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Full text of "Esposizione critica della Divina Commedia; opera postuma"

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FRANCESCO  DE  SANCTIS 


Esposizione  critica 
della  Divina  Commedia 


OPERA  POSTUMA 
EDITA  A  CURA  DI 


GERARDO    LAURI N  I 


NAPOLI 
ALBERTO   MORANO,   EDITORE 

Via  Domenico  Capitelli,  20  e  28 
1921 


PROPRIETÀ  LETTERARIA 


Stabilimento  Tip.  Silvio  Morano  -  S.  Sebastiano  48  p.  p.  -  Napoli 


A  GIUSTINO  FORTUNATO 


Mio  caro  Giustino, 

Voglio  dedicare  a  te  questo  libro,  perchè  tu 
fosti  uno  de'  migliori  alunni  di  Francesco  De 
Sanclis,  il  quale  negli  ultimi  anni  del  viver  suo 
mi  parlava  sovente  del  tuo  meraviglioso  inge- 
gno, della  tua  svariata  e  solida  cultura  e  della 
tua  squisita  e  rara  bontà. 

«  Libros  oportet  esse  thesauros,  non  libros  », 
sentenziò  Dione  Cassio.  E  questo  è  davvero  un 
inestimabile  tesoro,  che,  rimasto  per  lungo  tempo 
nascosto,  reputo  opportuno  dare  alla  luce  in 
occasione  delle  feste  parentali  di  Dante. 

Ugo  Foscolo,  nel  settembre  del  1796,  in  un 
suo  Piano  di  studi,  osservava  sagacemente  che 
i  critici  debbono  avere  «  gusto  innato  di  anima, 
senza  cui  tutti  i  libri  di  critica  sono  nulli.  ».  E 
tal  gusto  ebbe  appunto  il  De  Sanctis  nel  giudi- 
care non  pure  gli  scrittori  italiani,  sì  anche  gli 
stranieri.  Ma  la  vasta  ala  del  suo  genio  critico 
si  levò  e  spaziò  principalmente  nelV  interpreta- 
zione estetica  e  filoso  fica  della   Divina  Coni- 


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media.  Niuno  prima  e  meglio  di  lui,  salvo  for- 
se in  parie  il  cantar  de'  Sepolcri,  seppe  pe- 
netrare nel  pensiero  dantesco,  immedesimando- 
visi,  conglutinandosi,  per  cosi  dire,  con  esso  e 
facendolo  raggiare  della  sua  vera  luce. 

Il  primo  lavoro  del  De  Sanctis  intorno  al 
poema  sacro  fu  certamente  questo,  che  conservo 
autografo.  Lo  compose  nel  suo  esilio  a  Torino. 
Da  esso  poi  desunse  le  lezioni  eh'  egli  fece  nella 
sala  di  S.  Francesco  da  Paola  di  quella  città, 
delle  quali  lungamente  parlai  nelV intraduzione 
al  suo  saggio  inedito  su  Beatrice  (1),  il  capitolo 
dantesco  della  sua  Storia  della  letteratura  e 
i  suoi  saggi  su  Ugolino,  su  Francesca  da  Rimini, 
su  Farinata  e  su  Pier  delle  Vigne. 

Ho  duralo  grandissima  fatica  a  decifrare  il 
manoscritto,  essendo  qua  e  là  sbiadito  e  in  qual- 
che parte  addirittura  obliteralo  dagli  oltraggi 
del  tempo.  L' ho  mondato  inoltre  dalle  locuzioni 
arcaiche  ond'  è  rinzeppato,  reminiscenze  della 
scuola  purista  del  Puoti,  alla  cui  grammatica 
circa  quindici  anni  innanzi  il  De  Sanctis  aveva 
collaborato  insieme  con  Leopoldo  Rodino  e  con 
altri  (2);  reminiscenze  dalle  quali  in  progresso  di 


(1)  Vedi  F.  De  Sanctis,  Beatrice,  saggio  inedito  a  cura  di  G.  Lau- 
rini. Napoli,  A.  Morano,  editore,  1914. 

(2)  Ecco  in  qual  modo  gonfio  e  grottesco  il  buon  marchese  Puoti 
scrisse  dell'aiuto  datogli  dal  De  Sanctis  : 

"  Ancora  tra'  giovani,  che  un  giorno  furono  miei  scolari,  essendo 
alcuni  che  onoratamente  e  con  molta  lode  ora  insegnano  la  lin- 
gua  e   la   toscana  eloquenza,    del  costoro   aiuto,  che  con   grande 


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tempo  si  sciolse,  dando  al  suo  stile  atteggiamenti 
più  semplici,  più  agili,  più  disinvolti,  più  con- 
formi, insomma,  air  uso  moderno. 

Io  ricordo,  caro  Giustino,  la  magnifica  com- 
memorazione che  tu  facesti  del  De  Sanctis  alla 
Camera  dei  deputati  nella  tornata  del  22  gen- 
naio ÌHHk.  Ben  dicesti  eh'  egli,  «  critico  e  lette- 
rato, esercitò  in  Italia  un'azione  non  inferiore 
a  (juella  che  il  Lessing  in  Germania,  il  Macaulay 
in  Inghilterra,  il  Sainte-Beuve  in  Francia  ». 
Meglio  ancora  dicesti  che  fu  «  l'educatore  po- 
litico dei  giovani  d'una  gran  parte  d'Italia,  in 
mezzo  ai  quali  egli  visse  come  nel  suo  universo, 
e  che  ebbe  cari  come  la  luce  dell'anima  sua,  ed 
ai  quali  insegnò,  con  la  parola,  con  lo  scritto  e 
con  l'esempio,  nella  scuola,  nella  stampa  e  nelle 
associazioni,  quanti  fossero  ormai,  e  verso  i 
maggiori  e  verso  i  futuri,  i  loro  doveri  di  liberi 
onesti  cittadini  ».  E,  poiché  sin  d'  allora  co- 
minciavano   a    vedersi    i  prodromi  della  deca- 


amorevolezza  vollero  porgermi,  molto  sonomi  giovato.  Ed  essendo 
essi  ^ià  assai  intendenti  e  pratichi  delle  cose  della  favella,  ed  a 
fanciulli  insegnando,  ed  a  giovani  e  donzelle  ancora,  meglio  che 
altri  i  difetti  hau  potuto  scorger  del  libro,  e  di  non  poca  utilità 
mi  sono  stati  in  correggerli.  11  parche  <li  bassezza  d'animo  potrei 
esser  tassato,  se  i  nomi  almeno  di  Leopoldo  Rodino  e  di  France- 
sco De  Sanctis  io  qui  non  riferissi,  i  quali  pel  buon  giudizio  e 
per  la  grande  diligenza  adoperata  in  questo  lavoro  nuova  e  più 
certa  prova  mi  lian  dato  del  loro  valore  e  dell'amor  grande  che 
mi  portano  ,,. 

Vedi  la  Prefazione  posta  innanzi  alle  Regole  elementari  della 
lingua  italiana  compilate  nello  studio  di  Hasilio  Puoti,  decimaprima 
edizione.  Napoli,  libreria  e  tipografia  simoniana,  1841. 


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(lenza  e  della  corruttela  politica ,  molto  a  pro- 
posito citasti  nella  fine  del  tuo  discorso  queste 
sue  auree  e  memorabili  parole  :  «  solo  la  di- 
gnità è  la  chiave  della  vita,  e  l'onestà  è  la 
prima  qualità  dell'uomo  politico  ».  Se  si  par- 
la oggigiorno  così  a  certa  gentucola  nuova  do- 
tata di  raffinatissima  astuzia  e  di  incommen- 
surabile ipocrisia,  cinica  schernitrice  di  ogni  no- 
bile idea,  di  ogni  gentile  sentimento,  pensosa  sol- 
tanto della  propria  sfrenata  ambizione  e  del 
«  proprio  particulare  »,  come  l'uomo  del  Guic- 
ciardini, si  risica  di  passare  per  vittime  di  una 
puerile  ingenuità.  Bella  ed  amabile  e  santa  in- 
genuità, che,  irrisa  in  ogni  tempo  di  scadimento 
morale,  politico  e  sociale,  è  sommamente  ap- 
prezzata e  glorificata  quando  la  parte  divina 
del  genere  umano  trionfa  della  parte  bestiale  ! 
Ricordo  anche  che  in  una  tua  lettera,  scrit- 
tami sei  anni  or  sono,  chiamasti  il  De  Sanctis 
«  i7  più  potente  intelletto  del  mezzogiorno  d'I- 
talia ».  Ah,  si,  egli  fu  tale  senza  alcun  dubbio. 
Ma  questo  benedetto  mezzogiorno,  che  pur  tanto 
amiamo,  «  fecondo  di  grandi  ingegni  »,  come 
lo  defini  Niccolò  Tommaseo  (1),  —  mi  rincresce 
oltremodo  di  dirlo  —  ha  quasi  sempre  tenuto 
in  poco  conto  gli  uomini  che  più  lo  hanno  ono- 
rato con  la  cultura,  con  l'integrità  de'  costumi  e 


(1)  Vedi  N.  Tommaseo,  Educazione  dell'Italiano,  p.  100.  Firenze, 
G.  Barbèra,  editore,  1905. 


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con  l  altezza  dell'animo.  Gli  è  che  noi  siamo  una 
razza  troppo  ostinata,  anzi  troppo  indurita  nel 
sesto  peccato  mortale  e  in  certi  altri  peccatacci, 
sopravvivenze  delle  peggiori  dominazioni  bar- 
bariche, massime  di  quella  bizantina,  che  ci  fan- 
no beccare  l'un  con  l'altro  come  i  polli  di  Ren- 
zo, ed  oscurano  le  nostre  non  poche  virtù.  La 
fama  di  molti  nostri  illustri  conterranei  ci  è  ve- 
nuta pur  troppo  dal  di  fuori.  Esempio,  per  tacer 
d'  altri,  il  Vico,  che,  come  ben  sai,  vissuto  po- 
vero e  ignorato  nella  sua  città  natia,  ci  fu  fatto 
conoscere  ed  apprezzare  dagli  stranieri.  Il  De 
Sanctis,  se  non  fosse  andato  a  insegnare  nel  Poli- 
tecnico di  Zurigo,  dove  conobbe  Wagner,  Marx, 
Vischer,  Mommsen,  Herweg,  Kókli,  Flocon,  Sue, 
Araqo,  Dufraisse,  Challemel-Lacour,  Charras, 
Cherbuliez,  che  tanto  lo  stimarono  e  lo  lodarono 
nella  stampa  estera,  specialmente  dopo  avere 
udito  le  sue  conferenze  sul  Petrarca,  forse  sa- 
rebbe stato  sommerso  nei  più  profondi  gorghi 
lelèi.  Esagero?  Non  mi  pare,  visto  e  considerato 
che  pochi  anni  dopo  la  sua  morte  furon  pro- 
prio alcuni  del  mezzogiorno,  non  privi  peraltro 
di  viva  intelligenza  né  di  buoni  studi ,  quelli 
che  più  tentarono  di  scolorare,  o  meglio,  di  a- 
duggiare  le  sue  opere  geniali  per  tener  bordone 
a  certe  ingiuste  osservazioni  che  vi  aveva  fatto 
su  il  Carducci,  poeta  eminente,  è  vero,  forte  cri- 
tico erudito,  è  pur  vero  ;  ma,  con  buona  pace 
de'  suoi  fanatici  adoratori,  critico  estetico  men 


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che  mediocre,  come  ne  posson  far  fede  i  suoi 
contraddilorii  giudizii  sul  (Unisti,  rilevali  con 
molta  delicatezza  da  quell'elegante  scrittore  at- 
tico, che  è  il  nostro  illustre  e  simpatico  amico 
Ferdinando  Martini  (1). 

Benedetto  Croce  col  suo  sottilissimo  acume  e 
con  la  sua  incomparabile  dialettica  ed  io  con 
l'amor  filiale  che  porto  e  porterò  al  De  Sanctis 
sino  alV  ultimo  de'  giorni  miei  le  difendemmo 
strenuamente  e  trionfalmente. 

Apprendano  i  giovani,  non  già  dai  commen- 
tatori e  glossatori  pedanti,  che  il  Mazzini  chiama 
«  spiluccatori  di  sillabe  »,  ma  dal  presente  volume 
il  vero  modo  di  studiare  ed  illustrare  il  poema 
dantesco  :  poema  eterno,  perchè  eterne  sono  le 
passioni  umane  in  esso  scolpite;  e  però,  oltre 
che  eterno,  universale. 

E  tu,  cuor  de'  cuori,  accogli  questa  dedica 
con  quella  compiacenza  medesima,  con  la  quale 
avresti  accolto  una  visita  di  Francesco  De  Sanc- 
tis, sul  cui  sepolcro  verdeggia  un  lauro  immor- 
tale che  nessuna  mano  sacrilega  potrà  sfiondare. 

Vale  !  e  sii  sempre  memore  di  me,  che  im- 
mensamente ti  stimo  e  ardentemente  ti  amo. 

Capo  d'anno  1921. 

Gerardo  Laurini. 


(1)  Vedi  Ferdinando  Martini,  Sintpaiie  (Studi  e  Ricordi..  Firenze 
R.  Bemporad  e  figlio,  librai-editori,  1909. 


I. 

IL  SUBBIETTO  DELLA  DIVINA  COMMEDIA. 


Il  subbietto  della  Divina  Commedia  è  laN 
storia  finale  della  umanità  ;  è,  per  parlare 
poeticamente,  lo  scioglimento  e  la  catastrofe, 
il  quinto  atto  del  dramma  umano,  nel  quale 
ricompariscono  ancora  gli  atti  antecedenti, 
ma  in  lontananza,  fuori  della  scena,  come 
un  passato  che  si  offre  alla  memoria,  trasfi- 
gurato e  colorato  dalle  impressioni  presenti. 
La  porta  del  futuro  è  chiusa:  l'azione  è  ces- 
sata; ogni  vincolo  umano  e  civile,  che  collega 
gli  uomini  sulla  terra,  è  sciolto  ;  collisioni, 
intrighi,  tutto  ciò  che  è  materia  concreta  di 
poesia  non  ha  più  scopo;  al_yivo  movimento 
della  umana  libertà  è  succeduta  l' immuta- 
bile necessità.  Ma  mentre  una  parte  degli 
attori  ha  abbandonata  la  scena  di  questa  vita, 
altri  vi  sottentrano  con  le  stesse  ire  e  con 
gli  stessi  amori;  ed  il  poeta  spettatore  è  come 
un  ponte  gittato  tra  il  presente  e  l'avvenire. 
E  porta  seco  tutte  le  sue  passioni  di    uomo 


e  di  cittadino,  e  fa  risonare  di  terreni  gemiti 
fino  le  serene  volte  del  cielo:  così  ritorna  il 
dramma,  e  nell'eterno  ricomparisce  il  tempo. 
/    In  mezzo  all'immobilità  dell'avvenire  vive  e 
si  agita   l'Italia,  anzi    l'Europa  del  decimo- 
\  quarto  secolo,  col    suo  Papa  ed  Imperatore, 
l  coi  suoi  re,  principi  e  popoli,   coi   suoi    co- 
\stumi,  le  sue  passioni,  le  sue  discordie,  con 
/tutto  quello  che  è  in  lei  di    alto    o    vile,  di 
tragico  o  comico.    È  il  dramma  di  quel  se- 
colo, scritto  da  un  poeta  che  è  egli  stesso  uno 
degli  attori,  con  la  veemenza  della  passione 
e   con    la  dignità  della    convinzione  :   talché 
spesso  ci  sentiamo  rapire  dal  luogo  ov'è  col- 
locata l'azione  e  ci  troviamo  nel  bel   mezzo 
d' Italia  tra  le  tempeste   ed   il   fremito  della 
pubblica  vita.  Il  che  ha  indotto  alcuni  a  rim- 
picciolire   le    proporzioni  della  Commedia  e 
rinchiuderla  nell'  angustia  e  nella    prosa  di 
uno  scopo  politico,  quasi  tanto  alta    inven- 
zione non  sia  altro  che  un  mezzo  meschino 
ed  un'  arma  codarda,  di  cui  siasi   valuto    il 
poeta  a  conculcare  i  suoi  avversari. 
r-     L'  elemento    politico    non  è  già  il  sostan- 
\  ziale,  ma    solo    un    momento    dell'  universo 
)  dantesco,  porgendo  il  lavoro  per  la  sua  forma 
liberissima  facile  occasione  all'autore  di  ma- 
nifestare le  sue  idee  e  le   sue    predilezioni  : 
\di  che  egli  ha  usato  ed  abusato  largamente. 
Certo  i  suoi  giudizi,  né  le  sue  opinioni  sono 


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sempre  giuste  :  che  egli  pure  avea  in  sé  di 
quel  di  Adamo,  e  pensò  e  sentì  secondo  i  suoi 
tempi.  Ma  che  fa  ? 

La  Commedia  non  è  scienza,  né  storia,  ma 
poesia.  Sotto  questo  rispetto  ben  ci  ha  allu- 
sioni personali  e  poco  felici  allegorie,  che 
dovettero  aver  molto  favore  a  quei  giorni  e 
che  sono  la  parte  accidentale  e  transitiva  del 
suo  poema.  Ma  più  spesso  egli  guarda  la  vita 
da  queir  altezza,  alla  quale  ha  innalzato  il 
subbietto,  e,  spettatore  dell'  avvenire,  tuona 
e  folgora  con  la  dignità  di  sacerdote  e  di 
profeta;  anzi  di  poeta.  Altro  è  il  concetto  che 
Dante  ha  dell'officio  della  poesia,  del  quale 
sente  l'orgoglio  ed  accetta  il  pericolo:  ond'è 
che  sovente  l'indignazione  dell'uomo  offeso 
s'innalza  in  lui  alla  solenne  autorità  del  giu- 
dice, e  la  transitoria  realtà  all'  immortalità 
dell'  ideale. 

Il  perchè,  quantunque  quelle  passioni  e 
quelle  opinioni  abbiano  oggi  perduto  il  loro 
significato  particolare  e  relativo,  non  per- 
tanto  è  rimasto  vivo  il  sostanziale  di  quegli 
accidenti:  di  che  possiamo  allegare  ad  esem- 
pio la  digressione  sulle  condizioni  d'Italia  ai 
suoi  tempi  e  le  sue  gravi  parole  a  Niccolò  III. 
D'altra  parte  la  passione  ond'è  infiammato 
dà  alla  poesia  la  propria  impronta  dell'uo- 
mo e  del  tempo,  senza  la  quale  ella  non  ha 
la  sua  incarnazione  perfetta. 


6 


Scontento  di  tutto  e  di  tutti,  segregatosi 
dalle  parti  e  bollente  di  collera  per  nuove 
ingiurie  e  per  fallite  speranze,  egli  è  in  a- 
cerba  opposizione  col  suo  tempo,  ed  il  foco 
dell'  ira  rende  terribilmente  ingegnosa  la  sua 
fantasia. 

Dante  è  la  sintesi  vivente  de'  tre  mondi, 
i  quali  hanno  in  lui  come  in  uno  specchio 
la  loro  riflessione  ed  unità.  Egli  non  è  solo 
spettatore,  ma  attore:  smarrito  nella  selva  dei 
vizi  e  degli  errori,  contempla  lo  spettacolo 
della  caduta  dell'uomo  dopo  la  colpa  d'ori- 
gine; indi,  passando  nel  luogo  del  pentimento, 
i  peccati  mortali  incisi  sulla  sua  fronte  dalla 
spada  della  divina  giustizia  sono  cancellati 
ad  uno  ad  uno,  e,  rinvigorito  dalla  divina 
grazia,  ei  lava  col  pianto  i  suoi  falli,  e,  pen- 
tito e  confesso,  giunge  di  grado  in  grado  alla 
sua  compiuta  redenzione.  Innalzando  l'indi- 
vidualità a  signi ficazione  generale,  vediamo 
in  Dante  espressa  la  stessa  vita  umana  nella 
sua  esplicazione  terrestre,  cioè  nel  suo   tri— 


plice  stadio  di  corruzione,  d'espiazione  e  di 
redenzione:  così  nel  poema  dall'estremo  grado 
dell'  errore,  del  male  e  del  brutto,  cioè  dal- 
l'ultima bolgia  infernale,  si  passa  nello  stato 
di  lotta  tra'  contrari,  il  quale  dualismo  s' in- 
nalza a  poco  a  poco  alla  sua  idealità  asso- 
luta, a  verità,  a  virtù,  a  bellezza.  Il  che  non 
rimane  già  una  fredda    astrazione,    ma    di- 


—  7 


viene  persona  viva  nelle  figure  tanto  poetiche 
di  Dante,  di  Virgilio,  di  Beatrice,  di  Matilde, 
della  Vergine.  Onde  potrebbe  parere  a  prima 
giunta  che  Dante  sia  il  protagonista  del  poe- 
ma, e  che  l'azione  sia  il  viaggio  eh'  ei  fa  per 
la  sua  redenzione;  ma  qui  appunto  è  la  dif- 
ferenza tra  la  Divina  Commedia  e  il  Faust, 
fondati  generalmente  sullo  stesso  concetto. 
Dante  e  Ì^nSJsi  contemplano  entrambi  le  di- 
verse forme  della  vita,  e  pervengono  alla 
loro  perfetta  liberazione  ;  se  non  che  nel 
Faust  accanto  all'obbiettivo  individuato  con 
sì  ricca  personalità  l'elemento  subbiettivo  è 
svolto  con  quelle  larghe  proporzioni,  che 
consentiva  all'autore  del  Werther  la  progre- 
dita civiltà;  sicché  per  la  piena  esplicazione 
della  sua  intrinseca  vita  Faust  è  il  vero  pro- 
tagonista dell'  azione.  Ma  questa  poesia  in- 
tima, come  oggi  la  dicono,  quest'analisi  pro- 
fonda delle  contraddizioni  e  de'  tumulti  del 
cuore  umano  non  è  accomodata  nò  al  genio 
dantesco,  né  all'indole  della  poesia  primitiva. 
Nella  Divina  Commedia  Dante  sparisce  in- 
nanzi alla  grandezza  della  visione,  sulla  quale 
si  rivolge  principalmente  1'  attenzione  del 
lettore;  né  egli  esprime  altrimenti  quello  che 
avviene  nel  suo  animo  che  simbolicamente 
ed  obbiettivamente,  come  nella  selva,  nei 
peccati  mortali  scolpiti  sulla  sua  fronte,  nel 
riso  di  Beatrice,  ecc.  Quindi  è  che  il  lavoro 


—  8  — 

moderno  ha  il  titolo  personale  di  Faust,  lad- 
dove 1'  altro  ha  il  titolo  generale  di  Divina 
Commedia  e  la  forma  narrativa. 

Oltre  l'allegoria  generale,  ciascuna  inven- 
zione particolare  ha  il  suo  senso  riposto  :  e 
presso  di  noi,  durato  il  vezzo  delle  allegorie 
sin  quasi  al  termine  del  secolo  decimosesto, 

ì  non  è  maraviglia  che  i  comentatori  si  sieno 
principalmente  studiati  d' investigare  e  di- 
chiarare questa  parte  della  Divina  Commedia. 

j  A'  nostri  giorni  il  simbolo  è  ritornato  in  ono- 

i  re;  le  forme  hanno  perduto  il  loro  ingenuo 
valore  e  lo  scettico  poeta  lo  trasmuta  e  com- 
bina a  suo  grado,  come  caratteri  e  segni  del 
suo  pensiero.  La  critica  aveva  già  prima  preso 
questo  stesso  indirizzo  e,  guidata  da  un  idea- 
lismo dissolvente  ed  impersonale,  traducendo 
in  miti  e  tipi  i  principali  personaggi  storici 
e  poetici,  essa  ha  trasmodato  per  modo  che 
nei  pedanti  di  questo  sistema  la  poesia  è  ri- 
dotta poco  meno  che  a  nudo  pensiero. 

