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40^^
EDIZIONE NAZIONALE
DELLE OPERE
GIUSEPPE PITRE
OPERE COMPLETE
VI
GIUSEPPE PITRÈ
XXVI
SCRITTI VARI
EDITI ED INEDITI
GIUSEPPE PURÈ
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DEL SANT UFFIZIO
A PALERMO
E DI UN CARCERE
DI ES50
SOC. EDITRICE DEL LIBRO ITALIANO
ROMA
Proprietà letteraria riservata
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TIP. SOC. ED. LIBRO ITALIANO - 1940-XVni
VITTORIO EMANUELE III
VER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE
RE D'ITALIA E DI ALBANIA
IMPERATORE D'ETIOPIA
Ritenuto che si è costituito un Comitato sotto la pre-
sidenza di Giovanni Gentile per curare la pubblicazione delle
opere complete di Giuseppe Pitrè;
Che tale Comitato, composto di autorevoli personalità,
dà ogni affidamento che, l'edizione delle opere del Pitrè sarà
curata con ogni competenza e serietà scientifica;
Considerata l'alta importanza scientifica ed artistica
dell'opera del Pitrè;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato
per l'educazione nazionale;
Abbiamo decretato e decretiamo:
La pubblicazione delle opere di Giuseppe Pitrè curata
dal Comitato presieduto da Giovanni Gentile è dichiarata
(( edizione nazionale ».
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo
dello Stato, sia inserto nella Raccolta ufficiale delle leggi e
dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti
di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a San Rossore, addì 22 giugno 1939-XVII.
VITTORIO EMANUELE
Mussolini — Bottai
Visto, il Guardasigilli: Solmi
REGIO DECRETO 22 giugno 1939-XVII, n. 1015.
COMITATO
Giovanni Gentile, presidente.
Maria D'Alia Pitrè.
Giuseppe Cocchiara.
Raffaele Corso.
Nino Sammartano.
Paolo Toschi.
OPERE COMPLETE
BIBLIOTECA DELLE TRADIZIONI POPOLARI SICILIANE
I.-II. Canti popolari Siciliani.
HI Studi di poesia popolare.
IV- VII. Fiabe, Novelle e Racconti Popolari.
VIII-XI. Proverbi siciliani.
- XII. Spettacoli e Feste popolari siciliane.
XIII. Giuochi fanciulleschi siciliani.
XIV. -XVII. Usi e Costumi, Credenze e Pregiudizi del
Popolo siciliano.
XVIII. Fiabe e Leggende popolari sicihane.
XIX. Medicina popolare siciliana.
XX. Indovinelli, Dubbi, Domande, Scioglilin-
gua del popolo siciliano.
-- XXI. Feste patronali in Sicilia.
XXII. Studi di Leggende popolari in SiciUa.
XXIII. Proverbi, Motti e Scongiuri del popolo si-
ciliano.
XXIV. Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende»
Usi del popolo siciliano.
XXV. La Famiglia, la Casa, la Vita del popolo
sicihano.
SCRITTI VARI EDITI ED INEDITI
XXVI. Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere
di esso (inedito).
XXVII-XXIX. La Vita in Palermo cento e più anni fa
(il voi. Ili inedito).
XI
OPERE COMPLETE
XXX. Novelle popolari toscane (edito).
XXXI.. XXXII. Bibliografìa delle Tradizioni popolari d'I-
talia (il voi. II inedito).
Corsi di Demopsicologia, cinque volumi
(inediti) :
XXXIII. I. La Demopsicologia e la sua storia.
XXXIV. 2. I Proverbi.
XXXV. 3. Poesia popolare italiana.
XXXVI. 4. Poesia popolare straniera.
XXXVII. 5. Novellistica e varie.
XXXVIII. La Rondinella nelle Tradizioni popolari
(inedito).
XXXIX-XL. Viaggiatori stranieri in Sicilia (inediti).
XLI.-XLVIII. Articoli di Riviste e di Giornali; Recen-
zioni, Conferenze, Discorsi, Prefazio-
ni, ecc. (editi e inediti).
XLIX,-L. Carteggio con illustri contemporanei (ine-
diti).
XII
Capitolo I
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
Introduzione
I crede comunemente che la sede del
S. Uffizio in Palermo sia stata sola-
mente e sempre il Palazzo Chiaramonte,
oggi Palazzo dei Tribunali.
Fin dai primordi della istituzione già rin-
novata (1487) il S. Uffizio occupò il Palazzo Reale, l'antica
sede dei re normanni, svevi ed aragonesi. Quivi stette a tutto
suo agio dal 1513 al 1551, in cui passò al Castello a mare (di-
mora dei Viceré) donde si allontanò per poco e dove tornò
(1568) (i) tutt'altro che presago dello scoppio della polve-
riera (1593), nel quale perì fra gli altri il noto poeta sici-
(i) Il Viceré D. Giovanni de Vega i;oleva stare a Castellama-
re; poi volle recarsi al regio palazzo: e allora gl'Inquisitori, che
abitavano in questo, passarono a Castellamare. Auria. Istori»
cronologica de' Signori Viceré di Sicilia ecc. pp. 44. Palermo.
Coppola, 1697.
1 - G. PITRÈ . SanfUHlilo
SANT'UFFIZIO
Mano Antonio Veneziano e rimase mal vivo e pieno di ter-
rore e di acciacchi l'inquisitore Mons. Ludovico de Paramo.
Due brevi dimore fuori di questi luoghi ebbe tra gli
anni 1566-68 e 1593-1600: una al Casalotto, un'altra
nelle vicinanze di Piedigrotta: ed è bene notarlo per ricer-
the che quandochessia volessero farsi.
La sede del Casalotto fu acquistata dal R. Patrimonio
per volontà di Filippo II e donata al Sacro Tribunale,
che, a dir vero, non ne rimase soddisfatto non ostante vi
avesse trovato comoda abitazione per sé, e buone caverne
pei carcerati. Era una casa di Bartolomeo Marchese sotto
il campanile di Casa Professa dei Gesuiti, nella piazzetta
dei Santi Quaranta Martiri (i).
L'altra di Piedigrotta presso il mare fu una casa in
vicinanza del Castello, dove un angusto vicoletto serba
anche oggi il titolo di <( Madonna della penitenza ». Un
contemporaneo la disse a carcere de' familiari del
foro del S. Officio » (2); ma un secolo e mezzo dopo un
Inquisitore la ricordò come abitazione degli Inquisitori (3).
Io non so a chi debba aggiustarsi fede. Certo l'angustia
della casa e del luogo non doveva prestarsi a così impor-
tante bisogna; e le poche cause che gli Inquisitori pote-
vano sbrigare, le facevano tenendo i rei nelle segrete e
recandosi essi ad interrogarli nel luogo o richiamandone
qualcuno alla vicina residenza.
(i) La Mantia, Orig. e vicende dell'Inquisizione in Sicilia (estr.
dalla Riv. Stor. ital., i885) p. 56.
(2) Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, in Bibl. del
Di Marzo, voi. X, p. 169, Pai. MDCCCLXXII.
(3) Franchina, Breve Rapporto del Tribunale della SS. Inqui-
sizione di Sicilia, p. 33, Palermo, Stamp. di Antonino Epiro,
MDCCXLIV.
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
In quei sette anni nessun atto generale di fede, anzi
neppure un piccolo spettacolo.
La vita errabonda dei capi del tribunale fece pensare
una volta (1580) ad una sede addirittura principesca, quel-
la del Palazzo Aiutamicristo, Oltre il bisogno di comodi,
c'era la soddisfazione della vanità e del fastigio ed una
utilità indiscutibile. Le donne che facevano da spie al
S Uffìzio non erano più disposte a varcare il ponte le-
vatoio del Castello per andare a deporre il grave peso delle
loro coscienze. Quel luogo era fuori mano, guardato con
ineffabile terrore dal popolo, con severa vigilanza dai
soldati, con eccessivo zelo dai familiari, con sospetto da
tutti. Necessario quindi che lo si sostituisse con un al-
tro posto.
Si fecero adunque delle pratiche e se ne fissò il prez-
zo; ma all'ultima ora le pratiche andarono a monte.
E fu rara ventura che una delle più insigni opere del-
l'architetto Camalivari e del più grande banchiere del
quattrocento, Guglielmo Aiutamicristo, non mutasse pa-
droni ed uso. Non già degli echi festanti per la venuta di
Carlo V Imperatore e Re (1535), non delle nozze di
D. Giovanna d'Austria e dei ricevimenti di Pier Luigi
Paterno Moncada risonerebbe ora la superba magione; ma
dei gemiti dei poveri inquisiti e dei pianti dei torturati.
Finalmente nei primi del sec. XVH, dopo tanto vagare
per la città, auspice il Viceré G. de Cardenas, il Tribunale
della Fede ebbe sua stabile e definitiva sede nel Palazzo
Chiaramonte (1605) (i).
(i) Su questa data vedi App. I, 4.
SANT'UFFIZIO
Questo Palazzo, detto per eccellenza loSten (i), nella
piazza Marina, ha una storia drammatica e sanguinosa.
Le sue vicende sono vicende di Palermo, la sua archi-
tettura è architettura della Sicilia; ed ogni sua pietra ri-
corda una istituzione, narra un fatto, uno dei cento fatti
che compongono il serto di rose dei governanti, la corona
di spine dei governati. Da Manfredi Chiaramonte I a
Domenico Caracciolo, ad Asmundo Paterno, a noi tutti,
per sei ininterrotti secoli i fasti baronali, viceregi ed in-
quisitoriali vi si avvicendarono con le miserie del popolo,
le solennità più splendide con le scene più terrifiche, le risa
dei gaudenti con gli urli dei disperati.
Lì i primi Conti di Modica, affermando il loro gusto
per le arti e la loro protezione per gli artisti, sfoggiarono
la loro intelligente opulenza; e sul soffitto del gran salone
scrissero le prime pagine della storia del Rinascimento in
Sicilia (2), e perpetuarono le loro larghe e potenti paren-
tele con le armi dei Ventimiglia e degli Alagona, dei Pe-
ralta e dei Rossi, dei Santostefano e dei Moncada, degli
Incisa e degli Sclafano, degli Spinola e dei Palizzi (3). Da
una di quelle finestre Martino II s'affacciò a veder troncare
(i) Col nome di Steri esistono anche palazzi in Cefalù, Sciacca
e in Siracusa e in Girgenti.
(2) Gailhabaud, L'Architecture du V au XVII siede et les
arìs qui en dépendent, t. Ili, pp. 30-37. Paris, 1870. — Di Mar-
zo, Delle Belle Arti in Sicilie^ v. I, lib. IV, pp. 319-34. Palermo.
1862. — Lo STESSO, La pittura in Palermo nel Risorgimento, cap
I. Palermo, 1899.
(3) Inveges {La Cartagine siciliana, lib. II, cap. VI, pp. 410-
16, Palermo, 1651), parla delle « armi dell'antica sala del Palaz-
zo Chiaramontano, detto lo Steri »
VAEIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
la testa ad Andrea Chiaramonte, uno dei Quattro Vicari
del Regno dopo la morte di Federico III il Semplice, e
con sommaria confisca fece suoi i beni del giustiziato: e
tenne nel palazzo la R. Curia, un tempo residente nel Ca-
stello a mare. Lì cercò invano rifugio la bella, sapiente e
sventurata Bianca di Navarra, che con nuova disordinata
fuga, dopo quella dal Castello Maniace in Siracusa, in
una fredda notte d'inverno, seminuda, potè salvare la
sua regal vedovanza dai libidinosi ardori del conte Ber-
nardo Cabrerà, riuscito a scalarne le finestre (1412).
Lì si adunarono i generali parlamenti del 1446 (i);
lì Carlo V apriva quello del 16 settembre 1535, che poi
chiudeva nel palazzo Aiutamicristo, e ascoltava i bisogni
del paese ed assentiva alle riforme necessarie alla invio-
labilità dei diritti del triplice consesso nella tutela dei
patrii privilegi: ragion di freno ai futuri viceré che si ar-
gomentassero menomarne le franchigie.
Innanzi ad esso, nei tumulti del 1516, il tuono delle
bombarde e dei falconetti si confusero col ruggito dei
popolo contro il viceré Ugo Moncada, che, stato a spiar
tremebondo da una vedetta, travestito da servo, s'invo-
lava da un segreto uscio, ed il cieco furore delle turbe
come onda procellosa irrompeva nelle sale, ne saccheg-
giava le suppellettili manomettendone ogni vecchia e nuo-
va mobilia.
Nella chimerica congiura di Giovan Luca Squarcia-
(i) MONGiTORE, Parlamenti generali del Regno di Sicilia, t. I,
PP- 93 e sgg. (Palermo, 1749) nota che furono convocati « in
quista felichi chitati di Palermo, in la sala grandi di lu Regiu
Hospiciu seu Steri di la dieta chitati ».
SANT'UFFIZIO
lupo, parte di quel medesimo popolo, incendiate le porte,
invasi i cortili, le scale, gli anditi, le aule, precipitava giù
dai merli i giudici della Magna Curia, e parte accoglieva
sulle picche sottostanti. Di mezzo ai pilastri dell'alta cam-
pana si buttavan giù i trasgressori delle leggi sanitarie in
tempo di pestilenza: ed uno di essi, durante la moria del
1576, mozze le mani, si vide ad uno ad uno strangolati in-
nanzi i compagni di furto di robe infette, riversare da quel-
li i corpi, squartarne le membra, ed alla sua volta, stran-
golato anche lui, veniva buttato giù come gli altri, bru-
ciato e sparsene al vento le ceneri scellerate.
Lì, passando la Inquisizione, nuovi ospiti: tormenta-
tori e tormentati.
Lì, testimoni più che bisecolari di raffinata ferocia,
fino al 27 marzo del 1782, presso l'orologio pompeggia-
vano sinistramente tre gabbie di ferro con le teste di Fe-
derico Abbatelli conte di Cammarata, Francesco Impe-
ratore e Niccolò Leofante, ribelli nel 1523.
E lì le R. Dogane ricevevano con le mercanzie fore-
stiere i libri che giungevano dal Continente, ed una Cen-
sura dagli occhi d'Argo ne percorreva i fogli tutti e ne
proponeva o la libera entrata in città o il pubblico incendio.
L'uso principale ed ultimo del Palazzo Chiaramente
prima del secolo ora scorso, fu pertanto quello del Tri-
bunale della Fede; ma nessun uso è per noi tanto oscuro
nei particolari quanto questo.
Il solenne incendio degli archivi (27-28 giugno 1783)
privò il paese di documenti capitali per la storia del pen-
siero, del costume, della superstizione, della vita tutta
dell'Isola.
E tal sia di essi!
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
Le conseguenze però son queste: che poco, ben poco
ci rimane di quella istituzione, e meno ancora sappiamo
dell'ufficio delle varie parti del Palazzo, oramai molto
difficDi a qualificarsi.
Eppure dovremmo sapere dove gl'Inquisitori tenes-
sero le loro adunanze, dove le loro udienze; quali fos-
sero le carceri degli uomini, quali quelle delle donne;
quali le segrete degli inquisiti, come si componesse l'arse-
nale di mitre e di sambeniti, di strumenti di tortura e di
ritratti di Inquisitori: arsenale distrutto con quel mede-
simo fuoco che tante vite aveva annientato e che si spen-
se-con esse.
La Inquisizione in Sicilia, specialmente nell'ultimo se-
colo, scese ad una certa mitezza: e basta dire che due
volte sole passò al rogo. Ma che perciò? Essa era sempre,
nella sua natura, l'antica; ed il viaggiatore Filati de Tas-
suUo potè nel 1775 scrivere che in Palermo la Inquisizione
« existe avec tout son affreux appareil » (i). Nel Palazzo
Chiaramonte, privi di luce, scarsi di cibo, laceri di vesti,
ridotti a povertà di spirito, finivano i condannati a lunghe
prigionie. FrateJRomualdo^s^Suot- Gertoi^ due alluci-
nati, vi tribolarono per un quarto di secolo, e ne usci-
rono solo per esser condotti nel piano di S. Erasmo e bru-
ciati vivi. Il nobile cassinese D. IVIario Crescimanno, vi
stette, come eresiarca, ad urlare 28 anni; finché, dive-
nuto mentecatto, vi perdette la vita dolorosa e, perchè non
comunicato, fu sepolto nel giardino (1771). Dove stettero
questi ed altri infelici? Quali giacigli accolsero le loro
(i) Voyages en différens pays. tome II, lettre XXV, pp. 299-
300. En Suisse MDCCLXXVIII.
SANT'UFFIZIO
membra intormentite? Quali mura i loro ranmiarichi?
Quale terra le loro lacrime? Per quali spiragli poterono
consolarsi che le loro supplicazioni si sprigionassero per
salire a Dio?
Da un lato dell'attuale Dogana si addita anche oggi
una muda con una solida colonna centrale, sostegno
di due archi, con un chiodo confitto in alto, al quale
sarebbero stati sospesi gl'imputati; ma la tradizione
è incerta e non guarda alla pratica ordinariamente usata
della carrucola ad una volta per legarvi il torturando;
e da quella muda dovrebbero cominciarsi le ricerche per
istabilire dove essa mettesse il capo e donde vi si scen-
desse, se pure i giudici vi scendevano.
Chi non sa dell'inquisitore Lopez de Cisneros, il qua-
le fu ucciso da fra Diego La Mattina condannato al rogo?
Tutti parlano di una visita che de Cisneros avrebbe fatta
nei sotterranei del S. Uffizio; eppure un contemporaneo
che poteva saperlo perchè membro del Tribunale della
Fede, racconta che il La Mattina a quella vista, mferocito
rompendo le manette di ferro, con esse lo percosse a mor-
te e lo avrebbe senz'altro « precipitato dalle scale » se
uno dei familiari non fosse accorso in aiuto di quello (i).
(i) Due particolari degni di nota: 1° La scena tra il La Mat-
tina ed il Cisneros fu per ordine degli Inquisitori ritratta in un
quadro ad olio; 2** il cadavere del Cisneros venne seppellito nella
Cappella di N. S. di Guadalupa (fino ad ora proprietà del Gover-
no Spagnuolo) nel Convento della Gancia in Palermo; ed il Tri-
bunale eleggeva un cappellano per la celebrazione di tre messe la
settimana in suffragio dell'anima di lui, con la elemosina di onze
i8 annuali, da pagarsi sopra la casa di D. Giovanni d^ "Retana,
Ms Qq F 239 della Biblioteca Comunale di Palermo.
8
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
Il carcere del relasso La Mattina dunque non era dove si
dice.
Sotto l'attuale Corte d'Appello sono ancora altre mu-
de: e le tracce di antichi reclusi, più che evidenti, sono
palpabili. Dalla finestruola a spranghe di ferro che dà
nella entrata maggiore al palazzo, sull'uscio del portinaio,
penetrava un debole filo di luce appena bastevole a fare
accorti i grami prigionieri che le notti si avvicendavano
coi giorni. Non ozioso visitatore, io scesi a ragion di stu-
dio in quel sepolcro di vivi, e ne uscii sgomento ed op-
presso.
Fino al presente molte cose noi ignoriamo dell'insigne
palazzo, perchè sommariamente fu provveduto alla chiu-
sura di porte ed alla muratura di finestre, le quali, come
quelle del gran salone rimesse alla luce nel 1894, certi
Inquisitori spagnuoli, Torquemada delle arti in Sicilia,
ordinarono a loro capriccio e comodo.
L'opera posteriore ed ultima del Presidente Asmundo
Paterno, al domani dell'abolizione del S. Uffizio, compi
quella nefasta del Governo, addossando al lato settentrio-
nale del palazzo l'ampia scala di accesso alle aule dei
tribunali e creando così nuove difficoltà aH' isolamento
dell'edificio ad al riconoscimento delle fabbriche, le quali
fin dal Cinque e Seicento vi erano state attaccate. Cosi
lo spirito calmo e riflessivo e pur sempre patriottico di
questo cooperò con lo impulsivo e spregiudicato di quello:
ed a noi mancano le tracce sicure di ciò che fu il carcere
della Inquisizione.
Nella primavera del 1906 il Municipio di Palermo,
tenuto fino allora per legge ad apprestare e mantenere pei
pubblici servizi i locali dei Tribunali, come quelli delle
SANT'UFFIZIO
scuole inferiori e medie e d'igiene, iniziava negli edifici
annessi al Palazzo Chiaramonte, l'adattamento delle aule
sottostanti alla Regia Procura per uso di tribunale penale.
Questi edifizi, è superfluo il dirlo, sono posteriori di
tre secoli allo storico palazzo, e dovettero sorgere per
bisogni tanto degli istituti quanto delle persone che vi
ebbero sede. Anche con ricerche d'archivio, difficilmente
potrebbe stabilirsi lo scopo primitivo di essi. Il mistero
col quale si circondava la Inquisizione, che ultima li ten-
ne nel Settecento, ci toglie la luce necessaria a vedere
in tanta oscurità. Questo però è certo: che poco dopo la
venuta dei Reali di NapoH (26 dicembre 1798), nel 1800
la maggior parte delle stanze di questi edifici vennero
destinate, come già da tempo alcune, a deposito o archi-
vio della R. Cancelleria, della Deputazione della vendita,
dell'Udienza generale dell'Uditore di guerra, delle senten-
ze del Tribunale civile di Palermo, della Direzione dei
Dazi indiretti, del Tribunale di Commercio, della Con-
servatoria generale; siccome le stanze sotto l'attuale Corte
di Appello ai Riveli presentati al Patrimonio dal 1548 al
1651.
A quest'ultimo ufficio d'archivio, ora che le carte
contenutevi sono state trasportate nell'ex Convento della
Gancia, era prossimo a succedere, come ora è succeduto,
quello del Tribunale penale. Ed è anche certo che tanto
al di dentro, quanto al di fuori il fabbricato della R. Pro-
cura subì, da più che un secolo, grandi alterazioni. Dal
lato meridionale, di sotto ad alte piccolissime finestruole
centrali (buchi da 30 centimetri quadrati), in mezzo a
spiragli laterali (specie di feritorie) ora chiusi e visibili
solo ali 'estemo, furono aperte due grandi 'finestre l'una
IO
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
sull'altra per ciascuna stanza, e questo ci aiuta a determi-
nare un uso precedente da noi fiinora ignorato.
Ma di ciò dirò più innanzi.
Mentre i lavori di adattamento si venivano eseguendo,
io seppi (i) di una camera nel primo piano della R. Pro-
cura, nella quale, scrostandosi spontaneamente della cal-
ce, veniva fuori non so che figura; e non indugiai un
istante a recarmici, impaziente di trovarvi qualche cosa
utile alla conoscenza del luogo. Trovai, difatti, la figura;
ed ai non dubbi segni delle pareti circostanti ed ai saggi
che lì per lì praticai, potei indovinare che altre immagi-
ni dovessero esistere sotto gli strati di antiche, ripetute
imbiancature. Queste non erano meno di quattro, quali
spesse e quali sottili, tutte, meno l'ultima esteriore, due
volte secolari; e l'antipenultima di colore scuro come di
mota.
Ed eccomi all'opera manuale di scrostamento; opera,
estremamente delicata, che io non potevo affidare ad un
operaio qualsiasi, e che sostenni personalmente per sei
mesi interi.
Giacché è bene rilevarlo: non quella soltanto fu la
stanza nella quale mi fermai, ma tre di sei, cioè questa
prima, che probabilmente era l'ultima nell'ordine primi-
tivo; e la quinta e le sesta, comunicanti tra loro con un
arco che venne tagliato nelle pareti intermedie.
La seconda, la terza e la quarta stanza erano già sta-
te manomesse dai murifabbri, e quindi perdute per gli
studi.
(i) Dall'avv. Giuseppe Cappellani, allora Consigliere Comu-
nale.
II
SANT'UFFIZIO
Le stanze non sono quali dovettero essere in passato.
Oggi sono rettangolari, ma una volta furon quadrate. Cia-
scuna di esse misura metri 5,10 in lunghezza, altrettanto
in altezza, ora ridotta, giacché il pavimento primitivo al
quale si giunse nei lavori era venti centimetri più basso
dell'attuale, e quél pavimento era un gettato di mattone-
pesto finissimo e calce che ora si chiama battuto.
Un andito largo un metro deve avervi dato accesso;
andito ripetuto in tutte, e destinato a bassi usi; prova, gli
avanzi d'un arco e lo stato della muratura proprio nel
terz'ultimo spazio del lato settentrionale, dalla porta di
entrata non solo di questa ma anche delle altre camere,
parte già rese inutili per noi, che si vennero mettendo
in comunicazione tra loro.
Difatti, in tutte si osservano resti, ora scomparsi, di
doccionati in terracotta scendenti giù da un incavo, specie
di nicchia in muratura nello spessore della parete di en-
trata, della capacità di un uomo, che a suo tempo poteva
sedervi ad agio.
Anticipo il giudizio su questi luoghi, affermando in
modo reciso che essi furono prigioni di ecclesiastici e
forse anche di secolari, nel tempo del S. Uffizio verso la
metà del Seicento: e conforterò questa affermazione con
molteplici ragioni fornite dai luoghi medesimi.
Mano mano che io mi avanzavo nel difficile lavoio di
scrostamento, si venivano agli occhi miei delineando fi-
gure, disegni, iscrizioni e versi. A lavoro finito mi trovai
innanzi quattro pareti intere ed altre per metà fino all'al-
tezza delle mani d'un uomo (metri 2,15), fitte di manife-
stazioni grafiche. Era una vera generazione scomparsa,
12
VIARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
ignorata, che dopo due secoli e mezzo riappariva e rivi-
veva; erano uomini che tornavano a parlare in versi e m
mozzi accenti, a rivelarsi con ghirigori, volute ed accar-
tocciature. Per dieci metri quadrati d'ogni parete intera
non un dito di spazio libero, non un angolo risparmiato.
Linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l'idea
d'una gara di sfaccendati, ed erano invece sfoghi di sof-
ferenti. Inesorabili intonachi aveano di tempo in tempo
fatto scomparire quegli sfoghi, che però per nuovi arrivati
ricomparivano sotto forme di nuovi sfoghi per tornare a
scomparire e ricomparire, e poi a perdersi dei tutto.
Questi intonachi hanno una storia.
Bianchi il primo ed il secondo, giallognolo il terzo,
inefficaci tutti ad impedire nuove espressioni spirituali di
vecchi e di nuovi ospiti, furono una volta coperti tutti e
tre con un quarto intonaco come di mota, sul quale vane
dovettero riescire le velleità dei prigionieri come vittorio-
se le presunzioni degli aguzzini. Sonvi pareti poi dove a
questa impiastricciatura ne venne invece sostituita una
nera, che rese adirittura impossibile qualunque altro ten-
tativo grafico.
Il titolo di (( palimsesti del carcere » è proprio quello
che ad essi compete. Ed in vero: sotto una scrittura in
caratteri semigotici coperta di calce se ne delinea un'altra
in caratteri ordinari; la quale, a misura che si viene libe-
rando dalla triplice o quadruplice crosta, dà luogo ad una
strana confusione di parole latine ed italiane in una biz-
zarra lettura di non-sensi.
La multiforme e diversa materia venuta in luce si ve-
drà dalle riproduzioni fotografiche che illustrano il pre-
13
SANT'UFFIZIO
sente libro; e fiattanto può dividersi in due grandi grup-
pi: disegni e scritture: gruppi tanto copiosi che a volerli
prendere in complesso se ne fraintenderebbe il significato.
Figure arditamente concepite e non senza una certa abili-
tà disegnate, stanno a lato, sopra, sotto figure meschine
per concezione ed esecuzione. Mani diverse, di uomini di
una certa pratica di disegno e di uomini i quali, come
fanciulli da strada, tirano scomposte linee col carbone e
col gesso, devono avervi lavorato: e, tra questi, dilettanti
da strapazzo con evidenti disposizioni all'arte.
Nessun ordine nella impostativa di quelle figure. Do-
ve lo spazio mancava, queste si addossavano tra loro sen-
za limite, senza regola, senza misura, senza riguardo,
inconsideratamente. Sì direbbe che ciascuno pensava so-
lamente a sé, secondo l'impulso dell'animo proprio, non
preoccupandosi di quel che altri potesse aver fatto. La
prevalenza dell'elemento religioso si afferma in immagini
di santi; quella dell'elemento profano in teste di immagini
di donne e in ornati svariatissimi. Una medesima mano
esegue sopra una pare!fe santi e sante, e sopra un'altra
Cristo, santi e devoti. I singoh santi, dell'altezza media
di m. 0,75 l'uno, poggiano sopra basi (in media di m.
0,35 di lunghezza) somiglianti ai gradini di fercoli ordinari.
Dentro gli ornati di queste basi è il nome latino del santo
ed un motto qualificativo quasi antonomastico di esso.
Quali materie coloranti poterono esser messe in opera
in questi grafiti?
Tre solamente: il nero, il giallo ed il rosso: ma questi
due così deboli ed incerti che in più punti non compari-
scono. A giudicarne ad occhio e croce sembrano di terra
14
VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO
colorata, applicata senza preparazione di fondo, con me-
todo sommario, ma di efficace effetto. L'esame chimico
rivela: pel giallo, il protossido di ferro (terra gialla), pel
rosso il sesquiossido di ferro (sinopia e terra rossa), pel
nero, il nerofumo, probabilmente di lampada; ma in al-
cuni posti la così detta inga, cioè il vecchio inchiostro da
scrivere.
Nella terza cella però a questi colori se ne aggiunsero
degli altri, il verde ed il rosso forte: e non è dubbio che i
penitenziati di questa cella dovettero avere qualche buon
momento di agevolezze o di tacita acquiescenza da parte
dall'Alcalde di questo carcere.
Il livello alto può spiegarsi con qualcuna delle panchette
che nelle celle non mancavano mai. Favoriti dalla scarsa
luce del carcere, questi colori non si scomponevano e, fe-
lix culpa!, vennero conservati dalle imbiancature.
Veniamo ora alla visita particolareggiata delle tre celle
salvate dal piccone demolitore.
15
Capitolo II.
PRIMA CELLA
OMiNCiANDO dalla cella che prima si pre-
senta a destra di chi sale, ma che, come
si è detto, dovett'essere l'ultima nel se-
colo XVII, quando cioè la sàia di accesso
a questo carcere partiva dal lato opposto,
noi procederemo all'esame della parete destra.
All'altezza di quasi due metri sono due grandi rettili:
a) a destra un serpente con piccole orecchie acute,
avente, alla bocca, un cartello rettangolare riquadrato con
la iscrizione a grosse lettere:
CAUTI ESTO
TE ET NO
LITE ME
TANGERE.
i6
PRIMA CELLA
Simbolo, questo, di prudenza, raccommandazione di ac-
cortezza, che può interpretarsi come meglio piace.
b) a sinistra, un mostruoso dragone alato con testa irt
alto, lingua dardeggiante, due piedi, dei quali il destro tie-
ne altra iscrizione del seguente tenore :
CAVETE QV
lA SOLO
ASPECTV
INTERFICIO.
Gli è come si dicesse un basilisco, il favoloso mostro,
che uccide solo a guardarsi. O che abbia voluto l'autore
simboleggiare in esso la Inquisizione, mostro letale anche
nell'aspetto?
In mezzo ai due cartelli sorge un'aquila bicipite con
una corona principesca o ducale in mezzo alle due teste,
entrambe debolmente ripiegate a destra ed a sinistra. Il
suo corpo è tutto coperto da un motto pur esso inquadrato :
[V] IRTUS
ET MO
TUS
[A] BEST.
E di vero, la forza è venuta meno al re degli uccelli,
perchè il moto è venuto a mancare. Quest'aquila simboleg-
gia il penitenziato, cui i dolori e le tribolazioni han tolto
con la libertà e la vigoria.
I. Sant'Agata, tenente con la mano destra un vasetto,
2 - G. PURÈ ■ Sant'Uffizio
SANT'UFFIZIO
nel quale invano si cercano le parti del suo corpo che sim-
boleggiano il suo martirio.
2. S. Antonio Abate con la indicazione:
S. Antonius
DEMONIA ET... ENDE
Di[CANT] MIRABILIA.
Giova notare che nella parete che guarda a mezzogior-
no, di fronte a chi entra, sono avanzi di una figura che da
un giglio che sporge in fuori e dal frammento d'iscrizione:
m TE
O CASTITÀ [TIS]
ET PADV[AE]
GLOR[IA],
si rivela per S. Antonio da Padova.
Qui s'incontrano i più bei caratteri delle tre celle, so-
miglianti molto a tipi da messale. Sono strofette d'un Innoi
a S. Antonio da Padova, ma assolutamente illeggibili, per-]
che sbiadite e quasi scomparse.
Il solo primo verso, leggibile, è questo :
O proles Hispaniae
e poi qualche parola dei versi seguenti.
Quest'inno, irreperibile nei breviari e nei messali ordi-
nari, è l'antifona dell' <( ufficio proprio » di S. Antonio da
Padova, la quale vuoisi composta da S. Bonaventura, men-
tre altre la vogliono del Card. Guy de Montfort, che la fece]
incidere sul ricco reliquiario che contiene il mento dell
Santo.
i8
PRIMA CELLA
Ecco l'antifona quale corre a stampa nell'ufficio proprio
di esso Santo.
Le parole non chiuse in parentesi quadre sono le sole
decifrabili.
AD DIVINUM ANTONIUM
DE PADUA
O proles Hispaniae
[Favor infidelium,
Nova lux Italiae
Nobile depositun»
Urbis Paduanae.
Fer, Antoni, gratiae]
Christi [patrocinium]
Ne prò [lapsis veniae]
Temp [us breve creditum
Defluat] inane.
Seguono preghiere illeggibili anch'esse ma, con l'ufficio
proprio alla mano, è facile comprendere che sono dei versus
e dei responsoria, ecc. (i).
La presenza di questi versi in lode del taumaturgo di
Padova dà a peiisare ad un penitenziato dell'ordine fran-
cescano; né chi vi si fermi ad agio, avrebbe ragione con-
traria.
L'ufficio proprio di un santo può bensì conoscersi da
qualunque sacerdote, ma chi ne recita e trascrive a memo-
ria un brano poetico, induce a credere ad un religioso del
Serafico d'Assisi, del cui ordine appunto fece parte S. An-
tonio.
Il santo poi che non poteva non suonare sulle labbra di
(i) C. Da Sabbioneta, S. Antonio da Padova-. Vita, Miracoli,
Culto t devozione, p. 93. Milano, 1901.
19
SANT'UFFIZIO
qualsivoglia come una specie di S. Leonardo, liberatore dei]
carcerati. Due versi di un responsorio, infatti, dicono:
Cedtint mare, vincula.
Membra resque perditas
Petunt et accipiunt
luvenes et cani (i).
3. Santa Rosalia, a piedi nudi, coperto il capo con un
manto che scende stretto alla vita. Regge un rosario con
la mano sinistra, un bastone che però potrebb' essere una
croce, alla destra, ed un'iscrizione a mezzo la veste. In bas-
so, il motto:
LiETITIA CIVITA
TIS PANORMI.
La iscrizione, eloquentissima pel significato del luogo,
dice:
O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum,
Me quoque sic libera carcere, et a tenebris
Non occorreva il nome perchè si sapesse la santa raf-
figurata. Dire della liberatrice di Palermo, è dire della pa-
trona della capitale di Sicilia. E la Sicilia tutta, in mappa
geografica, è lì sottostante a Rosalia, quasi messa sotto la
sua protezione benevola e sicura.
Ma di questa mappa non tocca ora discorrere.
Solo, a proposito della Santa, vo' rilevare che se il no-
me qui è Rosalea e non Rosalia, negh anni che seguirono,
alla invenzione delle ossa, i cronisti e gli eruditi scrivevano]
(i) C. Da Sabbioneta, op. cit., p. 190.
20
PRIMA CELLA
promiscuamente; mentre ora nessuno scriverebbe più Ro-
salea.
4. S. Vito, in costume spagnuolo del sec. XVII, che
regge alcune catene alle quali è legato un cane e sotto:
CANVM, ET
LEONVM ORA
CONCLUDO
Nell'altra parete, ai lati della finestra:
5. S. Caterina Vergine e Martire, avente alla destra
una palma, alla sinistra la ruota del martirio poggiata sul
terreno :
SPLENDOR CASTITATIS
ET DOCTRINA M TTO.
6. Cristo, col motto biblico:
TU SOLVS
PEREGRINUS lERV
SALEM (i).
7. Testa di un santo monaco, superiore per correttezza
"di disegno e sentimento alle altre.
8. Cristo risuscitato: la più grande figura di tutta la
cella, alta m. 1.45 sopra uno di base, ove si legge:
O MORS. VBI EST VICTORIA TUA? (2)
D. FRANCISCVS CARAFA SERVVS TVVS.
(i) Evangelium secundum Lucam, e. XXIV, v. 18: a Et re-
spondens unus, cui nomen Cleophas. dixit et: Tu solus pere-
grinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta sunt in
illa his diebus ».
(2) Epistola I Beati Pauli ad Corinthios, cap. XV, v. 55 :
« Ubi est, mors Victoria tua? Ubi est stiniulus tuus? ».
21
SANT'UFFIZIO
Questa figura offre qualche reminiscenza del Cristo ri-
sorto di Pietro Novelli nella Chiesa madre di Piana dei]
Greci; il quale però è sospeso in aria appena uscito dal se-'
polcro. La reminiscenza è nella testa, nelle membra, nel ves- ]
siilo che Cristo regge colla mano destra.
Questa figura poi è l'unica nella quale senza stento si]
raccoglie un nome che invano si cercherà nella serie di dì-
segni, motti, orazioni, versi, di tutta la stanza.
Il medesimo nome:
CARAFA
ricomparisce a poca distanza dalla figura, verso i piedi; e
come nome ci fa ricordare di quel Placido Carata che nel
1655 fu protettore o vice-tesoriere della Inquisizione in Pa-
lermo. Come nome, dico, e non già come persona che pos-
sa con sicurezza identificarsi con quella della nostra cella.
Un Francesco Carafa fu nella seconda metà del Seicento^
capitano d'esercito; e nel 167 1 da generale della flotta mal-
tese riportò una strepitosa vittoria sopra i Turchi (i). Altro
Francesco Carafa fu Preposito della Madre chiesa di Mo-
dica nel 1659; stette quattr'anni a Roma, al corteggio del
Cardinale Trivulzio; conobbe D. Antonio Requesens, pa--
rente del noto Vescovo di Patti e forse lo stesso Vescovo,
e come lui non ebbe molta simpatia per gli Spagnuoli.
Una sua lettera del 1660 ragguaglia il Viceré di avere egli^
conosciuto in Roma un noto agitatore messinese, rifugiato
(i) Vedi : Strenuissimo Melitensium triremiuni generali Dttciì
Francisco Carafae ob {nsignem victoriam ab ipso comparatam
anno 1671 expugnata captaque rostrata barbarorum navi, Haec
mea dico carmina S. Theologiae Doctor D. Pedrus Forte Panor-i
mitanus. Panormi, ex Typografia Petri de Isola, 1672.
22
PRIMA CELLA
anche lui in quella città, andato nascostamente a Messina
e quindi attivamente ricercato « per aversi nelle mani » (i).
Escludo il primo di questi due Carafa, perchè nessuno
dei penitenziati si sarebbe occupato di lui, potente ed estra-
neo al Sant'Uffizio; inclino al secondo, per la sua vita un
po' agitata e forse spregiudicata e per la sua antipatia verso
la Spagna.
Se poi l'autore della figura del Cristo sia lui, non è ri-
cerca interessante, come è peraltro difficile. Può esserne
stato il consigliere, il quale, stando in carcere, può avere ot-
tenuta da un compagno semi-artista quella raccomandazio-
ne o profferta. Certo, si volle affidare il suo nome alla
principale composizione; che, se non eccelle (e non eccelle
difatti) per esattezza di disegno, è notevole per aitanza di
inmiagine e per energia di mossa, pure ammettendosi che
la testa sia stata rifatta o ritoccata da altri, tanto è spropor-
zionata col corpo e male piantata sul collo.
Né deve parere fuori del possibile il ritocco quando si
pensi che due altre figure ne presentano le traccie: la te-
sta di S. Rosalia e quella di un signore che prega e del
quale farò presto cenno. Un carcere è sempre esposto a chi
vi sta dentro: e chi vi sta, nella durezza del trattamento,
nella tristezza della solitudine e nell'avvilimento dell'ozio
cerca di ingannare le ore attaccandosi come fanciullo alle
più piccole cose, anche a quella di rivedere il già fatto da
altri, sia per completare, sia per correggere, sia anche per
gareggiare.
E' così strana la umana psiche!...
(i) Lettera, ahimè, divenuta postuma del compianto barone
Giuseppe Arenaprimo da Messina, in data del 25 agosto 1906.^
23
SANT'UFFIZIO
9. Un signore che prega. E' certamente questa la figu-
ra più completa e complessa del gran quadro, e forma come
il passaggio dall'elemento sacro al profano.
Siamo innanzi ad un nobile del Seicento, in tutto il co-
stume ed assetto del tempo, cominciando dal ciuffetto sulla
fronte e dai baffi rialzati e finendo alle scarpine con fibbie.
Di faccia a lui è trascritta la preghiera che egU, gi-
nocchioni ed a mani giunte, viene recitando: preghiera la-
tina, dove sono leggibili solo le parole: Oremus, Domine
Jesu... Confessor... in auxilijs ac gaudiis...; al lato sinistro
il suo stemma: grande, complicato, nel quale sono inquar-
tate chi sa quante armi dei suoi antenati e collaterali! Cin-
que corone, un bastone da pellegrino, una testa di leone,
teste di uccelli, ornamenti di quadretti neri e bianchi; e di
sopra una corona marchionale ed un uccello sulla corona; ir-
refutable documento che dovrebbe condurre alla conoscen-
za del personaggio.
Ma, a farlo apposta, quell'arme non esiste in Sicilia, né
in Napoli, né in Ispagna; non esisteva nel sec. XVII.
La elegante figura lascia incerti sull' esser suo: è il Cara-
fa del Cristo risuscitato? è un imputato che sconta una pe-
na? che si raccomanda a Dio acciò voglia affrettare la sua
liberazione?
Ricerche posteriori alle mie potranno svelare il mi-
stero.
Questa figura intanto per la sua acconciatura serve co-
me a determinare il tipo prevalente di altre nelle nostre
celle. I baffettini col pizzo ricompariscono qua e là nelle
immagini sacre maiscoline, la maggior parte delle quali sono
in questi inappuntabilmente spagnoleggianti. I carcerati, vo-
24
PRIMA CELLA
lendo rappresentare santi della chiesa, non sapevano conce-
pire mode diverse: è così è della pettinatura delle sante.
Mi trovo in questa parete e mi ci fermo ancora: tanto
le mie osservazioni si aggirano intomo alle rappresentazioni
presso a questa figura.
In alto è una grande sfera raggiante, che occupa un
metro quadrato circa. Da presso due date, l'una sotto
l'altra, in mezzo a scritture scomparsa od illeggibili:
. . . Anno 1643
augu...
IX [indictionis]
. . . . GA ....
OPFEIA (?) . . .
. 1645.
E forse ricordano due atti di fede.
Nella parete che costi tusce il muro meridionale esterno,
a lato del Cristo con la iscrizione tu solus.... è una notiziat
inedita e nuova di un atto di fede non mai conosciuto fino-
ra, che è formulala in queste parole:
Ai 21 di luglio 1646
si fici lo spittacolo
in S. Domenico di
trentatrè persone
tra huomini e donne.
25
SANT'UFFIZIO
, Questa indicazione viene confermata da altra simile del-
la terza cella, ove, sulla parete orientale, in alto, presso
una delle piì belle figure di sante, si legge:
a... 2 di [lugliu] 164... vi fu
lu spitta [colu] in S. Domenico
fntriTTiii 11 li
Il resto è coperto da una figura posteriormente disegnata, la
quale giova lasciare intatta.
E' chiaro che si parla d'un medesimo spettacolo, dove
la cifra 23 può essere sbagliata o non letta bene; mentre il
numero 33 è tutto e quasi chiaramente scritto.
Chiaro egualmente che, se non tutti e due, il secondo,
rinchiuso nella terza camera, fu dei penitenziati, un testimo-
nio oculare, spettacolo egli stesso, e vittima di occulti ac-
cusatori e di facili giudici. Vittima silenziosa, che, dopo di
aver affidato al capo del suo giaciglio l'atto più odioso sta-
to compiuto contro di lui, non ha una parola di risen-
timento.
E chiediamo ancora per lui; chi è egli? e rispondiamo:
chi lo sa!...
Certo però non è un palermitano. Il fommu per fontu
lo rivela un regnicolo, come a dire un provinciale.
A questo proposito mi soccorrono i graffiti d'un altro
carcere, il più duro che io abbia mai visto: quello dei pri-
gionieri di Stato dentro il Castello a mare in Palermo.
Nelle sei celle, che meglio si dovrebbero chiamare bolge
di esso, dal Cinquecento al Settecento, s'incontrano segni
perfettamente identici a questo. Son linee verticali tagliate o
sottosegnate da linee longitudinali, senza dubbio a ricordo
26
PRIMA CELLA
di periodi settimanali, o mensili durati e segnati dalle vitti-
me dentro le infami fosse. Non parlo di periodi annuali
perchè chi vi veniva seppellito dentro, non poteva vivervi
a lungo, che, per lenta agonia, doveva fatalmente soccom-
bere. Notte orrenda, continua, assoluta regna anche oggi
in quei sotterranei dalle volte e dalle pareti grondanti umi-
dore, come gli occhi dei condannati lacrime : e muffe e lez-
zo come di rettili putrescenti. E in quella notte etema, non
illuminata mai da un raggio di sole, da un filo di luce sotto
torrenti di luce del bel cielo della vecchia capitale, sul ma-
schio mastodontico e pesante, le vigili scolte passeggiavano
ignare o involontarie sorde ai gementi sotto di loro. E
chi sa che primi ad esalarvi lo spirito non fossero stati dei
penitenziati del S. Of tìzio, quando questo, nel sec. XVI, vi
ebbe sede!
Altra mano, o forse la medesima, su questa data storica
notava altro ricordo, non istorie© ma morale. Dei cinque ri-
ghi che lo formano, si leggono le frasi: hilari animo,... quoa
non es primus, che insieme con la proposizione et imbecil-
liores... esse nolite pare raccomandi animo e forza.
Lì vicino, di colore giallognolo son dei segni come
di taglia o di calendario :
20
I punti giungono alla 14* linea verticale, e le linee
verticali indeboliscono di colore mano mano che procedono
innanzi. Sono dei segni per contare i mesi, gli anni? Qua-
le infelice veniva prendendo nota del tempo della sua pri-
gionia?
27
SANT'UFFIZIO
Ed ancora, sopra la S. Caterina, a grandi lettere come
quelle d'un antico abecedario, si legge il seguente
Sonetto.
L'ultima volontà scriver desio;
volate, o Serafini, in un m[omento]
Et irentre vo dettando il t [estame] nto
Registrate nel ciel gl'atti d'un Dio.
Lascio all'Eterno Padre il spirto mio,
«'>)ndono a' miei nemici il tradim[ento]
E do a chi [m'oflesje il pentimento
Lieto de er legato pio.
E non c'è altro, perchè le due terzine che dovevano
seguire, sono cadute scalcinate.
L'autore di questo sfogo fece man bassa sopra lo spazio
che potè invadere nello scorcio della parete a sinistra. Qui-
vi delineò una figura di S. Pietro, che verso la spalla de-
stra ha il motto:
PETRUS
APOSTOLVS
IESU[CHRISTjI.
Sulla vita due versi latini, dei quali riesco a legger
solo:
tam p o eius.
28
PRIMA CELLA
E più sotto, un terzo rigo :
[Tu es'\ Petrus et [super] hanc pe
tram aedificabo Ecclesiam meam.
In direzione della regione mammaria, di altra mano:
Manca Anima.
Su tutta la figura poi, in alto, è una ottava siciliana,
che fa sentire il Seicento con le sue stupefacenti iperboli:
Eccola :
O Petru. ssoccni chi ficiru ecclissi
pr' haviri à Christu tri voti nigari.
Ma quali mani supra carta scrissi?
. quantu havisti à fari?
si pir scrittura / fidi chi cridissi
chi l'acqui l'autu Diu l'happi à criari
dima chi forsi li lacrimi spissi
di tia San Petru tu inchisti lu mari.
Dalla linea orizzontale del santo si passa ad un'altra fi-
gura, coi capelli sciolti, una palma alla mano sinistra, una
coppa con due occhi alla destra. Alla base:
S. LUCIA
attorno alla quale forse un solo e medesimo devoto profon-
de le debolissime grazie della musa italiana e gli ingegnosi
giuochi della latina.
Sul capo è questo povero sonetto : i
Già mai potrò. Lucia, chiara mia sposa
lodar a pieno col mio basso stile
la tua bontà nel pet[to] e '1 cuor [virile]
e tu dell' honor tuo fosti zelosa.
29
SANT'UFFIZIO
Intrepida con voce imperiosa
rifluì asti il tiranno infame e vile
e se di Dio sposa, e serva humile,
rimanesti di lui vittoriosa.
E s'egli poi il malvagio fier et empio
volea forse il tuo virgineo fiore
toglier da te, non potè mai cotanto.
E restò intatto il tuo sacrato tempio
che benché fossi tratta con furore,
immobile ti rese il Spirto Santo.
// tuo devoto.
Al lato sinistro, alla estremità della palma, queste pa-
role:
Columna es immobilis
Lucia sponsa Christi
[Quia] omnis plebs expectat
[Ut accipias a] Deo coronam vitae. Alleluia.
Queste parole, scritte in forma metrica, non sono origi-
nali, ma fan parte dell'Ufficio proprio della Santa (XIII
Dicembre), e ne costituiscono l'antifona ad benedictio-
netn.
Sta però una variante all'ultimo verso o rigo; perchè
Va Deo nell'Ufficio non esiste (i).
E sotto, il distico:
Lucia quae luces ceu lux a luce relucens
Praebe mihi lucem, Lucia, luce tua.
(i) Breviarium Romanum ad usum fatrum minorum Samcti
Francisci Conventualium etc in quo officia Sanctorum juzta no-
vissima indulta et devota Leonis Papae XIII etc. accurate dispo-
nuntur, p. 748. Romae, Salv. MDCCCXXXVIII.
30
PRIMA CELLA
Lo sforzo dell'arte vi si indovina, ma la fluidezza dei
versi e l'abilità della composizione sul nome di Lucia che è
ben trovata nel lucere, sono da scrittore abilissimo. Egli
del resto invoca in questa buia notte la luce.
Sulla porta l'ingresso alla chiesuola di S. Lucia presso la
Marina in Savona si legge anche ora il seguente distico at-
tribuito a Gabriello Chiabrera:
Lucida lucenti lucescis. Lucia, luce.
Lux mea luceat, Lucia, luce tua (i).
La identità del concetto generale nei due distici
si traduce in somiglianza di forma nel primo verso, in iden-
tità nella seconda metà del secondo.
Se il distico savonese è del Chiabrera (1553-1637), pre-
cede quello di Palermo; se non lo è, chi può affermare la
imitazione e non ammettere piuttosto una duplice origine,
non improbabile con la voce Lucia ed il significato di essa?
IO. Ma più che questa immagine, bella è una testa
di uomo che si intravede in mezzo alla confusione di tutta
la parete occidentale: testa che copre altri disegni e pen-
sieri di chi trovò primo un po' di largo.
Questa testa per gli occhi e la bocca pieni di espressione
sembra a me più pregevole che qualunque altra; e certa-
mente si stacca come il buono dal mediocre da due altre (11,
12), teste di donne, che vi stanno vicine, e sono di mano di-
versa. Ma anch'esse, pure rappresentando passatempi ca-
pricciosi, vogliono tenersi di conto pel costume. L'acconcia-
tura, non di popolane, ma di donne civili ed anche nobili,
offre un vezzo di capelli sul davanti della testa, il quale non
(i) Devo questa indicazione all'on. Paolo Boselli.
31
SANT'UFFIZIO
dev'essere stato raro in Palermo, e l'autore non deve averlo
tratto dalla sua fantasia. Senza dubbio, fu moda femmini-
le; e ricorre in una gran bella testa disegnata nella parete
di contro, presso un lembo della tunica di S. Pietro; ed in
altre quattro o cinque figure donnesche, di piccolissime
dimensioni, ma grossolane nella parete di destra; e tutte
hanno riscontro, non solo per il ciuffo sulla fronte ma anche
per una specie di zazzera cadente dal lato posteriore del col-
lo: foggia tanto comune verso la metà del sec. XVII che
un poeta la colse. Pietro FuUone, il popolarissimo cavapie-
tre, cantando la disastrosa pioggia del i6 aprile 1651 sul
Monte Pellegrino, si volge alla giovane, che pompeggiante
si era recata per la festa delle Quarantore, e le dice:
Tu chi spampata ssa zazzara porti (i).
13. Ed eccomi alla figura, vorrei dire tecnica: quella
di un Inquisitore. Chi la buttò giù sulla cornucopia destra
del mascherone tanto appariscente della parete, se non ri-
trasse un uomo, fissò un costume, anzi una istituzione.
Non recriminiamo né su questa né su quello. Siamo a mezzo
il Seicento e possiamo ben ritenere che i sacrificii umani
non saranno ininterrotti come nel secolo precedente. Il Cin-
quecento è passato da un pezzo; e i roghi non sono accesi
con la frequenza di una volta.
I deliziosi giardini chiaramontani, che il dispetto di un
re e le brutture dei tempi ridussero a sterili campagne,
fiammeggeranno sì, ma non più, come per lo addietro, con
assidua vicenda di anni. Poco più che un secolo ancora: e
(l) BOGLINO, Intorno ad un poemetto inedito in ottava rima
di P. Fullone. ott. 12. Palermo, Monteira, 1878.
