FRANCESCO DE SANCTIS
Esposizione critica
della Divina Commedia
OPERA POSTUMA
EDITA A CURA DI
GERARDO LAURI N I
NAPOLI
ALBERTO MORANO, EDITORE
Via Domenico Capitelli, 20 e 28
1921
PROPRIETÀ LETTERARIA
Stabilimento Tip. Silvio Morano - S. Sebastiano 48 p. p. - Napoli
A GIUSTINO FORTUNATO
Mio caro Giustino,
Voglio dedicare a te questo libro, perchè tu
fosti uno de' migliori alunni di Francesco De
Sanclis, il quale negli ultimi anni del viver suo
mi parlava sovente del tuo meraviglioso inge-
gno, della tua svariata e solida cultura e della
tua squisita e rara bontà.
« Libros oportet esse thesauros, non libros »,
sentenziò Dione Cassio. E questo è davvero un
inestimabile tesoro, che, rimasto per lungo tempo
nascosto, reputo opportuno dare alla luce in
occasione delle feste parentali di Dante.
Ugo Foscolo, nel settembre del 1796, in un
suo Piano di studi, osservava sagacemente che
i critici debbono avere « gusto innato di anima,
senza cui tutti i libri di critica sono nulli. ». E
tal gusto ebbe appunto il De Sanctis nel giudi-
care non pure gli scrittori italiani, sì anche gli
stranieri. Ma la vasta ala del suo genio critico
si levò e spaziò principalmente nelV interpreta-
zione estetica e filoso fica della Divina Coni-
- 8 —
media. Niuno prima e meglio di lui, salvo for-
se in parie il cantar de' Sepolcri, seppe pe-
netrare nel pensiero dantesco, immedesimando-
visi, conglutinandosi, per cosi dire, con esso e
facendolo raggiare della sua vera luce.
Il primo lavoro del De Sanctis intorno al
poema sacro fu certamente questo, che conservo
autografo. Lo compose nel suo esilio a Torino.
Da esso poi desunse le lezioni eh' egli fece nella
sala di S. Francesco da Paola di quella città,
delle quali lungamente parlai nelV intraduzione
al suo saggio inedito su Beatrice (1), il capitolo
dantesco della sua Storia della letteratura e
i suoi saggi su Ugolino, su Francesca da Rimini,
su Farinata e su Pier delle Vigne.
Ho duralo grandissima fatica a decifrare il
manoscritto, essendo qua e là sbiadito e in qual-
che parte addirittura obliteralo dagli oltraggi
del tempo. L' ho mondato inoltre dalle locuzioni
arcaiche ond' è rinzeppato, reminiscenze della
scuola purista del Puoti, alla cui grammatica
circa quindici anni innanzi il De Sanctis aveva
collaborato insieme con Leopoldo Rodino e con
altri (2); reminiscenze dalle quali in progresso di
(1) Vedi F. De Sanctis, Beatrice, saggio inedito a cura di G. Lau-
rini. Napoli, A. Morano, editore, 1914.
(2) Ecco in qual modo gonfio e grottesco il buon marchese Puoti
scrisse dell'aiuto datogli dal De Sanctis :
" Ancora tra' giovani, che un giorno furono miei scolari, essendo
alcuni che onoratamente e con molta lode ora insegnano la lin-
gua e la toscana eloquenza, del costoro aiuto, che con grande
— 9 -
tempo si sciolse, dando al suo stile atteggiamenti
più semplici, più agili, più disinvolti, più con-
formi, insomma, air uso moderno.
Io ricordo, caro Giustino, la magnifica com-
memorazione che tu facesti del De Sanctis alla
Camera dei deputati nella tornata del 22 gen-
naio ÌHHk. Ben dicesti eh' egli, « critico e lette-
rato, esercitò in Italia un'azione non inferiore
a (juella che il Lessing in Germania, il Macaulay
in Inghilterra, il Sainte-Beuve in Francia ».
Meglio ancora dicesti che fu « l'educatore po-
litico dei giovani d'una gran parte d'Italia, in
mezzo ai quali egli visse come nel suo universo,
e che ebbe cari come la luce dell'anima sua, ed
ai quali insegnò, con la parola, con lo scritto e
con l'esempio, nella scuola, nella stampa e nelle
associazioni, quanti fossero ormai, e verso i
maggiori e verso i futuri, i loro doveri di liberi
onesti cittadini ». E, poiché sin d' allora co-
minciavano a vedersi i prodromi della deca-
amorevolezza vollero porgermi, molto sonomi giovato. Ed essendo
essi ^ià assai intendenti e pratichi delle cose della favella, ed a
fanciulli insegnando, ed a giovani e donzelle ancora, meglio che
altri i difetti hau potuto scorger del libro, e di non poca utilità
mi sono stati in correggerli. 11 parche <li bassezza d'animo potrei
esser tassato, se i nomi almeno di Leopoldo Rodino e di France-
sco De Sanctis io qui non riferissi, i quali pel buon giudizio e
per la grande diligenza adoperata in questo lavoro nuova e più
certa prova mi lian dato del loro valore e dell'amor grande che
mi portano ,,.
Vedi la Prefazione posta innanzi alle Regole elementari della
lingua italiana compilate nello studio di Hasilio Puoti, decimaprima
edizione. Napoli, libreria e tipografia simoniana, 1841.
- 10 —
(lenza e della corruttela politica , molto a pro-
posito citasti nella fine del tuo discorso queste
sue auree e memorabili parole : « solo la di-
gnità è la chiave della vita, e l'onestà è la
prima qualità dell'uomo politico ». Se si par-
la oggigiorno così a certa gentucola nuova do-
tata di raffinatissima astuzia e di incommen-
surabile ipocrisia, cinica schernitrice di ogni no-
bile idea, di ogni gentile sentimento, pensosa sol-
tanto della propria sfrenata ambizione e del
« proprio particulare », come l'uomo del Guic-
ciardini, si risica di passare per vittime di una
puerile ingenuità. Bella ed amabile e santa in-
genuità, che, irrisa in ogni tempo di scadimento
morale, politico e sociale, è sommamente ap-
prezzata e glorificata quando la parte divina
del genere umano trionfa della parte bestiale !
Ricordo anche che in una tua lettera, scrit-
tami sei anni or sono, chiamasti il De Sanctis
« i7 più potente intelletto del mezzogiorno d'I-
talia ». Ah, si, egli fu tale senza alcun dubbio.
Ma questo benedetto mezzogiorno, che pur tanto
amiamo, « fecondo di grandi ingegni », come
lo defini Niccolò Tommaseo (1), — mi rincresce
oltremodo di dirlo — ha quasi sempre tenuto
in poco conto gli uomini che più lo hanno ono-
rato con la cultura, con l'integrità de' costumi e
(1) Vedi N. Tommaseo, Educazione dell'Italiano, p. 100. Firenze,
G. Barbèra, editore, 1905.
— 11 —
con l altezza dell'animo. Gli è che noi siamo una
razza troppo ostinata, anzi troppo indurita nel
sesto peccato mortale e in certi altri peccatacci,
sopravvivenze delle peggiori dominazioni bar-
bariche, massime di quella bizantina, che ci fan-
no beccare l'un con l'altro come i polli di Ren-
zo, ed oscurano le nostre non poche virtù. La
fama di molti nostri illustri conterranei ci è ve-
nuta pur troppo dal di fuori. Esempio, per tacer
d' altri, il Vico, che, come ben sai, vissuto po-
vero e ignorato nella sua città natia, ci fu fatto
conoscere ed apprezzare dagli stranieri. Il De
Sanctis, se non fosse andato a insegnare nel Poli-
tecnico di Zurigo, dove conobbe Wagner, Marx,
Vischer, Mommsen, Herweg, Kókli, Flocon, Sue,
Araqo, Dufraisse, Challemel-Lacour, Charras,
Cherbuliez, che tanto lo stimarono e lo lodarono
nella stampa estera, specialmente dopo avere
udito le sue conferenze sul Petrarca, forse sa-
rebbe stato sommerso nei più profondi gorghi
lelèi. Esagero? Non mi pare, visto e considerato
che pochi anni dopo la sua morte furon pro-
prio alcuni del mezzogiorno, non privi peraltro
di viva intelligenza né di buoni studi , quelli
che più tentarono di scolorare, o meglio, di a-
duggiare le sue opere geniali per tener bordone
a certe ingiuste osservazioni che vi aveva fatto
su il Carducci, poeta eminente, è vero, forte cri-
tico erudito, è pur vero ; ma, con buona pace
de' suoi fanatici adoratori, critico estetico men
— 12 —
che mediocre, come ne posson far fede i suoi
contraddilorii giudizii sul (Unisti, rilevali con
molta delicatezza da quell'elegante scrittore at-
tico, che è il nostro illustre e simpatico amico
Ferdinando Martini (1).
Benedetto Croce col suo sottilissimo acume e
con la sua incomparabile dialettica ed io con
l'amor filiale che porto e porterò al De Sanctis
sino alV ultimo de' giorni miei le difendemmo
strenuamente e trionfalmente.
Apprendano i giovani, non già dai commen-
tatori e glossatori pedanti, che il Mazzini chiama
« spiluccatori di sillabe », ma dal presente volume
il vero modo di studiare ed illustrare il poema
dantesco : poema eterno, perchè eterne sono le
passioni umane in esso scolpite; e però, oltre
che eterno, universale.
E tu, cuor de' cuori, accogli questa dedica
con quella compiacenza medesima, con la quale
avresti accolto una visita di Francesco De Sanc-
tis, sul cui sepolcro verdeggia un lauro immor-
tale che nessuna mano sacrilega potrà sfiondare.
Vale ! e sii sempre memore di me, che im-
mensamente ti stimo e ardentemente ti amo.
Capo d'anno 1921.
Gerardo Laurini.
(1) Vedi Ferdinando Martini, Sintpaiie (Studi e Ricordi.. Firenze
R. Bemporad e figlio, librai-editori, 1909.
I.
IL SUBBIETTO DELLA DIVINA COMMEDIA.
Il subbietto della Divina Commedia è laN
storia finale della umanità ; è, per parlare
poeticamente, lo scioglimento e la catastrofe,
il quinto atto del dramma umano, nel quale
ricompariscono ancora gli atti antecedenti,
ma in lontananza, fuori della scena, come
un passato che si offre alla memoria, trasfi-
gurato e colorato dalle impressioni presenti.
La porta del futuro è chiusa: l'azione è ces-
sata; ogni vincolo umano e civile, che collega
gli uomini sulla terra, è sciolto ; collisioni,
intrighi, tutto ciò che è materia concreta di
poesia non ha più scopo; al_yivo movimento
della umana libertà è succeduta l' immuta-
bile necessità. Ma mentre una parte degli
attori ha abbandonata la scena di questa vita,
altri vi sottentrano con le stesse ire e con
gli stessi amori; ed il poeta spettatore è come
un ponte gittato tra il presente e l'avvenire.
E porta seco tutte le sue passioni di uomo
e di cittadino, e fa risonare di terreni gemiti
fino le serene volte del cielo: così ritorna il
dramma, e nell'eterno ricomparisce il tempo.
/ In mezzo all'immobilità dell'avvenire vive e
si agita l'Italia, anzi l'Europa del decimo-
\ quarto secolo, col suo Papa ed Imperatore,
l coi suoi re, principi e popoli, coi suoi co-
\stumi, le sue passioni, le sue discordie, con
/tutto quello che è in lei di alto o vile, di
tragico o comico. È il dramma di quel se-
colo, scritto da un poeta che è egli stesso uno
degli attori, con la veemenza della passione
e con la dignità della convinzione : talché
spesso ci sentiamo rapire dal luogo ov'è col-
locata l'azione e ci troviamo nel bel mezzo
d' Italia tra le tempeste ed il fremito della
pubblica vita. Il che ha indotto alcuni a rim-
picciolire le proporzioni della Commedia e
rinchiuderla nell' angustia e nella prosa di
uno scopo politico, quasi tanto alta inven-
zione non sia altro che un mezzo meschino
ed un' arma codarda, di cui siasi valuto il
poeta a conculcare i suoi avversari.
r- L' elemento politico non è già il sostan-
\ ziale, ma solo un momento dell' universo
) dantesco, porgendo il lavoro per la sua forma
liberissima facile occasione all'autore di ma-
nifestare le sue idee e le sue predilezioni :
\di che egli ha usato ed abusato largamente.
Certo i suoi giudizi, né le sue opinioni sono
— 5 -
sempre giuste : che egli pure avea in sé di
quel di Adamo, e pensò e sentì secondo i suoi
tempi. Ma che fa ?
La Commedia non è scienza, né storia, ma
poesia. Sotto questo rispetto ben ci ha allu-
sioni personali e poco felici allegorie, che
dovettero aver molto favore a quei giorni e
che sono la parte accidentale e transitiva del
suo poema. Ma più spesso egli guarda la vita
da queir altezza, alla quale ha innalzato il
subbietto, e, spettatore dell' avvenire, tuona
e folgora con la dignità di sacerdote e di
profeta; anzi di poeta. Altro è il concetto che
Dante ha dell'officio della poesia, del quale
sente l'orgoglio ed accetta il pericolo: ond'è
che sovente l'indignazione dell'uomo offeso
s'innalza in lui alla solenne autorità del giu-
dice, e la transitoria realtà all' immortalità
dell' ideale.
Il perchè, quantunque quelle passioni e
quelle opinioni abbiano oggi perduto il loro
significato particolare e relativo, non per-
tanto è rimasto vivo il sostanziale di quegli
accidenti: di che possiamo allegare ad esem-
pio la digressione sulle condizioni d'Italia ai
suoi tempi e le sue gravi parole a Niccolò III.
D'altra parte la passione ond'è infiammato
dà alla poesia la propria impronta dell'uo-
mo e del tempo, senza la quale ella non ha
la sua incarnazione perfetta.
6
Scontento di tutto e di tutti, segregatosi
dalle parti e bollente di collera per nuove
ingiurie e per fallite speranze, egli è in a-
cerba opposizione col suo tempo, ed il foco
dell' ira rende terribilmente ingegnosa la sua
fantasia.
Dante è la sintesi vivente de' tre mondi,
i quali hanno in lui come in uno specchio
la loro riflessione ed unità. Egli non è solo
spettatore, ma attore: smarrito nella selva dei
vizi e degli errori, contempla lo spettacolo
della caduta dell'uomo dopo la colpa d'ori-
gine; indi, passando nel luogo del pentimento,
i peccati mortali incisi sulla sua fronte dalla
spada della divina giustizia sono cancellati
ad uno ad uno, e, rinvigorito dalla divina
grazia, ei lava col pianto i suoi falli, e, pen-
tito e confesso, giunge di grado in grado alla
sua compiuta redenzione. Innalzando l'indi-
vidualità a signi ficazione generale, vediamo
in Dante espressa la stessa vita umana nella
sua esplicazione terrestre, cioè nel suo tri—
plice stadio di corruzione, d'espiazione e di
redenzione: così nel poema dall'estremo grado
dell' errore, del male e del brutto, cioè dal-
l'ultima bolgia infernale, si passa nello stato
di lotta tra' contrari, il quale dualismo s' in-
nalza a poco a poco alla sua idealità asso-
luta, a verità, a virtù, a bellezza. Il che non
rimane già una fredda astrazione, ma di-
— 7
viene persona viva nelle figure tanto poetiche
di Dante, di Virgilio, di Beatrice, di Matilde,
della Vergine. Onde potrebbe parere a prima
giunta che Dante sia il protagonista del poe-
ma, e che l'azione sia il viaggio eh' ei fa per
la sua redenzione; ma qui appunto è la dif-
ferenza tra la Divina Commedia e il Faust,
fondati generalmente sullo stesso concetto.
Dante e Ì^nSJsi contemplano entrambi le di-
verse forme della vita, e pervengono alla
loro perfetta liberazione ; se non che nel
Faust accanto all'obbiettivo individuato con
sì ricca personalità l'elemento subbiettivo è
svolto con quelle larghe proporzioni, che
consentiva all'autore del Werther la progre-
dita civiltà; sicché per la piena esplicazione
della sua intrinseca vita Faust è il vero pro-
tagonista dell' azione. Ma questa poesia in-
tima, come oggi la dicono, quest'analisi pro-
fonda delle contraddizioni e de' tumulti del
cuore umano non è accomodata nò al genio
dantesco, né all'indole della poesia primitiva.
Nella Divina Commedia Dante sparisce in-
nanzi alla grandezza della visione, sulla quale
si rivolge principalmente 1' attenzione del
lettore; né egli esprime altrimenti quello che
avviene nel suo animo che simbolicamente
ed obbiettivamente, come nella selva, nei
peccati mortali scolpiti sulla sua fronte, nel
riso di Beatrice, ecc. Quindi è che il lavoro
— 8 —
moderno ha il titolo personale di Faust, lad-
dove 1' altro ha il titolo generale di Divina
Commedia e la forma narrativa.
