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Full text of "Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere di esso"

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University  of  Toronto 


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40^^ 


EDIZIONE  NAZIONALE 
DELLE  OPERE 


GIUSEPPE  PITRE 


OPERE  COMPLETE 

VI 

GIUSEPPE    PITRÈ 


XXVI 


SCRITTI  VARI 
EDITI    ED    INEDITI 


GIUSEPPE    PURÈ 


/^j 


DEL  SANT  UFFIZIO 

A  PALERMO 

E  DI   UN  CARCERE 

DI  ES50 


SOC.    EDITRICE   DEL    LIBRO    ITALIANO 
ROMA 


Proprietà    letteraria    riservata 


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TIP.   SOC.    ED.    LIBRO   ITALIANO    -   1940-XVni 


VITTORIO  EMANUELE  III 

VER    GRAZIA    DI    DIO    E    PER    VOLONTÀ    DELLA    NAZIONE 

RE  D'ITALIA  E  DI  ALBANIA 
IMPERATORE  D'ETIOPIA 

Ritenuto  che  si  è  costituito  un  Comitato  sotto  la  pre- 
sidenza di  Giovanni  Gentile  per  curare  la  pubblicazione  delle 
opere  complete  di  Giuseppe  Pitrè; 

Che  tale  Comitato,  composto  di  autorevoli  personalità, 
dà  ogni  affidamento  che,  l'edizione  delle  opere  del  Pitrè  sarà 
curata   con   ogni   competenza   e   serietà   scientifica; 

Considerata  l'alta  importanza  scientifica  ed  artistica 
dell'opera  del  Pitrè; 

Udito  il  Consiglio  dei  Ministri; 

Sulla  proposta  del  Nostro  Ministro  Segretario  di  Stato 
per  l'educazione  nazionale; 

Abbiamo  decretato  e  decretiamo: 

La  pubblicazione  delle  opere  di  Giuseppe  Pitrè  curata 
dal  Comitato  presieduto  da  Giovanni  Gentile  è  dichiarata 
((  edizione  nazionale  ». 

Ordiniamo  che  il  presente  decreto,  munito  del  sigillo 
dello  Stato,  sia  inserto  nella  Raccolta  ufficiale  delle  leggi  e 
dei  decreti  del  Regno  d'Italia,  mandando  a  chiunque  spetti 
di  osservarlo  e  di  farlo  osservare. 

Dato  a  San  Rossore,  addì  22  giugno  1939-XVII. 

VITTORIO  EMANUELE 

Mussolini  —  Bottai 

Visto,  il  Guardasigilli:    Solmi 
REGIO  DECRETO  22  giugno  1939-XVII,  n.  1015. 


COMITATO 

Giovanni  Gentile,  presidente. 
Maria  D'Alia  Pitrè. 
Giuseppe  Cocchiara. 
Raffaele  Corso. 
Nino  Sammartano. 
Paolo  Toschi. 


OPERE    COMPLETE 


BIBLIOTECA    DELLE    TRADIZIONI    POPOLARI    SICILIANE 

I.-II.  Canti  popolari  Siciliani. 
HI   Studi  di  poesia  popolare. 
IV- VII.  Fiabe,  Novelle  e  Racconti  Popolari. 
VIII-XI.  Proverbi  siciliani. 
-      XII.  Spettacoli  e  Feste  popolari  siciliane. 
XIII.  Giuochi  fanciulleschi  siciliani. 
XIV. -XVII.  Usi  e  Costumi,  Credenze  e  Pregiudizi  del 
Popolo  siciliano. 
XVIII.  Fiabe  e  Leggende  popolari  sicihane. 
XIX.  Medicina  popolare  siciliana. 
XX.  Indovinelli,   Dubbi,   Domande,  Scioglilin- 
gua del  popolo  siciliano. 
--     XXI.  Feste  patronali  in  Sicilia. 

XXII.  Studi  di  Leggende  popolari  in  SiciUa. 

XXIII.  Proverbi,  Motti  e  Scongiuri  del  popolo  si- 

ciliano. 

XXIV.  Cartelli,    Pasquinate,    Canti,    Leggende» 

Usi   del   popolo   siciliano. 

XXV.  La  Famiglia,  la  Casa,  la  Vita  del  popolo 
sicihano. 

SCRITTI    VARI  EDITI  ED   INEDITI 

XXVI.  Del  Sant'Uffizio  a  Palermo  e  di  un  carcere 
di  esso  (inedito). 
XXVII-XXIX.  La  Vita  in  Palermo   cento  e  più  anni  fa 
(il  voi.  Ili  inedito). 

XI 


OPERE   COMPLETE 

XXX.  Novelle  popolari  toscane  (edito). 
XXXI.. XXXII.  Bibliografìa  delle  Tradizioni  popolari  d'I- 
talia (il  voi.  II  inedito). 
Corsi  di  Demopsicologia,   cinque  volumi 
(inediti)  : 

XXXIII.  I.  La  Demopsicologia  e  la  sua  storia. 

XXXIV.  2.  I  Proverbi. 

XXXV.  3.  Poesia  popolare  italiana. 
XXXVI.  4.  Poesia  popolare  straniera. 
XXXVII.  5.  Novellistica  e  varie. 
XXXVIII.  La   Rondinella  nelle  Tradizioni  popolari 
(inedito). 
XXXIX-XL.  Viaggiatori  stranieri  in  Sicilia  (inediti). 
XLI.-XLVIII.  Articoli  di  Riviste  e  di  Giornali;  Recen- 
zioni,    Conferenze,    Discorsi,    Prefazio- 
ni, ecc.  (editi  e  inediti). 
XLIX,-L.  Carteggio  con  illustri  contemporanei  (ine- 
diti). 


XII 


Capitolo  I 
VARIE   SEDI   DELLA   INQUISIZIONE   IN  PALERMO 

Introduzione 

I  crede  comunemente  che  la  sede  del 
S.  Uffizio  in  Palermo  sia  stata  sola- 
mente e  sempre  il  Palazzo  Chiaramonte, 
oggi  Palazzo  dei  Tribunali. 
Fin  dai  primordi  della  istituzione  già  rin- 
novata (1487)  il  S.  Uffizio  occupò  il  Palazzo  Reale,  l'antica 
sede  dei  re  normanni,  svevi  ed  aragonesi.  Quivi  stette  a  tutto 
suo  agio  dal  1513  al  1551,  in  cui  passò  al  Castello  a  mare  (di- 
mora dei  Viceré)  donde  si  allontanò  per  poco  e  dove  tornò 
(1568)  (i)  tutt'altro  che  presago  dello  scoppio  della  polve- 
riera (1593),  nel  quale  perì  fra  gli  altri  il  noto  poeta  sici- 

(i)  Il  Viceré  D.  Giovanni  de  Vega  i;oleva  stare  a  Castellama- 
re;  poi  volle  recarsi  al  regio  palazzo:  e  allora  gl'Inquisitori,  che 
abitavano  in  questo,  passarono  a  Castellamare.  Auria.  Istori» 
cronologica  de'  Signori  Viceré  di  Sicilia  ecc.  pp.  44.  Palermo. 
Coppola,    1697. 


1  -  G.  PITRÈ  .  SanfUHlilo 


SANT'UFFIZIO 

Mano  Antonio  Veneziano  e  rimase  mal  vivo  e  pieno  di  ter- 
rore e  di  acciacchi  l'inquisitore  Mons.  Ludovico  de  Paramo. 

Due  brevi  dimore  fuori  di  questi  luoghi  ebbe  tra  gli 
anni  1566-68  e  1593-1600:  una  al  Casalotto,  un'altra 
nelle  vicinanze  di  Piedigrotta:  ed  è  bene  notarlo  per  ricer- 
the  che  quandochessia  volessero  farsi. 

La  sede  del  Casalotto  fu  acquistata  dal  R.  Patrimonio 
per  volontà  di  Filippo  II  e  donata  al  Sacro  Tribunale, 
che,  a  dir  vero,  non  ne  rimase  soddisfatto  non  ostante  vi 
avesse  trovato  comoda  abitazione  per  sé,  e  buone  caverne 
pei  carcerati.  Era  una  casa  di  Bartolomeo  Marchese  sotto 
il  campanile  di  Casa  Professa  dei  Gesuiti,  nella  piazzetta 
dei  Santi  Quaranta  Martiri  (i). 

L'altra  di  Piedigrotta  presso  il  mare  fu  una  casa  in 
vicinanza  del  Castello,  dove  un  angusto  vicoletto  serba 
anche  oggi  il  titolo  di  <(  Madonna  della  penitenza  ».  Un 
contemporaneo  la  disse  a  carcere  de'  familiari  del 
foro  del  S.  Officio  »  (2);  ma  un  secolo  e  mezzo  dopo  un 
Inquisitore  la  ricordò  come  abitazione  degli  Inquisitori  (3). 
Io  non  so  a  chi  debba  aggiustarsi  fede.  Certo  l'angustia 
della  casa  e  del  luogo  non  doveva  prestarsi  a  così  impor- 
tante bisogna;  e  le  poche  cause  che  gli  Inquisitori  pote- 
vano sbrigare,  le  facevano  tenendo  i  rei  nelle  segrete  e 
recandosi  essi  ad  interrogarli  nel  luogo  o  richiamandone 
qualcuno  alla  vicina  residenza. 

(i)  La  Mantia,  Orig.  e  vicende  dell'Inquisizione  in  Sicilia  (estr. 
dalla  Riv.  Stor.  ital.,  i885)    p.  56. 

(2)  Vincenzo  Di  Giovanni,  Palermo  restaurato,  in  Bibl.  del 
Di  Marzo,  voi.  X,  p.   169,  Pai.  MDCCCLXXII. 

(3)  Franchina,  Breve  Rapporto  del  Tribunale  della  SS.  Inqui- 
sizione di  Sicilia,  p.  33,  Palermo,  Stamp.  di  Antonino  Epiro, 
MDCCXLIV. 


VARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

In  quei  sette  anni  nessun  atto  generale  di  fede,  anzi 
neppure  un  piccolo  spettacolo. 

La  vita  errabonda  dei  capi  del  tribunale  fece  pensare 
una  volta  (1580)  ad  una  sede  addirittura  principesca,  quel- 
la del  Palazzo  Aiutamicristo,  Oltre  il  bisogno  di  comodi, 
c'era  la  soddisfazione  della  vanità  e  del  fastigio  ed  una 
utilità  indiscutibile.  Le  donne  che  facevano  da  spie  al 
S  Uffìzio  non  erano  più  disposte  a  varcare  il  ponte  le- 
vatoio del  Castello  per  andare  a  deporre  il  grave  peso  delle 
loro  coscienze.  Quel  luogo  era  fuori  mano,  guardato  con 
ineffabile  terrore  dal  popolo,  con  severa  vigilanza  dai 
soldati,  con  eccessivo  zelo  dai  familiari,  con  sospetto  da 
tutti.  Necessario  quindi  che  lo  si  sostituisse  con  un  al- 
tro posto. 

Si  fecero  adunque  delle  pratiche  e  se  ne  fissò  il  prez- 
zo; ma  all'ultima  ora  le  pratiche  andarono  a  monte. 

E  fu  rara  ventura  che  una  delle  più  insigni  opere  del- 
l'architetto Camalivari  e  del  più  grande  banchiere  del 
quattrocento,  Guglielmo  Aiutamicristo,  non  mutasse  pa- 
droni ed  uso.  Non  già  degli  echi  festanti  per  la  venuta  di 
Carlo  V  Imperatore  e  Re  (1535),  non  delle  nozze  di 
D.  Giovanna  d'Austria  e  dei  ricevimenti  di  Pier  Luigi 
Paterno  Moncada  risonerebbe  ora  la  superba  magione;  ma 
dei  gemiti  dei  poveri  inquisiti  e  dei  pianti  dei  torturati. 
Finalmente  nei  primi  del  sec.  XVH,  dopo  tanto  vagare 
per  la  città,  auspice  il  Viceré  G.  de  Cardenas,  il  Tribunale 
della  Fede  ebbe  sua  stabile  e  definitiva  sede  nel  Palazzo 
Chiaramonte  (1605)  (i). 

(i)  Su  questa  data  vedi  App.   I,   4. 


SANT'UFFIZIO 

Questo  Palazzo,  detto  per  eccellenza  loSten  (i),  nella 
piazza  Marina,  ha  una  storia  drammatica  e  sanguinosa. 
Le  sue  vicende  sono  vicende  di  Palermo,  la  sua  archi- 
tettura è  architettura  della  Sicilia;  ed  ogni  sua  pietra  ri- 
corda una  istituzione,  narra  un  fatto,  uno  dei  cento  fatti 
che  compongono  il  serto  di  rose  dei  governanti,  la  corona 
di  spine  dei  governati.  Da  Manfredi  Chiaramonte  I  a 
Domenico  Caracciolo,  ad  Asmundo  Paterno,  a  noi  tutti, 
per  sei  ininterrotti  secoli  i  fasti  baronali,  viceregi  ed  in- 
quisitoriali  vi  si  avvicendarono  con  le  miserie  del  popolo, 
le  solennità  più  splendide  con  le  scene  più  terrifiche,  le  risa 
dei  gaudenti  con  gli  urli  dei  disperati. 

Lì  i  primi  Conti  di  Modica,  affermando  il  loro  gusto 
per  le  arti  e  la  loro  protezione  per  gli  artisti,  sfoggiarono 
la  loro  intelligente  opulenza;  e  sul  soffitto  del  gran  salone 
scrissero  le  prime  pagine  della  storia  del  Rinascimento  in 
Sicilia  (2),  e  perpetuarono  le  loro  larghe  e  potenti  paren- 
tele con  le  armi  dei  Ventimiglia  e  degli  Alagona,  dei  Pe- 
ralta  e  dei  Rossi,  dei  Santostefano  e  dei  Moncada,  degli 
Incisa  e  degli  Sclafano,  degli  Spinola  e  dei  Palizzi  (3).  Da 
una  di  quelle  finestre  Martino  II  s'affacciò  a  veder  troncare 

(i)  Col  nome  di  Steri  esistono  anche  palazzi  in  Cefalù,  Sciacca 
e  in  Siracusa  e  in  Girgenti. 

(2)  Gailhabaud,   L'Architecture  du   V  au  XVII  siede  et  les 
arìs  qui  en  dépendent,  t.  Ili,  pp.  30-37.  Paris,  1870.  —  Di  Mar- 
zo, Delle  Belle  Arti  in  Sicilie^  v.  I,  lib.  IV,  pp.  319-34.  Palermo. 
1862.  —  Lo  STESSO,  La  pittura  in  Palermo  nel  Risorgimento,  cap 
I.   Palermo,    1899. 

(3)  Inveges  {La  Cartagine  siciliana,  lib.  II,  cap.  VI,  pp.  410- 
16,  Palermo,  1651),  parla  delle  «  armi  dell'antica  sala  del  Palaz- 
zo Chiaramontano,  detto  lo  Steri  » 


VAEIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

la  testa  ad  Andrea  Chiaramonte,  uno  dei  Quattro  Vicari 
del  Regno  dopo  la  morte  di  Federico  III  il  Semplice,  e 
con  sommaria  confisca  fece  suoi  i  beni  del  giustiziato:  e 
tenne  nel  palazzo  la  R.  Curia,  un  tempo  residente  nel  Ca- 
stello a  mare.  Lì  cercò  invano  rifugio  la  bella,  sapiente  e 
sventurata  Bianca  di  Navarra,  che  con  nuova  disordinata 
fuga,  dopo  quella  dal  Castello  Maniace  in  Siracusa,  in 
una  fredda  notte  d'inverno,  seminuda,  potè  salvare  la 
sua  regal  vedovanza  dai  libidinosi  ardori  del  conte  Ber- 
nardo Cabrerà,  riuscito  a  scalarne  le  finestre  (1412). 

Lì  si  adunarono  i  generali  parlamenti  del  1446  (i); 
lì  Carlo  V  apriva  quello  del  16  settembre  1535,  che  poi 
chiudeva  nel  palazzo  Aiutamicristo,  e  ascoltava  i  bisogni 
del  paese  ed  assentiva  alle  riforme  necessarie  alla  invio- 
labilità dei  diritti  del  triplice  consesso  nella  tutela  dei 
patrii  privilegi:  ragion  di  freno  ai  futuri  viceré  che  si  ar- 
gomentassero menomarne  le  franchigie. 

Innanzi  ad  esso,  nei  tumulti  del  1516,  il  tuono  delle 
bombarde  e  dei  falconetti  si  confusero  col  ruggito  dei 
popolo  contro  il  viceré  Ugo  Moncada,  che,  stato  a  spiar 
tremebondo  da  una  vedetta,  travestito  da  servo,  s'invo- 
lava da  un  segreto  uscio,  ed  il  cieco  furore  delle  turbe 
come  onda  procellosa  irrompeva  nelle  sale,  ne  saccheg- 
giava le  suppellettili  manomettendone  ogni  vecchia  e  nuo- 
va mobilia. 

Nella   chimerica    congiura   di   Giovan    Luca   Squarcia- 

(i)  MONGiTORE,  Parlamenti  generali  del  Regno  di  Sicilia,  t.  I, 
PP-  93  e  sgg.  (Palermo,  1749)  nota  che  furono  convocati  «  in 
quista  felichi  chitati  di  Palermo,  in  la  sala  grandi  di  lu  Regiu 
Hospiciu  seu  Steri  di  la  dieta  chitati  ». 


SANT'UFFIZIO 

lupo,  parte  di  quel  medesimo  popolo,  incendiate  le  porte, 
invasi  i  cortili,  le  scale,  gli  anditi,  le  aule,  precipitava  giù 
dai  merli  i  giudici  della  Magna  Curia,  e  parte  accoglieva 
sulle  picche  sottostanti.  Di  mezzo  ai  pilastri  dell'alta  cam- 
pana si  buttavan  giù  i  trasgressori  delle  leggi  sanitarie  in 
tempo  di  pestilenza:  ed  uno  di  essi,  durante  la  moria  del 
1576,  mozze  le  mani,  si  vide  ad  uno  ad  uno  strangolati  in- 
nanzi i  compagni  di  furto  di  robe  infette,  riversare  da  quel- 
li i  corpi,  squartarne  le  membra,  ed  alla  sua  volta,  stran- 
golato anche  lui,  veniva  buttato  giù  come  gli  altri,  bru- 
ciato e  sparsene  al  vento  le  ceneri  scellerate. 

Lì,  passando  la  Inquisizione,  nuovi  ospiti:  tormenta- 
tori e  tormentati. 

Lì,  testimoni  più  che  bisecolari  di  raffinata  ferocia, 
fino  al  27  marzo  del  1782,  presso  l'orologio  pompeggia- 
vano sinistramente  tre  gabbie  di  ferro  con  le  teste  di  Fe- 
derico Abbatelli  conte  di  Cammarata,  Francesco  Impe- 
ratore e  Niccolò  Leofante,  ribelli  nel  1523. 

E  lì  le  R.  Dogane  ricevevano  con  le  mercanzie  fore- 
stiere i  libri  che  giungevano  dal  Continente,  ed  una  Cen- 
sura dagli  occhi  d'Argo  ne  percorreva  i  fogli  tutti  e  ne 
proponeva  o  la  libera  entrata  in  città  o  il  pubblico  incendio. 

L'uso  principale  ed  ultimo  del  Palazzo  Chiaramente 
prima  del  secolo  ora  scorso,  fu  pertanto  quello  del  Tri- 
bunale della  Fede;  ma  nessun  uso  è  per  noi  tanto  oscuro 
nei  particolari  quanto  questo. 

Il  solenne  incendio  degli  archivi  (27-28  giugno  1783) 
privò  il  paese  di  documenti  capitali  per  la  storia  del  pen- 
siero, del  costume,  della  superstizione,  della  vita  tutta 
dell'Isola. 

E  tal  sia  di  essi! 


VARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

Le  conseguenze  però  son  queste:  che  poco,  ben  poco 
ci  rimane  di  quella  istituzione,  e  meno  ancora  sappiamo 
dell'ufficio  delle  varie  parti  del  Palazzo,  oramai  molto 
difficDi  a  qualificarsi. 

Eppure  dovremmo  sapere  dove  gl'Inquisitori  tenes- 
sero le  loro  adunanze,  dove  le  loro  udienze;  quali  fos- 
sero le  carceri  degli  uomini,  quali  quelle  delle  donne; 
quali  le  segrete  degli  inquisiti,  come  si  componesse  l'arse- 
nale di  mitre  e  di  sambeniti,  di  strumenti  di  tortura  e  di 
ritratti  di  Inquisitori:  arsenale  distrutto  con  quel  mede- 
simo fuoco  che  tante  vite  aveva  annientato  e  che  si  spen- 
se-con  esse. 

La  Inquisizione  in  Sicilia,  specialmente  nell'ultimo  se- 
colo, scese  ad  una  certa  mitezza:  e  basta  dire  che  due 
volte  sole  passò  al  rogo.  Ma  che  perciò?  Essa  era  sempre, 
nella  sua  natura,  l'antica;  ed  il  viaggiatore  Filati  de  Tas- 
suUo  potè  nel  1775  scrivere  che  in  Palermo  la  Inquisizione 
«  existe  avec  tout  son  affreux  appareil  »  (i).  Nel  Palazzo 
Chiaramonte,  privi  di  luce,  scarsi  di  cibo,  laceri  di  vesti, 
ridotti  a  povertà  di  spirito,  finivano  i  condannati  a  lunghe 
prigionie.  FrateJRomualdo^s^Suot- Gertoi^  due  alluci- 
nati, vi  tribolarono  per  un  quarto  di  secolo,  e  ne  usci- 
rono solo  per  esser  condotti  nel  piano  di  S.  Erasmo  e  bru- 
ciati vivi.  Il  nobile  cassinese  D.  IVIario  Crescimanno,  vi 
stette,  come  eresiarca,  ad  urlare  28  anni;  finché,  dive- 
nuto mentecatto,  vi  perdette  la  vita  dolorosa  e,  perchè  non 
comunicato,  fu  sepolto  nel  giardino  (1771).  Dove  stettero 
questi    ed    altri    infelici?    Quali    giacigli   accolsero    le   loro 

(i)  Voyages  en  différens  pays.  tome  II,  lettre  XXV,  pp.  299- 
300.  En  Suisse  MDCCLXXVIII. 


SANT'UFFIZIO 

membra  intormentite?  Quali  mura  i  loro  ranmiarichi? 
Quale  terra  le  loro  lacrime?  Per  quali  spiragli  poterono 
consolarsi  che  le  loro  supplicazioni  si  sprigionassero  per 
salire  a  Dio? 

Da  un  lato  dell'attuale  Dogana  si  addita  anche  oggi 
una  muda  con  una  solida  colonna  centrale,  sostegno 
di  due  archi,  con  un  chiodo  confitto  in  alto,  al  quale 
sarebbero  stati  sospesi  gl'imputati;  ma  la  tradizione 
è  incerta  e  non  guarda  alla  pratica  ordinariamente  usata 
della  carrucola  ad  una  volta  per  legarvi  il  torturando; 
e  da  quella  muda  dovrebbero  cominciarsi  le  ricerche  per 
istabilire  dove  essa  mettesse  il  capo  e  donde  vi  si  scen- 
desse, se  pure  i  giudici  vi  scendevano. 

Chi  non  sa  dell'inquisitore  Lopez  de  Cisneros,  il  qua- 
le fu  ucciso  da  fra  Diego  La  Mattina  condannato  al  rogo? 
Tutti  parlano  di  una  visita  che  de  Cisneros  avrebbe  fatta 
nei  sotterranei  del  S.  Uffizio;  eppure  un  contemporaneo 
che  poteva  saperlo  perchè  membro  del  Tribunale  della 
Fede,  racconta  che  il  La  Mattina  a  quella  vista,  mferocito 
rompendo  le  manette  di  ferro,  con  esse  lo  percosse  a  mor- 
te e  lo  avrebbe  senz'altro  «  precipitato  dalle  scale  »  se 
uno  dei  familiari  non  fosse  accorso  in  aiuto  di  quello  (i). 

(i)  Due  particolari  degni  di  nota:  1°  La  scena  tra  il  La  Mat- 
tina ed  il  Cisneros  fu  per  ordine  degli  Inquisitori  ritratta  in  un 
quadro  ad  olio;  2**  il  cadavere  del  Cisneros  venne  seppellito  nella 
Cappella  di  N.  S.  di  Guadalupa  (fino  ad  ora  proprietà  del  Gover- 
no Spagnuolo)  nel  Convento  della  Gancia  in  Palermo;  ed  il  Tri- 
bunale eleggeva  un  cappellano  per  la  celebrazione  di  tre  messe  la 
settimana  in  suffragio  dell'anima  di  lui,  con  la  elemosina  di  onze 
i8  annuali,  da  pagarsi  sopra  la  casa  di  D.  Giovanni  d^  "Retana, 
Ms  Qq  F  239  della  Biblioteca  Comunale  di  Palermo. 

8 


VARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

Il  carcere  del  relasso  La  Mattina  dunque  non  era  dove  si 
dice. 

Sotto  l'attuale  Corte  d'Appello  sono  ancora  altre  mu- 
de:  e  le  tracce  di  antichi  reclusi,  più  che  evidenti,  sono 
palpabili.  Dalla  finestruola  a  spranghe  di  ferro  che  dà 
nella  entrata  maggiore  al  palazzo,  sull'uscio  del  portinaio, 
penetrava  un  debole  filo  di  luce  appena  bastevole  a  fare 
accorti  i  grami  prigionieri  che  le  notti  si  avvicendavano 
coi  giorni.  Non  ozioso  visitatore,  io  scesi  a  ragion  di  stu- 
dio in  quel  sepolcro  di  vivi,  e  ne  uscii  sgomento  ed  op- 
presso. 

Fino  al  presente  molte  cose  noi  ignoriamo  dell'insigne 
palazzo,  perchè  sommariamente  fu  provveduto  alla  chiu- 
sura di  porte  ed  alla  muratura  di  finestre,  le  quali,  come 
quelle  del  gran  salone  rimesse  alla  luce  nel  1894,  certi 
Inquisitori  spagnuoli,  Torquemada  delle  arti  in  Sicilia, 
ordinarono  a  loro  capriccio  e  comodo. 

L'opera  posteriore  ed  ultima  del  Presidente  Asmundo 
Paterno,  al  domani  dell'abolizione  del  S.  Uffizio,  compi 
quella  nefasta  del  Governo,  addossando  al  lato  settentrio- 
nale del  palazzo  l'ampia  scala  di  accesso  alle  aule  dei 
tribunali  e  creando  così  nuove  difficoltà  aH' isolamento 
dell'edificio  ad  al  riconoscimento  delle  fabbriche,  le  quali 
fin  dal  Cinque  e  Seicento  vi  erano  state  attaccate.  Cosi 
lo  spirito  calmo  e  riflessivo  e  pur  sempre  patriottico  di 
questo  cooperò  con  lo  impulsivo  e  spregiudicato  di  quello: 
ed  a  noi  mancano  le  tracce  sicure  di  ciò  che  fu  il  carcere 
della  Inquisizione. 

Nella  primavera  del  1906  il  Municipio  di  Palermo, 
tenuto  fino  allora  per  legge  ad  apprestare  e  mantenere  pei 
pubblici  servizi  i  locali  dei  Tribunali,   come  quelli   delle 


SANT'UFFIZIO 

scuole  inferiori  e  medie  e  d'igiene,  iniziava  negli  edifici 
annessi  al  Palazzo  Chiaramonte,  l'adattamento  delle  aule 
sottostanti  alla  Regia  Procura  per  uso  di  tribunale  penale. 

Questi  edifizi,  è  superfluo  il  dirlo,  sono  posteriori  di 
tre  secoli  allo  storico  palazzo,  e  dovettero  sorgere  per 
bisogni  tanto  degli  istituti  quanto  delle  persone  che  vi 
ebbero  sede.  Anche  con  ricerche  d'archivio,  difficilmente 
potrebbe  stabilirsi  lo  scopo  primitivo  di  essi.  Il  mistero 
col  quale  si  circondava  la  Inquisizione,  che  ultima  li  ten- 
ne nel  Settecento,  ci  toglie  la  luce  necessaria  a  vedere 
in  tanta  oscurità.  Questo  però  è  certo:  che  poco  dopo  la 
venuta  dei  Reali  di  NapoH  (26  dicembre  1798),  nel  1800 
la  maggior  parte  delle  stanze  di  questi  edifici  vennero 
destinate,  come  già  da  tempo  alcune,  a  deposito  o  archi- 
vio della  R.  Cancelleria,  della  Deputazione  della  vendita, 
dell'Udienza  generale  dell'Uditore  di  guerra,  delle  senten- 
ze del  Tribunale  civile  di  Palermo,  della  Direzione  dei 
Dazi  indiretti,  del  Tribunale  di  Commercio,  della  Con- 
servatoria generale;  siccome  le  stanze  sotto  l'attuale  Corte 
di  Appello  ai  Riveli  presentati  al  Patrimonio  dal  1548  al 
1651. 

A  quest'ultimo  ufficio  d'archivio,  ora  che  le  carte 
contenutevi  sono  state  trasportate  nell'ex  Convento  della 
Gancia,  era  prossimo  a  succedere,  come  ora  è  succeduto, 
quello  del  Tribunale  penale.  Ed  è  anche  certo  che  tanto 
al  di  dentro,  quanto  al  di  fuori  il  fabbricato  della  R.  Pro- 
cura subì,  da  più  che  un  secolo,  grandi  alterazioni.  Dal 
lato  meridionale,  di  sotto  ad  alte  piccolissime  finestruole 
centrali  (buchi  da  30  centimetri  quadrati),  in  mezzo  a 
spiragli  laterali  (specie  di  feritorie)  ora  chiusi  e  visibili 
solo    ali 'estemo,  furono    aperte    due    grandi  'finestre   l'una 

IO 


VARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

sull'altra  per  ciascuna  stanza,  e  questo  ci  aiuta  a  determi- 
nare un  uso  precedente  da  noi  fiinora  ignorato. 

Ma  di  ciò  dirò  più  innanzi. 

Mentre  i  lavori  di  adattamento  si  venivano  eseguendo, 
io  seppi  (i)  di  una  camera  nel  primo  piano  della  R.  Pro- 
cura, nella  quale,  scrostandosi  spontaneamente  della  cal- 
ce, veniva  fuori  non  so  che  figura;  e  non  indugiai  un 
istante  a  recarmici,  impaziente  di  trovarvi  qualche  cosa 
utile  alla  conoscenza  del  luogo.  Trovai,  difatti,  la  figura; 
ed  ai  non  dubbi  segni  delle  pareti  circostanti  ed  ai  saggi 
che  lì  per  lì  praticai,  potei  indovinare  che  altre  immagi- 
ni dovessero  esistere  sotto  gli  strati  di  antiche,  ripetute 
imbiancature.  Queste  non  erano  meno  di  quattro,  quali 
spesse  e  quali  sottili,  tutte,  meno  l'ultima  esteriore,  due 
volte  secolari;  e  l'antipenultima  di  colore  scuro  come  di 
mota. 

Ed  eccomi  all'opera  manuale  di  scrostamento;  opera, 
estremamente  delicata,  che  io  non  potevo  affidare  ad  un 
operaio  qualsiasi,  e  che  sostenni  personalmente  per  sei 
mesi  interi. 

Giacché  è  bene  rilevarlo:  non  quella  soltanto  fu  la 
stanza  nella  quale  mi  fermai,  ma  tre  di  sei,  cioè  questa 
prima,  che  probabilmente  era  l'ultima  nell'ordine  primi- 
tivo; e  la  quinta  e  le  sesta,  comunicanti  tra  loro  con  un 
arco  che  venne  tagliato  nelle  pareti  intermedie. 

La  seconda,  la  terza  e  la  quarta  stanza  erano  già  sta- 
te manomesse  dai  murifabbri,  e  quindi  perdute  per  gli 
studi. 

(i)  Dall'avv.  Giuseppe  Cappellani,  allora  Consigliere  Comu- 
nale. 


II 


SANT'UFFIZIO 

Le  stanze  non  sono  quali  dovettero  essere  in  passato. 
Oggi  sono  rettangolari,  ma  una  volta  furon  quadrate.  Cia- 
scuna di  esse  misura  metri  5,10  in  lunghezza,  altrettanto 
in  altezza,  ora  ridotta,  giacché  il  pavimento  primitivo  al 
quale  si  giunse  nei  lavori  era  venti  centimetri  più  basso 
dell'attuale,  e  quél  pavimento  era  un  gettato  di  mattone- 
pesto  finissimo  e  calce  che  ora  si  chiama  battuto. 

Un  andito  largo  un  metro  deve  avervi  dato  accesso; 
andito  ripetuto  in  tutte,  e  destinato  a  bassi  usi;  prova,  gli 
avanzi  d'un  arco  e  lo  stato  della  muratura  proprio  nel 
terz'ultimo  spazio  del  lato  settentrionale,  dalla  porta  di 
entrata  non  solo  di  questa  ma  anche  delle  altre  camere, 
parte  già  rese  inutili  per  noi,  che  si  vennero  mettendo 
in  comunicazione  tra  loro. 

Difatti,  in  tutte  si  osservano  resti,  ora  scomparsi,  di 
doccionati  in  terracotta  scendenti  giù  da  un  incavo,  specie 
di  nicchia  in  muratura  nello  spessore  della  parete  di  en- 
trata, della  capacità  di  un  uomo,  che  a  suo  tempo  poteva 
sedervi  ad  agio. 

Anticipo  il  giudizio  su  questi  luoghi,  affermando  in 
modo  reciso  che  essi  furono  prigioni  di  ecclesiastici  e 
forse  anche  di  secolari,  nel  tempo  del  S.  Uffizio  verso  la 
metà  del  Seicento:  e  conforterò  questa  affermazione  con 
molteplici  ragioni  fornite  dai  luoghi  medesimi. 

Mano  mano  che  io  mi  avanzavo  nel  difficile  lavoio  di 
scrostamento,  si  venivano  agli  occhi  miei  delineando  fi- 
gure, disegni,  iscrizioni  e  versi.  A  lavoro  finito  mi  trovai 
innanzi  quattro  pareti  intere  ed  altre  per  metà  fino  all'al- 
tezza delle  mani  d'un  uomo  (metri  2,15),  fitte  di  manife- 
stazioni  grafiche.    Era   una   vera  generazione   scomparsa, 

12 


VIARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

ignorata,  che  dopo  due  secoli  e  mezzo  riappariva  e  rivi- 
veva; erano  uomini  che  tornavano  a  parlare  in  versi  e  m 
mozzi  accenti,  a  rivelarsi  con  ghirigori,  volute  ed  accar- 
tocciature.  Per  dieci  metri  quadrati  d'ogni  parete  intera 
non  un  dito  di  spazio  libero,  non  un  angolo  risparmiato. 
Linee  sovrapposte  a  linee,  disegni  a  disegni  davano  l'idea 
d'una  gara  di  sfaccendati,  ed  erano  invece  sfoghi  di  sof- 
ferenti. Inesorabili  intonachi  aveano  di  tempo  in  tempo 
fatto  scomparire  quegli  sfoghi,  che  però  per  nuovi  arrivati 
ricomparivano  sotto  forme  di  nuovi  sfoghi  per  tornare  a 
scomparire  e  ricomparire,  e  poi  a  perdersi  dei  tutto. 

Questi  intonachi  hanno  una  storia. 

Bianchi  il  primo  ed  il  secondo,  giallognolo  il  terzo, 
inefficaci  tutti  ad  impedire  nuove  espressioni  spirituali  di 
vecchi  e  di  nuovi  ospiti,  furono  una  volta  coperti  tutti  e 
tre  con  un  quarto  intonaco  come  di  mota,  sul  quale  vane 
dovettero  riescire  le  velleità  dei  prigionieri  come  vittorio- 
se le  presunzioni  degli  aguzzini.  Sonvi  pareti  poi  dove  a 
questa  impiastricciatura  ne  venne  invece  sostituita  una 
nera,  che  rese  adirittura  impossibile  qualunque  altro  ten- 
tativo grafico. 

Il  titolo  di  ((  palimsesti  del  carcere  »  è  proprio  quello 
che  ad  essi  compete.  Ed  in  vero:  sotto  una  scrittura  in 
caratteri  semigotici  coperta  di  calce  se  ne  delinea  un'altra 
in  caratteri  ordinari;  la  quale,  a  misura  che  si  viene  libe- 
rando dalla  triplice  o  quadruplice  crosta,  dà  luogo  ad  una 
strana  confusione  di  parole  latine  ed  italiane  in  una  biz- 
zarra lettura  di  non-sensi. 

La  multiforme  e  diversa  materia  venuta  in  luce  si  ve- 
drà dalle   riproduzioni  fotografiche  che  illustrano  il  pre- 


13 


SANT'UFFIZIO 

sente  libro;  e  fiattanto  può  dividersi  in  due  grandi  grup- 
pi: disegni  e  scritture:  gruppi  tanto  copiosi  che  a  volerli 
prendere  in  complesso  se  ne  fraintenderebbe  il  significato. 
Figure  arditamente  concepite  e  non  senza  una  certa  abili- 
tà disegnate,  stanno  a  lato,  sopra,  sotto  figure  meschine 
per  concezione  ed  esecuzione.  Mani  diverse,  di  uomini  di 
una  certa  pratica  di  disegno  e  di  uomini  i  quali,  come 
fanciulli  da  strada,  tirano  scomposte  linee  col  carbone  e 
col  gesso,  devono  avervi  lavorato:  e,  tra  questi,  dilettanti 
da  strapazzo  con  evidenti  disposizioni  all'arte. 

Nessun  ordine  nella  impostativa  di  quelle  figure.  Do- 
ve lo  spazio  mancava,  queste  si  addossavano  tra  loro  sen- 
za limite,  senza  regola,  senza  misura,  senza  riguardo, 
inconsideratamente.  Sì  direbbe  che  ciascuno  pensava  so- 
lamente a  sé,  secondo  l'impulso  dell'animo  proprio,  non 
preoccupandosi  di  quel  che  altri  potesse  aver  fatto.  La 
prevalenza  dell'elemento  religioso  si  afferma  in  immagini 
di  santi;  quella  dell'elemento  profano  in  teste  di  immagini 
di  donne  e  in  ornati  svariatissimi.  Una  medesima  mano 
esegue  sopra  una  pare!fe  santi  e  sante,  e  sopra  un'altra 
Cristo,  santi  e  devoti.  I  singoh  santi,  dell'altezza  media 
di  m.  0,75  l'uno,  poggiano  sopra  basi  (in  media  di  m. 
0,35  di  lunghezza)  somiglianti  ai  gradini  di  fercoli  ordinari. 
Dentro  gli  ornati  di  queste  basi  è  il  nome  latino  del  santo 
ed  un  motto  qualificativo  quasi  antonomastico  di  esso. 

Quali  materie  coloranti  poterono  esser  messe  in  opera 
in  questi  grafiti? 

Tre  solamente:  il  nero,  il  giallo  ed  il  rosso:  ma  questi 
due  così  deboli  ed  incerti  che  in  più  punti  non  compari- 
scono. A  giudicarne  ad  occhio  e  croce  sembrano  di  terra 

14 


VARIE    SEDI    DELLA    INQUISIZIONE    IN    PALERMO 

colorata,  applicata  senza  preparazione  di  fondo,  con  me- 
todo sommario,  ma  di  efficace  effetto.  L'esame  chimico 
rivela:  pel  giallo,  il  protossido  di  ferro  (terra  gialla),  pel 
rosso  il  sesquiossido  di  ferro  (sinopia  e  terra  rossa),  pel 
nero,  il  nerofumo,  probabilmente  di  lampada;  ma  in  al- 
cuni posti  la  così  detta  inga,  cioè  il  vecchio  inchiostro  da 
scrivere. 

Nella  terza  cella  però  a  questi  colori  se  ne  aggiunsero 
degli  altri,  il  verde  ed  il  rosso  forte:  e  non  è  dubbio  che  i 
penitenziati  di  questa  cella  dovettero  avere  qualche  buon 
momento  di  agevolezze  o  di  tacita  acquiescenza  da  parte 
dall'Alcalde  di  questo  carcere. 

Il  livello  alto  può  spiegarsi  con  qualcuna  delle  panchette 
che  nelle  celle  non  mancavano  mai.  Favoriti  dalla  scarsa 
luce  del  carcere,  questi  colori  non  si  scomponevano  e,  fe- 
lix  culpa!,  vennero  conservati  dalle  imbiancature. 

Veniamo  ora  alla  visita  particolareggiata  delle  tre  celle 
salvate  dal  piccone  demolitore. 


15 


Capitolo  II. 
PRIMA  CELLA 


OMiNCiANDO  dalla  cella  che  prima  si  pre- 
senta a  destra  di  chi  sale,  ma  che,  come 
si  è  detto,  dovett'essere  l'ultima  nel  se- 
colo XVII,  quando  cioè  la  sàia  di  accesso 
a  questo  carcere  partiva  dal  lato  opposto, 
noi  procederemo  all'esame  della  parete  destra. 

All'altezza  di  quasi  due  metri  sono  due  grandi  rettili: 
a)  a  destra  un  serpente  con  piccole  orecchie  acute, 
avente,  alla  bocca,  un  cartello  rettangolare  riquadrato  con 
la  iscrizione  a  grosse  lettere: 


CAUTI  ESTO 

TE  ET  NO 

LITE  ME 

TANGERE. 


i6 


PRIMA  CELLA 


Simbolo,  questo,  di  prudenza,  raccommandazione  di  ac- 
cortezza, che  può  interpretarsi  come  meglio  piace. 

b)  a  sinistra,  un  mostruoso  dragone  alato  con  testa  irt 
alto,  lingua  dardeggiante,  due  piedi,  dei  quali  il  destro  tie- 
ne altra  iscrizione  del  seguente  tenore  : 


CAVETE  QV 
lA  SOLO 
ASPECTV 

INTERFICIO. 


Gli  è  come  si  dicesse  un  basilisco,  il  favoloso  mostro, 
che  uccide  solo  a  guardarsi.  O  che  abbia  voluto  l'autore 
simboleggiare  in  esso  la  Inquisizione,  mostro  letale  anche 
nell'aspetto? 

In  mezzo  ai  due  cartelli  sorge  un'aquila  bicipite  con 
una  corona  principesca  o  ducale  in  mezzo  alle  due  teste, 
entrambe  debolmente  ripiegate  a  destra  ed  a  sinistra.  Il 
suo  corpo  è  tutto  coperto  da  un  motto  pur  esso  inquadrato  : 


[V]  IRTUS 

ET  MO 

TUS 

[A]  BEST. 


E  di  vero,  la  forza  è  venuta  meno  al  re  degli  uccelli, 
perchè  il  moto  è  venuto  a  mancare.  Quest'aquila  simboleg- 
gia il  penitenziato,  cui  i  dolori  e  le  tribolazioni  han  tolto 
con  la  libertà  e  la  vigoria. 

I.  Sant'Agata,  tenente  con  la  mano  destra  un  vasetto, 

2  -  G.  PURÈ  ■  Sant'Uffizio 


SANT'UFFIZIO 

nel  quale  invano  si  cercano  le  parti  del  suo  corpo  che  sim- 
boleggiano il  suo  martirio. 

2.  S.  Antonio  Abate  con  la  indicazione: 

S.    Antonius 
DEMONIA  ET...   ENDE 
Di[CANT]    MIRABILIA. 

Giova  notare  che  nella  parete  che  guarda  a  mezzogior- 
no, di  fronte  a  chi  entra,  sono  avanzi  di  una  figura  che  da 
un  giglio  che  sporge  in  fuori  e  dal  frammento  d'iscrizione: 

m  TE 

O   CASTITÀ  [TIS] 

ET  PADV[AE] 

GLOR[IA], 

si  rivela  per  S.  Antonio  da  Padova. 

Qui  s'incontrano  i  più  bei  caratteri  delle  tre  celle,  so- 
miglianti molto  a  tipi  da  messale.  Sono  strofette  d'un  Innoi 
a  S.  Antonio  da  Padova,  ma  assolutamente  illeggibili,  per-] 
che  sbiadite  e  quasi  scomparse. 

Il  solo  primo  verso,  leggibile,  è  questo  : 

O  proles  Hispaniae 

e  poi  qualche  parola  dei  versi  seguenti. 

Quest'inno,  irreperibile  nei  breviari  e  nei  messali  ordi- 
nari, è  l'antifona  dell' <(  ufficio  proprio  »  di  S.  Antonio  da 
Padova,  la  quale  vuoisi  composta  da  S.  Bonaventura,  men- 
tre altre  la  vogliono  del  Card.  Guy  de  Montfort,  che  la  fece] 
incidere  sul  ricco  reliquiario  che  contiene  il  mento  dell 
Santo. 


i8 


PRIMA  CELLA 

Ecco  l'antifona  quale  corre  a  stampa  nell'ufficio  proprio 
di  esso  Santo. 

Le  parole  non  chiuse  in  parentesi  quadre  sono  le  sole 

decifrabili. 

AD   DIVINUM   ANTONIUM 
DE  PADUA 

O  proles  Hispaniae 
[Favor  infidelium, 
Nova   lux    Italiae 
Nobile  depositun» 
Urbis  Paduanae. 
Fer,    Antoni,    gratiae] 
Christi   [patrocinium] 
Ne  prò    [lapsis  veniae] 
Temp  [us    breve    creditum 
Defluat]    inane. 

Seguono  preghiere  illeggibili  anch'esse  ma,  con  l'ufficio 
proprio  alla  mano,  è  facile  comprendere  che  sono  dei  versus 
e  dei  responsoria,  ecc.  (i). 

La  presenza  di  questi  versi  in  lode  del  taumaturgo  di 
Padova  dà  a  peiisare  ad  un  penitenziato  dell'ordine  fran- 
cescano; né  chi  vi  si  fermi  ad  agio,  avrebbe  ragione  con- 
traria. 

L'ufficio  proprio  di  un  santo  può  bensì  conoscersi  da 
qualunque  sacerdote,  ma  chi  ne  recita  e  trascrive  a  memo- 
ria un  brano  poetico,  induce  a  credere  ad  un  religioso  del 
Serafico  d'Assisi,  del  cui  ordine  appunto  fece  parte  S.  An- 
tonio. 

Il  santo  poi  che  non  poteva  non  suonare  sulle  labbra  di 

(i)  C.  Da  Sabbioneta,  S.  Antonio  da  Padova-.  Vita,  Miracoli, 
Culto  t   devozione,    p.   93.   Milano,    1901. 

19 


SANT'UFFIZIO 

qualsivoglia  come  una  specie  di  S.  Leonardo,  liberatore  dei] 
carcerati.  Due  versi  di  un  responsorio,  infatti,  dicono: 

Cedtint  mare,   vincula. 
Membra    resque    perditas 
Petunt  et  accipiunt 
luvenes  et  cani    (i). 

3.  Santa  Rosalia,  a  piedi  nudi,  coperto  il  capo  con  un 
manto  che  scende  stretto  alla  vita.  Regge  un  rosario  con 
la  mano  sinistra,  un  bastone  che  però  potrebb' essere  una 
croce,  alla  destra,  ed  un'iscrizione  a  mezzo  la  veste.  In  bas- 
so, il  motto: 

LiETITIA     CIVITA 
TIS  PANORMI. 

La  iscrizione,  eloquentissima  pel  significato  del  luogo, 
dice: 

O  Rosalea,  sicut  liberasti  a  peste  Panhormum, 
Me  quoque  sic  libera  carcere,  et  a  tenebris 

Non  occorreva  il  nome  perchè  si  sapesse  la  santa  raf- 
figurata. Dire  della  liberatrice  di  Palermo,  è  dire  della  pa- 
trona della  capitale  di  Sicilia.  E  la  Sicilia  tutta,  in  mappa 
geografica,  è  lì  sottostante  a  Rosalia,  quasi  messa  sotto  la 
sua  protezione  benevola  e  sicura. 

Ma  di  questa  mappa  non  tocca  ora  discorrere. 

Solo,  a  proposito  della  Santa,  vo'  rilevare  che  se  il  no- 
me qui  è  Rosalea  e  non  Rosalia,  negh  anni  che  seguirono, 
alla  invenzione  delle  ossa,  i  cronisti  e  gli  eruditi  scrivevano] 

(i)  C.  Da  Sabbioneta,  op.  cit.,  p.  190. 


20 


PRIMA   CELLA 

promiscuamente;  mentre  ora  nessuno  scriverebbe  più  Ro- 
salea. 

4.  S.  Vito,  in  costume  spagnuolo  del  sec.  XVII,  che 
regge  alcune  catene  alle  quali  è  legato  un  cane  e  sotto: 

CANVM,  ET 

LEONVM  ORA 

CONCLUDO 

Nell'altra  parete,  ai  lati  della  finestra: 

5.  S.  Caterina  Vergine  e  Martire,  avente  alla  destra 
una  palma,  alla  sinistra  la  ruota  del  martirio  poggiata  sul 
terreno  : 

SPLENDOR  CASTITATIS 
ET   DOCTRINA   M       TTO. 

6.  Cristo,  col  motto  biblico: 

TU  SOLVS 
PEREGRINUS  lERV 

SALEM  (i). 

7.  Testa  di  un  santo  monaco,  superiore  per  correttezza 
"di  disegno  e  sentimento  alle  altre. 

8.  Cristo  risuscitato:  la  più  grande  figura  di  tutta  la 
cella,  alta  m.  1.45  sopra  uno  di  base,  ove  si  legge: 

O  MORS.   VBI  EST  VICTORIA  TUA?    (2) 
D.  FRANCISCVS  CARAFA  SERVVS  TVVS. 

(i)  Evangelium  secundum  Lucam,  e.  XXIV,  v.  18:  a  Et  re- 
spondens  unus,  cui  nomen  Cleophas.  dixit  et:  Tu  solus  pere- 
grinus  es  in  Jerusalem,  et  non  cognovisti  quae  facta  sunt  in 
illa  his  diebus  ». 

(2)  Epistola  I  Beati  Pauli  ad  Corinthios,  cap.  XV,  v.  55  : 
«  Ubi  est,  mors  Victoria  tua?  Ubi  est  stiniulus  tuus?  ». 


21 


SANT'UFFIZIO 

Questa  figura  offre  qualche  reminiscenza  del  Cristo  ri- 
sorto di  Pietro  Novelli  nella  Chiesa  madre  di  Piana  dei] 
Greci;  il  quale  però  è  sospeso  in  aria  appena  uscito  dal  se-' 
polcro.  La  reminiscenza  è  nella  testa,  nelle  membra,  nel  ves- ] 
siilo  che  Cristo  regge  colla  mano  destra. 

Questa  figura  poi  è  l'unica  nella  quale  senza  stento  si] 
raccoglie  un  nome  che  invano  si  cercherà  nella  serie  di  dì- 
segni,  motti,  orazioni,  versi,  di  tutta  la  stanza. 

Il  medesimo  nome: 

CARAFA 
ricomparisce  a  poca  distanza  dalla  figura,  verso  i  piedi;  e 
come  nome  ci  fa  ricordare  di  quel  Placido  Carata  che  nel 
1655  fu  protettore  o  vice-tesoriere  della  Inquisizione  in  Pa- 
lermo. Come  nome,  dico,  e  non  già  come  persona  che  pos- 
sa con  sicurezza  identificarsi  con  quella  della  nostra  cella. 
Un  Francesco  Carafa  fu  nella  seconda  metà  del  Seicento^ 
capitano  d'esercito;  e  nel  167 1  da  generale  della  flotta  mal- 
tese riportò  una  strepitosa  vittoria  sopra  i  Turchi  (i).  Altro 
Francesco  Carafa  fu  Preposito  della  Madre  chiesa  di  Mo- 
dica nel  1659;  stette  quattr'anni  a  Roma,  al  corteggio  del 
Cardinale  Trivulzio;  conobbe  D.  Antonio  Requesens,  pa-- 
rente  del  noto  Vescovo  di  Patti  e  forse  lo  stesso  Vescovo, 
e  come  lui  non   ebbe  molta  simpatia  per  gli  Spagnuoli. 
Una  sua  lettera  del  1660  ragguaglia  il  Viceré  di  avere  egli^ 
conosciuto  in  Roma  un  noto  agitatore  messinese,  rifugiato 

(i)  Vedi  :    Strenuissimo  Melitensium    triremiuni   generali  Dttciì 
Francisco   Carafae   ob    {nsignem    victoriam      ab   ipso   comparatam 
anno    1671    expugnata   captaque   rostrata   barbarorum    navi,    Haec 
mea  dico  carmina  S.  Theologiae  Doctor  D.  Pedrus  Forte  Panor-i 
mitanus.   Panormi,   ex  Typografia  Petri  de  Isola,    1672. 


22 


PRIMA  CELLA 

anche  lui  in  quella  città,  andato  nascostamente  a  Messina 
e  quindi  attivamente  ricercato  «  per  aversi  nelle  mani  »  (i). 

Escludo  il  primo  di  questi  due  Carafa,  perchè  nessuno 
dei  penitenziati  si  sarebbe  occupato  di  lui,  potente  ed  estra- 
neo al  Sant'Uffizio;  inclino  al  secondo,  per  la  sua  vita  un 
po'  agitata  e  forse  spregiudicata  e  per  la  sua  antipatia  verso 
la  Spagna. 

Se  poi  l'autore  della  figura  del  Cristo  sia  lui,  non  è  ri- 
cerca interessante,  come  è  peraltro  difficile.  Può  esserne 
stato  il  consigliere,  il  quale,  stando  in  carcere,  può  avere  ot- 
tenuta da  un  compagno  semi-artista  quella  raccomandazio- 
ne o  profferta.  Certo,  si  volle  affidare  il  suo  nome  alla 
principale  composizione;  che,  se  non  eccelle  (e  non  eccelle 
difatti)  per  esattezza  di  disegno,  è  notevole  per  aitanza  di 
inmiagine  e  per  energia  di  mossa,  pure  ammettendosi  che 
la  testa  sia  stata  rifatta  o  ritoccata  da  altri,  tanto  è  spropor- 
zionata col  corpo  e  male  piantata  sul  collo. 

Né  deve  parere  fuori  del  possibile  il  ritocco  quando  si 
pensi  che  due  altre  figure  ne  presentano  le  traccie:  la  te- 
sta di  S.  Rosalia  e  quella  di  un  signore  che  prega  e  del 
quale  farò  presto  cenno.  Un  carcere  è  sempre  esposto  a  chi 
vi  sta  dentro:  e  chi  vi  sta,  nella  durezza  del  trattamento, 
nella  tristezza  della  solitudine  e  nell'avvilimento  dell'ozio 
cerca  di  ingannare  le  ore  attaccandosi  come  fanciullo  alle 
più  piccole  cose,  anche  a  quella  di  rivedere  il  già  fatto  da 
altri,  sia  per  completare,  sia  per  correggere,  sia  anche  per 
gareggiare. 

E'  così  strana  la  umana  psiche!... 

(i)  Lettera,   ahimè,   divenuta  postuma  del  compianto  barone 
Giuseppe  Arenaprimo  da   Messina,   in   data  del   25  agosto   1906.^ 

23 


SANT'UFFIZIO 

9.  Un  signore  che  prega.  E'  certamente  questa  la  figu- 
ra più  completa  e  complessa  del  gran  quadro,  e  forma  come 
il  passaggio  dall'elemento  sacro  al  profano. 

Siamo  innanzi  ad  un  nobile  del  Seicento,  in  tutto  il  co- 
stume ed  assetto  del  tempo,  cominciando  dal  ciuffetto  sulla 
fronte  e  dai  baffi  rialzati  e  finendo  alle  scarpine  con  fibbie. 
Di  faccia  a  lui  è  trascritta  la  preghiera  che  egU,  gi- 
nocchioni ed  a  mani  giunte,  viene  recitando:  preghiera  la- 
tina, dove  sono  leggibili  solo  le  parole:  Oremus,  Domine 
Jesu...  Confessor...  in  auxilijs  ac  gaudiis...;  al  lato  sinistro 
il  suo  stemma:  grande,  complicato,  nel  quale  sono  inquar- 
tate chi  sa  quante  armi  dei  suoi  antenati  e  collaterali!  Cin- 
que corone,  un  bastone  da  pellegrino,  una  testa  di  leone, 
teste  di  uccelli,  ornamenti  di  quadretti  neri  e  bianchi;  e  di 
sopra  una  corona  marchionale  ed  un  uccello  sulla  corona;  ir- 
refutable  documento  che  dovrebbe  condurre  alla  conoscen- 
za del  personaggio. 

Ma,  a  farlo  apposta,  quell'arme  non  esiste  in  Sicilia,  né 
in  Napoli,  né  in  Ispagna;  non  esisteva  nel  sec.  XVII. 

La  elegante  figura  lascia  incerti  sull' esser  suo:  è  il  Cara- 
fa  del  Cristo  risuscitato?  è  un  imputato  che  sconta  una  pe- 
na? che  si  raccomanda  a  Dio  acciò  voglia  affrettare  la  sua 
liberazione? 

Ricerche  posteriori  alle  mie  potranno  svelare  il  mi- 
stero. 

Questa  figura  intanto  per  la  sua  acconciatura  serve  co- 
me a  determinare  il  tipo  prevalente  di  altre  nelle  nostre 
celle.  I  baffettini  col  pizzo  ricompariscono  qua  e  là  nelle 
immagini  sacre  maiscoline,  la  maggior  parte  delle  quali  sono 
in  questi  inappuntabilmente  spagnoleggianti.  I  carcerati,  vo- 


24 


PRIMA   CELLA 

lendo  rappresentare  santi  della  chiesa,  non  sapevano  conce- 
pire mode  diverse:  è  così  è  della  pettinatura  delle  sante. 

Mi  trovo  in  questa  parete  e  mi  ci  fermo  ancora:  tanto 
le  mie  osservazioni  si  aggirano  intomo  alle  rappresentazioni 
presso  a  questa  figura. 

In  alto  è  una  grande  sfera  raggiante,  che  occupa  un 
metro  quadrato  circa.  Da  presso  due  date,  l'una  sotto 
l'altra,  in  mezzo  a  scritture  scomparsa  od  illeggibili: 


.     .     .    Anno   1643 
augu... 

IX    [indictionis] 

.     .     .     .    GA      .... 

OPFEIA  (?)  .     .     . 

.    1645. 

E  forse  ricordano  due  atti  di  fede. 

Nella  parete  che  costi tusce  il  muro  meridionale  esterno, 
a  lato  del  Cristo  con  la  iscrizione  tu  solus....  è  una  notiziat 
inedita  e  nuova  di  un  atto  di  fede  non  mai  conosciuto  fino- 
ra, che  è  formulala  in  queste  parole: 

Ai  21  di  luglio  1646 
si  fici  lo  spittacolo 
in  S.  Domenico  di 
trentatrè  persone 
tra    huomini    e    donne. 


25 


SANT'UFFIZIO 


,  Questa  indicazione  viene  confermata  da  altra  simile  del- 
la terza  cella,  ove,  sulla  parete  orientale,  in  alto,  presso 
una  delle  piì  belle  figure  di  sante,  si  legge: 


a...  2  di  [lugliu]    164...  vi  fu 
lu    spitta  [colu]    in    S.    Domenico 

fntriTTiii     11     li 


Il  resto  è  coperto  da  una  figura  posteriormente  disegnata,  la 
quale  giova  lasciare  intatta. 

E'  chiaro  che  si  parla  d'un  medesimo  spettacolo,  dove 
la  cifra  23  può  essere  sbagliata  o  non  letta  bene;  mentre  il 
numero  33  è  tutto  e  quasi  chiaramente  scritto. 

Chiaro  egualmente  che,  se  non  tutti  e  due,  il  secondo, 
rinchiuso  nella  terza  camera,  fu  dei  penitenziati,  un  testimo- 
nio oculare,  spettacolo  egli  stesso,  e  vittima  di  occulti  ac- 
cusatori e  di  facili  giudici.  Vittima  silenziosa,  che,  dopo  di 
aver  affidato  al  capo  del  suo  giaciglio  l'atto  più  odioso  sta- 
to compiuto  contro  di  lui,  non  ha  una  parola  di  risen- 
timento. 

E  chiediamo  ancora  per  lui;  chi  è  egli?  e  rispondiamo: 
chi  lo  sa!... 

Certo  però  non  è  un  palermitano.  Il  fommu  per  fontu 
lo  rivela  un  regnicolo,  come  a  dire  un  provinciale. 

A  questo  proposito  mi  soccorrono  i  graffiti  d'un  altro 
carcere,  il  più  duro  che  io  abbia  mai  visto:  quello  dei  pri- 
gionieri di  Stato  dentro  il  Castello  a  mare  in  Palermo. 

Nelle  sei  celle,  che  meglio  si  dovrebbero  chiamare  bolge 
di  esso,  dal  Cinquecento  al  Settecento,  s'incontrano  segni 
perfettamente  identici  a  questo.  Son  linee  verticali  tagliate  o 
sottosegnate  da  linee  longitudinali,  senza  dubbio  a  ricordo 

26 


PRIMA  CELLA 

di  periodi  settimanali,  o  mensili  durati  e  segnati  dalle  vitti- 
me dentro  le  infami  fosse.  Non  parlo  di  periodi  annuali 
perchè  chi  vi  veniva  seppellito  dentro,  non  poteva  vivervi 
a  lungo,  che,  per  lenta  agonia,  doveva  fatalmente  soccom- 
bere. Notte  orrenda,  continua,  assoluta  regna  anche  oggi 
in  quei  sotterranei  dalle  volte  e  dalle  pareti  grondanti  umi- 
dore, come  gli  occhi  dei  condannati  lacrime  :  e  muffe  e  lez- 
zo come  di  rettili  putrescenti.  E  in  quella  notte  etema,  non 
illuminata  mai  da  un  raggio  di  sole,  da  un  filo  di  luce  sotto 
torrenti  di  luce  del  bel  cielo  della  vecchia  capitale,  sul  ma- 
schio mastodontico  e  pesante,  le  vigili  scolte  passeggiavano 
ignare  o  involontarie  sorde  ai  gementi  sotto  di  loro.  E 
chi  sa  che  primi  ad  esalarvi  lo  spirito  non  fossero  stati  dei 
penitenziati  del  S.  Of tìzio,  quando  questo,  nel  sec.  XVI,  vi 
ebbe  sede! 

Altra  mano,  o  forse  la  medesima,  su  questa  data  storica 
notava  altro  ricordo,  non  istorie©  ma  morale.  Dei  cinque  ri- 
ghi che  lo  formano,  si  leggono  le  frasi:  hilari  animo,...  quoa 
non  es  primus,  che  insieme  con  la  proposizione  et  imbecil- 
liores...  esse  nolite  pare  raccomandi  animo  e  forza. 

Lì  vicino,  di  colore  giallognolo  son  dei  segni  come 
di  taglia  o  di  calendario  : 


20 


I  punti  giungono  alla  14*  linea  verticale,  e  le  linee 
verticali  indeboliscono  di  colore  mano  mano  che  procedono 
innanzi.  Sono  dei  segni  per  contare  i  mesi,  gli  anni?  Qua- 
le infelice  veniva  prendendo  nota  del  tempo  della  sua  pri- 
gionia? 


27 


SANT'UFFIZIO 

Ed  ancora,  sopra  la  S.  Caterina,  a  grandi  lettere  come 
quelle  d'un  antico  abecedario,  si  legge  il  seguente 

Sonetto. 

L'ultima   volontà   scriver   desio; 
volate,  o  Serafini,  in  un  m[omento] 
Et  irentre  vo  dettando  il  t [estame]  nto 
Registrate  nel  ciel  gl'atti  d'un  Dio. 

Lascio    all'Eterno    Padre    il    spirto    mio, 
«'>)ndono  a'  miei  nemici  il  tradim[ento] 
E  do  a  chi   [m'oflesje  il  pentimento 
Lieto  de er  legato  pio. 

E  non  c'è  altro,   perchè  le  due  terzine  che  dovevano 
seguire,  sono  cadute  scalcinate. 

L'autore  di  questo  sfogo  fece  man  bassa  sopra  lo  spazio 
che  potè  invadere  nello  scorcio  della  parete  a  sinistra.  Qui- 
vi delineò  una  figura  di  S.  Pietro,  che  verso  la  spalla  de- 
stra ha  il  motto: 


PETRUS 

APOSTOLVS 

IESU[CHRISTjI. 


Sulla  vita  due  versi  latini,    dei  quali  riesco  a  legger 
solo: 


tam p o  eius. 


28 


PRIMA   CELLA 

E  più  sotto,  un  terzo  rigo  : 

[Tu  es'\  Petrus  et  [super]  hanc  pe 
tram  aedificabo  Ecclesiam  meam. 

In  direzione  della  regione  mammaria,  di  altra  mano: 
Manca  Anima. 

Su  tutta  la  figura  poi,  in  alto,  è  una  ottava  siciliana, 
che  fa  sentire  il  Seicento  con  le  sue  stupefacenti  iperboli: 
Eccola  : 

O   Petru.    ssoccni  chi  ficiru    ecclissi 
pr'  haviri  à  Christu  tri  voti  nigari. 
Ma  quali  mani  supra  carta  scrissi? 

.     quantu   havisti  à   fari? 
si  pir  scrittura  /  fidi  chi  cridissi 
chi  l'acqui  l'autu  Diu  l'happi  à  criari 
dima  chi  forsi  li  lacrimi  spissi 
di  tia  San  Petru  tu  inchisti  lu  mari. 

Dalla  linea  orizzontale  del  santo  si  passa  ad  un'altra  fi- 
gura, coi  capelli  sciolti,  una  palma  alla  mano  sinistra,  una 
coppa  con  due  occhi  alla  destra.  Alla  base: 

S.  LUCIA 

attorno  alla  quale  forse  un  solo  e  medesimo  devoto  profon- 
de le  debolissime  grazie  della  musa  italiana  e  gli  ingegnosi 
giuochi  della  latina. 

Sul  capo  è  questo  povero  sonetto  :  i 

Già   mai   potrò.   Lucia,    chiara   mia   sposa 
lodar  a  pieno  col  mio  basso  stile 
la  tua  bontà  nel  pet[to]    e  '1  cuor    [virile] 
e  tu  dell' honor  tuo  fosti  zelosa. 


29 


SANT'UFFIZIO 

Intrepida  con  voce  imperiosa 
rifluì  asti  il  tiranno  infame  e  vile 
e  se  di  Dio  sposa,  e  serva  humile, 
rimanesti  di  lui  vittoriosa. 

E  s'egli  poi  il  malvagio  fier  et  empio 
volea  forse  il  tuo  virgineo  fiore 
toglier  da  te,  non  potè  mai  cotanto. 

E  restò  intatto  il  tuo  sacrato  tempio 
che  benché  fossi  tratta  con  furore, 
immobile  ti  rese  il  Spirto  Santo. 

//  tuo  devoto. 

Al  lato  sinistro,  alla  estremità  della  palma,  queste  pa- 
role: 

Columna  es  immobilis 
Lucia  sponsa  Christi 

[Quia]  omnis  plebs  expectat 

[Ut  accipias  a]    Deo  coronam  vitae.   Alleluia. 

Queste  parole,  scritte  in  forma  metrica,  non  sono  origi- 
nali, ma  fan  parte  dell'Ufficio  proprio  della  Santa  (XIII 
Dicembre),  e  ne  costituiscono  l'antifona  ad  benedictio- 
netn. 

Sta  però  una  variante  all'ultimo  verso  o  rigo;  perchè 
Va  Deo  nell'Ufficio  non  esiste  (i). 

E  sotto,  il  distico: 


Lucia  quae  luces  ceu  lux  a  luce  relucens 
Praebe  mihi  lucem,  Lucia,  luce  tua. 


(i)  Breviarium  Romanum  ad  usum  fatrum  minorum  Samcti 
Francisci  Conventualium  etc  in  quo  officia  Sanctorum  juzta  no- 
vissima indulta  et  devota  Leonis  Papae  XIII  etc.  accurate  dispo- 
nuntur,  p.  748.  Romae,  Salv.  MDCCCXXXVIII. 

30 


PRIMA  CELLA 

Lo  sforzo  dell'arte  vi  si  indovina,  ma  la  fluidezza  dei 
versi  e  l'abilità  della  composizione  sul  nome  di  Lucia  che  è 
ben  trovata  nel  lucere,  sono  da  scrittore  abilissimo.  Egli 
del  resto  invoca  in  questa  buia  notte  la  luce. 

Sulla  porta  l'ingresso  alla  chiesuola  di  S.  Lucia  presso  la 
Marina  in  Savona  si  legge  anche  ora  il  seguente  distico  at- 
tribuito a  Gabriello  Chiabrera: 

Lucida  lucenti  lucescis.  Lucia,  luce. 
Lux  mea  luceat,  Lucia,  luce  tua  (i). 

La  identità  del  concetto  generale  nei  due  distici 
si  traduce  in  somiglianza  di  forma  nel  primo  verso,  in  iden- 
tità nella  seconda  metà  del  secondo. 

Se  il  distico  savonese  è  del  Chiabrera  (1553-1637),  pre- 
cede quello  di  Palermo;  se  non  lo  è,  chi  può  affermare  la 
imitazione  e  non  ammettere  piuttosto  una  duplice  origine, 
non  improbabile  con  la  voce  Lucia  ed  il  significato  di  essa? 
IO.  Ma  più  che  questa  immagine,  bella  è  una  testa 
di  uomo  che  si  intravede  in  mezzo  alla  confusione  di  tutta 
la  parete  occidentale:  testa  che  copre  altri  disegni  e  pen- 
sieri di  chi  trovò  primo  un  po'  di  largo. 

Questa  testa  per  gli  occhi  e  la  bocca  pieni  di  espressione 
sembra  a  me  più  pregevole  che  qualunque  altra;  e  certa- 
mente si  stacca  come  il  buono  dal  mediocre  da  due  altre  (11, 
12),  teste  di  donne,  che  vi  stanno  vicine,  e  sono  di  mano  di- 
versa. Ma  anch'esse,  pure  rappresentando  passatempi  ca- 
pricciosi, vogliono  tenersi  di  conto  pel  costume.  L'acconcia- 
tura, non  di  popolane,  ma  di  donne  civili  ed  anche  nobili, 
offre  un  vezzo  di  capelli  sul  davanti  della  testa,  il  quale  non 

(i)  Devo   questa   indicazione   all'on.    Paolo   Boselli. 
31 


SANT'UFFIZIO 

dev'essere  stato  raro  in  Palermo,  e  l'autore  non  deve  averlo 
tratto  dalla  sua  fantasia.  Senza  dubbio,  fu  moda  femmini- 
le; e  ricorre  in  una  gran  bella  testa  disegnata  nella  parete 
di  contro,  presso  un  lembo  della  tunica  di  S.  Pietro;  ed  in 
altre  quattro  o  cinque  figure  donnesche,  di  piccolissime 
dimensioni,  ma  grossolane  nella  parete  di  destra;  e  tutte 
hanno  riscontro,  non  solo  per  il  ciuffo  sulla  fronte  ma  anche 
per  una  specie  di  zazzera  cadente  dal  lato  posteriore  del  col- 
lo: foggia  tanto  comune  verso  la  metà  del  sec.  XVII  che 
un  poeta  la  colse.  Pietro  FuUone,  il  popolarissimo  cavapie- 
tre, cantando  la  disastrosa  pioggia  del  i6  aprile  1651  sul 
Monte  Pellegrino,  si  volge  alla  giovane,  che  pompeggiante 
si  era  recata  per  la  festa  delle  Quarantore,  e  le  dice: 

Tu  chi  spampata  ssa  zazzara  porti   (i). 

13.  Ed  eccomi  alla  figura,  vorrei  dire  tecnica:  quella 
di  un  Inquisitore.  Chi  la  buttò  giù  sulla  cornucopia  destra 
del  mascherone  tanto  appariscente  della  parete,  se  non  ri- 
trasse un  uomo,  fissò  un  costume,  anzi  una  istituzione. 
Non  recriminiamo  né  su  questa  né  su  quello.  Siamo  a  mezzo 
il  Seicento  e  possiamo  ben  ritenere  che  i  sacrificii  umani 
non  saranno  ininterrotti  come  nel  secolo  precedente.  Il  Cin- 
quecento è  passato  da  un  pezzo;  e  i  roghi  non  sono  accesi 
con  la  frequenza  di  una  volta. 

I  deliziosi  giardini  chiaramontani,  che  il  dispetto  di  un 
re  e  le  brutture  dei  tempi  ridussero  a  sterili  campagne, 
fiammeggeranno  sì,  ma  non  più,  come  per  lo  addietro,  con 
assidua  vicenda  di  anni.  Poco  più  che  un  secolo  ancora:  e 

(l)  BOGLINO,  Intorno  ad  un  poemetto  inedito  in  ottava  rima 
di  P.  Fullone.  ott.   12.  Palermo,  Monteira,   1878. 


