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Full text of "Due commedie patetiche del Cinquecento : Il pellegrino di Girolamo Parabosco ; I fidi amanti di Francesco Podiani"

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PaKOÌA:  MAX)  SPÌiC.CMÌO 


DUE  COMMEDIE  PATETICHE 
DEL  CINQUECENTO 

Il  Pellegrino  di  Girolamo  Parabosco 
I  Fidi  Amanti  di  Francesco  Podiani 


a  cura  di 
Antonella  Lommi 


EDIZIONI  UNICOPLI 


DIPARTIMENTO  DI  ITALIANISTICA 
UNIVERSITÀ  DEGLI  STUDI  DI  PARMA 

Parole  aUo  specchio /Studi  e  testi 
20 


PUBBLICAZIONI  DEL  DIPARTIMENTO  DI  ITALIANISTICA 
Parole  allo  specchio  /  Studi  e  testi  (Prima  serie): 

1 .  NX'iUiam  Spaggiari,  U  eremita  degli  Appennini,  leopardi  e  altri  studi  di  primo  Ottocento 

2.  La  Morì  Aymeri  de  Narbonne.  Edi:^one  critica  con  note  e  glossario,  a  cura  di  Paolo  Rinoldi 

3.  llinaldo  llinaldi,  La  montagna  scritta.  Piccole  storie  del  paesaggio  alpino 

4.  Luigi  Vignali,  //  "Peregrino"  di  Jacopo  Caviceo  e  il  lessico  del  Quattrocento 

5.  Rinaldo  Rinaldi,  L'indescrimbile  arsenale.  Ricerche  intomo  alle  fonti  della  "Cognit^one  del  dolore" 

6.  Annamaria  Cavalli,  Oltre  la  soglia.  Fantastico,  sogno  e  femminile  nella  letteratura  italiana  e  dintorni 

7.  Il  Volto.  Ritratti  di  parole  (Atti  del  convegno),  a  cura  di  Rinaldo  Rinaldi 

8.  Alberto  Cadioli,  Il  silen::jo  della  parola.  Scritti  di  poetica  del  Novecento 

9.  Rinaldo  Rinaldi,  Specchio  di  Calliope.  Breve  repertorio  del  poema 

1 0.  Domizia  TroUi,  //  lessico  deWlnamoramento  de  Orlando  "  di  Matteo  Maria  Boiardo 

1 1 .  Pomponio  Torelli,  'Il  Tancredi".  Modello  edevolu:^one  nella  tragedia  del  Cinquecento,  a  cura  di  Sabrina  Morini 

12.  Lorenzo  Venier,  La  Puttana  errante,  a  cura  di  Nicola  Catelli 

Seconda  serie: 

1 3.  Rinaldo  Rinaldi,  Un  violino  e  sospeso  in  aria.  Generi  di  prosa  e  altro 

1 4.  Anna  Maria  Salvadè,  Imitar  gli  antichi.  Appunti  sul  Castiglione 

1 5.  Alessandro  Bianchi,  Alterità  ed  equivalenza.  Modelli  femminili  nella  tragedia  italiana  del  Cinquecento 

16.  Francesca  Fedi,    Un  programma  per  Melpomene.  Il  concorso  parmigiano  di  poesia  drammatica  e  la  scrittura 
tragica  in  Italia  (1770-1786) 

17.  Paolo  YyWvn'd,, Novità  per  il  volgarir^mento  della  "Disciplina  clericalis" 

18.  Paolo  Briganti,  Tra  inquiete  Muse.  L'Ungaretti  ^i?//'Allegria 

19.  Andrea  Baiardi,  Rime,  a  cura  di  Domizia  Trolli 

A  tre  voci: 

1.  Ch.  Bec,  S.  Carrai,  L  Paccagnella,  Scarpe  grosse  (contadini  e  letteratura) 

2.  Cj.  GigUozzi,  R.  Mordenti,  A.  Zampolli,  La  bella  e  la  bestia  (italiani stica  e  informatica) 

3.  G.M.  Cazzaniga,  G.  Tocchini,  R.  Turchi,  L^  Af/yj^  in  log^a  (massoneria  e  letteratura  nel  Settecento) 

4.  G.  Baffetti,  A.  Battistini,  P.  Rossi,  Alambicco  e  calamaio  (scient^a  e  letteratura  fra  Seicento  e  Ottocento) 

5.  C.  Segre,  C.  Ossola,  D.  Budor,  Frammenti  (le  scritture  dell'incotnpleto) 

6.  G.L.  Beccaria,  A.  Stella,  U.  VignuzzL,  La  linguistica  in  cucina  (i  notni  dei  piatti  tipici) 

7.  G.  Barberi  Squarotti,  N.  Lorenzini,  S.  Giovanardi,  (Im)pure  tracce  (caratteri  della  poesia  italiana  del 
Novecento) 

8.  Cj.  Palumbo,  A.  Tissoni  Benvenuti,  M.  Villoresi,  'Tre  volte  suona  l'olifante. . .  "  (la  tradi^^one  rolandiana 
in  Italia  fra  Medioevo  e  Rinascimento) 

Cenone.  Incroci  danteschi: 

1 .  M.  M.  Donato,  L.  Battaglia  Ricci,  M.  Picone,  G.  Z.  Zanichelli,  Dante  e  le  arti  visive 

2.  D.  Saglia,  G.  Silvani  -  V.  Strukelj,  G.  F'ranci,  L.  Manini,  Dante  e  la  cultura  anglosassone 

3.  R.  Greci,  R.  Bordone,  G.  Cherubini,  S.  Bordini,  Dante  e  la  storia  medioevale 

Maratone: 

1 .     Maratona  Pasolini,  a  cura  di  Rinaldo  Rinaldi 


DUE  COMMEDIE  PATETICHE 
DEL  CINQUECENTO 

Il  Pellegrino  di  Girolamo  Parabosco 
I  Fidi  Amanti  di  Francesco  Podiani 


A  cura  di 

Antonella  Lommi 


EDIZIONI  UNICOPLI 


Questo  volume  esce  con  il  contributo  del  Ministero  dell'Istruzione,  dell'Università  e  della 
Ricerca  Scientifica  e  Tecnologica 

Prima  edizione:  marzo  2008 

Copyright  ©  2008  by  Edizioni  Unicopli, 

via  R.  Carriera  11  -  20146  Milano  -  tei.  02/42299666 

E-mail:  unicopli@galactica.it 

http://ww\v.edizioniunicopU.it 

Fotocopie  per  uso  personale  del  lettore  possono  essere  effettuate  nei  limiti  del  15%  di  cia- 
scun volume  dietro  pagamento  alla  Siae  del  compenso  previsto  dall'art.  68,  comma  4,  della 
legge  22  aprile  1941,  n.  633,  ovvero  dall'accordo  stipulato  fra  Siae,  Aie,  Sns  e  Cna,  Confar- 
rigianato.  Casa,  Claai,  Confcommercio,  Confesercenti  il  18  dicembre  2000. 


INDICE 


7     INTRODUZIONE 

7     Lagrime  e  mestizie  suUe  scene  del  secondo  Cinquecento: 
la  Commedia  "Patetica" 
11     7/ P^//(?§^7>?o  di  Girolamo  Parabosco 
24     J  Fidi  Amanti  di  Francesco  Podiani 


EDIZIONI  CRITICHE 

51  II  Pellegrino.  Comedl\  Nova  di  M.  Girolamo  Pail\bosco 

53  Nota  al  testo 

59  AUo  Illustrissimo  et  EcceUenrissimo  Signor  Duca  di  Somma 

61  Persone  della  Comedia 

62  Atto  Primo 
86  Atto  Secondo 

105  Atto  Terzo 

118  Atto  Quarto 

132  Atto  Quinto 

1 47  I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Fr.\ncesco  P(  )diani 

149  Nota  al  testo 

152  AU'Illustrissimo....  Signor  Marchese  della  Corgna 

154  Quelli  che  parlano  nella  Comedia 


155  Atto  Primo 

180  Atto  Secondo 

201  Atto  Terzo 

227  Atto  Quarto 

251  Atto  Quinto 

281  Bibliografia 


INTRODUZIONE 


Lagrime  e  mestizie  sulle  scene  del  secondo  Cinquecento: 
la  Commedia  "Patetica" 

"Esaminare  delle  opere  letterarie  nella  prospettiva  di  un  genere  è 
un'impresa  del  tutto  particolare.  Nelle  nostre  inten^oni,  significa 
scoprire  non  ciò  che  ogni  testo  ha  di  specifico,  ma  una  regola  che 
funt^oni  attraverso  diversi  testi  (■■.)"^- 

L'autunno  del  Rinascimento  a  poco  a  poco  vede  precisarsi  nei  confronti 
di  forme  drammaturgiche  "ibride"  un  sempre  più  vivo  interesse,  sovente 
accompagnato  da  una  chiara  consapevolezza  teorica  che  intravede  in  un 
terzo  genere  il  mezzo  ideale  con  cui  appagare  ed  istruire  una  società  ormai 
apparentemente  sazia  della  commedia  regolare"  e,  alla  luce  della  Controri- 
forma, tendente  a  condannare  le  efferate  crudeltà  della  tragedia. 

I  termini  della  querelle  sono  piuttosto  noti:  a  fronte  dei  fautori  dei  generi 
teatrali  classici,  varie  voci  di  intellettuali,  da  Sforza  Oddi  all'Ingegneri,  nel 
solco  degli  anteriori  studi  giraldiani,  porgono  la  loro  ricerca  come  unica  so- 
luzione atta  a  rivitalizzare  un  teatro  letterario  dibattuto  in  un  duplice  stato 


'  Tzvetan  Todorov,  ha  letteratura  fantastica,  Milano,  Garzanti,  1995,  p.  7. 

2  Come  sappiamo  infatti  tutta  la  seconda  metà  del  Cinquecento  è  interessata  da  una 
copiosa  produzione  comica,  in  parte  perseverante  anche  nel  secolo  successivo.  A  dispetto 
del  cospicuo  numero  di  opere  (catalogate  almeno  parzialmente  da  Achille  Mango,  l^  com- 
media in  lingua  del  Cinquecento:  bibliografia  critica,  Firenze,  Lerici  Editori,  1966)  mancano  gene- 
ralmente spunti  originali  e,  m  ogni  caso,  la  fase  di  codificazione  e  sperimentalismo  può  dir- 
si veramente  conclusa  entro  il  primo  trentennio  del  XVI  secolo.  Sull'argomento  cfr.  R.  A- 
longe,  L^  riscoperta  rinascimentale  del  teatro,  in  ^Aj\.VV.,  Storia  del  teatro  moderno  e  contemporaneo, 
ha  nascita  del  teatro  moderno,  Torino,  Einaudi,  2000,  voi.  1,  in  particolare  pp.  87-88. 


8  A.  LOMMI 

di  crisi,  ed  ormai  inevitabilmente  minacciato  dalla  briosa  Commedia 
deU'Arte'. 

Proprio  la  lucidità  critica  emergente,  ad  esempio,  dal  Compendio  della  poe- 
sia tragicomica,  con  il  quale  Giovan  Battista  Guarini  inaugura  il  nuovo  seco- 
lo'*, rischia  tuttavia  di  restringere  la  questione  ai  soli  dibattiti  teorici  e  di  ri- 
condurla in  modo  eccessivamente  univoco  alla  scoperta  degli  amoeni  loci  del- 
la favola  pastorale. 

Resterebbero  in  tal  modo  confinate  nell'ombra  diverse  opere  che,  silen- 
ziosamente ed  autonomamente,  attraverso  le  loro  caratteristiche  linguisti- 
che, stilistiche  e  tematiche,  avevano  concretizzato  l'incontro  della  Comme- 
dia e  della  Tragedia  su  di  un  piano  intermedio:  le  commedie  "patetiche". 

Tale  espressione,  originalmente  coniata  dal  Ferroni^  si  riferisce  ad  una 
particolare  tipologia  di  piece  a  lieto  fine  che,  conservando  e  sfruttando  gli 
espedienti  più  tipici  della  commedia  (burle,  agnizioni  e  movimentate  peri- 
pezie in  primis),  tradiscono  al  contempo  un'intima  aspirazione  al  registro 
tragico  o  paratragico,  conseguendo  un  evidente  innalzamento  di  tono  per  il 
genere  cui  appartengono. 

Se  la  prima  condizione  fondamentale  per  individuare  taH  opere  sembre- 
rebbe dunque  consistere  nella  presenza  in  esse  del  pathos,  suggerito  ad  e- 
sempio  dai  vari  leitmotiv  inerenti  all'accenno  del  passato  tormentato  dei  pro- 

^  La  teorizzazione  ed  il  dibattito  articolato  attorno  alla  commistione  dei  generi  teatrali 
avevano  occupato  tutta  la  seconda  metà  del  XVI  secolo.  Si  ricordi  almeno  la  posizione  del 
Giraldi  Cinzio,  espressa  nel  Discorso  sopra  il  comporre  le  satire  atte  alla  scena  (1554)  ed,  ancor 
prima,  nel  prologo  à.^ Aitile  (1543),  dove  sanciva  la  piena  legittimità  della  tragedia  a  lieto 
fine,  in  piena  armonia  con  il  gusto  del  pubblico  e  la  morale  coeva,  come  sarà  confermato 
pure  nel  Discorso  intorno  al  comporre  delle  commedie  e  delle  tragedie.  Verso  la  fme  del  secolo  il  pe- 
rugino Sforza  Oddi,  nel  prologo  della  sua  Prigione  d'Amore  (1576),  arriva  a  far  disputare  di- 
rettamente suUa  scena  la  Commedia  e  la  Tragedia,  tentando  di  ndefimme  i  reciproci  com- 
piti, mentre  Angelo  Ingegneri  nel  suo  trattato  Della  poesia  rappresentativa  e  del  modo  di  rappre- 
sentare le  favole  sceniche  (1598)  decreta  il  tramonto  della  commedia  sotto  i  colpi  degli  "istrioni 
mercenari"  e  la  scarsa  appetibilità  della  tragedia,  nvolgendo  il  proprio  consenso  alle  pasto- 
rali in  quanto  unici  componimenti  utilmente  rappresentabili.  Per  una  visione  d'insieme  si 
veda  L.  Allegri,  Teoria  e  poetica  del  teatro  moderno,  in  A^A-.W.,  Storia  del  teatro  moderno  e  contempo- 
raneo, op.  cit.,  pp.  1200-1205  e  Storia  della  letteratura  italiana,  diretta  da  E.  Malato,  Salerno 
Editrice,  1997,  voi  V,  pp.  153  e  segg. 

"*  Com'è  noto,  il  trattato  fu  composto  nel  1599  e  venne  pubblicato  nel  1601. 

^  G.  Ferroni,  Edonismo  e  moralismo  cortigiano  nelle  commedie  di  R.  Borghini,  in  "Muta::^one"  e 
"riscontro"  nel  teatro  di  Machiavelli,  Roma,  Bulzoni,  1972,  pp.  231-75,  a  p.  256. 


Introdutn^one 


tagonisti  o  dai  loro  stessi  lamenti,  in  realtà  non  dobbiamo  pensare  agH  ele- 
menti patetici  come  ad  invenzioni  originali  degli  scrittori  del  secondo  Cin- 
quecento, dal  momento  che  già  le  commedie  del  pieno  Rinascimento,  suUa 
scia  di  quelle  classiche^',  ne  contenevano  a  profusione.  Si  pensi  ad  esempio 
alla  forte  influenza  esercitata  dal  mondo  ottomano  sulla  drammaturgia  del 
XVI  secolo  attraverso  il  motivo  dei  turchi  rapitori  ,  di  fatto  già  sfruttato 
nelle  commedie  greche  e  romane,  dalle  quali  peraltro  era  stato  assorbito 
sotto  forma  di  tema  favolistico  dalla  letteratura  europea  ,  nonché  ad  altre 
fonti  di  imprevisti,  costituite  dalle  vicende  belliche  contemporanee  o  appar- 
tenenti ad  un  passato  ancora  vivo  nel  ricordo  del  pubblico  . 


''  Non  dobbiamo  dimenticare  infatti  che  pure  nelle  commedie  di  Plauto  erano  presenti 
degli  antefatti  'patetici':  nei  Captivi  (commedia  che,  notonamente,  si  distingue  nella  produ- 
zione dell'autore  proprio  per  la  smorzatura  dei  toni  comici  e  gU  spunti  di  umanità  malin- 
conica) un  vecchio  ha  perduto  due  figli,  poiché  uno  gli  era  stato  rapito  in  tenera  età,  men- 
tre l'altro  è  fatto  prigioniero  in  guerra  dagU  Elei,  e  si  arriverà  a  scoprire  che  uno  dei  pngio- 
nieri  nemici  in  sua  mano  altri  non  è  che  il  figUo  scomparso;  nei  Menaechmi  i  due  gemeUi 
protagonisti  sono  stati  separati  fin  dalla  nascita;  nella  Rudens  è  una  tempesta  a  scaricare  sul- 
la spiaggia  il  lenone  Labrace,  che  porta  indebitamente  con  sé  una  fanciulla  di  Uberi  natali, 
che  potrà  in  tal  modo  riabbracciare  il  padre  e  il  suo  innamorato. 

^  Basti  pensare  all'antefatto  de  I  Suppositi  e  a  quello  della  Calandria  ove,  entro  i  consueti 
scambi  di  matrice  plautina  e  gli  stratagemmi  boccacciani,  vengono  stemperati  espedienti 
patetici  incentrati  soprattutto  suUe  turcherie.  Nella  commedia  ariostesca  infatti  Cleandro 
era  scappato  "in  giubbone"  da  un'Otranto  invasa  dai  turchi  e,  pur  trovando  rifugio  a  Pa- 
dova, aveva  perso  il  figlioletto  di  quasi  sei  anni,  puntualmente  rapito  dagU  stessi  saraceni  e 
poi  comprato  come  servo  da  Filogono  (Cfr.  Ariosto,  1  Suppositi,  in  Opere  Minori,  a  cura  di  C. 
Segre,  Milano  NapoH,  Ricciardi,  1954,  p.  303).  Analogamente  i  due  gemelli  Lidio  e  Sandlla 
erano  rimasti  orfani  all'età  di  sei  anni  mentre  la  città  natale  veniva  messa  a  ferro  e  fuoco 
dai  turchi,  e  la  loro  nutrice  si  era  resa  responsabile,  dopo  la  presunta  morte  di  Lidio,  del 
tempestivo  travestimento  maschile  della  sorella,  appena  prima  della  generale  cattura  e  del 
conseguente  trasporto  a  Costantinopoli,  dove  i  prigionieri  erano  stati  infine  riscattati  dal 
mercante  fiorentino  Penilo  (Cfr.  Bibbiena,  lui  Calandria,  Torino,  Einaudi,  1967,  p.  21).  Al- 
tri esempi  di  rapimenti  e  turcherie  possono  essere  rinvenuti  anche  nelle  opere  del  Parabo- 
sco,  in  quelle  Giancarli,  da  Im  Capraria  (\''enezia,  1544)  a  L^  Cingana  (Mantova,  1545),  così 
come  nel  Travaglia  àoS.  Calmo  (\^enezia,  1556). 

**  Per  approfondimenti  su  questo  tema  si  veda  N.  Bavarese,  Teatro  e  spettacolo  tra  Oriente  e 
Occidente,  Roma-Bari,  Laterza,  1992,  pp.  XVIII-XXX  e  3-79;  S.  Mamone,  X'iag^i  teatrali  in 
Europa,  in  Storia  del  teatro  moderno  e  contemporaneo,  Torino,  Einaudi,  2000,  voi.  1,  pp.  1261-1266. 

'^  È  il  caso,  ne  Ta  Mandragola,  delle  guerre  di  Carlo  Vili  che  funestano  l'Italia  costrin- 
gendo l'orfano  Callimaco  (secondo  il  racconto  fornito  a  Siro  nella  scena  d'apertura)  a  ripa- 
rare a  Parigi  e  a  rimanervi  per  più  di  un  ventennio  (Cfr.  Machiavelli,  Lm  Mandragola.  Belfagor. 
Lettere,  a  cura  di  M.  Bonfantini,  Milano,  Oscar  Mondadori,  1991,  p.  9).  Analogamente,  ne  // 


10  A.  LOMMI 

Il  catalogo  sarebbe  ovviamente  molto  lungo  ma,  in  questa  sede,  è  impor- 
tante sottolineare  come,  malgrado  la  presenza  di  accenni  lacrimosi  e  ante- 
fatti tribolati  (siano  essi  costellati  di  mrcherie,  tempeste  o  finte  morti),  non 
sia  possibile  attribuire  a  tutti  i  testi  teatrali  contenenti  solo  siffatti  elementi 
la  qualità  di  commedia  'patetica' ^'\  Questo  perché  nelle  rappresentazioni 
sceniche  della  prima  metà  del  Cinquecento  il  baricentro  è  spostato  altrove, 
nel  turbinio  dei  travestimenti,  degli  scambi  di  identità,  dei  raggiri  e  delle  bat- 
tute salaci,  ed  il  patetico,  quando  è  presente,  sa  rispettare  i  limiti  imposti 
dalla  tradizione,  manifestandosi  nei  retroscena  o  tutt'al  più  nelle  voci  queru- 
le degli  innamorati,  e  dunque  incluso  entro  la  caratterizzazione  di  tali  per- 
sonaggi. 

Per  essere  accolta  nel  genere,  la  commedia  deve  soddisfare  molti  altri 
requisiti,  a  partire  dal  rilievo  assunto  dalla  commozione  e  dalla  peripezia 
all'interno  della  trama  stessa.  Il  congegno  narrativo,  infatti,  progressivamen- 
te si  complica,  innestando  sullo  schema  di  base  della  beffa  e  dell'equivoco, 
molti  risvolti  noveUistici  originali,  nei  quali  assumono  un'importanza  cre- 
scente le  figure  femminili.  Contemporaneamente  si  assiste  ad  una  progres- 
siva estromissione  degli  elementi  comici  e  burleschi,  declassati  a  compo- 
nenti secondarie. 

L'Italia  centrale  e,  in  particolar  modo,  Siena  possono  a  buon  diritto  costitui- 
re il  punto  di  partenza  della  commedia  'patetica'  '  anche  se,  ovviamente,  il 


Negromante,  l'occupazione  veneziana  di  Cremona  impone  a  Massimo  la  fuga  in  Calabria  e 
l'assunzione  di  una  falsa  identità,  così  come  la  sconfitta  della  Serenissima  ad  opera  della 
Lega  di  Cambrai,  ne  stimola  il  ritomo,  generando  lo  smembramento  del  nucleo  familiare 
appena  costituito  (Cfr.  Ariosto,  Il  Negromante,  in  Opere  Minori,  op.  cit.,  pp.  484-485). 

'"  Come  osserv^a  giustamente  Anna  Mana  Cabrini  in  riferimento  alla  produzione  comi- 
ca di  Niccolò  Secchi,  confutando  l'interpretazione  di  A.  Greco  che  invece  percepiva  ne 
^'Interesse  una  certa  tendenza  al  moralismo.  Cfr.  A.  M.  Cabrini,  Il  teatro  di  Niccolò  Secchi,  in 
Studi  di  lingua  e  letteratura  lombarda  offerti  a  Maurilio  Vitale,  I,  Pisa,  Giardini,  1 983,  nota  a  p.  372. 

"  Al  commediografi  senesi  infatti,  già  secondo  Borsellino,  spetterebbe  il  primato  di  a- 
ver  sviluppato  una  robusta  inclinazione  al  sentimento  e  alla  peripezia,  destinata,  in  un  bre- 
ve volger  d'anni,  ad  influenzare  gli  scrittori  attivi  in  altre  zone  della  penisola  (Cfr.  N.  Bor- 
sellino, Introduzione  a  Commedie  del  Cinquecento,  Milano,  Feltrinelli,  1962,  voi.  1,  p.  XXXI). 
E  in  tale  àmbito  che  nel  1536  apparve  \Amor  Costante  di  Alessandro  Piccolomini,  comme- 
dia precocemente  segnata  da  una  spiccata  complessità  romanzesca  neU'intngo  e  da  una  se- 
rietà inconsueta  per  il  genere,  ancorché  abbinata  al  gioco  del  plurilinguismo  e  della  carica- 
tura. 


Introduzione  11 

processo  non  è  immediato  e  spesso  si  fatica  a  seguire  una  linea  evolutiva  in 
grado  di  stringere  i  vari  drammi  appartenenti  al  filone,  ciascuno  dotato  di 
una  propria  individuale  tipologia  di  patetico  e  spesso  supportato  da  specifi- 
che esigenze  o  motivazioni. 

La  stessa  analisi  delle  opere  funzionali  al  discorso  si  rivelerebbe  vastis- 
sima, annoverando,  oltre  agli  autori  più  noti,  molti  altri  scrittori,  attivi  in  di- 
verse zone  della  penisola  in  un  arco  di  tempo  compreso  tra  la  metà  del  XVI 
secolo  e  il  Seicento,  ove  infine  la  commedia  'patetica'  si  dissolve  all'ombra 
di  altri  generi  ibridi  dotati  di  più  ingente  fortuna,  quali  la  pastorale  e  la  tra- 
gedia a  lieto  fine  di  impronta  barocca '2. 

Data  l'impossibilità  di  richiamare  la  totalità  di  tali  lavori,  mi  limiterò 
all'indagine  delle  opere  qui  edite,  tra  le  più  incisive  ed  appartenenti  a  distin- 
te aree  geografiche  e  culturali:  //  Pellegrino  di  Girolamo  Parabosco  e  /  Fidi 
A.manti  di  Francesco  Podiani. 


Il  Pellegrino  di  Girolamo  Parabosco 

Il  Pellegrino,  pubblicato  a  Venezia  nel  1552,  costituisce  l'ultima  e  più  coe- 
rente espressione  di  quel  ciclo  drammaturgico  che  Girolamo  Parabosco 
(Piacenza  1524  —  Venezia  1557)  aveva  inaugurato  cinque  anni  prima  con  // 
Vilirppo^^,  e  che  sarà  abbandonato  nelle  ultime  due  commedie,  //  L^dro 
(1555)  e  ha  Fantesca  (1557),  per  le  quali  verrà  recuperata  una  tradizione 

'-  Com'è  noto,  pastorale  e  tragedia  a  lieto  fine,  tragicommedia  e  melodramma  sono  tut- 
ti prodotti  giocati  sulla  mistione  dei  caratteri  che  risponde  alle  esigenze  controriformistiche 
dosando  catarsi,  evocazione  della  morte  e  Ueto  fme.  Cfr.  F.  Angelini,  Barocco  italiano,  in  Sto- 
ria del  teatro  moderno  e  contemporaneo,  op.  cit.,  pp.  231-236.  In  particolare  per  la  differenza  tra 
tragicommedia  (esibente  fin  dall'inizio  inclinazioni  fortemente  composite,  sottolineate  ad 
esempio  dalla  presenza  di  servi  e  buffoni)  e  la  tragedia  a  lieto  fme  (i  cui  personaggi  sono 
tutti  appartenenti  alle  classi  sociali  più  alte  e  l'unico  scarto  rispetto  la  tragedia  vera  e  pro- 
pria si  registra  nella  rinuncia  al  finale  luttuoso)  cfr.  A.M.  Razzoli  Roio,  Introduzione  a  Giu- 
seppe Artale,  Guerra  tra  vivi  e  morti.  Tragedia  di  lieto  fine.  Università  degU  Studi  di  Parma-  Ar- 
chivio Barocco,  1990,  voi.  1,  p.  7. 

'-*  In  realtà  la  prima  incursione  del  Parabosco  nel  mondo  della  scrittura  scenica  era  av- 
venuta nel  1546  con  la  commedia  La  Notte,  che  tuttavia  presenta  una  trama  ancora  piutto- 
sto labile  ed  episodica,  molto  prossima  alla  nascente  Commedia  dell'Arte,  pur  contenendo 
nell'antefatto  il  rapimento  da  parte  dei  turchi  dello  sfortunato  protagonista. 


12  A.  LOMMI 

comica  anteriore'"*.  Tutti  i  testi  composti  in  tale  spazio  temporale  possono 
essere  annoverati  a  pieno  diritto  entro  l'orizzonte  delle  commedie  pateti- 
che, poiché  il  risalto  assunto  nelle  diverse  vicende  dalla  tensione  emotiva  e 
dalla  peripezia  appare  subito  come  uno  degli  elementi  caratterizzanti,  eppu- 
re solo  nel  dramma  in  oggetto,  sia  per  la  scelta  del  verso  (vero  e  proprio  n- 
nicum  nella  produzione  comica  paraboschiana),  sia  per  la  marcata  letterarie- 
tà, l'elemento  patetico  riesce  ad  imporsi,  offuscando  gli  ingredienti  di  tradi- 
zione comica. 

Nel  1552,  quando  il  Parabosco  compone  e  pubblica  II  Pellegrino,  negli 
ambienti  veneziani  circolano  già  da  qualche  anno  il  primo  ed  il  secondo  li- 
bro delle  sue  Lettere  Amorose,  la  Prima  parte  delle  Rime,  le  novelle  dei  Diporti  e 
ben  cinque  commedie,  ed  anche  la  sua  carriera  musicale  d'organista  nella 
cappella  di  San  Marco  è  ormai  consolidata  .  Il  giovane  autore,  per  la  co- 
struzione del  dramma,  sceglie  di  assecondare  il  gusto  di  quegli  anni,  a\'^'^a- 
lendosi  di  una  spiccata  mistura  di  elementi  eterogenei:  da  un  lato  le  sima- 
zioni  farsesche  ruotanti  attorno  alla  figura  del  vecchio  e  del  suo  serv^o, 
dall'altro  i  lamenti,  le  fughe  ed  i  travestimenti  degli  innamorati. 

La  storia  celata  dal  titolo  ruota  attorno  al  tema  amoroso,  vissuto  nelle 
sue  diverse  sfumature  e  possibilità:  se  per  Giberto,  il  protagonista  de]l2.  pièce, 
è  n  tormento  recato  da  un  sentimento  radicale  ed  assoluto,  non  corrisposto, 

'"*  Si  rimanda,  per  approfondimenti,  all'introdu2Ìone  da  me  curata  per  l'edizione  critica 
de  Girolamo  Parabosco,  La  Fantesca,  Parma,  Battei  Università,  2005,  pp.  11 -47. 

'^  La  vita  culturale  dell'autore,  morto  nel  1557  a  soli  trentatre  anni,  si  svolge  quasi  inte- 
ramente a  \"enezia,  dove  si  era  trasferito  nel  1541,  distinguendosi  immediatamente  nei  sa- 
lotti mondani  della  città  in  qualità  di  orgamsta,  ma  anche  di  madngaUsta  e  scrittore.  Il  suo 
esordio  in  àmbito  letterario  è  segnato  dalla  pubblicazione  del  Primo  Libro  delle  Lettere  Amoro- 
se nel  1546,  seguito,  nel  medesimo  anno,  dalla  prima  parte  delle  Rime  e  dalla  commedia  La 
Notte.  L'intensa  attivata  perdura  negli  anm  seguenti,  consolidando  una  produzione  ncca  e 
costellata  di  successi,  non  affievolita  neppure  dopo  la  nomina  a  primo  organista  della  Basi- 
lica di  San  Marco  nel  1551,  ma  stroncata  da  una  morte  prematura  il  21  aprile  1557.  La  sua 
fama,  ancora  piuttosto  viva  nel  X\TI  secolo,  andrà  spegnendosi  progressivamente  nel  cor- 
so del  Settecento.  La  biografia  del  Parabosco,  legata  per  anm  agli  studi  di  Giuseppe  Bian- 
chim,  Girolamo  Parabosco  scrittore  e  organista  del  secolo  XVI,  in  Miscellanea  di  storia  veneta  edita 
dalla  Deputazione  Veneta  di  Storia  Patria,  tomo  lY  (1899),  pp.  208-487  e  di  Francesco 
Bussi,  Umanità  e  arte  di  G.  Parabosco,  Madrigalista,  Organista  e  Poligrafo  (Piaceni^a  1 524  e-  V'ene- 
i:^a  1 557),  Edizioni  del  Liceo  Musicale  "G.  NicoHni",  Piacenza,  1961,  è  oggi  arncchita  dalla 
Nota  biografica  di  Donato  Pirovano  e  Gherardo  Borgognoni  in  Girolamo  Parabosco,  Dipor- 
ti, a  cura  di  Donato  Pirovano,  Roma,  Salerno  ed.,  2005,  pp.  34-40. 


Introduzione  1 3 

che  lo  porta  ad  esiliarsi  volontariamente  dalla  sua  terra  (fingendosi  morto), 
per  poi  ritornarvi  dopo  qualche  anno  e  vendicarsi  della  crudeltà  di  Clitia, 
per  Mutio  (fratello  della  dura  fanciulla,  innamorato  a  sua  volta  di  Lavinia, 
sorella  dello  stesso  Giberto),  è  piuttosto  la  passione  espressa  secondo  i  più 
comuni  canoni  letterari,  e  costretta  a  scontrarsi  con  il  clima  di  antagonismo 
dominante  tra  le  due  famiglie;  per  Clitia  e  Lavinia,  infine,  è  l'ardore  in  grado 
di  sbaragliare,  seppur  con  modalità  ed  intenti  differenti,  il  loro  antico  pudo- 
re e  di  spingerle  a  prendersi  "licenze"  quantomai  ardite. 

La  fonte  principale  della  commedia  è  rappresentata  dalla  corrispondente 
novella  de  /  Diporti  (II,  12),  di  cui  il  dramma  costituisce  proprio  la  rielabo- 
razione scenica  ^^,  mantenendone  in  molti  punti  espressioni  ed  intere  battu- 
te; ciò  tuttavia  non  preclude  la  possibilità  di  rintracciare  numerose  altre  di- 
pendenze. Ad  esempio  una  palese  affinità  si  rileva  nel  raffronto  con  la  no- 
vella boccacciana  di  Tedaldo  (III,  7)  che,  come  il  nostro  Pellegrino,  si  allon- 
tana da  Firenze  a  causa  di  un  amore  non  corrisposto  e,  trascorsi  sette  anni, 
incapace  di  liberarsi  da  quell'ossessivo  pensiero,  finisce  col  ritornare  sui 
suoi  passi,  camuffato  da  viandante,  per  poter  finalmente  appurare  i  senti- 
menti della  donna.  Se  le  somiglianze  con  la  novella  del  Decameron  terminano 
qui,  poiché  Pellegrino  è  tutt'altro  che  ben  disposto  nei  confronti  di  Clitia  e, 
ritrovatala  innamorata  di  un  altro  giovane,  progetta  subito  di  vendicarsi, 
l'altra  storia,  quella  di  Mutio  e  Lavinia,  è  modellata  sulla  vicenda  di  Romeo 
e  Giulietta,  circolante  grazie  alle  Novelle  del  Bandello  (li,  9)  o  alla  Storia  di 
due  nobili  amanti  di  Luigi  da  Porto,  ed  evocata  pure  da  altre  opere  teatraU  del 
periodo^''.  Nella  commedia  paraboschiana  l'astio  scoppiato  tra  le  famiglie  di 

"■  «Giberto,  disperato  per  la  durezza  d'una  sua  Donna,  la  patria  abbandona,  et  doppo 
l'esilio  di  cinque  anni,  più  che  mai  acceso,  a  quella,  in  habito  di  Romito,  ritorna,  et  trovata 
la  giovane  più  che  mai  dura,  et  crudele,  avvelenarla  tenta;  et  discopertosi  il  fatto,  prigione 
ne  rimane;  et  da  uno  Spitiaro  aitato,  dalla  morte  campa,  et  poscia  con  grandissima  sodisfat- 
tione  di  ciascuno,  la  detta  giovane  per  moglie  prende»  (cfr.  G.  Parabosco,  /  Diporti  di  M. 
Girolamo  Parabosco,  novamente  ristampati  et  diligentissimamente  revisti,  in  Vinegia,  appresso  Do- 
menico Giglio,  1558,  p.  63). 

'^  7  Fidi  Amanti  del  Podiani  e  L^  donna  costante  del  Borghmi  non  sono  che  due  dei  pos- 
sibili esempi.  Come  suggeritomi  dal  Prof.  Gabriele  Frasca,  è  interessante  verificare  la  cu- 
riosa corrispondenza  tra  la  storia  del  nostro  Pellegrino,  sulla  quale  aleggia  il  ricordo  dei  ce- 
lebri amanti  veronesi,  e  la  finzione  narrativa  della  novella  bandelliana,  ove  si  immagina  che 
un  capitano  di  ventura  della  compagnia  di  Cesare  Fregoso,  certo  Alessandro  Peregnno, 
abbia  riferito  la  "pietosa  istoria"  accaduta  a  Verona,  sulle  orme  di  quanto  già  Luigi  da  Por- 


14  A.  LOMMI 

appartenenza'**  osteggia  l'ardente  amore  dei  due  giovani,  e  si  giunge  a  sfio- 
rare il  finale  tragico  quando  Mutio  assume  erroneamente  l'intruglio  letale 
destinato  alla  sorella,  perdendo  i  sensi  davanti  alla  soglia  dell'agognata  Lavi- 
nia. Solo  nell'ultima  scena  la  catastrofe  viene  scongiurata  grazie 
all'intervento  dello  speziale  che,  provvidenzialmente,  aveva  sventato 
l'omicidio  consegnando  a  Pellegrino  un  potente  sonnifero  al  posto  del  pre- 
teso veleno    . 

Nettamente  distinti  dal  piano  più  raffinato  e  patetico  dei  protagonisti, 
senza  peraltro  assumere  una  particolare  importanza  nell'economia  del  testo, 
si  muovono  poi  i  personaggi  comici,  desunti  dall'abituale  campionario  di 
plautina  memoria,  già  abbondantemente  collaudato  dai  pionieri  della  com- 
media cinquecentesca  come  dallo  stesso  Parabosco,  e  destinato  a  nuova 
consacrazione  con  le  maschere  dei  comici  dell'Arte. 

Nello  svolgimento  del  dramma,  fatta  eccezione  per  le  vicissitudini 
dell'anziano  ed  avaro  Eugenio  che,  assillato  dal  desiderio  per  una  cortigiana, 
si  presta  ingenuamente  alle  insidie  del  servo  Finocchio  e  della  ruffiana  Ho- 
nesta,  il  susseguirsi  delle  altre  figure  marginali,  dal  bravo  Spavento  alle  cor- 
tigiane Naffissa  e  Lauretta,  alla  servetta  Fiore,  rimane  una  caleidoscopica 
sfilata  di  topoi  obbligati,  non  privi  di  specifiche  valenze  ma  comunque  ina- 
datti ad  emergere  efficacemente  sulla  patina  lacrimevole  della  commedia,  ed 
ancora  distanti  dal  gustoso  realismo  che  riusciranno  ad  incarnare  ne  1m 


to  aveva  ideato,  facendo  raccontare  la  sua  vicenda  da  un  arciere  veronese  di  nome  Peregri- 
no. Le  ricerche  tese  ad  appurare  l'eventuale  esistenza  di  questo  personaggio  non  hanno, 
purtroppo,  ad  oggi  prodotto  risultati  degni  di  attenzione. 

'*  Nel  nostro  caso  provocato  proprio  dall'improvvisa  scomparsa  di  Giberto,  di  cui  si 
supponeva  l'uccisione  da  parte  di  Mutio. 

''-'  Esattamente  come  ne  ì^'Amor  costante  del  Piccolomini,  a  nguardo  del  quale  il  Borsel- 
lino ricorda  come  "il  tema  del  veleno  che  si  scopre  come  liquore  non  mortale  deriva  pro- 
babilmente dalla  farsa  senese  di  Mariano  Manescalco,  Pietà  d'Amore  (1518)  antecedente  alla 
produzione  dei  Rozzi"  (cfr.  N.  Borsellino,  Commedie  del  Cinquecento,  op.  cit.,  p.  417  n.). 

2"  jVIì  riferisco  in  modo  particolare  alla  figura  di  Spavento,  il  bravo  che  personifica  il 
soldato  fanfarone  e  smargiasso,  sul  filo  della  lunga  tradizione  che  dal  miles gloriosus  di  Plauto 
approda  nella  maschera  del  Capitano  nella  Commedia  all'improvviso:  nella  pièce  in  oggetto 
porta  avanti  un  ruolo  convenzionale,  appena  ravvivato  da  una  pennellata  di  gergo,  assolu- 
tamente estraneo  all'aggressiva  \nolenza  verbale  del  suo  'collega'  Arsemco  (cfr.  mia  Intro- 
duzione a  1m  Fantesca,  op.  cit.,  pp.  25-27). 


Introduzione  15 


1/  tema  amoroso 

I  veri  fili  conduttori  della  trama  sono  dunque  l'amore  e  la  vendetta.  Per 
ciò  che  riguarda  il  primo,  possiamo  subito  notare  come,  in  questo  intreccio 
di  nobili  affetti  in  grado  di  suscitare  la  commozione  di  un  pubblico  selezio- 
nato e  sempre  meno  incline  alla  risata  spicciola  della  commedia,  non  esiste 
neppure  un  vero  e  proprio  risvolto  erotico:  il  motivo  amoroso  (almeno  per 
i  personaggi  dei  giovani)  si  sviluppa  sopratmtto  sul  versante  spirituale,  ri- 
manendo decisamente  ancorato  ai  più  consueti  moduli  petrarcheschi  e  ne- 
oplatonici. Fin  dalla  scena  esordiale,  infatti,  il  dialogo  tra  Mutio  e  il  suo  ser- 
vo Ribecca,  oltre  ad  assolvere  la  funzione  canonica  di  introdurre  alcuni  dei 
nodi  principali  della  vicenda  (data  la  mancanza,  consueta  per  l'autore,  del 
Prologo  e  del  relativo  Argomento),  ci  restituisce  una  prima,  significativa  ce- 
lebrazione della  bellezza  della  donna  amata,  condotta  secondo  i  canoni  del- 
la descriptio  mulieris,  i  cui  dettagli  si  ancorano  saldamente  all'iconografia  della 
lirica  amorosa,  dallo  Stilnovo  al  Cinquecento,  e  alle  descrizioni  femminili 
dei  poemi  rinascimentali,  dalle  Stantie  del  Poliziano,  al  Furioso  e  alla  Gerusa- 
lemme Uherata.  La  figura  di  Lavinia,  nelle  parole  di  Mutio,  è  quanto  mai  vi- 
vida: di  lei  ravvisiamo  la  pelle  candida,  gli  occhi  neri  e  lucenti,  i  capelli 
d'oro,  l'armonia  delle  forme  e  la  decenza  dei  comportamenti.  Con  tali  pre- 
messe, la  dedizione  del  giovane  non  può  essere  se  non  travolgente  e  totale. 

A  tale  proposito  inizia  ad  occhieggiare  nel  dialogo  la  componente  tratta- 
tistica sul  tema  dell'Amore,  discendendo  da  tipologie  testuali  solitamente 
estranee  alla  commedia"\  L'antecedente  più  significativo  per  una  tale  con- 
taminazione di  generi  letterari  all'interno  di  un'opera  comica  è  sicuramente 
costituito  à2^Agnella  di  Carlo  Turco,  del  resto  composta  nei  medesimi  an- 
ni", per  la  quale  Noemi  Messora  rileva  una  struttura  novellistica  voluta- 

-'  Le  questioni  d'amore  infatti,  dopo  il  Filocolo  del  Boccaccio,  avevano  goduto  di  ampia 
fortuna  nel  corso  del  XV  secolo,  giungendo,  ad  esempio,  a  costituire  l'ossatura  del  roman- 
zo Il  Peregrino  di  Iacopo  Caviceo  (si  veda  al  proposito  l'Introduzione  di  Luigi  \'ignali  a  Ia- 
copo Caviceo,  Il  Peregrino,  Roma,  La  Fenice  Ediziom,  1993,  pp.  XN'^I-XXI). 

22  La  redazione  manoscritta  di  questa  commedia  dovrebbe  risalire  al  1550  e  si  ha  noti- 
zia di  una  prima  pubblicazione  nel  1558,  non  giunta  però  fino  a  noi.  L'edizione  critica,  cu- 
rata da  N.  Messora  e  contenuta  nel  volume  Commedie  bresciane  del  '500.  Il  teatro  lombardo  sotto 
la  Kepubblica  Veneta,  Bergamo,  Monumenta  Longobardica,  1978,  si  basa  sull'unica  edizione 
attualmente  esistente,  che  risale  al  1585. 


16  A.  LOMMI 

mente  ignara  della  tradizione  comica  italiana,  proponendosi  di  "intrattenere 
e  far  divertire  il  pubblico  scelto  con  dei  ragionamenti  d'amore"  ,  avvici- 
nando in  tal  modo  il  dramma  piuttosto  alle  commedie  nordiche. 

Nel  caso  dell'opera  paraboschiana  è  sicuramente  eccessivo  parlare  di 
"commedia  cortese"  o  di  una  diversa  tipologia  di  vis  comica  a  cui  l'autore 
avrebbe  risposto,  non  solo  alla  luce  degli  evidenti  legami  con  la  cultura  ve- 
neta (siano  essi  semplici  spunti  ai  quali  il  Parabosco  non  sembra  disposto  a 
rinunciare,  o  espressioni  Linguistiche  innegabilmente  radicate  nel  territorio 
veneziano)  ma  soprattutto  perché  non  si  giunge  ad  una  trattazione  analitica 
dell'argomento  amoroso.  L'autore  piacentino  si  limita  a  ricordare  la  potenza 
e  gli  effetti  dell'Amore  ed  il  ruolo  della  bellezza,  mediatrice  tra  l'uomo  e  il 
Cielo  (I,  1),  ai  quali  si  aggiungeranno  il  tema  dell'ingratitudine  (II,  6),  quello 
della  beatitudine  del  perfetto  amante  (III,  3)  e,  in  conclusione  dell'opera,  il 
piacere  e  l'invidia  in  amore  (V,  1),  senza  arrivare  mai  ad  estese  discussioni 
su  taH  assunti. 

Del  resto  il  Parabosco  aveva  già  forgiato  "un  ricettario  d'amore"  entro 
cui  miscelare  "tutte  le  diverse  gradazioni  del  sentimento"*'  realizzando  i 
primi  due  Hbri  delle  lettere  Amorose''',  ai  quali  sarebbero  presto  seguiti  il  ter- 
zo ed  il  quarto^^  Nella  realizzazione  di  questo  vasto  corpus  di  epistole,  gene- 
ralmente fittizie,  attingendo  da  numerose  fonti  spazianti  dalla  trattatistica 
alla  lirica^^,  il  Parabosco  aveva  esposto  i  medesimi  aspetti,  anticipando  di 

-^  Il  ndotto  interesse  dell'opera  verso  i  più  sfruttati  morivi  plautini-terenziani  e  la  spe- 
rimentazione comica  del  primo  Cinquecento,  pone  la  fisionomia  di  questa  commedia 
semmai  in  stretta  affinità  con  "i  gusri  cortesi"  dei  "ristretri  circoli  letterari  che  si  formavano 
intorno  a  corri  quali  Urbino,  a  mecenari  come  ad  x'\solo,  ad  accademie  come  a  Siena"  che 
analogamente  respingevano  "temi,  spunri,  o  espressiom  Unguisriche  appartenenti  all'humus 
locale"  e  si  caratterizzavano  strutturalmente  per  un  andamento  più  vicino  ad  un  testo  nar- 
rativo che  ad  un'opera  drammatica  (cfr.  N.  Messora,  op.  cit.,  pp.  230-236). 

2^  Ivi,  p.  229. 

2^  Cfr.  G.  Bianchini,  Girolamo  Parabosco.  Scrittore  e  organista  del  secolo  Xll,  op.  cit.,  p.  421. 

'^^  Editi  rispettivamente  nel  1545  e  1548. 

2^  Il  Ter^o  libro  delle  Lettere  amorose  sarà  pubblicato  nel  1553,  A  Quarto  libro  l'anno  succes- 
sivo. 

-*  Guido  Sassi  e  Daniela  Dragorti  menzionano  il  Convito  e  il  Fedro  di  Platone,  il  De  Amo- 
re di  Andrea  Cappellano,  Sopra  lo  Amore  del  Ficino,  la  Dei/ira  di  Leon  Battista  Alberti,  gli 
Asolani  del  Bembo,  Il  Cortegiano  del  Castiglione,  il  Dialogo  dAmore  dello  Speroni,  oltre  alla 
lirica  stilnovista,  l'immancabile  Petrarca,  Dante  delle  Rime,  e  numerosi  lirici  del  Quattro- 
Cmquecento.  Mi  attengo  agli  studi  di  Sassi  e  Dragoni  anche  per  le  tematiche  delle  Lettere 


Introduf^one  1 7 

pochi  anni  i  concetti  qui  introdotti  dal  giovane  Mutio.  Anche  nelle  lettere 
infatti  si  apprende  l'importanza  della  vista  durante  l'innamoramento^'^  ed  il 
conseguente  piacere  provato  dall'amante  quando  può  ammirare  l'oggetto 
del  suo  sentimento^*^,  la  nobilitazione  spirituale  operata  sull'uomo  dall'amore^', 
la  correlazione  tra  bellezza  fisica  ed  integrità  morale^".  Inoltre,  data  la  corri- 
spondenza tematica,  non  si  può  non  riscontrare  pure  una  certa  affinità  stili- 
stica, direttamente  responsabile  dell'innalzamento  del  genere  comico. 

Colpisce  ne  //  Pellegrino,  e  contribuisce  ad  isolarlo  dal  corpus  delle  altre 
commedie  dell'autore,  non  tanto  la  dimensione  elegiaca  delle  parole  di  Mu- 
tio, quanto  quella  tragica  permeante  i  dialoghi  di  Giberto.  Già  dalla  seconda 
scena  del  primo  atto,  egli  si  presenta  come  un  personaggio  palesemente  'e- 
roico'  poiché,  spossato  dall'inestinguibile  ardore  per  la  crudele  Clitia,  rievo- 
cando i  "tanti  travagli,  e  tanti  affanni  /  in  miUe  parti  sostenuti  e  sofferà" 
durante  gli  anni  di  volontario  e  doloroso  esilio  causato  da  Amore,  chiarisce 
immediatamente  il  saldo  proposito  ormai  intrapreso:  quello  di  uccidersi 
stoicamente  davanti  alla  giovane  se,  ancora  una  volta,  ella  lo  respingerà. 
L'arrivo  di  Fiore,  la  serva  di  Clitia,  mette  in  moto  il  vero  congegno  della  vi- 
cenda: attraverso  di  lei  Pellegrino  apprende  come  l'amata,  a  dispetto  della 
consueta  ritrosia,  si  sia  innamorata  di  un  altro  giovane  e  quanto  sia  deside- 
rosa di  avere  una  profezia  sull'avvenire;  la  frustrazione  e  la  collera  esplodo- 
no non  appena  il  protagonista  torna  ad  essere  solo  e  caratterizzano  Ìl  suo 
lungo  monologo  dove,  accanto  agli  accenni  topici  della  "cruda  sorte"  e  del- 
la passione  che  incredibilmente  continua  ad  ardere,  si  staglia  una  copiosa 


Amorose,  rinviando  ad  essi  per  indicazioni  più  complete  (cfr.  Il  Primo  Ubro  delle  Lettere  Amo- 
rose di  Girolamo  Parabosco,  tesi  di  laurea  di  Guido  Sassi,  Università  degli  Studi  di  Parma, 
a.a.  1999-2000,  relatore:  Prof.ssa  A.  M.  Razzoli  Roio;  Il  Secondo  e  il  Ten^o  Libro  delle  Lettere 
Amorose  di  Girolamo  Parabosco,  tesi  di  laurea  di  Daniela  Dragoni,  Università  degli  Studi  di 
Parma,  a.a.  2001-2002,  relatore:  Prof.ssa  A.  M.  RazzoU  Roio). 

29  Cfr.  ad  esempio  Parabosco,  Secondo  Ubro,  XI,  XVI,  XVII,  XX,  XXIV....;  Tert^p  Ubro, 
I,  IX,  XXIII... 

^"  Parabosco,  Secondo  Ubro,  XXXV;  Tert:io  Ubro,  Vili,  IX.  Tema  collegato  a  questo  a- 
spetto  è  quello  della  costante  presenza  dell'immagine  dell'amata  nel  cuore  dell'amante  (Se- 
condo Ubro,  XX;  Terreo  Ubro,  XIII),  qui  ribadita  da  Pellegrino,  incapace  di  cancellare  il  ri- 
cordo di  Clitia  a  dispetto  della  lontananza. 

^'  Ad  esempio  Tervp  Ubro,  XII. 

32  Secondo  Ubro,  l,  X,  XVIII,  XX...;  Ter^o  Ubro,  V,  IX,  XII... 


18  A.  LOMMI 

aggettivazione  imperniata  sulla  "ferezza"  della  donna  e  sull'ingratitudine 
amorosa:  Clitia  è  definita  dura  e  proterva  (v.  224),  ingrata  donna  (v.  228),  ingrata, 
crudel,fera  (v.  242),  e  ancora  crudele  (v.  255),  a  sottolinearne  l'atteggiamento 
del  tutto  difforme  d^Wa.  fm'amors  di  tradizione  cortese  e  provenzale,  tornato 
di  gran  voga  nel  Rinascimento  attraverso  il  neoplatonismo  ed  i  precetti  dei 
trattatisti.  Il  sentimento  lacrimevole,  in  Pellegrino,  è  sostituito  dalla  pulsio- 
ne perversa  dell'odio  e  della  vendetta,  che  tiene  a  bada  remore  ed  incertez- 
ze, e  spinge  il  protagonista  a  compiere  la  sua  missione  con  l'ausilio  di  un 
giusto  sdegno^'*  (v.  737).  Non  siamo  dunque  distanti  dalla  dimensione  pro- 
priamente tragica,  in  cui  (prendendo  a  prestito  le  parole  usate  da  Spera  per 
descrivere  Tullia)  il  personaggio  vinto  "sfoga  a  parole  la  rabbia"  e  "non  re- 
cede dal  desiderio  di  vendetta",  in  quanto  Pellegrino,  seppur  "sconfitto  sul 
piano  degli  eventi,  si  dichiara  pronto  a  immolarsi  come  testimone  di  un'idea 
e  quindi  a  ergersi  quale  esempio  di  fronte  alla  propria  comunità"^^ 

L'autore,  smaliziato  artefice  dei  meccanismi  narrativi,  interrompe  a  que- 
sto punto  il  pathos  della  vicenda  trasportando  gli  astanti  nell'altra  dimensio- 
ne del  suo  dramma,  presentando  il  tema  amoroso  da  ben  diverse  angola- 
zioni. Cupido  infatti,  mentre  si  occupa  degli  aristocratici  sentimenti  di  Mu- 
tio  e  Giberto,  pare  volersi  sollazzare  governando  il  vecchio  avvocato  Euge- 
nio, ormai  esposto  al  pubblico  ludibrio  a  causa  delle  sue  tardive  pazzie  e, 
non  pago,  intralcia  la  'professione'  di  Lauretta,  infatuata  di  giovani  pretendenti 
e  perciò  sprezzante  i  sostanziosi  introiti  dei  clienti  più  attempati,  fomentan- 
do rimbrotti  e  ammonimenti  da  parte  della  vecchia  collega  Naffissa^^. 

■^^  La  "ferezza"  è  per  di  più  il  tema  conduttore  di  molte  tragedie,  come  la  Tullia  del 
Martelli  (per  cui  si  rimanda  all'Introduzione  di  Francesco  Spera  a  Ludovico  Martelli,  Tullia, 
Tonno,  Edizioni  Res,  1998,  p.  XVII). 

^^  Ricordiamo  che,  senza  giungere  alla  caccia  infernale  della  novella  decameroniana  di 
Nastagio  (Boccaccio,  Decameron,  V,  8)  e  relative  fonti  (dalle  prediche  di  Jacopo  Passavanti, 
al  XIII  canto  dell  'Inferno  di  Dante,  aUo  Speculum  fjistoriale  di  \^incenzo  di  Beauvais)  la  giusta 
punizione  per  l'eccessiva  crudeltà  della  donna  nei  confronti  di  chi  la  ama  e  serve  fedelmen- 
te è  presente  anche  nella  trattatistica  amorosa  (ad  es.  Ficino,  Sopra  lo  Amore,  VI,  10).  Già 
nelle  lettere  Amorose  il  Parabosco  aveva  trattato  la  questione  dell'infelicità  causata  da  un 
amore  non  corrisposto  e  la  successiva  possibilità  di  vendetta  contro  l'amata  crudele  {Primo 
Ubro,  XII  e  LXATI;  Secondo  Ubro,  XXXIII,  XXXIV,  XLIII;  Terreo  Ubro,  VIII). 

3^  F.  Spera,  introduzione  a  Ludovico  Martelli,  Tullia,  op.  cit.,  p.  XXIV. 

^^  Secondo  il  motivo  della  'lezione'  tra  la  cortigiana  e  la  figlia,  magistralmente  portato 
alla  nbalta  nella  nostra  letteratura  dai  Ragionamenti  dell'Aretino  ma,  in  generale,  ricorrente 


Introdu:(ione  19 

Il  monologo  del  vecchio  giurista  dovrebbe  proporre  al  pubblico  una  fi- 
gura ormai  nota,  un  locus  communis  precocemente  sdgmatizzato  dal  genere 
comico:  il  vecchio  incauto  ed  avaro,  innamorato  di  una  prostituta  e  prestan- 
te facilmente  il  fianco  ad  una  serie  di  beffe  e  raggiri  da  parte  del  serv^o  scal- 
tro. La  sua  apparizione  contiene  tuttavia  elementi  particolari,  a  partire  dal 
linguaggio  debitore  del  generale  innalzamento  stilistico  di  cui  la  commedia  è 
pervasa,  accogliendo  palpabili  atmosfere  petrarchesche.  In  questa  scena 
Eugenio  pare  quasi  presentarsi  come  un  personaggio  per  certi  aspetti  tragi- 
co, completamente  soggiogato  da  un  sentimento  tirannico  che  lo  manovra 
a  dispetto  della  sua  età  ormai  tarda  e  della  professione  esercitata;  egH  è  per- 
fettamente conscio  del  suo  comportamento  inopportuno  ma  Amore  gli 
preclude  ogni  possibilità  di  riscatto.  Nelle  scene  successive  il  giurista  sarà 
riassorbito  entro  una  caratterizzazione  più  tipica,  sottoHneata  dalle  rimo- 
stranze mosse  al  servo  Finocchio  per  le  spese  esose  e,  soprattutto  dalla  lun- 
ga 'tirata'  di  gustoso  sapore  parodico,  indirizzata  non  alla  'Diva'  nascosta 
dietro  le  imposte,  ma  alla  sua  gatta:  resta  comunque  interessante  quel  primo 
spiraglio  verso  una  connotazione  differente  per  il  personaggio  del  vecchio, 
a  quest'altezza  cronologica  decisamente  inconsueta. 

Con  n  ritorno  alla  ribalta  del  protagonista  Giberto,  giungiamo  finalmen- 
te ad  uno  dei  dialoghi  più  paradigmatici:  quello  dell'incontro  con  l'oggetto 
dei  suoi  tormenti  (II,  ó)^"^.  La  scena  è  inizialmente  alquanto  lenta,  scandita 


nella  letteratura  burlesca  e  nelle  commedie  coeve  (cfr.  ad  es.  N.  Secchi,  Gl'inganni,  II,  3;  IV, 
8  e,  al  proposito,  A.M.  Cabrini,  Il  teatro  di  Niccolò  Secchi,  op.  cit.,  pp.  380-381;  cfr.  inoltre 
Fernando  de  Rojas,  Lm  Celestina,  VII,  2). 

'^  Il  colloquio  si  presenta  affine,  per  certi  aspetti,  a  quello  equivalente  (posto  quasi  nella 
medesima  posizione)  de  La  Pellegrina  di  Girolamo  Bargagli  (II,  7)  nel  quale  Lucrezio  e  Dru- 
silla  si  scambiano  un  linguaggio  tipicamente  cortese,  intriso  di  animi  nobili  e  benignità. 
Un'ulteriore  consonanza  si  ritroverà  poco  più  avanti  quando  Pellegrino  nvolge  un  duro 
monito  agli  uomini  troppo  fiduciosi  della  costanza  femminile,  analogamente  a  quanto  fatto 
dalla  giovane  Pellegrina,  indotta  a  scorgere  in  Lucrezio  un  ideatore  di  loschi  inganni  (IV, 
1):  tra  i  vari  lamenti  della  fanciulla  si  configura  in  particolare  proprio  l'esortazione,  in  que- 
sto caso  nvolta  alle  donne,  incapaci  di  diffidare  dei  pianti  e  giuramenti  fasulli  esibiti  dagli 
innamorati.  A  differenza  del  personaggio  del  commediografo  piacentino  tuttavia  l'eroina 
del  Bargagli  non  reclamerà  rivincite  e  si  contenterà  di  invocare  per  sé  la  morte,  ponendo 
fine  ai  propri  tormenti;  del  resto,  in  pieno  clima  controriformistico,  occorreva  ormai 
un'infinita  cautela  nel  manipolare  il  tema  della  vendetta,  decisamente  poco  conforme  allo 
spinto  cristiano. 


20  A.  LOMMI 

dalle  lunghe  battute  dei  due  protagonisti,  nelle  quali  trapela  subito  una  sorta 
di  sdoppiamento  d'intenti.  Clitia  si  rivolge  al  forestiero  con  un  linguaggio 
tipico  della  tradizione  cortese,  attraverso  una  vera  e  propria  captatio  henevolen- 
tie  in  cui,  non  a  caso,  spicca  il  termine  pietà  seguito,  in  chiusura  del  verso, 
dal  punto  cardine  del  suo  discorso:  l'essere  stata  incauta.  In  altre  parole,  è 
come  se  la  giovane  non  solo  chiedesse  indulgenza  per  il  proprio  compor- 
tamento, ma  lo  facesse  alla  luce  della  sua  natura  nobile  e  raffinata,  caduta 
vittima  del  sentimento  amoroso  che  l'ha  gettata  in  perdizione,  spronandola 
a  prendersi  licenze  inopportune  e  a  deporre  l'abituale  onestà.  La  risposta  di 
Pellegrino  è  dapprima  contenuta,  modulata  in  lunghi  periodi  costellati  di 
parallelismi  e  bisticci  di  parole^^,  nei  quali  riprende  in  modo  quasi  speculare 
i  termini  usati  dall'interlocutrice  {fiamma,  scusa,  prova'^  per  stigmatizzarne 
l'atteggiamento  in  realtà  anticortese  e  in  netto  contrasto  con  l'immagine  di 
fragilità  comunicata.  L'accusa  rivolta  alla  giovane  è  la  peggiore  per  una 
donna  che  si  proclama  innamorata:  Clitia  è  rea  di  essere  ingrata  ed  incapace 
dipietate,  e  perciò  destinata  ad  imminenti  castighi. 

Il  tema  dell'ingratitudine  viene,  da  questo  istante,  assunto  a  vero  e  pro- 
prio leitmotiv  per  il  resto  del  dialogo  e  traccia  un  solco  netto  tra  la  fanciulla, 
condannata  per  contrappasso  ad  adorare  un  amante  irriconoscente  invo- 
cando inutilmente  pietà,  e  Giberto,  stanco  di  sterili  lamenti  e  quanto  mai 
determinato  a  farsi  rendere  le  lacrime  ed  i  sospiri  versati.  I  modi  garbati  e 
cerimoniosi,  nel  frattempo,  vengono  gradualmente  deposti  lasciando  spazio 
alla  disperazione  della  giovane  (smaniosa  di  ottenere  un  poco  di  quella  pol- 
vere miracolosa  che  dovrebbe  porre  fine  alle  sue  tribolazioni)  e,  soprattut- 
to, all'impazienza  di  Pellegrino,  che  irrompe  con  tutto  il  suo  sdegno,  to- 
gliendo quasi  alla  rivale  la  possibilità  di  interloquire  .  Tutto  questo  secondo 
momento  è  dunque  assorbito  dalla  lunga  tirata  contro  l'ingratitudine  delle 
donne,  chiaramente  debitrice  verso  il  noto  episodio  del  canto  XXXIV  del 
Furioso.  Il  personaggio  di  Giberto,  ancora  una  volta,  si  palesa  in  tutta  la  sua 
dimensione  tragica:  in  attesa  di  ferire  corporalmente  Clitia  ed  il  suo  amato 

^*  Si  vedano,  ad  esempio,  le  riprese  insistenti  di  uno  stesso  termine  mfaranno-faralla  (w. 
11  Q'IIV); porto- portato- portar  {v.  116  e  778)  e  il  bisticcio  emanda-  amando  (822). 

^^  Così  come,  più  avanti,  cortese  (  v.  787  e  v.  19A), premiar  (y.  811)  —premio  (v.  812). 

■*"  Le  battute  di  CUtia  si  riducono  quantitativamente,  arrivando  a  coprire  anche  un  solo 
verso  (es.  v.  824). 


Introdu:<^one  21 

con  la  mistura  letale,  egli  vibra  l'arma  della  parola,  con  un  tono  sempre  più 
impetuoso  e  frenetico,  sottolineato  dai  frequenti  enjambement,  culminante 
nella  domanda  dei  w.  875-888.  L'immutabile  ritrosia  della  fanciulla  spinge 
il  giovane  ad  interrompere  bruscamente  il  discorso  per  correre,  come  pro- 
gettato, verso  l'attuazione  della  vendetta,  non  prima  però  di  aver  sfogato  in 
solitudine  l'amarezza  accumulata.  Lo  ritroveremo  sul  finale  del  quarto  atto, 
impegnato  a  zittire  il  rimorso  interno  per  l'azione  compiuta,  ed  infine 
nell'ottava  scena  del  quinto  atto,  dove  finalmente  depone  la  falsa  identità  e 
si  proclama  con  fierezza  autore  del  delitto,  giusto  in  tempo  per  scoprire  la 
verità  e  potersi  cosi  riconciliare  con  la  famiglia. 

Ungua  e  stile 

Come  già  precisato  nell'Introduzione  a  Lm  Fantesca  da  me  curata"",  il  Pa- 
rabosco  sceglie  di  adottare,  nella  sua  unica  commedia  versificata,  un  metro 
libero  composto  in  prevalenza  da  endecasillabi  (con  l'aggiunta  di  tre  sette- 
nari, due  dei  quali  vòlti  a  riprendere  un  proverbio  ai  w.  353-54);  proprio 
l'utilizzo  del  verso  pare  sottolineare  la  letterarietà  che  perv^ade  in  generale  la 
piece.  In  tal  modo,  pure  nelle  situazioni  più  colloquiali,  malgrado  l'utiHzzo  di 
frequenti  enjambement,  non  si  riscontra  alcuna  volontà  di  riprodurre  la  natu- 
ralezza del  parlato,  che  viene  anzi  accuratamente  elusa  grazie  aUe  espressio- 
ni cristallizzate,  costellate  di  inversioni  e  dittologie,  distribuite  tra  tutti  i  per- 
sonaggi ben  oltre  lo  stretto  retaggio  degli  innamorati.  A  questi  ultimi  e,  in 
particolare  al  protagonista,  spetta  sicuramente  il  primato  nell'impiego  di 
lunghi  monologhi  alla  maniera  tragica,  con  invocazione  alla  morte  ed  ampH- 
ficazioni  retoriche,  quantitativamente  sviluppate  in  un  buon  numero  di  ver- 
si e  qualitativamente  attente  a  raggiungere  lo  stile  grave  della  tragedia,  ricor- 
rendo alle  fonti  poetiche  più  auliche  a  disposizione,  Petrarca  in  primis. 

Per  quanto  riguarda  il  registro  linguistico  della  commedia  esso  è,  come 
nel  resto  della  produzione  drammaturgica  paraboschiana,  essenzialmente 
una  lingua  di  koinè  settentrionale  entro  cui  sono  accolti  moduli  letterari  to- 
scani e  componenti  popolati  e  gergali,  utilizzate  come  elementi  di  caratterizza- 
zione di  determinati  personaggi.  A  differenza  delle  altre  opere  drammatiche 

■♦'  Cfr.  G.  Parabosco,  Ltf  R7/;/fj-ffl,  Parma,  Battei,  2005,  p.  18. 


22  A.  LOMMI 

tuttavia,  i  fattori  estranei  alla  lingua  letteraria  non  solo  sono  molto  meno 
accentuati,  ma  sono  generalmente  localizzabili  nell'uso  linguistico  dei  per- 
sonaggi appartenenti  aUe  classi  sociali  inferiori.  La  motivazione,  com'è  faci- 
le comprendere,  va  cercata  nell'influsso  operato  sui  dialoghi  dalla  lirica  e 
daUa  trattatistica  che,  grazie  ai  precetti  del  Bembo  e  alle  correzioni  dei  tipo- 
grafi, lasciavano  ormai  scarso  spazio  all'eccentricità. 

Sul  versante  fonetico,  e  precisamente  sul  piano  del  vocalismo,  la  nota 
oscillazione  tra  monottonghi  e  dittonghi  iel e,  mio  in  posizione  tonica  è 
mtt'altro  che  regolarizzata  ".  Prevale  l'anafonesi  in  punto  e  punti,  lingua,  dun- 
que e  adunque,  anche  se  non  vcvànz^.  f ameglio. 

Settentrionale  è  pure  la  conservazione  della  e  in  protonia  {reuscire)  cui 
fanno  però  riscontro  le  chiusure  in  /  in  dinar  e  ricitar,  di  influenza  veneziana 
o  genericamente  settentrionale  sia  la  /  di  intrar  e  intramo,  che  l'esito  di-  (con- 
tro il  toscano  do-)  in  dimanda  {dimandarvi,  dimandiate,  dimandi  ma  domandate  v. 
1187). 

Per  ciò  che  concerne  il  consonantismo  si  registra  naturalmente 
l'alternanza  tra  consonanti  intervocaliche  scempie  e  geminate,  con  i  relativi 
fenomeni  di  ipercorrezione  [labri,  derata,  avocato,  ubidir,...  contro  creppo,  pal- 
la^,  profumi..).  Ipercorretto  è  altresì  il  mantenimento  della  sorda  in  scuto, 
accanto  all'esito  anche  veneziano  di  secreti  (  e  secretamente)  e  al  cultismo  loco. 

Costituisce  un  problema  grafico  oltre  che  fonetico  la  presenza 
dell'affricata  dentale  sorda"*^  al  posto  dell'affricata  palatale'*'^  del  toscano  in 
calt<^,  mentre  l'influenza  del  pavano  è  più  riconoscibile  nel  suffisso  dispegia- 
tivo  —afif^o  (ad  es.  volga^,  animalaf^^oY^ . 

"*-  Troviamo  infatti  yèra  v.  242  ma  znche^  fiera  w.  819,  1806;yò^-(9  w.  359,  793  e.  fuoco  w. 
90,  94,  163,  234;  moia  v.  390  e  muoia  v.  1540.  Decisamente  predominante  la  forma  non  dit- 
tongata nel  caso  òì  prova  v.  209,  751,  772,  1567,  1836  (contro  l'unica  occorrenza  ài.  pruova  v. 
273),  come  in  queUo  di  w/ w.  48,  441,  639,  661,  684,  1204,  1309,  1375,  1579  {vuoiw.  360), 
cui  tuttavia  si  contrappone  vuol  w.  637,  691,  1709  o  vuole  w.  145,  185,  251,  401,  580  {vói 
solo  al  V.  1585).  Compare  unicamente  dittongato /)n>§^/ w.  374,  830  mentre  sono  sempre 
privi  del  dittongo  còce  v.  1729;  mover  \.  38  e  moversi  v.  582;  nova  w.  142,  160,  1091,  1439, 
1550,  1754  e  novev.  101;  sèu,  w.  390,  400,  428,  721, 1333,  1595;  tòiw.  971,  993,  1018. 

"*^  Altrove  resa  graficamente  da  //'  come  nei  casi  di  gratia,  disgratia,  ringratio,  Galitia,  Clìtia, 
spetiale,  giustitia,  mercati tia,  inco stantia. . . 

"^  Per  la  quale,  come  per  1m  Fantesca.,  compare  la  grafia  di  probabile  derivazione  tosca- 
na in  basciole  (lett.  dedicatoria),  bascio  (v.  1069),  basciami  (1218). 

■*^  A  se  stante,  com'è  noto,  impa:^  di  origine  provenzale  (Cfr.  DELI,  da  empachar). 


Introdun^one  23 

Estraneo  al  fiorentino  letterario  è  pure  il  mantenimento  di  —ar-  atono  in 
hostaria^  maraviglia^  mattara^^o  e  sono  riconoscibili  quali  forme  genericamente 
settentrionali  ^/i?a:?'o  (ghiaccio),  simia,  guan:(a,  crudei,  smenticato,  danari:^,... 

Lessicalmente  è  probabile  l'influenza  dialettale  \nf0Tv2ent0,  più  incerta  in- 
vece nel  caso  di  stropiata,  appartenente  anche  alla  tradizione  letteraria. 

Morfologicamente  permangono  forme  anomale  quali  dui,  traditora,  labri, 
come  una  certa  alternanza  tra  voci  apocopate  e  i  rispettivi  cultismi  (es.  merce 
I  mercede). 

Il  verbo  stesso  presenta  una  discreta  quantità  di  forme  quali  potressimo 
(potremmo),  avesti  (aveste),  devresti  (dovreste),  mane^iarete,  mandare,  andarai, 
parlarai,  disse  (dissi),  intramo  (entriamo),  concludi  (concluda,  con  l'uscita  in  -/  al 
congiuntivo  presente  di  un  verbo  di  II  coniugazione  rifatto  analogicamente 
sui  verbi  di  I),  sii  (sia  t\ji),fusse  (in  cui  convergono  fiorentino  quattrocente- 
sco e  influsso  settentrionale). 

La  vera  e  propria  caratterizzazione  dei  personaggi  popolari  è  mttavia  af- 
fidata all'uso  cospicuo,  caro  al  Parabosco  e  in  generale  aUa  tradizione  comi- 
ca, di  frasi  proverbiali  e  paragoni  popolari.  Il  catalogo  è  piuttosto  ampio  e 
l'autore  passa  con  disinvoltura  dai  più  inconsueti  {l'amor  non  s'ha  caro  /  Col 
qualsifa  lo  Avaro;  essere  peggio  che  ilfien  bagnato;  essere  come  dente  e  gengiva;  occhi  di 
civetta..)  a  quelli  ormai  consolidati  {un  fior  solo  non  fa  Primavera;  odorare  di  latte; 
partir  col  naso  in  mano;  portare  polli;  empire  il  fuso;  giocar  di  borsa..),  focalizzando 
l'attenzione  soprattutto  suUe  locuzioni  mutuate  dalla  letteratura  di  stampo 
burlesco,  a  cominciare  dal  Morgante  {aver  sul  calendario;  voler  la  berta;  non  stimare 
un  fico,  ...). 

Da  segnalare  invece  una  riduzione,  rispetto  alle  altre  commedie  del  pia- 
centino, nella  menzione  di  luoghi  veneziani  (qui  condensati  nell'accenno  a 
S.  Marta,  S.  Apostolo  e  S.  Trovaso,  e  nei  nomi  delle  osterie)  e  nell'utilizzo 
del  gergo  furfantesco,  invece  esuberante  ne  J^a  Fantesca  .  Il  furbesco  entra 
nel  dramma  in  oggetto  attraverso  un  paio  di  pennellate  rapidissime,  facil- 
mente assorbite  nella  compagine  dell'opera,  Limitate  quasi  sempre  alla  figura 
del  bravo  (che  le  sfoggia  nelle  scene  quinta  e  nona  del  quarto  atto);  sono 
oltre  tutto  vocaboli  non  estranei  alla  letteratura  e  ampiamente  attestati  nei 
repertori  gergali,  trattandosi  dei  lampanti  (denari),  trucca  (scappa,  corri)  e 

^^  Cfr.  G.  Parabosco,  La  Fantesca,  op.  cit.,  pp.  39-40. 


24  A.  LOMMI 

calcosa  (strada),  ai  quali  va  aggiunto  j?/^  (ha  paura),  esibito  però  dal  servo  Fi- 
nocchio   . 

Del  resto  anche  questi  aspetti  denunciano  chiaramente  la  volontà  da 
parte  del  nostro  autore  di  comporre  una  commedia  nuova,  in  grado  di  di- 
stinguersi tematicamente  e  stilisticamente  dalla  tradizione  del  genere,  com- 
piacendo in  tal  modo  un  pubblico  raffinato  ed  esigente,  ormai  orientato 
verso  una  drammaturgia  ibrida. 


/  ¥  idi  Amanti  di  Francesco  Podiani 

Incentrata  sul  tema  della  fedeltà  d'amore,  così  caro  alla  letteratura  del  se- 
condo Cinquecento  da  figurare  in  numerose  titolature  di  poemi  e  di  opere 
teatrali"*^,  la  commedia  7  Vidi  Amanti  rappresenta  probabilmente  il  debutto 
del  Podiani  sul  fronte  delle  opere  sceniche    . 

Composto  forse  qualche  anno  prima,  il  testo  venne  pubblicato  nel  1 599 
grazie  all'interessamento  dell'amico  Orazio  PerineUi,  mentre  il  suo  schivo 


"^^  Per  approfondimenti  di  carattere  teorico  inerenti  al  furfantesco  si  rimanda  ad  A.  Pra- 
ti, Voci  di  gerganti,  vagabondi  e  malviventi  studiate  nell'origine  e  nella  storia^  Pisa,  Giardini  editori  e 
stampatori,  1978  (nuova  edizione  accresciuta  rispetto  la  prima  del  1940),  e  alle  indagini  lin- 
guistiche dell'Ageno  {A  proposito  del  «Nuovo  Modo  de  intendere  la  lingua  ^erga»,  "GSLI",  135, 
1958,  pp.  370-391;  Un  saggio  di  furbesco  del  Cinquecento,  "SFI",  17,  1959,  pp.  llX-lòl;  Ancora 
per  la  conoscent^a  del  furbesco  antico,  "SFI",  18,  1960,  pp.  79-100;  Tre  studi  quattrocenteschi,  "SPI", 
20,  1962,  pp.  75-98;  Studi  lessicali,  a  cura  di  Paolo  Bongrani,  Franca  Magnani,  Domizia 
Trolli,  Bologna,  Clueb,  2000). 

■*^  Basti  pensare  al  poema  di  Curtio  Gonzaga,  IlFidamante,  Mantova,  1582  (edizione  cri- 
tica a  cura  di  E.  Varini  e  I.  Rocchi  con  Prefazione  di  A.  M.  Razzoli  Roio,  Roma,  Verso 
lArte,  2000),  o  a  commedie  quali:  Alessandro  Piccolomini,  L'Amor  costante,  Venezia,  1536; 
Raffaello  Borghini,  La  donna  costante,  Firenze,  1578;  Luigi  Pasqualigo,  //  Fedele,  \'^enezia, 
1576;  Tomaso  Canati,  L'amor  fedele,  Vicenza,  1608;  o,  ancora,  al  PastorFido  del  Guarini,  Ve- 
nezia, 1590. 

■♦'^  Questo  per  ciò  che  concerne  le  opere  di  sicura  attnbuzione  giunte  sino  a  noi,  poiché 
pare  che  già  nel  1582  il  giovane  Francesco  avesse  composto  una  commedia.  La  catena,  rap- 
presentata a  casa  di  Guido  della  Corgna;  tutta\ia  non  solo  del  testo  non  esiste  più  traccia 
ma  Anodante  Fabretti  nelle  Cronache  della  città  di  Perugia  lo  attnbuisce  a  Mano  Podiani  (cfr. 
Francesco  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani  e  la  sua  commedia  <d  Megliacci»,  Perugia,  Presso 
l'Istituto  di  Filologia  Romanza,  1974,  pp.  110-111). 


Introdutrione  25 


•V 


autore  solo  successivamente  si  sarebbe  dedicato  alla  stesura  di  altre  due 
commedie,  Gli  schiavi  d'amore  (1606)  e  Malia  d'Amore  (1618). 

Francesco  Podiani,  nipote  del  ben  più  famoso  e  irruento  Mario  ",  era  na- 
to a  Perugia  nel  1551. 

La  sua  vita,  appartata,  probabilmente  circoscritta  entro  la  città  natale, 
non  offre  spazio  a  molte  informazioni  biografiche^'  e  la  difficoltà  di  repe- 
rirne corrisponde,  del  resto,  alla  scarsezza  di  componimenti  per\^enutici:  le 
sole  opere  certe  sono  proprio  le  tre  commedie  e  anch'esse,  a  dispetto  del 
successo  riscosso  durante  le  loro  rappresentazioni,  sono  attualmente  cadute 
in  totale  obHo. 

La  commedia  esordiale  dimostra  di  essere  perfettamente  consonante  al 
gusto  affermatosi  in  quei  decenni  in  àmbito  comico  e  destinato,  di  lì  a  po- 
co, a  trovare  la  sua  espressione  più  esauriente  nella  pastorale  e  nella  teoria 
tragicomica  del  Guarini.  Come  nelle  opere  del  conterraneo  Sforza  Oddi, 
anche  /  Fidi  Amanti,  nello  spazio  degH  ormai  canonici  cinque  atti  e  nel  ri- 
spetto delle  unità  aristoteliche,  amalgamano  "elementi  tratti  propriamente 
dal  repertorio  buffonesco  dei  pedanti,  degli  spacconi,  dei  servi  e  delle  ruf- 
fiane, con  elementi  di  ispirazione  romanzesca  e  patetica  che  mettono  in 
primo  piano  la  moralità  dei  sentimenti  e  degli  affetti"  ". 

Il  giovane  Erminio  Salidori,  secondo  il  racconto  personalmente  rivolto 
all'amico  e  servitore  Valerio  in  apertura  dell'opera,  è  nato  da  una  famiglia 


5"  Mario  Podiani,  autore  della  commedia  IMegliacà  (1530),  fu  protagonista  della  cosid- 
detta 'Guerra  del  Sale',  l'aspra  contesa  scoppiata  tra  Paolo  III  Farnese  e  la  città  di  Perugia 
(di  cui  Mario  era  cancelliere),  attorno  a  un  nuovo  balzello  sul  sale,  tra  il  1539-1540;  essa 
costò  al  Podiani  l'esilio  dalla  città  natale. 

5'  Figlio  primogenito  di  Giovan  Paolo  Podiani,  fratello  di  Mario,  seguendo  l'esempio 
paterno  entrò  a  far  parte  dell'Accademia  degli  Insensati  (Accademia  perugina,  risalente 
com'è  noto  al  1546  o  '61,  e  comunque  già  estinta  nel  1725.  Di  essa  mi  pare  interessante 
ricordare  il  motto  scelto  dagli  affiliati:  "\'el  cum  pondere",  accompagnato  dall'impresa  raf- 
figurante uno  stormo  di  gru  volanti  sopra  il  mare,  aventi  ciuscuna  un  sasso  legato  alla 
zampa,  a  sottolineare  la  volontà  di  ergersi  nella  contemplazione  delle  cose  celesti  nono- 
stante il  peso  dei  desideri  terreni:  cfr.  Michele  Maylender,  Storia  delle  Accademie  dltalia,  Bo- 
logna, Arnaldo  Forni  Editore,  1926-30,  voi.  III).  Si  sposò  poi  con  una  non  meglio  precisa- 
ta Piccarda  e  ricoprì  diversi  uffici,  da  Direttore  del  Comune  a  Saxno  preposto  allo  studio. 
Morì  a  Perugia  il  21  gennaio  1621. 

52  Cfr.  F.  Tateo,  La  letteratura  della  ControriforT»a,  in  AA.V^'.,  Storia  della  Letteratura  Italia- 
na, diretta  da  E.  Malato,  Roma,  Salerno  Editnce,  1996  (edizione  2005),  voi.  IX,  p.  156. 


26  A.  LOMMI 

nobile  ma  povera  e,  dopo  essere  rimasto  precocemente  orfano  di  entrambi 
i  genitori,  capitando  a  Genova  si  innamora  perdutamente  di  Olinda.  Tro- 
vandosi ricambiato,  decide  di  domandarne  la  mano  al  padre,  dal  quale  però 
sarà  respinto  a  causa  deUe  sue  origini  forestiere;  nel  frattempo  Erminio,  a- 
vendo  trasgredito  alle  leggi  genovesi  per  aver  duellato  contro  un  nobile, 
viene  condannato  dapprima  a  morte,  poi  viene  legato  su  di  una  barchetta 
ed  abbandonato  in  balia  delle  onde.  Alla  sventurata  Olinda,  per  scampare 
alle  nozze  orchestrate  dal  padre,  non  resta  che  fuggire  dalla  città  e  tentare  il 
suicidio  in  mare,  sventato  provvidenzialmente  dal  fido  servo  Valerio  che 
decide  di  approdare  a  Salerno  per  rispedire  la  fanciulla  alla  famiglia.  Proprio 
alla  corte  salernitana  i  due  sfortunati  amanti  finiscono  per  incontrarsi,  poi- 
ché anche  Erminio  era  lì  approdato  ed  era  stato  accolto  dal  Principe,  dive- 
nendone in  poco  tempo  un  uomo  di  fiducia. 

Se  le  avversità  dell'antefatto  sembrano  finalmente  appianate,  una  nuova 
preoccupazione  si  profila  all'orizzonte  ed  allunga  la  sua  ombra  sulle  sorti 
della  coppia:  il  Principe  in  persona  si  invaghisce  di  Olinda,  ed  Erminio  ini- 
zia ad  essere  tormentato  da  atroci  dubbi  sui  sentimenti  che  lo  legano  alla 
promessa  sposa  ma,  al  contempo,  anche  al  suo  signore  attraverso  un  vinco- 
lo di  riconoscenza  e  lealtà.  Concordi  nel  celare  il  loro  segreto,  i  due  giovani 
si  trovano  in  tal  modo  impigliati  entro  una  rete  di  complicati  rapporti,  ordi- 
ta dai  numerosi  personaggi  secondari,  a  partire  dalla  cortigiana  Aknira  che, 
in  parte  allettata  dallo  stesso  Erminio,  non  sa  rassegnarsi  a  perderlo  e  pro- 
clama vendetta,  o  dal  cortigiano  Lelio,  infatuato  di  Olinda  al  punto  di  pro- 
gettarne il  rapimento.  Nella  fabula  già  piuttosto  intricata  si  inseriscono  inol- 
tre i  raggiri  del  servo  Farina,  le  velleità  amorose  del  procuratore  Pancrado  e 
le  grullerie  del  suo  cliente  Sambuco.  L'azione  sembra  precipitare  sotto  i 
colpi  di  diversi  accidenti,  culminanti  nell'arresto  di  Erminio,  e  solo  l'arrivo 
inaspettato  di  Alidoro  (il  padre  di  Olinda)  permetterà  all'irato  Principe  di 
apprendere  la  verità;  mosso  a  compassione,  egli  consentirà  finalmente  alle 
nozze  dei  protagonisti. 

Nonostante  la  trama  offra  non  pochi  episodi  faceti,  edificati  sugli  stilemi 
più  frequenti  del  genere  comico  (le  beffe  e  gli  equivoci  verbali)  ciò  che  ca- 
ratterizza I  Fidi  cimanti  è  dunque  la  vena  aw^enturosa  e  patetica  insinuatasi 
nell'intrigo,  sorretta  da  un  tono  grave  e  denso  di  echi  letterari.  Archiviati  i 


Introdut(ione  "2.1 

più  abituali  pretesti  romanzeschi,  di  cui  gli  antefatti  di  numerose  commedie 
rinascimentali  erano  affollati,  l'autore  dilata  il  pathos  moltiplicando  le  situa- 
zioni e  gli  intrighi,  sogguardando,  come  molti  suoi  colleghi,  a  "fonti  nuove 
e  vive,  meno  consunte  dall'uso  scenico  tradizionale" ^\  Per  plasmare  la  sua 
opera  il  Podiani  attinge  a  piene  mani  dai  repertori  più  svariati:  dalla  novelli- 
stica, ai  cantari,  da  commedie  e  tragedie,  ai  poemi  dell'Ariosto  e  del  Tasso. 
In  generale  non  è  comunque  agevole  riuscire  ad  accertare  la  fonte  precisa  di 
ogni  motivo,  data  la  vasta  diffusione  delle  tematiche  nelle  opere  teatrali  co- 
eve, molto  spesso  di  difficile  datazione  a  causa  di  una  circolazione  scenica  o 
manoscritta  che  precede  la  pubblicazione  vera  e  propria,  e  tutte  dunque  re- 
ciprocamente contaminate. 

Ciò  premesso,  possiamo  sicuramente  parlare  di  una  stretta  familiarità 
con  la  seconda  novella  della  quinta  giornata  del  Decameron,  costituente  per  la 
commedia  in  oggetto  l'antecedente  più  significativo,  a  partire  dall'intreccio 
romanzesco,  dominato  dalla  forza  di  Amore  che  sa  tener  testa  alle  avversità 
della  fortuna  e  alle  insidie  umane.  Così,  come  nella  vicenda  di  Martuccio  e 
Gostanza,  analogamente  ostacolati  dalla  disuguaglianza  economica,  i  prota- 
gonisti de  /  Fidi  Amanti  troveranno  nella  frenetica  successione  degli  a^^^e- 
nimenti  un  sostegno  determinante  per  la  legittimazione  del  loro  affetto.  Il 
Podiani  opera  tuttavia  un  capovolgimento  della  novella  del  certaldese  e, 
prolungandone  gli  accidenti,  pone  nella  barchetta  priva  di  vele  o  timone, 
non  l'eroica  fanciulla  ma  Erminio,  reo,  come  abbiamo  anticipato,  di  aver 
combattuto  in  duello  contro  un  nobile  e  di  averlo  ferito.  Sarà  poi  la  tenacia 
stessa  del  sentimento  amoroso  a  spingere  OHnda,  novella  Gostanza,  a  cer- 
care la  morte  tra  le  onde  per  seguire  la  cattiva  sorte  dell'adorato  che  crede 
perduto^"*. 

Sulla  fonte  boccacciana  il  Podiani  ha  in  realtà  innestato  degH  elementi 
eterogenei,  cominciando  dagli  influssi  appartenenti  ad  una  tradizione  novel- 
listica più  recente,  che  dovevano  risultare  ben  più  accattivanti  e  quindi  con- 
geniali al  pubblico  del  tempo.  Dalla  storia  di  Romeo  e  Giulietta,  ad  esem- 


^^  Cfr.  G.  Ferroni,  Edonismo  e  moralismo  cortigiano  nelle  commedie  delBorghini,  op.  cit.,  p.  259. 

^^  Un'eroina  paraboschiana,  la  Cornelia  del  Viluppo,  respinta  da  \'alerio,  aveva  invece 
finto  di  essere  annegata  per  poter  poi  travestirsi  da  maschio  e,  sotto  la  nuova  identità  di 
Brvmetto,  porsi  al  servizio  dell'amato  (cfr.  Parabosco,  //  Viluppo,  atto  1,  scena  7). 


28  A.  LOMMI 

pio,  sia  essa  tratta  dalle  Novelle  del  Bandello  (II,  9)  o  dalle  fonti  della  stes- 
sa", il  nostro  autore  ricava  i  leitmotiv  dell'esilio  del  protagonista  accusato  di 
aver  ucciso  (nel  nostro  caso,  come  abbiamo  detto,  solo  ferito)  un  suo  con- 
cittadino, e  le  nuove  nozze  a  cui  i  genitori  vorrebbero  piegare  la  fanciulla. 
Allo  stesso  modo,  nel  corso  della  commedia,  il  ricordo  degli  amanti  resi  ce- 
lebri da  Shakespeare  riaffiora  nell'episodio  della  "morte  apparente"  di  O- 
linda,  accasciatasi  al  suolo  priva  di  sensi  per  la  dolorosa  sorpresa  di  essere 
fuggita  con  l'amante  sbagliato,  e  lungamente  pianta  da  Erminio. 

Il  tribolato  passato  del  protagonista  invece  può  procedere  da  memorie 
anteriori,  addirittura  dalle  avventure  di  Giuseppe  narrate  nella  Bibbia  ': 
Erminio  possiede  saggezza  e  capacità  sufficienti  a  consentirgli  di  acquisire 
in  breve  tempo  un  posto  importante  a  corte,  come  era  accaduto  all'eroe  e- 
braico  che,  dopo  essere  stato  venduto  dai  fratelli  invidiosi,  schiavizzato  ed 
incarcerato,  giunge  ad  essere  viceré  d'Egitto.  L'abbandono  nelle  acque,  in- 
fine, è  rintracciabile  sia  in  un  altro  episodio  bibHco,  quello  di  Mosè  ,  sia  nel 
cantare  de  ha  legenda  di  Vergogna^^  come  nel  romanzo  cavalleresco 
às^Amadis  de  Gaulà''\  e  in  numerosi  poemi,  da-WEneide^'^  'àl^ Innamoramento 


^^  Il  Bandelle  a  sua  volta,  com'è  noto,  l'aveva  mutuata  dalla  Storia  di  due  nobili  amanti  del 
vicentino  Luigi  da  Porto,  ma  fonti  ancora  anterion  possono  essere  rintracciate  nella  Novella 
di  Vannino  e  Montanina  di  Gentile  Sermini  e  in  quella  di  Mariotto  e  Gianna:;^  di  Masuccio. 
Per  approfondimenti  a  riguardo  si  rimanda  a  Letterio  Di  Francia,  Novellistica,  Milano,  V-A- 
lardi,  1925,  voi.  II,  p.  44. 

'^^  Bibbia,  Genesi,  37-50,  in  particolare  4L 

^^  Bibbia,  Esodo,  2,  2-10. 

'^'^  Cfr.  Cantari  novellistici  dal  Trecento  al  Cinquecento,  a  cura  di  E  Benucci  R.  Manetti  F.  Za- 
bagli,  Roma,  Salerno,  2002,  p.  217:  "la  novella  narra,  in  92  ottave  suddivise  in  due  cantari, 
di  un  ricco  barone  di  Aragona  che,  rimasto  vedovo,  seduce  sotto  l'influsso  del  demonio  la 
figlia  rendendola  madre  di  un  figlio  maschio,  battezzato  con  l'eloquente  nome  di  \^ergogna 
(...).  Per  liberarsi  della  scomoda  presenza,  i  due  protagonisti,  dopo  aver  adagiato  il  fanciullo 
in  una  na\'icella  ed  avergU  legato  al  collo  la  scritta  denunziante  il  nome  e  la  nobile  origine, 

10  affidano  alle  acque". 

^'^  Come,  naturalmente,  nel  relativo  poema  Amadigi  dd  Bernardo  Tasso  (\^enezia  1560). 

11  protagonista,  figlio  di  Perion,  leggendario  re  di  Gaula,  e  della  bella  Elisena,  è  abbandona- 
to alla  nascita  su  di  una  barca.  Allevato  dal  cavaliere  Gandales,  una  volta  cresciuto  inizierà 
ad  indagare  sulle  sue  origini,  affrontando  svariate  imprese  ed  avventure. 

'''^  Ovviamente  per  il  personaggio  di  Camilla  (cfr.  Virgilio,  /Eneis,  XI,  w.  551-580). 


Introdut^one  29 

de  Orlando^',  al  ¥idamanté''  del  Gonzaga.  Anche  se  nel  nostro  caso  si  tratta  di 
un  adulto  e  non  di  un  neonato,  può  servire  a  richiamarne  le  origini  nobili. 

Passando  dall'antefatto  all'azione  scenica  vera  e  propria,  un  certo  paral- 
lelismo può  essere  individuato  con  la  storia  à^WErofilomachia  di  Sforza  Od- 
di, composta  nel  1572:  il  genovese  Leandro  vive  un  angosciante  conflitto 
fra  amore  ed  amicizia,  per  i  conterranei  Erminio  ed  OKnda  spostato  sul  ter- 
reno della  lealtà  al  Principe  anfitrione,  ma  analogamente  tradotto  in  un  rap- 
porto conflittuale  con  il  potere  assoluto  verso  il  quale  avvertono  un  marca- 
to asservimento  psicologico  che  H  spinge  più  volte  alla  rinuncia  del  loro 
stesso  legame.  Come  nell'epilogo  deWErq/ìIomachia,  anche  ne  /  Fidi  Amanti 
"prevale  alla  fine  la  liberalità  del  Signore,  obbligato  -  secondo  i  moduli  più 
in  voga  della  trattatistica  politica  -  a  distinguere  la  sua  figura  da  quella  del 
tiranno  e  quindi  mostrare  ai  propri  sudditi  la  sua  magnanimità  proprio  allo 
scopo  di  conservare  il  potere"    . 

Per  concludere,  pure  il  rapimento  di  Olinda  concertato  da  Lelio,  attra- 
verso il  particolare  della  scala  di  corda  utilizzata  dal  cortigiano  per  scalare  il 
muro  fino  alla  stanza  della  fanciulla,  è  un  topos  sfruttatissimo,  già  presente 
nel  cantare  di  Ippolito  e  Diadora   . 

Dalla  tradizione  letteraria,  il  Podiani  non  ricava  solo  un  generico  inven- 
tario di  episodi  da  ricucire  per  ottenere  un  trama  originale  ma,  soprattutto, 
sa  estrarre  dei  motivi  poetici  i  quali,  con  le  loro  diverse  sfumature,  saranno  i 
primi  responsabili  della  trasformazione  del  registro  comico. 


^'  Galaciella,  figlia  illegittima  di  re  Agolante,  convertita  al  cristianesimo  per  amore  di 
Ruggiero  II  di  Risa,  dopo  che  il  marito  è  stato  ucciso  durante  l'assalto  della  città  (causata 
da  Beltramo,  fratello  dello  stesso  Ruggiero  e  suo  traditore),  viene  fatta  pngioniera  e,  incin- 
ta, è  messa  in  mare  su  una  fragile  barca;  lasciata  alla  deriva,  approderà  in  Libia,  dove  mori- 
rà di  parto  dando  alla  luce  due  gemelli:  Ruggiero  e  Marfisa  (cfr.  Boiardo,  hiamoramento  de 
Orlando,  II,  I,  ott.  70-73;  III,  V,  ott.  33-34). 

^'2  II  protagonista,  Austrio-Gonzago-Fido  Amante,  aggrappandosi  alle  vesti  della  madre 
Sulpitia  mentre  questa  si  lascia  cadere  dall'alto  di  una  torre,  viene  trascinato  nelle  acque  del 
Mincio  e  provvidenzialmente  salvato  dalle  Ninfe  (cfr.  Gonzaga,  Fidamante,  VII,  ott.  101- 
103). 

^^  Francesco  Tateo,  l^a  letteratura  della  Controriforma,  op.  cit.,  p.  157. 