Oltre l'allegoria generale, ciascuna inven-
zione particolare ha il suo senso riposto : e
presso di noi, durato il vezzo delle allegorie
sin quasi al termine del secolo decimosesto,
ì non è maraviglia che i comentatori si sieno
principalmente studiati d' investigare e di-
chiarare questa parte della Divina Commedia.
j A' nostri giorni il simbolo è ritornato in ono-
i re; le forme hanno perduto il loro ingenuo
valore e lo scettico poeta lo trasmuta e com-
bina a suo grado, come caratteri e segni del
suo pensiero. La critica aveva già prima preso
questo stesso indirizzo e, guidata da un idea-
lismo dissolvente ed impersonale, traducendo
in miti e tipi i principali personaggi storici
e poetici, essa ha trasmodato per modo che
nei pedanti di questo sistema la poesia è ri-
dotta poco meno che a nudo pensiero.
Non è quindi a maravigliare che alcuni
critici valorosi abbiano riposta l'essenza della
poesia dantesca nel suo significato allegorico,
come vediamo aver fatto Schlosser e Rosen-
krauz. Certo l'allegoria dantesca è parte viva
del concetto, non un significato postremo e
soprapposto, come nel Boiardo e nel Tasso;
■ ma il viaggio allegorico non è altro che un
mezzo, di cui si è giovato il poeta a rendere
- 9 —
intelligibile la sua visione, la quale ha il suo
valore in sé e per sé. I tre mondi corrispon-
dono per la loro natura alla vita terrena |
nelle sue varie gradazioni: ma il poeta non
li prende punto in un senso simbolico, con-
siderandoli con piena fede quali sono in sé
stessi, nel loro valore proprio ed immediato.
E quanto alle allegorie particolari, essendo
il pensiero non di rado un accessorio, di
cui non si scorge nell' immagine alcuna or-
ma distintiva, rimasto nella mente del poeta,
è impresa quasi disperata a volere indagare
i suoi fini segreti e le allusioni storiche, po-
litiche, morali non penetrate nell' essenza
della poesia. E poniamo pure che i critici si
accordino in questo; certo ne sarebbe aiutata
l' interpetrazione del poema, ma ben poco
aggiunto al valore intrinseco della poesia,
che ha in sé medesima il principio della sua
esplicazione.
[Quanto alla forma, la Divina Commedia è
una visione narrata, nella quale tutto è rap-
presentato in singoli quadri, ciascuno com-
piuto per sé, senza un' azione che si snodi
di mezzo al contrasto delle passioni: il qual
difetto inerente alla natura dell' argomento
toglie molta parte di quella sospensione e
diletto che rende tanto popolari l'Iliade, l'Or-
lando e la Gerusalemme. [Ciascuno de' tre mon-
di ha i suoi compartimenti, ordinati secondo
10
divisioni scientifiche e morali: ed ogni specie
è una compiuta totalità che comprende in
sé la forma generale : sono diverse pitture
di una stessa storia. [Il poeta apre, d'ordina-
rio, la scena con la descrizione del luogo ;
indi gitta un rapido sguardo sui gruppi, di-
stinti di abitudine e di espressione: di mezzo
a' gruppi si erge il personaggio principale,
l' individualità, con la sua forma propria e
spiccata: qui comincia il dialogo, ed alla evi-
denza del pennello succede l'eloquenza della
parola. L'unità di questa vasta comprensione
non è né in un'azione particolare, né in un
protagonista: l'unità èia stessa comprensione,
vivente indivisibile unità organica, i cui mo-
menti si succedono e si riflettono nello spi-
rito del poeta, non ordinati pedantescamente,
come morto aggregato di parti separabili,
ma penetranti gli uni negli altri, mescolan-
tisi, immedesimantisi, com' è la vita nella
sua verità.
Si è disputato a qual genere di poesia ap-
partenga la Divina Commedia. Il poeta ha tro-
vato egli stesso il nome del suo lavoro, chia-
mandolo il poema sacro. Esso è l' epopea
divina, la storia di Dio nella sua ultima ideale
espressione; o piuttosto esso non è propria-
mente il genere, ma il Tutto, contenente in
sé il germe di ogni varia esplicazione del-
l' arte moderna. Di mezzo al narrativo e al
— 11 —
descrittivo spunta il dramma in tutte le sue
gradazioni, la lirica in tutte le sue forme.
Non è la Divina Commedia questa o quella
poesia, ma la Poesia, la quale dal sublime
negativo esce fuori sotto la forma dell'umana
bellezza, luce riflessa, immagine ancora ve-
lata, ma trasparente, infìno a che, fattosi il
velo più e più sottile, essa brilla in tutta la
sua purezza ideale, nel regno stesso della luce.
II.
V INFERNO
II.
L' INFERNO.
L' inferno è il regno del male, la morte
dell'anima e il dominio della carne, il caos:
in poesia, il sublime negativo. Elementi in-
formi e disformi ; abissi più e più inabis-
santisi: rupi scoscese, triste valli; aere senza
tempo e muto di luce; una tetra grandezza
compiuta col laido e col grottesco; tutto que-
sto, rappresentato con formidabile uniformità,
produce nel generale una impressione tra-
gica e severa. Trasportando la scena di là
da questa vita, Dante è non solo il poeta,
ma 1' architetto, lo scultore e il pittore del
suo universo. Con incredibile audacia di fan-
tasia fecondata dall'amore di un'alta conce-
zione, egli ha saputo congiungere l'obbietti-
vità della natura con la trasparenza dell'arte.
Onde la qualità del luogo risponde agli ele-
menti spirituali delle passioni e degli errori:
le tenebre della ragione, il profondare ognora
più nel fango e nel lezzo della carne e il
— 16 -
male nelle sue due forme, tragica e comica,
secondo che nobile e abbietta è l'anima col-
pevole. Le descrizioni sono sobrie, ma di una
compiuta precisione; e l'impressione risulta
meno da' particolari che dal cupo e fosco co-
lorito e dallo stesso movimento imitativo del
verso. Ma il concetto sta immobile nell' ar
chitettura, né può esservi espresso che di una
maniera molto generale. Nelle pene esso tra-
spare in ogni varietà di attitudine, di mo-
venze, e in tutta la pienezza delle sue diffe-
renze individuali. Esprimono le pene la pas-
sione nel suo cieco impeto, la viltà nella sua
oscena bassezza, la colpa nella sua fredda
malizia: è la stessa inesorabile coscienza fatta
materia. Il poeta non cade in fredde sotti-
gliezze, né cerca puerili, lontani e minuti
rapporti tra la colpa e la pena; ma il con-
cetto vi si rivela a gran tratti, e il corporale
vi è in tutta la sua evidenza plastica. Opera
di una intelligenza profonda, di una cupa e
fiera fantasia , che anima la materia, e vi
scolpisce su ora l'ironia, ora il dispregio ed
ora il sarcasmo: di che rampollano tante in-
venzioni di pene, non sai se più mirabili per
verità o per novità e varietà di concezione.
Ma il pensiero non è giunto ancora alla sua
piena subbiettività: esso non è ancora anima.
Un primo grado di questa forma è ne' de-
mòni. Il demonio dantesco è senza dignità,
— 17 -
l'elemento turpe e selvaggio del male, il sa-
tirico nel suo stato ancor grezzo assai pros-
simo alla prosa, figurato ne' satiri dell'anti-
chità, ne' quali la brutale sfacciatezza tronca
il riso e genera il disgusto, La vergogna e il
rossore è proprio della faccia umana; il de-
monio non arrossisce. In lui niente è rimasto
dell'angiolo; sicché egli non ha né l'orrida
maestà del demonio del Tasso, né il subli-
me di quello di Milton. Belfagor, il Diavolo
zoppo e Mefìstofele si avvicinano alquanto
al tipo dantesco; ma Machiavelli, Le Sage e
Goethe hanno lor dato dell' umano, espres-
sione ironica e maliziosa della parte comica
della vita in opposizione alla seria. Dante ha
raggiunto talora questo ideale della comme-
dia, come, a cagion d'esempio, nel demonio
che mena a dannazione Guido da Montefeltro,
spiritosa caricatura della scienza scolastica del
peccatore persuaso al delitto da un sofisma.
« Forse
Tu non pensavi eh' io loico fossi ! >
Ma in generale egli ha voluto esprimere
nel demonio la più bassa incarnazione dello
spirito nella scala degli esseri, e non solo il
carnefice, a cui il tormentare è voluttà, ma
il simbolo altresì del vizio da lui punito,
congiungendo col mostruoso, col grottesco,
con l' osceno e col bestiale la ferocia alla
18
bassezza. Egli si è aiutato con molta sagacia
della pagana mitologia, non dando alcun serio
valore a quelle invenzioni, ma adoperandole
come simboli e segni del suo pensiero.
< O voi, ch'avete gl'intelletti sani,
Mirate la dottrina, che s' asconde
Sotto '1 velame degli versi strani. »
Ma questi esseri allegorici non rimangono
nell' aridità del generale ; e niuno ignora
quanta vivace individualità è nelle figure di
Caronte, di Cerbero, delle Furie, di Minos,
di Gerione, il cui ingegnoso ritratto fu il
germe dell' ammirabile ottava, nella quale
l'Ariosto ha descritto la Frode. Nel demonio
è ben poco di subbiettivo; nell'uomo il con-
cetto si manifesta chiaramente a sé stesso e
diviene persona, acquistando carattere, af-
fetto e pensiero. L' idea fondamentale che
Dante ha voluto rappresentare nel peccatore
è l'impenitenza, cagione e ragione della per-
petuità della pena. Quale l' uomo fu vivo,
tale è morto ; egli ha lo stesso ardore del
desiderio, ma accompagnato dal sentimento
dell' impotenza : onde la disperazione e la
rabbia. Ciò che in terra gli fu a diletto, nel-
l' inferno gli è a castigo.
< O Capaneo, in ciò che non s' ammorza
La tua superbia, se' tu più punito. *
— 19 -
È il Manfredi di Byron: il fiume dell'oblio
Lete è fuori dell' inferno. La sua passione
perpetuamente innanzi gli sta. Egli vede im-
presso nella condizione del luogo, nella na-
tura della pena, nell'aspetto e negli atti dei
suoi tormentatori quello stesso che si agita
nel suo cuore. Onde nell'inferno le passioni
umane sono non solo ricordanza, ma senti-
mento vivo e presente: il che gli dà l'aspetto
della stessa vita terrestre in un colore fosco
e tetro. I personaggi sono caratteri perfetti:
oltre alla loro colpevole passione, essi ser-
bano tutte le passioni, i vizi e le virtù che
ebbero in terra, né in loro è rappresentata
pedantescamente l'immagine di ciascun vizio;
ma talora, massime quando la colpa non può
o non dee ricevere alcuna esplicazione poe-
tica, come ne' canti decimo, decimoquinto e
decimosesto, sono in essi mostrate altre facce
del loro carattere , e può così il poeta farci
sentire ammirazione e pietà per Brunetto
Latini, Guido Cavalcanti, Iacopo Rusticucci
e simili. Il numero de' personaggi corrisponde
all'ampiezza del disegno: infinita varietà di
forme individuali. Talora è una semplice in-
dicazione, poche parole con la grave sem-
plicità di una scritta.
« Anastagio papa guardo,
Lo qual trasse Fotin dalla via dritta ».
20
« Guidoguerra ebbe nome: ed in sua vita
Fece col senno assai e colla spada >.
Alcuna volta si contenta di un solo epiteto,
ma di quegli epiteti nuovi e comprensivi, che
scolpiscono e perpetuano, che destano la me-
ditazione e slargano la fantasia e che riman-
gono nella memoria degli uomini come adagi
o sentenze.
« Questi sciaurati, che mai non fùr vivi »
« Vidi il maestro di color che sanno ».
« Di quel signor dell'altissimo canto ».
Spesso gli basta lo scarpello; e niuno me-
glio di Dante ha compreso 1' eloquenza del
silenzio.
« Supin ricadde, e più non parve fuora »
« E per dolor non par lacrime spanda »
« Di quella sozza scapigliata fante ».
Espressioni mute di estrema angoscia, di
forte animo e di turpe laidezza. Non solo il
supremo affetto, ma ancora l'ultima viltà non
ha parola.
La parola manifesta l'attività interiore, ed
è segno estrinseco della dignità dell' anima:
quindi, con profondo significato, i poltroni
gemono e piangono, ma non parlano. Dante
21
guarda e passa. Altre volte tutto un carattere
è già vivente in un semplice atto prima an-
cora che parli il personaggio.
« Ed ei s' ergea col petto e colla fronte
Come avesse l' inferno a gran dispitto ».
« Chi è quel grande che non par che curi
Lo incendio e giace dispettoso e torto ? >.
Ma più sovente il gesto cospira con la pa-
rola alla compiuta espressione dell'affetto; né
ci ha cosa di tanta pietà, quanto i muti atti
di Paolo consonanti come una musica ma-
linconica con le parole di Francesca. La pa-
rola è la più compiuta manifestazione dello
spirito e il più docile strumento della fan-
tasia, sola essa che possa ritrarre in tutte le
sue misteriose ambagi il cuore umano. In
Dante ella prende tutte le forme, dalla prosa
del semplice ragionamento fino alla più alta
espressione lirica. Ne' caratteri comici brevi
dialoghi, pronte risposte, amari frizzi, motti
grossolani, e malizie e lordure; il fango osceno
della vita in rapidi tocchi, quasi l'alto animo
del poeta rifugga dal vile spettacolo.
* Che voler ciò udire è bassa cosa. »
La Commedia è una ironia più o meno de-
licata della vita; il corpo che fa la parodia
22
dello spirito, la prosa che imita con carica-
tura la poesia, opposizione tra l'essere e la
apparenza, dal cui improvviso contrasto scop-
pia il riso. Ma il poeta ha l'animo troppo
nobile e sdegnoso, nò sa indugiare con pa-
zienza lo sguardo sulle umane fralezze : il
suo sorriso è amaro ; di sotto alla facezia
spunta il disdegno, e spesso nella mano la
sferza gli si muta in pugnale. Oltreché egli
rappresenta comicamente solo la parte più
sozza ed abbietta del carattere umano; sicché
i suoi motti e le sue immagini tengono molto
del buffonesco e del plebeo; del qual genere
è tipo l' ignobile piato di Sinone e Mastro
Adamo.
La parola tragica è cosa perfetta. La tra-
gedia rappresenta la lotta impotente dello
spirito con la materia, risoluta in una unità
superiore, il Fato, la ragione, la provvidenza,
secondo le tendenze e le condizioni razionali
de' tempi. In questo contrasto talora lo spi-
rito si mostra delicato, sensitivo, femminile,
con l'eloquenza del dolore senza il sublime
dell'azione; talora con piena coscienza della
sua dignità; imprigionato nella materia, si
sente libero, e, vinto, ancora serba la sua se-
renità e il suo disdegno. Secondo il primo
tipo è Pier delle Vigne, Francesca da Rimini,
Guido Cavalcanti ; secondo 1* altro Farinata
degli Uberti, Capaneo e Dante stesso : nel
- 23 -
conte Ugolino sono ambi temperati con gran-
de verità. Le parole di Pietro delle Vigne
contengono in sé il disegno di tutta intera
una tragedia. L'alto concetto eh' egli ha del
suo glorioso uffìzio, la gelosa cura con che
ne rimove ogni altro, la fede e la riverenza
verso il suo Signore, lo sdegno contro i suoi
detrattori e il pensiero che si dà della sua
memoria giacente sotto i colpi della invidia
ci fanno misurare di un guardo la profon-
dità di quel dolore, che lo condusse a morte.
Quel canto è de' più belli: è una mesta ar-
monia di diversi elementi, ciascuno de' quali
risponde ad una fibra del nostro cuore.
Nel canto quinto il poeta aggiunge una mor-
bidezza di stile e di favella, che ci fa già pre-
sentire il Petrarca. La nostra lingua è nata
con l'amore, il quale ha in lei svolto l'ele-
mento musicale onde va innanzi a tutti gli
idiomi moderni; e già ne' primi lirici, sopra-
tutto in Cino da Pistoia, essa ha infiorato
di quella grazia e leggiadria che fu seme e
della sua perfezione e del suo scadimento.
Cino ritrae l'amore più con pensieri delicati
che con vivacità di affetto; e sembra che la
bella Selvaggia abbia avuto potere di svegliare
ed ornare il suo spirito senza turbare il suo
cuore.
^In Francesca apparisce 1' amore nella sua
verità drammatica, passione sensuale, prò-
— 24 —
fv«^rompente, ma nobile e gentile e nello stesso
fervore del desiderio casta e pudica. La nar-
razione si compie con un ultimo tratto di
pennello, di una grande verità e delicatezza,
che fa intendere di là da quello che esprime,
rappresentando il pensiero obliquamente e
ricoprendo l' immagine col velo del pudore.
Il punto scelto dal poeta e apparecchiato con
particolari pietosi è quando la passione, lun-
gamente compressa, scoppia ; il quarto atto
della tragedia, che ci fa intravvedere una
segreta storia di affanno e di desio nel pas-
sato, è l'imminente catastrofe.
