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COMMENTO
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CHE FECE PER ViLTADE IL GRAN RIFIUTO .
L'ARCADIA
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COMMENTO
AL VERSO DEL TERZO CANTO
dell' INFERNO DELLA DIVINA COMMEDIA
< CHE FECE PER VILTADE IL GRAN RIFIUTO »
ESTRATTO DAL PERIODICO
L'ARCADIA
ANNO IV -GIUGNO 1892 N. 6
E QUI DAI MOLTI ERRORI CORRETTO PER L' AUTORE STESSO
Marcbese QIOYANNI EROLI
REGIO ISPETTORE DEGLI SCAVI E MONUMENTI ANTICHI
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ROMA
TIPOGRAFIA DI DOMENICO VASELLI
Piazea Capo di Ferro 22 e 24
1893.
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AL DOTTO ILLUSTRE STORICO
E STRENUO DIFENSOR DE' PONTEFICI
me LUIGI TRIPEPI
ORNAMENTO E DECORO DEL CLERO ROMANO
GIOVANNI EROLI
OFFRE DEDICA
IL PRESENTE DISCORSO
DALLA SUA CORTESE AUTOREVOLE PAROLA
DESIDERATO ISPIRATO
>: »■
\
IL GRAN RIFIUTO ^'^
Esistono tra noi, o Signori, vari audaci e poco assennati
iiutòri, i quali, nello interpretare i luoghi oscuri di qualche
prosatore o poeta, si appigliaron subito alla prima idea che
loro saltò in capo, e, senz' averla innanzi ben bene considerata
da tutti i lati e gli aspetti, e previste le opposizioni che pote-
^nsi alla medesima dagli altri fare, la credettero giustissima,
approvabilissima, e però, qual nuovo maraviglioso trovato,
r andarono spacciando per ogni canto, menandone gran vanto
a scalpore. E, perchè cotesti audaci autori godettero pei loro
studi!, o per la loro alta posizione, o per molte amicizie, o per
filtra cagione, grandissima autorità ; e perchè il pubblico, o per
• ignoranza della materia, o per isvogliatezza di esame, lascia
di ordinario correre le proposte opinioni, giurando sulla parola
del maestro, così quell'avventata malferma idea mise radice,
crebbe, si .dilatò, prese vigore, fiori, finché non venne colui
che con ferro robusto tagliò essa mala pianta, la fece m pezzi,
gittolla al fuoco; e cosi divenuta cenere, e del tutto dimen-
ticata.
Tanto accadde alla Divina Commedia deirAllighieri, la
quale, coperta in più luoghi di oscurissimo velo, ciò non
ostante fu da vari spesso e stranamente commentata a capriccio
senza ragioni, o con ragioni deboli e insulse da non punto
piacere a sano intelletto. Ed alcuni non ebbero anco difficoltà,
per le strane opinioni sostenere, di far parlare dal mondo di là
(1) Si tratta la questione tanto dibattuta, se nel verso della
Divina Commedia : che fece per vlltade il gran rifiuto, debbasi sot-
tintendere Celestino V Papa. — Discorso fatto dal marchese Broli,
e letto il 29 marzo 1892 nel Circolo di Apologetica e Storia Ponti-
licia in Roma. Questo fu dall'Autore emendato dev xsw^VCv ^yt^^v
commessi in altra stampa, e non cotreUi^^AX». xifò^^^taA.^^^^"<^s.^"^^
il nostro poeta con le loro stesse fantastiche parole, e così, sba-
gliando, dare pure nel ridicolo.
* Io provar potrei* la verità della mia asserzione con molti
esempi; ma in questo luogo e in questo giorno, assegnati al La,
difesa de' sommi Pontefici, mi cade in taglio il ricordare e trat-
tare, senza più, la tanto celebre questionata terzina del terzo
canto deir inferno:
Poscia che v'ebbi alcun riconosciuto,
Guardai, e vidi T ombra di colui.
Che fece per viltade il gran rifiuto.
Benvenuto da Imola, nel suo ben noto commento, scorge
in quest'ombra Esaù, che vilmente^ com'egli dice, rinunziò la
"primogenitura per una scodella di lenticchie; ma io credo, o
Signori, che quella rinunzia accadesse o per disperata fame, o
perchè quelle lenticchie eran si ben cotte e condite, che diedero
sul naso al ghiotto Esaù, facendogli venire l'acquolina in bocca,
o perchè la vantata primogenitura valeva per lui tanto poco,
da più valere un piatto di legumi.
Comunque stesse la cosa, più strana interpretazione non
potea certo venire in mente all' imolese commentatore, per-
chè Dante dichiaraci apertamente aver lui quell'ombra rico-
nosciuta; segno evidente, che la conobbe di persona in vita.
Come dunque potè egli riconoscere Esaù, esistito tanti secoli
innanzi a lui ?
Tullio Dandolo, nell'opera Roma e i Papi, métte fuori
un Otone Imperatore senza numero, e vatti a pesca quale sia
di quella stirpe; ma, chiunque egli sia, porremlo fra i bei
sogni poetici, qualmente in seguito addimostreremo, li per la
stessa ragione innanzi addotta, e per le altre da addm^si in
seguito, porremo fra' sogni poetici anco Giano della Bella,
niostratoci dal Torricelli, e il vecchio macilente Imperatore
Diocleziano, e altri rispettabili e non rispettabili potenti rega-
latici per vari commentatori.