''■*  I  due  amanti,  appartenenti  a  potenti  famiglie  fiorentine  da  tempo  ostili,  dopo  varie 
traversie,  "concludono  un  patto  matrimoniale,  decidendo  di  consumare  l'unione  la  notte 
seguente  (...)  nella  camera  di  Diadora,  che  Ippolito  dovrà  raggiungere  arrampicandosi  con 
l'ausilio  di  una  scala  di  corda"  (Cfr.  Cantari  Novellistici,  op.  cit.,  p.  512). 


30  A.  LOMMI 

Ecco  allora  che,  per  restituire  allo  spettatore  tutta  la  passione  amorosa 
dei  due  sfortunati  amanti  anche  nel  colmo  della  disavventura,  l'autore  si  ri- 
volge al  secondo  canto  della  Gerusalemme  Uberata,  come  Curzio  Gonzaga 
aveva  fatto  qualche  anno  prima  per  narrare  la  vicenda  di  Giulia  e  Arione 
nel  XXIX  canto  del  suo  Fidamante^^  Nella  scena  decima  del  quinto  atto,  in- 
fatti, Olinda  (che  dal  Tasso  deriva  finanche  il  nome,  sia  pure  volto  al  fem- 
minile^'^'), alle  guardie  impegnate  ad  arrestare  l'amato,  offre  in  cambio  la  sua 
cattura,  dando  vita  ad  una  gara  di  liberalità  nella  quale  ciascuno  dei  due 
contendenti  vuole  risparmare  all'altro  il  dolore  e  la  prigionia  '  .  Il  ritmo  della 
scena  è  molto  lento,  essendo  essa  quasi  del  tutto  priva  di  azione  fino 
all'intervento  provvidenziale  del  bargello  incaricato  di  rilasciare  Erminio,  e 
dunque  lontano  dalla  concitazione  dell'episodio  della  Uherata  e  decisamente 
più  prossimo,  sotto  questo  aspetto,  all'atmosfera  rarefatta  del  brano  del  ¥i- 
damante;  tuttavia  le  battute,  nelle  quali  si  accumulano  le  negazioni  a  sottoli- 
neare l'estrema  forza  del  loro  sentimento  {non  ho  altro  che  più  mi  prema;  sent^a 
voi  non  posso  vivere;  non  mostrar  segno  d'estremo  dolore;  per  non  vedere;  fosse  mio  lo 
stratio,  e  non  vostro...)  e,  soprattutto,  la  loro  innocenza  (non  v'ha  colpa;  non  sono 
io  homicida,  né  traditore  (...)  non  ho  io  trattato  contra  la  vita  (...)  non  ho  commesso  ac- 
cesso..), risentono  marcatamente  del  tono  grave  ed  elegiaco  caratterizzante 
Olindo  nel  poema  tassiano,  anche  se,  sul  finire  del  XVI  secolo,  gli  accenti 
moUi  e  sensuali  con  i  quali  il  Tasso  intavolava  il  lamento  amoroso  del  suo 


''^  L'eroe  Gonzago,  giunto  a  Menfi,  libera  i  due  giovani  destinati  ad  essere  dati  in  pasto 
al  coccodrillo  per  superare  l'incanto  della  Fede.  Come  i  tassiani  Olindo  e  Sofronia,  en- 
trambi sono  disposti  a  sacrificarsi  per  risparmiare  all'altro  il  supplizio  (cfr.  C.  Gonzaga,  // 
Fidamante,  XXIX,  ott.  54-98).  Sulle  analogie  e  differenze,  soprattutto  stilistiche,  riscontrabi- 
li tra  i  due  poemi,  cfr.  A.M.  Razzoli  Roio,  Da  Ariosto  a  Tasso:  il  Fido  Amante  di  Cur^o  Gontiia- 
ga,  in  AA.VV.,  Curr^o  Goni^aga  fedele  d'amore  letterato  e  politico,  Roma,  Verso  l'Arte,  2000,  pp. 
29-58. 

^^  Come,  del  resto,  la  matrona  Soffronia  e  lo  stesso  Erminio.  Il  nome  di  Almira  è  inve- 
ce in  assonanza  con  quello  dell'Armida  tassiana  e  deU'Alcina  ariostesca,  a  conferma 
dell'influenza  esercitata  dai  poemi  sulla  commedia  del  Podiani. 

^'^  Sul  versante  teatrale  l'antecedente  più  significativo  per  tale  situazione  è  da  ricercarsi 
neVCAmor  Costante  del  Piccolomini,  precisamente  nella  terza  scena  del  quinto  atto,  quando  il 
racconto  del  confessore  Fra  Cherubino  restituisce  indirettamente  al  pubblico  la  sconcer- 
tante gara  di  generosità  a  cui  danno  vita  i  protagonisti  Ginevra  e  Ferrante,  sorpresi  da  Gu- 
gUelmo  e  perciò  "condannati"  all'avvelenamento  (cfr.  VìccoXomìm,  Amor  Costante,  V,  3). 


Intrvduf^ofie  31 

protagonista^'**,  cedono  il  posto  all'importanza  di  "amare  un  solo,  d'honesto 
e  santo  amore"''^,  destinato  ad  essere  coronato  dalle  nozze. 

Un  altro  celebre  episodio  della  Gerusalemme  aleggia  tra  le  pagine  de  /  ¥idi 
Amanti:  quello  del  canto  XVI,  recuperato  attraverso  i  lamenti  della  cortigia- 
na Almira,  invaghita  di  Erminio  e,  dopo  l'arrivo  di  Olinda  a  corte,  definiti- 
vamente da  lui  trascurata.  Il  topos  dell'abbandono,  presenza  costante  nei  po- 
emi e  nelle  tragedie  del  Rinascimento  e  destinato  ad  un  massiccio  sfrutta- 
mento nei  melodrammi  dei  secoli  successivi,  non  viene  qui  trattato  con  uno 
spessore  psicologico  paragonabile  a  quello  del  Tasso  ed,  anzi,  si  cerca  quasi 
di  contenerne  l'impatto  mediante  i  commenti  sarcastici  della  serva  Concor- 
dia; eppure  il  discorso  con  il  quale  la  cortigiana  per  la  prima  volta  accantona 
la  propria  arte  e  mette  a  nudo  l'anima,  professandosi  fedele  e  casta  per  a- 
more,  segue  molto  da  vicino  il  pathos  delle  dichiarazioni  rivolte  da  Armida  a 
Rinaldo.  Ne  condivide  infatti  gli  accenti  di  sincera  disperazione  e  la  fragilità 
della  donna  innamorata  disposta  a  tutto  pur  di  non  perdere  l'amato.  Il  vero 
e  proprio  confronto  tra  Almira  ed  Erminio  viene  preparato  fin  dalla  terza 
scena  del  primo  atto,  dove  la  cortigiana  confessa  a  Concordia  di  non  riusci- 
re né  a  dimenticare  l'oggetto  del  suo  amore  né  a  seguire  lo  stile  di  vita  con- 
dotto prima  di  averlo  conosciuto.  Le  battute  di  Almira  contengono  già  mol- 
ti indizi  significativi,  che  la  accomunano  aUe  diverse  eroine  protagoniste  di 
analoghi  tradimenti  ed  abbandoni;  a  volte  si  tratta  di  una  specifica  allusione, 
come  nel  caso  di  Olimpia  ed  Arianna,  evocate  dall'accenno  ai  "Bireno  cru- 
dele e  Teseo  traditore"  ^^^,  mentre  in  altri  casi  è  il  motivo  di  fondo  a  suscitare 
il  ricordo  di  Armida  o,  soprattutto  qui,  quello  di  Didone  abbandonata 
dall'ingrato  amante  cui  si  era  completamente  votata  ("(•••)  capitò  qui  in  Sa- 
lerno alla  corte,  smorto,  sparuto,  e  forse  allhora  scampato  di  galera";  "(...) 
subito  l'accarezzai,  l'honorai,  lasciai  ogn'altro,  e  gli  feci  offerta  delle  poche 

^'^  Non  a  caso  espunti,  con  tutto  l'episodio,  dalla  Gerusalemme  Conquistata. 

(''^  Cfr.  Podiani,  I  Fidi  Amanti,  atto  5,  scena  10.  Il  clima  della  commedia  si  allontana  sen- 
sibilmente anche  dal  Fidamante  poiché,  se  pure  il  Gonzaga  era  rimasto  "più  rigido,  defilato 
nspetto  agli  accenti  morbidi,  sensuali"  del  Tasso,  qui  manca  completamente  la  dimensione 
corale  presente  nel  poema,  come  il  motivo  del  doppio  travestimento  che  "mo\amenta  il 
concatenarsi  dei  fatti"  (cfr.  A.M.  Razzoli  Roio,  Da  Ariosto  a  Tasso:  il  Fido  Amante  di  Cur^o 
Gont(aga,  op.  cit.,  p.  37). 

■"'  Cfr.  Podiani,  7  Fidi  Amanti,  atto  1,  scena  3  e  relative  note.  Ricordiamo  che  la  mede- 
sima allusione  è  presente  anche  ne  La  Pellegrina  del  Bargagb,  atto  V,  scena  4. 


32  A.  LOMMI 

facoltà  ch'io  godeva,  e  di  me  stessa'"').  Quando  si  trova  finalmente  a  fron- 
teggiare lo  sfuggente  giovane,  spese  inutilmente  le  formule  più  consuete 
dell'aspide  sordo,  della  piaga  mortale,  del  cuore  degno  della  crudeltà  di  una 
tigre,  Almira  cerca  di  trattenerlo  afferrandogli  la  cappa  e  supplicandone  la 
pietà;  come  Armida  si  dichiara  colpevole  ed  abietta,  ma  incapace  di  dimen- 
ticarlo al  punto  di  essere  pronta  a  portare  "volontieri  tutti  gli  affanni,  gli 
stenti,  e  le  miserie  del  mondo"'^^,  e  addiritmra  si  impegna  a  perseguire  la 
strada  della  castità  e  continenza  pur  di  restargli  accanto.  Ad  ulteriore  con- 
ferma della  parentela  con  la  Gerusalemme  Uberata,  tra  le  varie  esortazioni  in- 
dirizzate ad  Erminio,  ecco  spiccare  ancora  una  volta  la  remimscenza  tassia- 
na in  quel  "tu  sei  l'idol  mio"  '^,  che  dal  Petrarca  procedeva  nel  poema.  Dalla 
celebre  maga,  come  dalle  tragedie  del  periodo,  vengono  recuperate  pure  le 
invettive  con  le  quali  Almira  finisce  per  schernire  Erminio,  e  la  volontà  di 
vendicarsi  per  placare  lo  sdegno  divampatole  nell'anima.  Sottolinea  dunque 
il  muro  d'inimicizia  ormai  eretto  tra  loro  {capitalissima  nemica;  ti  son  nemica  io; 
tu  più  che  mai  mi  sarai  inimico..})  e  sfoga  il  furore  accumulato  in  una  intensa 
enumerazione  di  epiteti  negativi  {perfido,  iniquo.,  d'animo  basso.,  brutto.,  plebeo  e 
poi  ancora  barbaro  crudele,  sen^  pietà  e  sent^afede).  Infine,  conformemente  alla 
consueta  dicotomia  della  donna  fedele  e  'positiva'  la  quale,  abbandonata,  si 
consuma  nel  dolore  e  giunge  al  suicidio  '  ,  e  di  quella  'negativa'  che  reagisce 
perseguendo  la  vendetta''^,  la  cortigiana  propende  per  quest'ultima  strada, 
innescando  a  danno  dei  due  protagonisti  una  vorticosa  spirale  di  bugie,  in- 
seguimenti, denunce,  sovente  in  procinto  di  ritorcersi  su  gli  stessi  artefici:  a 

^'  Ibidem. 

^2  Cfr.  Podiani,  7  Fidi  amanti,  atto  3,  scena  4. 

^^  Ibidem. 

^"'  Ci  si  riferisce,  ad  esempio,  alla  figura  di  Didone  (cfr.  \^irgilio,  JEneis,  lY;  Ludcxàco 
Dolce,  Didone.  Tragedia  di  M.  L.  Dolce,  Venezia,  1547,  dispombile  nell'edizione  cntica  curata 
da  S.  Tomassmi,  Ludovico  Dolce,  Didone.  Tragedia,  Parma,  Edizioni  Zara,  1996;  Alessandro 
Pazzi,  Didone  (1524  versione  manoscritta)  edita  da  A.  Solerti,  he  tragedie  metriche  di  Alessandro 
Pas^:^  de'  Medici,  Bologna,  Romagnoli-Dell'Acqua,  1887  (ristampa  anastatica  Bologna, 
Commissione  per  i  Testi  in  Lingua,  1969);  Giovan  Battista  Giraldi,  Didone  (1541-42)  pub- 
blicata postuma  a  \'^enezia,  Cagnacini,  1583;  Cristopher  Marlowe,  Dido,  Queen  of  Carthage, 
1587);  inoltre  ci  si  riferisce  alla  figura  di  Sulpitia  ne  II  Fido  Amante  di  Curtio  Gonzaga,  Man- 
tova, 1582,  canto  VII. 

^^  Come  appunto  Armida  nel  canto  X\'I  della  Gerusalemme  Uberata  o,  ancor  prima,  AI- 
cina  nel  canto  \TI  del  Furioso  (e  nei  Cinque  canti). 


Introdutnone  33 


*v 


questo  proposito  la  sen^a  Concordia  è  assillata  dall'idea  di  "aver  un  piede 
già  nel  trabocco"  ^'^'  ed  il  complice  Farina  teme  di  "incappare  in  qualche  lac- 
ciuolo"''. 

Come  si  sarà  intuito,  l'intensità  patetica  degli  episodi  consiste  dunque 
proprio  nell'intreccio  di  elementi  eterogenei,  la  maggior  parte  dei  quali  è  de- 
sunta da  generi  estranei  a  quello  comico  'tradizionale'.  Se  nei  passi  accenna- 
ti è  la  forza  drammatica  e  la  suggestiva  teatralità  del  Tasso  ad  offrire  un 
campionario  di  motivi  con  cui  plasmare  i  dialoghi  ed  i  monologhi  ben  oltre 
lo  stretto  retaggio  degli  innamorati,  altrove  sono  dei  loci  più  propriamente 
tragici  a  confluire  nell'azione  scenica.  In  questo  processo  l'innovazione 
permea  anche  i  personaggi  secondari,  mostranti  chiaramente  l'influsso  della 
trasformazione  in  atto.  Nella  prima  scena,  ad  esempio,  con  l'entrata  del 
protagonista  viene  presentato  al  pubblico  anche  Valerio,  servitore  di  Olinda 
e  fedele  ad  entrambi  'i  fidi  amanti':  il  suo  ruolo,  conforme  a  quello  tradizio- 
nale del  consigliere  della  tragedia,  è  quello  di  raccogliere  lo  sfogo  dell'eroe, 
esortandolo  a  non  abbandonare  la  speranza.  Il  servo  infatti  dimostra  subito 
di  possedere  una  buona  dose  di  prudenza  e  moderazione,  indispensabile 
per  contenere  il  sentimento  spesso  privo  di  ragione  di  Erminio;  così  già  nel 
dialogo  introduttivo,  disposto  attorno  al  tema  dell'iniquità  della  fortuna 
(riaffiorante  ciclicamente  in  numerosi  altri  punti  del  dramma),  Valerio  inco- 
raggia il  giovane  a  non  demordere  e  ad  operare  efficacemente  per  trionfare 
sul  destino  avverso.  Il  suo  intervento  si  rivelerà  decisivo  anche  in  altre  si- 
tuazioni, poiché  gli  sarà  affidata  la  missiva  contenente  le  istruzioni  per  la 
fuga  da  corte  e,  soprattutto,  nel  momento  in  cui  Olinda  verrà  trovata  priva 
di  coscienza  in  strada,  impedirà  ad  Erminio  di  compiere  gesti  esasperati 
credendola  morta,  e  di  esporsi  ad  inutili  pericoli   . 

Un  ulteriore  e  significativo  esempio  è  incarnato  da  Soffronia,  evidente- 
mente modellata  sulla  figura  della  nutrice  della  tragedia  classica,  filtrata 
dall'esperienza  degli  scrittori  del  Cinquecento.  Secondo  il  canone  tragico,  a 
Soffronia  il  Podiani  affida  la  funzione  di  controcanto  nei  confronti  della 

""^  Cfr.  Podiani,  1  Vidi  amanti,  atto  3,  scena  8. 
^^  Cfr.  Ivi,  scena  9. 

''*'  Uno  dei  motivi  abituali  al  più  sublime  dei  generi,  spesso  mutuato  anche  nella  com- 
media per  dare  consistenza  alle  scene  lagnmose  degli  innamorati. 
''^  Cfr.  Podiani,  I  Fidi  Amanti,  atto  4,  scena  11. 


34  A.  LOMMI 

protagonista  ed  il  dialogo  tra  le  due  donne  potrebbe  costituire  appieno  la 
scena  d'apertura  di  una  tragedia  ^\  se  non  venisse  rinviato  all'inizio  del  se- 
condo atto,  quando  lo  spettatore  già  si  è  potuto  avvalere  del  racconto  di 
Erminio  per  ricostruire  il  complicato  antefatto.  Non  a  caso  anche  in  esso 
ritroviamo  numerose  risonanze  tragiche:  l'abbandonarsi  al  racconto  delle 
proprie  sventure  per  lenire  il  dolore,  il  legame  materno  a\^ertito  da  Olinda 
per  la  sua  interlocutrice,  la  "perfidia  della  sorte  nemica",  l'invocazione  della 
morte  e  il  conseguente  monito  sulla  viltà  di  voler  porre  fine  alla  vita  anziché 
combattere  le  forze  ostili. 

L'ultimo  esempio  di  figura  tragica  lo  incontriamo  sul  finale  della  com- 
media^': si  tratta  del  padre  di  Olinda,  Alidoro,  evocato  in  apertura 
dell'opera  con  tratti  dispotici  e  privi  di  compassione;  il  pubblico  si  trova  in- 
vece a  fronteggiare  un  individuo  anziano,  probabilmente  róso  dal  rimorso, 
che  a  dispetto  dell'età  avanzata  ha  deciso  di  affrontare  un  lungo  \'iaggio  alla 
ricerca  della  figlia;  abissalmente  lontano  dal  personaggio  comico  del  vec- 
chio, il  suo  monologo  è  infarcito  di  dolore,  di  pianto,  di  "soverchia  pena"  e 
di  invocazioni  alla  morte,  quasi  come  debito  castigo  per  il  suo  antico  dinie- 
go. Sarà  proprio  il  suo  inter\^ento,  grazie  anche  all'aiuto  del  maggiordomo 
Manfredo,  a  risultare  decisivo  per  placare  l'ira  del  Principe  e  procedere  fi- 
nalmente verso  un  epilogo  favorevole. 

Archiviati  i  personaggi  e  le  fonti,  restano  da  analizzare  le  tematiche  at- 
torno alle  quali  ruota  la  vicenda,  anch'esse  desunte  da  un  campionario  tra- 
gico: il  tema  de\ìa.Jìdes  (vivo  soprattutto  in  Olinda,  poiché  Erminio  pareva 
inizialmente  aver  trovato  un  motivo  di  consolazione  in  Almira)  e  quello 
della  sottomissione  politica  e  sociale  alla  volontà  di  un  Principe,  evocato  so- 
lo verbalmente  ma  consistente  minaccia  per  i  due  protagonisti. 


^"  Secondo  il  modello  che,  da  La  Sophonisba  del  TrissLno,  diventa  "un  vero  e  proprio  lo- 
cus  communis  di  tanto  teatro  tragico  cinquecentesco,  fino  agli  esiti  estremi  del  Torrismondo  e 
della  Merope"  (cfr.  Teatro  del  Cinquecento,  Lm  tragedia,  a  cura  di  R.  Cremante,  ]Milano-NapoLi, 
Ricciardi,  1997,  p.  264).  Per  l'analoga  posizione  del  dialogo  con  la  nutrice,  si  prendano 
come  esempi  VOrbecche  giraldiana,  che  lo  propone  propno  all'inizio  del  secondo  atto,  e  la 
Tullia  del  Martelli,  che  lo  nn\na  invece  di  qualche  scena. 

^'  Podiani,  1  Fidi  A.mantt,  atto  5,  scena  9. 


In^rodus^one  35 

Infedeltà  d'amore 

La  commedia  del  Podiani,  come  abbiamo  già  più  volte  accennato,  ruota 
essenzialmente  attorno  al  tema  della  fedeltà  d'amore,  che  infiamma  la  pen- 
na di  numerosi  scrittori  del  periodo,  a  partire  da  Curzio  Gonzaga  che  alle 
"virtù  dell'amante  fedele"  e  "alle  durissime  prove  cui  il  protagonista  si  sot- 
topone per  dimostrare  la  sua  «perfetta  fedeltà»"  "  dedica  un  intero  poema:  // 
Fidamante. 

Il  recupero  della  virtm  muliebre  di  stampo  umanistico,  il  binomio  di  casti- 
tas  e  fides,  un  certo  neoplatonismo  (più  che  mai  vitale  in  periodo  controri- 
formistico) sgominante  l'eros  edonistico  rinascimentale,  si  avvertono  già  nel 
colloquio  d'apertura  tra  Erminio  e  Valerio.  Apprendiamo  infatti  come 
l'innamoramento  del  protagonista  sia  avvenuto  seguendo  i  dettami  più  ri- 
correnti della  tradizione  letteraria:  gli  "occhi  vaghi"  della  fanciulla  (che  non 
ci  viene  descritta  in  nessun  altro  particolare  fisico,  a  differenza  del  dettaglia- 
to ritratto  costruito  dal  Parabosco  per  Lavinia),  con  un  "fiero  impetuoso 
assalto"  accendono  la  poderosa  scintilla  in  grado  di  gelare  e  bruciare  il  cuo- 
re del  giovane;  OHnda,  di  fronte  a  tanto  sentimento,  si  trova  costretta  a  ri- 
cambiare e  fra  i  due  inizia  a  configurarsi  il  casto  desiderio  di  unirsi  in  ma- 
trimonio. Da  tale  istante  l'elemento  determinante  del  dialogo  e  dell'intera 
opera  è  rappresentato  proprio  dalla  "fede"  scambiata  tra  i  due  all'insaputa 
di  tutti  (persino  del  devoto  Valerio)  e  che  inizia  ad  essere  assalita  da  una  se- 
quela di  forze  ostili. 

Solitamente  retaggio  di  una  produzione  narrativa,  questo  motivo  con- 
duttore dell'amore  contrastato,  costretto  a  dover  superare  diverse  traversie 
per  dimostrare  la  sua  reale  forza,  pare  per  prima  cosa  sottolineare  una  certa 
divergenza  tra  l'antefatto,  in  cui  le  "prove"  da  superare  sono  pericoli  tangi- 
bili (la  mancanza  del  consenso  paterno,  il  duello  e  la  condanna  a  morte, 
l'approdo  in  una  terra  lontana  e  sconosciuta)  e  la  commedia  vera  e  propria, 
dove  l'azione  lascia  abbondatemente  spazio  all'eloquio  e  alla  sfera  della  psi- 
che (la  decisione  di  vedere  in  Almira  un  felice,  per  quanto  sfocato  ripiego,  i 


^'^  Cfr.  A.M.  Razzoli  Roio,  Il  'Fido  Gonr^ga.   Un  poema  alla  corte  del  Tasso,  in  "Philo 
<:>logica",  Anno  I,  n.  1,  1992,  p.  70. 


36  A.  LOMMI 

timori  sulle  intenzioni  del  Principe  e  sulle  sue  possibili  reazioni, 
l'opportunità  di  svelare  il  segreto  all'intera  corte...). 

Soprattutto  però  si  identifica  una  difformità  di  comportamento  tra  i  due 
giovani  coinvolti.  Se  entrambi  i  racconti  tracciati  dai  protagonisti  suUe  ri- 
spettive avventure  sembrano  voler  rimarcare  proprio  l'assolutezza  del  loro 
sentimento,  esibita  con  un  radicalismo  verbale  che  non  conosce  cedimenti, 
è  soprattutto  Olinda  a  dimostrarsi  veramente  fedele:  ella  infatti  è  preoccu- 
pata solo  di  salvaguardare  la  promessa  fatta  e,  per  non  venirne  meno  suo 
malgrado,  arriva  a  tentare  (inutilmente,  come  sappiamo)  di  togliersi  la  vita. 
Ed  è  ancora  la  fanciulla,  nella  scena  culminante  del  dramma  (III,  3)  nella 
quale  finalmente  i  due  giovani  si  incontrano,  a  rammentare  all'amato  che  un 
ardore  come  il  loro,  "così  radicato  nelle  più  scerete  parti  del  cuore",  non 
potrà  "svellersi  mai"  ed  ella  si  presta  in  qualità  di  prova  vivente  poiché  la 
sua  fermezza  non  ha  ceduto  dinanzi  a  miUe  tribolazioni.  La  solidità  del  suo 
"honesto  amore"  la  rende  ardita  ed  imperturbabile  di  fronte  a  tutte  le  pos- 
sibili minacce  ed  ingiurie,  e  brandisce  il  segreto  della  fede  scambiata  come 
un'arma  in  grado  di  fendere  anche  l'eventuale  accusa  di  ingratitudine  da 
parte  del  signore.  Gli  unici  ostacoli  sono  per  lei  rappresentati  dalle  angosce 
logoranti  di  Erminio,  che  finiscono  per  intaccare  anche  i  suoi  propositi  e 
gettarla  nell'insicurezza  ("Se  vo,  che  gH  ho  da  dire?  Che  vorrà  sapere?  Gli 
ho  da  rispondere?  Ho  da  negare,  ho  d'affermare?  Come,  dove?"  si  trova  a 
balbettare  confusa  nella  seconda  scena  dell'atto  IV)  e  da  una  possibile  defe- 
zione da  parte  dell'amato.  Non  c'è  dunque  da  stupirsi  se  la  stessa  intrepida 
fanciulla  che  non  paventa  di  drogare  la  benevola  Soffronia  per  poi  calarsi 
dalla  finestra  e  prepararsi  alla  fuga  da  corte,  trovandosi  di  fronte  allo  scono- 
sciuto LeHo  e  credendosi  tradita  da  Erminio,  non  riesce  a  reggere  il  dolore  e 
sviene  (IV,  10). 

I  sentimenti  di  Erminio,  invece,  a  dispetto  della  loro  declamata  drasticità 
paiono  molto  più  labili.  Apprendere  che  il  suo  amore  non  conosce  confini, 
rispetti  o  timori  e  che  non  arretrerà  nemmeno  dopo  la  morte  (III,  3),  suona 
infatti  poco  veritiero,  poiché  lo  spettatore  è  (al  contrario  dell'ignara  Olinda) 
perfettamente  a  conoscenza  della  storia  che  il  giovane  aveva  allacciato  con 
Almira  e  del  contegno  quanto  meno  stravagante  esibito  in  più  di 
un'occasione.  Un  esempio  interessante  è  fornito  dal  dialogo  con  Manfredo 


Introdut<^one  37 

(II,  5):  anziché  rendere  noto  il  suo  legame,  Erminio  preferisce  dipingere  la 
fanciulla  amata  come  "una  donna  ignobile,  vile,  di  niun  conto,  forse  poco 
honesta,  priva  di  virtù,  di  creanze,  e  d'ogni  bella  parte",  nello  sterile  tentati- 
vo di  convincere  il  padrone  di  corte  ad  operare  non  a  suo  favore  ma,  para- 
dossalmente, contro  Olinda,  allontanandola  dalle  possibili  mire  del  Princi- 
pe. Anche  sull'incontro  con  la  cortigiana,  di  cui  si  è  già  abbondantemente 
parlato,  vale  la  pena  soffermarsi  ancora  qualche  istante.  Il  Podiani,  in  questa 
parte  dell'opera,  non  sembra  fornire  al  suo  protagonista  particolari  menti:  la 
condotta  rigida  ed  inclemente  sfoggiata  nei  confronti  di  Almira  dopo  averla 
lusingata,  non  ha  valide  attenuanti  e  risulta  molto  stridente  verso 
l'immagine  del  perfetto  amante  che  la  commedia  dovrebbe  restituire;  più 
che  fedele,  in  questa  scena,  egli  è  ritratto  come  ingrato,  preda  dunque  di  un 
"vitio  infame" ^^  scampato  addirittura  da  una  cortigiana  "*.  Egli  non  ha  nep- 
pure il  coraggio  di  affrontare  la  donna  raccontandole  la  verità  e,  in  un  pri- 
mo momento,  pensa  solo  a  schivare  ogni  possibile  incontro,  poi,  messo  alle 
strette,  cerca  di  sottrarsi  al  confronto  schermandosi  con  battute  brevissime 
e  crudeli  in  grado  di  colpire,  oltre  che  per  la  loro  discordanza  verso  le  am- 
pie lamentazioni  solitamente  accompagnanti  il  personaggio,  per  la  velenosa 
ironia  con  cui  cerca  di  minimizzare  i  sentimenti  di  Almira.  Proprio 
l'insicurezza  con  cui  egH  procede  finisce  per  smascherarlo  poiché,  tra  le  po- 
che parole  pronunciate,  non  sa  evitare  di  menzionare  il  nome  di  Olmda, 
appiccando  nell'animo  dell'avversaria  il  fuoco  della  vendetta.  Per  un  bizzar- 
ro gioco  di  specchi,  se  Erminio  incarna  in  questa  scena  il  ruolo 
dell'opportunista  privo  di  riconoscenza,  è  invece  Almira  a  rappresentare 
l'amante  esemplare,  rigenerata  da  una  passione  che  le  ha  nobilitato  i  senti- 
menti e  modificato  completamente  lo  stile  di  vita,  tanto  da  accattivarle 
l'indulgenza  del  pubblico.  Nel  corso  della  commedia  i  ruoli  vengono  gra- 
dualmente ripristinati,  così  Almira,  spronata  dall'odio,  è  riassorbita  entro  un 


*^  Cfr.  Podiani,  1  Fidi  Amanti,  atto  1,  scena  3. 

**^  Del  resto  anche  il  Prencipe  gli  muoverà  la  stessa  accusa  (I\',  1).  Ricordiamo  che  il 
motivo  dell'ingratitudine,  assieme  a  quello  della  maldicenza,  era  un  topos  della  tradizione 
classica,  ripreso  dalla  narrativa  e  dalla  trattatistica,  affiorato  precocemente  nel  panorama 
comico  grazie  a  Machiavelli  e  al  Prologo  de  La  Mandragola  (cfr.  F.  Fedi,  «El premio  che  si  òpe- 
ra». Il  Prologo  della  Mandragola  e  il  motivo  dell'Ingratitudine  nell'opera  di  Machiavelli,  in  //  Teatro  di 
Machiavelli,  a  cura  di  G.  Barbarisi  e  A.M.  Cabrini,  Milano,  Cisalpino,  2005,  pp.  347-66). 


38  A.  LOMMI 

alone  negativo,  mentre  Erminio,  ancora  segnato  da  una  certa  viltà,  che  lo 
induce  a  tacere  l'evidenza  dei  fatti  di  fronte  al  signore  ormai  furente  e  a 
scorgere  in  una  partenza  segreta  e  precipitosa  da  corte  l'unica  via  di  salvez- 
za, si  riabilita  del  tutto  attraverso  lo  shock  della  morte  presunta  di  OHnda 
(IV,  11),  che  gli  infonde  un  guizzo  di  coraggio.  Infatti,  dopo  aver  ribadito 
l'essenza  del  suo  amore,  "l'ardentissimo  desiderio  di  esseguire 
l'honestissime  voglie"  dell'amata,  pensa  di  dimostrarle  la  sua  fedeltà  to- 
gliendosi la  vita  per  poterle  restare  accanto.  Una  volta  ristabilita  la  fanciulla, 
egH,  ancora  sinceramente  preoccupato  delle  sue  condizioni,  preferisce  cor- 
rere il  rischio  di  essere  scovato,  intrattenendosi  ancora  a  corte,  piuttosto  di 
sottoporre  la  convalescente  Olinda  alle  fatiche  del  viaggio. 

//  signore  e  la  corte 

Dal  punto  di  vista  tematico  è  interessante  puntare  velocemente 
l'attenzione  anche  sul  ritratto  della  corte,  quale  si  evince  dall'opera.  Per  ec- 
cellenza universo  di  simulacri  e  di  ipocrisia,  essa  affiora  nei  dialoghi  tra  i  va- 
ri personaggi,  richiamando  le  note  polemiche  del  tempo  attorno  alla  vita 
cortigiana  e,  in  generale,  al  rapporto  tra  padrone  e  subalterno. 

Fin  dall'inizio  il  Principe  si  delinea  come  dispotico  e  capriccioso**^  ed  il 
mondo  che  gli  ruota  attorno,  se  abbaglia  grazie  al  luccichio  delle  feste  e  del- 
le residenze,  agli  ozi  dei  giochi  e  delle  burle,  si  rivela  vacuo  ed  arido  agli  oc- 
chi di  chi  si  trova  afflitto  da  qualche  preoccupazione  (I,  3).  In  apertura  del 
secondo  atto,  attraverso  il  monito  mosso  ad  Olinda  da  parte  di  Soffronia, 
apprendiamo  come  la  diffidenza  non  debba  mai  abbandonare  chi  vive  in 
corte,  neppure  quando  il  sovrano  e  il  suo  entourage  si  trovano  altrove,  poiché 
anche  il  più  piccolo  dei  mormorii,  se  fatto  in  camera,  viene  inevitabilmente 
riferito  (II,  1),  ed  il  medesimo  concetto  è  ribadito  in  seguito  da  Gasparo, 
che  esorta  LeUo  ad  agire  con  prudenza  poiché,  ad  un'eventuale  trasgressio- 
ne, in  cento  non  attenderebbero  un  istante  a  "soffiar  nelle  orecchie  del  Pren- 


"^  Nella  prima  scena  del  primo  atto  Valerio  si  stupisce  di  fronte  alla  possibilità  che  il 
Principe  possa  essersi  infatuato  di  OHnda,  poiché  potrebbe  ottenere  facilmente  prede  più 
ambite  e,  ancora,  Manfredo  dichiara  ad  Erminio  di  non  volere  parlare  al  Signore  poiché  di 
fronte  alla  sua  indole  non  potrebbe  azzardare  il  minimo  ragionamento  (II,  5). 


Introduzione  39 

cipe"  (III,  6).  Del  resto,  lo  stesso  Sambuco,  per  quanto  folle,  sa  di  doversi 
guardare  dagli  uomini  di  palazzo,  fanfaroni  e  particolarmente  solerti  a  ten- 
dere insidie  agli  sprovveduti. 

In  realtà  il  Podiani,  attraverso  tali  incisi,  dimostra  di  adottare  toni  piutto- 
sto smorzati,  assolutamente  lontani  dall'acredine  sfogata,  ad  esempio,  dal 
Parabosco  in  numerose  sue  opere,  sia  nei  confronti  dei  cortigiani  ',  che  dei 
signori'^^  sulla  scia  dei  quadri  poco  lusinghieri  tracciati  fin  dai  tempi 
dell'Ariosto ^'^  e  poi  completati  dall'Aretino**^  e  dal  Tasso'^".  Distante  tempo- 
ralmente e  culturalmente  dal  modello  del  tutto  positivo  offerto  da  //  Corti- 
giano del  Castiglione  (dove  la  vita  al  servizio  del  signore  si  configurava  come 
la  più  compiuta  realizzazione  per  l'esistenza  umana),  mentre  il  Gonzaga 
nelle  parole  della  poUastriera  BertoHna  de  Gli  Inganni  "stigmatizza"  il  ruolo 


^^  Attraverso  le  parole  dei  protagonisti,  nelle  commedie  paraboschiane  si  materializza- 
no di  fronte  al  lettore  personaggi  famelici  ed  allampanati,  mentre  sfilano  spettrali  davanti  al 
padrone  "con  questa  beretta  in  mano,  con  queste  ginochia  chine,  et  con  questa  lingua 
sempre  piena  di  adulatione,  piena  di  bugie"  {Il Marinaio,  I,  6),  mentre  si  accalcano  "proson- 
tuosi", e  "vogliono  raggionare  d'ogni  cosa  et  con  auttorità  grande",  quando  al  contrario 
"sono  ignorantissimi,  goffissimi,  vilissimi  et  forfanti  che  stanno  per  la  pagnota"  (/  Contenti, 
II,  1).  Talvolta  il  quadro  si  tinge  di  particolari  addirittura  grotteschi,  poiché  "alcuni  corti- 
gianelli  liquidi  che  avendo,  a  quattrino  a  quattrino  (...)  raccozzato  insieme  qualche  ducarel- 
lo,  et  avendone  fatto  un  vestito  (...),  per  timore  di  non  li  far  sopra  qualche  machia,  restano 
il  più  delle  volte  di  mangiare"  {L^  Notte,  II,  2). 

^^  Cfr.  Il  Marinaio,  I,  6:  «  (...)  l'huomo  s'abbatte  tal'hora  a  servire  certi  signori  che  non 
sariano  degni,  né  per  virtù  né  per  senno  né  per  gentilezza,  di  essere  famegli  di  stalla  di  chi 
streggia  loro  le  mule». 

****  Il  riferimento  è,  ovviamente,  ai  canti  del  Furioso  che  espongono  la  satira 
deU'ambiente  deUa  corte  (\ail,  1;  XXXIV,  77,  79  e  85;  XXXV,  13  e  20-21;  XLI,  1-3),  ma 
anche  alla  prima  delle  Satire  (w.  170-175)  e  alla  Cassaria.  L'Ariosto  nelle  sue  opere,  median- 
te l'invettiva  e  lo  sberleffo  alla  poesia  di  quei  luoghi  entro  i  quali  "mai  senza  fizion  non  si 
favella",  aveva  svelato  l'incrinatura  del  rapporto  tra  scrittore  e  committenza  signorile  in  un 
periodo  piuttosto  delicato  come  la  prima  metà  del  XVI  secolo,  nel  momento  in  cui  la 
stampa  aveva  iniziato  a  profilare  una  destinazione  inedita  per  la  scrittura  letteraria, 
all'insegna  di  un  pubblico  più  ampio  e  della  professionalità  commerciale.  Si  veda  a  questo 
proposito  Rinaldo  Rinaldi,  L^  imperfette  imprese.  Studi  sul  Rinascimento,  Tirrenia  Stampatori, 
Tonno,  1997,  pp.  84-87. 

"'^  Aretino,  Im  Cortigiana,  I,  22;  III,  7:  <(i  signori  vogliono  fare  a  modo  loro,  essaltare  chi 
li  piace  e  roinare  che  li  piace.  Qui  bisogna  votarsi  alla  buona  Fortuna  e  pigliare  el  ineglio 
che  l'omo  può»;  V,  1;  V,  15;  Il  Marescalco,  III,  8;  Ragionamento  delle  corti. 

'^"  Cfr.  ovviamente  Y Aminta,  atto  I,  w.  572-607,  ma  anche  II  Malpiglio  orerò  de  la  corte  e 
Intrichi  d'Amore. 


40  A.  LOiMMi 

di  cortigiano  come  "l'handicap  più  vistoso  (...)  e  direttamente  causa  della 
relativa  povertà"'^',  il  nostro  autore  si  limita  ad  insinuare  un'atmosfera  a 
tratti  opprimente,  fatta  di  infinite  cautele  e  timori,  ma  con  ogni  probabilità 
forgiata  più  nel  solco  della  tradizione  letteraria  che  su  di  un'effettiva  espe- 
rienza personale,  spesa  come  sappiamo  all'ombra  della  municipalità  perugi- 
na. Il  ritratto  della  corte  come  luogo  di  maldicenza  ed  invidia  è  offerto  in 
quanto  topos,  reso  ancor  più  attuale  dal  tassiano  "magazzino  delle  ciancie" 
ma,  accanto  alle  indispensabili  doti  della  prudenza  e  della  simulazione  ,  e- 
sibite  ad  esempio  da  Manfredo  che  non  contraddice  mai  il  signore  e  giudica 
pertanto  sconsiderato  l'atteggiamento  scopertamente  ostile  di  Olinda,  ri- 
mane una  sottile  compiacimento  nel  sapersi  vezzeggiati  dal  Principe  e  gode- 
re dei  suoi  favori. 

Lo  stesso  Signore,  sempre  solo  evocato,  mai  realmente  presente  su  di 
una  scena  non  confacente  alla  sua  regalità  (per  ovvi  limiti  di  genere)  pare 
incarnare  tutte  le  prerogative  raccomandate  dal  Machiavelli  ne  7/  Principe: 
egli  riesce  a  tenere  a  freno  i  consigli  non  richiesti  e,  incrinato  il  vincolo 
d'obbligo  dall'ingratitudine  di  Erminio,  sa  servirsi  della  minaccia  del  castigo 
per  incutere  timore  ma,  alla  fine  del  dramma,  ristabilisce  l'aura  di  magmfi- 
cenza  e  liberalità  che  lo  deve  ammantare,  fugando  il  rischio  di  essere  dichia- 
rato "rapace  et  usurpatore  della  roba  e  delle  donne  de'  sudditi"    . 

Il  comico  ne  I  Fidi  Amanti 

L'irruzione  della  comicità  nel  tessuto  patetico  dell'opera  è  essenzialmen- 
te affidata  ai  personaggi  minori,  portavoce  di  un'esuberanza  di  formazione 
plautina  perfettamante  incarnata  nei  tipi  classici  del  servo,  del  giurista  e  del 
folle,  del  resto  presenti  suUe  scene  dal  teatro  classico  alle  coeve  Compagnie 
deU'Arte. 


^'  Cfr.  A.M.  Razzoli  Roio,  Introduzione  a  C.  Gonzaga,  Gli  Inganni,  op.  cit.,  p.l3. 
^"^  Tasso,  Aminta,  v.  582  e  relative  fonti. 

'^  Doti  fortemente  raccomandate  anche  ne  //  Malpiglio,  in  Tasso,  Dialoghi,  a  cura  di 
Bruno  Basile,  Milano,  Mursia,  1991,  pp.l72  e  segg. 

'•'"*  Secondo  quanto  prescritto  dal  Machiavelli,  De  Principatibus,  XXIII. 
95  ha,  XIX. 


Intrvdu^ofie  41 

Seguendo  un  canone  ormai  consolidato,  Farina,  Pancratio  e  Sambuco 
sono  figure  complementari,  collaudate  fonti  di  comicità  prive  di  veri  legami 
con  l'ambiente  locale  entro  cui  si  muovono,  soprattutto  dal  punto  di  vista 
linguistico,  rimanendo  comunque  interessanti  per  gli  aspetti  meno  prevedi- 
bili che  riescono  a  sollevare. 

Fra  questi  personaggi,  il  più  riconoscibile  è  ovviamente  quello  di  Farina, 
il  servo  scaltro,  "l'archivio  delle  forfantarie  de  la  provincia"  ',  postosi  a  ser- 
vizio del  Procuratore  per  poterlo  manipolare  a  suo  vantaggio  e  cavarne  lauti 
introiti.  Tuttavia,  a  parte  "i  cinque  scudetti  al  mese"  già  mentalmente  as- 
saporati per  l'affare  in  atto,  questo  abile  intrigante  non  si  presenta  come  un 
parassita  interessato  unicamente  a  riempirsi  il  ventre  o  le  tasche:  i  suoi  dia- 
loghi sono  piuttosto  sempre  improntati  dall'astuta  messa  in  ridicolo  del  pa- 
drone e  della  sua  pretesa  cultura,  lasciando  percepire  una  mente  brillante, 
penalizzata  della  condizione  sociale  subalterna,  ma  perfettamente  in  grado 
di  vincere  "i  quindici  o  vent'anni  di  studio"^**  di  Pancratio.  Bastano  del  re- 
sto poche  battute  per  scoprire  le  regole  del  suo  gioco:  il  professarsi  incom- 
petente ("noi  altri  ignoranti  siamo  come  i  topi  del  campo:  loro  senz'occhi, 
noi  senza  giuditio"^^  non  fa  che  ingigantire  il  sarcasmo  con  cui  poi  smonta 
pezzo  per  pezzo  la  lettera  composta  dal  padrone  per  la  cortigiana;  più  avan- 
ti (II,  7)  si  compiace  apertamente  di  far  sprecare  al  vecchio  tante  parole  inu- 
tili: "Voglio  fingere  di  non  l'intendere"  mormora  soddisfatto  mentre  l'altro, 
sorpreso  da  tanta  ignoranza  ("Et  ancor  non  la  capisci?"),  si  dilunga  in  su- 
perflue spiegazioni.  Che  la  ricompensa  a  cui  mira  Farina  sia  costituita,  oltre 
che  dal  denaro,  principalmente  dalla  riuscita  dei  piani  ingegnosi  infaticabil- 
mente allestiti,  lo  si  intuisce  con  evidenza  sia  nel  momento  in  cui  offre  il 
suo  aiuto  ad  Aknira,  accettando  l'incarico  in  modo  quasi  avventato,  sotto  la 
spinta  di  una  certa  solidarietà  fra  compagni  di  furfanterie  (III,  8:  "se  io 
manco  a  costei,  chi  sovverrà  me  nelle  mie  occasioni,  che  a  tutte  l'hore  pos- 
so incappare  in  qualche  lacciuolo?"),  sia  quando  attua  l'inganno,  dirigendo 


^•^  Come  lo  definisce  Concordia  (Cfr.  Podiani,  I  Fidi  Amanti,  atto  3,  scena 
'^^  Cfr.  Podiani,  I  Fidi  Amanti,  atto  1,  scena  5. 
^^  Ivi,  scena  4. 
■•"^  Ibidem. 


42  A.  LOMMI 

magistralmente  tutte  le  azioni  e  battute  di  Pancratio  e  Sambuco  (IV,  7),  con 
un  ruolo  non  dissimile  a  quello  del  "tristo"  Ligurio  de  I^a  Mandragola    . 

Passando  a  Pancratio,  si  può  immediatamente  notare  come  nella  sua  fi- 
gura, di  ovvio  completamento  a  quella  di  Farina,  vengano  a  confluire  diver- 
si elementi;  egli  infatti  incarna,  per  certi  tratti,  lo  sciocco  di  calandriniana 
memoria  o\^^ero  l'innamorato  attempato  ed  avaro,  atto  ad  essere  raggirato 
facilmente  a  dispetto  dell'importanza  che  egli  crede  di  rivestire  all'interno 
della  società.  Tuttavia  Pancratio  è  anche  esempio  dell'uomo  di  legge  e  di 
cultura""  in  grado,  nel  suo  campo  d'azione,  di  farsi  carico  di  una  serie  di 
soprusi  a  danno  delle  persone  culturalmente  più  deboli.  Non  a  caso  egH,  fin 
dalla  sua  entrata  in  scena,  fa  sfoggio  del  suo  status  ("son  padrone,  e  di  più 
procuratore  in  capite,  KomcE  Professar)  e,  per  intimidire  meglio  l'interlocutore, 
non  perde  occasione  di  pavoneggiarsi  per  la  sua  vasta  erudizione,  sciori- 
nando episodi  mitologici  e  letterari  o  vicissitudini  di  natura  giuridica,  che  la 
controparte  o\'^''iamente  non  dovrebbe  conoscere  e  confutare.  Con  un  cer- 
to compiacimento,  Pancratio  ha  intrapreso  la  missione  di  affinare 
l'inserviente  Farina,  spazientendosi  poi  nel  trovare  migHoramenti  limitati, 
ma  preoccupandosi  di  osservare  rigidamente  l'ordine  costituito,  ammonen- 
do qualunque  comportamento  anomalo:  'Snaoi  aver  più  giudicio  tu,  che  sei 
servitore,  che  non  ho  io,  che  son  patrone  (...)"  (I,  4);  "Parla  del  tuo  mistiere, 
e  lascia  i  Hbri  a  chi  gl'intende!"  (II,  7).  Sul  fatto  che  Pancratio  sia  un  uomo 
di  legge  non  rimangono  dubbi:  la  professione  di  procuratore  assorbe  com- 
pletamente le  sue  esperienze,  ed  emerge  in  continuazione  nei  termini  di  pa- 
ragone o  negli  àmbiti  meno  appropriati,  a  cominciare  dalle  sgraziate  dichia- 
razioni d'amore  destinate  (nelle  sue  intenzioni)  ad  Aknira  "".  Quindi,  per 
mantenere  intatta  la  sua  reputazione  di  "huomo  graduato"  (II,  7)  e  gh 

10(1  pgj  |g  valenze  della  figura  di  Liguno  nel  capolavoro  del  Machiavelli,  e  soprattutto 
per  il  ruolo  da  "direttore  di  scena"  che  essa  incarna,  si  veda  il  saggio  di  Ezio  Raimondi, 
Politica  e  commedia,  Bologna,  Il  Mulino,  1972  (ediz.  1998),  pp.  77-79. 

""  Tale  tipo  era  presente  anche  ne  7  Megliacci  di  Mario  Podiani,  attraverso  la  figura  del 
Procuratore  Petruccio,  di  cui  analogamente  si  mette  a  fijoco  la  pseudo-dottrina. 

11)2  Valgano  come  esempi  la  letterina  che  egH  declama  soddisfatto  al  divertito  Farina  (I, 
4),  infarcita  di  termini  giuridici  {sottoposto;  pietosa  Giudicatrice;  domando  che  H  mio  summus  ius  sia 
ammesso  nella  vostra  signatura;  torto;  livellano..)  e  la  scena  notturna  della  finestra  (IV ,  7)  in  cui, 
preso  alla  sprovvista  e  vinto  dall'emozione,  recita  un'accozzaglia  di  espressioni  legaU  [coram 
iudice,  iure  naturali)  e  poetiche. 


Introdut^ione  43 

annessi  privilegi  (nella  settima  scena  del  quarto  atto  ad  esempio  si  pavoneg- 
gia della  "patente"  rilasciatagli  dal  Prencipe,  che  gli  fornisce  la  possibilità  di 
girare  armato),  si  trova  a  dover  celare  costantemente  le  sue  manovre,  ser- 
vendosi di  Farina  e  Sambuco.  Intanto,  mentre  lo  spettatore  approfondisce 
la  conoscenza  del  personaggio,  sotto  la  patina  della  compiaciuta  terminolo- 
gia tecnica,  la  cultura  di  Pancratio  viene  pian  piano  sconfessata,  rivelandosi 
piuttosto  superficiale  e  confusa;  egli  giunge  infatti  a  mescolare  le  leggenda- 
rie caratteristiche  della  fenice  e  del  cigno,  ignora  completamente  la  natura 
del  ciclope  e  compone  le  più  strampalate  frasi  giustapponendo  una  serie  di 
termini  leziosi  o  importanti,  senza  curarsi  affatto  del  loro  sigmficato.  AUa 
luce  di  tutto  ciò  risulta  ancor  più  inquietante  la  forza  legale  detenuta  nelle 
vicende  giuridiche  dal  vacuo  formulario  di  Pancratio  e,  in  generale,  delle  fi- 
gure operanti  nei  tribunali  del  tempo  dove  le  prevaricazioni  proliferano 
proprio  grazie  alle  barriere  d'incomprensione  linguistica  elevate  tia  i  giuristi 
e  le  illetterate  parti  in  causa. 

In  questo  melanconico  quadro.  Sambuco  riveste  appunto  il  ruolo  del 
clientolo,  inesperto  e  sciocco,  usato  non  di  rado  da  Pancratio  come  manova- 
lanza spicciola  per  quei  traffici  nei  quali  egH  non  vuole  esporsi  in  prima  per- 
sona. Fin  dal  suo  primo  apparire,  nelle  scene  iniziali  del  secondo  atto,  Sam- 
buco, con  il  suo  stiampalato  contegno,  sembra  portare  al  pubblico  una  ven- 
tata d'aria  fresca,  astutamente  intrufolata  neUa  compagine  manierata  e  la- 
crimosa dell'opera.  Egli  lacera  immediatamente  la  cortina  di  false  apparenze 
entro  cui  si  ammantano  gH  altii,  presentando  tutte  le  sue  principali  caratte- 
ristiche: la  diffidenza  verso  i  cortigiani  e,  in  generale,  nei  confronti  di  chi 
detiene  il  potere,  paradossalmente  contiapposta  ad  un'ingenuità  quasi  in- 
fantile, tale  da  condurlo  a  dare  credito  a  qualunque  genere  di  bizzarra  sto- 
ria'"^  la  limitata  cultura  che  gli  preclude  la  comumcazione  con  gli  altri  ma, 
nel  frattempo,  corrobora  pure  i  timori  dei  possibili  soprusi;  l'innato  senso 
di  uguaglianza  sociale,  e  la  leggerezza  con  cui  sa  affrontare  le  questioni  nelle 
quali  Pancratio  invece  si  impaluda.  La  stessa  vicenda  giudiziaria  entro  cui  è 
implicato  non  può  non  far  sorridere:  la  posizione  della  sua  latiina  ha  finito 
col  danneggiare  i  dipinti  della  galleria  del  confinante  Messer  Honesto,  il 

'"^  Uno  degli  esempi  più  felici  è  costituito  dal  dialogo  con  Concordia  (atto  2,  scena  4), 
nel  quale  dichiara  essere  non  il  vero  Sambuco,  ma  il  suo  ritratto  scappato  da  un  arazzo. 


44  A.  LOMMI 

quale  è  corso  ai  ripari  impedendogliene  l'uso;  assistito  da  Pancratio,  anziché 
essere  difeso  nei  suoi  bisogni  primari,  si  ritrova  al  centro  dei  maneggi 
dell'astuto  Farina,  e  ne  diventa  complice  suo  malgrado.  Eppure,  è  proprio 
nei  dialoghi  con  Pancratio,  giocati  sul  filo  del  rovesciamento  carnevalesco  e 
dello  scontro  tra  la  follia  e  la  cultura,  che  Sambuco,  zimbello  di  una  giusti- 
zia guasta,  dove  i  clienti  meno  abbienti  si  ritrovano  a  patire  una  serie  di  so- 
prusi, riesce  a  conquistare  la  rivalsa.  Riducendo  all'impotenza  il  «latinorum» 
del  Procuratore  ("Non  più  bis  e  tris!"  gli  intima  nella  quinta  scena  del  terzo 
atto),  attraverso  i  suoi  deliri  verbali  e  mentali,  questo  "re  del  mondo  alla  ro- 
vescia" ^  scatena  per  un  attimo  la  sovversione  dei  ruoli  e  del  potere,  sugge- 
rendo quasi  un  compiacimento  per  la  sua  stessa  condizione,  tale  da  consen- 
tirgli di  spazientire  e  deridere  quanti  gli  capitano  a  tiro"^^ 

Aspetti  linguistici  e  stilistici 

Linguisticamente,  come  anticipato,  non  si  riscontra  nel  tessuto 
dell'opera  alcun  interesse  del  Podiani  né  verso  il  plurilinguismo,  costituente 
invece  una  delle  tappe  privilegiate  della  comicità  del  secondo  Cinquecento, 
né  nei  confronti  della  lingua  municipale  perugina,  sapientemente  adoperata 
dallo  zio  paterno  come  efficace  mezzo  espressivo  in  grado  di  tener  testa  al 
fiorentino  anche  sul  piano  letterario  '  . 

'""*  Cfr.  M.  Bachtin,  l^'opera  di  Rabelais  e  la  cultura  popolare.  Riso,  carnevale  e  festa  nella  tradi- 
i^one  medievale  e  rinascimentale,  trad.  it.,  Torino,  Einaudi,  1979,  p.  407,  citato  da  P.  Camporesi, 
Lm  maschera  di  Bertoldo.  1^  metamorfosi  del  villano  mostruoso  e  sapiente.  A.spetti  e  forme  del  Carnevale 
ai  tempi  di  Giulio  Cesare  Croce,  Garzanti,  1993,  p.  24. 

'"^  Del  resto  è  lo  stesso  Pancratio  (atto  3,  scena  10)  ad  avvertire  il  lettore  che  Sambuco 
dice  e  fa  tutto  al  contrario,  tanto  da  poter  essere  raffigurato  capovolto.  Ricordiamo  che 
analoghi  personaggi  folli/astuti  sono  rintracciabili  in  altre  commedie  del  penodo,  ad  esem- 
pio ne  1m  Fantesca  del  Parabosco,  con  il  nome  di  Ramoso  (cfr.  mia  Introduzione,  G.  Para- 
bosco,  Ltì  Fantesca,  op.  cit,  p.  38)  e  ne  Gli  Inganni  del  Gonzaga,  tramite  il  servo  Roversio 
(cfr.  Curtio  Gonzaga,  Gli  Inganni,  a  cura  di  Anna  Maria  Razzoli  Roio,  Roma,  Aderse  l'Arte 
Ediziom,  2006,  pp.  17  e  26-29). 

""•  Mario  Podiani,  infatti,  "è  un  sostenitore  del  propno  mezzo  espressivo  cittadino,  in 
quanto  ritiene  che  concorrano  nella  lingua  parlata  di  Perugia  quegli  elementi  che  hanno 
costituito  la  fortuna  della  lingua  parlata  di  Firenze.  (...)  /  Al^^/Z^aV  nascono  da  una  posizione 
polemica  non  verso  il  fiorentino,  ma  verso  coloro  che  giudicano  la  favella  di  Firenze  più 
tersa  e  più  limata",  ritenendo  che  la  pretesa  superiorità  del  fiorentino  consista  invece  solo 
nella  maggior  cura  che  gli  scrittori  hanno  sempre  mostrato  verso  la  loro  Lingua,  perfezio- 


Introdut^one  45 

Per  ciò  che  concerne  il  primo  aspetto,  data  l'assenza  di  parlate  geografi- 
camente eterogenee,  alla  lingua  'bembesca'  sfoggiata  dai  personaggi  'seri'  si 
possono  contrapporre  solo  le  sciocchezze  di  Sambuco,  le  dotte  sentenze 
latine  di  Pancratio,  o  il  compiaciuto  impiego  di  proverbi  e  modi  di  dire  po- 
polari sfoggiato  da  Concordia,  tutti  idiomi  parodistici  comunque  'tiepidi', 
incapaci  di  costituire  un  controcanto  efficace  al  versante  patetico. 

Il  linguaggio  di  Sambuco,  fedele  alla  tradizione  carnevalesca,  attraverso 
"l'associazione  fonetica,  l'analogia,  il  paralogismo..."  investe  le  frasi 
dell'interlocutore  fino  a  ridurle  all'  "esatto  contrario  della  loro  significazio- 
ne originaria"  ^"^^  e  si  serve  specificatamente  del  malinteso  per  generare  la 
comicità  sul  piano  del  significato.  In  tal  modo,  seguendo  uno  degli  stilemi 
più  frequenti  del  genere  "^  (il  quiproquo,  non  a  caso  destinato  a  grande  fortu- 
na nell'imminente  Commedia  dell'Arte),  il  conflitto  verbale  dei  dialoghi  che 
lo  vedono  come  protagonista  suscita  una  serie  di  curiosi  fraintendimenti: 

II,  3:  VALERIO  "Sì,  sì,  t'ho  inteso.  Va'  fino  al  mare,  che  questa  sera  su  le  quindi- 
ci hore  arriva  una  sua  fusta  carca  di  vento,  la  quale  amainando,  viene  da  Valona  in 
poste:  informane  il  Peota,  che  nella  bossola  ti  mostrerà  subito  quel  che  cerchi." 
SAMBUCO  "Ascolta,  o  Valerio.  Hai  detto  ch'io  vada  a  Verona  con  una  frusta 
mangiando  in  poste,  e  che  inforni  una  carota,  e  la  bossola  me  lo  dirà  subito...  Non 
mi  par  che  faccia  a  proposito  a  me,  perché  per  mangiare,  frustare,  et  infornare  ca- 
rote nelle  bossole  non  bisogna  gir'  a  Verona..." 

II,  4:  CONCORDIA  "...se  non  trovo  Farina,  che  gli  cerchi  qualche  rimedio  salu- 
bre, son  impacciata." 
SAMBUCO  "Oh,  se  il  rimedio  sta  nel  salume,  non  avrà  male..." 


nandola  ed  elevandola  grazie  al  costante  utilizzo.  La  sua  opera  è  dunque  realizzata  in  «suon 
tosco  perugino»,  ovvero  in  una  lingua  che  "muovendo  dal  toscano,  si  colora  di  elementi 
dialettali  perugini  attentamente  discriminati"  (cfr.  F.  Ugolini,  Introduzione  a  /  Megliacci,  op. 
cit.  pp.  XLV-XLVI). 

'"^  Cfr.  P.  Camporesi,  lui  maschera  di  'bertoldo,  op.  cit.,  pp.  180-18L 

108  pgj.  g^  espedienti  linguistici  più  sfruttati  nella  scena  comica  cfr.  C.  Segre,  Il  teatro  del 
^nascimento  e  la  semiotica,  in  //  teatro  italiano  del  ^nascimento,  a  cura  di  M.  de  Panizza  Lorch, 
Milano,  Edizioni  La  comunità,  1980,  pp.  384-403;  M.  L.  Altien  Biagi,  Ym  lingua  in  scena,  Bo- 
logna, Zanichelli,  1980.  Sulla  specificità  del  linguaggio  comico  si  veda  almeno  il  saggio  di 
N.  Borsellino,  Luì  tradi^^one  del  comico,  h'eros  l'osceno  e  la  beffa  nella  letteratura  italiana  da  Dante  a 
Belli.,  Milano,  Garzanti,  1989,  p.  19. 


46  A.  LOMMI 

spesso  giocati  su  doppi  sensi  realizzati  con  il  suo  stesso  nome: 

II,  4:  SAMBUCO  "...il  fegato  è  rosso  de  colore  delle  carotte,  carotte  e  radice  son 
tutte  una  cosa.  Vorreste  tagliar  la  radice  al  sambuco  e  fargli  seccar  le  pampane 


oppure  su  balorde  elucubrazioni  tuttavia  rivelatrici  di  una  certa  schietta  sag- 
gezza popolare,  come  nel  caso  dell'occhio  del  ciclope  che  il  Procuratore  gli 
ha  commissionato  di  rintracciare  per  poter  poi  comporre  un  intruglio  magico: 

II,  8:  SAMBUCO  "Ho  menato  Cacaduro  medico  tutta  questa  mattina,  cercando 
per  questo  benedetto  animale"  (...)  Dice  ch'egli  non  conosce  animai  niuno  ch'abbi 
un  occhio  solo:  tutti  n'hanno  due"  (...)  Per  questo  ho  poi  discorso  fra  me  stesso,  e 
dico  che  bisogna  che  sia  un  animale  con  la  testa  grande,  e  con  gli  occhi  piccoli,  e 
due  de  i  suoi  occhi  facciano  per  uno.  Qual  è  quest'animale?  E  il  porco.  La  testa,  e 
gli  occhi  di  porco,  non  gli  avete  voi  in  casa?" 

Addirittura  di  fronte  alla  sfacciata  disonestà  serpeggiante  nei  tribunaH  e- 
gH  pare  non  a^^ilirsi,  sostenendo  che,  per  una  causa  condotta  "alla  muta  e 
alla  sorda"  la  sentenza  non  potrà  che  essere  cavata  "a  sorte"  (II,  8).  Ma  è 
proprio  nel  confronto  con  Pancratio  che  la  visione  mentale  destabilizzante 
di  Sambuco  dà  il  meglio  di  sé,  poiché  non  si  limita  all'equivoco  tra  avogare  / 
vogare,  sement^a  /  sentent^a,  infusione  /confusione  (III,  5),  ma  finisce  col  generare 
una  sorta  di  sfida  tra  i  mondi  sociaH  e  culturaH  da  essi  rappresentati.  Come 
nel  capolavoro  manzoniano,  infatti,  lo  scarto  tra  il  Procuratore  ed  i  suoi  as- 
sistiti si  concretizza  nello  scontro  tra  la  tortuosità  sintattica  e  mentale  dei 
detentori  del  potere,  armati  di  un  tecnicismo  giuridico  complicato  da  oscuri 
formulari  latini,  e  la  parola  degH  umili,  animata  invece  da  semphcità  ed  im- 
mediatezza, del  mtto  ignara  degH  artifici  retorici,  dai  quali  al  soHto  ne  risulta 
o\'\tiamente  sopraffatta.  Nel  seguire  la  scena  in  oggetto  si  rimane  sorpresi 
nel  riscontare  come  l'incolto  Sambuco  ha  infine  assimilato  (a  suo  modo) 
alcune  locuzioni  latine  (finis,  in  scrìttibus,  contra  iurìhus,  bis,  tris)  che  gli  consen- 
tono di  tenere  testa  a  Pancratio  e  di  sottrarsi  alle  consuete  ingiustizie. 

Se  il  linguaggio  dottrinale  ostentato  dal  procuratore  Pancratio  rappresen- 
ta un  altro  conosciutissimo  topos  della  tradizione  comica,  la  dimestichezza  di 
Concordia  nei  confronti  delle  metafore  e  dei  paragoni  popolari,  oltre  a  co- 


Introduf^one  47 

stituire  una  tappa  obbligata  del  genere,  in  alcuni  punti  sembra  caricarsi  di 
ulteriori  significati.  Nel  suo  frasario  risiedono  espressioni  proverbiali  (caccia- 
te chiodo  con  chiodo),  e  vividi  modi  di  dire,  dai  più  consueti  {tener  su  le  carte,  le 
fumano  le  narici  del  naso,..)  ai  meno  immediati  {il  coccodrillo  d'Egitto  per  raffigu- 
rare qualcosa  d'insolito,  aver  bisogno  del  pesto  per  indicare  uno  stato  di  malat- 
tia...), ma  le  frasi  della  serva,  spesso  a  commento  di  quanto  viene  riferito 
dalla  padrona,  si  fanno  soprattutto  portavoce  di  una  robusta  mentalità  pra- 
tica, beffardamente  opposta  alle  pretese  raffinate  della  controparte  .  La 
parentela  con  la  parlata  popolare  si  limita,  del  resto,  a  questi  pochi  elementi, 
poiché  il  registro  linguistico  di  Concordia  non  è  affatto  dimesso:  special- 
mente in  presenza  di  altri  personaggi  (compresi  i  subalterni  Sambuco  e  Fa- 
rina) ella  sfoggia  con  naturalezza  un  eloquio  medio-alto,  senza  ignorare  al- 
cuni elementi  letterari  e  mitologici  (seppur  usati  con  ironia,  come  gli  strali 
degli  amorini  e  il  mito  di  Narciso),  in  conformità  con  il  tono  generale 
dell'opera. 

Naturalmente  la  lingua  caratterizzante  i  protagonisti,  ma  anche  i  loro 
aiutanti  (come  Valerio  e  Soffronia),  è  generalmente  raffinata,  sia  per  la  scel- 
ta lessicale  sostenuta  e  per  il  piano  sintattico  piuttosto  complesso,  ricco  di 
inversioni  e  posposizioni  del  verbo,  sia  in  considerazione  dei  numerosi  ri- 
chiami denuncianti  una  certa  affinità  con  formule  care  alla  tradizione  pe- 
trarchesca, alla  novellistica  e  alla  trattatistica  amorosa.  Ciò  vale  in  generale 
pure  per  gli  altri  abitani  della  corte  (dal  maggiordomo  Gasparo,  al  nobile 
Lelio)  e  per  la  cortigiana  ALmira. 

Tutte  queste  parlate  sono  comunque  svincolate  da  una  marcata  identità 
perugina;  l'autore  si  è  infatti  rivolto  prevalentemente  all'uso  toscano,  con 
alcuni  tratti  dissimili  dal  fiorentino  ma  quantitativamente  troppo  Hmitati  per 
potersi  efficacemente  distinguere  come  modello  linguistico  alternativo.  Tra 
i    fenomeni    più    significativi""    ricordiamo    le    prime    persone    plurali 


^'"^  Ella  ad  esempio  colloca  in  una  luce  ridicola  la  moda  dell'astrologia  e  la  mania  dei 
prodotti  cosmetici  ricavati  dai  più  improbabili  ingredienti,  e  ricorda  sovente  ad  Almira  i 
rischi  fisici  e  giuridici  che  potrebbero  scaturire  dalla  sua  smodata  passione  per  Erminio. 

""  Altri  fenomeni,  riscontrati  anche  dall'Ugolini  ne  I  Megliacà  (cfr.  F.  Ugolini,  Il  perugino 
Mario  Podiani,  op.  cit.,  II,  pp.  LI  e  segg.)  possono  essere  riconosciuti  nella  preferenza  di  — /- 
ad  —e-  letterario  in  protonia  {gitto  e  gittata,  dinari,  intrato,  mistiere,  nimico,  cjuistione,  ristaurare)  e 
viceversa  [depingere,  leuto,  remediare,  fé nestre,  secure),  e  la  corrispondente  affermazione  di  -o-  su 


48  A.  LOMMI 

dell'indicativo  presente  in  -emo  e  —imo  {potemo,  volemo,  venimo);  A  futuro  dei 
verbi  di  prima  coniugazione  in  —arò  {amaro,  mandare,  secare,  vendicaro);  l'uso 
del  congiuntivo  con  valore  di  condizionale  (facessi  'farei')  e,  soprattutto,  la 
costruzione  impersonale  con  avere,  tipica  dell'umbro,  nella  formula  ha  poco 
più  di  due  bore  'è  da  poco  più  di  due  ore'     . 

Antonella  Ijommi 


-u- ,  e  di  — «-  su  -0-  {spognosa,  romore,  occide,  polirà,  calcu lato, /acuità);  nelle  vane  forme  di  labilità 
vocalica  {presciutti,  volontierì);  nel  passaggio  di  -er-  atono  ad  —ar-  sia  in  protonia  {tappei^rìa, 
maraviglia,  profumarìa...)  che  in  postonia  [gàmbaro,  ^ccaro);  nella  caduta  di  vocali  e  sUlabe  ato- 
ne  [carca,  forre,  opra).  Infine,  se  l'esito  di  -RJ-  che  dà  -r-  anziché  -J-  {calamaro,  carbonaro,  paro, 
mortaro),  e  cossa  (coscia)  denunciano  un'influenza  esercitata  dalle  parlate  centro  meridionali, 
per  l'esito  misier  {mtsset) ,  la  marcata  oscillazione  tra  scempie  e  geminate,  le  imprecazioni  di 
stampo  ruzantiano,  si  potrebbe  anche  supporre  una  patina  settentrionale,  imputabile  ad  un 
fondo  ormai  comune  della  lingua  comica  del  tempo. 

'"  F.  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani,  op.  cit.,  II,  p.  15  e  relativa  nota.  III,  p.  25. 


EDIZIONI  CRITICHE 


IL  PELLEGRINO 
COMEDIA  NOVA 


DI  M.  GIROLAMO 
PARABOSCO 


Con  Grada  et  Privileggio 

In  Vinegia  Appresso  Giovan  Griffio 

MDLII 


NOTA  AL  TESTO 


Edi;^om  a  stampa 

Il  testo  de  il  Pellegrino,  dopo  la  prima  edizione,  uscita  a  Venezia  presso  la 
stamperia  di  Giovan  Gnffio  neU'anno  1552  (IL  PELLEGRINO  /  CO- 
MEDIA  NOVA  /  DI  M.  GIROLAMO  /  PARABOSCO  /  Con  Gratia  et 
privileggio/  [fregio  con  grifone  che  solleva  una  sfera  alata  e  motto:  Poco 
vai  la  vertù  /  senza  Fortuna]  /  IN  \^NETIA  Appresso  Giovan  Griffio  / 
MDLIl//.  In  8°,  e.  39.  Esemplari  a  Piacenza,  Torino  e  Milano),  ha  cono- 
sciuto un'ulteriore  pubblicazione  nel  1560  per  i  tipi  di  GioHto  de'  Ferrari 
(IL  PELLEGRINO  /  COMEDIA  DI  /  M.  GIROLAMO  /  PARABO- 
SCO /  DI  NUOVO  RICORRETTA  /  E  RISTAMPATA  /  [fregio  gioHtino, 
con  fenice  su  anfora  infuocata,  sorretta  da  due  satiri.  Motti:  De  la  mia  mor- 
te eterna  vita  io  vivo.  Semper  eadem.]  /  IN  VINEGIA  APPRESSO  GABRIEL  / 
GIOLITO  DE'  FERR.\RI  /  MDLX//.  In  12°,  e.  36.  Esemplari  a  Milano,  Pia- 
cenza, Torino,  Roma,  Padova),  inserita  in  un  volume  unitario  che  raccoglie 
anche  le  cinque  commedie  paraboschiane  composte  negH  anni  precedenti. 

Esistono  altre  due  ristampe  del  XVI  secolo,  realizzate  a  Venezia  rispetti- 
vamente da  Rubin  nel  1586  (36  e.  in  12°)  e  da  Marc'Antonio  Bonibelli  nel 
1596  (36  e.  in  8°). 

In  tempi  recenti  si  segnala,  infine,  l'uscita  in  anastatica  dell'edizione  gio- 
Htina,  curata  da  Marina  Calore  e  Giuseppe  Vecchi  per  la  collezione  "Teatro 
italiano  antico  -  La  commedia  del  XVI  secolo":  G.  Parabosco,  l^  Notte  /  il 
Viluppo,  h'Hermafrodito  /  /  Contenti;  Il  Marinaio  /  Il  Pellegrino,  Bologna,  Forni, 
1977,  voU.  3. 


54  EdÌ2Ìoni  critiche 

La  presente  edizione  si  basa  sul  testo  del  1552,  in  quanto  fu  questa 
l'unica  pubblicazione  che  il  Parabosco  potè  seguire  in  vita;  in  particolare, 
l'esemplare  utilizzato  è  conserv^ato  alla  Biblioteca  "Passerini-Landi"  di  Pia- 
cenza (674  Lascito  PallastreUi). 

Esso  è  stato  tuttavia  collazionato  con  la  ristampa  del  1560  (Biblioteca 
"Passerini  -  Landi",  E  XII  32),  posteriore  alla  morte  dell'autore  di  soli  tre 
anni,  a  differenza  delle  altre  due  riproduzioni,  esaminate,  ma  troppo  succes- 
sive per  poter  rispecchiare  le  intenzioni  del  Parabosco  . 

Dalla  collazione  emergono  numerose  varianti:  le  più  frequenti  riguarda- 
no interventi  puramente  grafici,  come  l'uso  diverso  delle  maiuscole,  delle 
abbreviazioni  e,  talvolta,  l'adozione  di  una  grafia  più  moderna  (viene,  ad  e- 
sempio,  adottata  la /in  sostituzione  nel  nesso  ph).  Si  riscontra  nondimeno  la 
presenza  di  un  buon  numero  di  modifiche  introdotte  a  correzione 
dell'edizione  precedente,  sia  a  riguardo  di  alcune  tra  le  più  palesi  sviste  ti- 
pografiche, sia  nel  senso  di  una  generale  regolarizzazione  metrica  e  lingui- 
stica (nell'uso  dell'apocope,  delle  consonanti  scempie  e  raddoppiate,  dei  dit- 
tonghi...). Compaiono  inoltre  errori  ed  omissioni  proprie  della  ristampa, 
che  ne  fanno  un  testimone  non  del  tutto  affidabile.  Si  fornisce  comunque 
qui  di  seguito  l'elenco  completo  delle  divergenze  riscontrate  fra  le  due  edi- 
zioni. 


Criteri  di  trascrittone 

Nella  trascrizione  si  è  adottato  un  criterio  conservativo,  conforme  alle 
scelte  da  me  già  effettuate  per  l'edizione  critica  dell'ultima  commedia  para- 
boschiana,  Lm  Fantesca,  pubblicata  dalla  casa  editrice  Luigi  Battei. 

Si  mantengono,  perciò,  distinte  forme  come  de  la,  su  la,  poi  che,  per  che  ed  è 
stata  conservata  Vh  etimologica  e  pseudo-etimologica  (honore,  hora,  huomo, 
airhora  (nell'ora,  nel  momento),  allhora,  herba,  homai..),  fatta  eccezione  per  le 
forme  del  verbo  avere,  ricondotte  alla  norma  d'uso  odierno. 


'  In  particolare  l'esemplare  della  stampa  del  1596  conserviate  alla  "Passenni  -  Landi" 
(673  Lascito  PallastreUi)  è  mutilo:  dopo  la  carta  8,  la  commedia  paraboschiana  si  interrom- 
pe e  lascia  il  posto  a  /  Suppositi  dell'Ariosto. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  55 

Il  criterio  prevalente  è  stato  quello  di  conservare  anche  tutte  le  grafie  la- 
tineggianti  (ad  es.  i  nessi  -pt-,  -et-,  ti  e  ci  per  '"z",  ph  per  "f ',...)  in  quanto  ri- 
conducibili a  una  precisa  volontà  dell'autore  e  all'uso  linguistico  del  suo 
tempo.  L'unica  eccezione  riguarda  la  trascrizione  di  -ij  in  ii. 

Sono  state  comunque  sciolte  le  sigle  &  in  ^/,  B  in  ss,  ~  nella  nasale,  M.  in 
Messer,  ...;  sono  state  distinte  la  ;/  e  la  i^,  e  si  è  normalizzato  l'uso  di  q.  Sono 
inoltre  state  adottate  le  grafie  moderne  per  i  digrammi  cb  e  gb  seguiti  da  ve- 
lari (ad  es.  laddove  la  stampa  recava  scioccho,  ambo,  arrechai,  stomacbo^  anchora^ 
ricbami...  la  forma  è  stata  corretta). 

Negli  esclamativi  eb,  ob,  ab  sono  state  integrate  le  b  assenti,  e  sono  stati 
separati  secondo  l'uso  vigente  le  congiunzioni  grafiche  del  tipo  fussio  in 
fuss'io.  É  stata  eseguita  anche  la  divisione  di  cbe  &  percbé,  quando  significano 
"ch'e"'  ("che  egli  /che  ella")  e  "perch'e"',  in  aggiunta  alle  distinzione  di  chio 
in  "ch'io",  ^//>  in  "  'gli  è",  come  in  "com'è"... 

Ricordando  che  si  tratta  di  un  testo  di  koinè  settentrionale,  sono  stati 
ovviamente  rispettati  gli  scempiamenti  consonantici  e  i  raddoppiamenti  do- 
vuti ad  ipercorrezione,  in  quanto  riflessi  di  una  pronuncia  specifica  e  reale, 
così  come  sono  state  conservate  le  oscillazioni  nella  resa  di  una  stessa  paro- 
la (specialmente  se  pronunciata  da  personaggi  diversi),  e  l'uso  irregolare  del- 
le maiuscole  (tranne  che  per  i  nomi  propri,  nei  quali  sono  state  introdotte, 
se  mancanti). 

Per  ciò  che  concerne  l'uso  dell'apostrofo  e  dell'accento,  essi  sono  stati 
aggiornati  (eliminando,  ad  esempio,  l'apostrofo  da  espressioni  come 
un'bmmo,  un'altro,  ecc.),  oppure  introdotti  con  funzione  diacritica  per  di- 
stinguere cbe  I  cbé,  ne  /  né,  sta',  a',  de',  séte,  dei, .... 

Dal  punto  di  vista  metrico  sono  state  evidenziate  le  dieresi  ed  attuate  al- 
cune apocopi  per  regolarizzare  i  versi  ipometri  ed  ipermetri. 

Gli  interventi  di  interpunzione  sono  stati  eseguiti  con  discrezione,  limi- 
tandoli ai  casi  in  cui  essi  apparivano  indispensabili  per  ragioni  di  chiarezza. 

Si  segnala  infine  l'uso  delle  parentesi  tonde  "(  )"  per  marcare  gli  incisi  e 
di  quelle  uncinate  "<  >"  per  racchiudere  quanto  ho  integrato,  presumendo 
una  caduta  nella  stampa. 

Ogni  altra  eventuale  correzione  è  stata  evidenziata  nelle  note  in  calce  al 
testo. 


56  Edizioni  critiche 

Differenf^  grafiche  e  formali  tra  le  edit^oni 

Per  le  differenze  rilevate  tra  l'edizione  Griffio  (1552)  e  quella  giolitina 
(1560)  si  fornisce  il  seguente  elenco,  nel  quale  la  lezione  della  stampa  del 
1552  è  la  prima: 

ATTOl 

v.l  m'astringete  — »•  mi  astringete;  v.4  volintier  -^  volentier;  v.5  vorrebbon 
-^  vorrebon;  v.9  per  ch'io  -^  Perch'io;  v.  23  che  — >■  cho;  v.45  pensier  — * 
peasier; 

V.  69  dolce  e  chiara  — >  dolce  è  chiara;  v.  71  d'Hebano  -^  d'hebano; 
V.  85  grav'è  presto  — ^  grav',  e  presto; 

V.  88  che  il  giaccio  -^  che  el  giaccio;  v.l 00  reuscire  — >•  riuscire;  v.  1 19  e  i  ge- 
sti — ^  ei  gesti;  v.l 25  sofferti,  et  -^  sofferti  e;  v.  136  patria,  acceso  -^  patria 
acceso;  v.  139  coi  — >  co  i;  v.  141  e  pervenuta  — >•  è  pervenuta;  v.  223  ond'io 
— >  onde; 

V.  281  gran  biasmo  — >•  gra  biasmo;  v.284  lasci  i  litigio  — >>  lascio  i  litigi; 
V.  318  per  essa  — >  per  esser;  v.  345  se  il  core  a  voi  da  —>  se  il  core  da  a  voi; 
V.  362  resta  — >  resto;  v.  378  centinaio  — >  centennaio;  v.  383  Gelosia  — >  ge- 
losia; 

V.  386  raccontar  le  — >•  raccontarle;  v.415  ch'a  voi  -^  ch'a  vai; 
V.  471  iammazzarlo  — >  ammazzarlo. 

ATTO  2 

V.  522  o  sottil,  ch'ei  ere'  sii  de'  — >  fila  sottil,  ch'ei  crede  che;  v.  530  aspettare 

— >■  aspettar  tanto;  v.  596  saria  ch'io  — >  sappia  ch'io;  Invertiti  w.  617-618;  v. 

625  udit'ho  -^  udito  ho;  Naffissa  -^  Naffisa;  v.  637  chi  teco  lo  vuol  — >•  chi 

teco  '1  vuol; 

V.  656  n'avrai  di  nulla  -^  n'avrai  per  te  di  nulla;  v.117  Vespero  — >  Vespro; 

V.  792  Diamante  — »  diamante;  v.  793  Dardo  — >  dardo;  v.  801  Reti  — >  reti; 

Invertiti  w.81 9-820;  v.  941  vedessi  -^  vedessi  mai. 

ATTO  3 

V.  1010  possano  -^  possan;  v.  1074  Dona  — >  Mona;  v.  1087  diva  — ^  Diva; 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  57 

V.  1165  riportiamo  — >•  ripportiamo;  v.  1184  Pamphilo  — ^  Panfilo;  v.ll90 

lascia  — >  lasci; 

V.1191  è  — )•  e;  V.  1202  Amor-^  amor;  qua  sono  -^  quai  son;  v.  1212  Io  fui 

-^  Io  vi  fui; 

V.  1239  lavato—)-  lavan;  v.  1247  gravezze  -^  gravezza. 

ATTO  4 

V.  1293  ragionarti  — >  ragionarli;  v.1358  ammartellato  — >  amartellatto; 

V.  1365  riffonde  -^  rinfonde;  v.  1417  le  guai  — »  de  guai;  v.  1435  detta  — > 

dotta; 

V.  1446  venirsi  -^  venirci;  v.l480  milion  -^  miUion;  v.  1506  havria  — ^  ha- 

vrà; 

V.  1521  de  ^  di;  v.  1541  ancor  che  — ^  ancora  in  me. 

ATTO  5 

V.  1552  ancor  — ^  anco;  v.  1607  alla  ^  a  la;  v.  1612  fredo  -^  freddo;  v.1674 
alciarem  facilemente  — >  alciaremo  facilmente;  v.l687  agiungesse  -^  aggiun- 
gesse; 

V.  1707  ahi  lassa  -^  ahi;  v.  1757  Pellegrin  -^  pellegrin;  v.  1816  Creonte  — ^ 
Creonte; 
V.  1834  mirabil  sonnifero  -^  mirabil  rimedio  sonnifero. 


Errori  di  sta?npa 

Si  fornisce  l'elenco  delle  correzioni  apportate  al  testo  deUa  stampa  adottata, 
ed  esulanti  da  semplici  variazioni  grafiche: 

LETTERA  DEDICATORIA 

LII  -^  MDLII 

ATTOl 

Scena  1,  v.  41:  Averci  — >  Avrei;  v.  105:  aveva  — >  avca 


58  Edizioni  critiche 

Scena  3,  v.  214:  porto  — >•  porta 
Scena  6,  v.  342:  lavorieri  — >  lavorier 
Scena  7,  v.  373:  spendere  — ^  spender 

ATTO  2 

Scena  1,  v.  534:  Che  si  ch'ei  viene...  — >  Sì  ch'ei  viene... 
Scena  2,  v.  567:  Medici  -^  medici;  v.  572:  cantare  — >  cantar; 
V.  573:  cagione  — >  cagion;  v.  579:  padrone  — >•  padron 

ATTO  3 

Scena  1,  v.993:  ardire  — >•  ardir 
Scena  2,  v.1032:  io  vado,  ma  tu  — >  io  vado,  tu 

Scena  4,  v.  1070:  Quanti  -^  Quante;  1097:  sono  -^  son;  v.  1130:  certo- 
certa 

Scena  6,  v.  1238:  portano  — >^  portan 
Scena  10,  v.  1535:  tutto  — ^  tutta;  raccolto  -^  raccolta 

ATTO  5 

Scena  2,  v.  1613:  batter  — >■  battere 
Scena  4,  v.  1740:  darle  — >  dargli 
Scena  9,  v.  1849:  vostro  — >  nostro. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  59 

ALLO  ILLUSTRISSIMO  ET  ECCELLENTISSIMO 
SIGNOR  DUCA  DI  SOMMA. 


SOMMA  è  titol  conforme  al  Duce,  il  quale 

Di  bontà  somma,  et  somma  gratia  è  impresso. 

Et  non  che  vinca  altrui,  vince  se  stesso 

Di  generosità  fama,  e  reale  . 

L'alto  cognome  a  lui  si  dee,  che  tale 

È  in  ciascun  magnanimo  progresso, 

Ch'ogni  somma  vertù  lungi,  et  apresso 

Lo  registra  in  catalogo  immortale. 

Ben  può  dir  nel  mirarlo  il  divo  HENRICO' 

Ch'una  sì  somma,  e  trionfai  presenza, 

In  molti  Heroi,  non  vide  il  tempo  antico. 

Fortuna  in  somma  sia  di  tua  prudenza. 

Se  giuri,  ancor  ch'egli  ti  fia  nemico, 

Ch'è  minor  del  cor  suo,  la  tua  potenza  . 

Essendo  il  prefatto  soneto,  fattura  di  quello  Aretino  mirabile,  che  ne' 
suoi  stupendi  ritratti  non  usa  altri  colori,  che  i  posteli  da  la  verità  nello  stile, 
è  debito  di  ciascuno  che  tiene  qualche  virtù  nella  penna,  ad  imitatione  di  lui 
che  i  buoni  celebra  et  i  rei  vitupera,  di  riverire  con  lo  ingegno  in  le  carte,  co- 
loro che  egli  riverisce  con  lo  spirto  ne  gli  inchiostri;  onde  io,  promosso  da 
lo  esempio  del  divino  huomo,  intitolo  alla  Eccellenza  del  Signor  Gian  Ber- 

2  Di  generosità...  reale:  la  fama  di  generosità  e  di  valore,  di  virtù  reali. 
■^  il  divo  Henrico:  Enrico  II,  re  di  Francia  (1519-1559). 

■♦  Fortuna...  poten:^:  'O  Fortuna,  alla  fine  si  manifesti  la  tua  prudenza  se  giuri  che,  quan- 
do egli  ti  sia  nemico,  la  tua  potenza  è  mferiore  al  suo  valore'. 


60  Edizioni  critiche 

nardino  Illustrissimo  la  presente  comedia  inchinandomigli,  che  in  vero  (sì 
come  dice  il  gran  Piero)  alle  imagini  de  i  sand  del  cielo  si  accendano  lampa- 
de, et  a'  nomi  de  i  personaggi  del  mondo,  si  dedicano  opere  ,  et  perché  non 
luochi  luminosi  ma  alle  volontadi  buone  pongon  mente  i  beati.  Son  sicuro 
che  senza  dar  cura  alla  mia  compositione  di  poco  valore,  sarà  da  V.S.  Illu- 
striss.  riguardato  il  mio  core:  i  sinceri  affetti  del  quale  non  provano  consola- 
tione  che  agiunga  alla  sincerità  di  lui,  mentre  lo  acerrimo  dimostratore  de  le 
virtù  et  de  i  viti  glorifica  in  lingua  per  sua  natura  libera,  le  qualità  somme  di 
voi,  affermando  che  séte  lo  inventor  delle  magnificentie,  non  pure  lo  esecu- 
tor  delle  sue  splendidezze  magnifiche,  risolvendola  nella  prudenza,  et  nel 
valore  che  vi  fa  sì  caro  alla  Cristianissima  Maestà,  et  sì  grato,  che  più  non  ne 
sperareste  di  gratia  et  favori  da  voi  stesso,  sì  che  per  essere  qual  sarete  nella 
mansuetudine  et  benignità  tuttavia,  non  dubito  che  questa  piccola  offerta, 
che  <a>  V.  S.  Illustriss.  insieme  con  l'animo  ch'io  le  tengo  sen  viene,  non 
le  sia  accetta  et  piaccia,  per  il  che  basciole  la  mano  famosa  nella  liberalità,  et 
nelle  armi.  Di  Vinegia  alli  nove  Marzo  del  MDLII. 

Di  V.S.  Illustriss. 
et  Eccellentiss. 

Humile  et  devoto  servitore 
Girolamo  Parabosco. 


5  alle  imagini...  opere:  cfr.  ad  esempio  Aretino,  ha  Cortigiana  (edizione  1534),  lettera  dedi- 
catoria a  Bernardo  Cles,  principe  vescovo  di  Trento:  «De  i  miracoU  che  fa  la  bontà  d'Iddio 
sono  testimoni  i  voti  che  gli  si  porgono;  di  queUi  che  escono  del  valor  de  gU  uomini  fanno 
fede  le  statue  che  gli  si  consacrano;  e  de  lo  amore  che  la  cortesia  de  i  principi  porta  a  i 
buoni  mgegni  siamo  certi  per  le  opre  che  gli  si  intitolano». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


61 


PERSONE  DELLA  COMEDIA 


EUGENIO 

MARSILIO 

Vecchi 

GIBERTO 

Pellegrino  giovane 

MUTIO 

Giovane 

CLITIA 

LAVINIA 

Giovane 

RIBECCA 

FINOCCHIO 

Servi 

OLIVA 

FIORE 

Fantesche 

SPAVENTO 

Bravo 

HONESTA 

Ruffiana 

LAURETTA 

Cortegiana 

NAFISSA 

Madre 

SPETIALE 

62 


EdÌ2Ìoni  critiche 


DEL  PELLEGRINO  DI  M.  GIROLAMO  PARABOSCO 


ATTO  PRIMO 


SCENA  PRIMA 


Ribecca   servo,  et  Mutio  padrone. 


RIBECCA 

MUTIO 

RIBECCA 


MUTIO 
RIBECCA 


MUTIO 


Io  vi  prego,  padron,  non  m'astringete 
A  far  questo,  perché. . . 

Perché?  Dì  suso! 
Non  son  costor   tutti  gentili,  e  degni 
Che  tu  lor  facci  voHntier  ser\àgio? 
Son  degni  sì,  ma  mi  vorrebbon  fare 
Dir  cosa,  a  dirvi  il  ver,  ch'io  non  vuo'  dire. 
In  fin^,  padron  mio  car,  questa  comedia 
Faran  lor  senza  me,  per  ch'io  non  voglio. . 
Che  cosa?  Dillo  su! 

Per  ch'io  non  voglio 
Dir  delle  donne  mal,  ch'io  son  lor  troppo 
Affettionato,  e  per  lor  morirei, 
E  spargerei  il  sangue,  et  le  midoUe  . 
Tu  hai  ragion  di  non  voler  dir  male: 
Nella  parte  tua  c'hanno  costoro 
Messo  o  introdotto,  che  con  pace  loro 
Dir  non  si  possa? 


10 


15 


^  Ribecca:  A  nome  del  servo  è  in  un  certo  senso  "parlante"  poiché  evoca  lo  strumento 
popolaresco  delle  stornellate  e  delle  proclamazioni  di  storie  divertenti  e  salaci. 

^  costor.  si  riferisce  con  ogni  probabilità  alla  compagnia  di  attori  (oserei  precisare  "dilet- 
tanti", visto  che  anche  Ribecca  è  invitato  a  parteciparvi)  destinati  alla  rappresentazione  di 
una  commedia  negli  ambienti  aristocratici  della  Venezia  del  tempo. 

*  In  fin:  per  farla  breve. 

^  sangue,  et  le  midolle:  è  coppia  petrarchesca,  cfr.  Petrarca,  R.V.F.,  CXCVIII,  v.  5:  «Non  ò 
medoUa  in  osso,  o  sangue  in  fibra». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


63 


RIBECCA  Oh  oh,  che  cosa  àn? 

r  noi  vuo'  dir,  basta'   che  la  mia  parte 
Narrava  il  modo  che  si  tien  da  tutte 
In  farsi  belle,  e  l'arte  ch'usan  poi 

Nel  coprir  lor  diffetti",  e  ch'era  cosa  20 

Ch'a  dirvi  il  ver  sapea  troppo  di  fumo    . 

MUTIO  Come  sarebbe?  Su,  di  gratia,  diUo! 

RIBECCA  Non  lo  dirò,  per  Dio,  che  ci  hanno  posto 

Fin  come  fan  le  zoppe  a  parer  dritte 
Co  i  zoccoH  ineguali,  e  come  ancora  25 

Nascondono  le  gobbe,  e  come  fanno 
Co  i  veli,  et  altre  astutie,  il  coUo  lungo 
Fuor  di  misura,  apparer  giusto  e  bello; 
De'  sughi  de  gl'impiastri,  e  de  gH  unguenti'^, 
De  gH  ogli  bianchi,  e  grassi  d'animali''*  30 

Non  ve  ne  parlo,  che  ce  n'è  migliaia 
Chi  per  capegU,  e  chi  per  macchie  d'occhi, 


'"  basta:  ti  basti  sapere. 

"  l'arte...  difetti:  il  dialogo  tra  Mutio  e  Ribecca  si  presta  in  questo  punto  al  topos 
sull'esagerata  cosmesi  femminile  che  caratterizza  le  opere  di  ambito  realistico  giocoso,  ma 
consueto  anche  per  il  Parabosco  (ad  es.  cfr.  /  Contenti,  atto  2,  scena  2  e  Lm  Fantesca,  atto  3, 
scena  1).  Ricordiamo  che  il  tema  era  già  presente  nella  Cassaria  dell'Ariosto,  atto  3,  scena  5 
(cfr.  Ariosto,  L^  commedie,  a  cura  di  Michele  Catelano,  ZanicheUi  Editore,  Bologna,  1933, 
voi.  1,  p.  74)  e,  ancor  prima,  nella  Cant(one  distesa  di  Franco  Sacchetti  contro  a  la  portane  de  le 
donne  fiorentine  (cfr.  Franco  Sacchetti,  //  libro  delle  Rime,  a  cura  di  Alberto  Chiari,  Bari,  Later- 
za, 1936,  CLIII),  per  poi  riaffacciarsi  sulle  scene  ad  esempio  in  Calmo,  Il  Saltut^^,  atto  3, 
scena  2,  p.  103.  Sull'argomento  si  veda  inoltre  Franca  Ageno,  Cosmetica  femminile  in  un  sonetto 
dell'Angiolieri,  articolo  recentemente  ristampato  in  Studi  lessicali,  a  cura  di  Paolo  Bongrani, 
Franca  Magnam,  Domizia  Trolh,  Bologna,  Clueb,  2000,  pp.  173-177. 

'^  Sapea  troppo  di  fumo:  'aveva  un  sapore  troppo  aspro  e  sgradevole'  è  il  significato  con- 
creto riportato  da  GDU,  VI  s.v.  fumo.  Nel  nostro  contesto  però  il  valore  della  locuzione 
dovrebbe  essere  simile  piuttosto  a  vender  fumo,  'far  apparire  qualcosa  per  un'altra'  o  a  non 
voler  sentir  fumo  di  qualcosa  'non  volerne  sentir  parlare'. 

'^  sughi,  impiastri,  unguenti:  varie  sostanze  cosmetiche.  In  particolare  il  sugo  è  da  inten- 
dersi come  il  liquido  estratto  in  vari  modi  da  organismi  vegetah;  l'impiastro  era  un  prodot- 
to curativo  molle,  ottenuto  da  sostanze  bollite  e  ridotte  in  pasta,  o  da  pomate  mescolate  a 
farine;  l'unguento,  infine,  era  una  sostanza  untuosa,  contenente  dei  medicamenti,  oppure 
semplicemente  utilizzata  per  cospargere  il  corpo  di  essenze  profumate. 

'■•  ogli  bianchi,  grassi  d'animali:  si  tratta  ancora  di  tipologie  di  unguenti. 


64 


Edizioni  critiche 


MUTIO 
RIBECCA 


MUTIO 


RIBECCA 
MUTIO 


Chi  per  levar  lentigioi  del  volto. 
Si  parla  anco  de  i  ferri  e  vetri  ch'elle 
Adopran  per  pelarsi  e  scorticarsi; 
Ragionano  costor  infin  de  l'arte 
Ch'usano  in  caminar,  in  star  pensose, 
In  guatar  da  lascive,  in  mover  riso, 
In  formar  paroline,  e  i  miUe  modi 
Che  san  trovar  per  allacciar  gH  Amanti 
Avrei  sol  detto  al  fin,  ch'elle  non  pensano 
Né  studiano  alle  lacrime,  e  a  gl'inganni 
Né  a  l'usar  frodi. 

E  ciò  non  si  può  dir? 
Ma  soggiunge  l'autor  che  in  cotai  cose 
Sono  senza  pensier  troppo  eccellenti. 
Per  ch'è  natura  lor  l'esser  perverse    . 
Tu  hai  ragion,  se  ci  son  dentro  queste 
Cose,  di  non  voler  quel  che  non  vói, 
Ma  s'io  potessi  far  che  si  levassero. 
Non  saresti  poi  tu  contento  ancora 
Di  ricitar  con  lor? 