32
PRIMA CELLA
SU di essi sorgeranno la Villa Giulia e l'Orto Botanico a far
dimenticare gli orrori di un tempo. Ed i profumi delle za-
gare si spanderanno ad attutire il lezzo delle carni umane:
ed attorno al verde degli aranci si dileguerà il denso fumo
che da esse si levò sinistramente.
Ornamenti svariati accompagnano, pigiano, opprimono
le figure.
Un gran braciere con un cuore che vi arde dentro, dal cui
centro obliquamente in alto un motto forse incompleto:
FERITO SON
NATVRA MI POS
SO
Senza le fiamme il braciere si prenderebbe per un vaso
di fiori, a base molto lunga, fin troppo lunga. E' un bracie-
re antico.
Lì, sotto S. Vito, uno scudo sorretto ai lati da un leone
e da un'aquila, col motto allusivo:
CVM
INFIRMOR
TVNC
POTENS
SVM
E qua e là, avanzi di edificioli con torri, ringhiere, pi-
lastri e finestre; e in tre punti diversi di tre pareti, cipressi,
pecore che pascolano ed una gigantesca civetta, espressione
dello stato d'animo di qualcuno che in quel carcere intristì,
turbata la mente dal pregiudizio che la civetta sia nunzia
di sventura e simbolo della prossima fine.
Un piccolissimo disegno nero sta come all'ombra del
33
3 - G. PITRÈ . SantUHlrìo
SANT'UFFIZIO
Cristo risuscitato. Un ultimo ginocchioni innanzi allo Spirito
Santo in forma di colomba circonfusa di raggi. Egli prega a
mani giunte e dalla sua bocca escono le parole :
Infunde amorem cordibus.
Ah si! egli recita il Veni Creator Spiritus, ha bisogno]
della carità degli uomini che lo tengono in quelle strette!
Dietro di lui son le lettere V. F. S.
Questa rassegna è solo una parte di ciò che offre la
cella muta fino a ieri. Ben altro ci rivelano gli scritti. Co-
me dappertutto, figurine piccole e testine, quali a colore
quali in nero, frasi e sentenze si riesce a rintracciare intru-
se, pigiate, costrette, nascoste, dove nessuno può immagi-
nare.
L'attività dei prigionieri si accentrava ove piii scarsa
era la luce, di fronte alla entrata, presso il Cristo risuscitato
e presso il gentiluomo vestito alla spagnuola.
La oscurità favoriva le loro lamentazioni. Nota domi-
nante la prigione, e nella scelta delle figure, quelle che ne
rispecchiano le pene. Sopra un estremo lembo di tunica,
che può essere di S. Leonardo, una mano regge una cate-
na con un paio di ceppi. Ebbene, cinque parole compendia*
no il poema dell'anima ambasciata:
CATTENiE ET VINCULA
NARRENT MIRACULA
Lì daccanto è un distico al medesimo S. Leonardo, per-
chè si degni liberare il supplicante, che, come è dato sup-
'porre, ne porta il nome.
34
PRIMA CELLA
Il distico, non tutto decifrabile, è eloquente:
Carceris istius solvas Leonarde cate (nas)
Tu qui captivis rumpere vincla soles.
Gran divoto costui, se può anche scrivere in angolo così
oscuro due preghiere latine al suo protettore! Le quali si
prestano solo alla trascrizione di poche scomposte voci, e
tra esse captivus. Sancii Leonardi; ora prò nobis. Sancte
Leonarde; Intercedas prò me; Sanctus Leonardus Confes-
sor: Patrocinio captivos et... deputasti. Per Christum
Dominum... Amen.
E finiscono con questa avvertenza:
Utri... scilicet orationem prò carceri [bus] mancipatis per-
sonam hic edidit...
Più oltre noi rivedremo questo santo: e la sua presen-
za concorrerà a spiegare la vita degli uomini qui ristretti.
Davanti ad un piccolo Crocifisso, confinato in uno degli
angoli della base del Cristo risuscitato, con supremi sforzi
si riesce a scoprire:
Facitinni... diri lu
versu 4, 5 di lu
salmu 131 memento
di Re David
fino a
La indicazione è precisa, e viene, com'io penso, da un
sacerdote. Apriamo la Bibbia e cerchiamo senz'altro il
salmo CXXXI, e partiamo non già dal 4-5, ma dal i
versetto:
35
SANT'UFFIZIO
i) Memento, Domine, David, et omnis mansuetudinis
eius:
2) Sicut juravit Domino, votum vovit Deo Jacob;
3) Si iniroiero in tabernaculum domus meae, si ascen-
derò in lectum, strati mei:
4) Si dedero somnum ocuMs meis, et palpebris meis
dormitationem;
5) Et requiem temporibus meis; donec inveniam locum
Domino, tabernaculum Deo Jacob.
Il supplice ecclesiastico si richiamava al cantico del sal-
mista ed implorava che qualche anima pietosa pregasse il
Signore per lui. Poteva il pover uomo spingere la preghiera
fino al verso 9 : « Sacerdotes tui induantur justitiam; et
sancii tui exsultent n; ma si guardò bene dal farlo.
Molto, ma molto interessante dev'essere la storia scrit-
ta in sottilissima calligrafia in altro degli spazi laterali a
questo: storia d'un disgraziato che o sé stesso descrisse in
terza persona o da altri è descritto in dieci righi dello spazio
di venti centimetri ciascuno. Il primo rigo dice così :
In die II Aug.i in mea causa fuit conclusio eosque qui ad vim
tu. ..tare... non est... confessus. Ad quod S.« Inquisitionis fìsci
non fuit... carceri esilioque... hat allato fui positus... torturae
subjectus intrapì et audientiam non habui.
Audientia prò [sustinere] fìdem...
Altro disgraziato aggiungeva in caratteri meno incerti
cinque righi, che a me non par vero di essere riuscito a tra-
scrivere :
De Die... Martij anni 1676 sep.ter (?) permanens adhuc
captus ab aula 4* ad hanc iterum fui perductus insimul cum alio
novo socio. Die... aetatis meae ^^ transeunte (?).
36
PRIMA CELLA
E' un uomo nel fiore degli anni — 33 appena — che
nel marzo del 1676, catturato, ripassava dalla cella quar-
ta a questa, dove prima era stato; e trovava un nuovo
compagno. Donde si rileva come più d'una (quattro al-
meno) fossero le celle, e come più persone insieme stessero
chiuse. L'alio novo socio può indicare il compagno di
sventura passato con lui dalla quarta cella; ma non esclude
che nella nostra cella, questa cioè della quale ci occupiamo,
fossero altri ospiti; anzi io credo che sarebbe stato troppo
lusso lo spazio di cinque metri quadrati per due sole persone.
E poi col numero dei carcerati che teneva sempre il
S. Uffizio e con lo spazio relativamente angusto di tutto
l'edifizio!... Solo questa penuria di spazio di fronte ai mol-
ti reclusi può giustificare la trasgressione degli antichi or-
dini emanati dal Tribunale supremo di Spagna. Le In-
structiones Novissimae del 1561 prescrivevano che in una
cella non fosse più d'un carcerato.
Riservandomi di tornare sulla qualificazione della na-
tura dei presenti luoghi, procedo innanzi nella descrizione.
Due schizzi femminili di più che volgare fattura, sem-
brano tirati su col carbone. Sono una donna in un'ampia
crinolina (veste che pure ricorre in altra donna non del tut-
to messa in luce), sotto la quale è di mano aliena segnato:
Piange Ja misera
perchè il luoco è di
pianto.
L'altra è ignuda, ma per nessun verso accennante a la-
scivia; la quale, in mezzo a vasi di fiori, sciolti i capélli e
spioventi sulle spalle, spicca con una mano garofani e con
37
SANT'UFFIZIO
l'altra li tiene. Sotto a lei, ma non per lei, com'io credo,
facilmente si legge:
Pacienza
Pane, e tempo (i),
tre cose pur troppo indispensabili, per non disperarsi, per
per poter vivere e sapere attendere; nelle quali non occorre
cercare un significato meno che sincero di i assegnazione,
poiché il pensiero d'una rivincita o d'una vendetta col Tri-
bunale sarebbe stato sogno di mente inferma. Pensieri di
questa natura saranno stati del tempo, ma non del luogo.
L'aspirazione alla libertà, alla uscita dal tenebroso luo-
go, è continua, persistente in quegli afflitti; assillo che li
punge di continuo. Ricordiamoci del devoto di. Santa Ro-
salia, che supplica la liberazione dal carcere e dalle te-
nebre.
Ma un altro, con ineffabile amarezza, esclama:
SEMPER DICO [VENI] ET NUM
QUAM VENIT [A]S1]TE CRAS.
e ne ha ragione, che aspettando il domani passano i mesi
e gli anni!
Potrebbero, è vero, mettersi a riscontro di questi altri
detti, che accennano a relativa tranquillità di sofferenti
e i tanti, d'impossibile, o d'incompleta lettura, questo si-
ciliano :
Pensa beni
a la morti.
(i) Un proverbio siciliano: Cu pani e pacenza si va 'tipa-
radisu, ma nel motto il sisjnificato è ben diverso.
38
PRIMA CELLA
ed anche
Pensa beni
a fanti
(che cosa?)
Quest'altro italiano:
Al mondo non c'è niente
rimedio.
e quest'altro latino:
Fallit omnis homo,
che può accusare resipiscenza in chi lo scrisse, o ac-
cusa contro chi lo fece prendere e condannare; ma ve ne
hanno di più espressivi che sono il rovescio della medaglia.
Nascosti qua e là, con vera fatica si scoprono due
gruppi di avvertenze a chi entra in quei luoghi lagrimosi:
Averti chi ccà
dunanu tratti
di corda e...
dice una di quelle note; e lo dice timidamente, in carat-
teri piccoli e in luogo ascoso.
La nota manca della fine, raschiata prima che vi ca-
desse sopra la calce.
Perchè raschiata?
Secondo me, perchè conteneva qualche parola di ri-
sentimento verso gli aguzzini.
Della medesima mano ed egualmente ascosa è la se-
guente :
Sta in cervella chi ccà
dunanu la corda...
39
SANT'UFFIZIO
la quale in forma più lunga e labilissima si trova ripetuta
così:
sta in cer
vellu (i) chi
ccà dunanu
la corda a nu'
du... vili
e cui se [rivi]
ha pruvatu
dui volti.
Lasciamo stare i righi scomparsi, il fantasma della cor-
da riappare rigido, pertinace al prigioniero, onde egli torna
a mettere in guardia i suoi compagni vecchi e nuovi :
Vi averta chi ccà
prima dunanu la corda...
E poi? Il pòi non si può decifrare.
Terribile quest' incubo della corda pel disgraziato! Qua-
lunque altro dolore noi preoccupa; solo in essa egli
vede e compendia le infinite sofferenze del carcere, che
pur tanto crucciano i suoi consorti. Quale rivelazione in
quella ripetuta avvertenza! Chi sa quali tormenti ha egli
patiti! Pure egli non è il solo a tremare dell'incubo po-
tente.
Altro sventurato è lì sopraffatto e conquiso.
(i) Per rara che possa parere questa locuzione, eccone qua
un esempio in Malagido Talamiro (probabilmente anagramma)
L'amico fedele, p. 12, in Pai. 1724: «appri l'occhi e l'oricchia,
sta 'n cerveddu ».
40
PRIMA CELLA
In una nota quasi scomparsa delle due cornucopie s'in-
travedono le parole:
e statti, in cervello che qui
danno la tortura...
con atti infami (?)...
E sono di un uomo che s'era messo a parlare, e fu
messo a tacere dal tempo. Noi non potremo sentire la sua
voce, che dovrebbe pur suonare accusa ai suoi carnefici.
Come gli altri, egli non dice chi sia (e qui il silenzio ha
la sua ragione), ma, a differenza di tutti, segna la data
di sua attuale prigionia. Di fatti, in basso, a linee imper-
cettibili, un i66, accenna al decennio tra il 1660 e il 1669.
E vengo all'ultima parte di questa prima cella: le
poesie.
Una buona dozzina sono i componimenti in versi si-
ciliani, dovuti tutti ad un autore, che io chamerei il poeta
di questa cella.
Una ne è la grafia, come di penna d'oca, uno lo stile,
una la intonazione, malinconica, piangente i tristi giorni
di chi li compose e trascrisse: sunt lacrymae rerum, che
non vogliono confondersi con i piagnistei degli ammanie-
rati geremia del Seicento, i quali sbadigliavano in can-
zoni amori ed affanni non provati.
Sono lacrime di un cuore inconsolabile al pensiero di
esser chiuso in una tetra prigione.
Ad ogni ottava appone sotto, a mo' di firma, una sug-
gestiva qualificazione dell'abbandono in cui si trova per
colpa dei parenti e degli amici o del tribunale. Qui si fir-
ma, L'abbandunatu, lì L'infelici, altrove Lu diminticatu,
o Lu scurdatu. Oh sì, egli dev'essere un grande infelice
41
SANT'UFFIZIO
S8 con tanta persistenza lo ripete, e quasi lo rinfaccia,
pure persuaso che nessuno potrà sentirlo ed aiutarlo. Solo,
dopo più di due secoli, la sua voce giunge a noi, voce
d'oltre tomba, che riempie l'anima di profonda mestizia.
Sentiamolo questo poeta. La sua Musa non ha slanci,
ma è ispirata. Che importa che alcune delle sue canzoni
non sono piìi leggibili? Che altre lo siano in parte, e
parecchie per parole! Una parola fa indovinare un verso,
un verso un distico, un distico tutta un'ottava: che è la
siciliana classica, a due rime alterne.
Sentiamolo :
Et haju sensu assai e ancora sentu!
Nu sugnu foddi a la dogghia ecxessiva!
Et a li guai chi patu ogni mumentu
La mia dogghia murtali ancora è viva!
Ahi chi furtuna ferma a lu miu stentu
Pirchi la dogghia sia chiù sinsitiva:
E benché sia eternu lu turmentu
Né di sensn ne di anima mi priva.
L'abbandunatu.
Cui lu nimicu so' tenta, e procura
Barici morti pir so' malu inditiu
La sgarra, 'ntempu nenti, binchi (?) un'hura
Si sapi et è poi misu in precipitiu;
Ma fazzu fidi chi fu una congiura
Di prima forma lu...n so lu tuo uffitiu;
Chi comu trasi in chista sepurtura
Nun ndi nesci pri fina a lu giuditiu (i).
(i) Questa ottava riscontreremo nella terza cella in forma
incompleta.
42
PRIMA CELLA
Amici nun spijati chistu cn'aju
[PirchìJ la morti 'nfrunti [mi] la viju.
Nun viditi chi ad ogni passu caju
E nenti in pedi mi sustegnu...?
Nun vidi [ti] chi mancu d'unni vaju
Et a lu fatu a pocu a pocu ceju?
[Si vi] spija qualcuna comu staju.
Chi staju comu cui va sempri peju.
Lu mischinu.
Nun ci nd'è nu scuntenti comu mia :
Mortu, e nun pozzu la vita liniii.
Fortuna ondi ch'immortali io sia;
Chi si murissi nun duvria patiri,
Pirchi cu la mia morti cissiria
La dogghia e l'infiniti mei matriri.
Per fari eterna la mimoria mia
Nta tanti stenti nun mi fa muriri (i).
L'infelici.
Cori ch'i man... ne tempu haviri usanza
D'esseri entratu in middi affanni e guai,
Hora binchì sta spina ogn'aulra avanza
Nim t'avvililri, haj pacenzia hormai.
Resisti, cori, fc-rmu cu custanza:
Qualchi humana pietà forsi havirai,
E quandu manca ogn'autra rigurdanza
C'è l'aiuto di Diu eh' un manca mai.
n poeta, anche in mezzo alle afflizioni, brucia il gra-
nellino d'incenso al gusto letterario del secolo.
(i) Il Veneziano (1543-1593) aveva scritto prima:
cridia muriri,
ma pri patiri cchiù non moru mai.
Opere, p. 115. Palermo, Giliberti, 1861.
43.
SANTUFFIZIO
E chi potè sottrarsi alla influenza di esso? In una can-
zone a base di sospiri, respiri e spirazioni, sono questi
quattio versi:
[Horaj da nu suspiru haiu a spiiari,
Sulu sarria pri mia veru suspiru
Chi chiù nun havissi a suspirari:
Suspirari lu ciatu in' un suspiru.
Lu dimenticatu.
E rafforza il giochetto con un'altra ottava, il cui ul-
timo verso è:
Sugnu murtu et ancora haiu a muriri;
ed è firmato : VaffUttu.
Queste canzoni dolorose sono addensate in un angolo
della cella, in uno spazio irregolare di un metro quadrato
circa, ove difficilmente si sarebbe spinta la vigilanza dei
carcerieri. Forse non mi apporrò male ritenendo essere stato
quello il posto assegnato all'autore; il quale a quello spazio
affidava i suoi sfoghi raccogliendosi e cercando riposo.
Fuori di quello, altro spazio non è per lui, o che egli
noi possa avere, o che egli noi trovi buono per sé.
Due altre ottave sono nella medesima parete ma non
sue; di alieno carattere, e con qualche pentìm.ento. Giac-
ché anche questo é notevole nel nostro poeta: la nitidezza
della grafia senza la menoma correzione; il che farebbe
supporre che prima di trascrivere egli componesse in un
foglio qualsiasi le sue poesie e le correggesse e riducesse a
quella forma definitiva.
44
PRIMA CELLA
Un frammento d'altra mano, e con altra intonazione:
e da li orruri
Digni di tanta pena haiu commisu
Conoscu eh 'haiu statu un piccaturi
Cchiù di quantu potu l'haju offisu.
Ma la cuscenza chiama tutti l'huri.
Ora, è questa una confessione di colpa, o una delle
tante forme con le quali si chiede perdono a Dio dei pro-
I^ri trascorsi?
Sia l'una o l'altra delle intenzioni, non potrà negarsi
che l'autore pensava, sentiva e si esprimeva diversamente
dagli altri reclusi.
Il perchè è sempre un mistero.
45
Capitolo III
SECONDA CELLA
ASSANDO alla seconda cella, dà all'occhio,
come nella prima, una serie di figure di
santi e di sante, le quali più ordinaria-
mente che in quella, fanno mostra di sé.
Toltene parecchie maggiori, troneggianti
in alto nella parete destra, tutte sono delle medesime di-
mensioni e in due linee diverse: a un metro da terra nella
parete destra, ad uno e mezzo nella parete di fronte. Una
lieve differenza è in quella di sinistra; ma essa non c'im-
porta, perchè a suo tempo, dopo l'uso del carcere, la pa-
rete venne tagliata per un arco che ora mette in comunica-
zione questa seconda con la terza cella, settima ed ultima
della serie. I grafici di questa parete perciò contano poco
o nulla. Anche la parete di fronte, al pari di quelle della
prima e dell'ultima camera, guasta anch'essa dal taglio del-
le finestre, ha subito dei danni : con raffigurazioni distrutte
o ammezzate.
Prima intanto di procedere alla rassegna di queste fi-
46
SECONDA CELLA
gure, devo guardare alle principali in alto della parete de-
stra, principali dico, per le loro dimensioni, per ordine e
compostezza.
Già tutta la metà inferiore della parete offre esercizi di-
versi di persone mezzanamente istruite in disegno, per tut-
ta una metà di secolo. Un fondo leggermente giallognolo la-
scia scorgere dall'alto al basso, fino a due metri dal pavi-
mento, macchie e linee di figure scomparse, e vasi di fiori
sulla ringhiera d'una terrazza. Di questi vasi dovette cs-
servene una dozzina; adesso però se ne indovinano appena
metà, tutti dell'antica forma di facce umcine. Su di essi e
altri disegni spiccano due grandi figure coperte con pallii,
aventi ciascuna ai lati e nel mezzo altre figure minori; sei in
tutto. Una regge tra le mani lo scafo di una barchetta a
confronto delle attuali con prua molto acuta; ed è carat-
terizzato dalla seguente preghiera:
lanitor sanctus pandens coelestia regna;
Quaeso, mihi portanti pande iubente Deo.
B.
L'altra figura posa una mano sul manico d'uno spadone
appuntato in terra; con quest'altro distico:
Qui quoque J^
Me, Paule, ex istis ac liberare velis.
B.
Siamo di fronte ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Il ja-
nitor pandens coelestia regna richiama al janitor il quale
con la facoltà concessa a lui cunctis coelum verbo... aperis
della prima e della terza strofa dell'inno In festo SS. Apo-
stolorum Petri et Pauli della Chiesa.
Se non fosse per certe considerazioni in contrario, po-
47
SANI UFFIZIO
Irebbe pensarsi all'uso esclusivamente religioso di questo
come della cella laterale, cioè ad una cappella con relativo
altare, ecc., ma vi si oppone il disordine delle figure, le
parole disseminatevi, certi ornamenti, la ringhiera e parec-
chie altre circostanze. Ne contrastano poi il sospetto i se-
gni, tuttora freschi dopo due secoli e mezzo, d'insetti agli
angoli delle pareti: segni non dubbi di giacigli. Vi si oppo-
ne senz'altro, e recisamente, la istruzione, la quale nega in
forma assoluta la celebrazione della méssa alle persone
condannate o sospette di proposizioni ereticali; salvo che
non voglia parlarsi di celebrazione da parte di sacerdoti non
interdetti.
Le figure di tutta la cella poi sono sedici: tredici,
cioè, di santi, tre di sante: alcune del tutto scoperte, altre
scoperte in parte. Sono della medesima mano e quindi del
medesimo stile, e segnate con la iniziale B., che cercherò
più in là di indovinare. Il B. disegna mediocremente, e si
ripete per abitudine di lìnee e di panneggiamenti; ed usa il
nero ed un colore leggermente giallognolo. Delle figure qual-
cuna è accompagnata da motti e da preghiere, qualche al-
tra — .e sono due terzi — • no.
Familiare è all'autore il leggendario dei santi; più fa-
miliari le laudi della chiesa e, come vedremo, anche le
meno comuni tra esse. Del breviario e del messale è tanto
padrone da far ritenere che egli giornalmente lo recitasse.
E' credibile che egli fosse stato un ecclesiastico, o sotto i
suggerimenti d'un uomo di chiesa. Vengo alla rassegna, e
parto dalla parete di fronte, che è la meridionale:
1. S. MATTHEUS
2. S. JOSEPH
3. S. LAURENTIUS
48
SECONDA CELLA
che sostiene con la mano sinistra una graticola;
4. S. BENEDICTUS
5. S. lACOBUS
Questa figura è intieramente scoperta, meglio che quel-
la del numero
6. S. VITUS
che regge due cani legati con catene, uno a destra, uno a
«nistra;
7. S. ALEXIUS
Porta alle spalle il sarrocchino ed alla destra il bastone
dei pellegrini. Dai piedi ai ginocchi ha stretti gambali co-
me uose.
La presenza di questo santo farebbe credere alla popo-
larità della leggenda di esso in Sicilia; ma popolare, nel
senso folkloristico della parola, il santo non fu mai nell'iso-
la, tanto che nessuna leggenda si è riusciti a scoprirne nel-
la tradizione. Quella presenza è del tutto erudita, e non
deve dar luogo a considerazioni d'indole demoetnica. Que-
sta ultima figura ha stivali:
8. S. GREGORIUS
NAZIANZENUS
Nella parete destra, come si vedrà più oltre, la più col-
ma di disegni,
9. S. EUPHEMtA
10. S. ELISABETTA (?)
11. SANCTI C03MAS ET DAMIANUS
49
4 - G. PITRÉ • SanfUfllzlo
SANT'UFFIZIO
Questi santi nelle immagini moderne sono perfettamente
uguali l'una all'altra: qui però presentano una lieve diffe-
renza di costume; ed hanno alle mani, oltre la palma del
martirio, un bicchiere con manico:
12. S. ISIDORUS,
con una specie di corta clamide e una canna alle mani, u-
nico segno del suo mestiere rustico.
Scarso valore demopsicologico deve attribuirsi a tutte
queste figure in confronto delle altre della medesima fattu-
ra, che passo a descrivere.
Son quattro, tutte senza nome, le quali offrono materia
d'indagini e di osservazioni.
13. Una santa,
non facile a rinoscersi se non si tien conto del particolare
delle leggende rilevato dalla iscrizione:
TV QU^ DIES
VNDECIM SINE
CIBO ET POTV
IN CARCERE IN-
CLUSA FUISTI
LIBERA
NOS
Chi sarà mai questa santa che in prigione stette undici
fiiomi. senza mangiare né bere?
Accanto a lei è la effìgie di
14. Un santo, frate,
che sembra dell'Ordine dei Predicatori. Dico sembra, stan-
do alla preghiera che ha sotto, e la quale dice cosi :
50
SECONDA CELLA
TV QVI PRI-
mus Sanctae
INQUISITIONIS
munus gessisti
ET PER TRES
ANNOS IN CAR-
cerem condemn^-
tus à Crucifisso
Libera tus fu isti
LIBERA
NOS.
A nessuno sfuggirà la speciale importanza di questa
supplicazione: tanto da equivalere alla figura dell'Inquisi-
tore della prima cella. Solo qui per la prima volta balza
fuori il titolo della S. Inquisizione, auspice il santo a cui la
supplicazione è rivolta. Intorno al quale, molto o poco sa-
rebbe da dire se si guardasse alla prima alla seconda delle
due proposizioni relative. E' al di sopra di ogni discussione
che la prima allude a S. Domenico, che primus avrebbe
esercitato munus S.ae Inquisitionis; ma quella benedetta
parte della condanna a tre anni di prigionia esige un po' di
attenzione, perchè dalla vita del Santo di Gusman questa
circostanza non risulta; e vuoisi riguardare come una pie-
tosa leggenda, o come presa ad imprestito da altra vita di
santi. Di uomini venerati sugli altari, i quali tennero l'uf-
ficio supremo di inquisitore, parecchi ve n'è: S. Pietro
Martire, S. Pietro de Arbues; e la immagine appunto di
questo santo ricompariva qua e là nelle sale del S. Uffizio.
Nell'inventario dei mobili di esso, quando venne abolito,
quadri di S. Pietro de Arbues furono trovati nella sala del
segreto, nella camera laterale alla Cappella, e nel primo
salone, dove (questo è notevole, perchè gì' Inquisiti do-
51
SANT'UFFIZIO
vevano vederio) la vita del santo medesimo era dipinta m
undici quadri (i) ed una grande iscrizione ne celebrava
morte e miracoli; ma in nessuno si riscontra la circostanza,
altro che in S. Giovanni da Capistrano, il quale fu real-
mente carcerato per tre anni, ma non raccoglie in sé quel-
la liberazione per opera prodigiosa di G. Crocifisso.
Sarebbe lui il santo delle parole? o non piuttosto S. Do-
menico? di cui però, a farlo apposta, neppure una imma-
gine fu trovata il giorno della abolizione! (2)
Certo il richiamo ai tre anni non è ozioso. Di condanne
ad un triennio di penitenza ogni tanto ne capitava qualcu-
na: e fra le altre può essere stata quella dell'ignoto artista
del Libera nos, che pure può essere stato condannato a pe-
riodo infinitamente più lungo. Anche l'allusione preceden-
te alla fame ed alla sete per undici giorni può avere il suo
significato.
Bisogna anzitutto riflettere che i carcerati ordinari per
cause civili e criminali quando non lo ricevevano dai pa-
renti, dovevano accontentarsi dello scarso cibo che loro ve-
niva ufficialmente dato. Pii testatori avevano in parte e mol-
to limitatamente cercato di provvedere alla loro sussi-
stenza.
Fino agli ultimi del secolo XVIII una Deputazione go-
(i) La Mantia, op. cit., part. II, pp. 76.
(2) « Quoiqu'une bulle de Sixije Quint ait consacrò celle
legende, S.t Dominique n'est pour rien dans la création du
Saint-Office; il etair mort lorsque Grégor IX et ses légats com-
mencèrent à charger, à titre d'essai, quuelques clércs, surtout
des dominicaines, de missions inquisitoriales personnelles et tem-
porairei ». Ch. V. Langlois, L' Inquisition d'après travaux rJ-
cents. p. 39. Paris, 1902.
52
SANT'UFFIZIO
vernativa attendeva a quest'opera di carità, intesa a sfa-
mare i carcerati della vecchia Vicaria, oggi palazzo delle
Finanze.
E fu bella cosa l'aver essa ottenuto dal Governo di Na-
poli piccoli aumenti di assegni annuali per un tozzo di pa-
ne o di una minestra a quanti non avessero come vi-
vere (i).
Quanto ad abiti, la faccenda andava anche peggio: e
non accade qui spendere altre parole quando si sappia che
si riducevano laceri.
Immaginiamo come andassero le cose nelle carceri in-
quisitoriali!
Come suprema concessione permettevasi al figlio cat-
tolico di sovvenire, acciò non morisse di fame, il padre ere-
tico costituito in estrema necessità (2).
Nella loro grettezza, i signori Inquisitori tiravano quan-
to potevano a loro favore. Da una parte catturavano, dal-
l'altra, vedendo di non aver nulla da cavare, ad alleggerirsi
del peso dell'alimentazione, discutevano sul dovere altrui
di sostenere i catturati. Erano le streghe maggiormente
prese di mira, e per questo litigavano con la Deputa-
zione del Regno. Una disposizione di Filippo III potè ob-
bligarli a tacere, fornire essi gli alimenti e non già la De-
putazione, che non ci avea da fare (3).
Non mancano anche in questo anime pietose. La Prin-
cipessa di Partanna Donna Maria Grifeo, legava una rendi-
(i) PiTRE', Palermo, voi. II, cap. XVII.
(2) Sacro Arsenale, n. CCLXV, p. 416.
{3) Capitula Regni Siciliae, cap. di Filippo IV di Spagna III
di Sicilia, a 1648, cap. XXXII, e. II, p. 363.
53
SECONDA CELLA
ta annuale di onze 15 (L. 191,25) per alimentare tre reclu-
se perpetue (i). Donna Maria Grimaldi y Bascon (1677) la
somma netta di onze 121 a favore dei condannati, in ragione
di IO onze l'uno all'anno; uno dei quali legati doveva essere
d'una penitenziata nell'ergastolo come fattucchiera o stre-
ga (2).
Ed il Parlamento del 1668 votava una forte somma,
parte della quale doveva andare pel sostentamento delle
streghe recluse (hai cherias) (3).
La Congregazione della Pescagione, composta di sacer.
doti e di persone timorate, s'assoggettò al S. Uffìzio, e, li-
mosinando per la città, dava da mangiare ai condannati.
Se poi si chiamasse « pescagione » perchè andava pescando
le persone aberrate (4), qui non monta.
Forse si trovavano meglio coloro ch'erano condannati
nei conventi, dove almeno non mancava loro un po' di
quello che ai frati abbondava.
Eppure un Giuseppe Lo Cascio, sacerdote di Salaparn-
ta, dopo cinque anni di reclusione come penitenziato nel
convento dei Cappuccini in Partanna, divenuto infermic-
cio e sprovveduto di vesti, supplicava (1745) il Papa che
gli concedesse di celebrare messa e ritrame la elemosi-
na (5); grazia che per la interdizione del S. Ufficio non
poteva concedere altri se non il Pontefice.
(i) Testamento del 23 giugno 1665, presso Notar Crisostomo
Barrer da Palermo.
(2) Appartenente alV Inquisizione del S. Uffizio. 12 gen-
naio 1677. Ms. Qq. F 239 della Comunale.
(3) Ms. Qq H 62 della Biblioteca Comunale di Palermo.
(4) Matranga, Relazione p. 11.
(5) Ms. Qq. 62 della Biblioteca Comunale di Palermo.
54
SECONDA CELLA
15. S. Antonio,
evente sulla mano destra il disegno d'una chiesetta, alla
sinistra un giglio o non so che altro fiore. Lo fiancheggia
un inno a frammenti:
In nostras 15
Humanis
Int
Voluntas.. nenibus .
Atque
Reddantur
Virtute Divi 14
Loquantur miseri
Servi et captivi.
Inter mortalia etc.
Gloria Patri etc.
Inter mortalia etc.
Sotto questa e la figura seguente cinque testine di an-
geli.
Finalmente,
16. S. Leonardo,
Immagine volgare come arte, ma simbolicamente interes-
sante.
Poco evidente nella prima cella, ove pur la vedemmo
contornata di motti e di preci, e come pur rivedremo col
solo nome, nella terza ed ultima cella, essa non poteva
mancare in un luogo di pena.
San Leonardo abate fu fondatore dell'Ordine degli
Eremiti: avendo impetrato da Dio la salute di Teodoreta,
figlia di re Teodorico d'Austrasia, già disperata dai medici,
ebbe dal riconoscente genitore di lei lo speciale privilegio di
mettere alcune volte in libertà qualche prigioniero. La pia
55
SANT'UFFIZIO
leggenda, specialmente francese, narra di prodigiose libe-
razioni di persone in catene mercè le fervide preghiere del
sant'uomo: strepitosa quella di Martello, signore di Bac-
queville nel paese di Baux (sec. XIV), il quale, preso dai
Turchi e tenuto in rigorosissima captività, alla vigilia del
suo supplizio, dopo una lunga notte di orazioni di lui (che
n'era stato avvertito da un custode), si trovò miracolosa-
mente libero nella entrata della foresta di quella con-
trada (i).
Leonardo è il patrono dei carcerati, dei captivi e degli
schiavi. In nessuna delle tre camere manca, raffigurato in
runica dove bianca, dove nera, con lunga pazienza cadente
fino ai piedi e con l'emblema tolto ai carcerati: le catene ed
i ceppi. Qui, in abito nero e pazienza bianca, col crocifìsso
nella destra, le catene alla sinistra, ha la inferriata d'una
finestrella di carcere in questa forma :
PER VIRTVTEM
iy-
■ih
<> — <►
<>— H>
LIBERA NOS
Mi affretto ad avvertire che santo e ferrata, benché
divise tra loro, sono una medesima cosa. Anche oggi Je
stampe popolari del Santo in Sicilia rappresentano Leonar-
(i) // perfetto Leggendario ^ ovvero Vita de' Santi per cia-
scun giorno dell'anno. Voi. XI, p. 51. Roma, Minerva, 1848.
56
SECONDA CELLA
do nella stessa forma; abito d'eremita, catena coi ceppi al-
la destra, una finestruola con grata alla sinistra : carcere in
tutto e per tutto.
Se non uscissi dal mio compito, accennerei alla cintura
di catene di ferro di alcune chiese di Baviera e del Tirolo,
la quale è uno dei segni distintivi dei santuari dedicati al
nostro Leonardo. Direi dell'analogia tra il nome del santo
e la sua speciale funzione di legare e slegare; onde il vec-
chio nome fr. Liénard ed il soprannome tedesco Enthin-
der, slegatore; e dell'antico costume dei prigionieri di of-
frire ad esso le loro catene appena liberati (i).
E però completo senz'altro la parte grafica del nostro
santo.
Ricingono e coronano dal basso all'alto la immagine
tanti versi ed orazioni latine quanti non se ne trovano in
tutti gli altri santi delle tre celle insieme. Non tutti insieme
però sono interi questi versi e queste orazioni. I maltratta-
menti della calce e dei buchi degli scaffali ne hanno guasta
buona parte: e la completa lettura ne riesce impossibile
benché chiara e bella ne sia la grafìa.
Trciscrivo quel che mi riesce: a destra, sopra, la seguente
e preghiera:
...[prò] carcere mancipatis et per martyrium S.cti Leonardi.
Antiphona.
Dirupistii vincula mea tipi sacrifica[bo].
Hostiam laudis, et nomen Dei invocamus (2).
(i) Richard Andree, Votive «. Weihegaben des kantholi-
'•chen Volks in Sud - Deutschland, pp. 70-74. Braunsswik, 1904.
A. vON Genay, Religions, moeurs et legendes, pp. 7 sg. Paris,
MCVIII.
(2) Proviene dal Salmo CXV, 16-17.
57
SANT'UFFIZIO
W. Laqueus conteritus est.
R. Et nos liberati sumus (i).
Clementia tua D.ne lesu Christe
ne moliatur [c]usos sicut libe.
15
sortales
tis ita nos
is merita
solvere
solutos tibi
vivis et regnas etc.
W. Ora prò nobis S.te Leonarde.
R. Ut digni efficiamur
promissionibus Christi.
Oremus.
Intercedat prò nobis D.ne
Sanctus Leonardus Confessor tuus
Cuius patrocinio captivos et in
Vinculis detentos suscipiat
Per Christum D.num nostrum
Amen.
B.
Una intera rappresentazione-paesaggio è questa. Varie
colline si succedono e si legano l'una con l'altra. In alto alla
maggiore di esse è un cittadina, con viale alberato a pini e
cipressi. Sul ciglione d'una collina una giovinetta, con
corona sul capo, ginocchioni, prega a mani giunte; e non
lungi da lei un cavaliere che scendendo da un'altura,
guadagna quella della principessa reale come per andare a
liberarla. E la libera uccidendo arditamente un dragone che
si contorce minaccioso. Il cavèdio è bianco e d'una corret-
(i) Salm. CXXIII, 7: Laqueus conteritus est et nos libe
rati sumus.
58
i
SECONDA CELLA
tezza di disegno impeccabile; ed il cavaliere in arcione tien
fermo allo slancio del cavallo e, come questo e la ragazza,
delicatamente tratteggiato.
Illustrano la scena due versi:
Tu celeste Guerrier che la Don^cella
Salvasti, togli me a questa tortura.
La leggenda di San Giorgio di Cappadocia vi è espres-
sa in tutti i suoi particolari, dal valente e bel cavaliere al
sozzo serpente che si appresta a divorare la figlia del re di
Libia. Quello che a molti non si parrà subito manifesto, è
la tonte di questa raffigurazione. Un quadro di Raffaello
dipinto pel Duca d Urbino (1506) e da questo offerto ad
Enrico Vili, re d'Inghilterra, da cui di mano in mano
giunse fino a Caterina II di Russia, è appunto questa
fonte.
II santo, sopra un cavallo bianco, sprofonda la lancia
sul mostro, per salvarsi dal quale la principessa in ginoc-
chio implora soccorso dal Cielo.
Nelle colline boschive del fondo si distinguono da lon-
tano i dintorni d'una città.
Intermedia all'originale ed a questo disegno può essere
stata una delle tante stampe che del quadro raffaellesco
vennero eseguite: ed una, quella del des Granges, è del
1628 (i).
(i) Su questa leggenda esiste una letteratura, nella quale
entra pure per la Sicilia un libro di G. BennicI: Giorgio di Cap-
padocia. Una delle ultime parole su di essa è stata detta da Fr.
Delitzsch, Babel und Bibel, traduzione italiana di Fr. Mari-
nelli, pp. 52 e sgg. Torino, Bocca, 1905.
59
SANT'UFFIZIO
Una vera profusione di croci e di calvari è nelle due
pareti, non tutti appariscenti, ma tutti così facili a distin-
guersi e così differenti tra loro da ammettere tanti autori
quanti essi sono.
La si direbbe, questa, tra le esplicazioni dello spirito
àei prigionieri, la più ovvia come quella che richiama al
simbolo del cristiano riscatto ed alla incarnazione del dolo-
re. Cristo, ingiustamente condannato, crudelmente marti-
rizzato, sublima gli uomini che immeritamente soffrono; e
tali erano o dovevano essere o reputarsi i reclusi delle no-
stre celle. L'ambiente, peraltro, era quello: ed il giorno
dell'inventario dell'abolito tribunale di croci e crocifìssi ne
furono notati dodici.
Rilevanti tra le croci di queste celle una su base pirami-
dale. Sull'asta trasversale si legge, avanzo di una isciÌ2,io-
ne perduta: Me libera, e da uno dei lati pendono tre dadi,
ricordo di quelli coi quali fu giocata la tunica del Redento-
re; e in giro la spugna, i chiodi, la scala, gli strumenti tutti
della Passione.
Un'altra è un calvario con tre croci, ciascuna sopra una
base come quelle che venivano dipinte o trapunte nei gon-
faloni della nobiltà detto Guione o stendardo reale. Quella
di mezzo ha una figurina di Cristo (i), parte distrutta,
mediocremente disegnata e, nell'asta trasversale, il motto
apparso con la croce a Costantino:
IN HOC SIGNO vinces
Quella di destra:
DISMAS.
(i) Vedi neWAtto pubblico di jede del Mongitore la se-
conda tavola, il gonfalone che precede il n. 2.
60
SECONDA CELLA
Quella di sinistra:
EGE....
Alle basi delle tre croci sono raffigurati il mondo in un
globo, la carne in un teschio incrociato dalle solite ossa
lunghe; e il demonio, in un brutto ceffo cornuto, unico e-
sempio di raffigurazioni diaboliche in questi luoghi.
Alle tre basi, in forma di voluta:
O MAGNVM PIETATIS OPUS
e sotto, come titolo o motto generale, la profezia dì
Osea:
IN DIE TERTIA SUSCITABIT [NOS] (i)
Una terza croce meno particolareggiata ma più ornata
è di faccia a chi entra, sopra la pianta della Sicilia, ad un
metro e 22 dal pavimento. Piantato in croce è Cristo, ed
in giro: i. Cuius; 2. un motto illeggibile; 3. Prati... Chiare
indicazioni della base : Anno Domini 1674 ^*^ 21 le,
e sotto, in carattere corrente e negletto:
M.A.TTEO CU
nome sul quale tornerò. Quella data si agggira intorno al
tempo da me sopra indicato.
Sparse qua e là sono facce quali barbute e quali mu-
liebri, quali piccolissime e quali metà del naturale ed anche
piìi. Vi sono due punti, presso l'angolo sinistro della stanza^
nei quali le teste sono sovrapposte in linea verticale l'una
all'altra. Tre fra le altre sono di figurine complete, ed alle
(i) Prophetia Oseae, e. VI, v. 3.
61
SANT UFFIZIO
apparenze si direbbero eseguite a matita. Una al lato man-
co della finestra è di uomo in veste talare con una croce
ad una mano e spada all'altra, probabile stemma della In-
quisizione, che avea spada ed ulivo.
Un'altra, al lato destro, un prelato, che sa del vescovo
e del santo. Una terza, specie di canonico, forse a ragion
veduta, è tozza; e certo dev'essere stato un bozzetto d'un
ecclesiastico molto noto del tempo.
Dopo queste ed altre figure sulle quali non occorre al-
trimenti fermarsi, pochi righi, tolti di peso al libro di Giob-
be, danno la descrizione del luogo:
Haec est terra tenebrosa et operta mortis
caligine, Terra miseriae et tenebrarum
ubi umbra mortis et nullus ordo sed
sempiternus horror inhabitat (i).
Chi descrive così il doloroso ospizio, è il medesimo che si
rivolge a S. Pietro, a San Giorgio e ad altri santi. La sua
persistenza non è fittizia né convenzionale. La cella è o-
scura, piena di miserie e di orrore. Lo spettro della morte
vi si aggira pertinace.
In forma ironica, estremamente rara, anzi, unica in tut-
te le celle, questo giudizio è ripetuto. E' il solo scherzo
che i carcerati si son permesso: scherzo che mal nasconde
(i) « Antequam vadagli et non revertar ad terrani tenebrosa»',
et opertani mortis caligine :
(( Terrani tniseriae et tenebrarum, ubi umbra mortis et nuU'Us
ordo, sed sempiternus horror inhabitat » : Job X, 21-22.
62
SECX)NDA CELLA
la amaritudine intema. La non breve nota offre leggibili le
seguenti parole:
Questa è la migliore casa per esser la più humana... la più
lucida
insomma piangendoci qua le cose.
B.
E vengono i motti e le sentenze, in latino e in volgare,
in prosa e in poesia.
In alto della parete di destra, dentro uno scudo rag-
giato :
PANIS
ANGELI-
CVS.
Vicino un cipresso:
Ecclesia in
redeuntibus.
Presso una croce:
QUIES
lUDICA ME DOMINE
ET CAUSAM MEAM
e segue un passo latino, che dovrebbe riportarsi al salmo
VII, verso 9: judica me Domine, secundum justitiam et
secundum innocentiam meam super me; e al XXV, i. lu-
dica me. Domine, quoniam ego in innocentia mea ingressus
sum; et in Domino sperans non infirmabór.
Il judica causam meam era stato preso ad imprestito
come motto dello stemma della Inquisizione.
63
SANT'UFFIZIO
In forma sentenziosa è la desolante domanda:
CUR DEVS NEGAT VITAM
SV[P]ER-
BIS?...
Riappare qui, ma di altra mano, il
Foelix quem faciunt olia....
Casus de[xten?]us fit sapientis.
della camera precedente; e sotto:
lesus dominus....
B.
Questa iniziale è la solita delle principali figure artisti-
che o intenzionalmente tali di una metà della stanza.
E sotto ancora:
BEN felice colui che può chiamare
... ser accorto a le altrui spese imparare. h
Sotto la immagine di Santa Eufemia:
QUOD NON CAPUIT
....POTIUS.
Sotto quella dei Santi Cosmo e Damiano:
CUIUS STATU[TA] ET SI HUMERI SUDABUNT FONDERE
[MAGNO
HEU... UNI... GLORIA MAGNA MIHI.
All'angolo delle pareti occidentale e meridionale:
CUI PER SUA RARA SORTI...
Forse l'autore aveva aggiunto : <( uscirà da questo carce-
re, potrà dirsi felice ».
64
SECONDA CELLA
Di somma importanza pel suo significato è la seguente
raccomandazione in alto nella parete destra:
Innocens noli te culpare;
Si culpasti, noli te excusare;
Velum detege, et in D.no
Confide.
E la sua importanza comincia dalla prima proposizione
e finisce alla terza. Quella che pare superflua, la prima, è
una rivelazione; giacché suppone che il povero inquisito a
ragion dei tormenti si accusi di colpe non commesse : di che
sarà detto nel cap. VII del presente studio, mentre ci può
essere chi avendo errato venga mendicando delle scuse e
delle giustificazioni; la verit anzitutto {velum detege), e
fiducia e confidenza nella divina giustizia e misericordia
(in Domino confide).
Quanta moralità in così poche parole!
Qualsivoglia lode a questa sentenza ne guasterebbe gli
intendimenti elevati.
Altro spazio verso l'ultimo dei cipressi ha sei elequenti
parole :
Fa cuntu comu
havissi vinutu hora.
ridotte a cinque a poca distanza:
Fa cuntu chi
vinisti hora :
scettico ammonimento a chi può aver ricordato che molta
tempo di prigione è già passato senza che la liberazione
sia giunta. Anche lì le parole siciliane si addensano, ma
non si riesce a comprenderle. Ed altre ed altre ancora
65
5 — G. PITRÈ- Sant'UffJxlo.
SANT'UFFIZIO
se ne vede dentro una delle sopra descritte teste, inconi:-
prensibili tutte se non voglia interpretarsi quello che dice:
sugnu ntra . . . srai ( ? )
li iucaturi chiddi di
...nenti su...
nel senso forse che non siamo noi quelli che... ma i gioca-
tori.
In quattro linee piramidalmente segnate sono le lettere
minuscole dell'alfabeto fino alla lettera t. Due volte appari-
sce il nome di
MARIA
non sappiamo se in omaggio alla madre di Dio o in ricor-
do di persona cara: bel nome sempre.
Alla base della parete destra, uno scrisse:
Fari Asino,
e fu il più pratico, come volendo imporsi o consigliare la
linea di condotta da tenere di fronte ai carcerieri o agli in-
quisitori. Questa mano segna una iniziale, S., che può na-
scondere il nome d'un penitenziato : nome non unico quan-
do si guardi con la massima attenzione tutta la cella.
Nella cela precedente, sotto la figura d Santa Rosalia,
abbiamo trovata una mappa topografica della Sicilia.
Un riscontro è in questa. Le due mappe, apparentemen-
te identiche, non hanno nulla di comune nella loro origine,
per quanto l'idea della cosa ed alcune parole di avvertenza
in entrambe possano iux credere il contrario. Certo, le mani
che le eseguirono erano di uomini che avevano fresca alla
memoria la topografia dell'isola; e gli errori di distanze ed
66
SECONDA CELLA
anche qualche inesattezza di ubicazione di città sono facili
a spiegare e non indegni di compatimento. Un cartografo
avrebbe da dire sulle carte in parola; ma come si poteva
far di meglio nel secolo XVII a disegnare al buio senza mo-
dello e senza libri? Forse per questo tanto il primo quanto
il secondo chiedeva venia; quello con un'avvertenza in
italiano, della quale sono leggibili solo le prime parole;
riuscito a leggere e qui trascrivo:
Cui fici sta Sicilia nun la
cumpliu ne ci misi li òt-
ta e Terri di li Muntagni
pir nun sapiri li Ioni veri nomi, e siti.
Cui li sa ci pò iungiri
[iddu] lu resta [a mimorjia.
Non v'è data; ma ragioni cronologiche permettono di
fissaria posteriore alla invenzione del corpo di Santa Rosa-
lia (1624). V'è poi un argomento capitale: la microscopica
pianta di Palermo con le due grandi vie Macqueda e Tole-
do incronciantisi a Piazza Vigliena.
Ma com'è — potrebbe chiedersi — - che una quasi me-
desima avvertenza sta a piedi tanto dell'una quanto dell'al-
tra pianta della Sicilia? Anzi, com'è che a due uomini, in
celle diverse, sorse il pensiero di disegnare la Sicilia?
Il come è facile a capirsi se si terrà presente che i car-
cerati erano talvolta obbligati a mutar cella. Un esempio
ce l'offre la iscrizione latina ex alia aula.
E così si spiegano le molte figure di santi sulle due cel-
le, le quali però riconoscono mani diverse; eoa certe ripeti-
zioni che è dato rilevare in due o tre di questi luoghi.
67
Capitolo IV.
TERZA CELLA
OME ho già detto, la parete occidentale
di questa cella venne tagliata e ridotta
ad arco; poco, perciò, o quasi nulla è
stato dato scoprirvi: e questo poco si ri-
duce ad una grande croce, frastagliata
da lavori posteriori e fiancheggiata da versi, che formano
uno dei maggiori rilievi della cella. La parete meridionale
è, come le altre, interrotta dalla finestra.
In alto, a tre metri dal pavimento, è una grande figura,
che sembra una di quelle di scorretto disegno che sogliono
vedersi sui muri estemi, opera di monelli privi affatto di
arte.
Più sotto a un quasi medesimo livello sono disegni e fi-
gure in vari tempi sovrapposti ad altri disegni e ad altre
figure. E' sempre la solita pratica dei carcerati di trar pro-
fitto da qualunque spazio, anche a scapito dei disegni che
trovano. Una rassegna sommaria presenta un tempietto o
68
TERZA CELLA
cappella, guardata da due figurine di santi, e Maria nel mez-
zo, come formanti trittico.
Sopra, da un lato, il motto di Giobbe (i):
[Militiaj
Est Vita [hominis]
super Terra m,
e un doppio cerchio con entro una immaginetta, forse della
Madonna, e una testa non qualificabile, e da presso:
te Deo
carcere.
La Madonna, in piedi, ha le mani giunte in atto di pre-
gare. La cappelletta ha al di sopra, in fuori, un angelo
del lato, forse di posteriore fattura, così :
Da esso parte un motto biblico, in caratteri grandi, che
occupano la lunghezza d'un metro circa:
[ECCE] VENIT [I]AM DIES
DESIDER [TAJ SPERATA (?)
V[ALDE] (2).
(i) Job. Vili. I.
(2) «Ecce dies venient, dicit Dominus » : Hebr. 2, 13.
69
SANT'UFFIZIO
In mezzo alla confusione sottostante si possono a fatica
discernere tuniche e vesti di santi e di sante sormontate da
teste più antiche e piccolissime, piantate sul petto e sulle
spalle di quelU.
Un S. Albertus scorrettamente disegnato, con una mitra
papale, un ramo d'albero a destra. Allato, attorno, pissidi,
testoline d'angeli, ornati d'ogni maniera, greche, iscrizioni
si urtano e scalzano l'una con l'altra, senza peraltro farsi
distinguere. Una testina è lì come per affacciarsi di mezzo
al disordine. Miglior fortuna non hanno nomi, parole, cita-
zioni sottostanti. I ritocchi e le rifazioni si sono estese an-
che ad esse. Un nome è diventato un altro, una figura
un'altra. Un S. Bernardus, è impostato sotto questa figura :
Sotto di tutto e di tutti spicca la strana e rozza imma-
gine d'un uomo con cappello spagnolesco, lunga zazzera,
calzoni a mezza gamba e mano tesa verso una nave, con
la quale però non ha relazione.
Il medesimo disordine regna all'altro lato della finestra,
ove però si levano due figure irriconoscibili: una di un santo
70
TERZA CELLA
con la sfera in mano, il quale arieggia un S, Francesco
Saverio; l'altra a colore e la indicazione:
j«»
[PJatriarca,
e fiancheggiano le basi d'una figura di
S. Dominicus
con abito, cioè lungo manto, nero, e stretta e lunga pazien-
za all'esterno. In corrispondenza alla vita si legge:
SPECVLV[M] DOCTRINE li
ET SVRIANENSIS
GLORIA
In alto ancora:
ECCLESIAM TUAM
MIRARE DIGNITUS ES AIU
MERITIS ET DOCTRIN...
Di tanta oscurità ci compensa una bèlla rappresenta-
zione. Un eremita coperto di pelle sta sotto una palma. E'
S. Giovanni nel deserto, ben disegnato al pari dell'albero
che leva superbamente in alto le sue fronde, d'un colore
verde cupo.
E qui è bene notare che non questo soltanto è il colore
delle figure della presente cella. Nella parete rispondente
al muro orientale i colori son tre o quattro, tutti diversi, e
due molto vivaci. Per la loro superficialità son da riportare
agli ultimi del Seicento, ad un periodo cioè, nel quale ai
71
SANT'UFFIZIO
carcerati potè esser, non lecito ma Isisciato passare qualcu-
no di quei colori; giacché là dove alcune delle molte figure
della medesima parete sono parte o tutte scrostate, il colo-
re più antico, primitivo è il comune scuro e giallo scuro.
