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Full text of "Giambattista Basile; archivio di letteratura popolare e dialettale"

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ANNO I.-I883 



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jlRCHIVIO DI LETTEIiATURA POPOLARE 



DIRETTORE 



LUIGI MOLINARO DEL CHIARO 



^ J^A'POLI 

DIREZIONE ED AMMINISTRAZIONE 

Calata Capodichjno n.° 56 

1883 



Ì5'i-'t>'f 






PROPRIETÀ LETTERARIA 



TUPI O-AJEÌIiTTCOIO , US BTUA.SIO «e C 

Largo Costantinopoli n. 89 



INDICE 








La Direzione. Ai nostri leUori Pag. 1 

ÀMAtn G. *A mònaca e 'o cunfessore, canzonetta 

napoletana » 8 

» '0 cunlo 'e Giuseppe » 20 

» Canti del popolo di Serrara d'Ischia. » 30 

» 11 conto delle mele d'oro » 31 

» A proposito di Danze Macabre . . » 58 

» A proposito di un canto ...... 76 

BiLLÒ 1. Sulla poesia popolare savoiarda , Lette- 
re 46, 49, 65, 73 

Bajano F. '0 cunto d' 'a. cascia 'e cristallo . . » 45 

» '0 cunto d' 'a cappuccia » 86 

Brandileone F. Canti di Buonabitàcolo {Prav. di 

Salerno) » 21 

Ganzano G. 'A morte 'e Surriento » 68 

Gapasso B. Credenze e costumanze napoletane ora 

dismesse. I e li 17, 33 

Congedo G. Gruzzolo d' indovinelli leccesi . . » 93 
Correrà L. 'U campaniello 'i sant' Antuone, co- 
stume napoletano » 2 

» Stambalone » 19 

» 'U munaciello » 29 

» 'A fattura » 67 

Croce B. 'U lupo e 'a vorpa » 52 

» Proverbii trimembri napoletani ...» 66 

» '0 cunto d' 'a vecchiarella .... » 83 
» Canti popolari in Napoli raccolti sul 

villaggio del Vomero » 91 

Della Sala V. Cunto d' 'e duie mercante. . . » 2 

» '0 cunt' 'e Peruòzzolo » 14 

» '0 cunto de Y auciello verde ...» 77 

» Storie popolari napoletane » 87 

» '0 cunto d' 'o saluto d' 'e tre cafune. » 90 
De Gennaro L. Canti del popolo di Pagognano. 37, 55, J9 

Errata-Correge » 88 

Festa F. Tabù ! Giuoco fancMlesco materano. » 44 

Gattini G. '0 cunto 'é Comme-va-stu-fetto . . » 33 

» La caccia al bufalo in Sca&ti ...» 57 
GiANTURCo E. A proposito di una pubblicazione 

del Papanli » 83 

Imrriani V. '0 cunto d' 'a Bella-Pilosa. ...» 42 






Imbruni V. Ganti popolari raccolti in Pomigliano 

d'Arco 50, 62, 68, 75, 81 

IvE A. El Poftliso e '1 Padiicio, fiaòa rovignese. » 37 
KoHLER R. Riscontri alla fiaba rovignese: — El 

Poùliso e 7 Paducio » 62 

Mandalari M. Giustizia ed Ingiustizia, fiaba del 

popolo reggino )» 4 

» I poeti napoletani nella Nazionale di 

Parigi » 10 

Massarou C. Cut e Tabù » 55 

» Mazza e Pinzo »^ 67 

Mazzatinti G. L'appendice ai canti del popolo 
reggino editi dal Prof. Mario Mandalari 

(Napoli 1883) » 34 

Melillo e. Facemo a nasconne' e 'A mazza e 

pìuzo, gitwchi fanciulleschi .... » 55 
MoLiNARO Del Chiaro L. Una lettera del Tom- 
maseo i> 16 

» Necrologia di Scipione Volpicela . . » 24 

» '0 cunto 'e Bellinda e 'o Mostro . . » 27 

» Una canzonetta abruzzese » 32 

» Necrologia di Atto Vannr*oi ...» 56 

» Canti del popolo di Gasami cciola . . » 64 
NoriziE . 8, 16, 24, 32, 40, 48, 56, 64, 71, 80, 88, 96 

Papa P. Stornelli del popolo toscano .... » 51 
Posta economica . 16, 24, 32, 40, 48, 56, 64, 72, 80, 88, 96 
Pubblicazioni in dialetto pervenuteci in dono. 64, 71,96 

Rocco E. Canti popolari » 9 

ScHERiLLO M. I canti popolari nelf Opera buffa. 4, 13, 18 

» Idillii rusticani » 41 

» Tradizioni drammatiche popolari, I do- 
dici mesi » 89 

SiMONCELU V. Costumi sorani .... 12, 23, 28, 34 

» Il pianto della vedova di Scanno . . » 54 
Taglialatela L. Canti del popolo di Giugliano 

in Campania 26, 39, 53 

Taguoni F. Ije bagattelle » 25 

Lettere aperte. Antonio De Nino » 80 

» Gherardo Nerucci » 72 

» Mario Mandalari » 8 

» Emmanuele Gìanturco 96 



■v 



ANNO I. 



Napoli, 15 Gennaio 1883. 



NUM. I. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAHSNTO ANNUO 



Per r Italia L. 4 — Estero L. •• 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re« 
sidenza. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L. MOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

H. HANDALA&I . H. SCHE&IUO , L. CORKERA . 

6. AMAin, V. DELU SALA, V. SIHONGELLI 

Redattori 



AVVERTENZE 



Indirizzare vaglia, lettere o manoscritti 
al Direttore l^uii^l Molinaro Del 
Chiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



Ai nostri lettori (La. Direzione)— Cu nto d"e due mercante 
(Y. Della Sala) — 'U campaniello 'i Sant' Antuono ( L. Corre- 
rà) — Giustizia e Ingiustìzia ( M. Mandalari ) -- I canti popola- 
ri neir Opera buffa ( M. Schbrillo) — 'A mònaca e 'o cunfessore 
(G. Amalfi) — Notizie. 



Oggigiorno non v'ha persona^ anche mez- 
zanamente istruita, la quale non riconosca la 
grande importanza degli studii di letteratura 
popolare. E i migliori non li trascurano per- 
chè grandissimo è il vantaggio , che se ne 
cava, polendo solo in tal guisa renderci 
ragione di molti fenomeni e ratti importan- 
tissimi della nostra lingua e della nostra 
letteratura; e chi fa altrimenti somiglia ad 
una persona, che voglia parlare d' un libro, 
avendolo letto a metà, o anche meno. Come, 
per es., ci possiamo spiegar l'intimo orga- 
nismo della nostra metrica (appunto no- 
stra perchè insita e connaturata con noi) 
senza studiare e tener conto della metrica 
popolare , la quale ^ sepolta presso i Latini 
dalla greca , e serpeggiando occultamente . 
a poco a poco, ripullulò e crebbe in tempi 
posteriori? Come studiar la Divina Conn 
media, senza tener conto della formazione é 
delle diverse elaborazioni del mito popolare? 

Ma non è da credere , che noi ci prpj/o- 
nessimo di far tutto questo , no ! il nostro 
compito è molto più modesto. 

Trovandoci in un periodo di preparazione, 
bisogna raccogliere prima ciò che dopo sarà 
diviso e classificato : e noi cercheremo di 
portare anche una pietruzza al grande edifi- 
zio. Ecco dunque il nostro disegno. Studiarci 
di raccogliere quanto direttamente od indi- 
rettamente si riferisca al popolo; e quindi in 
questo giornale troveran posto i canti, i con- 
ti , le leggende , i proverbila gì' indovinelli, 
eccetera, eccetera, perché ciascun genere ha 
la sua importanza speciale; e noi siamo 
certi, che quando non vi sarà più cantuccio 
negletto e trascurato ; e d'ogni luogo e pro- 



vincia si saranno notati dihgentemente fin 
gli errori e i pregiudizii, solo allora si po- 
tranno sciogliere molteplici quistioni , e si 
potrà fare la vera storia del popolo. 

È par questo , che non vi mancheranno 
nel nostro giornale degli articoletti intesi ad 
illustrare qualche uso o costume ed anche 
qualche poeta popolare. 

Ma il miglior posto sarà occupato dai pro- 
dotti in dialetto, i quali, del resto, non man- 
cheranno d' esser corredati di note esplica- 
tive, specialmente storiche e dialettali; pun- 
to estetiche , perchè unico scopo è di farli 
gustare e meglio intendere ai lettori. All'uo- 
po vi saranno anche dei riscontri e delle 
varianti. 

Come è naturale, vi sarà roba specialmente 
delle Provincie meridionali, dove, malgrado 
la solerzia di alcuni cultori e raccoglitori , 
e malgrado alcune raccolte ed alcune rac- 
coltine, pure ci resta ancora tanto da fare! 
Però non vi mancheranno i prodotti popo- 
lari riguardanti altre parti d' Italia , perchè 
noi non intendiamo far cosa esclusiva per 
guerricciuole di campanile. Siano dunque i 
benvenuti quanti vorranno collaborare al no- 
stro giornale e si adatteranno alla sua in- 
dole; ed è anche per questo, che, all'uopo, 
ci saranno care le correzioni e le rettifiche^ 
purché esse ci siano di guida a far meglio, 
unica meta alla quale miriamo. 

S'indicheranno le più importanti pubbli- 
cazioni, sia nostraU, che straniere , in ispe- 
cie tedesche; delle quali, certamente, fa me- 
stieri tener conto, perchè (messo da banda 
i difetti insiti ad ogni opera umana ) esse , 
per lo più , son condotte con grande dili- 
genza ed han contribuito , non poco , a far 
progredire gli studii di letteratura popolare. 
Volesse il cielo^ che noi ci occupassimo per 
metà delle cose dei Tedeschi , come essi si 
occupano delle nostre ! 

E, per far opera gradita ai cultori di questi 
studii ed ai librai, daremo, per ordine alfa- 
betico notizia delle migliori opere pubblicate 
in questa materia e in ispecie delle migliori 
edizioni e delle più rinomate raccolte. Così 
si avrà una specie di bibliografia, oggi indi- 
spensabile in qualunque lavoro, perchè lo 
studioso prima di cominciare ha bisogno di 



rendersi conto di ciò che si è fatto e di avere 
presente tutto il cammino percorso. 

E, qua e là, non mancheremo di dare i ri- 
tratti con qualche cenno biografico, dei più 
celebri cultori di sì fatti studii, perchè, in tal 
guisa, non solo saranno ricordati coloro che 

{)resero parte a questo benefico lavoro; ma 
a gioventù vi troverà spesso anche dei buo- 
ni esempii. 

Insomma noi cercheremo di conciliare Va- 
aie dulci di Orazio, studiandoci di far cosa 
gradita e al cultore delle cose popolari e al 
semplice dilettante: ciascuno vi troverà una 
parte, che potrà interessarlo. 

Una parola dell' ortografia. Noi , memori 
che la scrittura debba ritrarre, per quanto è 
possibile, i suoni, ci varremo dell'ortografia 
comunemente adottata ed anche nella rac- 
colta Imb ri ani-C asetti. Cercheremo, in una 
parola, tenerci alla forma più semplice, fin- 
ché ciò non osti alla fedele trasQrizione. 

I nostri collaboratori si vedranno all' o- 
pera. Per ora noi possiamo assicurare che 
li abbiamo scelti fra i più valenti cultori de- 
gli studii popolari. 

La Direzione 



CUNTO D' 'E BUIE MERCANTE 

RACCOLTO IN NAPOLI 

da VINCENZO DELLA SALA 

I. 

'Na vota ce stèvano duie mercante , e stèvano 
e casa uno rimpett' a V ato. Uno ^e 'sti mercante 
teneva sette figlie fèmmeue , e chiir ato teneva 
sette figlie màscule. Chillo ca teneva 'e sette figlie 
màscule, quann"a matina arapev' *o barcone , e 
salutava a chillo , eh' aveva e ssette figlie fèm- 
mene , le diceva accusai : Buongiorno , mercante 
cu' li ssette scope. Chisto, p' arrangia (1) , se ne 
traseva ogne matina rinto (2), e cniagneva chia- 
gneva cumm'a nu guaglione. Chiagne ogge, chia- 

fne rimane (3), 'a mugliera nun ze firava chiù (4) 
' 'o vede' chiàgnere, e nu iuorno l'addimmannaie 
pecche isso chiaffneva , ma 'o marito nun 'o bu- 
lette dicere. 'A chiù piccerella de chelli ssette fi- 
glie teneva dicessett'anne, era bella cumm' 'o sole 
e 'o paté (5) le vuleva bene cumm' a T nocchie 
suoie. 

Nu iuorno 'a figlia ricette a 'o paté : Si me vulite 
bene cumme dicite, m'avit' a dr pecche chiagnite. 
'0 paté le dicette: Figlia mia, 'o mercante 'e rim- 
petto ogne matina, quanno me saluta , me dice: 
Addio, mercante, cu* li ssette scope. Io nun zaccio 
che r aggi' 'a rispònnere. 'A figlia le dicette ac- 
cussi : Caru papà , e pe' chesto ve pigliate tanta 
còllera? Quann isso ve dice chesti pparole, vuie le 
rispunnite accussi ritto 'nfatto : — Addio, mercan- 
te, cu' li ssette spate : però i' piglio Tùrdema scopa 
mia e tu piglio a primma spata toia, e verimmo 
chi de loro duie se fida 'e i' a piglia' 'o scettro e 
'a curona d' 'o Re de Francia e de purtàrela cà. Si 
'e piglia f igliama, tu me darraie tutt' *a robba toia, 
si po' 'e piglia figlieto, io perdarraggio tutt"a mer- 
canzia mia. Si isso accetta , vuie le facite firmà^ 
nu cuntratto, p' èssere chiù sicuro. 

*0 paté 'a steva a senti' e' 'a vocca aperta, pec- 



che nun zapeva 'a figlia che puteva e sapeva fa'. 
Qnann'essa fenette 'e parla', 'o paté le dicette: 
Figlia mia, tu che dice ? me vuo' fa' pèrdere tutto 
chello ca i' tengo ? 

— Papà, nun avite paura 'e niente , lassate fa' 
a me , lacite 'a scummessa, e vedarrate ca i' so' 
chella tala figlia ca ve portarrà cà 'o scettro e 'a 
curona d' 'o Re de Francia. 

'0 paté "a notte nun putette chiùdere Tuocchie 
a suonno , e le pareva miir anne ca schiarasse 
iuorno. Quanno fuie 'a matina , s' aflfacciaie , si- 
conn' 'o solete, ò barcone. '0 mercante d' 'e ssette 
spate, cumm' 'o verette , le dicette : — Buongior- 
no, mercante d' 'e ssette scope. E chisto le rispun- 
netto sùbeto: — Buongiorno, mercante, cu' li ssette 
spate, facimmo "na scommessa : i' piglio Y ùrdema 
scopa mia e tu 'a primma spata toia , le dammo 
nu cavallo e 'na somma 'e renare per o' (6) e 
verimmo chi 'e loro duie se fira 'e purtà' cà 'a cu- 
rona e 'o scettro d' 'o Re de Francia. Scommet- 
timmo tutt* a robba ca tenimmo : si vence (7) fi- 
gllama , i' me piglio tutt' 'a robba toia , si vence 
figlieto , tu te piglie tutt' 'a robba mia. '0 mer- 
cante ca teneva 'e ssette figlie màscule le facette 
'na resata 'nfaccia. S' avutale chili' ato e dicette : 
Te miette paura ? E chillo, cuotto 'ncopp' 'o bivo, 
dicette : — Va bene , accetto , e quanno è dimane 
fermammo 'o contratto e 'e facimmo parti'. 

Quanno 'o mercante , che teneva 'e figlie mà- 
scule, dicette tutto chesto ó figlio suio chiù gruos- 
so, chisto se mustraie tutto priato, pecche se cre- 
deva che parteva 'nzieme e' 'a figliola. Ma aveva 
fatt' 'e cunte senz' 'o tavernaro. Quanno fuie 'a 
matina appriesso , 'e duie mercante fermàieno 'o 
cuntratto , e dettene a 'e figlie loro nu cavallo e 
'na gran zomma 'e renare. figlio d' 'o mercante 
se mettette a cammenà' a cavallo , e 'a figlia 'e 
chiir ato mercante se priparaie, pur' essa, pe' se 
ne ire. 

Essa teneva 'na cacciuttella (8) affatata e quan- 
no se mettette a cavallo se la pigliaie 'mbraccio, 
e r addimmannaie : 

— Cacciuttella mia, che via avimmo da piglia'? 

— Patrona mia, cammenammo sempe deritto pe' 
chesta via. Chiù là, nule truvarrammo nu fiume 
e 'o passarrammo, ma 'o figlio d' 'o mercante nun 
'o putarrà' passa', e avrà daturnà' arreto a do' è 
benuto. 

Cum' in fatte, cammina cammina , arrivàieno a 
chella fiumana. 'A cacciuttella passale primm'essa, 
po' stennette (9) 'na zampa à patrona soia , e 'a 
facette passa' pur' 'a essa , e doppo facette passa' 
pur' *o cavallo. '0 figlio d' 'o mercante arrivale 
doppo, e nu' putette passa' pe' niente. Turnaie ar- 
reto e se ne lette 'n' ata vota à casa soia. 

Venimmocenno à figlia d' 'o mercante, e lassam- 
mo a isso, ca se ne sta e' 'a pacia soia. 'A figlio- 
la, doppo paricchie iuorne, arri vaie a Parige ve- 
stut' 'a ommo. Bella cumm' era e aggraziata , se 
presentale 'nnanz' a 'na puteca 'e mercante. 'Stu 
mercante era o mercante d' 'o Re. Essa ca nun 
zapeva niente, 1' addimmannaie : 

— Ve servesse nu giòvene p' 'a puteca vesta ? 
*0 mercante dicette ca si. E essa rebbricaie (10) : 
Si me vulite a me pe' giòvene, faccio uno patto 

sulo: ca sta cacciuttella ha da sta' sempe cu me, 
e nu' m' ha da lassa' male 'e pere (11). cavallo 
m' 'o venne pecche nu' me serve chiù. 

'0 patrone fuie cuntento, e essa trasette sùbbeto 
cumm' a giòvene 'e chillo niòzio (12). Chella pu- 
teca da quanno trasette essa, aunnava (13) 'e bene, 
e 'o princepale le vuleva bene cumm' a 'nu figlio: 
era 1' nocchio deritto suio. 

Nu iuorno 'o patrone le mannaie a purtà' cierta 
robba a Palazzo Riale. *0 figlio d' 'o Re , cumme 



verette chillu gióvane , se n' annammuraie , e le 
dicette : 

— Cumme ve travate cà, vuie ca site furastiero? 

— Maistà, rispunnette 'o gióvane, i' era trincia- 
tore d' 'o Re 'e Nàpule , e, pe' sventure meie me 
trovo cà. Recett' 'o figlio do Re: 

— E si truvàssevo da fa' cà 'o trinciatore à Casa 
Riale, accettarrìssevo ? 

— Maistà, vuless''o Cielo, rispunnette 'o giòvene. 

— Embè , ogge vengo a parla' e' 'o princepale 
vuosto, e ve faccio veni' cu' me pe' trinciatore. 

Quanno fuie 'o iuorno , 'o Re iett' a d' 'o prin- 
cepale d' 'o giòvene, e le dicette accussi : 

— Princepà, i' vengo a cercarle nu piacere. 'Stu 
giòvene tuio i* 'o voglio cu' me pe' trinciatore. 

— Maistà , m' a visse vo cercato tutto, e nu' già 
chistu giòvene , eh' è 'a fortuna mia. Ma p' 'a 
Maistà vosta , i' sacrìfeco tutto chello , ca vuie 
vulite. 

'0 giòvene se pigliale 'a cacciuttella , e se ne 
lette e' 'o Re a Palazzp Riale. Là cuminciaie a fa' 
'o trinciatore, e 'o Re le vuleva bene quant' a nu 
frate suio. No iuorno 1' addimmannaie cumme se 
chiammava. — Maistà, lerispunnett'isso, mi chiam- 
mo Temperino. 

'0 Re s' rtflfezziunaie cu' Temperino, e se n' an- 
nammuraie. leva sempe ad"a mamma , e le di- 
ceva ; — Chesta a me nu' me pare cosa bona. Tem- 
perino legge e scrive , tene vita longa e mane 
gentile, mammà, chella è donna ca me fa muri ! 

— Figliu mio, vattenne , diceva 'a mamma , tu 
he' (14) perza 'a capa. —Mammà , sentite a me , 
rispunneva 'o figlio, io nu' me sbaglio. Chella è 
fèmmena. Cumm' aggi' 'a fa' pe' bedè' si Tempe- 
rino è overamente fèmmena ? — Figliu mio, le di- 
cette 'a mamma, quann' è dimane vattenne a cac- 
cia cu' isso. Si vire ca va appriess' 'e cquaglie. vo' 
di' eh' è fèmmena, si po' va truvanno cardille e 
canàrie, vo' di' eh' è ommo, e nun ce penzà' chiù 
eh' è tiempo perzo. 

'A cacciuttella, ca stevaausilianno (15),currette 
sùbeto sùbeto a d' 'o patrone e le dicette : 

— Patrò, statte attiento. Quann' è dimane, 'o Re 
te purtarrà a caccia cu' isso. '0 Re s' è adduna- 
to (16) ca tu si' fèmmena. Nu' ghi' (17) sparanno 
quaglie, e spara sulo a cardille e canàrie. 

Quanno fuie 'a matina, 'o Re chiammaie a Tem- 
perino e le dicette: 

— Temperi, vuò' veni' a caccia cu' me ? 

— Maistà , cu' pi'acere ce vengo , si m' 'o per- 
mettite. 

— Embè, pigliate 'o fucile, e ghiammoncenne. 
E se ne ietterò 'nzieme. Quanno fùieno 'mmiezo à 

campagna , 'o Re facev' abbedè' ca sparava sulo 
quaglie, e Temperino le dicette chiù de 'na vota: 

— Maistà, vuie avite da spara' sulo cardill'e ca- 
nàrie, e ve ne late. sparanno quaglie, canunzèr- 
veno. 

Temperino po' sparava sulo cardili' e canàrie. 

Doppo cacciato , se ritiràieno a Palazzo tutt' e 
duie. 'A mamma d' 'o Re, cumm"e berette 'e veni', 
ascette 'ncontro ó figlio , e 1' addimmannaie : — 
Ch' ha sparato ? — Mammà , rispunnette isso , ha 
sparato cardili' e canàrie , ma vuie nu' me facite 
capace. Temperino legge e scrive, tene vita longa 
e mane gentile, cheli' è donna ca me fa' muri'. 

'A mamma, ca 'o vereva tant'addulurato, le di- 
cette allora : 

— Figliu mio, 'n ato remmèdio ce sta ; è chisto. 
Pòrtalo rint' 'o ciardino a cògliere sciure (18) e 
'nzalata. Si coglie 'a 'nzalata a cimma a cimma, 
vo' di' eh' è fèmmena, (pecche 'e flfèmmene tèneno 
chiù paciènzia 'e V ommo) si po' 'a scippa cu' tut- 
t' 'e ràreche (19), vo' di' eh' è ommo. 

'A cacciuttella sentette tutto chella ca se dicet- 



te , e ghiette a direla à patrona. Quanno fuie a 
matina, 'o Re chiammaie a Temperino e le dicette: 

— Vulimmo i' a fa' duie sciure e nu poco 'e 
'nzalata int' 'o ciardino ? 

Temperino rispunnette ca si. 

Vanno info ciardino e 'o Re cumminciaie a 

cògliere 'nzalata a cimm'a cimma. Temperino a 

sceppava cu' tutt"e ràreche , e c"o turreno, e 'a 

metteva int* a nu canisto. '0 Re 'o portale à parte 

' d' 'e sciure e le dicette : 

— Guarda, che belli rrose ce stanno cà. 

— Maistà, rispunnev'isso, cà ce stanno 'sti belle 
carùofene (20) 'sti belle giesummine (21) e vuie 
late cuglienno 'e rrose ca ve pògneno (22) ? E Tem- 
perino, cumm' infatte , cuglieva surtanto caruò- 
fene e giesummine. 

'0 Re, disperato, dicette: Retiràmmoce. 

Quanno fùieno à casa, 'a mamma, ca vedeva 'o 
Re tutto 'nfurlato e dispiaciuto, le dicette: — Fi- 
gliu mio, tu eh' hai? 

— Mammà, Temperino legge e scrive, tene vita 
longa e mane gentile , chella è donna ca me fa' 
muri'. Mammà, vuie m' avite da di' ch'aggi 'a fa' 
pe' scupri' si Temperino è ommo o è fèmmena. 

— Figliu mio, portatine dimane ò bagno cu' te, 
e sulo accussi putarraie scupr'i' 'a verità, si Tem- 
perino è màsculo o è fèmmena. 

'A cacciuttella ca steva a senti", currette a d' 'a 
patrona, e le dicette lestu lestu. 

— Patrò , vide ca dimane 'o Princepe te vo' pur- 
tà' ó bagno cu' isso. Tu baie da là' cumme te 
dich'io. Trase (23) c"o Re info bagno e me 
chiur' a me 'a fora. Fa spuglià' primm^'o Re e 'o 
faie mena' int' 'o bagno. Io po' abbaio 'a fora , e 
tu me vien' a'rapi'. Pe' tramente isso sta inf 'o 
bagno, nule currimmo a Palazzo e decimm' à mam- 
ma ch"o Re, avenno fatto 'na scummessa rinfo 
bagno, vo' pe' nu mumento 'o scettro e 'a curona 
soia. Temperino accussi prumettete 'e fa*. Quanno 
fuie 'a matina appriesso, o Re dicette a Temperino: 

— lammo a piglia' nu bagno. 

— Maistà, si, rispunnette Temperino. 

E ghièttero tutt' e duie. 'A cacciuttella lette ap- 
priess' a loro, ma nun ze facette vede' 'e s' anna- 
scunnette 'ncoppa 'o bagno. 

'0 Re e Temperino trasèttero rint' 'o cammari- 
no. Temperino spugliaie 'o Re e 'o facette cala' 
int' a l'acqua. Fraitanto, 'a cacciuttella abbaiale. 

— Maistà, permettete ca arapo e faccio trasi' 'a 
cacciuttella mia. 

Temperino pe' fa' trasi' (24) 'a cacciuttella, ascet- 
te fora, e de corza lette a Palazzo Riale. Se pre- 
sentale ad 'a Regina e le ricette : 

— Maistà, 'o Re int' 'o bagno nun è stato canu- 
sciuto, e bo' 'o scettro e 'a curona soiape' se fa' 
canòscere. 

'A Regina pigliaie 'o scettro e 'a curona e e 
cunzignaie a Temperino. Temperino, cumme l'a- 
vette int' 'e mmane. se ne scennette 'e pressa (25) 
e screvette 'mmiez' 'e ggrare (26) : 

Zetella so' ghiuta, e zetella so' turnata, 
'0 figlio d' o Re 'e Francia aggio cufFiato, 
'0 scettro e 'a curona m' aggio pigliato. 
Se ne turnaie 6 paese suio, e vincette 'a scum- 
messa (27). 



).i <lfi3jD aX 0" 



(l) per la rabbia. (2) dentro. (3) domani. (4) più. (5) padre. 
(6) per ognuno. (7) vinco. (8) piccola cagna. (9) porse. (lO; re- 
plico. (Il) non m' ha da lasciar mai. (12) negozio. (13) abbon- 
dava. (14) hai. (15; asolando, in ascolto. fl6) accorto. (17) anda- 
re. (18) fiori. (19) radici. (20) garofani. (21) gelsomini. (22) pon- 
gono. (23) entra. (24) entrare. (25 in fretta. (26) scale. (27) Ofr. 
I pon la Serva d'AcuE (Pentamerone, 111,6). Fanta Ghiro, Persona 
BELLA ( Novellaja, fiorentina XXXVII.) 



fj} CAlCPAinSLLO 1 SAITT ANTUONO 

Quando nasce qualche bimbo tra noi, la prov- 
vida mamma gli sospende al collo alcuni cion- 
doli , come un corno di argento o di osso , una 
mezza luna , nu taralluccio ed anche un campa- 
nello : perchè poi questo campanello, domandava 
un tale ? Eccone la spiegazione. 

In temporibus quando si faceva in Napoli la pro- 
cessione di S. Antonio Abate , alias Sant' A ntuono 
avute e putente , come lo chiamano i napoletani , 
allora vi erano pure certi vecchietti chiamati San- 
t' Antuone j o questuanti. Erano tutti sciamannati 
nel vestito, con un grosso bastone nelle mani, un 
saio bianco addosso, con un T rosso sulla spalla, 
ed un campanello di ottone tra le inani, che ave- 
vano legato alla vita mediante uno spago. Essi 
giravano da bottega in bottega , da casipola in 
casipola chiedendo un'elemosina pel santo, il quale 
avreobe poi liberati il devoto o la divota da molti 
malanni , specialmente dal fuoco , e poscia una 
scampanellata sonora, e la seguente orazione : 

Sant^Antuono abbate putente 
Libera sti devote da male lengue 
Da fuoco de terra e da mala gente! 
Mamma de la Potenza 
Dàlie aiuto , forza e provvidenza 
E lo santo timore de Dio (1) ! 

Non vi era popolana la ^uale non facesse buon 
viso al questuante e non gli desse qualche grano 
per settimana, e che egli fedelmente, ciascun mese, 
quando aveva accumulato un bel gruzzoletto, an- 
dava a riversare nelle mani dei superiori della 
chiesa , la cui migliore rendita erano appunto i 
vecchi Sanf Antuone. 

E le cerimonie crescevano se vi era in casa qual- 
che marmocchio nato da poco tempo: quando ve- 
niva il vecchietto lo si faceva sedere, gli si dava 
del vino, e poi la mamma prendeva il campanello 
del vecchio, e riversatavi un po' d acqua la faceva 
bere a quel cattivello, perchè si crede da noialtri 
che così il bambino apprenda a parlare più presto 
del solito. 

Né è a farne le maraviglie ; V uso lo ricorda 
pure il nostro Giulio Cesare Cortese nella Vaias- 
seide (stanza 31'), dove una vecchia suocera dando 
dei consigli alla sua giovane nuora, le dice : 



(( e a lo campaniello 

Fa che beva, si vo* priesto parlare. » 

Oggi i auestuanti sono spariti, ed è forse perciò 
che i bimoi hanno preso il partito di sciogliere lo 
scilinguagnolo da loro? 

Luigi Correrà 

(l) Cosi il De Bourcahd, Usi e costumi napoletani, voi. 2°, p. 265. 



GIUSTIZIA ED INGIUSTIZIA 

FIABA DEL POPOLO REGGINO 

'Na vota 'a Ggiustizzia e 'a 'Ngiustizzia si ndi jru 
mi mangianu ndi 'na taverna. Si ssittàru tutti i 
ddui ndi nu bbancu, e ncuminzàru a cchiamàri 
mangiari; e chiama, chiama, chiama, mangiaru 
chi stavanu sparandu. 

fare d'*i cunti, non avivanu dinari nuddu di 
ddui e circàvanu mi sa sfilanu ; 'u tavernaru s' ac- 
curgiu e ncuminzau a ddiri :— Pagatimi 'u cuntu. 
E ssi chiantàu a mmenzu a 'a porta. 'A 'Ngiustizzia 



nei dissi: Non vogghiu pagari. 'U tavernaru ncu- 
minzau a g^ridàri : Ggiustizzia , Ggiustizzia : und' 
è 'a Ggiustizzia? 

Ne' era 'nu servu e jiva truvandu und' era 'a 
Ggiustizzia. Tantu fici, chi all' urtimu 'a vitti 'n- 
grugnata sutta 'o lettu. 'U criatu jsàu subbitu 'a 
cuverta e nei dissi : Nisciti o chiànu, chi a 'Ngiu- 
stizzia mangiau, si scassau, e non bòli pagàri. 

'A Ggiustizzia rispundiu 'i dda ssutta: Non poz- 
zu nisciri. 

— Ca pirchi ?— Nei rrispundi 'u garzuni. 

— Pircni mangiai a me' parti puru eu ; — nei 
dissi 'a Ggiustizzia. 

Osservazioni, Propongo la seguente versione let- 
terale e trascuro le osservazioni su certe locu- 
zioni speciali di quel dialetto. Il conoscitore le sa 
vedere da sé. « Una volta la Giustizia e V Ingiu- 
stizia se ne andarono [per mangiare] in una ta- 
verna. (Si) sedettero tutte e due in una panca e 
incominciarono a chiamare mangiare [cose da^ ov- 
vero, il] e chiama , chiama , chiama mangiarono 
[tanto] che stavano sparando [crepando]. 

Al fare de' conti , non avevano danari nessuno 
de' due e cercavano [l'opportunità] per sfilarsela^ 
[svignarsela, andarsene]. Il taverniere s'accorse 
ed incominciò a dire: Pagatemi il conto. E si pian- 
tò in mezzo della porta. L' Ingiustizia gli disse : 
Non voglio pagare. 

Il taverniere cominciò a gridare: Giustizia, Giu- 
stizia, dov'è la Giustizia? 

C era un servo ed andava trovando [il luogo] 
dov' era la Giustizia. Tanto fece che all'ultimo [fi- 
nalmente! la vide ingrognata sotto il letto. Il servo 
alzò [sollevò] la coperta e le disse: Uscite al pia- 
no, perchè l'Ingiustizia mangiò , si riempi [scas-- 
san e intraducibile I e non vuol pagare. 

La Giustizia rispose di là sotto: Non posso uscire. 

— E perchè ? risponde il servo. 

— Perchè mangiai anche io la mia parte : gli 
disse la Giustizia ». 

Note: 1) Ho scritto taverniere, sebbene questa voce sia ormai 
rimasta solo alla lingua scritta , perchè lo altre simili parole 
a oste, locandiere, trattore, rosticciere, bettoliere, bettolante » 
della lingua parlata non rendono bene l* idea. La parola taver^ 
naro meriterebbe di doventare italiana. 

2) Questa lìaba m'è stata favorita dal signor Ettore Pannuti, 
di Bagaladi, comune del mandamento di Melilo Porto Salvo, 

M. Mandalart. 



I canti popolari nell' Opera buffa 

Nei libretti di opera buffa del secolo passato, ci 
imbattiamo di tanto in tanto in qualche canzonetta 
popolare. Probabilmente la si cantava con il mo- 
tivetto che aveva nella piazza; e forse questo zam- 
pillo di popolarità indigena doveva piacer molto 
agli spettatori del teatro Nuovo e de Fiorentini , 
perchè il fatto si rinnova spesso e più frequente- 
mente con r andare innanzi negli anni. Già , nei 
primi tempi del teatro buffo napolitano, le musi- 
chette di quegli spartiti non dovette esser gran 
cosa : i nomi dei maestri ci riescono adesso com- 
pletamente nuovi ed è impresa disperata il saperne 
qualcosa oltre del nome ! Ma , in seguito , anche 
quando quei maestri furono il Pergolesi, il Jom- 
melli , il Piccinni , il Paisiello , il motivetto delle 
canzoni popolari fa capolino. 

Per la storia della poesia popolare napolitana , 
ho creduto non inutile il raccogliere insieme que- 
ste canzonette. Certamente nessuno vorrà sospet- 
tare che esse fossero «tate inventate proprio in oc- 
casione della pubblicazione del libretto, o che anzi 



fossero divenute popolari dopo che Topera fu rap- 
presentata : perchè esse o sono staccate dal con- 
tenuto del libretto ; o pure , qualche volta , pos- 
siamo accorgerci che ne sono state cangiate le pa- 
role per adattarle alla situazione , come il po- 
polo la spesso anche ora; o finalmente perchè ab- 
Diamo le prove di fatto della loro esistenza ante- 
riore. Ad ogni modo però, il trovarle in quel tale 
libretto, rappresentato in quel tale anno, ci prova 
che anche allora la canzone era viva : e, storica- 
mente , non mi pare che questo sia un dato poco 
importante. 

Ucholo Schermo 

I. 

È bella la scarpetta , 

È cchiù bella la patro' ; 

Mm' ha rrobbato lo core co' ir arma, 

Mo' se lo tene la tradito'. 
E bella la cauzetta , 

È cchiù bella la patro'. 

(Mercotkllis — Patro' Calienno de la 
Costa. 1709. Atto I, se. !•). 

II. 

Anga Nicola — si' bella e si' bona 
Si' bella mmaretata , 
Quanta corna tiene 'n capo ? 

— Quatto. 

E si ciuco havisse ditto, 
A cavallo fusse scritto, 
A cavallo de na crapa , 
Quanta corna tiene n capo ? 

— Sette. 

(76. Il, 8" — È ancora vivente). 
III. 

La Mattarella 



Per.— 

Porl.- 



LeL — 
Lue. — i 



Coro — 



Per.^ 

Fort. 

Renza 
Coro - 
Renza 
Coro - 
Renza 
Coro - 



—Lei. — 1 



Core de mamma , azzeccate a me, 
Core de mamma. 
Bella càuda e saporita 
È bona la zita. 

Vero ver' è. 
Core de mamma, azzeccate a me ; 
Core de mamma , 
( Curre a chi t' amma ! 

— È bona la zita, 

- Vero , ver' è. 

— È bella la zita. 

- Vero , ver' è. 

— È meglio la zita. 

- Vero , ver' è. 

Core de mamma, azzeccate a me , 
Core de mamma. 



( Ib. Scena ultima), 



IV. 



Oh quanto meglio è sta' co' sciure e aucielle 
Che pratteca' co' scuffie e perocchine , 
So' li confiette nuoste V aglietielle. 
Lo zùccaro de Cannia li lopine. 



(De Pbtris 
I, se. !.•• 

V. 



'Lo Spellecchia , 1709. a. 
È canto popolare?) 



Scétate, core mio , faccella d' oro , 
Jesce da chisto nido, o palommella ; 






Videme ca pe tte squaquiglio e moro , 

Siénteme sulo , sì , na parolella. 
No' lo siente sto trivolo a martore , 

Che non t' aflfacce cchiù, faccia mia bella? 
No' cchiù dormire , no , doce trasoro , 

Aprela priesto mo' sta fenestella. 

(GiKvm^-^ L'ailoggiamentaro , 1710. a. Ili, 

se. 13«). 



VI. 



Chi si risolvi a non vuliri amari , 

Non mi sdignari ; 
Cui voli beni all' alma e a lu cori , 
Amami , bedda cara , 
dimmi mori. 

(Tullio — danna, 1711, a. Ili, se. 13'). 

VII. 

AflFàcciate , coruzzo , e ba' sentenno 
Lo trivolo che fa 1' affritto core. 

(Tullio — Cilla, (?), a. I, se. 1«). 
Vili. 

Bella, che co' sse trezze m* attaccaste. 
Co' sf nocchie straluciente mme feriste ; 
Po' co ssa bella ^ràzea me sanaste , 
E primmo morte e po' vita mme diste. 

Lo core, che da pietto m' arrobbaste, 
Vorria sape' pecche te lo teniste ? 
Cana canazza, tu mme lo donaste , 
E a cagno e scagno fa' co me voliste. 

(Mercotellis — Lo 'mbruoglio de li nomme. 
1714, a. II, se. 4«). 



IX. 



A la marina vo-limmo scen-scènnere , 
E le brache de lo mio ammore 
Volimmo ve-vènnere, 
Voliteve r accattare, o belle fe-femmene. 

{Ib. ultima scena). 

Il Basile {AlVùneco shiammeggiante ecc.) la 
riporta così : 

E le brache de lo mio amore 

Se vonno ve-vènnere , 

E bolliteve l'accattare, o belle fe-fèmmene. 

Il Galiani {Dialetto napolitano, 1779) dice che 
al tempo suo ancora era cantata ; e la ri- 
porta mutilata del primo verso , come il 
Basile , cambiando nel secondo la parola 
« amore » in « bene » , e facendone dut 
dal terzo , cambiando il a bollìteve » in 
« volitevòlle ». 



X. 



Annevina annevinaglia , 
Chi fa r uovo alla paglia ? 
— La gallina. 

ilb. a. Il, se. 11-). 
XI. 

Vengo chiagnenno 'nnanze a lo mìo amore , 
E co' lo chianto mio faccio no sciummo ; 
Tanto eh' a poco a poco me conzummo , 
E comme a nzogna se squaglia sto core. 

(Mercotkllis -- Pafro' Tonno d'Isca^ 1714, 
a. I, se. 1'). 



6 



XII. 



Lu Qccone 

Tutti — A lo mare ca vatte V onna , 

Foglia, cappuccio, cocozze tonno ; 
A lo mare ca vatte vatte , 
Foglia, cappuccio, cocozze chiatte. 

(Ih. ultima scena)» 
XIII. 

Quanno lo latro arrobba n' àuto latro , 
È cosa che ne rldeno le prete. 

CarciòflFola ! 
E n' élta vota : Carcioffola ! 
E po' doje vote : Carcioffola ! 

{ Piscopo— Lo 'mbntoglio d'ammore, 1717, 
a. III. se. 10-). 

XIV. 

Votate mo' che passo pe sta via , 
Freccecarella mia , Ireccecarella: 
Faccia d' oro , faccia bella , 
Tutta zùccaro e cannella , 
Si' na rosa moscarella. 

(Tullio — Lo finto Armenejo, 1717. a. 
I, se. 21«). 

XV. 