Forse  il  farei, 
r  vogHo  in  ogni  modo  che  si  levino: 
Che  non  hanno  ragion  contra  le  donne, 
r  dico  contra  a  tutte,  che  per  una 
Che  se  ne  trovi  che  di  biasmo  sia 
Degna,  se  ne  ritrovan  miUe  poi. 
Che  merito  han  d'esser  portate  in  cielo, 
E  celebrate  ne  i  più  degni  scritti. 
Né  tutte  hanno  i  difetti,  onde  convegna 
Lor  per  coprirli  usare  arte  od  ingegno. 
Ahimè,  che  cosa  opporre  alla  mia  Dea 
Si  può,  Ribecca?  E  qual  è  cosa  in  lei. 


35 


40 


45 


50 


55 


60 


^5  in  cotai  cose...  perverse:  non  piangono  studiatamente,  né  devono  sforzarsi  di  elaborare 
frodi  ed  inganni,  perché  tutto  ciò  risulta  loro  molto  spontaneo. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  65 

Che  in  lei  senza  arte  non  appaia  sempre 

Degna  d'essere  scritta  per  miracolo? 

Ha  il  volto,  come  sai,  di  pura  neve,  65 

Sparso  di  rose'  ,  e  di  cinabbro  ^  fino; 

Gli  occhi  poi,  neri  lunghi  e  si  lucenti, 

Che  fan  parer  il  Sol  picciola  stella   , 

La  voce  dolce  è  chiara,  i  capei  d'oro    , 

Picciola  bocca"',  et  de  rubini  i  labri,  70 

Di  perle  i  denti",  e  d'hebano  le  ciglia, 

"^  Da  questo  punto  il  dialogo  si  trasforma  nella  celebrazione  della  bellezza  della  donna 
amata,  condotta  secondo  i  canoni  della  descriptio  mulieris.  Il  brano  è  sicuramente  esemplifi- 
cativo della  maggiore  letterarietà  di  cui  Parabosco  scegUe  di  fare  sfoggio  nella  sua  unica 
commedia  in  versi:  a  parte  i  singoli  dettagU  fisici,  che  ricalcano  la  figura  della  Laura  petrar- 
chesca e  in  generale  di  tutte  le  donne  cantate  dalla  poesia  amorosa,  dallo  Stilnovo  fino  alla 
fine  del  Cinquecento,  per  il  ritratto  nel  suo  insieme,  l'antecedente  più  importante  nella  let- 
teratura italiana  è  costituito  dalla  presentazione  di  Alcina  nel  VII°  canto  dell'Or/^Wo  Furio- 
so; altri  legami  si  rintracciano  con  la  Gerusalemme  Uberata  del  Tasso  e  con  le  Stantie  (I,  43-44) 
del  Poliziano  (per  il  ritratto  di  Simonetta).  Non  si  dimentichi  tuttavia  che  l'encomio  della 
bellezza  dell'amata  compare  anche  nella  seconda  scena  del  primo  atto  de  1^  Celestina  di 
Fernando  de  Rojas,  ovvero  in  una  commedia  che,  con  il  suo  finale  tragico,  scardinava  pre- 
cocemente la  distinzione  dei  generi  teatrali  classici.  Per  l'edizione  italiana  cfr.  Fernando  de 
Rojas,  L^  Celestina,  a  cura  di  Corrado  Alvaro,  Milano,  Bompiani,  1980  (prima  edizione 
1943),  controllata  suUa  prima  traduzione  italiana,  di  Alfonso  Ordognes,  Tragicomedia  di  Cali- 
sto e  Melibea  traducta  da  Alphoso  Hordognes  [...],  Mediolani,  Officina  Libraria  Minutana,  1515  e 
sull'edizione  veneziana  del  1541,  Celestina.  Tragicomedia  di  Calisto  et  Melibea  nuovamente  tradotta 
de  lingua  Castigliana  in  Italiano  idioma  [...],  Venezia,  Giovann'Antonio  e  Pietro  di  NicoUm  da 
Sabio,  1541. 

'^  Ha  il  volto...  rose:  motivo  consueto  del  candore  del  volto,  che  contrasta  con  le  guance 
rosee.  Cfr.  Ariosto,  O.F.,  VII,  11,  w.  5-6:  «spargeasi  per  la  guancia  delicata  /  misto  color  di 
rose  e  di  Hgustri»;  e  ancora  Tasso,  G.L.,  IV,  30,  w.  5-6:  «dolce  color  di  rose  in  quel  bel  vol- 
to /  fra  l'avorio  si  sparge  e  si  confonde». 

'^  cinabbro:  tipo  di  minerale  di  colore  rosso;  anche  questo  è  riferimento  consueto,  so- 
prattutto nella  poesia  arcadica;  si  veda  inoltre  Ariosto,  O.F.,  VII,  13,  v.  2:  «la  bocca  sparsa 
di  natio  cinabro». 

^'^  gli  occhi ...  stella:  Anosto,  O.F.,  \TI,  12,  v.  2:  «son  duo  negn  occhi,  anzi  duo  chian  soli». 

^^  capei  d'oro:  Ariosto,  O.F.,  VII,  11,  v.  3:  «con  bionda  chioma  lunga  ed  annodata»,  ov- 
viamente sulla  scia  del  Petrarca,  K.V.F.,  XI,  v.  9;  XII,  v.  5;  XC,  v.  1...;  cfr.  anche  De  Rojas, 
Lm  Celestina,  atto  1,  scena  2,  p.  61:  «Hai  mai  visto  le  matasse  d'oro  filato  che  fanno  in  Ara- 
bia? Sono  più  belli  e  non  splendono  meno». 

2'  picciola  bocca:  cfr.  De  Rojas,  La  Celestina,  ivi:  «la  bocca  piccolina». 

22  di  perle  i  denti:  Ariosto,  O.F.,  VII,  13,  v.  3:  «quivi  due  filze  son  di  perle  elette». 


66 


Edizioni  critiche 


RIBECCA 


MUTIO 


D'avorio  il  collo,  che  disteso  e  dritto 
Esce  da  le  rotonde  e  larghe  spalle, 
Il  petto  rilevato  e  senza  macchia. 
Quei  dolci,  acerbi  pomi   ,  anzi  il  tesoro 
Tutto  d'Amor,  quelle  mammelle  dico 
Rotonde  rilevate,  e  in  spazio  giusto 
Fra  sé  divise  e  separate,  e  quelle 
Braccia  dritte  e  distese,  e  quella  mano 
Morbida,  lunga,  candida     e  gentile: 
Mano  che  annodar  suol  quelle  catene 
Ch'eternamente  fan  prigion  altrui; 
Il  corpo  delicato  et  di  misura 
Giusta  composto,  i  fianchi  rilevati, 
Picciol  il  piede    ,  grav'  e  presto  attempo' 
Che  dirò  poi  de  i  guardi,  e  che  de  i  risi, 
Delle  parole  poi  accorte  e  saggie 
C'hanno  forza  di  far  che  il  giaccio  prenda 
Humano  senso  per  farlo  arder  poscia 
E  liquefarsi  d'amoroso  fuoco    ? 
Maraviglia  non  è  s'avete  preso 
A  dif fender  le  Donne,  che  la  Vostra 
Cagion  n'è  sola,  che  vi  tiene  al  fianco 
D'Amor  lo  spiedo,  e  al  cor  vi  tiene  il  fuoco. 
Anzi  l'anima  tiemmi  in  paradiso: 
Chi  si  volge  a  contemplar  di  lei 


26 


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95 


2^  dolci,  acerbi  pomi:  Ariosto,  O.F.,  YW,  14,  v.  3:  «due  pome  acerbe  e  pur  d'avorio  fatte»; 
Tasso,  G.L,.,  IV,  31,  v.  3:  «parte  appar  de  le  mamme  acerbe  e  crude». 

2^  mano  ...  candida:  cfr.  Ariosto,  O.F.,  15,  w.  2-3:  «e  la  candida  man  spesso  si  vede  /  lun- 
ghetta alquanto  e  di  larghezza  angusta»;  Parabosco,  lettere,  II,  XXR'^;  III,  XI,  rr.  22-23. 

2^  picciol  il  piede:  a  conclusione  della  descrizione  fisica,  vale  ancora  il  confronto  con 
l'Alcina  dell'  O.F.,  15,  v.  6:  «il  breve,  asciutto  e  ritondetto  piede». 

^^a-ttempo:  nello  stesso  tempo. 

2^  parole...  fuoco:  per  l'ardore  amoroso  suscitato  dalle  parole  dell'amata,  cfr.  Petrarca, 
K.V.F.,  LXXIII,  14-15:  «anzi  mi  struggo  al  suon  de  le  parole,  /  pur  com'io  fusse  un  huom 
di  ghiaccio  al  sole»;  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando,  II,  XA'^II,  56,  v.  8:  «Di  lui  s'accese  in 
amoroso  fòco». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


67 


RIBECCA 


MUTIO 


RIBECCA 

MUTIO 

RIBECCA 

MUTIO 


RIBECCA 
MUTIO 


La  gratia,  la  beltà,  la  leggiadria 
Sta  sempre  in  ciel"  . 

Ben,  che  v'ha  detto  donna 
Honesta?  Farà  ella  in  buona  forma 
L'officio?  Dalli  il  cor  di  reuscire?  100 

Venne  come  tu  sai  con  buone  nove, 
E  sta  mane  mi  disse  che  sperava 
In  modo  far,  che  questa  sera  forse 
Le  parlerei,  che  così  motteggiato 
Gli  avea  Lavinia. 

Oh  voi  più  che  beato!  105 

Se  tanto  vivo,  sì. 

Vi  promettete 
Ben  poca  vita,  se  per  manco  d'hoggi... 
Io  dubbito  che  il  Sol  si  faccia  immobile, 
O  invidioso  di  sì  raro  bene 

Sia  così  lento  a  far  l'usato  corso,  110 

Che  passino  cento  anni,  anzi  che  giunga 
Questa  mia  desiata  e  lieta  sera. 
Voltiam  padron  di  qua,  che  facilmente 
Potressimo  incontrar  Marco  Barbona^°. 
Oh  buono  aspetto  ha  questo  Pellegrino!  115 


2^  An:^...  ciel:  quasi  superfluo  sottolineare  il  legame  tra  questi  versi  e  la  concezione  stil- 
novista (in  particolare  dantesca)  della  donna  come  fonte  di  salvezza,  in  grado  di  elevare 
l'uomo  che  la  ama  al  regno  dei  cieli,  già  presente  nella  lirica  siciliana  e  che  rimane  come 
elemento  costante  della  produzione  di  carattere  amoroso  ancora  per  secoli.  Si  veda  ad  es. 
Iacopo  da  Lentini,  /  m'alio  posto  in  core  a  Dio  servire,  v.  14;  Dante,  Par.,  XV,  v\'.  34-36;  Pe- 
trarca, RVF,  CCXCCII,  vv.  5-7;  Poliziano,  Rime,  CVI,  w.  1-2... 

2^  motte^iato:  'accennato'. 

^"  Marco  Barbona:  probabilmente  è  una  variante  di  Marco  Pepe,  Marco  Sfila  che,  rifacendo- 
si alla  figura  del  brigante  Marco  Sciarra  (per  cui  si  rimanda  al  Podiani,  Fidi  Amanti,  atto  4, 
scena  4),  indicano  gli  smargiassi,  i  bravi  (cfr.  Dit^onario  dei  modi  di  dire,  a  cura  di  Ottavno  Lu- 
rati,  Milano,  Garzanti,  2001,  p.  520). 


68  EdÌ2Ìoni  critiche 

SCENA  SECONDA 
Pellegrino  solo/^ 

PELLEGRINO    Qual  finissimo  marmo,  o  qual  Diamante ^^, 
Od  altra  pietra  che  maggior  durezza 
Ritenghi  in  sé,  potria  tenir  giamai 
Così  sicuramente  il  nome  e  i  gesti, 

La  bellezza,  i  costumi  et  le  parole  120 

Di  bella  donna,  dentro  a  sé  scolpito. 
Come  il  cor  tien  d'un  ben  acceso  Amante^^? 
Ahimè  che  tante  passioni  e  tanti 
Travagli  e  tanti  affanni  in  miUe  parti 
Sostenuti  e  sofferti^"*,  et  appresso  tante  125 

Da  beUissime  donne,  et  gentilissime 
Cortesie  usate,  mai  non  ebbon  forza 
Di  levarmi  dal  cor  pur  un  momento 
La  memoria  ch'io  tengo  della  gratia. 
De  la  beltà  de  la  mia  donna  ingrata^^!  130 

^^  Per  il  topos  dell'inutilità  del  pellegrinaggio  per  rimarginare  le  ferite  amorose,  il  riferi- 
mento è  a  Petrarca,  R.V.F.,  LXIX  e  a  Boccaccio,  Decameron,  III,  7. 

^^  Qual....  Diamante:  tali  elementi,  proverbiali  per  la  loro  durezza,  sono  presenze  canoni- 
che nelle  lamentazioni  amorose,  a  partire  da  Ovidio;  si  veda  ad  esempio  Petrarca,  K.V.F., 
CLXXI,  w.  10-11;  Poliziano,  Orfeo,  w.  66-67;  Rime,  XXXIV,  v.  6  e  CVI,  v.  12;  Calmo,  // 
Saltut^a,  atto  2,  scena  6,  p.  92:  «È  possibile  che  non  si  rompi  la  durezza  di  questo  adaman- 
te?». Per  la  formula  invece  l'eco  è  di  matrice  ariostesca,  cfr.  O.F.,  XLII,  1,  w.  1-2:  «Qual 
duro  freno,  o  qual  ferrigno  nodo,  /  qual,  s'esser  può,  catena  di  diamante  (...)». 

^^  ben  acceso  Amante:  cfr.  Ariosto,  O.F.,  XXXII,  74,  v.  1:  «Come  s'allegra  un  bene  acceso 
amante»  ma  anche  Parabosco,  Hermafrodito,  atto  3,  scena  5:  «Oh  vita  troppo  miserabile,  che 
è  quella  d'un  ben  acceso  amante». 

^^  Ahimè...  sofferti:  cfr.  Parabosco,  /  Diporti,  In  Vinegia,  Appresso  Domenico  Giglio, 
1558,  Giornata  II,  Novella  XII,  p.  64:  «per  li  disagi  sofferti  in  questo,  et  in  quell'altro  pae- 
se, et  per  la  passione  amorosa  (...)». 

^^  Si  noti,  nei  monologhi  del  protagonista,  la  serie  di  aggettivi  riferiti  alla  donna  o  al  suo 
cuore:  ingrata,  duro  cor,  fredda  e  dura,  nella  scena  4:  dura  e  proterva,  ingrata,  crudel,  fera,  crudele; 
atto  2,  scena  6:  crudel,  ingrata,  cruda,  fiera  e  spietata,  crudeltà,  crudelissima,  crudel,  donne  crudeli,  cru- 
da, empie  et  ingrate  donne,  donna  ingrata,  crudele,  crudel,  scena  7:  crudele,  crudeltà,  ingrata,  femina  cru- 
dele, tigre  crudele,  che  la  rendono  prossima  ad  un  tiranno  della  tragedia;  ad  esempio  gh  agget- 
tivi crudele  ^  fiero  sono  utilizzati  con  insistenza  dal  Giraldi  Cinzio  per  dipingere  la  figura  di 
Sulmone  nella  sua  Orbecche  (atto  II,  scena  III,  in  //  teatro  del  Cinquecento.  L^  tragedia,  a  cura  di 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  69 

C'ha  potuto  valermi  il  gir  tanti  anni 

Per  lo  mondo  disperso,  et  con  speranza 

Di  poter,  poi  ch'a  lei  non  era  io  caro. 

Porre  in  oblio  per  ciò  la  sua  beltate? 

C'ha  potuto  giovarmi  (ahi  lasso)  dico,  135 

Se  più  che  mai,  ne  la  mia  patria  acceso 

De  l'amor  di  costei  tornato  sono? 

So  ben  che  da  i  parenti  e  da  gli  amici 

Col  pianto  e  co  i  sospir  le  funerali 

Esequie  ho  avuto,  se  pur  com'io  spero  140 

A  l'orecchie  di  loro  è  pervenuta 

La  nova,  ch'io  indrizzai  de  la  mia  morte: 

Solamente  costei,  sola  cagione 

Del  lungo  esilio  mio,  non  avrà  pianto. 

Ma  poi  fiero  destin  consente  e  vuole  145 

Che  più  cresca  ad  ogn'hor  quanto  devria 

Scemarsi^^  più  questa  mia  fiamma  immensa; 

Veder  vo'  se  costei  con  qualche  modo 

Pel  lungo  mio  pellegrinaggio,  oppure 

Per  la  finta  novella  di  mia  morte,  150 

Ha  punto  il  duro  cor  rotto  o  smagliato   , 

Che  incontro  a  la  pietà  sì  forte  siede. 

L'habito  lungo,  et  la  cresciuta  barba 

Ch'io  porto  al  viso  mi  potrà  giovare 

Renzo  Cremante,  Milano-Napoli,  Ricciardi  editore,  1997,  pp.  334  e  segg.)-  Il  tema  della 
crudeltà  della  donna  amata  è  del  resto  presente  anche  nel  primo  libro  delle  lettere  Amorose, 
I,  lettera  XII. 

^'^  Che  più  cresca...  scemarsi:  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  64:  «non  potendo  homai  più  soppor- 
tare l'amoroso  fòco,  che  non  solamente  per  lunga  lontananza  scemato  non  era,  ma  sì  bene 
cresciuto  assai,  et  di  forza  maggiore  divenuto  sempre».  Cfr.  anche  un  certo  nchiamo  in 
Gonzaga,  Fido  Amante,  VII,  34. 

"  rotto  0  smagliato:  'profondamente  turbato'  (cfr.  GDLI,  XIX  s.v.  smagliato);  l'espressione, 
comunque,  conserva  un'impronta  epico-cavalleresca,  essendo  generalmente  riferita  alle 
armi  e  significando  letteralmente  'scalfito,  spezzato'  (cfr.  Petrarca,  IV,  2,  105;  Aretino,  Dui 
primi  canti  d Angelica,  in  Poemi  cavallereschi,  a  cura  di  D.  Romei,  Roma,  Salerno  Editore,  1995, 
ott.  10:  «l'arme  smagliate  e  fieramente  rotte»). 

"•^  cresciuta  barba:  cfr.  7  Diporti,  op.  cit.,  p.  64:  «la  barba  folta,  et  lunga  cresciuta». 


70  Edizioni  critiche 


Tanto,  ch'io  non  sarò  riconosciuto;  155 

Ben  saprò  io,  se  il  ciel  m'aita  e  presta 

Favor,  che  occasion  mi  s'appresenti 

Parlarle  in  cotal  forma,  e  in  tal  maniera, 

Che  facile  mi  sia  sottragger^^  s'eUa 

Udì  la  nova  di  mia  morte,  e  s'ella  160 

Ne  sentì  passione,  et  se  giamai 

Quel  suo  core  di  ghiaccio  e  di  Diamante  ^ 

Scaldò  fuoco  d'amore,  o  punse  strale, 

Per  lo  indegno  pietoso  esilio  mio; 

Et  s'avien  poi  che  com'io  credo  i'  trovi,  165 

Ch'ella  più  che  mai  fredda  e  dura     sia. 

Con  questa  destra  in  sua  presenza  vogHo 

Aprirmi  il  petto,  e  lei  paga  e  contenta 

Render  del  sangue,  et  dello  spirto  mio    . 

Ma  chi  è  costei  che  vien  tacita  e  sola"*^?  170 


SCENA  TERZA 
OHva  et  Pellegrino. 

OLIVA  Ecco  quel  Pellegrin  ch'io  vado  apunto 

Di  qua  e  di  là  tutta  mattina  indarno 

^^  sottra^er:  'carpire,  riuscire  a  sapere'  (cfr.  GDU,  XIX  s.v.  sottrarre). 

■*"  Diamante:  Il  paragonare  il  cuore  ad  un  sasso  o  al  diamante  è  un  topos  frequentatissimo 
nella  lirica  amosa  (cfr.  Petrarca,  RKF,  CLXXI,  10:  «del  bel  diamante  ond'ell'ha  il  cor  sì  du- 
ro»; Poliziano,  Orfeo,  w.  66-67:  «la  bella  ninfa  che  di  sasso  ha  '1  core,  /  anzi  di  ferro,  anzi 
l'ha  di  diamante»). 

"*'  fredda  e  dura:  gli  aggettivi  portano  avanti  l'immagine  del  cuore  di  ghiaccio  e  di  diaman- 
te espresso  nei  versi  precedenti.  Per  l'aggettivo  dura  si  riscontra  una  certa  ripresa  del  Pe- 
trarca, KVT,  LXXI,  44. 

•*2  Et  s'avvien...  spirto  mio:  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  64:  «(...)  avendo  prima  fra  sé  stesso  de- 
liberato, se  all'usato  dura,  et  crudele  la  ritrovava,  di  volersi  a  uno  stesso  tempo,  et  palesarsi, 
et  in  sua  presenza  ferirsi  d'un  coltello  nel  petto,  et  morire».  Sulla  crudeltà  della  donna  si 
veda  anche  lettere  A.morose,  I,  XII,  rr.  44-47. 

■*■'*  tacita  e  sola:  cfr.  Dante,  Inj.,  XXIII,  1:  «Taciti,  soli,  sanza  compagnia»;  Petrarca,  Trium- 
phus  Mortis,  V.  122:  «tacita,  e  sola  lieta  si  sedea». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


71 


PELLEGRINO 

OLIVA 
PELLEGRINO 


OLIVA 

PELLEGRINO 

OLIVA 


PELLEGRINO 
OLIVA 

PELLEGRINO 
OLIVA 


PELLEGRINO 


Cercando.  Iddio  con  voi  sia,  huomo  santo! 

Santo  sarei  se  per  cagion  d'Amore 

Il  sopportar  martìr  facesse  huom  tale.  175 

Non  v'ho  inteso,  messer. 

r  dico  ch'io 
Ho  per  amor  di  Dio  sofferti  tanti 
Tormenti,  fra  i  viaggi  e  tante  pene 
Che  quasi  mi  potrei  così  chiamare. 
Di  voi  tutta  mattina  indarno  cerco.  180 

A  che  son  buon  per  voi? 

DiroUo  adesso. 
Una  giovane  quale  è  la  mia  padrona 
Inteso  ha  come  voi  per  cosa  certa 
Sapete  indovinar  per  santitate 

Ciò  che  vi  si  dimanda,  e  però  vuole  185 

Parlar  con  voi,  e  dimandarvi  forse 
Cose  importanti,  pertinenti  a  lei, 
Ned  esser  può  che  non  ne  riportiate 
Da  lei  miUe  presenti'*  et  elemosine. 
Come  ha  nome  costei? 

CHtia  si  chiama.  190 

Ha  padre?  Ha  madre?  E  maritata,  o  putta? 
Ha  padre,  e  madre,  et  è  pulzella  in  casa. 
Ma  si  tramano  ben  le  nozze,  et  ella 
Ne  sta  di  mala  vogHa,  et  ne  sospira, 
Perché  vorrebbe  il  padre  a  un  giovin  brutto  195 

Maritarla  a  ogni  modo,  et  ella  è  morta 
D'un  forastier,  d'un  certo  giovanetto 
Ch'alloggia  a  l'hostaria  della  Santina'*^, 
Bello  quanto  si  può  veder  con  gli  occhi. 
Ma  il  più  crudo  garzon  che  veda  il  cielo.  200 

Come  si  fa  chiamar  per  nome  il  padre? 


■^presenti:  doni  (cfr.  GDU,  XIV  s.v.  presente;  Boerio  533....). 

^^  hostaria  della  Santina:  si  tratta  chiaramente  di  un  toponimo  veneziano. 


72 


Edizioni  critiche 


OLIVA 

PELLEGRINO 

OLIVA 


PELLEGRINO 
OLIVA 


PELLEGRINO 
OLIVA 


Messer  Marsilio  è  detto. 

Ha  più  figliuoli? 
Un  altro  maschio  che  è  chiamato  Mutio, 
Il  quale  anch'esso  è  innamorato,  e  morto"**^ 
D'una  figliuola  d'un  messer  Eugenio,  205 

Et  si  sarebbon  già  fatte  le  nozze, 
Ma  perché  già  un  figliuol  del  detto  Eugenio 
Fu  ucciso,  et  se  ne  die'  senza  altro  colpa 
(Ancor  che  senza  prova)  al  detto  Mutio, 
Non  può  seguir  innanti  il  sponsaHtio.  210 

Insegnatemi  voi  la  casa,  ch'io 
Da  quell'hora  verrò  che  voi  vorrete. 
Di  qui  la  casa  vi  potrò  insegnare: 
Vedete  quella  porta  ch'ha  quel  gatto 
Depinto  sopra?  Quella  è  nostra  casa.  215 

Venir  potrete  come  sona  Vespro, 
Che  da  quell'hora  non  è  il  vecchio  in  casa, 
E  la  madre  si  trova  in  villa  ancora. 
Itene,  ch'io  verrò  senza  alcun  fallo. 
Restate  in  pace.  Iddio  resti  con  voi.  220 


SCENA  QUARTA 
Pellegrino  solo. 

Ahi  cruda  sorte"*^  mia,  so  che  non  hai 
Tardato  un  momento  a  procacciarmi 
Occasione,  onde  conoscili  espresso 
Costei  esser  ancor  dura  e  proterva'**. 


"'^'  innamorato  e  morto:  dittologia  consueta  con  valore  superlativo;  sarà  ripresa,  con  mini- 
ma variazione,  anche  al  v.  1287. 

•*^  cruda  sorte:  cfr.  Petrarca,  KVF,  CCX\ai,  v.  1 1. 

^^  proterva:  arrogante,  sfrontata.  L'espressione  è  dantesca,  usata  in  Purg.  XXX,  70,  e  poi 
mutuata  dal  Poliziano  {Stanile,  II,  28:  «tutta  nel  volto  rigida  e  proterva»)  e  dall'Ariosto 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  73 

Sì  che  ne  segua  poi  la  morte,  ch'io  225 

Deliberato  al  tutto  ho  di  donarmi! 

Ma  come  potrò  io  celarmi  a  questa 

Ingrata  donna,  o  come  mai  soffrire 

Potran  questi  occhi  miei  mirarla,  i  quali 

Tante  volte  gioir  veduta  l'hanno  230 

De'  miei  tanti  dolor,  delle  mie  tante 

Così  acerbe  e  pietose  passioni? 

O  come  potrà  mai  soffrire  il  centro 

Del  suo  fuoco  il  mio  cor  così  d'appresso. 

Se  così  lungi,  ahimè,  non  n'ha  potuto  235 

Sopportar  parte  lungamente  in  pace? 

Come  potran  queste  misere  orecchie 

Sopportar  quella  voce,  che  già  tante 

Volte  a  gran  torto  minacciommi  morte? 

Come  potrà  questa  mia  lingua  poi  240 

Formar  parola  mai  ch'altro  risuoni 

Che  ingrata,  che  crudel,  che  fera  donna? 

Horsù  quel  n'avverrà  ch'avvenir  deve; 

10  me  n'andrò,  poi  che  mi  tengon  santo 

In  questa  terra,  et  n'è  cagion  l'ostessa  245 

Che  empiuto  ha  il  mondo  ch'io  predissi  a  lei 
Del  parto  doppio  suo,  et  fu  ventura 
Benché  il  nome  n'acquisti  di  profeta, 

11  che  mi  torna  ben,  per  ch'è  cagione 

Ch'io  da  costei  così  son  ricercato,  250 

Che  ci  va'*'^  che  costei  parlar  mi  vuole 

{O.F.,  X\^,  3,  V.  3:  «sotto  cui  si  nasconda  un  cor  protervo»);  in  particolare,  per  la  coppia 
qui  impiegata,  cfr.  O.F.,  X,  8,  v.  2:  «che  vi  mostrate  lor  dure  e  proterve». 

^'^  Che  ci  va.  la  stessa  espressione,  evidentemente  in  uso,  è  presente  anche  ne  La  Fantesca 
(atto  1,  scena  3,  p.  73:  «Che  ci  va  che  io  ve  insegnare  il  modo  di  reuscire  anco  in  questo,  se 
mi  crederete»)  nonostante  non  sia  riportata  nei  dizionari.  Non  mi  pare  invece  appropriata 
al  contesto  l'interpretazione  data  da  L.  D'Onghia  al  passo  de  Lm  Fantescu  appena  ricordato: 
«Che  ci  va?»  'che  ci  vuole?'  (cfr.  L.  D'Onghia,  Sulla  «Fantesca»  di  Parabosco:  a  proposito  di  una 
recente  edit<^one,  in  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  voi.  CLXXXIV,  fase.  205, 
2007,  p.  123). 


74  Edizioni  critiche 


Di  questo  Amante  suo  che  ne  fa  stratio! 

Ahimè,  potrò  io  mai  raffrenar  l'ira 

Sì  che  a  dar  morte  a  lei  spinto  non  sia, 

All'hora  ch'io  vedrò  questa  crudele  255 

Languire,  e  sospirar  per  cui  l'ancide   , 

Ramentandomi  poi  la  crudeltate 

Ch'ella  usò  sempre  a  me  che  l'adorai? 

Ma  forse  adesso  ciò  consente  il  cielo, 

Ond'io  le  possa  con  l'essempio  istesso  260 

Far  conoscere  la  forza  del  martire, 

Ch'amando  lei  più  che  la  vita  stessa 

Ho  sopportato,  ahimè,  sì  lungo  tempo. 

Senza  averne  altro  mai  per  guidardone 

Che  sdegnosi  atti,  che  turbati  sguardi,  265 

Che  parole  superbe,  et  minacciose. 

Sì  come  hor  forse,  per  vendetta  mia 

Consente  il  ciel,  che  di  perfetto  amore 

Similmente  d'altrui  essa  riporti. 

Io  mi  voglio  partir  che  l'hora  è  tarda.  270 


5"  per  cui  l'ancide:  per  colui  il  quale  l'uccide. 

^'  perfetto  amore:  l'espressione  (ripresa,  con  qualche  variante  anche  più  avanti,  atto  2, 
scena  7  e  atto  3,  scena  3)  richiama  \\ fin' amor  ^  tradizione  cortese  e  provenzale,  e  compare 
anche  nel  primo  libro  delle  'Lettere  Amorose,  XV,  r.  1  :  «Veramente  colui  che  ama  di  perfetto 
amore  (...)»,  come,  ad  esempio,  nella  più  tarda  commedia  del  Tasso  (cfr.  Intrichi  d'Amore, 
III,  10:  «(...)  e  a  chi  v'ama  con  perfetto  amore»). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  75 

SCENA  QUINTA 
Eugenio  vecchio  innamorato  solo. 

In  effetto  egli  è  ver  c'Amor  può  il  tutto   , 

né  può  cosa  fra  noi  centra  di  lui: 

in  me  ne  pòn  veder  pruova  le  genti, 

c'hoggi  mai  vecchio,  e  con  la  chioma  bianca    , 

in  tale  stato  poi,  e  in  cotal  morte  275 

c'ogni  picciol  error  mortai  peccato 

mi  sarà  sempre,  e  pur  non  ho  possanza 

co'l  periglio,  con  gli  anni,  e  col  sapere 

di  schermirmi  da  lui,  ch'a  voglia  sua 

quinci  e  quindi  mi  gira,  e  mi  raffrena   ,  280 

con  mio  gran  biasmo,  ch'io  ben  già  m'aweggio 

che  molti  hoggimai  san  la  mia  pazzia  ': 

perché  più  non  attendo  a'  miei  clienti, 

anzi  lascio  i  litigi  andar  sossopra, 

e  Bartolo  ^^  m'ho  fatto,  anzi  il  mio  Dio,  285 

una  vii  feminuzza,  e  a  lei  convienimi 

ubidir  sempre...,  ma  Finocchio  viene. 


52  Amor  può  il  tutto:  chiara  ripresa  della  sentenza  virgiliana  «Omnia  vincit  amor,  et  nos 
cedemus  amori»  (\%gilio,  Bucoliche,  X,  69),  che  il  Parabosco  utilizzerà  anche  ne  II  Ladro,  16: 
«In  effetto  omnia  vincit  amor»,  e  comunque  tutt'altro  che  infrequente  nelle  commedie  del 
tempo  (cfr.  ad  es.  Calmo,  IlSaltu:^,  atto  5,  scena  5;  Gonzaga,  Gli  Inganni,  atto  2,  scena  4). 

'"'^  vecchio...  chioma  bianca:  cfr.  Petrarca,  RKF.,  XVI,  v.  1.  Si  noti  come  anche  il  linguaggio 
dell'anziano  Eugenio,  risenta  del  generale  innalzamento  di  tono  che  pervade  tutta  la  commedia. 

5"'  morte:  stato  mortale  dell'anima. 

55  quinci...  raffrena:  evidente  eco  petrarchesco  (cfr.  Petrarca,  K.V.¥.,  CDLXXVIII,  v.  1: 
<o\mor  mi  sprona  in  un  tempo  et  raffrena»). 

5''  con  mio  gran  biasmo...  pa^a:  anche  il  topos  dell'innamorato  divenuto  oggetto  ed  argo- 
mento di  derisioni  e  commenti  malevoli,  è  ripreso  dal  Petrarca  (RI'.F.,  I,  w.  9-11:  «Ma 
ben  veggio  or  sì  come  al  popol  tutto  /  favola  fui  gran  tempo,  onde  sovente  /  di  me  mede- 
smo  meco  mi  vergogno»). 

^'^  Bartolo:  'una  vile  donnicciola  ho  eletto  come  mio  Bartolo'  (fonte  del  diritto  o  figura 
esemplare  nel  quale  rispecchiarsi)  'anzi  come  mia  divinità'.  L'allusione  è  ovviamente  a  Bar- 
tolo da  Sassoferrato  (1314  -  Perugia,  1357),  famoso  giurecolsulto  italiano  che  commentò 
tutte  le  parti  del  Digesto  e  compose  numerosi  trattari  di  diritto  pubbUco. 


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Edizioni  critiche 


SCENA  SESTA 
Finocchio  sen'-o  ed  Eugenio  padrone. 

FINOCCHIO       Ben  vi  diss'io,  padron,  ch'era  un  solenne 
Poltron  costui,  e  che  tosto  che  voi 
Dello  amor  vostro  il  facevate  accorto,  290 

Che  questa  puttanella  in  braccio  posta 
AUa  virginitate  avrebbe,  e  poi 
Cercato  farvi  star     de  molti  scuti: 
Quanto  era  megHo  che  il  consiglio  mio 
Voi  fatto  avesti,  e  far  prima  alla  vecchia  295 

Che  n'ha  la  cura,  per  persona  accorta 
Parlare,  et  offerir  qualche  presente: 
Ch'avresti  infin  adhor  l'intento  vostro 
Forse  ottenuto,  e  per  miglior  derata^^. 
Perdonatemi  voi,  in  questi  casi  300 

Ci  vogliono  altre  astutie,  et  altri  punti 
Che  quei  ch'usate  voi  sopra  i  pallazzi 
Mentre  lambicar  fate  in  tanti  scuti 
I  cor  di  quei  meschin  che  liti  fanno    . 

EUGENIO  C'hai  di  novo?  Che  cosa?  Che?  Ragiona!  305 

FINOCCHIO       Ho  parlato  gran  pezzo  con  Caverna, 
E  pienamente  l'utile  e  il  favore 
Che  gH  è  per  trar  da  voi,  gH  ho  posto  innanzi, 
S'egH  consente  che  per  qualche  tempo 
Costei  sia  vostra. 

EUGENIO  Et  ei  che  t'ha  risposto?  310 

FINOCCHIO       Oh,  oh!  Che  noi  faria  per  cento  nulla 
E  più  ducati,  e  che  gli  è  huom  da  bene 


^^  fam  star,  'di  pnvarvi'. 

^^  miglior  derata:  'con  miglior  profitto'. 


''"  Ci  vogliono...  liti  fanno:  consueta,  per  il  Parabosco,  la  tirata  contro  gli  awocati,  qui  ri- 
tratti non  solo  come  abili  manipolaton  della  parola  (cfr.  Lm  Fantesca,  op.  cit.,  p.  103),  ma 
anche  come  veri  e  propri  truffatori  che  spremono  {lambicar)  economicamente  i  malcapitati 
clienti  (cfr.  GDLI,  Vili  s.v.  lambiccare  'spremere,  spillare  denaro'). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


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EUGENIO 


FINOCCHIO 


EUGENIO 
FINOCCHIO 


E  che  vive  su  l'amii,  e  ch'è  soldato, 

E  che  se  non  temesse  la  giustitia 

Di  quel  sacro  santo  et  Illustrissimo  315 

Senato^',  che  faria  pentirvi  forse 

Di  tanto  vostro  ardire,  et  che  voleva 

A  me,  per  esser  messagier,  et  vostro 

Servitor,  perdonar  per  questa  volta, 

Con  promessa  però  che  se  più  mai  320 

Gli  capitavo  con  tai  ciancie  innanzi, 

Di  farmene  partir  col  naso  in  mano^^. 

È  si  bravo  costui?  La  cosa  adunque 

Del  tutto  è  disperata? 

Sì,  per  questa 
Via,  ma  mi  dà  cuor,  se  voi  volete  325 

Giocar  di  borsa*^^,  di  far  sì  che  voi 
Sta  notte  avrete  il  vostro  desiderio. 
Di  lui  malgrado,  e  de  le  sue  minaccie. 
Noi  sappiam  già  che  de  l'arte  è  costei   , 
Et  io  conosco  chi  potria  far  farla  330 

(Quando  vogliate  poi  esser  cortese) 
Ciò  che  vorrete  voi. 

E  chi  è  costei? 
Una  che  non  è  viva^^,  e  non  ha  l'esser 
Chi  non  sa  chi  ella  è  ';  questa  è  una  vecchia 


'*'  Se  non...  Senato:  vistoso  elemento  propagandistico  alla  Serenissima  presentata,  secon- 
do consuetudine  per  l'autore,  come  regno  di  giustizia  ed  ordine  (cfr.  lui  Fantesca,  atto  1, 
scena  6  e  atto  2,  scena  9). 

''^  Di  farmene...  naso  in  mano:  'di  farmi  allontanare  dopo  essere  stato  duramente  percosso' 
(cfr.  GDLJ,  XI  s.v.  naso,  dove  il  passo  in  oggetto  viene  citato  come  unico  esempio  di  tale 
locuzione).  Ricordiamo  che  anche  Caverna  è  un  bravo,  quindi  tale  minaccia  iperbolica  è 
usuale  per  la  sua  figura,  poiché  ne  sottolinea  la  spavalderia  e  lo  concretizza  al  lettore  senza 
di  fatto  portarlo  mai  in  scena. 

^^  Giocarci  borsa:  spendere  generosamente. 

^'^  Noi  sappiam...  costei:  'sappiamo  che  Lauretta  è  del  mestiere'. 

^^  che  non  è  viva:  probabilmente  nel  senso  di  'vecchia  decrepita,  col  piede  ormai  nella  fos- 
sa' anche  se  non  ho  sinora  trovato  altn  riscontri. 


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Edizioni  critiche 


EUGENIO 
FINOCCHIO 
EUGENIO 
FINOCCHIO 


Che  è  maestra  di  Usci,  et  di  belletti,  335 

Di  rÌ22Ì,  di  proffumi,  et  de  bionde '^^; 

Fa  eletuari*^**  per  la  madre,  e  incanta 

I  vermi  a  i  mamohni   ,  e  suol  portare 

Attorno  lavorier  '  sempre,  e  ricami, 

E  questo  fa  per  più  sicuramente  340 

Poter  a  suo  piacer  ne  l'altrui  case 

Entrar  e  uscir,  che  sempre  trova  scusa 

Di  portar  lavorier,  e  porta  poUi  '. 

Ti  dà  cuor  "  che  costei  mi  serva  bene? 

Sì,  se  il  core  a  voi  dà     di  spender  meglio.  345 

Spenderò  quant'ho  al  mondo! 

Et  io  di  manco 
Pur  assai  mi  contento. 


''^'  non  ha  l'esser...  ella  è:  'non  esiste  chi  non  la  conosce'.  La  seguente  descrizione  della 
vecchia  ruffiana  richiama  immediatamente  l'immagine  della  Celestina  dell'omonima  com- 
media di  Fernando  de  Rojas  (non  a  caso  evocata  esplicitamente  al  v.  464),  atto  1,  scena  6, 
p.  67:  «Qui  teneva  una  mezza  dozzina  di  mestieri,  vale  a  dire:  lavandaia,  profumiera,  mae- 
stra in  far  belletti  e  rifare  verginità,  mezzana  e  un  poco  strega.  II  primo  mestiere  serviva  a 
coprire  gli  altri  (...)»). 

^^  bionde:  lavanda  per  rendere  biondi  i  capeUi  (cfr.  ad  esempio  GiancarH,  Zingano,  "021: 
«Non  studia  in  altro  se  non  lambicar  acque  da  viso,  bionde  da  capeUi,  fogge  di  colari  (...)»). 

^^  ektuari:  preparati  farmaceutici  composti  da  un  miscuglio  di  molti  medicamenti  in 
polvere,  impastati  con  sciroppo  e  miele.  Era  usato  comunemente  per  curare  molti  disturbi. 

^^  mamolini:  bambini  piccoli. 

^^  lavorier.  lavori,  manifatture  (cfr.  F.  de  Rojas,  L^  Celestina,  atto  3,  scena  2,  p.  90:  «Ho 
qui  un  po'  di  filo  in  questa  mia  saccoccia,  con  altre  coserelle  che  porto  sempre  con  me,  per 
aver  modo  di  entrare  la  prima  volta  dove  non  sono  conosciuta:  ecco  gorgenne,  veli,  fran- 
ge, collane,  àlcole,  liscio,  sublimato;  e  aghi  e  spilU.  Una  cosa  c'è  e  una  si  chiede.  E  mtanto 
io  attacco  discorso,  mi  preparo  a  gettare  la  mia  esca,  o  a  lanciarla  alla  prima  avvisaglia»). 

^'  polli:  la  \oz\xz\one.  portare  polli  significa  proprio  'favorire  una  relazione  amorosa,  fare  il 
mezzano'  e  le  mezzane  stesse  venivano  spesso  definite  'pollastriere'  (cfr.  GDLI,  XIII  s.v. 
polli;  Modi  di  dire  proverbiali  e  motti  popolari  spiegati  e  commentati  da  Pico  Ljiri  di  l^assano,  Roma, 
Tipografia  Tiberina,  1875,  p.  40). 

^2  Ti  dà  cuor:  'sei  sicuro  che'  (cfr.  Calmo,  Il Saltu:^,  atto  1,  scena  2,  p.  54:  «(...)  ch'el  me 
dà  el  cuore»  interpretato  come  'mi  sento  sicuro  che'  da  D'Onghia,  che  riporta  passi  analo- 
ghi de  La  Capraria  del  GiancarH). 

^^  se  il  core  a  voi  dà.  'se  voi  ardirete'  (cfr.GDL/,  III  s.v.  cuore).  L'edizione  giolitma  del  1560 
reca  j"^  il  core  dà  a  voi,  ma  è  preferibile  la  prima  lezione,  oltretutto  giocata  sul  chiasmo. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


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EUGENIO 
FINOCCHIO 


EUGENIO 
FINOCCHIO 


EUGENIO 


FINOCCHIO 


EUGENIO 


FINOCCHIO 


Horsù,  non  perdere 
Tempo  a  tanto  bisogno! 
E  voi,  padrone, 

Non  perdete  più  tempo  a  darmi  un  paio 
Di  scuti  per  costei. 

Tu  chiedi  troppo.  350 

Voi  cominciate  già.  Devresti  pure 
Sapere  homai  quel  che  il  proverbio  dice, 
Che  l'amor  non  s'ha  caro 
Col  qual  si  fa  lo  Avaro! 

Se  mai  più  ve  ne  parlo,  i'  vuo'  che  voi  355 

Mi  tràte  un  occhio  de  la  testa  fuora! 
Non  tanta  furia,  no!  Tu  peggio  sei 
-  A  dirti  il  vero  assai  -  che  il  fien  bagnato. 
Che  prima  fumo  fa,  che  il  foco  l'arda! 
Piglia  ciò  che  tu  vuoi,  e  servi  e  taci  360 

E  sii,  come  tu  dèi,  fidele  e  cauto. 
De  la  mia  fedeltà  voi  non  dovete 
Aver  dubio  nessun,  nel  resto  poi 
Preghiamo  il  ciel  che  ce  la  mandi  buona! 
Va  pure,  e  fa'  ch'a  ritrovar  mi  vegna  365 

Questa  tua  amica,  che  beata  lei 
Se  per  tuo  mezo  avrò  l'intento  mio. 
Vado,  padrone,  et  ho  buona  speranza 
Che  la  debbano  far  questi  dui  occhi 
Di  civetta^^  più  assai  vostra  che  sua.  370 


^"'  l'Amor...  avaro:  i  due  versi  citano  probabilmente  una  canzoncina  o  strofetta  popolare 
di  CUI,  tuttavia,  non  ho  trovato  alcun  riferimento  preciso.  Lo  stesso  dicasi  per  il  paragone 
esposto  nella  battuta  seguente. 

^^  occhi  di  civetta:  'rotondi  e  giallo  chiari'  per  l'accezione  fornita  dal  GDLJ,  KV  s.v.  occhi, 
ma  qui  ipotizzerei  piuttosto  U  significato  di  'abituati  a  vedere  chiaramente  anche  ciò  che 
per  lo  più  non  si  scorge'  o  semplicemente  'strega'  se  il  riferimento  è  da  intendersi  nvolto 
ad  Honesta.  Da  non  escludere  neppure  il  significato  furbesco  di  occhi  di  civetta  'ducati'  che 
compare  già  sia  nel  Nuovo  modo  de  intendere  la  lingua  ^erga,  sia  nel  furbesco  milanese  con  la 
valenza  più  genenca  di  'oro'  (cfr.  in  11  libro  dei  vagabondi,  a  cura  di  Pietro  Camporesi,  Tonno, 
Emaudi,  1980,  pp.  230  e  275). 


80  Edizioni  critiche 

SCENA  SETTIMA 
Eugenio  solo. 

EUGENIO  La  tua  amicizia,  Amor,  mi  costa  cara! 

Quanti  n'ho  spesi  già?  Quanti  ne  sono 
Per  spender  per  costei?  Questi  sono  altri 
Che  sospiri,  che  lagrime,  che  prieghi. 
Son  i  scudi  altro  che  martelli  o  chiodi,  375 

Altro  che  "o  passi  sparsi"^*",  altro  che  dire 
"I  son  dell'aspettare  homai  sì  vinto"! 
Mai  potrò  dire  averne  buon  mercato ^^ 
S'io  non  arrivo  a  un  centinaio  almeno. 
Ecco  com'io  mi  son  così  pian  piano  380 

Condotto  sotto  de  le  sue  finestre, 
E  veggio  non  so  chi  che  guata  e  ascolta 
Per  entro  i  buchi  de  la  gelosia^^, 
Et  altri  esser  non  può,  se  non  colei 
Ch'adoro  in  terra;  salutarla  voglio  385 

Et  hor  che  non  appar  per  questa  strada 
Persona  viva,  raccontarle  parte 
De  le  mie  gravi  et  aspre  passioni, 
«Dio  vi  dia  pace,  cuor  del  corpo  mio! 
Séte  in  opinion  ch'io  moia,  o  pure  390 

Di  darmi  aita  avete  ancor  pensato? 
Non  ve  accorgete  homai  per  tante  prove 
Che  il  mio  amor  è  infinito?  Ahi,  chi  più  certa 
Ve  ne  potrebbe  far,  che  il  tanto  andare 


^''  passi  sparsi:  si  tratta  ov\àamente  àtW'indpit  del  sonetto  CLXI  del  Petrarca  «O  passi 
sparsi,  o  pensier  vaghi  et  pronti!».  Anche  il  verso  sottostante  presenta  un'altra  citazione  dal 
R.V.F.,  più  precisamente  l'incipit  del  sonetto  XCVI.  I  richiami  sono  chiaramente  in  funzio- 
ne di  satira  antipetrarchesca. 

^^  averne  buon  mercato:  'di  aver  fatto  un  affare'. 

''^  gelosia:  si  tratta  della  persiana,  ovvero  l'imposta  della  finestra  realizzata  con  stecche 
inclinate  o  incrociate,  che  permette  di  guardare  fuori  senza  essere  visto  (per  la  medesima 
espressione  cfr.  Aretino,  Ragionamento  della  Nanna  e  della  Antonia,  II,  p.  265). 


//  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  81 

Di  qua  e  de  là  per  vostro  amor,  e  senza  395 

Aver  riguardo  a  l'honor  mio,  e  a  l'utile 

Ch'io  perdo  ogn'hor,  perdendo  il  tempo,  ahi  lasso! 

Che  per  voi  più  non  dormo,  e  sempre  stommi 

Col  pensier  dritto  a  voi,  e  voi  più  cruda 

Séte  ad  ogn'hor,  né  vai  che  vi  scusiate  400 

Sopra  Caverna,  e  dir  ch'esso  non  vuole. 

Che  se  voleste  voi,  vorrebbe  anch'egli. 

Che  senza  voi  non  può,  voi  sì  senz'esso. 

Eh,  Vita  mia,  homai  qualche  scintilla 

Di  pietate  ver'  me!  Siate  contenta  405 

Di  ricevere  il  mio,  anzi  pur    vostro 

Core,  ch'io  vel  donai  la  prima  volta 

Ch'io  viddi  quel  bel  viso  in  cui  natura 

Tutto  il  suo  bello  e  '1  suo  artificio  vede  ' . 

Beata  voi  se  contentate  ch'io  410 

Sia  vostro  servitor,  ch'io  farò  in  guisa 

Che  beata  chiamar  ben  vi  potrete: 

Maneggiarete  il  mio,  voi  tutta  sola 

Ne  sarete  padrona,  e  in  vostra  mano 

L'avrete  sempre,  e  ne  potrete  fare  415 

Ciò  ch'a  voi  piacerà;  la  chiave  avrete 

Di  tutti  i  miei  dinar,  delle  mie  gioie. 

Che  volete  voi  darvi  in  preda  a  qualche 

Tenero  Garzonel,  che  al  fin  vi  pianta 

Un  grosso  porro**',  allhor  c'avrà  da  voi  420 

Avuto  il  suo  voler,  nella  scarsella   , 


^'  pur.  anche. 

*'  Tutto...  vede:  eco  di  stampo  barocco  in  questa  mescolanza  di  natura  e  artificio. 

**'  porro:  la  \oc\iz\one:  piantare  il  porro  con  il  significato  di  'raggirare  una  persona  e  piantar- 
la in  asso'  è  abbastanza  frequente  nei  testi  comici  del  '500  (cfr.  ad  es.  Gonzaga,  Gli  inganni, 
atto  3,  scena  1:  «gli  ricacciai  il  porro»;  Bruno,  Candelaio,  atto  5,  scena  2:  «Io  non  dubito  che 
lui  e  tu  mi  avete  piantato  il  porro  dietro»;  ecc.). 

"2  scarsella:  borsa  di  cuoio  usata  per  contencr\T  i  denan,  portata  appesa  al  collo  o  alla 
cintura,  qui  nel  senso  metaforico  di  'quando  vi  avrà  posseduta'. 


Edizioni  critiche 

Et  se  ne  vanti  ancor  per  ogni  loco? 
Ahimè  ch'io  moio,  ahimè  ch'io  son  ferito!» 


SCENA  OTTAVA 
Finocchio  et  Donna  Honesta. 

FINOCCHIO       Ha  ha  ha  ha  ha  ha!  Oimè  ch'io  creppo! 
DCNNAP^CNESIA  Ha  ha  ha  ha  ha  ha!  Io  creppo  anch'io!  425 

FINOCCHIO       Oimè  ch'io  creppo,  i'  scoppio  daUe  risa! 

Vecchietta  mia,  sia  benedetta  l'hora^^ 

Che  mi  séte  venuta  hoggi  fra'  piedi. 

Ch'esser  più  a-ttempo  non  potea,  che  oltra 

Che  bisognava  ch'io  venissi  infino  430 

A  santa  Marta^'^  per  trovarvi:  avete 

Goduto  meco  anche  il  piacer  che  il  mio 

Padron  ci  ha  dato  col  contar  i  suoi 

Tormenti  ad  una  gatta  che  credeva 

Che  fosse  la  sua  Diva.  E  avete  visto  435 

Come  al  saltar  deUo  animale  in  terra 

Esso  pensossi  d'essere  assaltato 

E  ito  se  n'è  via  più  che  di  volo? 
DQSNAHGNESIA  Per  quanto  non  vorrei  essere  stata 

D'avere  avuto  così  gran  piacere!  440 

Horsù  ragiona  ciò  che  vói,  che  tanto 

In  fretta  mi  cercavi! 
FINOCCHIO  r  sarò  breve 

Nel  mio  parlar,  per  che  veduto  avete 


*'  sia  benedetta  l'hora:  ovvio  richiamo  al  sonetto  LXI  del  Petrarca,  qui  accennato  però  in 
chiave  parodica  data  la  situazione  ed  il  tenore  della  conversazione  tra  i  due  furfanti. 

"''  Santa  Marta:  nella  Venezia  odierna  corrisponde  alla  stazione  ferroviaria  marittima. 
Un  tempo  vi  sorgevano  il  monastero  e  la  chiesa  di  Santa  Marta;  si  trattava  di  un  quartiere 
povero,  abitato  da  pescatori,  meta  una  volta  all'anno,  in  occasione  della  festa  patronale,  di 
una  caratteristica  festa  notturna  con  barche  illuminate,  a  cui  partecipavano  popolam,  patnzi  e 
cittadmi  (cfr.  Lorenzetti,  Venera  e  ti  suo  estuario,  Roma,  Istituto  poligrafico  dello  Stato,  1956). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  83 

In  questo  effetto  sol,  di  quel  gran  parte 

Che  senza  questo  conveniva  dirsi.  445 

Come  compreso  avete  il  mio  padrone, 

Che  è  riputato  pure  in  questa  terra 

E  dotto,  e  saggio,  e  scaltrito  avocato, 

E  di  costei,  ch'aver  dovete  voi 

Sul  vostro  calendario'*^  innamorato.  450 

DQsNAPOSIESIA  Io  la  conosco,  et  ha  Caverna  il  padre. 

Per  segno,  nome  '. 
FINOCCHIO  È  quella  apunto,  et  io 

Ho  tenuto  fin  hor  su  le  bacchette ^^ 

Il  mio  padrone,  et  bollo  fatto  stare 

Con  lei  d'accordo  già  di  molti  scuti:  455 

Lei  sempre  bora  in  speranza,  et  bora  in  tema, 

Com'era  mio  voler,  tenuto  l'have. 

Hora  per  mezo  tuo,  non  satio  ancora 

D'assassinar  costui,  ch'è  ladro  publico   , 

Vorrei  veder  di  trarli  fuor  di  nuovo  460 

De  la  borsa  i  lampanti   ,  e  partir  teco 

Fin  una  stringa  il  tutto  ^\  et  già  gli  ho  detto 

E  dipinto  di  te  cose  impossibili: 

E  che  sai  l'arte  più  che  Celestina"", 

E  che  sei  con  costei  dente  e  gengiva  "...  465 


*^  ch'aver...  calendario:  'che  voi  conoscete  o  ricordate  bene'.  È  un'espressione  proverbiale 
citata  anche  nel  Morgante,  XVIII,  139,  4  con  il  significato  di  'ricordare  proprio  tutti':  «e  tutti 
appvinto  gli  ho  in  sul  calendario». 

^^  ha  Caverna...  nome:  'il  padre  è  soprannominato  Caverna'. 

"^  tenuto  sulle  bacchette:  'tenuto  in  ballo'  (cfr.  G.  Polena,  Vocabolario  del  venec^ano  di  Carlo 
Goldoni,  Roma,  Istituto  della  Enciclopedia  italiana  Treccani,  1993,  p.  43). 

^^  ladro  publico:  poiché  si  tratta  di  un  avvocato. 

^^  lampanti:  in  gergo  furbesco  i  'denari'. 

'^"  Partir  teco. ..il  tutto:  'dividere  con  te  tutto  il  guadagno,  fino  alle  cose  di  infuno  valore' 
(come  la  stringa). 

'^'  Celestina:  la  vecchia  mezzana  dell'omonima  commedia  attribuita  a  Fernando  De  Rojas 
è  qui  citata  proprio  come  personificazione  dell'astuzia  e  della  stregoneria. 


84  Edizioni  critiche 

DQSNAHQSESIA  Hor  sia  lodato  il  ciel,  che  buon  incontro 

Contro  ogni  creder  mio  stamane  ho  fatto! 

Meglio  sarà  per  noi  che  a  qualche  modo, 

Per  qualche  giorno  ancor,  lo  intrateniamo 

Su  le  speranze,  e  poi  farem  quel  meglio  470 

Che  ci  parrà  che  ci  consigli  il  tempo. 
FINOCCHIO       Anzi,  vorrei  che  di  ammazzarlo  presto 

Fusse  il  nostro  pensier,  ch'io  temo  ch'egli, 

Che  per  sola  cagion  d'Amore  è  pazzo, 

Non  si  risenta,  et  o  per  sdegno  o  d'altro  475 

Si  chiarisca  del  tutto,  e  ponga  fine 

Al  spendere  e  aUo  amor  tutto  in  un  punto. 

Bisogna  studiar  per  questa  sera 

Ordirgli  qualche  trapola,  e  che  sia 

Con  qualche  utile  nostro:  i'  gH  ho  promesso  480 

Che  tu  farai  che  questa  stessa  sera, 

EgH  averà  la  sua  signora  in  braccio^^. 

E  di  due  scuti  già  gli  ho  fatto  affronto 

Per  volerti  donar,  et  perché  adesso 

Non  gH  aveva,  di  farmeli  prestare  485 

Voler  gH  disse  a  un  mio  caro  amico, 

et  questo  fèi  perché  non  si  potesse 

pentir  di  darti  questa  prima  mancia; 

Sì  che  s'a  sorte     ei  ti  dicesse  s'io 

Ti  ho  i  scuti  dato,  tu  potrai  rispondere  490 

Ch'avutogH  hai,  perch'egH  questa  sera 

Me  H  darà  perch'io  H  possa  rendere 

A  cui  dirò  che  creditor  ne  sia. 
DONNAFiONESTA  Lavora  fideHnente,  e  lascia  fare 

L'arte  a  chi  sa,  ch'io  ti  prometto  e  giuro  495 

Che  passerà  per  noi  la  cosa  bene. 

^2  dente  e  gengiva,  'una  coppia  inseparabile'.  L'espressione  è  presente  anche  ne  1m  Fante- 
sca, atto  1,  scena  2,  op.  cit.,  p.  65  e  mi  pare  affine  a  quella  de  1m  Celestina,  atto  3,  scena  1,  p. 
88:  «Sua  madre  e  io  eravamo  unghia  e  carne». 

'•^^  la  sua  signora  in  braccio:  si  noti  l'espressione  ironicamente  cortese. 

'^■*  s'a  sorte:  'se  per  caso'. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  85 

FINOCCHIO       Entriamo  in  casa,  ch'ei  non  starà  molto 

A  venire  ancor  lui  palido  e  smorto 

Per  la  paura.  I'  farò  sì  che  CHtia 

Crederà  che  voi  siate  una  vecchietta  500 

Che  ricerchi  da  lui  qualche  consiglio. 
DQSNAHCNESIA  Sì  sì,  mettami  pure  a  parlamento 

Con  la  fanciulla,  ch'io  saprò  ben  io 

Di  ben  fatte  bugie  empirle  il  fuso    . 
FINOCCHIO       Intriamo  adunque. 
DCNNAHCNESm  Qui  sempre  sia  pace!  505 


SCENA  NONA 
Eugenio  solo. 

Questo  Caverna  ne  fa  tante  a  fede, 

Che  sarà  forza  al  fin  ch'io  faccia  dargli 

De  quel  ch'ei  va  cercando:  egli  deve  essere 

Stato  c'ha  tratto  giù  daUa  finestra 

Quel  sasso  certo  per  spezzarmi  il  capo!  510 

Non  starà  molto  anch'io  ch'averò  dietro 

Un  huomo  tal  che  ti  farà  tremare 

Dal  capo  ai  pie,  che  ordinato  hor  hora 

Ho  che  mi  venga  un  paladino    a  casa; 

Lo  menarò  così  da  lungi  dietro    ,  515 

Che  non  s'accorgeran  le  genti  ch'egH 

Sia  meco  in  compagnia,  et  così  poi 

Potrò  sicuro  andar  pei  fatti  miei. 

r  voglio  in  casa  intrar,  né  mi  partire 

Prima  o  che  lui,  o  che  Finocchio  venga.  520 


'^  Empirle  il  fuso:  'farle  girare  la  testa  a  furia  di  chiacchiere'  (cfr.  CDLI,  VI  s.v./uso). 
"^^  paladino:  si  tratta  chiaramente  di  un'espressione  iperbolica  che  anticipa  i  caratteri  della 
scena  seguente. 

^^  lo  menarò...  dietro:  mi  farò  seguire  da  lontano,  per  passare  inosservato. 


86  Edizioni  critiche 

ATTO  SECONDO 


SCENA  PRIMA 
Finocchio  solo. 


Io  creppo  delle  risa!  Il  vecchio  fila 

Fila  sottil^  ,  ch'ei  crede  che  Caverna 

(Quando  giù  dal  balcon  saltò  la  gatta) 

Fusse,  che  gli  traesse,  per  ucciderlo, 

Un  sasso  giuso,  et  hor  perciò  m'invia  525 

A  casa  d'un  suo  amico,  a  cui  ha  imposto 

Et  lasciato  ordine  et  commissione 

Di  ritrovar  un  bravo  che  gH  vadi 

Dietro  con  la  Fusberta^^,  et  gli  lo  mandi 

A  casa,  né  può  anco  aspettare  tanto  530 

Ch'ei  se  ne  venga,  che  mi  spinge  adesso 

A  dar  pressa      allo  amico.  Ma  per  Dio, 

Che  costui  che  ne  viene  apunto  è  un  bravo 

(Più  solenne  poltron  non  porta  spada) 

Sì  ch'ei  viene  a  lui!  Voglio  nascondermi  535 

Ch'ei  vien  parlando  fra  se  stesso,  il  pazzo! 


^**  Fila  sottili  nonostante  la  mancanza  di  riscontri  per  la  locuzione  precisa,  si  ricordi  che 
fillare  in  furbesco  significa  'aver  paura',  come  precocemente  attestato  dal  Nuovo  modo  (cfr.  P. 
Camporesi,  Il  libro  dei  vagabondi,  op.  cit.  pp.  219  e  222). 

^^  Fusberta:  la  spada  (attraverso  il  consueto  richiamo  ai  personaggi  dei  poemi  cavallere- 
schi poiché,  come  noto,  Fusberta  è  il  brando  di  Rinaldo). 

'""  A  dar  pressa:  a  sollecitare,  a  far  pressioni. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  87 

SCENA  SECONDA 
Spavento""  bravo,  et  Finocchio  ascoso. 

SPAVENTO    Oh  Giove,  perché  a  te  non  piacque  darmi, 

quanto  ho  core  et  ardire,  fortezza  ^'',  ch'io 

forse  spesso  farei  maggior  fracasso 

con  questo  braccio,  fulminando  i  monti  540 

ne  le  città  *'  ,  che  le  maggior  bombarde""* 

ch'abbia  signor  del  mondo?  Oh  mano,  quanti 

n'hai  uccisi  a'  tuoi  di? 
FINOCCHIO  (Sì,  de  i  pidocchi!) 

SPAVENTO    Quante  volte  fin  hor,  posto  in  prigione 

io  stato  sono,  oh  oh:  trovane  il  conto!  545 

FINOCCHIO  (Questo  fu  per  denar  ch'ei'"^  doveva  avere.) 
SPAVENTO    E  quante  volte  io  solo  ho  fatto  correre 

quattro  compagni  o  sei? 
FINOCCHIO  (Sì,  ma  fiiggendo!) 

SPAVENTO    Quanto  m'è  uscito  sangue  da  la  vena? 
FINOCCHIO  (Del  pohnone'°'  ben  sai!) 
SPAVENTO  Io  posso  pure  550 

andar  per  tutto  il  mondo... 
FINOCCHIO  (mascarato!) 

SPAVENTO    Io  ho  pur  fatto  le  stupende  prove 

a'  miei  giorni. 

""  Il  nome  del  bravo  è  chiaramente  "parlante",  perfettamente  consono  alla  millanteria 
del  personaggio. 

'"-  forte:(p^a:  prestanza  . 

^^^^  fulminando  i  monti  ne  le  città:  l'espressione  non  è  molto  chiara  ma  si  potrebbe  attribuire 
alla  locuzione  un  significato  iperboUco  affine  a  quello  di  spaccare  i  monti  'fare  il  gradasso, 
braveggiare'. 

"*■'  bombarde:  le  più  antiche  bocche  da  fuoco  usate  in  guerra  o,  anteriormente,  le  mac- 
chine per  lanciare  pietre  (cfr.  Pulci,  Marcante,  II,  16,  v.  5). 

'"^  ei:  il  creditore. 

""■  del  polmone:  potrebbe  riferirsi  alla  malattia  della  tisi,  l'affezione  tubercolare  dei  pol- 
moni caratterizzata  da  sbocchi  di  sangue,  già  conosciuta  nel  Rinascimento,  ma  poco  fre- 
quente nei  testi  coevi  oppure,  più  semplicemente,  ai  colpi  ricevuti  nella  schiena  mentre  il 
bravo  si  dava  alla  fuga. 


EdÌ2Ìoni  critiche 


FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 


SPAVENTO 

FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 
SPA\^NTO 


FINOCCHIO 


SPAVENTO 
FINOCCHIO 


SPAVENTO 
FINOCCHIO 


(Ben  sai,  contra  il  boccale.) 
Che  diresti  di  me,  spada,  parlando? 
(Che  non  uscì  mai  fuor  de  la  guaina!  555 

Horsù,  mi  viao'  scoprire.)  A  Dio,  Spavento, 
ove  ne  vai? 

Oh,  il  mio  Finocchio!  I'  vengo 
a  ritrovare  a  punto  il  tuo  padrone: 
è  in  casa? 

Sì,  fratel.  Cangiati  il  nome 

di  gratia,  per  ch'io  tremo  a  nominarti!  560 

Ben  potresti  tremar  se  si  potessero 
Le  cose  che  non  han  corpo  vedere. 
Per  che  tremar? 

Per  che  con  esso  meco 
Sempre  ne  \àen  la  morte,  ch'è  sicura 
Di  sempre  aver  da  questa  Durindana^"^  565 

Facende  assai. 

In  ogni  altro  paese 
Gran  riputation  deono  i  medici 
Aver,  e  i  preti  far  magri  guadagni 
Debbono  ancor. 

E  perché  di'  tu  questo? 
Se  la  morte  vien  teco,  in  altra  parte  570 

Morir  non  dee  nessuno,  onde  ogni  medico 
Esser  de'  uno  Esculapio'"*^,  e  i  preti  poi 
Non  han  per  cui  cantar  ridendo  il  requiern^^'^ . 
Questa  cagion  mi  va.  Ma  dimmi,  il  tuo 
Padron  con  cui  ha  inimicitia  presa?  575 

Con  un  certo  Caverna,  un  asinaccio. 
Un  poltron  come  tu,  che  fa  l'Orlando'''^: 


'"^  Durindana,  la  celebre  spada  di  Orlando. 

'"*  Esculapio:  nella  mitologia  romana  era  il  dio  della  Medicina. 

""^  requiem:  preghiera  di  suffragio.  Il  fatto  che  i  preti  ndano  è  forse  una  critica  alla  su- 
perficialità con  cui  officiavano  i  riti,  oppure  vale  come  nferimento  alle  cospicue  elemosime 
che  essi  potevano  raccogliere  in  tali  circostanze. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


89 


SPAVENTO 


FINOCCHIO 


SPAVENTO 

FINOCCHIO 

SPAVENTO 


FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 


Come  te  dico  suol  vantarsi  anch'egli, 
Ma  non  ha  poi  de  l'opre  il  privilegio. 
Che  vuole  il  tuo  padron?  Vói  forse  ch'io  580 

Lo  faccia  in  quarti'",  o  pur  ch'io  glielo  lassi 
Così  stropiato      che  non  possa  moversi? 
Storpiar  lo  potrei  con  un  sol  guardo. 
Di  quei  dinanzi  ai  quai  fm'a  le  nubi 
Fuggon  per  l'aria,  senza  aita  alcuna  585 

Di  vento  o  d'altro,  et  s'ei  vorrà,  con  uno 
Di  questi  sguardi  che  paura  fanno 
A  l'ardimento,  gli  porrò  nel  core 
Tanto  timor,  ch'ei  tremolando  poscia. 
Per  tutto  il  mondo  se  n'andrà  ballando!  590 

Tu  dunque  senza  suon  pòi  far  la  festa. 
Poi  che  coi  guardi  fai  ballar  le  genti! 
Ma  s'ei  volesse  che  di  qualche  membro 
tu  lo  storpiasse? 

Basta  un  mezzo  pugno. 
Come  l'occideresti? 

r  starei  in  dubbio  595 

D'accettar  questa  impresa,  e  saria  ch'io "^ 
Ho  questa  spada  ancor  vergine  e  pura 
Di  sangue  di  poltron. 

Ma  non  di  mano. 
Che  parli  tu  di  mano? 

Il  torno  a  dire 
Ch'ogniun  tremar  devria  della  tua  mano.  600 

Chi  m'è  nemico  trema,  e  chi  m'è  amico 
Può  star  per  me  sicur  da  quattro  campi     . 
Si  sa,  per  Dio,  quanto  sei  valoroso! 


""  che  fa  l'Orlando:  'che  si  atteggia  ad  eroe'. 

'"  in  (Quarti:  in  macelleria  sono  i  pezzi  dei  bovini  ed  ovini  uccisi. 

"2  stropiato:  variante  dialettale  e  scherzosa  di  storpiato. 

"■*  saria  ch'io:  'sarebbe  perché  io'. 

""•  ^i3  quattro  campi:  'da  quattro  lati'  ovvero  'ovunque,  da  tutte  le  parti'. 


90  EdÌ2Ìoni  critiche 


SPAVENTO         In  tre  mille  anni      i'  non  potrei  narrar 

Le  prove  mie.  Quanti  huomini  ho  mandato  605 

A'  miei  giorni    '  a  l'inferno?  E  quanti  poi 

N'ho  storpiati  e  feriti?  Quanti  visi, 

Quanti  nasi  ho  schiacciati,  et  occhi  chiusi? 

Quante  barbe  pelate?  Oh,  io  ti  giuro 

Che  il  letto  dove  io  dormo  è  fatto  tutto  610 

De'  peli  de  la  barba  di  coloro 

C'hanno  avuto  tal'hor  la  mia  disgratia! 

Sei  tu  stato  a  Loreto?  Io  volea  dirti 

S'hai  veduto  ivi  appeso  in  depintura 

I  voti      di  color  che  sono  usciti  615 

Vivi  da  le  mie  man,  che  sono  stati 

Almeno  un  rrùlion,  per  dirti  poco! 

E  chi  è  gito  oltra  il  mare"*^,  e  chi  in  Galitia"'^, 

E  chi  a  Loreto,  come  ho  detto  ancora. 

Et  hanno  sol  per  me  fatto  tai  voti,  620 

Che  altro  è  aver  nemico  un  huomo  tale. 

Che  ritrovarsi  in  mar  con  debil  legno 

Senza  vela  o  timon,  quanto  più  al  cielo 

S'alzino  l'onde'''. 

"^  tre  mille  anni:  numero  iperbolico. 

'""  ^  '  miei  giorni:  'in  vita  mia'. 

"^  voti:  vale  forse  la  pena  ricordare  al  proposito  quanto  scritto  su  Loreto  da  Montaigne 
tra  il  1580  e  il  1581  (cfr.  Montaigne,  Viaggio  in  Italia,  Bari,  Laterza,  1972,  pp.  228-29):  «Il 
santuario  è  una  misera  vecchissima  casetta  di  mattoni,  più  lunga  che  larga.  Nella  parte  an- 
teriore hanno  fatto  un  tramezzo,  con  due  porte  di  ferro  ai  lati  e  una  cancellata  al  centro. 
(...)  La  cancellata  che  sta  tra  le  due  porte  lascia  vedere  la  parte  estrema  della  stanzetta,  e 
questa  parte  chiusa  (...)  è  il  luogo  della  principal  devozione.  Lì,  in  alto  sul  muro,  si  vede 
l'immagine  di  Nostra  Signora  fatto  —  dicono  -  di  legno:  tutto  il  resto  è  così  ornato  di  ricchi 
ex  voto  provenienti  da  tanti  luoghi  e  da  tanti  principi,  che  fino  a  terra  non  c'è  pollice  vuoto 
e  non  rivestito  da  qualche  lamina  d'oro  e  d'argento  (...)». 

''^  oltra  il  mare:  a  Gerusalemme,  al  monastero  di  S.  Caterina  sul  Monte  Sinai,  oppure  a 
Cipro,  presso  il  santuario  di  Nicosia  (cfr.  Pulci,  Morgante,  XX,  38,  w.  3-6:  «il  Veglio  e  Ric- 
ciardetto s'è  votato  /  che  se  scampar  potran  sì  crudel  sorte  /  ognun  presto  al  sepolcro  ne 
sia  andato»;  Ariosto,  O.F.,  XIX,  48,  wy.  1-4). 

"'-'  Galitia:  regione  della  Spagna  in  cui  sorge  il  santuario  di  Santiago  de  Compostela,  una 
delle  più  celebri  mete  di  pellegrinaggio  del  Medioevo. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


91 


FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 

SPAVENTO 

FINOCCHIO 

SPAVENTO 


r  so  che  sei  valente 
E  udit'  ho  dir  che  tu  sei  stato  in  campo'"'.  625 

Di  tutto  un  campo  guardian  son  stato! 
Di  che?  Campo  di  fava  o  di  formento'^? 
Che  fava?  Che  formento?  E'  par  ben,  sciocco. 
Che  non  abbia  esperienza  d'armi? 

Entriamo  in  casa  che  '1  padron  ci  aspetta:  630 

Contar  potrai  a  lui  le  tue  prodezze. 
Entriamo  tosto,  che  costui  tal'hora 
Che  vien  di  qua  mirando  il  volto  mio 
Così  feroce  non  pigliasse  spasmo! 


SCENA  TERZA 
Lauretta  et  Naffissa  Vecchia. 

LAURETTA         Hor  suso,  mo'! 

NAFFISSA  T'ho  detto  tante  volte  635 

Che  tu  intratenghi  ogn'uno,  e  che  tu  lasci 
Che  chi  teco  '1  vuol  far,  faccial  l'amore, 
C'homai,  per  questa  fé',  stanca  ne  sono, 
E  tu  pur  vói  a  le  tue  bagateUe'^^ 

Gir  sempre  dietro,  e  aver  più  caro  un  giovane,  640 

Che  ti  consumi  il  tuo,  che  farti  amante 
Un  huom  matur  che  t'arricchisca,  e  diati 
Un  tempo  da  ingrassare  una  formica     ; 


'2<*  Ritrovarsi...  l'onde:  secondo  il  topos  del  fortunale  (cfr.  Ariosto,  O.F.,  XIII,  15,  v.  4:  «e 
turbò  il  mare,  e  al  ciel  gli  levò  l'onda»;  XLI,  15,  w.  3-4:  «Veggon  talvolta  il  mar  venir 
tant'alto  /  che  par  ch'arrivi  insin  al  ciel  superno»;  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando.,  II,  6, 
12,  v.  7:  «Qua  par  che  l'unda  al  ciel  vada  di  sopra»),  qui  tuttavia  utilizzato  per  impostare  un 
paragone  comico. 

'^'  Sei  stato  in  campo:  hai  combattuto  direttamente  in  battaglia. 

^^^  formento:  frumento.  Equivocando  volutamente  sulle  accezioni  di  "campo",  Finocchio 
finisce  per  definire  il  bravo  come  uno  spaventapasseri  (il  'guardiano'  dei  campi  di  grano). 

'^^  bagatelle:  sciocchezze. 


92  EdÌ2Ìoni  critiche 


Ch'averai  fatto  poi,  vorrei  saperlo, 

Quando  padron  sarà  di  casa  tua  645 

Un  di  questi  garzon  di  prima  piuma '^^? 

Che  credi  tu  avanzar  con  essi,  quando 

Eglino  per  tuo  amore  avran  rubato 

Al  padre  un  sacco  di  cottone,  o  quattro 

Pezze  di  panno?  O  qualche  stocco    '  fatto?  650 

Oltra  che  questi  tai  non  han  da  spendere 

(Che  importa  il  tutto),  ancor  sono  bizzarri, 

Fastidiosi,  et  incostanti,  e  quello 

Poco  che  posson  spender  (ch'è  pochissimo) 

Lo  dividon  al  fine  in  tante  parti,  655 

Che  poco  più  n'avrai  per  te  di  nulla     , 

Perché  vogUon  vestir,  voglion  giocare 

E  con  qualche  altra  ancor  tal'hor  cacciarsi 

Il  martello  del  capo     ,  sì  che,  figHa, 

Prendi  il  consiglio  mio:  lasciali  stare,  660 

O  se  amar  vói  costoro,  ama  anco  gH  altri, 

Che  se  tu  sempre  viverai  con  uno, 

Noi  sempre  patirem  disagio  e  stenti  "  . 


124 


Un  tempo...  formica:  'ti  dia  la  possibilità  di  perdere  tempo  senza  aver  nulla  da  fare'  (cfr. 
GDLI,  VI  s.v.  formica,  che  offre  questo  passo  come  unica  attestazione). 

^'^^  prima  piuma:  quasi  imberbe.  Oggi  diremmo  "di  primo  pelo". 

'^''  stocco:  si  ricordi  che,  oltre  all'accezione  più  comune,  stocco  può  indicare  anche  l'usura; 
vivere  a  stocchi,  ad  esempio,  vale  specificatamente  'vivere  a  prestiti  ottenuti  a  usura'  ed  è 
forma  presente  in  molti  dialetti  altoitaliani  (cfr.  D.  Trolli,  ha  lingua  delle  lettere  di  Niccolò  da 
Correggio,  Napoli,  Loffredo  Editore,  1997,  gloss.  pp.  260-61,  ove  si  riportano  attestazioni 
dal  Cherubini,  Boerio...;  cfr.  inoltre,  ad  esempio,  Aretino,  L<?  Ipocrita,  atto  1,  scena  3:  «Il 
gentiluomo  che  ha  poca  entrata,  è  berzaglio  de  i  debiti;  onde  stoccheggia  là  e  contratta 
qua»). 

^2^  L'edizione  Gràffio  ovatiie.  per  te  ottenendo  un  verso  vistosamente  ipometro. 

^^^  cacciarsi...  capo:  'trastullarsi'  oppure  'provare  passione'  (cfr.  Pico  Luri,  op.  cit.,  p.  91; 
per  martello  come  'male  d'amore'  cfr.  anche  Calmo,  Rime  pescatone,  st.  XXII,  8  e  son.  comm. 
1,  [4]).  L'espressione  è  simile  a  quella  del  v.  1358. 

'^^L'affermazione  e  le  locuzioni  proverbiali  dei  versi  seguenti  sono  decisamente  pros- 
sime a  quelle  del  dialogo  tra  Celestina  ed  Areusa  nella  commedia  di  Rojas,  impermato  pro- 
prio sulle  ammonizioni  rivolte  alla  giovane  cortigiana,  restia  a  concedersi  a  più  pretendenti, 
da  parte  dell'esperta  ruffiana.  Cfr.  Rojas,  Lm  Celestina,  atto  7,  scena  2,  p.  136. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


93 


LAURETTA 


NAFFISSA 


LAURETTA 

NAFFISSA 
LAURETTA 

NAFFISSA 

LAURETTA 


Non  sai  che  si  suol  dir  che  Primavera 

Non  fa  un  fior  sol'  '  ?  Non  sai  che  molti  pochi  665 

Fanno  uno  assai?  E  che  un  mantel  si  logora 

Tosto  a  colui  che  non  ha  da  mutarsene     ? 

Vivi  pur  certa  che  quel  pescatore 

C'ha  in  acqua  un  hamo  sol  mai  sempre  piglia 

Poco  pesce,  figliuola,  sì  che  quello  670 

Ch'io  ti  dico  considera  et  esamina. 

Non  posso  voler  bene  a  quel  vecchiaccio! 

r  so  ben  io  ciò  che  volete  dire, 

Piace  un  giovane  a  me. 

Pazza  che  sei! 
Quanto  è  migHor  assai  scuto  di  vecchio  675 

Che  di  Giovane  bacio,  oltra  che  mai 
Non  ti  dicon  di  no  di  cosa  alcuna... 
Anzi  i  giovani  son  che  son  pieghevoli 
A  le  richieste  altrui!  Voi  v'ingannate 
Ch'amorevole  più  si  trovi  un  vecchio!  680 

Pagano  i  vecchi  doppiamente,  pazza! 
Tenete  voi  quella  moneta  ch'egHno 
Altrui  dan  doppiamente! 

Eh,  pazzerella. 
Tu  vói  la  berta '^^,  ma  ten  pentirai! 
Che  volete  ch'io  faccia?  Voi  mi  fate  685 

Entrar  tal'hor  nel  capo  il  trenta  para'^^! 


'^^  Primavera.. .fior  solo:  un  fiore  solo  non  fa  ghirlanda  (o  primavera);  cfr.  Giusti,  Proverbi 
toscani,  op.  cit.,  p.  339  e  Orlando  Pescetti,  Proverbi  italiani  raccolti  per  Orlando  Pescetti,  Verona, 
presso  Girolamo  Discepolo,  1598  (ristampa  anastatica  Casa  editrice  D'Anna,  Messina- 
Firenze,  s.  d.),  p.  34. 

'^'  un  mantel..  mutarsene:  cfr.  Rojas,  1m  Celestina,  atto  7,  scena  2,  p.  136:  «(...)  una  rondine 
non  fa  primavera,  un  testimonio  non  dà  affidamento,  chi  non  ha  che  una  veste  la  logora 
presto». 

'^2  tu  vói  la  berta:  letteralmente  'tu  vuoi  scherzare'  (per  l'uso  della  locuzione,  frequente 
nei  testi  comici  burleschi,  si  veda  ad  esempio  Pulci,  Morgante,  XMII,  122). 

1J3  trenta  para:  ant.  diavolo,  derivato  forse  dalla  credenza  popolare  secondo  cui  il  demo- 
nio era  dotato  di  trenta  paia  di  corna.  Per  la  medesima  espressione  cfr.  //  Viluppo,  atto  1, 


94  Edizioni  critiche 

NAFFISSA  Queste  son  delle  tue!  Non  tanta  stizza! 

Parlar  non  si  può  teco... 
LAURETTA  E  che  volete 

Ch'io  faccia?  Su  ditelo  homai,  che  cosa? 
NAFFISSA  Vorrei  c'hora  ch'abbiam  sotto  quel  vecchio,  690 

Che  è  ricco  e  ti  vuol  ben,  che  a  spennacchiarlo 

Pensassimo  ad  ogn'hora,  e  a  trargli  il  cuore 

Fuor  de  la  borsa,  che  queste  venture 

Non  vengon  sempre  e  però  mena,  figHa, 

mena  le  mani! 
LAURETTA  F  son  da  tante  prediche  695 

Vinta  e  confusa  homai:  i'  son  contenta 

Far  il  vostro  voler,  ma  sallo  il  cielo 

Se  non  mi  pare  ogn'hor  ch'io  veggia  l'orco'^"*. 

Ch'io  veggio  lui  c'homai  non  si  può  reggere 

Sopra  le  gambe! 

Volta  carta^^^  figHa!  700 

Egli  ha  dinari  assai:  n'averai  parte, 

T'impirà  la  cassetta. 

Oh,  foss'io  certa 

De  la  metà.  Ma  intramo  in  casa  tosto 

Che  vien  gente  di  qua! 

Non  anzi,  voglio 

Che  ferma  stì,  ma  fingi  che  ti  sia  705 

Uscito  un  zoccol  fuor  del  piedi,  e  resta 

Apunto  fin  che  sien  passati:  intendi? 
LAURETTA         Questo  non  farò  già,  perché  ho  sì  grande 

Il  zoccol  che  potrian  considerare 

Ch'io  restassi,  senza  essi,  un  mezzo  gombito^^''.  710 


NAFFISSA 


LAURETTA 


NAFFISSA 


scena  8;  Aretino,  Sei  giornate,  86:  «fece  tanto  che  con  il  trenta-paia  ci  entrò  una  notte»;  An- 
nibal  Caro,  Gli  Straccioni,  atto  3,  scena  5:  «Li  trenta  para  si  son  scatenati  oggi  per  noi». 

^^"'  l'orco:  la  morte  (dalla  divinità  sovrana  dell'aldilà  secondo  la  mitologia  romana). 

'-^^  Volta  carta:  Volta  pagina,  guarda  la  cosa  da  un  altro  punto  di  \asta'.  Cfr.  Dieci  tavole, 
1711  (ma  senza  spiegazione). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


95 


NAFFISSA  Sì,  per  mia  fé',  che  gli  huomini  non  sanno 

C'hoggidì  non  è  donna  in  questa  terra 
Che  non  abbia  per  zoccol  una  scala''''! 
Non  vengon  più,  sì  pure  intramo,  figlia. 
Che  questo  è  un  pellegrin,  s'io  ben  discerno. 


715 


SCENA  QUARTA 
Pellegrino  solo. 


Non  credo  che  starà  troppo  a  sonare 
Vespero,  e  forse  ancor  sarà  sonato. 
Meglio  è  ch'io  batta,  et  se  verrà  qualch'uno 
Che  non  sia  quel  ch'io  voglio,  i'  dirò  ch'io 
Cerco  per  Dio''**,  che  l'abito  il  consente! 


720 


SCENA  QUINTA 
Oliva  et  Pellegrino. 


OLIVA  Chi  batte,  olà?  Oh,  sete  voi?  Hor  hora 

CHtia  verrà,  che  il  padre  e  suo  fratello 
Con  il  fameglio  loro  adesso  a  punto 
Entrati  in  barca"'  sono,  et  vanno  in  piazza. 
Aspettate  là  giù,  se  v'è  in  piacere. 

PELLEGRINO    Così  farò.  Voi,  occhi  miei  dolenti"' 
Da  gli  occhi  di  costei,  c'hor  pietosi 
Per  far  pietosi  me  del  suo  dolore 


725 


^^^' gombito:  gomito,  antica  unità  di  misura  di  lunghezza,  corrispondente  alla  distanza  tra 
il  gomito  e  l'estremità  del  dito  medio. 

'^^  L'affermazione  completa  quanto  già  detto  sulle  donne  ed  i  loro  trucchi  nella  pnma 
scena  del  primo  atto. 

'^'^  Cerco  per  Dio:  'chiedo  l'elemosina'  (la  questua). 

'^^  in  barca,  felice  puntualizzazione  dell'autore  sull'ambientazione  nelle  acque  della  laguna. 

'^"  occhi  dolenti:  ovvio  rimando  a  Petrarca,  KW,  XIV. 


96 


Edizioni  critiche 


Vedrete,  ahi  lasso  me,  non  vi  lasciate 
Tanto  indolcir,  che  in  noi  poscia  l'amaro 
Di  tanto  nostro  torto  non  sia  assai 
A  spingermi  a  pigliarne  hoggi  vendetta. 
A  voi  non  parlo,  a  voi  non  dico,  orecchie, 
Che  ben  sicuro  son  c'hoggi  udirete 
Cosa  così  senza  ragione,  e  contra 
Ogni  dover,  che  la  sentenza  vostra 
In  favore  sarà  del  giusto  sdegno. 


730 


735 


SCENA  SESTA 
Oliva,  Clitia  et  Pellegrino. 


OLIVA 


CLITIA 


Buon  giorno  vi  dia  Dio!  Ecco  la  giovane, 
Messere,  che  parlar  vosco  desidera: 
Ragionate  con  lei,  ch'io  sopra  il  colmo 
Della  casa  n'andrò,  per  tutto  intorno 
Guardando  se  venisse  oltra  persona 
Che  a  coglier  vi  potesse  in  parlamento. 
So  ben  ch'a  voi  parrà  cosa  inhonesta     , 
Che  giovane  com'io  si  pigli  tanta 
Licenza,  ch'a  persona  come  voi, 
D'altro  paese,  e  non  da  lei  veduta 
Più  mai,  parli  e  consigli      quelle  cose 
Ch'esser  devriano  a  i  più  congiunti  ascose. 


740 


745 


'^'  colmo:  sul  tetto  o  comunque  nel  punto  più  alto  della  casa. 

'^■^  So  ben  ch'a  voi.....:  l'intera  battuta  di  CUtia  è  tratta,  con  minime  variazioni,  dalla  novel- 
la XII  della  seconda  giornata  de  7  Diporti  (op.  cit.,  p.  64:  «et  \\  parrà  forse  strana,  et  appres- 
so maraxagliosa  cosa,  padre  venerando,  che  si  pigli  una  pulzella  tanta  licenza,  che  senza  sa- 
puta d'alcun  de'  suoi  abbia  ardimento  chiedere  a  parlamento  persone  non  conosciute,  ma 
se  mai  per  parole  altrui  (che  per  propia  pruova  non  credo  che  esser  possa)  vi  fu  manifesto 
di  quanta  forza  fieno  le  fiamme  d'Amore,  (...)  io  spero  che  non  solamente  potrò  hora  appo 
VOI  ntrovar  scusa,  ma  vi  verrà  pietà  di  me,  infelice  fanciulla,  in  preda  data  al  più  crudo  gio- 
vane che  viva.»). 

'■^^  consigli:  in  senso  assoluto  'discuta,  rifletta  prima  di  prendere  una  decisione'. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  97 

Ma  se  per  detto  altrui  vi  fu  mai  chiaro  750 

(Che  per  prova ''^'^  cred'io  che  noi  sappiate) 
Quanto  posson  d'amor  le  fiamme  e  i  dardi 
Ne  i  petti  de'  mortali,  io  credo  ancora 
Appo  di  voi  trovar,  non  pur  iscusa, 
Ma  certissima  son,  ch'a  voi  venire  755 

Deggia  pietà  di  me  fanciulla  incauta 
Al  più  crudele  giovine  che  mai 
Nascesse,  et  al  più  bello     ,  in  preda  data. 
Et  ho  richiesto  voi  sol  per  sapere 

Da  voi,  a  cui  non  è  il  futur  nascosto     ,  760 

Ciò  ch'averrà  di  me:  se  questi  mai 
Cangierà  quella  voglia  (ahimè)  sì  cruda, 
O  s'io  pur  deggio  ogn'hor  pregare  in  vano? 
Perché^'**'  vi  prego  a  non  celarmi  cosa 
Che  voi  sappiate '"*  ,  ch'io  terrowene  obligo  765 

Eterno,  e  un  tanto  don  meriterowi 
Se  non  in  tutto  in  qualche  parte  almeno. 
PELLEGRINO    Bella  fanciulla,  l'esser  stato  anch'io 
A  le  fiamme  bersaglio,  e  a  le  saette 
D'amor  un  tempo,  appo  di  me  faranno  770 

Del  vostro  ardir  la  scusa,  e  a  pien  faralla. 
Che  ben  so  io  per  prova,  ahi  lasso,  quanto 

''*^  per  prova:  cfr.  Petrarca,  RKF,  I,  v.  7:  «ove  sia  chi  per  prova  intenda  amore»;  Poliziano, 
Stanr^e,  I,  22,  8:  <o\mor,  che  costui  creda  almen  per  pruova»;  Pulci,  Morgante,  XVI,  56,  w.  7- 
8:  «ma  priego  Amor  che  qualche  ingegno  truovi,  /  acciò  che  tu  mi  creda,  che  tu  '1  pruovi». 

'■'^  Ma  se... incauta:  cfr.  Parabosco,  Lettere  Amorose,  libro  primo,  II,  rr.  1-5  :  «Se  \\S.  provò 
giamai  di  che  tempre  siano  gh  strali  d'Amore,  et  come  le  sue  fiamme  cocenti,  io  non  dubi- 
to punto  che  non  solamente  mi  sarà  facile  il  trovar  perdono  del  mio  errore  (...)  ma  son  cer- 
to che  questo  a  presso  V.S.  m'acquisterà  pietà  grandissima  (...)». 

'^''  crudele...  bello:  si  tratta  ancora  di  una  coppia  tipicamente  petrarchesca,  cfr.  RKF, 
XXIII,  149:  «(...)  e  quella  fera  bella  e  cruda». 

'■'^  a  cui... nascosto:  pioché,  secondo  quanto  spiegato  ai  w.  lAA-lAÒ,  Pellegrino  è  ritenuto 
un  profeta. 

'"♦s  Perché:  per  la  qual  cosa,  perciò. 

'"*'^  vi  prego. ..sappiate:  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  65:  «perché  vi  priego  a  non  celarmi  cosa  ve- 
runa della  verità». 


98 


Edizioni  critiche 


Sia  manco  assai  ch'uno  sdegnoso  sguardo 
O  parola  nemica,  il  tòsco  amaro   ' . 
E  vi  posso  giurar,  giurando  il  vero'^', 
Che  l'abito  ch'io  porto,  e  c'ho  portato 
Tanti  anni  per  diversi  e  stran  paesi, 
Me  l'ha  fatto  portar  donna  crudele, 
Ma  ben  porlo  giù  sper,  tosto  ch'io  sia 
Giunto  a  la  patria  mia,  dove  anco  spero 
Farmi  malgrado  suo,  con  una  polvere 
Ch'arrecata  ho  di  Libia '^",  la  mia  donna 
Amica  sì,  che  poi  sarà  in  mio  arbitrio 
Far  sì  che  questa  ingrata,  che  giamai 
Per  me  non  tinse  il  viso  di  pietate'", 
Mi  renderà  le  lagrime  e  i  sospiri^ ^^. 

CLITIA  Deh,  s'adempiate  ogni  vostro  desio 

Siate  cortese  a  me  tanto  d'un  poco 
Di  questa  polver  virtuosa,  e  appresso 
Insegnatemi  il  modo  d'adoprarla. 
Sì  che  resti  per  lei  vinto  hoggimai 
Questo  core  di  ghiaccio,  et  di  diamante. 
Che  né  foco  d'Amor  prezza,  né  dardo. 

PELLEGRINO    Ve  ne  sarò  cortese  ogn'hor  che  voi 
D'adoprarla  per  voi  mi  promettiate. 
Che  per  altra  persona  io  certo  dubito 
La  dimandiate,  e  questo  dico  ch'io 
Vi  conosco  nel  viso  per  sì  cruda 
Fanciulla,  quanto  mai  qua  giù  nascesse, 


775 


780 


785 


790 


795 


'^'^  Che  ben.. .tòsco  amaro:  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  65:  «per  pruova  so  quanto  sia  meno  a- 
maro  il  tòsco  che  una  nemica  parola  di  chi  s'ama,  et  quanto  sia  più  crudele  uno  sdegnoso 
sguardo  (...)»;  tòsco  sta  awiamente  per  'veleno'. 

'^'  giurar...  vero:  ibidem:  «Et  io,  giurando  il  vero,  giurar  vi  posso  (...)». 

^^^  polve...  Libia:  ibidem:  <c\ vendo  ritrovato  nelle  parti  della  Libia  una  herba,  della  quale 
n'ho  fatto  polvere». 

^^^  Per  me...  pietade:  eco  del  Petrarca,  RVF,  XLIV,  9:  «Ma  voi  che  mai  pietà  non  discolora». 

'5"*  lagrime  e  i  sospiri:  cfr.  Dante,  Purg.,  XXX'^,  v.  104:  «quindi  facciam  le  lagrime  e  'sospiri»; 
XXXI,  V.  20:  «fuori  sgorgando  lagrime  e  sospiri». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


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Onde  al  credere  poi  difficil  sono  800 

Che  v'abbia  colta  Amor  nelle  sue  reti'". 
CLITIA  Sì  non  fus s'egli,  ahimè,  che  dite  voi! 

Io  ardo  sì  per  questo  ingrato  Amante, 

Che  maraviglia  è,  com'io  non  sono 

In  cenere  ridutta'^^,  e  appresso  giurovi,  805 

Poi  che  volete  ch'io  lo  vi  giuri. 

Che  sol  per  me,  per  me  chieggio  rimedio, 

E  torno  a  dir,  ch'io  m'apparecchio  avervene 

Obligo  eterno,  e  a  darvene  mercede 

In  parte,  poi  che  non  fora  possibile  810 

In  tutto  premiar  cosa  sì  degna. 
PELLEGRINO    Riserbate,  fanciulla,  il  premio  ad  altro, 

Che  tutto  insieme  radunato  l'oro 

Del  mondo,  non  farian  ch'avesti  mai 

Da  me  tal  cosa,  ma  contento  sono,  815 

Per  sola  cortesia,  farvene  dono 

Ancora  ch'io  conosca  di  far  male. 

Per  che  saria  ragion  che  voi,  che  foste 

Per  altro  tempo  già  fiera  e  spietata 

A  chi  v'amò  più  che  la  vita  stessa'^**,  820 

Di  tanta  crudeltà  faceste  in  parte 

Emenda,  amando  e  sospirando  invano '^^. 

Dite:  è  menzogna  o  ver  quel  ch'io  ragiono? 


'^^  Ve  ne  sarò  cortese...  reti:  ancora  un'intera  battuta  mutuata,  con  poche  varianti,  da  /  Di- 
porti, op.  cit.,  p.  65:  «Madonna,  io  ne  sarò  cortese  volentieri  a  voi,  quando  voi  mi  facciate 
con  giuramento  sicuro,  che  per  voi  la  chiediate.  Perché  io  non  posso  credere  che  voi  siate 
presa  per  huomo  veruno,  nella  amorosa  rete,  et  questo  dico  perché  alla  fisionomia  dimo- 
strate essere,  et  essere  stata,  la  più  cruda,  et  ritrosa  fanciulla  che  mai  nascesse». 

'^''  Sì  nonfuss'egli...  voi:  'magari  non  fosse  come  dite'. 

'^^  lo  ardo...  ridutta:  ibidem:  «(...)  sì  fieramente  della  bellezza  d'un  giovane  accesa  sono 
che  la  maggior  maraviglia  del  mondo  è  che  io  non  sia  homai  ridutta  in  cenere»;  Seconda  parte 
delle  Rime,  1555,  e.  59  r,  presente  anche  nella  lettere  Amorose,  III,  XXXIX,  v.  7:  «Onde  il 
miser  in  cener  si  ridusse». 

'^•^  L'edizione  gioii tina  opera  un'inversione  tra  i  w.  819  e  820. 

'^^  sospirando  invano:  nella  medesima  posizione  compare  nc)\'Inamoramento  de  Orlando, 
II,X,  53,  V.  5:  «Sempre  piangendo  e  sospirando  invano». 