Il mesto accompagnamento di Paolo, il
fremito amoroso che invade ancora quelle
nude ombre, la profonda pietà del poeta,
l' indole tenera ed affettuosa di Francesca, la
squisita delicatezza del sentimento e la me-
lodiosa soavità che spira dalle parole, dai
versi, dalle immagini ci fanno in quel punto
dimenticare l' inferno o, per dir meglio, ci
rendono F inferno cosa bella e gentile.
Guido Cavalcanti non è una rimembranza,
ma una scena tragica in atto, nuova d' in-
venzione e di espressione: è il cuore umano
palpitante nel gesto. Guido si leva inginoc-
chione: indi si drizza di subito; poi ricade
supino, tre statue di un solo uomo corri-
spondenti a tre gradazioni di un solo affetto.
Dapprima è la speranza di rivedere il figliuolo
- 25 —
mista d'incredulità; indi una mortale ansietà;
da ultimo la prostrazione e il silenzio della
disperazione. Il poeta con grande arte ha in-
nestato questo episodio nel fatto di Farinata,
il quale dinanzi a tanto dolore
« non mutò aspetto,
Né mosse collo, né piegò sua costa. »
Così, di un tratto solo, ei ci dipinge la forte
tempra dell'anima di costui. Farinata fu uomo
di parte e insieme gran cittadino. Il parteg-
giare a quei tempi non era solo legame di
opinione, ma insieme sacro vincolo di fami-
glia, eredità di vendetta e di odio. Dante ha
voluto in lui esprimere questo ideale della
inculta energia di popoli giovani, che egli
trovò nella stessa sua anima. Farinata com-
parisce alla fantasia con proporzioni colos-
sali e con la maestà del Giove di Fidia, tor-
reggiale di tutta la sua altezza sulle cose
che lo circondano, quantunque dalla cintola
in giù giaccia nascosto nell'arca: la quale il-
lusione procede da questo, che la grandezza
dell'anima manifestata negli atti di fuori ingi-
gantisce anche il suo corpo. Il suo dire è riciso,
rotto, brusco, imperativo : ci si vede l'uomo
d'opera e di comando, maggiore della fortuna.
La sua anima è più grande dell'inferno.
« Ciò mi tormenta più che questo letto. »
— 26 —
Concetto sublime espresso con quella na-
turalezza e semplicità, con la quale i grandi
uomini fanno le grandi cose,
f Capaneo è uno de' caratteri più sagace-
mente pensati e con maggior forza ritratti.
Il poeta ha in lui unito ciò che la superbia
ha di sublime e di basso ad un tempo. Egli
non ha vera forza d'animo; e non 1' ha ap-
punto perchè sen vanta. La sua noncuranza
è apparente; e quel suo giacere dispettoso e
torto e l'amarezza del suo sarcasmo mostra
bene il suo dispetto, o, per parlare con Vir-
gilio, la sua rabbia.
A vera sublimità s'alza il carattere di Dante.
Siccome il pianto di Solimano desta più
grande pietà che il lamentio di Tersite; così
la costanza di un animo sensitivo reca mag-
giore ammirazione che la stupidezza dell'a-
patia. Dante sente profondamente il dolore
dell'esilio; e basta a mostrarlo il modo pie-
toso onde ne descrive le ambasce per bocca
di Cacciaguida ; ma il dolore non ha alcun
potere sulla sua volontà, che lo torca ad atto
vile o a codardo lamento, e, francheggiato
dalla pura coscienza, ei si sente tetragono
ai colpi della fortuna.
« Però giri Fortuna la sua ruota,
Come le piace, e '1 villan la sua marra. >
Nel canto trentesimoterzo è posta in atto
27
una vendetta straordinaria pari alla qualità
dell' ingiuria: la situazione è la stessa di Mac-
duff, ed è bello ragguagliare insieme due
poeti tanto simili di genio e differenti di ca-
rattere, come sono Dante e Shakespeare, i
due idoli della critica odierna. Ambi hanno
saputo trarre partito dalla fanciullezza. Il
fanciullo è una immagine serena, la cui can-
dida ingenuità orna di grazia l'aspetto severo
della vita: tale è il figliuolo di Coriolano in
Shakespeare, ed in Goethe il figliuolo di Goetz.
Ma quando lo si vede trastullarsi in una
stanza funebre o sorridere al carnefice di suo
padre, quasi come una ironia, tanto più pro-
fonda, quanto meno intelligente, ogni suo
equivoco è una scena, ogni parola uno strazio,
ed il contrasto che ne deriva porta all' ul-
timo suo grado 1' effetto tragico. (Jn Ugolino
il dolore è senza pianto e senza voce ; egli
ha l'immobilità della disperazione; ma il suo
dolore diviene eloquente nelle lagrime e nelle
parole de' figliuoli: angoscioso contrasto tra
i muti atti dell'uno e l'espansiva innocenza
degli altri.
« Io non piangeva; sì dentro impietrai
Piangevan elli; ed Anselrauccio mio
Disse: Tu guardi sì, padre: che hai?»
Dante è padre obbiettivo per eccellenza; il
pensiero e l'affetto non rimane in lui nella
- 28 -
astrazione dell'analisi, ma prende figura ed
unità nell'immagine e nell'azione. L'errore,
fecondo di tanta poesia, in cui cadono i fi-
gliuoli alla vista del padre mordentesi ambo
le mani vale tutta una scena rettorica delle
comuni tragedie. Le loro poche parole con-
tenenti in una immagine sì peregrina e de-
licata tanta spontaneità di affetto sono un
grido sublime della carità filiale, che rapisce
in ammirazione e diverte alquanto lo sguardo
da tanta angoscia. Succede lungo intervallo
di silenzio, lenta agonia de' fanciulli, taciturna
rabbia del padre. Un ultimo tratto di pue-
rile semplicità, al quale bisogna arrestarsi,
ove non si voglia inaridire la lacrima, è questo:
« . . . . Padre mio, che non m'aiuti ? »
Quale coltello al cuore di un padre ! Il fan-
ciullo morente crede che il padre possa aiu-
tarlo ! Dante ha immaginata una vendetta di
una brutale ferocia proporzionata al dispe-
rato dolore. Alla prima vista di Ugolino noi
diamo indietro e lo guardiamo con racca-
priccio ed orrore ; e quando, compiuto di
parlare, riprende il teschio misero co' denti
qual è il sentimento che noi proviamo ? Lo
stesso ribrezzo e raccapriccio. Scena unica,
nella quale una profonda pietà è congiunta
con insuperabile orrore: quel padre ci fa fre-
— 29 —
mere e ci fa piangere. Shakespeare ha saputo
innalzare l'orrore all'altezza del sublime.
— « Egli non ha figli! » — Concetto più atroce
ancora, ma che, presentato non agli occhi,
ma all' immaginazione, ci fa intravvedere,
in una vaga lontananza, l'infinito della ven-
detta.
Il concetto ha la sua ultima determina-
zione in Virgilio ed in Dante, che sono, per
dir così, il recitativo e l' aria della poesia.
[Virgilio espone e dichiara l'ultima ragione
della natura e dell'ordine delle colpe e delle
pene con molta sobrietà e semplicità; e valga
ad esempio il canto decimoprimo, stupendo
di proprietà e di evidenza. Alcuna fiata ei
si allarga alla spiegazione generale delle cose
umane, come fa nel canto settimo, ragionando
della Fortuna , se dir si può ragionamento
quella tanto vivace rappresentazione, nella
quale ciascun tratto è un pensiero sublime
individuato in una immagine sublime: esem-
pio rimasto immortale di come la scienza
possa diventare poesia. Dante è la stessa voce
del lettore, il grido del suo cuore commosso,
le sue impressioni già prevenute e rappre-
sentate ora nella violenza delle apostrofi, ora
nell' impeto eloquente dell' azione. Così noi
lo vediamo venir meno di pietà ai casi di
Paolo e di Francesca, ratinare le frondi sparte
per carità del loco natio, rispondere acceso
— 30 —
di santa ira a Filippo Argenti, tempestare
sopra Genova e Pisa, severo con Niccolò III,
duro con Frate Alberigo.
« E cortesia fu lui esser villano. >
Tale è 1' ordito di questo lavoro in ogni
sua parte finito, nel quale un' idea onnipre-
sente penetra e vivifica il tutto: maraviglioso
per fantasie nuove ed ardite, per un' infinita
varietà di situazioni nella severa unità del
disegno, per grandezza di passioni e di ca-
ratteri, per la proprietà ed individualità delle
forme, per l'evidenza della rappresentazione
ed il calore dell' affetto.
III.
IL PURGATORIO
L
III.
, PURGATORIO.
Il purgatorio sta tra l' inferno e il para-
diso, essendo il pentimento la via per la quale
dal male si passa al bene : stato di mezzo,
in cui l' inferno ricomparisce come una ri-
membranza, il paradiso traluce come una
aspirazione. La ricordanza de' godimenti ter-
reni è accompagnata dalla coscienza della
loro vanità: onde il pentimento e l'espiazione.
Le anime, ergendo il desiderio al vero Bene,
soffrono, pregano e sperano, insino a che,
mondate e rifatte, bevono in Lete l'oblio del
passato e nel fiume Eunoè la fermezza del
proposito, pure e disposte a salire alle stelle.
Rimembranza, pentimento, aspirazione sono
i tre momenti del concetto, che anima ed
informa la seconda cantica.
Il passato è nudo della sua vita reale : la
vampa delle passioni, i dolori, le ire, le di-
sperazioni, che rendono sì poetico e popolare
l' inferno, non possono, né debbono avervi
3
— 34 —
più luogo. Neil' inferno il poeta ha potuto
dare alla passione una piena obbiettività,
perchè essa vi ha un valore assoluto, essendo
dinanzi all'occhio dell' impenitente il sommo
bene. Nel purgatorio il concetto è mutato:
la passione non è più un sostanziale, ma un
momento; è il corpo sparente dinanzi alla
verità dello spirito : vanitas vanitatiim. Ella
perciò non accende più il senso, ma è pre-
sente solo alla immaginativa, come un salu-
tare ricordo dell' abisso, nel quale 1' anima
era caduta. Il che spiega la nuova forma che
le ha dato l'autore, rappresentandola in e-
sempli storici, che si offrono alla fantasia
del poeta e delle anime purganti.
« Dell'ampiezza di lei, che mutò forma
Neil' uccel che a cantar più si diletta,
Neil' immagine mia apparve 1' orma >.
« Noi ripetiam Pigmalione allotta,
Cui traditore e ladro e patricida
Fece la voglia sua dell'oro ghiotta,
E la miseria dell'avaro Mida,
Che seguì alla sua dimanda ingorda,
Per la qual sempre convien che si rida. »
Ma questa forma non è di una sufficiente
obbiettività ; onde il poeta per aggiungere
quella evidenza sensibile, che può patire il
subbietto, dà a' fantasmi dell'immaginazione
figura esteriore, rappresentando intagliati nel-
35
le pareti e sul pavimento alcuni fatti delle
umane vicissitudini, nel punto in cui appa-
risce il nulla delle terrene grandezze, dopo
la catastrofe, h il sublime cristiano, tanto
eloquente in Bossuet; il quale nasce dall'im-
provviso contrasto tra la grandezza passata
che si presenta alla fantasia e lo stato pre-
sente che si offre dinanzi agli occhi : Seges
est, ubi Troja fuil.
« Vedeva Troia in cenere e in caverne.
O Ilion, come te basso e vile
Mostrava '1 segno, che lì si discerne 1 »
Quanto a' personaggi, usciti al tutto di ogni
illusione, non ricordano le cose terrene che
per giudicarle sia in sé, sia in altrui. Espres-
sione di questo stato è la forma didattica,
ravvivata dall'indignazione o dal pentimento :
sono nobili e peregrine sentenze sul valore
ed il significato della vita, espresse quando
con grave semplicità, quando per via di apo-
strofi con calore e con forza.
« Non v' accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar 1' angelica farfalla,
Che vola alla giustizia senza schermi?
Di che l'animo vostro in alto galla?
Voi siete quasi entomata in difetto
Sì come verme, in cui formazion falla?»
— 36 —
« Non è il mondati romore altro eh' un fiato
Di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
E muta nome, perchè muta lato ».
« Chiamavi '1 cielo, e intorno vi si gira,
Mostrandovi le sue bellezze eterne,
E 1' occhio vostro pure a terra mira ;
Onde vi batte Chi tutto discerne >.
Sembra una conversazione di uomini savi,
morti alle antiche passioni ed assennati per
lunga esperienza delle cose umane, delle quali
ragionino con animo riposato. Nel che non
so se è più da ammirare il poeta per altezza di
concetti o per possanza di fantasia. Drizzando
la mente all'ultimo termine delle cose ed alla
finale destinazione dell'uomo, egli esce dal
circolo delle quistioni particolari e si sol-
leva spesso alle prime domande, che in sé
comprendono le altre, l'origine del male, il
valore morale delle azioni, l'accordo tra la
necessità e la libertà, lumeggiando e colo-
rendo il pensiero con paragoni ed immagini
nuove, fresche e spontanee.
« Esce di mano a Lui, che la vagheggia
Prima che sia, a guisa di fanciulla,
Che piangendo e ridendo pargoleggia,
L' anima semplicetta, che sa nulla,
Salvo che, mossa da lieto fattore,
Volentier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore :
Quivi s'inganna; e dietro ad esso corre,
Se guida o fren non torce lo suo amore »,
— 37 —
Così 1' animo preso entra in disire,
Ch' è moto spiritale e mai non posa,
Fin che la cosa amata il fa gioire ».
Poi come '1 fuoco movesi in altura,
Per la sua forma, eh' è nata a salire
Là dove più in sua materia dura;
« Lo Motor primo a lui si volge lieto
Sovra tanta arte di natura, e spira
Spirito nuovo di virtù repleto,
Che ciò che truova attivo quivi tira
In sua sustanzia ; e fassi un' alma sola,
Che vive e sente, e sé in sé rigira.
E perchè meno ammiri la parola,
Guarda '1 calor del Sol che si fa vino,
Giunto all' umor che dalla vite cola ».
L'anima colpevole non può gustare il cibo
celeste,
« senza alcuno scotto
Di pentimento, che lacrime spanda ».
Il purgatorio, luogo dell'espiazione, è per-
ciò figurato dal poeta come una montagna
ripida e superba, in sul cominciare faticosa
ed aspra ; ma quanto l'uomo più soffre, tanto
acquista più di vigore, finché, emendato af-
fatto, il salire ha l'agevolezza dello scendere
e la leggerezza del volo.
« Questa montagna è tale,
Che sempre al cominciar di sotto è grave ;
E quanto più va su, e men fa male.
- 38 -
Però quand' ella ti parrà soave
Tanto, che '1 suso andar ti sia leggero,
Coni' a seconda in giuso andar per nave,
Allor sarai al fin d' esto sentiero ».
Questa forma generale dell' umana espia-
zione riceve un'espressione particolare nelle
varie penitenze, le quali non sono imma-
gini sensibili delle passioni, come spesso nel-
l' inferno, ma quasi sempre il contrario di
esse, simili piuttosto alle virtù, da cui quelle
allontanano. Così i golosi si purgano per di-
giuno ; i superbi stanno rannicchiati a terra
sotto gravi pesi, ecc. Tanto nel luogo, quanto
nelle penitenze il concetto si manifesta con
grande chiarezza, ma senza molta varietà e
determinazione. Il pensiero soverchia la for-
ma, e l'autore si contenta per lo più di esporre
in maniera didattica il significato di quello
che vede : narra e ragiona più che non de-
scriva. Ciò che è simbolo nella qualità del
luogo e delle pene diviene sentimento nelle
parole de' personaggi. Il pentimento è un fatto
interiore, il quale, rappresentato nel momento
della conversione, quando l'anima nel primo
entrare in sé stessa si sente combattuta da
contrari affetti, può pervenire a quella per-
fetta esplicazione subbiettiva, che ammiriamo
nell* Innominato de' Promessi sposi. Ma qui
lo spirito non è in quello stato di opposi-
zione e di contraddizione che rende sì dram-
- 39 —
matico 1' affetto. La situazione è assai sem-
plice : i personaggi si esprimono in brevi pa-
role, con tranquillità d'animo, e, certi della
loro beatitudine, poco fermano lo sguardo
sulla loro vita passata. Ciò che domina in
loro è la serenità e la calma, bellezza tutta
cristiana : che la fede in un Dio di miseri-
cordia e di amore rende bello il volto del
cristiano morente, e fa tralucere sulla mate-
ria agonizzante l'immortalità dello spirito.
« io mi rendei
Piangendo a Quei che volentier perdona.
Orribil furon li peccati miei ;
Ma la bontà infinita ha sì gran braccia.
Che prende ciò che si rivolve a lei *.