Vienetenne , palommella , 
Graziosa , cianciosella , 
Damm' a bere a ssa lancella. 

(76. a. I, se. 22»). 

XVI. 

Bella nennella mia, fata d' ammore , 
Stella Diana , schiocco de bellizze , 
So' fatte ss' nocchie pe 'nchiaja' li core , 
Ca jèttano a zeffunno e fuoco e frizzo. 
Tu si' d' ogne arma 

(Tullio — La fìnta pazza, 1718, a. 
I , se. 6';. 

XVII. 

Chiagne lo peccerillo e bo' mennella , 

La monna non nce sta 

Ch' è 'scinta mamma. 
Te' to', nennillo mio , la papparella , 

Non fare cchiù nguà nguà ; 

Ched aje la bramma? 

(Piscopo— Lo cecato fàuzo^ 1719, a. 
II, se. 12»;. 

XVIII. 

Chiame la nonna ca vo' la gonnella , 

Chi nce la vo' accatta' 

Ch' è 'scinto tata ? 
Te' to', bellezza mia , la ziarella , 

Non fare cchiù ah ah , 

Che m'haje 'nfettatal 

(Ih. a. II. se. 13«). 



XIX. 

'Nnanze iuorno, matino mati' 
Lo galluccio se mett' a canta'. 

— Comme face ? — fa chicherichì — 
La gallina responne : cà cà. 

(Piscopo — Lisa pontegliosa, 1719). 

XX. 

Sbatte r onna de lo mare , 
Viene, o caro , viene , o caro : 
Ch' accessi sbatte sto core , 
Che t' aspetta , o caro ammore ! 

CAnonimo — Le 'mbroglie de la notte, 1720, 
a. I, se. ultima ). 

XXI. 

Auciello auciello, màneca de fierro , 
Fierro f elato ca nce si' 'ncappato. 

(Ih, a. III, se. !•). 

XXII. 

Vorria reventare sorecillo 
Pe méttere paur' a la sia Annoila ; 
Le vorria da' no muorzo a lo pedillo , 
E straccia' la podea de la gonnella. 

E po', pecche so tanto peccerillo , 
Me vorria abbusca' na peccerella : 
Ca vedo 'nzora' chisto e 'nzora' chillo, 
E pe me no nce sta na moglierella? 

E ha'; 

E sto breccie che puorte 'mpietto 
Tu le puorte pe me sciacca'. 

(Saddumene — Li zite 'ngalera, 1722 , a. 

I, se. 1«). 

XXIII. 

A la guerra , spellecchione , 
Ca te càuze e ca te Vieste ; 
Si nce campo e no nce riestè , 
Co di' zumpe si' barone : 
A la guerra , spellecchione. 

(Oliva — Lo castiello sacchejatOy 1722, a. 

II, se. 15"). 

XXIV. 

suonno suonno , viene da lo monte , 
Viènece palla d' oro e dàlie 'n fronte ; 

E dàlie 'nfronte e non facire male , 
Si crepa non me 'mporta manco sale. 

Viènece suonno e biene a chi te chiamma, 
Schiatta lo patre e stia bona la mamma. 

(76. a. III, se. 6«), 

Gir. MoLiNARO Del Chiaro, Canti del pop, 
nap., pag. 13, ninna-nanna 16*. 

XXV. 

Lo juoco de seta-setella. 

— Comma', seta setella. 

— Comma', vattenne a chella. 

« Chisto juoco — dice 1' autore — è che quanno 
se dice: Vattenne a chella, e chella va all' àutra , 
chella che U' ha ditto ha da cagna' lo pizzo co 
n' àutra ; e si 'ntrattanto chella che ba' attuorno 
r aflFerra ,' attoccarrà a chella eh' è stata afferrata 
de ghiro attuorno » — S' usa ancora. . 

(Tullio — Le pazzie d' ammore, 1723, a. 
I, se. f). 



XXVI. 

Dio, e' addeventasse pecorella , 
E tu co' sse manelle me mognisse ! 
Do latte t' enchiarrìa na caudarella, 
E lana te darria quanto vorrisso. 

(Oliva. — V ammaro fedele ^ 1722, a. I 
so. 3«). 

XXVII. 

Da dinto la fenesta , cacciottella , 
Gomme na lacertella trase e iesce ; 
Sècota y bella mia , la pazziella , 
Ca si t' accappo vide comme rèsce ! 

Gomme te résce e ba' : 
Lo zìmmaro e la crapa 
Ghe te fanno a pazzia*. 

(76. a. I, se. li»). 

XXVIII. 

Jesce jesce , maruzzella , 
Gaccia ccà sse cornecella , 
Ga le bboglio regalare 
A chi vole male a mme. 

(76. a. II, se. 7 ). 

Cfr. MoLiNARO Del Chiaho, Canti del pop. 
nap., pag. 17, canto lU. 

. XXIX. 

Quanno si' biecchio può levare rimmo , 
Ga non te serve a perdere lo suonno ; 
Lo 'nnammorato n' ha da esse grimmo , 
Ga ste fegliole gióvane lo vonuo. 

E ste fegliole e ba' : 
E li viecchie che fanno a V ammore , 
Songo rechiammo de pùnia. 

CSaddumene — Lo sìmmele , 1724 , a. 1» 

se. 3«). 

XXX. 

Gu... cu... cucubbà : 
E lo viecchio che face air ammore 
Quanta buffe se vOrabbusca'. 

(Anonimo — La mog Itera fedele^ 1724, a. 
I, se. 19-). 

XXXI. 

Saporetella mia , saporetella , 
Che spasso e gusto che te voglio dare ; 
Si* aggraziata , si' friccecarella , 
Na bona sciorta non te pò mancare. 

(De Palma — La dulia, 1728, a. I, se. 8*). 

XXXII. 

— Addo* te mozzocajo la tarantella? 

— Me mozzecaje lo pede; ahiemmè ca moro! 
Me mozzecaje lo pede e bbo' eh' abballa. 

— E addo' te mozzecaje la tarantella ? 

(76. a. II, so. 14"). 

XXXIII. 

Nenna, tu vide comme chiagno e strillo , 
E sempe te vuo' fa' chiù ncocciosella ! 
Ghe t' aggio fatto che mme stràzie, dillo , 
Gimmarolella mia, cimmarolella. 



Saccio ch'haje aparato lo mastrillo, 
Pecche mme vuoje fa' la postecella ; 
E io mme voglio fa' no sorecillo 
Pe me la reseca' ssa cotenella. 

Ssa cotenella e Rina , 
Io so' Io gallo e tu si' la gallina. 

(Saddumene — La Tlina, 1731,. a. II, se. 10'). 
XXXIV. 

Gomme la voglio fare ssa sagliùta , 
Gomme la voglio fa' ssa pettorata t 
Viénece, nenna mia , viene m' aiuta , 
Ghe te pozza vedere mmaretata ! 
Vi' ca la notte già se nn' è bbenuta, 
Vide ca chesta è ir ora che m' baie data. 
Scétate, nenn^,, si te si' addormuta, 
No mme fa' stare cchiù mmiezo a sta strata. 

Mmiezo a sta strada e Leila , 
Quanno me la vuo' apri' ssa fenestrella ? 

(/6. a. II, se. 11-) 
Confronta eoi n. V di queste canzoni. 

XXXV. 

— Vorria che ffosse auciello che belasse, 
E che ttu mme 'ncappasse a la gajola. 

— Vorria che ffosse Cola, che parlasse , 
E cercasse quatt' ova a ssa fegliola. 

— Vorria che ffosse viento che sciosciasse , 
Pe te leva' da capo ssa rezzòla. 

— Vorria che ffosse vùfera e tozzasse , 
Pe méttere paura a ssa feglioia. 

a 2 — A ssa fegliola e ba'. 

Lo stromiento senza le corde 
Gomme diàvolo vo' sona' ? 

— E ba' 

— E ba' 

Lo cortiello senza la penta 
Gomme deàvolo vo' spercia' ? 

— E ba' 

— E ba' 

a 2 — E bennaggia li vische de màmmeta, 
Pàtreto , zieto , e ssòreta I 

(Federico — La zita, 1731, a. I, se. l'J. 

Cfr. MoLiNARo Del Chiaro , Canti del pop. 
nap., pag. 285, eanto 524. 

XXXVI, 

Tiritàppete e statte contenta , 

E non te pigliare malanconia ; 
Tiritòmmola e ppane grattato , 

E miètteme a llietto ca sto' malato ! 

(76. — a. I, se. 6«). 

XXXVII. 

A la vecchia che sta 'nnammorata 

Na botta de spata ; 

A la vecchia che bo' lo marito 

Na botta de spito. 

(Ib. — a. II, se. 2«). 

XXXVIII. 

Sporta chiagnenno vaje pe la campagna , 
Povera palommella affritta e sola ; 



8 



A lo chiàgnere io mo' te so' compagna , 
Né avimmo tutte doje chi nce conzola. 

{Ib. — a. II, se. 9«). 

XXXIX. 

Caro moso , lindo , hermoso 

Paxarillo , pintadillo 

De mi alma y corazon , 

Ahi cuando hemos de gozar. 
Slento yo que luogo luego 

Pueda el fuego , 

Que del pecho hace un carbon , 

Està Vida ya quemar. 

(Tullio — La vecchia tramméra, 1732, a. 
I, 8C, llV. 

XL. 

Passa ninno da ccà rente , 

E mme fa lo zennariello ; 

Forfantone , malezejuso , 

Tu co mmico vuo' pazzia'. 
Io , pe ddàrele martiello , 

No mme vóto a tteni* mente ; 

Forfantone , malezejuso , 

Io te voglio fa' canea'. 

(Federico — Lo frate 'nnammorato, 1732, 
a. I, se. !•). 

Questa canzone non mi pare di quelle propriamente popo- 
lari ; ma la riferisco perche il commediografo fa dire ai suoi 
atteri : 

« — Che tu pure la saje sta canzone ? 

— Io puro , e m' allecordo che na vota 
Io la deceva e nce abbuscaje da zia. 

— Perchè ? 

— Ca sta canzona 
'Mpara de fa' 1* ammore. » 

XLI. 

Ammore, m' hajo pegliato a conzommare , 
A conzommare m' haje pegliato , Ammore ; 
So' fatto pesce che bà pe lo mare , 
E tu co ssa cannuccia pescatore. 

(Trincherà — Li 'nnammoratelcor revate, 
1732, a. I, se. l'j. 

Cfr. MoLiNARO Del Chiaro. Canti del pop. 
nap. pag. 129, canto 49. 

XLII. 

L' acqua m' asciutta e lo sole me 'nfonne , 
Tutte le ccose meje 'n contràree vanno. 

(Ib. a. I, se. 7"). 



A Seccavo aggiungono: 

Chiammo lo bello mio e no me risponne , 
Mme sente fa le 'recchie de mercante. 



(Continua) 



'A MÒNACA E '0 CUNFESSORE 

(Baecolta da Gaetano Amalfi) 

Zi* mònaca rosa, rosa 
Piglia r acquasanta e basa, 
E po' piglia 'o scannetiello, 
'Ncoppa nce mette *o lebbretiello; 



Po' s* appresenta 'o cunfessore, 

Pare che tanno (1) faceva V ammore : 

— « Padre mio, padre mio, 

— « Comm' aggio a fa' pe' me salva' io? » 

— « Figlia mia, fa penetenza, 
« E peccate cchiù nu' fa'. » 

— « Padre mio, so' allascat' 'e rine, 
« E penetenza nu' pozzo fa'. » 

— t< Figlia mia, fa lu diuno, 
« E peccate cchiù nu' fa' » 

— « r patesco 'e cummurziune, » 
« '0 riuno nu' pozzo fa' » 

— « Figlia mia fatt' 'a risceplina, 
(c E peccate cchiù nu' fa' » 

— « Padre, se avesse ^o marito (2) 
« 'A risceplina me faciarria » 

— « Si venivo V anno passato, 

— « T' astipavo nu scartellato, » 

— « Puozz' èssere scannato 1 

« Lu scartellato m' avive stipato ? 

« Ha da èssere chiatto e tunno, 

« Che dà 'mmiria a tutt' 'o munno.» — 

(1) Tanno, allora. (2) A questo proposito una canzonetta del 
Piano di Sorrento dice : I 

Zi* munacella cu' 'stu manto pinto, 
Vaje dicenno ca te vuò* fa* santa ; 
Mo ca tu si* arrivato all' anno vinto ; 
Voglio lu maritiel'.o, chisto è lu manto. 



NOTIZIE 



Il prezzo d.'o.t)lX)rLeLmento è stato pagato an— 
cHe dal direttore e dai redattori ordinarli. 
Sono quindi pregati t\itti colora ai q;\iali per— 
-viene il presente niameiro od a respingerlo 
od a mandare il prezzo d'at>t)On.ann.en.to. Q\ie— 
st.a regola, otie ci siamo imposta por non nno— 
rire d'aiiemia, non pu.ò a-vere alciana ecce- 
zione. 

Richiamiamo l'attenzione dei nostri lettori sulla seguente let- 
tera del nostro amico e collaboratore prof. Mandalari. Il dot- 
tore Mazzatinti si occupa con grande amore delle cose nostre 
in Parigi. Non è guari, ha scritto una serie di lettere sui Codici 
della Biblioteca aragonese fCfr. Piccolo, 21 novembre 1882), con le 
quali rivela l'importanza dei suoi studii e la serietà del suo in- 
gegno. Noi speriamo che il prof. Mandalari voglia mantenere 
la promessa fatta nella seguente lettera, che assai di buon grado 
puDblichiamo. Eccola : 

Caro Molinaro , 

Il mio amico dott. Mazzatinti , che ora studia i manoscritti 
italiani nella Biblioteca Nazionale di Parigi, m' ha scritto : « Il 
« Codice della Nazionale 1035 (numerazione moderna) contiene 
« alcune poesie erotiche di. vario metro e parecchi « Strambocti » 
« in dialetto napoletano. È del secolo X v. Di gualche compo- 
« nimento sono citati gli autori ; cioè : « Francisco Galiotho », 
« Francisco Spinello », « Cola di Monforto », « Jac (obus) df» 
« jennariis ». 

Come vedete, la notizia è importante. Io spero di potervi of- 
frirò un saggio di questi « strambocti » e qualche notizia bio- 
grafica sugli autori. Ma non è inutile che voi facciate sai)ere, 
per ora, a questo modo, la cosa nell' Arohivio , perchè , chi sa, 
qualche studioso s' invogli ed illustri, coti uno studio possibil- 
mente completo, questa notizia. 

Credetemi , intanto , col soHto alTotto 
22. XII. 82. 

vostro aff. 

M. Mandalari. 



inaz ICOLmÀBO DSL CHIABO — Direttore. 

GAETANO MOLINARO — Gerente responsabile. 

■ 1 

Stab. Tip. Ferdinando Raimondi 

Sansoverixio , 1. 



ANNO I. 



Napoli, 15 Febbraio 1883. 



NUM. 2. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAHSNTO ANNUO 



Per l'Italia L. 4 — Estero L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L HOLINARO DEL CDIARO, Direttore 

I. lANDALASI , I. 8GHERILL0 , L. CORRERÀ , 
e. AXAin, V. DSLU 8AU» V. SDfONCSLU 

Redattori 



AWEBTENZE 



Indirizzare vaglia, lettere o manoscritti 
al Direttore Ijai|[;i IMolinaro liei 
riiiaro. 

Si terrà paroia delie opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



SOMAIA-RIO 



Canti popolari ( E. Rocco ) — I poeti napoletani, nella 
Nazionale di Parigi ( M. Mandalari )— Costumi sorani 
(V. SiMONCELLi) — I canti popolari nell' Opera buffa (M. 
ScHERiLLo)— Cunt' 'e Peruòzzolo (V. Della Sala) — Una 
lettera del Tommaseo — Notizie — Posta economica. 



CANTI FOFOLAEI 

Fra i canti popolari di Napoli ve ne sono alcuni che 
portano proprio T impronta del popolo , ed hanno per ca- 
ratteristica la continua ripetizione con piccoli cambiamenti 
a ciascuna strofa , e spesso con un verso riassuntivo che 
si può intonare a coro. Io li paragonerei ai canoni per- 
petui dei musicisti. 

I quattro canti che qui seguono, da me intesi cantare da 
gente della plebe , ne daranno un' idea più adeguala di 
quelli che potrei fare io colle parole; e se avessi meco un 
paziente maestro di musica, anche il canto con cui si ac- 
compagnano gli potrei indicare. 



I. 



Canzone a dlalo^fo 

fra una madre e la figlia 

F. Mamma mia, so' fatta grossa, 

Tengo chiù de qulnnece anne 

E me voglio mmaretà'. 
M. Figlia mia, chi t' aggio a dà' ? 
F. Mamma mia, pènsace tu. 
M. Si te dongo no scarparo ^ 

Lo scarparo non fa pe' te : 

Ghillo va e sempre vene , 

Sempe 'a suglia 'mmano tene. 

Si le vota la fantasia 

La chiava ncuorpo a la figlia mia. 

E cosi si va ripetendo, sostituendo a $carpa/ro il no- 
me di altro mestiero, ed a stiglia quello di una delle 
cose che in tal mestiero si maneggiano. Cosi il fer- 
raro e il mar Hello y il casadduogtio e le sacicce, il 
camacottaro e il colarino ec. 

Gonfr. col Mounaro Del CmARO, ca/nti del pop. nap., 
pag. 96, canto 32". j 



U. 

Quanno la matina 
Me metto la cammisa 
Lo pòllece chiappempise 
Me vene a mozzecà'. 
E mannagdo 'o pòllece! 
Maledillo o pòllece ! 
Mannaggia tutt' 'e pùllece 
Che me ve vèneno a mozzecà'. 

Anche questo si ripete, sostituendo a cammisa le altre 
parti del vestimento, e a chiappempise altre voci che 
facciano rima (consonante o assonante) con la parola so- 
li iuita. Cosi SI dirà il cauzonetto e 'mperfetto, lo sciam- 
merino e malantrino, il caujsone e 'mbroglione ec. 

m. 

1. Povero sciarapagauolo (o campagnuolo} 
Ch' ha perzo la cammisa, 

E pe l ammore 

Se r ha tornata a fa'. 

Se scammisò. 

2. Pòvei^o campagnuolo 

Ch' ha perao lo cappiello , 
E pe' r ammore 
Se l'ha tornato a fa'. 
Se scammisò, se scappellò. 

Qui, come si vede, segue enumerando tutte le altre parti 
del vestimento, aggiungendo sempre all' ultimo verso un 
nuovo verbo indicante la perdita di quell'oggetto di ve- 
stiario: per es. Se scammisò, se scappellò, se scappottò, 
se scauzonò, se scalpellò, ec. 

IV. 

Raccolta in Lettere fra i contadini 

1. Esce lo ragno da dinto a lo ragnito. 

Se vo'- magna' la mosca da dinto a lo moschilo. 

E ragno e mosca, 

Segnore mo me nce 'nfrosca, 

Sempe lo ragno se vo' magna' la mosca. 

2. Esce 1' auciello da dinto a 1' aucellito 

Se vo' magna' lo ragno da dinto a lo ragnito. 

Auciello e ragno e mosca, 

Segnore mo me nce 'nfrosca. 

Sempre lo ragno se vo' magna' la mosca. 

Poi viene un uccello di rapina che si vuol mangiare 
r augelletto, e cosi via di seguito, mostrando questa can* 



10 



zone che in questo mondo sempre il più forte opprime il 
più debole. Ad ogni nuova. strofa va crescendo il terzo 
verso coirenumerazione degli esseri già nominali. Mi duole 
non ricordar bene la serie di questi, percliè mi pare che 
questo canto non solo è schietta creazione popolare ; ma 
contiene una fina osservazione morale. 

Emmanuele Rocco 



I POETI NAPOLETANI 

Nella Nazionale dì Parigi 

Nel precedente numero, pubblicando una let- 
tera del nostro amico e collaboratore Prof. Man- 
datari, abbiamo richiamata V attenzione de* let- 
tori sopra una lettera al Mandalari diretta dal 
Dr. Mazzatinti, che con grande amore si occupa 
delle cose nostre nella Nazionale di Parigi , e 
che dava notizia d* un codice ivi esistente , nel 
quale erano contenute alcune poesie erotiche di 
vario metro e parecchi « Strambocti » in dialetto 
napoletano. Quella lettera e questa notizia hanno 

Provocato, su questo argomento, una lettera del 
Ih. Dr. Antonio Ive. 

Noi la pubblichiamo tale e quale, contenti che 
il nostro modesto giornale , fin dal suo primo 
apparire, dia l'opportunità di siffatte discussioni, 
nei solo interesse degli studi i. Il Prof. Manda- 
lari, al quale abbiamo fatto veder la lettera del 
Dr. Ive , ce ne manda una risposta. E noi an- 
che questa pubblichiamo, giacché, siamo certi, 
sarà in vantaggio della dialettologia, alla quale 
abbiamo consacrato le nostre povere forze. 

Egregio Signore^ 

Mi fo a pregare la di Lei gentilezza di voler dar luogo, 
in uno dei prossimi numeri del giornale, a queste mie quat- 
tro linee che sì riferiscono airultima lettera diretta a Lei 
dal prof. Mandalari , e che concernono un codice arago- 
nese, scoperto, come in quella è detto, dal prof. Mazzatinti 
a Parigi. 

lo , trovandomi nel 1878 a Parigi con un incarico del 
ministero delF istruzione pubblica austriaco di visitare, cioè, 
quegli istituti e praticare delle ricerche a quelle bibliote- 
che, ebbi la fortuna d'imbattermi alla Biblioteca Nazionale, 
in parecchi codici italiani non registrati dal Marsand nel 
suo catalogo — Cito , ira gli altri , il romanzo del Fiora- 
vanie in un dialetto del mezzodì dell' Italia ed anche in 
quello, segnato appunto col N."* 1035, di cui parla il Maz- 
zatinti. Questo codice, che, oltre a degli strambotti e delle 
canzoni, contiene in fine anche delle lettere, io lo copiai 
per intero, ed un anno fo scrissi al prof. Alessandro D'An- 
cona di Pisa (che può render testimonianza del fatto) man- 
dandogli una distinta dei nomi e dei capiversi , e pregan- 
dolo di sapermi dir lui , che in fatto di letteratura popo- 
lare non ha chi V uguagli in Italia, o di far fare da altri 
delle ricerche a Napoli , per sapere se tali poesie di detti 
autori (Galiotho, Spinello, Troculo, de Jennaris — del qual 
ultimo sono pure le lettere) fossero conosciute o meno. Il 
prof, di Pisa colla gentilezza che lo distingue scrisse an- 
che laggiù, credo , al Minierì - Riccio ; ma ne ebbe rispo- 
sta negativa. ^^ 

Io allora mi mis(i a studiare le poesie in questione, ben 
inteso dal lato del dialetto^ che da quello della stona, nes- 
suna luce mi fu porta; e già era presso a condurre a ter- 
mine il lavoro, che pensava di mandare quanto prima ad 
un periodico che s' occupasse di letteratura popolare del 






Mezzodì deiritalia (airArchivio del Pilrè p. e. dacché della 
esistenza o della prossima apparizione del Giambattista 
Basile non sapea verbo), quando lessi appunto in quest'ul- 
timo periodico della scoperta del Mazzatinti. 

Ora, io non pretendo con ciò defraudare l'egregio e va- 
lente professore del merito delle sue scoperte che ho sa- 
puto essere molte e delle più interessanti ; ma , Ella ca- 
pirà benissimo com' io sia in certa qual guisa in diritto di 
rivendicare (se cosi m' è lecito esprimermi) per me quella 
che concerne il ms. 1035 (numer.'>« nuova) in questione. 

Del resto , io sarei ben lieto di mettere a disposizione 
del nuovo periodico , che Ella dirige , il ms. delle poesie 
napoletane insieme al mio lavorietto. 

Nella certezza ch'Ella vorrà appagare questo niio desi- 
derio , La ringrazio anticipatamente e me Le protesto coi 
sensi della più verace stima 

Rovigno (Istria), 24 gen. 1883. 

devot.*^o 
Dr. Antonio Ive. 

Ed ecco, ora, la lettera del prof. Mandalari: 

Caro MolinarOf 

. Ho letto la lettera del eh. dr. Ive, e riman- 
go un po' sorpreso. Io non ho mai parlato d'una 
scoperta Mazaatinti^ fatta nella Nazionale di Pa- 
rigi. Partecipandovi quella notizia nel solo in- 
teresse degli studi, e non nello interesse perso- 
nale di chicchessia, ho avuto in mente, e 1' ho 
anche detto, di sollecitare uno studio, possibil- 
mente completo, su quella notizia. Come si può 
infatti parlar di scoperta , quando il Codice è 
nel catalogo, ha una numerazione, è visìbile a 
chicchesbìa , esiste . insomma , scientificamente 
in una delle biblioteche più note e più frequen- 
tate di Europa? 

Nondimeno il eh. dr. Ive vuole lui il merito 
della scoperta. Padrone. Ma , di grazia, chi la 
sapeva questa scoperta dell' Ive ? Ha egli pub- 
blicato in un giornale , in un opuscolo , in una 
recensione, in una linea di stampato questa no- 
tìzia? No. L'ha solo, a suo tempo, fatta sapere 
all'illustre mio amico e maestro D'Ancona. E se 
tutto questo è vero, e se è vero che un codice 
catalogato si possa scoprire, è anche vero, in que- 
sto caso , che il Mazzatinti , al quale gli studi 
dell' Ive non erano noti , è anche vero che al 
dr. Mazzatinti un po' di merito bisogna pure 
che vada attribuito. Dicono che prima di Cri- 
stoforo Colombo sieno andati, in America, i Nor- 
manni. Ma Cristo^ro Colombo non lo sapeva, 
quando scoprì un mondo nuovo, ed ebbe, sem- 
pre, il merito della scoperta. 

Ed io con tutto il cuore lodo il Mazzatinti, giac- 
ché, per opera del Mazzatinti, conosco, ora, in 
gran parte, il Codice, di cui posso subito dare 
un saggio a' lettori. 

I nomi de' poeti son questi : 

1. Francisco Spinello; 

2. Colecta; 

3. Domino leonardo lama; 

4. Francisco galìocto ; 

5. Petro Jacobo « ed altrove » P. Jacobo de 
Jennarijs » ; 

6. Michael Richa; 

7. Johanni de trocculi ; 

8. Cola de Manforte. 

II codice, é, senza dubbio, del secolo XV ed 



11 



è certamente aragonese. Il Mazzatinti , che mi 
ha dato tutte queste notizie, dice che nel prin- 
cipio del primo foglio c'è la nota « Cxlmj » 

Trascrivo , non sapendo far meglio , quanto 
mi scrìve il Mazzatinti : 

<c A mezzo il volume cessa la copia delle poesie in va- 
rio metro e degli strambotti, per dar luogo a certe lettere 
amorose: alcune sono fiinfnate da « lo vostro cordialissimo 
Conte de populi». Una ha la data delPottobre 1462. Un'al- 
tra comincia : « Solese un proverbio Antonio mio » 

Altre portano in fine il nome di « Jacopo de Jennaro ». Lo 
slesso amanuense, che copiò le lettere, trascrisse le poesie 
pre<»sdenti, che occupano la metà del Codice — A queste 
notìzie fo seguire alcuni saggi : dopo poi Le dirò ciò che 
ho in testa di fare di un tal Ms. che , a parer mio , è dì 
sommo valore. 

Di Francisco Spinello — Strambotti N." 3 

1. Non vale pò la morte medecina 
Nello pentire alle gente dannate 
Fora cne del corpo lalma meschina 
Non torna ad npiserere de li fratre 
Nullo crudo animale de rapina 
Vccide lifiglioli cha criate 

Tu sola si la cane patarina 
Che me consume sencza cantate 

2. Se la mia morte te fosse reparo 
Con le mey mano me la piglyaria 
Serria ad ogne uno manifesto et chiaro 
Chel fa la donna dela uita mia 

Lo afflicto corpo tribulato amaro 
Le pene et li trauagly fenerria 
Le lengue chedeme tanto parlaro 
Serriano fora dogne gelosia 

3. Como sencza la vita poi campare 
Como poy sencza core ben volire 
Como sencza anima te porray saluare 
Como poi sencza lochi ben vedi re 
Como sencza la lingua poi parlare 
Como te poi sencza corpo tenire 
Como sencza de te porragiu stare 
Sectu may datu lessare e lauire 

Del « Colecta » — Sti'ambotto 

So ricco et sano pouero et malato 
louene et vechio so debile et forte 
Slayo ali inferno so in celo beato 
Non sto da dentro ne fora le porte 
Amo et non amo yeduto (?) et amato 
Hagio pagura et non temo la morte 
Vegliante dormo a la lerta sto assectato 
Canto piangendo con pene deporte (?). 

Di « Frcmcisco gaìiocto » — Strambotto 

Pasco la vita mia solo de pianto 
Daccesso foco il mio core se passcie 
Vedua lanima mia dun nigro manto 
Sempre andara per finchel corpo lasscie 
Rencressciene a sto mundo stare tanto 
Ma ad cossi va chi isfortunato nascie 
Da bora i nauti li sospiri mey 
Dirano sempri roiserere mey. 

Di « Piietró) Jacóbo de Jennariis » — Strambotto 

Nigri serrano li mei uestimenti 
poy che si nigro e tanto lo cor mio 
Poi che me bruso intra lu focu ardenti 
Per quella donna camo e che desio 
"-et illa che deme non cura nenti 
Como sio fosse un retico indio 
non poczo durary tanti turmenti 
dora dauanti aiutarne tu dio. 

La Canzone dì « Cola de Manforte » — comincia: 

Sio te amo più che ammi 
Tul conusti al mio colore 
Chi già moro per to amore 
E dici che uese dacti.... ». 



A questa Canzone seguono due risposte della « Volun- 
brella » ovvero della « bolombrella » nello stesso metro. 
Una Canzonetta del med."" com. 

e Dessamato et amo multo 
Et amero questa mia stella 
Et lei ongni ora se fa più bella 
Et più. superba nel so uolto.».. » 

Una Canzonetta di « Michael Bicha » — Comincia: 

Ad hunora dio lauora 

Tale uolta me agumento 

Pero non me de scontento (non m'è di....) 

De mia sorte e mia ventura.... » 

Una Canz. di « Johanni de Trocculi » com. 

Viua Vìua e may non mora 

Questa mia gentil Signora 
Viua Viua Viua Viua 
Questa mia liezadra diua 
Degni mal sia sempre priua 
La biasiema uada fora 

Viua Viua ecc. 
Onì stanza ha questo ritornello 

Del medesimo è il seg. Strambotto , che io scelgo fra 
gli altri : 

Ite suspiri mei dauanti aquella 
Lizadra donna chela mio cor possedè 
E dirriti ala so facce bella 
Chel le uenuto el tempo de mercede 
La domandatela promessa fede 
De poner lo mio core in libertate 
Omni suspiri haver recomandate. » 

Come i lettori potranno vedere, se voi pubbli- 
cherete questa Ietterai la inspirazione dialettale, 
in tutti questi saggi, è evidentissima. E c'è an- 
che un certo movimento lirico, specialmente ne- 
gli « strambocti » di Francesco Spinello. Il quale, 
senza dubbio, dovett' essere un petrarchista ap- 
passionato. Notino i lettori la chiusa del primo 
strambotto, che io ripeto con la moderna orto- 
grafia : 

« Nullo crudo animale di rapina 
<c Uccide li figliuoli ch'ha creatr, 
« Tu sola se' la cane paterina 
« Che mi consumi senza cantate. » 

n concetto del secondo strambotto è diffuso 
ne' canti del popolo. É 1* amante che vuol mo- 
rire d' amore, non potendo più soffrire le pene 
nel « corpo afflitto , tribolato ed amaro » In un 
canto reggino, (Cfr. la mia Raccolta, pag. 231, 
num. 74) l'amante dice : 

c( Morirò, morirò pi ccunlintarti, 
Forsi lu me' morlri è la lo' sorti » 

Spinello dice la stessa cosa. Vorrebbe con le 
sue stesse mani prendere la morte, e, morendo, 
attenuare le pene della donna amata. Ed è assai 
bella la chiusa « Le lingue che di me tanto par- 
larono , Sarieno fuori d'ogni gelosia ». 

Il petrarchismo è evidente anche nel terzo 
strambotto. Vesserà e Vaoere del poeta vengono 
dalla donna amata. Il poeta non può , quindi , 
vivere senza di lei. 

Lo strambotto del Colecta è importantissimo. 
C è quivi una parola dialettale assolutamente 
reggina, la quale , a quanto io sappia , non ha 
riscontro in alcun dialetto meridionale. Il dr. 
Mazzatinti V ha segnata con un punto interroga- 
tivo. Ma la parola t Hhiédiri » (v. a. Aborrire) 



12 



apparisce nel mio « Lessico delle parole più no- 
tevoli del dialetto calabro-reggino d a pag. 320. 
Questo saggio del « Colecta » è tutto dialettale. 
Lo stesso concetto è espresso in un canto reg- 
gino (Cfr. la mia Race. png. 234, num. 79; pag. 
239, num. 89). 

E potrei continuare, a questo modo, le osser- 
vazioni ed i raffronti. Ma questa è cosa che mi 
riserbo di fare, aiutato in questo studio dal mio 
caro amico dr. Mazzatinti, quando avrò sott'oc- 
chio tutto il Codice 1035. 

Intanto , caro Molinaro , permettete che io , 
prima di dar termine a questa lettera, ringrazii 
pubblicamente il dr. Mazzatinti. Al quale devo 
a notizia ed il saggio , che vi mando. Egli è 
uno di quei carissimi giovani , che hanno un 
bell'avvenire davanti a loro, ed a' quali la Patria, 
riconoscente, deve esser larga d*incoraggiamenti 
e d'aiuti. 

Credetemi col solito affetto, sempre 
Napoli, 10 febbrajo 83. 

vostro 
M. Mandalari. 



COSTUMI SOEANI 

Nei piccoli centri 1* aura della capitale è il 
canone direttivo del fare e dell'andare; tutti, a 
mano a mano dirozzandosi, non fanno chf^ sci- 
miottare quel che s' a^ita nel maremagnum, 
concepiscono un certo odio per la rozzezza di 
cui si scrostano, e tutto quello che ne risente è 
rifiutato dagli spiriti proprediti. Pare che il lo- 
ro sentimento del bello si limiti a quel che por- 
ge la gran città ; il contadino non presenta 
che bruttezze; la natura vergine, nel campo del 
bello, resta esclusa dal convenzionalismo dei 
gusti. Così pel linguaggio: si parla il dialetto, 
ma, apprendendosi la lingua si abborre ; quel 
parlare che pel rude villano esprime ogni lieve 
sentimento, ogni pensiero, ogni immagine con 
tutte le gradazioni di sfumature e di scorci, va 
sempre perdendo le sue forme genuine, fino a 
trasformarsi in un italiano scorretto. Onde avvie- 
ne che si hanno a schivo i bei colossi della 
campagna, e si vorrebbe eh' e' fossero per lo 
meno de' Melibei ; ma sol considerando come 
il loro bizzarro vestito trattiene spesso fra noi 
de* pittori stranieri che li studiano per mesi, ri- 
traendoli in ogni posa, si comincia a capire che 
almeno nel vestito questa gente offre il suo la- 
to all' arte. E poi avvicinandoli e stando tra 
loro, si prova che non è nel solo vestito che 
presentano del caratteristico e dell' artìstico. 
Quella testa fiera, bruna, piena di salute e di 
una certa selvaggia alterezza, con quel cappello 
a sghembo inghirlandato artificiosamente da 
una penna di pavone con l'occhio a destra quasi 
nappa; quel petto con il collo della candidissi- 
ma camicia largo e ricamato , che risalta su- 
perbamente sul vivo scarlatto del panciotto; 
quella giacca di panno bleu gettata così alla 
biricchina sulla spalla ; que' calzoni di velluto 
corti, fino al ginocchio, e quella calzatura con 
le cioce e con le corregge di cuoio nero girate 



sempre tredici volte (le tridece abbodature) in- 
torno alla muscolosa gamba ; non sono che la 
prima manifestazione del loro carattere. Rivelano 
già una natura maschia, svelta, balda, indomi - 
ta, il cui op'^rare ricorda l'ardimento e la per- 
tinacia di Chiavone, di cui furono o sarebbero 
stati seguaci. Forti, ossuti, alti, lungi dal pae- 
se conservano quanto vi è stato e v'è di carat- 
teristico nel contadino sorano. 

Lasciati poppanti in braccio a (jualche sorel- 
lina d' un tre anni , sono appagati d' un po' di 
latte la mattina ed il giorno dalle infaticabili 
madri intente a lavori al tutto virili. A due 

tre anni hanno ta loro occupazione : sono 
tanto cari quando co' mutandini bianchissimi, 
reggendosi appena, frenano sull'argine l'agnello. 

Vengon su floridi e nerboruti, e col crescere 
acquistano un che di barbaresco: tra loro par 
di stare nel medio evo, al tempo del predomi- 
nio della forza. Le gare, le dispute, i confronti, 
i pregi s'attengono alla potenza delle membra. 
Regna una passione per le armi ed una certa 
braveria, ^^edeteli nella fiera cavalleria rusticana 
di questa sfida: 

Rapjazza, commattiu* è fra glie amante 
'Ne' 'na lancia chissà core pungente; 
Tutte se brave che se facisser' avante, 
Ga ce trovene chist' écche (1) presente; 
E tempe le voglie dà', tre pass' avanle , 
Fin' a che esce la stella jucenle : 
All'alba chiara se sente 'ne mare (2) chiante, 
A cacche parte so' faitte glie 'nnocente. 

Entrando nelle loro casipole s' apprende di 
botto l'indole brigantesca dagli schioppi sospe- 
si alle affumicate pareti, dalle pistole a cariche 
potenti, dai coltellacci a molla fissa. 

Quando le sere si sta sull'aia presso al ca- 
sino del proprietario, è una scena pittoresca. 

1 più a terra, in posizione di accampamento: 
eh*» disteso bocconi, chi sdraiato, chi seduto al- 
la turchesca, chi dritto su d' un ginocchio col 
mento appoggiato alla palma ; al»ri sul muric- 
ciuolo, o dritti con le braccia conserte e con le 
spalle a qualche mucchio di paglia che torreg- 
gia con ma pentola riversa al sommo; chi pi- 
pando,' chi ripo?;ando, chi dormendo. Qualche 
guardiano con lo schioppo, e col cane raggo- 
mitolato ai piedi ; alcuni monelli sempre ma- 
neschi , d saltarsi addosso , a rincorrersi , a 
lottare. 

V* è il canuto che pipa, e col volto ancora 
accigliato addita, raccontando, qui il sito dove 
gli fu morto il fratello dalle armi nazionali, lì, più 
in fondo, la macchia dov'ebbe luogo lo scontro 
con l'esercito, laggiù il cespuglio dove fu arre- 
stato il tale, più lontano la casuccia dove fu fu- 
cilato il U\ altro, verso il monte la casa cosid- 
detta abbruciata , perchè così ridotta da' bri- 
ganti. Quante volte udendo que' racconti così 
caldi di furore battagliero, avrei voluto starme- 
ne da parte a stenografar le loro narrazioni 
piene di potente verità e di colorito locale !.. 
Fanatici aella coccarda rossa^ sono i Vandeesi 



(t) Lat. hi e, aui 



(2) Un mare ài pianto, molto pianto, e cosi sempre. 



13 



d* Italia; come questi nelF ottantanove, fedeli ai 
Borboni, non mossi, ma certo non ripresi dal 
clero, reagirono nel 1860 contro la rivoluzione 
per sostenere il trono e l'altare, o meglio Fran- 
cescheglie e Monsignor Montieri. Forti nelle 
montagne, ebbero il loro Charette nel prudente 
Chiavone (Luigi Alonzi); venendo in Sora fecero 
tremare a verga molti cittadini che passavano 
per rivoluzionari, massime signori; a' quali, fat- 
tane una lunga schiera, legati a due, avrebbero 
data la morte, se il Lagrange, sopraggiungendo, 
non l'avesse finita con una delle sue lavate di 
capo e con uno stupido sermone dello scemo 
Fra Francesco. 

Venendo a scontri con la Guardia Nazionale 
e coi soldati dell'esercito fra cespugli e rocce, 
col rinforzar di questi ultimi, finirono anch'essi, 
come gli Chuans , in una banda fuggiasca che 
si spense con la morte del suo Cattreau, fatto 
fucilare presso Trisuldi in quel di Veroli nel 
giugno del 1862 dal general Tristany: salvo la 
verità* Dico salvo la verità, perchè i contadini 
lo fanno in Baviera presso il suo propugnato ex 
sovrano; taluno anzi accerta e giura essersi 
Chiavone più volte recato a riveder la famiglia 
e la Selva (1) , suo memorabile campo di bat- 
taglia. 

(Continua) 

Vincenzo Simoncelli 



I canti popolari nell' Opera bufflà. 

{Continuazione) 

XLHL 

Pace non pò trova' la palommella 
Si da lontano sta chi Ilo eh' adora ; 
La gelosia l'affanna e la nìartella , 
E lo sospetto po' r arnia V accora. 

(Trincherà— Zi 'nnammorate cerreoate, 
1732, a. Il, se. 8') 

D* evidente origine letteraria. Dicono 
quelli che la cantano: « Spassdmmoce 
cantarmo a fatecare ». 

XLIV. 

La palommella va pe la campagna 
Lo palommiello ashianno sperta e sola; 
E 'nche lo trova po' se nce accompagna, 
Non se lamenta cchib, ma se conzola. 