E vengo a questa parete, che, a parte il disordine di fi-
gure e di motti, è un piccolo poema della psiche dei reclusi.
In questo piccolo poema bisogna saper leggere e meditare.
Due grandi figure si estollono dal livello ordinario, di cui
la seconda è una testa spagnolesca coperta da un cappello
cardinalizio, col famoso toson d'oro pendente da esso, e su
di esso un angelo di linee scorrette, in atteggiamento di vo-
lare in alto.
Siamo in pieno Seicento; e nel Seicento la Sicilia ebbe
dieci cardinali: primo Giannettino Doria, ultimo Francesco
Giudice, arcivescovi l'uno di Palermo, l'altro di Monreale.
Ma di essi dieci nessuno, meno del Moncada, fu palermita-
no, nessuno ebbe il Toson d'oro.
Luigi Guglielmo Moncada Principe di Paterno (1614-
1672) fu Presidente del Regno, e venne assunto al cardina-
lato nel 1667; anno compreso nel periodo in cui questo car-
cere fu popolato di sofferenti. Dei quali qualcuno può bene
aver pensato al grande patrizio siciliano, che, dopo rappre-
sentata molta parte nel governo di Sicilia, di Sardegna, di
Valenza e nella corte di Madrid, carico di onori, all'apice
della sua potenza, mortagli la moglie, abbracciò la vita ec-
clesiastica nella quale colse nuovi, luminosi allori. Può
avervi pensato per la sa altezza politica ed ecclesiastica,
forse come ricordo di conoscenza, forse come desiderio di
protezione, forse come ragione di studio; giacché il Monca-
72
TERZA CELLA
da tu poeta vernacolo, ed i suoi versi sono nelle Muse si-
ciliane del Galeari-Sanclemente (i).
Una successione di santi e di sante compone questo spa-
zio, una volta bianco. V'è
S. GREGORIUS,
in parte scomparso sotto la figura di altro santo, col basto-
ne alla mano sinistra e con la destra al petto : pare un San
Francesco di Paola. V'è
S. SEBASTI ANUS.
ignudo, trafitto da frecce. Una figura rossa fu dipinta su di
esso, ma S. Sebastiano rimase, com'è ora, visibile. Quella
figuura ha lasciato le tracce del cordone d'un santo eremita.
V'è
S. ANGELUS CUSTOS,
sovrapposto ad altra figura più antica, la quale è a mala
pena visibile:
CA ARA,
una santa, avente innanzi una torre. V'è
S. MARIA MAGD ALENA.
dalla testa non messa alla scoperto e dal solito colore rosso
degli abiti.
S. CRISTINA,
figura la meglio conservata Un'asta di bandiera sottostaitte
ha fatto scomparire le lettere Cr del nome, forse precedente-
mente scritto. Codesta figura ha ai piedi la ruota, emblema
della santa fanciulletta.
(i) T. II, ]>artc 2'\ Palermo, 1647 e 1662.
Di lui può vedersi quello che scrive il Mongitore, Bibl. sic,.
t. I, p. 18. Panormi, MDCCVIII.
73
SANT'UFFIZIO
Qui è la più schietta rivelazione degli inquisiti : il gra-
fito, cioè, dianzi riferito col titolo :
[GALERA]...
Sotto un oscuro frammento:
...ERVM L CA.
MISERERE
che io leggerei così
[V]ERVM -L- -CA,
ovvero
[HEU ME MIS ERUM
MISERERE [MEI]
sono ornamenti senza significato apparente, e poi una Ma-
donna seduta sopra una cassa portata sulle spalle da due
vecchietti. E senza dubbio la Madonna d'Odigitria secon-
do la forma classica.
La tradizione classica popolare la richiama fedelmente
con la immagine che ne corre finora in Sicilia. Una delle
stampe tradizionali più comuni rappresenta due uomini
con una corta tunica legata alla cintura ed un bastone l'uno
in mano per sorreggere il peso di una Maria col Bambino
Gesù. Di mezzo ad essi si scorge lontano sul mare una nave,
che poco prima aveva trasportato il prezioso peso.
Una mano, che potè appartenere ad una
S. DOROTHEA,
ora scomparsa, guida una bambina, che regge dalla coda
un pesce; buon argomento di ricerche per gli agiografi.
Un Crocefisso ben disegnato in rosso ha sotto, ma non
come iscrizione che lo riguardi, un motto delle Confessioni
di Sant'Agostino:
74
TERZA CELLA
Hic ure, hic seca, ut in aetemum
parcas. Augu.;
motto di un povero rassegnato, nella cui bocca Vure ha
realmente un significato non rettorico.
Tanta santimonia viene interrotta da un elc>quente mot-
to siciliano:
O tu chi trasi[ccà] chi s[peri?].
E' il noto concetto dantesco, che incontreremo più
sotto.
Sul nudo strato di calce primitiva, nel bel mezzo, vien
fuori chiara e bella la data:
1646
che vuoisi riportare alle due altre del 1643 e 1645 della pri-
ma cella.
Qui si erge maestosa ma scorretta la figura, grande qua-
si quanto il vero, di S. . Michele Arcangelo in forma di
guerriero, i capelli spioventi sulla spalle, il torace coperto
da corazza, tonachella a mezza coscia; la destra ferma su
d'una lunga lancia piantata sopra un minaccioso dragone
che si avvolge in ispire molteplici per addentarlo.
Verso il capo di Santa Dorotea un angelo male abboz-
zato con le braccia slargate regge un nastro a questo modo :
75
SANT'UFFIZIO
V'è il nome di
S. LEONARDUS
ma il santo non si vede, e dev'essere dipinto sopra un bian-
co sottostante, prima delle figure che ora scompariscono.
Si vede bensì in carattere corsivo ordinario:
Sancte career em
Leonarde islam
ed in caratteri sei, sette volte tanto :
PAX PATI.
Tre eleganti figure di giovani, tutti e tre egualmente ve-
stiti, tutti e tre con palma alle mani, fanno pensare a tre
fratelli che abbiano ricevuto il martirio per la religione di
Cristo. Io non uscirei dalla Sicilia per trovarli; giacché la
parola
VASCOGNIA,
segnata ai loro piedi, per indicare un mare sottostante e
che forma come il grande zoccolo di questa e di un'altra pa-
rete, rivela senza dubbio la patria dei tre cavalieri: Alfio,
Filadelfio e Cirino santi patroni di Lentini, ove an-
che oggi hanno ufficio divino proprio (i).
E siamo all'angolo della parete.
Un disegno che passerebbe inosservato se un minutis-
(i) È notevole questo: che non solo in Lentini essi ebbero
ed hanno uffizio proprio, ma anche in altre città di Sicilia ^
particolarmente nella diocesi di Siracusa.
Vedi Officia propria Sanctorum prò archidiocaesi syracu-
sane a S. Rituum Congregatione approdata usqtie ad annuii
MDCCCLXXXVI , sotto il giorno X maggio, pp. 236-39. Syra-
cusis, Typis Andrea Norica, 1886.
76
TERZA CELLA
simo esame non mi avesse indotto a percorrere con grande
attenzione ogni insignificante spazio di questi luoghi, mi è
parso una delle più pietose rivelazioni. Non ligure di tor-
mentati e di tormenti, non parole amare, ma un banco con
sopravi una croce, un campanello e un libro aperto nel
mezzo. Due angioletti attorno alla croce, e come la figura
d'un prelato seduto iimanzi. La scena, nella imperizia
dell'autore, è d'una evidenza ed efficacia impareggiabile.
Siamo in un Tribunale, probabilmente nelle profonde stanze
della tortura. V'è il banco, v'è il campanello, v'è il messa-
le, sul quale l'imputato giura di dir la verità; non vi manca,
se non l'imputato, ma una voce ignota, debole, fioca come
d'oltretomba si leva da quella muda e pregare il Signore
per lui. Alla base della croce con inadito stento ho potuto
leggere:
Beatissime
lesu libera
eum ne pe-
reat.
Oh si! ci vuole tutto l'aiuto divino perchè egli non si
confonda al capzioso interrogatorio e resista ai tormenti!
Fino ad un metro e più dal pavimento per la estensione
di tutta la parete, e di metà della meridionale sono sparse
galere, galeoni e legni differenti, a livelli svariati non sa-
puti o potuti significare dall'autore per mancanza d'arte e
di colori. Se ne contano fino a quattordici di diverse dimen-
sioni, quali semplicemente mercantili, quali regie e da
gyerra. In quasi tutte si vedono sporgere, dall'opera morta^
de' remi; le vele, dove sono tutte, dove in parte ammaina-
te; tutte però hanno bandiera ed orifiamma immancabile
in tutto questo.
n
SANT'UFFIZIO
Una di queste navi sembra più importante delle altre,
ed è in pieno assetto d'equipaggio. In cima di ciascun albe-
ro è una bandiera, e presso la bandiera, come per sorreg-
gere l'asta, un marinaio, quando, come nel pennone obli-
quo, a cavallo, quando, come nel trinchetto e nel maestro,
in piedi. Tutto il legno per altro è popolato di marinai ed
uno, nel centro della parete orientale, sotto la Santa Cristi-
na, ha un equipaggio in moto a far terzaruole, a mettersi
in panna, a fermarsi sulle coffe.
Questa scena si presenta un pò oscura, perchè non vi
prevalgono caratteri che ne aiutino la qualificazione.
La indicazione Vascognia dianzi cennata è abbastanza
vaga. Che voglia l'autore aver rappresentato il Golfo di
qualla regione della Francia? E quale pensiero recondito
pub aver suggerito a lui tanto mare e tanti legni?
Nessun altro, io credo, che questo: la condanna alla
galera nel senso primitivo della frase. Non si dimentichi
che essa era comune; e poiché vi erano dei recidivi, questi
potevano aver provata la vita amarissima del galeotto dan-
nato a vogare, rasa la testa e i piedi nudi.
Né si dimentichi un fatto di una certa importanza; ed
è che i condannati, penitenziati alle galere, scontata la pe-
na, dovevan tornare al S. Uffizio, arbitro della loro sorte
avvenire. Il Re Filippo II vi faceva (1568) attenzione spe-
ciale non già per la consegna al Tribunale, la quale andava
da sé, ma perché i forzati al remo venivano trattenuti ndle
galere oltre il tempo della loro condanna (i).
Questo, a mio avviso, il probabile recondito pensiero
ispiratore del panorama marittimo.
(1) Bestini, op. cit., p. 24.
78
TERZA CELLA
In due punti del quale, nella parete principale ed in
quella del mezzogiorno, danno nell'occhio due iscrizioni in
carattere intenzionalmente ebraici, misti a caratteri greci;
cosa strana, che si presta a commenti svariati sopratutto
per la ricerca degli autori di esse, e che si potrebbe spiegare
così; o che l'autore fosse uno dei più dotti ecclesiastici del
tempo, anche venuto da Roma o da altro dei più colti cen-
tri d'Italia, come molti di questi ecclesiastici si aveva spe-
cialmente nel clero regolare, o che egli fosse un giudaizzan-
te in ritardo.
Questa seconda ipotesi non deve sembrare arrischiata,
perchè una delle preocupazioni maggiori del Tribunale del-
la Fede era quella dei professanti principii e riti giudaici. In
458 rilajiciati al braccio secolare dal 1487 al 1732 non meno
di 182 furono, veri o supposti, neofiti giudaizzanti, bruciati
in |>ersona o in istatua. Il noto inquisitore D. Antonino
Franchina, apologista della Inquisizione, fece rilevare l'uti-
lità del Tribunale dalla grande vigilanza di esso nello estir-
pare l'Ebraismo. « Se non in pubblico, almeno in priva-
to », egli sgrammaticava, « si avrebbero eretto le sinagoghe
e gran numero d'anime si avrebbe privato del frutto del
sangue di G. C. Onde co' fulmini di più sentenze n'ha
molti consegnati alla morte, e così questa Inquisizione
ha tenuto esiliata da questa Isola la mosaica superstizio-
ne » (i).
Non c'è da opporre che il secolo di codesti neofiti, quel-
lo cioè che seguì alla brutale espulsione degli Ebrei dell'I-
sola, fosse tramontato del tutto, perchè nel secolo XVII, al
(i) Franchina, Breve rapporto, cap. II, p. 43.
79
SANT'UFFIZIO
quale appartengono queste celle, si ebbero due rilasciati al
braccio secolare; e di condannati a varie pene, non sappia-
mo a quanto giungesse il numero, essendo i penitenziati
giunti a nostra conoscenza un piccolo numero della cifra
complessiva. Gli Inquisitori compievano atti di fede priva-
tamente dentro le loro sedi, e non ne facevano trapelar nul-
la, sempre, sintende, con l'ipocrita carità di non gettar
macchie d'infamia sulle famiglie colpite nei loro cari.
Come che sia, le iscrizioni son lì, ed attestano che dei
condannati in quelle stanze avevano velleità (dico velleità)
ebraiche e greche.
Noi ci avviciniamo alla fine della multiforme rassegna.
Sulla veste d'una delle sante, in sottilissimi, microsco-
pici caratteri, è una lunga scrittura, impossibile a leggersi,
anzi a indovinarsi. Solo qualche parola isolata e perciò
inconcludente è dato scoprirne. L'autore dovette consacrar-
vi una storia di lacrime; ma nessuno potè mai vederla, a-
vendo egli usato una punta acutissima di ago o di spillo.
A pochi centimetri da questa nota, altra molto più anti-
ca, perchè vien fuori dallo scrostamento di alcune imma-
gini del medesimo tempo di essa, la seguente iscrizione:
A DI... DI MAIV
NON SI PO PIR...
F CHE E CALA.
Grandi grafiti presso l'attuale porta d'entrata, che po-
trà essere stata anche la prima nel Seicento, in un posto
che pare fuori di quello del carcere, si leggono così:
G. BATTISTA GRADU DI MISSINA
1632
THOMASI RIZZO DI MISSINA,
ed un terzo nome che non si riesce a capire.
80
TERZA CELLA
Sul mare, presso una delle iscrizioni in caratteri inten-
zionalmente orientali, sono tre ottave siciliane, non divise
luna dall'altra, in gran parte scomparse anch'esse dalla su-
perficie liscia sulla quale vennero come buttate.
Difficilmente si spenderà tanta fatica quanto ne ho spe-
sa io per istrappare alla ingiuria del tempo, al riserbo
dello scrittore, ed anche agli inevitabili ostacoli il segreto
di questi versi. Tutti i mezzi per completare una parola,
un verso, furono da me adoperati. Di quasi due delle tre
ottave fui fortunato di farmi padrone; e della mia tena-
cità sono oramai contento, se essa mi ha messo al corrente
d'una parte dei pensieri di chi li affidò alla lacrimosa
parete.
I versi dicono questo:
vui e disiati
di farici la forti violenza
e circati ammazza rili, e mustrati
haviri risolutu cu prudenza
chi prestu (?) sarriti vindicati
ndi divunu autri di chista sintenza
e quanti sindirannu rubricati?
dannuci la dovuta penitenza.
Ma si pigghia un consigliu provatu
Ma si pigghia un consigliu provatu
lu mitt[iriti] in gran confusioni
di farilu murili disj:>eratu
tra un pelagu di chianti e afflitioni;
viditi s'iddu ha fattu alcun peccatu
di farlu dannati di la Inquisitioni
[e] sbriugnari lu so parintatu
fina a la quarta generationi.
8i
6 - G. PURÈ - Sant'Uffizio.
SANT'UFFIZIO
Volendo stare alle parole, alcune cose ci sfuggono; ma
il pensiero è più che trasparente. — Voi, dice l'ignoto ver-
seggiatore, che affliggete tanti sventurati, e mentre fate
loro delle dure violenze, cercate ucciderli pur dando a
vedere di aver prudentemente deliberato, pensate che sa-
rete presto largamente vendicati? perchè molti altri séiran-
no vittime della vostra sentenza; e chi sa quanti ancora
ne andrarmo rubricati con la penitenza loro dovuta! Però
se uno sciagurato prende un consiglio provato (?), voi lo
metterete in gran confusione, e lo farete morire disperato
in un mare di pianti e di afflizioni. Ora invece pensate
bene a quel che fate: vedete se egli abbia peccato per me-
ritare la vostra condanna, che, getta la infamia sul suo
parentato fino alla quarta generazione.
Qui è un monito severo ai giudici, che però non lo
avranno saputo mai; e, se saputo, punito. La violenza mes-
sa in opera da loro al fin di ottenere una confessione di
colpa, non cerchiamo se commessa o no, accusano tutto
un sistema procedurale imposto da leggi emanate dalla
sede centrale di Spagna, dalla quale la Inquisizione di
Sicilia, meno i pochi anni di regno di Carlo II, in tutto
e per tutto dipese.
Altro penitenziato sentenzia su chi cerca il male altrui:
Cui la malannu so tenta e procura
lu dannu d'autru pri so malu inditiu
La sgarra, nun fa nenti [ad ogni ura],
Si sapi, e poi si metti in precipitiu.
Come si vede, manca la seconda parte della stanza, ma
chi ricorda i versi della prima può bene completarla,
82
TERZA CELLA
benché tra questi quattro versi e i primi quattro di quella
ottava esistano delle varianti.
Questo riscontro di un medesimo componimento fa
pensare ad una cosa, che peraltro risulta dalla nota latina
della prima cella che principia così: de die... Martis.
Certo, in queste celle avvenivano dei mutamenti di
carcerati. Da una un medesimo condannato o come vo-
gliono dirlo carcerato, passava in un'altra, e portava con
sé pensieri, dolori e lamenti. Può ben darsi che la ottava
faccia parte dello sterminato corredo poetico del Seicenio,
e che pili persone la sapessero a memoria, ma io credo che
una medesima mano l'abbia scritta dopo averla composta.
La variante può esser sua.
Non si deve escludere, peraltro, che i carcerati delle
varie prigioni avessero comunicazioni tra loro; espediente
cercato e messo in opera non da essi soltanto, ma da tutti
i carcerati che han bisogno di intendersi non potendo ve-
dersi; e già nel 1525 l'Inquisitore supremo D. Alonso
Manrique ne faceva avvertiti gl'Inquisitori di Sicilia (i).
Questa ottava è affidata alla parete destra, di faccia
alla grande requisitoria in versi presso quello che ora è
arco. Ma ben più grave, e addirittura terribile, è la de-
scrizione che altro poeta fa del presente carcere e delle
pene alle quali son condannati i reclusi. Io benedico ai
(i) H. Ch. Lea, The Inquisition in the spanish Dependen-
cies: Sicily, Naples, Sardinia, Milano, ecc., p. 523. New York,
the Macmillan Company, 1908.
La parte siciliana è compresa nelle pp. 1-44, senza una no-
tizia nuova, tutto essendo preso dal lavoro di V. La Mantia.
83
'sant'uffizio
sette lunghi giorni di ricerche e di indagini che mi misero
in grado di fare la completa lettura di questa descrizione;
Chistu è lu locu chi cui trasi cridi
L'afflitioni e pena che si pati.
In chistu locu si discerni e vidi
la pera nimicitia e crudeltati;
chà sunnu li lamenti chianti e gridi
chini di l'armi a l'infernu condannati
cnà l'homu si dispera pirchì vidi
chi fui in gioventù la liberta ti.
Cui trasi in chista orrenda sepultura
vidi rignari la [gran] crudeltati
unni sta scrittu alli segreti mura :
nisciti di spiranza vui chi ntrati;
chà non si sapi s'agghiorna o si scura,
sulu si senti ca si chianci e pati
pirchì non si sa mai si veni l'hura
di la desiderata libertati.
Qualsivoglia commento guasta. Non è un uomo che
parla, è un cuore che geme, un'anima che grida dalla
tomba nella quale il suo corpo è stato sepolto vivo: un'ani-
ma straziata.
Giammai fu ricordato più a proposito il verso dante-
sco: «Uscite di speranza o voi ch'entrate»; giammai fu
fatta più fine distinzione tra il senso della vista e il senso
dell'udito. Nell'orrore delle tenebre di quella bolgia, il
poeta non vede il giorno o la notte; sente solo il pianto
di chi soffre. In tutta la letteratura dialettale dei Seicento
non si trovano versi più caldi di passione di questi.
A chi possa attribuirsi poesia così profondamente sen-
tita vedremo nel capitolo seguente.
84
TERZA CELLA
E frattanto, considerate lo stato psichico di questi po-
veri penitenziati!
Sconfortati dalla prigionia alla quale soggiacciono, in-
tormentiti ancora dalla corda che hanno subita, forse non
hanno speranza di nulla; eppure sperano e nella amarezza
presente sognano conforti avvenire. Credono d'aver fi-
nito di vivere e sono assetati di vita. La stanchezza del-
l'abbandono e la trepidanza delle incertezze hanno per loro
giorni d'una inquietudine che è tormento, d'un ansia che è
aculeo. Ma nel fosco orizzonte spunta a quando a quando
una nuvoletta bianca, ed a traverso di essa un filo di luce
onde penetrerà un fascio di raggi d'oro. Oh sì: quel sole
che pareva tramontato per sempre, tornerà ad illuminare
le facce scialbe di tanti cuori desolati! L'eco già spento
delle cose del mondo, soppiantata dai lamenti di sventu-
rati consorti, si rianima e si rinforza; e voci distinte di
dolci congiunti e di amici diletti tornano a carezzare il
loro orecchio. La terra ha profumi soavi, intensamente
soavi anche per loro: il sogno diventerà realtà!
L'ignominia che derivava all'imputato ed ai suoi suc-
cessori dal semplice arresto per opera del S. Uffizio, più
d'una volta misero in attenzione i partigiani stessi ed i
trattatisti di quel Tribunale sulle disastrose conseguenze.
Uno di esso ammoniva : « Nel carcerare i rei bisogna usare
grandissima prudenza, perchè la sola carceratione per lo
delitto d'heresia apporta notabile infamia al cercerato » (i).
Ed un altro : « Il voluto reo suole arrestarsi e chiu-
(i) E. Marini, Sacro Arsenale, Roma, 1639, part. io, art.
42, p. 316.
85
SANT'UFFIZIO
dersi nelle carceri laicali ed anche ecclesiastiche dell'ordi-
nario, ma non in quelle dell'inquisizione affine di evitare
la infamia in caso di non provata reità » (i).
Ma erano scrupoli eccessivi, che non avevano presa
negli animi dei preposti a quel dato ufficio di inquisire; e
se non fino alla quarta generazione, come deplora il pian-
gente poeta, fino alla terza un marchio d'infamia li
colpiva.
E non solo l'infamia, ma anche la interdizione ai pub-
blici uffici, la povertà e la miseria.
I discendenti dei bruciati o dei condannati a vita ri-
manevano inabilitati, interdetti, privi di personalità giu-
ridica; la loro incapacità poggiava appunto sulla infamia
patema od avita.
Non senza dolore si legge nei mss. della Biblioteca co-
munale di Palermo il seguente documento relativo ai figli
dei neofiti o rilasciati o condannati al carcere perpetuo.
E' un editto dell'Inquisitore spagnuolo Calvete in Palermo:
« Nui lu docturi Tristan Cai veti Inquisituri. Perchè mi
è stata facta relacioni che multi neofiti non compliscino la
forma di li sententii lati per lo Sancto Officio di la Inqui-
sicioni, li quali non ponno teniri officio, né beneficio
ecclesiastico né seculari, né essiri medichi, advocati, pro-
curaturi, notari, spiziali, banchieri, mezani, arrendatarii, né
teniri altro officio di honuri et jurisdictioni, né portari su-
pra di loro persuni oro, argento, coralli, perni, petri pri-
ziusi, né vestiri sita, grana iambillocto, né cavalcari cau
(i) Card. Albizio^ De incostantia in fide. Amstelodaoni,
1683, capitolo 14, n. 26. Vedi pure Amasele, Il S. Officio della
Inquisizione in Napoli, v. II, cap. IV. Città di Castello, 1892.
86
I
TERZA CELLA
valli, né portali armi. Pertanto si notifica et comanda a
tucti li fidili christiani li quali alcuna persona reconciliata
ai figli di heretici relaxati per linea masculina per fina a Io
secundo grado, et per linea feminina per fina lo primo
grado, havissero contra venuto a li cosi predicti oi alcuna
di quilli, ni li digiano veniri ad revelari infra termino
di jomi dechi sub pena di excomunicacioni mayuri et altri
peni. — Pronunciatum in plano maritime fel. urbis Pa-
normi die 29 sept. 1525 (Ms.).
u Nui lu docturi Tristan Cai veto Inquisituri. Per lu pre-
senti publico monitorio et edicto si notifica et comanda a
tucti vui altri fidili christiani che siati sempri in favuri et
ajuto di lo Sancto Officio la Inquisicion, in defensioni di
nostra sancta fidi catholica et che digiiati perseguitari li he-
reciti et apostati e non li favoriri, ajutari, né defendiri pu-
blicamenti, né occultamenti; et cussi jurati per Deum et
Sancta Dei Evangelia et tucti dichiti a : Amen. Pronuncia-
tum in plano maritime die 29 sept. 1525. Presentibus prò
testibus rev. domino vicario generale panormitano, specta-
bili pretore et magnificis Juratis ipsius Urbis et aliis quam-
plurimis magnificis et nobilibus viris in numero co-
pioso » (Ms.).
Il 31 gennaio del 1525, l'Inquisitore supremo di Spa-
gna scriveva al provinciale di Sicilia avvertendolo di aver
saputo che (( gì' inabilitati per condanna dei padri e di
avi portino armi, seta, oro, argento e usino cose loro vie-
tate e proibite; e ciò non essere punito, non è a dire con
quanto disservizio di Dio e disprezzo della giustizia » (i).
(i) Lea, op. cit.. p. 523.
87
Capitolo V.
DATA DELLE CELLE E NOMI
DI PENITENZIATI
F. Baronio
ENiAMO ora ad argomenti più utili alla
storia del presente carcere: quelli delle
date e dei nomi.
Noi ci aggiriamo per luoghi material-
mente e moralmente oscuri. I poveri pe-
nitenziati lo ripetono in tutti i toni: terra tenebrosa, terra
miseriae et tenehrarum; libera nosa carcere et a tenebris;
a tenebre e miseria erano il difetto di luce, la rude nudità
del terreno e delle pareti, l'angustia dello spazio, il lezzo,
gl'insetti, le privazioni, i disagi, la fame; e dal lato mora-
le, come conseguenza, la oppressione di cuore, la confu-
sione di mente, lo smarrimento di spirito.
La ricerca quindi non è soltanto diffìcile, ma anche im-
88
DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI
possibile, specialmente per mancanza di documenti d'archi-
vio. Finora nessuno ebbe mai a sospettare che l'attuale
edificio annesso al palazzo dei Chiaramonte fosse nato co-
me carcere inquisitoriale. La fortunata scoperta del 1906 ha
potuto metterlo in luce aprendo il campo a fruttuose in-
vestigazioni.
Si è mai guardato ad una pagina del teatino Girolamo
Matranga, Consultore e Qualificatore del S. Uffìzio, nella
descrizione che egli fece alla metà del secolo XVII?
Quella pagina, quasi di passaggio, inserita in un Rag-
guaglio dell'Atto di fede del 1658, racconta: « Per estirpare
in parte la moltitudine delle streghe e fattucchiere fu giudi-
cata necessaria di private carceri la fabrica, alle stanze del-
l'Alcayde congiunte, affine di rinchiuderle, e così colla pri-
gionia o per sempre o di molti anni la loro sfacciata mal-
vagità si affrenasse. E toccò in parte a me da principio,
accalorato dall'Autorità di Mons. de Trasmiera e di Mons.
Cisneros e di Mons. La Guardia di felice memoria, a que-
sta tanto lodevole quanto importante impresa cooperare.
Con gli aiuti o spontanei o mendicati a queste prigioni die-
desi solenne principio; e sono a segno tale che più di loro,
spriggionate dalle segrete, alla giornata vi si rinserra-
no » (i).
Qui sta la chiave storica del carcere in esame, car-
cere nuovo aggiunto al carcere vecchio.
Lasciando da parte il Cisneros ed il La Guardia, noi
c'incontriamo con Mons. de Trasmiera, antica conoscenza
(i) G. Matranga, Relazione dell'Atto pubblico di fede ce-
lebrato in Palermo a' 17 marzo dell'a. 1658; p. II. In Palermo,
MDCLVIII.
89
SANT'UFFIZIO
per gli studiosi delle vicende tanto dell'Inquisizione, quanto
del D'Alesi.
Egli era Inquisitore fin dal 1634 (i), e potè bene co-
minciare a pensare in quel tomo alle future carceri, vorrei
dire suppletive. La data del 1632 della terza cella induce
a supporre una fabbrica presistente al Trasmiera mede-
simo. Nel 1647 saliva all'apogeo della sua sinistra nomi-
nanza... e vi saliva con le astuzie onde giocò il battiloro
capitano del popolo; e proprio in quell'anno il nostro car-
cere era da un lustro bello e finito, come risulta dalle date
di tutte e tre le celle. L'abitazione dell'Alcalde o Castel-
lano (vogliamo intendere delle segrete) alla quale esso ven-
ne attaccato, era proprio addossata al Palazzo; e l'Al-
calde se ebbe la molestia dei vicini penitenziati e l'inco-
modo delle nuove prigioni da vigilare, potè a tutto suo agio
(i) Ms. Qq H 62 della Biblioteca Comunale, voi. anno 1634,
L'anno 1745 l'Inquisitore provinciale, stanco delle impostture
delle maliarde, chiedeva all'Inquisitore supremo istruzioni sul da
fare. Costui richiamavasi a quelle del 1561, tra le quali sono
queste :
1° In seguito a denunzia, si arresti in carcere del S. U. o
in casa, secondo la persona, il reo o la rea;
2° Nei casi semplici si condannino j rei « a penitenze sa-
lutari esponendoli una o due volte in giorno di festa la mattina
d'innanzi alla parte della chiesa madre o parrocchiale, in abito
umile o penitente »;
3'° Se l'imbusterò è recidivo, (( si aggiunga la frusta, la
zotta, l'esilio, la prigionia ed altro ad arbitrio degli Inquisitori
e dell'ordinario. . .
4° Se la recidiva è nota pubblica, si mandi il reo all'erga-
stolo dell'Inquisizione e si gastichi col visto dell'ordinario....
Ms Qq H, 62 della Bibl. Com. di Palermo.
90
DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI
e senza molta fatica farlo con queste legate al suo
quartiere.
Dico « penitenziati », ma col Matranga dovrei dire in-
vece <« penitenziate », giacché il carcere nacque per donne:
maliarde, fattucchiere, streghe e simile genia, delle quali
la città, a testimonianza credibile del Matranga, era così
piena che lo spazio non bastava più, non ostante che i
cittadini fossero tiepidi nel denunziarle e i magistrati troppo
benevoli nel condannarle; passivi tutti per acquiescenza
colpevole alle loro malvagie operazioni.
Ma sopra le donne furono rinchiusi gli uomini: ed è
inconcepibile come di quelle non rimanesse traccia di sorta
(la cosa potrebbe spiegarsi con l'adattamento che fu fatto
di esse, nel 1783, a Magazzini di Dogana); mentre degli
uomini balzano ora fuori prove luminose ed a profusione.
Le streghe peraltro eran tali e tante che nello Steri lo
spazio mancava, ed esse dovevano distribuirsi in vari
luoghi di pena, che pur molti ve ne avea; e, se di ceto
nobile e civile, nei monasteri; ed al numero sovrabbondante
degli uomini si provvedeva oltre che con le carceri ordi-
narie dei diversi fori, coi conventi, dove i frati venivano
chiusi, e con l'esilio o con la galera o con altri espedienti.
Questa, della carcerazione o della chiusura di sacerdoti,
preti o frati o monaci, nei conventi, era una pena alla quale
ricorrevano un po' tutte le autorità : la civile, la vescovile,
la provincializia e particolarmente l'Apostolica Legazia.
Monsignor di Monarchia, come volgarmente si chiamava il
rappresentante del Re nello esercizio delle prerogative ponti-
ficie, decretava sovente il confino in un convento di stretta
osservanza ai frati ribelli all'autorità dei loro superiori, o
di vita troppo libera, o di condotta irregolare. Il Convento
91
SANT'UFFIZIO
di Gibìlmanna era per lo più destinato a non degni ospiti:
ed il nome del solitario, deserto e disagevole ospizio, come
luogo di pena era pronunziato con orrore. Venivano poi di
preferenza i conventi dei Cappuccini, perchè lontani dall'a-
bitato, in posizione molto elevata e con disciplina molto ri-
gida. Un prete che vi fu chiuso negli ultimi dei Settecento
fu l'Ab. Cannella (si chiamava da sé e lo chiamavano tutti
così), ardito polemista, il quale, avendo scritto contro il
celibato dei preti, cadendo così in disgrazia dell'Arcivescovo
Sanseverino, fuggì da Palermo; arrestato a Roma, s'involò
ai gendarmi; e dentro una cassa si fece, come merce, tra-
sportare a Parigi; poi. morto il Sanseverino, tornò in Pa-
tria, dove, vestendo con ricercatezza secolare, fu mandato
all'ingrato luogo.
Altro fatto nuovo, acquisito alla stòria del S. Uiìfìcio in
Palermo, scaturisce da un documento, il quale conferma
che le carceri espiatorie esistevano fuori lo Steri.
Con lettera del 25 gennaio del 1696, gl'Inquisitori dalla
isola scrivevano allo Inquisitore generale a Madrid: che essi
tenevano in Palermo le pubbliche carceri della Penitenza,
distanti dallo Steri. Per gl'inconvenienti del ritardo nel di-
sbrigo dei servigi era stato necessajio di acquistare alcune
casette attigue alle carceri segrete ed alzare le mura per le
carceri pubbliche. Durante questa costruzione ebbero luogo
contrattempi che ritardarono il lavoro. I maestri dicevano
che con 2000 scudi la fabbrica si sarebbe potuta condurre
a compimento, ed il S. Ufficio avrebbe avuto le case della
penitenza per venderle o appigionarle.
Trattavasi di spese, che però si sarebbero potute com-
92
\
DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI
pensare. Portando a termine le nuove carceri, si sarebbe ri-
sparmiato cento scudi all'anno, salario dello alcalde delle
carceri pubbliche, perchè l'ufficio soppresso si sarebbe po-
tuto affidare all'alcalde delle segrete (allora non si pensava
al maggiore compenso da dare ad un Direttore di carcere
per maggior servizio ed orario). Il S. Uffizio, aggiungevano
gli Inquisitori, versa in condizioni difficili: ritardo di esa-
zione, mancanza di mezzi.
E finivano invocando il parere e l'approvazione della
nuova spesa. Se non che, l'Inquisitore supremo fece orec-
chie da mercante, quelli, dopo tre anni (giugno del 1699),
insistevano sulla proposta; la quale dovette essere definita
in senso poco favorevole, giacché di carceri della peni-
tenza fuori lo Steri non si parlò più (i).
Maggiore è la difficoltà di trovare in queste celle nomi
e, trovatili, riconoscerli.
Dalle fronde del classico cipresso dianzi ricordato si
protende il nome di un certo lemma.
Sul fondo di alcuni ornati neri, a poco più d'un metro
dal pavimento della parete, sono disegni sovrapposti a dise-
gni, in mezzo ai quali sottilissimi grafiti dicono: Batà...,
M. Cefalù..., Fancesco Magio con la data 1680, punto di
partenza ben sicuro per istabilire in qual tempo furono
essi fatti.
E chi sa quali altre sorprese di nomi, di date e di fatti
non debbano offrire altri grafiti del lato sinistro della fi-
(i) Questo documento mi venne favorito dai fratelli Fran-
cesco e Giuseppe La Mantia.
93
SANT UFFIZIO
nestra, parte sciupati, parte coperti di calce, i quali per
poco che vi si mettano le mani cadono sgretolati! Qui
dev'essere una intera storia di persone e di cose.
Date anteriori conosciamo già nella medesima parete,
dal lato opposto della finestra; quella specialmente del 1664
a pie d'una croce. Mattheo Gu..., firmato sotto la medesima
croce, pare si riveli tutto nella parete di contro, presso lo
spigolo di quella che è ora porta di entrata e che una volta
dovett' essere parete dell'andito del cesso: parete tuttora
vergine sotto il lieve ma invincibile intonaco celestrino che
la copre; e forse, perchè esposta agli occhi de' guardiani,
non si prestò né a disegni sacri, disdicevoli al basso uso
del luogo, né a motti svariati; quindi non subì le quadru-
plici imbiancature delle celle propriamente dette.
Ecco la rivelazione dell'antico andito:
Mattheo G[ugliel] di la città di
car a di Ag 1649.
ha [ppi?] H ma di Agustu 1649.
Guglielmo é nome molto comune anche oggi a Palermo:
ma nel Seicento non sappiamo chi fosse questo Matteo.
Scrostando nella prima cella un piccolo tratto che mi era
a bella prima sfuggito, sotto la finestra inferiore mi venne
fuori il disegno di una testa con baffi alla spagnuola del
tempo, ma esageratamente lunghi ed attorcigliati in punta
(più che non usino al presente coloro che applichino i
piega-baffi), ciuffo sulla fronte e due corna staccantisi
da esso.
Sulla figura umoristica unica nel genere e nel luogo, due]
righi di grossolana scrittura a grandi caratteri, dava nome,
94
DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI
cognome e qualità. Tutt'altro che benevola per essa,
questa dice:
Matteu Guglierminu G
Pre la.... fé dei cumuti F. B. M.
D. T.
I C C il prese
[per?] babafu?]
con la
S mogie (?)
al castigo (?)
Strana figura! piiì strano battesimo! Al quale tre, quat-
tro... padrini, quante sono le iniziali, possono aver preso
parte.
Ed ecco il medesimo nome comparire in due celle du-
rante quindici anni, il 1649 ^^ il 1664, come rivelano Io
stipite della porta e la croce di fronte a questa, alla cui ba-
se è affidato. Le due note sono d'una mano; ma quella del-
la figura umoristica, d'un'altra.
Una supposizione c'è da fare sull'uomo e sulla cosa:
cioè che egli fosse non un carcerato, ma un carcerici^,
nient'altro che un aguzzino. La sua semplice caratteristica
è nella porta di entrata, nella quale, custodita com'era da
due cancelli, i prigionieri non potevano accedere, né, ac-
cedendovi, scrivere, e dove solo ai guardiani era lecito
fermarsi. Andando su e giù pel corridoio delle carceri, egli
può qualche volta aver segnato il suo nome sotto la croce;
ma appunto come aguzzino, odiato dalle sue e dalle altrui
vittime, ritratto quale becco dai penitenziati della prima
cella. Buoni quanto si vogliono, incapaci di offendere ani-
ma viva, di faccia a un Don Chisciotte che voleva spoc-
chiarla col miglior damerino della città nella cultura ridi-
95
SANT'UFFIZIO
cola dei peli, essi dovevano esplodere: ed esplosero in
quella forma insolitamente buffa. Dando a lui del menelao,
i reclusi dovettero colpire un lato debole della sua vita;
e dopo più di due secoli la loro vendetta parla ancora!
A più probabili benché non sicuri risultati conduce la
ricerca del nome che nella seconda cella si nasconde sotto
la iniziale B.
Quel che si può dire di un dotto nella piena eccezione
della parola, deve dirsi di lui, maestro in iscienza biblica
e patristica, in agiografìa e in teologia. Dilettante di dise-
gno, esperto nella poesia italiana e latina, egli delinea fi-
gurine di santi, le qualifica ed illustra, e si raccomanda a
loro in distici che le fredde pareti religiosamente traman-
dano. Quest'uomo non dice mai di essere ingiustamente
perseguitato , pur piangendo del pianto del dolore. La sua m
carcerazione non è anteriore al 1646, non posteriore al
1649.
Chi può essere stato colui se non il celebre Francesco
Baronio da Monreale?
Nato l'anno medesimo che moriva il suo illustre ed
ardito concittadino Antonio Veneziano (1593), egli fu dei
più eruditi sacerdoti della Capitale, ed inneggiò a questa con ^^1
entusiasmo di poeta, con diligenza di erudito, con amore dì
figlio. Un'ultima volta fu visto in città, quando nel prin- ^
cipjo del 1646 tessè l'elogio di Donna Eleonora Ventimi- ^M
glia; poi scomparve; ed i suoi nemici ne gongolarono di
gioia. Allorché sul finire di quell'anno un certo Placido
Serletti calabrese sognò una repubblica siciliana, avente a
capo il Baronio, costui era già cniuso in queste carceri,
vittima del suo ingegno superiore o della sua lingua trop-
po libera nel dir la verità o quella che a lui pareva verità;
96
I
DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI
circostanza che anche in questo lo accostava al disgraziato
suo concittadino A. Veneziano.
E peggio gl'incolse quando nel maggio dell'anno seguen-
te, che fu il tempestoso 1647, il battiloro Giuseppe D'Alesi,
fattosi Capitano del popolo, lo richiese come segretario
all'Inquisitore Don Diego Garcia de Trasmiera; richiesta
che ne aggravò le condizioni penali rafforzando nella opi-
nione del S. Uffìzio i sospetti pei quali da quasi un anno
esso avealo catturato e chiuso in quella cella. Tornata la
calma, i sospetti inquisitoriali inacerbirono ai danni di lui.
Il S. Uffìzio fece tradurlo in Pantelleria, poi nel Castello
di Gaeta (i), ove lascioUo morire non sappiamo se di ma-
lattia o di altro degli infiniti mali dei carcerati d'allora
(1654)-
Né gli valse la classica opera De Majestate panormita-
na. né quella delle lodi della Nobiltà siciliana, né le vite
di Sant'Antonio da Padova, del domenicano Beato Pietro
Geremia e dei santi di Palermo (2).
Il sacerdote che avea illustrato l'atto pubblico di fede
del 1640 (3), che avea levato al cielo il Trasmiera (4), fu
vittima del medesimo Tribunale della fede e del medesimo
giudice!
Altro nome insigne, che dev'esser legato alla tetra
(i) Vedi in proposito le Memorie storiche di Francesco Baro-
nio Manfredi di U. A. Amico. Palermo, 1907.
(2) MoNGiTORE, Biblioth. sic. voi. I, p. 206.
(3) Ristretto de' processi nel pubblico spettacolo della Fede
divulgati ed espediti a 9 sett. 1640 dalla S. Inquisizione di Si-
cilia nella piazza della Madrechiesa di Palermo. Palermo, Marta-
rello, 1640.
(4) Baronio, Siculae Nobilitatis Amphitheatrum, etc. Pa-
normi, 1630.
97
7 - G. PITRÈ - Sant'Uffizio.
SANT UFFIZIO
storia di queste pareti, è quello di Simone Rao da Palermo,
dei nobili Marchesi della Feria, prelato illustre, poeta tra i
primi dell'Isola.
Nato nel 1609, salì presto in fama di cittadino esempla-
re. Le muse gli sorrisero lietamente ed il patrio dialetto
celebrò per lui sentimenti delicati di carità, di amore, di
religione. Vacando nella chiesa di San Nicolò la Kalsa l'uf-
ficio di Parroco (1647), vi fu presentato dal Pretore, poi
venne eletto deputato delle nuove gabelle. Ma tanti onori
non lo salvarono dagli insani sospetti del Trasmiera di es-
sere stato tacito conoscitore della congiura del Conte di
Mazzarino organizzata da Giuseppe Pesce e da Antonino
Lo Giudice. Né scongiurarono la sua carcerazione in Ca-
stellamare, e poi qui, nello Steri: Trasmiera, suo amico,
attore principale.
Di questa cattura è un ricordo di una sua ottava pie-
tosa:
Mura 'nfelici, unni abbissatu m'hannu
E purtatumi vivu a sepelliri
Li tradimenti d'autru, e lu me' 'ngannu,
Materia chiù di chianciri, chi diri;
Oimè chi vita! oimè chi duru affannu!
Oimè chi lungu affannu di muriri!
La mia miseria cumincia cu l'annu,
E nun sacciu in qual annu avia finiri!
Ora io prego il lettore di riavvicinare questi versi con le
due mirabili ottave onde si chiude il precendente capitolo.
Certo, i primi due non bastano a provare che siano tulli
d'un medesimo autore, ma quando si consideri che proprio,
in queste carceri fu il Rao ritenuto ed oppresso, e che le;
due ottave rappresentano quanto di piìi alto offra la poe-
sia del Seicento, non sarà arditezza attribuirle a lui.
98
Capitolo VI.
POLITICA - CONFISCA
UALE accusa più sicuramente documenta-
ta di quella che sorge contro i giudici
dalle rivelazioni di queste celle?
Quali giustificazioni più lampanti di
quelle che danno di sé i poveri reclusi,
espianti le pene loro inflitte? Le parti s'invertono: i con-
dannati sono gli innocenti, i giudici sono i rei.
Giacché non soltanto il quietismo di Molinos (i), incubo
(i) Il sacerdote Michele Molinos (1640-1697) da Saragozza,
sostenne l'annientamento di tutte le forze spirituali ed il totale
abbandono in Dio in modo che l'anima stessa si spogli di ogni
spontaneo impulso, né desideri il paradiso né tema l'inferno e
il peccato, né eserciti atti di fede; ma nel suo nulla si tenga in
uno stato di esclusiva passività, lasciando fare a Dio. Questa
dottrina fu sostenuta, tra gli altri, dal Card. Petrucci, che, chia-
mato dal S. Ufficio di Roma, venne tenuto in carcere. In due
anni furono arrestate 200 persone sospette di quietismo, e molte
99
SANT UFFIZIO
degl'Inquisitori dapo il 1687; non le proposizioni eriticali
vere e non vere; non il possesso illecito di libri proibiti;
non i sortilegi e le superstizioni, né tampoco l'accìdia o la
rilassatezza in religione eran motivo del pronto intervento
del Tribunale, ma ben anche, e non di rado, la ragione po-
litica. « In materia di Stato », osservava il Villabianca,
(( e in critiche emergenze della Corona [quel Tribunale]
avea servito gloriosamente il governo in rimuover le fello-
nie ed in punire i ribelli col braccio forte delle sue armi, al-
le quali non era alcuno che osato avesse far fronte » (i).
La suprema autorità del Regno impersona il Governo.
Il motto: L'Etat e' est mot era, in pratica, più vecchio di
Luigi XIV. Qualunque atto di ribellione al re era un atten-
tato alla religione e a Dio.
Sotto il nefasto regno di Filippo IV (1621-1665), qua-
rantacinque etemi anni di oppressione, le denunzie politi-
che rendevano frequente la partecipazione del sacro Tribu-
nale. Invano in un momento di resipiscenza il grande In-
quisitore di Madrid vietava a quello di Sicilia la carcera-
di esse di alto grado. L'a. 1687 la dottrina molinista venne con-
dannata, e nonostante l'abiura, condannato a prigionia perpetua
l'autore di essa. Al Card. Petrucci, condannato anche lui nei
suoi scritti, fu imposto silenzio, fatto obbligo di rinunziare al
vescovato di Jesi, e applicata una sorveglianza speciale dalla In-
quisizione, fatta cessare poi da papa Innocenzo XII.
Il molinismo della Spagna passò in Francia, scese in Italia
ed in Sicilia {Lessico Ecclesiastico, voi. Ili, pp. 575-6. Milano,
Vallardi). In Palermo cinque seguaci di esso furono condannata
nel 1703; e nel 1724 bruciati frate Romualdo e Suor Gertrude.
(i) Villabianca, Diario palermitano, 1782...
100
POLITICA - CONFISCA
zione di persone non sospette di fede nelle segrete (i). Le
cose andavano sempre a un modo.
Inquisitori Torresilla, Bravo e Camera spagnuoli, che
si valevano l'uno quanto l'altro, fu rivelata una congiura
a favore delle armi francesi in Augusta e contro la Spagna
(1643). Del delitto s'impadronì subito il S. Uffizio, che
seppe far bene le regie vendette. Questa data comparisce
nella parete di fronte della prima cella. Nella sollevazione
di Giuseppe D'Alesi, Francesco Baronio ne provò, come
vedremo, i rigori, ,non già per delitto di fede, ma « per
massima politica».
II nobile palermitano Albamente andò al supplizio per
una congiura la cui confessione venne strappata a lui dal
terribile Trasmiera, che nella congiura volle vedere un
tentativo per la liberazione del Baronio (2).
In seguito ai disordini del D'Alesi, il secondo Don
Giovanni d'Austria, ahi quanto diverso dal vincitore di
Lepanto!, venuto viceré in Sicilia, incaricava quel Tribu-
nale d'informarsi (( col suo abituale segreto degli uomini
di mala vita... e di avvisarlo di ciò che avrebbe inteso e
saputo, distinguendo le qualità e parti di ciascuno e i de-
litti, e costumi di coloro che meritassero esser puniti » (3).
Memorabile fu lo strozzamento d'un cappellano della
galera siciliana di Santa Chiara per ragioni estranee alla
fede; gli si eran trovate addosso lettere del Duca di Bivoné
(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in
Sicilia, voi. I, a. 1622.
(2) MoNGiTORE, Biblioteca sic, t. I, p. 206. Pirri, Annales
Panortni, in Bibl. Stor. del Di Marzo, v. IV, pp. 182 e 192.
(3) La Mantia, op. cit., pp. 75-77.
IDI
sant'uffizio
da Messina e monete d'oro e d'argento della Francia (i).
Il boia del S. Uffizio compì dentro il Palazzo Chiaramonte
(1676) l'opera dei boia del Tribunale secolare. E così potè
l'Inquisitore dell'isola vantarsi con l'Inquisitore Supremo
di Spagna di avere concorso alla tranquillità dello Sta-
to (2).
Anche qui trionfava l'Inquisizione, la quale, al primo
giungere di S. A. (27 luglio 1649), auspice il fosco Trasmie-
ra, dava ospitalità nelle splendide sale dello Steri al Gene-
rale Pimenta, Comandante dell'Armata vicereale (3).
E trionfava pure delle congiure del Conte Mazzarino
(1649) mandando in carcere dapprima di Castellammare,
poi del S. Uffìzio altro dei più saputi ecclesiastici, Simone
Rao, parroco di San Nicolò la Kalsa, la parrocchia bena-
mata e prediletta degli Inquisitori. La quale carcerazione
(23 dicembre) sarebbe stata seguita dalla condanna a mor-
te, se notizie favorevoli non fossero oppostamente venute
a chiarire che il Rao aveva in tempo manifestato gli occul-
ti maneggi che dovevano condurre a nuovi disordini (4).
Il lettore, frattanto, consideri a proposito di questo fat-
to quanto l'odio del Trasmiera contro quanti sono in fami
di agitatori politici accecasse lui. Uscito dal carcere, il Rac
si dimise da parroco (1651 e non già 1656, come nota
(i) AuRiA, in Bibl., del Di Marzo.
(2) Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato
Tribunale del S. Offizio, documento del voi ms. Qq H 62 della|
Biblioteca Comunale di Palermo.
(3) V. AuRiA, Notizie di alcune cose notabili occorse in Pa4
lermo (1636-1665); in Di Marzo, Bibl.. v. II, p. 313.
(4) Di Marzo, Biblioteca, v. Ili, pp. 357 e 369.
102
POLITICA - CONFISCA
Mongitore) e si recò in Ispagna a chiedere giustizia dell'af-
fronto e del danno.
Filippo IV gliela fece intera nominandolo R. Cappella-
no con la pensione di 500 scudi all'anno, abate di Santa
Croce e piiì tardi nominandolo (1658) vescovo di Patti (i).
Il Trasmiera era stato più realista del rei
Il soverchio zelo però sovente lo accecava, spingendolo
a risoluzioni ostiche all'autorità viceregia. Già è risaputo,
— . ed in un capitolo di questo studio risulta evidente, —
che i Viceré, gelosi di loro facoltà, mal comportavano
quelle del S. U.; le quali gli interessati spingevano fino
alla usurpazione del reale potere. Per poco che un Viceré
chiudesse gli occhi sopra un abuso, eccoli farsi innanzi co-
me per dire: siamo qua noi.
E ben lo fecero il 23 aprile del 1592, quando, infestata
la Sicilia da ladroni di campagna e da banditi della peg-
giore specie, l'Inquisitore di Paramo, seguendo l'esempio
del Viceré Conte d'Olivares, e atteggiandosi a capo supre-
mo dello Stato, promulgò un bando contro i delinquenti e
i facinorosi. Era troppo, invero; il Viceré, con un coraggio
non comune in altre simili circostanze, ordinò (30 maggio)
ai Baroni ed ai Consiglieri del Regno che impedissero la
promulgazione dell'inconsulto bando inquisitoriale, nessuno
potersi arrogare il diritto di intervenire in affari di sicurez-
za pubblica del Regno, devoluta esclusivamente all'autori-
tà vicereale; grave offesa aver recato alla real giurisdizione
il mal consigliato bando, che non trovava suffragio nep-
pure nelle Concordie del 1580 (2).
(i) D. Faija, Bibliografia dei Parrochi di S. Nicolò la Kalsa,
pp. 81-82, Palermo, Barravecchia., 1877.
(2) A. Gervasi, Siculae Sanctiones, t. II, p. 329-
103
SANT'UFFIZIO
Ma anche senza entrare nelle parte politica, v'era tan-
to nella vita inquisitoriale da estendere attivamente la
sorveglianza molto al di là di qualunque supposizione.
Forte d'una Costituzione di Paolo III (1542), inoppor-
tunamente invocata, il Barbieri riconosceva nel S. Uffizio
il diritto, anzi il dovere, di punire gli oratori che dicessero
proposito satiriche, mordaci e sediziose (i).
Ora chi non vede la elasticità di queste tre qualifica-
zioni? Tutto esse possono includere e niente escludere. Don-
de comincia e dove finisce la frase, il motteggio satirico?
Chi può fissare i limiti dell'arguzia? E come devono inten-
dersi le proposizioni sediziose?
Eppure nelle leggi civili ve n'erano parecchie sull'ar-
gomento, le quali minacciavano pene severissime agli au-
tori di satire specialmente anonime. In tal guisa il Governo
aiutava il sacro Tribunale ed il sacro Tribunale il Governo,
del quale, forse pel numero straordinario di spie, ne sapeva
di piìi.