Ma bene si è levato il poeta a tutto ciò che )*
il pentimento ha di più patetico ne' canti tren-
tesimo e trentesimoprimo, ove non è già una
calma ricordanza, ma posta in atto una vera
scena drammatica, nella quale è lo sciogli-
mento del nodo dell'azione. È noto l'amore
che Dante portò alla figliuola di Folco Por-
tinari : amò fanciullo con amore di uomo-
Beatrice morta divenne l'ideale della sua poe-
sia, la bellezza della virtù, la parola della
verità ; nò altro essa è nella Divina Comme-
dia. Ella comparisce nel primo aprirsi della
scena con un misto di tenero, di soave, di
celeste, che è amore, ma amore già trasfìgu-
*i
— 40 —
rato e santificato. Il poeta ci desta così di lei
una grande aspettazione; la quale, rinfrescata
a quando a quando durante il misterioso
viaggio, giunge alla vivacità dell'impazienza,
quando è annunziata la sua venuta. L'amante
non può contemplarla, cioè a dire non può
giungere a beatitudine, che non abbia in-
nanzi cancellato anch' egli i suoi falli nel
fuoco purgante. Un muro di fiamme lo di-
vide da lei ; ed egli, dapprima restìo, vi si
gitta entro, vinto dall'amoroso desiderio.
« Or vedi, figlio,
Tra Beatrice e te è questo muro ».
« Lo dolce padre mio, per confortarmi,
Pur di Beatrice ragionando andava,
Dicendo : Gli occhi suoi già veder parmi >.
« Vedi il Sol, che in la fronte ti riluce ;
Vedi 1' erbetta, i fiori e gli arboscelli,
Che quella terra sol da sé produce.
Mentre che vegnon lieti gli occhi belli,
Che lagrimando a te venir mi fenno,
Seder ti puoi, e puoi andar tra elli *.
Il comparire di Beatrice è lo sparire di Vir-
gilio; e noi con lo stesso dolore di Dante ci
separiamo da un compagno, al quale ci era-
vamo già tanto affezionati. Mai l'umana sag-
gezza non comparve sotto forme più ama-
bili : carattere nobilissimo, nel quale il de-
— 41 —
coro e la gravità son temperati da paterno
affetto. Il suo pensiero é di una severa di-
gnità ; ma la sua parola è cortese ed amica ;
e sembra in vista un uomo onorando, la cui
fronte serena e il sorriso benevolo raggenti-
lisca anche il rimprovero.
Dal pianto di Dante per la partita di Vir-
gilio è tratto un felicissimo passaggio al co-
minciamento del dialogo.
* Dante, perchè Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non piangere ancora;
Che pianger ti convien per altra spada.
« Guardami ben : ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d' accedere al monte ?
Non sapei tu che qui l'uomo è felice? p
Nelle eloquenti parole di Beatrice grandeg-
gia di tutta la sua dignità lo spiritualismo
cristiano, nobili e gravi nella sua risposta
agli angioli ; stringenti ed instanti, allorché
si volge al poeta ; ma di modo che in quella
gravità è pure alcun che di affettuoso; e questa
veemenza non è senza decoro. La vergogna,
il dolore e la confessione di Dante vi è de-
scritta con le più delicate gradazioni e con
la più grande verità. E, per arrecare in mezzo
alcuno esempio, la sua vergogna é rappre-
sentata con un doppio naturale movimento
degli occhi, l'uno nascente dal sentimento
interiore, l'altro dalla visione di esso senti-
42
mento sul suo volto : egli non osa rimirare,
non che altri, sé stesso.
« Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte ;
Ma veggendomi in esso, io trassi all' erba :
Tanta vergogna mi gravò la fronte ».
Dove si può notare qual prò egli abbia sa-
puto trarre dal rivo, presso al quale stava,
giovandosi della circostanza del luogo con
quella stessa felicità, che ammiriamo nel pa-
tetico giuramento di Pier delle Vigne.
Gli angioli, che fanno corona a Beatrice, non
vi stanno indarno; anzi vi adempiono l'officio
del coro antico, e la celeste salmodia che
esprime pietà e compatimento stempera l'an-
goscia del poeta nel pianto. E certo non vi
ha cosa che abbia tanta virtù di trarre la la-
crima dagli occhi aridi di un infelice quanto
le affettuose dimostrazioni, onde altri lo com-
patisce e conforta.
La natura di questo lavoro non mi con-
sente ch'io entri in altri particolari, e già ho
detto anche troppo: aggiungerò solo che questi
due canti, ne' quali il poeta mostra un grande
ingegno drammatico per la ricchezza ed evi-
denza delle immagini, per la nobiltà del con-
cetto, per la squisita gradazione degli affetti
e per la naturalezza e verità de' trapassi, pos-
sono stare accanto a' più belli della Divina
Commedia.
- 43 -
Ma il dolore non è il sentimento princi-
pale del purgatorio : esso è raddolcito dalla
speranza, ed il cuore si acqueta nell'aspetto
della virtù a cui sospira. La virtù quindi non
vi ha la forma positiva del paradiso, ma ri-
splende solo alla fantasia accesa dal deside-
rio e dall'amore. Le anime la veggono inta-
gliata nel luogo della loro purgazione, figure
mirabili di delicatezza, di affetto, d'evidenza ;
e, ragionando e cantando di quella, si con-
fortano a bene operare e placano col diletto
della immaginazione il tormento del senso.
« Poi vidi genti accese in foco d' ira,
Con pietre un giovinetto ancider, forte
Gridando a sé pur: Martira, martira:
E lui vedea chinarsi, per la morte
Che l'aggravava già, in vèr la terra;
Ma degli occhi facea sempre al ciel porte,
Orando all' alto Sire in tanta guerra,
Che perdonasse a' suoi persecutori,
Con quell'aspetto che pietà disserra».
« E per ventura udii : Dolce Maria,
Dinanzi a noi chiamar, così nel pianto,
Come fa donna che in partorir sia ;
E seguitar: Povera fosti tanto,
Quanto veder si può per quell'ospizio,
Ove sponesti '1 tuo portato santo.
Seguentemente intesi: O buon Fabrizio,
Con povertà volesti anzi virtute,
Che gran ricchezza posseder con vizio ».
I personaggi tengono molto dell' umano :
- 44 —
in loro non è né l'ambascia de' dannati, né
l'estasi de' santi ; ma la tranquilla gioia del-
l' uomo virtuoso, che, vivendo ancora nella
miseria terrena, sulle ali della fede e della
speranza alza l'animo al paradiso. Così nel-
l' aspetto di Catone noi vediamo impressa
l' immagine veneranda del saggio antico, ma
irradiata di celeste luce. Le ombre sono con-
tenute nel fuoco ; gli affetti hanno dolci e
temperati, il desiderio puro d' inquietudine
e di ansietà ; ed il poeta adopera le imma-
gini più tenere e soavi a ritrarre questa
pace interiore.
« Era già l'ora che volge '1 disio
A' naviganti e intenerisce il cuore,
Lo dì e' han detto a' dolci amici addio ;
E che lo nuovo peregrin d'amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia '1 giorno pianger che si muore :
Quand' io incominciai a render vano
L'udire, ed a mirar una dell'alme
Surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambe le palme,
Ficcando gli occhi verso l'oriente,
Come dicesse a Dio : D'altro non calme.
Te lucis ante sì devotamente
Le uscì di bocca, e con sì dolci note,
Che fece me a me uscir di mente. »
Tutto spira carità ed affetto ; e poiché nei
particolari è la vita della poesia, come av-
vertì uno de' nostri più giudiziosi critici,
— 45 —
Gian Vincenzo Gravina, l'autore rende visi-
bile il sentimento nell'azione. Il purgatorio è
sparso di tratti affettuosi. Le anime nell' in-
contrarsi fannosi festa insieme, congaudendo,
per dirla con l'energia dantesca.
« Li veggio d'ogni parte farsi presta
Ciascun' ombra, e baciarsi una con una
Senza ristar, contente a breve festa.
Cosi per entro loro schiera bruna
S'ammusa l'una con l'altra formica,
Forse a spiar lor via e lor fortuna. »
La ricordanza dell'amicizia è rappresentata
in Dante e Casella con immagini e con modi
di dire di una gentilezza petrarchesca.
« Così al viso mio s'affissar quelle
Anime fortunate tutte quante,
Quasi obbliando d' ire a farsi belle.
Io vidi una di lor traggersi avante,
Per abbracciarmi con sì grande affetto,
Che mosse me a far lo somigliante.
Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto. »
Neil' incontro di Stazio e di Virgilio il rico-
noscimento è condotto con molta arte e la
riverenza di Stazio espressa con molta verità
in uno di quei movimenti sùbiti ed incon-
sapevoli, che contraddicono all'intelletto ; né
trasanderò la stupenda creazione del Sordello,
il quale dalla maestà e dal riposo della sua
46
prima attitudine prorompe con tanta natu-
ralezza in un impeto di sublime affetto. Con
manifesta compiacenza l'autore ha introdotti
nel purgatorio di assai poeti ed artisti, Ca-
sella, Sordello, Buonagiunta da Lucca, Sta-
zio, Oderisi, Guido Guinicelli, Arnaldo Da-
niello, e con esso loro s' intrattiene in nobili
e cari ragionamenti, talora intorno all'arte.
Ma nelle figure individuali è debole perso-
nalità e povera esplicazione di affetto e di
carattere ; vi ha bellezza, ma insieme l'immo-
bilità della calma. Al che suppliscono in
parte alcune digressioni politiche scintillanti
di bellezze ed uniche tra noi per veemenza
e calore di affetto, benché altre sieno un
cotal poco aride e troppo spicciolate nel mi-
nuto della realtà ; la quale, scompagnata
dall' ideale, ha la vita labile dell' accidente.
Ma la parte politica, mentre per un lato cre-
sce varietà e vivacità al disegno, non vale
punto a turbare nel generale quello stato di
calma aspirazione alle cose celesti, in cui
sono le anime. Di che è manifestazione il
canto, contrapposto a' feroci lamenti de' dan-
nati ; e già fin nel principio il canto amo-
roso di Casella è quasi preludio alle sacre
melodie, onde risuona la montagna.
« Ed io : Se nuova legge non ti toglie
Memoria, od uso all'amoroso canto,
Che mi solea quetar tutte mie voglie,
47
Di ciò ti piaccia consolare alquanto
L'anima mia, che con la sua persona,
Venendo qui, è affannata tanto.
Amor che nella niente mi ragiona,
Cominciò egli allor sì dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona ».
Più che negl' individui, questo elemento
lirico si manifesta ne' gruppi, parte precipua
del purgatorio : il comune affetto s' immede-
sima in un solo concento. Neil' inferno non
vi sono cori, perchè non vi è 1' unità del-
l'amore. L'odio è solitario : l'amore è simpa-
tia ed armonia ; ond'è che il canto e la mu-
sica, effusione del cuore gonfio e traboccante,
conseguono il loro massimo effetto nella mi-
surata varietà delle voci e degli strumenti.
Né altra è qui la situazione : le anime escono
dalla loro coscienza individuale, assorte in
uno stesso spirito di carità.
« Una parola in tutte era ed un modo,
Sì che parea tra esse ogni concordia. *
Materia del canto sono per lo più salmi
ed inni sacri , espressione varia di dolore, V
di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi
al Signore. Essi sono mirabilmente acconci
alle diverse situazioni. Così, entrando nel
purgatorio come nella terra promessa , le
anime cantano In exitu Israel de /Egypto ; nel
— 48 -
primo salire intuonano il Miserere; e con la
stessa convenienza vi è introdotto il Salve,
Regina , il Gloria in excelsis Deo , l'Agnus
Dei ecc. Ma dee spiacere che il poeta, con-
tento a citare la prima parola o il primo
versetto latino delle poesie bibliche o della
Chiesa, non ne abbia recate alcune per di-
steso in volgare, come ha fatto del Pater
nosler, o composte egli delle nuove, com' è
nel paradiso la nobilissima preghiera di
S. Bernardo e come a' nostri dì con tanta lode
ha fatto il Manzoni. Epperò i suoi canti sono
una vaga melodia musicale nuda della sua
esplicazione, esprimenti più il generale e
l' indeterminato, che il proprio ed il succes-
sivo del sentimento; e, quando pensiamo ai
salmi di David, così consonanti con lo stato
delle anime penitenti, sentiamo tutto ciò che
è a desiderare nel purgatorio. Le fuggitive
apparizioni degli angioli sono quasi l'imma-
gine anticipata del paradiso nel luogo della
speranza. In essi non è alcuna subbiettività :
sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti
come le mistiche visioni dell'estasi, e nondi-
meno ciascuna con propria apparenza ed at-
titudine.
« E vidi uscir dall'alto, e scender giue
Due angeli con due spade affocate,
Tronche e private delle punte sue.
— 49 -
Verdi, come fogliette pur mo nate,
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse traean dietro e ventilate.
L'un poco sovra noi a star si venne,
E l'altro scese all'opposita sponda :
Sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discerneva in lor la testa bionda ;
Ma nelle facce l'occhio si smarria,
Come virtù, che a troppo si confonda. »
« A noi venia la creatura bella,
Bianco vestita, e nella faccia quale
Par tremolando mattutina stella. »
In quelle dolci note, in queste immagini
celesti l'anima s' infutura, gustando, come
dice il poeta, le primizie del piacere eterno.
Ui che prende qualità il luogo, rallegrato da
luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle
stelle, che è quanto dire dal paradiso dan-
tesco. Uscendo dal buio infernale, il poeta
descrive la prima impressione che gli fa la
luce con l'animo rapito di uomo, che, stato
lungamente in tenebre, è d' improvviso di-
lettato dalla faccia del sole.
« Dolce color d'orientai zaffiro,
Che s'accoglieva nel sereno aspetto
Dell'aer puro infino al primo giro,
Agli occhi miei ricominciò diletto,
Tosto eh' io fuori uscii dall'aura morta,
Che m'avea contristato gli occhi e '1 petto.
Lo bel pianeta, che ad amar conforta,
Faceva tutto rider l'oriente
Velando i Pesci, ch'erano in sua scorta.
4
- 50 -
Io mi volsi a man destra, e posi mente
All'altro polo, e vidi quattro stelle
Non viste mai, fuor ch'alia prima gente. »
E dall'ombra che rende il suo corpo mor-
tale trae facile opportunità al dialogo, ca-
gione di maraviglia e di curiosità a' nudi
spiriti, la quale egli descrive in guise sem-
pre nuove e sempre belle, con vena inesausta
di fantasia.
« Come le pecorelle escon del chiuso
Ad una, a due, a tre, e l'altre stanno
Timidette atterrando l'occhio e '1 muso ;
E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addossandosi a lei, s'ella s'arresta,
Semplici e quete, e lo perchè non sanno ;
Sì vid' io muovere, a venir, la testa
Di quella mandra fortunata allotta,
Pudica in faccia e nell'andare onesta.
Come color dinanzi „vider rotta
La luce in terra dal mio destro canto,
Si che l'ombr'era da me alla grotta,
Ristaro, e trasser sé indietro alquanto ;
E tutti gli altri, che venieno appresso,
Non sapendo '1 perchè, fero altrettanto *.
* Quando s'accorser eh' io non dava loco
Per lo mio corpo al trapassar de' raggi,
Mutar lor canto in un O lungo e roco. »
Parimente il purgatorio, quantunque sog-
giorno di penitenza, pure come via a beati-
tudine, è sparso qua e colà di luoghi ame-
- 51 -
nissimi, mostrandosi la natura in quella stessa
opposizione che sono i personaggi. La natura
è l'accordo musicale e la voce esteriore di
quel di dentro : amorosa consonanza dello
spirito e del corpo, in che è posta F ultima
ragione dell'arte. Così, per passarmi di altri
esempi, nel canto settimo è maravigliosa ar-
monia tra le ombre sedute, quete e cantanti
Salve, Regina, e la vista allegra del seno er-
boso e fiorito, in mezzo al quale riposano.
« Tra erto e piano era un sentiero sghembo,
Che ne condusse in fianco della lacca
Là, dove più ch'a mezzo muore il lembo.
Oro ed argento fino e cocco e biacca,
Indico legno lucido e sereno,
Fresco smeraldo allorché si fiacca,
Dall'erba e dalli fior, dentro a quel seno
Posti, ciascun saria di color vinto,
Come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori,
Vi faceva un incognito indistinto
Salve, Regina, in sul verde e in su' fiori
Quivi seder, cantando, anime vidi,
Che per la valle non parean di fuori. »
Le anime, piangendo, cantano ; e la mon-
tagna alpestre è lieta di apriche valli e di
campi odorati : il quale contrasto ha il suo
termine, quando l'anima si leva con libera vo-
lontà a miglior soglia; monda del tristo pas-
sato, con pura letizia. Neil' inferno si scende,
- 52 -
nel purgatorio si sale; e come ivi l'ultimo
abisso è segno della compiuta malvagità, così
la cima del purgatorio è immagine terrena
del paradiso. La descrizione del paradiso ter-
restre ci ricorda i giardini incantati di Alcina
e di Armida, delizia e lascivia dell' immagi-
nazione ; se non che è qui una severità di
forma, che risponde alla serietà del concetto.
