunc  iuvenis  et  vilissimo  habitu  indutus,  set  tanta  proceritate  corporis 
fulgebat,  quod  tectum  celle  viri  Dei  capite  transcendebat,  unde  incUnans 
se  ad  virum  Dei  cum  sociis  accessit,  dactaque  benedictione,  cum  vale- 
dicerent,  vir  Dei  Severinus,  vocato  Odoacre,  dixit:  vade  ad  Ytaliam  vilis- 
simis  tunc  pellibus  coopertus,  set  in  brevi  multìs  plurima  largiturus.  quod 
et  ita  fuit. 

Tutto  questo  tratto  è  desunto,  quasi  alla  lettera,  dall' Anonymus, 
dove  pure  si  ripete  quanto  leggesi  «  in  libris  vite  beati  Severini 
«  monachi  »,  citando  questa  medesima  Fifa,  colle  stesse  parole, 
poi  ripetute  dal  diacono  Giovanni,  e  senza  nominarne  il  suo  au- 
tore, Eugippio.  Nel  resto  si  hanno  senz'altro  le  identiche  parole 
dell' Anoìiymus,  ovvero  queste  sono  più  o  meno  parafrasate  o  mo- 
dificate. In  luogo  di  «  Pannoniam  »,  Giovanni  scriverà  «Pan- 
ce nonias  »,  che  in  fondo  è  lo  stesso.  La  frase  «  quidam  barbari  », 
che  è  nelV Anonymus,  fu  dal  trecentista  riprodotta,  ma  coU'aggiunta 
«  Turcilingi  »,  suggeritagli  unicamente  dalla  già  stabilita  relazione 
di  quel  barbaro  popolo  con  Odoacre.  È  fuor  di  luogo  raccogliere 
qui  tutti  i  punti  di  raffronto,  poiché  dovremmo  addirittura  trascri- 
vere tutti  i  passi  dall' Anotiyinus.  Noto  che  le  parole  del  santo 
sono  da  Giovanni  riferite,  quasi  senza  variazioni,  cioè  colla  sola 
mutazione  di  «  sed  multis  cito  plurima  largiturus»,  in  «set  in 
«  brevi  multis  plurima  largiturus  ».     Sopra  di  un  punto  peraltro 

(i)  Ed.  Gardthausen,  pp.  289-90;  MoMMSEN,  pp.  308-10. 

(2)  Ed.  GaRDTH.\USEN,   pp.    290-91;    MoMMSEN,   pp.    314. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     55 

dobbmaio  fermare  la  nostra  attenzione.  Parlando  dei  barbari  che 
entrarono  nella  cella  del  santo,  dice  di  Odoacre  che  dovette  chinar 
la  testa,  tanto  era  egli  alto  di  statura:  «  inclinans  se».  Quel 
«  se  »  dato  dai  testi  di  Mommsen  e  di  Gardthausen,  e  anche  da 
vecchie  edizioni  ('),  manca  nel  testo  Vaticano  :  «  et  inclinasset  », 
il  quale  in  ciò  si  avvicina  al  genuino  testo  di  Eugippio.  Come 
sia  saltato  fuori  quel  «  se  »  non  si  vede  chiaro  dalla  edizione 
del  Gardthausen,  dove  pare  che  ce  lo  dia  anche  il  manoscritto 
Vaticano,  locchè  è  inesatto;  anche  dal  Mommsen  si  vede  che 
«  se  »  manca  nel  codice  P.  Tale  discrepanza  di  lezione  non  ci 
autorizza  tuttavia  ad  ammettere  per  Giovanni  Diacono  una  fonte 
differente  dal  manoscritto  Vaticano,  poiché  qui  si  tratta  di  una 
voce  che  potea  essere  facilmente  suggerita  dal  senso. 
E  proseguiamo  nell'esame  del  testo  di  Giovanni: 

Nam  post  modicum  tempus,  reverso  de  Ytalia  Odoacre,  cum  sociis,  gens 
Turcilingorum  et  Cyrorum  centra  Ytaliam  venire  disponens,  Odoacrem  con- 
stituit  sibi  regem.  igitur  (2)  Odoacar,  collecto  ingenti  excrcitu,  de  sedibus 
propriis  exiens  in  Ytaliam  festinavit,  et  eam  in  brevi  occupavit,  universa  dir- 
ripiens  et  tradens  incendio,  ac  omnes  quos  barbari  reperiebant,  trucidaverunt 
in  ore  gladii. 

Quest'ultimo  tratto  ci  fa  accorti  dell'altra  fonte,  cui  ricorse 
Giovanni,  e  alla  quale  facemmo  allusione  poco  fa.  E  la  Historia 
romana  di  Paolo  Diacono,  la  quale  parla  della  fortissima  molti- 
tudine di  Eruli  e  degU  ausiliari  TurciUngi  e  Sciri  che  accompa- 
gnarono Odoacre,  e  coi  quali  «  Italiam. ..  properare  contendit  ». 
E  poi  fa  parola  della  desolazione  in  cui  gli  invasori  posero  le 
città  italiane,  ricordando  le  rapine,  gli  incendi,  e  la  spada  opera- 
trice di  tutte  queste  rovine  :   «  scaevit  ubique  gladius  »  <^5). 

Segue  Giovanni: 

De  tercia  capcione  urbis  Rome  fa  età  per  Odoacrem 
regem   (4)- 

(i)  Amm.  Marceli.  Opera,  Lipsia,  Holze,  1867,  p.  558, 

(2)  Cod.  Veronese,  e.  126  a. 

(3)  Ed.  Droysen,  p.  210. 

(4)  Cod.  Veronese,  e.  126  a. 


56  C.  CIPOLLA 


La  prima  parte  di  questo  capitolo,  che  riguarda  la  conquista 
di  Roma,  non  è  certo  desunta  dalV Aiioìiy}ìius  Valcsianus.  La  tra- 
scrivo : 

Odoachar  ergo  rex,  capta  universa  Ytalia  et  suo  dominio  subiugata,  venit 
Romam  quam  diu  obsessam  et  coangustatam  cepit,  dirripuit  et  invasit,  et 
eam  postmodum  possedit.  sic  ergo  urbs  Roma,  orbis  domina,  propter  pec- 
cata ^enonis  principis,  fuit  Turcilingis  et  ceteris  barbaris  ancillata. 

L'ultimo  periodo  può  essere  stato  forse  ispirato  a  Giovanni 
dalle  considerazioni  di  lordanis  sulla  caduta  dell'impero  romano; 
per  fermo  trattasi  di  espressioni,  che  potevano  sorgere  spontanee 
sul  labbro  del  cronista.  L'assedio  di  Roma,  col  cui  racconto 
il  capitolo  ha  principio^  non  è  esattamente  storico.  Invece  la 
fine  del  capitolo  è  desunta  quasi  alla  lettera  à^LÌÌ'Anonymus'^^^. 
Vi  si  parla  delle  lettere  che  Odoacre,  dopo  ottenuta  l'Italia,  scrisse 
a  san  Severino,  il  quale  da  lui  chiese  ed  ottenne  il  perdono  di 
certo  Ambrogio,  condannato  all'esigilo. 

Procediamo  collo  spoglio  delle  Historiae  di  Giovanni: 

De  bello  Odoacris  regis  contra  Feletheum  regem  Ru- 
go rum  (2)- 

La  guerra  di  Odoacre  contro  i  Rugi  è  appena  fuggevolmente 
accennata  dall' Anonyimis  Vaìesianus.  Giovanni  la  narra  distesa- 
mente, seguendo  la  Hìstoria  Langohardormn  di  Paolo  Diacono, 
ch'egU  cita  nel  principio  stesso  del  capitolo:  «  Eo  tempore,  ut  scribit 
«  Paulus  diaconus  ystoricus  Lombardorum,  Inter  Odoacrem  re- 
«  gem...  ».  Abbandona  Giovanni  il  suo  testo,  verso  la  fine  del 
capitolo  19,  dove  Paolo  Diacono  scrive:  «  Tunc  Langobardi  de 
«  suis  regionibus  egressi  venerunt  in  Rugiland  ...  ».  E  Giovanni: 
«  Longobardi  autem  tunc  primo  habitaverunt  in  Rugilanda,  post 
«  recessum  Odoacris,  ut  infra  dicetur  ».  Qui  Giovanni  ricorre 
nuovamente  zìY Anonyinus  Valcsianus  a  principiare  dal  periodo: 
«  Odoacar  igitur  regnavit  in  Itaha  .xiii.  annis,  qui  fuit  vir  stre- 

(i)  Cod.  Veronese,  e.   126  e. 
(2)  Cod.  Veronese,  e.  126  a. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     57 

«  nuus  et  bellicosus,  set  superstitione  arrianus  ».  Questo  tratto, 
mentre  nelle  sue  ultime  parole  rammenta  il  ritratto  di  Odoacre, 
che  abbiamo  poco  fa  considerato,  nelle  prime  riproduce  altre  frasi 
dQÌVAnoiiymiis^'^:  «  mansit  (l'antico  correttore  modificò  questa  voce 
in  «  mansitque  »  ristabilendo  cosi  l'armonia  col  codice  M)  in 
«  regnum  ann.  .xiii.  ».  La  frase  poi  «  set  superstitione  arrianus  » 
è  desunta,  in  uno  con  quanto  segue,  da  altro  luogo  dcìVAno- 
nymus.  E  ciò  che  segue  è  la  narrazione  delia  profezia  di  san  Se- 
verino sulla  durata  del  regno  di  Odoacre.  Infatti  nell'^wo- 
nymus^'^^  si  legge:  «  Nani  dum  ipse  esset  bone  voluntatis  et 
«  arrianae  sectae  favorem  preberet,  quodam  tempore  dum  me- 
«  moratum  regeni  multi  nobiles  coram  sancto  viro  humana, 
«  ut  fieri  solet,  adulatione  laudarent  &c.  ».  E  san  Severino 
profetizzò  che  il  regno  di  Odoacre  sarebbe  durato  tredici  o  quat- 
tordici anni. 

Giovanni  chiude  quel  capitolo  così:  «  Hic  Severinus  plenus 
«  virtutibus  et  sanctitate  apud  Pannonias  in  monasterio  suo  quie- 
«  vit  in  pace,  cuius  corpus  postmodum  Neapolim  cum  debito 
«  tanto  patri  honore  translatum  est  ».  Per  ispiegare  queste  pa- 
role non  è  di  mestieri  ricorrere  alla  Vita  s.  Severini  di  Eugippio; 
basta  ciò  che  ne  scrive  Paolo  Diacono  ^^\  dove  manca  soltanto 
la  frase  «  cum  debito  »,  la  quale  può  essere  stata  assai  facilmente 
introdotta  da  Giovanni. 

Procediamo  ad  un  altro  capitolo  di  Giovanni  : 

De  adventu  Theodorici  Walamer  filli  Theodemir  cum 
exercitu  Gothorum  in  Ytaliam,  et  de  Interfectlone  Odoacar 
regis  Cyrorum,  et  qualiter  Theodoricus  cum  Gottis  pos- 
sedit  Ytaliam,  et  primo  quomodo  Imperator  ^eno  Theodori- 
cum    Costantinopolim   vocavlt   et    honoravit  (4). 


(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  291,  r.  22,  cap.  45  (ed.  Mommsen,  314^*);  cod. 
Vaticano,  e.   126  a. 

(2)  Cod.  Vaticano,  e.  126  b;  ed.  Gardthausen,  p.  292,  r.  15  sgg.,  cap.  48; 
Mommsen,  315  '°. 

(3)  Hist.  Langoh.  I,  cap.   19. 

(4)  Cod.  Veronese,  e.   1260. 


58  C.  CIPOLLA 


E  il  capitolo  comincia  con:  «  Interim  Theodemir  rex  Gotho- 
«  rum  ». 

Nel  manoscritto  Vaticano  (')  si  deve  trovare  la  fonte  anche 
di  questo  capitolo,  quantunque  Giovanni  non  riproduca  tutto  ciò 
che  egli  trovava  nel  suo  testo,  il  quale  alla  sua  volta  dipende 
da  lordanis  ^^\  Quelle  prime  voci  del  capitolo,  che  testé  abbiamo 
trascritte,  ricordano  assai  dappresso  l' inizio  del  capo  corrispon- 
dente nel  codice  Vaticano,  cioè:  «  Igitur  rex  Theodemir  », 
quantunque  qui,  cioè  nel  codice  Vaticano,  la  didascaha  del  ca- 
pitolo sia  alquanto  differente  :  1 1  e  m  f  u  e  r  e  et  a  1  i  i  G  o  t  h  i 
ex  quorum  progenie  Theodericus  processi t.  Ma 
dopo  di  quelle  prime  parole,  che  Giovanni  Diacono  riportò, 
appena  modificate,  nel  testo  Vaticano  si  procede  parlando  dei 
giovani  anni  di  Teoderico,  ch'egli  passò  alla  corte  di  Costantino- 
poli. Solo  più  innanzi  è  fatta  parola  della  morte  di  Teodemiro  : 
«  Nec  diu  post  hec  rex  Theudemyr  in  civitate  Cerras  fatali 
«egritudine  occupatus. ..  ».  Giovanni  trascrive,  ma  alla  parola 
«  Cerras  »,  che  fino  a  pochi  anni  or  sono  era  enigmatica  ^i\  egU 
aggiunge  questa  spiegazione:  «  apud  Cerras,  civitatem  Alanie». 
La   regione  detta  «  Alania  »,  non  so  dove    l'abbia  pescata. 

Quindi  Giovanni  trascrive  la  sua  fonte,  in  generale  con  poche 
e  poco  concludenti  modificazioni;  ma  con  qualche  varietà,  che 
può  far  conoscere  com'egli  si  permettesse  di  modificare  anche  il 
senso  del  suo  autore.  Il  manoscritto  Vaticano,  rimanendo  fedele 
alle  espressioni  di  lordanis,  cosi  descrive  gH  onori  e  le  distin- 
zioni concesse  dall'  imperatore  Zenone  al  giovane  Teoderico  : 

.  . .  imperator  Zenón  (4)  grate  suscepit,  eique  evocatoria  destinata,  ad  se  in 
Urbem  venire  precepit,  dignoque  suscipiens  honore,  inter  proceres  sui  palatii 


(i)  C.  126  B. 

(2)  Gel.  cap.  55,  56,  57. 

(5)  loRDANis  Get.  ed.  Closs,  Stuttgart,  1861,  p.  195,  nota;  cf.  ib.  p.  191, 
nota;  qui  può  vedersi  a  quali  ipotesi  diede  luogo  la  tentata  identificazione 
di  questo  nome  geografico.  Ora  il  Mommsen,  lordanis  Getica,  p.  132,  iden- 
tifica questa  città  con  «  Cyrrhus  »  città  della  I  Macedonia. 

(4)  Sic. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     59 

conlocavit.  et  post  aliquot  (0  tempus  ad  ampliandum  honorem  eius,  in  arma 
sibi  eum  filium  adoptavit,  de  suisque  stipendiis  triumphum  in  Urbcm  donavit. 
factusque  consul  ordinarius,  quod  summum  bonum  primumque  in  mundo 
decus  edicitur,  nec  tantum  hoc  sed  etiam  equestrem  statuam  ad  famam  tanti 
viri  ante  regiam  pallacii  collocavit. 

E  Giovanni: 

. . .  quem  cum  summo  suscepit  honore,  et  ipsum  inter  primos  principes  in 
palatio  collocavit.  evoluto  vero  pauco  tempore,  imperator  (Jeno  Teodoricum 
regem  adoptavit  in  filium  et  largitionem  triumphalem  in  adoptione  populi 
[populo?]  dedit.  fecit  quoque  Theodoricum  patri  cium  et  consulem  or- 
dinavit  ac  magistrum  romani  exercitus,  et  ad  eius  famam  amplian- 
dam,  equestrem  statuam  ante  foras  palati!  collocar!  precepit. 

Scrissi  in  carattere  distinto  quanto  Giovanni  aggiunse  di  suo. 
Che  Teoderico  fosse  patrizio,  Giovanni  lo  sapeva  dal  capitolo  54 
doiV Anoìiyììuis,  che  si  legge  anche  nel  codice  Vaticano  (^\ 

Giovanni  termina  il  capitolo,  compendiando  il  suo  testo,  sol 
quando  ha  da  narrare  di  qual  maniera  Teoderico,  lasciata  Co- 
stantinopoli, «  versus  Ytaliam  festinavit  »  ;  ma  nel  rimanente  egli 
si  limita  a  copiare.  E  anche  le  citate  parole  dipendono  dal  suo 
testo:  «  Hysperiam  tendit  ». 

Procediamo  nell'esame  dell'opera  di  Giovanni,  il  quale  viene 
narrando  la  venuta  di  Teoderico  in  Itaha: 

Qualiter  rex  Theodoricus  intravit  Ytaliam  et  eam  opti- 
nuit   et   Odoacrera    interfecit  (3). 

Continuando  la  trascrizione  del  codice  Vaticano,  Giovanni  adesso 
s' imbatte  nel  luogo  di  lordanis,  dove  si  fa  parola  della  venuta 


(i)  Voce  modificata  in  «  aliquod  »,  forse  non  di  prima  mano,  ma  dal- 
l'antico correttore. 

(2)  Non  mi  nascondo  che  la  frase  di  Giovanni  «  patricium  et  consulem 
«  ordinavit  »  conviene  abbastanza  bene  con  un  capo  (il  49;  ed.  Mommsen, 
p.  3163)  deW Ation.  Vales.,  che  manca  al  cod.  Vat.  «  quem  fecit  patricium  et 
«  consulem  ».  Ma  non  è  questa  una  ragione  sufficiente  perchè  si  debba  sup- 
porre che  questo  passo  àeWAnon.  fosse  noto  a  Giovanni. 

(3)  Cod.  Veronese,  e.  126  d. 


6o  C.  CIPOLLA 

di  Teoderico  a  Sirmio,  e  di  qui  il  suo  ingresso  nei  confini  delle 
Venezie,  «  Veneciarum  fines  .  .  .  que  est  prima  pars  Ytalie  ». 
Questa  frase  manca  nel  codice  Vaticano  e  anche  nell'altro  testo 
dell' Anonymus  Valcsìanus;  all'autore  probabilmente  fu  suggerita 
dalla  descrizione  d' Italia  fatta  da  Paolo  Diacono  ('),  dove  la  Ve- 
nezia figura  come  la  prima  provincia  d'  Italia.  E  di  11  a  poche 
parole,  dove  il  codice  Vaticano  abbandona  lordanis  per  riprendere 
VAìionymiis  Vaìesianiis,  altrettanto  fli  anche  Giovanni.  Ecco  come 
sta  scritto  nelle  Historiae  imperiaks  (^^  : 

. . .  Odoachar  armatum  contra  eum  direxit  exercitum.  quem  ille  ad  campos 
Veronenses  occurrens,  magna  strage  delevit,  castraque  soluta,  fines  Ytaliae 
cum  potiore  audatia  intrat.  at  vero  Odoachar  abiit  in  Veronam,  et  fixit  fos- 
satum  in  campo  minore  Veronense  .v.  kl.  octub. 

Qui  il  codice  Vaticano  ripete  due  volte  la  narrazione  della  bat- 
taglia di  Verona;  poiché  il  primo  periodo  ne  contiene  la  descri 
zione  desunta  da  lordanis  ^^\  e  il  secondo  ripete  la  descrizione 
che  dello  stesso  fatto  si  trova  noli' Anonyiìius  Valesianns  ^'^),  dove 
fa  seguito  al  cenno  sulla  battaglia  data  all'  Isonzo.  Unica  diffe- 
renza tra  il  codice  Vaticano  e  Giovanni  Diacono  è  questa,  che 
lo  scrittore  trecentista,  col  giro  delle  parole,  cercò  di  distinguere 
le  due  battaglie,  quasi  che  una  fosse  stata  data  «  in  planitie  civi- 
ca tatis  Veronensis  »,  e  l'altra  «  in  campo  minori  Veronensi  », 
dopo    r  ingresso  di  Odoacre  in  Verona. 

Per  i  fatti  successivi,  la  narrazione  procede  nel  codice  Vati- 
cano molto  confusa;  e  la  confusione  è  prodotta  da  ciò,  che  lo 
scriba  saltò   i  capitoH5i-2  àelV Anonymus  ^^^ ^   cosi  che  Giovanni 

(i)  HisU  Langoh.  II,  cap.  14  sgg. 

(2)  Cod.  Veronese,  e.  127  e. 

(3)  Cap.  57:  «...  Odoacer  armatum  contra  eum  direxit  exercitum.  quem 
«  ille  ad  campos  Veronenses  occurrens  magna  strage  delevit  castrisque  so- 
«  lutis  finibus  Ytaliae  cum  potiore  audacia  intrat  ». 

(4)  Ed.  Gardthausen,  p.  293,  r.  13  sg.  :  «  at  vero  Odoachar  abiit  »; 
ed.  MoMMSEN,  p.  3 16 '8;  «  et  abiit  in  Veronam  ». 

(5)  Ed.  Gardthausen,  pp.  293-4;  ed.  Mommsen,  p.  316^6.32:  „  Et  pc- 
«  rambulavit  -  Ravcnnam  ». 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     6i 

trovava  detto  che  Odoacre  fuggi  a  Ravenna  (cap.  50),  e  che  usci 
da  Cremona,  senza  che  si  fosse  ivi  soggiunto  che  Odoacre  aveva 
lasciato  Ravenna  (■).  Quindi  Giovanni  rammenta  Ravenna,  e  non 
ricorda  Cremona;  accortosi  che  le  parole  della  sua  fonte  accen- 
navano al  rialzarsi  della  potenza  di  Odoacre,  soggiunge  ch'egli 
raccolse  a  Ravenna  «  universum  exercitum  Turcilingorum,  Ru- 
«  gorum,  Herulorum  et  Cyrorum  ac  populorum  Ytalie,  qui  sibi 
«  parebant  ».  Il  codice  Vaticano  seguendo  dappresso  YAnonymus 
dice  poi,  con  tutta  semplicità,  che  in  aiuto  di  Teoderico  vennero 
i  Visigoti;  e  Giovanni  si  incarica  di  spiegare  la  cosa,  narrando 
che  re  Teoderico  mandò  suoi  nunzi  per  invitare  i  Visigoti  di 
Spagna. 

Il  capitolo  di  Giovanni  finisce  con  un  cenno  sulla  storia  dei 
Visigoti,  il  quale  è  indipendente  dzìYAnonymus  Valesianus. 

Apud  Guisigothos,  qui  morabantur  in  Yspania,  regnabat  Theodoricus, 
qui  et  Theodo,  successor  Walie.  hic  direxit  regi  Theodorico  patricio  exerci- 
tum coplosum  adversus  Odoacar.  genuit  autem  Theodoricus,  qui  et  Theudo, 
Theodoricum  et  Transimundum,  qui  patri  successerunt  in  regno  Guisigo- 
thorum. 

Qui  tutto  è  confusione,  poiché  Teoderico  (Teoderido)  I  spetta 
al  periodo  419-451,  Torismondo  (di  cui  può  essere  alterazione 
il  Transimundo  <^^)  di  Giovanni)  regnò  sui  Visigoti  dal  451  al  453, 
succedendogli  il  fratello  Teoderico  (Teoderido)  II,  che  governò 
dal  453  al  ^66.  A  costui  successe  Eurico  (4^1-85),  dopo  del 
quale  venne  al  trono  Alarico  II  (485-507).  E  quest'ultimo  fu 
in  relazione  con  Teoderico  Ostrogoto,  di  cui  sposò  una  figlia, 
secondo  l'attestazione  àdV Anonymiis  Valesianus  ('),  in  un  passo 
noto  a  Giovanni  Diacono  (^). 


([)  Anon.   Fales.  cap.   52. 

(2)  Transamundo  era  re  dei  Vandali:  Iordanis,  Gd.  ed.  T.  Mommsen, 
pp.  33,  58;  Paulus  Diac.  Hist.  rovi.  ed.  Droysen  (nel  Brcviar.  di  Eutropius), 
pp.  207,  217-8. 

(3)  §  ^3;  ^'^-  Gardthausen,  p.  297;  ed.  Mommsen,  p.  322. 

(4)  Anche  Garollo  (Teoderico  re  dei  Goti  e  degli  Italiani,  Firenze,  1879, 
p.  121)  ammette  che  sia  stato  Alarico  il  re  visigoto  che  soccorse  Teo- 
derico. 


62  e.  CIPOLLA 

Procediamo  col  testo  di  Giovanni: 

De  secundo  prclio  Odoacris  adversus  Theodoricum  et 
extictione    Odoacris  (0. 

Giovanni  Diacono,  dopo  aver  saltato,  siccome  si  è  detto, 
quasi  tutto  il  §  50,  e  gli  interi  §§  51-2,  che  non  trovava  nel  co- 
dice ora  Vaticano,  trascrive  il  §  ^^,  dal  quale  avea  diggià  tolto  la 
notizia  sugli  aiuti  porti  dai  Visigoti  a  re  Teoderico.  In  tutto  questo 
paragrafo  trovo  un  solo  punto  degno  di  nota,  in  cui  Giovanni 
siasi  scostato  dal  testo.  A  proposito  della  battaglia  sull'Adda, 
dove  YAnonymus  VaUsianas,  anche  secondo  il  codice  Vaticano, 
dice  che  vi  mori  «  Pierius  comes  domesticorum  »,  Giovanni 
aggiunge  di  suo  questa  dichiarazione  :  «  hic  erat  ex  parte  Theo- 
«  dorici  ».  A  questo  proposito,  mi  limito  a  riferire  ciò  che  scrive 
il  GaroUo  (^^:  «  il  conte  Pierio,  uno  dei  più  fedeli  e  cari  uffi- 
«  ciali  di  Odovacre  ». 

Giovanni,  che  tiene  sempre  presente  alla  sua  mente  la  storia 
dell'impero,  discorre  in  uno  speciale  capitolo  della  conferma  del 
dominio  concessa  a  re  Teoderico  dall'imperatore  Anastasio: 

dualiter  Anastasius  imperator  regnum  italicum  con  fi  r- 
mavit    Teodorico   regi    et   de   moribus   eius(3). 

Ricordando  Giovanni  che  Pesto  (Fausto  ?)  capo  del  Senato  era 
stato  mandato  da  Teoderico  a  Costantinopoli,  egli  combina  questa 
notizia  col  capitolo  64,  dove  è  detto  che  Pesto  concordò  la  pace 
tra  Teoderico  e  Anastasio,  che  questo  imperatore  rimandò  gli 
«  ornamenta  palatii  »,  da  Odoacre  trasmessi  a  Costantinopoli.  Gio- 
vanni si  permette  di  colorire  le  scarne  espressioni  àéìì' Anonymus  : 

Igitur  dum  Anastasius  imperarci  apud  Constantinopolim,  Theodoricus  rex 
Ytalie,  de  quo  in  vita  ^enonis  dictum  est,  misit  Festum  patritium  Constanti- 
nopolim ad  principem,  obsecrans  ut  regnum  italicum,  quod  cum  Gothis  conqui- 
sierat  et  praedecessor  suus  ^eno  eidem  confirmaverat,  ipse  sibi  concederei . . . 


(i)  Cod.  Veronese,  e.  1 27  a.    Un'antica  correzione  in  nero  :  «  extinctionc  ». 

(2)  Op.  cit.  p.  123. 

(3)  Cod.  Veronese,  ce.  1290  -  130  a. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     63 

Poi  inserisce  le  notizie  flimigliari  clie  stanno  nel  capitolo  ^3. 
Segue  accennando  alla  tolleranza  di  Teoderico  verso  i  cattolici  ^'\ 
lodando  il  re  come  «  corporc  decorus,  viribus  fortissimus  ». 
Quest'ultima  parola  ci  fa  pensare  a  «  rex  fortissimus  »  déìVAno- 
nymiis,  in  un  passo  mancante  al  codice  Vaticano  '^^\  ma  è  una 
rassomiglianza  non  molto  grave.  Poscia  Giovanni  soggiunge 
che  il  re  era  illetterato,  e  narra  della  tavoletta  d'oro,  colle  quattro 
prime  lettere  del  suo  nome,  secondo  si  legge  nel  capitolo  79. 
Siccome  Giovanni  mira  a  dare  un  po'  d'ordine  al  confuso  mate- 
riale di  cui  si  serve,  così  congiunge  questa  notizia  coi  capitoli  61-2, 
dove  si  contengono  i  detti  e  fatti  memorabili  del  re,  e  riferisce 
i  due  detti  e  il  giudizio  nella  questione  tra  la  madre  e  il  figlio. 

Qualche  volta  Giovanni  non  intende  il  testo,  qualche  volta 
si  sbaglia  congiungendo  una  parola  o  un  inciso  erroneamente, 
qualche  volta  invece  spiega  felicemente  i  passi  difficili  del  suo 
testo.  Darò  qui  qualche  saggio  :  «  Quidam  mortuus  est,  relin- 
«  quens  filium  ex  uxore.  nesciente  matre  ('),  puer  parvulus  »  &c.  ; 
«  tunc  sponsus  indignatus  cepit  repetere  arras  dotis  »,  dove  «  dotis  » 
manca  nel  testo  dell' Anonymiis.  Potrà  interessare  di  conoscere 
come  Giovanni  abbia  riportato  il  passo  (4),  in  cui  si  espone  come  il 
giovane,  respinto  dalla  madre,  ricorresse  contro  di  lei  al  re. 
Poiché  qui  e  è  divergenza  di  lezione  tra  M,  che  legge  «  in  cu- 
ce ribus  regis  »,  e  P  che  ci  dà  «  in  curia  regis  ».  Giovanni  si 
accontenta  di  dire:  «  omnia  gesta  regi  explicavit  »,  avvicinandosi 
a  P  più  che  non  a  M.     Riferisco  la  fine   dell'aneddoto,  quale  è 

(i)  Cf.  Anon,  Vales.  cap.  65. 

(2)  Ed.  Gardthausen,  cap.  60,  p.  296,  r.  2;  ed.  Mommsen,  p.  522''. 

(3)  Questa  frase  ha  il  suo  valore.  Il  cod,  M  legge:  «  et  reliquid  uxo- 
«  rem  et  parvulum  filium  nescientem  matrem  ».  Il  cod.  P  ha  l'ultima 
frase:  «  nesciente  matre  »,  con  questo  che  suH' e  finale  di  «  matre  »  c'era 
il  segno  d'abbreviazione,  indicante  m;  ma  questo  segno  fu  raschiato.  Gio- 
vanni trovò  «  nesciente  matre  »,  e  trascrisse  tal  quale  questa  frase,  quantunque 
non  abbia  senso.  Per  darle  un  po'  di  senso,  pose  punto  dopo  «  uxore  »;  ne 
consegue,  non  più  che  il  fanciullo  era  tanto  piccolo  da  non  conoscer  la  madre, 
ma  che,  a  insaputa  della  madre,  fu  da  altri  sottratto.  Di  qui  abbiamo  una 
nuova  prova  della  dipendenza  di  Giovanni  da  P. 

(4)  Ed.  Gardthausen,  p.  297,  r.  5;  ed.  Mommsen,  p.  32239. 


64  C.  CIPOLLA 


narrata  da  Giovanni,  poiché  le  sue  parole  possono  utilmente  ser- 
vire da  commento  alle  espressioni  non  sempre  chiare  del  testo  : 

...  dixit  ei  (0  rex:  que  est  facultas  tua,  mulier?  que  air:  usque  ad  mille 
sollidos.  tunc  rex  videns  maliciam  mulieris  ait  :  precipio  tibi  sub  ius- 
iurando,  ut  nullum  alium  recipias  virum,  nisi  hunc  quem  negas  filium  tuum, 
et  volo  quod  statim  me  presente  fedus  coniugìi  celebretur.  tunc  mulier,  con- 
fusa valde,  confessa  est  filium  suum  esse,  tunc  rex  omnia  que  mulieris  erant, 
tradidit,  precipiens  ut  eam  tamquam  matrem  benigne  tractaret.  multa  quoque 
et  alia  preclara  fecit  C^). 

Si  ha  qui  anche  un  bell'esempio  del  modo  con  cui  Giovanni  la- 
vorava; mentre,  per  alcuni  rispetti,  si  vede  con  quanta  fedeltà 
egli  restava  fermo  alle  sue  fonti,  sotto  altri  riguardi  non  può  ne- 
garsi ch'egli  si  permettesse  di  scostarsene,  per  aggiungere  del 
suo  qualche  particolare,  che  servisse  a  complemento  o  spiegazione 
del  suo  testo. 

Prosegue  il  capitolo  accennando  allo  scisma  romano,  di  cui 
si  parla  nel  capitolo  6<)  dQÌYAnonynms.  In  quel  passo,  rilevo  questo 
soltanto,  che,  come  si  avvertì,  nel  codice  ivi  leggesi  :  «  intentio  orta 
«  est  in  urbe  Roma»,  dove  P  ha  invece  «  contentio  «  &c.,  colle 
lettere  e  o  n  t ,  probabilmente  aggiunte  dal  correttore,  in  rasura. 

Nel  codice  P  mancano  i  capi  ^7-9  e  parte  del  70,  ripren- 
dendosi il  testo  colle  ultime  parole  del  capo  70,  cioè:  «  erat  enim 
«  amator  fabricarum  et  restaurator  civitatum».  E  Giovanni,  dopo 
il  cenno  sullo  scisma,  tosto  prosegue  dicendo  :  «  erat  autem  rex 
«  Theodoricus  in  fabricandis  palaciis  et  reparandis  civitatibus  ac 
«  aliis  ornamentis  urbanis  tota  intentione  solicitus  ».  E  prosegue 
trascrivendo  quasi  alla  lettera  i  capi  seguenti,  sino  al  73  inclu- 
sivamente.  Egli  si  permette,  come  al  solito,  qualche  ritocco,  ag- 
giungendo o  levando.  Parmi  interessante  riferire  quello,  che  egli 
scrive  intorno  agH  edifici  eretti  da  Teoderico  in  Verona: 

Item  Verone  fecit  thermas.  iteni  in  gens  palacium  et  a  porta  usque 
ad  palatium  e  x  e  e  1  s  u  m  porticum  fecit.  huius  palaci!  adhuc  apparent 
vestigia    iuxta    ecclesiam    Sancti    Syri,    in    loco    qui    dicitur 

(i)  Cioè  alla  donna. 

(2)  Cod.  Veronese,  e.  129  a. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     65 

CastellusCO.  aqueductum,  qui  destructus  fuerat,  reparavil.  item  muris 
novis  circuivit  civitatem  et  eam  ampliavit  muris  vetustis  in  ci  vi- 
tate conci usis.  sunt  autcm  muri  quos  fecit  rcx  Theodo- 
ricus,  quibus  nunc  Vcronensis  urbs  cingitur.  in  cadcm 
etiam    urbe    sedem    sibi    regale m    statuit. 

Perchè  immediatamente  si  distingua  ciò  che,  in  questo  passo, 
appartiene  c\ìì' Anonymus  e  ciò  che  spetta  a  Giovanni,  adottai  il 
carattere  spazieggiato  per  le  aggiunte  di  quest'ultimo. 

Solo  alla  fantasia  di  Giovanni  vorremo  attribuire  gli  epiteti 
laudativi  aggiunti  a  «palacium  »  e  a  «  porticum  ».  Ma  trattandosi 
di  un  re  come  Teoderico,  del  quale  la  leggenda  locale  veronese 
narrava  cose  spettacolose,  ninno  poteva  pensare  che  il  palazzo  da 
lui  costrutto  non  fosse  immenso  e  il  portico  non  fosse  eccelso. 
Non  sono  amplificazioni  retoriche,  ma  appunti  di  erudito  le  os- 
servazioni sulle  mura,  e  su  quanto  di  esse  rimaneva  ancora  in 
piedi  ai  tempi  di  Giovanni.  Oggidì  le  asserzioni  di  Giovanni  si 
pongono  in  dubbio,  poiché  si  indicano  altre  mura,  posteriori  alle 
Teodericiane  e  pure  anteriori  al  principio  del  xiv  secolo,  cioè  an- 
teriori all'età  di  Giovanni  (^).  Ma  ciò  non  ostante  resta  sempre 
almeno  questo,  che  Giovanni,  relativamente  ai  suoi  tempi,  era  e 
erudito  e  archeologo. 

I  resti  del  palazzo  di  Teoderico  sul  colle  di  S.  Pietro  a  Ve- 
rona furono  in  questo  secolo  studiati,  illustrati,  riconosciuti  da 
Giovanni  Orti  Manara  (3)  e  da  Oscar  Mothes  W. 

Riferii  questo  brano  di  Giovanni  anche  per  un  altro  motivo. 
La  proposizione  «  item  muris  novis  circuivit  civitatem  »  ha  anche 
un  valore  per  la  critica  del  testo.  «  Muris  novis  »  in  ablativo 
ci  richiama  un  tantino  alla  pristina  lezione  del  codice  P  (§  71). 
Mentre  nel  codice  M  si  ha  «  muros  alios  novos  »,  P  aveva,  per 

(i)  Il  castello,  sul  colle  S.  Pietro.  Era  edifìcio  romano,  tramutato  nel 
palazzo  di  re  Teoderico,  del  quale  palazzo  rimangono  ivi  ancora  imponenti 
vestigia. 

(2)  Pompei,  Sagoio  di  studi  intorno  alle  varie  mura  di  Verona,  in  Archivio 
Veneto,  XVIII,  206. 

(3)  Illustra:(ione  di  due  antichissimi  tempii,  Verona,  1840. 

(4)  Die  Baiikunst  des  Mittelallers  in  Italien,  Iena,  1879,  pp.  178-9. 

S 


66  C.  CIPOLLA 

quanto  pare,  cominciato  a  scrivere  «  muris  aliis  »,  che  tosto 
mutò  in  «  muros  alios  »  (').  Ma  più  importante  è  «  circuivit  ». 
Così  legge  il  codice  P,  quantunque  dalla  collazione  usufruita  dal 
Gardthausen  possa  parere  che  vi  sia  scritto;  «  circumit  »  (-). 
M  legge  invece  :  «  circuì t  ».  Ecco  un'  altra  prova,  se  ce  ne  fosse 
bisogno,  della  dipendenza  di  P  da  M. 

Giovanni,  continuando  l'esposizione  della  vita  di  Teoderico, 
discorre  delle  cose  religiose  : 

Q.uod  Thcodoricus  rex  Gothoriim  qui  regnabat  in  Yta- 
lia,  cum  esset  arrìanus  in  tyrannide  versus  est  et  catho- 
licos  persequebatur  et  quod  mandavit  lustino  principi  et(3) 
hereticis  ecclesias  redderet(4). 

Da  molti  passi  àoìY Anonymus  risulta  questo  pensiero  :  Teode- 
rico, pur  essendo  ariano,  si  comportò  giustamente  e  imparzial- 
mente verso  i  cattolici  sino  agli  ultimi  suoi  anni.  U Anonyìmis,  nel 
testo  pervenutoci  comincia  a  parlare  della  persecuzione  di  Teo- 
derico contro  i  cattolici,  accennando  (capo  80)  al  favore  che  il  re 
diede  ad  Eutarico,  il  quale  «  nimis  asper  fuit  et  contra  fidem  catholi- 
«  cam  inimicus  ».  Era  facile  quindi  che  un  lettore  erudito  attri- 
buisse ad  Eutarico  la  trista  parte  di  seduttore  del  re.  «  Eo  tem- 
((  pore  -  scrive  Giovanni  -  Theodoricus  rex  Gothorum,  de  quo 
«  superius  scripsi,  cum  regnaret  apud  Ytaliam,  licet  esset  arrianus, 
«  tamen  (5)  modeste  usque  ad  hec  tempora  regnaverat.  sed  de- 
ce pravatus  fuit  ab  Eutharico  consule  in  tantum  quod,  omni  reve- 
«  rentia  spreta,  contra  catholicos  insurrexit  ».  Quindi  Giovanni 
trascrive  i  capi  80-2,  tranne  le  ultime  righe  di  quest'ultimo (^^,  dove 
è  fatta  parola  degli  ordini  dati  ad  Eutarico  e  a  Pietro  vescovo  di 

(i)  Di  questa  particolarità  del  cod.  P  tacciono  Gardthausen  (p.  299), 
e  MoMMSEN  (pp.  324-5). 

(2)  Anche  Mommsen  (p.  325  ^9)  avverte  che  P  legge:  «  circuivit  », 

(3)  Corretto  in  nero  :  «  quod  », 

(4)  Cod.  Veronese,  ce.  1 34  B- 134  e. 

(5)  In  queste  prime  parole  abbiamo  un  ricordo  del  cap.  60  àoiVAnon. 
Valcs. 

(6)  Ed.  Gardthausen,  p.  301,  r.  24  -  302,  r.  2  ;  ed.  Mommsen,  p.  327  34-s. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     67 

Ravenna,  in  riguardo  alla  riedificazione  delle  sinagoghe  distrutte 
dai  cattolici.  In  questo  brano  alcuni  punti  sono  modificati,  per 
farli  più  chiari.  E  bisogna  confessare  che  le  spiegazioni  di  Gio- 
vanni son  giuste  :  dove  non  intende,  sorvola,  ma  in  alcuni  luoghi 
commenta  assai  bene  il  suo  autore.  Dice  questo  (cap.  81),  se- 
condo il  codice  P,  che  i  giudei  di  Ravenna  non  volendo  sa- 
perne dei  battezzati  «  dum  ludunt  (')  frequenter  oblatam  in  aquam 
«  fluminis  iactaverunt  ».  E  Giovanni:  «...  iudei  multas  deri- 
«  siones  de  religione  christianorum  fecerant,  et  in  tantum  ausi  sunt 
«  quod  oblatas,  sive  ostias  simplices,  in  contemptum  dominici 
«  corporis  sepe  in  flumen  proiicerent  » .  Per  cui  i  cattolici  «  non 
«  reservantes  (^)  neque  regi,  neque  Eutharico  aut  Petro,  qui  tunc 
«  episcopus  erat»,  assalirono  le  sinagoghe.  E  Giovanni:  «  sine 
«  licentia  regis  et  Eutharici,  non  consulentes  etiam  beatum  Petrum 
«  Ravennatem  episcopum,  sed  fervore  indignationis  accensi ...  ». 
Le  ultime  parole  del  capitolo  8  r  sono  molto  oscure  :  «  quod  et 
«  in  cena  eadem  similiter  contigit  ».  Francesco  Eyssenhardt  ('^ 
propose  di  sostituire  «  Caesena  »  a  «cena»,  quasiché  YAnonymus 
parlasse  di  altro  incendio  delle  sinagoghe  avvenuto  a  Cesena^  in 
conformità  a  quanto  era  avvenuto  a  Ravenna.  L'ipotesi  e  la  con- 
gettura sono  più  speciose,  che  fondate,  poiché  in  tutto  il  resto 
della  narrazione  si  parla  unicamente  e  sempre  di  Ravenna  ;  e 
anche  l'ordine  per  la  ricostruzione  delle  sinagoghe  venne  dato  dal 
re  al  vescovo  di  Ravenna  e  non  anche  a  quello  di  Cesena. 

Per  questo  motivo  provo  pure  difficoltà  ad  aderire  all'opinione 
del  Mommsen,  il  quale  (pp.  32^-7  ^'^)  racconcia  il  passo  cosi  :  «  quod 
«  et  in  Roma  in  re  eadem  similiter  contigit  ».     Egli  si  appoggia 


(i)  Il  cod.  M  aveva  la  lezione:  «  laudent  »  corretta  poi  In  «  ludent  », 
secondo  il  Mommsen  ;  invece  Gardthausen  dà  come  prima  lezione:  «  ludent  », 
e  come  seconda:  «  livident  »,  che  è  appunto  quella  accettata  da  Enrico  Va- 
lesio  (p.  484). 

(2)  Mommsen  propone  di  leggere  :  «  observantes  ». 

(3)  Jahrhùcher  fùr  classische  Philologie,  CXI,  560.  Gardthausen,  che  regi- 
stra con  diligenza  le  correzioni  proposte  dai  dotti  che  lo  precedettero,  non 
tien  conto  di  questa,  pubblicata  nel  1875,  cioè  nell'anno  stesso  della  sua 
edizione.    Forse  egli  non  fece  in  tempo  a  giovarsene. 


68  C.  CIPOLLA 

al  capo  82  dove  è  detto  che  Teoderico  ordinò  che  «  omnis  po- 
«  pulus  Romanus  Ravennatis  synagogas,  quas  incendio  concre- 
«  maverunt.. .  restaurarent  ».  Siccome  erasi  pocanzi  parlato  dei 
cristiani  di  Ravenna  che  avevano  distrutto  col  fuoco  le  sinagoghe 
di  quella  città,  così  credo  che  qui  si  debba  intendere  della  po- 
polazione romana  di  Ravenna.  Si  escludevano,  cioè,  da  quest'ob- 
bligo  i  Goti,  cristiani  bensì,  ma  non  cattolici,  sibbene  ariani. 