32 


PRIMA  CELLA 

SU  di  essi  sorgeranno  la  Villa  Giulia  e  l'Orto  Botanico  a  far 
dimenticare  gli  orrori  di  un  tempo.  Ed  i  profumi  delle  za- 
gare si  spanderanno  ad  attutire  il  lezzo  delle  carni  umane: 
ed  attorno  al  verde  degli  aranci  si  dileguerà  il  denso  fumo 
che  da  esse  si  levò  sinistramente. 

Ornamenti  svariati  accompagnano,  pigiano,  opprimono 
le  figure. 

Un  gran  braciere  con  un  cuore  che  vi  arde  dentro,  dal  cui 
centro  obliquamente  in  alto  un  motto  forse  incompleto: 

FERITO  SON 

NATVRA  MI  POS 

SO 

Senza  le  fiamme  il  braciere  si  prenderebbe  per  un  vaso 
di  fiori,  a  base  molto  lunga,  fin  troppo  lunga.  E'  un  bracie- 
re antico. 

Lì,  sotto  S.  Vito,  uno  scudo  sorretto  ai  lati  da  un  leone 
e  da  un'aquila,  col  motto  allusivo: 

CVM 

INFIRMOR 

TVNC 

POTENS 

SVM 

E  qua  e  là,  avanzi  di  edificioli  con  torri,  ringhiere,  pi- 
lastri e  finestre;  e  in  tre  punti  diversi  di  tre  pareti,  cipressi, 
pecore  che  pascolano  ed  una  gigantesca  civetta,  espressione 
dello  stato  d'animo  di  qualcuno  che  in  quel  carcere  intristì, 
turbata  la  mente  dal  pregiudizio  che  la  civetta  sia  nunzia 
di  sventura  e  simbolo  della  prossima  fine. 

Un  piccolissimo  disegno  nero  sta  come  all'ombra  del 

33 

3  -  G.  PITRÈ  .  SantUHlrìo 


SANT'UFFIZIO 

Cristo  risuscitato.  Un  ultimo  ginocchioni  innanzi  allo  Spirito 
Santo  in  forma  di  colomba  circonfusa  di  raggi.  Egli  prega  a 
mani  giunte  e  dalla  sua  bocca  escono  le  parole  : 

Infunde  amorem  cordibus. 

Ah  si!  egli  recita  il  Veni  Creator  Spiritus,  ha  bisogno] 
della  carità  degli  uomini  che  lo  tengono  in  quelle  strette! 
Dietro  di  lui  son  le  lettere  V.  F.  S. 

Questa  rassegna  è  solo  una  parte  di  ciò  che  offre  la 
cella  muta  fino  a  ieri.  Ben  altro  ci  rivelano  gli  scritti.  Co- 
me dappertutto,  figurine  piccole  e  testine,  quali  a  colore 
quali  in  nero,  frasi  e  sentenze  si  riesce  a  rintracciare  intru- 
se, pigiate,  costrette,  nascoste,  dove  nessuno  può  immagi- 
nare. 

L'attività  dei  prigionieri  si  accentrava  ove  piii  scarsa 
era  la  luce,  di  fronte  alla  entrata,  presso  il  Cristo  risuscitato 
e  presso  il  gentiluomo  vestito  alla  spagnuola. 

La  oscurità  favoriva  le  loro  lamentazioni.  Nota  domi- 
nante la  prigione,  e  nella  scelta  delle  figure,  quelle  che  ne 
rispecchiano  le  pene.  Sopra  un  estremo  lembo  di  tunica, 
che  può  essere  di  S.  Leonardo,  una  mano  regge  una  cate- 
na con  un  paio  di  ceppi.  Ebbene,  cinque  parole  compendia* 
no  il  poema  dell'anima  ambasciata: 

CATTENiE  ET  VINCULA 
NARRENT   MIRACULA 

Lì  daccanto  è  un  distico  al  medesimo  S.  Leonardo,  per- 
chè si  degni  liberare  il  supplicante,  che,  come  è  dato  sup- 
'porre,  ne  porta  il  nome. 

34 


PRIMA   CELLA 

Il  distico,  non  tutto  decifrabile,  è  eloquente: 

Carceris   istius    solvas   Leonarde    cate    (nas) 
Tu  qui  captivis  rumpere  vincla  soles. 

Gran  divoto  costui,  se  può  anche  scrivere  in  angolo  così 
oscuro  due  preghiere  latine  al  suo  protettore!  Le  quali  si 
prestano  solo  alla  trascrizione  di  poche  scomposte  voci,  e 
tra  esse  captivus.  Sancii  Leonardi;  ora  prò  nobis.  Sancte 
Leonarde;  Intercedas  prò  me;  Sanctus  Leonardus  Confes- 
sor:    Patrocinio  captivos  et...   deputasti.   Per  Christum 

Dominum...  Amen. 

E  finiscono  con  questa  avvertenza: 

Utri...  scilicet  orationem  prò  carceri  [bus]  mancipatis  per- 
sonam  hic  edidit... 

Più  oltre  noi  rivedremo  questo  santo:  e  la  sua  presen- 
za concorrerà  a  spiegare  la  vita  degli  uomini  qui  ristretti. 

Davanti  ad  un  piccolo  Crocifisso,  confinato  in  uno  degli 
angoli  della  base  del  Cristo  risuscitato,  con  supremi  sforzi 
si  riesce  a  scoprire: 

Facitinni...    diri    lu 
versu  4,  5  di  lu 
salmu  131   memento 
di  Re  David 
fino  a 


La  indicazione  è  precisa,  e  viene,  com'io  penso,  da  un 
sacerdote.  Apriamo  la  Bibbia  e  cerchiamo  senz'altro  il 
salmo  CXXXI,  e  partiamo  non  già  dal  4-5,  ma  dal  i 
versetto: 


35 


SANT'UFFIZIO 

i)  Memento,  Domine,  David,  et  omnis  mansuetudinis 
eius: 

2)  Sicut  juravit  Domino,  votum  vovit  Deo  Jacob; 

3)  Si  iniroiero  in  tabernaculum  domus  meae,  si  ascen- 
derò in  lectum,  strati  mei: 

4)  Si  dedero  somnum  ocuMs  meis,  et  palpebris  meis 
dormitationem; 

5)  Et  requiem  temporibus  meis;  donec  inveniam  locum 
Domino,  tabernaculum  Deo  Jacob. 

Il  supplice  ecclesiastico  si  richiamava  al  cantico  del  sal- 
mista ed  implorava  che  qualche  anima  pietosa  pregasse  il 
Signore  per  lui.  Poteva  il  pover  uomo  spingere  la  preghiera 
fino  al  verso  9  :  «  Sacerdotes  tui  induantur  justitiam;  et 
sancii  tui  exsultent  n;  ma  si  guardò  bene  dal  farlo. 

Molto,  ma  molto  interessante  dev'essere  la  storia  scrit- 
ta in  sottilissima  calligrafia  in  altro  degli  spazi  laterali  a 
questo:  storia  d'un  disgraziato  che  o  sé  stesso  descrisse  in 
terza  persona  o  da  altri  è  descritto  in  dieci  righi  dello  spazio 
di  venti  centimetri  ciascuno.  Il  primo  rigo  dice  così  : 

In  die  II  Aug.i  in  mea  causa  fuit  conclusio  eosque  qui  ad  vim 
tu. ..tare...    non   est...    confessus.    Ad   quod    S.«    Inquisitionis   fìsci 
non   fuit...    carceri   esilioque...    hat   allato   fui    positus...    torturae 
subjectus  intrapì  et  audientiam  non  habui. 
Audientia  prò  [sustinere]  fìdem... 

Altro  disgraziato  aggiungeva  in  caratteri  meno  incerti 
cinque  righi,  che  a  me  non  par  vero  di  essere  riuscito  a  tra- 
scrivere : 

De  Die...  Martij  anni  1676  sep.ter  (?)  permanens  adhuc 
captus  ab  aula  4*  ad  hanc  iterum  fui  perductus  insimul  cum  alio 
novo  socio.  Die...  aetatis  meae  ^^  transeunte  (?). 

36 


PRIMA   CELLA 

E'  un  uomo  nel  fiore  degli  anni  —  33  appena  —  che 
nel  marzo  del  1676,  catturato,  ripassava  dalla  cella  quar- 
ta a  questa,  dove  prima  era  stato;  e  trovava  un  nuovo 
compagno.  Donde  si  rileva  come  più  d'una  (quattro  al- 
meno) fossero  le  celle,  e  come  più  persone  insieme  stessero 
chiuse.  L'alio  novo  socio  può  indicare  il  compagno  di 
sventura  passato  con  lui  dalla  quarta  cella;  ma  non  esclude 
che  nella  nostra  cella,  questa  cioè  della  quale  ci  occupiamo, 
fossero  altri  ospiti;  anzi  io  credo  che  sarebbe  stato  troppo 
lusso  lo  spazio  di  cinque  metri  quadrati  per  due  sole  persone. 

E  poi  col  numero  dei  carcerati  che  teneva  sempre  il 
S.  Uffizio  e  con  lo  spazio  relativamente  angusto  di  tutto 
l'edifizio!...  Solo  questa  penuria  di  spazio  di  fronte  ai  mol- 
ti reclusi  può  giustificare  la  trasgressione  degli  antichi  or- 
dini emanati  dal  Tribunale  supremo  di  Spagna.  Le  In- 
structiones  Novissimae  del  1561  prescrivevano  che  in  una 
cella  non  fosse  più  d'un  carcerato. 

Riservandomi  di  tornare  sulla  qualificazione  della  na- 
tura dei  presenti  luoghi,  procedo  innanzi  nella  descrizione. 

Due  schizzi  femminili  di  più  che  volgare  fattura,  sem- 
brano tirati  su  col  carbone.  Sono  una  donna  in  un'ampia 
crinolina  (veste  che  pure  ricorre  in  altra  donna  non  del  tut- 
to messa  in  luce),  sotto  la  quale  è  di  mano  aliena  segnato: 

Piange   Ja   misera 
perchè   il  luoco  è  di 
pianto. 

L'altra  è  ignuda,  ma  per  nessun  verso  accennante  a  la- 
scivia; la  quale,  in  mezzo  a  vasi  di  fiori,  sciolti  i  capélli  e 
spioventi  sulle  spalle,  spicca  con  una  mano  garofani  e  con 

37 


SANT'UFFIZIO 

l'altra  li  tiene.  Sotto  a  lei,  ma  non  per  lei,  com'io  credo, 
facilmente  si  legge: 

Pacienza 

Pane,  e  tempo  (i), 

tre  cose  pur  troppo  indispensabili,  per  non  disperarsi,  per 
per  poter  vivere  e  sapere  attendere;  nelle  quali  non  occorre 
cercare  un  significato  meno  che  sincero  di  i assegnazione, 
poiché  il  pensiero  d'una  rivincita  o  d'una  vendetta  col  Tri- 
bunale sarebbe  stato  sogno  di  mente  inferma.  Pensieri  di 
questa  natura  saranno  stati  del  tempo,  ma  non  del  luogo. 

L'aspirazione  alla  libertà,  alla  uscita  dal  tenebroso  luo- 
go, è  continua,  persistente  in  quegli  afflitti;  assillo  che  li 
punge  di  continuo.  Ricordiamoci  del  devoto  di.  Santa  Ro- 
salia, che  supplica  la  liberazione  dal  carcere  e  dalle  te- 
nebre. 

Ma  un  altro,  con  ineffabile  amarezza,  esclama: 

SEMPER  DICO  [VENI]  ET  NUM 
QUAM   VENIT    [A]S1]TE  CRAS. 

e  ne  ha  ragione,  che  aspettando  il  domani  passano  i  mesi 
e  gli  anni! 

Potrebbero,  è  vero,  mettersi  a  riscontro  di  questi  altri 
detti,  che  accennano  a  relativa  tranquillità  di  sofferenti 
e  i  tanti,  d'impossibile,  o  d'incompleta  lettura,  questo  si- 
ciliano : 

Pensa  beni 
a    la    morti. 

(i)   Un   proverbio  siciliano:    Cu   pani   e   pacenza   si   va    'tipa- 
radisu,   ma   nel  motto    il  sisjnificato  è   ben  diverso. 


38 


PRIMA  CELLA 

ed  anche 

Pensa    beni 

a  fanti 
(che  cosa?) 

Quest'altro  italiano: 

Al  mondo  non  c'è  niente 
rimedio. 

e  quest'altro  latino: 

Fallit  omnis   homo, 

che  può  accusare  resipiscenza  in  chi  lo  scrisse,  o  ac- 
cusa contro  chi  lo  fece  prendere  e  condannare;  ma  ve  ne 
hanno  di  più  espressivi  che  sono  il  rovescio  della  medaglia. 
Nascosti  qua  e  là,  con  vera  fatica  si  scoprono  due 
gruppi  di  avvertenze  a  chi  entra  in  quei  luoghi  lagrimosi: 

Averti  chi  ccà 
dunanu   tratti 
di  corda  e... 

dice  una  di  quelle  note;  e  lo  dice  timidamente,  in  carat- 
teri piccoli  e  in  luogo  ascoso. 

La  nota  manca  della  fine,  raschiata  prima  che  vi  ca- 
desse sopra  la  calce. 

Perchè  raschiata? 

Secondo  me,  perchè  conteneva  qualche  parola  di  ri- 
sentimento verso  gli  aguzzini. 

Della  medesima  mano  ed  egualmente  ascosa  è  la  se- 
guente : 

Sta  in  cervella  chi  ccà 
dunanu  la  corda... 


39 


SANT'UFFIZIO 

la  quale  in  forma  più  lunga  e  labilissima  si  trova  ripetuta 
così: 

sta  in  cer 
vellu   (i)  chi 
ccà  dunanu 
la  corda  a  nu' 
du...    vili 
e   cui    se  [rivi] 
ha  pruvatu 
dui  volti. 

Lasciamo  stare  i  righi  scomparsi,  il  fantasma  della  cor- 
da riappare  rigido,  pertinace  al  prigioniero,  onde  egli  torna 
a  mettere  in  guardia  i  suoi  compagni  vecchi  e  nuovi  : 

Vi  averta  chi  ccà 

prima  dunanu  la  corda... 

E  poi?  Il  pòi  non  si  può  decifrare. 

Terribile  quest' incubo  della  corda  pel  disgraziato!  Qua- 
lunque altro  dolore  noi  preoccupa;  solo  in  essa  egli 
vede  e  compendia  le  infinite  sofferenze  del  carcere,  che 
pur  tanto  crucciano  i  suoi  consorti.  Quale  rivelazione  in 
quella  ripetuta  avvertenza!  Chi  sa  quali  tormenti  ha  egli 
patiti!  Pure  egli  non  è  il  solo  a  tremare  dell'incubo  po- 
tente. 

Altro  sventurato  è  lì  sopraffatto  e  conquiso. 

(i)  Per  rara  che  possa  parere  questa  locuzione,  eccone  qua 
un  esempio  in  Malagido  Talamiro  (probabilmente  anagramma) 
L'amico  fedele,  p.  12,  in  Pai.  1724:  «appri  l'occhi  e  l'oricchia, 
sta  'n  cerveddu  ». 


40 


PRIMA   CELLA 

In  una  nota  quasi  scomparsa  delle  due  cornucopie  s'in- 
travedono le  parole: 

e  statti,  in  cervello  che  qui 
danno   la   tortura... 
con  atti  infami   (?)... 

E  sono  di  un  uomo  che  s'era  messo  a  parlare,  e  fu 
messo  a  tacere  dal  tempo.  Noi  non  potremo  sentire  la  sua 
voce,  che  dovrebbe  pur  suonare  accusa  ai  suoi  carnefici. 
Come  gli  altri,  egli  non  dice  chi  sia  (e  qui  il  silenzio  ha 
la  sua  ragione),  ma,  a  differenza  di  tutti,  segna  la  data 
di  sua  attuale  prigionia.  Di  fatti,  in  basso,  a  linee  imper- 
cettibili, un  i66,  accenna  al  decennio  tra  il  1660  e  il  1669. 

E  vengo  all'ultima  parte  di  questa  prima  cella:  le 
poesie. 

Una  buona  dozzina  sono  i  componimenti  in  versi  si- 
ciliani, dovuti  tutti  ad  un  autore,  che  io  chamerei  il  poeta 
di  questa  cella. 

Una  ne  è  la  grafia,  come  di  penna  d'oca,  uno  lo  stile, 
una  la  intonazione,  malinconica,  piangente  i  tristi  giorni 
di  chi  li  compose  e  trascrisse:  sunt  lacrymae  rerum,  che 
non  vogliono  confondersi  con  i  piagnistei  degli  ammanie- 
rati geremia  del  Seicento,  i  quali  sbadigliavano  in  can- 
zoni amori  ed  affanni  non  provati. 

Sono  lacrime  di  un  cuore  inconsolabile  al  pensiero  di 
esser  chiuso  in  una  tetra  prigione. 

Ad  ogni  ottava  appone  sotto,  a  mo'  di  firma,  una  sug- 
gestiva qualificazione  dell'abbandono  in  cui  si  trova  per 
colpa  dei  parenti  e  degli  amici  o  del  tribunale.  Qui  si  fir- 
ma, L'abbandunatu,  lì  L'infelici,  altrove  Lu  diminticatu, 
o  Lu  scurdatu.   Oh  sì,   egli  dev'essere  un  grande  infelice 

41 


SANT'UFFIZIO 

S8  con  tanta  persistenza  lo  ripete,  e  quasi  lo  rinfaccia, 
pure  persuaso  che  nessuno  potrà  sentirlo  ed  aiutarlo.  Solo, 
dopo  più  di  due  secoli,  la  sua  voce  giunge  a  noi,  voce 
d'oltre  tomba,  che  riempie  l'anima  di  profonda  mestizia. 

Sentiamolo  questo  poeta.  La  sua  Musa  non  ha  slanci, 
ma  è  ispirata.  Che  importa  che  alcune  delle  sue  canzoni 
non  sono  piìi  leggibili?  Che  altre  lo  siano  in  parte,  e 
parecchie  per  parole!  Una  parola  fa  indovinare  un  verso, 
un  verso  un  distico,  un  distico  tutta  un'ottava:  che  è  la 
siciliana  classica,  a  due  rime  alterne. 

Sentiamolo  : 

Et  haju  sensu  assai  e  ancora  sentu! 
Nu    sugnu   foddi  a  la  dogghia  ecxessiva! 
Et  a  li  guai  chi  patu  ogni  mumentu 
La    mia    dogghia    murtali    ancora    è    viva! 
Ahi  chi  furtuna  ferma   a  lu   miu   stentu 
Pirchi    la    dogghia    sia    chiù    sinsitiva: 
E   benché   sia   eternu   lu   turmentu 
Né  di  sensn  ne  di  anima  mi  priva. 

L'abbandunatu. 

Cui  lu  nimicu  so'  tenta,  e  procura 
Barici   morti   pir  so'    malu   inditiu 
La  sgarra,   'ntempu  nenti,  binchi   (?)  un'hura 
Si  sapi  et  è  poi  misu  in  precipitiu; 
Ma  fazzu  fidi  chi  fu  una  congiura 
Di  prima  forma  lu...n  so  lu  tuo  uffitiu; 
Chi  comu   trasi   in  chista  sepurtura 
Nun  ndi  nesci  pri  fina  a  lu  giuditiu  (i). 

(i)  Questa    ottava    riscontreremo    nella   terza    cella    in    forma 
incompleta. 


42 


PRIMA   CELLA 

Amici  nun  spijati  chistu  cn'aju 
[PirchìJ  la  morti  'nfrunti  [mi]  la  viju. 
Nun   viditi   chi   ad   ogni   passu   caju 
E  nenti  in  pedi  mi  sustegnu...? 
Nun   vidi  [ti]    chi   mancu   d'unni   vaju 
Et  a   lu  fatu   a  pocu   a   pocu   ceju? 
[Si  vi]  spija  qualcuna  comu  staju. 
Chi  staju   comu   cui  va   sempri  peju. 

Lu  mischinu. 

Nun  ci  nd'è  nu  scuntenti  comu  mia  : 
Mortu,    e   nun   pozzu   la   vita   liniii. 
Fortuna    ondi    ch'immortali    io    sia; 
Chi  si  murissi  nun  duvria  patiri, 
Pirchi   cu    la   mia  morti   cissiria 
La  dogghia  e  l'infiniti  mei  matriri. 
Per    fari    eterna    la    mimoria   mia 
Nta  tanti  stenti  nun  mi  fa  muriri  (i). 

L'infelici. 

Cori  ch'i  man...    ne  tempu  haviri  usanza 
D'esseri  entratu  in  middi  affanni  e  guai, 
Hora  binchì  sta  spina  ogn'aulra  avanza 

Nim  t'avvililri,   haj   pacenzia  hormai. 
Resisti,    cori,    fc-rmu   cu    custanza: 
Qualchi  humana  pietà  forsi  havirai, 
E    quandu    manca    ogn'autra    rigurdanza 

C'è   l'aiuto   di   Diu    eh' un   manca    mai. 

n  poeta,  anche  in  mezzo  alle  afflizioni,  brucia  il  gra- 
nellino d'incenso  al  gusto  letterario  del  secolo. 

(i)  Il   Veneziano    (1543-1593)   aveva   scritto   prima: 

cridia  muriri, 

ma  pri  patiri  cchiù  non  moru   mai. 
Opere,  p.    115.  Palermo,  Giliberti,   1861. 


43. 


SANTUFFIZIO 

E  chi  potè  sottrarsi  alla  influenza  di  esso?  In  una  can- 
zone a  base  di  sospiri,  respiri  e  spirazioni,  sono  questi 
quattio  versi: 

[Horaj    da    nu   suspiru    haiu    a    spiiari, 
Sulu  sarria  pri  mia  veru  suspiru 
Chi    chiù    nun    havissi    a    suspirari: 
Suspirari  lu  ciatu   in' un   suspiru. 

Lu  dimenticatu. 

E  rafforza  il  giochetto  con  un'altra  ottava,  il  cui  ul- 
timo verso  è: 

Sugnu  murtu  et  ancora  haiu  a  muriri; 

ed  è  firmato  :  VaffUttu. 

Queste  canzoni  dolorose  sono  addensate  in  un  angolo 
della  cella,  in  uno  spazio  irregolare  di  un  metro  quadrato 
circa,  ove  difficilmente  si  sarebbe  spinta  la  vigilanza  dei 
carcerieri.  Forse  non  mi  apporrò  male  ritenendo  essere  stato 
quello  il  posto  assegnato  all'autore;  il  quale  a  quello  spazio 
affidava  i  suoi  sfoghi  raccogliendosi  e  cercando  riposo. 

Fuori  di  quello,  altro  spazio  non  è  per  lui,  o  che  egli 
noi  possa  avere,  o  che  egli  noi  trovi  buono  per  sé. 

Due  altre  ottave  sono  nella  medesima  parete  ma  non 
sue;  di  alieno  carattere,  e  con  qualche  pentìm.ento.  Giac- 
ché anche  questo  é  notevole  nel  nostro  poeta:  la  nitidezza 
della  grafia  senza  la  menoma  correzione;  il  che  farebbe 
supporre  che  prima  di  trascrivere  egli  componesse  in  un 
foglio  qualsiasi  le  sue  poesie  e  le  correggesse  e  riducesse  a 
quella  forma  definitiva. 

44 


PRIMA   CELLA 

Un  frammento  d'altra  mano,  e  con  altra  intonazione: 

e   da  li  orruri 

Digni  di  tanta  pena  haiu  commisu 
Conoscu  eh 'haiu  statu  un  piccaturi 
Cchiù   di  quantu   potu   l'haju   offisu. 
Ma  la  cuscenza  chiama  tutti  l'huri. 

Ora,  è  questa  una  confessione  di  colpa,  o  una  delle 
tante  forme  con  le  quali  si  chiede  perdono  a  Dio  dei  pro- 
I^ri  trascorsi? 

Sia  l'una  o  l'altra  delle  intenzioni,  non  potrà  negarsi 
che  l'autore  pensava,  sentiva  e  si  esprimeva  diversamente 
dagli  altri  reclusi. 

Il  perchè  è  sempre  un  mistero. 


45 


Capitolo  III 
SECONDA    CELLA 


ASSANDO  alla  seconda  cella,  dà  all'occhio, 
come  nella  prima,  una  serie  di  figure  di 
santi  e  di  sante,  le  quali  più  ordinaria- 
mente che  in  quella,  fanno  mostra  di  sé. 
Toltene  parecchie  maggiori,  troneggianti 
in  alto  nella  parete  destra,  tutte  sono  delle  medesime  di- 
mensioni e  in  due  linee  diverse:  a  un  metro  da  terra  nella 
parete  destra,  ad  uno  e  mezzo  nella  parete  di  fronte.  Una 
lieve  differenza  è  in  quella  di  sinistra;  ma  essa  non  c'im- 
porta, perchè  a  suo  tempo,  dopo  l'uso  del  carcere,  la  pa- 
rete venne  tagliata  per  un  arco  che  ora  mette  in  comunica- 
zione questa  seconda  con  la  terza  cella,  settima  ed  ultima 
della  serie.  I  grafici  di  questa  parete  perciò  contano  poco 
o  nulla.  Anche  la  parete  di  fronte,  al  pari  di  quelle  della 
prima  e  dell'ultima  camera,  guasta  anch'essa  dal  taglio  del- 
le finestre,  ha  subito  dei  danni  :  con  raffigurazioni  distrutte 
o  ammezzate. 

Prima  intanto  di  procedere  alla  rassegna  di  queste  fi- 


46 


SECONDA  CELLA 

gure,  devo  guardare  alle  principali  in  alto  della  parete  de- 
stra, principali  dico,  per  le  loro  dimensioni,  per  ordine  e 
compostezza. 

Già  tutta  la  metà  inferiore  della  parete  offre  esercizi  di- 
versi di  persone  mezzanamente  istruite  in  disegno,  per  tut- 
ta una  metà  di  secolo.  Un  fondo  leggermente  giallognolo  la- 
scia scorgere  dall'alto  al  basso,  fino  a  due  metri  dal  pavi- 
mento, macchie  e  linee  di  figure  scomparse,  e  vasi  di  fiori 
sulla  ringhiera  d'una  terrazza.  Di  questi  vasi  dovette  cs- 
servene  una  dozzina;  adesso  però  se  ne  indovinano  appena 
metà,  tutti  dell'antica  forma  di  facce  umcine.  Su  di  essi  e 
altri  disegni  spiccano  due  grandi  figure  coperte  con  pallii, 
aventi  ciascuna  ai  lati  e  nel  mezzo  altre  figure  minori;  sei  in 
tutto.  Una  regge  tra  le  mani  lo  scafo  di  una  barchetta  a 
confronto  delle  attuali  con  prua  molto  acuta;  ed  è  carat- 
terizzato dalla  seguente  preghiera: 

lanitor  sanctus  pandens  coelestia  regna; 
Quaeso,  mihi  portanti  pande  iubente  Deo. 

B. 

L'altra  figura  posa  una  mano  sul  manico  d'uno  spadone 
appuntato  in  terra;  con  quest'altro  distico: 

Qui   quoque J^ 

Me,  Paule,  ex  istis  ac  liberare  velis. 

B. 

Siamo  di  fronte  ai  Santi  Apostoli  Pietro  e  Paolo.  Il  ja- 
nitor  pandens  coelestia  regna  richiama  al  janitor  il  quale 
con  la  facoltà  concessa  a  lui  cunctis  coelum  verbo...  aperis 
della  prima  e  della  terza  strofa  dell'inno  In  festo  SS.  Apo- 
stolorum  Petri  et  Pauli  della  Chiesa. 

Se  non  fosse  per  certe  considerazioni  in  contrario,  po- 

47 


SANI  UFFIZIO 

Irebbe  pensarsi  all'uso  esclusivamente  religioso  di  questo 
come  della  cella  laterale,  cioè  ad  una  cappella  con  relativo 
altare,  ecc.,  ma  vi  si  oppone  il  disordine  delle  figure,  le 
parole  disseminatevi,  certi  ornamenti,  la  ringhiera  e  parec- 
chie altre  circostanze.  Ne  contrastano  poi  il  sospetto  i  se- 
gni, tuttora  freschi  dopo  due  secoli  e  mezzo,  d'insetti  agli 
angoli  delle  pareti:  segni  non  dubbi  di  giacigli.  Vi  si  oppo- 
ne senz'altro,  e  recisamente,  la  istruzione,  la  quale  nega  in 
forma  assoluta  la  celebrazione  della  méssa  alle  persone 
condannate  o  sospette  di  proposizioni  ereticali;  salvo  che 
non  voglia  parlarsi  di  celebrazione  da  parte  di  sacerdoti  non 
interdetti. 

Le  figure  di  tutta  la  cella  poi  sono  sedici:  tredici, 
cioè,  di  santi,  tre  di  sante:  alcune  del  tutto  scoperte,  altre 
scoperte  in  parte.  Sono  della  medesima  mano  e  quindi  del 
medesimo  stile,  e  segnate  con  la  iniziale  B.,  che  cercherò 
più  in  là  di  indovinare.  Il  B.  disegna  mediocremente,  e  si 
ripete  per  abitudine  di  lìnee  e  di  panneggiamenti;  ed  usa  il 
nero  ed  un  colore  leggermente  giallognolo.  Delle  figure  qual- 
cuna è  accompagnata  da  motti  e  da  preghiere,  qualche  al- 
tra — .e  sono  due  terzi  — •  no. 

Familiare  è  all'autore  il  leggendario  dei  santi;  più  fa- 
miliari le  laudi  della  chiesa  e,  come  vedremo,  anche  le 
meno  comuni  tra  esse.  Del  breviario  e  del  messale  è  tanto 
padrone  da  far  ritenere  che  egli  giornalmente  lo  recitasse. 
E'  credibile  che  egli  fosse  stato  un  ecclesiastico,  o  sotto  i 
suggerimenti  d'un  uomo  di  chiesa.  Vengo  alla  rassegna,  e 
parto  dalla  parete  di  fronte,  che  è  la  meridionale: 

1.  S.  MATTHEUS 

2.  S.  JOSEPH 

3.  S.  LAURENTIUS 


48 


SECONDA  CELLA 

che  sostiene  con  la  mano  sinistra  una  graticola; 

4.  S.  BENEDICTUS 

5.  S.  lACOBUS 

Questa  figura  è  intieramente  scoperta,  meglio  che  quel- 
la del  numero 

6.  S.  VITUS 

che  regge  due  cani  legati  con  catene,  uno  a  destra,  uno  a 
«nistra; 

7.  S.  ALEXIUS 

Porta  alle  spalle  il  sarrocchino  ed  alla  destra  il  bastone 
dei  pellegrini.  Dai  piedi  ai  ginocchi  ha  stretti  gambali  co- 
me uose. 

La  presenza  di  questo  santo  farebbe  credere  alla  popo- 
larità della  leggenda  di  esso  in  Sicilia;  ma  popolare,  nel 
senso  folkloristico  della  parola,  il  santo  non  fu  mai  nell'iso- 
la, tanto  che  nessuna  leggenda  si  è  riusciti  a  scoprirne  nel- 
la tradizione.  Quella  presenza  è  del  tutto  erudita,  e  non 
deve  dar  luogo  a  considerazioni  d'indole  demoetnica.  Que- 
sta ultima  figura  ha  stivali: 

8.  S.  GREGORIUS 
NAZIANZENUS 

Nella  parete  destra,  come  si  vedrà  più  oltre,  la  più  col- 
ma di  disegni, 

9.  S.  EUPHEMtA 

10.  S.  ELISABETTA  (?) 

11.  SANCTI    C03MAS    ET    DAMIANUS 

49 

4  -  G.  PITRÉ  •  SanfUfllzlo 


SANT'UFFIZIO 

Questi  santi  nelle  immagini  moderne  sono  perfettamente 
uguali  l'una  all'altra:  qui  però  presentano  una  lieve  diffe- 
renza di  costume;  ed  hanno  alle  mani,  oltre  la  palma  del 
martirio,  un  bicchiere  con  manico: 

12.   S.  ISIDORUS, 

con  una  specie  di  corta  clamide  e  una  canna  alle  mani,  u- 
nico  segno  del  suo  mestiere  rustico. 

Scarso  valore  demopsicologico  deve  attribuirsi  a  tutte 
queste  figure  in  confronto  delle  altre  della  medesima  fattu- 
ra, che  passo  a  descrivere. 

Son  quattro,  tutte  senza  nome,  le  quali  offrono  materia 
d'indagini  e  di  osservazioni. 

13.  Una  santa, 

non  facile  a  rinoscersi  se  non  si  tien  conto  del  particolare 
delle  leggende  rilevato  dalla  iscrizione: 

TV  QU^  DIES 
VNDECIM  SINE 
CIBO  ET  POTV 
IN  CARCERE  IN- 
CLUSA FUISTI 
LIBERA 
NOS 

Chi  sarà  mai  questa  santa  che  in  prigione  stette  undici 
fiiomi.  senza  mangiare  né  bere? 
Accanto  a  lei  è  la  effìgie  di 

14.    Un    santo,    frate, 

che  sembra  dell'Ordine  dei  Predicatori.  Dico  sembra,  stan- 
do alla  preghiera  che  ha  sotto,  e  la  quale  dice  cosi  : 

50 


SECONDA  CELLA 

TV  QVI  PRI- 

mus  Sanctae 
INQUISITIONIS 
munus  gessisti 
ET   PER  TRES 
ANNOS  IN  CAR- 
cerem  condemn^- 
tus   à   Crucifisso 
Libera  tus  fu  isti 
LIBERA 
NOS. 

A  nessuno  sfuggirà  la  speciale  importanza  di  questa 
supplicazione:  tanto  da  equivalere  alla  figura  dell'Inquisi- 
tore della  prima  cella.  Solo  qui  per  la  prima  volta  balza 
fuori  il  titolo  della  S.  Inquisizione,  auspice  il  santo  a  cui  la 
supplicazione  è  rivolta.  Intorno  al  quale,  molto  o  poco  sa- 
rebbe da  dire  se  si  guardasse  alla  prima  alla  seconda  delle 
due  proposizioni  relative.  E'  al  di  sopra  di  ogni  discussione 
che  la  prima  allude  a  S.  Domenico,  che  primus  avrebbe 
esercitato  munus  S.ae  Inquisitionis;  ma  quella  benedetta 
parte  della  condanna  a  tre  anni  di  prigionia  esige  un  po'  di 
attenzione,  perchè  dalla  vita  del  Santo  di  Gusman  questa 
circostanza  non  risulta;  e  vuoisi  riguardare  come  una  pie- 
tosa leggenda,  o  come  presa  ad  imprestito  da  altra  vita  di 
santi.  Di  uomini  venerati  sugli  altari,  i  quali  tennero  l'uf- 
ficio supremo  di  inquisitore,  parecchi  ve  n'è:  S.  Pietro 
Martire,  S.  Pietro  de  Arbues;  e  la  immagine  appunto  di 
questo  santo  ricompariva  qua  e  là  nelle  sale  del  S.  Uffizio. 
Nell'inventario  dei  mobili  di  esso,  quando  venne  abolito, 
quadri  di  S.  Pietro  de  Arbues  furono  trovati  nella  sala  del 
segreto,  nella  camera  laterale  alla  Cappella,  e  nel  primo 
salone,    dove    (questo   è   notevole,    perchè   gì' Inquisiti   do- 

51 


SANT'UFFIZIO 

vevano  vederio)  la  vita  del  santo  medesimo  era  dipinta  m 
undici  quadri  (i)  ed  una  grande  iscrizione  ne  celebrava 
morte  e  miracoli;  ma  in  nessuno  si  riscontra  la  circostanza, 
altro  che  in  S.  Giovanni  da  Capistrano,  il  quale  fu  real- 
mente carcerato  per  tre  anni,  ma  non  raccoglie  in  sé  quel- 
la liberazione  per  opera  prodigiosa  di  G.  Crocifisso. 

Sarebbe  lui  il  santo  delle  parole?  o  non  piuttosto  S.  Do- 
menico? di  cui  però,  a  farlo  apposta,  neppure  una  imma- 
gine fu  trovata  il  giorno  della  abolizione!  (2) 

Certo  il  richiamo  ai  tre  anni  non  è  ozioso.  Di  condanne 
ad  un  triennio  di  penitenza  ogni  tanto  ne  capitava  qualcu- 
na: e  fra  le  altre  può  essere  stata  quella  dell'ignoto  artista 
del  Libera  nos,  che  pure  può  essere  stato  condannato  a  pe- 
riodo infinitamente  più  lungo.  Anche  l'allusione  preceden- 
te alla  fame  ed  alla  sete  per  undici  giorni  può  avere  il  suo 
significato. 

Bisogna  anzitutto  riflettere  che  i  carcerati  ordinari  per 
cause  civili  e  criminali  quando  non  lo  ricevevano  dai  pa- 
renti, dovevano  accontentarsi  dello  scarso  cibo  che  loro  ve- 
niva ufficialmente  dato.  Pii  testatori  avevano  in  parte  e  mol- 
to limitatamente  cercato  di  provvedere  alla  loro  sussi- 
stenza. 

Fino  agli  ultimi  del  secolo  XVIII  una  Deputazione  go- 


(i)   La  Mantia,   op.   cit.,   part.   II,   pp.   76. 

(2)  «  Quoiqu'une    bulle    de    Sixije    Quint    ait    consacrò    celle 

legende,  S.t  Dominique  n'est  pour  rien  dans  la  création  du 
Saint-Office;  il  etair  mort  lorsque  Grégor  IX  et  ses  légats  com- 
mencèrent  à  charger,  à  titre  d'essai,  quuelques  clércs,  surtout 
des  dominicaines,  de  missions  inquisitoriales  personnelles  et  tem- 
porairei  ».  Ch.  V.  Langlois,  L' Inquisition  d'après  travaux  rJ- 
cents.   p.    39.   Paris,    1902. 

52 


SANT'UFFIZIO 

vernativa  attendeva  a  quest'opera  di  carità,  intesa  a  sfa- 
mare i  carcerati  della  vecchia  Vicaria,  oggi  palazzo  delle 
Finanze. 

E  fu  bella  cosa  l'aver  essa  ottenuto  dal  Governo  di  Na- 
poli piccoli  aumenti  di  assegni  annuali  per  un  tozzo  di  pa- 
ne o  di  una  minestra  a  quanti  non  avessero  come  vi- 
vere (i). 

Quanto  ad  abiti,  la  faccenda  andava  anche  peggio:  e 
non  accade  qui  spendere  altre  parole  quando  si  sappia  che 
si  riducevano  laceri. 

Immaginiamo  come  andassero  le  cose  nelle  carceri  in- 
quisitoriali! 

Come  suprema  concessione  permettevasi  al  figlio  cat- 
tolico di  sovvenire,  acciò  non  morisse  di  fame,  il  padre  ere- 
tico costituito  in  estrema  necessità  (2). 

Nella  loro  grettezza,  i  signori  Inquisitori  tiravano  quan- 
to potevano  a  loro  favore.  Da  una  parte  catturavano,  dal- 
l'altra, vedendo  di  non  aver  nulla  da  cavare,  ad  alleggerirsi 
del  peso  dell'alimentazione,  discutevano  sul  dovere  altrui 
di  sostenere  i  catturati.  Erano  le  streghe  maggiormente 
prese  di  mira,  e  per  questo  litigavano  con  la  Deputa- 
zione del  Regno.  Una  disposizione  di  Filippo  III  potè  ob- 
bligarli a  tacere,  fornire  essi  gli  alimenti  e  non  già  la  De- 
putazione, che  non  ci  avea  da  fare  (3). 

Non  mancano  anche  in  questo  anime  pietose.  La  Prin- 
cipessa di  Partanna  Donna  Maria  Grifeo,  legava  una  rendi- 

(i)  PiTRE',  Palermo,  voi.  II,  cap.  XVII. 
(2)  Sacro  Arsenale,  n.  CCLXV,   p.  416. 

{3)  Capitula  Regni  Siciliae,  cap.  di  Filippo  IV  di  Spagna  III 
di  Sicilia,  a  1648,  cap.  XXXII,  e.  II,  p.  363. 


53 


SECONDA  CELLA 

ta  annuale  di  onze  15  (L.  191,25)  per  alimentare  tre  reclu- 
se perpetue  (i).  Donna  Maria  Grimaldi  y  Bascon  (1677)  la 
somma  netta  di  onze  121  a  favore  dei  condannati,  in  ragione 
di  IO  onze  l'uno  all'anno;  uno  dei  quali  legati  doveva  essere 
d'una  penitenziata  nell'ergastolo  come  fattucchiera  o  stre- 
ga (2). 

Ed  il  Parlamento  del  1668  votava  una  forte  somma, 
parte  della  quale  doveva  andare  pel  sostentamento  delle 
streghe  recluse  (hai  cherias)  (3). 

La  Congregazione  della  Pescagione,  composta  di  sacer. 
doti  e  di  persone  timorate,  s'assoggettò  al  S.  Uffìzio,  e,  li- 
mosinando per  la  città,  dava  da  mangiare  ai  condannati. 
Se  poi  si  chiamasse  «  pescagione  »  perchè  andava  pescando 
le  persone  aberrate  (4),  qui  non  monta. 

Forse  si  trovavano  meglio  coloro  ch'erano  condannati 
nei  conventi,  dove  almeno  non  mancava  loro  un  po'  di 
quello  che  ai  frati  abbondava. 

Eppure  un  Giuseppe  Lo  Cascio,  sacerdote  di  Salaparn- 
ta,  dopo  cinque  anni  di  reclusione  come  penitenziato  nel 
convento  dei  Cappuccini  in  Partanna,  divenuto  infermic- 
cio e  sprovveduto  di  vesti,  supplicava  (1745)  il  Papa  che 
gli  concedesse  di  celebrare  messa  e  ritrame  la  elemosi- 
na (5);  grazia  che  per  la  interdizione  del  S.  Ufficio  non 
poteva  concedere  altri  se  non  il  Pontefice. 

(i)  Testamento  del  23  giugno  1665,  presso  Notar  Crisostomo 
Barrer  da  Palermo. 

(2)  Appartenente  alV Inquisizione  del  S.  Uffizio.  12  gen- 
naio 1677.   Ms.   Qq.   F   239  della  Comunale. 

(3)  Ms.   Qq  H  62  della  Biblioteca  Comunale  di  Palermo. 

(4)  Matranga,  Relazione  p.   11. 

(5)  Ms.   Qq.   62  della  Biblioteca  Comunale  di  Palermo. 

54 


SECONDA  CELLA 

15.  S.    Antonio, 

evente  sulla  mano  destra  il  disegno  d'una  chiesetta,  alla 
sinistra  un  giglio  o  non  so  che  altro  fiore.  Lo  fiancheggia 
un  inno  a  frammenti: 

In    nostras 15 

Humanis        

Int        

Voluntas..     nenibus    . 

Atque         

Reddantur     

Virtute    Divi  14 

Loquantur  miseri 

Servi  et  captivi. 

Inter    mortalia    etc. 

Gloria   Patri   etc. 

Inter    mortalia    etc. 

Sotto  questa  e  la  figura  seguente  cinque  testine  di  an- 
geli. 

Finalmente, 

16.  S.   Leonardo, 

Immagine  volgare  come  arte,  ma  simbolicamente  interes- 
sante. 

Poco  evidente  nella  prima  cella,  ove  pur  la  vedemmo 
contornata  di  motti  e  di  preci,  e  come  pur  rivedremo  col 
solo  nome,  nella  terza  ed  ultima  cella,  essa  non  poteva 
mancare  in  un  luogo  di  pena. 

San  Leonardo  abate  fu  fondatore  dell'Ordine  degli 
Eremiti:  avendo  impetrato  da  Dio  la  salute  di  Teodoreta, 
figlia  di  re  Teodorico  d'Austrasia,  già  disperata  dai  medici, 
ebbe  dal  riconoscente  genitore  di  lei  lo  speciale  privilegio  di 
mettere  alcune  volte  in  libertà  qualche  prigioniero.  La  pia 

55 


SANT'UFFIZIO 

leggenda,  specialmente  francese,  narra  di  prodigiose  libe- 
razioni di  persone  in  catene  mercè  le  fervide  preghiere  del 
sant'uomo:  strepitosa  quella  di  Martello,  signore  di  Bac- 
queville  nel  paese  di  Baux  (sec.  XIV),  il  quale,  preso  dai 
Turchi  e  tenuto  in  rigorosissima  captività,  alla  vigilia  del 
suo  supplizio,  dopo  una  lunga  notte  di  orazioni  di  lui  (che 
n'era  stato  avvertito  da  un  custode),  si  trovò  miracolosa- 
mente libero  nella  entrata  della  foresta  di  quella  con- 
trada (i). 

Leonardo  è  il  patrono  dei  carcerati,  dei  captivi  e  degli 
schiavi.  In  nessuna  delle  tre  camere  manca,  raffigurato  in 
runica  dove  bianca,  dove  nera,  con  lunga  pazienza  cadente 
fino  ai  piedi  e  con  l'emblema  tolto  ai  carcerati:  le  catene  ed 
i  ceppi.  Qui,  in  abito  nero  e  pazienza  bianca,  col  crocifìsso 
nella  destra,  le  catene  alla  sinistra,  ha  la  inferriata  d'una 
finestrella  di  carcere  in  questa  forma  : 
PER   VIRTVTEM 


iy- 


■ih 


<> — <► 


<>— H> 


LIBERA   NOS 
Mi  affretto  ad   avvertire  che  santo  e  ferrata,   benché 
divise  tra  loro,  sono  una  medesima  cosa.   Anche  oggi  Je 
stampe  popolari  del  Santo  in  Sicilia  rappresentano  Leonar- 

(i)  //   perfetto   Leggendario ^    ovvero    Vita    de'    Santi  per  cia- 
scun giorno  dell'anno.  Voi.   XI,   p.    51.    Roma,   Minerva,    1848. 


56 


SECONDA  CELLA 

do  nella  stessa  forma;  abito  d'eremita,  catena  coi  ceppi  al- 
la destra,  una  finestruola  con  grata  alla  sinistra  :  carcere  in 
tutto  e  per  tutto. 

Se  non  uscissi  dal  mio  compito,  accennerei  alla  cintura 
di  catene  di  ferro  di  alcune  chiese  di  Baviera  e  del  Tirolo, 
la  quale  è  uno  dei  segni  distintivi  dei  santuari  dedicati  al 
nostro  Leonardo.  Direi  dell'analogia  tra  il  nome  del  santo 
e  la  sua  speciale  funzione  di  legare  e  slegare;  onde  il  vec- 
chio nome  fr.  Liénard  ed  il  soprannome  tedesco  Enthin- 
der,  slegatore;  e  dell'antico  costume  dei  prigionieri  di  of- 
frire ad  esso  le  loro  catene  appena  liberati  (i). 

E  però  completo  senz'altro  la  parte  grafica  del  nostro 
santo. 

Ricingono  e  coronano  dal  basso  all'alto  la  immagine 
tanti  versi  ed  orazioni  latine  quanti  non  se  ne  trovano  in 
tutti  gli  altri  santi  delle  tre  celle  insieme.  Non  tutti  insieme 
però  sono  interi  questi  versi  e  queste  orazioni.  I  maltratta- 
menti della  calce  e  dei  buchi  degli  scaffali  ne  hanno  guasta 
buona  parte:  e  la  completa  lettura  ne  riesce  impossibile 
benché  chiara  e  bella  ne  sia  la  grafìa. 

Trciscrivo  quel  che  mi  riesce:  a  destra,  sopra,  la  seguente 
e  preghiera: 

...[prò]   carcere  mancipatis  et  per  martyrium  S.cti  Leonardi. 
Antiphona. 
Dirupistii  vincula  mea  tipi  sacrifica[bo]. 
Hostiam   laudis,   et  nomen  Dei  invocamus    (2). 

(i)  Richard  Andree,  Votive  «.  Weihegaben  des  kantholi- 
'•chen  Volks  in  Sud  -  Deutschland,  pp.  70-74.  Braunsswik,  1904. 
A.  vON  Genay,  Religions,  moeurs  et  legendes,  pp.  7  sg.  Paris, 
MCVIII. 

(2)  Proviene  dal  Salmo  CXV,   16-17. 


57 


SANT'UFFIZIO 

W.   Laqueus   conteritus   est. 
R.  Et  nos  liberati  sumus  (i). 
Clementia  tua  D.ne  lesu  Christe 
ne  moliatur   [c]usos  sicut  libe. 

15 

sortales 

tis  ita  nos 

is  merita 

solvere 

solutos  tibi 

vivis    et    regnas    etc. 
W.    Ora  prò  nobis   S.te   Leonarde. 
R.    Ut  digni  efficiamur 
promissionibus  Christi. 
Oremus. 

Intercedat  prò  nobis  D.ne 

Sanctus    Leonardus    Confessor    tuus 
Cuius  patrocinio  captivos  et  in 
Vinculis  detentos  suscipiat 
Per  Christum   D.num   nostrum 
Amen. 

B. 

Una  intera  rappresentazione-paesaggio  è  questa.  Varie 
colline  si  succedono  e  si  legano  l'una  con  l'altra.  In  alto  alla 
maggiore  di  esse  è  un  cittadina,  con  viale  alberato  a  pini  e 
cipressi.  Sul  ciglione  d'una  collina  una  giovinetta,  con 
corona  sul  capo,  ginocchioni,  prega  a  mani  giunte;  e  non 
lungi  da  lei  un  cavaliere  che  scendendo  da  un'altura, 
guadagna  quella  della  principessa  reale  come  per  andare  a 
liberarla.  E  la  libera  uccidendo  arditamente  un  dragone  che 
si  contorce  minaccioso.  Il  cavèdio  è  bianco  e  d'una  corret- 


(i)  Salm.    CXXIII,    7:    Laqueus    conteritus   est    et    nos    libe 
rati  sumus. 


58 


i 


SECONDA  CELLA 

tezza  di  disegno  impeccabile;  ed  il  cavaliere  in  arcione  tien 
fermo  allo  slancio  del  cavallo  e,  come  questo  e  la  ragazza, 
delicatamente  tratteggiato. 

Illustrano  la  scena  due  versi: 

Tu    celeste    Guerrier    che    la    Don^cella 
Salvasti,    togli   me   a   questa   tortura. 

La  leggenda  di  San  Giorgio  di  Cappadocia  vi  è  espres- 
sa in  tutti  i  suoi  particolari,  dal  valente  e  bel  cavaliere  al 
sozzo  serpente  che  si  appresta  a  divorare  la  figlia  del  re  di 
Libia.  Quello  che  a  molti  non  si  parrà  subito  manifesto,  è 
la  tonte  di  questa  raffigurazione.  Un  quadro  di  Raffaello 
dipinto  pel  Duca  d  Urbino  (1506)  e  da  questo  offerto  ad 
Enrico  Vili,  re  d'Inghilterra,  da  cui  di  mano  in  mano 
giunse  fino  a  Caterina  II  di  Russia,  è  appunto  questa 
fonte. 

II  santo,  sopra  un  cavallo  bianco,  sprofonda  la  lancia 
sul  mostro,  per  salvarsi  dal  quale  la  principessa  in  ginoc- 
chio implora  soccorso  dal  Cielo. 

Nelle  colline  boschive  del  fondo  si  distinguono  da  lon- 
tano i  dintorni  d'una  città. 

Intermedia  all'originale  ed  a  questo  disegno  può  essere 
stata  una  delle  tante  stampe  che  del  quadro  raffaellesco 
vennero  eseguite:  ed  una,  quella  del  des  Granges,  è  del 
1628  (i). 

(i)  Su  questa  leggenda  esiste  una  letteratura,  nella  quale 
entra  pure  per  la  Sicilia  un  libro  di  G.  BennicI:  Giorgio  di  Cap- 
padocia. Una  delle  ultime  parole  su  di  essa  è  stata  detta  da  Fr. 
Delitzsch,  Babel  und  Bibel,  traduzione  italiana  di  Fr.  Mari- 
nelli,  pp.   52   e  sgg.   Torino,   Bocca,    1905. 

59 


SANT'UFFIZIO 

Una  vera  profusione  di  croci  e  di  calvari  è  nelle  due 
pareti,  non  tutti  appariscenti,  ma  tutti  così  facili  a  distin- 
guersi e  così  differenti  tra  loro  da  ammettere  tanti  autori 
quanti  essi  sono. 

La  si  direbbe,  questa,  tra  le  esplicazioni  dello  spirito 
àei  prigionieri,  la  più  ovvia  come  quella  che  richiama  al 
simbolo  del  cristiano  riscatto  ed  alla  incarnazione  del  dolo- 
re. Cristo,  ingiustamente  condannato,  crudelmente  marti- 
rizzato, sublima  gli  uomini  che  immeritamente  soffrono;  e 
tali  erano  o  dovevano  essere  o  reputarsi  i  reclusi  delle  no- 
stre celle.  L'ambiente,  peraltro,  era  quello:  ed  il  giorno 
dell'inventario  dell'abolito  tribunale  di  croci  e  crocifìssi  ne 
furono  notati  dodici. 

Rilevanti  tra  le  croci  di  queste  celle  una  su  base  pirami- 
dale. Sull'asta  trasversale  si  legge,  avanzo  di  una  isciÌ2,io- 
ne  perduta:  Me  libera,  e  da  uno  dei  lati  pendono  tre  dadi, 
ricordo  di  quelli  coi  quali  fu  giocata  la  tunica  del  Redento- 
re; e  in  giro  la  spugna,  i  chiodi,  la  scala,  gli  strumenti  tutti 
della  Passione. 

Un'altra  è  un  calvario  con  tre  croci,  ciascuna  sopra  una 
base  come  quelle  che  venivano  dipinte  o  trapunte  nei  gon- 
faloni della  nobiltà  detto  Guione  o  stendardo  reale.  Quella 
di  mezzo  ha  una  figurina  di  Cristo  (i),  parte  distrutta, 
mediocremente  disegnata  e,  nell'asta  trasversale,  il  motto 
apparso  con  la  croce  a  Costantino: 

IN  HOC  SIGNO  vinces 

Quella  di  destra: 

DISMAS. 

(i)  Vedi  neWAtto  pubblico  di  jede  del  Mongitore  la  se- 
conda tavola,    il  gonfalone  che  precede  il  n.    2. 

60 


SECONDA  CELLA 

Quella  di  sinistra: 

EGE.... 


Alle  basi  delle  tre  croci  sono  raffigurati  il  mondo  in  un 
globo,  la  carne  in  un  teschio  incrociato  dalle  solite  ossa 
lunghe;  e  il  demonio,  in  un  brutto  ceffo  cornuto,  unico  e- 
sempio  di  raffigurazioni  diaboliche  in  questi  luoghi. 

Alle  tre  basi,  in  forma  di  voluta: 

O  MAGNVM  PIETATIS  OPUS 

e  sotto,   come  titolo  o  motto    generale,    la    profezia    dì 
Osea: 

IN    DIE   TERTIA   SUSCITABIT   [NOS]    (i) 

Una  terza  croce  meno  particolareggiata  ma  più  ornata 
è  di  faccia  a  chi  entra,  sopra  la  pianta  della  Sicilia,  ad  un 
metro  e  22  dal  pavimento.  Piantato  in  croce  è  Cristo,  ed 
in  giro:  i.  Cuius;  2.  un  motto  illeggibile;  3.  Prati...  Chiare 
indicazioni  della  base  :  Anno  Domini  1674  ^*^  21  le, 
e  sotto,  in  carattere  corrente  e  negletto: 

M.A.TTEO   CU 

nome  sul  quale  tornerò.  Quella  data  si  agggira  intorno  al 
tempo  da  me  sopra  indicato. 

Sparse  qua  e  là  sono  facce  quali  barbute  e  quali  mu- 
liebri, quali  piccolissime  e  quali  metà  del  naturale  ed  anche 
piìi.  Vi  sono  due  punti,  presso  l'angolo  sinistro  della  stanza^ 
nei  quali  le  teste  sono  sovrapposte  in  linea  verticale  l'una 
all'altra.  Tre  fra  le  altre  sono  di  figurine  complete,  ed  alle 

(i)  Prophetia  Oseae,  e.  VI,  v.  3. 

61 


SANT  UFFIZIO 

apparenze  si  direbbero  eseguite  a  matita.  Una  al  lato  man- 
co della  finestra  è  di  uomo  in  veste  talare  con  una  croce 
ad  una  mano  e  spada  all'altra,  probabile  stemma  della  In- 
quisizione, che  avea  spada  ed  ulivo. 

Un'altra,  al  lato  destro,  un  prelato,  che  sa  del  vescovo 
e  del  santo.  Una  terza,  specie  di  canonico,  forse  a  ragion 
veduta,  è  tozza;  e  certo  dev'essere  stato  un  bozzetto  d'un 
ecclesiastico  molto  noto  del  tempo. 

Dopo  queste  ed  altre  figure  sulle  quali  non  occorre  al- 
trimenti fermarsi,  pochi  righi,  tolti  di  peso  al  libro  di  Giob- 
be, danno  la  descrizione  del  luogo: 

Haec  est  terra  tenebrosa  et  operta  mortis 
caligine,  Terra  miseriae  et  tenebrarum 
ubi   umbra   mortis   et   nullus   ordo  sed 
sempiternus  horror  inhabitat   (i). 

Chi  descrive  così  il  doloroso  ospizio,  è  il  medesimo  che  si 
rivolge  a  S.  Pietro,  a  San  Giorgio  e  ad  altri  santi.  La  sua 
persistenza  non  è  fittizia  né  convenzionale.  La  cella  è  o- 
scura,  piena  di  miserie  e  di  orrore.  Lo  spettro  della  morte 
vi  si  aggira  pertinace. 

In  forma  ironica,  estremamente  rara,  anzi,  unica  in  tut- 
te le  celle,  questo  giudizio  è  ripetuto.  E'  il  solo  scherzo 
che  i  carcerati  si  son  permesso:  scherzo  che  mal  nasconde 

(i)  «  Antequam  vadagli  et  non  revertar  ad  terrani  tenebrosa»', 
et    opertani   mortis   caligine  : 

((  Terrani  tniseriae  et  tenebrarum,  ubi  umbra  mortis  et  nuU'Us 
ordo,  sed  sempiternus  horror  inhabitat  »  :   Job  X,  21-22. 

62 


SECX)NDA  CELLA 

la  amaritudine  intema.  La  non  breve  nota  offre  leggibili  le 
seguenti  parole: 

Questa  è  la  migliore  casa  per  esser  la  più   humana...   la  più 
lucida 


insomma   piangendoci   qua   le   cose. 

B. 

E  vengono  i  motti  e  le  sentenze,  in  latino  e  in  volgare, 
in  prosa  e  in  poesia. 

In   alto   della   parete  di   destra,  dentro  uno  scudo  rag- 
giato : 

PANIS 

ANGELI- 

CVS. 

Vicino  un  cipresso: 

Ecclesia in 

redeuntibus. 

Presso  una  croce: 

QUIES 

lUDICA   ME    DOMINE 

ET  CAUSAM  MEAM 

e  segue  un  passo  latino,  che  dovrebbe  riportarsi  al  salmo 
VII,  verso  9:  judica  me  Domine,  secundum  justitiam  et 
secundum  innocentiam  meam  super  me;  e  al  XXV,  i.  lu- 
dica me.  Domine,  quoniam  ego  in  innocentia  mea  ingressus 
sum;  et  in  Domino  sperans  non  infirmabór. 

Il  judica  causam  meam  era  stato  preso  ad  imprestito 
come  motto  dello  stemma  della  Inquisizione. 

63 


SANT'UFFIZIO 

In  forma  sentenziosa  è  la  desolante  domanda: 

CUR  DEVS  NEGAT  VITAM 
SV[P]ER- 
BIS?... 

Riappare  qui,  ma  di  altra  mano,  il 

Foelix  quem  faciunt  olia.... 
Casus  de[xten?]us fit  sapientis. 

della  camera  precedente;  e  sotto: 

lesus  dominus.... 

B. 

Questa  iniziale  è  la  solita  delle  principali  figure  artisti- 
che o  intenzionalmente  tali  di  una  metà  della  stanza. 
E  sotto  ancora: 

BEN  felice  colui  che  può  chiamare 

...  ser  accorto  a  le  altrui  spese  imparare.  h 

Sotto  la  immagine  di  Santa  Eufemia: 

QUOD  NON  CAPUIT 
....POTIUS. 

Sotto  quella  dei  Santi  Cosmo  e  Damiano: 

CUIUS  STATU[TA]    ET   SI   HUMERI    SUDABUNT  FONDERE 

[MAGNO 
HEU...    UNI...    GLORIA    MAGNA    MIHI. 

All'angolo  delle  pareti  occidentale  e  meridionale: 
CUI  PER  SUA  RARA  SORTI... 

Forse  l'autore  aveva  aggiunto  :  <(  uscirà  da  questo  carce- 
re, potrà  dirsi  felice  ». 

64 


SECONDA  CELLA 

Di  somma  importanza  pel  suo  significato  è  la  seguente 
raccomandazione  in  alto  nella  parete  destra: 

Innocens  noli  te  culpare; 
Si  culpasti,   noli    te  excusare; 
Velum   detege,    et   in   D.no 
Confide. 

E  la  sua  importanza  comincia  dalla  prima  proposizione 
e  finisce  alla  terza.  Quella  che  pare  superflua,  la  prima,  è 
una  rivelazione;  giacché  suppone  che  il  povero  inquisito  a 
ragion  dei  tormenti  si  accusi  di  colpe  non  commesse  :  di  che 
sarà  detto  nel  cap.  VII  del  presente  studio,  mentre  ci  può 
essere  chi  avendo  errato  venga  mendicando  delle  scuse  e 
delle  giustificazioni;  la  verit  anzitutto  {velum  detege),  e 
fiducia  e  confidenza  nella  divina  giustizia  e  misericordia 
(in  Domino  confide). 

Quanta  moralità  in  così  poche  parole! 

Qualsivoglia  lode  a  questa  sentenza  ne  guasterebbe  gli 
intendimenti  elevati. 

Altro  spazio  verso  l'ultimo  dei  cipressi  ha  sei  elequenti 
parole  : 

Fa  cuntu   comu 
havissi   vinutu   hora. 

ridotte  a  cinque  a  poca  distanza: 

Fa  cuntu   chi 
vinisti   hora  : 

scettico  ammonimento  a  chi  può  aver  ricordato  che  molta 
tempo  di  prigione  è  già  passato  senza  che  la  liberazione 
sia  giunta.  Anche  lì  le  parole  siciliane  si  addensano,  ma 
non  si  riesce  a  comprenderle.    Ed  altre  ed  altre  ancora 

65 

5  —  G.  PITRÈ-  Sant'UffJxlo. 


SANT'UFFIZIO 

se  ne  vede  dentro  una  delle  sopra  descritte  teste,  inconi:- 
prensibili  tutte  se  non  voglia  interpretarsi  quello  che  dice: 


sugnu  ntra . . .  srai  (  ?  ) 
li  iucaturi  chiddi  di 
...nenti    su... 

nel  senso  forse  che  non  siamo  noi  quelli  che...  ma  i  gioca- 
tori. 

In  quattro  linee  piramidalmente  segnate  sono  le  lettere 
minuscole  dell'alfabeto  fino  alla  lettera  t.  Due  volte  appari- 
sce il  nome  di 

MARIA 

non  sappiamo  se  in  omaggio  alla  madre  di  Dio  o  in  ricor- 
do di  persona  cara:  bel  nome  sempre. 

Alla  base  della  parete  destra,  uno  scrisse: 

Fari   Asino, 

e  fu  il  più  pratico,  come  volendo  imporsi  o  consigliare  la 
linea  di  condotta  da  tenere  di  fronte  ai  carcerieri  o  agli  in- 
quisitori. Questa  mano  segna  una  iniziale,  S.,  che  può  na- 
scondere il  nome  d'un  penitenziato  :  nome  non  unico  quan- 
do si  guardi  con  la  massima  attenzione  tutta  la  cella. 

Nella  cela  precedente,  sotto  la  figura  d  Santa  Rosalia, 
abbiamo  trovata  una  mappa  topografica  della  Sicilia. 

Un  riscontro  è  in  questa.  Le  due  mappe,  apparentemen- 
te identiche,  non  hanno  nulla  di  comune  nella  loro  origine, 
per  quanto  l'idea  della  cosa  ed  alcune  parole  di  avvertenza 
in  entrambe  possano  iux  credere  il  contrario.  Certo,  le  mani 
che  le  eseguirono  erano  di  uomini  che  avevano  fresca  alla 
memoria  la  topografia  dell'isola;  e  gli  errori  di  distanze  ed 

66 


SECONDA  CELLA 

anche  qualche  inesattezza  di  ubicazione  di  città  sono  facili 
a  spiegare  e  non  indegni  di  compatimento.  Un  cartografo 
avrebbe  da  dire  sulle  carte  in  parola;  ma  come  si  poteva 
far  di  meglio  nel  secolo  XVII  a  disegnare  al  buio  senza  mo- 
dello e  senza  libri?  Forse  per  questo  tanto  il  primo  quanto 
il  secondo  chiedeva  venia;  quello  con  un'avvertenza  in 
italiano,  della  quale  sono  leggibili  solo  le  prime  parole; 
riuscito  a  leggere  e  qui  trascrivo: 

Cui  fici  sta  Sicilia  nun  la 

cumpliu  ne  ci  misi  li  òt- 
ta e  Terri  di  li  Muntagni 

pir  nun  sapiri  li  Ioni  veri   nomi,    e   siti. 

Cui  li  sa  ci  pò  iungiri 
[iddu]    lu  resta    [a  mimorjia. 

Non  v'è  data;  ma  ragioni  cronologiche  permettono  di 
fissaria  posteriore  alla  invenzione  del  corpo  di  Santa  Rosa- 
lia (1624).  V'è  poi  un  argomento  capitale:  la  microscopica 
pianta  di  Palermo  con  le  due  grandi  vie  Macqueda  e  Tole- 
do incronciantisi  a  Piazza  Vigliena. 

Ma  com'è  —  potrebbe  chiedersi  — -  che  una  quasi  me- 
desima avvertenza  sta  a  piedi  tanto  dell'una  quanto  dell'al- 
tra pianta  della  Sicilia?  Anzi,  com'è  che  a  due  uomini,  in 
celle  diverse,  sorse  il  pensiero  di  disegnare  la  Sicilia? 

Il  come  è  facile  a  capirsi  se  si  terrà  presente  che  i  car- 
cerati erano  talvolta  obbligati  a  mutar  cella.  Un  esempio 
ce  l'offre  la  iscrizione  latina  ex  alia  aula. 

E  così  si  spiegano  le  molte  figure  di  santi  sulle  due  cel- 
le, le  quali  però  riconoscono  mani  diverse;  eoa  certe  ripeti- 
zioni che  è  dato  rilevare  in  due  o  tre  di  questi  luoghi. 


67 


Capitolo  IV. 
TERZA     CELLA 


OME  ho  già  detto,  la  parete  occidentale 
di  questa  cella  venne  tagliata  e  ridotta 
ad  arco;  poco,  perciò,  o  quasi  nulla  è 
stato  dato  scoprirvi:  e  questo  poco  si  ri- 
duce ad  una  grande  croce,  frastagliata 
da  lavori  posteriori  e  fiancheggiata  da  versi,  che  formano 
uno  dei  maggiori  rilievi  della  cella.  La  parete  meridionale 
è,  come  le  altre,  interrotta  dalla  finestra. 

In  alto,  a  tre  metri  dal  pavimento,  è  una  grande  figura, 
che  sembra  una  di  quelle  di  scorretto  disegno  che  sogliono 
vedersi  sui  muri  estemi,  opera  di  monelli  privi  affatto  di 
arte. 

Più  sotto  a  un  quasi  medesimo  livello  sono  disegni  e  fi- 
gure in  vari  tempi  sovrapposti  ad  altri  disegni  e  ad  altre 
figure.  E'  sempre  la  solita  pratica  dei  carcerati  di  trar  pro- 
fitto da  qualunque  spazio,  anche  a  scapito  dei  disegni  che 
trovano.  Una  rassegna  sommaria  presenta  un  tempietto  o 


68 


TERZA   CELLA 

cappella,  guardata  da  due  figurine  di  santi,  e  Maria  nel  mez- 
zo, come  formanti  trittico. 

Sopra,  da  un  lato,  il  motto  di  Giobbe  (i): 

[Militiaj 
Est  Vita  [hominis] 
super   Terra  m, 

e  un  doppio  cerchio  con  entro  una  immaginetta,  forse  della 
Madonna,  e  una  testa  non  qualificabile,  e  da  presso: 


te   Deo 
carcere. 


La  Madonna,  in  piedi,  ha  le  mani  giunte  in  atto  di  pre- 
gare. La  cappelletta  ha  al  di  sopra,  in  fuori,  un  angelo 
del  lato,  forse  di  posteriore  fattura,  così  : 


Da  esso  parte  un  motto  biblico,  in  caratteri  grandi,  che 
occupano  la  lunghezza  d'un  metro  circa: 

[ECCE]  VENIT   [I]AM   DIES 

DESIDER  [TAJ   SPERATA  (?) 

V[ALDE]     (2). 

(i)     Job.   Vili.    I. 

(2)  «Ecce   dies   venient,    dicit    Dominus  »  :    Hebr.    2,    13. 


69 


SANT'UFFIZIO 

In  mezzo  alla  confusione  sottostante  si  possono  a  fatica 
discernere  tuniche  e  vesti  di  santi  e  di  sante  sormontate  da 
teste  più  antiche  e  piccolissime,  piantate  sul  petto  e  sulle 
spalle  di  quelU. 

Un  S.  Albertus  scorrettamente  disegnato,  con  una  mitra 
papale,  un  ramo  d'albero  a  destra.  Allato,  attorno,  pissidi, 
testoline  d'angeli,  ornati  d'ogni  maniera,  greche,  iscrizioni 
si  urtano  e  scalzano  l'una  con  l'altra,  senza  peraltro  farsi 
distinguere.  Una  testina  è  lì  come  per  affacciarsi  di  mezzo 
al  disordine.  Miglior  fortuna  non  hanno  nomi,  parole,  cita- 
zioni sottostanti.  I  ritocchi  e  le  rifazioni  si  sono  estese  an- 
che ad  esse.  Un  nome  è  diventato  un  altro,  una  figura 
un'altra.  Un  S.  Bernardus,  è  impostato  sotto  questa  figura  : 


Sotto  di  tutto  e  di  tutti  spicca  la  strana  e  rozza  imma- 
gine d'un  uomo  con  cappello  spagnolesco,  lunga  zazzera, 
calzoni  a  mezza  gamba  e  mano  tesa  verso  una  nave,  con 
la  quale  però  non  ha  relazione. 

Il  medesimo  disordine  regna  all'altro  lato  della  finestra, 
ove  però  si  levano  due  figure  irriconoscibili:  una  di  un  santo 


70 


TERZA  CELLA 

con  la  sfera  in  mano,  il  quale  arieggia  un  S,  Francesco 
Saverio;  l'altra  a  colore  e  la  indicazione: 

j«» 

[PJatriarca, 

e  fiancheggiano  le  basi  d'una  figura  di 
S.  Dominicus 

con  abito,  cioè  lungo  manto,  nero,  e  stretta  e  lunga  pazien- 
za  all'esterno.  In  corrispondenza  alla  vita  si  legge: 

SPECVLV[M]    DOCTRINE  li 

ET    SVRIANENSIS 
GLORIA 


In  alto  ancora: 

ECCLESIAM    TUAM 

MIRARE    DIGNITUS    ES    AIU 

MERITIS   ET   DOCTRIN... 

Di  tanta  oscurità  ci  compensa  una  bèlla  rappresenta- 
zione. Un  eremita  coperto  di  pelle  sta  sotto  una  palma.  E' 
S.  Giovanni  nel  deserto,  ben  disegnato  al  pari  dell'albero 
che  leva  superbamente  in  alto  le  sue  fronde,  d'un  colore 
verde  cupo. 

E  qui  è  bene  notare  che  non  questo  soltanto  è  il  colore 
delle  figure  della  presente  cella.  Nella  parete  rispondente 
al  muro  orientale  i  colori  son  tre  o  quattro,  tutti  diversi,  e 
due  molto  vivaci.  Per  la  loro  superficialità  son  da  riportare 
agli  ultimi  del  Seicento,  ad  un  periodo  cioè,  nel  quale  ai 


71 


SANT'UFFIZIO 

carcerati  potè  esser,  non  lecito  ma  Isisciato  passare  qualcu- 
no di  quei  colori;  giacché  là  dove  alcune  delle  molte  figure 
della  medesima  parete  sono  parte  o  tutte  scrostate,  il  colo- 
re più  antico,  primitivo  è  il  comune  scuro  e  giallo  scuro. 