E sse conzola e bba. 
Lo palommiello mio 
Chi mme dice, o Dio, addo* sta ? 

(Federico - L'Ottavio^ 1733, a. 1, se. 2*) 

XLV. 

Fegliole 'nnammorate, 
Ammore si ve coce. 
Penate e sopportate: 
Ga lo penare è doce 
Ne' è gusto a sopporta'. 



(1) Frazione di Sora (Prov. di Terra di Lavoro) 



Mmescato a cchello ffele 
Gh' Ammore dà a no core, 
Nce sta no cierio mele. 
Che se fa addesea'. 
Fegliole 'nnammorate, ecc 
Ghi sape cchiù penare, 
Chi cchiii arreventa e stenta. 
Chi sa cchiù sopportare, 
Chella cchiii sape ama'. 
Fegliole 'unammorate, ecc. 

(Ib. a. Il, se. 15*) 

Dice l'attrice che la eanta: 

« Patarria, morarria e farria corame 

Dice na canzoncella 

Oh' a Napole sentie, eh' è tanto bella. » 

XLVL 

Sotto un pe'... sotio un pede de percoca. 
Bello do'... bello dòrmere che se fa ! 
L'aucellucce che fanno ngul ngul. 
Li canuzze che ianno bà bà. 

(Federico- Il Filippo, 1735, 
a. Ili, so. Il") 

XLVU. 

È bella la vajassa. 

Ma è cchiù bella la patro' ; 
S' ha pigliato lo core co U' arma, 

E mo se lo tene la tradito'. 

(Federico - Il Flaminio, 1735, 
a. 11, se. 16*) 

XLVIU. 

Fùjeme quanto vuoje, focetolella, 
Gh' io venarraggio appriesso co lo sisco. 

E co lo sisco e ba 
Puro a sta rezza mia t' aje cala'. 

(Antonio Palomba. - L'errore amoroso^ 
1737, a. IH. se. 10») 

XLIX. 

quanl'è buono l'amraore vicino. 
Si non lo vide lo siente parlare; 

Siente parlare e ba' 
Lo viecchio a fa' Taramore 
E' la cchiù bella smòfea ! 

(A. Palomba - Il marchese Sgrana, 
1738, a. 11, se. ultima) 

L. 

Fall' Ammore lanzatore, 
Va lanzanno pe' lo mare; 
E nce 'ncappano li core 
Mente stanno a pazzeare. 

(Trincherà - La Rosa, 1738, 
, a. 1, se. 1*) 

E un* evidente contraffazione 
letteraria. 



LI. 



Ghillo pesce che ba attuorno all'esca, 
Dinto maro non vole cchiii sta'; 

A lo maro d'ammore chi pesca 
Belli pisce nce sole piglia'. 

(Ib. a. I, se. 11*) 



14 



LU. 

E jesce da lo nido , 

mia palomma , 

E ba'; 

Lo palommiello liijo non vi' ch'assomma, 

Pizzichi inmini, chimminicà. 
Jesce, palomma mia. 

Non chili trecare, 

E ba'; 

Viene lo palommiello a conzolare, 

Nfarinolella nfarinolà. 

(Fededico- Inganno per inganno^ 
1738, a. I, se. 6') 

LUI. 



So' risoluto zingaro mme fare 
No cchiii me trommenla'.... 



LIV. 



(Ib. a. 1, se. 13') 



E lo mare che batte Y onna : 

La scajenza che te sprefoona. 
E Io mare e la marina: 

Che nce campe nzF a craje matina. 
E lo mare e la marenella: 

Che te venga la rogna e la zella. 
E Ilo mare e da Ilo mare. 

Che lo piello te pozza afferrare- 
Sciò sciò sciò: una, doje e tre; 

Pozza r tutto appriesso a tte. 

(Federico - Amor cuoi sofferen:;a^ 
1739, a. II, se. 14«; 

LV. 

La campagna mo' ch'è bella, 

Vienelenne, o rennenella. 

Si lo nido le vuoje fa', 

E ttihtì tirilòmmola. 
Mo' ch'è bella la campagna, 

A ttrovare la compagna 

Palommiello, puoje vola'. 

E ttirill tiritòmmola. 
E bujc àutre 'nnammorate, 

Ch'abbroscìale co lo core, 

Mo' l'ammore è bello a ffa'. 

E ttiriti tiritòmmola. 

(Federico— L'A/trforo, 1740, a. 1, se. 3") 
Diee un attore all' alti*o : « Sona tu, ca 
cant'ìo chella canzona Che dice: La 
campagna mo* eh* é bella. 

XVL 

sia jomu o sia notti, afflittu e lassù, 
Àùlru non.fazzu, oimè, che lagrimari; 
E per undi caminu e pr' undi passu, 
Fazzu de st'afflìtt'occhie un largo mari. 

Ad ogni lignu ad ogni duru sa.ssu, 
Cuntu li peni mei e lu miu stari; 
E gridu pr'ogni locu e pr'ogni passu: 
St'amara vita mia quant ha durarì ? 

{Ib. a. Il, se. 16*) 
Dice un attore: « Voglio can- 
tare na secelcana , Propeo 
a la desperata. » 

Lvn. 

Dapo' ch'Amraore 'm pietto m'ha ferulo, 
E mm' ha sro core conzommalp e arzo, 
Mme lene mente e ride lo cornuto, 
E sse sta co na tubba e co no sfarzo. 



(Contintui) 



Io so' fatto chiù scuro de papulo, 
E ssempe stongo de salute scarzo; 
E pe nn'avere a chi cercare aiuto, 
Strillo comm'a na gatta quann'è marzo. 

E quann'è marzo e mare, 
E bièneme tu, nenua, a conzolare; 

A cconzolare e sole, 
Ga non è morta chi bene te voi e. 

(Ib. a. 1. se. 3*;. 

Lvm. 

— Comm'a na palommella abbannonata, 
Chiagno la vita mia scontenta e sola. 

— Non sta', bellezza mìa, cchiii desperata, 
Ccà è palommiello tujo che te conzola. 

fA. Palomba - Violante, 
1741, a. Ili, so. 8V 

Baccólse Michele Scherillo 



'O CUNP 'E PERUÒZZOLO 

RACCOLTO IN NAPOLI 

da VINCENZO DELLA SALA 



U. 

Ce steva 'na vola 'na mamma, che teneva nu figlio sce- 
mo, ca se chiammava Peruòzzolo. 

Nu iuorno 'a mamma dette 'na pezz' 'e tela 6 figlio, e le 
dicette accussì: 

— Vìnnela (1) a chi fa poche parole. 

— Peruòzzolo se meltett a tela 'ncuollo, e se ne iett'al- 
luccanno: 

— Chi se vo' accatta' 'sta tela ? 
Chiù d' un' o' chiammaie: 

Bell' o', (2) tu 'a vinne 'sta tela ? 

Peruòzzolo, cumm' 'e senteva parla' , avutav' 'e spalle e 
se ne leva. 

— ■ No, nun 'a vengo (I) a te. Tu tiene chiàcchiere as- 
sale, e mamma m' ha ritto ca i' l'aggi' a vènner' a chi fa 
poche parole. 

Cammina cammina, le cugliette notte. P' 'a via nu' cam- 
menava chiù 'n' ànema, e Peruòzzolo s' era stancato. 

Arrivale vicino a 'na stàtu"e marmo. Isso, crerenno ca 
chella stàtua fosse 'n ommo, siccome era scemo , dicette 
'nfra iss'e isso. 

— Chisto cà è nu buon' ommo; mi' fa chiàcchiere, nu' 
m'addimmanna niente, e i' a isso voglio vènner' 'a pezz' 'e 
tei' 'e màmmema (4). 

Ce s' accuslaìe, e le dicette: 

— Beli' o', 'a vuò' 'sta pezz' 'e tela ? 

'A stàtua, cumm'era naturale, nu' rispunneva e 'o pòvero 
scemo rebbrecaie: 

Beil'o', 'a vuò' 'sta pezz' 'e tela? 

'Nfraìtanto 'na curn^cchia, ca steva accuvata (5) addere- 
t' à stàtua, seniènnelo alluce', (6) alluccaie pur' essa , fa- 
cenno: Cra era, 

'0 scemo, sentenn' 'a curnacchia, e crerenno ca foss' 'a 
stàtua che parlava, dicette 'nfacci' à stàtua: 

— Pe' li denare vuò' che bengo craie ? 

'A curnacchia seguitava semp' a di': cra cra. 
'0 scemo lassai' 'a pezz' 'e tela 'nterra, e se ne tumai' 'a 
d' 'a mamma. 

— Oi ma', i' aggiu vennut' 'a pezz' 'e lei' a nu buon'om- 
mo cumme tu m' he' ritto, ca faceva poche chiàcchiere. 

— 'E renare a do' stanno ? ricetl' 'a mamma. 

— - Chiir ommo m' ha ritto ca me li deva craie, e i' 
craie torn' a du isso, e me li faccio dà'. 



*A mamma nu' buletle sènter'àuto. (7) Le currette 'ncuol- 



lo, e quante ne vuò' ca so' cepolle; le rette nu zeffunn' 'e 



':ff 



15 



mazzate, ca le rumpeite Tossa, e le schianaie (8) 'e ccustale. 

— Mazzamarrone, scemo, sguaiato, stùpeto, animale, piez- 
z' 'e ciuccione, franfelleccone, rapesla, ca nun zi' buon' a fa' 
niente, rapuònzolo, babbasone, cetrulo, m'he' fatto pèrder' 'a 
pezz' 'e tela. Va trov' a chi l' he' dato! 

'0 pòvero scemo fuieva pe' tutt' 'a casa pe' nun arrecò- 
gliere chillu sacch' 'e mazzate, càuc' e pònie, che le dev' 'a 
mamma, e alluccava, e ogni bota ca ne tuccava quaccuna 
alluccava: 

— Dimane po' vedarrai quanta renar' i' te porto! 

'À mamma nnn 'o stev' a sèntere , e ce ne deva ca ce 
ne deva. 

Quanno fui' 'a matina , Peruòzzolo se ne iette vicino a 
cheila stàtua, a do' aveva lassai' 'a pezz' 'e tela, ma 'a pez- 
z' 'e tela nun ce steva chiù. 

Peruòzzolo, tutto dispiaciuto, se ne turnai' a d' 'a mamma, 
e chesta, verenno ca isso nun l'aveva purtat' 'e renare, cum- 
m'aveva ritto, le currette 'ncuollo, e striglia ca 'o cuòrio è 
tuosto; l'addecriaie p' 'e fifeste. 

Peruòzzolo, cu' rossa rotte, se ne scappai' 'e pressa, (10) 
e ghiette *n' aia vota 'nfacci' 'a stàtua, p'èssere pavato. 

— Beli' o', tu me vuò' pavà' ? 

— Ma 'a stàtua nu' scialava (11). 

— E tu quanno me pava ? 
Ma 'a stàtua nu' scialava. 
Peruòzzolo nu' ne putette chiù. 

— Ah tu nu' me vuò' pavà', ricette arraggiato (12) e cu' 
r nocchi' 'a fora, che pareva nu diavolo. Aspetta , ca mo 
l' acconc' i'. 

Dicenne chesto, se fa arasso, (13) aiza 'na prela grossa 
quant' a nu paniell' 'e pane, e nei 'a menaie 'nfaccia. cu' tut- 
t' 'a forza. 

'A preta 'ntuppaie (14) 'nfacda a nu pizzo d' 'a stàtua , 
e 'a rumpette, e ce n'ascèltero tanta pezz' argienlo. 

Peruòzzolo runwnanette e' 'a voce' apeila cumm' a scemo 
ca era. Po' se cacciale 'a pètlor 'a fora, s' 'a rignette (15) 
'e pezze, e turnaie a d' 'a mamma. 

— Oi ma', oi ma', vi' quanta renare l'aggio purtato. Nu' 
me vàttere chiù. 

'A mamma , verenne tutte chilli renare, s' 'e pigliale e 
s'àslipaie, po' iett' accatta' (16) pass' 'e ficusecche, e quanno 
turnaie à casa, ricette 'nfacci 6 figlio : 

— Peruò, stati' attieni' 'a casa, f vaco 'ncopp' 'a loggia 
a spannerò (17) 'e panne. 

— Oi ma', va, e nun le ne'ncarricà' d' 'o riesto. 

— 'A mamma se ne ielle 'ncopp' a l' àsleco , e Peruòz- 
zolo, 'mmec' 'e fa' , cumm' aveva riti* 'a mamma , se ne 
iette 'n'ala vota vicin'a cheila stàtua , e se ietl'a piglia' 'o 
riesto d' 'e donare ca ce stavano, e se ne turaaie à casa. 

— Oi ma', oi ma', scinne 18) ca l'aggio purtato l' ati renare. 
'A mamma nu' bulette scènnere, e le menava pass ' e fi- 
cusecche senza fàiese abbedè' (19). 
Peruòzzolo se pigliav"e pass e 'e fficusecche, e alluccava: 

— Oi ma', scinne, ca chiòvene (20) pass'e ficusecche, e 
i' l'aggio purtato Tati renare : 

'A mamma, doppo nu poco, scennette, e Peruòzzolo le 
cunzignaie tutt' 'e renare, ch'aveva purtato. 

Quanno fuie 'a matin'appriesso, Peruò/zolo, cumme se 
scetaie, se n'ascetle d' 'a casa, e a quanta cumpagne suoìe 
truvava, le diceva : 

— Guè', nun zaie niente? T aiere aggio purtato tanta re- 
nare a màmmema, ca me rette chillo ca i' le vennette 'a 
pezza 'e tela. 

'Stu fatto 'o benette a sape' 'a puluzia , ca iette à casa 
'e Peruòzzolo, e buleva paglia pe'cienio cavalle. 

— A do' (HI) sta flglieio ? 

— Mo vene. Che bulite ? 

— A do' arrubbaie flglielo 'e renare ca te purlaie aiere ? 
Mente chiacchiariàvano, frasette Peruòzzolo, e 'a mamma 

ricette 'nfaccia a chille d"a pulizia. 

— Signurine micie, chisto è scemo. Addimroannàiele vuie 
slesso quacche cosa e bedite cumme ve risponne. 

— Be' , Peruò , dince nu poco quanno fuie ca purtaste 
tutte chilli renare a màmmeta. 



— Fuie chillu iuorno ca chiuvètlero pass' e ficusecche. 
Chille d' 'a puluzia a sentì' 'sii pparole, se mètten 'a rìrere 

e se ne ietterò. 
'0 iuorno appriess"a mamma dicetl'a Peruòzzolo: 

— Vire si me iruovo nu gallo, ca canta 'a notte : porta- 
millo. 

— Va buono, ma', 'sta sera t' 'o porto. 
Peruòzzolo asisette e se ne ielle cammenanno. 
Cammina cammina, 'ncuntraie a 'n ommo cu' 'na chitarra 

solto, che ghieva cantanno. Peruòzzolo se facett'arreto, e le 
menaie 'na preta, e 'o facetle muri'. Po' 'o carrecaie ncopp' 
'e spalle, e 'o purlaie a d' 'a mamma. 
Cumm 'a mamma 'o vedette, le dicelle : 

— Tu eh' he' fatto ? 

Isso, senza farse né ghìanco né russo, le rìspunnette: 

— Aggio fatto chello ca tu me dicisl'aiere. Tu 'o vulivo 
ca cantava, e chisto cantava. 

. E 'o scutuliava (2-2) pecche 'o vuleva Si' canta' pe' 
forza. 
'A mamma dicette : 

— E mo cumme facimmo? Si l'appur' 'a guardia, iammo 
carcerate tutte duie. 

— Oi ma', dicetl' 'o figlio, nun te méttere appaura. Me- 
nàmmel' ini' 'o puzzo. 

'A mamma, sapenno cumm' 'o figlio era chiacchiarone, 
'o facetle mena' rinlo 'o puzzo, ma 'o iett'atterrà' 'a notte 
rint' 'a campagna. Po' pigliaie a nu piécoro e 'o menaie 
rinl' 'o puzzo. 

'A matina, Peruòzzolo, cumm' ascelle d' 'a casa, truvaie 
nu piccerillo che ghieva chiagnenno, e diceva : 

— Tata mio, tata mio ! 

Peruòzzolo si ce accustaie e le dicette : 

— Quaglio' pecche chiagne ? 

~ Chiagno pecche pàtemo nun z' è ritirato stanotte à 
casa. 

— Quagliò', dicelle Peruòzzolo, pàteto ieva cantanno? 

— Gnorsi. 

— Viene cu' me, ca saccio i' a do' sta. F l'aggio me- 
nalo rint' a nu puzzo. 

'0 guaglione se mettette a strellà' chiù forte. Se truvà- 
vano a passa' pe' là cierti surdate, che, sentenn' 'o fatto, 
arrestàreno a Peruòzzolo, e buléttero èssere accumpagnat'à 
casa soia, pe' truvà' 'o pale 'e chillo piccerillo. 

Arrivai' à casa, ricelle nu surdato : 

— E mo chi ce seenne rinl"o puzzo? 

— Mo' ce scenn' i', rispunnetle Peruòzzolo. 

Se mettette rinl'a nu calo (23) e se facetle acalà' abba- 
scio. Doppo nu poco, ricette da là bascio: 

— Quagliò' , pàteto quanta piere teneva ? 

— Tata mio ne teneva duie. 

— E chisto ne tene quatto. 

— Quagliò, tuniaie a di' doppo poc' alo, pàteto 'a le- 
nev' 'a cora (24) ? 

— Pàtemo nun 'a teneva. Si po' l' é crisciuta stanotte 
i' nun 'o ssaccio. 

— Quagliò, lumaio a dimmannà', pàteto era peluso ? 

— No, tata mio, pile 'ncuollo nun ne teneva. 

— E nun zarrà isso, rispunnetle Peruòzzolo. 
Ma, doppo nu poco, turnaie addimmannà': 

— Quagliò, pàtet' 'e ccorn' 'e teneva? 

— Tata mio come nun ne teneva. 

— Va buono, chisto nun è isso. 

'E surdate nun putéltero chiù, e le dicéttero: 

— Sàglielo cà, fance abbedé' chi é. 

— Acalàteme 'na fune ca v'attacco. 

Quanno sagliètieno 'ncoppa chili' ànem' 'e piécoro , tutte 
quante se schiattàien' 'e rise. 

Quanno Peruòzzolo saglietle 'ncoppa, 'o Cummissàrio le 
ricette: 

— E chisto é chillo ca menaste aieressera rinlo 'o 
puzzo? 

— Chillo d'aieressera 'e ccorne nun 'e teneva: le sarran- 
no crìsciuto rint' all' acqua stanotte. 



16 



— E ba, ca sF nu scemo, dicett' 'o Gumraissàrio, e se 
ne iette. 



(1) vendita. (2) beli' uomo. (3) vendo. (4) mia madre. 
(5) accoccolata, (6) gridare. (7) altro. (8) spianò. (9) cuoio 
(10) di fretta. (11) fiatava. (12 arrabbiato. (13) si fa da 
lungi. (14) urtò. (15) riempi. (16) andò a comprare (17) 
sciorinare. (18) scendo. (19) vedere. (20) piovono. (21) Do- 
ve. (22) scuoteva. (23) secchia di legno. (24j coda. 



UNA LETTERA DEL TOMMASEO 

Quando, nel 1870, volevamo pubblicare i Canti 
napoletani , che poi videro la luce dieci anni 
dopo , ci dirigemmo all' illustre decano degli 
studii popolari, Niccolò Tommaseo, domandan- 
dogli un consiglio pel nostro lavoro: ed egli ci 
mandava, con esqaisita cortesia, la seguente let- 
tera; che non crediamo inutile pubblicare. 

L. MOLINARO DEL CHIARO 



« Firenze, 9 febbraio 1870. 



« Preg, Sig. 



<c Circa irenlacinque anni fa ero in Parigi, e avevo scrittore 
un Napoletano, che mi proffei*se canzoni popolari sapute a 
mente da lui e da taluni de' suoi; e io gli davo un centesimo 
per ogni verso. Ma ne usci un tale profluvio che mi convenne 
turare la vena. Erano in dialetto, ma non veramente popolari, 
le più. E a questo è da por mente, che nel fare popolaresco 
corrono di molti versi , ma non sono del popolo in quanto 
popolo è nazione. Non tanto dalla città quanto dalla cam- 
pagna conviene raccoglierli, e nelle città chiederii a quelli 
che vissero a lungo ne' campi o nelle terre minori, che non 
sanno leggere, e non amano fare i saputi. Se Ella, signore, 
non può andare da sé, ne afOatarsi colla povera gente, al 
che richiedesi e tempo e maniera, cerchi persone che pos- 
sano e vogliano. E indichi da che parte le vengono i canti; 
e se dall'uno all'altro paese è varietà, nelle note 1' accenni; 
e cosi le varietà , che riscontrasse ne' canti simili di To- 
scana usciti sin qui e d'altre parli. Per materie , al possi- 
bile, li disponga; e di quelli che portano qualche memoria 
storica tenga di conto , anco che siano de' più scadenti. 
Più parco in quelli d'amore; che troppa ne è l'abbondanza 
in Italia, e infausta troppo. Se d'una canzone due soli versi 
le paiano da dovere scegliere, dia soli quelli. Ma abbondi 
nelle costumanze de' luogi, e nelle tradizioni anche stilane; 
nelle quali è più storia e più poesia che non paia agli ac- 
cademici di mestiere. E di tale materia Ella ne raccoglie- 
rà forse tanta che ne riesca un lavoro da sé. 

Suo dev. 
Tommaseo » 



NOTIZIE 

Nel giornale Dos Ausland di Stoccarda , numero terzo 
di questo anno, il nostro redattore Dottor M. Scherillo 
ha pubblicato un articolo sulla Letteratura dialettale di 
Napoli. In esso passa in rapida rassegna tutta la produ- 
zione artistica del nostro vernacolo , fermandosi a lungo 
sul grande nostro novelliere Giambattista Basile, sul poe- 
ta eroico Giulio Cesare Cortese e sul lirico Sgruttendio. 
La rassegna non va oltre la fìne del secolo passato; per- 
chè c( la produzione dialettale posteriore e uu fiore rachi* 
tfco, tirato su a forza di calore di stufa ». 



Il dottor Ugo Rosa ba pubblicato un opuscoletto di po- 
che pagine suW Elemento tedesco nel dialetto piemontese. 
È il saggio d' un lavoro più lungo su quel dialetto , che 
il Rosa promette di dar mori quanto prima. 



La casa libraria fratelli Henninger di Heilbronn (Wur- 
temberg) pubblicherà nel marzo prossimo il primo volu- 
me d' un' opera dal titolo: XpOTTldcSta recueil de docu- 

ments pour seroir d t elude des traditions populaires. 

Chi brama associarsi , si rivolga agli editori, diretta- 
mente. 



Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dal signori : 



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36. 



Capasso Comm. Bartolommeo — Napoli. 

Gattini Conte Giuseppe — Napoli. 

D'Ovidio Prof. Francesco — Napoli. 

Cangiano Aoo. Francesco — Napoli. 

Miola Prof. Alfonso — Napoli. 

Giacchetti Teodorico — Napoli. 

V itolo Giuseppe — Napoli. 

Guerrasio Giuseppe — Napoli. 

Pesce Cao. Ernesto — Napoli. 

Gattola Aov. Nicola — Napoli. 

Barbatelli Ave. Francesco — NapoK. 

Minervini Comm. Giulio — Napoli. 

Tancredi Comm, Michelangelo — Roma. 

Conte -Aro. G-iuseppe —Napoli. 

Tavassi Vincenzo — Arienzo. 

Padiglione Comm. Carlo — Napoli. 

Soldano Vincenzo — Napoli. 

De Gennaro Ferrigni Prof. Americo — Napoli. 

Ive Dottor Antonio — Rovigno. 

Crispi signora Lina — Napoli. 

Modfestino Cav. Alessandro >- Napoli. 

Bizzarro Pi"2f- Salvatore — Napoli. 

Procaccini Don Ferdinando — Napoli. 

Mirabelli Avo, Gennaro — Napoli. 

Molinaro Cao. Domenico — Napoli. 

Saggese Raffaele— Napoli. 

Morosi Dottor Giuseppe — Firenze. 

Arcoleo Prof. Giorgio — Napoli. * 

Flauti Cao. Vincenzo — Napoli. 

Imbriani Prof. Viltorio — Napoli. 

Capone Giulio — Napoli. 

Galante Prof. Gennaro Aspreno — Napoli. 

Di Mauro Alfonso — Napoli. 

Zenatti Dottor Albino — Roma. 

Petitti Barone Pompilio — Napoli* 

Conte .4oo. Pasquale - - Napoli. 



Pagheranno il prezzo d'abbonamento, alla flne di decetn- 
bre 1883, le seguenti Biblioteche 

37. Biblioteca di S. Martino in Napoli. 

38. Biblioteca Nazionale di Napoli. 

39. Società di storia patria napoletana- Napoli. 

40. Biblioteca musicale di S. Pietro a Maiella— Napoli. 

{Continua) 



I 



LUIGI MOLINARO DEL CHIARO — Direttore 



G AETANO MOLINARO — Gerente responsabile 

Tipi Fratelli Garioccio S. Pietro a laitlla 3i. 



ANNO I. 



Napoli, 15 Marzo 1883. 



NUM. 8. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ASBOVIàXSSTO ASmO 



Per r Italia L. 4 — fisterò L. O. 

Un numero separato oentesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
8i comunichi il cambiamento di re- 
sidensa. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L MOUNARO DEL CHIARO, Direttori 

I. lANDALAU. I. SGHKmLO, L. COSSSU, 
0. àMàUl, V. DBLU SALA, V. SDIOIGELU 

KidiMori 



s=^ 



A7TEBTSNZB 



Indirizzare vaglia, lettere o manoscritti 
al iMrettore linii^i Hallnara nel 
Chiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
cbino, 56. 



SO]!^Mi%.RIO 



Credenze e costumanze napoletane ora dismesse (B. 
Capasso ) — I canti popolari nell* Opera bujffa ( M. Sche« 
RiLLo) — Stambalone (L. Correrà) — Cunf 'e Giuseppe 
(G. Amalfi) - Canti di Buonabilàcolo (F. Brandileone) - 
Costumi sorani ( V. Simoncblli ) — Notizie -r Necrologia 
(L. MoLiNARo Del Chiaro) — Posta economica. 



CREDEKZE E COSIDMIE NAPOLETANE ORA DISMESSE 

Ho in animo di raecogliere e notare in questo giornale 
le credenze e le costumanze invalse nei secoli scorsi in Na- 
poli ed ora dalla progredita civiltà condannate o abolite. 
Esse senz' alcun dubbio fanno parte della nostra storia e 
giova ricordarle, perchè non rade volte spiegano o deter- 
minano certi fatti in quella narrati, e sempre fanno meglio 
rilevare i tempi , cui essi fatti si riferiscono. Comincio da 
una superstiziosa usanza del secolo XVI. 

1. 

Innanzi alla Chiesa parrocchiale dei Ss. Giovanni e Paolo, 
ora volgarmente chiamata di 8, Giovannieìlo agli Otto- 
calli, esisteva in quel secolo nel mezzo della via una co- 
lonna di marmo. La regione, che presenlemenie è tutta po- 
polata di case , ei*a allora affatto disabitata e dicevasi fin 
da tempi antichissimi Campo di Napoli o Campo Na- 
poletano (l). Perchè questa colonna ivi si trovasse non 
saprei dirlo con certezza. Forse era una di quelle già col- 
locate nelle vie ad indicare le distanze milliarie, forse an- 
che, secondo che io sospetto, era il rudere superstite di 
un tempietto o edificio rotondo ( Trullas, Truglio) , che 
mezzo rovinalo in quel sito vedevasi ancora nel secolo XII (2). 
Checché ne sia certo è che la colonna mezzo coperta dal 
terreno aveva dato occasione ad una superstiziosa costumanza. 

Allorché i massoH e gli ortolani del nostro contado de- 
sideravano buon tempo o pioggia per le campagne da essi 
coltivate, andavano dal vicario dell Arcivescovo e dimanda- 
vano che si facessero processioni votive per ottenere la gra- 
zia dal cielo. Quindi, se ci era bisogno del buon tempo, il 
vicario con tutto il clero si oortava processi onalmen le a 
S, CHovanniello agli Ottocalliy ed ivi Giunto girava con 
la processione a sinistra tra la colonna (il cui capo si tro- 
vava allora discoverto) e la chiesa suddetta. Poscia diceva 
l'orazione di rito per la serenità dell'aria e tosto la grazia 
ottenevasi : le nuvole si dileguavano ed il cielo si faceva 
bello e sereno. Invece se occorreva la pioggia, !a processione 
girava a destra tra la colonna medesima ed il lato della via 
che andava verso il mare, ed indi, recitata dal vicario Tora- 
zione per la pioggia, incontanente pioveva a dirotto (3). 



Questa volgare credenza , che attribuiva tanta virtù al 
giro della colonna fallo piii in un senso che in un altro, 
durò per lungo tempo, non ostante che, come ci assicura 
il buon De Stefano, i predicatori nelle lor prediche ripren- 
dessero dette processioni come superstimse. Ma finalmente 
Tarcivescovo Annibale di Capua intorno al 1590 la troncò a 
dirittura con un provvedimento radicale. Egli fece togliere la 
colonna di noezzo alla strada e gittarla in un pozzo vicino, 
e cosi la vecchia costumanza cessò inieranaente (4). 

Non mi pare inutile notare qui alcune cose su tal proposito 
che fanno sospettare come la superstizione dovesse avere 
un' assai rimota origine. La via degli Ottocaìli di fatti 
conduce , come ognun sa , alla salita di Capo di Ohio o 
Capodichino, che fio dai tempi assai remoli dicevasi CU- 
vus (5). D'altra parie nella cena di Trimalcione descritto 
da Petronio Arbitro trovasi che Ganimede, uno dei liberti 
a quella invitati , dice esser stato religioso costume delle 
donne della sua colonia andare coi piedi nudi, coi capelli 
scinti e con animo puro al Clivo^ per impetrare Tacqua da 
Giove, che quindi tosto cadeva a catinelle (6) 

Ora che la colonia e la città greca, di cui parla Petro- 
nio, fosse Napoli, già fu quasi comunemente ritenuto dagli 
eruditi che trattarono di anello scrittore o della nostra cit- 
tà (7). Cosi pure che il Clivo ivi nominalo dovesse ricono- 
scersi in Capodichino già prima di me fu conghietturato 
dair Ignarra (8). Vero è che ora akrl eruditi e recente- 
mente r illustre Prof. Mommscn principalmente per al- 
cune difficoltà, che s'incontrano nel voler precisare l'epoca, 
in cui la indicata città Greca divetme colonia, hanno voluto 
invece di Napoli mettere innanzi Cama (9). Ma, senza parlare 
delle espressioni usale dai liberti Petroniani, le quali si ma- 
nifestano schiettamente napoletane e si possono ancora sor- 
prendere in bocca del nostro volgo (10), eerto è che talune 
particolarità storiche o topografiche del Satyricon a Na- 
poli meglio si adattano che a qualunque altra città del lit- 
torale Campano. D'altra parte la ipotesi di Ciucia pure ha 
le sue e forse non meno gravi difficoltà. In o^i modo certo 
è che, se a Cuma slava un tempio di Giove, nessuna me- 
moria però si ha ivi di un Clivtis qualunque, nìentre una 
tale appellazione dita al colle di Capo di Chio è più an- 
tica del IX secolo dell'Era Volgare (li) e non è peranco dis- 
usata. Non pare quindi da doversi rigettare la eonghiettura 
deU'lgnarra (I2\ la quale combinala con la superstiziosa 
costumanza del secolo XVI beo può ricordare la pagana 
origine di questa. 

Babtolomheo Capàsso 



(1) Vita S. Athunasil ep. Ncap, n. 8 in Monutn, Neap* 
due. 1. 1, p. 2/7; Chron. de mon. S. Bened» n. 28 La de- 
nominazione si corruppe col tempo e si mutò in Capo 
Napoli, come si legge nel De Stefano. 

(2) Istrum. del 1198 ap. CuiARiTOr Commento ecc. p. llOé 

(3) De Stefano, Luoghi sacri di Nap, p. 28; DEngenio, 
Nap» sac. p. 61; De^cris. delle chiese di Nap. f. 28 Ms# 



18 



presso il eh. comm. D'Aloe. Probabilmente l'autore fu il 
F. Alvina dei Piì operarli. 

(4) D* Engenìo, dice che a tempi suoi la colonna si ve- 
deva ancora coverta di terreno in mezzo alla strada. Ma 
può benissimo credersi che egli copiasse il De Stefano 
senza verificare ocularmente il fatto, o pure che la colonna 
dopo il 1600 si fosse cavata dal pozzo e lasciata in mez- 
zo della via. In ogni modo la costumanza certamente non 
fu ripigliata. 

(5) Ciieus o clitsus benetsenianus , doc. del 992 in Reg. 
Neap, Arch. Mon. Ili, 115 ed altrove. 

(6) Petronii Arbitri, Satyricon e. 44. 

(7) Commeut. in Petron. ed. Burmanni. Mazzocchi , 
De eccl. iVeop. jp. Martorelli, De iheca calam. L. II, 
e. 7, ecc. 

(8) Ignarra, De palestra Neap. p. 189. 

(9) Seguino, Memorie p.21; Mommsen nell' Hermes p. 106. 
Cf. Arch. sCor. per le proo» Nap> III, p. 177. 

(10) Cf. Rendic. delVAccad. Pontan. 1864 p. 149. 

(11) Acéa transl. 5. Atkan, a. 876. Cf. Monum. Neap. 
due. I, p. 284. 

(12) Il Iannelli, In PerotL Cod. p. 258, volendo soste- 
nere che la colonia in quistione fosse Pozzuoli critica 
r Ignarra , che sopra la denominazione di Capo di Chio 
congetturava un clit^us a Napoli , e pretende invece che, 
siccome esisteva in Roma un clivus capitolinus e le co- 
lonie cercavano in tutto imitare la madre patria , cosi 
anche Pozzuoli colonia doveva avere il suo clivo e questo 
doveva ravvisarsi nel elico Petroniano I 



I canti popolari nell' Opera baffist. 

(Continuajsione e fine. Vedi n.* le 2) 

UX. 

Vengo a cevare cà doje palomraelle 
Co li sospire de sf afifiitlo core ; 
Po' l'addefresco co le lagremelle, 
E 'ntanto cresce a me 'mpietlo l'ardore. 

(Trincherà - Ciommetclla vorreoala; 1744, 
a. 11, se. 14») 

LX. 

Viènece suonno e bbìene da lo monte, 
E bbiene palla d'oro e dàlie 'n fronte ; 
E si maje viene pe le fare male, 
Sciacca cchiù priesto lo si caporale. 

(Trincherà - li j^ite^ 1745, a. Il, se. 5') 

È una variante del n.® XXIV, Gli ultimi 
due versi hanno sofferto un'alterazione, 
per adattarli alla situazione. 

Cfr. MolinaroDel Chiaro, Canti del pop. 
nap., pag. 13, ninna-nanna 16*, e col n.^ 



x: 



queste canzoni. 

LXI. 



Bella, pe tte so' addeventato sicco, 
So' fatto muscio muscìo e giallo giallo, 
Tu à lo mmele ed io so' franfellicco, 
Tu sì la poUanchella ed io lo gallo. 

Ed io lo gallo e bà : 
N' arravuoglie, non file e non tiesse, 
E comme le £faie sse gliòmmara ? 

(A. Palomba - Amore ingegnoso^ 1745, 
a. Ili, se. 12») 

LXU. 

menima memma, conta le galline. 
Vi' ca nce manca lo meglio capone. 
Lo ghello quanno chenla la matine, 
Te chiamma azzo' t' afifeccie a lo braccone. 

CA. Palomba - Celia^ 1749, a. Ili, 

se. 5*; 

È una caricatura cafonesca» 

Cfr. GiANNELLi B/iSiLiOyEducajrione 
al figlio^ pag. 143 ( Napoli, Giac- 
cio, 1781). 



LXIU. 

Pelrosenella mia, stamm' a sentire : 
Cala le ttrezze ca voglio saglire. 

(A. Palomba - La Gismonda, 1750, 

a. l, se. ultima) 
Cfr. Basile, PerUamerone. 

LXIV. 

bella bella de la Majorana, 
Tu co' ssa grazia mme faje cànnavola ; 
Famme la pizza quanno faje lo ppane, 
Ca te vengo a trova' quanno staje sola. 

(76., a. I, se. ultima) 

LXV. 

Mo' che so' fiitta grossa e tonnolella, 
Mme vanno attuorno dento si puzille. 
Chi dice ca è 'n' incanto sta faccella, 
E chi ca so' spavento sii capille. 
Io rao' che songo na marioncella, 
Co li vìrre li 'lance e li ^uasille, 
Fegnenno la retrosa e crec^sella, 
Te le ppèttano buono sti 'mpesille. 

(Trincherà - Finto cieco, 1752, 
a. Il, se. 8') 

LXVL 

Tiritàppete e statte contenta, 

E non te pegliare malanconia, 

Ca la mamma de masto Tommaso 

Ha portato na varca de caso. 
Oh che naso -r- oh che naso ! 
E na varca de caso e ba : 

Lo marvizzo, la raia, la perchla, 

Lo mucchio, la seccia, la Iremmola. 

(P. MiLiLOTTi - Llncredulo, 1755, 

a. 1 se. 17*) 
Cfr! col canto XXXVI di questa 

raccolta. 

LXVU. 

Pescatore che baje a la pesca, 
E accalumme da cca' e da Uà, 
Si d'argiente non jette tu l'esca, 
E che gliànnola vuoje pesca' ? 

(Lorenzi - Tra* due litiganti il terso gode. 
1766, a. Il, se. 4«) 



LXVIIL 

Pàssera mia volaje volaje, 
'N coppa a cècere se n' annsge. 



(Lorenzi - Il furbo malaccorto, 1767, 
a. Il, se. \6^) 



I 



LXIX. 

Non songo Aurora chiù, non so' chiù chella , 

Songo na pellegrina sfortunata: 
Non me chiammate chiù Donna 'Sabella... 
Ah menico' menico' menico' 

Chìammàteme 'Sabella sbenturata. 
Canta Cecilia mia,ca la zampogna 

Aggio accordato co lo llero Uè. 
Chiagne lo pecoraro quanno sciocca, 

E llero llero vreccia, 

E llero llero vreccia dàlie 'n chiocca. 
Chiagne Cecilia quanno li guaìe conta : 



19 



E llero llero varrà, 

E llero llero varrà dàlie 'n fronte. 

(Lorenzi - Gelosia per gelosia , 1770, 

a. HI, se. 9*) 
Vi sono accozzate insieme parecchi fram- 

menti di canti popolari. 

Cfr. Molina RO Del Chiaro, Cauti del 
pop. nap., 236, canto 288®. 

LXX. 

E la (orca che ghieva pe mmaro 
Venne a Napole e m acchiappò. 

(Lorenzi - La fuga, 1777, a. I, se. 1') 

Nella Carlotta, commedia di Niccolò A 
menta , rappresentata e pubblicata in 
Napoli nel 1708, un Capitano napolita- 
no canticchia fra' denti, aspettando che 
un terzo finisca di parlare col suo in- 
terlocutore : 

E la bella che ghieva pe maro 
E li Turche se la pigliar o. 

(a. 11, se. 9") 

LXXI. 

A miezo mare è nata na scarola, 
Li Turche se la jòcano a tressette, 
Chi pe là cimma e chi pe Io slreppone : 
Yiato chi la vence sta figliola ! 

(Cerlone - Il mlleggiare alla moda^ 
nel voi. IX delle Commedie, ediz. 
Vinaccia, pag. 306) 

Cfr. MoLiNARO Del Chiaro, Canti del 
pop, nap., pag. 187, canto 237®. 

LXXIl. 

Temporale arrassa arrassa ; 
Tuono mio, cuoglie e passa ; 
Cuoglie a turre e a castello 
No' a le povere capannello. 

(Ib., pag. 362) 
LXXin. 

Na bella cosa 
Fatt' a rosa 
Rosa non è, 
Annevina ched è? 

(Cerlone - La forza della bellezza, 1776; 
voi. XII, pag. 10) 

LXXIV. 

Nenna, chest'arma mìa tu aje feruta, 
E chisto core mio aje allummalo ; 
Men' acqua a tanto fuoco, astuta, astuta, 
Non me fare morire desperato ! 

a desperato e Annoila, 
Mme fa mori' sta vocca cianciosella. 

(Cerlone - La marinella^ 1780; 
a. 1. se. 6") 

LXXV. 

Tusci pècora e batti pècora 
Tutto lo juorno da ccà e da Uà, 
Chi ha fatto lo danno lo pagarrà. 

E ddo' Viola, 
Senza lo libro non se va a la scola. 

(Ib, ib.) 

LXXVI. 

Amici, non credile a le zitelle, 
Quanno ve fanno squase e li verrizzi, 
Ga sognu tutte quante trottatene, 
E pe ve scorteca' fanno ferrizzi; 



Co lo bello e bello palio' 
Co lo nda e ndàndei'a ndà ; 
La falanca si nn' è sedunta 
Non cammina, carcioITolà. 
Cheste non hanno ascìanno parolelle, 
Né grazia, né bertute, né bellizzi ; 
Ma vanno ascianno de leva' la pelle 
Quanno ve fann' a pompa li carizzi ; 
Co Io bello e bello palio' 
Co lo ndà e ndàndera ndà; 
La campana senza battaglio 
Comrae diavolo vo' sona ? 