Ma la maggior parte di costoro, e i più tenuti in conto,
cioè Pietro, figlio di Dante, e Jacopo della Lana bolognese,
ambedue contemporanei del poeta, e primieri, come vuoisi,
chiosatori della Divina Commedia, accordansi a vedere n(?l-
l'omdra, c?ie fece per viltade il gran rifiutOy l'eremita famoso
— 1
Pietro Morene, o da Morene, il quale col nome di Celestino V
fu, per pubblico desiderio e comun voto dei Cardinali, esaltato
al trono pontifìcio il 15 luglio del 1294; e questa dignità ebbe
tosto rinunzia ta nello stesso anno ai 13 de.cenibre, perchè a
lui non convenevole.
La opinione dei menzionati due commentatori venne, co-
m'è ben naturale, accettata sin da principio a occhi chiusi, e
nel presente secolo dei lumi e del progresso mantiensi ancora
appo molti in onore e reputazione,- perchè proveniente dai
primi chiosatori deiraltissimo canto, contemporanei, come dissi,
del poeta, e l'uno anco suo figlio, che molto bene saper doveva
i segreti del padre, e per ciò l'intendimento di esso canto.
Signori miei, io non debb'oggi addimostrare, (come addi-
mostrai in un mio discorso inedito), che il commento di Pietro
è apocrifo; e neppure addimostrerovvi che Dante non ebbe mai
a ninno palesati i segreti del suo poema, essendosi egli propo-
sto svelar da sé stesso l'allegoria e i luoghi oscuri del medesi-
mo; ma soltanto vi dirò, che, se la logica esiste, non havvi
per me più strana e illogica opinione di quella che. attribuisco
a Celestino Papa la decantata terzina dantesca. Si certo, la
stimo strana ed illogica; primo, perchè contraria alle qualità
eccellenti dell'alto personaggio messo in iscena; secondo, perchè
contraria alla verità storica; terzo, perchè contraria alle stesso
parole del poema; quarto, perchè contraria al buon senso comune .
E questi quattro contrari io proverò alla meglio, non con
lunga, come potrei, ma con breve erudizione, per non abusare
della vostra nota cortesia, e per creder bastanti a persuadervi
e convincervi della vanità di essa opinione le poche pruove
che sono per addurre.
Ascoltatemi dunque, voi dotti e cortesi, con attenzione,
«enz'animo prevenuto, e fatela da giudici imparziali.
Primo punto. Pietro Morone era uomo di specchiati costu-
mi, di santa vita, è pertanto tutto dedito a Dio e alla contem-
plazione dei divini misteri. Vissuto quasi sempre, e fin da gio-
vane, in solitudine, poco o niente conosceva il mondo perverso,
le sue fallacie, le sue tempeste, e come dato a tutti gli abomi-
ne\;oli vizi, sicché poteasi veramente di l\)i ca?dA»^x<^ ^^ ^^^fsì^^.
— 8 —
Questa selva selvaggia ed aspra e forte,
Che nel pensler rinnova la paura.
Per la sua vita tutt' ascetica, contemplativa ed esemplare^
e per alcuni miracoli straordinariamente operati, acquistò nel
pubblico un'immensa celebrità; e, sebbene non per anco morto,
né messo in sugli al^i, pure il tenevano e veneravano tutti
quàl vero santo. L'uomo cinto dell'usbergo della virtù, e che
ha nell'animo la forza divina, sente un coraggio indicibile,
non paventa le altrui minacce, non i pericoli, non la morte.
E cotest'uomo (dirò cosi) indiato, di forza straordinaria non è
al certo capace di alcuna viltà o bassezza. Come dunque il
Morene rinunziò alla cattedra di s. Pietro per viltà? Quella
rinunzia venne da tutti i savi avuta per atto magnanimo, co-
me dunque il savio Dante, il poeta della rettitudine doveva
stimarla per atto vile? E perciò dannare l'autore all'inferno?
Ma poi per qual fine ?
Dicono alcuni, perchè la sua rinunzia ci diede a Pontefice
Bonifacio Vili , acerrimo nemico della parte dei bianchi e
perciò nemico del poeta, che a quella apparteneva; perchè
la sua rinunzia fa per vile timore, essendosi fatto intimidire
con minacce, inganni e volpini consigli de' Cardinali, e spe-
cialmente di esso Bonifacio che da pezza ambiva il papato.
E Dante stesso (aggiungono) dà cenno di questo inganno nel
canto XIX del medesimo inferno, ove grida al detto Papa :
Se' tu già costi ritto, Bonifacio ?
Se' tu si tosto di quell'aver sazio
Per lo qual non temesti tórre a inganno
La bella donna, e di poi farne strazio ?
Ma qual è cotesto inganno per Dante accennato, ed a chi
fatto, affinchè Bonifacio togliesse la bella donna, cioè la chiesa,
per poi farne strazio ? Il poeta noi dichiara, e noi oseremo alla
cieca dichiararlo con sicurezza a danno della fama di Celestino?