E  vengo  a  questa  parete,  che,  a  parte  il  disordine  di  fi- 
gure e  di  motti,  è  un  piccolo  poema  della  psiche  dei  reclusi. 
In  questo  piccolo  poema  bisogna  saper  leggere  e  meditare. 

Due  grandi  figure  si  estollono  dal  livello  ordinario,  di  cui 
la  seconda  è  una  testa  spagnolesca  coperta  da  un  cappello 
cardinalizio,  col  famoso  toson  d'oro  pendente  da  esso,  e  su 
di  esso  un  angelo  di  linee  scorrette,  in  atteggiamento  di  vo- 
lare in  alto. 

Siamo  in  pieno  Seicento;  e  nel  Seicento  la  Sicilia  ebbe 
dieci  cardinali:  primo  Giannettino  Doria,  ultimo  Francesco 
Giudice,  arcivescovi  l'uno  di  Palermo,  l'altro  di  Monreale. 
Ma  di  essi  dieci  nessuno,  meno  del  Moncada,  fu  palermita- 
no, nessuno  ebbe  il  Toson  d'oro. 

Luigi  Guglielmo  Moncada  Principe  di  Paterno  (1614- 
1672)  fu  Presidente  del  Regno,  e  venne  assunto  al  cardina- 
lato nel  1667;  anno  compreso  nel  periodo  in  cui  questo  car- 
cere fu  popolato  di  sofferenti.  Dei  quali  qualcuno  può  bene 
aver  pensato  al  grande  patrizio  siciliano,  che,  dopo  rappre- 
sentata molta  parte  nel  governo  di  Sicilia,  di  Sardegna,  di 
Valenza  e  nella  corte  di  Madrid,  carico  di  onori,  all'apice 
della  sua  potenza,  mortagli  la  moglie,  abbracciò  la  vita  ec- 
clesiastica nella  quale  colse  nuovi,  luminosi  allori.  Può 
avervi  pensato  per  la  sa  altezza  politica  ed  ecclesiastica, 
forse  come  ricordo  di  conoscenza,  forse  come  desiderio  di 
protezione,  forse  come  ragione  di  studio;  giacché  il  Monca- 

72 


TERZA   CELLA 

da  tu  poeta  vernacolo,  ed  i  suoi  versi  sono  nelle  Muse  si- 
ciliane del  Galeari-Sanclemente  (i). 

Una  successione  di  santi  e  di  sante  compone  questo  spa- 
zio, una  volta  bianco.  V'è 

S.    GREGORIUS, 

in  parte  scomparso  sotto  la  figura  di  altro  santo,  col  basto- 
ne alla  mano  sinistra  e  con  la  destra  al  petto  :  pare  un  San 
Francesco  di  Paola.  V'è 

S.    SEBASTI ANUS. 

ignudo,  trafitto  da  frecce.  Una  figura  rossa  fu  dipinta  su  di 
esso,  ma  S.  Sebastiano  rimase,  com'è  ora,  visibile.  Quella 
figuura  ha  lasciato  le  tracce  del  cordone  d'un  santo  eremita. 
V'è 

S.    ANGELUS    CUSTOS, 

sovrapposto  ad  altra  figura  più  antica,  la  quale  è  a  mala 

pena  visibile: 

CA ARA, 

una  santa,  avente  innanzi  una  torre.  V'è 
S.  MARIA  MAGD ALENA. 

dalla  testa  non  messa  alla  scoperto  e  dal  solito  colore  rosso 

degli  abiti. 

S.  CRISTINA, 

figura  la  meglio  conservata  Un'asta  di  bandiera  sottostaitte 
ha  fatto  scomparire  le  lettere  Cr  del  nome,  forse  precedente- 
mente scritto.  Codesta  figura  ha  ai  piedi  la  ruota,  emblema 
della  santa  fanciulletta. 

(i)  T.    II,    ]>artc    2'\    Palermo,    1647    e    1662. 
Di  lui  può  vedersi  quello  che  scrive  il  Mongitore,  Bibl.  sic,. 
t.   I,  p.    18.   Panormi,   MDCCVIII. 


73 


SANT'UFFIZIO 

Qui  è  la  più  schietta  rivelazione  degli  inquisiti  :  il  gra- 
fito, cioè,  dianzi  riferito  col  titolo  : 

[GALERA]... 

Sotto  un  oscuro  frammento: 

...ERVM    L   CA. 
MISERERE 


che  io  leggerei  così 


[V]ERVM   -L-   -CA, 


ovvero 


[HEU  ME  MIS  ERUM 
MISERERE    [MEI] 

sono  ornamenti  senza  significato  apparente,  e  poi  una  Ma- 
donna seduta  sopra  una  cassa  portata  sulle  spalle  da  due 
vecchietti.  E  senza  dubbio  la  Madonna  d'Odigitria  secon- 
do la  forma  classica. 

La  tradizione  classica  popolare  la  richiama  fedelmente 
con  la  immagine  che  ne  corre  finora  in  Sicilia.  Una  delle 
stampe  tradizionali  più  comuni  rappresenta  due  uomini 
con  una  corta  tunica  legata  alla  cintura  ed  un  bastone  l'uno 
in  mano  per  sorreggere  il  peso  di  una  Maria  col  Bambino 
Gesù.  Di  mezzo  ad  essi  si  scorge  lontano  sul  mare  una  nave, 
che  poco  prima  aveva  trasportato  il  prezioso  peso. 

Una  mano,  che  potè  appartenere  ad  una 
S.  DOROTHEA, 

ora  scomparsa,  guida  una  bambina,  che  regge  dalla  coda 
un  pesce;  buon  argomento  di  ricerche  per  gli  agiografi. 

Un  Crocefisso  ben  disegnato  in  rosso  ha  sotto,  ma  non 
come  iscrizione  che  lo  riguardi,  un  motto  delle  Confessioni 
di  Sant'Agostino: 


74 


TERZA   CELLA 

Hic  ure,   hic  seca,   ut  in  aetemum 
parcas.   Augu.; 

motto  di  un  povero  rassegnato,  nella  cui  bocca  Vure  ha 
realmente  un  significato  non  rettorico. 

Tanta  santimonia  viene  interrotta  da  un  elc>quente  mot- 
to siciliano: 

O  tu  chi  trasi[ccà]   chi  s[peri?]. 

E'  il  noto  concetto  dantesco,  che  incontreremo  più 
sotto. 

Sul  nudo  strato  di  calce  primitiva,  nel  bel  mezzo,  vien 
fuori  chiara  e  bella  la  data: 

1646 

che  vuoisi  riportare  alle  due  altre  del  1643  e  1645  della  pri- 
ma cella. 

Qui  si  erge  maestosa  ma  scorretta  la  figura,  grande  qua- 
si quanto  il  vero,  di  S. .  Michele  Arcangelo  in  forma  di 
guerriero,  i  capelli  spioventi  sulla  spalle,  il  torace  coperto 
da  corazza,  tonachella  a  mezza  coscia;  la  destra  ferma  su 
d'una  lunga  lancia  piantata  sopra  un  minaccioso  dragone 
che  si  avvolge  in  ispire  molteplici  per  addentarlo. 

Verso  il  capo  di  Santa  Dorotea  un  angelo  male  abboz- 
zato con  le  braccia  slargate  regge  un  nastro  a  questo  modo  : 


75 


SANT'UFFIZIO 

V'è  il  nome  di 

S.    LEONARDUS 

ma  il  santo  non  si  vede,  e  dev'essere  dipinto  sopra  un  bian- 
co sottostante,  prima  delle  figure  che  ora  scompariscono. 
Si  vede  bensì  in  carattere  corsivo  ordinario: 

Sancte  career  em 

Leonarde  islam 

ed  in  caratteri  sei,  sette  volte  tanto  : 

PAX  PATI. 

Tre  eleganti  figure  di  giovani,  tutti  e  tre  egualmente  ve- 
stiti, tutti  e  tre  con  palma  alle  mani,  fanno  pensare  a  tre 
fratelli  che  abbiano  ricevuto  il  martirio  per  la  religione  di 
Cristo.  Io  non  uscirei  dalla  Sicilia  per  trovarli;  giacché  la 
parola 

VASCOGNIA, 

segnata  ai  loro  piedi,  per  indicare  un  mare  sottostante  e 
che  forma  come  il  grande  zoccolo  di  questa  e  di  un'altra  pa- 
rete, rivela  senza  dubbio  la  patria  dei  tre  cavalieri:  Alfio, 
Filadelfio  e  Cirino  santi  patroni  di  Lentini,  ove  an- 
che oggi  hanno  ufficio  divino  proprio  (i). 

E  siamo  all'angolo  della  parete. 

Un  disegno  che  passerebbe  inosservato  se  un  minutis- 

(i)  È  notevole  questo:  che  non  solo  in  Lentini  essi  ebbero 
ed  hanno  uffizio  proprio,  ma  anche  in  altre  città  di  Sicilia  ^ 
particolarmente    nella   diocesi   di    Siracusa. 

Vedi  Officia  propria  Sanctorum  prò  archidiocaesi  syracu- 
sane  a  S.  Rituum  Congregatione  approdata  usqtie  ad  annuii 
MDCCCLXXXVI ,  sotto  il  giorno  X  maggio,  pp.  236-39.  Syra- 
cusis,   Typis  Andrea   Norica,    1886. 

76 


TERZA   CELLA 

simo  esame  non  mi  avesse  indotto  a  percorrere  con  grande 
attenzione  ogni  insignificante  spazio  di  questi  luoghi,  mi  è 
parso  una  delle  più  pietose  rivelazioni.  Non  ligure  di  tor- 
mentati e  di  tormenti,  non  parole  amare,  ma  un  banco  con 
sopravi  una  croce,  un  campanello  e  un  libro  aperto  nel 
mezzo.  Due  angioletti  attorno  alla  croce,  e  come  la  figura 
d'un  prelato  seduto  iimanzi.  La  scena,  nella  imperizia 
dell'autore,  è  d'una  evidenza  ed  efficacia  impareggiabile. 
Siamo  in  un  Tribunale,  probabilmente  nelle  profonde  stanze 
della  tortura.  V'è  il  banco,  v'è  il  campanello,  v'è  il  messa- 
le, sul  quale  l'imputato  giura  di  dir  la  verità;  non  vi  manca, 
se  non  l'imputato,  ma  una  voce  ignota,  debole,  fioca  come 
d'oltretomba  si  leva  da  quella  muda  e  pregare  il  Signore 
per  lui.  Alla  base  della  croce  con  inadito  stento  ho  potuto 
leggere: 

Beatissime 

lesu  libera 

eum  ne  pe- 
reat. 

Oh  si!  ci  vuole  tutto  l'aiuto  divino  perchè  egli  non  si 
confonda  al  capzioso  interrogatorio  e  resista  ai  tormenti! 

Fino  ad  un  metro  e  più  dal  pavimento  per  la  estensione 
di  tutta  la  parete,  e  di  metà  della  meridionale  sono  sparse 
galere,  galeoni  e  legni  differenti,  a  livelli  svariati  non  sa- 
puti o  potuti  significare  dall'autore  per  mancanza  d'arte  e 
di  colori.  Se  ne  contano  fino  a  quattordici  di  diverse  dimen- 
sioni, quali  semplicemente  mercantili,  quali  regie  e  da 
gyerra.  In  quasi  tutte  si  vedono  sporgere,  dall'opera  morta^ 
de'  remi;  le  vele,  dove  sono  tutte,  dove  in  parte  ammaina- 
te; tutte  però  hanno  bandiera  ed  orifiamma  immancabile 
in  tutto  questo. 

n 


SANT'UFFIZIO 

Una  di  queste  navi  sembra  più  importante  delle  altre, 
ed  è  in  pieno  assetto  d'equipaggio.  In  cima  di  ciascun  albe- 
ro è  una  bandiera,  e  presso  la  bandiera,  come  per  sorreg- 
gere l'asta,  un  marinaio,  quando,  come  nel  pennone  obli- 
quo, a  cavallo,  quando,  come  nel  trinchetto  e  nel  maestro, 
in  piedi.  Tutto  il  legno  per  altro  è  popolato  di  marinai  ed 
uno,  nel  centro  della  parete  orientale,  sotto  la  Santa  Cristi- 
na, ha  un  equipaggio  in  moto  a  far  terzaruole,  a  mettersi 
in  panna,  a  fermarsi  sulle  coffe. 

Questa  scena  si  presenta  un  pò  oscura,  perchè  non  vi 
prevalgono  caratteri  che  ne  aiutino  la  qualificazione. 

La  indicazione  Vascognia  dianzi  cennata  è  abbastanza 
vaga.  Che  voglia  l'autore  aver  rappresentato  il  Golfo  di 
qualla  regione  della  Francia?  E  quale  pensiero  recondito 
pub  aver  suggerito  a  lui  tanto  mare  e  tanti  legni? 

Nessun  altro,  io  credo,  che  questo:  la  condanna  alla 
galera  nel  senso  primitivo  della  frase.  Non  si  dimentichi 
che  essa  era  comune;  e  poiché  vi  erano  dei  recidivi,  questi 
potevano  aver  provata  la  vita  amarissima  del  galeotto  dan- 
nato a  vogare,  rasa  la  testa  e  i  piedi  nudi. 

Né  si  dimentichi  un  fatto  di  una  certa  importanza;  ed 
è  che  i  condannati,  penitenziati  alle  galere,  scontata  la  pe- 
na, dovevan  tornare  al  S.  Uffizio,  arbitro  della  loro  sorte 
avvenire.  Il  Re  Filippo  II  vi  faceva  (1568)  attenzione  spe- 
ciale non  già  per  la  consegna  al  Tribunale,  la  quale  andava 
da  sé,  ma  perché  i  forzati  al  remo  venivano  trattenuti  ndle 
galere  oltre  il  tempo  della  loro  condanna  (i). 

Questo,  a  mio  avviso,  il  probabile  recondito  pensiero 
ispiratore  del  panorama  marittimo. 

(1)  Bestini,   op.   cit.,  p.   24. 
78 


TERZA   CELLA 

In  due  punti  del  quale,  nella  parete  principale  ed  in 
quella  del  mezzogiorno,  danno  nell'occhio  due  iscrizioni  in 
carattere  intenzionalmente  ebraici,  misti  a  caratteri  greci; 
cosa  strana,  che  si  presta  a  commenti  svariati  sopratutto 
per  la  ricerca  degli  autori  di  esse,  e  che  si  potrebbe  spiegare 
così;  o  che  l'autore  fosse  uno  dei  più  dotti  ecclesiastici  del 
tempo,  anche  venuto  da  Roma  o  da  altro  dei  più  colti  cen- 
tri d'Italia,  come  molti  di  questi  ecclesiastici  si  aveva  spe- 
cialmente nel  clero  regolare,  o  che  egli  fosse  un  giudaizzan- 
te  in  ritardo. 

Questa  seconda  ipotesi  non  deve  sembrare  arrischiata, 
perchè  una  delle  preocupazioni  maggiori  del  Tribunale  del- 
la Fede  era  quella  dei  professanti  principii  e  riti  giudaici.  In 
458  rilajiciati  al  braccio  secolare  dal  1487  al  1732  non  meno 
di  182  furono,  veri  o  supposti,  neofiti  giudaizzanti,  bruciati 
in  |>ersona  o  in  istatua.  Il  noto  inquisitore  D.  Antonino 
Franchina,  apologista  della  Inquisizione,  fece  rilevare  l'uti- 
lità del  Tribunale  dalla  grande  vigilanza  di  esso  nello  estir- 
pare l'Ebraismo.  «  Se  non  in  pubblico,  almeno  in  priva- 
to »,  egli  sgrammaticava,  «  si  avrebbero  eretto  le  sinagoghe 
e  gran  numero  d'anime  si  avrebbe  privato  del  frutto  del 
sangue  di  G.  C.  Onde  co'  fulmini  di  più  sentenze  n'ha 
molti  consegnati  alla  morte,  e  così  questa  Inquisizione 
ha  tenuto  esiliata  da  questa  Isola  la  mosaica  superstizio- 
ne »  (i). 

Non  c'è  da  opporre  che  il  secolo  di  codesti  neofiti,  quel- 
lo cioè  che  seguì  alla  brutale  espulsione  degli  Ebrei  dell'I- 
sola, fosse  tramontato  del  tutto,  perchè  nel  secolo  XVII,  al 

(i)  Franchina,    Breve   rapporto,    cap.    II,    p.    43. 

79 


SANT'UFFIZIO 

quale  appartengono  queste  celle,  si  ebbero  due  rilasciati  al 
braccio  secolare;  e  di  condannati  a  varie  pene,  non  sappia- 
mo a  quanto  giungesse  il  numero,  essendo  i  penitenziati 
giunti  a  nostra  conoscenza  un  piccolo  numero  della  cifra 
complessiva.  Gli  Inquisitori  compievano  atti  di  fede  priva- 
tamente dentro  le  loro  sedi,  e  non  ne  facevano  trapelar  nul- 
la, sempre,  sintende,  con  l'ipocrita  carità  di  non  gettar 
macchie  d'infamia  sulle  famiglie  colpite  nei  loro  cari. 

Come  che  sia,  le  iscrizioni  son  lì,  ed  attestano  che  dei 
condannati  in  quelle  stanze  avevano  velleità  (dico  velleità) 
ebraiche  e  greche. 

Noi  ci  avviciniamo  alla  fine  della  multiforme  rassegna. 

Sulla  veste  d'una  delle  sante,  in  sottilissimi,  microsco- 
pici caratteri,  è  una  lunga  scrittura,  impossibile  a  leggersi, 
anzi  a  indovinarsi.  Solo  qualche  parola  isolata  e  perciò 
inconcludente  è  dato  scoprirne.  L'autore  dovette  consacrar- 
vi una  storia  di  lacrime;  ma  nessuno  potè  mai  vederla,  a- 
vendo  egli  usato  una  punta  acutissima  di  ago  o  di  spillo. 

A  pochi  centimetri  da  questa  nota,  altra  molto  più  anti- 
ca, perchè  vien  fuori  dallo  scrostamento  di  alcune  imma- 
gini del  medesimo  tempo  di  essa,  la  seguente  iscrizione: 

A   DI...    DI    MAIV 

NON   SI   PO   PIR... 

F  CHE  E  CALA. 

Grandi  grafiti  presso  l'attuale  porta  d'entrata,  che  po- 
trà essere  stata  anche  la  prima  nel  Seicento,  in  un  posto 
che  pare  fuori  di  quello  del  carcere,  si  leggono  così: 
G.   BATTISTA  GRADU   DI  MISSINA 
1632 
THOMASI  RIZZO  DI  MISSINA, 

ed  un  terzo  nome  che  non  si  riesce  a  capire. 

80 


TERZA   CELLA 

Sul  mare,  presso  una  delle  iscrizioni  in  caratteri  inten- 
zionalmente orientali,  sono  tre  ottave  siciliane,  non  divise 
luna  dall'altra,  in  gran  parte  scomparse  anch'esse  dalla  su- 
perficie liscia  sulla  quale  vennero  come  buttate. 

Difficilmente  si  spenderà  tanta  fatica  quanto  ne  ho  spe- 
sa io  per  istrappare  alla  ingiuria  del  tempo,  al  riserbo 
dello  scrittore,  ed  anche  agli  inevitabili  ostacoli  il  segreto 
di  questi  versi.  Tutti  i  mezzi  per  completare  una  parola, 
un  verso,  furono  da  me  adoperati.  Di  quasi  due  delle  tre 
ottave  fui  fortunato  di  farmi  padrone;  e  della  mia  tena- 
cità sono  oramai  contento,  se  essa  mi  ha  messo  al  corrente 
d'una  parte  dei  pensieri  di  chi  li  affidò  alla  lacrimosa 
parete. 

I  versi  dicono  questo: 

vui  e   disiati 

di    farici   la   forti    violenza 

e    circati    ammazza rili,    e    mustrati 

haviri   risolutu    cu    prudenza 

chi    prestu    (?)    sarriti    vindicati 

ndi   divunu   autri   di   chista   sintenza 

e   quanti   sindirannu   rubricati? 

dannuci   la   dovuta   penitenza. 

Ma  si  pigghia  un  consigliu  provatu 
Ma    si    pigghia    un    consigliu    provatu 
lu    mitt[iriti]    in   gran   confusioni 
di    farilu    murili   disj:>eratu 
tra  un  pelagu  di  chianti  e  afflitioni; 
viditi  s'iddu  ha  fattu  alcun  peccatu 
di    farlu    dannati    di    la    Inquisitioni 
[e]    sbriugnari   lu    so    parintatu 
fina  a  la  quarta  generationi. 

8i 

6  -  G.  PURÈ  -  Sant'Uffizio. 


SANT'UFFIZIO 

Volendo  stare  alle  parole,  alcune  cose  ci  sfuggono;  ma 
il  pensiero  è  più  che  trasparente.  —  Voi,  dice  l'ignoto  ver- 
seggiatore, che  affliggete  tanti  sventurati,  e  mentre  fate 
loro  delle  dure  violenze,  cercate  ucciderli  pur  dando  a 
vedere  di  aver  prudentemente  deliberato,  pensate  che  sa- 
rete presto  largamente  vendicati?  perchè  molti  altri  séiran- 
no  vittime  della  vostra  sentenza;  e  chi  sa  quanti  ancora 
ne  andrarmo  rubricati  con  la  penitenza  loro  dovuta!  Però 
se  uno  sciagurato  prende  un  consiglio  provato  (?),  voi  lo 
metterete  in  gran  confusione,  e  lo  farete  morire  disperato 
in  un  mare  di  pianti  e  di  afflizioni.  Ora  invece  pensate 
bene  a  quel  che  fate:  vedete  se  egli  abbia  peccato  per  me- 
ritare la  vostra  condanna,  che,  getta  la  infamia  sul  suo 
parentato  fino  alla  quarta  generazione. 

Qui  è  un  monito  severo  ai  giudici,  che  però  non  lo 
avranno  saputo  mai;  e,  se  saputo,  punito.  La  violenza  mes- 
sa in  opera  da  loro  al  fin  di  ottenere  una  confessione  di 
colpa,  non  cerchiamo  se  commessa  o  no,  accusano  tutto 
un  sistema  procedurale  imposto  da  leggi  emanate  dalla 
sede  centrale  di  Spagna,  dalla  quale  la  Inquisizione  di 
Sicilia,  meno  i  pochi  anni  di  regno  di  Carlo  II,  in  tutto 
e  per  tutto  dipese. 

Altro  penitenziato  sentenzia  su  chi  cerca  il  male  altrui: 

Cui  la  malannu  so  tenta  e  procura 
lu   dannu  d'autru  pri  so  malu   inditiu 
La   sgarra,    nun   fa   nenti    [ad   ogni   ura], 
Si   sapi,    e   poi   si   metti   in    precipitiu. 

Come  si  vede,  manca  la  seconda  parte  della  stanza,  ma 
chi    ricorda    i    versi    della   prima    può    bene  completarla, 

82 


TERZA   CELLA 

benché  tra  questi  quattro  versi  e  i  primi  quattro  di  quella 
ottava  esistano  delle  varianti. 

Questo  riscontro  di  un  medesimo  componimento  fa 
pensare  ad  una  cosa,  che  peraltro  risulta  dalla  nota  latina 
della  prima  cella  che  principia  così:   de  die...  Martis. 

Certo,  in  queste  celle  avvenivano  dei  mutamenti  di 
carcerati.  Da  una  un  medesimo  condannato  o  come  vo- 
gliono dirlo  carcerato,  passava  in  un'altra,  e  portava  con 
sé  pensieri,  dolori  e  lamenti.  Può  ben  darsi  che  la  ottava 
faccia  parte  dello  sterminato  corredo  poetico  del  Seicenio, 
e  che  pili  persone  la  sapessero  a  memoria,  ma  io  credo  che 
una  medesima  mano  l'abbia  scritta  dopo  averla  composta. 
La  variante  può  esser  sua. 

Non  si  deve  escludere,  peraltro,  che  i  carcerati  delle 
varie  prigioni  avessero  comunicazioni  tra  loro;  espediente 
cercato  e  messo  in  opera  non  da  essi  soltanto,  ma  da  tutti 
i  carcerati  che  han  bisogno  di  intendersi  non  potendo  ve- 
dersi; e  già  nel  1525  l'Inquisitore  supremo  D.  Alonso 
Manrique  ne  faceva  avvertiti  gl'Inquisitori  di  Sicilia  (i). 

Questa  ottava  è  affidata  alla  parete  destra,  di  faccia 
alla  grande  requisitoria  in  versi  presso  quello  che  ora  è 
arco.  Ma  ben  più  grave,  e  addirittura  terribile,  è  la  de- 
scrizione che  altro  poeta  fa  del  presente  carcere  e  delle 
pene  alle  quali  son  condannati  i  reclusi.   Io  benedico  ai 

(i)  H.  Ch.  Lea,  The  Inquisition  in  the  spanish  Dependen- 
cies:  Sicily,  Naples,  Sardinia,  Milano,  ecc.,  p.  523.  New  York, 
the  Macmillan  Company,    1908. 

La  parte  siciliana  è  compresa  nelle  pp.  1-44,  senza  una  no- 
tizia nuova,  tutto  essendo  preso  dal  lavoro  di  V.  La  Mantia. 

83 


'sant'uffizio 

sette  lunghi  giorni  di  ricerche  e  di  indagini  che  mi  misero 
in  grado  di  fare  la  completa  lettura  di  questa  descrizione; 

Chistu  è  lu  locu  chi  cui  trasi  cridi 
L'afflitioni  e  pena  che  si  pati. 
In  chistu  locu   si   discerni  e  vidi 
la  pera   nimicitia  e   crudeltati; 
chà  sunnu  li  lamenti  chianti  e  gridi 
chini   di   l'armi   a   l'infernu    condannati 
cnà   l'homu   si   dispera   pirchì   vidi 
chi   fui   in   gioventù   la   liberta  ti. 

Cui  trasi   in  chista  orrenda  sepultura 
vidi  rignari  la    [gran]    crudeltati 
unni   sta   scrittu   alli   segreti   mura  : 
nisciti  di  spiranza  vui  chi  ntrati; 
chà  non  si  sapi  s'agghiorna  o  si  scura, 
sulu  si  senti  ca  si  chianci  e  pati 
pirchì  non  si  sa  mai  si  veni  l'hura 
di  la  desiderata  libertati. 

Qualsivoglia  commento  guasta.  Non  è  un  uomo  che 
parla,  è  un  cuore  che  geme,  un'anima  che  grida  dalla 
tomba  nella  quale  il  suo  corpo  è  stato  sepolto  vivo:  un'ani- 
ma straziata. 

Giammai  fu  ricordato  più  a  proposito  il  verso  dante- 
sco: «Uscite  di  speranza  o  voi  ch'entrate»;  giammai  fu 
fatta  più  fine  distinzione  tra  il  senso  della  vista  e  il  senso 
dell'udito.  Nell'orrore  delle  tenebre  di  quella  bolgia,  il 
poeta  non  vede  il  giorno  o  la  notte;  sente  solo  il  pianto 
di  chi  soffre.  In  tutta  la  letteratura  dialettale  dei  Seicento 
non  si  trovano  versi  più  caldi  di  passione  di  questi. 

A  chi  possa  attribuirsi  poesia  così  profondamente  sen- 
tita vedremo  nel  capitolo  seguente. 

84 


TERZA   CELLA 

E  frattanto,  considerate  lo  stato  psichico  di  questi  po- 
veri penitenziati! 

Sconfortati  dalla  prigionia  alla  quale  soggiacciono,  in- 
tormentiti ancora  dalla  corda  che  hanno  subita,  forse  non 
hanno  speranza  di  nulla;  eppure  sperano  e  nella  amarezza 
presente  sognano  conforti  avvenire.  Credono  d'aver  fi- 
nito di  vivere  e  sono  assetati  di  vita.  La  stanchezza  del- 
l'abbandono e  la  trepidanza  delle  incertezze  hanno  per  loro 
giorni  d'una  inquietudine  che  è  tormento,  d'un  ansia  che  è 
aculeo.  Ma  nel  fosco  orizzonte  spunta  a  quando  a  quando 
una  nuvoletta  bianca,  ed  a  traverso  di  essa  un  filo  di  luce 
onde  penetrerà  un  fascio  di  raggi  d'oro.  Oh  sì:  quel  sole 
che  pareva  tramontato  per  sempre,  tornerà  ad  illuminare 
le  facce  scialbe  di  tanti  cuori  desolati!  L'eco  già  spento 
delle  cose  del  mondo,  soppiantata  dai  lamenti  di  sventu- 
rati consorti,  si  rianima  e  si  rinforza;  e  voci  distinte  di 
dolci  congiunti  e  di  amici  diletti  tornano  a  carezzare  il 
loro  orecchio.  La  terra  ha  profumi  soavi,  intensamente 
soavi  anche  per  loro:  il  sogno  diventerà  realtà! 

L'ignominia  che  derivava  all'imputato  ed  ai  suoi  suc- 
cessori dal  semplice  arresto  per  opera  del  S.  Uffizio,  più 
d'una  volta  misero  in  attenzione  i  partigiani  stessi  ed  i 
trattatisti  di  quel  Tribunale  sulle  disastrose  conseguenze. 
Uno  di  esso  ammoniva  :  «  Nel  carcerare  i  rei  bisogna  usare 
grandissima  prudenza,  perchè  la  sola  carceratione  per  lo 
delitto  d'heresia  apporta  notabile  infamia  al  cercerato  »  (i). 

Ed  un  altro  :    «  Il  voluto  reo  suole  arrestarsi  e  chiu- 

(i)  E.   Marini,   Sacro  Arsenale,   Roma,    1639,   part.    io,   art. 
42,    p.    316. 

85 


SANT'UFFIZIO 

dersi  nelle  carceri  laicali  ed  anche  ecclesiastiche  dell'ordi- 
nario, ma  non  in  quelle  dell'inquisizione  affine  di  evitare 
la  infamia  in  caso  di  non  provata  reità  »  (i). 

Ma  erano  scrupoli  eccessivi,  che  non  avevano  presa 
negli  animi  dei  preposti  a  quel  dato  ufficio  di  inquisire;  e 
se  non  fino  alla  quarta  generazione,  come  deplora  il  pian- 
gente poeta,  fino  alla  terza  un  marchio  d'infamia  li 
colpiva. 

E  non  solo  l'infamia,  ma  anche  la  interdizione  ai  pub- 
blici uffici,  la  povertà  e  la  miseria. 

I  discendenti  dei  bruciati  o  dei  condannati  a  vita  ri- 
manevano inabilitati,  interdetti,  privi  di  personalità  giu- 
ridica; la  loro  incapacità  poggiava  appunto  sulla  infamia 
patema  od  avita. 

Non  senza  dolore  si  legge  nei  mss.  della  Biblioteca  co- 
munale di  Palermo  il  seguente  documento  relativo  ai  figli 
dei  neofiti  o  rilasciati  o  condannati  al  carcere  perpetuo. 
E'  un  editto  dell'Inquisitore  spagnuolo  Calvete  in  Palermo: 

«  Nui  lu  docturi  Tristan  Cai  veti  Inquisituri.  Perchè  mi 
è  stata  facta  relacioni  che  multi  neofiti  non  compliscino  la 
forma  di  li  sententii  lati  per  lo  Sancto  Officio  di  la  Inqui- 
sicioni,  li  quali  non  ponno  teniri  officio,  né  beneficio 
ecclesiastico  né  seculari,  né  essiri  medichi,  advocati,  pro- 
curaturi,  notari,  spiziali,  banchieri,  mezani,  arrendatarii,  né 
teniri  altro  officio  di  honuri  et  jurisdictioni,  né  portari  su- 
pra  di  loro  persuni  oro,  argento,  coralli,  perni,  petri  pri- 
ziusi,   né  vestiri  sita,  grana  iambillocto,   né  cavalcari  cau 

(i)  Card.  Albizio^  De  incostantia  in  fide.  Amstelodaoni, 
1683,  capitolo  14,  n.  26.  Vedi  pure  Amasele,  Il  S.  Officio  della 
Inquisizione   in  Napoli,   v.    II,    cap.   IV.    Città  di  Castello,    1892. 

86 


I 


TERZA   CELLA 

valli,  né  portali  armi.  Pertanto  si  notifica  et  comanda  a 
tucti  li  fidili  christiani  li  quali  alcuna  persona  reconciliata 
ai  figli  di  heretici  relaxati  per  linea  masculina  per  fina  a  Io 
secundo  grado,  et  per  linea  feminina  per  fina  lo  primo 
grado,  havissero  contra venuto  a  li  cosi  predicti  oi  alcuna 
di  quilli,  ni  li  digiano  veniri  ad  revelari  infra  termino 
di  jomi  dechi  sub  pena  di  excomunicacioni  mayuri  et  altri 
peni.  —  Pronunciatum  in  plano  maritime  fel.  urbis  Pa- 
normi  die  29  sept.  1525  (Ms.). 

u  Nui  lu  docturi  Tristan  Cai  veto  Inquisituri.  Per  lu  pre- 
senti publico  monitorio  et  edicto  si  notifica  et  comanda  a 
tucti  vui  altri  fidili  christiani  che  siati  sempri  in  favuri  et 
ajuto  di  lo  Sancto  Officio  la  Inquisicion,  in  defensioni  di 
nostra  sancta  fidi  catholica  et  che  digiiati  perseguitari  li  he- 
reciti  et  apostati  e  non  li  favoriri,  ajutari,  né  defendiri  pu- 
blicamenti,  né  occultamenti;  et  cussi  jurati  per  Deum  et 
Sancta  Dei  Evangelia  et  tucti  dichiti  a  :  Amen.  Pronuncia- 
tum in  plano  maritime  die  29  sept.  1525.  Presentibus  prò 
testibus  rev.  domino  vicario  generale  panormitano,  specta- 
bili  pretore  et  magnificis  Juratis  ipsius  Urbis  et  aliis  quam- 
plurimis  magnificis  et  nobilibus  viris  in  numero  co- 
pioso »  (Ms.). 

Il  31  gennaio  del  1525,  l'Inquisitore  supremo  di  Spa- 
gna scriveva  al  provinciale  di  Sicilia  avvertendolo  di  aver 
saputo  che  ((  gì' inabilitati  per  condanna  dei  padri  e  di 
avi  portino  armi,  seta,  oro,  argento  e  usino  cose  loro  vie- 
tate e  proibite;  e  ciò  non  essere  punito,  non  è  a  dire  con 
quanto  disservizio  di  Dio  e  disprezzo  della  giustizia  »  (i). 

(i)    Lea,    op.    cit..    p.    523. 

87 


Capitolo  V. 

DATA    DELLE    CELLE    E    NOMI 
DI    PENITENZIATI 

F.  Baronio 


ENiAMO  ora  ad  argomenti  più  utili  alla 
storia  del  presente  carcere:  quelli  delle 
date  e  dei  nomi. 

Noi  ci  aggiriamo  per  luoghi  material- 
mente e  moralmente  oscuri.  I  poveri  pe- 
nitenziati  lo  ripetono  in  tutti  i  toni:  terra  tenebrosa,  terra 
miseriae  et  tenehrarum;  libera  nosa  carcere  et  a  tenebris; 
a  tenebre  e  miseria  erano  il  difetto  di  luce,  la  rude  nudità 
del  terreno  e  delle  pareti,  l'angustia  dello  spazio,  il  lezzo, 
gl'insetti,  le  privazioni,  i  disagi,  la  fame;  e  dal  lato  mora- 
le, come  conseguenza,  la  oppressione  di  cuore,  la  confu- 
sione di  mente,  lo  smarrimento  di  spirito. 

La  ricerca  quindi  non  è  soltanto  diffìcile,  ma  anche  im- 

88 


DATA  DELLE  CELLE   E  NOMI   DI   PENITENZIATI 

possibile,  specialmente  per  mancanza  di  documenti  d'archi- 
vio. Finora  nessuno  ebbe  mai  a  sospettare  che  l'attuale 
edificio  annesso  al  palazzo  dei  Chiaramonte  fosse  nato  co- 
me carcere  inquisitoriale.  La  fortunata  scoperta  del  1906  ha 
potuto  metterlo  in  luce  aprendo  il  campo  a  fruttuose  in- 
vestigazioni. 

Si  è  mai  guardato  ad  una  pagina  del  teatino  Girolamo 
Matranga,  Consultore  e  Qualificatore  del  S.  Uffìzio,  nella 
descrizione  che  egli  fece  alla  metà  del  secolo  XVII? 

Quella  pagina,  quasi  di  passaggio,  inserita  in  un  Rag- 
guaglio dell'Atto  di  fede  del  1658,  racconta:  «  Per  estirpare 
in  parte  la  moltitudine  delle  streghe  e  fattucchiere  fu  giudi- 
cata necessaria  di  private  carceri  la  fabrica,  alle  stanze  del- 
l'Alcayde  congiunte,  affine  di  rinchiuderle,  e  così  colla  pri- 
gionia o  per  sempre  o  di  molti  anni  la  loro  sfacciata  mal- 
vagità si  affrenasse.  E  toccò  in  parte  a  me  da  principio, 
accalorato  dall'Autorità  di  Mons.  de  Trasmiera  e  di  Mons. 
Cisneros  e  di  Mons.  La  Guardia  di  felice  memoria,  a  que- 
sta tanto  lodevole  quanto  importante  impresa  cooperare. 
Con  gli  aiuti  o  spontanei  o  mendicati  a  queste  prigioni  die- 
desi  solenne  principio;  e  sono  a  segno  tale  che  più  di  loro, 
spriggionate  dalle  segrete,  alla  giornata  vi  si  rinserra- 
no »   (i). 

Qui  sta  la  chiave  storica  del  carcere  in  esame,  car- 
cere nuovo  aggiunto  al  carcere  vecchio. 

Lasciando  da  parte  il  Cisneros  ed  il  La  Guardia,  noi 
c'incontriamo  con  Mons.  de  Trasmiera,  antica  conoscenza 

(i)  G.  Matranga,  Relazione  dell'Atto  pubblico  di  fede  ce- 
lebrato in  Palermo  a'  17  marzo  dell'a.  1658;  p.  II.  In  Palermo, 
MDCLVIII. 

89 


SANT'UFFIZIO 

per  gli  studiosi  delle  vicende  tanto  dell'Inquisizione,  quanto 
del  D'Alesi. 

Egli  era  Inquisitore  fin  dal  1634  (i),  e  potè  bene  co- 
minciare a  pensare  in  quel  tomo  alle  future  carceri,  vorrei 
dire  suppletive.  La  data  del  1632  della  terza  cella  induce 
a  supporre  una  fabbrica  presistente  al  Trasmiera  mede- 
simo. Nel  1647  saliva  all'apogeo  della  sua  sinistra  nomi- 
nanza... e  vi  saliva  con  le  astuzie  onde  giocò  il  battiloro 
capitano  del  popolo;  e  proprio  in  quell'anno  il  nostro  car- 
cere era  da  un  lustro  bello  e  finito,  come  risulta  dalle  date 
di  tutte  e  tre  le  celle.  L'abitazione  dell'Alcalde  o  Castel- 
lano (vogliamo  intendere  delle  segrete)  alla  quale  esso  ven- 
ne attaccato,  era  proprio  addossata  al  Palazzo;  e  l'Al- 
calde se  ebbe  la  molestia  dei  vicini  penitenziati  e  l'inco- 
modo delle  nuove  prigioni  da  vigilare,  potè  a  tutto  suo  agio 

(i)  Ms.  Qq  H  62  della  Biblioteca  Comunale,  voi.  anno  1634, 

L'anno  1745  l'Inquisitore  provinciale,  stanco  delle  impostture 

delle  maliarde,   chiedeva  all'Inquisitore  supremo  istruzioni  sul  da 

fare.    Costui    richiamavasi  a   quelle  del    1561,    tra    le   quali   sono 

queste  : 

1°  In  seguito  a  denunzia,  si  arresti  in  carcere  del  S.  U.  o 
in  casa,   secondo  la  persona,   il  reo  o  la  rea; 

2°  Nei  casi  semplici  si  condannino  j  rei  «  a  penitenze  sa- 
lutari esponendoli  una  o  due  volte  in  giorno  di  festa  la  mattina 
d'innanzi  alla  parte  della  chiesa  madre  o  parrocchiale,  in  abito 
umile   o   penitente  »; 

3'°  Se  l'imbusterò  è  recidivo,  ((  si  aggiunga  la  frusta,  la 
zotta,  l'esilio,  la  prigionia  ed  altro  ad  arbitrio  degli  Inquisitori 
e   dell'ordinario. . . 

4°  Se  la  recidiva  è  nota  pubblica,  si  mandi  il  reo  all'erga- 
stolo dell'Inquisizione  e  si  gastichi  col  visto  dell'ordinario.... 
Ms  Qq  H,  62  della  Bibl.  Com.  di  Palermo. 


90 


DATA  DELLE  CELLE  E  NOMI  DI  PENITENZIATI 

e  senza  molta  fatica  farlo  con  queste  legate  al  suo 
quartiere. 

Dico  «  penitenziati  »,  ma  col  Matranga  dovrei  dire  in- 
vece <«  penitenziate  »,  giacché  il  carcere  nacque  per  donne: 
maliarde,  fattucchiere,  streghe  e  simile  genia,  delle  quali 
la  città,  a  testimonianza  credibile  del  Matranga,  era  così 
piena  che  lo  spazio  non  bastava  più,  non  ostante  che  i 
cittadini  fossero  tiepidi  nel  denunziarle  e  i  magistrati  troppo 
benevoli  nel  condannarle;  passivi  tutti  per  acquiescenza 
colpevole  alle  loro  malvagie  operazioni. 

Ma  sopra  le  donne  furono  rinchiusi  gli  uomini:  ed  è 
inconcepibile  come  di  quelle  non  rimanesse  traccia  di  sorta 
(la  cosa  potrebbe  spiegarsi  con  l'adattamento  che  fu  fatto 
di  esse,  nel  1783,  a  Magazzini  di  Dogana);  mentre  degli 
uomini  balzano  ora  fuori  prove  luminose  ed  a  profusione. 

Le  streghe  peraltro  eran  tali  e  tante  che  nello  Steri  lo 
spazio  mancava,  ed  esse  dovevano  distribuirsi  in  vari 
luoghi  di  pena,  che  pur  molti  ve  ne  avea;  e,  se  di  ceto 
nobile  e  civile,  nei  monasteri;  ed  al  numero  sovrabbondante 
degli  uomini  si  provvedeva  oltre  che  con  le  carceri  ordi- 
narie dei  diversi  fori,  coi  conventi,  dove  i  frati  venivano 
chiusi,  e  con  l'esilio  o  con  la  galera  o  con  altri  espedienti. 

Questa,  della  carcerazione  o  della  chiusura  di  sacerdoti, 
preti  o  frati  o  monaci,  nei  conventi,  era  una  pena  alla  quale 
ricorrevano  un  po'  tutte  le  autorità  :  la  civile,  la  vescovile, 
la  provincializia  e  particolarmente  l'Apostolica  Legazia. 
Monsignor  di  Monarchia,  come  volgarmente  si  chiamava  il 
rappresentante  del  Re  nello  esercizio  delle  prerogative  ponti- 
ficie, decretava  sovente  il  confino  in  un  convento  di  stretta 
osservanza  ai  frati  ribelli  all'autorità  dei  loro  superiori,  o 
di  vita  troppo  libera,  o  di  condotta  irregolare.  Il  Convento 

91 


SANT'UFFIZIO 

di  Gibìlmanna  era  per  lo  più  destinato  a  non  degni  ospiti: 
ed  il  nome  del  solitario,  deserto  e  disagevole  ospizio,  come 
luogo  di  pena  era  pronunziato  con  orrore.  Venivano  poi  di 
preferenza  i  conventi  dei  Cappuccini,  perchè  lontani  dall'a- 
bitato, in  posizione  molto  elevata  e  con  disciplina  molto  ri- 
gida. Un  prete  che  vi  fu  chiuso  negli  ultimi  dei  Settecento 
fu  l'Ab.  Cannella  (si  chiamava  da  sé  e  lo  chiamavano  tutti 
così),  ardito  polemista,  il  quale,  avendo  scritto  contro  il 
celibato  dei  preti,  cadendo  così  in  disgrazia  dell'Arcivescovo 
Sanseverino,  fuggì  da  Palermo;  arrestato  a  Roma,  s'involò 
ai  gendarmi;  e  dentro  una  cassa  si  fece,  come  merce,  tra- 
sportare a  Parigi;  poi.  morto  il  Sanseverino,  tornò  in  Pa- 
tria, dove,  vestendo  con  ricercatezza  secolare,  fu  mandato 
all'ingrato  luogo. 

Altro  fatto  nuovo,  acquisito  alla  stòria  del  S.  Uiìfìcio  in 
Palermo,  scaturisce  da  un  documento,  il  quale  conferma 
che  le  carceri  espiatorie  esistevano  fuori  lo  Steri. 

Con  lettera  del  25  gennaio  del  1696,  gl'Inquisitori  dalla 
isola  scrivevano  allo  Inquisitore  generale  a  Madrid:  che  essi 
tenevano  in  Palermo  le  pubbliche  carceri  della  Penitenza, 
distanti  dallo  Steri.  Per  gl'inconvenienti  del  ritardo  nel  di- 
sbrigo dei  servigi  era  stato  necessajio  di  acquistare  alcune 
casette  attigue  alle  carceri  segrete  ed  alzare  le  mura  per  le 
carceri  pubbliche.  Durante  questa  costruzione  ebbero  luogo 
contrattempi  che  ritardarono  il  lavoro.  I  maestri  dicevano 
che  con  2000  scudi  la  fabbrica  si  sarebbe  potuta  condurre 
a  compimento,  ed  il  S.  Ufficio  avrebbe  avuto  le  case  della 
penitenza  per  venderle  o  appigionarle. 

Trattavasi  di  spese,  che  però  si  sarebbero  potute  com- 

92 


\ 


DATA  DELLE  CELLE  E  NOMI  DI  PENITENZIATI 

pensare.  Portando  a  termine  le  nuove  carceri,  si  sarebbe  ri- 
sparmiato cento  scudi  all'anno,  salario  dello  alcalde  delle 
carceri  pubbliche,  perchè  l'ufficio  soppresso  si  sarebbe  po- 
tuto affidare  all'alcalde  delle  segrete  (allora  non  si  pensava 
al  maggiore  compenso  da  dare  ad  un  Direttore  di  carcere 
per  maggior  servizio  ed  orario).  Il  S.  Uffizio,  aggiungevano 
gli  Inquisitori,  versa  in  condizioni  difficili:  ritardo  di  esa- 
zione, mancanza  di  mezzi. 

E  finivano  invocando  il  parere  e  l'approvazione  della 
nuova  spesa.  Se  non  che,  l'Inquisitore  supremo  fece  orec- 
chie da  mercante,  quelli,  dopo  tre  anni  (giugno  del  1699), 
insistevano  sulla  proposta;  la  quale  dovette  essere  definita 
in  senso  poco  favorevole,  giacché  di  carceri  della  peni- 
tenza fuori  lo  Steri  non  si  parlò  più  (i). 

Maggiore  è  la  difficoltà  di  trovare  in  queste  celle  nomi 
e,  trovatili,  riconoscerli. 

Dalle  fronde  del  classico  cipresso  dianzi  ricordato  si 
protende  il  nome  di  un  certo  lemma. 

Sul  fondo  di  alcuni  ornati  neri,  a  poco  più  d'un  metro 
dal  pavimento  della  parete,  sono  disegni  sovrapposti  a  dise- 
gni, in  mezzo  ai  quali  sottilissimi  grafiti  dicono:  Batà..., 
M.  Cefalù...,  Fancesco  Magio  con  la  data  1680,  punto  di 
partenza  ben  sicuro  per  istabilire  in  qual  tempo  furono 
essi  fatti. 

E  chi  sa  quali  altre  sorprese  di  nomi,  di  date  e  di  fatti 
non  debbano  offrire  altri  grafiti  del  lato  sinistro  della  fi- 

(i)  Questo  documento   mi   venne   favorito  dai   fratelli   Fran- 
cesco e  Giuseppe  La  Mantia. 


93 


SANT  UFFIZIO 

nestra,  parte  sciupati,  parte  coperti  di  calce,  i  quali  per 
poco  che  vi  si  mettano  le  mani  cadono  sgretolati!  Qui 
dev'essere  una  intera  storia  di  persone  e  di  cose. 

Date  anteriori  conosciamo  già  nella  medesima  parete, 
dal  lato  opposto  della  finestra;  quella  specialmente  del  1664 
a  pie  d'una  croce.  Mattheo  Gu...,  firmato  sotto  la  medesima 
croce,  pare  si  riveli  tutto  nella  parete  di  contro,  presso  lo 
spigolo  di  quella  che  è  ora  porta  di  entrata  e  che  una  volta 
dovett' essere  parete  dell'andito  del  cesso:  parete  tuttora 
vergine  sotto  il  lieve  ma  invincibile  intonaco  celestrino  che 
la  copre;  e  forse,  perchè  esposta  agli  occhi  de'  guardiani, 
non  si  prestò  né  a  disegni  sacri,  disdicevoli  al  basso  uso 
del  luogo,  né  a  motti  svariati;  quindi  non  subì  le  quadru- 
plici imbiancature  delle  celle  propriamente  dette. 

Ecco  la  rivelazione  dell'antico  andito: 

Mattheo    G[ugliel]  di   la    città    di 

car  a  di Ag  1649. 

ha    [ppi?]    H    ma di    Agustu    1649. 

Guglielmo  é  nome  molto  comune  anche  oggi  a  Palermo: 
ma  nel  Seicento  non  sappiamo  chi  fosse  questo  Matteo. 

Scrostando  nella  prima  cella  un  piccolo  tratto  che  mi  era 
a  bella  prima  sfuggito,  sotto  la  finestra  inferiore  mi  venne 
fuori  il  disegno  di  una  testa  con  baffi  alla  spagnuola  del 
tempo,  ma  esageratamente  lunghi  ed  attorcigliati  in  punta 
(più  che  non  usino  al  presente  coloro  che  applichino  i 
piega-baffi),  ciuffo  sulla  fronte  e  due  corna  staccantisi 
da  esso. 

Sulla  figura  umoristica  unica  nel  genere  e  nel  luogo,  due] 
righi  di  grossolana  scrittura  a  grandi  caratteri,  dava  nome, 

94 


DATA  DELLE  CELLE  E  NOMI  DI  PENITENZIATI 

cognome    e    qualità.    Tutt'altro    che    benevola    per    essa, 
questa  dice: 

Matteu    Guglierminu  G 

Pre la....  fé  dei  cumuti        F.  B.  M. 

D.  T. 
I  C  C  il  prese 
[per?]    babafu?] 

con  la 

S mogie  (?) 

al   castigo    (?) 

Strana  figura!  piiì  strano  battesimo!  Al  quale  tre,  quat- 
tro... padrini,  quante  sono  le  iniziali,  possono  aver  preso 
parte. 

Ed  ecco  il  medesimo  nome  comparire  in  due  celle  du- 
rante quindici  anni,  il  1649  ^^  il  1664,  come  rivelano  Io 
stipite  della  porta  e  la  croce  di  fronte  a  questa,  alla  cui  ba- 
se è  affidato.  Le  due  note  sono  d'una  mano;  ma  quella  del- 
la figura  umoristica,  d'un'altra. 

Una  supposizione  c'è  da  fare  sull'uomo  e  sulla  cosa: 
cioè  che  egli  fosse  non  un  carcerato,  ma  un  carcerici^, 
nient'altro  che  un  aguzzino.  La  sua  semplice  caratteristica 
è  nella  porta  di  entrata,  nella  quale,  custodita  com'era  da 
due  cancelli,  i  prigionieri  non  potevano  accedere,  né,  ac- 
cedendovi, scrivere,  e  dove  solo  ai  guardiani  era  lecito 
fermarsi.  Andando  su  e  giù  pel  corridoio  delle  carceri,  egli 
può  qualche  volta  aver  segnato  il  suo  nome  sotto  la  croce; 
ma  appunto  come  aguzzino,  odiato  dalle  sue  e  dalle  altrui 
vittime,  ritratto  quale  becco  dai  penitenziati  della  prima 
cella.  Buoni  quanto  si  vogliono,  incapaci  di  offendere  ani- 
ma viva,  di  faccia  a  un  Don  Chisciotte  che  voleva  spoc- 
chiarla  col  miglior  damerino  della  città  nella  cultura  ridi- 

95 


SANT'UFFIZIO 

cola  dei  peli,  essi  dovevano  esplodere:  ed  esplosero  in 
quella  forma  insolitamente  buffa.  Dando  a  lui  del  menelao, 
i  reclusi  dovettero  colpire  un  lato  debole  della  sua  vita; 
e  dopo  più  di  due  secoli  la  loro  vendetta  parla  ancora! 

A  più  probabili  benché  non  sicuri  risultati  conduce  la 
ricerca  del  nome  che  nella  seconda  cella  si  nasconde  sotto 
la  iniziale  B. 

Quel  che  si  può  dire  di  un  dotto  nella  piena  eccezione 
della  parola,  deve  dirsi  di  lui,  maestro  in  iscienza  biblica 
e  patristica,  in  agiografìa  e  in  teologia.  Dilettante  di  dise- 
gno, esperto  nella  poesia  italiana  e  latina,  egli  delinea  fi- 
gurine di  santi,  le  qualifica  ed  illustra,  e  si  raccomanda  a 
loro  in  distici  che  le  fredde  pareti  religiosamente  traman- 
dano. Quest'uomo  non  dice  mai  di  essere  ingiustamente 
perseguitato  ,  pur  piangendo  del  pianto  del  dolore.  La  sua  m 
carcerazione  non  è  anteriore  al  1646,  non  posteriore  al 
1649. 

Chi  può  essere  stato  colui  se  non  il  celebre  Francesco 
Baronio  da   Monreale? 

Nato  l'anno  medesimo  che  moriva  il   suo  illustre  ed 
ardito  concittadino  Antonio  Veneziano  (1593),   egli  fu  dei 
più  eruditi  sacerdoti  della  Capitale,  ed  inneggiò  a  questa  con  ^^1 
entusiasmo  di  poeta,  con  diligenza  di  erudito,  con  amore  dì 
figlio.  Un'ultima  volta  fu  visto  in  città,  quando  nel  prin-      ^ 
cipjo  del  1646  tessè  l'elogio  di  Donna  Eleonora  Ventimi-  ^M 
glia;  poi  scomparve;  ed  i  suoi  nemici  ne  gongolarono  di 
gioia.   Allorché  sul  finire  di  quell'anno  un  certo  Placido 
Serletti  calabrese  sognò  una  repubblica  siciliana,  avente  a 
capo  il  Baronio,  costui  era  già  cniuso  in  queste  carceri, 
vittima  del  suo  ingegno  superiore  o  della  sua  lingua  trop- 
po libera  nel  dir  la  verità  o  quella  che  a  lui  pareva  verità; 

96 


I 


DATA  DELLE  CELLE  E  NOMI  DI  PENITENZIATI 

circostanza  che  anche  in  questo  lo  accostava  al  disgraziato 
suo  concittadino  A.  Veneziano. 

E  peggio  gl'incolse  quando  nel  maggio  dell'anno  seguen- 
te,  che  fu  il  tempestoso  1647,  il  battiloro  Giuseppe  D'Alesi, 
fattosi  Capitano  del  popolo,  lo  richiese  come  segretario 
all'Inquisitore  Don  Diego  Garcia  de  Trasmiera;  richiesta 
che  ne  aggravò  le  condizioni  penali  rafforzando  nella  opi- 
nione del  S.  Uffìzio  i  sospetti  pei  quali  da  quasi  un  anno 
esso  avealo  catturato  e  chiuso  in  quella  cella.  Tornata  la 
calma,  i  sospetti  inquisitoriali  inacerbirono  ai  danni  di  lui. 
Il  S.  Uffìzio  fece  tradurlo  in  Pantelleria,  poi  nel  Castello 
di  Gaeta  (i),  ove  lascioUo  morire  non  sappiamo  se  di  ma- 
lattia o  di  altro  degli  infiniti  mali  dei  carcerati  d'allora 

(1654)- 

Né  gli  valse  la  classica  opera  De  Majestate  panormita- 
na.  né  quella  delle  lodi  della  Nobiltà  siciliana,  né  le  vite 
di  Sant'Antonio  da  Padova,  del  domenicano  Beato  Pietro 
Geremia  e  dei  santi  di  Palermo  (2). 

Il  sacerdote  che  avea  illustrato  l'atto  pubblico  di  fede 
del  1640  (3),  che  avea  levato  al  cielo  il  Trasmiera  (4),  fu 
vittima  del  medesimo  Tribunale  della  fede  e  del  medesimo 
giudice! 

Altro    nome   insigne,    che   dev'esser   legato   alla   tetra 

(i)  Vedi  in  proposito  le  Memorie  storiche  di  Francesco  Baro- 
nio  Manfredi  di  U.  A.  Amico.  Palermo,  1907. 

(2)  MoNGiTORE,   Biblioth.    sic.   voi.   I,   p.    206. 

(3)  Ristretto  de'  processi  nel  pubblico  spettacolo  della  Fede 
divulgati  ed  espediti  a  9  sett.  1640  dalla  S.  Inquisizione  di  Si- 
cilia nella  piazza  della  Madrechiesa  di  Palermo.  Palermo,  Marta- 
rello,    1640. 

(4)  Baronio,  Siculae  Nobilitatis  Amphitheatrum,  etc.  Pa- 
normi,    1630. 

97 

7  -  G.  PITRÈ  -  Sant'Uffizio. 


SANT  UFFIZIO 

storia  di  queste  pareti,  è  quello  di  Simone  Rao  da  Palermo, 
dei  nobili  Marchesi  della  Feria,  prelato  illustre,  poeta  tra  i 
primi  dell'Isola. 

Nato  nel  1609,  salì  presto  in  fama  di  cittadino  esempla- 
re. Le  muse  gli  sorrisero  lietamente  ed  il  patrio  dialetto 
celebrò  per  lui  sentimenti  delicati  di  carità,  di  amore,  di 
religione.  Vacando  nella  chiesa  di  San  Nicolò  la  Kalsa  l'uf- 
ficio di  Parroco  (1647),  vi  fu  presentato  dal  Pretore,  poi 
venne  eletto  deputato  delle  nuove  gabelle.  Ma  tanti  onori 
non  lo  salvarono  dagli  insani  sospetti  del  Trasmiera  di  es- 
sere stato  tacito  conoscitore  della  congiura  del  Conte  di 
Mazzarino  organizzata  da  Giuseppe  Pesce  e  da  Antonino 
Lo  Giudice.  Né  scongiurarono  la  sua  carcerazione  in  Ca- 
stellamare,  e  poi  qui,  nello  Steri:  Trasmiera,  suo  amico, 
attore  principale. 

Di  questa  cattura  è  un  ricordo  di  una  sua  ottava  pie- 
tosa: 

Mura    'nfelici,    unni    abbissatu    m'hannu 

E   purtatumi   vivu   a   sepelliri 

Li   tradimenti  d'autru,   e  lu  me'    'ngannu, 

Materia  chiù  di  chianciri,   chi  diri; 

Oimè   chi   vita!   oimè   chi   duru   affannu! 

Oimè   chi  lungu   affannu   di   muriri! 

La    mia   miseria   cumincia   cu   l'annu, 

E  nun  sacciu  in  qual  annu    avia   finiri! 

Ora  io  prego  il  lettore  di  riavvicinare  questi  versi  con  le 
due  mirabili  ottave  onde  si  chiude  il  precendente  capitolo. 
Certo,  i  primi  due  non  bastano  a  provare  che  siano  tulli 
d'un  medesimo  autore,  ma  quando  si  consideri  che  proprio, 
in  queste  carceri  fu  il  Rao  ritenuto  ed  oppresso,  e  che  le; 
due  ottave  rappresentano  quanto  di  piìi  alto  offra  la  poe- 
sia del  Seicento,  non  sarà  arditezza  attribuirle  a  lui. 


98 


Capitolo   VI. 
POLITICA  -  CONFISCA 


UALE  accusa  più  sicuramente  documenta- 
ta di  quella  che  sorge  contro  i  giudici 
dalle  rivelazioni  di  queste  celle? 

Quali  giustificazioni  più  lampanti  di 
quelle  che  danno  di  sé  i  poveri  reclusi, 
espianti  le  pene  loro  inflitte?  Le  parti  s'invertono:  i  con- 
dannati sono  gli  innocenti,  i  giudici  sono  i  rei. 

Giacché  non  soltanto  il  quietismo  di  Molinos  (i),  incubo 

(i)  Il  sacerdote  Michele  Molinos  (1640-1697)  da  Saragozza, 
sostenne  l'annientamento  di  tutte  le  forze  spirituali  ed  il  totale 
abbandono  in  Dio  in  modo  che  l'anima  stessa  si  spogli  di  ogni 
spontaneo  impulso,  né  desideri  il  paradiso  né  tema  l'inferno  e 
il  peccato,  né  eserciti  atti  di  fede;  ma  nel  suo  nulla  si  tenga  in 
uno  stato  di  esclusiva  passività,  lasciando  fare  a  Dio.  Questa 
dottrina  fu  sostenuta,  tra  gli  altri,  dal  Card.  Petrucci,  che,  chia- 
mato dal  S.  Ufficio  di  Roma,  venne  tenuto  in  carcere.  In  due 
anni  furono  arrestate  200  persone  sospette  di  quietismo,   e  molte 


99 


SANT  UFFIZIO 

degl'Inquisitori  dapo  il  1687;  non  le  proposizioni  eriticali 
vere  e  non  vere;  non  il  possesso  illecito  di  libri  proibiti; 
non  i  sortilegi  e  le  superstizioni,  né  tampoco  l'accìdia  o  la 
rilassatezza  in  religione  eran  motivo  del  pronto  intervento 
del  Tribunale,  ma  ben  anche,  e  non  di  rado,  la  ragione  po- 
litica. «  In  materia  di  Stato  »,  osservava  il  Villabianca, 
((  e  in  critiche  emergenze  della  Corona  [quel  Tribunale] 
avea  servito  gloriosamente  il  governo  in  rimuover  le  fello- 
nie ed  in  punire  i  ribelli  col  braccio  forte  delle  sue  armi,  al- 
le quali  non  era  alcuno  che  osato  avesse  far  fronte  »  (i). 

La  suprema  autorità  del  Regno  impersona  il  Governo. 
Il  motto:  L'Etat  e' est  mot  era,  in  pratica,  più  vecchio  di 
Luigi  XIV.  Qualunque  atto  di  ribellione  al  re  era  un  atten- 
tato alla  religione  e  a  Dio. 

Sotto  il  nefasto  regno  di  Filippo  IV  (1621-1665),  qua- 
rantacinque etemi  anni  di  oppressione,  le  denunzie  politi- 
che rendevano  frequente  la  partecipazione  del  sacro  Tribu- 
nale. Invano  in  un  momento  di  resipiscenza  il  grande  In- 
quisitore di  Madrid  vietava  a  quello  di  Sicilia  la  carcera- 


di  esse  di  alto  grado.  L'a.  1687  la  dottrina  molinista  venne  con- 
dannata, e  nonostante  l'abiura,  condannato  a  prigionia  perpetua 
l'autore  di  essa.  Al  Card.  Petrucci,  condannato  anche  lui  nei 
suoi  scritti,  fu  imposto  silenzio,  fatto  obbligo  di  rinunziare  al 
vescovato  di  Jesi,  e  applicata  una  sorveglianza  speciale  dalla  In- 
quisizione, fatta  cessare  poi  da  papa  Innocenzo  XII. 

Il  molinismo  della  Spagna  passò  in  Francia,   scese  in  Italia 

ed  in   Sicilia   {Lessico  Ecclesiastico,   voi.   Ili,    pp.   575-6.   Milano, 

Vallardi).    In  Palermo  cinque  seguaci  di  esso  furono  condannata 

nel   1703;   e  nel   1724    bruciati  frate  Romualdo  e  Suor  Gertrude. 

(i)  Villabianca,   Diario  palermitano,    1782... 


100 


POLITICA  -  CONFISCA 

zione  di  persone  non  sospette  di  fede  nelle  segrete  (i).  Le 
cose  andavano  sempre  a  un  modo. 

Inquisitori  Torresilla,  Bravo  e  Camera  spagnuoli,  che 
si  valevano  l'uno  quanto  l'altro,  fu  rivelata  una  congiura 
a  favore  delle  armi  francesi  in  Augusta  e  contro  la  Spagna 
(1643).  Del  delitto  s'impadronì  subito  il  S.  Uffizio,  che 
seppe  far  bene  le  regie  vendette.  Questa  data  comparisce 
nella  parete  di  fronte  della  prima  cella.  Nella  sollevazione 
di  Giuseppe  D'Alesi,  Francesco  Baronio  ne  provò,  come 
vedremo,  i  rigori,  ,non  già  per  delitto  di  fede,  ma  «  per 
massima  politica». 

II  nobile  palermitano  Albamente  andò  al  supplizio  per 
una  congiura  la  cui  confessione  venne  strappata  a  lui  dal 
terribile  Trasmiera,  che  nella  congiura  volle  vedere  un 
tentativo  per  la  liberazione  del  Baronio  (2). 

In  seguito  ai  disordini  del  D'Alesi,  il  secondo  Don 
Giovanni  d'Austria,  ahi  quanto  diverso  dal  vincitore  di 
Lepanto!,  venuto  viceré  in  Sicilia,  incaricava  quel  Tribu- 
nale d'informarsi  ((  col  suo  abituale  segreto  degli  uomini 
di  mala  vita...  e  di  avvisarlo  di  ciò  che  avrebbe  inteso  e 
saputo,  distinguendo  le  qualità  e  parti  di  ciascuno  e  i  de- 
litti, e  costumi  di  coloro  che  meritassero  esser  puniti  »  (3). 

Memorabile  fu  lo  strozzamento  d'un  cappellano  della 
galera  siciliana  di  Santa  Chiara  per  ragioni  estranee  alla 
fede;  gli  si  eran  trovate  addosso  lettere  del  Duca  di  Bivoné 

(i)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  in 
Sicilia,    voi.    I,    a.    1622. 

(2)  MoNGiTORE,  Biblioteca  sic,  t.  I,  p.  206.  Pirri,  Annales 
Panortni,  in  Bibl.  Stor.  del  Di  Marzo,  v.  IV,  pp.  182  e  192. 

(3)  La   Mantia,    op.    cit.,    pp.    75-77. 

IDI 


sant'uffizio 

da  Messina  e  monete  d'oro  e  d'argento  della  Francia  (i). 
Il  boia  del  S.  Uffizio  compì  dentro  il  Palazzo  Chiaramonte 
(1676)  l'opera  dei  boia  del  Tribunale  secolare.  E  così  potè 
l'Inquisitore  dell'isola  vantarsi  con  l'Inquisitore  Supremo 
di  Spagna  di  avere  concorso  alla  tranquillità  dello  Sta- 
to  (2). 

Anche  qui  trionfava  l'Inquisizione,  la  quale,  al  primo 
giungere  di  S.  A.  (27  luglio  1649),  auspice  il  fosco  Trasmie- 
ra,  dava  ospitalità  nelle  splendide  sale  dello  Steri  al  Gene- 
rale Pimenta,   Comandante  dell'Armata  vicereale   (3). 

E  trionfava  pure  delle  congiure  del  Conte  Mazzarino 
(1649)  mandando  in  carcere  dapprima  di  Castellammare, 
poi  del  S.  Uffìzio  altro  dei  più  saputi  ecclesiastici,  Simone 
Rao,  parroco  di  San  Nicolò  la  Kalsa,  la  parrocchia  bena- 
mata e  prediletta  degli  Inquisitori.  La  quale  carcerazione 
(23  dicembre)  sarebbe  stata  seguita  dalla  condanna  a  mor- 
te, se  notizie  favorevoli  non  fossero  oppostamente  venute 
a  chiarire  che  il  Rao  aveva  in  tempo  manifestato  gli  occul- 
ti maneggi  che  dovevano  condurre  a  nuovi  disordini  (4). 

Il  lettore,  frattanto,  consideri  a  proposito  di  questo  fat- 
to quanto  l'odio  del  Trasmiera  contro  quanti  sono  in  fami 
di  agitatori  politici  accecasse  lui.  Uscito  dal  carcere,  il  Rac 
si  dimise  da  parroco  (1651  e  non  già  1656,  come  nota 

(i)    AuRiA,   in  Bibl.,    del  Di  Marzo. 

(2)  Quanto    ha    contribuito    alla    tranquillità    dello    Stato 
Tribunale  del  S.  Offizio,   documento  del  voi    ms.   Qq  H  62  della| 
Biblioteca   Comunale    di    Palermo. 

(3)  V.   AuRiA,   Notizie  di  alcune  cose  notabili  occorse  in  Pa4 
lermo   (1636-1665);   in  Di  Marzo,   Bibl..   v.   II,   p.   313. 

(4)  Di  Marzo,   Biblioteca,    v.    Ili,   pp.    357   e   369. 


102 


POLITICA  -  CONFISCA 

Mongitore)  e  si  recò  in  Ispagna  a  chiedere  giustizia  dell'af- 
fronto e  del  danno. 

Filippo  IV  gliela  fece  intera  nominandolo  R.  Cappella- 
no con  la  pensione  di  500  scudi  all'anno,  abate  di  Santa 
Croce  e  piiì  tardi  nominandolo  (1658)  vescovo  di  Patti  (i). 

Il  Trasmiera  era  stato  più  realista  del  rei 

Il  soverchio  zelo  però  sovente  lo  accecava,  spingendolo 
a  risoluzioni  ostiche  all'autorità  viceregia.  Già  è  risaputo, 
— .  ed  in  un  capitolo  di  questo  studio  risulta  evidente,  — 
che  i  Viceré,  gelosi  di  loro  facoltà,  mal  comportavano 
quelle  del  S.  U.;  le  quali  gli  interessati  spingevano  fino 
alla  usurpazione  del  reale  potere.  Per  poco  che  un  Viceré 
chiudesse  gli  occhi  sopra  un  abuso,  eccoli  farsi  innanzi  co- 
me per  dire:  siamo  qua  noi. 

E  ben  lo  fecero  il  23  aprile  del  1592,  quando,  infestata 
la  Sicilia  da  ladroni  di  campagna  e  da  banditi  della  peg- 
giore specie,  l'Inquisitore  di  Paramo,  seguendo  l'esempio 
del  Viceré  Conte  d'Olivares,  e  atteggiandosi  a  capo  supre- 
mo dello  Stato,  promulgò  un  bando  contro  i  delinquenti  e 
i  facinorosi.  Era  troppo,  invero;  il  Viceré,  con  un  coraggio 
non  comune  in  altre  simili  circostanze,  ordinò  (30  maggio) 
ai  Baroni  ed  ai  Consiglieri  del  Regno  che  impedissero  la 
promulgazione  dell'inconsulto  bando  inquisitoriale,  nessuno 
potersi  arrogare  il  diritto  di  intervenire  in  affari  di  sicurez- 
za pubblica  del  Regno,  devoluta  esclusivamente  all'autori- 
tà vicereale;  grave  offesa  aver  recato  alla  real  giurisdizione 
il  mal  consigliato  bando,  che  non  trovava  suffragio  nep- 
pure nelle  Concordie  del  1580  (2). 

(i)    D.  Faija,  Bibliografia  dei  Parrochi  di  S.  Nicolò  la  Kalsa, 
pp.    81-82,    Palermo,    Barravecchia.,    1877. 

(2)  A.   Gervasi,   Siculae  Sanctiones,   t.   II,   p.   329- 

103 


SANT'UFFIZIO 

Ma  anche  senza  entrare  nelle  parte  politica,  v'era  tan- 
to nella  vita  inquisitoriale  da  estendere  attivamente  la 
sorveglianza  molto  al  di  là  di  qualunque  supposizione. 

Forte  d'una  Costituzione  di  Paolo  III  (1542),  inoppor- 
tunamente  invocata,  il  Barbieri  riconosceva  nel  S.  Uffizio 
il  diritto,  anzi  il  dovere,  di  punire  gli  oratori  che  dicessero 
proposito  satiriche,  mordaci  e  sediziose  (i). 

Ora  chi  non  vede  la  elasticità  di  queste  tre  qualifica- 
zioni? Tutto  esse  possono  includere  e  niente  escludere.  Don- 
de comincia  e  dove  finisce  la  frase,  il  motteggio  satirico? 
Chi  può  fissare  i  limiti  dell'arguzia?  E  come  devono  inten- 
dersi le  proposizioni  sediziose? 