100 


Edizioni  critiche 


CLITIA  Crudelissima  fui  quanto  voi  dite. 

PELLEGRINO    Gran  fallo  il  vostro  fu,  degno  che  a  punto  825 

Voi  per  altrui  piangiate,  e  tutto  giorno 

Voi  crudel  tutte  comettete  errori 

Sì  fatti,  ch'io  non  so  come  '1  sopporti 

Il  ciel,  che  non  vi  bastano  i  sospiri, 

I  prieghi,  i  pianti,  et  una  etate  intiera  830 
D'uno  Amante  fedel  ad  honor  vostro 

Spesa,  et  in  servir  voi,  ch'anco  volete 
E  la  vita  e  lo  spirto.  Deh,  volesse 

II  cielo,  che  tal'hor  vi  rivolgeste 

A  pensare,  a  pensar  donne  crudeli,  835 

Che  voi  vi  siate,  et  a  che  effetto  nate. 

Che  non  sareste  poi  cosi  superbe  ^^''^'. 
CLITIA  S'al  giovane  fui  cruda,  esser  mi  fece 

Quella  honestate,  c'hor  forza  d'Amore 

Mi  toghe '^\  ahimè! 
PELLEGRINO    Empie  et  ingrate  donne,  840 

Posto  nome  honestate  avete  adunque 

A  uno  ardente  desir  de  l'altrui  morte? 

O  sciocchi,  o  infelici,  e  incauti  Amanti, 

Lasciate  poi  ch'acquisti  sopra  voi 

Tanto  impero  uno  sguardo  di  costoro,  845 

Che  vi  possono  ogn'hor  dar  vita  e  morte '^'^! 

Fatele  eterne  con  i  scritti  vostri, 

Lor  chiamando  fedel,  pietose,  e  saggie. 

Credete  a  sue  promesse,  e  dite  ch'elleno 


"""  Gran  fallo...  superbe:  chiaro  il  riferimento  all'episodio  delle  donne  ingrate  del  canto 
XXXIV  del  Furioso,  ott.  7-43,  che  prosegue  pure  nella  'tirata'  seguente. 

''''  S'al  giovane...  toglie:  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  66:  «(...)  s'io  fui  crudele  al  giovane,  che  me 
più  che  la  propria  vita  amava,  cagione  ne  fii  quella  honestà,  che  hora  mi  toglie  forza 
d'amore». 

"'2  Empie...  morte:  ibidem:  <c\h  donne  crudeli!  (...)  voi  avete  posto  nome  honestà,  ad  un 
vano  et  ostinato  desiderio  dell'altrui  morte.  Oh  sciocchi  et  incauti  Amanti!  Lasciate  poi  ac- 
quistare tanto  imperio  sopra  di  voi  a  queste,  che  un  solo  sguardo,  o  cortese,  o  sdegnoso,  vi 
possa  dar  vita,  et  morte  (...)». 


IlPellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  101 

Sono  cortese,  per  che  tal'hor  v'abbiano  850 

Fatto  qualch'atto  che  cortese  sia! 

Ahimè,  che  tosto  le  vedrete  poscia 

Pensose  a  qualche  sorte  aspra  e  crudele 

Di  vostra  morte,  o  se  tal'hor  n'avrete 

Di  grande  servitù  qualche  mercede,  855 

Per  poco  tempo  vi  sarà  concessa. 

Ch'elleno,  obietto  ver  de  la  incostantia, 

Manco  tempo  in  pensier  che  giusto  sia 

Si  ferman,  che  la  Luna  in  uno  stato^*^^. 

Tosto  gli  occhi,  che  già  sereni  e  chiari''^'*  860 

Vi  promessero  vita,  vederete 

Nubilosi  e  turbati  minacciarvi, 

anzi  attenervi"'^  tormentata  morte '''^: 

Questo  il  merto  sarà  di  quelle  lodi 

Che  contra  ogni  dovere  avrete  voi  865 

Lor  dato,  incauti  et  infelici  Amanti, 

Questo  il  merto  sarà  del  servir  vostro! 

Di  quel  ch'io  dico  voi,  bella  fanciulla, 

Non  prendete  nessuna  meraviglia, 

Che  per  mai  non  veder  donna  nissuna  870 

Devrei  fuor  gH  occhi  della  testa  trarmi! 

Tante  son  state  sì  penose  e  gravi 

Le  passioni,  che  per  donna  ingrata 

Ho  sofferto  a'  miei  giorni  ingiustamente. 

Ma  per  venire  al  caso,  hora  conviemmi  875 

"^■^  Ch'elleno...  morte:  ibidem:  «Perciò  ch'elleno  obietto  vero  della  incostantia,  manco  si 
fermano  in  un  pensiero,  che  la  Luna  in  uno  stato.  Tosto  vedrete  quegli  occhi,  che  già  si 
chiari,  et  sì  sereni  vedeste  promettervi  vita,  nubilosi  et  turbati  minacciarvi  morte,  anzi  sepe- 
Urvi  vivi».  Questa  immagine  della  luna  è  proverbiale  (cfr.  Pescetti,  op.  cit.,  p.  50;  D tea  tavole, 
1250:  «No  creder  a  femana  alcuna,  che  la  si  volta  come  fa  la  luna»). 

'^'^  chiari:  eco  Petrarca,  RPT",  CCCLII,  2:  «volgei  quelli  occhi,  più  chiari  che  '1  sole». 

"•^  attenervi:  'mantenere  la  promessa  a  voi  fatta,  ricompensarvi'. 

!'">'■'  Vi  promessero...  morte:  per  il  potere  che  la  donna  ha,  come  il  basihsco,  di  donare  morte 
o  vita  con  il  solo  sguardo  si  veda  ad  es.  Poliziano,  Rime,  CVI,  w.  24-25:  «ma  qualunque 
costei  cogli  occhi  uccide,  /  lo  risuscita  poi  guardandol  fiso». 


102 


EdÌ2Ìoni  critiche 


Da  voi  saper  se  il  vostro  Amante  vivo 

Tornasse  (ch'io  ben  so  che  morto  giace), 

Se  H  sareste,  come  già,  crudele, 

E  questo  vo'  sapere,  non  perché  sia 

Possibile  ch'ei  mai  ritorni  al  mondo. 

Ma  perché  quando  voi  d'animo  foste 

Vèr  lui  spietato,  ancor  converria  fare 

Sacrificio  ad  Amor,  c'hora  consente, 

Per  si  fiero  voler,  che  cui  amate 

Vi  si  mostri  così  rigido  e  duro. 

Però  ditemi  voi  senza  rispetto. 

Se  fosse  a'  vostri  pie'  l'Amante  vostro. 

Se  pietosa  o  crudel  sareste  a  lui. 

CLITIA  Poi  ch'a  voi  occultar  non  si  de'  nulla. 

Che  sapete  voi  ancor  ciò  ch'è  possibile     , 
S'io  deggio  dir  il  ver,  dirrovi  ch'io 
Non  potrei,  più  che  mai  fatto  m'avessi, 
Né  d'amar  più,  né  aver  caro  Giberto 
(Che  così  nome  avea  l'Amante  morto). 

PELLEGRINO    Altro  da  voi  saper  non  mi  bisogna. 
Lasciate  a  me  la  cura  d'ogni  cosa, 
E  sta  sera  la  fante  a  l'osteria 
Della  Simia  mandate,  ch'ivi  albergo; 
Io  per  lei  poi  vi  mandarò  la  polvere, 
La  quale  adoprarete  in  quella  guisa 
Ch'ella  al  ritorno  suo  vi  saprà  dire. 

CLITIA  Io  vi  ringratio,  e  mandarowi  anch'io 

Cosa  che  forse  non  vi  sia  discara. 
In  segno  sol  de  l'obligo  insolubile 
Ch'io  m'apparecchio  di  tenirvi  sempre. 

PELLEGRINO    Fate  pur  che  senz'altro  se  ne  venga 
La  fante  vostra,  ch'averete  il  tutto. 

CLITIA  Così  farò.  Io  mi  vi  raccomando. 


880 


885 


890 


895 


900 


905 


"•^  possibile:  Così  nella  stampa,  anche  se  la  logica  vorrebbe  che  il  'profeta'  riuscisse  a 
carpire  non  il  possibile  ma  V impossibile. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  103 

SCENA  SETTIMA 
Pellegrino  solo. 

Chi  udì  mai  cosa  sì  crudele?  Ahi  lasso, 

In  qual  Scithia  giamai,  in  quale  Hircania''^**,  910 

Fra  quai  Antropofaghi'^'^,  o  Lestrigoni'  ", 

Si  trovò  cuore,  ahimè,  giamai  sì  pieno 

Di  crudeltà?  Né  lunga  servitù, 

Né  amarissime  lagrime,  né  cocenti 

Sospiri,  né  leal  né  fido  amore     ,  915 

Né  disperato  esilio,  né  la  morte 

Posso  dire,  han  pomto  appo  di  questa 

Ingrata  (oh,  cor  di  serpe!)  acquistar  tanto 

Che  mi  sia  stata  almen  di  un  sol  sospiro 

Liberale  e  pietosa.  Oh  orecchie,  voi  920 

Voi  voi  voi  pure  udito  avete 

Che  non  gH  calse  mai  del  nostro  duolo     ! 

168  }-Jircania:  regione  caspica  adiacente  al  Caucaso,  ricoperta  di  foreste  e  nota  per  la  fe- 
rocia delle  sue  tigri.  È  un  topos  sfruttatissimo  fin  dall'antichità;  si  veda  ad  esempio  ^^irgiUo, 
Aetteis,  IV,  w.  366-367:  «perfide,  sed  duris  genuit  te  cautibus  horrens  /  Caucasus  Hyrcana- 
eque  admorunt  ubera  tigres»;  Ovidio,  MeL,  Vili  120-121.  Per  la  letteratura  rinascimentale 
si  rimanda  ai  noti  passi  della  Gerusalemme  Liberata,  XVI,  57,  w.  1-4;  e  ancora  Poliziano, 
Stantie,  I,  39;  Giraldi,  Orbecche,  atto  IV,  scena  1,  v.  265;  Gonzaga,  Fido  Amante,  VII,  26-21  ... 

""^  Antropofaghi:  mitica  popolazione  di  selvaggi  giganti,  dotati  di  proverbiale  crudeltà, 
cfr. Ariosto,  Orlando  Furioso,  XXX\^I,  9;  Dolce,  Bidone,  w.  193-194:  «Il  più  ingrato  e  crudele 
/  che  mai  produsse  Antropofago,  o  Scitha». 

'^"  Lestrigoni:  popolo  di  antropofaghi  descritti  in  Omero,  Odissea,  X  e  citati  dal  Boiardo 
neWInamoramento  de  Orlando,  II,  XVIII,  ott.  34  e  segg. 

'^'  leal  né  fido  amante:  torna  con  insistenza  nelle  parole  di  Pellegrino  il  motivo  delle  fedel- 
tà amorosa,  topos  della  lirica  cortese,  del  resto  presente  anche  in  certa  poesia  amorosa  rina- 
scimentale (cfr.  ad  es.  Gaspara  Stampa,  ^me,  LXXXVI,  w.13-14),  nonché  nei  titoli  stessi 
di  poemi  (si  pensi  al  Fido  Amante  del  Gonzaga)  e  commedie  (7  Fidi  Amanti  del  Podiani  non 
sono  che  un  esempio). 

'^2  Che  mi  sia  stata.. .sospiro:  eco  delle  lamentazioni  di  Armida  (cfr.  Tasso,  G.L.,  YN\,  57, 
V.  8:  «Bagnò  almeno  gli  occhi  o  sparse  un  sospir  solo?»).  La  stessa  espressione  era  stata  u- 
sata  dall'autore  anche  nella  sua  unica  tragedia,  cfr.  La  Progne,  op.  cit.,  p.  12:  «ch'una  lagrima 
sol,  ch'un  sol  sospiro». 

'^■^  Oh  orecchie. ..duolo:  cfr.  7  Diporti,  op.  cit.,  p.  67:  «Oh  misere  orecchie,  voi  pure  udito 
avete  dalla  propia  sua  bocca,  che  giamai  non  le  calse  del  nostro  tormento!». 


104  Edizioni  critiche 


Ah  femina  crudel,  ringratio  il  cielo 

Che  dovend'io  per  tua  sola  cagione 

Morir  sì  disperato,  almen  mi  porge  925 

Occasione,  ond'io  potrò  te  insieme 

Con  colui  cui  tanto  ami,  trar  di  vita. 

Dogliomi  sol  che  d'una  sola  e  breve 

Morte  morrai,  ond'io  tante  e  sì  lunghe 

Da  te  n'ho  avute '^'^  (ahi  lasso),  et  duolmi  ancora        930 

Che  innanzi  che  tu  mòia  non  vedrai 

La  morte  di  colui  che  t'è  più  caro 

Che  la  tua  vita  stessa,  come  sforzi 

A  veder  me  la  tua,  cui  amo  ancora 

Malgrado  mio,  più  che  la  vita  mia.  935 

La  polvere  sarà  crudel  veleno 

Di  quel  più  fin  che  ritrovar  potrassi. 

Per  che  mi  giova  che  repente  sia 

De  la  tua  vita  al  fin'^^,  per  che  non  sia 

Chi  con  rimedio  alcun  ti  porga  aita,  940 

Ch'io  non  vorrei  che  tu  vedessi  mai 

Le  lacrime,  c'ancor  m'usciran  fuora 

Di  queste  luci  per  la  morte  tua. 

Che  '1  morir  ti  saria  soave  e  dolce. 

Se  tu  vedesti  la  mia  scontentezza,  945 

Così  ti  piacque  ogn'  hor  (tigre  crudele     ) 

Ch'io  sempre  fussi  d'ogni  pace  in  bando     . 


'^"^  Dogliomi  sol...  avute:  ibidem:  «Mi  doglio  solo,  che  una  sola  et  brieve  morte  da  me  ave- 
rai,  ove  io  da  te  tante,  sì  lunghe,  et  sì  penose  n'ho  avute».  La  medesima  lamentazione  torna 
nell'atto  4,  scena  10. 

'^5  De  la  tua...  fin:  ancora  eco  petrarchesca  (cfr.  RKF,  XXIII,  v.  31:  «La  vita  el  fin,  e  '1 
dì  loda  la  sera»).  Per  ciò  che  concerne  la  forma  al  fin  si  può  supporre  un  guasto,  dato  che 
l'articolo  costituirebbe  un'unica  occorrenza. 

•^^'  crudele:  anche  l'insistenza  su  tale  epiteto  è  una  ripresa  petrarcheggiante,  diffusissima 
nei  poemi  e  nelle  tragedie  del  periodo  (si  veda,  ad  esempio,  il  lamento  di  Olimpia  abban- 
donata da  Bireno  nel  X°  canto  dell'0r/<3«^o  Furioso,  ott.  23-25). 

^^^  Se  tu  vedessi...  in  bando:  cfr.  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando,  1,  XII,  20,  w.  1-2:  «Così 
farò  contenta  quella  altiera  /  A  cui  la  vita  mia  tanto  dispiace». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  105 

ATTO  TERZO 


SCENA  PRIMA 
Marsilio  vecchio  solo     . 

In  quale  altra  città  sariasi  usata 

Tanta  giustitia,  come  usata  han  questi 

Sapienti  signori,  in  farmi  avere  950 

I  miei  denar  ch'hoggi  (la  sua  mercede) 

Avuto  ho  pur,  che  da  così  potente 

Ladro  com'è  costui,  m'erano  stati 

Truffati,  assassinati  con  inganno 

Così  sottile?  In  quale  altra  cittade  955 

Non  sarebbe  a  costui  giovato  assai 

L'aver  dinar,  e  l'amicitie  grande, 

E  l'altre  forze  a  ritenermi  il  mio, 

C'hor  giustamente  e  con  suo  grave  scorno 

M'ha  ritornato?  Ch'ei  se  n'è  pur  gito,  960 

Come  un  ladro  in  esilio,  e  pria  renduto 

M'ha  tutto  ciò  ch'ei  mi  fé'  trar  di  casa. 

Oh  beato,  felice,  e  santo  albergo 

Di  fé',  di  pace,  di  pietate!  Oh  nido 

Di  giustitia!  O  Vinegia  intatta,  e  pura  965 

Fortunata  Regina,  e  madre  altiera 

Di  quei  veri  vivaci  e  chiari  soH, 

Da  cui  non  pur  riceve  Italia  il  lume. 


^''^  Tutto  il  lungo  monologo  di  Marsilio  si  dispiega  attorno  alla  celebrazione  della  Sere- 
nissima, uno  dei  motivi  ricorrenti  nelle  commedie  paraboschiane.  Sul  topos  delle  lodi  a  Yt- 
nezia,  Camporesi  ricorda  che  «la  Serenissima  si  avvolse  per  secoli  di  una  dorata  e  preziosa 
cortina  mitologica  ricamata  da  letterati,  stonci,  cronisti,  geografi,  poligrafi  che,  nbadendo- 
ne  la  eccezionalità,  attesero  alla  diffusione  del  mito  della  città  unica,  della  "saggia  e  santa 
republica"  (Parabosco),  perfetta  anche  nelle  sue  istituzioni  politiche,  utopia  realizzata,  sogno 
tnnitano  del  bello,  del  buono  e  dell'utile  fattosi  realtà»  (cfr.  P.  Camporesi,  Camminare  il  mondo. 
Vita  e  avventure  di  Leonardo  Fioravanti  medico  del  Cinquecento,  Milano,  Garzanti,  1997,  p.  145). 


106  Edizioni  critiche 

Et  lo  spendor,  ma  seco  il  mondo  tutto! 

Che  di  tanto  valor,  di  bontà  tale  970 

Son  i  toi  parti '^'^,  che  famosa  andrai 

Trionphando  ad  ogn'hor  d'ogni  memoria 

Sin  che  d'ogni  mortai  trionphi  il  tempo. 

Perché  non  è  questa  mia  lingua  degna 

Di  ragionar  di  te,  felice  terra?  975 

Ma  che,  sarebbe  ardito  intrar  nel  mare 

De  le  tue  lodi?  Qual  nocchiero  sì  accorto 

Potria  sperar  solcarlo?  E  qual  sarebbe 

Così  ben  fabricato  e  saldo  legno 

Che  non  vi  s'affondasse'^'^?  Adunque  meglio  980 

È  ch'io  taccia  di  te,  poi  ch'io  conosco 

C'huomo  non  può  se  non  scemar  gran  parte 

Del  tuo  valor,  mentre  parlarne  tenta. 

Ma  degg'io  poscia  vivere  e  morire, 

Con  desiderio  estremo  d'honorarati  985 

Giusta  mia  possa?  Certamente  i'  voglio 

Più  tosto  nel  gran  mar  de  le  tue  lodi 

Affogarmi,  e  mostrar  la  riverenza 

E  l'amor  ch'io  ti  porto,  inclita  terra. 

Che  ingrato  dimostrarmi  al  tuo  gran  merto,  990 

Ch'è  ch'ogni  voce  et  ogni  humana  lingua. 

La  virtute,  il  valor,  et  la  bontate. 

La  fortezza,  e  l'ardir  de  tutti  i  toi 

In  ogni  parte  ogn'hor  gridi  et  ragioni. 

Oh  Vinegia,  oh  Vinegia,  che  nel  core  995 

Con  ogni  honor,  con  ogni  riverenza 

Mi  starà  sempre  sì  honorato  nome, 

Io  voglio  ancor,  per  viver  più  sicuro 

'"''-'  toi  parti:  'i  tuoi  figli'. 

18"  Ma  chi  sarebbe.. .affondasse:  l'autore  ricorre  alla  metafora  tradizionale  dell'opera  poetica 
raffigurata  come  navigazione,  nella  quale  la  nave  {legno)  indica,  notoriamente,  l'ingegno  del 
poeta  o  la  poesia  stessa.  Si  ricordi  almeno  Dante,  Purg.,  I,  w.  2-3;  Par,  II,  1-18;  Pulci,  Mor- 
gante,  I,  4;  III,  1,  v.  7;  Ariosto,  O.F.,  XLVI,  1. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


107 


Che  in  te  sepolte  sian  queste  ossa  mie'^\ 

Poscia  ch'avrò  la  figlia  accompagnata   *■,  1000 

Maritar  anco  il  figlio,  e  i  miei  dinari 

Tutti  in  possessioni  e  tutti  in  case 

Spender!  Ma  ecco  apunto  il  mio  figliuolo 

Mutio  che  vien  di  qua:  voglio  aspettarlo. 

Mutio,  figliuol,  ritrovasti  l'amico?  1005 


SCENA  SECONDA 
Mutio  et  Marsilio. 

MUTIO  Egli  era  pur  aU'hor  di  casa  uscito, 

Ma  senza  nessun  fai  sta  sera  tardi 

Lo  trovar ò. 
MARSILIO  Vorrei  che  ti  scaldasti 

Assai  più  che  non  fai  di  questa  cosa! 

Questo  è  un  partito  de'  migUor  che  possano  1010 

Comparere  per  noi  e  (non  ci  pensi?) 

Questo  è  un  giovane  ricco,  e  solo,  e  saggio! 

Di  gratia,  non  andar  perdendo  il  tempo: 

Il  beneficio  è  pur  di  tua  sorella! 
MUTIO  Io  non  manco,  per  Dio,  ma  volete  anco  1015 

Ch'io  sia  tanto  importun,  che  paia  quasi 

Che  siam  da  manco  d'essi. 
MARSILIO  Eh,  figho,  queste 

Sono  apunto  ragion  da  pari  toi 

Giovani  incauti,  che  di  fumo  han  pieno 

Il  capo  ogn'hora:  i'  dico  che  bisogna  1020 

Far  bene  i  fatti  soi,  e  non  guardare 


""  in  te...  ossa  mie:  per  l'analogo  desiderio  di  sepoltura  a  Venezia  cfr.  Calmo,  Kime pescato- 
rie,  pese.  VI,  w.  64-67:  «che  chi  te  gusta  un  certo  tempesello  /  i  no  se  può  partir  da  ste  la- 
gune /  lassando  al  fin  la  vita,  i  soldi  e  l'anema  /e  le  osse,  sepelie  in  le  to  giese». 

'**2  accompagnata:  maritata. 


108 


Edizioni  critiche 


MUTIO 


MARSILIO 


Sì  sottilmente,  intendi? 

Hor  su,  sta  sera 
Per  ogni  modo  parlare  a  Barbante, 
E  vederò  che  si  concludi  il  tutto. 
Ma  voi  non  vi  scordate  andar  hor  hora 
In  piazza  al  campanil,  che  vi  c'aspetta 
Vostro  compare  il  Flavio,  e  credo  certo 
Che  vi  voglia  parlar  di  questo  anch'egli. 
Che  me  n'ha  motteggiato     ,  et  ha  voluto 
Ch'io  mandi  per  trovarvi  a  Santo  Apostolo'  ^ 
Ribecca. 

r  ci  vogl'ir  adesso  adesso 
Che  importa  assai.  Horsù,  io  vado,  tu 
Non  rimaner  però  di  non  far  opera 
Di  parlar  a  Barbante  in  ogni  modo. 


1025 


SCENA  TERZA 
Mutio  solo. 

A  tal'hora  venire  a  darci  impazzo  1035 

Possano  gli  inimici,  che  per  me 

Fatto  saran  queste  furfante  nozze, 

Che  un  furfante  è  costui,  ben  ch'abbia  assai 

Oro  et  argento,  che  non  ha  quel  forza 

Far  nobil  un,  se  da  le  fascie  seco  1040 

Non  porta  nobiltà,  ben  che  il  volgazzo 

Adori  spesso  questi  asini  d'oro. 

Ho  altra  impresa  per  le  man  sta  sera 

Che  procacciar  marito  a  mia  sorella 


^^'  motte^iato:  qui  vale  genericamente  per  'parlato'. 

"*"*  Santo  Apostolo:  il  campo  SS.  Apostoli,  con  la  chiesa  omonima,  si  trova  di  fronte  a  Pa- 
lazzo Corner  e  corrisponde  alla  località  dove  sorse,  secondo  la  tradizione,  uno  dei  pnmi 
centri  ad  opera  dei  fuggiaschi  di  terraferma. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  109 

(Ancor  che  mi  piacesse  il  parentato)!  1045 

Spero  sta  sera,  col  favor  del  cielo, 

Parlare  a  quella  ch'a  un  suo  sguardo  solo 

M'invola  le  parole,  il  cor,  e  l'alma. 

Oh  felicissimo  stato  de  gli  amanti^''^ 

Che  veramente  ben  felici  sono  1 050 

Quei  ch'amano  di  cor,  ch'ancor  che  piangano, 

Che  sospirino  sempre,  e  sempre  in  stenti 

Vivan  la  vita  lor,  beati  ancora 

Chiamar  si  puon^^*",  considerando  il  risco 

Che  portan  d'esser  sì  perfettamente  1055 

Beati  come  all'hor  colui  si  trova 

Ch'aspetta,  com'hor  io,  d'esser  guidato 

Innanzi  a  l'Idol  suo,  alla  sua  vita! 

Qual  è  beata  vita  hoggi  ch'agguaglia 

La  mia,  ancor  che  in  dubbio  del  mio  stato  1060 

Et  del  mio  ben  spesso  sospiri?  Ahi  quanto 

Errò  colui  che  nei  soi  versi  disse 

"Mille  piacer  non  vagliono  un  tormento"'**^. 

Anzi  mille  tormenti  a  un  sol  piacere 

Agguagliar  non  si  puon.  E  qual  saria  1065 

Colui  che  amasse  di  perfetto  core   '^, 

Che  per  un  guardo  sol  Heto  e  soave 

Della  sua  Diva,  non  togliesse  al  giorno 

Mille  ferite     ,  e  per  un  bascio  poi, 


'*'^  Il  verso  è  ipermetro. 

'^''  Oh  felicissimo  stato...  puon:  lo  stesso  concetto  è  presente  anche  nelle  ottave  d'apertura 
del  XXXI  canto  del  Furioso  (cfr.  in  particolare  XXXI,  1,  w.  1-4:  «Che  dolce  più,  che  più 
giocondo  stato  /  sana  di  quel  d'un  amoroso  core?  /  che  viver  più  fehce  e  più  beato,  /  che 
ritrovarsi  in  servitù  d'Amore?»). 

'"^  Mille  piacer...  tormento:  celebre  verso  del  Petrarca,  RIT",  CCXXXI,  4,  divenuto  ormai 
proverbiale  (cfr.  Giusti,  Proverbi  toscani,  op.  cit.,  68;  Boggione-Massobrio,  Dit:^onano  dei  pro- 
verbi l proverbi  italiani  organi^^ti per  temi,  Torino,  U.T.E.T,  2004,  X.2.3.18). 

^'^^  perfetto  core:  per  lo  stilema  di  matrice  provenzale  cfr.  atto  1,  scena  4. 

^^'  Che  per  un  guardo...  ferite:  concetto  analogo  a  quello  espresso  da  Pellegrino,  atto  2, 
scena  6. 


110 


Edizioni  critiche 


Quante  morti  crudeli?  E  per  il  resto 
Quanti  inferni?  Costei  ch'esce  di  casa 
Della  mia  Dea,  per  Dio,  mi  pare  Honesta! 
Oh  ventura  grande:  ella  è  sì  dessa! 
Mona^^*^  Honesta,  per  voi  venivo  dritto 
A  casa  vostra,  et  hor  vi  trovo  in  loco! 


1070 


1075 


SCENA  QUARTA 
Honesta  e  Mutio. 


HONESTA 
MUTIO 
HONESTA 
MUTIO 

HONESTA 

MUTIO 

HONESTA 


MUTIO 
HONESTA 


Oh,  figlio,  taci  che  maggior  sventura 
Non  ci  poteva  avvenir! 

Ohimè  ch'io  moio! 
Che  cosa  c'è  di  novo? 

Oh  figlio,  taci! 
Non  c'è  rimedio  più:  siam  rovinati! 

Oh  sorte  mia  crudele,  oh  vita  amara!  1080 

Amara  vita  degH  Amanti,  in  quante 
Passioni  sei  posta,  in  quanti... 

Oh,  taci 
Che  sei  beato,  a  fé'  di  questa  croce! 
Eh,  lasciatemi  in  preda  al  mio  dolore 
Né  mi  porgete  più  speranza  alcuna!  1085 

Taci  pur,  pazzarel,  che  sei  felice. 
Tale  ordine  ho  post'io  con  la  tua  diva... 
Ma  voglio  prima  ch'io  ti  dica  nulla 
Aver  la  buona  man     . 

Voi  mi  burlate! 
Dammi  la  buona  man,  ch'io  ti  prometto  1090 

Darti  la  miglior  nova  che  tu  possi 
Aver  in  questa  impresa. 


^5"  Mona:  nell'edizione  del  1560  il  testo  presenta  Dona. 

'^'  buona  man:  'la  ricompensa  che  mi  spetta'  (cfr.  Lm  Fantesca,  atto  3,  scena  10). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


111 


MUTIO 
HONESTA 


MUTIO 


HONESTA 


A  me  fia  poco 
Per  sì  buona  novella  darvi  il  core! 
Di  questo  vostro  cor,  voi  altri  Amanti, 
Ne  fate  a  mille  al  dì,  mille  presenti! 
A  me  fian  più  grati  un  par  di  scuti, 
Ch'io  non  son  sparavier     ! 

Eccone  quattro: 
Prendete,  madre,  e  non  badate  a  dirmi 
Quanto  avete  operato! 

Ho  fatto  in  guisa 
Che  sta  sera  andarai  in  questa  casa, 
E  parlarai  con  la  tua  diva,  ch'ella 
Se  ne  contenta,  e  c'è  tornato  commodo 
Che  il  padre  ha  detto  non  voler  cenare 
In  casa:  tu  v'andrai  a  un'hora  a  punto 
E  fischiarai,  che  da  la  fante  sua 
Ti  sarà  aperto  l'uscio;  il  resto  poi 
Fa'  tu  ,  figHuol,  ch'ancor  ch'io  teco  fossi. 
Altro  aiuto  donar  non  ti  potrei. 
Adopra  ben  la  lingua,  e  fa'  sì  ch'ella 
Tocchi  con  mano  e  espressamente  veda 
Il  tuo  duro  martir  quanto  egH  è  grande: 
EUa  è  giovane  dolce,  e  facilmente 
La  farai  teco  lagrimare  insieme. 
Fa'  lei  capace''^^  pur  del  tuo  martire, 
Che  per  pietate  al  fin  le  donne  poi 
Si  voltano  a  gli  Amanti,  e  ogni  durezza 
Scaccian  da  lor,  quand'è  lor  stato  fatto 
Dolcemente  saper  quanto  huom  patisce 


1095 


1100 


1105 


Ilio 


1115 


''^^  Ch'io... sparvier.  come  già  ricordato  nell'edizione  de  L^  dantesca  da  me  curata,  tale  af- 
fermazione pare  essere  un  vistoso  nbaltamento  della  lirica  cortese  (cfr.  Pobziano,  R/>w,  V, 
6;  IX;  XXIII;  XXXII;  CX;  1m  Fantesca,  atto  1,  scena  2:  <(Le  donne  non  son  sparvieri  né  fal- 
coni che  si  cibano  di  cuori»  e  atto  3,  scena  10:  «Tenetelo  pur  per  voi,  ch'io  non  sono  né 
falcone  né  sparviero,  ch'io  mi  nutrisca  né  di  core»). 

'^■'  capace:  consapevole,  partecipe. 


112 


EdÌ2Ìoni  critiche 


MUTIO 


HONESTA 


MUTIO 


HONESTA 
MUTIO 


Per  Amor  loro. 

Oh  madre,  questo  è  vero? 
Deh,  per  fé'  vostra,  fate  un  sagramento,  1120 

Si  ch'io  ne  sia  sicur. 

Giuro,  per  quella 
Honestate  ch'io  tengo,  e  giuro  ancora 
Per  quella  coscienza  inviolabile 
Ch'avuta  ho  sempre,  che  quel  ch'io  t'ho  detto 
È  tutto  vero,  et  ne  vedrai  l'effetto''^"*.  1125 

Horsù  madre  mia  cara,  i'  voglio  andare. 
Diman  senza  alcun  fai  verrò  a  trovarvi; 
Pregate  Amor  per  me,  che  voi  ancora 
Avrete  la  mercè  de'  miei  piaceri. 

Io  son  certa,  figHuol,  vatti  con  Dio  1130 

E  lasciati  veder  senza  alcun  fallo. 
Così  farò.  Mi  raccomando  a  Dio, 
Son  tutto  vostro!  F  me  ne  vado  in  casa. 


SCENA  QUINTA 
Honesta  sola. 


Questa  è  un'arte  divina,  in  fé'  di  Dio: 
In  quanto  poco  tempo  ho  guadagnato 
De  molti  soldi!  Oh  come  m'è  venuto 
A  taglio '^^  che  sto  vecchio  innamorato''^'' 
Di  servir  si  vogHa  in  questo  Amore, 
Ch'oltra  ch'io  n'ho  da  lui  buscati  molti 
Danari,  ho  avuto  ancor  commodo  e  tempo 
Di  parlare  alla  figUa  per  questo  altro. 


1135 


1140 


"'"*  Giuro...  effetto:  la  ruffiana,  per  suggellare  ancor  meglio  il  suo  giuramento,  dopo  aver 
rimarcato  l'etimologia  del  suo  nome,  fa  uso  dell'unica  rima  baciata  presente  nel  testo. 
'^^  a  taglio:  a  proposito. 
'''^  vecchio  innamorato:  si  riferisce  ov\^amente  ad  Eugenio. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  113 

Che  in  altra  guisa  bisognava  usare 

Mille  arti,  mille  inganni,  e  con  periglio 

Di  non  andar  a  pie'  fin  a  Legnago     . 

Mi  resta  bora  di  ordire  a  questo  vecchio,  1145 

Insieme  con  Caverna  e  *1  servo  suo, 

Qualche  trappola  beUa,  et  che  con  nostro 

Utile  sia,  et  ordirolla  certo. 

Questa  è  un'arte  mirabile,  in  effetto 

Chi  con  gratia  la  fa  con  qualche  sorte.  1150 

Oh  donne  mie^'^**,  di  quanta  utilitate! 

E  lo  sa  forse  ancor  di  voi  qualc'una 

Ch'alle  par  mie  fa  buona  ciera     ,  e  spesso 

Dona  presenti,  ma  oltra  il  guadagno 

Che  ne  caviamo  noi,  quai  son  le  genti  1155 

Che  ponno  comandar,  dove  son  quelli 

Ch'ottengono  ogni  cosa  et  hanno  sempre 

Ogni  favore?  Noi  siam  quelle  desse, 

E  credo  ancor  che  fin  in  cielo  i  Dei 

Ci  amino  sopra  gli  altri,  s'allor  piace  1160 

Così  la  pace  come  qui  si  crede. 

Perché  noi  sole  siam  compositrice 

Di  pace  sempre,  e  d'amorevolezze. 

Sempre  cerchiamo  accordo,  e  sempre  buone 

Parole  ripportiamo,  e  non  cartelli^''"  1165 

Da  combatter  con  armi  vellenose. 


^'^'' Legnalo:  si  tratta  probabilmente  dell'espediente,  piuttosto  sfruttato  dai  comici,  di  in- 
serire nomi  locali  che  si  prestano  a  giochi  linguistici  o  etimologie  popolari;  in  questo  caso 
si  rimanda  alla  'legnata'  e  la  locuzione  'mandare  a  Icgnaja  qualcuno'  è  citata  in  questo  senso 
sia  dalla  Altieri  Biagi  (il  riferimento  è,  nello  specifico,  a  Nelli,  Serve  al  forno,  li,  2;  cfr.  Altieri 
Biagi,  La  lingua  in  scena,  Bologna,  Zanichelli,  1980,  p.  103)  che  dal  TB  s.v.  mandare  a  legnaia 
'bastonare'. 

''^''  Oh  donne  mie:  l'esclamazione  è  rivolta  alle  donne  del  pubblico  cui  la  ruffiana  si  rivol- 
ge direttamente  come  anche  più  avanti,  ai  v\'.  1173-79,  quando  offnrà  il  suo  indirizzo 
promuovendo  la  sua  arte. 

'^'^  buona  ciera:  accoglie  e  riceve  cordialmente  (cfr.  L^  Fantesca,  atto  2,  scena  1). 

2""  cartelli:  biglietti  o  annunci  di  sfida. 


114 


Edizioni  critiche 


Et  s'altrui  pur  tal'hor  dentro  a  un  steccato 

Conduciamo  a  morir,  la  mort'è  tale 

Che  senz'essa  sarìa  morte  la  vita, 

Né  inganniamo  nessun  ch'entra  in  dùeUo,  1170 

Che  di  quai  armi  dee  ferire,  in  prima 

L'avisiamo,  e  con  quai  parar  i  colpi: 

Sì  che,  donne  mie  car,  chi  c'odiasse 

Il  torto  avrebbe;  a  voi  mi  resta  dire 

Che  s'alcuna  di  me  bisogno  avesse,  1175 

Mandi  per  me,  ch'io  stancio^'^"  a  San  Trovaso  "  , 

Ch'io  verrò  volontieri,  et  vi  prometto 

De  far  per  voi  quel  che  non  farà  mai 

Donna  del  mondo.  A  voi  sta  il  comandare. 

Ma  chi  è  costei  che  vien  fuor  de  la  casa  1180 

Di  messer  Mutio?  Iddio  ti  faccia  salva 

Bella  fanciulla!  Mi  sapreste  dire 

Dove  stancia  qui  intomo  un  Genovese 

C'ha  nome  messer  Pamphilo  dal  Gatto? 


SCENA  SESTA 
Oliva  et  Honesta. 


OLIVA  Mai  più  non  udii  dir  sì  fatto  nome. 

HONESTA  Sei  tu  di  questa  terra,  figHa  dolce? 

OLIVA  Sì,  madre,  sì:  perché  mi  domandate? 

HONESTA  Perché  non  n'hai  la  lingua. 
OLIVA  Anco  altri  detto 


1185 


2"'  dentro  a  un  steccato:  l'immagine  della  discesa  del  cavaliere  nel  campo  assegnatogli  du- 
rante la  giostra  medievale  è  chiaramente  usata  con  valore  metaforico  per  indicare  l'impresa 
amorosa  (cfr.  La  Fantesca,  atto  1,  scena  3). 

2(^2  stando:  'dimoro,  abito'. 

^^  San  Trovaso:  si  riferisce  al  campo  di  S.  Trovaso  (corruzione  dialettale  di  SS.  Gerv^asio 
e  Protasio)  e  della  relativa  chiesa,  risalente  aU'XI  secolo  e  poi  distrutta  da  un  incendio. 
Quella  odierna  venne  riedificata  nel  1584. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


115 


Me  l'hanno  già. 
HONESTA  Come  sei  bella,  Iddio! 

Ti  lascia  goder  la  tua  gioventù,  1 190 

Ch'ai  fin  chi  non  la  gode  è  pazza,  e  sempre 

Sente  crudel  dolor  di  pentimento. 
OLIVA  r  me  la  godo  per  ch'io  sono  in  casa 

Di  persone  gentil,  che  non  mi  manca 

Né  pan  né  vin,  né  vestimenti,  quanti  1195 

Ne  so  desiderare. 
HONESTA  E'  par  ben,  figUa, 

Ch'ancor  ti  odora  di  latte  la  bocca     , 

Poi  che  non  sai  che  il  piacer  del  mangiare, 

Del  bere,  e  del  vestir  è  il  manco  manco 

Che  noi  possiamo  avere  in  questo  mondo.  1200 

Quai  son  dunque  i  piacer  ch'avanzan  questi? 

I  piacer  de  l'Amor. 

E  quai  son  questi^°^? 

In  uno  anno  contar  non  li  potrei, 

Ma  gustato  qualch'un  ne  hai  ben,  se  vói 

Contare  il  vero. 

A  fé',  madre,  vi  giuro  1205 

Ch'OHva  n'è  digiuna. 

Hai  tu  tal  nome? 

Madonna  sì. 

Tu  mi  fai  ricordare 

D'una  mia  amica  ch'una  figlia  aveva 

Di  questo  nome,  e  come  si  chiamava 

Tua  madre,  figlia? 
OLIVA  Saporosa. 

HONESTA  Oh  Dio.  1210 


OLIVA 
HONESTA 
OLIVA 
HONESTA 


OLIVA 

HONESTA 

OLIVA 

HONESTA 


2"'*  odora  di  latte  la  bocca:  'sei  ingenua  ed  inesperta  come  un  lattante'  (cfr.  Pescetti,  op.  cit., 
P-72)_- 

2"^  Il  testo  presenta  'e  qua'  sono?  ma  si  è  ritenuto  di  seguire  la  lezione  dei  1560  che  eli- 
mina l'ipometria  del  verso. 


116 


Edizioni  critiche 


Tu  dunque  sei  di  Saporosa  figlia? 

OLIVA  Io  fui,  ch'ella  è  già  morta. 

HONESTA  Io  so,  figHuola, 

Che  non  è  maraviglia  che  d'avermi 
Veduta  mai  non  ti  ricorda,  ch'io 
Essendo  ancora  tu  quasi  da  latte^"'', 
Andai  ad  habbitare  in  Padovana; 
Hor  fa  tuo  conto  che  tua  madre  sia 
Tornata  viva:  basciarm  quest'altra 
Guanza,  figliuola  mia! 

OLIVA  Oh  madre  cara. 

Poi  che  voi  foste  di  mia  madre  morta 
Sì  grande  amica,  Dio  vi  dia  ogni  bene! 

HONESTA  Hor  sì  ch'io  voglio  far  ogni  fatica 

Per  trarti  fuor  di  servitù,  né  voglio 
Che  tu  per  nulla  sia  d'altrui  massara, 
Che  son  ben  io  come  al  tempo  d'adesso 
Son  le  massare  mal  trattate^*^^,  et  anco 
So  che  non  son  per  altro  nome  mai 
Chiamate,  che  per  nome  di  puttane, 
Et  oltra  ciò  so  che  se  manca  in  casa 
O  robba  di  valore,  o  da  mangiare, 
Ch'elle  son  le  ladre,  et  le  golose. 


1215 


1220 


1225 


1230 


2'"'  da  latte:  appena  nata. 

20^  massare  mal  trattate:  il  fosco  spaccato  che  Honesta  offre  sulla  condizione  delle  ser\'e 
sembra  ricalcare  le  affermazioni  di  Areusa  ne  L^  Celestina,  atto  9,  scena  2,  p.  157:  «È  pro- 
pno  vero:  quelle  che  servono  le  signore  non  hanno  piaceri  (...).  Continuamente  insultate, 
maltrattate,  continuamente  in  soggezione,  non  osano  aprir  bocca  davanti  ad  esse.  E  quan- 
do viene  il  tempo  che  dovrebbero  accasarle,  fanno  un  gran  zufolare  rimbrottandole  di  far- 
sela col  servo  o  col  figlio,  fanno  le  gelose  del  marito,  o  che  portano  uomini  in  casa,  o  che 
hanno  rubato  la  tazza  o  perduto  l'anello;  gli  danno  cento  sferzate  e  le  buttano  fuori  della 
porta,  con  le  gonne  in  capo  dicendo:  fuon,  ladra,  puttana!  (...)  Così,  aspettando  ricompen- 
se, asciugano  rimproveri,  sperando  di  vedersene  accasate,  e  se  ne  vanno  disonorate  (...)». 
Una  visione  opposta,  assolutamente  positiva,  è  invece  tratteggiata  da  Galeazzo  dagli  Orzi 
ne  L^  massera  da  bé  (cfr.  edizione  a  cura  di  G.  Tonna,  Brescia,  Grafo  edizioni,  1978)  nella 
quale  la  protagonista.  Fiore  da  Collebeato,  è  ansiosa  di  porre  la  sua  abilità  domestica  a  servizio 
della  Signora,  essendo  scampata  alle  guerre  e  alle  carestie  che  funestavano  la  campagna. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  117 

Et  oltra  i  pugni,  i  calzi,  i  mostazzoni^"^, 

Et  le  legnate  c'han,  le  meschinelle 

Pagano  il  tutto  ancor  del  suo  salario, 

Né  mai  di  riposo  han  un  sol  momento.  1235 

Hor  lavan  le  scutelle,  hor  fan  cucina, 

Hor  vestono  i  figliuoli,  hora  i  padroni, 

Hor  fanno  i  letti,  hor  portan  legne,  hor  acqua 

Hor  fan  bucato,  hor  lavan  le  pitture 

Fatte  a  punto  di  luna^"^,  et  poi  son  poste  1240 

Fra  le  tenaglie,  che  il  padron  lor  stimola 

Che  consentino  a  lui,  da  l'altro  lato 

Delle  padrone  son  che  le  fan  fare 

Le  ruffiane,  et  con  suo  pericolo. 

Et  se  non  voglion,  son  poi  quelle  sempre  1245 

Che  fanno  ogni  fatica,  e  c'hanno  sopra 

Le  spalle  ogni  gravezze,  et  son  le  peggio 

Pagate  sempre,  et  le  peggio  vestite     . 

Et  se  tal'hor  gli  vien  la  fede  data 

Di  maritarle,  come  giunto  è  '1  tempo  1250 

De  l'obligation,  dicono  ch'elleno 

Hanno  avuto  da  far  con  il  famiglio     , 

O  veramente  che  ne  han  fuor  di  casa 

Data  la  robba^'^,  e  con  simile  macchia 

Le  scaccian  vergognate,  scalze,  e  nude,  1255 

Dove  aspettavon  con  ragion  le  misere 


2""*  mosta:^m:  colpi  inferii  sul  viso  a  mano  aperta,  ceffoni. 

2"'  pitture...  luna:  è  forse  da  intendersi  come  'le  macchie  di  sangue  doxoite  al  mestruo'; 
sono  infatti  incongruenti  rispetto  al  contesto  le  accezioni  attestate  con  il  sigmficato  di  'ra- 
ramente' (cfr.  Bargagli,  lui  Pellegrina,  II,  3)  e  'parlare  m  punta  di  forchetta'  (Aretino,  L<3  Cor- 
tisana,  I,  7). 

^^^ peggio  vestite:  cfr.  Roias,  lu3  Celestina,  atto  9,  scena  2,  p.  157:  «(...)  e  con  una  veste  rotta 
dei  loro  scarti,  ti  pagano  il  servizio  per  dieci  anni». 

2"  famiglio:  chi  svolge  i  lavori  domestici  subalterni. 

^^'^  fuor...  robba.  'hanno  trafugato  gli  oggetti  preziosi  della  casa'.  L'affermazione  si  riallac- 
cia all'accusa  di  furto  di  cui  spesso  le  serve  sarebbero  state  incolpate,  anticipata  ai  w.  1229- 
31  (e  ripresa  anche  più  avanti  al  v.  1379)  e,  come  abbiamo  visto,  già  presente  ne  La  Celestina. 


118  Edizioni  critiche 


In  guidardon  di  tante  sue  fatiche 

Uscirne  ben  vestite,  e  maritate. 

Andiamo,  figHa  mia,  che  caminando 

Ragionaremo  sopra  i  casi  nostri.  1260 


ATTO  QUARTO 


SCENA  PRIMA 
Oliva  sola. 

Oh  che  strega  rubalda,  oh  che  finissima 

Ruffiana  è  sta  vecchia  traditora! 

Come  in  quattro  parole  il  paradiso 

Depinto  m'ha,  che  s'ha  nell'esser  donna 

Che  con  poca  honestà  viva  nel  mondo.  1265 

Ma  potea  ben  menar  la  lingua  un  anno^'^. 

Che  non  m'avrebbe  convertita  mai 

A  intrar  in  schiera  di  quelle  meschine: 

Ch'ai  fin  per  una  che  diventi  ricca 

Mille  ne  son  (e  più)  che  muoion  poi  1270 

A  l'hospitale^'^  e  sopra  un  ponte,  e  sotto 


2'^  menar  la  lingua  un  anno:  OUva  fa  riferimento  al  lungo  tentativo  di  persuasione  operato 
nei  suoi  confonti  da  Honesta  nella  scena  conclusiva  dell'atto  precedente. 

^'^  Ch'ai  fin...  hospitale:  la  cattiva  sorte  delle  meretrici  nelle  parole  di  Oliva  potrebbe  co- 
stituire un  rimando  al  Luimento  della  cortigiana  ferrarese,  opera  attribuita  (con  cautela)  al  fioren- 
tino Giovan  Battista  Verini  (per  il  cui  testo  cfr.  Graf,  Una  cortigiana,  p.  359;  cfr.  Aretino,  La 
Cortigiana,  Torino,  Einaudi,  1970,  p.  141):  «Foglie  di  cavol  sono  el  bel  trinzale  /  le  perle  son  le 
bolle,  gomme,  doglie  /  e  vado  mendicando  a  lo  spedale».  In  particolare  per  l'accenno 
all'ospedale  inteso  come  luogo  insalubre  ed  affollato,  cui  venivano  destinati  gU  indigenti, 
cfr.  Gonzaga,  Gli  Inganni,  atto  1 ,  scena  1  :  «Ch'io  vi  vedrò  ancora  nel  marcio  spedale,  fur- 
baccie!»;  Frotola  d'un  vilan  dal  Bonden  che  se  voleva  far  cittadin  in  Ferrara,  v.  93,  in  M.  Milani,  An- 
tiche rime  venete,  Padova,  Esedra  editrice,  1997,  p.  206:  «e  sì  andarem  /  al  marzo  hospeale»; 
Calmo,  //  Saltui^,  atto  4,  scena  5:  «(...)  e  mi,  poverom,  s'a'  foesse  strupiò  a'  sconverave 
anar  de  fatto  aU'ospeale»,  e  relativa  p.  129  cui  si  rimanda  per  ulterion  approfondimenti. 


II  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  119 

Hanno  un  marzo  storuol  per  mattarazzo^'^ 

Horsù,  vadi  in  mal  bora  questa  veccbia! 

Questa  è  l'acqua"'  '  cb'io  porto  a  mia  madonna, 

Che  dato  mi  ba  quel  Pellegrino,  et  dice  1275 

Che  alle  vintitre  bor,  ch'esser  dèn  quasi, 

Ber  ne  debba  essa  la  mettate,  e  l'altra 

Riserbar  per  l'Amante,  e  far  in  guisa 

Ch'anch'ei  ne  gusta,  et  ne  vedrà  miracoli 

Uscir  di  questa  cosa,  et  hammi  dato  1280 

Questa  scrittura,  dove  è  il  modo  ch'ella 

Dee  tener  per  far  che  l'acqua  sia 

Incantata  e  perfetta;  i'  voglio  entrare 

Ch'io  veggio  l'uscio  aperto.  Amor  consenta 

Che  questa  poveretta  abbia  il  suo  intento.  1285 


SCENA  SECONDA 
Honesta  et  Naffissa. 

HONESTA  Io  ti  dico  sorella,  che  egli  è  cotto, 

E  morto  e  spanto      di  Lauretta  tua, 

2'^  Storuol  per  mattarat^:  'una  piccola  stuoia  per  materasso'.  Per  sturiol 'stoino'  (ant.  dim. 
di  stuorà)  cfr.  GDU,  XX  s.v.  storuolo  (dove  è  riportato  il  passo  in  oggetto  oltre  a  Citolini, 
411);  Dieci  Tavole,  693.  L'immagine  delle  prostitute  ridotte  a  lavorare  su  una  misera  stuoia 
verrà  recuperata  dal  Parabosco  ne  Ì-M  Fantesca,  atto  2,  scena  1 1 .  Analoghe  scene  di  miseria 
sono  riprodotte  anche  nel  Pronostico  alla  villotta  sopra  le putane,  in  M  Milani,  Antiche  rime  vene- 
te, op.  cit.,  p.  475,  in  particolare  w.  80-91:  «El  disc  che  su  i  ponti  /  le  starà  su  un  storolo  / 
co<n>  una  ghirlanda  al  colo  /  de  piatole  e  peocchi  /  e  intorno  dei  zenocchi  /scantie  de 
boletini  /  e  con  quei  bagatini  /  che  qualcun  gli  darà,  /con  quei  le  viverà  /così  miseramente 
/  e  così  con  gran  stente  /  passerà  sua  vita»  e  nelle  Rime  pescatone  del  Calmo,  pese.  W,  w. 
37-39:  «Che  diascazze  fa  '1  ciel  che  no  t'arsirà,  /  azò  che  in  cima  i  ponti,  sul  storuol,  /  te 
veda  le  persone  che  ti  agabi»,  così  interpretati  dal  Belloni:  'che  diavolo  fa  il  cielo  che  non  ti 
deforma,  perché  in  cima  ai  ponti  sulla  stuoia  ti  vedano  le  persone  che  inganni'. 

2"'  l'acqua:  la  pozione  amorosa. 

2'^  morto,  e  spanto:  il  participio  passato  di  spandere  (letteralmente  'essere  disteso,  riverso') 
è  utilizzato  nella  locuzione  specifica  essere  morto  e  spanto  con  il  significato  di  'innamorato  da 
morire'  (cfr.  ad  esempio  G.  Polena,  Vocabolario  del  venerano  di  Carlo  Goldoni,  op.  cit.,  p.  565 
s.v.  spanto  'appassionato  o  innamorato  morto');  tale  formula  sarà  riutilizzata  dal  nostro  au- 


120 


Edizioni  critiche 


NAFFISSA 


HONESTA 


NAFFISSA 


HONESTA 

NAFFISSA 
HONESTA 


E  se  con  meco  ti  consigUarai, 
Tai  avisi  darotti,  che  ben  presto 
Il  sangue  gli  trarai  della  scarsella"   . 
Io  gli  ho  promesso  far  opera  teco, 
Che  questa  sera  ei  potrà  in  casa  tua 
Venire  a  ragionarti  un  pezzo,  e  sia 
Ben  fatto  questo,  che  commodamente 
Gli  potrai  dire  il  fatto  mo,  e  fargli 
Crescer  la  voglia  della  mercantia"   . 
Honesta,  per  mia  fé',  c'hoggi  non  posso, 
Che  questa  sera  in  casa  nostra  cena 
Un  gentil  huomo  Fiorentino,  e  dorme. 
Come  farem  ch'io  gli  ho  promesso  certo 
Di  far  che  tu  vorrai  ch'ei  parli  teco 
Sta  sera  senza  fallo? 

r  farò  farH, 
Tosto  ch'a  casa  ei  mi  s'appressa,  e  sia 
Ben  fatto,  una  scagaita   '  così  grande 
Da  un  bravo,  ch'ei  n'andrà  più  che  di  volo. 
Io  non  vorrei  che  poi,  posto  in  paura. 
Di  questa  impresa  ei  si  togliesse  giuso. 
Non  farà  no,  ch'ei  ha  buona  capezza"   . 
Horsù,  fa'  come  vói,  ch'ordine  poi 


1290 


1295 


1300 


1305 


tore  anche  ne  L<3  Fantesca,  atto  1,  scena  2:  «finger  il  morto,  et  lo  spanto».  Cfr.  inoltre,  con 
una  leggera  variazione,  Dialogo  di  duoi  villani  padovani,  w.  l'b-15  in  M.  Milani,  Antiche  rime 
venete,  op.  cit.,  p.  428:  «che  Gasparuolo  in  la  Tomia  /  è  tutto  quanto  inamorò  /  e  <per  ela> 
spanto  e  consumò». 

2'*  scarsella:  borsa  di  cuoio  appesa  alla  cintura  per  portare  oggetti  e  denaro,  qui  per  'gli 
succhierai  tutto  ciò  che  ha'. 

-"  mercantia:  dell'affare,  da  intendersi  chiaramente  come  rapporto  erotico. 

22U  scagaita:  spavento  (cfr.  GDLI,  X\'^II  s.v.  sgagaita,  dove  viene  proposta  questa  sola  at- 
testazione; Il  dialogo  di  Rocco  degli  Ariminesi,  w.  13-7 4  in  M.  Islihnì,  Antiche  rime  venete,  op.  cit., 
p.  465:  «Deh,  Cristo  de  la  Mare,  cento  vesse  /  el  me  muzé  da  scagaita  che  havea»;  Galeaz- 
zo dagU  Orzi,  Maitinada,  lY,  v.  6  in  L^  massera  da  bé,  op.  cit.,  p.  259:  «caso  de  mia  schigaita, 
pena  e  lagn»  dove  la  schigaita  è  spiegata  dal  Tonna  come  'tremore  amoroso  degradato  a  ca- 
garola  per  la  paura'). 

22'  capet!^.  cavezza  'vincolo'  (che  lo  trattiene). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


121 


Metterem  se  vorrai  per  altro  giorno! 

NAFFISSA  Andiamo  a  casa  già  che  siamo  appresso, 

Che  vedrai  Lauretta,  c'hoggi  apunto 
Ho  menato  a  veder  la  sinagoga 
De  li  hebrei^^,  et  diraUi  insieme  meco 
Ch'ella  osser\à  i  miei  detti  e  i  miei  consigli, 
Ch'io  le  predico  ogn'hor  di  questo  vecchio 
E  d'altri  ancor,  e  lei  se  ne  fa  beffe. 

HONESTA  Verrò,  di  gratia:  andiamo  adunque. 

NAFFISSA  Andiamo. 


1310 


1315 


SCENA  TERZA 
Finocchio  solo. 

Gongola  il  vecchio,  e  non  può  stare  in  stroppa^^ 

Perché  di  fare  gli  ha  promesso  Honesta  1320 

In  modo  ch'ei  sta  sera  avrà  udienza. 

Senza  alcun  fallo,  in  casa  de  la  Diva. 

Ma,  per  mia  fé',  ch'anch'io  sta  sera  voglio 

Trovarmi  a  cena  con  la  putta,  poi 

Ch'ei  starà  tardi  fuor  di  casa,  et  voglio  1325 

Irmene  a  punto  a  comperare  adesso 

Qualche  cosa  di  buon,  che  in  ogni  modo 

Pagarà  il  vecchio,  se  il  cantar  non  mente. 

Oh  poveri  padroni,  in  fé'  de  Dio, 

Che  la  cosa  del  par  (come  si  dice)  1 330 


222  Ho  menato...  hebrei:  in  assenza  di  riscontri  certi  mi  limito  a  ncavare  per  la  locuzione 
un  senso  prossimo  a  i'ho  messa  in  confusione'  (dato  il  significato  più  noto  di  sinagoga  'con- 
fusione rumorosa')  oppure  'l'ho  incitata  ad  agire  con  astuzia'  o,  ancora,  'l'ho  edotta'. 

225  Gongola...  stroppa:  'non  riesce  più  a  contenersi'  (cfr.  GDLI,  XX  s.v.  stroppa)-,  oggi  di- 
remmo 'non  sta  più  nella  pelle').  Si  ricorda  che  stroppa  nei  dialetti  settentrionah  indica  il 
'vimine',  dunque  qualcosa  che  serve  per  legare  (dal  latino  struppum,  'correggia').  La  mede- 
sima espressione  è  presente  anche  nel  testo  de  La  Fantesca,  atto  4,  scena  1 1:  «Io  non  posso 
stare  in  stroppa». 


122 


Edizioni  critiche 


Ne  va,  che  se  noi  miseri  infelici 

Servendo  sempre  voi,  sempre  stentiamo, 

E  voi  da  genti  tal  serviti  séte, 

Che  se  venisse  loro  occasione 

Di  farvi  mille  inganni,  e  mille  l'hora 

Tradimenti  crudei,  un  dito  indietro 

Non  si  trarian  giamai"  ;  né  so  per  Dio 

Se  io  volessi  più  tosto  o  quel  patire, 

O  con  periglio  star  di  questo  male. 

Ma  io  sento  aprir  l'uscio:  i'  vo'  nettarmi'^^ 


1335 


1340 


SCENA  QUARTA 
Eugenio  et  Spavento. 


EUGENIO  II  tutto  avete  inteso. 

SPAVENTO  r  v'assicuro 

Ch'ei  tremarà  di  voi  da  mezzo  luglio     ! 
Per  tutto  hoggi  starò  per  quinci  intorno. 
Et  se  verrà  nessuno,  i'  vi  prometto 
Di  non  lasciarli  intrar  in  quella  casa. 

EUGENIO  Sì  di  gratia,  fratello. 

SPAVENTO  r  vado  hor  hora 

A  vestirmi  il  mio  giacco"^^,  che  sta  saldo 


1345 


^2"*  L'intero  passo,  oltre  a  costituire  un  elogio  alla  scaltrezza  del  servo,  rappresenta  un 
motivo  consueto  per  il  Parabosco,  che  ama  tratteggiare  nei  suoi  lavori  la  realtà  a  lui  con- 
temporanea con  tinte  piuttosto  fosche  (cfr.  Introduzione  a  Lm  Fantesca,  op.  cit.,  pp.  32-33), 
anche  se  nella  commedia  in  oggetto  le  critiche  rivolte  agli  aw^ocati,  alle  donne,  ai  servi  so- 
no piuttosto  di  maniera. 

22^  nettarmi:  'andarmene  in  tutta  fretta  per  evitare  inconvenienti'. 

^^''  tremarà...  luglio:  l'espressione  è  ricorrente  nella  produzione  comica  paraboschiana  e 
sempre  riferita  al  personaggio  del  bullo  (cfr.  Lm  Fantesca,  atto  3,  scena  2:  «Non  dite  questo, 
che  quando  io  voglio,  con  i  guardi  fieri  non  pure  io  faccio  palide  le  genti,  ma  io  faccio  tre- 
mare li  Giugno,  il  Luglio,  e  l'Agosto!»). 

^^^  giacca:  cotta  di  magha  d'acciaio  usata  a  protezione  del  torace  (cfr.  DELI,  II,  s.v.  giaco, 
con  esempi  dal  Sacchetti  e  dal  Randello). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


123 


EUGENIO 


SPAVENTO 
EUGENIO 


A  colpo  di  moschetto,  et  vado  a  torre 

La  mia  crocetta  da  le  otto  punte^*^, 

Et  se  venisse  Orlando,  e  Feraguto,  1350 

Come  ho  queste  arme,  lor  non  stimo  un  fico^^^! 

Andate,  ch'io  voglio  uscir  per  hora 

Fuora  di  casa,  e  siate  certo  ch'io 

Farò  tal  cosa,  che  contento  andrete. 

Son  vostro,  padro  mio. 

Mi  raccomando.  1355 


SCENA  QUINTA 
Spavento  solo. 


Ho  buscato  i  lampanti^^*^',  in  fé'  di  Dio! 
Oh  cancaro^"^\  sto  vecchio  di  Susana^^^ 
E  pur  ammarteUato^^^!  EgH  è  pur  cotto! 
Ventura,  a  fé',  che  per  un  soldo  solo 
Da  la  prigion  non  mi  potea  riscotere! 
Questa  sera  farò  correr  qualch'uno 


1360 


228  crocetta  da  le  otto  punte:  si  tratta  probabilmente  di  una  sorta  di  mazza  ferrata  dotata  di 
otto  spuntoni,  anche  se  non  ho  riscontrato  nulla  di  certo  in  proposito. 

22^  non  stimo  un  fico:  'non  li  considero  per  nulla'.  L'espressione,  viva  ancora  oggi,  è  già 
presente  nel  Mollante,  XII,  51,  v.  2:  «che  in  ogni  modo  non  lo  stimo  un  fico». 

23"  ho  buscato  i  lampanti:  'mi  sono  procacciato  i  soldi  con  abilità'. 

2'i  cancaro:  imprecazione  tipica  del  veneziano  e  pavano,  consacrata  nella  commedia  so- 
prattutto da  Ruzante. 

232  vecchio  di  Susana:  la  locuzione  fa  riferimento  all'episodio  della  Bibbia,  narrato  nel  libro 
di  Daniele,  13,  che  registrò  grande  fortuna  nella  pittura  nel  Cinquecento  e  Seicento  (si  ri- 
cordino almeno  i  celebri  dipinti  del  Tintoretto,  Susanna  e  i  Vecchioni,  conser\'ati  al  Kunsthi- 
storisches  Museum  di  \'^ienna  ed  al  Louvre,  ed  il  quadro,  forse  ancor  più  famoso,  del  Ve- 
ronese); l'espressione,  registrata  ad  esempio  nelle  Dieci  tavole,  1734:  «Vecchio  di  Susanna 
(D'un  vecchio  luxurioso)»,  comparirà  anche  ne  La  Fantesca  (cfr.  atto  2,  scena  10:  «Che  fate 
sotto  queste  finestre,  o  vecchi  di  Susana?»). 

233  ammartellato:  in  senso  figurato  'travagliato  da  un'aspra  e  violenta  passione'  (cfr.  Are- 
tino, Sei  giornate,  119,  201,  299;  Calmo,  Il  Saltu:;^^,  atto  2,  scena  3,  pp.  84-85:  «Eh,  so  che  si' 
do  gran  amartelo»;  Calmo,  Rime  pescatorie,  st.  XVI,  1:  «Che  ziova  conseiar  un  martelào»; 
Giancarii,  Im  Capraria,  p.  125:  «amartelata  di  lui»).  L'espressione  è  simile  a  quella  del  v.  659. 


124  Edizioni  critiche 


Per  quinci  oltre,  et  dirò  d'aver  ferito, 
O  morto  un  huomo  per  rispetto  suo: 
Così  farò  sonare  il  vecchio  pazzo, 
Con  dir  ogn'hor,  s'ei  non  riffonde^^"*,  ch'io 

1365 
Dirò  al  ferito  chi  l'ha  fatto  fare. 
Io  sento  aprir  la  porta:  i'  vado,  i'  vado. 


SCENA  SESTA 
Fiore  fantesca  sola. 

In  fé'  di  Dio,  è  pure  una  gran  cosa 

Che  vogHon  sempre  questi  huomini  pazzi 

Saper  tutti  i  secreti  delle  donne.  1370 

Quante  è  che  la  padrona  mi  voleva 

Mandare  a  dare  aviso  a  messer  Mutio 

De  l'ordin  fermo  per  sta  sera  posto, 

E  non  c'è  stato  mai  quasi  rimedio! 

Il  vecchio  dice:  "Ove  mandar  la  vói?  1375 

Lasciala  in  casa,  e  farai  ben,  che  sempre 

Ste  puttanelle  van  per  via  facendo 

La  civetta,  et  si  fan  miUe  bertoni^^^, 

A  i  quai  poi  dan  la  robba^^^,  e  con  i  quali 

Si  fuggono  alla  fine,  onde  ne  vengono  1380 

De  le  famiglie  le  vergogne,  e  il  danno!" 

Ma  dove  trovarò  questo  capestro^^^ 

Di  Ribecca,  per  dirgli,  e  dargli  l'ordine 

Fermo  per  questa  sera,  come  posto 

L'ha  la  padrona  mia  con  Donna  Honesta?  1385 

^^■*  riffonde:  'paga  di  nuovo'.  Spavento  progetta  dunque  di  ricattare  Eugenio. 
2^^  bertoni:  uomini  dissoluti. 

2-"'  la  robba:  più  che  in  senso  osceno  è  da  intendersi  ancora  col  significato  di  beni  e  og- 
getti di  valore,  esattamente  come  al  v.  1254. 
2-^^  capestro:  scellerato. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


125 


Ma  eccol,  per  mia  fé':  la  cosa  certo 
Non  può  passar  se  non  per  bona  via, 
Che  nel  maggior  bisogno  egli  mi  viene 
Fra  i  piedi!  A  Dio,  Ribecca,  a  Dio! 


SCENA  SETTIMA 
Ribecca  et  Fiore. 


238 


1390 


240 


1395 


RIBECCA  Oh  Fior  mio  d'ogni  mese^^",  tu  ci  sei! 

Ove  ne  vai? 
FIORE  Per  ritrovarti  sono 

Uscita  fuor  di  casa. 
RIBECCA  Eccomi  pronto 

Ad  ogni  tuo  piacer. 
FIORE  Sì,  si  carotte"'! 

RIBECCA  D'altro  che  di  parole  a  te  vorreile 

Cacciar.  Ove  ne  vai  con  questo  cesto? 

Cesto  essere  vorrei,  che  pure  il  manico 

Hora  mi  toccaresti. 
FIORE  E  all'hor  vorrei 

Che  fosser  le  mie  mani  ambe  rasoi. 
RIBECCA  Se  questo  fosse,  tu  mi  toccaresti 

Forse  più  leggiermente  che  non  pensi. 
FIORE  Perché? 

RIBECCA  Perché  soffrir  mai  non  potresti 

Offender  quella  parte. 
FIORE  Taci,  taci. 

RIBECCA  Ah  rubalda!  I'  vorrei  sì  ben  sapere 

Menar  la  lingua,  che  gli  affanni  miei 


2-^*'  Fior...  mese:  cfr.  Dialogo  di  duoi  villani padoani,  5,  v.  36  in  M.  Milani,  Antiòe  rime  venete, 
op.  cit,  p.  443:  «batassuosola,  fior  d'ogni  mese». 

2^^  carotte:  frottole,  panzane  (cfr.  GDU,  II,  s.v.  carota),  immediatamente  interpretate  in 
senso  equivoco  da  Farina. 

2"*"  manico:  ovvio  il  doppio  senso  osceno,  che  prosegue  anche  nei  versi  seguenti. 


1400 


126 


Edizioni  critiche 


FIORE 

RIBECCA 
FIORE 


RIBECCA 
FIORE 


RIBECCA 


FIORE 


Ti  fosser  manifesti,  e  ch'io  potessi  1405 

Farti  toccare  con  mano  il  mio  martire, 

Che,  ancora  che  sii  del  pianto  altrui  bramosa, 

Forse  ti  caleria      vederlo  in  me, 

Così  è  egli  grande  e  duro. 

Oh  queste  sono 
Delle  tue  ciancie! 

Ohimè,  tu  sei  pur  bella!  1410 

Egli  è  passato  il  tempo,  che  giurare 
L'avrei  potuto,  non  che  dame  fede 
AUe  parole  altrui,  ma  adesso,  adesso 
So  ben  io  ch'io  non  son  bella,  né  posso 
Esser  ch'io  non  mi  sento,  a  fede,  bene.  1415 

Hai  tu  forse  la  febre  ch'ogni  mese 
Viene  aUe  donne? 

Sì,  io  ho  de'  guai 
Che  venghino  a  te  sol,  tristo  che  sei! 
Ma  lasciamo  le  burle!  Il  tuo  padrone 
Ha  parlato,  se  sai,  con  Donna  Honesta  1420 

Hoggi  doppo  mangiar? 

Non  ti  so  dire 
Che  desinato  ho  fuor  di  casa,  e  un  pezzo 
E  ch'io  non  l'ho  veduto,  ma  perché 
Mi  dimandi  tu  questo? 

Donna  Honesta 
Hoggi  doppo  mangiare,  è  stata  sola  1425 

Un  pezzo  a  parlamento  con  la  giovane, 
Et  ha  finto  voler  per  certe  liti 
Consiglio  dal  padron,  il  quale  in  casa 
Non  si  trovava  aU'hor,  ond'ella  ha  a\Tato 
Commodo  di  parlar  in  lungo,  in  lungo,  1430 

Et  ha  ottenuto  al  fin  che  il  tuo  padrone 
Se  ne  venghi  sta  sera  a  parlamento 


2"*'  caleria.  importerebbe. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


127 


FIORE 


Con  la  padrona  mia,  la  qual  mi  manda 

Hora  di  casa  fuor  per  darti  aviso 

Del  tutto,  caso  che  la  detta  Honesta  1435 

Non  l'avesse  hoggi  ritrovar  potuto. 
RIBECCA  É  questo  ver? 

FIORE  Non  d  direi  bugia 

In  simil  caso! 
RIBECCA  r  non  potrei  portare 

La  migHor  nova  al  mio  padrone,  ancora 

Ch'io  gli  portassi  d'uno  Imperio  il  scettro.  1440 

Adunque  certo  è  ch'ei  potrà  venire 

Sta  sera  a  casa  vostra,  e  potrà  ancora 

Con  la  padrona  tua  secretamente 

E  in  casa  ragionar? 

Questo  t'accerto, 

Che  '1  vecchio  s'ha  lasciato  uscir  di  bocca  1445 

Di  non  cenare  in  casa  ,  e  non  venirsi 

Sin  a  le  otto,  o  a  le  nove  hore  almeno. 

DiUi  puoi  tu  ch'ei  se  ne  venga,  e  faccia 

Il  solito  fischiar,  ch'io  starò  attenta 

Et  aprirollo  et  metterollo  dentro...  1450 

Ma  il  tutto  intenderà  da  Donna  Honesta 

S'ei  la  ritrovarà. 

Io  corro  adesso 

A  casa,  ch'io  ben  so  che  mi  ci  aspetta; 

Del  tutto  avisaroUo. 

Et  io  ritorno 

Indietro,  e  farò  vista  col  padrone  1455 

Avermi  smenticato  alcune  cose 

Ch'io  doveva  portar  con  esso  meco. 
RIBECCA  Vanne  e  vogliami  ben,  ladra  assassina! 

Qual  cosa  non  può  amore?  Ove  son  questi 

Che  dicon  che  si  può  con  la  ragione  1460 

Por  freno  ad  ogni  cosa?  Oh  pazzi,  oh  stolti! 


RIBECCA 


FIORE 


128  Edizioni  critiche 


Come  farete  a  far  diamante,  e  giaccio 

Un  cor  contra  la  face  et  le  saette, 

Si  ch'ei  non  v'arda  e  non  v'impiaghi  sempre? 

Qual  se  ne  può  veder  maggior  esempio  1465 

Di  quel  c'hora  si  vede  in  questa  giovane? 

Che  non  ostante  che  perigHo  porta 

D'esser  dal  padre  ritrovata  in  fallo. 

Et  il  perigHo  della  lingua  ancora 

Di  ruffiana  et  di  massara,  ancora  1470 

(Che  è  più)  s'è  posto  amar  un  che  si  dice, 

E  per  certo  si  tien,  che  stato  sia 

Homicida  crudel  d'un  suo  fratello. 

Horsù,  io  voglio  intrar  ch'io  credo  certo 

Che  il  mio  padron  m'aspetta,  e  a\'isaraUo  1475 

Del  tutto,  se  per  sorte  ei  non  avesse 

Parlato  con  la  Ruffiana.  I'  entro. 


SCENA  OTTAVA 
Eugenio  solo. 

M'è  stato  detto  che  di  rasa  vanno 

Questi  bravi  tal'hor,  et  che  promettono 

Un  milion  di  cose,  et  che  non  fanno  1480 

Poi  nulla,  e  però  vogHo  hora  chiarirmi. 

M'ho  posto  intorno  questa  cappa,  et  anco 


^■*2  di  rasa  vanno:  'agiscono  astutamente,  ricorrendo  ad  inganni  e  raggiri'  (cfr.  GDLJ,  XV 
s.v.  ragia  'inganno,  beffa';  Aretino,  La  Cortigiana  (edizione  1534)  in  Pietro  Aretino,  Teatro,  a 
cura  di  G.  Petrocchi,  Milano,  Mondadori,  1971,  p.  106:  «Io  intendo  la  ragia»;  cfr.  anche 
Introduzione  a  II  libro  dei  vagabondi,  a  cura  di  Pietro  Camporesi,  Torino,  Einaudi,  1980,  p. 
XXXI  n.  1:  «(...)  la  volpe  trionfa  sul  lupo,  la  rasa  sulla  forza»  e  relativa  nota  dove  si  attesta 
la  precoce  comparsa  di  rasa  'frode,  inganno,  astuzia'  nel  furbesco  antico  come  formazione 
metaforica  dal  bresciano  e  dai  dialetti  veneti  nei  quali  il  termine  significa  letteralmente  'vi- 
schio, resina'). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


129 


Questa  berretta^'*^,  che  portar  non  soglio, 
E  voglio  passeggiare  hora  ch'è  tardi, 
Che  quasi  conosciuto  esser  non  posso, 
Per  quinci  oltre,  e  veder  se  il  bravo  osserv^a 
Ciò  che  promesso  m'ha.  Certo  che  Amor 
Mi  fa  pur  cose  far  troppo  da  pazzo! 
Altro  non  posso:  i'  son  legato  stretto 
Né  mi  posso  crollar,  non  che  slegarmi. 


1485 


1490 


SCENA  NONA 
Spavento  bravo  et  Eugenio. 


1495 


SPAVENTO         Trucca  per  la  calcosa^'*'*,  animalazzo! 
EUGENIO  Non  far,  non  far,  ohimè,  ch'io  son  Eugenio! 

SPAVENTO         Compra  il  porco^"*^  poltron,  che  in  doi  cavezzi  ^ 

Ti  gitto  a  terra,  se  più  indugi! 
EUGENIO  Oh  Dio! 

SPAVENTO         Te  ne  do  un'altra  se  non  ti  satisfa 

Questa! 
EUGENIO  Non  più,  non  più  che  morto  sono! 


2^"*  M'ho  posto.. .berretta:  nell'indossare  il  mantello  ed  il  berretto,  il  vecchio  Eugenio  non  fa 
altro  che  attenersi  ad  uno  dei  momenti  canonici  del  genere  comico:  il  travestimento.  Come 
ricorda  R.  Alonge,  questi  indumenti  erano  i  più  adatti  alla  stagione  invernale  del  Carnevale 
(il  tempo  consacrato  agh  spettacoli  teatrali,  cfr.  ha  riscoperta  rinascimentale  del  teatro,  in 
AA.W.,  Storia  del  teatro  moderno  e  contemporaneo,  voi.  1,  Einaudi,  Torino,  2000,  p.  21). 

2^^  Trucca  per  la  calcosa:  'dàttela  a  gambe'.  Conformente  allo  stile  paraboschiano,  il  perso- 
naggio del  bravo  si  esprime  ricorrendo  al  gergo  furfantesco,  per  quanto  qui  sia  ridotto  a 
poche  locuzioni  ampiamente  attestate  nei  repertori  dedicati  a  questo  linguaggio.  Molto  più 
ricco  e  meno  convenzionale  sarà  il  gergo  sfoggiato  dal  bravo  ne  L^  Fantesca  (cfr.  op.  cit., 
atto  2,  scene  10-11;  introduzione  pp.  27  e  39-40). 

2"*^  Compra  il  porco:  'fuggi';  comprare  il  porco  è  ancora  una  locuzione  furbesca  avente  il  si- 
gnificato di  'fuggire'  (cfr.  F.  Ageno,  Un  saggio  sul  furbesco  del  Cinquecento,  m  "  Studi  di  Filolo- 
gia Italiana",  17,  1959,  p.  229).  La  medesima  espressione  è  presente  ne  Ilm  Fantesca,  atto  2, 
scena  10,  p.  105:  «Che  non  altro,  comprate  il  porco,  vecchi  rantacosi?». 

2^'^'  doi  caver^:  'in  due  parti'  (cfr.  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando,  I,  III,  3,  w.  7-8:  «O 
de  gettarlo  morto  in  sul  sabbione,  /  o  trarlo  in  duo  cavezzi  de  l'arcione»;  I,  V,  5,  v.  8: 
«Cadde  il  gigante  in  dui  cavezzi  in  terra»). 


130  Edizioni  critiche 

SPAVENTO         Correr  non  vo',  che  '1  vento  perderia 

Il  palio  con  costui  "*  .  Ah,  Ah!  Quanta  n'ha  egli"^** 

Della  paura  poi  ch'egli  entra  vivo 

In  quella  sepoltura  che  è  sul  campo  1500 

Della  sua  chiesa!  Horsù,  posso  sicuro 

Star,  ch'ei  si  chiamarà  da  me  servito! 

Ben  lo  conobbi  io  tosto  al  ragionare 

Ch'egli  fra  sé  facea,  et  ho  piacere 

Ch'ei  m'abbi  dato  questa  occasione,  1505 

Che  forse  ei  non  avria  creduto  poscia 

Ch'io  avessi  fatto  il  debitoribùs^"*^! 

So  che  n'ha  avute  due  di  buona  tempra^^'', 

E  l'ossa  gH  dorran  per  qualche  giorno. 

Suo  danno!  Ei  dovea  creder  le  promesse  1510 

Ch'io  gH  avea  fatto,  e  non  voler  incognito 

Cercarne  la  certezza.  F  giocarci 

La  testa,  ch'ei  starà  sepolto  almeno 

Due  hore  ancora,  ma  a  sua  posta  i'  vogHo 

Quinci  partirmi,  poi  ch'io  so  che  certo  1515 

Egli  è  ch'io  son  qui  stato  a  far  la  spia. 


SCENA  DECIMA 
Giberto  Pellegrino  solo. 

Oh  miseri  color  che  preda  sono 

Di  questa  furia  che  si  chiama  Amore, 

Che  vera  furia  è  dello  inferno  certo! 

Miseri  lor  che  sempre  a  temer  hanno  1520 

2^^  non  vo'...  costui:  per  la  medesima  metafora  sulla  corsa  contro  il  vento  cfr.  Lm  Fantesca, 
atto  5,  scena  9,  p.  157:  «so  c'avete  preso  il  corso  a  garra  con  il  vento». 

2^*  Il  verso  è  ipermetro. 

^■*^  Fatto  il  debitoribus:  'compiuto  la  mia  missione'. 

2^"  due  di  buona  tempra:  Spavento  si  riferisce  sarcasticamente  ai  due  colpi  che  gli  ha  affib- 
biato. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco  131 

Di  morte,  di  vergogna,  et  de  ruina! 

A  che  condotto  m'hai,  furia  crudele? 

Ahimè,  deggio  pentirmi  avere  occisa 

Colei,  che  al  nascer  suo  portò  dal  centro 

Infernale  ogni  asprezza,  ogni  durezza?  1 525 

Non  già,  non  già!  Ma  vuo'  pentirmi  bene 

Di  non  averle  procacciato  morte 

Più  lunga,  più  penosa,  e  più  crudele, 

Che  il  veleno  che  lei  trarà  di  vita 

Sarà  poca  vendetta  a  tanta  offesa!  1530 

Mi  pare  un'hora  più  d'uno  anno  lunga 

Ch'io  senta  che  dal  mondo  sia  partita 

Quanta  egli^^^  in  sé  di  crudeltate  avea. 

Che  tutta  in  un  raccolta  era  in  costei. 

Ahimè,  che  non  può  tanto  anco  lo  sdegno  1535 

Che  giustamente  ho  contra  lei  concetto. 

Che  mi  basti,  sì  ch'io  prima  di  lei 

Non  senti  il  suo  morir,  ma  la  giustitia 

Non  mi  lascia  pentir,  che  giusto  è  ch'ella 

Muoia  una  volta  per  cagion  di  quello  1540 

A  cui  ella  ne  die  già  più  di  mille"^^^! 

E  giusto  è  ancora  che  in  me  pietà  s'adopra 

A  ciò  che  il  mio  dolor  non  abbia  fine 

Nella  vendetta  ch'io  ne  prendo,  poi 

Che  fallo  fèi  di  troppo  grave  pena  1 545 

Degno,  adorando  una  mortai  figura. 

Anzi  una  tigre,  un  velenoso  serpe. 

Horsù,  partir  mi  vo',  né  starò  molto 


25'  egli:  il  mondo. 

252  Muoia  una  volta...  mille:  ritoma,  con  una  formula  appena  variata,  lo  stesso  concetto 
espresso  dal  protagonista  nell'atto  2,  scena  7,  presente  anche  nelle  lettere  Amorose,  III,  \'III, 
rr.  Id-ll:  «Et  morte  dirò,  non  essendo  da  voi  mancato  il  darlami  in  mille  modi».  Per  le 
fonti,  cfr.  Petrarca,  RKF,  XLIV,  v.  12:  «mi  vedrete  straziare  a  mille  morti»;  Pulci,  Morgante, 
VII,  72;  Ariosto,  O.F.,  X,  29,  8,  w.  7-8:  «darmi  una  morte,  so,  lor  parrà  assai;  /  e  tu  di  mil- 
le, ohimè,  morir  mi  fai». 


132 


EclÌ2Ìoni  critiche 


A  far  ritorno,  con  speme  d'udire, 
Da  pianti  e  gridi  di  sua  morte  nova. 


1550 


ATTO  QUINTO 


SCENA  PRIMA 
Mudo  et  Ribecca. 


MUTIO  Esser  può  bene  un'hora,  è  sì  Ribecca? 

RIBECCA  Credo  che  passi  ancor. 

MUTIO  Tutti  i  piaceri 

Del  mondo  veramente  dir  si  ponno 
Aspri  tormenti,  appo  il  piacer  che  dona 
Amor  a'  soi  fedeH,  et  hora  il  prov'io. 
Credi  tu  c'hora  se  mi  fosse  in  capo 
Posto  d'un  Regno  una  corona,  e  un  scettro 
Dato  in  man  d'uno  Imperio,  ch'io  sentissi 
Tanta  gioia  nel  cor,  tanto  piacere, 
Com'io  sento  pensando  esser  fra  poco 
Dananzi  al  mio  bel  sol     ? 

RIBECCA  Amor,  padrone, 

Il  paradiso  fa  provare  in  terra. 

MUTIO  Tu  parli  il  ver,  né  si  poteva  esprimere 

Con  altra  cosa  quel  contento  estremo 
Ch'amando  proviam  noi,  mentre  benigna, 
E  pietosa  madonna  il  cor  ci  lega... 


1555 


1560 


1565 


255  Credi  tu...  sol:  cfr.  Parabosco,  'Lettere  Amorose,  ITI,  X\n[II,  rr.  3-5:  «i\mante  nessuno 
non  cangiaria  un  momento  solo  della  vista  della  cosa  amata  con  nessun  imperio»  e  relative 
fonti  (Platone,  Fedro,  XXXII;  Andrea  Cappellano,  De  Amore,  III,  XXXIII;  Castiglione,  // 
Cortegiam,  IV,  LXXIV...). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


133 


RIBECCA  II  paradiso,  torno  a  dir,  che  prova 

Colui  che  con  ventura  amando  vive. 

MUTIO  Dir  voglioti  anco  più,  che  Amor  dispensa 

I  gradi  del  piacer  con  la  virtute 
Che  Li  comparte^^'*  in  ciel  Giove  superno^", 
Che  così  come  in  ciel  non  s'hanno  invidia 
Que'  spiriti  da  lui  fatti  beati, 
Ancor  ch'un  sia  maggior  de  l'altro  assai ^^^', 
Così  non  è  qua  giù  tra  noi  mortali 
Huomo  ch'amando,  con  altrui  cangiasse 
L'obietto  del  suo  Amor,  ben  che  ci  fosse 
Di  grandezza  e  beltà  disparitate 
Estrema. 

RIBECCA  Questo  è  ver. 

MUTIO  Vói  tu  vedere 

La  perfettion  d'Amor?  Vedila  in  questo: 
Che  quante  sono  qua  giù  cose  create 
Tutte  si  puon  scambiar  l'una  con  l'altra, 
E  a  diverse  mercedi  son  suggette. 
Salvo  l'Amor,  che  sol  d'Amore  anch'esso 
Vòle  il  suo  premio,  et  ogn'altra  mercede 
Odia  e  rifiuta,  e  sol  d'Amor  si  pasce ^". 

RIBECCA  Negar  non  vi  si  può,  padrone,  e  giurovi 

Ch'io  piuttosto  vorrei  ch'una  fanciulla 
Di  questa  terra  a  me  volesse  bene. 
Per  ch'io  ne  voglio  a  lei,  che  tutto  l'oro 
Del  mondo  insieme! 


1570 


1575 


1580 


1585 


1590 


25-*  comparte:  cfr.  Dante,  Inf.,  XIX,  v.  12:  «o  quanto  giusto  mia  virtù  comparte». 

255  Giove  Superno:  cfr.  Parabosco,  La  Progne,  In  Vinegia  a  San  Luca  della  Cognitione, 
1548,  p.  5:  «Superno  Giove,  te  preghiamo  solo  (...)». 

'^^^'  Amor  dispensa...  assai:  chiaro  rimando  al  celebre  passo  dantesco  in  cm  Piccarda  Dona- 
ti spiega  al  poeta  fiorentino  come  i  beati  gioiscano  nell'adeguarsi  all'ordine  universale  volu- 
to da  Dio,  senza  provare  alcun  desiderio  di  stare  in  un  cielo  più  alto  di  quello  che  è  stato 
loro  assegnato  (cfr.  Dante,  Par,  III,  w.  57-87). 

25^  si  pasce:  cfr.  Dante,  Inf.,  XVI,  v.  102:  «Di  quel  si  pasce,  e  più  oltre  non  chiede». 


134  Edizioni  critiche 

MUTIO  Horsù,  vatti  con  Dio! 

Alle  cinque  hore  fa'  che  sii  là  dove 

T'ho  detto,  e  non  mancar! 
RIBECCA  Senza  alcun  fallo 

Mi  vi  ritrovarete.  Andate  pure, 

Ch'amor  sia  vosco!  I'  vi  so  dir  che  séte  1595 

Aspettato  e  bramato  estremamente. 

Per  quanto  detto  m'ha  la  sua  fantesca. 


SCENA  SECONDA 
Mutio  solo. 

Io  conosco  in  effetto  che  gli  è  vero 

Che  morir  l'huomo  può  di  troppa  gioia: 

Quasi  mi  sento  della  vita  uscire,  1600 

A  pena  il  capo  reggo,  a  pena  gH  occhi 

Posso  aperti  tenere,  e  credo  certo 

Che  in  me  cagioni  questo  svenimento 

Solamente  il  piacer,  quella  allegrezza 

Che  da  sta  mane  in  qua  m'è  giunta  al  core  1605 

Con  la  novella  di  dover  sta  sera 

Parlare  alla  mia  Dea,  et  ho  tutto  hoggi 

Avuto  sete  così  ardente,  ch'io 

Sforzato  stato  son  levarmi  in  coUo 

Una  caraffa  d'acqua,  che  mi  venne  1610 

In  mano  in  casa  et  me  ne  sento  il  corpo 

Et  lo  stomaco  fredo,  e  mal  desposto. 

Horsù  battere  voglio,  anzi  fischiare. 

Ch'esser  potrebbe  ancora  il  vecchio  in  casa. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


135 


SCENA  TERZA 
Lavinia  giovane,  Mutio  et  Fiore. 


LAVINIA 
MUTIO 


FIORE 

MUTIO 

LAVINIA 

FIORE 
LAVINIA 

FIORE 
LAVINIA 


FIORE 

LAVINIA 

FIORE 


LAVINIA 


FIORE 


Dio  vi  dia  pace,  Signor  mio! 

La  pace  1615 

Adesso  ho  io.  Signora  mia  dolcissima. 
La  qual  mi  può  venir  solo  da  quella 
Grada  c'hor  tengo,  e  che  più  assai  estimo 
Che  l'Imperio  del  mondo...  Ahimè  Signora... 
Meglio  sarebbe  forse  intrare  in  casa.  1620 

Ahimè  ch'io  muoio!  Ahimè,  Signora!  Ahi!  Ahi! 
Sostienlo  ch'ei  non  cada!  Oh  Signor  mio, 
Ch'avete  voi? 

Oh  Dio,  che  sarà  questo? 
Oh  sventurata  me,  com'egH  è  freddo 
Fatto  in  un  punto.  Signor  Mutio... 

Oh  Dio!  1625 

Rispondete  a  colei  ch'assai  più  v'ama 
Che  la  stessa  sua  vita!  Oh  Signor  Mutio! 
Misere  noi!  Mo'  che  sventura  è  questa? 
EgH  non  batte  più  polso,  né  vena"   . 
Che  sarà  questo? 

Esser  potria,  padrona,  1630 

Ch'ei  fosse  uscito  fuor  di  vita,  forse 
Per  l'allegrezza  di  vedersi  innanti 
A  voi,  ch'egli  amò  più  che  sé  medesmo, 
E  inteso  ho  dir  di  simili  sventure 

Più  volte  intravenute  ad  altre  Donne.  1635 

Posianlo  giù  per  terra,  e  tu  di  sopra 
Corri,  et  arreca  teco  aceto  od  altro 
Che  sovenghi  li  spirti. 

r  vado. 


258  polso,  né  vena:  ancora  un  rimando  letterario  (cfr.  Dante,  /«/.',  I,  v.  90:  «ch'ella  mi  fa 
tremar  le  vene  e  i  polsi»;  Pulci,  Morgante,  X^^II,  190,  v.  5:  «e  non  batte  poi  più  senso  né  polso»). 


136  Edizioni  critiche 

LAVINIA  Ahi,  lassa! 

O  cor  del  corpo  mio,  o  mio  signore. 
Perché  non  respondete  al  vostro  bene?  1640 

E  possibile,  ahimè,  che  quello  immenso 
Amor  che,  mercè  vostra,  ogn'hor  portato 
M'avete,  ahimè,  non  avrà  forza  adesso 
Di  ritornarvi  l'anima  nel  corpo 

Per  rispondermi  almen^^^,  se  pure  è  vero  1645 

Ch'ella  del  tutto  n'abbia  tolto  bando? 
Rispondi,  anima  mia,  o  almen  fa'  segno 
Che  tu  non  sia  di  questo  corpo  uscita! 
Ahi  misera  et  infelice,  ahi,  più  d'ogni  altra 
Sventurata  fanciulla,  che  ben  sei  1650 

D'ogni  altra  più  infelice  e  sventurata. 
Poi  che  nel  dar  remedio  al  tuo  Signore 
Contra  il  morir,  gli  hai  procacciato  morte! 
Anima  valorosa,  akna  gentile 

Ov'hora  sei?  Per  che  non  mi  soccorri?  1655 

Se  tu  odi,  ahimè,  queste  parole  meste 
Per  che  non  mi  consoH?  Ahi,  forse  sei 
Sdegnata  contra  me,  vedendo  ch'io 
Viva  rimango  pur  doppo  la  tua 

Partita,  e  in  ciò  di  poco  amor  mi  noti^*^*^?  1660 

Me  ne  vergogno  ben,  ma  noi  consente 
Il  ciel  mrbato,  onde  non  abbia  fine 
L'estremo  mio  martir,  fin  ch'ei  non  abbia 
Nel  petto  mio  la  tua  vendetta  a  pieno 
Fatta,  che  pur  son  io  sola  cagione  1665 


2^^  Non  avrà  for^a...  almen:  sia  pur  attenuate,  le  lamentazioni  di  Lavinia  richiamano  quelle 
dell'Orbecche  giraldiana  (cfr.  Giraldi  Cinzio,  Orbecche,  atto  5,  w.  2940-44:  «(...)  perché  al- 
men non  puoi,  /  Marito  mio,  impetrar  tanto  di  spirto,  /  Ch'a  la  dolente  tua  moglie  infelice, 
/  Che  con  sì  amara  voce  ora  ti  chiama,  /  Risponder  possi  almeno  una  parola?»). 

2''"  vedendo...  noti:  sottile  richiamo  all'affermazione  fatta  a  Iroldo  da  Tisbina  nel  poema 
boiardesco,  del  resto  sfruttata  anche  nelle  tragedie  del  Cinquecento  (cfr.  Boiardo,  Inamora- 
mento,  I,  XII,  54,  w.  5-6;  Trissino,  Sophonisba,  w.  1779-80). 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


137 


FIORE 


LAVINIA 
FIORE 


LAVINIA 


FIORE 
LAVINIA 


Del  tuo  morir. 

Padrona,  ecco  l'aceto! 
Questo  non  giova.  Oh  Dio,  più  freddo  assai 
Che  giaccio  egH  è,  né  si  ritrova  in  lui 
Segno  di  vita! 

Ohimè  che  farem  noi? 
Che  consiglio  sia  il  nostro?  Che  partito?  1670 

Padrona,  i'  vi  dirò  ciò  c'ho  pensato: 
Sopra  del  campo  della  chiesa  nostra 
E  un  sepolcro  vecchissimo,  e  cred'io 
Che  il  coperchio  alciarem  facilemente. 
Qui  poner  lo  potremmo,  e  lasciar  poi  1675 

La  sepoltura  aperta,  a  occasione 
Ch'ei  possa  fuor  uscir,  s'a  caso  ei  fosse 
Da  uno  accidente  a  tal  passo  condotto. 
Avengane  '  il  miglior,  noi  non  potiamo 
Prender  partito  che  più  sano  sia.  1680 

Ahi  che  duro  partito!  Adunque  deggio 
Così  honorato  e  valoroso  giovane, 
E  da  me  più  che  la  mia  vita  amato. 
Come  un  cane  gittare  in  puzzolente 

Fossa?  Horsù,  poi  che  il  cielo  e  avversa  sorte  1685 

A  ciò  mi  sforza,  non  perdiamo  tempo 
Che  mio  padre  taU'hor  non  agiungesse! 
Prendete  i  piedi;  i'  prenderò  la  testa. 
Ah  dolce  Signor  mio,  perdon  ti  chieggio 
S'aUe  tue  membra  sì  gran  torto  faccio!  1690 

Ben  hora  esser  vorrei  tigre  o  leone 
In  una  parte  per  poterti  dare 
Albergo  nel  mio  corpo  e  non  potendo. 
Che  natura  lo  vieta,  iscusa  questa 
Sconsolata  fanciulla,  e  sconsigliata,  1695 


2''i  Avengane:  l'edizione  del  1552  reca  avengano,  ma  si  è  ritenuto  di  dover  seguire  la  corre- 
zione apportata  dalla  stampa  del  1560. 


138 


Edizioni  critiche 


FIORE 


LAVINIA 


Ch'altro  non  può,  che  vii  sepolcro  darti, 
Né  d'altre  esequie  che  d'amaro  pianto 
Fare  al  tuo  funeral  dovuto  honore. 
Posianlo  in  terra,  et  ambe  due  vediamo 
D'aprir  questo  sepolcro.  Io  sola  l'apro. 
Ohimè  che  n'esce  un  morto!  Ohimè  padrona! 
Oh  Dio  del  cielo!  Ohimè  che  cosa  veggio! 


1700 


SCENA  QUARTA 
Eueenio,  Fiore  et  Lavinia. 


EUGENIO  Lavinia,  ove  ne  fuggi?  E  perché  quivi 

A  quest'hora  ti  veggio? 
FIORE  Noi  siam  morte: 

Questi  è  '1  vecchio  padron,  Messer  Eugenio!  1705 

EUGENIO  Fiore  aspetta,  non  fuggir  Lavinia 

Ch'io  son  Eugenio! 
FIORE  Olà  padrona! 

LAVINIA  Ahi  lassa, 

Com'io  men  vo'  d'una  ruvina  in  l'altra! 
EUGENIO  Che  ruvina,  figliuola?  Che  vuol  dire 

Costui  che  morto  qui  disteso  veggio?  1710 

S'io  ben  discerno,  questi  è  il  scelerato 

Che  già  homicida  fu  di  tuo  fratello. 

Ma  come  giace  morto? 
LAVINIA  Oh  padre,  oh  padre.... 