Se noi dichiara espressamente Dante, (rispondono) cel di-
chiara apertamente Jacopo della Lana, che, per esser contem-
poraneo del poeta, non può non avere moltissima autorità. II
jnedesimo a cotal guisa chiosa il verso,
— che fece per viltade il gran t\^\v\.o —
l ■ '.
— 9 —
« Costui fu fra Pietro Morone lo quale fiie eletto papa, ed
ebbe nome papa Celestino. Or la condizione di costui era, che
inùanzi che '1 fosse papa, elio era frate di grande penitenza,
e di stretta vita; fu per li cardinali eletto papa.
« Questi essendo in tale uffizio, esaudiva i poveri cherici, sde-
gnava le baratterie e simonie di corte, non si guadagnava li
cardinali per avogherie, né per grazie, sicché elli sen tenevano
impacciati, pensossi di farli opinione, che elli non fosse suffi-
ciente a tale offizio. Ed ogni volta che elli erano in concistoro,
e fusseno a ragionare di alcune cose, si li dicevano: Padre
santo tu vedi a che stato è il mondo, tu vedi che tal cosa si
conviene fare per mantenere la ragione della Chiesa la ra-
gione dico le giuste ricchezze mondane acquistate, usurpate e
tolte dallo imperio al tempo della sua vacazione: a te conviene
tenere cotal via, cotal modo, e tuttavia mostrando li modi
contro Dio e contro ragione. E costui veggendosi in tale labe-
rinto, pensò di rifiutare; ma la coscienza li rimordea, pensando
che lassava la Chiesa senza sposo. In fine veggendo costoro^
che noi poteano volgere per sue parole, pensonno di volere
farli credere che a Dio piacesse lo suo rifiuto. E ingegnonno
certi cannoni, li quali rispondeano nella sua camera, e per
quelli che li parlavano di notte, dicendo com'elli erano angeli
da Dio messi, e che nel cospetto di Dio era che elli non era
sufficiente a tanto of&zio, e però ch'elli dovesse rifiutare. Questo
udito per più notti ed in diverse ore, come seppono fare quelli,
che a ciò continuo pensavano, mise in cuore, credendo sé in-
sufficiente essere e cattivo, di rinunziare; e cosi fece ».
Non vi par questo racconto (1) a primo aspetto, o Signori,
una sciocca invenzione malamente tessuta, una bella fola da
darla a bere ai fanciulli vaghi di novelle curiose, benché
false ? E i Cardinali parlar doveano in Concistoro, e in faccia
del Papa, a cotal modo, e con discorsi poco convenienti alla
dignità loro e del sacro luogo ? E al Morone, che accettò il
papato di mala voglia, a forza di stimoli e prieghi, occorre-
Ìl) Questo racconto fu accettato anco dal Platina nella vita
uè Pontefici, Celestino V e Bonifacio Vili; ma ogni buon critico
conosce il poco valore delle vite da lui scritte.
i-
— 10 —
vano tante parole persuasive e tanti inganni di essi Cardinali,
specialmente di quello, che poi ebbe nome di Bonifacio Vili,
affinchè venisse costretto a rinunziare ? E Bonifacio, per com-
mettere più particolarmente siffatti inganni, dovea esser certo
della sua futura elezione; n^a chi dar glie ne potea la sicurtà ?
E i Cardinali di allora eran tutti si scostumati e tristi da poter
commettere irriverentemente ed empiamente simili bricconate,
e parlare al loro Sovrano senza rispetto?
Cotali sciocche novelle furon senza dubbio inventate, tes-
sute, vendute e fatte giocare dai nemici del papato, e più pro-
babilmente per infamare Bonifacio regnante, il quale erasi
mostrato avverso alla parte de' bianchi, a cui il nostro poeta
apparteneva; e forse anco vi apparteneva il suo commentatore,
non buona, ma cattiva lana, che con piacere ripetè e brutta-
mente abbellì la ignominiosa novella à vantaggio de' suoi ami-
ci, e a danno de' nemici.
Ma lasciamo da parte le fole; e, venendo al secondo punto,
ascoltiamo la vera istoria che smentirà la falsa. E vera istoria
con sicurezza l'appello, perchè ce la garantiscono le stesse pa-
role del Pontefice, (e Pontefice santo) pronunziate pubblica-
mente dinanzi a un ragguardevole Consesso, e subito propalate
o corse per la bocca di tutti : il perchè Dante non potea
punto ignorarle. •
Vedesi chiaro, che il Morone, appena salito in trono, ed
esperimentato il gran peso e le grandi difficoltà dell'alto grado,
por sostenerlo con decoro e con giustizia, si fu pentito del fatto,
e, temendo nel suo senno, e nella sua retta coscienza di non
potere in modo alcuno convenientemente adempiere al proprio
dovere, e a rischio di perdere il favor del cielo e la eterna
felicità, si risolvette, dopo molti interni contrasti e afflizione di
spirito, a rinunziare. Ma vi rinunziò, per divino impulso, di
^a libera volontà, e non per coiisiglio, come si va dicendo,
di alcun Cardinale, o del suo confidente beato Jacopone da
Todi, quel decantato semplice poeta del XIII secolo, che si predica
per autore del mesto inno lo Stabat Mater stupendamente mu-
-socato dairimmortal Rossini.