Eppure  nelle  leggi  civili  ve  n'erano  parecchie  sull'ar- 
gomento, le  quali  minacciavano  pene  severissime  agli  au- 
tori di  satire  specialmente  anonime.  In  tal  guisa  il  Governo 
aiutava  il  sacro  Tribunale  ed  il  sacro  Tribunale  il  Governo, 
del  quale,  forse  pel  numero  straordinario  di  spie,  ne  sapeva 
di  piìi. 

Con  questo  è  facile  spiegare  come  uomini  egregi  ed  an- 
che insigni  con  manifestazioni  innocue  ed  anche  sante  fos- 
sero vittime  di  quel  Tribunale.  Non  empietà  di  carcerati 
rivelano  queste  celle,  ma  perversità  di  carcerieri.  Non  era 
infatti  manifestazione  spirituale,  anzi  atto  pubblico  o  pri- 
vato che  non  provocasse  la  loro  ingerenza  fino  alla  contra- 
stata validità  d'un  matrimonio  (2),  ad  una  dotta  qualifi- 
cazione di  un'agiografia,  alle  questioni  sui  luoghi  di  nascita 
d'una  persona  di  santa  vita.  Un  processo  fu  da  essi  inten- 
tato contro  il  gesuita  A.   Ign.  Mancuso,  perchè  nella  sua 

(i)   Bf.rtini,    Rosa    Virginea,    p.    11. 

(2)   Ms.    Qq   F   239   della   Bibl.   Com.    di   Palermo. 


104 


POLITICA  -  CONFISCA 

Storia  di  Santa  Rosalia  (i)  qualificava  «  cervel  matto  »  il 
bruciato  Fra  Romualdo  (2).  Un  editto  inquisitoriale  del 
24  agosto  1665  lanciava  la  scomunica  maggiore  al  messine- 
se Francesco  Alibrando,  che  avea  sostenuto  ((  proposizioni 
ingiuriose,  scandalose,  empie,  contrarie,  false  ed  offensive 
delle  pie  orecchie  ». 

La  i-eggiore  era  l'affermazione  che  il  Beato  Agostino 
Novello  fosse  nato  a  Termini  (3)  mentre  l'Auria,  ben  visto 
al  S.  Ufficio,  lo  avea  dichiarato  palermitano. 

Dì  dotti  uomini  assai  ve  n'ebbe  ristretti  nel  S.  Uffìzio. 
Dopo  i  bigami,  i  superstiziosi  e  le  streghe,  erano  appunto 
gli  ecclesiastici  i  maggiormente  presi  di  mira.  La  loro  lista, 
particolarmente  nel  Cinquecento,  è  interminabile;  ma  ben 
lontana  dall' esser  completa.  Lasciamo  quel  frate  Giannello 
di  Maurojanni  vicino  la  Rocca,  che  fu  bruciato  vivo  (1564) 
e  preste  Jannello  scolaro,  pur  esso  di  Maurojanni  e  fra 

(i)    Tomo  I,    pp.    166.    Palermo,    1722. 

(2)  Mescolanze  ecclesiastiche  varie  n.  6,  Ms.  3  Qq  C  75 
della   Bibl.    Comunale    di    Palermo. 

(3)  Termine  rimessa  in  stato,  o  pur  Risposta  ad  uno  scritto 
del  Dr.  D.  Vincenzo  Auria.  Nel  quale  volendo  egli  levare  alla 
città  di  Termine  il  suo  B.  Ag.  Novello  degli  Eremiti  di  S.  Ago- 
stino, per  donarlo  a  Palermo,  ecc.  Opera  di  Bernardino  Af- 
SCALCO  (Francesco  Alibrando)  Messinese,  ecc.  In  Venetia,  per  il 
Bertoni,    1664. 

A  favore  dell' Auria  si  pronunziò  nel  sec.  XVIII,  et  pour 
cause,  il  MoNGiTORE  scrivendo  la  Vita  del  B.  Agostino  Novello  pa- 
lermitano della  nobile  famiglia  Termine.   Palermo,  Cortese,    1710. 

Contro  l'Auria  ed  a  favore  dello  Alibrando  sorse  Cesare 
GuMBRUNO,  Lettera  al  Dr.  Cataldo  Rizzo  in  cui  si  difende  la  na- 
scita e  la  patria  del  B.  Agostino  Novello  terminese  e  si  risponde 
all'opera  apologetica  del  D.r  Auria.   Messina,   D'Amico,  1713. 

105 


SANT  UFFIZIO 

Cornelio  da  Nicosia,  conventuale  e  maestro  in  sacra  Teo- 
logia (1561),  e  D.  Jacobo  Cortes  da  Tropea,  cappellano 
della  Chiesa  dei  SS.  Giovanni  e  Giacomo  a  Porta  Carini  in 
Palermo,  e  frate  Alessandro  Castellana  di  Tricarico  dei 
Minori  Osservanti,  D.  Giacomo  Bruto  o  Bruno,  prete  pie- 
montese dell'Isola  Bella.  Lasciamo  nel  Seicento  il  notaio 
Diego  Siracusa  da  Trecastagne,  i  sacerdoti  Casalino  e 
D'Angelo  da  Monreale,  e  Martino  Fide  da  Vizzini  (1640); 
fra  Carlo  Tavalora  agostiniano  e  fra  Giuseppe  dell'Alleata 
francescano;  ed  il  Baronio  pred:)tto  ed  il  sac.  palermitano 
Antonino  Rizzo,  maestro  di  canto,  ed  il  famoso  fra  Diego 
La  Mattina  agostiniano;  certo  è  che  di  conosciuti  parecchi 
ve  ne  furono  fra  i  34  inquisiti  del  1648,  piti  che  parecchi 
tra  i  40  del  1649,  molti  fra  i  50  del  1651  e  tra  i  44  del  1652  : 
quattro  atti  pubblici  di  fede,  questi,  solennemente  celebrati; 
ed  il  penultimo,  con  l'intervento  di  D.  Giovanni  d'Austria 
juniore  nella  chiesa  di  Santa  Cita  a  Porta  San  Giorgio  (i). 
Verso  il  1676  una  vera  follia  contagiosa  imperversò  in 
mezzo  al  ceto  ecclesiastico,  al  civile  ed  al  popolesco.  Suor 
Cristina  Rovere,  donna  ascetizzante,  fu  da  tutti  creduta 
santa.  Si  narrava  di  estasi,  di  visioni  e  di  miracoli;  la  sua 
immagine  corse  venerata;  tenute  come  sacre  reliquie  le 
cose  sue.  Alla  fama  di  lei  vennero  attratti  sacerdoti  e  seco- 
lari; e  non  che  Palermo,  ma  anche  la  Sicilia  e,  come  fu 
detto  con  poca  conoscenza  geografica  e  politica,  «  tutto  il 
Regno  d'Italia  »  parlò  di  lei. 

Il  tribunale  della  fede  mise  le  mani  su  di  essa  e  sopra  i 

(i)  Vedi:  La  Mantia,  op.  cit.,  nota  4.  —  Gius.  Matranga 
Relazione  dell'atto  pubblico  di  fede  celebrato  in  Palermo  a'  17 
marzo  dell' a.  1658.  Seconda  edizione  con  nuova  aggiunta.  In  Pa- 
lermo,  Bua,    1658. 


106 


POLITICA  -   CONFISCA 

suoi  ammiratori,  i  maggiori  teologi  che  ci  fossero  allora, 
tanto  pili  pericolosi  quanto  più  stimati  per  dottrina  di  divi- 
nità. Suor  Cristina  dapprima  venne  rinchiusa  nel  monaste- 
ro di  Santa  Chiara;  poi  ((  condannata  a  stare  tutto  il  tem- 
po della  sua  vita  nelle  carceri  del  S.  Officio  »,  ove  la  pietà 
degli  Inquisitori  si  contentò  che  «  li  suoi  beni  restassero 
confiscati  al  tribunale  »  (i). 

I  teologi  ebbero  pene  temporanee,  probabilmente  in  car- 
cere espiatorio  e  chi  sa...  forse  in  esilio. 

Che  l'Autore  della  nostra  nota  insieme  col  suo  compa- 
gno fosse  di  quelli,  non  oso  affermare;  ma  nessuno  potreb- 
be, senza  documenti,  negarlo. 

Chi  sa  quali  tracce  della  loro  presenza  in  questi  luoghi 
devono  essi  aver  lasciate!... 

Nello  spettacolo  del  4  giugno  1703,  in  San  Domenico, 
tra  14  rei,  5  furono  religiosi  dell'ordine  degli  Eremitani 
scalzi  di  S.  Niccolò  Tolentino  e  (addirittura  incredibile!) 
certa  Suor  Teresa  di  San  Girolamo,  perchè  donna,  e  di  soli 
26  anni  già.  autrice  di  vari  trattati  teologici  e  particolar- 
mente di  due  sulle  virtù  teologali  e  sulle  cardinali,  ritenute 
eccedenti  la  capacità  del  suo  intelletto,  fu  giudicata  dia- 
bolica (2). 

Concorrevano  poi  ad  accrescere  la  legione  dei  sospetti, 
e  quindi  degli  accusati  e  dei  condannati,  le  ragioni  econo- 
miche  senza  le  quali  la  istituzione  non  avrebbe  potuto  pro- 
sperare. 

(i)  Ms.  citato  dal  La  Mantia,  pp.  86-87. 

(2)  Ms.  3  Qq  B  151  della  Biblioteca  Comunale.  I  due  trat- 
tati sono  indicati  nel  cit.  Lessico  ecclesiastico  5  M^linos  fCitato 
qui  nell'originale,  ma  senza  espresso  richiamo  nel  testo,  il  Ms.  Qq 
F.   239  della  Bibl.  Com.   di  Palermo]. 

107 


SANT'UFFIZIO 

Fino  al  1699  regnava  l'antica  procedura  dello  arresto 
d'un  accusato  o  d'un  indiziato  nei  termini  più  sbrigativi 
e  sommari.  Gl'Inquisitori  ordinavano  l'arresto,  e  l'arresto 
veniva  issofatto  eseguito.  Il  foro  secolare,  come  qualsivo- 
glia altro  foro,  doveva  prestare  braccio  forte. 

Di  6  persone  prese  dai  foristi  dal  marzo  al  settembre  del 
1757,  4  furono  frati,  condannati  poi  a  varie  pene,  ed  uno 
di  Montemaggiore,  condotto  allo  spettacolo  dal  nobile  D. 
Benedetto  Versango,  a  remigare  per  sette  anni  nelle  ga- 
lere di  S.  M.  (i). 

Più  volte,  nel  corso  di  questo  lavoro  si  è  parlato  di 
ecclesiastici  rinchiusi  in  queste  celle.  Il  triste  uffìzio  di  esse 
è  più  che  chiaro,  evidente;  quel  che  non  è  chiaro  è  se  essi 
fossero  secolari  o  regolari  e,  se  mai,  di  quale  ordine  reli- 
gioso. 

Ecco  a  quali  induzioni  mi  conduce  il  maturo  esame  del 
contenuto  dei  testi  latini  e  delle  immagini  dei  santi  della 
prima  delle  tre  celle. 

La  iconografìa  locale  non  dice  nulla  su  questo  punto. 
La  folla  delle  sacre  figure  fa  sospettare  che  i  carcerati  o 
rappresentassero  santi  ai  quali  avessero  devozione,  o  fa- 
cessero esercizio  di  arte,  pur  non  essendo  artisti. 

Qualche  cosa,  al  contrario,  dicono  i  passi  latini  rivolti 
a  Santa  Lucia  ed  a  Sant'Antonio.  Quei  passi,  due  special- 
mente, provengono,  come  si  è  veduto,  dagli  uffici  propri. 
Ora  questi  uffici  non  erano  né  son  recitati  dai  sacerdoti 
secolari,  né  da  tutti  i  sacerdoti  regolari.  I  soli  che  li  reci- 
tassero e  li  recitino  ancora,  sono  i  frati  minori,  i  conven- 

(i)   Doc.    favoritomi   dall'avv.   cap.    Pietro  Bottalla. 
108 


I 


POLITICA  -  CONFISCA 

tuali,  i  cappuccini,  le  monache  di  Santa  Chiara  e  gli  ascrit- 
ti, uomini  e  donne,  al  terz'ordine. 

Lasciamo  stare  le  monache  di  Santa  Chiara  e  le  ter- 
ziarie di  San  Francesco,  perchè  di  donne  non  vi  è  traccia. 
Le  streghe  stavano  in  un  piano  inferiore  o  fuori  lo  Steri,  e 
le  terziarie  e  le  Clarisse,  se  qualcuna  veniva  arrestata,  an- 
dava chiusa  altrove.  La  terziaria  Spedalieri  era  in  fondo 
una  secolare. 

Rimane  dunque  il  sospetto  dei  frati  minori,  di  conven- 
tuali e  di  cappuccini. 

E  allora  c'è  da  presumere  che  qualcuno  fosse  stato  qui- 
vi ritenuto,  non  per  incertezza  di  fede,  giacché  i  frati  di 
quell'ordine  non  ne  mostrarono  mai,  ma  per  fatti  politici  e 
magari  per  detenzione  di  libri  proibiti,  od  anche  per  tra- 
scorsi che  non  il  S.  Uffìzio,  ma  il  Foro  Ecclesiastico  aveva 
il  diritto  di  punire. 

Catturato  il  reo,  gli  si  sequestravano  immediatamente 
todos  los  bienes;  e  lo  si  consegnava  allo  alcade  delle  carceri 
segrete.  Beni  mobili  ed  immobili  venivano  inventariati. 
Cari:e,  libri,  manoscritti,  chi  ne  avesse,  erano  studiati  mi- 
nutissimamente, uno  per  uno,  per  vedere  se  vi  fossero  in- 
dizi dell'errore,  dei  complici,  ecc..  Allo  esame  prendevano 
attiva  parte  i  qualificatori  dentro  il  S.  Uffizio  (i). 

Il  sequestro  era  il  primo  passo  per  la  conservazione  dei 
beni  sui  quali  potesse  il  Tribunale  rivalersi  delle  spese  av- 
venire e,  caso  mai,  per  la  confisca.  Pel  Tribunale  era  que- 
stione apparentemente  religiosa,  ma  sostanzialmente  eco- 
nomica; e  quando  questa  non  era  ben  sicura,  esso  esigeva 

(i)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  di 
Sicilia,  voi.  II;  Ms.  Qq  H  63  della  Biblioteca  Comunale  di  Pa- 
lermo. 

109 


SANT'UFFIZIO 

la  guarentigia  di  persona  di  sua  conoscenza  e  fiducia  nello 
interesse  dell'erario  del  S.  Uffizio  e  dello  Stato  ed  in  favore 
del  giudicando  (i). 

La  confisca  non  tardava,  specialmente  quando  l'accusa 
od  il  sospetto  era  di  eresia;  e  seguiva  non  soltanto  allo  ab- 
bruciamento  ma  anche  alla  muratura  o  chiusura  perpetua, 
fino  a  quando  questa  fu  in  uso  (3),  al  carcere  perpetuo  sen- 
za muratura,  al  carcere  per  un  dato  numero  di  anni,  alla 
fino  a  quando  questa  fu  in  uso  (2),  al  carcere  perpetuo  sen- 
lio  dalla  città  o  dalla  diocesi.  C'erano  anche  le  sferzate 

Ben  è  vero  che  a  richiesta  dell'Inquisitore  Fra  Enrico 
Lugardi,  re  Alfonso  avea  confermato  per  la  Sicilia  (17 
agosto  1451),  un  privilegio  dell'imp.  Federico  II,  del  1224, 
concedente  agli  Inquisitori  una  terza  parte  dei  beni  degli 
eretici,  la  processura  dei  Giudei  ed  il  godimento  di  certi 
diritti  degli  uni  e  degli  altri;  ma  la  concessione  fridericiana 
è  ancora  di  là  da  trovarsi  (3). 

Ferdinando  il  Cattolico  avocava  a  sé  la  Inquisizione  e 
ne  faceva  una  prerogativa  sovrana.  Istituendola  in  Casti- 
glia  (1478),  in  Aragona  (1481),  in  Catalogna,  in  Maiorca, 

(i)  Vedi  tra  le  carte  scampate  allo  eccidio  del  Viceré  Carac- 
ciolo in  Palermo  le  Plegerie  criminali  dal  1607  al  1763,  volumi 
16544-59  nell'Archivio  dei  Notari  defunti,  nell'antico  Convento  del- 
la Gancia. 

(2)  Un  documento  dell' 11  maggio  1782  della  Giunta  dei 
Presidenti  e  del  Consultore  fa  cenno  di  un  chierico  D.  Giovanni 
Bua  Pennisi  nativo  della  città  di  Aci  inquisito,  «  a'  7  settembre 
1764  fu  condannato  a  essere  murato,  o  sia  perpetuamente  carce- 
rato in  ristretto  carcere  a  pena  delli  suoi  gravi  misfatti  ».  La 
Mantia,  parte  IT,   doc.  XII,   p.  67. 

(3)  Lagumina,  Codice  dei  Giudei,  n.  CCXCII,  p.  512. 


HO 


I 


POLITICA  -  CONFISCA 

in  Sicilia  e  in  Sardegna  (1487),  guardava  a  risultati  pratici, 
rispondenti  alla  indole  sua  obliqua  ed  avida  e,  perchè,  avi- 
da, crudele.  Erano  questi  le  ricche  prede  «  che  le  confische 
sui  miscredenti  e  sugli  eretici  sarebbero  per  portare  allo 
erario  »  (i). 

Non  entriamo  nella  spinosa  ricerca  della  parte  spettan- 
te al  Tribunale  del  S.  Uffizio  dalle  confische  per  ragion  di 
fede.  Certo  dovea  esser  pingue  se  Carlo  V  si  decise  ad  isti- 
tuire (15 19)  giudici  dei  beni  confiscati  ai  miscredenti  rite- 
nuti e  giudicati  tali  gl'Inquisitori  (2),  i  quali  alla  lor  volta 
dovettero  comporre  per  questo  un'amministrazione  con 
Giudice,  Avvocato,  Recettore  (tesoriere).  Segretario,  Pro- 
curatore e  Sollecitatore  fiscale:  tutti,  s'intende,  privilegiati 
dal  Foro  concesso  agli  ufficali  del  Segreto. 

In  quella  che  il  Parlamento  a  tre  bracci  chiedeva  al  me- 
desimo Carlo  (1520)  che  il  S.  Uffizio  venisse  esercitato  da 
prelati  e  da  priori  dei  frati  predicatori  di  Domenico  in  Paler- 
mo (giacché  gli  Spagnuoli  erano  avidissimi)  o  almeno  dai  ve- 
scovi ed  arcivescovi  di  Sicilia,  esso  affermava  pure  che  per 
l'avidità  degli  Inquisitori  del  tempo  dediti  a  confische, 
<(  dunasi  occasioni  extorquiri  li  beni  di  li  cristiani  natu- 
rali »   (3). 

Speciosa  invero  una  teoria  intorno  alle  confische.  «  Non 
potendo  chi  vive  haver  herede,  non  può  né  deve  tampoco 
il  fisco  chiamarsi  propriamente  herede  dell'heretico  condan- 

(i)  La  Lumia,  Studi  di  storia  siciliana,  v.  I,  p.  25.  Paler- 
mo,  Lao,    1870. 

(2)  Franchina,   Breve  Rapporto,   cap.   XIV,   n.   7. 

(3)  Capitula  Regni  Sidliae  quae  ad  hodiernum  diem  lata 
sunt  etc,  t.  II,  cap.  LXXIII,  p.  53.  Panormi,  1743,  Excudeba* 
Angelus  Felicella. 


Ili 


SANT'UFFIZIO 

nato  a  cui  vengono  in  vita  confiscati  i  beni;  ma  egli  con 
tutto  ciò  propriamente  si  dice,  et  è  successore  universale  ne 
beni  dd  sopradetto  heretico  »  (i). 

Non  si  chiamava  erede  il  fisco;  ma  sequestrando  i  beni 
del  condannato  se  ne  riserbava  il  possesso.  Era  un  gioco  di 
parole  tradotto  in  una  sanguinosa  irrisione  alla  sventura. 
Oh  quale  triste  verità  racchiude  l'antico  proverbio:  Lu 
roggiu  di  lu  S.  Uffizio  nun  cunsigna  mai!  giacché  la  In- 
quisizione non  lestituiva  mai  le  facoltà  confiscate. 

Tra  le  prove  più  scandalose  riferirò  il  caso  di  Suor  A- 
mata  di  Gesù  (al  secolo  Margherita  Cordovana)  da  Caltanis- 
setta,  sorella  di  queulla  Suor  Gertrude  ce  nel  1724  fu,  come 
abbiamo  visto,  bruciata  viva.  Nel  1699  carcerata,  tenuta 
quasi  quattr'anni  in  prigione,  fu  finalmente  dichiarata  in- 
nocente, e  restituita  a  libertà.  Le  si  erano  sequestrati  i  beni 
stabili;  e,  per  quanto  la  sventurata  donna  supplicasse,  non 
riuscì  mai  a  riaverli.  Un'ultima  sua  istanza  del  1742,  che  il 
lettore  troverà  in  appendice,  racconta  le  fasi  della  vertenza, 
ed  insiste  per  lo  svincolo  e  la  restituzione.  Il  Tribunale,  che 
pure  avrebbe  dovuto  indennizzarla  del  danno  ingiustamente 
recatole,  obbligò  con  una  transazione  onerosa  l'erede  di  lei 
al  pagamento  di  un  canone  annuale  di  onze  io;  transazio- 
ne immorale,  che  egli,  sotto  l'incubo  di  nuove  vessazioni 
di  un  istituto  potente,  dovette  socrivere. 

Il  fatto  è  classico  nel  genere,  anche  perchè  viene  a  con- 
fermare che  non  soltanto  dei  beni  dei  rilasciati  alla  Giu- 
stizia ordinaria,  ma  anche  di  quelli  degli  eretici  pentiti 
e  dei  figli  cattolici  di  padri  eretici  (2)  e  dei  condannati, 

(i)    Sacro  Arsenale,   n.   CXCI,   p.   399. 
(2)   Sacro  Arsenale,  nn.  CCXXI,  CCXXII. 


112 


POLITICA  -  CONFISCA 


in  qualsivoglia  maniera  in  vita,  e  persino  dei  semplici  cat- 
turati si  faceva  padrone  il  Tribunale  della  fede,  checché 
toccasse  ad  esso  del  più  o  men  pingue  patrimonio. 

Ed  ecco,  anche  per  questo,  uno  dei  Capitoli  del  Regno 
sottoposti  al  Re  Carlo  V,  Nel  1520  i  tre  bracci  del  Par- 
lamento del  Regno  pregavano  S.  M.  che  facesse  cessare 
la  confìsca  dei  beni  dei  neofiti  condannati,  compresa  la 
parte  che  in  essi  beni  era  di  pertinenza  di  cristiani  che 
avessero  prima,  in  buona  fede,  contrattato  con  quelli; 
confisca  che  il  S.  Uffìzio  faceva  intera,  misconoscendo  i 
diritti  dei  terzi  e  dando  luogo  ad  interminabili  liti. 

Ed  un  altro,  col  quale  si  implorava  la  restituzione  della 
dote  e  del  dotario  alla  moglie  cristiana  d'un  neofita  con- 
dannato (i). 

Se  interroghiamo  la  Chiesa  in  proposito,  noi  ne  sen- 
tiremo i  rimbrocci.  Nel  1249  il  Pontefice  aveva  severa- 
mente biasimati  delle  loro  ((  scandalose  estorsioni  »  gl'In- 
quisitori 

In  un  Bilancio  del  Tribunale  dell'anno  1713,  gl'introiti 
venivano  calcolati  4067  onze  (pari  a  L.  51.854,25),  tutte 
provenienti  dagl'interessi  che  sul  capitale  pagava  la  Ta- 
vola (Banco)  di  Palermo.  E  ((notisi»,  osserva  quel  do- 
cumento, «  che  tutte  le  sudette  rendite  sono  pervenute  così 
per  causa  di  confìscazione  di  beni  de'  rei  condannati  come 
per  legati  lasciati  da  diverse  persone  »  (2). 

Queste  cifre  fanno  malinconicamente  pensare  all'età 
dell'oro  del  Tribunale,  che  fu  il  secolo  XVI  ed  anche  in 

(i)     Capitula  Regni  SicUiae.  cit.,  t.  II,  capp.  LXXIV  e  LXXV. 

(2)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  di 
Sicilia,  cit.,  voi.  IV.  Ms.  Qq  H  64  della  Biblioteca  Comunale  di 
Palermo. 

113 

8  -  G.  PITRÈ  -  SanfUttlilo. 


SANT'UFFIZIO 

parte  il  XVII.  Relassi,  cioè  bruciati,  reconciliati  e  peni- 
tenziati  apprestavano  frequenti  entrate  allo  erario,  che,  pe- 
raltro, dovea  sopportare  ingenti  spese  per  gli  impiegati  e 
per  la  polizia  segreta  che  era  costretto  a  mantenere,  giac- 
ché non  tutti  si  movevano  pel  trionfo  della  fede,  né  tutti 
pel  timore  della  scomunica  coloro  che  si  facevano  denun- 
ziatori  del  loro  prossimo;  né  tutte  disinteressate  erano  le 
confidenti  di  esso, 

I  rivelatori  dei  beni  occulti  degli  inquisiti,  sfuggiti  .alle 
confische  del  S.  U.  ricevevano  il  quarto  od  il  quinto  dei  beni 
medesimi  come  prezzo  della  denunzia  (i). 

Scriveva  nell'aprile  del  1560  l'Inquisitore  Quintavilla 
al  re  Filippo  a  Madrid,  averlo  informato,  ai  15  febbraio 
p.  p.,  dell'Atto  di  fede  pubblicato  in  Palermo  per  la  Do- 
menica di  sessagesima,  18  del  mese,  e  celebrato  con  gran- 
dissimo accompagnamento  e  generale  plauso.  In  quella 
occasione  avergli  mandato  la  lista  delle  persone  uscite  ali 
spettacolo,  e  tra  le  riconciliate  Donna  Mattea  Moncai 
e  Spataiora,  baronessa  della  Feria,  che,  secondo  noti; 
correnti,  avea  una  dote,  un  po'  contrastata  invero, 
10.000  scudi,  e  Anton  Francesco  Napoli  con  3000,  oltre 
2500  sui  quali  vantavano  crediti  i  suoi  fratelli.  «  I  bisoj 
di  questa  Inquisizione  »,  aggiungeva,  «  son  così  gran 
che  essa  ha  contratto  molti  debiti;  ed  ora,  con  queste  du( 

(i)    Di  questa  pratica,   nuova  per  gli  studiosi  dell' argoment 
in    Sicilia,    faceva   cenno   l'Inquis.    Generale    D.    Alonso   Manrìqui 
di   alcune   sue   istruzioni   agli   Inquisitori   di   Sicilia   il  dì   31    ger 
naio  1525;  ed  aggiungeva  che  i  recettori  (tesorieri)  commettevantì 
abusi  in  proposito;  e  si  doleva  che  degli  introiti  e  degli  esiti 
14  mesi  che  l'Inquis.  Cervera  fu  in  visita  pex  la  Sicilia,  fuori  Pa^ 
lermo.  non  era  stato  possibile  avere  i  conti!  Lea,  op.  cit.,  p.  521] 


114 


I 


POLITICA  -  CONFISCA 

confische,  potrebbe  pagarli.  Se  V.  M.  lo  concede,  io 
propongo  lo  acquisto  della  rendita  possibile,  buona  ad 
assicurare  la  vita  avvenire  di  questa  Inquisizione,  ed  il 
pagamento  dei  salari  degli  ufficiali.  V.  M.  che  conosce 
quanto  necessaria  sia  essa  oggi  e  come  per  essa  il  Regno 
è  uno  dei  più  puri  della  cristianità,  voglia  favorevolmente 
accogliere  la  proposta  »  (i). 

Si  comprende  bene  che  le  ricche  prede  non  capitano  di 
frequente;  ed  il  lasciarsele  sfuggire  sarebbe  un  delitto.  La 
Inquisizione  aveva  larga  esperienza  nel  genere. 

A  Quel  Tribunale  non  era  mai  danaro  che  bastasse.  Il 
documento  ufficiale  del  1699  conferma  strettezze  econo- 
miche, sempre  crescenti,  lamentate  dagli  Inquisitori  stessi, 
cioè  ritardi  di  pagamenti  e  mancanza  di  mezzi;  e  ci  vuol 
poco  a  capire  che  questa  mancanza  si  riduceva  a'  pochi 
affari  che,  vorremmo  dire,  commercialmente  presentava 
ia  piazza. 

Queste  condizioni  non  migliorarono  più,  e  nel  secolo 
XVIII  rimasero  inalterate,  quali  risultano  nel  1713.  Il 
giorno  dell'abolizione  del  S.  Uffizio  il  R.  Erario  non  in- 
camerò più  di  4000  onze  annuali  (2),  perchè  già  da  un 
pezzo  nuovi  proventi  per  confische  non  c'erano  stati;  la 
istituzione  viveva  del  proprio,  cioè  delle  vecchie  rendite, 
e  la  merce  dei  rilasciati  era  caduta  in  ribasso:  tre  soH  in 
un  secolo! 

Ma  quali  spese  e  quali  crediti!... 

(i)   Testo  spagnuolo,  citato  dal  La  Mantia,  p.  55- 
(2)    ViLLABiANCA,   Diario,   in  Bibl.  del  Di  Marzo,  v. 


sant'uffizio 

Quelle  sole  dei  provvisionati  salivano  alla  somma  di 
onze  2519  annuali;  ed  i  crediti  a  3535  (2), 

Tuttavia,  fino  al  settimo  decennio  del  secolo  esso  si 
permetteva  dei  prestiti  al  Senato  della  Città. 

L'argomento,  del  resto,  delle  condizioni  finanziarie  ed 
economiche  e  dell'amministrazone  del  S.  Ufficio  in  Sicilia 
non  fu  mai  studiato. 

Forse  un  errore  ha  fatto  dimenticare  che  i  documenti 
son  lì,  nell'Archivio  della  Gancia  in  Palermo;  perchè  nel- 
l'ultimo rogo,  alzato  non  ai  vivi  ma  alle  carte  del  Tri- 
bunale, si  ebbe  cura  speciale,  nell'interesse  dello  erario, 
dell'Archivio  civile. 

Sono  1858  grossi  volumi  dal  1500  al  1782,  contenenti 
plegerie  civili  e  militari,  memoriali,  deposti,  cedule,  sen- 
tenze, esecuzioni  (tutte,  s'intende,  per  cause  civili),  atti  e 
mandati  di  assento,  lettere  delegatorie,  consulte,  atti  di 
tassazione,  introiti  di  atti  spediti,  relazioni,  biglietti  vice- 
regi. E  questa  è  materia  preziosa  per  lumeggiare  la  parte 
amministrativa  di  quel  Tribunale,  alla  quale  non  sarebbe 
inutile  guardare  per  darsi  ragione  della  vita  politica  e  re- 
ligiosa della  istituzione.  Uno  di  quei  volumi,  il  1594,  ^  ^^ 
Libro  di  cassa  del  Tribunale  del  S.  Uffizio  dall'agosto 
1761  al  marzo  1782:  bastevole  esso  solo  a  fornire  la  mi- 
sura della  importanza  di  questo  elemento  di  storia  sici- 
liana. 

(i)  La  Mantia,  L'Inquisiz.  in  Sicilia,  parte  II,  Documenti, 
n.  IX,  pp.  64-65;  Palermo,    1904. 


116 


Capitolo  VII 
TORTURA  -  SEGRETO 

>'CHE  i  ministri  del  Re  erano  obbligati  al 
segreto  intorno  alle  comunicazioni  che 
ricevevano  dal  S.  Uffizio. 

Tra  le  carte  che  ci  avanzano  del  S.  Uf- 
fizio in  Sicilia,  ecco  una  Dichiarazione 
del  Segretario  di  Stato  ed  Ecclesiastico,  di  osservare  rigo- 
roso segreto  delle  materie  del  S.  Uffizio: 

«  Io  sottoscritto.  Segretario  di  Stato  per  gli  affari  eccle- 
siastici di  S.  M,  il  Re  delle  due  Sicilie,  precedente  suo  real 
ordine,  giuro  gli  Evangelj  di  osservare  il  Segreto  secondo 
le  leggi  della  S.  Inquisizione  in  tutte  le  materie  attinenti 
alla  medesima,  che  saranno  a  me  descritte  per  passarle  alla 
notizia  di  S.  M.,  e  dalla  Maestà  del  Re  mi  ha  ordinato  di 
comunicarle  alla  S.  Inquisizione. 
Napoli,  a'  9  ottobre  1751. 

Il  Marchese  Brancone  »  (i) 

(i)  Ms.  Qq  H  62  della  Bibl.  Com.  di  Palenno. 


XI7 


SANT'UFFIZIO 

Due  celle  ripetutamente  accennano  alla  tortura.  Cer- 
chiamola, non  nelle  fiere  requisitorie  degli  scrittori  moder- 
ni, ma  nelle  fredde  relazioni  del  tempo,  in  quelle  cioè  che 
provengono  dalle  mani  stesse  degli  Inquisitori. 

La  tortura  non  era  pena,  ma  espediente  per  iscoprire  la 
verità,  e  come  tale  non  infamava.  Se  la  imputazione  era 
p.  es.,  di  sacrilegio  con  complici,  la  tortura  si  dava  per  isco- 
prire con  rigoroso  esame  i  fatti;  se  si  confessava  parte  o 
tutto  il  delitto  o  i  complici,  si  dava  prò  ulteriori  veritate 
«  sull'uso  cioè  ed  i  complici  senza  pregiudizio  delle  cose  con- 
fermate e  provate».  Se  invece  si  negava  tutto  e  gli  indizi 
erano  sufficienti,  la  tortura  era  data  prò  habenda  veritate, 
e  allora  poteva  dividersene  la  durata  in  guisa  da  applicarsi 
in  due  giorni  consecutivi. 

La  tortura  ordinaria  era  la  corda;  e  di  corda  parla  som- 
messamente la  prima  stanza,  e  del  modo  terribile  ond'era 
data. 

Se  il  reo  era  indiziato  d'eresia  e,  più,  della  qualità 
d'averla  profferita,  confessata  la  intenzione,  avea  ragione 
d'esser  creduto;  e  allora  veniva  tormentato  non  già  per  la 
intenzione,  ma  per  altri  intendimenti,  come  sarebbe  quello 
dei  complici  e  prò  ulteriori  veritate,  perchè  la  confessione 
di  simile  delitto  sembrava  per  sé  naturale  indizio  che  il 
delinquente  l'avesse  potuto  commettere  altre  volte,  più  di 
quelle  che  avesse  confessate. 

Quando  il  reo  confessava  con  lo  esame  della  corda  un 
delitto  che  nei  suoi  costituti  avea  negato,  lo  si  chiamava  a 
ratificare  la  confessione  infra  24  ore,  fuori  del  luogo  dei 
tormenti  (i). 

(l)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  di 
Sicilia,  voi.  II,  Ms.  Qq  H,  n.  63  della  Bibl.  Comunale  di  Pa- 
lermo. 

118 


TORTURA  -  SEGRETO 

Limborch  descrive  la  camera  dei  tormenti  con  sì  tetri 
colori  da  far  paura.  Egli  parla  della  spagnuola;  ma  si  sa 
che  una  era  la  spagnuola,  la  sarda  e  la  siciliana. 

«  Il  luogo  di  tortura  »,  egli  dice,  «  nella  Inquisizione  spa- 
gnola suole  il  più  delle  volte  essere  un  antro  sotterraneo  ed 
oscurissimo...  Quivi  è  alzato  il  tribunale,  in  cui  siedono 
l'Inquisitore,  il  Provisore  e  lo  scriba.  Accesi  i  lumi  e  fatto 
entrare  il  torturando,  il  carnefice,  stato  ad  attendere  tutti 
gli  altri,  diventa  esso  medesimo  ragione  di  spettacolo  e  di 
contemplazione.  Coperto  d'una  veste  nera  di  lino,  lunga 
fino  ai  piedi,  stretta  tutta  al  corpo,  ha  il  capo  coperto  d'un 
cappuccio  nero  ed  oblungo,  che  gli  nasconde  il  viso, 
lasciando  solo  due  piccoli  buchi.  Tutto  questo  mira  ad 
incutere  maggior  terrore  all'animo  ed  al  corpo  del  mise- 
rello,  e  ad  imprimergli  la  immagine  di  qualche  diavolo,  per 
le  mani  del  quale  dev'essere  torturato  »  (i). 

L'Inquisitore  gli  ordinava  che  spogliasse  il  reo,  se  ma- 
schio; che  si  spogliasse  da  sé  fino  alla  vita,  se  femmina. 
Così,  legato  con  le  mani  dietro,  i  piedi  anche  essi  legati  con 
una  tavoletta  interposta  alle  due  noci  (malleoli  interni)  — 
tormento  es- .  sola  e  dei  più  crudeli  —  l'imputato  veniva 
con  una  fune  alzato  da  terra. 

Il  tormento  più  leggiero  era  detto  a  tocca  o  non  tocca, 
in  cui  lo  si  sospendeva  a  fior  di  terra:  benefìcio  concesso 
a  coloro  che,  a  giudizio  del  medico,  non  potevano  assogget- 
tarsi a  tormenti  più  gravi. 

La  corda  come  mezzo  di  confessione  si  dava  per  qua- 
lunque imputazione,  accusa,  sospetto  dalla  più  lieve  in- 
frazione di  precetti  della  chiesa  ai  più  infami  delitti. 

(i)  Phelippi  e  Limborch,  Historia  Inquisitionis ,  lib.  IV.  cap. 
29,  p.  321.  Amstelodami,  apud  Henricum  Wetstenium,  MDCXCII. 


119 


SANT'UFFIZIO 

Nelle  Istruzioni  di  Toledo  del  1561,  le  quali  facevano 
testo  in  Sicilia,  sotto  il  n.  24  si  prescriveva  la  corda  anche 
per  coloro  che  con  intenzione  mangiassero  carne  nei  giorni 
proibiti  dalla  Chiesa.  Alla  corda  seguiva  la  condanna  (i). 

Se  dovesse  scendersi  a  particolari  intorno  alla  maniera 
con  la  quale  in  cosiffatta  applicazione  di  tormenti  si  pro- 
cedeva, quelle  medesime  relazioni  ed  altre  del  genere  ce 
ne  offrirebbero  molti,  l'uno  più  triste  dell'altro. 

La  fune  onde  sollevavasi  pendeva  dalla  volta  del  car- 
cere entro  una  carrucola  che  comunicava  con  un  argano, 
la  cui  méinovella  il  boia  teneva  sempre  tra .  le  mani  ai 
cenni  dei  giudici  inquirenti. 

Lo  scriba  o  notaro,  tutto  occhi  e  tutto  orecchi,  guardava 
ogni  atteggiamento  del  viso  e  del  corpo  del  torturato;  racco- 
glieva ogni  menomo  sospiro  e  ne  prendeva  rota.  Non  una 
lacrima,  non  una  sillaba  doveva  sfuggirgli;  tutto  doveva  egli 
consacrare  sulla  carta,  principiando  dalla  possibilità  che 
quegli  impallidisse  o  tremasse,  indizi  gravi  a  carico  dell' ìibH 
putato.  ^^ 

La  durata  della  corda  segnata  dall'orologio  a  polvere  era 
di  mezz'ora  :  una  vera  eternità  pel  sofferente. 

Se  il  torturato  veniva  colto  da  un  male,  la  corda  si 
interrompeva,  e  l'ampolla  della  polvere  si  coricava  per 
sospendere  il  corso,  che  poi  si  riprendeva  fino  al  compi- 
mento della  mezz'ora.  ^m 

Era  vietata  durante  la  digestione;  vietato  per  le  posagli 
bili  fratture  di  braccia,  per  impossibilità  fisiche  lo  squasso, 
vietato  qualunque  peso  ai  piedi  nel  momento  dell'alzata  da 
terra;  vietata  la  ricerca  della  confessione  per  fame  o  per 

(i)  Documenti    appartenenti    al    Tribunale    del    S.    Officio 
Sicilia,  voi.  2",  Ms.  Qq  H  63  della  Bibl.  Com.  di  Palermo. 


120 


TORTURA  -   SEGRETO 

sete.  Eppure  i  disegni  e  le  iscrizioni  accusano  tutto  il  con- 
trario e  tormenti  ben  più  gravi  che  questi!  Ma  il  giudice 
dovea  «  mostrarsi  nel  volto  anzi  rigido  e  terribile  che  no  », 
ed  è  facile  immaginare  quale  effetto  dovessero  produrre  nei 
poveri  inquisiti  quei  visi  e  la  figura  demoniaca  del  boia. 
Il  fatto  stesso  di  trovarsi  solo  in  quel  luogo  recondito, 
buio,  segreto,  senza  un  testimonio  a  sua  discolpa,  in 
quelle  condizioni,  privo  di  un  difensore  (giacché  dell'in- 
tervento di  questo  non  era  ancora  il  momento;  e  nei  casi 
lievi,  questo  doveva  essere  scelto  dagli  inquisitori  e  solo 
innanzi  ad  essi  poteva  parlare  con  l'imputato,  e  nei  gravi 
non  doveva  esservene);  il  fatto  stesso,  io  dico,  era  ragione 
di  terrore  e  di  sbalordimento.  Aggiungi  la  ignoranza  del- 
l'accusa, degli  accusatori;  l'invito  a  dire  quel  che  sapesse 
intomo  a  ciò  che  non  gli  si  faceva  noto  o  gli  si  taceva,  e 
di  quanti  avessero  potuto  in  un  modo  o  in  un  altro  con- 
correre a  trascinarlo  con  vere  o  false  denunzie  a  così  mal 
partito. 

Chi  poteva  avere  avuto  l'interesse  di  denunziarlo?  e  di 
che  denunziarlo? 

«  Nelle  sentenze  tanto  pubbliche  quanto  private  (di- 
ceva uno  dei  300  articoli  che  costituivano  il  codice  del  vero 
buon  inquisitore)  si  devono  tacere  i  nomi  e  circostanze  non 
solamente  de'  testimoni,  ma  anche  d'altre  persone  no- 
minate nel  processo  per  qualsivoglia  maniera  ». 

Ed  un  altro:  ((  Se  un  reo,  negandoglisi  la  pubblicazione 
de'  nomi  de'  testimoni  contro  di  lui  esaminati,  si  appellerà 
da  cotal  negatione,  non  deve  in  modo  alcuni  accettarsi  la 
sua  appellatione,  ma  come  frivola  e  vana  ributtarsi  ». 

Ed  un  altro  ancora  :    «  Gli  occulti  eretici  devono  de- 


121 


SANT'UFFIZIO 

nunziarsi,  perchè  il  nome  del  denunziatore  non  si  puD- 
blica,  ed  egli  non  è  obbligato  a  provare  la  denunzia  »  (i). 

Questo  segreto  s'informava  al  tenebroso  silenzio  sulle 
denunzie  e  sui  denunziatoti,  sulla  istituzione  dei  processi  e 
sui  nomi  dei  processati  prima  che  questi  si  esponessero  al 
pubblico,  quando  si  esponevano.  Un  mistero  circondava 
ogni  atto,  ogni  mossa,  ogni  parola  dei  giudici,  mistero  che 
sosteneva  ed  assicurava  l'autorità  del  Tribunale  e  sottraeva 
il  pubblico  lalla  conoscenza  di  qualunque  notizia  pro- 
cessuale. 

Tutti  aveano  interesse  di  serbare  quel  segreto:  dagli  in- 
quisitori agli  imputati,  dai  più  alti  ministri  ai  più  bassi. 

Nei  colpiti  stessi  dal  Tribunale,  non  era  solo  il  timore 
di  gravi  pene,  o  di  nuovi  tormenti,  non  solo  la  paura  dello 
inasprimento  del  regime,  ma  la  convinzione,  radicata  in 
tutti,  che  anche  i  semplici  penitenti  fossero  di  disonore  a 
sé  ed  ai  loro  congiunti.  E  ciò  non  solo  perchè  peniten- 
ziati,  ma  anche  per  la  pena  avuta,  per  la  offesa  a  Dio, 
alla  fede,  sia  per  superstizioni,  sia  per  pratiche  antiche  di- 
sdicevoli alla  religione,  sia,  e  peggio,  per  proposizioni 
ereticali. 

Nel  Tribunale  il  silenzio  prendeva  forma  di  mutismo, 
dove  l'apparente  circospezione  nascondeva  la  finzione,  e  la 
finzione  la  ipocrisia. 

In  quella  sua  selva  teologico-tomistica  che  è  la  Rosa 
virginea,  il  Bertini  consacrava  una  intiera  ((  contempla- 
zione »  «  all'immancabile  segreto  custodito  con  legge  invio- 
lata nella  sacrosanta  Inquisizione  »,  e  levava  un  inno  di 
gloria  ad  esso  (2), 

(i)  Sacro  Arsenale,  nn.  CVI,  CXXXVII.  pp.  377,  384. 
(2)   Bertini,  op.  cit.,  contemplatio  I,  punctus  VII. 


122 


TORTURA  -  SEGRETO 

Più  oltre,  esponendo  con  la  più  fine  sottigliezza  un  pro- 
cesso non  ben  definibile  se  di  eresia  o  di  apostasia  (6  di- 
cembre 1660),  e  sviscerandone  i  più  minuti  ed  anche  insi- 
gnificanti particolari,  taceva  il  reo,  <(  cuius  nomen  cogno- 
menque  est  indignum  luce;  et  utinam  ipsum  nescire  et 
videre  licuisset!  »  (i). 

Qui  il  silenzio  toglie  ragione  dalla  indegnità;  ma  in  mol- 
ti casi  proclamavasi  prudenza;  grande  virtù,  invero,  della 
quale  i  ministri  menavano  vanto  a  proposito  di  atti  pubblici 
e  di  atti  generali  di  fede,  nei  quali  non  facevano  compa- 
rire certe  persone,  al  cui  casato  la  presentazione  sa- 
rebbe riuscita  di  disdoro.  Per  questo  il  S.  Uffizio,  in  se- 
greto, alla  presenza  di  poche,  dotte  e  religiose  persone, 
replicatamente  nell'anno  «  esponeva  dei  rei;  e  nella  solen- 
nità del  13  marzo  1569,  nella  Cattedrale  di  Catania,  tra  67 
di  questi,  15  per  giusti  riflessi  (testimone  lo  inquisitore 
Franchina)  sul  catafalco  non  furon  fatti  comparire  »  (2). 

Guai  se  non  fosse  stato  così!  Il  silenzio  ed  il  segreto, 
l'anima  di  quella  istituzione!  Dai  nomi  degli  imputati  si 
sarebbe  passato  alla  propalazione  delle  denunzie,  alle  ope- 
razioni dei  giudici  e  forse  alla  luce  dei  delatori:  cose  tutte 
di  estrema  compromissione  per  molti! 

Solo  una  volta  si  ebbe  a  deplorare  poca  osservanza  in 
ordine  così  delicato;  ma  l'Inquisitore  Supremo  di  Madrid 
fu  sollecito  a  richiamarne  all'Inquisitore  Generale  di  Si- 
cilia (26  febbraio  1607),  deplorando  la  leggerezza  onde  le 
cose  che  si  facevano  intimamente  nello  Steri  si  risapessero 
fuori,  e  minacciando  la  scomunica  dei  colpevoli. 

(i)  Bektini,   op.  cit..  De  Apostasia,  quaestio  XII,  art.  i,  con- 
templatio  II. 

(2)    Franchina,  op.   cit.,  cap.  X,   p.   50. 


123 


SANT'UFFIZIO 

Anche  prima  (6  maggio  1600),  quest'ultimo  Inquisitore 
(D.  Luigi  Paramo)  avea  lamentato  l'accidia  dei  familia 
titolati  e  dei  baroni,  e  steso  un  velo  pietoso  sulla  compre 
messa  riputazione  del  Tribunale  a  cagione  di  certi  delit 
innominabili  di  essi  (i). 

L'ordinamento  interno  era  fatto  a  posta  per  favorire" 
la  segreta  disciplina.  Il  portiere  avea  stretto  obbligo  di 
chiudere  l'entrata  principale  a  due  ore  di  notte  (cioè  dopo 
l'avemmaria)  essendosi  assicurato  della  chiusura  delle  car- 
ceri segrete  e  pubbliche,  del  salone,  e  di  tutti  i  locali  del 
palazzo;  di  non  aprire  a  nessuno,  altro  che  ad  ufficiali  od 
a  persone  ben  viste  e  ben  conosciute  del  Tribunale,  dopo 
essersene  accertato  dal  finestrino  presso  la  entrata  e  chie- 
sto il  permesso  ad  alcuno  dei  signori  Inquisitori  (2). 

Gl'impiegati  non  potevano  ricevere  mai  da  nessuno  re- 
gali, pur  dividendo  in  varie  mansioni  della  città  il  tempo 
concesso  dal  breve  orario  (6  ore,  in  due  volte,  in  un 
giorno)  (3). 

Inquisitori  e  ministri  dovevano  astenersi  dai  negozi,  da- 
gli affari  commerciali  e  dal  depositare  danaro  in  pubbli- 
co (4);  sempre  serbano  il  più  stretto  segreto.  Ma  se  non 
potevano  ricever  nulla...  se  dovevano  conservar  la  appa- 
renza di  tenersi  estranei  e  negozi  commerciali  e  bancari, 
si  creavano  delle  entrate  e  pingui  sotto  l'egida  del  santo 
Tribunale.  Noi  li  rivedremo  nel  cap.  Vili. 

(i)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale,  ecc.,  voi.  I,  sub 
anno  1607  e  1600. 

(2)  Documento  La   Mantia  figli. 

(3)  Documenti  appartenenti,  ecc.,  n.  I,  pp.   lo-ii  e  p.   i. 

(4)  Ms.   Qq  H  63. 


124 


TORTURA  -   SEGRETO 

Rivenendo  agli  interrogatori  ed  ai  tormenti,  dirò  che 
la  natura  delle  domande  era  tale  l'una  più  insidiosa  dell'al- 
tra e,  in  caso  di  stregherie,  così  sottili  nelle  distinzioni,  così 
difficili  a  comprendersi  e  così  capziose  nello  irretire  la  per- 
sona inquisita,  che  solo  un  ingegno  superiore,  nella  massi- 
ma lucidità  di  mente,  poteva  vederci  chiaro. 

Capziose,  ripeto,  ed  anche  astruse.  Abbiamo  in  pro- 
posito nella  Bibhoteca  Comunale  di  Palermo  (i)  un  do 
cumento  di  capitale  importanza;  ed  è  un  formulario  di 
domande  da  farsi  per  ciascuna  imputazione,  composto  con 
elementi  presi  da  stampe  e  da  manoscritti.  Eccone  il  ti- 
tolo: «  Modo  di  procedere  nel  Tribunale  del  S.  Uffizio, 
coir  addizione  di  Paolo  Garsia  Segretario  del  Consiglio  e 
di  Monsignor  Vidania,  Inquisitore  dello  stesso  Tribunale  ». 
(D.  Diego  Vincenzo  Vidania  fu  capo  della  Inquisizione  in 
Sicilia  nel  1686,  regnando  il  debole,  malsano  e  superstizioso 
Carlo  II).  Gli  errori  vi  sono  passati  a  rassegna  con  rigore 
anatomico. 

Cito  un  esempio. 

Il  cap.  VII  riguarda  le  accuse  di  divinazione,  ed  i 
delitti,  disposti  per  ordine  alfabetico,  sommano  a  novanta 
daìV Aeromanzia  alla  Tigeunia,  nome  di  crimini  derivati 
da  Gitanos,  zingari,  che  non  isf uggivano  mai  ai  sinodi  dio- 
cesani. 

Ebbene:  una  donnicciuloa  qualunque,  imputata,  p.  es., 
di  malìe,  un  uomo  accusato  di  negromanzia,  era  interrogato 
alla  stregua  di  quell'arsenale. 

Ciò  doveva  produrre  effetti  lacrimevoli  oltre  che  sba- 
lordimento, perdita  di  ragione.  Molti  dei  sottoposti  a  siffatte 

(i)     Ms.    Qq   H   63. 

125 


SANT'UFFIZIO 

prove  cadevano  in  frenesia,  e  sì  abbandonavano  ad  eccessi 
non  di  rado  terribili.  E  qui  un  circolo  vizioso:  perdendo  il 
bene  dell'intelletto,  imprecando  e  bestemmiando,  alcuni, 
già  catturati  come  blasfemi,  o  come  eretici,  venivano  con- 
fermati tali  dal  fatto  stesso  delle  imprecazioni  e  bestem- 
mie e,  perchè  bestemmiatori,  in  commercio  col  diavolo. 

I  medici,  chiamati  a  giudicare  del  loro  stato  fisico  e 
psichico,  <(  non  osavano  manifestare  che  la  confusione  d'in- 
cessanti questioni  per  dogmi,  lo  spavento,  i  tormenti,  il 
fanatismo,  l'ignoranza  producesse  un  vizio  di  mente,  che 
doveva  spesso  impedire  la  condanna  d'illusi,  fantsistici,  igno- 
ranti e  quasi  mentecatti  »  (i). 

Ultimo  memorando  esempio,  il  processo  della  Margherita 
Cordovana  di  Caltanissetta,  vulgo  Suor  Gertrude;  la  quale 
ostinata  a  dirsi  più  pura  della  Vergine  ed  innocente  per- 
seguitata dagli  inquisitori,  ammessa  a  penitenza  nella 
Camera  del  S.  Uffìzio  (i6  febbraio  1703),  usciva  in  escan- 
descenze inaudite;  ed,  esaminata  psichiatricamente,  veniva 
dai  periti  riconosciuta  con  giuramento  in  piena  salute  »  (2). 

Al  far  dei  conti  poi  era  teoria  clinica,  che  i  pazzi  si 
dovessero  tenere  incatenati  e  curare  col  Mastro  Giorgio, 
cioè  col  nerbo  (3). 

Del  restò,  i  dolori  la  vincevano  sopra  la  più  olimpia 
serenità  di  spirito,  e  la  più  vigorosa  tempra  d'uomo;  e  <^ 
tormenti  »    dice   un    adagio   sncfliano,    «  fanno   confe 

(1)  La  Mantia,  op.  cit.,  p.  35. 

(2)  MoNGiTORE,  L'atto  pubblico  di  fede  solennemente  cele 
orato  nella  città  di  Palermo,  a'  6  aprile  1724  dal  Tribunale  del 
S.   Officio  di  Sicilia.   In  Palermo  MDCCXXIV. 

(3)  Mastro  Giorgio... 

126 


TORTURA  -   SEGRETO 

quello  che  non  si  sa».  La  sentenza  di  Epicuro:  «  Il  do- 
lore attuale  determina  la  volontà  »  non  fu  mai  tanto  vera 
quanto  in  questi  casi.  Onde  ha  pieno  chiarimento  l'avver- 
tenza della  seconda  cella:  Innocens  noli  culpari,  a  chi, 
sottoposto  a  suggestivi  interrogatori,  ne  usciva  reo  confesso, 
mentre  era  innocente,  o  talvolta  reo  di  una  menzogna 
forzata. 

.Terrorizzati  dei  trentacinque  arsi  vivi  nel  feroce  auto- 
a  reclamare  contro  il  Tribunale;  ed  il  Parlamento  espri- 
dare  di  Palermo  (1513),  i  Siciliani  cominciarono  poco  dopo 
meva  (15 14)  in  questi  termini  la  indegnazione  pubblica 
contro  i  tormenti  stati  applicati  a  molti  di  essi  per  farli 
confessare,  e  contro  le  confessioni,  per  sottrarsi  a  tanti 
strazi,  di  delitti  di  fede  da  loro  non  commessi  : 

«  Perchè  l'officio  di  la  Sancta  Inquisitioni  in  quisto  Re- 
gno, tanto  in  lo  modo  di  li  carceri  come  in  lo  resto  di  lo 
procediri,  si  procedi  cum  plui  riguri  di  quillo  che  è  statuto 
di  la  ligi  canonica,  et  di  lo  stilo  di  l'altri  magistrati  di  lo 
dicto  Regno;  di  modo  che  ha  secuto,  che  essendo  per  lo  In- 
quisituri passato  condennati  alcuni  a  morti,  in  lo  thalamo, 
in  la  presentia  di  lo  Inquisituri  et  soi  officiali,  undi  era 
quasi  lo  populo  tucto  congregato,  alcuni  si  hanno  disdicto 
et  revocato,  dicendo  ha  viri  confessato  o  per  timuri  di  tor- 
menti, o  per  altri  causi,  et  su  stati  morti  cum  grandissimi 
signi  di  devotioni  et  di  boni  christiani,  per  fina  a  l'ultimo  di 
loro  vita,  sempre  revocando  loro  confessioni,  et  dicendo 
che  pigliavano  la  morti  in  supplicio  di  altri  loro  peccati; 
di  manera  che  in  lo  Regno  è  restato  alcuno  rizelo  et  im- 
pressione, che  alcuni  di  quisti  siano  stati  morti  injusta- 
menti;  per  quisto  lo  dicto  Regno  suppUca  vostra  Majestà 
vogha  ordinari,  che  l'Inquisituri  in  quisto  Regno  digiano 

127 


SANT'UFFIZIO 

servali  lo  ordini  in  la  carceri,  et  in  lo  resto  di  lo  procediri, 
secundu  ordina  et  statuixi  la  ligi  canonica,  et  non  altri- 
menti »  (i). 

Ecatombe  più  spaventevole  non  fu  mai  più  veduta  in 
Sicilia.  Di  sanguinari  come  Melchiorre  Cervera  pochi  ne 
nacquero  sulla  terra;  gli  inquisitori  venuti  dopo  di  lui  si 
contentarono  di  poche  unità;  e  quando  rifuggirono  dal 
rogo,  nel  gidizio  delle  proposizioni  incriminate  e  discusse 
concludevano  condannando  l'interrogato  all'abiurazione  de 
formali,  o  de  levi,  o  anche  de  vehementi,  coli 'aiuto  del 
sambenito.  al  carcere  perpetuo  o  temporaneo,  o.alle  ga- 
lere di  S.  M.  senza  soldo,  o  allo  esilio. 

Nella  terza  dele  nostre  celle,  sulla  tunica  rossa  di  una 
santa,  con  sottilissimo  corpo  acuto  in  caratteri  parte  visi- 
bili, parte  no,  con  supina  rassegnazione  incideva: 

[Galera]  ? 

Desterru  16 

Libertà 
Carcere 
Morti 

Vna  di  chisti 
non  ni  pò  man- 
cari. 

Conferma  delle  sorti  riserbate  ai  prigionieri,  cioè  il  re- 
mo, l'esilio  (desiierro,  spagn.),  la  liberazione,  il  carcere,  la 
morte:  rassegnazione  che  stringe  l'anima  più  che  la  di- 
sperazione imprecante  di  chi  tradotto  senza  aspettarselo 
in  quei  tetri  luoghi,  s'era  visto  rapito  alla  famiglia,  sotto- 

(i)   Capitula  Regni  Siciliae,   capp.   impetrati  dal  Viceré  Ugo 
Moncada  a  Ferdinando  II,  cap.  CI,  t.   I,   p.   582. 

128 


TORTURA   -    SEGRETO 

posto    a   segreto   processo   senza    poter   ribattere   le    tene- 
brose ed  interessate  deposizioni. 

Non  v'era  condizione  peggiore  di  quella  d'un  cattu- 
rato. Tutto  doveva  esso  sopportare;  da  nessuno  sperare 
salute.  Privato  di  ogni  mezzo  di  difesa  che  potesse  met- 
tere in  luce  la  sua  innocenza,  e  per  la  condanna  divenuto 
scandalo  del  suo  casato,  aggravio  del  suo  nome  e  della  sua 
coscienza,  non  aveva  modo  di  ottenere  giustizia,  sempre 
a  lui  denegata.  Invano  il  Parlamento  del  1520  chiese  pei 
condannati  facoltà  di  ricorrere  ad  un  ecclesiastico  costi- 
tuito in  dignità;  e  con  voto  della  Gr.  Corte!  Le  sentenze 
del  sacro  Tribunale  erano  intangibili,  e  solo  il  Papa  po- 
teva annullarle  (i). 

Tanta  efferatezza  di  pene  è  addirittura  orrorosa,  ma 
non  nuova  nella  storia  del  tempo.  Riportiamoci  "al  passato 
e  ce  ne  daremo  ragione.  La  giustizia  criminale  ordinaria 
nor  adoperava  mezzi  inquisitori  e  punitivi  diversi  da 
quelli  del  S.  Uffìzio.  Non  occorrono  larghe  conoscenze  del- 
l'antica legislazione  siciliana  (poiché  qui  si  parla  della  Si- 
cilia) per  vedere  i  metodi  allora  usati  a  fine  di  strappare 
una  confessione,  che  poi  dovea  condurre  alla  pena  ade- 
guata al  delitto  presunto  o  comm.esso,  ma  estorta  coi  tor- 
menti. 

La  tortura  trascinava  a  confessioni  di  delitti  non  sem- 
pre commessi. 

I  «  Discarichi  di  coscienza  »  dello  Archivio  della  Com- 
pagnia dei  Bianchi,  il  cui  istituto  era  di  esortare  a  ben 
morire  i  condannati  al  supplizio  estremo,  sono  sanguinosi 
docuihenti  di  questo  fatto.  Su  settantatrè  di  essi,  dal  1567 

(i)     Capitula   Regni   Siciliae.    etc,    t.    II,    cap.    CXX,    p.    90. 

129 

9    -  G.  PURÈ  -  Sant'Ufflilo. 


SANT'UFFIZIO 

al  1785,  non  uno  ve  ne  fu  che  non  confermi  questa  verità; 
e  quello  del  14  febbraio  1650,  di  un  certo  Matranga,  ha 
circostanze  terribili. 

((  Andrea  Matranga  essendo  nelle  tormenti  della  tor- 
tura, havendo  sopportato  da  mezz'bora  del  succaro  et  un 
tratto  di  corda,  doppo  qual  tratto  sceso  vivo  a  terra  e 
toccatala  con  piedi,  e  cadutoli  li  braccia,  havendoseli  da 
questa  positura  di  corpo  raffreddato  tutte  le  membra,  in- 
terrogato che  dicesse  la  verità,  rispose  non  haver  che  dire; 
per  la  qual  risposta,  ordinando  la  Giustizia  che  lo  tiras- 
sero di  novo,  cominciarono  a  tirarlo,  et  essendo  alto  dì 
terra  circa  doi  canni,  per  haverseli  rinovato  li  tormenti 
con  maggiori  dolori,  quali  non  potendo  più  soffrire,  si  fece 
scendere  per  voler  confessare  tutto;  e  di  propria  bocca  con- 
fessò haver  ammazzato  di  propria  mano,  non  con  una  sco- 
pettata,  D.  Vincenzo  Brancato;  ed  interrogandolo  di  novo 
la  Giustizia  che  dicesse  chi  fosse  stato  che  havesse  fatto 
far  tal'homicidio,  rispose:  per  timore  di  non  esser  di 
novo  tirato  ^lla  tortura,  e  per  non  soffrir  tormenti  mag- 
giori ))  ecc.  (i). 

Per  non  ismarrirci  nel  labirinto  delle  opere  in  propo- 
sito, basterà  ricordare  la  Pratica  di  Zenobio  Russo,  pub- 
blicata due  volte  negli  ultimi  dei  secolo  XVIII,  che  fu  una, 
specie  di  prontuario  per  i  giudici  fiscali  (2). 

Vigevano,  dapprima  rincruditi  dalle  Costituzioni  sv€ 
ve,  poi  mitigati  dalle  aragonesi,  i  metodi  del  diritto  re 

(i)  Discarico  n.   20,   Registro  25  dello  Archivio  della  Com-| 
pagnia  Bianchi  in  Palermo. 

(2)    Pratica   per   la   formazione    de'    processi   criminali.    Nuc 
va  edizione  corretta  in  più  luoghi  e  migliorata  coli' aggiunta  deU 
le  istruzioni  criminali.  In  Palermo,  stampe  Pelicella. 

130 


TORTURA  -  SEGRETO 

mano;  ma  allo  arresto  non  si  procedeva  senza  il  man- 
dato del  giudice  o  del  procuratore  fiscale,  tranne  nel  caso 
di  flagranza... 

«  Iniziato  il  processo,  si  chiamavano  i  testimoni  e  si 
citava  il  reo  per  vederli  giurare  pria  delle  deposizioni.  I 
testimoni  prestavano  giuramento  e  talvolta  doppio,  per 
inimicizia  e  per  verità:  le  deposizioni  si  scrivevano  in  pre- 
senza del  magistrato  senza  suggestioni  e  in  lingua  vol- 
gare, à  per  la  difesa,  e  sì  per  laccusa,  e  doveansi  firmare 
o  segnare  di  una  croce.  I  rei  potevano  proporre  le  loro 
eccezioni,  ma  non  udirne  le  deposizioni  », 

Le  deposizioni  dei  rei  ratitìcavansi  col  tormento  della 
fune.  Questi  dovevano  giurare  di  aver  detto  la  verità  e 
sottoponevansi  alla  corda  se  non  volessero  rispondere.  La 
tortura,  come  pratica  giudiziale,  faceasi  innanzi  il  giudice, 
il  fiscale,  l'attuario  che  scriveva,  ed  il  medico;  e  veniva 
ordinata  dal  magistrato;  e,  se  le  prove  eran  gravi,  acre. 
Dopo  confessato  nei  tormenti,  dovea  il  reo  ratificare  fuori 
di  essi  le  confessioni;  se  non  voleva  essere  ritormentato. 

Pei  reati  gravissimi  procedevasi  palatinamenti  ed  ex 
ahrupto   (i). 

Un  esempio  di  questa  procedura  mi  viene  sott'occhio 
mentre  scrivo,  ed  è  nella  facoltà  che  il  Presidente  del 
Regno  dava  il  io  giugno  1657,  regnante  Filippo  II,  al 
Conte  d'Isnello  di  procedere,  proprio  ex  ahrupto,  contro  i 

(i)  La  Mantia,  Storia  della  legislazione  civile  e  criminale 
di  Sicilia,  V.  II,  parte  I,  pp.  216-22.  Palermo,  Virzi,  1874. 

Con  rapida  sintesi  ne  die  contezza  un  giureconsulto  del  se- 
colo XVIII,  lo  sventurato  F.  P.  Di  Blasi.  nella  Raccolta  di  Opu- 
scoli di  autori  siciliani,  v.   Ili,   Palermo,    1790. 


131 


SANT'UFFIZIO 

suoi  vassalli  delinquenti,  in  forma  larga  e  senza  restrizione, 
cominciando  dalla  fustigazione,  proseguendo  con  la  ((  con- 
cia vatione  di  mano,  perforatione  di  lingua,  obtruncatione 
di  orecchie  »,  e  finendo  ai  tratti  di  corda  in  pubblico  ed 
alla  condanna  in  galera  (i). 

((  Quando  aprivasi  il  processo,  davasi  notizia  dei  testi- 
moni al  reo,  perchè  facesse  le  ultime  eccezioni  o  difese». 
Giova  peraltro  notare  che  in  Sicilia  furono  sempre  fatte  in 
pubblica  udienza  le  difese  degli  avvocati,  e  alle  prove  del 
processo  scritto  ed  in  presenza  dell'accusato  (2). 

Siffatta  condizione  favorevole  ai  rei  circa  i  testimoni 
veniva,  come  esempio  da  imitarsi,  invocata  dagli  impu- 
tati di  eresia  sotto  il  ferreo  giogo  del  S.  Uffizio.  Che  cosa 
domandano  in  fondo  essi  se  non  di  conoscere  i  testi- 
moni di  accusa,  acciò  potessero  essi  difendersi?  E  delle 
loro  domande  si  fece  interprete  il  Parlamento  del  1520  (3), 
non  ostante  che  giurisperiti,  come  Cujaceo,  vedessero  nella 
rivelazione  dei  testimoni  pericoli  di  vendette  e  di  vita  (4). 

Grandi  giuristi  combattevano  la  tortura;  ma  giuristi 
egualmente  grandi  la  proclamavano  necessaria;  e  l'avvo- 
cato catanese  Vincenzo  Malerba,  sosteneva:  «la  cattura, 
la  prigionia,  le  strettezze  del  carcere,  i  ceppi  e  le  catene 
essere  rimedi  legittimamente  stabiliti,  che  per  necessità  pre- 
cedono la  prova  compiuta  del  delitto.  Sarà  talvolta,  di- 
ceva, un  innocente  colui  il  quale  fu  sottoposto  alla  tortura. 

(i)  Grisanti,  Folklore  di  Isnello,  v.  II,  cap.  Ili,  Pai.,  1909. 

(2)  La  Mantia,   Storia  cit.,   p.   223. 

(3)  Capitula  Regni  Siciliae,  cap.  a  Carlo  II,  t.  II,  CCCXII, 
p.    174. 

(4)  GujACEo,   lib.   22,  cap.   25. 


133 


TORTURA   -   SEGRETO 

Che  perciò?  I  dolori  che  ha  sofferto  dovranno  allora  ri- 
guardarsi come  ingiurie,  non  già  del  magistrato,  ma  della 
fortuna  avversa...  La  tortura  non  è  una  pena  che  s'infligge, 
ma  un  certo  criterio  per  iscoprire  il  delitto  che  merita  la 
pena  »   (i). 

E  dopo  queste  ed  altre  simili  disinvolte  affermazioni 
veniva  alla  seguente  conclusione,  che  è  una  derisione  cru- 
dele: ((  L'inconveniente  di  soggettare  alla  pena  un  inno- 
cente che  nel  tormento  si  confessa  reo,  non  dee  attribuirsi 
alla  ingiustizia  e  barbarie  della  tortura,  ma  ad  una  colpe- 
vole debolezza  ed  alla  mancanza  di  uno  sforzo  virtuoso. 
La  pazienza  è  un  dovere,  e  dovere  indispensabile.  L'in- 
nocente condannato  al  tormento  dee  accettare  con  rasse- 
gnazione e  sofferire  con  tolleranza  tutti  i  patimenti  come  un 
servo,  il  qual  piega  le  spalle  sotto  la  sferza  che  lo  percuote, 
facendosi  de'  suoi  propri  mali  un  mezzo  per  acquistarsi  un 
bene  »  (2). 

Solo  un  grande  scettico,  dal  cuore  chiuso  ad  ogni  senso 
di  pietà,  potrebbe  ragionare  in,  siffatta  guisa! 

Quando  Ferdinando  III  di  Borbone  piegò  ad  una  certa 
mitezza  verso  gl'imputati,  non  seppe  sbarazzarsi  del  triste 
fardello  di  tormenti  che  anche  adesso,  ricordandoli,  fanno 
rizzare  i  capelli  (3). 

(i)  Malerra,  Ragionamento  sopra  la  tortura,  pp.  31,  38, 
57.   In  Palermo,   Rapetti,   MDCCLXXVII. 

(2)  Malerba,   op.   cit.,  p.    109. 

(3)  Istruzioni  per  l'Amministrazione  della  Giustizia  nelle  oc- 
correnze delle  cause  e  materie  criminali;  in  Russo,  Pratica,  cit.. 
pp.    259-306. 


133 


SANT'UFFIZIO 

La  tradizione,  che  disgraziatamente  in  questo  argo- 
mento è  storia,  paria  del  cavalletto,  delle  zeppe  (scardi) 
sotto  le  unghie,  del  conio,  della  morsa,  del  lardo  bollente 
ai  piedi,  del  braciere  sotto  di  essi  unti  di  grasso,  dell'im- 
buto e  di  altri  strumenti  e  mezzi  ordinari  di  tortura  penale. 
Erano  essi  in  uso  nel  S.  U.  di  Sicilia?  Nessuno  può  affer- 
marlo, nessuno  negarlo.  Certo,  per  quante  ricerche  io  ab- 
bia fatto,  non  son  riuscito  a  sorprendere  una  sola  volta, 
come  purtroppo  ricorrono  nella  storia  della  criminalogia 
siciliana. 

Questo  nefando  corredo  di  mezzi,  caso  mai,  costitui- 
rebbe una  notevole  differenza  di  istruzione,  come  oggi  si 
lirebbe,  dei  processi  nel  Tribunale  ordinario  e  nel  Tribu- 
nale della  fede. 