Il  preposito  del  cubicolo,  che  consigliò  Teoderico  in  questa 
circostanza,  è  appellato  «Triuuane»  dalYAnonymus;  non  attribuisco 
a  semplice  errore  il  fatto,  che  Giovanni  lo  dica  «  Trigilla  »,  ma 
alla  circostanza  che  Boezio  ricorda  «  Trigguillam  regiae  praepo- 
«  situm  domus  »,  contro  alle  cui  cattive  azioni  egli  si  oppose  ('\ 
Giovanni  vuol  mettere  d'accordo  VAnonymns  con  Boezio,  levando 
ciò  che  ai  suoi  occhi  era  una  discordanza.  Il  passo  di  Boezio, 
egli  lo  cita  nel  capo  seguente,  scrivendo  «  Trigillam  ».  Trigilla  e 
Trìvoane  è  tutt'  uno.  «  Trigilla  »  forse  sì  leggeva  in  uno  scritto 
che  Giovanni  di  qui  a  poco  citerà  sotto  il  titolo  di  Vita  di  BocTJo. 

E  di  Boezio  non  lascia  di  parlare  anche  Giovanni: 

De  Boetio  senatore  et  operibus  eius  et  iniusta  occisione 
ipsius  (2). 

Quasi  per  intero,  la  narrazione  del  processo  di  Boezio  è  de- 
sunta dai  capi  83-7  dLdY Anonymiis  VaUsiamis  e  dal  hbro  I,  capo  4, 
§§  37>455  50>  81  Jel  libro  De  consolalione  di  Boezio,  che  Giovanni 
cita  esattamente.  Cita  anche  il  II  del  Z)^  consoìatione  (cap.  3,  27), 
dove  Boezio  ricorda  i  due  suoi  figli  consoli.  Tuttavia  non  tutta  la 
sua  narrazione  è  desunta  da  queste  fonti.  Trascrivo  qui  quanto 
sembra  dipendere  da  una  Vita  di  Boezio  che  non  ha  relazione  con 
quelle  raccolte  dal  Peiper(3).  Cosi  comincia  Giovanni  il  capitolo 
che  stiamo  considerando  : 

Tunc  temporis  florebat  illustris  vir  Boetius  Severinus,  natione  romanus, 
magister  officiorum  regis  Theodorici.     hic  latina  et  greca  lingua  suficientis- 

(i)  De  consci,  philos.  ed.  Peiper,  I,  4,  31,  p.   11. 

(2)  Cod.  Veronese,  ce.  1340-  135  e. 

(3)  Nella  prefazione  alla  sua  edizione  dei  libri  De  consol.  philos.  p.  xxx  sgg. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «     69 

sime  instructus,  multa  conscripsit,  ut  inferius  dicitur.  hic  etiam  cum  esset 
patricius,  consulatum  promeruit  prò  Cassìodoro  Senatore,  collega  suo,  viro 
eruditissimo,  de  quo  etiam  inferius  diceturCO.  habuit  autem  IBoetius  uxorem 
nomine  Helpem,  filiam  Quinti  Aureli!  Symachi  patricii,  qui  erat  caput  Sena- 
tus,  cum  quo  ipse  Boetius  senatum  gessit.  hec  Helpes,  omni  castitate  et 
reverentia,  precipue  litteratura,  floruit.  nam  hymnos  apostolorum  Petri  et 
Pauli  felix  per  omnes  composuissc  fertur  (2). 

Dopo  di  aver  citato  il  libro  II,  cap.  3,  27,  De  consolatione^  sui 
consolati  dei  figli  di  Boezio,  prosegue  così: 

Cum  esset  itaque  Boecius  primus  palaci!  et  fidem  catholicam  per  omnia 
sequeretur,  contra  arrianos  insurrexit  in    defensione  catholicorum.     nam,  ut 

(i)  Vorrà  significare  che  Cassiodorio  procurò  il  consolato  a  Boezio  e 
non  viceversa.  Sulle  relazioni  tra  Boezio  e  Cassiodorio  non  pare  che  Gio- 
vanni conoscesse  i  libri  Variaruni  del  secondo.  In  essi  si  parla  tre  volte  di 
Boezio.  La  I,  ep.  io,  è  diretta  a  Boezio,  «  uomo  illustre  e  patrizio  »,  incari- 
candolo di  provvedere  al  regolare  pagamento  dello  stipendio  ai  «  protectores 
«  equitum  et  peditum  ».  Indirettamente  si  chiariscono  gli  studi  di  Boezio  ; 
poiché  la  lettera  è  in  massima  parte  una  esposizione  della  teoria  del  numero. 
Colla  I,  ep.  45,  Teoderico  (ossia  Cassiodorio)  chiede  a  Boezio  un  orologio 
solare  per  il  re  dei  Borgognoni  (cf.  I,  ep.  46)  ;  il  contenuto  di  questa  let- 
tera in  un  punto  può  raffrontarsi  con  Giovanni,  poiché  vi  si  parla  dei  libri 
greci  da  Boezio  tradotti,  per  primo,  in  latino.  La  II,  ep.  40,  riguarda  la  mu- 
sica, ed  é  pure  indirizzata  a  Boezio  patrizio.  Ma  a  proposito  dell'amicizia 
tra  Boezio  e  Cassiodorio,  mi  viene  il  sospetto  che  quest'ultimo  alluda  al 
primo,  e  non  favorevolmente,  quando  (X,  ep.  12)  scrive  al  Senato  in  lode 
della  famiglia  Anicia,  «  familia  toto  orbe  praedicata,  quae  vere  dicitur  nobihs, 
«  quando  ab  ea  actionis  probitas  non  recedit  ». 

(2)  Qui  Giovanni  fa  una  grande  confusione  di  nomi  e  di  fatti.  Una 
tradizione,  relativamente  tarda,  giudica  moglie  di  Boezio  il  filosofo,  Elpide, 
cui  poi  si  attribuisce  l'inno  dei  santi  Pietro  e  Paolo.  Ma  è  incerto  se  Elpide 
fosse  invece  moglie  di  qualche  altro  Boezio,  più  antico  o  più  moderno  di 
questo.  G.  B.  De  Rossi  (Inscr.  christ.  urbis  Romae,  II,  i,  426-8),  la  cui  au- 
torità é  somma,  in  questa  materia  specialmente,  opina  che  Elpide  non  fosse 
moglie  del  nostro  Boezio,  ch'ebbe,  secondo  egli  crede,  una  sola  moglie,  e 
questa  fu  Rusticiana,  figlia  di  Simmaco,  la  quale,  com'è  noto  (Procopio,  De 
hello  t^othico,  III,  20),  sopravvisse  al  marito.  EgU  ricorda  che  gli  eruditi  per 
mettere  d'accordo  colle  antiche  fonti  alcune  scritture  dei  sec.  xiii-xiv  che 
parlavano  di  Elpide,  come  della  moglie  di  Boezio,  attribuirono  a  quest'ultimo 
due  mogli.  Qui  vediamo  che  Giovanni  confonde  addirittura  Elpide  colla 
figlia  di  Simmaco. 


70  C.  CIPOLLA 

scribit  lordanis,  in  vita  eius,  adversus  memoratum  Trigillam  se  opposuit  ne 
fieret  quod  consulebat.  induxerat  enim  Trigilla  regem  ad  tantum  facinus, 
quod  omnes  catholicos  fecisset  interfìci,  nisi  se  Boetius  opposuisset.  hoc 
testatur  ipse  Boetius  in  primo  phylosophiae  cons  ol  ati  onis  dicens: 
quociens  Trigillam  . . .  (0. 

lordanis  nella  storia  Getica  e  nella  Romana  non  parla  neppure 
di  Boezio  ;  sicché  dovrassi  veramente  pensare  ad  una  Fifa  che 
passava  sotto  il  nome  dì  lordanis,  e  che  sarebbe  forse  preziosa, 
non  potendosi  evidentemente  confondere  coìY Anccdoton  Hoìderi, 
nel  quale  non  si  narra  del  processo  e  della  morte  di  Boezio. 

Dopo  la  citazione  del  De  consoìatione,  Giovanni  riprende  in 
mano  YAnonymus  Falcsianiis,  da  cui  trascrive  il  capitolo  85,  con 
alcune  aggiunte  alla  notizia  sulla  demolizione  della  chiesa  di 
S.  Stefano: 

...  nam  apud  Veronam  iussit  altare  sancti  Stephani  ad  fonticulos  in  suburbio 
civitatis  in  odium  catholicorum  subverti  et  ecclesiam  verti.  erat  autem  tunc 
ecclesia  cathedralis. 

Prosegue  narrando  degli  altri  atti  di  tirannia,  coi  quali  Teo- 
derico  si  rese  odioso  al  popolo.  Nel  suo  racconto  risuona  senza 
dubbio  la  eco  delle  parole  di  Boezio  stesso  nel  De  cojisolatione, 
ma  non  posso  ben  affermare,  che  anche  qualche  altra  fonte  non 
sia  stata  da  lui  usufruita.  Richiama  l'attenzione  nostra  anche  la 
spiegazione,  pienamente  esatta,  ch'egH  dà  della  parola  «  coemptio  » 
usata  da  Boezio  ^^\  mentre  non  conosceva  le  Variae  di  Cassio- 
dorio,  dove  (')  avrebbe  potuto  trovarne  la  spiegazione.  Questo 
argomento  si  riferisce  solamente  di  lato  allo  scopo  nostro,  e  quindi 
mi  limito  a  riferire  quel  brano,  che  sembra  più  indipendente  dalle 
parole  usate,  nel  luogo  citato,  da  Boezio: 

Contigit  autem  co  tempore,  quod  fames  gravissima  totam  Ytaliam  invasit, 
ex  qua  multi  Ytalicorum  propter  indigentiam  mortui  sunt.  rex  autem  Theo- 
doricus  cum  horrea  piena  frumento  per   civitates   Ytaliae  haberet,  iussit  ut 

(i)  Cf.  I,  cap.  4,  51  ;  ed.  Peiper,  p.   11. 

(2)  I,  cap.  4,  39. 

(3)  Variar.  V,  ep.  13;  VII,  ep.  22;  X,  ep.  18. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «    71 

nullus  frumentum  acciperet,  nisi  de  horreis  regis,  quibus  prepositi  erant  offi- 
ciales  ad  accedendum  et  carissimo  precio  vendentes  pecunias  a  miseris  ci- 
vibus  quedam  coemptio  poneretur  (0,  quasi  sub  spe  frumenti  emendi,  de 
huius  collecte  terribili  quantitate  ipsc  Boetius  in  eodem  libro  (2)  sic  refert  : 
cum  acerbe  . . . 

Era  di  uso  anche  sotto  i  Goti  che  lo  Stato  curasse  la  vendita 
del  frumento.  Abbiamo,  per  esempio,  una  lettera  di  Cassiodorio  C^) 
ai  vescovi  e  agli  onorati.  Vi  si  dice  che  alcuni  cittadini  avevano 
fatto  la  «  esecrabile  sevizia  »  di  nascondere  il  frumento,  durante 
la  carestia,  per  farlo  rialzare  di  prezzo  ;  si  ordina  che,  fatta  ricerca 
di  quanto  frumento  ciascuno  possiede,  lo  si  venda  a  prezzo  conve- 
niente. Nel  libro  XI,  epistola  5,  chi  scrive  si  preoccupa  della 
carestia  che  angustiava  Roma.  Sopra  tutto  interessanti  sono  le 
epistole  XII,  25,  26,  27  pure  delle  Fariae  di  Cassiodorio,  poiché 
il  loro  contenuto  si  presta  assai  bene  al  commento  di  Giovanni. 
Nella  prima  epistola  si  parla  dei  granai  pubbHci,  che  si  aprivano 
a  sollievo  dei  privati,  stretti  dalla  fame,  nella  Venezia.  La  seconda 
attesta  che  si  aprivano  i  granai  di  Concordia,  Aquileia,  Cividale, 
dove  il  frumento  veniva  raccolto  per  l'esercito.  L'ultima  delle  tre 
citate  lettere  si  riferisce  ad  altre  popolazioni  affamate,  in  favore 
delle  quali  si  aprivano  i  pubbhci  granai  di  Tortona  e  Pavia,  i  quali 
dovevano  vendere  il  frumento  ad  un  soldo  per  25  moggie,  ridu- 
cendo tale  prezzo  ad  un  terzo  per  i  poveri.  Abbiamo  imparato 
d:iìV Ationyinus  Valesianus  (cap.  73)  che  in  momenti  di  grande  ab- 
bondanza sessanta  moggie  eransi  vendute  ad  un  soldo;  ma  quel 
prezzo  erasi  reputato  come  straordinariamente  basso.  Nell'epi- 
stola X,  27  Cassiodorio  ricorda  che  per  i  Liguri  provvedono  i 
granai  di  Pavia  e  di  Tortona,  e  per  i  Veneti  quelli  di  Trento  e 
Treviso. 

Appena  può  essere  utile  rilevare  che  tutte  le  epistole  di  Cas- 
siodorio qui  allegate  spettano  all'età  post-teodericiana.  Agli 
«  horrea  »  sopra  ricordati  possiamo  aggiungere  quello  di  Verona, 


(i)  Q.UÌ  comincia  la  e.  135  a. 

(2)  I,  cap.  4,  37. 

(3)  Variar.  IX,  ep.  5. 


72  e.  CIPOLLA 

il  quale,  se  non  è  ricordato  da  antichi  storici,  è  tuttavia  indicato 
nella  iconografia  Rateriana  <^'). 

La  narrazione  del  processo  contro  Boezio  è  desunta  dai  ca- 
pitoli 85  e  87  dQÌVAìiOìiymiis,  con  inserti  tre  brani  (^)  del  De  conso- 
latione.  In  I,  4,  81  parla  Boezio  di  «  lettere  falsificate  »,  che  si 
fabbricarono  per  perderlo,  e  YAnonyinas  (cap.  85)  narra  che  Ci- 
priano accusò  Albino  di  aver  scritto  lettere  all'imperatore  Giustino. 
Giovanni  ha  un  racconto  più  particolareggiato  e  diff"uso,  ma  che 
forse  ha  per  unica  base  le  magre  attestazioni  citate.  Cipriano, 
egli  dice,  accusò  Boezio  di  due  cose  : 

...primo  per  se  ipsum  dicebat,  quod  aliqui  amici  regis  scripserant  regi  litte- 
ras,  ut  caveret  a  seditione,  quam  Albinus  et  ceteri  senatores  machinabantur 
centra  eum  ;  et  quod  Boetius  hoc  sciens  misit  nuntios  suos  et  fecit  auferri 
nuntiis  predictorum  amicorum  regis  litteras  predictas  ne  deferrentur  ad  regem. 
secundo  vero  accusar!  fecit  Boetium  per  quosdam  viles  personas  et  de  la- 
trocinio damnatos  (3),  quod  Boetius  scripserat  litteras  lustino  imperatori  ad- 
versus  Theodoricura.  item  ad  omnes  senatores,  ut  uno  animo  rcsisterent 
Theodorico.  litteras  autem  scribi  fecerat  Cyprianus  sub  nomine  Boetii  et 
sigillo  ipsius,  quod  fraudolenter  a  notario  Boetii  habuerat,  sigillari.  cum 
igitur  rex  tunc  esset  Ravenne,  predicti  accusatores,  a  Cypriano  instructi,  ac- 
cesserunt  ad  regem,  dicentes  se  velie  sibi  aliqua  utilia  dicere  et  predictas 
litteras  tamquam  scriptas  a  Boetio  et  ipsius  sigillo  munitas  regi  tradiderunt. 
tunc  rex  valde  gavisus,  latrones  illos  absolvit  et  Boetium  absentem,  quia 
Verone  tunc  erat,  non  citatum,  non  culpabilem,  set  omnino  insontem  et  pre- 
dieta  ignorantem,  contra  iuris  ordinem,  damnavit  exilio,  et  ad  predicta  verba 
confirmanda,  falsos    testes    contra  Boetium  (4)  Cyprianus  exhibuit  omnia  de 

(i)  Per  questa  iconografia,  cf.  Saggio  di  cartografia  della  regione  veneta, 
Venezia,  1881,  p.  i  (dove  per  errore  di  stampa  l'iconografia  è  attribuita  al 
sec.  XI,  invece  che  al  x),  e  C.  Cipolla,  Fonti  edite  della  storia  della  regione 
veneta,  Venezia,  1882-3,  p.  137-8.  Probabilmente  Raterio  non  fece  che 
trascrivere  una  tavola  più  antica,  siccome  viene  congetturato  nel  Saggio 
cit.;  sicché  1' «  horreum  »  veronese  qui  ricordato  può  facilmente  rimandarsi  ad 
epoca  assai  più  antica  che  non  sia  quella  di  Raterio.  In  ogni  modo  un 
«  horreum  »  viene  rammentato  in  un  documento  veronese  del  927,  edito  da 
G.  G.  DiONisi,  De  Aldone  et  Notingo,  p.  103. 

(2)  I,  cap.  4,  50,  81,  117. 

(3)  VAnon.  Vales.  cap.  86,  scrive  :  «  falsos  testes  ».  Boezio,  I,  cap.  4, 
51-4,  mette  sotto  pessima  vista  i  suoi  accusatori  Basilio,  Opilione  e  Gaudenzio. 

(4)  Cf.  Anon.  Vales.  cap.  86. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «    75 

consensi!  regis  faciens.  lecta  autem  tam  crudeli  et  iniqua  sententia  contra 
Boetium  et  Albinura,  statim  rex  misit  satelites  suos  Veronam  et  iussit  Boc- 
tium  et  Albinum,  verberibus  cesos,  in  exilium  Papiam  duci,  et  apud  ba- 
ptisterium  maioris  ecclesie  in  carcere  mittiCO;  in  quo  vidclicet  loco  ipse 
Boetius  libros  de  philosophie  consolatione  composuit... 

Dopo  aver  citato  un  passo  del  De  consolatione  ^^\  Giovanni 
narra  in  breve  la  morte  di  Boezio,  sopprimendo  alcun  che  di 
quanto  narrasi  daW Anonymus  Vaìesianus  (cap.  87);  solo  egli  dice 
che  Teoderico  venne  a  Pavia,  e  quindi  chiamò  a  sé  Eusebio  prefetto. 

Sulla  morte  e  sul  culto  professato  al  corpo  di  Boezio,  Gio- 
vanni scrive  ancora  alcune  linee  che  meritano  di  essere  ricordate: 

Freculphus  vero  Lixoniensis  (5)  episcopus  in  libro .1111.  de  annotationi- 
bus  temporum  scribit,  quod  Boetius  iussu  Theodorici  decollatus  est.  alii 
dicunt  quod  duni  Boetius  esset  Papié,  contigit  quod  inter  duos  fratres  orta  est  prò 
patris  hereditate  disse[n]sio,  cumque  questio  delata  fuisset  ad  Boetium  utpote 
iurisconsultum,  secundum  legem  sententiam  tulit,  et  uni  fratrum  victoriam 
litis,  alteri  vero  perditionem  iudicavit.  tunc  frater  qui  succubuerat,  missis 
satellitibus,  Boetium  quodam  mane  orantem  in  ecclesia  beati  Petri  ad  celum 
aureum  0)  occidi  fecit.  corpus  itaque  Boetii  taraquam  martiris  in  ecclesia 
beati  Petri  prefata  sepultum  est;  in  qua  videlicet  ecclesia  requiescit  corpus 
beati  patris  Augustini  doctoris  precipui,  de  cuius  translatione  inferius  loco  suo 
dicetur.  Papienses  vero  festum  beati  viri  Boetii  et  martiris  sub  nomine  sancii 
Severini   martvris  colunt,   quia  Boetius   alio  nomine  vocatus  est  Severinus. 

Qui  Giovanni  mostra  di  ignorare  il  vero  nome  di  Anicio 
Manlio  Torquato  Severino  Boezio. 

Giovanni  continua  la  storia  di  re  Teoderico,  parlando  di  papa 
Giovanni  I  : 

De  nequitia  Theodorici  regis  qualiter  misit  lohannem 
papam  Consta ntinopolim  et  postea  eum  in  carcere  occidit; 
et  de  Decisione  Symachi  patricii,soceri  Boetii  (s). 


(i)  Cf.  Anon.   VaUs.  cap.  87. 
(2)  I,  cap.  4,  117. 

(5)  Presso  Freculfo,  Chron.,  Coloniac,  1539,  nulla  trovo  circa  la  morte 
di  Boezio. 

(4)  S.  Pietro  in  Ciel  d'Oro  a  Pavia. 

(5)  Cod.  Veronese,  ce.   135D-136A. 


74  C.  CIPOLLA 

Come  è  noto,  V Anonynms  Falesianus,  contrariamente  al  Libcr 
pontificalis,  discorre  della  morte  di  Boezio,  prima  che  della  mis- 
sione di  papa  Giovanni  a  Costantinopoli.  Egualmente  fli  Gio- 
vanni Diacono,  anche  in  questo  particolare  dimostrando,  come 
base  della  sua  narrazione  storica  fosse  VAnonynms  Falesianus,  e 
precisamente  nel  testo  a  noi  pervenuto.  Nel  presente  capitolo,  e 
nel  successivo,  nel  quale  pure  si  accenna  a  s.  Giovanni  I  papa, 
il  nostro  cronista  fece  uso  indubitatamente  del  Libcr  pontificalis. 
Anzi,  tutto  intero  il  presente  capitolo  è  un  amalgama  dell' Anony- 
mus  e  del  Libcr  pontificalis.  Quest'ultimo  è  usufruito  diggià  nelle 
prime  parole  del  capo,  le  quali  sono  le  seguenti: 

Eodem  tempore  Theodoricus  rex  in  profundum  malorum  devolutus,  au- 
diens  quod  lustinus  imperator  foveret  catholicos  et  arrianorum  ecclesias  fa- 
ceret  consecrari  secundum  morem  catholicorum,  ac  hereticos  exterminaret .  . . 

E  il  Libcr  pontificalis  (I,  275)  in  maniera  non  difforme  : 

...  ad  lustinum  imperatorem  orthodoxum,  quia  eodera  tempore  lustinus 
imperator,  vir  religiosus,  sumrao  ardoris  amore  religionis  christianae  voluit 
hereticos  extricare.  nani  summo  fervore  christianitatis  hoc  Consilio  usus  est, 
ut  ecclesias  arrianorum  catholicas  consecraret. 

E  anche  in  seguito,  al  racconto  desunto  dall' Anonymus  Fale- 
sianus, si  inseriscono  frasi  e  pensieri  che  Giovanni  trovava  soltanto 
nel  Libcr  pontificalis.  Quindi  non  solo  dice  il  papa  essere  «  valde 
«  egrotum  »,  ma  anche  dove  ricorda  i  suoi  compagni  di  viaggio, 
li  nomina  con  una  circostanza  ricordata  nel  Libcr  pontificalis. 
Infatti  i  laici  vengono  dall' Anonymus  (cap.  90)  cosi  menzionati  : 
«  Senatores  Theodorum,  Inportunum,  Agapitum  et  alium  Aga- 
«  pitum  ».  E  Giovanni:  ((...senatores  Inportunum  et  Agapi- 
((  tum  exconsules  et  aHum  Agapitum  ».  La  parola  «exconsules» 
egli  la  ricavò  dal  Libcr.  Nò  l'Anonymus,  né  il  Libcr  (')  narrano 
che  papa  Giovanni,  entrando  a  Costantinopoli,  abbia  miracolo- 
samente guarito  un  cieco,  mentre  Giovanni  scrive:  ((  Hic  Ioannes 

(i)  E  neppure  ne  parlano  i  Bollandisti,  Ada  sanctorum,  mai  27,  VI, 
47  sgg. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »    75 

«  papa  apud  portam  Constantinopolim,  que  dicitiir  Aurea,  cuidam 
«  ceco,  in  cospectu  omnium,  lumen  reddidit  ».  Alla  narrazione 
della  legazione  costantinopolitana  di  Giovanni  papa,  egli  inserisce 
la  notizia  della  morte  di  Simmaco,  per  la  quale  si  giova  del- 
VAnonynius,  come  può  vedersi  da  queste  sue  parole  : 

. . .  timens  ne  Symacus,  socer  Boetii,  aliquid  moliretur  centra  eum,  fecit 
duci  vinctum  a  Roma  Ravennani,  ex  obiecto  sibi  crimine  fecit  eum  decolari. 

E  YAnonymiis  Falesianus  (§  92)  aveva  detto: 

Symacus  (0,  caput  Senati  cuius  Boethius  filiam  habuit  uxorem,  deducitur 
de  Roma  Ravennam.  metuens  vero  rex  ne  dolore  generi  aliquid  adversus 
regnum  eius  tractaret,  obiecto  crimine  iussit  interfici. 

Ma  Giovanni,  alle  recitate  parole  aggiunse  :  «...  consulatu 
«  Probi,  set  sequenti  anno,  ut  dicitur,  vitam  finivit  ».  La 
frase  «  consulatu  Probi  »  si  riferisce  alla  morte  di  Simmaco,  ed 
è  desunta  dai  cronografi  ^^\  mentre  il  Liber  pontificalis  ne  tace. 
Siccome  né  V Anonymus  né  il  Liber  poniificaìis  dicono  che  a  Gio- 
vanni papa,  nel  viaggio  verso  Costantinopoli,  fosse  compagno  Pie- 
tro, vescovo  di  Ravenna,  così  crederemo  che  il  nome  di  Pietro 
l'abbia  di  suo  capo  aggiunto  alla  serie  il  nostro  cronista.  U Ano- 
nymus menziona  bensì  il  vescovo  di  Ravenna,  ma  non  Pietro, 
sibbene  Ecclesio.  Ma  siccome  si  era  poc'anzi  menzionato  il  ve- 
scovo Pietro,  così  facile  era  la  confusione. 

Veniamo  ad  un  altro  capitolo  di  Giovanni  Diacono: 

De  occisione  lohannìs  pape  et  morte  Theodorici  regisCJ), 

Per  la  morte  di  papa  Giovanni  I,  il  cronista  si  giova,  come  è  da 
attendersi,  tanto  ddY  Anonymus  Falesianus,  quanto  del  Liber  pontifi- 
calis. Dal  primo  (cap.  93)  deduce,  per  esempio,  il  miracolo  avve- 
nuto intomo  al  feretro  del  pontefice;  dal  secondo  ritrae  la   data 

(i)  Cosi  ha  tanto  il  cod.  Palat.-Vatic,  quanto  il  cod.  Meermann-Phil- 
lips;  Gardthausen  e  Mommsen  scrivono:  «  Symmacus  ». 

(2)  Cf.  Marius  Aventicensis,  Chron.  ;  Gallandius,  Bihl.  vd.  Pah:  XII, 
514;  Holder-Egger,  in  N.  Archiv,  I,  365. 

(3)  Cod.  Veronese,  e.  135  d. 


76  C.  CIPOLLA 

della  morte,  «  .xv.  kl.  iunii  » .  Che  papa  Giovanni  I  morisse 
durante  il  consolato  di  Olibrio  è  detto  così  dal  nostro  cronista, 
come  dal  Liber  pontificaìis  ('). 

Quando  poi  Giovanni  Diacono  passa  a  narrare  la  morte  del  re, 
introduce  il  discorso  dicendo  ch'egli  morì  «  .lxxxxviii".  die  a  pas- 
ce sione  beati  lohannis  »,  frase  ch'egU  potea  desumere  tanto  dal  Li- 
hcr  pontificaìis,  quanto  àdW^.  Historia  romana^^^  di  Paolo  Diacono; 
ma  tutto  fa  credere  che  Giovanni  Diacono  avesse,  senz'altro,  sot- 
tocchio il  Liber  pontificaìis,  del  quale  riproduce  quasi  esattamente 
l'espressione.  In  appresso  Giovanni  riferisce  i  prodigi  dei  quah 
trovava  menzione  presso  VAnonymus  Valesianus  (cap.  84).  Questa 
è  circostanza  notevole,  poiché  rivela  l' intenzione  di  Giovanni 
Diacono  di  dare  un  po'  d'ordine  al  confuso  racconto  dell'^^zo- 
nymiis.  Farmi  evidente  che  quei  prodigi,  nel  posto  in  cui  si  tro- 
vano, non  abbiano  alcuna  ragione  di  essere,  mentre  si  spiegano 
abbastanza  bene,  supponendoli  preannunziatori  di  qualche  grande, 
terribile  avvenimento  (5).  Né  so  vedere  che  questo  avvenimento 
altro  possa  essere  se  non  la  morte  del  re. 

Narrati  i  prodigi,  Giovanni  trascrive  i  capitoli  94-9^  àdYAno- 
nymus,  dove  si  parla  dell'ordine  scritto  da  Simmaco  Scolastico, 
giudeo,  per  la  consegna  delle  chiese  cattoHche  agli  ariani,  e  si 
narra  la  morte  di  Teoderico,  la  sua  sepoltura,  e  la  elevazione 
di  Atalarico  al  trono.  Pare  sia  da  attribuirsi  alla  tendenza  di 
Giovanni  ad  abbellire  il  suo  argomento,  qualche  particolarità, 
ch'egli  sa  narrarci  sulla  morte  di  re  Teoderico.  Ecco  la  sua  de- 
scrizione della  morte  del  re,  la  quale  ha  il  suo  fondamento  nelle 
parole  deW Anonymiis  che  pure  parla  del  «  flusso  di  ventre  »,  e 
rammenta  la  morte  di  Ario. 

Statini  enim  gravissimo  ventris  profluvio  egrotans,  ad  instar  Arii  aucto- 
ris  eius  intra  triduum  omnia  viscera  cum  polmone,  iecore  et  splene,  et  aliis 

(i)  Non  si  giovò  certo  dell'opuscolo  Gloria  martyrum  di  Gregorio  Tu- 
RONENSE  (ed.  B.  Krusch),  in  Script.  Mcrov.  I,  513,  Hann.  1884. 

(2)  Ed.  cit.  p.  219. 

(5)  Per  contro  il  Mommsen  (Chron.inin.  I,  262),  pur  volendo  dare  ordine 
cronologico  alle  materie  contenute  nell'opuscolo  L]cìVAHonyìnus,  mantiene  i 
prodigi  al  posto  attuale. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     77 

precordiis  egessìt;  et  die  dominico,  quo  se  credebat  invadere  catliolicorum 
ecclesias,  regnum  finivit  et  animam  in  manu  demonum  exalavit.  ante  vero 
quam  moreretur,  Athalaricum  nepotem  suum,  vocatis  principibus,  regem 
Ytalie  constituit.  mortuus  est  igitur  ipse  rex  Tlicodorious  anno  regni  sui 
.XXXI.,  anno  Domini  .dxxvi.  et  sepultus  est  Ravenne  in  sepulcro,  quod  sibi 
vivus  paraverat,  magnis  et  miris  ornatus  lapidibus. 

UAnonymus  Valcsianus  è  più  esatto,  poiché  parla  espressamente 
dell'immenso  monolite,  di  pietra  istriana,  che  ricopre  tutt' intero 
il  mausoleo  del  re  in  Ravenna,  e  che  costituisce  anche  oggidì 
una  delle  cose  più  belle,  che  il  forestiero  ammiri  nella  monu- 
mentale Ravenna.  Il  cronista  Giovanni,  che  senza  dubbio  non 
conosceva  Ravenna,  non  intese  bene  le  parole  della  sua  fonte,  e 
le  sciupò. 

Rilevo  che  Giovanni  scrivendo,  come  ora  vedemmo,  «  ani- 
ce mam...  exalavit»,  si  accosta  zlYAnonymus,  quale  lo  abbiamo  in 
P,  e  non  nella  forma  dataci  da  M. 

Il  ricordo  del  consolato  di  Ohbrio,  in  occasione  del  decreto 
di  Simmaco  Scolastico,  Giovanni  lo  trovava  nQÌYAnonymus  Valc- 
sianus. A  proposito  della  traslazione  del  corpo  di  papa  Giovanni 
a  Roma,  egli  trascrive  quasi  alla  lettera  dal  Lihn  pontificalis,  so- 
lamente pone  fuor  di  posto  il  ricordo  del  consolato  predetto  ;  il 
Liber  dice  di  papa  Giovanni  che  il  suo  corpo  fu  da  Ravenna 
trasportato  a  Roma,  e  quindi  definitivamente  tumulato,  essendo 
console  Olibrio. 

Il  modo  di  esprimersi  del  cronista  o  è  errato  addirittura  o  è 
almeno  poco  chiaro.  Tuttavia  la  confusione  ch'egU  fa  non  è  sotto 
ogni  riguardo  completa  :  distingue  i  processi  e  le  morti  di  Boezio  e 
di  Simmaco,  e  sa  che  il  processso  subito  da  quest'ultimo  si  col- 
lega col  consolato  di  Probo.  Coli' aiuto  doìV Anonymus  Valesianus, 
del  Liber  pontificalis  e  di  qualche  cronografo,  egli  non  commette 
l'errore  dell' Anonimo  Ctispinlamo  che  (almeno  se  le  sue  parole 
sono  da  intendersi  nel  senso  che  dà  loro  il  Duchesne  ('))  pone 
sotto  uno  stesso  giorno  i  suppHzi  di  Simmaco  e  di  Boezio,  e 
come  avvenuti  appena  diciotto  giorni  prima  della  morte  di  Teo- 

(i)  LiVcr  pontif.  I,  277. 


78  C.  CIPOLLA 

derico  (■).  Mommsen  (^)  crede  che  YAnonymus  Valesianus  siasi 
giovato  àdV Anonimo  Cnspinianco,  ma  nella  forma  originaria,  non 
nel  magro  frammento  a  noi  giunto. 

Il  Liber  Pontificalis  scrive:  «  cuius  corpus  translatum  est  de 
«  Ravenna  et  sepultus  est  in  basilica  beati  Petri,  sub  die  .vi.  kal. 
«  iunii,  Olybrio  consule  «  (526). 

Invece  Giovanni  Diacono  confonde  la  cronologia,  poiché,  ri- 
ferendo il  passo  del  Liber  pontificalis,  v'  introduce  un  inciso,  nel 
quale  asserisce  che  la  traslazione  ebbe  luogo  un  anno  dopo  la 
morte.     Ecco  le  sue  parole  : 

Igitur  gloriosus  martyr  et  pontifex  sepultus  fuit  Rome  in  ecclesia  beati 
Petri,  .VI.  kl.  iunii,  revoluto  anno  a  die  passionis  sue,  mortuo  iam  Theodorico 
rege,  consulato  Olybrii. 

Dopo  aver  discorso,  colle  riferite  parole,  del  sepolcro  del  re 
a  Ravenna,  segue  Giovanni  dicendo  di  una  leggenda  che  correva 
a  Verona,  al  tempo  suo,  secondo  la  quale  Teoderico  fabbricò 
l'anfiteatro  a  Verona  e  fu  generato  dal  demonio;  la  parte  essen- 
ziale della  leggenda,  quale  è  qui  narrata  da  Giovanni,  consiste 
nel  bagno  e  nella  caccia,  quale  è  riferita  dalla  ben  nota  saga 
germanica.  Sopra  questo  passo  di  Giovanni  non  insisto,  aven- 
dolo in  altra  occasione  riportato  e  illustrato  ^^'l  Citerò  qui  in- 
vece alcune  osservazioni  colle  quali  Giovanni  fa  seguire  questo 
racconto;  e  queste  sue  osservazioni  serviranno  anche  a  conferma 
della  sua  erudizione: 

Hec  autem  varia  et  frivola  (4)  sunt  et  sugestione  demonum  fìctas,  nam 
demones  ut  deludant  horaines  multa  fantastica  ostenderunt  hominibus  sicut  de 
societate  illa  satis  apparet,  que  dicitur  ire  de  nocte,  de  cuius  revelatione  no- 

(i)  Ora  il  passo  del  così  detto  Anoii.  Cusp.  si  citerà  sotto  il  nome  di 
Fasti  Vindohonenses  posteriores  (presso  Mommsen,  Chron.  min.  I,  323):  (523) 
«...  Theodericus  occidit  Symmachum  {var.  Symmacum)  et  Boetium  et 
«  mortuus  est  post  dies  xvtii...  et  mortuus  est  lustinus  imp. ..  ». 

(2)  Chronograph  von  j/4,  p.  637,  nota. 

(3)  Per  la  leggenda  di  re  Teoderico  in  Verona,  in  Arch.  stor.  ital,  Firenze, 
1890,  ser.  V,  tomo  VI,  p.  457  sgg. 

(4)  Qui  nel  cod.  Veronese  comincia  la  e.  1360. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     79 

toria  in  vita  Valentiniani  tercii  impcratoris  scripsi,  qualitcr  bcatus  lermanus 
Altisiodorensis  episcopus  predictam  societatcm  demones  esse  ostcndit.  de 
tali  apparitione  animarum  refert  Helinardus  in  cronicis  ...  ». 

E  dopo  aver  narrato  alcune  apparizioni  demoniache  citando 
Helinardus  e  le  Fite  imperatorum  franconmi  post  Karolum  Magnmn, 
riferisce  il  passo  dei  Dialoghi  di  s.  Gregorio  Magno  ^^'^  sulla  ca- 
duta di  Teoderico  nel  cratere  di  Lipari.  Anche  qui  egli  trovava 
la  sua  fonte  nel  codice  Vaticano-Palatino  (-),  il  quale,  siccome 
abbiamo  visto  in  addietro,  riferisce  tutto  il  tratto  di  s.  Gregorio 
senza  tuttavia  citarne  l'autore  e  il  titolo  del  Hbro.  Invece  nel 
codice  Meermann-Phillips  (ora  Berlinese)  si  riferiscono  le  parole 
e  si  citano  e  autore  e  opera. 

E  qui  il  nostro  esame  è  finito.  Giovanni  Diacono  si  giovò 
del  testo  stesso  del  codice  Palatino-Vaticano,  e  la  sua  cronaca, 
per  la  critica  del  testo  dQÌV Ano7iymus  Valesianiis  non  ha  valore. 
Egualmente  il  codice  Palatino-Vaticano  ha  poco  o  anzi  niun  va- 
lore di  fronte  al  codice  Meermann-Phillips.  Rimane  quindi  asso- 
dato che  solo  sopra  questo  manoscritto  può  poggiare  l'edizione 
critica  àQÌYAnonymns;  dal  codice  Palatino-Vaticano  si  potrà  trarre 
qualche  vantaggio,  nei  limiti  accennati,  tanto  più  che  forse,  vo- 
lendolo, si  può  ancora  riguardare  come  non  dimostrato  che  la 
dipendenza  di  questo  da  quello  sia  tanto  diretta  e  tanto  com- 
pleta, quanto  sarebbe  una  pura  e  sempUce  trascrizione.  Una  mi- 
gliore disamina  del  codice  Meermann-Phillips  sarebbe  estranea 
al  nostro  tema;  mi  basti  ricordare  che  il  Mommsen,  distin- 
guendo in  quel  manoscritto  la  prima  dalla  seconda  mano,  ri- 
tiene che  solamente  la  prima  abbia  valore  per  la  critica  del  testo. 
Il  Mommsen  ha  posto  à  fondamento  della  sua  edizione  la  prima 
mano  del  codice  Berlinese;  e  se  in  Italia,  come  è  da  augurarci, 
si  farà  una  edizione  critica  à.Q\\'Aìionymus,  non  potremo  staccarci 
troppo  da  questo  criterio. 

Dal  lungo   esame  di  parecchi  capitoh  delle  Historiae  imperia- 

(i)  Dlal.  lib.  IV,  cap.  51;  anche  in  Script,  rer.  Langoh.  et  Ital.  p.  540. 
(2)  Freculfo,  Chron.  cìt.,  e.  157,  si  limita   a  ricordare  l'attestazione  di 
s.  Gregorio,  senza  riportarla. 


So  C.  CIPOLLA 


Ics  di  Giovanni  da  Verona,  vorrei  che  un'altra  conseguenza  si 
ritraesse,  oltre  a  questa  puramente  negativa;  ed  è  che  quel  cro- 
nista ci  apparisce  ora  sotto  un  punto  di  vista  speciale.  EgH  è, 
per  il  suo  tempo,  un  erudito  di  molto  valore.  Conosce  una 
quantità  di  opere  e  sa  giovarsene.  Ne  è  soltanto  erudito,  ma 
critico.  È  uomo  d' ingegno^  sa  aggruppare,  con  ordine  logico, 
gli  avvenimenti,  e  dalle  scarse  nozioni  storiche  che  gli  offrivano 
le  cronache  e  gli  antichi,  egli  si  studia,  né  senza  buon  risultato, 
a  restituirci  la  vita  dei  personaggi  dei  quah  discorre.  Di  qui  si 
comprende  quanto  possa  tornar  utile  una  ricerca  larga  e  siste- 
matica delle  fonti  delle  Historiae  imperiaks.  Dì  ciò  si  è  da  pa- 
recchi parlato,  e  in  diverse  occasioni,  ma  parmi  che  troppo  poco 
finora  siasi  fatto  in  tale  proposito. 

Di  qui  ancora  potremo  apprendere  che  molti  hbri  doveano 
esistere  a  Verona  nel  secolo  xiv.  Questa  non  è  cosa  ignota, 
poiché  senza  abbondanza  di  Hbri,  Guglielmo  da  Pastrengo  -  eru- 
ditissimo amico  del  Petrarca  -  non  avrebbe  potuto  scrivere  il  suo 
opuscolo  De  originihns.  Né  il  Flores  moraìimn,  conservato  ma- 
noscritto nella  biblioteca  Capitolare  di  Verona,  si  sarebbe  potuto 
comporre  senza  il  soccorso  di  gran  numero  di  libri.  Ciò  costi- 
tuisce un  fatto   storico,  che  fa  conto  di  rilevare. 

IV. 

Condizione  del  testo  dQ.\V AnoTiy7Jius  Valesianus  IL 
Conclusione. 

L'Anonymus  Valesianus  II,  da  qualunque  parte  lo  si  consideri, 
apparisce  sempre  come  un  insieme  di  notizie,  male  ordinate,  e 
giammai  come  un  tutto  organico  f').  Ohnesorge  trovò  che  questo 
aneddoto  si  differenzia  daìY Aiionymus  Valesianus  I  per  l'abbondanza 
dei  dati  cronologici.     L'osservazione,  come  si  é  veduto,  é  giusta, 

(i)  Quindi  il  MoMMSEN  (Chron.  min.  I,  261-2)  sentì  il  bisogno  di  dare 
lo  specchio  cronologico  delle  materie  contenute  nell'opuscolo. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     8i 

ma  solo  in  parte.  Poiché  le  date  cronologiche  non  si  trovano 
egualmente  compartite  nei  diversi  capitoli;  e,  anche  dove  si  tro- 
vano, non  sono  riferite  in  maniera  uniforme. 

I  capitoli  55  e  54^'^  ci  si  presentano  come  note  storiche  dei 
Fasti  consolari  (^);  e  non  è  a  dubitare  che  i  Fasti  consolari  abbiano 
avuta  influenza  sopra  YAnonymus.  Quei  capitoli  infatti  cominciano 
col  nome  dei  consoli,  ai  quali  stanno  aggiunte  le  narrazioni  che  prin- 
cipiano, colle  formole  consuete  nei  Fasti:  «  his  consulibus  »,  «  hoc 
«  consule  ».  Altrove  abbiamo  una  data,  col  mese,  col  giorno, 
coir  indizione  e  col  consolato  ('),  quale  si  trova  non  nei  Fasti, 
ma  nelle  narrazioni  seguite,  per  esempio,  nel  Libcr  pontificaìis. 
C  è  quindi  la  scrupolosa  esattezza  cronologica,  ma  in  forma  di- 
versa. 

Altrove  si  hanno  traccie  di  indicazioni  cronologiche  andate 
perdute,  e  che  si  saranno  trovate  senza  dubbio  in  quei  brani  dei 
Libì'i  chronicortim,  che  furono  ommessi  dall' excerptatore.  Al  capi- 
tolo 50  (4)  è  detto  che  Odoacre  fissò  il  suo  esercito  nel  «  campo 
«  minore  veronese  »  addì   «  .v.  kal.  oct.  »,  ma  se  ne  tace  l'anno. 

(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  294;  ed.  Mommsen,  p.  316,  318. 

(2)  W.  Oechsli,  Ueber  àie  Hisioria  Miscelili  Uh.  XII-XVIII  und  den 
Anonvmus  Fatesi  anus  II  cit.,  p.  84,  dopo  di  avere  lungamente  esa- 
minato la  relazione  tra  VAnon.  Vaìcs.  e  i  Fasti,  e  dopo  avere  riconosciuto  il 
grande  valore  che  per  questo  rispetto  hanno  le  ricerche  del  Mommsen,  del 
Waitz  &c.,  giunge  alla  conseguenza  che  i  Fasti  furono  usufruiti  àaWAtion. 
per  la  compilazione  dei  capitoli  36,  37,  45,  50-6.  Sulla  relazione  àzVC Ano- 
nimo  coi  Fasti  (Ravennati)  è  a  vedersi  Holder-Egger,  N.  Archiv,  1876,  I, 
316-524.  Adesso  abbiamo  nella  edizione  del  Mommsen  il  raffronto  continuo 
coi  Fasti  Vindohonenses,  col  codice  Havniense,  con  Agnello,  Q.cc.;  sicché  la 
relazione  àtVCAnon.  coi  Fasti  risulta  provata,  anzi  evidente.  Il  §  54  trova 
la  più  chiara  corrispondenza  desiderabile  coi  Fasti  Vindohonenses  priores;  in- 
vece al  §  53  non  è  apposto  alcun  passo  di  confronto.  Si  noti  che  in  molti 
altri  luoghi,  nei  quali  nel  testo  deìVAnon.  non  fu  conservato  ricordo  dei 
consoli,  il  testo  del  racconto  evidentemente  deriva  da  antichi  Fasti,  cioè  ha 
comune  la  fonte  colle  compilazioni  per  consolati,  quali  noi  possediamo. 