I^er effettuare la rmunzia^ fé' Celestino convocare a Napoli,
— 11
ove stanziava, il Concistoro addì 13 decembre del 1294, ed ivi
presentatosi in cappa magna di scarlatto, congiunta ad altri
pontificali ornamenti, si assise in trono, e con umile aspetto,
ma con voce risoluta, fece ai Cardinali cotal parlare che merita
tutta la vostr' attenzione.
« Io Celestino papa, quinto del nome, mosso da cause le-
gittime- di umiltà, di desiderio di una vita migliore, di non
offendere punto la mia coscienza, dalla debolezza del mio cor-
po, dal difetto di scienza, e dalla malignità del popolo, e per
ritornare alla consolazione della vita passata, abbandono (no-
tate bene, o Signori, le parole che sieguono) volontariamente
e liberamente il papato, e rinunzio espressamente alla sede, alla
dignità, al peso, all'onore, dando fin da questo punto al sacro
Collegio de- Cardinali piena e libera facoltà di eleggere un
pastore alla Chiesa universale ». E i Cardinali non senza di-
spiacere e lacrime (per quanto narra la storia) intesero questa
ingrata rinunzia, che dovettero per forza accettare.
Se i Cardinali adunque accettarono a malincuore e con
lacrime la rinunzia di Celestino, ove andranno a finire i di-
scorsi fatti dai medesimi ne' passati Concistori, e bellamente
riferiti nel commento del dabben uomo messer Jacopo della
Lana bolognese? E, se Celestino di sua propria volontà e libe-
ram£nte.y (com'egli stesso dichiara) rinunziò al papato, chi
crederà più agl'inganni adoprati verso lui dai Porporati, e
specialmente agl'inganni di colui che gli successe nell'alta
dignità? Chi crederà più a quell'ingegnosi cannoni introdotti
nella camera da letto del Papa per farvi entro parlare (e qui
notate, o Signori, che, dopo questi cannoni parlanti, non sa-
rebbe più novità il nostro telefono) per farvi entro parlare,
ripeto, gli Angeli in carne umana a nome di un finto Dio,
affinchè gli manifestassero essere volontà del cielo il suo rifiuto?
E poi riusciva si facile, senza intesa di ninno, introdurre aiv-
tisti e cannoni, bucar muri a colpi ripetuti e sonori nell'appar-
tamento pontificio, frequentato, guardato, custodito di notte e
giorno da più persone ? E il pontefice, che lo abitava, era si
sordo da non sentire i botti ? Era si cieco da non vedere i bu-
chi ? Era si semplice e gonzo da tloiì e.o\a^T^\\ÒL^x^ \^ \i^^ ^st-
12
dita, di non distinguere, lui santo, gli Angeli veri dai finti, il
linguaggio dei celesti da quello dei terreni? Tanto più ch'era
un linguaggio inutile a lui, che, appena montato in trono, sen-
tivasi pentito e pronto a rinunziare. E dove andrà a finire la
viltà del gran rifiuto, dopo bene ascoltate dalla bocca stessa
del santo Pontefice, e bene considerate e giustamente interpre-
tate le ragioni del fatto ? Esaminiamo adunque queste ragioni
Celestino rifiutò per ragioni legittime di umiltà. L'umiltà
«
per noi cristiani non è bassezza, non viltà, si bene virtù som-
ma e principale. Beati humiles corde, (disse il Signore), e bea-
ta appellossi da sé stessa Maria Vergine per l'umiltà: Quiai^e-
spexit humilitatem ancillae sua£, ecce enim ex Jioc beatam me
dicent omnes generaiioneSy ed avemmo ed abbiamo continui
esempi che Iddio esalta gli umili ed abbatte i superbi.
Celestino rifiutò per desiderio di una vita migliore] bene
inteso della vita celeste, a cui sempre aspirò. E qual cristiano
sarà vile per tanto subblime e divino desiderio?
Celestino rifiutò per non offendere la sUa coscienza. La
somma delicatezza di coscienza costituisce il vero onest'uomo^
il vero cristiano; e cel mostra chiaramente s. Bernardo nel suo
bel trattato sulV edificio della coscienza; trattato che servi di
fondamento e di guida, con i suoi sermomi, alla Divina Comme-
dia, com'io pel primo addimostrai in alcuni miei scritti editi
ed inediti. E chi sarà si stolto a tacciar di viltà una delicata
e netta coscienza ? Che se Dante non fu stolto, come mai egli
potea dir vile la rinunzia del nostro Pontefice?
Celestino rifiutò per debolezza del sìw corpo. Perchè que-
sta debolezza impedivagli di attendere da sé stesso, come
addicevasi alla sua dignità , al suo decoro e al suo do-
vere, ai gravi moltiplici negozi dello stato e della chiesa.