Non  è  quindi  a  maravigliare  che  alcuni 
critici  valorosi  abbiano  riposta  l'essenza  della 
poesia  dantesca  nel  suo  significato  allegorico, 
come  vediamo  aver  fatto  Schlosser  e  Rosen- 
krauz.  Certo  l'allegoria  dantesca  è  parte  viva 
del  concetto,  non  un  significato  postremo  e 
soprapposto,  come  nel  Boiardo  e  nel  Tasso; 

■  ma  il  viaggio  allegorico  non  è  altro  che  un 
mezzo,  di  cui  si  è  giovato  il  poeta  a  rendere 


-  9  — 

intelligibile  la  sua  visione,  la  quale  ha  il  suo 
valore  in  sé  e  per  sé.  I  tre  mondi  corrispon- 
dono per  la  loro  natura  alla  vita  terrena  | 
nelle  sue  varie  gradazioni:  ma  il  poeta  non 
li  prende  punto  in  un  senso  simbolico,  con- 
siderandoli con  piena  fede  quali  sono  in  sé 
stessi,  nel  loro  valore  proprio  ed  immediato. 
E  quanto  alle  allegorie  particolari,  essendo 
il  pensiero  non  di  rado  un  accessorio,  di 
cui  non  si  scorge  nell'  immagine  alcuna  or- 
ma distintiva,  rimasto  nella  mente  del  poeta, 
è  impresa  quasi  disperata  a  volere  indagare 
i  suoi  fini  segreti  e  le  allusioni  storiche,  po- 
litiche, morali  non  penetrate  nell'  essenza 
della  poesia.  E  poniamo  pure  che  i  critici  si 
accordino  in  questo;  certo  ne  sarebbe  aiutata 
l' interpetrazione  del  poema,  ma  ben  poco 
aggiunto  al  valore  intrinseco  della  poesia, 
che  ha  in  sé  medesima  il  principio  della  sua 
esplicazione. 

[Quanto  alla  forma,  la  Divina  Commedia  è 
una  visione  narrata,  nella  quale  tutto  è  rap- 
presentato in  singoli  quadri,  ciascuno  com- 
piuto per  sé,  senza  un'  azione  che  si  snodi 
di  mezzo  al  contrasto  delle  passioni:  il  qual 
difetto  inerente  alla  natura  dell'  argomento 
toglie  molta  parte  di  quella  sospensione  e 
diletto  che  rende  tanto  popolari  l'Iliade,  l'Or- 
lando e  la  Gerusalemme.  [Ciascuno  de'  tre  mon- 
di ha  i  suoi  compartimenti,  ordinati  secondo 


10 


divisioni  scientifiche  e  morali:  ed  ogni  specie 
è  una  compiuta  totalità  che  comprende  in 
sé  la  forma  generale  :  sono  diverse  pitture 
di  una  stessa  storia.  [Il  poeta  apre,  d'ordina- 
rio, la  scena  con  la  descrizione  del  luogo  ; 
indi  gitta  un  rapido  sguardo  sui  gruppi,  di- 
stinti di  abitudine  e  di  espressione:  di  mezzo 
a'  gruppi  si  erge  il  personaggio  principale, 
l' individualità,  con  la  sua  forma  propria  e 
spiccata:  qui  comincia  il  dialogo,  ed  alla  evi- 
denza del  pennello  succede  l'eloquenza  della 
parola.  L'unità  di  questa  vasta  comprensione 
non  è  né  in  un'azione  particolare,  né  in  un 
protagonista:  l'unità  èia  stessa  comprensione, 
vivente  indivisibile  unità  organica,  i  cui  mo- 
menti si  succedono  e  si  riflettono  nello  spi- 
rito del  poeta,  non  ordinati  pedantescamente, 
come  morto  aggregato  di  parti  separabili, 
ma  penetranti  gli  uni  negli  altri,  mescolan- 
tisi,  immedesimantisi,  com'  è  la  vita  nella 
sua  verità. 

Si  è  disputato  a  qual  genere  di  poesia  ap- 
partenga la  Divina  Commedia.  Il  poeta  ha  tro- 
vato egli  stesso  il  nome  del  suo  lavoro,  chia- 
mandolo il  poema  sacro.  Esso  è  l' epopea 
divina,  la  storia  di  Dio  nella  sua  ultima  ideale 
espressione;  o  piuttosto  esso  non  è  propria- 
mente il  genere,  ma  il  Tutto,  contenente  in 
sé  il  germe  di  ogni  varia  esplicazione  del- 
l' arte  moderna.  Di  mezzo  al  narrativo  e  al 


—  11  — 

descrittivo  spunta  il  dramma  in  tutte  le  sue 
gradazioni,  la  lirica  in  tutte  le  sue  forme. 
Non  è  la  Divina  Commedia  questa  o  quella 
poesia,  ma  la  Poesia,  la  quale  dal  sublime 
negativo  esce  fuori  sotto  la  forma  dell'umana 
bellezza,  luce  riflessa,  immagine  ancora  ve- 
lata, ma  trasparente,  infìno  a  che,  fattosi  il 
velo  più  e  più  sottile,  essa  brilla  in  tutta  la 
sua  purezza  ideale,  nel  regno  stesso  della  luce. 


II. 

V  INFERNO 


II. 

L' INFERNO. 


L' inferno  è  il  regno  del  male,  la  morte 
dell'anima  e  il  dominio  della  carne,  il  caos: 
in  poesia,  il  sublime  negativo.  Elementi  in- 
formi e  disformi  ;  abissi  più  e  più  inabis- 
santisi:  rupi  scoscese,  triste  valli;  aere  senza 
tempo  e  muto  di  luce;  una  tetra  grandezza 
compiuta  col  laido  e  col  grottesco;  tutto  que- 
sto, rappresentato  con  formidabile  uniformità, 
produce  nel  generale  una  impressione  tra- 
gica e  severa.  Trasportando  la  scena  di  là 
da  questa  vita,  Dante  è  non  solo  il  poeta, 
ma  1'  architetto,  lo  scultore  e  il  pittore  del 
suo  universo.  Con  incredibile  audacia  di  fan- 
tasia fecondata  dall'amore  di  un'alta  conce- 
zione, egli  ha  saputo  congiungere  l'obbietti- 
vità della  natura  con  la  trasparenza  dell'arte. 
Onde  la  qualità  del  luogo  risponde  agli  ele- 
menti spirituali  delle  passioni  e  degli  errori: 
le  tenebre  della  ragione,  il  profondare  ognora 
più  nel  fango  e  nel   lezzo  della    carne    e    il 


—  16  - 

male  nelle  sue  due  forme,  tragica  e  comica, 
secondo  che  nobile  e  abbietta  è  l'anima  col- 
pevole. Le  descrizioni  sono  sobrie,  ma  di  una 
compiuta  precisione;  e  l'impressione  risulta 
meno  da'  particolari  che  dal  cupo  e  fosco  co- 
lorito e  dallo  stesso  movimento  imitativo  del 
verso.  Ma  il  concetto  sta  immobile  nell'  ar 
chitettura,  né  può  esservi  espresso  che  di  una 
maniera  molto  generale.  Nelle  pene  esso  tra- 
spare in  ogni  varietà  di  attitudine,  di  mo- 
venze, e  in  tutta  la  pienezza  delle  sue  diffe- 
renze individuali.  Esprimono  le  pene  la  pas- 
sione nel  suo  cieco  impeto,  la  viltà  nella  sua 
oscena  bassezza,  la  colpa  nella  sua  fredda 
malizia:  è  la  stessa  inesorabile  coscienza  fatta 
materia.  Il  poeta  non  cade  in  fredde  sotti- 
gliezze, né  cerca  puerili,  lontani  e  minuti 
rapporti  tra  la  colpa  e  la  pena;  ma  il  con- 
cetto vi  si  rivela  a  gran  tratti,  e  il  corporale 
vi  è  in  tutta  la  sua  evidenza  plastica.  Opera 
di  una  intelligenza  profonda,  di  una  cupa  e 
fiera  fantasia ,  che  anima  la  materia,  e  vi 
scolpisce  su  ora  l'ironia,  ora  il  dispregio  ed 
ora  il  sarcasmo:  di  che  rampollano  tante  in- 
venzioni di  pene,  non  sai  se  più  mirabili  per 
verità  o  per  novità  e  varietà  di  concezione. 
Ma  il  pensiero  non  è  giunto  ancora  alla  sua 
piena  subbiettività:  esso  non  è  ancora  anima. 
Un  primo  grado  di  questa  forma  è  ne'  de- 
mòni. Il  demonio  dantesco  è   senza  dignità, 


—  17  - 

l'elemento  turpe  e  selvaggio  del  male,  il  sa- 
tirico nel  suo  stato  ancor  grezzo  assai  pros- 
simo alla  prosa,  figurato  ne'  satiri  dell'anti- 
chità, ne'  quali  la  brutale  sfacciatezza  tronca 
il  riso  e  genera  il  disgusto,  La  vergogna  e  il 
rossore  è  proprio  della  faccia  umana;  il  de- 
monio non  arrossisce.  In  lui  niente  è  rimasto 
dell'angiolo;  sicché  egli  non  ha  né  l'orrida 
maestà  del  demonio  del  Tasso,  né  il  subli- 
me di  quello  di  Milton.  Belfagor,  il  Diavolo 
zoppo  e  Mefìstofele  si  avvicinano  alquanto 
al  tipo  dantesco;  ma  Machiavelli,  Le  Sage  e 
Goethe  hanno  lor  dato  dell'  umano,  espres- 
sione ironica  e  maliziosa  della  parte  comica 
della  vita  in  opposizione  alla  seria.  Dante  ha 
raggiunto  talora  questo  ideale  della  comme- 
dia, come,  a  cagion  d'esempio,  nel  demonio 
che  mena  a  dannazione  Guido  da  Montefeltro, 
spiritosa  caricatura  della  scienza  scolastica  del 
peccatore  persuaso  al  delitto  da  un  sofisma. 

« Forse 

Tu  non  pensavi  eh'  io  loico  fossi  !  > 

Ma  in  generale  egli  ha  voluto  esprimere 
nel  demonio  la  più  bassa  incarnazione  dello 
spirito  nella  scala  degli  esseri,  e  non  solo  il 
carnefice,  a  cui  il  tormentare  è  voluttà,  ma 
il  simbolo  altresì  del  vizio  da  lui  punito, 
congiungendo  col  mostruoso,  col  grottesco, 
con  l' osceno   e   col  bestiale    la   ferocia   alla 


18 


bassezza.  Egli  si  è  aiutato  con  molta  sagacia 
della  pagana  mitologia,  non  dando  alcun  serio 
valore  a  quelle  invenzioni,  ma  adoperandole 
come  simboli  e  segni  del  suo  pensiero. 

<  O  voi,  ch'avete  gl'intelletti  sani, 
Mirate  la  dottrina,  che  s'  asconde 
Sotto  '1  velame  degli  versi  strani.  » 

Ma  questi  esseri  allegorici  non  rimangono 
nell'  aridità    del    generale  ;    e    niuno    ignora 
quanta  vivace  individualità  è  nelle  figure  di 
Caronte,  di  Cerbero,  delle  Furie,  di    Minos, 
di  Gerione,  il    cui    ingegnoso    ritratto    fu   il 
germe  dell'  ammirabile    ottava,    nella    quale 
l'Ariosto  ha  descritto  la  Frode.  Nel  demonio 
è  ben  poco  di  subbiettivo;  nell'uomo  il  con- 
cetto si  manifesta  chiaramente  a  sé  stesso  e 
diviene   persona,  acquistando    carattere,  af- 
fetto   e    pensiero.  L' idea    fondamentale  che 
Dante  ha  voluto  rappresentare  nel  peccatore 
è  l'impenitenza,  cagione  e  ragione  della  per- 
petuità della  pena.  Quale    l' uomo    fu    vivo, 
tale  è  morto  ;  egli   ha   lo   stesso    ardore  del 
desiderio,  ma  accompagnato  dal  sentimento 
dell'  impotenza  :  onde    la  disperazione    e    la 
rabbia.  Ciò  che  in  terra  gli  fu  a  diletto,  nel- 
l' inferno  gli  è  a  castigo. 

<  O  Capaneo,  in  ciò  che  non  s'  ammorza 
La  tua  superbia,  se'  tu  più  punito.  * 


—  19  - 

È  il  Manfredi  di  Byron:  il  fiume  dell'oblio 
Lete  è  fuori  dell'  inferno.  La  sua  passione 
perpetuamente  innanzi  gli  sta.  Egli  vede  im- 
presso nella  condizione  del  luogo,  nella  na- 
tura della  pena,  nell'aspetto  e  negli  atti  dei 
suoi  tormentatori  quello  stesso  che  si  agita 
nel  suo  cuore.  Onde  nell'inferno  le  passioni 
umane  sono  non  solo  ricordanza,  ma  senti- 
mento vivo  e  presente:  il  che  gli  dà  l'aspetto 
della  stessa  vita  terrestre  in  un  colore  fosco 
e  tetro.  I  personaggi  sono  caratteri  perfetti: 
oltre  alla  loro  colpevole  passione,  essi  ser- 
bano tutte  le  passioni,  i  vizi  e  le  virtù  che 
ebbero  in  terra,  né  in  loro  è  rappresentata 
pedantescamente  l'immagine  di  ciascun  vizio; 
ma  talora,  massime  quando  la  colpa  non  può 
o  non  dee  ricevere  alcuna  esplicazione  poe- 
tica, come  ne'  canti  decimo,  decimoquinto  e 
decimosesto,  sono  in  essi  mostrate  altre  facce 
del  loro  carattere ,  e  può  così  il  poeta  farci 
sentire  ammirazione  e  pietà  per  Brunetto 
Latini,  Guido  Cavalcanti,  Iacopo  Rusticucci 
e  simili.  Il  numero  de'  personaggi  corrisponde 
all'ampiezza  del  disegno:  infinita  varietà  di 
forme  individuali.  Talora  è  una  semplice  in- 
dicazione, poche  parole  con  la  grave  sem- 
plicità di  una  scritta. 

« Anastagio  papa  guardo, 

Lo  qual  trasse  Fotin  dalla  via  dritta  ». 


20 


«  Guidoguerra  ebbe  nome:  ed  in  sua  vita 
Fece  col  senno  assai  e  colla  spada  >. 

Alcuna  volta  si  contenta  di  un  solo  epiteto, 
ma  di  quegli  epiteti  nuovi  e  comprensivi,  che 
scolpiscono  e  perpetuano,  che  destano  la  me- 
ditazione e  slargano  la  fantasia  e  che  riman- 
gono nella  memoria  degli  uomini  come  adagi 
o  sentenze. 

«  Questi  sciaurati,  che  mai  non  fùr  vivi  » 

«  Vidi  il  maestro  di  color  che  sanno  ». 

«  Di  quel  signor  dell'altissimo  canto  ». 

Spesso  gli  basta  lo  scarpello;  e  niuno  me- 
glio di  Dante  ha  compreso  1'  eloquenza  del 
silenzio. 

«  Supin  ricadde,  e  più  non  parve  fuora  » 

«  E  per  dolor  non  par  lacrime  spanda  » 

«  Di  quella  sozza  scapigliata  fante  ». 

Espressioni  mute  di  estrema  angoscia,  di 
forte  animo  e  di  turpe  laidezza.  Non  solo  il 
supremo  affetto,  ma  ancora  l'ultima  viltà  non 
ha  parola. 

La  parola  manifesta  l'attività  interiore,  ed 
è  segno  estrinseco  della  dignità  dell'  anima: 
quindi,  con  profondo  significato,  i  poltroni 
gemono  e  piangono,  ma  non  parlano.  Dante 


21 


guarda  e  passa.  Altre  volte  tutto  un  carattere 
è  già  vivente  in  un  semplice  atto  prima  an- 
cora che  parli  il  personaggio. 

«  Ed  ei  s'  ergea  col  petto  e  colla  fronte 
Come  avesse  l' inferno  a  gran  dispitto  ». 

«  Chi  è  quel  grande  che  non  par  che  curi 
Lo  incendio  e  giace  dispettoso  e  torto  ?  >. 

Ma  più  sovente  il  gesto  cospira  con  la  pa- 
rola alla  compiuta  espressione  dell'affetto;  né 
ci  ha  cosa  di  tanta  pietà,  quanto  i  muti  atti 
di  Paolo  consonanti  come  una  musica  ma- 
linconica con  le  parole  di  Francesca.  La  pa- 
rola è  la  più  compiuta  manifestazione  dello 
spirito  e  il  più  docile  strumento  della  fan- 
tasia, sola  essa  che  possa  ritrarre  in  tutte  le 
sue  misteriose  ambagi  il  cuore  umano.  In 
Dante  ella  prende  tutte  le  forme,  dalla  prosa 
del  semplice  ragionamento  fino  alla  più  alta 
espressione  lirica.  Ne'  caratteri  comici  brevi 
dialoghi,  pronte  risposte,  amari  frizzi,  motti 
grossolani,  e  malizie  e  lordure;  il  fango  osceno 
della  vita  in  rapidi  tocchi,  quasi  l'alto  animo 
del  poeta  rifugga  dal  vile  spettacolo. 

*  Che  voler  ciò  udire  è  bassa  cosa.  » 

La  Commedia  è  una  ironia  più  o  meno  de- 
licata della  vita;  il  corpo  che  fa  la   parodia 


22 


dello  spirito,  la  prosa  che  imita  con  carica- 
tura la  poesia,  opposizione  tra  l'essere  e  la 
apparenza,  dal  cui  improvviso  contrasto  scop- 
pia il  riso.  Ma  il  poeta  ha  l'animo  troppo 
nobile  e  sdegnoso,  nò  sa  indugiare  con  pa- 
zienza lo  sguardo  sulle  umane  fralezze  :  il 
suo  sorriso  è  amaro  ;  di  sotto  alla  facezia 
spunta  il  disdegno,  e  spesso  nella  mano  la 
sferza  gli  si  muta  in  pugnale.  Oltreché  egli 
rappresenta  comicamente  solo  la  parte  più 
sozza  ed  abbietta  del  carattere  umano;  sicché 
i  suoi  motti  e  le  sue  immagini  tengono  molto 
del  buffonesco  e  del  plebeo;  del  qual  genere 
è  tipo  l' ignobile  piato  di  Sinone  e  Mastro 
Adamo. 

La  parola  tragica  è  cosa  perfetta.  La  tra- 
gedia rappresenta  la  lotta  impotente  dello 
spirito  con  la  materia,  risoluta  in  una  unità 
superiore,  il  Fato,  la  ragione,  la  provvidenza, 
secondo  le  tendenze  e  le  condizioni  razionali 
de'  tempi.  In  questo  contrasto  talora  lo  spi- 
rito si  mostra  delicato,  sensitivo,  femminile, 
con  l'eloquenza  del  dolore  senza  il  sublime 
dell'azione;  talora  con  piena  coscienza  della 
sua  dignità;  imprigionato  nella  materia,  si 
sente  libero,  e,  vinto,  ancora  serba  la  sua  se- 
renità e  il  suo  disdegno.  Secondo  il  primo 
tipo  è  Pier  delle  Vigne,  Francesca  da  Rimini, 
Guido  Cavalcanti  ;  secondo  1*  altro  Farinata 
degli    Uberti,  Capaneo    e    Dante    stesso  :  nel 


-  23  - 

conte  Ugolino  sono  ambi  temperati  con  gran- 
de verità.  Le  parole  di  Pietro  delle  Vigne 
contengono  in  sé  il  disegno  di  tutta  intera 
una  tragedia.  L'alto  concetto  eh'  egli  ha  del 
suo  glorioso  uffìzio,  la  gelosa  cura  con  che 
ne  rimove  ogni  altro,  la  fede  e  la  riverenza 
verso  il  suo  Signore,  lo  sdegno  contro  i  suoi 
detrattori  e  il  pensiero  che  si  dà  della  sua 
memoria  giacente  sotto  i  colpi  della  invidia 
ci  fanno  misurare  di  un  guardo  la  profon- 
dità di  quel  dolore,  che  lo  condusse  a  morte. 
Quel  canto  è  de'  più  belli:  è  una  mesta  ar- 
monia di  diversi  elementi,  ciascuno  de'  quali 
risponde  ad  una  fibra  del  nostro  cuore. 

Nel  canto  quinto  il  poeta  aggiunge  una  mor- 
bidezza di  stile  e  di  favella,  che  ci  fa  già  pre- 
sentire il  Petrarca.  La  nostra  lingua  è  nata 
con  l'amore,  il  quale  ha  in  lei  svolto  l'ele- 
mento musicale  onde  va  innanzi  a  tutti  gli 
idiomi  moderni;  e  già  ne'  primi  lirici,  sopra- 
tutto in  Cino  da  Pistoia,  essa  ha  infiorato 
di  quella  grazia  e  leggiadria  che  fu  seme  e 
della  sua  perfezione  e  del  suo  scadimento. 
Cino  ritrae  l'amore  più  con  pensieri  delicati 
che  con  vivacità  di  affetto;  e  sembra  che  la 
bella  Selvaggia  abbia  avuto  potere  di  svegliare 
ed  ornare  il  suo  spirito  senza  turbare  il  suo 
cuore. 

^In  Francesca  apparisce  1'  amore  nella  sua 
verità  drammatica,  passione    sensuale,    prò- 


—  24  — 

fv«^rompente,  ma  nobile  e  gentile  e  nello  stesso 
fervore  del  desiderio  casta  e  pudica.  La  nar- 
razione si  compie  con  un  ultimo  tratto  di 
pennello,  di  una  grande  verità  e  delicatezza, 
che  fa  intendere  di  là  da  quello  che  esprime, 
rappresentando  il  pensiero  obliquamente  e 
ricoprendo  l' immagine  col  velo  del  pudore. 
Il  punto  scelto  dal  poeta  e  apparecchiato  con 
particolari  pietosi  è  quando  la  passione,  lun- 
gamente compressa,  scoppia  ;  il  quarto  atto 
della  tragedia,  che  ci  fa  intravvedere  una 
segreta  storia  di  affanno  e  di  desio  nel  pas- 
sato, è  l'imminente  catastrofe. 

Il  mesto  accompagnamento  di  Paolo,  il 
fremito  amoroso  che  invade  ancora  quelle 
nude  ombre,  la  profonda  pietà  del  poeta, 
l' indole  tenera  ed  affettuosa  di  Francesca,  la 
squisita  delicatezza  del  sentimento  e  la  me- 
lodiosa soavità  che  spira  dalle  parole,  dai 
versi,  dalle  immagini  ci  fanno  in  quel  punto 
dimenticare  l' inferno  o,  per  dir  meglio,  ci 
rendono  F  inferno  cosa  bella  e  gentile. 