(3)  Ed.  Gardthausen,  cap.  94,  p.  304,  rr.  25-26;  ed.  Mommsen, 
p.  328^°:  «  septimo  kalend.  septembris,  indictione  quaru,  Olybrio  con- 
«  sule  ». 

(4)  Ed,  Gardthausen,  p.  293,  rr.  14-15;  ed.  Mommsen,  p.  3i6»9-2°. 

6 


82  e.  CIPOLLA 

Al  capitolo  51  (')  narra  che  Tufa  ed  altri  de'  principali  di  Odoacre 
passarono  a  Teoderico,  nelle  «  kal.  aprilis  »  ;  e  tosto  proseguendo 
si  soggiunge  che  «  eo  anno  »  Teoderico  mandò  Tufa,  maestro  dei 
militi,  ad  inseguire  Odoacre  a  Ravenna;  ma  quale  sia  quell'anno 
non  è  detto. 

Stavano  benissimo  le  indicazioni  del  mese  e  del  giorno  nei  ca- 
pitoli ^^  e  54,  che  portavano  al  principio  i  nomi  dei  consoli;  ma 
dove  questi  mancano,  non  hanno  più  ragione  di  essere. 

Talvolta  la  narrazione  si  riferisce  strettamente  alla  storia 
d' Italia,  ma  non  di  rado  il  cronista  abbandona  questo  paese,  per 
soffermarsi  cosi  a  lungo  sulla  storia  d'Oriente,  da  farci  credere 
eh'  egli  voglia  scrivere  la  storia  dell'  impero.  Veggansi  special- 
mente i  capitoli  39-44,  nel  quale  ultimo  e'  è  bensì  un  riferimento 
al  Senato  romano,  ma  soltanto  casuale,  e  i  capitoli  74-78.  Par- 
rebbe che  la  preoccupazione  maggiore,  o  anche  unica,  fosse  quella 
di  tessere  la  storia  degli  imperatori  Zenone  e  Anastasio.  Non 
cito  altri  capitoli,  nei  quali  la  storia  di  Oriente  si  fonde  con 
quella  di  Occidente;  ma  bensì  rilevo  che  ai  capitoli  sopra  citati 
fanno  contrapposizione  parecchi  altri,  che  sono  dedicati  unica- 
mente alla  storia  italiana. 

Che  il  nostro  aneddoto  sia  un  estratto,  è  cosa  notoria,  e  lo 
dimostra  anche  il  titolo  che  lo  contrassegna  nel  codice  Meermann- 
Phillips;  ma  ora  voglio  notare  come  esso  non. sia  un  brano  preso 
tale  e  quale  da  alcuni  Libri  chronicorum,  ma  voglia  essere  giu- 
dicato come  un  insieme  di  brani  presi  di  qua  e  di  là,  e  spesso 
slegati  o  poco  legati  tra  loro.  A  ben  vedere,  anche  il  titolo  I  te  m 
ex  libris  Chronicorum  inter  cererà  combina  benissimo 
con  questa  supposizione,  poiché  esso  significa  che  dai  vari  libri 
componenti  un'opera  che  avea  per  titolo  Chronica,  si  estras- 
sero quelle  notizie,  le  quali  vi  si  trovavano  frammezzo  ad  altre 
molte. 

Leggendo  di  seguito  il  testo  si  avranno  altre  conferme  di  questa 
opinione.  Ma  si  avrà  altresì  occasione  di  notare  qualche  altra 
cosa,  riflettente  il  modo  con  cui  il  testo  fu  messo  assieme. 

(i)  Ed.  Gardtiiausen,  p.  293,  r.  22;  ed.  Mommsen,  p.  316^3. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     83 

Qui  sul  principio  intanto  osservo  come  molte  parti  delle  bio- 
grafie di  Odoacre  e  di  Teodcrico  vi  manchino  affatto.  Di  Odoacre 
abbondano  le  notizie  sulle  sue  relazioni  con  s.  Severino,  e  sulle 
sua  guerra  con  Teoderico.  E  quanto  a  quest'ultimo  re,  ci  sono 
punti  diffusamente  esposti  :  lo  stabilimento  del  regno,  le  cose 
famigliari,  i  suoi  motti  famosi,  i  lugubri  avvenimenti  degli  ul- 
timi anni  di  sua  vita,  le  molte  e  splendide  fabbriche  da  lui  co- 
struite. Ma  ci  sono  altri  fiitti  che  noi  desidereremmo  conoscere 
minutamente,  e  che  qui  sono  o  appena  toccati,  o  taciuti.  La 
spiegazione  di  ciò  dovrà  cercarsi  soltanto  nel  modo  di  scrivere 
dell'autore,  o  anche  in  altre  ragioni } 

Come  tutti  osservarono,  il  principio  «  igitur  imperante  Zenone 
«  Augusto  »  denota  che  siamo  dinanzi  ad  un  estratto  (^').  E  denota 
ancora  che  l'excerptatore  volle  essere  fedele  assai  al  proprio  testo, 
se  non  si  permise  di  modificarne  in  nulla  la  lezione,  e  conservò 
perfino  quell'  «  igitur  »,  che  al  posto  dove  si  trova  non  ha  più  senso. 

Al  cap.  47  la  frase  «  eodem  tempore  »  (^),  a  primo  aspetto,  pare 
non  abbia  qui  alcuna  ragione  di  essere.  Poiché  nelle  parole  pre- 
cedenti, si  era  detto  semplicemente  che  Odoacre,  entrato  in  Italia, 
vi  aveva  conquistato  il  «  regnum  »,  e  non  si  era  determinato  un 
tempo  speciale,  al  quale  si  potesse  riferire  ciò  che  si  racconta  nel  pe- 
riodo, che  principia  «  Eodem  tempore  »,  ed  è  che  Odoacre  scrisse 
a  s.  Severino,  chiedendogli  se  potesse  fargli  alcuna  cosa  gra- 
dita. La  frase  «  eodem  tempore  »  tuttavia  non  è  sufficiente  mo- 
tivo a  farci  sospettare  che  qui  il  testo  sia  lacunoso,  poiché  essa 
può  considerarsi  siccome  una  trascrizione  quasi  esatta  della  fonte, 
che  in  questo  luogo  veniva  usufruita  dall' Anoìtymus,  cioè  della 
Vita  s.  Scverini  di  Eugippio.  I  capitoli  46-48  sono  desunti  da 
questa  Fita,  che  si  cita  sul  finire  del  capitolo  45.  UAnonymiis 
ne  espilò  quanto,  in  diversi  luoghi,  riguarda  Odoacre  e  lo  rac- 
colse assieme.     Il  §  32  della  Fita^^^  comincia:    «  Isdem  tempo- 


(i)  Holder-Egger,  N.Archiv,  l,  316-24,  a  proposito  dell'aneddoto  crede 
che  anche  il  modo  con  cui  termina,  lo  dimostri  un  frammento. 
(2)  Ed.  Gardthausen,  p.  292,  r.  7  ;  ed.  Mommsen,  p.  315^. 
(5)  Ed.  Sauppe,  p.  24. 


84  C.  CIPOLLA 

«  ribus  Odoacer  rex  s.  Severino  familiares  litteras  dirigens  ». 
E  V Anonymiis  mutò  «  isdem  temporibus  »  in  «  eodem  tempore  » . 
Questo  può  servirci  di  regola  per  andare  a  rilento  prima  di  asse- 
rire con  certezza  che  il  testo  è  lacunoso  o  falsato,  solamente  in 
base  ad  irregolarità  di  dizioni.  Tuttavia  noi  vedremo,  che  la- 
cune ed  errori  ce  ne  sono  innegabilmente. 

Può  sospettarsi  di  una  lacuna  tra  il  capitolo  47  e  il  48,  il  quale 
ultimo  comincia  seccamente  con  «  igitur  Odoachar  ».  Ma  forse 
anche  questo  «  igitur  »  si  può  spiegare  pensando  che  l' autore 
qui  si  preoccupava  soltanto  di  riunire  assieme  i  passi  di  Eugippio 
riguardanti  Odoacre.  «  Igitur  »  è  una  modificazione  di  «  qua- 
«  propter  »,  che  leggesi  nella  Vita  <^'). 

Più  forte  sorge  il  sospetto  di  corruzione  nel  testo  un  po'  più 
innanzi,  nel  medesimo  capo  (^): 

...nam  dum  ipse  esset  bonae  voluntatis  et  arrianae  sectae  favorem  prae- 
beret,  quodam  tempore  dum  memoratum  regera  multi  nobiles  coram  sancto 
viro...  laudarent... 

San  Severino  profetizzò  la  durata  del  suo  regno.  In  Eugippio  (5) 
leggiamo  :  «  Quodam  etiam  tempore  dum  memoratum  regem  »  &c. 
Le  linee  che  yìqV^ Anonymus  precedono  a  queste,  non  hanno  signi- 
ficato, così  come  stanno,  poiché  suonerebbero  un  elogio  all'aria- 
nesimo, locchè  è  assurdo,  mentre  e  san  Severino  e  l'Anonimo 
erano  tutt' altro  che  ariani.  Questa  prima  difficoltà  si  potrebbe 
levare  supponendo  qualche  errore  di  trascrizione,  di  modo  che  il 
testo  genuino  dicesse:  quantunque  egli  favorisse  la  setta  ariana, 
era  tuttavia  uomo  di  buona  volontà.  C  è  poi  una  seconda  diffi- 
coltà, ed  e  che  la  sintassi  esige  che  con  «  quodam  tempore  »  co- 
minci un  nuovo  periodo,  così  come  avviene  nella  Vita  s.  Seve- 
rini  di  Eugippio.  Se  leviamo  tutto  il  tratto:  «  nam  -  praeberet»  ^'^\ 
otteniamo  non  solo  di  ristabilire  il  senso  e  la  sintassi,   ma  con- 


(i)  Ed.  clt.  cap.  44,  §  4. 

(2)  Ed.  Gardthausen,  p.  292,  rr.   15-19;  ed.  Mommsen,  p.  315  i"-^, 

(3)  Ed.  cit.  cap.  32,  §  2. 

(4)  Ed,  Gardthausen,  p.  292,  r.   15-7;  ed.  Mommsen,  p.   315 ''^-i. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  >.     85 

serviamo  il  carattere  a  tutto  il  tratto  presente,  che  è  desunto  per  in- 
tero da  Eugippio.  Probabilmente  anche  il  tratto  «  nam  -  praeberet  » 
è  da  spezzarsi  in  due,  l'uno  riguardante  la  buona  volontà  e  l'altro 
l'arianesimo,  e  i  due  tratti  apparterranno  a  qualche  brano  delle 
Cronache  trascurato  dall' abbreviatore  ('\ 

Gap.  57  (*).  Avanti  a  questo  capo  il  codice  M  segna  la  la- 
cuna di  una  linea.  Il  senso  tuttavia  corre  almeno  fino  ad  un 
certo  segno,  giacché  qui  si  tocca  dell'  ambascieria  mandata  da 
Teoderico  a  Costantinopoli,  il  cui  esito  dipese  dalla  morte  di  Ze- 
none, che  è  oggetto  al  racconto  delle  ultime  linee  del  capitolo  56^5). 
Le  prime  linee  di  detto  capitolo  57  sono  scorrette.  Difatti  i  co- 
dici leggono:  «  Teoiericus  enim,  qui  in  legationem  direxerat 
«  Faustum  Nigrum  adZenonem  »,e  poi  il  senso  è  sospeso;  Gardt- 
hausen  soppresse  «  qui  »  ;  ma  con  quale  diritto  ?  Anche  la 
proposizione  seguente  «  at  ubi  -  reverteretur  »  è  sospesa,  e  non  si 
lega  direttamente  con  quanto  segue  ^^). 

Gap.  60.  Diggià  Francesco  Rùhl  f>)  rilevò  una  singolare  tra- 
sposizione di  parole  avvenuta  in  questo  capo.  È  una  trasposi- 
zione che  si  scorge  facilmente,  dacché   io    stesso  l'aveva   notata 

(i)  Al  principio  del  cap.  53  si  dice  che  «  Odoacer  rex  exiit  de  Cre- 
«  mona  et  ambulavit  Mediolanurn  ».  Holder-Egger,  M  Archiv,  I,  519,05- 
serv'audo  che  non  era  mai  stato  detto  che  Odoacre  fosse  andato  da  Ravenna 
a  Cremona,  crede  errato  il  passo,  e  a  «  Cremona  »  sostituisce  a  Ravenna  ». 
Ma  la  notizia  desiderata  da  Holder-Egger  potea  trovarsi  benissimo  nei  brani 
ommessi  dall'excerptatore. 

(2)  Ed.  G.\RDTHAUSEK,  p.  295,  r.  8;  ed.  Mommsek,  p.  322-  (in  questa 
ed.  il  §  57  comincia  con  «  et  moritur  »  Scc,  cioè  colle  parole  che  nella 
ed.  Gardthausex  chiudono  il  5  5 6). 

(3)  Anzi  queste  ultime  linee,  come  si  disse  nella  nota  precedente,  fu- 
rono dal  Mommsek  succate  dal  §  56  e  poste  al  principio  del  S  57- 

(4)  Anche  i  capp.  55-6  sono  confusi,  lacunosi.  Tra  le  lezioni  dispu- 
tate c'è  «  praeveniente  »,  Gardt.  p.  295,  r.  3.  Il  tratto  mancando  in  P, 
abbiamo  solo  il  codice  M  che  ha  «  praevenientem  ».  Gardthausen  preferisce 
«  praeveniente  »,  e  dice  che  Mommsen  propone  «  perveniente  ».  Ciò  è  ine- 
satto, giacché  egli  legge  invece  «  pervenientem  »;  nel  suo  lavoro  Johannes 
V.  Antiochia  und  Malalas,  in  Hermes,  [1872],  VI,  335,  nota  4;  e  ora  nella 
sua  edizione,  p.  320'",  accetta  sempre:  «  pervenientem  ». 

(5)  Acta  socict.  Lips.  IV,  374-5. 


e.  CIPOLLA 


molti  anni  prima  di  leggerla  accennata  dal  Rùhl.  Il  codice  Meer- 
mann  <^')  legge  :  «  dum  ipse  quidem  arrianae  sectae  esset,  tamen 
«  militia  Romanis  sicut  sub  principes  esset  praecepit  ».  E  di 
lì  a  qualche  linea  (rr.  2(3-7)  •  ^^  l'iì^ìl  contra  religionem  càtho- 
«  licam  temptans  ».  È  chiaro  che  queste  ultime  parole  deb- 
bono seguire  a  «  tamen  ».  E  con  ragione,  o  con  apparenza 
di  ragione,  il  Rtihl,  seguito  ora  dal  Mommsen^  propone  anche 
di  leggere  «  mihtiam  »  (^\  che  diventa  l'accusativo  di  «  esse  prae- 
«  cepit  » . 

Gap.  61.  Qui  comincia  un  tratto  abbastanza  ordinato  e  se- 
guito, che  continua  sino  a  tutto  il  capitolo  62.  Si  parla  dei  detti 
memorabili,  pronunciati  dal  re,  e  dei  quali  al  tempo  dell'autore 
era  tuttora  viva  la  ricordanza.  Ma  è  un  tratto  che  non  ha  da 
fiir  nulla  con  quanto  precede,  e  con  quanto  segue.  Anzi  non 
solo  manca  il  legame,  ma  ci  sono  indizi  del  contrario.  Infatti  il 
capitolo  61  comincia  cosi,  come  se  il  lettore  fosse  informato  della 
mancanza  di  coltura  letteraria  che  l'autore  deplora  nel  re:  «  Hic 
«  dum  inlitteratus  esset,  tantae  sapientiae  fuit...  ».  Viene  in  mente 
che  al  capitolo  61  debbasi  far  precedere  il  capitolo  79,  che  là 
dov'  è,  sta  fuor  di  posto,  e  che  parla  appunto  della  ignoranza 
letteraria  del  re,  principiando  il  discorso  in  forma  di  affermazione 
diretta:  «  Igitur  rex  Theodoricus  inlitteratus  erat  »  &c.  Dopo 
un'  affermazione  diretta,  s' intende  il  «  dum  inlitteratus  esset  » 
del  capitolo  61. 

Il  tratto  61-2  come  si  allaccia  male  con  quanto  precede,  così 
egualmente  non  si  unisce  convenientemente  con  quello  che  segue. 
Infatti  il  capitolo  63  comincia  con  «  Postea  vero  accepta  uxore ...»  ^^\ 
dove  il  «  postea  »  non  può  difendersi  affatto,  mentre  non  si  era 
fatta  parola  di  alcun  precedente  avvenimento,  né  stabilita  alcuna 
data  cronologica. 

(i)  Ed.  Gardthausen,  p.  295,  rr.  22-24.  Questo  tratto  manca  nel  co- 
dice Vaticano-Palatino.  Ora  il  Mommsen  (p.  322)  introduce  nel  testo  la 
trasposizione,  presso  a  poco  nel  modo  proposto  dal  Ruehl. 

(2)  Frick,  op.  cit.  p.  345,  dà  questa  voce  «  militia  »  come  un  esempio 
di  accusativo  in  -a. 

(3)  Ed.  Gardthausen,  p.  297,  r.  13;  ed.  Mommsen,  p.  322^*. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESlANUS  II  »     87 

Gap.  66  e  ^9.  Anche  qui  abbiamo  un  periodo  spezzato  in 
due,  e  partito  in  due  capitoli,  che  restituiremo  così: 

Deinde  veniens,  ingressus  Urbem,  venit  ad  senatum  et  ad  Palmam  po- 
polo adiocutus,  se  omnia,  Deo  iuvante,  quod  retro  principes  romani  ordi- 
naverunt,  inviolabiliter  servaturum  promittit;  verba  enim  promissionis  eius, 
quac  populo  fuerat  adiocutus,  rogante  populo,  in  tabula  aenea  iussit  scribi  et 
in  publico  poni. 

Nel  testo  queste  ultime  parole  seguono,  affatto  fuori  di  posto, 
dopo  il  cenno  sopra  una  condanna  a  morte  pronunciata  da  Teo- 
derico.  La  relazione  di  argomento  tra  le  due  proposizioni  è  evi- 
dente, ed  è  confermata  dalla  rispondenza  della  voce  «  adiocutus  », 
che  viene  usata  in  ambedue.  A  levare  ogni  dubbio  in  propo- 
sito basterà  aggiungere  che  essa  venne  riconosciuta  dai  chiarissimi 
G.  B.  De  Rossi  e  G.  Gatti  in  un  importante  loro  studio  sul  luogo 
appellato  «  ad  Palmam  »   e  sul  suo  emiciclo  nel  Foro  romano  ('>. 

I  capitoli  68-9  sono  un  mosaico  di  frammenti^  uno  dei  quali, 
l'ultimo  del  capitolo  ^9,  l'abbiamo  testé  aggiunto  al  capitolo  66. 
Comincio  dal  considerare  il  principio  del  capitolo  ^8:  «  Item  Ama- 
«  lafrigdam  germanam  suam  in  matrimonium  tradens  regi  Wanda- 
«  lorum  Transimundo  ».  Per  levare  ogni  scrupolo,  osservo  che 
l'uso  del  participio  presente  «  tradens  »,  come  forma  diretta,  è 
comune  al  nostro  autore.  Ne  abbiamo  avuto  testé  un  esempio 
in  «  temptans  (contra  religionem  catholicam)  »  del  capitolo  60. 
Un  altro  ce  lo  offre  il  «  mittens  »  del  capitolo  54  '^^^  Quindi 
la  proposizione  attuale  può  considerarsi  come  proposizione  diretta, 
e  non  é  necessario  cercarne  un'altra,  cui  essa  si  appoggi. 

Egualmente  sembra  fuor  di  luogo  un'altra  notizia  di  carattere 
famighare  che  abbiamo  nel  capitolo  70,  dove  nel  codice  M  (il  co- 
dice P  non  ha  questo  tratto)  leggesi  : 

Deinde  {dopo  di  che?)  sexto  mense  revertens  Ravennam,  alia  germa- 
nam  suam  Amalabirga  tradens  in  matrimonio  Herminifrido  regi  Turingorum  : 

(i)  Bollettino  della  Commissione  archeol.  comunale  di  Roma,  Roma,  1887, 
XV,  64.  Il  MoMMSEN,  p.  324,  dà  il  testo  nella  forma  ordinaria,  senza  al- 
cuna osservazione. 

(2)  Ed.  Gardthausen,  p.  294,  r.  15;  ed.  Mommsen,  p.  316^°. 


^8  C.  CIPOLLA 

et  sic  per  circuitum  placuit  omnibus  gentibus.  eratCO  enim  amator  fabri- 
carum. . . 

Non  ha  da  far  nulla  l'amore  alle  fabbriche,  col  matrimonio  di 
Amalabirga;  eppure  la  voce  «  enim  »  farebbe  credere  che  il  primo 
fatto  formasse  la  spiegazione  del  secondo  ;  peraltro  è  certo  che  il  si- 
gnificato della  parola  «  enim  »  in  quest'opuscolo  non  è  molto  chiaro. 
Il  Mommsen  '^^^  crede  che  questa  voce  vi  sia  usata  più  volte,  quale 
una  semplice  copula.  Egh  cita  alcuni  luoghi  '^^\  uno  dei  quali 
è  appunto  quello  che  stiamo  ora  considerando.  Il  brano  del  §  69 
«  verba  enim  promissionis  eius  »  muta  di  senso,  trasportandolo, 
come  proponemmo,  al  §  66.  In  due  luoghi  (§  57,  62)  «  enim  0 
sembra  significare  soltanto  poi,  peraltro,  infatti,  o  similmente;  ma 
nel  §  72  parmi  che  quasi  si  possa  lasciare  ad  «  enim  »  un  signifi- 
cato simile  all'ordinario,  che  esso  mantiene  anche  in  qualche 
altro  luogo  dell'opuscolo  ^'^\  Complessivamente  apparisce  che 
«  enim  »  significa  perchè,  infatti  &c.,  con  valore  rinforzativo  od 
esplicativo.  Sicché  nel  §  70  avremmo  sempre  un  brutto  accordo 
della  proposizione  contenente  «  enim  »  e  riguardante  le  fabbriche, 
con  quanto  precede. 

Siccome  si  sa  che  Amalabirga  era  nipote  (5)  e  non  sorella  ger- 
mana di  Teoderico,  così  alcuni,  e  tra  questi  il  Gardthausen,  cer- 
carono emendare  il  passo  leggendo:  «  filiam  germanae  suae  ». 
Ma  ancora  la  piaga  non  è  sanata,  e  li  in  quel  posto  quella  no- 
tizia non  ha  proprio  senso.  Se  colla  frase  «  et  sic  per  circuitum  » 
l'Anonimo  voleva  significare  che  Teoderico    coi  legami  nuziali 


(i)  Da  questa  voce  in  poi  il  testo  è  dato  anche  dal  codice  P. 

(2)  Chron.  min.  I,  261. 

(3)  §  S7  i^^-  Gardthausen,  p.  295,  8;  ed.  Mommsen,  p.  322,  2),  §  62 
(ed.  G.  p.  296,  r6,  26;  ed.  M.  p.  322,  27,  34),  §  69  (ed.  G.  p.  298,  19; 
ed.  M.  p.  324,  18),  §  70  (ed.  G.  p.  298,  25;  ed.  M.  p.  324,  23),  §  72  (ed. 
G.  p.  299,  7;  ed.  M.  p.  324,  31). 

(4)  §  60  (ed.  Gardthausen,  p.  295,  20;  ed.  Mommsen,  p.  322,  12), 
§  72  (ed.  G.  p.  299,  18;  ed.  M.  p.  324,  33). 

(5)  Cf.  Dahn,  Di&  Kònige  der  Gcrmanm,  tomo  II,  tavola  genealogica 
degli  Amali. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »    89 

cercava  di  farsi  amiche  le  genti  barbariche  (^\  dovea  raccogliere 
assieme  tutte  le  notizie  di  tal  genere,  e  non  sparpagliarle  nei  ca- 
pitoli 6^,  6S,  70.  Ed  è  precisamente  quello  che,  dagli  indizi 
raccolti,  sembra  proprio  ch'egli  abbia  fatto;  poiché  tutte  queste 
notizie,  che  tra  loro  converrebbero  assai  bene,  stanno  poi  male 
nei  luoghi  dove  le  abbiamo  trovate.  Anzi  a  farci  credere  che  il 
vero  sia  proprio  questo,  giova  non  solo  la  frase  testé  esaminata 
«  et  sic  per  circuitum  »  &c.,  ma  anche  la  voce  «  alia  »  nella  frase 
«  alia  germana[m]  sua[m]  »  del  codice  Meermann.  Il  Gardthausen 
la  espunse  per  sostituirla  con  «  filia  »,  ma  é  una  supposizione, 
e  il  passo  potea  racconciarsi  diversamente,  tanto  più  che  pote- 
vasi  anche  supporre  che  VAnonymus  s'ingannasse  in  questo  par- 
ticolare, cioè  sui  vincoli  di  parentela  colleganti  Teoderico  ad 
Amalabirga  ^^\ 

UAnonynms  è  inclinato  a  raccogliere,  nella  biografia  di  Teo- 
derico, le  sue  notizie,  disponendole  per  materia.  Lo  vediamo  a 
proposito  delle  fabbriche  (capitoH  71-72),  le  quali  sono  qui  enu- 
merate l'una  dietro  l'altra,  solo  per  questo  motivo;  lo  vediamo 
anche  per  quanto  riguarda  i  detti  memorabiH  (capitoli  61-62). 
È  quindi  verisimile  che  anche  le  notizie  di  carattere  famighare 
fossero,  in  origine,  le  une  vicine  alle  altre.  Né  possiamo  esser 
certi,  che  non  manchi  qualche  notizia.  UAnonymus  (capitolo  80) 
sa  dell'affetto  di  Teoderico  verso  Eutarico,  né  si  comprende  come 
ignorasse  che  costui  ebbe  in  moglie  Amalasunta,  altra  figlia  del  re. 

lordanis  (')  parla  prima  del  matrimonio  di  Teoderico  colla 
figlia  del  re  dei  Franchi  ;  e  immediatamente  dopo  tien  parola  dei 
matrimoni  coi  quali  il  re  legò  la  sua  famigHa  con  Alarico,  re  dei 

(i)  Mi  pare  eccessivamente  ardita  la  ipotesi  del  Mommsen  che  a  <^  placuit 
(c  omnibus  gentibus  «  sostituisce  «  placavit  omnes  gentes  ». 

(2)  Avevo  scritto  queste  parole  quando  lessi  l'articolo  citato  del  Frick 
(Cotmmnt.  Wòlfflinianae,  Lipsiae,  1891,  p.  345,  nota  i)  dove  egli  pure  fa  la 
stessa  osservazione,  anzi  nota  che  un  altro  errore  commise  VAnon.  quando 
disse  (cap.  63)  che  Teodegota,  figlia  di  Teoderico,  sposò  Sigismondo,  re  dei 
Burgundi,  mentre  fu  donna  di  Alarico,  re  dei  Visigoti.  Cf.  N.  Archiv,  XV,  583, 
e  HoDGKiNG,  Italy  and  ber  invaders,  III,  354. 

(3)  Getica,  cap.  57-58,  ed.  Mommsen. 

6* 


90  C.  CIPOLLA 

Visigoti,  Sigismondo  dei  Burgundi,  Trasamundo  re  dei  Vandali, 
con  Ermanfredo  dei  Turingi,  nonché  con  Eutarico  ('). 

Nel  seguito  del  capitolo  68  si  dice  che  Teoderico  nominò 
patrizio  Liberio  già  prefetto  del  pretorio.  E  poi  VAnonymus  pro- 
segue così: 

.  .  .  itaque  Theodorus  fìlius  Basili,  Odoin  comes  eius  (2)  insidiabatur  ei. 

Gap.  69.  Dum  haec  cognovisset,  in  palatio,  apud  sessorium,  caput  eius 
amputari  praecepit . . . 

Forse  il  tratto  «Odoin»  &c.  ha  riferimento  col  tratto  «dum 
«haec»,  quantunque  si  possa  credere  che  qualcosa  manchi  a 
completare  il  senso.  Ma  le  parole  «  itaque  Theodorus  fìlius  Ba- 
«  siH  »  stanno  affatto  sospese  (3).  Non  so  se  qui  si  parli  di  quel  Ba- 
silio, che  fu  «regio  ministerio  depulsus»,  e  che  poi  figurò  come 
uno  tra  i  più  perfidi  delatori  di  Boezio  W.  Di  un  Basilio  parla 
Cassiodorio  (5).  Che  si  abbia  a  pensare  circa  la  identificazione 
del  Basilio  doìY Anonymtis  Falesianus  non  lo  so,  ma  questo  posso 
affermare  che  qui  il  testo  è  lacunoso;  anzi  non  si  ha  un  testo 
seguito  ma  piuttosto  quasi  un  mosaico  di  proposizioni  staccate. 

Capitolo  79  '^^\  Prima  del  principio  di  questo  capo,  cioè 
prima  di  «  Igitur  »,  il  codice  M  segna  una  lacuna  di  una  linea  e 
un  quarto;  e  nel  codice  P  questo  capitolo  comincia  in  lettere 
onciali,  quasi  ad  indicare  l'inizio  di  un  capitolo  nuovo;  in  questo 
fatto  si  ha  probabilmente  una  traccia  alterata  della  lacuna  ancora 
indicata  dal  codice  M.  Tale  lacuna,  espressamente  segnata,  ac- 
cresce valore  alle  congetture  già  da  noi  fatte  intorno  a  questo 
capitolo.     Dicemmo  che  lo  si  doveva   legare  ad  altro  tratto,  al 

(i)  Anche  Paolo  Diacono,  Hist.  romana,  ed.  Droysen,  pp.  215-16,  con- 
serva unite  tali  notizie  famigliari. 

(2)  Cioè:  di  Teoderico. 

(3)  Non  so  dire  se  Mommsen  (p.  324'^)  sia  riuscito  a  sanare  questa  piaga, 
racconciando  il  passo  cos'i  :  «  [successi!  in]  administratione  praefecturae  itaque 
«  Theodorus  filius  Basili  «,  poiché  la  voce  «  itaque  »  vi  starebbe  fuori  di  posto 
affatto. 

(4)  De.  coìtsol.  pbilos.  I,  4,  51,  ed.  R.  Peiper  cit.  p.  12. 

(5)  Furiar.  IV,  epp.  22  e  23. 

(6)  Ed.  Gardthausen,  p.  300,  r.  26;  ed.  Mommsen,  p.  3 26 '6. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     91 

quale  doveva  immediatamente  precedere.  Ora  vediamo  da  questa 
circostanza  che  in  realtà  si  lega  a  quanto  gli  andava  innanzi:  locchè 
poi  apparisce,  non  solo  dalla  lacuna,  ma  anche  dalla  sua  parola 
iniziale  «  igitur  ».  Nel  capitolo  78  terminavasi  il  tratto  (capi- 
toU  74-78)  riguardante  l'Oriente,  dove  si  parla  di  Anastasio  im- 
peratore e  della  eresia  eunomiana,  ma  nulla  affatto  dicevasi  né 
dell'  Itaha,  né  di  re  Teoderico.  La  parola  «  igitur  »  è  proprio 
fuori  di  posto. 

Capitoli  80-82.  Questi  tre  capitoh  formano  una  narrazione 
abbastanza  continuata,  dove  si  parla  delle  lotte  tra  cattolici  ed 
ebrei  in  Ravenna  e  delle  decisioni  prese  a  tale  riguardo  da  Teo- 
derico. Eppure  anche  questo  tratto  presenta  qualche  grave  dif- 
ficoltà. Nel  capitolo  81,  ì'Anonymus,  dopo  aver  detto  che  i  cat- 
tolici di  Ravenna  diedero  fuoco  alle  sinagoghe,  soggiunge: 
«  quod  et  in  cena  eadem  similiter  contigit  » .  Francesco  Eys- 
senhardt,  che  nella  sua  edizione  (')  à^W Anonymus  Valesianus,  in 
fine  al  suo  Ammianus  Marceììinus,  aveva  lasciato  il  passo  tal  quale, 
in  un  successivo  articolo  '^^^  propóse  ^^^  la  lezione  «  Caesena  » 
in  luogo  di  «cena»,  quasi  che  a  Cesena  siansi  rinnovati  i  tu- 
multi di  Ravenna.  Gardthausen  registra  che  Wagner  propose: 
«  quod  et  in  Roma  scena  eadem  ».  E  il  Mommsen  vi  si  accostò 
leggendo  :  «  quod  et  in  Roma  in  re  eàdem  »  &c.  Ma  sono  le- 
zioni, se  non  m' inganno,  impossibili,  poiché  nel  tratto  seguente 
parlasi  sempre  di  Ravenna  e  di  ordini  che  Teoderico  diede  sol- 
tanto in  riguardo  a  Ravenna.  Né  di  Cesena,  né  di  Roma  qui 
si  parla.  Ben  è  vero  che  in  riguardo  alle  sinagoghe  si  ebbero, 
al  tempo  di  Teoderico,  altri  tumulti,  dei  quaU  il  re  si  preoccupò 
neir  intento  di  pacificare  gli  animi.  Ma  tutto  questo  è  estraneo 
al  caso  presente. 

E  neppure  è  medicina  adeguata  alla  piaga  la  congettura  dello 
Zangemeister  :  «  quod  et  in  synagoga  ».     Infatti,  di  qual  sinagoga 


(i)  Lipsiae,  1871. 

(2)  Del  quale  -  come  si  avvertì  -  non  tiene   conto,  forse  perchè  uscito 
troppo  tardi,  il  Gardthausen. 

(3)  In  Jahrhuch  fiìr  class.  Pini  CXI,  560. 


92 


e.  CIPOLLA 


si  parla  ora,  se  si  è  pur  teste  detto  che  le  sinagoghe  andarono  bru- 
ciate ?  Gardthausen  registra  questa  congettura,  ma  non  la  intro- 
duce nel  testo,  dove  lascia  la  oscurissima  lezione  dei  manoscritti. 

Il  capitolo  83  ha  relazione  di  pensiero,  ma  forse  non  di  forma 
con  quanto  precede.  Poiché  non  si  sa  come  stiano  verso  i  fatti 
di  Ravenna  le  due  notizie  ivi  date,  cioè  la  distruzione  della  chiesa 
di  Santo  Stefano  a  Verona  e  la  proibizione  delle  armi  in  odio 
ai  Romani.  U Anonymus  è  entrato  oramai  nella  esposizione  del- 
l'attrito politico-religioso  tra  Teoderico  da  una  parte,  e  i  Romani 
e  i  cattolici  dall'altra.  Ma  la  narrazione  probabilmente  ci  per- 
venne frammentaria.  L'ordine  generale  c'è  senza  dubbio,  poiché 
vien  detto,  che  nel  momento,  in  cui  scoppiò  la  rivolta  ravennate, 
il  re  era  a  Verona  (cap.  81);  ora  dal  libro  De  cotisolatione  phiìoso- 
phiae  sappiamo  che  l' inizio  del  processo  di  Boezio,  cui  si  riferi- 
scono i  capitoli  85-87  deli' Anonymiis  Valesianus,  si  svolse  a  Ve- 
rona, e  poi  dal  cap.  88  risulta  che  il  re  era  fuori  di  Ravenna, 
dacché  si  dice  che  si  recò  appunto  colà. 

Il  capitolo  83  comincia  con  «Ex  eo  enim^'^invenit  diabolus  W 
«  locum,  quem  ad  modum  hominem  bene  rem  publicam  sine 
«  querella  C')  gubernantem  subriperet».  Che  cosa  significa  qui 
«Ex  eo  »  ?  Di  qual  tempo  s'intende  parlare?  Se,  come  forse 
risulta  dalle  altre  parole  che  abbiamo  riferito,  YAnonymus  vuol 
descriverci  il  principio  della  nuova  politica  di  Teoderico,  come 
si  spiega  che  anche  il  capitolo  85  s'  inizia  con  frase  simile  ? 
Infatti  quel  capitolo,  col  quale  si  apre  la  narrazione  del  processo 
di  Boezio,  comincia  cosi  :  «  post  haec  coepit  adversus  Romanos 
«  rex  subinde  fremere  » .  Ma  non  aveva  cominciato  anche  prima 
a  «  fremere  »  contro  i  Romani,  conforme  a  quanto  vien  detto 
nel  capitolo  83  ? 

Si  potrà  dire  che  «  Ex  eo  »  non  è  una  mera  indicazione  cro- 
nologica ;  in  quella  voce  si  allude  anche  alla  causa.  Ed  è  antica, 
ma  sempre  bella  congettura  quella  di  Giovanni  Diacono,  il  quale 

(a)  P  malignus        (b)  P  querelam 

(i)  In  P  Sta  qui  aggiunta  la  voce  «  tempore  »,  che  fu  poi  cancellata  di 
prima  mano  (?). 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  «    93 

nel  capo  Quod  Tlieodoriciis  rex  Gothorum  qui  re- 
gnabat  in  Ytalia  &c.,  connette  tutte  queste  notizie  colle 
parole  del  capitolo  80,  dove  VAnonymns  fa  cenno  dell'amicizia  di 
Teoderico  con  Eutarico,  il  quale  «  nimis  asper  fuit  et  contra 
«  fidem  catholicam  inimicus  »  (').  Ma  questa  opinione  può  senza 
dubbio   legare  idealmente,  non  forse  materialmente  i  due  passi. 

Il  capitolo  84  poi  nulla  ha  a  che  fare  col  capitolo  83,  di  cui 
parlammo  e  col  capitolo  85,  che  apre  la  narrazione  del  processo 
di  Boezio.  È  un  tratto  incuneato  lì  e  contiene  la  narrazione 
dei  prodigi  accaduti  a  Ravenna.  Comincia  con  «  Item,  mulier 
«  pauper  »  &c.,  dove  «  item  »  è  un  mero  richiamo  materiale  al- 
l'ultima proposizione  del  capitolo  83,  la  quale  contiene  notizie  del- 
l'ordine che  levò  ai  Romani  l'uso  delle  armi;  tale  proposizione 
comincia  pure  con  «item»,  e  cioè:  «item  ut  nuUus  Romanus 
«  armas  »  &c.  Porsela  ricorrenza  dei  due  «  item  »  fu  cagione  dello 
sbaglio. 

Giovanni  Diacono,  quasi  sei  secoli  addietro,  si  era  accorto 
pienamente  della  sconcordanza;  e  avea  ('')  trasportato  il  tratto 
sui  prodigi  nel  suo  capitolo  De  occisione  lohannis  pape 
et  morte  Theo  dorici  regis,  dopo  la  morte  di  Sim- 
maco, di  Boezio  e  di  papa  Giovanni,  narrandoU  come  prean- 
nunziatori  della  morte  del  re.  Questa  congettura  del  vecchio 
erudito  ha  il  suo  valore,  e  ad  ogni  modo  ci  assicura  che  non 
c'illudiamo  credendo  fuori  di  posto  quel  capitolo.  Ora  levando 
quel  capitolo,  un  certo  quale  ordine  ricomparisce  nel  complesso 
della  narrazione,  pur  ammettendo  e  lacune  e  depravazioni  di  testo. 

I  capitoli  88-9^  sono  occupati  dal  racconto  della  legazione 
di  Giovanni  a  Costantinopoli,  del  supplizio  di  Simmaco  senatore, 
dell'ordine  scritto  da  Simmaco  Scolastico  per  la  consegna  delle 
chiese  cattoliche  agli  ariani,  e  della  morte  di  Teoderico.     Qui  la 


(i)  Scrive  Giovanni:  «  Eo  tempore  (=  ex  eo  dell' Ano  n.)  Theodo- 
«  ricus  rex  Gothorum . . .  cum  regnaretapud  Ytaliam,  licet  esset  arrianus,  tamen 
a  modeste  usque  ad  hec  tempora  regnaverat.  set  depravatus  fuit  ab  Eutha- 
«  rico  consule...»;  cod.  Veronese,  e.  134  e. 

(2)  Cod.  Veronese,  e.  136  b. 


94  C.  CIPOLLA 


narrazione  procede  abbastanza  seguita.  Quantunque  esaminando 
i  singoli  punti  si  possa  forse  sospettare  qualche  lacuna  ('),  tut- 
tavia il  discorso  segue  abbastanza  ordinato. 

Anzi  mi  piace  di  rilevare  che  ì'Anonymus  Valesianus  combina 
coi  cronografi  <^^)  in  alcuni  punti  di  molto  rilievo.  Boezio  morì 
sotto  il  consolato  di  Opilione  nel  524,  Simmaco  sotto  il  conso- 
lato di  Probo  nel  525,  e  papa  Giovanni  nel  526  (18  maggio), 
poco  prima  della  morte  di  re  Teoderico  (30  agosto).  UAnonymus 
parla  prima  di  Boezio,  del  suo  simulato  processo,  e  del  durissimo 
suo  supplizio  ;  poi  della  legazione  di  papa  Giovanni  a  Costantino- 
poli, quindi  di  Simmaco  ingiustamente  ucciso,  come  il  suo  ge- 
nero, e  quindi  della  morte  di  papa  Giovanni,  e  di  quella  del  re. 
Il  posto  che  in  questo  racconto  tiene  la  legazione  costantinopo- 
litana di  papa  Giovanni  è  chiarito  dal  Liber  pontificalis,  dove  pure 
si  pone  la  partenza  di  Giovanni  per  Costantinopoli  prima  della 
morte  di  Simmaco,  e  questa  è  posta  avanti  al  ritorno  di  Giovanni 
dall'Oriente.  Solamente  il  Liber  pontificaUs  si  esprime  confusa- 
mente, avvicinando  Boezio  a  Simmaco  in  un'unica  frase  :  «  Theo- 
«  doricus  rex  hereticus  tenuit  duos  senatores  praeclaros  et  ex- 
«  consules,  Symmachum  et  Boetium,  et  occidit  interficiens 
«  gladio  »  ^3).  Alla  morte  di  Simmaco  e  di  Boezio,  come  osservò 
acutamente  il  Boissier  W,  il  Liber  pontificaUs  attribuisce  carattere 
religioso,  in  quanto  che  adopera  a  tal  riguardo  la  frase  :  «  Theo- 
«  doricus  rex  hereticus  «,  che  è  proferita  qui  dove  si  espongono  gli 
ultimi  fatti  del  re.     U Anonymiis  Valesianus  si  limita  ad  esporre  i 


(i)  Cf.  p.  es.  il  cap.  88. 

(2)  Cf.  Holder-Egger,  in  N.  Archiv,  I,  364. 

(3)  Rilevo  una  rispondenza  di  parole  tra  VAnon.  e  il  Lih.  pont.  Q.uesto 
dice  che  Teoderico  «  cum...  dolo  suscepit  »  papa  Giovanni  e  i  suoi  com- 
pagni ritornanti  dalla  legazione;  e  anche  VAnon.  (cap.  93),  scrive,  allo 
stesso  riguardo,  «  cum  dolo  suscepit  ».  Non  dà  tuttavia  VAnon.  al  papa  il 
titolo  di  «  martyr  »,  usato  dal  Lib.  pont.  (ed.  Duchesne,  I,  276).  L'antichità 
della  vita  di  Giovanni  I  nel  Lib.  poni,  è  del  resto  dimostrata  dal  Duchesne, 
préf.  pp.  Liii-Liv. 