(Cerlone - Le trame per amore, 1783. 
voi. XIX delle Commedie, pag. 6) 

Baccolse Michele ScHEmLLO. 



STAMBALONE 

Non sappiamo dire con precisione a quale epoca appar- 
tenga la poesia , che più sotto pubblichiamo : il dialetto 
e r ortografìa con la quale è scritta la fanno credere di 
un' età piuttosto remota. 

Lo scrittore di essa pare che abbia tolto a modello la 
famosa lapide che una volt^ trovavasi innanzi alla chiesa 
di S. Pietro martire, e che ora conservasi nel nostro Museo 
Nazionale. 

Questa poesia era contenuta in un codice manoscritto del 
secolo XvIII , il quale sì possedeva in Castellammare di 
Stabia dal P. Cerchia dei minimi di S. Francesco di Paola, 
e dal quale la trascrisse l'egregio sig. de la Ville, il quale 
ce l'ha favorita. 

Luigi Correrà 
Stambalone in morte del figlio del.... 



Chi è, chi è, che tozza alla mia porta ? 
Oh, marame ! sarà la Muorta. 
Muorta crudela, ne puozze fare de stiente ; 
Nun cunusce, nu amici, nu parienti ! 

Chissi so seimilia Ducato, 

Va ammazza a n'autro, e nun ammazza a me. 
Si la Muorta pigliasse denaro 
Nun ce sarria cchiù ricche de me. 

A le tre ore li toccao la lesta 
A le quatto ore si mettio a licito. 
Tre miedece lu vennero a bisetare : 
Uno li disse. Uh, Dio ! che tempesta. 
N'auto disse: chissu giovene se vo confessare. 
N'aulo li disse: dimane è a festa. 
La muorta, la capitana, 
Le parlaje e le dice 
giovane mio, tanto valuroso , . 
Addò songo li sfuorze che tu vulive fare ? 
Isso se vota tanto piatuso. 
Tengo li braccia, che nu Ili pozzo auzare ! 
Misera chella madre che me crescette ! 
Misero chili u patre che me metti u nome ! 
Stanotte appiccato moraraggie 
Dinto a na fossa copierto di vierme , 
E viermi di tessa (?) 
E muorta compessa (?) 
E pietà mi sia concessa. 

Stambalone, pienza a chello che faje, 

Piensa alla fine 

Piensa ch'haje da morire. 



C) Non sappiamo se la voce stambalone sia un errore 
di qualche amanuense , ovvero una forma assai antica 
della parola strambotto, perchè invano l'abbiamo cercata 
nei lessici del dialetto napoletano. 



eo 



Ecco un saggio del dialetto di Piano di Sor- 
rento di cui, finora, nessuno si è occupato. Esso, 
sostanzialmente, non diversifica dal napoletano ; 
né la varietà di pronunzia si può facilmente 
ritrarre nello scritto. 

Della prima parte di questo conto è arcifaci- 
lissimo trovar dei riscontri, in aitri conti, in tra- 
dizioni e in leggende: figuriamoci, possiamo co- 
minciar dal greco Edipo ( che dovette soggia- 
cere al destino ) venendo giù giù, fino a noi. 
Della seconda parte non saprei indicare alcun 
raffronto perchè è un fenomeno strano e nuovo 

3 nello d'uno che vinca il fato. Si trovano esempli 
i destini non chiaramente indicati e quindi non 
accaduti, perchèi erroneamente interpetrati; ma 
vincere il destino è una cosa strana ed impos- 
sibile. Mi spiego meglio. È stato predetto al tale 
di tal dovere uccidere la madre : costui per 
es. si dà ad allattare ad una capra, che lui 

[)oi, chiama madre. Per uno strano accidente 
' uccide... ecco compito il destino, che prima 
non si era ben capito. Forse il conto seguente ' 
dev'essere una strana mescolanza di due conti, o 
qualcosa di simile. 

Gaetano Amalfi 

•O CUNTO ^E GIUSEPPE 

m. 

Nce sleve nu Re ca «ra 'nzurato e nu' faceva figlie. Isso 
e 'a mugliera faceano vuto a tult' 'e Sante ca vulèvano nu 
figlio. Fenalmenle ascette gràvida 'a mugliera, e facelle nu 
bello pecceriUo, e 'o meiteite nomme Giuseppe. Doppo po- 
che mise *o facette astrolecà'; e 'o strulecaiore diceite , ca 
quann' era a qulnnece anne aveva ammazza' 'a mamma e 
'o patre e isso èva èssere 'mpiso. 

*A mamma e 'o palre èrano affrilte, sentenno ca Tastru- 
lecatore l'aveva ditto chesto; e quanno chiù anne passavano, 
chiù loro se despiacèvano, pensanno ca s'abbecenava 'o 
tiempo che loro èvano èssere accise. 

'0 peccerillo facèonese grusseciello e verenno eh' 'a 
mamma e 'o patre chiagnèvano sempe, l'addimannava : — 
« Pecche chiagnite, quanno me verile ? Che v'aggio fatto? » 

'A mamma e 'o patre recèvano:— « Ghest'è Tallerezza, che 
« lenimmo verènnete, e pecche lenimmo sulo a te.» — '0 pec- 
ceriUo quanno se facette 'e riece anne , decette 'nfacci' à 
mamma e 'o patre : — « me recite pecche chiagnite, o 
« sennò m' acciro » — Allora 'a mamma e 'o palre le cun- 
làieno luti' 'o fatto ; ca l' avevano fatto strulicà' e ca isso 
aveva accire 'a marfima e 'o patre. 

'0 figlio quanno senlelte chesto , decette : — « Nu' zia 
(i mai 'sta cosa ch'aggio 'a cummettere 'slu delitto! Ràterae 
« 'a sanla benerezione, e me ne voglio 1' lunlano ra cà ». 

Che le pare, quanno mamma e palre senièltero ca se ne 
voleva ì'; sièvano respiaciute. Isso recetle : — « E meglio 
« ca me ne vaco . ca succere lutto 'si' antecrislo ». Ac- 
■ cussi 'a mamma e o patre le rèttene 'a santa benerezione, 
'na somma 'e renare, nu buono cavallo, e se ne jelte pe' 
dinlo a nu bosco, e stelle tre ghìuorne e tre none, senza 
mangia' e senza rurmì'. '0 puveriello fuje assassinato r' 'e 
latre; le levàjono 'o cavallo, 'o vestilo e 'e renare, e 'o re- 
manètteno annuro 'ncauzonetlo 'e tela. 'Ncapo a tre ghiuor- 
ne, ascelte 'a dinto 6 bosco e se trovaje dinlo a 'na cela. 
Ntramenie sleva cammenanno, se trovaje 'nnanle ò palazzo 
d' 'o Re de chella cela. 'A figlia d' 'o Re le piacevano 
lani' 'e puverielle, ca ne teneva cìenlo appardale, e le fa- 
ceva rà' nu pauiello 'e pane e nu rane per uno. '0 povero 
Giuseppe muorio 'e famme, s' avvecenaje a nu puveriello 



e decette: — « Amminne nu poco 'e pane, ca io me more 
a 'e famme ». 

Chillo recetle : — « Ih ! vattinne;»— e 'n àuto:— « Io me 
« r aggio pezzulo pe' caretà, e tu 'o buò' pe' lemraòsena : 
« va da chillo eh' 'o dispenza ». 

'A figlia d' 'o Re se n addunaje 'e tutto chesto, e le fa- 
cette cumpassione chillo giòvene. Quanno jelte 'o serveiore 
'ncoppa, (pecchèjessa sleva 'a coppa 'o barcone), sùbbeto 'o 
mannaje a chiammà' 'stu Giuseppe. '0 servitore scennette, 
e 'o chiammaje e le recetle : — « Saghe 'ncoppa , ca te 
« vo' 'a figlia d' 'o Re ». 

Giuseppe nu' nce voleva sàgliere , ca se metteva paura 
e receva :— « 'Esse (l)'a passa' 'a desgrazia ca me recetle 
« mamma, e m' avessero a fucelà' ! » Ma cu' tutto 'o pen- 
ziei'O eh' aveva fallo, nce jette 'ncoppa, e 'a figlia d' 'o Re 
se facette a trova' dinto a 'na stanza e le demannaje : — 
« Tu 'e IT)' si' ? Gomme te chiamme ? » « Io me chiammo 
Giuseppe »— e le recetle nu paese pe' 'n àuto : nu' ze velet- 
te fa' conóscere ca isso era figlio 'e Re. Essa voleva sa- 
pe' a chisto paese, che nce si' benuto a fa', e isso recel- 
le:« So' benuto a fetecà', p' abbuscà' quacche cosa pe' man- 
ce già'» e le recetle ca nu' teneva né mamma e né palre. 
Allora essa chiammaje 'o cuoco e le recetle : « Ràtelo a 
«mangia', e trattatelo bene, pecche chisto me piace, pec- 
« che è nu bello giòvene ». '0 cuoco 'o l'ette a mangia' e a 
bèvere e 'a figlia d' 'o Re le recette : « Giuseppe , viene 
« 'n' ala vola rimane. » 

Isso se ne jetle : e pe' temente Steve scennenno 'a 'iti- 
riata, 'a figlia d' 'o Re 'o facette torna' a chiammà' r' 'o 
cammariere e le recette: « Saglie 'ncoppa, ca te vo' 'a Re- 
« genella ». Recette isso: « Uh! bene mio, mo quacche pu- 
« sala s'banno truvato mancante e mo ranno 'a nummenaia 
a me, e certo mo nìe 'mpèooeoo. » 

Saglletie 'ncoppa, e 'a Kegenella se facette trova' a stan- 
za 'e fere n*ata vota. Recette 'o giòvene:— « Che bulite ? » 
Essa respunnette: — « Tu vestile nu' ne tiene, che baje 'e 
« chesta manera, annuro ? » 

Respunnette: — « No ! » E recette essa : — « Aspetta nu 
« poco. »— Rette l'òrdene, e 'o cammariere va a chiamma- 
re nu sarto e nu scarparo. Veneite 'o sarto e 'o scarparo 
e l'urdenaje nu vestito e nu paro 'e stivaletto, che p' 'o 
dimane 'a stessa ora dovèano èssere tutto scumputo. Chiam- , 
maje 'na ramicella e le risse : « Tu me cuse 'na cam- 
« misa. » 

'iN' ala ramicella l'avelie a fa' nu paro 'e cazedine e le 
recette: — « Pe' dimane a chest'ora dev' èssere tutto pron- 
« lo ».Po' ricette a Giuseppe; «Viene dimane, nu' le scurdà' » 

Quanno fuje 'o rimane, Giuseppe jetle e trovaje tutto 
pronto, e 'a tàvola mesa a signo, che mangiale. Doppo se 
veslelte; e, quann' 'a Regenella 'o vereile accussl bello ve- 
stuto, ricette: — « Quanto me piace 'sto giòvene » — ; e se 
ne annammoraje. Allora essa nce metiette 'na passione 
furtissima e pigliaje e diiammaje 'o conzigliere e le re- 
cetle: — « Conzigliè, conzigliàtcmb vuje, pecche io me so- 
ft no 'nnammurato 'e chillo giòvene, che vui avite visto 
« in casa. Vurria ca mio patre 'o xmeitesse a fa' 'na 
« cosa dinlo a nu fùnneco. Pecche uu' fa' rà' 'o reiiro a 
« nu viecchio 'e chille che stanno dinto d fùnneco e nce 
« mette Giuseppe ? » 

Allora recetle isso , 'o cunzigliere : « Quanno è ora 'e 
« làuta nun asci' à làvula.: chillu manna a chiammà' a 
<c me, e io po' le rico 'o pecche tu nu' sì' asciuta a man- 
ce già'. » 

Accussl facette 'a Regenella. Allora sùbbeto 'o palre 
mannaje a chiammà' 'o cunzìgliere. Appena chisto arre- 
vaje a d' 'o Re, chisto le recette: « 'A Regenella non è 
« benuta a mangia', cunzegliàterae vuje. » 

'0 cunzegliere le recette: — « Vostra figlia nun è benu- 
« ta a mangia' pecche vo' méttere' nu giòvene dint' a nu 
« fùnneco d' 'o vuosio , ca n' ave pietà, ca è nu pòvero 
« giovine. » 

Allora 'o Re le ricette ca sì, e 'a Regenella po' jette a 
mangia'! Quanno fuje 'o rimane che nce jetle Giuseppe, 'a 
Reginella le ricette: — « l'aggio fallo ave' V impiego » e 
Giuseppe tutto contento, 'o rimane jetle a rapri' 'o fùnneco. 



21 



Giuseppe teneva 'na stanzulella affettata e là jeva a dur- 
mV e a mangia', e sleva sulo sulo. Nu juorno 'a Rege- 
nella s' 'o mannaje a chiammà' e le ricette : « Giusè, 
« comme te truove ?» — « Benissinao ! » — « E confìme 
« faje a cucenà, ad arrecettà*, a mangia'. » — « Me faccio 
« tulle cose io. Mentre cucino, m'arricetto 'a stanza e roppo 
« mangio, e po' me faccio 'a cucina e me ne vaco ad ara- 
« pi' 'o funneco ». 

i\ Regenella se vulaje: — « Chesla è vita ca tf 'a può' 
« fa'. 1' cu' tanta servitù , e tu ca l' haje a fa' tulle cose 
« tu. Giusè, mo penzo comme l'aggio a situa'. » 

Mannaje a chiammà' 'o conzegliere e le risse: — « Gun- 
« zigliero mio, cunzlglieme tu. ì' cu' tanta servitù e Giu- 
« seppe è sulo a tuli' 'e cose soje. Pòvero giòvene ! Io n'ag- 
<c gio pietà. Isso ha da sta' sulo dinto d fùnneco ; isso 
« quanno va à casa s ha da cucenà'; isso s' ha da fa' 'a 
a cucina; isso s'ha da fa' luti' 'e ccose. I' pe' me, 'o voglio 
« ritira', reclielo vuje a papà, eh' io a ora 'e mangia' nu' 
« nce vaco, chillo te manna à chiammà' e tu nce'o dice». 

Accussl facelte 'a Regenella, nu' ghielte a mangia,' e 'o 
Re sùbbeto auumaje a chiammà' 'o cunzegliere e le ricet- 
te: — « Cunzegliere mio, cunzigliàteme vuje. Mia figlia nun 
« è venula a mangia' ». 

'0 cunzigliere le recette; « Mo ve dico io pecche 'a 
« Rcginella n' è benuta a mangia'. Vo' ritira' Giuseppe 'a 
« Palazzo, pecche rice, ca chillo è sulo e n' ave pietà'. » 

'0 Re recette: — « Le sia conciesso !» e le rette 'na 
stanza allato à stanza d' 'a Regenella. 

Èveno cumpito 'e quinnece anne ca isso aveva acclrere 
'a mamma e o patre ; e isso aveva 'a èssere 'rapiso. 'A 
Regenella s' 'o vuleva purtà' cu' essa , pecche essa era 
slata 'mmitata da nu cudno, che spusava e teneva festa 'e 
ballo, pe' tre ghiuoroe. Essa, 'a Regenella, s' 'o vuleva pur- 
tà' 'stu Giuseppe. Le prummettette che sì.— R' 'a matina 
e d' 'a sera se sentette poco buono, e d' 'a sera Giuseppe 
nu' nce vulette ì'. 'A Regenella recette: — « Tu 'o faje pe' 
« despietto o pe' nu' nce veni'! » 

Isso recette: — « Nun è vero, i' me sento malato. » 

Essa chiammaje 'o mièdico e 'o facette visita'. '0 mièdico 
le ricette, ca teneva fnddo e freva. Allora 'a Regenella 'o 
facette cucca', e senejette à festa 'e ballo cu' gran dispia- 
cere. Le pareva mill'anne che feneva 'a festa pe' se ne l'. 
Subbeto che ghielte à casa, jette a bere' a Giuseppe e le 
ricette; — « Giusè, che bulite ? Gomme slaje ? » 

« Me sento male! » 

'A Regenella se dispiaceva, che Giuseppe sleva malato e 
d' 'o rimane passava chiù peggio. 'A Regenella sleva re- 
spiaciuta e le receva: — « Stasera, manco nce viene ? » 

Isso ricette: — « T nu' nce pozzo veni'. Tu te cri re, ca 
(c io pazzeo^ e io avero me sento malato. » 

A 1 ala sera pure facette 'o stesso; ma passaje 'e brutte 
burrasche, pecche èrano arrevate 'e quinnece anne ca isso 
aveva accirere 'a mamma e 'o patre. Chella sera, fuje 
'mpiso nell'apparenza, fuje 'mpiso soli' 'o cielo d' 'a stanza. 
Nce metlèltero 'na forca imo ft puzio ; le facètteno nu 
fuosso ini' 'o Giardino cu' nu lauto vicino, e chillo era 'o 
(Jestino eh' aveva 'a passa' ! 

Quanno 'a Regenella tumaje d' 'a festa 'e ballo 'o pprim- 
mo che facelte, Irasetle rinto 'a stanza 'e Giuseppe; e nu' 
nce lo truvaje, comme chell'ate doje sere. Figurate ve com- 
me 'a Regenella se despiacette, ca nu' oc' era Giuseppe 
se venelie meno; ascelle pazza; tuli' 'a Corte sotta e sopra 
chi 'a risturava 'a nu pizzo e chi 'a 'd àuto. 

'0 patre mannaje a bere' dinto 6 tesoro, se Giuseppe 
s'aveva piglialo niente, ca penzàvano, che s'aveva piglialo 
'o tesoro e se n'era fujulo. Invece nun era vero. 

Mentre 'a Corte jeva pe' sotto e pe' coppa , jèlleno a 
piglia' r acqua dint' ò puzzo; e s' addunàvano d"a forca, 
che sleva dint'ó puzzo. Chi jette a piglia' fiori e cose pe* 
rislore, s'addunaje d' 'o fuosso è d' 'o lauto che sleva dint' 'o 
ciardino. Figuràteve, dint' a chillo palazzo nce sleva nu 
susurro pe' via 'e 'stu Giuseppe, ca nu' se Iruvava ; chi 
riceva 'na cosa e chi 'n' àula. 

Mentre Ja Regenella se revenelle, receva: — « Pigliale 'o 
« lietlo 'e Giuseppe e ghietlàtelo abbascio e bruciatelo, com- 






« me pure 'o tavulino, segge, posale e tulio, che nce sia' 
« dinto à stanza. » 

'Nzorama, voleva fa' distrùggere chella stanza. 'A servi- 
tù nu' se muveva pecche receva, ca nce sia l'ira de Dio. — 
« Immo (2) julo a piglia' l'acqua e avimmo iruvalo 'na forca 
« misa dint'ó puzzo. Immo julo a cala' 'o sicchio dint' 6 
« puzzo e avimmo 'nliso 'nu fracasso 'e care' dint' 6 
« puzzo. » 

Cierte àule d' 'a servitù recèveno: — a Nuje pure avim- 
« mo visto dint' 6 Ciardino nu buco cu' nu tauto. » Al- 
lora decelte 'o Re: — « Chiammale 'e summuzzature e 
« facllele cala' dinto 6 puzzo. » 

Menlr' 'e summuzzature jèlleno là a cala' dinto 6 puzzo 
a vere' che nce sleva, 'o restante d' 'a servitù ievaa mena' 
abbascio 'a roba 'e dinto 'a stanza 'e Giuseppe. 

Mentre tiravano 'o lietlo, Giuseppe jetlaje nu suspiro e 
decelle: — a Che cattivo suonno che m' aggio sunnaio ! » 

Figurate, che maraviglia se facèltono quanno senlètlono 
'a voce. — « Che l' he' sunnaio? » le dimannaje 'a Re- 
genella. 

— « Ca so' slato 'mpiso ! » 

— « Cà 'na cosa 'e chesla è succiesa, — » ricelle 'a Re- 
genella. — a r me crereva ca tu le n' ire fuj uto, e tu si' 
« stato 'mpiso. Rimo 6 puzzo nce sleva 'a forca: 'mmiezo 6 
« ciardino nce steva 'o fuosso e' 'o tauto vecino; rinto 6 
« Metto tu nu' nce stive. » 

Giuseppe le rispunnetie: — « I' tutte 'sii gujge ag^io 
« passato. So' stato 'mpiso rinto ó puzzo; po' m'hanno niiso 
« rinto 6 lauto e po' ra' hanno sutlerrato rimo 6 fuosso 
« rinto ò ciardino. Ma basta, io sto lutto allegro mo e al- 
ce legràleve pure vuie. F teneva nu destino 'ncoppa 'a vita 
« mia e l'aggio passato,» e le racconiaje quann' 'a mam- 
ma e 'o patre 'o facètlero astrulecà'. Le ricette pure ca isso 
era figlio 'e Re e pe' nu' fa' chillo delitto 'e ammazza' 
'a mamma e 'o patre, isso se ne j^te d' 'a casa. 

Che te pare, 'a Regenella quanno sentette, ca isso era 
figlio 'e Re che alterezza sleva a Palazzo. E 'a Regenel- 
la quanto sleva chiù allera ! Essa incette 'nfaccia 6 pa- 
tre: — « Io voglio a Giuseppe pe' sposo. Facile lelegram- 
« ma 6 patre e à mamma 'e Giuseppe e facìtele veni' ». 

Accussl venètteno e facèlleno 'e nozze. Loro spusàjeno 
e nuje stammo felice e cuntientt^ e tuculiate, 

E cà stammo assettate ! 



(1) 'Esse, avessi. 

(2) ItnmOy abbiamo, slam '. 



CANTI DI PUONABITACOLO 

( Prov. di Salerno ) 



1. 

Quanto sei bella e quanto sei divina ! 
Una cosa le manca e sei umana, 
Chi vere 'a loa bellezza e non s' incrina (l) 
Renega la soa fere cristiana. 
Si avess' a sceglie' a bui o 'na regina, 
Io scegliarria a bui ca si' pacchiana. 
Si mai lo sapesse 'na regina. 
La fi'usta me farria pe' 'na semana. 

2. 

Spincola r' oro, spìncola r' argiento, 
Cà sta lo servo tuo che t' anìa tanto. 
Io t' aoK) co' Io core e- co' la mente, 
Si pure non me cangi p' altro amante. 
Ma si le veo (2) parìa' co' certa gente, 
'Mmienzo lo pielto mio rai (3) co' la lanza. 
Ohi co' 'na lanza, ohi co' 'na lanza, 
Tu non si' donna re farme mancanza. 



22 



3. 

Sera ietti a V acqua a la fontana, 
Viddi no piro càrreco re liuri ; 
Ietti 'neoppa pe' lo tocolare 
E ne carerò roie pem mature; 
Quanno liei pe' me le mangiare 
N' ascerò fora rui cuori r' amore; 
Quale re cbissi rui io voglio amare, 
Inta 'sso pietto te parla lo core. 

4. 

Facci de no pumo romaniello, 
Ga li capilli toi so' fila r' oro, 
Màmmata te tenia 'nzegiolella, 
Come tenia no becchiere r' oro 
Tu tieni le labbruzza a cerasella ; 
Beato chi le bacia e se le gore; 
Beato chi te ama, o ronna bella, 
Campa felice e mai 'n eterno more. 

5. 

Se vonno maretà' certe carote , 
Certe facci de céceri arrappate. 
Tu pari no procino (4j inta la Iota, 
Bellizzi vai trovanno e nobeltate; 
Non te n* accuorgi ca si' lo reflulo 
Pure re chilli che se so' 'nzorati. 
Si' lo cielo permette che t' abbrazzo 
Te voglia fe scatta' come 'na vezza (5). 

6. 

Ietti pe' coglie' fiuri a 'na chianura, 
Trovai na bella rosa e 1' ammirai. 
Mente che lo trovai 'sso bello fiore 
Come no servo suo me richiarai. 
Fici re' me lo co glie' tra le spine, 
lia parte re lo core me 'nchiagai (6); 
Non ce ponno rotturi e merecine, 
1 Aj Rosa, sulo me la puoi sanare. 

7. 

Facci de 'na bianca garrafina, 
Bcnzella che non pierdi mai colore, 
li.».ni lo viso e 1' uocchi r'angiolina, 
()b quanto me ne raì pena e dolore! 
A lo spontà' re 1' albi la matina 
'Mnienzo V ària fai ferma' lo sole, 
ì ai scoccà' le rose da le spine. 
Tiri r amanti co' V occhiata sola: 
'N' occhiata sola, 'n* occhiata sola. 
Chi rorme a canto a bui^e nce consola 

8. 

Iklla che re beltà tu bella sei, 
Tu s^.mpe pienzi e non resuolvi mai; 
Io t^ mostrai li penzieri mei. 
Li M penzieri non me mustri mai. 
Si non te pozzo avere pe' raogliera, 
Sempi'. zelella tu puozzi restare. 
Si 'st'i iastema mia te coglierà, 
Non siccio come tu aviss a fare. 
Ma no 'sto core mio pena n' avèra, 
Non pcnzà' chiù e cerca re pariare. 

9. 

FigVu^a che nascist' inta lo maggio. 
Lo cielo te lo rigo (7) no privilegio. 
'Mpielto te pose rui fiuri re maggio. 
Chi te le tocca non fa sacrilegio; 
Pe' chi r assaggia è Hi' acqua re maggio. 
Se ne vai 'mparaviso come creggio, 
Nce vole 'na cert' arte e no coraggio, 
Pe' otteoere chisso privilegio: 
'Na vota che le pruovi io nce 'ncaggio (8), 
Care lo privilegio e lo pregiosti. 



10. 

È no male remèrio lo marito, 
Lo vero afifetto è lo 'nnamorato. 
Lo core mio s' è tanto pentito 
D' ave' la libertate abbannonato; 
Da quanno me pigliai lo marito 
'Ngalera io so' stata condannata. 
Io move' non me pozzo ra no sito 
Ca la ragione voi' esse' spiegata; 
Si pario a masto Antonio o a masto Vito 
Se crenza (9) tanno fazzo la frittata. 
figliolelle vui non me creriti, 
Ma lo creriti quanno lo provati. 

il. 

So' ben contento che t' aggio lassato. 
Si non fosse contento chiangerria. 
Pe' molti fini mei t' abbandonai, 
Pe' ama' la libertà, la pace mia. 
M' ascistì da lo core, tu lo sai. 
Non dati chiù tormento all' arma mia: 
A r arma mia, a V arma mia. 
Che festa voglio fare, eh' allegria. 

12. 

Sera passai pe' la strata nova 
'Mpietto 'na nenna 'na rosa menai 
Se n' addonào la mamma mariola 

— Chi t' ha dato 'ssa rosa, figlia mia ? 

— Mamma, mamma , non penzare a male 
'Sta rosa me 1' ha data la vecina. 

— Figlia, me vinni zùccaro pe' sale, 
Prima re te la saccio 'ssa rottrìna. 

13. 

Quanno nascisti tune nevecava. 
Lo cielo co' la term se iungia (10), 
Saìette, lampi e trònate menava, 
Lo mare a tempesta se mettia. 
Lo munno chiù non se raffegurava, 
Nisciuno 'ndovinava chiù la via; 
Lo nascimiento tuo nce corpava 
Re perde tutta quanta la genia: 
Ohi la genìa, ohi la genia. 
Come te pozzo amare ? arrassosia ! 

14. 

Befia, che nascisti a li rui re maggio, 
L' amore nuoslro vai ra male 'mpeggio; 
Tuo patre non te fó lo maretaggio. 
Lo mio non me vo' rà' manco 'na seggia. 
Figliola, non te perde' re coraggio. 
Tu sempe canta, sona e festeggia. 
Renari aggio da fa' co' no viaggio, 
La rota (11) t' aggi'a fa' e 'na gran seggia: 
La seggia ha da esse' co' 1' appoggio 
Avit' a (12) pare' 'na rosa re maggio. 
'Mpielto te r aggia ponne (13) no relorgio 
T' aggio ra veste' all' uso re Parigi. 

15. 

Spenta lo sole a colore de rosa, 
Pe' rimirare lo tuo bello viso 
Arriva 'mmienzo l' ària e se reposa 
Pe' troppo contempla' 'sso dolce viso 
Beato chi te piglia e chi te sposa 
Chi s' ha da gore' lo tuo bello viso! 
Beato chi co' bui rorme e reposa 
Chi se gore co' bui lo para viso (14) ! 

16, 

Vurria sapere a che scola andasti, 
Quale fu chillo libro che leggisti; 
R' amare tanta règole 'mparasti , 
Come pesce a la reta me coglisti. 
Lo core ra lo pietto te pigliasti, 



aa 



Come no pesceliello lo freisli: 

A sàuza pò* 'sso fritto racconzasli, 

N' aggio saputo chiù che ne facisti: 

Che ne facisti ? che ne facisti ? 

Mo, m' hai r' ama' e non ce vonno Cristi. 

Eaccolse Francesco Brandileone 



(1) incrina, inclina. 

(2) oeOf vedo. 

(3) raij dai. 

(4) procinoy pulcino. 

(5) eezza^ veccia. 

(6) *nghiagaiy impiagai . 

(7) rigo^ diede. 

(8) 'ncaggioy scommetto. 

(9) crenza^ crede. 

(10) jungia, univa. 

(11) rotay dote. 

(12) avit'a pare*, dovete sembrare. 

(13) ponne^ porre. 

(14) Conf. MoLiNARO Del Chiaro, canti del pop, nap.^ 
pag. 187, canto 239. 



COSTUMI SORAin 

( Continua0ione vedi. nJ* 2 ) 

Oggi la milizia , il tempo , le leggi ammodo 
volgono questa fierezza alla patria: e mentre i 
vecchi parlano di Chiavone , e disputano sulla 
sua vita e sulla sua morte; i giovani, stretti in- 
torno ad un carabiniere in permesso , doman- 
dano della disciplina militare , se son buoni a 
fare il soldato, se vi ha notizie di guerra; ven- 
gono al paragone delle altezze, dei toraci svi- 
luppati ed anneriti, si provano il berretto mili- 
tare, osservano la daga, entusiasti delle armi. 
Quando li guardo cosT pendere con la bocca e 
con gli occhi dalle labbra di qualche soldato 
de* loro, che fa il miles gloriosus, me le figuro 
tutte quelle fisonomie in un' imboscata col fu- 
cile in guardia, l'orecchio teso e l'occhio esplo- 
ratore. Quanti tipi, ^anti caratteri diversi! Chi 
serio e arcigno, chi gradasso, chi svelto e ma- 
nesco, chi cinico , chi comico e piacevolmente 
sguaiato, e chi infine , letterato, la pretende a 
pulito parlatore, e mentre gli altri ammirano il 
gran passo da lui fatto nella civiltà, egli si bea 
a far stridere parole dialettali italianizzandole 
con la terminazione in i. 

Nel loro discorso sempre lazzi, motti e licen- 
ziose scappate ; dalla bocca de'vecchi non hai 
che sentenze. Sono i Saneio Pansa della cam- 
pagna: ad ogni fatto un apologo, una parabola, 
o, come dicono essif^ ne paragone. Coniano vo- 
caboli, e da nomi campestri vedi fatti talvolta 
verbi ed aggettivi a piacimento , che riescono 
d' una incisiva proprietà. 

Tutto è figurato: nelle loro canzoni di amore 
e di dispetto l'animo cerca di sfogarsi e, come 
in ogni popolo, corre sempre alla similitudine. 
E, prescindendo dalle esaltazioni e dai canti, 

f)onendo mente a questo linguaggio loro abitua- 
e, si nota che a' nostri contadini la campagna, 
sempre loro in sugli occhi , ferisce la fantasia 
per modo, che quasi il linguaggio naturale della 
mente non può andar disgiunto dal paragone di 
ciò che li circonda. 
Le similitudini riguardono sempre la campa* 



gna e le loro superstizioni. — Zio come va la 
terra ? — 

Comme vò i? Quanne comenza st'accedente de 
scioscere dalla parte de sotte, è 'ne 'naie. Te porta 
'ste chienare 'nguastite che 'nse pò' acciavaglià' 
de nesciima fatta manera; pè jonta chiglie ac- 
cise de feglitte loche pe' 1' aria 'ève comenzate 
a fa' a pretate, e t'ève sfrescate tutte le lappre 
da 'na parte; po' glie Patatèrne è fatte comm'a 
chiglie e' ammatte 'na sèrpa a 'natraietta e glie 
dà 'na zampata 'n cape e la 'ntontisce; apò ce 
repenza , se retorna e 'n co' 'n' auta botta la 
fenisce d'accide. A cosci è fatt'isse. Prima t'è 
accisa chelle 'ccone uva da 'na parte ; apò 'n 
co' 'n'auta pretiata de feglitte te l'è fenita d'ac- 
concia'. (1). 

— Come va che Tizio è ridotto a tal estremo? 

— Eh eh eh! A cosci ha, segnò'; quanne 'ne 
pete te 'ngenne , subet' a taglia' le puzze , se 
no la cancarèna comènza a saghe, saghe, sa- 
ghe 'nsi' che V arriva a glie stòmmeche e allo- 
ra oddia. Appila glie buce q^uann' è ciche , ca 
se lasse raperte, passa uoglie, passa addoma- 
ne, l'acqua glie aliarla e oddia robbe nostre (2). 

Vi trovate bene qua, su questo monte, eh ? .. 

— Gnorscì, assegnoria t'avviss'a trova' ecche 
la matina 'cótte quanne sta pe' 'sci' glie sole. 
Vite Sora loche a balle tutta croperta; 'na neg- 
ghia ghianca quagliata quagliata , spasa pe' 
tutta la chiana comm' agile mare ; e pò quan- 
n' esce glie sole se commenza a vede' comm'à 
'na barchetta cacche casa chiù auta (3). 

Che bel verso quel 

a 'Na negghia ghianca quagliata quagliata» 

con queir a dominante e prolungata , pronun- 
ziata lenta lenta quasi a dar tempo che la 
mano girasse indicando la campagna con Sora 
lontana. Il verso, la pronunzia, il gesto ti crea- 
no davvero innanzi la nebbia bianca e distesa 
come il mare, con una certa immagine d'infinito. 

Andando in busca di canzoni popolari, doman- 
dai ad un giovanotto. 

— Segnò, macare ne volisse; se me ce mette 
e se m' atticchie (senti) te ne *ice (dico) cente- 
nara e centenara. 

— E chi ve le ha insegnate. 

— G/t' une le 'mpara a glV ante, 

— Ma sono anticne? 

— Parte se cantavano anticamente e ce le si- 
me^mparate , parte V ammentamo propria un!\ 
quanne ce trovam* a canta , cantam^ a chelle 
ch'esce^ esce. Ce staoe cerCapò le lèggene agite 
libbre^ ma chelle so' belle composte. 

— E sapresti dettarmene alcuna? 
Sorridendo come di cosa strana disse un si 

di compiacenza , ma non si era persuaso. Se- 
detti sotto una beata capanna, ed egli vedendo 
eh' io faceva davvero , prima vergognoso , poi 
sfacciatosi, sdraiato a gambe in aria dettò det- 
tò, me ne dettò trenta. Vennero la sera gli al- 
tri e dopo le solite meraviglie e ritrosie pre- 
sero a dettarmene a gara. Erano quattro : il 
primo delle trenta, giovane intelligente, che sa 
leggere e scrivere benino, faceva spesso il cor- 



24 



rettore , e doveva stargli sempre alle costole 
perchè non mettesse le sue benedette parole 
pulite ; e quasi punto neir amor proprio si di- 
spiaceva eh* io levassi i termini dal suo sapere 
sostituiti ai dialettali. Ed aveva ragione: Dio sa 
che studio forse avea fatto ppr far sentire alla 
bella che sapeva parlar pulito! Gode una fama 
chi, fra gli adulti, sa far quattro rabeschi pur- 
chessia ; se ve n' ha alcuno è qualche milite 
congedata. A mano a mano però le scuole ru- 
rali cominciano a dare il loro prezioso frutto e 
n'avremo, n'avremo abbondante. 

(Continua) 

Vincenzo Simoncelli 



(i; Come vuole andare ? guando comincia quest' acci- 
dente di vento dalla parte di sotto (scirocco) è un guaio. 
Ti porta questa piena arrabbiata , per la quale non si 
può camminare di nessuna maniera ; per giunta quelli 
uccisi di folletti là per V aria hanno cominciato a fare a 
sassate (è incominciato a grandinare) e t* hanno guastati 
tutti i grappoli da una parte; poi il Padre Eterno ha fatto 
come quello che s' imbatte in una serpe in un tragetto e 
le dà una zampata in capo e la intontisce; poi ci ripensa, 
si ritorna e con un* altra botta la finisce di uccidere. 
Cosi ha fatto esso. Prima t'ha ucciso quel boccone (poco) 
d* uva da una parte; dopo con un* altra sassaiuola di fol- 
letti te r ha finita d'acconciare. 

(2) Eh eh eh! cosi va, signore: quando un piede ti duo- 
le {'ngenne da ange) subito a tagliare il magagnato, per- 
chè altrimenti la cancrena comincia a salire, salire finché 
t' arriva allo stomaco ed allora addio. Tura il buco quan- 
do è piccolo, che se lasci aperto , passa oggi , passa do- 
mani, l' acqua V allarga e audio robe nostre. 

(3) Signorsì, Vossignoria, (mi si passi la persona: tradu- 
co iettcralnaente) ti dovresti trovare qui la mattina pre- 
sto {célie dal lat. citus^ quando sta per uscire il sole. 
Vedi Sora là (loche) lontana tutta coperta ; una nebbia 
bianca densa densa distesa per tutto il piano come il ma- 
re; e poi quando esce il sole si comincia a vedere come 
una barchetta qualche casa più alta. 



NOTIZIE 

Il nostro amico e collaboratore, avv. Mario Mandalari, 
ha pubblicato nello Stabilimento tipografico Prete (strada 
S. Paolo, 10), un opuscoletto di ventiquattro pagine, con- 
tenente Altri canti del popolo reggino. È un'appendice al 
volume pubblicato dal Morano nei 1881. Questi canti non 
escono ora la prima volta alla luce: ventuno furono già 
editi ueWArchioio del Pitrè (voi. I, fase. IV), e dodici nel 
Giornale napoletano della dome/i(ca. Infine del volumetto è 
riportata ancora la fiaba Giastisia ed ingiusti sia^ pubbli- 
cata nel 1® numero di questo archivio; ed in ultimo qual- 
che brano dei varii giudizii dati sulla Raccolta maggiore 
dei Canti Reggini. 

L'opuscolo è dedicato all' Imbriani ; del quale e' è una 
graziosa risposta, a Ho amata — egli dice — la poesia pò* 
polare erotica , quando pochissintt in Italia le badavano ; 
e d*un amore ned inoperoso né cieco. Le diedi molto tem- 
po e molto studio; e fui schernito di farlo. Ma, ora^ ne 
8on ristucco ; ha perduta , quasi , ogni attrattiva per me. 
E come non saprei rimettermi a corteggiare , adeséfo , le 
belle donnine , probabilmente imbruttite , per le quali deli- 
raeo^ venti o quindici anni fa, cosi, forse, non saprò gu- 
stare Vopuscoletto SuOy che aerei letto, gongolando, tre o 
quattro lustri or sono. » 

La signora Maria Gabellone ha pubblicato , nella tipo- 
grafia Do Falco, un lavoro postumo di suo marito, il com- 
pianto poeta Domenico Bolognese , su i Canti di Napoli, 
« Alcuni de' presenti canti — lasciò scritto 1* A. — sono 
stati da me raccolti dalla bocca stessa del popolo e quasi 
recati dal nostro dialetto nell'idioma italiano; altri sonomi 
stati suggeriti da un brano , da un verso , da un pensiero 
attinto casualmente dalla gente minuta, che mi ha sugge- 
rita una imitazione ; ed altri infine li ho scritti cosi alla 
libera, rammentando fatti e luoghi della città e della pro- 
vincia di Napoli »« 



Accanto a cotesto traduzioni o imitazioni, c'è Toriginale 
vernacolo. Il Bolognese, scrivendo tale lavoro, non si pro- 
poneva scopi scientifici. « Scopo del mio lavoro — rgU 
dice — è mostrare che il nostro popolano non è sempre il 
goffo lazzarone che si vede. » Ma questa novantina di 
canti napoletani contribuisce anch'essa, senza dubbio, ad 
accrescere il materiale necessario per una elaborazione 
scientifica posteriore. 

Il maestro L. Denza, ha pubblicato, in una delle solite 
splendide edizioni Ricordi, un'altra melodia popolare na- 
poletana , Nenia , scrìtta sul canto 1* murarrag^io si nu' 
dubitare , raccolto dal nostro direttore L. Molinaro Del 
Chiaro, e stampato nella sua grande Raccolta. L' egregio 
R. E. Pagliara ne ha fatto , per comodo dei non napole- 
tani, una buona imitazione ritmica italiana, la quale su- 
pera felicemente le difficoltà dell'accento musicale, e può 
essere convenevolmente apprezzata solo da chi è pi^ovetto 
in simili lavori. 

Vincenzo Simoncelli, che si cela sotto il pseudonimo di 
Giunio Bruto, ha pubblicato, nel numero di febbraio delta 
Rivista minima, un altro « bozzetto di Terra di Lavoro», 
intitolato In campagna. Ritrae un altro lato dei costumi 
dei contadini sorani , che non aveva ritratto negli altri 
bozzetti di simil genere, pubblicati sul Preludio, 
Vi riporta ancora due canti popolari, che cominciano: 
« E tu se' quella stella più serena* » ecc. 
a So' stato tanto tempo per guardiano. » ecc. 