Guido  Cavalcanti  non  è  una  rimembranza, 
ma  una  scena  tragica  in  atto,  nuova  d' in- 
venzione e  di  espressione:  è  il  cuore  umano 
palpitante  nel  gesto.  Guido  si  leva  inginoc- 
chione:  indi  si  drizza  di  subito;  poi  ricade 
supino,  tre  statue  di  un  solo  uomo  corri- 
spondenti a  tre  gradazioni  di  un  solo  affetto. 
Dapprima  è  la  speranza  di  rivedere  il  figliuolo 


-  25  — 

mista  d'incredulità;  indi  una  mortale  ansietà; 
da  ultimo  la  prostrazione  e  il  silenzio  della 
disperazione.  Il  poeta  con  grande  arte  ha  in- 
nestato questo  episodio  nel  fatto  di  Farinata, 
il  quale  dinanzi  a  tanto  dolore 

« non  mutò  aspetto, 

Né  mosse  collo,  né  piegò  sua  costa.  » 

Così,  di  un  tratto  solo,  ei  ci  dipinge  la  forte 
tempra  dell'anima  di  costui.  Farinata  fu  uomo 
di  parte  e  insieme  gran  cittadino.  Il  parteg- 
giare a  quei  tempi  non  era  solo  legame  di 
opinione,  ma  insieme  sacro  vincolo  di  fami- 
glia, eredità  di  vendetta  e  di  odio.  Dante  ha 
voluto  in  lui  esprimere  questo  ideale  della 
inculta  energia  di  popoli  giovani,  che  egli 
trovò  nella  stessa  sua  anima.  Farinata  com- 
parisce alla  fantasia  con  proporzioni  colos- 
sali e  con  la  maestà  del  Giove  di  Fidia,  tor- 
reggiale di  tutta  la  sua  altezza  sulle  cose 
che  lo  circondano,  quantunque  dalla  cintola 
in  giù  giaccia  nascosto  nell'arca:  la  quale  il- 
lusione procede  da  questo,  che  la  grandezza 
dell'anima  manifestata  negli  atti  di  fuori  ingi- 
gantisce anche  il  suo  corpo.  Il  suo  dire  è  riciso, 
rotto,  brusco,  imperativo  :  ci  si  vede  l'uomo 
d'opera  e  di  comando,  maggiore  della  fortuna. 
La  sua  anima  è  più  grande  dell'inferno. 

«  Ciò  mi  tormenta  più  che  questo  letto.  » 


—  26  — 

Concetto  sublime  espresso  con  quella  na- 
turalezza e  semplicità,  con  la  quale  i  grandi 
uomini  fanno  le  grandi  cose, 
f  Capaneo  è  uno  de'  caratteri  più  sagace- 
mente pensati  e  con  maggior  forza  ritratti. 
Il  poeta  ha  in  lui  unito  ciò  che  la  superbia 
ha  di  sublime  e  di  basso  ad  un  tempo.  Egli 
non  ha  vera  forza  d'animo;  e  non  1'  ha  ap- 
punto perchè  sen  vanta.  La  sua  noncuranza 
è  apparente;  e  quel  suo  giacere  dispettoso  e 
torto  e  l'amarezza  del  suo  sarcasmo  mostra 
bene  il  suo  dispetto,  o,  per  parlare  con  Vir- 
gilio, la  sua  rabbia. 

A  vera  sublimità  s'alza  il  carattere  di  Dante. 
Siccome  il  pianto  di  Solimano  desta  più 
grande  pietà  che  il  lamentio  di  Tersite;  così 
la  costanza  di  un  animo  sensitivo  reca  mag- 
giore ammirazione  che  la  stupidezza  dell'a- 
patia. Dante  sente  profondamente  il  dolore 
dell'esilio;  e  basta  a  mostrarlo  il  modo  pie- 
toso onde  ne  descrive  le  ambasce  per  bocca 
di  Cacciaguida  ;  ma  il  dolore  non  ha  alcun 
potere  sulla  sua  volontà,  che  lo  torca  ad  atto 
vile  o  a  codardo  lamento,  e,  francheggiato 
dalla  pura  coscienza,  ei  si  sente  tetragono 
ai  colpi  della  fortuna. 

«  Però  giri  Fortuna  la  sua  ruota, 

Come  le  piace,  e  '1  villan  la  sua  marra.  > 

Nel  canto  trentesimoterzo  è  posta  in    atto 


27 


una  vendetta  straordinaria  pari  alla  qualità 
dell'  ingiuria:  la  situazione  è  la  stessa  di  Mac- 
duff,  ed  è  bello  ragguagliare  insieme  due 
poeti  tanto  simili  di  genio  e  differenti  di  ca- 
rattere, come  sono  Dante  e  Shakespeare,  i 
due  idoli  della  critica  odierna.  Ambi  hanno 
saputo  trarre  partito  dalla  fanciullezza.  Il 
fanciullo  è  una  immagine  serena,  la  cui  can- 
dida ingenuità  orna  di  grazia  l'aspetto  severo 
della  vita:  tale  è  il  figliuolo  di  Coriolano  in 
Shakespeare,  ed  in  Goethe  il  figliuolo  di  Goetz. 
Ma  quando  lo  si  vede  trastullarsi  in  una 
stanza  funebre  o  sorridere  al  carnefice  di  suo 
padre,  quasi  come  una  ironia,  tanto  più  pro- 
fonda, quanto  meno  intelligente,  ogni  suo 
equivoco  è  una  scena,  ogni  parola  uno  strazio, 
ed  il  contrasto  che  ne  deriva  porta  all'  ul- 
timo suo  grado  1'  effetto  tragico. (Jn  Ugolino 
il  dolore  è  senza  pianto  e  senza  voce  ;  egli 
ha  l'immobilità  della  disperazione;  ma  il  suo 
dolore  diviene  eloquente  nelle  lagrime  e  nelle 
parole  de'  figliuoli:  angoscioso  contrasto  tra 
i  muti  atti  dell'uno  e  l'espansiva  innocenza 
degli  altri. 

«  Io  non  piangeva;  sì  dentro  impietrai 
Piangevan  elli;  ed  Anselrauccio  mio 
Disse:  Tu  guardi  sì,  padre:  che  hai?» 

Dante  è  padre  obbiettivo  per  eccellenza;  il 
pensiero  e  l'affetto  non  rimane  in  lui  nella 


-  28  - 

astrazione  dell'analisi,  ma  prende  figura  ed 
unità  nell'immagine  e  nell'azione.  L'errore, 
fecondo  di  tanta  poesia,  in  cui  cadono  i  fi- 
gliuoli alla  vista  del  padre  mordentesi  ambo 
le  mani  vale  tutta  una  scena  rettorica  delle 
comuni  tragedie.  Le  loro  poche  parole  con- 
tenenti in  una  immagine  sì  peregrina  e  de- 
licata tanta  spontaneità  di  affetto  sono  un 
grido  sublime  della  carità  filiale,  che  rapisce 
in  ammirazione  e  diverte  alquanto  lo  sguardo 
da  tanta  angoscia.  Succede  lungo  intervallo 
di  silenzio,  lenta  agonia  de'  fanciulli,  taciturna 
rabbia  del  padre.  Un  ultimo  tratto  di  pue- 
rile semplicità,  al  quale  bisogna  arrestarsi, 
ove  non  si  voglia  inaridire  la  lacrima,  è  questo: 

«    .    .    .    .    Padre  mio,  che  non  m'aiuti  ?  » 

Quale  coltello  al  cuore  di  un  padre  !  Il  fan- 
ciullo morente  crede  che  il  padre  possa  aiu- 
tarlo !  Dante  ha  immaginata  una  vendetta  di 
una  brutale  ferocia  proporzionata  al  dispe- 
rato dolore.  Alla  prima  vista  di  Ugolino  noi 
diamo  indietro  e  lo  guardiamo  con  racca- 
priccio ed  orrore  ;  e  quando,  compiuto  di 
parlare,  riprende  il  teschio  misero  co'  denti 
qual  è  il  sentimento  che  noi  proviamo  ?  Lo 
stesso  ribrezzo  e  raccapriccio.  Scena  unica, 
nella  quale  una  profonda  pietà  è  congiunta 
con  insuperabile  orrore:  quel  padre  ci  fa  fre- 


—  29  — 

mere  e  ci  fa  piangere.  Shakespeare  ha  saputo 
innalzare  l'orrore  all'altezza  del  sublime. 
—  «  Egli  non  ha  figli!  »  —  Concetto  più  atroce 
ancora,  ma  che,  presentato  non  agli  occhi, 
ma  all'  immaginazione,  ci  fa  intravvedere, 
in  una  vaga  lontananza,  l'infinito  della  ven- 
detta. 

Il  concetto  ha  la  sua  ultima  determina- 
zione in  Virgilio  ed  in  Dante,  che  sono,  per 
dir  così,  il  recitativo  e  l' aria  della  poesia. 
[Virgilio  espone  e  dichiara  l'ultima  ragione 
della  natura  e  dell'ordine  delle  colpe  e  delle 
pene  con  molta  sobrietà  e  semplicità;  e  valga 
ad  esempio  il  canto  decimoprimo,  stupendo 
di  proprietà  e  di  evidenza.  Alcuna  fiata  ei 
si  allarga  alla  spiegazione  generale  delle  cose 
umane,  come  fa  nel  canto  settimo,  ragionando 
della  Fortuna  ,  se  dir  si  può  ragionamento 
quella  tanto  vivace  rappresentazione,  nella 
quale  ciascun  tratto  è  un  pensiero  sublime 
individuato  in  una  immagine  sublime:  esem- 
pio rimasto  immortale  di  come  la  scienza 
possa  diventare  poesia.  Dante  è  la  stessa  voce 
del  lettore,  il  grido  del  suo  cuore  commosso, 
le  sue  impressioni  già  prevenute  e  rappre- 
sentate ora  nella  violenza  delle  apostrofi,  ora 
nell'  impeto  eloquente  dell'  azione.  Così  noi 
lo  vediamo  venir  meno  di  pietà  ai  casi  di 
Paolo  e  di  Francesca,  ratinare  le  frondi  sparte 
per  carità  del  loco  natio,  rispondere  acceso 


—  30  — 

di  santa  ira  a  Filippo  Argenti,  tempestare 
sopra  Genova  e  Pisa,  severo  con  Niccolò  III, 
duro  con  Frate  Alberigo. 

«  E  cortesia  fu  lui  esser  villano.  > 

Tale  è  1'  ordito  di  questo  lavoro  in  ogni 
sua  parte  finito,  nel  quale  un'  idea  onnipre- 
sente penetra  e  vivifica  il  tutto:  maraviglioso 
per  fantasie  nuove  ed  ardite,  per  un'  infinita 
varietà  di  situazioni  nella  severa  unità  del 
disegno,  per  grandezza  di  passioni  e  di  ca- 
ratteri, per  la  proprietà  ed  individualità  delle 
forme,  per  l'evidenza  della  rappresentazione 
ed  il  calore  dell'  affetto. 


III. 

IL  PURGATORIO 


L 


III. 

,  PURGATORIO. 


Il  purgatorio  sta  tra  l' inferno  e  il  para- 
diso, essendo  il  pentimento  la  via  per  la  quale 
dal  male  si  passa  al  bene  :  stato  di  mezzo, 
in  cui  l' inferno  ricomparisce  come  una  ri- 
membranza, il  paradiso  traluce  come  una 
aspirazione.  La  ricordanza  de'  godimenti  ter- 
reni è  accompagnata  dalla  coscienza  della 
loro  vanità:  onde  il  pentimento  e  l'espiazione. 
Le  anime,  ergendo  il  desiderio  al  vero  Bene, 
soffrono,  pregano  e  sperano,  insino  a  che, 
mondate  e  rifatte,  bevono  in  Lete  l'oblio  del 
passato  e  nel  fiume  Eunoè  la  fermezza  del 
proposito,  pure  e  disposte  a  salire  alle  stelle. 
Rimembranza,  pentimento,  aspirazione  sono 
i  tre  momenti  del  concetto,  che  anima  ed 
informa  la  seconda  cantica. 

Il  passato  è  nudo  della  sua  vita  reale  :  la 
vampa  delle  passioni,  i  dolori,  le  ire,  le  di- 
sperazioni, che  rendono  sì  poetico  e  popolare 
l' inferno,  non    possono,  né  debbono    avervi 

3 


—  34  — 

più  luogo.  Neil'  inferno  il  poeta  ha  potuto 
dare  alla  passione  una  piena  obbiettività, 
perchè  essa  vi  ha  un  valore  assoluto,  essendo 
dinanzi  all'occhio  dell'  impenitente  il  sommo 
bene.  Nel  purgatorio  il  concetto  è  mutato: 
la  passione  non  è  più  un  sostanziale,  ma  un 
momento;  è  il  corpo  sparente  dinanzi  alla 
verità  dello  spirito  :  vanitas  vanitatiim.  Ella 
perciò  non  accende  più  il  senso,  ma  è  pre- 
sente solo  alla  immaginativa,  come  un  salu- 
tare ricordo  dell'  abisso,  nel  quale  1'  anima 
era  caduta.  Il  che  spiega  la  nuova  forma  che 
le  ha  dato  l'autore,  rappresentandola  in  e- 
sempli  storici,  che  si  offrono  alla  fantasia 
del  poeta  e  delle  anime  purganti. 

«  Dell'ampiezza  di  lei,  che  mutò  forma 
Neil'  uccel  che  a  cantar  più  si  diletta, 
Neil'  immagine  mia  apparve  1'  orma  >. 

«  Noi  ripetiam  Pigmalione  allotta, 
Cui  traditore  e  ladro  e  patricida 
Fece  la  voglia  sua  dell'oro  ghiotta, 

E  la  miseria  dell'avaro  Mida, 
Che  seguì  alla  sua  dimanda  ingorda, 
Per  la  qual  sempre  convien  che  si  rida.  » 

Ma  questa  forma  non  è  di  una  sufficiente 
obbiettività  ;  onde  il  poeta  per  aggiungere 
quella  evidenza  sensibile,  che  può  patire  il 
subbietto,  dà  a' fantasmi  dell'immaginazione 
figura  esteriore,  rappresentando  intagliati  nel- 


35 


le  pareti  e  sul  pavimento  alcuni  fatti  delle 
umane  vicissitudini,  nel  punto  in  cui  appa- 
risce il  nulla  delle  terrene  grandezze,  dopo 
la  catastrofe,  h  il  sublime  cristiano,  tanto 
eloquente  in  Bossuet;  il  quale  nasce  dall'im- 
provviso contrasto  tra  la  grandezza  passata 
che  si  presenta  alla  fantasia  e  lo  stato  pre- 
sente che  si  offre  dinanzi  agli  occhi  :  Seges 
est,  ubi  Troja  fuil. 

«  Vedeva  Troia  in  cenere  e  in  caverne. 
O  Ilion,  come  te  basso  e  vile 
Mostrava  '1  segno,  che  lì  si  discerne  1  » 

Quanto  a'  personaggi,  usciti  al  tutto  di  ogni 
illusione,  non  ricordano  le  cose  terrene  che 
per  giudicarle  sia  in  sé,  sia  in  altrui.  Espres- 
sione di  questo  stato  è  la  forma  didattica, 
ravvivata  dall'indignazione  o  dal  pentimento  : 
sono  nobili  e  peregrine  sentenze  sul  valore 
ed  il  significato  della  vita,  espresse  quando 
con  grave  semplicità,  quando  per  via  di  apo- 
strofi con  calore  e  con  forza. 

«  Non  v'  accorgete  voi  che  noi  siam  vermi 
Nati  a  formar  1'  angelica  farfalla, 
Che  vola  alla  giustizia  senza  schermi? 

Di  che  l'animo  vostro  in  alto  galla? 
Voi  siete  quasi  entomata  in  difetto 
Sì  come  verme,  in  cui  formazion  falla?» 


—  36  — 

«  Non  è  il  mondati  romore  altro  eh'  un  fiato 
Di  vento,  ch'or  vien  quinci  ed  or  vien  quindi, 
E  muta  nome,  perchè  muta  lato  ». 

«  Chiamavi  '1  cielo,  e  intorno  vi  si  gira, 
Mostrandovi  le  sue  bellezze  eterne, 
E  1'  occhio  vostro  pure  a  terra  mira  ; 

Onde  vi  batte  Chi  tutto  discerne  >. 

Sembra  una  conversazione  di  uomini  savi, 
morti  alle  antiche  passioni  ed  assennati  per 
lunga  esperienza  delle  cose  umane,  delle  quali 
ragionino  con  animo  riposato.  Nel  che  non 
so  se  è  più  da  ammirare  il  poeta  per  altezza  di 
concetti  o  per  possanza  di  fantasia.  Drizzando 
la  mente  all'ultimo  termine  delle  cose  ed  alla 
finale  destinazione  dell'uomo,  egli  esce  dal 
circolo  delle  quistioni  particolari  e  si  sol- 
leva spesso  alle  prime  domande,  che  in  sé 
comprendono  le  altre,  l'origine  del  male,  il 
valore  morale  delle  azioni,  l'accordo  tra  la 
necessità  e  la  libertà,  lumeggiando  e  colo- 
rendo il  pensiero  con  paragoni  ed  immagini 
nuove,  fresche  e  spontanee. 

«  Esce  di  mano  a  Lui,  che  la  vagheggia 
Prima  che  sia,  a  guisa  di  fanciulla, 
Che  piangendo  e  ridendo  pargoleggia, 

L'  anima  semplicetta,  che  sa  nulla, 
Salvo  che,  mossa  da  lieto  fattore, 
Volentier  torna  a  ciò  che  la  trastulla. 

Di  picciol  bene  in  pria  sente  sapore  : 
Quivi  s'inganna;  e  dietro  ad  esso  corre, 
Se  guida  o  fren  non  torce  lo  suo  amore  », 


—  37  — 

Così  1'  animo  preso  entra  in  disire, 
Ch'  è  moto  spiritale  e  mai  non  posa, 
Fin  che  la  cosa  amata  il  fa  gioire  ». 

Poi  come  '1  fuoco  movesi  in  altura, 
Per  la  sua  forma,  eh'  è  nata  a  salire 
Là  dove  più  in  sua  materia  dura; 

«  Lo  Motor  primo  a  lui  si  volge  lieto 

Sovra  tanta  arte  di  natura,  e  spira 

Spirito  nuovo  di  virtù  repleto, 
Che  ciò  che  truova  attivo  quivi  tira 

In  sua  sustanzia  ;  e  fassi  un'  alma  sola, 

Che  vive  e  sente,  e  sé  in  sé  rigira. 
E  perchè  meno  ammiri  la  parola, 

Guarda  '1  calor  del  Sol  che  si  fa  vino, 

Giunto  all'  umor  che  dalla  vite  cola  ». 

L'anima  colpevole  non  può  gustare  il  cibo 
celeste, 

« senza  alcuno  scotto 

Di  pentimento,  che  lacrime  spanda  ». 

Il  purgatorio,  luogo  dell'espiazione,  è  per- 
ciò figurato  dal  poeta  come  una  montagna 
ripida  e  superba,  in  sul  cominciare  faticosa 
ed  aspra  ;  ma  quanto  l'uomo  più  soffre,  tanto 
acquista  più  di  vigore,  finché,  emendato  af- 
fatto, il  salire  ha  l'agevolezza  dello  scendere 
e  la  leggerezza  del  volo. 

« Questa  montagna  è  tale, 

Che  sempre  al  cominciar  di  sotto  è  grave  ; 
E  quanto  più  va  su,  e  men  fa  male. 


-  38  - 

Però  quand'  ella  ti  parrà  soave 
Tanto,  che  '1  suso  andar  ti  sia  leggero, 
Coni'  a  seconda  in  giuso  andar  per  nave, 

Allor  sarai  al  fin  d'  esto  sentiero  ». 

Questa  forma  generale  dell'  umana  espia- 
zione riceve  un'espressione  particolare  nelle 
varie  penitenze,  le  quali  non  sono  imma- 
gini sensibili  delle  passioni,  come  spesso  nel- 
l' inferno,  ma  quasi  sempre  il  contrario  di 
esse,  simili  piuttosto  alle  virtù,  da  cui  quelle 
allontanano.  Così  i  golosi  si  purgano  per  di- 
giuno ;  i  superbi  stanno  rannicchiati  a  terra 
sotto  gravi  pesi,  ecc.  Tanto  nel  luogo,  quanto 
nelle  penitenze  il  concetto  si  manifesta  con 
grande  chiarezza,  ma  senza  molta  varietà  e 
determinazione.  Il  pensiero  soverchia  la  for- 
ma, e  l'autore  si  contenta  per  lo  più  di  esporre 
in  maniera  didattica  il  significato  di  quello 
che  vede  :  narra  e  ragiona  più  che  non  de- 
scriva. Ciò  che  è  simbolo  nella  qualità  del 
luogo  e  delle  pene  diviene  sentimento  nelle 
parole  de'  personaggi.  Il  pentimento  è  un  fatto 
interiore,  il  quale,  rappresentato  nel  momento 
della  conversione,  quando  l'anima  nel  primo 
entrare  in  sé  stessa  si  sente  combattuta  da 
contrari  affetti,  può  pervenire  a  quella  per- 
fetta esplicazione  subbiettiva,  che  ammiriamo 
nell*  Innominato  de'  Promessi  sposi.  Ma  qui 
lo  spirito  non  è  in  quello  stato  di  opposi- 
zione e  di  contraddizione  che  rende  sì  dram- 


-  39  — 

matico  1'  affetto.  La  situazione  è  assai  sem- 
plice :  i  personaggi  si  esprimono  in  brevi  pa- 
role, con  tranquillità  d'animo,  e,  certi  della 
loro  beatitudine,  poco  fermano  lo  sguardo 
sulla  loro  vita  passata.  Ciò  che  domina  in 
loro  è  la  serenità  e  la  calma,  bellezza  tutta 
cristiana  :  che  la  fede  in  un  Dio  di  miseri- 
cordia e  di  amore  rende  bello  il  volto  del 
cristiano  morente,  e  fa  tralucere  sulla  mate- 
ria agonizzante  l'immortalità  dello  spirito. 

« io  mi  rendei 

Piangendo  a  Quei  che  volentier  perdona. 
Orribil  furon  li  peccati  miei  ; 
Ma  la  bontà  infinita  ha  sì  gran  braccia. 
Che  prende  ciò  che  si  rivolve  a  lei  *. 

Ma  bene  si  è  levato  il  poeta  a  tutto  ciò  che  )* 
il  pentimento  ha  di  più  patetico  ne'  canti  tren- 
tesimo e  trentesimoprimo,  ove  non  è  già  una 
calma  ricordanza,  ma  posta  in  atto  una  vera 
scena  drammatica,  nella  quale  è  lo  sciogli- 
mento del  nodo  dell'azione.  È  noto  l'amore 
che  Dante  portò  alla  figliuola  di  Folco  Por- 
tinari  :  amò  fanciullo  con  amore  di  uomo- 
Beatrice  morta  divenne  l'ideale  della  sua  poe- 
sia, la  bellezza  della  virtù,  la  parola  della 
verità  ;  nò  altro  essa  è  nella  Divina  Comme- 
dia. Ella  comparisce  nel  primo  aprirsi  della 
scena  con  un  misto  di  tenero,  di  soave,  di 
celeste,  che  è  amore,  ma  amore  già  trasfìgu- 


*i 


—  40  — 

rato  e  santificato.  Il  poeta  ci  desta  così  di  lei 
una  grande  aspettazione;  la  quale,  rinfrescata 
a  quando  a  quando  durante  il  misterioso 
viaggio,  giunge  alla  vivacità  dell'impazienza, 
quando  è  annunziata  la  sua  venuta.  L'amante 
non  può  contemplarla,  cioè  a  dire  non  può 
giungere  a  beatitudine,  che  non  abbia  in- 
nanzi cancellato  anch'  egli  i  suoi  falli  nel 
fuoco  purgante.  Un  muro  di  fiamme  lo  di- 
vide da  lei  ;  ed  egli,  dapprima  restìo,  vi  si 
gitta  entro,  vinto  dall'amoroso  desiderio. 