Con questo è facile spiegare come uomini egregi ed an-
che insigni con manifestazioni innocue ed anche sante fos-
sero vittime di quel Tribunale. Non empietà di carcerati
rivelano queste celle, ma perversità di carcerieri. Non era
infatti manifestazione spirituale, anzi atto pubblico o pri-
vato che non provocasse la loro ingerenza fino alla contra-
stata validità d'un matrimonio (2), ad una dotta qualifi-
cazione di un'agiografia, alle questioni sui luoghi di nascita
d'una persona di santa vita. Un processo fu da essi inten-
tato contro il gesuita A. Ign. Mancuso, perchè nella sua
(i) Bf.rtini, Rosa Virginea, p. 11.
(2) Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.
104
POLITICA - CONFISCA
Storia di Santa Rosalia (i) qualificava « cervel matto » il
bruciato Fra Romualdo (2). Un editto inquisitoriale del
24 agosto 1665 lanciava la scomunica maggiore al messine-
se Francesco Alibrando, che avea sostenuto (( proposizioni
ingiuriose, scandalose, empie, contrarie, false ed offensive
delle pie orecchie ».
La i-eggiore era l'affermazione che il Beato Agostino
Novello fosse nato a Termini (3) mentre l'Auria, ben visto
al S. Ufficio, lo avea dichiarato palermitano.
Dì dotti uomini assai ve n'ebbe ristretti nel S. Uffìzio.
Dopo i bigami, i superstiziosi e le streghe, erano appunto
gli ecclesiastici i maggiormente presi di mira. La loro lista,
particolarmente nel Cinquecento, è interminabile; ma ben
lontana dall' esser completa. Lasciamo quel frate Giannello
di Maurojanni vicino la Rocca, che fu bruciato vivo (1564)
e preste Jannello scolaro, pur esso di Maurojanni e fra
(i) Tomo I, pp. 166. Palermo, 1722.
(2) Mescolanze ecclesiastiche varie n. 6, Ms. 3 Qq C 75
della Bibl. Comunale di Palermo.
(3) Termine rimessa in stato, o pur Risposta ad uno scritto
del Dr. D. Vincenzo Auria. Nel quale volendo egli levare alla
città di Termine il suo B. Ag. Novello degli Eremiti di S. Ago-
stino, per donarlo a Palermo, ecc. Opera di Bernardino Af-
SCALCO (Francesco Alibrando) Messinese, ecc. In Venetia, per il
Bertoni, 1664.
A favore dell' Auria si pronunziò nel sec. XVIII, et pour
cause, il MoNGiTORE scrivendo la Vita del B. Agostino Novello pa-
lermitano della nobile famiglia Termine. Palermo, Cortese, 1710.
Contro l'Auria ed a favore dello Alibrando sorse Cesare
GuMBRUNO, Lettera al Dr. Cataldo Rizzo in cui si difende la na-
scita e la patria del B. Agostino Novello terminese e si risponde
all'opera apologetica del D.r Auria. Messina, D'Amico, 1713.
105
SANT UFFIZIO
Cornelio da Nicosia, conventuale e maestro in sacra Teo-
logia (1561), e D. Jacobo Cortes da Tropea, cappellano
della Chiesa dei SS. Giovanni e Giacomo a Porta Carini in
Palermo, e frate Alessandro Castellana di Tricarico dei
Minori Osservanti, D. Giacomo Bruto o Bruno, prete pie-
montese dell'Isola Bella. Lasciamo nel Seicento il notaio
Diego Siracusa da Trecastagne, i sacerdoti Casalino e
D'Angelo da Monreale, e Martino Fide da Vizzini (1640);
fra Carlo Tavalora agostiniano e fra Giuseppe dell'Alleata
francescano; ed il Baronio pred:)tto ed il sac. palermitano
Antonino Rizzo, maestro di canto, ed il famoso fra Diego
La Mattina agostiniano; certo è che di conosciuti parecchi
ve ne furono fra i 34 inquisiti del 1648, piti che parecchi
tra i 40 del 1649, molti fra i 50 del 1651 e tra i 44 del 1652 :
quattro atti pubblici di fede, questi, solennemente celebrati;
ed il penultimo, con l'intervento di D. Giovanni d'Austria
juniore nella chiesa di Santa Cita a Porta San Giorgio (i).
Verso il 1676 una vera follia contagiosa imperversò in
mezzo al ceto ecclesiastico, al civile ed al popolesco. Suor
Cristina Rovere, donna ascetizzante, fu da tutti creduta
santa. Si narrava di estasi, di visioni e di miracoli; la sua
immagine corse venerata; tenute come sacre reliquie le
cose sue. Alla fama di lei vennero attratti sacerdoti e seco-
lari; e non che Palermo, ma anche la Sicilia e, come fu
detto con poca conoscenza geografica e politica, « tutto il
Regno d'Italia » parlò di lei.
Il tribunale della fede mise le mani su di essa e sopra i
(i) Vedi: La Mantia, op. cit., nota 4. — Gius. Matranga
Relazione dell'atto pubblico di fede celebrato in Palermo a' 17
marzo dell' a. 1658. Seconda edizione con nuova aggiunta. In Pa-
lermo, Bua, 1658.
106
POLITICA - CONFISCA
suoi ammiratori, i maggiori teologi che ci fossero allora,
tanto pili pericolosi quanto più stimati per dottrina di divi-
nità. Suor Cristina dapprima venne rinchiusa nel monaste-
ro di Santa Chiara; poi (( condannata a stare tutto il tem-
po della sua vita nelle carceri del S. Officio », ove la pietà
degli Inquisitori si contentò che « li suoi beni restassero
confiscati al tribunale » (i).
I teologi ebbero pene temporanee, probabilmente in car-
cere espiatorio e chi sa... forse in esilio.
Che l'Autore della nostra nota insieme col suo compa-
gno fosse di quelli, non oso affermare; ma nessuno potreb-
be, senza documenti, negarlo.
Chi sa quali tracce della loro presenza in questi luoghi
devono essi aver lasciate!...
Nello spettacolo del 4 giugno 1703, in San Domenico,
tra 14 rei, 5 furono religiosi dell'ordine degli Eremitani
scalzi di S. Niccolò Tolentino e (addirittura incredibile!)
certa Suor Teresa di San Girolamo, perchè donna, e di soli
26 anni già. autrice di vari trattati teologici e particolar-
mente di due sulle virtù teologali e sulle cardinali, ritenute
eccedenti la capacità del suo intelletto, fu giudicata dia-
bolica (2).
Concorrevano poi ad accrescere la legione dei sospetti,
e quindi degli accusati e dei condannati, le ragioni econo-
miche senza le quali la istituzione non avrebbe potuto pro-
sperare.
(i) Ms. citato dal La Mantia, pp. 86-87.
(2) Ms. 3 Qq B 151 della Biblioteca Comunale. I due trat-
tati sono indicati nel cit. Lessico ecclesiastico 5 M^linos fCitato
qui nell'originale, ma senza espresso richiamo nel testo, il Ms. Qq
F. 239 della Bibl. Com. di Palermo].
107
SANT'UFFIZIO
Fino al 1699 regnava l'antica procedura dello arresto
d'un accusato o d'un indiziato nei termini più sbrigativi
e sommari. Gl'Inquisitori ordinavano l'arresto, e l'arresto
veniva issofatto eseguito. Il foro secolare, come qualsivo-
glia altro foro, doveva prestare braccio forte.
Di 6 persone prese dai foristi dal marzo al settembre del
1757, 4 furono frati, condannati poi a varie pene, ed uno
di Montemaggiore, condotto allo spettacolo dal nobile D.
Benedetto Versango, a remigare per sette anni nelle ga-
lere di S. M. (i).
Più volte, nel corso di questo lavoro si è parlato di
ecclesiastici rinchiusi in queste celle. Il triste uffìzio di esse
è più che chiaro, evidente; quel che non è chiaro è se essi
fossero secolari o regolari e, se mai, di quale ordine reli-
gioso.
Ecco a quali induzioni mi conduce il maturo esame del
contenuto dei testi latini e delle immagini dei santi della
prima delle tre celle.
La iconografìa locale non dice nulla su questo punto.
La folla delle sacre figure fa sospettare che i carcerati o
rappresentassero santi ai quali avessero devozione, o fa-
cessero esercizio di arte, pur non essendo artisti.
Qualche cosa, al contrario, dicono i passi latini rivolti
a Santa Lucia ed a Sant'Antonio. Quei passi, due special-
mente, provengono, come si è veduto, dagli uffici propri.
Ora questi uffici non erano né son recitati dai sacerdoti
secolari, né da tutti i sacerdoti regolari. I soli che li reci-
tassero e li recitino ancora, sono i frati minori, i conven-
(i) Doc. favoritomi dall'avv. cap. Pietro Bottalla.
108
I
POLITICA - CONFISCA
tuali, i cappuccini, le monache di Santa Chiara e gli ascrit-
ti, uomini e donne, al terz'ordine.
Lasciamo stare le monache di Santa Chiara e le ter-
ziarie di San Francesco, perchè di donne non vi è traccia.
Le streghe stavano in un piano inferiore o fuori lo Steri, e
le terziarie e le Clarisse, se qualcuna veniva arrestata, an-
dava chiusa altrove. La terziaria Spedalieri era in fondo
una secolare.
Rimane dunque il sospetto dei frati minori, di conven-
tuali e di cappuccini.
E allora c'è da presumere che qualcuno fosse stato qui-
vi ritenuto, non per incertezza di fede, giacché i frati di
quell'ordine non ne mostrarono mai, ma per fatti politici e
magari per detenzione di libri proibiti, od anche per tra-
scorsi che non il S. Uffìzio, ma il Foro Ecclesiastico aveva
il diritto di punire.
Catturato il reo, gli si sequestravano immediatamente
todos los bienes; e lo si consegnava allo alcade delle carceri
segrete. Beni mobili ed immobili venivano inventariati.
Cari:e, libri, manoscritti, chi ne avesse, erano studiati mi-
nutissimamente, uno per uno, per vedere se vi fossero in-
dizi dell'errore, dei complici, ecc.. Allo esame prendevano
attiva parte i qualificatori dentro il S. Uffizio (i).
Il sequestro era il primo passo per la conservazione dei
beni sui quali potesse il Tribunale rivalersi delle spese av-
venire e, caso mai, per la confisca. Pel Tribunale era que-
stione apparentemente religiosa, ma sostanzialmente eco-
nomica; e quando questa non era ben sicura, esso esigeva
(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di
Sicilia, voi. II; Ms. Qq H 63 della Biblioteca Comunale di Pa-
lermo.
109
SANT'UFFIZIO
la guarentigia di persona di sua conoscenza e fiducia nello
interesse dell'erario del S. Uffizio e dello Stato ed in favore
del giudicando (i).
La confisca non tardava, specialmente quando l'accusa
od il sospetto era di eresia; e seguiva non soltanto allo ab-
bruciamento ma anche alla muratura o chiusura perpetua,
fino a quando questa fu in uso (3), al carcere perpetuo sen-
za muratura, al carcere per un dato numero di anni, alla
fino a quando questa fu in uso (2), al carcere perpetuo sen-
lio dalla città o dalla diocesi. C'erano anche le sferzate
Ben è vero che a richiesta dell'Inquisitore Fra Enrico
Lugardi, re Alfonso avea confermato per la Sicilia (17
agosto 1451), un privilegio dell'imp. Federico II, del 1224,
concedente agli Inquisitori una terza parte dei beni degli
eretici, la processura dei Giudei ed il godimento di certi
diritti degli uni e degli altri; ma la concessione fridericiana
è ancora di là da trovarsi (3).
Ferdinando il Cattolico avocava a sé la Inquisizione e
ne faceva una prerogativa sovrana. Istituendola in Casti-
glia (1478), in Aragona (1481), in Catalogna, in Maiorca,
(i) Vedi tra le carte scampate allo eccidio del Viceré Carac-
ciolo in Palermo le Plegerie criminali dal 1607 al 1763, volumi
16544-59 nell'Archivio dei Notari defunti, nell'antico Convento del-
la Gancia.
(2) Un documento dell' 11 maggio 1782 della Giunta dei
Presidenti e del Consultore fa cenno di un chierico D. Giovanni
Bua Pennisi nativo della città di Aci inquisito, « a' 7 settembre
1764 fu condannato a essere murato, o sia perpetuamente carce-
rato in ristretto carcere a pena delli suoi gravi misfatti ». La
Mantia, parte IT, doc. XII, p. 67.
(3) Lagumina, Codice dei Giudei, n. CCXCII, p. 512.
HO
I
POLITICA - CONFISCA
in Sicilia e in Sardegna (1487), guardava a risultati pratici,
rispondenti alla indole sua obliqua ed avida e, perchè, avi-
da, crudele. Erano questi le ricche prede « che le confische
sui miscredenti e sugli eretici sarebbero per portare allo
erario » (i).
Non entriamo nella spinosa ricerca della parte spettan-
te al Tribunale del S. Uffizio dalle confische per ragion di
fede. Certo dovea esser pingue se Carlo V si decise ad isti-
tuire (15 19) giudici dei beni confiscati ai miscredenti rite-
nuti e giudicati tali gl'Inquisitori (2), i quali alla lor volta
dovettero comporre per questo un'amministrazione con
Giudice, Avvocato, Recettore (tesoriere). Segretario, Pro-
curatore e Sollecitatore fiscale: tutti, s'intende, privilegiati
dal Foro concesso agli ufficali del Segreto.
In quella che il Parlamento a tre bracci chiedeva al me-
desimo Carlo (1520) che il S. Uffizio venisse esercitato da
prelati e da priori dei frati predicatori di Domenico in Paler-
mo (giacché gli Spagnuoli erano avidissimi) o almeno dai ve-
scovi ed arcivescovi di Sicilia, esso affermava pure che per
l'avidità degli Inquisitori del tempo dediti a confische,
<( dunasi occasioni extorquiri li beni di li cristiani natu-
rali » (3).
Speciosa invero una teoria intorno alle confische. « Non
potendo chi vive haver herede, non può né deve tampoco
il fisco chiamarsi propriamente herede dell'heretico condan-
(i) La Lumia, Studi di storia siciliana, v. I, p. 25. Paler-
mo, Lao, 1870.
(2) Franchina, Breve Rapporto, cap. XIV, n. 7.
(3) Capitula Regni Sidliae quae ad hodiernum diem lata
sunt etc, t. II, cap. LXXIII, p. 53. Panormi, 1743, Excudeba*
Angelus Felicella.
Ili
SANT'UFFIZIO
nato a cui vengono in vita confiscati i beni; ma egli con
tutto ciò propriamente si dice, et è successore universale ne
beni dd sopradetto heretico » (i).
Non si chiamava erede il fisco; ma sequestrando i beni
del condannato se ne riserbava il possesso. Era un gioco di
parole tradotto in una sanguinosa irrisione alla sventura.
Oh quale triste verità racchiude l'antico proverbio: Lu
roggiu di lu S. Uffizio nun cunsigna mai! giacché la In-
quisizione non lestituiva mai le facoltà confiscate.
Tra le prove più scandalose riferirò il caso di Suor A-
mata di Gesù (al secolo Margherita Cordovana) da Caltanis-
setta, sorella di queulla Suor Gertrude ce nel 1724 fu, come
abbiamo visto, bruciata viva. Nel 1699 carcerata, tenuta
quasi quattr'anni in prigione, fu finalmente dichiarata in-
nocente, e restituita a libertà. Le si erano sequestrati i beni
stabili; e, per quanto la sventurata donna supplicasse, non
riuscì mai a riaverli. Un'ultima sua istanza del 1742, che il
lettore troverà in appendice, racconta le fasi della vertenza,
ed insiste per lo svincolo e la restituzione. Il Tribunale, che
pure avrebbe dovuto indennizzarla del danno ingiustamente
recatole, obbligò con una transazione onerosa l'erede di lei
al pagamento di un canone annuale di onze io; transazio-
ne immorale, che egli, sotto l'incubo di nuove vessazioni
di un istituto potente, dovette socrivere.
Il fatto è classico nel genere, anche perchè viene a con-
fermare che non soltanto dei beni dei rilasciati alla Giu-
stizia ordinaria, ma anche di quelli degli eretici pentiti
e dei figli cattolici di padri eretici (2) e dei condannati,
(i) Sacro Arsenale, n. CXCI, p. 399.
(2) Sacro Arsenale, nn. CCXXI, CCXXII.
112
POLITICA - CONFISCA
in qualsivoglia maniera in vita, e persino dei semplici cat-
turati si faceva padrone il Tribunale della fede, checché
toccasse ad esso del più o men pingue patrimonio.
Ed ecco, anche per questo, uno dei Capitoli del Regno
sottoposti al Re Carlo V, Nel 1520 i tre bracci del Par-
lamento del Regno pregavano S. M. che facesse cessare
la confìsca dei beni dei neofiti condannati, compresa la
parte che in essi beni era di pertinenza di cristiani che
avessero prima, in buona fede, contrattato con quelli;
confisca che il S. Uffìzio faceva intera, misconoscendo i
diritti dei terzi e dando luogo ad interminabili liti.
Ed un altro, col quale si implorava la restituzione della
dote e del dotario alla moglie cristiana d'un neofita con-
dannato (i).
Se interroghiamo la Chiesa in proposito, noi ne sen-
tiremo i rimbrocci. Nel 1249 il Pontefice aveva severa-
mente biasimati delle loro (( scandalose estorsioni » gl'In-
quisitori
In un Bilancio del Tribunale dell'anno 1713, gl'introiti
venivano calcolati 4067 onze (pari a L. 51.854,25), tutte
provenienti dagl'interessi che sul capitale pagava la Ta-
vola (Banco) di Palermo. E ((notisi», osserva quel do-
cumento, « che tutte le sudette rendite sono pervenute così
per causa di confìscazione di beni de' rei condannati come
per legati lasciati da diverse persone » (2).
Queste cifre fanno malinconicamente pensare all'età
dell'oro del Tribunale, che fu il secolo XVI ed anche in
(i) Capitula Regni SicUiae. cit., t. II, capp. LXXIV e LXXV.
(2) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di
Sicilia, cit., voi. IV. Ms. Qq H 64 della Biblioteca Comunale di
Palermo.
113
8 - G. PITRÈ - SanfUttlilo.
SANT'UFFIZIO
parte il XVII. Relassi, cioè bruciati, reconciliati e peni-
tenziati apprestavano frequenti entrate allo erario, che, pe-
raltro, dovea sopportare ingenti spese per gli impiegati e
per la polizia segreta che era costretto a mantenere, giac-
ché non tutti si movevano pel trionfo della fede, né tutti
pel timore della scomunica coloro che si facevano denun-
ziatori del loro prossimo; né tutte disinteressate erano le
confidenti di esso,
I rivelatori dei beni occulti degli inquisiti, sfuggiti .alle
confische del S. U. ricevevano il quarto od il quinto dei beni
medesimi come prezzo della denunzia (i).
Scriveva nell'aprile del 1560 l'Inquisitore Quintavilla
al re Filippo a Madrid, averlo informato, ai 15 febbraio
p. p., dell'Atto di fede pubblicato in Palermo per la Do-
menica di sessagesima, 18 del mese, e celebrato con gran-
dissimo accompagnamento e generale plauso. In quella
occasione avergli mandato la lista delle persone uscite ali
spettacolo, e tra le riconciliate Donna Mattea Moncai
e Spataiora, baronessa della Feria, che, secondo noti;
correnti, avea una dote, un po' contrastata invero,
10.000 scudi, e Anton Francesco Napoli con 3000, oltre
2500 sui quali vantavano crediti i suoi fratelli. « I bisoj
di questa Inquisizione », aggiungeva, « son così gran
che essa ha contratto molti debiti; ed ora, con queste du(
(i) Di questa pratica, nuova per gli studiosi dell' argoment
in Sicilia, faceva cenno l'Inquis. Generale D. Alonso Manrìqui
di alcune sue istruzioni agli Inquisitori di Sicilia il dì 31 ger
naio 1525; ed aggiungeva che i recettori (tesorieri) commettevantì
abusi in proposito; e si doleva che degli introiti e degli esiti
14 mesi che l'Inquis. Cervera fu in visita pex la Sicilia, fuori Pa^
lermo. non era stato possibile avere i conti! Lea, op. cit., p. 521]
114
I
POLITICA - CONFISCA
confische, potrebbe pagarli. Se V. M. lo concede, io
propongo lo acquisto della rendita possibile, buona ad
assicurare la vita avvenire di questa Inquisizione, ed il
pagamento dei salari degli ufficiali. V. M. che conosce
quanto necessaria sia essa oggi e come per essa il Regno
è uno dei più puri della cristianità, voglia favorevolmente
accogliere la proposta » (i).
Si comprende bene che le ricche prede non capitano di
frequente; ed il lasciarsele sfuggire sarebbe un delitto. La
Inquisizione aveva larga esperienza nel genere.
A Quel Tribunale non era mai danaro che bastasse. Il
documento ufficiale del 1699 conferma strettezze econo-
miche, sempre crescenti, lamentate dagli Inquisitori stessi,
cioè ritardi di pagamenti e mancanza di mezzi; e ci vuol
poco a capire che questa mancanza si riduceva a' pochi
affari che, vorremmo dire, commercialmente presentava
ia piazza.
Queste condizioni non migliorarono più, e nel secolo
XVIII rimasero inalterate, quali risultano nel 1713. Il
giorno dell'abolizione del S. Uffizio il R. Erario non in-
camerò più di 4000 onze annuali (2), perchè già da un
pezzo nuovi proventi per confische non c'erano stati; la
istituzione viveva del proprio, cioè delle vecchie rendite,
e la merce dei rilasciati era caduta in ribasso: tre soH in
un secolo!
Ma quali spese e quali crediti!...
(i) Testo spagnuolo, citato dal La Mantia, p. 55-
(2) ViLLABiANCA, Diario, in Bibl. del Di Marzo, v.
sant'uffizio
Quelle sole dei provvisionati salivano alla somma di
onze 2519 annuali; ed i crediti a 3535 (2),
Tuttavia, fino al settimo decennio del secolo esso si
permetteva dei prestiti al Senato della Città.
L'argomento, del resto, delle condizioni finanziarie ed
economiche e dell'amministrazone del S. Ufficio in Sicilia
non fu mai studiato.
Forse un errore ha fatto dimenticare che i documenti
son lì, nell'Archivio della Gancia in Palermo; perchè nel-
l'ultimo rogo, alzato non ai vivi ma alle carte del Tri-
bunale, si ebbe cura speciale, nell'interesse dello erario,
dell'Archivio civile.
Sono 1858 grossi volumi dal 1500 al 1782, contenenti
plegerie civili e militari, memoriali, deposti, cedule, sen-
tenze, esecuzioni (tutte, s'intende, per cause civili), atti e
mandati di assento, lettere delegatorie, consulte, atti di
tassazione, introiti di atti spediti, relazioni, biglietti vice-
regi. E questa è materia preziosa per lumeggiare la parte
amministrativa di quel Tribunale, alla quale non sarebbe
inutile guardare per darsi ragione della vita politica e re-
ligiosa della istituzione. Uno di quei volumi, il 1594, ^ ^^
Libro di cassa del Tribunale del S. Uffizio dall'agosto
1761 al marzo 1782: bastevole esso solo a fornire la mi-
sura della importanza di questo elemento di storia sici-
liana.
(i) La Mantia, L'Inquisiz. in Sicilia, parte II, Documenti,
n. IX, pp. 64-65; Palermo, 1904.
116
Capitolo VII
TORTURA - SEGRETO
>'CHE i ministri del Re erano obbligati al
segreto intorno alle comunicazioni che
ricevevano dal S. Uffizio.
Tra le carte che ci avanzano del S. Uf-
fizio in Sicilia, ecco una Dichiarazione
del Segretario di Stato ed Ecclesiastico, di osservare rigo-
roso segreto delle materie del S. Uffizio:
« Io sottoscritto. Segretario di Stato per gli affari eccle-
siastici di S. M, il Re delle due Sicilie, precedente suo real
ordine, giuro gli Evangelj di osservare il Segreto secondo
le leggi della S. Inquisizione in tutte le materie attinenti
alla medesima, che saranno a me descritte per passarle alla
notizia di S. M., e dalla Maestà del Re mi ha ordinato di
comunicarle alla S. Inquisizione.
Napoli, a' 9 ottobre 1751.
Il Marchese Brancone » (i)
(i) Ms. Qq H 62 della Bibl. Com. di Palenno.
XI7
SANT'UFFIZIO
Due celle ripetutamente accennano alla tortura. Cer-
chiamola, non nelle fiere requisitorie degli scrittori moder-
ni, ma nelle fredde relazioni del tempo, in quelle cioè che
provengono dalle mani stesse degli Inquisitori.
La tortura non era pena, ma espediente per iscoprire la
verità, e come tale non infamava. Se la imputazione era
p. es., di sacrilegio con complici, la tortura si dava per isco-
prire con rigoroso esame i fatti; se si confessava parte o
tutto il delitto o i complici, si dava prò ulteriori veritate
« sull'uso cioè ed i complici senza pregiudizio delle cose con-
fermate e provate». Se invece si negava tutto e gli indizi
erano sufficienti, la tortura era data prò habenda veritate,
e allora poteva dividersene la durata in guisa da applicarsi
in due giorni consecutivi.
La tortura ordinaria era la corda; e di corda parla som-
messamente la prima stanza, e del modo terribile ond'era
data.
Se il reo era indiziato d'eresia e, più, della qualità
d'averla profferita, confessata la intenzione, avea ragione
d'esser creduto; e allora veniva tormentato non già per la
intenzione, ma per altri intendimenti, come sarebbe quello
dei complici e prò ulteriori veritate, perchè la confessione
di simile delitto sembrava per sé naturale indizio che il
delinquente l'avesse potuto commettere altre volte, più di
quelle che avesse confessate.
Quando il reo confessava con lo esame della corda un
delitto che nei suoi costituti avea negato, lo si chiamava a
ratificare la confessione infra 24 ore, fuori del luogo dei
tormenti (i).
(l) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di
Sicilia, voi. II, Ms. Qq H, n. 63 della Bibl. Comunale di Pa-
lermo.
118
TORTURA - SEGRETO
Limborch descrive la camera dei tormenti con sì tetri
colori da far paura. Egli parla della spagnuola; ma si sa
che una era la spagnuola, la sarda e la siciliana.
« Il luogo di tortura », egli dice, « nella Inquisizione spa-
gnola suole il più delle volte essere un antro sotterraneo ed
oscurissimo... Quivi è alzato il tribunale, in cui siedono
l'Inquisitore, il Provisore e lo scriba. Accesi i lumi e fatto
entrare il torturando, il carnefice, stato ad attendere tutti
gli altri, diventa esso medesimo ragione di spettacolo e di
contemplazione. Coperto d'una veste nera di lino, lunga
fino ai piedi, stretta tutta al corpo, ha il capo coperto d'un
cappuccio nero ed oblungo, che gli nasconde il viso,
lasciando solo due piccoli buchi. Tutto questo mira ad
incutere maggior terrore all'animo ed al corpo del mise-
rello, e ad imprimergli la immagine di qualche diavolo, per
le mani del quale dev'essere torturato » (i).
L'Inquisitore gli ordinava che spogliasse il reo, se ma-
schio; che si spogliasse da sé fino alla vita, se femmina.
Così, legato con le mani dietro, i piedi anche essi legati con
una tavoletta interposta alle due noci (malleoli interni) —
tormento es- . sola e dei più crudeli — l'imputato veniva
con una fune alzato da terra.
Il tormento più leggiero era detto a tocca o non tocca,
in cui lo si sospendeva a fior di terra: benefìcio concesso
a coloro che, a giudizio del medico, non potevano assogget-
tarsi a tormenti più gravi.
La corda come mezzo di confessione si dava per qua-
lunque imputazione, accusa, sospetto dalla più lieve in-
frazione di precetti della chiesa ai più infami delitti.
(i) Phelippi e Limborch, Historia Inquisitionis , lib. IV. cap.
29, p. 321. Amstelodami, apud Henricum Wetstenium, MDCXCII.
119
SANT'UFFIZIO
Nelle Istruzioni di Toledo del 1561, le quali facevano
testo in Sicilia, sotto il n. 24 si prescriveva la corda anche
per coloro che con intenzione mangiassero carne nei giorni
proibiti dalla Chiesa. Alla corda seguiva la condanna (i).
Se dovesse scendersi a particolari intorno alla maniera
con la quale in cosiffatta applicazione di tormenti si pro-
cedeva, quelle medesime relazioni ed altre del genere ce
ne offrirebbero molti, l'uno più triste dell'altro.
La fune onde sollevavasi pendeva dalla volta del car-
cere entro una carrucola che comunicava con un argano,
la cui méinovella il boia teneva sempre tra . le mani ai
cenni dei giudici inquirenti.
Lo scriba o notaro, tutto occhi e tutto orecchi, guardava
ogni atteggiamento del viso e del corpo del torturato; racco-
glieva ogni menomo sospiro e ne prendeva rota. Non una
lacrima, non una sillaba doveva sfuggirgli; tutto doveva egli
consacrare sulla carta, principiando dalla possibilità che
quegli impallidisse o tremasse, indizi gravi a carico dell' ìibH
putato. ^^
La durata della corda segnata dall'orologio a polvere era
di mezz'ora : una vera eternità pel sofferente.
Se il torturato veniva colto da un male, la corda si
interrompeva, e l'ampolla della polvere si coricava per
sospendere il corso, che poi si riprendeva fino al compi-
mento della mezz'ora. ^m
Era vietata durante la digestione; vietato per le posagli
bili fratture di braccia, per impossibilità fisiche lo squasso,
vietato qualunque peso ai piedi nel momento dell'alzata da
terra; vietata la ricerca della confessione per fame o per
(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio
Sicilia, voi. 2", Ms. Qq H 63 della Bibl. Com. di Palermo.
120
TORTURA - SEGRETO
sete. Eppure i disegni e le iscrizioni accusano tutto il con-
trario e tormenti ben più gravi che questi! Ma il giudice
dovea « mostrarsi nel volto anzi rigido e terribile che no »,
ed è facile immaginare quale effetto dovessero produrre nei
poveri inquisiti quei visi e la figura demoniaca del boia.
Il fatto stesso di trovarsi solo in quel luogo recondito,
buio, segreto, senza un testimonio a sua discolpa, in
quelle condizioni, privo di un difensore (giacché dell'in-
tervento di questo non era ancora il momento; e nei casi
lievi, questo doveva essere scelto dagli inquisitori e solo
innanzi ad essi poteva parlare con l'imputato, e nei gravi
non doveva esservene); il fatto stesso, io dico, era ragione
di terrore e di sbalordimento. Aggiungi la ignoranza del-
l'accusa, degli accusatori; l'invito a dire quel che sapesse
intomo a ciò che non gli si faceva noto o gli si taceva, e
di quanti avessero potuto in un modo o in un altro con-
correre a trascinarlo con vere o false denunzie a così mal
partito.
Chi poteva avere avuto l'interesse di denunziarlo? e di
che denunziarlo?
« Nelle sentenze tanto pubbliche quanto private (di-
ceva uno dei 300 articoli che costituivano il codice del vero
buon inquisitore) si devono tacere i nomi e circostanze non
solamente de' testimoni, ma anche d'altre persone no-
minate nel processo per qualsivoglia maniera ».
Ed un altro: (( Se un reo, negandoglisi la pubblicazione
de' nomi de' testimoni contro di lui esaminati, si appellerà
da cotal negatione, non deve in modo alcuni accettarsi la
sua appellatione, ma come frivola e vana ributtarsi ».
Ed un altro ancora : « Gli occulti eretici devono de-
121
SANT'UFFIZIO
nunziarsi, perchè il nome del denunziatore non si puD-
blica, ed egli non è obbligato a provare la denunzia » (i).
Questo segreto s'informava al tenebroso silenzio sulle
denunzie e sui denunziatoti, sulla istituzione dei processi e
sui nomi dei processati prima che questi si esponessero al
pubblico, quando si esponevano. Un mistero circondava
ogni atto, ogni mossa, ogni parola dei giudici, mistero che
sosteneva ed assicurava l'autorità del Tribunale e sottraeva
il pubblico lalla conoscenza di qualunque notizia pro-
cessuale.
Tutti aveano interesse di serbare quel segreto: dagli in-
quisitori agli imputati, dai più alti ministri ai più bassi.
Nei colpiti stessi dal Tribunale, non era solo il timore
di gravi pene, o di nuovi tormenti, non solo la paura dello
inasprimento del regime, ma la convinzione, radicata in
tutti, che anche i semplici penitenti fossero di disonore a
sé ed ai loro congiunti. E ciò non solo perchè peniten-
ziati, ma anche per la pena avuta, per la offesa a Dio,
alla fede, sia per superstizioni, sia per pratiche antiche di-
sdicevoli alla religione, sia, e peggio, per proposizioni
ereticali.
Nel Tribunale il silenzio prendeva forma di mutismo,
dove l'apparente circospezione nascondeva la finzione, e la
finzione la ipocrisia.
In quella sua selva teologico-tomistica che è la Rosa
virginea, il Bertini consacrava una intiera (( contempla-
zione » « all'immancabile segreto custodito con legge invio-
lata nella sacrosanta Inquisizione », e levava un inno di
gloria ad esso (2),
(i) Sacro Arsenale, nn. CVI, CXXXVII. pp. 377, 384.
(2) Bertini, op. cit., contemplatio I, punctus VII.
122
TORTURA - SEGRETO
Più oltre, esponendo con la più fine sottigliezza un pro-
cesso non ben definibile se di eresia o di apostasia (6 di-
cembre 1660), e sviscerandone i più minuti ed anche insi-
gnificanti particolari, taceva il reo, <( cuius nomen cogno-
menque est indignum luce; et utinam ipsum nescire et
videre licuisset! » (i).
Qui il silenzio toglie ragione dalla indegnità; ma in mol-
ti casi proclamavasi prudenza; grande virtù, invero, della
quale i ministri menavano vanto a proposito di atti pubblici
e di atti generali di fede, nei quali non facevano compa-
rire certe persone, al cui casato la presentazione sa-
rebbe riuscita di disdoro. Per questo il S. Uffizio, in se-
greto, alla presenza di poche, dotte e religiose persone,
replicatamente nell'anno « esponeva dei rei; e nella solen-
nità del 13 marzo 1569, nella Cattedrale di Catania, tra 67
di questi, 15 per giusti riflessi (testimone lo inquisitore
Franchina) sul catafalco non furon fatti comparire » (2).
Guai se non fosse stato così! Il silenzio ed il segreto,
l'anima di quella istituzione! Dai nomi degli imputati si
sarebbe passato alla propalazione delle denunzie, alle ope-
razioni dei giudici e forse alla luce dei delatori: cose tutte
di estrema compromissione per molti!
Solo una volta si ebbe a deplorare poca osservanza in
ordine così delicato; ma l'Inquisitore Supremo di Madrid
fu sollecito a richiamarne all'Inquisitore Generale di Si-
cilia (26 febbraio 1607), deplorando la leggerezza onde le
cose che si facevano intimamente nello Steri si risapessero
fuori, e minacciando la scomunica dei colpevoli.
(i) Bektini, op. cit.. De Apostasia, quaestio XII, art. i, con-
templatio II.
(2) Franchina, op. cit., cap. X, p. 50.
123
SANT'UFFIZIO
Anche prima (6 maggio 1600), quest'ultimo Inquisitore
(D. Luigi Paramo) avea lamentato l'accidia dei familia
titolati e dei baroni, e steso un velo pietoso sulla compre
messa riputazione del Tribunale a cagione di certi delit
innominabili di essi (i).
L'ordinamento interno era fatto a posta per favorire"
la segreta disciplina. Il portiere avea stretto obbligo di
chiudere l'entrata principale a due ore di notte (cioè dopo
l'avemmaria) essendosi assicurato della chiusura delle car-
ceri segrete e pubbliche, del salone, e di tutti i locali del
palazzo; di non aprire a nessuno, altro che ad ufficiali od
a persone ben viste e ben conosciute del Tribunale, dopo
essersene accertato dal finestrino presso la entrata e chie-
sto il permesso ad alcuno dei signori Inquisitori (2).
Gl'impiegati non potevano ricevere mai da nessuno re-
gali, pur dividendo in varie mansioni della città il tempo
concesso dal breve orario (6 ore, in due volte, in un
giorno) (3).
Inquisitori e ministri dovevano astenersi dai negozi, da-
gli affari commerciali e dal depositare danaro in pubbli-
co (4); sempre serbano il più stretto segreto. Ma se non
potevano ricever nulla... se dovevano conservar la appa-
renza di tenersi estranei e negozi commerciali e bancari,
si creavano delle entrate e pingui sotto l'egida del santo
Tribunale. Noi li rivedremo nel cap. Vili.
(i) Documenti appartenenti al Tribunale, ecc., voi. I, sub
anno 1607 e 1600.
(2) Documento La Mantia figli.
(3) Documenti appartenenti, ecc., n. I, pp. lo-ii e p. i.
(4) Ms. Qq H 63.
124
TORTURA - SEGRETO
Rivenendo agli interrogatori ed ai tormenti, dirò che
la natura delle domande era tale l'una più insidiosa dell'al-
tra e, in caso di stregherie, così sottili nelle distinzioni, così
difficili a comprendersi e così capziose nello irretire la per-
sona inquisita, che solo un ingegno superiore, nella massi-
ma lucidità di mente, poteva vederci chiaro.
Capziose, ripeto, ed anche astruse. Abbiamo in pro-
posito nella Bibhoteca Comunale di Palermo (i) un do
cumento di capitale importanza; ed è un formulario di
domande da farsi per ciascuna imputazione, composto con
elementi presi da stampe e da manoscritti. Eccone il ti-
tolo: « Modo di procedere nel Tribunale del S. Uffizio,
coir addizione di Paolo Garsia Segretario del Consiglio e
di Monsignor Vidania, Inquisitore dello stesso Tribunale ».
(D. Diego Vincenzo Vidania fu capo della Inquisizione in
Sicilia nel 1686, regnando il debole, malsano e superstizioso
Carlo II). Gli errori vi sono passati a rassegna con rigore
anatomico.
Cito un esempio.
Il cap. VII riguarda le accuse di divinazione, ed i
delitti, disposti per ordine alfabetico, sommano a novanta
daìV Aeromanzia alla Tigeunia, nome di crimini derivati
da Gitanos, zingari, che non isf uggivano mai ai sinodi dio-
cesani.
Ebbene: una donnicciuloa qualunque, imputata, p. es.,
di malìe, un uomo accusato di negromanzia, era interrogato
alla stregua di quell'arsenale.
Ciò doveva produrre effetti lacrimevoli oltre che sba-
lordimento, perdita di ragione. Molti dei sottoposti a siffatte
(i) Ms. Qq H 63.
125
SANT'UFFIZIO
prove cadevano in frenesia, e sì abbandonavano ad eccessi
non di rado terribili. E qui un circolo vizioso: perdendo il
bene dell'intelletto, imprecando e bestemmiando, alcuni,
già catturati come blasfemi, o come eretici, venivano con-
fermati tali dal fatto stesso delle imprecazioni e bestem-
mie e, perchè bestemmiatori, in commercio col diavolo.
I medici, chiamati a giudicare del loro stato fisico e
psichico, <( non osavano manifestare che la confusione d'in-
cessanti questioni per dogmi, lo spavento, i tormenti, il
fanatismo, l'ignoranza producesse un vizio di mente, che
doveva spesso impedire la condanna d'illusi, fantsistici, igno-
ranti e quasi mentecatti » (i).
Ultimo memorando esempio, il processo della Margherita
Cordovana di Caltanissetta, vulgo Suor Gertrude; la quale
ostinata a dirsi più pura della Vergine ed innocente per-
seguitata dagli inquisitori, ammessa a penitenza nella
Camera del S. Uffìzio (i6 febbraio 1703), usciva in escan-
descenze inaudite; ed, esaminata psichiatricamente, veniva
dai periti riconosciuta con giuramento in piena salute » (2).
Al far dei conti poi era teoria clinica, che i pazzi si
dovessero tenere incatenati e curare col Mastro Giorgio,
cioè col nerbo (3).
Del restò, i dolori la vincevano sopra la più olimpia
serenità di spirito, e la più vigorosa tempra d'uomo; e <^
tormenti » dice un adagio sncfliano, « fanno confe
(1) La Mantia, op. cit., p. 35.
(2) MoNGiTORE, L'atto pubblico di fede solennemente cele
orato nella città di Palermo, a' 6 aprile 1724 dal Tribunale del
S. Officio di Sicilia. In Palermo MDCCXXIV.
(3) Mastro Giorgio...
126
TORTURA - SEGRETO
quello che non si sa». La sentenza di Epicuro: « Il do-
lore attuale determina la volontà » non fu mai tanto vera
quanto in questi casi. Onde ha pieno chiarimento l'avver-
tenza della seconda cella: Innocens noli culpari, a chi,
sottoposto a suggestivi interrogatori, ne usciva reo confesso,
mentre era innocente, o talvolta reo di una menzogna
forzata.
.Terrorizzati dei trentacinque arsi vivi nel feroce auto-
a reclamare contro il Tribunale; ed il Parlamento espri-
dare di Palermo (1513), i Siciliani cominciarono poco dopo
meva (15 14) in questi termini la indegnazione pubblica
contro i tormenti stati applicati a molti di essi per farli
confessare, e contro le confessioni, per sottrarsi a tanti
strazi, di delitti di fede da loro non commessi :
« Perchè l'officio di la Sancta Inquisitioni in quisto Re-
gno, tanto in lo modo di li carceri come in lo resto di lo
procediri, si procedi cum plui riguri di quillo che è statuto
di la ligi canonica, et di lo stilo di l'altri magistrati di lo
dicto Regno; di modo che ha secuto, che essendo per lo In-
quisituri passato condennati alcuni a morti, in lo thalamo,
in la presentia di lo Inquisituri et soi officiali, undi era
quasi lo populo tucto congregato, alcuni si hanno disdicto
et revocato, dicendo ha viri confessato o per timuri di tor-
menti, o per altri causi, et su stati morti cum grandissimi
signi di devotioni et di boni christiani, per fina a l'ultimo di
loro vita, sempre revocando loro confessioni, et dicendo
che pigliavano la morti in supplicio di altri loro peccati;
di manera che in lo Regno è restato alcuno rizelo et im-
pressione, che alcuni di quisti siano stati morti injusta-
menti; per quisto lo dicto Regno suppUca vostra Majestà
vogha ordinari, che l'Inquisituri in quisto Regno digiano
127
SANT'UFFIZIO
servali lo ordini in la carceri, et in lo resto di lo procediri,
secundu ordina et statuixi la ligi canonica, et non altri-
menti » (i).
Ecatombe più spaventevole non fu mai più veduta in
Sicilia. Di sanguinari come Melchiorre Cervera pochi ne
nacquero sulla terra; gli inquisitori venuti dopo di lui si
contentarono di poche unità; e quando rifuggirono dal
rogo, nel gidizio delle proposizioni incriminate e discusse
concludevano condannando l'interrogato all'abiurazione de
formali, o de levi, o anche de vehementi, coli 'aiuto del
sambenito. al carcere perpetuo o temporaneo, o.alle ga-
lere di S. M. senza soldo, o allo esilio.
Nella terza dele nostre celle, sulla tunica rossa di una
santa, con sottilissimo corpo acuto in caratteri parte visi-
bili, parte no, con supina rassegnazione incideva:
[Galera] ?
Desterru 16
Libertà
Carcere
Morti
Vna di chisti
non ni pò man-
cari.
Conferma delle sorti riserbate ai prigionieri, cioè il re-
mo, l'esilio (desiierro, spagn.), la liberazione, il carcere, la
morte: rassegnazione che stringe l'anima più che la di-
sperazione imprecante di chi tradotto senza aspettarselo
in quei tetri luoghi, s'era visto rapito alla famiglia, sotto-
(i) Capitula Regni Siciliae, capp. impetrati dal Viceré Ugo
Moncada a Ferdinando II, cap. CI, t. I, p. 582.
128
TORTURA - SEGRETO
posto a segreto processo senza poter ribattere le tene-
brose ed interessate deposizioni.
Non v'era condizione peggiore di quella d'un cattu-
rato. Tutto doveva esso sopportare; da nessuno sperare
salute. Privato di ogni mezzo di difesa che potesse met-
tere in luce la sua innocenza, e per la condanna divenuto
scandalo del suo casato, aggravio del suo nome e della sua
coscienza, non aveva modo di ottenere giustizia, sempre
a lui denegata. Invano il Parlamento del 1520 chiese pei
condannati facoltà di ricorrere ad un ecclesiastico costi-
tuito in dignità; e con voto della Gr. Corte! Le sentenze
del sacro Tribunale erano intangibili, e solo il Papa po-
teva annullarle (i).
Tanta efferatezza di pene è addirittura orrorosa, ma
non nuova nella storia del tempo. Riportiamoci "al passato
e ce ne daremo ragione. La giustizia criminale ordinaria
nor adoperava mezzi inquisitori e punitivi diversi da
quelli del S. Uffìzio. Non occorrono larghe conoscenze del-
l'antica legislazione siciliana (poiché qui si parla della Si-
cilia) per vedere i metodi allora usati a fine di strappare
una confessione, che poi dovea condurre alla pena ade-
guata al delitto presunto o comm.esso, ma estorta coi tor-
menti.
La tortura trascinava a confessioni di delitti non sem-
pre commessi.
I « Discarichi di coscienza » dello Archivio della Com-
pagnia dei Bianchi, il cui istituto era di esortare a ben
morire i condannati al supplizio estremo, sono sanguinosi
docuihenti di questo fatto. Su settantatrè di essi, dal 1567
(i) Capitula Regni Siciliae. etc, t. II, cap. CXX, p. 90.
129
9 - G. PURÈ - Sant'Ufflilo.
SANT'UFFIZIO
al 1785, non uno ve ne fu che non confermi questa verità;
e quello del 14 febbraio 1650, di un certo Matranga, ha
circostanze terribili.
(( Andrea Matranga essendo nelle tormenti della tor-
tura, havendo sopportato da mezz'bora del succaro et un
tratto di corda, doppo qual tratto sceso vivo a terra e
toccatala con piedi, e cadutoli li braccia, havendoseli da
questa positura di corpo raffreddato tutte le membra, in-
terrogato che dicesse la verità, rispose non haver che dire;
per la qual risposta, ordinando la Giustizia che lo tiras-
sero di novo, cominciarono a tirarlo, et essendo alto dì
terra circa doi canni, per haverseli rinovato li tormenti
con maggiori dolori, quali non potendo più soffrire, si fece
scendere per voler confessare tutto; e di propria bocca con-
fessò haver ammazzato di propria mano, non con una sco-
pettata, D. Vincenzo Brancato; ed interrogandolo di novo
la Giustizia che dicesse chi fosse stato che havesse fatto
far tal'homicidio, rispose: per timore di non esser di
novo tirato ^lla tortura, e per non soffrir tormenti mag-
giori )) ecc. (i).
Per non ismarrirci nel labirinto delle opere in propo-
sito, basterà ricordare la Pratica di Zenobio Russo, pub-
blicata due volte negli ultimi dei secolo XVIII, che fu una,
specie di prontuario per i giudici fiscali (2).
Vigevano, dapprima rincruditi dalle Costituzioni sv€
ve, poi mitigati dalle aragonesi, i metodi del diritto re
(i) Discarico n. 20, Registro 25 dello Archivio della Com-|
pagnia Bianchi in Palermo.
(2) Pratica per la formazione de' processi criminali. Nuc
va edizione corretta in più luoghi e migliorata coli' aggiunta deU
le istruzioni criminali. In Palermo, stampe Pelicella.
130
TORTURA - SEGRETO
mano; ma allo arresto non si procedeva senza il man-
dato del giudice o del procuratore fiscale, tranne nel caso
di flagranza...
« Iniziato il processo, si chiamavano i testimoni e si
citava il reo per vederli giurare pria delle deposizioni. I
testimoni prestavano giuramento e talvolta doppio, per
inimicizia e per verità: le deposizioni si scrivevano in pre-
senza del magistrato senza suggestioni e in lingua vol-
gare, à per la difesa, e sì per laccusa, e doveansi firmare
o segnare di una croce. I rei potevano proporre le loro
eccezioni, ma non udirne le deposizioni »,
Le deposizioni dei rei ratitìcavansi col tormento della
fune. Questi dovevano giurare di aver detto la verità e
sottoponevansi alla corda se non volessero rispondere. La
tortura, come pratica giudiziale, faceasi innanzi il giudice,
il fiscale, l'attuario che scriveva, ed il medico; e veniva
ordinata dal magistrato; e, se le prove eran gravi, acre.
Dopo confessato nei tormenti, dovea il reo ratificare fuori
di essi le confessioni; se non voleva essere ritormentato.
Pei reati gravissimi procedevasi palatinamenti ed ex
ahrupto (i).
Un esempio di questa procedura mi viene sott'occhio
mentre scrivo, ed è nella facoltà che il Presidente del
Regno dava il io giugno 1657, regnante Filippo II, al
Conte d'Isnello di procedere, proprio ex ahrupto, contro i
(i) La Mantia, Storia della legislazione civile e criminale
di Sicilia, V. II, parte I, pp. 216-22. Palermo, Virzi, 1874.
Con rapida sintesi ne die contezza un giureconsulto del se-
colo XVIII, lo sventurato F. P. Di Blasi. nella Raccolta di Opu-
scoli di autori siciliani, v. Ili, Palermo, 1790.
131
SANT'UFFIZIO
suoi vassalli delinquenti, in forma larga e senza restrizione,
cominciando dalla fustigazione, proseguendo con la (( con-
cia vatione di mano, perforatione di lingua, obtruncatione
di orecchie », e finendo ai tratti di corda in pubblico ed
alla condanna in galera (i).
(( Quando aprivasi il processo, davasi notizia dei testi-
moni al reo, perchè facesse le ultime eccezioni o difese».
Giova peraltro notare che in Sicilia furono sempre fatte in
pubblica udienza le difese degli avvocati, e alle prove del
processo scritto ed in presenza dell'accusato (2).
Siffatta condizione favorevole ai rei circa i testimoni
veniva, come esempio da imitarsi, invocata dagli impu-
tati di eresia sotto il ferreo giogo del S. Uffizio. Che cosa
domandano in fondo essi se non di conoscere i testi-
moni di accusa, acciò potessero essi difendersi? E delle
loro domande si fece interprete il Parlamento del 1520 (3),
non ostante che giurisperiti, come Cujaceo, vedessero nella
rivelazione dei testimoni pericoli di vendette e di vita (4).
Grandi giuristi combattevano la tortura; ma giuristi
egualmente grandi la proclamavano necessaria; e l'avvo-
cato catanese Vincenzo Malerba, sosteneva: «la cattura,
la prigionia, le strettezze del carcere, i ceppi e le catene
essere rimedi legittimamente stabiliti, che per necessità pre-
cedono la prova compiuta del delitto. Sarà talvolta, di-
ceva, un innocente colui il quale fu sottoposto alla tortura.
(i) Grisanti, Folklore di Isnello, v. II, cap. Ili, Pai., 1909.
(2) La Mantia, Storia cit., p. 223.
(3) Capitula Regni Siciliae, cap. a Carlo II, t. II, CCCXII,
p. 174.
(4) GujACEo, lib. 22, cap. 25.
133
TORTURA - SEGRETO
Che perciò? I dolori che ha sofferto dovranno allora ri-
guardarsi come ingiurie, non già del magistrato, ma della
fortuna avversa... La tortura non è una pena che s'infligge,
ma un certo criterio per iscoprire il delitto che merita la
pena » (i).
E dopo queste ed altre simili disinvolte affermazioni
veniva alla seguente conclusione, che è una derisione cru-
dele: (( L'inconveniente di soggettare alla pena un inno-
cente che nel tormento si confessa reo, non dee attribuirsi
alla ingiustizia e barbarie della tortura, ma ad una colpe-
vole debolezza ed alla mancanza di uno sforzo virtuoso.
La pazienza è un dovere, e dovere indispensabile. L'in-
nocente condannato al tormento dee accettare con rasse-
gnazione e sofferire con tolleranza tutti i patimenti come un
servo, il qual piega le spalle sotto la sferza che lo percuote,
facendosi de' suoi propri mali un mezzo per acquistarsi un
bene » (2).
Solo un grande scettico, dal cuore chiuso ad ogni senso
di pietà, potrebbe ragionare in, siffatta guisa!
Quando Ferdinando III di Borbone piegò ad una certa
mitezza verso gl'imputati, non seppe sbarazzarsi del triste
fardello di tormenti che anche adesso, ricordandoli, fanno
rizzare i capelli (3).
(i) Malerra, Ragionamento sopra la tortura, pp. 31, 38,
57. In Palermo, Rapetti, MDCCLXXVII.
(2) Malerba, op. cit., p. 109.
(3) Istruzioni per l'Amministrazione della Giustizia nelle oc-
correnze delle cause e materie criminali; in Russo, Pratica, cit..
pp. 259-306.
133
SANT'UFFIZIO
La tradizione, che disgraziatamente in questo argo-
mento è storia, paria del cavalletto, delle zeppe (scardi)
sotto le unghie, del conio, della morsa, del lardo bollente
ai piedi, del braciere sotto di essi unti di grasso, dell'im-
buto e di altri strumenti e mezzi ordinari di tortura penale.
Erano essi in uso nel S. U. di Sicilia? Nessuno può affer-
marlo, nessuno negarlo. Certo, per quante ricerche io ab-
bia fatto, non son riuscito a sorprendere una sola volta,
come purtroppo ricorrono nella storia della criminalogia
siciliana.
Questo nefando corredo di mezzi, caso mai, costitui-
rebbe una notevole differenza di istruzione, come oggi si
lirebbe, dei processi nel Tribunale ordinario e nel Tribu-
nale della fede.