Ma  ve  n'era  un'altra  differenza  a  favore  degli  impu- 
tati del  Tribunale  comune.  Per  le  conseguenze  letali  della 
tortura  poteva  bene  ricorrersi  all'autorità  competente;  e 
nel  secolo  XVI  esiste  un  parere  medico  per  un  imputato 
affetto  da  cicatrice  deformante  perito  in  seguito  a  cinque 
tratti  di  corda  (i);  ma  nel  foro  inquisitoriale  non  v'era 
ricofso,  perchè  esso  non  doveva  dar  conto  a  nessuno  del 
suo  operato.  I  medici  ai  suoi  servigi  giudicavano  sempre 
o  quasi  conformemente  alle  intenzioni  ed  alle  vedute  de- 
gl'Inquisitori; e  si  sa  che  nessuno  dei  poveri  dementi, 
delle  povere  isteriche  fu  mai  dichiarato  tale,  anche  quando 
le  prove  fossero  palmari. 

Il   segreto   intomo    ai   testimoni  d'accusa   metteva   in 

(i)  Ingrassia,  Methodus  danài  rationes  prò  mutilatis  tot- 
quendis  ecc.  Ms.  inedito  della  Bibl.  Cora,  di  Palermo,  segn.  1578. 


TORTURA   -   SEGRETO 

grado  d'inferiorità  immensurabile  e  privo  d'argomenti  di 
difese  l'imputato  nel  S.  U.  il  rogo  coronava  questa;  e 
quando  il  condannato  non  dava  segni  di  resipiscenza,  ve- 
niva senz'altro  bruciato  vivo. 

E  che  diremo  delle  pene  del  sambenito,  che  rendevano 
odioso  e  vitando  il  penitenziato?  ed  il  povero  notaio  Da- 
miano (cap.  Vili)  ne  seppe  qualche  cosa.  Che  della  con- 
fìsca di  tutti  i  beni  della  famiglia?  Che  della  interdizione 
dei  figli  dei  condannati  alla  muratura,  alla  morte? 


135 


Capitolo  Vili 
LO    SPETTACOLO 


QUILLA  la  tromba,  e  tutto  il  popolo,  preav- 
visato dai  tamburi,  vien  chiamato  allo 
Spettacolo.  Preceduto  dal  vessillo  della 
Santa  Inquisizione  splendente  della  bel- 
lezza delle  stelle  e  del  sole,  esce  dal  Pa- 
lazzo del  Santo  Uffizio  il  festivo  corteo.  Il  popolo  esulta, 
suonano  le  trombe.  La  fama  di  tanto  trionfo  nel  trofeo  del- 
la fede  insigne,  con  liete  acclamazioni  condotto  e  celebra- 
to, vola  per  le  bocche  e  le  orecchie  di  tutti,  così  che  nes- 
suno, di  qualunque  condizione,  sa  trattenersi  dal  parteci- 
pare a  tanto  gaudio.  Con  cetere,  cimbali  e  sistri  celebrano 
i  cantori  la  Santa  Croce.  Somma  è  la  devozione  con  la 
quale  si  guarda  la  sacra  milizia  dei  familiari  del  S.  U.; 
chiamati  da  tutto  il  Regno  o  da  alcune  città,  là  quale  se- 
gue la  Croce  con  le  nostre  insegne  dei  Predicatori;  la  cro- 
ce nera  e  bianca  in  petto.  Mentre  si  alternano  tra  loro  i 
cori  degli  angeli.  Qualificatori  e  Consultori,  divisi  per  di- 
gnità e  meriti,  in  gran  cavalcata  compongono  una  schiera 


I3b 


LO  SPETTACOLO 

ordinalissima  e  splendidissima,  coronata  dall'Ordinario  coi 
Segretari. 

((  Con  fasto  degno  di  loro  vengono  questi  Signori  ma- 
gnificamente, su  cavalli  bardati,  con  borchie  preziosissime 
e  selle  di  seta. 

((  Ecco  il  sommo,  l'ottimo,  il  massimo  Inquisitore  e 
Giudice,  in  cui  si  accentra  ogni  potestà  del  Cielo  e  della 
terra  e  che,  secondo  la  divina  Scrittura,  sorge  e  primo 
giudica  la  causa  di  Dio.  Oh  come  così  decorati  procedono 
festanti  i  giudici  della  Fede,  belli  nelle  stole,  grandeggianti 
nella  loro  forza!  Nella  lor  toga  vermiglia  e  nelle  eccellenti 
spoglie  dei  nemici  della  Fede,  danno  alla  Chiesa  un  ful- 
gore splendidissimo. 

«  In  tanta  gloria  giungono  al  luogo  ove,  illuminato  di 
celestiale  bellezza,  sorge  il  trono.  Quivi,  accompagnati  dai 
loro  ministri,  con  maestà,  grazia,  severità  si  assidono  (i)- 
Alla  loro  vista  paventano  sopraffatti  da  pensieri  i  rei. 

((  Però  se  i  nemici  della  fede  coi  loro  perversi  dommi 
si  edificano  il  tetro  carcere,  si  edificano  pure  la  regione 
della  caligine  e,  come  vilissimi  servi,  si  preparano  la  con- 
danna alle  infernali  triremi. 

((  Ora  se  tutto  questo  si  compiesse  in  segreto,  non  si 
vedrebbe  T iniquo  ed  orribile  volto  di  siffatti  rei,  perchè 
esso  era  celato  dalla  maschera  (galea)  e  perciò  gl'Inquisi- 
tori prendon  le   armi,   sguainano  la  spada  contro   questi 

(i)  Sulla  tribuna  dello  spettacolo,  il  posto  più  alto,  eccelso, 
era  quello  degli  Inquisitori;  il  capitano  ed  i  giudici,  a  destra;  il 
Senato  a  sinistra,  un  palmo  più  basso  di  loro:  e  nelle  carte  del- 
l'archivio della  città  sono  notate  le  spese  che  questa  faceva  per 
lo  steccato  in  onze  4,  pari  a  L.  51.  Vedi  Nuove  Effemeridi  Sici- 
liane, III  serie,  voi.  XI,  1881  :  Spettacolo  dell'inquisiti  del  1640. 


SANT'UFFIZIO 

nemici  di  Cristo,  troncano  loro  teste  e  smascherate  le  pre- 
sentano al  pubblico,  affinchè  siano  a  tutti  visibili  questi 
spettri  orribilissimi,  specie  di  furie  infernali. 

«  E'  d'uso  che  qualcuno,  sempre  dell'Ordine  dei  Pre- 
dicatori, bandisca  i  misteri  della  fede  e  flagelli  con  la 
parola  i  crimini  dei  rei,  A  destare  terrore  in  essi  e  in  al- 
trettali empii,  dopo  il  sermone  dei  nostri  padri,  a  ragion 
di  biasimo  si  leggono  i  processi  istruiti  dal  S.  Ufficio  contro 
i  delinquenti,  e  le  cose  già  prima  scritte  in  segreto  si  ma- 
nifestano  in  pubblico. 

«  Letti  gli  atti  di  ciascun  reo,  i  reconciliandi  si  am- 
mettono al  perdono  ed  alla  penitenza.  Ginocchioni  innanzi 
gli  Inquistori,  ricevono  accesa  la  candela  che  han  portata 
spenta.  Quindi,  secondo  la  natura  dei  delitti,  si  fa  l'abiu- 
ra e  si  percuotono  lievemente  con  la  verga:  potestà  giudi- 
ziaria, questa,  che  gl'Inquisitori  esercitano  sui  loro  soldati; 
e  siano,  per  siffatta  percussione,  ammoniti  i  rei  di  non 
più  ricadere  nei  delitti  trascorsi.  Finalmente  per  l'asper- 
sione dell'acqua  santa  vengono  cacciati  i  demoni,  alla  sug- 
gestione dei  quali  essi  soggiacquero. 

((  Vuoi  tu  vedere  i  maledetti  darmati  al  fuoco  etemo? 
Eccoli,  gl'impenitenti  che  rifiutano  la  misericordia  di  Dio. 
Ostinati  fino  alla  morte,  vogliono  soggiacere  all'impero  del 
diavolo.  Costoro,  coperti  d'una  tetra,  fetida  ed  orribile 
veste  (i),  serpeggiata  tutta  di  fiamme  infernali,  vengono 
tradotti  allo  spettacolo.  Qualificatori  ed  altri  religiosi  di 
gran  nome  e  scienza  si  affaticano  a  vincerne  l'empietà,  fin- 
ché, terminata  la  lettura  del  processo,  questi  empi  ven- 
gono consegnati  al  braccio  secolare  per  essere  ridotti  in 
cenere. 

(i)    Era  una  veste  impeciata. 


13» 


LO  SPETTACOLO 

«  Tra  i  carboni  che  bruciano  le  cataste  di  legna,  le 
cruenti  fiamme  dell'accesa  fornace  ed  i  crepitanti  fuochi 
perseverano  impavidi  per  la  salute  delle  loro  anime  i  sacri 
padri,  e  con  parole,  esempi  ed  orazioni  anelano  alla  loro 
conversione;  né  li  lasciano  finché  non  abbiano  essi  esalato 
l'ultimo  respiro.  Che  se  si  convertono,  fatta  la  confessione 
sacramentale  e  ricevuta  l'assoluzione,  vengono  strangolati  e 
poi  bruciati;  e  se  impenitenti,  senz'altro  inceneriti  tra  le 
stridenti  fiamme»   (i). 

Parecchie  settimane  prima  della  celebrazione  dello  spet- 
tacolo, esso  veniva  con  una  stampa  annunziato  nei  soliti 
luoghi  della  Capitale  e  delle  città  e  terre  di  Sicilia,  gridato 
dal  Banditore  del  Senato  di  Palermo  (2)  in  toga  di  vel- 

(i)   Bertxni,  op.  cit..  t.  I,  pp.  54-57. 

(2)  Ecco  la  formola  del  bando: 

«  Di  ordine  e  comandamento  del  Tribunale  del  S.  Officio  sri 
fa  intendere  a  tutti  i  fedeli  Cristiani  di  questa  Città  di  Palermo, 
come  il  giorno  tre  del  corrente  mese  di  Aprile,  si  celebrerà  Atto 
pubblico  di  Fede  nella  Real  Chiesa  di  San  Domenico,  dove  tutti 
quelli  che  si  ritroveranno  presenti  guadagneranno  l'Indulgenze 
concesse  dalli  sommi  Pontefici.  E  si  comanda,  sotto  pena  di  sco- 
munica maggiore,  che  dalli  14  ore  in  poi  di  detto  giorno,  non  si 
possa  predicare,  né  celebrare  messa  in  nessuna  chiesa.  Monastero 
né  convento  di  questa  predetta  città. 

«  Palermo  nel  Tribunale  del  S.  Officio  a'  primo  d'apriic 
1737.    D.    Ignazio   Garaio   Secr.  ». 

E  siccome  questo  bando  non  si  credeva  sufficiente,  si  dira- 
mava il  seguente  avviso: 

«  S'intima  d'ordine  del  Tribunale  della  SS.  Inquisizione  a  tutti 
li  Rev.  Parrochi,  Superiori  de'  Monasteri,  Regolari  di  questa 
Città,  che  dovendosi  celebrare  Atto  pubblico  di  Fede  partico- 
lare nella  Chiesa  di  S.  Domenico  dovessero  terminare  le  messe  ed 
altre  funzioni  delle  loro  chiese  per  l'ore   14   secondo  si  ha  costu- 


139 


SANT'UfTIZlO 

luto  cremisino  su  cavallo  con  gualdrappa  trapuntata  ad 
oro  e  con  l'accompagnamento  dei  contestabili  a  cavallo  con 
sopravvesti  di  damasco,  e  predicato  in  alcune  chiese.  Il 
bando  inquisitoriale  minacciava  la  scomunica  maggiore  a 
tutti  i  parroci,  Rettori  e  superiori  che  nelle  loro  chiese  si 
fossero  permesso  di  predicare  o  di  celebrar  messa  cantata 
prima  della  messa  del  S.  Ufficio. 

Né  solo  il  Banditore,  ma  c'entrava  anche  il  Senato, 
d'ordine  del  quale  il  banditore  faceva  le  grida.  Da  quale 
legge  risultasse  questo  intervento  non  sappiamo  (i).  Forse 
la  innata  cortesia  del  Magistrato  del  Comune  avea  male 
abituati  i  Signori  Inquisitori;  sì  che  essi  avevano  preso 
come  dovere  quello  che  era  gentilezza  ed  ospitalità. 

Infatti  non  v'era  solennità  o  spettacolo  inquisitoriale 
al  quale  questo  non  pigliasse  parte;  e  l'uso  entrò  nel  calen- 
dario pretoriano  e  da  questo  nel  Cerimoniale  del  Senato. 
Non  sarà  inopportuno  a  questo  proposito  avvertire  che 
quando  giungeva  un  nuovo  inquisitore  nella  capitale,  il 
Senato  recavasi  in  corpo  a  visitarlo,   e  poi  nella  restitu- 


mato  in  simili  funzioni.  D.  Pietro  Orbistando  Secr.  ».  Ms.  Qq  H 
64  della  Bibl.  Comunale  di  Palermo.  Vedi  pure  negli  Atti,  Bandi 
e  Provviste  del  Senato  di  Palermo,  nell'Arch.  Com.,  il  voi.  del- 
l'a.  1526-27,  indiz.  XV,  f.  7,  un  avviso  deli'Ing.  Agostino  Ca- 
margo  in  data  del  sett.   1526. 

(i)  Il  Ceremoniale  dell'Ill.mo  Senato  Palermitano  formato 
da  D.  Bald.  di  D.  Bernardino  Bologna,  Maestro  di  Ceremonie 
del  medesimo  Senato,  proscriveva  che  «  ne  gli  publici  spettacoli, 
che  soglion  fare  gl'Inquisitori  della  S.  F.  in  alcune  delle  piazze 
di  questa  città  de  i  prosequti  per  la  S.  Fede  Catholica,  volendo 
quegli  che  il  Senato  (come  ha  costumato)  vada  à  fare  compa- 
gnia in  quella  giornata,  deveranno  mandare  alcuni  giorni  prima 
ad  invitarlo..    ».  Cap    LXVII. 


140 


LO  SPETTACOLO 

zione  della  visita  andavagli  incontro  fino  a  mezza  sala 
del  palazzo. 

Nella  pubblicazione  dell'editto  di  quaresima,  ricevu- 
tone ufficialmente  lo  avviso,  Pretore  e  Giurati  andavano  a 
rilevare  nel  Palazzo  del  S.  U.  l'Inquisitore  o  gl'Inquisitori 
e  cavalcando  con  essi,  seguiti  dai  loro  ministri,  si  avvia- 
vano alla  Cattedrale,  donde,  senza  scender  da  cavallo, 
lasciatili,  si  partivano  ad  accompagnare  nel  suo  palazzo 
come,  a  lettura  finita,  gl'Inquisitori  nel  loro.  A  buoni 
conti  il  Senato  rappresentava  il  padron  di  casa,  e  nelle 
solennità  di  fede,  quelli  erano  l'autorità  propria  e  la  mag- 
giore. Per  questa  medesima  ragione  nel  caso  di  pubblico 
spettacolo.  Senato  e  Giurati,  udita  nella  propria  cappella 
la  messa,  si  recavano  al  Palazzo  del  S.  U.  e,  ricevuti  a 
pie  dello  scalone,  dagli  Inquisitori,  con  essi  cavalcavano 
verso  il  luogo  dello  spettacolo  medesimo  (i). 

Lo  spettacolo  si  celebrava  ora  in  uno,  ora  in  un  altro 
posto;  e,  quando  doveva  finire  col  fuoco,  in  una  grande 
piazza.  Le  chiese  della  Magione,  di  Santa  Cita,  di  San 
Francesco  d'Assisi,  di  San  Domenico,  e  sopra  tutte  le 
Cattedrale  echeggiano  ancora  delle  invettive  dei  predicatori 
agli  accusati  e  delle  monotone  voci,  mortalmente  noiose,  dei 
leggitori  dei  processi  (2);  e  le  piazze  della  Marina,  della 

(i)  Ceremoniale  dell'Ill.mo  Senato  palerminato .  formato  da 
D.  Baldassare  di  Bernardino  Bologna,  maestro  di  Ceremonie 
del  Medesimo  Senato  et  uno  de'  Senatori  in  quest'anno.  9»  eindiii- 
cazione,   1610  e  1611,  capp.  XV  e  LXVII.  Palermo,   1895  e  1899. 

(2)  Altra  chiesa,  ora  non  più  esistente,  nella  quale  il  Tri- 
bunale compieva  atti  di  fede  incruenti,  era  quella  di  S.  Niccolò 
la  Kalsa.  Documenti  inediti  ne  notano  del  dicembre  1661,  del 
23  luglio  e  del  12  ottobre  del  1662.  Ms.  Qq  H  62  della  Bibl.  Co- 
munale  di   Palermo. 


141 


SANT'UFFIZIO 

Loggia,  della  Bocceria,  dei  Bologni,  della  Ferrovia  (i),  del- 
lo Spasimo  (2)  e  di  Sant'Erasmo  degli  urli  sprigionantisi 
di  mezzo  alle  fiamme. 

Uscivano  dal  palazzo  del  Santo  Uffizio  ad  uno  ad  uno; 
ma  prima  di  varcare  la  soglia  fatale  e  di  comparire  in 
faccia  al  pubblico  ricevevano,  ciascuno  per  sé,  uno  o  due 
fratelli  della  Congregazione  della  Pescagione,  persone  di 
sp>ecchiata  condotta  che,  a  titolo  di  distinzione  e  di 
carità,  dovevano,  durante  la  funzione  tutta,  accompagnarli 
e  confortarli.  Andavano  nel  lungo  stuolo,  dopo  le  fraterie, 
le  parrocchie,  la  comitiva  dell' Alcade  delle  segrete,  tutta 
di  cavalieri  del  Tribunale  e  prima  dei  dignitari  di  esso;  ed 
erano  maschi  frammisti  a  femine,  primi  i  rei  di  lievi  de- 
litti, ultimi  i  rei  di  delitti  gravi,  gravissimi. 

Strabocchevole  la  folla  degli  spettatori,  attratti  più  che 
dalla  intenzione  di  fare  opera  meritoria,  dalla  etema  cu- 
riosità morbosa  che  spinge  ad  accorrere  ad  una  berlina  co- 
me ad  una  féerie  teatrale,  ad  uno  spettacolo  raccapric- 
ciante come  ad  un'allegra  cuccagna.  E  ci  si  divertiva  tanto 

(i)  Una  lettera  del  Pretore  e  dei  giurati  di  Palermo  a  Fer- 
dinando il  Cattolico,  in  data  del  27  giugno  151 1,  parla  del 
plano  nantj  di  li  ferrarj,  che  oggi  corrisponderebbe  presso  la  im- 
boccatura della  via  Calderari,  in  via  Macqueda. 

(2)  Questi  due  luoghi  come  teatri  di  Atti  di  fede  vengono 
fuori  soltanto  ora  per  via  di  documenti  inediti.  A  proposito  del- 
lo Spasimo,  una  lettera  di  Ferdinando,  del  4  giugno  1513,  di- 
ceva al  Pretore  ed  ai  Giurati  di  Palermo  che  «  non  si  faccino 
più  roghi  di  eretici  e  di  sodomiti  innanzi  il  monastero  di  S.  Ma- 
ria di  Montoliveto  »  (Lo  Spasimo).  [Atti,  Bandi  e  Provviste  dal- 
l'Archivio Com.  di  Palermo;  a.  1513-14,  indizione  II,  p.  303 
retro).  Donde  viene  in  luce  una  autodafé  nuovo  per  la  storia,  ed 
interessante  per  la  sua  data. 


142 


LO  SPETTACOLO 

tanto,  sopratutto  quando  la  processione  finiva  col  brucia- 
mento di  vivi. 

Cronisti  e  storici  del  tempo  rilevarono  con  vivo  com- 
piacimento la  pubblica  soddisfazione  per  siffatti  spettacoli: 
e  per  quello  del  1573,  celebrato  nella  piazza  dei  Bologni 
(allora  detta  .  .  .  .)  presenti  il  Viceré,  i  Ministri,  il  Senato  e 
la  grande  nobiltà,  nel  quale  «  la  prima  volta  uscì  la 
croce  verde  portata  da  un  primario  nobile  collocata  sopra 
un  altare  adorno  di  verde,  con  baldacchino  verde  sopra»; 
e  si  bruciarono  in  istatua  otto  condannati,  e  due  in  per- 
sona; la  cosa,  racconta  il  Franchina,  ebbe  '(  lo  applauso 
pel  Tribunale  »  (i). 

Il  Mongitore,  che  è  pure  uno  dei  più  chiari  e  benemeriti 
della  storia  letteraria  ed  ecclesiastica  di  Sicilia,  chiudeva  la 
sua  descrizione  del  solennissimo  autodafé  di  fra  Romualdo 
e  suor  Gertrude  annunziando:  «  Così  terminò  l'ultima  scena 
di  questa  rappresentazione  lieta  insieme  e  lacrime- 
vole »   (2). 

Siccome  poi  un  autodafé  generale  non  poteva  sbrigarsi 
in  poche  ore,  si  provvedeva  con  antecedenza  a  conforti 
dello  stomaco  degli  intervenuti. 

Il  pubblico  grosso  portava  da  casa  sua  o  comperava  sul 
luogo  quanto  credesse  necessario. 

Per  pagar...    il  solito  tributo 

Al  famelico  ventre  ed  importuno; 

ma  la  haute,  sia  ecclesiastica,  sia  secolare,  doveva  pensarci 
prima:  e  ci  pensava.  Eppure  mentre  nell'ultima  incisione 

(i)    Franchina,  of>.   cit.,  cap.  X,  p    3». 
(2)  Mongitore,   op.  cit.,  p.  loi. 


SANT'UFFIZIO 

dello  Atto  pubblico  di  fede  del  Mongitore,  celebrato  nella 
pianura  di  Sant'Erasmo  in  Palermo,  in  giro  allo  steccato 
dei  due  che  si  contorcono  tra  le  fiamme  si  vedono  popolani 
e  popolane  banchettare  all'aperto,  e  venditori  di  pane,  di 
vino,  di  dolci  e  di  varie  ragioni  di  comestibili  spacciare 
merci  e  leccornie,  nel  testo  dell'opera  si  parla  di  pranzi  che 
durante  la  lettura  dei  processi,  nel  largo  della  Cattedrale, 
davano  nelle  stanze  dietro  i  palchi  delle  loro  corti,  gl'In- 
quisitori, il  Capitano  Giustiziere,  il  Senato,  ecc.  E  non 
soltanto  alle  loro  corti,  ma  anche  alle  dame  inviate  dalla 
Capitanessa  e  dalla  Pretoressa;  pranzi  splendidi  e  succulenti. 
La  minuta  di  queste  scorpacciate  non  la  sappiamo,  ma 
dobbiamo  immaginarla  degna  degl'illustri  spettatori;  e  dob- 
biamo credere  che  la  table  à  thè  venisse  presa  d'assalto. 
In  occasioni  come  quelle  non  si  lesinava  sulle  spese,  che 
salivano  a  cifre  veramente  enormi,  tutto  dovendo  andare 
con  grandiosità.  Fuori  Sicilia  in  Cordova,  p.  e.,  il  dì  29 
giugno  1665,  nella  celebrazione  di  un  atto  pubblico  di  fede 
simile  a  quello  del  1724  in  Palermo  col  bruciamento  di  due 
uomini  e  di  una  donna,  furono  non  già  mangiati  ma  di- 
vorati da  ventiquattro  persone  del  Capitolo,  da  altre  del 
clero,  dagl'Inquisitori  e  da  certi  loro  affezionati  (incredi- 
bile, ma  vero!),  quattro  vitelH,  otto  prosciutti,  trenta  libbre 
di  Cctstrato,  ventiquattro  midolli,  un  canestro  di  agriotte, 
un  cestone  di  mele,  cento  ottantasei  polli  e  duecento  quattro 
pani  con  l'aggiunta  di  quindici  chili  di  biscotti,  quindici 
di  cannelloni  e  di  cannelle  e  settantacinque  di  amigotas, 
senza  contare  dugento  venticinque  litri  di  vino  e  di  non 
so  quanti  altri  liquori,  nella  composizione  dei  quali  entrava 

144 


LO  SPETTACOLO 

cannella,  zafferano  e  pepe:  un  pranzo  di  Assuero  con  fame 
canina  (i). 

Ripigliando  la  esposizione,  dirò  che  la  processione  si  fer- 
mava nel  luogo  designato  per  la  lettura  dei  processi.  I  pa- 
drini non  lasciavano  un  istante  i  tristi  loro  affidati,  come  i 
confortatori  i  rei  più  gravi.  Quivi  prendevan  tutti  posto 
sopra  un  palco,  i  cui  gradini  dall'alto  al  basso  rappresenta- 
vano la  degradazione  dei  delitti,  dalle  maggiori  eresie  dei 
recidivi  e  degli  ostinati  alle  lievi  trasgressioni  dei  pre- 
cetti della  chiesa  di  ignoranti  o  di  illusi.  Tetraggine  e  terrore 
spirava  il  pallio  dello  altare  ed  ogni  altro  apparato  della  ce- 
rimonia. Ad  uno  ad  uno,  chiamati  per  nome,  cognome  e 
delitti,  scendevano  dal  palco  ed  eran  condotti  in  mezzo  dello  ' 
spazio  libero  :  ragione  non  sai  più  se  di  orrore  o  di  compas- 
sone. E  protestavano  di  esser  pentiti  e  giuravano  sul  Van- 
gelo di  non  più  ricadere  nei  passati  errori  e  recitavano  la 
forma  dell'abiura  dettata  loro  dallo  stanco  leggitore  dei  sin- 
goli processi,  e  seguita  dalla  indicazione  della  pena  alla 
quale  erano  condannati. 

Questa,  pei  rilasciati,  era  la  morte:  ultima  ratio  pro- 
nunziata, non  già  dagli  Inquisitori,  ma  «  dai  giudici  seco- 
lari, i  quali  presenti  nel  palco,  senza  conoscere  altro  me- 
rito di  causa  che  la  pura  e  semplice  relassazione  al  loro 
braccio  da  parte  del  S.  Uffìzio,  pronunciavano  la  sentenza 
di  consegna  alle  fiamme  o  ad  altro  genere  di  pena  ordinaria, 
di  morte  secondo  le  qualità  de'  delitti  e  disposizione 
del  reo  »  (2). 

(i)  R.  Ramirez  de  Arellano,  La  Inquisicion  en  Cordoba; 
Noticias  curiosas  para  illustrar  su  historia,  in  Boletin  de  la  R. 
Academia  de  la  Historia,   t.   XXXVIII,   p.    170,   Madrid,    1901 

(2)    Franchina,  op.  cit.,  cap.  X,  p.  51. 

10  -  G.  PITRÈ  •  SanfUHlrlo. 


SANT'UFFIZIO 

Per  grazia  particolare,  i  pentiti,  confessati  ed  assoluti, 
venivano,  come  abbiam  sentito  dal  Bertini,  strozzati  prima 
che  bruciati;  gl'impenitenti,  bruciati  vivi.  Ed  allora  era  di 
rito  la  «  dispersione  delle  ceneri  del  bruciato  vivo  al  vento  o 
a  mare,  perchè  di  tanto  vitupero  non  restasse  traccia,  men- 
tre poi  agli  occhi  dei  figli,  dei  congiunti,  dei  discendenti 
e  del  popolo  tutto,  nella  chiesa  di  San  Domenico,  ad  una 
delle  navate,  s'attaccavano  gli  abiti  bruciati,  con  la  tabella 
o  manteta  (i)  contenente  il  nome,  il  cognome,  la  paternità, 
la  patria  e  la  specifica  del  delitto:  pubblicità  che  solo  una 
violenta  rivolta  dei  Palermitani  potè  far  cessare  {2). 

Come  non  tutti  i  rei  né  tutti  gl'imputati  cadono  nel  laccio 
della  Giustizia  ordinaria,  così  non  tutti  gli  eretici  o  sospetti 
di  eresia  venivano  arrestati.  Allora  si  fabbricava  loro  il  pro- 

(i)  Era,  la  manteta  spagnuola  adottata  anche  in  Sicilia, 
un  pezzo  di  tela  oblunga,  sulla  parte  inferiore  della  quale  si  scri- 
veva il  nome,  la  qualità,  lo  stato  ed  il  delitto  del  condannato  e 
l'anno   della   sentenza. 

(2)  «  Era  costume  d'appendere  nella  chiesa  di  S.  Domenico 
alle  muraglie  gli  abiti  degli  eretici  già  dichiarati  per  pubblica  sen- 
tenza della  S.  Inquisizione,  acciò  si  tenesse  avanti  gli  occhi  sem- 
pre viva  la  dannata  memoria  dei  nemici  di  Santa  Fede  con  la 
tabella   de'    loro   nomi. 

«  La  plebe,  insolentita  ed  instigata  da  alcuni  nobili  malcon- 
tenti, tumulto  in  siffata  maniera  che,  concorrendo  a  furia  nella 
chiesa  sudetta  di  S.  Domenico,  stracciò  le  vesti  appese  da 
moltissimi  anni  lacerandole  in  minutissimi  stracci.  Fu  d'uopo 
sedar  quell'alterazione  del  popolo,  il  quale  richiese  per  soddisfa- 
zione che  non  mai  più  s'appendessero  quegli  abiti  co'  nomi  e 
cognomi  degli  eretici  sulle  muraglie  di  S.  Domenico  o  altrove 
nel  Regno.  Ed  essendo  accordata  la  sua  richiesta,  si  sedò  con 
pieno  decoro  dell'Inquisizione  ».  Franchina,  op.  cit.,  cap.  XI, 
p.  66. 

146 


LO  SPETTACOLO 

cesso  in  contumacia,  chiuso  con  la  condanna  al  rogo  in  effi- 
ge, o  in  istatua. 

Di  codesti  spettacoli,  carnevaleschi  quando  nel  medesi- 
mo giorno  non  se  ne  avea  per  vivi  ed  in  persona,  se  ne  con- 
tano cento  ottanove  nei  tre  secoli.  Si  dipingevano  su  carta  le 
figure  dei  rei  assenti  o  morti  o  fuggiti  o  irreperibili,  e 
con  tutto  l'apparato  del  supplizio  vero,  si  conducevano  al 
luogo  del  rogo  e  si  consegnavano  alle  fiamme,  senza  che  un 
solo  particolare  della  cerimonia  venisse  omesso. 

Che  se  il  reo  era  morto  e  se  ne  riusciva  a  scoprire  la 
sepoltura,  se  ne  esumavano  le  ossa,  le  quali  chiuse  in  una 
cassa,  preceduta  dalla  sua  presunta  effige,  previe  le  funzioni 
della  lettura  del  processo,  e  della  consegna  ai  giudici  secola- 
ri e  della  sentenza,  si  davano  in  mano  al  boia,  che  sapeva 
bene  il  da  fare. 

Guai  al  pietoso  che  avesse  osato  seppellire  il  cadavere 
d'un  eretico!  Egli  rimaneva  issofatto  scomunicato;  né  poteva 
essere  assoluto  finché  non  lo  avesse  disseppellito  (i). 

Giacché  per  l'eretico  o  pel  sospetto  d'eresia  non  v'era 
pietà.  Nella  istruzione  del  processo  e  nel  dibattimento,  se 
tale  possiamo  chiamarlo,  s'intende  sempre  segreto,  tutto 
era  ammesso  fuori  che  la  difesa.  A  chi  avesse  conosciuto  un 
occulto  eretico,  si  faceva  stretto  obbligo  di  denunziarlo,  re- 
stando occulto  il  nome  del  denunziatore  e  non  obbligatoria 
la  prova  della  denunzia.  Nulli  i  testimoni  a  favore;  ammesso 
a  provare  il  delitto  il  figlio  contro  il  padre,  il  padre  contro  il 
figho,  la  moglie  contro  il  marito,  il  marito  contro  la  moglie, 
il  servo  contro  il  padrone,  il  padrone  contro  il  servo  (2). 

(i)    Sacro   Arsenale,    n.    CCLXVI,    p.    416. 
(2)    Lo    stesso,    nn.    CXXXVII,    CCLXIX,    pp.    384,    400-401, 
417- 


SANT'UFFIZIO 

Con  SÌ  tenebrosa  procedura  è  facile  immaginare  quali 
vendette  si  potessero  esercitare  e  con  quale  impunità  lasciar 
correre.  Mogli  stanche  dei  loro  mariti,  mariti  desiderosi  di 
libertà,  insofferenti  tutti  del  vincolo  matrimoniale,  avevano 
per  tal  modo  agio  di  bearsi  in  illeciti  amplessi.  Solo  gli  eredi 
rimanevano  in  mezzo  ai  guai,  sorgenti  dalla  confìsca  dei  be- 
ni loro  spettanti. 

L'avvocato  che  difendeva  un  reo  che  egli  in  coscienza 
sapesse  eretico,  era  infame  e  punibile. 

Dal  semplice  penitenziato  al  rilasciato,  una  la  messa  in 
iscena,  triplice  la  rappresentazione:  un  sacco  chiamato  sam- 
benito,  sacco  benedetto  nei  primi  due,  e  viceversa  poteva 
dirsi  maledetto  nel  condannato  a  morte  e  si  chiamava  origi- 
nariamente zimarra.  Il  sambenito  per  la  sua  forma  ha  ri- 
scontro nel  così  detto  abito  degli  ascritti  alle  attuali  confra- 
ternite; ed  era  volgarmente  chiamato  abituilo.  Se  non  che, 
quello  dei  penitenti  diremo  così  di  primo  grado,  portava  so- 
pra un  fondo  giallo  disegnate  in  nero  due  sbarre  traversal- 
mente  oblique  in  forma  di  croce  di  Sant'Andrea;  quello  di 
secondo  grado,  ossia  del  riconciliato  che  aveva  riconosciuto 
i  suoi  errori  di  eresia  ed  aveva  abiurato,  delle  fiamme 
capovolte  ed  una  mitra  in  capo  con  le  medesime  fiamme, 
quasi  per  significare  che  per  la  penitenza  si  era  liberato  dal 
rogo  che  avea  meritato;  e  quello  di  terzo  grado,  fiamme  e 
diavoli  in  atto  di  arroncigliare  il  reo  ed  una  testa  sopra  una 
catasta  di  legne  accese.  I  primi  due  nel  momnto  di  uscire 
allo  spettacolo  portavano  per  ignominia  una  corda  di  gine- 
stra al  collo,  un  rosario  ed  una  mano,  una  torcia  di  cera  ver- 
de spenta  alllatra,  torcia  che  veniva  restituita  accesa  dal- 
l'Inquisitore dopo  il  perdono.  Prima  e  dopo  della  condanna 
il  riconciliato  passava  per  ogni  maniera  di  torme-nti.  Non  si 

148 


LO  SPETTACOLO 

era  sicuri  della  sua  conversione,  e  lo  si  sottoponeva  a  prove 
terribili.  Il  qualificatore  e  consultatore  Bertini  fa  la  lunga 
storia  d'un  accusato  che  il  6  dicembre  1660  subì  l'epilogo 
dei  suoi  errori  rimanendo  «  represso,  confutato,  esinanito  ». 
Chiamato  alla  secreta  udienza,  confermò  le  cose  dette,  pro- 
nunziate scritte  per  molti  giorni,  negando  l'errore  della 
mente  e  dichiarando  aver  tutto  detto  per  odio  a  Dio.  Vive 
discussioni  si  accesero  tra  i  giudici,  se  egli  fosse  un  apostata 
o  un  eretico,  e  che  cosa  dovesse  farsi  d'un  uomo  che  negava 
l'errore  di  mente  e  bestemmiava.  In  tanta  perplessità,  cer- 
cano convertirlo.  Lunghe  le  insistenze;  finalmente  egli  vede 
il  suo  fallo  e  con  immensi  dolori  e  pianti  dice  essere  stato 
mosso  da  scelleratissimo  odio  verso  Dio,  proprio  per  errore 
di  mente  e  chiede  perdono  e  pietà.  Gli  Inquisitori  si  com- 
muovono e  gl'infliggono  la  più  mite  delle  pene:  uscire  al 
pubblico  spettacolo  con  le  insegne  di  eretico  formale;  duran- 
te la  lettura  del  processo  terrebbe  la  mano  destra  confitta 
con  un  ferro  ad  un  legno. 

<(  Premessa  l'abiura  de  formali,  riconciliato  veniva  pu- 
nito con  duecento  bastonate,  perpetua  irremissibile  reclusione 
e  altre  penitenze  salutari  finché  tra  quattro  mura,  stanco 
solo  seduto,  apprendesse  in  silenzio  la  via  della  verità,  e 
nella  meditazione  dei  suoi  delitti  bruciasse  del  fuoco  della 
compunzione  piangendo  le  sue  scelleratezze  »  (i). 

Il  caso  è  unico  nella  storia  del  S.  Uffizio  in  Sicilia, 
V'era  una  specie  di  codice  ed  una  procedura  di  Spagna  e  la 
applicazione  dell'uno  e  dell'altra  rimaneva  inalterata. 

In  casi  meno  gravi,  per  semplici  sospetti  di  vacillamen- 
to di  fede,  il  riconciliato,  dopo  la  pubblica  abiurazione  dei 

(i)   Bertini,    op.    cit.,    pp.    516-49. 
149 


SANT'UFFIZIO 

suoi  errori,  veniva  ricondotto  nelle  prigioni  per  espiare  la 
pena  della  condanna  (i). 

Pena  pel  sospetto  d'eresia  e  già  pentito  era  il  carcere 
chiuso,  dove  egli,  secondo  la  formula  della  sentenza,  vitam 
in  fletu  et  lacrymis  peracturus,  ad  arbitrio  del  giudice,  do- 
nec  per  nos  (dicevano  gl'Inquisitori)  aliter  sit  diffinitum. 

Pene  minori  dovevano  sostenere  i  processati  e  pentiti 
per  poligamia,  sortilegio,  superstizioni  e,  peggio  ancora,  per 
esercizio  sacerdotale  senza  esser  sacerdote.  Nel  1724  essi 
venivano  condotti  per  le  principali  strade  della  città  alla 
frusta  sopra  vili  giumenti  e  alcuni  «  con  vergognosa  mitra 
sul  capo  »;  altri  alle  sferzate,  altri  al  remo,  tutti  al  carcere 
e  tutti  all'esilio  (2). 

Qualunque  fosse  la  condanna  non  poteva  mai  Ìl  condan- 
nato durante  il  tempo  designato,  smettere  Vabitello;  amara 
testimonianza  dei  suoi  trascorsi;  come  non  poteva  smetterlo 
il  penitenziato  semplice  (3). 

E  doveva  essere  un  ben  triste  distintivo,  capace  di  ren- 
dere repellente  chi  lo  poriiava  se  un  notaio  riconciliato  e  pe- 
nitente, non  trovando  modo  di  guadagnarsi  da  vivere,  sup- 
plicava gl'Inquisitori  che  glielo  volessero  commutare.  Dice- 
va lo  sventurato  : 

«  Rev.  Signori  Inquisitori.  Il  poviro  notar  lacobo  Da- 
miano, reconciliato  per  lo  S.  Officio  della  Inquisizione,  fa 
intendere  a  li  S.  V.  R.  qudmenti  per  multi  modi  et  expe- 
dienti  che  ipso  ha  cercato,  non  trova  forma  nixuna  di  poti- 
risi  alimentari  se  non  di  retornarsi  in  sua  terra  di  Racalmu- 
to  undi  cum  lo  aiutu  et  subsidio  de  li  soi  parenti  si  porria 

(i)    Franchina,    op.    cit..    cap.    X,    pp.    49-53- 

(2)  MONGITORE,     Atti,     p.     103. 

(3)  La  Mantia,    op.    cit.,    p.   35. 

150 


LO  SPETTACOLO 

substintari  et  finiri  li  pochi  jorni  di  sua  vita  stanti  la  sua 
vichiza  e  infirmitati.  Et  perchè  tanto  esso  comò  dicti  soi 
parenti  sono  stati  et  sono  persone  di  honore,  talché  vedendo 
ad  esso  esponenti  cum  lo  dicto  abito  {sambenito),  a  nullo 
modo  lo  recogliriano  anzi  lo  cacciriano  et  lo  lassiriano 
andari  morendo  de  fame  et  de  necessità.  Pertanto  si  butta 
a  li  piedi  delli  S.  V.  R.,  siano  serviti  farli  gratia  di  commu- 
tare il  ditto  habito  in  altra  penitentia  et  pena  pecuniaria  per 
la  redemptione  delli  christiani  captivi  che  stanno  in  terra  di 
Mori,  che  esso  supplicanti  recoglirà  de  li  soi  parenti  quelli 
dinari  possibili  per  ditto  effetto,  altramenti  è  facili  moririsi 
di  fami  et  essiri  abbandonatu  da  tutti  »  (i). 

Dopo  la  cacciata  del  Viceré  Conte  Ugo  Moncada  molti 
penitenziati  tolsero  via  l'abitello:  ed  il  sig.  Inquisitore  su- 
premo D.  Alonso  in  certe  sue  istruzioni  agl'Inquisitori  di 
Sicilia  se  ne  doleva,  e  sollecitava  a  provvedere. 

Non  occorreva,  peraltro,  una  rivolta  pubblica  perché  i 
reconciliati  nascondessero  per  le  città  e  terre  di  loro  dimora 
il  pauroso  emblema  (2).  Esso  era  un  marchio  d'infamia. 

Inoltre  i  condannati,  sia  alla  galera,  sia  ad  altre  pene 
corporali,  coglievano  qualunque  occasione  per  sottrarvisi; 
e  rinpuisitore  Manrique  che  lo  seppe,  raccomandava  in  pro- 
posito le  maggiori  diligenze  e  gli  opportuni  provvedimenti 

(1525)  (3)- 

Che  meraviglia  se  questo  essi  facevano,  quando,  scontate 
le  pene,  gl'Inquisitori  le  prolungavano  a  loro  arbntio  e  ma- 
gari per  semplice  dimenticanza?  Di  che  non  pochi  ricorsi  di 

(i)   La  Mantia,   op.   cit.,  pp.   56-57,   n.  4. 

(2)  Lea,    op.    cit.,    p.    423. 

(3)  Lea,    op.    cit.,    p.    ^n> 


151 


SANT'UFFIZIO 

condannati  alle  galere,  i  quali,  avendo  già  compito  il  tempo 
di  loro  pena,  chiedevano  la  libertà  (i). 

Ogni  anno  e  più  volte  in  un  anno,  in  pubblico  e  in 
privato,  a  San  Domenico  e  allo  Steri,  il  S.  Uffizio  celebrava 
Atti  di  fede  esponendo  sul  palco  eretici  o  sospetti, 

A  siffatto  spettacolo  passava  quando  avea  un  numero 
sufficiente  di  rei  da  esporre.  L'atto  pubblico  serviva  per 
esempio  e  correzione  di  tutti;  il  privato  per  esempio  ed  edi- 
ficazione dei  pochi  timorati  e  religiosi  che  avevano  l'onore 
di  esservi  ammessi;  in  ciò  prevalevano  ragioni  di  riguardi 
verso  le  famiglie  e  verso  i  rei  medesimi. 

Il  Franchina,  che  scriveva  nel  1744,  quando  il  Tribunale 
della  Fede  precipitava  in  fiacca  decrepitezza,  dà  ragione  dei 
frequenti  spettacoli  col  gran  numero  di  cause  da  doversi  spe- 
dire e  quindi  con  la  numerosità  dei  rei. 

Questa  notizia  ci  fa  deplorare  ancora  più  la  perdita  delle 
carte  di  quell'archivio.  I  mille  e  più  rei  che  noi  conosciamo 
di  nome  nei  pubblici  spettacoli,  sono  soltanto  quelli  che  ci 
avanzano  in  manoscritti  e  stampe,  riferiti  a  lunghi  intervalli 
d'anni  nelle  svariate  relazioni.  Eppure  più  volte  l'anno, 
come  si  è  detto,  centinaia  di  rei,  specialmente  nel  gran  salo- 
ne dello  Steri,  ora  sede  della  Corte  d'Appello  venivano  con 
affettato  pudore  esposti,  e  non  si  facevano  «  per  giusti  rifles- 
si comparire  » . 

Fin  dai  suoi  primordi  la  Inquisizione  doveva  celebrare 
quattro  Atti  di  fede  l'anno;  epperò  la  cifra,  non  già  dei  ri- 
lasciati al  braccio  secolare,  rei  di  gravi  eresie  pertinaci,  ma 
dei  condannati  a  pene  diverse,  doveva  giungere  a  dozzi- 
ne di  migliaia. 

(i)    Ms.  Qq  F  39. 

152 


LO  SPETTACOLO 

Lo  spettacolo  era  la  espressione  appariscente  della  po- 
testà del  S.  Uffizio,  l'atto  più  ardito  in  cui  esso  affermavasi. 
Perciò  dovrebbe  occupare  aire  pagine  che  lo  ritraggano  nei 
suoi  particolari.  Ma  ciò  uscirebbe  dai  limiti  di  questo  stu- 
dio, che  vuol  essere  una  illustrazione  delle  tre  celle  sco- 
perte. 

Tuttavia  non  posso  defraudare  il  lettore  d'una  notizia 
abbastanza  curiosa  per  la  storia  del  S.  Uffizio  in  Sicilia.  E' 
una  lettera  di  Piero  Venier  veneziano,  fratello  di  Pellegrino, 
alle  sue  sorelle  a  Venezia  in  data  dell'S  giugno  1511,  con  la 
quale,  forse  a  corto  di  novità,  descrive  a  vivi  ma  efficaci 
colori  un  autodafé  stato  perpetrato  due  giorni  innanzi  in 
Palermo  nel  Piano  della  Marina,  innanzi  al  Palazzo  Chiaro- 
monte.  Oltre  sedici  donne  e  sette  uomini  tutti  condannati 
de  levi  e  quindi  a  varie  penitenze  in  vita,  apparvero  e  fu- 
rono bruciati  dopo  che  strangolati,  perchè  giudaizzanti,  sei 
uomini  e  tre  donne,  due  delle  quali  madre  e  figlia,  ed  un 
decimo,  già  morto,  in  immagine  «  con  el  suo  nome,  de  modo 
e  un  carlevar,  vestido  di  tutti  habiti  e  maschara  ». 

Questo  documento  ha  il  pregio  della  sincera  testimo-^ 
nianza  della  minutezza  dei  particolari  del  tutto  nuovi  e  della 
antichità;  giacché  coloro  che  non  tengon  conto  dello  spet- 
tacolo del  1487,  non  possono  non  ammetter  questo  del 
1511,  quasi  come  primo  della  serie  lacrimosa. 

Ed  ora  vengo  a  qualche  notizia  intomo  ad  una  delle 
ragioni  più  frequenti  di  spettacoli:  la  bestemmia. 

Se  questa  era  atroce,  il  bestemmiatore  di  ceto  pebleo  si 
conduceva  allo  spettacolo  con  una  mitra  sul  capo,  la  lingua 
legata  e  senza  mantello,  mentre  si  veniva  fustigando  e  poi  si 
mandava  a  vogare  sulle  galere.  Il  bestemmiatore  di  ceto  no- 
bile, senza  mitra,  si  chiudeva  in  un  convento;  donde  dopo 
un  certo  tempo  si  lasciava  uscire  pagando  una  multa. 

153 


SANT'UFFIZIO 

Questa  diversità  di  trattamento  per  un  medesimo  reato 
bisogna  metterla  in  relazione  ai  tempi.  Una  era  la  puni- 
zione del  plebeo,  un'altra  la  punizione  del  nobile,  pure  es- 
sendo davanti  alle  leggi  d'allora  egualmenti  colpevoli.  La 
stessa  morte  era  differente  nell'uno  e  nell'altro;  perchè 
dove  il  plebeo  veniva  strangolato,  il  civile  ed  il  nobile 
andava  decapitato.  La  forca  era  infamante;  ed  un  signore 
non  poteva  scendere  tanto  in  basso.  I  nobili,  peraltro,  raie 
volte  andavano  penitenziati,  rarissime  volte  rilasciati  al 
braccio  secolare. 

Per  lievissime  bestemmie  ereticali  gl'Inquisitori  ricor- 
revano ad  espedienti  diversi.  Non  potendo  tenere  occupate 
le  carceri,  mandavano  in  esilio  i  blasfemi,  o  ne  facevano  re- 
galo ai  conventi;  o,  quando  questo  non  avevano  modo  di 
fare,  condannavano  il  reo  a  stare  in  un  giorno  di  dome- 
nica durante  la  celebrazione  della  messa  cantata  innanzi 
una  chiesa  senza  entrare,  col  capo  scoperto,  i  piedi  nudi, 
una  fune  pendente  dal  collo  ed  una  candela  accesa  in  mano: 
forma,  questa,  la  più  mite  pei  penitenziati  semplici.  Finita 
la  messa,  leggevano  la  sentenza  con  la  indicazione  dei 
digiuni  inflitti,  i  rosari  da  recitare  e  la  pena  pecunaria  da 
soddisfare,  dato  che  il  reo  lo  potesse  (i). 

Questa  pena  cdl'acqua  di  rose  ma  non  priva  d'ignominia 
avea  delle  varietà,  come  quella,  p.  es.,  che  limitava  ad  una 
sola  domenica  lo  accesso  del  blasfemo  alla  porta  della  chiesa 
principale  del  paese,  col  divieto  di  entrarvi,  e  sempre  a  capo 
e  piedi  nudi,  e  con  la  torcia  in  mano;  ma  non  lo  ripetevano 
e  prolungavano  per  un  dato  tempo  con  l'aggiunta  dell' abi- 
tello  a  croci  trasversali. 

E'  vero  poi  che  tutti  gli  imputati  venivano  condotti, 

(i)    Bertini,    op.    cit.    Myst;    IV,   p.    492. 


LO  SPETTACOLO 

giudicati  e  condannati  a  Palermo;  ma  qualche  volta,  e  non 
di  rado,  arrestati  in  una  delle  principali  città  dell'Isola  era- 
no quivi  stesso  giudicati  e  condannati.  Nelle  carte  d'archivio 
di  esse  non  sarà  difficile  trovarne  ricordo,  se  non  altro  per  le 
spese  che  la  città  medesima  era  obbligata  a  fare  per  il  pub- 
blico spettacolo.  Un  cronista  catanese  del  Cinquecento,  p. 
s.,  racconta  d'una  visita  fatta  nell'inverno  del  1568  dall'In- 
quisitore di  Palermo  e  d'un  pubblico  Atto  di  fede  che  vol- 
le tenervi,  nel  quale  molti  processati  ebbero  la  pena  della 
frusta  e  della  galera,  e  se  la  sarebbero  presa  se  i  Giurati 
della  città  non  si  fossero  interposti  a  loro  favore  fino  ad 
ottenere,  fatto  più  unico  che  raro!,  la  grazia  (i). 

La  pena  della  lingua  ha  anche  riscontro  nella  storia  reli- 
giosa di  Sicilia.  Re  Alfonso,  in  una  prammatica  del  1433, 
condannava  i  bestemmiatori  alla  perforazione  della  lingua 
con  un  aguglione  (saccurafa)  ed  alla  condotta  alla  berlina 
pei  luoghi  nei  quali  avevano  bestemmiato  (2). 

Le  Costituzioni  sinodali  di  Monreale  del  1544,  aggiunge- 
vano la  fustigazione  (3),  e  quelle  di  Mazzara  del  1575,  oltre 

(i)    Cronaca  siciliana  del  secolo  XVI.   pp.    225-26. 
Il  testo  di  questo  spettacolo  si  leggerà  in  appendice  al  pre- 
sente volume. 

(2)  Quanti  bestemmiano,  rinnegano,  disprezzano  la  potenza 
di  Dio  ecc.  «  se  per  aventura  tali  sarannu  homini  di  baxa  con- 
dicioni,  statu  populari  et  villani,  chi  li  sia  misa  una  saccurafa 
immenzu  la  lingua  chi  li  passa  di  parti  in  parti,  et  girirà  per 
tutti  li  principali  lochi  et  plazi  di  la  terra  undi  havirannu  com- 
misu  lu  delictu  ».  Diego  Orlando,  Un  Codice  di  Leggi  e  Diplomi 
siciliani  del  Medio  Evo,   p.    160.   Palermo,    1857. 

(3)  Constitutiones  synodales  Metropolitanae  ecclesiae  civi 
tatis  regalis,  tit.  XXV,  e.  7.  In  Civitate  Montis  regahs.  an.  D.ni 
1554- 


155 


SANT'UFFIZIO 

le  solite  pene  minacciate  dai  sacri  canoni  (i),  la  lingua 
tenuta  fuori  delle  labbra  (2). 

E  però,  quando  le  mamme  e  le  nonne  del  nostro  popolo 
sentono  dire  una  mala  parola  al  loro  béimbino  o  sentono  che 
egli  giuri  una  bugia,  mettono  subito  fuori  uno  spillo  o  un 
ago  minacciando  di  volergli  pungere  la  lingua;  quando 
dicono  che  verrà  il  prete  e  gli  taglierà  la  lingua  {veni  lu 
parrinu  e  ti  tagghia  la  lingua),  esse  non  fanno  se  non  un 
richiamo  ad  un'antica  prammatica  od  ai  vecchi  sino- 
di  (3). 

Ad  un  certo  periodo  del  S.  Uffìzio  l'autorità  civile  s'in- 
tendeva con  esso  per  la  punizione  dei  bestemmiatori  laici, 
mentre  la  ecclesiastica,  la  più  mite  tra  tutte  agiva  per  conto 
suo,  e  bandiva  nei  sinodi  diocesani  pene  di  carcere  per  conto 
proprio  (4).  Se  non  si  pensasse  ai  molti  e  differenti  fori 
d'allora,  ci  sarebbe  da  confondersi  in  tante  giurisdizioni  den- 
tro  e  spesso  sopra  della  giurisdizionvì  generale  dello  Stato. 
Verso  la  metà  del  Settecento  il  Vecerè  ammetteva  che,  salvo 
i  casi  di  bestemmie  senza  colore  di  eretica  pravità,  potesse 
contro  i  rei  procedere  nel  Regno  tanto  il  Capitano  di  Giusti- 
zia, quanto  il  commissario  del  Tribunale  della  fede.  Si  trat- 
tava allora  di  foro  misto:  forse  piìi  pericoloso  per  le  pene 
che  ne  derivavano  al  maledico. 

Una  delle  pene,  la  più  comune,  era  quella  del  collare: 

(i)  Nell'antica  legge  poi  c'era  la  morte  pel  bestemmiatore. 
Nel  Levitico...  si  legge:  Qui  blasphemaverit  nomen  Domini,  mor- 
te morietur,  lapidibus  opprimet  eum  otnnis  tnuUitudo  populi. 

(2)  Constitutiones  et  Decreta  condita  in  piena  Synodo  DiO' 
cesano  etc.   Cap.   II,   XXXVIII.   Panhormi,    1575. 

(3)  PiTRÈ,  Usi  e  Costumi,  v.  II,  pp.  411-12.  Palermo,  1889. 

(4)  Constitutiones  sinodales... 

156 


LO  SPETTACOLO 


arnese  di  Terrò  che  si  apriva  e  chiudeva  con  apposito  conge- 
gno in  tutto  e  per  tutto  simile  a  quello  dei  cani.  In  luoghi 
determinati  della  città  e  dei  piccoli  comuni  ne  pendeva 
sempre  uno,  che  formava  la  ignominia  di  chi  vi  fosse  coii- 
darmato.  La  privativa  di  siffatto  arnese  era  del  S.  U.; 
ed  una  volta  che  nel  1696  il  Vicario  foraneo  di  Mineo  a 
nome  del  Vescovi  di  Siracusa  ne  fece  piantare  uno  innan- 
zi la  sua  casa,  il  Commissario  del  S.  U.,  leso  nella  sua 
giurisdizione,  ne  fec^  formale  ricorso  all'Inquisitore  a  Pa- 
lermo; il  quale,  visto  e  considerato,  anche  per  testimonian- 
za di  vecchi  mineoti,  esser  quella  un  abuso,  intimò  al  Vi- 
cario di  ritirarlo  (i). 

Nel  1749  il  Viceré  de  Laviefuille  scriveva  al  S.  Uffìzio  in 
Palermo  avere  ordinato  al  Capitano  di  Giustizia  di  Sira- 
cusa di  riporne  subito  nei  consueti  luoghi  (2). 

In  qualche  terra  della  Contea  di  Modica  questa  berlina 
fissa  era  un  tormento  vero  e  proprio.  Chi  se  l'era  meri- 
tata, nudo  il  corpo  fino  alla  cintola,  veniva  unto  di  miele, 
legato  al  collo  ed  esposto  alle  mosche  od  ai  monelli  che 
si  divertivano  ad  ingiuriarlo.  Due  versi  d'un  canto  popo- 
lare di  quella  contrada  ricordano  ancora  la  vituperevole 
usanza,  durata,  come  punizione  parroccale,  sino  ai  primi 
dell'Ottocento.  I  versi  dicono  così: 

'Nfami,   'ca  fusti  misu  a  lu  cuddaru,  16 

Manciata   di  li   muschi  ppi   tri   uri  (3  ) . 

(i)    Ms.   Qq   F   239   della  Biblioteca  Com.    di  Palermo. 

(2)  24  giugno  1749.  Documenti  appartenenti  al  Tribunale 
del  S.  Officio  di  Sicilia,  voi.  I  Ms.  Qq  H  62  della  Bibl.  Cora,  di 
Palermo. 

(3)  S.  A.  GuASTELLA.  Canti  pop.  del  Circondario  di  Mo- 
dica,   p.    LXI,    Modica,    1876.    I    versi   si   traducono:    Infame    {  = 


SANT'UFFIZIO 

Ora,  poiché  la  bestemmia,  stolta  e  bestiale  offesa  alla 
Divinità,  era  frequente  anche  in  tempi  di  estremo  rigore 
religioso,  così  al  S.  Offizio  non  restava  se  non  tenere,  ap- 
punto per  questo,  frequenti  spettacoli.  Per  le  ereticali  nel- 
l'abiurazione  de  levi,  esso  conduceva  i  rei  con  la  mordac- 
chia (strumento  col  quale  serravan  la  bocca  ai  condannati 
perchè  non  parlassero),  poi  alla  pubblica  vergogna  e  da 
ultimo  mandava  all'esilio;  per  le  non  ereticali,  infliggeva 
pene  più  leggiere. 

Come  sempre,  esigeva  la  denunzia  e  scatenava  daper- 
tutto  i  suoi  segugi;  ed  i  bestemmiatori,  più  sciocchi  che 
malvagi,  facea  prendere  e  trascinare  alla  Steri.  Figurarsi  il 
terrore  loro!  Tremavano  verga  verga,  piangevano  implo- 
rando pietà  e  misericordia.  Molto  duramente  li  trattavano  gli 
Inquisitori,  ma  poi,  non  potendo  fare  altro,  li  rimettevano 
ai  confessori  in  S.  Domenico  (i)  :  provvedimento,  questo, 
per  altro  genere  di  delitti  non  gravi,  applicato  a  rei  pei 
quali  le  carceri  ordinarie  della  penitenza  non  bastavano. 

E  sì  che  il  Tribunale,  oltre  i  conventi  per  gli  uomini  (2) 
e  qualche  monastero  per  le  donne  di  non  modesta  leva- 
tura (3),  oltre  le  carceri  della  penitenza,  teneva  a  pigione 
case  private,  nelle  quali  chiudeva,  e  per  un  dato  periodo 
di  anni  o  di  mesi  istruiva  nella  religione,  i  colpevoli;  men- 
tre per  le  donne  del  basso  volgo  metteva  a  profìtto  gli 
spedali.  Suor  Francesca  Spitaleri  da  Bronte,  allucinata  a 


svergognato!)    il    quale    vanisti    al    collare,    punzecchiato    per    tre 
ore  dalle  mosche. 

(i)  Bertini,   op.   cit.,   pp.   494-95- 

(2)  Ms.   Qq  F.   239  della  Bibl.   Com.   di  Palermo. 

(3)  Vedi   nel  Ms.    Qq  F  239  cit.,   gli  Atti  pubblici   di   Fede 
degli  anni  1625,  n.  9;  del  1628,  nn.   13-16. 

158 


LO     SPETTACOLO 

tal  punto  da  credersi,  secondo  il  processo  letto  nel  pub- 
blico spettacolo  del  12  dicembre  1621,  ((  gran  serva  di  Dio, 
col  quale  parlava  »  ;  da  stare  25  giorni  senza  mangiare  e 
da  mangiare  solo  quando  G.  C.  le  disse:  surge  et  comede; 
da  affermare  esser  dovere  del  Papa  l'abitare  in  Palermo, 
venne  <(  risterrata  »,  condannata  a  sette  anni  di  reclusione 
servendo  in  uno  spedale.  Filippa  la  Calabria  da  Mon- 
reale come  superstiziosa,  nel  maggio  del  1624,  dopo  cento 
colpi  di  frusta  andò  reclusa  per  quattro  anni  in  un  noso- 
comio. Nel  1626  Filippa  Rizzo  da  Piazza,  nel  1628  An- 
tonella la  Ferlizza  da  Giuliana,  Francesca  la  Grigenta  da 
Noto,  Aldonza  de  la  Candia  da  Buscemi  e  Suora  Caterina 
Calandrino  da  Alcamo,  all'Ospedale  grande  e  nuovo  di 
Palermo 


15'^ 


Capitolo  IX 
PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 


RIMA  di  procedere  innanzi  mi  si  consen- 
ta qualche  osservazione  corroborata  da 
fatti  circa  i  privilegi  e  le  preminenze  del 
sacro  Tribunale  in  Sicilia. 
Instancabile  nel  pretendere,  esigeva 
franchigie  che  erano  offese  ai  diritti  comuni.  Il  petulante 
Bernal  volle  ma  non  ebbe,  né  altronde  poteva  averle,  lar- 
ghe esenzioni  di  gabelle  della  R.  Corte  e  della  Città,  non 
mai  state  concesse  a  nessuno  (i)  (1619).  L'Inquisitore 
Calvate,  Tristano  di  nome  e  di  opere,  ne  chiedeva  per  sé 
o  per  cinquanta  persone  del  suo  foro.  Ottenevale  e,  non 
pago,  tornava  a  chiedere;  e  per  dieci  altri  le  scroccava  (2). 
Era  lo  scasciatu  applicato  su  larga  scala  a  suo  uso  e  con- 
sumo. 

(1)  Vedi   Appendice. 

(2)  Archivio  Comunale  di  Palermo.  Atti,  Bandi  e  Provviste^ 
a.    1519-20.    Ind.   Vili,   f.   89. 


160 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

Anche  per  generi  voluttuari  reclamavano  quelle  fran- 
chigie; e  quando  il  Senato  per  amor  di  tranquillità  cercava 
di  sapere  il  numero  dei  foristi,  questo  si  ingrossava  a  sca- 
pito del  pubblico  erario  (i). 

I  giurati  portavano  a  denti  stretti  tante  pretese,  fino 
a  quella  di  un  quarto  di  giovenco  e  di  due  castrati  setti- 
manali con  la  priorità  del  servizio  su  tutta  la  cittadinanza 
al  privilegiato  Tribunale  (1530)  (2);  quando  però  le  pretese 
assumevano  carattere  di  imposizione,  negavano  e  se  ne  ri- 
chiamavano con  ambasciate  al  Viceré  PignatelU.  Ma  il 
S.  Uffizio  non  ammetteva  discussione  su  quello  che  cre- 
deva nel  suo  sacro  diritto;  e  lanciava  la  censura  sugli  stan- 
chi giurati.  Quale  fosse  stata  la  sentenza  del  Viceré  non  ap- 
pare, ma  può  indovinarsi  da  un  atto  notarile  della  pri- 
mavera del  1530  tra  i  Giurati  e  gl'Inquisitori;  col  quale 
non  a  tutti  ma  ad  alcuni  Ministri  venivano  concesse  le 
chieste  franchigie;  ed  allora  l'Inquisitore  capo  delegava  il 
Superiore  dei  frati  di  S.  Francesco  d'Assisi  dei  Chiovari 
a  togliere  la  zelante  censura  (3). 

Da  cosa  nasceva  cosa,  ed  il  S.  O.  la  governava.  Una 
beccheria  veniva  conceduta  ad  esso  dapprima  nel  Ca- 
stello, poi  nell'atrio  dello  Steri.  In  forza  d'un  contratto, 
un  tale  si  obbligava  a  macellare  un  giovenco  il  giorno  per 
servizio  dei  Signori  Officiali  (4). 

La  concessione  era  del  Comune,  che  però  premunendosi 
da  possibili  frodi,  metteva  come  condizione  che  il  giovenco 

(i)  Ms.   Qq   H   62. 

(2)  Arch.  Com.  di  Pai.  Atti  ecc.,  a.   1531-31.  f-  73- 

(3)  Archivio  Comunale  di  Palermo.  Atti,  Bandi  e  Provviste, 
a.    1829-30.   Ind.   Ili,   ff.    219-20. 

(4)  Atto  presso  Not.  Lorenzo-Trabona,  18  agosto  1616.  Ms. 
Qq  F  89. 

161 
U  —  G.  PITRÈ  •  Sont'UHlilo 


SANT'UFFIZIO 

doveva  entrare  da  Porta  Macqueda  ((  dalla  quale  entrano 
tutti  gli  altri  giovenchi,  con  la  presenza  del  giurato  priato,  a 
fine  di  riconoscersi  »  (i). 

Non  v'è  dubbio  che  i  Signori  S.  U.  si  trattavano  da 
gran  signori:  perchè  le  carni  non  facevano  per  loro.  Una 
multa  di  due  onze  (L.  25,50)  da  essi  imposta  ad  un  ma- 
cellaio fu  causa  di  una  nuova  rottura  col  Senato;  il  quale, 
mal  comportando  questa  loro  indebita  ingerenza,  invitato 
alla  lettura  dell'annuale  editto  di  fede  di  quaresima,  si  ri- 
fiutò di  prender  parte,  come  soleva,  alla  cavalcata.  L'In- 
quisitore Ludovico  de  los  Cameros,  poi  vescovo  di  Patti 
e  Arcivescovo  di  Palermo,  cercò  tutti  i  modi  di  farlo  inter- 
venire, ma  invano.  Allora  fece  capo  al  Viceré  S.  E.  Don 
Giovanni  Alfonso  Enriquez  de  Caprera,  Conte  di  Mo- 
dica, ma  non  potè  rimuovere  dal  suo  proposito  l'offeso  ma- 
gistrato. La  cosa  fu  portata  al  Re  a  Madrid.  In  quel- 
l'anno la  Sicilia  (fatto  quasi  unico)  ebbe  la  sventura  di 
due  Viceré  e  di  un  presidente  del  Regno;  e  quest'ultimo, 
Mons.  Giovanni  de  Torrecilla,  arcivescovo  di  Monreale, 
era  stato  sei  anni  Inquisitore.  L'Arcivescovo  non  poteva 
dimenticare  l'Inquisitore  e  le  sue  pratiche  alla  Corte  provo- 
carono un  rescritto  che  dava  ad  un  tempo  ragione  e  torto 
al  Senato:  ragione  perchè  l'Inquisitore  ne  aveva  usurpato  i 
poferi,  e  perciò  la  multa  andava  restituita,  torto  perchè  la 
offesa  ricevuta  non  poteva  dispensare  il  Senato  dai  do- 
veri di  urbanità  verso  il  S.  U.  (2);  teoria  degna  di  un 
Filippo  II,  che  non  riconosceva  dignità  nel  primo  magi- 
strato della  Capitale  di  Sicilia. 

Chi  si  fermi  per  poco  a  riflettere  sopra  le  antiche  Co- 

(i)  Ms.  Qq  F  39. 
(2)    Ms.    99    F.    239. 

162 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

stituzioni  del  Regno,  si  chiederà  sorpreso  come  mai  tutto 
questo  potesse  accadere  in  Sicilia;  ma  la  risposta  non  gli 
verrà  difficile  quando  si  pensi  alla  strapotenza  di  quel  Tri- 
bunale, derivante  parte  da  regi  editti,  parte  da  biechi  cri- 
teri di  applicazione  di  essi. 

Carlo  V  avea  per  due  volte  decretato  che  la  giustizia 
civile  prestasse  giuramento  di  aiuto,  consiglio  e  favore  ai 
ministri  del  S.  Uffizio  (i).  Aveva  fatto  insediare  nel  pa- 
lazzo regio  di  Palermo  i  capi  di  questo,  con  piena  li- 
bertà di  azione  e  di  opera  (2),  ed  aveva  ordinato  che  i 
suoi  ministri  dell'isola  non  osassero  impedire  a  quelli  l'eser- 
cizio del  loro  ministero  di  visite  e  di  perquisizioni  (3). 

E'  bensì  vero  che  in  tempi  anteriori,  presuntivamente 
meno  civili.  Federico  III  aveva  disposto  che  i  Giudei  di 
Siracusa  venissero  difesi  e  sostenuti  in  certi  loro  diritti 
dalle  pretenzioni  degli  Inquisitori  (1376)  e  che  Re  Martino 
e  il  Duca  di  Montblanc  avevano  scritto  (1393)  al  Capitano 
ed  ai  Giudei  di  Palermo  che  quegli  non  pormettesse  agl'In- 
quisitori della  eretica  pravità  di  molestare  questi  sotto  spe- 
ciosi pretesti.  Così,  fingendo  di  sospettare  di  cristiani  re- 
lassi, facevano  jjerquisizioni  e  commettevano  abusi  in- 
credibili (4).  Ma  nel  Cinquecento  quelle  lettere  erano  ca- 
dute in  dimenticanza,  ed  un  ciclone  era  passato  sulla  co- 
munità israelitica  dell'Isola. 

(i)  Granata,    15    giugno    1517;    Madrid,    16   giugno    1546. 

(2)  Barcellona,    20    maggio    15 19. 

(3)  Madrid,  15  agosto  1543.  Una  conferma  fu  fatta  da  Fi- 
lippo II  in  Madrid,  16  giugno  1546.  Franchina,  op.  cit.,  e.  XIV, 
nn.  6,  8,    11,    16,    18,    19. 

(4)  Lagumina.   Il  Codice   dei  Giudici,   n.   IXX,   pp.    99-100, 
n.    XCVII,    pp.    142-43. 

163 


SANT'UFFIZIO 

Figuriamoci  quindi  le  esorbitanze  degli  Inquisitori  ve- 
dendosi autorizzati  da  tre  regi  decreti!... 

I  re  di  Spagna  facevano  quel  che  volevano;  i  Viceré 
quel  che  potevano;  gl'Inquisitori  quel  che  volevano  e  quel 
che  non  potevano  né  dovevano,  se  pur  c'era  cosa  che  essi 
credessero  di  non  potere  né  dovere. 

Investiti  fin  dai  tempi  normanni  (1098)  della  aposto- 
lica Legazia,  i  Re  o  i  loro  Viceré  fungevano  da  legati  t 
latere  del  Papa.  H^ 

Orbene:  la  Inquisizione  siciliana  dipendeva  dalla  spa- 
gnuola:  il  che  la  metteva  alla  pari  dei  Viceré  come  legati 
spirituali  del  popolo.  La  osservazione  sembra  un  para- 
dosso, ma  chi  ne  studii  certi  particolari,  la  vedrà  contor- 
me al  vero. 

Quando  l'Inquisitore  capo  viaggiava  per  l'Isola,  oltre 
che  dai  familiari  andava  scortato  da  gente  d'arme  a  piedi 
ed  a  cavallo  come  un  gran  j>ersonaggio  del  Governo:  sLH 
parla  di  Viceré  che  avrebbero  consegnato  a  qualche  In-^P 
quisitore  (1546)  una  specie  di  credenziale,  in  virtù  della 
quale,  percorrendo  la  Sicilia,  lo  si  dovesse  gratuitamente 
«  ricevere,  onorare,  provvedere  »  anche  di  posate  {locan- 
de) e  altre  cose  necessarie,  come  se  fosse  il  Re  o  il  Viceré 
in  persona  (i). 

Oltre  gl'Inquisitori  ordinari,  invalse  l'uso  di  Inquisito- 
ri delegati  dal  S.  Offizio  centrale,  per  missioni  straordi- 
narie. 

Gli  scopi  di  queste  missioni  rimanevano  ignoti,  anche 
alle  alte  autorità  civili  ed  ecclesiastiche  della  Capitale; 
bastava  solo  che  li  sapesse  l'Inquisitore  capo.  C'era  della 


(i)   Documenti  cit.,  a.   1543. 
164 


( 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

Inquisizione  anche  in  questo,  ed  era  espediente  fondamen- 
tale pel  buon  funzionamento  della  istituzione. 