(4)  Journal  des.  savants,  1889,  p.  449  sgg.  Cf.  anche  Revue  bislorique, 
XLV,  no. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     95 

punti  d'accusa  scagliati  contro  Boezio,  in  modo  conforme  a  quello 
che  Boezio  stesso  espone  (').  Ma  non  per  questo  può  dirsi,  che 
sotto  altra  luce  VAnonymus  ci  rappresenti  quei  fatti,  poiché  tutti 
gli  espone  come  quelli  che  costituiscono  la  persecuzione  politico- 
religiosa,  intrapresa  dal  re,  dopo  che  in  lui  «  invenit  diabolus 
«  locum  ».  Sono  pagine  piene  di  vita,  scritte  da  un  contem- 
poraneo, da  uno  di  quei  cattolici,  da  uno  di  quei  Romani,  i  quaU 
o  in  se  stessi,  o  nei  loro  compagni  di  aspirazioni  politiche  e  di 
fede  religiosa,  furono  fieramente  colpiti  dalla  spada  del  re  goto. 
Qui  il  racconto  si  fa  vivace,  drammatico,  pieno;  e,  per  buona 
sorte,  l'excerptatore  e  i  copisti  furono  più  indulgenti  con  noi. 
Faccio  questa  osservazione  sopratutto  collo  scopo  di  dimostrare 
quale  sia  uno  dei  luoghi,  che  ci  attestano  lo  stile  àQW'Anonymus.  Un 
altro  è,  per  esempio,  quello  in  cui  si  ripetono  i  detti  memorabili 
del  re  illetterato,  ma  saggio.  Tenendo  presenti  alla  mente  questi 
passi,  che  per  la  loro  importanza  meno  furono  sciupati  da  chi  com- 
pendiò o  trascrisse  le  Cronache,  più  facilmente  ci  avvezzeremo 
l'orecchio  a  distinguere  i  passi  male  conservati,  corrotti  o  lacunosi  (^). 
La  rispondenza  cronologica  che  abbiamo  trovata  tra  YAnonymus 
Valesianus,  il  Liher  pontificaìis   e  i  dati  dei  cronografi  di  maggior 


(i)  Di  consol.  philos.  I,  4. 

(2)  Non  so  se  sia  stato  da  altri  notato  che  V Anonymus  parlando  del  pro- 
cesso contro  Albino  e  Boezio,  adopera  frasi  tolte  dal  Vangelo,  in  modo  da 
avvicinare  Teoderico  ai  giudei  crocifissori  di  Cristo,  e  le  sue  vittime  a  Cristo 
stesso.  Più  addietro  abbiamo  avuto  occasione  di  intrattenerci  su  alcune  pa- 
role del  cap.  86  (ed.  Gardthausen,  p.  503,  rr.  1-2;  ed.  Mommsen,  p.  5284-5): 
«  sed  rex  dolum  Romanis  ten[d]ebat  et  quaerebat  quem  ad  modum  eos  in- 
«  terficeret  ».  Vedemmo  che  quelle  parole  dipendono  da  Matteo,  xxvi,  4, 
da  Marco,  XIV,  i,  e  da  Luca,  xxn,  2.  Nel  capo  stesso  (G.  p.  302,  27;  M. 
p.  328'*)  dice  VAnonymus  che  il  referendario  Cipriano  addusse  «  falsos  testes  » 
contro  Albino  e  Boezio.  Questo  ci  fa  ricordare  del  «  falsum  testimonium  », 
o  «  testimonium  falsum  »,  di  cui  è  fatta  parola  da  Matteo,  xxvi,  59  e  da 
Marco,  xiv,  56.  Verso  il  principio  della  narrazione  di  questi  anni  dolorosi, 
VAnonymics  (G.  cap.  83,  p,  302,  r.  3;  M.  p.  ^26^^)  scrive:  «ex  eo  enini 
«  invenit  diabolus  locum  »,  facendoci  ricordare  di  Luca,  xxii,  3  :  «  intravit 
«  auteni  Satanas  in  ludam  ».  Cf.  Bianchini,  Evang.  quadrupkx,  II,  i,  267, 
dove  viene  recata  la  concorde  lezione  della  versio   Veronensis. 


96  C.  CIPOLLA 


valore,  assume  speciale  importanza,  in  quanto  che  s'introdusse 
assai  presto  una  confusione  assai  grande.  Già  il  Liber  pontificalis 
avvicina  un  po'  troppo  il  supplizio  di  Boezio  a  quello  di  Sim- 
maco. L'Anonimo  Cuspinianco,  siccome  abbiamo  detto,  pone  le 
due  morti  sotto  il  medesimo  giorno,  per  quanto  pare,  e  le  at- 
tribuisce all'anno  stesso  della  morte  di  re  Teoderico,  quantunque 
non  le  registri  poi  sotto  il  consolato  di  Olibrio  e  l'anno  526. 
Anche  Procopio  (')  associa,  in  una  sola  frase,  le  morti  di  Boezio 
e  di  Simmaco,  quasi  che  fossero  accadute  assieme. 

Concludo  dunque  dicendo,  che  questi  ultimi  avvenimenti  della 
vita  di  re  Teoderico  sono  abbastanza  bene  ordinati,  salvo  alcune 
eccezioni,  nei  capitoli  che  chiudono  il  testo  doli' Anottymus  Vale- 
sianiis  IL 

Ma  conchiudo  ancora  asserendo  che  il  testo  d^Vi  Anonymus  ci 
pervenne  frammentario,  pieno  di  lacune  e  con  non  rare  traspo- 
sizioni di  passi  o  di  parole. 

Pertanto  i  risultati  ai  quali  siamo  arrivati  sono  questi  : 

Il  codice  Veronese-Vaticano  (P)  non  dà  un  testo  suo  proprio 
à&WAnonymus,  ma  il  testo  di  quel  codice  è  forse  immediatamente, 
certo  intimamente  legato  col  codice  Meermann-Phillipps  (M),  ora 
Berlinese,  e  il  vincolo  è  di  inferiorità  e  di  dipendenza. 

Giovanni  da  Verona,  compilando  al  principio  del  xiv  secolo 
le  sue  Historiae  imperiales,  si  giovò  àQÌYAnonymus  VaUsianus  nel 
testo  P,  e  quindi  il  suo  testo  è  inferiore  a  quello  di  M.  L'esame 
dei  pochi  brani  qui  studiati  delle  Historiae  ci  fece  conoscere 
il  valore  del  Hbro,  come  opera  di  erudizione,  e  fino  a  un  certo 
segno,  determina  il  carattere  di  Giovanni  come  erudito. 

Dalla  relazione  esistente  tra  le  Historiae  di  Giovanni  e  il  co- 
dice P  risulta  manifesto  che  quest'  ultimo  esisteva  ancora  in  Ve- 
rona al  principio  del  xiv  secolo. 

Il  testo  del  codice  M  non  ha  dunque  alcuna  conferma  este- 
riore a  sé.  Bisogna  studiarlo  nel  codice  stesso  che  ce  lo  con- 
serva. Il  critico  si  trova  in  condizione  di  avere  molta  libertà 
nelle  indagini.     In  tal  modo  esso  ci   apparisce   come  una  serie 


(i)  De  bello  Gothico,  I,  e.  i. 


RICERCHE  INTORNO  ALL'  «  ANONYMUS  VALESIANUS  II  »     97 


di  brani  estratti  da  una  estesa  fonte  storica.  Quindi  sono  molte 
le  lacune;  molti  del  pari  sono  i  luoghi  nei  quali  avvennero  o  cor- 
ruzioni nel  testo  o  spostamenti  di  brani. 

Abbiamo  testé  veduto  che  Giovanni  diacono  cita  anche  una 
Fita  di  Boezio,  eh'  egli  attribuisce  a  lordanis.  Forse  questa  cita- 
zione potrà  altrui  fornire  argomento  ad  indagini.  Io  mi  accon- 
tento di  rilevarla. 

Torino,  30  aprile   1891. 


POSTILLA. 

Era  di  già  stampato  questo  articolo  allorché  Th.  Hodgking, 
l'illustre  autore  dell'opera  Italy  and  her  invaders,  pubblicò  un 
bel  lavoro  sopra  il  primo  re  ostrogoto  '^'\  in  cui  si  toccano  molti 
punti  che  destano  interesse  per  noi.  Annoto  qui  quanto  mi  pare 
degno  di  maggiore  attenzione.  A  p.  128  egli  asserisce,  seguendo 
la  ben  nota  opinione  di  Holder-Egger,  che  VAnonymus  Valesianus 
va  probabilmente  identificato  col  celebre  Massimiano,  vescovo 
cattolico  di  Ravenna  <^^^;  quell'opuscolo  viene  da  lui  riconosciuto 
(p.  285)  come  la  principale  autorità  contemporanea,  per  la  storia 
dell'origine  del  regno  ostrogoto.  Anche  egli  (pp.  308-1)  colloca 
il  palazzo  di  Teoderico  in  Verona  sul  colle  di  S.  Pietro  ;  sola- 
mente accennando  al  «Ponte  Nuovo»,  lo  dice  invece  «Ponte 
«Vecchio  ».  Il  Ponte  Nuovo  in  pietra  fu  abbattuto  dall'Adige 
nella  piena  del  17  settembre  1882:  fu  sostituito  col  ponte  Um- 
berto, in  ferro. 

Al  §  81  doli' Anonymus  Valesianus,  dove  si  parla  delle  sina- 
goghe di  Ravenna  incendiate  dai  cristiani,  e'  é  un  passo  che  non 
s'intende;  non  si  sa  bene  se  venga  detto  che  un  simile  incendio 
sia  avvenuto  anche  a  Roma  o  a  Cesena.     Hodgking  non  parla 

(i)  Theodoric  the  Golh,  the  harharian  champioii  of  clviìisation,  New-Yorlc 
and  London,  Putnam,  1891. 

(2)  Pure  recentemente  F.  Wrede  {Uber  die  Sprache  der  Osigoten  hi  Italien, 
Strassburg,  Trùbner,  1891,  p.  29)  si  accontentò  di  dire  che  l'aneddoto  fu 
scritto  a  Ravenna  verso  la  metà  del  vi  secolo. 


98  C.  CIPOLLA 

delle  sinagoghe  di  Roma  o  di  Cesena,  ma,  come  facciamo  noi 
pure,  crede  che  la  sollevazione  sia  accaduta  solamente  a  Ravenna  ; 
tuttavia  ammette  (p.  260)  che  il  passo  dell' Anonynius,  in  cui 
si  descrivono  tali  eventi,  sia  corrotto  così,  che  difficilmente  se  ne 
ricavi  il  giusto  significato.  Siccome  il  Mommsen  si  appoggia  al 
§  82,  dove  è  fatta  parola  dell'ordine  dato  dal  re  al  «  populus  ro- 
«  manus  »  per  la  ricostruzione  delle  sinagoghe  incendiate,  per  so- 
stenere che  un  incendio  avvenne  anche  a  Roma,  così  è  opportuno 
rilevare  che  Hodgking  (p.  222)  dimostra  d' intendere  il  passo 
nel  senso  da  noi  pure  difeso;  vale  a  dire,  Y Anonymiis  non  parla 
che  dei  cittadini  «  Romani  di  Ravenna  » . 

Sulle  morti  di  Boezio,  Simmaco  e  papa  Giovanni  I,  lo  Hodg- 
king ritiene  (p.  281)  che  la  uccisione  del  primo  abbia  avuto  luogo 
verso  la  metà  dell'anno  524;  segna  la  morte  del  pontefice  sotto  il 
25  maggio  526  (p.  284);  e  narra  (pp.  284-5)  ^'^  catastrofe  di  Sim- 
maco come  avvenuta  durante  il  soggiorno  del  papa  a  Costantino- 
poli: Simmaco  fu  pure  fatto  morire  da  Teoderico.  Questo  riguarda 
la  cronologia  di  quei  grandi  fatti,  intorno  alla  quale  ritorna  poco 
dopo  l'autore  (p.  286)  per  rilevare  che  Procopio  <^')  si  inganna  rite- 
nendo che  Teoderico,  morto  addi  30  agosto  526',  abbia  finito  la  sua 
vita  pochi  giorni  dopo  la  morte  di  Boezio  e  di  Simmaco.  Que- 
sto è  un  errore,  soggiunge  egh,  poiché  Teoderico  mori  due  anni 
dopo  Boezio,  e  parecchi  mesi  («  many  monthy  »)  dopo  Simmaco. 

Non  tralascio  di  avvertire  che  Hodgking  (p.  277)  continua 
ad  attribuire  non  poco  valore  all' Anecdoton  Hoìdcri,  ma  neppur 
egU  si  ferma  a  confutare  le  obbiezioni  messe  innanzi  da  Scheeps(^), 
le  quali  furono  trascurate  anche  da  G.  Boissier,  nel  notevole  ar- 
ticolo che  sul  cristianesimo  di  Boezio  pubblicò  nel  Journal  des 
savants  (1889,  p.  489  sgg.). 

(i)  De  hello  Gothico,  I,  e.   i   (ed.  Bonnensis,  I,  11). 
(2)  N.  Archiv,  XI,  123  sgg. 


IL  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS 

E  LA  CHIESA  AMBROSIANA  NEL  SECOLO  X 


I. 


La  istoriografia  milanese  del  medio  evo  si  preannunzia  con  un 
ritmo  stampato  più  volte,  dal  Muratori  <^'),  dal  Diimmler  (^),  dal 
Traube  (3)^  che  si  crede  concordemente  risalga  al  739.  L'epi- 
gramma d'Ausonio  W  suggella,  per  così  dire,  il  ricordo  della  mo- 
rente civiltà  romana  a  Milano;  il  ritmo  del  secolo  viii  prelude 
alla  sua  lenta  e  profonda  trasformazione.  Come  infatti  per  il 
breve  epigramma  del  gentile  poeta  d'Aquitania,  che,  come  dimo- 
strammo altrove  ^'>^,  non  rimase  ignoto  al  medio  evo,  giunge  a  noi 
l'eco  lontana  della  tumultuosa  vita  latina  nella  seconda  Roma,  cosi 
il  ritmo  ci  offre  il  modo  di  ricomporre,  sia  pure  incompiutamente, 
la  configurazione  topografica  di  Milano  all'età  longobarda.  Dal- 
l'epigramma di  Ausonio  al  ritmo  corrono  poco  più  di  tre  secoli  ; 
eppure  quale  profonda  trasformazione  non  mostrano  le  due  in- 
sufficienti, ma  pur  tanto  preziose  testimonianze  sul  vivere  politico 


(i)  Cf.  Rer.  It.  Script.  II,  11. 

(2)  Cf.  Poetae  aevi   Carolini  in  Moti.   Genti,  hist.  recens.  E.  Duemmler, 
I,  24  sgg. 

(3)  Nelle  Caroliiigische  Dichtungeti  che   non  mi  fu  possibile  di  vedere,  e 
di  cui  mi  ha  dato  cortesemente  notizia  il  prof.  C.  Cipolla. 

(4)  Cf  D,  Magni  Ausonii  Opuscula  in  Mon.  Gènti,  hist.  XVIII,  35. 

(5)  Cf.  Beti^o  d' Alessandria  e  i  cronisti  milanesi  del  secolo  xiv  in  Bull,  del- 
l' Ist.  Stor.  Ital.  n.  7,  Roma,  1889,  p.  97  sgg. 


100  L.  A.  FERRAI 


del  popolo  milanese,  quando  le  si  pongano  di  fronte  l'una  all'altra! 
L'ultimo  poeta  della  gentilità,  Ausonio,  che  serenamente 

Cercava  ai  suoi  cadenti  anni  riposo 

tra  i  dolci  studi  profani  e  non  se  ne  lasciava  distogliere  dalle 
mistiche  esortazioni  del  suo  più  caro  discepolo  Paolino  da  Nola  ('), 
sembra  abbia  quasi  voluto  consacrare  nell'arte  il  doloroso  rim- 
pianto di  una  civiltà  destinata  a  perire,  ma  pur  sempre  grande 
anche  nel  suo  declinare.  Milano  che  ne  era  stata,  e  ne  era 
tuttavia  uno  dei  centri  più  ragguardevoli,  ispira  il  vecchio  e 
paganeggiante  poeta.  Tra  le  città  illustri  dell'  impero  egli  non 
oblia  quella  cara  a  Massimiano  Erculeo,  e  le  dedica  un  epi- 
gramma in  cui  ritrae  tutta  la  classica  venustà  della  seconda  Roma, 
prima  che  il  ferro  barbarico  la  deturpi.  Ausonio  dettava  quei  versi 
sullo  scorcio  del  secolo  iv;  pochi  anni  innanzi,  tra  i  colonnati 
delle  basiliche,  sotto  gli  archi  maestosi,  presso  il  teatro  ed  il  circo 
da  lui  descritti,  il  popolo  milanese  avea  ascoltata  la  parola  vivi- 
ficatrice di  Ambrogio,  e  l'esempio  delle  virtù  del  santo  avea 
gettato  sul  fecondo  terreno  i  semi  di  una  civiltà  nuova.  Come 
questa  alla  sua  volta  si  sia  bella  e  formata,  come  ai  sentimenti 
e  alle  idee,  agli  istituti  reHgiosi  e  politici  della  società  romano- 
germanica  fatta  cristiana  rispondano  nuove  e  strane  forme  anche 
nell'aspetto  esterno  della  metropoli  lombarda,  ce  lo  attesta  il 
ritmo  del  secolo  viii.  Nella  succinta  descrizione  di  Milano  che 
esso  contiene,  il  ricordo  degli  edifici  romani,  che  pur  sfidano 
ancora  maestosi  le  ingiurie  del  tempo  e  la  incuria  degh  uomini, 
cede  il  luogo  alla  enumerazione  delle  chiese,  degli  ospedali,  dei 
monasteri.  Ma  è  per  le  postume  vittorie  di  Ambrogio  sui  vin- 
citori e  sui  vinti,  è  per  il  trionfo  incontrastato  della  Chiesa  mi- 
lanese su  gli  Ariani  vecchi  e  nuovi,  che  il  ritmo  encomiastico 
erompe  spontaneo  dal  cuore  di  qualche  monaco  solitario.  Il 
pensiero  dominante  di  quel  curioso  documento  parmi  infatti  deb- 
basi  cercare  nell' acquistata  importanza  della  città,  derivatale  dalla 

(i)  Cf.  Le  opere  di  Decimo   Magno    Ausonio  volgari\:{iìie   da   Pietro 
Canal,  Venezia,  Antonelli,  1S51,  p.  41  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  loi 

crescente  potenza  della  sede  arcivescovile,  a  cui  obbedivano  fin 
dall'età  longobarda  la  maggior  parte  delle  chiese  dell'  Italia  set- 
tentrionale : 

Haec  est  urbium  regina,  matcr  atque  patriae 
Quae  praecipuo  vocatur  nomine  metropolis, 
Q.uam  conlaudant  universi  nationes  scculi. 
Ingens  permanet  ipsius  dignitas  potentiae, 
Ad  quam  cuncti  venientes  praesules  Ausoniac 
luxta  normam  instruuntur  synodali  canone  (0. 

Né  tale  potenza  affermata  dal  poeta  lombardo  negli  anni  in 
cui  re  Liutprando  lottava  aspramente  con  Roma,  decrebbe  per 
nulla  dall'età  carolingia  in  poi.  L'affermarsi  anzi  di  questa  va- 
sta potenza  ecclesiastica  in  Lombardia  è,  per  così  dire,  il  fatto 
più  saliente  e  fecondo  di  avvenimenti  nell'età  feudale.  E  poiché 
la  storia  della  Chiesa  milanese  trascende  nella  sua  progressiva 
evoluzione  le  leggi  che  sono  comuni  allo  sviluppo  della  potenza 
episcopale  in  tutte  le  nazioni  che  formarono  parte  dell'unità  ca- 
rolingia, doveva  necessariamente  avvenire  che  anche  la  istorio- 
grafia  milanese  rispecchiasse  quella  singolare  condizione  di  cose, 
presentandoci  nei  documenti  suoi  propri  un  carattere  affatto  par- 
ticolare. Cosi  dal  ritmo  del  725,  dove  ancora  le  tradizioni  della 
vita  civile  si  mescolano  e  si  confondono  colla  storia  ecclesiastica, 
si  giunge  al  De  siili  urbis  o  meglio  alle  ntae  pontificum  mediola- 
mnsiam,  monumento  insigne  di  favole  tendenziose  e  di  pietose 
leggende,  per  il  quale  gli  annali  della  metropolitana  si  ricollegano 
direttamente  alla  storia  del  cristianesimo  primitivo,  agli  Apostoli, 
a  Cristo. 

IL 

Le  controversie  che  intorno  a  quel  testo,  pubblicato  la  prima 
volta  dal  Muratori  <^^),  si  sono  agitate  dalla  critica  moderna,  anzi- 
ché portar  luce  sull'ordine  e  l'età  delle  più  antiche  scritture  mi- 

(i)  Cf.  Poétae  aevi  Carolini  cit.  p.  25;  Ottonis  et  Rahewini  Gesta  Fri- 
derici  I  imperatoris,  ed.  Waitz,  Hannover,  1884,  III,  38. 
(2)  Rer.  Il  Script.  I,  cap.  11,  e.  203  sgg. 


L.  A.  FERRAI 


lanesi,  non  hanno  fatto  che  accrescere  il  cumulo  delle  incertezze 
e  degli  equivoci.  Come  e  questi  e  quelle  sieno  stati  originati  da 
un  errore  perpetuatosi  fino  ad  oggi  sulla  presupposta  unità  di 
quella  scrittura,  già  lo  accennammo.  Ma  è  tempo  che  ormai 
penetriamo  più  addentro  nelle  varie  questioni  che  intorno  ad 
essa  si  sono  finora  dibattute  con  poco  frutto,  anche  perchè  è 
convinzione  nostra,  dopo  le  fortunate  indagini  intraprese,  che 
si  possa  seriamente  pensare  a  raccogliere,  quando  che  sia,  in  un 
unico  volume  i  monumenti  più  antichi  della  storia  milanese. 

Il  testo  del  De  sìtii  urbis  nell'edizione  Muratoriana  consta  di 
due  scritture  diverse,  le  Vitae  pontificum  mediolanensium,  e  la  De- 
scriptio  situs  et  urbis,  che  in  altra  nostra  memoria  (')  distinguemmo 
chiaramente  dalla  perduta  operetta  del  secolo  xiii  di  Bonvesino 
da  Ripa.  Quando  il  Muratori  iniziò  le  ricerche  necessarie  per 
dare  in  luce  le  Fitae  pontificum,  dei  manoscritti  antichi  che  ce  le 
hanno  serbate  non  gli  era  noto  che  il  codice  Ambrosiano  C,  133, 
inf.,  eh'  io  crederei  della  fine  del  secolo  xi,  o  al  più  tardi  dei 
primi   anni    del   xii  ^^\     Com'  è    noto,  mancano  a  questo    ma- 

(1)  Cf.  Le  cronache  di  G.  Fiamma  e  le  fonti  della  Galvagnana,  in 
Bull,  dell' ht.  Slor.  Ilal.  n.  io,  Roma,   1891,  p.  93  sgg. 

(2)  La  scrittura  de'  ternioni  membranacei  che  contengono  le  Vitae  pon- 
tificum attesta  una  remota  antichità  del  codice,  da  Luigi  Biraghi,  moderno 
editore  di  questo  testo,  fissata  tra  il  ix  e  l' vni  secolo.  Egli  fonda  in  gran 
parte  il  criterio  di  tale  attribuzione  cronologica  sulla  forma  delle  lettere 
maiuscole  miniate,  che  sono  proprie  della  scrittura  longobarda,  come  se  la 
presenza  di  esse  sia  sufficiente  indizio  dell'età  a  cui  egli  fa  risalire  il  ms. 
Com'è  noto,  tali  elementi  grafici  longobardi  si  riscontrano  anche  in  testi 
del  XII  secolo.  Considerando  invece  Io  sviluppo  di  tutte  le  lettere  in  ge- 
nere, e  più  specialmente  del  t  minuscolo  che  non  si  eleva  mai  sull'altezza 
delle  altre,  e  la  relativa  perfezione  dell'  a  unciale,  si  hanno  dati  relativamente 
sicuri  per  credere  il  ms.  dell'  xi  secolo.  L' illustre  paleografo  ab.  Ceriani, 
da  me  interrogato  in  proposito,  ascriverebbe  appunto  il  ms.  a  quell'età.  Il 
Biraghi  fu  tratto  forse  in  errore  da  una  nota  che  leggesi  nella  prima  pagina 
del  ms.  ove  ò  detto:  «  Codex  venerandus  ob  antiquitatem  octingentorum  an- 
«  norum  ».  La  nota,  per  testimonianza  di  Daniele  Papebroch,  appartiene 
al  1660.  Cf.  Ada  sanctorum,  25  maggio,  nel  Prologo  della  vita 
di  s.  Dionigi,  e  A.  Biragus,  Datiana  historia  Ecclesiae  mediolanensis,  ab 
anno  Christi  li  ad  ccci\'  Scc,  Mediolani,  mdcccxlviii,  p.  9. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  103 

noscritto  il  prologo,  che  certamente  appartiene  alle  Vitae  pon- 
tificiim  ('\  ed  una  rubrica  che  nell'edizione  del  Muratori  segue 
il  proemio,  e  ha  dato  il  titolo  all'operetta.  Noi  non  esclu- 
demmo altra  volta  la  possibilità  che  la  fusione  delle  due  scrit- 
ture, la  Dcscript'w  sitiis  et  urbis,  rappresentataci  dal  capitolo  primo 
del  De  sita  urbis,  con  le  Fitae  poiitificum,  non  sia  avvenuta  anti- 
camente <^^\  tanto  più  che  lo  storico  Landolfo  in  due  noti  luoghi 
sembra  accennare  alle  due  scritture  già  riunite  in  unico  testo  (5)  ; 
ma  è  certo  che  il  Muratori  ne  ricompose  artificialmente  l'unità, 
che  credette  originaria,  su  di  un  tardo  manoscritto  del  secolo  xv, 
nel  quale  trovasi  appunto  il  titolo  da  lui  accettato  W.  La  du- 
plicità delle  scritture  contenute  nel  De  siiu  urbis  è  in  gran 
parte  dimostrata  dalle  seguenti  ragioni  estrinseche:  1°  Galvano 
Fiamma  citando  le  fonti  usate  per  il  Manipulus  floriiin,  come  già 
in  altro  luogo  avvertimmo,  distingue  nettamente  la  Descriptio 
urbis  dalla  leggenda  del  beato  Barnaba  ciim  vitis  pontificum  (5); 
2°  Michele  Pizzolpasso  che  nel  secolo  xv  trascriveva  il  De  situ 
urbis  in  un  codice    elegantemente  miniato,   sebbene  avesse  rac- 

(i)  Cf.  Prologo  in  ed.  Muratori. 

(2)  Cf.  Le  cronache  di  G.  Fiainvia,  loc.  cit.  p.   124. 

(3)  Cf.  Landulphi  Historia  Mediolanensis  in  Mon.  Germ.  hist.  ed.  Wat- 
TENBACH,  Hannoverae,  1848,  voi.  VITI,  cap.  11,  2  (è  il  noto  passo  già  da 
noi  commentato  nella  precedente  memoria)  e  cap.  11,  15:  «  Q.uam  [civitatem 
«  Mediolanensem]  ut  in  situ  descriptionis  eiusdem  comperi  anno- 
«  sam,  postmodum  Romani  reges  et  principes,  expulsis  Senonum  populis, 
(c  longe  melius  sublimantes  opere  mirifico  auxerunt  »  &c. 

(4)  È  il  ms.  Ambrosiano  H,  56,  inf.  pergamenaceo  in-8  piccolo,  mi- 
niato, già  da  me  illustrato,  dove  il  testo  del  De  sita  urbis  è  descritto  da 
Michele  Pizzolpasso,  e  dedicato  al  bolognese  Francesco  Pizzolpasso,  arcive- 
scovo di  Milano,  con  lettera  del  trascrittore  che  porta  la  data  :  «  Ex  Medio- 
«  lano  .VI.  non.  iulii  .mccccxxxviii.  ».  Il  titolo  dell'operetta  è  evidentemente 
riassunto  dal  Pizzolpasso  così  :  «  Incipit  historia  de  situ  et  vocabulo  urbis 
«  Mediolanensis  seu  beatissimi  apostoli  Barnahae  visitatione  ad  eamdem  di- 
ce vinitus  directa,  nec  non  et  venerabili  viro  Anatalon  eius  coapostolo  atque 
«  coetaneo  ab  eodem  epischopali  benedicione  inibi  consecrato,  vel  quibusdam 
«  eius  successoribus  »  ;  e.  3. 

(5)  Cf.  Manip.  florum  in  Muratori,  Rer.  It.  Script,  voi.  XI,  cap.  i, 
e.  539. 


104  L.  A.  FERRAI 


colto  le  varie  scritture  sotto  un  unico  titolo,  avvertiva  di  aver 
riunito  i  due  opuscoli,  «  qui  in  veternosis  codicibus  pulvurulenti 
«  et  tineati  iacebant  »  (');  3°  nel  codice  che  contiene  il  Cerimo- 
niale ambrosiaìium  di  Beroldo,  e  che  appartiene  al  secolo  xii, 
come  con  sufficienti  argomenti  provarono  il  Puricelli  e  il  Sassi, 
si  ritrovano  trascritti  di  mano  pure  del  secolo  xii  i  due  opuscoli, 
sotto  r  intitolazione  De  situ  civitatis  Mediolani,  et  de  adventu  Bar- 
nabae  et  Anathalonis  et  vita  eorum.  Or  bene,  il  fatto  non  sfuggi 
al  Muratori,  come  apparisce  da  una  sua  nota  apposta  all'edizione 
del  Cerimoniaìe^^^ ;  ma  certo  egli,  che  per  aver  precedentemente 
pubblicato  il  testo  del  De  situ  urbis  con  le  Vitac  pontificum  negli 
Scriptores  su  di  un  codice  del  secolo  xi,  integrato  con  un  ma- 
noscritto del  XV,  non  sapea  più  in  che  modo  valersi  del  prezioso 
codice,  non  avvertì  che  effettivamente  esso  ci  avea  serbato  in  una 
redazione  migliore  il  testo  dei  due  opuscoli.  Come  vedremo 
in  seguito,  la  separazione  della  materia  del  De  situ  urbis  dal  De 
adventu,  è  nel  detto  codice  soltanto  apparente.  Di  fatti  la  descri- 
zione della  Lombardia  e  di  Milano,  e  gli  accenni  alle  antichità  ro- 
mane che  vi  si  trovano  sono  preceduti  nel  primo  degli  opuscoli 
da  un  prologo,  che  di  certo  appartiene  alla  materia  del  secondo. 
Ma  il  copista  del  secolo  xii  separò  deliberatamente  la  prima 
dalle  altre  rubriche  del  manoscritto  che  avea  sott'occhio,  perchè 
gH  rappresentavano,  sia  pure  incompiutamente,  due  distinte  ope- 
rette, delle  quaU  egU  avea  cognizione  distinta,  probabilmente 
per  le  citazioni  orali  e  scritte  che  se  ne  facevano  al  tempo 
suo.     Altri   argomenti,    che   acquisteranno  in  seguito  della  trat- 


(i)  Nella  cit.  Dedicatoria  in  ms.  H,  56,  inf. 

(2)  Cf.  L.  A.  Muratori,  Aniiq.  Ital.  medii  aevi,  Milano,  1741,  IV,  834: 
«  Subsequuntur  haec  in  eodem  codice  :  De  situ  civitatis  Mediolani,  De  adventu 
<'  Barnàbae  et  Anathalonis,  et  vita  eorum,  quae  duo  opuscula  iam  evul- 
«  gavi  par.  II,  to.  I,  Rer.  Ital.  p.  860  ».  Notisi  che  il  Cerimoniale  di  Be- 
roldo credesi  con  buon  fondamento  scritto  nel  1135,  e  che  quindi  il  ms. 
che  illustreremo  più  innanzi  appartiene  certamente  al  secolo  xii,  come  e 
confermato  dalla  scrittura.  Detto  ms.,  che  per  lungo  tempo  credetti  per- 
duto, con  molti  altri  venduti  o  dispersi  già  dalla  biblioteca  Capitolare  di  Mi- 
lano, si  conserva  tuttora  nell'Ambrosiana, 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  105 

tazione  una  maggiore  consistenza  in  favore  della  nostra  tesi,  ce 
li  offre  il  testo  stesso  del  De  sitii  urbis.  Nel  prologo  che  pre- 
cede l'opuscolo,  l'anonimo  scrittore  "^'^  non  preannunzia  altra 
materia  all'  infuori  della  leggenda  del  beato  Barnaba,  e  delle 
vicende  della  Chiesa  milanese  nei  primi  secoli.  Sulla  fine  del 
proemio  egli  si  esprime  in  questi  termini  : 

Haec  in  primo,  velut  ad  ingressum  carinae  navigationis  insolitae  anci- 
pitem  formidans  eventum  idcirco  praemisi.  (2) 

Dalle  quali  parole  apparirebbe  che  subito  dopo  dovesse  seguire  la 
trattazione  della  materia,  non  già  una  seconda  premessa.  Tanto 
è  vero  che  l'anonimo  e  antico  giuntatore  del  testo  delle  Vitae 
pontificum  con  la  Descriptio  sitiis  et  urbis  o  per  lo  meno  con  la 
parte  più  importante  di  quest'operetta,  riprende,  quasi  a  nascon- 
dere la  giuntura,  dall'  imagine  della  nave  e  della  navigazione  : 

Navigationis  coeptae  cursus,  quod  ut  credo,  Spirita  Sancto  gubernante 
ac  impellente,  eo  dirigere  cogor  ut  primo  de  urbis,  ad  quam  vela  tendere 
proposui,  situ,  qualitate  loci  (3); 

dal  che  si  rileva  una  evidente  deficienza  di  nesso  logico,  la  quale 
se  non  è  ammissibile  in  uno  scrittore  esperto,  e  non  privo  di  ele- 
ganza come  è  l'anonimo  autore  delle  Vitae pontifictim,  parmi  debba 
considerarsi  quale  uno  sconcio  involontario  della  aggiunzione  di 
un  testo  all'altro.  Tuttavia  noi  non  voghamo  dar  troppo  peso 
a  questa  analisi  intrinseca  dei  due  luoghi,  poiché  la  sconnessione 
logica  da  noi  notata  potrebbe  ancora  giustificarsi  pienamente 
qualora  si  ammettesse  che  l'anonimo  autore  delle  Vitae  pontificum 
abbia  egli  stesso  inserita  una  più  antica  scrittura  nel  proprio  testo. 
Contro  però  quest'  ipotesi,  che  vedremo  in  seguito  come  non  sia 
sostenibile,  stanno  fin  d'ora,  se  non  e'  inganniamo,  le  stesse  proteste 


(i)  «  Auctor  nomen  suum  consulto  ipse  omissum  voluit  ut  muta  sit 
«pagina  nec  loquatur  auctorem»;  cf.  L.  A.  Muratori,  P  r  a  e  - 
fatio  in  op.  cit. 

(2)  Cf.  Prologo  in  op.  cit. 

(3)  Op.  cit.  cap.  I. 

t 


io6  L.  A.  FERRAI 


d'inesperienza  e  la  manifesta  trepidazione  che  l'anonimo  dimostra 
nel  prologo  prima  di  avventurarsi  in  un  mare  cosi  periglioso, 
proteste  e  trepidazione,  che  non  avrebbero  avuto  alcun  motivo 
se  egli  avesse  fin  dal  bel  principio  trascritta  fedelmente,  o  meglio 
raffazzonata,  abbreviandola,  la  prosa  di  un  più  antico  scrittore. 

La  rubrica  prima  che  contiene  sommariamente  e  parzialmente 
la  Dcscriptio  situs  et  urbis  precede  in  ordine  di  tempo  le  Vitae 
pontificiiììi  o  è  opera  più  tarda?  Ognuno  intende  che  se  si  po- 
tesse dimostrare  con  sufficienti  argomenti  che  l'anonimo  autore 
delle  Fitae  pontificum  inseri  egli  stesso  buona  parte  di  quel  testo 
nell'opera  sua,  la  questione  sarebbe  di  per  sé  risolta;  ma  poiché 
per  ora  non  osiamo  affermarlo,  ma  tutto  induce  a  credere  che 
cosi  non  sia,  limitiamoci  per  il  momento  a  riscontrare  che  nel 
testo  del  De  sitii  urbis  pubblicato  dal  Muratori  si  hanno  due  di- 
stinte scritture. 


III. 


Ammessa  la  duplicità  dei  testi  che  compongono  l'operetta 
edita  dal  Muratori,  esaminiamo  le  particolari  questioni  che  toc- 
cano il  contenuto  delle  Vitae  pontificum.  Dal  prologo,  che  cer- 
tamente appartiene  ad  esse,  quantunque  manchi  nell'autorevole 
manoscritto  Ambrosiano  del  secolo  xi,  si  ricava  che  l'anonimo 
autore,  probabilmente  un  presbitero  della  chiesa  madre  di  Mi- 
lano, stendeva  quelle  poche  pagine  sull'apostolo  Barnaba  e  sui  più 
antichi  arcivescovi  milanesi  ad  istanza  appunto  di  un  arcivescovo 
ed  in  un'età  di  gravi  perturbazioni  interne  per  la  Chiesa  di  Mi- 
lano (^').  Certo  a  tutto  ciò  non  pose  mente  Michele  Pizzolpasso, 
che  offriva  pure,  ad  un  arcivescovo  suo  parente,  allora  al  governo 
della  Chiesa  di  Milano,  la  trascrizione  degli  antichi  opuscoH  mi- 
lanesi. Infatti  nella  lettera  dedicatoria  egli  poneva  innanzi  l'ipo- 
tesi che  quelle  antiche  biografie,  così  ricche  di  lingua  e  corrette 


(i)  L'anonimo  autore  nel  cit.  Prologo  ci  fa  conoscere  che  1' arcive- 
scovo al  quale  egli  dedica  l'operetta  «  non  sine  maxima  divinae  gratiae  dis- 
«  pensatione  in  praesenti  turbine  »  mantenne  il  suo  grado. 


IL  (c  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  107 

di  Stile,  risalissero  nientemeno  che  alla  fine  del  iv  secolo,  e  po- 
tessero appartenere  alla  dotta  penna  di  Sulpicio  Severo  <^'). 
Quanto  sia  strana  e  cervellotica  tale  opinione  fu  già  dimostrato 
da  Luigi  Biraghi,  il  secondo  e  poco  avventurato  editore  del  De 
sitn  urbis  dopo  il  Muratori.  Com'è  noto,  di  Sulpicio  Severo  sono 
fino  ad  oggi  così  incerte  le  notizie  biografiche  che  non  ci  è  dato 
né  meno  determinare  con  qualche  precisione  l'età  in  cui  fiori. 
Gli  sono  attribuiti  una  Historia  sacra,  alcuni  dialoghi,  e  poche 
lettere.  Lo  stile  in  cui  è  dettata  la  Historia,  l'opera  sua  princi- 
pale, un  sommario  raffazzonato  sulla  Bibbia,  sugli  evangeli,  gli 
atti  degli  Apostoli,  Egesippo  ed  Eusebio,  differisce  cosi  evidente- 
mente da  quello  oltremodo  caratteristico  in  cui  sono  dettate  le 
Fitae,  che  non  si  capisce  com'egli  ne  possa  esser  stato  sospet- 
tato autore.  Nella  Historia  di  Sulpicio  non  si  riscontrano  che 
fi-iggevoli  accenni  alle  vicende  della  Chiesa  milanese  (^),  e  nulla 
intorno  al  supposto  apostolato  di  s.  Barnaba,  alla  fondazione 
delle  Chiese  minori  di  Lombardia  per  opera  del  greco  Anata- 
lone  (Anatolio),  Gaio,  Castriciano.  L'opera  di  Sulpicio  Severo 
è  una  compilazione  schiettamente  storica  ;  le  Fitae  pontificiim,  per 
gran  parte  surrettizie  e  tendenziose,  raccolgono  tutta  una  serie 
di  leggende  sorte  evidentemente  in  un'età  di  scarsa  cultura,  avida 
di  favole,  e  sopra  tutto  proclive  a  ricomporre  con  le  fila  artifi- 
ciose dell'imaginazione  le  sdrucite  traccie  della  tradizione  storica. 
Che  Sulpicio  Severo  sia  stato  in  rapporto  col  dotto  biografo  di 
s.  Ambrogio,  con  Paolino  da  Nola,  è,  a  dir  vero,  una  prova  troppo 
indiretta  e  troppo  poco  convincente  delle  notizie  e  delle  infor- 
mazioni che  si  suppongono  da  lui  prese    e   narrate   sulla  storia 

(i)  «  Ausi  nec  improbe  reor  ad  tuam  integritatem  dirigere  opuscula  quae- 
«  dam,  ni  fallor,  licet  muta  sit  pagina,  auctorem  non  continens,  a  beato  Se- 
«  vero  Sulpicio,  viro  quidem  eloquentissimo,  in  laudem  urbis  Ecclesiae  tuae 
«  Mediolanensis  edita  »  &c.     Cf.  la  cit.  Dedicatoria  in  ms.  cit. 

(2)  SuLPicn  Severi  Opera,  Veronae,  1754,  in  Prefazione.  Nella 
Historia  sacra  s.  Severo  trae  le  poche  notizie  dalle  vite  dei  pontefici  mila- 
nesi, che  continuano  il  testo  del  De  siiti  urbis  nell'edizione  Muratoriana,  e  che 
furono  pubblicate  la  prima  volta  dai  BoUandisti.  Ci.  Ada  sanclorum,  die  xxiv 
mail,  p.  45,  224. 


L.  A.  FERRAI 


lanesi,  non  hanno  fatto  che  accrescere  il  cumulo  delle  incertezze 
e  degli  equivoci.  Come  e  questi  e  quelle  sieno  stati  originati  da 
un  errore  perpetuatosi  fino  ad  oggi  sulla  presupposta  unità  di 
quella  scrittura,  già  lo  accennammo.  Ma  è  tempo  che  ormai 
penetriamo  più  addentro  nelle  varie  questioni  che  intorno  ad 
essa  si  sono  finora  dibattute  con  poco  frutto,  anche  perchè  è 
convinzione  nostra,  dopo  le  fortunate  indagini  intraprese,  che 
si  possa  seriamente  pensare  a  raccogliere,  quando  che  sia,  in  un 
unico  volume  i  monumenti  più  antichi  della  storia  milanese. 

Il  testo  del  De  situ  urbis  nell'edizione  Muratoriana  consta  di 
due  scritture  diverse,  le  Fitae  pontificum  mediolamnsium,  e  la  Dc- 
scriptio  sitiis  et  urbis,  che  in  altra  nostra  memoria  (^')  distinguemmo 
chiaramente  dalla  perduta  operetta  del  secolo  xiii  di  Bonvesino 
da  Ripa.  Quando  il  Muratori  iniziò  le  ricerche  necessarie  per 
dare  in  luce  le  Fitae  pontificum,  dei  manoscritti  antichi  che  ce  le 
hanno  serbate  non  gli  era  noto  che  il  codice  Ambrosiano  C,  133, 
inf.,  eh'  io  crederei  della  fine  del  secolo  xi,  o  al  più  tardi  dei 
primi   anni    del  xn  '^^\     Com'  è    noto,  mancano  a  questo    ma- 

(i)  Cf.  Le  cronache  di  G.  Fiamma  e  le  fonti  della  Galv apiana,  in 
Bull,  dell' I$t.  Slor.  Ital.  n.  io,  Roma,   1891,  p.  93  sgg. 

(2)  La  scrittura  de'  ternioni  membranacei  che  contengono  le  Vitae  pon- 
tificum attesta  una  remota  antichità  del  codice,  da  Luigi  Biraghi,  moderno 
editore  di  questo  testo,  fissata  tra  il  ix  e  l' vin  secolo.  Egli  fonda  in  gran 
parte  il  criterio  di  tale  attribuzione  cronologica  sulla  forma  delle  lettere 
maiuscole  miniate,  che  sono  proprie  della  scrittura  longobarda,  come  se  la 
presenza  di  esse  sia  sufficiente  indizio  dell'età  a  cui  egli  fa  risalire  il  ms. 
Com'è  noto,  tali  elementi  grafici  longobardi  si  riscontrano  anche  in  testi 
del  XII  secolo.  Considerando  invece  lo  sviluppo  di  tutte  le  lettere  in  ge- 
nere, e  più  specialmente  del  t  minuscolo  che  non  si  eleva  mai  sull'altezza 
delle  altre,  e  la  relativa  perfezione  dell'  a  unciale,  si  hanno  dati  relativamente 
sicuri  per  credere  il  ms.  dell'  xi  secolo.  L' illustre  paleografo  ab.  Ceriani, 
da  me  interrogato  in  proposito,  ascriverebbe  appunto  il  ms.  a  quell'età.  Il 
Biraghi  fu  tratto  forse  in  errore  da  una  nota  che  leggesi  nella  prima  pagina 
del  ms.  ove  è  detto:  «  Codex  venerandus  ob  antiquitatem  octingentorura  an- 
ce norum  ».  La  nota,  per  testimonianza  di  Daniele  Papcbroch,  appartiene 
al  1660.  Cf.  Ada  sanciorum,  25  maggio,  nel  Prologo  della  vita 
di  s.  Dionigi,  e  A.  Biragus,  Datiana  historiu  Ecclesiue  mediolanensis,  ab 
anno  Christi  li  ad  cccn'  &:c.,  Mediolani,  MDCCCXLViii,  p.  9. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  103 


noscritto  il  prologo,  che  certamente  appartiene  alle  Vitae  pon- 
tificum  ('),  ed  una  rubrica  che  nell'edizione  del  Muratori  segue 
il  proemio,  e  ha  dato  il  titolo  all'operetta.  Noi  non  esclu- 
demmo altra  volta  la  possibilità  che  la  fusione  delle  due  scrit- 
ture, la  Descriptio  sitiis  et  urbis,  rappresentataci  dal  capitolo  primo 
del  De  sitii  urbis,  con  le  Fitae  pontificum,  non  sia  avvenuta  anti- 
camente W,  tanto  più  che  lo  storico  Landolfo  in  due  noti  luoghi 
sembra  accennare  alle  due  scritture  già  riunite  in  unico  testo  ('^  ; 
ma  è  certo  che  il  Muratori  ne  ricompose  artificialmente  l'unità, 
che  credette  originaria,  su  di  un  tardo  manoscritto  del  secolo  xv, 
nel  quale  trovasi  appunto  il  titolo  da  lui  accettato  ('^).  La  du- 
plicità delle  scritture  contenute  nel  De  situ  urbis  è  in  gran 
parte  dimostrata  dalle  seguenti  ragioni  estrinseche:  1°  Galvano 
Fiamma  citando  le  fonti  usate  per  il  Manipuìus  flornm,  come  già 
in  altro  luogo  avvertimmo,  distingue  nettamente  la  Descriptio 
urbis  dalla  leggenda  del  beato  Barnaba  cum  vitis  pontificum  (5); 
2°  Michele  Pizzolpasso  che  nel  secolo  xv  trascriveva  il  De  situ 
urbis  in  un  codice    elegantemente  miniato,  sebbene  avesse  rac- 

(i)  Cf.  Prologo  in  ed.  Muratori. 