Ma ve n'era un'altra differenza a favore degli impu-
tati del Tribunale comune. Per le conseguenze letali della
tortura poteva bene ricorrersi all'autorità competente; e
nel secolo XVI esiste un parere medico per un imputato
affetto da cicatrice deformante perito in seguito a cinque
tratti di corda (i); ma nel foro inquisitoriale non v'era
ricofso, perchè esso non doveva dar conto a nessuno del
suo operato. I medici ai suoi servigi giudicavano sempre
o quasi conformemente alle intenzioni ed alle vedute de-
gl'Inquisitori; e si sa che nessuno dei poveri dementi,
delle povere isteriche fu mai dichiarato tale, anche quando
le prove fossero palmari.
Il segreto intomo ai testimoni d'accusa metteva in
(i) Ingrassia, Methodus danài rationes prò mutilatis tot-
quendis ecc. Ms. inedito della Bibl. Cora, di Palermo, segn. 1578.
TORTURA - SEGRETO
grado d'inferiorità immensurabile e privo d'argomenti di
difese l'imputato nel S. U. il rogo coronava questa; e
quando il condannato non dava segni di resipiscenza, ve-
niva senz'altro bruciato vivo.
E che diremo delle pene del sambenito, che rendevano
odioso e vitando il penitenziato? ed il povero notaio Da-
miano (cap. Vili) ne seppe qualche cosa. Che della con-
fìsca di tutti i beni della famiglia? Che della interdizione
dei figli dei condannati alla muratura, alla morte?
135
Capitolo Vili
LO SPETTACOLO
QUILLA la tromba, e tutto il popolo, preav-
visato dai tamburi, vien chiamato allo
Spettacolo. Preceduto dal vessillo della
Santa Inquisizione splendente della bel-
lezza delle stelle e del sole, esce dal Pa-
lazzo del Santo Uffizio il festivo corteo. Il popolo esulta,
suonano le trombe. La fama di tanto trionfo nel trofeo del-
la fede insigne, con liete acclamazioni condotto e celebra-
to, vola per le bocche e le orecchie di tutti, così che nes-
suno, di qualunque condizione, sa trattenersi dal parteci-
pare a tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri celebrano
i cantori la Santa Croce. Somma è la devozione con la
quale si guarda la sacra milizia dei familiari del S. U.;
chiamati da tutto il Regno o da alcune città, là quale se-
gue la Croce con le nostre insegne dei Predicatori; la cro-
ce nera e bianca in petto. Mentre si alternano tra loro i
cori degli angeli. Qualificatori e Consultori, divisi per di-
gnità e meriti, in gran cavalcata compongono una schiera
I3b
LO SPETTACOLO
ordinalissima e splendidissima, coronata dall'Ordinario coi
Segretari.
(( Con fasto degno di loro vengono questi Signori ma-
gnificamente, su cavalli bardati, con borchie preziosissime
e selle di seta.
(( Ecco il sommo, l'ottimo, il massimo Inquisitore e
Giudice, in cui si accentra ogni potestà del Cielo e della
terra e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo
giudica la causa di Dio. Oh come così decorati procedono
festanti i giudici della Fede, belli nelle stole, grandeggianti
nella loro forza! Nella lor toga vermiglia e nelle eccellenti
spoglie dei nemici della Fede, danno alla Chiesa un ful-
gore splendidissimo.
« In tanta gloria giungono al luogo ove, illuminato di
celestiale bellezza, sorge il trono. Quivi, accompagnati dai
loro ministri, con maestà, grazia, severità si assidono (i)-
Alla loro vista paventano sopraffatti da pensieri i rei.
(( Però se i nemici della fede coi loro perversi dommi
si edificano il tetro carcere, si edificano pure la regione
della caligine e, come vilissimi servi, si preparano la con-
danna alle infernali triremi.
(( Ora se tutto questo si compiesse in segreto, non si
vedrebbe T iniquo ed orribile volto di siffatti rei, perchè
esso era celato dalla maschera (galea) e perciò gl'Inquisi-
tori prendon le armi, sguainano la spada contro questi
(i) Sulla tribuna dello spettacolo, il posto più alto, eccelso,
era quello degli Inquisitori; il capitano ed i giudici, a destra; il
Senato a sinistra, un palmo più basso di loro: e nelle carte del-
l'archivio della città sono notate le spese che questa faceva per
lo steccato in onze 4, pari a L. 51. Vedi Nuove Effemeridi Sici-
liane, III serie, voi. XI, 1881 : Spettacolo dell'inquisiti del 1640.
SANT'UFFIZIO
nemici di Cristo, troncano loro teste e smascherate le pre-
sentano al pubblico, affinchè siano a tutti visibili questi
spettri orribilissimi, specie di furie infernali.
« E' d'uso che qualcuno, sempre dell'Ordine dei Pre-
dicatori, bandisca i misteri della fede e flagelli con la
parola i crimini dei rei, A destare terrore in essi e in al-
trettali empii, dopo il sermone dei nostri padri, a ragion
di biasimo si leggono i processi istruiti dal S. Ufficio contro
i delinquenti, e le cose già prima scritte in segreto si ma-
nifestano in pubblico.
« Letti gli atti di ciascun reo, i reconciliandi si am-
mettono al perdono ed alla penitenza. Ginocchioni innanzi
gli Inquistori, ricevono accesa la candela che han portata
spenta. Quindi, secondo la natura dei delitti, si fa l'abiu-
ra e si percuotono lievemente con la verga: potestà giudi-
ziaria, questa, che gl'Inquisitori esercitano sui loro soldati;
e siano, per siffatta percussione, ammoniti i rei di non
più ricadere nei delitti trascorsi. Finalmente per l'asper-
sione dell'acqua santa vengono cacciati i demoni, alla sug-
gestione dei quali essi soggiacquero.
(( Vuoi tu vedere i maledetti darmati al fuoco etemo?
Eccoli, gl'impenitenti che rifiutano la misericordia di Dio.
Ostinati fino alla morte, vogliono soggiacere all'impero del
diavolo. Costoro, coperti d'una tetra, fetida ed orribile
veste (i), serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono
tradotti allo spettacolo. Qualificatori ed altri religiosi di
gran nome e scienza si affaticano a vincerne l'empietà, fin-
ché, terminata la lettura del processo, questi empi ven-
gono consegnati al braccio secolare per essere ridotti in
cenere.
(i) Era una veste impeciata.
13»
LO SPETTACOLO
« Tra i carboni che bruciano le cataste di legna, le
cruenti fiamme dell'accesa fornace ed i crepitanti fuochi
perseverano impavidi per la salute delle loro anime i sacri
padri, e con parole, esempi ed orazioni anelano alla loro
conversione; né li lasciano finché non abbiano essi esalato
l'ultimo respiro. Che se si convertono, fatta la confessione
sacramentale e ricevuta l'assoluzione, vengono strangolati e
poi bruciati; e se impenitenti, senz'altro inceneriti tra le
stridenti fiamme» (i).
Parecchie settimane prima della celebrazione dello spet-
tacolo, esso veniva con una stampa annunziato nei soliti
luoghi della Capitale e delle città e terre di Sicilia, gridato
dal Banditore del Senato di Palermo (2) in toga di vel-
(i) Bertxni, op. cit.. t. I, pp. 54-57.
(2) Ecco la formola del bando:
« Di ordine e comandamento del Tribunale del S. Officio sri
fa intendere a tutti i fedeli Cristiani di questa Città di Palermo,
come il giorno tre del corrente mese di Aprile, si celebrerà Atto
pubblico di Fede nella Real Chiesa di San Domenico, dove tutti
quelli che si ritroveranno presenti guadagneranno l'Indulgenze
concesse dalli sommi Pontefici. E si comanda, sotto pena di sco-
munica maggiore, che dalli 14 ore in poi di detto giorno, non si
possa predicare, né celebrare messa in nessuna chiesa. Monastero
né convento di questa predetta città.
« Palermo nel Tribunale del S. Officio a' primo d'apriic
1737. D. Ignazio Garaio Secr. ».
E siccome questo bando non si credeva sufficiente, si dira-
mava il seguente avviso:
« S'intima d'ordine del Tribunale della SS. Inquisizione a tutti
li Rev. Parrochi, Superiori de' Monasteri, Regolari di questa
Città, che dovendosi celebrare Atto pubblico di Fede partico-
lare nella Chiesa di S. Domenico dovessero terminare le messe ed
altre funzioni delle loro chiese per l'ore 14 secondo si ha costu-
139
SANT'UfTIZlO
luto cremisino su cavallo con gualdrappa trapuntata ad
oro e con l'accompagnamento dei contestabili a cavallo con
sopravvesti di damasco, e predicato in alcune chiese. Il
bando inquisitoriale minacciava la scomunica maggiore a
tutti i parroci, Rettori e superiori che nelle loro chiese si
fossero permesso di predicare o di celebrar messa cantata
prima della messa del S. Ufficio.
Né solo il Banditore, ma c'entrava anche il Senato,
d'ordine del quale il banditore faceva le grida. Da quale
legge risultasse questo intervento non sappiamo (i). Forse
la innata cortesia del Magistrato del Comune avea male
abituati i Signori Inquisitori; sì che essi avevano preso
come dovere quello che era gentilezza ed ospitalità.
Infatti non v'era solennità o spettacolo inquisitoriale
al quale questo non pigliasse parte; e l'uso entrò nel calen-
dario pretoriano e da questo nel Cerimoniale del Senato.
Non sarà inopportuno a questo proposito avvertire che
quando giungeva un nuovo inquisitore nella capitale, il
Senato recavasi in corpo a visitarlo, e poi nella restitu-
mato in simili funzioni. D. Pietro Orbistando Secr. ». Ms. Qq H
64 della Bibl. Comunale di Palermo. Vedi pure negli Atti, Bandi
e Provviste del Senato di Palermo, nell'Arch. Com., il voi. del-
l'a. 1526-27, indiz. XV, f. 7, un avviso deli'Ing. Agostino Ca-
margo in data del sett. 1526.
(i) Il Ceremoniale dell'Ill.mo Senato Palermitano formato
da D. Bald. di D. Bernardino Bologna, Maestro di Ceremonie
del medesimo Senato, proscriveva che « ne gli publici spettacoli,
che soglion fare gl'Inquisitori della S. F. in alcune delle piazze
di questa città de i prosequti per la S. Fede Catholica, volendo
quegli che il Senato (come ha costumato) vada à fare compa-
gnia in quella giornata, deveranno mandare alcuni giorni prima
ad invitarlo.. ». Cap LXVII.
140
LO SPETTACOLO
zione della visita andavagli incontro fino a mezza sala
del palazzo.
Nella pubblicazione dell'editto di quaresima, ricevu-
tone ufficialmente lo avviso, Pretore e Giurati andavano a
rilevare nel Palazzo del S. U. l'Inquisitore o gl'Inquisitori
e cavalcando con essi, seguiti dai loro ministri, si avvia-
vano alla Cattedrale, donde, senza scender da cavallo,
lasciatili, si partivano ad accompagnare nel suo palazzo
come, a lettura finita, gl'Inquisitori nel loro. A buoni
conti il Senato rappresentava il padron di casa, e nelle
solennità di fede, quelli erano l'autorità propria e la mag-
giore. Per questa medesima ragione nel caso di pubblico
spettacolo. Senato e Giurati, udita nella propria cappella
la messa, si recavano al Palazzo del S. U. e, ricevuti a
pie dello scalone, dagli Inquisitori, con essi cavalcavano
verso il luogo dello spettacolo medesimo (i).
Lo spettacolo si celebrava ora in uno, ora in un altro
posto; e, quando doveva finire col fuoco, in una grande
piazza. Le chiese della Magione, di Santa Cita, di San
Francesco d'Assisi, di San Domenico, e sopra tutte le
Cattedrale echeggiano ancora delle invettive dei predicatori
agli accusati e delle monotone voci, mortalmente noiose, dei
leggitori dei processi (2); e le piazze della Marina, della
(i) Ceremoniale dell'Ill.mo Senato palerminato . formato da
D. Baldassare di Bernardino Bologna, maestro di Ceremonie
del Medesimo Senato et uno de' Senatori in quest'anno. 9» eindiii-
cazione, 1610 e 1611, capp. XV e LXVII. Palermo, 1895 e 1899.
(2) Altra chiesa, ora non più esistente, nella quale il Tri-
bunale compieva atti di fede incruenti, era quella di S. Niccolò
la Kalsa. Documenti inediti ne notano del dicembre 1661, del
23 luglio e del 12 ottobre del 1662. Ms. Qq H 62 della Bibl. Co-
munale di Palermo.
141
SANT'UFFIZIO
Loggia, della Bocceria, dei Bologni, della Ferrovia (i), del-
lo Spasimo (2) e di Sant'Erasmo degli urli sprigionantisi
di mezzo alle fiamme.
Uscivano dal palazzo del Santo Uffizio ad uno ad uno;
ma prima di varcare la soglia fatale e di comparire in
faccia al pubblico ricevevano, ciascuno per sé, uno o due
fratelli della Congregazione della Pescagione, persone di
sp>ecchiata condotta che, a titolo di distinzione e di
carità, dovevano, durante la funzione tutta, accompagnarli
e confortarli. Andavano nel lungo stuolo, dopo le fraterie,
le parrocchie, la comitiva dell' Alcade delle segrete, tutta
di cavalieri del Tribunale e prima dei dignitari di esso; ed
erano maschi frammisti a femine, primi i rei di lievi de-
litti, ultimi i rei di delitti gravi, gravissimi.
Strabocchevole la folla degli spettatori, attratti più che
dalla intenzione di fare opera meritoria, dalla etema cu-
riosità morbosa che spinge ad accorrere ad una berlina co-
me ad una féerie teatrale, ad uno spettacolo raccapric-
ciante come ad un'allegra cuccagna. E ci si divertiva tanto
(i) Una lettera del Pretore e dei giurati di Palermo a Fer-
dinando il Cattolico, in data del 27 giugno 151 1, parla del
plano nantj di li ferrarj, che oggi corrisponderebbe presso la im-
boccatura della via Calderari, in via Macqueda.
(2) Questi due luoghi come teatri di Atti di fede vengono
fuori soltanto ora per via di documenti inediti. A proposito del-
lo Spasimo, una lettera di Ferdinando, del 4 giugno 1513, di-
ceva al Pretore ed ai Giurati di Palermo che « non si faccino
più roghi di eretici e di sodomiti innanzi il monastero di S. Ma-
ria di Montoliveto » (Lo Spasimo). [Atti, Bandi e Provviste dal-
l'Archivio Com. di Palermo; a. 1513-14, indizione II, p. 303
retro). Donde viene in luce una autodafé nuovo per la storia, ed
interessante per la sua data.
142
LO SPETTACOLO
tanto, sopratutto quando la processione finiva col brucia-
mento di vivi.
Cronisti e storici del tempo rilevarono con vivo com-
piacimento la pubblica soddisfazione per siffatti spettacoli:
e per quello del 1573, celebrato nella piazza dei Bologni
(allora detta . . . .) presenti il Viceré, i Ministri, il Senato e
la grande nobiltà, nel quale « la prima volta uscì la
croce verde portata da un primario nobile collocata sopra
un altare adorno di verde, con baldacchino verde sopra»;
e si bruciarono in istatua otto condannati, e due in per-
sona; la cosa, racconta il Franchina, ebbe '( lo applauso
pel Tribunale » (i).
Il Mongitore, che è pure uno dei più chiari e benemeriti
della storia letteraria ed ecclesiastica di Sicilia, chiudeva la
sua descrizione del solennissimo autodafé di fra Romualdo
e suor Gertrude annunziando: « Così terminò l'ultima scena
di questa rappresentazione lieta insieme e lacrime-
vole » (2).
Siccome poi un autodafé generale non poteva sbrigarsi
in poche ore, si provvedeva con antecedenza a conforti
dello stomaco degli intervenuti.
Il pubblico grosso portava da casa sua o comperava sul
luogo quanto credesse necessario.
Per pagar... il solito tributo
Al famelico ventre ed importuno;
ma la haute, sia ecclesiastica, sia secolare, doveva pensarci
prima: e ci pensava. Eppure mentre nell'ultima incisione
(i) Franchina, of>. cit., cap. X, p 3».
(2) Mongitore, op. cit., p. loi.
SANT'UFFIZIO
dello Atto pubblico di fede del Mongitore, celebrato nella
pianura di Sant'Erasmo in Palermo, in giro allo steccato
dei due che si contorcono tra le fiamme si vedono popolani
e popolane banchettare all'aperto, e venditori di pane, di
vino, di dolci e di varie ragioni di comestibili spacciare
merci e leccornie, nel testo dell'opera si parla di pranzi che
durante la lettura dei processi, nel largo della Cattedrale,
davano nelle stanze dietro i palchi delle loro corti, gl'In-
quisitori, il Capitano Giustiziere, il Senato, ecc. E non
soltanto alle loro corti, ma anche alle dame inviate dalla
Capitanessa e dalla Pretoressa; pranzi splendidi e succulenti.
La minuta di queste scorpacciate non la sappiamo, ma
dobbiamo immaginarla degna degl'illustri spettatori; e dob-
biamo credere che la table à thè venisse presa d'assalto.
In occasioni come quelle non si lesinava sulle spese, che
salivano a cifre veramente enormi, tutto dovendo andare
con grandiosità. Fuori Sicilia in Cordova, p. e., il dì 29
giugno 1665, nella celebrazione di un atto pubblico di fede
simile a quello del 1724 in Palermo col bruciamento di due
uomini e di una donna, furono non già mangiati ma di-
vorati da ventiquattro persone del Capitolo, da altre del
clero, dagl'Inquisitori e da certi loro affezionati (incredi-
bile, ma vero!), quattro vitelH, otto prosciutti, trenta libbre
di Cctstrato, ventiquattro midolli, un canestro di agriotte,
un cestone di mele, cento ottantasei polli e duecento quattro
pani con l'aggiunta di quindici chili di biscotti, quindici
di cannelloni e di cannelle e settantacinque di amigotas,
senza contare dugento venticinque litri di vino e di non
so quanti altri liquori, nella composizione dei quali entrava
144
LO SPETTACOLO
cannella, zafferano e pepe: un pranzo di Assuero con fame
canina (i).
Ripigliando la esposizione, dirò che la processione si fer-
mava nel luogo designato per la lettura dei processi. I pa-
drini non lasciavano un istante i tristi loro affidati, come i
confortatori i rei più gravi. Quivi prendevan tutti posto
sopra un palco, i cui gradini dall'alto al basso rappresenta-
vano la degradazione dei delitti, dalle maggiori eresie dei
recidivi e degli ostinati alle lievi trasgressioni dei pre-
cetti della chiesa di ignoranti o di illusi. Tetraggine e terrore
spirava il pallio dello altare ed ogni altro apparato della ce-
rimonia. Ad uno ad uno, chiamati per nome, cognome e
delitti, scendevano dal palco ed eran condotti in mezzo dello '
spazio libero : ragione non sai più se di orrore o di compas-
sone. E protestavano di esser pentiti e giuravano sul Van-
gelo di non più ricadere nei passati errori e recitavano la
forma dell'abiura dettata loro dallo stanco leggitore dei sin-
goli processi, e seguita dalla indicazione della pena alla
quale erano condannati.
Questa, pei rilasciati, era la morte: ultima ratio pro-
nunziata, non già dagli Inquisitori, ma « dai giudici seco-
lari, i quali presenti nel palco, senza conoscere altro me-
rito di causa che la pura e semplice relassazione al loro
braccio da parte del S. Uffìzio, pronunciavano la sentenza
di consegna alle fiamme o ad altro genere di pena ordinaria,
di morte secondo le qualità de' delitti e disposizione
del reo » (2).
(i) R. Ramirez de Arellano, La Inquisicion en Cordoba;
Noticias curiosas para illustrar su historia, in Boletin de la R.
Academia de la Historia, t. XXXVIII, p. 170, Madrid, 1901
(2) Franchina, op. cit., cap. X, p. 51.
10 - G. PITRÈ • SanfUHlrlo.
SANT'UFFIZIO
Per grazia particolare, i pentiti, confessati ed assoluti,
venivano, come abbiam sentito dal Bertini, strozzati prima
che bruciati; gl'impenitenti, bruciati vivi. Ed allora era di
rito la « dispersione delle ceneri del bruciato vivo al vento o
a mare, perchè di tanto vitupero non restasse traccia, men-
tre poi agli occhi dei figli, dei congiunti, dei discendenti
e del popolo tutto, nella chiesa di San Domenico, ad una
delle navate, s'attaccavano gli abiti bruciati, con la tabella
o manteta (i) contenente il nome, il cognome, la paternità,
la patria e la specifica del delitto: pubblicità che solo una
violenta rivolta dei Palermitani potè far cessare {2).
Come non tutti i rei né tutti gl'imputati cadono nel laccio
della Giustizia ordinaria, così non tutti gli eretici o sospetti
di eresia venivano arrestati. Allora si fabbricava loro il pro-
(i) Era, la manteta spagnuola adottata anche in Sicilia,
un pezzo di tela oblunga, sulla parte inferiore della quale si scri-
veva il nome, la qualità, lo stato ed il delitto del condannato e
l'anno della sentenza.
(2) « Era costume d'appendere nella chiesa di S. Domenico
alle muraglie gli abiti degli eretici già dichiarati per pubblica sen-
tenza della S. Inquisizione, acciò si tenesse avanti gli occhi sem-
pre viva la dannata memoria dei nemici di Santa Fede con la
tabella de' loro nomi.
« La plebe, insolentita ed instigata da alcuni nobili malcon-
tenti, tumulto in siffata maniera che, concorrendo a furia nella
chiesa sudetta di S. Domenico, stracciò le vesti appese da
moltissimi anni lacerandole in minutissimi stracci. Fu d'uopo
sedar quell'alterazione del popolo, il quale richiese per soddisfa-
zione che non mai più s'appendessero quegli abiti co' nomi e
cognomi degli eretici sulle muraglie di S. Domenico o altrove
nel Regno. Ed essendo accordata la sua richiesta, si sedò con
pieno decoro dell'Inquisizione ». Franchina, op. cit., cap. XI,
p. 66.
146
LO SPETTACOLO
cesso in contumacia, chiuso con la condanna al rogo in effi-
ge, o in istatua.
Di codesti spettacoli, carnevaleschi quando nel medesi-
mo giorno non se ne avea per vivi ed in persona, se ne con-
tano cento ottanove nei tre secoli. Si dipingevano su carta le
figure dei rei assenti o morti o fuggiti o irreperibili, e
con tutto l'apparato del supplizio vero, si conducevano al
luogo del rogo e si consegnavano alle fiamme, senza che un
solo particolare della cerimonia venisse omesso.
Che se il reo era morto e se ne riusciva a scoprire la
sepoltura, se ne esumavano le ossa, le quali chiuse in una
cassa, preceduta dalla sua presunta effige, previe le funzioni
della lettura del processo, e della consegna ai giudici secola-
ri e della sentenza, si davano in mano al boia, che sapeva
bene il da fare.
Guai al pietoso che avesse osato seppellire il cadavere
d'un eretico! Egli rimaneva issofatto scomunicato; né poteva
essere assoluto finché non lo avesse disseppellito (i).
Giacché per l'eretico o pel sospetto d'eresia non v'era
pietà. Nella istruzione del processo e nel dibattimento, se
tale possiamo chiamarlo, s'intende sempre segreto, tutto
era ammesso fuori che la difesa. A chi avesse conosciuto un
occulto eretico, si faceva stretto obbligo di denunziarlo, re-
stando occulto il nome del denunziatore e non obbligatoria
la prova della denunzia. Nulli i testimoni a favore; ammesso
a provare il delitto il figlio contro il padre, il padre contro il
figho, la moglie contro il marito, il marito contro la moglie,
il servo contro il padrone, il padrone contro il servo (2).
(i) Sacro Arsenale, n. CCLXVI, p. 416.
(2) Lo stesso, nn. CXXXVII, CCLXIX, pp. 384, 400-401,
417-
SANT'UFFIZIO
Con SÌ tenebrosa procedura è facile immaginare quali
vendette si potessero esercitare e con quale impunità lasciar
correre. Mogli stanche dei loro mariti, mariti desiderosi di
libertà, insofferenti tutti del vincolo matrimoniale, avevano
per tal modo agio di bearsi in illeciti amplessi. Solo gli eredi
rimanevano in mezzo ai guai, sorgenti dalla confìsca dei be-
ni loro spettanti.
L'avvocato che difendeva un reo che egli in coscienza
sapesse eretico, era infame e punibile.
Dal semplice penitenziato al rilasciato, una la messa in
iscena, triplice la rappresentazione: un sacco chiamato sam-
benito, sacco benedetto nei primi due, e viceversa poteva
dirsi maledetto nel condannato a morte e si chiamava origi-
nariamente zimarra. Il sambenito per la sua forma ha ri-
scontro nel così detto abito degli ascritti alle attuali confra-
ternite; ed era volgarmente chiamato abituilo. Se non che,
quello dei penitenti diremo così di primo grado, portava so-
pra un fondo giallo disegnate in nero due sbarre traversal-
mente oblique in forma di croce di Sant'Andrea; quello di
secondo grado, ossia del riconciliato che aveva riconosciuto
i suoi errori di eresia ed aveva abiurato, delle fiamme
capovolte ed una mitra in capo con le medesime fiamme,
quasi per significare che per la penitenza si era liberato dal
rogo che avea meritato; e quello di terzo grado, fiamme e
diavoli in atto di arroncigliare il reo ed una testa sopra una
catasta di legne accese. I primi due nel momnto di uscire
allo spettacolo portavano per ignominia una corda di gine-
stra al collo, un rosario ed una mano, una torcia di cera ver-
de spenta alllatra, torcia che veniva restituita accesa dal-
l'Inquisitore dopo il perdono. Prima e dopo della condanna
il riconciliato passava per ogni maniera di torme-nti. Non si
148
LO SPETTACOLO
era sicuri della sua conversione, e lo si sottoponeva a prove
terribili. Il qualificatore e consultatore Bertini fa la lunga
storia d'un accusato che il 6 dicembre 1660 subì l'epilogo
dei suoi errori rimanendo « represso, confutato, esinanito ».
Chiamato alla secreta udienza, confermò le cose dette, pro-
nunziate scritte per molti giorni, negando l'errore della
mente e dichiarando aver tutto detto per odio a Dio. Vive
discussioni si accesero tra i giudici, se egli fosse un apostata
o un eretico, e che cosa dovesse farsi d'un uomo che negava
l'errore di mente e bestemmiava. In tanta perplessità, cer-
cano convertirlo. Lunghe le insistenze; finalmente egli vede
il suo fallo e con immensi dolori e pianti dice essere stato
mosso da scelleratissimo odio verso Dio, proprio per errore
di mente e chiede perdono e pietà. Gli Inquisitori si com-
muovono e gl'infliggono la più mite delle pene: uscire al
pubblico spettacolo con le insegne di eretico formale; duran-
te la lettura del processo terrebbe la mano destra confitta
con un ferro ad un legno.
<( Premessa l'abiura de formali, riconciliato veniva pu-
nito con duecento bastonate, perpetua irremissibile reclusione
e altre penitenze salutari finché tra quattro mura, stanco
solo seduto, apprendesse in silenzio la via della verità, e
nella meditazione dei suoi delitti bruciasse del fuoco della
compunzione piangendo le sue scelleratezze » (i).
Il caso è unico nella storia del S. Uffizio in Sicilia,
V'era una specie di codice ed una procedura di Spagna e la
applicazione dell'uno e dell'altra rimaneva inalterata.
In casi meno gravi, per semplici sospetti di vacillamen-
to di fede, il riconciliato, dopo la pubblica abiurazione dei
(i) Bertini, op. cit., pp. 516-49.
149
SANT'UFFIZIO
suoi errori, veniva ricondotto nelle prigioni per espiare la
pena della condanna (i).
Pena pel sospetto d'eresia e già pentito era il carcere
chiuso, dove egli, secondo la formula della sentenza, vitam
in fletu et lacrymis peracturus, ad arbitrio del giudice, do-
nec per nos (dicevano gl'Inquisitori) aliter sit diffinitum.
Pene minori dovevano sostenere i processati e pentiti
per poligamia, sortilegio, superstizioni e, peggio ancora, per
esercizio sacerdotale senza esser sacerdote. Nel 1724 essi
venivano condotti per le principali strade della città alla
frusta sopra vili giumenti e alcuni « con vergognosa mitra
sul capo »; altri alle sferzate, altri al remo, tutti al carcere
e tutti all'esilio (2).
Qualunque fosse la condanna non poteva mai Ìl condan-
nato durante il tempo designato, smettere Vabitello; amara
testimonianza dei suoi trascorsi; come non poteva smetterlo
il penitenziato semplice (3).
E doveva essere un ben triste distintivo, capace di ren-
dere repellente chi lo poriiava se un notaio riconciliato e pe-
nitente, non trovando modo di guadagnarsi da vivere, sup-
plicava gl'Inquisitori che glielo volessero commutare. Dice-
va lo sventurato :
« Rev. Signori Inquisitori. Il poviro notar lacobo Da-
miano, reconciliato per lo S. Officio della Inquisizione, fa
intendere a li S. V. R. qudmenti per multi modi et expe-
dienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di poti-
risi alimentari se non di retornarsi in sua terra di Racalmu-
to undi cum lo aiutu et subsidio de li soi parenti si porria
(i) Franchina, op. cit.. cap. X, pp. 49-53-
(2) MONGITORE, Atti, p. 103.
(3) La Mantia, op. cit., p. 35.
150
LO SPETTACOLO
substintari et finiri li pochi jorni di sua vita stanti la sua
vichiza e infirmitati. Et perchè tanto esso comò dicti soi
parenti sono stati et sono persone di honore, talché vedendo
ad esso esponenti cum lo dicto abito {sambenito), a nullo
modo lo recogliriano anzi lo cacciriano et lo lassiriano
andari morendo de fame et de necessità. Pertanto si butta
a li piedi delli S. V. R., siano serviti farli gratia di commu-
tare il ditto habito in altra penitentia et pena pecuniaria per
la redemptione delli christiani captivi che stanno in terra di
Mori, che esso supplicanti recoglirà de li soi parenti quelli
dinari possibili per ditto effetto, altramenti è facili moririsi
di fami et essiri abbandonatu da tutti » (i).
Dopo la cacciata del Viceré Conte Ugo Moncada molti
penitenziati tolsero via l'abitello: ed il sig. Inquisitore su-
premo D. Alonso in certe sue istruzioni agl'Inquisitori di
Sicilia se ne doleva, e sollecitava a provvedere.
Non occorreva, peraltro, una rivolta pubblica perché i
reconciliati nascondessero per le città e terre di loro dimora
il pauroso emblema (2). Esso era un marchio d'infamia.
Inoltre i condannati, sia alla galera, sia ad altre pene
corporali, coglievano qualunque occasione per sottrarvisi;
e rinpuisitore Manrique che lo seppe, raccomandava in pro-
posito le maggiori diligenze e gli opportuni provvedimenti
(1525) (3)-
Che meraviglia se questo essi facevano, quando, scontate
le pene, gl'Inquisitori le prolungavano a loro arbntio e ma-
gari per semplice dimenticanza? Di che non pochi ricorsi di
(i) La Mantia, op. cit., pp. 56-57, n. 4.
(2) Lea, op. cit., p. 423.
(3) Lea, op. cit., p. ^n>
151
SANT'UFFIZIO
condannati alle galere, i quali, avendo già compito il tempo
di loro pena, chiedevano la libertà (i).
Ogni anno e più volte in un anno, in pubblico e in
privato, a San Domenico e allo Steri, il S. Uffizio celebrava
Atti di fede esponendo sul palco eretici o sospetti,
A siffatto spettacolo passava quando avea un numero
sufficiente di rei da esporre. L'atto pubblico serviva per
esempio e correzione di tutti; il privato per esempio ed edi-
ficazione dei pochi timorati e religiosi che avevano l'onore
di esservi ammessi; in ciò prevalevano ragioni di riguardi
verso le famiglie e verso i rei medesimi.
Il Franchina, che scriveva nel 1744, quando il Tribunale
della Fede precipitava in fiacca decrepitezza, dà ragione dei
frequenti spettacoli col gran numero di cause da doversi spe-
dire e quindi con la numerosità dei rei.
Questa notizia ci fa deplorare ancora più la perdita delle
carte di quell'archivio. I mille e più rei che noi conosciamo
di nome nei pubblici spettacoli, sono soltanto quelli che ci
avanzano in manoscritti e stampe, riferiti a lunghi intervalli
d'anni nelle svariate relazioni. Eppure più volte l'anno,
come si è detto, centinaia di rei, specialmente nel gran salo-
ne dello Steri, ora sede della Corte d'Appello venivano con
affettato pudore esposti, e non si facevano « per giusti rifles-
si comparire » .
Fin dai suoi primordi la Inquisizione doveva celebrare
quattro Atti di fede l'anno; epperò la cifra, non già dei ri-
lasciati al braccio secolare, rei di gravi eresie pertinaci, ma
dei condannati a pene diverse, doveva giungere a dozzi-
ne di migliaia.
(i) Ms. Qq F 39.
152
LO SPETTACOLO
Lo spettacolo era la espressione appariscente della po-
testà del S. Uffizio, l'atto più ardito in cui esso affermavasi.
Perciò dovrebbe occupare aire pagine che lo ritraggano nei
suoi particolari. Ma ciò uscirebbe dai limiti di questo stu-
dio, che vuol essere una illustrazione delle tre celle sco-
perte.
Tuttavia non posso defraudare il lettore d'una notizia
abbastanza curiosa per la storia del S. Uffizio in Sicilia. E'
una lettera di Piero Venier veneziano, fratello di Pellegrino,
alle sue sorelle a Venezia in data dell'S giugno 1511, con la
quale, forse a corto di novità, descrive a vivi ma efficaci
colori un autodafé stato perpetrato due giorni innanzi in
Palermo nel Piano della Marina, innanzi al Palazzo Chiaro-
monte. Oltre sedici donne e sette uomini tutti condannati
de levi e quindi a varie penitenze in vita, apparvero e fu-
rono bruciati dopo che strangolati, perchè giudaizzanti, sei
uomini e tre donne, due delle quali madre e figlia, ed un
decimo, già morto, in immagine « con el suo nome, de modo
e un carlevar, vestido di tutti habiti e maschara ».
Questo documento ha il pregio della sincera testimo-^
nianza della minutezza dei particolari del tutto nuovi e della
antichità; giacché coloro che non tengon conto dello spet-
tacolo del 1487, non possono non ammetter questo del
1511, quasi come primo della serie lacrimosa.
Ed ora vengo a qualche notizia intomo ad una delle
ragioni più frequenti di spettacoli: la bestemmia.
Se questa era atroce, il bestemmiatore di ceto pebleo si
conduceva allo spettacolo con una mitra sul capo, la lingua
legata e senza mantello, mentre si veniva fustigando e poi si
mandava a vogare sulle galere. Il bestemmiatore di ceto no-
bile, senza mitra, si chiudeva in un convento; donde dopo
un certo tempo si lasciava uscire pagando una multa.
153
SANT'UFFIZIO
Questa diversità di trattamento per un medesimo reato
bisogna metterla in relazione ai tempi. Una era la puni-
zione del plebeo, un'altra la punizione del nobile, pure es-
sendo davanti alle leggi d'allora egualmenti colpevoli. La
stessa morte era differente nell'uno e nell'altro; perchè
dove il plebeo veniva strangolato, il civile ed il nobile
andava decapitato. La forca era infamante; ed un signore
non poteva scendere tanto in basso. I nobili, peraltro, raie
volte andavano penitenziati, rarissime volte rilasciati al
braccio secolare.
Per lievissime bestemmie ereticali gl'Inquisitori ricor-
revano ad espedienti diversi. Non potendo tenere occupate
le carceri, mandavano in esilio i blasfemi, o ne facevano re-
galo ai conventi; o, quando questo non avevano modo di
fare, condannavano il reo a stare in un giorno di dome-
nica durante la celebrazione della messa cantata innanzi
una chiesa senza entrare, col capo scoperto, i piedi nudi,
una fune pendente dal collo ed una candela accesa in mano:
forma, questa, la più mite pei penitenziati semplici. Finita
la messa, leggevano la sentenza con la indicazione dei
digiuni inflitti, i rosari da recitare e la pena pecunaria da
soddisfare, dato che il reo lo potesse (i).
Questa pena cdl'acqua di rose ma non priva d'ignominia
avea delle varietà, come quella, p. es., che limitava ad una
sola domenica lo accesso del blasfemo alla porta della chiesa
principale del paese, col divieto di entrarvi, e sempre a capo
e piedi nudi, e con la torcia in mano; ma non lo ripetevano
e prolungavano per un dato tempo con l'aggiunta dell' abi-
tello a croci trasversali.
E' vero poi che tutti gli imputati venivano condotti,
(i) Bertini, op. cit. Myst; IV, p. 492.
LO SPETTACOLO
giudicati e condannati a Palermo; ma qualche volta, e non
di rado, arrestati in una delle principali città dell'Isola era-
no quivi stesso giudicati e condannati. Nelle carte d'archivio
di esse non sarà difficile trovarne ricordo, se non altro per le
spese che la città medesima era obbligata a fare per il pub-
blico spettacolo. Un cronista catanese del Cinquecento, p.
s., racconta d'una visita fatta nell'inverno del 1568 dall'In-
quisitore di Palermo e d'un pubblico Atto di fede che vol-
le tenervi, nel quale molti processati ebbero la pena della
frusta e della galera, e se la sarebbero presa se i Giurati
della città non si fossero interposti a loro favore fino ad
ottenere, fatto più unico che raro!, la grazia (i).
La pena della lingua ha anche riscontro nella storia reli-
giosa di Sicilia. Re Alfonso, in una prammatica del 1433,
condannava i bestemmiatori alla perforazione della lingua
con un aguglione (saccurafa) ed alla condotta alla berlina
pei luoghi nei quali avevano bestemmiato (2).
Le Costituzioni sinodali di Monreale del 1544, aggiunge-
vano la fustigazione (3), e quelle di Mazzara del 1575, oltre
(i) Cronaca siciliana del secolo XVI. pp. 225-26.
Il testo di questo spettacolo si leggerà in appendice al pre-
sente volume.
(2) Quanti bestemmiano, rinnegano, disprezzano la potenza
di Dio ecc. « se per aventura tali sarannu homini di baxa con-
dicioni, statu populari et villani, chi li sia misa una saccurafa
immenzu la lingua chi li passa di parti in parti, et girirà per
tutti li principali lochi et plazi di la terra undi havirannu com-
misu lu delictu ». Diego Orlando, Un Codice di Leggi e Diplomi
siciliani del Medio Evo, p. 160. Palermo, 1857.
(3) Constitutiones synodales Metropolitanae ecclesiae civi
tatis regalis, tit. XXV, e. 7. In Civitate Montis regahs. an. D.ni
1554-
155
SANT'UFFIZIO
le solite pene minacciate dai sacri canoni (i), la lingua
tenuta fuori delle labbra (2).
E però, quando le mamme e le nonne del nostro popolo
sentono dire una mala parola al loro béimbino o sentono che
egli giuri una bugia, mettono subito fuori uno spillo o un
ago minacciando di volergli pungere la lingua; quando
dicono che verrà il prete e gli taglierà la lingua {veni lu
parrinu e ti tagghia la lingua), esse non fanno se non un
richiamo ad un'antica prammatica od ai vecchi sino-
di (3).
Ad un certo periodo del S. Uffìzio l'autorità civile s'in-
tendeva con esso per la punizione dei bestemmiatori laici,
mentre la ecclesiastica, la più mite tra tutte agiva per conto
suo, e bandiva nei sinodi diocesani pene di carcere per conto
proprio (4). Se non si pensasse ai molti e differenti fori
d'allora, ci sarebbe da confondersi in tante giurisdizioni den-
tro e spesso sopra della giurisdizionvì generale dello Stato.
Verso la metà del Settecento il Vecerè ammetteva che, salvo
i casi di bestemmie senza colore di eretica pravità, potesse
contro i rei procedere nel Regno tanto il Capitano di Giusti-
zia, quanto il commissario del Tribunale della fede. Si trat-
tava allora di foro misto: forse piìi pericoloso per le pene
che ne derivavano al maledico.
Una delle pene, la più comune, era quella del collare:
(i) Nell'antica legge poi c'era la morte pel bestemmiatore.
Nel Levitico... si legge: Qui blasphemaverit nomen Domini, mor-
te morietur, lapidibus opprimet eum otnnis tnuUitudo populi.
(2) Constitutiones et Decreta condita in piena Synodo DiO'
cesano etc. Cap. II, XXXVIII. Panhormi, 1575.
(3) PiTRÈ, Usi e Costumi, v. II, pp. 411-12. Palermo, 1889.
(4) Constitutiones sinodales...
156
LO SPETTACOLO
arnese di Terrò che si apriva e chiudeva con apposito conge-
gno in tutto e per tutto simile a quello dei cani. In luoghi
determinati della città e dei piccoli comuni ne pendeva
sempre uno, che formava la ignominia di chi vi fosse coii-
darmato. La privativa di siffatto arnese era del S. U.;
ed una volta che nel 1696 il Vicario foraneo di Mineo a
nome del Vescovi di Siracusa ne fece piantare uno innan-
zi la sua casa, il Commissario del S. U., leso nella sua
giurisdizione, ne fec^ formale ricorso all'Inquisitore a Pa-
lermo; il quale, visto e considerato, anche per testimonian-
za di vecchi mineoti, esser quella un abuso, intimò al Vi-
cario di ritirarlo (i).
Nel 1749 il Viceré de Laviefuille scriveva al S. Uffìzio in
Palermo avere ordinato al Capitano di Giustizia di Sira-
cusa di riporne subito nei consueti luoghi (2).
In qualche terra della Contea di Modica questa berlina
fissa era un tormento vero e proprio. Chi se l'era meri-
tata, nudo il corpo fino alla cintola, veniva unto di miele,
legato al collo ed esposto alle mosche od ai monelli che
si divertivano ad ingiuriarlo. Due versi d'un canto popo-
lare di quella contrada ricordano ancora la vituperevole
usanza, durata, come punizione parroccale, sino ai primi
dell'Ottocento. I versi dicono così:
'Nfami, 'ca fusti misu a lu cuddaru, 16
Manciata di li muschi ppi tri uri (3 ) .
(i) Ms. Qq F 239 della Biblioteca Com. di Palermo.
(2) 24 giugno 1749. Documenti appartenenti al Tribunale
del S. Officio di Sicilia, voi. I Ms. Qq H 62 della Bibl. Cora, di
Palermo.
(3) S. A. GuASTELLA. Canti pop. del Circondario di Mo-
dica, p. LXI, Modica, 1876. I versi si traducono: Infame { =
SANT'UFFIZIO
Ora, poiché la bestemmia, stolta e bestiale offesa alla
Divinità, era frequente anche in tempi di estremo rigore
religioso, così al S. Offizio non restava se non tenere, ap-
punto per questo, frequenti spettacoli. Per le ereticali nel-
l'abiurazione de levi, esso conduceva i rei con la mordac-
chia (strumento col quale serravan la bocca ai condannati
perchè non parlassero), poi alla pubblica vergogna e da
ultimo mandava all'esilio; per le non ereticali, infliggeva
pene più leggiere.
Come sempre, esigeva la denunzia e scatenava daper-
tutto i suoi segugi; ed i bestemmiatori, più sciocchi che
malvagi, facea prendere e trascinare alla Steri. Figurarsi il
terrore loro! Tremavano verga verga, piangevano implo-
rando pietà e misericordia. Molto duramente li trattavano gli
Inquisitori, ma poi, non potendo fare altro, li rimettevano
ai confessori in S. Domenico (i) : provvedimento, questo,
per altro genere di delitti non gravi, applicato a rei pei
quali le carceri ordinarie della penitenza non bastavano.
E sì che il Tribunale, oltre i conventi per gli uomini (2)
e qualche monastero per le donne di non modesta leva-
tura (3), oltre le carceri della penitenza, teneva a pigione
case private, nelle quali chiudeva, e per un dato periodo
di anni o di mesi istruiva nella religione, i colpevoli; men-
tre per le donne del basso volgo metteva a profìtto gli
spedali. Suor Francesca Spitaleri da Bronte, allucinata a
svergognato!) il quale vanisti al collare, punzecchiato per tre
ore dalle mosche.
(i) Bertini, op. cit., pp. 494-95-
(2) Ms. Qq F. 239 della Bibl. Com. di Palermo.
(3) Vedi nel Ms. Qq F 239 cit., gli Atti pubblici di Fede
degli anni 1625, n. 9; del 1628, nn. 13-16.
158
LO SPETTACOLO
tal punto da credersi, secondo il processo letto nel pub-
blico spettacolo del 12 dicembre 1621, (( gran serva di Dio,
col quale parlava » ; da stare 25 giorni senza mangiare e
da mangiare solo quando G. C. le disse: surge et comede;
da affermare esser dovere del Papa l'abitare in Palermo,
venne <( risterrata », condannata a sette anni di reclusione
servendo in uno spedale. Filippa la Calabria da Mon-
reale come superstiziosa, nel maggio del 1624, dopo cento
colpi di frusta andò reclusa per quattro anni in un noso-
comio. Nel 1626 Filippa Rizzo da Piazza, nel 1628 An-
tonella la Ferlizza da Giuliana, Francesca la Grigenta da
Noto, Aldonza de la Candia da Buscemi e Suora Caterina
Calandrino da Alcamo, all'Ospedale grande e nuovo di
Palermo
15'^
Capitolo IX
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
RIMA di procedere innanzi mi si consen-
ta qualche osservazione corroborata da
fatti circa i privilegi e le preminenze del
sacro Tribunale in Sicilia.
Instancabile nel pretendere, esigeva
franchigie che erano offese ai diritti comuni. Il petulante
Bernal volle ma non ebbe, né altronde poteva averle, lar-
ghe esenzioni di gabelle della R. Corte e della Città, non
mai state concesse a nessuno (i) (1619). L'Inquisitore
Calvate, Tristano di nome e di opere, ne chiedeva per sé
o per cinquanta persone del suo foro. Ottenevale e, non
pago, tornava a chiedere; e per dieci altri le scroccava (2).
Era lo scasciatu applicato su larga scala a suo uso e con-
sumo.
(1) Vedi Appendice.
(2) Archivio Comunale di Palermo. Atti, Bandi e Provviste^
a. 1519-20. Ind. Vili, f. 89.
160
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
Anche per generi voluttuari reclamavano quelle fran-
chigie; e quando il Senato per amor di tranquillità cercava
di sapere il numero dei foristi, questo si ingrossava a sca-
pito del pubblico erario (i).
I giurati portavano a denti stretti tante pretese, fino
a quella di un quarto di giovenco e di due castrati setti-
manali con la priorità del servizio su tutta la cittadinanza
al privilegiato Tribunale (1530) (2); quando però le pretese
assumevano carattere di imposizione, negavano e se ne ri-
chiamavano con ambasciate al Viceré PignatelU. Ma il
S. Uffizio non ammetteva discussione su quello che cre-
deva nel suo sacro diritto; e lanciava la censura sugli stan-
chi giurati. Quale fosse stata la sentenza del Viceré non ap-
pare, ma può indovinarsi da un atto notarile della pri-
mavera del 1530 tra i Giurati e gl'Inquisitori; col quale
non a tutti ma ad alcuni Ministri venivano concesse le
chieste franchigie; ed allora l'Inquisitore capo delegava il
Superiore dei frati di S. Francesco d'Assisi dei Chiovari
a togliere la zelante censura (3).
Da cosa nasceva cosa, ed il S. O. la governava. Una
beccheria veniva conceduta ad esso dapprima nel Ca-
stello, poi nell'atrio dello Steri. In forza d'un contratto,
un tale si obbligava a macellare un giovenco il giorno per
servizio dei Signori Officiali (4).
La concessione era del Comune, che però premunendosi
da possibili frodi, metteva come condizione che il giovenco
(i) Ms. Qq H 62.
(2) Arch. Com. di Pai. Atti ecc., a. 1531-31. f- 73-
(3) Archivio Comunale di Palermo. Atti, Bandi e Provviste,
a. 1829-30. Ind. Ili, ff. 219-20.
(4) Atto presso Not. Lorenzo-Trabona, 18 agosto 1616. Ms.
Qq F 89.
161
U — G. PITRÈ • Sont'UHlilo
SANT'UFFIZIO
doveva entrare da Porta Macqueda (( dalla quale entrano
tutti gli altri giovenchi, con la presenza del giurato priato, a
fine di riconoscersi » (i).
Non v'è dubbio che i Signori S. U. si trattavano da
gran signori: perchè le carni non facevano per loro. Una
multa di due onze (L. 25,50) da essi imposta ad un ma-
cellaio fu causa di una nuova rottura col Senato; il quale,
mal comportando questa loro indebita ingerenza, invitato
alla lettura dell'annuale editto di fede di quaresima, si ri-
fiutò di prender parte, come soleva, alla cavalcata. L'In-
quisitore Ludovico de los Cameros, poi vescovo di Patti
e Arcivescovo di Palermo, cercò tutti i modi di farlo inter-
venire, ma invano. Allora fece capo al Viceré S. E. Don
Giovanni Alfonso Enriquez de Caprera, Conte di Mo-
dica, ma non potè rimuovere dal suo proposito l'offeso ma-
gistrato. La cosa fu portata al Re a Madrid. In quel-
l'anno la Sicilia (fatto quasi unico) ebbe la sventura di
due Viceré e di un presidente del Regno; e quest'ultimo,
Mons. Giovanni de Torrecilla, arcivescovo di Monreale,
era stato sei anni Inquisitore. L'Arcivescovo non poteva
dimenticare l'Inquisitore e le sue pratiche alla Corte provo-
carono un rescritto che dava ad un tempo ragione e torto
al Senato: ragione perchè l'Inquisitore ne aveva usurpato i
poferi, e perciò la multa andava restituita, torto perchè la
offesa ricevuta non poteva dispensare il Senato dai do-
veri di urbanità verso il S. U. (2); teoria degna di un
Filippo II, che non riconosceva dignità nel primo magi-
strato della Capitale di Sicilia.
Chi si fermi per poco a riflettere sopra le antiche Co-
(i) Ms. Qq F 39.
(2) Ms. 99 F. 239.
162
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
stituzioni del Regno, si chiederà sorpreso come mai tutto
questo potesse accadere in Sicilia; ma la risposta non gli
verrà difficile quando si pensi alla strapotenza di quel Tri-
bunale, derivante parte da regi editti, parte da biechi cri-
teri di applicazione di essi.
Carlo V avea per due volte decretato che la giustizia
civile prestasse giuramento di aiuto, consiglio e favore ai
ministri del S. Uffizio (i). Aveva fatto insediare nel pa-
lazzo regio di Palermo i capi di questo, con piena li-
bertà di azione e di opera (2), ed aveva ordinato che i
suoi ministri dell'isola non osassero impedire a quelli l'eser-
cizio del loro ministero di visite e di perquisizioni (3).
E' bensì vero che in tempi anteriori, presuntivamente
meno civili. Federico III aveva disposto che i Giudei di
Siracusa venissero difesi e sostenuti in certi loro diritti
dalle pretenzioni degli Inquisitori (1376) e che Re Martino
e il Duca di Montblanc avevano scritto (1393) al Capitano
ed ai Giudei di Palermo che quegli non pormettesse agl'In-
quisitori della eretica pravità di molestare questi sotto spe-
ciosi pretesti. Così, fingendo di sospettare di cristiani re-
lassi, facevano jjerquisizioni e commettevano abusi in-
credibili (4). Ma nel Cinquecento quelle lettere erano ca-
dute in dimenticanza, ed un ciclone era passato sulla co-
munità israelitica dell'Isola.
(i) Granata, 15 giugno 1517; Madrid, 16 giugno 1546.
(2) Barcellona, 20 maggio 15 19.
(3) Madrid, 15 agosto 1543. Una conferma fu fatta da Fi-
lippo II in Madrid, 16 giugno 1546. Franchina, op. cit., e. XIV,
nn. 6, 8, 11, 16, 18, 19.
(4) Lagumina. Il Codice dei Giudici, n. IXX, pp. 99-100,
n. XCVII, pp. 142-43.
163
SANT'UFFIZIO
Figuriamoci quindi le esorbitanze degli Inquisitori ve-
dendosi autorizzati da tre regi decreti!...
I re di Spagna facevano quel che volevano; i Viceré
quel che potevano; gl'Inquisitori quel che volevano e quel
che non potevano né dovevano, se pur c'era cosa che essi
credessero di non potere né dovere.
Investiti fin dai tempi normanni (1098) della aposto-
lica Legazia, i Re o i loro Viceré fungevano da legati t
latere del Papa. H^
Orbene: la Inquisizione siciliana dipendeva dalla spa-
gnuola: il che la metteva alla pari dei Viceré come legati
spirituali del popolo. La osservazione sembra un para-
dosso, ma chi ne studii certi particolari, la vedrà contor-
me al vero.
Quando l'Inquisitore capo viaggiava per l'Isola, oltre
che dai familiari andava scortato da gente d'arme a piedi
ed a cavallo come un gran j>ersonaggio del Governo: sLH
parla di Viceré che avrebbero consegnato a qualche In-^P
quisitore (1546) una specie di credenziale, in virtù della
quale, percorrendo la Sicilia, lo si dovesse gratuitamente
« ricevere, onorare, provvedere » anche di posate {locan-
de) e altre cose necessarie, come se fosse il Re o il Viceré
in persona (i).
Oltre gl'Inquisitori ordinari, invalse l'uso di Inquisito-
ri delegati dal S. Offizio centrale, per missioni straordi-
narie.
Gli scopi di queste missioni rimanevano ignoti, anche
alle alte autorità civili ed ecclesiastiche della Capitale;
bastava solo che li sapesse l'Inquisitore capo. C'era della
(i) Documenti cit., a. 1543.