NeWArchiv far Litteraiurgeschichte Band. XI il dot- 
tor Rinaldo itóhler si occupa del libro di Hermann 
Varnhagen, Ein indi^ches Màrchen auf seiner Wanderung 
durch dio asiatischen und europdischen Litteraturen, MU 
ciner Tafel. Berlin 1882. 



MECB0I4OOIA 

Dobbiamo annunziare con dolore la morte del Gav. Sci- 
pione VoLPicELLA, il venerando e strenuo cultore della sto- 
ria paesana. Non è nell'indole del nostro giornale di occu- 
parci a lungo dei suoi studi!, del suo ingegno e della sua 
vita ; ricorderemo solamente, fra le sue opere, come afQne 
àgli studii di cui è lizza questo nostro Archivio, la mo- 
nograOa su Giambattista del Tufo, ricca d' illustrazioni 
sui costumi napoletani del secolo decimosettimo. 

Nacque in Napoli il 5 agosto 1810 da Vincenzo e Te- 
resa dei Marchesi Bonelli ; mori il 25 febbraio 1883. 

L. MoLiifARO Del Churo 



Posta, economicst 

Abbiamo ricevuto il prezzo d* abbonamento 
dai signori : 

41. Taglialatela Padre Gioacchino d. O.— Napoli. 

42. Ghirelli Cav. Luca — Napoli. 

43. Lombardi Prof. Alfredo — Napoli. 

44. Bojano Avv. Francesco — Napoli. 

45. Savona Avv. Ferdinando — Sora. 
4(5. Gianandrea Prof. Antonio — Jesi. 

47. Mac Leane Patrizio — Napoli. 

48. Bonucci Notar Giovanni — Napoli. 

49. Bonucci Enrico — Napoli. 
50i De Leva Gennaro -- Napoli. 

51. Piscitelli Barone Vincenzo — Napoli. 

52. Cannada Bartoli Avv, Gaetano — Napoli. 

53. Pasqualigo Prof, Cristoforo — Venezia. 

54. Croce Benedetto — Napoli. 

55^ De Nino Cav. Antonio — Solmona. 



Gaetano Molinaro — Gerente responsabile 



I 



Tipi Fratelli Carluccio S. Pietro a ftuilU 31. 



ANNO I. 



Napoli, IS Aprile 1883. 



NUM. 4. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBOHAHBITO àSSVO 



l 



Per r It*lU L. 4 — Bst^r» L. •• 

Un umilerò separato oentesimi 30. 
Arretrato centetimi 40. 
I manoscritti non si restitoisoono. 
81 eomnniobi il cambiamento di re- 
sidensa. 



Zsoe il 16 d'ogni mese 

L HOUNARO DEL CHIARO, Direttore 

I. lAIDlLIBI, I. 8CHIRILL0, L. COUtlSA, 
ft. AIALII, ?• IXDU SALIt ?. BOKNTGILU 

Mutoli 



▲7VEBTSNZB 



Indirizzare vaglia, lettere o manoscritti 
al Direttore linlifl Moltnar* liei 
Chiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione; Calata Gapodi- 
chino, 56. 



Le bagattellei (F. Taglioni) — Canti del popolo di Giu- 
gliano (L. Taolialatbla) — 'O cunto 'e fìeliinda e 'o Mo- 
stro (L. MoLiNARo Del Chiaro) — Costami sorani ( V. 
SiMONCBLLi) — 'U Munaciello (L. Correrà) — Canti del 
popolo di Serrara d'Ischia (G. Amalfi) 11 conto delie mele 
d' oro ( Amalfi ) — Una canzonetta abruzzese ( L. MoLi- 
NARO Del Chiaro) — Notizie — Posta economica. 



Per tntti gli articoli ò riservata la proprieti 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



LE BAGATTELLE (1) 

Non vi ha fi*a noi cosa più popolare del nome e della 
lama di quegli spettacoli o commediuole che, sotto il nome 
di bagattelle , in su le pubbliche piazze , allettano , non 
soltanto i fanciulli, ma eziandio il nostro popolino e, non 
di rado, raccolgono fra' loro spettatori persone a modo e 
serie. 

Chi ne fu r inventore? Quando ? D' onde assunsero co- 
desto nome ? 

Sono codeste delle dimando alle quali non riesce rispon- 
dere fondatamente; e la storia d^Heoagattelle si confonde 
con quella de' burattini. 

Grande è T antichità de' burattini. Furono conosciuti 
da' Greci, e poscia da' Romani. Erodoto già li conosceva. 
Platone nel primo Libro sulle leggi ne paria ed Aristotele li 
descrive chiaramente ove dice: « che se coloro che fanno 
« agire e muovere figurine di legno, tirano il Ilio che cor- 
ee risponde ad uno de' membri , questo membro obbedisce 
«e ali istante ; vedesì, continua egli, voltarsi il collo, chi- 
a narsi la testa, moversi gli -occhi , prestarsi le mani al 
<c movimento che si richiede; in una parola, questa piccola 
« persona di legno sembra viva ed animata. » 

£rodoto dava loro il nome di nevròsplesta ( tirati da 
nervi): i Romani li chiamavano simulacra o iniagunculae, 
Orazio, Petronio, e Virgilio ne fanno positivamente cenno. 

Quantunque dalla descrizione di Aristotele debba rite- 
nersi che i burattini de' Greci fossero abbastanza i>erfetti 
e ne' movimenti, e nel modo come si facevano agire, pure, 
è da supporre che non fossero simigliami agli attuali bu- 
rattini; sia perchè il Teatro era allora materialmente (e 
letterariamente) assai diverso dal nostro, sia perchè ì burat- 
tini di oggigiorno han raggiunto, e nella figura, e nella co- 
struzione, e ne'movimenti, e nel modo di vestire, tali per- 
fezionamenti da acquistare celebrità, e da rendere rinomati 
il Teatro Fiando o Girolamo a Milano , il San- Marti- 
niano o tìianduQa a Torino, ed il Piano a Roma (2). 






Ora, osservando i fantocci, attori d elle òa^a^^J^/^, m'in- 
duco a credere che, essendo, forse, andata perduta la no- 
zione del congegno o meccanismo usato da' Greci , si sia, 
in tempi a noi più prossimi, introdotta una forma sempli- 
ce, direi quasi, rozza, per muovere codeste figurine di le- 
gno; e che codesti fantocci siano la forma primitiva, l'in- 
fanzia de' burattini odierni. 

Gli interlocutori fissi di tali commediuQle sono il PmU- 
duella^ la innamorata di lui ; Culumbrina ; il Cimelio 
TrojmlinOj furbo rivale; il IHavolo; la Morte; e lo sbirro, 
Cofpural Terrìbile^ che corrisponde al Capitano della com- 
media deirarte, e cbe più tardi il popolo chiamò Capurai 
Trupea , dalla sua spiecialità di esser sempre e da tutti 
bastonato. 

Attrezzo scenico immancabile è la forca. 

E per verità la piacevole illusione che si prova nella 
maggiore o minor destrezza di chi fa muovere i burattini 
sul teatro è , fuori dubbio , minore dì quella che si ha 
dal casotto de' fantocci (bagattelle) in quanto che, non 
apparendo di essi se non la metà superiore del corpo , i 
loro movimenti riescono privi di grazia ; ed avendo , per 
agire , uno spazio assai limitato e senza tavolato, non può 
ottenersi la varietà dello scenario , né possono ammettersi 
se non due o , al più , tre personaggi insieme ; quindi 
povertà e monotonia d intreccio nell argomento rappre- 
sentato. 

Ed io penso che , appunto per queste condizioni assai 
limitate , l' inventore di questo divertimento abbia dato ad 
esso il modesto titolo di bagattelle. 

A quale epoca rimonta ia introduzione di queste com- 
mediuole più o meno semplice , più o meno comiche, ma 
che, pe' molti arguti, pe' lazzi non sempre castigati de loro 
personaggi, riescono si attraenti pel nostro popolo? 

Vari antichi scrittori del patrio dialetto ne fanno men- 
zione , e può affermatasi che nel secolo XVII esse fossero 
già in voga poiché , il Basile nel Pentamerone, il Tarda- 
cino nelle osservazioni alla Vaùisseidef W Capasso ne'/Sb- 
ettij con ispecialità vi riferiscono. 

In fatti nel Basile si trova : <( Sa schiattato de lo riso 
chiù che s'avesse ntiso le bagattelle (3. Egr. p. 368) ed il 
Tardacino dice; „ se movevano e parlavano commo a li 
mammuocciole de le bagattelle. » ( Vai. 4^? Lib. 5, Ott.) 

Convien dunque conchiudere che, anteriormente al Ba- 
sile, cioè nel secolo XVI , codeste rappresentazioni già go- 
dessero il favore del popolo. 

Non può dirsi, certamente, che i burattini sieno inven- 
zione italiana, ma sono indubitatamente i nevròsplesta di 
Erodoto, ì mobilia Ugna nervis alienis di Orazio ; i co- 
tenatìones imbiles di Petronio, i ligneolae hominum fi- 
gurae di Apuleio. E dall' Italia furono importati in Fran- 
cia soltanto sotto Cario IX , cioè nella seconda metà del 
secolo XVI , quando già presso noi , come abbiam detto 
poc'anzi, erano gradito spettacolo al popolo. Un ciurmatore 
chiamato Marion fu quegli che l'introdusse colà, e da lui 
presero il nome di Marionettes. Un cavadenti, Giovanni 



26 



Brioche soprannominato Fanchon^ li popolarizzò presso I 
francesi verso la metà del passato secolo; ma raggiunsero 
poi la più alta perfezione per opera del giocoliere Sera- 
phdn e, più recentemente, del meccanico Pierre, 

Le bagattelle sono oggi anche presso i francesi un gradito 
spettacolo popolare, che essi chiamano le tìieatre de Gui- 

f\ol^ dal nome del personaggio principale (tìuignol) che 
una specie di Pulcinella. 

In su loscorcio del passato secolo,in Napoli,vigente la repub- 
blica Partenopea , si pensò che la popolarità acquistatfi 
da codesto divertimento potesse usufruirsi a prò delle in- 
fime classi , e che esso potesse adoperarsi come mezzo e- 
ducativo e moralizzatore del popolo. Ed in vero a' 19 febbraio 
1799 il cittadino Troise presentava air Istituto Nazionale 
una mozione alBchè « tutti coloro che con teatro portatile 
« di burattini van divertendo il popolo minuto per le 
« piazze debbano trattare soggetti democratici ; e quei can- 
ee tastone che similmente per le piazze canian favole di 
« Rinaldo ed Orlaado , eantino delle istrulim «mìom ^ 
« Dolari ». 

La mozione fu approvata, e fu redatto un notamento di 
vari individui cui dar Y incarico di tali canzoni. Fra co- 
sloro il cittadino Sergio. Fasano pubblicava una canzone 
firmata V amico delir ommo e detto patriota, 

U educazione del popolo è oggidì uno degli argomenti 
che occupa e preoccupa le autorità , e che è soggetto di 
studi gravissimi per molti scienziati. Le bagattelle e la 
mozione del cittadino Troise non potrebbero esse dar luogo 
a qualche riflessione ? E dall' umile casotto di fantocci sa- 
lendo, man mano, alle maggiori scene, non si potrebbe a- 
dottare qualche provvedimento che riconducesse le rappre- 
sentazioni teatrali sii castigai ridando moresì 

£ pare che ne fosse tempo ! 

Ferdinando Taguoni 



(1) Il nostro popolo con voce corrotta, chiama il casotto 
de* fantocci, bagattelle o guaratielle e chi li fa muovere 
guarattellaro. Però, il solo Nicolò Capasso, ne'suoi soneù- 
tif accennando a quello, ha bataitclte\ ed il solo D'Anto- 
nio gli dà il nome ài guatiarelle^ che il volgo ha, forse, 
cangiato in guaratielle. Tutti gli altri scrittori del dia- 
letto lo indicano col vocabolo bagattelle. 

(2) Al F landa ed al San^Martiniano si riproducono so- 
vente i grandiosi spettacoli di opera e ballo che si rap- 
presentano al Teatro Regio^ ed alla Scala, 



Canti del popolo Sì Giugliano 

DUE PAROLE DI PROEMIO 

Per quanto ci è noto, canti del popolo di Giu- 
gliano in Campania, non ne furono linoggi pub- 
blicati, e questo gruzzoletto è il primo, che of- 
friamo ai lettori del Giambattista Basile. 

Abbiamo usata una scrupolosa esattezza nel 
riferirli ; ma sembraci inutile far divisione di 
sorta in così picciol numero: del resto, son se-^ 
renate , canzoni di amore , che i contadini di 
Giugliano ripetono , falciando le messi , od al 
chiaro di luna, sotto le finestre delle loro belle. 
Qua e là le abbiamo corredate di noterelle per 
illustrare qualche parola tutta propria di quel 
dialetto secondo alcuni di origine osca (V. Sca- 
lig. ad Varr. lib. VI.). 

Napoli, Febbraio 1883. 

Luigi Taglialatela 

1. 

D^ammore canto, e p'ammore me vene, 
D'aromore te le dico le canzune; 



Io noe canto, e 'sta core s' allèra (1), 
Io tanno canto, quanno sieote tune (z). 

2. 

Nu iuorno me sunnaie la Furtura (3}, 
Tannerà bella, me ne 'nnammuraie, 
Nce lu diciette: 'ngrata mia Furtura, 
Quanno me vuò' luvà' da tanta guaie? 
Essa se vota cu' nu core eruro : 
Fenìsceno li iuorne e nu' li guaie ! 

3. 

Àmeme, bella, e nu' te scunferare, 
Pe* le stongo paienno pene e scunftiorto, 
Nu' pozzo fa' lu meno 'i »«' t' amare, 
'N' ora ca nu' te veco so' quase miidrtof, 
Ferfele te sarraggto p' ogne parie, 
Gustante te songo i' fìn' a la morte 
r pe' duie Qne te putrìa lassarle 
pe* puièn:rta Te Dio, a pe^ ta mone, 

4. 

Trovate, ammore mio, trovate amante, 
r te lu dico spassionatamente; 
Nei aggio perduto 'ngelusia e chianlo, 
Spassate, ninno, ca ne so' cuntento. 
Fusse lu Dio ca te facìsse santo, 
Manco l' nocchie tuoie tenesse mente. 

5. 

Fuie (4), ronna baggiana, scellarata, 
Vulli cumm' a caurara re lu foco, 
Ra 'n attu (5) valle, e ra 'n àut' atto sfiate, 
Chi riàvulo te nei ha miso loco ? 
Rice ca tiene ciento 'finammurate 
Tu si' trattata pe' ronna re foco! 
Mo ca cbist' àutu ninno t' ha lassata 
schiatte, o criepe, o sbutte, stalle loco! 

6. 

Tengo nu ninno eh' è nu vruno (6) chiaro, 
Tene 'na ràzia che me fe murire, 
Quanno la sua presenzia cumpare 
Nce lùceno le prete re la via. 
Lu sole sta pe' l' ària e nun care 
Nennillu sta fremmalo, e nun cammina. 

7. 

Re passare ra cà, tu fanne vutò, 
Ca te la faccio fa' 'na mazziala. 
r te la faccio fare 'na vattuta 
Cu' nu bellu vurpino centrelliato. 
Accurtiscete la lengua, lungaruta, (7) 
Nun dice' male re li 'nnammuraie. 
Si 'n' àula vota parie resuluta, 
Te faccio fa' la capa comm' a rapa. 

8. 

Quanto si' brullo puozza scaìnzare. 
Pare la peste quanno vo' venire. 
Nu serpe che te pozza muzzicare, 
E nun puozza trovare conli^avinino. 
Pur' a la vota mia hai a turnare, 
Risperato le voglio fa' murire. 

9. 

Ninnu mio le guàrdie nce stanno, 
Comm' a furgiurecate nule simmo. 
Slammo nu mese e duie e nu' nce parlammo, 
E pure lu stessu bene nce vulimmo. 
Vengo ra nuovo e le cerco pietate, 
Vengo ra furasliero e nun d' amico. 

10. 

Nu iuorno fuie chiammato a rubbà' pere 
S' èveno sette re la cumpagnia. 
Lu Mane-muzza le cuglieva 'ncoppa, 
Lu Senza-caramisa l' appallava (8) 'nzino (9) 



27 



Lu Muto 1u vuleva palesare, 
Lu Surdo se mettette a usuliare (10), 
Lu Cecato se mettelte a fa' la spia, 
Lu Senza-piere se mettette a fuire. 

(Continua) 



(1) olièra, rallegra. 

(2) tune^ tu. 

(3) Ho scritto Furtura con lettera maiuscola, perchè il 
popolo crede che la bona soiorta, e la mala sciorta fosse 
una donna : una specie di fata benefica o malefica. 

(\) Fuje, fuggi. 

(5) attu^ punto. 

(6) vruno^ bruno. 

(1) lungaruta, linguacciuta. 

(8) appallava, parava. 

(9) *nzino, in seno. 

(10) usuliare, ascoltare. 



IV. 

'O CUNTO 'E BELLINDA E 'O MOSTRO 

Ce steva 'na vota nu paté. Chistu paté aveva tre IBglie, 
che stèvano 'ncampagna. 

Nu iuorno 'o pale avelte 'na chiammata pe' ghi' abba- 
scio 'a Marina ; pecche èva arrivato nu bastimento chino 
'e mercanzie, che èrano robbe soie. '0 paté dicelte a 'sti 
flBglie : Che cumpriraento vuliie quanno torno ? ognuna che 
me cerca 'na cosa. 

'A primma le cercaie 'na vesta ; 'a siconda le cercaie 
Du scialle ; 'a terza, che se chiamaiava Bellinda, le cercaie 
'na pianta 'e rose. 

'0 pale se piglia nu cavallo 'e sella e se ne parte. Pas- 
sa pe' nu vosco; mente passa pe' là, venette 'na gran tem- 
pesta: lampe, truone, saette , pareva ca tanno se ne care- 
va 'o cielo. Vedette 'nfondo nu gran palazzo , trase din- 
f a 'slu palazzo e nun c'era perfettamente nisciuno; trova 
surtaùto na stalla aperta cu' magna' pe' uno cavallo. Po- 
sa 'stu cavallo suio e se ne va 'ncoppa a 1' appartamen- 
to, e non ce steva nisciuno. Accuminciaie a trasi pe' tutt' 'e 
ccàmmere e nun ce truvaie manco 'n' ànima. Finarmente 
trova 'na gallaria cu' nu cammino alluromato cu'nu cippo 
'e legna , e 'na càmmera 'e lietto cu' nu lettino pe' una 
perzona, e 'ncoppa a 'na seggia nu vestito. 

Isso se leva o suio 'nfuso e se mette chillu che steva 
'ncopp' 'a seggia asciutto. E chillu là 'nfuso 'o mette vi- 
cino ò cammino p' asciutta'. 

Fraitanto se ne va int' a Tàutri ccàmmere, e trova 'na 
bella càmmera da magna' ^ e' 'a tàula posta pe' una per- 
zona. S'assetta e magna. 

Doppo magnato, se ne va a cucca' a chillu lettino suio, 
pecche 'a matina aveva da parti' priesto. Quanno se cuc- 
cale, primma 'e s'addurmV, mettette 'na pistola càrreca sot- 
i' 'o cuscino. 

Appena fatto iuorno se sceta e trova 'na bella tazza 'e 
ciucculata vicino 'o licito. Rimmane stunato senza vede' ni- 
sciuno. Se ne seenne abbascio , e quanno ielle pe' piglia' 
'o cavallo ini' à stalla, vedette 'nfondo 6 palazzo nu can- 
ciello cu' nu ciardino a do' e' èrano tanta belle piante 'e 
rose. Apre 'o cancieMo, e, pigliàoneno 'na pianta pe' ci 'a 
purlà' à figlia , esce nu gruosso animale , e vuleva dà' 
ncuoUo a 'o mercante, e le dicette: Io me chiammo Mo- 
stro , e tu non zi' slato grato a tutto chello che t' aggio 
fatto , e mo te vuò' piglia' pure 'sta pianta 'e rosa ca i' 
tengo tanta cara. Allora 'o mercante le dicette 'a verità , 
ciovè, e' 'a figlia vuleva 'sta pianta. Allora 'o Mostro le ri- 
spunnetle: Io te dò 'a pianta, ma m' hai apprumèttere ca 
fra duie o tre ghiuorne mi ha purtà' flglieta cà. 

'0 mercante se mettette a chiàgnere , e le dicelte si , 
pecche chillo brutto Mostro 'o minacciale. 

E 'o mercante allora se ne iette à casa soia. 

Arrivato à casa soia 'e (figlie l' addimannàino pecche 
èva tumato accussl spaventato. Isso, chiagnenno, le dicet- 
te lutto chello che T èva succieso. 



'A figlia, Bellinda, le rìspunnette ca èva pronta a ghl', 
a d' 'o Mostro , e 'o iuorno appriesso se hcenziaie cu' li 
ssore, e se ne partette e' 'o pale. 

Arrivale a chillo palazzo e truvàino priparate doic man- 
giatore , a vece de una ; sagliette 'ncoppa e truvàino duie 
liette, a posta de uno; trasètteno dinto 'a càmmera 'e man- 
gia', e truvàino 'a tàvula priparata pe' duie perzune. Se 
mètteno a tàvola , e se mettèttero a magna'. Quanno stè- 
vano 'nfine 'e magna' 'e frutte , sentèttero nu remmore 
e bedèltero 'o Mostro vicino 'a tàvula; che l'èva venuto 
a tene' cumpagnia. E le dicette: Bravo , sito state 'e pa- 
rola, mo ve voglio bene. 

Bellinda se spaventale assaie, vedenno chillu brutto a- 
nimale, eh 'èva 'o Mostro; ma nu' ne faceva addunà' 6 pa- 
té pe' nu le dà' dispiacere. 'Ntanto 'o Mostro dicette 6 
paté che nun z' avesse pigliato dispiacere, pecche l'aveva 
lassa' 'a figlia. 

'A figlia dicette che se ne fosse iuto, pecche essa ave- 
va 'o curaggio de rimmanè' e' 'o Mostro. E, à matina tru- 
vàino doie tazze 'e ciucculata, là, vicino é lettine. '0 paté 
s'abbraccia 'a figlia, e chiagnenno chiagnenno, vasa 'a figlia 
e se ne va. 

'Ntanto à matina appriesso, essa va a magna' a V oi*a 
sòlita. Gumparesce 'o Mostro, e le dice: I' suio a chest'o- 
ra te poazo veni' a truvà', pecche 'e iuorne miei *e passo 
vicino à fumana abbascio 'o ciardino. E dice a Bellinda: 
Tu, 'ntra 'o corzo d' 'o iuorno, vièneme a truvà' abbascio 
'o ciardino. 

Bellinda , cu' tutto ca se metteva apprimma appaura , 
accuminciaie a pigliarne nu poco d'affezione, pecche diceva, 
si chistu vulesse fa' male nu' me farria tanta ceremmònie ? 
E ce mettette overo affezione. 

'Na matina, quanno 'o Mostro sagliette a Torà de ma- 
gna' a truvarla, le dicette : Viene cu' mico; 'a purtaie a 
l'ala parte de 1' appartamento , le facette vede' na porta 
chiusa a do' steva scritto 'ncoppa: Appartamento de Bei- 
linda e le dicelte, aprenno 'a porta ; Chesta è tutta robba 
loia, e le facette vede brillante,oro, argiento, prete prezio- 
se, tanta belle cose. He' visto ? le dicette, che è tutta robba 
loia, basta ca tu te stale sempe cu' mico, e nu' m' ab- 
bandune maie* Essa a 'sti pparole accumminciaie a chià- 
gnere, ringrazziànnolo assale assaie 'e tanlb bene , che le 
faceva abbudè'; ma uno piacere vuleva da 'stu Mostro, ca 
avarria vuluto vede' 'a famiglia soia 'n' ata vota . 

'0 Mostro accunzentetie e le dicette. Si, l' 'a faccio vede' 
sùbito, viene cu' me iuto a 'n' ata càmmera, e la purtaie 
int' a 'na càmmera ascura. Là steva nu grande specchio 
ciiplerto cu' nu velo. Tira 'stu velo 'o Mostro , e le (Uce: 
guarda ! 

E essa, guardanno int' a chillu specchio , vede 'o paté 
int' a nu lietto che steva murenno, 'e ssore vicino 'o hello 
che chiagnèveno a tanto 'e lacrime. 

Bellinda , vedenno chesto , accumminciaie a chiàgnere 
pur' essa, e dicette a 'o Mostro ca vuleva parti' sùbito , e 
ghl' a d' 'o paté. 

'0 Mostro le dicette ca si. Le dette 'n aniello, e le di- 
cette: stasera quanno te cuoche, miette 'st' aniello 'ncoppa 
a 'na seggia, vicino 'o lietto tuio, e bidè ca te truvarraie 
'dimane à casa tela. Cumm' ìnfatte accussl fuie. 

'A matina se scetale Bellinda, e sa truvaie à casa d"o 
paté suio. Vedènnose e' 'o paté , accumminciaie a chià- 
gnere, e 'o patre, vedènnola, accumminciaie a sentirsi chiù 
meglio. '0 pale sentènnose passa' chiù meglio, precaie a 
Bellinda che se fosse stata sempe cu' isso. rJo , papà , le 
rispunnetle Bellinda , pecche i' aggi' a èssere grato ó Mo- 
stro , e le raccuntale a 'o paté tutto chello che l' aveva 
fatto 'o Mostro; e che essa aveva apprummiso a 'o Mostro 
'e lurnà' doppo otto iuorno, si no, nun ci'otruvava chiù. 
E essa, siccorame ca 'o vuleva abbaslantamente bene, vu- 
leva mantenè' 'a parola e' 'o Mostro. Ma 'o paté , tanto 
e' 'a priaie , e tanto che lacetle , 'a persuadeite a stàrese 
'n àutri cinche iuonie, e po' se ne iette. 

Cumm' infatte, 'a sera aparaie àniello 'ncoppa a 'na seg- 
gia vicino 'o lettino suio, e à matina , pàffete I se truvaie 
a d' 'o Mostro. 



2S 



Aspetta Torà 'e tàula, e 'o Mostro nun ze vedeva. Essa 
allora piglia e seenne abbascio 'o ciardìoo , va vicino à 
funlana e trova 'o Mostro, puveriello, che sleva murenno. 
Essa sùbeto piglia Tacqua che steva d' inf 'a funtana e ci 
'a menale 'nfaccia; ma 'o Mostro nun ze rouveva. 

'A pòvera BeUinda corre 'ncoppa e piglia 'na carrafina 
d'addore che teneva vicino 'o lietto suio. Quanno esce d' 'a 
cànamera soia cu' 'sta carrafina , trova dinto 'a gallarla , 
assettato a 'o divano nu bella giòvene cu' tanta medaglie 
'mpielto , che le dice: Vuie a do' iate ? a do' cuiTite ? 
Essale facette nu sfostlrio, dicènnole: nu'me state a secca'! 

E i' ve dico , le rispunnette chillu giòvene , ca si iate 
dinto 'o ciardino , nun ce truvato a nisciuno , manco 'o 
Mostro. 

E pecche ? rispunnette essa; 

Pecche 'o Mostro songo i', che aggio fei'nuto 'a condan- 
na mia. Pecche i' so' figlio 'e princepe, e avetle 'na cun- 
danna db 'e ffate de rimmanè' 'ntra 'o stato 'e Mostro , 
fino a tanto ca nun truvavo 'na giòvene ca nun ze spa- 
ventava 'e me, e ca se veneva a sia' à casa mia. Chesta 
giòvene, ca nun ze metteva appaura 'e me, e ca se steva 
cu' me, i' me l'avarria dovuta spusà'. 

E accussl, ditto 'nfallo, se facette 'na gran festa 'e ballo, 
'n' allummenazione *tanta bella , siione , caute , tre bande 
che sunàveno dinto 'o ciardino, cumprimente a zeffunno: e 
e nuie che stammo cà assettato, ce facimmo 'na grattata. 

Raccolse in Napoli L. Molinaro Del Chiaro 



COSTUMI SOEAm 

( Continuassione vedi, n, 2 e 3 ) 

Non posso dimenticare un birichino di gio- 
vanotto in sui diciannove anni, che mentre gli 
altri dettavano, usciva della capanna, e guar- 
dando le stelle ripeteva ad alta voce la sua 
canzone ; e poi , chiamato , rientrava con un 
presente militare, e gestendo declamava incom- 
prensibilmente una canzone da lui detta crapa- 
resca^ cwì gli altri mi aiutavano a capire. Al pro- 
nunziare questo verso: 

« Di' ca vo' sempre ama glie prim' amore» 

serrando le mandibole, battè fieramente il pu- 
gno sulla tavola in segno di viva commozione 
come chi ripete un verso eh' esprima efifìcace- 
mente un proprio sentimento. Poverino! Faceva 
ali* amore e non senza rivali! 

A proposito dell'amore, giova dirne qualche 
cosa. La rozzezza ed il materiale sviluppo na- 
turalmente li fanno esser sensuali ; pure, ben- 
ché breve, hanno anch'essi il periodo primave- 
rile tutto rose ed odori: ed in questo stadio bi- 
sogna sentirlo Tinnamorato Quando deiraltissi- 
ma cima d' un pioppo potando manda all' aria 
ed alla bella con la voce sonora queste note 
soavi : 

Bella, me ne venghe chiane chiane, 
'Nanz' alla casa tia m'abbecine, 
Trove la porta aperta e me ne trase, 
Trovo la seggia a spass' e me repose. 
S' atfaccia la patrona della casa: 
Che va facenne, giglio, fra 'sse rose ? 
r so' ne povre giòne sbenturate, 
'N'ora non pózze sta' senza le rose. 

Ma presto giunge il meriggio : i sensi caldi 
di gioventù, di vita cercano la voluttà e le in- 
genue immagini delle rose e del giglio cedono 






al petto ^ngelecatej aUa cambreUa^ al letto nu- 
ziale ed addio, sogni dorati dell'albe adolescen- 
ti ! Quando l' inverno si appresenta rigido alla 
stanziaccia del giovane contadino, il focolare, il 
silenzio , il fomite delle coltrici destano vivo 
il desiderio della donna ; la solitudine gli dà 
uggia; pensa che ad altri un essere rende beati 
que' momenti scuri per lui, ed erompe in u- 
no sfogo di rabbia. Chi 1' ha conosciuto al gi- 
glio ed alle rose si ricreda : 

Din'aglie cele (4) comme pózze là', 
Ecche glie 'mmern e sto senza mogUera; 
A casema 'n ce pózze propi' andà', 
Ca mogliema 'n ce trov* e me despère. 
'Manc'aglie lette me ce pózze sta'. 
Dò' che me vote le fridde me ve'; 
Ma mo' comenzaria a jastemà': 
Mannaggia pure la moglie e chi la tè'. 

Pensare che con questa canzone i nostri vil- 
lani erano veristi prima dei oertstH Che ne di- 
rebbe il buon Tommaseo, il quale si scandaliz- 
zò di certe ingenue scappatine toscane ? 

I canti non sono di ogni tempo, ma secondo 
il lavoro. Quando 

ZefBro spira e il bel tempo rimena, 

la campagna presenta lunghe file di vìllici che 
sudanti vangano sotto i raggi del sole. La se- 
ra stanchi , intontiti dal caldo e dalla luce li 
trovi per terra a dormire un sonno ben guada- 
gnato. Il canto è niente in queste sere beate ; 
alla domenica, la. vacanza ed il vino muovono 

aualche organetto che suona la solita tarantella 
al motivo breve e ripetuto. Nel giugno , nel 
luglio il caldo e la fatica neppur consigliano 
il canto : la festa della nostra campagna è il 
ricolto del granturco , il così detto montone , 
piena d'incidenti e scene originali; in quest'oc- 
casione si sciorina la copia immensa delle lo- 
ro canzoni. 

Si è suU' aia: in mezzo s' innalza il mucchio 
delle pannocchie (montone); seggono intorno a 
terra gl'intervenuti che scartocciano le spighe. 
Vecchi , giovani , bambini, donzelle, maritate, 
tutti vi convengono attirati chi dall'amicizia , 
chi dal divertimento, chi dall'amore. Il vècchio 
fa il suo augurio al contadino che dà la festa; 
i giovani discorrono, ridono, schiamazzano, ga- 
reggiano neir opera , che il pensiero del ballo 
fa pizzicare i piedi. L' organetto e la chitarra 
battente sono all' ordine, comincia il canto. Odi 
r innamorato cantare alla sua bella una canzo- 
ne di queste tutta miele: 

Faccia de paralse addò' si' nata, 
Tante bellizze addò' le si' comprile? 
Màmmeta era propia 'na vera fata, 
T' è fatta gbianca, rosela e collorita. 
'Mpette ce té' du' rose 'ncarnate, 
E conzomà' me vó' chesta mia vita; 
Quanne scurterà' la nostra croce, 
'iam' allora alla chiesia 'n santa pace (4). 

E cosi il pretendente, il rivale , il fidanzato, 
la sposa , la promessa , il tradito , tutti si sfo- 
gano ciascuno con un canto, cui la parte inte- 
ressata spesso risponde dando luogo ad un col- 
loquio melodrammatico tra un pubblico indiffe- 
rente e chiassoso. 



29 



Peculìar cosa di siffatte feste è pure la gara 
tra le donne nei canto degli Stornelli. Due si 
sfidano , e comincia il canto alternativamente : 
amant alterna Camenae ; vince chi ne sa 
di più. 

Ogni tanto mentre si lavora, il padrone si 
affaccia col suo schioppo alla valle, alla strada, 
su d' un rialto e scarica in segno di festa; an- 
che questa è una sfida con gli altri festeggia- 
tori circostanti, tanto che uno di essi mi dice- 
va altero con lo schioppo in mano: chi fé' chiù 
prole spara. 

Finito il lavoro , s' imbandisce suir aia la 
rustica cena e tutti intomo intorno mangiano e 
cioncano a sazietà. 

Dopo , ecco il ballonzolo. L' organetto , la 
chitarra, o il piffero intuonano la monotona ta- 
rantella; tutti si stringono. 

{Continua) 

Vincenzo Simoncelu 



(4) Di al cielo. 

(5) Ogni canzone è di due strofe ; i modi di cantarla 
sono due. L' uno è propriamente campagnuolo ed ha per 
accompi^namento il * solo organetto , che a volte pure 
manca. Odesi una voce sola cantare alla stesa i primi 
due versi, ed il coro raggiungerla alla settima sillaba del 
verso cantando all' unisono fìno al termine di esso ; poi, 
il passaggio dell' or^netto; la voce ripiglia gli altri due 
versi e la strofa finisce. Cosi per la seconda , e termina 
la canzone. 

L' altro modo è comune anche in città , ad una sola 
voce coir accompagnamento del violino, dell'organetto, o 
delia chitarrat strumenti che mancando in campagna so- 
no sostituiti dalla voci del coro. 

Anche in questi canti se qualche sillaba soverchia, co- 
me spesso, la mangiano; e se manca la suppliscono pro- 
nunciando; anzi ho notavO come, dominando ne' versi in 
generale T accento sulla settima sillaba , essi dicendoli 
posano la voce sulla sest^ , facendo scorrere la settima 
senza accei to tonico: cosi ripetendo: 

« Bella ce conte e 'nce conte pe* te^ 

fanno cader l'accento sul 'noe, come ne' versi italiani con la 
tronca o col monosillabo nella sesta: 

tf Ingiusto feci me contro me giusto. » 



U MUNACIELLO 



\ 



È vecchia la storia che narro, e pure quanti sorrìsi, quan- 
te paure dod ispirò ! 

I Romani chiamavano Lemures i loro spinti familiari, 
beninteso , gli spiriti cattivi, ed i nostri buoni Napoletani 
li chiamarono con una voce greca mcuszamaurielU o mt«- 
nacieUi. Chi era dunque questo munaciello ? D'ordinario 
era un nano assai mostruoso , con le fibbie d' argento 
sulle scarpe , con la chierièa e con la scaezettella ( zuc« 
chetto ) rossa in lesta , che girovagava per la casa reci- 
tando l' ufiBcio ; talvolta era un vecchio venerando con 
parrucca e codino che saliva e scendeva le scale, quando 
erano air oscuro , e tirava il campanello di questa o di . 
queir altra porta , con grande spavento degli abitanti , e | 
con gran suo contento per la paura che loro aveva cac- 
ciata in corpo. Spesso era una seipe che veniva ogni mez- 
zodì in quella data casa , per ingollare un piattello che gli 
era serbato , od un altro animale qualsiasi , e sovente era 
un elegante giovanotto. Da tempo immemorabile essi infe- 
stavano Napoli, conoe mi narrava un popolano; apparendo 
in ispedal modo a coloro, ai quali nel battesimo non era- 
no state ben pronunziate le parole sacramentali . e ci volle 
nientemeno il Concilio di Trento, per metterii al dovere , 
perchè da quell'epoca, si asserisce, che non si sono più 
visti , od almeno, assai di rado. 



Gol mtmacidlo ci voleva coraggio ; se si giungeva a to- 
gliergli la scazeettella il colpo era fatto : per riaverla 
egli dava lin pugno di oro;come ricorda financo Petronio nel suo 
JSatyricon. ( audivi.,., incuboni pileum ra/puissei et the- 
saurum invenit). E quando poi pigliava a proteggere qual- 
cuno ohi allora la casa aunnanava comme a V oro (vi 
era cioè labbondanza dell'oro) il che avveniva quando nella 
casa vi era qualche fanciulla di cui il folletto s'innamorava. Si 
trovavano in casa oggetti senza sapere donde fossero arrivati, e 
spesso pure delle vesti per l'amata donzella. Sovente quando ella 
saliva sul suppegno della casa , s' imbatteva in un vago 
fanciullo che T invitava a giuncar seco con de' quattrini, e 

Ei da vero cavaliere gliene faceva presente ; e cosi la sua 
Ha , in breve, si accumulava un bel gruzzoletto. Anzi mi 
si narra di un munaciello che da vero burbero benefico , 
volendo arricchire un suo protetto , una notte fece sfilare 
nella stanza, ove questi dormiva , una confraternita con la 
bara in cui era un cadavere di oro massiccio , che poscia 
venduto a pezzi, fece diventare milionaria l' intera famiglia. 
Che volete , son bizzarrie da folletto t 

Ma quando gli montavano i grilli, oh ! allora c'era da di- 
sperarsi e v'ha tra gli altri un aneddoto curiosissimo che 
merita proprio di essere narrato. Un povero avvocato abi- 
tava una casa dove e' era 'u munacielhy il quale si divertiva 
ad involargli i processi. Chi non è avvocato non può com- 
prendere di quanto rilievo fosse il furto. Il giorno della di- 
scussione giungeva, e l'avvocato dava del capo nelle pareti ; 
non aveva come difendere il cliente, il quale accendeva moc- 
coli all'avvocato ed al muno/ciello. il povero seguace di 
Temi, disperato, si appigliò ad un rimedio estremo: stabilì 
di mutar casa , o, come si dice da noi , volle fare il quattro di 
maggio. Detto btto, chiama i nostri tradizional i vastasi fa 
mettere su di un carretto libri, carte, e tutte le altre suppellet- 
tiU ; ma qual non fu la sua maraviglia, quando vide sulla 
sommità del carretto, indovinate chi 'u munaciello^ il quale 
in aria da burlone gridava e schiamazzava ; cagnammo 
casal 

Dove abitava 'u munaciello 1 quali erano i quartieri 
smì prediletti ? Talvolta nelle vie tortuose e strette di 
S. Agostino alla Zecca, di ForcellOy e dei Mercanti : 
in qualcuno di quegli antichi e lugubri edifizii si vedeva 
a notte avanzata una striscia di tela che scendeva giù da 
una finestra , e poi risaliva , si sentiva un suono di tofa 
un guaito , od altro sinistro rumore ; senza dubbio in 
quella casa ce steva 'u munaciello. Certe volte scopava 
'a casa e 'nf asciava 'a criatura a qualche donna del vol- 
go: ovvero per farie dispetto, le strappava i capelli, per- 
che costei ciariona, come tutte le donne, aveva palesato 
alle sue amiche i favori che le aveva prodigato 'u muna- 
ciello. E spesso dai meschini abituri passava nella magio- 
ne dei ricchi, e correva fino a Posilipo, perchè in una di 
quelle ville c'era una vezzosa damigella di cui egli era 
innamorato cotto, ed alla quale involava ora il ditale, ora 
l'ago, ed ora gli spilli, come ci dice quel papo ameno di 
Giambattista Lorenzi nella prefazione al suo melodramma: 
La finta maga per vendetta ; anzi soggiunge che fu 
onesto il soggetto di una graziosa commedia recitata al 
Teatro Nuovo di Napoli, sul finire del secolo scoi-so. 

Qualche volta però , invece del munaciello, in qualche 
casa si dice che vi sia la bella'mbria/na, la quale è una 
specie di munaciello femmina , una fata benefica, è YaH- 
rio della casa, e qualche popolana, la sera, rientrando in 
casa è solita dire bona sera bella 'mbriana. La bella 
'mbriana è l'amica dei fanciulli, e se furono savii, la sera 
dell'Epifania scende giù dal cammino ad apportar loro dei 
doni. 