Tutto è qui, che alletti lo sguardo e lusinghi
la fantasia : riso di cielo, canto di uccelli,
vaghezza di fiori , e tremolare di fronde e
mormorare di acque, tutto descritto con soa-
vità e melodia, ma insieme con tale austera
temperanza, che non dà luogo a mollezza ed
ebbrezza di sensi ; né il diletto che noi pro-
viamo turba il riposo dell'animo. Il poeta
passa dormente- da uno stato in un altro,
cioè senza opera sua, per virtù della grazia
divina. I suoi sogni sono rappresentazioni
dello stesso passaggio, che si offre confu-
samente alla sua coscienza , con quel me-
scolamento di realtà e d'immaginazione, che
suole aver luogo in questi casi.
« Nell'ora, che comincia i tristi lai
La rondinella presso alla mattina,
Forse a memoria de' suoi primi guai;
E che la mente nostra, pellegrina
Più dalla carne, e men da' pensier presa,
Alle sue vision quasi è divina;
53
In sogno mi parea veder sospesa
Un'aquila nel ciel con penne d'oro,
Con l'ale aperte, ed a calare intesa :
Ed esser mi parea là, dove fóro
Abbandonati i suoi da Ganimede,
Quando fu ratto al sommo concistoro.
Fra me pensava : Forse questa fiede
Pur qui per uso ; e forse d'altro loco
Disdegna di portarne suso in piede.
Poi mi parea che, più rotata un poco,
Terribil come folgor discendesse
E me rapisse suso infìno al foco.
Ivi pareva ch'ella ed io ardesse :
E sì l' incendio immaginato cosse,
Che convenne che '1 sonno si rompesse ».
Ce ne ha di molto belli; e bellissimo per
concetto e per virtù creativa è 1' ultimo so-
gno, nel quale gli appare Lia, simbolo della
vita attiva, tutta intesa a farsi bella con l'o-
pera, mentre la sorella Rachele, figura della
vita meditativa, è ratta in contemplazione.
« Sì ruminando e sì mirando in quelle,
Mi prese '1 sonno; il sonno che sovente,
Anzi che '1 fatto sia, sa le novelle.
Nell'ora, credo, che dall'oriente
Prima raggiò nel monte Citerea,
Che di fuoco d'amor par sempre ardente,
Giovane e bella in sogno mi parea
Donna vedere andar per una landa,
Cogliendo fiori; e cantando dicea :
Sappia qualunque il mio nome dimanda
Ch' io mi son Lia, e vo movendo intorno
Le belle mani a farmi una ghirlanda.
- 54 -
Per piacermi allo specchio qui m'adorno ;
Ma mia suora Rachel mai non si smaga
Dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
E1P è de' suoi begli occhi veder vaga,
Com' io dell' adornarmi con le mani;
Lei lo vedere e me l'ovrare appaga ».
L'anima, pervenuta nel paradiso terrestre,
è rifatta bella, tornata nell'antico stato d'in-
nocenza, sciolta da ogni memoria del pas-
sato, e di efficace volontà libera da ogni im-
pedimento. Il che è rappresentato estrinseca-
mente in Matilde, che tuffa i redenti nel fiume
Lete ed Eunoè. Matilde è l'anima nell'opera di
sua redenzione, la stessa Lia venuta a realtà,
in sembianza ancora umana celeste creatura,
con# l' ingenua giocondità di fanciulla, con la
leggerezza di Silfide, col pudico sguardo di ver-
gine, il volto radiante della luce di paradiso.
E già l'anima pregusta le gioie belle e care
del cielo, al quale si leva; ed il poeta le pre-
senta simbolicamente, in aspetto ancora ter-
reno, l'obbietto del suo desio. Le forme al-
legoriche non vogliono essere squallide e sco-
lorate, come caratteri di algebra o lettere di
alfabeto, morte e vuote figure in sé stesse,
né sconce e disformi alla dignità del sub-
bietto, come quegl' idoli deformi e prosaici
di rozzi popoli, ne' quali essi effigiavano i
loro Iddii. La figura dee avere per sé un suo
proprio valore poetico: di che non mi pare
- 55 —
siasi qui dato pensiero il poeta, invaghitosi
per avventura più del tipo orientale che della
libera e schietta bellezza greca, traendone
solo Beatrice descritta con una ricchezza di
colorito che già imparadisa le nostre menti,
ed alcuni particolari vaghissimi.
Giunto all'albero della vita, cioè della scien-
za del bene e del male, il poeta in sullo scio-
gliersi dalle cose terrestri s' innalza al signi-
ficato generale dell' umanità, della quale ci
narra la storia dal peccato di origine infìno
a' tempi suoi : concetto nobilissimo, degno
dell' ingegno dantesco, comprensivo e pro-
fondo ad un tempo, ma poco felicemente
rappresentato nella sua forma allegorica.
Jl purgatorio è comunemente meno pre-
giato dell' inferno, comechè da questo avviso
si discostino alcuni moderni critici ; e, tra
gli altri, il Balbo è ito sì lungi che non ha
dubitato di preporre alla prima la seconda
cantica, guidato per avventura meno dal vero,
che da amore di contraddizione e di parte.
Porre a ragguaglio l'infermo col purgatorio
e dolersi che nell'uno manchino que' pregi
e quelle qualità che si lodano nell' altro è,
a parer mio, tanto vana e pueril cosa, quanto
il paragone che tenne tanto tempo sospesi
i nostri critici tra l'Orlando e la Gerusalemme:
perocché, quantunque le due cantiche sieno
fattura della stessa mente, pure è tra esse
— 56 -
intrinseca differenza di concetto e quindi di
forma; e in questo mi è avviso stia il mira-
colo dell' ingegno dantesco, essendo le tre
cantiche tre mondi, tre poemi, tre poesie di-
verse. Il purgatorio non può essere altro da
quello che è, o vogli considerarlo come parte
del tutto o come totalità per sé stessa: tal
concetto, tal forma.
IV.
IL PARADISO
IV.
IL PARADISO.
Il paradiso è l'apoteosi dello spirito, la tra-
sfigurazione di Cristo, il trasumanare, come
dice il poeta, o, in forma positiva, il divino,
La bellezza è la rappresentazione del divino,
la materia trasfigurata ed indiata ; sicché il
divino puro trascende l' immaginazione, ed
è di là dalla poesia. Esso non può essere ob-
bietto che di brevi lavori lirici, i quali con-
tengano non la descrizione di cosa che è al
di sopra della forma; ma la vaga aspirazione
dell'anima « a non so che divino »: ed anche
allora 1' obbietto del desiderio, quantunque
in una ideale indeterminazione, riceve la
sua bellezza dalle immagini, come nelle due
celesti poesie di Schiller, l'Aspirazione e il
Pellegrino (1).
(1) Farmi, o io m'inganno, che « l'obbietto del desiderio riceva
la sua bellezza dalle immagini » più nel Pellegrino che nell'aspi-
razione.
Il De Sanctis mi diceva che si era proposto di tradurre queste
60
« Mira il ciel coni' è bello e mira il Sole,
Che a sé par che n'inviti e ne console ». (1)
La presenza di Dante ancora mortale nel
paradiso porgergli modo di rappresentare il
divino umanamente: che, essendo egli uomo,
la sua contemplazione non esce dalle con-
dizioni umane, forma innanzi alla fantasia,
scienza innanzi all'intelletto. I Beati, adun-
que, parlano ed ammaestrano ed appariscono
umanamente.
due poesie dello Schiller nel 1855, come già aveva tradotto e pub-
blicato, splendidamente illustrandolo, l'Eliso dello stesso autore
in un'appendice del Piemonte, giornale diretto da Luigi Carlo Fa-
rini. Ma poi, andato ad insegnare nel Politecnico di Zurigo, n«n
ne fece più nulla.
Del Pellegrino abbiamo due traduzioni di Andrea Maffei, molto
eleganti ; ma non del tutto fedeli.
Riproduco , qui per chi non 1' abbia letta , quella che meno si
allontana dall' originale tedesco :
\J aprii della mia vita ancor fioria,
Quand'io mi posi in via.
Lasciai senza un sospiro ogni diletto
Del mio paterno tetto.
Lasciai, caldo di fede e con serene
Pupille, ogni mio bene,
E presi col bordon del pellegrino,
Devoto, il mio cammino.
Traeami un'alta speme e questa arcana
Voce : « La via t'è piana !
» Va, garzone animoso, e vèr l'aurora
Drizza il tuo corso ognora.
» Quando una porta tutta d'or t'appare,
Ne varca il limitare.
» La sustanza terrena ivi s'affina,
Pura si fa, divina. »
il) Sono versi del Tasso (Gerusalemme liberala, canto II, stanza
xxxvi). e. l.
- 61 -
« Così parlar conviensi al vostro ingegno;
Perocché solo da sensato apprende
Ciò, che fa poscia d'intelletto degno.
Per questo la Scrittura condiscende
A vostra facultate, e piedi e mano
Attribuisce a Dio, ed altro intende ».
« Tu hai l'udir mortai, sì come '1 viso,
Rispose a me; però qui non si canta
Per quel che Beatrice non ha riso ».
E perchè fruiscono la visione di Dio con
più o meno di chiarezza, secondo i lor me-
riti, il poeta passa per diversi gradi di con-
templazione. La luce è quella che ritrae più
dello spirito, il quale suol essere da' poeti
Non prendea, non volea riposo alcuno
Dall'alba all' àer bruno.
Ma quanto iva cercando, al mio pensiero,
Ahi, sempre era un mistero !
In fiume or m'impedia lo stanco passo,
Ora un alpestre masso.
Sul (lutto o sul burron che m'era a fronte
(ìittar fu d'uopo un ponte.
Giunsi in riva alla lin d'un gran torrente
Converso all'oriente.
Lieto mi ravviai per quella sponda,
E scesi in grembo all' onda.
L'onda m'avvolse, e mi portò veloce
D'un mare ampio alla foce.
Vedea dinanzi a me l'immenso vano,
E sempre, oimè, lontano
Dalla mia mèta! .. Oh chi, chi me la insegna.'...
M'è sopra il ciel, ma sdegna
Baciar la terra ; e questa in caro amplesso
Mai non si stringe ad esso.
Vedi Fn>BRICO Schiller, Ballate e liriche, traduzioni di Andrea
Maffei. Firenze, Successori Le Monnier, 1877.
G. L.
— 62 —
manifestato con immagini tolte da quella;
né altrimenti Dio stesso s'offerse già alla fan-
tasia popolare, che come emanazione di luce
vivificante. L'inferno é buio di notte; il pur-
gatorio, come la terra, riceve la luce dal
Sole e dalle stelle, e queste immediatamente
da Dio ; sicché le anime purganti, come gli
uomini, contemplano il Sole, ed in esso l'im-
magine più vivace di Dio; dove gli abitatori
delle sfere celesti godono l'intuizione di Dio
per la luce che move da lui senza mezzo.
« Lume eh' a lui veder ne condiziona ».
Il paradiso è la più spirituale manifesta-
zione di Dio : e però di tutte le forme non
rimane altro che luce, di tutti gli affetti non
altro che amore, di tuit' i sentimenti non
altro che beatitudine, di tutti gli atti non
altro che contemplazione. Amore, beatitu-
dine, contemplazione s'informano anch'esse
di luce ; gli spiriti si scaldano a' raggi d' a-
more; la letizia sfavilla negli occhi e fiam-
meggia nel viso; e la verità è, come in uno
specchio, dipinta nel cospetto eterno.
« Luce intellettual piena d' amore,
Amor di vero ben pien di letizia,
Letizia che trascende ogni dolzore ».
Alto subbietto di poesia lirica; ma di dif-
63
fìcile e quasi disperata esecuzione, ove ab-
biasi a distendere in trentatrè canti in forma
narrativa ; che, essendo tutte le differenze
sparite in questa tanto semplice unità, non
è altra distinzione possibile che di più e di
meno; e non pertanto la forma dee ricevere
tali gradazioni, che rispondano a' diversi or-
dini di virtù, ovvero all' ascendente manife-
stazione di Dio. La quale difficoltà è fatta
maggiore dalla severità del concetto, studian-
dosi il poeta di rapppresentarlo, quanto è
possibile, nella sua purezza spirituale: onde
la forma, come limitata, rimane sempre di
qua dell' infinito divino, né la fantasia può
tener dietro all'intelletto. Di che nasce quella
qualità musicale di questa poesia, che da
alcuni critici con soverchio amor di sistema
si è voluto attribuire a tutta l'arte moderna.
La forma qui dee ondeggiare nel vago del-
l' infinito e del misterioso, simile all' onda
melodiosa che ti sveglia nel core ineifabili
moti: il che quanto renda malagevole a de-
terminarla e distinguerla non è a pensare.
Bene il poeta adopera 1' estremo della sua
fantasia: egli ha avuto piena coscienza del-
l'altezza del subbietto e si è sentito pari al-
l' impresa. Dapprima le immagini gli si of-
frono vivaci, spontanee, peregrine; poi, quasi
stanco, dà talora nell'arido e nell'acuto; indi
lo vedi rilevarsi di un tratto, poggiando più
- 64 —
e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico,
innamorato: diresti che la difficoltà lo alletti,
la novità lo infiammi, l'infinito lo esalti. E
primamente non dee recar maraviglia che
il poeta nel malagevole assunto di dover rap-
presentare tante fiate lo stesso concetto sotto
una medesima forma talora si esprima ari-
damente ed abbandonatamente, e tal altra
s'aiuti con la sottigliezza dell'ingegno, sosti-
tuendo alla evidenza immediata dell'imma-
gine la freddezza di lontani e cercati rap-
porti.
« E tal nella sembianza sua divenne,
Qual diverrebbe Giove, s'egli e Marte
Fossero augelli, e cambiassersi penne »,
« Poscia tra esse un lume si schiari
Sì, che, se '1 Cancro avesse un tal cristallo,
Il verno avrebbe un mese d'un sol dì ».
Né mi par da lodare che nella sfera di
Giove la luce prenda figura di lettere com-
poste a parola, e da ultimo si conformi a
modo di aquila. Ma egli non ha seguitato
per questa torta via ; né di tali puntelli, a
cui si appigliano gli animi angusti, era punto
mestieri alla sua feconda fantasia. L'acutezza
non è pure contraria al buon gusto, ma e-
ziandio alla intrinseca natura del concetto
dantesco; né forme sì lievi ed eteree possono
- 65 -
ricevere troppo minuta determinazione senza
essere rimpicciolite, lasciando stare che, come
segno visibile dell' infinito, debbono esse u-
scire possibilmente dall'angustia del limite.
Quindi nel generele la forma è qui negativa,
come negativo è il concetto, ed il vocabolo
dal quale è significato il Cristianesimo è stato
a ragione chiamato la religione del sublime,
come quella che pone un abisso tra il creato
ed il creatore, richiedendo la fede, né rico-
noscendo nell' uomo quella facoltà che oggi
dicesi dell' assoluto, intuito o ragione che
essa si sia.
«Perch'io l'ingegno e l'arte e l'uso chiami,
Sì noi direi, che mai s'immaginasse:
Ma creder puossi, e di veder si brami.
E se le fantasie nostre son basse
A tanta altezza, non è maraviglia ;
Che sovra '1 Sol non fu occhio eh' andasse. »
Laonde se le anime nell'inferno e nel pur-
gatorio hanno umana apparenza, qui sono
occulte, come in un santuario, nel profondo
della vivissima luce.
« Sì come '1 Sol, che si cela egli stessi
Per troppa luce, quando il caldo ha rose
Le temperanze de' vapori spessi;
Per più letizia sì mi si nascose
Dentro al suo raggio la figura santa;
E così chiusa chiusa mi rispose >.
- 66 —
La pura luce e le tenebre partoriscono lo
stesso effetto; che, rubando gli obbietti allo
sguardo, gì' ingrandiscono o abbelliscono di-
nanzi alla fantasia. Così, quando comparisce
la Vergine, il poeta non tenta già di descri-
verla, ben comprendendo ch'ella scaderebbe
dall'altezza della sua divinità, ove prendesse
figura quanto si voglia bella ; ma in quella
vece egli dipinge con ricchi colori la festa
degli angioli, che le fanno corona, e ritrae
il riverente loro affetto nella mistica ebbrez-
za delle parole e degli atti: nella qual vista
non riposa la fantasia, ma si leva più su, alla
figura principale, obbietto di tanto culto e
di tanto amore, che le ondeggia dinanzi, come
l' ideale più alto a cui ella possa aspirare.
« Per entro '1 cielo scese una facella,
Formata in cerchio a guisa di corona,
E cinsela, e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
Quaggiù, e più a sé l'anima tira,
Parrebbe nube che squarciata tuona,
Comparata al suonar di quella lira,
Onde si coronava il bel zaffiro,
Del quale il ciel più chiaro s' inzaffira.