164
(
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
Inquisizione anche in questo, ed era espediente fondamen-
tale pel buon funzionamento della istituzione.
Il delegato viaggiava da gran signore, interrogava, u-
diva, decretava senza dar conto a nessuno, non sapendo
e, peggio, fìngendo di non sapere che per antico ordina-
mento nessun rescritto, nessuna provvisione o commis-
sione, nessuna bolla potesse riceversi nel Regno ed appli-
carsi senza approvazione del Viceré. Se l'uso, o m^lio
l'abuso, spiacesse al paese, non è a dire; tanto che i rap-
presentanti di questo, ecclesiastici, baroni e demanio, nel
generale Parlamento del 1520 chiesero al Re (Carlo V) che
qualsivoglia delegato del S. Offizio venendo in Sicilia pre-
sentasse i documenti di delega, affinchè si sapesse di quale
autorità fosse rivestito e si risparmiassero vessazioni e so-
prusi contro i Siciliani (i).
Il Re promise, ma, come di consueto, non mantenne:
e i delegati continuarono a spadroneggiare ed a vessare.
Né solo il Viceré giurava fedeltà, aiuto, favore e pro-
tezione, ma anche il Magistrato Civico della Capitale, nel
Duomo e pubblicamente.
Questo giuramento, fatto la prima volta nel 1488, sot-
to l'Inquisitore Pietro Ranzano, non bastava agli Inqui-
sitori che vennero dopo; ed il 24 dicembre del 1500 altro
essi ne vollero; e Viceré, Sacro Consiglio, Capitano Giusti-
ziere, Pretore, Giurati e popolo tutti giurarono in mano
del nuovo Inquisitore nella Cattedrale (2).
Ma anche questo doveva bastare. Undici anni dopo
giungeva in Palermo un nuovo Inquisitore, che alla igno-
ranza della storia del paese univa quella dei principii di
(i) capitula Regni SiciUae cit., t. II, cap. CXXIX, p. 98.
(2) Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.
165
SANT'UFFIZIO
buona educazione. D. Alfonso Bernal pretese un nuovo
giuramento, e come se avesse da fare con l'ultimo dei suoi
feristi inviava un birro al palazzo del Comune intimando
al Pretore che in un dato giorno si recasse in casa di lui
per giurare la difesa della Santa Inquisizione, pena la sco.
munica. Pretore e giurati arsero di sdegno a tanta inso-
lenza; ed in quella mandavano il Sindaco a far le loro
rimostranze allo screanzato, si rivolgevano al Re con una
energica lettera sostenendo a viso aperto i diritti della Città
e le prerogative del magistrato di essa e descrivendo la
inconsiderata condotta del nuovo arrivato (i). Contem-
poraneiamente scrivevano al Viceré Don Ugo Moncada
perchè volesse liberarli da tanta molestia, divenuta ormai
vessazione. Supplicavano si compiacesse toglierli (( di tali
affrunti, perchè essendo complachiuto in onmi modo di
tutti quilli così (chi) voli e su' necessari] a qaista Santa
Inquisitioni, chi bisognu è viniri ogni jomu cu novi do-
mandi, che poco importano a lo nicissario di detto Santa
Officio e donano umbra a cui concheda honuri e statu di-
gnissimo tanto quanto la virtuosissima pirsuna di Sua M.
Signoria merita » (2).
Non ne potevano più, ed ebbero resa giustizia. Il Vi-
ceré con viva rimostranza fece intendere al troppo focoso
inquisitore in quale errore egli si trovasse.
I Palermitani erano pei loro rappresentanti; e quando
nel medesimo anno si celebrò un Atto di fede, e di tre
condannati due dovevano essere consegnati per esser bru-
ciati vivi dal Capitan Giustiziere, il Barone di Giarratana
(i) Questa lettera è conservata nell'Archivio Conwinale ili
Palermo [Vedi Appendice I, 5].
(2) Franchina, op. cit., cap. XI.
166
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
non si mosse, e quindi il supplizio non ebbe luogo. Gli in-
quisitori insorsero, ma il popolo li tenne a dovere. Allora
essi si fecero ragione presso il Re che, sdegnato al paro di
loro, da Burgos non già il Capitano ma il rappresentante
della città rimproverò pel poco rispetto all'autorità inqui-
sitoriale,- e minacciò l'invio d'un reggimento per impedire
simili ribellioni (31 agosto 1512) (i).
Quando la soldatesca minaccia giungeva, il Bernal,
vittima della sua sconfinata arroganza, era stato richia-
mato.
Nonostante che passata in giudicato, sempre viva e
sempre vessatoria relativa la questione del giuramento.
Nel solo mese di ottobre del 1513 quattro lettere furono
scambiate tra i giurati ed il funzionante Viceré D. Bernardo
Bologna, Arcivescovo di Messina. Essi non volevano rin-
novare il giuramento e pregavano il presidente del Regno
che interponesse i suoi buoni uffici acciocché gl'Inquisitori
non li obbligassero a tanto. Il presidente mostrò la sua
buona intenzione, ma, se non in iscritto, deve avere rac-
comandato a voce che si rivolgessero agli Inquisitori.
Ebbene, i Giurati furono tanto buoni da rivolgersi agli
Inquisitori; ma non passarono cinque giorni che costoro
risposero al Viceré facendo le loro meraviglie e dichiaran-
dosi scontenti delle rimostranze del Senato civico (2).
Correnti così forti di antipatia a quando a quando si
manifestavano in forma pubblica ed anche solenne da par-
(i) Atti, Bandi e Provviste della città di Palermo, anno
1512-13, I* indizione, f. 234 dell' Arch. Comunale di Palermo.
(2) Atti, Bandi e Provviste, anno 1512-13, indizione 14», 19,
24, ottobre 1513, pp. 228-230, 230 verso, 234.
167
W" SANT'UFFIZIO
te dei più grandi ed autorevoli rappresentanti della Capi-
tale e del Regno.
Documenti solo ora scoperti rivelano che il 15 febbraio
del 1525 il Senato palermitano mandava ambasciatore a
Carlo V Giangiacomo di Bologna con accuse formali di
prepotenze e di abusi del S. O. impersonato nel famoso
D. Tristano Calvete, a danno di pacifici cittadini, impu-
tati di eresie da occulti nemici e da troppo scrupolosi cri-
stiani (i). Altro ne mandava il Senato di Messina al Vice-
rè Pignatelli, protestando per le inqualificabili ingerenze
e gli aperti abusi nella vita tanto religiosa quanto laica e
civile della città, e narrava il fatto di un sacerdote, vitti-
ma delle insidie e delle prepotenze del sacro Tribunale,
che accanivasi nell'accusarlo di crimine anti-religioso,
mentre le prove dicevano ben altro e, caso mai, dipendeva
dal foro ecclesiastico (2).
Al giungere di Carlo V in Palermo, vincitore a Tunisi
(1535), i tre bracci del Parlamento (e quindi anche lo ec-
clesiastico) fecero a lui voto che volesse decretare la so-
spensione dei privilegi e delle franchigie di quel Tribunale,
e vennero esauditi. Furono cinque anni di tranquillità
pel pubblico, ma di depressione morale per la istituzione,
la quale, a giudizio d'un Inquisitore, scese straordinaria-
mente in discredito e raccolse noncuranza e beffe. Il po-
polo, istigato dai nobili, ne rideva (3).
La sospensione fu prolungata; ma quando nel 1543 un
(i) Atti, Bandi e Provviste, a. 1525-26. Indiz. XIV, f. 126
nell'Archivio Com. di Palermo.
(2) Atti, Bandi e Provviste, a. 1529-30, III indiz. f. 251-52.
Archivio cit.
(3) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 63-64.
168
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
nuovo decreto fece tornare le cose allo stato primitivo, il
disprezzo si convertì in ammirazione, le beffe in laudi.
Quei nobili che si erano tanto accaniti contro la istituzio-
ne, fecero a gara nel renderle omaggio. Così ò stato sem-
pre: disprezzare chi cade, inchinarsi a chi si leva e vince.
Molti, moltissimi si ascrissero come familiari, « chi mi-
nistro, chi ufficiale di quello, accettando a grazia il par-
tecipare la croce dispensata dagli Inquisitori »,
Oh sì! i reazionari più accaniti sono sovente coloro che
furono i ribelli più audaci.
La lunga sospensione rese impotenti Arnaldo Alberti-
ni (1534-36) e Diego de Oron (1537-43), inquisitori solo di
nome; e preparò aspra la ripresa dell'esercizio del Tribu-
nale. D. Pietro Gongora (1643-46) fece pesare con nuovi
abusi sulla società del tempo la sua ingrata autorità. Era
pur sempre il Senato il suo naturale nemico, l'istituto pre-
so maggiormente di mira; e di esso cercava in tutte le
maniere di sminuire la forza ed il prestigio.
Il resto andava da sé: e quei signori esercitavano un
governo di ferro e di fuoco dentro un governo di bamba-
gia, asservito a quello. Che cosa non sì permettessero
perciò e dove non ispingessero la loro autocrazia non
sapremmo dire.
Il 4 ottobre 1569 si facevano le prove della tragedia
di Santa Caterina nella Chiesa di Casa Professa. Era in-
quisitore D. Giovanni Bezerra, il quale, come uno degli
invitati, andò. Busso, ma non fu udito, e tornò indietro
sbuffando e minacciando. Lo seppero i Gesuiti, e corsero
al Palazzo per iscusarsi e dame le ragioni; ma il Rever«i-
dissimo Inquisitore, dopo averli condannati a limga antica-
mera, non volle riceverli.
169
SANT UFFIZIO
In capo a tre giorni doveva solennemente rappresen-
tarsi la tragedia. La chiesa era gremita di spettatori: il
fiore della nobiltà e del clero d'allora; e si attendeva il
Viceré. Era lì lì per alzarsi la tela quando un messo del
Bezerra viene premurosamente intimando ai Padri la proi-
bizione dello spettacolo sotto pena di scomunica. E per-
chè? perchè la tragedia non era stata ancora approvata
dal S. Uffizio. Era la vendetta d'un malinteso, tirato alle
più dure conseguenze (i).
Questo aneddoto concorre a chiarire un equivoco stori-
co. Molti credono che i Gesuiti avessero parte allo eserci-
zio della Inquisizione; ma s'ingannano. I Gesuiti, almeno
in Sicilia, non furono mai nelle buone grazie dei rappresen-
tanti di quella. Dai documenti che ci restano risulta che
solo una volta, uno di essi, nel 1568, fu in Ca-
tania inviato a presenziare un blando atto di fede (2).
Dopo questa essi non compariscono mai, o compariscono
solo per qualche cosa in loro disfavore come nella tragedia
di Santa Catarina o come nei rimbrocci al P. Mancuso, cri-
tico spregiudicato delle anomalie mentali di Frate Ro-
mualdo.
Con le sconfinate facoltà che loro venivano o che essi
si arrogavano della giustizia primitiva, gl'Inquisitori ingal-
(i) Questo racconta il Franchina, IX, 73-75. Ma deve es-
servi un errore, o, per lo meno, una grande incertezza di data.
In vero non si sa vedere di quale tragedia di S. Caterina inten-
desse parlare; se della priniitiva del Liceo o della abbellita dal
Sirillo; la quale, dicesi, venne rappresentata a spese del Senato
di Palermo nel 1580 nella Chiesa dello Spasimo. Nel 1569 Casa
Professa non avea questo nome, e non era stata edificata così.
(2) Cronaca siciliana del sec. XVI, p. 223.
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
luzzivano con minaccie di interdizioni. Dal più umile uf-
ficiale dei Tribunali secolari al Presidente della Gran Corte,
ai membri del Parlamento, ai Deputati del Regno al Viceré
stesso, gl'Inquisitori non guidavano in faccia nessuno.
Quando c'entravano le loro prerogative, il foro ordinano
doveva andarsi a riporre, e nelle questioni dei familiari del
S. Uffizio, la loro azione era fulminea e tagliente.
Non aveva Carlo V sottratti i foristi e il S. Uffizio ai
giudici laici ordinari ed avocato alla Inquisizione le loro
cause civili e criminali (i).
Ebbene, in questa sottrazione era la prima radice di de-
litti e di impunità.
Riferiamo qualche fatto rimasto ignoto attingendo a
documenti inediti; e cominciamo con uno incredibile, ma
purtroppo vero.
(( Processo ed informazioni contro D. Giov. Taglia via
et Aragona Marchese di Terranova, Presidente del Re-
gno; D. Fr. del Bosco Lungotenente di Maestro Giustizie-
re (2) e D. Mariano Agliata Capitano nel presente a no-
me della città di Palermo, per molti eccessi commessi con-
tro li officiali e familiari del S. O. nel 1540, essendo Inqui-
sitore Sebastian...
« Circa questa competenza non potendosi accordare, se
(i) Decreto del 25 agosto 1525 da Toledo e del 1546
Franchina, cap. XIV. n. 9, 18, 21.
(2) Vincende dei tempi! Un discendente di questo Del Bo-
sco, Principe di Belvedere, fu... de S. U. nel sec. XVII: ed un
giorno che sotto l'egida del sacro Tribunale commise un delitto,
il Viceré D. Giovanni Paceno Duca di Uzeda lo mandò in
bando. Immagini il lettore il casus belli dell'Inquisitore de Tri-
xillo, uno dei cento spagnuoli che regnavano nello Steri (Vedi
Ms. Qq F. 239 della Bibl. Comunale).
171
SANT'UFFIZIO
ne scrisse dall' Inq. al Supremo Inquisitore ed al Re, e si
procrastinò sino all'a. 1543, dalli quali per lettere date in
Valladolid si determinò 1543 a 15 dicembre che al M.se di
Terranova, per degni rispetti, s'imp)onga per penitenza
che assista ad una messa bassa in qualche convento della
città, in piedi senza perucca, e con una candela in mano,
e che pagasse 50 ducati alli detti familiari per soddisfazio-
ne dell'ingiuria (i). Agli altri s'imponga pubblica p)eni-
tenza, che un giorno di Domenica assistano ad un messa
solenne, scalzi, senza perucca, con candela in mano e che
tutti paghino ciento ducati per ripartirli a' familiari.
(( L'adempimento di questa penitenza si piocrastinò si-
no a 21 gennaio 1547, fintanto che li venne ordine premu-
roso di S. M. (1546) (2t).
« D. Mariano Agliata Barone della Roccella, oUm Ca-
pitano di questa città, per molti eccessi fatti contro molti
familiari del S. U., ebbe, come si è visto, il :^uo bravo pro-
cesso.
(( Citato a comparire alJ" Inquisitori, i quali a 11 dicem-
bre 1546, usandogli misericordia, gl'imposero di sentire la
(i) Il Duca di Terranova, Presidente del Regno, mentre
D. Garzia era in Corte, col parere di tutto il Consiglio mandò
in galera un orefice insolentissimo (1543). E perchè colui era
del S. U., gl'Inquisitori dipinsero U caso talmente diverso nella
Corte che di là venne l'ordine che l'orefice fosse liberato subito;
che il Duca pagasse 200 scudi di sua borsa per gli interessi, e
di più che facesse qualche penitenza in pubblico che dagli In-
quisitori gli fosse stata imposta. Scipione Di Castro, Discorso
circa il Governo di Sicilia dato al Sig. Marc' Antonio Colonna, in
Casazza, Miscellanea, t. XXXIII, Ms. Qq F. 123 della Bi-
bliioteca Comunale di Palermo.
(2) Ms. Qq F della Biblioteca Comunale.
172
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
messa grande di domenica ventura a S. Domenico, o in
altra ben vista all'Inq., al diritto, innanzi la cancellata
dell'altare maggiore, senza berretta, con una torcia allu-
mata in mano; e finita detta messa, offerisca la detta tor-
cia al sacerdote che celebrerà; e finita, a voce alta, dichia-
rerà la causa per la quale è stato condannato alla presenza
di tutti, e che sia per sei mesi desterrato da questa città.
E fu assoluto dalla scomunica maggiore e che abbia a soddi-
sfare li danni ed interessi patiti da' familiari » (i).
Per siffatti esempi resta accertata la procedura inqui-
sitoriale contro alti personaggi che menavano la mani so-
pra qualche forista del Tribunale: l'assistenza, cioè, ad
una messa solenne o letta, in un giorno di festa, con una
candela accesa in mano e, dove il S. O. lo volesse, a pie-
di nudi e da ultimo con l'esilio o il domicilio coatto tem-
poraneo.
Il Capitano di Giustizia di Polizzi, D. Pompilio Che-
fallon ebbe in Palermo, ove fu chiamato ad audiendum
verbum, la medesima condanna (2). Consimile sentenza
venne pronunziata contro D. Carlo Tagliavia ed Aragona
già conte ed ora Principe di Castel vetrano, il quale aveva
il torto di discendere da Giovanni, notoriamente avverso
al sacro Tribunale; suo grave delitto l'aver fatto dare al-
cuni tratti di corda e mandare in galera un familiare, Ant,
Bertini, accusato di resistenza ai birri delle G. C. (1568).
D. Giovanni Bezerra non pronunziò la scomunica, ma
scrisse al Re Filippo I ed allo Inquisitore supremo, ed
il IO aprile del 1568 il supremo Inquisitore decretava che
(i) Ms. Qq F 39.
(2) 6 agosto 1562. Ms. Qq F 39.
SANT'UFFIZIO
il Presidente ( = Viceré) Principe di Castelvetrano venisse
chiamato e ripreso come si deve dell'eccesso che commise,
e che fosse condannato a pubblica penitenza « tenendo con-
to della sua persona»; che il Bertini venisse indennizzato
dal Presidente con 200 scudi, e restituito a libertà (i).
Ripreso! Né valse a lui la stima ond'era universalmen-
te circondato né l'alta dignità di Presidente due volte te-
nuta, a lui futuro grande Contestabile e grande Almirante
del Regno, Governatore dello Stato di Milano, Viceré di
Catalogna. Presidente del Consiglio d'Italia per Filippo
III, Rappresentante del Re di Spagna per la Lega coi
Cantoni Svizzeri prima; e poi e sempre, uomo singolare
per avvedutezza politica e prudenza di governo.
Le persone maggiormente esposte ai fulmini inquisito-
riali erano appunto i tutori ordinari della pubblica sicurez-
za, irrisione a quella che si chiamava Giustizia! Non po-
chi Capitani giustizieri infatti erano per ragione d'ufficio
alle prese con la necessità di mettere le mani sopra foristi
riottosi, malvagi; ed ecco il sacro Tribunale intervenire
a favor loro con le armi potenti della scomunica. Oltie
l'Agliata ed il Bosco, D. Pietro de Prado, nella qualità di
Capitano della città e, già prima, ufficiale del S. U., carcerò
un familiare di questo e vi guadagnò il carcere di Castel-
lamare (Palermo) (1571); e, peggio, D. Ludovico Spata-
fora ed il Salazar, capitani entrambi, fan catturare alcuni
agenti di quello e vengon presi e condotti anche loro nelle
carceri del sacro Tribunale! (8 maggio 1577) (2).
(i) Ms. Qq F. 39. Scipione de Castro nei suoi Avverti-
menti al Viceré Marcantonio Colonna (1577) [loc. cit.].
(2) Varietà palermitane, in M. Eff. sic., serie III, v. Vili,
p. 177, Pai. 1878.
174
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
Al carcere teneva triste e paurosa compagnia la multa
e la interdizione, pena spirituale temibile e più di qualun-
que altra corporale.
La minima offesa alla istituzione finiva con una o con
tutte queste pene. Francesco Paracontato, Dottore in Leg-
ge, in un impeto d'ira ferì in Siracusa un ufficiale, e, sco-
municato, veniva chiuso nel Castello di Maniace. Per co-
se da nulla, per aver cioè espresso opinioni non benevole
al S. U. Nicolò Romolo, era imprigionato e multato di 20
ducati d'oro (13 set.t 1538); meno esperto e fortunato di
quel tale che, dopo di aver battuti due ufficiali si metteva
in salvo in BarKeria (30 ott. 1539).
Due messinesi A. B. Basilico e N. A. Di Bartolo, sco-
municati in contumacia per aver insultato un ufficiale, at-
territi, si presentarono all'assoluzione, pagando per sopras-
soldo la pena di onze 200 (12 giugno 1543) (i).
Nelle Istruzioni del Supremo Inquisitore del 1525, testé
venute alla luce, e qui ripetutamente citate, si faceva la
dolorosa constatazione che nell'ultima visita del Cervera in
Sicilia erano state fatte resistenze ed ingiurie ai ministri ed
agli ufficiali del S. O. senza punizione dei colpevoli; e si
insisteva appunto per le necessarie pene (2). A questa
osservazione devesi la condotta irritabile, ed i facili risen-
timenti degli Inquisitori ad ogni cosa che a loro sembras-
se lesiva delle loro maestà. Può ben darsi; ma anche senza
di questo, essi si impermalivano d'ogni nonnulla e non ave-
vano bisogno di eccitamento per reagire ad ogni passo
fuori di regola o di diritto per loro.
(i) Ms. Qq F 239-
(2) Lea, op. cit., p. 522.
SANT'UFFIZIO
Ludovico Spatafora da Capitan giustiziere, per non so
che delitto, fa arrestare alcuni agenti del S. Uffizio, ed il
S. Uffizio fa arrestare lui (8 maggio 1577), capo della giu-
stizia della Capitale (i).
L'Inquisitore decreta (26 nov. 1583) la cattura d'un
certo Braccalone, cavaliere di Malta e fratello del cop-
piere del Viceré. Il Braccalone, aiutato da alcuni della via
Loggia, fugge; e quello, pieno di rabbia, monta in carrozza,
corre alla Loggia, anima, esorta il popolo a dar aiuto al
S. Uffizio per la cattura. Entrato in una bottega dov'è na-
scosto il Braccalone, lo arresta personalmente. Grande ru-
more di questo fatto, la notizia ne giunge tosto al Viceré,
che sta a udir messa nella vicina chiesa di Piedigrotta.
Egli ordina che l'Inquisitore attenda un poco, sino alla]
fine della messa, ma il S. Uffizio non dipende dal Viceré;-]
e l'Inquisitore si parte senz'altro, conducendo nella sua]
carrozza prigioniero il Braccalone. E già si avvia al Castel- j
lo a mare quando s'incontra col Viceré. S'impegna un al-
terco, presente gran folla; e poiché l'Inquisitore ribelle aliai
suprema autorità, ordina al cocchiere che sferzi verso il
Castello, il popolo ferisce alle gambe le mule, e la carroz-
za inquisitoriale non può più andare avanti. Il Viceré]
prende riluttante nella sua l'Inquisitore e il Braccalone
e li porta al Castello, ove incollerito consegna il Cavaliere
esclamando: Ecco l'eretico! e si parte» (2).
Questa narrazione vien fatta da un Inquisitore, il qua-]
le incosciente nel vantarsi della fierezza inquisitoriale non]
(i) Pollaci Nuccio. Varietà palermitane, in Nuove Effe-i
tneridi sic., serie III, v. VII, p. 177. Pai. 1878.
(2) Franchina. XI, 76-77.
176
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
vede nella ferizione delle mule l'avversione del popolo pei
l'odiato Tribunale e le simpatie per l'imputato e pel suo
alto difensore.
Questa avversione aveva esplosioni violente ogni volta
che una ventata di furore la spingesse alla riscossa ed alla
rivendica; ed una pagina di questo studio ne è docu-
mento (i).
Eran passati dieci anni dal fatto dello Spatafora, ed
altro simile ne accadeva nelle vicinanze della chiesa della
Gancia.
I signori Inquisitori interdissero il Salazaro ed altri due
che avean messo le mani sul forista del S. Uffìzio. La chie-
sa venne pure interdetta, e gli uffici divini si celebravano
a porte chiuse; e quando la interdizione fu tolta, coloro che
aveano osato arrogarsi la facoltà contro gli agenti del S. Uf-
fìzio, vennero senz'altro condotti nel carcere inquitoriale
al Castello a mare (2).
Due anni ancora ed un altro incidente prese tali propor-
zioni che la città tutta ne risentì conseguenze lacrimevo-
lissime.
Lo racconto sulla fede d'un Inquisitore del settecento,
il canonico Franchina.
II 5 aprile del 1590, fu ucciso Giuseppe Bajola, solle-
citatore fiscale della R. G. C. Ne fu imputato il Conte di
Mussomeli, familiare del S. U., e carcerato dagU Inquisi-
tori al Castello. Saputolo il Viceré Conte d'Alba, spedì il
Capitano della Guardia con soldati alabardieri a prenderlo
ed estrarlo dal Castello. Ricordiamoci che allora il S. U.
(i) Vedi Capitoli X e XI.
(2) Pollaci Nuccio, pò. cit., p. 199.
177
12 - 6. PIT&È ■ Sant'UHizlo
SANT'UFFIZIO
avea sua sede proprio a Castello a mare, dove pure avea
le carceri. Il Castellano lo fece scendere e lo consegnò al
Capitano, che lo portò via in carrozza. Venuto ciò a cono-
scenza degli Inquisitori, che erano a pranzo, scesero ad im.
pedire la uscita del loro famigliare, che, condotto fuori, ven-
ne carcerato a vita nel Palazzo reale. Scomunica del Capi-
tano, del Castellano e di tutti gli aiutatori, con minaccia di
interdetto di Palermo, se il Conte non fosse stato restituito.
Il Conte non fu restituito; ed allora, affissati i cedolon
della scomunica coi termini dei sacri canoni, il 6 fu lanciato]
l'interdetto alla città; chiuse le chiese tutte, senza celebra-
zione di messe, senza prediche, senza suoni di campane,
senza pompe funebri; solo un prete della parrocchia coli
croce disalberata, senz'asta, accompagnava i morti alla se-j
poltura Aggiungi: nessuna barca, per ordine dell' Inqui
sitore, potea uscire dal porto.
Che fare?
Fu necessario che gli arcivescovi di Palermo e di Mon
reale insieme col Pretore andassero a pregare gli Inquisì-;
tori perchè desistessero dalla risoluzione presa. Gli Inquisi
tori (era tra essi il famoso De Paramo) cedettero, ma il
Presidente Rao, l'Avvocato fiscale della G. C, ed i Pr
curatori fiscali ed il Segretario, per pubblico editto deglf
Inquisitori, non poterono entrare in chiesa e comunicarsi.
II Viceré dovette restituire (ii aprile) il Conte di Mu
someli, e la bufera cessò (i).
Fu detto che i delinquenti ed i nobili che avevano qual-
che conto con la giustizia ordinaria, andavano ad iscriversi]
(i) Franchina, XI, pp. 79-80.
178
I
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
a quel Tribunale, e ne godettero il foro e col foro la proie-
zione piena ed illimitata ed estesa anche alle mogli (i).
Di questa bruttura dava ragione al futuro Viceré M. A.
Colonna il citato De Castro:
« Nel Regno di Sicilia », egli scriveva, «è stato introdot-
to da molti anni il procedere contro ogni corte di rei cri-
minali con quel modo che prima s'usava co' soli grandi e
famosi delinquenti, ed essi chiamano procedere ex-abrupto,
cioè il tormentare il reo per il processo informativo prima
che se gli dia la copia degl'indizi, cosa sommamente abor-
I rita nel Tribunale del S. O. Si cerca in Sicilia d'entrare nel
i numero di quelli (cioè dei familiari del S. O.) con desiderio
I incredibile, credendo chi è giunto a quel segno d'essere
! affatto libero d'ogni timore di giustizia, tanto si assicurano
i di poter provare quel che vogliono se son posti prima a di-
! fensione che a tormenti.
« Or li Viceré sentono sopra modo il vederne fare tanto
gran numero, perchè ce ne sono cavalieri, mercanti, baroni,
ed artigiani, villani e d'ogni spezie maggior quantità di
quella che bisognerebbe per il servizio del S. O.; li quali
familiari tanto insolentemente si servono di quella esenzio-
ne dal Tribunale regio che sempre sono gli autori de' mag-
giori e più temerari delitti che si commettono » (2).
j E le istruzioni dell'Inquisitore supremo del 1525, vole-
vano « che i familiari siciliani fossero persone virtuose,
quiete, pacifiche e buone e che il loro numero non fosse
(i) Viceré M. A. Colonna, nel 1580. Fu da costui mossa la
questione se anche le mogli dei familiari dovessero godere dei
beneficii del Foro. Il Tribunale mise il mondo a rumore! Ms.
Qq F 239 della Bibl. Comunale.
(2) Ms. citato Qq F. 123 della Biblioteca Comunale.
179
SANT'UFFIZIO
superfluo perchè non si avesse giusta ragione di qu(
le » (I).
Lasciamole stare negli archivi queste ed altre pr€
zioni.
L'anno 1512 scorazzava in un fondo del D.r de Julien,
in non so qual campagne, una banda di ladri; ed il Capi-
tano della terra riuscì a prenderne parecchi, mentre gli
altri, avvertiti in tempo, fuggirono. Chi non ne sarebbe ri-
masto contento? E tutti lo furono, meno il S. U., il quale
inflisse la censura al Capitano, solo perchè il D.r de Julien
era ufficiale del Tribnale. Si noti: che l'arresto, rispet-
tando lui, lo liberava da malfattori volgari. Il piccolo inci-
dente divenne affare di Stato con l'intervento personale
del Re. Ferdinando II non poteva non difèndere e sostene-
re i suoi ben amati inquisitori; eppure, sdegnato del cat-
tivo comportamento loro in cosa di tanta evidenza, scrisse
loro molto severamente. « Se il D.r de Julien », scriveva,
(( è ufficiale del S. U., non esigerà certamente che dei la-
droni godano la esenzione ed i privilegi del foro, special
merite trattandosi di persone di mala vita. E però è nostra
volontà che il S. U. non s'intrighi in siffatte persone. In
questi giorni (il Re scriveva il 25 ottobre) un malfattore
mise le mani nella cassa del S. U. Il capitano intervenne
contro di esso, ed il S. U. alla sua volta intervenne a mano
armata in difesa del malfattore. Le son cose codeste, scan-
dalose da non potersi portare con pazienza; molto più che
riescono di mal esempio alla Dogana, ove non si vogliono
pagare i diritti.
« Ora è mestieri che il personale si emendi e cessi dai
(i) Archivio di Simancas: Lea, p. 521.
180
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
disordini; altrimenti il Viceré sarà costretto a provare che
gli ufficiali del S. O. debbono vivere religiosamente, e
cessare da ogni maniera di scandali: unico espediente per-
chè la S. I. sia pili onorata e ricercata » (i).
Ragione di sfacciata audacia era la sua immunità ar-
mata. Immunità dal foro ordinario, che non poteva im-
mischiarsi dei fatti di essa; armata, perchè nobili e non
nobili, agenti del S. O. erano dagli Inquisitori autorizzati
a portare armi. Potrebbe osservarsi che non ce n'era bi-
sogno, specie quando il Tribunale avea sede nei medesimi
luoghi del Viceré, come di frequente avveniva, nei primi
tempi della istituzione; ma quei signori amavano circon-
darsi di una legione di familiari; ed il conceder grazie era
soddisfazione di chi se ne arrogava la facoltà; come l'a-
verne concedute, piacere di chi ne veniva privilegiato:
tanto, l'arme in Sicilia fu sempre attrattiva irresistibile, par-
ticolarmente pel volgo. Ed i permessi d'arme ai forensi pio-
vevano senza distinzione di persone, di luoghi e di ore; e
fino i più bassi fondi della società, sotto le insegne dei
Quintavilla e degli Aedo, dei Paramo e dei ToressUla e di
cento altri, braveggiavano per città e terre, misfacevano
nelle campagne contro le proprietà, le persone e la pub-
blica sicurezza.
(( In la concessione di li armi che fa lo Inquisituri et
lo algozirio di lo dicto S. O. )), scriveva il Parlamento del
1520, « si fanno molti abusi tanto per darisi larga licentia
(i) Archivio di Simancas, Inqtàisicion. lib. Ili, f. 202:
Lea, The Inquisicion in the Spanish Dependencies, pp. 516-17.
New York, Macmillan, 1908.
181
SANT'UFFIZIO
di portali armi quanto per darisi a persuni rivultusi, che ■
andavano di noeti, senza fari exercitio, né servito alcuno di
noeti per lo dieto S. O.; di undi notino multi scandali et
inconvenienti di sarvitio et disturbo di lo quieto viveri
del Regno » (i).
Vennero le Concordie ed anche queso abuso ebbe il suo
seguito fino all'ultima decrepitezza del Tribunale. Non si
crederebbe! Nel 1732 il Viceré De Cordova consentiva che
i foristi portassero armi per servizio del loro Tribunale (2).
Ma dove cominciava e dove finiva il servizio? ^^
Altro grave abuso era il comperar credito di baronij^|
quali non poteano o non volevano pagare, ed essi lo risco-
tevano sottoponendo i debitori alla giurisdizione del loro
foro (3). Ed altro ancora era il commerciare con persone
di buona fede, estranee al foro privilegiato. Nella loro
indipendenza dai TribunaU ordinari presumevano che con-
trattando con queste persone, difficilmente sarebbero stati
raggiunti e costretti a mantenere gl'impegni. La loro im-
munità, che parte avevano, parte assumevano, mettevali al \
coperto dalla traseuranza di doveri sorgenti da atti privati
e, più che da questi, dai pubblici. Così frodavano lo Stato
e con lo Stato i contraenti. Alla fin fine, che danno sarebbe
venuto ad essi? un ricorso al loro Tribunale; ma prima di
riuscire a questo quante pratiche avrebbero dovuto farsi? e,
fatte, chi avrebbe assicurata la parte avversa d'una vitto-
ria in foro del S. U. o non piuttosto chi ne avrebbe avuto
(i) Capitula Regni Sicilia, t. I. cap. C II, pp. 582-83.
(2) Gervasi, Siculae Sanctiones, v. II, p. 344.
(3) A. Battaglia, L'evoluzione sociale in rapporto ali»
prietà fondiaria in Sicilia, p. 49. Palermo, Reber, 1895.
182
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
travagli, spese ed interessi, come ordinariamente li a-
vea? (i).
V'era tanto di elastico nelle Concordie! e si prestavano
esse a tanti cavilli!
Il caso del Conte d Mussomeli è un esempio tipico
della immunità degli agenti della Inquisizione, che ha
perfetto riscontro in un altro, divenuto unico del genere
a cagione della indipendenza mostrata da un Viceré.
Non ispiaccia al lettore la testuale narrazione siciliano-
italiana che ce ne lasciò un diarista contemporaneo (12 di
giugnetto (luglio) 1602 (2), mercori, havendo la G. Curti
sbandatu {bandito) a il Sig. D. Mariano Agliata familiari
del Santo Offìtio et havendosi detto signore appresentato
in poteri dell' 111. mi signuri Inquisituri, cioè Palm oda, A-
gliach et Oglio {de Hoyo) e detti Inquisituri, havendo man-
dato li monitori] alla G. C. che li cangellassiro {affinchè
cancellassero) il bando e mandassero l'informazioni, della
G. C. non li obidiu; et havendo detti signuri Inquisituri
scomunicato detta G. C, e perchè detta G. C. volia esseri
assoluta e non volia cancellare detto bando, né mandarli
(i) Capitula Regni Siciliae, a. 1520, cap. LXXXI, t. I,
pp. 99-100.
(2) Questa data conferma che il S. U. era già nel Palazzo
Chiaramonte dove finì, passatovi senza una consegna in regola
del fabbricato, che solo nel 1605 fu fatta.
Siamo in luglio del 1602, e già due mesi prima, il 5 maggio,
un cronista scriveva: '( Atto di fede alla Cattedrale. Vi fu ca-
valcata. Gl'Inquisitori furono accompagnati dal Senato. Paramo
(Inquisitore) non v'intervenne perche si trovava infermo. In
questo tempo non erano ancora trasferite le carceri nello Steri
ma ancora erano nel Castello; infatti da esso uscirono ». (Ms
Qq F. 239).
183
SANT'UFFIZIO
l'informazioni, andaro dove (da) lu Ill.mo e Rev. signor D.
Didaco di Aedo nostro Arcipiscopo di Palermo, e li absolvio.
E detti signuri Inquisituri scomunicarono a detto Arcipi-
scopo et suo Mastro notare. Sapendolo la eccellencia del
Duca di Feria visare (viceré), chiamao du compagni] di
Spagnoli e il Fiscali Buttuni e mandàuli alla casa di detti
Inquisituri con comandamentu che quanto familiari tro-
vassiru in detta casa del S. Offìzio, tutti li impendissiro
(appiccassero); e detti Sig. Inquisituri fecero serrare li
porti delli casi, quali eranu alla Dogana dove è lu Steri; e
detti sig. Inquisituri si affacchiaru (affacciarono) alli fi-
nestri, e scomunicaru a detti soldati, quali erano con li
archibuxi parati e li mechij (le micce) allumati con la mira,
e detti sig. Inquisituri quali dalla finestra scomunicarono
tanto detti soldati quanto ancora a cui ci dava ajuto; e detti
soldati pigliare un travo e (con esso) li gettare li porti in
terra; e trasie (entrò) il fiscali Buttuni con Gievannello Ma-
gliocco cenestabile majure della G. C; con il Beja con li
chiachi (nodi scorsoi) in ordine, e non trovare a nixunò
familiare; e perchè di pei detti soldati vdiaro essiri assoluti,
e detti sig. Inquisituri voliano che lassassire li armi, detti
soldati non li voliare lassari, anzi misire di nuovo di meschij
alli serpentine, e detti Inquisituri li dissire si voliano essi-
ri assoluti, calassiro li buchi (le bocche) delli arcabuxi in
terra; e così fecero, e detti Inquisituri li assolvere della
(dalla) finestra; e detti soldati sindi (se ne) andaro: e così
detta G. C. li cassae il bando e li mandao l'informazio-
ni » (i).
(i) Pollaci Nuccio, Varietà palermitane; in Nuove Effe-
meridi sic., serie III, v. Vili, pp. 37-38.
184
PREPOTENZE E SCOMUNICHE
La citazione è stata lunga, ma buona ad ammaestrarci
che gl'Inquisitori non transigevano sul loro diritto di sco-
municare e di non vedere ricomunicata la persona scomuni-
cata da loro. Era legge inviolabile, come abbiam detto, che
non potesse l'ordinario assolvere lo scomunicato del S. Uf-
fizio (i). L'Arcivescovo di Palermo, interdetto dall'Inqui-
sitore, è una curiosità storica, ma tutt'altro che unica,
se il Vescovo di Girgenti nel 1642 e prelati capi
di diocesi incontravano la medesima sorte. Fuori Regno si
annoverano l'Arcivescovo di Toledo, D. Bartolomeo Ca-
ranza, che moriva a 73 anni, dopo averne passati 18 in
piena reclusione (1576); un Vescovo di Cartagine, un altro
di Valladolid, uno di Siviglia; ed altri della più alta pre-
latura.
Gl'Inquisitori di Sicilia, come di Spagna, potevano as-
solvere dall'eresia non solo in foro giudiziale ed' estemo, ma
anche il foro interno di coscienze; e ciò, secondo alcuni,
per isp>ecial privilegio, secondo altri per uso e consuetuai-
ne secondo altri ancora per un tacito consenso del quale
però non si ha documento della S. Sede.
Né era necessario che l'Inquisitore fosse un sacerdote;
perchè la facoltà era data all'ufficio (2); e forse pochi sa-
pranno che alcuni Inquisitori di Sicilia non eran sacerdoti;
ed il famoso Bernal forse fu il primo secolare.
In mezzo a tanta depressione morale una figura di
Viceré spicca per un atto di grande energia, D. Lorenz©
Suarez de Figueroa, Duca di Feria. Ma la sua energia rom-
(i) Sacro Arsenale, n. XXXVII, p. 359.
(2) Diana, ed altri scrittori F.cis Pobertolis, panor-
mitani; Examen ecclesiaslicum. p. 357. Venetiis, MDCCXV.
185
SANT'UFFIZIO
pe contro lo scoglio delle prerogative inquisì toriali. Con
tanti soldati pronti a sparar contro, chi oserà più oltre re-
sistere all'autorità viceregia, con un boia pronto a stran-
golare quanti vorranno ribellarsi a quella, dopo tanto clamo-
roso spettacolo, si finisce là donde si era cominciato e dove
non si voleva fermarsi; si manda, cioè, la istruttoria e si
consegna al S. Uffizio il nobile forista AUiata.
E allora valeva proprio la pena che si mettesse a ru-
more la prima città del Regno, che si spingesse a spron
battuto un piccolo esercito di alabardieri fino al Palazzo
Chiaramonte per non concluder nulla?
i86
Capitolo X.
RIVOLTE DI POPOLO
PERVICACIA D'INQUISITORI
GIUDIZIO FINALE SUL S. UFFIZIO
ANTA pervicacia doveva condurre il popolo
a disperate conseguenze. Temuto e odiato
da esso, il Tribunale per ben quattro o
cinque volte nel sec. XVI ebbe ribellioni
^i ed incendi compromettenti la sua esistenza
ed i suoi archivi.
Nel 1516 un sacerdote veronese in Palermo predica con-
tro gli ebrei neofiti; e la plebe assale il S. Uffizio, ne ma-
nomette registri, processi, carte, libri; e solo per lo interdet-
to lanciato dal Tribunale ai detentori di essi se ne ricupe-
rano alcuni.
Nella ribellione contro il Viceré Ugo Moncada (1518),
non potendosi avere in mano lui, si sfogò contro il suo
amico l'inquisitore Melchiorre Cervera; ma Cervera fuggì,
e si aprirono le porte del palazzo, e si forzarono le segrete e
187
SANT'UFFIZIO
si liberarono i detenuti (i). Indi a non molto l'Inquisitore D.
Calvete ordinava ai fedeli pelermitani che restituissero,
sotto pena di scomunica, li « multi scrittori, libri e beni di
esso S. Officio e soy officiali » (2).
Maggiore il danno del 1546. Aperte, come di consueto
nelle pubbliche sommo^e, le carceri e messi fuori i carce-
rati, si appiccò il fuoco al palazzo ed a quasi tutte le scrit-
ture ed ai processi di fede (3).
« Gl'Inquisitori, diventando ogni dì più insolenti, trat-
tavano senza alcuni riguardo i Siciliani d'ogni condizione;
onde gli abitanti di Palermo fieramente indispettiti si sol-
levarono contro il S. Uffizio (1562) nell'atto che sfavasi
per pubblicare il solito editto di fede che ingiungeva l'ob-
bligo a tutti di denunciare sotto pena di morte i colpevoli o
sospetti d'eresia; e sebbene il Viceré ottenesse di calmale
l'insurrezione, gl'Inquisitori più non osano di celebrare in
pubblico alcun autodafé fino al 1569 » (4).
Nel solo anno 1590 il 2 gennaio ed il 5 giugno altri in-
cendi misero a pericolo le carte che si erano venute accumu-
lando in poco di mezzo secolo. L'espediente della scomu-
nica lancia'ta dal Tribunale produsse effetti mirabili; pane
delle scritture venne ricuperata (5).
A questi tumulti bisogna aggiungere nel secolo seguente
(i) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 57-59.
(2) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in
Sicilia, voi. I, sub anno 1518. Ms. Qq H 62 della Bibl. Cora.
di Palermo.
(3) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 66-67.
(4) Llorente. t. II, cap. XVII, art. II, pp. 131-32.
(5) Varietà palermitane; jn Nuove Effemeridi sic, serie III,
V. VII, pp. 200-201. Palermo, 1878.
188
ì
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI
la sollevazione del battiloro palermitano Giuseppe D'Alesi
(1647) (i).
Fu detto e ripetuto, da chi crede al pregiudizio del
malocchio, che la presenza del Viceré conte d'Albadelista
fosse stata fatale alla città; e si narra dello immane disastro
del crollo del ponte sbarcatoio a Piedigrotta al suo primo
giungere da Messina, coli 'annegamento di più che cento
persone della nobiltà. Ma chi crede a quel pregiudizio non
pensò mai che nel campo delle ubbie altro personaggio, ben
più fatale dell' Albadelista, avrebbe dovuto mettersi in
conto: l'Inquisitore Paramo. Il S. Uffizio era sempre den-
tro il Castello a mare, e lì avvenivano i due incendi del
1590, la caduta del ponte del 1592,10 scoppio della pol-
veriera del 1593", ed altri infortuni e disastri (2).
Il Paramo ne uscì mal vivo, e fino al 1608, anno della
sua non rimpianta scomparsa, ebbe travagli fisici che die-
dero da fare e da dire ai medici del tempo (3).
Ma l'attenzione del popolo si fermò solo sul Viceré e
prese come fortunata la presenza del Paramo (chi sa!...)
forse perchè funesta al S. Uffizio, che era funesto all'Isola.
A' quelque chose malheur est boti!
Ma né ribellione di popolo, né sdegno di ecclesiastici,
né represso odio d'ogni classe di cittadini valeva mai ad
infrenare orgoglio di giudici e spavalderia di ufficiali.
(i) V'erano anche le manomissioni ed i furti dei familiari-
Il ms. segnato Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo, prove-
niente dagli Archivi del S. U., parla d'un processo contro Fi-
lippo Malavilla, « portiere del Secreto, per aver venduto ad un
merciere molti libri che erano nel Secreto del S. Q. ».
(2) Matranga, p. 12.
(3) Consulti medici per lui ed a lui esistono nel Ms. 3 Qq
E 82 della Biblioteca Com. di Palermo.
189
SANT'UFFIZIO
Siamo al domani del Cinquecento, e la pervicacia si può
solo spiegare coi tempi che favorivano la istituzione, gelo-
sissima (e in ciò stava la sua impareggiabile forza) dei suoi
privilegi.
Quest'orgoglio li rendeva ciechi e to^ieva loro fin
l'ombra dei riguardi dovuti alla dignità episcopale ed al-
l'autorità vicereale. Dai fatti irmanzi esposti questa triste
verità si presenta nella più cruda evidenza. Tuttavia eccone
un altro che fa al caso speciale.
Era l'anno 1621 e l'Inquisitore capo determinava di
celebrare uno dei soliti Atti di fede, stavolta nella piazza
della Cattedrale. Dello spettacolo fissato pel 18 novembre,
veniva data partecipazione all'Arcivescovo il Card. Gian-
nettino Doria. Da persona educata costui ringraziava, e
divisando invitare per conto proprio il Viceré, esprimeva
il desiderio che il palco d'onore fosse costruito vicino al
Palazzo Arcivescovile che, come si sa, fiancheggia ad occi-
dente la piazza. Il desiderio non costava nulla, ma l'Inqui-
sitore vi si oppose come contrario ai suoi intendimenti!
Bene rilevò il Doria la innocuità del desiderio e la qua-
lità sua di prima autorità ecclesiastica e di Principe della
Chiesa. — La prima autorità sono io rispose l'Inquisitore
De Nino; la seconda, se mai, l'Arcivescovo Cardinale; <( e se
V. E. non rimane sodisfatto, resti servito di richiamarsene
a chi di ragione ». — E villanamente chiuse la corrisponden-
za, ordinando lo spettacolo nella Piazza dei Bologni. Non
parliamo di quel che seguì col Viceré, offeso anche lui nel-
l'Arcivescovo, e del ricorso a S. M. in Ispagna. Questi ri-
corsi aveano soluzione tarda, e quando l'avevano, già inoj>-
portuna e priva di effetto. Restava la protervia di quei si-
gnori ed il nessuno rispetto al venerando arcivescovo, ed
igo
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI
al gentiluomo perfetto, per cui Filippo II avea chiesto il
cappello cardinalizio; e si dimenticava che alla fine della
consueta celebrazione del bando di fede per la quaresima,
all'uscire dalla Cattedrale, con signorilità propria dei principi
di Melfi, invita vali a pranzo al quale, con fame tutt' altro
che signorile, essi facevano onore (i).
Di competenza in competenza la loro vita era una lotta
continua, ora con l'ordinario, ora con la G. C, ora con
i vari Viceré, fra i quali particolarmente il Duca di Sermo-
neta (1666) (2); e durante la ribellione di Messina anche
con il Conte di S. Stefano che con alterezza avea proibito
le armi a chicchessia, e quindi ai familiari del S. U.
Era costume antico che gl'Inquisitori, convitati dal p.
Priore di S. Domenico, assistessero alla festa dell'Epifania
in detta chiesa da una gelosia, come ancora assistea il
Viceré da un'altra.
Inquisitori D. Bernardo Vigil de Quifiones e D. Tomaso
Rubia del Cels, nel 1671. In quell'anno, essendo convitati
al solito, il Viceré comandò che si levzisse il palco dell' In-
tquisitori. Il che seputosi da essi, ne scrissero al Segretario
del Viceré; ma questi tenne duro.
; Da quel momento in poi il Tribunale non assistè più
^lla festa della Epifania in S. Domenico come avea fatto
pel passato (3). Il torto qui parrebbe del Viceré; ma non
(l) Ms. Qq F 239. Di questi inviti il 9 marzo 1615, 24
febbr. 1616, 14 febbr. 1617, 6 marzo 1618, 16 febbr. 1619 parla
il medesimo volume ms.
(2) Il ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo fa cenno
di informazioni inquisitoriali contro questo Viceré, perchè « por-
tava poco o niun affetto al S. O. ».
(3) Ms. Qq F 239.
191
SANT'UFFIZIO
era egli la suprema autorità dell'Isola? potevano essi van-
tarsi di partecipare ad una festa religiosa propria, quando
la festa non era del S. U.?
Che cosa perciò importava a loro dei malumori che
creavano nelle principali autorità del tempo? Coi vescovi
la passavano in contese infinite per poco che essi facessero
il loro dovere nel sostenere le proprie facoltà circa la di-
sciplina ecclesiastica. Le poche carte che ci restano,
accusano dissidi con quelli di Messina, di Lipari, di Sira-
cusa, di Catania. Il vescovo di Girgenti (1642) dovette per
gravi trasgressioni interdire il commissario nel Burgio, e
fu da essi interdetto; e la interdizione non gli fu tolta se]
non dopo di aver mandato al sacro Tribunale le sue di-
scolpe e giustificazioni (i). Quello di Mazzara, l'Eminen-
tissimo Cardinale di Santa Cecilia, D. G. Spinola peissò del
brutti quarti d'ora per aver voluto riconciliare alla chiesa]
tre rinnegati approdati a Tunisi col figlio del re di questa]
città (1646) (2).
Refrattari a qualsivoglia gentilezza, rifiutavano la com-j
pagnia anche dei più eminenti funzionari dello Stato. Uni
eruudito, lo Scavo, pregiudicato a favore del S. U., impie^
gato alla Inquisizione, racconta che (( solea il Tribunale iiij
occcisione di giostre, fare il suo palco nel muro dello Steri]
per gli officiali e ministri del S. U.; che nel 1860 una pei
sé volle costruirne « il Secreto della Duana dalla parte prin-^
cipale dello Steri, dove si entrava nella detta Duana »; ma
che ne fu impedito dall'Inquisitore D. Cosimo de Ovando]
y UUoa l'intervento; che per farsi ragione ricorre al Viceré]
(1) Ms. Qq F 239.
(2) Ms. Qq F 239.
192
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORI
rappresentandogli come qualmente mai il Secreto avesse
fatto detto palchetto nelle mura dello Steri, ed esser cosa
nuova ». Nuova o non nuova, avrebbe dovuto rispondere
sua Eccellenza D. Fr. Bonavides, lo spazio dal lato delUa
Dogana è del Secreto: e voi, Sig. Inquisitore, non potete
impedire l'occupazione d'un suolo che non è vostro. « Ma
il perchè il tempo era brieve, S. E. determinò farsi li pal-
chi metà per servizio del Tribunale, e l'altra metà per il
Segreto, con farsi atto preservativo » (i), che è quanto
dire di riserva.
Se non che, anche più tardi, quando, già svigorita,
era scossa dai cardini, alle sue preminenze non sognò mai
di rinunziare; e di queste poteva bene ripetere: Aut sint
ut sunt, aut non sint. Comprendeva bene che anche la piìi
piccola transazione, una tacita acquiescenza sopra punti
capitali pel suo funzionamento sarebbe stata una compro-
missione della sua esistenza. E non cedeva (2).
Racconta il Mongitore che il 2 marzo del 1733 « ap-
parve sulle strade della città la scomunica fulminata dagli
Inquisitori contro il D.r D. Antonino Crimibella, giudice
della G. C, per aver carcerato un famigliare del S. U. e
non averlo voluto rimettere al suo foro ». Il dì seguente il
Viceré fece le sue rimostranze all'Inquisitore Franchina;
« ed essendosi data soddisfazione, fu rimessa la causa alla
Giunta dei Presidenti e Consultore, che decisero doversi re-
stituire dalla G. C. il prigione e che il Crimibella dovesse
farsi assolvere. E infatti a 11 marzo lo fu privatamente
(i) Ms. Qq F 39,t. II, p. 35-36.
(2) Infatti pubblicava o ripubblicava la Istruzione del S. O
di questo Regno di Sicilia ed isole coadjacenti per le cause
degl'Eretici che spontaneamente vengono al S. Tribunale della
Fede ecc. In Palermo, Epiro (Vedi Bibl. Com. ai segni X, B. 4.
n. io).
13 _ G. PITRÈ - SonfUffiiio
SANT'UFFIZIO
ad reincidentiam, finché venisse la risoluzione da Vien-
na )) (i).
Il fatto si ripetè come nei secoli di maggiore potenza
del Tribunale; e l'unica concessione fu quella della cen-
sura tolta privatamente. C'erano di mezzo le famose Con-
cordie del 1580, 1597, 1635 (c che definivano con sovrana
regia autorità le controversie » e, forte di esse, la Inquisi-
zione locale non discuteva. Solo un anno dopo, nel 1731,
essa diventò indipendente dalla Spagna: provvidenza di.
Carlo III; ma allora veniva decadendo a vista d'occhio fino-
a non esser molto temuta.
Primo atto, e grave contro il Tribunale, fu la risoluzione!
sulla censura del Crimibella.