Ed un Sovrano a ragione mal si fida de' suoi ministri, essendo
la buona fede assai rara negli uomini, e gli errori e le
colpe de' ministri ricadon sempre a danno e biasimo del .pa-
drone, perché dinanzi a Dio e agli uomini egli solo in tutto é
responsabile. Pertanto un uomo di onore, di delicata coscienza
e prudente farà bene e senza taccia di viltà a rinunziare un ca-
rleo, che per giuste ra^onì non può convenientemente esercitare.
— 13 —
Celestino rifiutò per difetto di scienza. Chi confessa la pro-
pria ignoranza, il vorremo noi chiamar vile? Diciamolo pure
modesto, umile, virtuoso, perchè, conoscendo sé stesso, non
si fa vincere e accecare né dall'orgoglio, né dall'amor proprio.
Il conoscimento di sé stesso è principio di perfezione : lo dice
la Sacra Scrittura, lo dicon con essa i Santi Padri; e nosce te
ipsum anco gli antichi filosofi greci feron scolpire in sulla por-
ta delle loro accademie. Così pure Dante, perché, con grazia
dello Spirito Santo, conobbe sé stesso e i propri vizi, potè usci-
re dalla selvaggia oscura selva, e mettersi per la via della
rettitudine e della felicità, da lui immaginata in quel colle ve-
stito già de' raggi del piaìieta, che mena dritto altrui per ogni
calle; ossia il Sole della Giustizia, in cui, secondo le Sacre
Scritture, simboleggiasi Cristo, che con la sua venuta illuminò
il mondo — Sol justitiae Christus Deus noster, — Che se Dante
riconobbe la sua ignoranza e i suoi vizi, e lasciò l'aspra, spi-
nosa selva, per mettersi nel retto calle, come potea biasimar
Celestino, che nello stesso suo modo riconosciuta la propria
incapacità in mezzo a una selva parimenti aspra e spinosa,
fugge da lei per farsi a miglior via?
Celestino rifiutò spintovi dalla malignità del popolo. Si,
miei Signori, il popolo dei tempi di Celestino era maligno, os-
sia di mala intenzione e di male opere; e voi dotti, che cono-
scete a fondo la storia, avrete ben presenti e quei tempi e quel
popolo; s'intende il popolo italiano in genere, e non singolar-
mente il solo pontificio. t
I tempi eran senza pace, perchè pieni di tumulti, di ribel-
lioni, di angarie, di prepotenze e ferocia, di disordini, di
angustie, di stragi, miserie e lacrime. E ciò avveniva, non solo
per gli accaniti partiti de' guelfi e ghibelini, dei bianchi e
neri, che fieramente e tremendamente si accapigliavano^^ si mar-
toriavano, si straziavano, s'insanguinavano; ma pure per l'inter-
vento de' Principi stranieri, o che pretendevano il dominio delle
nostre terre, o ch'eran chiamati dai partiti stessi a difender le me-
decime. Essi Principi, funestamente lieti per le nostre matte di-
scordie, appena chiamati, correvan subito, e col lusin^Mfò\!cs ^^^<5J^^
di amici e difensori ci misero i\ treiao «kX\«^\>o^^^'» ^ \^^'?>xjs^^«^'
— 14 —
piedi, bastonandoci, spogliandoci, spolpandoci, dilaniandoci, e
per conseguenza lasciandoci, quali scheletri, pallidi, macri, de-
boli, sfiniti quasi senza vita fra le miserie, i martiri, il lutto,
la disperazione. Ed alcuni di questi Principi stranieri, unita-
mente a gran parte del maligno popolo, non risparmiaron
neanco la santa persona dei Papi; ma, quali lupi affamati e
rapaci, gli dettero addosso per isbranarlo e tòrgli il suo; e,
non potendo fare né Tuno, né l'altro, iiifamarlo con satire e
nere calunnie, perseguitarlo, esiliarlo, e cosi tórgli quella forza
morale, contro cui non ponno né arti, né inganni, né calunnie,
non congiure, non esèrciti, non cannoni. E il popolo, che dava
Qplore a questi tempi, di che foggia poteva esser mai? Certa-
mente per la maggior parte insofferente di pace, di ordine, di
giustizia, sitibondo di sangue e dell' altrui avere, perciò rapace,
privo di pietà e di amor fraterno, senza rossore, senza fede,
traditore, bugiardo, apertamente miscredente, o ipocritamente
credente per ambizione e interesse, dedito pertanto (fatte poche
eccezioni), a tutte le libidini, a tutt'i vizi. E fra questo popolo
ignorante, scapestrato e già corrotto, aggiravansi continuo, per
maggiormente corromperlo, ingannarlo e smungerlo, alehimi-
' sti, indovini, astrologi giudiciari, negromanti, ciarlatani, stre-
ghe e stregoni, fattucchieri, falsari, usurai, simoniaci, eresiarchi,
ruffiani, barattieri e simili lordure. Cosi dal suo cospetto eransi
via fuggite la verità, la giustizia, la pace, che, ritirate in
un piccolo canto, mestamente piangevano sulle immense ruine
della povefa Italia.