Io sono amore angelico, che giro
L' alta letizia, che spira del ventre
Che fu albergo del nostro desiro;
E girerommi, Donna del ciel, mentre
Che seguirai tuo Figlio, e farai dia
Più la spera suprema, perchè lì entre.
— 67 -
Così la circulata melodia
Si sigillava; e tutti gli altri lumi
Facean sonar lo nome di Maria. »
« E come fantolin, che invèr la mamma
Tende le braccia, poi che '1 latte prese,
Per 1' animo che infin di fuor s' infiamma;
Ciascun di quei candori in su si stese
Con la sua cima, si che 1' alto affetto,
Ch' egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina coeli cantando sì dolce,
Che mai da me non si partì il diletto. >
Ancora Cristo, che nel purgatorio è rap-
presentato sotto la forma del grifone, qui è
collocato nel suo trono invisibile, illuminante
e non illuminato, coperto dalla stessa luce
che spande intorno.
« Come a raggio di Sol, che puro mei
Per fratta nube, già prato di fiori
Vider, coperti d* ombra, gli occhi miei;
Vid' io così più turbe di splendori
Fulgurati di su da raggi ardenti,
Sanza veder principio di fulgori. »
Con lo stesso intendimento 1' autore aiuta
la fantasia a montar su verso l'infinito, mo-
strando la potente impressione eh' ei ne ri-
ceve. Come la melodia musicale, che si sente
nell' anima senza che la si possa intendere né
figurare; così l'infinito si manifesta meglio
nel suo effetto che nell' immagine : e, quando
- 68 —
l' immaginazione è così desta , I' uomo ap-
prende confusamente la stessa immagine, per
quella reciprocanza che è tra 1' anima e la
natura, le quali si rillettono e si rispondono
come un' eco armoniosa. Si è detto che dal
cuore vengono i grandi pensieri; ma altresì
le grandi immagini: il cuore commosso è il
migliore interpetre della natura, siccome la
contemplazione della natura è la maestra
del cuore: la fantasia, l'intendimento e l'af-
fetto non sono che diversi suoni della mu-
sica interiore.
«... raggiandomi d' un riso
Tal, che nel fuoco faria 1' uom felice. »
« Che dentro agli occhi suoi ardeva un riso
Tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
Della mia grazia e del mio paradiso.»
« Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo
Cominciò gloria tutto '1 Paradiso,
Sì che m' inebriava il dolce canto.
Ciò eh' io vedeva mi sembrava un riso
Dell' universo per che mia ebbrezza
Entrava per 1' udire e per lo viso.
O gioia! o ineffabile allegrezza!
O vita intera d' amore e di pace !
O senza brama sicura ricchezza ! >
In questa disuguaglianza del concetto e
della forma l'immagine è disgiunta da quello,
né può essere propriamente altro che una
69
comparazione; onde s' intende perchè qui sia
tanta copia di paragoni, le gemme più elette
e più preziose della terza cantica. L' occhio
acuto del poeta coglie la natura nelle sue ap-
parenze più lievi, più fuggevoli, più delicate,
le quali egli fa sue, togliendole al circolo loro
assegnato in terra e traendole seco, nel suo
volo, ad informare le sue concezioni. La na-
tura non vi è come sostanziale , ma come
simbolo ed apparenza: onde il profondo senso
del paragone dantesco, che non è ornamento
soprapposto ed estrinseco, ma il terrestre di
rincontro al celeste, la realtà non come ma-
nifestazione, ma come ombra della verità,
« ombrifero prefazio del vero. »
« Quali per vetri trasparenti e tersi,
O ver per acque nitide e tranquille,
Non sì profonde che i fondi sien persi,
Tornan de' nostri visi le postille
Debili si, che perla in bianca fronte
Non vien men forte alle nostre pupille;
Tali vid' io più faccie a parlar pronte. »
« Così parlommi; e poi cominciò: Ave,
Maria, cantando; e cantando vanìo
Come per acqua cupa cosa grave. »
« E quelle anime liete
Si fero spere sopra fìssi poli,
Fiammando forte a guisa di comete.
E come cerchi in tempra d' oriuoli
Si giran sì, che '1 primo a chi pon mente -
Quieto pare, e 1' ultimo che voli;
70
Così quelle carole, differente-
mente danzando, dalla sua ricchezza
Mi si facean stimar veloci e lente.»
Così, per cagion d'esempio, giunto nel cielo
empireo, la virtù visiva, soperchiata dalla
luce, si raccende alle parole di Beatrice; ma
non penetra oltre all' apparenza: della quale
è fatta descrizione in tre perfettissime ter-
zine, di quella spontaneità e limpidezza, che
ha sempre il poeta ne' momenti di schietta
ispirazione.
«E vidi lume in forma di riviera
Fulvido di fulgori, intra duo rive
Dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
E d' ogni parte si mescean ne' fiori,
Quasi rubini eh' oro circoscrive.
Poi, come inebriate dagli odori,
Riprofondavan sé nel miro gurge;
E s' una entrava, un'altra n'uscia fuori. »
Lo stile di Dante non è sempre uguale: ta-
lora nella ruvidezza della parola e nell'acu-
tezza del pensiero senti più lo sforzo della
volontà, che la forza del genio; ma quando
è infiammato dal caldo dell' estro e il suo
mondo ideale gli si agita ed atteggia dinanzi,
egli scrive quello che vede, e con tanta na-
turalezza e facilità, che i suoi versi ti paion
composti ier l'altro: effetto maraviglioso della
— 71 -
vera poesia, che serba in tutt' i tempi la fre-
schezza di una eterna primavera. Qui l'evi-
denza è accompagnata dalla vaghezza delle
immagini, avendo il poeta circonfuse le ce-
lesti sostanze di quanto è sulla terra più ri-
dente e smagliante. Avvalorata la vista nella
riviera di luce, sotto la figura si manifesta
il figurato, ed in que' fiori inebbrianti , in
queir oro, in que' topazi e rubini, in quelle
vive faville il poeta discerne ambo le corti
del cielo nel santo delirio del loro tripudio.
Ma forza è pure eh' egli si arresti dinanzi
all' infinito dell' idea, rimasta fantasia fioca
e corta al concetto.
< Perchè appressando sé al suo disire,
Nostro intelletto si profonda tanto,
Che la memoria retro non può ire. »
< ogni minor natura
È corto recettacolo a quel Bene
Ch' è senza fine, e sé con sé misura.
Dunque nostra veduta, che conviene
Essere alcun de' raggi della mente,
Di che tutte le cose son ripiene,
Non può di sua natura esser possente
Tanto, che '1 suo principio non discerna
Molto di là, da quel eh' egli è, parvente.
Però nella giustizia sempiterna
La vista, che riceve il vostro mondo,
Com' occhio per lo mare, entro s'interna;
Che, benché dalla proda veggia il fondo,
In pelago non vede; e nondimeno
Egli è; ma '1 cela lui l'esser profondo.»
— 72 —
Non di rado incontra che la penna gli cade
di mano, ed alla contemplazione succede una
muta adorazione. Il che non è in lui lassi-
tudine, ma rapimento, quasi la fantasia, calda
ancora, miri pur fisa e desiosa in quel sole
dell' essere, senza speranza di profondarvisi,
come ben si pare alla bellezza de' paragoni
e delle immagini, onde infiora il suo pensiero.
« Indi, ad udire ed a veder giocondo,
Giunse lo spirto al suo principio cose,
Ch' io non intesi; si parlò profondo.
Né per elezìon mi si nascose,
Ma per necessità; che '1 suo concetto
Al segno de' mortai si soprappose.
E quando 1' arco dell' ardente affetto
Fu sì sfogato, che '1 parlar discese
Invèr lo segno del nostro intelletto,
La prima cosa, che per me s' intese,
Benedetto sie Tu, fu, trino ed uno,
Che nel mio seme se' tanto cortese. »
« Che, come Sole il viso che più trema,
Così lo rimembrar del dolce riso
La mente mia da sé medesma scema. »
« Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
Che '1 parlar nostro, eh' a tal vista cede;
E cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colui che sonniando vede,
E dopo '1 sogno la passione impressa
Rimane, e 1' altro alla mente non riede,
Cotal son io, che quasi tutta cessa
Mia visione, ed ancor mi distilla
Nel cuor lo dolce che nacque da essa.
— 73 -
Così la neve al Sol si disigilla,
Cosi al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla. »
La scienza greca, partita nelle diverse fi-
losofie da opposti principii, riesce nella stessa
conclusione pratica o morale : che V ideale
della saggezza, e quindi della felicità, sia posto
nella uguaglianza dell'animo; e l'apatia stoica
non è che 1' ultima e fatale deduzione di que-
sto sistema: il qual tipo ha la sua incarna-
zione nella serena semplicità della forma gre-
ca. Questa pagana tranquillità é innalzata dal
Cristianesimo all' infinito della beatitudine,
che non è solo acquetamento del desiderio,
ma foco d'amore, estro e furore sacro, eb-
brezza di voluttà, che non cape in umano
intelletto. Presso il popolo, che è il primo
inconsapevole artista, i tre mondi cristiani
presero determinazione e figura; e molte grot-
tesche immagini usciron fuori de' dannati e
delle anime purganti. Ma nobilissime furono
le figure de' Santi, rappresentati come so-
spesi di terra, levantisi su tra il riso degli
angioli, cinti il capo di un' aureola di luce,
e gli occhi al cielo. Il paradiso di Dante è
conformato a questo concetto. La vita del
Santo è la contemplazione, un perpetuo ra-
pimento verso il primo amore, che a sé lo in-
vita e tira. Ma il Dio di Dante non è né l'O-
- 74 -
limpo nella maestà della sua forza, né l'Es-
sere solitario tra' tuoni e le folgori nel cor-
ruccio della sua giustizia, ma il Dio cristia-
no, Dio di bontà e di amore: onde procede
che qui il sublime è temperato col bello, l'e-
stasi congiunta con la pace interiore, perenne
desiderio e perenne appagamento.
« Quallo doletta, che in aere si spazia
Prima cantando, e poi tace contenta
Dell' ultima dolcezza che la sazia;
Tal mi sembrò l'imago della imprenta
Dell'eterno piacere, al cui disio
Ciascuna cosa, quale eli' è, diventa. »
Il sublime non ci fa sentire atterriti e co-
me annichilati; ma di sé ci asseta, e c'inna-
mora e ci bea. Neil' inferno domina il ter-
rore del sublime nell' uomo e nella natura;
qui mai non ti avvieni nel sublime nudo, né
quantitativo, né qualitativo, senza pur trarne
fuori la contemplazione dello stesso Dio: il
divino vi è bello, amoroso, umanato; né me-
glio potea rappresentarsi questa mistica con-
giunzione dell' umano e del divino, riconci-
liazione del sublime e del bello. La forza vi-
vificatrice del genio ha unificato questo dop-
pio sentimento nell' apparenza e negli atti
de' personaggi. La luce, mentre cerchia e fa-
scia del suo fulgore 1' essenza misteriosa, al-
letta lo sguardo con la bellissima vista: è un
75
mare infinito, in cui ti è dolce annegare. Ol-
treché, vincendo la corporale impenetrabilità
ed entrando i suoi raggi gli uni negli altri,
essa esprime con molta evidenza l' unione
delle anime in Dio, l'individualità sparita ed
innalzata nel mare dell'essere.
« Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita,
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
Per entro sé 1' eterna margherita
Ne ricevette, com' acqua recepe
Raggio di luce, permanendo unita.
S' io era corpo (e qui non si concepe
Com' una dimensione altra patio,
Ch' esser convien se corpo in corpo repe),
Accender ne dovria più il disio
Di veder quella essenzia, in che si vede
Come nostra natura e Dio s' unio. »
Il poeta, signore, anzi tiranno della lingua,
trova ardite parole a significare questa com-
penetrazione degl' individui, questa medesi-
mezza amorosa degli esseri nell'essere: incie-
la, imparadisa, india, indiassi, ininei, inlei, s'in-
futura, s' illuia, ecc., delle quali voci alcune,
dopo lungo obblio, ritornano a vita. La re-
denzione dell' anima è la sua progressiva e-
mancipazione dall' egoismo della coscienza;
la sua individualità non le basta, ella si sente
incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira
alla idealità nella vita universale.
— 76 —
Abbiamo mostrato di quanto momento sono
i gruppi nel purgatorio; ivi s' inizia quella
comunione ed amicizia delle anime, che ha
il suo compimento nel celeste sodalizio. I
loro moti sono danze ; le loro voci sono
canti; ma in quel turbine di movimenti, in
queir accordo di voci tu non discerni niente
d' individuo o di particolare: è una musica,
nella quale i varii suonisi perdono e si con-
fondono in una sola melòde. Ne vi è pro-
priamente differenza di aspetto; ma , se di
così dire mi è lecito, una faccia sola: onde
la concezione in questi termini dee esser po-
vera d* azione, di carattere e di affetto indi-
viduale. Ma il poeta ha distinto da' Beati gli
angioli, plenitudine volante tra quelli e Dio.
Gli angioli, ai quali noi vogliamo attribuire
il sembiante schietto della fanciullezza, espri-
mono la parte spontanea e irriflessa dello
spirito, 1' ebbrezza della ispirazione, il can-
dore dell'animo: la virtù è in loro innocenza,
il pensiero intuizione. Questo concetto si ri-
vela in alcuni mirabili tratti, ne' quali li ha
rappresentati il poeta: con festevole andare
e venire nel modo abbandonato e sciolto della
prima età, tripudianti e folleggianti senza se-
rietà di pensiero e di scopo, arte e giuoco,
secondo le parole dello scrittore.
— 77 —
«Ed in quel mezzo con le penne sparte
Vidi più di mille angeli festanti,
Ciascun distinto e di fulgore e d' arte. »
< Qual è queir angel, che con tanto gioco
(ìuarda negli occhi la nostra Regina,
Innamorato si che par di fuoco?*
« In forma dunque di candida rosa
Mi si mostrava la milizia santa,
Che nel suo sangue Cristo fece sposa.
Ma l'altra, che volando vede e canta
La gloria di Colui che la innamora,
E la bontà che la fece cotanta,
Si come schiera d' api, che s' infiora
Una fiata, ed altra si ritorna
Là dove il suo lavoro s'insapora,
Nel gran fior discendeva, che s' adorna
Di tante foglie; e quindi risaliva
Là dove lo suo amor sempre soggiorna.
Le facce tutte avean di fiamma viva,
E 1' ale d' oro; e I' altro tanto bianco,
Che nulla neve a quel termine arriva.
Quando scendean nel fior, di banco in banco
Porgevan della pace e dell'ardore,
Ch' egli acquistavan ventilando il fianco. »
Nondimeno la presenza di Dante è cagione
che i Beati ricordino talora la lor vita pas-
sata e degnino del loro sguardo la terra, ora
laudando i fatti de' loro compagni, come è
il panegirico di S. Domenico e di S. Fran-
cesco, più spesso sferzando i vizi, quando pe'
generali e quando con cruente applicazioni :
di che basterà produrre in esempio le sde-
— 78 —
gnose ed eloquenti parole di S. Pietro, che
fanno trascolorare il paradiso.
< O cupidigia, che i mortali affonde
Sì sotto te, che nessuno ha podere
Di ritrar gli occhi fuor delle tue onde 1
Ben fiorisce negli uomini '1 volere;
Ma la pioggia continua converte
In bozzacchioni le susine vere,
E fede ed innocenza son reperte
Solo ne' pargoletti; poi ciascuna
Pria fugge, che le guance sien coperte. *
Nobilissimo è il racconto che fa Giusti-
niano de' casi dell'antica Roma, in istil grave
e magnifico, proporzionato all'alto subbietto;
e tra' più belli della Commedia sono da an-
noverare i tre canti, ne' quali il poeta ra-
giona con uno de' suoi antenati. E una scena
di famiglia; l'antica semplicità de' costumi,
messa in maggior rilievo dal contrasto con
la corruzione di quel tempo, è descritta per
via di particolari, de' quali alcuni rimangono
ne' termini della personalità storica, altri si
levano all' ideale dell' età dell' oro e della do-
mestica felicità, temperati con tanta verità
insieme, che tu vi trovi l' ideale espressione
della pittura italiana e la vivace realtà della
scuola fiamminga.
La predizione che Cacciaguida gli fa del
suo esilio è tanto pietosa, che ben si pare la
/
— 79 —
profonda tristezza del vecchio e stanco poeta,
sospiroso indarno della sua bella patria.
« Tu lascerai ogni cosa diletta
Più caramente; e questo è quello strale,
Che V arco dell' esilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
Lo pane altrui, e com' è duro calle
Lo scendere e '1 salir per 1' altrui scale. *
Quanta malinconia! e quanto affetto! L'a-
marezza dell' esilio non è ne' patimenti ma-
teriali, e Dio riserba dolori più acuti agli a-
nimi generosi. Non vedere più mai quanto
sulla terra ci è caro, ed implorare il pane
dall' insolente pietà degli estranei , questo
strazio di tanti miseri vive qui immortale
ne' versi del più misero e del più grande.