E se non è la bella 'mbriana od 'u munaciello Yaùrio 
della casa lo sono le vaccarelle di S. Pasquale, i serpi, 
le lucertole, e gli scarabei pe' quali anche i Russi hanno 
un culto speciale, anzi credono pure ad una specie di mu- ' 
nodello chiamato Domovoi (spirito familiare) le cui ge- 
sta sono quasi simili al nostro munaciello, non altrimenti 
che quelle dei Cabolis: è là nota comune delle tradizioni. 

LnGi Correrà. 



80 



\ 



Canti del Popolo di Serrara d' Ischia 

I. 

A 'mtniezo Fumana (l) ne' è nata 'na noce, 
E tutta 'nturnìata de vanìmace; 
A 'nimiezo nce sta ninnu mio 'ncroce, 
Chiangenno senope ca vurria fa* pace 
E tenuo faciarrò pace cui vuje 
Quanno la stoppa arreventa vaoimace. 

n. 

M a 'su luogo ne' è nato nu lupo, 
Tutte le zetelle s'ha mancete; 
N' ha rummesa V ata la chiii lenguta (2), 
Pe' chedda (3) lengua nu' s' è maretete (4). 

III. 

Gumme si' brutta tu chiù de 'na peste ; 
La rogna accatasta', 'vuje nu' putite, 
Nu juorno remerai 'mniiezo a lu mare, 
Crelenno eh' era Ninno, che bene va ; 
Ed era la serena re lu mare, 
Se rimmirava lu suo viso bello. 
A 'na mano portava sèdice anello (5), 
A 'n' ata po' purtava lu specchiale (6), 
Figliulo (7), tenne te lasso la mano, 
Quanno la fica fa 'na lumencella. 

IV. 

Nu juorno mi compraje 'nu bricantino (8), 
Era patrona de l'acqua salata (9): 
Io èva càrreca d' argenteria, 
Poteva i a' fa' guerra e' 'a cetate. 
Si attocca a fa' guerra cu' ninnu mio. 
Cinquanta juorne e quaranta nuttate; 
Si attocca a cummatte' cu' 'n atu ninno, 
Fàmmena a chiava* tu 'na cannunata (10). 

V. 

Scior di castagna, si' nato ùl marina ; 
E tu vaje a murire a la campagna. 
Da loco se canusce ca si' bona. 
Te ne 'nnammure de quante ne vile (li). 
Si ne velisse ciento a la semmana, 
A tutte te prumietti e lice (12) : « Sine ! » (13). 

VI. 

Faccia d'una nava vuliente (14), 
'Se bellizze luoje nu' servono a niente, 
Pricùrete (15) 'e truvare 'n ato amante, 
Bella cumme 'e vi^e ubbidiente ; 
Quanno la sera te la cuoche accanto, 
La matina te suse frisco e cuntento (16). 

Uh! mare e rena. 
Vetta a mamma toja è panticata (17), 

Uh! mare e ruta, 
Zùchete 'so cetràngulo spremmulo! 

VII. 

Gumme si' fatta brutta! Chiù nu' m' aggrazia (18), 
Ca 'nfronie le purlaie come e malizia (19). 
Cu' lu parlare mio trasile 'ngràzia ; 
E jelte à bona (20), e tu cu tanta malìzia, 
Mo' piglia 'na catena e fatti li stràzii (21), 
Tu nu' puoi Y a diàvulo a fa' sarcizio 

Uh mare e bia ! 
La morte è certa, T amore è pazzia. 

VIIL 

Òlio (22) io porto a vige, òlio murtale 
Menche lu nomme tujo pozzo senti'. 
Si' stato malatiello a lu spetale, 
Cu' doje freve maligne liente (23) é bene. 



Vurria ca lu mièleche (24) urdenasse, 
Cu' la sputazza mia che te vuaresse (25). 
Chiuttosto stongo 'n anno a nu' sputare , 
Ca a li pene t' oggia (20) fa' murire (27\ 

Uh ! mare e core, 
Tu schiatte e criepe e i' 'n àuto me trovo. 

IX. 

È nata 'na scarola miezo ó mare. 
Li Turchi se la j òcauo a premere ; 
Chi pi' la cimma e chi pi' lu streppone 
A chi la vence primma a 'sta figliola (28). 
'Sta figliola è 'na figlia di nutare ; 
S' ha ìfatta 'na vunnella tutte mure (29), 
A 'mmiezo nce ha misa'na stella Liana^ 
Pe' fa' pazzia' l'amante a duje a duje (30). 
Fa pazzia, lu sole quanno sponna (31) ; 
La luna quanno rompe a lu levante. 

Uh ! mare e nella. 
Tu pe' me fa' muri' si' n' nata bella. 

X. 

Into a 'su luogo nu' se nce po' stare, 
Cu' lu remmore de le zi'arelle. 
Nce sta 'na nenna che li sape fare, 
Tutte chelure ca parano belle. 
Tene la mamma ch*è 'na rufBanara, 
Se va vantanno ca la fiRJia è bella, 
Nce aggio manneto, si me la vo' rare. 
Ha itto (32) ca la veste raunacella, 
E i' jaslemmo ca ne' eggio (33) manneto, 
E le se pozza tègnere 'a vunnella ! 

XI. 

Int' a 'stu core ne' è 'na paluramella, 
Quanto se praja pe' lu sujo vulare 
Nc'è nu farcene cu' le campanelle 
Va 'ntuomo 'ntuomo, e se la vo' pigghiare 
E s' 'a pigghìa nu' la tocca 'nterra, 
'Nzino a lu cielo la sta apoustanne ; 
Essa se vota graziosa e bella : — 

— « Seguita, amore mio, ca m' avarraje ! » (34) 

XII. 

Vurria jettà' nu lazzu fi-a li ciele 
Pe' cuntare li stelle, una ped' una; 
I' l'àuta sera le jette ^ cuntare, 
Pe' mal fortuna nce 'ncappaje la luna, 
La luna se ne jette a lamentare. 
Se ne jette a piere 'e nuosto Signore ; 

— « Che donna è chesta eh' avite creata ? — 
« Calava la potenza de lu sole (35) ». 

xm. 

Mamma, mamma, n'accatta' chiù legna; 
Me so' 'nzurato 'mmiezo a 'na campagna ; 
M' aggio piglialo 'na donna benegna; 
Ogne capino costa nu diamante (36). 

XIV. 

— Quanto si' brutta, ca puozz' essere accisa ; 
'Ncanna la puozza ave' 'na scuppettata; 
Po' te ne viene cu' 'sa vocca a riso 

— « 'Nammiiratelle mia, facimmo pace ! » 

— « Che voglio fere la pace cu' lieo; 

« Tu a 'na taverna jesce e a 'n'ata Irase ! » (37) 

XV. 

Quant' è bello 1' ammore vocino ; 
Si nu' la vire, le siente parlare ; 
La siente qunnno clìiamma a la gallina: 

— « Tetella, tetella, vienetene a magnarle ! » 



SI 



XVI. 

— Quanto eh' è beilo lu murire acciso, 
Abbocca & porta de la 'nuammurata ; 
L'ànema se uè vola 'mparaviso 
E 'o ciiorpo se lu chiàgneno a la casa, 
Viene, nennella, cif \sa vocca a riso, (38) 
Viènete a chiagne' 'o tujo 'nnammurato. 

Eaccolse Gaetano Amalh 



(1) Fontana è una frazione del Comune di Serrava 
Ì^ow<iwia. Unaeanzonetta locale dice: Mugnapécore'uFuri' 
ianese* Vedi i miei Cento canti del pop. ai Ser. d'ia. Mila- 
no, 1822, N.** ICQ. — Confronta anche le mie Maldicente 
paesane^ Napoli 1882, dove son riportati alcuni fatterelli, 
raccontati a proposito de' Fontanesi. 

(2) Lenguùa, linguacciuta. 

(3) Chedda, quella. 

(4) Una variante di questo canto si trova anche in dia- 
letto di Piano di Sorrento ; e l* inizio è cornane in altre 
canzonette popolari. 

(5) In questo verso v' è una sillaba di più. 
. (^) Specchiale, specchio. 

(7) Var. Peciuocco ec 

(8j Una canzonetta ligure comincia: Mi vojo 'mbarca 
*nù ques*tu brigantina ec 

(9) Acqua salala^ del mare. 

(10) Var. Vogghio chiuttosto acè" 'na cannunata, 
(U) Vile, vedi. 

(12) Lice, dìcL 

(13) Una canzonetta umbra conchiude : Te piasi (pensi) 
non conosco li tuoi fatti? Sei *na ragazza che dai dienz'a 
(udienza) a tutti. Cir. Canti Popolari ecc. ecc. di Oreste 
Marcoaldi. Genova, 1855, N® 8(5. 

(14) Vutiente, volante (?) 

(15) Pricàreie, procurati. 

(16) Anche questo verso ha una sillaba di soverchio. 
( 17) Panticata, seccante, noiosa (?) 

(18) I versi soruccioli non sono rari in vernacolo ; ma 
sono quelli, che appunto più lasciano dubitare della loro 
origine schiettamente popolare. 

(19) Var. nap. Ca^nfronte vuje purtate la malizia» 

(20) Ire d òo/ia, andare alla buona. 

(21) Questo vprso ha una sillaba di più ; ma io ( come 
anche altrove)noD mi permetto raffazzonarlo, per non aver 
taccia d' infedel raccoijlitore. 

(22) Olio, odio. 

(23) Linte, dentro. 

(24) Mìèlcche, medico. 

(25) Vuaresse, guarisse. 

(26) Oggia, ho. 

(27) Una variante di questo canto si trova anche nel 
dialetto di Piano di Sorrento. 

(28) Var, napoletana : Viale chi la nence a * sta figliola, 

(29) Var. nap-. Tene *na vesia tutte rose e sciure. 

(30) Var. nap. E quanno ie^ce 'nchia^rza a passiare, Fa 
murire l*amanìe a aute a duie. 

(31) Questo canto vi è anche in altri dialetti. Confronta 
per es. Molinaro del Chiaro. C del pop. ì^ap. p. 187 , 
N.® 235 — e Cinquanta canzonette nap. ec. Amalfi-Corre- 
ra. N<> XV. 

Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop. nap., pag.187, 
canto 237. 

(32) Itto, detto. 

(33) Eggio, ho. 

Cfr. Molinaro Del Churo, canti del pop. nap.^ pag. 185, 
canto 230. 

(34) Var. Continua, ninno caro, e m* avarraje I 

(35) Vi è una var. ancbe in dialetto partenopeo. 

(36) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop. nap.y 
pae 214, cat to 326. 

(37) Ci è in nap. e in altri vernacoli, ma in questa va- 
riante Serrarese, forse ci ha dovuto essere qualche per- 
turbamento. 

(38) Si trova anche in nap. Cfr. Molinaro Del Chiaro 
canti delpopolo nap. 



V. 

IL CONTO DELLE MELE D' ORO (l) 

Ci era un Re che aveva un albero di mele d'oro , e 
ogni sera Y andava a numerare. Una manina, ne trovò una 
mancante : allora il Re noontb in furia , mise spie> voleva 



sapere chi se Y aveva rubate ; ma non gii ruisd saperlo. 
Allora pose un figlio di guardia sotio all' albero, il quale 
si addormentò. Giunto il mago , che rubava queste naele , 
veduto la guardia, per dispetto se ne prese due. Riuscito 
inutile il primo tentativo, si pose il secondo figlio in guar- 
dia, e non gli riuscì di scoprire, chi si prendeva le mele. 
Allora il pili piccolo, Tultimo de'fratelli, volle meltei*si lui 
in guardia, e per vegliare, si appuntò la punta dello spa- 
dino sotto la gola. Arrivato, nuovamente, il mago, veduto 
la guardia, se ne rubò quattro. Il giovimi si spaventò, ve- 
dendo la grandezza del mago; ma non si perdette d'animo, 

10 segui e dove calò il mago , ci appuntò lo spadino per 
segno. Andò poi dal padre tutto contento , a dirgli , che 
aveva scoperto chi si rubava le mele; che avesse appa- 
recchiato un carro con tante fune con una campana gran- 
de ed altre piccole. 

Queste campane servivano a dare il segno. Giunto alla 
metà, SI sentiva mancare Tarla, sonava le campane piccole, 
e veniva tirato sopra. La campana grande serviva a dare 
il segno quand'era giunto nella caverna, ove abitava il mago. 

Fatti i preparativi e giunto sul luogo destinato, il mag- 
giore de' figli del Re doveva calare il primo , nella detta 
caverna. Ma giunto alla metà della caverna, suonò le cam- 
pane e dovettero tirarlo sopra perchè gli mancava V aria. 
Calò il secondo e fece lo stesso. Il terzo pid ardito giunse 
alla profondità. Girando per quella caverna, vide una bel- 
lissima giovine, che giuocava con due mele d'oro. Il gio- 
vine, veduta questa giovinetta, con le mele, le disse: « Ah! 
tu t' hai prese le mie mele? E la giovine, tutta spaven- 
tata, gli disse: « Fuggi ! altrimenti mio padreti mangerà » 

11 giovine passò in un' altra stanza , vide una giovine più 
bella della prima che giocava con tre mele. Il giovine 
le fece la stessa dimanda della priifna , e ne ricevette la 
medesima risposta. 

Lui passò ad un'altra stanza, trovò un'altra giovine piii 
bella delle altre due, e che giocava con quattro mele. Ve- 
duto il giovane, se ne invaghì , e lo fece nascondere, per 
timore, che uscisse il padre. Poi disse al giovine: « Vedi, 
(( che mio padre, ogni giorno, dopo pranzo, si addormenta 
<( con la testa appoggiata sulle mie ffinoccbia : allora tu 
<c uscirai e gli troncherai la testa. » Il giovine così fece, 
poi pose una delle giovine sulla poltrona, e la fece tirar 
sopra. I fratelli si quistionavano, che la volevano per ispo- 
sa. Quando tirarono la seconda, allora si affacciarono; ma, 
ffiunta la terza, incominciarono nuovamente a quistionarsi. 
La giovine disse: « Senza, che vi quistionate, il mio sposo 
« è abbasso! » Allora ì fratelli, corrivati, giurarono di ven- 
dicarsi. 

Fortunatameni e il fratello, invece di salir luì, pose sulla 
poltrona, un involto di brillanti , e di pietre preziose. Gli 
sciag uraii fratelli, credendosi ch'era il proprio fratello, che 
saliva, troncarono le funi, e fecero precipitare tutto abbas- 
so. Figuratevi in quale costernazione si trovava il povero 
giovine, senza speranza d'uscire da quella caverna, miran- 
do, vide il mago moribondo, il quale, vedendo questo gio- 
vine, gli disse : « Prendimi auel tegame e metti quell'un- 
(( guento sulle mie ferite. » Il giovine gli disse : « Allora 
« farò quel che tu dici, quando mi darai il mezzo di usci- 
« re da questo luogo. » Il mago si staccò dal dito un a- 
nello e gli disse: « Quello , che vuoi domandalo a questo 
anello. » Allora fece quanto gli aveva detto il mago , co- 
mandò l'anello, e in un attimo fu sopra. 

Si pose a girare per gli orefici , per vedere chi se lo 
prendeva per giovine, uno de'quali mosso da compassione, 
lo prese con lui. Giunto il momento, che gli altri due fi- 
gli del Re dovevano sposare , fu chiamato questo gioiel- 
liere , per fa re le corone , e gli dissero , che se , m tre 
giorni, non gli avesse consegnato le corone, come Lui avea 
ordinato, gli avrebbero troncato la testa. 

Il poveretto se ne andò a casa tutto afflitto; il giovine, 
vedutolo in quello stato , gli domandò cosa avesse , e sa- 
putone la ragione, gli disse <c Di non isgomentarsì, perchè 
« avrebbe lui pensato a tutto. » Si chiuse in una stanza, 
e, con una bacchetta, continuatamente, batteva su d'un ta- 
volino* Giunto il momento , che doveva presentare le co- 



32 



rone , ne presentò tre bellissime. Il gioielliere voleva por- 
tarle lui al Re; ma il giovine si ostinò, volle portarle as- 
solutamente lui. Queste corone erano state fatte, per opera 
deir anello. Arrivalo a Palazzo , le prime due corone an- 
darono benissimo. Mirando la terza, vide la giovine, tutta 
vestita a bruno. Le domandò (c perchè indossava quel bini- 
no » ed essa gli disse, « che avea perduto il suo sposo. » 
Il giovine le dimandò: Se aveva qiialche segno » e la gio- 
vine disse , che aveva un neo sulla spalla destra. Il gio- 
vine si scopri la spalla , ed ella gittò un grido e svenne. 
Corse tutta la gente della corte, e pose in arresto il gio- 
vine, non sapendo ciò ch'era avvenuto. Rivenutasi la gio- 
vine dallo svenimento , andava in cerca del suo sposo ; e 
raccontalo tutto al Re, il quale fu lietissimo di ritrovare 
il suo caro figlio, li fece sposare e diede gran festa , per 
molti giorni. 

E felice e contente e teculiato. 
E nule stammo ccà assettato I 



(1) Questo conto si è raccolto in Piano di Sorrento ; e 
la gentil raccontatrice, avendo una discreta coltura, ha 
fatto sparire la forma del dialetto; ed io non mi sono per- 
messo di alterare alcuna parola. 

Amalr 



UNA 

CANZONETTA ABI\UZZESE C) 

Ogge è santu Seliviesto, 
E ca nule cantammo buono; 
Ogge è galenna, 
E dimane è Tanno nuovo. 
La festa santa, 
E la santa signuria, 
Dio ce Tacereste 
'Sta bella cumpagnia. 
Crisce criscenno 
E facenno chillu sciuscio, 
Oh che sciuscio, oh che sciuscio 
E ca tutte ce canòsceno. 
Canòsceno a nuie e a gemilo, 
Oh gemilo! 
Cu' 'sii bracci' aperte, 
'Ncoppa palazzo 
Ce sta 'na bella tomba. 
Oh che tomba, o che tomba. 
Oh che grólla palomma. 
Nu ncivo nu ncivo, 
E la fronna d' aulivo, 
Chistu messere 
Gient' anne de vita. 
Viva la donna, 
E biva Pulisà, 
Santa Matia 
Ca 'mparaviso sta. 
Dance la 'nferta. 
Si tu ce la vuò' fa'. 

(•) Alla cortesia della vedova del pittore , signor Giu- 
seppe Visone, dobbiamo la detta canzonetta, la Quale fu 
trovata fra le carte di suo marito. L'unica nota cne vi si 
legge al margine è : Raccatta in Abruzzo la sera di San 
Sctce^tre 1850. L ho tradotta in dialetto napoletano. Giu- 
seppe Visone. 

Noi la pubblichiamo tal quale è scritta , rimandando 
chiunque abbia vaghezza di leggerne qualche lieve va- 
riante e sapere in che occasione la si recitava, all'opera 
del De Nino, usi e costumi abruzzesi, voi. 2^ pog. 172-177, 

Luigi Molinaro Del Churo. | 



NOTIZIE 

Siamo costretti di ricordare ad alcnni nostri let- 
tori, che questo giornale non può rilasciarsi gra- 
tnitamente sl nessuno. I primi a pagare Tim- 
porto deir abbonamento sono stati il direttore ed 
i redattori. 

Preghiamo ancora i direttori di quelle bibliote- 
che, che hanno ritenuto il primo e secondo numero 
del giornale , a volerci dire se credono o no ab- 
bonarsi. S'intende che il prezzo d* abbonamento lo 
pagheranno poi in fine dell'anno, a chiusura d'e- 
sercizio. 



Nel numero unico Treoiso agli inondati^ è pubblicato un 
o Costume napoletano » del nostro Luigi Correrà , riguar- 
dante le antiche feste di battesimo ; un sonetto di S. Di 
Giacomo in dialetto napoletano; un « Co'itwne romanesco » 
di Luigi Garzolini, Un matrimonio campagnuolo a Man- 
tejiascone. 



Nella Gazzetta musicale di Milano , edita dal Ricordi , 
(n.^ 9, 4 marzo) il sig. Michele Scherillo ha pubblicato un 
saggio su Bellini e la musica popolare , in cui dimostra 
che la seconda parte della melodia su « Fenesta ca Iucìd ' 
e mo nu* luce » Bellini l'ha imitata nella famosa scena fi- 
nale della Sonnambula; invece la melodia della tanto ce- 
lebre canzonetta napoletana « Te coglio bene assaie » è 
stata presa dalla frase della stessa Sonnambula, nelle pa- 
role « Cari luoghi io dì troiai » ; e l'altra, detta della uo- 
rolina^ « Aggio visto na fegliola » « è stata presa da una 
frase dell' introduzione dei Caputeti e MonteccM. 



L'illustre prof. A. D'Ancona ci scrive per assicurarci 
che il codice degli strambotti napoletani^ trovato dal suo 
alunno ed amico Dott. Mazzatinti a Parigi » e del quale 
fu qui ripetutamente tenuto discorso, era veramente sta- 
to trovato e copiato anteriormente dal prof. I\e , che ne 
aveva a lui comunicati i capoversi perchè lo aiutasse a 
conoscere se si trattasse di cose edite o no, e i nomi de- 
gli autori, per cercar di essi notizie presso dotti napole- 
tani. 



Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

56. D'Ancona Prof, Alessandro — Pisa. 

57. Finelli Cao. Nicola — Arienzo. 

58. Ranieri Aoo. Raffaele — Napoli. 

59. Accademia Pontaniana — Napoli. 

60. Barba Dottor Emmanuelo — Gallipoli. 

61. Solimene Sabato — Napoli. 

62. Del Gaizo Prof. Modestino — Napoli. 

63. Errico Prof. Enrico — Napoli. 

64. Ruggiero Pasquale fu Balaassarre — Napoli. 

65. Mery Prof. Guglielmo — Napoli. 

66. Passarini Prof. Ludovico ~ Koma. 

67. Grisella Raffaele — Roma. 

68. D'Auria Gaetano — Napoli. 

69. Melisurgo Cao. Nicola — Milano. 

70. De Bourcard Cav. Francesco — Napoli. 

71. Marstaller Carlo — Napoli. 

72. Del Prete Alessandro — Venafro. 



Gaetano Molinaro — Responsabìlo 



Tipi Fntoili arloccio 8. Pietro a laiella 31. 



Amo I. 



Napoli, 15 Maggio 1SS3. 



NUM. 5. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAHENTO ANOTO 



Esce il 15 d'ogni mese 



Per l'Italia L. 4 — Estero L. O. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



L. HOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

M. lANDALAU, M. 8GHSSILI.0, L. GOS&ERA, 
a. AIAin, ?. BSLU SALA, ?. SUOIGUU 

Mattorl 



A7VEBTENZS 



Indirizzare vaglia, lettere e manoscritti 
al Direttore liniifl Mollnaro Uel 
Chiara. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plari, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



S01MMA.RI0 



>«o*-^ 



Credenze e costumanze napoletane ora dismesse ( B. Ca- 
passo) — *0 cunto 'e Gomme- va-stu-fatto (G. Gattini) — 
Costumi sorani (V . Simoncelli) - L'Appendice ai canti del 
popolo reggino editi dal prof. Mario Mandalari (G. Maz- 
ZATINT1)— El Poùliso e'IPadùcio (A. Ive) — Canti del 
popolo di Pagognano (L. de Gennaro) — Canti del popolo 
di Giugliano ( L. Taglialatela) — Notizie — Posta eco- 
nomica. 

Per tutti gli articoli ò riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



CREDENZE E COSTUMANZE NAPOLETANE ORA DISMESSE 

IL 

Svolgendo i manoscrilti della nostra Biblioteca Nazionale 
per rinvenire qualche scrittura del secolo XIV o XV in 
dialetto napoletano, nel quale i credenti in Matteo da Gio- 
venazzo pretendono essere stali composti i Diurnali , mi 
imbattei qualche anno fa in un libro di manescarda di 
mcsser Pietro d'Andria homo peritissimo et esperto per 
longo tempo a li servita de le felicissime memorie del 
re Alfonso I el suo unigenito re Ferrando de Ar agonia. 
Il cod. ms. cartaceo in 4°, già appartenente alla Gasa dei 
Teatini in Santi Apostoli, fu ricoixlato verso la fine del se- 
colo scorso dal Pelliccia nella prefazione al tomo 1"* delle 
Cronache, diarii, optiscbli ecc. a pagina 26. Con l'abo- 
lizione degli ordini religiosi ai principii di questo secolo 
passò alla R. Biblioteca borbonica», ora Nazionale, ove è se- 
gnato XII , E , 23. L' egregio Piof. Alfonso Miola ne ha 
recentemente fatto cenno tra i codici volgari di della Bi- 
blioteca nel T. XV, parte l.*" p. 143 del Propugnatore 

Ora al fog. 144 di questo Ms. trovasi tra gli altri rimedii 
piullosto formole, con cui si percantàvano i cavalli o i 
muli che soffrivano il verme, e, com'era comune credenza, 
si guarivano, il seguente 'ncmrwo, che(l) consisteva nelle 
pratiche e parole che trascrivo dal dello libro. 

« A sanare lo verme de un cavallo ovvero mula 
Jesus losep. Vermis habuit et mortui sunt et si non sunt 
mortui moriuntur. In nomine Patris et Filii et Spiritus 
Sancii Amen. » 

« Santo Josep el santo Elia— si passavano per la via- 
se incontrarono cum Jesu Gdo (Cristo) — et cum la Vir- 
gine Maria — La Virgine Maria parlava et si dicia — 
che questo verme che è adosso di questa bestia si par- 
tisse cioè che mono sia. In nomine Patris ecc. » 

<i Queste tali parole se voleno dire la mattina quanno lo 
sole sta per insire (2), cioè innante che sia insuto el vo- 
lese voltare di la banda dove ha da uscire el sole, tenendo 



la mano supra la bestia, et quando farrite lo signo della 
croce incominzale da mezzo le dui aurecchie per fino a le 
groppe- et poy dirrìte da luna spalla et Spiritus Sancii 
et a Iallt*a Amen, in modo che da detta croce sia centa 
tutta la bestia et volese dire tre volte per matina in modo 
che vendono ad essere nove volte in tre matine et la pri- 
ma manna fatto dicto incanto si vole fare sagoare dieta 
bestia comò parerà alo manescalco, et quando se fa dicto 
incanto non se vole tenere arme allato, ne manco lo muczo 
che tene dieta bestia et volese fare sopra tucto cum gran 
devoiione de la Sancta Trinità ». 

Io non so quando sia cessata questa superstiziosa cre- 
denza. Geno né il Caracciolo nelle Glorie del cavallo , 
(Venez. 1567) né il Ferraro nel Cavallo frenato (Venez. 
1620) a p. 739, e p. 84, ove si tratta della cura di que- 
sta malattia , parlano di un tale rimedio o in qualunque 
modo vi accennano. Essi danno semplicemente a tale scopo 
indicazioni di polveri o bevande medicinali. 

Bartolommeo Gapasso 

(1) Cosi dlcesi nel dialetto napoletano l'incantesimo, per 
una corruzione, secondo che io mi penso , dei Carmen la- 
tino usato in questo significato. 

(2) Insire per uscire è vocabolo usato nella Cronica di 
Partenope e nelle scritture più antiche del dialetto napo- 
letano. 1 Diurnali non lo conoscono. 

VL 

'O CUNTO 'E COMME-VA-STU-FATTO 

Nce steva 'na vota a 'na cela de loco altuorno a Nàpole, 
uno arriccuto e avaro assaie, che viveva da puorco ed era 
chìammato segnore. Ghiagneva sempe misèria ; non era maie 
conliento 'e niente ; e specialmente 'e pòvere serveture nce 
ièvano pe' sotto. Ne cagnava uno alla semmana, ca receva 
ca no' sapevano fa' la spesa ; ca l'arrobbàvano; ca le stru- 
ièvano tutto cbelio che nce steva llcasa. Accusa cagna 
'Ntuono, cagna a Rumìuico , cagna a Peppo, cagna a Pa- 
sca , non nce steva chiù gente a cbella cela ca le voleva 
ire a servi'. Ma isso no' se scoraggiaie, e facetle vere' a li 
paisi vicine, eppure truvaie li serveture; ma chisti truvàieno 
la stessa scioria d' 'e primrae... 'Ngnàzio, Vicienzo, Cicco, 
Nicò e no' so chi fosse! A la voce 'manto ca s' era sparsa 
ca chillo segnore era tenf avaro, e leni' avaro, overamenie 
chìunche fosse addimannato pe' servetore se faceva la croce 
co' la mana smerza, e se ne fuieva manco d' 'a pesta. 

No iuomo sentenno 'sto discurso no giòveoe allora tor- 
nato d' 'e surdale recelte all' ammice: « mo verimmo s' io 
nce niro o pure no ; » e se iell' a presennà' pe' servetore. 
Lo segnore Io guardaie 'nfaccia e l'addimannaie: « tu com- 
me te chiamma? » Isso responneite: « me chiammo Cornine- 
va-stU'fatto. » « Embè , Gomrae-va-stu-fcitlo, 'tu tiene 'na 
bona faccia , ed io te piglio pe' servitore ; ma tu se vuò' 
fa' bene co' mico hai da sia' atliento a la spesa ; hai da 
vere' de no' me strùiere la robba ca tengo 'ncasa; 'nzomma 



34 



m 



• • 



hai da penzà' sempe a Tecurummia ». E isso V assicurale 
« Segnò , fidate co* mico , eh' i* so* de 'na famìglia ca no 
'ra' lo sapimmo ià' avaslà' pe' 'na semmana, e pe' cheslo 
nce hanno misso lo nomnie 'e Commeva-stu- fatto. » 

Mo venimencenne ca chella sera slessa èrano sonate vin- 
nequattr'ore e no' ne' era uoglio pe' lì lume, enne lo patrò 
chìammaie a Gomme-va-slu-fatto, e le ricette: « vann' ac- 
catta ri' 'ra', ma te raccomanno. » £ lo servetore s' abbia 
alla porla, po' se ferma e s' avola: ce segnò, i' diciarria 'na 
cosa; pecche no' n' accattammo no 'ra' , facimmo lo luci- 
gno chiù peccerillo, e Tuoglio avasta. » « Eppure rìce buò\ 
Gomme-va-stu-falto; accattane no 'ra', e fa lo lucigno com- 
m' hai ditto. » — La matina appriesso ascèttero tutt'e duie 
pe' fa' la spesa e purzi lo servetore le facette sparagnià' 
a do' lo treccalle a do' lo tornese; po' turoàieno a la casa, 
e stèvano pe' tras)' la porta, quanno lo servetore lo ferma 
de botta : « Segnò , i' diciarria 'na cosa ; pecche no' nce 
luvamm' 'e scarpe ? accessi no' se sporca 'nterra, e no' se 
strùieno le reggiole. » « Eppure rice buò', Comme-va-stu- 
fallo ; levàmmece le scarpe, e po' trasimmo, e facimmo ri' 
cose bone. » — Quanno fuie chiù tardo stèvano stanco, e 
s' avevano d* assetta', e lo patrone se piglia ie 'na seggia , 
ma lo servetore ce la levale 'e mano, « eh , segnò, i di- 
ciarria 'na cosa, no' nce assettammo 'ncopp' 'a seggia: 'e 
ssegge se strùieno; assettammoce 'ncopp' 'a fenesta. » « Ep- 
pure rice buò, Gomme-va-stu-fatlo; i' no' nce avea ponzalo 
ancora; lassammo sta' le ssegge, e ce assettammo ncoppa 
a la fenesta. » — 'Nfin' 'e cunte no' so qua' cosa lo pa- 
trone riceva, ca sempe lo servetore proponneva 'e meglio, 
e accussi se taceva. A lo segnore pareva d' ave' pigliato no 
terno; ca doppo ave' cag^nato tent' e tenta serviture, chisto 
ce l'avea mannaie pròprio lo cielo ! 

'Ncap' 'e tiempo, 'na sera lo segnore se senteva no pi- 
semo 'e capa , e p' 'a paura ca no' le veneva 'a freva , e 
avea da pavà' lo mièdeco, se mettette a lo lietto; lo serve- 
tore avea stulat' 'o lumme pe' no' fa' consommà' l'uoglio, 
e isso pigliale suonno; e comme suonno chiamm'a suon- 
no, no' se scetaie ch'a la matina appriesso. Allora sennèn- 
nose quase buono, se voleva sòsere e chìammaie: « Comme- 
va-stu-fatto, Gomme-va-stu-fatto. » Ix) servetore no' senteva; 
e isso aizaie chiù la voce: <c Gomme-va-stu-faito, Gomme- 
va-stu-fatto. )> E chillo manco responnea, e lo patrone s'as- 
side 'mmiezz' 'o lietto e allucca chiù forte: « Gomme-va-stu- 
fatto, Gomme-va-stu-fatto. » Ma risponnìste tu ca no' nce 
stive , e manco lo servetore ca se n era fuiuto co' la ca- 
sciolella d' 'e renare. — A lo patrone le vene 'npensiero , 
se ietta da lo lietto e guarda ... ma loco, te voglio, sotto 
a lo lietto no' nce steva chiù la casciolella d' 'e renare. Allora, 
tutto 'nfoscata la mente, 'ncammisa e cauzonetlo, gridaono : 
« Gomme-va-stu-fatto , Gomme-va-slu-fatto » corre pe' le 
scale e cade ! Ghillo chiapp' 'e 'mpiso d' 'o servetore se Ta- 
vev' arrobbala , e pe' no se là' secutà' avev' accattato ri' 
msurielle d'uoglio, e avea sedonta tutta la radiata: lo se- 
gnore era caruto, s' era scodata 'na gamma, s'era scurtecato 
no vrazzo, s' era rutto 'nfronte. Ah puveriello ! 

A 'st' allucche 'ntanto e a lì strillo curretta tenta gente, 
e isso sequetav'a chiammà': « Gomme-va-stu-fatto, Gomme- 
va-stu-làtto, i' vaco truvanno Gomme-va-stu-fatto. » A che- 
sto 'na fémmena ca pure era corsa (e quanno maio mancano 
fèmmene 'mmiezzo all'ammoine), le recette: «Segnò, e ca nce 
èo' la zingara p' annìvenà' camme va stu fatto; la radiata 
vi tutta sedonta d'uoglio, site sciuliato e vi site fatto male !» 
Ma chillo chiagneva, chiagneva ca no' voleva fii' sape' lo 
fatto d' 'e renare, e voleva s'acchiappasse lo mariuolo, e 
sceppànnose li capille alluccava chiù forte : (c Gomme-va- 
stu-fatto, i' vaco irovanno Gomme-va-stu-fatto. » Allora la 
gente ricette : « chisto, 'o segnò , è asciuto pazzo I » e lo 
pigliarono pèsolo pèsolo, e lo portarono alo Spirale, e là 
morette , ca se rice a ditto nuosto : « Ghi troppo la tira , 
la spezza I » E accussi 

Stretta è la fronna, e lària è la via 
Contate la vesta, ch'aggio ritto la mia. 

Raccolse in Fratta Maggiore 
Conte Giuseppe Gattini 



COSTUMI SORAKI 

{Continuazione e fine vedi n. 2, 3 e 4) 

I Dal centro, come un vortice, muove una tur- 
ba che correndo furiosamente a mo' di selvag- 
gi torno torno stretta e compatta, urtando, stra- 
mazzando, urlando fa stare indietro i ballatori , 
forma il cerchio e si ritira. Uà giovanotto in- 
vita la bella che sollecita e più ansiosa di lui 
accetta, e si balla una specie ai tarantella. Essa 
consiste nel movimento alternato de' piedi, per 
lo più a passo, facendosi ora innanzi ora indie- 
tro a seconda che V altro si allontana o si av- 
vicina, e seguendosi in giro a salti laterali , in 
modo che par sempre si inseguano e si sfug- 
gano ; massime quando 1' uno muove incontro 
all'altro e questi di fronte, indietreggiando, giunto 
al termine della sala... cioè dello spazio, fa un 
dietro fronte e gli sguiscia di lato. Spesso gli 
uomini battono le mani a tempo passandole sotto 
le cosce. E si vede la donna, altera ritrosa inac- 
cessibile sempre , perdere nel ballo ogni soste- 
nutezza, ed aspettare grinviti con gli occhi de- 
siderosi ; ballando poi, coi lembi del grembiale 
nelle mani, scontorcersi flessibilmente sulla vita 
e sui fianchi provocante ed instancabile. 

Un « chiazza ! » gridato dall' uomo d'un' altra 
coppia fa ritirare la prima e cosi di seguito sen- 
za un minuto di pausa. Di tanto in tanto si ri- 
pete l'urlo e la corsa barbaresca, si rifa largo 
e da capo. 

Sopraggiungono spesso bande di maschere e 
la scena acquista un carattere comico : v' è il 
carabiniere con un vecchio berrettone calato su- 
gli occhi ; v' è il borghese, tinto la faccia, con 
un lungo soprabito del bisavolo del suo padrone 
e con un cilindro intabaccato. C è il soldato di 
linea, l'artigliere, il cavalleggiere, il bersagliere, 
tutti infine i rappresentanti dell'esercito italiano, 
stretti nelle giubbe vecchie fatte per la persona 
ventenne e portata via dal servizio militare. 
Chi sa quante volte , accampato nelle manovre 
il nostro contadino, la sera, al suono mesto del 
silenzio ricordando i suoi e la patria, dopo aver 
fantasticato e provate le emozioni del ritorno , 
guardò la giubba, il cappotto, il kepi ed anelò 
a questa comparsa, quando con essi apparirebbe 
in un montone^ la pistola al fianco, a tar il bravo 
innanzi alla bella che l'aspettava!... 

Molti incidenti d'amore han luogo in tale fe- 
sta. L' uomo giovane è novantanove su cento 
sbrigliato , accattabrighe , manesco. Finché fa 
all' amore le rivalità , i sospetti, 1' ebbrezza lo 
rendono indocile. Tizio ama ed ha un rivale ; 
la sposa è al tale montone ; egli chiama quat- 
tro, cinque amici di scorta, e tutti armati si va. 
Si balla; il rivale che ha fatto altrettanto invita 
la bella , che ( per legge cavalleresca ) accetta. 
Scambiati appena due passi, Tizio vien fuori, e 
cominciando a ballare di fronte alla donna (re- 
gola di ballo) si fa cedere il posto dal rivale ; 
questi sta un momento, e rende la pariglia , e 
così sempre finché l'uno, più caldo, stizzito, bor- 
botta e motteggia , V altro di rimando figurata- 
mente rimbecca; gli amici d'ambo le parti, pron- 
ti alle offese, guardano e aizzano ; le provoca- 



3$ 



zioni si fanno chiare, ecco gì' insulti, le rispo- 
ste , le mani , e spesso scappa fuori anche il 
coltello. 

A volte il bailo è seguito da giuochi : dispo- 
sti curvi Tuno ad una corta distanza dall'altro, 
si saltano poi consecutivamente fino all'ultimo; 
o in tre, seduti, si fa lo scarparo^ o, in piedi, 
la civetta, nell'uno de'quali giuochi quel di mez- 
zo regala a sorpresa ciabattate suUe mani di 
quei che lo fiancheggiano, nell'altro schiaffi so- 
lenni. Si fa la torre ponendosi uniti colle brac- 
cia passate intorno al collo, in ordine di quattro, 
su' quali si reggono due che a lor volta fan da 
base all'ultimo che torreggia in alto. 

V ha poi un altro genere di canzoni dette a 
despeite : le cantano sotto la casa di persona cui 
vogliono appunto far dispetto. Così se alcuno 
viene a sapere qualche paroletta minacciosa di 
un suo rivale, alla sera ecco sotto la casa una 
chitarra battente e si canta : 

M* è fatta 'na bravata 'ste baùse, 
Che non passasse chiù 'nnanz' alla casa; 
Le corna le tè' chiene 'na cauta, 
Quanne le caccia fo trema' la casa. 
S' è fatta 'na sciàbola de ferre pruie, 
'Ne cortcglie de come de crapa ; 
S' è fatta 'na peslola de saroinuche, 
'Nse fila d'anomazzà' 'manche 'na crapa. 

Così pure fa quegli che vuol gittare fango 
contro la bella civettuola , quegli che vuol in- 
sultar la trista che ha mormorato della bella e 
via dicendo. 

Quando si sposa c'è il banchetto nuziale. Ogni 
comare, ogni parente porta il suo canestro: pa- 
sta, maccheroni, misto d'ambedue queste mine- 
stre, carne, salumi e quattro cantamessa^ cioè 
quattro grandi pani , ed altre vivande piene di 
aromi da stomacare. 

Il lusso della festa ammette in tavola il pane 
bianco: che il contadino mangia solo nelle feste 
ricordevoli. 

Su per giù questa è la festa de' contadini : 
una satolla , o meglio , un' indigestione ed una 
imbriacatura. Se togli il ballo, la sposa e il brio - 
di festa, questo è il pranzo di lutto che ricade | 
nella domenica successiva alla sciagura ; onde 
il detto: 'na chiarita (un pianto) e'na magnata. 
Se non che, se il morto era sotto i quindici anni, 
si mangia senza più ; se li oltrepassava, prece- 
de il rosario. Gli ultimi istanti d' un morente 
sono resi anche più angosciosi dall' ^ fiTetto dei 
parenti : tutti d' ogni sesso ed età chiusi nella 
stanzuccia |bassa ed oscura del moribondo a 
chiacchierare e novellare su cento altri casi lut- 
tuosi ; poi recitano a coro il rosario ed infine 
ognuno recita all' orecchio di quell' infelice un 
credo perchè lo rechi all'anima di qualche suo 
trapassato. Morto, l'accompagnano alla chiesa, 
e di qui al Camposanto , dove non di rado si 
vede il padre aiutare i becchini a comporre il 
figlio nella fossa. ' 

Con i soliti canestri si festeggia pure il ritor- 
no degli amici e de' parenti dal pellegrinaggio 
di Loreto : gli arrivati non entrano in città la 
sera , ma si fermano in un prato dinanzi alla 
chiesuola della Madonna di Val Francesca, dove 
si mangia e si beve: la nòtte si dorme sul prato 



e la mattina a suono di banda si rientra in città. 