EUGENIO  Lascia  il  pianto,  figliuola,  e  fammi  homai 

Consapevol  di  caso  così  grande,  1715 

Ch'esser  non  può  altrimenti,  e  prima  accertami 

Se  questi  è  quel  che  die'  la  morte  al  tuo 

Fratello,  o  non. 
LAVINIA  Ch'ei  trahesse  di  vita 

Il  fratel  mio  non  so,  né  creder  voglio, 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


139 


Ma  egli  è  bene  o  già  fii,  per  parlar  meglio, 
Mudo  di  cui  volete  intender  voi. 

EUGENIO  Com'è  morto  egli?  E  tu  perché  ne  piangi 

Rubalda,  e  perché  meco  bora  lo  scusi 
Della  morte  ch'ei  diede  al  mio  figliuolo? 
Chi  l'ha  occiso?  Ragiona! 

LAVINIA  Occiso  hoU'io 

Credendomi  però  dargH  salute. 

EUGENIO  E  com'è  ciò  stato? 

LAVINIA  r  vel  dirò.  Se  mai, 

Padre,  provasti  come  acute  sono 
Le  saette  d'amore,  e  come  còce 
La  face  sua,  spero  trovar  perdono 
Appo  di  voi  d'ogni  mio  fallo,  e  spero 
Farvi  anco  lagrimar  del  mio  dolore. 
Sappiate  che  l'Amor,  credo  incredibile. 
Che  lungamente  a  me  ha  portato  Mutio, 
C'hor  vedete  disteso  in  terra  morto, 
Ha  meritato  ch'io  non  lasci  cosa 
Né  per  honor,  né  per  timor  di  morte, 
Ch'io  non  facci  per  lui,  et  hammi  indutta, 
Fra  tante,  e  tante  ch'ei  me  n'ha  richieste, 
A  dargli  al  fine  una  sol  sera  udienza. 
Là  dove  il  miser  non  sì  tosto  m'ebbe 
Salutata  e  veduta,  ch'a  Dio  rese 
L'anima,  né  altro  so  della  sua  morte. 
Noi  per  men  nostro  mal  pensammo  poi 
Porlo  in  questo  sepolcro,  e  a  Dio  lasciarne 
La  cura  poi. 

EUGENIO  Ahi,  rubalda  figliuola! 


1720 


1725 


1730 


1735 


1740 


1745 


140 


Edizioni  critiche 


SCENA  QUINTA 
Oliva  fantesca. 

Oh  padrona  mia  dolce,  oh  mio  conforto, 

Oh  infelice  fanciulla!  Ahimè  vicini, 

La  mia  padrona  è  morta,  ohimè  meschina! 


SCENA  SESTA 
Marsilio  aggiunto. 

NLARSILIO  Che  gridi  son?  Ohimè,  mi  pare  Oliva  1750 

Costei  che  piagne!  Oliva?  OHva? 
OLIVA  Ahi,  lassa 

Misera  me,  chi  mi  consola? 
MARSILIO  OHva? 

OLIVA  Ah  padron  mio  car,  madonna  CHtia 

Giace  morta  di  sopra! 
MARSILIO  Ohimè  che  nova 

Cruda  mi  dai!  Per  qual  cagion? 
OLIVA  Per  dirvi  1755 

Il  vero  d'ogni  cosa,  hoggi  mandommi 

A  ritrovar  quel  Pellegrin,  che  dicono 

Ch'ogni  cosa  indovina,  e  seco  un  pezzo 

Ha  parlato,  e  indi  a  poco  a  l'hosteria 

Dove  egH  alberga,  mi  mandò  di  volo.  1760 

Io  n'arrecai  una  caraffa  d'acqua. 

Della  quale  ne  gustò  questa  infelice, 

Che  intestato ^^^  gli  avea  quel  huom  malvaggio 

Che  si  farebbe  amar  dalle  persone, 

Quella  bevendo,  et  ne  morì  la  misera,  1765 

Sì  ch'io  mi  credo  che  composta  sia 

Quell'acqua  d'acutissimo  veleno. 

2^2  intestato:  'le  aveva  messo  in  testa,  l'aveva  persuasa'. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


141 


MARSILIO 


E  peggio  c'è  che  messer  Mutio  anch'egU, 

Credendo  ch'ella  fosse  acqua  di  pozzo, 

Gustato  anch'esso  n'ha,  che  al  suo  partire  1770 

Se  ne  siamo  avedute,  né  altro  sowi 

Di  lui  più  dire. 

Oh  infelice  vecchio! 
D'ogni  aita,  e  conforto  in  tutto  privo 
Nel  tuo  maggior  bisogno,  ahimè,  che  Mutio 
Sarà  morto  anco  lui!  1775 


SCENA  SETTIMA 
Eugenio,  Marsilio. 


EUGENIO 
MARSILIO 
EUGENIO 


MARSILIO 
EUGENIO 


OLIVA 


Messer  Marsilio! 

Chi  mi  chiama? 

Avanti 
Trahetevi,  e  mirate  se  per  caso 
Riconoscete  mai  costui,  che  morto 
Giace  costì. 

Figliuolo?  Ah  figHo  dolce 
Chi  mi  t'ha  morto? 

Eh  saria  lungo  troppo 
A  raccontar  il  tutto!  Basta  ch'egli, 
Non  ancor  satio  farmi  oltraggio,  venne 
Per  vergognarmi  la  figliuola,  e  Dio 
Volle  ch'ei  ne  morisse,  et  fu  miracolo 
Che  da  nessun  non  gli  fu  fatto  offesa. 
Padrone,  ecco  il  malvaggio,  il  Pellegrino 
Che  è  solo  d'ogni  male  empia  cagione! 


1780 


1785 


142 


Edizioni  critiche 


SCENA  OTTAVA 
Marsilio,  Pellegrin,  Eugenio  et  Oliva. 


MARSILIO 
PELLEGRINO 


EUGENIO 
PELLEGRINO 

EUGENIO 


Ahi  malvaggio,  crudele  et  empio  mostro! 
Perché  m'hai  dato  morte  a'  miei  figUuoU? 
Allo  estremo  mi  dòl  ch'ancora  voi 
Non  siate  giunto  a  simil  passo,  ond'io 
Mi  potesse  vantar  d'aver  estinto 
Il  più  crudo,  il  più  empio,  e  '1  più  protervo 
Seme  del  mondo!  Io  non  son  colui 
Che  vi  pensate:  i'  son  Giberto,  figlio 
Qui  di  messer  Eugenio,  et  son  colui 
Che  per  cagion  della  figliuola  vostra 
Ito  son  già  tanti  anni  errando,  e  al  fine 
Tornato  son,  pur  per  veder  se  in  lei 
Era  intrato  scintilla  di  pietate^^^, 
O  per  la  nova  di  mia  morte,  overo 
Pel  lungo  mio  pellegrinaggio  et  aspro. 
E  il  ciel  m'ha  dato  occasione  ond'io 
L'ho  potuto  veder,  et  ho  veduto 
Cosa  in  lei  cosi  fuor  d'humanitate, 
Che  come  fiera  più  che  serpe  cruda 
L'ho  giudicata  d'ogni  morte  degna: 
Et  gli  l'ho  data,  con  proposto  fermo 
Di  non  voler  anch'io  più  stare  al  mondo. 
Ah  figlio  mio  da  me  sì  lungamente 
Pianto!  Hora  ti  conosco,  hora  t'abbraccio! 
Non  m'abbracciate,  padre,  che  dovendomi 
Perder  sì  tosto,  non  m'aver  trovato 
Potete  dir! 

Si  trovarà  rimedio 
AUo  error  tuo,  figliuolo. 


1790 


1795 


1800 


1805 


1810 


2^'  scintilla  di pietate:  cfr.  L^  Progne,  op.  cit.,  p.  11:  «(...)  e  se  scintilla  alberga  /  di  pietà  in 
voi,  da  voi  istessi  il  farete». 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


143 


PELLEGRINO  Odio  et  rifiuto 

Ogni  aita  per  me. 
MARSILIO  Fero  Creonte''', 

Adunque  l'honestà  di  mia  figliuola 

Meritava  la  morte? 
PELLEGRINO    Non  è  cosa 

Honesta,  ch'ella  sì  penosamente 

Morir  lasciasse  un  huom  che  l'adorava? 


1815 


1820 


SCENA  NONA 
Spedale,  Marsilio,  Oliva,  Eugenio,  Mutio,  Pellegrino  et  Lavinia. 


SPETIALE  Che  fanno  tante  genti  in  strada  adesso? 

Oh  per  mia  fé',  che  c'è  quel  Pellegrino 
C'hoggi  venne  da  me  con  tanta  instantia 
Per  il  veUeno!  Ecci  Messer  Marsilio. 
Honorando  padron  messer  Marsilio, 
Che  fate  qui  così  turbato? 

MARSILIO  Ahi  lasso! 

Costui  che  qui  rassembra  un  Pellegrino, 
E  un  mostro  pien  di  crudeltate,  et  hammi 
Ambi  i  miei  figH  avellenati,  e  morti! 

SPETIALE  State  di  buona  voglia,  e  rasciugate 

Il  pianto,  che  il  veUeno  hoggi  ha  comprato 
Da  me  che,  certo  et  di  gran  mal  presago. 
In  cambio  d'un  vellen  gli  ho  dato  un  forte 
E  mirabil  sonnifero"'  ,  c'ha  forza 
Di  far  dormir  così  profondamente, 


1825 


1830 


1835 


2^"'  Creonte:  re  di  Tebe,  protagonista  àé\' Antigone  di  Sofocle.  Il  dispotico  tiranno  fa  sep- 
pellire viva  Antigone,  colpevole  di  aver  dato  sepoltura  al  fratello  Polinice. 

2''^  Per  l'intervento  dello  speziale,  cfr.  /  Diporti,  op.  cit.,  p.  68:  «Lo  speciale,  che  si  avvisò 
che  costui  così  lo  volesse  per  sé  stesso  adoperare,  (...)  pensò  di  rimediare  a  qualche  malva- 
gia operatione,  et  d'una  polvere  d'uno  sonnifero,  che  fatto  aveva  mirabilissimo,  qualche 
ducato  rimborsarsi». 


144 


EdÌ2Ìoni  critiche 


OLIVA 


EUGENIO 


OLIVA 
SPETIALE 

MUTIO 

MARSILIO 
EUGENIO 


Che  morto  sembra  chi  ne  face  prova. 

Ma  il  sugo  poi  d'una  narranza""'  basta. 

Per  farlo  risvegliar  subito  subito. 

Oh  ventura  mia  grande!  F  vado  in  casa 

A  pigHame  volando  una  narranza, 

E  per  megHo  veder  portare  un  torchio^''^. 

Messer  Marsilio,  già  confesso  avere 

Avuto  torto  a  non  avervi  mai 

Sin  hor  parlato,  poi  che  vivo  veggio 

L'unico  mio  fìgliuol  che  già  credetti 

Un  tempo  che  da  Mutio  figliol  vostro 

Avesse  morte  ricevuto,  e  prego  vi 

A  perdonarmi,  poi  che  vivo  è  ancora 

Il  figHo  nostro,  e  vo'  se  v'è  in  piacere. 

Poi  ch'è  in  piacer  al  ciel,  c'hor  ce  lo  mostra 

Con  miracol  sì  grande,  che  fra  noi 

Seguiti  un  doppio  parentato,  e  vogHo 

Che  qui  Giberto  vostra  figHa  prenda 

Per  moglie"   ,  se  vi  piace,  et  che  Lavinia 

Si  prenda  Mutio,  et  che  viviamo  poscia 

In  una  casa,  et  in  un  sol  volere. 

Eccovi  la  narranza. 

Hor  vederete 
Miracolo  di  questa. 

Oh,  dove  sono? 
Oh  padre  mio,  dove  vi  veggio? 

Oh  figUo 
Abbracciami,  che  morto  hora  t'ho  pianto! 
E  tu,  Giberto,  similmente  abbraccia 
Il  padre  tuo,  che  così  lungo  tempo 


1840 


1845 


1850 


1855 


1860 


■^^'^  narrant::^.  arancia . 

^''^  torchio:  necessario  per  spremere  l'arancia. 

■^^^  Giberto...  moglie:  lo  scioglimento  della  vicenda  è  fin  troppo  sommario  poiché,  para- 
dossalmente, CUtia  continua  ad  essere  innamorata  di  un  altro. 


Il  Pellegrino.  Comedia  Nova  di  M.  Girolamo  Parabosco 


145 


PELLEGRINO 
MARSILIO 


EUGENIO 

LAVINIA 
MARSILIO 


È  gito  senza  par  nel  suo  dolore 
Per  la  creduta  morte! 

Oh  padre  dolce! 
Messer  Eugenio,  mio  fratel  carissimo,  1865 

Poi  ch'io  veggio  che  Iddio  di  sua  man  propia 
Ha  fatto  queste  nozze,  i'  son  contento 
Che  seguiti  tra  noi  quanto  vi  piace. 
Mutio,  figliuolo,  qui  Lavinia  abbraccia 
Come  tua  sposa  cara. 

E  tu,  Lavinia,  1870 

Abbraccia  vivo  quel  c'hai  pianto  morto! 
Con  Ucenza  di  voi  l'abbraccio,  padre. 
Andiamo  in  casa,  e  risvegliamo  l'altra 
Che  come  sì  trovammo,  anco  di  lei 

Vo'  che  si  faccian  questa  sera  a  punto  1875 

Le  nozze  ad  ogni  modo,  et  ch'ogni  oltraggio 
E  ricevuto  e  fatto  hoggi  s'oblii. 
Valete  spettatori^'^^ 


IL  FINE 


2'"'^  Valete  spettatori:  tradizionale  chiusa  della  commedia  con  consueta  formula  di  conge- 
do degli  spettatori. 


I  FIDI  AMANTI 
COMEDIA 

Del  Signor  Francesco 
Podiani. 

All'Illustrissimo,  et  Eccellentissimo  Signor 
Marchese  deUa  Corgna. 

Con  Privilegio 


IN  VENETIA, 

Appresso  Nicolò  Polo.  MDXCIX 

Con  licentia  de'  Superiori. 


NOTA  AL  TESTO 


Edif^oni  a  stampa  e  criteri  di  trascrittone. 

Il  testo  de  /  Fidi  A.manti  ha  conosciuto  un'unica  impressione,  quella  ve- 
neziana del  1599,  pervenutaci  in  due  esemplari,  conservati  rispettivamente 
alla  Biblioteca  della  Facoltà  di  Lettere  e  Filosofia  dell'Università  di  Torino  e 
alla  Braidense  di  Milano: 

I  FIDI  AMANTI  /  COMEDIA  /  Del  Signor  Francesco  /  Podiani.  / 
All'IUustrissimo,  &  Eccellentiss.  Sig.  /  Marchese  della  Corgna.  /  CON 
PRIVILEGIO.  /  IN  VENETIA,  /  Appresso  Nicolò  Polo  MDXCIX.  / 
Con  Hcentia  de'  Superiori.  //  in  8°,  ce.  73. 

La  pubblicazione  è  preceduta  da  una  lettera  dedicatoria  al  Marchese  del- 
la Corgna  da  parte  di  Horatio  Perinelli,  amico  dell'autore,  che  accenna 
all'avvenuta  rappresentazione  deUa  commedia,  senza  peraltro  fornire  indi- 
cazioni precise. 

La  presente  edizione  si  basa  sull'esemplare  torinese,  al  quale  sono  stati 
apportati  i  basilari  ammodernamenti  grafici  (tenuti  presenti  anche  per 
l'edizione  della  commedia  paraboschiana),  rispettosi  della  patina  cinquecen- 
tesca del  testo,  mentre  la  divisione  in  atti  e  scene  era  già  presente  nella 
stampa. 

Nello  specifico  si  è  proceduto  distiguendo  u  o.  v;  adottando  le  norme 
correnti  per  i  digrammi  eh  e  gh  seguiti  da  velari  (correggendo  ad  esempio 
forme  quah  scioccho  e  stomacho);  regolarizzando  gli  apostrofi  e  gli  accenti; 
sciogliendo  le  abbreviazioni;  intervenendo  nell'interpunzione  per  facilitare 
lo  sviluppo  di  alcuni  periodi  o  migliorarne  l'efficacia  espressiva.  In  generale 
sono  state  mantenute  le  oscillazioni  tra  scempie  e  geminate  (ad  eccezione 


150  Edizioni  critiche 

delle  lezioni  isolate,  come  nel  caso  di  letera  ricondotta  alla  forma  prevalen- 
te), monottongo  e  dittongo,  così  come  le  grafie  latineggianri  (ad  eccezione 
di-^'  trascritta  in  ì  e  di  /^  soppressa  nelle  forme  del  verbo  'avere')  in  quanto 
riconducibili  ad  una  precisa  volontà  dell'autore  nonché  all'uso  linguisrico 
del  tempo. 

Negli  esclamativi  eh,  oh,  ah  sono  state  integrate  le  h  assenti,  e  sono  stati 
separati  secondo  l'uso  vigente  le  congiunzioni  grafiche  del  tipo  egli  "e  gli". 
Ricordo  l'uso  delle  parentesi  tonde  "(  )"  per  marcare  gli  incisi  e  di  quelle 
uncinate  "<  >"  per  racchiudere  quanto  ho  integrato,  presumendo  una  ca- 
duta nella  stampa. 

Le  correzioni  più  importanti  sono  comunque  segnalate  nelle  note  in  calce  al 
testo. 


Errori  di  stampa 

Si  fornisce  l'elenco  delle  correzioni  apportate  al  testo  della  stampa  adottata, 
ed  esulanti  da  semplici  variazioni  grafiche: 

ATTO  1 

Scena  5:  So  che  la  Signora  -^  Sol  che  la  Signora. 

ATTO  2 

Scena  1:  potreste  — >•  poteste;  isteso  -^  istesso; 

Scena  3:  quando  più  cresce  — >  quanto  più  cresce; 

Scena  2:  eh'  gli  è  ^  che  gli  è; 

Scena  7:  vuoi  la  — >  vuoila; 

Scena  8:  mandacum  — >  mandatum. 

ATTO  3 

Scena  1  :  secrarò  — >  secarò; 
Scena  2:  fosse  — >  forse;  E  — >  È; 
Scena  8:  aspettami  -->•  aspettatemi; 
Scena  1 1  :  Vitta  — >■  vita. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  151 

ATTO  4 

Scena  1  :  coprirti  — >•  scoprirti; 

Scena  4:  Si  — >  Signor; 

Scena  6:  on  -^  non; 

Scena  7:  setima  — >  settima;  ohimè  -^  oimè;  guata  -^  guatar; 

Scena  10:  conosce  -^  conosco; 

Scena  11:  quasto  — >  questo. 

ATTO  5 

Scena  1:  è  ^  e; 

Scena  6:  e  — >  è; 

Scena  10:  lasciasse  — »  lasciassi; 

Scena  11:  testante  -^  restante. 


152  Edizioni  critiche 

ALL'ILLUSTRISSIMO 

ET  ECCELLENTISSIMO  SIGNOR 

E  Patron  mio  colendissimo, 

IL  SIGNOR  MARCHESE 

DELLA  CORONA'. 


La  virtù  ne  gH  animi  nostri,  Illustrissimo,  et  Eccellentissimo  Signore,  ha 
questa  natura,  che  tirandoli  a  se  con  dolce  violenza,  e  rapina,  e  con  una  cer- 
ta ammirarione  e  riverenza,  di  sé  medesima  in  un  punto  gli  invaghisce,  et 
innamora.  Onde  non  è  maraviglia  se  la  presente  Comedia  del  Signor  Fran- 
cesco Podiani  comparendo  in  Scena,  fu  ricevuta  con  applauso,  lode,  e  gusto 
universale,  da  chi  le  fece  vaga  et  honorata  contrascena,  e  se  io,  che  mi  tro- 
vai tra  gH  altri  spettatore  di  essa,  ne  restai  talmente  invaghito,  che  non  ho 
avuto  d'aUhora  in  qua  pensiero  più  fisso  nel  cuore  che  di  procurare  di  farla 
uscire  in  luce  persuadendomi  che,  sì  come  avea  sodisfattto  inrieramente  in 
scena,  così  dovesse  non  meno  risguardevole  farsi  vedere  nelle  stampe.  E 
come  awien  sempre,  che  più  si  desiderano  quelle  cose  che  più  sono  negate, 
tanto  maggior  desiderio  se  n'accese  in  me,  quanto  maggior  ripugnanza  tro- 
vai sempre  intorno  a  ciò  dalla  banda  del  detto  Francesco,  perché  mentr'egli 
mi  diceva  gH  occhi  esser  più  severi  giudici  che  l'orecchie  non  sono,  io 
aU'incontro  considerava  che  passando  questo  suo  componimento  tuttavia 
di  penna  in  penna  in  diverse  copie,  poteva  facilmente  a  poco  a  poco  venir 
perdendo  la  sua  forma  natia.  E  da  questa  e  da  altre  mie  ragioni  persuaso, 
presi  consigHo  di  esseguire  quello  ch'egH  per  modestia,  e  per  un  certo  nobil 
disprezzo  di  se  medesimo  ricusava,  fatto  ardito  daU'amicitia  strettissima  che 
è  tra  noi,  le  leggi  di  cui  vogHono  che  io  per  honor  proprio  pigH  cura 


'  Marchese  della  Corgna:  appartenente  ad  una  delle  più  antiche  famiglie  perugine,  impa- 
rentate anche  con  papa  Giulio  III,  poteva  vantare  tra  i  suoi  predecessori  il  celebre  capitano 
di  ventura  e  maestro  d'armi  Ascanio  della  Corgna,  morto  nel  1571  dopo  aver  combattuto 
contro  i  Turchi  a  Lepanto. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  153 

dell'honor  di  lui.  E  dovendo  hora  pur  farla  vedere  al  mondo,  ho  voluto  per 
suo  principal  ornamento  porle  in  fronte  il  nome  di  Vostra  Eccellenza,  la 
quale  co'  i  raggi  delle  virtù,  e  dell'armi  che  son  passate  in  lei  come  heredita- 
rie  da  gli  avi  paterni  e  materni,  potrà  far  apparire  meno  oscure  le  imperfet- 
tioni,  e  diffetti  di  essa,  non  altrimenti  che  ben  locate  ombre  in  leggiadris si- 
ma pittura,  e  saprà  non  meno  difenderla  con  l'auttorità,  che  gradirla  con 
l'affetto,  ricordandole  che  anco  Cesare  trapassando  le  Alpi,  gradì,  et  accettò 
con  animo  regio  le  povere  vivande  di  che  gli  ingombrò  la  mensa 
quell'hospite  che  in  povero  albergo  l'avea  raccolto.  Povero  hospite  son  io, 
che  nella  sterilità  dell'ingegno  proprio  non  ho  altro  da  porle  avanti  che  i 
primi  frutti  dell'ingegno  d'un  caro  amico,  ma  è  ricco  il  desiderio  del  quale  si 
appagano  gli  animi  grandi  come  il  suo. 

E  qui  resto,  facendole  per  fine  hurmlissima  riverenza,  e  dedicandole  in- 
sieme con  la  Comedia  anco  la  divotione,  e  servitù  del  detto  Francesco,  e 
mia. 
Di  Perugia  à  24  Febraro  1599. 

Di  V.  EcceU. 

Humilissimo  e  devotissimo  Servitore  Horatio  Perinelli^. 


2  Di  Orazio  Perinelli,  letterato  amico  del  Podiani,  non  si  è  rintracciata  alcuna  notizia. 


154 


EdÌ2Ìoni  critiche 


QUELLI  CHE  PARLANO  NELLA  COMEDIA 


ERMINIO 

VALERIO 

MANFREDO 

LELIO 

ALMIRA 

CONCORDIA 

PANCRATIO 

FARINA 

OLINDA 

SOFFRONIA 

SAMBUCO 

ALESSANDRO 

GASPARO 

ALIDORO 

BARIGELLO 


Innamorato  di  Olinda 

Servitor  d'Olinda 

Mastro  di  casa  del  Prencipe 

Innamorato  di  Olinda 

Cortigiana  innamorata  di  Erminio 

Serva  di  Almira 

Procuratore  sciocco  innamorato  d'Almira 

Servitore  di  Pancratio 

Innamorata  di  Erminio 

Matrona 

Clientolo  sciocco  di  Pancratio 

Amico  di  LeHo 

Servitore  di  Lelio 

Padre  di  Olinda 

Con  due  sbirri. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


155 


ATTO  PRIMO 


SCENA  PRIMA 
Erminio,  Valerio. 

ERMINIO  Vedi  come  spesso  i  pensieri  riescono  fallaci  ,  et  i  discorsi 

n'ingannano:  dove  tu  pensasti,  con  l'avermi  condotta  a  ca- 
so Olinda  mia  in  questa  corte'*,  d'avermi  insieme  restituita 
la  vita,  per  essere  io  fuor  di  speranza  di  poterla  più  mai  ri- 
vedere, ecco  che  hora  più  che  mai  sarò  vivo  essempio 
d'infinita  miseria.  Oimè,  non  fu  aUhora  così  grande  il  con- 
tento nel  vedermi  comparire  innanzi  l'unico  mio  bene,  che 
non  sia  hora  maggiore  il  dolore  ch'io  ho  di  vedermelo  tórre 
a  viva  forza!  Udisti  mai,  Valerio,  caso  simil  al  mio,  e  più 
degno  di  compassione? 

VALERIO  Per  certo.  Signor  Erminio,  che  gran  ragione  avreste  di  do- 

lervi amaramente,  se  questo  sospetto  ch'avete,  che  '1  Pren- 
cipe  vostro  Signore  vi  sia  rivale,  fosse  vero,  ma  se  v'ho  da 
dire  alla  libera  quello  che  ne  credo,  dubito  (e  perdo- 
na<te>mi)  che  questa  sia  una  vostra  immaginazione,  una 
chimera^,  che  vi  adombri  il  vero,  e  vi  colori  il  falso:  a  me 
par  quasi  impossibile  che  un  Prencipe,  che  può  cavarsi  mil- 
le capricci,  et  ottener  soggetti  degni  di  lui,  possa  amar  (per 
dir  così)  una  donniciuola  che  come  minima  serva  sta  in 
questa  corte. 

ERMINIO  Tanto  più  ho  cagione  di  dolermi  dell'iniquità  de  la  formna, 

quanto  che  a  danno  mio  opera  cose  insolite  et  incredibili; 
non  dovrebbe  il  Prencipe  per  molte  ragioni  potentissime 


^  pensieri...  fallaà:  cfr.  Ariosto,  O.F.,  XLI,  23,  1:  «Oh  fallace  degli  uomini  credenza!»; 
Tasso,  intrichi  d'Amore,  III,  12:  «Oh,  come  falliscono  al  spesso  li  giudizii  nostri!»  e  I\',  12: 
«Or  ecco  come  i  giudizii  umani  sono  al  spesso  fallaci!». 

•♦  corte:  si  tratta  della  residenza  del  Principe  di  Salerno,  come  verrà  specificato  nelle  bat- 
tute seguenti. 

^  chimera,  sogno,  invenzione  fantastica. 


156 


Edizioni  critiche 


poter  cadere  in  un  error  tale,  e  pur  egli  stesso  tuttavia  mi 
conferisce  che  le  maniere  et  i  modi  d'Olinda  sono  rari,  che 
la  bellezza,  e  gratia  sua  è  infinita,  che  a  poco  a  poco  si  sen- 
te accendere  di  lei,  e  ch'ella  homai  è  lo  spirito  suo,  l'anima 
sua. 

VALERIO  Gran  cosa  mi  dite,  et  io  non  volendo,  avrò  alterate  le  vo- 

stre passioni,  e  postovi  di  nuovo  in  un  mar  d'affanni.  Oh 
quanta  compassione  ch'io  v'ho,  Signore,  e  quando  penso  a' 
casi  vostri,  e  d'Olinda  insieme,  resto  insensato,  e  fuori  di 
me  stesso  ,  e  prima  come  voi  poteste  fuggir  la  morte  in 
quel  gran  pericolo  ove  foste  posto,  e  come  io  abbia  potuto 
campar  la  vita  ad  Olinda,  che  disperata  era  partita  di  Ge- 
nova per  affogarsi  in  mare  per  voi,  e  come  avend'io  sco- 
perto l'inganno  ,  e  la  sua  fiera  resolutione,  la  conducessi 
qui  a  Salerno,  dove  pensando  di  raccomandarla  a  questo 
Prencipe,  per  aspettar  poi  occasione  di  restituirla  al  padre, 
voi  qui  vivo  ritrovammo. 

ERMINIO  Oh  quanto  megHo  sarebbe  stato  per  me  di  disprezzar  quel 

bene,  c'hora  è  mal  sicuro!  Così  sempre  fin  da  le  fascie  fui 
da  la  speranza  allettato  con  dolcissime  lusinghe,  e  poi  con- 


^  mi  conferisce:  'mi  confida,  mi  mette  al  corrente'  (solitamente  riferito  a  notizie  di  una  cer- 
ta riserv^atezza);  la  voce  è  frequentissima  nell'opera. 

'  insensato...  fuor  di  me  stesso:  vaga  eco  della  poesia  stilnovista  (ad  esempio  cfr.  Cavalcanti, 
Tu  m'hai  sì  piena  di  dolor  la  mente,  v.  9:  «  F  vo  come  colui  ch'è  fuor  di  vita»),  che  perdura  fino 
al  Tasso. 

*  inganno:  Olinda,  determinata  a  morire,  aveva  ovviamente  celato  a  \^alerio  il  vero  scopo 
del  suo  viaggio  (come  ella  stessa  spiegherà  nella  prima  scena  del  secondo  atto). 

^  fin  da  le  fascie:  la  lamentazione  è  topica  del  personaggio  dell'innamorato  (cfr.  Bibbiena, 
L^  Calandria,  atto  2,  scena  8:  «Deh!  Me  avesse  Dio  dato  per  luce  tenebre,  per  vita  morte  e 
per  cuna  sepoltura  allor  che  io  del  materno  ventre  uscii;  da  che,  in  quel  punto  che  io  nac- 
qui, morir  dovea  la  ventura  mia»;  Parabosco,  h'Hermafrodito,  atto  1,  scena  5:  «Misero  me 
che  ben  infelicemente  nacqui,  poi  che  non  appena  nato  cominciai  a  sentir  le  percosse  di 
questo  mondo»)  ed  è  mutuata,  ov^amente,  dal  registro  tragico  (cfr.  ad  es.  Giraldi,  Orbecche, 
atto  III,  \"v.  1941-2:  «Che  trastullo  son  stato  a  longo  /  A  la  fortuna  e  lungo  tempo  un  giuo- 
co»). Infine  per  l'accenno  ■ìSì.c  fasce,  seppur  con  qualche  variante,  cfr.  Trissimo,  Sophonisba, 
v.  308:  «Deh,  foss'io  morta  in  fasce!»;  Rucellai,  Rosmunda,  v.  141:  «Ma  più  felice  è  quel  che 
mòre  in  fasce»;  Tasso,  Torrismondo,  atto  5,  scena  6,  v.  3226:  «Oh,  foss'io  morta  in  fasce»; 
Martelli,  Tullia,  w.  384-387... 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


157 


VALERIO 


ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


dotto  a  termini  estremi  d'infelicità;  senti:  nascer  di  nobil 
famiglia  in  povere  facilità  ' ,  e  nell'età  puerile  mancarmi  pa- 
dre e  madre,  esser  alzato  a  qualche  speranza  di  bene,  cader 
poi  in  disdetta  ,  e  quasi  fuggendo  l'iniquità  della  mia  sorte, 
capitar  in  Genova,  segno  e  bersaglio  a  i  colpi  mortali  di 
fortuna. 

Signore,  lasciam  le  cose  antiche,  che  più  volte  ve  l'ho  senti- 
te ricordare.  Ditemi  di  gratia  quel  che  successe  in  Genova, 
che  se  bene  sono  informato  in  qualche  cosa,  non  so  però 
come  passasse  il  tutto  minutamente. 

Che  occorre  andar  di  nuovo  premendo  le  piaghe,  et  accre- 
scermi il  dolore,  se  tu  sai  che  fiero  impetuoso  assalto  mi 
fecero  gH  occhi  vaghi  d'OHnda,  che  non  fui  così  presto  a 
mirarli,  quanto  al  sentir  corrermi  al  cuore  un  ghiaccio,  e 
quasi  in  un  istesso  tempo  infiammarmi,  et  arder  tutto  della 
loro  bellezza? 
Fu  vero. 

Se  fu  facile  ottener  la  gratia  sua,  chi  lo  sa  meglio  di  te,  che 
tante  volte  mi  dicesti  che  l'amore,  e  l'ardore  d'ambe  due 
era  pari  et  infinito? 
Era,  et  è  hoggi  più  che  mai. 

Onde  avampando  ne  i  nostri  cuori  questo  gran  desiderio 
d'esserne  marito  e  moglie  (datane  fra  noi  la  fede)  io  mi  ri- 
solvei, et  anco  a'  tuoi  preghi,  di  farla  domandare  al  padre,  il 
quale  negando  di  darmela  (per  esser  io  forestiero)  accon- 
sentiva di  farmi  morire  miUe  volte  l'hora'^. 


^^ /acuità:  beni,  mezzi  economici. 

"  disdetta:  sfortvina. 

'2^//  occhi  vaghi  belle:^a:  si  tratta  ancora  di  un  forte  richiamo  alla  teoria  amorosa  di  stam- 
po cortese  e  stilnovista,  che  passa  attraverso  Dante  e  Petrarca  e  rimane  consueta  nella  poe- 
sia e  trattatistica  rinascimentale  (cfr.  ad  esempio  Platone,  Fedro,  p.  61;  Guinizzelli,  Rime,  ho 
vostro  bel  saluto  e  gentil  sguardo,  w.  12-13;  Cavalcanti,  Rime,  XII,  w.  1-8;  Dante,  V'ita  Nova, 
XIX,  w.  51-54;  Petrarca,  KVF,  III,  w.  9-11;  Ficino,  Sopra  lo  Amore,  VI,  Vili;  Bembo,  Aso- 
lani,  II,  XXII). 

'^  morir  mille  volte  l'hora:  cfr.  Petrarca,  KVF,  XliV,  v.  12:  «mi  vedrete  straziare  a  mille 
morti». 


158  Edizioni  critiche 

VALERIO  Oh,  e  voi  mi  diceste  che  n'avevate  avuto  buone  parole,  e 

che  presto  speravate  di  venire  alle  nozze! 

ERMINIO  Io  non  volsi  scoprirti  questo,  dubitando  che  tu  poi  non  mi 

mancassi  d'affetione  e  d'aiuto,  parendomi  esser  sicuro 
ch'eUa  non  potesse  esser  d'altri  che  mia,  ma  Roberto  Alon- 
so, troppo  accorto  rivale,  avvedutosi  del  nostro  amore,  et 
ardendo  di  sdegno,  e  di  rabbia,  senza  cagione  alcuna,  volse 
venir  meco  a  quistione,  e  perché  chi  s'appiglia  al  torto  rade 
volte  vince,  toccò  a  lui  di  restar  ferito,  et  a  me  prigione. 

VALERIO  Male  a  l'uno,  e  peggio  a  l'altro! 

ERMINIO  E  perché  in  Genova  (come  sai)  è  pena  della  vita  metter 

mano  all'arme  contra  un  nobile,  poco  dopo  fui  condannato 
a  morte. 

VALERIO  Ecco  dove  conduce  precipitosa  risolutione! 

ERMINIO  Finalmente  a'  preghi  d'alcuni  fu  ottenuto  che  mi  fosse 

commutata  la  pena,  e  fu  questa:  mi  legarono  le  mani  e  i 
piedi,  e  ponendomi  in  una  barchetta  in  tempo  di  fortuna^'* 
in  alto  mare,  mi  lasciarono  in  preda  dell'onde  crudeli,  e  de  i 
rabbiosi  venti    . 

VALERIO  Non  mi  ricorderò  mai  di  quel  giorno,  che  non  mi  vengano 

le  lagrime  a  gli  occhi. 


^"*  fortuna:  ovviamente  in  accezione  di  tempesta.  Si  ricordi  che  il  fortunale  è  uno  degli 
accidenti  topici  più  sfruttati  sia  negli  antefatti  delle  commedie,  sia,  in  generale,  nelle  opere 
narrative  della  tradizione  (ad  es.  cfr.  Boccaccio,  Decameron,  II,  4  e  7;  Filocolo,  IV,  6-9;  Boiar- 
do, Inamoramento  de  Orlando,  II,  IV,  ott.  1-15  e  28-35;  Pulci,  Margarite,  XX,  30-44;  Ariosto, 
0.¥.,  II,  28-31;  XIII,  14-18;  XVIII,  141-145  e  XIX,  43-53;  XLI,  8-24). 

^5  La  situazione  presenta  un  evidente  legame  con  la  novella  decameroniana  di  Gostan- 
za e  Martuccio  Gomito  (cfr.  Boccaccio,  Decameron,  V,  2):  come  Martuccio  infatti  il  prota- 
gonista della  piece  del  Podiani  si  vede  negare  la  mano  della  fanciulla  vagheggiata  per  colpa 
delle  sue  origini  ed  è  creduto  morto  durante  una  tempesta;  tuttavia  nella  novella  del  Boc- 
caccio è  la  sola  Gostanza  a  salire  in  una  barca  per  poter  annegare  in  baUa  delle  onde,  a  dif- 
ferenza della  nostra  storia  dove  Erminio  si  trova  condannato  alla  medesima  condizione  ed 
Ohnda  si  ripromette  la  stessa  fine.  Per  gli  accenni  agli  elementi  tipici  del  fortunale,  ripresi 
anche  più  avanti,  cfr.  in  particolare  Ariosto,  0.¥.,  II,  28,  v.  7:  «sollevò  il  mar  intomo,  e  con 
tal  rabbia»;  XLI,  12,  v.  1:  «Da  la  rabbia  del  vento  che  si  fende»;  15,  w.  1-2:  «Muove  crudele 
e  tempestoso  assalto  /  da  tutti  i  lati  il  tempestoso  verno». 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


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ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


Con  qual  impeto,  e  con  qual  furore  fosse  il  legno  traspor- 
tato, io  lo  so,  ch'ogn'hora,  ogni  momento  aspettava,  e  ve- 
deva la  morte;  al  fine  (come  a  Dio  piacque'^)  così  agitato,  si 
condusse  in  questa  spiaggia  di  Salerno,  dove  essendo  tro- 
vato in  quella  guisa,  poco  men  che  morto,  fui  preso  per 
compassione,  e  condotto  innanzi  a  questo  Prencipe,  il  qua- 
le fattomi  ristaurare  ,  volse  saper  da  me  ch'io  fossi,  e  per- 
ché posto  in  quel  legno  così  legato. 
E  voi  glie  lo  diceste? 

Sì,  gli  dissi  ch'io  era  Erminio  Salidori,  povero,  e  sfortunato 
giovane,  e  che  fui  destinato  a  tanta  crudeltà  per  aver  in 
Genova  del  pari^'^'  ferito  un  nobile. 
Senza  dirli  niente  dell'amor  vostro? 

Niente,  ma  gliel'avessi  io  detto!  Basta,  mostrò  d'aver  pietà 
di  questo  caso  il  Prencipe,  e  commandommi  ch'io  mi  fer- 
massi in  corte,  dove  non  so  se  mai  mi  fossi  contenuto  non 
mostrar  segno  di  furore  o  di  disperatione,  se  non  che,  ve- 
dendo comparirmi  quest'Aknira  cortigiana,  e  parendomi  in 
quell'incontro  non  so  che  simiglianza  d'Olinda,  pensai  di 
farmela  amica,  e  contentarmi  di  quell'ombra,  di 
quell'apparenza  sola,  poiché  la  vera  vita,  et  anima  mia,  avea 
lasciata  a  Genova. 
Addolorata  come  voi.  Seguite. 

Così  fermatomi  in  corte,  e  forse  per  peggior  mia  sorte  in 
sì  poco  tempo  venuto  innanzi,  son  hora  tale  con  sua 
Eccellentia,  che  poche  cose  dispone,  che  meco  non  le  con- 


"^  impeto...  furore:  cfr.  Ariosto,  O.F.,  XLI,  13,  w.  1-2:  «Ecco  stridendo  l'orribil  procella  / 
che  '1  repentin  furor  di  borea  spinge». 

'^  come  a  Dio  piacque:  cfr.  Boccaccio,  Decameron,  II,  4:  «Il  di  seguente  appresso,  o  piacer 
di  Dio  o  forza  di  vento  che  '1  facesse  (...),  pervenne  al  lito  dell'isola  di  Gurfo  (...)». 

"*  si  condusse:  il  soggetto  è  ovviamente  'il  legno',  la  barca. 

'^  ristaurare:  ristorare,  rimettere  in  forze. 

^"  del  pari:  'in  un  duello  tra  pari'  ovvero  tra  persone  appartenenti  alla  stessa  condizione 
nobiliare  (alla  luce  di  quanto  appena  specificato  da  Erminio  sulle  sue  origini  e,  soprattutto,  dei 
significati  affini  che  l'espressione  assume  nel  corso  della  commedia,  ad  es.  pp.  167,  209,  218). 


160 


Edizioni  critiche 


VALERIO 


ERMINIO 


VALERIO 


ferisca  .  Ma  mentre  andava  così  soffrendo,  e  temprando 
l'ardore  delle  mie  passioni,  che  il  tempo  non  avea  potuto 
ancora  mitigarle,  ecco  (oh  che  maraviglia!)  tu  menasti  pian- 
gendo innanti  al  Prencipe  Olinda  mia,  e  dicesti  che  navi- 
gando il  padre  con  la  famiglia  in  Sicilia,  per  esercitare  alcune 
mercantie,  la  fortuna  vi  ruppe  il  legno,  e  tutti  morirono, 
eccetto  voi  due,  che  a  gran  pena  vi  salvaste. 
Così  pensai  di  dire,  per  non  scoprire  il  fatto,  percioché 
(come  vi  ho  detto)  l'animo  mio  era  di  condurla  a  questo 
Prencipe,  e  poi  scrivere  al  padre  la  cagione  della  nostra  par- 
tita di  Genova,  e  che  avendomi  ella  ingannato^^,  venisse 
qua  a  ripigliarla,  ma  ritrovando  qui  voi,  subito  mutai  pro- 
posito, e  mi  servì  di  quella  scusa  del  naufragio,  com'io  poi 
vi  dissi  in  secreto,  narrandovi  il  fatto,  com'era  passato. 
Dolcissima  vista,  felicissimo  arrivo  per  me  in  quel  punto, 
ma  (oimè)  spatio  troppo  breve  durò  la  mia  gioia  e  '1  mio 
contento!  Pensai  aUhora  esser  nel  colmo  della  mia  felicità, 
et  avere  in  poter  mio  quel  che  tanto  avea  desiderato,  ma  al- 
tramente (infelice  ch'io  sono!)  emmi  avvenuto,  che  hora 
più  che  mai  son  nelle  miserie  immerso,  e  privo  d'aiuto,  e  di 
soccorso,  poiché  questo  Prencipe  vorrà  togliermi  il  ben 
mio,  e  lasciarmi  in  preda  alla  disperatione,  alla  morte! 
Signore,  ne  i  travagli^^,  e  nelle  avversità  bisogna  voltar  la 
fronte  alla  fortuna,  e  coraggiosamenente  difendersi,  e  col 
pensare,  e  col  discorrere,  fuggire  il  male  che  s'antivede^'*.  E 
mi  sowien  hora  che  forse  non  fareste  errore  a  scoprire  al 
Prencipe  Uberamente  l'amore,  e  la  fede  data  fra  voi,  et  O- 


^'  Così. ..conferisca:  ancora  un'affinità  con  la  tragedia  giraldiana,  precisamente  con  la  storia 
di  Oronte  (cfr.  Giraldi,  Orbecche,  atto  III,  w.  1965-6:  «Che  'n  tanto  pregio  crebbi  appresso 
lui  /  Che  mi  propose  a  quanti  egli  avea  in  corte»). 

■^'  avendomi  ella  ingannato:  'avendomi  celato  le  sue  reali  intenzioni'  (cfr.  n.  8  p.  156). 

2^  travagli:  'sventure,  calamità'  (cfr.  GDU,  XXI,  s.v.  travaglia) . 

2^  ne  i  travagli...  antivede:  vaga  ripresa  del  celebre  brano  sulla  fortuna  di  Machiavelli  (cfr. 
De  Principatibus,  XXV),  presente  anche  nella  Tullia  del  MarteUi,  w.  302-305:  «I  casi  avversi 
sono  /  Quei  che  palesi  fan  gli  stolti  e  i  saggi.  /  Ne  le  cose  felici  /  Non  si  può  mai  fallir,  che 
'1  fato  insegna». 


/  Fidi  A.manù.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


161 


linda  in  Genova  (piano,  non  vi  turbate!)  perché  s'egli  vi 
ama  di  core,  come  se  ne  vedono  gli  effetti,  è  facil  cosa  che 
(essend'egli  nel  capriccio  che  voi  dite)  faccia  forza  a  se 
stesso,  e  se  ne  rimanga  solo  per  compiacervi. 

ERMINIO  Questo  non  farò  io,  per  non  affrettarmi  al  precipitio,  per- 

ché, oltre  ch'io  mostrarei  aver  diffidato  di  lui,  quel  che  è 
peggio,  non  essendomi  scoperto  prima  ch'egH  si  confidasse 
meco,  parrebbe  che  con  questo  tratto  lo  volessi  tradire,  e 
gli  accenderei  nell'animo  tanto  sdegno  et  odio,  che  subito 
perderei  il  Prencipe  et  Ohnda  insieme.  Non  no!  Avessel'io 
fatto,  dolente,  subito  che  vi  vidi  in  questa  corte! 

VALERIO  Oh,  perché  non  lo  faceste? 

ERMINIO  AUhora  non  volsi  contradire  alla  scusa  che  pigliaste  seco 

del  naufragio,  doppo  dubitai  che  discoprendo  il  vero  al 
Prencipe,  e  dispiacendoli  forse  il  troppo  ardire  d'Ohnda, 
non  l'avesse  rimandata  al  padre  a  Genova. 

VALERIO  II  caso  è  degno  di  consideratione:  voi  séte  in  un  mare  non 

solo  turbato,  ma  tutto  sotto  sopra;  bisogna  navigare  accor- 
tamente, per  non  dar  in  qualche  scogHo^^.  Non  correte  a 
furia  a  disperarvi,  e  voler  morire,  attendete  a  quello  che  ne 
segue  e,  secondo  l'occasioni,  pigliate  il  partito. 

ERMINIO  Chi  può  celar  la  piaga,  che  non  apparisca  il  male,  o  non  è 

piaga,  o  non  è  mortale.  Non  so  quanto  potrò  durare,  di 
non  far  restare  il  Prencipe  di  me  mal  soddisfatto.  Tu,  se  mi 
ami  più,  come  solevi,  aiutami  dove  bisognerà,  e  sopra  1 
tutto  non  dir  mai  d'avermi  conosciuto  a  Genova. 

VALERIO  Signor  Erminio,  quel  che  Valerio  è  stato  una  volta  per  voi, 

queU'istesso  sarà  sempre.  Quello  che  a  me  preme  è  che, 
apunto  in  questi  giorni  che  arrivammo  qua,  m'incontrai  in 
un  mercante  Genovese  che  tornava  di  Messina,  il  quale  a- 
vendomi  veduto  e  conosciuto,  dubito  che,  nel  ritornare  a 


25  voi  séte...  scoglio:  viene  proposta  la  metafora  convenzionale  della  tempesta,  anch'essa 
presente  nel  racconto  di  Oronte  (cfr.  Giraldi,  Orbecche,  atto  III,  w.  1970-2005). 


162 


Edizioni  critiche 


Genova,  l'abbia  detto  ad  Alidoro  padre  d'Olinda,  e  che  un 
giorno  capiti  qui  in  Salerno  all'improviso. 

ERMINIO  Volesse  il  cielo,  e  venisse  presto!  Meglio  sarebbe  questo, 

che  apparecchiarmi  a  maggior  stratio! 

VALERIO  Ma  ho  speranza  che  quando  ALidoro  saprà  com'è  passato  il 

fatto,  si  quietarà;  solo  potrà  dolersi  di  me,  che  più  mi  è 
premuto  l'amor  vostro  e  d'Olinda,  che  lo  sdegno  suo,  ma 
mtto  è  stato  perch'io  credeva  che  la  cosa  riuscisse  felice- 
mente: ma  chi  sa?  Intanto  il  Prencipe  ha  dato  Olinda  sotto 
bona  cura  di  matrona,  et  ha  creduto  la  perdita  de'  suoi  in 
mare,  qualche  cosa  sarà  poi. 

ERMINIO  Questa  cura  a  me  non  giova,  ma  nuoce!  Qui  non  è  più 

tempo  da  trattenersi:  qualch'uno  potrebbe  osservare  il  no- 
stro ragionamento.  Andiamo  fino  a  porta  deUa  marina,  che 
hora  c'ho  tempo  potremo  ancor  per  un  poco  discorrere  in- 
sieme, ma  oimè  a  che  potrà  giovare?  Voltiam  di  qua. 


SCENA  SECONDA 
Manfredo,  LeUo. 


MANFREDO  Le  cerimonie  con  me,  Signor  Lelio  mio,  sono  superflue: 
non  occorre  che  io  faccia  altra  prova  della  magnanimità  del 
bell'animo  vostro;  prestatemi  fede,  che  hora  non  ho  cosa 
che  più  mi  prema,  che  di  poter  trovar  modo  di  adempire  il 
desiderio  vostro,  e  darvi  mtte  le  satisfattioni  che  voi  mede- 
simo poteste  desiderare. 

LELIO  Vi  confesso,  Signor  Manfredo,  in  questo  negotio  esser 

troppo  importuno"'^,  ma  per  gratia  compatitemi,  perché 
dove  è  maggior  difficultà,  ivi  spesse  volte  l'animo  s'accende. 
Il  soverchio  amore  ch'io  porto  ad  Olinda,  et  il  conoscere 
ch'io  procuro  cosa  difficile,  fa  ch'io  passi  ogni  termine  di 
creanza,  con  molestarvi,  et  inquietarvi  continuamente,  che 

^''  importuno:  molesto. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


163 


essendo  voi  maggiordomo,  e  patrone  di  questa  corte,  vo- 
gliate operarvi  a  favor  mio. 

MANFREDO  Oh  come  questa  gran  voglia  ch'avete  vi  offusca  talmente 
l'intelletto,  che  non  vi  lascia  capire  quel  che  mille  volte 
v'ho  detto!  Piacesse  a  Dio  che  l'opra  e  l'aiuto  che  da  me 
potesse  nascere,  potesse  operare  in  questo  particolare 
qualche  profitto,  che  vedreste  con  qual  vivo  affetto  io 
spendessi  per  voi  le  fatiche,  e  le  forze,  per  ben  servirvi,  ma 
dove  non  possono  giovar  né  parole,  né  prieghi,  né  inven- 
tioni"  ,  a  che  voler  perder  tempo  e  gittar  via  tutta  l'opera? 
Accettate,  di  gratia,  questo  consiglio  da  chi  vi  ama  di  cuore: 
mettete  l'animo  in  pace,  e  non  cercate  d'Olinda  per  moglie, 
perché  non  otterrete  il  desiderio  vostro. 

LELIO  Non  ha  luoco  il  consiglio,  dove  l'animo  è  risoluto.  Signore, 

non  credete  che  s'io  potessi  liberami  da  quel  ch'io  non  e- 
lessi,  non  lo  facessi"  volontieri!  Vi  giuro  che  il  primo  gior- 
no che  Valerio  la  condusse  a  questa  corte  (che  homai  sono 
otto  mesi)  e  ch'io  mirai  quella  rara  bellezza,  che  a  gli  occhi 
miei  non  ha  pari,  mi  destò  nel  cuore  così  vorace  fiamma, 
che  subito  arsi  di  desiderio  di  poterla  ottenere  per  mia  mo- 
gUe. 

MANFREDO  II  desiderar  queUe  cose  che  non  si  possono  avere  è  vanità, 
et  imprudenza  espressa;  non  niego  che  i  meriti  vostri  non 
siano  bastanti  a  vincere,  et  a  superare  molte  difficultà,  ma 
questa  no,  perché  so  ch'è  difficil  troppo,  e  (per  dirla  me- 
glio) anco  impossibile. 

LELIO  Perché  impossibile? 

MANFREDO  Perché  quando  voi  vi  scopriste  meco,  e  mi  pregaste  ch'io 
dovessi  aiutarvi  con  queUe  maggior  forze  ch'io  potessi,  mi 


2^  maggiordomo  e  patrone:  chi  sorveglia  e  dirige  il  personale  di  servizio  nella  corte,  occu- 
pandosi allo  stesso  tempo  delle  spese  di  normale  amministrazione;  Manfredo  \^ene  infatti 
definito  "Maestro  di  casa  del  Prencipe"  già  nella  presentazione  dei  personaggi. 

^*  inventioni:  espedienti,  idee  sempre  nuove  per  conquistare  la  persona  amata. 

2^  s'io  potessi...  non  lo  facessi  si  noti  il  periodo  ipotetico  con  imperfetto  congiuntivo  usato 
anche  nell'apodosi,  al  posto  del  condizionale. 


164  Edizioni  critiche 

parve,  prima  che  altro  si  avesse  a  trattare,  dover  scoprire 
destramente  l'animo  della  giovane,  onde  trovandola  io  alte- 
rata^^',  e  confusa,  quasi  che  altro  avesse  che  le  premesse, 
giudicai  che  il  trattarle  di  voi  era  opra  gittata,  e  tempo 
perduto. 

LELIO  Altro  intendimento  "  ci  dev'essere.  Ecco  quanto  si  pregiu- 

dica^' chi  trascura  i  fatti  propri!  Se  io  avessi  usato  a  tempo 
quella  diligenza,  che  ricercava  questo  negotio,  forse  forse 
che  mi  trovarci  anch'io  in  uno  stato  di  contentezza. 

MANFREDO  Voi  non  l'intendete.  Assicuratevi  pure  che  questa  sia  una 
donna  lontana  non  solo  da  pensiero  o  voglia  di  marito,  ma 
da  tutti  i  sollazzi,  e  piaceri  del  mondo,  perché  allhora  è  so- 
disfatta, allhora  gode,  quando  può  ritirarsi  sola,  et  immer- 
gersi in  certi  suoi  profondi  pensieri,  tra  l'allegrezza,  e  la 
malinconia,  onde  Sua  Eccellenza  (che  molto  se  ne  maravi- 
glia) le  domanda  spesso  quel  ch'ella  vorrebbe  per  sodisfarsi 
e  star  contenta  a  pieno:  "esser  sicura"  le  risponde  "che  non 
si  tolga  dalla  vostra  cura  l'honor  mio". 

LELIO  Sentite  risposta  accorta?  Notate  voi  dove  tira  quel  colpo 

lontanissimo  dalla  vostra  mira?  Vuol  costei  che  '1  Signor 
Prencipe  tenga  cura  deU'honor  suo,  per  far  fede  a  cui  sarà 
data  in  sorte,  della  grandezza,  e  sincerità  del  bell'animo 
suo,  volendo  forse  allocarsi'^  qui,  per  non  tornare  alla  pa- 
tria, priva  de'  suoi,  involta  in  miUe  travagli,  et  intrighi,  e 
questo  è  lo  star  suo  alterata  (come  voi  dite).  Volete  dun- 
que. Signor  Manfredo,  ch'io  perda  sì  bell'occasione?  Volete 
ch'io  lasci  di  seguire  quel  che  può  darmi  la  vita,  e  farmi  vi- 
vere sempre  contento? 

MANFREDO    Volete,  di  gratia,  ch'io  vi  dica  due  parole  alla  libera? 

LELIO  Dite,  Signore. 

^**  alterata:  turbata. 

^'  trattarle:  'parlarle'. 

^-  intendimento:  spiegazione,  interpretazione. 

^^  pregiudica:  compromette. 

^•*  allocarsi:  sistemarsi,  vàv'ere. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


165 


MANFREDO  Voi  poco  conto  tenete  delle  vostre  attioni,  antiponendo 
all'honore  brevissima  voglia  amorosa,  che  non  sì  tosto  è 
giunta,  che  fugge;  oimè,  pensate  a  questo:  voler  per  moglie 
una  donna,  e  non  saper  chi  sia.  Chi  v'assicura  che  quanto 
ella  racconta  della  disgratia  sua  in  mare  sia  la  verità?  Che 
certezza  avete  voi  della  nascita,  della  nobiltà,  e  della  vita 
sua?  Deh,  Signor  Lelio,  ricordatevi  che  chi  corre  senza  fre- 
no, trabocca  nel  precipitio    . 

LELIO  Sentite,  non  crederò  io  mai,  che  s'ella  non  fosse  di  honesta 

e  nobil  famiglia,  e  di  vita  e  di  costumi  gentilissimi,  il  Signor 
Prencipe  ne  avesse  presa  quella  cura,  che  voi  sapete;  s'egli 
è  poi  vero  (com'io  tengo  che  sia)  ch'ella  abbia  perduti  i 
suoi  parenti  in  mare,  non  sarà  restata  herede  di  bonissime 
ricchezze?  O  che  meglio?  In  somma,  io  son  sodisfatto  della 
mia  risolutione,  per  che  la  possa  conseguire. 

MANFREDO  Si  sì,  io  v'intendo,  molto  bene  avete  discorso,  ma  male  vi 
potrà  riuscire  perché  né  anco  di  robba  avete  certezza  alcu- 
na; fate  pure  come  vi  pare;  io  ho  voluto  dirvi  Liberamente 
quel  che  ne  sento  per  debito  d'amicitia,  perché  soffrendo 
l'errore  nell'amico  tacendo,  lo  farei  mio  '.  Ho  da  spedire 
alcuni  negotì^^,  inanzi  che  sua  Eccellenza  vada  al  giardi- 
no^^:  se  in  altro  non  ho  da  servirvi,  con  buona  gratia  vo- 
stra, salirò  in  palazzo. 


'^'^  chi  corre...  precipitio:  la  stessa  frase  proverbiale  verrà  citata  poco  più  avanti,  con  qualche 
variazione,  anche  da  Almira  (atto  1,  scena  3). 

^''  soffrendo...  lo  farei  mio:  anche  questa  è  una  sentenza  di  sapore  proverbiale. 

^^  spedire  alcuni  negotr.  sbrigare,  risolvere  alcuni  affari. 

■'''  giardino:  è  da  intendersi  come  la  dimora  signorile  di  campagna  (secondo  quanto  viene 
esplicitato  nella  scena  seguente,  quando  Almira  parla  di  villa);  com'è  noto,  già  con  il  pnmo 
Rinascimento,  in  Toscana,  la  villa  e  l'annesso  giardino  tornarono  ad  essere  una  delle  com- 
ponenti del  linguaggio  architettonico  al  centro  dell'interesse  di  trattatisti  ed  artisti,  per  poi 
conoscere  una  vera  e  propria  fioritura  nel  corso  del  Seicento  e  Settecento  nel  resto  della 
penisola  e  in  tutta  l'Europa.  In  questo  caso  il  luogo  esterno  e  lontano  è  sfruttato  soprattut- 
to come  espediente  per  allontanare  il  Principe  e  dare  quindi  spazio  di  manovra  ai  protago- 
nisti. 


166 


Edizioni  critiche 


LELIO  Fatemi  gratia  ch'io  vi  parli  un'altra  volta  con  più  commodi- 

tà;  questa  sera,  se  non  vi  do  fastidio,  verrò  a  rivedervi. 

MANFREDO  Venite,  ma  per  trattar  di  questo,  non  pigHate  incommodo. 
Oh  che  ostinatione,  oh  che  pensiero  sciocco,  oh  che  pazzia 
sarebbe  la  mia  a  darli  più  orecchia!  Se  io  conosco  che  di 
costei  già  se  ne  compiace  il  Prencipe,  ho  da  cercar  io  di  le- 
varglila  di  casa?  Altro  mezzo  gli  bisogna. 


SCENA  TERZA 
Almira,  Concordia. 

ALMIRA  Tutto  è  tempo  perduto.  Concordia!  Andiam  pur  girando,  e 

vaneggiando  per  queste  strade  quanto  vogliamo,  che  non 
siam  mai  per  trovarlo:  ha  trama  nuova  alle  mani^''  (ti  dico): 
lo  conosco,  lo  vedo,  lo  so  certo,  e  non  posso  aiutarmene. 

CONCORDIA  Io  ve  lo  torno  a  dir.  Signora.  Il  vermicello  è  nella  piaga,  e 
lavora  dentro  aUo  scuro;  finché  non  ha  fatto  il  corso  suo, 
non  séte  mai  per  cavarlo,  e  l'ardor  della  piaga  non  si  potrà 
smorzare. 

ALMIRA  Che  rimedio  dunque  ci  sarà?  Che  poss'io  far  più  per  libe- 

rarmi da  questa  frenesia*',  che  mi  tormenta?  Quanti  modi, 
quante  inventioni'*\  e  soffisticherie"*^  ho  tentato  e  provate 
per  lasciarlo,  e  per  averlo  in  odio?  Oh  maledetto  quel  gior- 
no che  ti  mostrasti  a  gli  occhi  miei,  Bireno  crudele,  Teseo 
traditore^^! 


^'  ha  trama...  mani:  'sta  macchinando  qualcosa'  cioè,  fuor  di  metafora,  'ha  un'altra  don- 
na' (la  nuova  Dea  della  pagina  seguente). 

'^'•^  frenesia:  smania  amorosa. 

■*'  inventioni:  cfr.  n.  28p.  163. 

''^  soffisticherie:  stratagemmi,  astuti  accorgimenti  (cfr.  GDLI,  XIX,  s.v.  sofisticheria  dove  il 
passo  citato  costituisce  la  prima  attestazione). 

^'  Bireno  crudele,  Teseo  traditore:  Bireno  è  il  protagonista  della  cupa  stona  dell'abbandono 
di  Olimpia  narrata  ntViOrlando  Furioso,  canti  IX-X  (lo  stesso  aggettivo  crudele  è  l'epiteto 
maggiormente  utilizzato  dall'Ariosto  per  dipingere  il  suo  personaggio);  altrettanto  famosa  è 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  167 

CONCORDIA  Eccoci  alle  lamentationi!  Da  poco  in  qua,  Signora  mia,  ave- 
te la  natura  corrotta,  e  di  qui  nasce  la  indispositione;  al 
primo  incontro  di  questo  Erminio  (come  s'egli  fosse  stato 
il  coccodrillo  d'Egitto'^"*)  avete  perduta  la  virtù,  e  gridato 
pietà.  Non  no:  con  certi  cervellazzi  (come  questo)  bisogna 
star  su  la  sua,  giocar  largo,  e  tener  su  le  carte  ',  e  quando  fi- 
schiano, girano,  e  battono  alla  porta,  fargli  dir  che  alla  Si- 
gnora non  si  può  dar  fastidio,  che  si  riposa  tra  la  vigilia  e  '1 
sonno. 

ALMIRA  È  necessario  che  le  nostre  pari'*^  a  qualche  tempo  purghino 

i  loro  errori.  Io  non  credetti  mai  esser  sottoposta  a  castigo 
tale,  perché  la  profession  mia  fu  sempre  d'esser  nemica  ca- 
pitale dell'ingratitudine  (vitio  infame),  e  tu  sai,  Concordia, 
che  natura  è  la  mia,  che  senza  aspettare  o  corteggi^  ,  o  pre- 
senti, mi  bastava  sentir  cantar  la  notte  una  villanella  sul 
leuto,  che  subito  divenendo  come  il  ghiaccio  al  sole  ' ,  quasi 
disfacendomi  per  dolcezza,  mi  rendeva  presa  e  vinta;  così 
pensando  ch'altri  dovesse  esser  meco,  d'animo,  e  di  cuor 
gentile^',  me  ne  son  corsa  scioccamente  al  precipitio,  e  così 
avviene  a  chi  a  chiusi  occhi  cammina   . 

la  storia  di  Ananna  lasciata  da  Teseo  (Ovidio,  Ars  Amatoria,  I).  Per  un  simile  nchiamo  cfr. 
Bargagli,  La  Pellegrina,  V,  4:  «Che  Teseo?  Che  Bireno?  Questi  sono  gl'assassinamenti.  (...)». 

■*"*  coccodrillo  d'Egitto:  ironicamente,  per  indicare  qualcosa  di  esotico  e  fuori  dall'ordinario. 
Lurati  ricorda  come  il  coccodrillo  sia  visto  durante  tutto  il  Medioevo  come  un  "animale 
strano  e  misterioso,  perché  privo,  tra  l'altro,  della  lingua»  (cfr.  Ottavio  Lurati,  Di:;7onario  dei 
modi  di  dire,  Milano,  Garzanti,  2001,  p.  175). 

^^  cervella:^:  persone  di  grande  ingegno,  furbacchioni. 

^^'  giocar  largo,  tener  su  le  carte:  non  avvicinarsi  (equivalente  all'odierno  stare  alla  larga)  e  te- 
nere celata  la  propria  intenzione  (cfr.  GDLJ,  rispettivamente  VI  s.v.  giocare  e  II  s.v.  carta). 

^^  le  nostre  pari:  le  cortigiane,  come  appunto  Almira. 

■*^  corteg^:  corteggiamenti. 

■♦^  villanella,  antica  canzone  a  ballo  originata  a  Napoli  nel  XVI  secolo  e  diffusasi  rapida- 
mente in  Italia. 

5"  divenendo...  sole:  cfr.  Petrarca,  KVF,  LXXIII,  w.  14-15:  «anzi  mi  struggo  al  suon  de  le 
parole  /  pur  com'io  fiisse  un  huom  di  ghiaccio  al  sole». 

^'  cuor  gentile:  ancora  eco  cortese  e  stilnovista  (cfr.  Guinizzelli,  Al  cor  gentile  tempaira  sem- 
pre Amore). 

^2  me  ne  son  corsa...  cammina:  cfr.  n.  35  p.  165. 


168  EdÌ2Ìoni  critiche 

CONCORDIA  In  tutte  le  cose,  a  mio  giuditio,  séte  degna  di  compassione, 
eccetto  in  una  nella  quale  faceste  grand'errore.  Noi  altre 
donne  siamo  inclinate  alle  cadute,  abbiamo  i  calcagni  debo- 
li, non  ci  possono  sostenere.  Era  così  gran  fatto,  in  quel 
giorno  che  v'innamoraste  di  costui,  far  studiare  a  mastro 
Arrigo  il  suo  astrolabio^\  per  vedere  (come  dice  che  vuol 
essere)  se  '1  Grancio  per  Linea  perpendicolare  batteva  giu- 
sto nella  Luna? 

ALMIRA  Tu  burli.  Concordia,  et  io  smanio,  e  non  trovo  luogo,  e  pur  tu 

che  mi  vuoi  bene,  dovresti  cercarmi  qualche  rimedio,  e  poi- 
ché altro  non  mi  giova,  almeno  con  l'aiuto  di  Farina  veder  di 
conoscere  questa  sua  nuova  Dea,  che  allhora  senz'altro  potrà 
tanto  in  me  lo  sdegno,  che  subito  l'abandonerò,  lo  lasciare,  lo 
fuggirò,  e  me  li  dichiarerò  capitaHssima  nemica   .  , 

CONCORDIA  Tutte  baie^''!  Questo  vostro  sdegno  non  opera  nulla:  trop- 
po séte  sdegnata,  e  non  vi  fa  giovamento  alcuno,  anzi  a 
quel  che  si  vede  v'accresce  tal  alteration  nella  vista,  che  da 
poco  in  qua  parete  il  ritratto  della  confusione,  e  guardatevi 
che  l'humore^^  non  v'infiammi  i  luochi  humidi  della  vita, 
che  trista  voi!  Io  vorrei  scamparvi  dalle  cattive  indisposi- 
tioni,  ma  voi  né  il  mio  consiglio  né  quel  di  Farina  stimate 
punto,  et  io  non  posso  divenir  Erminio  né  voi  trasformar 
in  edera^^,  e  lui  in  tronco. 

ALMIRA  Secco  è  il  tronco,  e  più  l'edera  non  vi  s'appiglia.  Sfortunata, 

che  è  avenuto  a  me  come  a  colui  c'ha  mirato  fisso  il  sole. 


^^  astrolabio:  propriamente  era  lo  strumento  usato  dai  naviganti  per  determinare  l'altezza 
del  sole  o  degli  astri  sull'orizzonte  al  fine  di  determinare  la  rotta  da  seguire. 

^^  Grancio:  il  segno  del  Cancro.  È  il  primo  di  una  serie  di  riferimenti  astronomici  che  ri- 
tornano con  una  certa  frequenza  nel  corso  di  tutta  la  commedia  (ad  es.  atto  1,  scena  4;  atto 
2,  scena  7). 

^^  potrà  tanto...  nemica:  nell'agitazione  di  Almira  e  nel  crescendo  dei  suoi  progetti  di  ven- 
detta si  intravede  la  figura  di  Armida  nella  Gerusalemme  Uberata  (cfr.  X\^,  64). 

^''  baie:  schiocchezze. 

'^''humore:  nella  fisiologia  antica  era  il  fluido  o  l'insieme  di  fluidi  superflui  o  corrotti  che 
provocano  alterazioni  patologiche  e  malattie. 

^**  edera,  notoriamente  simbolo  di  fedeltà. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  169 

che  quello  che  di  poi  vede,  per  chiaro  e  bello  che  sia,  gli 
pare  oscuro,  e  brutto;  e  che  sia  vero,  non  mi  diletta  più 
quella  conversatione  d'amici  che  a  gara  correvano  per 
compiacermi,  e  per  acquistar  la  gratia  mia,  menandomi 
hora  in  villa,  hor  secretamente  a  una  festa,  hor  travestita  a 
una  comedia,  né  meno  in  casa,  in  camera,  a  trebbio ^^,  a  ta- 
vola, né  sentir  raccontar  una  burla,  gittar  un  bel  motto,  e 
far  un  gioco.  Non  no!  Che  son  disgustata,  et  ogni  allegrez- 
za è  convertita  in  odio,  et  in  dispetto. 

CONCORDIA  Humore  che  corre  al  vivo! 

ALMIRA  E  cagion  di  tanto  male  n'è  solo  questo  Gano  traditore^'". 

Ricordati^''  Concordia,  in  quei  primi  giorni  che  capitò  qui 
in  Salerno  alla  corte,  smorto,  sparuto  '",  e  forse  allhora 
scampato  di  galera,  quanto  s'affaticò  per  diventarmi  amico? 

CONCORDIA  E  con  che  bella  invention  poi  diceva  a  Nanne  mio,  che  voi 
simigliavate  una  certa  sua  fanfaluca  '  ,  di  non  so  dove,  e  vo- 
leva che  nel  dormire  gH  andaste  intorno  alle  orecchie,  so- 
nando la  trombetta^"*. 

ALMIRA  Ah!  Che  in  apparenza  fingeva,  e  mostrava  humiltà,  e  poi 

nel  cuore  aveva  la  perfidia  per  affascinarmi,  et  io  sciocca, 
in  cambio  di  conoscerlo,  e  di  fuggirlo  come  nemico  della 
mia  quiete,  subito  l'accarezzai,  l'honorai,  lasciai  ogn'altro,  e 


^'^  trebbio:  'per  la  strada'  (letteralmente  'a  un  incrocio  di  strade'). 

^*^Gano  traditore:  Gano  da  Pontieri,  della  casa  di  Maganza,  è  nella  Chanson  de  Roland  il  tra- 
ditore per  eccellenza;  ricordiamo  che  Dante  lo  pone  tra  il  ghiaccio  di  Cocito  (cfr.  Inf, 
XXXII).  Con  U  medesimo  epiteto  è  presentano  nei  vari  poemi  cavallereschi  (es.  Pulci,  Mor- 
gante,  I,  8,  v.  3:  «Gan  traditor  lo  condusse  alla  morte»). 

'•'  Ricordati:  'ti  ricordi'. 

''2  smorto,  sparuto:  pallido  e  smagrito. 

^^  fanfaluca:  fantasticheria  o  capriccio. 

^'"'  sonando  la  trombetta:  probabilmente  il  significato  della  locuzione  è  da  intendersi  come 
'elogiandolo,  facendogli  mille  moine'.  Si  ritiene  infatti  poco  pertinente  il  significato  che 
trombetta  assume  generalmente  in  gergo,  indicando  la  puttana  (cfr.  Franca  Brambilla  Ageno, 
S tudi  lessicali,  op.  cit.,  p.  184). 


170  Edizioni  critiche 


gli  feci  offerta  delle  poche  facoltà  ch'io  godeva,  e  di  me 


65 

Stessa   . 


CONCORDIA  E  quel  che  fu  peggio,  non  passarono  due  giorni  che  mon- 
taste in  capriccio  di  far  spese  straordinarie,  ambasciatrici  di 
questa  disgratia,  con  mandare  a  Napoli,  a  Roma,  per  bellet- 
ti, soUmati'''^,  e  lisci  di  tante  sorti,  che  cominciaste  con  quel 
benedetto  succo  di  gramigna,  incorporato  con  l'orina  ver- 
gine, e  quante  volte  m'ha  bisognato  andar  a  torno  con 
l'orinai  sotto,  gravando^'^  il  fanciullo  di  monna  Pippa,  e 
quando  non  riusciva  il  liscio  a  modo  vostro,  gridavate  con 
me  che  l'orina  non  era  vergine. 

ALMIRA  Hai  ragione.  Orme,  che  dove  da  principio  credevo  che  egli 

fosse  tutto  mio,  a  poco  a  poco  il  perfido  (riuscitoli  il  dise- 
gno) cominciò  a  ritirarsi,  che  di  rado  mi  veniva  a  vedere,  et 
hora  da  pochi  giorni  in  qua,  non  più  tosto  è  intrato  in  quel- 
la casa,  che  par  che  gli  cada  il  tetto  su  la  testa,  s'ammutisce, 
sta  pensoso,  sbattuto,  e  non  può  quietarsi  finché  non  met- 
te il  piede  fuor  di  quella  porta. 

CONCORDIA  Che  segni!  Ma  volete,  di  gratia,  fare  a  modo  di  consigliera 
fedele?  Or  cacciate  chiodo  con  chiodo  ,  accarezzate  un 
poco  il  Signor  Procurator  Pancratio,  che  se  bene  è  un  poco 
sempliciotto,  e  non  molto  giovane,  è  ricco  che  supphsce 


''^  Il  forestiero  accolto  ed  onorato  dalla  donna  che  verrà  poi  abbandonata  è  ovviamente 
tratto  dalla  storia  di  Didone  ed  Enea  (cfr.  Virgilio,  Eneide,  IV);  in  particolare  si  vedano  i 
versi  del  Dolce,  Didone,  atto  3,  scena  7,  w.  1145-48:  «Voi  me  fuggite,  me;  che  dato  in  dono 
/  V'ho  quanto  al  mondo  avea  di  bello  e  caro/  L'honestà,  la  città,  la  propria  vita».  Lo  stesso 
motivo  è  presente  anche  nel  poema  di  Curzio  Gonzaga,  Il  Fido  Amante,  VII,  ott.  59  e  78. 

''^  solimati:  solimato  (o  sulimato)  di  mercurio.  L'invettiva  contro  i  trucchi  utilizzati  in 
maniera  esagerata  da  parte  delle  donne  è  un  motivo  topico  del  teatro  rinascimentale,  dalla 
Cassaria  dell'Ariosto  alle  opere  del  Parabosco  (cfr.  Il  'Pellegrino,  atto  1,  scena  1  e  7  Contenti, 
atto  2,  scena  2:  «Che  volete  che  gli  huomini  cerchino  di  che  sapore  è  la  biacca?  Il  suHmato? 
Il  verzino?  Il  bianco  de  l'ovo?  Il  bianco  de'  pignuoli?  Il  talco  calcinato?  L'argento  vivo 
congeliate?  L'orina?  Il  solphore?  L'acqua  di  vite?  Et  altre  mille  cose  che  lambicate,  abbru- 
sciate,  distilate,  et  sotterrate,  per  imascararvi  (...)  »). 

^^'^  gravando:  importunando. 

''^  cacciate...  chiodo:  secondo  il  notissivo  proverbio  chiodo  leva  chiodo  (cfr.  Giusti,  Proverbi  To- 
scani, op.cit.,  p.  335). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  171 

ad  ogni  mancamento,  e  benché  mostri  essere  avaretto 
alquanto,  quando  li  mostrerete  l'occhio  ridente,  lo  farete 
spendere  e  spandere  a  decine. 

ALMIRA  Di  gratia,  non  mi  trattar  d'altri  che  di  Erminio  perché,  oltre 

che  perdi  il  tempo,  mi  fai  anco  dispiacere.  Gittato  è  il  dado. 
Concordia,  e  zara  '  è  fatta. 

CONCORDIA  E  perduto  è  il  resto™,  buona  notte!  Signora,  dicovelo? 
Questo  Erminio  vi  toglie  il  conoscimento,  e  se  starete  ad 
istantia  sua,  la  bottega  si  serrerà,  et  i  lavoranti  n'andran  fal- 
liti in  perditione! 

ALMIRA  Cosi  vuol  chi  può   ,  ma  s'Africa  piange,  Italia  non  ne  ride- 

rà "!  Lascia  ch'io  possa  scoprir  qualche  cosa:  vedrai  il  risen- 
timento^^ ch'io  son  per  farne. 

CONCORDIA  Orsù,  siamo  sull'arme  su,  il  nimico  non  si  trova,  il  trattato^"* 
non  si  scopre,  e  non  si  fa  risentimento:  che  abbiamo  a  fare? 

ALMIRA  Qualche  risolutione  si  pigUerà.  Andiamo  verso  casa  che  \'i 

potrebbe  capitar  Farina,  et  io  ho  da  parlargli.  Camina  pure. 


'''''  ^^ra."  nel  gioco  dei  dadi  indica  uno  dei  due  punti  più  bassi  che  possono  venire.  Si  ri- 
cordi che  l'espressione  è  presente  nel  Margarite,  XVIII,  138,  6;  «  (...)  zara  a  chi  tocca!  ». 

''^^  perduto  è  il  resto:  'vi  siete  giocata,  perdendo,  il  tutto  per  tutto'.  In  questo  caso  infatti  re- 
sto è  un  modo  di  dire  proprio  del  gioco,  avente  il  valore  di  'posta,  per  lo  più  finale,  nella 
quale  il  giocatore  puntava  tutto  in  una  volta  il  denaro  che  gli  restava'  (cfr.  D.  Trolh,  Parole 
del 'Boiardo  sul  lessico  e  il  testo  deWlnamoramento  de  Orlando,  in  AA.W.,  Studi  di  storia  della  lingua 
italiana  offerti  a  Ghino  Chinassi,  a  cura  di  P.  Bongrani,  A.  Dardi,  M.  Fanfani,  R.  Tesi,  Firenze, 
Casa  Editrice  Le  Lettere,  2001,  p.  144,  cui  si  rimanda  per  le  attestazioni  su  GDLI  e  TB  di 
locuzioni  simili,  come  andare  il  resto,  fare  del  resto,  valere  del  resto). 

^'  così...  può:  nonostante  la  formula  appaia  molto  sempUficata,  non  pare  azzardato 
l'accostamento  con  i  celebri  versi  danteschi  di  Inf,  III,  95-96;  V,  22-24:  «vuoisi  così  colà 
dove  si  puote  /  ciò  che  si  vuole,  e  più  non  dimandare». 

^2  Africa.. .riderà:  'troverò  il  modo  di  pareggiare  i  conti'.  Il  modo  di  dire,  già  presente  nel 
Trionfo  d'amore  del  Petrarca,  è  usato  per  indicare  che  delle  due  parti  in  lotta,  una  non  è  mi- 
nore dell'altra,  nel  bene  come  nel  male  (cfr.  Pico  Luri  di  Vassano,  Modi  di  dire  proverbiali  e 
motti  popolari  italiani  spiegati  e  commentati  da  Pico  Luh  di  Vassano,  Roma,  Tipografia  Tiberina, 
1875,  p.  283). 

^^  risentimento:  vendetta.  Letteralmente,  secondo  il  rituale  cavalleresco,  era  la  ritorsione 
di  un'offesa  o  la  riparazione  ed  ammenda  ad  un'affermazione  calunniosa  e  infondata. 

^^  trattato:  ant.  'congiura,  cospirazione'. 


172 


Edizioni  critiche 


CONCORDIA  Piano  Signora,  non  tanta  furia!  Uh,  che  Amore  vi  è  intrato 
fra  le  gambe! 


SCENA  QUARTA 
Pancratio,  Farina. 


PANCRATIO  Non  può  far  tutto  il  mondo.  Farina,  che  tu  non  sii  nato 
sotto  il  segno  del  gambaro,  perché  ogni  cosa  fai  alla  roversa,  e 
vuoi  aver  più  giudicio  tu,  che  sei  senatore,  che  non  ho  io,  che 
son  patrone,  e  di  più  procuratore  in  capite,  ^ma professus'  . 

FARINA  Oh,  e  chi  lo  nega? 

PANCRATIO  Io  ti  dissi  hiersera  nello  studio,  che  tu  portassi  la  lettera  aUa 
Signora  Abnira  questa  mattina  su  le  sedici  hore,  sedici  mi- 
nuti, e  un  sesto,  perché  secondo  un  mio  capriccio,  queUa  è 
un'hora,  et  un  punto  che  muove  gH  intestini  del  corpo  al- 
la concupiscentia,  ma  tu  vuoi  fare  a  tuo  modo,  et  a  queUo 
che  tu  dici  non  gHel'hai  portata. 

FARINA  Ecco  che  sempre  vi  dolete  di  me  senza  ragione!  Voi  vorreste 

che  altri  in  ogni  cosa  avesse  il  giudicio  ch'avete  voi,  e  non  è 
possibile:  bisognerebbe  aver  studiato  quindici  o  vent'anni 
come  avete  fatto  voi,  et  allhora  vi  dorreste  a  ragione,  se 
non  v'intendessi  a  cenni!  È  vero  che  hiersera  mi  deste  la 
commissione  deUa  lettera,  ma  io  non  intesi  quel 
ch'importasse  appresentarla  più  a  queU'hora  che  a  l'altre. 

PANCRATIO  Se  la  Somma  papiense^^  ti  fosse  sorella  carnale,  tu  non  im- 
pareresti mai  più  che  tanto!   Io  m'affatico,  io  sudo,  mi 

^5  ^Procuratore...  professus:  si  potrebbe  tradurre,  non  letteralmente,  'un  affermato  procura- 
tore, noto  a  Roma'.  Al  di  là  del  significato,  infatti,  a  Pancratio  interessa  impressionare  il 
servo  con  titoli  altisonanti. 

'"'  Quella...  punto:  o\^io  il  richiamo  al  sonetto  LXI  del  Petrarca,  v.  2:  «et  la  stagione,  e  '1 
tempo,  et  l'ora,  e  '1  punto»,  ripreso  in  tono  parodico.  Tutta  la  battuta  rappresenta  un  rife- 
rimento astrologico  burlesco. 

^^  Somma  papiense:  raccolta  delle  fonti  di  diritto  longobardo-franco  redatta  probabilmen- 
te a  Pavia  nel  sec.  X.  Qui  vale  il  senso  genenco  di  'opera  dottissima  e  poderosa'  (cfr. 
GDU,  XII  s.v.  papiense  dove  si  registra  questa  unica  attestazione). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


173 


rompo  il  capo,  ogni  dì  ti  faccio  una  dozzena  d'interrogatori 
per  affinarti,  et  ogni  volta  ne  sai  manco!  Vien  qua  che  te  lo 
dirò  meglio.  Quella  è  l'hora  istessa  nella  quale,  dicono,  che 
Vulcano  colse  la  moglie  con  Marte  ,  e  perché  Vulcano  era 
forse  medico  eccellente,  s'è  raccolto  che  quel  punto  è  in- 
clinato alla  libidine;  io  che  lo  so  me  ne  voglio  servire,  se 
posso:  hàila  intesa  hora? 

FARINA  Sì  sì,  e  per  questo  voi  mi  diceste  che  Vulcano  fé'  poi  la  leg- 

ge, che  le  donne  non  fossero  buone  testimonie. 

PANCRATIO  Vulpiano '"^  t'ho  detto  io,  non  Vulcano,  balordo!  È  vero,  ma 
ad  altro  proposito,  ma  noi  procuratori  abbiam  poi  corretta 
la  legge  in  favore  del  sesso  feminino,  cioè  che  per  testimo- 
nianza due  donne  bastino  per  un  huomo,  e  in  altri  casi  poi, 
quattr'huomini  non  bastino  per  una  donna. 

FARINA  Avete  ragione  ma  perdonatemi,  che  noi  altri  ignoranti  sia- 

mo come  i  topi  del  campo  :  loro  senz'occhi,  noi  senza 
giuditio.  Se  me  la  dichiaravate  hiersera,  a  quest'hora  io  vi 
avea  servito!  Domattina  la  fo  netta    :  ecco  qui  la  lettera. 

PANCRATIO  L'importanza  è,  che  io  non  posso  aspettar  più:  sto  male,  et 
perìculum  est  in  mora  ",  e  se  questa  lettera  non  la  fa  risolver 
presto,  io  corro  pericolo  di  far  la  morte  che  fece  Lucretia 
Romana  per  Tarquinio^'. 


''^  Vulcano...  Marte:  il  riferimento  è  all'episodio  mitologico  narrato  nell'VIII  libro 
àtXL' Odissea  omerica. 

^'^  Vulpiano:  Domizio  Ulpiano,  celebre  giurista  romano  morto  nel  228,  autore  di  una  va- 
sta produzione  spaziante  dal  diritto  privato  a  quello  processuale,  oltre  che  di  commenti  a 
singole  leggi. 

""  topi  del  campo:  le  talpe,  proverbiali  per  la  loro  cecità. 

^'  lafo  netta:  'porto  a  buon  fine  l'impresa'. 

"2  Periculum...mora:  'c'è  pericolo  a  tardare'  (cfr.  Raineri,  ^4/////^,  V,  1). 

*^  Lucrerà.. .Tarquinio:  'finirò  con  l'uccidermi,  come  fece  Lucrezia  a  causa  di  Tarquinio'. 
L'episodio  della  matrona  romana  e  della  violenza  esercitatale  da  parte  del  principe  etrusco 
Tarquinio,  è  narrata  da  Livio  e  da  Ovidio;  Lucrezia,  secondo  il  racconto,  dopo  l'accaduto 
decise  di  uccidersi  alla  presenza  del  padre  e  del  manto,  pur  di  non  sopra\^avere  al  disono- 
re. Ricordiamo  che  nei  secoli  XV  e  XVI  la  storia  di  Tarquino  e  Lucrezia  ispirò  numerosi 
artisti,  da  Tiziano,  che  dedicò  al  soggetto  ben  tre  dipinti  (Tarquino  e  Lucre::;ra,  Cambridge, 
FitzwilUam  Museum,  Bordeaux,  Musée  de  Beaux-Arts  e  Vienna,  Gemàldegalerie),  al  \'^ero- 


174 


Edizioni  critiche 


FARINA  A  tal  pericolo  stesse  lei,  che  per  le  virtù  vostre,  e  per  la  gra- 

tia  che  le  avete,  arde,  smania,  e  mòre  per  voi,  ma  questi 
cortigiani  vostri  rivali  la  tengono  troppo  al  segno**^,  che 
s'ella  potesse,  vi  vorrebbe  sempre  fra'  denti,  come  la  torta 
il  ghiotto. 

PANCRATIO  Sì,  eh?  Oh  dentini  miei  d'avorio,  e  d'osso  finissimo  di 
Francia*^^,  se  Amore  vi  desse  tanta  discretione,  che 
m'andaste  ragunando  tutto  tutto,  oh  che  sudore  si  senti- 
rebbe d'Alessandro  Magno    ! 

FARINA  Non  ve  ne  fidate,  che  sarebb'impossibile  che  non  vi  desse 

qualche  morso  per  tenerezza. 

PANCRATIO  Anzi,  se  ne  potessi  aver  uno  ,  lo  vorrei  hor  hora  far  legare 
in  oro,  e  portarmelo  in  dito  come  gioia  pretiosissima  di  le- 
vante. 

FARINA  Signor  no,  sarebbe  megHo  che  ve  ne  serviste  per  unghia  de 

la  granbestia  ,  perché  se  mai  il  Prencipe  vi  facesse  suo  su- 
stituto  nella  cura  dello  stato,  sedendo  prò  tribunali  ' ,  non  vi 
pigHarebbe  il  granco    . 

PANCRATIO  Mi  pigHarebb 'altro  che  saria  peggio!  Non  vogHo  carico  con 
questa  frenesia  adosso,  et  accioché  tu  intenda,  perché  pensi 
tu  che  '1  muto  e  *1  cieco,  e  '1  guercio  non  possino  far  testa- 
mento? 

FARINA  Perché  non  vedono  lume. 


nese  (Vìtnm,  Kunsthistoriches  Museum),  a  Botticelli  {Storie  di  Lucrezia,  Boston,  Isabella 
Stewart  Gardner  Museum),  al  Dùrer  {Il suicidio  di  Lucrerà,  Monaco,  Alte  Pinakothek). 

*■*  Ungono  troppo  a/  segno:  'le  impediscono  di  fare  ciò  che  ella  vorrebbe'. 

^'^  osso  finissimo  di  Francia:  si  riferisce  probabilmente  aUa  lavorazione  artistica  dell'osso,  in 
uso  fin  dall'antichità  come  surrogato  dell'avorio  (a  cui  l'accenno  alla  regione  francese  sem- 
brerebbe rimandare  poiché  dal  Medioevo  la  Francia  era  conosciuta  per  i  pregiati  prodotti 
in  avo  no  o  selce). 

^^  ragunando:  accumulando. 

"^  sudore...  Alessandro  magno:  imprese,  fatiche  degne  di  Alessandro  Magno. 

***  Ant^...  uno:  con  ogni  probabilità  si  riferisce  ad  uno  dei  "dentini"  di  Almira. 

^'^  unghia  de  la  granbestia:  unghia  dell'alce,  usata  un  tempo  come  amuleto  oppure,  raschia- 
ta, come  supposto  rimedio  a  certe  malattie  (cfr.  GDLJ,  VI  s.v.  granbestia)  . 

^"  sedendo  prò  tribunali:  svolgendo  la  funzione  di  giudice. 

^'  non  vi...  granco:  'non  foste  colpito  da  un  malanno'  (cfr.  GDLJ,  VI  s.v.  granco). 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


175 


PANCRATIO 


FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 


T'inganni:  perché  non  son  notati.  Il  notano  dunque,  tam- 
quam  homo  sapiens^^  può  fare  il  testamento,  ergo  se  '1  notano 
fosse  pazzo,  non  lo  potrebbe  fare,  adunque  ne  segue  che  '1 
procuratore,  ch'è  persona  prudente,  e  dotta,  non  possa  far 
pure  un  codiciUo'^^  quando  Amore  gli  va  saltando  da  un  li- 
bro all'altro,  per  urinare  su  la  rubrica  . 
Ah  ah,  bisognerebbe  frustarlo!  Ma,  di  gratia,  fatemi  un  fa- 
vore: leggetemi  questa  lettera  amorosissima  ,  che  muoio 
d'ambitione,  se  non  la  sento. 

Hai  ragione,  dàlia  qua,  e  mi  risolvo  che  glie  la  porti  hoggi, 
senza  aspettare  domattina. 

Eccola,  ma  per  cortesia  leggete  adagio,  se  desiderate  ch'io 
la  gusti. 

"Giocondissima  et  altera  mia  Regina,  salutem  e  celerà  '." 
Oh,  bel  titolo! 

"Nel  tempo  antico  deUa  bella  età  dell'oro,  quando  l'huomo 
e  la  donna  nascevano  ignudi,  aUhora  arei  volut'io  (speranza 
mia)  esser  al  mondo,  solo  per  potere  con  quella  semplicis- 
sima purità  andar  lisciando  la  guancia  altrui,  e  senza  offe- 
sa''^, a  dispetto  del  Mutio'^**,  dar  qualche  guanciatella     alla 


^2  tamquam  homo  sapiens:  'in  qualità  di  uomo  assennato,  intelligente'. 

'^"^  codicillo:  propriamente  è  la  clausola  aggiunta  a  testamenti  o  documenti  legali  per  mo- 
dificare o  integrarne  le  disposizioni,  ma  qui  può  assumere  il  significato  più  generico  di  'do- 
cumento, atto  giuridico'. 

^^  rubrica:  legge,  regola  (com'è  noto,  letteralmente  era  il  titolo  delle  leggi,  scritto  in  rosso 
nei  codici). 

'^^  lettera  amorosissima:  la  lettura  della  missiva,  piena  di  iperboli  bislacche  e  concetti 
strampalati,  è  un  tòpos  della  commedia  'regolare'  (cfr.  ad  es.  Aretino,  ]-m  Cortigiana,  atto  2, 
scena  1 1).  Nel  caso  del  procuratore  Pancratio  tutto  è  visto,  comicamente,  sub  specie  iuridica. 

'-"^  e  cetera:  clausola  tipica  degU  atti  notarili. 

'^''  Nel  tempo  antico...  offesa:  il  motivo  dell'Età  dell'Oro,  caro  già  a  numerosi  poefi  classici 
(da  Virgilio,  a  Tibullo,  a  Ovidio)  sembra  qui  essere  recuperato,  anche  se  in  chiave  parodica, 
attraverso  la  poesia  del  Tasso.  Il  Podiani  infatti,  più  che  soffermarsi  sulla  Natura  mite  e 
benigna  o  sull'abbondanza  che  risparmia  all'uomo  la  fatica,  enfatizza  il  trionfo  della  sen- 
sualità senza  costrizioni  o  divieti,  secondo  quanto  affermato  nel  notissimo  coro  del  primo 
atto  deW Aminta  (in  particolare  w.  656-694). 


176 


EdÌ2Ìoni  critiche 


gota.  Oh  che  sorte,  se  così  avessi  potuto  andar  contem- 
plando le  bellezze  vostre,  e  poi  come  Fenice  mirar  fisso 
nella  Luna  de  i  bei  vostri  occhi,  e  battendo  l'ali  morir  can- 
tando../""" 

FARINA  Oh  beUa  ritrovata""! 

PANCRATIO  "Ma  poiché  hora  altro  statuto  "^^  succede,  et  Amore  con  lo 
strale  sottomette  questa  a  quello,  e  quella  a  questo,  io 
povero  sottoposto  vengo  innanzi  a  voi,  pietosa  Giudicatri- 
ce, e  piangendo  domando  che  '1  mio  summus  ius  sia  ammes- 
so nella  vostra  signatura''^"*,  e  mi  ternate  ragione,  accioché 
per  la  grossezza  dell'ingegno  mio,  non  ne  riceva  il  torto, 
onde  poi  doglioso  languendo,  mi  si  aggiunga  spese,  danno, 
et  interesse." 

FARINA  Povero  bisognoso! 

PANCRATIO  "Così  resterà  vivo,  non  prò  forma  {i-d  diàtut)^^^^  servitor  di  lei, 
ma  fedelissimo  schiavo,  e  perpetuo  livellarlo    '  di  V.  S.  e  con 


^^  a  dispetto  del  Mutio:  allude  a  Girolamo  Muzio  (Padova  1496-ViIIa  della  Paneretta 
1572),  autore  di  alcuni  trattati  tra  cui  II  duello  (1550),  considerato  il  codice  cavalleresco  del 
Cinquecento,  e  11  Gentiluomo  (1564). 

'^'^  guandatella:  'schiaffetto,  pizzicotto'  (diminutivo  àx guanciata). 

100  Yenice...  morir  cantando:  si  tratta  di  una  commistione  tra  la  figura  leggendaria  della  Fe- 
nice, che  muore  per  rinascere  dalle  propne  ceneri  (cfr.  Dante,  Inf.,  XXIV,  w.  106-7;  Pulci, 
Morgante,  XIV,  ott.  47-48,  soprattutto  per  la  relativa  nota  con  la  bibUografia  delle  fonti  clas- 
siche curata  dall' Ageno),  e  quella  del  cigno  che,  secondo  gli  antichi,  avrebbe  emesso  un 
canto  dolcissimo  prima  di  morire  (cfr.  per  es.  Ovidio,  Heroides,  V\\,  3-4;  Pulci,  Morgante, 
XIV,  56,  w.  4-6). 

'"^  ritrovata:  espediente,  trovata. 

'"^  statuto:  nel  Linguaggio  giuridico  è  il  complesso  di  norme  che  regolano  la  posizione 
delle  persone  appartenenti  ad  un  gruppo  sociale,  specificandone  i  loro  diritti,  doveri  e  fun- 
zioni. Pancratio  ricade  dunque  nel  suo  lessico  di  leguleio. 

'"^  Amor  con  lo  strale:  l'amore,  non  essendo  più  naturale  ed  istintivo,  deve  essere  provo- 
cato artificiosamente  (cfr.  'X^^^o,  Aminta,  v.  685:  «gli  Amoretti  senz'archi  e  senza  faci»). 

'""*  summus  ius...  signatura:  'il  mio  sommo  diritto  sia  accolto'.  Signatura  (che  secondo  il 
GDLJ  indicherebbe  proprio  l'accettazione  di  una  profferta  amorosa,  cfr.  XIX  s.v.  signatura 
ove  si  cita  l'intero  passo),  qui  è  soprattutto  un  termine  giuridico  indebitamente  portato  da 
Pancratio  nell'ambito  amoroso. 

'"^  non  prò  forma  (ut  dicitur):  'non  in  apparenza,  come  si  dice'. 

""''  livellario:  debitore,  servitore,  tributario  (per  lo  più  a  causa  di  vincoh  di  riconoscenza). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  177 

dolcezza  lasciandola,  la  bacio  in  fronte,  le  gitto  il  nettare  in 
bocca,  e  le  caccio  il  naso  in  un  odorifero  vaso  di  muschio." 

FARINA  Uh,  uh,  uh,  possa  io  morir  profumiero,  se  non  ne  sento 

l'odore! 

PANCRATIO    Senti  la  sottoscrittione  in  rima: 

"Quel  che  nel  miser  petto  alloggia  e  crea 
Sospiri,  angoscie,  assentio,  ruta,  e  scamonea     ". 

FARINA  Oh  vita  amara!  Orsù,  con  un  recipe'""  ch'io  v'apparecchio, 

v'adolcisco  lo  stomaco,  e  v'accomando  il  gusto.  Voglio  o- 
perarmi  tanto  con  la  Signora,  che  a  dispetto  de  i  rivali 
v'abbiate  a  ritrovare  in  camera  con  lei. 