Il 6 marzo del 173 1, il Viceré in nome del Re scriveva
al S. Uffizio che (( quindi innanzi non potessero gl'Inqui-
sitori far uso delle censure ecclesiastiche se non nei casi e]
nelle materie appartenenti a fede o di notoria e indubi-
tata usurpazione di giurisdizione » . Molto interessa al Re |
la quiete de' suoi vassalli, (( ai quali dee evitarsi l'orrore
delle censure e lo scandalo che può nascere dalle mede-
sime quando promulgansi senza legittima causa e fuori de';
termini » (2).
Risposta tanto tagliente e quasi senza regio esempio nel]
genere scosse profondamente il morale del Reverendissimo
D. Giovanni de Abarca e di tutti i suoi satelliti. Da più di]
(i) MoNGiTORE, Diario, in Bibl. del Di Marzo, v. IX, pa-
gne 201-202.
(2) N. Gervasi, Siculae Sanctiones nunc primum typis
excusae aut extra corpus juris niunicipalis haetentis vagantes,
t. II, lib. IV, pp. 350-51. Panormi, anno MDCCLI.
194
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORl
due secoli era imperversata la gazzarra attorno ai roghi:
ed ai bagliori orrendi dell'ultimo pel Canzoneri (1732} era
seguita da luce serena un'era di pace e di progresso.
Già fin dal suo primo insediarsi nella Inquisizione Su-
prema in Vienna il Card. KoUoritz avea cominciato a met-
tere gli occhi dentro gli affari interni della Inquisizione pro-
vinciale di Sicilia; ed ora formulava dei quesiti, chiedeva
informazioni dello strano abuso di patenti concesse a pa-
droni di feluche pei porti principali dell'Isola, dove essi
godevano semifranchigie di ancoraggio e di palangaggio;
ora biasimava la condotta degli assessori assenti dall'uffi-
cio, ed esigenti che fossero portate loro le carte nelle pro-
prie case per firmarle; ragioni queste di sospetti negli In-
quisitori che si volessero attenuare i loro poteri (i).
Ma si era in famiglia; e di tanto armeggìo non trapelava
nulla fuori del sacro Tribunale.
I guai veri incominciarono con l'avvento della dinastia
dei Borboni.
Un giorno il nuovo monarca ordina che l'Inquisitore
non s'ingerisca di cose fiscali; un altro, che non si permetta
di entrare in cause attive : prerogativa che non ha né il foro
ecclesiastico, né il foro militare; e che essi si sono abusi-
vamente arrogata; che non si permettano più monitori e
censure contro ministri regi (2). Un altro ancora, che negli
arresti del S. U. intervenga la giustizia laicale. Disposi-
ci) Ms. Qq H 62, 1730, 1733, 1731.
(2) Siculae sanctiones, 5 luglio e 23 ott. 1766. Viceré Bart
Corsini ed Eustachio de la Vieufuille. Gervasi, Siculae sanctio-
nes. t. II, pp. 356-57. 358, 360.
195
SANT'UFFIZIO
zione questa alla quale il Tribunale della fede si oppose con
una forza degna di altri tempi (i).
L'opera del sacro Tribunale, ridotta così di molto, si
limitò alla censura religiosa, che slungava i suoi tentacoli al
costume, ai libri (2) ed alla disciplina ecclesiastica, non
ostante che a questa intendessero con vigile premura gli
ordinari delle diocesi. Nello infiacchimento delle sue forze,
s'attaccava alle piccole cose, tanto per affermare la sua
esistenza. Un aneddoto dimostra questa miseria, ed io lo
vo' raccontare. Nel 1775 il quaresimalista di S. Niccolò la
Kalsa, la parrocchia aristocratica di Palermo, che il Senato
proteggeva ed il S. Uffìzio preferiva col suo intervento
alle sacre funzioni, P. G. Crisostomo da Termini, volendo
in una delle sue prediche dimostrare la efficacia del patro-
cinio di S. Giuseppe, raccontava una leggenda popolare
piena di naìveté. Era in chiesa il solito popolino, ma c'era-
no anche i Signori Inquisitori, i quali ne furono non che
scandalizzati, ma anche indignati. Finita la predica, P.
(i) Ecco le speciose ragioni di Mons. Agatino, Arcivescovo
di Iconio, al R. Dispaccio del 5 giugno 1751:
« Dovendo assistere l'ufficiale laicale alla carcerazione per
delitti di fede, e non essendo egli tenuto al segreto, si pubbli-
cherebbe la cosa e ne verrebbe scandalo pubblico, vergogna ed
infamia all'arresto ed alla famiglia. Le famiglie sogliono aiutare
la Inquisizione in questi arresti, la Inquisizione esse guardano
con venerazione perchè custode della purezza della fede. Bando
dunque alla riforma: e si torni all'antico. La Inquisizione ar-
resti di notte, da sé, senza aiuti laicali. Ms. Qq H 62 della
Bibl. Com. di Palermo.
{2) Della proibizione di certi libri si occupava con una
lettera l'Inquisitore di Sicilia nel 1659; e non cessò di fermar-
visi anche quando il Re avocava a sé questa sorveglianza. Vedi
l'ordine sovrano del 1752 nel ms. Qq H 62, sotto questi due anni.
196
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI
G. Crisostomo venne arrestato dai ministri del S. Uffìzio e
chiuso in carcere. In altri tempi, per cose meno signi-
ficanti, ci sarebbe stato il carcere perpetuo; stavolta l'im-
prudente frate antoniano se la cavò con una pubblica ri-
trattazione nella medesima chiesa, innanzi ai medesimi
giudici e sul medesimo pulpito e con la interdizione alla
predicazione. Il Folklore italiano però ci guadagnò la pri-
ma variante storicamente accertata della piacevole leggen-
da (I).
V'è anche di peggio. Fin dal 1780 correva insistente-
mente la voce della prossima abolizione del Tribunale della
fede; e gli ufficiali nobili ed altri patentati di esso, si agi-
tavano, interponendo l'opera autorevole della Deputazio-
ne del Regno e del Senato di Palermo perchè tanta scia-
gura per loro venisse scongiurata. E' naturale che faces-
sero il loro vantaggio. Deputazione e Senato, interessati
pili o meno direttamente, in quanto nella pericolante isti-
tuzione erano persone dell'alto e del medio ceto, supplica-
rono il Sovrano che volesse rimuovere la spada di Da-
mocle pendente sul capo degli impiegati.
Tutto questo maneggio non poteva non esser noto al-
l'Inquisitore locale; anzi non si saprebbe concepirlo senza
il suggerimento e la istigazione di lui. Era quello il mo-
mento in cui il piiì elementare buonsenso avrebbe dovuto
persuaderlo che il suo regno era finito; ma Monsignore noa
seppe, o non volle capirlo. Era costume che ogni anno, nel-
la domenica di sessagesima, si pubblicasse l'editto di fede
(i) D. Faija, Biografia dei parrochi di S. Nicolò la Kalsa.
pp. 152-54. Palermo, G. Barravecchia, 1877.
La leggenda venne da me raccolta dalla bocca del popolo in
Palermo e da A. Dumas in Napoli.
197
SANT'UFFIZIO
della Inquisizione, presenti i familiari, i ministri, il Senato,
l'Arcivescovo, il Viceré. Questo editto in precedenza stam-
pato veniva letto nella Cattedrale ed illustrato con un
sermone d'un sacerdote regolare (i).
Ebbene: nei primi del 1782 il Tribunale della fede fa-
ceva allestire dalla sua Tipografìa (che ne avea una propria,
con operai del suo foro) le stampe di un editto sopra la
(( Scomunica da leggersi nella III Domenica di Quaresima »
e di un <( Regolamento da osservarsi nella pubblicazione
della scomunica »; e le avrebbe senz'altro pubblicate, se il
Governo non si fosse affrettato a proibirle. Non se ne dette
per inteso il Tribunale, ed insistette per il publicetur, che
per lo addietro non avrebbe neppur sognato di chiedere,
esso che avea bravata qualunque autorità costituita; ed il
Governo, alla sua volta, insistette sulla proibizione.
Quindici giorni dopo, il S. Uffìzio veniva soppresso! (2).
Tutti tacquero, nessuno si levò a difendere il vecchio
leone, sdentato e senza zanne, impotente a più oltre sbra-
nare; nessuno celebrò i fasti di esso, come Antonio Vene-
(i) Vecchie carte d'archivio ci han conservato il (( Cere-
moniale della lettura dell'editto e dell'anatema ».
« Congregatisi tutti in una chiesa vicina, si portavano alla
Cattedrale in processione, e giunti allo scalino della porta mag-
giore, se li dava l'acqua benedetta da un cappellano; ed entrati
in chiesa sedeano nel corno dell'evangelio con predella alta un
palmo, coperta di tapeto, e li familiari in sedie, e nel corno del-
l'epistoli li preti onesti. Sul principio della messa solenne si
portava un maestro di cerimonie ed un altro al Senato che v'in-
terveniva, e là, recitato l'introito, dato a suo tempo l'incenso e
la pace, e terminata la messa, van tutti riportati a quella chiesa,
ove si congregorno ». Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.
(2) La Mantia, op. cit., v. II. Documenti, n. I-VII.
198
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORI
ziano avea celebrato la sicurezza dell'isola sotto l'egida del
sacro Tribunale; nessuno fece l'apoteosi dell'Inquisitore
Ventimiglia come Francesco Baronio avea fatto del
Cisnero (i).
Il Governo serbò intatti i salari agli impiegati finché
vissero, e destinò a più usi di pubblica utilità le rendite
del soppresso Tribunale. « Dalle ceneri delle spoglie dell'In-
quisizione », scriveva lo Scinà, « sursero tre cattedre vi-
stose; la fisica sperimentale, che delle macchine opportune
fu corredata; la matematica, che de' sublimi calcoli venisse
ammaestrando, e l'astronomia che ebbe un osservatorio,
il quale per la eccellenza degli strumenti e per la copia
delle osservazioni venne in Europa ben presto a rino-
manza » (2).
Ed eccomi, senza volerlo, alla fine ingloriosa d'una isti-
tuzione che per secoli avea fatto tremare principi e popoli,
governanti e governati, coloro stessi che l'aveano aiutata,
favorita e in ogni maniera sostenuta.
Il Bertini avea potuto vantarsi che « i signori Inqui-
sitori, giudici, delegati, agiscono contro tutti e contro
qualsivoglia persona insignita di qualsivoglia dignità; giac-
ché hanno sotto di sé coloro che [in] tutto il mondo sono,
(i) Tuta foris, tuta est intus Trinacria tellus,
Hinc quaesitor agit, pontus et inde fremii.
Audax si quis erit, Triquetram qui laedere tentet,
Nil juvat esse intus, nil juvat esse foris.
Antonio Veneziano, Opere, p. 143. Palermo, Giliberti, 1861.
(2) Scinà, Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel
sec. XVII, voi. III. Introduzione, ediz. Gallo.
199
SANT'UFFIZIO
per il battesimo, costituiti dentro la chiesa. In ordine a
cause di fede estendono il loro dominio dal -mare al mare,
dal fiume ai confini della terra, ed han facoltà d'inquirere
per ragion d'eresia o per sospetto di essa sopra imperatori,
re, principi, conti, marchesi, duchi ed altre potestà seco-
lari » (i).
Ma il vanto diveime una irrisione!
Questi particolari ed altri assai, che amor di brevità
consiglia di tralasciare, compendiano senz'altro il giudizio
che sul Tribunale formulò la storia spassionata e serena. Di-
versità di criteri, ritraenti dalle tendenze dei tempi e degli
uomini, rese finora discutibile il giudizio; il quale, quando
il tribunale grandeggiava, fu di plauso dei suoi fautori, di
cieca obbedienza dei suoi familiari, di pavida devozione di
quanti nel Tribunale vedevano il custode della fede avita; e
quando cessò, venne tradotto in frasi di terrore del popolo,
in invettive degli scrittori, tanto più forti quanto più lon-
tane dai giorni prosperosi di quella potenza (2).
Tra le smaccate lodi d'una volta ed i gravi biasimi d'og-
gi stanno i documenti d'archivio e di biblioteca, testimoni
fedeli del passato.
Tolti pochi dotti siciliani del principio e della fine del-
(i) Bertini, op. cit. Divinus egressus, punct. V. ff. 8-9.
(2) Cinque anni dopo, nel 1789, Carmelo Guerra [Me-
moria sulle strade pubbliche della Sicilia, p. io. In Napoli,
MDCCLXXXIX) scriveva: <( Più non esiste l'orrendo Tribunale
dpirinqujisizione, alimento della ferocia, della superstizione e
della ignoranza che atterriva i forestieri ed era il più grande
ostacolo allo sviluppo de' talenti ».
200
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI
la istituzione (i), gl'Inquisitori erano vanità imbottite di
formole teologiche e scolastiche.
Venivano di Spagna (2) con la jattanza d'una licen-
za (si chiamavano e licenziati ») in Canoni e in Leggi e,
con la protezione d'un Inquisitore Supremo, portavano la
presunzione di dover salvare la religione e la fede dei Sici-
liani; le quali, a vero dire, rimasero sempre integre. I
5000 Ebrei di Palermo, i 50.000 di tutta la Sicilia, raccolti
in comunità isolate, non misero mai in pericolo la religione
dello Stato, che Ferdinando il Cattolico, sotto l'impulso di
Torquemada, vide o volle far vedere compromessa; come
non la compromise un istante la Riforma, che non ebbe
presa in Sicilia.
Codesti intendimenti rendevanli sospettosi e inumani,
anche perchè la Sicilia non era patria loro, se mai una
patria essi ebbero. Pur sapendo che il loro potere emanava
dal Re e dal Papa, tenevano in non cale Viceré e Podestà;
e l'Arcivescovo di Palermo De Aedo ne provò i morsi, i Vi-
ceré le ribellioni e le insidie. Giacché non vi era occasione
che gl'Inquisitori non cogliessero per dare sfogo al loro
maltalento verso i Viceré, i soli che potessero tener fronte
agU irrefrenati loro abusi. Era una gara incessante di oc-
culti partigiani; se insoddisfatti del Viceré, devoti al S. U.;
(i) Lo Schifaldo, p. e., il Galletti (1738), Angelo Serio
(1742), Giovanni Di Giovanni, Francesco Testa (1743 e 1754).
(2) Ordinariamente si ritiene che gl'Inquisitori ed i capi
dell'Inquisizione in Sicilia sieno stati Domenicani. Questo è uq
errore. Ai primi frati di questo Ordine, verso il 1504 seguirono
gli ecclesiastici secolari, s'intende sempre spagnuoli. Negli ul-
timi tempi, ecclesiastici siciliani.
201
SANT'UFFIZIO
se scontenti del S. U., devoti al Viceré; onde il danno della
cosa pubblica.
Somma destrezza perciò occorreva a costoro per isven-
tare gl'intrighi di quei Commissari a Corte, dove la ipocri-
sia avea libera entrata e la calunnia facile ascolto. Vi furo-
no Viceré che non poterono mai intendersi con quelli, do-
vendo giocare sempre di nuovi espedienti per non lasciarsi
irretire e soperchiare : ed a tal segno si giunse che D. Gar-
sia de Toledo si partì da Palermo per recarsi in Ispagna; e
sarebbe andato, diceva, fino alle Indie per ismascheraie
le male arti dei suoi avversari.
Inasprivano il dissidio, oltre che il conflitto di giurisdi-
zioni, i provvedimenti che, lungamente attesi, venivano da
Madrid sì da parte del Re e sì da parte dell'Inquisitore Su-
premo; dei quali quello a carico del Presidente del Regno
Duca di Terranova, nell'assenza di D. Garsia, fu addirit-
tura disastroso pel vicereale prestigio.
Le apparenze poi concorrevano a mantenere malumori
e dispetti. Nei pubblici atti generali dì fede il Viceré oc-
cupava, è vero, un seggio elevato, ma uno elevatissimo ne
occupavano troneggiando glTnquisitori, protagonisti del
gran teatro, ai piedi dei quali, umili e annichiliti gemevano
penitenti e relassi.
Molto addentro in cosiffatti intrighi e nell'ambiente
politico ed ecclesiastico del paese, il siciliano Scipione D«
Castro (i) forniva a Marcantonio Colonna notizie e consi-
gli sul da fare venendo Viceré in Sicilia; e rilevando queste
(i) Op. cit. Intorno a questo abile politico e scrittore si-
ciliano della seconda metà del Cinquecento vedi Mongitore,
Bibl. sic, t. II, pp. 209-10. Panormi, Felicella, MDCCXIV.
202
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI
condizioni anormali e le male arti degli Inquisitori e le
ribalderie dei familari, concludeva: il miglior partito esser
queUo di « non rompere con loro; dare avviso alla Corte, e
di quel che non piacesse, aspettare di là il rimedio, e nel
resto aiutarli sempre; ricordarsi della lista dei familiari ed
officiali; farne la scelta, servirsene a tempo, dar l'orecchio
ai principali, e tutto con estrema destrezza, coperta la pra-
tica con leggittima occasione » (i).
Che maraviglia quindi se le rappresentanze generali e
locali del Regno levassero a quando a quando la voce con-
tro la tirannia che così gravemente incombeva sui popoli
oppressi?
Richiami di Parlamenti, voti di Senati, tradotti in for-
ma di capitoli, di prammatiche e di sanzioni siciliane, atte-
stano il coraggio degli stanchi spettatori di tanta protervia.
Insorgenti a favore di catturati senza difesa, di vedove sen-
za appoggio, di orfani alla mercè di fiscali, che al domani
di una condanna, non sazii di confische, come avoltoi
piombavano nelle case del dolore, manomettendone carte o
conti di famigha per iscoprirvi prede sfuggite alle loro vo-
glie rapaci (2). E coraggio personale dimostrò il catanese
Mario Cutelli nel sostenere a Madrid le ragioni della Si-
(i) S. De Castro, op. cit. Una bella nota, del La Mantia,
pp. 59-60, in proposito conferma questo stato anormale di cose.
(2) I Capitoli di Ferdinando il Cattolico (1515) ci fan co-
noscere che il Magistrato dei beni di confisca, non contento di
quel che prendeva ai poveri condannati, aveva ♦< di novo intro-
ducto pigliarisi candili di visioni di scripturi, provisioni di in-
terlocutorii et sententii et raxiuni di exentioni in gran vexationi
di li vassalli ». {Capitula Regni Siciliae, cap. di Ferdinando II,
ca.p. CIV, t. I, p. 583.
203
SANT'UFFIZIO
cilia contro le esorbitanze inquisitoriali, sottilmente da lui
messe in luce in una delle sue maggiori opere (i).
Ma richiami e voti sortivano effetti negativi, risposte
cioè evasive, subordinate al parere del Tribunale supremo,
che naturalmente non poteva sconfessare il locale di Sici-
lia; o qualche debole placet, che restava soltanto nell7o d\
Rey della firma reale.
Il poco che si guadagnò fu dopo le prime e maggiori
ebbrezze di sangue di D. Melchiorre Cervera. A certi abusi]
seguirono restrizioni e freni.
All'inglese Brydone, quando egli nel 1770 si recò inj
Palermo, fu detto che « i Siciliani son molto cauti nel par-j
lare di materie religiose, ed in generale consigliano ai fo-
restieri di stare in guardia, essendo i poteri della Inquisi-
zione, per quanto diminuiti, in nessun modo aboliti». Gli]
fu detto pure che i baroni siciliani, i prelati, le città dema-
niali manifestarono il loro mal animo verso il S. U., com-
posto d'una geldra d'ingnoranti preti spagnuoli che spa-
droneggiavano contro ogni legge divina ed umana ».
Ed era vero, quantunque i principali fossero già sicilia-
ni; ma quando gli fu detto, com'egli afferma, che (( qua-
lunque inquisitore eccessivamente zelante veniva tosto as-
sassinato e così il soverchio zelo dei Commissari mitigato, ej
ridotto a moderazione più comportabile il SS. U. » (i), glij
fu detta cosa non vera.
Nessun inquisitore venne assassinato nel secolo XVIII in
Sicilia; e se il S. U. fu più mite che pel passato, ciò si do-:
vette al peso dei suoi errori ed alla evoluzione dei tempi.
• i) M. CuTELLi, Cod. sic. p. 341-517-
(2) Letter. XXXIII.
204
RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI
I tumulti furono quasi sempre diretti contro la istituzione;
raramente contro i rappresentanti di essa. Allorché qual-
cuno fu cercato a morte, la pietà o la prudenza prevalse in
sua difesa.
E' ben vero che i tempi e gli ordinamenti locali erano
ragione di ritardo, se non d'ostacolo al libero svolgersi del
pensiero siciliano; ma è anche vero che il Tribunale del S.
U. vi ebbe una parte considerevole. Qualunque iniziativa
che potesse aprire nuovi orizzonti alle inteUigenze più ele-
vate, veniva per opera di questo repressa sul nascere, ar-
restata nel suo procedere. Se percorriamo le fasi degli studi
de Secoli andati, vi troveremo dotti ed eruditi, storici e let-
terati di conto, ma non filosofi che si lancino per vie non
prima tentate; e chi sa se non ve ne furono e rimasero, per
opera del S. U., soffocati!...
Dove sono i processi dagli interrogatori dei quali è da-
to conoscere qualche spirito forte o qualche genio non
compreso? Tutto è buio per noi.
Non restano se non poche ma eloquenti cifre {memi-
nisse juvahit!): 189 persone bruciate in effigie;,., bruciate
vive; dozzine di migliaia, catturate, processate, condannate
e, se assolute, esposte al ludibrio del pubblico come ne-
miche di Dio e della religione; migliaia e migliaia d'onze
confiscate ai legittimi possessori; migliaia e migliaia di ere-
di interdetti al conseguimento dei loro beni, allo esercizio-
dei pubblici uffici, e delle professioni.
20 «;
CAPITOLO XI .
BRUCIA MENTO
PALI M SESTI
DEGLI ARCHIVI
- CONCLUSIONE
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^B'
|U fatta grave colpa della distruzione degl
Archivi del S. Uffizio al Viceré Caraccio
lo; ma non si considerò che appunto
il Caracciolo, avrebbe avuto il maggiore
interesse di non perpetrarla.
Nei tre anni del suo viceregno, egli stette a gran disagio
in Sicilia o perchè non si seppe dare ragione dello spirito
e della tradizione del paese, o perchè non venne compreso
e seguito nelle sue riforme ritraenti in buona parte dalle
idee degli enciclopedisti francesi, coi quali era stato a con-
tatto durante il suo ministero del Re di Napoli in Parigi.
Attorno a lui turbinarono ire di popolo e maldicenze di si-
gnori; e certo sarebbe stata per lui fortunata occasione
quella di metter le mani su tante segrete carte, e delle colpe
dei suoi alti denigratori e dei loro antenati trarre fiera ven-
detta.
20Ó
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
Ben altre ragioni che i principii e la impulsività di lui
verranno presto a spiegare lo incendio delle carte segrete
e dei processi criminali del Tribunale.
Allorché l'abolizione venne decretata ed il decreto (i6
marzo 1782) fu, come si sa, di Ferdinando IIL la Giunta
dei Presidenti e del Consultore proponeva (26 marzo 1872),
che, lasciandosi intatto l'archivio civile (i), quelle carte
(( unitamente con tutte le pitture, mitre ed altre cose deno-
tanti il S. Officio, e le vesti che designavano i caratteri delli
rei » si mandassero alle fiamme : proposta non' già consi-
gliata, non già raccomandata, ma implorata da Mons.
Ventimiglia, Inquisitore Supremo (2).
Proprio implorata! E perchè? Senza dubbio per gli
effetti gravissimi che avrebbe portato la conoscenza di se-
greti in esse contenuti, sia dal lato dei processati, sia da
quello dei processanti, e sia anche e più specialmente da
quello dei denunziatori. Chi sa quali sorprese si sarebbero
avute intorno ad accusatori e ad accusati e quali tremende
ire si sarebbero scatenate contro istruttori di processi e me-
todi di procedure, ed a favore di sventurati periti sui roghi,
nelle segrete!
Un dato di fatto poi concorre ad aggravare la condizio-
ne morale del Tribunale, ed è la liberazione di alcuni rei
^sotto processo. L'Inquisitore rimasto negli ultimi anni solo
lUa presidenza del Tribunale (giacché, morti gli altri due,
'il Governo non li aveva suppliti) nella ormai facile previ-
sione della prossima tempesta, aveva (( accordato la libertà
(i) Questo Archivio è conservato nell'Archivio di Stato di
Palermo, Gancia.
(2) La Mantia, parte II, doc. Vili, p. 63.
207
SANT'UFFIZIO
per suo arbitrio a taluni, ch'erano stati condannati dal
Tribunale del S. Offizio per sentenza, la quale in forza
dell'esecuzione data alla pena, era già omologata»: arbi-
trio che la Giunta medesima non seppe astenersi dal biasi-
mare in una sua consulta al Viceré (i); e male ne sarebbe
venuto se il colpevole non si fosse chiamato D. Salvatore
Ventimiglia, Arcivescovo di Nicomedia, dei Principi di
Belmonte.
Portata al Re la proposta di distruzione dei documenti
criminali, egli volle che fossero invece mandati subito a
Napoli; ma la Giunta, pur sempre insistendo sulla gravità
delle carte e sulla delicatezza dei fatti contenuti, (( non potè
dispensarsi di far considerare l'ingente spesa che sarebbe
abbisognata e il pericolo e la confusione che inevitabil-|
mente doveva produrre il trasporto, trattandosi di un gran
numero di processi; per lo che opinò di doversi piuttosto
mandare alle fiamme che trasportarsi altrove » {2).
E allora il Re, senza più discorrervi sopra, (( prescrisse
doversi sotto la direzione dei due avvocati fiscali incen-
diare tutto l'archivio criminale senza la menoma eccezione
di carta veruna; « lo che (scrivevano il 7 luglio del 1783) sii
trova esattamente eseguito » (3) .
Così rimane sfatata la leggenda dell'opera nefasta del
viceré Caracciolo, quale Erostrato degli archivi dell'Inqui-
sizione; e spuntano nella storia i nomi della Giunta non
sai più se timida o ignorante: D. Stefano Airoldi, presiden-
te del Tribunale della Gran Corte, D. Giuseppe Leone, di
quello del R. Patrimonio, D. G. B. Asmundo Paterno, del
(i) La Mantia, parte II, doc. XII, p. 67.
(2) La Mantia, doc, XI, p. 66.
(3) Ivi, doc. XVII, p. 74.
208
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
Tribunale del Concistoro e del Magistrato di Commercio,
D. Saverio Simonetti, Consultore del Governo.
E si ha piena ragione di aggiustar fede al Villabianca,
che nei giorni dell'abolizione notava avere quella distruzio-
ne riscosso il comune applauso. Tratta vasi di « memorie
che, Dio liberi, si fossero commerciate! Era lo stesso che
infettare e imbrunire di nere note molte e molte famiglie
di Palermo e del Regno tutto, ch'oggi sono del rango nobile
e delle oneste e civili » (i).
Tuttavia non è priva di fondamento la speranza che
molti documenti possano ancora trovarsi negli Archivi di
Madrid, come pure in quelli di Vienna, donde per 14 anni
(1720-34), sotto Carlo II, la Inquisizione di Sicilia trasse
il verbo. Dipendente dalla Inquisizione generale di Spagna,
la Inquisizione di Sicilia non poteva sottrarsi all'obbligo
di comunicare a quella tutti i principali suoi processi; e già
sappiamo che monitori e scritture sulle controversie della
Inquisizione colla Gran Corte e coi Prelati di Palermo, sul-
le persone ad esse rimesse dal 1559 al 1734; lettere inquisi-
toriali dal 1567 al 1702 e processi e consulte esistono nel-
l'Archivio d'Alcalà e nella Biblioteca Nazionale di Madrid;
e processi, decreti, minute di consulte, grazie diverse del
Consiglio, confìsche, processi da fé, ragguagli intorno ai
buoni costumi della condotta o purezza di sangue {limpieza
de san gre) degl'impiegati e dipendenti del Tribunale, corri-
spondenza tra la Inquisizione dell'Isola ed il supremo Con-
sigho dal 1533 al 1736, sono nell'Archivio di Simancas (2).
(i) Diario inedito, ms. Qq D 103, p. 547 della Bibl. Co-
munale.
(2) Carini, Gli Archivi, ecc., doc. cit. e Cosentino, pa-
gine 335-36.
209
U - G. PURÈ - SantUffizio
SANT'UFFIZIO
Ma le denunzie ed altre carte segrete andarono irremis-
sibilmente incenerite nel giardino dell'Alcalde Barone Zap-
pino, ove son adesso i fabbricati sorti dopo l'abolizione.
Già fin dal 1525 si parla della Camera del Segreto e
delle scritture penali raccoltevi, nella quale, sotto pena di
scomunica, a nessun altro che agl'inquisitori ed agli «uf-
ficiali del Segreto » era lecito entrare (i). Un secolo dopo,
enei 1625 la camera del Segreto era passata in plurale coi
relativi processi (2). Ancora un altro secolo circa (17 14).
e in una <( consegna di tutto ciò che si conteneva nelle carce-
re del secreto », si parla di (( camere intere di registri con
processi di fede, prove di purezza, denunzie, ecc. ecc. ».
Si era nel secondo decennio del sec. XVIII, settant'annì
lontani dall'abolizione. Giudichi il lettore quante altre car-
te congeneri saranno entrate e si saranno accumulate in
quei posti!
Al domani della soppressione del S. Uffizio con uà
nuovo decreto vennero distrutte nello Steri, tolte alle porte
dei foristi, vietate agli abiti dei familiari, le tanto temute
e tanto rispettate insegne. « Qualunque cosa indicasse il S.
0. » fu fatta scomparire, fino ai ritratti ed alle pitture dei
rei condannati (era tra questi la terribile scena dell'Inqui-
sito La Mattina che, svincolandosi furibondo delle catene
innanzi all'Inquisitore, lo colpì con esse e lo freddò) (3).
Le rendite assegnate dalla Grimaldi Guassone alle con-
dannate del S. U. vennero destinate alle ripentite della
(i) Istruzioni sicil. di D. Alonzo Maurique: Lea, op. cit.,
P- 519-
(2) « Nelle stanze del Segreto abitano gl'Inquisitori e com-
pariscono i culpati e testimonj ». Ms. Qq H '62.
(3) Ms. Qq H 62.
210
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
<( Casa di Istruzione ed emenda » ; la coltre di velluto col
dossello che aveva accolto tanti Inquisitori, fu venduta ad
un Agostino Giambruno; i ricchi seggioloni a bracciuoli
di velluto, i costosi calamai e spolverini d'argento a Salv.
Pipi ed a Giov. S. Eremita; il calice e la patena d'argento
ai frati di S. Fr. di Paola e ad altri; due grandi candelieri
d'argento a Gius. Malvele; una verga d'argento a Vino.
Napoli; tutte le vestimenta di chiesa ad altri, pel prezzo
totale di onze i8o, 21, 17. La superba carrozza di gala fu
data gratuitamente al Senato, che avevala richiesta (i);
pochi registri, alla Pubblica Libreria. La terribile croce
verde alla congrega di S. Giuseppe dei Teatini ed il Croci-
fisso, innanzi al quale giuravano gli imputati, alla R. Cap-
pella Palatina, che l'avrebbe collocato nella sottostante
cappella di S. Pietro. Se non che, in quella s'è perduta
ogni traccia e della autenticità del Crocifisso 0, meglio,
della univoca affermazione della sua provenienza è gran-
demente a dubitare. La immagine di questo pare anteriore
alla abolizione del sacro Tribunale; ed il nome del dise-
gnatore sac. B(5va, e le indulgenze dei Pontefici parlano
chiaro. Mettiamo tra le leggende anche la provenienza in-
quisitoriale di questo Crocifìsso, che nessun documento
autorizza a ritenere donato dal Governo al domani della
abolizione.
I familiari, alla medesima maniera che i laureati in
utroque, o in arti e medicina, ed i licenziati in farmacia,
venivano nominati con un diploma speciale. Di laureati e
licenziati restano fino ad oggi lauree e licenze del settecen-
to, del seicento ed anche del cinquecento; ma di diplomi di
(i) La Mantia, U Inquisizione in Sicilia (parte II), doc.
XXIII e XXV, Palermo, 1904.
211
SANT'UFFIZIO
familiari, che io sappia, neppur uno. Gli è che, appena
avvenuta l'abolizione, se ne disfecero, per vergogna di es-
serne stati decorati e per paura di un documento che atte-
stasse aver essi servito un Tribunale caduto in tanta disisti-
ma. Fu un blasone del quale tutti ebbero il pudore di
arrossire.
Gli uomini scomparvero, e con loro le vantate carte; la
memoria del loro Tribunale è rimasta viva nella toponoma-
stica e nella paremiologia di Sicilia.
Il grande orologio del palazzo Chiaramente, che pare
batta ancora le fatali 24 ore della morte di Suor Gertrude
Cordovana e di fra Romualdo Barberi nel di 6 aprile del
1724, è sempre detto lu roggiu di lu S. Uffiziu; dopo 127
anni che di S. Uffizio non si parla più.
L'angusta viuzza laterale al palazzo porta anche adesso
il nome di Vanedda (vicolo) dt lu S. Uffiziu, che nessun
sopprimerà mai dopo trecento anni che il popolo ve lo ap-
pose.
Costa di lu S. Uffiziu è l'ultima costa sopra Valdese a
contatto dell'Addàura, in forma dì perpendicolo; proba-
bilmente per richiamo a qualche stabile già posseduto, non
cerchiamo come, dal tribunale.
Di poco conto, ma pur sempre significante, è quel canto
popolare della provincia di Messina che incomincia :
Pi li fimmini c'è lu S. Uffiziu, 16
C'è la catina pi l'omini mali,
dove non è dubbio che la minaccia era per gli uomini de-
linquenti, e per le streghe, le maliarde, specialmente per
arti malvage d'amore (i).
(i) G. Grimi Ix» Giudice, Canti pop. di Naso {Messina),
p. 15. Acireale, 1908.
212.
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
Ho ricordato innanzi il desolante proverbio: Lu roggiu
di lu S. Uffìziu nun cunzigna mai, e vo' aggiungere che a
Modica esso significa: che la Inquisizione non restituiva
pili a libertà colui il quale veniva rinchiuso nelle sue car-
ceri (i).
Minaccia di cose gravi, e che incutono timore, è quella
di far vedere lu S. Uffìziu a cavaddu, la cavalcata cioè,
nella quale a gruppi procedevano l'alcale con la comitiva
di cavalieri, e fi Capitano del S. Uffizio coi nobili, familia-
ri, revisori di liDri, mastri notai, commissari, uffiziali del-
l'udienza civile, uffiziali del R. Fisco, medici, avvocati,
consultori e qualificatori, utfiziaH del Tribunale e cappel-
lani e contadori e mazzieri del Senato fino agl'Inquisitori
fiancheggiati dal Pretore e dai Senatori della città. In altri
termini: far vedere cose terribili.
Così si chiudeva la lunga, lacrimevole odissea, che
quando non finiva in raccapricciante tragedia, destava sem-
pre terrore; sì che ne avanza la qualificazione di cose da
Sant'Uffizio, applicata alle tribolazioni più insopportabili,
alle più grandi traversie della vita.
Fu detto e ripetuto che il muro bianco è la carta dei
matti; e matti sarebbero, sotto questo aspetto, gli scioc-
chi, grandi e piccoli, che trovando un po' di spazio bianco
o comechessia in una latrina, in un pubblico edificio, in una
casa privata, in una officina, in un monumento, in una sca-
la, sono istintivamente tentati ad apporvi il proprio nome,
a consacrarvi una iscrizione, una massima, un vecchio mot-
to, sovente sudicio, una freddura, una impertinenza, una
ingiuria, una infamia. Codesta pratica è antica quanto l'uo-
mo che sa scombiccherare, o comporre uuna parola, o tirare
(i) PlTRÈ, Prov. sic, V. Il, p. 328.
2x3
SANT'UFFIZIO
una linea, quanto gli sciocchi che vogliono serbare a dure-
vole memoria il loro passaggio per un luogo, la loro ferma-
ta innanzi un muro, una colonna, una statua, un'urna,
un vaso, un albero ed anche una foglia di agave o una
articolazione di opunzia.
Il detto proverbiale: Nomina stultorum scribuniur ubi-
que locorum è una affermazione di siffatta miseria.
Chi non s'è incontrato in iscrizioni e motteggi di questo
genere, talora sentenziosi, tal'altra banali, e quando insigni-
iìcanti e quando troppo espressivi? Laonde spontanei suo-
nano le nostre labbra gli amari versi francesi:
C'est propre. de la canaille
Ecrire toujours sur les murailles.
E' poi strano che i cessi pubblici siano stati, come pur
troppo sono, di preferenza ispiratori di siffatte scritture,
pascolo, sovente involontario, di chi è costretto a ricorrervi.
Già Marziale in un suo epigramma diceva:
Nigri fomicis ebrium poetam
Qui carbone rudi putrique creta
Scribit carmina, quae legunt cacantes (i).
La musa latrinae, sia per la sua provenienza e per l'am-
biente che la favorisce, sia per le aperte simpatie che ha
con le manifestazioni analoghe a quelle dei luoghi ignobili,
ha chiamato l'attenzione di eruditi, di antropologi e di cri-
minalisti (2). A quest'attenzione si devono studi non privi
(i) XII, LXI, 7-11.
(2) Menangiana ou Bons mots de Menage, p. iSi. Paris,
1693; Bibliotheca Scatologica, Paris, 1850; F, Sabatini, Le iscri-
zioni su i muri, nella Rivista di Letteratura popolare, voi. I,
fase. I, pp. 69-72; Kryptadia. t. VI e VII; J. G. Bourke, Sca-
tologic Rites of ali Nations. Washington. 1891; K. Reiskel,
214
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
di valore. La maggior fortuna è toccata alle pareti delle
prigioni, non già perchè alle pareti delle prigioni sono af-
lìdate le più fiere invettive contro la giustizia punitiva, con-
tro le leggi e le istituzioni, contro i presunti o veri aguzzini
del criminale, ed ire e maledizioni feroci, e sanguinose mi-
nacce di vendette e bestemmie orrende perdute in mezzo
a grossolani disegni (i).
Eppure se mai luoghi vi furono nei quali sgorbi, motti
e versi murali meritarono l'attenzione degli studiosi, il Palaz-
zo Chiaramonte di Palermo va ora tra i primi. La materia
nelle tre celle addensata rivela cose che la storia non dice,
ma che ad ogni studioso di erudizione siciliana non dovreb-
bero riuscire né inutili né sgradevoli.
Mi spiego.
Ho accennato a <( palimsesti del carcere », e devo chia-
rirne il significato in ragione dell'uso moderno della parola.
Ordinariamente con questo titolo s'intendono le manifesta-
zioni grafiche sia di delinquenti chiusi in un carcere o in
un ergastolo, sia anche di semplici imputati.
Ora quelli delle nostre celle non hanno da far nulla, per
la parte morale, con gli attuali disegni e detti dei luoghi
di pena. La morbosa espressione di questi non esiste in
quelli; nulla di strano, di tristo, di morboso, molto meno di
brutto è nella grande congerie di elem.enti da me rilevati.
Eine Umfrage; in Antropophyteia. III. pp. 244-46. Leipzig,
1906; Lombroso, / Palimsesti del Carcere; L. Re, Letteratura
murale del Risorgimento, ne La Sentinella bresciana, a. XXXXIII,
nn. 37 e 38, 6, 7, febbr. 1901; Da Venezia a Mantova, nel
Giorn. di Sic, a. XLVIII, n. 304. Palermo, 30 ott. 1908.
(i) D. Provenzal, / nuovi orizzonti del Folklore, p. 11,
Bologna. 1906.
215
SANT'UFFIZIO
Lo studioso non vi troverà una mala parola, una delle mi-
gliaia di male parole che non pure nel carcere, ma anche
in luoghi pubblici ed esposti si trovano spesso. Tutto vi è
corretto, tutto v'ispira devozione, religiosità, santimonia.
Sarà sentimento, sarà timore di chi scriveva o disegnava,
pure è così.
Gli autori dei versi e dei disegni delle nostre celle sono
persone calme, di mente equilibrata, che ragionano delle
condizioni loro con severa coscienza. Si interpreti pure co-
me tornaconto, come avvedutezza, anche come paura la
loro circospezione; questo è innegabile: che essi si dan piena
ragione delle loro sofferenze e si volgono a Dio, e cercano
alla fede conforto, al tempo speranza; sfogando in lamenti
le loro pene, senza neppure sognare macchie che non hanno.
Aggiungo di più: essi sono sinceri; perchè non pensano che
un profano possa mettere gli occhi sulle loro scritture, né
che un giorno esse possano diventare pascolo di curiosi.
Quanta differenza con la morbosa teatralità onde oggi si cir-
conda qualunque atto della vita pubblica e privata, dall'e-
sercizio della carità al godimento delle feste intime di fa-
miglia, dalle violenze contro noi stessi alla ricerca della ve-
rità nei processi criminali!
Io tiro una conseguenza a favore dei nostri carcerati.
Chi sa quali segrete denunzie h avran messi in sospetto,
quali inquisitoriali accorgimenti li avran colti, e perduti!
Certo la loro istruzione era tutt'altro che superficiale, la
loro cultura di religione ed anche di Scrittura profonda.
Qualcuno, e vorrei anche dire molti, oltre che di coltu-
ra, erano di saggia dottrina : e credo di esser nel vero affer-
mando con piena sicurezza che la classe ecclesiastica deve
avervi rappresentato la parte principale. Se no, come spie-
216
BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE
gare i frequenti passi della Bibbia? Come gl'inni sacri, parte
propri della chiesa, parte composti originalmente da loro?
Come i motti, le epigrafi lapidarie sottostanti ai nomi dei
santi?
Ahi di quante lacrime e di quanto sangue grondarono
quelle pareti! Quali gemiti non si levarono dalle più basse
alle più alte prigioni dell'edificio! dalle inquisitoriali pei veri
o presunti eretici alle filippine pei rei di fellonia! Tarda e
debole ne giunge ora l'eco; ma fino a ieri, che risonava for-
te, chi la intese? Chi versò una stilla di balsamo sulle pia-
ghe cocenti dei dolorosi che vi tribolarono ignorati e de-
relitti?
O vecchio Steri, magione superba di baroni potenti, reg-
gia di avidi conquistatori, residenza di viceré insaziabili, di-
mora di impavidi inquisitori, prigione di pensatori e di inco-
scienti, di maliarde e di isteriche, di stregoni e di supersti-
ziosi, quanti fatti non ci racconti tu con la severità delle tue
mura, con la nudità delle tue pareti, con la chiusura di an-
tiche porte, col taglio di moderne finestre? La fatalità de-
gli eventi ha sostituito ai singhiozzi dei sepolti vivi i palpiti
e le ire cotidiane di quanti patiscono, e le stanche arringhe
dei difensori d'oggi, e le settimanali imprecazioni dei gio-
catori del Lotto. Solo l'orologio rimasto indice delle tetre
carceri di Filippo II, è sempre lì a batter monotono, inces-
sante, le ore del giorno: altro dei supplizi dei prigionieri
d'un tempo, fossero essi condannati a vita, fossero nell'an-
sia eterna d'un giudizio e d'una sentenza che li toglies-
se per sempre a tanto soffrire.
Quanta verità, e che crudele verità nel motto: Semper
dico venias, nunquam venit ante eros!
Palermo, 24 giugno 1906.
217
i
APPENDICE I
I.
(cfr. p. 112)
Suor Amata di Gesù {Margherita Cordovana) chiede che
il Tribunale delV Inquisizione ordini la restituzione delle
sue terre che erano state incorporate coi beni del S. Of-
ficio per debiti di alimenti durante la sua carcerazione.
Ill.mi Signori,
Soro Amata di Gesù della città di Caltanisetta con ogni
dovuta divozione rappresenta alla Signorie Vostre IH. me
che l'esponente tu l'anno 1699 d'ordine del SS.mo Tribu-
nale trasportata nelle carceri di detto Tribunale ove dimorò
anni tre e mesi otto; in quel tempo appurantosi dal SS.mo
Tribunale di non aver commesso l'Esponente niuna reità, la
dichiarò perciò innocente lasciandola in libertà, ma ])er
causa dell'alimenti che per detto tempo li erano stati soc-
corsi in dette carceri, la tirarono debitrice in somma di
onze quaranta, quali l'Esponente con suo fratello Gioac-
chino si obbligarono alla ragione di onze venti l'anno e non
avendo corrisposto al pagamento suddetto, furono perciò
incorporate da potere dell'Esponente salme tre e tumuli
undici di terre proprie dell'esponente esistenti nel territo-
rio della città di Caltanisetta, nel comune nominato delli
Busiti, all'Esponente spettanti come ereditarli del fu Mi-
chele Corduana, come per detta incorporazione nel 1703
ed altra eseguita delle terre proprie di detto Gioachino; e
da quel tempo sinoggi sudetto SS.mo Tribunale si ha per-
cetto sovra le sudette salme 3, 11 proprie terre dell'Espo-
nente la somma di onze centoquarantotto di modo che non
solo trovansi estinte le sudette onze quaranta credito di ali-
menti, ma deve sudetto SS.mo Tribunale restituire all'E-
221
sant'uffizio
sponente la somma di onze centootto per frutti indebita-
mente percetti, non avendo l'Esponente per il passato per
la sua evidente miseria potuto ricorrere alle Vostre Signo-
rie IH. me, e però l'Esponente si fa lecita ricorrere all'in-
corrotta giustizia ed integrità delle Vostre SS. 111. me sup-
plicandoli acciò si compiacessero ordinare di doversi scor-
porare a nome dell'Esponente le sudette salme tre e tumoli
undici di terre, con restarne libero il possesso e percezione
di frutti delle medesime a nome dell'Esponente, come al-
tresì ordinare di doversi dell'introiti pervenuti e da perve-
nire della Senna del SS.mo Tribunale e d'altra maniera,
che stimeranno più proprio le Vostre Signorie IH. me, re-
stituire e pagare all'Esponente, li sudetti frutti indebita-
mente percetti, che il tutto oltre di essere di somma giu-
stizia, lo riceverà a grazia particolare, e così li supplica,
ut altissimus etc.
Al verso si legge : Memoriale di Soro Amata di Gesù del-
la città di Caltanissetta.
Recognoscatur per spectabilem Fisci Patronum - Dr.
Franchina.
lesus Maria - Videtur quod receptor Tribunalis referri
debeat in scriptis. - Amico Fisci Patronus.
Receptor referat in scriptis - Dr. Franchina,
{Minuta di Notar Giambattista Lo Bianco di Palermo,
anno 1741-42; voi. 46, fol. 755. - Archivio Notarile distret-
tuale di Palermo).
IL
(v. pag. 153)
Copia de una letera di sier Piero Venier, quondam sier
Domenego, data im Palermo, a dì 8 zugno, et recevuta
qui a dì luio 1511, drizata a soe sor eie.
Come scrive, per dar la lezor cosse nove ve dinoto,
come venere pasato (i), per il reverendo inquisitor de
(i) 6 giugno 1511.
222
APPENDICE I
questo regno (i) fo fato condanaxon contra 30 et più ere-
tici et calivi cristiani, cussi done, come homeni; et per
esser sta novo modo, ve dechiarirò in parte. Quel zorno
se tene serate le botege e oficij, e fo come festa sole-
nissima. La matina, de caxa del dito inquisitor, dove è la
soa prexon, ussiteno prima 16 femene de diverse nation
e-t etade, vestide con li soi abiti, et sopra de quelli le ha-
veano, a modo, una zormola di tela zala, che li deva finO'
apresso i zenochij, sopra de le qual era una sola f bian-
cha, quanto la longeza e largeza de la tela, la qual -|- era
da le parte da drio a tute queste, et simelmente a zercha
7 homeni, tra i qual era un che fo frate di Carmeni; et a
futi questi homeni e done, come mali cristiani, ma de
plano, senza corda, confessi et reduti a penitentia, fa
messo in testa una cossa de tela, over de carta, zala, tuta
longa più de 3 quarte, e forsi un brazo, schieta, senza
niente suso. Da poi driedo a questi, de fato vene fu ora
tre done, tra le qual fo una madre e la fìola, et la madre
di quel Anzolo Palomba (2), che, pelegrin, mandò do volte
a Veniexia con letere; et driedo a queste 3 done vene la
5miagine de un morto, con el suo nome, de modo a un
carlevar, vestido di tutti habiti e maschara (3); e poi
drieto vene 6 homeni tutti de etade da 50 anni in suso,
tra li qual era un valente medego, dotor, et molto apre-
'ciato, et alias exercitato (4). Queste 3 done et 7 homeni
haveano sopra li soi abiti una zorniola negra, sopra la
qual, cussi davanti come da driedo, era depento molte
fìnte figure de demoni], che bufavano fuogo depento; et
per el medemo tal bruti e spaventosi anemali erano de-
penti sopra le soe corone, che erano negre et orende a
(i) D. Reginaldo Monterò.
(2) Laura Palumbo da Palermo.
(3) Questo condannato ad esser bruciato morto in effigie-
era Giacomo di Bologna da Palermo.
(4) Gabriele Zavatari da Bivona, medico fisico.
223
SANT UFFIZIO
vederle. In testa questi tal haveano un Crucifixo per uno
e per una in man, e persone apresso che l'andavano con-
fortando, perchè tutti dicevano, voler morir da boni cri-
stiani; e cussi perseverò con dir de bocha, fin a la soa fin.
Tutte le qual persone fo condute, per bon spazio (i), fina
sopra una gran piaza (2) dove, soto la caxa del signor vice-
re, el qual con molti baroni et altri grandi stete a la fa-
nestra, era fato do alti soleri. Sopra uno, el piuj alto, et
molto adornato, se messe prò tribunali, sedendo el pre-
fato reverendo inquisitor, el prior de San Dcmenego de
observantia con altri maistri, frati del suo bordine, 4 doc-
tori, et poi, acL pedes eorum, preti e frati, e muUitudo co-
piosa. Sopra l'altro soler, assai alto, fo messi in alto, e
luogo più vistoso, li diti, vestiti con le corone negre e de
fuogo etc. Quelle altre done et homeni, da li habiti e co-
rone zale schiete, fo fati sentar sopra banche più basse.
Sentadi che fo li diti, senza confortadori, né alcun apresso,
salvo loro medemi, con Crucifixi sempre in man, per un
frate de San Domenego, valente predichador, provando
per molte raxon et notabel evidentie la fede nostra esser
la santa et la incarnatiom di Cristo, e tochò molto utele et
importante parte a questo bisogno necessarie, mostrando
li erori di hebrei; e prediche per spazio de do bone bore,
dove ne era grandissima moltitudine de ogni condition di
persone; e da bon, savio e discreto el persuase, al con-
cluder suo, quelli che da la morte era liberati, a far vita
da boni cristiani, et quelli che fossero per aver qualche pe-
na corporal, etiam che el fosse la morte, a soportarla con
pacientia, comò fedel cristiani, per la fede et per amor de
Dio, exortandoli et aducendoli molti exempij dei martori
(i) Piazza Marina, dove, dalle finestre del Palazzo Ghia-
romonte, il Viceré e la nobiltà poterono assistere allo spet-
tacolo.
(2) Cioè dalla Chiesa dei SS. Quaranta Martiri (al Casa-
letto?).
224
APPENDICE 1
santi; i qual, a torto, vegnivano alcune volte per una
Vania, alcuni per un'altra sorte de acusation fati morir;
excusando el reverendo inquisitor, che sopra le cosse ate-
stà per molti testimonj, e non per utel proprio, li conda-
nava. E con gran .satisfation del popolo fo finita la dita
predicha. La qual expedita, per el canzelier del dito reve-
rendo inquisitor, a uno per uno fo publichà i processi,
prima di le donne, dal portar de testa zalo, et poi li ho-
meni, pur da li abiti futi zali, fazando a una a una per
tanto, quanto se lezeva el suo processo, star im piedi, so-
pra la bancha. Queste tal confessò che in gran parte le
fevano secondo la leze de Moyses, e veneravano el sabato
più che la domenega, non manzando né carne de porcho, né
galine, che non fosse amazà de cortelo; le dicevano oration
hebree, et molte altre cosse, che fanno li zudei. Queste
tal done et homeni vestiti de zalo, con la -{- biancha da
driedo, avea fato degni de la morte, over de grandissima
punition; ma per aver confessa senza corda, li fo remessa
et perdona la morte. Alguni fo poi condanati in vita im
prexom, alguni et algune a tempo; et el frate fo condanà
che '1 fosse desgradà, e poi, per certi anni, in galia con li
feri. E fornidi questi dal zalo, si comenzò prima a spazar
l'imagine del morto, el qual soleva esser quello che dizeva
in la soa ascosa sinagoga, e tra le altre cosse, quando l'era
amala e morì, alora li fo porta el nostro Signor clemen-
tissimo, e quando questo crudel cam sentì che i voleva
che el se comunegasse, el fense che li venisse da render,
et li voltò le spale al Sagramento; et, vivando, el fece et
disse molte cosse degne de ogni gran punitione. Poi fo leti
i processi de le 3 done: queste haveano fato simel sorte
de manchamenti, et alcune cosse pezo de le altre done, et
se haveano imbarchato la madre et fiola per andar in terra
dove le podesseno far la vita a so modo, senza sospeto;
tamen le meschine denegò el mal che le havea fato, et da
poi che le ha vene corda, le confesso la verità, et par che
la leze non le salva de la vita. E la madre de quel certo
223
15 — G. PITRÈ - Sant'Ulllzio
SANI UFFIZIO
Anzolo, che era gran maistra de l'arte, etiam denegò, et
poi confesà. Queste fo cognossude per heretiche, zudiate
e pertinaze, e non degne de alcuna remission, e comesse
al brazo et foro secular, che le spazaseno. Et poi fo leti i
processi, ^ uno per uno, de quelli 6 homeni; l'ultimo fo
quel del dotor medego, i qual haveano fati assà erori et
manchamenti; tra li altri, essendo una dona amalada in
caxa del medego, li fo porta el nostro Signor, et avanti se
feze spazar la caxa; e quando lui vete el disse: Che se fa?