Ma non andrò più oltre con la fosca pittura, bastandomi
l'abbozzo fatto per dar ragione al Pontefice di aver rinunziato
al governo del maligno popolo. Certamente egli per la sua
poca scienza e cognizione del mondo, per la debolezza del
corpo, per la delicatezza della propria coscienza, e pel deside-
rio che avea della felicità eterna, non poteva più oltre menare
e regolare quel ballo infernale, e dirò pure quel terribile caos
d'irreligione, d'immoralità, d'inciviltà, che preparò la riforma
de' secoli avvenire, e questa le piaghe ed angustie del nostro.
E ci sarebbe voluto quasi un altro fiat potentissimo d'Iddio per
dividere la luce dalle tenebre, e cosi fare riappaiire il sole
— 15 —
divino della intelligenza per illuminare e rinsavire il cieco o
pazzo popolo italiamo.
Celestino finalmente rifiutò per tornare alla consolazione
dalla vita passata. Ma chi lascia una selva oscura, selvaggia o
forte, nido di bestie feroci, per avviarsi in luogo pieno di luce,
soave, piacevole, tranquillo, si dovrà biasimare, e tacciare di
viltà ? Non già: Ognuno ha diritto, facendolo onestamente, e
senza T altrui dannò, di migliorare la propria condizione: con
qual giustizia adunque negar poteasi questo diritto al tanto
buono, al tanto travagliato e angustiato sommo Gerarca ? Da-
rem pertanto ragione al Petrarca per avere scritto nel suo discorsa
della vita solitaria, che il rifiuto di Celestino era da ritenersi
un atto magnanimo virtuoso, e non già vile; e col Petrarca,
coHie già dissi, accordansi tutti i savi. E savio fu certo Gugliel-
mo Audisio, il quale nella storia dei Papi così la discorre sul
nostro téma : (1) « Giustamente commendarono ( i cardinali )
all'orazione di lui (di Celestino) sé stessi e la chiesa vedova
del suo pastore. Aveva tribolato sulla cattedra di Pietro (2)
cinque mesi e mezzo dalla consecrazione. La corte romana in
quel romito povero e mortificato nell'abbondanza, in quell'abban-
dono ilare della tiara, si ambita e si tremenda, riceveva lezioni
dalla provvidenza che meglio effettuate , avrebbero rispar-
miato al mondo cristiano guai e scismi, che non eran lontani.
A buon conto certo è che in Celestino V, il quale recava al
trono la santa umiltà e la cresceva discendendo, un benigno
ri J^uardo del cielo . mostrava la via buona a quei « futuri, che
faranno segno di contésa e di scandalo la tiara e il papato.
Ora è egli credibile che l'Alighieri, il poeta della rettitudine,
nel terzo dell'inferno, per un fatto si illustre condannasse Ce-
lestino come colui che fece per viltade il gran rifiuto ì *
Dal secondo, passando al terzo punto, reciterò, o Signori,
ed (esaminerò il canto terzo dell'inferno, togliendo quella sola
parto, che riguarda la nostra questione, per farvi comprendere,
die i suddetti commentatori, avversi a Celestino, affermaron
cosa del tutto contraria al senso letterale chiarissimo dei versi
\
l) Storia civile religiosa dei Papl^ voi. \V\^ ^?v>^. "^5^ '^ '^^^^-
i) Fu eletto il 5 luglio del V^^4 tv^YV^Xà. ^\ ^xvwvn^.
— 16 —
danteschi. Ascoltate dunque il mutilato canto, che pel mio
discorso molto vale :
« Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell'eterno dolore,
Per me si va fra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto Fattore,
Fecemi la divina Potestate,
La somma Sapienza e '1 primo Amore.
Dinanzi a me non fur cose create
Se non eterne, ed io eterno duro;
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
Queste parole di colore oscuro
VidMo scritte al sommo di una porta.
Perché: Maestro, il senso lor m^ duro.
^ Ed egli a me, come persona accorta:
Qui si convien lassar ogni sospetto.
Ogni viltà convien che qui sia morta.
Noi sem venuti al luogo ov'io t'ho detto.
Che vedrai le genti dolorose
C'hanno perduto '1 ben deirintelletto.
E poiché la sua mano alla mia pose
Con lieto volto, ond'io mi confortai,
Mi mise dentro alle secreto cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
Risonavan per 1 aere senza stelle,
Ond'io al cominciar ne lacrimai.
Diverse lingue, orribili favelle.
Parole di dolore, accenti d'ira.
Voci alte e fioche, e suon di man con elle,
Facevan un tumulto il qual s'aggira
Sempre in quell'aria senza tempo tinta.
Come l'arena, quando a turbo spira.
Ed io, ch'avea d'orror la testa cinta,
Dissi: Maestro, ch'è quel ch'io odo?
E che gent'é che par dal duol si vinta ?
Ed egli a me: Questo misero modo
Tengon l'anime triste di coloro,
Che visser senza infamia e senza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
Degli Angeli, che non furon ribelli.
Né fur fedeli a Dio; ma per sé foro.
Cacciarli i cieli a non esser men belli.
Né lo profondo inferno li riceve.
Che alcuna gloria i rei avrebbon d'elli.
Ed io: Maestro, che é tanto greve
A lor che lamentar gli fa si forte?