PANCRATIO  Se  tal  cosa  ti  riesce.  Farina,  io  ho  fatt'una  delle  più  belle  ri- 
solutioni,  che  si  possa  fare  in  materia  amorosa. 

FARINA  Da  vero? 

PANCRATIO  Io  ho  il  secreto  del  balsamo,  che  adoperava  la  Regina  Gio- 
vanna di  Napoli'"'^  per  ringiovenire,  il  quale  m'insegnò  un 
Alchimista,  perché  io  gH  difendessi  una  Lite,  ch'egU  avea  in 
Roma  col  carbonaro'"';  apunto  hieri  mi  solvei  di  volerlo 
compor  hoggi  di  mia  mano,  et  imbalsemarmi  usque  ad  pe- 
des^^\  e  perché  nella  distillatione  (fra  molte  cose  che 
c'entrano)  ci  bisogna  un  occhio  d'un  ciclope  (che  non  so 
che  animai  si  sia),  detti  commissione  hiersera  a  Sambuco, 


'"^  assentio,  ruta  e  scamonea:  piante  dal  sapore  amaro,  che  recano  quindi  amarezza  nel 
"misero  petto"  di  Pancratio.  Ricordiamo,  nello  specifico,  che  la  ruta  fu  usata  fin 
dall'antichità  come  rimedio  medicinale  e  componente  per  liquori,  ma  anche  come  talisma- 
no o  ingrediente  per  i  filtri  magici.  Il  succo  della  scamonea,  ottenuto  per  spremitura,  aveva 
invece  energiche  proprietà  lassative. 

'""  recipe:  ricetta;  si  gioca  volutamente  sull'ambiguità  del  termine  inteso  come  'prescri- 
zione medica'  o  'ricetta  gastronomica'. 

'"^  Giovanna  di  Napoli:  Giovanna  I  d'Angiò  (1326-1382)  o  Giovanna  II  d'Angiò  Duraz- 
zo  (1371-1435),  entrambe  regine  del  regno  di  Napoli. 

""  carbonaro:  venditore  di  carbone  e  legna  da  ardere,  indispensabile  per  il  funzionamen- 
to degli  alambicchi  dell'alchimista. 

"'  usque  adpedes:  'fino  ai  piedi'. 

"2  occhio  d'un  ciclope:  probabilmente  è  da  intendersi  soltanto  come  ingrediente  favoloso  e 
perciò  impossibile  da  reperire. 


178  Edizioni  critiche 

nostro  clientolo  ,  che  lo  trovasse,  e  me  lo  portasse  hoggi 
a  casa.  Subito  che  comparisce  con  esso,  voglio  entrar  in 
opera,  e  superar  la  natura,  l'arte,  il  tempo,  la  conditione,  e  '1 
sesso,  se  bisogna! 

FARINA  E  quando  il  lambicco  non  operasse,  pigHaremo  una  pietra 

spognosa  e  con  essa  vi  sfregarete  tanto  il  viso,  fin  che 
viene  del  color  del  cremisino ^'^,  basta?  Riuscirete"^  di  co- 
lore, di  peso,  e  di  misura. 

PANCRATIO  Orsù,  non  tratteniam  più:  io  andrò  dal  notario,  che  ha  in 
mano  la  causa  di  Sambuco,  tu  porta  la  lettera  adesso  a  la 
Signora  Almira,  e  poi  vientene  là,  che  t'aspetto,  e  se  trovi 
Sambuco  venite  insieme. 

FARINA  Cosi  farò,  andate  pure. 

PANCRATIO  Ascolta,  se  alcuno  ti  dimandasse  di  me,  dilli  che  per  hoggi 
ho  da  serrarmi  in  camera  col  Prencipe,  per  comporre  un 
editto  contra  l'otio  e  l'ignoranza.  Hai  inteso? 

FARINA  Signor  sì,  lo  dirò. 


SCENA  QUINTA 
Farina. 

Ah,  ah!  Chi  non  ridesse  di  sì  pazzo  humore?  Hai  sentito  che  bel  trovato? 
Ha  da  serrarsi  in  camera  col  Prencipe  per  dar  bando  aU'otio,  e  all'ignoranza! 
Oh  ignoranza,  che  dottrina  gli  hai  cacciato  in  capo?  Oh  Amore,  tu  gH  in- 
fondi i  bei  concetti:  che  lettera  amorosa  che  gli  hai  dettata!  Sol  che  la  Signo- 
ra avesse  il  gusto  ordinario,  e  che  tu  non  travagliassi  ancor  lei,  ci  sarebbe  da 
ridere  per  un  pezzo!  Ma  oh  sono  stato  il  solenne  bufalo  a  non  fargli  con  la 
lettera  accompagnar  qualche  presente,  e  poi  d'accordo  partirlo  con  lei...  ci 

"'  clientolo:  cliente. 

"^""^ pietra  spognosa:  pietra  di  calcare  coerente,  particolarmente  porosa  e  cavernosa. 
"=■  cremisino:  di  colore  rosso  acceso  (cfr.  ad  es.  Calmo,  'Pàme  pescatone,  st.  XII,  2:  «con 
lengua  sutile,  cremisina»  e  mad.  XI,  1:  «quei  lavri  rossi,  cusì  cremisini»). 
'"■  Riuscirete:  'diventerete,  sarete'. 
"^  ridesse:  riderebbe. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  179 

sarà  tempo!  (Piano).  Questo  è  un  amor,  vecchio  mio,  che  t'ha  da  scorrer 
per  l'ossa  qualche  giorno;  hai  da  pensare  che  fra  '1  dare  e  '1  pigHare,  Farina 
vuol  di  salario.  Quanti?  Cinque  scudetti  il  mese.  Oh  chi  sta  meglio  di  me? 
Oh  benedetto  quel  dì  ch'io  venni  a  star  con  te!  Oh  arcibenedetto  quell'altro 
che  t'innamorasti!  Orsù,  prima  ch'io  vada  dalla  Signora  Almira,  vo'  dare 
una  voltetta"**  in  piazza. 


IL  FINE  DEL  PRIMO  ATTO 


""  voltetta:  diminutivo  di  dare  una  volta,  'fare  un  giro'  o,  come  diremmo  oggi,  'fare  un  salto'. 


180 


EdÌ2Ìoni  critiche 


ATTO  SECONDO 


SCENA  PRIMA 
Soffroma,  Olinda'^'''. 

SOFFRONIA  Olinda,  figliola  mia,  il  poter  conferire  i  fatti  suoi,  e  sfogarsi 
nel  dolore  è  giovamento  d'un  animo  travagliato  "'  :  lascia,  di 
grada,  un  poco  il  sospirare  e  '1  tanto  piangere,  e  poi  che  il 
Signor  Prencipe  è  andato  al  giardino  "  ,  e  più  fuora  siamo 
secure  di  non  esser  sentite,  segui  di  raccontarmi  questo  ca- 
so, che  nel  sentir  m'hai  tutta  intenerita. 

OLINDA  Madonna  Soffronia,  madre  cara     ,  che  così  vi  posso  chia- 

mare, poiché  m'amate  da  figliuola,  sappiate  che  prima  che 
hora,  harei  conferito  con  voi  la  disgrafia  mia,  ma  perché  ho 
sempre  dubitato  che  discoprendosi  non  fosse  cagione  di 
maggior  male,  son  stata  ritrosa  di  parlarne;  ma  hora  poi 
c'ho  incominciato,  mossa  da  i  vostri  preghi,  e  m'avete 
promesso  di  tacere,  vogHo  seguire,  e  sentirete  la  cagione 


'^'^  Il  dialogo  contiene  significative  risonanze  tragiche,  a  partire  dal  ruolo  di  Soffroma, 
non  dissimile  a  quello  della  nutrice  della  tragedia  classica,  ripresa  dai  tragici  del  '500  (Tris- 
sino  in  primis).  La  conversazione  ricalca  dunque  il  modello  della  scena  d'apertura  di  tante 
tragedie  del  periodo,  assumendone  una  certa  solennità  reverenziale,  oltre  a  costituire  il  pre- 
testo per  esporre  l'antefatto  (in  questo  caso,  relativo  alle  sole  \4cende  della  protagonista). 
Per  ciò  che  concerne  i  nomi  delle  due  donne,  non  pare  azzardato  il  nchiamo  all'episodio  di 
Olindo  e  Sofronia  narrato  dal  Tasso  nel  secondo  canto  della  Gerusalemme  Liberata,  del  quale 
torna  una  citazione  precisa  nell'atto  5,  scena  10. 

'2"  il  poter...  travagliato:  la  volontà  stessa  del  parlare  per  sfogare  il  dolore  è  un  tema  topi- 
co, che  procede  dal  Petrarca  (es.  L,  v.  57:  «Et  perché  un  poco  nel  parlar  mi  sfogo»;  XXIII, 
v.  4:  «perché,  cantando,  il  duol  si  disacerba»...)  e  giunge  alle  scene  tragiche  (cfr.  ad  es.  Tas- 
sino, Sophonisba,  w.  4-5:  «E  come  posso  disfogare  alquanto  /  Questo  grave  dolor  che  '1 
cuor  m'ingombra»  e  w.  20-21:  «Né  starò  di  ndir  cosa  che  sai,  /  Perché  si  sfuoga  ragionan- 
do il  cuore.»;  Giraldi,  Orbecche,  w.  420-21:  «Ma  perche  il  cuore  pur  respira  alquanto  /  Ne 
l'isfogar  le  gravi  angoscie  interne»;  Martelli,  Tullia,  w.  373-375:  <d>assa,  i  pianti,  i  sospin  e  le 
parole  /  Son  comune  soccorso  a  chi  si  dole,  /Nel  disfogarsi  appieno»...). 

'2'  giardino:  cfr.  atto  1,  scena  2. 

'2^  madre  cara:  cfr.  RuceUai,  Rosmunda,  v.  9:  «Cara  Nutrice  mia,  nutrice  e  madre». 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


181 


perché  sono  così  ardenti  i  miei  sospiri,  e  così  spesso  il 
pianto. 

SOFFRONIA  Se  col  pianto  si  rimediasse  al  male,  t'aiuterei  a  piangere  et  a 
gridare  anch'io.  Segui  pure,  e  non  dubitare  di  secretezza. 
Tu  m'hai  detto  come  in  Genova  da  sì  grand'amore  nacque 
fra  te,  et  Erminio  la  fede  "  di  matrimonio,  e  com'egli  fu 
poi  dato  a  quella  fortuna  di  mare;  che  avvenne  poi? 

OLINDA  Pensate  voi  come  a  quella  sua  partita  restasse  consolata  chi 

l'amava  più  che  la  vita  propria,  più  che  l'anima  istessa,  e 
tanto  più,  quanto  che  passati  pochi  dì  presentì  che  vicino  a 
Napoli  quel  legno  al  fin  si  ruppe,  et  Erminio  finì  misera- 
mente i  giorni  suoi! 

SOFFRONIA    Le  nuove,  o  vere  o  false,  presto  arrivano. 

OLINDA  Non  bastò  questo  alla  perfidia  de  la  sorte  nemica,  percio- 

ché,  mentre  io  così  viveva  nel  dolore,  il  quale  ancor  faceva 
in  me  rigoroso  risentimento,  non  potendo  quietare  il  cuore 
dall'affanno,  né  stagnar  questi  occhi  dalle  lagrime,  sento 
che  mio  padre  (sapendo  forse  la  cagione  del  mio  male)  era 
risoluto  di  far  altre  nozze,  e  darmi  a  nuovo  sposo.  Io  non 
potendo  soffrir  d'aver  a  romper  mai  quella  fede  destinata  a 
quella  dolcissim'anima,  mi  risolvei  di  non  più  vivere,  e  di 
far  ristessa  morte,  e  nell'istesso  luogo,  che  fatta  aveva  Er- 
minio mio. 

SOFFRONIA  Sciocca  risolutione!  Amor  finalmente  può  tanto  in  noi, 
quanto  noi  istessi  gli  acconsentiamo. 

OLINDA  E  chiamato  Valerio  servitore  di  casa,  che  è  qui  meco  in 

corte,  e  fu  mezano  del  nostro  poco  a\^enturato  amore,  gH 
dissi,  per  venire  al  desiderio  mio,  che  Erminio  non  era 
morto,  ma  viveva  sano  e  Ubero  neUa  città  di  Napoli,  e  però 
per  quell'amore  che  porta  ad  ambi  due,  e  per  quella  fede 
che  dopo  morte  ancora  viverà  costante,  voglia  condurmi 
a  Napoli  a  rivedere  Erminio  mio;  furono  così  caldi,  et 


^'^'^fede:  promessa. 


182 


EdÌ2Ìoni  critiche 


affettuosi  questi  preghi  ,  ch'ebbero  forza  di  farlo  accon- 
sentire, e  metter  in  ordine  una  barchetta,  deUa  quale  lui  so- 
lea  aver  cura,  e  la  mattina  suU'alba,  ne  mettemmo  a  solcar  il 
mare. 

SOFFRONIA    Che  non  può  far  un  animo  risoluto? 

OLINDA  Dopo  molto  viaggio,  vicino  al  luogo  dove  intesi  che  Ermi- 

nio era  affogato,  risoluta  ancor  io  di  morire,  me  ne  fuggo 
suUa  sponda  del  legno  per  precipitarmi  nell'onde,  quando 
Valerio  (non  so  come  potess'essere)  di  ciò  avvedutosi,  mi 
ritenne  presto,  e  vietommi  il  salto  nel  mare. 

SOFFRONIA    Oh  come  a  tempo  proveduta! 

OLINDA  "Deh  Valerio"  gU  dissi  "non  impedire  quest'honorata  mia 

voglia!  Erminio  non  è  in  NapoH  (come  t'ho  detto):  è  morto 
Erminio!  E  qui  oltre  è  morto.  Lo  voglio  seguire,  e  qui  vo' 
morire  ancor  io."  Servo  in  quel  punto  poco  fedele  a  ne- 
garmi sì  gran  contentezza,  e  non  volere  che  finissero  allho- 
ra  le  sventure  mie! 

SOFFRONIA  Figliuola,  il  ricorrere  alla  morte  nelle  avversità  è  d'animo 
vile.  Debbiamo  pensare  che  non  dura  sempre  uno  stato,  e 
le  voglie  nostre  si  mutano  spesso ''^^. 

OLINDA  Le  mie  non  già  mai,  ma  per  essermi  mancata  la  speranza  di 

poterle  più  adempire,  volea  superarle  con  la  morte,  ma  egH, 
per  impedirmi  il  mio  dissegno,  e  con  animo  di  restituirmi  a 
mio  padre,  poi  ch'io  l'aveva  ingannato,  con  destro  modo 
mi  condusse  in  Salerno  a  questo  Prencipe,  ma  non  più  to- 
sto in  corte  arrivati,  quando  la  vogUa  di  morire  si  mantene- 
va in  me  più  viva  che  mai,  ecco  che  Erminio,  il  quale  io 
piangea  morto,  mi  s'appresenta  innanzi. 

SOFFRONIA    Oh  che  caso! 


12-*  caldi,  et  affettuosi...  preghi:  ricalca,  con  una  variazione  minima,  la  formula  presente  nella 
Sophonisba  del  Trissino,  v.  519:  «A  vostri  ardenti  e  graziosi  prieghi». 

'2^  non  dura...  spesso:  vago  richiamo  al  famoso  capitolo  machiavelliano  sulla  fortuna  e  la 
natura  umana  (cfr.  Machiavelli,  De  Principatibus,  XXV,  op.  cit.  pp.  91-94). 

'2''  destro  modo:  in  modo  corretto,  appropriato  (ma  anche  scaltro). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  183 

OLINDA  Non  so  come  a  tal  improviso  accidente,  a  quella  gran  novi- 

tà, io  non  venissi  meno,  et  esalassi  l'anima;  pure  restò  in 
me  tanto  vigore,  e  spirito,  ch'ebbi  forza  di  far  animo  a  me 
stessa,  coprire  quel  gran  motivo     ,  e  restar  viva. 

SOFFRONIA  Per  troppo  allegrezza  ancor  si  muore.  Uh,  gran  pericoli 
c'hai  corsi! 

OLINDA  Ma  quand'io  credeva  che  con  la  vista  dell'amato  mio  bene 

fossero  terminati  gli  affanni  miei,  e  quietata  la  tempesta 
della  continua  interna  passione,  infelice,  hora  più  che  mai 
mi  vedo  travagliata  e  combattuta,  con  pericolo  forse  di 
manifesto  naufragio  "  .  Dubito,  madonna  mia,  ch'el  Signor 
Prencipe,  al  quale  son  tenuta  d'obedire  (in  cose  però  hono- 
rate)  pensi  d'avere  a  trattar  meco  con  poca  honestà,  e 
manco  rispetto. 

SOFFRONIA  Questo  non  creder  mai,  perché  in  animo  generoso  non  può 
cadere  pensier  sinistro.  Ma  del  Signor  Erminio  che  n'è? 

OLINDA  L'esser  suo  dal  mio,  e  l'esser  mio  dipende  dal  suo,  ma  per- 

ché non  so  che  sia  per  esser  di  me,  non  posso  saper  di  lui, 
e  per  questo  sto  confusa  in  mille  pensieri,  et  infiniti  sospet- 
ti, e  timori  di  continuo  mi  si  girano  per  la  mente. 

SOFFRONIA  Certamente  ho  pietà  de'  casi  tuoi,  e  vorrei  poter  giovarti  a 
qualche  cosa.  Per  adesso  ritiriamoci  pur  dentro,  che  siamo 
state  fuori  un  pezzo,  et  io  vedo  non  so  chi  venir  di  qua. 
Avem  ben  tempo  di  ragionar  più  volte. 

OLINDA  In  camera  vi  dirò  più  oltre. 

SOFFRONIA  Non  trattare  di  bisbigliare  in  camera:  ogni  cosa  vien  poi 
all'orecchie  del  Principe,  so  ben  io  "  ! 

OLINDA  Oimè,  questo  no! 

SOFFRONIA    Passa  innanzi. 

'-^  motivo:  'emozione,  moto  dell'anima'. 

'-**  quietata...  naufragio:  continua  lo  sfruttamento  della  metafora  della  tempesta  (cfr.  atto 
1,  scena  1). 

'29  JVo«  trattare...  ben  io:  l'accenno  al  clima  chiuso  e  sospettoso  della  corte  e  delle  sue  spie 
è  perfettamente  conforme  alla  cultura  del  periodo,  e  ricorda  da  vicino  i  versi  del  Tasso, 
anteriori  di  pochi  anni  (cfr.  Tasso,  Aminta,  atto  1,  scena  2,  w.  591-603). 


184  Edizioni  critiche 

SCENA  SECONDA 
Valerio. 

Oh  come  fuggono  presto  queste  nostre  allegrezze,  et  in  baleno  spariscono 
via!  Chi  era  al  mondo  più  contento?  Chi  nuotava  in  un  mar  di  gioia  altri  che 
Erminio  quando  a  l'improviso  vide  comparirsi  avanti  Ohnda  sua,  che  solo 
per  vederla  si  sarebbe  esposto  a  mille  rischi,  et  a  miUe  morti?  Ma  hora  poi, 
come  in  un  subito  ogni  allegrezza  se  gli  è  convertita  in  affanno,  et  in  pas- 
sione; è  avvenuto  al  misero  come  a  quel  povero  infermo  che  da  potente,  e 
continuo  male  assalito,  quando  il  beneficio  del  tempo  gli  andava  mitigando 
la  doglia,  ecco  che  per  nuovo  accidente  nell'istesso  male  fa  più  grave,  e  più 
pericolosa  ricaduta.  E  chi  avesse ^^"^  mai  creduto  aver  qui  trovato  Er- 
mi<nio>  et  io  dover  esserli  cagione  d'ogni  male?  E  così  grande  la  frenesia, 
che  gH  è  intrata  in  capo,  ch'<e'>  non  quieta,  non  riposa,  e  continuamante 
s'affligge,  e  l'infelice  ha  ragione,  poiché  si  vede  in  manifesto  pericolo  che  '1 
Prencipe  non  gli  tolga  OHnda  sua.  Mi  manda  hora  a  dire  al  Signor  Manfre- 
do che  voglia  aspettarlo  in  palazzo,  che  ha  da  negotiar  seco  cosa  che  molto 
importa,  né  d'altro  può  trattare,  che  del  Prencipe  e  di  Olinda.  Dio  l'aiuti! 
Che  poi  nel  fine  non  ne  nasca  romore,  voglio  andare. 


SCENA  TERZA 
Sambuco,  Valerio. 

SAMBUCO        Per  trovarlo,  lo  farò  depingere  meser  sì,  Vrocuratorìhus  a 
banditus,  tun,  tara,  tun,  tara'^',  o  suona  suona.   Oh  quel 

'■^"  avesse:  avrebbe. 

'3'  lo  farò...  tum  tara:  Sambuco  intende  far  pubblicare  un  bando  per  ritrovare  il  procura- 
tore (l'espressione  latina  è  probabilmente  lo  storpiamento  della  formula  A  procuratoribus 
banditus)  e  quello  che  segue  è  l'imitazione  delle  trombe  dei  banditori  (ad  es.  cfr.  Aretino, 
Ragionamento  della  Nanna  e  della  Antonia,  I,  p.  93).  L'accenno  al  depingere  si  spiega  in  particola- 
re con  "la  rappresentazione  dell'immagine  dell'uomo  fatte  per  vie  di  colori  (...)  su  per  le 
mura  di  qualche  edifìzio  pubblico,  per  fama  o  per  infamia"  come  accadeva  anche  a  Fi- 
renze dove  si  dipingevano  "su  per  le  mura  del  palazzo  del  Podestà  i  cessanti  e  i  fuggitivi, 
con  sotto  di  lettere  grosse  il  nome  del  reo  e  l'arte"  (cfr.  Rezasco,  p.  91  s.v.  bando  e  p.  806 
s.v.  pittura). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


185 


VALERIO 
SAMBUCO 


VALERIO 
SAMBUCO 

VALERIO 
SAMBUCO 
VALERIO 
SAMBUCO 


VALERIO 
SAMBUCO 
VALERIO 
SAMBUCO 


huom  da  bene,  se  <non>  ti  rincresce,  per  cortesia  ferma 

un  poco! 

(Quest'è  Sambuco,  non  so  se  chiama  me!) 

Perdonami,  che  non  ho  tempo  da  far  cerimonie:  ho  facen- 

de  che  importano;  mi  saperesti  dire  se  '1  Procuratore  è  là  su 

in  palazzo  ^^^? 

Qual  procuratore  cerchi  tu?  Mancano  procuratori     ! 

Quel  che  litiga  a  credenza'^'*,  et  ha  tolto  in  affitto  i  aiim    , 

e  questa  settimana  esce  del  fitto    '. 

Per  questo  hai  fretta,  eh?  Che  c'è  di  tanta  importanza? 

Oh  troppo  c'è!  Conosci  l'hore  quando  è  nuvolo  tu     ? 

Che  hanno  da  far  le  hore  co  '1  nuvolo?  La  Hte  come  va? 

Non  vo'  che  tu  mi  cacci  di  bocca  qualche  interrogatorio 

contra'^**:  sei  huomo  di  palazzo  tu,  e  secondo  me  hai  la 

penna  sotto '^^,  e  la  vien  temperando,  cu,  cu! 

Sottile  avvertimento!  Tu  non  ti  fidi  de  gli  amici. 

Me  ne  fido,  ma  il  cane  non  è  amico  fedele? 

Fedelissimo. 

Oh  prova  un  poco  a  pestargli  la  coda,  o  acciaccargli  i  so- 

1-  14(ii 

nagli     ! 


VALERIO  Tu  non  sei  un  cane,  et  io  ho  discretione. 


'"^^  in  pala^:  qui  vale  come  'corte  di  giustizia'  (cfr.  ad  es.  Aretino,  Sei  giornate^  172) 

'"^"^  Mancano  procuratori:  in  senso  chiaramente  antifrastico. 

'■^^  litiga  a  credenti  locuzione  probabilmente  affine  a  bravare  a  credenr^,  ovvero  'non  esse- 
re in  grado  di  mantenere  quello  che  si  promette  o  minaccia'(cfr  GDU,  III  s.v.  credent^a;  A- 
retino,  L^  carte  parlanti,  36:  «lo  assaliva  con  due  bravate  a  credenza). 

'^^  ha  tolto...  cuius:  interpreterei  come  'si  avvale  consuetamente  del  latino  e  di  tutti  i  suoi 
cavilli'  (cfr.  Aretino,  Ragionamento  della  Nanna  e  della  Antonia,  II,  p.l68  e  nota  p.  208);  per 
altri  eventuali  significati  di  cuio  'persona  sciocca  che  vorrebbe  passare  per  colta'  e  cuiusso 
'parola  o  frase  latina  inserita  in  un  discorso  per  pedantesco  sfoggio  di  erudizione'  cfr. 
GDU,  III). 

'^^'  esce  del  fitto:  forse  'si  comporta  in  modo  strano',  cioè  fuori  dalla  consuetudine. 

'^^  Conosci  l'hore..  .tu:  'sai  determinare  l'orario  anche  in  assenza  del  sole'  (quando  cioè 
non  si  vedono  né  le  ombre,  né  le  meridiane  o  l'altezza  del  sole  stesso  suU'onzzonte). 

'^''  mi  cacci.. .cantra:  'non  vorrei  che  tu  rm  strappassi  qualche  dichiarazione  che  potrebbe 
poi  essere  usata  contro  di  me'. 

'■^'^  la  penna  sotto:  'hai  già  pronta  la  penna  per  scrivere,  falsando  ciò  che  dico'. 

'■*"  acciaccargli  i  sonagli:  schiacciargli  i  testicoli. 


186 


Edizioni  critiche 


SAMBUCO  Ascolta  su,  ma  tiemmi  secreto.  M'è  stato  detto  che  '1  Pro- 
curatore mi  va  cercando  più  di  due  hore  prima  che  io  non 
pensava  e  non  so  quel  che  fuor  di  tempo  possa  voler  da 
me.  Di  gratia,  fratello,  non  ti  scappi  di  bocca! 

VALERIO  Sì,  sì,  t'ho  inteso.  Va'  fino  al  mare,  che  questa  sera  su  le 

quindici  hore  arriva  una  sua  fusta  carca  di  vento,  la  quale 
amainando '"^^j  viene  da  Valona  in  poste''*^  informane  il  peo- 
ta''*'*,  che  nella  bossola'"*^  ti  mostrerà  subito  quel  che  cerchi. 

SAMBUCO  Ascolta,  o  Valerio.  Hai  detto  ch'io  vada  a  Verona  con  una 
frusta  mangiando  in  poste,  e  che  inforni  una  carota,  e  la 
bossola  me  lo  dirà  subito...  Non  mi  par  che  faccia  a  propo- 
sito a  me,  perché  per  mangiare,  frustare,  et  infornare  carote 
nelle  bossole  non  bisogna  gir'  a  Verona.  Oh  belle  dicerie 
da  cortigiani!  Se  cerco  il  Procuratore,  mi  vogliono  mandar 
a  Verona  a  trovarlo;  se  gli  domando  quando  è  tempo  di  fa- 
vellare al  Giudice,  mi  rispondono  ch'io  lo  veda  sul  lunario; 
se  '1  notarlo  vuole  scrivere  le  mie  ragioni  nella  Lite,  gli  fan 
cadere  il  calamaro,  e  i  cani  alzano  la  cossa  ',  e  ci  mettono 
l'inchiostro. 

Ma  chi  è  costei  che  vien  di  qua?  E  l'amica  di  Farina  col 
passeggio  del  gallo  d'India  .  Oh  perché  non  è  giudicessa 
ella?  Voglio  vedere  quel  che  vuol  fare. 


^^^  fusta:  piccola  galea  veloce  usata  nei  secoli  XIV-XVII  soprattutto  come  nave  corsara; 
ad  un  solo  albero,  dotato  di  vela  latina,  aveva  dai  diciotto  ai  ventidue  remi  per  lato  ed  era 
equipaggiata  con  due  o  tre  pezzi  d'artiglieria  (cfr.  GDLI,  VI  s.v.  fusta;  Calmo,  Rime  pescatone, 
pese.  VI,  V.  47  ma  anche  i  vari  poemi  cavallereschi,  ad  es.  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando, 
II,  20,  39;  Folengo,  "èaldus,  XIII,  168). 

'■*^  amainando:  abbassando  le  vele. 

1"*^  in  poste:  sostando  in  attesa  della  salita  e  discesa  dei  passeggeri,  e  del  deposito  e  pre- 
lievo della  corrispondenza. 

"^^^  peata:  letteralmente  chi  guida  una  peota  (barca  veneziana  da  diporto  o  da  regata),  ma 
qui  vale  il  senso  più  generico  di  'pilota  dell'imbarcazione'. 

'■*^  bossola:  difficile  stabilire  se  si  riferisca  al  contenitore  (scatoletta,  vasetto)  o  al  piccolo 
locale  ricavato  entro  un  altro  attraverso  delle  assi  di  legno  disposte  a  paravento. 

^■*^  cossa:  la  coscia,  la  zampa  (ovviamente  per  urinare). 

^^'^  gallo  d'India:  'tacchino'  (cfr.  GDLI,  VI,  s.v.  gallo;  DEI,  1755;  Calmo,  Il  Saltu::^a,  atto 
5,  scena  9).  Petrolini  al  proposito,  specificando  che  la  denominazione  _^a//<?  d'India  è  un  me- 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  187 

SCENA  QUARTA 
Concordia,  Sambuco. 

CONCORDIA  Mastro  Amore,  medico  eccellente,  ha  dato  l'antimonio''**^ 
alla  mia  Signora.  Oh  che  purga!  Due  volte  già  mi  manda  cer- 
cando Farina,  e  con  che  fretta  poi!  Frenesia  d'innamorati, 
eh?  Mi  pensai  trovarlo  in  piazza,  dove  monna  Pura  mia 
commare  mi  disse  averlo  incontrato,  e  non  è  stato  possibile. 
Vedrò  se  fosse  tornato  a  casa.  Sì  apunto,  la  porta  è  serrata. 

SAMBUCO        Olà,  che  volete  in  quella  casa?  Il  Procuratore  non  c'è. 

CONCORDIA  Oh,  un  Amorino  che  va  scherzando  per  la  contrada!  Ditemi 
per  cortesia,  servitor  de  i  cuori,  dove  tenete  nascosti  gH  strali? 

SAMBUCO  Non  ho  nascosti  stivali,  ma  so  ben  dove  è  la  vacchetta  per 
farne  un  paro. 

CONCORDIA  Vi  dirò:  se  voi  foste  Amore,  per  placare  l'ira  vostra,  e  risa- 
nare la  piaga  alla  mia  Signora,  vorrei  offerirvi  un  fegato  , 
e  per  trofeo  appendervelo  al  coUo. 

SAMBUCO  Eh,  Concordia,  v'intendo  ben  sì:  il  fegato  è  rosso  de  colore 
deUe  carotte,  carotte  e  radice  son  tutte  una  cosa.  Vorreste 
tagliar  la  radice  al  sambuco'^"  e  fargU  seccar  le  pampane  voi! 

CONCORDIA  Oh  Sambuco  perdonatemi,  che  vi  avea  tolto  in  cambio'^'! 
Non  séte  qui  voi  di  casa? 


ridionalismo  {contro  pillo,  pito,  e  simili  dell'area  settentrionale),  ricorda  che  questi  "pittore- 
schi gallinacei  da  poco  importati  dalle  Indie  occidentali"  erano  nel  Cinquecento  "ancora 
carichi  del  fascino  della  novità  esotica"  e  la  cucina  delle  loro  carni  decisamente  poco  prati- 
cata (cfr.  Giovanni  Petrolini,  Dia/elio  a  banchetto.  La  lingua  della  cucina  famesiana,  Parma,  Bat- 
tei, 2005,  pp.  167-68  s.v.  pitto  e  p.  173  s.v.  gallo  d'India). 

'^^  antimonio:  qui  probabilmente  in  senso  di  'medicamento'. 

'^'^  offerirvi  un  fegato:  com'è  noto,  nelle  religioni  antiche  il  fegato  aveva  spesso  un  alto  va- 
lore apotropaico  e,  in  certi  riri,  vi  si  potevano  trarre  aruspici. 

'^"  radice  del  sambuco:  ovvio,  oltre  il  gioco  basato  sul  proprio  nome,  un  doppio  senso  ma- 
lizioso. 

'^'  vi  avea  tolto  in  cambio:  'vi  avevo  scambiato  per  un  altro'  o,  più  semplicemente,  'non  xi 
avevo  riconosciuto'. 


188  EdÌ2Ìoni  critiche 

SAMBUCO  Son  della  casa,  son  del  Procuratore,  de'  notarì,  de'  curso- 
ri'", e  di  quanta  gente  da  mal  fare  si  trova  al  mondo,  per- 
ché litigo. 

CONCORDIA  II  servitore  del  Procuratore  è  in  casa? 

SAMBUCO  E  non  posso  provare  d'esser  figliuolo  di  mio  padre,  perché 
dicono  ch'egli  una  volta  mi  prestò  a  Lucca  per  farmi  ritrar- 
re su  un  panno  d'arazzo:  Sambuco  si  perde,  et  io  son  il  ri- 
tratto scappato  del  panno. 

CONCORDIA  Tappezzaria  d'appiccare  al  muro.  Orsù,  io  ho  lasciato  in 
casa  un  Infermo  che  vaneggia:  se  non  trovo  Farina,  che  gH 
cerchi  qualche  rimedio  salubre,  son  impacciata. 

SAMBUCO  Oh,  se  il  rimedio  sta  nel  salume,  non  avrà  male:  due  pre- 
sciutti,  e  un  salsicciotto  lo  guariscono,  ma  io  che  Litigo,  con 
un  porco  intero  non  mi  guarirei  mai. 

CONCORDIA  A  Dio,  non  ho  tempo  da  trattenermi. 

SAMBUCO        Sentite,  prima,  Hte  crudele  che  io  ho. 

CONCORDIA  Oimè,  in  che  torso '^'  ho  dato  di  capo! 

SAMBUCO  Messer  Honesto  del  PoHto  del  Vago  m'ha  sigillato  il  co- 
perchio deUa  segetta'^"*  perché  il  muro  (dove  è  posta)  è  tan- 
to sottile,  che  quando  tuona  per  piovere,  e  grandinare  ",  i 
tuoni  gli  battono  neUa  galleria '^^',  che  ha  fatta  dipingere  ,  e 
perché  la  battuta  è  malinconica  e  fuor  di  tempo,  il  quadro 
delle  muse  si  \naol  andar  con  Dio;  dice  poi  il  Procuratore, 
che  è  informato  di  questa  materia,  che  Messer  Honesto 
m'ha  sconturbato'^^  il  commertio,  e  bisognerà  ch'egli,  e  le 
muse  cantino  a  quella  battuta,  e  non  altramente. 

'52  cursori:  ufficiali  aventi  il  compito  di  notificare  gli  atti  pubblici. 

'^^  torso:  'sciocco,  babbeo'. 

'5^  segetta:  seggetta,  sedile  per  lo  più  a  forma  di  cassetta  che  contenev'a  il  vaso  da  notte 
(scarterei  l'accezione  più  generica  di  'latrina'  poiché  si  parla  di  un  coperchio  sigillato). 

'55  quando  tuona...  grandinare:  U  valore  dell'espressione  è  rozzamente  metaforico. 

'5^  galleria:  ovviamente  intesa  come  la  lunga  sala  o  corridoio  di  coUegamento  tra  le  di- 
verse ah  di  un  edificio  che  nei  palazzi  rmascimentaU  mizia  ad  essere  decorata  sfarzosamen- 
te ed  arncchita  di  opere  d'arte. 

'^^  dipingere:  affrescare. 

'^'^  sconturbato:  alterato,  sconvolto. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  189 

CONCORX)IA  Oh  che  canto  sconcertato!  Orsù,  siamo  sul  far  della  Luna, 
al  mio  Infermo  deve  crescere  il  parosismo  :  di  gratia,  in- 
segnatemi Farina! 

SAMBUCO  Molto  volontieri.  Dianzi  ancor  io  cercava  il  Procuratore,  e 
mi  fu  insegnato.  Andate  in  Padova  in  posta  frustando,  e 
mangiando,  infornate  una  carota,  e  bella  cotta,  caciatela 
nella  bossola'^*^.  Baso  la  mano. 

CONCORDIA  II  mal'anno,  che  ti  possa  venire,  mammalucco  del  Vaivò- 
da'^^!  Se  io  avessi  qualche  cosa  in  mano,  ti  vorrei  dare  le 
carote,  e  le  bossole,  sì  che  ho  tempo  da  perdere!  Meglio  è 
che  io  vada  fin  qui  da  mastro  Strappa  sarto,  se  me  ne  sa 
dar  nuova,  ma  vorrebbe  ch'io  gli  infilassi  l'ago  .  Voltarò 
di  qua. 


SCENA  QUINTA 
Erminio,  Manfredo. 

ERMINIO  Ma  per  gratia.  Signore,  dopo  che  v'avrò  conferito  il  secreto 

(se  però  è  secreto)  vediamo  di  trattar  in  modo,  per  honore 
del  Prencipe,  che  questa  gelosia  che  ha  chi  ama,  e  teme,  ne 
riporti  quel  premio  che  merita.  In  somma  voglio  che  a  voi 


^'^'^ parosismo:  spasimo  dell'agonia. 

"'"  frustando...  nella  bossolo:,  ovvia  l'allusione  all'atto  sessuale,  pur  continuata  sul  solito 
stravolgimento  lessicale  intrapreso  da  Sambuco  nella  scena  precedente. 

"■'  mammalucco  del  Vaivòda:  il  senso  della  locuzione  è,  semplicemente,  'sciocco,  balordo'; 
propriamente  il  mammalucco  (lett.  Mamelucco)  era  il  membro  delle  soldatesche  turche  e  cir- 
casse, formate  in  origine  da  schiavi,  ma  con  un  potere  crescente  dal  secolo  XIll  (fino  alla 
loro  sconfitta  ad  opera  di  Napoleone).  Per  ciò  che  concerne  il  Vaivòda  (dallo  slavo  voy-na 
'guerra'  e  woda  'capo'  )  era  il  titolo  che  si  dava  ai  sovrani  e  ai  governatori  nella  Moldavia, 
Valachia,  Transilvania  e  paesi  limitrofi. 

'^2  infilassi  l'ago:  ovviamente  la  metafora  rievoca  l'organo  maschile  ed  è  consueta  anche 
nelle  commedie  paraboschiane  (cfr.  ad  es.  //  Viluppo,  atto  4,  scena  4:  «CORONA  Et  le  mie 
aghe?  COLOMBINA  Tò,  figliuola  mia.  COR.  Oh,  le  son  larghe  di  buco!  COL.  Io  non  vidi 
mai  che  le  donne  guardassero  alla  larghezza  del  buco,  ma  sì  ben  alla  bontà,  et  fortezza  della 
punta»;  La  Fantesca,  atto  2,  scena  12:  «Mo'  tettami  dove  se  impira  l'Aco»). 


190  EdÌ2Ìoni  critiche 

tocchi,  Signor  Manfredo,  d'obhgarvi  sua  Eccellenza  (si  può 
dire)  nella  vita. 

NL\NFREDO    Gran  cosa  sarà. 

ERMINIO  (Oh  s'io  potessi  disporlo  a  mio  interesse!)  Ama  il  nostro 

Prencipe  questa  donna  genovese,  e  forse  sino  ad  hora  in  tal 
maniera,  ch'è  forzato  d'antiporre  al  suo,  il  contento  di  lei. 
Io  che  so,  che  non  può  terminar  qui  la  vogHa  e  '1  desiderio 
suo,  e  conosco,  perché  son  fuor  d'interesse,  a  che  rischio  il 
porta  la  fortuna,  vorrei  scamparlo  da  pericolo  mortale,  né 
altro  modo  ho  pensato  migHore,  che  '1  mezzo  vostro.  Si- 
gnor Manfredo,  che  essendoli  servitore  fedele  di  molt'anni, 
vogliate  mostrargli  il  mancamento  che  è  in  un  Prencipe, 
d'animo  generoso,  darsi  in  preda  a  donna  ignobile,  vile,  di 
niun  conto,  forse  poco  honesta,  priva  di  virtù,  di  creanze,  e 
d'ogni  bella  parte  che  possa  far  degna  lei  dell'amor  suo,  et 
egH  scusabile  d'un  error  tale. 

MANFREDO  Non  si  può  negare  che  l'amore  che  portate  al  vostro  Pren- 
cipe non  sia  grande,  e  la  gelosia  ch'avete  di  lui  non  sia 
maggiore.  E  vero,  per  dirla  col  Signor  Erminio,  che  ancor 
io  da  poco  in  qua  ho  conosciuto  nel  Prencipe  non  so  che 
d'affetione  particolar  che  porta  a  questa  giovine,  ma  come 
capriccio  soHto  di  Signori  non  è  stato  da  me  quasi  osserva- 
to, e  poco  conto  n'ho  tenuto  veramente. 

ERMINIO  Pare  a  voi,  Signore,  che  questo  sia  capriccio  da  non  tenerne 

conto?  Non  sapete  quanto  importa  aver  l'animo  ingombra- 
to d'importuna  e  perversa  frenesia?  SòUo  io  (se  bene  non 
provai  mai  pur  minimo  colpo  d'amore)  quanto  è  dannoso 
a  chi  da  principio  non  si  ripara.  Non  no.  Signor  mio:  al  ri- 
medio, al  rimedio,  e  non  si  perda  tempo! 

MANFREDO  Dove  ho  creduto  col  mio  debile  consiglio  poter  giovare  o 
poco  o  molto  al  Signor  Prencipe,  mi  son  sempre  operato,  e 
mi  operarò  volontieri  per  l'aw^enire,  ben  che  da  poche  for- 
ze poco  aiuto  possa  venire,  e  circa  il  particolare  che  voi  di- 
te (se  sia  vero  ch'egli  sia  acceso  di  questa  donna)  credete 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  191 

pure  che  né  a  parole,  né  a  consigli  sia  mai  per  dar'orecchia, 
percioché  questa  voglia  amorosa  troppo  c'inebria,  e  ci  con- 
fonde, et  io  che  vedo  il  genio  '  ,  e  la  natura  sua  (per  dir  li- 
beramente) non  ardirei  mai  di  tentare  minimo  ragionamen- 
to. 

ERMINIO  Ah  che  l'interesse  proprio  vi  lascia  mal  discorrere!  Se  voi 

sapeste  di  quanto  giovamento  potete  esser  solo  con  i  vostri 
ricordi^'''^  e  quanto  danno  potete  causare  per  tacere,  forse 
forse  che  porreste  da  banda  i  sospetti,  et  i  rispetti,  et  aiuta- 
reste  chi  dovete  per  debito  vostro. 

MANFREDO  Non  prendete,  di  gratia,  per  me  tanta  cura,  e  se  amate  l'util 
mio  (come  dite)  lasciate  conoscere  a  me  stesso  quel  che  è 
di  pregiudicio  o  no  al  Signor  Prencipe,  e  tocchi  a  me  di  ri- 
mediare, se  vogHo. 

ERMINIO  Dunque  volete  inferire^'^^  che  questo  non  pregiudichi  a  Sua 

Eccellenza? 

MANFREDO    E  che  pregiudicio  può  essere,  d'amare  una  donna? 

ERMINIO  Amare  eh?  Un  amor  lascivo  mille  volte  a  mill'huomini  ha 

tolto  l'honore,  e  la  vita.  Quel  ch'è  fondato  sopra  pensiero 
malvagio,  il  suo  fine  non  può  essere  se  non  dannoso.  Io  vi 
protesto,  che  di  quello  che  potesse  avvenir  mai  al  Signor 
Prencipe  per  questo  effetto,  io  sarò  fuor  di  colpa;  non  so 
se  potrete  dir  così  voi. 

MANFREDO  Non  può  cader  in  colpa  chi  con  fraude  non  erra.  Quel  che 
conoscerò  io,  ch'appartenga  a  me  di  fare,  lo  farò  sempre, 
né  mancarò  mai  del  debito  mio. 

ERMINIO  Debito  vostro  è  di  remediare  all'errore,  che  si  vede  sicuro, 

se  sete  quel  servitor  che  dite,  e  ne  fate  anco  professione. 

MANFREDO  Voi  v'affaticate  troppo,  e  le  vostre  persuasioni  in  ogni  altra 
cosa  mi  potrebbono  muovere,  eccetto  che  in  questa.  Dite, 
e  se  il  Prencipe  (per  supposto  che  sia  invaghito  di  costei)  si 

^^'^  genio:  indole,  carattere. 

'''"'  ricordi:  insegnamenti. 

"■^  inferire:  dedurre,  argomentare. 


192 


EdÌ2Ìoni  critiche 


ERMINIO 


MANFREDO 
ERMINIO 


MANFREDO 


ERMINIO 


risolvesse  di  tenerla  per  sua  diva,  e  privar  altri  anco  d'un 
sguardo,  perderebbe  egli  l'honore? 

Ah,  Signor  Manfredo,  che  adulatione  è  questa?  Che  parole 
indegne  di  voi  vi  escono  di  bocca?  Non  no,  a  voi  non 
preme  l'honore  di  sua  Eccellenza  perché  altramente  paria- 
reste. 

Grande  affettion  è  la  vostra,  per  non  dir  passione!  Voglio 
credere  che  abbiate  dentro  quel  che  non  mostrate  fuori. 
L'affetto  e  la  passion  ch'io  ne  mostro  vien  da  soverchio 
amor  che  porto;  tal  non  portass'io,  che  non  direst'hora 
ch'io  fingessi,  ma  sia  che  vuole,  troppo  mi  preme;  se  vedrò 
il  Prencipe  risoluto  a  quest'errore,  farò  quanto  potrò  mai, 
che  non  abbia  effetto  il  desiderio  suo,  e  quando  mi  man- 
cheranno le  forze,  e  più  non  potrò,  vedrà  egH  istesso 
l'ingratitudine  ch'usa  a  chi  non  deve,  e  che  gran  pena  sop- 
porta chi  ama  veramente  di  cuore. 

Che  meglio?  Voi  prendete  questa  cura,  e  sarà  vostra  la  lode 
che  ne  riporterete.  Dell'offerta  che  ne  fate  a  me,  vi  ringra- 
tio.  Oh  che  favori! 

(Altro  rimedio,  altro  riparo  ci  vuole!  Cerca  pur  nuova  in- 
ventione,  Erminio,  che  questa  non  giova.  Ecco  che  già 
Manfredo  se  n'è  avveduto  ancor  egU,  e  forse  il  Prencipe  i- 
stesso  gli  ha  conferito,  e  non  '1  vuol  dire.  Senti:  vuol  che 
prenda  io  questa  cura,  egH  non  lo  vuol  dissuadere,  non  gli 
pare  che  faccia  errore  alcuno...  ahi,  è  certo  che  '1  Prencipe  è 
risoluto  d'usurparsi  per  sé  ogni  mio  bene,  ma  sarà  mai  pos- 
sibile, misero  me,  ch'io  possa  veder  con  questi  occhi,  o 
sentire  con  queste  orecchie,  che  OHnda  mia  sia  d'altri  che 
di  Erminio?  No,  più  presto  perdasi  la  servitù,  perdasi  la 
gratia,  perdasi  la  vita!) 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  193 

SCENA  SESTA 
Lelio,  Alessandro. 

LELIO  Dunque  tu  credi,  Alessandro,  che  lo  scoprirmi  con  Valerio 

possa  nuocermi? 

ALESSANDRO  Io  lo  tengo  per  certo. 

LELIO  Perché,  di  gratia? 

ALESSANDRO  Perché  le  cose  che  importano  non  si  conferiscono  a  chi 
non  siam  più  che  sicuri  di  fedeltà,  e  d'amore;  potrebbe  co- 
stui, per  essere  o  servitore,  o  amico  d'OHnda,  non  solo  di- 
saiutarvi, ma  esser  anco  cagione  che  per  altra  strada  tu  non 
potessi  venire  al  desiderio  tuo. 

LELIO  Io  so  che  per  dinari  molti  talvolta  si  corrompono.  Se  con- 

ferisco con  costui  l'amore  mio  verso  OUnda,  e  gH  mostro  il 
desiderio  che  ho  di  prenderla  per  moglie,  comprando 
l'aiuto  suo  quasi  a  contanti,  mi  par  quasi  impossibile  che 
potesse  mancarmi. 

ALESSANDRO  Si,  quando  tu  t'assicurassi  che  non  ci  fosse  interesse  suo 
particolare,  ma  chi  lo  può  sapere?  Che  sai  tu  chi  sia  costui, 
e  quel  che  trattino  fra  loro? 

LELIO  Poco  importa  mutar  consiglio:  con  perdita  eguale,  posso 

venire  a  maggior  termine  di  quello  ch'io  mi  sia?  Se  forse  io 
non  prendessi  un  altro  partito,  che  hora  mi  soviene,  buo- 
nissimo certo... 

ALESSANDRO  (Sarà  come  il  primo!) 

LELIO  ...cioè  di  conferirlo  col  Signor  Erminio,  e  pregarlo  d'aiuto, 

e  di  consiglio,  perché  essend'egli  spirito  gentilissimo,  et 
ambitioso  di  gratificarsi  l'amico,  son  sicuro  che  volentieri 
mi  farà  favore. 

ALESSANDRO  Oh  questo  meglio,  perché  essend'egli  innamorato  (come 
dice  la  Signora  Almira)  è  forza  che  sia  nel  medesimo  desi- 
derio, e  forse  nell'istesse  passioni  che  tu  sei,  e  chi  meglio 
può  aiutar  di  colui  che  prova  l'istesso  male? 


194  Edizioni  critiche 

LELIO  E  chi  mai  con  più  rara  diligcntia,  con  maggior  fede  e  svi- 

scerato affetto,  ch'el  Signor  Erminio?  Anzi,  se  questa  mia 
voglia  dipendesse  solo  dalla  risolution  sua,  e  ch'egH  (per  dir 
così)  mi  potesse  mettere  nella  braccia  d'OKnda,  son  sicuro 
che  lo  farebbe  di  buonissima  voglia. 

ALESSANDRO  Oh  buono,  oh  buono!  E  <per>  più  riscaldarlo,  lo  faremo 
anco  pregare  dalla  Signora  Aknira,  che  ne  può  disporre. 

LELIO  Che  Signora  Almira?  Fra  loro  è  nato  non  so  che  sdegno. 

Voglio  io  istesso  ricercarlo,  e  m'assicuro  che  per  me  sia  per 
fare  ogni  cosa,  senza  adoperarci  altri  mezzani. 

ALESSANDRO  Così  cred'io,  ma  quando  la  gratia  si  fa  a  più  persone,  più 
volentieri  altri  s'affatica. 

LELIO  Scommettiamo,  Alessandro,  che  non  più  presto  gli  ho  do- 

mandato il  favore,  che  s'è  messo  in  opra  per  farlo;  hoggi, 
di  qui  a  poco,  adesso  adesso  mi  serve? 

ALESSANDRO  Orsù  dunque,  non  è  tempo  da  perdere.  La  risolutione  non 
potrebb'essere  migliore.  Che  abbiamo  a  fare? 

LELIO  Mi  risolvo  che  andiamo  insieme  a  domandargli  il  servitio,  e 

se  in  qualche  cosa  io  mancassi,  tu  potrai  supplire. 

ALESSANDRO  SagHamo  in  palazzo  dunque:  credo  che  a  quest'hora  lo  tro- 
varemo  in  camera. 


SCENA  SETTIMA 
Pancratio,  Farina. 

PANCRATIO  Tien  di  fuora  quelle  scritture,  metti  sopra  quello  statuto "^^'. 
Oh  gran  patientia  è  la  mia!  Son  certo  che,  se  io  volessi  che 
non  si  vedessero,  tu  le  vorresti  mostrare...  oh,  tienle  così! 

FARINA  Me  le  farete  cader  di  mano,  e  squinterneremo'^'^  lo  statuto, 

e  si  viverà  senza  leggi. 


"■^  statuto:  cfr.  atto  1,  scena  4. 

'^^  squinterneremo:  'scompagineremo  le  pagine  del  libro  o  del  fascicolo'. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


195 


PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 


FARINA 
PANCRATIO 


FARINA 


Credi  tu  che  se  bisognasse  rifarn'uno  di  nuovo,  e  forse  con 
più  bell'ordine,  mi  mancasse  la  scientia? 
Credo  di  no  io,  ma  non  è  questo  lo  statuto  de  i  mal  condi- 
tionati''"'^,  calculato  al  meridiano  di  casa  nostra? 
Messer  sì,  è  un  pronostico     :  sai  molto  quel  che  ti  ciarli  tu! 
Parla  del  tuo  mistiere,  e  lascia  i  Hbri  a  chi  gl'intende'"'! 
Sta  ben,  su,  ma  qui  siamo  vicini  a  casa:  che  importa  se  si 
vede  o  no? 

A  l'altra'''',  figHuol  mio!  La  discretione  non  ha  il  maggior 
nimico  di  te;  s'ella  non  si  fa  dar  le  sicurtà  de'  non  offen- 
dendo' ,  tu  l'assassini  un  di  sotto  la  parola!  Non  sai  tu  che 
qui  riescono  spesso  questi  cortigiani?  Non  dici  tu  che  pra- 
ticano in  casa  de  la  Signora  Aknira? 
(Voglio  tingere  di  non  l'intendere.) 

Et  ancor  non  la  capisci?  Perché  voglio  esser  tenuto  appres- 
so di  loro  per  huomo  graduato  (come  sono)  accioché 
nelle  occasioni  m'abbiano  a  portar  rispetto;  \'Tiòila  più  chia- 
ra? Oh,  fammi  lodar  me  stesso! 

Eh,  per  altro  avete  collera  voi!  Non  potete  patire  che  la  Si- 
gnora m'abbia  fatto  così  gran  ribuffo     ,  dite  il  vero! 


^^^  mal  conditionati:  persone  ridotte  in  pessime  condizioni,  allo  stremo  delle  forze. 

"•'  pronostico:  previsione  congetturale  di  eventi  futuri.  Si  ricordi  che  la  caricatura 
dell'astrologia  giudiziaria  era  un  motivo  frequente  sia  nelle  opere  coeve,  sia  in  una  vera  e 
propria  produzione  di  "almanacchi  satirico  burleschi  disseminati  dalla  tradizione  parodistica 
antiastrologica"  (cfr.  P.  Camporesi,  l^  maschera  di  Bertoldo,  Garzanti,  1993,  pp.  219  e  segg.). 

'^"  lascia...  intende:  secondo  il  noto  proverbio  lascia  fare  il  mestiero  a  chi  lo  sa  fare  (cfr.  Pe- 
scetti,  op.  cit.,  p.l03).  La  battuta  è  decisamente  prossima  a  quella  del  procuratore  Petruccio 
de  /  Megliacci,  atto  2,  scena  7:  «A  che  far  t'empacci  di  quel,  che  non  sai  se  sei  vivo?  Maneg- 
gia la  zappa  et  lassa  le  lettere  a  noi  che  le  sapemo»  (cfr.  F.  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani, 
op.  cit.,  II,  p.  62). 

'^'  A  l'altra:  nonostante  non  ci  siano  attestazioni  sicure  dai  loci  paralleli  (es.  pp.  215, 
245,  259)  si  ricava  un  significato  prossimo  a  'questa  è  bella'.  Per  un'espressione  simile  cfr. 
Mario  Podiani,  I  Megliacci,  atto  1,  scena  4,  in  F.  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani,  op.  cit.,  II, 
p.  38:  «Ecco  l'altra:  diresti  mai  una  parola  con  garbo?». 

'^2  le  sicurtà  de'  non  offendendo:  'la  promessa  formale  di  non  ricevere  offesa',  dove  sicurtà 
mantiene  l'originario  significato  giundico  di  'garanzia'. 

^''^  graduato:  importante,  onorevole. 

'^^  ribuffo:  rabbuffo,  rimprovero  molto  aspro  e  minaccioso. 


196  EdÌ2Ìoni  critiche 

PANCRATIO    Non  ha  a\aito  il  torto,  Farina? 

FARINA  Oimè,  grandissimo! 

PANCRATIO  Dimmi,  di  gratia,  un'altra  volta  com'eUa  ti  disse  de  verbo  ad 
verburn'''^ . 

FARINA  Io  vi  dico  che  subito  ch'ebbe  letta  la  lettera,  dove  io  crede- 

va che  la  baciasse  e  ribaciasse  miUe  volte,  la  stracciò  in  mil- 
le pezzi,  i  quaU  mi  gittò  in  faccia  con  la  maggior  rabbia 
ch'io  mai  abbia  veduto  a  femina,  e  se  non  ch'io  fui  presto  a 
saltar  le  scale,  mi  voleva  metter  le  mani  adosso. 

PANCRATIO  Domani  per  disperatione  vo'  far  cento  in  digmtà'^^',  voglio 
informare  al  contrario,  far  gli  atti  aUa  riversa,  licentiar  mtti  i 
cHentoli,  e  poi  dichiararmi  cursore  per  dispetto  del  colle- 
gio de  i  procuratori. 

FARINA  E  se  non  fosse  vero  quel  che  v'ho  detto,  che  pagareste? 

PANCRATIO  Oimè,  un  notano,  due  procuratori,  quattro  testimoni,  et  un 
processo. 

FARINA  Et  io  vi  dico  che  voi  séte  più  patrone  di  lei,  che  della  vostra 

dottrina.  Insomma,  è  innamorata,  impazzita,  crepa,  spasi- 
ma e  mòre  per  voi. 

PANCRATIO    Dici  da  vero.  Farina? 

FARINA  Subito  che  vide  la  lettera,  e  che  io  gH  dissi  che  gliela  man- 

davate voi,  entrò  per  un  pezzo  a  succhiarla,  a  stringerla,  a 
dimenarla,  e  poi  si  discinse  la  vesta,  e  se  la  cacciò  in  seno 
da  la  banda  del  cuore,  e  pian  piano  (col  maggior  gusto  del 
mondo)  se  la  fé  cadere  sul  pie  manco. 

PANCRATIO    Oh,  se  io  studiava  astrologia  si  poteva  far  il  bel  tratto '^^! 

FARINA  Come  a  dire? 


'^^  de  verbum  ad  verhum:  parola  per  parola. 

''''^'  far  cento  in  dignità:  in  mancanza  di  riscontri  più  precisi,  mi  limito  a  ricordare  che,  in 
generale,  il  numero  cento  indicava  già  la  latrina;  in  altre  parole  Pancratio  intende  calpesta- 
re, disprezzare  completamente  la  dignità  facendone  sterco. 

'^^  cursore:  cfr.  atto  2,  scena  4. 

^''^  fare  il  bel  tratto:  fare  un  bel  colpo,  un  bel  tiro  (la  voce  proviene  dal  lancio  dei  dadi  o  di 
piccoli  oggetti  per  la  divinazione,  cfr.  GDU,  XXI  s.v.  tratto). 


1  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


197 


PANCRATIO 

FARINA 
PANCRATIO 
FARINA 
PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 


Trasformarme  io  in  quella  lettera,  e  nel  calar  giù,  fermarmi 

per  strada,  e  servirle  per  pezzetta  allo  stomaco. 

Oh,  bell'occasione  ch'avete  perduto! 

Piano,  ne  farem  un'altra  che  piacerà  a  te  ancora. 

Quale? 

Io  vo'  dormir  con  la  patrona,  tu  con  la  serva,  e  Sambuco 

con  la  lavandara,  tutti  tre  in  un  tempo,  e  in  un'hora. 

Oh  povera  famiglia,  che  '1  montone  gli  darà  di  cozzo     ,  et 

ecco  apunto  Sambuco. 

Con  l'occhio  del  Ciclope  ^*^",  che  va  nel  balsamo,  o  sorte,  o 

ventura,  o  Re  Filippo'**',  se  tu  mi  donassi  hora  la...  la...  la... 

uno  spagnolo'**^,  non  l'accetterei!  Che  hai  fatto,  Sambuco? 


SCENA  OTTAVA 
Sambuco,  Farina,  Pancratio. 


SAMBUCO 

PANCRATIO 
SAMBUCO 

PANCRATIO 
SAMBUCO 


Ho  menato  Cacaduro  medico  tutta  questa  mattina,  cercan- 
do per  questo  benedetto  animale. 
L'avete  trovato,  eh? 

Signor  sì.  Dice  ch'egli  non  conosce  animai  niuno  ch'abbi 
un  occhio  solo:  tutti  n'hanno  due. 
E  per  questo? 

Per  questo  ho  poi  discorso  fra  me  stesso,  e  dico  che  biso- 
gna che  sia  un  animale  con  la  testa  grande,  e  con  gh  occhi 
piccoli,  e  due  de  i  suoi  occhi  facciano  per  uno.  Qual  è 


'^'^  il  montone...  cor^:  il  significato  dell'espressione  resta  oscura  anche  se  ricordiamo  che 
dare  di  co:^  significa  'venire  a  contrasto'. 

18»  occhio  del  Ciclope:  l'ingrediente  della  portentosa  ricetta  di  bellezza  (cfr.  atto  1,  scena  4). 

""  R^  Filippo:  Filippo  II  di  Spagna  (morto  nel  settembre  del  1598)  o  il  suo  successore 
Filippo  III;  qui  ha  probabilmente  un  senso  generico  (vale  cioè  per  'Oh  Filippo,  re  di  Spa- 
gna, se  tu  mi  donassi  tutte  le  tue  ricchezze  non  le  accetterei!'). 

'''^  spagnolo:  Pancratio,  dopo  aver  cercato  un  dono  munifico,  degno  del  sovrano  di  Spa- 
gna (notoriamente  ricchissimo  in  virtù  dei  giacimenti  del  Nuovo  Mondo),  non  riuscendo 
ad  espnmerlo,  si  limita  a  citare  una  non  meglio  precisata  moneta  (forse  circolante  solo  in 
determinate  zone  con  quel  nome,  o  nemmeno  mai  esistita). 


198 


EdÌ2Ìoni  critiche 


FARINA 
PANCRATIO 


FARINA 
PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 

SAMBUCO 
PANCRATIO 


FARINA 
PANCRATIO 

FARINA 
PANCRATIO 
SAMBUCO 
PANCRATIO 


quest'animale?  È  il  porco.  La  testa,  e  gli  occhi  di  porco, 
non  gU  avete  voi  in  casa? 

SottiUssima  consideratione!  Insomma  le  liti  ti  fanno  specu- 
lativo. Sambuco! 

Giusta,  l'hai  trovata  apunto  tu,  l'espositor  del  Burchiello'**  . 
Dicono  che  fuor  del  mare,  nelle  caverne,  si  trova  un  ani- 
male... 
Un  grancio. 

...chiamato  Ciclope,  con  un  occhio  solo,  ma  con  giudicio 
grande.  E  quanti  porci  hai  veduti  tu  ch'abbiano  giudicio? 
Non  ho  visto  mai  se  non  voi  io,  ch'abbia  giudicio  grande. 
E  pur  tu  vuoi  che  sia  un  porco  io! 

Lasciate  andar  il  Ciclope  per  adesso,  e  componete  il  secre- 
to     senza  un  occhio. 
Sarà  meglio  per  voi. 

Tanto  abbi  fiato  tu.  Farina,  ascolta  da  banda:  va  tu  in  casa, 
accendi  il  fuoco,  e  metti  in  ordine  una  scuteUa,  due  pignat- 
te, e  una  padella,  poi  vedi  nello  studio,  sotto  il  letto,  in  uno 
stivale  antico,  dov'è  questa  ricetta;  cavala  fuori,  et  aspetta- 
mi, che  adesso  vengo  su  a  metterla  in  ordine,  quanto  ch'io 
mandi  via  Sambuco. 
Adesso,  adesso  la  trovo. 

Ascolta,  cercala  con  diligentia:  l'ho  cacciata  quivi  a  posta 
che  non  mi  sia  ritrovata. 
V'ho  inteso,  sbrigatevi  da  Sambuco. 
Orsù,  Sambuco,  in  casa  tua  che  si  fa? 
In  casa  mia  niente,  perché  è  serrata:  ecco  la  chiave. 
Dico,  se  ra\'versario  ha  citato  ancora  ad  sententiam^^^ ,  per- 
ché dubito  che  infra  triduum,  vel  quadruplum  relaxahitur  manda- 


'**^  l'espositor  del  Burchiello:  commentatore  del  Burchiello  (Domenico  di  Giovanni,  1404- 
1449),  autore  di  sonetti  caudati  di  tipo  burlesco,  qui  citato  per  il  suo  linguaggio  fitto  di  nes- 
si insoliti  ed  incongrui,  svincolati  dai  reali  rapporti  tra  le  cose. 

'*"*  il  secreto:  la  pozione. 

'*^  ad sententiam:  per  la  sentenza. 


I  Fidi  A.manti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


199 


tum  cum  amplissimo  capiatur  in personam  rei^'^^,  e  forse  cum  fusti- 
catione  spallarum. 

SAMBUCO  Come  (diavolo)  la  frustatone  de  le  spalle!  L'avemo  a  far 
poi  a  gli  altri,  o  gli  altri  la  faranno  a  noi? 

PANCRATIO  Ti  sarà  fatta  a  te,  se  non  fai  meglio!  Quanto  è  che  non  sei 
stato  dal  notarlo? 

SAMBUCO        Ci  son  stato  quasi  ogni  dì. 

PANCRATIO    EparlatoU? 

SAMBUCO        Sempre. 

PANCRATIO    Che  t'ha  detto? 

SAMBUCO  Non  l'ho  mai  inteso,  perché  quando  gH  favello  io,  sempre 
siamo  a  tre  o  quattro  a  dir  insieme,  e  non  posso  considera- 
re a  chi  si  risponda  di  noi. 

PANCRATIO    E  poi  che  gH  dici  allhora? 

SAMBUCO        Sto  cheto. 

PANCRATIO    EtegU? 

SAMBUCO        Et  egH  resta. 

PANCRATIO    E  tu? 

SAMBUCO        Et  io  mi  parto. 

PANCRATIO  Con  che  risposta? 

SAMBUCO  Che  non  l'ho  inteso. 

PANCRATIO    Buona,  intanto  che  avemo  a  fare? 

SAMBUCO        Non  lo  sapete  voi  che  séte  procuratore? 

PANCRATIO  II  procuratore  é  fatto  dal  clientolo,  se  tu  mi  ricordassi  alle 
volte  qualche  punto  sottile,  o  qualche  bistratto'"^,  o  qual- 
che lacciuolo,  da  far  incappar  l'avversario,  la  lite  sarebbe 
finita  hora. 


186  ifjjra...  rei:  'entro  lo  spazio  di  tre  o  quattro  giorni  sarà  sciolto  il  mandato,  con  enorme 
offesa  per  la  parte  in  causa  e  forse  con  flagellazione  delle  spalle'.  Si  tratta,  ancora  una  volta, 
di  un  latino  maccheronico,  usato  appositamente  da  Pancratio  per  stuzzicare  Sambuco  ed 
impressionarlo  con  ancor  più  efficacia. 

'"^  bistratto:  'doppio  senso'  o,  semplicemente,  'imbroglio,  raggiro'.  Ne  I  Megliacà  <ì\  Ma- 
rio Podiani,  l'Ugolini  interpreta  la  parola  bistratti  come  deverbale  da  bistrattare  'bistrattamen- 
ti'  (cfr.  F.  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani  e  la  sua  commedia  '7  Megliacct"  (1 530),  In  Perugia, 
presso  l'Istituto  di  Filologia  Romanza,  1974,  voi.  II,  p.  12,  r.  16:  «  le  astutie,  i  mezzi,  i  tratti, 
i  bistratti,  le  parolette  (...)»  e  relativa  nota  voi  III,  p.  16). 


200  Edizioni  critiche 

SAMBUCO  Non  vo'  tendere  qualche  lacciuolo,  che  poi  saltasse  sul  col- 
lo a  me. 

PANCRATIO  Ma  costoro  vogliono  Litigare  alla  furbesca  ,  e  non  essere 
intesi;  io  ancora  farò  il  medesimo  col  giudice,  che  non  sa- 
prà mai  dove  io  vogHa  riuscire:  hanno  a  far  con  messer 
Pancratio.  Va'  hor  dal  notario,  e  dilli  che  hahemus  testes  exa- 
minandos  sine  nomine,  et  volumus  admitti'^'^ . 

SAMBUCO        Non  m'intenderà  mai. 

PANCRATIO  Suo  danno,  e  poi  soggiungeli  si  nihil  innovatum  ab  actore,  peti- 
mus  assignari  tempus  saltem  per  quinquennium,  et  tempus  interim 

190 

non  currere     . 

SAMBUCO        Non  correrò,  Signor  no.  Voltete  che  io  gli  dica  altro? 

PANCRATIO    Non  altro,  dilli  cotesto,  e  senti  bene  quel  che  risponde. 

SAMBUCO        Sì  sì,  e  voi  sentirete  poi  me. 

(\''olesse  Dio  che  io  n'avessi  inteso  una  parola,  pensa  se  il 
notario  mi  risponderà  a  proposito!  Importa  poco,  la  lite  gi- 
ra alla  muta  e  alla  sorda,  e  la  sententia  si  caverà  a  sorte.) 


IL  FINE  DEL  SECONDO  ATTO. 


"^^  /ifigarr  alla  furbesca:  condurre  la  causa  con  intesa  maliziosa  (cfr.  GDU,  VI  s.v.  furbesca). 

"''^  habemus...  admitti:  'abbiamo  testimoni  anonimi  da  esaminare  e  vogliamo  essere  rice\aiti'. 

'■"'  J7  nihil...  non  currere:  'se  nulla  è  rinnovato  dal  curatore  (o  a\^'ocato),  chiediamo  che  sia 
assegnato  tempo  almeno  per  un  quinquennio,  e  che  il  tempo  intanto  non  corra'  (cioè  non 
inizi  ad  essere  conteggiato  subito).  In  altre  parole  Pancratio  vuole  ottenere  una  proroga 
che  non  parta  da  quel  momento,  in  modo  da  dilatare  ancor  più  i  tempi. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  201 

ATTO  TERZO 


SCENA  PRIMA 
Lelio,  Alessandro. 

LELIO  L'animo,  Alessandro,  mi  fu  sempre  presago  del  male.  Ti 

giuro  che  non  fui  saUto  più  presto  le  scale  di  quel  palazzo, 
che  subito  diffidai  che  questo  mezo  fosse  più  buono  al  mio 
dissegno. 

ALESSANDRO  Passasti  da  estremo  a  estremo.  Insomma,  dove  pare  che 
sicuro  si  corra,  ivi  spesso  s'inciampa.  Oh  che  discorsi  erano 
i  nostri!  Mille  volte  t'ho  detto  che  altri  che  LeHo  attendeva 
con  OHnda,  e  tu  sempre  ostinato  a  non  volermi  credere     . 

LELIO  Hor  ecco  che  tu  stesso  hai  sentito  (se  però  non  fingi) 

ch'Erminio  piange  e  si  tormenta  per  OLinda. 

ALESSANDRO  Fingere  eh?  Io  ti  dico  che  mentre  tu  ragionavi  con  lo  scal- 
co''^^  di  Sua  Eccellenza,  io  m'era  accostato  alle  stanze  di 
Erminio  per  aspettarti,  e  stando  così  sopra  pensiero,  sentì 
dentro  una  voce  lamentarsi  amaramente,  e  curioso  di  veder 
chi  fosse,  mirai  per  la  fessura  dell'uscio,  e  vidi  Erminio, 
quasi  immobile  con  gli  occhi  a  terra,  e  con  le  braccia  chiuse 
al  petto  piangere  dirottissimamente. 

LELIO  Oh! 

ALESSANDRO  E  se  bene  le  parole  non  si  potevano  tutte  intendere,  per  li 
singulti  che  le  interrompevano,  tuttavia  sentì  dirli:  "Olinda 
mia,  potrà  mai  essere  che  tu  non  sì  più  mia?  Olinda,  spirito 


''^'  Mille...  credere:  nella  stampa  la  battuta  è  attribuita  a  Lelio,  insieme  a  quella  immedia- 
tamente successiva,  ma  ho  ritenuto  di  dover  apportare  questa  correzione  poiché  la  frase  in 
oggetto  è  incompatibile  al  personaggio,  che  si  è  già  presentato  allo  spettatore  come  un  tipo 
caparbio  e,  soprattutto,  sprezzante  dei  consigli  e  delle  remore  che  gli  vengono  poste. 

'^2  scalco:  nelle  corti  servitore  addetto  a  trinciare  le  carni  cucinate  e  a  servirle  ai  conN^tati; 
spesso,  durante  i  banchetti,  ciò  avveniva  attraverso  vere  e  proprie  esibizioni.  Era  dunque 
una  mansione  molto  onorevole  nella  società  del  Medioevo  e  del  Rinascimento  (cfr.  almeno 
Ariosto,  Satire,  I,  w.  142-150  e  II,  v.  262). 


202  Edizioni  critiche 

del  cuor  mio,  sarà  mai  possibile  che  sinistro  alcuno  mi  ti 
tolga?  Vita  della  mia  vita,  mi  lascerai  tu  mai?  Io  te  non  già; 
e  se  bene  mancarà  questa  voce,  questo  spirito,  e  secarò 
questi  occhi,  eternamente  voglio  esser  tuo,  et  hora  farò 
quanto  potrò,  ch'altri  non  t'abbia,  sia  che  \aiole,  seguane 
ogni  male,  perdasi  la  vita..."  e  simili  altre  parole.  Basta,  che 
volea  inferire '^^  che  dubita  che  qualcheduno  non  gliela  tolga. 

LELIO  Dunque  ne  segue  che  già  sia  sua.  Ma  non  potrebbe  egli  di- 

re di  qualch'altra  OHnda?  Non  può  essere  che  in  Salerno  ce 
ne  sia  più  d'una? 

ALESSANDRO  Può  essere,  ma  credi  pure  che  d'altra  non  \aiol  inferire,  che 
di  OLinda  di  corte. 

LELIO  Per  questo  non  mi  vo'  perder  d'animo.  Andiamo  a  conferirlo 

con  la  Signora  Almira,  che  qualche  cosa  ne  potrebbe  sapere. 

ALESSANDRO  Andiamo,  ma  sarà  quel  che  io  t'ho  detto. 


SCENA  SECONDA 
Manfredo,  Valerio. 

MANFREDO  Non  si  deve  abusare  la  cortesia  del  Signor  Prencipe:  è  poca 
creanza  d'Olinda  non  voler  andare  sino  al  giardino  a  dipor- 
to, quando  Sua  Eccellenza  la  fa  chiamare.  Io  non  credo  già 
che  sia  per  sentirsi  indisposta,  com'eUa  dice. 

VALERIO  Et  io,  Signore,  credo  potervi  assicurare  ch'ella  non  sia  re- 

stata per  altro,  che  per  non  potere:  ella  è  di  natura  malin- 
conica, e  perciò  spesso  cade  inferma  d'una  passion 
d'animo  che  la  occide. 

IMANFREDO  Ancor  che  questo  fosse,  poteva  sforzarsi  d'andare,  per  dare 
soddisfattione  al  Signor  Prencipe,  il  quale  è  per  pigliarne 
ammiratione     ,   e   forse   non  potrà   credere  il   suo   male. 


''-'^  inferire:  significare,  far  capire. 

^'■*  è  per  pigliarne  ammiratione:  'si  meraviglierà'. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


203 


perch'egli  vede  che  quanto  più  cresce  l'affettion  di  lui,  tan- 
to più  manca  la  diffidenza      di  lei.  O  poco  accorta! 

VALERIO  E  gran  cosa,  Signore,  esser  stata  sempre  sotto  la  cura  di 

padre  e  madre,  et  hora  vedersene  priva,  e  star  nelle  mani  di 
chi  non  ha  più  visto  né  conosciuto. 

MANFREDO  Vattene  hora  al  giardino,  e  fa  intendere  a  Sua  Eccellenza  la 
sua  indispositione,  e  che  per  ciò  non  è  potuta  venire.  Io  di 
qui  a  poco  sarò  là.  Sollecita! 

VALERIO  Ecco  che  vo'. 

MANFREDO  Erminio,  tu  per  mostrare  grand'affetione  al  Prencipe^'^'^,  e 
per  levarlo  dal  suo  proponimento,  procuri  l'alterezza 
d'OLinda:  guardati,  ch'è  troppo!  Ogni  estremo  è  dannoso! 


SCENA  TERZA 
Erminio,  Olinda. 

ERMINIO  Nessun  si  vede:  venite  pur  sicura.  La  scusa  ch'abbiam  pen- 

sata, voi  di  cercar  Valerio,  et  io  d'avervi  qui  trovata  a  caso, 
è  bonissima  se  alcuno  ci  vedesse.  Oh  Soffronia,  pietosa 
delle  nostre  disaventure,  forse  sei  tu  che  ci  dai  hora  questa 
commodità  di  poter  stare  insieme  breve  momento! 

OLINDA  Non  so,  Erminio  mio,  se  queste  lacrime,  e  la  gran  novità 

che  mi  fa  hora  la  presentia  vostra,  mi  lasceran  respirar  tan- 
to, ch'io  possa  formar  parola,  e  dir  brevissima  parte  di  quel 
che  vorrei. 

ERMINIO  Gran  sorte  è  questa  mia  (poi  che  sta  sera  il  Prencipe,  e  la 

corte  non  torna  a  palazzo,  et  il  Signor  Manfredo  è  occupa- 
to altrove)  di  poter  sfogare  quest'animo  appassionato,  et 
aiutar  lo  spirito  che  langue,  che  sento  io  com'hora  la 


'^^  manca  la  diffiden:(cr.  probabilmente  si  tratta  di  un  errore  di  logica  da  parte  dell'autore, 
spiegabile  solo  come  guasto  polare.  In  realtà  la  frase  dovrebbe  essere:  "tanto  più  cresce  la 
diffidenza"  oppure  "tanto  più  manca  la  confidenza". 

^'^^'  per  mostrare...  Prencipe:  cfr.  atto  2,  scena  5. 


204 


Edizioni  critiche 


presentia  vostra  lo  soccorre,  e  lo  ra\^àva.  Ditemi,  Olinda, 
come  séte  qui  condotta?  Che  animo  risoluto,  che  cuor  in- 
trepido è  stato  il  vostro,  donna  e  giovinetta,  di  lasciar  la  pa- 
tria et  i  parenti,  e  così  lontana  e  sola,  venire  a  confondermi 
di  maraviglia,  e  di  mestissima  allegrezza! 

OLINDA  E  voi  che  error  faceste,  e  che  error  feci  io,  che  foste  dato 

in  preda  al  mare,  per  fare  il  corpo  vostro,  et  il  cuor  mio  in- 
sieme cibo  de'  pesci?  Ma  fu  possibile  che  il  legno  mille  volte 
non  si  sommergesse,  e  voi  non  precipitaste?  Che  maraviglia, 
che  stupore,  come  vivo  qui  capitaste?  Forse  per  dar  fine  alle 
miserie  nostre,  e  goder  insieme  quell'honesto  amore,  e  quella 
cara  libertà,  che  con  tanto  desiderio  abbiamo  aspettata? 

ERIVIINIO  Voglia  chi  può,  che  finiscano  homai  le  nostre  disavventure, 
et  i  meriti  di  tanta  fede  non  siano  almeno  defraudati,  ma 
perché  sempre  la  fortuna  al  ben  minaccia,  e  nelle  maggiori 
dolcezze  nasconde  il  veleno,  perciò  la  speranza  non  può  tan- 
to lusingarmi,  che  nel  mezo  di  quella  non  mi  turbi,  e  spaventi 
un  importuno  sospetto  che,  ancor  non  satia,  la  fortuna  voglia 
sfogar  l'ira  sua  e  lasciarne  essempio  d'infinita  miseria. 

OLINDA  Deh,  non  vogHam  noi  stessi  augurarci  il  male,  che  pur 

troppo  ne  abbiam  sofferto!  Questo  caso  sì  grande  non  può 
dar  segno  d'infelice  successo:  ecco  dove  io  tenea  voi  per 
morto,  e  voi  me  per  perduta,  m  un  istesso  tempo,  in  un 
medesimo  luogo,  io  ritrovo  voi  vivo,  e  voi  me  racquistate. 
Oh  che  allegrezza  suprema  sarebb'hora  la  mia,  se  dopo 
tante  angustie,  e  miU'altre  ancora  che  ne  potessi  soffrire, 
fossi  sicura  che  una  volta  poi  aveste  ad  esser  mio! 

ERMINIO  Et  io  fortunato  che  sarei,  se  le  miserie  mie  fossero  maggio- 

ri, ma  terminasse  quel  gran  timore  che  ho  di  vedervd  in  po- 
ter d'altrui!  Ho  dubitato  spesso  che  l'aere,  che  l'ombra  mi 
vi  togHano:  era  vano  il  sospetto,  e  pur  mi  tormentava,  ma 
hora  che  altro  che  ombre,  e  vanità  mi  spaventano,  che  sta- 
to può  essere  il  mio?  Sia  stato  (se  può)  anco  peggiore,  che 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


205 


felice  sarei  se  potessi  assicurarmi  di  non  vi  avere  finalmen- 
te a  perdere! 

OLINDA  E    sì    fondata,    e    ferma   in    me    questa    risolutione,    c'ho 

d'essere  di  voi  solo,  che  non  avete  a  dubitare  che  mai  per 
accidente,  o  sinistro  alcuno,  vi  manchi  quel  possesso  di  me 
che  una  volta  vi  obligai;  non  preghi,  non  minacele,  non  in- 
giurie saranno  potenti  mai  a  levarmivi  dal  cuore:  per  voi 
son  nata,  per  voi  son  vissa  ,  e  per  voi  viverò  sempre,  fin 
che  gli  ultimi  sospiri  mi  serreran  questi  occhi. 

ERMINIO  Et  io,  che  ogn'altra  cosa  dopo  voi  tengo  vile,  e  di  niuno 

conto,  e  tanto  ho  spirito  e  vita  quanto  penso  di  contentar- 
vi, non  quietare  mai  fin  che  o  non  s'attenghi  il  desiderio 
nostro,  o  non  finisca  la  vita.  L'amor  mio  passa  ogni  termi- 
ne: non  sospetti,  non  rispetti,  non  timori  aranno  mai  forza 
di  potermi  da  voi  disunire  (col  cuore  al  certo,  se  sarà  impe- 
dita la  vita).  Ma  oimè,  quel  che  hora  mi  fa  sentire  dolore 
estremo,  è  che  hora  vedo  per  voi  '  apparecchiarsi  l'ultima 
mina  mia. 

OLINDA  E  chi  sarà  così  insensato,  e  privo  di  giudicio,  che  creda  che 

un  amore,  et  un  ardore  radicato  nelle  più  scerete  parti  del 
cuore,  possa  svellersi  mai,  o  mutarsi  per  fortuna  alcuna? 
Voi  che  a  miUe  prove  avete  veduta  la  costanza,  e  la  fer- 
mezza mia,  voi  che  sapete  quante  lacrime  ho  sparse,  quanti 
sospiri  ho  essalati,  e  quante  disperationi,  e  voglie  di  morire 
per  voi  ho  sentite,  potete  bene  assicurarvi  che  d'altri  che  di 
Erminio  non  sarà  mai  Olinda. 

ERMINIO  Non  no,  Olinda,  son  sicurissim'io  della  vostra  fede,  e  son 

certo  che  quello  che  può  dipendere  dall'animo  vostro,  sia  il 
mio  volere  istesso,  ma  non  basta:  altro  mi  preme,  ahi,  che 
più  presto   lascerò   questa   corte,   e   questo   Prencipe,   e 


''^^  vissa.  vissuta.  Ricordiamo  che  il  participio  passato  visso,  modellato  sul  remoto,  era 
stato  condannato  dal  Bembo  come  forma  che  "della  lingua  non  è",  e  tollerato  unicamente 
in  poesia  grazie  all'autontà  del  Petrarca  (cfr.  Pietro  Bembo,  Prose  della  volpar  lingua.  III,  32). 

'^^  per  voi:  'per  causa  vostra'. 


206 


Edizioni  critiche 


mancherò  all'obligo  mio,  che  io  sia  per  patir  mai  di  veder- 
mi far  torto  alcuno.  So  ben  io  quello  che  dico,  e  voi 
m'intendete. 

OLINDA  L'obligo  ch'avete  col  Precipe  è  grandissimo  per  molte  gra- 

tie  che  n'avete  ricevute,  ma  s'egU  voless'hora  impedire  i 
nostri  disegni  per  interesse  proprio,  séte  in  obligo  di  risen- 
tir\à,  e  non  sarete  tenuto  ingrato  (quando  si  sapranno  i  se- 
creti nostri)  se  '1  Prencipe  resterà  di  voi  mal  sodisfatto.  Ma 
che?  Non  bastarò  io  sola  a  romperli  in  questa  parte  ogni 
pensiero? 

ERMINIO  Oimè,  ecco  il  colpo  che  mi  passa  l'anima!  Siamo  nelle  sue 

mani,  e  dove  è  forza,  non  vai  difesa  ,  e  questo  sarà  cagio- 
ne che  poca  stima  io  farò  del  mio  Signore.  Oimè,  vederlo- 
mi  rivale,  et  esser  Prencipe! 

OLINDA  Signora  eccomi,  hora  vengo  a  voi.  Soffronia  mi  chiama,  vo' 

Erminio,  ma  che  dirò? 

ERMINIO  Andate,  e  ditele  che  séte  qui  fuora  per  cercar  Valerio.  Ma 

troppo  presto  mi  lasciate! 

OLINDA  Col  cuore  non  mai,  ma  consolatevi,  che  una  volta  ogni  co- 

sa ara  fine. 

ERMINIO  Non  mai  le  miserie  mie. 

OLINDA  A  Dio  ben  mio! 

ERMINIO         A  Dio  mio  cuore! 


SCENA  QUARTA 
Erminio,  Almira,  Concordia. 

ERMINIO  Mio  cuore  a  Dio!  Oimè,  come  mi  lasci!  Perduto,  confuso,  e 

nelle  tenebre  sepolto,  quest'aere,  questo  contorno  c'hor 
hora  era  sì  chiaro,  e  sì  bello,  come  presto  alla  partita  di 


'^■^  dove...  difesa:  secondo  il  noto  proverbio  'contro  la  forza  non  si  può  andar'  (cfr.  Bog- 
gione-Mas sobrio,  Di:^onano  dei  proverbi.  I  proverbi  italiani  organi^^ti  per  temi.  Tonno,  UTET, 
2004,  IX.8.9.15). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


207 


ALMIRA 

CONCORDIA 

ERMINIO 

ALMIRA 

ERMINIO 

ALMIRA 

ERMINIO 


ALMIRA 

CONCORDIA 

ERMINIO 


ALMIRA 


quelle  vaghissime  luci,  è  diventato  torbido,  et  oscuro!  E 
pur  viverei  contento  senza  di  te  (o  mio  bel  sole)  pur  ch'io 
fossi  securo  che  ad  altri  tu  non  splendessi.  Mura,  porte, 
ferri,  che  dentro  a  voi  lo  tenete,  et  a  me  ne  fate  sì  breve 
mostra,  quanta  invidia  vi  port'io  per  non  poter  con  voi  (fe- 
lici che  siete!)  cangiar  sorte,  e  formna. 
È  pur  esso!  Fermati  qui  Concordia. 
Ah,  ah,  ci  starai  alla  fé'! 

Hor  ecco  chi  vien  per  consolarmi.  Oh  che  affanno  insop- 
portabile! 

Ben  trovato,  Signor  Erminio!  Non  vi  turbate,  ch'io  non 
vengo  per  incommodarvi. 

Aknira,  se  volete  niente  da  me,  ditelo  presto:  non  voglio 
esser  veduto  qui  in  strada  trattar  con  voi,  per  buon  rispetto. 
Ah  Erminio,  non  occorre  far  il  ritroso,  no.  Io  conosco  che 
di  me  fai  hora  queUa  stima,  che  di  cosa  vile,  et  abominevo- 
le, ma  ho  ben  speranza  che... 

Vi  dico  che  non  ho  tempo  adesso  a  sentire  i  vostri  lamenti: 
serbateli  per  un'altra  volta!  Se  non  volete  altro  da  me,  a 
Dio! 

Tu  non  ti  partirai,  traditor,  no! 
Uh,  come  le  fumano  le  narici  del  naso! 
È  che  avete  troppo  dell'importuna!  Non  convien  sempre 
in  ogni  tempo  e  in  ogni  luogo  farsi  da  capo  con  queste  vo- 
stre cantafavole^"",  e  sono  homai  tanto  satio,  che  non  le 
posso  più  sentire!  Insomma,  che  volete  da  me? 
Ah  crudele  così  meco,  eh?  Stratiarmi,  consumarmi,  ucci- 
dermi, senza  ragione,  innocentissimamente.  Ah  che  gentil- 
huomo  d'animo  generoso!  A  cavalier  d'honore  si  disdice 
trattar  così  una  povera  donna,  che  non  ha  chi  mostre  le  sue 
ragioni,  e  la  difenda. 


cantafavole:  racconti  lunghi  ed  inverosimili,  ciancie  (cfr.  GDLJ,  II  e  DELI,  I  s.v.  cantare). 


208  Edizioni  critiche 

CONCORDIA  Oh  se  fosse  sicuro  il  campo,  grand'assalto  a  stocco  e  targa  "  . 

ERMINIO         Avete  altro  da  dire? 

ALMIRA  Se  tu  volessi  ascoltarmi,  e  lasciarti  penetrare  al  cuore  il 

suono  de  i  miei  giustissimi  lamenti"'  ",  e  non  com'aspe  " 
serrar  l'orecchie  per  star  nella  tua  impietà,  senticesti  nuova 
crudeltà  che  m'usi,  poiché  a  torto  tu  mi  lasci,  e  senza  pietà 
m'abandoni,  Erminio  crudele! 

ERMINIO  Lascia  la  cappa^""*,  Almira:  conosc'io  che  farem  correr  la 

gente!  Mi  voglio  partire. 

CONCORDIA  Tienlo,  Patrona,  che  ti  fugge! 

ALMIRA  Oimè,  se  m'hai  ferito,  voltati  almeno  per  vedere  la  piaga 

c'hai  fatta,  e  se  non  è  mortale,  dura  nella  tua  alterezza,  che 
mi  contento!  Orsù,  fammi  gratia,  su,  che  altro  non  ti  chiedo, 
ascoltami  due  parole  sole  sole,  questo  mi  basta.  Ti  conten- 
ti, Erminio? 

CONCORDIA  Sì,  dillo,  sì. 

ERMINIO  Orsù,  finiamola  di  gratia!  Parla  che  ascolto,  su! 

ALMIRA  Senti  come  l'ha  detto! 

ERiMINIO  Orsù,  a  Dio. 

ALMIRA  E  possibile,  Erminio,  che  tu  abbi  il  cuore  d'una  tigre  ^  ,  che 

a  questa  misera  che  t'adora  tu  sii  così  crudele?  Perché  non 
pensi  una  volta  sola  al  gran  torto  che  mi  fai 
d'abandonarmi?  Che  t'ho  fatto  io,  Erminio,  che  t'ho  fatto? 


2"^  stocco  e  targar,  rispettivamente  arma  bianca  a  lama  lunga  e  dritta,  a  sezione  triangolare, 
con  punta  molto  acuta  e  piccolo  scudo  di  legno  rettangolare  o  ovale,  rivestito  di  cuoio  o 
tessuti,  usato  nei  tornei  del  tardo  Medioevo  e  del  Rinascimento. 

^^^^  giustissimi  lamenti:  sottile  eco  dei  giusti  prieghi  di  matrice  dantesca  e  petrarchesca  (cfr. 
Dante,  Par.,  X\\  7;  Petrarca,  RIT,  CCLXXXM,  10;  Tnssino,  La  Sophonisba,  v.  422). 

2'^^  com'aspe:  come  l'aspide,  il  serpente  che,  secondo  i  bestiari  medievali,  poggia  un  orec- 
chio a  terra  e  si  tura  l'altro  con  la  coda  per  non  udire  l'incantatore  (cfr.  Bibbia,  Salmi,  L\"II, 
5-7).  In  poesia  è  un  elemento  tipico  delle  lamentazioni  amorose  che  mirino  ad  accentuare 
la  crudeltà  dell'amante  (cfr.  Poliziano,  Rime,  IV,  v.  4:  «un  ba\alischio,  anz'un  aspido  sor- 
do!»; CMII,  V.  27:  «Quella  bella  aspida  sorda»;  Pulci,  Morgante,  XIV,  83,  v.  5:  «l'aspido  sor- 
do, freddo  più  che  lastra»). 

-"^  Lascia  la  cappa:  Almira  tenta  di  trattenere  Ermimo  afferrandone  il  mantello. 

2**^  il  cuore  d'una  tigre:  per  la  lunga  tradizione  precedente  cfr.  Parabosco,  Il  Pellegrino,  atto 
2,  scena  7  e  relativa  nota. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


209 


Dillo  pure,  che  se  in  qualche  modo  t'avrò  offeso,  mi  farai 
conoscer  l'error  mio,  e  ne  patirò  la  pena  volentieri. 

ERMINIO  La  mia  sì  ch'è  pena! 

ALMIRA  Confesso  che  le  tue  gratiose  honeste  maniere,  i  tuoi  dolcis- 

simi costumi,  il  girar  solo  di  quelle  vaghissime  luci,  ti  fa- 
rebbono  meritevole  che  una  Regina,  una  Imperatrice 
t'amasse,  ma  io  che  povera,  vile,  e  minima  sono,  con  la  mia 
ignoranza,  col  mio  poco  sapere,  non  l'ho  debitamente  ho- 
norate:  ne  son  colpevole,  ne  merito  castigo,  ma  oimè,  il 
privarmi  della  tua  gratia  è  troppo  duro,  e  troppo  insopor- 
tabile!  Portarò  per  te  volentieri  tutti  gli  affanni,  gli  stenti,  e 
le  miserie  del  mondo,  ma  il  lasciar  d'amarti,  non  mai,  e 
d'honorarti  per  unico  Signore  de  la  vita  mia  perché  non  es- 
sendo questo  in  mio  potere,  non  posso  a  ciò  dispormi,  e 
quando  anco  potessi,  prima  ch'io  imparassi  a  fuggire  la  tua 
bellezza,  imparerei  (fuggendo  me  stessa)  d'esser  crudele  nel 
sangue  mio.  Deh  cangia,  cangia  per  pietà  quell'indurata  vo- 
glia d'abandonarmi^^"',  altrimenti  presto  ti  perderai  "  questa 
tua  fedelissima  serva,  vassalla,  tributaria,  e  schiava,  che 
t'ama,  t'osserva,  ti  riverisce,  e  t'adora. 

CONCORDIA  Possa  io  morire,  se  non  si  dirizzasse  un  colosso  caduto!  Il 
cucco  tien  l'aH  basse"'  ! 

ALMIRA  Tu  sai  bene  che  lo  sviscerato  amore  ch'io  ti  porto  non  è 

nato  in  me  né  per  lascivia,  né  per  interesse  alcun  particola- 
re (come  suole  nelle  nostre  pari  avvenire)  ma  solo  per  i 
meriti  tuoi,  i  quali,  poiché  per  la  bassezza  de  la  mia  fortuna 
non  ho  potuto  con  altro,  almeno  gli  ho  compensati  col 


2'"'  indurata  voglia  d'abandonarmi:  cfr.  Dolce,  Didone,  atto  3,  scena  7,  w.  1158-59:  «  (...)  e 
questa  fera  voglia  /  da  l'indurato  cor  fugga  e  diparta». 

2"^  ti  perderai:  probabilmente  nel  senso  di  'vedrai  morire'. 

2i'8  //  cucco...  basse:  'il  beniamino  è  fiacco,  privo  di  slancio'.  Concordia  equivoca  voluta- 
mente tra  i  due  significati  di  cucco,  'persona  prediletta'  (cfr.  Machiavelli,  Mandragola,  prologo: 
«un  parassito  di  malizia  el  cucco»;  Pulci,  Morganie,  XIX,  141,  v.  6:  «  che  tu  se'  il  cucco  mio 
per  certo  e  '1  drudo»;  XXIV,  103,  v.  6  ecc.;  Poliziano,  Rime,  CXII,  5:  «  Già  credetti  essere  il 
cucco»)  e  'babbeo',  anche  se  è  facile  supporre  un  doppio  senso  malizioso. 


210 


Edizioni  critiche 


ERMINIO 
ALMIRA 


ERMINIO 
ALMIRA 


ERMINIO 

CONCORDIA 
ALMIRA 


mantenermi  casta  dal  giorno  in  qua  che  ti  conobbi,  solo 
per  esser  meno  indegna  d'amarti  e  per  adherirmi  a  l'honor 
tuo,  che  meco  ti  mostrasti  sempre  un  essempio  di  castità,  e 
continenza. 
Oh! 

E  quante  volte,  nel  sentirti  dolcemente  discorrere,  con  quel 
gratiosissimo  sorriso,  mi  ti  sono  accostata  per  darti  un 
mendico  bacio^^'',  e  poi  per  dubio  di  non  dispiacerti  me  ne 
son  contenuta,  e  son  certa,  non  potendo  aUhora  adempiere 
quella  gran  voglia,  che  mille  immagini  mi  s'imprimevano 
nel  cuore  della  tua  bella  effigie,  immagini  che  ancor  vive  in 
esso  conservo.  Vorrai  dunque  lasciarmi  morire,  e  senza 
pietà  te  uccider  te  stesso  nel  cuor  mio?  Rispondi,  Erminio! 
Lo  farò,  OHnda,  e  lo  vedrai! 

OHnda,  eh?  Ah,  Erminio,  guardati  dal  vitio  dell'ingratitudine, 
fuggi  l'ira  del  Cielo,  e  pensa  sol  questo:  tu  sei  l'idol  mio"  ", 
a  te  ho  donato  i  pensieri,  le  vogHe,  l'anima  e  '1  core,  per  ri- 
compensa m'odi,  mi  discacci,  o  m'abandoni:  puossi  sentir 
peggio?  Deh  non  Erminio  mio,  lascia  tanta  durezza,  fuggi 
l'ostinatione,  consolami  con  un  dolce  sguardo,  et  un  gra- 
tioso  sorriso,  e  poi  dimmi:  "Vanne  gratiata  Almira,  che  de- 
pongo il  rigore,  e  son  più  mo  che  mai".  Dillo,  Erminio! 
Va,  disgratiata  Almira,  che  il  rigore  non  depongo,  per  tuo 
non  son  stato,  né  sarò  mai.  Lasciami! 
Oimè,  la  Patrona  ha  bisogno  del  pesto^"! 
Ah  perfido,  iniquo,  d'animo  basso,  brutto,  e  plebeo,  non 
so  com'hor  mi  tengo  di  non  andar  gridando  per  questa 
corte  che  tu  mi  tradisci  e  m'assassini!  E  che  vorresti, 


2"^  mendico  bado:  'sporadico  (letteralmente  'scarso,  povero')  ed  implorante  bacio'. 