Il  delegato  viaggiava  da  gran  signore,  interrogava,  u- 
diva,  decretava  senza  dar  conto  a  nessuno,  non  sapendo 
e,  peggio,  fìngendo  di  non  sapere  che  per  antico  ordina- 
mento nessun  rescritto,  nessuna  provvisione  o  commis- 
sione, nessuna  bolla  potesse  riceversi  nel  Regno  ed  appli- 
carsi senza  approvazione  del  Viceré.  Se  l'uso,  o  m^lio 
l'abuso,  spiacesse  al  paese,  non  è  a  dire;  tanto  che  i  rap- 
presentanti di  questo,  ecclesiastici,  baroni  e  demanio,  nel 
generale  Parlamento  del  1520  chiesero  al  Re  (Carlo  V)  che 
qualsivoglia  delegato  del  S.  Offizio  venendo  in  Sicilia  pre- 
sentasse i  documenti  di  delega,  affinchè  si  sapesse  di  quale 
autorità  fosse  rivestito  e  si  risparmiassero  vessazioni  e  so- 
prusi contro  i  Siciliani  (i). 

Il  Re  promise,  ma,  come  di  consueto,  non  mantenne: 
e  i  delegati  continuarono  a  spadroneggiare  ed  a  vessare. 

Né  solo  il  Viceré  giurava  fedeltà,  aiuto,  favore  e  pro- 
tezione, ma  anche  il  Magistrato  Civico  della  Capitale,  nel 
Duomo  e  pubblicamente. 

Questo  giuramento,  fatto  la  prima  volta  nel  1488,  sot- 
to l'Inquisitore  Pietro  Ranzano,  non  bastava  agli  Inqui- 
sitori che  vennero  dopo;  ed  il  24  dicembre  del  1500  altro 
essi  ne  vollero;  e  Viceré,  Sacro  Consiglio,  Capitano  Giusti- 
ziere, Pretore,  Giurati  e  popolo  tutti  giurarono  in  mano 
del  nuovo  Inquisitore  nella  Cattedrale  (2). 

Ma  anche  questo  doveva  bastare.  Undici  anni  dopo 
giungeva  in  Palermo  un  nuovo  Inquisitore,  che  alla  igno- 
ranza della  storia  del  paese  univa  quella  dei  principii  di 

(i)    capitula  Regni  SiciUae  cit.,  t.  II,  cap.  CXXIX,  p.  98. 
(2)   Ms.  Qq  F  239  della  Bibl.  Com.  di  Palermo. 

165 


SANT'UFFIZIO 

buona  educazione.  D.  Alfonso  Bernal  pretese  un  nuovo 
giuramento,  e  come  se  avesse  da  fare  con  l'ultimo  dei  suoi 
feristi  inviava  un  birro  al  palazzo  del  Comune  intimando 
al  Pretore  che  in  un  dato  giorno  si  recasse  in  casa  di  lui 
per  giurare  la  difesa  della  Santa  Inquisizione,  pena  la  sco. 
munica.  Pretore  e  giurati  arsero  di  sdegno  a  tanta  inso- 
lenza; ed  in  quella  mandavano  il  Sindaco  a  far  le  loro 
rimostranze  allo  screanzato,  si  rivolgevano  al  Re  con  una 
energica  lettera  sostenendo  a  viso  aperto  i  diritti  della  Città 
e  le  prerogative  del  magistrato  di  essa  e  descrivendo  la 
inconsiderata  condotta  del  nuovo  arrivato  (i).  Contem- 
poraneiamente  scrivevano  al  Viceré  Don  Ugo  Moncada 
perchè  volesse  liberarli  da  tanta  molestia,  divenuta  ormai 
vessazione.  Supplicavano  si  compiacesse  toglierli  ((  di  tali 
affrunti,  perchè  essendo  complachiuto  in  onmi  modo  di 
tutti  quilli  così  (chi)  voli  e  su'  necessari]  a  qaista  Santa 
Inquisitioni,  chi  bisognu  è  viniri  ogni  jomu  cu  novi  do- 
mandi, che  poco  importano  a  lo  nicissario  di  detto  Santa 
Officio  e  donano  umbra  a  cui  concheda  honuri  e  statu  di- 
gnissimo  tanto  quanto  la  virtuosissima  pirsuna  di  Sua  M. 
Signoria  merita  »  (2). 

Non  ne  potevano  più,  ed  ebbero  resa  giustizia.  Il  Vi- 
ceré con  viva  rimostranza  fece  intendere  al  troppo  focoso 
inquisitore  in  quale  errore  egli  si  trovasse. 

I  Palermitani  erano  pei  loro  rappresentanti;  e  quando 
nel  medesimo  anno  si  celebrò  un  Atto  di  fede,  e  di  tre 
condannati  due  dovevano  essere  consegnati  per  esser  bru- 
ciati vivi  dal  Capitan  Giustiziere,  il  Barone  di  Giarratana 

(i)    Questa   lettera    è   conservata    nell'Archivio   Conwinale   ili 
Palermo    [Vedi  Appendice  I,   5]. 

(2)   Franchina,   op.  cit.,  cap.  XI. 

166 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

non  si  mosse,  e  quindi  il  supplizio  non  ebbe  luogo.  Gli  in- 
quisitori insorsero,  ma  il  popolo  li  tenne  a  dovere.  Allora 
essi  si  fecero  ragione  presso  il  Re  che,  sdegnato  al  paro  di 
loro,  da  Burgos  non  già  il  Capitano  ma  il  rappresentante 
della  città  rimproverò  pel  poco  rispetto  all'autorità  inqui- 
sitoriale,-  e  minacciò  l'invio  d'un  reggimento  per  impedire 
simili  ribellioni  (31  agosto  1512)  (i). 

Quando  la  soldatesca  minaccia  giungeva,  il  Bernal, 
vittima  della  sua  sconfinata  arroganza,  era  stato  richia- 
mato. 

Nonostante  che  passata  in  giudicato,  sempre  viva  e 
sempre  vessatoria  relativa  la  questione  del  giuramento. 
Nel  solo  mese  di  ottobre  del  1513  quattro  lettere  furono 
scambiate  tra  i  giurati  ed  il  funzionante  Viceré  D.  Bernardo 
Bologna,  Arcivescovo  di  Messina.  Essi  non  volevano  rin- 
novare il  giuramento  e  pregavano  il  presidente  del  Regno 
che  interponesse  i  suoi  buoni  uffici  acciocché  gl'Inquisitori 
non  li  obbligassero  a  tanto.  Il  presidente  mostrò  la  sua 
buona  intenzione,  ma,  se  non  in  iscritto,  deve  avere  rac- 
comandato a  voce  che  si  rivolgessero  agli  Inquisitori. 

Ebbene,  i  Giurati  furono  tanto  buoni  da  rivolgersi  agli 
Inquisitori;  ma  non  passarono  cinque  giorni  che  costoro 
risposero  al  Viceré  facendo  le  loro  meraviglie  e  dichiaran- 
dosi scontenti  delle  rimostranze  del  Senato  civico  (2). 

Correnti  così  forti  di  antipatia  a  quando  a  quando  si 
manifestavano  in  forma  pubblica  ed  anche  solenne  da  par- 

(i)  Atti,  Bandi  e  Provviste  della  città  di  Palermo,  anno 
1512-13,    I*  indizione,   f.   234  dell' Arch.   Comunale  di  Palermo. 

(2)  Atti,  Bandi  e  Provviste,  anno  1512-13,  indizione  14»,  19, 
24,  ottobre  1513,   pp.   228-230,   230  verso,   234. 

167 


W"  SANT'UFFIZIO 

te  dei  più  grandi  ed  autorevoli  rappresentanti  della  Capi- 
tale e  del  Regno. 

Documenti  solo  ora  scoperti  rivelano  che  il  15  febbraio 
del  1525  il  Senato  palermitano  mandava  ambasciatore  a 
Carlo  V  Giangiacomo  di  Bologna  con  accuse  formali  di 
prepotenze  e  di  abusi  del  S.  O.  impersonato  nel  famoso 
D.  Tristano  Calvete,  a  danno  di  pacifici  cittadini,  impu- 
tati di  eresie  da  occulti  nemici  e  da  troppo  scrupolosi  cri- 
stiani (i).  Altro  ne  mandava  il  Senato  di  Messina  al  Vice- 
rè  Pignatelli,  protestando  per  le  inqualificabili  ingerenze 
e  gli  aperti  abusi  nella  vita  tanto  religiosa  quanto  laica  e 
civile  della  città,  e  narrava  il  fatto  di  un  sacerdote,  vitti- 
ma delle  insidie  e  delle  prepotenze  del  sacro  Tribunale, 
che  accanivasi  nell'accusarlo  di  crimine  anti-religioso, 
mentre  le  prove  dicevano  ben  altro  e,  caso  mai,  dipendeva 
dal  foro  ecclesiastico  (2). 

Al  giungere  di  Carlo  V  in  Palermo,  vincitore  a  Tunisi 
(1535),  i  tre  bracci  del  Parlamento  (e  quindi  anche  lo  ec- 
clesiastico) fecero  a  lui  voto  che  volesse  decretare  la  so- 
spensione dei  privilegi  e  delle  franchigie  di  quel  Tribunale, 
e  vennero  esauditi.  Furono  cinque  anni  di  tranquillità 
pel  pubblico,  ma  di  depressione  morale  per  la  istituzione, 
la  quale,  a  giudizio  d'un  Inquisitore,  scese  straordinaria- 
mente in  discredito  e  raccolse  noncuranza  e  beffe.  Il  po- 
polo, istigato  dai  nobili,  ne  rideva  (3). 

La  sospensione  fu  prolungata;  ma  quando  nel  1543  un 

(i)  Atti,  Bandi  e  Provviste,  a.   1525-26.  Indiz.  XIV,  f.   126 
nell'Archivio  Com.   di  Palermo. 

(2)  Atti,  Bandi  e  Provviste,  a.  1529-30,  III  indiz.  f.   251-52. 
Archivio  cit. 

(3)  Franchina,   op.  cit.,  cap.  XI,  pp.   63-64. 


168 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

nuovo  decreto  fece  tornare  le  cose  allo  stato  primitivo,  il 
disprezzo  si  convertì  in  ammirazione,  le  beffe  in  laudi. 
Quei  nobili  che  si  erano  tanto  accaniti  contro  la  istituzio- 
ne, fecero  a  gara  nel  renderle  omaggio.  Così  ò  stato  sem- 
pre: disprezzare  chi  cade,  inchinarsi  a  chi  si  leva  e  vince. 

Molti,  moltissimi  si  ascrissero  come  familiari,  «  chi  mi- 
nistro, chi  ufficiale  di  quello,  accettando  a  grazia  il  par- 
tecipare la  croce  dispensata  dagli  Inquisitori  », 

Oh  sì!  i  reazionari  più  accaniti  sono  sovente  coloro  che 
furono  i  ribelli  più  audaci. 

La  lunga  sospensione  rese  impotenti  Arnaldo  Alberti- 
ni  (1534-36)  e  Diego  de  Oron  (1537-43),  inquisitori  solo  di 
nome;  e  preparò  aspra  la  ripresa  dell'esercizio  del  Tribu- 
nale. D.  Pietro  Gongora  (1643-46)  fece  pesare  con  nuovi 
abusi  sulla  società  del  tempo  la  sua  ingrata  autorità.  Era 
pur  sempre  il  Senato  il  suo  naturale  nemico,  l'istituto  pre- 
so maggiormente  di  mira;  e  di  esso  cercava  in  tutte  le 
maniere  di  sminuire  la  forza  ed  il  prestigio. 

Il  resto  andava  da  sé:  e  quei  signori  esercitavano  un 
governo  di  ferro  e  di  fuoco  dentro  un  governo  di  bamba- 
gia, asservito  a  quello.  Che  cosa  non  sì  permettessero 
perciò  e  dove  non  ispingessero  la  loro  autocrazia  non 
sapremmo  dire. 

Il  4  ottobre  1569  si  facevano  le  prove  della  tragedia 
di  Santa  Caterina  nella  Chiesa  di  Casa  Professa.  Era  in- 
quisitore D.  Giovanni  Bezerra,  il  quale,  come  uno  degli 
invitati,  andò.  Busso,  ma  non  fu  udito,  e  tornò  indietro 
sbuffando  e  minacciando.  Lo  seppero  i  Gesuiti,  e  corsero 
al  Palazzo  per  iscusarsi  e  dame  le  ragioni;  ma  il  Rever«i- 
dissimo  Inquisitore,  dopo  averli  condannati  a  limga  antica- 
mera, non  volle  riceverli. 

169 


SANT  UFFIZIO 

In  capo  a  tre  giorni  doveva  solennemente  rappresen- 
tarsi la  tragedia.  La  chiesa  era  gremita  di  spettatori:  il 
fiore  della  nobiltà  e  del  clero  d'allora;  e  si  attendeva  il 
Viceré.  Era  lì  lì  per  alzarsi  la  tela  quando  un  messo  del 
Bezerra  viene  premurosamente  intimando  ai  Padri  la  proi- 
bizione dello  spettacolo  sotto  pena  di  scomunica.  E  per- 
chè? perchè  la  tragedia  non  era  stata  ancora  approvata 
dal  S.  Uffizio.  Era  la  vendetta  d'un  malinteso,  tirato  alle 
più  dure  conseguenze  (i). 

Questo  aneddoto  concorre  a  chiarire  un  equivoco  stori- 
co. Molti  credono  che  i  Gesuiti  avessero  parte  allo  eserci- 
zio della  Inquisizione;  ma  s'ingannano.  I  Gesuiti,  almeno 
in  Sicilia,  non  furono  mai  nelle  buone  grazie  dei  rappresen- 
tanti di  quella.  Dai  documenti  che  ci  restano  risulta  che 
solo  una  volta,  uno  di  essi,  nel  1568,  fu  in  Ca- 
tania inviato  a  presenziare  un  blando  atto  di  fede  (2). 

Dopo  questa  essi  non  compariscono  mai,  o  compariscono 
solo  per  qualche  cosa  in  loro  disfavore  come  nella  tragedia 
di  Santa  Catarina  o  come  nei  rimbrocci  al  P.  Mancuso,  cri- 
tico spregiudicato  delle  anomalie  mentali  di  Frate  Ro- 
mualdo. 

Con  le  sconfinate  facoltà  che  loro  venivano  o  che  essi 
si  arrogavano  della  giustizia  primitiva,  gl'Inquisitori  ingal- 

(i)  Questo  racconta  il  Franchina,  IX,  73-75.  Ma  deve  es- 
servi un  errore,  o,  per  lo  meno,  una  grande  incertezza  di  data. 
In  vero  non  si  sa  vedere  di  quale  tragedia  di  S.  Caterina  inten- 
desse parlare;  se  della  priniitiva  del  Liceo  o  della  abbellita  dal 
Sirillo;  la  quale,  dicesi,  venne  rappresentata  a  spese  del  Senato 
di  Palermo  nel  1580  nella  Chiesa  dello  Spasimo.  Nel  1569  Casa 
Professa  non  avea  questo  nome,  e  non  era  stata  edificata  così. 
(2)    Cronaca  siciliana   del  sec.   XVI,    p.    223. 


PREPOTENZE   E    SCOMUNICHE 

luzzivano  con  minaccie  di  interdizioni.  Dal  più  umile  uf- 
ficiale dei  Tribunali  secolari  al  Presidente  della  Gran  Corte, 
ai  membri  del  Parlamento,  ai  Deputati  del  Regno  al  Viceré 
stesso,  gl'Inquisitori  non  guidavano  in  faccia  nessuno. 
Quando  c'entravano  le  loro  prerogative,  il  foro  ordinano 
doveva  andarsi  a  riporre,  e  nelle  questioni  dei  familiari  del 
S.  Uffizio,  la  loro  azione  era  fulminea  e  tagliente. 

Non  aveva  Carlo  V  sottratti  i  foristi  e  il  S.  Uffizio  ai 
giudici  laici  ordinari  ed  avocato  alla  Inquisizione  le  loro 
cause  civili  e  criminali  (i). 

Ebbene,  in  questa  sottrazione  era  la  prima  radice  di  de- 
litti e  di  impunità. 

Riferiamo  qualche  fatto  rimasto  ignoto  attingendo  a 
documenti  inediti;  e  cominciamo  con  uno  incredibile,  ma 
purtroppo  vero. 

((  Processo  ed  informazioni  contro  D.  Giov.  Taglia  via 
et  Aragona  Marchese  di  Terranova,  Presidente  del  Re- 
gno; D.  Fr.  del  Bosco  Lungotenente  di  Maestro  Giustizie- 
re (2)  e  D.  Mariano  Agliata  Capitano  nel  presente  a  no- 
me della  città  di  Palermo,  per  molti  eccessi  commessi  con- 
tro li  officiali  e  familiari  del  S.  O.  nel  1540,  essendo  Inqui- 
sitore Sebastian... 

«  Circa  questa  competenza  non  potendosi  accordare,  se 

(i)    Decreto    del    25    agosto    1525    da    Toledo    e    del    1546 
Franchina,  cap.  XIV.  n.  9,   18,  21. 

(2)  Vincende  dei  tempi!  Un  discendente  di  questo  Del  Bo- 
sco, Principe  di  Belvedere,  fu...  de  S.  U.  nel  sec.  XVII:  ed  un 
giorno  che  sotto  l'egida  del  sacro  Tribunale  commise  un  delitto, 
il  Viceré  D.  Giovanni  Paceno  Duca  di  Uzeda  lo  mandò  in 
bando.  Immagini  il  lettore  il  casus  belli  dell'Inquisitore  de  Tri- 
xillo,  uno  dei  cento  spagnuoli  che  regnavano  nello  Steri  (Vedi 
Ms.   Qq  F.   239  della  Bibl.  Comunale). 

171 


SANT'UFFIZIO 

ne  scrisse  dall' Inq.  al  Supremo  Inquisitore  ed  al  Re,  e  si 
procrastinò  sino  all'a.  1543,  dalli  quali  per  lettere  date  in 
Valladolid  si  determinò  1543  a  15  dicembre  che  al  M.se  di 
Terranova,  per  degni  rispetti,  s'imp)onga  per  penitenza 
che  assista  ad  una  messa  bassa  in  qualche  convento  della 
città,  in  piedi  senza  perucca,  e  con  una  candela  in  mano, 
e  che  pagasse  50  ducati  alli  detti  familiari  per  soddisfazio- 
ne dell'ingiuria  (i).  Agli  altri  s'imponga  pubblica  p)eni- 
tenza,  che  un  giorno  di  Domenica  assistano  ad  un  messa 
solenne,  scalzi,  senza  perucca,  con  candela  in  mano  e  che 
tutti  paghino  ciento  ducati  per  ripartirli  a'  familiari. 

((  L'adempimento  di  questa  penitenza  si  piocrastinò  si- 
no a  21  gennaio  1547,  fintanto  che  li  venne  ordine  premu- 
roso di  S.  M.  (1546)  (2t). 

«  D.  Mariano  Agliata  Barone  della  Roccella,  oUm  Ca- 
pitano di  questa  città,  per  molti  eccessi  fatti  contro  molti 
familiari  del  S.  U.,  ebbe,  come  si  è  visto,  il  :^uo  bravo  pro- 
cesso. 

((  Citato  a  comparire  alJ" Inquisitori,  i  quali  a  11  dicem- 
bre 1546,  usandogli  misericordia,  gl'imposero  di  sentire  la 

(i)  Il  Duca  di  Terranova,  Presidente  del  Regno,  mentre 
D.  Garzia  era  in  Corte,  col  parere  di  tutto  il  Consiglio  mandò 
in  galera  un  orefice  insolentissimo  (1543).  E  perchè  colui  era 
del  S.  U.,  gl'Inquisitori  dipinsero  U  caso  talmente  diverso  nella 
Corte  che  di  là  venne  l'ordine  che  l'orefice  fosse  liberato  subito; 
che  il  Duca  pagasse  200  scudi  di  sua  borsa  per  gli  interessi,  e 
di  più  che  facesse  qualche  penitenza  in  pubblico  che  dagli  In- 
quisitori gli  fosse  stata  imposta.  Scipione  Di  Castro,  Discorso 
circa  il  Governo  di  Sicilia  dato  al  Sig.  Marc'  Antonio  Colonna,  in 
Casazza,  Miscellanea,  t.  XXXIII,  Ms.  Qq  F.  123  della  Bi- 
bliioteca  Comunale  di  Palermo. 

(2)  Ms.    Qq   F   della   Biblioteca   Comunale. 


172 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

messa  grande  di  domenica  ventura  a  S.  Domenico,  o  in 
altra  ben  vista  all'Inq.,  al  diritto,  innanzi  la  cancellata 
dell'altare  maggiore,  senza  berretta,  con  una  torcia  allu- 
mata in  mano;  e  finita  detta  messa,  offerisca  la  detta  tor- 
cia al  sacerdote  che  celebrerà;  e  finita,  a  voce  alta,  dichia- 
rerà la  causa  per  la  quale  è  stato  condannato  alla  presenza 
di  tutti,  e  che  sia  per  sei  mesi  desterrato  da  questa  città. 
E  fu  assoluto  dalla  scomunica  maggiore  e  che  abbia  a  soddi- 
sfare li  danni  ed  interessi  patiti  da'  familiari  »  (i). 

Per  siffatti  esempi  resta  accertata  la  procedura  inqui- 
sitoriale  contro  alti  personaggi  che  menavano  la  mani  so- 
pra qualche  forista  del  Tribunale:  l'assistenza,  cioè,  ad 
una  messa  solenne  o  letta,  in  un  giorno  di  festa,  con  una 
candela  accesa  in  mano  e,  dove  il  S.  O.  lo  volesse,  a  pie- 
di nudi  e  da  ultimo  con  l'esilio  o  il  domicilio  coatto  tem- 
poraneo. 

Il  Capitano  di  Giustizia  di  Polizzi,  D.  Pompilio  Che- 
fallon  ebbe  in  Palermo,  ove  fu  chiamato  ad  audiendum 
verbum,  la  medesima  condanna  (2).  Consimile  sentenza 
venne  pronunziata  contro  D.  Carlo  Tagliavia  ed  Aragona 
già  conte  ed  ora  Principe  di  Castel vetrano,  il  quale  aveva 
il  torto  di  discendere  da  Giovanni,  notoriamente  avverso 
al  sacro  Tribunale;  suo  grave  delitto  l'aver  fatto  dare  al- 
cuni tratti  di  corda  e  mandare  in  galera  un  familiare,  Ant, 
Bertini,  accusato  di  resistenza  ai  birri  delle  G.  C.  (1568). 

D.  Giovanni  Bezerra  non  pronunziò  la  scomunica,  ma 
scrisse  al  Re  Filippo  I  ed  allo  Inquisitore  supremo,  ed 
il  IO  aprile  del  1568  il  supremo  Inquisitore  decretava  che 

(i)    Ms.    Qq  F   39. 

(2)    6  agosto  1562.  Ms.  Qq  F  39. 


SANT'UFFIZIO 

il  Presidente  (  =  Viceré)  Principe  di  Castelvetrano  venisse 
chiamato  e  ripreso  come  si  deve  dell'eccesso  che  commise, 
e  che  fosse  condannato  a  pubblica  penitenza  «  tenendo  con- 
to della  sua  persona»;  che  il  Bertini  venisse  indennizzato 
dal  Presidente  con  200  scudi,  e  restituito  a  libertà  (i). 

Ripreso!  Né  valse  a  lui  la  stima  ond'era  universalmen- 
te circondato  né  l'alta  dignità  di  Presidente  due  volte  te- 
nuta, a  lui  futuro  grande  Contestabile  e  grande  Almirante 
del  Regno,  Governatore  dello  Stato  di  Milano,  Viceré  di 
Catalogna.  Presidente  del  Consiglio  d'Italia  per  Filippo 
III,  Rappresentante  del  Re  di  Spagna  per  la  Lega  coi 
Cantoni  Svizzeri  prima;  e  poi  e  sempre,  uomo  singolare 
per  avvedutezza  politica  e  prudenza  di  governo. 

Le  persone  maggiormente  esposte  ai  fulmini  inquisito- 
riali  erano  appunto  i  tutori  ordinari  della  pubblica  sicurez- 
za, irrisione  a  quella  che  si  chiamava  Giustizia!  Non  po- 
chi Capitani  giustizieri  infatti  erano  per  ragione  d'ufficio 
alle  prese  con  la  necessità  di  mettere  le  mani  sopra  foristi 
riottosi,  malvagi;  ed  ecco  il  sacro  Tribunale  intervenire 
a  favor  loro  con  le  armi  potenti  della  scomunica.  Oltie 
l'Agliata  ed  il  Bosco,  D.  Pietro  de  Prado,  nella  qualità  di 
Capitano  della  città  e,  già  prima,  ufficiale  del  S.  U.,  carcerò 
un  familiare  di  questo  e  vi  guadagnò  il  carcere  di  Castel- 
lamare  (Palermo)  (1571);  e,  peggio,  D.  Ludovico  Spata- 
fora  ed  il  Salazar,  capitani  entrambi,  fan  catturare  alcuni 
agenti  di  quello  e  vengon  presi  e  condotti  anche  loro  nelle 
carceri  del  sacro  Tribunale!  (8  maggio  1577)  (2). 

(i)  Ms.  Qq  F.  39.  Scipione  de  Castro  nei  suoi  Avverti- 
menti al  Viceré  Marcantonio  Colonna  (1577)  [loc.  cit.]. 

(2)  Varietà  palermitane,  in  M.  Eff.  sic.,  serie  III,  v.  Vili, 
p.    177,   Pai.    1878. 


174 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

Al  carcere  teneva  triste  e  paurosa  compagnia  la  multa 
e  la  interdizione,  pena  spirituale  temibile  e  più  di  qualun- 
que altra  corporale. 

La  minima  offesa  alla  istituzione  finiva  con  una  o  con 
tutte  queste  pene.  Francesco  Paracontato,  Dottore  in  Leg- 
ge, in  un  impeto  d'ira  ferì  in  Siracusa  un  ufficiale,  e,  sco- 
municato, veniva  chiuso  nel  Castello  di  Maniace.  Per  co- 
se da  nulla,  per  aver  cioè  espresso  opinioni  non  benevole 
al  S.  U.  Nicolò  Romolo,  era  imprigionato  e  multato  di  20 
ducati  d'oro  (13  set.t  1538);  meno  esperto  e  fortunato  di 
quel  tale  che,  dopo  di  aver  battuti  due  ufficiali  si  metteva 
in  salvo  in  BarKeria  (30  ott.  1539). 

Due  messinesi  A.  B.  Basilico  e  N.  A.  Di  Bartolo,  sco- 
municati in  contumacia  per  aver  insultato  un  ufficiale,  at- 
territi, si  presentarono  all'assoluzione,  pagando  per  sopras- 
soldo la  pena  di  onze  200  (12  giugno  1543)  (i). 

Nelle  Istruzioni  del  Supremo  Inquisitore  del  1525,  testé 
venute  alla  luce,  e  qui  ripetutamente  citate,  si  faceva  la 
dolorosa  constatazione  che  nell'ultima  visita  del  Cervera  in 
Sicilia  erano  state  fatte  resistenze  ed  ingiurie  ai  ministri  ed 
agli  ufficiali  del  S.  O.  senza  punizione  dei  colpevoli;  e  si 
insisteva  appunto  per  le  necessarie  pene  (2).  A  questa 
osservazione  devesi  la  condotta  irritabile,  ed  i  facili  risen- 
timenti degli  Inquisitori  ad  ogni  cosa  che  a  loro  sembras- 
se lesiva  delle  loro  maestà.  Può  ben  darsi;  ma  anche  senza 
di  questo,  essi  si  impermalivano  d'ogni  nonnulla  e  non  ave- 
vano bisogno  di  eccitamento  per  reagire  ad  ogni  passo 
fuori  di  regola  o  di  diritto  per  loro. 

(i)    Ms.   Qq  F  239- 

(2)    Lea,  op.   cit.,  p.   522. 


SANT'UFFIZIO 

Ludovico  Spatafora  da  Capitan  giustiziere,  per  non  so 
che  delitto,  fa  arrestare  alcuni  agenti  del  S.  Uffizio,  ed  il 
S.  Uffizio  fa  arrestare  lui  (8  maggio  1577),  capo  della  giu- 
stizia della  Capitale  (i). 

L'Inquisitore  decreta   (26  nov.   1583)  la  cattura  d'un 
certo   Braccalone,   cavaliere  di  Malta  e  fratello  del  cop- 
piere del  Viceré.  Il  Braccalone,  aiutato  da  alcuni  della  via 
Loggia,  fugge;  e  quello,  pieno  di  rabbia,  monta  in  carrozza, 
corre  alla  Loggia,  anima,  esorta  il  popolo  a  dar  aiuto  al 
S.  Uffizio  per  la  cattura.  Entrato  in  una  bottega  dov'è  na- 
scosto il  Braccalone,  lo  arresta  personalmente.  Grande  ru- 
more di  questo  fatto,  la  notizia  ne  giunge  tosto  al  Viceré, 
che  sta  a  udir  messa  nella  vicina  chiesa  di  Piedigrotta. 
Egli  ordina  che  l'Inquisitore  attenda  un  poco,  sino  alla] 
fine  della  messa,  ma  il  S.  Uffizio  non  dipende  dal  Viceré;-] 
e  l'Inquisitore  si  parte  senz'altro,    conducendo  nella  sua] 
carrozza  prigioniero  il  Braccalone.  E  già  si  avvia  al  Castel- j 
lo  a  mare  quando  s'incontra  col  Viceré.  S'impegna  un  al- 
terco, presente  gran  folla;  e  poiché  l'Inquisitore  ribelle  aliai 
suprema  autorità,   ordina  al  cocchiere  che  sferzi  verso  il 
Castello,  il  popolo  ferisce  alle  gambe  le  mule,  e  la  carroz- 
za inquisitoriale   non  può   più  andare   avanti.    Il   Viceré] 
prende   riluttante  nella   sua  l'Inquisitore   e  il   Braccalone 
e  li  porta  al  Castello,  ove  incollerito  consegna  il  Cavaliere 
esclamando:  Ecco  l'eretico!  e  si  parte»  (2). 

Questa  narrazione  vien  fatta  da  un  Inquisitore,  il  qua-] 
le  incosciente  nel  vantarsi  della  fierezza  inquisitoriale  non] 

(i)   Pollaci    Nuccio.    Varietà   palermitane,    in   Nuove   Effe-i 
tneridi  sic.,  serie  III,  v.  VII,  p.   177.  Pai.   1878. 
(2)    Franchina.   XI,   76-77. 


176 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

vede  nella  ferizione  delle  mule  l'avversione  del  popolo  pei 
l'odiato  Tribunale  e  le  simpatie  per  l'imputato  e  pel  suo 
alto  difensore. 

Questa  avversione  aveva  esplosioni  violente  ogni  volta 
che  una  ventata  di  furore  la  spingesse  alla  riscossa  ed  alla 
rivendica;  ed  una  pagina  di  questo  studio  ne  è  docu- 
mento (i). 

Eran  passati  dieci  anni  dal  fatto  dello  Spatafora,  ed 
altro  simile  ne  accadeva  nelle  vicinanze  della  chiesa  della 
Gancia. 

I  signori  Inquisitori  interdissero  il  Salazaro  ed  altri  due 
che  avean  messo  le  mani  sul  forista  del  S.  Uffìzio.  La  chie- 
sa venne  pure  interdetta,  e  gli  uffici  divini  si  celebravano 
a  porte  chiuse;  e  quando  la  interdizione  fu  tolta,  coloro  che 
aveano  osato  arrogarsi  la  facoltà  contro  gli  agenti  del  S.  Uf- 
fìzio, vennero  senz'altro  condotti  nel  carcere  inquitoriale 
al  Castello  a  mare  (2). 

Due  anni  ancora  ed  un  altro  incidente  prese  tali  propor- 
zioni che  la  città  tutta  ne  risentì  conseguenze  lacrimevo- 
lissime. 

Lo  racconto  sulla  fede  d'un  Inquisitore  del  settecento, 
il  canonico  Franchina. 

II  5  aprile  del  1590,  fu  ucciso  Giuseppe  Bajola,  solle- 
citatore fiscale  della  R.  G.  C.  Ne  fu  imputato  il  Conte  di 
Mussomeli,  familiare  del  S.  U.,  e  carcerato  dagU  Inquisi- 
tori al  Castello.  Saputolo  il  Viceré  Conte  d'Alba,  spedì  il 
Capitano  della  Guardia  con  soldati  alabardieri  a  prenderlo 
ed  estrarlo  dal  Castello.  Ricordiamoci  che  allora  il  S.  U. 

(i)    Vedi  Capitoli   X  e  XI. 

(2)     Pollaci  Nuccio,   pò.  cit.,   p.    199. 

177 
12  -  6.  PIT&È  ■  Sant'UHizlo 


SANT'UFFIZIO 

avea  sua  sede  proprio  a  Castello  a  mare,  dove  pure  avea 
le  carceri.  Il  Castellano  lo  fece  scendere  e  lo  consegnò  al 
Capitano,  che  lo  portò  via  in  carrozza.  Venuto  ciò  a  cono- 
scenza degli  Inquisitori,  che  erano  a  pranzo,  scesero  ad  im. 
pedire  la  uscita  del  loro  famigliare,  che,  condotto  fuori,  ven- 
ne carcerato  a  vita  nel  Palazzo  reale.  Scomunica  del  Capi- 
tano, del  Castellano  e  di  tutti  gli  aiutatori,  con  minaccia  di 
interdetto  di  Palermo,  se  il  Conte  non  fosse  stato  restituito. 

Il  Conte  non  fu  restituito;  ed  allora,  affissati  i  cedolon 
della  scomunica  coi  termini  dei  sacri  canoni,  il  6  fu  lanciato] 
l'interdetto  alla  città;  chiuse  le  chiese  tutte,  senza  celebra- 
zione di  messe,  senza  prediche,  senza  suoni  di  campane, 
senza  pompe  funebri;  solo  un  prete  della  parrocchia  coli 
croce  disalberata,  senz'asta,  accompagnava  i  morti  alla  se-j 
poltura     Aggiungi:   nessuna  barca,   per  ordine  dell' Inqui 
sitore,  potea  uscire  dal  porto. 

Che  fare? 

Fu  necessario  che  gli  arcivescovi  di  Palermo  e  di  Mon 
reale  insieme  col  Pretore  andassero  a  pregare  gli  Inquisì-; 
tori  perchè  desistessero  dalla  risoluzione  presa.  Gli  Inquisi 
tori  (era  tra  essi  il  famoso  De  Paramo)  cedettero,  ma  il 
Presidente  Rao,  l'Avvocato  fiscale  della  G.  C,  ed  i  Pr 
curatori  fiscali  ed  il  Segretario,  per  pubblico  editto  deglf 
Inquisitori,  non  poterono  entrare  in  chiesa  e  comunicarsi. 

II  Viceré  dovette  restituire  (ii  aprile)  il  Conte  di  Mu 
someli,  e  la  bufera  cessò  (i). 

Fu  detto  che  i  delinquenti  ed  i  nobili  che  avevano  qual- 
che conto  con  la  giustizia  ordinaria,  andavano  ad  iscriversi] 

(i)    Franchina,    XI,    pp.    79-80. 
178 


I 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

a  quel  Tribunale,  e  ne  godettero  il  foro  e  col  foro  la  proie- 
zione piena  ed  illimitata  ed  estesa  anche  alle  mogli  (i). 

Di  questa  bruttura  dava  ragione  al  futuro  Viceré  M.  A. 
Colonna  il  citato  De  Castro: 

«  Nel  Regno  di  Sicilia  »,  egli  scriveva,  «è  stato  introdot- 
to da  molti  anni  il  procedere  contro  ogni  corte  di  rei  cri- 
minali con  quel  modo  che  prima  s'usava  co'  soli  grandi  e 
famosi  delinquenti,  ed  essi  chiamano  procedere  ex-abrupto, 
cioè  il  tormentare  il  reo  per  il  processo  informativo  prima 
che  se  gli  dia  la  copia  degl'indizi,  cosa  sommamente  abor- 
I  rita  nel  Tribunale  del  S.  O.  Si  cerca  in  Sicilia  d'entrare  nel 
i  numero  di  quelli  (cioè  dei  familiari  del  S.  O.)  con  desiderio 
I  incredibile,   credendo  chi  è   giunto   a  quel  segno  d'essere 
!  affatto  libero  d'ogni  timore  di  giustizia,  tanto  si  assicurano 
i  di  poter  provare  quel  che  vogliono  se  son  posti  prima  a  di- 
!  fensione  che  a  tormenti. 

«  Or  li  Viceré  sentono  sopra  modo  il  vederne  fare  tanto 
gran  numero,  perchè  ce  ne  sono  cavalieri,  mercanti,  baroni, 
ed  artigiani,  villani  e  d'ogni  spezie  maggior  quantità  di 
quella  che  bisognerebbe  per  il  servizio  del  S.  O.;  li  quali 
familiari  tanto  insolentemente  si  servono  di  quella  esenzio- 
ne dal  Tribunale  regio  che  sempre  sono  gli  autori  de'  mag- 
giori e  più  temerari  delitti  che  si  commettono  »  (2). 
j  E  le  istruzioni  dell'Inquisitore  supremo  del  1525,  vole- 
vano «  che  i  familiari  siciliani  fossero  persone  virtuose, 
quiete,  pacifiche  e  buone  e  che  il  loro  numero  non  fosse 

(i)  Viceré  M.  A.  Colonna,  nel  1580.  Fu  da  costui  mossa  la 
questione  se  anche  le  mogli  dei  familiari  dovessero  godere  dei 
beneficii  del  Foro.  Il  Tribunale  mise  il  mondo  a  rumore!  Ms. 
Qq  F  239  della  Bibl.  Comunale. 

(2)    Ms.    citato  Qq  F.    123  della  Biblioteca  Comunale. 


179 


SANT'UFFIZIO 

superfluo  perchè  non  si  avesse  giusta  ragione  di  qu( 

le  »  (I). 

Lasciamole  stare  negli  archivi  queste  ed  altre  pr€ 

zioni. 

L'anno  1512  scorazzava  in  un  fondo  del  D.r  de  Julien, 
in  non  so  qual  campagne,  una  banda  di  ladri;  ed  il  Capi- 
tano della  terra  riuscì  a  prenderne  parecchi,  mentre  gli 
altri,  avvertiti  in  tempo,  fuggirono.  Chi  non  ne  sarebbe  ri- 
masto contento?  E  tutti  lo  furono,  meno  il  S.  U.,  il  quale 
inflisse  la  censura  al  Capitano,  solo  perchè  il  D.r  de  Julien 
era  ufficiale  del  Tribnale.  Si  noti:  che  l'arresto,  rispet- 
tando lui,  lo  liberava  da  malfattori  volgari.  Il  piccolo  inci- 
dente divenne  affare  di  Stato  con  l'intervento  personale 
del  Re.  Ferdinando  II  non  poteva  non  difèndere  e  sostene- 
re i  suoi  ben  amati  inquisitori;  eppure,  sdegnato  del  cat- 
tivo comportamento  loro  in  cosa  di  tanta  evidenza,  scrisse 
loro  molto  severamente.  «  Se  il  D.r  de  Julien  »,  scriveva, 
((  è  ufficiale  del  S.  U.,  non  esigerà  certamente  che  dei  la- 
droni godano  la  esenzione  ed  i  privilegi  del  foro,  special 
merite  trattandosi  di  persone  di  mala  vita.  E  però  è  nostra 
volontà  che  il  S.  U.  non  s'intrighi  in  siffatte  persone.  In 
questi  giorni  (il  Re  scriveva  il  25  ottobre)  un  malfattore 
mise  le  mani  nella  cassa  del  S.  U.  Il  capitano  intervenne 
contro  di  esso,  ed  il  S.  U.  alla  sua  volta  intervenne  a  mano 
armata  in  difesa  del  malfattore.  Le  son  cose  codeste,  scan- 
dalose da  non  potersi  portare  con  pazienza;  molto  più  che 
riescono  di  mal  esempio  alla  Dogana,  ove  non  si  vogliono 
pagare  i  diritti. 

«  Ora  è  mestieri  che  il  personale  si  emendi  e  cessi  dai 

(i)    Archivio  di   Simancas:    Lea,    p.    521. 

180 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

disordini;  altrimenti  il  Viceré  sarà  costretto  a  provare  che 
gli  ufficiali  del  S.  O.  debbono  vivere  religiosamente,  e 
cessare  da  ogni  maniera  di  scandali:  unico  espediente  per- 
chè la  S.  I.  sia  pili  onorata  e  ricercata  »  (i). 

Ragione  di  sfacciata  audacia  era  la  sua  immunità  ar- 
mata. Immunità  dal  foro  ordinario,  che  non  poteva  im- 
mischiarsi dei  fatti  di  essa;  armata,  perchè  nobili  e  non 
nobili,  agenti  del  S.  O.  erano  dagli  Inquisitori  autorizzati 
a  portare  armi.  Potrebbe  osservarsi  che  non  ce  n'era  bi- 
sogno, specie  quando  il  Tribunale  avea  sede  nei  medesimi 
luoghi  del  Viceré,  come  di  frequente  avveniva,  nei  primi 
tempi  della  istituzione;  ma  quei  signori  amavano  circon- 
darsi di  una  legione  di  familiari;  ed  il  conceder  grazie  era 
soddisfazione  di  chi  se  ne  arrogava  la  facoltà;  come  l'a- 
verne concedute,  piacere  di  chi  ne  veniva  privilegiato: 
tanto,  l'arme  in  Sicilia  fu  sempre  attrattiva  irresistibile,  par- 
ticolarmente pel  volgo.  Ed  i  permessi  d'arme  ai  forensi  pio- 
vevano senza  distinzione  di  persone,  di  luoghi  e  di  ore;  e 
fino  i  più  bassi  fondi  della  società,  sotto  le  insegne  dei 
Quintavilla  e  degli  Aedo,  dei  Paramo  e  dei  ToressUla  e  di 
cento  altri,  braveggiavano  per  città  e  terre,  misfacevano 
nelle  campagne  contro  le  proprietà,  le  persone  e  la  pub- 
blica sicurezza. 

((  In  la  concessione  di  li  armi  che  fa  lo  Inquisituri  et 
lo  algozirio  di  lo  dicto  S.  O.  )),  scriveva  il  Parlamento  del 
1520,  «  si  fanno  molti  abusi  tanto  per  darisi  larga  licentia 

(i)  Archivio  di  Simancas,  Inqtàisicion.  lib.  Ili,  f.  202: 
Lea,  The  Inquisicion  in  the  Spanish  Dependencies,  pp.  516-17. 
New  York,  Macmillan,  1908. 

181 


SANT'UFFIZIO 

di  portali  armi  quanto  per  darisi  a  persuni  rivultusi,  che  ■ 
andavano  di  noeti,  senza  fari  exercitio,  né  servito  alcuno  di 
noeti  per  lo  dieto  S.  O.;  di  undi  notino  multi  scandali  et 
inconvenienti  di   sarvitio  et  disturbo   di  lo   quieto  viveri 
del  Regno  »   (i). 

Vennero  le  Concordie  ed  anche  queso  abuso  ebbe  il  suo 
seguito  fino  all'ultima  decrepitezza  del  Tribunale.  Non  si 
crederebbe!  Nel  1732  il  Viceré  De  Cordova  consentiva  che 
i  foristi  portassero  armi  per  servizio  del  loro  Tribunale  (2). 
Ma  dove  cominciava  e  dove  finiva  il  servizio?  ^^ 

Altro  grave  abuso  era  il  comperar  credito  di  baronij^| 
quali  non  poteano  o  non  volevano  pagare,  ed  essi  lo  risco- 
tevano  sottoponendo  i  debitori  alla  giurisdizione  del  loro 
foro  (3).  Ed  altro  ancora  era  il  commerciare  con  persone 
di  buona  fede,  estranee  al  foro  privilegiato.  Nella  loro 
indipendenza  dai  TribunaU  ordinari  presumevano  che  con- 
trattando con  queste  persone,  difficilmente  sarebbero  stati 
raggiunti  e  costretti  a  mantenere  gl'impegni.  La  loro  im- 
munità, che  parte  avevano,  parte  assumevano,  mettevali  al  \ 
coperto  dalla  traseuranza  di  doveri  sorgenti  da  atti  privati 
e,  più  che  da  questi,  dai  pubblici.  Così  frodavano  lo  Stato 
e  con  lo  Stato  i  contraenti.  Alla  fin  fine,  che  danno  sarebbe 
venuto  ad  essi?  un  ricorso  al  loro  Tribunale;  ma  prima  di 
riuscire  a  questo  quante  pratiche  avrebbero  dovuto  farsi?  e, 
fatte,  chi  avrebbe  assicurata  la  parte  avversa  d'una  vitto- 
ria in  foro  del  S.  U.  o  non  piuttosto  chi  ne  avrebbe  avuto 

(i)    Capitula  Regni  Sicilia,   t.   I.   cap.   C  II,   pp.   582-83. 

(2)  Gervasi,  Siculae  Sanctiones,  v.  II,  p.  344. 

(3)  A.  Battaglia,  L'evoluzione  sociale  in  rapporto  ali» 
prietà  fondiaria  in   Sicilia,   p.    49.   Palermo,    Reber,    1895. 

182 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

travagli,  spese  ed  interessi,  come  ordinariamente  li  a- 
vea?  (i). 

V'era  tanto  di  elastico  nelle  Concordie!  e  si  prestavano 
esse  a  tanti  cavilli! 

Il  caso  del  Conte  d  Mussomeli  è  un  esempio  tipico 
della  immunità  degli  agenti  della  Inquisizione,  che  ha 
perfetto  riscontro  in  un  altro,  divenuto  unico  del  genere 
a  cagione  della  indipendenza  mostrata  da  un  Viceré. 

Non  ispiaccia  al  lettore  la  testuale  narrazione  siciliano- 
italiana  che  ce  ne  lasciò  un  diarista  contemporaneo  (12  di 
giugnetto  (luglio)  1602  (2),  mercori,  havendo  la  G.  Curti 
sbandatu  {bandito)  a  il  Sig.  D.  Mariano  Agliata  familiari 
del  Santo  Offìtio  et  havendosi  detto  signore  appresentato 
in  poteri  dell' 111.  mi  signuri  Inquisituri,  cioè  Palm  oda,  A- 
gliach  et  Oglio  {de  Hoyo)  e  detti  Inquisituri,  havendo  man- 
dato li  monitori]  alla  G.  C.  che  li  cangellassiro  {affinchè 
cancellassero)  il  bando  e  mandassero  l'informazioni,  della 
G.  C.  non  li  obidiu;  et  havendo  detti  signuri  Inquisituri 
scomunicato  detta  G.  C,  e  perchè  detta  G.  C.  volia  esseri 
assoluta  e  non  volia  cancellare  detto  bando,  né  mandarli 

(i)  Capitula  Regni  Siciliae,  a.  1520,  cap.  LXXXI,  t.  I, 
pp.   99-100. 

(2)  Questa  data  conferma  che  il  S.  U.  era  già  nel  Palazzo 
Chiaramonte  dove  finì,  passatovi  senza  una  consegna  in  regola 
del  fabbricato,  che  solo  nel  1605  fu  fatta. 

Siamo  in  luglio  del  1602,  e  già  due  mesi  prima,  il  5  maggio, 
un  cronista  scriveva:  '(  Atto  di  fede  alla  Cattedrale.  Vi  fu  ca- 
valcata. Gl'Inquisitori  furono  accompagnati  dal  Senato.  Paramo 
(Inquisitore)  non  v'intervenne  perche  si  trovava  infermo.  In 
questo  tempo  non  erano  ancora  trasferite  le  carceri  nello  Steri 
ma   ancora   erano   nel   Castello;    infatti   da   esso   uscirono  ».    (Ms 

Qq  F.  239). 

183 


SANT'UFFIZIO 

l'informazioni,  andaro  dove  (da)  lu  Ill.mo  e  Rev.  signor  D. 
Didaco  di  Aedo  nostro  Arcipiscopo  di  Palermo,  e  li  absolvio. 
E  detti  signuri  Inquisituri  scomunicarono  a  detto  Arcipi- 
scopo et  suo  Mastro  notare.   Sapendolo  la  eccellencia  del 
Duca  di  Feria  visare   (viceré),  chiamao  du  compagni]  di 
Spagnoli  e  il  Fiscali  Buttuni  e  mandàuli  alla  casa  di  detti 
Inquisituri  con   comandamentu  che  quanto  familiari  tro- 
vassiru  in  detta  casa  del  S.   Offìzio,   tutti  li  impendissiro 
(appiccassero);   e   detti   Sig.    Inquisituri   fecero   serrare   li 
porti  delli  casi,  quali  eranu  alla  Dogana  dove  è  lu  Steri;  e 
detti  sig.   Inquisituri  si  affacchiaru    (affacciarono)  alli  fi- 
nestri,   e  scomunicaru  a  detti  soldati,   quali  erano  con  li 
archibuxi  parati  e  li  mechij  (le  micce)  allumati  con  la  mira, 
e  detti  sig.   Inquisituri  quali  dalla  finestra  scomunicarono 
tanto  detti  soldati  quanto  ancora  a  cui  ci  dava  ajuto;  e  detti 
soldati  pigliare  un  travo  e  (con  esso)  li  gettare  li  porti  in 
terra;  e  trasie  (entrò)  il  fiscali  Buttuni  con  Gievannello  Ma- 
gliocco  cenestabile  majure  della  G.  C;  con  il  Beja  con  li 
chiachi  (nodi  scorsoi)  in  ordine,  e  non  trovare  a  nixunò 
familiare;  e  perchè  di  pei  detti  soldati  vdiaro  essiri  assoluti, 
e  detti  sig.  Inquisituri  voliano  che  lassassire  li  armi,  detti 
soldati  non  li  voliare  lassari,  anzi  misire  di  nuovo  di  meschij 
alli  serpentine,  e  detti  Inquisituri  li  dissire  si  voliano  essi- 
ri assoluti,  calassiro  li  buchi  (le  bocche)  delli  arcabuxi  in 
terra;  e  così  fecero,  e  detti  Inquisituri  li  assolvere  della 
(dalla)  finestra;  e  detti  soldati  sindi  (se  ne)  andaro:  e  così 
detta  G.  C.  li  cassae  il  bando  e  li  mandao  l'informazio- 
ni »  (i). 

(i)    Pollaci    Nuccio,    Varietà   palermitane;   in   Nuove   Effe- 
meridi sic.,  serie  III,  v.  Vili,  pp.  37-38. 

184 


PREPOTENZE    E    SCOMUNICHE 

La  citazione  è  stata  lunga,  ma  buona  ad  ammaestrarci 
che  gl'Inquisitori  non  transigevano  sul  loro  diritto  di  sco- 
municare e  di  non  vedere  ricomunicata  la  persona  scomuni- 
cata da  loro.  Era  legge  inviolabile,  come  abbiam  detto,  che 
non  potesse  l'ordinario  assolvere  lo  scomunicato  del  S.  Uf- 
fizio (i).  L'Arcivescovo  di  Palermo,  interdetto  dall'Inqui- 
sitore, è  una  curiosità  storica,  ma  tutt'altro  che  unica, 
se  il  Vescovo  di  Girgenti  nel  1642  e  prelati  capi 
di  diocesi  incontravano  la  medesima  sorte.  Fuori  Regno  si 
annoverano  l'Arcivescovo  di  Toledo,  D.  Bartolomeo  Ca- 
ranza,  che  moriva  a  73  anni,  dopo  averne  passati  18  in 
piena  reclusione  (1576);  un  Vescovo  di  Cartagine,  un  altro 
di  Valladolid,  uno  di  Siviglia;  ed  altri  della  più  alta  pre- 
latura. 

Gl'Inquisitori  di  Sicilia,  come  di  Spagna,  potevano  as- 
solvere dall'eresia  non  solo  in  foro  giudiziale  ed'  estemo,  ma 
anche  il  foro  interno  di  coscienze;  e  ciò,  secondo  alcuni, 
per  isp>ecial  privilegio,  secondo  altri  per  uso  e  consuetuai- 
ne  secondo  altri  ancora  per  un  tacito  consenso  del  quale 
però  non  si  ha  documento  della  S.  Sede. 

Né  era  necessario  che  l'Inquisitore  fosse  un  sacerdote; 
perchè  la  facoltà  era  data  all'ufficio  (2);  e  forse  pochi  sa- 
pranno che  alcuni  Inquisitori  di  Sicilia  non  eran  sacerdoti; 
ed  il  famoso  Bernal  forse  fu  il  primo  secolare. 

In  mezzo  a  tanta  depressione  morale  una  figura  di 
Viceré  spicca  per  un  atto  di  grande  energia,  D.  Lorenz© 
Suarez  de  Figueroa,  Duca  di  Feria.  Ma  la  sua  energia  rom- 

(i)   Sacro  Arsenale,   n.   XXXVII,   p.   359. 
(2)    Diana,     ed    altri    scrittori    F.cis     Pobertolis,     panor- 
mitani;   Examen   ecclesiaslicum.    p.    357.    Venetiis,    MDCCXV. 

185 


SANT'UFFIZIO 

pe  contro  lo  scoglio  delle  prerogative  inquisì toriali.  Con 
tanti  soldati  pronti  a  sparar  contro,  chi  oserà  più  oltre  re- 
sistere all'autorità  viceregia,  con  un  boia  pronto  a  stran- 
golare quanti  vorranno  ribellarsi  a  quella,  dopo  tanto  clamo- 
roso spettacolo,  si  finisce  là  donde  si  era  cominciato  e  dove 
non  si  voleva  fermarsi;  si  manda,  cioè,  la  istruttoria  e  si 
consegna  al  S.  Uffizio  il  nobile  forista  AUiata. 

E  allora  valeva  proprio  la  pena  che  si  mettesse  a  ru- 
more la  prima  città  del  Regno,  che  si  spingesse  a  spron 
battuto  un  piccolo  esercito  di  alabardieri  fino  al  Palazzo 
Chiaramonte  per  non  concluder  nulla? 


i86 


Capitolo  X. 

RIVOLTE     DI     POPOLO 

PERVICACIA       D'INQUISITORI 

GIUDIZIO    FINALE    SUL    S.     UFFIZIO 


ANTA  pervicacia  doveva  condurre  il  popolo 

a  disperate  conseguenze.  Temuto  e  odiato 

da  esso,   il  Tribunale  per  ben  quattro  o 

cinque  volte  nel  sec.  XVI  ebbe  ribellioni 

^i  ed  incendi  compromettenti  la  sua  esistenza 

ed  i  suoi  archivi. 

Nel  1516  un  sacerdote  veronese  in  Palermo  predica  con- 
tro gli  ebrei  neofiti;  e  la  plebe  assale  il  S.  Uffizio,  ne  ma- 
nomette registri,  processi,  carte,  libri;  e  solo  per  lo  interdet- 
to lanciato  dal  Tribunale  ai  detentori  di  essi  se  ne  ricupe- 
rano alcuni. 

Nella  ribellione  contro  il  Viceré  Ugo  Moncada  (1518), 
non  potendosi  avere  in  mano  lui,  si  sfogò  contro  il  suo 
amico  l'inquisitore  Melchiorre  Cervera;  ma  Cervera  fuggì, 
e  si  aprirono  le  porte  del  palazzo,  e  si  forzarono  le  segrete  e 


187 


SANT'UFFIZIO 

si  liberarono  i  detenuti  (i).  Indi  a  non  molto  l'Inquisitore  D. 
Calvete  ordinava  ai  fedeli  pelermitani  che  restituissero, 
sotto  pena  di  scomunica,  li  «  multi  scrittori,  libri  e  beni  di 
esso  S.  Officio  e  soy  officiali  »  (2). 

Maggiore  il  danno  del  1546.  Aperte,  come  di  consueto 
nelle  pubbliche  sommo^e,  le  carceri  e  messi  fuori  i  carce- 
rati, si  appiccò  il  fuoco  al  palazzo  ed  a  quasi  tutte  le  scrit- 
ture ed  ai  processi  di  fede  (3). 

«  Gl'Inquisitori,  diventando  ogni  dì  più  insolenti,  trat- 
tavano senza  alcuni  riguardo  i  Siciliani  d'ogni  condizione; 
onde  gli  abitanti  di  Palermo  fieramente  indispettiti  si  sol- 
levarono contro  il  S.  Uffizio  (1562)  nell'atto  che  sfavasi 
per  pubblicare  il  solito  editto  di  fede  che  ingiungeva  l'ob- 
bligo a  tutti  di  denunciare  sotto  pena  di  morte  i  colpevoli  o 
sospetti  d'eresia;  e  sebbene  il  Viceré  ottenesse  di  calmale 
l'insurrezione,  gl'Inquisitori  più  non  osano  di  celebrare  in 
pubblico  alcun  autodafé  fino  al  1569  »  (4). 

Nel  solo  anno  1590  il  2  gennaio  ed  il  5  giugno  altri  in- 
cendi misero  a  pericolo  le  carte  che  si  erano  venute  accumu- 
lando in  poco  di  mezzo  secolo.  L'espediente  della  scomu- 
nica lancia'ta  dal  Tribunale  produsse  effetti  mirabili;  pane 
delle  scritture  venne  ricuperata  (5). 

A  questi  tumulti  bisogna  aggiungere  nel  secolo  seguente 

(i)  Franchina,   op.   cit.,   cap.  XI,   pp.   57-59. 

(2)  Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  in 
Sicilia,   voi.    I,   sub  anno   1518.   Ms.   Qq  H  62  della  Bibl.   Cora. 

di  Palermo. 

(3)  Franchina,   op.   cit.,   cap.   XI,   pp.   66-67. 

(4)  Llorente.  t.  II,  cap.  XVII,  art.  II,  pp.  131-32. 

(5)  Varietà  palermitane;  jn  Nuove  Effemeridi  sic,  serie  III, 
V.  VII,  pp.  200-201.  Palermo,   1878. 


188 


ì 


RIVOLTE  DI   POPOLO  -   PERVICACIA      D  INQUISITORI 

la  sollevazione  del  battiloro  palermitano  Giuseppe  D'Alesi 

(1647)  (i). 

Fu  detto  e  ripetuto,  da  chi  crede  al  pregiudizio  del 
malocchio,  che  la  presenza  del  Viceré  conte  d'Albadelista 
fosse  stata  fatale  alla  città;  e  si  narra  dello  immane  disastro 
del  crollo  del  ponte  sbarcatoio  a  Piedigrotta  al  suo  primo 
giungere  da  Messina,  coli 'annegamento  di  più  che  cento 
persone  della  nobiltà.  Ma  chi  crede  a  quel  pregiudizio  non 
pensò  mai  che  nel  campo  delle  ubbie  altro  personaggio,  ben 
più  fatale  dell' Albadelista,  avrebbe  dovuto  mettersi  in 
conto:  l'Inquisitore  Paramo.  Il  S.  Uffizio  era  sempre  den- 
tro il  Castello  a  mare,  e  lì  avvenivano  i  due  incendi  del 
1590,  la  caduta  del  ponte  del  1592,10  scoppio  della  pol- 
veriera del  1593",  ed  altri  infortuni  e  disastri  (2). 

Il  Paramo  ne  uscì  mal  vivo,  e  fino  al  1608,  anno  della 
sua  non  rimpianta  scomparsa,  ebbe  travagli  fisici  che  die- 
dero da  fare  e  da  dire  ai  medici  del  tempo  (3). 

Ma  l'attenzione  del  popolo  si  fermò  solo  sul  Viceré  e 
prese  come  fortunata  la  presenza  del  Paramo  (chi  sa!...) 
forse  perchè  funesta  al  S.  Uffizio,  che  era  funesto  all'Isola. 
A'  quelque  chose  malheur  est  boti! 

Ma  né  ribellione  di  popolo,  né  sdegno  di  ecclesiastici, 
né  represso  odio  d'ogni  classe  di  cittadini  valeva  mai  ad 
infrenare  orgoglio  di  giudici  e  spavalderia  di  ufficiali. 

(i)  V'erano  anche  le  manomissioni  ed  i  furti  dei  familiari- 
Il  ms.  segnato  Qq  F  239  della  Bibl.  Com.  di  Palermo,  prove- 
niente dagli  Archivi  del  S.  U.,  parla  d'un  processo  contro  Fi- 
lippo Malavilla,  «  portiere  del  Secreto,  per  aver  venduto  ad  un 
merciere  molti  libri  che  erano  nel  Secreto  del  S.  Q.  ». 

(2)  Matranga,    p.    12. 

(3)  Consulti  medici  per  lui  ed  a  lui  esistono  nel  Ms.  3  Qq 
E  82  della  Biblioteca  Com.  di  Palermo. 

189 


SANT'UFFIZIO 

Siamo  al  domani  del  Cinquecento,  e  la  pervicacia  si  può 
solo  spiegare  coi  tempi  che  favorivano  la  istituzione,  gelo- 
sissima (e  in  ciò  stava  la  sua  impareggiabile  forza)  dei  suoi 
privilegi. 

Quest'orgoglio  li  rendeva  ciechi  e  to^ieva  loro  fin 
l'ombra  dei  riguardi  dovuti  alla  dignità  episcopale  ed  al- 
l'autorità vicereale.  Dai  fatti  irmanzi  esposti  questa  triste 
verità  si  presenta  nella  più  cruda  evidenza.  Tuttavia  eccone 
un  altro  che  fa  al  caso  speciale. 

Era  l'anno  1621  e  l'Inquisitore  capo  determinava  di 
celebrare  uno  dei  soliti  Atti  di  fede,  stavolta  nella  piazza 
della  Cattedrale.  Dello  spettacolo  fissato  pel  18  novembre, 
veniva  data  partecipazione  all'Arcivescovo  il  Card.  Gian- 
nettino  Doria.  Da  persona  educata  costui  ringraziava,  e 
divisando  invitare  per  conto  proprio  il  Viceré,  esprimeva 
il  desiderio  che  il  palco  d'onore  fosse  costruito  vicino  al 
Palazzo  Arcivescovile  che,  come  si  sa,  fiancheggia  ad  occi- 
dente la  piazza.  Il  desiderio  non  costava  nulla,  ma  l'Inqui- 
sitore vi  si  oppose  come  contrario  ai  suoi  intendimenti! 

Bene  rilevò  il  Doria  la  innocuità  del  desiderio  e  la  qua- 
lità sua  di  prima  autorità  ecclesiastica  e  di  Principe  della 
Chiesa.  —  La  prima  autorità  sono  io  rispose  l'Inquisitore 
De  Nino;  la  seconda,  se  mai,  l'Arcivescovo  Cardinale;  <(  e  se 
V.  E.  non  rimane  sodisfatto,  resti  servito  di  richiamarsene 
a  chi  di  ragione  ».  —  E  villanamente  chiuse  la  corrisponden- 
za, ordinando  lo  spettacolo  nella  Piazza  dei  Bologni.  Non 
parliamo  di  quel  che  seguì  col  Viceré,  offeso  anche  lui  nel- 
l'Arcivescovo, e  del  ricorso  a  S.  M.  in  Ispagna.  Questi  ri- 
corsi aveano  soluzione  tarda,  e  quando  l'avevano,  già  inoj>- 
portuna  e  priva  di  effetto.  Restava  la  protervia  di  quei  si- 
gnori ed  il  nessuno  rispetto  al  venerando  arcivescovo,  ed 


igo 


RIVOLTE    DI   POPOLO   -   PERVICACIA  D'INQUISITORI 

al  gentiluomo  perfetto,  per  cui  Filippo  II  avea  chiesto  il 
cappello  cardinalizio;  e  si  dimenticava  che  alla  fine  della 
consueta  celebrazione  del  bando  di  fede  per  la  quaresima, 
all'uscire  dalla  Cattedrale,  con  signorilità  propria  dei  principi 
di  Melfi,  invita  vali  a  pranzo  al  quale,  con  fame  tutt' altro 
che  signorile,  essi  facevano  onore  (i). 

Di  competenza  in  competenza  la  loro  vita  era  una  lotta 
continua,  ora  con  l'ordinario,  ora  con  la  G.  C,  ora  con 
i  vari  Viceré,  fra  i  quali  particolarmente  il  Duca  di  Sermo- 
neta  (1666)  (2);  e  durante  la  ribellione  di  Messina  anche 
con  il  Conte  di  S.  Stefano  che  con  alterezza  avea  proibito 
le  armi  a  chicchessia,  e  quindi  ai  familiari  del  S.  U. 

Era  costume  antico  che  gl'Inquisitori,  convitati  dal  p. 
Priore  di  S.  Domenico,  assistessero  alla  festa  dell'Epifania 
in  detta  chiesa  da  una  gelosia,  come  ancora  assistea  il 
Viceré  da  un'altra. 

Inquisitori  D.  Bernardo  Vigil  de  Quifiones  e  D.  Tomaso 
Rubia  del  Cels,  nel  1671.  In  quell'anno,  essendo  convitati 
al  solito,  il  Viceré  comandò  che  si  levzisse  il  palco  dell' In- 

tquisitori.  Il  che  seputosi  da  essi,  ne  scrissero  al  Segretario 
del  Viceré;  ma  questi  tenne  duro. 
;      Da  quel  momento  in  poi  il  Tribunale  non  assistè  più 
^lla  festa  della  Epifania  in  S.  Domenico  come  avea  fatto 
pel  passato  (3).  Il  torto  qui  parrebbe  del  Viceré;  ma  non 

(l)  Ms.  Qq  F  239.  Di  questi  inviti  il  9  marzo  1615,  24 
febbr.  1616,  14  febbr.  1617,  6  marzo  1618,  16  febbr.  1619  parla 
il  medesimo  volume  ms. 

(2)  Il  ms.  Qq  F  239  della  Bibl.  Com.  di  Palermo  fa  cenno 
di  informazioni  inquisitoriali  contro  questo  Viceré,  perchè  «  por- 
tava poco  o  niun  affetto  al  S.  O.  ». 

(3)  Ms.  Qq  F  239. 

191 


SANT'UFFIZIO 

era  egli  la  suprema  autorità  dell'Isola?  potevano  essi  van- 
tarsi di  partecipare  ad  una  festa  religiosa  propria,  quando 
la  festa  non  era  del  S.  U.? 

Che  cosa  perciò  importava  a  loro  dei  malumori  che 
creavano  nelle  principali  autorità  del  tempo?  Coi  vescovi 
la  passavano  in  contese  infinite  per  poco  che  essi  facessero 
il  loro  dovere  nel  sostenere  le  proprie  facoltà  circa  la  di- 
sciplina ecclesiastica.  Le  poche  carte  che  ci  restano, 
accusano  dissidi  con  quelli  di  Messina,  di  Lipari,  di  Sira- 
cusa, di  Catania.  Il  vescovo  di  Girgenti  (1642)  dovette  per 
gravi  trasgressioni  interdire  il  commissario  nel  Burgio,  e 
fu  da  essi  interdetto;  e  la  interdizione  non  gli  fu  tolta  se] 
non  dopo  di  aver  mandato  al  sacro  Tribunale  le  sue  di- 
scolpe e  giustificazioni  (i).  Quello  di  Mazzara,  l'Eminen- 
tissimo  Cardinale  di  Santa  Cecilia,  D.  G.  Spinola  peissò  del 
brutti  quarti  d'ora  per  aver  voluto  riconciliare  alla  chiesa] 
tre  rinnegati  approdati  a  Tunisi  col  figlio  del  re  di  questa] 
città  (1646)  (2). 

Refrattari  a  qualsivoglia  gentilezza,  rifiutavano  la  com-j 
pagnia  anche  dei  più  eminenti  funzionari  dello  Stato.  Uni 
eruudito,  lo  Scavo,  pregiudicato  a  favore  del  S.  U.,  impie^ 
gato  alla  Inquisizione,  racconta  che  ((  solea   il  Tribunale  iiij 
occcisione  di  giostre,  fare  il  suo  palco  nel  muro  dello  Steri] 
per  gli  officiali  e  ministri  del  S.  U.;  che  nel  1860  una  pei 
sé  volle  costruirne  «  il  Secreto  della  Duana  dalla  parte  prin-^ 
cipale  dello  Steri,  dove  si  entrava  nella  detta  Duana  »;  ma 
che  ne  fu  impedito  dall'Inquisitore  D.  Cosimo  de  Ovando] 
y  UUoa  l'intervento;  che  per  farsi  ragione  ricorre  al  Viceré] 

(1)  Ms.  Qq  F  239. 

(2)  Ms.  Qq  F  239. 


192 


RIVOLTE   DI    POPOLO   -   PERVICACIA    DÌNQUISITORI 

rappresentandogli  come  qualmente  mai  il  Secreto  avesse 
fatto  detto  palchetto  nelle  mura  dello  Steri,  ed  esser  cosa 
nuova  ».  Nuova  o  non  nuova,  avrebbe  dovuto  rispondere 
sua  Eccellenza  D.  Fr.  Bonavides,  lo  spazio  dal  lato  delUa 
Dogana  è  del  Secreto:  e  voi,  Sig.  Inquisitore,  non  potete 
impedire  l'occupazione  d'un  suolo  che  non  è  vostro.  «  Ma 
il  perchè  il  tempo  era  brieve,  S.  E.  determinò  farsi  li  pal- 
chi metà  per  servizio  del  Tribunale,  e  l'altra  metà  per  il 
Segreto,  con  farsi  atto  preservativo  »  (i),  che  è  quanto 
dire  di  riserva. 

Se  non  che,  anche  più  tardi,  quando,  già  svigorita, 
era  scossa  dai  cardini,  alle  sue  preminenze  non  sognò  mai 
di  rinunziare;  e  di  queste  poteva  bene  ripetere:  Aut  sint 
ut  sunt,  aut  non  sint.  Comprendeva  bene  che  anche  la  piìi 
piccola  transazione,  una  tacita  acquiescenza  sopra  punti 
capitali  pel  suo  funzionamento  sarebbe  stata  una  compro- 
missione della  sua  esistenza.  E  non  cedeva  (2). 

Racconta  il  Mongitore  che  il  2  marzo  del  1733  «  ap- 
parve sulle  strade  della  città  la  scomunica  fulminata  dagli 
Inquisitori  contro  il  D.r  D.  Antonino  Crimibella,  giudice 
della  G.  C,  per  aver  carcerato  un  famigliare  del  S.  U.  e 
non  averlo  voluto  rimettere  al  suo  foro  ».  Il  dì  seguente  il 
Viceré  fece  le  sue  rimostranze  all'Inquisitore  Franchina; 
«  ed  essendosi  data  soddisfazione,  fu  rimessa  la  causa  alla 
Giunta  dei  Presidenti  e  Consultore,  che  decisero  doversi  re- 
stituire dalla  G.  C.  il  prigione  e  che  il  Crimibella  dovesse 
farsi  assolvere.  E  infatti  a  11  marzo  lo  fu  privatamente 

(i)    Ms.  Qq  F  39,t.  II,  p.  35-36. 

(2)    Infatti  pubblicava  o  ripubblicava  la  Istruzione  del  S.  O 
di    questo    Regno    di    Sicilia    ed    isole    coadjacenti    per    le    cause 
degl'Eretici    che    spontaneamente    vengono    al    S.    Tribunale    della 
Fede  ecc.  In  Palermo,  Epiro  (Vedi  Bibl.  Com.  ai  segni  X,  B.  4. 
n.   io). 

13  _  G.  PITRÈ  -  SonfUffiiio 


SANT'UFFIZIO 

ad  reincidentiam,  finché  venisse  la  risoluzione  da   Vien- 
na ))  (i). 

Il  fatto  si  ripetè  come  nei  secoli  di  maggiore  potenza 
del  Tribunale;  e  l'unica  concessione  fu  quella  della  cen- 
sura tolta  privatamente.  C'erano  di  mezzo  le  famose  Con- 
cordie del  1580,  1597,  1635  (c  che  definivano  con  sovrana 
regia  autorità  le  controversie  »  e,  forte  di  esse,  la  Inquisi- 
zione locale  non  discuteva.  Solo  un  anno  dopo,  nel  1731, 
essa  diventò  indipendente  dalla  Spagna:  provvidenza  di. 
Carlo  III;  ma  allora  veniva  decadendo  a  vista  d'occhio  fino- 
a  non  esser  molto  temuta. 

Primo  atto,  e  grave  contro  il  Tribunale,  fu  la  risoluzione! 
sulla  censura  del  Crimibella. 

Il  6  marzo  del  173 1,  il  Viceré  in  nome  del  Re  scriveva 
al  S.  Uffizio  che  ((  quindi  innanzi  non  potessero  gl'Inqui- 
sitori far  uso  delle  censure  ecclesiastiche  se  non  nei  casi  e] 
nelle  materie  appartenenti  a  fede  o  di  notoria  e  indubi- 
tata usurpazione  di  giurisdizione  » .  Molto  interessa  al  Re  | 
la  quiete  de'  suoi  vassalli,  ((  ai  quali  dee  evitarsi  l'orrore 
delle  censure  e  lo  scandalo  che  può  nascere  dalle  mede- 
sime quando  promulgansi  senza  legittima  causa  e  fuori  de'; 
termini  »  (2). 