A' da venir qua qualche conte, over baron? — E uxò diso.
neste parole; e molti de questi non credeva in la resuretion.
Tuti 6 questi fo condanadi per eretici, Eizudiati et pertinazi,
et fonno remessi etiam al foro secular (i), e fo condanati a
la morte, e tuti li soi beni et facultade fo confiscade a la
camera real. I fìoli mascoli, fin al segondo grado, fo con-
danati, che i non podesseno haver dignità ni offìtio, et
privi de molte cosse, come son, nodari, avochati, maistri
de botega; e le fìe, fin al primo grado, tantum. Fo etiam
condanà che le non podesseno portar oro, né zoie, né lavor
de seda, né di grana, sotto quelle pene; e, per lo medemo,
i fìoli di sopra nominati. Fato questa publichation de con-
danaxon, prima fo dà sachramento sopra un mesal, im
presentia de l'inquisitor e tuti astanti, a quelli che non se
dovea far morir, dali abiti zali da far vita da boni chri-
stiani, relassando ogni heresia e modi vecchi]*; e cussi tutte
done e homeni zurò servar. Da poi questi relasadi, fo tor-
nati a lor prexon, et quele 3 done, 6 homeni, et la pentura
del tristo morto fo conduti fuora de la terra, per un trato
ée balestro, dove erano apariadi X palli et Itgne asaissime,
perché l'inquisitor dete gran indulgentia a quelH porta-
vano legne per far tal acto, et era infinità de persona per
(i) Cioè a Matteo di Settimo, capitan giustiziere della città
di Palermo.
226
I
APPENDICE 1
veder se i se remudavano de la fede, non aspetando re-
mission de la vita, dei propri j fioli havendo sentì el vitu-
perio et levato i beni soi a li soi posteri; tamen tutti, per
quanto in aparentia se vete, sempre con dir Jesus et altre
sancte et devote parole, a modo porceli, posti dextesi in
terra, separati perhó uno da l'altro, fo con corde strango-
lati (i), e poi atachati tuti £j suo trave, con una cadena
al colo, fo fati arder e bruxar; cosa spaventosa! Et, hes-
sendo morti come cristiani, el suo morir se poria dir mar-
tirio. El nostro Signor Dio li pagerà, segondo a la sua
justitia e misericordia parerà. E' messo da 60, e più, an-
cora im prexon eie.
Diarii di Mariti Sanuto, Venezia, 1879-1903, tomo XII
(MDXI, Luglio), pag. 310-313 (2).
III.
(v. p. 156)
De adventu reverendissimi Domini Inquisitoris in hac civi-
tate Cathanie et de iusticia per eum jacta.
Item notandum est qualiter in questa cita di Chatania
die XVJ"» januarii Xlje indictionis 1568, intrao lu reve-
rendissimo signur inquisituri in quisto regno degenti con-
tro la hiretica pravitati die dominico per la porta di Yachi
accompagnato per lo spettabile signuri capitano, patricio
(i ) Più tardi usò strangolare i rilasciati ad un palo, sotto
il quale poi si accumulava la catasta di legna e le botti
con pece.
(2) Devo questa indicazione al sìgn. ing. agronomo Pa-
squale Di Gregorio.
227
SANT UFFIZIO
et iurati, more solito, et andao a posari in lo convento di
sancto Francisco di Sisa intro la dieta cita; undi stetti multi
iomi, et in dicto convento prisi multi informa cioni contra
di alcuni persuni, et finaliter foru multi carcerati, et da
poi dicto signuri inquisituri si partio di lu dicto convento
et andao a |x>sari ir> lo castello di la dieta cita ad effectu
di interrogar! et compliri li processi contra dicti carcerati;
quali compiiti, si volsi fari la justicia; quali justicia si fi-
chi per lu modo infradicto, videlicet.
In primis fu facto uno catafalco in lo chano di la mater
ecclesia in frontispicio di lu campanaro verso la tramon-
tana appoyato in dicto campanaro, multo auto cum vinti
quatro scaluni; et in summitate dicti pontis fu facto lu
ponti undi stava lu signuri inquisituri cum sUa scia: et in
in canto dicto signuri inquisituri stava lo reverendu si-
gnuri vicario di la dieta cita, cioè a la banda destra, et a
la sinistra era uno di li reverendi patri di Jesu; et in pedi
dicto ponti ehi era uno ponti, undi stavano li carcerati et
penitenti cum li mitruni li carta depinti, et alcuni cura
bucugli et certi cofìni di pagla inanti li pecti; et di un au-
tra banda stava uno peTgulo, undi si predicava. Quali pre-
dicaturi fu lu revendissimo patri frati Agustino La
Mora catanisi di l'ordine di predicaturi. Quali predica for-
nita, in dicto pergulo achanò uno previti, quali publice
manifestava, ligendo li processi, tucti li mancamenti et
defecti di dicti penitenti di uno in uno; et lecti dicti pro-
cessi, legìa et manifestava li sentencii contra li condenati,
Et finaliter foro multi condenati tanto a la frusta comu in
galera et altri peni. Et fomiti dicti sentencii, dicto signuri
inquisituri si partio et andao a lo castello, et la matina, vo-
lendo meetiri ad effecto li condemni et fari frustari li con-
dennati, ad pregeri di li signuri iurati di la dieta cita et
multi altri signuri, dicto signuri inquisituri ad tucti fi-
chi la gracia et li remisi li condenni et foro tucti liberati,
228
APPENDICE I
et ad quilli chi haviano li hiresii chi foro livati, et a tucti
pexdonao. Quali iusticia et spectaculu fu facto a li XIIJ
di marcso anni predicti XIJ indictionis 1568. Et lu iornu
sequenti si partio per Palermo.
Pag. 225-226 idem.
IV.
Alli 23 di Luglio 1605 si diede possesso della R. C. al
Tribunale della SS. a Inquisizione di tutta quella abita-
zione nel Palazzo del Re Martino, che espressa la pre-
sente copia delTatto che si stipulò in virtù di dispaccio
di S.a M.a Cattolica, spedito nella Corte di VagUadoUd
a 13 Agosto 1600, esecutariato in questo Regno d'ordi-
ne del S.r Viceré Duca di Macheda a 14 Novembre di
detto anno 1600.
In primis totius Hospitii Magni, vocati Lo steri, cum
introita a porta magna marmorea ex parte dicti plani, et
omnibus stanti js ex parte scalae coopertae, existentis in
dicto introitu, sequendo per omnes stantias subtter et desu-
per per totum dictum Hospitium cum stantiis. Archivi] Dlim
M.R.C., et in eis, in quibus habitabant Magister Nota-
rius dictae M.R.C., seu substitutus, et cum alio introitu
eiusdem Hospitij cum scala magna lapidae discooperta ex
parte dicti olim Archivi] cum stantia subter arcum dictae
scalae, cum stantijs in quibus olim stabat Regius sollici-
tator Fiscalis cum eius officio Actorum criminalium Re-
giae Thesoredae, et cum alijs stantijs, in quibus alii se-
cretarii commorabant et eorum officia axescebant, habenti-
bus scalam, ianuam et fenestras etiam in parte dicti plani,
cum canattarja, stabulo, ac iuribus e pertinentiis suis;
existentibus secus portam Mazariensen Regiae Dohanae,
229
sant'uffizio
cum viridario dicti Hospitij, acquis et olijs in eo existenti-
bus. Excluso tantum et dumtaxat a corpore dicti Hospi-
tijs magni, cortile, Archivio, stantijs ubi regitur Regia Do-
hana et omnibus et singulis magazenis ipsius Regiae Do-
hanae tam terranis, quam soleratis, et capella in dieta
Dohana existente.
Item fuit tradita possessio domus olim Aichivij Con-
cistorii Sacrae Regiae Consuentive et aedificij, seu om-
nium stantiarum, in quibus regebatur Officium Tribunalis
Regis Patrimoni]' cum stantijs, ubi commorabant Ratio-
nales et Coadjutores ordinari]' et extraordinari j, et omnes
ali] Officiales et Ministri dicti Tribunalis cum stantijs omni-
bus in quibus habitabant dictus de Canizaris Magister No-
tarius et ejus familia cum stantijs Archivij dicti Tribunalis,
et in quibus ipsum Officium Magister Notarius exercebat.
Item fuit data possessio stantiarum officij et Archivij
Regis Conservatoris et stantiarum Officij Cancellariae et
etiam officij Archivij officii Protonotaris et omnium stan-
tiarum et corporum existentium subter et desuper dicto-
rum aedificiorum cum omnibus et singulis eorum iuri-
bus et pertinentijs, earum universlis, eorumque integro
statu et hoc per introitum et exitum dictorum stantiarum
aperitionem, et clausionem januarum et fenestrarum in
eis existentium et per earum deambulationem, per inci-
sionem arborum dicti viridarij cursum aquae et alia signa
denotantia dictam actualem, realem, corporalem et libe-
ram possessionem, iuxta ordinem suae Catholicae Maj&-
statis et ad effectum in dictis litteris conteni'um. Unde t-.tc,
Marius Cannizaro, Mag. Notarius ex actis.
Codilla
{Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in
Sicilia dal 1224 al presente. Sub anno 1730-
M Ms. Qq. H. 62.
230
APPENDICE I
V.
(v. p. i66)'.
Atti, Bandi e Proviste 1510-11. Indiz. XIV //. 205-207 Ar-
chivio del Comune di Palermo. N. progr. gen.le 118.
speciale 34. Aula Diplom., scaffale n. 2, armadio 2.
Multo alto cathoUco et multo poderoso Princhipì Rey
et Signuri Poy di baxari sci reali manu et pedi per in-
f orinari vostra excelsa Maiesta fachimo lo presenti, lassan-
do da parti la immensa affectionj et excessivo desjderio
chi à tenuto et tenj quista vostra felice e fedelissima chitatj
in lo Real servitio di vostra Altezza, perchè è stato tanto
et cussj continuo chi Vostra Alezza meglu lu sentj chi
nui per quista né per pluj altri lo bastiriamo esprimirj. Et
per esser nuj naturalmentj inclinatj a so Real ser-
vitio non haviano bisogno siamo asservitj spirunatj ymo
refrenatj et pirchì in quista chitati je stato lo Reverendo
Mosseu Alfonso Bernal inquisiturj di la heretica pravita-
ti cum grandi potestati del Summo Pontifichi et di Vostra
Altecza et haviria voluto usarj so officio et preheminen-
cij comu si costuma in li partj di Spagna non advertendo
chi altramenti si Ha costumato et costumasi in quisto Regno
et chitati, et ancora chi non chi su tanti neophitj et mar-
rani comu in quilli parti, ha facto et temptato alcuni cosi
chi non tocca ne specta asso offìtio secundo simo intor-
niati di valentissimi docturi et di alcuni soy consulturj
di chi ipsu ha priso ammiractioni. Sensa raxunj demunstra
stari malcuntentu. Però si nui non sapissimu comu ben sa-
pimo la Sancta Inquisitioni essiri multo accepta a lo on-
nipotenti dio et a vostra Cattolica Maiesta ala intencioni
de quilla esseri samctissima, multi cosi fichi havimo consen-
(i) Devo questo documento alla gentilezza degli illustri miei
amici Proff. Guglielmo Savagnone e G. Pipitene Federico,
capo il primo, sottocapo il secondo dell'Archivio Comunale.
231
SANI UFFIZIO
tito et suffiruto chi non Io haviriamo permisso, et maxime
quando in principio dicto inquisituri fichi jectari ad uno
homu dabenj nomine magistro Philippo Bertub'no (i) per
cosi non spectanti asso offitio né vertenti heretica pravita-
tj sensa alcuno termino di ligi et di raxuni, chi fu pluj
tosto per voluntati chi per raxuni. Et fu remediato chi non
sindi parlau benchi tucti la chitati murmurava cussi comu
Vostra Altecza divi essi per altra via plenamentj infor-
mata (2). Appresso tramisi ad uno isbirro a la casa di la
chitatj undi nui altri fachimo residentia et fìchini una
injunctioni di sua parti sub pena di excomunicationi, chi
per tali jorno ni presentassimo in sua casa, a tali ura a
la sua audiencia publica ac perchè li presentassimo jura-
mento di defendiri la sancta Inquisitionj. La quali cosa fu
a quista chitatj cosa nova et dispictusa cum vilipendio
et comu si nuj fussimo di progenia judayca oy vero recon-
ciliati; et nuj per li respecti predictj cum grande sof feri-
mento li tramisimo lu sindaco di la chitaij gintilhomu
et di li princhipali di quilla, maraviglandonj di sua reve-
rencia chi cum quista chitati la princhipalj di lo Regno
talj terminj usassi a mandarilj uno ysbirro et requidirisj
et, jnjungirilj in lu modu predicto, respondendolj chi la
chitati in principio di so offitio in la matrj ecclesia havia
puplice jurato e-t non era bisogno altro juramento; chi cussj
jn jpso semprj si havia costumato : nentjdimeno si altra
volta era. bisogno la chitati jurarj oy nuj altri chi repre-
sentamu quilla, stavamo prontj tando et semprj chi jn lu
loro modo et forma chi juraro li predecessurj nostrj juri-
riamo nuj; et di quisto parirj et consiglo foro multj nota-
bilj chitatinj et docturj princhipalj di la chitati, dichendo
(i) Arresto per cose estranee alla fede, di un Mr. Fil. Ber-
tolino, brava persona.
(2) Ingiunzione fatta con un birro a voce al Senato che
si presenti per un dato giorno all'Inquiusitore (per la scomu-
nica) per giuramento.
232
APPENDICE I
talj juramento non essiri necessario et nuj per disfungirj li
inconvenienti et pluj servirj lo immortalj Dio et a Vostra
Alteza stavamo prontj. Et ipsu insistendo chi volia lo das-
simo in sua casa, et ad questo bisognao lo remedio et pru-
dentia del dicto Viceré per potirisi desister] di talj impresa.
Appresso temptao volirj exemptioni dì certi Gabelle di la re-
gia Curti et di quista chitati di li quali nexuno mai inqui-
situri fu exempto ne eciam prelatj tanto magis quod ipsu
•non fu né è clerico; et benkj lu fussi, li clerici non su
exempti. Et nentidimino quisto fu prò visto per lo dicto
spectabil Vicire, chi Ij magnifici magistrj razionai] provvi-
dissiro di justicia et illa pendi quista sua peticionj. Appresso
havendo lu dicto Inquisituri sentenciato et declarato al-
cuni neophitj marrarj prò heretici a perpetuo carce-
ri et dapoy reconciliati et alcunj datj prò eretici
foru abruxatj in lo pronuntiarj di lì sententij li
fechino tucti compagnia et grand] honurj comu lu de-
bito requidia di jlla; ad alcuni jorni volia promulgar] uno
bando di lo qual] con lo prisent] ven] la copia ad vostra
Alteza, lu quali era multo prejudicial] a la Real] prehemi-
nencia di Vostra Alteza centra li Capitul] et Privilegi] di
quisto Regno et di quista chitati et lo honur] et interesso
grand] di tucti li chitatin]; et era fora di la jurisdicion] di
lo dicto Inquisitur]. Nui visto dicto bamdo, per dar] cuncto
di nu], fichimo convocar] dechi doctur] princhipal] di la
chitat] infra li quali foro du] di li cunsigleri di lo dicto
officio chi condempnaru a li dicti marrany et non volsino
convocari altri et assay chitatin] per ma]ur] servicio di Vo-
stra Altecza li quali visto lu bando predicto, nemine discol-
pante dissiro et vosiro chi quanto tenia dicto bando non
era né spectava ad dicto offitio per multi et assay raxunj, et
chi nui non permettirisimo ad nixuno modu prò dicto offitio
si promulgassi tali bampno chi era multo pre]udicial],
comu é dicto di supra, et chi fussimo a lu dicto spectabil].
Viceré et a quillo informassimo di tutto lo negocio per
potirisi meglo providir] declarando ad vostra altezza
233
sant'uffizio
chi è preheminencia di quista chitatj, di quando è fac-
ta chitatj chi non si pò promulgar] bamdo in quilla si-
non per so banditurj e chi tali bamdo sia visto per
H officiai] de dieta chitati et conoxuto non chi essirj co-
sa contra soy privilegi oy capituli, eciam chi tal] bando
sia di quaulsivoglia officiali preheminentj et di lu Vi-
ceré del Regno; lu quali Viceré essendo per nui infor-
mato ny dissi chi tucto fachissimo intendirj a lo dicto In-
quisituri et non potendo infra nui accordarini chi ipsu
remittiria lu punctu et talj casu a la gran Curtj; et paren-
donj chi 'lo dicto Viceré dicha multo beni cussi fichimo:
oomandamo a raxunarj a lo dicto Inquisituri .um
dui di li iurati compagny nostri et fichimolj declarari chi
tali bandu per ipso né per so offitio potirisi promulgari, né
era di sua iurisdicioni. Secundo per consiglo dili supra-
dict] docturi ftiaxime di dui soy principali consultori era-
mo consiglati li quali havendo intiso a li dicti iura-
tj volendo insistiri chi la pena si divia fari et chi
nui ^on lu potiamo impediri reyteraro tucti li cosi predi-
cti chi di quilli era stato mal tractato et chi non po-
tia farj altro chi seri virilo ad Vostra Altecza. A lu qualj
parlari tamen fu refenso chi la chitati tambeni sicura comu
a lu presemti fachimo certificando et beni informando
Vostra Altecza chi quista chitati camenti la sancta volun-
tati et intencioni di Vostra Altecza essiri per lo sancto
zelo di la sancta fé et solicita in sustiniri per li soy regni
quista sancta inquisicioni benchi in quìsto regno chi su poco
neophiti et marranj per conformarisi cum Vostra Altecza
sempri a multo honorato et favorito a li inquisitu-
ri su stati et assay plui lo dicto misser Alfonso havimo
nui honorato et favorito et in dicto so officio in cosa al-
cuna ni havimo intromiso né dato impedimento alcuno,
nentidimino comu ipsu lu hagia adiministrato et pertanto
si non potimo nui informarindi Vostra Altecza persuadi -un-
ni Vostra Altecza per altrj lu possa intindirì. Quisti cosi
et scrivimo per dari cunto di nuj perchi, comu be-
234
APPENDICE I
nj po considerar] Vostra Altecza, per lo regno per esse-
rj privilegiate at havirj soy costumi è bisogno chi lo re-
gimento di li officj sia administrato secundo lo costumo
di lo paysi et non divj ad ipsu inquisituri parirj extraneo
farj comu ha costumato maxime in cosi non prejudi-
cialj a lo dicto officio, et diviria esequirj comu li soy
predecessurj hanno facto. Per tanto supplicamo vostra Al-
tecza genibus tlexis si digna providirj chi de cetero dicto
inquisituri vogla usar] so officio comu si divi et qui-
st] cosi chi non su di sua iurisdictioni non li ten-
tar] apportarisi in quisto regno et chitati con quillo ordin]
et forma chi si div] secundo lo costumo di lo paysi et dict]
soy predecessori si hanno provato comu la raxuni permect]
chi certament] n] par] multo necessario a quisto regno et
chitati si lo meriti perchè continuament] non pensa altro
la noeti ^t lu iomu exepto comu a Vostra Altecza possa
servir]. Lo quali nostro Signuri dio ni facza gracia di con-
servar] prospero et felichi et una longa vita et cum con-
tinua Valencia di soy glorius] impres]. Ex urbe nostra fe-
p liei Panormi] die vigesìmo XVII ]unii XIIIJ indicio-
nis 1511.
Di V. S, R. Mti humil] vassalli et servitor] chi
soy Reali mano baxano lo pretur] et ]u-
rat] dì la vostra felichi chitati di Palermo.
Georgi Bracco MUes et pretor.
Alexandro Galletti juratus et priolus
Flaminio di Leofante juratus
SlMUNI DI BÙLOGNA jUTUtuS
ToMAS IsGRO juratus
Francisco de Montano jurato
Petro de Squarcialupo jurato
Franciscus Farfagia magister noiarius
juratorum feltcis urbis Panormi
Sacrae Regie Maiestati
235
APPENDICE II
I.
Un'importante scoperta del Prof. Pitrè : Le carceri del San-
t'Uffizio nel Palazzo dei Tribunali - Disegni, motti e
poesie dei prigionieri (dal <( Giornale di Sicilia » del 25-
26 giugno 1906).
Nello storico palazzo dei Chiaromonte che si ergeva
maestoso alla Marina, circondato di ubertosi giardini, nello
Steri che fu palazzo reale, albergo di ogni delizia, nel t6oo
fu stabilito il Tribunale dell'Inquisizione, che vi rimase fi-
no al 1782, anno in cui fu abolito dal viceré Caracciolo, che
fece dare alle fiamme gli archivi, sicché nulla ci è rimasto
di quanto si riferisce al S. Uffizio in Palermo.
Non sappiamo nemmeno dove e come erano le carce-
ri del S. Uffizio, che finora abbiamo dovuto vedere in un
sotterraneo, dal lato della dogana, additato come l'antico
carcere, ma forse per semplice tradizione.
In questi ultimi mesi, volendo il Municipio adattare al-
cune stanze della R. Procura ad aule d'udienza, nei lavori
di scrostamento delle vecchie muraghe, venne fuori un primo
affresco.
Di tal cosa fu informato l'illustre prof. Giuseppe Pitrè,
il quale, recatosi presso la R. Procura (primo piano), trovò
nella prima stanza a destra di chi entra dalla porticina che
dà sulla scala, un disegno colorato, che lo animò a conti-
nuare per conto suo il lavoro di scrostamento del muro; ciò
che egli fece, lavorando con tenace pazienza per ventun
giorni consecutivi.
Prima di arrivare alla muraglia lavorata, il Pitrè in-
contrò non meno di quattro intonachi, sovrapposti nei vari
tempi. Durante il suo faticoso lavoro, di giorno in giorno,
di ora in ora, egli vedeva spuntare alla luce, miracolosa-
239
SANT UFFIZIO
mente conservati dalla calce, disegni, graffiti, poesie, trac-
ciati e scritti tre secoli e mezzo or sono, negli orrori d'un
tetro carcere dell'Inquisizione.
Il Pitrè, che chiama con frase felice questi documenti
grafici i « palimsesti del carcere » li ha studiati con atten-
zione, ed è riuscito a decifrare la maggior parte dei motti e
delle poesie che, coi disegni, occupano parte della parete
sud e parte della parete ovest della stanza.
In questa è ancora visibile l'antica finestretta, ora mu-
rata e sostituita da due grandi finestre; dall'antica finestret-
ta doveva piovere una luce scialba che rompeva a fatica la
oscurità dell'angusto carcere.
Or è da notare che i motti, le poesie, i disegni, son lutti
nei punti dove la luce non poteva penetrare quasi affatto;
precauzione questa dei prigionieri per non lasciar scoprire
l'opera loro.
In seguito alle sue attente osservazioni, il Pitrè ritiene che
tutte le stanze allineate al primo piano della R. Procura,
siano state un carcere destinato alle persone civili e agli
ecclesiastici nel secolo XVII, proprio nel secolo in cui il
Tribunale dell'Inquisizione si stabilì nello Steri.
Queste convinzioni del Pitrè sono suffragate dalle iscri-
zioni scoperte.
In quattro punti differenti egli ha letto questi motti:
« Averti ca cca si dura la corda
« Statti in cerv'ellu ca cca dunanu la tortura.
E più in là:
« V'avertu ca cca prima dunanu corda...
« Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura.
arti infami.
Del resto, tutta la cella accenna a sofferenze di gente
carcerata.
I motti latini, le frasi italiane, i motteggi e le canzoni
siciliane e varie figure, accennano a tortura (S. Caterina),
a catene (S. Vito), a tenebre (S. Rosalia).
240
I
APPENDICE II
Notevole la figura di S. Rosalia, che ha sotto di sé la
carta geografica della Sicilia. Sulla figura è scritto:
O Rosalea^ sicut liberasti a peste Panhormum
me quoque sic libera carcere et a tenebris
Il Pitrè ha potuto precisare che tanto i motti che le
figure sono della metà del 600. Ciò è dimostrato dal fatto
che ben due volte, in due diverse inscrizioni ricorrono le
date 165... e 166... e dalla figura dello spagnuolo disegnata
sulla parete ovest, rappresentante un signore in costume
spagnuolo del '600, dall'aria inspirata, inginocchiato in
1
I
atto di preghiera; a destra è lo stemma della sua casa; a
sinistra, in caratteri gotici, la preghiera che egli recita.
Dall'altra parte, è un disegno a tre colori (carbonella,
giallochiaro e rosso) rappresentante un mascherone, dalla
241
16 - G. PlTRÉ ■ Sant'Uffizio
SANI UFFIZIO
r^.^.
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Jl .»
-1^
^^^
k
cui bocca escono due cornucopie, su una delle quali, un car-
cerato dipinse la figura d'un inquisitore, che l'ossessionava.
Ma se la figura dello spagnuolo è di scorretto disegno
(specie nelle gambe) e il mascherone non esce dai limiti
d'un disegnino privo d'importanza, la testa barbuta che
/vJ^^J
I
APPENDICE II
lo sovrasta a destra, è una delle più corrette ed espressive
che siano nella sala.
In essa, lo sconsolato artista che la traccia, volle ritrar-
re forse se stesso e il proprio padre, tanta è la malinconica
serenità dello sguardo e la corretta espressione dei linea-
menti.
Come di questa e delle precedenti, è ignoto anche l'au-
tore della pensosa figura d'un santo monaco (potrebbe
essere S. Benedetto o S. Francesco di Paola o S. Bernardo
o un altro dei taumaturghi); figura assai delicata e soave.
Nomi d'autori non se ne leggono mai; solo una volta,
in una figura quasi di grandezza naturale rappresentante il
Cristo risorto, sotto l'inscrizione:
Mors, ubi est Victoria tua?
sta scritto : (( D. Franciscus Carata, servus tuus »
Notevole un braciere con un cuore che vi brucia dea-
243
SANT UFFIZIO
tro, simbolo di orribili sofferenze e, sotto la figura di
Sw Vito, l'inscrizione:
Cum infirmor tum potens sum.
Sotto la figura di un'aquila, il Pitrè legge:
Vi'rtus) et motus (a)best
Ma quelle che hanno importanza davvero singolare
sono le poesie siciliane.
Sono d'un solo autore, un malinconico poeta del car-
cere, che scrive a penna d'oca le sue pene in uno stile
sinceramente triste. Sono davvero lacrimae rerum e nulla
vi è della retorica seicentesca.
Egli non si firma se non con qualche amara qualifica,
come Yahhannunatu, l'inalici, lu scurdatu; e usa l'ottava
siciliana classica a due rime alterne. Parecchie ottave il
Pitrè è riuscito a leggere interamente, altre solo in parte.
Eccone una fra le più espressive e profonde:
Nun ci 'nd'è no scuntenti comu mia,
mortu, e nun pozzu la vita finiri.
Fortuna cridi ch'immurtali io sia,
Chi si murissi nun duvria patiri,
pirchì cu la mia morti cissiria
la dogghia e l'infiniti mei martiri;
per fari eterna la memoria mia
'nta tanti stenti nun mi fa muriri.
L'infilici.
In un'altra ottava, dopo aver lamentato — è questa
la sua idea dominante — d'esser da tutti dimenticato, con-
clude :
E quannu manca ogn'autra ricurdanza,
c'è l'aiutu di Dio, ch'un manca mai.
Chi sa qual' anima gentile non era la sua, condanna-
ta a intristire nell'oscurità d'un carcere, nell'orrore dei
ceppi!
244
APPENDICE II
Molte son poi le iscrizioni in forma di brevi aforismi o
di consigli morali:
Pacienza, pani e tempu (per vivere fino al giorno della
liberazione).
Pensa beni a la morti.
Fallii omnis homo etc.
Un altro chiama invano la morte:
Semper dico - Venias - et nunquam venit ante cras.
E' tutto un complesso di dolorosi ricordi, di soffcTcnze
lunghe e crudeli che commuovono profondamente.
Fu detto che il muro bianco è la carta dei matti.
Se ciò può essere vero in certi casi, non è nelle carceri
del S. Uffizio di Palermo.
Quanto sangue e quante lacrime non grondano da quelle
pareti! Sembra di sentir rintronare di gemiti e di pianti
quelle celle, arrise ora dal sole, che v'entra a fiotti dal-
le ampie finestre.
Ora che tutto è s«omparso dell'antico orrore, chi più
sentiva le voci di tanti infelici che penarono e morirono fra
quelle mura? Chi pensava che in quél luogo avessero pianto
e sofferto centinaia di persone, molte delle quali colte e
ben nate?
Dobbiamo al Pitrè l'interessante scoperta, di cui ieri
egli ha letto una elaborata relazione nella sala della So-
cietà Siciliana di Storia Patria, innanzi a un pubblico elet-
tissimo, che si appassionò vivamente alla efficace rievo-
cazione di tante sofferenze, fatta con arte magistrale dal
Pitrè.
L'illustre professore, al termine della lettura frutto di
un mese di lavoro e di studio, fu applaudito con entusia-
smo e moltissimi vollero compiacersi con lui del suo nuovo
e importante lavoro.
CAM.
245
SANT UFFIZIO
IL
Dai Palazzo Chiaramonte in Palermo e di un carcere del
S. Uffizio in esso recentemente scoperto (da (( La Si-
cilia Illustrata », agosto 1911).
Il Palazzo Chiaramonte, detto per eccellenza lo Steri,
nella Piazza Marina, ha una storia drammatica e sangui-
nosa. Le sue vicende sono vicende di Palermo, la sua ar-
chitettura è architettura della Sicilia; ed ogni sua pietra
ricorda una istituzione, narra un fatto che, con altri cento,
compone il serto di rose dei governanti, la corona di spine
dei governati.
Da Manfredo Chiaramonte a Domenico Caracciolo, ad
Asmundo Paterno, a noi tutti, per sei ininterrotti secoli i
fasti baronali, viceregi ed inquisitoriali vi si sono avvicen-
dati e succeduti con le miserie del popolo, le solennità
più splendide con le scene più terribili, le gioie di gaudenti
con gli urli dei disperati. Lì i primi Conti di Modica, af-
fermando il loro gusto per le arti e la loro protezione per
gli artisti, sfoggiavano la loro intelligente opulenza: e sul
soffitto del gran salone scrivevano le prime pagine della
storia del rinascimento della pittura in Sicilia, e perpetua-
vano le loro larghe e potenti parentele con le armi dei Ven-
timiglia e degli Alagona, dei Peralta e dei Rossi, dei San-
tostefano e dei Moncada, degl'Incisa e degli Sclafani,
degli Spinola e dei Polizzi. Da una di quelle finestre Mar-
tino II s'affacciava a veder troncare il capo ad Andrea
Chiaramonte, uno dei quattro Vicari del Regno dopo la
morte di Federico il semplice, e con sommaria confisca fa-
ceva suoi i beni del giustiziato, e teneva nel palazzo la
Regia Curia, un tempo residente al Castello del Mare. Lì
cercò invano rifugio la bella, sapiente e sventurata Bianca
di Na varrà, che con nuova disordinata fuga, in una fredda
notte d'inverno, potè salvare la sua regal vedovanza dal
246
APPENDICE II
libidinoso ardore del Conte Bernardo Cabrerà riuscito a
scalarne le finestre.
Lì nel 1446 si adunavano i generali parlamenti e Car-
lo V re ed imperatore vi apriva quello del 16 settembre
1535-
Nella chimerica congiura di Giovan Luca Squarcialupo,
il popolo, incendiate le porte, atterrate le guardie, invasi i
cortili, le scale, gli anditi, le aule, precipitava giù da quei
merli i giudici della Magna Curia Niccolò Cannarella e
Tommaso Paterno accolti sulle picche dai sollevati che vi
tumultavano sotto. E dai pilastri della sua alta campana si
buttavano giù i trasgressori delle leggi sanitarie in tempi di
pestilenza, ed uno di essi nella epidemia del 1576, mozze le
mani, si vide ad uno ad uno strangolare dinanzi i compagni
di furto di robe infette, riversare da quelli i corpi, squartar-
ne le membra, ed ora alla sua volta strangolato anche lui
come gli altri, bruciato, sparse al vento le ceneri scellerate.
Nel 1600 tramutavasi dal Regio Palazzo e trovava sta-
bile dimora, dopo lungo vagare per esso, pel forte di Castel-
lamare, pel campanile della Piazza dei SS. Quaranta Mar-
tiri al Casalotto, il S. Uffizio, e con esso carceri e strumenti
di tortura, mezzi efficaci ad insinuanti interrogatorii. Nuova
vita, nuovi ospiti, tormentatori e tormentati; ed al domani
del passaggio, mille soldati spagnuoli ne scardinavano le
porte e, preceduti dal boia ne invadevano l'atrio.
Giacché, essendo stato imputato di omicidio il nobile
D. Mariano AUiata familiare del Tribunale della fede, questo
avea reclamati gli atti processuali, e non ottenutili, avea «co-
municato la Corte. L'Arcivescovo (D. Diego d'Haedo) to-
glieva la scomunica, e gl'inquisitori scomunicavano lui; ed
il Viceré duca di Feria, fuori di sé dalla rabbia, mandava a
far valere con la forza la ragion di Stato e ad impiccare
chiunque osasse opporre resistenza; e gl'Inquisitori ribe
nedivano Corte, Arcivescovo e quanti altri, come i soldati
al loro giungere, erano stati colpiti dal disastroso anatema :
fatto, codesto non nuovo per quanto violento, che alla di-
247
SANT UFFIZIO
stanza di dodici anni si ripeteva con l'arresto del Conte di
Mussomeli, anche lui omicida (1590) e perchè familiare
dall'Uffizio, richiesto dall'Inquisitore e negato dal foro ordi-
nario, il quale veniva scomunicato e con esso interdetta la
città tutta.
Lì, in una delle sale interne, l'Inquisitore Trasmiera
nella notte memorabile del 21 agosto 1647 tramava la ro-
vina del battiloro Giuseppe d'Alessi, la quale al domani, egli
capo della reazione, traduceva ad atto. Lì testimoni perenni
di raffinata ferocia, di costa all'orologio, fino al 27 marzo
del 1782, pompeggiavano sinistramente tre gabbie di ferro
con le teste di Federico Abbatelli conte di Canamarata,
Francesco Imperatore e Nicolò Francesco Leofonte, per
duelli nel 1523.
L'uso principale ed ultimo del palazzo Chiaramente pri-
ma dal secolo ora scorso fu pertanto quello del Tribunale
della Fede; ma nessun uso è per noi tanto oscuro quanto
questo.
L'allegro bruciamento degli archivi compiuto con sin-
goiar pompa nella Piazza. Marina dal Viceré Caracciolo (27-
28 giugno 1783) privò il paese di documenti capitali per la
storia del pensiero, del costume, della superstizione, della
vita tutta dell'Isola.
E tal sia di essi! Forse non fu priva di fondamento
l'affermazione d'allora, ripetuta poi con insistenza, che in
quelle carte fossero segrete denunzie da parte di persone che
nessuno avrebbe sospettate.
Tant'è, poco, ben poco ci resta di quella istituzione, e
meno ancora sappiamo dell'uso delle varie parti dell'edi-
ficio. Eppure dovremmo sapere dove gl'Inquisitori tene-
vano le loro adunanze, dove le loro udienze; quali le segrete
degli inquisiti, quali i luoghi dei tormenti, come si compo-
nesse l'arsenale di mitre e di sambeniti, di strumenti di
tortura e di ritratti d'Inquisitori: arsenale smantellato, di-
strutto con quel med^mo fuoco che tante vite aveva an-
nientate e che annientò con esse.
248 •
APPENDICE II
La Inquisizione in Sicilia, specialmente nell'ultimo se-
colo, declinò verso una certa mitezza; e basta dire che in
tutto il settecento due sole esecuzioni ebbero luogo. Ma
che perciò? Il Tribunale era sempre, nella sua natura, l'an-
tico, e nel Palazzo Chiaramente, privi di luce, scarsi di
cibo, laceri di vesti, ridotti a povertà di spirito, lasciavano
la vita i condannati a lunghe prigionie. Frate Romualdo e
Suor Geltrude, due sventurati illusi, vi tribolarono per un
quarto di secolo, e ne uscirono solo per esser condotti sul
Piano di S. Erasmo ad esser bruciati vivi. Il nobile cassi-
nese D. Mario Crescimanno vi stette come eresiarca ad urla-
re 28 eterni anni, finché divenuto mentecatto, vi finiva e,
perchè non comunicato, sepolto nel giardino (1771). Dove
stettero questi ed altri, infelici? quali giacigli accolsero le
loro membra intormentite? Quali mura o quali pareti udi-
rono i loro rammarichi? Per quali spiragli poterono quegli
infelici confortarsi che le loro supplicazioni si sprigionassero
per salire fino a Dio?
Da un lato dell'attuale Dogana si addita anche oggi
una muda con una solida colonna centrale, sostegno di due
archi, con un chiodo confitto in alto, al quale venivano so-
spesi — dicono — gl'imputati; ma la tradizione è vaga e da
quella muda dovrebbero incominciarsi le ricerche per isco-
prire dove essa conducesse e donde vi scendessero, se pure
vi scendevano, gl'Inquisitori e i carcerieri.
Noi non sappiamo nulla di sicuro, perchè senza ri-
spetto all'insigne monumento ed alla storia fu provveduto
alla chiusura di porte, alla muratura di finestre che, come
quelle del grande salone della Corte d'Appello rimesse alla
luce nel 1894, certi Inquisitori spagnuoli, Torquemada delle
arti, ordinarono a loro capriccio, comodo ed uso del mo-
mento.
Nella primavera del 1906 io ebbi la fortuna di scoprire
alcune carceri del S. Uffìzio, ignorate fino allora.
Quelle carceri erano nel secondo piano del fabbricato
nel quale risiede oggi la R. Procura.
249
SANT UFFIZIO
La scoperta potè salvare sole tre celle del carcere, es-
sendo state le altre manomesse dai muratori.
Scalcinando e scrostando per sei non interrotti mesi, io
riuscii a mettere in luce nove pareti delle tre celle, molto
curiose ed interessanti per le manifestazioni psichiche dei
poveri prigionieri, non meno interessanti per la storia intima
della Inquisizione in Sicilia. Disegni d'ogni genere, santi,
madonne, crocifissi, inni, iscrizioni, versi latini, italiani,
siciliani vi sono accalcati, l'uno sull'altro, quasi con pensiero
pertinace di volersi l'uno sull'altro scalzare. Di tempo in
tempo intervenivano i familiari dell'istituto cercando di fare
scomparire con imbiancature i molesti grafiti; e così uno stra-
to di calce si sovrapponeva ad altro strato aiutando, senza
volerlo, i sofferenti a nuovi grafiti e creando dei palimsesti
del carcere.
La copiosa materia mi animò a ricerche d'archivio, le
quali mi chiarirono assai cose, per me e forse per altri
nuove : ed io potei omporre un libro, ricco di fatti, di aned-
doti, di scene, di particolari, dai quali i futuri storici del
tremendo tribunale tra noi (Vito La Mantia è stato l'ultimo
ed il più diligente) potranno forse trarre vantaggio. Il libro
verrà presto pubblicato con numerose illustrazioni.
Qui mi limito a pòchi cenni di due pareti della prima cel-
la, seguendo da destra a sinistra tutta la parete orientale.
E' superfluo l'avvertire che questi disegni non son tutti
d'una mano, né tutti d'un medesimo strato. Chi potrà ve-
derli quando saranno esposti ai visitatori, si persuaderà che
essi sì svolgono sopra cinque o sei strati successivi, rappre-
sentanti mani e anime diverse che in quel luogo si succe-
dettero durante un secolo e mezzo dal seicento in poi.
Una grande aquila bicipite, dalle ali aperte accoglie nel
corpo una iscrizione, che va letta così:
Virtus et Motus Abest
allusione alle forze infrenate degli inquisiti. Sotto, una te-
sta di donna con acconciatura sui generis. Questa accon-
250
APPENDICE II
eia tura si ripete in tutte e tre le celle e rivela una moda del
tempo, confermata da una poesia del celebre poeta sici-
liano Pietro FuUone. In alto, una S. Rosalia, sulla cui ve
ste i seguenti versi latini:
O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum
Me quoque sic libera carcere, et a tenebris,
e in basso :
Laetitia Civitatis Panhormi
A un mezzo metro di distanza, una stupenda testa, non tutta
scoperta perchè correrebbe pericolo di perdersi nel lavoro
di scrostamento. Più a sinistra, m basso, un mascherone,
meglio visibile nella fotitipia della seconda metà della pa-
rete. Dala bocca escono due cornucopie, ed in quella di si-
nistra, disegno di altro prigioniero, la figura d'un inquisi-
tore, probabilmente eseguita stando l'autore seduto sul pa-
vimento col capo poggiato sul gomito eia mano sinistra. Ne-
gli spazi liberi della cornucopia, sopra, sotto, in giro sono
altre immagini con iscrizioni latine ed ottave siciliane. La
cornucopia mette in guardia i nuovi ospiti del doloroso
luogo contro la tortura che li aspetta. Un motto:
Semper Dico: Venias, Et Numquam Venit Ante Cras.
Un altro, posto in bocca ad un serpente, simbolo del
Tribunale :
Cavete Quia Solo Aspectv Interficio.
Le ottave siciliane sono una ventina, e già lette con
infinite difficoltà ed interpretate quasi tutte, verranno anche
esse fatte di pubblica ragione. Nella parete che guarda a
settentrione, verso la primitiva porta di entrata nella cella,
sono figure più corrette e ricordi pietosi.
In vicinanza di una delicata effigie di santo, che potreb-
b'essere Antonio Eremita o Francesco di Paola, sorge slan-
ciato ed ardito un Cristo risuscitato con la leggenda:
O Mors Ubi Est Victoria Tua?
251
SANT UFFIZIO
e sullo spazio bianco della lapide sepolcrale una serie di ri-
velazioni in sottilissimi caratteri, solo in parte decifrabili, di
uno sventurato che passò di cella in cella e fu ridotto in
questa, certamente non ultima né definitiva.
La parete venne interrotta per un'apertura stata pra-
ticata dopo l'abolizione del S. Uffìzio, senza dubbio dal
1800 al 1803 o in quel tomo; come le pareti tutte furono
guaste da buchi praticati in esse pel bisogno di adattarle a
scaffali d'archivio. Ora dall'altro lato della finestra sta gi-
nocchioni un signore pregando, anzi forse recitando l'inno di
S. Antonio da Padova, le cui prime strofette sono medio-
cremente leggibili:
O proles Hispaniae...
Chi sia questo signore non mi è stato concesso indovi-
nare, neanche analizzando lo stemma con l'aiuto dei blaso-
ni di Sicilia e di Spagna del tempo.
Ma di questo e dei moltissimi disegni e motti del vec-
chio carcere, del loro carattere, del loro significato, delle ra-
gioni che li spiegano, delle rivelazioni che fanno, delle re-
lazioni che offrono con la storia e le vicende della Inquisi-
zione, degli spettacoli e degli autodafé, della nobile con-
dotta del Senato di fronte agli Inquisitori audaci, protervi,
senza patria e senza cuore e di tutto quel mondo di orrori e
di prepotenze, malinteso, esagerato dai fautori o dai nemici
di esso, io son costretto a tacere avendone già detto quanto
basta nei dodici capitoli del libro e nei documenti inediti
di esso.
G. PlTRÈ
252
TAVOLE
Il dragone e 1' aquila
(p. 17)
255
I
Jf*^
' %■ '--
^ ^
■'■'iar^jyi
::J5
rwC'J
'^^v
S. Rosalia
(p. 20)
257
S. Caterina e Cristo
(p. 21)
259
Cristo risuscitato
(p. 21)
261
Santi della seconda cella
(p. 48-49)
%.?|J:Sv'ii' j , €<: ■
S. Vito
(p. 49)
263
. .'3' ì
Frate orante
(p. 50-51)
S. Michele Arcangelo
(P. 75)
265
k y *!* ^taSS*-" r^»^ j<l«-* •>• . {
.^^:>*^"
■%^ì
h^^
•^
Immagine di santo
(p. 243)
267
NOTA
Questo libro fu scritto da Giuseppe Pitrè appena compiute
le ricerche, che nel 1906 condusse per ben sei me&i con grande pa-
zienza e passione, intomo alle pyareti delle vecchie celle dello
Steri di Palermo un tempo destinate a carceri degl' inquisiti del
S. Uffizio. Alla fine del manoscritto si legge, di mano dell'Autore,
la data del 24 giugno di quell'anno: lo stesso giorno che il
Pitrè lesse alla Società di Storia Patria di Palermo una relazione
sulle scoperte fatte in quelle squallide prigioni.
Il manoscritto fu subito ricopiato dalla figlia Maria (alcune
pagine dal genero A. D'Alia) e poi riveduto dall'Autore. Il quale
continuò ancora ad accarezzarlo lungamente, poiché la materia lo
aveva vivamente interessato e commosso; e con la fantasia, dopo
che il lavoro era stato condotto a termine, dovette, comei soleva,
restare a meditare sui temi studiati e ad aggirarsi per le tragiche
celle dalle parlanti pareti. Corresse quella copia — che
sola si conserva — tutta di sua mano, aggiungendo qua e là quan-
to nuove letture o documenti non prima conosciuti gli venivano
suggerendo a meglio delineare e colorire il suo quadro.
Le citazioni incomplete (ved. pp. 143, 160 e 197) che l'Autore,
sempre in questa parte diligentissimo, — e chi scrive ricorda quel
che della importanza da lui attribuuita alla precisione e compiu.
tezza delle citazioni gli soleva dire come di uno dei canoni che
più scrupolosamente egli s'era sempre fatto dovere assoluto di
osservare — si riservava di completare, le note (come a pag. 126)
271
NOTA
segnate nel manoscritto per memoria e non più scritte, il rin-
vio che una volta si incontra (i) a un capitolo che non si
si trova nel manoscritto e che probabilmente non fu mai com-
posto poiché si conserva pure un indice autografo esattamente
corrispondente alla divisione presente del libro (2) e al titolo dei
singoli capitoli; tutti questi sono indizi da far pensare che l'Au-
tore negli ultimi due lustri della sua vita, sempre ri^rvandosi
di riprendere in mano il suo lavoro, magari al momento di pub-
blicarlo, non ebbe più l'occasione di rileggerlo per intero e prepa-
rarlo definitivamente per la stampa.
Così non furono mai apprestate le illustrazioni a cui l'Autore
molto teneva (vedi pp. 13-14) e per cui con l'aiuto del nipote,
Dott. Francesco Turbacco, ora prefetto del regno, aveva eseguite
via via molte fotografie durante i suoi lavori sui vari strati di
intonaco delle celle esplorate.
Ne rimangono poche, e così mal ridotte dal tempo da riu-
scire presso che indecifrabili; e la maggior parte andarono per-
dute nell'alluvione che nel 1925 distrusse in Palermo la Tipografia
Sandron, che di questo volume e di tutte le opere si era assunta
l'edizione e aveva iniziato la stampa. Un saggio se ne è dato a
parte in fondo al volume. Da quattro di esse furono ricavati a cu-
ra dello stesso Autore disegni stilizzati e corretti che vennero inse-
riti in un articolo pubblicato a firma Cam nel Giornale di Sicilia
del 25-26 giugno 1906 col titolo: Un'importante scoperta del
prof. Pitrè: Le carceri del Sant'Uffizio nel palazzo dei Tribunali:
Disegni, motti e poesie dei prigionieri; articolo scritto eviden-
temente su materiali forniti dallo stesso Autore in seguito alla let-
tura che il 24 di quel mese, come s'è detto, egli aveva tenuto al-
la Società siciliana di Storia patria intomo alla sua scoperta (3).
i
(i) La prima nota di p. 207 nel mansocritto continua: <( Il
lettore avrà un cenno nel cap. di Considerazioni di questo lavoro
(Cartolare 6°) ». Questi cartolari che doveva contenere la prima
stesura non ci sono giunti.
(2) Anche nel 191 1 il Pitrè tuttavia parlava di « dodici capi-
toli » (v. pag. 252).
(3) Sulla copertina del quarto capitolo nel ms. leggesi un ap-
272
NOTA
E altre quattro ne vennero riprodotte fotomeccanicamente dal Pi-
trè in un suc^ articolo pubblicato nel settembre 191 1 nell'Italia il-
lustrai: Del palazzo Chiaratnonte in Palermo e di un carcere del
S Uffizio in esso recentemente scoperto la G. Pitrè, quindi ri-
prodotto in up fascicolo della Sicilia illustrata che reca la data
dell'agosto 191 1, ma che evidentemente dovette uscire più tardi.
In una nota di questo secondo articolo era detto: « La casa
editrice Marraffa Abate imminentemente prepara la pubblicazione
del libro di Giuseppe Pitrè: Sul S. Uffizio in Sicilia. Il libro in
ottavo sarà arricchito da numerosissime illustrazioni inedite ». Spe-
ranza che, pur troppo, anch'essa fallì.
Entrambi questi articoli s'è creduto opportuno riprodurre qui
nella seconda delle Appendici con cui si chiude il volume.
La stampa popolare di S. Leonardo, che in una nota del ma-
noscritto l'Autore stesso aveva stabilito si dovesse aggiungere a
illustrazione di quel che è detto nel testo a pag. 56, è stata ri-
prodotta dall'esemplare che si conserva nel Museo etnografico di
Palermo, raccolto dallo stesso Pitrè.
In calce all'indice autografo aggiunto al manoscritto, è cenno
di un altro proposito dell'Autore: (( Aggiungere altre 20 colon-
nine di nuovi documenti, e i disegni ». Quanto ai disegni se n'è
raccolti quanto è stato possibile raccapezzare dalle vecchie foto-
grafie in fine al libro. Dei documenti l'Appendice dà quelli, vecchi
e nuovi, che sono stati trovati fra le carte del Pitrè : non sempre
potendone indicare le fonti, perchè nelle copie che ne aveva con-
servato il Pitrè mancava la relativa indicazione. Il documento V è
stato collazionato dal prof. Giuseppe Cocchiara; che pure ha avuto
la cortesia di riscontrare sull'originale il doc. I già pubblicato da
V. La Mantia, Storia delV Inquisizione in Sicilia, Palermo, 1904,
p. 102-3 (i).
punto a lapis autografo: « Spigolata in una lettura fatta alla So-
cietà di Storia patria il di 18 febbraio 1910 ».
(i) Del doc. Ili né il Cocchiara né altri dotti amici di Pa-
lermo han potuto trovar traccia. Quanto al doc. IV, il Cocchiara
scrive che : (( Esiste effettivamente alla Comunale di Palermo il
273
NOTA
I documenti spagnuoli a cui allude il Pitrè a p. 209, furono
poi pubblicati dal prof. C. A. Garufi nel suo importante lavoro
Contributo alla storia deWInquisizione in Sicilia nei secoli XVI e
XVII: Note ed app. dagli Archivi di Spagna (Palermo, 1920; estr.
éàWArch. storico siciliano). Così, la mappa della Sicilia, di cui
il Pitrè tocca a pag. 20, venne pubblicata e illustrata da Giu-
seppe Di Vita, // palazzo dei Chiaramonte e le carceri dell'Inqui-
siz. in Palermo^ I graffiti geografici d^un prigioniero ai tempi di
Giuseppe d'Alesi, Notizie storiche, Palermo, Bocc. del Povero,
1910.
Si ricorda qui infine che gli Avvertimenti di Scipione De Ca-
stro (citati dall'Autore a p. 172, 174), furono poi studiati rui
manoscritti dal prof. Camillo Giardina {La vita e l'opera poli-
tica di Scip. De Castro, Palermo 1931 : estr. dagli Atti della R.
Accad. di Scienze, leti, e arti di Palermo) e che intorno a Lo
Steri di Palermo e le sue pitture un magistrale e sontuoso volume
a cura di Ettore Cabrici ed Ezio Levi venne pubblicato dalla
R. Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo: Suppl. agli
Atti n. I, 1932, presso gli editori Treves Treccani Tumminelli
a Milano.
GIOVANNI GENTILE
Ms. Qq. H. 62. Sono tre volumi scelti dallo Schiavo (dove si tro-
vano relazioni a stampa, trascrizioni ecc.). I documenti sono ri-
portati cronologicamente. Dopo i docc. del 1599 v'è nella miscel-
lanea un foglio dove è scritto: « Atti del Tribunale della SS. In-
quisizione. Ma dell'atto in parola non v'è traccia; che sia stato
soppresso? ».
274
ERRATA-CORRIGE
pag. 69, Un. 13: del lato; leggasi: per lato,
pag- 77' li"- 13- inadito; leggasi; inaudito.
275
INDICE
CAPITOLO I: Le varie sedi detlla Inquisizione in Palermo:
Introduzione . .
dei penitenziati : F.
CAPITOLO II : Prima cella .
CAPITOLO III: Seconda cella
CAPITOLO IV: Terza cella
CAPITOLO V: Data delle celle e nomi
Baronie ....
CAPITOLO VI: Politica - Confisca
CAPITOLO VII: Tortura - Segreto
CAPITOLO VIII : Lo spettacolo .
CAPITOLO IX: Prepotenze e scomuniche . . . .
CAPITOLO X: Rivolte di popolo; Pervicacia d'inquisitori;
Giudizio finale sul S. Uffizio ......
CAPITOLO XI : Bruciamento degli archivi; Palimsesti; Con-
clusione ..........
APPENDICE I: Documenti
APPENDICE II: Due articoli di giornali . . . .
Tavole ...........
Nota di G. Gentile ........
Errata-corrige .........
I
i6
46
68
89
99
117
136
160
187
206
219
237
253
271
275
277
FINITO DI STAMPARE
IL 10 NOVEMBRE 1940-XIX
PER I TIPI DELLA
SOC. EDITRICE DEL LIBRO ITALIANO
IN ROMA
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