-'"  l'idol mio:  cfr.  Petrarca,  RKF,  XXX,  v.  27:  «L'idol  mio  scolpito  m  vivo  lauro»  e  Tas- 
so, G.L.,  XVI,  47,  w.  7-8:  «fedele  /  sono  a  te  solo,  idolo  mio  crudele».  Si  noti  come,  in 
generale,  tutta  la  battuta  risente  dell'episodio  del  canto  X\T[  della  Gerusalemme  Liberata. 

^"  del  pesto:  vivanda  composta  di  carne  tritata  (spesso  di  pollo)  stemperata  nel  brodo  e 
somministrata  ai  malati  per  l'alto  valore  nutritivo  e  la  digeribilità  (cfr.  anche  Aretino,  L^ 
Cortigiana,  atto  2,  scena  11:  <tMaco  sta  per  voi  a  pollo  pesto»;  Il  Marescalco,  atto  1,  scena  5). 


1  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


211 


crudele?  Vedermi  morir  qui  hora,  come  tua  capitalissima 
nemica?  Ma  perché  ti  son  nemica  io,  Erminio  mio?  Perché 
troppo  t'amo?  Perché  senza  te  non  so  vivere?  Vincerò  io 
questa  pugna,  t'amarò  più  che  mai,  e  tu  più  che  mai  mi  sa- 
rai inimico,  e  col  privarmi  di  te,  m'ucciderai,  su,  e  che  sarà 
poi?  Che  prova  arai  fatta?  Su,  uccidemi  adesso,  uccidemi: 
eccoti  il  petto"'",  contentati,  sàtiati,  barbaro  crudele  ,  sen- 
za pietà  e  senza  fede! 

ERMINIO  Oh  pazzo  ch'io  sarei,  a  non  finirla  mai:  ho  altro  in  capo 

che  i  fatti  tuoi! 

ALMIRA  Lo  credo,  scelerato  traditore,  ma  va',  che  poco  ti  vanterai 

d'avermi  così  trattata!  E  pur  vero,  sfortunata,  quel  che  Le- 
lio mi  ha  detto  di  questa  Olinda;  hor  hora  me  ne  voglio 
andare  dal  Prencipe,  e  farlo  consapevole  della  trama  secre- 
ta che  è  fra  te  e  costei,  scelerata  ancor  essa.  Concordia,  do- 
ve sei? 

CONCORDIA  Eccomi,  non  mi  vedete?  E  ben,  c'avete  concluso?  Verrà 
questa  sera  a  casa,  eh? 

ALMIRA  Così  non  vi  fosse  mai  venuto.  Vienne,  c'hor  hora  gli  vo' 

fare  quel  ch'egli  merita,  furbo     ! 

CONCORDIA  Furbo  di  razza  nobile,  merita  il  marchio     . 


212  eccoti  il  petto:  cfr.  Gonzaga,  Fido  Afflante,  VII,  58:  «Stendi  il  ferro,  crudele  (...)  eccoti  il 
seno  /  e  '1  nudo  fianco  per  morir  costante». 

2'5  sàtiati,  barbaro  crudele:  cfr.  Boiardo,  Inafftoraffiento  de  Orlando,  I,  XII,  79,  v.  4:  «\'^ien,  sà- 
tiati, crudel,  del  mio  dolore!». 

'^^^  furbo:  'visto  che  si  ritiene  cosi  supenore  e  scaltro'. 

2'^  ffìerita  il  ffiarchio:  'merita  un  distintivo'  (precisamente  il  bollo  a  fuoco  che  veniva  im- 
presso su  di  una  parte  del  corpo  di  alcune  persone  per  esibire  pubblicamente  la  loro  con- 
dizione di  ladro,  schiavo,  ruffiano,  prostituta...).  Si  ncordi  comunque  che  il  TB  registra y«r- 
bo  bollato  con  il  significato  di  'uomo  accortissimo'. 


212 


Edizioni  critiche 


SCENA  QUINTA 
Sambuco,  Pancratio,  Farina. 


SAMBUCO 


PANCRATIO 
FARINA 
SAMBUCO 
PANCRATIO 

FARINA 


Hòllo  sempre  detto  in  secreto  io,  che  questa  Hte  assassina 
mi  mandarà  un  dì  in  galera    '!  Oimè,  che  me  n'ho  veduta  la 
capia^'^  cento  volte  innanzi!  Oh  rovinato  me,  oh  povere 
spalle,  oh  disgratiate  braccia,  oh  remo  cornuto"'^  che  mi 
verrai  per  le  mani!  Or  Htiga,  Sambuco,  or  fidati  de'  Procu- 
ratori! Hai  sentita  la  sententia  tu?  "Sambuco  ha  ragione,  e 
gH  facciam  ragione,  e  rendemo  il  suo  possesso,  ma  fira 
un'hora  vada  in  galera  per  tre  anni  senza  repHca^'^  ninna, 
per  dar  soddisfattione  a  la  parte".  Oimè  il  notario  (che  me 
l'ha  detto)  dice  che  se  '1  procuratore  non  s'appella,  non  c'è 
più  rimedio...  credo  che  voglia  dire  ch'egH  si  pela,  ma  il 
traditore  non  si  vorrà  pelare!  Oimè  che  la  porta  è  serrata,  e 
sua  Signoria  non  ci  sarà.  Vo'  battere  almeno.  Tic,  toc,  tic. 
E  chissà  che  non  ci  abbia  da  venire  ancor  egH,  e  si  sia  ser- 
rato dentro  per  non  esser  ritrovato!  Può  essere,  perché 
siamo  stati  tutti  due  a  litigare.  Tic,  toc,  tic,  toc.  Se  mi  ri- 
sponderà ci  sarà,  una  volta^^*^. 
Oh  Farina? 
Oh  Signore. 
(Che  t'ho  detto  io?) 
Non  senti  che  si  batte  a  la  porta? 
Signor  sì.  Volete  che  io  risponda? 


'^^''  galera:  nave  a  remi  e  vela,  con  scafo  lungo  e  stretto,  da  trasporto  e  da  guerra,  usata 
dal  tempo  dei  Greci  al  Settecento.  Vi  si  impiegavano  come  rematori  i  criminali  condannati 
ai  lavori  forzati  (di  qui  l'accezione  di  'luogo  di  pena'  usata  oggi). 

2'^  capta:  dial.  di  cappio. 

^'^  remo  cornuto:  'maledetto  remo'. 

2'^  replica:  giuridicamente  è  lo  scritto  difensivo  con  il  quale  l'attore  nsponde  agli  argo- 
menti avanzati  dal  convenuto. 

22"  Se...  una  volta:  'Se  mi  risponderà  vorrà  dire  che  è  in  casa,  una  buona  volta'. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  213 


221 


SAMBUCO  Son  io,  son  io,  amico,  e  compagno  per  terra  e  per  acqua 

Tic,  toc. 

PANCRATIO  Oh  oh  Farina? 

FARINA  Oh  oh  Signore. 

PANCRATIO  Colui  non  ha  discretione  con  quella  porta. 

FARINA  Che  volete  ch'io  gli  faccia? 

PANCRATIO  DiUi  ch'io  son  riserrato  nello  studio,  perché  domani  si  ha 

15  222 

d  avocare     . 

SAMBUCO         (Oimé,  senti  s'è  vero:  domani  s'ha  da  vogare,  e  s'è  riserrato 
nello  studio  per  paura!)  È  Sambuco,  è  Sambuco,  o  misier  " 
Pancratio  apritemi,  che  ho  fretta! 

PANCRATIO    Sbrigati,  porta  giù  la  pignata,  e  la  mescola,  che  stia  m  infu- 
sione quella  semenza,  che  di  qui  a  un'hora  ne  bisogna  ca- 

224 

var  acqua     . 
SAMBUCO         (Vòila  più  chiara?  Dice  che  la  sententia  sta  in  confusione,  e 

di  qui  a  un'hora,  bisogna  rappar  l'acqua     !  Oh  disgratiato! 

Un'hora  mi  posso  dar  bel  tempo,  e.  finis  per  tre  anni!) 
FARINA  Volete  una  pignatta  c'ha  rotta  la  bocca? 

PANCRATIO    Rompiti  il  coUo  e  vien  giù  prestamente. 
SAMBUCO        (Sollecita  che  bisogna  pelarsi  innanzi  che  passi  l'hora!)  Tic, 

toc,  tic,  toc. 
PANCRATIO    Farina,  mi  farai  dire  qualche  pazzia!  Caccia  via  colui  da 

quella  porta! 
FARINA  È  Sambuco  che  vi  vuol  parlare. 


22'  compagno  per  terra  e  per  acqua:  vale  a  dire  'compagno  di  sventura',  con  allusione  alla 
possibile  condanna  alle  galere. 

222  avocare:  avvocare,  perorare  una  causa  in  tnbunale. 

22'*  misier.  messer. 

22-*  Sbrigati...  acqua.  Pancratio  sta  seguendo  scrupolosamente  tutti  i  prcparafixà  necessari 
alla  realizzazione  dell'elisir  che  dovrebbe  renderlo  attraente  (cfr.  atto  1,  scena  4),  dando 
però  modo  a  Sambuco  di  portare  avanti  il  suo  gioco  degli  equivoci  incardinato  sullo  stor- 
piamento di  appellare  in  pelare. 

225  rappar  l'acqua:  increspare  la  superficie  dell'acqua  col  remo  (cfr.  GDLl,  XV  s.v.  rappa- 
re,  da  rappa  'ruga,  grinza'). 


214 


EdÌ2Ìoni  critiche 


PANCRATIO 

SAMBUCO 
FARINA 

SAMBUCO 

FARINA 
SAMBUCO 


PANCRATIO 


E  Sambuco  si  sia,  se  ci  venisse  mio  padre,  non  vò  badar 
con  lui;  se  vengo  su  a  cotesta  fenestra,  gH  vo'  tirar  con  un 
mortaro'^''  sul  capo. 

(S'è  armato  di  sasso,  et  ha  carcato  le  fenestre  co  i  mortari!) 
Olà,  non  date  fuoco,  non  sparate  ancora!  Oh  Farina? 
Chi  è  la  giù?  Corpo  del  mondo,  Sambuco,  hai  rotto  ancora 
quella  porta?  Fra  '1  battere  e  '1  gridare  hai  cacciato  dello 
studio  il  Signor  Procuratore! 

La  necessità  me  '1  fa  fare!  Di  gratia,  fratello,  da  parte  de  ste 
povere  spalle,  che  non  s'hanno  ancor  faticato  più,  vieni  ad 
aprirmi  la  porta! 

La  porta  ha  serrato  i  denti;  se  non  si  sganassa^^,  il  padrone 
non  \Tiole  che  s'apra. 

(Oimè  che  ogni  cosa  mi  par  acqua,  remi,  biscotto"^^^,  e  ba- 
stone; mi  pare  di  vagheggiarmi^'^  a  i  piedi  quella  collana 
d'oro  falso  '^!)  Oh  Signor  Procuratore,  Signore!  Sì  apunto, 
vorrà  che  ci  vada  io  solo,  e  non  è  giusto!  Oh,  eccol  fuora! 
Potta  ,  che  l'ho  avuto  a  dir^^^,  Sambuco:  tu  sei  più  impor- 
tuno che  quattro  soHcitatori  insieme.  T'è  stato  pur  detto 
che  ho  faccende,  e  se  non  t'è  stato  detto  te  lo  dico  io:  ho 
faccende,  non  posso  badar  con  te,  scrivo,  studio,  fo  peg- 
gio, non  lo  vedi?  Non  vogHo  esser  visto  in  casa,  non  vogHo 
esser  trovato  in  casa;  se  mi  vuoi,  cercami  fuora. 


226  mortaro:  Pancratio  si  riferisce  al  recipiente  usato  in  cucina  o  farmacia  per  frantumare 
le  sostanze,  mentre  Sambuco  nella  battuta  seguente  intende  l'arma  a  canna  corta  e  larga 
usata  per  tiri  a  traiettorie  molte  curve. 

227  sganassa.  rompe,  sganghera  (letteralmente  'non  si  rompe  le  mandibole,  le  ganasce'). 

228  biscotto:  pane  sottoposto  a  duplice  cottura  per  eliminare  completamente  l'umidità  e 
renderlo  conservabile  più  a  lungo,  detto  anche  'galletta';  com'è  noto  era  il  pane  dei  marinai 
e  dei  galeotti. 

22'^  mi  pare  di  vagheggiarmi:  'mi  immagino,  mi  pare  di  vedere'. 

23"  oro  falso:  di  materiale  che  nel  colore  e  nella  lucentezza  richiama  il  prezioso  metallo. 
Dunque  Sambuco  si  vede  già  incatenato. 

23'  'Potta:  ingiuria  frequentissima  in  Ruzante  e,  in  generale,  nei  testi  comici. 
232  Fho  avuto  a  dir.  'avevo  ragione  io  a  dire'. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  215 

SAMBUCO  Sarem  trovati  dentro  insieme  qui  a  un'hora,  se  non  vi  gio- 
verà far  il  cuoco  con  la  padella,  e  con  le  pignatte  sulle  ma- 
ni: bisogna  pelarsi. 

PANCRATIO    Mi  vo'  pelare,  mi  voglio  imbalsimare;  che  xiioi  dir  per  questo? 

SAMBUCO        Mi  piace.  Che  ci  avete  nelle  pignatte?  Orpimento"^"*  eh? 

PANCRATIO  Vi  ho  il  mal  anno  che  Dio  ti  dia!  Che  vuoi  saper  tu  se  nel 
secreto  ci  va  l'orpimento?  Chi  te  l'ha  detto? 

SAMBUCO  Me  l'ha  detto  il  notarlo,  e  che  non  può  giovar  altro  che  pe- 
larsi. Io  ho  poi  trovato  mastro  Inchioda  marescalco,  e  m'ha 
detto  che  per  farlo  senza  dolore,  ci  vuol  l'acqua  bollita,  e 
l'orpimento  infocato,  che  ci  poHrà,  e  monderà  tutto  da  ca- 
po a  piedi:  parrà  che  nasceste  hieri. 

PANCRATIO  Oh  sto  fresco  io!  Che  se  vo'  gire  a  ca',  l'ho  avuto  a  dire, 
l'abbiano  a  sapere  i  marescalchi!  E  al  notarlo  chi  gH  l'ha 
detto? 

SAMBUCO  II  Giudice,  e  gH  l'ha  data  in  scrittibus,  et  egH  l'ha  letta  a  me  in 
presentia  mia. 

PANCRATIO  Come  te  la  può  aver  letta,  se  l'ho  io  qua  su  che  la  metto  in 
opra? 

SAMBUCO        Se  vi  mettete  in  opra,  vi  ci  metterete  così  solo? 

PANCRATIO    Chi  ti  ci  chiama  te? 

SAMBUCO        II  giudice  e  '1  barigello^'*'*,  c'homai  lo  deve  saper  ancor  egH. 

PANCRATIO    A  l'altra"^^,  ne  sei  cagion  tu,  che  sempre  mi  vai  anasando 

per  tutto,  né  mi  ti  posso  mai  levar  d'intorno.  Vatti  con 
Dio,  lèvamiti  dinanzi! 

SAMBUCO  Sì  sì,  vorreste  fare  il  male  in  compagnia,  e  ne  fosse  castigato  un 
solo,  e  voi  uscirne.  Oh  belle  ragioni!  Si  saprà  bene  che  vi 
séte  vestito  da  poltroncion     ,  sì! 


2^^  Orpimento:  trisolfuro  di  arsenico  naturale;  era  usato  come  sostanza  depilatoria  in 
conceria  o  cosmetica. 

2'^  barigello:  magistrato  che  nel  comune  medievale  aveva  funzioni  di  polizia. 

235^/'^//ra:cfr.  n.  171  p.  195. 

23<*  anasando:  fiutando,  curiosando.  E  voce  dialettale. 

2'*'^  poltroncion:  furfante. 


216 


Edizioni  critiche 


PANCRATIO 
SAMBUCO 

PANCRATIO 

SAMBUCO 

PANCRATIO 

SAMBUCO 

PANCRATIO 

SAMBUCO 

PANCRATIO 

SAMBUCO 
PANCRATIO 


Che  poltroncione?  Posso  far  quel  che  voglio  in  casa  mia,  e 

sei  piedi  lontan  dalla  porta,  de  iure^^^  messer  sì. 

Messer,  no,  contra  iuribus    ,  o  avemo  a  esser  castigati  tutti 

due  insieme,  o  non  l'ha  da  scampare  né  l'uno  né  l'altro.  Oh 

disgratiato,  che  ho  sentito  quel  maladetto  fischio"*'! 

Orsù,  in  nome  del  diavolo,  le  pignatte  son  rotte,  e  sparso 

ogni  cosa!  Raccogli  quella  padella,  che  tu  sia  amazzato! 

M'hai  spaurato  con  quel  grido. 

Ve  lo  credo:  è  mala  cosa  pensare  di  stare  in  galera. 

Chi  in  galera? 

Per  tre  anni  la  Signoria  vostra,  e  la  mia.  Non  sapete  la  sen- 

tentia? 

Che  sententia?  l>iego,  reprobo~  ,  appello,  bis,  tris,  centum  millies, 

■    242 

tottes  cuoties    ,  e  cetera. 

Non  più  tris  e  bis,  che  con  quella  favella  diabolica"'*^  ci  al- 
longheranno  il  tempo  di  tre  anni,  e  saran  sei. 
Mettiti  in  ordine,  che  vo'  che  tu  compariscili  hor  hora  co- 
rani indice,  et  appresentando  meam  vicem^'^  tu  difenda  Sambuco, 
e  dichiari  la  sententia  nulla  tamquam  non  citata  parte'  . 
Non  ci  vo'  comparir  io:  più  presto  mi  manderebbon  via, 
che  mi  pigUassero""**^. 

Va  sopra  di  me"   ,  che  ti  fo  mio  sostituto,  e  se  te  n'awien 
mal  nesuno,  dì  che  son  stat'io. 


2^**  de  iure:  'a  buon  diritto'  (dal  linguaggio  giuridico  romano,  per  indicare  un'azione 
compiuta  in  base  a  un  diritto  legittimo  e  riconosciuto  dalle  norme). 

2^^  contra  iuribus:  'senza  riguardo  ai  diritti'  (e  alle  regole  grammaticali  del  latino,  ovvia- 
mente ignorate  da  Sambuco). 

-^"  maladetto  fischio:  Sambuco  teme  che  questo  fischio  (di  provenienza  non  precisata)  an- 
nunci l'imminente  arrivo  delle  guardie  incaricate  di  catturarlo. 

^"*'  reprobo:  'ricorro'. 

2-*2  toties...  cuoties:  storpiamento  della  formula  latina  classica  totiens...  quotiens  'tutte  le  volte  che'. 

-■*^  quella  favella  diabolica:  il  latino.  Sambuco  inizia  ad  essere  irntato  dall'uso  che  il  Procu- 
ratore fa  di  una  lingua  per  lui  incomprensibile  e  misteriosa,  di  cui  intuisce  però  tutto  il  potere 
oppressivo  a  scapito  dei  più  deboli.  Inoltre  vuole  dire  la  sua  anche  a  proposito  del  latino. 

2"*"*  coram  iudice,  et  appresentando  meam  vicem:  'davanti  al  giudice,  e  dichiarandoti  mio  vice'. 

^■*^  nulla  tamquam  non  citata  parte:  'nulla  in  quanto  la  parte  non  è  stata  convocata'. 

~'^^'  più  presto...  pigliassero:  'mi  manderebbero  alle  galere  prima  ancora  di  prendermi'. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


217 


SAMBUCO  È  meglio  che  ci  andiate  voi,  e  se  bisogna  anco  in  galera, 
perché  voi  ci  sarete  rispettato,  et  io  non  mai. 

PANCRATIO  Vien  dentro,  che  vo'  che  ci  andiamo  insieme  adesso  ades- 
so, quanto  ch'io  mi  rivesta.  Tien  ben  quella  padella:  due  o 
tre  volte  me  l'ho  vista  attaccata  sul  mostaccio"   . 

SAMBUCO  Importeria  poco,  e  saria  forse  meglio  che  ne  tingessimo ^'''^ 
amendue,  per  non  esser  conosciuti.  Di  gratia,  usciamo  per 
la  stalla:  non  ho  altra  paura  che  di  Sambuco  io. 


SCENA  SESTA 
Lelio,  Gasparo. 

LELIO  Non  vo'  più  consigli,  né  tuoi,  né  d'Alessandro.  Non  mi  dir 

altro  che:  "Perdi  tempo!" 

GASPARO  Io  non  vi  chiedo  altro  se  non  che  vogliate  trattenervi  un 
giorno  solo,  e  poi  fare  quel  che  vi  pare:  è  sì  gran  tempo 
questo? 

LELIO  Alla  risolutione  sempre  nocque  l'indugio.  Fa'  quel  ch'io 

t'ho  detto  e  non  cercar  altro. 

GASPARO  Avvertite  Signor  Lelio,  che  quando  la  cosa  è  fatta  non  gio- 
va più  il  pentirsi,  e  le  cose  ben  pensate  sempre  riescono  a 
buon  fine;  io  come  servitore  (che  vi  sono)  son  obUgato  a 
ricordarvelo.  Vogliatemene  male,  che  io  non  ci  penso. 

LELIO  Oimè!  Ascolta  Gasparo:  dimmi  di  gratia,  che  ragione  ti 

muove  a  non  farmi  buona  questa  risolutione? 

GASPARO  Perché  la  conosco  pericolosa,  pericolosissima;  vi  vedo  in 
un  precipitio,  il  maggior  del  mondo. 

LELIO  E  come? 

GASPARO  Come,  mi  dite?  Perché  qui  c'è  l'interesse  del  Prencipe:  non 
vedete  la  protettion  c'ha  presa  di  costei?  Questa  non  è  mica 


2''''  Va  sopra  di  me:  'fidati  di  me'. 

^■**  mostaccio:  muso. 

^■''^  tingessimo:  'ci  camuffassimo'. 


218 


Edizioni  critiche 


una  cura  ordinaria,  onde  è  segno  che  gli  preme.  Se  per  ma- 
la sorte  si  scopre  che  voi  gli  siate  entrato  la  notte  per  le  fe- 
nestre,  e  per  forza  in  camera,  che  risentimento  credete  che 
ne  faccia? 

LELIO  Oh,  "per  forza";  non  dico  così  io.  La  prima  cosa  presup- 

pongo che  non  si  possa  risapere,  perché  vi  andarò  questa 
notte  a  tal  hora  che  non  sarò  veduto,  e  salito  che  sarò  con 
una  scala  di  corda  su  la  fenestra,  prima  farò  motto  a  Ma- 
donna Soffronia  che  ad  Olinda,  la  quale  per  esser  stata  a- 
micissima  di  mia  madre  (come  tu  sai)  vedendomi  in  quel 
pericolo  son  sicuro  che  tacerà,  anzi  mi  darà  commodità 
che  io  parli  ad  Olinda,  et  intenda  da  lei  l'animo  suo;  e 
quando  si  scoprisse  pur  (che  non  lo  credo)  chi  non  sa"  ' 
che  '1  Prencipe  lo  considererà  come  fallo  amoroso,  facile 
ad  esser  commesso  da  un  mio  pari?  E  me  n'ara  compassio- 
ne, e  me  lo  perdonarà.  E  presupposto  che  non  mi  volesse 
perdonare,  che  peggio  potrà  farmi  che  farmela  prender  per 
moglie?  E  questo  non  sarà  appunto  quello  ch'io  desidero? 

GASPARO  Un  discorso  fallacissimo,  un  castello  in  aria!  Credetemi,  Si- 
gnore, che  sete  in  errore  troppo  grande:  voi  presupponete 
che  la  cosa  non  s'abbia  a  risapere,  et  io  vi  dico  che  non  sa- 
rete voi  così  presto  a  farla,  come  saranno  cento  a  soffiar 
nelle  orecchie  al  Prencipe,  e  dirgli  che  séte  stato  voi,  perché 
sapendosi  che  ne  séte  innamorato,  e  non  l'avendo  potuta 
ottenere  altramente,  subito  si  farà  giudicio  che  con  questo 
mezo  siate  voluto  venire  al  desiderio  vostro.  Se  poi  credete 
che  '1  Prencipe  reputi  questo  un  scherzo,  e  non  ne  faccia 
risentimento,  lo  lascio  pensar  a  voi,  anzi  vi  dico  che  in  voi 
se  lo  terrà  a  grandissimo  affronto,  perché  gli  fate  il  servitore 
attorno,  cercate  la  gratia  sua,  e  fate  (si  può  dir)  professione 
di  dipender  da  lui;  se  poi  su  la  meza  notte,  con  una  scala  di 
corda  entrate  in  camera  a  una  gio\'inetta  di  corte,  e  quel 
ch'è  peggio,  sua  cara  cosa,  pensate  voi  che  sdegno,  che 


2^°  chi  non  scr.  chissà. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


219 


LELIO 


GASPARO 

LELIO 
GASPARO 


LELIO 

GASPARO 

LELIO 


GASPARO 
LELIO 


rabbia  sarà  la  sua  centra  di  voi,  e  se  per  castigarvi  vorrà 
darvela  per  moglie!  Pensatela  e  ripensatela,  e  poi  risolvetevi 
a  non  ne  far  niente! 

Eh,  di  gratia,  non  parlar  più,  ch'io  l'ho  pensata  tanto  che 
basta.  Potremmo  forse  trattar  in  modo,  Ohnda  et  io,  che 
bisognarebbe  che  ne  restasse  anco  sodisfatto  il  Prencipe... 
insomma  bisogna  aiutarsi  dove  preme  l'utile,  e  la  sodisfat- 
tione. 

Il  male  è  che  in  questa  materia  di  robba,  dove  è  il  vostro 
principal  fondamento,  vi  potreste  ingannare. 
Vo'  tentar  questa  fortuna.  Non  più  parole! 
Io  son  con  voi.  Eccomi  a  far  tutto  quello  che  mi  comanda- 
rete;  a  me  basta  per  scarico  mio,  che  non  vi  potrete  doler 
di  me,  che  non  ve  l'abbia  detto! 
T'ho  inteso,  non  più. 
Non  dico  altro. 

Guardati  di  non  ne  mostrar  segno  con  huomo  nato,  massi- 
me con  Alessandro  che  so  che  ancor  egli  vorrebbe  far  delle 
me.  Andiamo  verso  casa,  e  sia  tua  cura  di  trovar  secretamente 
per  questa  notte  una  scala  di  corda,  e  poi  lascia  fare  a  me. 
Questa  abbiatela  per  trovata. 
Tanto  meglio!  Andiamo. 


SCENA  SETTIMA 
Valerio. 


Hor  ecco  il  Prencipe  entrato  in  sospetto  di  Erminio  e  d'Olinda.  Oh  male- 
detta cortigiana,  che  tu  nei  sarai  stata  cagione,  che  per  martello  ch'hai  di 
Erminio  arai  scoperto  qualche  cosa,  e  detto  al  Prencipe,  e  la  colpa  sarà  stata 
anco  di  Olinda,  per  non  aver  voluto  andar  hoggi  da  lui  quando  la  fece 


251  per  martello:  'a  causa  dell'aspra  e  violenta  passione'  (cfr.  Il  Pellegrino,  atto  4,  scena  6). 
Per  il  significato  di  martello  'passione  amorosa'  e  martellato  'innamorato  tormentato  dalla 
passione'  cfr.  anche  F.  Ugolini,  Il  perugino  Mario  Podiani,  op.  cit..  Ili,  p.  107). 


220  Edizioni  critiche 

chiamare,  perché  questo  farmi  dire  con  tanta  fretta  ch'io  cerchi  Erminio,  e 
che  '1  Prencipe  lo  domanda  in  furia,  e  prima  averne  veduto  uscir  la  Corti- 
giana ch'ancor  fumava  dalla  collera,  non  vogliono  inferir  altro,  et  il  povero 
Erminio,  che  già  gUel'ho  detto,  se  l'ha  subito  imaginato,  che  smorto,  e  tre- 
mante s'è  inviato  alla  volta  del  giardino,  et  a  pena  ha  potuto  dirmi:  "Fa'  che 
Olinda  sappia".  Oh  sfortunato!  Voglio  andar  (se  potrò)  a  farlane  consapevole. 


SCENA  OTTAVA 
ALmira,  Concordia,  Farina. 

ALMIRA  Va',  e  batti  alla  porta. 

CONCORDIA  La  porta  s'apre. 

ALMIRA  Presto  ch'è  egli:  fagli  motto. 

CONCORDIA  Ci  ha  vedute.  Signora,  che  eccolo  che  viene  a  noi. 

ALMIRA  Manco  male  che  lo  trovo  a  tempo. 

FARINA  Baciovi  la  mano.  Signora,  dove  n'andate?  S'è  lecito,  mi  pa- 

rete tutta  travagliata. 

ALMIRA  Non  sei  in  errore.  Ho  bisogno  dell'opra  tua. 

FARINA  Qualche  intrico  alle  mani,  eh? 

CONCORDIA  DogHa  vecchia! 

FARINA  Sì  sì,  t'ho  inteso. 

ALMIRA  Vengo  a  te  per  consiglio,  e  per  aiuto,  e  quando  me  lo  ne- 

gassi, mi  negaresti  anco  la  vita,  perché  si  tratta  cosa  troppo 
importante. 

FARINA  Oh,  sì  gran  pericolo?  D'una  cosa  sola  bisogna  guardarsi:  di 

non  capitar  male  tutti  tre  in  un  istesso  tempo,  accioché 
l'uno  possa  soccorrer  l'altro;  al  restante  si  provederà. 

CONCORDIA  Salviamo  la  concordia^^^,  se  non  volemo  disunirci. 

ALMIRA  Ascolta.  Tu  sai  che  da  qualche  giorno  in  qua  son  stata 

sempre  in  sospetto  che  quel  traditor  d'Erminio  con  qualche 
trama  m'avesse  ingannata;  hoggi  (come  la  sorte  ha  voluto) 
o  per  maggior  mio  male,  o  per  suo  castigo,  ho  scoperto  per 

2^2  concordia:  facile  gioco  di  parole  con  il  suo  nome  propno. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


221 


FARINA 
ALMIRA 


FARINA 
ALMIRA 


mezo  di  due  amici  miei  ch'egli  è  innamorato  di 
quell'OHnda  che  aUi  mesi  passati  capitò  in  corte.  Io,  non 
potendo  soffrire  di  esser  così  a  torto  tradita,  me  ne  son 
corsa  al  Prencipe,  e  gH  ho  detto  ch'egH  ama  dishonesta- 
mente  questa  giovine. 

Oh,  che  gU  deve  importare  questo  al  Prencipe? 
Piano!  Poi  gli  ho  soggiunto  che  ogni  notte  che  Sua  Eccel- 
lenza resta  al  giardino,  costoro  con  poco  rispetto,  e  con 
maraviglia  di  molti  che  se  ne  possono  esser  avveduti,  si 
trovano  a  parlamento  insieme  alle  fenestre,  e  poi  conclu- 
dono l'hora  d'avere  a  ritrovarsi  in  camera. 
Sì,  eh?  Oh  questo  non  arei  creduto  del  Signor  Erminio! 
Oh  qui  sta  il  punto:  io  non  t'ho  detto  questo,  ch'io  sappia 
che  sia  la  verità,  ma  perché  essendone  il  Prencipe  (si  può 
dir)  depositario^",  gli  dovesse  premere  sul  vivo,  e  lo  mo- 
vesse a  collera,  come  è  avvenuto,  che  s'alterò  in  tal  maniera 
che  subito  die  ordine  che  s'avesse  a  certificar  la  cosa.  Hora 
quello  ch'io  vorrei  da  te,  è  che  tu  pensassi  qualche  modo 
per  salvar  questa  bugia. 
Così,  Signora:  parlate  Uberamente. 

Oh  questo  sì  che  mi  dà  da  pensare,  e  dubito  che  ne  met- 
tiamo in  viaggio  per  traboccare  in  qualche  rompicollo"  . 
CONCORDIA  Et  io  dubito  d'aver  già  un  piede  nel  trabocco"".  Da  che 
cominciaste.  Signora,  a  farneticare  sopra  questo  Erminio, 
m'è  intrata  una  pazzia  per  la  vita  che  non  trovo  luogo. 
Ahimè,  che  credete  che  sia  trattar  sempre  una  medesima 
cosa? 


CONCORDIA 
FARINA 


2"  depositario:  custode,  tutore. 

2^"*  traboccare...  rompicollo:  'precipitare  in  qualche  grosso  guaio'. 

255  trabocco:  trabocchetto,  il  tratto  di  terreno  appositamente  predisposto  affinché  chi  vi 
passa  precipiti  nel  vano  sottostante  e  quindi,  fuor  di  metafora,  'temo  di  essere  sul  punto  di 
perdere  la  vita'.  Ricordiamo  però  che  trabocchetto,  con  diverso  significato,  compare  nelle 
Rime  di  Cecco  Angiolieri  (cfr.  Poeti  giocosi  del  tempo  di  Dante,  a  cura  di  M.  Marti,  Milano,  Riz- 
zoli, 1956,  son.  59,  p.  177,  w.  12-13:  «E  la  mia  donna,  secondo  ch'i'  odo  /  in  ora  in  ora  sta 
sul  trabocchetto»)  dove  esso  viene  spiegato  come  uno  strumento  di  legno  atto  a  falsificare 
la  moneta. 


222 


EdÌ2Ìoni  critiche 


ALMIRA  Pensa  un  poco,  Farina,  che  a  te  non  mancano  inventioni. 

Aiuta  chi  è  degna  di  compassione,  che  io  quanto  a  me,  ho 
perduto  il  discorso  ',  e  son  per  far  peggio  tuttavia  di  quel 
c'ho  fatto. 

FARINA  In  somma,  così  all'improviso  ci  trovo  difficoltà.  Séte  voi 

certa  che  questa  notte  s'abbia  a  scoprir  la  cosa? 

ALMIRA  Subito  ch'io  l'ebbi  detto  al  Prencipe,  infuriato  mandò  per  il 

mastro  di  casa,  e  venuto  lo  chiamò  da  banda,  et  io  l'intesi 
che  gli  disse:  "Manfredo,  questa  sera  noi  restaremo  al  giardi- 
no: vi  do  ordine  espresso  che  questa  notte  facciate  star  uno 
ascoso  nel  cortile,  e  guatar  bene  se  sotto  le  fenestre  d'OHnda 
vi  comparisce  Erminio  a  parlar  con  lei,  e  subito  subito  me 
n'avisiate".  Hor  vedi  se  abbiamo  tempo  da  perdere! 

CONCORDIA  Senti  pericolo! 

Appunto  quella  fenestra  là,  risponde  alle  stanze  di  lei,  e  quanto 
al  fingere  di  parlarle,  ci  sarebbe  modo,  ma  queU'intrarle  poi 
in  camera  non  so  come  lo  potessimo  adattare! 
Cred'io  che  questo  importarebbe  poco,  pur  che  si  facesse 
una  comparsa  lì  sotto  la  fenestra,  e  mostrar  di  non  poter 
intrare  per  qualche  impedimento,  e  tu  saresti  a  proposito 
per  imitare  Erminio  nel  modo  ch'a  te  paresse. 

FARINA  Non  trattiam  di  me,  se  volem  sano  il  nostro  coUegio^^^,  ma 

consolatevi  che  ho  pensato  meglio:  il  Procuratore  ci  sov- 
verrà nel  bisogno,  perché  essendo  appassionato  di  voi 
(come  sapete)  gli  darò  ad  intendere  tutto  quello  che  vorrò 
per  adoperarlo  al  nostro  proposito  -  detta^^**  -.  Voi  non  vi 
trattenete  più  qui,  perch'egU  non  può  stare  a  comparire, 
che  é  già  un  pezzetto  che  uscirono  per  la  stalla  egli,  e  Sam- 
buco, per  andare  in  palazzo.  Di  qui  a  poco  verrò  a  dirvi  il 
modo  che  arò  ritrovato. 


FARINA 


ALMIRA 


256  discorso:  senno. 

25^  collegio:  gruppo  (unito  da  comuni  interessi). 

2^*  detta:  forse  nel  senso  di  'prendi  nota'  (ammesso  che  non  si  tratti  di  un  refuso  dello 
stampatore). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  223 

ALMIRA  Orsù  dunque,  ne  lascio  la  cura  a  te  e  t'assicuro  che  non 

t'affaticherai  in  damo.  Mi  ti  raccomando,  Farina,  sai? 

FARINA  Non  occorre  dir  altro.  Aspettatemi  a  casa. 

CONCORDIA  Credete  che  gH  manchino  modi?  L'archivio  delle  forfanta- 
rie  de  la  provincia! 


SCENA  NONA 
Farina. 

Oh  io  son  corrivo^^^  al  promettere!  Se  costei  mi  caccia  in  qualche  intrico, 
me  lo  merito!  Il  passo  è  malagevole  e  ci  potrebbe  restar  la  bestia  .  Sento 
non  so  chi  dirmi  all'orecchia:  "Tu  t'arrischi  troppo,  Farina!  Pensa  bene  a' 
casi  tuoi,  ricordati  di  quel  proverbio  antico:  peccato  vecchio,  e  penitentia 
nuova^^''!".  È  vero,  ma  se  io  manco  a  costei,  chi  sovverrà  me  nelle  mie  oc- 
casioni, che  a  tutte  l'hore  posso  incappare  in  qualche  lacciuolo  a  sua  po- 
sta^^'^?  Avvenga  quel  che  vuole,  qui  bisogna  speditione^",  perché  il  tempo  è 
breve.  Oh,  ecco  appunto  il  Procuratore!  Oh,  come  è  a  tempo! 


SCENA  DECIMA 
Pancratio,  Farina. 

PANCRATIO  Chi  vuol  dipingere  la  dapocaggine  in  viso,  in  carne,  e  in  os- 
sa, faccia  ritrar  Sambuco  col  capo  di  sotto,  e  i  piedi  di 
sopra,  e  con  un  motto  che  dica:  "Io  e  tutte  le  cose  mie 

2^^  corrivo:  precipitoso. 

2'»"  ci  potrebbe  restar  la  bestia:  'ci  potrebbe  cader  l'asino'  (oppure,  con  senso  malizioso,  'si 
corre  il  rischio  di  rimaner  castrati'). 

2'ii  peccato  vecchio,  e  penitentia  nuova:,  'prima  o  poi  i  peccati  si  pagano'  (poiché  pare  poco 
contestualizzabile  il  significato  più  diffuso  'per  elimmare  i  vizi  radicati,  è  necessario  un 
nuovo  tipo  di  espiazione'  per  cui  cfr.  Orlando  Pescetti,  Proverbi  italiani.  Verona,  Discepolo, 
1598,  p.  270,  ristampa  anastatica  a  cura  della  Casa  editrice  G.  D'Anna,  Messina-Firenze, 
s.d.,  e  GDLI,  XII  s.v.  peccato). 

2^^  a  sua  posta:  'a  sua  volontà'. 

2'''  speditione:  'fare  il  fretta'. 


224 


Edizioni  critiche 


FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 


PANCRATIO 
FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 


PANCRATIO 


cosi"^'''*.  Per  un  poco  di  ridere  che  s'è  fatto  lì  dal  notario 
nel  rivocar  la  sententia,  mi  s'è  perduto  in  quel  punto,  che 
non  l'ho  visto  mai  più,  e  bisogna  ch'io  vada  solo.  Oh  crepi! 
Oh,  ecco  Farina! 

Signor  patrone,  buona  sera,  e  buona  nuova  a  Vostra  Signoria! 
Nuove  de  la  Signora,  eh? 

Signor  sì,  appunto  adesso  torno  da  lei.  Il  vostro  Farina  af- 
fettionato  s'è  adoperato  tanto  per  voi,  che  questa  notte  sa- 
rete nel  colmo  della  felicità. 
Non  t'intendo.  Farina  mio. 

Dico  che  voi  questa  notte  v'avete  a  trovare  con  la  vostra 
diva  a  solo,  a  solo. 
Burli  tu,  Farinuccia? 

Se  burlo,  ch'io  possa  perder  la  gratia  vostra! 
Non  no,  anzi,  se  dici  da  vero  te  ne  vo'  fare  un  presente 
dopo  morte  de  la  Signora  Almira. 

L'accetto.  Sentite:  subito  che  voi  usciste  di  casa  con  Sam- 
buco, mi  venne  in  pensiero  di  lasciare  la  compositione  del 
balsamo,  et  andarmene  alla  volta  de  la  Signora,  e  la  trovai 
appunto  com'io  la  voleva,  sola  e  soletta,  e  dopo  molti  aggira- 
menti di  parole,  con  bel  modo  la  tirai  a  dir  di  voi,  e  poi  a  pre- 
garla che,  avendovi  a  condurre  in  serraglio '^'^,  si  sollecitasse, 
e  trovandola  in  buona  dispositione,  mi  disse  di  non  restar 
per  altro  che  per  non  aver  commodità,  per  la  cura  che  ten- 
gono di  lei  questi  altri  suoi  innamorati,  ma  ritrovandosi 
modo  sicuro,  eUa  da  la  banda  sua,  non  mancherebbe  d'ogni 
diligentia. 
Oh,  cuor  mio! 


^''^  Chi  vuol  dipìngere...  le  cose  mie  così:  emblematico  il  ritratto  che  Pancratio  traccia  di  Sam- 
buco, lo  stolto  che  interpreta  tutto  al  rovescio  e  che  dimostra  di  appartenere  "al  mondo 
della  sovversione  e  della  provocazione  carnevalesca"  (cfr.  Pietro  Camporesi,  Lm  maschera  di 
Bertoldo,  Garzanti,  1993,  p.  23). 

-^'^  in  serraglio:  analoga  all'espressione  condurre  in  steccato,  in  allusione  alla  discesa  del  cava- 
liere nel  campo  assegnatogli  nelle  giostre  medievali,  divenuta  una  sfruttatissima  metafora 
amorosa  (cfr.  Parabosco,  Il  Pellegrino,  atto  3,  scena  5). 


I  Fidi  A.manti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  225 

FARINA  In  somma,  concludemmo  che  questa  notte... 

PANCRATIO    Mi  distruggo,  e  rido'''! 

FARINA  ...su  le  cinque  o  sei  hore,  io  vada  da  lei,  e  la  conduca  qui  in 

una  di  queste  stanze  di  palazzo  (ch'ella  n'ha  la  chiave)  dove 
spesso  si  rivede  con  questi  cortigiani,  et  appunto  questa 
notte  tutti  alloggiano  col  Prencipe  al  giardino.  Basta,  che 
senza  pericolo  (vestendovi  così  da  mezo  cortigiano  per 
manco  sospetto  di  chi  vi  potesse  incontrar  per  strada)  po- 
trete per  un  pezzo  darvi  piacere,  e  bel  tempo. 

PANCRATIO  Figlia  mia  bella,  dolce,  d'oro  e  d'argento  di  settanta  leghe  /// 
solidum^^^\  Presto,  Farina,  va  a  dire  al  Eretto  stufaruolo"'** 
che  metta  in  ordine  acqua  nanfa,  muschio,  zibetto,  stora- 
ce    ,  e  oUo  di  camomilla...  una  prò  fumaria  intera,  se  si  può! 

FARINA  L'ombra  vostra  le  profumerà  la  stanza!  Più  presto  fatele  un 

presentino  d'un  par  di  manigH"  ",  o  d'una  collana,  che  glie 
la  farò  accettare... 

PANCRATIO  Non  vo'  far  cerimonie,  che  l'avrebbe  a  male.  Dentro  poi 
non  ci  sarà  pericolo  di  sciagura  nessuna,  eh? 

FARINA  Come?  Anzi,  questo  si  è  eletto  per  il  più  sicuro,  e  commo- 

do luogo  che  sia,  non  pensate  in  altro. 

PANCRATIO  E  vero,  ma  il  portar  adosso  un'arma,  che  ritenga  i  colpi  di- 
samorosi,  non  sarà  se  non  bene! 

FARINA  Orsù  dunque,  se  ben  non  bisogna,  vo'  che  ci  andiate  arma- 

to, e  Sambuco,  et  io  vi  farem  la  guardia  da  fuora,  che  i  so- 


2^^  distru^o  e  rido:  è  una  sorta  di  coppia  lirica,  che  anticipa  l'imminente  "trasfigurazione 
amorosa"  di  Pancratio. 

2''^  in  solidum:  massiccio  (letteralmente  'completamente,  del  tutto'). 

2''''  stufaruolo:  l'addetto  al  servizio  dei  bagni  caldi  e  alla  preparazione  dei  profumi  che  ivi 
SI  usavano. 

2'''^  accjua  nanfa,  muschio,  :Qbetto,  storace:  la  prima  è  un'essenza  odorosa  distillata  dai  fion 
d'arancio  (chiamanta  anche  acqua  lanfà);  il  muschio  e  lo  zibetto  sono  sostanze  estrattc  dalle 
ghiandole  di  alcuni  mammiferi  ed  usate  in  profumena;  lo  storace  è  una  resina  ricavata  dalla 
corteccia  bollita  e  spremuta  di  una  particolare  pianta,  la  liquidamba:  solitamente  era  usata 
in  medicina  per  curare  alcune  malattie  della  pelle  e  come  antiparassitano  per  scabbia  e  pi- 
docchi ma,  evidentemente,  poteva  valere  anche  come  profumo. 

^^"  manigli:  braccialetti. 


226  Edizioni  critiche 

spiri  de  gli  altri  innamorati  non  potranno  entrar  dentro. 
Credete  che  più  di  quattro  ne  restino  su  l'uscio? 

PANCRATIO  Ah,  ah!  Questo  ho  a  caro  io.  Presto,  va'  a  trovar  Sambuco, 
e  dilli  che  venga  da  me  adesso  adesso,  che  lo  vo'  mandare 
dal  mio  compare  Menfido,  che  mi  presti  tutte  l'armi 
ch'erano  di  suo  padre,  che  fu  imbrunitore^^^  del  commune. 

FARINA  Vi  andrebbe  troppo  tempo:  trovarò  io  Sambuco,  e  lo  man- 

dare dal  compare  con  l'ambasciata,  poi  andrò  a  far  motto 
alla  Signora,  e  la  inviare  aUa  stanza,  e  quando  Sambuco  sa- 
rà venuto  con  l'armi,  mettetevi  in  ordine,  che  subito  sarò 
da  voi.  Bisogna  solecitare,  che  ormai  è  notte! 

PANCRATIO  Sollecito  e  secreto,  solo,  pensoso^''^,  e  chéto,  romperò  il  di- 
vieto !  Oh  come  m'è  intrata  presto  la  forza  in  tutti,  i  nervi! 
Se  io  sentissi  un  chitarrino  spagnuolo  ,  vorrei  fare  una  fu- 
saina  '  da  impazzire!  Trai  nà  ina  nà,  trai  nai  nà  nà.  Bocchin 
mio  dolce  saporito,  di  mèle,  di  zuccaro,  di  manna  puglie- 
se ,  nato  et  allevato  nell'odorifera  Arabia,  e  cacato  in  car- 
ne e  in  ossa  da  la  Fenice  su  i  monti  Sabei! 


2'''  imbrunitore:  brunitore  di  metalli  (cfr.  GDLJ,  s.v.  imbrunitore  dove  l'unica  attestazione 
riportata  è  costituita  dal  passo  in  oggetto). 

2^2  solo,  pensoso:  quasi  superfluo  ricordare  che  viene  evocato  il  celebre  incipit  del  sonetto 
XXX\^  del  Petrarca. 

2^^  Sollecito...  divieto:  si  noti  come  la  frase  sia  in  realtà  composta  da  tre  settenari  con  rima 
in  -eto.  Pancratio  dunque,  nobilitato  dall'amore,  inizia  a  fare  versi  e,  m  una  sorta  di  climax, 
arriverà  addirittura  a  cantare,  salvo  poi  rivelare  la  sua  vera  natura  ricadendo  nella  corporali- 
tà più  rozza  {cacato). 

^''■*  chitarrino  Spagnuolo:  probabilmente  si  riferisce  al  chillador,  uno  strumento  a  forma  di 
piccola  chitarra  a  dieci,  dodici  o  quattordici  corde  in  pari  o  triple.  Più  semplicemente,  po- 
trebbe però  anche  alludere  all'odierno  strumento  che,  nel  secolo  X\'  inizia  ad  essere  chia- 
mato chitarra  spagnola,  in  distinzione  alla  chitarra  moresca  (o  mandorla),  e  a  possedere  un 
numero  fisso  di  corde  (dapprima  cinque). 

^''^  fusaina:  senza  escludere  un  doppio  senso  osceno,  potrebbe  trattarsi  del  diminutivo  di 
fusa  (figura  di  nota  medievale  e  rinascimentale,  valente  la  metà  o  un  terzo  della  semimim- 
ma),  in  genenca  allusione  alla  musica. 

2^^  manna  pugliese:  secrezione  zuccherina  di  gradevole  sapore,  solubile  in  acqua,  formata 
per  indurimento  del  succo  che  sgorga  da  incisioni  trasversali  praticate  ad  alcuni  alberi,  so- 
prattutto all'orniello  (spontaneo  nell'Italia  Mendionale). 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  227 

ATTO  QUARTO 


SCENA  PRIMA 
Erminio. 

Hor  ecco,  fortuna  iniqua^''^,  che  sarai  pur  satia  una  volta  di  tormentarmi! 
Ecco  a  che  ultimo  stratio  tu  m'hai  condotto!  Ti  dovea  pur  bastare,  insatiabi- 
le,  dopo  tante,  e  sì  diverse  persecutioni  avermi  dato  in  preda  a  mille  passio- 
ni mortali,  senza  destinarmi  hora  di  nuovo  a  vedere  sì  duro  spettacolo!  Et 
io  sentirò  questo  dolore  estremo,  e  potrò  vivere?  Olinda,  anima  mia,  per  te 
sopporto  questo  affanno  eccessivo,  intollerabile!  Il  dubbio  solo,  che  tu  mi 
sì  tolta,  e  capiti  in  poter  altrui,  mi  prepara  certissima  morte.  Ahi,  che  più  to- 
sto il  Prencipe  aprì  le  labbra  per  parlarmi,  ch'io  vidi  formate  neUa  sua  bocca 
parole  per  me  piene  d'assentio!  "Erminio"  mi  disse  "ho  saputo  che  tu  ardi 
d'OUnda,  né  di  ciò  mi  dorrei  se  non  perché  m  sei  cagione  ch'ella  m'usi  il  ri- 
gore che  tu  sai,  né  potea  immaginarmi  ch'ella  da  se  stessa  mi  fosse  sì  con- 
traria, se  non  perché  tu,  essendone  acceso,  hai  operato  che  così  mi  tratti;  e 
di  questo"  soggiungea  "son  stato  cagione  io  stesso,  che  per  scoprirti  i  secre- 
ti miei,  troppo  audace,  et  arrogante  t'ho  fatto,  e  così  avviene  a  chi  d'ingrato 
si  fida,  ma  ti  dico  che  se  tu  non  farai  sì  ch'io  sia  disingannato,  e  che  il  con- 
trario apparisca,  te  ne  darò  quel  castigo  che  meriti.  Va'  da  Ohnda  e  fa'  in 
tutti  i  modi  che  venga  qua  hora  alla  presentia  mia".  Misero  Erminio,  come 
restasti  aUhora!  Come  fu  possibile  che  l'odioso  suono  di  quell'ultime  parole 
non  m'infettassero  in  tal  modo  l'aere  d'intorno,  che  fra  mille  e  mille  sospiri 
respirando,  io  non  gli  sorbissi  il  veleno,  e  gH  cadessi  morto  innanzi?  Eccomi 
vivo,  e  qua  condotto,  ma  che  farò?  Se  procuro  ch'ella  vada,  non  vengo  da 
me  stesso  a  scoprirmi  per  colpevole,  mostrando  di  poter  dispor  di  lei?  S'ella 
non  va,  a  che  rischio  corr'io?  Se  poi  la  prego  che  voglia  obedire  al  Prencipe, 
non  procuro  a  me  un'evidentissima  morte?  Non  fo  a  quella  fede  sincera 
grandissimo  torto?  Se  da  questo  la  dissuado,  non  son  io  ingrato  al  mio  Si- 


'^'^'^  fortuna  iniqua:  cfr.  Boiardo,  Inamoramento  de  Orlando,  I,  XXI,  46,  v.  1:  «Fortuna  dispie- 
tata, iniqua  e  strana»,  ma  si  tratta  di  un  tòpos  molto  frequentato  anche  nella  commedia. 


228 


Edizioni  critiche 


gnore,  a  cui  tant'obligo  tengo?  Non  ne  sarò  io  crudelmente  punito?  E  quel- 
lo ch'è  peggio,  sfortunato,  non  son  sicurissimo  di  perder  lei? 


SCENA  SECONDA 
Soffronia,  Erminio,  Olinda. 


SOFFRONIA 

ERMINIO 
OLINDA 


ERMINIO 
SOFFRONIA 


OLINDA 
SOFFRONIA 


ERMINIO 

OLINDA 
ERMINIO 


OLINDA 


Aspettami,    figliuola!    Che    pensiero    è    il    tuo,    voler    a 
quest'hora  andare  al  giardino? 
Oimè,  ecco  Olinda!  Che  sarà? 

VogHo  andare  per  sapere  quel  ch'è  di  Erminio  mio.  Oimè, 
se  '1  Prencipe  ha  scoperto  quel  che  Valerio  ha  detto,  come 
credete  che  lo  tratti? 
Mira  amore,  mira  passione^''^! 

L'andar  tuo,  figliuola,  credimi,  o  non  bisogna,  o  non  basta. 
Per  mio  consiglio,  resta  fino  a  domattina,  et  hora  manda 
Valerio  a  sapere  qualche  cosa. 

Non,  cara  madre:  se  io  non  vedo  Erminio,  o  non  son  certa 
ch'egU  sia  libero,  domattina  non  son  viva! 
Tu  cerchi  mover  collera  a  Sua  Eccellenza  e  che  cada  poi 
sopra  di  Erminio.  Saliamo  in  camera,  e  lasciati  governar  da 
me,  che  ho  maggior  compassione,  che  tu  forse  non  hai  do- 
lore. 

10  son  qua,  Olinda,  e  vengo  per  trovarvi,  ma  non  nuntio 
d'allegrezza! 

Oimè,  in  un  punto  mi  date  la  vita,  e  la  morte! 

11  Prencipe  mi  manda  a  voi,  ch'io  faccia  in  mtti  i  modi  che 
hora  siate  alla  presenza  sua,  se  no  s'arma  contra  di  me  di  sì 
potente  sdegno,  che  il  minor  male  ch'egli  pensa  di  farmi  è 
di  privarmi  di  voi,  e  così  togliermi  la  \dta. 

A  che  tanto  sdegno?  A  che  tanta  furia?  Andrò,  su,  e  che 
sera  poi? 


2^*  Mira...  passione:  straordinario  amore,  sconfinata  passione. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


229 


SOFFRONIA 


OLINDA 


ERMINIO 


SOFFRONIA  Séte  troppo  sospettosi:  ogni  cosa  vi  fa  ombra!  E  che  potrà 
mai  voler  da  te  Sua  Eccellenza,  Olinda?  Vorrà  forse  sapere 
s'egli  è  vero  che  fra  voi  vi  amiate:  questa  non  è  occasione 
da  scoprirle  tutta  l'historia?  Voi  reputate  danno  quel  che 
potrebbe  essere  vostra  ventura! 

ERMINIO  Di  due  gran  mali,  quello  è  il  men  cattivo  dove  può  nascere 

qualche  speranza  di  salute.  Chi  sa  che  appresentandovi  in- 
nanzi a  lui,  mostrando  di  dubitare,  e  piangendo,  voi  non 
moviate  quell'animo,  forse  risoluto,  a  compassione? 
Non  tante  provisioni,  che  non  occorrono!  Andiamo,  su, 
che  vo'  venire  anch'io;  hora  fo  portare  il  lume.  Aspettami, 
che  vengo  a  basso. 

Se  m'appresento  al  Prencipe  nella  maniera  che  voi  dite,  po- 
trei darli  maggior  indicio  d'inteUigentia  fra  noi,  et  alterar- 
lo a  qualche  sdegno  precipitoso. 

Vero,  e  meglio  sarà  di  non  andare,  perché  avendomi  data 
rigorosa  commissione  ch'io  ve  gli  mandi,  e  non  l'avendo 
esseguita,  potrà  pensare  ch'io  non  abbia  potuto  disporre  di 
voi  nel  maggior  bisogno  mio, 

OLINDA  Ah,    che    chi    ha    l'animo    infettato    dal    sospetto,    dura 

nell'ostinata  imaginatione  che  si  ha  presa!  Vorrà  credere  il 
Prencipe  che  se  io  non  vo  hora  da  lui,  voi  solo  ne  siate  sta- 
to cagione. 

ERMINIO  Andate  dunque,  e  quando  vi  trovarete  innanzi  a  lui,  o  gridi, 

o  comandi,  o  minacci...  ma  che  dico?  Che  fareste  voi  per 
questo?  Non  è  meglio  starH  lontana,  e  poi...  ma  che?  S'egli 
vi  vorrà  nelle  mani,  chi  gli  vietarà?  Che  di  voi,  orme  se  re- 
state, se  andate,  sarà:  bene  o  male? 

OLINDA  Se  vo,  che  gli  ho  da  dire?  Che  vorrà  sapere?  Che  gli  ho  da 

rispondere?  Ho  da  negare,  ho  d'affermare?  Come,  dove? 

ERMINIO  Non  so.  Ah,  che  vaneggio  se  penso  in  sì  poc'hora,  in  sì 

gran  confusione,  in  tanto  pericolo,  trovar  sorte  alcuna  di 


^^■^  intelligentia:  accordo,  relazione. 


230 


Edizioni  critiche 


scampo,  se  non  prendessimo  partito  di  fuggirne  insieme  da 
questa  corte! 

OLINDA  Che  meglio?  Perché  non  partiamo  adesso? 

ERMINIO  Tornate  su  in  camera,  innanzi  che  Soffronia  venga  a  basso 

e  ditele  che,  per  essere  hora  di  notte,  avete  risoluto  di  non 
andare  fino  a  domattina,  intanto  io  andrò  presentendo 
come  l'intenda  il  Prencipe  contro  di  me,  per  non  esser  voi 
a  quest'hora  andata  da  lui,  e  se  vedrò  che  vogHa  persevera- 
re in  questa  ostinatione,  o  contro  di  noi  far  qualche  risen- 
timento, allhora  subito  risolveremo  di  partire  questa  notte 
insieme,  e  per"  Valerio  \'i  farò  sapere  ch'arete  da  fare, 
perché  egH  ancora  sarà  con  esso  noi. 

OLINDA  Di  qui  a  poco  le  nostre  porte  saranno  serrate,  e  Valerio  non 

potrà  parlarmi,  ma  peggio:  come  ingannaremo  Soffronia? 

ERMINIO  Non  mancaranno  modi:  scriverò  una  polizza"  ",  e  la  farò 

metter  da  Valerio  nell'anticamera  vostra  per  la  fessura 
dell'uscio;  voi  state  avvertita  di  prenderla,  e  far  tutto  quello 
che  in  essa  vi  dirò. 

OLINDA  Orsù  dunque,  torno  su,  e  starò  aspettando. 

ERMINIO  Questa  sarà  la  miglior  resolutione  che  si  possa  fare.  Voglio 

andar  di  qua. 


SCENA  TERZA 
Manfredo,  Alessandro. 

MANFREDO  Bastavi  saper  questo,  che  Sua  Eccellenza  ha  saputo  di  Er- 
minio e  di  Olinda  ogni  cosa,  e  ne  sta  in  tanta  collera,  che 
mi  manda  hora  a  posta  per  scoprirli  in  fatto. 

ALESSANDRO  Oh,  perché  in  sì  gran  collera?  Che  pregiudica  al  Signor 
Prencipe  se  costoro  s'amano  insieme? 


■^^^^  presentendo:  in  senso  generico  di  'cercherò  di  sapere'. 

2^'  per.  mediante. 

'^^'^ polir^:  lettera,  biglietto. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  231 

MANFREDO  Non  vi  posso  dir  più  innanzi.  Insomma,  spesso  ad  una  vo- 
glia ingorda  ottenuta,  succede  il  pentimento.  Gran  fallo  è 
stato  quel  di  Erminio  a  voler  coprirsi  con  chi  non  dovea! 
Forse  che  se  altramente  avesse  fatto,  non  sarebb'hora  in  sì 
gran  pericolo. 

ALESSANDRO  Signore,  credete  pure  che  chi  si  trova  oppresso  d'amorosa 
frenesia,  non  dà  luogo  a  consiglio,  e  non  stima  pericolo. 

MANFREDO  Io  lo  scuso  pur  troppo,  e  duolmi  che  sia  data  a  me  questa 
cura  di  farlo  guatare,  perché  subito  devo  farlo  sapere  a  sua 
Eccellenza.  Ma  voi  tacete,  e  non  ne  fate  segno  con  huomo 
che  viva. 

ALESSANDRO  Di  me  non  dubitate;  attendete  pure  a'  fatti  vostri. 

MANFREDO    Orsù,  vi  lascio,  c'ho  negoti. 

ALESSANDRO  Poca  sorte  è  la  tua,  Erminio,  et  io  ho  pietà  de'  casi  tuoi 
perché  so  quanto  possa  esser  grande  il  tuo  dolore,  e  la  tua 
passione!  Che  dirà  Lelio  quando  saprà  questo  fatto? 


SCENA  QUARTA 
Gasparo  con  la  scala  di  corda.  Sambuco  con  l'armi     . 

GASPARO  (Chi  -  corpo  di  me!  -  può  esser  costui,  che  m'è  venuto  die- 
tro un  pezzo?  Più  lo  guardo,  manco  so  discernere  s'egli  è 
bestia,  o  huomo  carco  di  robba...:  è  huomo  certo,  perché 
se  io  mi  fermo,  egli  si  ferma,  se  io  camino,  egli  mi  segue... 
Non  vorrei  da  dovero  che  questa  scala  c'ho  sotto  mi  man- 
dasse in  una  galera:  potrebbe  costui  avermela  v^eduta  in 
qualche  modo,  e  vien  così  travestito  per  guatarmi!  Gusta 
principio^"'',  voglio  fermarmi  là  su  in  quel  canto,  e  lasciarlo 
passare.) 


2**^  armi:  si  tratta  delle  armi  che  Pancratio  gli  aveva  ordinato  di  recuperare  dal  compare 
Menfido  (cfr.  atto  3,  scena  10). 

2**^  Gusta  principio:  il  senso  dell'espressione,  forse  proverbiale,  resta  incomprensibile. 


232  Edizioni  critiche 

SAMBUCO  (Bisogna  che  sia  una  spia  —dico-  perché  camina  innanzi  co' 
i  piedi,  e  '1  capo,  e  gli  occhi  tien  volti  verso  me.  Ah,  ti  co- 
nosco ben  sì,  mal  herba  spinace  !  Se  bene  il  Procuratore 
m'ha  detto  che  vo  sicuro  per  tutto,  ad  ogni  modo  ho  paura 
di  qualche  tradimento.  Oh,  almeno  si  pensasse  che  io  fossi 
un  capo  de'  banditi  che  volesse  far  homicidio,  et  avesse 
paura  ch'io  ramazzassi!) 

GASPARO  (Eccolo  fermato  un'altra  volta!  Questa  sì  ch'è  bella!  Se  io 
avessi  un  pezzo  d'arme  in  mano,  vorrei  chiarirmi  un  tratto 
chi  è  cosmi!) 

SAMBUCO  (Se  non  ha  paura  egli,  l'ho  io,  ch'è  tutt'uno.  Penso  ch'egli 
sia  qualche  bandito,  et  io  vorrei  dar  a  gambe,  ma  ho  questi 
imbrogli  adosso,  e  non  posso  correr  con  essi.) 

GASPARO  (Da  l'altra  banda  non  vorrei  che  fosse  qualche  sciagurato, 
che  con  questa  inventione  mi  volesse  far  rompere  il  collo.) 

SAMBUCO  (Non  è  per  partirsi  in  tutta  questa  notte:  s'è  attaccato  su 
quel  canto  com'un  bando^^"^...  ah  ah,  non  ti  verrò  a  legger, 
no!  Ma  come  entrare  in  casa,  che  Farina  mi  deve  aspettare? 
Oimè,  peggio,  il  sereno  m'inumidisce  quest'armi,  che  ogni 
volta  pesano  più.) 

GASPARO  (Sia  chi  vuol,  lo  vo'  conoscere!  Se  posso,  pigliarò  due  sassi, 
poiché  non  ho  altro:  un  huom  da  bene  non  può  essere...) 

SAMBUCO  (Orsù  eccolo  che  viene  per  assaltarmi  forse!  Dicono  che  lo 
stamto  non  vuole  ch'un  armato  dia  fastidio  a  un  disar- 
mato... Oh,  m'è  passato  dinanzi:  è  un  travestito  con  la 
fronte  posticcia.  Se  posso  vo'  far  buon  animo  per  un  poco, 
e  non  mi  lasciar  conoscere.  Oh,  eccolo  che  torna!) 

GASPARO         (Che  ho  detto  io?  Un  canco  di  robba!)  Chi  è  là?  Chi  è  là,  dic'io? 

SAMBUCO        Son  io,  e  non  ti  vo'  rispondere,  su. 

GASPARO        Chi  sei  tu? 


2*5  spinace:  gergale  per  'traditore,  spia'  (cfr.  GDLI,  XIX  s.v.  spinace  dove  l'unica  attesta- 
zione riportata  è  quella  del  Podiani). 

'^^^  bando:  in  questo  caso  allude  al  manifesto  che  conteneva  il  bando. 
2*^  statuto:  qui  in  senso  generico  di  'legge'. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


233 


SAMBUCO        Un  nipote  di  Marco  Sciarra^*'^  per  dirtela. 

GASPARO         (Qualche  ladro,  sta  a  vedere!)  Dove  porti  quell'armi? 

SAMBUCO        Son  huom  da  bene,  io! 

GASPARO         Fermati!  Che  vai  facendo? 

SAMBUCO        Se  tu  sei  uno  sbirro  dillo,  che  ti  portare  rispetto,  altrimente 

guardati  da  qualche  palla  ramata     ! 
GASPARO         Che  birro?  Che  paUe  ramate?  Volta  qua! 
SAMBUCO        Ci  correrà  qualche  mentita ^^'",  fratello!  Di  gratia,  non  ne 

diam  fastidio  l'un  l'altro! 
GASPARO         Io  mi  scopro  il  viso  e  mi  vo'  far  conoscere,  e  vo'  conoscer 

ancor  te:  mostra  qua. 
SAMBUCO        Signor  Gasparo,  séte  diventato  essecutor"'^',  eh? 
GASPARO         Sambuco,  sei  tu  esso?  Ah,  Ah!  L'asino  nella  pelle  del  leone! 

Oh,  che  sì  frustato,  se  voglio! 
SAMBUCO        Oh  alla  prima  sul  frustare,  non  tei  diss'io?  Ti  sei  dato  in  un 

bello  essercitio! 
GASPARO         Guarda,  anzi,  son  qua  per  aiutarti:  con  chi  l'hai? 
SAMBUCO        Sei  sicuro  tu,  ma  per  dirtela,  hai  campato^'^"  una  gran  furia: 

se  adesso  n'eravamo  nemici,  era  finita  per  te! 
GASPARO         Forza  del  mondo!  Tant'arme  a  quest'hora?  Che  romor  c'è? 
SAMBUCO        Conosci  le  balene  tu? 
GASPARO         Sì,  perché? 


288  Marco  Sciarra:  è  considerato  uno  dei  primi  briganti  dell'epoca  moderna.  Di  origine 
abruzzese,  intraprese  la  sua  attività  nel  1584  e  fin  da  subito  si  pose  a  capo  si  una  banda 
composta  da  un  migliaio  di  uomini  con  cui,  dall'Abruzzo,  sconfinava  di  frequente  nel  terri- 
torio dello  Stato  Pontificio,  diventando  famosissimo  per  la  sua  innafferrabilità  e  per  le  va- 
rie imprese  compiute.  Dopo  essere  passato  al  servizio  della  Repubblica  di  Venezia,  scate- 
nando l'ira  di  Clemente  Vili  che  ne  intimava  la  consegna,  finì  per  essere  ucciso  a  tradi- 
mento nel  1593,  nei  pressi  di  Ascoli,  da  uno  dei  suoi  compagni. 

^^'^  palla  ramata:  proiettile  sferico  di  metallo  usato  in  artiglieria. 

2'^"  mentita:  atto  con  il  quale  si  accusava  formalmente  qualcuno  di  mendacio  o  slealtà,  al 
quale  atto  di  solito,  secondo  il  codice  cavalleresco,  doveva  seguire  un  duello. 

--"  essecutor.  esecutore  di  giustizia  (cfr.  Rezasco,  p.  392,  s.v.  esecutorlV). 

2^2  campato:  'scampato'. 


234 
SAMBUCO 

GASPARO 

SAMBUCO 
GASPARO 
SAMBUCO 


GASPARO 
SAMBUCO 

GASPARO 


Edizioni  critiche 

M'ha  detto  Farina  ch'io  porti  quest'arme  al  Procuratore, 
perché  si  vuol  armare  per  gir  questa  notte  a  pescare  delle 
balene  a  lume  di  luna. 

Bella  pesca,  per  mia  vita!  Son  arme  antiche  queste,  ma  la 
ruggine  l'ha  assassinate     . 
Bisogna  d'ungerle  prima,  e  poi  mettersele. 
Volta  in  là  l'archibugio,  che  non  sparasse  a  caso! 
Non  no:  dice  colui  che  me  l'ha  dato  che  non  può  sparare 
se  non  tira  sirocco  o  tramontana,  perché  è  carico  a  ven- 
to ^^'*.  Orsù,  vuoi  altro  tu  da  me? 
C'è  fretta,  eh? 
Sento  caldo.  Ne  rivederemo  al  fresco.  Buona  notte,  senza 


295 


peso 

A  rivederci,  Sambuco!  Ah,  ah,  ah!  A  chi  non  passasse 
l'humore?  Come  si  sono  bene  accompagnati  costoro:  il 
Procuratore  sciocco,  e  '1  clientolo  matto!  Qualche  trama 
hanno  alle  mani...  s'io  fossi  senza  pensieri  vorrei  vedere 
quel  che  vogliono  fare!  Ma  vedo  venir  gente  col  lume:  me- 
glio è  ch'io  vada,  che  '1  Signor  Lelio  mi  deve  aspettare. 


SCENA,  QUINTA 
Farina  Concordia. 

FARINA  Orsù,  Concordia,  non  mi  far  più  lume.  A  rivederci. 

CONCORDIA  Ascolta  Farina!  Farina  vedi,  se  non  te  ne  fo  pentire  mi  si 
secchi  la  vena  del  pozzo  di  casa! 


2^^  assassinate:  guastate. 

^^■*  carico  a  vento:  qui  è  probabilmente  da  intendersi  come  'inutilmente  cancato'  o  addirit- 
tura 'non  caricato',  ma  ricordiamo  che  il  TB  registra  un  archibuso  a  vento  (arma  che  compare 
anche  nel  GDLJ,  I,  s.v.  archibugio  con  attestazione  da  Pietro  della  Valle,  Viaggio  in  levante, 
44). 

2^^  Buona  notte,  sent^a  peso:  in  mancanza  di  attestazioni  precise  mi  Hmito  ad  interpretare 
'buona  notte  (scherzosamente  per  indicare  la  conclusione  risolutiva  della  faccenda),  senza 
provare  rimorsi  o  preoccupazioni'. 


I  Fidi  A.manti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  235 

FARINA  Che  dici?  Non  posso  trattenermi ,  ti  dico! 

CONCORDIA  M'hai  stuzzicata  la  lanterna,  e  '1  lucignolo  non  arde^^^',  vedi. 

FARINA  Smorzala  e  torna  a  casa:  io  non  ti  posso  far  compagnia,  che 

ho  fretta. 

CONCORDIA  E  però  bisogna  riposarsi  un  poco,  per  non  alterar  tanto  i 
polsi:  senti  il  mio  come  batte  confuso! 

FARINA  Batta  come  vuole,  bisogna  ch'io  vada  a  vedere  s'è  venuto 

Sambuco. 

CONCORDIA  E  se  non  fosse  venuto? 

FARINA  Bisognerà  ch'io  vada  a  trovarlo. 

CONCORDIA  Non  sarebbe  megHo  aspettarlo  là  giù  nella  tua  camera,  et 
intanto  discorrere  un  poco  quel  che  s'ha  da  fare?  Per  dirte- 
la: son  tanto  gelosa  della  tua  salute,  che  par  che  l'aere  mi  ti 
tolga. 

FARINA  Non  mi  togUerà  l'aere,  se  potrò. 

CONCORDIA  Deh  andiam,  Farinuccia  fina,  pasta  di  Genova"^^,  che  io  col 
mio  comprensivo,  e  tu  con  la  tua  introduttiva  verremo  a 
buona  conclusione^'^. 

FARINA  Non  c'è  tempo,  dico!  Devon  esser  più  di  quattr'hore,  et 

homai  bisogna  d'esser  in  ordine^'^'^ 

CONCORDIA  Che  importa  che  ci  andiate  armati? 

FARINA  Non  hai  sentito  che  l'ho  discorso  con  la  Signora?  Perché 

altrimente  il  Procuratore  non  ci  avrebbe  forse  acconsenti- 
to, per  la  paura  che  ha  de  i  rivali. 

CONCORDIA  E  se  per  mala  sorte  v'affrontaste  nella  corte? 


296  M'hai  stu::^cata...  arde:  allusione  maliziosa. 

^^^  pasta  di  Genova:  dal  Duecento  Genova  si  era  imposta  nella  penisola  come  uno  dei 
principali  centri  di  produzione  ed  esportazione  di  paste  alimentari.  La  pasta  genovese, 
prodotta  con  semola,  in  formati  generalmente  lunghi  e  confezionata  in  matasse,  nel  Cin- 
quecento è  molto  apprezzata  anche  dagli  spagnoli  ed  arriva  alle  tavole  di  Parigi,  dove  si 
mangiano  potages  di  pasta  di  Genova. 

2'^"  comprensivo...  conclusione:  il  senso  è  ovviamente  allusivo  al  rapporto  sessuale  e,  data  la 
mancanza  di  riferimenti  precisi,  si  può  ritenere  che  il  Podiani  stesso  abbia  inventato  il  h- 
cenzioso  riecheggiamento. 

^^^  essere  in  ordine:  'debitamente  armati',  come  viene  immediatamente  precisato  da  Con- 
cordia. 


236  Edizioni  critiche 

FARINA  Per  questo  ho  mandato  Sambuco  per  quell'arme  vecchie, 

perché  se  niente  n'a\^enisse,  quei  giudici  che  conoscono  il 
Procuratore  per  sciocco,  se  n'abbiano  a  ridere,  e  così  con- 
tento il  Procuratore,  sodisfò  la  tua  padrona  et  io  gioco  sul 
sicuro,  perché  sempre  arò  questa  coperta  '  d'aver  voluto 
far  una  burla  al  Procuratore. 

CONCORDIA  Tutti  contenti  e  sodisfatti,  eccetto  questa  poverella,  che  sul 
suo  frangente,  non  può  aver  gratia  che  tu  l'ascolti  due  pa- 
role sole  sole! 

FARINA  Orsù,  hai  il  lume  in  mano:  torna,  che  la  padrona  non  pensi 

che  tu  gli  sia  stata  rubbata! 

CONCORDIA  E  che  farò  io  se  per  mala  sorte  m'urtasi^'"  in  qualche  trup- 
pa di  sgavezzadonne  ^  ? 

FARINA  Non  dubitare,  che  ti  darà  il  passo,  e  '1  tributo  ancora'"'! 

CONCORDIA  II  passo  sì,  ma  no  1  tributo"^'*!  Orsù  patientia!  Domattina 
ne  rivereremo,  eh? 

FARINA  Sì,  dico,  buonanotte. 

CONCORDIA  Uh  come  mi  lascia!  Che  ruina  ch'io  minaccio:  mi  par  sentir 
venir  dietro  non  so  chi.  Uhimè,  andrò  di  qua,  ch'è  più  co- 
perta! 


SCENA  SESTA 
Erminio,  Valerio. 

ERMINIO  Orsù,  dunque  ancor  vive  qualche  speranza:  non  manchiam 

noi  dalla  banda  nostra. 
VALERIO  Sudo  tutto  da  capo  a  piedi:  se  vi  risolvevate  da  hoggi  in 

qua,  non  occorreva  tanta  fretta. 

'""  coperta,  'scusa'. 
'"'  m'urtasi:  'm'imbattessi'. 
^"2  sgaver^donne:  insidiatori  delle  donne. 

^"^  Passo...  ancora:  dovrebbe  trattarsi  di  un'altra  allusione  con  doppio  senso  osceno. 
^°'*  tributo:  in  questo  caso  ha  il  significato  di  'mestruazione'  (cfr.  Dit^onario  del  lessico  amo- 
roso, op.  cit.,  p.  593). 


7  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


237 


ERMINIO 


VALERIO 


ERMINIO 
VALERIO 


ERMINIO 


VALERIO 


ERMINIO 


Parla  piano,  che  qualche  uno  non  sentisse  qui  attorno;  tan- 
to faremo  a  tempo,  se  OHnda  sarà  diligente  a  dar  la  bevan- 
da a  Soffronia. 

M'ha  detto  che  l'occasione  è  in  pronto,  ma  è  ben  stata  ven- 
tura poter  parlarle  a  quest'hora,  e  più  a  darle  l'acqua  '  ! 
Appunto  quando  io  andai  per  mettere  la  poHzza  dove  mi 
diceste,  trovai  ch'ella  aspettava  dentro,  e  tanto  agitai  e 
spinsi  quell'uscio,  che  bastò  per  metter  dentro  l'ampolla  e 
darle  la  lettera. 
Lesse  ella  la  lettera? 

Signor  si,  perché  dentro  avea  un  lumicino,  e  poi  mi  disse 
che  subito  che  Soffronia  sarà  addormentata,  pigHarà  la 
chiave  di  quella  stanza  che  riesce  qui  nella  strada,  e  ci  starà 
aspettando  alla  fenestra,  per  sapere  la  risolutione  che  pi- 
gHeremo,  senza  aver  da  entrare,  e  uscir  tante  volte  di  palaz- 
zo, e  credo  che  non  indugierà  molto  a  venire,  perché  a 
quest'hora  deve  aver  data  l'acqua  a  Soffronia,  e  secondo 
che  '1  simpHcista"^""'  m'ha  detto  in  un'hora  e  meza  fa 
l'operatione  di  far  dormire,  e  quattr'hore  sicure  tien  il  son- 
no: intanto  potrem  fare  quel  che  volemo,  senza  che  Sof- 
fronia si  risenta. 

Le  cose  sin  qui  stanno  bene;  io  ho  voluto  far  questo  per 
abbondare  in  cautela,  perché  ho  presentito  che  '1  Signor 
Manfredo  mi  cerca  per  ordine  di  Sua  Eccellenza  e  dubito 
di  qualche  rigorosa  commissione  contra  di  me:  non  vorrei 
poi  non  aver  tempo  di  poter  andar  via. 
La  cosa  è  pericolosa,  perché  se  il  Signor  Prencipe  vi  co- 
mandò che  mandaste  Olinda  da  lui,  e  non  l'avete  obedito, 
bisogna  che  ne  stia  in  collera. 

Quando  m'incontrarò  nel  Signor  Manfredo,  saprò  quel 
c'ho  da  fare. 


^''5  l'acqua:  la  pozione  soporifera  destinata  a  Soffronia. 

^'"'  simpliàsta:  farmacista  (letteralmente  'raccoglitore  di  erbe  medicinali,  i  semplici,  e  cono- 
scitore delle  loro  virtù  terapeutiche). 


238 


Edizioni  critiche 


VALERIO  A  quest'hora  egli  deve  esser  in  letto. 

ERMINIO  Più  presto  deve  aspettare  per  parlarmi,  perché  non  suole 

andare  a  letto  se  non  passata  meza  notte.  Andiamo  di  qua, 
su,  che  io  entrerò  per  la  porta  grande,  e  tu  andrai  dove  t'ho 
detto  che  m'aspetti. 

VALERIO  E  forse  che  non  bisogneranno  tante  provisioni'"^? 


SCENA  SETTIMA 
Pancratio,  Sambuco,  Farina. 


PANCRATIO 

SAMBUCO 
FARINA 

PANCRATIO 

FARINA 
SAMBUCO 

PANCRATIO 

SAMBUCO 


M'hai  inteso,  Sambuco?  Stirati,  storciti,  e  grattati  adesso 
quanto  tu  puoi,  e  sai,  ma  finiscila,  perché  quando  siam  per 
strada  non  vo'  pur  che  tu  respiri! 

Per  un  bisogno  posso  respirar  di  sotto,  e  star  chéto  di  sopra? 
Piano    un    poco!    Oh,   voi    avete    la    gran    fretta:    vi   par 
mill'anni^'^^  d'essere  alle  strette  con  la  Signora,  eh? 
Dubito  ch'ella  s'addormenti,  perché  la  stella  Diana  é  vicina 
alla  coda  d'AppoUo^'^^  un  palmo,  e  son  poc'hore  di  notte 
verso  l'alba. 

Non  vi  bastano  due  hore  di  star  con  lei? 
E  se  noi  che  farem  la  sentinella  di  fuora  con  l'arme,  sco- 
vassimo il  barigello? 

Non  t'ho  detto  io  mille  volte  la  patente^^"  che  m'ha  fatta  a 
bocca^"  il  Prencipe? 

Sì  sì,  me  ne  ricordo:  che  possiate  portar  sì  di  giorno  come 
di  notte  ogni  sorte  di  grancia^'^,  offensiva  e  diffensiva. 


^"^  provisioni:  decisioni  oppure  rimedi,  precauzioni. 

^^^  vi  par  mill'anni:  'non  vedete  l'ora'  (cfr.  ad  esempio  Pulci,  Margarite,  II,  11,  v.  5:  «Farmi 
mill'anni  or  d'essere  al  berzaglio»;  IX,  57,  v.  7:  «Farmi  mill'armi  riveder  il  conte»...). 

'"'^  la  stella  Diana...  Appallo:  la  prima  è  Venere,  la  stella  mattutina  situata  ad  oriente,  e  tó- 
pos  della  poesia  amorosa  (cfr.  Guinizzelli,  Vedut'ho  la  lucente  stella  Diana,  w.  1-2).  Per  coda 
d'Apollo  si  riferisce  probabilmente  ai  primi  albori,  ai  primi  raggi  del  Sole. 

^^''^ patente:  permesso. 

^"  a  bocca:  verbalmente. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  239 

FARINA  Taci  un  poco  Sambuco!  Orsù,  avete  inteso:  ha  bisognato 

imitar  nel  vestire  un  cortigiano,  perché  se  qualcuno  vi  ve- 
dese,  si  creda  che  siate  huomo  di  corte. 

PANCRATIO  Dubito  che  mi  conosceranno  alla  presenza^'\  perché  ad 
ogni  passo  par  che  mi  scappi  un  coram  vobis    . 

FARINA  Sequestrateli^'^  che  non  escano  fuor  de  i  confini,  e  la  pre- 

senza cacciatela  sotto  il  corsaletto^"^,  e  nessuno  dirà  mai  fra 
l'armi  e  '1  vestire  che  voi  siate  Misier  Pancratio. 

SAMBUCO  Se  ci  pensavamo,  ne  potevamo  rader  le  barbe  per  questa 
notte! 

FARINA  Sopra  '1  tutto  av\^ertite,  quando  parlate  alla  fenestra  a  la  Si- 

gnora di  non  chiamarla  mai  per  ALmira,  né  voi  per  Misier 
Pancratio;  in  camera  poi  trattate  come  volete. 

PANCRATIO  T'ho  inteso:  séte  restati  d'accordo  ch'io  chiami  lei  per  O- 
linda,  et  io  mi  nomini  per  Erminio,  non  me  lo  dir  più! 

FARINA  Insomma,  trovarete  ch'ella  vi  aspetterà  dentro  aUa  fenestra, 

e  se  non  sarà  impedita,  vi  farà  motto  ch'entriate,  ma  se  sarà 
impedita,  non  vi  potrà  rispondere,  ma  sentirà  tutto  quello 
che  direte. 

PANCRATIO  Mi  sentirà  fare  a  queUa  fenestra  una  oratione  supplicativa^'^ 
da  stupire.  Orsù,  siamo  vicini.  Sambuco,  camina  piano! 

SAMBUCO        Non  ci  vedo  lume:  ho  paura  di  non  vi  cadere  adosso. 

PANCRATIO    Bada  bene  dove  fermi  i  piedi. 

SAMBUCO        Mi  par  di  sentire  un  gran  remore  a  me! 

^^^  granda:  sta  per  granchio,  che  letteralmente  è  lo  strumento  di  ferro  ricurvo  e  dentato, 
conficcato  nel  bastone  del  falegname,  che  se  ne  serve  per  tener  fermi  gli  oggetti  da  piallare. 
Qui  sta  per  'arnese  militare'. 

^^^  present^a:  aspetto  fisico,  atteggiamento. 

''•*  coram  vobis:  il  sintagma,  tratto  dal  latino  evangelico  (Le,  23  b  14)  può  assumere  sva- 
riati significati;  qui  la  locuzione  serve  a  ricordare  che  Pancratio  non  solo  è  una  persona  che 
mastica  il  latmo,  ma  soprattutto  che  è  pieno  di  boria  e  che  ostenta,  propno  grazie  ad  esso, 
importanza  ed  autorevolezza  (cfr.  GDU,  III  s.v.  coramvobir.  Dieci  tavole,  262:  «Che  bel  coram 
vobishr,  Mario  Podiani,  I Megliacci,  op.  cit.,  p.  43,  r.  10:  «Et  vassene  sul  coram  vobis»). 

^'^  Sequestrateli:  riferito  ai  coram  vobis,  ovvero  alle  parole  in  latino,  che  smaschererebbero 
facilmente  il  procuratore. 

^'^'  corsaletto:  corazza  che  protegge  il  torace. 

^'^  oratione  supplicativa:  una  perorazione,  un'arringa  giudiziaria. 


240  Edizioni  critiche 

PANCRATIO    Oimè! 

FARINA  Dove? 

SAMBUCO        Verso  casa  vostra. 

PANCRATIO    Senti  un  poco,  Farina. 

FARINA  Non  sento  niente  io! 

SAMBUCO        Fan  questione^'**:  non  sentite  che  s'amazzano? 

PANCRATIO    Di  grada,  cacciamoci  in  qualche  luogo! 

FARINA  Ah  ah  ah!  Una  battaglia  amorosa  di  cani! 

SAMBUCO        E  se  poi,  in  quella  rabbia,  venissero  aUa  volta  nostra? 

PANCRATIO  Chi  è  dotto  non  è  sciocco.  Di  gratia,  abbiate  l'orecchie,  e  le 
bocche  per  tutto. 

FARINA  Non  passiam  più  innanzi:  Sambuco,  fermati  qui,  e  guarda  in 

capo  a  quella  strada,  e  se  qualcuno  comparisce,  fa'  motto. 

SAMBUCO        Era  meglio  aver  portato  quattro  torce  da  vento ^'^. 

FARINA  E  voi  accostatevi  sotto  la  fenestra,  e  prima  salutatela,  e  poi 

ditele  il  fatto  vostro. 

PANCRATIO  Per  dirtela,  mi  sono  scordato  d'ogni  cosa.  Era  meglio  averlo 
messo  in  scrìptis  ^•.  dirò  qualche  cosa  che  non  avrà  garbo! 

FARINA  Dite,  via,  a  l'improviso,  e  chiamatela  per  OUnda! 

SAMBUCO  Mi  par  di  sentir  quei  cani:  se  mi  vengono  a  musare^^'  son 
spedito!  Conosceran  che  si  fa  l'amore,  e  non  aran  discre- 
tione  che  non  si  tocca  la  lor  cagna...  sederò  sul  cantone:  mi 
pisceranno  adosso  e  basterà. 

PANCRATIO  OHnda,  Signora,  cuor  mio!  Io...  il  mio  servitore,  et  io,  fi- 
gliuoli di  un  semplice  montone,  lasciato  l'ovile,  e  nostro 
padre  (che  il  misero  va  belando  disperato),  venimo  per  vestir- 
ne della  fina  e  bella  lana  vostra,  morbidissima  capra  nostra! 

FARINA  Oibò!  Non  fa  a  proposito:  ditele  che  séte  Erminio! 


^'^  Fan  questione:  discutono,  litigano. 

^''  torce  da  vento:  impregnate  di  sostanze  che  producono  una  fiamma  resistente  al  vento. 

^2"  in  scriptis:  per  iscritto. 

^2'  musare:  alzare  il  muso  per  guardare  o  percepire  un  odore. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  241 


PANCRATIO  Son  Erminio!  Erminio  che  peto  copiam  di  quella  faccia  che 
coram  indice  compete  con  la  luna  iure  naturali  .  Faccia  gio- 
conda, pigliate  quei  sospiri  che  m'escono  dalle  scerete,  e 
basse  parti  di  questa  vita!  Pigliateli,  anima  mia,  e  nasconde- 
teli in  seno  e  acciocché  nessuno  ve  li  tocca,  cavate  al  mon- 
do un  braccio  secolare ^^^. 

FARINA  Seguite,  che  vi  sente! 

PANCRATIO  Non  ha  tante  stelle  il  mare,  né  pesci  il  Cielo,  quant'io  piango 
e  sospiro  per  voi:  pianto  crudele,  che  una  notte  pioverai  tan- 
to, ch'innonderai  il  mio  studio,  affogherai  me,  gli  scritti,  la 
toga,  gl'occhiali,  e  '1  lume!  Apritemi  la  porta,  ch'io  entri  in 
camera,  che  ne  vedrete  la  metamorfosi  c'ha  fatto  Cupido:  la 
sapientia  è  armata  di  petto  a  botta  ""*,  la  dottrina  di  morio- 
ne^^^,  la  procura  di  spadone,  e  un  gambaruolo  "^'  per  prote- 

.     327 
Sto       . 

SAMBUCO         (Scongiura    l'armi,    che    gli    vadano    ad    aprire    la    porta: 

dev'esser  di  ferro.) 
FARINA  Non  vi  dovevate  mai  dichiarare  per  armato:  se  siete  stato 

sentito,  siamo  in  un  fatto  d'arme!  Oh  che  errore! 
PANCRATIO    Me  lo  dovevate  dir  prima!  Ècci  pericolo? 
FARINA  Così  non  ci  fosse!  Sentite  calpestio? 

^22  peto  copiam...  iure  naturali,  'chiedo  la  possibilità  di  vedere  quel  viso  che  in  giudÌ2Ìo 
contende  con  la  luna  per  diritto  naturale'. 

^2'  acciocché...  secolare:  l'espressione,  piuttosto  complessa,  potrebbe  semplicemente  signi- 
ficare 'affinché  nessuno  ve  Li  tocchi  prendetevi  una  difesa,  una  guardia'  (per  braccio  secolare 
come  'forza  materiale  degli  eserciti'  cfr.  Rezasco,  p.  118).  Potrebbe  però  anche  essere  un 
calembuor,  una  freddura:  'affinché  nessuno  ve  li  tocchi  (in  seno),  tagliate  al  mondo  un  brac- 
cio secolare',  cioè  Almira  deve  tagliare  ogni  mano  e  braccio  che  si  ax^àcini  al  suo  petto  per 
rubarle  i  sospiri;  solo  che  per  Pancrado  il  braccio  diviene  automaticamente  secolare,  per  de- 
formazione professionale. 

'^^  petto  a  botta:  elemento  metallico  che  protegge  il  petto,  a  prova  di  botta  (ov'A-ero  di 
colpi  d'arma  bianca,  di  stoccate). 

^2^  morione:  elmo  leggero  con  cresta  alta  e  tesa  che  termina  con  due  alte  punte  sul  da- 
vanti e  sul  dietro,  usato  specialmente  dagli  archibugieri  nel  XVI  e  XVII  secolo  (e  oggi  visi- 
bile, in  certe  occasioni,  sulle  Guardie  Svizzere  del  Vaticano). 

■'Zf)  un gambamolo:  parte  dell'armatura  a  difesa  della  gamba. 

^2''  protesto:  letteralmente  sarebbe  la  minaccia  di  muovere  guerra,  ma  in  questo  caso  può 
valere  come  generico  documento  giuridico. 


242 


Edizioni  critiche 


PANCRATIO 
FARINA 
PANCRATIO 
FARINA 


SAMBUCO 
FARINA 


Saran  forse  le  pianelle^^^  de  la  Signora  che  vien  a  chiamarmi. 
Altro  che  pianelle,  sento  romor  d'arme,  io! 
Oimè,  che  vogliam  fare? 

Dar  a  gambe  (se  sarem  a  tempo)!  Che  v'ho  detto  io?  Ecco 
gente  a  basso  con  archibugi  aUa  volta  nostra.  Siam  morti! 
Via,  via,  con  destrezza  se  si  può!  Presto  presto.  Sambuco, 
fuga  storta,  fuga  a  biscia^^^,  che  non  appostino  di  mira^^'^,  a 
salti,  a  lanci...  Scampa,  salva! 

Oimè  che  son  caduto,  e  m'amazzeranno  in  terra,  e  morirò 
senza  lume!  Oimè,  un  pagHericcio,  e  un  tizzone  almanco! 
Piano,  non  dubitare,  via  via! 

(Ah  Ah!  Crepo  se  non  rido!  Che  urtone,  che  cascate  c'han 
fatto!  Il  Procuratore  ha  lasciato  lo  spadone,  e  '1  morione. 
Sambuco  l'archibugio,  e  lo  scudo...  lasciameli  raccòrre,  so 
che  devono  correre.  La  cosa  sarà  passata  bene,  se  quei  di 
dentro  saranno  stati  all'erta  per  guatar  Erminio.  Col  Procu- 
ratore poi,  in  qualche  modo  la  coprirò.  Lasciami  partir  di 
qui:  rientrerò  in  casa  a  repor  quest'arme.) 


SCENA  OTTAVA 
Erminio. 

Non  so  che  di  romore  m'è  paruto  sentir  vicino,  ma  qui  non  è  nessuno  ch'io 
veda,  se  forse  questo  mio  star  sospeso  non  mi  manda  il  cervello  in  poste"'! 
Io  non  trovo  Manfredo,  e  la  porta  grande  del  palazzo  è  serrata,  né  si  sente 
o  vede  alcuno,  perché  ogn'un  dorme,  e  se  bene  potrei  entrar  da  questa 
banda,  e  andar  a  battere  aUe  stanze  di  Manfredo,  il  voler  parlargli  a 
quest'hora  par  ch'abbia  dell'affettato  ",  e  che  da  me  stesso  mi  scopra  per 


^'^'^  pianelle:  calzature  da  casa  a  suola  piatta  e  flessibile. 

^~'-'  fuga...  biscia:  'scappiamo  a  zigzag,  serpeggiando'. 

^'"  appostino  di  mira:  'non  ci  prendano  di  mira  (con  i  loro  archibugi)'. 

^^'  non  mi  manda  il  cervello  in  poste:  'non  mi  fa  impazzire'  (cfr.  GDLJ,  XIII  s.v.  posta  in  cui 


si  attestano,  oltre  al  passo  in  oggetto,  esempi  dall'Aretino  e  dal  Doni). 
^^2  affettato:  studiato,  ricercato. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  243 

interessato,  et  aspettare  fino  a  domattina  è  troppo  lungo  tempo,  e  forse  mi 
potrebbe  avvenir  cosa,  che  non  potrei  aiutarmi.  Che  farò?  Il  tempo  passa, 
l'indugio  nuoce,  et  io  sempre  più  resto  confuso,  e  smarrito.  Oh  Olinda  mia, 
e  pur  per  te  ogni  passione  m'è  cara,  ma  finalmente  che  sarà  di  noi?  Tanta 
fede,  tanto  amore,  avrà  premio  o  castigo?  Ma  perché  castigo?  Meritano  es- 
ser puniti  gl'ingrati,  i  finti,  i  disleali,  ma  non  I  FIDI  AMANTI"^  essempio 
di  costanza,  e  di  fermezza! 


SCENA  NONA 
Manfredo  con  servitor  che  tace,  Erminio. 

MANFREDO  Fermati  qui  su  la  porta:  se  m  dici  c'hai  sentito  nominare 
Erminio,  non  può  essere  altri  che  egli.  Ecco  che,  chi  si  sia, 
non  è  ancor  partito:  hora  me  ne  chiarirò. 

ERMINIO  (Mi  pare  aver  sentito  la  voce  di  Manfredo...  oh  sarà  questo, 

oh  buono!)  Signor  Manfredo! 

MANFREDO    Chi  è  qua? 

ERMINIO  Son  io.  E  voi,  dove  andate  a  quest'hora? 

MANFREDO  E  voi  che  fate  qui  attorno  a  queste  mura?  Deh  poverino, 
come  amico  che  vi  sono,  ho  da  dolermi  della  vostra  cattiva 
sorte... 

ERMINIO  (Oimè,  male  nuove!) 

MANFREDO  ...  che  con  tanto  ardimento,  senza  guardare  al  dishonore 
del  Prencipe,  vi  mettete  a  quest'hora  a  parlar  con  Olinda 
alla  fenestra,  et  a  pregarla,  che  v'apra  la  porta.  Se  voi... 

ERMINIO  Piano  un  poco:  io  non  v'intendo!  Chi  ha  parlato  con  OUn- 

da  alla  fenestra? 

MANFREDO    Voi  medesimo  in  persona. 

ERMINIO  Dove?  Quando? 

MANFREDO    Qui,  adesso. 

ERMINIO  Io   ho   parlato   adesso   con   Olinda?   Io   l'ho   pregata   che 

m'apra  la  porta? 

333  Così  nella  stampa. 


244 


Edizioni  critiche 


MANFREDO  Eh,  Signor  Erminio,  lo  star  con  esso  me  su  la  negativa""*, 
poco  vi  può  giovare!  Séte  stato  sentito  adesso  qui  in  strada 
parlar  con  OHnda  su  la  fenestra.  Domattina  Sua  Eccellenza 
ha  saputo  ogni  cosa. 