Risposta  tanto  tagliente  e  quasi  senza  regio  esempio  nel] 
genere  scosse  profondamente  il  morale  del  Reverendissimo 
D.  Giovanni  de  Abarca  e  di  tutti  i  suoi  satelliti.  Da  più  di] 

(i)  MoNGiTORE,  Diario,  in  Bibl.  del  Di  Marzo,  v.  IX,  pa- 
gne  201-202. 

(2)  N.  Gervasi,  Siculae  Sanctiones  nunc  primum  typis 
excusae  aut  extra  corpus  juris  niunicipalis  haetentis  vagantes, 
t.  II,   lib.  IV,  pp.   350-51.  Panormi,  anno  MDCCLI. 


194 


RIVOLTE   DI    POPOLO   -    PERVICACIA   DÌNQUISITORl 

due  secoli  era  imperversata  la  gazzarra  attorno  ai  roghi: 
ed  ai  bagliori  orrendi  dell'ultimo  pel  Canzoneri  (1732}  era 
seguita  da  luce  serena  un'era  di  pace  e  di  progresso. 

Già  fin  dal  suo  primo  insediarsi  nella  Inquisizione  Su- 
prema in  Vienna  il  Card.  KoUoritz  avea  cominciato  a  met- 
tere gli  occhi  dentro  gli  affari  interni  della  Inquisizione  pro- 
vinciale di  Sicilia;  ed  ora  formulava  dei  quesiti,  chiedeva 
informazioni  dello  strano  abuso  di  patenti  concesse  a  pa- 
droni di  feluche  pei  porti  principali  dell'Isola,  dove  essi 
godevano  semifranchigie  di  ancoraggio  e  di  palangaggio; 
ora  biasimava  la  condotta  degli  assessori  assenti  dall'uffi- 
cio, ed  esigenti  che  fossero  portate  loro  le  carte  nelle  pro- 
prie case  per  firmarle;  ragioni  queste  di  sospetti  negli  In- 
quisitori che  si  volessero  attenuare  i  loro  poteri  (i). 

Ma  si  era  in  famiglia;  e  di  tanto  armeggìo  non  trapelava 
nulla  fuori  del  sacro  Tribunale. 

I  guai  veri  incominciarono  con  l'avvento  della  dinastia 
dei  Borboni. 

Un  giorno  il  nuovo  monarca  ordina  che  l'Inquisitore 
non  s'ingerisca  di  cose  fiscali;  un  altro,  che  non  si  permetta 
di  entrare  in  cause  attive  :  prerogativa  che  non  ha  né  il  foro 
ecclesiastico,  né  il  foro  militare;  e  che  essi  si  sono  abusi- 
vamente arrogata;  che  non  si  permettano  più  monitori  e 
censure  contro  ministri  regi  (2).  Un  altro  ancora,  che  negli 
arresti  del  S.  U.  intervenga  la  giustizia  laicale.  Disposi- 
ci) Ms.  Qq  H  62,   1730,   1733,   1731. 

(2)  Siculae  sanctiones,  5  luglio  e  23  ott.  1766.  Viceré  Bart 
Corsini  ed  Eustachio  de  la  Vieufuille.  Gervasi,  Siculae  sanctio- 
nes. t.  II,  pp.  356-57.  358,  360. 


195 


SANT'UFFIZIO 

zione  questa  alla  quale  il  Tribunale  della  fede  si  oppose  con 
una  forza  degna  di  altri  tempi  (i). 

L'opera  del  sacro  Tribunale,  ridotta  così  di  molto,  si 
limitò  alla  censura  religiosa,  che  slungava  i  suoi  tentacoli  al 
costume,  ai  libri  (2)  ed  alla  disciplina  ecclesiastica,  non 
ostante  che  a  questa  intendessero  con  vigile  premura  gli 
ordinari  delle  diocesi.  Nello  infiacchimento  delle  sue  forze, 
s'attaccava  alle  piccole  cose,  tanto  per  affermare  la  sua 
esistenza.  Un  aneddoto  dimostra  questa  miseria,  ed  io  lo 
vo'  raccontare.  Nel  1775  il  quaresimalista  di  S.  Niccolò  la 
Kalsa,  la  parrocchia  aristocratica  di  Palermo,  che  il  Senato 
proteggeva  ed  il  S.  Uffìzio  preferiva  col  suo  intervento 
alle  sacre  funzioni,  P.  G.  Crisostomo  da  Termini,  volendo 
in  una  delle  sue  prediche  dimostrare  la  efficacia  del  patro- 
cinio di  S.  Giuseppe,  raccontava  una  leggenda  popolare 
piena  di  naìveté.  Era  in  chiesa  il  solito  popolino,  ma  c'era- 
no anche  i  Signori  Inquisitori,  i  quali  ne  furono  non  che 
scandalizzati,   ma   anche  indignati.   Finita  la  predica,   P. 

(i)  Ecco  le  speciose  ragioni  di  Mons.  Agatino,  Arcivescovo 
di  Iconio,   al  R.   Dispaccio  del  5  giugno  1751: 

«  Dovendo  assistere  l'ufficiale  laicale  alla  carcerazione  per 
delitti  di  fede,  e  non  essendo  egli  tenuto  al  segreto,  si  pubbli- 
cherebbe la  cosa  e  ne  verrebbe  scandalo  pubblico,  vergogna  ed 
infamia  all'arresto  ed  alla  famiglia.  Le  famiglie  sogliono  aiutare 
la  Inquisizione  in  questi  arresti,  la  Inquisizione  esse  guardano 
con  venerazione  perchè  custode  della  purezza  della  fede.  Bando 
dunque  alla  riforma:  e  si  torni  all'antico.  La  Inquisizione  ar- 
resti di  notte,  da  sé,  senza  aiuti  laicali.  Ms.  Qq  H  62  della 
Bibl.    Com.    di  Palermo. 

{2)  Della  proibizione  di  certi  libri  si  occupava  con  una 
lettera  l'Inquisitore  di  Sicilia  nel  1659;  e  non  cessò  di  fermar- 
visi  anche  quando  il  Re  avocava  a  sé  questa  sorveglianza.  Vedi 
l'ordine  sovrano  del  1752  nel  ms.  Qq  H    62,  sotto  questi  due  anni. 


196 


RIVOLTE   DI    POPOLO   -    PERVICACIA    D'INQUISITORI 

G.  Crisostomo  venne  arrestato  dai  ministri  del  S.  Uffìzio  e 
chiuso  in  carcere.  In  altri  tempi,  per  cose  meno  signi- 
ficanti, ci  sarebbe  stato  il  carcere  perpetuo;  stavolta  l'im- 
prudente frate  antoniano  se  la  cavò  con  una  pubblica  ri- 
trattazione nella  medesima  chiesa,  innanzi  ai  medesimi 
giudici  e  sul  medesimo  pulpito  e  con  la  interdizione  alla 
predicazione.  Il  Folklore  italiano  però  ci  guadagnò  la  pri- 
ma variante  storicamente  accertata  della  piacevole  leggen- 
da  (I). 

V'è  anche  di  peggio.  Fin  dal  1780  correva  insistente- 
mente la  voce  della  prossima  abolizione  del  Tribunale  della 
fede;  e  gli  ufficiali  nobili  ed  altri  patentati  di  esso,  si  agi- 
tavano, interponendo  l'opera  autorevole  della  Deputazio- 
ne del  Regno  e  del  Senato  di  Palermo  perchè  tanta  scia- 
gura per  loro  venisse  scongiurata.  E'  naturale  che  faces- 
sero il  loro  vantaggio.  Deputazione  e  Senato,  interessati 
pili  o  meno  direttamente,  in  quanto  nella  pericolante  isti- 
tuzione erano  persone  dell'alto  e  del  medio  ceto,  supplica- 
rono il  Sovrano  che  volesse  rimuovere  la  spada  di  Da- 
mocle pendente  sul  capo  degli  impiegati. 

Tutto  questo  maneggio  non  poteva  non  esser  noto  al- 
l'Inquisitore locale;  anzi  non  si  saprebbe  concepirlo  senza 
il  suggerimento  e  la  istigazione  di  lui.  Era  quello  il  mo- 
mento in  cui  il  piiì  elementare  buonsenso  avrebbe  dovuto 
persuaderlo  che  il  suo  regno  era  finito;  ma  Monsignore  noa 
seppe,  o  non  volle  capirlo.  Era  costume  che  ogni  anno,  nel- 
la domenica  di  sessagesima,  si  pubblicasse  l'editto  di  fede 

(i)    D.   Faija,  Biografia  dei  parrochi  di  S.  Nicolò  la  Kalsa. 
pp.    152-54.    Palermo,    G.    Barravecchia,    1877. 

La  leggenda  venne  da  me  raccolta  dalla  bocca  del  popolo  in 
Palermo  e  da  A.  Dumas  in  Napoli. 

197 


SANT'UFFIZIO 

della  Inquisizione,  presenti  i  familiari,  i  ministri,  il  Senato, 
l'Arcivescovo,  il  Viceré.  Questo  editto  in  precedenza  stam- 
pato veniva  letto  nella  Cattedrale  ed  illustrato  con  un 
sermone  d'un  sacerdote  regolare  (i). 

Ebbene:  nei  primi  del  1782  il  Tribunale  della  fede  fa- 
ceva allestire  dalla  sua  Tipografìa  (che  ne  avea  una  propria, 
con  operai  del  suo  foro)  le  stampe  di  un  editto  sopra  la 
((  Scomunica  da  leggersi  nella  III  Domenica  di  Quaresima  » 
e  di  un  <(  Regolamento  da  osservarsi  nella  pubblicazione 
della  scomunica  »;  e  le  avrebbe  senz'altro  pubblicate,  se  il 
Governo  non  si  fosse  affrettato  a  proibirle.  Non  se  ne  dette 
per  inteso  il  Tribunale,  ed  insistette  per  il  publicetur,  che 
per  lo  addietro  non  avrebbe  neppur  sognato  di  chiedere, 
esso  che  avea  bravata  qualunque  autorità  costituita;  ed  il 
Governo,  alla  sua  volta,  insistette  sulla  proibizione. 

Quindici  giorni  dopo,  il  S.  Uffìzio  veniva  soppresso!  (2). 

Tutti  tacquero,  nessuno  si  levò  a  difendere  il  vecchio 
leone,  sdentato  e  senza  zanne,  impotente  a  più  oltre  sbra- 
nare; nessuno  celebrò  i  fasti  di  esso,  come  Antonio  Vene- 

(i)    Vecchie    carte    d'archivio    ci    han    conservato    il    ((  Cere- 
moniale  della  lettura  dell'editto  e  dell'anatema  ». 

«  Congregatisi  tutti  in  una  chiesa  vicina,  si  portavano  alla 
Cattedrale  in  processione,  e  giunti  allo  scalino  della  porta  mag- 
giore, se  li  dava  l'acqua  benedetta  da  un  cappellano;  ed  entrati 
in  chiesa  sedeano  nel  corno  dell'evangelio  con  predella  alta  un 
palmo,  coperta  di  tapeto,  e  li  familiari  in  sedie,  e  nel  corno  del- 
l'epistoli  li  preti  onesti.  Sul  principio  della  messa  solenne  si 
portava  un  maestro  di  cerimonie  ed  un  altro  al  Senato  che  v'in- 
terveniva, e  là,  recitato  l'introito,  dato  a  suo  tempo  l'incenso  e 
la  pace,  e  terminata  la  messa,  van  tutti  riportati  a  quella  chiesa, 
ove  si  congregorno  ».  Ms.  Qq  F  239  della  Bibl.  Com.  di  Palermo. 

(2)    La  Mantia,   op.   cit.,   v.   II.   Documenti,   n.   I-VII. 


198 


RIVOLTE    DI   POPOLO   -   PERVICACIA  DÌNQUISITORI 

ziano  avea  celebrato  la  sicurezza  dell'isola  sotto  l'egida  del 
sacro  Tribunale;  nessuno  fece  l'apoteosi  dell'Inquisitore 
Ventimiglia  come  Francesco  Baronio  avea  fatto  del 
Cisnero  (i). 

Il  Governo  serbò  intatti  i  salari  agli  impiegati  finché 
vissero,  e  destinò  a  più  usi  di  pubblica  utilità  le  rendite 
del  soppresso  Tribunale.  «  Dalle  ceneri  delle  spoglie  dell'In- 
quisizione »,  scriveva  lo  Scinà,  «  sursero  tre  cattedre  vi- 
stose; la  fisica  sperimentale,  che  delle  macchine  opportune 
fu  corredata;  la  matematica,  che  de'  sublimi  calcoli  venisse 
ammaestrando,  e  l'astronomia  che  ebbe  un  osservatorio, 
il  quale  per  la  eccellenza  degli  strumenti  e  per  la  copia 
delle  osservazioni  venne  in  Europa  ben  presto  a  rino- 
manza »   (2). 

Ed  eccomi,  senza  volerlo,  alla  fine  ingloriosa  d'una  isti- 
tuzione che  per  secoli  avea  fatto  tremare  principi  e  popoli, 
governanti  e  governati,  coloro  stessi  che  l'aveano  aiutata, 
favorita  e  in  ogni  maniera  sostenuta. 

Il  Bertini  avea  potuto  vantarsi  che  «  i  signori  Inqui- 
sitori, giudici,  delegati,  agiscono  contro  tutti  e  contro 
qualsivoglia  persona  insignita  di  qualsivoglia  dignità;  giac- 
ché hanno  sotto  di  sé  coloro  che  [in]  tutto  il  mondo  sono, 

(i)  Tuta  foris,  tuta  est  intus  Trinacria  tellus, 

Hinc  quaesitor  agit,   pontus  et  inde  fremii. 

Audax  si  quis  erit,  Triquetram  qui  laedere  tentet, 
Nil  juvat  esse  intus,  nil  juvat  esse  foris. 
Antonio  Veneziano,  Opere,  p.  143.  Palermo,  Giliberti,  1861. 
(2)    Scinà,    Prospetto    della    Storia    letteraria    di    Sicilia    nel 
sec.   XVII,   voi.   III.   Introduzione,   ediz.  Gallo. 


199 


SANT'UFFIZIO 

per  il  battesimo,  costituiti  dentro  la  chiesa.  In  ordine  a 
cause  di  fede  estendono  il  loro  dominio  dal  -mare  al  mare, 
dal  fiume  ai  confini  della  terra,  ed  han  facoltà  d'inquirere 
per  ragion  d'eresia  o  per  sospetto  di  essa  sopra  imperatori, 
re,  principi,  conti,  marchesi,  duchi  ed  altre  potestà  seco- 
lari »  (i). 

Ma  il  vanto  diveime  una  irrisione! 

Questi  particolari  ed  altri  assai,  che  amor  di  brevità 
consiglia  di  tralasciare,  compendiano  senz'altro  il  giudizio 
che  sul  Tribunale  formulò  la  storia  spassionata  e  serena.  Di- 
versità di  criteri,  ritraenti  dalle  tendenze  dei  tempi  e  degli 
uomini,  rese  finora  discutibile  il  giudizio;  il  quale,  quando 
il  tribunale  grandeggiava,  fu  di  plauso  dei  suoi  fautori,  di 
cieca  obbedienza  dei  suoi  familiari,  di  pavida  devozione  di 
quanti  nel  Tribunale  vedevano  il  custode  della  fede  avita;  e 
quando  cessò,  venne  tradotto  in  frasi  di  terrore  del  popolo, 
in  invettive  degli  scrittori,  tanto  più  forti  quanto  più  lon- 
tane dai  giorni  prosperosi  di  quella  potenza  (2). 

Tra  le  smaccate  lodi  d'una  volta  ed  i  gravi  biasimi  d'og- 
gi stanno  i  documenti  d'archivio  e  di  biblioteca,  testimoni 
fedeli  del  passato. 

Tolti  pochi  dotti  siciliani  del  principio  e  della  fine  del- 


(i)  Bertini,    op.    cit.    Divinus   egressus,   punct.   V.   ff.    8-9. 

(2)  Cinque  anni  dopo,  nel  1789,  Carmelo  Guerra  [Me- 
moria sulle  strade  pubbliche  della  Sicilia,  p.  io.  In  Napoli, 
MDCCLXXXIX)  scriveva:  <(  Più  non  esiste  l'orrendo  Tribunale 
dpirinqujisizione,  alimento  della  ferocia,  della  superstizione  e 
della  ignoranza  che  atterriva  i  forestieri  ed  era  il  più  grande 
ostacolo  allo  sviluppo  de'    talenti  ». 


200 


RIVOLTE   DI   POPOLO   -   PERVICACIA   D'INQUISITORI 

la  istituzione  (i),  gl'Inquisitori  erano  vanità  imbottite  di 
formole  teologiche  e  scolastiche. 

Venivano  di  Spagna  (2)  con  la  jattanza  d'una  licen- 
za (si  chiamavano  e  licenziati  »)  in  Canoni  e  in  Leggi  e, 
con  la  protezione  d'un  Inquisitore  Supremo,  portavano  la 
presunzione  di  dover  salvare  la  religione  e  la  fede  dei  Sici- 
liani; le  quali,  a  vero  dire,  rimasero  sempre  integre.  I 
5000  Ebrei  di  Palermo,  i  50.000  di  tutta  la  Sicilia,  raccolti 
in  comunità  isolate,  non  misero  mai  in  pericolo  la  religione 
dello  Stato,  che  Ferdinando  il  Cattolico,  sotto  l'impulso  di 
Torquemada,  vide  o  volle  far  vedere  compromessa;  come 
non  la  compromise  un  istante  la  Riforma,  che  non  ebbe 
presa  in  Sicilia. 

Codesti  intendimenti  rendevanli  sospettosi  e  inumani, 
anche  perchè  la  Sicilia  non  era  patria  loro,  se  mai  una 
patria  essi  ebbero.  Pur  sapendo  che  il  loro  potere  emanava 
dal  Re  e  dal  Papa,  tenevano  in  non  cale  Viceré  e  Podestà; 
e  l'Arcivescovo  di  Palermo  De  Aedo  ne  provò  i  morsi,  i  Vi- 
ceré le  ribellioni  e  le  insidie.  Giacché  non  vi  era  occasione 
che  gl'Inquisitori  non  cogliessero  per  dare  sfogo  al  loro 
maltalento  verso  i  Viceré,  i  soli  che  potessero  tener  fronte 
agU  irrefrenati  loro  abusi.  Era  una  gara  incessante  di  oc- 
culti partigiani;  se  insoddisfatti  del  Viceré,  devoti  al  S.  U.; 

(i)  Lo  Schifaldo,  p.  e.,  il  Galletti  (1738),  Angelo  Serio 
(1742),    Giovanni    Di   Giovanni,    Francesco   Testa    (1743    e    1754). 

(2)  Ordinariamente  si  ritiene  che  gl'Inquisitori  ed  i  capi 
dell'Inquisizione  in  Sicilia  sieno  stati  Domenicani.  Questo  è  uq 
errore.  Ai  primi  frati  di  questo  Ordine,  verso  il  1504  seguirono 
gli  ecclesiastici  secolari,  s'intende  sempre  spagnuoli.  Negli  ul- 
timi  tempi,   ecclesiastici  siciliani. 


201 


SANT'UFFIZIO 

se  scontenti  del  S.  U.,  devoti  al  Viceré;  onde  il  danno  della 
cosa  pubblica. 

Somma  destrezza  perciò  occorreva  a  costoro  per  isven- 
tare  gl'intrighi  di  quei  Commissari  a  Corte,  dove  la  ipocri- 
sia avea  libera  entrata  e  la  calunnia  facile  ascolto.  Vi  furo- 
no Viceré  che  non  poterono  mai  intendersi  con  quelli,  do- 
vendo giocare  sempre  di  nuovi  espedienti  per  non  lasciarsi 
irretire  e  soperchiare  :  ed  a  tal  segno  si  giunse  che  D.  Gar- 
sia  de  Toledo  si  partì  da  Palermo  per  recarsi  in  Ispagna;  e 
sarebbe  andato,  diceva,  fino  alle  Indie  per  ismascheraie 
le  male  arti  dei  suoi  avversari. 

Inasprivano  il  dissidio,  oltre  che  il  conflitto  di  giurisdi- 
zioni, i  provvedimenti  che,  lungamente  attesi,  venivano  da 
Madrid  sì  da  parte  del  Re  e  sì  da  parte  dell'Inquisitore  Su- 
premo; dei  quali  quello  a  carico  del  Presidente  del  Regno 
Duca  di  Terranova,  nell'assenza  di  D.  Garsia,  fu  addirit- 
tura disastroso  pel  vicereale  prestigio. 

Le  apparenze  poi  concorrevano  a  mantenere  malumori 
e  dispetti.  Nei  pubblici  atti  generali  dì  fede  il  Viceré  oc- 
cupava, è  vero,  un  seggio  elevato,  ma  uno  elevatissimo  ne 
occupavano  troneggiando  glTnquisitori,  protagonisti  del 
gran  teatro,  ai  piedi  dei  quali,  umili  e  annichiliti  gemevano 
penitenti  e  relassi. 

Molto  addentro  in  cosiffatti  intrighi  e  nell'ambiente 
politico  ed  ecclesiastico  del  paese,  il  siciliano  Scipione  D« 
Castro  (i)  forniva  a  Marcantonio  Colonna  notizie  e  consi- 
gli sul  da  fare  venendo  Viceré  in  Sicilia;  e  rilevando  queste 

(i)  Op.  cit.  Intorno  a  questo  abile  politico  e  scrittore  si- 
ciliano della  seconda  metà  del  Cinquecento  vedi  Mongitore, 
Bibl.   sic,    t.    II,    pp.    209-10.    Panormi,    Felicella,    MDCCXIV. 

202 


RIVOLTE   DI   POPOLO    -   PERVICACIA  D  INQUISITORI 

condizioni  anormali  e  le  male  arti  degli  Inquisitori  e  le 
ribalderie  dei  familari,  concludeva:  il  miglior  partito  esser 
queUo  di  «  non  rompere  con  loro;  dare  avviso  alla  Corte,  e 
di  quel  che  non  piacesse,  aspettare  di  là  il  rimedio,  e  nel 
resto  aiutarli  sempre;  ricordarsi  della  lista  dei  familiari  ed 
officiali;  farne  la  scelta,  servirsene  a  tempo,  dar  l'orecchio 
ai  principali,  e  tutto  con  estrema  destrezza,  coperta  la  pra- 
tica con  leggittima  occasione  »  (i). 

Che  maraviglia  quindi  se  le  rappresentanze  generali  e 
locali  del  Regno  levassero  a  quando  a  quando  la  voce  con- 
tro la  tirannia  che  così  gravemente  incombeva  sui  popoli 
oppressi? 

Richiami  di  Parlamenti,  voti  di  Senati,  tradotti  in  for- 
ma di  capitoli,  di  prammatiche  e  di  sanzioni  siciliane,  atte- 
stano il  coraggio  degli  stanchi  spettatori  di  tanta  protervia. 
Insorgenti  a  favore  di  catturati  senza  difesa,  di  vedove  sen- 
za appoggio,  di  orfani  alla  mercè  di  fiscali,  che  al  domani 
di  una  condanna,  non  sazii  di  confische,  come  avoltoi 
piombavano  nelle  case  del  dolore,  manomettendone  carte  o 
conti  di  famigha  per  iscoprirvi  prede  sfuggite  alle  loro  vo- 
glie rapaci  (2).  E  coraggio  personale  dimostrò  il  catanese 
Mario  Cutelli  nel  sostenere  a  Madrid  le  ragioni  della  Si- 

(i)  S.  De  Castro,  op.  cit.  Una  bella  nota,  del  La  Mantia, 
pp.   59-60,  in  proposito  conferma  questo  stato  anormale  di  cose. 

(2)  I  Capitoli  di  Ferdinando  il  Cattolico  (1515)  ci  fan  co- 
noscere che  il  Magistrato  dei  beni  di  confisca,  non  contento  di 
quel  che  prendeva  ai  poveri  condannati,  aveva  ♦<  di  novo  intro- 
ducto  pigliarisi  candili  di  visioni  di  scripturi,  provisioni  di  in- 
terlocutorii  et  sententii  et  raxiuni  di  exentioni  in  gran  vexationi 
di  li  vassalli  ».  {Capitula  Regni  Siciliae,  cap.  di  Ferdinando  II, 
ca.p.   CIV,   t.   I,   p.   583. 

203 


SANT'UFFIZIO 

cilia  contro  le  esorbitanze  inquisitoriali,  sottilmente  da  lui 
messe  in  luce  in  una  delle  sue  maggiori  opere  (i). 

Ma  richiami  e  voti  sortivano  effetti  negativi,  risposte 
cioè  evasive,  subordinate  al  parere  del  Tribunale  supremo, 
che  naturalmente  non  poteva  sconfessare  il  locale  di  Sici- 
lia; o  qualche  debole  placet,  che  restava  soltanto  nell7o  d\ 
Rey  della  firma  reale. 

Il  poco  che  si  guadagnò  fu  dopo  le  prime  e  maggiori 
ebbrezze  di  sangue  di  D.  Melchiorre  Cervera.  A  certi  abusi] 
seguirono  restrizioni  e  freni. 

All'inglese  Brydone,  quando  egli  nel  1770  si  recò  inj 
Palermo,  fu  detto  che  «  i  Siciliani  son  molto  cauti  nel  par-j 
lare  di  materie  religiose,  ed  in  generale  consigliano  ai  fo- 
restieri di  stare  in  guardia,  essendo  i  poteri  della  Inquisi- 
zione, per  quanto  diminuiti,  in  nessun  modo  aboliti».  Gli] 
fu  detto  pure  che  i  baroni  siciliani,  i  prelati,  le  città  dema- 
niali manifestarono  il  loro  mal  animo  verso  il  S.  U.,  com- 
posto d'una  geldra  d'ingnoranti  preti  spagnuoli  che  spa- 
droneggiavano contro  ogni  legge  divina  ed  umana  ». 

Ed  era  vero,  quantunque  i  principali  fossero  già  sicilia- 
ni; ma  quando  gli  fu  detto,  com'egli  afferma,  che  ((  qua- 
lunque inquisitore  eccessivamente  zelante  veniva  tosto  as- 
sassinato e  così  il  soverchio  zelo  dei  Commissari  mitigato,  ej 
ridotto  a  moderazione  più  comportabile  il  SS.  U.  »  (i),  glij 
fu  detta  cosa  non  vera. 

Nessun  inquisitore  venne  assassinato  nel  secolo  XVIII  in 
Sicilia;  e  se  il  S.  U.  fu  più  mite  che  pel  passato,  ciò  si  do-: 
vette  al  peso  dei  suoi  errori  ed  alla  evoluzione  dei  tempi. 

•  i)  M.  CuTELLi,  Cod.  sic.  p.  341-517- 
(2)  Letter.  XXXIII. 


204 


RIVOLTE   DI   POPOLO   -   PERVICACIA  D  INQUISITORI 

I  tumulti  furono  quasi  sempre  diretti  contro  la  istituzione; 
raramente  contro  i  rappresentanti  di  essa.  Allorché  qual- 
cuno fu  cercato  a  morte,  la  pietà  o  la  prudenza  prevalse  in 
sua  difesa. 

E'  ben  vero  che  i  tempi  e  gli  ordinamenti  locali  erano 
ragione  di  ritardo,  se  non  d'ostacolo  al  libero  svolgersi  del 
pensiero  siciliano;  ma  è  anche  vero  che  il  Tribunale  del  S. 
U.  vi  ebbe  una  parte  considerevole.  Qualunque  iniziativa 
che  potesse  aprire  nuovi  orizzonti  alle  inteUigenze  più  ele- 
vate, veniva  per  opera  di  questo  repressa  sul  nascere,  ar- 
restata nel  suo  procedere.  Se  percorriamo  le  fasi  degli  studi 
de  Secoli  andati,  vi  troveremo  dotti  ed  eruditi,  storici  e  let- 
terati di  conto,  ma  non  filosofi  che  si  lancino  per  vie  non 
prima  tentate;  e  chi  sa  se  non  ve  ne  furono  e  rimasero,  per 
opera  del  S.  U.,  soffocati!... 

Dove  sono  i  processi  dagli  interrogatori  dei  quali  è  da- 
to conoscere  qualche  spirito  forte  o  qualche  genio  non 
compreso?  Tutto  è  buio  per  noi. 

Non  restano  se  non  poche  ma  eloquenti  cifre  {memi- 
nisse  juvahit!):  189  persone  bruciate  in  effigie;,.,  bruciate 
vive;  dozzine  di  migliaia,  catturate,  processate,  condannate 
e,  se  assolute,  esposte  al  ludibrio  del  pubblico  come  ne- 
miche  di  Dio  e  della  religione;  migliaia  e  migliaia  d'onze 
confiscate  ai  legittimi  possessori;  migliaia  e  migliaia  di  ere- 
di interdetti  al  conseguimento  dei  loro  beni,  allo  esercizio- 
dei  pubblici  uffici,  e  delle  professioni. 


20  «; 


CAPITOLO  XI . 


BRUCIA  MENTO 
PALI M SESTI 


DEGLI     ARCHIVI 
-      CONCLUSIONE 


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|U  fatta  grave  colpa  della  distruzione  degl 
Archivi  del  S.  Uffizio  al  Viceré  Caraccio 
lo;  ma  non  si  considerò  che  appunto 
il  Caracciolo,  avrebbe  avuto  il  maggiore 
interesse  di  non  perpetrarla. 
Nei  tre  anni  del  suo  viceregno,  egli  stette  a  gran  disagio 
in  Sicilia  o  perchè  non  si  seppe  dare  ragione  dello  spirito 
e  della  tradizione  del  paese,  o  perchè  non  venne  compreso 
e  seguito  nelle  sue  riforme  ritraenti  in  buona  parte  dalle 
idee  degli  enciclopedisti  francesi,  coi  quali  era  stato  a  con- 
tatto durante  il  suo  ministero  del  Re  di  Napoli  in  Parigi. 
Attorno  a  lui  turbinarono  ire  di  popolo  e  maldicenze  di  si- 
gnori; e  certo  sarebbe  stata  per  lui  fortunata  occasione 
quella  di  metter  le  mani  su  tante  segrete  carte,  e  delle  colpe 
dei  suoi  alti  denigratori  e  dei  loro  antenati  trarre  fiera  ven- 
detta. 


20Ó 


BRUCIAMENTO   DEGLI    ARCHIVI    -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

Ben  altre  ragioni  che  i  principii  e  la  impulsività  di  lui 
verranno  presto  a  spiegare  lo  incendio  delle  carte  segrete 
e  dei  processi  criminali  del  Tribunale. 

Allorché  l'abolizione  venne  decretata  ed  il  decreto  (i6 
marzo  1782)  fu,  come  si  sa,  di  Ferdinando  IIL  la  Giunta 
dei  Presidenti  e  del  Consultore  proponeva  (26  marzo  1872), 
che,  lasciandosi  intatto  l'archivio  civile  (i),  quelle  carte 
((  unitamente  con  tutte  le  pitture,  mitre  ed  altre  cose  deno- 
tanti il  S.  Officio,  e  le  vesti  che  designavano  i  caratteri  delli 
rei  »  si  mandassero  alle  fiamme  :  proposta  non'  già  consi- 
gliata, non  già  raccomandata,  ma  implorata  da  Mons. 
Ventimiglia,  Inquisitore  Supremo  (2). 

Proprio  implorata!  E  perchè?  Senza  dubbio  per  gli 
effetti  gravissimi  che  avrebbe  portato  la  conoscenza  di  se- 
greti in  esse  contenuti,  sia  dal  lato  dei  processati,  sia  da 
quello  dei  processanti,  e  sia  anche  e  più  specialmente  da 
quello  dei  denunziatori.  Chi  sa  quali  sorprese  si  sarebbero 
avute  intorno  ad  accusatori  e  ad  accusati  e  quali  tremende 
ire  si  sarebbero  scatenate  contro  istruttori  di  processi  e  me- 
todi di  procedure,  ed  a  favore  di  sventurati  periti  sui  roghi, 
nelle  segrete! 

Un  dato  di  fatto  poi  concorre  ad  aggravare  la  condizio- 
ne morale  del  Tribunale,  ed  è  la  liberazione  di  alcuni  rei 
^sotto  processo.  L'Inquisitore  rimasto  negli  ultimi  anni  solo 
lUa  presidenza  del  Tribunale  (giacché,  morti  gli  altri  due, 
'il  Governo  non  li  aveva  suppliti)  nella  ormai  facile  previ- 
sione della  prossima  tempesta,  aveva  ((  accordato  la  libertà 

(i)  Questo   Archivio    è    conservato   nell'Archivio   di    Stato    di 
Palermo,   Gancia. 

(2)  La  Mantia,  parte  II,  doc.  Vili,  p.  63. 

207 


SANT'UFFIZIO 

per  suo  arbitrio  a  taluni,  ch'erano  stati  condannati  dal 
Tribunale  del  S.  Offizio  per  sentenza,  la  quale  in  forza 
dell'esecuzione  data  alla  pena,  era  già  omologata»:  arbi- 
trio che  la  Giunta  medesima  non  seppe  astenersi  dal  biasi- 
mare in  una  sua  consulta  al  Viceré  (i);  e  male  ne  sarebbe 
venuto  se  il  colpevole  non  si  fosse  chiamato  D.  Salvatore 
Ventimiglia,  Arcivescovo  di  Nicomedia,  dei  Principi  di 
Belmonte. 

Portata  al  Re  la  proposta  di  distruzione  dei  documenti 
criminali,  egli  volle  che  fossero  invece  mandati  subito  a 
Napoli;  ma  la  Giunta,  pur  sempre  insistendo  sulla  gravità 
delle  carte  e  sulla  delicatezza  dei  fatti  contenuti,  ((  non  potè 
dispensarsi  di  far  considerare  l'ingente  spesa  che  sarebbe 
abbisognata  e  il  pericolo  e  la  confusione  che  inevitabil-| 
mente  doveva  produrre  il  trasporto,  trattandosi  di  un  gran 
numero  di  processi;  per  lo  che  opinò  di  doversi  piuttosto 
mandare  alle  fiamme  che  trasportarsi  altrove  »  {2). 

E  allora  il  Re,  senza  più  discorrervi  sopra,  ((  prescrisse 
doversi  sotto  la  direzione  dei  due  avvocati  fiscali  incen- 
diare tutto  l'archivio  criminale  senza  la  menoma  eccezione 
di  carta  veruna;  «  lo  che  (scrivevano  il  7  luglio  del  1783)  sii 
trova  esattamente  eseguito  »  (3) . 

Così  rimane  sfatata  la  leggenda  dell'opera  nefasta  del 
viceré  Caracciolo,  quale  Erostrato  degli  archivi  dell'Inqui- 
sizione; e  spuntano  nella  storia  i  nomi  della  Giunta  non 
sai  più  se  timida  o  ignorante:  D.  Stefano  Airoldi,  presiden- 
te del  Tribunale  della  Gran  Corte,  D.  Giuseppe  Leone,  di 
quello  del  R.  Patrimonio,  D.  G.  B.  Asmundo  Paterno,  del 

(i)  La  Mantia,   parte  II,   doc.  XII,  p.   67. 

(2)  La  Mantia,  doc,  XI,  p.  66. 

(3)  Ivi,   doc.  XVII,   p.   74. 


208 


BRUCIAMENTO   DEGLI    ARCHIVI    -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

Tribunale  del  Concistoro  e  del  Magistrato  di  Commercio, 
D.  Saverio  Simonetti,  Consultore  del  Governo. 

E  si  ha  piena  ragione  di  aggiustar  fede  al  Villabianca, 
che  nei  giorni  dell'abolizione  notava  avere  quella  distruzio- 
ne riscosso  il  comune  applauso.  Tratta  vasi  di  «  memorie 
che,  Dio  liberi,  si  fossero  commerciate!  Era  lo  stesso  che 
infettare  e  imbrunire  di  nere  note  molte  e  molte  famiglie 
di  Palermo  e  del  Regno  tutto,  ch'oggi  sono  del  rango  nobile 
e  delle  oneste  e  civili  »  (i). 

Tuttavia  non  è  priva  di  fondamento  la  speranza  che 
molti  documenti  possano  ancora  trovarsi  negli  Archivi  di 
Madrid,  come  pure  in  quelli  di  Vienna,  donde  per  14  anni 
(1720-34),  sotto  Carlo  II,  la  Inquisizione  di  Sicilia  trasse 
il  verbo.  Dipendente  dalla  Inquisizione  generale  di  Spagna, 
la  Inquisizione  di  Sicilia  non  poteva  sottrarsi  all'obbligo 
di  comunicare  a  quella  tutti  i  principali  suoi  processi;  e  già 
sappiamo  che  monitori  e  scritture  sulle  controversie  della 
Inquisizione  colla  Gran  Corte  e  coi  Prelati  di  Palermo,  sul- 
le persone  ad  esse  rimesse  dal  1559  al  1734;  lettere  inquisi- 
toriali  dal  1567  al  1702  e  processi  e  consulte  esistono  nel- 
l'Archivio d'Alcalà  e  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Madrid; 
e  processi,  decreti,  minute  di  consulte,  grazie  diverse  del 
Consiglio,  confìsche,  processi  da  fé,  ragguagli  intorno  ai 
buoni  costumi  della  condotta  o  purezza  di  sangue  {limpieza 
de  san  gre)  degl'impiegati  e  dipendenti  del  Tribunale,  corri- 
spondenza tra  la  Inquisizione  dell'Isola  ed  il  supremo  Con- 
sigho  dal  1533  al  1736,  sono  nell'Archivio  di  Simancas  (2). 

(i)  Diario  inedito,  ms.  Qq  D  103,  p.  547  della  Bibl.  Co- 
munale. 

(2)  Carini,  Gli  Archivi,  ecc.,  doc.  cit.  e  Cosentino,  pa- 
gine 335-36. 

209 

U  -  G.  PURÈ  -  SantUffizio 


SANT'UFFIZIO 

Ma  le  denunzie  ed  altre  carte  segrete  andarono  irremis- 
sibilmente incenerite  nel  giardino  dell'Alcalde  Barone  Zap- 
pino, ove  son  adesso  i  fabbricati  sorti  dopo  l'abolizione. 

Già  fin  dal  1525  si  parla  della  Camera  del  Segreto  e 
delle  scritture  penali  raccoltevi,  nella  quale,  sotto  pena  di 
scomunica,  a  nessun  altro  che  agl'inquisitori  ed  agli  «uf- 
ficiali del  Segreto  »  era  lecito  entrare  (i).  Un  secolo  dopo, 
enei  1625  la  camera  del  Segreto  era  passata  in  plurale  coi 
relativi  processi  (2).  Ancora  un  altro  secolo  circa  (17 14). 
e  in  una  <(  consegna  di  tutto  ciò  che  si  conteneva  nelle  carce- 
re del  secreto  »,  si  parla  di  ((  camere  intere  di  registri  con 
processi  di  fede,  prove  di  purezza,  denunzie,  ecc.  ecc.  ». 

Si  era  nel  secondo  decennio  del  sec.  XVIII,  settant'annì 
lontani  dall'abolizione.  Giudichi  il  lettore  quante  altre  car- 
te congeneri  saranno  entrate  e  si  saranno  accumulate  in 
quei  posti! 

Al  domani  della  soppressione  del  S.  Uffizio  con  uà 
nuovo  decreto  vennero  distrutte  nello  Steri,  tolte  alle  porte 
dei  foristi,  vietate  agli  abiti  dei  familiari,  le  tanto  temute 
e  tanto  rispettate  insegne.  «  Qualunque  cosa  indicasse  il  S. 
0.  »  fu  fatta  scomparire,  fino  ai  ritratti  ed  alle  pitture  dei 
rei  condannati  (era  tra  questi  la  terribile  scena  dell'Inqui- 
sito La  Mattina  che,  svincolandosi  furibondo  delle  catene 
innanzi  all'Inquisitore,   lo  colpì  con  esse   e  lo  freddò)  (3). 

Le  rendite  assegnate  dalla  Grimaldi  Guassone  alle  con- 
dannate del   S.   U.   vennero  destinate  alle  ripentite  della 

(i)  Istruzioni   sicil.    di  D.    Alonzo   Maurique:    Lea,    op.    cit., 

P-    519- 

(2)  «  Nelle  stanze  del  Segreto  abitano  gl'Inquisitori  e  com- 
pariscono i  culpati  e  testimonj  ».  Ms.  Qq  H  '62. 

(3)  Ms.  Qq  H  62. 


210 


BRUCIAMENTO  DEGLI   ARCHIVI   -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

<(  Casa  di  Istruzione  ed  emenda  »  ;  la  coltre  di  velluto  col 
dossello  che  aveva  accolto  tanti  Inquisitori,  fu  venduta  ad 
un   Agostino  Giambruno;   i  ricchi  seggioloni   a  bracciuoli 
di  velluto,  i  costosi  calamai  e  spolverini  d'argento  a  Salv. 
Pipi  ed  a  Giov.  S.  Eremita;  il  calice  e  la  patena  d'argento 
ai  frati  di  S.  Fr.  di  Paola  e  ad  altri;  due  grandi  candelieri 
d'argento  a  Gius.  Malvele;  una  verga  d'argento  a  Vino. 
Napoli;  tutte  le  vestimenta  di  chiesa  ad  altri,  pel  prezzo 
totale  di  onze  i8o,  21,  17.  La  superba  carrozza  di  gala  fu 
data  gratuitamente  al  Senato,   che  avevala  richiesta   (i); 
pochi  registri,    alla   Pubblica  Libreria.   La   terribile  croce 
verde  alla  congrega  di  S.  Giuseppe  dei  Teatini  ed  il  Croci- 
fisso, innanzi  al  quale  giuravano  gli  imputati,  alla  R.  Cap- 
pella  Palatina,    che   l'avrebbe   collocato   nella   sottostante 
cappella  di  S.   Pietro.  Se  non  che,  in  quella  s'è  perduta 
ogni  traccia  e  della   autenticità  del  Crocifisso  0,   meglio, 
della  univoca  affermazione  della  sua  provenienza  è  gran- 
demente a  dubitare.  La  immagine  di  questo  pare  anteriore 
alla  abolizione  del  sacro  Tribunale;  ed  il  nome  del  dise- 
gnatore sac.   B(5va,  e  le  indulgenze  dei  Pontefici  parlano 
chiaro.  Mettiamo  tra  le  leggende  anche  la  provenienza  in- 
quisitoriale   di   questo   Crocifìsso,    che   nessun    documento 
autorizza  a  ritenere  donato  dal  Governo  al  domani  della 
abolizione. 

I  familiari,  alla  medesima  maniera  che  i  laureati  in 
utroque,  o  in  arti  e  medicina,  ed  i  licenziati  in  farmacia, 
venivano  nominati  con  un  diploma  speciale.  Di  laureati  e 
licenziati  restano  fino  ad  oggi  lauree  e  licenze  del  settecen- 
to, del  seicento  ed  anche  del  cinquecento;  ma  di  diplomi  di 

(i)  La    Mantia,    U Inquisizione    in    Sicilia    (parte    II),    doc. 
XXIII  e  XXV,  Palermo,  1904. 

211 


SANT'UFFIZIO 

familiari,  che  io  sappia,  neppur  uno.  Gli  è  che,  appena 
avvenuta  l'abolizione,  se  ne  disfecero,  per  vergogna  di  es- 
serne stati  decorati  e  per  paura  di  un  documento  che  atte- 
stasse aver  essi  servito  un  Tribunale  caduto  in  tanta  disisti- 
ma. Fu  un  blasone  del  quale  tutti  ebbero  il  pudore  di 
arrossire. 

Gli  uomini  scomparvero,  e  con  loro  le  vantate  carte;  la 
memoria  del  loro  Tribunale  è  rimasta  viva  nella  toponoma- 
stica e  nella  paremiologia  di  Sicilia. 

Il  grande  orologio  del  palazzo  Chiaramente,  che  pare 
batta  ancora  le  fatali  24  ore  della  morte  di  Suor  Gertrude 
Cordovana  e  di  fra  Romualdo  Barberi  nel  di  6  aprile  del 
1724,  è  sempre  detto  lu  roggiu  di  lu  S.  Uffiziu;  dopo  127 
anni  che  di  S.  Uffizio  non  si  parla  più. 

L'angusta  viuzza  laterale  al  palazzo  porta  anche  adesso 
il  nome  di  Vanedda  (vicolo)  dt  lu  S.  Uffiziu,  che  nessun 
sopprimerà  mai  dopo  trecento  anni  che  il  popolo  ve  lo  ap- 
pose. 

Costa  di  lu  S.  Uffiziu  è  l'ultima  costa  sopra  Valdese  a 
contatto  dell'Addàura,  in  forma  dì  perpendicolo;  proba- 
bilmente per  richiamo  a  qualche  stabile  già  posseduto,  non 
cerchiamo  come,  dal  tribunale. 

Di  poco  conto,  ma  pur  sempre  significante,  è  quel  canto 
popolare  della  provincia  di  Messina  che  incomincia  : 

Pi  li  fimmini  c'è  lu  S.  Uffiziu,  16 

C'è  la  catina  pi  l'omini  mali, 

dove  non  è  dubbio  che  la  minaccia  era  per  gli  uomini  de- 
linquenti, e  per  le  streghe,  le  maliarde,  specialmente  per 
arti  malvage  d'amore  (i). 

(i)   G.    Grimi   Ix»   Giudice,    Canti   pop.    di   Naso   {Messina), 
p.  15.  Acireale,   1908. 


212. 


BRUCIAMENTO   DEGLI    ARCHIVI    -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

Ho  ricordato  innanzi  il  desolante  proverbio:  Lu  roggiu 
di  lu  S.  Uffìziu  nun  cunzigna  mai,  e  vo'  aggiungere  che  a 
Modica  esso  significa:  che  la  Inquisizione  non  restituiva 
pili  a  libertà  colui  il  quale  veniva  rinchiuso  nelle  sue  car- 
ceri (i). 

Minaccia  di  cose  gravi,  e  che  incutono  timore,  è  quella 
di  far  vedere  lu  S.  Uffìziu  a  cavaddu,  la  cavalcata  cioè, 
nella  quale  a  gruppi  procedevano  l'alcale  con  la  comitiva 
di  cavalieri,  e  fi  Capitano  del  S.  Uffizio  coi  nobili,  familia- 
ri, revisori  di  liDri,  mastri  notai,  commissari,  uffiziali  del- 
l'udienza civile,  uffiziali  del  R.  Fisco,  medici,  avvocati, 
consultori  e  qualificatori,  utfiziaH  del  Tribunale  e  cappel- 
lani e  contadori  e  mazzieri  del  Senato  fino  agl'Inquisitori 
fiancheggiati  dal  Pretore  e  dai  Senatori  della  città.  In  altri 
termini:  far  vedere  cose  terribili. 

Così  si  chiudeva  la  lunga,  lacrimevole  odissea,  che 
quando  non  finiva  in  raccapricciante  tragedia,  destava  sem- 
pre terrore;  sì  che  ne  avanza  la  qualificazione  di  cose  da 
Sant'Uffizio,  applicata  alle  tribolazioni  più  insopportabili, 
alle  più  grandi  traversie  della  vita. 

Fu  detto  e  ripetuto  che  il  muro  bianco  è  la  carta  dei 
matti;  e  matti  sarebbero,  sotto  questo  aspetto,  gli  scioc- 
chi, grandi  e  piccoli,  che  trovando  un  po'  di  spazio  bianco 
o  comechessia  in  una  latrina,  in  un  pubblico  edificio,  in  una 
casa  privata,  in  una  officina,  in  un  monumento,  in  una  sca- 
la, sono  istintivamente  tentati  ad  apporvi  il  proprio  nome, 
a  consacrarvi  una  iscrizione,  una  massima,  un  vecchio  mot- 
to, sovente  sudicio,  una  freddura,  una  impertinenza,  una 
ingiuria,  una  infamia.  Codesta  pratica  è  antica  quanto  l'uo- 
mo che  sa  scombiccherare,  o  comporre  uuna  parola,  o  tirare 

(i)    PlTRÈ,   Prov.   sic,   V.   Il,   p.   328. 

2x3 


SANT'UFFIZIO 

una  linea,  quanto  gli  sciocchi  che  vogliono  serbare  a  dure- 
vole memoria  il  loro  passaggio  per  un  luogo,  la  loro  ferma- 
ta innanzi  un  muro,  una  colonna,  una  statua,  un'urna, 
un  vaso,  un  albero  ed  anche  una  foglia  di  agave  o  una 
articolazione  di  opunzia. 

Il  detto  proverbiale:  Nomina  stultorum  scribuniur  ubi- 
que  locorum  è  una  affermazione  di  siffatta  miseria. 
Chi  non  s'è  incontrato  in  iscrizioni  e  motteggi  di  questo 
genere,  talora  sentenziosi,  tal'altra  banali,  e  quando  insigni- 
iìcanti  e  quando  troppo  espressivi?  Laonde  spontanei  suo- 
nano le  nostre  labbra  gli  amari  versi  francesi: 

C'est   propre.   de  la   canaille 
Ecrire  toujours  sur  les  murailles. 

E'  poi  strano  che  i  cessi  pubblici  siano  stati,  come  pur 
troppo  sono,  di  preferenza  ispiratori  di  siffatte  scritture, 
pascolo,  sovente  involontario,  di  chi  è  costretto  a  ricorrervi. 
Già  Marziale  in  un  suo  epigramma  diceva: 

Nigri  fomicis  ebrium  poetam 

Qui   carbone   rudi  putrique   creta 

Scribit   carmina,    quae   legunt  cacantes  (i). 

La  musa  latrinae,  sia  per  la  sua  provenienza  e  per  l'am- 
biente che  la  favorisce,  sia  per  le  aperte  simpatie  che  ha 
con  le  manifestazioni  analoghe  a  quelle  dei  luoghi  ignobili, 
ha  chiamato  l'attenzione  di  eruditi,  di  antropologi  e  di  cri- 
minalisti  (2).  A  quest'attenzione  si  devono  studi  non  privi 

(i)  XII,  LXI,  7-11. 

(2)  Menangiana  ou  Bons  mots  de  Menage,  p.  iSi.  Paris, 
1693;  Bibliotheca  Scatologica,  Paris,  1850;  F,  Sabatini,  Le  iscri- 
zioni su  i  muri,  nella  Rivista  di  Letteratura  popolare,  voi.  I, 
fase.  I,  pp.  69-72;  Kryptadia.  t.  VI  e  VII;  J.  G.  Bourke,  Sca- 
tologic    Rites    of    ali    Nations.    Washington.     1891;    K.    Reiskel, 


214 


BRUCIAMENTO   DEGLI    ARCHIVI    -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

di  valore.  La  maggior  fortuna  è  toccata  alle  pareti  delle 
prigioni,  non  già  perchè  alle  pareti  delle  prigioni  sono  af- 
lìdate  le  più  fiere  invettive  contro  la  giustizia  punitiva,  con- 
tro le  leggi  e  le  istituzioni,  contro  i  presunti  o  veri  aguzzini 
del  criminale,  ed  ire  e  maledizioni  feroci,  e  sanguinose  mi- 
nacce di  vendette  e  bestemmie  orrende  perdute  in  mezzo 
a  grossolani  disegni  (i). 

Eppure  se  mai  luoghi  vi  furono  nei  quali  sgorbi,  motti 
e  versi  murali  meritarono  l'attenzione  degli  studiosi,  il  Palaz- 
zo Chiaramonte  di  Palermo  va  ora  tra  i  primi.  La  materia 
nelle  tre  celle  addensata  rivela  cose  che  la  storia  non  dice, 
ma  che  ad  ogni  studioso  di  erudizione  siciliana  non  dovreb- 
bero riuscire  né  inutili  né  sgradevoli. 

Mi  spiego. 

Ho  accennato  a  <(  palimsesti  del  carcere  »,  e  devo  chia- 
rirne il  significato  in  ragione  dell'uso  moderno  della  parola. 
Ordinariamente  con  questo  titolo  s'intendono  le  manifesta- 
zioni grafiche  sia  di  delinquenti  chiusi  in  un  carcere  o  in 
un  ergastolo,  sia  anche  di  semplici  imputati. 

Ora  quelli  delle  nostre  celle  non  hanno  da  far  nulla,  per 
la  parte  morale,  con  gli  attuali  disegni  e  detti  dei  luoghi 
di  pena.  La  morbosa  espressione  di  questi  non  esiste  in 
quelli;  nulla  di  strano,  di  tristo,  di  morboso,  molto  meno  di 
brutto  è  nella  grande  congerie  di  elem.enti  da  me  rilevati. 


Eine  Umfrage;  in  Antropophyteia.  III.  pp.  244-46.  Leipzig, 
1906;  Lombroso,  /  Palimsesti  del  Carcere;  L.  Re,  Letteratura 
murale  del  Risorgimento,  ne  La  Sentinella  bresciana,  a.  XXXXIII, 
nn.  37  e  38,  6,  7,  febbr.  1901;  Da  Venezia  a  Mantova,  nel 
Giorn.    di   Sic,    a.    XLVIII,    n.    304.    Palermo,    30   ott.    1908. 

(i)   D.    Provenzal,    /   nuovi   orizzonti   del   Folklore,    p.    11, 
Bologna.   1906. 

215 


SANT'UFFIZIO 

Lo  studioso  non  vi  troverà  una  mala  parola,  una  delle  mi- 
gliaia di  male  parole  che  non  pure  nel  carcere,  ma  anche 
in  luoghi  pubblici  ed  esposti  si  trovano  spesso.  Tutto  vi  è 
corretto,  tutto  v'ispira  devozione,  religiosità,  santimonia. 
Sarà  sentimento,  sarà  timore  di  chi  scriveva  o  disegnava, 
pure  è  così. 

Gli  autori  dei  versi  e  dei  disegni  delle  nostre  celle  sono 
persone  calme,  di  mente  equilibrata,  che  ragionano  delle 
condizioni  loro  con  severa  coscienza.  Si  interpreti  pure  co- 
me tornaconto,  come  avvedutezza,  anche  come  paura  la 
loro  circospezione;  questo  è  innegabile:  che  essi  si  dan  piena 
ragione  delle  loro  sofferenze  e  si  volgono  a  Dio,  e  cercano 
alla  fede  conforto, al  tempo  speranza;  sfogando  in  lamenti 
le  loro  pene,  senza  neppure  sognare  macchie  che  non  hanno. 
Aggiungo  di  più:  essi  sono  sinceri;  perchè  non  pensano  che 
un  profano  possa  mettere  gli  occhi  sulle  loro  scritture,  né 
che  un  giorno  esse  possano  diventare  pascolo  di  curiosi. 
Quanta  differenza  con  la  morbosa  teatralità  onde  oggi  si  cir- 
conda qualunque  atto  della  vita  pubblica  e  privata,  dall'e- 
sercizio della  carità  al  godimento  delle  feste  intime  di  fa- 
miglia, dalle  violenze  contro  noi  stessi  alla  ricerca  della  ve- 
rità nei  processi  criminali! 

Io  tiro  una  conseguenza  a  favore  dei  nostri  carcerati. 
Chi  sa  quali  segrete  denunzie  h  avran  messi  in  sospetto, 
quali  inquisitoriali  accorgimenti  li  avran  colti,  e  perduti! 
Certo  la  loro  istruzione  era  tutt'altro  che  superficiale,  la 
loro  cultura  di  religione  ed  anche  di  Scrittura  profonda. 

Qualcuno,  e  vorrei  anche  dire  molti,  oltre  che  di  coltu- 
ra, erano  di  saggia  dottrina  :  e  credo  di  esser  nel  vero  affer- 
mando con  piena  sicurezza  che  la  classe  ecclesiastica  deve 
avervi  rappresentato  la  parte  principale.  Se  no,  come  spie- 

216 


BRUCIAMENTO  DEGLI   ARCHIVI    -  PALIMSESTI  -  CONCLUSIONE 

gare  i  frequenti  passi  della  Bibbia?  Come  gl'inni  sacri,  parte 
propri  della  chiesa,  parte  composti  originalmente  da  loro? 
Come  i  motti,  le  epigrafi  lapidarie  sottostanti  ai  nomi  dei 
santi? 

Ahi  di  quante  lacrime  e  di  quanto  sangue  grondarono 
quelle  pareti!  Quali  gemiti  non  si  levarono  dalle  più  basse 
alle  più  alte  prigioni  dell'edificio!  dalle  inquisitoriali  pei  veri 
o  presunti  eretici  alle  filippine  pei  rei  di  fellonia!  Tarda  e 
debole  ne  giunge  ora  l'eco;  ma  fino  a  ieri,  che  risonava  for- 
te, chi  la  intese?  Chi  versò  una  stilla  di  balsamo  sulle  pia- 
ghe cocenti  dei  dolorosi  che  vi  tribolarono  ignorati  e  de- 
relitti? 

O  vecchio  Steri,  magione  superba  di  baroni  potenti,  reg- 
gia di  avidi  conquistatori,  residenza  di  viceré  insaziabili,  di- 
mora di  impavidi  inquisitori,  prigione  di  pensatori  e  di  inco- 
scienti, di  maliarde  e  di  isteriche,  di  stregoni  e  di  supersti- 
ziosi, quanti  fatti  non  ci  racconti  tu  con  la  severità  delle  tue 
mura,  con  la  nudità  delle  tue  pareti,  con  la  chiusura  di  an- 
tiche porte,  col  taglio  di  moderne  finestre?  La  fatalità  de- 
gli eventi  ha  sostituito  ai  singhiozzi  dei  sepolti  vivi  i  palpiti 
e  le  ire  cotidiane  di  quanti  patiscono,  e  le  stanche  arringhe 
dei  difensori  d'oggi,  e  le  settimanali  imprecazioni  dei  gio- 
catori del  Lotto.  Solo  l'orologio  rimasto  indice  delle  tetre 
carceri  di  Filippo  II,  è  sempre  lì  a  batter  monotono,  inces- 
sante, le  ore  del  giorno:  altro  dei  supplizi  dei  prigionieri 
d'un  tempo,  fossero  essi  condannati  a  vita,  fossero  nell'an- 
sia eterna  d'un  giudizio  e  d'una  sentenza  che  li  toglies- 
se per  sempre  a  tanto  soffrire. 

Quanta  verità,  e  che  crudele  verità  nel  motto:  Semper 
dico  venias,  nunquam  venit  ante  eros! 
Palermo,  24  giugno  1906. 

217 


i 


APPENDICE    I 


I. 

(cfr.  p.   112) 

Suor  Amata  di  Gesù  {Margherita  Cordovana)  chiede  che 
il  Tribunale  delV Inquisizione  ordini  la  restituzione  delle 
sue  terre  che  erano  state  incorporate  coi  beni  del  S.  Of- 
ficio per  debiti  di  alimenti  durante  la  sua  carcerazione. 

Ill.mi  Signori, 

Soro  Amata  di  Gesù  della  città  di  Caltanisetta  con  ogni 
dovuta  divozione  rappresenta  alla  Signorie  Vostre  IH. me 
che  l'esponente  tu  l'anno  1699  d'ordine  del  SS.mo  Tribu- 
nale trasportata  nelle  carceri  di  detto  Tribunale  ove  dimorò 
anni  tre  e  mesi  otto;  in  quel  tempo  appurantosi  dal  SS.mo 
Tribunale  di  non  aver  commesso  l'Esponente  niuna  reità,  la 
dichiarò  perciò  innocente  lasciandola  in  libertà,  ma  ])er 
causa  dell'alimenti  che  per  detto  tempo  li  erano  stati  soc- 
corsi in  dette  carceri,  la  tirarono  debitrice  in  somma  di 
onze  quaranta,  quali  l'Esponente  con  suo  fratello  Gioac- 
chino si  obbligarono  alla  ragione  di  onze  venti  l'anno  e  non 
avendo  corrisposto  al  pagamento  suddetto,  furono  perciò 
incorporate  da  potere  dell'Esponente  salme  tre  e  tumuli 
undici  di  terre  proprie  dell'esponente  esistenti  nel  territo- 
rio della  città  di  Caltanisetta,  nel  comune  nominato  delli 
Busiti,  all'Esponente  spettanti  come  ereditarli  del  fu  Mi- 
chele Corduana,  come  per  detta  incorporazione  nel  1703 
ed  altra  eseguita  delle  terre  proprie  di  detto  Gioachino;  e 
da  quel  tempo  sinoggi  sudetto  SS.mo  Tribunale  si  ha  per- 
cetto  sovra  le  sudette  salme  3,  11  proprie  terre  dell'Espo- 
nente la  somma  di  onze  centoquarantotto  di  modo  che  non 
solo  trovansi  estinte  le  sudette  onze  quaranta  credito  di  ali- 
menti, ma  deve    sudetto  SS.mo   Tribunale   restituire   all'E- 


221 


sant'uffizio 

sponente  la  somma  di  onze  centootto  per  frutti  indebita- 
mente percetti,  non  avendo  l'Esponente  per  il  passato  per 
la  sua  evidente  miseria  potuto  ricorrere  alle  Vostre  Signo- 
rie IH. me,  e  però  l'Esponente  si  fa  lecita  ricorrere  all'in- 
corrotta giustizia  ed  integrità  delle  Vostre  SS.  111. me  sup- 
plicandoli acciò  si  compiacessero  ordinare  di  doversi  scor- 
porare a  nome  dell'Esponente  le  sudette  salme  tre  e  tumoli 
undici  di  terre,  con  restarne  libero  il  possesso  e  percezione 
di  frutti  delle  medesime  a  nome  dell'Esponente,  come  al- 
tresì ordinare  di  doversi  dell'introiti  pervenuti  e  da  perve- 
nire della  Senna  del  SS.mo  Tribunale  e  d'altra  maniera, 
che  stimeranno  più  proprio  le  Vostre  Signorie  IH. me,  re- 
stituire e  pagare  all'Esponente,  li  sudetti  frutti  indebita- 
mente percetti,  che  il  tutto  oltre  di  essere  di  somma  giu- 
stizia, lo  riceverà  a  grazia  particolare,  e  così  li  supplica, 
ut  altissimus  etc. 

Al  verso  si  legge  :  Memoriale  di  Soro  Amata  di  Gesù  del- 
la città  di  Caltanissetta. 

Recognoscatur  per  spectabilem  Fisci  Patronum  -  Dr. 
Franchina. 

lesus  Maria  -  Videtur  quod  receptor  Tribunalis  referri 
debeat  in  scriptis.  -  Amico  Fisci  Patronus. 

Receptor  referat  in  scriptis  -  Dr.  Franchina, 

{Minuta  di  Notar  Giambattista  Lo  Bianco  di  Palermo, 
anno  1741-42;  voi.  46,  fol.  755.  -  Archivio  Notarile  distret- 
tuale di  Palermo). 


IL 

(v.  pag.  153) 

Copia  de  una  letera  di  sier  Piero  Venier,  quondam  sier 
Domenego,  data  im  Palermo,  a  dì  8  zugno,  et  recevuta 
qui  a  dì luio  1511,  drizata  a  soe  sor  eie. 

Come  scrive,  per  dar  la  lezor  cosse  nove  ve  dinoto, 
come  venere  pasato   (i),    per  il  reverendo   inquisitor  de 

(i)  6  giugno  1511. 

222 


APPENDICE    I 

questo  regno  (i)  fo  fato  condanaxon  contra  30  et  più  ere- 
tici et  calivi  cristiani,  cussi  done,  come  homeni;  et  per 
esser  sta  novo  modo,  ve  dechiarirò  in  parte.  Quel  zorno 
se  tene  serate  le  botege  e  oficij,  e  fo  come  festa  sole- 
nissima.  La  matina,  de  caxa  del  dito  inquisitor,  dove  è  la 
soa  prexon,  ussiteno  prima  16  femene  de  diverse  nation 
e-t  etade,  vestide  con  li  soi  abiti,  et  sopra  de  quelli  le  ha- 
veano,  a  modo,  una  zormola  di  tela  zala,  che  li  deva  finO' 
apresso  i  zenochij,  sopra  de  le  qual  era  una  sola  f  bian- 
cha,  quanto  la  longeza  e  largeza  de  la  tela,  la  qual  -|-  era 
da  le  parte  da  drio  a  tute  queste,  et  simelmente  a  zercha 
7  homeni,  tra  i  qual  era  un  che  fo  frate  di  Carmeni;  et  a 
futi  questi  homeni  e  done,  come  mali  cristiani,  ma  de 
plano,  senza  corda,  confessi  et  reduti  a  penitentia,  fa 
messo  in  testa  una  cossa  de  tela,  over  de  carta,  zala,  tuta 
longa  più  de  3  quarte,  e  forsi  un  brazo,  schieta,  senza 
niente  suso.  Da  poi  driedo  a  questi,  de  fato  vene  fu  ora 
tre  done,  tra  le  qual  fo  una  madre  e  la  fìola,  et  la  madre 
di  quel  Anzolo  Palomba  (2),  che,  pelegrin,  mandò  do  volte 
a  Veniexia  con  letere;  et  driedo  a  queste  3  done  vene  la 
5miagine  de  un  morto,  con  el  suo  nome,  de  modo  a  un 
carlevar,  vestido  di  tutti  habiti  e  maschara  (3);  e  poi 
drieto  vene  6  homeni  tutti  de  etade  da  50  anni  in  suso, 
tra  li  qual  era  un  valente  medego,  dotor,  et  molto  apre- 
'ciato,  et  alias  exercitato  (4).  Queste  3  done  et  7  homeni 
haveano  sopra  li  soi  abiti  una  zorniola  negra,  sopra  la 
qual,  cussi  davanti  come  da  driedo,  era  depento  molte 
fìnte  figure  de  demoni],  che  bufavano  fuogo  depento;  et 
per  el  medemo  tal  bruti  e  spaventosi  anemali  erano  de- 
penti sopra  le  soe  corone,   che  erano  negre  et  orende  a 

(i)  D.  Reginaldo  Monterò. 

(2)  Laura  Palumbo  da  Palermo. 

(3)  Questo    condannato    ad    esser    bruciato    morto    in    effigie- 
era  Giacomo  di  Bologna  da  Palermo. 

(4)  Gabriele  Zavatari  da  Bivona,  medico  fisico. 

223 


SANT  UFFIZIO 

vederle.  In  testa  questi  tal  haveano  un  Crucifixo  per  uno 
e  per  una  in  man,  e  persone  apresso  che  l'andavano  con- 
fortando, perchè  tutti  dicevano,  voler  morir  da  boni  cri- 
stiani; e  cussi  perseverò  con  dir  de  bocha,  fin  a  la  soa  fin. 
Tutte  le  qual  persone  fo  condute,  per  bon  spazio  (i),  fina 
sopra  una  gran  piaza  (2)  dove,  soto  la  caxa  del  signor  vice- 
re,  el  qual  con  molti  baroni  et  altri  grandi  stete  a  la  fa- 
nestra,  era  fato  do  alti  soleri.  Sopra  uno,  el  piuj  alto,  et 
molto  adornato,  se  messe  prò  tribunali,  sedendo  el  pre- 
fato reverendo  inquisitor,  el  prior  de  San  Dcmenego  de 
observantia  con  altri  maistri,  frati  del  suo  bordine,  4  doc- 
tori,  et  poi,  acL  pedes  eorum,  preti  e  frati,  e  muUitudo  co- 
piosa. Sopra  l'altro  soler,  assai  alto,  fo  messi  in  alto,  e 
luogo  più  vistoso,  li  diti,  vestiti  con  le  corone  negre  e  de 
fuogo  etc.  Quelle  altre  done  et  homeni,  da  li  habiti  e  co- 
rone zale  schiete,  fo  fati  sentar  sopra  banche  più  basse. 
Sentadi  che  fo  li  diti,  senza  confortadori,  né  alcun  apresso, 
salvo  loro  medemi,  con  Crucifixi  sempre  in  man,  per  un 
frate  de  San  Domenego,  valente  predichador,  provando 
per  molte  raxon  et  notabel  evidentie  la  fede  nostra  esser 
la  santa  et  la  incarnatiom  di  Cristo,  e  tochò  molto  utele  et 
importante  parte  a  questo  bisogno  necessarie,  mostrando 
li  erori  di  hebrei;  e  prediche  per  spazio  de  do  bone  bore, 
dove  ne  era  grandissima  moltitudine  de  ogni  condition  di 
persone;  e  da  bon,  savio  e  discreto  el  persuase,  al  con- 
cluder suo,  quelli  che  da  la  morte  era  liberati,  a  far  vita 
da  boni  cristiani,  et  quelli  che  fossero  per  aver  qualche  pe- 
na corporal,  etiam  che  el  fosse  la  morte,  a  soportarla  con 
pacientia,  comò  fedel  cristiani,  per  la  fede  et  per  amor  de 
Dio,   exortandoli  et  aducendoli  molti  exempij  dei  martori 

(i)  Piazza  Marina,  dove,  dalle  finestre  del  Palazzo  Ghia- 
romonte,  il  Viceré  e  la  nobiltà  poterono  assistere  allo  spet- 
tacolo. 

(2)  Cioè  dalla  Chiesa  dei  SS.  Quaranta  Martiri  (al  Casa- 
letto?). 

224 


APPENDICE    1 

santi;  i  qual,  a  torto,  vegnivano  alcune  volte  per  una 
Vania,  alcuni  per  un'altra  sorte  de  acusation  fati  morir; 
excusando  el  reverendo  inquisitor,  che  sopra  le  cosse  ate- 
stà  per  molti  testimonj,  e  non  per  utel  proprio,  li  conda- 
nava.  E  con  gran  .satisfation  del  popolo  fo  finita  la  dita 
predicha.  La  qual  expedita,  per  el  canzelier  del  dito  reve- 
rendo inquisitor,  a  uno  per  uno  fo  publichà  i  processi, 
prima  di  le  donne,  dal  portar  de  testa  zalo,  et  poi  li  ho- 
meni,  pur  da  li  abiti  futi  zali,  fazando  a  una  a  una  per 
tanto,  quanto  se  lezeva  el  suo  processo,  star  im  piedi,  so- 
pra la  bancha.  Queste  tal  confessò  che  in  gran  parte  le 
fevano  secondo  la  leze  de  Moyses,  e  veneravano  el  sabato 
più  che  la  domenega,  non  manzando  né  carne  de  porcho,  né 
galine,  che  non  fosse  amazà  de  cortelo;  le  dicevano  oration 
hebree,  et  molte  altre  cosse,  che  fanno  li  zudei.  Queste 
tal  done  et  homeni  vestiti  de  zalo,  con  la  -{-  biancha  da 
driedo,  avea  fato  degni  de  la  morte,  over  de  grandissima 
punition;  ma  per  aver  confessa  senza  corda,  li  fo  remessa 
et  perdona  la  morte.  Alguni  fo  poi  condanati  in  vita  im 
prexom,  alguni  et  algune  a  tempo;  et  el  frate  fo  condanà 
che  '1  fosse  desgradà,  e  poi,  per  certi  anni,  in  galia  con  li 
feri.  E  fornidi  questi  dal  zalo,  si  comenzò  prima  a  spazar 
l'imagine  del  morto,  el  qual  soleva  esser  quello  che  dizeva 
in  la  soa  ascosa  sinagoga,  e  tra  le  altre  cosse,  quando  l'era 
amala  e  morì,  alora  li  fo  porta  el  nostro  Signor  clemen- 
tissimo,  e  quando  questo  crudel  cam  sentì  che  i  voleva 
che  el  se  comunegasse,  el  fense  che  li  venisse  da  render, 
et  li  voltò  le  spale  al  Sagramento;  et,  vivando,  el  fece  et 
disse  molte  cosse  degne  de  ogni  gran  punitione.  Poi  fo  leti 
i  processi  de  le  3  done:  queste  haveano  fato  simel  sorte 
de  manchamenti,  et  alcune  cosse  pezo  de  le  altre  done,  et 
se  haveano  imbarchato  la  madre  et  fiola  per  andar  in  terra 
dove  le  podesseno  far  la  vita  a  so  modo,  senza  sospeto; 
tamen  le  meschine  denegò  el  mal  che  le  havea  fato,  et  da 
poi  che  le  ha  vene  corda,  le  confesso  la  verità,  et  par  che 
la  leze  non  le  salva  de  la  vita.  E  la  madre  de  quel  certo 

223 

15  —  G.  PITRÈ  -  Sant'Ulllzio 


SANI  UFFIZIO 

Anzolo,  che  era  gran  maistra  de  l'arte,  etiam  denegò,  et 
poi  confesà.  Queste  fo  cognossude  per  heretiche,  zudiate 
e  pertinaze,  e  non  degne  de  alcuna  remission,  e  comesse 
al  brazo  et  foro  secular,  che  le  spazaseno.  Et  poi  fo  leti  i 
processi,  ^  uno  per  uno,  de  quelli  6  homeni;  l'ultimo  fo 
quel  del  dotor  medego,  i  qual  haveano  fati  assà  erori  et 
manchamenti;  tra  li  altri,  essendo  una  dona  amalada  in 
caxa  del  medego,  li  fo  porta  el  nostro  Signor,  et  avanti  se 

feze  spazar  la  caxa;  e  quando  lui  vete  el  disse: Che  se  fa? 