« Or  vedi,  figlio, 

Tra  Beatrice  e  te  è  questo  muro  ». 

«  Lo  dolce  padre  mio,  per  confortarmi, 
Pur  di  Beatrice  ragionando  andava, 
Dicendo  :  Gli  occhi  suoi  già  veder  parmi  >. 

«  Vedi  il  Sol,  che  in  la  fronte  ti  riluce  ; 
Vedi  1'  erbetta,  i  fiori  e  gli  arboscelli, 
Che  quella  terra  sol  da  sé  produce. 

Mentre  che  vegnon  lieti  gli  occhi  belli, 
Che  lagrimando  a  te  venir  mi  fenno, 
Seder  ti  puoi,  e  puoi  andar  tra  elli  *. 

Il  comparire  di  Beatrice  è  lo  sparire  di  Vir- 
gilio; e  noi  con  lo  stesso  dolore  di  Dante  ci 
separiamo  da  un  compagno,  al  quale  ci  era- 
vamo già  tanto  affezionati.  Mai  l'umana  sag- 
gezza non  comparve  sotto  forme  più  ama- 
bili :  carattere  nobilissimo,  nel    quale  il  de- 


—  41  — 

coro  e  la  gravità  son  temperati  da  paterno 
affetto.  Il  suo  pensiero  é  di  una  severa  di- 
gnità ;  ma  la  sua  parola  è  cortese  ed  amica  ; 
e  sembra  in  vista  un  uomo  onorando,  la  cui 
fronte  serena  e  il  sorriso  benevolo  raggenti- 
lisca anche  il  rimprovero. 

Dal  pianto  di  Dante  per  la  partita  di  Vir- 
gilio è  tratto  un  felicissimo  passaggio  al  co- 
minciamento  del  dialogo. 

*  Dante,  perchè  Virgilio  se  ne  vada, 
Non  pianger  anco,  non  piangere  ancora; 
Che  pianger  ti  convien  per  altra  spada. 

«  Guardami  ben  :  ben  son,  ben  son  Beatrice. 
Come  degnasti  d'  accedere  al  monte  ? 
Non  sapei  tu  che  qui  l'uomo  è  felice?  p 

Nelle  eloquenti  parole  di  Beatrice  grandeg- 
gia di  tutta  la  sua  dignità  lo  spiritualismo 
cristiano,  nobili  e  gravi  nella  sua  risposta 
agli  angioli  ;  stringenti  ed  instanti,  allorché 
si  volge  al  poeta  ;  ma  di  modo  che  in  quella 
gravità  è  pure  alcun  che  di  affettuoso;  e  questa 
veemenza  non  è  senza  decoro.  La  vergogna, 
il  dolore  e  la  confessione  di  Dante  vi  è  de- 
scritta con  le  più  delicate  gradazioni  e  con 
la  più  grande  verità.  E,  per  arrecare  in  mezzo 
alcuno  esempio,  la  sua  vergogna  é  rappre- 
sentata con  un  doppio  naturale  movimento 
degli  occhi,  l'uno  nascente  dal  sentimento 
interiore,  l'altro  dalla  visione  di  esso  senti- 


42 


mento  sul  suo  volto  :  egli  non  osa  rimirare, 
non  che  altri,  sé  stesso. 

«  Gli  occhi  mi  cadder  giù  nel  chiaro  fonte  ; 
Ma  veggendomi  in  esso,  io  trassi  all'  erba  : 
Tanta  vergogna  mi  gravò  la  fronte  ». 

Dove  si  può  notare  qual  prò  egli  abbia  sa- 
puto trarre  dal  rivo,  presso  al  quale  stava, 
giovandosi  della  circostanza  del  luogo  con 
quella  stessa  felicità,  che  ammiriamo  nel  pa- 
tetico giuramento  di  Pier  delle  Vigne. 

Gli  angioli,  che  fanno  corona  a  Beatrice,  non 
vi  stanno  indarno;  anzi  vi  adempiono  l'officio 
del  coro  antico,  e  la  celeste  salmodia  che 
esprime  pietà  e  compatimento  stempera  l'an- 
goscia del  poeta  nel  pianto.  E  certo  non  vi 
ha  cosa  che  abbia  tanta  virtù  di  trarre  la  la- 
crima dagli  occhi  aridi  di  un  infelice  quanto 
le  affettuose  dimostrazioni,  onde  altri  lo  com- 
patisce e  conforta. 

La  natura  di  questo  lavoro  non  mi  con- 
sente ch'io  entri  in  altri  particolari,  e  già  ho 
detto  anche  troppo:  aggiungerò  solo  che  questi 
due  canti,  ne'  quali  il  poeta  mostra  un  grande 
ingegno  drammatico  per  la  ricchezza  ed  evi- 
denza delle  immagini,  per  la  nobiltà  del  con- 
cetto, per  la  squisita  gradazione  degli  affetti 
e  per  la  naturalezza  e  verità  de'  trapassi,  pos- 
sono stare  accanto  a'  più  belli  della  Divina 
Commedia. 


-  43  - 

Ma  il  dolore  non  è  il  sentimento  princi- 
pale del  purgatorio  :  esso  è  raddolcito  dalla 
speranza,  ed  il  cuore  si  acqueta  nell'aspetto 
della  virtù  a  cui  sospira.  La  virtù  quindi  non 
vi  ha  la  forma  positiva  del  paradiso,  ma  ri- 
splende solo  alla  fantasia  accesa  dal  deside- 
rio e  dall'amore.  Le  anime  la  veggono  inta- 
gliata nel  luogo  della  loro  purgazione,  figure 
mirabili  di  delicatezza,  di  affetto,  d'evidenza  ; 
e,  ragionando  e  cantando  di  quella,  si  con- 
fortano a  bene  operare  e  placano  col  diletto 
della  immaginazione  il  tormento  del  senso. 

«  Poi  vidi  genti  accese  in  foco  d' ira, 
Con  pietre  un  giovinetto  ancider,  forte 
Gridando  a  sé  pur:  Martira,  martira: 

E  lui  vedea  chinarsi,  per  la  morte 
Che  l'aggravava  già,  in  vèr  la  terra; 
Ma  degli  occhi  facea  sempre  al  ciel  porte, 

Orando  all'  alto  Sire  in  tanta  guerra, 
Che  perdonasse  a'  suoi  persecutori, 
Con  quell'aspetto  che  pietà  disserra». 

«  E  per  ventura  udii  :  Dolce  Maria, 
Dinanzi  a  noi  chiamar,  così  nel  pianto, 
Come  fa  donna  che  in  partorir  sia  ; 

E  seguitar:  Povera  fosti  tanto, 
Quanto  veder  si  può  per  quell'ospizio, 
Ove  sponesti  '1  tuo  portato  santo. 

Seguentemente  intesi:  O  buon  Fabrizio, 
Con  povertà  volesti  anzi  virtute, 
Che  gran  ricchezza  posseder  con  vizio  ». 

I  personaggi  tengono    molto   dell'  umano  : 


-  44  — 

in  loro  non  è  né  l'ambascia  de'  dannati,  né 
l'estasi  de'  santi  ;  ma  la  tranquilla  gioia  del- 
l' uomo  virtuoso,  che,  vivendo  ancora  nella 
miseria  terrena,  sulle  ali  della  fede  e  della 
speranza  alza  l'animo  al  paradiso.  Così  nel- 
l' aspetto  di  Catone  noi  vediamo  impressa 
l' immagine  veneranda  del  saggio  antico,  ma 
irradiata  di  celeste  luce.  Le  ombre  sono  con- 
tenute nel  fuoco  ;  gli  affetti  hanno  dolci  e 
temperati,  il  desiderio  puro  d' inquietudine 
e  di  ansietà  ;  ed  il  poeta  adopera  le  imma- 
gini più  tenere  e  soavi  a  ritrarre  questa 
pace  interiore. 

«  Era  già  l'ora  che  volge  '1  disio 
A'  naviganti  e  intenerisce  il  cuore, 
Lo  dì  e'  han  detto  a'  dolci  amici  addio  ; 

E  che  lo  nuovo  peregrin  d'amore 
Punge,  se  ode  squilla  di  lontano, 
Che  paia  '1  giorno  pianger  che  si  muore  : 

Quand'  io  incominciai  a  render  vano 
L'udire,  ed  a  mirar  una  dell'alme 
Surta,  che  l'ascoltar  chiedea  con  mano. 

Ella  giunse  e  levò  ambe  le  palme, 
Ficcando  gli  occhi  verso  l'oriente, 
Come  dicesse  a  Dio  :  D'altro  non  calme. 

Te  lucis  ante  sì  devotamente 
Le  uscì  di  bocca,  e  con  sì  dolci  note, 
Che  fece  me  a  me  uscir  di  mente.  » 

Tutto  spira  carità  ed  affetto  ;  e  poiché  nei 
particolari  è  la  vita  della  poesia,  come  av- 
vertì   uno    de'  nostri    più    giudiziosi    critici, 


—  45  — 

Gian  Vincenzo  Gravina,  l'autore  rende  visi- 
bile il  sentimento  nell'azione.  Il  purgatorio  è 
sparso  di  tratti  affettuosi.  Le  anime  nell'  in- 
contrarsi fannosi  festa  insieme,  congaudendo, 
per  dirla  con  l'energia  dantesca. 

«  Li  veggio  d'ogni  parte  farsi  presta 
Ciascun'  ombra,  e  baciarsi  una  con  una 
Senza  ristar,  contente  a  breve  festa. 

Cosi  per  entro  loro  schiera  bruna 
S'ammusa  l'una  con  l'altra  formica, 
Forse  a  spiar  lor  via  e  lor  fortuna.  » 

La  ricordanza  dell'amicizia  è  rappresentata 
in  Dante  e  Casella  con  immagini  e  con  modi 
di  dire  di  una  gentilezza  petrarchesca. 

«  Così  al  viso  mio  s'affissar  quelle 
Anime  fortunate  tutte  quante, 
Quasi  obbliando  d' ire  a  farsi  belle. 

Io  vidi  una  di  lor  traggersi  avante, 
Per  abbracciarmi  con  sì  grande  affetto, 
Che  mosse  me  a  far  lo  somigliante. 

Oh  ombre  vane,  fuor  che  nell'aspetto! 
Tre  volte  dietro  a  lei  le  mani  avvinsi, 
E  tante  mi  tornai  con  esse  al  petto.  » 

Neil'  incontro  di  Stazio  e  di  Virgilio  il  rico- 
noscimento è  condotto  con  molta  arte  e  la 
riverenza  di  Stazio  espressa  con  molta  verità 
in  uno  di  quei  movimenti  sùbiti  ed  incon- 
sapevoli, che  contraddicono  all'intelletto  ;  né 
trasanderò  la  stupenda  creazione  del  Sordello, 
il  quale  dalla  maestà  e  dal  riposo  della  sua 


46 


prima  attitudine  prorompe  con  tanta  natu- 
ralezza in  un  impeto  di  sublime  affetto.  Con 
manifesta  compiacenza  l'autore  ha  introdotti 
nel  purgatorio  di  assai  poeti  ed  artisti,  Ca- 
sella, Sordello,  Buonagiunta  da  Lucca,  Sta- 
zio, Oderisi,  Guido  Guinicelli,  Arnaldo  Da- 
niello, e  con  esso  loro  s' intrattiene  in  nobili 
e  cari  ragionamenti,  talora  intorno  all'arte. 
Ma  nelle  figure  individuali  è  debole  perso- 
nalità e  povera  esplicazione  di  affetto  e  di 
carattere  ;  vi  ha  bellezza,  ma  insieme  l'immo- 
bilità della  calma.  Al  che  suppliscono  in 
parte  alcune  digressioni  politiche  scintillanti 
di  bellezze  ed  uniche  tra  noi  per  veemenza 
e  calore  di  affetto,  benché  altre  sieno  un 
cotal  poco  aride  e  troppo  spicciolate  nel  mi- 
nuto della  realtà  ;  la  quale,  scompagnata 
dall'  ideale,  ha  la  vita  labile  dell'  accidente. 
Ma  la  parte  politica,  mentre  per  un  lato  cre- 
sce varietà  e  vivacità  al  disegno,  non  vale 
punto  a  turbare  nel  generale  quello  stato  di 
calma  aspirazione  alle  cose  celesti,  in  cui 
sono  le  anime.  Di  che  è  manifestazione  il 
canto,  contrapposto  a'  feroci  lamenti  de'  dan- 
nati ;  e  già  fin  nel  principio  il  canto  amo- 
roso di  Casella  è  quasi  preludio  alle  sacre 
melodie,  onde  risuona  la  montagna. 

«  Ed  io  :  Se  nuova  legge  non  ti  toglie 
Memoria,  od  uso  all'amoroso  canto, 
Che  mi  solea  quetar  tutte  mie  voglie, 


47 


Di  ciò  ti  piaccia  consolare  alquanto 
L'anima  mia,  che  con  la  sua  persona, 
Venendo  qui,  è  affannata  tanto. 

Amor  che  nella  niente  mi  ragiona, 
Cominciò  egli  allor  sì  dolcemente, 
Che  la  dolcezza  ancor  dentro  mi  suona  ». 

Più  che  negl'  individui,  questo  elemento 
lirico  si  manifesta  ne'  gruppi,  parte  precipua 
del  purgatorio  :  il  comune  affetto  s' immede- 
sima in  un  solo  concento.  Neil'  inferno  non 
vi  sono  cori,  perchè  non  vi  è  1'  unità  del- 
l'amore. L'odio  è  solitario  :  l'amore  è  simpa- 
tia ed  armonia  ;  ond'è  che  il  canto  e  la  mu- 
sica, effusione  del  cuore  gonfio  e  traboccante, 
conseguono  il  loro  massimo  effetto  nella  mi- 
surata varietà  delle  voci  e  degli  strumenti. 
Né  altra  è  qui  la  situazione  :  le  anime  escono 
dalla  loro  coscienza  individuale,  assorte  in 
uno  stesso  spirito  di  carità. 

«  Una  parola  in  tutte  era  ed  un  modo, 
Sì  che  parea  tra  esse  ogni  concordia.  * 

Materia  del  canto  sono  per  lo  più  salmi 
ed  inni  sacri ,  espressione  varia  di  dolore,  V 
di  speranza,  di  preghiera,  di  letizia,  di  lodi 
al  Signore.  Essi  sono  mirabilmente  acconci 
alle  diverse  situazioni.  Così,  entrando  nel 
purgatorio  come  nella  terra  promessa ,  le 
anime  cantano  In  exitu  Israel  de  /Egypto  ;  nel 


—  48  - 

primo  salire  intuonano  il  Miserere;  e  con  la 
stessa  convenienza  vi  è  introdotto  il  Salve, 
Regina ,  il  Gloria  in  excelsis  Deo ,  l'Agnus 
Dei  ecc.  Ma  dee  spiacere  che  il  poeta,  con- 
tento a  citare  la  prima  parola  o  il  primo 
versetto  latino  delle  poesie  bibliche  o  della 
Chiesa,  non  ne  abbia  recate  alcune  per  di- 
steso in  volgare,  come  ha  fatto  del  Pater 
nosler,  o  composte  egli  delle  nuove,  com'  è 
nel  paradiso  la  nobilissima  preghiera  di 
S.  Bernardo  e  come  a'  nostri  dì  con  tanta  lode 
ha  fatto  il  Manzoni.  Epperò  i  suoi  canti  sono 
una  vaga  melodia  musicale  nuda  della  sua 
esplicazione,  esprimenti  più  il  generale  e 
l' indeterminato,  che  il  proprio  ed  il  succes- 
sivo del  sentimento;  e,  quando  pensiamo  ai 
salmi  di  David,  così  consonanti  con  lo  stato 
delle  anime  penitenti,  sentiamo  tutto  ciò  che 
è  a  desiderare  nel  purgatorio.  Le  fuggitive 
apparizioni  degli  angioli  sono  quasi  l'imma- 
gine anticipata  del  paradiso  nel  luogo  della 
speranza.  In  essi  non  è  alcuna  subbiettività  : 
sono  forme  eteree  vestite  di  luce,  fluttuanti 
come  le  mistiche  visioni  dell'estasi,  e  nondi- 
meno ciascuna  con  propria  apparenza  ed  at- 
titudine. 

«  E  vidi  uscir  dall'alto,  e  scender  giue 
Due  angeli  con  due  spade  affocate, 
Tronche  e  private  delle  punte  sue. 


—  49  - 

Verdi,  come  fogliette  pur  mo  nate, 
Erano  in  veste,  che  da  verdi  penne 
Percosse  traean  dietro  e  ventilate. 

L'un  poco  sovra  noi  a  star  si  venne, 
E  l'altro  scese  all'opposita  sponda  : 
Sì  che  la  gente  in  mezzo  si  contenne. 

Ben  discerneva  in  lor  la  testa  bionda  ; 
Ma  nelle  facce  l'occhio  si  smarria, 
Come  virtù,  che  a  troppo  si  confonda.  » 

«  A  noi  venia  la  creatura  bella, 
Bianco  vestita,  e  nella  faccia  quale 
Par  tremolando  mattutina  stella.  » 

In  quelle  dolci  note,  in  queste  immagini 
celesti  l'anima  s' infutura,  gustando,  come 
dice  il  poeta,  le  primizie  del  piacere  eterno. 
Ui  che  prende  qualità  il  luogo,  rallegrato  da 
luce  non  propria,  ma  riflessa  dal  sole  e  dalle 
stelle,  che  è  quanto  dire  dal  paradiso  dan- 
tesco. Uscendo  dal  buio  infernale,  il  poeta 
descrive  la  prima  impressione  che  gli  fa  la 
luce  con  l'animo  rapito  di  uomo,  che,  stato 
lungamente  in  tenebre,  è  d' improvviso  di- 
lettato dalla  faccia  del  sole. 

«  Dolce  color  d'orientai  zaffiro, 
Che  s'accoglieva  nel  sereno  aspetto 
Dell'aer  puro  infino  al  primo  giro, 

Agli  occhi  miei  ricominciò  diletto, 
Tosto  eh'  io  fuori  uscii  dall'aura  morta, 
Che  m'avea  contristato  gli  occhi  e  '1  petto. 

Lo  bel  pianeta,  che  ad  amar  conforta, 
Faceva  tutto  rider  l'oriente 
Velando  i  Pesci,  ch'erano  in  sua  scorta. 

4 


-  50  - 

Io  mi  volsi  a  man  destra,  e  posi  mente 
All'altro  polo,  e  vidi  quattro  stelle 
Non  viste  mai,  fuor  ch'alia  prima  gente.  » 

E  dall'ombra  che  rende  il  suo  corpo  mor- 
tale trae  facile  opportunità  al  dialogo,  ca- 
gione di  maraviglia  e  di  curiosità  a'  nudi 
spiriti,  la  quale  egli  descrive  in  guise  sem- 
pre nuove  e  sempre  belle,  con  vena  inesausta 
di  fantasia. 

«  Come  le  pecorelle  escon  del  chiuso 
Ad  una,  a  due,  a  tre,  e  l'altre  stanno 
Timidette  atterrando  l'occhio  e  '1  muso  ; 

E  ciò  che  fa  la  prima,  e  l'altre  fanno, 
Addossandosi  a  lei,  s'ella  s'arresta, 
Semplici  e  quete,  e  lo  perchè  non  sanno  ; 

Sì  vid'  io  muovere,  a  venir,  la  testa 
Di  quella  mandra  fortunata  allotta, 
Pudica  in  faccia  e  nell'andare  onesta. 

Come  color  dinanzi  „vider  rotta 
La  luce  in  terra  dal  mio  destro  canto, 
Si  che  l'ombr'era  da  me  alla  grotta, 

Ristaro,  e  trasser  sé  indietro  alquanto  ; 
E  tutti  gli  altri,  che  venieno  appresso, 
Non  sapendo  '1  perchè,  fero  altrettanto  *. 

*  Quando  s'accorser  eh'  io  non  dava  loco 
Per  lo  mio  corpo  al  trapassar  de'  raggi, 
Mutar  lor  canto  in  un  O  lungo  e  roco.  » 

Parimente  il  purgatorio,  quantunque  sog- 
giorno di  penitenza,  pure  come  via  a  beati- 
tudine, è  sparso  qua  e  colà  di  luoghi    ame- 


-  51  - 

nissimi,  mostrandosi  la  natura  in  quella  stessa 
opposizione  che  sono  i  personaggi.  La  natura 
è  l'accordo  musicale  e  la  voce  esteriore  di 
quel  di  dentro  :  amorosa  consonanza  dello 
spirito  e  del  corpo,  in  che  è  posta  F  ultima 
ragione  dell'arte.  Così,  per  passarmi  di  altri 
esempi,  nel  canto  settimo  è  maravigliosa  ar- 
monia tra  le  ombre  sedute,  quete  e  cantanti 
Salve,  Regina,  e  la  vista  allegra  del  seno  er- 
boso e  fiorito,  in  mezzo  al  quale  riposano. 

«  Tra  erto  e  piano  era  un  sentiero  sghembo, 
Che  ne  condusse  in  fianco  della  lacca 
Là,  dove  più  ch'a  mezzo  muore  il  lembo. 

Oro  ed  argento  fino  e  cocco  e  biacca, 
Indico  legno  lucido  e  sereno, 
Fresco  smeraldo  allorché  si  fiacca, 

Dall'erba  e  dalli  fior,  dentro  a  quel  seno 
Posti,  ciascun  saria  di  color  vinto, 
Come  dal  suo  maggiore  è  vinto  il  meno. 

Non  avea  pur  natura  ivi  dipinto, 
Ma  di  soavità  di  mille  odori, 
Vi  faceva  un  incognito  indistinto 

Salve,  Regina,  in  sul  verde  e  in  su'  fiori 
Quivi  seder,  cantando,  anime  vidi, 
Che  per  la  valle  non  parean  di  fuori.  » 

Le  anime,  piangendo,  cantano  ;  e  la  mon- 
tagna alpestre  è  lieta  di  apriche  valli  e  di 
campi  odorati  :  il  quale  contrasto  ha  il  suo 
termine,  quando  l'anima  si  leva  con  libera  vo- 
lontà a  miglior  soglia;  monda  del  tristo  pas- 
sato, con  pura  letizia.  Neil'  inferno  si  scende, 


-  52   - 

nel  purgatorio  si  sale;  e  come  ivi  l'ultimo 
abisso  è  segno  della  compiuta  malvagità,  così 
la  cima  del  purgatorio  è  immagine  terrena 
del  paradiso.  La  descrizione  del  paradiso  ter- 
restre ci  ricorda  i  giardini  incantati  di  Alcina 
e  di  Armida,  delizia  e  lascivia  dell'  immagi- 
nazione ;  se  non  che  è  qui  una  severità  di 
forma,  che  risponde  alla  serietà  del  concetto. 
Tutto  è  qui,  che  alletti  lo  sguardo  e  lusinghi 
la  fantasia  :  riso  di  cielo,  canto  di  uccelli, 
vaghezza  di  fiori  ,  e  tremolare  di  fronde  e 
mormorare  di  acque,  tutto  descritto  con  soa- 
vità e  melodia,  ma  insieme  con  tale  austera 
temperanza,  che  non  dà  luogo  a  mollezza  ed 
ebbrezza  di  sensi  ;  né  il  diletto  che  noi  pro- 
viamo turba  il  riposo  dell'animo.  Il  poeta 
passa  dormente-  da  uno  stato  in  un  altro, 
cioè  senza  opera  sua,  per  virtù  della  grazia 
divina.  I  suoi  sogni  sono  rappresentazioni 
dello  stesso  passaggio,  che  si  offre  confu- 
samente alla  sua  coscienza  ,  con  quel  me- 
scolamento di  realtà  e  d'immaginazione,  che 
suole  aver  luogo  in  questi  casi. 