Rispose; Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
E la lor cieca vita é tanto bassa,
Che invidiosi son d'ogni altra sorte.
Fama di lor il mondo esser non lassa;
Misericordia e Giustizia gli sdegna;
Non ragion iam di lor; ma guarda e passa.
— 17 —
Ed io, che riguardai, vidi un'insegna.
Che girando correva tanto ratta, ^
Che d'ogni posa mi pareva indegna.
E dietro le venia si lunga tratta
Di gente, ch'i' non avrei mai creduto
Che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebhi alcun riconosciuto,
Guardai, e vidi l'ombra di colui.
Che fece per viltade il gran rifiuto.
. Incontanente intesi e certo fui.
Che questa era la setta de' cattivi
A Dio spiacente ed a' nemici sui.
Giunti a questo punto, fermiamci, ed esaminiamo alcune
parole de' recitati versi.
Ad una prima interrogazione di Dante a Virgilio, costui
risponde :
Questo misero modo
Tengon l'anime triste di coloro,
Che visser senza infamia e senza lodo.
Una persona in alto locata, e che governa i popoli loro severi
giudici, è impossibile, che, per le proprie buone o cattive azioni
non procacci biasimo o lode, e la storia ce ne porge testimonio.
Dunque né Papi, né Imperatori, né Re, né altri Sovrani poflno
essere sottintesi neìV ombra che fece per viltade il gran rifiuto;
e tanto meno puotevi essere sottinteso Celestino, che godette
e gode ancora appo tutti immensa e ben fondata fama; e con-
tro questo mio sillogismo non vale alcun sottile arg^omento. Ma
poi la parola rifiuto ha doppio significato; cioè, o si rifiuta una
carica, o qualunque altra cosa già posseduta, o se ne rifiuta
una non posseduta e solamente offerta. Ma, per quel che venne
antecedentemente dichiarato, che chi comanda, in alta dignità,
costituito, non può non procacciarsi infamia o lode, ed essendo
dal poeta nel prefato canto condannate le anime di coloro che
visser senza infamia e senza lodo, ne deriva la conseguenza
assoluta, ch'esso vocabolo rifiuto devesi nel secondo senso inter-
pretare, vale a dire : chi fece il gran rifiuto era persona pri-
vata non ambiziosa, né curante di alcuna rinomanza, a cui
forse dal partito dantesco de' bianchi fu a proprio vantaggio
offerta una carica di molta rilevanza, che non volle accettare
por qualche suo giusto fine, ma che il partite^ ^^^^i^CLt^Xa ^c^sè^-
cò viJtà. E bene a proposito \i ^cXbl h^ \».wcq^^ w^xsv^ ^ ^^^^^-
— 18
me, perchè nel suo canto non dovea ninno avere o . buona o
trista fama, mentre eranvi condannati quelli così detti neutrali^
che non presero partito per ninno, né in nulla si vollero mai
impicciare, vivendo totalmente, a loro stessi, e pertanto non
poteron mai procacciarsi né infamia, né lode.
Alla seconda interrogazione deir Alighieri il Mantovano
poeta cosi risponde:
Dicerolti molto breve:
Questi non hanno speranza di morte,
E la lor cieca vita é tanto bassa.
Che invidiosi son d'ogni altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa,
Misericordia é Giustizia gli sdegna...
Non ragioniam di lor: ma guarda e passa.
Ma le opere del Morene, e come Papa, e come semplice
eremita, furon di tanta virtù, tanto merito e tanta fama, che
il mondo le ricorda ancora. Quindi non potean la Misericordia
t Giustizia divina sdegnare uomo si giusto. E pertanto giusta-
mente chiamaronlo alla sede eternamente felice, ove la calunnia
dei tristi non alberga, e taccion tutte le umane passioni.
Tanto meno possonsi applicare al Morene i versi successivi
Incontanente intesi e certo fui
Che questa era la setta de' cattivi
A Dio spiacente ed a' nemici sui.
Potea appartenere alla setta de' cattivi un santo già ca-
nonizzato, quando Dante scrivea questo canto? (1) E per la
• stessa ragione potea Celestino spiacere a Dio ed a' nemici sid?
I santi fannosi ben volere da tutti, anco dai nemici d'Iddio,
perchè a tutti fanno bene senza guardare a diversità di religio-
ne, di stato, di sentimenti, di politiche opinioni.