(2)  Cf,  Le  cronache  di  G.  Fiamnia,  loc.  cit.  p.  124. 

(5)  Cf.  Landulphi  Hìstoria  Mediolaneiisis  in  Mori.  Gemi.  hist.  ed.  Wat- 
TEN'BACH,  Hannoverae,  1848,  voi  Vili,  cap.  11,  2  (è  il  noto  passo  già  da 
noi  commentato  nella  precedente  memoria)  e  cap.  11,  15:  «  Quam  [civitatem 
«  Mediolanensem]  ut  in  situ  descriptionis  eiusdem  comperi  anno- 
«  sam,  postmodum  Romani  reges  et  principes,  expulsis  Senonum  populis, 
<(  longe  melins  sublimantes  opere  mirifico  auxerunt  »  &c. 

(4)  È  il  ms.  Ambrosiano  H,  56,  inf.  pergamenaceo  in-8  piccolo,  mi- 
niato, già  da  me  illustrato,  dove  il  testo  del  De  situ  urbis  è  descritto  da 
Michele  Pizzolpasso,  e  dedicato  al  bolognese  Francesco  Pizzolpasso,  arcive- 
scovo di  Milano,  con  lettera  del  trascrittore  che  porta  la  data  :  «  Ex  Medio- 
«  lano  .VI.  non.  iulii  .Mccccxxxviii.  ».  Il  titolo  dell'operetta  è  evidentemente 
riassunto  dal  Pizzolpasso  così:  «  Incipit  historia  de  situ  et  vocabulo  urbis 
«  Mediolanensis  seu  beatissimi  apostoli  Barnabae  visitatione  ad  eamdem  di- 
ce vinitus  directa,  nec  non  et  venerabili  viro  Anatalon  eius  coapostolo  atque 
«  coetaneo  ab  eodem  epischopali  benedicione  inibi  consecrato,  vel  quibusdam 
«  eius  successoribus  »;  e.  3. 

(5)  Cf.  Manip.  florum  in  Muratori,  Rer.  It.  Script,  voi.  XI,  cap.  i, 
e.  539. 


L.  A.  FERRAI 


nelle  varie  Chiese  italiane  di  cataloghi  e  di  biografie  di  ponte- 
fici. Evidentemente  le  Fitae  pontificum  nudiolancìisìum  compar- 
vero poco  dopo  il  530. 

Se  questa  illazione  sia  precipitata  lo  lasciamo  giudicare  a  chi 
ha  avuto  la  pazienza  di  seguirci  fin  qui.  Ma  il  Biraghi  puntella 
la  prima  e  debole  argomentazione  con  molte  altre  prove.  Per 
lui  nel  capitolo  primo  del  testo,  o  meglio  nel  De  situ  urbis, 
ch'egli  considera  la  prima  rubrica  del  testo,  lo  stato  della  Lom- 
bardia e  di  Milano  è  descritto  come  prospero  e  fiorente,  la  città 
conserva  ancora  le  mura  di  Massimiano  coi  suoi  forti  propugna- 
coli. Ciò  risponde  perfettamente  alla  testimonianza  che  intorno 
alle  condizioni  di  Milano  prima  del  539,  in  cui  soffri  non  pochi 
danni  dai  Goti,  ci  ha  lasciato  Procopio.  A  questo  proposito  si 
può  osservare  che  il  Biraghi  ha  dato  ad  espressioni  vaghe  e  ge- 
neriche un  valore  troppo  determinato  ^'\  e  che  inoltre  le  mura 
di  Massimiano  furono  nel  medio  evo  restaurate  dall'arcivescovo 
Ansperto  (^). 

Non  degno  di  confutazione  è  uno  strano  argomento  del  Bi- 
raghi, che  cioè  l'anonimo  autore  avendo  affermato  nel  prologo 
di  voler  dettare  la  vita  dei  più  antichi  vescovi  sino  al  tempo 
suo,  «  cunctos  viros  apostolicos  et  omni  laude  dignissimos  »,  è 
fuori  di  dubbio  ch'egli  non  scriveva  posteriormente  a  Dazio,  che 
fu   l'ultimo   dei   santi   di  quella  nobilissima  schiera  (5).     Di   ben 


(1)  Cf.  i  due  luoghi  di  Procopio  in  D,i  hello  '^othico,  Bonnae,  1833,  voi.  II, 
lib.  II,  cap.  e  2 1  :  7,  «  Tipwxv] . , .  7ió?.sti)v  xcòv  éanspicov  [Jistà  ys  Ta)|j,y)v  (MeSióXavog) 
«  iisys-S-st  TS  'xat  TtoXuavS'pctìutq:,  '/.ai  -ivj  aXXif)  sù5ai|iov[qc,  sxuyxavsv  ouaa  »  &.c. 
e  più  innanzi  :  «  Ms§ióXavog  •^à.p  rjSs,  tióXsojv  tó&v  èv  'IxtxÀia  Tiaacóv  . . .  Tiapà  uoXò 
«  TcpoOxouoa  . . .  Tz^óc,  xs  rspiiavoùg  v.cd  xòug  aXXoug  pappipoug  è,iiixzlj}.Q\ì.ii.  xs  oOaoc 
«  V.OLÌ  uctovjg,  (bg  sÌTcelv,  TcpopepXTjiJisvyj  zy\c,  Tcoiiaitov  àpX'jS  »• 

(2)  A  dir  vero,  il  Biraghi  non  ignorò  il  fatto,  ma  credette  erroneamente 
che  le  mura  di  Massimiano  fossero  state  totalmente  distrutte  dai  Goti  nel  539. 
Ciò  è  assolutamente  falso.  «  Moenia  et  propugnacula  a  Maximiano 
«  condita,  anno  539  a  Gothis  funditus  eversa  ».  Cosi  il  Biraghi,  op.  cit. 
p.  XV. 

(3)  Le  Vitae  pontificum  più  antiche  che  ci  rimangono  non  vanno  oltre 
la  vita  di  s.  Materno.     Cf.  ms.  C,  133,  inf.  nella  biblioteca  Ambrosiana.    Però 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  » 


maggior  peso  è  l'osservazione  che  il  Biraghi  ha  fatta  sulle  divi- 
sioni geografiche  alle  quali  accennasi  nelle  Fitae  pontificum,  e  al- 
l'estensione di  significato  che  vi  si  concede  alla  parola  «  Liguria». 
Effettivamente  quelle  divisioni  appartengono  all'ultima  età  impe- 
riale; ma  chi  non  sa  che  appunto  il  ricordo  di  esse,  sulle  quali 
si  era  adattato  l'antico  ordinamento  politico  e  amministrativo  del- 
l' impero,  si  perpetuò  sino  alla  metà  del  secolo  xi,  poiché  appunto 
sull'organismo  civile  romano  venne  modellandosi  e  lungamente 
si  mantenne  la  costituzione  gerarchica  delle  chiese  soggette  alla 
metropolitana  milanese  ?  Ma  vi  ha  di  più  ;  perfino  nei  cronisti 
del  secolo  xiii  e  xiv,  il  nome  di  «  Liguria  »  mantiene  ancora 
l'ampio  significato  dell'età  imperiale  (').  Ne  un  esame,  certo  dotto 
e  diligente,  fatto  dal  Biraghi  sullo  stile  e  la  erudizione  dell'anonimo 
autore  potevano  offrirgli  delle  prove  molto  più  convincenti.  Per 
il  Biraghi,  l'operetta  è  degna  dell'età  di  Ennodio  e  di  Boezio,  e 
sorse  precisamente  quando  Milano  vantava  già  gli  scritti  di  Lorenzo 
vescovo,  del  grammatico  Deuterio,  di  Aratone  il  poeta,  di  Con- 
stanzo,  di  Fedele,  di  Celso  e  degli  altri  dotti  ricordati  da  F.  En- 
nodio. Che  più  ?  Perfino  ai  traviamenti  del  gusto  letterario 
nel  secolo  vi  il  Biraghi  ritrova  una  sicura  allusione  nel  nostro 
testo  là  dove  è  detto  : 

Praesentium  temporum  novelli  auditores  vocalioribus  sententiis,  quasi 
tinnientibus  cymbalis,  multo  amplius  delectantur  et  syllogismorum  consonan- 
tium  modulis  raagis  quaeque  legerint  vel  audierint,  quam  rerum  gestarum 
pondera  metiantur  (2). 

Accusa  di  ridondanza  e  di  vacua  sonorità,  che  è  troppo  inde- 
terminata e  imprecisa  per  credere  che  ne  sia  colpito  più  tosto  lo 
stile  della  prosa  latina  del  vi  secolo,  che  non  quello  di  un'età 
più  tarda. 

è  presumibile  che  la  narrazione  giungesse  fino  all'età  dello  scrittore,  cioè, 
come  vedremo,  fino  al  x  secolo,  anzi  al  947,  poiché  lo  si  rileva  dal  Pro- 
logo del  De  situ  urbis. 

(i)  Veggansi  i  primi  capitoli  del  Maiiipulus  florum,  della  Galvagnana, 
della  Historia  di  G.  da  Cermenate. 

(2)  Cf.  cap.  XII  in  ed.  cit. 


L.  A.  FERRAI 


Il  troppo  severo  giudizio  che  sulle  condizioni  della  cultura 
nei  secoli  barbari  pronunziarono  il  Muratori  nella  nota  disserta- 
zione <^'),  e  il  Sassi  (^)  per  Milano  su  la  scorta  del  Muratori,  of- 
friva naturalmente  ottime  armi  al  Biraghi  per  negare  decisamente 
che  uno  scrittore  che  abbelliva  la  sua  prosa  con  emistichi  vir- 
giliani, e  mostrava  di  conoscere  Lucrezio,  Ovidio,  Plauto,  po- 
tesse appartenere  all'età  più  tenebrosa  e  meno  nota  del  medio 
evo.  Certo  uno  scrittore  che  si  dice  conoscitore  della  lingua 
greca,  e  mostra  di  fatto  di  aver  utilizzato  le  epistole  del  martire 
Ignazio,  della  Chiesa  di  Smirne,  Eusebio,  Sulpicio  Severo,  s.  Gi- 
rolamo, Orosio,  Lattanzio,  e  spesso  fa  uso  delle  sentenze  di  Var- 
rone,  di  Floro,  di  Eutropio,  di  Ausonio,  di  Trogo  Pompeo,  dato 
che  appartenga,  come  noi  crediamo,  al  secolo  x,  soverchia  per 
dottrina  i  più  eruditi  monaci  dell'età  sua  itahani  e  stranieri;  ma 
appariranno  proprio  indegni  di  stargli  a  fianco  il  cronista  cremo- 
nese Liutprando,  Raterio  vescovo  di  Verona,  Attone  vescovo  di 
VercelH?  Eppoi,  chi  non  sa  come  quanto  più  avanzano  gli  studi 
sulla  latinità  nel  medio  evo,  cadono  non  pochi  dei  pregiudizi  che 
sulla  cultura  dei  secoli  barbari  si  sono  venuti  accumulando  ;  tanto 
che  l'opinione  del  Muratori  non  potrebbe  oggi  accettarsi  se  non 
con  molte  riserve  ? 

Né  meglio  soccorrono  a  sostegno  della  tesi  difesa  dal  Bi- 
raghi alcuni  argomenti,  che  egli  chiama  storici.  Per  lui  il  si- 
lenzio che  sul  martirio  di  s.  Barnaba  serba  l'anonimo  autore,  è 
prova  convincente  ch'egli  non  conobbe  ne  la  narrazione  che  in 
proposito  ci  ha  lasciato  Alessandro  Ciprio  il  monaco,  la  quale 
non  fu  nota  in  occidente  che  sulla  fine  del  vi  secolo,  né  gli  atti 
del  martirio  di  Barnaba  attribuiti  allo  pseudo  Giovanni,  che  non 
si  diffusero  prima  del  secolo  viii.  L'argomento  si  rovescia  da 
vero  con  poca  fatica.  Lo  storico  della  Chiesa  milanese  si  pro- 
pone di  scrivere  il  De  adventu  Barnabae,  non  già  la  sua  vita,  onde 
il  silenzio  ch'ei  serba  sui  primi  e  sugli  ultimi  anni  del  suo  apo- 
stolato.    Quanto  poi  ad  alcune  frasi  liturgiche  che  il  Biraghi  nota 

(i)  Cf.  Atitiq.  hai.  meda  aevi,  to.  Ili,  diss.  XLiii,  pag.  807. 
(2)  Cf.  De  studiis  Mediolani  prodromus,  cap.  vi. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  113 

nel  testo,  e  che  sono  proprie  alle  costumanze  e  ai  riti  della  so- 
cietà cristiana  primitiva,  e  precisamente  non  posteriori  al  secolo  vi, 
giova  considerare  ch'esse  più  che  darci  un  indizio  dell'età  vissuta 
dal  biografo  dei  vescovi  milanesi,  suffragano  l'opinione  ch'egli 
effettivamente  si  valesse  anche  di  fonti  greche,  ne  può  destare 
meravigha  che  rifacendo  egU  la  storia  primitiva  della  metropo- 
litana milanese,  usasse  il  linguaggio  proprio  dell'età  più  antica, 
in  cui  vennero  fissandosi  gli  ordinamenti  e  il  rituale  cristiano. 

Ma  il  Biraghi  vuole  stravincere.  Poiché  tutto  concorre  a  per- 
suaderci, egli  dice,  che  le  Fitae  pontificum  risalgono  alla  metà 
del  secolo  vi,  probabilmente  il  vescovo  in  servigio  del  quale 
l'operetta  fu  dettata,  è  Dazio  (530-53^),  e  il  dissidio  della  Chiesa 
milanese,  al  quale  accenna  l'anonimo  autore,  si  riferisce  precisa- 
mente alla  persecuzione  che  Teodato  re  dei  Goti,  e  aspro  fau- 
tore della  sètta  ariana,  mosse  ai  vescovi  di  Lombardia.  D'altra 
parte  noi  sappiamo  che  a  Dazio  sono  attribuiti  degli  annali  in  un 
noto  luogo  della  Historia  miscdla  <^'),  compilata  nel  secolo  viii,  che 
di  questi  antichissimi  annali  milanesi  è  fatta  pure  menzione  da 
Landolfo  seniore  (^)  ;  evidentemente  il  De  situ  urbis  altro  non  è 
che  la  Historia  Datiana,  che  per  essere  stata  dettata  da  anonimo 
scrittore,  e  per  suggerimento  di  Dazio,  fu  a  lui  attribuita,  giusta 
il  proverbio:   «  Qui  per  alium  hcìi,  ipse  facit». 

Ma  tutto  questo  edifìcio  lo  si  abbatte  assai  agevolmente.  La 
citazione  dei  perduti  annah  di  Dazio,  così  largamente  sfruttati  nel 
secolo  XI  da  Landolfo,  si  ritrova  nello  stesso  testo  delle  Vitae  pon- 
tificum, a  meno  che,  ciò  che  è  storicamente  assurdo,  non  si  voglia 
ammettere  che  Milano  abbia  avuto  un'opera  storica  dal  titolo  An- 
nahs  prima  del  secolo  vi.  L' ipotesi  non  sarebbe  poi  in  nessun 
modo  sostenibile,  perchè  l'anonimo  autore  del  De  situ  urbis  cita 
gli  annah  antichissimi  a  proposito  di  notizie  geografiche  che  Lan- 

(i)  Cf.  lib.  XVI,  cap.  15  :  «  Praeter  belli  instantiam  angebatur  insuper 
«  Roma  famis  penuria,  tanta  siquidem  per  universum  mundum  eo  anno, 
«  maximeque  apud  Ligurìam  fames  excreverat,  ut  sicut  vir  beatissimus  Da- 
«  cius  mediolanensis  antìstes  retulit  »  &c. 

(2)  Cf.  Landulphi  Mediai,  historia  in   Moti.  Germ.  hist,  ed.  cit.  voi.  Vili, 
cap.  2,  4,  12,  13. 

8 


114  L.  A.  FERRAI 


dolfo  dichiara  di  aver  cavato  dagli  annali  di  Dazio  ('\  Eppoi,  non 
possediamo  noi  due  manoscritti  delle  Fitae  pontificmn,  l'uno  del  se- 
colo XI  exeunte,  l'altro  del  xii  ?  Se  al  Biraghi  rimase  sconosciuto 
quest'ultimo,  eh'  io  ho  avuto  la  singolare  fortuna  di  ripescare 
nella  biblioteca  Ambrosiana,  egli  ha  però  condotta  la  sua  edizione 
sul  più  antico.  Come  può  conciliarsi  il  fatto  che  nei  due  codici 
l'operetta  non  s' intitoli  Annales  Datii,  mentre  questi  Aìinaìcs  erano 
noti  ad  uno  scrittore  del  secolo  xi,  Landolfo  ? 

La  identità  adunque  dei  due  testi  è  affatto  arbitraria,  lo  pos- 
siamo affermare  fin  d'ora  ;  le  indagini  nostre  porranno  anche  fuori 
d'ogni  discussione  la  remota  antichità  attribuita  alle  Vitae  pontì- 
ficuììi.  Non  per  questo  accettiamo  l'opinione  dell'illustre  profes- 
sore F.  Schupfer,  il  quale  dopo  il  Biraghi  e  solo  incidentalmente 
trattò  la  questione,  e  sostenne  che  il  testo  del  De  sita  urbis  ap- 
partiene al  secolo  xi.  Lo  Schupfer  ebbe  occasione  di  entrar  nel 
dibattito,  proseguendo  con  una  serie  di  articoh  pubblicati  nel- 
V Archivio  giuridico  gli  studi  dell'  Hegel,  del  Betmann-Holweg  su 
la  società  milanese  all'età  del  risorgimento  comunale.  Egli  os- 
serva (^)  giustamente  che  dalla  scrittura  in  questione  traspare  una 


(i)  «  . . .  Mediolanum,  quae  ex  priscis  temporibus,  ut  in  veracissimis  re- 
«  peritur  aiinalibus,  altera  post  inclytam  Romani  magni  imperii  dignitate  ac 
«  ditione  potita  est  ».  Cf.  De  sita  urbis,  I,  par.  II,  capo  i  in  ed.  cit.  ;  e  Bi- 
raghi, op.  cit.  p,  4.  Il  Biraghi  si  levò  d' imbarazzo  commentando  cosi  :  «  Pro 
«  annalibus  intelligendum  puto  Ausonii,  poetae  saeculi  quarti,  carmen  (?)  .vi. 
«  De  claris  urhibus  ».  Né  si  può  obiettare  all'osservazione  nostra,  che  avendo 
noi  stessi  considerato  come  una  scrittura  a  sé  il  capo  i,  questa  testimonianza 
poco  o  nulla  vale  per  il  testo  delie  Vitae  pontificmn,  poiché  anzitutto  tanto 
la  Descriptio  situs  et  urbis,  come  le  Vitae  pontificum  risalgono,  come  ve- 
dremo, al  secolo  x,  secondariamente  nelle  Vitae  pontificum  stesse  trovansi 
citazioni  di  Annales  :  «  Verum  tamen  ut  certo  certius  noverit,  integrum  nos 
«  annorum  series  praesentis  deprompsisse  pagina  materiae,  scilicet  veterum 
«  scriptorum  annales  diligenti  indagine  eorum  qui  olympiades  priscorum 
«  temporum  actusque  beatorum  solicite  descripserunt,  alioqui  tacere  quam 
«falsa  dicere  decrevissem  «.     Cf.  Datiana  historia,  I,  cap.  11,  col.  216. 

(2)  Cf.  Archivio  giuridico  diretto  da  F.  Serafini,  Bologna,  Fava  e  Gara- 
gnani,  luglio  1869,  voi.  III,  fase.  4,  in  articolo  :  La  società  milanese  all'epoca 
del  risorgimento  del  comune,  p.  469  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  115 


manifesta  antipatia  per  Roma.  Milano  nulla  ha  da  invidiare  a 
Roma  rispetto  alle  origini  gloriose  della  sua  Chiesa.  Le  tradizioni 
ecclesiastiche  della  metropolitana  risalgono  direttamente  all'apo- 
stolato di  Pietro,  come  precisamente  quelle  della  cattedra  romana. 
La  venuta  di  s.  Barnaba  a  Roma  cade,  per  l'anonimo  autore 
delle  Fitae  poìitificum,  nel  41  ;  egli  suppone  bensì  che  s.  Pietro 
e  s.  Iacopo  lo  istruiscano,  ma  secondo  lui  la  iniziazione  non 
sarebbe  già  avvenuta  in  Roma  ma  a  Gerusalemme,  prima  an- 
cora che  Pietro  assumesse  l'episcopato.  Onde  le  ragioni  di  fatto 
di  un  rituale  separato  e  distinto  nella  Chiesa  ambrosiana,  sede 
apostolica  al  pari  della  romana.  L\inonimo  autore  conduce  a 
sua  posta  s.  Barnaba  a  Milano,  e  gli  dà  per  compagno  il  greco 
Anatolio.  L'uno  è  il  fondatore  della  Chiesa  milanese,  l'altro 
dell'episcopato  bresciano.  Tutto  ciò,  dice  lo  Schupfer,  è  fatto 
ad  arte.  La  giurisdizione  ecclesiastica  di  Milano,  all'epoca  del 
potente  Eriberto,  è  posta  a  repentaglio  dalla  pretensione  giuris- 
dizionale del  patriarca  d'Aquileia.  Nel  103 1  il  vescovo  di  Brescia 
osò  presentarsi  ad  un  sinodo  provinciale  convocato  dal  patriarca. 
Urgeva  rivendicare  dei  dritti,  che  minacciavano  d'essere  offesi, 
bisognava  dimostrare  che  la  conversione  dei  Bresciani  e  l'episco- 
pato di  Brescia  erano  una  conseguenza  dell'apostolato  di  s.  Bar- 
naba, e  della  fondazione  della  Chiesa  milanese.  Non  per  nulla 
l'anonimo  autore  afferma  che  Barnaba  «  orans  et  manus  impo- 
«  nens  »  consacrò  Anatolio.  Barnaba,  fondata  la  Chiesa,  si  recò 
altrove,  e  restò  Anatolio.  Questi,  giunto  a  morte,  consacra  a 
Milano  il  suo  successore,  e  provvede  nello  stesso  tempo  alla  va- 
canza dell'episcopato  bresciano.  L'eletto  alla  Chiesa  di  Milano 
è  un  tal  Gaio,  di  cui  si  hanno  notizie  storiche,  commenta  lo 
Schupfer,  ineccepibili,  poiché  lo  si  ritrova  in  Roma  partecipante 
ad  una  disputa  sostenuta  dai  pontefici  romani  contro  le  comunità 
asiatiche  intorno  al  battesimo  degU  Ebrei.  Ma  all'anonimo  preme 
di  far  conoscere  ben  altro.  Gaio,  secondo  luì,  ottiene  con  l'arci- 
vescovato il  diritto  di  precedenza  su  tutti  i  vescovi  italiani:  l'au- 
torità sua  segue  immediatamente  dopo  quella  del  papa,  e  ciò  è 
conforme  alle  tradizioni  apos'  oliche  della  sua  Chiesa,  e  all'  im- 
portanza della  città  affidata    il  suo  governo,  tra  le  più  popolose 


ii6  L.  A.  FERRAI 


dell'  impero,  tra  le  più  splendide  per  suntaosità  di  edifici,  con- 
degna sede  più  tardi  della  grandezza  cesarea. 

I  popoli  della  Venezia,  della  Liguria,  dell'  Emilia,  della  Rezia 
e  delle  Alpi  Cozie  finirono  per  riconoscere  come  «  caput  et  decus 
«  insigne  »  il  metropolita  milanese.  Ora,  argomenta  lo  Schupfer, 
il  punto  controverso  all'età  di  Eriberto  rimaneva  pur  sempre  la 
immediata  dipendenza  del  vescovo  di  Milano  dal  pontefice,  onde 
la  necessità  di  alterare  le  tradizioni  apostoliche  in  servigio  di  un 
vescovo,  a  cui  venivano  aspramente  contrastati  gli  antichi  pri- 
vilegi. La  leggenda  di  s.  Barnaba,  rinfrescata,  amplificata,  ab- 
bellita, offriva  un'arme  potente  ad  Eriberto  per  riaffermare  una 
supremazia,  che,  per  l'opposizione  di  Roma,  gli  sfuggiva  di  mano. 
Ma  vi  ha  di  più  ;  Gaio  lascia  negli  ultimi  anni  il  governo  della 
propria  Chiesa  e  si  reca  a  Roma  ;  gli  apostoli  vi  hanno  già  subito 
il  martirio,  ma  sopravvivono  ancora  i  discepoli  loro,  e  da  essi 
Gaio  ascolta  reverente  il  racconto  della  morte  dell'apostolo,  e 
così  le  prerogative  dei  vescovi  di  Milano  poggiano  su  una  più 
sicura  base.  Forse  che,  osserva  lo  Schupfer,  questo  luogo  non 
accenna  ad  un'età,  in  cui  il  rituale  ambrosiano  veniva  nuova- 
mente contestato  ?  «  L'opuscolo,  in  sostanza  »,  egH  conchiude, 
«  è  una  continua  apologia,  seminata  qua  e  là  di  falsificazioni . . . 
«  ma  queste  non  si  vogliono  condannare,  come  si  farebbe  oggidì. 
«  Erano  falsificazioni  scusabili,  erano  un  atto  di  politica,  un'arma 
«  di  guerra,  e  infine  correvano  certi  tempi  in  cui  la  verità  non 
«  era  né  meno  richiesta  »  0).  Ma  lo  Schupfer  va  anche  più  in- 
nanzi. In  un  passo  della  vita  di  Castriciano  successore  di  Gaio 
egli  vede  riflesso  l'entusiasmo  del  rinascente  patriottismo  munici- 
pale, di  cui,  secondo  lui,  tutto  l'opuscolo  è  un  insigne  monu- 
mento letterario. 

In  massima  noi  concordiamo  perfettamente  con  l'illustre 
Schupfer  sul  carattere  e  sullo  spirito  che  domina  in  quella  scrittura, 
ma  non  possiamo  convenire  con  lui  rispetto  all'età  a  cui  egli 
la  fa  risalire,  e  conseguentemente  attribuirla  ad  un  prelato  della 
corte   feudale  di   Eriberto.      Riassumiamo  brevemente  gli  argo- 


'o^ 


(i)  Cf.  art.  cit.  p.  470. 


IL  «DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  117 

menti  che  stanno  in  nostro  favore.  È  noto,  che  nel  prologo  delle 
Fitae  pontificum  l'anonimo  autore  si  dice  confortato  all'opera  dal 
consiglio  autorevole  dell'arcivescovo  Anatolio^'^.  Evidentemente 
si  tratta  di  un  errore,  e  Io  avvertiva  per  primo  il  Muratori.  Al- 
l' infuori  dell' Anatolio  discepolo  e  compagno  di  Barnaba,  nessun 
altro  arcivescovo  ci  compare  negli  antichi  cataloghi  con  quel 
nome,  onde  la  naturale  ipotesi  che  si  tratti  di  un  nome  tedesco 
alterato  per  disattenzione  del  copista.  Ma  è  egli  supponibile  che 
questi  imbattendosi  nel  nome  di  Eriberto  non  riescisse  a  deci- 
frarlo, e  lo  alterasse  fantasticamente?  Quale  altro  vescovo  nei 
secoli  XI  e  xii,  a  cui  pare  appartengono  i  manoscritti  che  ci  con- 
servano le  Fitae  pontìficiiin,  mantenne  una  popolarità  maggiore 
di  quella  di  Eriberto  ?  Da  s.  Ambrogio  in  poi  non  ce  n'è  ri- 
cordato alcuno  che  arrivasse  a  cosi  alto  grado  di  notorietà  e  di 
potenza.  Si  obietterà  che  l'autore  delle  Vitae.  pontificum  insiste 
a  più  riprese  sui  torbidi  interni  della  diocesi  milanese,  e  che  forse 
non  ve  ne  furono  mai  di  più  gravi  né  prima  né  dopo  il  103^, 
quando  s'impegnò  la  lotta  tra  i  valvassori  ed  Eriberto.  Va  bene, 
e  che  per  questo  ?  Nella  storia  della  Chiesa  milanese  si  riscon- 
trano prima  d'allora  ben  altri  momenti  di  subbuglio  e  di  disor- 
dine. D'altra  parte  i  torbidi  accennati,  per  il  modo  e  l'espres- 
sione dell'accenno  stesso,  sembrerebbero  più  tosto  di  carattere 
ecclesiastico  e  religioso,  anziché  politico  ;  e  ciò  non  si  attaglia 
alla  ostinata  resistenza  della  «  motta  »  lombarda.  Che  le  Vitae 
pontificum  sieno  sorte  in  servigio  dei  minacciati  interessi  spirituaH, 
e  in  difesa  della  minacciata  giurisdizione  ecclesiastica  di  Milano, 
lo  s' intende,  ma  che  proprio  le  abbia  promosse  la  sollevazione 
dei  «  mihtes  secundi  ordinis  »,  ecco  ciò  che  veramente  contrasta 
col  carattere  particolare  dell'operetta  su  cui  discutiamo. 

Io  non  conosco  nelle  vicende  della  metropolitana  un  mo- 
mento di  maggior  potenza  di  quello  rappresentatovi  da  Eriberto, 
non  ostante  i  suoi  contrasti  con  i  valvassori,  Corrado  II,  i  Lo- 
digiani e  la  loro  Chiesa.     Fatta  eccezione  infatti  per  il  vescovo 

(i)  «  Amplitudinis  vestrae,  o  beatissime  praesul,  Anatolonis  religiosissimi 
«  iussu  solicitor  ».    Cf.  in  Prologo,  I,  11,  loc.  cit. 


ii8  L,  A.  FERRAI 


di  Lodi,  che  con  la  protezione  imperiale  tentò  allora  sottrarsi 
alla  giurisdizione  dell'arcivescovo  ^^\  nessuno  dei  suffragane!  osò 
disconoscere  i  secolari  diritti  giurisdizionali  della  Chiesa  ambro- 
siana. Per  quanto  infatti  essi  sieno  stati  a  più  riprese  menomati 
dal  secolo  v  all'  xi,  è  fuori  di  discussione  che  nella  dignità 
della  sede  vescovile  di  Milano  rimanevano  allora  più  che  mai 
evidenti  le  vestigia  dell'antica  grandezza  civile,  di  cui  quella  città 
fu  il  centro  all'età  imperiale.  La  giurisdizione  del  vicariato 
d' Italia,  che  dall'epoca  Costantiniana  in  poi  ebbe  per  suo  centro 
Milano,  per  gran  parte  si  trasferisce  nella  giurisdizione  ecclesia- 
stica milanese.  Al  vicario  di  Milano  spettavano  sette  provincie  : 
la  Liguria,  l' EmiHa,  la  Flaminia,  il  Piceno  annonario,  la  Venezia, 
a  cui  furono  pure  aggiunte  l' Istria,  le  Alpi  Cozie,  e  le  due  Rezie. 
Or  bene,  a  quest'antica  partizione,  che  divenne  il  fondamento 
della  giurisdizione  ecclesiastica  milanese  '^^\  ma  in  più  ristretti 
limiti  per  l' importanza  die  di  fronte  a  Milano  acquistarono  il  pa- 
triarcato d'Aquileia  e  la  Chiesa  ravennate,  non  accenna  forse  il 
nostro  anonimo,  come  già  avvertiva  il  Biraghi  ?  Noi  non  ne 
dedurremo  con  lui  la  conseguenza  che  il  nostro  testo  delle  Fitae 
pontificum  risalga  al  secolo  vi,  ma  non  negheremo  per  questo 
il  valore  della  testimonianza.  Chi  stendeva  le  Vitae  pontificum 
sentì  il  bisogno  di  riaffermare  le  ragioni  storiche  su  cui  si  basava 
la  potestà  del  metropolita,  e  l'opera  sua  trovò  suggerimento  e 
motivo  da  un  contrasto  di  opinioni,  che  all'età  di  Eriberto  forse 
fu  meno  vivo  che  in  altri  tempi.  Le  rivalità  tra  le  due  Chiese 
di  Roma  e  di  Milano  esistevano  da  tempo  immemorabile,  né  le 
intenzioni  che  si  attribuiscono  ad  Eriberto  finirono  per  trasci- 
narlo mai  in  una  vera  e  propria    lotta    col    papato,   come  pure 

(i)  Cf.  GiULiNi,  Meìtiork  di  Milano,  III,  291.  Non  so  donde  lo  Schupfer 
abbia  tratta  la  notizia  dei  conati  fatti  dal  vescovo  di  Brescia  per  sottrarsi  alla 
giurisdizione  del  metropolita  all'età  di  Eriberto  e  di  Corrado  II.  Ben  son 
noti  i  contrasti  di  precedenza  tra  il  vescovo  di  Brescia  e  quello  di  Vercelli 
come  suffraganei  della  metropolitana.     Cf.  Giulini,  op.  cit.  Vili,  384. 

(2)  Cf.  L,  A.  Muratori,  Anecdota,  Mediolani,  1697,  I,  225  ;  Bintgam, 
Orlg.  eccles.,  Londra,  1824-29,  lib.  IX,  cap.  i,  §§  5  e  6  ;  P.  Verri,  Storia  di 
Milano,  Firenze,  Le  Monnier,  185 1,  I,  28  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  «  119 

avvenne  ad  alcuni  suoi  predecessori.  La  tradizione  apostolica 
della  metropolitana,  meno  che  in  altri  tempi,  ebbe  bisogno  al- 
l'età sua  di  sostenitori  e  di  apologisti,  perchè  la  supremazia  di 
lui  si  era  affermata  di  fatto. 

L'anonimo  autore  delle  Vitac  pontificnm  rifa  a  suo  capriccio 
la  storia  delle  origini  della  Chiesa  milanese,  perchè  in  seno  ad 
essa  si  è  manifestato  un  profondo  dissidio  per  il  quale  è  minac- 
ciata ed  offesa  la  tradizione  apostoHca.  Collegare  abilmente  il 
presunto  apostolato  di  Barnaba  con  la  predicazione  di  s.  Am- 
brogio, stabilire,  come  la  fantasia  accesa  dalla  fede  gli  suggerisce, 
gli  inizi  e  lo  sviluppo  della  supremazia  del  metropolita,  ecco  il 
suo  assunto,  ed  è  in  servigio  di  un  arcivescovo  eletto  secondo 
le  antiche  consuetudini,  ma  non  riconosciuto  da  Roma,  in  aperta 
opposizione  con  una  fazione  che  gli  contesta  l'obbedienza  e  l'o- 
maggio, che  gli  impedisce,  o  per  lo  meno  gli  pone  dei  limiti 
all'esercizio  del  suo  ministero,  e  rende  inesecutivi  i  suoi  atti,  che 
le  Fitae  pontiflcum  s' interpongono  tra  le  scritture  polemiche  e 
apologetiche  che  solevano  accalorare  consimili  lotte,  monca  e 
insufficiente  testimonianza  di  un  gravissimo  scisma  che  straziò 
la  Chiesa  di  Milano  a  mezzo  il  x  secolo.  Eriberto  non  è  né 
poteva  essere  l'arcivescovo,  di  cui  i  copisti  dell'  xi  e  del  xii  se- 
colo s' imbarazzassero  a  decifrare,  e  tanto  meno  avessero  inte- 
resse ad  alterare  il  nome.  Quel  nome  apparteneva  ad  un  me- 
tropolita, che  i  cataloghi  antichi  considerano  come  illegittimo  al 
pari  del  suo  antagonista,  perchè,  come  vedremo,  ne  l'uno  né 
l'altro,  a  quanto  sembra,  fecero  in  tempo  a  ricevere  da  Roma 
il  «  placet  »  della  consacrazione.  Se  nei  manoscritti  lo  vediamo 
sostituito  capricciosamente  dal  nome  di  Anatolio,  l' abrasione  de- 
liberata è  frutto  di  zelo  ortodosso  in  un'età  in  cui  la  piena  sot- 
tomissione di  Milano  a  Roma,  dopo  la  lotta  dei  preti  concubi- 
nari coi  Paterini,  e  le  riforme  ecclesiastiche  ildebrandesi,  può 
rendere  giustificabile  la  circospezione  paurosa  e  la  cautela  del 
tardo  copista.  Si  tratta  insomma,  secondo  noi,  di  tal  Adelmanno 
pontefice  della  Chiesa  milanese  nel  secolo  x,  per  ben  cinque  anni, 
e  costantemente  avverso  a  Manasse,  pure  arcivescovo  di  Milano, 
e  più  tardi  cancelliere  di  Ottone  1.     Ma  delle  due  forti  e  vigo- 


L.  A.  FERRAI 


rose  figure  dell'episcopato  lombardo,  poiché  la  questione  delle 
Fitae  pontificum  e'  invita  a  trattarne,  discorreremo  tra  breve.  Non 
trascuriamo  intanto  alcuni  altri  argomenti  che  stanno  in  favore 
della  nostra  ipotesi,  e,  se  non  c'inganniamo,  definitivamente  esclu- 
dono l'opinione  dello  Schupfer. 


mi. 


Le  Fitae  poìitìficiun,  che  noi  facciamo  risalire  al  secolo  x,  non 
discostandoci  gran  fatto  dal  parere  del  Muratori,  sono,  come  già 
avvertimmo,  citate  da  Landolfo  e  da  altp  (')  come  un  testo  an- 
tico. Ora  e  egli  ammissibile  che  qualificasse  per  tale  una  scrit- 
tura di  poco  più  che  mezzo  secolo  anteriore  a  lui  ?  È  noto  che 
Landolfo  seniore,  la  cui  Historia  Mediolanensis  giunge  al  1085, 
la  dettava  sulla  fine  del  secolo  xi,  e  ch'egli  stesso  non  trascurò 
di  farci  sapere  da  quali  fonti  avesse  cavata  la  materia  più  antica 
del  suo  racconto,  cioè  anteriormente  al  1045.  Chierico  della 
Chiesa  metropolitana  ^^\  forse  egli  conobbe  le  Fitae  pontificum  sul 
codice  più  antico  che  ce  n'è  rimasto,  e  appunto  perchè  le  con- 
siderava antichissime,  egli  le  cita  insieme  ad  altri  testi  di  non 
dubbia  antichità  ^^\  Sorge  anzi  il  sospetto,  per  l'ordine  da  lui 
serbato  in  queste  citazioni,  che  effettivamente  egU  abbia  creduta 
l'operetta  delle  Fitae  pontificum  del  vi  o  del  vii  secolo,  fors'anche 
perchè  non  si  ritrovava  più  al  suo  luogo,  nel  prologo  di  quelle, 
il  nome  di  «  Adelmanno  »  che  gli  avrebbe  dato  in  mano  il  ban- 
dolo per  scuoprire  la  vera  età  di  quel  testo.     Notisi  inoltre  che 

(i)  «  Lcgitur  in  antiquissimis  historiis  quae  hodie  habentur  in  civitate 
«  Mediolani,  quod  ipse  beatus  Barnabas  de  Romana  civitate  »  &c.  Così 
nel  Catalogo  degli  arcivescovi  milanesi  che  il  Muratori  pubblicò  nel  voi.  I, 
par.  II,  p,  228  sgg.  Rer.  It.  Script,  e  che  attribuì  al  mccli.  Quanto  alle  ci- 
tazioni di  Landolfo,  v.  la  nota  3  a  p.   103. 

(2)  Cf.  la  prefazione  di  L.  C.  Bethmann  e  del  Wattenbach  all'edizione 
di  Landolfo  nei  Moii.  Gemi.  hisl.  Vili,  32. 

(3)  Cf.  prefazione  cit.  sopra. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  121 

nei  diplomi  imperiali,  nelle  lettere  pontificie,  negli  atti  di  Eri- 
berto,  come  di  alcuni  suoi  immediati  predecessori  non  si  riscontra 
che  raramente  il  titolo  di  «  praesul  »  che  l'anonimo  autore  as- 
segna al  metropolita,  da  cui  ha  avuto  l'incarico  di  scrivere  le 
Fitae  pontificiun.  Nel  secolo  xi  prevale  nell'  uso  il  titolo  di  «  ar- 
ce chiepiscopus  »,  che  il  metropolita  milanese  non  assunse  prima 
del  secolo  vii. 

Ma  sopra  tutto  mi  preme  di  richiamare  l'attenzione  sopra  un 
fatto  sfuggito  all'attenzione  di  quanti  si  sono  occupati  di  questa 
materia.  Il  nostro  anonimo  afferma  in  più  luoghi  di  aver  messo 
a  profitto  fonti  latine  e  greche  (■),  con  parole  greche  latinizzate 
infiora  frequentemente  una  prosa  che  nei  suoi  costrutti  medesimi 
risente  talvolta!  caratteri  della  prosa  greca;  non  ci  offre  dunque 
egli  stesso  un  cumulo  di  prove  per  far  risalire  l'età  da  lui  vis- 
suta al  di  là  del  1000?  È  infatti  noto  che  per  la  conquista  nor- 
manna nei  primi  decenni  del  secolo  xi  divennero  assai  meno 
frequenti  i  rapporti  tra  l' Italia  meridionale  e  la  Lombardia.  Che 
se  nella  «  Langobardia  greca  »  o  «  Sicilia  cismarina  »  incorpo- 
rata nel  ducato  di  Puglia  e  definitivamente  nel  regno  delle  Due 
Sicilie  le  Chiese  greche  dipendenti  da  Costantinopoli  poterono 
ancora  serbarsi  centri  di  cultura  ellenica  per  la  società  ecclesia- 
stica italiana,  è  anche  vero  che  lentamente  quelle  Chiese  scom- 
parvero, onde  la  certezza  che  la  conoscenza  del  greco  tra  i  chie- 
rici dovesse  essere  molto  più  diffusa  prima  della  dominazione 
normanna  che  posteriormente.  Si  suole  affermare  generalmente 
che  la  conoscenza  del  greco  si  accrebbe   non   poco  nell'  ultimo 


(i)  Dopo  aver  narrato  i  fatti  della  vita  di  Anatalone  scrive:  «  Hucusque 
«  de  primis  Ecclesiae  Mediolanensis  propagatoribus,  prout  parvi  tulit  captus 
«  ingenii,  ex  diversis  coUccta  utriusque  linguae  paginis,  ceu  dis- 
«  color  in  amoenis  solet  pratis  compingi  coronula,  satis  adnotasse  et  con- 
ce glutinasse  sufficiat  ».  Cf.  De  siili  urbis,  in  Rer.  It.  Script.  I,  11,  206.  In 
seguito  alla  vita  di  s.  Castriciano  :  «  Porro  fastidioso  Icctori  ut  quod  prius 
«  dicere  debui,  prepostero  ordine  ponam,  sive  omnino  perduelli  cuipiam 
«  nostra  lecturo  illud  ultra,  supraque  dcnuntio,  quatenus  in  his,  quae  inlegit, 
«  si  forte  minus  credulus  existit,  perquirat  aliarum  tam  Romanorum  quam 
«  Graiorum  chronicarum  commenta»  &c.;  op.  e  Ice.  cit.  p.  211. 