«  Nell'ora,  che  comincia  i  tristi  lai 
La  rondinella  presso  alla  mattina, 
Forse  a  memoria  de' suoi  primi  guai; 

E  che  la  mente  nostra,  pellegrina 
Più  dalla  carne,  e  men  da'  pensier  presa, 
Alle  sue  vision  quasi  è  divina; 


53 


In  sogno  mi  parea  veder  sospesa 
Un'aquila  nel  ciel  con  penne  d'oro, 
Con  l'ale  aperte,  ed  a  calare  intesa  : 

Ed  esser  mi  parea  là,  dove  fóro 
Abbandonati  i  suoi  da  Ganimede, 
Quando  fu  ratto  al  sommo  concistoro. 

Fra  me  pensava  :  Forse  questa  fiede 
Pur  qui  per  uso  ;  e  forse  d'altro  loco 
Disdegna  di  portarne  suso  in  piede. 

Poi  mi  parea  che,  più  rotata  un  poco, 
Terribil  come  folgor  discendesse 
E  me  rapisse  suso  infìno  al  foco. 

Ivi  pareva  ch'ella  ed  io  ardesse  : 
E  sì  l' incendio  immaginato  cosse, 
Che  convenne  che  '1  sonno  si  rompesse  ». 

Ce  ne  ha  di  molto  belli;  e  bellissimo  per 
concetto  e  per  virtù  creativa  è  1'  ultimo  so- 
gno, nel  quale  gli  appare  Lia,  simbolo  della 
vita  attiva,  tutta  intesa  a  farsi  bella  con  l'o- 
pera, mentre  la  sorella  Rachele,  figura  della 
vita  meditativa,  è  ratta  in  contemplazione. 

«  Sì  ruminando  e  sì  mirando  in  quelle, 
Mi  prese  '1  sonno;  il  sonno  che  sovente, 
Anzi  che  '1  fatto  sia,  sa  le  novelle. 

Nell'ora,  credo,  che  dall'oriente 
Prima  raggiò  nel  monte  Citerea, 
Che  di  fuoco  d'amor  par  sempre  ardente, 

Giovane  e  bella  in  sogno  mi  parea 
Donna  vedere  andar  per  una  landa, 
Cogliendo  fiori;  e  cantando  dicea  : 

Sappia  qualunque  il  mio  nome  dimanda 
Ch'  io  mi  son  Lia,  e  vo  movendo  intorno 
Le  belle  mani  a  farmi  una  ghirlanda. 


-  54  - 

Per  piacermi  allo  specchio  qui  m'adorno  ; 

Ma  mia  suora  Rachel  mai  non  si  smaga 

Dal  suo  miraglio,  e  siede  tutto  giorno. 
E1P  è  de'  suoi  begli  occhi  veder  vaga, 

Com'  io  dell'  adornarmi  con  le  mani; 

Lei  lo  vedere  e  me  l'ovrare  appaga  ». 

L'anima,  pervenuta  nel  paradiso  terrestre, 
è  rifatta  bella,  tornata  nell'antico  stato  d'in- 
nocenza, sciolta  da  ogni  memoria  del  pas- 
sato, e  di  efficace  volontà  libera  da  ogni  im- 
pedimento. Il  che  è  rappresentato  estrinseca- 
mente in  Matilde,  che  tuffa  i  redenti  nel  fiume 
Lete  ed  Eunoè.  Matilde  è  l'anima  nell'opera  di 
sua  redenzione,  la  stessa  Lia  venuta  a  realtà, 
in  sembianza  ancora  umana  celeste  creatura, 
con#  l' ingenua  giocondità  di  fanciulla,  con  la 
leggerezza  di  Silfide,  col  pudico  sguardo  di  ver- 
gine, il  volto  radiante  della  luce  di  paradiso. 
E  già  l'anima  pregusta  le  gioie  belle  e  care 
del  cielo,  al  quale  si  leva;  ed  il  poeta  le  pre- 
senta simbolicamente,  in  aspetto  ancora  ter- 
reno, l'obbietto  del  suo  desio.  Le  forme  al- 
legoriche non  vogliono  essere  squallide  e  sco- 
lorate, come  caratteri  di  algebra  o  lettere  di 
alfabeto,  morte  e  vuote  figure  in  sé  stesse, 
né  sconce  e  disformi  alla  dignità  del  sub- 
bietto,  come  quegl'  idoli  deformi  e  prosaici 
di  rozzi  popoli,  ne'  quali  essi  effigiavano  i 
loro  Iddii.  La  figura  dee  avere  per  sé  un  suo 
proprio  valore  poetico:  di  che  non   mi  pare 


-  55  — 

siasi  qui  dato  pensiero  il  poeta,  invaghitosi 
per  avventura  più  del  tipo  orientale  che  della 
libera  e  schietta  bellezza  greca,  traendone 
solo  Beatrice  descritta  con  una  ricchezza  di 
colorito  che  già  imparadisa  le  nostre  menti, 
ed  alcuni  particolari  vaghissimi. 

Giunto  all'albero  della  vita,  cioè  della  scien- 
za del  bene  e  del  male,  il  poeta  in  sullo  scio- 
gliersi dalle  cose  terrestri  s' innalza  al  signi- 
ficato generale  dell'  umanità,  della  quale  ci 
narra  la  storia  dal  peccato  di  origine  infìno 
a'  tempi  suoi  :  concetto  nobilissimo,  degno 
dell'  ingegno  dantesco,  comprensivo  e  pro- 
fondo ad  un  tempo,  ma  poco  felicemente 
rappresentato  nella  sua  forma  allegorica. 

Jl  purgatorio  è  comunemente  meno  pre- 
giato dell'  inferno,  comechè  da  questo  avviso 
si  discostino  alcuni  moderni  critici  ;  e,  tra 
gli  altri,  il  Balbo  è  ito  sì  lungi  che  non  ha 
dubitato  di  preporre  alla  prima  la  seconda 
cantica,  guidato  per  avventura  meno  dal  vero, 
che  da  amore  di  contraddizione  e  di  parte. 
Porre  a  ragguaglio  l'infermo  col  purgatorio 
e  dolersi  che  nell'uno  manchino  que'  pregi 
e  quelle  qualità  che  si  lodano  nell'  altro  è, 
a  parer  mio,  tanto  vana  e  pueril  cosa,  quanto 
il  paragone  che  tenne  tanto  tempo  sospesi 
i  nostri  critici  tra  l'Orlando  e  la  Gerusalemme: 
perocché,  quantunque  le  due  cantiche  sieno 
fattura  della  stessa  mente,  pure   è    tra   esse 


—  56  - 

intrinseca  differenza  di  concetto  e  quindi  di 
forma;  e  in  questo  mi  è  avviso  stia  il  mira- 
colo dell'  ingegno  dantesco,  essendo  le  tre 
cantiche  tre  mondi,  tre  poemi,  tre  poesie  di- 
verse. Il  purgatorio  non  può  essere  altro  da 
quello  che  è,  o  vogli  considerarlo  come  parte 
del  tutto  o  come  totalità  per  sé  stessa:  tal 
concetto,  tal  forma. 


IV. 
IL  PARADISO 


IV. 
IL  PARADISO. 


Il  paradiso  è  l'apoteosi  dello  spirito,  la  tra- 
sfigurazione di  Cristo,  il  trasumanare,  come 
dice  il  poeta,  o,  in  forma  positiva,  il  divino, 
La  bellezza  è  la  rappresentazione  del  divino, 
la  materia  trasfigurata  ed  indiata  ;  sicché  il 
divino  puro  trascende  l' immaginazione,  ed 
è  di  là  dalla  poesia.  Esso  non  può  essere  ob- 
bietto  che  di  brevi  lavori  lirici,  i  quali  con- 
tengano non  la  descrizione  di  cosa  che  è  al 
di  sopra  della  forma;  ma  la  vaga  aspirazione 
dell'anima  «  a  non  so  che  divino  »:  ed  anche 
allora  1'  obbietto  del  desiderio,  quantunque 
in  una  ideale  indeterminazione,  riceve  la 
sua  bellezza  dalle  immagini,  come  nelle  due 
celesti  poesie  di  Schiller,  l'Aspirazione  e  il 
Pellegrino  (1). 


(1)  Farmi,  o  io  m'inganno,  che  «  l'obbietto  del  desiderio  riceva 
la  sua  bellezza  dalle  immagini  »  più  nel  Pellegrino  che  nell'aspi- 
razione. 

Il  De  Sanctis  mi  diceva  che  si  era  proposto  di  tradurre  queste 


60 


«  Mira  il  ciel  coni'  è  bello  e  mira  il  Sole, 
Che  a  sé  par  che  n'inviti  e  ne  console  ».  (1) 

La  presenza  di  Dante  ancora  mortale  nel 
paradiso  porgergli  modo  di  rappresentare  il 
divino  umanamente:  che,  essendo  egli  uomo, 
la  sua  contemplazione  non  esce  dalle  con- 
dizioni umane,  forma  innanzi  alla  fantasia, 
scienza  innanzi  all'intelletto.  I  Beati,  adun- 
que, parlano  ed  ammaestrano  ed  appariscono 
umanamente. 


due  poesie  dello  Schiller  nel  1855,  come  già  aveva  tradotto  e  pub- 
blicato, splendidamente  illustrandolo,  l'Eliso  dello  stesso  autore 
in  un'appendice  del  Piemonte,  giornale  diretto  da  Luigi  Carlo  Fa- 
rini.  Ma  poi,  andato  ad  insegnare  nel  Politecnico  di  Zurigo,  n«n 
ne  fece  più  nulla. 

Del  Pellegrino  abbiamo  due  traduzioni  di  Andrea  Maffei,  molto 
eleganti  ;  ma  non  del  tutto  fedeli. 

Riproduco ,  qui  per  chi  non  1'  abbia  letta ,  quella  che  meno  si 
allontana  dall'  originale  tedesco  : 

\J  aprii  della  mia  vita  ancor  fioria, 

Quand'io  mi  posi  in  via. 
Lasciai  senza  un  sospiro  ogni  diletto 

Del  mio  paterno  tetto. 
Lasciai,  caldo  di  fede  e  con  serene 

Pupille,  ogni  mio  bene, 
E  presi  col  bordon  del  pellegrino, 

Devoto,  il  mio  cammino. 
Traeami  un'alta  speme  e  questa  arcana 

Voce  :    «  La  via  t'è  piana  ! 
»  Va,  garzone  animoso,  e  vèr  l'aurora 

Drizza  il  tuo  corso  ognora. 
»  Quando  una  porta  tutta  d'or  t'appare, 

Ne  varca  il  limitare. 
»  La  sustanza  terrena  ivi  s'affina, 

Pura  si  fa,  divina.  » 

il)  Sono  versi  del  Tasso  (Gerusalemme  liberala,  canto  II,  stanza 

xxxvi).  e.  l. 


-  61  - 

«  Così  parlar  conviensi  al  vostro  ingegno; 
Perocché  solo  da  sensato  apprende 
Ciò,  che  fa  poscia  d'intelletto  degno. 

Per  questo  la  Scrittura  condiscende 
A  vostra  facultate,  e  piedi  e  mano 
Attribuisce  a  Dio,  ed  altro  intende  ». 

«  Tu  hai  l'udir  mortai,  sì  come  '1  viso, 
Rispose  a  me;  però  qui  non  si  canta 
Per  quel  che  Beatrice  non  ha  riso  ». 

E  perchè  fruiscono  la  visione  di  Dio  con 
più  o  meno  di  chiarezza,  secondo  i  lor  me- 
riti, il  poeta  passa  per  diversi  gradi  di  con- 
templazione. La  luce  è  quella  che  ritrae  più 
dello  spirito,  il  quale    suol    essere  da'  poeti 


Non  prendea,  non  volea  riposo  alcuno 

Dall'alba  all'  àer  bruno. 
Ma  quanto  iva  cercando,  al  mio  pensiero, 

Ahi,  sempre  era  un  mistero  ! 
In  fiume  or  m'impedia  lo  stanco  passo, 

Ora  un  alpestre  masso. 
Sul  (lutto  o  sul  burron  che  m'era  a  fronte 

(ìittar  fu  d'uopo  un    ponte. 
Giunsi  in  riva  alla  lin  d'un  gran  torrente 

Converso  all'oriente. 
Lieto  mi  ravviai  per  quella  sponda, 

E  scesi  in  grembo  all'  onda. 
L'onda  m'avvolse,  e  mi  portò  veloce 

D'un  mare  ampio  alla  foce. 
Vedea  dinanzi  a  me  l'immenso  vano, 

E  sempre,  oimè,  lontano 
Dalla  mia  mèta!  ..  Oh  chi,  chi  me  la  insegna.'... 

M'è  sopra  il  ciel,  ma  sdegna 
Baciar  la  terra  ;  e  questa  in  caro  amplesso 

Mai  non  si  stringe  ad  esso. 
Vedi  Fn>BRICO  Schiller,  Ballate  e  liriche,  traduzioni  di  Andrea 
Maffei.  Firenze,  Successori  Le  Monnier,  1877. 

G.  L. 


—  62  — 

manifestato  con  immagini  tolte  da  quella; 
né  altrimenti  Dio  stesso  s'offerse  già  alla  fan- 
tasia popolare,  che  come  emanazione  di  luce 
vivificante.  L'inferno  é  buio  di  notte;  il  pur- 
gatorio, come  la  terra,  riceve  la  luce  dal 
Sole  e  dalle  stelle,  e  queste  immediatamente 
da  Dio  ;  sicché  le  anime  purganti,  come  gli 
uomini,  contemplano  il  Sole,  ed  in  esso  l'im- 
magine più  vivace  di  Dio;  dove  gli  abitatori 
delle  sfere  celesti  godono  l'intuizione  di  Dio 
per  la  luce  che  move  da  lui  senza  mezzo. 

«  Lume  eh'  a  lui  veder  ne  condiziona  ». 

Il  paradiso  è  la  più  spirituale  manifesta- 
zione di  Dio  :  e  però  di  tutte  le  forme  non 
rimane  altro  che  luce,  di  tutti  gli  affetti  non 
altro  che  amore,  di  tuit'  i  sentimenti  non 
altro  che  beatitudine,  di  tutti  gli  atti  non 
altro  che  contemplazione.  Amore,  beatitu- 
dine, contemplazione  s'informano  anch'esse 
di  luce  ;  gli  spiriti  si  scaldano  a'  raggi  d'  a- 
more;  la  letizia  sfavilla  negli  occhi  e  fiam- 
meggia nel  viso;  e  la  verità  è,  come  in  uno 
specchio,  dipinta  nel  cospetto  eterno. 

«  Luce  intellettual  piena  d'  amore, 
Amor  di  vero  ben  pien  di  letizia, 
Letizia  che  trascende  ogni  dolzore  ». 

Alto  subbietto  di  poesia  lirica;  ma   di  dif- 


63 


fìcile  e  quasi  disperata  esecuzione,  ove  ab- 
biasi a  distendere  in  trentatrè  canti  in  forma 
narrativa  ;  che,  essendo  tutte  le  differenze 
sparite  in  questa  tanto  semplice  unità,  non 
è  altra  distinzione  possibile  che  di  più  e  di 
meno;  e  non  pertanto  la  forma  dee  ricevere 
tali  gradazioni,  che  rispondano  a'  diversi  or- 
dini di  virtù,  ovvero  all'  ascendente  manife- 
stazione di  Dio.  La  quale  difficoltà  è  fatta 
maggiore  dalla  severità  del  concetto,  studian- 
dosi il  poeta  di  rapppresentarlo,  quanto  è 
possibile,  nella  sua  purezza  spirituale:  onde 
la  forma,  come  limitata,  rimane  sempre  di 
qua  dell'  infinito  divino,  né  la  fantasia  può 
tener  dietro  all'intelletto.  Di  che  nasce  quella 
qualità  musicale  di  questa  poesia,  che  da 
alcuni  critici  con  soverchio  amor  di  sistema 
si  è  voluto  attribuire  a  tutta  l'arte  moderna. 
La  forma  qui  dee  ondeggiare  nel  vago  del- 
l' infinito  e  del  misterioso,  simile  all'  onda 
melodiosa  che  ti  sveglia  nel  core  ineifabili 
moti:  il  che  quanto  renda  malagevole  a  de- 
terminarla e  distinguerla  non  è  a  pensare. 
Bene  il  poeta  adopera  1'  estremo  della  sua 
fantasia:  egli  ha  avuto  piena  coscienza  del- 
l'altezza del  subbietto  e  si  è  sentito  pari  al- 
l' impresa.  Dapprima  le  immagini  gli  si  of- 
frono vivaci,  spontanee,  peregrine;  poi,  quasi 
stanco,  dà  talora  nell'arido  e  nell'acuto;  indi 
lo  vedi  rilevarsi  di  un  tratto,  poggiando  più 


-  64  — 

e  più  a  inarrivabile  altezza,  sereno,  estatico, 
innamorato:  diresti  che  la  difficoltà  lo  alletti, 
la  novità  lo  infiammi,  l'infinito  lo  esalti.  E 
primamente  non  dee  recar  maraviglia  che 
il  poeta  nel  malagevole  assunto  di  dover  rap- 
presentare tante  fiate  lo  stesso  concetto  sotto 
una  medesima  forma  talora  si  esprima  ari- 
damente ed  abbandonatamente,  e  tal  altra 
s'aiuti  con  la  sottigliezza  dell'ingegno,  sosti- 
tuendo alla  evidenza  immediata  dell'imma- 
gine la  freddezza  di  lontani  e  cercati  rap- 
porti. 

«  E  tal  nella  sembianza  sua  divenne, 
Qual  diverrebbe  Giove,  s'egli  e  Marte 
Fossero  augelli,  e  cambiassersi  penne  », 

«  Poscia  tra  esse  un  lume  si  schiari 
Sì,  che,  se  '1  Cancro  avesse  un  tal  cristallo, 
Il  verno  avrebbe  un  mese  d'un  sol  dì  ». 

Né  mi  par  da  lodare  che  nella  sfera  di 
Giove  la  luce  prenda  figura  di  lettere  com- 
poste a  parola,  e  da  ultimo  si  conformi  a 
modo  di  aquila.  Ma  egli  non  ha  seguitato 
per  questa  torta  via  ;  né  di  tali  puntelli,  a 
cui  si  appigliano  gli  animi  angusti,  era  punto 
mestieri  alla  sua  feconda  fantasia.  L'acutezza 
non  è  pure  contraria  al  buon  gusto,  ma  e- 
ziandio  alla  intrinseca  natura  del  concetto 
dantesco;  né  forme  sì  lievi  ed  eteree  possono 


-  65  - 

ricevere  troppo  minuta  determinazione  senza 
essere  rimpicciolite,  lasciando  stare  che,  come 
segno  visibile  dell'  infinito,  debbono  esse  u- 
scire  possibilmente  dall'angustia  del  limite. 
Quindi  nel  generele  la  forma  è  qui  negativa, 
come  negativo  è  il  concetto,  ed  il  vocabolo 
dal  quale  è  significato  il  Cristianesimo  è  stato 
a  ragione  chiamato  la  religione  del  sublime, 
come  quella  che  pone  un  abisso  tra  il  creato 
ed  il  creatore,  richiedendo  la  fede,  né  rico- 
noscendo nell'  uomo  quella  facoltà  che  oggi 
dicesi  dell'  assoluto,  intuito  o  ragione  che 
essa  si  sia. 

«Perch'io  l'ingegno  e  l'arte  e  l'uso  chiami, 
Sì  noi  direi,  che  mai  s'immaginasse: 
Ma  creder  puossi,  e  di  veder  si  brami. 

E  se  le  fantasie  nostre  son  basse 
A  tanta  altezza,  non  è  maraviglia  ; 
Che  sovra  '1  Sol  non  fu  occhio  eh'  andasse.  » 

Laonde  se  le  anime  nell'inferno  e  nel  pur- 
gatorio hanno  umana  apparenza,  qui  sono 
occulte,  come  in  un  santuario,  nel  profondo 
della  vivissima  luce. 

«  Sì  come  '1  Sol,  che  si  cela  egli  stessi 

Per  troppa  luce,  quando  il  caldo  ha  rose 

Le  temperanze  de'  vapori  spessi; 
Per  più  letizia  sì  mi  si  nascose 

Dentro  al  suo  raggio  la  figura  santa; 

E  così  chiusa  chiusa  mi  rispose  >. 


-  66  — 

La  pura  luce  e  le  tenebre  partoriscono  lo 
stesso  effetto;  che,  rubando  gli  obbietti  allo 
sguardo,  gì'  ingrandiscono  o  abbelliscono  di- 
nanzi alla  fantasia.  Così,  quando  comparisce 
la  Vergine,  il  poeta  non  tenta  già  di  descri- 
verla, ben  comprendendo  ch'ella  scaderebbe 
dall'altezza  della  sua  divinità,  ove  prendesse 
figura  quanto  si  voglia  bella  ;  ma  in  quella 
vece  egli  dipinge  con  ricchi  colori  la  festa 
degli  angioli,  che  le  fanno  corona,  e  ritrae 
il  riverente  loro  affetto  nella  mistica  ebbrez- 
za delle  parole  e  degli  atti:  nella  qual  vista 
non  riposa  la  fantasia,  ma  si  leva  più  su,  alla 
figura  principale,  obbietto  di  tanto  culto  e 
di  tanto  amore,  che  le  ondeggia  dinanzi,  come 
l' ideale  più  alto  a  cui  ella  possa  aspirare. 

«  Per  entro  '1  cielo  scese  una  facella, 
Formata  in  cerchio  a  guisa  di  corona, 
E  cinsela,  e  girossi  intorno  ad  ella. 

Qualunque  melodia  più  dolce  suona 
Quaggiù,  e  più  a  sé  l'anima  tira, 
Parrebbe  nube  che  squarciata  tuona, 

Comparata  al  suonar  di  quella  lira, 
Onde  si  coronava  il  bel  zaffiro, 
Del  quale  il  ciel  più  chiaro  s' inzaffira. 

Io  sono  amore  angelico,  che  giro 
L'  alta  letizia,  che  spira  del  ventre 
Che  fu  albergo  del  nostro  desiro; 

E  girerommi,  Donna  del  ciel,  mentre 
Che  seguirai  tuo  Figlio,  e  farai  dia 
Più  la  spera  suprema,  perchè  lì  entre. 


—  67  - 

Così  la  circulata  melodia 

Si  sigillava;  e  tutti  gli  altri  lumi 
Facean  sonar  lo  nome  di  Maria.  » 

«  E  come  fantolin,  che  invèr  la  mamma 
Tende  le  braccia,  poi  che  '1  latte  prese, 
Per  1'  animo  che  infin  di  fuor  s' infiamma; 

Ciascun  di  quei  candori  in  su  si  stese 
Con  la  sua  cima,  si  che  1'  alto  affetto, 
Ch'  egli  aveano  a  Maria,  mi  fu  palese. 