Ma il virile suo animo si piega, non si fiacca;
e tosto lo vedi rilevare la fronte balda e si-
cura. Nessuno ha sentito tanto altamente
della dignità della sua arte , della quale ei
ragiona come magnanimo, senza ira né parte,
con calma severità. Lo scopo morale non è
alcun che di sopraggiunto e di appiccato alla
sua poesia, ma parte intima di quella , es-
sendo la visione indiritta ad emendamento
di Dante, e quindi dell' uomo; né facendo bi-
sogno al poeta di sentenze e di precetti, ma
bastando la nuda rappresentazione al conse-
guimento del fine.
— 80 —
I giovani lettori di Dante fermano con com-
piacenza lo sguardo sopra questi luoghi del
poema sacro, desiderosi che fossero men rari,
e seguendo mal volentieri il poeta nelle sue
fantasie sopraumane. Molta parte di poesia
è nell' individuale e nel subbiettivo, come si
può sentire ne' brevi tratti, ne' quali Dante
dà affetti e caratteri particolari a' suoi per-
sonaggi.
« Oppresso di stupore alla mia Guida
iMi volsi, come parvol che ricorre
Sempre colà dove più si confida.
E quella, come madre che soccorre
Subito al figlio pallido ed anelo
Con la sua voce, che '1 suol ben disporre ».
« Come l'augello, intra l'amate fronde,
Posato al nido de' suoi dolci nati
La notte che le cose ci nasconde,
Che, per veder gli aspetti desiati,
E per trovar lo cibo onde gli pasca,
In che i gravi labor gli sono grati,
Previene '1 tempo in su l'aperta frasca,
E con ardente affetto il Sole aspetta,
Fiso guardando, pur che l'alba nasca ;
Così la Donna mia si stava eretta
Ed attenta, rivolta invèr la plaga
Sotto la quale il Sol mostra men fretta ».
« e vidi un Sene
Vestito cora' le genti gloriose.
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio,
Quale a tenero padre si conviene ».
— 81 —
Ma nel paradiso, concepito nel modo che
abbiamo mostrato, non può aver luogo al-
cuna determinata gradazione dell'animo ; e
gli stessi canti, che avrebbero potuto porgere
occasione di esplicare e svolgere gli affetti,
come sopra ogni umano uso, rimangono nel
vago e nel generale del sentimento. Il che, se
può bastare alla musica, non può contentare
la poesia, massime ove non sia unicamente
lirica, ma di forma narrativa: onde non re-
sta altra via al poeta che di mostrarsi tanto
largo nella parte didattica, quanto è stato
parco nel rimanente. La scienza non è op-
posta al paradiso, ma parte sostanziale di
esso, non essendo altro che una delle facce
di Dio, il « Vero, in che si queta ogn' intel-
letto. »
La beatitudine è nellacontemplazionedi Dio;
e Dio è parola di verità, il sostanziale eman-
cipato dal fenomeno, la ragione pura dalle il-
lusioni e dagli affetti terreni. Il pensiero, che
spesso nelle due prime cantiche è nascosto
sotto il velo dell'allegoria, qui si rivela nella
sua nuda verità, e raggia di sua propria luce.
Nelle parole de' Beati è una parte negativa,
nella quale si contrappone 1' essere all' ap-
parenza, riprendendosi forte la prosunzione
de' mortali così corriva a sentenziare e leg-
gera a credere.
— 82 —
« E questo ti fia sempre piombo a' piedi,
Per farti muover lento, com' uom lasso,
Ed al si ed al no, che tu non vedi:
Che quegli è tra gli stolti bene abbasso,
Che senza distinzione afferma o niega,
Così nell' un come nell' altro passo;
Perch' egli incontra che più volte piega
L' opinion corrente in falsa parte,
E poi 1' affetto l' intelletto lega.
Vie più che indarno da riva si parte,
Perchè non torna tal qual ei si muove,
Chi pensa per lo vero, e non ha 1' arte. >
< Non sien le genti ancor troppo sicure
A giudicar, si come quei che stima
Le biade in campo pria che sien mature:
Ch' io ho veduto tutto '1 verno prima
Il prun mostrarsi rigido e feroce,
Poscia portar la rosa in su la cima;
E legno vidi già dritto e veloce
Correr lo mar per tutto suo cammino
Perire alfine all' entrar della foce.
Non creda monna Berta e ser Martino,
Per vedere un furare, altro offerère,
Vedergli dentro al consiglio divino;
Che quel può surgere, e quel può cadere. *
II poeta non confuta, non argomenta, ma
si tiene su' generali, e biasima e flagella, ta-
lora con solenne gravità, talora con l'effica-
cia della satira, come nel canto ventesimo-
nono nella digressione di Beatrice, che è una
filippica egregia per forza comica e per bile
poetica.
83
« Si che laggiù non dormendo si sogna,
Credendo e non credendo dicer vero;
Ma nell' uno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate giù per un sentiero
Filosofando; tanto vi trasporta
L'amor dell'apparenza, e '1 suo pensiero.»
Questa parte, avvivata dal sarcasmo e dal-
l' ironia, non è senza molta attrattiva, ralle-
grando e rinfrancando 1' attenzione; ma essa
vi sta per incidente e quasi a dar risalto col
contrapposto della vana scienza umana alla
trattazione dommatica , nella quale larga-
mente si distende il poeta.
Si è molto conteso, in ispecialità a* nostri
tempi, delle attenenze che sono tra la scienza
e la poesia ed il confine che le distingue. Il
poeta non pensa, ma contempla, non discor-
re, ma dipinge, non investiga, ma sente: la
poesia è l'incarnazione del pensiero più o
meno perfetta, profondato nella forma con
quella stessa spontaneità, con la quale vive
nella natura; laddove la scienza è il pensiero
rivelantesi e contemplante sé stesso nella ri-
flessione della coscienza.
Le belle arti per la natura propria del loro
strumento non possono che diffìcilmente tra-
valicare i termini lor posti: sola la poesia può
trascorrere di là dalla sua natura infìno al
pensiero puro, come quella che ha il suo
strumento comune con la scienza e con l'è-
— 84 —
loquenza di una universalità proporzionata
alla grandezza della creazione, la quale essa
può esprimere in tutt' i suoi momenti. Per
questo privilegio, che ha la poesia fra le sue
sorelle, il poeta può alla rappresentazione ag-
giungere la parte didattica , facendosi egli
stesso l' interpetre ed il filosofo delle sue in-
venzioni, come fa Dante nell' inferno e nel
purgatorio. Ma la scienza, come si è veduto,
è nel paradiso un momento essenziale del
concetto; e spettacolo degnissimo di mara-
viglia e di studio è il lavoro di un ingegno
tanto poetico in tanta aridità di materia. E
innanzi tutto osserviamo che la scienza dan-
tesca è in sé stessa una poesia già data al
poeta prima ancora che vi lavori su la sua
fantasia. Ci ha per la scienza uno stadio poe-
tico, nel quale non si è potuta ancor fran-
care da' miti: di che, per tacere dell'Oriente,
fa testimonianza Pitagora ed in parte Pla-
tone. Ai tempi di Dante la scienza disposata
alla teologia aveva presa quella forma con-
creta ed individuale, che è propria della poe-
sia. Un Dio personale, che, immobile motore,
produce, amando, l'idea esemplare dell'uni-
verso, pura intelligenza e pura luce, che pe-
netra e risplende in una parte più e meno
in un' altra, infìno alle ultime contingenze;
gli astri, sede de' Beati, influenti sulle umane
sorti, e governati da Intelligenze, da cui spira
— 85 —
il moto e la virtù de' loro giri; il cielo em-
pireo, centro di tutt' i cerchi cosmici e sog-
giorno della pura luce; l'universo splendore
della Divinità legato con amore nel suo ma-
gno volume; V ordine e 1' accordo di tutto il
creato, dalle infime incarnazioni infìno alle
nove gerarchie degli angioli; la caduta dell'uo-
mo per il primo peccato ed il suo riscatto per
la incarnazione e la passione del Verbo ; la
verità rivelata, oscura all'intelletto, visibile al
cuore, avvalorato dalla fede, confortato dalla
speranza ed infiammato dalla carità; in tutto
questo il pensiero è talmente disceso dalla
sua astrazione e per tal modo incorporato,
che il poeta può contemplarlo con quella
stessa sicurezza di occhio, onde si affisa nella
natura. La esposizione di Dante è perciò meno
un ragionamento che una descrizione vivace
della verità informata, con quella evidenza
e proprietà di particolari, che risplende nelle
dipinture poetiche degli uomini e delle cose:
di che può essere esempio dove egli tocca con
tanta facilità del processo creativo.
« Ciò che non muore, e ciò che può morire,
Non è se non splendor di quella idea,
Che partorisce, amando, il nostro Sire :
Che quella viva luce, che sì mea
Dal suo lucente, che non si disuna
Da lui, né dall' amor, che in lor s' intrea,
- 86 -
Per sua bontate il suo raggiare aduna,
Quasi specchiato, in nove sussistenze,
Eternalmente rimanendosi una.
Quindi discende all' ultime potenze
Giù d' atto in atto, tanto divenendo,
Che più non fa che brevi contingenze:
E queste contingenze essere intendo
Le cose generate, che produce,
Con seme e senza seme, il ciel movendo.
La cera di costoro, e chi la duce,
Non sta d' un modo ; e però sotto '1 segno
Ideale poi più e men traluce :
Ond' egli avvien eh' un medesimo legno,
Secondo spezie, meglio e peggio frutta;
E voi nascete con diverso ingegno,
Se fosse appunto la cera dedutta,
E fosse il cielo in sua virtù suprema,
La luce del suggel parrebbe tutta :
Ma la natura la dà sempre scema,
Similemente operando all'artista,
C ha l'abito dell'arte e man che trema».
Il poeta procede per deduzione, guardando
le cose dall'alto del paradiso, cioè dall'asso-
soluto e dal necessario, da cui dechina via
via infino alle estreme conseguenze, forma
contemplativa e dommatica, anziché discor-
siva e dimostrativa. Il qual metodo si affa
più alla poesia, presentando all' immagina-
zione vasti orizzonti in una sola compren-
sione , e generando nello spettatore quella
impressione di maraviglia e di raccoglimento
che nasce dal sublime.
— 87 —
< Guardando nel suo Figlio con V amore,
Che 1* uno e 1' altro eternalmente spira,
Lo primo ed ineffabile Valore,
Quanto per mente o per occhio si gira
Con tanto ordine fé', ch'esser non puote
Senza gustar di lui chi ciò rimira ».
Ma le larghe proporzioni che il poeta ha
date a questa parte, ed il modo didattico di
trattarla non gli consentono eh' ei signoreggi
al tutto il pensiero. La scienza, come tale, ri-
mane sempre astratta dall' immagine, pren-
dendo da questa lume ed ornamento senza che
ne scapiti punto la sua purezza. La forma in
questo caso non è unita sostazialmente al-
l' idea, né le resta altro valore che di meta-
fora e di comparazione, 1' una di rincontro
all'altra senza confondersi. La quale è certo
maniera meno perfetta di poesia, ma poesia,
industriandosi il poeta di sopperire al difetto
con rivestire il pensiero di vaghezza e leg-
giadria, sì eh' ei lo renda, non potendo bello,
almeno di ornata e piacevole apparenza, co-
me fan fede alcuni poemi didattici di squi-
sito ed egregio lavoro.
Il paradiso dantesco è lucente di metafore,
di similitudini, di esempii e di ogni sorta di
traslati, che chiariscono ed illustrano le più
astruse ed astratte concezioni della scienza.
Sembra quasi che il poeta non sappia pen-
sare se non colla sua immaginazione, o che
88
piuttosto il pensare e l'immaginare non sia
in lui che un atto solo : tanta è la sua virtù
di tutto abbellire ed illeggiadrire. E per darne
pure alcuno esempio, tra' moltissimi che si
potrebbero arrecare in mezzo, ricorderò le
tre stupende terzine, nelle quali Cacciaguida
tratta della prescienza accordata col libero
arbitrio, e la spiegazione che fa Beatrice del
moto degli astri, due descrizioni pittoresche,
chiarissime e leggiadrissime, nelle quali, come
ben dice il poeta, la verità ha il dolce aspetto
della bellezza.
« La contingenza, che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
Se non come dal viso, in che si specchia
Nave che per corrente giù discende.
Da indi, si come viene ad orecchia
Dolce armonia da organo, mi viene
A vista '1 tempo che ti s' apparecchia >.
« Lo moto e la virtù de' santi giri,
Come dal fabbro 1" arte del martello,
Dai beati motor convien che spiri.
E '1 ciel, cui tanti lumi fanno bello,
Dalla mente profonda che lui volve
Prende l' image, e fassene suggèllo.
E come l'alma dentro a vostra polve,
Per differenti membra, e conformate
A diverse potenzie, si risolve ;
S9
Cosi l' intelligenzia sua bontate
Multiplicata per le stelle spiega,
« Girando sé sovra sua unitate.
Virtù diversa fa diversa lega
Col prezioso corpo eh' eli' avviva,
Nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
La virtù mista per lo corpo luce,
Come letizia per pupilla viva ».
Le quistioni discorse nel paradiso non sono
ozioso trastullo di curiosità, ma legate intima-
mente con le ultime sorti dell' uomo ; sicché
persona non può trattenere lo sguardo sopra
questi paurosi problemi senza che il cuore
se ne agiti e si commova. Quindi è che qual-
siasi sistema religioso e scientifico è fecondo
di poesia ; perchè, quando pure si sottragga
ad ogni obbiettività, per l'attenenza nondime-
no che ha con l'umano destinato, può esser
fonte di lirica ispirazione, come hanno mo-
strato Byron, Leopardi ed in parte Goethe,
triade dolorosa, che rivelerà agli avvenire i
patimenti e le ansietà di tutta intera una
generazione. Il Cristianesimo ha la sua sto-
ria o epopea, da cui è nato il Paradiso per-
duto e la Messiade, e la sua lirica, da cui è
sorto Lamartine e Manzoni : la Divina Com-
media è il pensiero cristiano vivente nella
sua poetica unità, nella quale i suoi elementi
hanno ciascuno il lor proprio luogo. Quando
il pensiero è svelato a sé stesso, e nella piena
90
consapevolezza di sé rifiuta il soccorso de' miti,
non rimane alla poesia altro che l'ebbrezza
del sentimento: di che s' intende perchè nella
dissoluzione delle forme sopravvive la lirica,
i cui accenti fuggitivi e malinconici vanno
a mescersi ed a perdersi nella incolorata me-
lodia musicale. Il solo sentimento che può
destare la scienza nel paradiso è l' affetto
verso Dio con nuovo fervore di letizia e di
carità ; né il poeta ha trasandato di avvivare
per questo altro modo il suo subbietto, quan-
tunque assai parcamente. La contemplazione
della verità eterna rapisce i Santi nell'estasi
della beatitudine : talché alle ultime loro pa-
role succedono gli osanna ed i cantici, ed il
ragionamento s' innalza al suo lirico signi-
ficato nel celeste concento.
« La benedetta immagine, che l'ali
Movea sospinte da tanti consigli,
Roteando cantava, e dicea : Quali
Son le mie note a te che non le intendi,
Tal è il giudicio eterno a voi mortali >.
« Si com' io tacqui, un dolcissimo canto
Risonò per lo cielo; e la mia Donna
Dicea con gli altri : Santo, santo, santo ».
« Finito questo, l' alta corte santa
Risonò per le spere un Dio lodiamo,
Nella melòde che lassù si canta >.
Ma questi pregi sono alcuna volta oscurati
— 91 —
dalla natura troppo speciale delle quistioni,
nelle quali si avviluppa il poeta, e non di
rado dalla ruvida corteccia esteriore delle
forme scolastiche, definizioni, sillogismi, di-
stinzioni, citazioni ^ simili. Al che se si ag-
giunge la monotonia del dialogo, che par
quasi una serie di domande e risposte tra
maestro e discente, s'intenderà perchè il para-
diso torni in generale di diffìcile intendimento
e di poco grata lettura. Dante compose questa
cantica uscito di corto dalla università di
Parigi, e pieno ancora il capo di tesi e di sil-
logismi. D'altra parte ei si reputa a lode di
aver condotta la poesia in questo pelago della
scienza e, contento a pochi ed intendenti let-
tori, esorta gli altri a rimanersi di seguitarlo;
di che il Tasso, tanto ammiratore del divino
poeta, non può a meno di biasimarlo nella
sua lezione su di un sonetto del Casa.
« O voi che siete in piccioletta barca,
Desiderosi d'ascoltar, seguiti
Dietro al mio legno che cantando varca,
Tornate a riveder li vostri liti ;
Non vi mettete in pelago, che forse,
Perdendo me, rimarreste smarriti.
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l'Orse.
Voi altri pochi, che drizzaste '1 collo
Per tempo al pan degli angeli, del quale
Vivesi qui, ma non si vien satollo,
— 92 —
Metter potete ben per 1' alto sale
Vostro naviglio, servando mio solco
Dinanzi all' acqua, che ritorna eguale >.