122  L.  A.  FERRAI 


periodo  di  essa  ;  e  ciò  è  conforme  al  vero,  ma  è  il  carattere  della 
nuova  cultura  per  gran  parte  laica,  e  la  abbondante  mèsse  dei 
documenti  giunti  a  noi  perchè  dei  secoli  più  a  noi  vicini,  che 
ha  fatto  credere  ad  un  rinascimento  di  studi  ('\  che  altro  non 
è  se  non  riacquisto  di  patrimonio  scientifico  miseramente  disperso 
ed  obliato  nei  primi  decenni  del  secolo  xi  ^"-^  A  buon  conto 
tale  risveglio  non  ebbe  efficacia  sufficiente  a  rianimare  gli  studi 
religiosi  sui  testi  greci  nell'  alta  e  nella  media  Italia.  Noi  ne  ab- 
biamo una  convincente  prova  in  questo.  Per  tutto  il  secolo  xi 
il  clero  lombardo,  per  quanto  addottrinato  e  addestrato  nelle  lotte 
dogmatiche  e  disciplinari,  si  dimostra  quasi  affatto  ignorante  della 
lingua  greca  e  della  letteratura  teologica  bisantina.  Ce  lo  attesta 
indirettamente  Landolfo  accennando  ad  un  fatto  che  dovè  egli 
stesso  considerare  eccezionale  nell'età  sua,  in  quanto  appunto  lo 
credè  degno  di  nota,  che  cioè  nelle  dispute  insorte  tra  i  seguaci 
di  s.  Arialdo  e  i  partigiani  dell'arcivescovo  Guido  da  Velate, 
sorsero  in  favore  dell'audace  novatore  tre  diaconi,  che  citavano 
testi  greci  (5).  Egli  escludeva  cosi  che  ad  altri  fossero  dischiuse 
così  facilmente  le  fonti  genuine  della  dottrina  dei  padri. 

Se  noi  ci  avviciniamo  agli  inizi  del  secolo  x,  ed  entriamo  in 
questo,  di  mano  in  mano  che  ne  risaliamo  il  corso,  si  fanno  più 
frequenti  le  testimonianze  della  cultura  ecclesiastica  bisantina  in 
Occidente.  La  vita  di  s.  Nilo  abate  di  Grottaferrata  nella  Tuscia 
fu  dettata  da  un  suo  discepolo  in  greco,  e  ce  ne  è  rimasto  il  testo 
originale  in  questa  lingua  ^'^K  Che  il  vescovo  Attone  di  Vercelli 
la  possedesse,  è  flitto  fuori  di  discussione  '^^\     Il  cronista  cremo- 


(i)  Cf.  H.  Bresslau,  Haiidbuch  dcr  Urkundenhhre  far  Deutschland  und  Italicn, 
Leipzig,  1889,  P-  599- 

(2)  Cf.  L.  Dresdner,  Knltur-  iind  SitUitgéSchichte  der  italienischen  GcistlichJceit 
in  IO.  und  11.  Jahrlnindcri,  Breslau,  Koebner,  1890,  in  Kapitel  v,  Int  el- 
le ktuelles    Leben,    p.  195  sgg. 

(3)  Cf.  Landolfo,  op.  cit.  cap.  in,  89,  90  e  196. 

(4)  a.  Ada  sanclorum,  26  sept.,  VII,  283-343;  A.  Potthast,  IFei^weiser 
dtirch  die  Geschichtswerke  des  Eiiropaischen  Mitielalters  Scc,  Berlin,  1862,  p.  829. 

(5)  Cf.  ScHULTZ,  Alto  von  Vercelli,  Gòttingcn,  1887,  pp.  65-66  ;  Dres- 
dner, op.  cit.  p.   196. 

u 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  ^>  123 

nese  Liutprando,  che  fu  ambasciatore  di  Berengario  II  e  di  Ot- 
tone I  a  Costantinopoli,  ne  era  praticissimo  (■).  Si  potrà  sospet- 
tare che  Gunzo  di  Novara  citasse  il  Timeo  di  Platone,  e  il  Tiepl 
£p[jL£V£'a(;  di  Aristotile  di  su  le  traduzioni  latine  che  se  ne  pos- 
sedevano, ma  che  qualche  cosa  di  greco  sapesse,  lo  afferma  egli 
stesso.  E  che  cosa  dire  di  Raterio  ?  Intorno  alla  cognizione 
della  Hngua  e  dell'antica  letteratura  greca  del  dotto  vescovo  di 
Verona  si  è  disputato  e  si  può  ancora  battagliare  a  lungo  (^\ 
ma  se  si  tien  conto  delle  peregrinazioni  da  lui  flitte  in  Oriente  ^^\ 
e  dell'altissima  fama  di  dotto  negli  studi  profani  che  gli  e  at- 
tribuita, e  ch'egli  stesso,  non  senza  affettazione,  mostrò  di  spre- 
giare (4)^  dobbiamo  convenire  che  è  inammissibile  in  lui  un'assoluta 
ignoranza  del  greco.  Per  il  nostro  assunto  è  già  sufficiente  con 
gli  esempì  di  Liutprando  e  di  Attone  poter  affermare  con  sicu- 
rezza che  la  società  ecclesiastica  lombarda  sembra  aver  avuto 
molto  maggiore  famigliarità  con  la  lingua  greca  nel  secolo  x 
che  non  nel  seguente,  e  che  ciò  è  conforme  alle  condizioni  sto- 
riche profondamente  cangiate  dopo  il  1000. 


V. 


È  sfuggito,  per  quanto  ci  è  noto,  ai  cultori  delle  antichità 
milanesi  un  luogo  di  Bonizone  che  getta  molta  luce  sulla  storia 

(i)  Cf.  Wattenbach,  Deutschland's  Geschichtsquelknim  Mittelalter,  Berlin, 
1889,  I,  392;  Dresdner,  op.  e  loc.  cit. 

(2)  Cf.  Dresdner,  op.  e  loc.  cit. 

(3)  Cf.  VoGEL,  Raiherms  von   Ferona,  Jena,  1854,  I,  2j,  174. 

(4)  «...  me  indigere  doceri  quam  docere  convenire  profiteor  magis,  qui 
«  licet  in  ipsis  initiis  quorundam  quaestiunculis  Mediolanensiura  haud  leviter 
«  pulsatus,  quaedam  ex  his  quae  vos  requirere  non  ambigo,  visus  sum  prae- 
«  libasse  ;  infulatus  hac  qua,  Dei  misericordia,  funger  sarcina,  illud  statim 
«  desìi  agere,  iniunctum  mihi  hoc  officio  cogitans  ni  Dei  potius  lege  ac  nocte 
«meditar!  debere  »;  Epist.  11  i  ad  Rotbertum  archiep.  [Trevirensem] 
in  Ratherii  episcopi  Veronensis  Opera,  Veronac,  mdcclxv,  c.  527.  Quanto 
alla  questione  se  o  meno  Raterio  abbia  saputo  di  greco  cf.  ibid.  e.  xxxi;  in- 
torno ai  suoi  viaggi  cf.  Epist.  V  ad  Ioannem  summum  pont.  ib.  e.  538. 


124  L.  A.  FERRAI 


della  metropolitana  milanese  nel  medio  evo.  Bonizone  che  det- 
tava le  opere  sue  sullo  scorcio  del  secolo  xi,  in  quel  curioso 
trattatello  in  forma  di  epistola  «  ad  amicum»,  conosciuto  più  co- 
munemente col  titolo  di  De  pcrsccuiione  Ecclesiae,  toccando  dei 
rapporti  tra  la  Sede  Apostolica  e  la  Chiesa  ambrosiana,  a  pro- 
posito dei  noti  avvenimenti  del  1057,  scriveva: 

Eodem  tempore  Mediolanensis  Ecclesia  quae  fere  per  ducentum  annos  su- 
perbiae  fastu  se  a  Romanae  Ecclesiae  subtraxerat  dicione,  primum  se  inter 
alias  Ecclesias  subiectam  esse  cognovit  (0. 

Evidentemente  Bonizone  allude  all'arbitrato  che  dietro  istanza 
di  Arialdo  e  di  Landolfo  Cotta  il  pontificato  romano  assunse  in 
quell'anno,  delegando  a  propri  rappresentanti  in  Milano  il  mo- 
naco Ildebrando  e  Anselmo  da  Badagio  vescovo  allora  di  Lucca  (^\ 
Ed  infatti  quella  autorevole  interposizione  dei  legati  pontifici  tra 
le  due  fazioni  contrastanti  dei  preti  concubinari  e  dell'arcivescovo, 
e  dei  seguaci  ed  ammiratori  di  s.  Arialdo,  fu  un  primo  e  deci- 
sivo passo  per  una  più  diretta  soggezione  della  Chiesa  ambro- 
siana all'apostolica  di  s.  Pietro.  Ma  Bonizone  ci  dice  di  più, 
afferma  cioè  che  la  metropolitana  si  era  per  circa  ducent'anni  sot- 
tratta ad  ogni  dipendenza  da  Roma,  vale  a  dire  dal  dissolvimento 
dell'  impero  carolingio  fino  all'età  sua.  Ognuno  intende  come 
questo  risponda  perfettamente  al  vero. 

L'unità  della  Chiesa  occidentale  latina  come  fu  la  base  più 
sicura  del  sacro  romano  impero,  cosi  trasse  dagli  ordinamenti  e 
dalla  organizzazione  di  esso  nuovi  elementi  di  vita  e  di  consi- 
stenza. Ma  quando  la  compagine  politica  che  le  si  era  adattata 
andò  in  fiiscio,  e  più  nulla  potè  salvarsi  da  quella  rapida  decom- 
posizione, che  preparò  il  trionfo  del  feudalismo  e  l'annientamento 
d'ogni  sovranità,  anche  l'unità  della  Chiesa  sub!  danni  e  minacele, 
ch'erano  una  naturale  conseguenza  dell'infrangersi  violento  dei 
vincoU  che  l'aveano  fino  allora  strettamente  cointeressata  all'im- 


(1)  CL  Monumenta  Gregoriana,  ed.  ]  affé,  Berlino,  1865,  nellibro  vi  della 
lettera  di  Bonizone  «  ad  amicum  »,  p.  638. 

(2)  Cf.  GiULiN'i,  Memorie  di  Milano  cit.  Vili,  412  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  125 

pero.  Le  condizioni  morali  del  pontificato  stesso  sullo  scorcio 
del  secolo  ix  e  nella  prima  metà  del  x,  secondarono  il  progres- 
sivo rilassamento  dei  reciproci  rapporti  gerarchici  delle  varie  Chiese 
tra  loro,  e  in  particolare  della  Chiesa  ambrosiana  con  Roma. 
Nel  testamento  di  Carlo  Magno  del  713,  che  assegna  una  quota 
del  tesoro  della  Camera  imperiale  alle  chiese  metropolitane  del- 
l' impero,  l'enumerazione  di  esse  mantiene  l'ordine  che  la  tradi- 
zione più  volte  combattuta  riuscì  a  far  prevalere.  Roma  precede 
Ravenna,  Ravenna  Milano,  questa  Aquileia  &c.  (■>.  Ma  in  pro- 
cesso di  tempo,  scaduta  la  potenza  e  il  prestigio  della  Chiesa 
ravennate,  divenuta  la  corona  ferrea  il  simbolo  di  una  sovranità 
che  meno  debolmente  che  altrove  si  afferma  in  Lombardia,  Mi- 
lano acquista  dal  lento  sviluppo  della  potenza  feudale  della  sua 
Chiesa  quei  nuovi*elementi  di  resistenza  e  di  forza  che  nel  rispetto 
poHtico  la  contrappongono  a  Pavia,  e  in  onta  alle  tradizioni  del- 
l'antica capitale  del  regno  longobardo,  fanno  di  lei  il  nuovo  centro  ; 
nel  rispetto  rehgioso  le  prestano  le  armi  per  contestare,  più  o 
meno  apertamente,  la  preminenza  del  vescovo  di  Roma  su  tutta 
la  cristianità.  Nel  secolo  x  infatti  l'acquisto  del  serto  regio  e 
imperiale  diviene  sempre  più  malagevole  per  i  grandi  feudatari 
che  aspramente  se  lo  contrastano,  l'esercizio  della  podestà  regia 
si  fa  ogni  giorno  più  fiacco  e  limitato.  Ma  dove  meglio  si 
esplica  e  si  afferma,  è  pur  sempre  nella  più  popolata  città  della 
Lombardia;  là  dove  la  vacillante  sovranità  cerca  la  protezione  e 
l'appoggio  del  potere  ecclesiastico.  Il  metropolita,  che  lo  esercita 
su  tanta  parte  d'Italia,  presta  infatti  l'antico  rituale  della  sua  Chiesa 
alle  più  solenni  manifestazioni  della  vita  politica,  e  ne  è  parte- 
cipe e  regolatore,  mentre  per  il  naturale  sviluppo  del  feudalismo 
s'accrescono  le  prerogative  della  sua  giurisdizione  civile.  Che 
se  nqn  ci  è  noto  alcun  diploma  d'esenzione  in  favore  dell'arci- 
vescovo di  Milano,  è  fuori  di  dubbio  che  sin  dalla  metà  del  se- 


(i)  Cf.  EiNHARDi  Vita  Caroli  Magni  in  Monumenta  Carolina,  ed.  F.  Jaffè, 
Berlino,  1867,  p.  539:  «Nomina  metropoleorum  ad  quas  eadem  elemosina, 
«  sive  largitio  facienda  est,  haec  sunt  :  Roma,  Ravenna,  Mediolanum,  Forum 
<f  lulii,  Gradus,  Colonia  »  &c. 


126  L.  A.  FERRAI 


colo  IX  egli  esercitava  liberamente  la  maggior  parte  dei  diritti 
comitali.  Le  concessioni  regie  e  imperiali  non  erano  infatti  l'unica 
via  aperta  ad  ottenerli,  ma  la  «  potestas  missiatica  »  divenne  il 
tramite  giuridico  per  il  quale  la  giurisdizione  civile  si  trasferi  a 
molti  dei  vescovi  di  Lombardia.  È  risaputo  da  tutti  come  la 
«  potestas  missiatica  »,  da  temporanea  che  era,  divenisse  con  Carlo 
il  Calvo  neirSy^  un  ufficio  stabile  e  permanente  (').  Ciò  avvenne 
pure  a  Milano,  e  se  per  alcun  tempo  essa  fu  esercitata  dal  conte 
e  dall'arcivescovo  associati^  in  seguito  passò  all'arcivescovo.  Era 
destino  inevitabile  che  anche  a  Milano  i  conti,  «  sentinelle  avanzate 
«di  un  reame  sfracellato  »,  per  usare  la  felice  espressione  dello 
Schupfer,  finissero,  come  da  per  tutto,  in  esilio.  Quale  meravigHoso 
impulso  dovesse  ricevere  il  poter  vescovile  dall' infrangersi  dell'au- 
torità comitale,  è  di  per  sé  evidente.  Esiste  un  diploma  dell'  880 
che  si  riferisce  all'ampliamento  delle  mura  della  città  di  Milano. 
Da  esso  si  rileva  che  l'abate  di  S.  Ambrogio  fece  istanza  ed  ottenne 
dall'arcivescovo  Ansperto,  dal  conte  Alberico,  dal  clero  e  dal  popolo 
alcuni  «  semita  »  per  la  fortificazione  delle  mura  del  monastero  (^\ 
Fino  a  quell'anno  dunque  il  governo  della  città  appartiene 
cumulativamente  al  conte  e  all'arcivescovo,  ma  già  la  delibera- 
zione del  clero  e  del  popolo  richiesta  a  conferma  delle  decisioni 
di  Ansperto  e  di  Alberico  accenna  ad  una  prevalenza  del  potere 
ecclesiastico  sul  civile.  La  quale  cresce  progressivamente  sullo 
scorcio  del  ix  e  nei  primi  decenni  del  secolo  x.  Che  l'arcivescovo 
all'età  di  Lamberto  (92^-927)  abitasse  il  palazzo  imperiale,  pos- 
sedesse il  «  brolium  »,  lo  avverti  G.  Fiamma  nella  G  ah  agii  ai  i  a '^^\ 

(i)  Cf.  Kar.  II  Convmt.  Ticin.  a.  876  in  Mon.  Genn.  hist.  (Legum,  voi.  1), 
Hannoverae,  i<S35,  e.  12,  p.  531:  «  ipsi  nihilominus  episcopi  singuli  in  suo 
«  episcopio  missatici  nostri  potestate  et  auctoritate  fungantur  ».  V.  Schupfer, 
art.  cit.  p.  463. 

(2)  Cf.  G.  Fumagalli,  Coà.àìpls.  Amlr.,  Milano.  1805,  p.  480;  Schup- 
fer, art.  cit.  p.  464. 

(3)  «  Habuit  [archiepìscopus]  tria  loca  feralia tertius  locus  erat  extra 

«  civitatem  qui  dicitur  brolium  ubi  nundinae  fiebant  »;  Galvagnana,  in  §  De 
edifitiis  archiepiscopi,  ms.  Braidense  AE,  X,  io.  Di  quest'opera  ine- 
dita del  Fiamma,  di  cui  abbiamo  parlato  altra  volta,  si  conserva  un  ms.  del 
secolo  XIV  nella  Trivulziana,  n.  1438. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  127 

è  confermato  da  Liutpraiido  ^'\  lo  ripete  l'anonimo  compilatore 
del  Flos  floruììi  (^)  ed  è  notizia  che  il  Fiamma  tolse  probabilmente 
ad  una  cronaca  tedesca  perduta  (5).  Né  quanto  il  Fiamma  narra 
intorno  al  governo  di  Milano  nel  secolo  x,  è  tutto  parto  di 
fantasia.  Il  Fiamma,  ricordando  alcuni  privilegi  imperiali  con- 
cessi all'arcivescovo,  parla  del  «  ius  sanguinis  »,  che  ad  esso  spet- 
tava con  l'assistenza  dei  «  vicecomites  »  (4).  È  evidente  per  me 
l'accenno,  sia  pure  impreciso,  ad  uno  dei  supremi  diritti  della 
«  potestas  missiatica  ».  Né  il  potere  temporale  dell'arcivescovo, 
che    si    estendeva   alla    città   e   al    distretto    esterno   sino    a  due 


(i)  Cf.  LuiTPRANDi  Antapodoseos  seti  rerum  per  Europatn  gestarum,  lib.  Ili, 
cap.  i\-,  in  Muratori,  Rer.  IL  Script.  I,  par.  II;  Mori.  Gemi.  hist.  ed.  Pertz, 
III,  298. 

(2)  «  luxta  muros  civitatis  erat  eius  [archiepiscopi]  viridarium,  quod  adhuc 
«  Verzarium  dicitur.  extra  civitatem  erat  brolium  eius,  quod  nunc  intra  ci- 
«  vitatem  inclusum  est,  ubi  adhuc  continue  fiunt  nundinae  »;  Cbroii.  Flos 
ftorum,  ms.  Braidense  AG,  IX,  35,  e.  121.  Su  questo  manoscritto  vedasi 
l'altra  mia  memoria  cit.  Benio  d' Alessandria  e  i  cronisti  milanesi  del  secolo  xiv 

P-  97  sgg. 

(3)  «  Tempore  ergo  Karuli  Magni  usque  ad  tempora  Federici  Barbarubcae 
(c  fuerunt  in  civitate  ista  tria  regimina  .  . .  sicut  evidcnter  colligitur  ex  chro- 
«  nica  alamannica  ».  Cosi  il  Fiamma  in  questo  e  in  altri  luoghi  della  Gal- 
vagnana;  cf.  ms.  cit.  §  219. 

(4)  «De  dominio  archiepiscopi,  ei  usque  divitiis.  Ar- 
«  chiepiscoporum  dominium  fuit  fortissimum  nimis  ultra  quara  credi  posset, 
«  unde  sic  procedamus  quia  primo  dicemus  de  officialibus  eius,  postea  de  pri- 
«  villegiis  ecclexiasticis  et  imperialibus,  tertio  de  divitiis  eius,  et  hedifitiis,  et 
«  quibusdam  aHis  dignitatibus.  auctoritate  enim  corporah  cuius  robur  et 
«  firmamentum  est  papalis  dignitas  archiepiscopus  Mediolanensis  contulit  pri- 
«  vìllegia  tria,  ut  dictum  est.  primum  privillegium  fuit  quod  archiepiscopo 
«  contulit  ius  sanguinis,  cuius  auctoritatis  executionem  contulit  viro  secundum 
«  cor  suum.  qui  ex  tunc  dictus  est  vicecomes,  idest  sotius  archiepiscopi,  qui 
«  archiepiscopus  erat  comes  ipso  facto  quod  erat  archiepiscopus,  ut  infra  di- 
«  cetur  in  locis  suis.  hic  vicecomes  cum  progrederetur,  ante  se  gladium 
«  evaginatum  portari  fatiebat,  sicut  docet  apostolus  Paulus,  omnia  sua  negotia 
«  cum  duodecim  consulibus  peragebat.  et  poterat  archiepiscopus  absque  irre- 
«  gularitatis  periculo,  papali  privilegio  indulto,  de  consiliis  privatis,  de  iuditiis 
«  sanguinis  interesse,  item  habuit  advocatrinum  sive  advocatorium  et  confano- 
«  rium  et  multos  alios  offitiales  »  &c.  ;  cf.  Galvagnana,  cap.  221  a  ce.  57-58  b. 


128  L.  A.  FERRAI 


miglia,  esclude  la  possibilità  dell'esistenza  di  alcune  magistrature, 
che  il  Fiamma  dice  consoli  eletti  dall'arcivescovo,  e  talvolta  dai 
«  milites  maiores  ». 

La  testimonianza  ritrovasi  nel  citato  Flos  flomm,  ma  è  indub- 
biamente attinta  dalla  Galvagnana  del  Fiamma  <^'\  Simili  notizie 
per  quanto  indeterminate  ed  incerte,  e  se  si  vuole  anche  amph- 
ficate  ad  arte  da  scrittori  che  non  guardavano  troppo  per  la  sot- 
tile, né  sempre  si  attenevano  con  scrupolo  alla  verità  perchè  non 
ne  sentivano  il  bisogno,  contrastano  forse  con  la  condizione  reale 
dei  tempi  che  di  poco  precedono  la  dominazione  dei  principi  sas- 
soni ?  Non  è  a  buon  conto  concepibile  che  la  potestà  vescovile 
sulla  città,  che  ebbe  così  lunga  durata,  quantunque  gravante  po- 
polazioni miste  e  per  lunga  tradizione  nemiche,  non  abbia  avuto 
un  suo  proprio  sviluppo;  né  credo  quindi  debbansi  a  chiusi  occhi 
respingere  come  fole  le  scarse  notizie  che  sulle  condizioni  della 
città  nel  secolo  x  ci  hanno  tramandato  il  Fiamma  e  i  cronisti  a 
lui  posteriori.  Ma  certo  esse  vanno  interpretate  con  cautela  e 
con  discrezione.  La  dominazione  vescovile  si  fece  indubbiamente 
generale  sulla  città  alla  metà  del  x  secolo,  né  si  limitò  alle  terre 
murate,  ma  comprese  i  borghi  esterni,  i  corpi  santi,  tanto  é  vero 
che  all'arcivescovo  di  Milano  appartenne  il  «  brolium  »  impe- 
riale, situato  allora  fuori  delle  mura.  Del  «  brolium  »  come  ap- 
partenente alla  Chiesa  trovasi  cenno  nella  Dcscrìptio  situs  et  urbis 
{De  sita  urbis  &c.)  (^),  e  conseguentemente  nel  Fiamma,  e  nel 
Flos  floriun.  I  dodici  consoli  di  cui  parla  il  Fiamma  e  dietro  a 
lui  il  Flos  florum,  con  un  anacronismo  che  è  in  un  cronista  del 
secolo  XIV  pienamente  giustificabile,  forse  non  sono  che  gli  antichi 


(i)  Cf.  Flos  fìonim,  loc  cit.  in  ms.  cit.  e  nota  precedente.  «  Quartum 
«  regimen  »,  scrìve  inoltre  il  Fiamma,  «  fuit  tempore  Karuli  Magni  usque  ad 
«  tempora  Federici  Barbarubeae,  quia  tunc  rexerunt  .xii.  consules  et  credentia 
«et  archìepiscopus  ».     Cf.  cap.  218  in  ms.  cit.  e.  56  b. 

(2)  «  Erat  et  iuxta  muros  viridarium  ubi  senatores  »  ;  cf.  G.  Fiamma, 
Manip.  jlor.;  Benzo  d'Alessandria  in  Bull,  dell' hi.  Stor.  Itah  n.  9,  p.  26; 
Landolfo,  ed.  cit.  II,  2,  41.  Sono  i  noti  luoghi,  già  da  noi  illustrati,  e  che 
tutti  derivano  dal  testo  perduto  e  più  ampio  della  Descriptio  situs  et  urbis. 
Ci.  Le  cronache  di  G,  Fiamma  cit.,  in  Bull,  dell' Ist.  Stor,  Ital.  n.  10,  p.  125. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  129 

scabini  franchi  che  nel  ix  secolo  si  dissero  anche  «  iudices  do- 
«  mini  imperatoris  sacri  palacii  »,  e  che  più  tardi  furono  inve- 
stiti della  loro  autorità  dall'arcivescovo,  col  consenso  del  clero 
e  del  popolo,  ciò  che  è  conforme  alle  leggi  carolingie  (').  Né 
è  fuori  del  verosimile  che  1'  amministrazione  della  città  fosse 
affidata  a  gastaldi  scelti  in  quella  più  alta  classe  di  «  milites  », 
che  a  Milano  si  disse  de'  «  capitani  »  ^^\  Si  è  discusso  se  sia 
ammissibile  e  riferibile  alla  vita  cittadina  in  Milano  nel  secolo  x, 
ciò  che  ci  è  attestato  unicamente  dal  Flos  fiorimi,  che  cioè  la 
città  fosse  divisa  in  quartieri  denominati  dalle  varie  porte,  e  che 
il  governo  di  ciascuno  di  essi  si  affidasse  ad  alcune  famiglie  ^^\ 
Lo  Schupter  congettura  che  una  tale  divisione  abbia  servito  di 
base  al  governo  locale  nel  municipio,  e  accenni  al  carattere 
ereditario  della  podestà  giudiziaria.  Ma  crederei  necessarie  non 
poche  riserve  in  proposito,  poiché  la  testimonianza  del  Flos 
floniìu  è  di  un  raffazzonatore  di  cronache  del  secolo  xv,  e  non- 
trova  riscontro  alcuno  nel  Fiamma,  il  favoloso  ma  pur  anche 
l'unico  raccoglitore  di  notizie  da  lui  ripescate  in  testi  a  noi  sco- 
nosciuti. Veramente  pregevoh  sono  infatti  quelle  ch'egli  ci  ha 
serbato  sulle  rendite  arcivescovili  con  maggiori  dettagli  che  nelle 
altre  sue  cronache  nell'inedita  Gaìvagnana.  Ivi  é  detto  esplici- 
tamente che  all'arcivescovo  spettava  il  diritto  del  «  teloneum  »  o 
di  dogana  sulle  strade  regie  «  in  exitu  quolibet  de  comitatu  », 
e  che  a  pagarlo  erano  pure  tenuti  tutti  gli  stranieri,  che  a  piedi 
o  a  cavallo  ne  oltrepassassero  i  confini  (^4).     Con  molta  indeter- 

(i)  Cf.  ScHUPFER,  art.  cit.  p.  464;  Ficker,  Forschungen  ^ur  Reichs  uiid 
Rechtsgeschichk  Scc,  Innsbruck,  1868-76,  III,  17  ed  anche:  Max  Handloike, 
Die  ìomhardischcn  Stàdie  unter  der  Hernchaft  der  Bischófe,  Berlin,  1883,  p.  63  sgg. 

(2)  Cf.  Landolfo,  ed.   cit.  II,  176  M.  Handloike,  op.  cit.  p.  40. 

(3)  Cf.  Ughelli,  Italia  sacra,  IV,  93  sg.  ad  a.  947;  Schupfer,  loc.  cit. 

(4)  Cap. 226:«De  theloneo  archiepiscopi.  Insuper  archiepisco- 
«  pus  Mediolanensis  quosdam  alios  maximos  redditus  imperiali  auctoritate  re- 
«  cipiebat.  quia  super  stratas  regales  in  exitu  quolibet  de  comitatu  habuit 
«  telloneum  et  dum  intrabat  aliquis  extraneus  in  equo  vel  cura  curro  aut  pe- 
ce dibus,  dabat  theolenario  (sic)  archiepiscopi,  immo  innumerabilibus  teolenariis 
a  censura,  et  archiepiscopus  tenebatur  facere  custodiri  passus,  et  omnibus  dapni- 
((  ficatis  infra  territori um  restituere  de  suo  tantum  quantum  dampna  fuissent 


130  L.  A.  FERRAI 


minatezza  accennasi  invece  nella  Gahagnaìia  all'  impegno  che 
l'arcivescovo  assumeva  di  rifiire  i  danni  a  quanti,  entro  i  limiti 
del  comitato,  ne  avessero  sofferto,  e  alla  quota  che  l'arcivescovo 
stesso  si  riservava  sul  valore  delle  derrate  che  vi  si  introduce- 
vano per  essere  esposte  nel  verziere  al  mercato.  Il  Fiamma 
ci  dà  inoltre  per  certo  che  ohre  i  redditi  ordinari  che  il  metro- 
polita traeva  dalle  decime  e  dalle  prestazioni  di  vassallaggio  del 
duca  della  Bulgaria,  del  marchese  della  Martesana  e  del  conte 
di  Seprio,  non  che  dalle  pievi  del  comitato  milanese,  affluivano 
a  lui  non  poche  ricchezze  dalla  Sicilia  e  dalla  Liguria,  sul  cui 
litorale  la  Chiesa  dì  Milano  possedeva  per  più  che  cinque  miglia. 
Forse  anche  la  valle  di  Blegno  e  la  Levantina  sulla  metà  del  x  se- 
colo appartenevano  all'arcivescovo  (')  ;  però  giova  ricordare  che 
l'atto  di  donazione  che  se  ne  è  prodotto,  attribuito  ad  Attone 
vescovo  di  Vercelh,  fa  già  dimostrato  falso  dal  Giulini  <^').  Ma 
certo  non  è  flilso  il  privilegio  di  re  Lotario  che  concede  all'arci- 
vescovo il  diritto  di    batter  moneta,  e   la   direzione   della  zecca 


«  existimata.  item  de  quolibet  curru  lignorum  recipiebat  unum,  de  qua- 
«  libet  sporta  piscium  unum,  de  qualibet  fornata  panis  unum,  et  omnia 
«  alia  ducibus  concessa  fuerant,  imperiali  auctoritate  sibi  dabantur  «  &c.  ;  Gal- 
vagnana,  ms.  cit.  e.   58  b. 

(i)  Gap.  225:  «Archiepiscopi  divitiae  et  possessiones  in 
«Sicilia.  Archiepiscoporum  possessiones  et  redditus  singulis  annis  fue- 
«  runt  plusquam  octuaginta  millia  florenos  (sic)  auri,  in  Sicilia  habuit  castra 
«  et  redditus  magnos,  sicut  supradictum  est.  sua  erat  terra  de  Guastalla  cum 
«  Padl  rippa.  in  riperia  lanuensi  et  civitate  singulis  annis  recipiebat  ultra 
«  decem  millia  libras,  cuius  aliquale  vestigium  adhuc  apparet,  circa  civitatem 
«  per  tria  milliaria  totum  erat  suum.  etiam  eius  erant  omnes  plebes  comi- 
«  tatus  Mediolanensis,  et  decimae  et  dignitates.  item  erat  dux  Burgariae, 
«marchio  Marchesanae,  et  comes  Saprii;  quid  plura?  ipse  solus  in  civitate 
«  Mediolanensi(s)  erat  praeclarissìmus  et  ditissimus,  habens  sub  se  cathaneos 
«  et  valvassores  innumerabiles,  fidelitatis  sacramento  sibi  adstrictos.  et  quis 
«  vult  de  divitiis  archiepiscopi  certificar!,  feudia  archiepiscopalìa  consideret, 
«  quia  vix  est  aliqua  parentella  quae  non  sit  pinguedinis  eius  adipe  ditata. 
«  Atho  Comes  episcopus  Vercellensis  dedit  Ecclesiae  Mediolanensi  vallem 
«  Bellegi  et  Leventinae  »  ;  Galvagnana,  ms.  cit.  e.  58  b. 

(2)  Gf.  Memorie  di  Milano,  III,  237.  Il  documento  trovasi  in  Attonis 
sanctae  Vercellensis  Ecclesiae  episcopi  Opera,  Vercellis,  MDCCLXvni,  p.  xvu  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  151 

milanese,  concessione  che  presuppone  per  se  medesima  un  eser- 
cizio amplissimo  di  poteri  entro  l'antica  circoscrizione  del  comi- 
tato, e  che  implicitamente  conferma  le  attestazioni  del  Fiamma  (^'^ 
Forse  non  mai  come  sulla  metà  del  secolo  x  si  estese  la  giuris- 
dizione feudale,  e  si  accrebbe  la  ricchezza  immobiliare  della 
metropolitana.  Sta  anche  a  provarcelo  la  tradizione  serbataci 
dal  Fiamma  delle  splendide  feste  religiose  che  si  celebravano  in 
Milano,  e  della  parte  che  vi  prendevano  i  vari  ordini  feudali  del 
territorio  posseduto  dall'arcivescovo.  L'onore  dell'apparato  per 
la  processione  della  domenica  delle  palme  spettava,  ad  esempio, 
ai  «  milites  »  di  Rho.  Il  capitano  di  quella  milizia  apriva  il 
corteo  ;  circondavano  i  «  milites  »  l'arcivescovo  montato  su  di  un 
cavallo  riccamente  bardato  offertogli  in  dono  da  quei  vassalli.  Il 
clero  si  raccoglieva  nella  chiesa  madre  e  accompagnava  il  suo 
capo  fino  a  S.  Lorenzo,  e  di  là  a  S.  Ambrogio  (*>. 


VI. 


Una  così  profonda  trasformazione  degli  istituti  episcopali  in 
Lombardia,  divenuti  le  pietre  angolari  del  regno  italico  e  più 
tardi  dell'  impero  restaurato  dai  Sassoni,  come  provocò  una  rea- 
zione salutare  nel  seno  delle  Chiese  stesse  affrettando  la  riforma 
disciplinare  del  secolo  xi,  così    mise   fin   d'allora  in  più  diretto 

(i)  «  Insuper  archiepiscopus  Mediolanensis  solus  monetam  cudere  aut 
«  mutare  ex  imperiali  privilegio  [ius  possidebat]  »  ;  cf.  cap.  225  della  Galva- 
gnana,  ms.  cit.  Cf.  Muratori,  Antiq.  Hai.  medii  aevi,  II,  590;  Giulini,  op.cit. 
II,  228. 

(2)  «  Eius  festum  olivarum  fuit  ultra  modum  solempne.  ipse  archiepi- 
«  scopus  in  equo  magno  residebat,  qucm  praecedebat  unus  ex  capitaneis  de 
«  Raude  indutus  vaio  nobili  piilis  vali  extra  pendentibus,  qui  archicpiscopum 
(f  freno  dextrabat.  lume  praecedebant  quatuor  viri  de  Littis  vassalli  capita- 
«  neorum  de  Raude,  qui  de  terra  ellevabant  lapides  ne  pedes  equi  archiepi- 
«  scopi  ledere[n]tur.  et  ducebatur  archiepiscopus,  universo  clero  subsequente, 
«  de  ecclesia  malori  ad  ecclesiam  sancti  Laurentii,  deinde  ad  ecclesiam  sancti 
«  Anibrosii,  postea  ad  suum  palatium  reducebatur.  cuius  equus  erat  aurigae, 
«  idest  iliius  de  Raude,  qui  ipsum  dextraverat  »  ;  Galvagnaiui,  ms.  cit,  e.  58  b. 


132  L.  A.  FERRAI 

contatto  la  feudalità  laica  ed  ecclesiastica,  offrendo  occasione  alle 
prime  e  feconde  lotte  dei  vari  ordini  che  la  costituivano.  A  chi 
bene  consideri  inflitti  le  rapide  vicende  degli  ultimi  re  itahani, 
apparirà  manifesto  che  esse  sono  per  gran  parte  subordinate  ai 
capricci  e  alle  anibizioni  dell'alto  clero,  e  che  da  esse  hanno  prin- 
cipalmente origine  quegli  urti  iniziali  della  società  feudale  laica,  ai 
quali  si  attribuiscono  erroneamente  le  cause  prime  della  fortuna 
di  questo  o  quel  principe.  Ogni  spontanea  tendenza  politica, 
regia  o  feudale,  si  trova  per  cosi  dire  sopraffatta  e  dominata 
dalla  prevalenza  degli  interessi  dell'episcopato  lombardo.  A  me 
sembra  che  la  storia  degli  ultimi  e  infelici  possessori  della  co- 
rona ferrea,  prima  della  restaurazione  sassone,  tutta  si  risolva  in 
una  serie  di  compromessi,  più  o  meno  legittimi,  tra  essi  e  l'epi- 
scopato lombardo  ;  ma  non  vi  è  il  più  delle  volte  nemmeno  pa- 
rità di  condizione  tra  i  contraenti.  L'usurpazione  della  sovranità 
ha  trovata  una  difesa  così  valida  nel  carattere  sacro  di  chi  la 
compie  che  le  parti  s' invertono,  e  detta  legge  chi  dovrebbe  su- 
birla. Le  rivoluzioni  politiche  che  si  succedono  con  rapidità  ver- 
tiginosa derivano  bensì  da  quell'ondeggiare  incessante  di  fazioni 
nel  seno  della  società  feudale  laica;  ma  sono  le  sempre  crescenti 
esigenze  dell'alto  clero  lombardo  che  ne  iniziano  il  moto  e  gli 
danno  direzione  e  misura.  Rodolfo  dell'alta  Borgogna,  Ugo  di 
Provenza,  Lotario  suo  figlio,  Berengario  II  debbono  tutti  la  loro 
breve  fortuna  come  re  italiani  ad  un  accordo  transitorio  delle 
Chiese  italiane  in  loro  flxvore,  e  la  instabilità  e  provvisorietà  di 
esso  determina  appunto  il  carattere  di  un  potere,  che  divenuto  non 
per  propria  virtù  fortissimo  in  alcuni  luoghi,  si  serba  costantemente 
debole  altrove,  o  s'annienta  improvisamente,  e  proprio  com'è 
sorto,  scompare  e  svanisce  ad  un  tratto  perchè  gli  sono  venute 
meno  le  artificiose  combinazioni  che  lo  aveano  reso  possibile. 

Né  contro  sì  fatte  condizioni  di  cose  valse  per  nulla  la  audace 
resistenza  di  qualche  vescovo  solitario.  Anzitutto  nel  secolo  x 
quanti  con  vivace  opposizione  lamentarono,  con  la  licenza  del 
costume,  la  preponderanza  politica  delle  autorità  vescovili  nelle 
faccende  interne  d' Italia,  o  non  uscirono  mai  dal  campo  di  una 
idealità  vaga  e  indeterminata,  o,  ciò  che  è  peggio,  non  seppero 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  «  133 

essi  stessi  sottrarsi  alla  legge  storica  che  dominò  i  loro  tempi, 
condannando  così  con  gli  atti  della  loro  vita,  le  audacie  del  loro 
pensiero.  Il  potere  vescovile  uscito  incolume  tra  i  rottami  del- 
l' unità  cosmopolitica  carolingia,  avea  dovuto  necessariamente  as- 
similarsi elementi  nuovi  ed  eterogenei,  che  ne  denaturavano  il 
carattere  e  le  funzioni.  Le  intelligenze  più  elette  del  secolo  x 
dimostrarono  d'averne  coscienza,  ma  solo  incompiutamente.  La 
vita  avventurosa  e  tribolata  del  vescovo  veronese  Raterio,  più 
volte  privato  illegittimamente  del  suo  vescovato,  è  tutta  una  di- 
gnitosa protesta  contro  il  diritto  de'  forti  non  contenuto  più  da 
alcuna  legge  né  divina  né  umana  "^'^  Né  meno  potente  della  sua 
voce  tuonò  quella  di  Attone  vescovo  di  Vercelli,  un  sufFraganeo 
della  metropolitana,  a  cui  le  vicende  della  vita  permisero  di  non 
perdere  mai  la  tranquillità  e  la  serenità  dello  spirito.  Tra  un 
commento  e  l'altro  alle  epistole  di  s.  Paolo,  Attone  trovò  il 
tempo  di  stendere  una  scrittura,  il  De,  pressiiris  ecclesiaslicis,  che 
è  una  requisitoria  spietata  contro  i  vescovi  del  suo  tempo,  e  la 
loro  sfacciata  mondanità  (^).  Ma  l'opera  ha  carattere  più  filoso- 
fico che  storico,  né  le  allusioni  personaU  e  gli  accenni  a  sin- 
goli fatti  discostano  l'autore  dal  metodo  astratto  e  speculativo, 
onde  r  inefficacia  pratica  del  suo  insegnamento.  In  compenso 
l'operetta  di  Attone  è  ispirata  da  un  senso  così  profondo  di  giu- 
stizia, e  contiene  tanta  ricchezza  ideale  da  sembrar  quasi  ch'egli 
abbia  precorso  i  grandi   riformatori  disciplinari  del  secolo  xi  (J). 

(i)  Cf.  più  particolarmente  l'epistola  di  Raterio  ad  Agapito  II  in  Ratheru 
Opera,  ed.  cit.  p.  lxxiii  e  538.  Cf.  intorno  alla  vita  di  lui:  Ada  sanclorum 
ora.  s.  Benedicti,  voi.  VII,  e  P.  Ceillier,  H'nioìrc  da  auci.  ccch'siastiqucs,  XIX,  633, 
nonché  Tiraboschi,  Storia  della  ìdlcrat.  Hai.,  Milano,  Bettoni,   1833,  I,  478. 

(2)  Cf.  Attonis  Opera,  ed.  cit.,  Libellus  de  pressuris  ecclesiaslicis,  pp.  322-352. 

(3)  Cf.  più  particolarmente  ciò  che  egli  dice  nella  parte  seconda  del  suo 
trattato  De  ordiuatiouihus  episcoponwi,  p.  359,  a  proposito  della  ignoranza 
dell'alto  clero  al  suo  tempo.  «  Et  qui  adhuc  nec  ipsa  rudimenta  humanae 
«  naturae  suffecerint  discere,  hos  ad  magisterium  elevare  non  formidant  iu- 
«  dicesque  constituunt  animarum,  qui  adhuc  quid  anima  sit  intelligere  penitus 
«  nequeunt.  et  qui  doccre  populum  instanter  debuerant  de  divinis,  doceri 
«  de  saecularibus  et  etiam  vilibus,  praeceptorum  verberibus  incipiunt.  et  qui 
«  vereri  ab  omnibus  debuerant,  ipsos  etiam  scholasticos  timent  », 


134 


L.  A.  FERRAI 


Di  tutt' altra  natura  è  l'antico  testo  delle  Fitac  pontificum,  che 
ha  dato  motivo  alle  nostre  indagini.  Ma  in  quanto  esso  sorge 
a  difesa  delle  prerogative  della  metropolitana  milanese  mano- 
messe, come  vedremo,  per  cause  politiche,  dall'audacia  di  un 
prelato  straniero,  arbitro  per  alcun  tempo  dei  destini  d' Italia, 
rientra  nel  novero  delle  scritture  polemiche,  di  cui  il  trattato  di 
Attone  è  uno  dei  pochi  saggi  che  ci  sono  rimasti,  e  in  quanto 
tende  a  contrapporre  la  storia  della  Chiesa  milanese  all'aposto- 
Hca  romana,  è  un  prezioso  documento  di  quella  decomposizione 
gerarchica  e  disciplinare  a  cui  nel  secolo  x  contribuirono  la  pre- 
valenza del  sistema  feudale  e  la  decadenza  morale  del  pontificato. 


VII. 


Tra  le  personalità  più  caratteristiche  dell'alto  clero  lombardo 
a  mezzo  il  secolo  x  ci  si  fa  innanzi  una  forte  tempra  di  sacer- 
dote e  di  soldato,  l' audace  arcivescovo  e  cancelliere  di  Beren- 
gario e  di  Ottone,  il  borgundo  Manasse.  Accaparratore  abilis- 
simo di  prebende  e  di  benefici!,  egli  fu  uno  dei  più  destri  e 
sfacciati  violatori  delle  leggi  canoniche.  Arcivescovo  d'Arles, 
Manasse  governò  ad  un  tempo  le  Chiese  di  Verona,  di  Man- 
tova, di  Treviso,  e  finalmente  si  assise  sulla  cattedra  di  s.  Am- 
brogio. È  a  deplorarsi  che  sulle  origini  di  lui,  che  per  ben  due 
volte  dispose  a  suo  talento  della  corona  ferrea,  creò  e  disfece 
a  suo  talento  principi  e  re,  come  un  antico  patrizio  barbaro,  non 
ci  restino  che  confuse  memorie. 