Or dite, se il buon senso potrà mai ammettere che Celestino
sia sottinteso nella dantesca terzina. Non lo ammetterà,
parche non e senno, né convenienza far dire per forza, e
dandosi inutilmente a indovinare, una cosa a classico scrit-
tore, che po' suoi giusti fini tenne celata, e specialmente a
uno scrittore morto, che, requiescat in ^?oce, non potrà più
i^prir la bocca eternamente chiusa, per difendersi dalle male
lingue e dalle pessime penne e dichiarare la verità. Il buon
CO Celestino fu canonizzato net 1313; ma alcuni vogliono che
jy decreto di Clemente Y non fosse pubblicato prima de\ \^^;
— 19 —
senso non amraetteriX che, per aver rAlighieri posti tre altri
Pontefici nel suo inferno, vi ponga pure il quarto senza nome,
mentre gli altri tre espressamente nominò. Ma per quelli tre
ebbe la sua ragione di partito a condannarli, mentre per Cele-
stino no. E i partiti non hanno tra loro rispetto alcuno; e
Tuno. cerca infamare Taltro, quando non gli avvenga • poterlo
distruggere. Il buon senso non lo ammetterà mai, perchè,
esaminate le ragioni del rifiuto, esse non offrono alcuna nota
di viltà, si bene di. virtù. Il buon senso non lo ammetterà mai,
perchè richiede che le cose asserite sieno ben provate, e, se
non potute provare, abbiano almeno del verosimile, altrimenti
riescirauno a vane ciarle o menzogne. E pertanto non approverà
né il prefato racconto del commentatore bolognese della Lana
inverosimile e anco smentito dàlie parole di un santo Pontefice;
né crederà agringanni di alcun Cardinale, nemmeno a quelli
accennati per Dante a carico di Bonifacio, perchè Dante, essendo
del partito a esso Pontefice contrario, e da costui avendo rice-
vuto qualche dispiacere, né potendosi in altro modo vendicare,
cacciollo nel suo inferno con ingiurie e ignominia.
Concludiamo pertanto che per nessun verso puotesi la citata
opinione contro Celestino sostenere, non per ragione del nobile
soggetto mondo da ogni colpa, non per ragione della vera
storia, non per ragione contraria al senso letterale chiarissimo
de' citati versi, non i)or ragione del comune buon senso che
vi si' oppone.
Dietro ciò rendònsi vane, e anche ridicole, tutte le chiose
e le questioni fatte a favore di essa opinione che non regge al
martello della critica; così rendònsi anco vane le chiose del
vescovo di Treviso Monsigore Zinelli, per sostenere siffatta
opinione, e le chiose del Benassuti, che con lode danno a
lui ragione.
Il Lombardi nel proprio commento mostrossi certo più di
questi intelligente od accorto, mentre^ dopo aver prodotta la
sent(^,nza che condanna Celestino, (^si)oste brevemente alcune
poche ragioni critiche, (non conformi in tutto alle mie) che la
escludono, termina col dire, che, piuttosto che a Celestino^
« penderebbe a qualche conciUaOivviO ^«^«^ ^\fóe»^<5> .^^ò^^Xa.^'-^ o^sss^^^
— 20 —
per non ìsprecare denaro, o per altro vii motivo, ricusasse
sostenere il partito dei Bianchi, cagione de' grandissimi avve-
nuti guai del suo partito » . Il Lombardi bene sentenziò, e le mie
molte ragioni, aggiunte alle sue poche, gli daranno, come
spero, maggiore autorità. Che se le sue e le mie ragioni garbassero
a tutti, allora griderei lietamente : « Oh! leviamo, leviamo una
volta il buon Celestino dall'inferno dantesco, perchè indegno di
tal condanna, e in sua vece cacciamoci dentro tutti quelli che
scrissero contro lui.... Ma.... no; non si danni ninno. E, poiché
Siam tutti soggetti a sbagliare, non vorrei con essa condanna
darmi la zappa sui piedi; mentre, se voi, o Signori, non concede-
ste la vostr'approvazione al mio presente discorso, allora certo
dannereste pur me senza pietà allo stesso inferno. Ma, sperando
che pienamente lo approviate, e con lodi, con plausi e glorifi-
cazioni mi facciate, in luogo dell'inferno, gustare il paradiso,
io, pieno di questa speranza, con anticipata contentezza e gra-
titudine amabilmente vi ringrazio, vi saluto e m'accommiato^
augurandovi nei vostri studii la mia stessa supposta contentezza
e felicità.
Vari Giornali di Roma, cioè l'Osservatore Romano, la Voce
della Verità, la Squilla etc. levaron o a cielo questo " discorso. Si
riporta qui l'articolo dell'Osservatore Romano soltanto, perché le
lodi degli altri rassomigliano alle sue.
» Al Circolo di Apologetica e storia Pontificia, ieri 29 Mar^o il
Marchese Giovanni Eroli di Narni, uno de' più illustri letterati,
storici, archeologi e dantisti del tempo nostro, lesse magnifico di-
scorso sopra 5. Celestino V e Dante, per la tanto agitata questione
se nel verso ì che fece per viltade il gran rifiuto, il poeta intenda
parlare di quel Pontefice. Al discorso, capolavoro di erudizione e
di critica letteraria a lode di quel Papa, e a retta interpretazione
deir Alighieri, risposero un plauso entusiastico, ed un desiderio
unanime dì vederlo pubblicato per le stampe.
« Nella seguita discussione, intorno a s. Celestino e Dante,
svolsero dotte e sagaci riflessioni i chiarissimi Avvocato Sinistri,
Monsignor Fracknoi, Mon?. Tripepi, Mons. La Notte, P. Manfredi
da' Serviti, Prof. Canonico Sardi, Mons. Patroni, Prof, Sarpoulet e
Mons. Bertùcci. Fu una, discussione delle più splendite e animate
OOI2 sommo ordine.
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