A'  da  venir  qua  qualche  conte,  over  baron?  —  E  uxò  diso. 
neste  parole;  e  molti  de  questi  non  credeva  in  la  resuretion. 
Tuti  6  questi  fo  condanadi  per  eretici,  Eizudiati  et  pertinazi, 
et  fonno  remessi  etiam  al  foro  secular  (i),  e  fo  condanati  a 
la  morte,  e  tuti  li  soi  beni  et  facultade  fo  confiscade  a  la 
camera  real.  I  fìoli  mascoli,  fin  al  segondo  grado,  fo  con- 
danati, che  i  non  podesseno  haver  dignità  ni  offìtio,  et 
privi  de  molte  cosse,  come  son,  nodari,  avochati,  maistri 
de  botega;  e  le  fìe,  fin  al  primo  grado,  tantum.  Fo  etiam 
condanà  che  le  non  podesseno  portar  oro,  né  zoie,  né  lavor 
de  seda,  né  di  grana,  sotto  quelle  pene;  e,  per  lo  medemo, 
i  fìoli  di  sopra  nominati.  Fato  questa  publichation  de  con- 
danaxon,  prima  fo  dà  sachramento  sopra  un  mesal,  im 
presentia  de  l'inquisitor  e  tuti  astanti,  a  quelli  che  non  se 
dovea  far  morir,  dali  abiti  zali  da  far  vita  da  boni  chri- 
stiani,  relassando  ogni  heresia  e  modi  vecchi]*;  e  cussi  tutte 
done  e  homeni  zurò  servar.  Da  poi  questi  relasadi,  fo  tor- 
nati a  lor  prexon,  et  quele  3  done,  6  homeni,  et  la  pentura 
del  tristo  morto  fo  conduti  fuora  de  la  terra,  per  un  trato 
ée  balestro,  dove  erano  apariadi  X  palli  et  Itgne  asaissime, 
perché  l'inquisitor  dete  gran  indulgentia  a  quelH  porta- 
vano legne  per  far  tal  acto,  et  era  infinità  de  persona  per 

(i)  Cioè  a  Matteo  di  Settimo,   capitan  giustiziere  della  città 
di  Palermo. 

226 


I 


APPENDICE    1 

veder  se  i  se  remudavano  de  la  fede,  non  aspetando  re- 
mission  de  la  vita,  dei  propri j  fioli  havendo  sentì  el  vitu- 
perio et  levato  i  beni  soi  a  li  soi  posteri;  tamen  tutti,  per 
quanto  in  aparentia  se  vete,  sempre  con  dir  Jesus  et  altre 
sancte  et  devote  parole,  a  modo  porceli,  posti  dextesi  in 
terra,  separati  perhó  uno  da  l'altro,  fo  con  corde  strango- 
lati (i),  e  poi  atachati  tuti  £j  suo  trave,  con  una  cadena 
al  colo,  fo  fati  arder  e  bruxar;  cosa  spaventosa!  Et,  hes- 
sendo  morti  come  cristiani,  el  suo  morir  se  poria  dir  mar- 
tirio. El  nostro  Signor  Dio  li  pagerà,  segondo  a  la  sua 
justitia  e  misericordia  parerà.  E'  messo  da  60,  e  più,  an- 
cora im  prexon  eie. 

Diarii  di  Mariti  Sanuto,  Venezia,  1879-1903,  tomo  XII 
(MDXI,  Luglio),  pag.  310-313  (2). 


III. 

(v.   p.    156) 

De  adventu  reverendissimi  Domini  Inquisitoris  in  hac  civi- 
tate  Cathanie  et  de  iusticia  per  eum  jacta. 

Item  notandum  est  qualiter  in  questa  cita  di  Chatania 
die  XVJ"»  januarii  Xlje  indictionis  1568,  intrao  lu  reve- 
rendissimo signur  inquisituri  in  quisto  regno  degenti  con- 
tro la  hiretica  pravitati  die  dominico  per  la  porta  di  Yachi 
accompagnato  per  lo  spettabile  signuri  capitano,  patricio 

(i  )  Più  tardi  usò  strangolare  i  rilasciati  ad  un  palo,  sotto 
il  quale  poi  si  accumulava  la  catasta  di  legna  e  le  botti 
con  pece. 

(2)  Devo  questa  indicazione  al  sìgn.  ing.  agronomo  Pa- 
squale Di  Gregorio. 

227 


SANT  UFFIZIO 

et  iurati,  more  solito,  et  andao  a  posari  in  lo  convento  di 
sancto  Francisco  di  Sisa  intro  la  dieta  cita;  undi  stetti  multi 
iomi,  et  in  dicto  convento  prisi  multi  informa cioni  contra 
di  alcuni  persuni,  et  finaliter  foru  multi  carcerati,  et  da 
poi  dicto  signuri  inquisituri  si  partio  di  lu  dicto  convento 
et  andao  a  |x>sari  ir>  lo  castello  di  la  dieta  cita  ad  effectu 
di  interrogar!  et  compliri  li  processi  contra  dicti  carcerati; 
quali  compiiti,  si  volsi  fari  la  justicia;  quali  justicia  si  fi- 
chi per  lu  modo  infradicto,  videlicet. 

In  primis  fu  facto  uno  catafalco  in  lo  chano  di  la  mater 
ecclesia  in  frontispicio  di  lu  campanaro  verso  la  tramon- 
tana appoyato  in  dicto  campanaro,  multo  auto  cum  vinti 
quatro  scaluni;  et  in  summitate  dicti  pontis  fu  facto  lu 
ponti  undi  stava  lu  signuri  inquisituri  cum  sUa  scia:  et  in 
in  canto  dicto  signuri  inquisituri  stava  lo  reverendu  si- 
gnuri vicario  di  la  dieta  cita,  cioè  a  la  banda  destra,  et  a 
la  sinistra  era  uno  di  li  reverendi  patri  di  Jesu;  et  in  pedi 
dicto  ponti  ehi  era  uno  ponti,  undi  stavano  li  carcerati  et 
penitenti  cum  li  mitruni  li  carta  depinti,  et  alcuni  cura 
bucugli  et  certi  cofìni  di  pagla  inanti  li  pecti;  et  di  un  au- 
tra  banda  stava  uno  peTgulo,  undi  si  predicava.  Quali  pre- 
dicaturi  fu  lu  revendissimo  patri  frati  Agustino  La 
Mora  catanisi  di  l'ordine  di  predicaturi.  Quali  predica  for- 
nita, in  dicto  pergulo  achanò  uno  previti,  quali  publice 
manifestava,  ligendo  li  processi,  tucti  li  mancamenti  et 
defecti  di  dicti  penitenti  di  uno  in  uno;  et  lecti  dicti  pro- 
cessi, legìa  et  manifestava  li  sentencii  contra  li  condenati, 
Et  finaliter  foro  multi  condenati  tanto  a  la  frusta  comu  in 
galera  et  altri  peni.  Et  fomiti  dicti  sentencii,  dicto  signuri 
inquisituri  si  partio  et  andao  a  lo  castello,  et  la  matina,  vo- 
lendo meetiri  ad  effecto  li  condemni  et  fari  frustari  li  con- 
dennati,  ad  pregeri  di  li  signuri  iurati  di  la  dieta  cita  et 
multi  altri  signuri,  dicto  signuri  inquisituri  ad  tucti  fi- 
chi la  gracia  et  li  remisi  li  condenni  et  foro  tucti  liberati, 

228 


APPENDICE    I 

et  ad  quilli  chi  haviano  li  hiresii  chi  foro  livati,  et  a  tucti 
pexdonao.  Quali  iusticia  et  spectaculu  fu  facto  a  li  XIIJ 
di  marcso  anni  predicti  XIJ  indictionis  1568.  Et  lu  iornu 
sequenti  si  partio  per  Palermo. 

Pag.  225-226  idem. 

IV. 

Alli  23  di  Luglio  1605  si  diede  possesso  della  R.  C.  al 
Tribunale  della  SS. a  Inquisizione  di  tutta  quella  abita- 
zione nel  Palazzo  del  Re  Martino,  che  espressa  la  pre- 
sente copia  delTatto  che  si  stipulò  in  virtù  di  dispaccio 
di  S.a  M.a  Cattolica,  spedito  nella  Corte  di  VagUadoUd 
a  13  Agosto  1600,  esecutariato  in  questo  Regno  d'ordi- 
ne del  S.r  Viceré  Duca  di  Macheda  a  14  Novembre  di 
detto  anno  1600. 

In  primis  totius  Hospitii  Magni,  vocati  Lo  steri,  cum 
introita  a  porta  magna  marmorea  ex  parte  dicti  plani,  et 
omnibus  stanti js  ex  parte  scalae  coopertae,  existentis  in 
dicto  introitu,  sequendo  per  omnes  stantias  subtter  et  desu- 
per per  totum  dictum  Hospitium  cum  stantiis. Archivi]  Dlim 
M.R.C.,  et  in  eis,  in  quibus  habitabant  Magister  Nota- 
rius  dictae  M.R.C.,  seu  substitutus,  et  cum  alio  introitu 
eiusdem  Hospitij  cum  scala  magna  lapidae  discooperta  ex 
parte  dicti  olim  Archivi]  cum  stantia  subter  arcum  dictae 
scalae,  cum  stantijs  in  quibus  olim  stabat  Regius  sollici- 
tator  Fiscalis  cum  eius  officio  Actorum  criminalium  Re- 
giae  Thesoredae,  et  cum  alijs  stantijs,  in  quibus  alii  se- 
cretarii  commorabant  et  eorum  officia  axescebant,  habenti- 
bus  scalam,  ianuam  et  fenestras  etiam  in  parte  dicti  plani, 
cum  canattarja,  stabulo,  ac  iuribus  e  pertinentiis  suis; 
existentibus  secus   portam   Mazariensen   Regiae   Dohanae, 

229 


sant'uffizio 

cum  viridario  dicti  Hospitij,  acquis  et  olijs  in  eo  existenti- 
bus.  Excluso  tantum  et  dumtaxat  a  corpore  dicti  Hospi- 
tijs  magni,  cortile,  Archivio,  stantijs  ubi  regitur  Regia  Do- 
hana  et  omnibus  et  singulis  magazenis  ipsius  Regiae  Do- 
hanae  tam  terranis,  quam  soleratis,  et  capella  in  dieta 
Dohana  existente. 

Item  fuit  tradita  possessio  domus  olim  Aichivij  Con- 
cistorii  Sacrae  Regiae  Consuentive  et  aedificij,  seu  om- 
nium stantiarum,  in  quibus  regebatur  Officium  Tribunalis 
Regis  Patrimoni]'  cum  stantijs,  ubi  commorabant  Ratio- 
nales  et  Coadjutores  ordinari]'  et  extraordinari j,  et  omnes 
ali]  Officiales  et  Ministri  dicti  Tribunalis  cum  stantijs  omni- 
bus in  quibus  habitabant  dictus  de  Canizaris  Magister  No- 
tarius  et  ejus  familia  cum  stantijs  Archivij  dicti  Tribunalis, 
et  in  quibus  ipsum  Officium  Magister  Notarius  exercebat. 

Item  fuit  data  possessio  stantiarum  officij  et  Archivij 
Regis  Conservatoris  et  stantiarum  Officij  Cancellariae  et 
etiam  officij  Archivij  officii  Protonotaris  et  omnium  stan- 
tiarum et  corporum  existentium  subter  et  desuper  dicto- 
rum  aedificiorum  cum  omnibus  et  singulis  eorum  iuri- 
bus  et  pertinentijs,  earum  universlis,  eorumque  integro 
statu  et  hoc  per  introitum  et  exitum  dictorum  stantiarum 
aperitionem,  et  clausionem  januarum  et  fenestrarum  in 
eis  existentium  et  per  earum  deambulationem,  per  inci- 
sionem  arborum  dicti  viridarij  cursum  aquae  et  alia  signa 
denotantia  dictam  actualem,  realem,  corporalem  et  libe- 
ram  possessionem,  iuxta  ordinem  suae  Catholicae  Maj&- 
statis  et  ad  effectum  in  dictis  litteris  conteni'um.  Unde  t-.tc, 

Marius  Cannizaro,  Mag.  Notarius  ex  actis. 
Codilla 

{Documenti  appartenenti  al  Tribunale  del  S.  Officio  in 
Sicilia  dal  1224  al  presente.  Sub  anno  1730- 

M  Ms.  Qq.  H.  62. 

230 


APPENDICE    I 

V. 

(v.  p.   i66)'. 

Atti,  Bandi  e  Proviste  1510-11.  Indiz.  XIV  //.  205-207  Ar- 
chivio del  Comune  di  Palermo.  N.  progr.  gen.le  118. 
speciale  34.  Aula  Diplom.,  scaffale  n.  2,  armadio  2. 

Multo  alto  cathoUco  et  multo  poderoso  Princhipì  Rey 
et  Signuri  Poy  di  baxari  sci  reali  manu  et  pedi  per  in- 
f orinari  vostra  excelsa  Maiesta  fachimo  lo  presenti,  lassan- 
do da  parti  la  immensa  affectionj  et  excessivo  desjderio 
chi  à  tenuto  et  tenj  quista  vostra  felice  e  fedelissima  chitatj 
in  lo  Real  servitio  di  vostra  Altezza,  perchè  è  stato  tanto 
et  cussj  continuo  chi  Vostra  Alezza  meglu  lu  sentj  chi 
nui  per  quista  né  per  pluj  altri  lo  bastiriamo  esprimirj.  Et 
per  esser  nuj  naturalmentj  inclinatj  a  so  Real  ser- 
vitio non  haviano  bisogno  siamo  asservitj  spirunatj  ymo 
refrenatj  et  pirchì  in  quista  chitati  je  stato  lo  Reverendo 
Mosseu  Alfonso  Bernal  inquisiturj  di  la  heretica  pravita- 
ti  cum  grandi  potestati  del  Summo  Pontifichi  et  di  Vostra 
Altecza  et  haviria  voluto  usarj  so  officio  et  preheminen- 
cij  comu  si  costuma  in  li  partj  di  Spagna  non  advertendo 
chi  altramenti  si  Ha  costumato  et  costumasi  in  quisto  Regno 
et  chitati,  et  ancora  chi  non  chi  su  tanti  neophitj  et  mar- 
rani comu  in  quilli  parti,  ha  facto  et  temptato  alcuni  cosi 
chi  non  tocca  ne  specta  asso  offìtio  secundo  simo  intor- 
niati di  valentissimi  docturi  et  di  alcuni  soy  consulturj 
di  chi  ipsu  ha  priso  ammiractioni.  Sensa  raxunj  demunstra 
stari  malcuntentu.  Però  si  nui  non  sapissimu  comu  ben  sa- 
pimo  la  Sancta  Inquisitioni  essiri  multo  accepta  a  lo  on- 
nipotenti dio  et  a  vostra  Cattolica  Maiesta  ala  intencioni 
de  quilla  esseri  samctissima,  multi  cosi  fichi  havimo  consen- 

(i)  Devo  questo  documento  alla  gentilezza  degli  illustri  miei 
amici  Proff.  Guglielmo  Savagnone  e  G.  Pipitene  Federico, 
capo  il  primo,  sottocapo  il  secondo  dell'Archivio  Comunale. 

231 


SANI  UFFIZIO 

tito  et  suffiruto  chi  non  Io  haviriamo  permisso,  et  maxime 
quando  in  principio  dicto  inquisituri  fichi  jectari  ad  uno 
homu  dabenj  nomine  magistro  Philippo  Bertub'no  (i)  per 
cosi  non  spectanti  asso  offitio  né  vertenti  heretica  pravita- 
tj  sensa  alcuno  termino  di  ligi  et  di  raxuni,  chi  fu  pluj 
tosto  per  voluntati  chi  per  raxuni.  Et  fu  remediato  chi  non 
sindi  parlau  benchi  tucti  la  chitati  murmurava  cussi  comu 
Vostra  Altecza  divi  essi  per   altra   via  plenamentj    infor- 
mata (2).  Appresso  tramisi  ad  uno  isbirro  a  la  casa  di  la 
chitatj    undi    nui    altri   fachimo   residentia   et   fìchini    una 
injunctioni  di  sua  parti  sub  pena  di  excomunicationi,  chi 
per  tali  jorno  ni  presentassimo  in  sua  casa,  a  tali  ura  a 
la  sua  audiencia  publica  ac  perchè  li  presentassimo  jura- 
mento  di  defendiri  la  sancta  Inquisitionj.  La  quali  cosa  fu 
a   quista   chitatj   cosa   nova   et  dispictusa  cum   vilipendio 
et  comu  si  nuj  fussimo  di  progenia  judayca  oy  vero  recon- 
ciliati; et  nuj  per  li  respecti  predictj  cum  grande  sof feri- 
mento  li   tramisimo   lu   sindaco   di   la   chitaij   gintilhomu 
et  di  li  princhipali  di  quilla,  maraviglandonj  di  sua  reve- 
rencia  chi  cum   quista  chitati  la  princhipalj   di  lo  Regno 
talj    terminj  usassi  a  mandarilj    uno  ysbirro  et  requidirisj 
et,  jnjungirilj    in  lu  modu   predicto,   respondendolj   chi  la 
chitati  in  principio  di  so  offitio  in  la  matrj  ecclesia  havia 
puplice  jurato  e-t  non  era  bisogno  altro  juramento;  chi  cussj 
jn  jpso  semprj  si  havia  costumato  :    nentjdimeno  si  altra 
volta  era.  bisogno  la  chitati  jurarj  oy  nuj  altri  chi  repre- 
sentamu  quilla,  stavamo  prontj  tando  et  semprj  chi  jn  lu 
loro  modo  et  forma  chi  juraro  li  predecessurj  nostrj  juri- 
riamo  nuj;  et  di  quisto  parirj  et  consiglo  foro  multj  nota- 
bilj  chitatinj  et  docturj  princhipalj  di  la  chitati,  dichendo 


(i)  Arresto  per  cose  estranee  alla  fede,  di  un  Mr.  Fil.  Ber- 
tolino, brava  persona. 

(2)  Ingiunzione  fatta  con  un  birro  a  voce  al  Senato  che 
si  presenti  per  un  dato  giorno  all'Inquiusitore  (per  la  scomu- 
nica) per  giuramento. 

232 


APPENDICE    I 

talj  juramento  non  essiri  necessario  et  nuj  per  disfungirj  li 
inconvenienti  et  pluj  servirj  lo  immortalj  Dio  et  a  Vostra 
Alteza  stavamo  prontj.  Et  ipsu  insistendo  chi  volia  lo  das- 
simo  in  sua  casa,  et  ad  questo  bisognao  lo  remedio  et  pru- 
dentia  del  dicto  Viceré  per  potirisi  desister]  di  talj  impresa. 
Appresso  temptao  volirj  exemptioni  dì  certi  Gabelle  di  la  re- 
gia Curti  et  di  quista  chitati  di  li  quali  nexuno  mai  inqui- 
situri fu  exempto  ne  eciam  prelatj  tanto  magis  quod  ipsu 
•non  fu  né  è  clerico;  et  benkj  lu  fussi,  li  clerici  non  su 
exempti.  Et  nentidimino  quisto  fu  prò  visto  per  lo  dicto 
spectabil  Vicire,  chi  Ij  magnifici  magistrj  razionai]  provvi- 
dissiro  di  justicia  et  illa  pendi  quista  sua  peticionj.  Appresso 
havendo  lu  dicto  Inquisituri  sentenciato  et  declarato  al- 
cuni neophitj  marrarj  prò  heretici  a  perpetuo  carce- 
ri et  dapoy  reconciliati  et  alcunj  datj  prò  eretici 
foru  abruxatj  in  lo  pronuntiarj  di  lì  sententij  li 
fechino  tucti  compagnia  et  grand]  honurj  comu  lu  de- 
bito requidia  di  jlla;  ad  alcuni  jorni  volia  promulgar]  uno 
bando  di  lo  qual]  con  lo  prisent]  ven]  la  copia  ad  vostra 
Alteza,  lu  quali  era  multo  prejudicial]  a  la  Real]  prehemi- 
nencia  di  Vostra  Alteza  centra  li  Capitul]  et  Privilegi]  di 
quisto  Regno  et  di  quista  chitati  et  lo  honur]  et  interesso 
grand]  di  tucti  li  chitatin];  et  era  fora  di  la  jurisdicion]  di 
lo  dicto  Inquisitur].  Nui  visto  dicto  bamdo,  per  dar]  cuncto 
di  nu],  fichimo  convocar]  dechi  doctur]  princhipal]  di  la 
chitat]  infra  li  quali  foro  du]  di  li  cunsigleri  di  lo  dicto 
officio  chi  condempnaru  a  li  dicti  marrany  et  non  volsino 
convocari  altri  et  assay  chitatin]  per  ma]ur]  servicio  di  Vo- 
stra Altecza  li  quali  visto  lu  bando  predicto,  nemine  discol- 
pante dissiro  et  vosiro  chi  quanto  tenia  dicto  bando  non 
era  né  spectava  ad  dicto  offitio  per  multi  et  assay  raxunj,  et 
chi  nui  non  permettirisimo  ad  nixuno  modu  prò  dicto  offitio 
si  promulgassi  tali  bampno  chi  era  multo  pre]udicial], 
comu  é  dicto  di  supra,  et  chi  fussimo  a  lu  dicto  spectabil]. 
Viceré  et  a  quillo  informassimo  di  tutto  lo  negocio  per 
potirisi    meglo    providir]     declarando    ad    vostra    altezza 

233 


sant'uffizio 

chi  è  preheminencia  di  quista  chitatj,  di  quando  è  fac- 
ta  chitatj  chi  non  si  pò  promulgar]  bamdo  in  quilla  si- 
non  per  so  banditurj  e  chi  tali  bamdo  sia  visto  per 
H  officiai]  de  dieta  chitati  et  conoxuto  non  chi  essirj  co- 
sa contra  soy  privilegi  oy  capituli,  eciam  chi  tal]  bando 
sia  di  quaulsivoglia  officiali  preheminentj  et  di  lu  Vi- 
ceré del  Regno;  lu  quali  Viceré  essendo  per  nui  infor- 
mato ny  dissi  chi  tucto  fachissimo  intendirj  a  lo  dicto  In- 
quisituri et  non  potendo  infra  nui  accordarini  chi  ipsu 
remittiria  lu  punctu  et  talj  casu  a  la  gran  Curtj;  et  paren- 
donj  chi  'lo  dicto  Viceré  dicha  multo  beni  cussi  fichimo: 
oomandamo  a  raxunarj  a  lo  dicto  Inquisituri  .um 
dui  di  li  iurati  compagny  nostri  et  fichimolj  declarari  chi 
tali  bandu  per  ipso  né  per  so  offitio  potirisi  promulgari,  né 
era  di  sua  iurisdicioni.  Secundo  per  consiglo  dili  supra- 
dict]  docturi  ftiaxime  di  dui  soy  principali  consultori  era- 
mo  consiglati  li  quali  havendo  intiso  a  li  dicti  iura- 
tj  volendo  insistiri  chi  la  pena  si  divia  fari  et  chi 
nui  ^on  lu  potiamo  impediri  reyteraro  tucti  li  cosi  predi- 
cti  chi  di  quilli  era  stato  mal  tractato  et  chi  non  po- 
tia  farj  altro  chi  seri  virilo  ad  Vostra  Altecza.  A  lu  qualj 
parlari  tamen  fu  refenso  chi  la  chitati  tambeni  sicura  comu 
a  lu  presemti  fachimo  certificando  et  beni  informando 
Vostra  Altecza  chi  quista  chitati  camenti  la  sancta  volun- 
tati  et  intencioni  di  Vostra  Altecza  essiri  per  lo  sancto 
zelo  di  la  sancta  fé  et  solicita  in  sustiniri  per  li  soy  regni 
quista  sancta  inquisicioni  benchi  in  quìsto  regno  chi  su  poco 
neophiti  et  marranj  per  conformarisi  cum  Vostra  Altecza 
sempri  a  multo  honorato  et  favorito  a  li  inquisitu- 
ri su  stati  et  assay  plui  lo  dicto  misser  Alfonso  havimo 
nui  honorato  et  favorito  et  in  dicto  so  officio  in  cosa  al- 
cuna ni  havimo  intromiso  né  dato  impedimento  alcuno, 
nentidimino  comu  ipsu  lu  hagia  adiministrato  et  pertanto 
si  non  potimo  nui  informarindi  Vostra  Altecza  persuadi -un- 
ni Vostra  Altecza  per  altrj  lu  possa  intindirì.  Quisti  cosi 
et    scrivimo    per    dari    cunto    di    nuj    perchi,    comu    be- 

234 


APPENDICE    I 

nj  po  considerar]  Vostra  Altecza,  per  lo  regno  per  esse- 
rj  privilegiate  at  havirj  soy  costumi  è  bisogno  chi  lo  re- 
gimento  di  li  officj  sia  administrato  secundo  lo  costumo 
di  lo  paysi  et  non  divj  ad  ipsu  inquisituri  parirj  extraneo 
farj  comu  ha  costumato  maxime  in  cosi  non  prejudi- 
cialj  a  lo  dicto  officio,  et  diviria  esequirj  comu  li  soy 
predecessurj  hanno  facto.  Per  tanto  supplicamo  vostra  Al- 
tecza genibus  tlexis  si  digna  providirj  chi  de  cetero  dicto 
inquisituri  vogla  usar]  so  officio  comu  si  divi  et  qui- 
st]  cosi  chi  non  su  di  sua  iurisdictioni  non  li  ten- 
tar] apportarisi  in  quisto  regno  et  chitati  con  quillo  ordin] 
et  forma  chi  si  div]  secundo  lo  costumo  di  lo  paysi  et  dict] 
soy  predecessori  si  hanno  provato  comu  la  raxuni  permect] 
chi  certament]  n]  par]  multo  necessario  a  quisto  regno  et 
chitati  si  lo  meriti  perchè  continuament]  non  pensa  altro 
la  noeti  ^t  lu  iomu  exepto  comu  a  Vostra  Altecza  possa 
servir].  Lo  quali  nostro  Signuri  dio  ni  facza  gracia  di  con- 
servar] prospero  et  felichi  et  una  longa  vita  et  cum  con- 
tinua Valencia  di  soy  glorius]  impres].  Ex  urbe  nostra  fe- 
p  liei  Panormi]  die  vigesìmo  XVII  ]unii  XIIIJ  indicio- 
nis  1511. 

Di  V.  S,  R.  Mti  humil]  vassalli  et  servitor]  chi 
soy  Reali  mano  baxano  lo  pretur]  et  ]u- 
rat]  dì  la  vostra  felichi  chitati  di  Palermo. 

Georgi  Bracco  MUes  et  pretor. 
Alexandro  Galletti  juratus  et  priolus 
Flaminio  di  Leofante  juratus 

SlMUNI  DI  BÙLOGNA  jUTUtuS 

ToMAS  IsGRO  juratus 
Francisco  de  Montano  jurato 
Petro  de  Squarcialupo  jurato 
Franciscus  Farfagia  magister  noiarius 

juratorum  feltcis  urbis  Panormi 
Sacrae  Regie  Maiestati 


235 


APPENDICE    II 


I. 

Un'importante  scoperta  del  Prof.  Pitrè  :  Le  carceri  del  San- 
t'Uffizio nel  Palazzo  dei  Tribunali  -  Disegni,  motti  e 
poesie  dei  prigionieri  (dal  <(  Giornale  di  Sicilia  »  del  25- 
26  giugno  1906). 

Nello  storico  palazzo  dei  Chiaromonte  che  si  ergeva 
maestoso  alla  Marina,  circondato  di  ubertosi  giardini,  nello 
Steri  che  fu  palazzo  reale,  albergo  di  ogni  delizia,  nel  t6oo 
fu  stabilito  il  Tribunale  dell'Inquisizione,  che  vi  rimase  fi- 
no al  1782,  anno  in  cui  fu  abolito  dal  viceré  Caracciolo,  che 
fece  dare  alle  fiamme  gli  archivi,  sicché  nulla  ci  è  rimasto 
di  quanto  si  riferisce  al  S.  Uffizio  in  Palermo. 

Non  sappiamo  nemmeno  dove  e  come  erano  le  carce- 
ri del  S.  Uffizio,  che  finora  abbiamo  dovuto  vedere  in  un 
sotterraneo,  dal  lato  della  dogana,  additato  come  l'antico 
carcere,  ma  forse  per  semplice  tradizione. 

In  questi  ultimi  mesi,  volendo  il  Municipio  adattare  al- 
cune stanze  della  R.  Procura  ad  aule  d'udienza,  nei  lavori 
di  scrostamento  delle  vecchie  muraghe,  venne  fuori  un  primo 
affresco. 

Di  tal  cosa  fu  informato  l'illustre  prof.  Giuseppe  Pitrè, 
il  quale,  recatosi  presso  la  R.  Procura  (primo  piano),  trovò 
nella  prima  stanza  a  destra  di  chi  entra  dalla  porticina  che 
dà  sulla  scala,  un  disegno  colorato,  che  lo  animò  a  conti- 
nuare per  conto  suo  il  lavoro  di  scrostamento  del  muro;  ciò 
che  egli  fece,  lavorando  con  tenace  pazienza  per  ventun 
giorni  consecutivi. 

Prima  di  arrivare  alla  muraglia  lavorata,  il  Pitrè  in- 
contrò non  meno  di  quattro  intonachi,  sovrapposti  nei  vari 
tempi.  Durante  il  suo  faticoso  lavoro,  di  giorno  in  giorno, 
di  ora  in  ora,  egli  vedeva  spuntare  alla  luce,  miracolosa- 

239 


SANT  UFFIZIO 

mente  conservati  dalla  calce,  disegni,  graffiti,  poesie,  trac- 
ciati e  scritti  tre  secoli  e  mezzo  or  sono,  negli  orrori  d'un 
tetro  carcere  dell'Inquisizione. 

Il  Pitrè,  che  chiama  con  frase  felice  questi  documenti 
grafici  i  «  palimsesti  del  carcere  »  li  ha  studiati  con  atten- 
zione, ed  è  riuscito  a  decifrare  la  maggior  parte  dei  motti  e 
delle  poesie  che,  coi  disegni,  occupano  parte  della  parete 
sud  e  parte  della  parete  ovest  della  stanza. 

In  questa  è  ancora  visibile  l'antica  finestretta,  ora  mu- 
rata e  sostituita  da  due  grandi  finestre;  dall'antica  finestret- 
ta doveva  piovere  una  luce  scialba  che  rompeva  a  fatica  la 
oscurità  dell'angusto  carcere. 

Or  è  da  notare  che  i  motti,  le  poesie,  i  disegni,  son  lutti 
nei  punti  dove  la  luce  non  poteva  penetrare  quasi  affatto; 
precauzione  questa  dei  prigionieri  per  non  lasciar  scoprire 
l'opera  loro. 

In  seguito  alle  sue  attente  osservazioni,  il  Pitrè  ritiene  che 
tutte  le  stanze  allineate  al  primo  piano  della  R.  Procura, 
siano  state  un  carcere  destinato  alle  persone  civili  e  agli 
ecclesiastici  nel  secolo  XVII,  proprio  nel  secolo  in  cui  il 
Tribunale  dell'Inquisizione  si  stabilì  nello  Steri. 

Queste  convinzioni  del  Pitrè  sono  suffragate  dalle  iscri- 
zioni scoperte. 

In  quattro  punti  differenti  egli  ha  letto  questi  motti: 

«  Averti  ca  cca  si  dura  la  corda 

«  Statti  in  cerv'ellu  ca  cca  dunanu  la  tortura. 

E  più  in  là: 

«  V'avertu  ca  cca  prima  dunanu  corda... 

«  Statti  in  cervellu  ca  cca  dunanu  la  tortura. 

arti   infami. 

Del  resto,  tutta  la  cella  accenna  a  sofferenze  di  gente 
carcerata. 

I  motti  latini,  le  frasi  italiane,  i  motteggi  e  le  canzoni 
siciliane  e  varie  figure,  accennano  a  tortura  (S.  Caterina), 
a  catene  (S.  Vito),  a  tenebre  (S.  Rosalia). 

240 


I 


APPENDICE  II 


Notevole  la  figura  di  S.  Rosalia,  che  ha  sotto  di  sé  la 
carta  geografica  della  Sicilia.  Sulla  figura  è  scritto: 

O  Rosalea^  sicut  liberasti  a  peste  Panhormum 
me  quoque  sic  libera  carcere  et  a  tenebris 

Il  Pitrè  ha  potuto  precisare  che  tanto  i  motti  che  le 
figure  sono  della  metà  del  600.  Ciò  è  dimostrato  dal  fatto 
che  ben  due  volte,  in  due  diverse  inscrizioni  ricorrono  le 
date  165...  e  166...  e  dalla  figura  dello  spagnuolo  disegnata 
sulla  parete  ovest,  rappresentante  un  signore  in  costume 
spagnuolo   del   '600,    dall'aria   inspirata,    inginocchiato   in 

1 


I 


atto  di  preghiera;  a  destra  è  lo  stemma  della  sua  casa;  a 
sinistra,  in  caratteri  gotici,  la  preghiera  che  egli  recita. 

Dall'altra  parte,  è  un  disegno  a  tre  colori  (carbonella, 
giallochiaro  e  rosso)  rappresentante  un  mascherone,  dalla 


241 


16  -  G.  PlTRÉ  ■  Sant'Uffizio 


SANI  UFFIZIO 


r^.^. 


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Jl  .» 


-1^ 
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cui  bocca  escono  due  cornucopie,  su  una  delle  quali,  un  car- 
cerato dipinse  la  figura  d'un  inquisitore,  che  l'ossessionava. 
Ma  se  la  figura  dello  spagnuolo  è  di  scorretto  disegno 
(specie  nelle  gambe)  e  il  mascherone  non  esce  dai  limiti 
d'un  disegnino  privo  d'importanza,   la  testa  barbuta  che 


/vJ^^J 


I 


APPENDICE  II 

lo  sovrasta  a  destra,  è  una  delle  più  corrette  ed  espressive 
che  siano  nella  sala. 

In  essa,  lo  sconsolato  artista  che  la  traccia,  volle  ritrar- 
re forse  se  stesso  e  il  proprio  padre,  tanta  è  la  malinconica 
serenità  dello  sguardo  e  la  corretta  espressione  dei  linea- 
menti. 


Come  di  questa  e  delle  precedenti,  è  ignoto  anche  l'au- 
tore della  pensosa  figura  d'un  santo  monaco  (potrebbe 
essere  S.  Benedetto  o  S.  Francesco  di  Paola  o  S.  Bernardo 
o  un  altro  dei  taumaturghi);  figura  assai  delicata  e  soave. 

Nomi  d'autori  non  se  ne  leggono  mai;  solo  una  volta, 
in  una  figura  quasi  di  grandezza  naturale  rappresentante  il 
Cristo  risorto,  sotto  l'inscrizione: 

Mors,   ubi  est  Victoria  tua? 

sta  scritto  :    ((  D.  Franciscus  Carata,  servus  tuus  » 

Notevole  un  braciere  con  un  cuore  che  vi  brucia  dea- 


243 


SANT  UFFIZIO 

tro,    simbolo   di   orribili   sofferenze   e,    sotto   la   figura   di 
Sw  Vito,  l'inscrizione: 

Cum   infirmor  tum   potens   sum. 

Sotto  la  figura  di  un'aquila,  il  Pitrè  legge: 
Vi'rtus)  et  motus  (a)best 

Ma  quelle  che  hanno  importanza  davvero  singolare 
sono  le  poesie  siciliane. 

Sono  d'un  solo  autore,  un  malinconico  poeta  del  car- 
cere, che  scrive  a  penna  d'oca  le  sue  pene  in  uno  stile 
sinceramente  triste.  Sono  davvero  lacrimae  rerum  e  nulla 
vi  è  della  retorica  seicentesca. 

Egli  non  si  firma  se  non  con  qualche  amara  qualifica, 
come  Yahhannunatu,  l'inalici,  lu  scurdatu;  e  usa  l'ottava 
siciliana  classica  a  due  rime  alterne.  Parecchie  ottave  il 
Pitrè  è  riuscito  a  leggere  interamente,  altre  solo  in  parte. 

Eccone  una  fra  le  più  espressive  e  profonde: 

Nun  ci  'nd'è  no  scuntenti  comu  mia, 
mortu,   e  nun  pozzu   la  vita  finiri. 
Fortuna  cridi  ch'immurtali  io  sia, 
Chi   si  murissi  nun  duvria  patiri, 
pirchì   cu   la   mia   morti  cissiria 
la  dogghia  e  l'infiniti  mei  martiri; 
per  fari  eterna  la  memoria  mia 
'nta  tanti  stenti  nun  mi  fa  muriri. 

L'infilici. 

In  un'altra  ottava,  dopo  aver  lamentato  —  è  questa 
la  sua  idea  dominante  —  d'esser  da  tutti  dimenticato,  con- 
clude : 

E  quannu  manca  ogn'autra  ricurdanza, 
c'è  l'aiutu  di  Dio,  ch'un  manca  mai. 

Chi  sa  qual' anima  gentile  non  era  la  sua,  condanna- 
ta a  intristire  nell'oscurità  d'un  carcere,  nell'orrore  dei 
ceppi! 


244 


APPENDICE  II 

Molte  son  poi  le  iscrizioni  in  forma  di  brevi  aforismi  o 
di  consigli  morali: 

Pacienza,  pani  e  tempu  (per  vivere  fino  al  giorno  della 
liberazione). 

Pensa  beni  a  la  morti. 
Fallii   omnis   homo  etc. 

Un  altro  chiama  invano  la  morte: 

Semper  dico  -  Venias  -  et  nunquam  venit  ante  cras. 

E'  tutto  un  complesso  di  dolorosi  ricordi,  di  soffcTcnze 
lunghe  e  crudeli  che  commuovono  profondamente. 

Fu  detto  che  il  muro  bianco  è  la  carta  dei  matti. 
Se  ciò  può  essere  vero  in  certi  casi,  non  è  nelle  carceri 
del  S.  Uffizio  di  Palermo. 

Quanto  sangue  e  quante  lacrime  non  grondano  da  quelle 
pareti!  Sembra  di  sentir  rintronare  di  gemiti  e  di  pianti 
quelle  celle,  arrise  ora  dal  sole,  che  v'entra  a  fiotti  dal- 
le ampie  finestre. 

Ora  che  tutto  è  s«omparso  dell'antico  orrore,  chi  più 
sentiva  le  voci  di  tanti  infelici  che  penarono  e  morirono  fra 
quelle  mura?  Chi  pensava  che  in  quél  luogo  avessero  pianto 
e  sofferto  centinaia  di  persone,  molte  delle  quali  colte  e 
ben  nate? 

Dobbiamo  al  Pitrè  l'interessante  scoperta,  di  cui  ieri 
egli  ha  letto  una  elaborata  relazione  nella  sala  della  So- 
cietà Siciliana  di  Storia  Patria,  innanzi  a  un  pubblico  elet- 
tissimo, che  si  appassionò  vivamente  alla  efficace  rievo- 
cazione di  tante  sofferenze,  fatta  con  arte  magistrale  dal 
Pitrè. 

L'illustre  professore,  al  termine  della  lettura  frutto  di 
un  mese  di  lavoro  e  di  studio,  fu  applaudito  con  entusia- 
smo e  moltissimi  vollero  compiacersi  con  lui  del  suo  nuovo 
e  importante  lavoro. 

CAM. 


245 


SANT  UFFIZIO 


IL 


Dai  Palazzo  Chiaramonte  in  Palermo  e  di  un  carcere  del 
S.  Uffizio  in  esso  recentemente  scoperto  (da  ((  La  Si- 
cilia Illustrata  »,  agosto  1911). 

Il  Palazzo  Chiaramonte,  detto  per  eccellenza  lo  Steri, 
nella  Piazza  Marina,  ha  una  storia  drammatica  e  sangui- 
nosa. Le  sue  vicende  sono  vicende  di  Palermo,  la  sua  ar- 
chitettura è  architettura  della  Sicilia;  ed  ogni  sua  pietra 
ricorda  una  istituzione,  narra  un  fatto  che,  con  altri  cento, 
compone  il  serto  di  rose  dei  governanti,  la  corona  di  spine 
dei  governati. 

Da  Manfredo  Chiaramonte  a  Domenico  Caracciolo,  ad 
Asmundo  Paterno,  a  noi  tutti,  per  sei  ininterrotti  secoli  i 
fasti  baronali,  viceregi  ed  inquisitoriali  vi  si  sono  avvicen- 
dati e  succeduti  con  le  miserie  del  popolo,  le  solennità 
più  splendide  con  le  scene  più  terribili,  le  gioie  di  gaudenti 
con  gli  urli  dei  disperati.  Lì  i  primi  Conti  di  Modica,  af- 
fermando il  loro  gusto  per  le  arti  e  la  loro  protezione  per 
gli  artisti,  sfoggiavano  la  loro  intelligente  opulenza:  e  sul 
soffitto  del  gran  salone  scrivevano  le  prime  pagine  della 
storia  del  rinascimento  della  pittura  in  Sicilia,  e  perpetua- 
vano le  loro  larghe  e  potenti  parentele  con  le  armi  dei  Ven- 
timiglia  e  degli  Alagona,  dei  Peralta  e  dei  Rossi,  dei  San- 
tostefano  e  dei  Moncada,  degl'Incisa  e  degli  Sclafani, 
degli  Spinola  e  dei  Polizzi.  Da  una  di  quelle  finestre  Mar- 
tino II  s'affacciava  a  veder  troncare  il  capo  ad  Andrea 
Chiaramonte,  uno  dei  quattro  Vicari  del  Regno  dopo  la 
morte  di  Federico  il  semplice,  e  con  sommaria  confisca  fa- 
ceva suoi  i  beni  del  giustiziato,  e  teneva  nel  palazzo  la 
Regia  Curia,  un  tempo  residente  al  Castello  del  Mare.  Lì 
cercò  invano  rifugio  la  bella,  sapiente  e  sventurata  Bianca 
di  Na varrà,  che  con  nuova  disordinata  fuga,  in  una  fredda 
notte  d'inverno,  potè  salvare  la  sua  regal  vedovanza  dal 

246 


APPENDICE  II 

libidinoso  ardore  del  Conte  Bernardo  Cabrerà   riuscito  a 
scalarne  le  finestre. 

Lì  nel  1446  si  adunavano  i  generali  parlamenti  e  Car- 
lo V  re  ed  imperatore  vi  apriva  quello  del  16  settembre 

1535- 

Nella  chimerica  congiura  di  Giovan  Luca  Squarcialupo, 
il  popolo,  incendiate  le  porte,  atterrate  le  guardie,  invasi  i 
cortili,  le  scale,  gli  anditi,  le  aule,  precipitava  giù  da  quei 
merli  i  giudici  della  Magna  Curia  Niccolò  Cannarella  e 
Tommaso  Paterno  accolti  sulle  picche  dai  sollevati  che  vi 
tumultavano  sotto.  E  dai  pilastri  della  sua  alta  campana  si 
buttavano  giù  i  trasgressori  delle  leggi  sanitarie  in  tempi  di 
pestilenza,  ed  uno  di  essi  nella  epidemia  del  1576,  mozze  le 
mani,  si  vide  ad  uno  ad  uno  strangolare  dinanzi  i  compagni 
di  furto  di  robe  infette,  riversare  da  quelli  i  corpi,  squartar- 
ne le  membra,  ed  ora  alla  sua  volta  strangolato  anche  lui 
come  gli  altri,  bruciato,  sparse  al  vento  le  ceneri  scellerate. 
Nel  1600  tramutavasi  dal  Regio  Palazzo  e  trovava  sta- 
bile dimora,  dopo  lungo  vagare  per  esso,  pel  forte  di  Castel- 
lamare,  pel  campanile  della  Piazza  dei  SS.  Quaranta  Mar- 
tiri al  Casalotto,  il  S.  Uffizio,  e  con  esso  carceri  e  strumenti 
di  tortura,  mezzi  efficaci  ad  insinuanti  interrogatorii.  Nuova 
vita,  nuovi  ospiti,  tormentatori  e  tormentati;  ed  al  domani 
del  passaggio,  mille  soldati  spagnuoli  ne  scardinavano  le 
porte  e,  preceduti  dal  boia  ne  invadevano  l'atrio. 

Giacché,  essendo  stato  imputato  di  omicidio  il  nobile 
D.  Mariano  AUiata  familiare  del  Tribunale  della  fede,  questo 
avea  reclamati  gli  atti  processuali,  e  non  ottenutili,  avea  «co- 
municato la  Corte.  L'Arcivescovo  (D.  Diego  d'Haedo)  to- 
glieva la  scomunica,  e  gl'inquisitori  scomunicavano  lui;  ed 
il  Viceré  duca  di  Feria,  fuori  di  sé  dalla  rabbia,  mandava  a 
far  valere  con  la  forza  la  ragion  di  Stato  e  ad  impiccare 
chiunque  osasse  opporre  resistenza;  e  gl'Inquisitori  ribe 
nedivano  Corte,  Arcivescovo  e  quanti  altri,  come  i  soldati 
al  loro  giungere,  erano  stati  colpiti  dal  disastroso  anatema  : 
fatto,  codesto  non  nuovo  per  quanto  violento,  che  alla  di- 

247 


SANT  UFFIZIO 

stanza  di  dodici  anni  si  ripeteva  con  l'arresto  del  Conte  di 
Mussomeli,  anche  lui  omicida  (1590)  e  perchè  familiare 
dall'Uffizio,  richiesto  dall'Inquisitore  e  negato  dal  foro  ordi- 
nario, il  quale  veniva  scomunicato  e  con  esso  interdetta  la 
città  tutta. 

Lì,  in  una  delle  sale  interne,  l'Inquisitore  Trasmiera 
nella  notte  memorabile  del  21  agosto  1647  tramava  la  ro- 
vina del  battiloro  Giuseppe  d'Alessi,  la  quale  al  domani,  egli 
capo  della  reazione,  traduceva  ad  atto.  Lì  testimoni  perenni 
di  raffinata  ferocia,  di  costa  all'orologio,  fino  al  27  marzo 
del  1782,  pompeggiavano  sinistramente  tre  gabbie  di  ferro 
con  le  teste  di  Federico  Abbatelli  conte  di  Canamarata, 
Francesco  Imperatore  e  Nicolò  Francesco  Leofonte,  per 
duelli  nel  1523. 

L'uso  principale  ed  ultimo  del  palazzo  Chiaramente  pri- 
ma dal  secolo  ora  scorso  fu  pertanto  quello  del  Tribunale 
della  Fede;  ma  nessun  uso  è  per  noi  tanto  oscuro  quanto 
questo. 

L'allegro  bruciamento  degli  archivi  compiuto  con  sin- 
goiar pompa  nella  Piazza.  Marina  dal  Viceré  Caracciolo  (27- 
28  giugno  1783)  privò  il  paese  di  documenti  capitali  per  la 
storia  del  pensiero,  del  costume,  della  superstizione,  della 
vita  tutta  dell'Isola. 

E  tal  sia  di  essi!  Forse  non  fu  priva  di  fondamento 
l'affermazione  d'allora,  ripetuta  poi  con  insistenza,  che  in 
quelle  carte  fossero  segrete  denunzie  da  parte  di  persone  che 
nessuno  avrebbe  sospettate. 

Tant'è,  poco,  ben  poco  ci  resta  di  quella  istituzione,  e 
meno  ancora  sappiamo  dell'uso  delle  varie  parti  dell'edi- 
ficio. Eppure  dovremmo  sapere  dove  gl'Inquisitori  tene- 
vano le  loro  adunanze,  dove  le  loro  udienze;  quali  le  segrete 
degli  inquisiti,  quali  i  luoghi  dei  tormenti,  come  si  compo- 
nesse l'arsenale  di  mitre  e  di  sambeniti,  di  strumenti  di 
tortura  e  di  ritratti  d'Inquisitori:  arsenale  smantellato,  di- 
strutto con  quel  med^mo  fuoco  che  tante  vite  aveva  an- 
nientate e  che  annientò  con  esse. 

248     • 


APPENDICE  II 

La  Inquisizione  in  Sicilia,  specialmente  nell'ultimo  se- 
colo, declinò  verso  una  certa  mitezza;  e  basta  dire  che  in 
tutto  il  settecento  due  sole  esecuzioni  ebbero  luogo.  Ma 
che  perciò?  Il  Tribunale  era  sempre,  nella  sua  natura,  l'an- 
tico, e  nel  Palazzo  Chiaramente,  privi  di  luce,  scarsi  di 
cibo,  laceri  di  vesti,  ridotti  a  povertà  di  spirito,  lasciavano 
la  vita  i  condannati  a  lunghe  prigionie.  Frate  Romualdo  e 
Suor  Geltrude,  due  sventurati  illusi,  vi  tribolarono  per  un 
quarto  di  secolo,  e  ne  uscirono  solo  per  esser  condotti  sul 
Piano  di  S.  Erasmo  ad  esser  bruciati  vivi.  Il  nobile  cassi- 
nese  D.  Mario  Crescimanno  vi  stette  come  eresiarca  ad  urla- 
re 28  eterni  anni,  finché  divenuto  mentecatto,  vi  finiva  e, 
perchè  non  comunicato,  sepolto  nel  giardino  (1771).  Dove 
stettero  questi  ed  altri,  infelici?  quali  giacigli  accolsero  le 
loro  membra  intormentite?  Quali  mura  o  quali  pareti  udi- 
rono i  loro  rammarichi?  Per  quali  spiragli  poterono  quegli 
infelici  confortarsi  che  le  loro  supplicazioni  si  sprigionassero 
per  salire  fino  a  Dio? 

Da  un  lato  dell'attuale  Dogana  si  addita  anche  oggi 
una  muda  con  una  solida  colonna  centrale,  sostegno  di  due 
archi,  con  un  chiodo  confitto  in  alto,  al  quale  venivano  so- 
spesi —  dicono  —  gl'imputati;  ma  la  tradizione  è  vaga  e  da 
quella  muda  dovrebbero  incominciarsi  le  ricerche  per  isco- 
prire  dove  essa  conducesse  e  donde  vi  scendessero,  se  pure 
vi  scendevano,  gl'Inquisitori  e  i  carcerieri. 

Noi  non  sappiamo  nulla  di  sicuro,  perchè  senza  ri- 
spetto all'insigne  monumento  ed  alla  storia  fu  provveduto 
alla  chiusura  di  porte,  alla  muratura  di  finestre  che,  come 
quelle  del  grande  salone  della  Corte  d'Appello  rimesse  alla 
luce  nel  1894,  certi  Inquisitori  spagnuoli,  Torquemada  delle 
arti,  ordinarono  a  loro  capriccio,  comodo  ed  uso  del  mo- 
mento. 

Nella  primavera  del  1906  io  ebbi  la  fortuna  di  scoprire 
alcune  carceri  del  S.  Uffìzio,  ignorate  fino  allora. 

Quelle  carceri  erano  nel  secondo  piano  del  fabbricato 
nel  quale  risiede  oggi  la  R.  Procura. 

249 


SANT  UFFIZIO 

La  scoperta  potè  salvare  sole  tre  celle  del  carcere,  es- 
sendo state  le  altre  manomesse  dai  muratori. 

Scalcinando  e  scrostando  per  sei  non  interrotti  mesi,  io 
riuscii  a  mettere  in  luce  nove  pareti  delle  tre  celle,  molto 
curiose  ed  interessanti  per  le  manifestazioni  psichiche  dei 
poveri  prigionieri,  non  meno  interessanti  per  la  storia  intima 
della  Inquisizione  in  Sicilia.  Disegni  d'ogni  genere,  santi, 
madonne,  crocifissi,  inni,  iscrizioni,  versi  latini,  italiani, 
siciliani  vi  sono  accalcati,  l'uno  sull'altro,  quasi  con  pensiero 
pertinace  di  volersi  l'uno  sull'altro  scalzare.  Di  tempo  in 
tempo  intervenivano  i  familiari  dell'istituto  cercando  di  fare 
scomparire  con  imbiancature  i  molesti  grafiti;  e  così  uno  stra- 
to di  calce  si  sovrapponeva  ad  altro  strato  aiutando,  senza 
volerlo,  i  sofferenti  a  nuovi  grafiti  e  creando  dei  palimsesti 
del  carcere. 

La  copiosa  materia  mi  animò  a  ricerche  d'archivio,  le 
quali  mi  chiarirono  assai  cose,  per  me  e  forse  per  altri 
nuove  :  ed  io  potei  omporre  un  libro,  ricco  di  fatti,  di  aned- 
doti, di  scene,  di  particolari,  dai  quali  i  futuri  storici  del 
tremendo  tribunale  tra  noi  (Vito  La  Mantia  è  stato  l'ultimo 
ed  il  più  diligente)  potranno  forse  trarre  vantaggio.  Il  libro 
verrà  presto  pubblicato  con  numerose  illustrazioni. 

Qui  mi  limito  a  pòchi  cenni  di  due  pareti  della  prima  cel- 
la, seguendo  da  destra  a  sinistra  tutta  la  parete  orientale. 
E'  superfluo  l'avvertire  che  questi  disegni  non  son  tutti 
d'una  mano,  né  tutti  d'un  medesimo  strato.  Chi  potrà  ve- 
derli quando  saranno  esposti  ai  visitatori,  si  persuaderà  che 
essi  sì  svolgono  sopra  cinque  o  sei  strati  successivi,  rappre- 
sentanti mani  e  anime  diverse  che  in  quel  luogo  si  succe- 
dettero durante  un  secolo  e  mezzo  dal  seicento  in  poi. 

Una  grande  aquila  bicipite,  dalle  ali  aperte  accoglie  nel 
corpo  una  iscrizione,  che  va  letta  così: 

Virtus  et  Motus  Abest 

allusione  alle  forze  infrenate  degli  inquisiti.  Sotto,  una  te- 
sta di  donna  con  acconciatura  sui  generis.  Questa  accon- 

250 


APPENDICE  II 

eia  tura  si  ripete  in  tutte  e  tre  le  celle  e  rivela  una  moda  del 
tempo,  confermata  da  una  poesia  del  celebre  poeta  sici- 
liano Pietro  FuUone.  In  alto,  una  S.  Rosalia,  sulla  cui  ve 
ste  i  seguenti  versi  latini: 

O   Rosalea,    sicut   liberasti   a  peste   Panhormum 
Me  quoque  sic  libera  carcere,  et  a  tenebris, 

e  in  basso  : 

Laetitia  Civitatis  Panhormi 

A  un  mezzo  metro  di  distanza,  una  stupenda  testa,  non  tutta 
scoperta  perchè  correrebbe  pericolo  di  perdersi  nel  lavoro 
di  scrostamento.  Più  a  sinistra,  m  basso,  un  mascherone, 
meglio  visibile  nella  fotitipia  della  seconda  metà  della  pa- 
rete. Dala  bocca  escono  due  cornucopie,  ed  in  quella  di  si- 
nistra, disegno  di  altro  prigioniero,  la  figura  d'un  inquisi- 
tore, probabilmente  eseguita  stando  l'autore  seduto  sul  pa- 
vimento col  capo  poggiato  sul  gomito  eia  mano  sinistra.  Ne- 
gli spazi  liberi  della  cornucopia,  sopra,  sotto,  in  giro  sono 
altre  immagini  con  iscrizioni  latine  ed  ottave  siciliane.  La 
cornucopia  mette  in  guardia  i  nuovi  ospiti  del  doloroso 
luogo  contro  la  tortura  che  li  aspetta.  Un  motto: 

Semper  Dico:   Venias,  Et  Numquam  Venit  Ante  Cras. 

Un  altro,  posto  in  bocca  ad  un  serpente,  simbolo  del 
Tribunale  : 

Cavete  Quia  Solo  Aspectv  Interficio. 

Le  ottave  siciliane  sono  una  ventina,  e  già  lette  con 
infinite  difficoltà  ed  interpretate  quasi  tutte,  verranno  anche 
esse  fatte  di  pubblica  ragione.  Nella  parete  che  guarda  a 
settentrione,  verso  la  primitiva  porta  di  entrata  nella  cella, 
sono  figure  più  corrette  e  ricordi  pietosi. 

In  vicinanza  di  una  delicata  effigie  di  santo,  che  potreb- 
b'essere  Antonio  Eremita  o  Francesco  di  Paola,  sorge  slan- 
ciato ed  ardito  un  Cristo  risuscitato  con  la  leggenda: 

O  Mors  Ubi  Est  Victoria  Tua? 


251 


SANT  UFFIZIO 

e  sullo  spazio  bianco  della  lapide  sepolcrale  una  serie  di  ri- 
velazioni in  sottilissimi  caratteri,  solo  in  parte  decifrabili,  di 
uno  sventurato  che  passò  di  cella  in  cella  e  fu  ridotto  in 
questa,  certamente  non  ultima  né  definitiva. 

La  parete  venne  interrotta  per  un'apertura  stata  pra- 
ticata dopo  l'abolizione  del  S.  Uffìzio,  senza  dubbio  dal 
1800  al  1803  o  in  quel  tomo;  come  le  pareti  tutte  furono 
guaste  da  buchi  praticati  in  esse  pel  bisogno  di  adattarle  a 
scaffali  d'archivio.  Ora  dall'altro  lato  della  finestra  sta  gi- 
nocchioni un  signore  pregando,  anzi  forse  recitando  l'inno  di 
S.  Antonio  da  Padova,  le  cui  prime  strofette  sono  medio- 
cremente leggibili: 

O   proles  Hispaniae... 

Chi  sia  questo  signore  non  mi  è  stato  concesso  indovi- 
nare, neanche  analizzando  lo  stemma  con  l'aiuto  dei  blaso- 
ni di  Sicilia  e  di  Spagna  del  tempo. 

Ma  di  questo  e  dei  moltissimi  disegni  e  motti  del  vec- 
chio carcere,  del  loro  carattere,  del  loro  significato,  delle  ra- 
gioni che  li  spiegano,  delle  rivelazioni  che  fanno,  delle  re- 
lazioni che  offrono  con  la  storia  e  le  vicende  della  Inquisi- 
zione, degli  spettacoli  e  degli  autodafé,  della  nobile  con- 
dotta del  Senato  di  fronte  agli  Inquisitori  audaci,  protervi, 
senza  patria  e  senza  cuore  e  di  tutto  quel  mondo  di  orrori  e 
di  prepotenze,  malinteso,  esagerato  dai  fautori  o  dai  nemici 
di  esso,  io  son  costretto  a  tacere  avendone  già  detto  quanto 
basta  nei  dodici  capitoli  del  libro  e  nei  documenti  inediti 
di  esso. 

G.    PlTRÈ 


252 


TAVOLE 


Il  dragone  e  1'  aquila 

(p.   17) 


255 


I 


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S.  Rosalia 

(p.  20) 


257 


S.  Caterina  e  Cristo 
(p.  21) 


259 


Cristo  risuscitato 
(p.  21) 


261 


Santi  della  seconda  cella 
(p.  48-49) 


%.?|J:Sv'ii'  j     ,   €<:  ■ 


S.  Vito 
(p.  49) 

263 


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Frate    orante 
(p.  50-51) 


S.  Michele  Arcangelo 
(P.  75) 

265 


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Immagine  di  santo 
(p.  243) 


267 


NOTA 


Questo  libro  fu  scritto  da  Giuseppe  Pitrè  appena  compiute 
le  ricerche,  che  nel  1906  condusse  per  ben  sei  me&i  con  grande  pa- 
zienza e  passione,  intomo  alle  pyareti  delle  vecchie  celle  dello 
Steri  di  Palermo  un  tempo  destinate  a  carceri  degl' inquisiti  del 
S.  Uffizio.  Alla  fine  del  manoscritto  si  legge,  di  mano  dell'Autore, 
la  data  del  24  giugno  di  quell'anno:  lo  stesso  giorno  che  il 
Pitrè  lesse  alla  Società  di  Storia  Patria  di  Palermo  una  relazione 
sulle  scoperte  fatte  in  quelle  squallide  prigioni. 

Il  manoscritto  fu  subito  ricopiato  dalla  figlia  Maria  (alcune 
pagine  dal  genero  A.  D'Alia)  e  poi  riveduto  dall'Autore.  Il  quale 
continuò  ancora  ad  accarezzarlo  lungamente,  poiché  la  materia  lo 
aveva  vivamente  interessato  e  commosso;  e  con  la  fantasia,  dopo 
che  il  lavoro  era  stato  condotto  a  termine,  dovette,  comei  soleva, 
restare  a  meditare  sui  temi  studiati  e  ad  aggirarsi  per  le  tragiche 
celle  dalle  parlanti  pareti.  Corresse  quella  copia  —  che 
sola  si  conserva  —  tutta  di  sua  mano,  aggiungendo  qua  e  là  quan- 
to nuove  letture  o  documenti  non  prima  conosciuti  gli  venivano 
suggerendo   a    meglio   delineare    e   colorire   il   suo    quadro. 

Le  citazioni  incomplete  (ved.  pp.  143,  160  e  197)  che  l'Autore, 
sempre  in  questa  parte  diligentissimo,  —  e  chi  scrive  ricorda  quel 
che  della  importanza  da  lui  attribuuita  alla  precisione  e  compiu. 
tezza  delle  citazioni  gli  soleva  dire  come  di  uno  dei  canoni  che 
più  scrupolosamente  egli  s'era  sempre  fatto  dovere  assoluto  di 
osservare  —  si  riservava  di  completare,  le  note  (come  a  pag.  126) 

271 


NOTA 

segnate  nel  manoscritto  per  memoria  e  non  più  scritte,  il  rin- 
vio che  una  volta  si  incontra  (i)  a  un  capitolo  che  non  si 
si  trova  nel  manoscritto  e  che  probabilmente  non  fu  mai  com- 
posto poiché  si  conserva  pure  un  indice  autografo  esattamente 
corrispondente  alla  divisione  presente  del  libro  (2)  e  al  titolo  dei 
singoli  capitoli;  tutti  questi  sono  indizi  da  far  pensare  che  l'Au- 
tore negli  ultimi  due  lustri  della  sua  vita,  sempre  ri^rvandosi 
di  riprendere  in  mano  il  suo  lavoro,  magari  al  momento  di  pub- 
blicarlo, non  ebbe  più  l'occasione  di  rileggerlo  per  intero  e  prepa- 
rarlo  definitivamente   per  la   stampa. 

Così  non  furono  mai  apprestate  le  illustrazioni  a  cui  l'Autore 
molto  teneva  (vedi  pp.  13-14)  e  per  cui  con  l'aiuto  del  nipote, 
Dott.  Francesco  Turbacco,  ora  prefetto  del  regno,  aveva  eseguite 
via  via  molte  fotografie  durante  i  suoi  lavori  sui  vari  strati  di 
intonaco  delle  celle  esplorate. 

Ne  rimangono  poche,  e  così  mal  ridotte  dal  tempo  da  riu- 
scire presso  che  indecifrabili;  e  la  maggior  parte  andarono  per- 
dute nell'alluvione  che  nel  1925  distrusse  in  Palermo  la  Tipografia 
Sandron,  che  di  questo  volume  e  di  tutte  le  opere  si  era  assunta 
l'edizione  e  aveva  iniziato  la  stampa.  Un  saggio  se  ne  è  dato  a 
parte  in  fondo  al  volume.  Da  quattro  di  esse  furono  ricavati  a  cu- 
ra dello  stesso  Autore  disegni  stilizzati  e  corretti  che  vennero  inse- 
riti in  un  articolo  pubblicato  a  firma  Cam  nel  Giornale  di  Sicilia 
del  25-26  giugno  1906  col  titolo:  Un'importante  scoperta  del 
prof.  Pitrè:  Le  carceri  del  Sant'Uffizio  nel  palazzo  dei  Tribunali: 
Disegni,  motti  e  poesie  dei  prigionieri;  articolo  scritto  eviden- 
temente su  materiali  forniti  dallo  stesso  Autore  in  seguito  alla  let- 
tura che  il  24  di  quel  mese,  come  s'è  detto,  egli  aveva  tenuto  al- 
la Società  siciliana  di  Storia  patria  intomo  alla  sua  scoperta  (3). 


i 


(i)  La  prima  nota  di  p.  207  nel  mansocritto  continua:  <(  Il 
lettore  avrà  un  cenno  nel  cap.  di  Considerazioni  di  questo  lavoro 
(Cartolare  6°)  ».  Questi  cartolari  che  doveva  contenere  la  prima 
stesura  non   ci   sono  giunti. 

(2)  Anche  nel  191 1  il  Pitrè  tuttavia  parlava  di  «  dodici  capi- 
toli »    (v.    pag.    252). 

(3)  Sulla  copertina  del  quarto  capitolo  nel  ms.  leggesi  un  ap- 

272 


NOTA 

E  altre  quattro  ne  vennero  riprodotte  fotomeccanicamente  dal  Pi- 
trè  in  un  suc^  articolo  pubblicato  nel  settembre  191 1  nell'Italia  il- 
lustrai: Del  palazzo  Chiaratnonte  in  Palermo  e  di  un  carcere  del 
S  Uffizio  in  esso  recentemente  scoperto  la  G.  Pitrè,  quindi  ri- 
prodotto in  up  fascicolo  della  Sicilia  illustrata  che  reca  la  data 
dell'agosto  191 1,  ma  che  evidentemente  dovette  uscire  più  tardi. 

In  una  nota  di  questo  secondo  articolo  era  detto:  «  La  casa 
editrice  Marraffa  Abate  imminentemente  prepara  la  pubblicazione 
del  libro  di  Giuseppe  Pitrè:  Sul  S.  Uffizio  in  Sicilia.  Il  libro  in 
ottavo  sarà  arricchito  da  numerosissime  illustrazioni  inedite  ».  Spe- 
ranza che,   pur  troppo,  anch'essa  fallì. 

Entrambi  questi  articoli  s'è  creduto  opportuno  riprodurre  qui 
nella  seconda  delle  Appendici  con  cui  si  chiude  il  volume. 

La  stampa  popolare  di  S.  Leonardo,  che  in  una  nota  del  ma- 
noscritto l'Autore  stesso  aveva  stabilito  si  dovesse  aggiungere  a 
illustrazione  di  quel  che  è  detto  nel  testo  a  pag.  56,  è  stata  ri- 
prodotta dall'esemplare  che  si  conserva  nel  Museo  etnografico  di 
Palermo,   raccolto  dallo  stesso  Pitrè. 

In  calce  all'indice  autografo  aggiunto  al  manoscritto,  è  cenno 
di  un  altro  proposito  dell'Autore:  ((  Aggiungere  altre  20  colon- 
nine di  nuovi  documenti,  e  i  disegni  ».  Quanto  ai  disegni  se  n'è 
raccolti  quanto  è  stato  possibile  raccapezzare  dalle  vecchie  foto- 
grafie in  fine  al  libro.  Dei  documenti  l'Appendice  dà  quelli,  vecchi 
e  nuovi,  che  sono  stati  trovati  fra  le  carte  del  Pitrè  :  non  sempre 
potendone  indicare  le  fonti,  perchè  nelle  copie  che  ne  aveva  con- 
servato il  Pitrè  mancava  la  relativa  indicazione.  Il  documento  V  è 
stato  collazionato  dal  prof.  Giuseppe  Cocchiara;  che  pure  ha  avuto 
la  cortesia  di  riscontrare  sull'originale  il  doc.  I  già  pubblicato  da 
V.  La  Mantia,  Storia  delV Inquisizione  in  Sicilia,  Palermo,  1904, 
p.    102-3    (i). 


punto  a  lapis  autografo:   «  Spigolata  in  una  lettura  fatta  alla  So- 
cietà di  Storia  patria  il  di  18  febbraio  1910  ». 

(i)  Del  doc.  Ili  né  il  Cocchiara  né  altri  dotti  amici  di  Pa- 
lermo han  potuto  trovar  traccia.  Quanto  al  doc.  IV,  il  Cocchiara 
scrive  che  :    ((  Esiste  effettivamente  alla  Comunale  di  Palermo  il 

273 


NOTA 


I  documenti  spagnuoli  a  cui  allude  il  Pitrè  a  p.  209,  furono 
poi  pubblicati  dal  prof.  C.  A.  Garufi  nel  suo  importante  lavoro 
Contributo  alla  storia  deWInquisizione  in  Sicilia  nei  secoli  XVI  e 
XVII:  Note  ed  app.  dagli  Archivi  di  Spagna  (Palermo,  1920;  estr. 
éàWArch.  storico  siciliano).  Così,  la  mappa  della  Sicilia,  di  cui 
il  Pitrè  tocca  a  pag.  20,  venne  pubblicata  e  illustrata  da  Giu- 
seppe Di  Vita,  //  palazzo  dei  Chiaramonte  e  le  carceri  dell'Inqui- 
siz.  in  Palermo^  I  graffiti  geografici  d^un  prigioniero  ai  tempi  di 
Giuseppe  d'Alesi,  Notizie  storiche,  Palermo,  Bocc.  del  Povero, 
1910. 

Si  ricorda  qui  infine  che  gli  Avvertimenti  di  Scipione  De  Ca- 
stro (citati  dall'Autore  a  p.  172,  174),  furono  poi  studiati  rui 
manoscritti  dal  prof.  Camillo  Giardina  {La  vita  e  l'opera  poli- 
tica di  Scip.  De  Castro,  Palermo  1931  :  estr.  dagli  Atti  della  R. 
Accad.  di  Scienze,  leti,  e  arti  di  Palermo)  e  che  intorno  a  Lo 
Steri  di  Palermo  e  le  sue  pitture  un  magistrale  e  sontuoso  volume 
a  cura  di  Ettore  Cabrici  ed  Ezio  Levi  venne  pubblicato  dalla 
R.  Accademia  di  scienze,  lettere  ed  arti  di  Palermo:  Suppl.  agli 
Atti  n.  I,  1932,  presso  gli  editori  Treves  Treccani  Tumminelli 
a  Milano. 

GIOVANNI  GENTILE 


Ms.  Qq.  H.  62.  Sono  tre  volumi  scelti  dallo  Schiavo  (dove  si  tro- 
vano  relazioni  a  stampa,  trascrizioni  ecc.).  I  documenti  sono  ri- 
portati cronologicamente.  Dopo  i  docc.  del  1599  v'è  nella  miscel- 
lanea un  foglio  dove  è  scritto:  «  Atti  del  Tribunale  della  SS.  In- 
quisizione. Ma  dell'atto  in  parola  non  v'è  traccia;  che  sia  stato 
soppresso?  ». 


274 


ERRATA-CORRIGE 

pag.   69,    Un.    13:    del    lato;    leggasi:     per    lato, 
pag-    77'   li"-    13-    inadito;    leggasi;     inaudito. 


275 


INDICE 


CAPITOLO  I:   Le  varie  sedi  detlla  Inquisizione  in  Palermo: 
Introduzione  .         . 


dei  penitenziati  :  F. 


CAPITOLO  II  :  Prima  cella    . 
CAPITOLO  III:    Seconda  cella 
CAPITOLO  IV:  Terza  cella 
CAPITOLO  V:   Data  delle  celle  e  nomi 
Baronie  .... 

CAPITOLO  VI:    Politica  -  Confisca 

CAPITOLO  VII:    Tortura   -  Segreto 

CAPITOLO  VIII  :  Lo  spettacolo     . 

CAPITOLO  IX:    Prepotenze  e  scomuniche     .         .         .         . 

CAPITOLO  X:    Rivolte  di  popolo;   Pervicacia  d'inquisitori; 
Giudizio  finale  sul  S.  Uffizio    ...... 

CAPITOLO  XI  :   Bruciamento  degli  archivi;  Palimsesti;  Con- 
clusione   .......... 

APPENDICE    I:    Documenti 

APPENDICE  II:    Due  articoli  di  giornali     .         .         .         . 

Tavole    ........... 

Nota  di  G.   Gentile        ........ 

Errata-corrige  ......... 


I 
i6 
46 
68 

89 

99 
117 

136 
160 

187 

206 
219 
237 
253 
271 
275 


277 


FINITO    DI    STAMPARE 

IL    10   NOVEMBRE    1940-XIX 

PER   I   TIPI    DELLA 

SOC.   EDITRICE   DEL   LIBRO    ITALIANO 

IN    ROMA 


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