Sulla  fede  del  Fiamma  si  è  ripetuto  erroneamente  ch'egli 
fosse  fratello  di  Ugo  di  Provenza  e  quindi  figlio  di  Teobaldo 
conte  di  Provenza  e  di  Berta.  Ma  la  notizia  fu  già  chiarita 
falsa  da  Giorgio  Giulini.  Questi  dimostrò  come  di  Manasse  ar- 
civescovo di  Arles  si  sia  fatta  una  sola  persona  con  un  Teobaldo 
fratello  appunto  di  Ugo  re  d'Italia,  che  questi  volle  consacrato 
tra  gU  ordinari  della  metropolitana  per  aprirgli  la  via  al  possesso 
di  quella  Chiesa.  Tuttavia  non  si  esclude  che  Manasse  non 
fosse  parente,  probabilmente  nipote,  di  Ugo  re  d' Italia  e  che  la 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  135 


fortuna  sua  non  s' iniziasse  se  non  dopo  la  sconfitta  che  il  duca 
di  Baviera  Arnoldo  pati  dall'armi  del  re  borgognone.  Infatti  sap- 
piamo che  a  sollecitare  Arnoldo  alla  spedizione  contro  Ugo  erano 
concorsi  i  vescovi  di  Mantova,  di  Verona,  di  Trento,  e  lo  stesso 
marchese  di  Trento,  onde  la  spogliazione  dei  tre  prelati  e  il 
conferimento  simultaneo  delle  tre  nuove  dignità  all'arcivescovo 
di  Arles  (935)  ^'\  Come  la  potenza  di  Ugo  di  Provenza  decli- 
nasse in  Italia  è  ben  noto  :  le  fallite  spedizioni  contro  Alberico, 
che  gli  si  mantenne  avverso  anche  dopo  aver  impalmata  Alda 
sua  figlia,  la  concessione  fatta  del  marchesato  di  Toscana  prima 
a  Bosone  suo  fratello,  più  tardi  a  Uberto  suo  figho  naturale,  la 
protezione  accordata  ai  soprusi  e  alle  violenze  di  ^Manasse,  la  im- 
potenza dimostrata  nella  difesa  della  penisola  devastata  orribil- 
mente dagli  Ungheri  nel  945,  finalmente  le  male  arti  messe  in 
opera  per  fiivorire  il  giovine  suo  fratello  Teobaldo,  tentando  afiìret- 
tare  la  morte  all'arcivescovo  di  Milano  Arderico,  scossero  nei 
signori  feudali  ogni  fiducia  riposta  nel  re  straniero,  e  incoraggia- 
rono Berengario  marchese  d' Ivrea  a  tentare  un  colpo  di  mano  ^^\ 
Berengario  se  bene  parente  di  Ugo,  come  genero  di  Bosone  fra- 
tello di  lui,  non  si  era  potuto  salvare  da  gravi  sospetti  ;  e  per 
sfuggire  alle  minacele  del  re,  viveva  in  volontario  esilio  alla  corte 
di  Ermanno  duca  di  Svevia.  Fu  là  che  le  notizie  giuntegH  dal- 
l' Italia  stimolarono  in  lui  il  sentimento  della  vendetta,  e  gli 
aprirono  1'  animo  a  nuove  speranze.  Che  i  rapidi  successi  della 
sua  prudente  politica  sieno  per  gran  parte  dovuti  ad  un  se- 
greto complotto  dei  vescovi  lombardi  in  suo  favore,  ,è  fuori 
d'ogni  dubbio;  ma  giova  fin  d'ora  esaminare  quanto  vi  abbiano 
partecipato  direttamente  Manasse  e  l'arcivescovo  di  Milano  Ar- 
derico. 

(i)  Giulivi,  op.  cit.  II,  186.  La  vittoria  di  Ugo  ebbe  per  effetto  la 
prima  spogliazione  del  vescovo  di  Verona  Raterio.  «  Fatto  prendere  il  ve- 
«  scovo  Raterio,  Ugo  lo  confinò  in  una  prigione  di  Pavia,  dove  ebbe  tempo 
(c  di  poter  descrivere  graziosamente  i  fatti  della  sua  buona  e  rea  fortuna  ». 
Così  il  Muratori,  Annali  d'Italia,  ad  a.  934,  Firenze,  1827,  XIII,  178. 

(2)  Cf.  W.  GiESEBRECHT,  Gcschichle  dcr  deutschen  Kaiserieit,  Braunschweig, 
1860,  I,  311  sgg. 


136  L.  A.  FERRAI 


Il  cronista  Liutprando  afferma  che  il  marchese  d' Ivrea  inviò 
in  Italia  un  suo  rappresentante,  un  tal  Amedeo,  ma  non  dice 
precisamente  dove  egli  si  dirigesse,  e  con  quali  signori  laici  od 
ecclesiastici  aprisse  trattative  (').  Ma  non  è  poi  tanto  diffìcile 
r  arguirlo,  non  ostante  il  silenzio  dell'antico  cronista.  Le  per- 
secuzioni e  le  insidie  di  cui  Arderico  era  stato  fatto  segno,  non 
compensate  dalla  generosa  donazione  dell'  abbazia  di  Nonantola, 
con  la  quale  il  re  d' Italia  avea  cercato  placarlo  (^\  giustificano 
a  dismisura  il  favore  e  l'incoraggiamento  che  l'arcivescovo  di 
Milano  prestava  ai  nemici  di  Ugo.  Che  il  centro  di  un'oppo- 
sizione violenta  alla  sovranità  di  lui  fosse  Milano,  lo  prova  il 
fatto  che  le  trame  segrete  contro  Ugo  sono  opera  dei  suffiraganei 
della  Chiesa  milanese,  onde  la  certezza  che  il  messo  Amedeo 
dirigesse  appunto  i  suoi  passi  a  Milano.  D'altra  parte  Beren- 
gario poteva  esser  abbagliato  dal  seducente  miraggio  della  co- 
rona italica,  ma  per  il  momento  non  pensò  che  alla  rivendica- 
zione piena  di  tutti  i  suoi  diritti  feudah.  Come  duca  di  ^Milano 
a  lui  spettava  il  riacquisto  di  quel  potere  politico  e  giudiziario, 
che  nella  più  popolosa  città  dell'alta  Italia  egli  avrebbe  potuto 
o  esercitare  direttamente  o  trasmettere  ad  altri.  Ma  è  egli  am- 
missibile che  Berengario  osasse  intraprender  la  guerra  senza  una 
previa  intelligenza  con  Arderico  ?  Riassumere  la  podestà  ducale 
in  Milano  significava  per  Berengario  divider  con  lui  l'esercizio 
della  podestà  civile;  solo  da  un  accordo  con  Arderico  sarebbe 
stata  agevolata  l'adesione  di  tutti  i  suffiraganei  della  metropoli- 
tana ad  una  più  ardita  impresa;  la  detronizzazione  d'Ugo,  e  la 
conquista  dell'  ambita  corona.  L'  appoggio  di  tutti  o  della  mag- 
gior parte  dei  vescovi  dipendenti  da  Milano  si  sarebbe  risolto 
nella  incondizionata  sottomissione  delle  podestà  ecclesiastiche 
della  Lombardia  e  della  Liguria,  ciò  che  a  quei  tempi,  in  cui  la 
giurisdizione  civile  nella  città  e  nei  contadi  più  prossimi  ad  essa 


(i)  Liutprando,  che  ha  abbellito  con  vivaci  colori  la  misteriosa  mis- 
sione di  Amedeo,  lo  chiama  «  apprime  nobilem  »;  cf.  lib.  V,  cap.  8  in  ed.  cit. 

(2)  Cf.  GiULiNi,  op.  cit.  II,  208.  La  notizia  illustrata  dal  Giulini  ci  è 
data  da  .A.rnolfo. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  137 

apparteneva  ai  vescovi,  significava  appunto  il  riconoscimento  della 
nuova  sovranità  da  parte  degli  ordini  feudali  e  delle  plebi  cittadine. 
Ne  meglio  potrebbe  esser  confermata  la  ipotesi  nostra  che 
dalla  notizia  dell'  itinerario  seguito  dal  marchese  d' Ivrea  nel  suo 
ritorno  in  Italia  (^').  Narra  Liutprando  (^)  che  dalla  Svevia  Beren- 
gario penetrò  nel  marchesato  di  Trento  per  la  valle  Venosta.  Il 
santissimo  Manasse,  come  ironicamente  lo  chiama  Raterio,  tutto 
avea  predisposto  per  sbarrargli  la  via.  Vescovo  di  Trento  oltre 
che  di  Verona,  di  Mantova  e  d'Arles,  egli  sapeva  di  aver  in  suo 
arbitrio  le  sorti  d'Italia.  All'avvicinarsi  delle  milizie  di  Beren- 
gario mandò  ordine  ad  un  suo  devoto  prelato,  Adelardo,  di  con- 
trastare loro  il  passo  dal  castello  di  Formicaria  che  dominava  la 
valle  dell'Adige.  Le  masnade  del  marchese  d'Ivrea  si  prepara- 
vano per  forzare  il  passo  a  cinger  d'assedio  il  castello,  quando, 
per  ingiunzione  dello  stesso  duca,  se  ne  sospesero  le  operazioni. 
Berengario  recavasi  in  persona  a  parlamentare  con  Adelardo,  e 
gh  proponeva  che  fosse  lasciato  libero  il  transito  alle  sue  genti, 
impegnandosi  a  procurare  a  Manasse  1'  arcivescovato  di  Milano,  e 
ad  Adelardo  stesso  il  vescovato  di  Como,  non  appena  avesse  con- 
seguita la  sovranità  regia,  «  post  acceptam  regni  potestatem  »  (5). 
Manasse,  che  non  desiderava  di  megUo,  accettò  i  patti,  o  meglio 
simulò  di  accettarli,  e  inviò  lettere  ai  più  potenti  signori  italiani, 
stimolandoli  ad  abbandonare  la  causa  di  Ugo,  e  a  dichiararsi 
per  Berengario;  quindi  aggiunta  la  propria  comitiva  a  quella  del 
duca,  h  accompagnò  con  segni  speciaU  di  onore  sino  a  Verona 
(marzo  945).  Ivi  giunse  a  Berengario  l'invito  di  recarsi  a  Mi- 
lano, ed  egli  aderendo  al  desiderio  di  Arderico,  vi  andò,  lieto 
di  riassumere  a  fianco  dell'arcivescovo  una  dignità  eh'  era  scala 
sicura  al  potere  regio.  Stava  Ugo  assediando  il  castello  di  Vi- 
gnola  in  un  feudo  di  pertinenza  del  vescovo  di  Modena,  Guidone, 

(i)  «(Quantunque  Ugone  tentasse  in  ogni  modo  di  acchetare  l'animo 
«  dell'arcivescovo  nostro  Arderico  giustamente  adirato,  non  gli  dovette  ciò 
«  riuscire  molto  bene,  come  si  vedrà  nei  fatti  che  avvennero  nel  seguente 
«  anno  ».     Cosi  il  Giulini,  op.  cit.  II,  210. 

(2)  Loc.  cit. 

(3)  Cf.  Liutprando,  op.  cit.  lib.  V,  cap    12. 


138  L.  A.  FERRAI 


suo  acerrimo  nemico,  quando  gli  giunse  notizia  dell'ingresso  di 
Berengario  in  Milano.  Corse  egli  a  Pavia  ^'^  già  disperando 
di  sé,  e  vi  intimò  la  dieta  ;  ma  la  evidente  condotta  di  Arderico, 
e  la  sospettata  defezione  di  suo  nipote  Manasse  non  gli  lascia- 
vano più  alcun  dubbio  sulla  prossima  ruina  della  sua  fortuna. 
Se  non  che  Manasse  giuocava  a  doppia  partita,  e  già  sospet- 
toso delle  promesse  incerte  e  problematiche  di  Berengario,  te- 
neva in  iscacco  il  vecchio  protettore  e  il  nuovo  alleato.  Lo 
provano  luminosamente  i  fatti  posteriori.  Liutprando  assegna  ad 
un  episodio  a  tutti  notissimo  un'  importanza  soverchia.  Avreb- 
bero avuto  secondo  lui  un  salutare  effetto  sull'animo  di  Berengario 
e  dei  suoi  partigiani  le  lacrime  e  gli  scongiuri  di  Lotario  figlio 
di  Ugo.  Prostrato  innanzi  agU  altari  il  giovane  principe,  strin- 
gendo tra  le  mani  il  crocifisso,  si  sarebbe  umiliato  dinanzi  al- 
l'avversario del  padre  suo,  nella  chiesa  di  S.  Ambrogio,  e  lo 
avrebbe  commosso  con  le  preghiere  e  con  le  lacrime.  Noi  non 
mettiamo  in  dubbio  la  verità  del  racconto,  tanto  più  che  consimili 
scene  ben  si  conf:uino  al  viver  forte  e  passionato  dell'età  feudale; 
né  forse  poteva  rimanere  infruttuoso  il  ricordo  che  tra  i  singulti 
deve  aver  fatto  in  quella  occasione  Lotario  di  un  recente  bene- 
ficio ch'egli  stesso  avea  reso  a  Berengario  ;  ma  chi  potrà  negare 
che  arbitri  della  situazione  non  fossero  allora,  più  di  lui,  Arderico 
e  Manasse,  e  tra  essi  il  più  audace  ?  Manasse  comprese  d' aver 
buon  giuoco  imponendo  in  quel  momento  a  Berengario  il  ri- 
spetto al  diritto  di  Ugo  e  del  figUo,  divenuto  affatto  formale, 
fino  all'adempimento  solenne  della  promessa (^).  La  corona  ita- 
lica rimaneva  all'arbitrio  dell'arcivescovo  di  Milano  e  del  suo 
presunto  successore,  ed  entrambi  s' accordarono  a  mantenerla  an- 
cora sul  capo  dei  principi  ai  quali  erano  astretti  da  giuramento. 
Dicesi  che  a  imbrighar  1'  ambizione  di  Berengario  fossero  mossi 
anche  dal  timore  che  Ugo  fuggisse  in  Provenza,  asportando  le 
immense  ricchezze  ch'erano  in  suo  potere.  La  cosa  è  probabile, 
ma  se  noi  consideriamo  che  i  rapidi  successi  di  Berengario  deriva- 


(i)  Cf.  Liutprando,  op.  cit.  lib.  V,  cap.  13. 

(2)    Cf.    GlESEBRECHT,   Op.    cit.   I,    315. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  «  139 

vano  per  gran  parte  dalla  coalizione  delle  più  ricche  chiese  lom- 
barde, ci  sembra  che  la  condotta  di  Arderico  e  di  Manasse  debba 
avere  una  più  vaUda  giustificazione.  Se  si  temeva  che  il  tesoro 
trafugato  potesse  servire  ad  Ugo  per  una  spedizione  armata  dalla 
Provenza,  il  pericolo  non  era  ne  imminente,  né  insuperabile. 

Se  non  che  Ugo  di  Provenza,  com'è  noto,  non  si  piegò  alla 
parte  umiHante,  cui  lo  condannava  la  cupidigia  di  un  prete  faci- 
noroso. Spogliato  Uberto  suo  figUo  della  marca  di  Spoleto  e  di 
Camerino  per  favorir  Bonifazio  ('),  celebratesi  le  nozze  di  Lotario 
con  Adelaide  figlia  di  Rodolfo  II  dell'alta  Borgogna,  rinunziò 
spartanamente  al  fasto  sovrano  di  cui  per  irrisione  non  era  stato 
spogHato  da'  suoi  nemici  e  si  ritirò  in  Provenza.  Manasse  ottenne, 
associati  nel  regno  Lotario  e  Berengario,  ogni  più  ampio  favore. 
Morto  Arderico,  ebbe  finalmente  l'arcivescovato  di  Milano,  e  con 
Attone,  vescovo  di  Vercelli,  il  grado  di  consigliere  alla  corte  di 
Berengario  <^^). 

Non  è  nostro  proposito,  ad  illustrazione  di  un  testo  che  poco 
o  nulla  giova  a  mettere  in  chiaro  la  storia  poHtica  di  quest'età, 
seguire  ordinatamente  le  vicende  dei  regni  di  Lotario  e  di  Be- 
rengario II,  ma  solo  metter  meglio  in  luce  le  condizioni  partico- 
lari della  società  feudale  in  Lombardia,  nel  momento  in  cui  Manasse 
ottenne  il  compenso  del  tradimento.  Assolutamente  errata  è  l'opi- 
nione che  la  lotta  tra  i  vari  ordini  della  feudalità,  cui  corrisponde 
un  contrasto  tra  l'alto  e  il  basso  clero,  sia  un  fatto  senza  prece- 

(i)  Cf.  Chroii.  Farfense  in  Rei:  It.  Script,  par.  II,  voi.  II,  e  Muratori, 
Annali  d'Italia,  ed.  cit.  p.  229,  ad  a.  946. 

(2)  La  morte  di  Arderico  avvenne  il  13  ottobre  948,  come  concordemente 
asseriscono  i  vari  cataloghi:  «  Ardericus  sedit  ann.  xii.  mens.  11.  ob.  iii.  id. 
«  octob.  sepultus  est  in  ecclesia  Apostolorum  intra  capellam  sancti  Lini  pa- 
ce pae  ».  Così  il  più  antico;  cf.  I.  Mabillox,  Muscum  Italicum,  Lutetiae 
Paris.  1724,  I,  212.  Cf.  anche  Giulini,  op.  cit.  II,  221  sgg.  Che  Manasse 
e  Attone  vescovo  di  Vercelli  ottenessero  il  grado  di  consiglieri  dei  re  Be- 
rengario e  Lotario  apparisce  da  un  diploma  di  Lotario  del  31  maggio  del  950 
fatto  conoscere  dall'  Ughelli  e  dal  Ratti.  In  esso  Lotario  dice  :  «  Ma- 
«  nasses  venerabilis  archiepiscopus,  noster  etiam  consanguineus,  atque  Atto 
«  eo-regius  praesul,  reverendissimi  consciliarii  nostri,  pietatis  nostrae  celsitu- 
«  dinem  petierunt  ».     Cf.  Giulini,  op.  cit.  II,  239. 


140  L.  A.  FERRAI 


denti  dell'età  di  Eriberto  e  di  Corrado  II  il  Salico.  Come  preci- 
samente la  grande  riforma  disciplinare,  che  restaurando  la  perico- 
lante unità  della  Chiesa,  e  contenendo  in  più  giusti  limiti  il  potere 
vescovile,  è  di  lunga  mano  preparata  nel  secolo  x,  cosi  pure  quel 
moto  ascendente  della  minore  feudalità,  che  tanto  concorse  allo 
sviluppo  del  comune  medioevale,  trae  le  sue  origini  dalle  lotte 
interne  ecclesiastiche  del  secolo  x.  Tra  i  predecessori  della  ri- 
forma Ildebrandea  grandeggiano,  com'è  noto,  il  querulo  vescovo 
di  Verona  Raterio,  e  Attone  vescovo  di  Vercelli.  Le  tendenze 
innovatrici  delle  loro  dottrine  disciplinari  si  manifestano  appunto 
nell'età  in  cui  per  la  prima  volta  si  affilano  le  armi  tra  i  «  ma- 
«  iores  mihtes  »  ed  i  «minores».  Il  campo  dove  la  lotta  meglio 
si  accentua  e  si  esplica  è  pur  sempre  Milano.  Ivi,  dopo  il  con- 
ferimento dell'arcivescovado  a  Manasse,  si  manifestò  una  salu- 
tare reazione  contro  l'arbitrio  regio  violatore  d'antiche  consuetu- 
dini, traenti  efficacia  da  una  tradizione,  che  il  naturale  sviluppo 
della  città  e  l' incremento  della  potenza  feudale  del  metropolita 
tenevano  desta  ed  esageravano.  Meno  audacemente  si  contrap- 
pose a  Roma  Eriberto  di  quello  che  non  abbia  osato  un  vescovo 
liberamente  eletto  dal  clero  e  dal  popolo  di  Milano  un  secolo 
innanzi.  La  scelta  di  Manasse  ad  arcivescovo  avea  dato  origine 
ad  un  grave  dissidio  in  seno  alla  Chiesa  ambrosiana;  alcuni 
ecclesiastici,  legati  a  lui  da  vincoli  personali  o  d'interessi,  o  solo 
perchè  ossequenti  alla  volontà  regia,  lo  riconobbero  per  loro  le- 
gittimo pastore;  altri,  e  furono  i  più,  seguiti  da  tutto  il  popolo 
milanese,  gli  contrapposero  un  proprio  concittadino,  Adelmanno 
de'  Menclozi.  Costui,  eletto  regolarmente  a  clero  e  a  popolo, 
difese  energicamente  il  minacciato  diritto,  e  non  è  dubbio  che 
spalleggiato  dalla  plebe  e  dai  «  milites  minores  »,  non  abbia,  te- 
nendo testa  al  suo  avversario,  governata  la  Chiesa  e  la  città  di 
Milano  per  ben  cinque  anni,  cioè  dal  94^  al  951.  Della  lotta 
sostenuta  da  Adelmanno  contro  Manasse  è  testimone  esplicito 
Arnolfo:  «  Manasses  et  Adelmannus  simul  quinque  fuerunt  annos 
«  non  in  cathedra  sed  in  arcu  et  pharetra  »  ^^\ 

(i)  Così  nel  catalogo  che  egli  premise  all'opera  sua. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  «  141 


Se  non  che  questa  testimonianza  parrebbe  contraddetta  da  un 
luogo  della  Galvagnana  del  Fiamma;  e  vale  da  vero  la  pena 
di  togliere  ogni  antinomia  tra  le  due  attestazioni,  perché  Galvano 
molto  probabilmente  ci  rappresenta  uno  scrittore  degno  di  stare 
a  fronte  al  cronista  Landolfo.  Or  bene,  che  cosa  afferma  Gal- 
vano ?  Egli  dice  che  Manasse  e  Adelmanno  si  divisero  le  immense 
ricchezze  della  Chiesa  milanese  ^■).  Ciò  fa  supporre  che  il  periodo 
dei  litigi  e  degli  attriti  cessasse  una  buona  volta  per  dar  luogo 
ad  una  composizione  tra  le  due  parti.  Ma  mi  permetto,  contro 
l'autorità  del  Giulini,  di  osservare  in  proposito  che  si  tratta  di  un 
conflitto  di  poteri,  i  quali  escludono  per  la  natura  loro  la  possi- 
bilità di  un  accordo  e  di  una  divisione,  e  che  la  notizia  riferitaci 
dal  Fiamma  non  è  che  una  breve  ampliazione  di  un  passo  di 
dubbia  interpretazione  dell'antico  catalogo  dei  vescovi  milanesi  con- 
servatoci in  un  manoscritto  Ambrosiano,  pubblicato  dal  Mabillon 
e  dal  Muratori,  e  di  un  luogo  di  Arnolfo.  In  quel  catalogo,  che 
nella  sua  prima  redazione  è  certamente  anteriore  al  1024,  trovasi 
scritto  cosi:  «  Manasses  et  Adelmannus  inter  se  diviserunt  » '^^). 
Anzitutto  osservo  che  «  divisio  »  non  ha  qui  il  significato  mate- 
riale di  divisione  ;  e  se  anche,  ciò  che  non  mi  pare,  l'anonimo 


(i)  «  Lotharius  imperator  (?)  Manasem  fratrem  suum  cardinalem  Eccle- 
«  siae  Mediolanensis  de  archiepiscopatu  investivit  per  baculum  et  anulum,  sed 
«  nunquam  fuit  consecratus.  quia  cives  de  Mediolano  elligerunt  quendam 
«  alium  cardinalem,  nobilem  civem  de  Mediolano,  qui  dictus  est  Ademarus 
«  de  Mencloziis,  qui  etiam  nunquam  fuit  consecratus.  isti  duo  ellecti,  ut  dicit 
«  cronica  Arnulfi,  licet  non  essent  consecrati,  nec  essent  archiepiscopi  veri, 
«  introytus  archiepiscopatus  diviserunt.  et  quaecumque  pretiosa  quibus  Ec- 
ce clexia  Mediolanensis  super  omnes  Ecclexias  mundi  incomparabiliter  afflue- 
«  bant  {sic),  prò  suo  libitu  destruxerant  ».     Cf.  Gaìvujnaua,  ms.  cit.  e.  56  a. 

(2)  Cf.  Mabillon,  op.  cit.  I,  112.  Che  la  prima  redazione  del  catalogo 
dei  pontefici  edito  dal  Mabillon,  e  ristampato  dal  Muratori  e  dal  Pertz,  sia 
anteriore  al  1024,  apparisce,  oltre  che  dall'antichità  del  codice  che  ce  lo  ha 
conservato,  da  un'epistola  di  Paolo  e  Gerberto  di  Bernried  monaci  di  Rati- 
sbona  al  presbitero  Martino  custode  del  tesoro  di  S.  Ambrogio,  nella  quale 
essi  lo  richiedono,  tra  gli  altri  libri,  del  catalogo  degh  arcivescovi:  «  Insuper  et 
«  cathalogum,  quem  mihi  Paulo  promisisti  Mediolanensium  episcoporum  sub- 
«  iungas,  »  &c.  ;  cf.  Mabillon,  op.  cit.  I,  95.     La  lettera  è  appunto  del  1024. 


142 


L.  A.  FERRAI 


compilatore  del  catalogo  avesse  veramente  inteso  riferirsi  a  una 
partizione  dei  beni  della  Chiesa  ambrosiana,  questa  non  può  già 
esser  stata  il  risultato  di  un  patto  formale  tra  i  due  contendenti; 
bensì  una  naturale  conseguenza  dello  scisma  religioso,  che  divise 
in  due  campi  la  feudalità,  ed  eccitò  i  «  minores  milites  »  contro 
i  «  maiores  »  '^^\  Il  favore  che  per  lungo  tempo  mantenne  in  seggio 
Adelmanno,  ci  fa  credere  che  per  lo  meno  i  vassalli  del  Seprio, 
della  Martesana,  della  Bulgaria  gli  rimanessero  fedeli.  Del  resto 
non  intendiamo  determinare  in  quaU  limiti  si  sia  esercitata  la  giu- 
risdizione di  Adelmanno.  Ciò  riesce  a  noi  troppo  disagevole  per 
deficienza  di  dati  positivi.  È  però  fuori  di  dubbio  che  nei  cinque 
anni  che  corsero  dalla  sua  elezione  Milano  gli  rimase  ossequente 
e  soggetta,  mentre  è  presumibile  che  il  potente  Manasse  di- 
sponesse a  suo  talento  delle  maggiori  ricchezze  della  Chiesa  ambro- 
siana, e  che  a  lui  prestassero  obbedienza,  se  non  tutti,  la  maggior 
parte  dei  suffraganei  della  Chiesa  milanese  '^^\  Non  si  saprebbe 
altrimenti  comprendere  come  Adelmanno  abbia  fondato  la  chiesa 
di  S.  Giorgio  al  Pozzo  in  Milano,  che  certamente  sorse  fra  il  947 
e  il  950.     Ad  essa  Adelmanno  legò  con  testamento,  che  fu  noto 

(i)  Il  passo  di  Arnolfo  citato  dal  Fiamma  è  il  seguente:  «  Ille  ex  factione 
«  regis,  scilicet  Burgundiae,  hicex  factione  plebis  et  [cleri]  de  Mediolanoqiiin- 
«  quennio  contra  se  invicem  pertinaciter  altercati  sunt,  factis  partibus  ex  alte- 
«  nitro  )).  Cf.  Arnulphi  Hist.  Mediol.  in  Mon.  Gemi.  hist.  ed.  Pertz,  Vili, 
lib.  I,  cap.  4.  È  evidente  che  Galvano  fraintese  tanto  le  espressioni  del  cata- 
logo, come  quelle  di  Arnolfo,  e  specialmente  il  «  factis  partibus  ex  alterutro  », 
con  che  non  s'indica  già  a  una  partizione  di  beni  e  di  ricchezze,  ma  aduna 
scissura  faziosa. 

(2)  Il  Giulini  lo  rileva  dall'avere  Manasse  partecipato  alla  dieta  e  con- 
cilio di  Augusta  del  952  come  arcivescovo  di  Milano.  Indirettamente  anche 
i  pontefici  lo  riconobbero  come  legittimo  nella  serie  degli  arcivescovi.  Ci 
resta  infatti  una  bolla  a  favore  di  Oberto  metropolitano  di  Milano  di  papa 
Alessandro  III,  nella  quale  si  confermano  a  lui  i  diritti  sulla  zecca  milanese, 
donata  da  Lotario  re  d' Italia  al  beato  Ambrogio,  cioè  all'arcivescovo  Ma- 
nasse di  pia  ricordanza:  «  beato  Ambrosio,  et  piae  recordationis  Manassi 
«  antecessori  tuo  ».  Cf.  Giulini,  op.  cit.  II,  228,  e  Sormani,  De  analhem. 
cotilra  Gallos,  Mediolani,  1740,  cap.  xii,  p.  232.  Oggi  gli  scrittori  cattolici  lo 
considerano  tuttavia  come  intruso.  Cf  P.  BoNiF.  Gams,  Series  cpiscopomm 
Ecclesiae  caiholicae,  Ratisbonae,  1873,  p.  796. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  143 


al  Torre,  un  diritto  di  giuspatronato,  che  a  lungo  godette  la  fa- 
miglia de'  Menclozi  e  che  dal  nome  del  fondatore  si  disse  1'  «  adcl- 
«  mannia  »  de'  Menclozi  (^\     L'atto  testamentario  ci  offre  forse  il 
modo  di  precisare  qualche  cosa  di  più  intorno  all'estensione  della 
giurisdizione  episcopale  effettiva    di  Adelmanno.     I   beni  ch'egli 
legava  per  donazione  alla  chiesa  di  recente  fondata  trovavansi  nel 
territorio  della  Chiara  d'Adda.     Se  dunque  si  tratta  di  possedi- 
menti feudali  appartenenti  alla  metropolitana,  com'è  più  probabile, 
e  non  già  di  beni  allodiali  de'  Menclozi,  è  presumibile  che  per  lo 
meno  il  vescovo  di  Cremona,  nella  cui  diocesi  si  trovavano  i  detti 
beni,  avesse  riconosciuto  come  legittimo  l'arcivescovo  Adelmanno. 
Ma  lo  scisma  della  Chiesa  milanese  concorse  indirettamente 
a  fomentare  anche  quel  primo    moto    degli   ordini   feudali  infe- 
riori e  delle  plebi  lombarde  per  il  quale  si  affrettò  la  restaurazione 
dell'impero  sulle  rovine  del  regno  italico  indipendente.     La  fine 
miseranda  di  Lotario,  la  tirannide  pubbhca  e  privata  di  re  Be- 
rengario e  di  Adalberto  suo    figlio    ruppero   definitivamente  gli 
stretti  legami  di  quella  coalizione  da  cui  era  stato  sopraffatto  Ugo 
di  Provenza.     Non  le  lacrime  della  vedova  di  Lotario,  Adelaide, 
non  le  proteste  dei  partigiani  di  lei  potevano  indurre  Ottone  I 
all'  impresa  d' Italia.     Perchè  essa  si  effettuasse  era  necessario  che 
in  suo  favore,  come  «jià  ner  Berengario,  si  costituisse  una  nuova 
coalizione  tra  i  grandi  prelati  di  Lombardia.     Lente  e  laboriose 
furono   le   pratiche   della   sua   formazione,   e    conseguentemente 
lenta  ed  aspra  fu  l'opera  del  principe  sassone  per  l'acquisto  della 
sovranità  italiana.     Il  partito  d'opposizione  a  Berengario  trova  il 
suo  naturale  centro  in  Milano,  là  dove  i   diritti    di   Adelmanno 
sono  disconosciuti  e  offesi  dal  fedifrago  consigliere  regio  Manasse. 
Con  Adelmanno  stanno  pronti  a  combattere  i  «  milites  minores  » 
e  la  plebe.     Fanno  causa  comune  con  Adelmanno,  quantunque 
forse  accettino  come  legittimo  metropolita  Manasse,  Azzo  vescovo 
di  Reggio,  l'ospite  generoso  della  perseguitata  Adelaide,  e  il  fiero 
Waldone,   vescovo  di  Como.     Resistono  a  questa  corrente,  che 

(i)  Cf.  C.  Torre,  Ritratto  di  Milano,  Milano,  1714,  p.  335;  Giulini,  op. 
cit.  p.  270  sgg. 


144  L.  A.  FERRAI 


minaccia  di  divenire  sempre  più  impetuosa,  Manasse  superbo  e 
geloso  del  grado  di  consigliere,  avido  più  che  mai  di  dominio  e 
desideroso  di  soverchiare  Adelmanno  e  di  assumere  finalmente  il 
governo  di  Milano  e  della  sua  Chiesa,  Attone  vescovo  di  Vercelli 
che  pur  condannando  la  tirannide  del  suo  signore  rimane  estraneo 
agli  intrighi  dei  suoi  confratelli,  e  teme  nelle  sollevazioni  dei 
minori  vassalli  contro  i  maggiori  un  sovvertimento  pericoloso. 
Ed  eccoci  così  ad  un  nuovo  atto  della  commedia,  dì  cui  il  pro- 
tagonista è  pur  sempre  Manasse.  I  pericoli  che  lo  minacciano 
sono  infatti  gravissimi;  la  concessione  dell'arcivescovado  di  Mi- 
lano non  era  stata  ratificata  per  lui,  né  per  il  suo  avversario  dal 
privilegio  della  consacrazione  ;  men  male  per  Adelmanno  che 
ostentava  di  non  averne  bisogno  ^^\  ma  per  lui  diminuivano  ogni 
giorno  più  le  speranze  che  il  papa  convahdasse  la  sua  usurpa- 
zione. Nel  pianto  di  Adelaide  Ottone  ascoltava  volentieri  la  voce 
di  tutto  un  popolo  oppresso  dalla  duplice  tirannide  regia  ed  eccle- 
siastica, la  minore  feudahtà  insorgeva  dovunque  contro  i  feudatari 
maggiori.  Manasse  calcolò  e  misurò  ponderatamente  la  minaccia 
dell'  invasione  straniera,  e  come  già  altra  volta  contro  Berengario, 
si  preparò  a  resistere.  Toccava  al  santo  vescovo  di  Vercelli,  che 
pur  tanto  coraggiosamente  caldeggiò  nei  suoi  scritti  un  più  tem- 
perato esercizio  del  potere  vescovile,  divenire  uno  degli  strumenti 
della  sua  politica.  Waldone  vescovo  di  Como  lo  avea  incorag- 
giato ad  abbandonare  le  parti  di  Berengario  e  Adalberto,  fors'anche 

(i)  Nei  Regesti  pontifici  è  costante  il  ricordo  dei  privilegi  inviati  agli 
arcivescovi  di  Milano  per  la  consacrazione.  Nel  marzo,  ad  esempio,  del  951 
Giovanni  XI  invia  a  Ilduino  arcivescovo  di  Milano  «  privilegium  cum  ar- 
te chiepiscopali  pallio  ».  Cf.  Jaffé-Loewenfeld,  Regesta  pontif.,  Lipsia, 
Weit,  1885,  p.  454.  Sono  anche  frequenti  gli  atti  di  deposizione  e  di  sco- 
munica, specialmente  nel  secolo  x,  di  vescovi  eletti  irregolarmente  e  consa- 
crati senza  il  privilegio  pontificio.  «  Anno  947.  Leonem  Triventinum  et 
«  Benedictuni  Termulensem  episcopos  simoniace  electos,  et  centra  privilegium 
«  lohannis  XI  epìscopi  Beneventani,  irrationabiliter  a  se  consecratos . . .,  ex- 
«  communicat,  muncribusque  orbat  ».  Cf.  ReÉ;esta  cit.  p.  460.  Per  le  formule 
usate  nelle  lettere  pontificie,  che  accompagnavano  l' invio  del  pallio  cf.  Liber 
diurnus  Rowanoruin  poìitificum,  ex  unico  codice  ì'aticano  deiiuo  cdidit  Th.  E. 
Ab.  Sickel,  Vindobonae,  1889,  p.  32 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  145 

lo  avea  impietosito,  narrandogli  gli  strazi  e  le  persecuzioni  sof- 
ferte da  Adelaide  in  Como  quando  gli  sgherri  del  re  la  arrestarono 
per  trascinarla  a  Pavia  <^');  ma  il  mite  vescovo  non  si  commuove, 
si  sente  imperiosamente  obbligato  ad  un  giuramento  e  tutto  sa- 
crifica ai  doveri  che  gli  impone  il  grado,  fors'anche  teme  l' ira  e  le 
minacele  dello  stesso  Manasse.     Come  infatti  risponde  a  Waldone  ? 

Non  leve  estregalem  impugnare  maicstateni,  etsi  iniusta  in  aliquo  videatur. 
Dei  enim  ordinatio  est.  Dei  est  dispensatio.  profanum  est  cnim  violare  quod 
Deus  ordinat.  ait  enim  Dominus  per  Moysen  :  principem  populi  tui  ne  male- 
dicas  . . .  unde,  domine  mi,  tanta  vestro  cordi  subripere  potuit  tcmeritas?  undc 
tam  exquiri  potuit  occasio?  unde  vestra  mens  tam  cito  potuit  concitari,  ut 
sacerdotalis  imraemores  reverentiae  ex  improviso  a  vestro  disccderetis  seniore, 
vestrisque  benevolis  confratribus,  et  gratis  in  ipsos  insurgere  non  veremini?  . .. 
secundi  quoque  ordinis  milites  ita  nos  admonerc  oportet,  ut  divina  iugiter 
mandata  custodiant,  suique  regis  fidelitatem,  quam  iurando  promiserant,  in- 
violabilem  teneant,  et  suae  legis  transgressores  nullo  modo  efficiantur  &c.  (*) 

E  poiché  egli  stesso  riconosce  di  non  poter  difendere  la  con- 
dotta dei  due  re,  vuol  persuadere  il  confratello  che  anche  ai  prin- 
cipi malvagi  devesi  rispetto    e  obbedienza,  e  che  è  improvvido 

eccitare  alla  ribellione  i  vassalli  minori, 

quia  donec  regibus  repugnari  nequeunt  Paganis  undique  opprimuntur  et  fini- 
timis  gentibus  adeo  conculcantur  (3). 

Ma  il  fermento  nella  feudalità  e  nel  popolo  milanese  cresce 
di  giorno  in  giorno,  i  partigiani  di  Adelaide  e  Adelmanno  si  risol- 
vono finalmente  ad  invocare  la  protezione  del  re  sassone.  Presso 
di  lui  si  fa  interprete  del  malcontento  degli  Italiani  il  vescovo  di 
Verona,  Raterio.  Cacciato  di  seggio  ancora  una  volta,  il  dotto 
prelato  chiede  giustizia  anche  per  sé,  e  vuole  che  il  conte  Milone 
gli  restituisca  il  mal  tolto,  e  che  il  governo  della  Chiesa  di  Verona 
ritorni  a  lui,  e  non  rimanga  più  a  lungo  affidato  ad  un  nipote  di 
Milone,  un   fanciullo  che  appena  sa  l'alfabeto  e  teme  ancora  la 

(1)  Non  ci  resta  di  Waldone  ad  Attone  alcuna  lettera,  ma  è  presumi- 
bile che  l'epistola  xii  di  Attone  (cf  Opera  cit.  p.  3 1  >)  risponda  ad  una  e  forse 
piij  lettere  di  lui. 

(2)  Cf.  Attonis  Opera,  ed.  cit.  pp.  515-320. 

(3)  Cf.  Attonis  Opera,  loc.  cit. 

IO 


146  L.  A.  FERRAI 


ferula  del  pedagogo  (").  Il  re  sassone  che  nella  tradizione  caro- 
lingia vede  tracciata  la  linea  della  sua  condotta,  e  medita  una  più 
audace  affermazione  del  diritto  della  corona  germanica  sull'Italia, 
ascolta  di  buon  grado  le  proteste  dei  vescovi  italiani,  della  feuda- 
lità, del  popolo  e  per  prepararsi  la  via  all'impresa,  invia  il  proprio 
figlio  Liudolfo  al  di  là  delle  x^lpi  ^^\  Discende  questi  per  il  san 
Gottardo,  e  da  Como,  dove  Waldone  lo  attende,  si  reca  frettoloso 
a  Milano,  e  vi  è  accolto  festosamente  da  Adelmanno,  dal  clero, 
dai  minori  vassalli 

clarum  referens  sìne  marte  triumphum  (3). 


Ma  la  maggior  parte  delle  minori  città  di  Lombardia  devote  an- 
cora a  Berengario  e  Adalberto  e  parziali  per  Manasse,  all'annunzio 
che  Liudolfo  sta  per  avvicinarsi,  si  armano,  gli  chiudono  le  porte 
in  faccia  (4).  Enrico  di  Baviera  ha  fatta  sua  la  difesa  del  tiranno 
italiano,  e  in  odio  al  fratello  Ottone  e  a  Liudolfo,  anima  alla  re- 
sistenza l'episcopato  lombardo.  Che  cosa  potrà  riferire  Liudolfo 
al  padre  suo  ?  La  conquista  d' Italia  non  esser  poi  tanto  agevole 
come  a  primo  aspetto  sembrava,  non  potersi  iniziare  senza  un  forte 
esercito,  e  previa  intelligenza  col  maggior  numero  dei  vescovi  lom- 
bardi e  con  l'alta  feudaUtà  itahana. 

Ed  ecco  cosi,  contro  le  speranze  dei  Milanesi,  divenuto  ancora 
una  volta  arbitro  della  situazione  l'arcivescovo  di  Arles.     Che  Ot- 

(i)  Cf.  Ratherii  Opera,  ed.  cit.  epist.  v,  p.  538  sgg.,  e  Jaffé-Loe- 
WENFELD,  op.  cit.  p.  461.  A  proposito  delle  frequenti  consacrazioni  a  ve- 
scovi di  fanciulli  inesperti,  cf.  Attonis  Opera,  ed.  cit.,  Lihellus  de  pressuris  ec- 
clesiasticis ,  par.  II,  p.  357. 

(2)  Cf.    W.   GlESEBRECHT,    Op.    cit.    I,    381. 

(3)  Uroswitha,  De  gestis  Oddonis  in  Mon.  Gemi,  bist.,  Hannoverae,  1841, 
IV,  33,. 

(4)  Cf.  Continuator  Rheginonis  ad  a.  951  in  Mon.  Gertn.  bist.,  Hannove- 
rae, 1826,  I,  621,  e  Annalista  Saxo,  ed.  Waitz  in  Mon.  Genn.  bist.  VI,  607: 
«  nec  civitas,  nec  castellum,  que  subsequenter  regis  pistoribus  et  cocis  pa- 
ce tuerant,  (ìlio  regis  aperiuntur  ».  Tenendo  conto  delle  divisioni  provo- 
cate in  Lombardia  dalla  rivalità  tra  Adelmanno  e  Manasse  s'intende  benissimo 
la  contraddizione  che  tra  l'attestazione  di  Hroswita  e  l'annalista  sassone  nota- 
rono il  Muratori,  Annaìes,  XIII,  252,  e  il  Giulini,  op.  cit.  II,  238. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  «  147 

tone  prima  di  muovere  dalla  Germania,  sia  venuto  a  patti  con 
Manasse,  come  già  prima  con  lui  avea  fatto  Berengario,  nessun 
cronista,  nostro  o  tedesco,  lo  afferma  esplicitamente.  Ma  i  fatti 
parlano  chiaro.  Quando  nell'ottobre  del  951  il  re  sassone  con 
buon  nerbo  di  truppe  si  affacciò  alle  Alpi,  Manasse  corse  nel  mar- 
chesato di  Trento  ad  accoglierlo.  Come  già  a  Berengario,  così 
a  lui  lasciò  libero  il  passo  per  la  valle  dell'Adige,  e  lo  accompagnò 
a  Verona  <^').  E  evidente  che  Ottone  sacrificava  a  più  alti  interessi 
dinastici  le  cause  di  Adelmanno  e  dei  Milanesi,  e  che  Manasse  ri- 
tentava a  proprio  profitto  l'antico  giuoco.  Tuttavia  non  e  fuor 
di  luogo  il  supporre  che  Manasse  sperasse  di  ottenere  da  papa 
Giovanni  XII  il  privilegio  della  consacrazione,  o,  ciò  che  è  più 
probabile.  Ottone  stesso  si  sia  deciso  ad  abbandonare  Adelmanno 
e  il  clero  milanese,  perchè  li  sapeva  fautori  di  un'autonomia 
ecclesiastica,  che  il  futuro  re  e  imperatore  giudicava  pericolosa,  e 
fors'anche,  non  ostante  i  documenti  che  se  ne  adducevano,  repu- 
tava insussistente. 