Co' santi sono in grande dimestichezz<i ! Il 
S. Antonio , festeggiato di luglio nella Selva . 
deve avere una bella pazienza a fare il sordo 
con certi irosi irragionevoli che gli mancano di 
rispetto perchè non manda l'acqua nella siccità! 
Del resto, povera gente ! laboriosissima , indu- 
striosa, attiva senza mezzi meccanici di coltiva- 
zione, col suo tradizionalismo soltanto unito alla 
forza delle braccia, suda tutto 1' anno e sforza 
la natura per poi vedersi col verno innanzi e 
con la fame. La terra sta 'nguastita ( arrab- 
biata, arida), mi diceva sospirando un vecchio 
in certi giorni di arsura), ^ne ^ccone (6) d^acquu sa- 
ria comm' a 'na béoeta pe' 'n assetate; vite chelle 

raninie (grano d'India) tè\ tè\ me fa ^na pena! 

Tale infortunio è frequente nelle contrade lon- 
tane dal Liri (7), che le altre con ruote idrauliche 
provvedono ingegnosamente all'irrigazione. 

Forse un giorno si riuscirà a fare di questa 
gente un popolo buono e civile. Allora si per- 
derà quel poco di bello e di caratteristico, che 
ora deriva dalla loro rozzezza. Allora il dialetto 
cercherà di raggentilirsi , diverrà un misto di 
sorano e toscano; Invece degli schietti canti po- 
polari si canteranno le ariette napolitane e le 
canzoni delle raccolte auree stampate dal Cimma- 
ruta (8). Alle cioce saranno sostituiti gli eleganti 
scarponi imbellettati ; allo scarlatto panciotto , 
quel cenerognolo più civile ; alle pezzuole ed 
alle corregge per la gamba, i calzettoni neri di 
lana. E sia. Purché un di vi fischi la locomo- 
tiva, si tagli la foresta vergine! 

Vincenzo Spioncelli 



(6) *ne ccone, un boccone, un poco. 

(7) Fiume che passa per Sora. 

(8) Prima, Seconda, Terza, Quarta, Quinta raccolta di 
varie canzoni di amore, di gelosia, dì sdegno, di pace e 
di partenza. Napoli presso Gennaro Cimmaruta , strada 
S. Biagio dei Librai, n. 31. 1881. 

La stessa — Undecima edizione , Napoli , Pei Tipi di 
A vallone. E dal medesimo si vendono Largo Divino Amo- 
re num. 56 (1870). 

La stessa — Quinta edizione. In Napoli si vendono da 
Antonio Garruccio strada Tribunali n. 193. 

Abbiamo poi presente la: — Raccolta di varie canzoni 
di amore, di gelosia, di partenza, di lontananza, di sdegno, 
e di disprezzo. Terza edizione corretta e migliorata. In 
Salerno \d09. Si vendono da Antonio Garruccio dentro il 
Monistero del Carmine lum. 5. 

Infine , 24 canti popolari manoscr. del 1790 , dei quali 
parecchi editi nelle raccolto del Cimmaruta. Questi canti 
rurono al nostro Molinaro Del Chiaro donati da Giuseppe 
Maria Fusco , che a sua volta li ebbe dal celebre Luigi 
Serio. 



L' Appendice zi canti del popolo reggino 

EDITI DAL Prof. Mario Mandalari 
(Napoli, 1883) 

I trenta tre canti del popolo reggino che il Prof. M. 
Mandatari avea già editi nm Archivio per lo studio delle 
tradizioni popolari^ diretto da G. Pttré e S. Salomone- 
Marino , e nel Giornale napoletano della domenica , e 
dei quali esso ha ora pubblicato una nuova edizione, de- 
dicata a V. Imbriani, formano un'appendice alla vasta rac- 
aiJta dei Canti reggini , stampata nel 1881 e corredata 
di un lessico delie voci dialettali più notevoli e di vari 



36 



scrìtti del D'Ancona, del Caix, del Morosi, dell'lMBRUNi, 
del Pellegrini e delV àrone. Di questa prima raccolta i 
sapienti cultori della lirica popolare hanno discorso fra noi 
e in Germania con giuste lodi e con dovuta ammirazione, 
come di un libro che offre infiniti e preziosi materiali per 
lo studio della letteratura e del dialetto delle provincie 
meridionali. 

Dell' Appendice io dovrei su per giù esprimere quel 
medesimo giudizio, che i critici espressero già con tanta 
coscienza intorno al T volume : quindi , anziché parìare 
del modo assolutamente scientifico, onde il Prof. M. Man- 
DALARi ha condotto questa seconda stampa di canti reggi- 
ni , dei raffronti con le versioni che corrono pel mezxod) 
deiritalia, e della opportunità delle note filologiche e illu- 
strative, io mi limiterò a notare altri raffronti che mi sono 
ricorsi alla mente, leggendo quei trema tre rispetti. 

E cominciando da quelli che hanno una derivazione let- 
teraria, citerò i num. aV e XVI. Il primo (di cui la le- 
zione a stampa occorre nella Baccolta napoletana , che 
ora non ho solt' occhio) trova un riscontro nel n.** 60 dei 
rispetti contenuti nel Cod. perugino, C. 43, edili dal D'An- 
cona in fine allo studio sulla Poesia popolare in Italia, 
(Livorno , Vigo , 1878 , pag. 454). Del n." XVI ecco qui 
la lezione letteraria, riprodotta eziandio dal D'Ancona (op. 
cit. pag. 388). 

Occhi di basilisco fulminanti, 
Serpe, che hai veleno in ogni dente, 
Sirena, che mi alletti con tuoi canti, 
Coccodrillo, che ammazzi e poi ti penti : 
Petto d'acciaro e core di diamanti. 
Che (ti) nutrisci sol (o) co' (n) miei lamenti. 

Come soffrire puoi tanti miei pianti ? 
Forse sei nata sorda, che non senti ? 

L' ultimo verso della lezione reggina 

Tu si ffatta di marmuru.... non senti 1 

si discosta dair ultimo delForìginale. Invece la versione rac- 
colta dair Ibibriant in Terra d'Otranto (Canti delle prò- 
vincie meridionali, voi. II, pag. 105), mantiene quasi in- 
tatto r ultimo verso della lezione letteraria : 

O ca si' surda, o ca nun buei cu sienti ; 

ma ai versi 5-6 sostituisce questi altri due : 

L' occhi ci tieni parenu do' lampi, 
Farenu fatti pelli mmei trumenti ; 

e camhia leggermente il verso 7 cosi : 

Percò percè nu' curi li mmei chianti ? 

I versi 3-4 del u.** Ili rispondono ai versi 3-4 del ri- 
spetto 54 del Cod. perugino citato ( D' Ancona , op. cit , 
pag. 452). II verso ò del n.** IX ha riscontro in un canto 
toscano (Tigrl n.® 166) : in una versione di Arlena (Nan- 
NARELLi, pag. 34) al rosignolo sono sostituiti gli uccellini. 
L* uKimo verso dello stesso rispetto mi richiama alla mente 
un verso di un canto umbro, che dice : 

L' acqua che curre la fate fermare 

( LocATELLi , canti umbri nella Parola , 15 febbraio , 
1855): la seguente lezione marchigiana è più conforme alla 
reggina 

Bello d'amor te se poi e chiamare 

Ch' i tua beli' occhi fanno '1 sol legare 

(Gjanandrea, pag. 26; Gfr. Tigri, n."* 704). Il concetto 
del canto XYII è quasi identicamente espresso in un canto 
toscano (Tigri, n.** 1 104), in un marchigiano (Gianandrea, 
pag. 215) e in uno di Rovigno (Ive, pag. 178). Cfr. al- 
ti*es) un canto di Bagnoli Irpino (Imbruni, canti delle Pro- 
vincie meridionali , Voi. Il , Canto 101) ed uno monfer- 
rinese (Ferraro, canti pop. monferrini, strambotto n.* 80). 
Il primo distico del n. XXI è press' a poco Tultimo del 
rispetto 24 del Cod. perugino citato (D'Ancona, pag. 446): 
il verso 6 del n ."* XXIV è espresso nei versi 5-6 del n."* 
1159 dei canti toscani l'accolti dal Tigri. La comparazione 



dell' amante colla luna (n.** XXVI ) occorre in una ottava 
riportata dal D'Ancona (pag. 303), in un canto toscano rac- 
colto da lui (pag. 182) e in due altri , parimenti toscani , 
raccolti dal Tigri (n.i 143 , 116 : Cfr. Salomone -Marino , 
n.*23; Vigo, n.^ 223). Il n.** XXVII trova un perfetto ri- 
scontro coi versi 100-101 della serenata del Bronzino : 

Ma quando io mi credetti poter bere 
Dite, un altro si cavò la sete. 

Questo concetto ricorre in vari canti delle prov. merid. 
e della Sicilia (vedi Vigo, n.i 1073, 2998: Avolio, n.** 390). 
Da una lezione prodotta dal De Simone, canti leccesi, nel- 
YEco dei due mari^ giornale leccese, 1867, n.® 17) scelgo 
questi due versi chi si riaccostano alla versione reggina : 

Chiantai le igne e nu pruai lu vinu 
Ca n' autru quantu inne e bindemau. 

Negli altri canti che ora ho citalo alla vigna è sosti- 
tuita na lattuga, na rrosa damascenu, 'un guardinu^ 
oppore na cirasa. Al coYifronto della lezione leccese con 
la reggina aggiungo due versi di un' ottava di Serafino 
Aquilano 

La vite che io posi all' arbor tanto 
Un altro ha vendemmiato l'uva acerba 

(Cfr. D'Anqona, pagine 164, 304). Il primo verso del 
n.* XXVIII e il secondo del n.^ XXXI è conforme al vei*so: 

Mi vadu a lettu e non possu dormire 

d'un canto piemontese (Marcoaldi, canti piemontesi, n. 38): 
i primi quattro versi del n.** XXXII possono raffrontarsi 
col primo letraslico di un canto siculo ( Vigo, n.® 1 1 8) che 
per il Vigo saprebbe un po' di letterario : il verso 4 oc- 
corre in Vigo n.i 444, 115 e in Imbriani, canti delle prov. 
merid., Voi. II, pag. 176. L'ultimo distico del n.^ XXXII 
ha una certa rassomiglianza con questi versi d' un canto 
toscano : 

O Dio, chi goderà tante bellezze? 
E chi le goderà potrà ben dire 
D'essere in paradiso e non morire. 

(Vedi Tigri , n.^ 220 ; Tommaseo , pag. 372). Un canto 
umbro che ora non ricordo per intero , chiudesi con due 
versi identici agli ultimi due del canto reggino. 

Del n.** XXXIII e della lezione raccolta a Vibonati, che 
il Prof. Mandalari ha messo molto a proposito in nota 
(pag. 18 , nota 2*) corrono per l' Italia svariatissime ver- 
sioni. Del verso 1 troviamo un raffronto con due vei*si del 
rispetto 48 del Cod. perugino citato (D'Ancona, pag. 451) 
e del rispetto n.^ 98 (ivi, pag. 461). 11 canto vibonaiese 
ha una quasi perfetta rassomiglianza con una lezione au- 
lica citata dal D'Ancona (pag. 371) che comincia: 

Quando nascesti tu fior di bellezza. 

Il vei'so 7 è identico al 3.® della lezione letteraria: rS."* 
al V di un canto toscano (Tigri, n.* 86: Gfr. n.* 41, Gia- 
nandrea, pag. 79) : il 5.* aì 5."* dello stesso canto e al 3."* 
di un canto siculo (Vigo n.® 101). Per altri confronti leg- 
ga usi le lezioni sabina (in De Nino, pag. 15Ì e picena (in 
Marcoaldi, canti piceni, n."* 35). Notisi però che in tutte 
queste versioni non ricorre il concetto del creatore che s'in- 
namora della creatura propria, come nel n.* XXXIII. 

Lo strambotto n."* 48 del Cod. perugino citato ( D' An- 
cona, pag. 451) comincia : 

Cristo ti fece, donna, la figura 
Lui stesso credo che la lavorasse 

Gfr. il n.° 98, verso 7 — D'Ancona, pag. 461): un canto 
umbro, che io ho raccolto a Gubbio, comincia : 

Quando nascesti te nacque bellezza 
Nacque Tamore co la gentilezza; 
Lo soie je donò la su' bellezza, 
E la cometa la su' bionda treccia ; 
La rosa je donò 'l su* bel colore, 
Lo sole je donò lo su' sprendore. 



37 



Nel qual canto il 2.^ verso cambiasi talvolta così : 

La Madalena la su' bionda treccia. 

Finalmente* giovi riportare uno strambotto che ho tolto 
dal Cod. 1069 della Nazionale di Parigi (fondo italiano) , 
e che può riavvicinarsi al n.** Vili, raccolto con altri canti 
a Sant'Eufemia d'Aspromonte (pag. 9) : 

O bianca più cha nive dimascela 
O rossa più cha sangue di dracone 
Qua-, do te fazi a quella finestrella 
Ogniomo dice lelevato il sole 
E se levato el soie per la centrata 
Non se fa zorno se tu non sey levato. 



Parigi, 14 aprile 1883. 



Giuseppe Mazzatinti. 



El Poùliflo e 1 Padùoio *). 

Fiaba romgnese. 

El poùliso e '1 padùcio, stiva insième. El poùliso gha 
det al paducio :— « Tet, sta in casa, e meli vago (1) fora: 
te! farié (2) el disnà, (3). I viva (4) fazuói (5) par disnà; e 
stu paducio zi zet (6) in oetma a la pignàta par vultàli , 
el càjo (7) in pignàta. El poùliso va a casa:— el ciàma, el 
padùcio, el ciàma :— « Padùcio, padùcio ! «—La scanseta (8) 
gha det : — « El padùcio zi muórlo » — El poùliso alura 
piànzo, la scanzeta boùta i piati veta, la puórla roùza (9), la 
scàia, sa vuólta, el caro foùgia(iO),ràlbaro sa vuólta»— Uusiél 
ga det : — «Albaro, parchi ti te vuoiti ? »— « El padùcio zi 
muórto, el poùliso piànzo, la scanseta boùta i piati veta, 
la puórta roùza, el caro foùgia, Y àlbaro sa vuólta, e met 
eh' i son usiél, i ma spilo (11) » — 

A passa oùna rigetna, la gha det : — « Usiél, parchi ti 
te spili? » — « El padùcio zi muórto, el poùliso piànzo, 
la scanzeta boùta i piati veta, la puórta roùza, la scàia sa 
vuólta , el caro foùgia, l' àlbaro zi vultà e l' usiél zi spala. 
E met, eh' i' son rigetna, i spànzo (12) la fareina ! » — El 
ri gha det a la rigetna:— «Rigetna, parchi ti spànzi la farei- 
na?» —El padùcio zi muórto, el poùliso piànzo, la scanseta 
boùta i piati veta, la puórta roùza, la scàia sa vuólta, el caro 
foùgia, ràibaro zi vultà, l'usiél zi spala, la rigetna spànzo 
la faretna ; e met, eh' i' son ri, i spànzo Y asi (13). E la 
massiéra (14):— « El ri, parchi el spànzo Tasi? » — « El 
padùcio zi muórto, el poùliso piànzo, la scanseta boùta i 
piati veta, ìà puórta roùza, la scàia sa vuólta, el caro foù- 
gia, l'àlbaro zi vultà , l'usiél zi spala, la rigetna spànzo la 
faretna; e met, eh' i' son ri, i spànzo l' asi ! >y— E met ch'i' 
son massiéra, i boùto veta la mastiéla (15). » — A passa 
un cuntadetn , el gha det : — « Massiéra , parchi ti boùti 
veta la mastiéla ?» — E qila : — « El padùcio zi muórto, 
el poùliso piànzo, la scanseta boùta i piati veta, la puórta 
roùza, la scàia sa vuólta, el caro foùgia, l'àlbaro zi vultà, 
r usiél zi spala, la rigetna boùta veta la fareina, el ri spànzo 
r asi, la massiéra boùta veta la mastiéla, e met, eh' i' son 
cuntadetn, i nu vuoi zi dreto (16) del peducetn. ». — 

(•) Per quei pochi lettori del Giambattista Basile, a cui 
non fosse famigliare il dialetto di Rovigpo (Istria), ag- 
giungo qui una distinta dei segni diacritrici, da me usati, 
e del loro rispettivo valore. 

a ^ tose. a. 

6 = » b. 

e "h «» o, u o cons ^ K. 

re, fi = tose, se, si. 

eh z=K. 

ci 4- a, o, w := tose, eia, ciò, ciu. 

rf = d. 

dia = tose. già. 

<? =» é stretto, innanzi a r alquanto aperto. 

ei c= ( aperto accent. + i tose. 

/=^f. 

^ + a, o, M = ga, go, gu. 

(jn =: gn. tose. 

{ = i tose. 



ie "=: ìe tose. 

m = m. 

n=zn; finale nasalizza la vocale e si pronuncia come n del- 
l' Ascoli 
o B3 o stretto ; nella combinazione: uo un po' più largo. 
où ^ u aperto accent. + u tose. 
/) = p. 
^ = q. 
r = r. 
s ^ quasi 5 toscano (solo un pochino tendente al nesso sci); 

fra vocali = z. 
s* eia = s + eia tose. 
^ = t tose. 
u ^ Vi tose. 
s= V tose. 
^ s: z (un po' tendente allo z francese). 

I segni / \ indicano semplicemente l'accento nella parola. 

L'accento v nei due dittonghi et eà^où non indica al- 
tro se non che le due vocali vanno pronunciate in modo 
che ne risulti un solo suono. 

L'apostrofo ha lo stesso valore che in italiano. 

Inutile aggiungere, eh' io riprodussi questa fiaba tale e 
quale la raccolsi dalla bocca d'una ragazza del popolino de l 
mio paese. 



Rovigno, 3 febbrajo 1883. 



Dr. Antonio Ive. 



( 1) tsago^ vo (ven. vado). 

( 2) farié, farai. 

( 3) disnà, desinare. 

( 4) dea, avevano. 

( 5) fazuói ^ fagiuoli. 

( 6) zet, andato. 

( 7) cdjo, cade. 

( 8) scanseta, rastrelliera. 

( 9) roùza, rugge (ven. ruza). 

(10) foùgia, fugge. 

(H) ma spilo mi spelo cosi Spala, spelato. 

(12) spànzo, spargo. 

(13) ast, aceto. 

(14) massiéra, massara. 

(15) mastiéla, conca (ven. mastéla). 

(16) nu euói zei dreio, non voglio dar retta alcuna. 

Raccolta dalla viva voce di Maria Puschia, d'anni 21. 

È questa una delle novelline popolari più diffuse Iden- 
tica al Petruzzo della Nooellaia fiorentina dell'lMBRiANi. 
Cfr. la panzana livornese , pubblic. dal Papanti Novel- 
line popolari livornesi, p. 19. In Livorno, coi tipi di Fr. 
Vigo 1877 — Nozze Pitrè-Vitrano — N. IV. Vezzino e Ma- 
donna Salsicci a- R'\xn3.nào, per ulteriori riscontri, alla lun- 
ga nota posta in calce alla aetta novella — Il Liebrecht 
annota : — « Ein Hdufelmdrchen wie Der Baiier schickt 
den Jdckel aus. Vergleiche meineAnzeige von Bleck 's 
Reihnard Fuchs in Africa zu n.<* 17 e n.** 42 des ersten 
Buches. » Vedi Tem, Gradi {Saggio di letture carie) , La 
Nocella di Petruzzo, pag. 175. — Pi tré op. cit. Fiabe, 
Nocelle e Racconti popolari siciliani, CXXXl, Voi. III. Pit 
tiada) Èerhohi {Tradizioni popolari cenez., puntata III, 
pag. 85 : Petin Petéle. 

Da confr. anche un conto della Lorena ( Contes Popu- 
laires lorrains , recueillis dans un o illago du Barrais) A 
MontierS'Sur-Saulx (Meuse) neWo, Romania N** 24 (Octo- 
bre 1877) par E. Cosquin , pag. 575, XXIX: La Pouil- 
lotte et le Coucherillot e la lunga nota a pag. 576 id. 
dove si citano riscontri di tutte le nazioni (indi Grimm, 
III, p. 129 e N.° 80, Asbjoernsen, T. 1. N.® 16. Valdau 
pag. 341, Giansilvana in Raltrich ( Deutsche Volksmàr- 
chen aus dem Sachsenlande in Siebenbùrgrn Berlin , 1856) 
N.« 75. 



Canti del popolo dì Fagognano ') 

I. 

A san Francisco fi) stanno 'e confessure, 
'Mmiezo Vico m nce stanno 'e poiecare, 
A 'mponl' 'a Via (3) nce stanno 'e janarune, 
'Mmiezo Seàno (4) stanno 'e becchie zite. 
(N' hanno potuto trova' nu 'nnammoralo), 
A Fornacella stanno prlncepe e barune, 
Nce sta nennillo mio^ eh' è 'o caporale. 



38 



A Pacogoano 'na fresca frescura, 
Nce vanno 'e giùvene belle a festeggiare. 
'Ncopp' a r Airola (5) so' li favozàrie, 
Fanno 'na fere làvoza pe* nu 'rano. 
Vènneno 'e fierre viecchie pe' l'acciaro. 
A Tecciano (6) so' tutte vostasune 
E strùieno la via re lu Chiano (7). 
'Ncopp' a li Quonte (8) so' tutte craparune, 
Vlnneno 'e rrecottelle a cquatt'a grano. 
A Mojano nce stanno 'e donne belle 
Vanno a Faito (9) a far' 'e ssarcenelle ! 

II. 

'A bella mia se cbiamma 'Ngiolella, 
Se va a sentire 'a messa a la Cappella: 
r re vodio accatta' 'na seggiolella, 
A ciò 'Ngiolella no' s'assetta 'nterra. 
'0 mare e 'ncènzio, 'o mare o ncènzio, 
Salùteme a Rafaele e pur'a Becènzio. 
Ca si Vecienzo me volesse bene; 
Me portarria a spasso pe' lo mare; 
Me meltarrìa sotto a /na bannera 
Gomme a mito annurco a tramontana, 
E traa)ontana e ba (10) zompa 'a loco e biene cà! 

m. 

Gomme te voglio amare, vieccho pazzo, 
Non tiene 'na parola de fermezza, 
Vattenne a l' Incuròbele pe' pazzo. 
La truove maslo Giorgio che le 'mmezza (11). 
Si tu vuò' carizze s'àuza la mazza, 
Pecche è troppo la tua veccheizza ! 

IV. 

Faccio re traditore, trarisci-amante. 
Me r hai trarito 'stu core pe' niente. 
Me voglio fare 'n àbeto re santo. 
Acciò non te vevo (12) e non nce penzo. 
Tu m' hai scavato stu core tanto bene, 
Ghe io t' amavo e mo io me ne pento. 

V. 

L' aggio saputo, che te ne vuò' ire, 
Scerocco e male-tiempo pozza fare, 
A chelle pparle, che le ne vuò' ire. 
Che pòzzeno asseccà' puzze e fontane ! 
Non puozza trova' né pane e né bino. 
Manche lo Hello pe' le arriposare : 
Puozza addesei'eà' lo nomme mio. 
Con forte voce me puozza chiammare 
Ammore, ammore, che 'mpietio te tengo, 
Gomme no rammaglietto re viole ! 
Verimmo eh' avimmo a fa', facimmo priesto, 
Primma eh' arriva Io fuoco a lo core (13). 

VI. 

La donna la ripena (?) la fortuna. 
Mai di donna se ne pò di' bene. 
Lo core suo lo prommeite a duie. 
Fa comme a 'na cannuccia che ha e bene (14). 
Cielo quanta bellizze lene 'a luna, 
Tanta re falzità 'na donna tene. 
Tra mille manche una tu ne truove, 
Ch' essa de core l' ama e te vo' bene ! 

VIL 

Pe' r ària, pe' 1' ària no fischetlo, 
Ghist' é nennillo mìo ca mo se parte: 
r re vorria rà' no rammaglietto, 
Schiocche (15) d' arule e caruòfene scritte (16) : 
Po' se lo mette a lato a la paglietla (17) 
E se ricorda 'e me, po' quanno parte 

VIII. 

Cielo, quanto so' belle 'ste de' sore (18), 
Una è Toresca e 'n' ala é Taliana ; 
'A peccerella me percia Io core. 



< I 



'A 'rossa me fa pròprio pazziare; 

'A peccerella 'neatenalo m' have, 

'A rossa sape fare li ccatene. 

'0 voglio fare nu mosso peccalo. 

Me le boglio sposare tuli' e doie ; 

Po' me ne vavo a Roma a confessare : 

— «Patre, me so' sposale re' flgliole ,20)». 

IX. 

Vi' quanto me piace Teresella 
Quanno cammina scòte!' (21)'a vunnella. 
Cammina co' no ptisso menotiello; 
Trenta carrine va lo pezzechillo; 
'Nfacci' a 'na mana tene cinche anelle 
Me ce voglio peglià' lo peccerillo. 

X. 

Mamma, mamma, virolo (22) n' 'o voglio, \ 
Sempe me nota la primma mogliera; 
Voglio no gioveniello 'e quìnnici anne. 
Che sia freccecariello coram' a mene. 
Risse la vecchia: — N' aggio, che te fare ! 
Lo cielo m' ha lovato lo potere; 
Si vuò' la veste, te la pozzo fare, 
R' 'o meglio panno che peace a tene. 

XI. 

Quanno nasciste tu, fiore 'e bellezza, 
Lo sole te donò lo suo splendore. 
La luna le donò la sua chiarezza, 
La rosa pose in te tutto l' addore. 
Vènere te donò la sua bellezza. 
Cupido te 'nsegnò de fa' l' ammore. 
Lo Qerro te donò la sua fortezza, 
E lo tuo amante te donò 'sto core (23). 

XII. 

Te conosco ra 1' uoc4*.hie, che si' 'nfame, 
Tu t'annammure re quanie ne vire; 
Si ne verisse elenio a la semmana. 
Co' tutte ciento t'abbracc' e pazzie. 
'A faccia loia no' ne stime scuorno, 
Me pare no crivo quanno cerna. 
Me pare la Rovana re Salierno, 
Chi pe' dinio, chi pe' fore, e chi pe' tuorno. 

XIII. 

Te voglio bene é non te lo rimostro, 
fiene che non te pozzo rimostrare, 
Me r hanno puoste li gguàrdie attuorno, 
Te veco e n)n te pozzo saloiare. 
Te saluto co' l'uocchie, ammore mio, 
Mo che 'sta lengua non te pò parlare. 

XIV. 

So' ghiuto a la marina a l' acqua roce, 
Pe' me fare 'na vèppeta (24) felice. 
Là nce irovaie no puzzillo roce 
'Ncoppa nce cantava la pernice. 
Quanno canta fa no canto roce. 
Là me farria no canto felice. 
Che le rice a te amante roce. 
Po' tanta guerre: volimmo fa' pace ? 

XV. 

La ^ bella mia é fatta co' la penna, 
E ammesorala co' la mezacanna. 
Tutto lo juorno me sesca e me segna , 
E ilio (25) me vo' parla' non sa quanno. 
Porta le scarpetelle a una zenna 
Me pare no vasciello quanno scàrreca. 

XVI. 

Ghiammo a. lo vienlo e viento no' bene, 
Piglia a lo fuoco, e lo fuoco se sluta, 
Ghiammo a la morte e la morte no' bene , 
Vavo a l'inferno e pure me rifuta. 
Vavo pe' via e no' vevo la strada, 



30 



Cielo a che misèria aggio venuta. 

Meglio a èssere amante non amato 

D' essere amante amato e po' Iraruto (26). 

XVU. 

Bella figliola, ohe te cbiamme Rosa, 
Che bello nomme che mamma t'ha miso 
E t'ha miso lo nomme de la rosa, 
'0 chiù bello flore che sia 'mparaviso. 
Veaio chi s' 'a gore e piglia a Rosa. 
Sparagna lo pesone de la casa. 
Re la casa e bene I amare e bene ! 
Sott' a lo ponte re la Matalena (27). 

xvm. 

Russo melilo mio, russo melillo, 
Sagliste 'ncielo pe' peglià' culore; 
Te ne pegliaste tantillo tautillo, 
Tornate arreto. si vuò' fa' Y ammore 
L' ammore è fatto comme 'na nocella, 
Si no' la rumpe no' la può' magnare. 
Cosi so' lì ffèmmene peccerelle, 
Si no' te cale, no' le può' vasare (28). 

XIX. 

Ietto a lo 'nfìerno pe' bere' lo fuoco, 
E la nce trovaje la neve quagliata. 
Àggio miso a scavorà' li rafanielle, 
Pe' te schiarire 'sta faccia 'ugialluta. 
Bella figliola, 'mmàneche e 'ncammisa, 
Chiatta e fresca si' comme a 'na rosa. 
Si nei arrivo a frasi' dinto a 'sta casa, 
Te voglio spampana' comme a 'na rosa. 
Quanno cammine faie tremmà' la casa, 
Pòvero ninno mio , comme arriposa. 
r si moro e vavo, 'mparaviso, 
SI no' nce trovo vuje i' no' nce Iraso ! 

XX. 

Chi vo' vere' lo paraviso apierlo. 
Isso vene a 'sto luogo a festeggiare. 
Nce sta 'na nenna, che no' tene piecche, 
L'à ngelo ra lo cielo fa calare. 
Quanno cammina ne mena conflette. 
Li pprete de la via fa addorare. 

{Conty Raccolse Luigi de Gennaro 



*) P AGOGNANO , erroneamente Pacognano , senza lener 
conto della origine gi*eca uóc^oqy il cui significato cor- 
risponde alla sua topografia. È una borgata di Vico E- 
quense; e conta circa duecento abitanti. 

(1) Antico convento d monaci Francescani posto sopra 
un monte e tuttora es stente neiristesso comune. 

(2) S'intende la Piazza Fontana dove ci è il mercato. 
3) Altro luogo all'estremo abitalo, detto ora pure Ca- 

vòttole o Santa Sofia. 

(4) Altra borgata del comune , dove sono molte tessi- 
trici. 

(5) Altra borgata al di sopra di Pagognano. 

(6) Preazzano, Ticclano e Mojano son tre altre bor- 
gate dello stesso comune. 

(7) Pia lO di Sorrento di cui l'amico Gaetano Amalfi 
sta pubblicando i Canti sulla Rioista Minima di Milano, 

(8) Quonte , volgarmente sono i colU di Piano di Sor- 
rento. 

(9) Fatto o Faggito , (dagli alberi , che ivi si trovano) 
altissimo monte, detto anticamente Gàuro , forse, corru- 
zione di ToOpog Fu anche dett > Lattàrio, forse, dagli ot- 
timi latticini!. 

(10) Ba, va. Una variante di (juesto canto è anche in 
dialetto napoletano e in quello di Piano di Sorento. Cfr. 
MoLiNARo Del Chiaro , canti pel pop, nap.y pag* 152, 
canto 123. 

(11) 'Mmczza, impara. Cfr. Molinaro Del Chiaro canti 
del pop, nap., pag. 179., canto 211. 

(12; Veoo , vedo. 

(13) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop, nap. , 
pag. 118 , canto 18. Canzoni indicanti lo sdegno degli a- 
nianti sono frequentissime. 



(14) Bene, viene. 

(15) Schiocche , cime. 

(16) Caruòfene scritte, garofani a due colori. 

(17) Paglietta^ cappello di paglia. 

( 18) Una variante è anche nei canti del Pop, di Serrar a 
d* Ischia di Gaetano Amalfi. 

(19) De* sorCj due sorelle. 

(20) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop. nap.. pag. 
177, canto 204. 

(21) Scàtola, scuote. 

(22) Virolo, vedovo. 

(23) È evidentemente, d' origine letteraria. 

(24) Vèppeta, bevuta. 

(25) Itto, detto. 

(26) Forse d' origine letteraria. 

(27) Cfr. MoLiNAKO Del Chiaro, canti del pop, nap.^ 
pag. 146, ca to 103, e Amalfi» canti del pop. ai Serrara 
d' I chia, N.o XXXVI, 

(28) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop. nap., 
pag. 280, canto 432. e Amalfi, canti nel pop, di Serrara 
D Ischia, N.o LIV. 

Canti del popolo c^ Giugliano 

(Continuassione, vedi n.^ 4) 

11. 

Quanno nennillu mio nce sta malato, 
La mamma lu remira cu'doie cannele. 
Sùbeto va a chiammà' la 'nnammurata 
— Comme nu' viene flgliemo a verere ? 
Te le voglio passare le ghiurnate, 
Nu' me lu fa miri' penzanno a tene. 
Si Sant' ÀDtònio nce lu fa campare 
Nce faccio fa' nu suonno accant' a tene. 

12. 

Uh bene mio, comme vogliu lare 
r r aggiu perzo la vena r' ammore. 
Nennillu munaciello se vo' fare 
Comme re mene nun bave relore ? 
Sempe cu* la speranza vogliu stare 
'Nzino che piglia la prufessìone 
Quanno le beco le cose tardare 
La voglio 'nguftà* la casa soia. . 

13. 

Nennillu mio è bello chiii re tutte, 
Bellillu re perzona, accuoncìo fatto, 
San Luca pure nce s' è miso tutto, 
Ra cielo ha fatto cala* lu suio ritratto. 

14. 

Nennè, éccheme cà, elicilo che vuoie, 
Nu' me ne 'mporla che me faie murire. 
r 'mbracc' e ncroce te veng'a priare (li) 
Nennè, quanl' aggi' a fa' pe' te servire. 
'Stu core luosto l'aggio ra rimmullire 
Cu' lu pianto a l'uocchie e cu' li mie suspire 
Già che re vuie me ne so' 'nnaramurato, 
Yuòglieme bene e nu me &' murire. 

15. 

Quanto si' brutto puozz' èssere accise 
'Ncanna la puozz' ave' 'na scuppettata. 
Nce puozza ià' la morte re lu 'mpiso. 
Senza cannele e senza lume 'ncapo. 
Ricci anne puozza sta' 'ngalera 'nvita, 
Rieci anne puozza sta' a lietto perciato. 
Po' tania vota puozz' èssere accise, 
'Nfuto che truove V àuta 'nnammurata. 

16. 

Faccia gialluta , tècchete la rota, (12) 
La cemmulella fatteli' à 'nzalata, 
Vaje ricenno ca nu' m' he' vuluta 
Comme nu' dice che t' aggiu lassato? 
Tanno me pigli' a te, faccia gialluta, 
Quanno Giugliano tiene per entrata. 



40 



17. 

Quanto si' brutto, te venga nu piello, 
Pare che lu remraònio t'ha visto; 
Quanno t' affaccia ra copp' à fenesta, 
Tu pare Giura, che trarett'a Cristo. 

18. 

Tu faccia re nacerla vermenata, (13) 
Chella che sagli' e scenn' 'a capp' 'u muro; 
Tu tiene 'e mustaccielle comm'a gatto, 
'A campanella 'ncanna, si' iìgUo 'e mulo. 

19. 

Cher' hai, amroore mio, che tanf abbuoUe? (14) 
Chest' è la 'ngelusia, ca mo te schiatta! 
Tu nce T he' fatta 'na cera re muorto, 
L' nocchie he' sirevenuie (15) comm' a gallo. 

20. 

Tu va vatlenne , morie de Surrienlo, 
Nun fa' vulà' lu stòmmec' a li ggente. 
'Sin ninnu nei ha perdut' 'i sintemiente, 
Pe' se peglià' 'sta brulla puzzulenle. 
Tene la rote, (16) che n' abbasla a niente, 
N' abbasla pe peglià' merecamente, 
'Ncapo re Y anno nce careno li riente 
E se lene'na guaje pe' de nenie (17). 

21. 

Quanto so' belle le roselle 'e maggio, 
Chella re primmavera sempe vence; 
Chi è 'stu ninno ca vo' là' paraggio (18) ? 
Lu primmo 'nnammuralo sempe vence! 

( Continua ) 

Bwcolse Luigi Taglialatela 



(11) *mbracc* e *ncroce, colle braccia a croce in petto. 

(12) rota^ ruta. 

(13) naccrta vermenata, lucerla muralis. 

(14) abbuoUe, ti gonfi i, t'insuperbisci. 

(15) Hreoenute, stranulati. 

(16) rote, dote. 

(17) nente^ avanti. 

(18) paraggio, paragone. 



NOTIZIE 

Nel numero 3, anno VII (Ancona 16 Marzo 1883) , del 
Preludio , ottima rivista quindicinale di scienze . lettere 
ed arti che si pubblica in Ancona dalla casa editrice A. 
G. Morelli , il no tro Vincenzo Simoncelli ha pubblicato 
una lettera a Michele Scherillo , in cui gli dà, conto di 
alcune rappresentazioni rusticane della sua S ora ; e ne 
pubblica per intero una intitolata 1 dodici mese. Il Simon- 
eelU suppone che queste rappresentazioni siano reliquie 
viventi della Commedia dell arte, e quindi vede che pos- 
sano convalidare quello che già lo Scherillo aveva detto 
su quello stesso giornale , in contradizione col Bartoli e 
con Veruon Lee; che cioè la Commedia dell* arte non è 
tanto lontana dalle nostre abitudini attuali, e che anzi a 
Napoli e infondo a parecchie delle nostre provincie ne 
rimangono trocce notevolissime. 

Dalla conferenza tenuta non è molto al Circolo filolo^ 
gico dall'illustre professore Francesco de Sanctis intorno 
al « Darwinismo nell'arte » togliamo quello che segue: 

« E perchè godiamo più dove la forza è maggiore, l'arte 
« si è avvicinata al popolo, più presso alla natura, dove 
« le impressioni sono più gagliarde e l'espressione più 
« immediata e più rapida. Rappresentiamo la società con 
« l'ironia e col sarcasmo, e non gustiamo quella vita che 
« ci viene attraverso alle ipocrisie , alle convenienze, ai 
« pregiudizi, al convenzionale ed all'artificiale. Preferia- 
a mo come materia d' arte la vita del pop)lo nella sua 
« semplicità ingenua e nell'energia intatta delle sue forze. 

o Questo non è senza influenza anche nei modi dell' e- 
« spressione , nella lingua , nella elocuzione , nello stile. 
« Chi ricordi la lingua di 20 anni fa e la paragoni con 
« quella che oggi è parlata, troverà ch'ella ha scosso da 
« sé tutto il bagaglio pesante di forme solenni» eleganti, 
a oratorie, accademiche ed ha preso un fare più spigliato 
« e più rapidoy più vicino ai dialetti che sono il Unguag- 



a gio del popolo. Perchè il popolo è il grande abbrevia- 
« tore del pensiero umano, {applausi). Esso afferra le con- 
<c clusioni e sopprime le premesse; e poco atto all'astra- 
« zione traduce tutto in immagini, che gli vengono subi- 
« tanee da impressioni vere. Il dialetto è destinato a di- 
a venire il nuovo semenzaio delle lingue letterarie , un 
« ritorno alle fresche sorgenti della vita naturale ». 

(Dal giornale:- Homa, anno XXII, N. 92, Napoli, 3 
aprile 18S3). 

A proposito del ms. di Parigi sui Poeti napoletani, dei 

?[uali abbiamo già dato un saggio, il dr. A. Gaspary, pro- 
essore nell* Università di Breslaoia , ci scrive: « ho 

« letto con moltissimo interesse l'articolo del prof. Man- 
ce dalari sui poeti napoletani del quattrocento. Sono cose 
<c del tutto sconosciute e sarà molto importante d'aver al- 
« tre notizie sul contenuto di quel ms. di Parigi. Liba- 
« rato del tanto lavoro per le mìe lezioni universitarie , 
« che ebbi T inverno passato , comincio ad occuparmi di 
« nuovo di cose italiana. Ma qui si lavora male, qual on- 
ce que volta cerco di approfondire una questione, mi ven- 
« gono presto a mancare i necessari sussidi letterari ». 

Il volume XXXIII della Biblioteca corde mporanea, che 
si pubblica a Milano dalla Ditta Natale Battezzati , con- 
tiene : « Pietro Turati — Canti popolari slaot , greci e 
napoletani — séguito ai fiori del nord e ai fiori del sud 
dello stesso autore ». Dalla pag. 93 a pag. 121 son tra- 
dotte otto canzoni di moderni poeti popolari napoletani , 
come Ernesto del Preite, RatTaele Sacco ecc.; una ninna- 
nanna ; e diciassette canti propriamente popolari , presi 
dalla raccolta del Molinaro Del Chiaro. (Cfr. Canti del 
pop. nap. N.i 21, 66, 69, 112, 129,254,295, 325, 347, 386, 
40t 422, 467, 470. 514 e 520). 

L* appropriarsi le fatiche altrui, senza neppure 1' one- 
stà d'una citazioncella, è indelicato; è-., via l non diciamo 
la brutta parola. Ma pure accade talvolta: e molti ricor- 
deranno il furto perpetrato a danno del buon Pitrè da 
Woldemaro Kaden. Ma quello è un tedesco; e, forse, spe- 
rava che il suo plagio passerebbe inosservato ed impunito. 
E come mai ha potuto sperare altrettanto per sé il 1 urtiti ? 