« Non è pareggio da piccola barca
Quel che fendendo va 1' ardita prora,
Né da nocchier eh' a sé medesmo parca ».
Che se Dante con tutta la divinità del suo
ingegno non è potuto riuscire a sormontare
del tutto la difficoltà intrinseca della mate-
ria, valga questo a temperare alcuni poeti
odierni, che amano troppo di filosofare in
versi, senza aver le ali del Goethe e del Leo-
pardi.
Nel paradiso è compiuta la redenzione di
Dante, che di stella in stella, di virtù in
virtù giunge all' ultima salute. Questo volo
dell'anima a Dio, obbietto della solitaria con-
templazione orientale, del misticismo ales-
sandrino e delle pie meditazioni ed amorose
estasi de' Santi, è rappresentato poeticamente
nell' amore di Dante , « che all' alto volo gli
vesti le piume ». L' amore mosse Dio alla
creazione ed alla redenzione, e l'amore move
la fattura al suo Fattore: onde nasce il con-
cetto serio che l'amore ha presso Dante e il
Petrarca, considerato come scala alla divi-
nità. Beatrice è qui vergine al tutto di sua
mortalità, di cui alcun vestigio apparisce nel-
l'inferno e nel purgatorio : talché un pittore
- 93 —
potrebbe bene ritrarla come è figurata nelle
parole di Virgilio, o quando, « realmente nel-
r atto ancor proterva », si volge sdegnosa al-
l'amante; ma qui qualsivoglia immagine de-
terminata falserebbe il concetto spirituale,
che ha in lei voluto esprimere il poeta. Ella
dunque non può esser descritta che per modo
indiretto e negativo, principalmente dall'ef-
fetto che produce la sua vista sull'animo del
suo amato e sugli obbietti circostanti.
« Quivi la Donna mia vid' io si lieta,
Come nel lume di quel ciel si mise,
Che più lucente se ne fé' il pianeta.
E se la stella si cambiò e rise
Qual mi fec' io, che pur di mia natura
Trasmutabile son per tutte guise !
Come in peschiera eh' è tranquilla e pura
Traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
Per modo che lo stimin lor pastura;
Sì vid' io ben più di mille splendori
Trarsi vèr noi; ed in ciascun s' udia :
Eceo chi crescerà li nostri amori >.
Quanto più si sale, più la sua bellezza si
accende, e più viva letizia le ride nel volto.
Ella è il faro, in cui mirando il poeta si
avanza a salute: il quale, secondo che monta
più su, acquista maggiore intelletto d'amore ;
sicché ei può sostenere e contemplare il novo
riso di Beatrice e la nova bellezza del pa-
radiso.
- 94 -
« E come, per sentir più dilettanza
Bene operando, 1* uom di giorno in giorno
S' accorge che la sua virtute avanza ,
Si m' accors' io che il mio girare intorno
Col cielo insieme avea cresciuto I' arco,
Veggendo quel miracolo più adorno >.
« Che la bellezza mia, che per le scale
Dell' eterno palazzo più s' accende,
(Com' hai veduto) quanto più si sale,
Se non si temperasse, tanto splende,
Che '1 tuo mortai potere al suo fulgore
Sarebbe fronda che tuono scoscende >.
« Tu hai vedute cose, che possente
Se' fatto a sostener lo riso mio. »
L'amore è operoso e rende migliore : onde
il riso di Beatrice è quello che infonde nova
virtù nel poeta. Così il suo corpo, privo di
ogni impedimento, sale verso le sfere come
rivo, « se d'alto monte scende giuso ad imo » ;
e il suo sguardo acquista valore di fìggersi
nel Sole dall'atto somigliante di Beatrice.
« Quando Beatrice in sul sinistro fianco
Vidi rivolta, e riguardar nel Sole :
Aquila sì non gli s' affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
Uscir del primo, e risalire in suso,
Pur come peregrin che tornar vuole;
Così dell' atto suo, per gli occhi infuso
Neil' immagine mia, lo mio si fece ;
E fìssi gli occhi al Sole oltre a nostr' uso ».
- 95 —
Parimente l'amore, sciolto dalla servitù
de' sensi, è innalzato ad un ideale, che tiene
molto dell' affetto materno ; e Dante, che nel
purgatorio senti il tremore della fiamma an-
tica, qui ode Beatrice con riverenza di fi-
gliuolo. Quando ella si allontana, ei non
sente dolore, non manda lamento; ogni parte
terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue
parole sono affettuose ; ma è affetto di grati-
tudine misto di riverenza; siccome, nel pic-
colo cenno che gli fa Beatrice, l'amore del-
l' uomo come ombra va a dileguarsi nel-
l'amore di Dio, o per dirla più propriamente,
ella lo ama in Dio.
« Così orai ; e quella sì lontana,
Come parea, sorrise e riguardommi ;
Poi si tornò all' eterna fontana ».
Succede a Beatrice la Vergine, la Donna
gentile, che la spedì in soccorso del suo amato.
La preghiera che il poeta le indirizza per
bocca del suo fedel Bernardo ha ispirato il
Petrarca ed a' nostri giorni Goethe e Man-
zoni ; e bello sarebbe a porre in riscontro
quattro lavori intorno allo stesso argomento,
differenti di scopo e di concetto. Presso Dante
ella è una creazione ondeggiante tra il di-
vino e l'umano ; da una parte collocata sopra
ogni forma ed ogni parola , manifesta solo
nella luce e nella letizia che intorno a lei
- 96 —
raggia : d'altra parte ella è pure umana crea-
tura, speranza e conforto de' mortali, imma-
gine amorosa e benigna , che , posta come
mediatrice possente tra 1' uomo e Dio, sem-
bra quasi che scemi l'immenso intervallo che
li divide.
« Qui se' a noi meridiana face
Di caritade ; e giuso, intra i mortali,
Se' di speranza fontana vivace ».
Le parole di S. Bernardo esprimono que-
sto doppio sentimento : ammirazione e rive-
renza profonda dinanzi a tanta altezza, con-
giunta con la dolcezza e quasi la familiarità
dell'affetto. Gli occhi della Vergine sono qua-
lificati da due epiteti parlanti, che riepilo-
gano, ingrandendo, quel misto di reverendo
e d'amabile, che da lei move :
< Gli occhi da Dio diletti e venerati,
L' oratore dapprima si esprime con uno
splendore e con una magnificenza di stile,
quale si richiede al genere laudativo ; indi
con la tenerezza e l'efficacia della preghiera,
la quale ha termine con uno di quei tratti
obbiettivi, che perpetuano il pensiero nel-
l'immagine.
« Vedi Beatrice con quanti beati
Per li miei prieghi ti chiudon le mani ».
— 97 —
Per l' intercessione della Vergine il poeta
giunge alfine il suo aspetto col Valore infinito.
La descrizione di Dio, che anche Dio egli ha
osato descrivere, fa stupire per la vivace per-
spicuità di profondi concetti, essendo la pro-
prietà de' vocaboli e le sue peregrine compa-
razioni come una face, che illumina l'abisso
della essenza divina. Dio è semplice ed im-
mutabile ; ma perchè Dante si muta, ovvero
perchè cresce l' acume ed il vigor del suo
sguardo, il sembiante divino gli apparisce
con sempre maggior distinzione, primamente
come comprensione ideale dell'universo ; poi
la pura luce si determina in differenza di
colore e di splendore in una sola contenenza,
adombrando così la trinità delle persone nella
unità assoluta ; ed ultimamente il colore
prende sembianza dell'umana effigie. In que-
sta congiunzione del divino e dell'umano si
quieta l'ardore del desiderio, e si raggiunge
lo scopo di tutto il poema : il progressivo
emanciparsi dello spirito dalla carne fino
alla sua perfetta redenzione in Dio.
« Ma già volgeva il mio disiro e '1 velie,
Sì come ruota che igualmente è mossa,
L'Amor che muove il Sole e l'altre stelle >.
La fine del poema è la fine della stessa
poesia, la quale, dopo di esser passata per
tutte le possibili forme nell' universo della
mente dantesca, va a sparire a poco a poco
nell' incomprensibile e nell' ineffabile.
« AH' alta fantasia qui mancò possa ».
Il paradiso sarebbe stato più poetico, ove
l'autore avesse voluto dargli un aspetto più
umano : date a' suoi canti un significato, ed
avremo gl'inni del Manzoni e le armonie del
Lamartine ; date a' suoi personaggi la doppia
bellezza della faccia e del cuore umano, ed
avremo le creazioni di Milton, di Klopstock
e di Moore. Ben si potea : che la stessa Scrit-
tura ritrae in forma e in affetto umano, non
che altri, lo stesso Dio. Ma il poeta sta pur
fermo nella severità del suo concetto, al-
zando la poesia all'ultima sua idealità e ri-
manendo in campi inaccessibili, non tentati
prima né poi da niuna poetica fantasia.
Onde il suo paradiso attraversa solitario i
secoli, e ben possiamo , senza esagerazione,
chiamarlo il più ardito lavoro dell' ingegno
umano.
V.
RIEPILOGO
IV.
RIEPILOGO.
Volendo ora raccogliere in uno ciò che sia-
mo andati sparsamente discorrendo, nell'in-
ferno signoreggia la materia anarchica, rotta
alle passioni, senza freno di ragione: le sue
forme ricevono di ogni sorta differenze, spic-
cate, distinte, prominenti e, per usare una vi-
vace parola moderna, monumentali. Nel pur-
gatorio la materia è un momento: lo spirito
ha acquistato coscienza di sua forza, e, contra-
stando e soffrendo, si fa libero : la realtà vi
è in immaginazione, rimembranza del pas-
sato, da cui si sprigiona, aspirazione ad un
avvenire, a cui si avvicina ; onde le sue forme
sono fantasmi e rappresentazioni della fan-
tasia, anziché obbietti presenti e determinati :
pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e
canti. Nel paradiso lo spirito, già redento,
s' india ; le differenze qualitative sono riso-
lute nella unità, e tutte le forme svaporate
nella semplicità della luce, insino a che ci
— 102 —
spariscono a poco a poco davanti. Tanta va-
rietà e ricchezza di forme ci mostra non pure
la fecondità dell'ingegno dantesco, ma ancora
la verità della sua ispirazione, la quale con-
siste singolarmente in questo, che il poeta
s'immedesimi con 1' obbietto, facendo della
sua anima quasi l'anima di quello e trasan-
dando quella parte della sua personalità, che
gli rimane estranea. Il che più agevolmente
è venuto fatto al nostro autore in quanto la
forma del suo poema è tale che egli, senza
sforzare punto il subbietto, ha potuto mani-
festarvi liberamente sé stesso ed il suo tempo
e congiungere con l'essenziale della sua vi-
sione l'arbitrario e l'accidentale. Non pertanto
la forma prende dalla qualità dell'ingegno una
cotal propria maniera di rappresentazione,
che dicesi stile. Si reputa comunemente che
lo stile sia la veste del pensiero : il qual
modo figurato di dire può significare o troppo
o troppo poco, potendosi così di leggieri con-
fondersi lo stile o con la forma o con l'elo-
cuzione. Lo stile è la forma nel suo movi-
mento esplicativo, e però strettamente legato
con 1' obbietto , anzi 1' obbietto vivente. Ma
qui più che altrove apparisce l'individualità
dell'ingegno, avendo ciascuno artista un suo
proprio modo, secondo sua facoltà, di con-
durre e svolgere il concetto. Dante nell'im-
menso orizzonte, che gli si move dinanzi,
- 103 -
non lisa lungamente lo sguardo su' singoli
obbietti ; ma passa lievemente di cosa in cosa,
per modo che le individualità par che si fug-
gano davanti e si perdano nella totalità della
vista. E medesimamente ei non segue il pen-
siero o l'immagine nelle sue particolari gra-
dazioni ; ma con veloce immaginare trascorre
di una in un'altra, conseguendo con la co-
pia delle cose quell'effetto, che altri ottengono
con la quantità degli accessori. I suoi periodi
sono brevissimi ; anzi sono, d'ordinario, sen-
tenze che hanno termine col verso: alla quale
maniera serrata e ricisa di poetare è bene
accomodata la terzina, siccome l'uso che pre-
valse dopo dell'ottava rima ci mostra già il
nuovo indirizzo, per il quale si fu messa la
poesia italiana. Pratichissimo della lingua
ed uso a trarre, senza ritegno, dal proven-
zale, da' dialetti e dal latino, egli non è punto
impacciato da quelle distinzioni spesso pe-
dantesche di parole nobili e plebee, italiane e
fiorentine, poetiche e prosaiche, eleganti e
volgari, e da altrettali differenze che ven
nero dappoi, di questo unicamente sollecito,
che la parola renda il pensiero così vivo e
caldo coiti' è nella sua mente. Egli mira più
all'armonia che alla melodia, più all'evidenza
che all'eleganza, più alla proprietà che alla
nobiltà del linguaggio ; e, secondo che è ri-
chiesto alla forza e brevità del suo stile, egli
— 104 -
abbonda di vivaci ellissi, di arditi costrutti
e di vocaboli comprensivi ; di maniera che la
parola rappresenta la cosa nella sua vivente
unità, mostrando sotto l'immagine un pensiero
e sotto il pensiero un sentimento. L'arte s'in-
dirizza non a' sensi, ma all'immaginativa ; né
dee ritrarre dell'obbietto altro che il razio-
nale o l'ideale, ma di guisa che lasci intrav-
vedere la totalità dell' apparenza, sì che la
cosa monca nella rappresentazione si offra
intera alla fantasia. Qui è l'eccellenza di
Dante, la cui visione si raccoglie nel centro,
ove vanno a convergere i raggi, illuminando
con la luce di là riflettentesi tutto il con-
torno. Rapido é il suo sguardo , ma ani-
matore ; e dove eh' ei passi lascia orme in-
cancellabili : diresti che egli abbia la chiave
magica di Faust, con la quale vivifica tutto
ciò che tocca.
< Irritai, mulcet, falsis terroribns implet,
Ut Magus, et modo me Thebis, modo poni t Athenis >.
La poesia moderna, dopo di aver condotta
alla più minuta notomia l' imitazione della
realtà e 1' analisi del sentimento, ritorna a
questa maniera temperata e vereconda dello
stile dantesco ; onde lo studio della Divina
Commedia può essere antidoto efficacissimo
contro questo naturalismo e sentimentali-
smo, come suole chiamarsi, di cui non man-
- 105 -
cano ancora oggi esempi , principalmente
presso i francesi. Di che non vogliamo infe-
rire che questo stile si abbia a proporre come
perfetto, e meno come unico esemplare : per-
chè, oltre che lo scrittore non dee essere al-
tro mai che sé stesso, se questa maniera di
dettare può essere in alcun modo conforme
a questo genere di poemi a quadri e a scene,
come ne' Trionfi, nell' Amorosa visione, nella
Basvilleide ; ne' lavori, per contrario, dove una
sola azione si snodi nel contrasto de' carat-
teri e degli affetti si richiede maggiore de-
terminazione ne' particolari e soprattutto più
ricca esplicazione subbiettiva, che non è nella
Divina Commedia. Nelle presenti condizioni
della poesia signoreggia meno la forma e più
il sentimento; il che se è un male, tal sia: cia-
scun tempo ha la sua necessità. Dante, per
l'opposito, trasporta tutto al di fuori, e il
sentimento vi è spesso nascosto e trasparente
di sotto dalla forma. Il perché la sua lettura
può tornare utile a temperare gli scrittori
da quel lirismo astratto e rettorico, nel quale
leggermente oggi si sdrucciola.
Ma già fin dal principio di questo secolo
la poesia in alcuni grandissimi si è alzata
alla dignità dell'ideale ; e certo segno della
ristaurazione del buon gusto è la stima in
che è venuta presso l'universale la Divina
Commedia, avendo essa, come la Scienza nuova
— 106 —
del Vico, varcate le Alpi, divenute amendue
parte essenziale dell'educazione del pensiero
umano. L'indirizzo ontologico preso dalla fi-
filosofìa e dalla critica, il favore in che sono
venuti gli studi storici, massimamente in-
torno al medio-evo, il culto rinascente delle
forme, se non nella loro ingenuità natia, al-
meno come simboli e caratteri estrinseci del
vero, fanno abbastanza aperto perchè la Di-
vina Commedia, poco studiata e meno com-
presa per innanzi, sia ora tenuta nel suo
debito pregio. Ma presso di noi il culto di
Dante ha un significato ancora più grave :
perocché, in fino a che osserveremo e ono-
reremo il nobilissimo poeta, non sarà in no*
spenta affatto quella virile dignità, in che è
la vita de' popoli e degl' individui.
INDI C E
A Giustino Fortunato .... Pag. vii
I. Il subbietto della Divina Commedia . » 1
II. L' Inferno . » 13
III. Il Purgatorio » 31
IV. Il Paradiso » 57
V. Riepilogo . . . . . * 99
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