A  Manasse  il  doppio  giuoco  questa  volta  non  riuscì;  le  nozze 
di  Ottone  con  Adelaide  celebratesi  in  Parma  provocarono  con 
altre  cause  la  ribellione  di  Liudolfo  al  padre,  onde  la  necessità  per 
Ottone  di  trattare  con  Berengario  e  Adalberto,  cedendo  loro  la 
sovranità  d'Italia  a  titolo  feudale  (^).  Partito  Ottone,  ripresero  il 
sopravvento  i  due  re  Berengario  e  Adalberto  e  animati  da  un  sen- 
timento indomabile  di  vendetta  infierirono  tanto  più  accanita- 
mente contro  i  loro  nemici,  quanto  maggiore  era  stata  la  umilia- 
zione cui  essi  li  aveano  condannati.  Tra  le  prime  vittime  oltre 
il  vescovo  di  Reggio,  Azzo,  il  protettore  di  Adelaide,  assediato  per 
ben  tre  anni  in  Canossa,  noi  ritroviamo  appunto  Adelmanno  e 


(i)  Quando  Ottone  giunse  in  Verona  vi  trovò  vescovo  già  consacrato 
Milone,  nipote  del  conte  Milone,  e  non  osò  deporlo.  Ottimamente  osserva 
a  questo  proposito  il  P.  Ballerini,  editore  delle  opere  di  Raterio:  «  Otto 
«  qui  imperatoris  dignitatem  a  summo  pontifice  obtinere  peroptabat,  nihil 
«  contra  Milonem  episcopum  ausus,  spem  omnem  Ratherii  irritam  reddidit. 
«  Is  itaque  tum  apostolicae  auctoritati,  tum  regiae  maiestati  cedens,  Italiani 
«  deserere  compulsus  est  ».     Cf.  Ratherii  Opera,  ed.  cit.  p.  Lxxii. 

(2)    Cf.    GlESEBRECHT,   Op.    cit.   I,    387. 


L.  A.  FERRAI 


Manasse,  ambedue  simultaneamente  deposti  e  privati  del  grado 
ch'era  stato  oggetto  di  così  lunga  tenzone.  La  cattedra  fu  con- 
ferita a  Gualberto  <''\  che  eletto  canonicamente  ottenne  senza  dif- 
ficoltà alcuna  il  privilegio  della  consacrazione.  A  Manasse  non 
rimase  che  un  titolo,  quello  di  cancelliere  di  Ottone  ;  né  la  morte 
gli  concedette  di  godere  i  benefizi  che  eg'i  si  riprometteva  dalla 
restaurazione  regia  e  imperiale  del  principe  sansone <^^). 


Vili. 


Cosi  ebbe  fine  lo  scisma  di  Milano,  a  cui  i  fatti  della  storia  ge- 
nerale d'ItaHa  dal  947  al  953  si  riconnetton  assai  più  intimamente 
di  quello  che  il  Muratori,  il  Giulini,  il  Leo,  il  Giesebrecht  non 
abbiano  riconosciuto:  ne  noi  avremmo  deliberatamente  insi- 
stito tanto  sull'argomento,  se  esso  non  ci  avesse  giovato  a  lumeg- 
giare meglio  i  rapporti  tra  l'episcopato  lombardo,  Berengario  II 
ed  Ottone,  e  a  determinare  con  maggior  precisione  lo  spirito  di 
quella  società  milanese,  di  cui  crediamo  ci  sia  giunto  un  monu- 


(i)  Arnolfo,  ed.  cit.  voi.  Vili,  lib.  I,  cap.  iv,  accenna  ai  danni  ciie  de- 
rivarono alla  Chiesa  milanese  dalla  lunga  lotta  dei  due  vescovi:  «  quorum 
•(  execrabili  iurgio  iacturam  praegrandem  sustinuit  Ecclesia,  praecipue  in 
«  thesauris  et  cymiliis  omnibus,  quibus  inconiparabiliter  affluebat  ».  Evi- 
dentemente il  cronista  intende  parlare  dello  sperpero  che  dei  tesori  e  dei 
cimelii  della  Chiesa  milanese  fece  appunto  Adelmanno,  per  resistere  al- 
l'avversario che  disponeva  della  maggior  parte  delle  rendite  della  metropo- 
litana. Aggiunge  di  più  che  Gualperto  seppe  trarre  il  maggior  vantaggio 
dal  dissidio,  interponendosi  tra  Manasse  e  Adelmanno:  «  Inter  hos  fluctus 
«  natabat  caute  Walpertus,  contrahens  suo  lateri  quasi  undas  consilii,  usque 
«  adeo,  ut  utrisque  sponte  vel  invito  cedentibus,  sedem  teneret  ipse  solus  »  ; 
Ice.  cit. 

(2)  Dell'arcicancellierato  (o  arcicappellania)  di  Manasse  si  hanno  due 
documenti  nei  diplomi  imperiali  del  io  ottobre  951  e  del  15  febbraio  952; 
cf.  SicKHL,  Monummta-Ausgahi,  i;8,  145  cit.  da  H.  Bresslau,  op.  cit.  I,  321. 
Però  è  sfuggito  al  Bresslau  che  gli  editori  italiani  sull'autenticità  del  primo  di 
essi  in  MoH.  hist.  pattine  iiissii  Caroli  Alberti  (cod.  dipi.  Lon^^.),  Torino,  1862, 
mossero  gravissimi  dubbi. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  149 


mento  prezioso  nel  testo,  che  il  Biraghi  identificò  con  gli  Annali 
di  Dazio,  ed  il  Muratori  appellò  De  situ  urbis  Sic.  Noi  crediamo 
appunto  che  questo  testo,  o  meglio  le  Fitae  pontificmn  potessero 
sorgere  in  servigio  della  causa  di  Adelmanno,  e  precisamente 
nel  momento  in  cui,  con  la  speranza  che  Ottone  ne  avrebbe  as- 
sunta la  difesa,  se  ne  annunziava  prossima  la  venuta  tra  noi. 
Che  se  la  storia  primitiva  della  Chiesa  milanese  vi  è  artificiosa- 
mente alterata  e  amplificata,  ciò  avviene  in  servigio  di  un  in- 
tendimento poHtico.  Bisognava  che  l'autonomia  di  Milano  da 
Roma  poggiasse  su  di  una  tradizione  sicura,  e  Adelmanno  volle 
contrapporre  alle  File  di  s.  Damaso,  le  biografie  dei  proprii  pre- 
decessori, sperando  in  Ottone  un  potente  ausiliario  di  fironte  al 
pontefice  Agapito  II  che  gli  contestava  il  privilegio  della  con- 
sacrazione. Ma  egli  aveva  fidato  troppo  nelle  sue  forze  ;  quando 
nel  951  Ottone  calò  per  la  prima  volta  in  Italia,  la  maggior 
parte  dei  vescovi  lombardi  rifuggirono  di  seguire  Adelmanno 
sulla  via  pericolosa  nella  quale  si  era  incamminato;  tra  gli  altri 
se  ne  ritrasse  Attone  di  Vercelli,  non  ostante  le  molte  aderenze 
sue  col  clero  milanese.  Ma  la  baldanza  di  Adelmanno,  che  di 
poco  meno  d'un  secolo  precorse  Eriberto,  è  in  gran  parte  giu- 
stificata dagli  incoraggiamenti  di  tutto  un  popolo,  dalle  esorta- 
zioni della  minore  feudalità  (■). 


(i)  Della  potenza  esercitata  da  Adelmanno  in  Milano  è  bel  documento 
l'epitafio  che  fu  ritrovato  tra  i  manoscritti  di  Francesco  Castelli,  e  che  fece 
conoscere  il  conte  Giulini  : 

HIC   TVMVLATVR   ADALMANNVS   PRAESVLQUE   BEATVS 

CLARIOR   IN   TANTA   Q.VI   FVIT   VRBE   POTENS 

HVIVS   ORIGO   FVIT   CELSO  DE   SANGVINE   DVCTA 

PAVPERIBVS  LARGVS  EXTITIT  ATQ.VE   PIVS 

HVC   GRESSVM  REFERENS  MODICVM   TU   SISTE  VIATOR 

Die    lAMVLO   REQ.VIEM   CRIMINA   PELLE   DEVS 

OBIIT   AVTEM   ANNO   INCARNATIONIS   DOMINICAE   .CMLVI. 

MENSE    DECEMBRIS    INDICTIONE   DECIMA   Q.VINTA 

cioè  nel  dicembre  dell'anno  956  in  cui    appunto    correva    la    xv   indizione. 
Cf.  Giulini,  op.  cit.  II,  269. 


L.  A.  FERRAI 


Noi  conveniamo  perfettamente  con  lo  Schupfer;  le  Fitae 
pontificum  non  sono  opera  fredda  e  scolorita,  ma  si  animano  di 
certo  spirito  democratico  che  potrebbe  fiirle  credere  di  un  secolo 
più  a  noi  vicine.  Se  non  che  quel  carattere  non  contrasta  af- 
fatto con  le  condizioni  particolari  della  Chiesa  milanese  a  mezzo 
il  secolo  X.  Non  sembrerà  vana  anche  se  tutta  consjetturale  la 
ricerca  della  persona  a  cui  forse  Adelmanno  affidava  l'opera  in- 
signe, che  avrebbe  dovuto  porgere  un  documento  sicuro  per  fa- 
cilitare il  compito  dell'arbitrato  di  Ottone  I.  A  me  pare  ch'essa 
si  possa  riconoscere  in  quel  presbitero  milanese  Ambrogio,  di  cui 
ci  rimane  una  lettera  ad  Attone,  con  la  risposta  del  vescovo  a 
lui.  Dal  contenuto  dei  due  documenti,  che  si  attribuiscono  ap- 
punto agli  anni  dello  scisma,  si  rileva  come  egli  fosse  oltre  che 
dotto  canonista,  conoscitore  esperto  della  storia  delle  Chiese 
orientali.  Ambrogio  infatti  nella  lettera  sopracitata  (')  interrogava 
il  vescovo  di  VerceUi  sulla  questione  delle  nozze  tra  coloro  che 
sono  astretti  al  vincolo  della  cognazione  spirituale,  e  Attone  nel 
dargli  risposta  lo  interpellava  su  certi  statuti  di  Chiese  orientali 
vigenti  in  Milano  riguardo  al  rituale  della  consacrazione  arcive- 
scovile (^\  Curiosa  informazione  quest'ultima,  che  parrebbe  oc- 
casionata dal  dissidio  stesso,  che  rapporto  alla  consacrazione  era 
sorto  in  Milano  dopo  la  libera  elezione  di  Adelmanno.  Comun- 
que sia,  i  due  documenti  provano  l'altissima  stima  che  il  pre- 
sbitero Ambrogio  godeva  allora,  e  che  gli  era  attestata  da  uno 
dei  più  illustri  prelati  di  quell'età,  il  vescovo  di  Vercelli.  A 
meriti  così  eccezionali  non  mancarono  adeguati  compensi  ;  noi 
sappiamo  che  il  presbitero  Ambrogio  rimase  in  Milano  anche 
dopo  l'elezione  di  Gualberto  (953),  che  nel  95^  eletto  cancel- 
liere imperiale  da  Ottone  T,  rimase  presso  di  lui  sino  al  970,  nel 

(i)  Cf.  Attonis  Opera,  ed.  cit.  p.  301  sgg. 

(2)  «  Sinceram  caritatem  vestram  humiliter  exposcimus  de  epistola,  quae 

«  in  canonibus sive  de  statutis  antiquis  orientalium,    quorum    capitula 

«  centum  dinumerantur.  ex  quibus  primum  apud  vos  in  omni  episcoporum 
«  consecratione  perquiritur,  cuius  ìnitium  est:  qui  episcopus  esse 
«debet,  necesse  est  ut  antea  examinetur»  &c.  Attoxis 
Opera  cit.  p.  303. 


IL  «DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  151 

quale  anno  passò  al  governo  della  chiesa  di  Bergamo  ^'\  L'ele- 
zione a  cancelliere  di  Ottone  il  Grande  ci  conforta  nell'opinione 
che  in  giovinezza  egli  abbia  potuto  seguire  le  parti  di  Adelmanno 
e  quindi  che  a  lui,  conoscitore  della  lingua  greca  e  dotto  nella 
patristica  orientale  in  mezzo  ad  una  societcà  di  clerici  non  del 
tutto  digiuna  di  studi  profani  (^\  siano  forse  da  attribuirsi  le  Fitae 
pontificum,  opera  tendenziosa  di  politica  ecclesiastica,  non  affatto 
priva  di  merito  letterario. 


Villi. 

Intorno  alle  fonti  delle  Vitae  ponùficum  riassumeremo  breve- 
mente, dopo  ciò  che  ne  hanno  scritto  il  Papebroch,  il  Muratori, 
e  recentemente  il  Biraghi,  lo  Schupfer,  il  Braunsberger  (^5),  quanto 
a  noi  sembra  definitivamente  sicuro.  È  un  errore  che  si  è  ripe- 
tuto con  troppa  insistenza  anche  di  recente,  che  cioè  gli  elementi 
della  leggenda  dell'apostolo  Barnaba  si  ritrovino  oltre  che  nelle 
Recognitiones  Clcmentinac,  nell'opera  attribuita  a  Simone  Metafrasto 
intorno  ai  settanta  discepoli.  Recenti  indagini  intorno  a  detta 
compilazione  ed  al  suo  autore  hanno  posto  in  chiaro  che  esso  è 
raffazzonamento  di  scritture  più  antiche,  e  che  il  compilatore 
scriveva  sulla  fine  del  secolo  x,  perchè  Simone  Metafrasto,  e  Si- 
mone logoteta  e  maestro,  autore  di  una  nota  cronaca,  sono 
una  stessa  e  identica  persona.     Ora  si  sa  che  il  cronista  viveva 

(i)  Sulla  identità  del  presbitero  Ambrogio  con  l'Ambrogio  cancelliere 
di  Ottone  I,  a  cui  è  diretta  l'epistola  xn  di  Raterio  del  luglio  968  cf.  Ra- 
THERii  Opera  cit.  p.  561,  in  nota.  Intorno  al  cancellierato  di  Ambrogio  mi- 
lanese cf.  H.  Bresslau,  op.  cit.  I,  321. 

(2)  Cf.  Ratherii  Opera,  epist.  ni  «  ad  Robertum  archiepiscopum  », 
col.  527.  In  questo  luogo  Raterio  accenna  ad  alcune  «  quaestiunculae  »  let- 
terarie sulle  quali  i  Milanesi  lo  avevano  interrogato,  e  confessa  di  aver  de- 
liberatamente abbandonato  gli  studi  profani.  Intorno  alla  cultura  milanese 
dei  secoli  ix  e  x  vedi  oltre  la  nota  Dissertazione  Muratoriana  F.  Argelati, 
Biblioiheca  scriptorum  Mediolanensium,  Mediolani,  1745,  I,  p.  xxvni. 

(5)  Cf.  D''  Otto  Braunsberger,  Der  Aposiel  Baruabas,  san  Leben,  und 
der  ihni  beigeUgte.  Briej,  luissenscbaftlicb  gewùrdigt.  Mainz,  1876. 


IS2  L.  A.  FERRAI 


appunto  all'età  dell'imperatore  Niceforo  Foca,  e  fioriva  tra  il 
9^3-965  d.  C.  ^'^  L'opera  dei  settanta  discepoli,  considerata 
apocrifa  dalla  Chiesa,  non  contiene  che  un  brevissimo  accenno 
sulla  venuta  dell'apostolo  Barnaba  a  Roma,  e  tale  testimonianza 
è  per  noi  così  tarda  da  escludere  senz'altro  l' ipotesi  che  abbia 
giovato  al  presbitero  Ambrogio,  o  a  chi,  per  suggerimento  di 
Adelmanno,  dettò  le  Fitae  pontijìcum. 

Ben  altro  valore  per  la  formazione  della  leggenda  di  s.  Bar- 
naba acquistano  per  noi  le  Rccognitioìies  Clenientinae.  Sebbene 
apocrife  per  il  loro  contenuto,  esse  risalgono  al  terzo  secolo  di 
Cristo,  anzi  non  sono  posteriori  al  216.  Com'è  noto,  quest'opera 
ha  carattere  essenzialmente  filosofico,  ed  è  stata  giustamente 
considerata  un'imitazione  dei  Dialoghi  di  Platone,  o  meglio  delle 
Diatribe  di  Giustino  iMartire  col  pagano  Trifone  W.  Libro  di 
polemica,  sorto  in  difesa  del  cristianesimo  giudaizzante  contro  il 
gentilesimo  di  s.  Paolo,  è  moho  probabile  fosse  assai  poco  letta 
nel  medio  evo,  inquanto  appunto  rappresentava  un  momento  sto- 
rico transitorio,  che  non  destava  oramai  se  non  scarso  interesse. 
Le  Recognitiones,  scritte  originariamente  in  greco,  ebbero  però  tra- 
duzioni in  siriaco  (3)  e  in  latino,  e  furono  note  più  specialmente  in 
Occidente  perla  versione  che  nel  secolo  ivne  fece  Rufino  d'Aquileia. 
Le  Recognitiones  attestano  la  venuta  e  la  predicazione  di  s.  Barnaba 

(i)  Cf.  Karl  Krumbacher,  Geschichte  der  hyiantinisch&n  Litteratiir  von  Ju- 
stinianhis  ■^im  Ende  des  Ostrómischen  Reiches  {$2^-14}^),  Mùnchen,  1891,  in 
Handbuch  der  klassisch.  Altertums-  tVissenschaft,  herausgegeben  von  d/  Iwan  von 
MUELLER,   p.   136  sgg. 

(2)  Sulla  fede  di  Tertulliano  (De  pudicitia,  cap.  xx)  molti  attribuirono 
a  s.  Barnaba  una  epistola  «  ad  Haebrcos  »,  che  per  il  suo  contenuto  appa- 
rirebbe scritta  dall'Italia;  ma  s.  Girolamo  non  solo  nega  che  gli  appartenga, 
ma  considera  quella  scrittura  come  apocrifa:  «  Bapvocpag  Kóupiog,  ó  xaL  'Icóayjcp 
«  AeuiTYjs  [istà  IlauXou  xwv  èO-vwv  àTtóatoXog  xaTaata^S-eìg  |i[av  Tipòg  oiy.o- 
«  Sóiiyjv  xric,  'ExxXvjotag  sTrioxoXTjv  ouvéTa^sv,  ^xig  sic,  xàg  àTróxpucpoog  àvayivo)- 
«  axexat  ».  Cf.  Hieronimus,  De  viris  illustribus,  cap.  vi,  in  Migne,  Patrologia  Ia- 
lina, II,  650.  Quindi  la  pii^i  antica  notizia  sul  viaggio  di  s.  Barnaba  a  Roma 
non  può  ricercarsi  in  una  testimonianza  anteriore  alle  Recogniliones  Clcmcntiiiae 
(edite  in  Gallano,  Maxima  hihliolh.  patrum,  Lugduni,  1677,  to.  I). 

(3)  Una  traduzione  siriaca  ne  conserva  l'Ambrosiana. 


IL  «DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  153 

a  Cipro,  ad  Alessandria,  a  Roma  ;  ma  è  notevole  ch'esse  tendono 
a  contrapporre  il  presunto  fondatore  delia  Chiesa  di  Milano  al- 
l'apostolo delle  genti.  Ora  di  un  tale  contrasto,  che  pur  tanto 
avrebbe  giovato  all'anonimo  compilatore  delle  ritae  pontilìciuìi, 
non  si  ritrova  allusione  od  accenno,  onde  il  dubbio  che  le  Rc- 
coi^ìiitiones  possano  considerarsi,  come  vorrebbe  il  Biraghi,  fonti 
dirette  delle  Vitac  pontijiciun.  A  chi  ben  guardi,  la  leggenda  di 
s.  Barnaba  non  poteva  pienamente  svilupparsi  che  in  Lombardia, 
e  poiché  le  Fitae  pontificutn  ci  rappresentano  quasi  definitivamente 
legittimata  una  tradizione  orale,  che  deve  essersi  amplificata  len- 
tamente, gli  elementi  primigenii  di  essa  debbonsi  piuttosto  cer- 
care in  opere  schiettamente  storico-religiose.  Concordiamo  per- 
fettamente col  Papebroch  e  col  Muratori  che  lo  scrittore  delle 
Fitae  ponlifìciim  non  deve  aver  ignorato  il  Commentar'ms  ecclesia- 
sticus  de  .Lxx.  discipidis  Doìnini  dello  pseudo  Doroteo,  opera 
originariamente  scritta  in  latino,  ma  più  nota  in  una  redazione 
greca  che  si  crede  del  vr  secolo  (525),  e  nella  quale  non  solo  è 
affermata  la  venuta  di  s.  Barnaba  a  Roma,  ma  l'apostolato  suo  e 
la  fondazione  della  Chiesa  di  Milano  per  opera  sua  <^'\  A  questa 
fonte  greca  altra  ne  aggiunge  il  Biraghi,  che  certamente  non  ri- 
mase sconosciuta  allo  scrittore  del  x  secolo,  voglio  dire  l'encomio  di 
s.  Barnaba  del  monaco  Alessandro  di  Cipro  vissuto  pure  nel  vi  se- 
colo, il  quale  accennando  alla  venuta  di  s.  Barnaba  a  Roma  e  alla 
sua  predicazione  in  tanta  parte  del  mondo,  dava  adito  a  supporre 
esteso  l'apostolato  del  santo  anche  alla  Lombardia  e  a  Milano  (^). 

(i)  Il  testo  greco  fu  pubblicato  dal  Du  Gange  in  appendice  al  Chronicon 
Paschale  sive  Alexandrinuvi,  Venezia,  1729;  cf.  SrrrPAMMA  ErrAHSIASTI- 
KON  X.  X.  X.  p.  342  sgg.  e  Biraghi,  op.  cit.  p.  xxxix;  il  testo  latino  sotto 
il  titolo  Synopsis  da  ulta  et  morte,  propbetartim  &c.  vedilo  in  Gallano, op.  cit. 
III,  427  sgg. 

Nel  Commeiitarius  ecclesiasticus  (testo  greco)  il  luogo  che  fa  al  caso  nostro 
è  il  seguente:  «  Bapvapag,  6  [istà  IlauXou  5iaxovi^aas,  upòjxog  sv  T(i)[j.i[j  xòv  Xpi- 
«  oxov  èxvjpu^ev,  sTtiaxoTxog  MsStoXocvou  jjisxéTceLxa  fB'^owóyc,  ».  A  proposito  della 
Synopsis  dello  pseudo  Doroteo  cf.  anche  Puricelli,  De  ss.  viarlyrihus  Naiario 
et  Celso  ac  Protasio  et  Gervasio  &:c.  liìstorica  dissertatio,  Mediolani,  1656,  p.  6. 

(2)  Cf.  in  B  a  r  n  a  b  a  e  encomio,  Actu  sani  tornili,  2  giugno,  XI,  442, 
questo  passo:  «  "ExeiO'Sv  5è  òuò  xoù  àylou  Tcvéu|xaxog  ó5r(Yoó|j.svoi;  ègsXS-wv, 
io* 


154 


L.  A.  FERRAI 


Ma  certo  se  nel  secolo  x  la  leggenda  avea  preso  così  valida 
consistenza,  essa  già  doveva  essersi  in  precedenza  arricchita  di 
quegli  elementi  che  invano  si  ricercano  nelle  fonti  greche  e  la- 
tine dei  primi  secoli.  Ora  tali  elementi  si  riscontrano  appunto 
in  due  scritture  molto  più  recenti,  e  di  origine  lombarda:  cioè 
una  iscrizione  onoraria,  conservataci  dall'Alciato  e  dallo  Scaligero, 
che  il  vescovo  di  Milano  Mirocle  avrebbe  fatto  incidere  sotto 
una  statua  di  Anatolio  suo  predecessore  CO. 

L'iscrizione  presenta  caratteri  di  non  dubbia  autenticità,  ma 
certo  essa  non  risale  ne  all'età  di  Mirocle  né  al  iv  secolo,  come 
vorrebbe  il  Biraghi.  Essa  fu  incisa  probabilmente  nel  piedistallo 
di  una  statua  romana,  che  si  credè  rappresentasse  il  secondo  ve- 
scovo della  metropolitana,  e  l'errore  di  un'età  più  tarda,  forse  del 
IX  o  X  secolo,  rispetto  al  vero  significato  del  simulacro,  ha  dato 
origine  ad  una  iscrizione,  confermando  una  leggenda  orale  che 
si  era  largamente  diffusa.  Di  consimiU  fritti  si  hanno  infiniti 
esempi,  e  basterà  ricordare  che  nella  stessa  Milano  in  una  statua 
di  antico  oratore,  che  conservavasi  nell'atrio  di  S.  Ambrogio,  la 
rozza  plebe  del  secolo  xi  volle  riconoscere  la  figura  dell'arcive- 
scovo Adelmanno  de'  Menclozi,  e  la  deturpò  a  capriccio  dipingen- 
dola a  doppio  colore  bianco  e  nero,  coi  colori  cioè  dello  stemma 
di  quella  famiglia  CO. 

Il  fatto  avvenuto  per  Adelmanno  in  età  relativamente  tarda, 
spiega  a  sufficienza  come  fosse  antico  l'uso  di  ribattezzare  con 
nuove  attribuzioni  i  simulacri  romani  sopravvissuti  nel  medio  evo 
tra  le  rovine  delle  terme  di  Massimiano,  dell'  anfiteatro  o  del 
circo;  né  è  improbabile  che  nel  secolo  ix  e  x  esistesse  una  statua 
antica  falsamente  attribuita   ad  Anatolio,  onde  l'iscrizione   sorta 

«  Si'^XS-sv  è\)a.YfBX{.^óiizwoc,  iene,  nóXsig  Tidoag  y.aì  x^'^P'^'S  sto;  xoù  èXO-eìv  aOiòv 
«  eìj  tìfjv  iJLsyiotTjV  'Pé[xy]y,  aOxòg  yap  rcpò  Tiavcòg  èxépou  xwv  loù  Kupiou 
«  [ia^a-vj-cfov  sxY^pugsv  èv  Tc()|ji.t[j  xò  sùaxyéXXtov  xoO  Kpiaxoù  ». 

(i)  Cf.  in  Biraghi,  op.  cit.  p.  xli  ;  Brauksberger,  op.  cit.  p.  85,  e  De 
Rossi,  Inscriptiones  christianac,  to.  II,  par.  I,  pp.  185-84.  Nell'iscrizione  incisa 
in  pietra  «  iuxta  imaginem  s.  Anathalonis  episcopi»  Anatolio  è  appunto  detto 
«  socius  Barnabae  ». 

(2)  Cf.  GiULiNi,  op.  cit.  II,  274  sgg. 


IL  «  DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  » 


unicamente  dalla  credenza  popolare.  Ne  meno  eflkace  per  la 
determinazione  delle  linee  principali  della  leggenda  parmi,  oltre 
l'iscrizione  e  la  statua,  oggi  perduta,  una  scrittura,  pubblicata  la 
prima  volta  da  Bonino  Mombrizio,  e  ristampata  dal  Papebroch 
di  su  un  manoscritto  del  secolo  x  o  ix  sotto  il  titolo  :  Sermo 
legendus  in  natali  s.  Barnahac  apostoli.  In  questo  antico  sermone, 
che  il  Papebroch  crede  del  secolo  viii  ('\  oltre  le  notizie  auten- 
tiche su  s.  Barnaba  offerteci  dagli  Atti  degli  apostoli,  ritrovasi  già 
bella  e  intessuta  la  trama  del  leggendario  racconto,  che  l'autore 
delle  Vitae  pontificmn  farà  suo,  e  amplificherà  a  suo  talento.  Ri- 
cercandone le  fonti,  senza  entrare  deliberatamente  nell'aspra  que- 
stione degli  elementi  storici  che  quel  testo  contiene,  noi  non  in- 
tendiamo tuttavia  di  togliere  allo  scrittore  del  secolo  x  il  merito,  o 
la  colpa,  di  aver  faticosamente  tentato  di  colmare,  per  un  fine  ten- 
denzioso che  ci  si  rivela  chiarissimo,  una  profonda  lacuna  nella 
storia  ecclesiastica  di  Milano.  Noi  lo  abbiamo  già  detto,  il  valore 
delle  Fitac  pontificum  non  va  cercato  nel  contenuto  narrativo  che 
esse  ci  hanno  serbato,  ma  nel  carattere  polemico,  per  cui  esse  si 
contrappongono  alle  Viìe  di  s.  Damaso,  e  attestano  lo  spirito  po- 
litico della  società  ecclesiastica  milanese  a  mezzo  il  secolo  x.  Né 
devesi  dimenticare  che  col  frammentario  testo  delle  Vitae  ponti- 
ficum ci  è  giunto  il  frammento  di  un'operetta  preziosa,  la  Descriptio 
situs  et  urbis  Mediolanensis,  della  quale  noi  oseremmo  ricostruire 
alla  meglio  le  varie  parti  con  l'aiuto  che  potrebbero  prestarci  le 
varie  citazioni,  che  di  questa  scrittura  riscontransi  nelle  cronache 
di  Landolfo,  di  Benzo,  di  Galvano  Fiamma. 


X. 


La  Descriptio  situs  et  urbis  non  è  un  testo  particolare  della 
istoriografia  milanese,  ma  si  collega  per  il  suo  carattere  e  per  il 
suo  contenuto  a  tutta  una  serie  di  scritture,  che  hanno  servito 
come    anello    di    congiunzione    tra  la   istoriografia  classica  e  la 


(i)  Cf.  Ada  sanctorum,  giugno,  XI,  442. 


156  L.  A.  FERRAI 


cronografia  municipale  del  medio  evo.  Nella  sola  Lombardia 
col  testo  milanese  fanno  riscontro  la  Descriptio  Miithiensis,  testo 
del  secolo  x  ('),  e  il  De  laudibtis  Papiae,  che  se  bene  compilato 
nel  secolo  xiv,  ci  rappresenta  tuttavia  un  rifacimento  tardo  di  più 
antiche  scritture  ^^\  Or  bene,  questo  e  molti  altri  testi  che  po- 
trebbero essere  ricordati,  manifestano  una  stretta  parentela  con 
la  Graphia  aureae  urbis,  anzi  si  può  dire  che  su  di  essa,  che  fu 
tra  le  più  diffuse  e  tipiche  operette  di  topografia  storica,  si  siano 
venute  modellando  tutte  le  altre.  Che  la  Graphia  fosse  molto 
conosciuta  in  Lombardia  lo  provano  ad  esuberanza  le  citazioni  di 
Landolfo,  del  Fiamma,  di  B.  Morigia,  del  Cermenate;  né  noi 
abbiamo  qui  bisogno  di  dimostrare  che  le  notizie  topografiche  ed 
archeologiche,  classiche  e  cristiane  della  città  di  Roma,  che  i 
nostri  cronisti  del  secolo  xiv  mostrarono  di  possedere,  fossero 
attinte  ad  altro  testo,  dal  momento  che  solo  della  Graphia  tro- 
vansi  citazioni  ed  esatti  riscontri.  Non  mi  è  mai  capitato  infatti 
dì  veder  citata  da  scrittori  lombardi  la  più  moderna,  e  per  il 
contenuto  suo  assai  diversa  redazione  che  ci  è  conservata  nel 
De  mirabiìihìis  Urbis  dell'antica  Graphia. 

Com'è  noto,  la  Graphia  fu  fatta  conoscere  la  prima  volta 
su  di  un  manoscritto  Laurenziano  dall'Ozanam.  Venuti  in  luce 
altri  manoscritti,  riprese  a  trattare  le  questioni,  che  intorno  a  quel 
testo  si  erano  agitate,  il  Giesebrecht  ^i\  ed  in  modo  esauriente. 
Contro  l'opinione  dell' Ozanam  egli  sostenne  che  la  Graphia  pre- 
cede cronologicamente  il  De  rdirabilibtis  Urbis,  ma  è  posteriore 
al  trattatello  topografico  che  passa  sotto  il  nome  di  Anonimo  di 
Einsiedeln  ^'*\  È  noto  del  resto  come  opere  consimili  si  ricolle- 
ghino per  una  non  interrotta  catena  con  alcune  scritture  geo- 
grafiche e  topografiche  della  bassa  latinità.  Esse  sono  troppo 
conosciute,  perchè   si    debba    da  noi,  per  solo  sfoggio   di  facile 

(i)  Cf.  Muratori,  Rer.  IL  Script,  voi.  II,  par.  II,  p.  691  :  Descriptio  urbis 
Mutinensis,  sive  additamenium  ad  vitam  s.  Geininiaiii  aiicloris  anonimi. 

(2)  Cf.  Muratori,  Rer.  It.  Script.  XI,  6. 

(5)  Cf.  op.  cit.  voi.  I,  nelle  Aggiunte,  p.  636  sgg. 

(4)  Intorno  all'Anonimo  d'Einsiedeln  cf.  Gregorovius,  Storia  della  città 
di  Roma  nel  medio  evo  (trad.  ita!.),  Venezia,  Antonelli,  ICS73,  III,  627. 


IL  «DE  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  T57 

erudizione,  farne  menzione  particolare.  Già  furono  raccolte  in 
un  sol  volume  dall'Ulriclis  e  dottamente  illustrate  (').  La  lette- 
ratura romana  degli  antichi  tempi  ci  offre,  com'è  risaputo  un 
famoso  manuale  storico  del  354,  che  già  presenta  tutti  i  carat- 
teri, che  sono  propri  agli  zibaldoni  enciclopedici  del  medio  evo. 

Il  manuale  in  discorso,  oltre  un  quadro  generale  di  storia 
romana  sino  alle  leggi  Licinie  e  molte  altre  scritture,  contiene 
abbondanti  notizie  sulle  cose  notabih  di  Roma.  Questa  che  forma 
l'ultima  parte  dell'opera  sotto  il  titolo  di  Notitia  regiomun,  od  an- 
che semplicemente  Notitia,  ritrovasi  staccata  in  più  manoscritti, 
ed  ha  servito  di  fondamento  al  più  tardo  testo  d'archeologia  ro- 
mana, il  Curiosum  Urbis  dell'età  di  Onorio  ^^^. 

Del  resto  nulla  vi  è  di  originale  in  questo  genere  di  scrit- 
ture :  anch'esse,  compresa  la  Graphia  aiireae  urbis,  possono  consi- 
derarsi come  un  tardo  riflesso  di  una  letteratura  storica  particolare 
che  fu  propria  de'  Greci.  Che  cosa  sono  infatti  le  Attidi  rispetto 
alla  fiorente  istoriografia  greca,  se  non  delle  ricerche  e  delle  no- 
tizie intorno  alle  antichità  e  alle  cose  memorabih  di  questa  o 
quella  città?  Per  i  frammenti  che  ce  ne  rimangono  si  può  con- 
getturare che  le  opere  di  Clitodemo,  di  Filocaro  e  degli  altri  ab- 
bracciassero forse  una  più  vasta  materia,  comprendessero  cioè 
con  la  descrizione  dei  luoghi  e  dei  monumenti,  notizie  sommarie 
sulla  religione  e  sul  culto,  sulla  storia  e  la  cultura  dei  singoli 
popoli  <^5)-  ma  forse  non  si  riscontra  altrettanta  varietà  di  conte- 
nuto nella  Notitia  e  nel  Curiosum,  e  nelle  stesse  Graphiae  e  Dc- 
scriptiones  del  medio  evo  ?  Ora  a  me  pare  indiscutibile  che  la 
Descriptio  Mutinensis  e  la  Descriptio  situs  et  urbis  Mediolanensis 
sieno  appunto,  al  pari  della  Graphia,  tarde  rifioriture  delle  opere 
storico-topografiche  dell'antichità,  e  come  queste  integrano  il 
materiale    storico    de'  grandi  scrittori,    cosi   quelle   preparino  in 


(1)  Cf.  Codex  urbis  Romae  topographicus,  Wirceburgi,  1871. 

(2)  Cf.  G.  S.  Teuffel,  Storia  della  Ietterai,  romana  (trad.  ital.),  Padova, 
1873,  II,  515,  nota  9  al  §  390. 

(3)  Cf.  R.  Nicolai,  Griechische  Litteraiurgeschichte,  Magdeburg,  1873,  I, 
316  sgg. 


158  L-  A.  FERRAI 


Lombardia  il  sorgere    della  cronaca  medioevale.     Ma  se  la  De- 
scriptio  situs   et  urbis  sorse,  come    non   mi   par  dubbio,  sul  mo- 
dello   della    Graphia,   è   evidente    eh'  essa  non  può  essere  stata 
compilata  se  non  dopo  la    diffusione  di   questo  testo  nelle  città 
lombarde,  e  perciò  non  prima  del  secolo  xi.     È  noto  infatti  che 
il  Giesebrecht  assegna  la  redazione  della  Graphia  all'età  di  Ot- 
tone TU,  e  ch'essa  trovasi  per  la  prima  volta  citata  da  Benedetto 
di  Soracte,  fiorito  intorno  al  1024'^').     Ecco  così  consolidata  con 
prove  più  sicure  l'opinione  da  noi  enunciata  nelle  prime  pagine 
della  presente  memoria,  che  cioè  il  primo  capitolo  del  testo  De  sitii 
urbis  nulla  abbia  a  che  fare  con  le  Fitae  pontificum.     Come  queste 
sono  un  insigne  monumento  dell'età  in  cui  l'episcopato  lombardo 
soverchia  il  potere  regio  feudale,  lo  .domina  talvolta  e  lo  assog- 
getta, mentre  s'erge  la  dignità  del  metropolita  e  si  contrappone 
al  pontificato  romano,    cosi   la   Descriptio  situs  et  urbis  risponde 
perfettamente  ad  un'età  in  cui  il  risveglio  delle  tradizioni  impe- 
riali per  opera  della  restaurazione  sassone  soffoca  ogni  altra  ten- 
denza storica  '^^\     A  Roma,  ravvivate  le  tradizioni  classiche  e  in- 
carnatesi per  cosi  dire  nei  nuovi  e  forti  principi  di  Sassonia,  si 
ridestano  la  curiosità  e  l'amore  per  le  memorie  gloriose  dell'aurea 
Roma,  e  sorge  la  Graphia;  a  Milano  che  ha  finito  per  togliere 
alla  vicina  Pavia  ogni  importanza  politica  nel  regno  italico,  i  mo- 
numenti crollanti  della  passata  civiltà  parlano  un  linguaggio  nuovo 
alle  menti  intorpidite  dal  lungo  e    non  cessato  servaggio  eccle- 
siastico e  feudale,  e  ad  imitazione  della  Graphia,  per  opera  pro- 
babilmente di  un  monaco  meno  severo  nel  condannare  gli  studi 
profani,  si  compie  la  Descriptio  situs  et  urbis,  prima  che  la  bar- 
barie teutonica  trionfi  ancora  una  volta  sulle  accumulate  rovine 
dei  monumenti  cesarei. 

(i)  A.  PoTTHAST,  op.  cit.  p.  163;  Wattenbach,  Deutschlamìs  Geschichis- 
quéllen,  I,  213  ;  Bethmann,  in  Pertz'  Archiv,  X,  381. 

(2)  La  prima  rubrica  del  De  sita  urbis  che  contiene  la  maggior  parte  della 
Descriptio  fu  erroneamente  attribuita  a  s.  Ambrogio.  Cf.  S.  Ambrosii  Opera 
per  A.  Zarottum,  in-fol.,  ad  litt.  y. 


IL  «  D£  SITU  URBIS  MEDIOLANENSIS  »  159 


XI. 


Le  nostre  ricerche  hanno  posto  in  chiaro,  che  non  meno  che 
nelle  cronache  del  secolo  xiv,  è  aperto  un  campo  vastissimo  di 
nuovi  studi  nella  istoriografia  milanese  più  antica.  Il  pensiero 
di  riunire  in  un  solo  volume  i  monumenti  che  le  appartengono 
sorge  spontaneo  quando  si  considera  che  L.  A.  Muratori  pub- 
blicò il  Di'  sitn  urbis  sul  più  antico  ma  scorretto  codice  del  se- 
colo XI,  e  gli  rimase  sconosciuto,  o  meglio  non  conobbe  che 
troppo  tardi  un  secondo  manoscritto  del  principio  del  secolo  xii, 
che  ai  tempi  suoi  conservavasi  nella  Capitolare  milanese,  e  che 
presentemente  ritrovasi  nell'Ambrosiana  <^').  Il  vantaggio  che  un 
nuovo  editore  potrebbe  trarre  dall'uso  del  codice  da  me  rintrac- 


(i)  È  il  ms.  Ambrosiano  I,  152,  par.  inf.  in-4,  pergamenaceo,  di  pp.  nume- 
rate 178.  Contiene  il  Cerimoniale  diBeroldo  diverso  dallo  stampato  (pp.  26-94), 
il  De  sita  urbis  (pp.  94-99),  il  De  adventu  Barnabae  et  Anathalonis  et  vita  eorum 
(pp.  99-105),  un  calendario  ambrosiano  con  postille  storiche  sincrone  (pp.  71-5), 
ed  altre  scritture  di  minor  conto.  Nella  guardia  leggesi  di  mano  recente  :  «  Hic 
«  ille  est  Beroldus  vetus  sic  appellatus  quem  vidit  et  exscripsit  Muratorius  in 
«  Antiqu.  m.  aevi  diss.  57,  tomo  IV,  e.  S61  sqq.  Hic  olim  ad  canonicum 
«  Lantium  spectabat,  et  saeculo  Christi  xii  videtur  conscriptus.  V.  Mura- 
«  tori,  ibid.  col.  848  e,  et  895  b,  vide  et  Giulini,  tomo  V,  p.  213  sqq.  ».  E 
più  sotto  :  «  Il  testo  del  Cerimoniale  quale  sta  in  questo  codice,  non  risponde 
«  perfettamente,  massime  nei  titoli  di  alcuni  capitoli  e  nell'ordine  de'  medc- 
«  simi,  al  testo  pubblicato  dal  Muratori.  Questo  codice  non  fu  veduto  né 
«  dall'Argelati,  né  dal  Giulini.  Come  venisse  in  possesso  della  biblioteca 
«  Ambrosiana  non  si  sa  ;  pare  che  vi  venisse  sulla  fine  del  secolo  xviii,  e 
«  solo  da  qualche  anno  ebbe  segnatura  e  posto  tra  i  codici  «.  L'opuscoletto 
De  siili  civitatis  incomincia  a  e.  xcini.  Che  la  lezione  di  questa  rubrica, 
come  delle  altre  che  ci  conservano  le  Vitae  pontificum  sia  di  gran  lunga  mi- 
gliore di  quella  serbataci  dal  ms.  più  antico  di  cui  fecero  uso  il  Muratori  e 
il  Biraghi,  apparisce  evidente  a  un  primo  raffronto.  È  poi  notevole  che  il  ms. 
più  antico,  come  già  notammo,  non  contiene  né  il  prologo  alle  Vitae  pon- 
tificum né  il  De  siili  urbis,  e  che  quindi  per  la  nuova  edizione  di  essi  noi 
non  avremmo  più  bisogno  di  ricorrere,  come  fecero  il  Muratori  e  il  Biraghi, 
ad  un  codice  del  secolo  xv. 


i6o  L.  A.  FERRAI 


ciato  apparisce  evidente.  Non  solo  esso  ci  offre  una  migliore 
lezione,  ma  ci  ha  conservato  oltre  le  Fitae  pontìficum  propriamente 
dette,  il  prologo  di  esse  e  la  rubrica:  De  sita  urbis.  Questa  erro- 
neamente ha  dato  nome  all'  intero  testo,  mentre,  come  già  dimo- 
strammo, ci  rappresenta  un  pregevole  frammento,  o  meglio  un 
riassunto  della  perduta  Descriptio  sìtiis  et  urbis  Mediolanmsis.  Com- 
pletare detta  rubrica  con  i  frammenti  che  della  Descriptio  si  trovano 
in  Landolfo,  nel  Benzo,  nelle  cronache  del  Fiamma,  ricostruendo 
per  tal  modo,  come  meglio  e  più  sicuramente  è  possibile,  quella 
pregevole  scrittura,  curare  la  nuova  edizione  delle  Vitae  pontìficum 
col  sussidio  del  codice,  che  il  Muratori  non  mise  a  profitto,  ecco 
ciò  che  mi  pare  dovrebbe  essere  il  risultato  pratico  delle  nostre 
indagini.  Non  è  mia  intenzione  di  determinare  fin  d'ora  ordina- 
tamente quali  altri  monumenti  storici  potrebbero  riunirsi  alle  due 
operette  con  le  quali  noi  intenderemmo  sdoppiare,  migliorandolo 
e  commentandolo,  il  testo  edito  nei  Rerum  Itaìicarum  Scripiores. 
A  buon  conto  crederei  che  non  si  dovessero  escludere  dal  vo- 
lume l'epigramma  d'Ausonio,  di  cui  Benzo  d'Alessandria  usava 
già  nel  secolo  xiv  come  di  documento  storico,  il  ritmo  in  lode 
di  Milano  del  secolo  vili,  che  se  bene  stampato  più  volte,  attende 
ancora  un  commento,  gli  altri  ritmi  fatti  conoscere  dall'Oltrocchi, 
il  catalogo  degli  arcivescovi  del  1024,  nonché  quei  versi  ritmici 
di  non  dubbia  antichità,  che  si  trovano  disseminati  nelle  cronache 
edite  ed  inedite  del  Fiamma,  e  sui  quali  mi  riservo  di  parlare 
particolarmente  in  altra  occasione. 

L.  A.  Ferrai. 


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