Indi  rimaser  lì  nel  mio  cospetto, 
Regina  coeli  cantando  sì  dolce, 
Che  mai  da  me  non  si  partì  il  diletto.  > 

Ancora  Cristo,  che  nel  purgatorio  è  rap- 
presentato sotto  la  forma  del  grifone,  qui  è 
collocato  nel  suo  trono  invisibile,  illuminante 
e  non  illuminato,  coperto  dalla  stessa  luce 
che  spande  intorno. 

«  Come  a  raggio  di  Sol,  che  puro  mei 
Per  fratta  nube,  già  prato  di  fiori 
Vider,  coperti  d*  ombra,  gli  occhi  miei; 

Vid'  io  così  più  turbe  di  splendori 
Fulgurati  di  su  da  raggi  ardenti, 
Sanza  veder  principio  di  fulgori.  » 

Con  lo  stesso  intendimento  1'  autore  aiuta 
la  fantasia  a  montar  su  verso  l'infinito,  mo- 
strando la  potente  impressione  eh'  ei  ne  ri- 
ceve. Come  la  melodia  musicale,  che  si  sente 
nell'  anima  senza  che  la  si  possa  intendere  né 
figurare;  così  l'infinito  si  manifesta  meglio 
nel  suo  effetto  che  nell'  immagine  :  e,  quando 


-  68  — 

l' immaginazione  è  così  desta  ,  I'  uomo  ap- 
prende confusamente  la  stessa  immagine,  per 
quella  reciprocanza  che  è  tra  1'  anima  e  la 
natura,  le  quali  si  rillettono  e  si  rispondono 
come  un'  eco  armoniosa.  Si  è  detto  che  dal 
cuore  vengono  i  grandi  pensieri;  ma  altresì 
le  grandi  immagini:  il  cuore  commosso  è  il 
migliore  interpetre  della  natura,  siccome  la 
contemplazione  della  natura  è  la  maestra 
del  cuore:  la  fantasia,  l'intendimento  e  l'af- 
fetto non  sono  che  diversi  suoni  della  mu- 
sica interiore. 

«...    raggiandomi  d'  un  riso 
Tal,  che  nel  fuoco  faria  1'  uom  felice.  » 

«  Che  dentro  agli  occhi  suoi  ardeva  un  riso 
Tal,  ch'io  pensai  co'  miei  toccar  lo  fondo 
Della  mia  grazia  e  del  mio  paradiso.» 

«  Al  Padre,  al  Figlio,  allo  Spirito  santo 
Cominciò  gloria  tutto  '1  Paradiso, 
Sì  che  m' inebriava  il  dolce  canto. 

Ciò  eh'  io  vedeva  mi  sembrava  un  riso 
Dell'  universo  per  che  mia  ebbrezza 
Entrava  per  1'  udire  e  per  lo  viso. 

O  gioia!  o  ineffabile  allegrezza! 
O  vita  intera  d'  amore  e  di  pace  ! 
O  senza  brama  sicura  ricchezza  !  > 

In  questa  disuguaglianza  del  concetto  e 
della  forma  l'immagine  è  disgiunta  da  quello, 
né  può  essere  propriamente    altro    che    una 


69 


comparazione;  onde  s' intende  perchè  qui  sia 
tanta  copia  di  paragoni,  le  gemme  più  elette 
e  più  preziose  della  terza  cantica.  L'  occhio 
acuto  del  poeta  coglie  la  natura  nelle  sue  ap- 
parenze più  lievi,  più  fuggevoli,  più  delicate, 
le  quali  egli  fa  sue,  togliendole  al  circolo  loro 
assegnato  in  terra  e  traendole  seco,  nel  suo 
volo,  ad  informare  le  sue  concezioni.  La  na- 
tura non  vi  è  come  sostanziale ,  ma  come 
simbolo  ed  apparenza:  onde  il  profondo  senso 
del  paragone  dantesco,  che  non  è  ornamento 
soprapposto  ed  estrinseco,  ma  il  terrestre  di 
rincontro  al  celeste,  la  realtà  non  come  ma- 
nifestazione, ma  come  ombra  della  verità, 
«  ombrifero  prefazio  del  vero.  » 

«  Quali  per  vetri  trasparenti  e  tersi, 
O  ver  per  acque  nitide  e  tranquille, 
Non  sì  profonde  che  i  fondi  sien  persi, 

Tornan  de'  nostri  visi  le  postille 
Debili  si,  che  perla  in  bianca  fronte 
Non  vien  men  forte  alle  nostre  pupille; 

Tali  vid'  io  più  faccie  a  parlar  pronte.  » 

«  Così  parlommi;  e  poi  cominciò:  Ave, 
Maria,  cantando;  e  cantando  vanìo 
Come  per  acqua  cupa  cosa  grave.  » 

« E  quelle  anime  liete 

Si  fero  spere  sopra  fìssi  poli, 

Fiammando  forte  a  guisa  di  comete. 
E  come  cerchi  in  tempra  d'  oriuoli 

Si  giran  sì,  che  '1  primo  a  chi  pon  mente   - 

Quieto  pare,  e  1'  ultimo  che  voli; 


70 


Così  quelle  carole,  differente- 
mente danzando,  dalla  sua  ricchezza 
Mi  si  facean  stimar  veloci  e  lente.» 

Così,  per  cagion  d'esempio,  giunto  nel  cielo 
empireo,  la  virtù  visiva,  soperchiata  dalla 
luce,  si  raccende  alle  parole  di  Beatrice;  ma 
non  penetra  oltre  all'  apparenza:  della  quale 
è  fatta  descrizione  in  tre  perfettissime  ter- 
zine, di  quella  spontaneità  e  limpidezza,  che 
ha  sempre  il  poeta  ne'  momenti  di  schietta 
ispirazione. 

«E  vidi  lume  in  forma  di  riviera 

Fulvido  di  fulgori,  intra  duo  rive 

Dipinte  di  mirabil  primavera. 
Di  tal  fiumana  uscian  faville  vive, 

E  d'  ogni  parte  si  mescean  ne'  fiori, 

Quasi  rubini  eh'  oro  circoscrive. 
Poi,  come  inebriate  dagli  odori, 

Riprofondavan  sé  nel  miro  gurge; 

E  s'  una  entrava,  un'altra  n'uscia  fuori.  » 

Lo  stile  di  Dante  non  è  sempre  uguale:  ta- 
lora nella  ruvidezza  della  parola  e  nell'acu- 
tezza del  pensiero  senti  più  lo  sforzo  della 
volontà,  che  la  forza  del  genio;  ma  quando 
è  infiammato  dal  caldo  dell'  estro  e  il  suo 
mondo  ideale  gli  si  agita  ed  atteggia  dinanzi, 
egli  scrive  quello  che  vede,  e  con  tanta  na- 
turalezza e  facilità,  che  i  suoi  versi  ti  paion 
composti  ier  l'altro:  effetto  maraviglioso  della 


—  71  - 

vera  poesia,  che  serba  in  tutt'  i  tempi  la  fre- 
schezza di  una  eterna  primavera.  Qui  l'evi- 
denza è  accompagnata  dalla  vaghezza  delle 
immagini,  avendo  il  poeta  circonfuse  le  ce- 
lesti sostanze  di  quanto  è  sulla  terra  più  ri- 
dente e  smagliante.  Avvalorata  la  vista  nella 
riviera  di  luce,  sotto  la  figura  si  manifesta 
il  figurato,  ed  in  que'  fiori  inebbrianti ,  in 
queir  oro,  in  que'  topazi  e  rubini,  in  quelle 
vive  faville  il  poeta  discerne  ambo  le  corti 
del  cielo  nel  santo  delirio  del  loro  tripudio. 
Ma  forza  è  pure  eh'  egli  si  arresti  dinanzi 
all'  infinito  dell'  idea,  rimasta  fantasia  fioca 
e  corta  al  concetto. 

<  Perchè  appressando  sé  al  suo  disire, 
Nostro  intelletto  si  profonda  tanto, 
Che  la  memoria  retro  non  può  ire.  » 

< ogni  minor  natura 

È  corto  recettacolo  a  quel  Bene 
Ch'  è  senza  fine,  e  sé  con  sé  misura. 

Dunque  nostra  veduta,  che  conviene 
Essere  alcun  de'  raggi  della  mente, 
Di  che  tutte  le  cose  son  ripiene, 

Non  può  di  sua  natura  esser  possente 
Tanto,  che  '1  suo  principio  non  discerna 
Molto  di  là,  da  quel  eh'  egli  è,  parvente. 

Però  nella  giustizia  sempiterna 
La  vista,  che  riceve  il  vostro  mondo, 
Com'  occhio  per  lo  mare,  entro  s'interna; 

Che,  benché  dalla  proda  veggia  il  fondo, 
In  pelago  non  vede;  e  nondimeno 
Egli  è;  ma  '1  cela  lui  l'esser  profondo.» 


—  72  — 

Non  di  rado  incontra  che  la  penna  gli  cade 
di  mano,  ed  alla  contemplazione  succede  una 
muta  adorazione.  Il  che  non  è  in  lui  lassi- 
tudine, ma  rapimento,  quasi  la  fantasia,  calda 
ancora,  miri  pur  fisa  e  desiosa  in  quel  sole 
dell'  essere,  senza  speranza  di  profondarvisi, 
come  ben  si  pare  alla  bellezza  de'  paragoni 
e  delle  immagini,  onde  infiora  il  suo  pensiero. 

«  Indi,  ad  udire  ed  a  veder  giocondo, 
Giunse  lo  spirto  al  suo  principio  cose, 
Ch'  io  non  intesi;  si  parlò  profondo. 

Né  per  elezìon  mi  si  nascose, 
Ma  per  necessità;  che  '1  suo  concetto 
Al  segno  de'  mortai  si  soprappose. 

E  quando  1'  arco  dell'  ardente  affetto 
Fu  sì  sfogato,  che  '1  parlar  discese 
Invèr  lo  segno  del  nostro  intelletto, 

La  prima  cosa,  che  per  me  s' intese, 
Benedetto  sie  Tu,  fu,  trino  ed  uno, 
Che  nel  mio  seme  se'  tanto  cortese.  » 

«  Che,  come  Sole  il  viso  che  più  trema, 
Così  lo  rimembrar  del  dolce  riso 
La  mente  mia  da  sé  medesma  scema.  » 

«  Da  quinci  innanzi  il  mio  veder  fu  maggio 
Che  '1  parlar  nostro,  eh'  a  tal  vista  cede; 
E  cede  la  memoria  a  tanto  oltraggio. 

Qual  è  colui  che  sonniando  vede, 
E  dopo  '1  sogno  la  passione  impressa 
Rimane,  e  1'  altro  alla  mente  non  riede, 

Cotal  son  io,  che  quasi  tutta  cessa 
Mia  visione,  ed  ancor  mi  distilla 
Nel  cuor  lo  dolce  che  nacque  da  essa. 


—  73  - 

Così  la  neve  al  Sol  si  disigilla, 
Cosi  al  vento  nelle  foglie  lievi 
Si  perdea  la  sentenzia  di  Sibilla.  » 

La  scienza  greca,  partita  nelle  diverse  fi- 
losofie da  opposti  principii,  riesce  nella  stessa 
conclusione  pratica  o  morale  :  che  V  ideale 
della  saggezza,  e  quindi  della  felicità,  sia  posto 
nella  uguaglianza  dell'animo;  e  l'apatia  stoica 
non  è  che  1'  ultima  e  fatale  deduzione  di  que- 
sto sistema:  il  qual  tipo  ha  la  sua  incarna- 
zione nella  serena  semplicità  della  forma  gre- 
ca. Questa  pagana  tranquillità  é  innalzata  dal 
Cristianesimo  all'  infinito  della  beatitudine, 
che  non  è  solo  acquetamento  del  desiderio, 
ma  foco  d'amore,  estro  e  furore  sacro,  eb- 
brezza di  voluttà,  che  non  cape  in  umano 
intelletto.  Presso  il  popolo,  che  è  il  primo 
inconsapevole  artista,  i  tre  mondi  cristiani 
presero  determinazione  e  figura;  e  molte  grot- 
tesche immagini  usciron  fuori  de'  dannati  e 
delle  anime  purganti.  Ma  nobilissime  furono 
le  figure  de'  Santi,  rappresentati  come  so- 
spesi di  terra,  levantisi  su  tra  il  riso  degli 
angioli,  cinti  il  capo  di  un'  aureola  di  luce, 
e  gli  occhi  al  cielo.  Il  paradiso  di  Dante  è 
conformato  a  questo  concetto.  La  vita  del 
Santo  è  la  contemplazione,  un  perpetuo  ra- 
pimento verso  il  primo  amore,  che  a  sé  lo  in- 
vita e  tira.  Ma  il  Dio  di  Dante  non  è  né  l'O- 


-  74  - 

limpo  nella  maestà  della  sua  forza,  né  l'Es- 
sere solitario  tra'  tuoni  e  le  folgori  nel  cor- 
ruccio della  sua  giustizia,  ma  il  Dio  cristia- 
no, Dio  di  bontà  e  di  amore:  onde  procede 
che  qui  il  sublime  è  temperato  col  bello,  l'e- 
stasi congiunta  con  la  pace  interiore,  perenne 
desiderio  e  perenne  appagamento. 

«  Quallo  doletta,  che  in  aere  si  spazia 
Prima  cantando,  e  poi  tace  contenta 
Dell'  ultima  dolcezza  che  la  sazia; 

Tal  mi  sembrò  l'imago  della  imprenta 
Dell'eterno  piacere,  al  cui  disio 
Ciascuna  cosa,  quale  eli'  è,  diventa.  » 

Il  sublime  non  ci  fa  sentire  atterriti  e  co- 
me annichilati;  ma  di  sé  ci  asseta,  e  c'inna- 
mora e  ci  bea.  Neil'  inferno  domina  il  ter- 
rore del  sublime  nell'  uomo  e  nella  natura; 
qui  mai  non  ti  avvieni  nel  sublime  nudo,  né 
quantitativo,  né  qualitativo,  senza  pur  trarne 
fuori  la  contemplazione  dello  stesso  Dio:  il 
divino  vi  è  bello,  amoroso,  umanato;  né  me- 
glio potea  rappresentarsi  questa  mistica  con- 
giunzione dell'  umano  e  del  divino,  riconci- 
liazione del  sublime  e  del  bello.  La  forza  vi- 
vificatrice del  genio  ha  unificato  questo  dop- 
pio sentimento  nell'  apparenza  e  negli  atti 
de'  personaggi.  La  luce,  mentre  cerchia  e  fa- 
scia del  suo  fulgore  1'  essenza  misteriosa,  al- 
letta lo  sguardo  con  la  bellissima  vista:  è  un 


75 


mare  infinito,  in  cui  ti  è  dolce  annegare.  Ol- 
treché, vincendo  la  corporale  impenetrabilità 
ed  entrando  i  suoi  raggi  gli  uni  negli  altri, 
essa  esprime  con  molta  evidenza  l' unione 
delle  anime  in  Dio,  l'individualità  sparita  ed 
innalzata  nel  mare  dell'essere. 

«  Pareva  a  me  che  nube  ne  coprisse 
Lucida,  spessa,  solida  e  pulita, 
Quasi  adamante  che  lo  Sol  ferisse. 

Per  entro  sé  1'  eterna  margherita 
Ne  ricevette,  com'  acqua  recepe 
Raggio  di  luce,  permanendo  unita. 

S' io  era  corpo  (e  qui  non  si  concepe 
Com'  una  dimensione  altra  patio, 
Ch'  esser  convien  se  corpo  in  corpo  repe), 

Accender  ne  dovria  più  il  disio 
Di  veder  quella  essenzia,  in  che  si  vede 
Come  nostra  natura  e  Dio  s'  unio.  » 

Il  poeta,  signore,  anzi  tiranno  della  lingua, 
trova  ardite  parole  a  significare  questa  com- 
penetrazione degl'  individui,  questa  medesi- 
mezza amorosa  degli  esseri  nell'essere:  incie- 
la, imparadisa,  india,  indiassi,  ininei,  inlei,  s'in- 
futura, s' illuia,  ecc.,  delle  quali  voci  alcune, 
dopo  lungo  obblio,  ritornano  a  vita.  La  re- 
denzione dell'  anima  è  la  sua  progressiva  e- 
mancipazione  dall'  egoismo  della  coscienza; 
la  sua  individualità  non  le  basta,  ella  si  sente 
incompiuta,  parziale,  disarmonica,  e  sospira 
alla  idealità  nella  vita  universale. 


—  76  — 

Abbiamo  mostrato  di  quanto  momento  sono 
i  gruppi  nel  purgatorio;  ivi  s'  inizia  quella 
comunione  ed  amicizia  delle  anime,  che  ha 
il  suo  compimento  nel  celeste  sodalizio.  I 
loro  moti  sono  danze  ;  le  loro  voci  sono 
canti;  ma  in  quel  turbine  di  movimenti,  in 
queir  accordo  di  voci  tu  non  discerni  niente 
d' individuo  o  di  particolare:  è  una  musica, 
nella  quale  i  varii  suonisi  perdono  e  si  con- 
fondono in  una  sola  melòde.  Ne  vi  è  pro- 
priamente differenza  di  aspetto;  ma ,  se  di 
così  dire  mi  è  lecito,  una  faccia  sola:  onde 
la  concezione  in  questi  termini  dee  esser  po- 
vera d*  azione,  di  carattere  e  di  affetto  indi- 
viduale. Ma  il  poeta  ha  distinto  da'  Beati  gli 
angioli,  plenitudine  volante  tra  quelli  e  Dio. 
Gli  angioli,  ai  quali  noi  vogliamo  attribuire 
il  sembiante  schietto  della  fanciullezza,  espri- 
mono la  parte  spontanea  e  irriflessa  dello 
spirito,  1'  ebbrezza  della  ispirazione,  il  can- 
dore dell'animo:  la  virtù  è  in  loro  innocenza, 
il  pensiero  intuizione.  Questo  concetto  si  ri- 
vela in  alcuni  mirabili  tratti,  ne'  quali  li  ha 
rappresentati  il  poeta:  con  festevole  andare 
e  venire  nel  modo  abbandonato  e  sciolto  della 
prima  età,  tripudianti  e  folleggianti  senza  se- 
rietà di  pensiero  e  di  scopo,  arte  e  giuoco, 
secondo  le  parole  dello  scrittore. 


—  77  — 

«Ed  in  quel  mezzo  con  le  penne  sparte 
Vidi  più  di  mille  angeli  festanti, 
Ciascun  distinto  e  di  fulgore  e  d'  arte.  » 

<  Qual  è  queir  angel,  che  con  tanto  gioco 
(ìuarda  negli  occhi  la  nostra  Regina, 
Innamorato  si  che  par  di  fuoco?* 

«  In  forma  dunque  di  candida  rosa 
Mi  si  mostrava  la  milizia  santa, 
Che  nel  suo  sangue  Cristo  fece  sposa. 

Ma  l'altra,  che  volando  vede  e  canta 
La  gloria  di  Colui  che  la  innamora, 
E  la  bontà  che  la  fece  cotanta, 

Si  come  schiera  d'  api,  che  s' infiora 
Una  fiata,  ed  altra  si  ritorna 
Là  dove  il  suo  lavoro  s'insapora, 

Nel  gran  fior  discendeva,  che  s'  adorna 
Di  tante  foglie;  e  quindi  risaliva 
Là  dove  lo  suo  amor  sempre  soggiorna. 

Le  facce  tutte  avean  di  fiamma  viva, 
E  1'  ale  d'  oro;  e  I'  altro  tanto  bianco, 
Che  nulla  neve  a  quel  termine  arriva. 

Quando  scendean  nel  fior,  di  banco  in  banco 
Porgevan  della  pace  e  dell'ardore, 
Ch'  egli  acquistavan  ventilando  il  fianco.  » 

Nondimeno  la  presenza  di  Dante  è  cagione 
che  i  Beati  ricordino  talora  la  lor  vita  pas- 
sata e  degnino  del  loro  sguardo  la  terra,  ora 
laudando  i  fatti  de'  loro  compagni,  come  è 
il  panegirico  di  S.  Domenico  e  di  S.  Fran- 
cesco, più  spesso  sferzando  i  vizi,  quando  pe' 
generali  e  quando  con  cruente  applicazioni  : 
di  che  basterà  produrre   in  esempio  le  sde- 


—  78  — 

gnose  ed  eloquenti  parole  di  S.  Pietro,    che 
fanno  trascolorare  il  paradiso. 

<  O  cupidigia,  che  i  mortali  affonde 
Sì  sotto  te,  che  nessuno  ha  podere 
Di  ritrar  gli  occhi  fuor  delle  tue  onde  1 

Ben  fiorisce  negli  uomini  '1  volere; 
Ma  la  pioggia  continua  converte 
In  bozzacchioni  le  susine  vere, 

E  fede  ed  innocenza  son  reperte 
Solo  ne'  pargoletti;  poi  ciascuna 
Pria  fugge,  che  le  guance  sien  coperte.  * 

Nobilissimo  è  il  racconto  che  fa  Giusti- 
niano de'  casi  dell'antica  Roma,  in  istil  grave 
e  magnifico,  proporzionato  all'alto  subbietto; 
e  tra'  più  belli  della  Commedia  sono  da  an- 
noverare i  tre  canti,  ne'  quali  il  poeta  ra- 
giona con  uno  de'  suoi  antenati.  E  una  scena 
di  famiglia;  l'antica  semplicità  de' costumi, 
messa  in  maggior  rilievo  dal  contrasto  con 
la  corruzione  di  quel  tempo,  è  descritta  per 
via  di  particolari,  de'  quali  alcuni  rimangono 
ne'  termini  della  personalità  storica,  altri  si 
levano  all'  ideale  dell'  età  dell'  oro  e  della  do- 
mestica felicità,  temperati  con  tanta  verità 
insieme,  che  tu  vi  trovi  l' ideale  espressione 
della  pittura  italiana  e  la  vivace  realtà  della 
scuola  fiamminga. 

La  predizione  che  Cacciaguida  gli  fa  del 
suo  esilio  è  tanto  pietosa,  che  ben  si  pare  la 


/ 


—  79  — 

profonda  tristezza  del  vecchio  e  stanco  poeta, 
sospiroso  indarno  della  sua  bella  patria. 

«  Tu  lascerai  ogni  cosa  diletta 
Più  caramente;  e  questo  è  quello  strale, 
Che  V  arco  dell'  esilio  pria  saetta. 
Tu  proverai  sì  come  sa  di  sale 
Lo  pane  altrui,  e  com'  è  duro  calle 
Lo  scendere  e  '1  salir  per  1'  altrui  scale.  * 

Quanta  malinconia!  e  quanto  affetto!  L'a- 
marezza dell'  esilio  non  è  ne'  patimenti  ma- 
teriali, e  Dio  riserba  dolori  più  acuti  agli  a- 
nimi  generosi.  Non  vedere  più   mai    quanto 
sulla  terra  ci  è  caro,  ed  implorare    il    pane 
dall'  insolente    pietà    degli    estranei ,    questo 
strazio  di  tanti    miseri   vive    qui    immortale 
ne'  versi  del  più  misero  e   del    più    grande. 
Ma  il  virile  suo  animo  si  piega,  non  si  fiacca; 
e  tosto  lo  vedi  rilevare  la  fronte  balda  e  si- 
cura.   Nessuno    ha    sentito    tanto    altamente 
della  dignità  della  sua  arte  ,  della    quale  ei 
ragiona  come  magnanimo,  senza  ira  né  parte, 
con  calma  severità.  Lo  scopo  morale  non   è 
alcun  che  di  sopraggiunto  e  di  appiccato  alla 
sua  poesia,  ma  parte  intima  di  quella  ,    es- 
sendo la  visione  indiritta   ad  emendamento 
di  Dante,  e  quindi  dell' uomo;  né  facendo  bi- 
sogno al  poeta  di  sentenze  e  di  precetti,  ma 
bastando  la  nuda  rappresentazione  al  conse- 
guimento del  fine. 