ERMINIO  Ah,  Signor  Manfredo,  che  modi,  che  inventioni  son  que- 

ste? Non  occorre  trattar  così  meco:  venite,  venite  alla  Ube- 
ra, e  scopritevi  apertamente,  senza  trovare  altre  girande^^^! 
Son  ben  io  il  vostro  dissegno,  e  la  vostra  mira^^^,  ma  forse 
andarà  vano  il  colpo. 

MANFREDO  Più  presto  il  vostro.  Signor  mio!  Orsù,  come  a  me  rincre- 
sce ogm  vostro  travaglio,  così  compatite  voi  la  disgrafia 
vostra.  Quel  c'ho  detto  io  è  l'istessa  verità.  Buona  notte. 

ERMINIO  O  patientia,  tiemmi  al  segno!  "È  l'istessa  verità",  dice!  Ah 

Prencipe!  Chi  non  sa  che  per  togliermi  Olinda,  questa  è  la 
tua  propria  inventione,  nata  da  pensiero  il  più  malvagio,  il 
più  iniquo  che  viva  in  animo  barbaro,  in  core  spietato?  Ah, 
ma  tu  vorresti  pagarti  de  l'obligo  c'ho  teco  con  troppo  ca- 
ro, e  raro  prezzo!  Non  lo  posso  patire:  hora  sì  che  son  ri- 
soluto! 


SCENA  DECIMA 
LeUo,  Gasparo,  OUnda. 


LELIO 
GASPARO 
LELIO 
GASPARO 


Dove  è  la  scala? 

Eccola  qui  sotto. 

Hai  accommodato  bene  il  filetto^^^? 

Signor  sì,  non  avete  se  non  a  gittarlo  dove  la  volete  attaccare. 


^^^  star...  su  la  negativa:  negare  ogni  cosa  con  decisione. 
^^'^ girande:  mistificazioni,  raggiri. 


^^^  la  vostra  mira:  'il  vostro  bersaglio'. 

^^^  filetto:  era  la  funicella  che  si  legava  all'estremità  della  fune  principale  per  tenerla  ben 
tesa  (cfr.  Crusca,  s.v.  ragna). 


I  Fidi  A.manti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


245 


LELIO 


GASPARO 
LELIO 

GASPARO 
LELIO 


GASPARO 

LELIO 
OLINDA 
LELIO 
OLINDA 

LELIO 

GASPARO 
OLINDA 

LELIO 
OLINDA 

LELIO 


GASPARO 
LELIO 


Se  t'ho  da  dir  il  vero,  il  corpo  è  qui,  e  la  mente  in  mille  par- 
ti: se  io  avessi  a  trattar  qual  si  voglia  altra  impresa,  non  mi 
farebbe  così  gran  mutatione^^^. 
Ve  lo  credo!  Ma  ancor  avete  tempo  a  pentirvi. 
Orsù,  qui  nessun  si  vede  né  sente.  Risolutione  e  cuore!  Da' 
qua  la  scala. 

Pigliate,  ma  dove  l'attaccarete? 

A  quel  ferro  vicino  a  la  fenestra,  se  ben  lo  vedo,  quando 
poi  sarò  dentro,  potrò  forse  andar  per  tutto.  Tu  fermati  là  a 
quella  banda,  e  se  qualcuno  comparisce,  fa  cenno  col  fischio. 
Gittate  questo  sassolino  attaccato  al  filetto,  e  sopra  '1  tutto 
fermate  ben  la  scala. 

Non  vedo  ben  il  ferro:  gitto  il  sasso,  ma  non  arrivo. 
Zi,  zi,  eccomi,  appunto  adesso  son  qui.  Che  abbiamo  a  fare? 
Oh,  Signora  Olinda! 

Piano,  di  gratia,  che  ho  paura  che  queste  mura  non  ci  sco- 
prano! 

Oh  infelice!  Non  dubitate,  cuor  mio,  che  ogni  cosa  passarà 
secretissimamente. 
Oh  questa  sì,  che  sarà  l'altra^^'^ 

Io  son  in  ordine,  et  ho  la  chiave  da  poter  uscire:  vengo  a 
basso? 

Venite,  ma  non  vorrei  che  incorressimo  in  qualche  errore. 
Non  è  pericolo,  che  Soffronia  dorme  profondamente.  Ec- 
comi a  voi. 

Ascoltate:  almeno  per  più  sicurezza  contentatevi  (vita  mia) 
prima  che  veniate  meco,  che  sia  stabilita  la  fede  fra  noi,  io 
d'esser  sempre  vostro,  e  voi,  sì  appunto.  (Ella  non  vuol 
sentir  altro!). 

Gran  caso  sarà  questo,  io  stupisco,  io  rinasco! 
Gasparo  dove  sei?  Io  non  ti  vedo. 


^^'^  non  mi  farebbe...  mutatione:  'non  mi  causerebbe  una  tale  ansia,  un  simile  sconvolgimen- 
to nel  cuore'. 

"'^  sarà  l'altra:  'sarà  bella'  (cfr.  pp.  195,  215,  259). 


246 


EdÌ2Ìoni  critiche 


GASPARO         Son  qui,  et  ho  sentito  ogni  cosa,  ma  avvertite'"*"  che  sia  sta- 
ta Olinda. 
LELIO  Come?  Non  conosco  io  Olinda  fra  mille  donne?  Oh  felice 

risolutione!  Ma  che  faremo?  La  vogliam  menar  via,  o  no? 
GASPARO         Chiaritevi  s'ella  è  essa:  mi  par  impossibile  una  cosa  tale, 

dubito  di  qualche  contramina '"*'. 
LELIO  Non  occorre  dubitare,  perch'altri  che  tu,  et  io  non  è  stato 

consapevole. 
GASPARO         Et  eUa,  come  lo  sa? 

LELIO  Che  so  io?  Piano  che  la  sento,  eccola  a  noi. 

GASPARO         Oh,  come  è  volata! 
OLINDA  Dove  séte?  Non  avete  Valerio  con  voi? 

LELIO  Signora  sì,  Gasparo,  mio  servitore  fedelissimo. 

OLINDA  Che  è  Gasparo?  Chi  séte  voi? 

LELIO  Io,  Signora! 

OLINDA  Erminio,  oimé,  Erminio! 

GASPARO        Che  diss'io? 
LELIO  Io  son  LeHo,  Signora,  e  non  men  di  Erminio  servo  svisce- 

ratissimo  di  Vostra  Signoria. 
OLINDA  Tirati  indietro!  Ah  Erminio,  da  te  son  tradita!  Misera  la  vita 

mia,  Erminio  crudele! 
LELIO  Signora  Olinda!  Gasparo,  aiutami,  che  vien  meno! 

GASPARO         Oimé,  che  sarà? 
LELIO  Che  accidente,  che  caso  sarà  questo?  Gasparo,  costei  si 

mòre! 
GASPARO         Ah,  che  sarò  stato  presago  di  qualche  gran  male! 
LELIO  Oh  infelice  me,  che  vedo?  Che  provo?  Ah  fortuna,  che 

scherzo  orribile  m'appresenti! 


^■♦o  avvertite:  'assicuratevi'. 

^■*'  contramina:  idea  o  progetto  che  si  contrappone  a  quello  d'altri  per  impedirne  la  rea- 
lizzazione (sul  precoce  passaggio  della  voce,  in  origine  militare,  all'uso  figurato,  cfr.  GDU, 
III,  s.v.  contromina  con  esempi  dal  Caro,  Bandello...). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


247 


GASPARO 


LELIO 

GASPARO 

LELIO 

GASPARO 

LELIO 

GASPARO 


LELIO 
GASPARO 


Oh  quanto  era  meglio  d'appigHarsi  al  mio  consiglio!  Oimè, 

mi  par  sentire  venir  non  so  chi  a  questa  volta:  Dio  voglia 

che  non  sia  la  corte.  Se  questo  è,  siamo  spediti! 

Olinda?  Portianla  via! 

Oh  questo  no,  andianne  con  Dio! 

Oimè,  vogliam  dunque  lasciarla  così,  e  non  l'aiutare? 

E  che  aiuto  le  volete  dare  s'ella  è  spedita^"*^? 

E  vero  ma.. 

Ma  a  vostra  posta     ,  eccoli  che  ci  sono  addosso.  Trattar  in 

dishonore  del  Prencipe,  eh?  Presto,  ritiriamoci  in  casa  de  la 

Signora  Almira! 

Presto,  sollecita  i  passi.  Oh! 

Il  tutto  ho  previsto. 


SCENA  UNDICESIMA 
Erminio,  Valerio,  Olinda. 


ERMINIO 

VALERIO 
ERMINIO 

VALERIO 

ERMINIO 

VALERIO 

ERMINIO 


E  per  quella  strada  andremo  in  poste ''*^  alla  volta  di  Napoli, 

e  poi  a  Roma. 

Ma  come  uscirem  hora  di  Salerno,  se  le  porte  saran  serrate? 

Lascia  la  cura  a  me  col  portinaro;  quel  che  più  importa  è 

che  i  cavalli  sieno  hora  in  ordine. 

Avete  sentito  se  ho  messo  fretta  al  vetturino,  ma  vogliam 

partir  così,  senza  far  altra  provisione  di  dinari ,  e  di  panni? 

Dinari  non  mancheranno,  de  i  panni  per  hora  farem  con 

questi. 

Come  vi  pare.  Orsù,  io  farò  motto  ad  Olinda,  che  ci  deve 

aspettare.  Ma  chi  è  qui  disteso  in  terra? 

Qualc'uno  che  dorme,  forse;  non  gli  dar  fastidio,  che  non 

c'impedisse! 


^"•^  spedita:  spacciata  (lett.  'prossima  alla  morte'). 
^■'3  a  vostra  posta:  'per  colpa  vostra'. 
'^^  in  poste:  in  fretta,  speditamente. 


248 


Edizioni  critiche 


VALERIO 
ERMINIO 
VALERIO 
ERMINIO 
VALERIO 
ERMINIO 
VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 
ERMINIO 


VALERIO 


É  una  donna  questa! 
Come  una  donna? 
Vedete  un  poco...  Dio  m'aiuti! 
E  una  donna,  certo...  oimè!  Oh,  che  è  OHnda! 
Piano,  animo,  Signore!  Oh,  quel  ch'io  vedo! 
Olinda!  OHnda,  anima  mia! 
Oh  doloroso  caso  sarà  questo! 

Luce  de  gli  occhi  miei,  come  ti  trovo?  Che  spettacolo  fiero 
m'appresenti?  Sventurato,  che  io  solo  sarò  stato  cagione  di 
sì  gran  male! 
Oh  sventura  mia! 

Io  solo,  per  volerti  levare  dell'altrui  rapaci  mani,  a 
quest'estremo  t'ho  ridotta.  Io  dunque  t'ho  così  trattato, 
dolcissim'anima  mia?  Che  per  soccorrerti  arei  fatto  scudo 
di  questa  vita  a  mtti  i  colpi  d'ogni  tua  sinistra  fortuna,  avrei 
a  tutte  l'hore  sparso  da  tutte  queste  vene  il  mio  sangue, 
dove  bolliva  di  ardentissimo  desiderio  d'esseguire 
l'honestissime  voglie  me.  Ma  ecco,  sfortunata,  come  l'hai 
adempite,  ecco  come  hai  ottenuto  il  desiderio  mo,  il  mo 
contento!  Su  su  partiamo,  Olinda,  partiamo!  Non  no:  re- 
stiamo, Olinda,  restiamo! 

Non  morirà,  no:  i  polsi  battono  gagliardamente! 
Spirito  del  cuor  mio,  questo,  questo  ristoro  t'è  dato  a  tanto 
amore,  a  tanto  ardore?  Questo  premio  riceve  sì  candida  e 
rara  fede?  Mano  crudele,  mano  infame  (se  mano  t'ha  offe- 
sa), come  avesti  ardimento  d'incrudelire  contra  l'amore, 
contra  la  fede  istessa?  E  voi,  occhi  miei  più  infelici,  che  ferì 
quella  mano,  e  quel  cuore,  perché  mirando  caso  sì  funesto, 
non  date  il  passo  a  un  largo  fiume  di  lagrime,  che  dia  tribu- 
to alla  pena,  al  dolore?  Io,  che  non  so  con  che  altro  dar  se- 
gno deUa  mia  sì  gran  perdita,  morirò  qui  teco,  e  poi  che  in 
vita  non  avrò  potuto  esser  tuo,  ti  seguirò  in  morte,  anima 
cara! 
Non  gridate,  che  non  accresciam  male  sopra  male! 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


249 


ERMINIO  Vo'  gridar  tanto  fin  che  fo  palese  alla  corte,  al  Prencipe  i- 
stesso,  a  tutto  il  mondo,  l'error  grande  c'ho  fatto,  il  misfat- 
to crudele  c'ho  commesso,  che  merita  crudel  pena.  Ahi,  di- 
scorso mal  inteso!  Ahi,  risolutione  troppo  pessima!  Ahi 
fortuna  adirata!  Ecco  a  che  termine  l'una  avete  già  ridotta, 
e  l'altro  séte  per  ridurre  hor  hora. 

VALERIO  Di  gratia,  non  levate  il  pianto!  Non  vedete  che  torna  in  sé? 

ERMINIO  Chi  t'ha  offeso?  Chi  t'ha  offeso?  Parla,  rispondi!  Io  non 

veggio  già  sangue,  né  percossa  alcuna:  che  può  esser  stato 
questo,  Valerio? 

VALERIO  Qualche  svenimento  per  la  grand'allegrezza  d'aver  a  tro- 

varsi con  voi,  ma  non  è  niente. 

ERMINIO  Ma  perché  qui  in  strada?  Oimè,  io  non  so  imaginarlo. 

VALERIO  Drizzamola  in  piedi,  e  pigliam  partito ^'*^ 

ERMINIO  Pur  ch'ella  possa  reggersi.  Prendila  per  l'altro  braccio,  e  so- 

stienla  da  l'altro  lato. 

VALERIO  Così,  pian  piano.  Oh,  non  v'ho  detto  io  che  sarà  stato  un 

accidente?  Eccola  Libera.  Come  suda! 

ERMINIO  Olinda,  voltatevi  a  me,  ben  mio:  non  mi  conoscete? 

VALERIO  Siam  qui  noi,  non  dubitate  allegramente. 

OLINDA  Erminio?  Oimè,  dove  son'io? 

ERMINIO  In  luogo  sicuro,  in  Libertà.  Non  vogHam  partire? 

OLINDA  E  come  séte  qui  capitati?  Dianzi  io  non  vi  vidi! 

ERMINIO  Non  vi  ricordate  che  dovevamo  venir  per  voi?  Ma  che  ac- 

cidente è  stato  il  vostro?  Come  séte  qui  fuora?  Che  vi  è  oc- 
corso di  nuovo?  Io  non  lo  so. 

VALERIO  Non  é  tempo  adesso  da  far  ragionamenti.  Partiamoci  di 

qui,  se  potete,  Olinda. 

OLINDA  Posso,  andiamo. 

ERMINIO         Voi  séte  molto  svenuta:  non  è  possibile  per  un  poco  poter 
mettersi  in  viaggio. 

VALERIO  Cattivo  principio. 


^*^  pigliam  partito:  'prendiamo  una  decisione'. 


250  Edizioni  critiche 

ERMINIO  Hora  che  siamo  in  ballo,  seguir  bisogna.  Andiamo  per  hora 

in  casa  di  mastro  GiuHo  orefice,  dove  ne  tratteremo 
secretamente  per  tutto  domani,  poi      l'oscurar  del  giorno 
montaremo  a  cavallo,  e  voi  intanto  riavrete  le  vostre  forze. 

VALERIO  Di  altri  che  di  mastro  Giulio,  che  vi  è  si  caro  amico,  non 

sarebbe  da  fidarsi  in  sì  gran  pericolo. 


IL  FINE  DEL  QUARTO  ATTO. 


^■*^  ne  tratteremo:  'ci  tratterremo'. 
^^''  poi:  dopo. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  251 

ATTO  QUINTO 


SCENA  PRIMA 
Aknira,  Concordia,  Manfredo. 

ALMIRA  Trovisi  chi  vuole,  qui  siam  poco  lontane  da  casa:  vogHo 

chiarirmi  un  tratto,  s'egH  è  vero  quel  che  Lelio  e  Gasparo 
m'han  detto. 

CONCORDIA  Séte  troppo  arrischiata:  andar  per  la  città  a  lume  di  luna  eh? 
Uh,  vedete  l'ombre  de  i  camini,  se  non  paiono  huomini! 

ALMIRA  Qui  non  si  vede  OHnda  né  morta  né  viva.  Vedrai,  Concor- 

dia, che  io  sarò  stata  indovina:  costei  avrà  data  la  posta 
ad  Erminio,  e  si  sarà  ingannata  in  Lelio,  et  avrà   finto 
d'esser  morta,  fin  tanto  che  LeHo  si  sarà  partito,  e  poi  subi- 
to sarà  andata  a  trovare  Erminio. 

CONCORDIA  Lasciateli  fare.  Non  vedete  che  par  ch'abbiate  sotto  la  mi- 

1      i>  •         349-, 

mera  de  1  argento  vivo     f 

ALMIRA  Taci,  che  vedo  non  so  chi  uscir  del  cortile!  Ritiriamoci  da 

banda. 

CONCORDIA  Bel  risvegliar  di  can  che  dorme! 

MANFREDO  Ah  scelerata,  pessima  Olinda!  Questa  è  la  bontà,  questo  è 
lo  stare  ritirata,  questo  è  l'esser  indisposta?  Ah,  malvagia 
femina,  che  tutto  hai  fatto  per  poter  meglio  celar  il  mal 
pensiero  ch'avevi  di  fuggirtene  via,  ma  troppo  mal  consi- 
gliata fosti,  et  in  mal  punto  ti  sarai  partita! 

ALMIRA  Che  sarà? 

CONCORDIA  Sentite,  che  non  parla  di  Erminio? 

MANFREDO    Perfido  Erminio... 

ALMIRA  Oimè! 

CONCORDIA  Tenete  fermo. 


^^^  posta:  appuntamento  convenuto  tra  due  innamorati. 

^^'^  argento  vivo:  denominazione  popolare  del  mercurio,  simbolo  di  eccessiva  \ivacità  ed 
irrequietezza. 


252 


Edizioni  critiche 


MANFREDO  ...troppo  ardire  è  stato  il  tuo,  che  solo  per  satiar  la  tua  vo- 
glia dishonesta,  ingorda,  hai  offeso  il  Prencipe  sul  vivo!  Ma 
te  stesso  avrai  offeso,  meschino!  Perché  sopra  chi  lo  fa 
torna  l'inganno.  Questa  è  pur  tua  lettera,  scritta  di  tua  ma- 
no ad  Olinda:  qui  pur  gl'insegni,  accioché  Soffronia  non  se 
n'avveda,  come  la  debba  far  dormire,  se  ben  hora  è  sveglia- 
ta, et  apparecchiata  per  andare  da  Sua  Eccellenza  e  raggua- 
gliarla di  questo  caso,  e  di  non  so  che  altra  inteUigentia 
ch'era  prima  fra  di  loro. 

ALMIRA  Fatta  è,  o  Erminio  assassino! 

CONCORDIA  Oh,  impacciatevi  con  cortigiani,  che  tante  volte  ve  n'ho 
avvertito! 

MANFREDO  Manigoldo  Valerio,  ancor  tu  d'accordo,  eh?  Hor  hora,  se 
bene  non  è  giorno,  andrò  anch'io  a  dirlo  al  Prencipe. 

ALMIRA  Perdonatemi,  Signore,  se  son  presontuosa:  so  che  voi  séte 

il  mastro  di  casa  del  Signor  Prencipe. 

MANFREDO    Sono,  perché? 

ALMIRA  Vi  dirò:  ho  saputo  hor  hora  da  un  gentilhuomo  mio  amico, 

che  passand'egli  due  hore  sono  per  questa  piazza  per  suoi 
negocì,  uscì  di  palazzo  quella  giovine  Genovese,  la  quale  si 
pensò  che  costui  fosse  Erminio  che  l'aspettasse  per  fuggir- 
sene insieme,  ma  visto  che  non  era  esso,  o  che  dal  dolore 
cascasse  tramortita,  o  pur  fingesse,  io  non  so.  Basta,  che 


Erminio,  povera  me,  ha  in  mano  del  mio  un  vezzo  di 
perle,  e  dubito  che  si  sarà  partito,  e  rubbatomelo,  e  però 
son  venuta  per  intendere  s'è  vero,  accoché  vogliate  per 
gran  carità  dirlo  al  Signor  Prencipe,  e  farlo  giugnere,  se  sarà 
partito  di  Salerno. 
MANFREDO  Madonna,  la  partita  di  Erminio  sarà  certa,  perché  io  ho  tro- 
vata questa  poliza,  scritta  da  lui,  e  mandata  per  Valerio  a 
quella  giovine,  che  in  qualche  modo  o  a  lei,  o  a  lui  debbe 
esser  cascata,  e  per  mezo  di  questa  ho  scoperto  che  già  se 
ne  sono  fuggiti  insieme. 


''**  vet(i^o:  collana  o  braccialetto. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


253 


ALMIRA  Col  mio  vezzo!  Ah,  ladro! 

MANFREDO    Circa  a  questo,  io  non  so  che  dirmi.  Ma  il  gentilhuomo  che 

voi  dite,  che  s'è  incontrato  al  fatto,  sarà  necessario  che  lo 

dica. 
ALMIRA  Sono  stata  indovina  io.  Concordia? 

CONCORDIA  Sempre  il  papagallo  vi  canta  nell'orto^^\ 
ALMIRA  Oimè  che  il  Prencipe  non  lo  farà  seguitare  altramente,  et 

egli  intanto  sarà  venuto  alla  sua,  traditore! 
CONCORDIA  Signora,  abbiate  patientia!  È  perduto  il  modello  de  la  con- 

cupiscentia!  Oh  se  questo  ch'esce  di  casa  fosse  Farina!  Se 

vedo  bene,  è  esso. 


SCENA  SECONDA 
Farina,  Almira,  Concordia. 


FARINA 


ALMIRA 
FARINA 


ALMIRA 

FARINA 
ALMIRA 
CONCORDIA 
FARINA 


Il  Procuratore  non  torna:  Dio  voglia  che  da  dovero  non  gH 
sia  occorsa  qualche  disgratia.  Oh  séte  voi  Signora!  Non  a- 
vete  potuto  aspettarmi  a  casa,  eh? 
Oh  Farina,  che  disgratia  è  la  mia! 

Che?  La  cosa  è  passata  benissimo,  il  Procuratore  vi  ha  ser- 
vito d'amico,  ma  credo  che  ancora  corra,  per  una  paura 
che  egH  ha  avuta. 

Questo  non  mi  giova  più;  ci  sono  maHssime  nuove:  quel 
perfido,  scelerato,  traditor  di  Erminio... 
Su,  ditelo:  che  ha  fatto? 
S'è  andato  con  Dio""  con  quella  sua  Olinda. 
Il  resto  pensalo  tu. 
(Può  far  mia  sorte'^').  E  quando? 


^^^  Sempre...  orto:  probabilmente  nel  senso  di  'sapete  sempre  tutto'  o  'c'è  qualcuno  che  vi 
dice  sempre  tutto',  anche  se  mancano  riferimenti  precisi. 
^=2  S'è  andato  con  Dio:  'è  andato  in  pace'. 
^"^^  far  mia  sorte:  'può  fare  al  caso  mio,  la  mia  fortuna'. 


254 


Edizioni  critiche 


ALMIRA 


FARINA 


ALMIRA 
FARINA 


CONCORDIA 


ALMIRA 
FARINA 


ALMIRA 

CONCORDIA 

FARINA 


Ha  poco  più  di  due  hore  ,  et  adesso  ho  lasciato  il  Mastro 
di  casa,  che  credo  che  lo  vada  a  dire  a  Sua  Eccellenza.  Che 
ne  credi  tu,  Farina,  che  ci  sia  più  rimedio  per  me? 
Che  '1  Signor  Prencipe  gli  faccia  giugnere  tenetelo  per  cer- 
to, perché  l'affronto  l'hanno  fatto  a  lui,  ma  mi  dà  ben 
fastidio  che  '1  Procuratore  non  torni:  dubito  ch'egli  vada 
dicendo  il  seguito  di  questa  notte,  e  perciò  si  creda  che  noi 
abbiam  dato  aiuto  a  costoro  con  tal  inventione.  Se  ciò  fos- 
se, guai  a  noi! 

La  partita  di  Erminio,  Farina? 

La  trama  di  questa  notte.  Signora!  Se  '1  procuratore  ci  sco- 
pre, siam  cacciati  tutti  in  prigione.  Io,  quanto  a  me,  netto  il 
paese^"  io! 

E  noi  altre  poi?  Orsù,  che  me  la  sono  imaginata!  Deh  buo- 
na, e  santa  intentione,  scampami  dalle  mani  che  stringono, 
che  appendo  la  scatolone  da  i  lisci  al  tempio  de  la  purità  '! 
Che  possiam  fare?  Dove  può  esser  hora  il  Procuratore? 
Che  ne  so  io?  Tornate  a  casa,  e  farò  in  tutti  i  modi  ch'egli 
venga  a  parlarvi.  Voi  doletevi  di  non  aver  potuto  questa 
notte  chiamarlo  dentro  in  camera,  e  prometteteli  per 
un'altra  volta,  e  poi  pregatelo  che  non  faccia  parola  di  quel 
ch'è  passato  fra  voi,  che  so  che  v'obedirà,  se  faremo  a 
tempo. 

E  come  si  fiderà  più  di  noi? 
Oimè,  Farina,  ecco  il  furiero^^''  de  la  paura! 
Per  mia  fé',  ch'è  il  Procuratore!  Fingiamo  di  non  vederlo. 


^^^  Ha...  bore:  'è  da  poco  più  di  due  ore'.  Per  la  costruzione  impersonale  con  avere,  tipica 
dell'umbro  cfr.  Mario  Podiani,  /  Megliacci,  Prologo:  «ha  quasi  un  mese»,  in  F.  Ugolini,  Il  pe- 
rugino Mario  Podiani,  op.  cit.,  II,  p.  15  e  relativa  nota.  III,  p.  25. 

^^^  netto  il  paese:  'abbandono  la  città  in  fretta'. 

'^^  Concordia,  in  altre  parole,  fa  voto  di  abbandonare  il  mestiere  di  cortigiana,  pur  di 
uscirne  indenne. 

^^^  furiero:  messaggero  (letteralmente  'cavaliere  foraggiere'  dal  fr.  ■à.nx..  Jourrier,  il  soldato 
che  precedeva  l'esercito  cercando  foraggio  ed  annunciando  in  tal  modo  alla  popolazione  il 
temuto  passaggio  delle  truppe). 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


255 


SCENA  TERZA 
Pancratio,  Farina,  Almira,  Concordia. 


PANCRATIO 
FARINA 
PANCRATIO 
ALMIRA 


PANCRATIO 

CONCORDIA 
FARINA 


PANCRATIO 

ALMIRA 

CONCORDIA 

PANCRATIO 


Oh  Imperatoriam  Maiestatem  ,  se  questa  volta  te  salvo,  mai 
più  donne  non  mi  t'usurpano! 

Signora,  vi  séte  messa  a  gran  rischio  a  venir  in  persona  a 
quest'hora  per  trovare  il  Signor  Procuratore! 
Donne  con  Farina...  Almira  non  può  essere,  perché  so  do- 
ve eU'é  intrata. 

Ditemi,  di  gratia,  se  sua  Signoria  Eccellentissima  é  in  casa, 
perché  smanio  se  non  le  mostro  il  dolore  ch'io  sento  di 
non  gU  aver  potuto  questa  notte  aprir  la  porta,  sfortunata 
ALmira! 

Un  miracol  vivo:  costei  per  marteUo^^^  é  saltata  dalle  fene- 
stre  e  non  s'è  fatta  male! 
Sua  astinenza  deve  studiare. 

Signora  Almira,  quietatevi,  che  sua  Signoria  saprà  che  non 
è  stato  per  colpa  vostra.  Adesso  non  è  in  casa,  e  credo  che 
a  quest'hora  sarà  cavalcata  alla  volta  di  Napoli,  perché  ha 
lettere  dal  Prencipe  dell'Oca,  che  '1  marchese  del  Bufalo  è 
prigione  della  vicaria   ' ,  e  che  volendolo  difendere,  subito 
vista  la  presente,  monti  a  cavallo. 
Oh  servitor  raro,  sia  benedett'io,  che  te  tengo! 
Se  quest'è,  son  impacciata.  Che  faremo,  Concordia? 
Che  so  io?  Troviam  uno,  che  in  questo  bisogno  ce  cavalchi 
fino  a  Napoli,  a  scusarvi  con  sua  reverenda. 
Figlia,  che  vogHo  passarti  la  supplica  gratis  '  !  In  somma, 
m'ha  detto  il  vero  Farina! 


^^*  Imperatoriam  Maiestatem:  Maestà  Imperiale. 
^'^'^  per  martello:  per  la  preoccupazione,  per  l'ansia. 

^60  vicaria:  nel  Regno  di  Napoli,  era  il  tribunale  cui  spettava  la  giurisdizione  in  ambito 
civile  e  penale,  e  l'edificio  sede  del  tnbunale  e  delle  carcen. 

^'''  Pancratio  resta  fedele  alla  sua  natuta  di  leguleio  ed  avaro. 


256 


Edizioni  critiche 


ALMIRA 


PANCRATIO 

FARINA 

PANCRATIO 


ALMIRA 


CONCORDIA 

FARINA 

PANCRATIO 


Poi  che  la  disgratia  mia  vuol  ch'io  perda  ogni  speranza  di  mai 
più  forse  potermelo  godere,  almeno  fateli  fede  voi,  quanto 
per  cagion  sua  io  resti  malcontenta.  Mi  parto,  a  Dio. 
Oimè,  che  costei  non  s'impiccasse! 

Piano,  Signora,  che  '1  soccorso  è  vicino:  ecco  Sua  Signoria! 
Comparvit  coram  vobis,  o  sexu  mi  iocundissime,  prcefatus  ille  domi- 
nus..?^'"  scostati  Farina,  non  vedi  che  mi  calpesti  l'ombra,  e 
guasti  Paolo  de  Castro  '  in  giubbone? 

Ben  venga  il  mio  Signore,  ben  venga  l'Idolo  mio!  Oh  virtù 
di  bella,  e  potente  imagine,  come  al  suo  primo  apparire  ha 
discacciato  dal  cuor  mio  ogni  tristezza,  et  ogn'  affanno 
convertito  in  dolcissimo  riposo! 

Vedete  vago  fiore  di  Narciso.  Uh,  che  '1  ciel  vi  tiri  al  fonte, 
e  al  fondo^*^"*! 

Gran  ventura  certo,  poiché  se  Vostra  Signoria  non  compari- 
va, la  Signora  veniva  meno.  Ma  del  Marchese  che  nuova  c'è? 
Che  Marchese,  che  Prencipe,  o  Imperatore?  DaU'honore  in 
poi  vada  a  sacco^^'^  ogi^  cosa,  ho  avuto  a  dir  peggio:  non 
sai  tu  quel  che  fece  Giove,  che  per  star  con  la  sua  innamo- 
rata, diventò  quando  un  bue,  e  quando  un'oca^^'*^? 


^^^  Comparvit... dominur.  'È  comparso  davanti  a  voi,  donna  mia  carissima,  quello  stesso 
Signore  invocato'. 

^^^  Paolo  da  Castro:  giureconsulto  nato  a  Castro  e  vissuto  tra  il  XIV  e  X\''  secolo.  Autore 
di  commentari  (tra  i  quali  queUo  al  Corpus  luris  Civilis,  impresso  tra  il  1544  e  il  1548)  e  di 
Consilia,  fu  uno  dei  più  famosi  giuristi  della  scuola  del  commento. 

364  jsjardso...  fondo:  'vi  faccia  annegare  come  Narciso  che,  innamoratosi  della  propria 
immagine  rispecchiata  dall'acqua  di  una  fonte,  vi  cadde  dentro'.  Il  riferimento  è  al  mito 
narrato  da  Ovidio,  Metamorfosi,  III,  353-355. 

^^^  vada  a  sacco:  'sia  messo  a  repentaglio'  (per  essere  in  sacco  'trovarsi  un  gran  pericolo',  cfr. 
TB  s.v.  sacco). 

^^^  un  bue...  un'oca:  Pancratio  storpia  a  suo  modo  i  notissimi  episodi  mitologici  nei  quali 
Zeus,  invaghito  di  donne  mortali,  si  unì  a  loro  sotto  forma  di  animali.  Il  bue  allude  infatti 
alle  sembianze  di  toro  che  il  re  degli  dei  assunse  per  il  ratto  di  Europa  (cfr.  Ovidio,  Meta- 
morfosi, II,  843-75;  VI,  103-7)  L'oca  invece  fa  riferimento  alla  trasformazione  in  cigno  as- 
sunta per  unirsi  a  Leda,  moglie  del  re  di  Sparta  Tindaro,  dalla  quale  vennero  generati  i  ge- 
melli Castore  e  Polluce  (cfr.  Ovidio,  Heroides,  XVII,  55  e  segg.).  Per  l'evocazione  delle  di- 
verse sembianze  assunte  da  Giove  nelle  sue  imprese  amorose  cfr.  anche  Calmo,  Il Saltu;^a, 
atto  2,  scena  7. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  257 

ALMIRA  E  perché  vedo  l'amor  vostro  non  men  ardente  del  suo, 

vorrei  poter  esser  Leda  e,  dolcemente  ingannata,  accoglier- 
vi in  seno,  bellissimo  cigno  mio. 

FARINA  E  quest'anco  si  potrà,  pur  che  l'ingegno  s'adopri,  e  le  cose 

passino  secretamente. 

PANCRATIO  Proregina,  e  Principessa  mia,  lucono  più  gli  occhi  di  Vostra 
Signoria  rara  illustre,  che  non  fa  questo  de  la  povera  luna, 
hora  che  splende  in  Ponente,  e  dubito  che  *1  contrasto  loro 
non  faccia  ecclisse,  e  che  ogn'uno  corra  allo  spavento  de  i 
suoi  raggi,  per  veder  voi. 

CONCORDIA  Sentisti  mai,  Farina,  più  bella  unione  di  spropositi? 

FARINA  Lasciam  andare.  Signor  Patrone,  séte  voi  stato  veduto  que- 

sta notte  andar  a  torno  così  vestito? 

PANCRATIO  Non  so  se  quei  due  ch'erano  poco  fa  qui  con  la  Signora 
Almira,  per  martello,  m'avranno  veduto. 

ALMIRA  Quando,  ben  mio? 

PANCRATIO  Dianzi,  quand'io  per  un  degno  rispetto  m'era  nascosto  sot- 
to un  uscio  (m'intende  il  mio  servitore),  vidi  venir  Vostra 
Signoria  con  due  altri,  e  nell'intrare  che  faceste  in  casa  di 
mastro  Giulio  orefice,  io  conobbi  il  Signor  Erminio,  quan- 
do vi  disse:  "Entra,  cuor  mio,  che  mi  consumo!". 

ALMIRA  Che,  il  Signor  Erminio  SaHdori  di  corte? 

PANCRATIO  Quello  Signora  sì,  non  lo  sa  Vostra  Signoria  che 
s'appoggiava  a  lui? 

FARINA  Come  sta  questa  cosa,  Signora  Almira? 

ALMIRA  Va  Erminio  con  la  diva  in  casa  di  mastro  Giulio,  eh? 

L'uccello  ha  dato  nella  rete'^''^!  A  rivederci.  Farina.  Vienni, 
Concordia,  presto! 

CONCORDIA  Uh  poverina,  che  v'ha  pizzicato,  la  tarantola? 

FARINA  Guarda  caso,  o  povero  Erminio,  a  gran  pericolo  sei. 

PANCRATIO    S'è  partita  costei,  Farina! 

FARINA  Lasciatela  andare,  in  nome  di  Dio,  che  va  per  castigare 

Erminio  vostro  rivale. 

'''^  ha  dato  nella  rete:  'è  caduto  in  trappola'. 


258  Edizioni  critiche 

PANCRATIO  Questi  cortigiani  mi  vogliono  far  giocare^^^  i  libri,  e  la  pro- 
fessione. Hor  ora  voglio  andare  a  mettermi  su  l'uscio  de  la 
Signora  Almira,  e  cacciarci  dentro  il  capo,  a  posta  per  con- 
tendere con  uno  di  loro.  Seguita  costei  tu,  ch'io  vo  a  rive- 
stirmi. 

FARINA  Di  gratia,  non  andate  più  vacillando^''^  questa  notte:  sarete 

veduto  tante  volte  entrar,  e  uscire  di  casa,  e  pigliarete  nome 
di  vagabondo. 

PANCRATIO    Uscirò  per  la  stalla.  Va'  dove  t'ho  detto. 

FARINA  Io  vo. 

PANCRATIO    Non  voglio  che  su  la  mia  dignità  ci  cachino  pur  le  mosche. 


SCENA  QUARTA 
Lelio,  Alessandro. 

LELIO  Perdonami,  Alessandro,  non  ho  mai  veduto  a'  dì  miei  un 

huomo  più  cauto,  e  più  sospettoso  di  te. 

ALESSANDRO  Vuoi  la  burla  tu;  si  tratta  con  Prencipi  qua,  e  che  sorte  di 
trattati  poi!  Io  ti  dico  che  tu  corri  una  delle  maggior  fortu- 
ne che  huomo  possa  immaginarsi. 

LELIO  Olinda  non  è  morta,  non  è  più  dove  la  lasciammo! 

ALESSANDRO  Oh,  non  la  potrebbono  aver  portata  via  morta  dove  era? 

LELIO  Oh  Erminio,  se  questo  caso  ti  riesce,  voglio  ben  dire  che  'l 

mal  operare  non  nuoce. 

ALESSANDRO  Oh  m  t'inganni,  se  pensi  che  non  ne  faccia  risentimento  ; 
un  cortigiano  toglier  su  gli  occhi  al  Prencipe  una  donna  a 
lui  così  cara?  Oimè  io  tremo  solo  a  pensarlo!  Di  gratia,  non 
stiamo  più  qui. 

LELIO  Perché? 

ALESSANDRO  Dubito  di  te. 


^^^  far  giocare:  far  rischiare. 

^^^  non...  vacillando:  'non  muovetev'i  più  in  continuazione'. 

^™  Il  soggetto  è  il  Prencipe. 


1  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


259 


LELIO  Oh  questa  sarà  l'altra "^^'l  E  che  colpa  n'ho  io? 

ALESSANDRO  Se  tu  sei  stato  veduto  questa  notte  con  Olinda  in  strada, 
come  tu  racconti,  e  pur  sentito  parlarle  alla  fenestra,  sareb- 
be gran  cosa  che  tu  non  avessi  a  giustificarti  con  pericolo 
della  vita.  Chi  è  questo  che  spunta  di  qua? 

LELIO  A  l'habito,  par  forestiero. 


SCENA  QUINTA 
Alidoro,  Alessandro,  Lelio. 

ALIDORO  Questo  dev'essere  il  palazzo  del  Prencipe.  Per  un  pezzo 
non  occorre  pensare  di  poter  avere  audientia,  né  informa- 
tione  di  cosa  ch'io  desideri.  Avrò  almeno  imparata  la  stra- 
da... Ma  ecco  qua  gente. 

ALESSANDRO  Costui  viene  alla  volta  nostra. 

LELIO  Lascialo  venire. 

ALIDORO  Dio  vi  salvi,  gentilhuomini.  Non  è  questo  il  palazzo  dove 
risiede  il  Signor  Prencipe? 

LELIO  Questo  è. 

ALIDORO  Io  son  forestiero  e  vengo  a  posta  per  trattar  con  sua  Eccel- 
lenza cosa  a  me  molto  importante.  A  che  hora  se  li  potrà 
parlare? 

LELIO  NeU'hora  della  sua  udientia  solita,  se  ben  credo  che  per 

questo  giorno  che  viene,  avrete  fatica  di  poterla  avere. 

ALIDORO         Perché,  s'è  lecito? 

LELIO  Perché,  oltre  che  non  è  a  palazzo,  credo  anco  che  non  sia... 

ALESSANDRO  Gentilhuomo,  il  Signor  Prencipe  è  al  suo  giardino.  Se  avete 
necessità  di  trattare  con  sua  Eccellenza  andate,  che  facil- 
mente hoggi  a  qualche  hora  gli  potrete  parlare. 

ALIDORO  Signore,  se  la  mia  non  è  importunità,  mi  sapreste  dire  se  in 
questa  corte  si  ritrova  un  Valerio  genovese? 

ALESSANDRO  Perché  ne  domandate? 


questa...  l'altra:  'questa  è  bella'  (cfr.  pp.  195,  215,  245). 


260 


Edizioni  critiche 


ALIDORO 
LELIO 


ALIDORO 


LELIO 


ALIDORO 


Per  saperne  nuova,  perché  ancor  io  son  genovese. 

Di  un  Valerio,  huomo  per  quanto  si  vede,  di  bassa  fortuna, 

che  non  è  molto  che  venne  in  questa  corte,  ve  ne  potremo 

dar  nuova  particolare. 

Appunto  questo  desidero.  Quanto  tempo  è  che  venne  in 

corte,  e  a  che  officio  serve? 

Non  molti  mesi  sono,  e  non  so  che  serva  a  officio  nessuno 

particolare. 

Egli  venne  solo  o  accompagnato? 

ALESSANDRO  (Che  sarà?) 

LELIO  Dicono  che  menò  seco  una  giovine  che  avea  salvata  da  una 

fortuna  in  mare. 

ALIDORO         Traditore!  Come  si  chiama  questa  giovine? 

LELIO  Si  chiamava  Olinda. 

ALIDORO         Si  chiamava,  ma  hora  non  si  chiama  più  OHnda?  Oimè! 

LELIO  Vi  dirò:  dubito  che  se  questa  notte  notte  non  è  morta,  a 

quest'hora  sia  a  mal  termine,  per  un  caso  che  l'è  occorso. 

ALESSANDRO  (Costui  s'è  molto  turbato.) 

ALIDORO  (Oimè,  che  sento?  Non  mi  voglio  scoprir  per  padre...).  Per 
gratia,  ditemi  quel  che  l'è  avvenuto,  accioché  se  sarà  possi- 
bile, io  possa  rimediare. 

ALESSANDRO  Voi  dovete  esser  venuto  a  posta  di  Genova  in  qua  per  in- 
tendere d'OKnda,  e  forse  ne  siete  parente... 

ALIDORO  Signor  sì,  e  hiersera  appunto  al  tardi  arrivai  qua,  e  questa 
notte  ch'io  pensai  quietarmi  per  esser  giunto  dove  io  vole- 
va, potendo  aver  nuova  di  quello  ch'io  cercava,  non  ho  mai 
potuto  chiuder  occhi,  che  un  non  so  che  nell'animo  ini  ha 
sempre  travagliato,  onde  son  stato  forzato  a  quest'hora  le- 
varmi, et  escire  da  l'hostaria,  e  venir  così  solo  innanzi  tem- 
po dove  mi  vedete,  ma  forse  non  sarà  stato  indarno,  che 
voi  Signori,  per  cortesia,  mi  potrete  giovare  a  qualche  cosa. 

LELIO  Noi  non  potemo  se  non  consigliarvi  che  ve  n'andiate  in 

corte,  e  come  parente  dimandiate  d'Olinda,  che  n'arete  in- 
formatone. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


261 


ALIDORO  Così  avea  pensato  ancor  io;  ma  dove  ho  da  inviarmi,  che 
non  so  dove  risieda  il  Signor  Prencipe? 

ALESSANDRO  Venite,  che  io  vi  mostrare  il  luogo,  ma  per  buon  pezzo  sa- 
ranno serrate  le  porte. 

ALIDORO         Aspettare  finché  s'apriranno,  e  perdonatemi  se  v'incommodo. 

ALESSANDRO  Lelio,  poi  ch'io  sarò  tant'oltra,  arrivarò  fino  a  casa  mia;  di 
qui  a  poco  ne  rivederemo. 

LELIO  Va'  pure.  Appunto  questo  povero  gentilhuomo  potrebbe 

esser  venuto  a  tempo  per  veder  d'Olinda,  e  d'Erminio 
qualche  spettacolo! 


SCENA  SESTA 
Sambuco,  LeHo. 


SAMBUCO 

LELIO 
SAMBUCO 

LELIO 
SAMBUCO 


LELIO 
SAMBUCO 


LELIO 
SAMBUCO 


Ah  traditori,  senza  calzoni,  e  senza  cappa!  Affrontar  i  po- 
ver  huomini  con  gH  spiedi     come  gH  asini  salvatichi,  eh? 
(Chi  grida  qua?) 

Oh  Farina  rompicollo!  Oh  Procurator  ruffiano!  Oh  sieno 
maledette  quante  femine  si  trovono  fuor  del  mondo! 
(Questo  è  Sambuco,  se  non  erro.  ) 

Non  so  più  dove  nascondermi  per  star  sicuro:  se  mi  caccio 
in  qualche  buco  oscuro,  mi  scarcherranno  il  muro  sul  capo, 
se  entro  in  una  botte,  vi  attaccheranno  fuoco... 
(Che  ha  costui?) 

Potessi  almeno  riavere  i  miei  panni  su  in  casa  del  Procura- 
tore, che  mi  vorrei  rivestire,  e  per  compassione  mettermi 
sul  nicchio^^^  d'un  sepolcro,  e  pianger  il  vivo. 
(Gran  paura  ha  egU,  e  non  so  di  che.) 

Ah,  che  con  l'occhio  di  dietro  me  li  vedo  venir  addosso! 
Fratelli,  è  vero  che  sono  un  asino,  su,  ma  domestico:  am- 
mazzate il  Procuratore  che  è  salvatico!  EgU  m'ha  fatto  far 


^^2  spiedo:  arma  medievale  da  punta. 
"'  nicchio:  nicchia,  teca. 


262 


Edizioni  critiche 


LELIO 
SAMBUCO 

LELIO 

SAMBUCO 


LELIO 

SAMBUCO 

LELIO 

SAMBUCO 

LELIO 

SAMBUCO 

LELIO 

SAMBUCO 

LELIO 

SAMBUCO 

LELIO 
SAMBUCO 


la  sentinella;  egli  va  con  le  donne  di  palazzo,  e  favella  con 
loro  alle  fenestre. 

(Romore  ci  deve  essere.  Me  ne  voglio  chiarire).  Olà! 
Oimè,  eccone  uno  che  m'ha  trovato!  Oh  notte,  sorella  de- 
gH  uccellacci^^"*,  fammi      un  gufo  con  l'ali! 
Sambuco,  sei  tu  esso? 

Non  son  Sambuco:  son  un  rògo,  un  sterpo     ,  e  peggio, 
fratello,  ne  ho  da  morire  per  mano  del  boia.  Di  gratia,  sbri- 
gatevi voi  prestamente! 
Che  c'è  di  nuovo? 
Forfanterie  del  Procuratore. 
Che  ha  fatto? 

Ha  voluto  aprir  la  fenestra  a  una  donna. 
Per  far  che? 
Per  entrar  dentro. 
Con  che?  Con  l'arme? 
Con  gli  occhiali,  e  col  naso. 
Accostati. 

Non  mi  fido,  perché  séte  uno  di  quei  di  sta  notte.  Mi  vole- 
te metter  le  manette:  vi  conosco  ben,  io! 
Chi  son  questi?  Parla  e  non  dubitare. 

Son  più  dei  formiconi:  chi  porta  archibugio,  chi  alabarda,  e 
chi  peggio,  e  gridano:  "Presto  a  queUa  casa,  che  non  saran 
partiti!".  Il  Prencipe  se  gli  vuol  mangiar  vivi,  et  ho  paura 
che  abbiano  mangiato  il  Procuratore:  infilzato  e  cotto  in 
quell'armi  longhe  ,  come  un  porchettone.  E  '1  vorrei  tro- 
vare, e  domandargli  i  miei  panni...  orsù,  ne  fo  un  presente  a 


^'■*  uccellacà:  rapaci  notturni. 

^^'^  fammi:  'trasformami'. 

^''^  Non...  sterpo:  come  si  è  visto  in  precedenza  Sambuco  ama  giocare  col  suo  stesso  no- 
me ed  ora,  in  quanto  prossimo  alla  morte,  si  dichiara  ndotto  ad  un  rovo  (rògo),  ad  una  ra- 
maglia secca. 

^ ''^  armi  bnghe:  gli  spie(U  prima  citati. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


263 


378 


LELIO 


voi  di  essi,  accioché  se  avrete  mai  a  litigare     ,  siate  nato  ve- 
stito^^'^,  e  con  la  sententia  in  favore,  come  ho  avuta  io. 
Fuggi  se  sai!  (Per  quanto  posso  raccoglier  da  costui,  questa 
è  la  corte  che  va  per  pigHar  costoro:  vogHo  andare  per  in- 
tender qualche  cosa.) 


SCENA  SETTIMA 
Gasparo,  LeHo. 

GASPARO        Fis,  fis.  Signor  Lelio! 

LELIO  Chi  è  là?  Oh,  sei  tu  Gasparo?  Che  c'è  di  nuovo? 

GASPARO         MaHssime  nuove  per  Erminio,  e  per  Olinda. 

LELIO  Olinda  è  viva,  eh? 

GASPARO  Mal  [...]  fuggito  con  essa^^*^",  e  si  trattenevano  in  casa  d'un 
orefice,  per  partirsi  forse  la  notte  seguente. 

LELIO  E  sono  stati  ritrovati? 

GASPARO  Che  ne  credete?  Il  Prencipe  subito  l'ha  saputo  e  fategli  pi- 
gliare, e  dicono  che  fa  fuoco,  e  se  n'aspetta  qualche  gran  ri- 
sentimento. Basta,  io  non  vorrei  essere  nella  camicia  di 
Erminio. 

LELIO  Come  è  passato  il  fatto? 

GASPARO  O  il  Signor  Manfredo  o  madonna  Soffronia  hanno  scoperto 
la  fuga,  e  subito  dettolo  al  Prencipe,  fu  mandato  per  la  cor- 
te"*"',  et  inviata  alle  porte,  ma  soprarrivando  infuriata  la  Si- 
gnora ALmira  (non  so  come  se  lo  sapesse)  mandò  subito  il 
barigello  alla  casa  di  questo  orefice,  dove  stavano  nascosti. 
In  somma  sono  presi,  et  hora  arrivano  qua  su  prigioni. 


^''^  a  litigare:  in  una  causa  giudiziaria. 

■^^'•'  nato  vestito:  nato  fortunato. 

■""'  Mal  [:.]  fuggito  con  essa,  nella  stampa  la  p.  63  termina  anticipando,  come  consueto,  la 
prima  parola  della  battuta  della  pagina  seguente  che,  tuttaxaa  a  p.  64  non  \^ene  riportata, 
lasciando  facilmente  presupporre  la  caduta  di  una  porzione  imprecisata  di  testo. 

'^"'  la  corte:  'le  guardie'  (cfr.  Rezasco,  p.  314  s.v.  corte  LII  'bngata  di  birri'). 


264  Edizioni  critiche 

LELIO  Ti  giuro  Gasparo,  che  sento  già  gran  dolor  d'Olinda,  per- 

ché credo  che  caderà  in  lei  tutta  la  pena,  e  forse  a  torto. 

GASPARO  Et  io  ho  maggior  compassione  ad  Erminio,  perché  da  lei 
sarà  stato  condotto  a  questo  passo.  Oh  balordo!  Esser  pa- 
tron lui  del  Prencipe  e  della  corte,  e  per  una  donniciuola 
aver  messo  in  abandono  il  favore,  il  Prencipe,  e  la  vita! 
Credete  a  Gasparo,  che  costei  sarà  stata  cagione  di  tutto 
l'errore.  Le  donne,  ah! 

LELIO  Che  dimostratione  si  crede  che  ne  faccia  sua  Eccellenza? 

GASPARO  Grande  dico,  se  non  le  giovasse  che  dianzi  arrivò  un  vec- 
chio genovese,  parente  de  la  donna,  e  forse  per  quanto  di- 
cono, il  padre  istesso. 

LELIO  Padre  non  le  può  essere,  s'è  vero  ch'egH  affogasse  in  mare. 

GASPARO         Chi  lo  sa  questo? 

LELIO  Andiamo,  e  vediamone  il  fine. 

GASPARO  Sarebbe  meglio  che  andassimo  a'  fatti  nostri,  et  a  chi  tocca 
se  la  stricasse. 


SCENA  OTTAVA 
AHdoro,  Manfredo. 


ALIDORO         Dunque  hanno  a  esser  serrate  le  porte  della  pietà? 

MANFREDO  Vi  dico,  gentiUiuomo,  che  gittate  il  tempo  a  trattar  meco. 
Andate,  e  trattenetevi  fin  tanto  che  sua  Eccellenza  ha  finito 
di  ragionare  di  secreto  con  madonna  Soffronia,  e  poi  but- 
tateveli  a'  piedi,  e  domandate  aiuto,  che  se  questo  non  gio- 
va, altro  rimedio  non  occorre  tentare.  Io  adesso  sarò  là,  e 
dove  potrò  v'aiutarò  volentieri. 

ALIDORO  E  a  che  può  giovare,  se  voi  dite  che  '1  Prencipe  gli  vuol  ho- 
ra  nelle  mani,  apparecchiate^**^  a  sfocar  l'ira?  Come  credete 
(sventurato  me)  che  gU  tratti  a  quel  primo  affronto^**^? 

3^2  apparecchiate:  pronte,  preparate. 

^*^  a  quel  primo  affronto:  sulle  prime,  inizialmente. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  265 

MANFREDO  II  Signor  Prencipe  per  hora  \aiol  Erminio,  e  non  Olinda: 
centra  lui  è  tutto  lo  sdegno,  anzi  ho  ordine  di  farla  scarce- 
rare, e  che  Ermitiio  venghi  hor  hora. 


SCENA  NONA 
Alidoro. 

Oimè,  che  lo  sdegno,  e  la  rabbia  si  riverserà  nella  vita  di  Olinda  mia,  et  io 
con  questi  occhi,  dolente,  sarò  venuto  a  tempo  per  veder  di  te,  figliuola  ca- 
ra, sì  misero  fine!  Questo  sarà  il  premio  che  riporterò  delle  fatiche,  e  de  i 
disagi  che  nel  viaggio,  et  in  questa  mia  grave  età  ho  sofferto  per  venire  a 
vederti?  Questo  sarà  il  disegno  ch'avea  fatto  di  ricondurti  a  Genova,  e  tro- 
var modo  d'aver  emendare  il  tuo  fallo?  Ma  meglio  sarebbe  stato  che  aUhora, 
a  quella  partita,  tu  fossi  morta,  e  che  io  una  volta  sola  mi  fosse  doluto,  co- 
me feci,  che  ritrovarti  hora  viva,  e  di  nuovo  esser  aggravato  dal  dolore,  et 
offeso  dal  pianto;  o  che  pure  in  quella  soverchia  pena,  io  avessi  chiusi  gli 
occhi  per  sempre,  per  non  sentire  né  provare  quel  c'hora  sento  e  provo,  in- 
felice, e  mal  contento  vecchio!  Ih,  ih,  ih!  Oimè,  che  fo?  Questi  lamenti, 
queste  lacrime  non  mi  giovano.  Aspettato  che  questo  Prencipe  deponga  la 
furia,  per  gittarmeli  poi  a  i  piedi,  e  per  muoverlo  a  compassione  delle  mie 
sventure,  quando  sarà  tardi  la  pietà  ch'io  potessi  impetrar  da  lui,  se  già  ha 
mandato  o  per  l'uno  o  per  l'altro  di  loro,  per  ucciderli  forse  con  le  proprie 
mani?  Posso  sperare  aiuto  alcuno,  quando  il  Prencipe  istesso  non  mi  vuol 
sentire,  se  i  suoi  mi  fuggono,  e  se  tutti  mi  scacciano?  Oh  impietà  grande,  e 
non  più  sentita!  Vedo  a  questi  termini  miserabili  ridotta  la  svenmrata  mia 
figliuola,  e  non  posso  dir  per  lei  una  parola!  Ahi,  che  altro  mi  resta  a  fare,  se 
non  andarmene  a  quel  palazzo,  e  con  le  grida,  e  muggiti,  far  rimbombar 
d'ogni  intorno  quelle  mura,  e  veder  se  con  questa  ultima  prova,  posso  tro- 
var pietà  nel  cuor  ostinato  de  gli  huomini? 


266 


Edizioni  critiche 


SCENA  DECIMA 
Olinda,  Barigello  con  due  Sbiri,  Erminio. 

OLINDA  A  torto  prendete  Erminio  che  non  v'ha  colpa!  Io  ho  fatto 

l'errore,  io  ho  offeso  il  Prencipe.  Eccomi,  non  mi  lasciate, 
prendetemi,  menatemigH  innanzi,  che  faccia  vendetta  di  me 
sola,  che  merito  atroce  castigo! 

BARIGELLO  Tornate  indietro,  madonna,  che  abbiam  ordine  di  lasciar 
voi,  e  menare  il  Signor  Erminio  da  sua  Eccellenza.  Ma  voi 
sbirri  fermatevi  qui,  che  non  so  se  devo  condurr'anco  quel 
altro  in  prigione. 

OLINDA  Voi  dunque  prigione,  Erminio?  Voi  alla  presentia  del  Pren- 

cipe adirato?  Io  libera?  Io  viva? 

ERMINIO  Deh,  non  più  Olinda,  che  questo  piangere  esacerba  troppo 

le  mie  pene!  In  quest'ultima  prova  che  fa  hora  di  me  la  for- 
tuna, non  ho  altro  che  più  mi  prema  che  '1  soverchio  vo- 
stro dolore,  e  se  non  fosse  che  a  voi  sola  ho  riguardo,  ve- 
dreste di  quanta  poca  cura  io  tenessi  di  questa  mia  vita,  che 
per  satiar  la  fortuna  vorrei  correr  volontariamente  a  qual  si 
voglia  precipitio,  e  così  dar  fine  al  mio  male.  Ma  voi  se  de- 
siderate che  in  questo  sfortunato  caso  si  sminuisca  in  gran 
parte  l'affanno  mio,  asciugate  le  lagrime,  e  mostratemivi 
d'altra  mamera  nella  qual  hora  vi  vedo. 

OLINDA  Sarà  mai  possibile,  Erminio,  se  voi  séte  di  me  quella  parte 

che  mi  mantiene  in  vita,  se  senza  voi  non  posso  vivere,  ve- 
dendovi in  tanto  pericolo,  non  mostrar  segno  d'estremo 
dolore?  Vorrei  esser  di  pietra,  senz'occhi,  e  senza  cuore  per 
non  vedere  sì  spietato  avvenimento,  sì  precipitosa  resolu- 
tione!  Deh,  almeno  potess'io  entrar  nel  vostro  luogo^^"*,  e 
presentarmi  come  rea  innanzi  al  Prencipe,  et  in  me  vomi- 
tasse il  veleno  della  sua  rabbia,  e  satiasse  quell'ingordigia 
c'ha  di  farmi  morire!  Son  donna,  è  vero,  ma  ho  cuore  e 


384  nel  vostro  luogo:  'al  vostro  posto' 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


267 


petto  anch'io  ,  da  poter  soffrire  gli  ultimi  strati,  e  tormen- 
ti. 

ERMINIO  Non  no,  a  me  solo  tocca  la  pena,  perché  io  solo  ho  errato, 

e  son  stato  sempre  cagione  d'ogni  vostro  male,  e  prima  in 
Genova  (pessimo  punto)  v'allettai  a  l'amor  mio  ',  onde 
accettandomi  per  vostro,  v'obligai  a  recusar  ogn'altro.  Voi 
per  me  avete  abbandonata  la  patria,  la  casa,  e  le  ricchezze; 
per  cagion  mia  vi  séte  condotta  in  questa  città,  et  in  questa 
corte;  per  compiacer  me  avete  disprezzato  il  Prencipe,  e 
provocatolo  a  tanto  sdegno,  donde  mi  nasce  questo  stra- 
tio...  dolente,  e  sfortunato  ch'io  sono     ! 

OLINDA  Deh,  che  fosse  mio  lo  stratio,  e  non  vostro;  poiché  errore  é 

stato  fatto,  io  sola  l'ho  commesso,  percioché  dovea  con 
più  savio  consiglio  preveder  il  vostro  danno,  e  procurarvi 
la  salute,  ma  se  a  gH  huomini,  alle  fiere,  aUe  piante  è  per- 
messo godere  la  loro  cara,  et  amata  compagnia,  perché  do- 
vea io  pensare  che  a  me  fosse  di  pena  Pamare  un  solo, 
d'honesto  e  santo  amore?  Ah,  che  le  nozze  doveano  esser 
premio  di  tanto  amore,  ma  in  vece  di  nozze,  mi  consolerà 
il  pianto,  il  dolore,  e  la  morte     ! 

ERMINIO  Non  sarà  mai  così  ostinato  un  cuore,  che  sentendo  questo 

caso  dolente  per  compassione  non  s'intenerisca?  Non  son 
io  homicida,  né  traditore  al  Prencipe,  non  ho  io  trattato 
contra  la  vita  né  contra  Phonor  suo,  non  ho  commesso  ac- 
cesso o  sceleranza  tale  che  meriti  pena  di  morte;  ho  prepo- 
sto Pamor  vostro  a  quel  del  Prencipe,  ho  cercato  levarvi 


^^'^  ho  cuore  e  petto  anch'io:  eco  delle  parole  di  Annida  (Cfr.  Tasso,  G.l^,  XM,  49,  v.  7:  «A- 
nimo  ho  bene,  ho  ben  vigore  che  baste»). 

'*"'  v'allettai  a  l'amor  mio:  Tasso,  G.L.,  XVI,  ott.  46,  v.  3:  «t'ingannai,  t'allettai  nel  nostro 
amore». 

'•^^  L'intera  battuta  conserva  delle  tracce  evidenti  delle  parole  di  Olimpia  nel  canto  X 
del  Furioso  (cfr.  Ariosto,  O.F.,  X,  ott.  31-32). 

388  le  no:(p;e...  la  morte:  cfr.  Tasso,  G.F.,  II,  ott.  33-34.  Tutta  la  scena  è  comunque  model- 
lata sull'episodio  di  Olindo  e  Sofronia,  del  resto  rievocata  dallo  stesso  Tasso  nella  sua 
commedia  (cfr.  Intrichi  d'Amore,  atto  IV,  scena  7). 

38'^  trattato:  'tramato'. 


268  Edizioni  critiche 

dalle  sue  mani,  accioché  non  mi  vi  togliesse;  fu  destino,  fu 
volontà  che  per  voi  lasciassi  ogn'altro,  e  per  grand'amore 
troppo  ardissi,  è  vero,  lo  confesso,  ma  chi  può  in  tal  caso 
porre  il  freno  a  se  stesso?  S'inganna  chi  presume  in  un  a- 
mor  ardente  non  devenir  cieco,  e  privo  di  ragione.  Però  se 
errai,  errai  com'insensato,  e  fuori  di  me  stesso,  per  questo 
che  merito... 

OLINDA  Indarno,  Erminio,  cercate  consolarmi,  percioché  consola- 

tione  non  può  ricevere  un  animo  disperato.  So  ben  io, 
sfortunata,  che  se  hora  da  me  vi  partite,  la  partita  sarà  per 
più  non  rivederne.  Ah  Prencipe  altre  volte  humano,  e  pieto- 
so, perché  hora  contra  di  me  tanto  furore,  e  tanto  sdegno? 
Non  sai  che  solo  l'animo  villano  dura,  e  persiste  nell'ira?  Se 
tu  sentisti  una  minima  parte  del  dolore,  e  della  passione 
che  sente  il  cuor  mio,  non  so  come  potessi  soffrir  mai  di 
non  placarti,  di  non  soccorermi.  Son  pur  io  quella  che  po- 
co fa  tu  amavi,  e  tenevi  cara:  patirai  di  vedermi  in  tal  ma- 
niera tormentata?  Verrò  alla  presentia  tua,  e  mostrerotti  le 
mie  pene:  sentirai  come  mi  tormento,  queste  lacrime  solo 
saranno  bastanti  a  fartene  fede;  forse  un  sospiro,  un  sguar- 
do solo,  avrà  tanta  forza  che  ti  porterà  al  cuore  così  nuova 
pietà,  che  se  non  sarai  di  duro  marmo  o  nato  di  fiera  in- 
humana,  ti  sentirai  tutto  commosso,  e  intenerito.  Ma,  oimè, 
che  presumo?  Se  è  vero  che  tu  m'ami,  e  che  in  te  possano 
aver  luogo  i  miei  preghi,  altri  d'altra  maniera  sì,  ma  non 
questi  si  moveranno  già  mai,  anzi  per  esser  solo  in  amarmi, 
t'accresceran  voglia  di  toglierti  dinanzi  questo  povero  tuo 
rivale;  ma  se  non  m'ami,  come  penso  io,  che  uno  sguardo, 
un  sospiro,  mille  lacrime,  infinito  pianto,  e  dolor  estremo  ti 
possano  penetrar  il  cuore  indurato,  Prencipe  crudele! 

BARIGELLO  Presto,  slegate  il  Signor  Erminio!  Buone  nuove.  Signore: 
Sua  Eccellenza  ha  perdonato  a  l'uno  e  l'altro  di  voi,  et  anco 
a  Valerio;  andate  là  insieme,  che  con  gran  desiderio  séte 
aspettati.  Trovarete  chi  sarà  venuto  a  tempo  per  mutar  i 


I  Fidi  Acanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


269 


vostri  travagli  in  allegrezze.  Voi  venite  dentro,  ch'io  vo  a 

far  relassar^^°  Valerio. 
ERMINIO  Che  novità  è  questa?  Oh  Olinda,  io  son  fuor  di  me! 

OLINDA  Et  io  non  so  se  sogno  o  se  son  desta.  Che  ha  detto  il  Bari- 

geUo?  Non  so  se  l'ho  inteso  bene. 
ERMINIO  A  me  è  paruto  ch'abbia  detto  di  voler  andare  a  Liberar  Va- 

lerio. 
OLINDA  Ma    che    ha    voluto    inferire,    "l'esser    venuto    a    tempo 

d'allegrezza"?  Qualche  novità  ci  deve  essere. 
ERMINIO  Andiamo  da  Sua  Eccellenza,  che  certo  ci  deve  aver  fatto  la 

gratia. 
OLINDA  E  come,  se  non  ha  quasi  saputo  il  delitto?  Dubito,  e  non  so 

di  che. 
ERMINIO  Se  avesse  voluto  castigarci,  non  ci  avrebbe  lasciati  in  libertà. 

OLINDA  Non  potrebb'essere  o  capriccio  o  fintion  del  Prencipe,  per 

maggior  nostro  scherno? 
ERMINIO  Presto  ne  chiariremo.  Vediamo  quel  ch'è  di  Valerio,  e  tutti 

tre  di  qua  su  n'andremo  da  Sua  Eccellenza:  hoggi  potreb- 

bono  aver  fine  tante  miserie. 
OLINDA  Così  piaccia  a  chi  può,  ma  temo,  fin  ch'altro  non  si  vede. 


SCENA  UNDICEMA 
Alessandro,  Pancratio,  Farina,  Sambuco. 


ALESSANDRO  Di  gratia,  vecchio  mio,  andate  al  fatto  vostro,  e  non  tentate 

più  la  patienda. 
PANCRATIO    Che  vecchio  tuo?  Tanto  abbia  fiato  chi  lo  dice!  Prima  vor- 


FARINA 


rei  essere  un  scabeUaccio      d'un  scrittore 

un  chentolo  di  questa  razza! 

Che  ti  dissi  io?  Eccoli  in  contrasto. 


,  per  aver  pure 


^'^*'  relassar,  rilasciare. 

^^'  scabeUaccio:  sgabellacelo. 

'^2  scrittore:  nel  senso  di  'scrivano' 


270  Edizioni  critiche 

ALESSANDRO  In  somma,  che  volete  da  me? 

PANCRATIO  In  somma,  con  che  ragione  voi  altri  cortigiani  volete  impe- 
dire il  commercio  puttanesimo,  se  io  so  che  quante  leggi, 
digesti  o  rubriche  fèr  mai  Bartolo  o  Baldo  ,  non  lo  impe- 
discono loro. 

FARINA  (Non  vorrei  che  qualche  tempesta  intorbidasse  il  mio  bel 

tempo). 

ALESSANDRO  Séte  dunque  innamorato,  eh? 

PANCRATIO    Son  innamorato,  messer  sì. 

ALESSANDRO  Avete  altra  faccia  che  questa  che  portate? 

PANCRATIO    N'ho  un'altra,  che  somigHa  aUa  ma  quando  fai  l'amore. 

ALESSANDRO  Oh  bel  drudo,  oh  vago  amador  lascivo,  or  qual  sarebbe 
quell'ingrata  che  vedendo  lampeggiare  quei  begH  occhi 
ruggiadosi,  non  s'invaghisse  di  loro,  e  come  farfalla  non 
ardesse  in  quelle  fiamme  vive? 

FARINA  (Ci  vendicar©  io'''). 

ALESSANDRO  Deh,  che  vi  dovreste  vergognare:  un  huom  canuto  dell'età 
vostra  andar  dietro  a  gli  amori,  et  alle  gelosie  !  Oh  quanto 
fareste  meglio  attendere  ad  altro,  che  a  dar  sempre  materia 
alla  gente,  che  s'abbia  a  ridere  di  voi^'^. 

PANCR/\TIO  Son  Procuratore  perché  son  capace  della  ragione,  e  se  son 
canuto,  non  é  per  vecchiezza,  ma  perché  son  simile  alla 
carta,  per  troppo  smdiare,  e  se  la  gente  ride  di  me,  ride 
perché... va',  e  domandagliene! 


^^^  rubriche...  Baldo:  Bartolo  da  Sassoferrato  (1314-Perugia,  1357)  e  Baldo  degli  Ubaldi 
(Perugia  1320-Pavia  1400),  entrambi  notissimi  giureconsulti,  di  fama  proverbiale. 

^"^^  Ci  vendicarò  io:  'ci  penso  io,  interv^engo  io'  (ad  appianare  la  disputa  ed  evitare  fastidi). 

^'^'^  Deh...  gelosie:  cfr.  Parabosco,  1m  dantesca,  atto  1,  scena  2:  «(...)  et  se  ne  va  dietro  alli 
amori  et  alle  bagatelle  come  uno  giovane  di  disciotto  o  venti  anni». 

'^'^^  Oh  quanto. ..voi:  cfr.  Parabosco,  La  Fantesca,  atto  2,  scena  9:  «  DIONIGI  Yoi  fareste 
bene  a  starv^ene  a  casa  vostra,  con  vostra  moglie,  a  leggere  le  lettioni  a'  vostri  scolari.  \^oi 
non  credete  forse  ch'io  sapia  che  voi  siate,  non?  TERENTIO  E  voi  fareste  meglio  a  dispu- 
tare le  cause  sopra  il  palazzo,  et  procurare  di  mantare  la  vostra  figliuola,  che  anch'io  so  che 
séte  voi.». 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani  271 

FARINA  Signor  Alessandro,  il  Signor  Lelio  vi  manda  cercando  per 

tutto:  ci  son  nuove  grandi.  Andate  al  giardino  adesso,  che 
sentirete  di  Erminio,  e  di  Olinda  cose  non  mai  pensate. 

ALESSANDRO  Questa  tua  allegrezza  non  vuol  già  dire  che  sieno  morti. 

FARINA  Che  morti!  Vivono  allegri  e  contenti  quanto  posson  essere, 

et  hora  vanno  da  Sua  Eccellenza.  Fate  presto,  che  stupire- 
te. Signor  Pancratio,  buona  nuova:  il  Signor  Erminio  ha 
preso  moglie. 

PANCRATIO    Echi? 

FARINA  Una  giovine  Genovese,  che  sta  in  corte. 

PANCRATIO    Certo  Farina? 

FARINA  Certissimo.  Adesso  la  Signora  Almira  sarà  mtta  tutta  per  voi! 

PANCRATIO  Se  quest'è,  beato  te:  prima,  inter  vivos^'^'' ,  ti  voglio  accrescer 
di  salario  mezo  ducato  l'anno,  ti  voglio  rivestire  de  i  miei 
panni  vecchi,  ti  voglio  far  credentiero,  canavaro  ,  cuoco, 
e  maggiordom  di  casa  exclusive,  e  poi  quel  che  sarà  meglio, 
ti  voglio  insegnare  in  un  mese  tutto  quel  che  so  io;  post  mor- 
tem^^^  poi,  ti  voglio  lasciar  i  miei  Hbri,  e  le  mie  scritture,  con 
le  mie  pretensioni  '"  che  io  potessi  avere  dal  collegio  dei 
savi. 

FARINA  Non  tanto  carico!  A  me  basta  solo  che  conosciate  la  mia 

buona  fede,  del  restante  son  contento  d'ogni  vostra  ventu- 
ra, come  anco  di  quest'altra,  che  dicono  che  in  queste  noz- 
ze si  darà  a  voi  la  cura  delle  dame. 

PANCRATIO  Così  sia,  e  che  stia  sotto  la  mia  cura  la  mia  Signora,  ma  che 
n'è  di  lei? 

FARINA  L'ho  lasciata  adesso  che  aspettava  il  signor  Erminio  per  far 

partenza  da  lui,  perché  essend'hora  ammogliato  non  vuol 
più  prattica  sua. 

PANCRATIO    La  vorrà  egli  di  lei,  che  non  gli  basterà  la  moglie. 


■^'^^  inter  vivor.  in  vita  (letteralmente  'tra  i  vivi'). 

''^*  credentiero,  canavaro:  rispettivamente  chi  sopraintende  alla  dispensa,  e  il  cantiniere. 

^^'^  post  mortem:  dopo  la  morte. 

^''^^  pretensioni:  prerogative,  diritti,  previlegi. 


272  EdÌ2Ìoni  critiche 

SAMBUCO        Ah,  due  mogli  per  uno,  due  mogli  per  il  Signor  Erminio! 

Allegrezza,  allegrezza! 
PANCIL'VTIO    Oimè,  senti  s'è  vero! 
SAMBUCO        Nozze,  nozze!  Oh  ecco  il  mio  padron  vivo:  n'ha  detto  il 

vero  colui! 
FARINA  Non  vedete  chi  è?  Ah,  ah,  che  vai  mettendo  a  bando"*'". 

Sambuco? 
SAMBUCO        Non  ci  puoi  offerir*^"  tu.  Farina,  che  sono  stabilite. 
PANCRATIO    Che  vai  gridando  tu  di  due  mogli  per  il  Signor  Erminio? 
SAMBUCO        M'ha  detto  adesso  Stracco  stafflero  che  '1  Signor  Erminio 

ha  preso  per  moglie  una  di  corte. 
PANCRATIO    È  vero. 

SAMBUCO        E  un'altra  fuor  di  corte  ha  preso  per  marito  il  Signor  Er- 
minio: quante  mogli  son  queste? 
PANCRATIO    Non  può  star  così. 
FARINA  E  mi  maraviglio  di  voi,  io.  Dove  sei  stato  questa  notte, 

Sambuco,  che  non  t'abbiam  visto  più? 
SAMBUCO        Non  pratticarem  più  insieme  di  notte,  no:  di  notte  litica  il 

gufo  con  la  civetta     .  Per  adesso  ho  saputo  che  son  libero 

da  la  mala  ventura. 
FARINA  Sei  troppo  pauroso.  Quando  sarai  qui  col  nostro  Signor 

Patrone,  sarai  sempre  libero  da  ogni  bene. 
SAMBUCO        Non  dico  altramente  io,  ma  della  furia  passata  che  te  ne 

pare?  E  della  sententia?  Se  io  non  renuntiava  il  possesso  ad 

un  altro,  dove  sarei  adesso  io? 
PANCRATIO    Lasciam  andar  le  sententie  per  hora.  Ho  pensato  meglio 

per  te.  Sambuco. 
SAMBUCO        Che  non  sia  peggio! 


■*'"  mettendo  a  bando:  divulgando. 

■*'^2  ÌSlon  ci  puoi  offerir,  'tu  non  ti  puoi  intromettere'. 

■*"^  di  notte...  civetta:  'durante  la  notte  si  contendono  le  prede  i  rapaci  notturni'  (gli  uccelli 
ven  e  propri,  ritenuti  anche  del  malaugurio,  o,  figurativamente,  quelle  persone  che  agisco- 
no da  predatori).  Per  la  coppia  j«/;  e  civette,  cfr.  Ariosto,  Cinque  Canti,  II,  CXXII,  v.  5:  «fug- 
gono da'  nidi  lor  guffi  e  civette»;  Tassoni,  ha  Secchia  rapita,  IX,  57:  «uscirono  i  gufi  e  le  ci- 
vette», ecc. 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


273 


PANCRATIO    Ti  voglio  mettere  in  corte... 

SAMBUCO        Oh! 

PANCRATIO    ...per  paggio  di  Sua  Eccellentia. 

SAMBUCO        Oh  per  merito  della  Signoria  vostra! 

FARINA  Sì  si,  con  l'occasione  delle  nozze.  Ma  voi  sarete  conduttie- 

ro  di  dame,  Sambuco  paggio,  et  io  che  sarò? 
PANCRATIO  Non  sei  huomo  da  corte  tu.  Saliamo  in  palazzo  a  vedere  se  '1 

Signor  Prencipe  è  tornato,  che  daremo  speditione  a  questi 

offici,  e  poi  andremo  a  dare  una  occhiatina  alla  Signora 

Almira.  Andiam,  Farina. 
FARINA  Seguite,  Signor  paggio. 

SAMBUCO        Piano,  che  bisognerà  mostrarmi  prima  al  Signor  Prencipe. 

Il  Signor  Sambuco,  paggio  da  carriola  ^    di  Sua  Eccellenza 

eccellentissima. 


SCENA  DUODECIMA 
Alidoro,  Valerio,  Manfredo. 


ALIDORO 
VALERIO 


ALIDORO 


VALERIO 
ALIDORO 


Ringratiamo  Dio,  che  le  cose  hanno  avuto  felicissimo  fine. 
Così  è  piacciuto  alla  mia  buona  sorte,  e  quando  Vostra  Si- 
gnoria intenderà  megHo  come  è  seguito  il  fatto,  credo  che 
non  resterà  di  me  male  edificata     . 

Così  sia  per  giugnere  al  colmo  delle  mie  allegrezze,  e  non 
passeranno  due  hore  che  mi  racconterai  ogni  cosa  minu- 
tamente. Il  mio  Signor  Manfredo  dov'è? 
Eccolo  appunto. 

Signore,  l'obHgo  che  tengo  a  vostra  Signoria  e  terrò  sempre 
mentre  io  viverò,  è  grandissimo,  e  cercherò  nel  rimanente 
di  mia  vita  aver  occasione  di  poter  mostrarle  quest'animo 
svisceratissimo  delle  molte  cortesie,  e  infiniti  meriti  suoi. 


■♦"^^tì^/o  da  carriola:  forse  nel  senso  di  'paggio  destinato  ai  lavori  più  umili'. 

■"'^  male  edificata:  'impressionata  negativamente'  o,  più  semplicemente,  'scontenta'. 


274 


Edizioni  critiche 


MANFREDO 


ALIDORO 


VALERIO 


ALIDORO 
VALERIO 


MANFREDO 

ALIDORO 

VALERIO 


Signore,  l'obUgo  si  deve  tenere  a  sua  Eccellenza  per  sì  no- 
bile e  generosa  risolutione,  anzi  di  più,  dopo  che  madonna 
Soffronia  le  ha  scoperto  questo  caso,  ho  conosciuto  in 
quell'animo  generoso  un  non  so  che  di  tenerezza,  e  poco 
meno  ch'io  ce  l'ho  veduta  lagrimare;  non  so  se  voi  l'avete 
osservato. 

E  con  che  dolcezza  poi,  ha  voluto  che  alla  presentia  sua  si 
abracciano,  si  baciano,  e  di  nuovo  si  diano  la  fede  di  marito 
e  moglie.  Insomma,  dov'è  la  nobiltà  è  anco  perdono,  e  l'ira 

1  1  4CI6 

in  quei  cuori  suol  esser  sempre  breve     . 
Signore,  saliamo  in  palazzo,  che  ho  lunga  istoria  da  raccon- 
tarvi, e  grandissimo  desiderio  di  spedirmi  '  ,  per  evacuar 
l'animo  mio  d'ogni  amarezza  passata  ,  e  far  in  tutto  luogo 
alle  presenti  dolcezze. 

Et  io  voglio  godermi  meglio  la  presenza  di  Olinda  mia.  Oh 
figliuola  cara! 

Andiamo  che  '1  Signor  Prencipe  tornerà  a  palazzo,  e  vorrà 
di  nuovo  parlare  con  Vostra  Signoria  et  io  non  avrò  poi 
tempo. 

Trattiam  di  nozze  adesso,  e  non  d'altro.  Entriamo. 
Come  pare  a  Vostra  Signoria. 
Ha  ragione  il  Signor  Manfredo.  A  nozze,  a  nozze! 


SCENA  DECIMATERZA 
Erminio,  LeHo,  Almira,  Concordia. 

ERMINIO  Gioisco  per  certo,  e  resto  tanto  sodisfatto  della  sincerità 

del  bell'animo  vostro,  che  questo  è  il  compimento  della 
mia  felicità,  et  assicuratevi  pure  che  il  simile  avrei  fatt'io 
con  LeHo,  che  Lelio  fa  hora  con  Erminio. 


^"^  Cfr.  Gonzaga,  Fidamante,  XXIX,  116. 
"*"^  spedirmi:  'liberarmi'. 


/  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


275 


LELIO 


ERMINIO 


LELIO 


ERMINIO 


ALMIRA 
CONCORDIA 

LELIO 

ALMIRA 


ERMINIO 


ALMIRA 


Non  niego  di  non  avere  con  qualche  passione  amato  Olin- 
da,  solo  per  desiderio  che  mi  fosse  moglie,  e  questo  per 
non  saper  io  che  prima  fosse  vostra,  ma  hora  che  sono  in- 
formato del  tutto,  vorrei  potere  né  pur  col  pensiero  avervi 
dato  un  minimo  disgusto. 

Non  vi  pentite  d'esser  stato  cagion  voi  delle  mie  conten- 
tezze, poiché  dalle  vostre  operationi,  per  il  fortunato  acci- 
dente occorso  fra  voi  et  OHnda,  son  venuto  a  questo  Lieto 
e  desideratissimo  fine;  cosi  ha  detto  il  Signor  Prencipe: 
v'ha  perdonato,  et  è  soddisfatto. 

Et  io  sodisfattissimo  per  voi,  poiché  tal  fine  meritava  un 
fido,  e  costante  amore,  né  altro  premio  richiedeva  che  que- 
sto ottenuto. 

Non  già  per  lo  poco  giudicio  mio,  che  hora  me  n'avvedo, 
et  avrò  sempre  eterno  pentimento  di  non  aver  mai  voluto 
scoprirmi  al  mio  Signore,  dal  quale  tante  gratie  ho  ricevute: 
ingrato,  disamorevole  ch'io  son  stato! 
Eccolo  appunto  col  Signor  LeHo. 

Fate  come  la  gallina:  passate  da  banda  il  gallo,  se  intrica 
l'ala  destra  fra  i  piedi,  abbiateci  fede  '  . 
Grande  escusatione  d'ogni  fallo  portan  seco  le  passioni 
d'amore. 

Signor  Erminio,  non  vengo  per  disturbarvi,  ma  solo  per 
domandarvi  in  tante  vostre  felicità  una  minima  gratia,  della 
quale,  sì  bene  sono  indegna,  la  molta  humanità,  e  gentilez- 
za vostra  supereranno  i  pochi  meriti  miei. 
Ancorché  per  il  passato  abbia  dato  qualche  disgusto  alla 
Signora  Alrrdra,  tuttawia  per  l'avvenire  non  le  mancherò 
mai. 

Questa  sarà,  che  vi  degniate,  o  hoggi  o  domani,  di  arrivare 
fino  a  casa  mia,  che  impetrato  ch'avrò  perdono  della  offesa 
che  ho  pensato  farvi  questa  notte,  vi  farò  poi  sapere  che 


408  Paté...  fede:  'aggirate  l'ostacolo,  date  retta  a  me'. 


276 


Edizioni  critiche 


CONCORDIA 
ERMINIO 


LELIO 
ALMIRA 

ERMINIO 

LELIO 
ERMINIO 

LELIO 

ERMINIO 


quella  è  stata  cagione  delle  vostre  contentezze,  onde  per 
voi  ne  resto  ancor  io  contenta  e  sodisfatta. 
Et  io  ve  ne  fo  fede,  ma  rimuneratela  d'un  salvo  condotto 
fino  all'anticamera,  che  questo  gli  basta. 
Poca  offesa  può  venire  da  chi  ama  di  cuore,  e  se  pur  viene, 
la  segue  presto  il  pentimento:  come  si  sia  vi  perdono,  e  vi 
riamo,   et  avrò   caro   d'intendere  il  successo     ,   accioché 
maggiormente  io  ve  ne  resti  sempre  obHgato. 
A  casa  vi  desidera  la  Signora  Almira,  perché  più  commo- 
damente  la  possiate  ascoltare. 

Altro  non  gU  domando,  che  del  restante  ho  già  posto 
l'animo  in  pace.  Bacio  le  mani  delle  Signorie  vostre.  Con- 
cordia, andiamo. 

Et  io  m'inchino  a  quella  bella  gratia,  madre  generativa  della 
vostra  disgrada.  Il  ciel  vi  scampi  l'uno  e  l'altro  dal  Polacco, 
e  dal  Francese   ^ 
Ah,  ah,  sentite  saluti! 

Buoni  se  s'ottenessero,  ah,  ah!  Orsù,  Signor  LeHo,  io  salirò 
in  palazzo,  che  debbo  esser  aspettato.  Venite  ancor  voi. 
Se  non  vi  ho  da  servire  a  qualche  cosa,  andrò  a  spedire  un 
mio  negocio,  poi  verrò  a  rivedervi. 

Andate,  e  tornate  presto,  e  siate  meco  a  partecipare  delle 
mie  contentezze. 


"'"'•'  il  successo:  l'accaduto. 

"""  dal  Polacco,  e  dal  Francese:  la  sifilide,  la  malattia  venerea  più  diffiisa  all'epoca;  nella  no- 
stra penisola  venne  denominata  malfrancese  in  quanto  se  ne  attribuì  la  comparsa  alla  discesa 
dell'esercito  di  Carlo  VII!  nel  1495  ma,  diffondendosi  m  tutta  Europa,  ogni  terntono  ne 
imputò  l'origine  ai  territori  limitrofi  (qumdi  compare  anche  come  morbo  polacco,  scita,  oltre- 
montano...). 


I  Fidi  Amanti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


277 


SCENA  DECIMAQUARTA 

Erminio,  Soffronia,  Olinda,  Valerio,  Sambuco. 


ERMINIO 

SOFFRONIA 

OLINDA 

ERMINIO 

SOFFRONIA 


ERMINIO 
SOFFRONIA 

OLINDA 
SOFFRONIA 


Ma  perché  non  vo  alla  volta  d'Olinda  mia,  che  senza  me 
non  vorrà  forse  venire?  Chi  me  lo  vieta  hora?  Oh  eccola! 
Oh  felice  giorno,  oh  dolci  mie  pene! 

Tu  hai  pur  il  buon  passo,  figliuola!  Piano,  ch'arriverai  a 
tempo  al  tuo  sposo.  Uh  che  fede,  ch'è  ancor  fra  voi! 
Eccolo,  che  ci  aspetta.  Signor  Erminio,  quanto  è  che  vi 
mando  cercando? 

Come?  Poco  è  ch'io  mi  partì  da  voi  per  seguir  vostro  pa- 
dre, e  credo  che  sia  dentro  col  Signor  Manfredo  e  che 
v'aspettino. 

Signor  Erminio,  così  si  scherza  eh?  Aveva  io  forse  perduto 
il  sonno,  che  m'avete  dato  il  rimedio  per  dormire?  Rubba- 
tore  che  voi  séte,  che  non  ci  voleva  altra  inventione  per  to- 
gliermi così  cara  cosa! 

Eccovi  racquistato  il  vostro,  e  prigione  volontario  chi  ve  lo 
tolse:  che  ne  farete,  su? 

Ma  con  OHnda  la  voglio,  che  con  sì  bel  modo  aggiunse  il 
sonnifero  neU'elettuario      che  soglio  pigliar  la  sera  per  lo 
stomaco.  Uh  poverina  me,  chi  l'avesse  mai  pensato? 
Che  pensaste  aUhora,  che  non  mi  trovaste  né  in  letto,  né  in 
camera?  Dite,  di  gratia. 

Che  me  l'avessi  attaccata"*'^,  come  fu,  e  subito  mi  risolvei  di 
andare  dal  Signor  Prencipe  e  dirH  l'inganno,  e  scoprirli 
l'amor  vostro  antico  che  voi,  Olinda,  mi  conferiste,  accio- 
ché  scusasse  me,  che  essendo  voi  d'accordo,  né  io  né  miUe 
altri  se  ne  sarebbono  potuti  guardar  mai,  e  che  non  aveva 
avuto  manco  tempo  d'avisarne  Sua  Eccelenza,  la  quale  mi 


^"  elettuario:  preparato  farmaceutico  semidenso,  composto  da  un  miscuglio  di  molti 
medicamenti  in  polvere,  impastati  con  miele  e  sciroppo. 
■"^  me  l'avessi  attaccata:  'che  mi  avessi  raggirata*. 


278 


Edizioni  critiche 


credette  perché  poco  dopo  sopravenne  vostro  padre  e  si 
verificò  il  tutto. 

ERIMINIO  Era  tempo  ch'avessero  fine  le  nostre  persecutioni,  ma  se 

troppo  ardire  è  stato  il  nostro  di  così  trattarvi,  potete  a  vo- 
stra posta  darci  castigo  meritevole,  perché  dalle  vostre 
provisioni  dependeranno  le  nostre  contentezze. 

SOFFRONIA  Avete  ragione,  e  questa  sera  mi  contento  di  darle  principio, 
e  poi  seguirle  di  mano  in  mano. 

VALERIO  Senza  dubbio  o  paggio  o  camerier  sarai. 

SAMBUCO  Non  accetto  quel  cameriero  perché  sarei  o  di  dishonore,  o 
fiior  delle  mura;  mi  basta  esser  paggio  e  tirar  la  calzetta  a 
Sua  Eccellenza. 

VALERIO  Questo  non  ti  mancherà.  Ecco  il  Signor  Erminio,  e  la  spo- 

sa: dà  loro  il  buon  prò. 

SAMBUCO  Fammi  luogo.  Buonanotte  quando  sarà,  buon  dì,  se  non 
sarà  di  notte,  e  buona  sera,  se  fosse  fi:a  dì  e  notte.  Maschio 
voi,  maschia  la  mamma,  maschio  un  figliuolo,  e  maschio 
un  paggio!  E  quel  paggio  sarò  io,  per  gratia  de  la  Signoria 
vostra,  e  qui  de  la  Signora  sposa. 

ERMINIO  Oh  molto  volontieri.  Sambuco  nostro:  siamo  amici,  amici 

vecchi  fia  noi. 

VALERIO  Signori,  venite,  che  vostro  padre  vi  aspetta  e  non  può  star 

più  senza  voi.  Oh  che  giubilo  che  sente!  Venite  c'hor  hora 
il  Signor  Prencipe  torna  a  palazzo. 

SAMBUCO  Adesso  venimo  tutti,  e  volem  ballare  per  allegrezza  un  ca- 
nario     su  la  stoppa. 


""^  tirar  la  calt^etta:  la  caletta  è  la  calza  di  seta,  lana,  feltro...,  finemente  lavorata  ed  elegan- 
te. A  Sambuco  quindi  basta  essere  paggio  di  Sua  Eccellenza  e  servirlo  nelle  cose  più  mode- 
ste. Scarterei  infatti  il  significato  veneziano  della  locuzione  tirar  su  le  calt^te  'fare  la  spia'  o 
'far  confessare'  (cfr.  Lurati,  op.  cit.,  p.  113),  come  anche  l'accezione  più  nota  di  tirar  la  calt^a 
con  il  significato  di  'morire'  (cfr.  anche  Ageno,  Studi  Lessicali,  op.  cit.,  p.  432),  non  consoni 
né  al  contesto  né  al  personaggio. 

■*'"*  un  canario:  danza  spagnola,  originaria  delle  Canarie,  molto  in  voga  nel  XM  secolo,  il 
cui  ntmo  è  simile  a  quello  della  giga. 


I  Fidi  A.manti.  Comedia  del  Signor  Francesco  Podiani 


279 


OLINDA  Questo  sì.  Saliamo,  che  Sua  Eccellenza  non  ci  mandi  cer- 

cando. 

SOFFRONIA  Può  indugiar  poco  a  venire:  appunto  quando  noi  uscimmo 
del  giardino,  egli  era  in  ordine  per  tornare  a  palazzo,  e  vi  so 
dire  che  vorrà  che  si  facciano  con  queste  nozze  feste 
d'importanza. 

SAMBUCO  Di  gratia,  sbrighiamo  il  mio  servitio.  Oh  Valerio,  non  ho  io 
da  esser  messo  a  partito     ? 

VALERIO  Sì. 

SAMBUCO  Orsù  dunque,  qui  il  Signor  Erminio  e  la  Signora  Olinda 
metteranno  per  me  nella  bossola  una  fava  bianca    '. 

ERMINIO  Ah,  ah,  quanto  parrà  a  Sambuco!  Passate  OHnda.  Valerio, 

saliamo,  ma  invita  questi  Signori      alle  nozze. 

SAMBUCO  Signor  sì,  e  poi  verremo  a  corteggiare.  Oh  Valerio,  hai  tu 
mai  veduto  una  statua  d'uno  che  sta  col  coUo  storto,  e  tie- 
ne un  candeHero  sul  naso? 

VALERIO  Sì,  ma  non  me  ne  ricordo  dove. 

SAMBUCO  Vedilo  là'*'*^,  che  s'ha  levato  il  candeliero,  et  è  venuto  alla 
comedia:  chiamalo,  di  gratia. 

VALERIO  Che  ne  vuoi  fare? 

SAMBUCO  Lo  mostraremo  alla  sposa  e  ce  la  farem  ridere,  e  poi  a  ban- 
chetto gli  farem  portare  i  piatti  in  tavola  sul  naso. 

VALERIO  Hai  ragione.  Va'  che  bora  vengo. 

Signori  e  Signore,  di  buona  voglia  v'accetteremo  a  queste 
nozze,  perché  avendosi  a  fare  in  corte,  quanti  più  sarete 
tanto  maggiore  sarà  il  piacere  che  ne  sentirà  il  Signor  Pren- 
cipe,  e  '1  favore  che  n'avranno  i  due  sposi.  Quando  poi  il 


"*'^  messo  a  partito:  'messo  ad  eseguire  il  mio  compito  di  paggio'. 

■♦'^'  metteranno...  bianca:  allusione  agli  antichi  metodi  di  votazione  nei  quali,  attraverso  pal- 
lottoline dipinte  di  bianco  o  di  nero  si  espnmeva  il  proprio  dissenso  o  consenso  (e  da  pre- 
cisare che,  se  generalmente  la  fava  bianca  indicava  opposizione,  qui  vale  forse  il  contrario). 

"*'^  questi  Signori:  è  riferito  con  ogni  probabilità  agli  spettatori,  coinvolti  in  prima  persona 
nel  finale  della  rappresentazione 

■*"*  Vedilo  là.  si  può  ipotizzare  che  a  questo  punto  uno  degli  attori  (o  una  semplice 
comparsa)  apparisse  effettivamente  tra  il  pubblico  e  che  tale  atteggiamento  assumesse  un 
significato  preciso,  oggi  purtroppo  enigmatico. 


280  Edizioni  critiche 

Signor  Alidoro  avrà  impetrato  la  remis sione "*^^  in  Genova 
per  il  Signor  Erminio,  e  sarà  per  tornar  con  essi,  lo  saprete 
ancora  voi,  accioché  volendo  venire,  possiate  trovarla  a 
duplicate  nozze.  Qui  per  hora  non  si  farà  altro;  se  la  come- 
dia  vi  è  piaciuta,  mostratene  segno. 

IL  FINE. 


■*'^  remissione:  l'annullamento  della  condanna. 


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Los  Angeles 

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Parole  allo  Specchio.  Studi  e  testi 

Dipartimento  di  Italianistica 

Università  di  Parma 


Il  lavoro  approfondisce  un  particolare  filone  del  teatro  comico  rinascimentale, 
quello  della  Commedia  patetica  che,  pur  conservando  e  sfruttando  gli  aspetti  topici 
del  genere,  tradisce  al  contempo  un'intima  aspirazione  al  registro  tragico,  con  il  ri- 
sultato di  un  sensibile  innalzamento  di  tono,  destinato  a  sfumare  da  lì  a  poco  nella 
Pastorale  e  nella  Tragedia  a  lieto  fine  di  impronta  barocca.  Le  edizioni  critiche  de  // 
Pellegrino  di  Girolamo  Parabosco  (1552)  e  de  /  ¥  uh  Amanti  di  Francesco  Podiani 
(1598)  sono  precedute  da  un'introduzione  di  natura  teorico-descrittiva  tesa  a  mo- 
strare come  i  due  testi,  nonostante  l'appartenenza  ad  aree  culturali  e  geografiche  di- 
stinte (Venezia  e  Perugia),  siano  unificati  dal  comune  denominatore  del  pathos  tra- 
gico e  quindi  proposti  come  modelli  particolarmente  significativi  del  patetico  in 
versi  e  in  prosa.  L'indagine  delle  due  pièces,  attraverso  i  riscontri  con  il  consueto  re- 
pertorio comico  e,  soprattutto,  mediante  gli  stretti  legami  con  opere  appartenenti  a 
generi  diversi,  viene  dunque  a  costituire  un  ulteriore  importante  tassello  nello  stu- 
dio della  commedia  rinascimentale. 


Antonella  Lonimi  (Fiorenzuola  d'Arda  (Pc)  1978),  laureata  in  Lettere  Moderne 
presso  il  Dipartimento  di  Italianistica  dell'Università  degli  Studi  di  Parma  con  tesi 
in  Letteratura  italiana  del  Rinascimento,  ha  conseguito  presso  il  medesimo  ateneo  il 
Dottorato  di  Ricerca  in  Studi  Filosofici  e  Scienze  della  Letteratura  nel  marzo  2007. 
Nell'ambito  di  studi  sul  teatro  rinascimentale  ha  curato  anche  l'edizione  critica  de 
ha  dantesca  di  Girolamo  Parabosco  (Parma,  Battei,  2005). 


ISBN-978-88-400-1 256-8 


€  14,00 


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