—  80  — 

I  giovani  lettori  di  Dante  fermano  con  com- 
piacenza lo  sguardo  sopra  questi  luoghi  del 
poema  sacro,  desiderosi  che  fossero  men  rari, 
e  seguendo  mal  volentieri  il  poeta  nelle  sue 
fantasie  sopraumane.  Molta  parte  di  poesia 
è  nell'  individuale  e  nel  subbiettivo,  come  si 
può  sentire  ne'  brevi  tratti,  ne'  quali  Dante 
dà  affetti  e  caratteri  particolari  a'  suoi  per- 
sonaggi. 

«  Oppresso  di  stupore  alla  mia  Guida 
iMi  volsi,  come  parvol  che  ricorre 
Sempre  colà  dove  più  si  confida. 

E  quella,  come  madre  che  soccorre 
Subito  al  figlio  pallido  ed  anelo 
Con  la  sua  voce,  che  '1  suol  ben  disporre  ». 

«  Come  l'augello,  intra  l'amate  fronde, 
Posato  al  nido  de'  suoi  dolci  nati 
La  notte  che  le  cose  ci  nasconde, 

Che,  per  veder  gli  aspetti  desiati, 
E  per  trovar  lo  cibo  onde  gli  pasca, 
In  che  i  gravi  labor  gli  sono  grati, 

Previene  '1  tempo  in  su  l'aperta  frasca, 
E  con  ardente  affetto  il  Sole  aspetta, 
Fiso  guardando,  pur  che  l'alba  nasca  ; 

Così  la  Donna  mia  si  stava  eretta 
Ed  attenta,  rivolta  invèr  la  plaga 
Sotto  la  quale  il  Sol  mostra  men  fretta  ». 

« e  vidi  un  Sene 

Vestito  cora'  le  genti  gloriose. 

Diffuso  era  per  gli  occhi  e  per  le  gene 
Di  benigna  letizia,  in  atto  pio, 
Quale  a  tenero  padre  si  conviene  ». 


—  81  — 

Ma  nel  paradiso,  concepito  nel  modo  che 
abbiamo  mostrato,  non  può  aver  luogo  al- 
cuna determinata  gradazione  dell'animo  ;  e 
gli  stessi  canti,  che  avrebbero  potuto  porgere 
occasione  di  esplicare  e  svolgere  gli  affetti, 
come  sopra  ogni  umano  uso,  rimangono  nel 
vago  e  nel  generale  del  sentimento.  Il  che,  se 
può  bastare  alla  musica,  non  può  contentare 
la  poesia,  massime  ove  non  sia  unicamente 
lirica,  ma  di  forma  narrativa:  onde  non  re- 
sta altra  via  al  poeta  che  di  mostrarsi  tanto 
largo  nella  parte  didattica,  quanto  è  stato 
parco  nel  rimanente.  La  scienza  non  è  op- 
posta al  paradiso,  ma  parte  sostanziale  di 
esso,  non  essendo  altro  che  una  delle  facce 
di  Dio,  il  «  Vero,  in  che  si  queta  ogn'  intel- 
letto. » 

La  beatitudine  è  nellacontemplazionedi  Dio; 
e  Dio  è  parola  di  verità,  il  sostanziale  eman- 
cipato dal  fenomeno,  la  ragione  pura  dalle  il- 
lusioni e  dagli  affetti  terreni.  Il  pensiero,  che 
spesso  nelle  due  prime  cantiche  è  nascosto 
sotto  il  velo  dell'allegoria,  qui  si  rivela  nella 
sua  nuda  verità,  e  raggia  di  sua  propria  luce. 
Nelle  parole  de'  Beati  è  una  parte  negativa, 
nella  quale  si  contrappone  1'  essere  all'  ap- 
parenza, riprendendosi  forte  la  prosunzione 
de'  mortali  così  corriva  a  sentenziare  e  leg- 
gera a  credere. 


—  82  — 

«  E  questo  ti  fia  sempre  piombo  a'  piedi, 
Per  farti  muover  lento,  com'  uom  lasso, 
Ed  al  si  ed  al  no,  che  tu  non  vedi: 

Che  quegli  è  tra  gli  stolti  bene  abbasso, 
Che  senza  distinzione  afferma  o  niega, 
Così  nell'  un  come  nell'  altro  passo; 

Perch'  egli  incontra  che  più  volte  piega 
L'  opinion  corrente  in  falsa  parte, 
E  poi  1'  affetto  l' intelletto  lega. 

Vie  più  che  indarno  da  riva  si  parte, 
Perchè  non  torna  tal  qual  ei  si  muove, 
Chi  pensa  per  lo  vero,  e  non  ha  1'  arte.  > 

<  Non  sien  le  genti  ancor  troppo  sicure 
A  giudicar,  si  come  quei  che  stima 
Le  biade  in  campo  pria  che  sien  mature: 

Ch'  io  ho  veduto  tutto  '1  verno  prima 
Il  prun  mostrarsi  rigido  e  feroce, 
Poscia  portar  la  rosa  in  su  la  cima; 

E  legno  vidi  già  dritto  e  veloce 
Correr  lo  mar  per  tutto  suo  cammino 
Perire  alfine  all'  entrar  della  foce. 

Non  creda  monna  Berta  e  ser  Martino, 
Per  vedere  un  furare,  altro  offerère, 
Vedergli  dentro  al  consiglio  divino; 

Che  quel  può  surgere,  e  quel  può  cadere.  * 

II  poeta  non  confuta,  non  argomenta,  ma 
si  tiene  su'  generali,  e  biasima  e  flagella,  ta- 
lora con  solenne  gravità,  talora  con  l'effica- 
cia della  satira,  come  nel  canto  ventesimo- 
nono nella  digressione  di  Beatrice,  che  è  una 
filippica  egregia  per  forza  comica  e  per  bile 
poetica. 


83 


«  Si  che  laggiù  non  dormendo  si  sogna, 
Credendo  e  non  credendo  dicer  vero; 
Ma  nell'  uno  è  più  colpa  e  più  vergogna. 

Voi  non  andate  giù  per  un  sentiero 
Filosofando;  tanto  vi  trasporta 
L'amor  dell'apparenza,  e  '1  suo  pensiero.» 

Questa  parte,  avvivata  dal  sarcasmo  e  dal- 
l' ironia,  non  è  senza  molta  attrattiva,  ralle- 
grando e  rinfrancando  1'  attenzione;  ma  essa 
vi  sta  per  incidente  e  quasi  a  dar  risalto  col 
contrapposto  della  vana  scienza  umana  alla 
trattazione  dommatica ,  nella  quale  larga- 
mente si  distende  il  poeta. 

Si  è  molto  conteso,  in  ispecialità  a*  nostri 
tempi,  delle  attenenze  che  sono  tra  la  scienza 
e  la  poesia  ed  il  confine  che  le  distingue.  Il 
poeta  non  pensa,  ma  contempla,  non  discor- 
re, ma  dipinge,  non  investiga,  ma  sente:  la 
poesia  è  l'incarnazione  del  pensiero  più  o 
meno  perfetta,  profondato  nella  forma  con 
quella  stessa  spontaneità,  con  la  quale  vive 
nella  natura;  laddove  la  scienza  è  il  pensiero 
rivelantesi  e  contemplante  sé  stesso  nella  ri- 
flessione della  coscienza. 

Le  belle  arti  per  la  natura  propria  del  loro 
strumento  non  possono  che  diffìcilmente  tra- 
valicare i  termini  lor  posti:  sola  la  poesia  può 
trascorrere  di  là  dalla  sua  natura  infìno  al 
pensiero  puro,  come  quella  che  ha  il  suo 
strumento  comune  con  la  scienza  e  con  l'è- 


—  84  — 

loquenza  di  una  universalità  proporzionata 
alla  grandezza  della  creazione,  la  quale  essa 
può  esprimere  in  tutt'  i  suoi  momenti.  Per 
questo  privilegio,  che  ha  la  poesia  fra  le  sue 
sorelle,  il  poeta  può  alla  rappresentazione  ag- 
giungere la  parte  didattica ,  facendosi  egli 
stesso  l' interpetre  ed  il  filosofo  delle  sue  in- 
venzioni, come  fa  Dante  nell'  inferno  e  nel 
purgatorio.  Ma  la  scienza,  come  si  è  veduto, 
è  nel  paradiso  un  momento  essenziale  del 
concetto;  e  spettacolo  degnissimo  di  mara- 
viglia e  di  studio  è  il  lavoro  di  un  ingegno 
tanto  poetico  in  tanta  aridità  di  materia.  E 
innanzi  tutto  osserviamo  che  la  scienza  dan- 
tesca è  in  sé  stessa  una  poesia  già  data  al 
poeta  prima  ancora  che  vi  lavori  su  la  sua 
fantasia.  Ci  ha  per  la  scienza  uno  stadio  poe- 
tico, nel  quale  non  si  è  potuta  ancor  fran- 
care da'  miti:  di  che,  per  tacere  dell'Oriente, 
fa  testimonianza  Pitagora  ed  in  parte  Pla- 
tone. Ai  tempi  di  Dante  la  scienza  disposata 
alla  teologia  aveva  presa  quella  forma  con- 
creta ed  individuale,  che  è  propria  della  poe- 
sia. Un  Dio  personale,  che,  immobile  motore, 
produce,  amando,  l'idea  esemplare  dell'uni- 
verso, pura  intelligenza  e  pura  luce,  che  pe- 
netra e  risplende  in  una  parte  più  e  meno 
in  un'  altra,  infìno  alle  ultime  contingenze; 
gli  astri,  sede  de'  Beati,  influenti  sulle  umane 
sorti,  e  governati  da  Intelligenze,  da  cui  spira 


—  85  — 

il  moto  e  la  virtù  de'  loro  giri;  il  cielo  em- 
pireo, centro  di  tutt'  i  cerchi  cosmici  e  sog- 
giorno della  pura  luce;  l'universo  splendore 
della  Divinità  legato  con  amore  nel  suo  ma- 
gno volume;  V  ordine  e  1'  accordo  di  tutto  il 
creato,  dalle  infime  incarnazioni  infìno  alle 
nove  gerarchie  degli  angioli;  la  caduta  dell'uo- 
mo per  il  primo  peccato  ed  il  suo  riscatto  per 
la  incarnazione  e  la  passione  del  Verbo  ;  la 
verità  rivelata,  oscura  all'intelletto,  visibile  al 
cuore,  avvalorato  dalla  fede,  confortato  dalla 
speranza  ed  infiammato  dalla  carità;  in  tutto 
questo  il  pensiero  è  talmente  disceso  dalla 
sua  astrazione  e  per  tal  modo  incorporato, 
che  il  poeta  può  contemplarlo  con  quella 
stessa  sicurezza  di  occhio,  onde  si  affisa  nella 
natura.  La  esposizione  di  Dante  è  perciò  meno 
un  ragionamento  che  una  descrizione  vivace 
della  verità  informata,  con  quella  evidenza 
e  proprietà  di  particolari,  che  risplende  nelle 
dipinture  poetiche  degli  uomini  e  delle  cose: 
di  che  può  essere  esempio  dove  egli  tocca  con 
tanta  facilità  del  processo  creativo. 

«  Ciò  che  non  muore,  e  ciò  che  può  morire, 
Non  è  se  non  splendor  di  quella  idea, 
Che  partorisce,  amando,  il  nostro  Sire  : 

Che  quella  viva  luce,  che  sì  mea 
Dal  suo  lucente,  che  non  si  disuna 
Da  lui,  né  dall'  amor,  che  in  lor  s' intrea, 


-  86  - 

Per  sua  bontate  il  suo  raggiare  aduna, 
Quasi  specchiato,  in  nove  sussistenze, 
Eternalmente  rimanendosi  una. 

Quindi  discende  all'  ultime  potenze 
Giù  d'  atto  in  atto,  tanto  divenendo, 
Che  più  non  fa  che  brevi  contingenze: 

E  queste  contingenze  essere  intendo 
Le  cose  generate,  che  produce, 
Con  seme  e  senza  seme,  il  ciel  movendo. 

La  cera  di  costoro,  e  chi  la  duce, 
Non  sta  d'  un  modo  ;  e  però  sotto  '1  segno 
Ideale  poi  più  e  men  traluce  : 

Ond'  egli  avvien  eh'  un  medesimo  legno, 
Secondo  spezie,  meglio  e  peggio  frutta; 
E  voi  nascete  con  diverso  ingegno, 

Se  fosse  appunto  la  cera  dedutta, 
E  fosse  il  cielo  in  sua  virtù  suprema, 
La  luce  del  suggel  parrebbe  tutta  : 

Ma  la  natura  la  dà  sempre  scema, 
Similemente  operando  all'artista, 
C  ha  l'abito  dell'arte  e  man  che  trema». 

Il  poeta  procede  per  deduzione,  guardando 
le  cose  dall'alto  del  paradiso,  cioè  dall'asso- 
soluto  e  dal  necessario,  da  cui  dechina  via 
via  infino  alle  estreme  conseguenze,  forma 
contemplativa  e  dommatica,  anziché  discor- 
siva e  dimostrativa.  Il  qual  metodo  si  affa 
più  alla  poesia,  presentando  all'  immagina- 
zione vasti  orizzonti  in  una  sola  compren- 
sione ,  e  generando  nello  spettatore  quella 
impressione  di  maraviglia  e  di  raccoglimento 
che  nasce  dal  sublime. 


—  87  — 

<  Guardando  nel  suo  Figlio  con  V  amore, 
Che  1*  uno  e  1'  altro  eternalmente  spira, 
Lo  primo  ed  ineffabile  Valore, 

Quanto  per  mente  o  per  occhio  si  gira 
Con  tanto  ordine  fé',  ch'esser  non  puote 
Senza  gustar  di  lui  chi  ciò  rimira  ». 

Ma  le  larghe  proporzioni  che  il  poeta  ha 
date  a  questa  parte,  ed  il  modo  didattico  di 
trattarla  non  gli  consentono  eh'  ei  signoreggi 
al  tutto  il  pensiero.  La  scienza,  come  tale,  ri- 
mane sempre  astratta  dall'  immagine,  pren- 
dendo da  questa  lume  ed  ornamento  senza  che 
ne  scapiti  punto  la  sua  purezza.  La  forma  in 
questo  caso  non  è  unita  sostazialmente  al- 
l' idea,  né  le  resta  altro  valore  che  di  meta- 
fora e  di  comparazione,  1'  una  di  rincontro 
all'altra  senza  confondersi.  La  quale  è  certo 
maniera  meno  perfetta  di  poesia,  ma  poesia, 
industriandosi  il  poeta  di  sopperire  al  difetto 
con  rivestire  il  pensiero  di  vaghezza  e  leg- 
giadria, sì  eh'  ei  lo  renda,  non  potendo  bello, 
almeno  di  ornata  e  piacevole  apparenza,  co- 
me fan  fede  alcuni  poemi  didattici  di  squi- 
sito ed  egregio  lavoro. 

Il  paradiso  dantesco  è  lucente  di  metafore, 
di  similitudini,  di  esempii  e  di  ogni  sorta  di 
traslati,  che  chiariscono  ed  illustrano  le  più 
astruse  ed  astratte  concezioni  della  scienza. 
Sembra  quasi  che  il  poeta  non  sappia  pen- 
sare se  non  colla  sua  immaginazione,  o  che 


88 


piuttosto  il  pensare  e  l'immaginare  non  sia 
in  lui  che  un  atto  solo  :  tanta  è  la  sua  virtù 
di  tutto  abbellire  ed  illeggiadrire.  E  per  darne 
pure  alcuno  esempio,  tra'  moltissimi  che  si 
potrebbero  arrecare  in  mezzo,  ricorderò  le 
tre  stupende  terzine,  nelle  quali  Cacciaguida 
tratta  della  prescienza  accordata  col  libero 
arbitrio,  e  la  spiegazione  che  fa  Beatrice  del 
moto  degli  astri,  due  descrizioni  pittoresche, 
chiarissime  e  leggiadrissime,  nelle  quali,  come 
ben  dice  il  poeta,  la  verità  ha  il  dolce  aspetto 
della  bellezza. 

«  La  contingenza,  che  fuor  del  quaderno 
Della  vostra  materia  non  si  stende, 
Tutta  è  dipinta  nel  cospetto  eterno. 

Necessità  però  quindi  non  prende, 
Se  non  come  dal  viso,  in  che  si  specchia 
Nave  che  per  corrente  giù  discende. 

Da  indi,  si  come  viene  ad  orecchia 
Dolce  armonia  da  organo,  mi  viene 
A  vista  '1  tempo  che  ti  s'  apparecchia  >. 

«  Lo  moto  e  la  virtù  de'  santi  giri, 
Come  dal  fabbro  1"  arte  del  martello, 
Dai  beati  motor  convien  che  spiri. 

E  '1  ciel,  cui  tanti  lumi  fanno  bello, 
Dalla  mente  profonda  che  lui  volve 
Prende  l' image,  e  fassene  suggèllo. 

E   come  l'alma  dentro  a  vostra  polve, 
Per  differenti  membra,  e  conformate 
A  diverse  potenzie,  si  risolve  ; 


S9 


Cosi  l' intelligenzia  sua  bontate 

Multiplicata  per  le  stelle  spiega, 
«        Girando  sé  sovra  sua  unitate. 
Virtù  diversa  fa  diversa  lega 

Col  prezioso  corpo  eh'  eli'  avviva, 

Nel  qual,  sì  come  vita  in  voi,  si  lega. 
Per  la  natura  lieta  onde  deriva, 

La  virtù  mista  per  lo  corpo  luce, 

Come  letizia  per  pupilla  viva  ». 

Le  quistioni  discorse  nel  paradiso  non  sono 
ozioso  trastullo  di  curiosità,  ma  legate  intima- 
mente con  le  ultime  sorti  dell'  uomo  ;  sicché 
persona  non  può  trattenere  lo  sguardo  sopra 
questi  paurosi  problemi  senza  che  il  cuore 
se  ne  agiti  e  si  commova.  Quindi  è  che  qual- 
siasi sistema  religioso  e  scientifico  è  fecondo 
di  poesia  ;  perchè,  quando  pure  si  sottragga 
ad  ogni  obbiettività,  per  l'attenenza  nondime- 
no che  ha  con  l'umano  destinato,  può  esser 
fonte  di  lirica  ispirazione,  come  hanno  mo- 
strato Byron,  Leopardi  ed  in  parte  Goethe, 
triade  dolorosa,  che  rivelerà  agli  avvenire  i 
patimenti  e  le  ansietà  di  tutta  intera  una 
generazione.  Il  Cristianesimo  ha  la  sua  sto- 
ria o  epopea,  da  cui  è  nato  il  Paradiso  per- 
duto e  la  Messiade,  e  la  sua  lirica,  da  cui  è 
sorto  Lamartine  e  Manzoni  :  la  Divina  Com- 
media è  il  pensiero  cristiano  vivente  nella 
sua  poetica  unità,  nella  quale  i  suoi  elementi 
hanno  ciascuno  il  lor  proprio  luogo.  Quando 
il  pensiero  è  svelato  a  sé  stesso,  e  nella  piena 


90 


consapevolezza  di  sé  rifiuta  il  soccorso  de' miti, 
non  rimane  alla  poesia  altro  che  l'ebbrezza 
del  sentimento:  di  che  s' intende  perchè  nella 
dissoluzione  delle  forme  sopravvive  la  lirica, 
i  cui  accenti  fuggitivi  e  malinconici  vanno 
a  mescersi  ed  a  perdersi  nella  incolorata  me- 
lodia musicale.  Il  solo  sentimento  che  può 
destare  la  scienza  nel  paradiso  è  l' affetto 
verso  Dio  con  nuovo  fervore  di  letizia  e  di 
carità  ;  né  il  poeta  ha  trasandato  di  avvivare 
per  questo  altro  modo  il  suo  subbietto,  quan- 
tunque assai  parcamente.  La  contemplazione 
della  verità  eterna  rapisce  i  Santi  nell'estasi 
della  beatitudine  :  talché  alle  ultime  loro  pa- 
role succedono  gli  osanna  ed  i  cantici,  ed  il 
ragionamento  s' innalza  al  suo  lirico  signi- 
ficato nel  celeste  concento. 

«  La  benedetta  immagine,  che  l'ali 

Movea  sospinte  da  tanti  consigli, 

Roteando  cantava,  e  dicea  :  Quali 
Son  le  mie  note  a  te  che  non  le  intendi, 

Tal  è  il  giudicio  eterno  a  voi  mortali  >. 

«  Si  com'  io  tacqui,  un  dolcissimo  canto 
Risonò  per  lo  cielo;  e  la  mia  Donna 
Dicea  con  gli  altri  :  Santo,  santo,  santo  ». 

«  Finito  questo,  l' alta  corte  santa 
Risonò  per  le  spere  un  Dio  lodiamo, 
Nella  melòde  che  lassù  si  canta  >. 

Ma  questi  pregi  sono  alcuna  volta  oscurati 


—  91  — 

dalla  natura  troppo  speciale  delle  quistioni, 
nelle  quali  si  avviluppa  il  poeta,  e  non  di 
rado  dalla  ruvida  corteccia  esteriore  delle 
forme  scolastiche,  definizioni,  sillogismi,  di- 
stinzioni, citazioni  ^  simili.  Al  che  se  si  ag- 
giunge la  monotonia  del  dialogo,  che  par 
quasi  una  serie  di  domande  e  risposte  tra 
maestro  e  discente,  s'intenderà  perchè  il  para- 
diso torni  in  generale  di  diffìcile  intendimento 
e  di  poco  grata  lettura.  Dante  compose  questa 
cantica  uscito  di  corto  dalla  università  di 
Parigi,  e  pieno  ancora  il  capo  di  tesi  e  di  sil- 
logismi. D'altra  parte  ei  si  reputa  a  lode  di 
aver  condotta  la  poesia  in  questo  pelago  della 
scienza  e,  contento  a  pochi  ed  intendenti  let- 
tori, esorta  gli  altri  a  rimanersi  di  seguitarlo; 
di  che  il  Tasso,  tanto  ammiratore  del  divino 
poeta,  non  può  a  meno  di  biasimarlo  nella 
sua  lezione  su  di  un  sonetto  del  Casa. 

«  O  voi  che  siete  in  piccioletta  barca, 
Desiderosi  d'ascoltar,  seguiti 
Dietro  al  mio  legno  che  cantando  varca, 

Tornate  a  riveder  li  vostri  liti  ; 
Non  vi  mettete  in  pelago,  che  forse, 
Perdendo  me,  rimarreste  smarriti. 

L'acqua  ch'io  prendo  giammai  non  si  corse: 
Minerva  spira,  e  conducemi  Apollo, 
E  nove  Muse  mi  dimostran  l'Orse. 

Voi  altri  pochi,  che  drizzaste  '1  collo 
Per  tempo  al  pan  degli  angeli,  del  quale 
Vivesi  qui,  ma  non  si  vien  satollo, 


—  92  — 

Metter  potete  ben  per  1'  alto  sale 
Vostro  naviglio,  servando  mio  solco 
Dinanzi  all'  acqua,  che  ritorna  eguale  >. 

«  Non  è  pareggio  da  piccola  barca 
Quel  che  fendendo  va  1'  ardita  prora, 
Né  da  nocchier  eh'  a  sé  medesmo  parca  ». 

Che  se  Dante  con  tutta  la  divinità  del  suo 
ingegno  non  è  potuto  riuscire  a  sormontare 
del  tutto  la  difficoltà  intrinseca  della  mate- 
ria, valga  questo  a  temperare  alcuni  poeti 
odierni,  che  amano  troppo  di  filosofare  in 
versi,  senza  aver  le  ali  del  Goethe  e  del  Leo- 
pardi. 

Nel  paradiso  è  compiuta  la  redenzione  di 
Dante,  che  di  stella  in  stella,  di  virtù  in 
virtù  giunge  all'  ultima  salute.  Questo  volo 
dell'anima  a  Dio,  obbietto  della  solitaria  con- 
templazione orientale,  del  misticismo  ales- 
sandrino e  delle  pie  meditazioni  ed  amorose 
estasi  de'  Santi,  è  rappresentato  poeticamente 
nell'  amore  di  Dante  ,  «  che  all'  alto  volo  gli 
vesti  le  piume  ».  L'  amore  mosse  Dio  alla 
creazione  ed  alla  redenzione,  e  l'amore  move 
la  fattura  al  suo  Fattore:  onde  nasce  il  con- 
cetto serio  che  l'amore  ha  presso  Dante  e  il 
Petrarca,  considerato  come  scala  alla  divi- 
nità. Beatrice  è  qui  vergine  al  tutto  di  sua 
mortalità,  di  cui  alcun  vestigio  apparisce  nel- 
l'inferno e  nel  purgatorio  :  talché  un  pittore 


-  93  — 

potrebbe  bene  ritrarla  come  è  figurata  nelle 
parole  di  Virgilio,  o  quando,  «  realmente  nel- 
r  atto  ancor  proterva  »,  si  volge  sdegnosa  al- 
l'amante; ma  qui  qualsivoglia  immagine  de- 
terminata falserebbe  il  concetto  spirituale, 
che  ha  in  lei  voluto  esprimere  il  poeta.  Ella 
dunque  non  può  esser  descritta  che  per  modo 
indiretto  e  negativo,  principalmente  dall'ef- 
fetto che  produce  la  sua  vista  sull'animo  del 
suo  amato  e  sugli  obbietti  circostanti. 

«  Quivi  la  Donna  mia  vid'  io  si  lieta, 
Come  nel  lume  di  quel  ciel  si  mise, 
Che  più  lucente  se  ne  fé'  il  pianeta. 

E  se  la  stella  si  cambiò  e  rise 
Qual  mi  fec'  io,  che  pur  di  mia  natura 
Trasmutabile  son  per  tutte  guise  ! 

Come  in  peschiera  eh'  è  tranquilla  e  pura 
Traggono  i  pesci  a  ciò  che  vien  di  fuori, 
Per  modo  che  lo  stimin  lor  pastura; 

Sì  vid'  io  ben  più  di  mille  splendori 
Trarsi  vèr  noi;  ed  in  ciascun  s'  udia  : 
Eceo  chi  crescerà  li  nostri  amori  >. 

Quanto  più  si  sale,  più  la  sua  bellezza  si 
accende,  e  più  viva  letizia  le  ride  nel  volto. 
Ella  è  il  faro,  in  cui  mirando  il  poeta  si 
avanza  a  salute:  il  quale,  secondo  che  monta 
più  su,  acquista  maggiore  intelletto  d'amore  ; 
sicché  ei  può  sostenere  e  contemplare  il  novo 
riso  di  Beatrice  e  la  nova  bellezza  del  pa- 
radiso. 


-  94  - 

«  E  come,  per  sentir  più  dilettanza 
Bene  operando,  1*  uom  di  giorno  in  giorno 
S'  accorge  che  la  sua  virtute  avanza , 

Si  m' accors' io  che  il  mio  girare  intorno 
Col  cielo  insieme  avea  cresciuto  I'  arco, 
Veggendo  quel  miracolo  più  adorno  >. 

«  Che  la  bellezza  mia,  che  per  le  scale 
Dell'  eterno  palazzo  più  s'  accende, 
(Com'  hai  veduto)  quanto  più  si  sale, 

Se  non  si  temperasse,  tanto  splende, 
Che  '1  tuo  mortai  potere  al  suo  fulgore 
Sarebbe  fronda  che  tuono  scoscende  >. 

«  Tu  hai  vedute  cose,  che  possente 
Se'  fatto  a  sostener  lo  riso  mio.  » 

L'amore  è  operoso  e  rende  migliore  :  onde 
il  riso  di  Beatrice  è  quello  che  infonde  nova 
virtù  nel  poeta.  Così  il  suo  corpo,  privo  di 
ogni  impedimento,  sale  verso  le  sfere  come 
rivo,  «  se  d'alto  monte  scende  giuso  ad  imo  »  ; 
e  il  suo  sguardo  acquista  valore  di  fìggersi 
nel  Sole  dall'atto  somigliante  di  Beatrice. 

«  Quando  Beatrice  in  sul  sinistro  fianco 
Vidi  rivolta,  e  riguardar  nel  Sole  : 
Aquila  sì  non  gli  s'  affisse  unquanco. 

E  sì  come  secondo  raggio  suole 
Uscir  del  primo,  e  risalire  in  suso, 
Pur  come  peregrin  che  tornar  vuole; 

Così  dell'  atto  suo,  per  gli  occhi  infuso 
Neil'  immagine  mia,  lo  mio  si  fece  ; 
E  fìssi  gli  occhi  al  Sole  oltre  a  nostr'  uso  ». 


-  95  — 

Parimente  l'amore,  sciolto  dalla  servitù 
de'  sensi,  è  innalzato  ad  un  ideale,  che  tiene 
molto  dell'  affetto  materno  ;  e  Dante,  che  nel 
purgatorio  senti  il  tremore  della  fiamma  an- 
tica, qui  ode  Beatrice  con  riverenza  di  fi- 
gliuolo. Quando  ella  si  allontana,  ei  non 
sente  dolore,  non  manda  lamento;  ogni  parte 
terrestre  è  in  lui  arsa  e  consumata.  Le  sue 
parole  sono  affettuose  ;  ma  è  affetto  di  grati- 
tudine misto  di  riverenza;  siccome,  nel  pic- 
colo cenno  che  gli  fa  Beatrice,  l'amore  del- 
l' uomo  come  ombra  va  a  dileguarsi  nel- 
l'amore di  Dio,  o  per  dirla  più  propriamente, 
ella  lo  ama  in  Dio. 

«  Così  orai  ;  e  quella  sì  lontana, 
Come  parea,  sorrise  e  riguardommi  ; 
Poi  si  tornò  all'  eterna  fontana  ». 

Succede  a  Beatrice  la  Vergine,  la  Donna 
gentile,  che  la  spedì  in  soccorso  del  suo  amato. 
La  preghiera  che  il  poeta  le  indirizza  per 
bocca  del  suo  fedel  Bernardo  ha  ispirato  il 
Petrarca  ed  a'  nostri  giorni  Goethe  e  Man- 
zoni ;  e  bello  sarebbe  a  porre  in  riscontro 
quattro  lavori  intorno  allo  stesso  argomento, 
differenti  di  scopo  e  di  concetto.  Presso  Dante 
ella  è  una  creazione  ondeggiante  tra  il  di- 
vino e  l'umano  ;  da  una  parte  collocata  sopra 
ogni  forma  ed  ogni  parola  ,  manifesta  solo 
nella    luce  e  nella   letizia    che  intorno  a  lei 


-  96  — 

raggia  :  d'altra  parte  ella  è  pure  umana  crea- 
tura, speranza  e  conforto  de' mortali,  imma- 
gine amorosa  e  benigna  ,  che  ,  posta  come 
mediatrice  possente  tra  1'  uomo  e  Dio,  sem- 
bra quasi  che  scemi  l'immenso  intervallo  che 
li  divide. 

«  Qui  se'  a  noi  meridiana  face 
Di  caritade  ;  e  giuso,  intra  i  mortali, 
Se'  di  speranza  fontana  vivace  ». 

Le  parole  di  S.  Bernardo  esprimono  que- 
sto doppio  sentimento  :  ammirazione  e  rive- 
renza profonda  dinanzi  a  tanta  altezza,  con- 
giunta con  la  dolcezza  e  quasi  la  familiarità 
dell'affetto.  Gli  occhi  della  Vergine  sono  qua- 
lificati da  due  epiteti  parlanti,  che  riepilo- 
gano, ingrandendo,  quel  misto  di  reverendo 
e  d'amabile,  che  da  lei  move  : 

<  Gli  occhi  da  Dio  diletti  e  venerati, 

L' oratore  dapprima  si  esprime  con  uno 
splendore  e  con  una  magnificenza  di  stile, 
quale  si  richiede  al  genere  laudativo  ;  indi 
con  la  tenerezza  e  l'efficacia  della  preghiera, 
la  quale  ha  termine  con  uno  di  quei  tratti 
obbiettivi,  che  perpetuano  il  pensiero  nel- 
l'immagine. 

«  Vedi  Beatrice  con  quanti  beati 

Per  li  miei  prieghi  ti  chiudon  le  mani  ». 


—  97  — 

Per  l' intercessione  della  Vergine  il  poeta 
giunge  alfine  il  suo  aspetto  col  Valore  infinito. 

La  descrizione  di  Dio, che  anche  Dio  egli  ha 
osato  descrivere,  fa  stupire  per  la  vivace  per- 
spicuità di  profondi  concetti,  essendo  la  pro- 
prietà de'  vocaboli  e  le  sue  peregrine  compa- 
razioni come  una  face,  che  illumina  l'abisso 
della  essenza  divina.  Dio  è  semplice  ed  im- 
mutabile ;  ma  perchè  Dante  si  muta,  ovvero 
perchè  cresce  l' acume  ed  il  vigor  del  suo 
sguardo,  il  sembiante  divino  gli  apparisce 
con  sempre  maggior  distinzione,  primamente 
come  comprensione  ideale  dell'universo  ;  poi 
la  pura  luce  si  determina  in  differenza  di 
colore  e  di  splendore  in  una  sola  contenenza, 
adombrando  così  la  trinità  delle  persone  nella 
unità  assoluta  ;  ed  ultimamente  il  colore 
prende  sembianza  dell'umana  effigie.  In  que- 
sta congiunzione  del  divino  e  dell'umano  si 
quieta  l'ardore  del  desiderio,  e  si  raggiunge 
lo  scopo  di  tutto  il  poema  :  il  progressivo 
emanciparsi  dello  spirito  dalla  carne  fino 
alla  sua  perfetta  redenzione  in  Dio. 

«  Ma  già  volgeva  il  mio  disiro  e  '1  velie, 
Sì  come  ruota  che  igualmente  è  mossa, 
L'Amor  che  muove  il  Sole  e  l'altre  stelle  >. 

La  fine  del  poema  è  la  fine  della  stessa 
poesia,  la  quale,  dopo  di  esser  passata  per 
tutte  le    possibili  forme  nell'  universo  della 


mente  dantesca,  va  a  sparire  a  poco  a  poco 
nell'  incomprensibile  e  nell'  ineffabile. 

«  AH'  alta  fantasia  qui  mancò  possa  ». 

Il  paradiso  sarebbe  stato  più  poetico,  ove 
l'autore  avesse  voluto  dargli  un  aspetto  più 
umano  :  date  a'  suoi  canti  un  significato,  ed 
avremo  gl'inni  del  Manzoni  e  le  armonie  del 
Lamartine  ;  date  a'  suoi  personaggi  la  doppia 
bellezza  della  faccia  e  del  cuore  umano,  ed 
avremo  le  creazioni  di  Milton,  di  Klopstock 
e  di  Moore.  Ben  si  potea  :  che  la  stessa  Scrit- 
tura ritrae  in  forma  e  in  affetto  umano,  non 
che  altri,  lo  stesso  Dio.  Ma  il  poeta  sta  pur 
fermo  nella  severità  del  suo  concetto,  al- 
zando la  poesia  all'ultima  sua  idealità  e  ri- 
manendo in  campi  inaccessibili,  non  tentati 
prima  né  poi  da  niuna  poetica  fantasia. 
Onde  il  suo  paradiso  attraversa  solitario  i 
secoli,  e  ben  possiamo ,  senza  esagerazione, 
chiamarlo  il  più  ardito  lavoro  dell'  ingegno 
umano. 


V. 
RIEPILOGO 


IV. 
RIEPILOGO. 


Volendo  ora  raccogliere  in  uno  ciò  che  sia- 
mo andati  sparsamente  discorrendo,  nell'in- 
ferno signoreggia  la  materia  anarchica,  rotta 
alle  passioni,  senza  freno  di  ragione:  le  sue 
forme  ricevono  di  ogni  sorta  differenze,  spic- 
cate, distinte,  prominenti  e,  per  usare  una  vi- 
vace parola  moderna,  monumentali.  Nel  pur- 
gatorio la  materia  è  un  momento:  lo  spirito 
ha  acquistato  coscienza  di  sua  forza,  e,  contra- 
stando e  soffrendo,  si  fa  libero  :  la  realtà  vi 
è  in  immaginazione,  rimembranza  del  pas- 
sato, da  cui  si  sprigiona,  aspirazione  ad  un 
avvenire,  a  cui  si  avvicina  ;  onde  le  sue  forme 
sono  fantasmi  e  rappresentazioni  della  fan- 
tasia, anziché  obbietti  presenti  e  determinati  : 
pitture,  sogni,  visioni  estatiche,  simboli  e 
canti.  Nel  paradiso  lo  spirito,  già  redento, 
s' india  ;  le  differenze  qualitative  sono  riso- 
lute nella  unità,  e  tutte  le  forme  svaporate 
nella  semplicità   della  luce,   insino  a  che  ci 


—  102  — 

spariscono  a  poco  a  poco  davanti.  Tanta  va- 
rietà e  ricchezza  di  forme  ci  mostra  non  pure 
la  fecondità  dell'ingegno  dantesco,  ma  ancora 
la  verità  della  sua  ispirazione,  la  quale  con- 
siste singolarmente  in  questo,  che  il  poeta 
s'immedesimi  con  1' obbietto,  facendo  della 
sua  anima  quasi  l'anima  di  quello  e  trasan- 
dando quella  parte  della  sua  personalità,  che 
gli  rimane  estranea.  Il  che  più  agevolmente 
è  venuto  fatto  al  nostro  autore  in  quanto  la 
forma  del  suo  poema  è  tale  che  egli,  senza 
sforzare  punto  il  subbietto,  ha  potuto  mani- 
festarvi liberamente  sé  stesso  ed  il  suo  tempo 
e  congiungere  con  l'essenziale  della  sua  vi- 
sione l'arbitrario  e  l'accidentale.  Non  pertanto 
la  forma  prende  dalla  qualità  dell'ingegno  una 
cotal  propria  maniera  di  rappresentazione, 
che  dicesi  stile.  Si  reputa  comunemente  che 
lo  stile  sia  la  veste  del  pensiero  :  il  qual 
modo  figurato  di  dire  può  significare  o  troppo 
o  troppo  poco,  potendosi  così  di  leggieri  con- 
fondersi lo  stile  o  con  la  forma  o  con  l'elo- 
cuzione. Lo  stile  è  la  forma  nel  suo  movi- 
mento esplicativo,  e  però  strettamente  legato 
con  1'  obbietto  ,  anzi  1'  obbietto  vivente.  Ma 
qui  più  che  altrove  apparisce  l'individualità 
dell'ingegno,  avendo  ciascuno  artista  un  suo 
proprio  modo,  secondo  sua  facoltà,  di  con- 
durre e  svolgere  il  concetto.  Dante  nell'im- 
menso   orizzonte,  che   gli  si    move    dinanzi, 


-  103  - 

non  lisa  lungamente  lo  sguardo  su'  singoli 
obbietti  ;  ma  passa  lievemente  di  cosa  in  cosa, 
per  modo  che  le  individualità  par  che  si  fug- 
gano davanti  e  si  perdano  nella  totalità  della 
vista.  E  medesimamente  ei  non  segue  il  pen- 
siero o  l'immagine  nelle  sue  particolari  gra- 
dazioni ;  ma  con  veloce  immaginare  trascorre 
di  una  in  un'altra,  conseguendo  con  la  co- 
pia delle  cose  quell'effetto,  che  altri  ottengono 
con  la  quantità  degli  accessori.  I  suoi  periodi 
sono  brevissimi  ;  anzi  sono,  d'ordinario,  sen- 
tenze che  hanno  termine  col  verso:  alla  quale 
maniera  serrata  e  ricisa  di  poetare  è  bene 
accomodata  la  terzina,  siccome  l'uso  che  pre- 
valse dopo  dell'ottava  rima  ci  mostra  già  il 
nuovo  indirizzo,  per  il  quale  si  fu  messa  la 
poesia  italiana.  Pratichissimo  della  lingua 
ed  uso  a  trarre,  senza  ritegno,  dal  proven- 
zale, da'  dialetti  e  dal  latino,  egli  non  è  punto 
impacciato  da  quelle  distinzioni  spesso  pe- 
dantesche di  parole  nobili  e  plebee,  italiane  e 
fiorentine,  poetiche  e  prosaiche,  eleganti  e 
volgari,  e  da  altrettali  differenze  che  ven 
nero  dappoi,  di  questo  unicamente  sollecito, 
che  la  parola  renda  il  pensiero  così  vivo  e 
caldo  coiti'  è  nella  sua  mente.  Egli  mira  più 
all'armonia  che  alla  melodia,  più  all'evidenza 
che  all'eleganza,  più  alla  proprietà  che  alla 
nobiltà  del  linguaggio  ;  e,  secondo  che  è  ri- 
chiesto alla  forza  e  brevità  del  suo  stile,  egli 


—  104  - 

abbonda  di  vivaci  ellissi,  di  arditi  costrutti 
e  di  vocaboli  comprensivi  ;  di  maniera  che  la 
parola  rappresenta  la  cosa  nella  sua  vivente 
unità,  mostrando  sotto  l'immagine  un  pensiero 
e  sotto  il  pensiero  un  sentimento.  L'arte  s'in- 
dirizza non  a' sensi,  ma  all'immaginativa  ;  né 
dee  ritrarre  dell'obbietto  altro  che  il  razio- 
nale o  l'ideale,  ma  di  guisa  che  lasci  intrav- 
vedere  la  totalità  dell'  apparenza,  sì  che  la 
cosa  monca  nella  rappresentazione  si  offra 
intera  alla  fantasia.  Qui  è  l'eccellenza  di 
Dante,  la  cui  visione  si  raccoglie  nel  centro, 
ove  vanno  a  convergere  i  raggi,  illuminando 
con  la  luce  di  là  riflettentesi  tutto  il  con- 
torno. Rapido  é  il  suo  sguardo ,  ma  ani- 
matore ;  e  dove  eh'  ei  passi  lascia  orme  in- 
cancellabili :  diresti  che  egli  abbia  la  chiave 
magica  di  Faust,  con  la  quale  vivifica  tutto 
ciò  che  tocca. 

<  Irritai,  mulcet,  falsis  terroribns  implet, 
Ut  Magus,  et  modo  me  Thebis,  modo  poni t  Athenis  >. 

La  poesia  moderna,  dopo  di  aver  condotta 
alla  più  minuta  notomia  l' imitazione  della 
realtà  e  1'  analisi  del  sentimento,  ritorna  a 
questa  maniera  temperata  e  vereconda  dello 
stile  dantesco  ;  onde  lo  studio  della  Divina 
Commedia  può  essere  antidoto  efficacissimo 
contro  questo  naturalismo  e  sentimentali- 
smo, come  suole  chiamarsi,  di  cui  non  man- 


-  105    - 

cano  ancora  oggi  esempi  ,  principalmente 
presso  i  francesi.  Di  che  non  vogliamo  infe- 
rire che  questo  stile  si  abbia  a  proporre  come 
perfetto,  e  meno  come  unico  esemplare  :  per- 
chè, oltre  che  lo  scrittore  non  dee  essere  al- 
tro mai  che  sé  stesso,  se  questa  maniera  di 
dettare  può  essere  in  alcun  modo  conforme 
a  questo  genere  di  poemi  a  quadri  e  a  scene, 
come  ne'  Trionfi,  nell'  Amorosa  visione,  nella 
Basvilleide  ;  ne'  lavori,  per  contrario,  dove  una 
sola  azione  si  snodi  nel  contrasto  de'  carat- 
teri e  degli  affetti  si  richiede  maggiore  de- 
terminazione ne'  particolari  e  soprattutto  più 
ricca  esplicazione  subbiettiva,  che  non  è  nella 
Divina  Commedia.  Nelle  presenti  condizioni 
della  poesia  signoreggia  meno  la  forma  e  più 
il  sentimento;  il  che  se  è  un  male,  tal  sia:  cia- 
scun tempo  ha  la  sua  necessità.  Dante,  per 
l'opposito,  trasporta  tutto  al  di  fuori,  e  il 
sentimento  vi  è  spesso  nascosto  e  trasparente 
di  sotto  dalla  forma.  Il  perché  la  sua  lettura 
può  tornare  utile  a  temperare  gli  scrittori 
da  quel  lirismo  astratto  e  rettorico,  nel  quale 
leggermente  oggi  si  sdrucciola. 

Ma  già  fin  dal  principio  di  questo  secolo 
la  poesia  in  alcuni  grandissimi  si  è  alzata 
alla  dignità  dell'ideale  ;  e  certo  segno  della 
ristaurazione  del  buon  gusto  è  la  stima  in 
che  è  venuta  presso  l'universale  la  Divina 
Commedia,  avendo  essa,  come  la  Scienza  nuova 


—  106  — 

del  Vico,  varcate  le  Alpi,  divenute  amendue 
parte  essenziale  dell'educazione  del  pensiero 
umano.  L'indirizzo  ontologico  preso  dalla  fi- 
filosofìa  e  dalla  critica,  il  favore  in  che  sono 
venuti  gli  studi  storici,  massimamente  in- 
torno al  medio-evo,  il  culto  rinascente  delle 
forme,  se  non  nella  loro  ingenuità  natia,  al- 
meno come  simboli  e  caratteri  estrinseci  del 
vero,  fanno  abbastanza  aperto  perchè  la  Di- 
vina Commedia,  poco  studiata  e  meno  com- 
presa per  innanzi,  sia  ora  tenuta  nel  suo 
debito  pregio.  Ma  presso  di  noi  il  culto  di 
Dante  ha  un  significato  ancora  più  grave  : 
perocché,  in  fino  a  che  osserveremo  e  ono- 
reremo il  nobilissimo  poeta,  non  sarà  in  no* 
spenta  affatto  quella  virile  dignità,  in  che  è 
la  vita  de'  popoli  e  degl'  individui. 


INDI  C  E 


A  Giustino  Fortunato         ....  Pag.  vii 

I.  Il  subbietto  della  Divina  Commedia       .  »      1 

II.  L' Inferno .  »    13 

III.  Il  Purgatorio »    31 

IV.  Il  Paradiso »    57 

V.  Riepilogo               .        .        .                .        .  *    99 


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