Quale sia l'utilità di questa specie di pubblicazioni, noi 
in verità non sappiamo vederlo; specialmente quando que- 
sti poveri canti popolari si conciano di un modo cosi bar- 
baro , in traduzioni cosi infelici e goffe come quelle che 
abbiamo sott* occhi del Turati. Chi prende i canti popo- 
lari e li storpia coprendoli di ciarpame, non intende nep- 
pure per sogno gli studii di letteratura popolare. 

Nei numeri 124, 125, 130, 132 e 134 dell'anno XI ( Na- 
poli, 6, 7 12, 14 e 16 maggio 1883) del Corriere del niatli- 
no, abbiamo letto un curioso ai-ticolo del sig. G. Ragusa 
Moleti su Giuseppe Pitrè e le tradizioni popolari. Non 
è uno studio né critico nò biografico; ma un bozzetto arti- 
stico, una fantasia; fintroduztone della quale, in verità, 
ci sembra poco seria. Pure cosi com' è, non abbiamo vo- 
luto mancare di indicarlo ai nostri lettori , non dubitan- 
do che ad essi , come a noi, non può riuscire se non gra- 
dito, qualunque notizia che si riferisca ad uno dei più va- 
lorosi campioni degli studii di demopsicologia italiana. 



Posta, economica. 



Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

73. Arone Prof, Eugenio - Napoli. 

74. Dalbono Cbnini, Cosare - Napoli. 

75. Tozzoli Aoo. Angelo — Napoli. 

76. Pitrè Doti. Giuseppe — Palermo. 

77. Salomone-Marino Volt. Salvatore - Palermo. 

78. Di Domenico Sac, Ferdinando — Napoli. 

79. testa Prof, Francesco — Matera. 

80. Finamore Cao, Gennaro - Lanciano. 

81. Brandileone Avo. Francesco — Napoli. 

82. Accademia Reale di Archeologia , Lettere e Belle 

Arti — Napoli. 



Gaetano Molinaro — Responsabil, 



Tipi Fratelli Carlucfio, Largo Cosiaotìnopoli; 89* 



ANNO I. 



Napoli, 15 Giugno 1883. 



NUM. 6. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ASBOlTAliSNTO AK2TU0 



Per l'Italia L. 4 — Estero L. G. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L HOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

M. KANBALARI , H. SGHERULO . L. CORRERÀ , 
0. AKALFI, V. DELLA SALA, V. SHOHGELU 

Redattori 



AWEBTSÌTZfi 



Indirizzare vaglia, lettere o mgsoscritti 
al Direttore Einlgl JMollnaro l»el 
Chiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



SOiMMARIO: — Idillii rusticani ( M Scherillo) — 'O 
cunto d* 'a Bella-Pilosa (V. Imbruni) - Tabù 1 giuoco 
fanciullesco maierano (F. Festa) — 'O cunto d' 'a cascia 
'e cristallo (F.Bojano)— Larpoesia popolare saypjarda 
(1. BiLLÒ) — Notizie — Posta economica. 



Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



IDILLII RUSTICANI 

In generale le raccolte di canti popolari non contengono 
se non canti di amore o di gelosia, o indovinelli e giuochi 
fanciulleschi ; e, quasi sempre, questi non olirono nulla o 
pochissimo di nuovo, non essendo che o semplici varianti 
alterazioni. 

Ma quelli che ora diamo alla luce sono di un genere 
poco comune: sono scenette rusticane, idillii, i accolli a Buo- 
nabilàcolo, villaggio giù al contine quasi della provincia di 
Salerno con la Basilicata. Quanto siano spontaneamente 
popolari non saprei affci-maie. Credo però che una ori- 
ginaria elaborazione d' un singolo poeta-conladino ci s'a 
dovuta essere ad ogni modo. Forse qualche vecchio 
potrà- ricordarsi di aver udita cantare quella canzone, nella 
sua fanciullezza , da un vecchio pitocco, che veniva al pa- 
gliaio a buscarsi una sorsata di vinello ; ed il quale ne 
potrebbe essere stalo l'autore o il rabberciatore ! 

Quantunque non siano molto ricchi di pregi estelici , 
pure questi idillii a noi sembra che abbiano un valore 
letterario notevole. Chi ha un po' pratica della nostra let- 
teratura idillica sa quanto di manierato vi sia nei lavori 
di quel genere , e quanto poco di buono. Leggendo tulta 
la farragine di favole pastorali e di egloghe , di cui so* 
prabbonda la nostra lettei-alura del Rinascimento , anche 
senza volere impantanarsi nelle paludi melmose delPArca- 
dia, si sente il bisogno di sbarrare le lìneslre , per respi- 
rare un po' d'aria libera , e far volare giù in giardino 

quanti di quei librettini ingiallili vi vengano sottomano , 
con tulle le loro grazielte tipografiche e le vignetie dalle 
gambe nude! — Ma è possibile che tutta quanta la poesia 
di questi colli e di questi prati, lutto queste gradazioni dL 
verde, che questi trèmiti e questi susurri di foglie , che 
questi silenzi misteriosi nel bagliore solare , che le belle 
facce di queste contadine abbiano tanto poco commosso i 
nostri poeti un farli pensare ancora agli esemplari greci e 
latini ? l^ssibile che riesce così difllcile il sorprendere in 
essi una tinta colta dal vero e un palpito di quella Vita? 

Gli idillii di Buonabitàcolo non possono avere la preten- 
sione di rifarci di tulle le vecchie noie ; ma un profumo 
agreste ce io fanno aspirare ! È pure una consolazione in 
una poesia idillica seniir veri contadini parlare di persone 
e di cose veramente contadinesche ! 



Xon li abbiamo raccolti direttamente ; ma li avem- 
mo dalla cortesia del signor Francesco Nelli , insieme 
con un bel gruzzoleilo di canti del suo Buonabitàcolo. 

Soccavo, 22 maggio 1883 

Michele Scherillo 

I. 
La pastorella della montagna 

Pastorella, che pe' la montagna vai. 

Me vuoi confirà' si fai l'amore? ' 

Si ami no pastore o no porcaro. 

Si r ami co' la vocca o co' lo core ? 

'N segreto mo m' ha ditto no craparo 

Ca parli spisso co' no cacciatore, 

Nce parli otto vote la semana, 

Hai fatto 'ngelosì' ogni pastore. 
pastorella semplice e bella, 

Piglia profillo da 'sta scolella: 

'Sso cacciatore no' è pastore 

Ca ronà' te pò lo core; 

'Sso cacciatore è signorino 

Se vo' spassa', no pocorillo; 

E pe' poterle 'nfenocchiaro, 

Sai' quanta cose po' 'moftenlare! 

Tocca lo naso co la luna. 

Le stelle conta a una a una; 

Ima a no puzzo fa verere 

No paro re comete co' la cora; 

No ciuccio pe' r ària fa volare, 

Fa camenà' no vói a dui pieri. 

(]hi sa quante cose pò 'mmentare 

Pe' se fa ama' e meglio crere'; 

Roppo che lo prorito l'è passato 

Te rà n'addio e dice ha pazziato. 

Loco a caccia chiù no' vene, 

Manco si nce fosse strascenaio: 

Lo sape ca non pò mantèoe' 

La fere che l'avria sposalo. 

Tanno te scippi li capilli, 

A lo cielo vanno li strilli; 

Si r avissi tra le manelle 

Le levarrissi le mascelle, 

Chi sa li slràzii le farrissi, 

Lo sango suo non te vevissi. 

Sienle no vieccliio che le rice: 

Si vuoi esse' sempe felice, 

CV li signuri non le 'nimescare, 

Ma li pasluri sulo amare. 

Si pastore te porta amore, 

Lo porla pròprio de lo core; 

Ma li signuri so' Irareluri 

Co' le figlie re li pasluri. 

Si a tieropo re te salvare, 



42 



Si tu sienli lo mio parlare; 
Si fai gruecchie re mercanii 
Pole cresce' la panza 'nnanti. 
Tanno passi Y ùierao guai, 
Ma renderlo chiù non ce stai. 
Io fenisco, n' aggio chiù jialo; 
Fazzo come fece Pilato, 
Le mane soje se lavào, 
La coscienza se scarrecào. 

II. 

Lo juorno re le Parme la vcrietti, 
Ca mai l'avia vista 'mmita mia. 
A no compagno mio domannietti 
Chi era 'ssa figliola che verìa. 
Isso me resse:— -Éna campagnola, 
Nce vene cà 'na vota sola; 
Quanno la parma have benerelta, 
A la campagna se ne torna 'nfretla: 
Essa è nemica re lo paiso, 
Pecche ramante suo morze acciso: 
S'accese isso stesso co no spito. 
Insto 'mmienzo la chiazza a 'sto sito. 
Pe* no r ave' voluto sposare, 
Recette: cà che nce resto a lare? 
Fratanto mo la campagnola 
Non se la face rice' 'na parola; 
Li giùvani non se ponno arrisecare 
JNò meno re la potè' guardare. 
Penza ca essa sola è stata 
La càosa re 'ssa morta resperata: 
Pe' chesso sempe a la campagna 
Stai sconzolata e se lagna, 
E dice a tutti co' no grugno : 
Non boglio chiù sape' de lo munno 
Non boglio vere' e né trattare, ' 
Manco si m' avèssaro a squartare • 
Ma la semana re passione ' 

Nce vegno pe' di' 'n' orazione 
Pe' lo sgraziato muorio acciso, 
Chi sa lo mannasse 'mparaviso'. — 

III. 
Quanto è bella la vita pastorale I — 

Pare ca accossi dice lo pastore ; 

Rorme 'nterra come 'n animale, 

La mogliera a lo licito vanticore ; 

E non sape co' chi se la spassa, 

Uno la piglia e n' àuto la lassa. 
— No quairano me 1' ha ditto 

Ca la notte citte cìtio 

Se ne trase ima la casa, 

A la scura se la vasa. 

Bonaggia Santo Fele, si lo saccio 

Sia cornuto eo si non 1' aracelo !... 

Ma de che ne voglio fa' de chissi guai; 

Me prèmano le pècore a bonora, 

Quanno non trovano erva pe mangiare, 

E li montuni non sàgliono ancora. 

Sempe acqua, e sempe viento, 

Bonaggia oi che frusciamiento I 

E la notte care jelata, 

Bonaggia crai che brutta annata ! 

Non sai, mogliera mia, non sai, quatrana, 

Chisl anno no ne' è caso e manco lana... 

Ohi, gualano, (1) para ta vascio. 

Quando ra' acconzo 'sto capo re lascia (2). 

Ohi, Matteo, chiama lo cane 

Ch' è remaso a la codiata. 

L aggio perza pure 'na crapa. 

Mannaggia oi a lo montone 

Me r ha chiavata n' àula botta, 

E la capo è menza rotta. 

Rejàvolo, ferniscela stasera, 

Ca r aggio perza pure la paneltera I... 

Mo me ne vengo, Zeza mia, 



A trovarle ima 'sso Hello, 

Ca me sento arde' sto pietto... 

Sia benerllto Dio che nce arrivai ! 

No' boglio 1' a la mandra manco pe' crai » 

— Vi' che lòtano eh' ha piglialo: 
'Sto cornuto, ogne 'nsera, 

, Me lo face pe' despletto, 
Vole rurml' sempe a lo lìetto ! 
Tanto t'ajiita Dio, piezzo d'anchione, 
Ca nlerra puoi rurmi' a no pontone. 

•— Aggio puosto lo temone, 
Mo me si razzo lo cauzone ; 
Vieni mo si vuoi veni', 
Che càncaro hai. non buoi senti' ? 

— Aggio la mala pasca che t' afferra, 
Puorco marito mio, va ruormi 'nterra ! — 

E la viola, e la viola, 
Senza lo libro non se vai a la scola.* 



(1) Guardiano di vacche. 

(2) Legaccio di scarpa. 



VII 

'O CUNTO D' 'A BELLA-FILOSA '^ 

'Na vota ci steva nu marito e 'na mugliera. Chesla mu- 
ghera teneva 'e capilli r'orò, 'ncapo, e ie riemi r'oro, 'mmoc- 
ca; e teneva 'na figlia, pure, accussl. 
^ Muretto 'a mugliera. Piglia chill'ommo, si vuleva 'nzurà' 
n àula vola; e buleva truvà' 'na siconda mugliera, pure' 
cu e capilli r' oro, 'ncapo, e cu' ie riemi r'oro, 'ramocca! 
Nu juorno si rette 'ncammino. 
^ Pi' bia, scuntava nu signore. Chisto era 'o riàvolo ca 
virelle accussi 'mpistato: li spiava 'ó picchè. ' 

Chill'ommo li ricette: ca isso aveva pirduto 'a mu- 
giiera; e ca tineva 'e capilli e ie rienti r'oro; e rCieva 
truvanno una, pure, come a cheli a primma 

Piglia 'o signore, li ricette: — « Tutto chesto iera ? Tu 
« tieni Agliata, ca pure è accussi, e non ti la spuse ? »— 
Chislo ricette: ca nu s' 'a puteva spusà'. E chillo rispun- 
netle:— « Non ti 'ncaricà'! Spusalella e zitto ! »— '0 bel- 
1 ommo lette à casa ; e riceile à figlia: ca s' 'a vuleva spu- 
sa. Chesla, primma, dicette: ca h' 'o vuleva. Ma, po'\i. 
rette, ca o padre 'nzisteva a forza; li ricette, ca si vuleva. 
prtma, cunfissà. padre ìì rispunnelte, casi. Un lessa 
mmece e si l a cunlissà' , ielle a chiàgnere 'ncoppa à fos- 
sa r a mamma; e diceva: —« Mammà, mammà! Vui site 
« morta e papà mi vo' spusà' I Rìcitami vuie, com'hagffio 
« ra fa ». — ^ oo 

'A mamma rispunnelte: - « Se' cu buò' fa' ? Rincella: 
« ca vuo na vesta, tutta campanielU r'oro. Chillo 
« nu a trova; e nu' t' 'o spasi. «-Piglia chesla, va à casa 
e dice: — « Papà, i mi so' cunfissala. E 'o cunfissore m'ha 
ce rute, ca m avite àccallà', primma, 'na vesta, lulta carn- 
ee panielh r oro. » — '0 padre , quanno fuie 'a matina , 
ielle a Nàpule. E, ammente leva, scuntava, 'n'àuta vota, 
chillu signore. E li ricetle, ca: 'a figlia vuleva 'a vesta: 
e ca ISSO non 'a puteva arriva' 'a truvà*. '0 ri àvolo ri- 
spunnelte: — « Tutto cheslo iera ? Mo t' 'a rongh' i'. »— 
Iraselte rima a nu magazzino; pigliava 'a vesta e la retta. 
E chillu padre, tulio cunlento, currette a purtarla à figlia. 
E 11 ricette, ca isso 1* aveva purtaia 'a vesta e s' 'a vuleva 
spusà'. 

'A figlia ricette, ca iessa s'avcv'a cunfissà' Wafa vota. 
Ma nimcce 'e si i' a cunfissà', ietie , pure, 'ncoppa à fos- 
sa r a mamma; e chiagneva: — « Mammà, mammà! Vuie 
« site morta e papà si vo' spusà'. a me! Ricilemi- vuie' 
« comm haggi'a fa' ». — 'A mamma li ricelle: -« Se' cu 
« buò fa' ? Falli purlà' 'na vesta, e' 'o sole 'unenzi e cu"a 
« luna arrelo. Chillo n' 'a trova; e tu nun t"o spusi».— 
'A figlia ielle à casa; e 'o dicetle 6 padre. 

Chisto, 'n'àuta vola, si ii' ielle, tulio 'ncullarato, a Nà- 
pule; e, a ristesse punto 'e tanno, scuntava 'n'àuta vota 'o 



^^ 



stesso signore. Chisio li tiirnava a d'm2indh\ picchè steva 
accussì ? E isso li ricette: ca 'a figlia aveva ritto , ca 
tanno si spmava a isso, quanno Vaveva purtato 'na ve- 
sta cu' *o soie 'nnenzi e 'a luna arreto. Chillu signore li 
rispunnette — « Aspèltanfii loco, ca mo l' 'a porto i' » — 
Trasette rinto Nàpule e la purtava. Isso si n' ietle , tatto 
cuntento a d* 'a figlia. Rice: — « leccati 'a vesta. Mi vuò' 
spusV n)o ? » — 

Chesta ricette, ca s'aveva V a cunzìglià\ 'n'àuta vota 
e' *o cunfissore, lette, e ghiette, pure, 'ncoppa à fossa r' 'a 
mamma — « Mammà, mammà ! chillo m' ha piirtuta ! chilJo 
« m'ha pnrtata ! e, mo, mi vo' spusà' ! Reclleml, vuie, 
« comm' aggi' a fa' ?» — Piglia 'a mamma , ricette : — 
« Figlia mia, mo , sulo chisln rimmèrìo tengo! Tu rincello, 
« accussl: Papà^ truie m'avite àccattà\ 'nnenzecu spu- 
« sammo^ dui palummielli; ca, po\ mi voglio 'nchiù- 
« rcre rinto a 'na stanza, ca mi voglio lava' 'e pievi, 
« E 'ramece 'e ti lava', ti ni fui ; e rummane 'e palum- 
« mi rinto a l'acqua » — Piglia chesta, iette à casa; e rice:— 
« Papà, mi so' cunfissata. Ci vulimmo spusà' mo? » — '0 
padre ricette, ca sì. E iassa rispunnette, ca vuleva, prim- 
ma , dui palummielli, '0 padre ci V accattava , e c"e 
purtava. Jessa si regna nu vacilo r'acqua, si 'nchiure rinto 
'a stanza sQja , e dirette, ca. si vuleva lava' 'e pieri. Si 
'nchiurette; mittette 'e palummi rinto 'o vacilo: lessa s'ab- 
bacagliava tutte cose, (e pure 'e besie 'e sete , ca V aveva 
rato 'o padre) e si ni fujette. '0 padre faceva 'a fora: — 
« Chella figlia mia, comme si lava 'e pieri! » — Ma, po', 
stette nu poco e stette 'n àuto poco, e virette ca 'a figlia 
n' asceva chiì^. Trasette rimo ; e nun ci la truvava. Tutto 
rispirato, rice : — « Chella figlia mia m' ha fallo e m' lià 
« saputo fa' ! » — Ijassammo 'o padre, mo, e pigliammo 'a 
figlia; Chesta si mittette 'ncammino;e camminava cammina- 
va ! Arrivava a 'aa cita: E, p' 'a via, si surignelte 'e capilli 
'e turreno e ie rienti, s' 'e 'nghiaccava tutte 'e Iota, s'accatia- 
y^ 'na pelle 'e lupo, e s"a mittette 'ncuollo. A chesta cita, ci sleva 
nu Re. Piglia iessa, 'o sapette, e ielle a d' 'o chillu Re; e di- 
cette, ca essa si vuleva méttere pi' serva, 'E sivritore a vi- 
rèttero accussl schifosa, nun ce 'o vulèvano dì' 6 Re. Ma iessa 
tanto 'e pri'ava, fino ca 'e sivritori ci 'o dicèttero. 

'0 Re ricette — « Va, lassat' 'a trasì' 'A mittmimo a guar- 
« dà' 'e quìquere » — E 'a chiammàvano Bella-Filosa, 

'Slu Re tineva nu tìglio. Chisto, nu juorno, iette a pazzia' 
cu' Bella-Pilosa. Piglia chella, ricette: — « Signò, lassatemi 
« 1' , ca i' songhe 'na pòvira figliola, tutta schifosa. Vuje site 
« nu figlio 'e Re. Chillo, sesi n'addona, mi ni manna 'a cà»— 
'0 figlio d"o Re si n'era addunato, ca chella nu' puteva 
èssere accussl; e ca tineva 'e capilli e ie rienti r' oro: e, 
sempe, 'a jeva 'ncuilanno. 

Nu juorno , si faceva 'na festa 'e ballo a 'n' àuta casa 
'e Ré. Piglia 'o figlio 'e chillu Re , iette a d' 'o Bella- 
Pilosa; e rice:— « Bella-Pilo, sUisera, si fa 'na festa 'e ballo, 
a Vuò' vini' cu' mico a balla' ?» — Chesta ricette: « Uh! 
mamma miri, i' songhe 'na schifosa cà; e vuie, po', nu vi 
pigliate scuorno 'e mi purlà' a me? ». 

Chisto ci ni ricette tante. Ma chesta nun ci vuletle 
pròprio \\ Piglia 'o figlio d' 'o Re, iette isso sulo. Bella- 
Pilosa si lava, si pulizza 'e capille e ie rienti, si mette 'a 
vesta, cu' 'e campanielli r' oro, e ghiette iessa, pure, ap 
priesso. '0 figlio r"o Re, quanno fnje rinto à cambra 'e 
hallo, si nu'ttette a balla' cu' iessa; e alfùrtimo si luvava 
l'aniello r"o rito e lo rette. Firnuta 'a festa 'e ballo, Bella- 
Pilosa si ni fuiette 'nnenzi. Jette à casa, si spugliava , si 
Uirnava a 'mbruscinà' 'e capilli e ie rienti; e si mittette a 
guarda' 'e quìquere, 

'0 figlio d' 'o Re, quanno fuje 'a matina, scinnette abba- 
sciaa 'ncuità"n'àutavotaa Bella-Pilosa. E riceva: — «Bella- 
« Pilo, ah! ca si tu fussi vinuta, cu bella cosa avissi visto! 
« E binula 'na gióvane: quanto iera bella! Cosa nu' bista 
« ancora!» — lessa rispunette: — «!' cu ni voglio fa' ? A me, 
(( cu mi 'roporta? Facite comm'avesse visto!»-— Chillo ricet- 
te: — «Stasera, si torna a fa'. Vuò' vini'?— «Vuje lassatemi 
« ì', ca i' songhe 'na pòvira figliola ; nu' pozzo' dà' retta, 
« a buie.»— -Quanno fuie 'a sera, 'o figlio d"o Re turnava a 
a ghl'— «Bella-Pilo, vuò' vini'?— « Vulitc sape' cu c'è, da 



« nuovo? Mo mi ni vaco.»— '0 figlio d' 'o Re virette accussì, 
« iette isso sulo. 

Piglia Bella-Pilosa , si torna a pulizzà' 'n' ata vota ; si 
mette 'a vesta cu' 'o sole 'nnenze e 'a luna arreto; e ghiette 
iessa pure. '0 fidio, d"o Ré pure, cu' iessa abballava.^ E, 
quanno fuie a l' iirtirao, li rette nu bracciale. Chesta s o 
pigliava. Si ni fuiette, primma; e si turnava a spuglià'. Vi- 
netto 'o figlio d"o Re; e, quanno fuie 'a matina, ricette vi- 
cino à mamma:— « Mammà, 'sti doi sere, ca so' ghiuto à fe- 
ce sta 'e ballo, è binuta 'na figliola , e' assumigliava tutta 
« a Bella-Pilosa. l'm' 'a vulesse pròpito spusà'. »— 'A mam- 
« ma si mittette àlluccà'.-- « T 'stu schifuso nun si mette 
« scuorno! che n'è ditto 'e te! 'Nu figlio 'e Re, si sposa 
« 'na varda- quìquere \. 

Chisto cadette malato , p' 'a còllera, ca' a mamma nun 
r aveva vuluto fò' spusà' a chella. Piglia , mannava a 
chiammà' 'o mièrico; e isso stesso li 'mmiziava , ca 
r avesse urdìnato 'na pizza. '0 mièrico, quanno fo n' ietle , 
'o dicette à mamma; e li ricette, pure, caci l' avesse fatta 
fa', a chi vuleva isso, (picchè 'o figlio d"o Re pure chesio 
l'aveva avvisato^ Isso si chiammava 'a mamma ; e dicette, 
ca voleva 'na pizza, 'A mamma li ricette 'e sì; eli spiava, 
'/i citi 'a vuleva èssere fatta. '0 figlio rispunnette, ca 'a 
vuleva èssere fatta da Bella- Pihsa. 'A mamma ac- 
cumminzava alluccà' ; e diceva.— Tu nun 'a scufie a chella 
« brutta schifosa? Mo t' 'a fa mammà. T' 'a faccio accussì 
« bella, fammi 'stu piacere»— No! F 'a voglio èssere fatta 
« 'a chella. » — « Embè, tu 'a vuò' èssere fatta 'a Bella- 
« Pilosa ? r t' 'a faccio fa'; ma, po', nun te vuardo chiù 
« 'nfaccia » —Comme 'nfatti pigliava 'o sciolge, 'o purtava 
a Bella-Pilosa pi' li fa' fa' 'a pizza. Chesta la faceti^ ; e , 
ghiusto 'mmiezo, ci mittette àniello, ch'aveva avuto r"o figlio 
r"o Re. Purtava 'a pizza 'ncoppa; e 'a mamma 'a rette ó figlio 
Chisto s' 'a iette a mangia'; e, ghiusto 'mmiezo, ci truvava 
ànieHo sujo, '0 canuscette ; e, tra isso stesso , riceva : — 
« Aveva ragione i' ! Nun mi ^o' 'ngannato !» — Si finette 
'e mangia' 'a pizza ; e stette chiù buono. 'N àuto juorno , 
li vinetto, pure, 'o gènio, r' ave' 'n' ata pizza; e dicette à 
mamma , ca 'a vuleva èssere fatta, pure,' a Bella-Pilo- 
sa. 'A mamma ricette : — « 'Sta vota, leyatello pròprio 'a 
« capo, ca nun t' 'a faccio fò' ! I' nun saccio , corame 
« ti vènano 'sti ccose pi"^ 'ncapo! Tu ti vuò' fa' fa' 'a piz- 
« za 'a chella schifosa?»— «No, mammà, si nun 'a fa chella, 
« chiù priesto, nun 'a voglio ; e vuie mi facile care' chiù 
« malato. » — 

« Va buono » — ricette 'a mamma. « lette n àuta 
« vota a d' 'a Bella-Pilosa. Rice : » Bella-Pilo , fammi 
« 'o piacere 'e fa' 'n' àuta pizza, p' 'o figlio mio »— « Uh! 
« signora mia, i' so' tanta sporca ! E isso , comme ca 'a 
« vo' èssere fatta 'a me ? »— « No, chillo, a te, 'a vo' ès- 
« sere fatta; e 'a nisciuno chiù !»—« Quanno, po', vulite 
« accussì, i' mo, ci 'a feccìo »— «'A faceite; 'mmiezo ci mit- 
tette 'o bracciale; e 'a marifnava 6 figlio d' 'o Re. Chisto s"a 
mangiava; e ci truvava 'o bracciale. E dicette tra isso.— 
« Ah! Mo min mi 'nganno chiù! Chesta è chella cu bi- 
« neva a balla' ! — Stette buono e si ni va a d' 'a mam- 
ma: » — « Mammà ! Nun ci vonno chiàcchere, i' mi vo- 
« glio spusà' la Bella-Pilosa. »— « Figliu mio, tu che t' 
« he' puosto 'ncapo? Chesto , po', nun pò èssere, prò- 
« prio »— « No! mi rate a chella; o i' moro ».— « Tu 'a 
« vuò' ? E pigliatella !» r» t 

lette abbascio e 'o dicette a Bella-Pilosa. Rice. — « I 
« li voglio spusà' »— « Uh! signore mio! Vuie che dicile? 
« Chesto nun pò èssere pròprio.»—» No, tu m'hai a spu- 
« sa'— E mamma vosta, che dice?»— « Niente! rice , ca 
« sì— « Embè , quanno vuie e mamma vosta vulite , l'ha 
« dà sape' pure papà mio.»— «E tu' chi si'?» — «l'songo 
« figlia a tale 'e tale signore, ca sta 'e casa a tale tala 
« parte, late, là; e dicilincello.»— Si spugliava; si mittette 
'na bella vesta ; si pulizzava 'e capille e ie rienti e si rette 
a canòscere... Accussì, 'o figlio d"o Re s' 'à spusava. Filice 
e cuntente e inculiate ca ci iruvamme cà assillate ! 



(•) La presente novella è stata raccolta , anni sono , in 
Poraigliano d'Arco, dalla signorina Rosa di Tommaso "Si- 



44 



^ 



ciliani e della Letizia De Falco, maestrina comunale. È que- 
sta una delle più antiche tradizioni Dopolari e più diffuse. 
Pe' riscontri, rimanderemo, principalmente, alle opero se- 
guenti, dove ne sono indicati, in copia. 
1. Vittorio Imbriani. Nooelloja Fiorentina (Livorno, 

1879, pag. 158). 
IL Laura GoNZENBACH. Sea/ta/itscA^Marc/ien. (XXXVIL 
, Von der Baita Piluifa). 
IH. Giuseppe Pitrè , Fiabe ^ Nocelle , racconti ed altro 

tradi sioni popolari siciliane. (LXllL Pilusf*dda). 
IV. Gennaro Finamore. Tradizioni popolari abruzzesi. 
(Voi. I, pag. 13. Lu sacche le de lagne). 

Per pure aggiunger qualcosa, estragghiamo un capilo- 
letlo, dal secondo volume dell'opera, inlilolara : Anecdotes 
du dixneuvième siede ou coìlection inèdite d'Historieitcs 
et d Anecdotes récmteSy de Traìts et de Mots peu con- 
nttó, d'Aventures singuìicreSy de CitationSy de Eappro- 
chements divers et de Pièces curiemes, pour servir à 
Vhistoire des nioeurs et de V esprit du siàcìe où nous 
vivons^ coniparés atix siècles passes, par J.-A.-S. Col' 
Un de Plancy. Tome premier. Paris^ Charles Painpar- 
ré, Libraire , Palais-royal , Gaìerie de bois , n!" 2oO, 
1831 (e Tome second) — « Peau d'Ane. Quelques crili- 
« ques ont avance que les conles de Charles Perrault ava- 
c( ient une origine arabe; car en France on a Hiabilude de 
« croire les Francais incapables de ricn produire ; et il 
« sufflt qu'un ouvrage soli bon pour que les guépes de la 
« littéralure cherchent à prouver qu'il esl pris aux éhan- 
<c gers. Cesi ainsi que Fréron reprochail à Voltaire d'a- 
« voìr tire Tadroirable rontan de Zadig d'un livre anglais 
« que personne ne connait : dans tous les cas , ce qu'on 
« prend aux anciens ou aux éirangers n'est point un voi, 
« mais une conquéle. Quanl aux Contes de Perrault , ils 
« n'ont point une source étrangère; ils sont fondés pour 
« la pluparl sur des tradilions populaires. La Barbe Bìeue 
« et le retiU-Poucet sont de vieux conles , que Perrault 
« recueillit dans la Bretagne , sur les cóies du Finislère , 
« et qu'il écrivit avec genie. Quelques uns sont mérae li- 
« rés des anciennes légendas; enlre autres Peau d'àne, qui 
« esl toute fondée sur \ hisloire de Sainte Dipne. Celle 
« hisloire nous a paru si curieuse, que nous allons en don- 
« ner le précis, tire de Ribadéileira , des Bollandisies, et 
« de quelques vieux légendaires— Histoire de Sainte Dipne. 
« Il y avait en Irlande un Roi paien et puissant , qui 
« avait épousé une très-belle dame, laquelle, en considé- 
« ralion de ses belles parlies , elait singulièrement chérie 
« de son mari (Celle phrase est prise de Tancienne iradu- 
« ciion de Ribadéneira). De ce mariage sortii une fille aussi 
« belle que sa mère; elle fui nommée Dipne, et soigneuse- 
« meni élevée. Aussilól qu'elle eut alteinl l'àge de discré- 
« lion, ayant connaissance de Jésus-Christ, elle se flt chré- 
« lienne, résolul de vivre vierge, et méprisa les vanitós de 
« la cour. La Reine sa mère eianl morie, le Roi \oulant 
« convoler en secondes nores, jela les yeux sur sa propre 
« Glie , ne pensant pas qu' il y eùt une autre femme qui 
« approchàl de sa beaulé. Il lui lit pour la séduire loules 
« sories de caresses, el lui promil lout ce qu'elle pourrait 
« désirer, si elle voulait le prendre pourdpoux; mais Dip- 
« ne répondil qu elle ne consenlirait jamais à un tei ince- 
« sle. Le Roi s'opiniàlra, ci déclara à sa lille, qu'elle se- 
te rail sa femme bon gre mal gre. La jeune fille effrayée de- 
ce manda quaranle jours de délai , et se recom manda à 
« Nolre-Seigneur. Cependant son pére lui donnait lous les 
« jours des bijoux et de belles robes pour ses noces. La 
« fin des quaranles jours approchanl , Dipne consulta un 
« Saint prétre irlandais , nommé Gereberl , qui avait éié 
« confesseur de la défunle Reine, et qui avail baptisé la 
« Pnncesse. Le prélre lui conseilla de gagner du temps , 
« afin de irouver moyen de s'enfuir, et s'olTril de Taccom- 
« pagner. Elle dit donc à son pére, qu'avanl de Tépouser, 
« elle désirait plusieurs joyaux précieux , qui devaienl la 
« parer le jour de son mariage, el lui promit de l'épouser 
« aussilòt qu'il auvrait irouvé ce qu' elle voulait. Le Roi 
« fit partir des hommes de confiaiice, et dépensa de gros- 
« ses sommes pour faire chercher ce qu'exigeait sa fille; 
« car il en était éperdument amoureux. Mais le moment 



« et Toccasion s'élant présenlés favorables, Dipne s'embar- 

« qua secrèlement avec le prélre Gereberl ; el , après un 

« heureux Irajel, ils arrivèrent à Anvers. De là ils prirent 

« des chemins écartés , se firent bàlir à quelques lieues 

« une cabane dans un petit bois, où ils vécurent seuls et 

« circonnus. Cependant, le lendemain de leur déparl, le 

« Roi, ayant découvert quelques-uns des objels demandés 

« par sa fille, les lui porlaii lout joyeux , loi*squ'il apprit 

« qii'elle elait évadt^e. Il enira en fureur, s'embarqua aus- 

« siiòt, et résolut de nes'arreler que quand il aurail re- 

« Irouvé sa fille. Après Tavoìr cherchde quelque temps, il 

<^ arriva à Anvers , oii il fit un petit séjour pendant que 

« ses gens furelaient le pays. Quelques-uns de ses servi- 

« leurs ayant dine dans un village, payèrent Taubergiste 

« en monnaie de Icur pays. L'aubergisie leur dil quMI a- 

« vait déjà regu de celle méme monnaie. Ils lui demandè- 

« reni qui la lui avail donnée; elcethomme répondil que 

« cYHail une belle demoiselle irlandaise, qui vivali lout près 

« de là avec un prétre, et qui venail quelquefois lui ache- 

« ter des provisions. On alla promptement annoncer au 

« Roi loules ces choses. I^ Prince se fiala de se rendre 

« à la solilude indiquée; il y trouva sa fille, doni Taspect 

« désarma sa colere ; el il la pria de lenir enfìn la piXH 

« messe, qu'elle lui avait faite de Tcpouser. Le prétre Ge- 

« reberl voulut faire des reprcsenlations ; mais les gens du 

« Roi Femmenèrent dehors el lo tuèrenl. Il pressa ensuile 

« sa fille plus vivement, el, la trouvant rebelle à ses vo- 

« lòniés , il fit succèder les menaces aux prièr^s ; mais 

« Dipne ne s'ébranla point, et son pére furieux lui coupa 

« la lète. (On féle celle sainle martyrc le 15 mai. Ses re- 

« liques éiaient dans le diocèse de Cambrai ). Voilà qui 

« finii mal. On peni comparer celle histoire avec le conte 

« de Perrault, on verrà quels charmes il y a ajoulés. Le 

« sujet de Thisloire esl à la vérité élranger , mais elle a 

« élé cerile ou imaginée par des légendaires frangais». 

Vittorio Imbruni 



TABÙ-' 

Oiuooo fanoiullesoo materano 

Quando i ragazzi del mio paese vogliono giuocare a 
rimpiattino (a ra sconn* ) cominciano col fare al tocco. 
• Il designato dalla sorte si melte con la faccia su di una 
sedia o contro il muro, e lenendosi gli occhi bendali con 
ambo le mani. Gli altri compagni vanno a nascondei*si 
dove e come meglio credono, e fra di tanto a voce alla e- 
con cadenza prolungala nel suono dicono e ripetono Tabù f 

Allorché tutti si sono nascosti, e dopo un perfetto silen- 
zio, quello che slava sulla sedia, o contro il muro, si to- 
glie la benda, e comincia a pagare. Egli irà il compilo di 
scovare i nascosti ed aderrarne almeno uno. Se vi riesce 
quello che viene sequestralo deve ricominciare il giuoco , 
se no, il primo ritorna al poslo, ed il giuoco continua. 
. Va notalo poi il fatto che ciascuno de' nascosti se ha 
Tabilità di sfuggire dalle mani del compagno che dà la 
ciccia, giunto che sia vicino alla sedia od al muro su 
indicali , non può essere più toccato , quindi rimane im- 
mune dalla condanna di fare il giuoco. In effetti come 
ciascuno perviene al posto, pronunzia ad alta voce la pa- 
rola [avarr') a sbarra^ cioè sono nella sbarra, e non 
puoi più toccarmi. 

Veniamo ora al Tabù ! 

Nel Dizionario di Cognizioni Utili, riveduto da Nicome- 
de Bianchi, trovo quanto segue:* 

« Tabù — È questo il nome di una superstiziosa ceiù- 
« monia propagala in tutte le isole della Polinesia che 
« consiste in una specie d'interdizione pronunziata sopra 
t( una persona od un oggetto dai sacerdoti delle tribù. 
« Quasi ogni sovrano e Tabù, vale a dii'e che non Io si 
« può toccare e nemmeno lice levar gli occhi su lui. 
« La violazione del Tabu reca con se pene severissime 
« e spesso la morte.... L' inlerdizione tabuica può essere 



4S 



« pronunziata in perpetuo od a tempo determinato eco.» 

Ciò posto ei nfii pare che qui nel giuoco a nasconde- 
deve (che in parentesi preferisco all'elegante rimpiattino) 
perduri beli' e buona la cerimonia tabuica, comunque in 
parodia. Che io so essere vietato a chi fa il giuoco di le- 
var gli occhi sui compagni che vanno a nascondei*si, e che 
questi ultimi fino a che non prendono posto gridano sem- 
pre : Tabù ! Taòd ! e mi pare che vogliono dire : Non 
li muovere, non guardare, ecc. E la pena e' è. Il giuoco 
non vale ed il contravventore deve ricominciarlo, tornando 
a bendarsi. 

Ora chi saprebbe dirmi come sia stata conosciuta, da 
chi importala, come e quando usata presso il nostro po- 
polo una simile cerimonia ? Non è chi non veda quanto 
ciò sia diffìcile oggi che, dopo volger di secoli, appena la 
si usa senza saperlo, e senza conoscerne la portata, in un 
giuoco fanciullesco. 

Avuto riguardo allo strano accozzamento di popoli di- 
versi ed antichissimi dal quale Tatluale popolazione ripete 
origine, usanze, costumi e tradizioni, non è a meravigliare 
che una cerimonia della remola parie dell'Oceania vi sia 
slata importata. Ma quali dogli stranieri che dimorarono più 
meno lungamente in quesla città introdussero la cerimo- 
nia del Tabù ? Furono i Goti, i Ix)ngol)ardi, i Saraceni, i 
Normanni, gli Svevi, e via dicendo ? Potevano nelle loro 
incursioni o durante il loro predominio importarla Spa- 
gnuoli Francesi ? Ecco ciò che non è facile rintracciare. 

Volere è potere. Proviamoci, dirò ai lettori del Giam- 
battista Basile specialmente all'egregio éonie Gattini assai 
più competente di me in tali materie , e che certo vorrà 
accettare la sfida comunque non gli sia fatta da un par suo. 

Da cosa nasce cosa, ed io voglio augurarmi che non 
inutilmente avrò tediato i lettori con queste mie poche e 
povere parcle (*). 

Matera, 5 maggio, 1883. 

Francesco Festa 



(') N. B. Pubblichiamo, volentieri, questo spiritoso ar- 
ticqletto; ma nessuno può, sul serio, anermareo credere, 
che ci siano usi popolari in Matera, importati dalla Po- 
linesia, con la quale i Basilischi non hanno né parentela 
etnografica, né alcun' altra relazione. N. d. D. 



Vili. 

'O CUNTO D^ 'A CASCIA 'E CRISTALLO 

Nce steva 'na vola nu re, che dinto a In palazzo riale 
teneva tre ssegge; una d'oro, 'n' àula d'argiento e la terza 
de bronzo. Ghisio re tenera pure tre ffiglie belle cumm' 'o 
sole. Nu iuorno 'e ffiglie addimmannàieno a 'o paté quan- 
no s'assettava a chelli ssegge. Chisto nun 'o buleva dìccre, 
ma, pecche vuleva bene *e ffiglie cumm'a Fuocchie suoie, 
p' accuntentàrele le dicetle ca isso s' assettava a la seggia 
d'oro quanno steva allegro, a chella de bronzo quanno 
steva 'npucundria, e a chella d'argienlo quanno steva ac- 
cussì accussi : e li ffiglie s'accimleniàrono. 

'N àuto iuorno a 'o re vcnetle 'ncapode sape' chi de 
\sti tre ffiglie le vuleva chiù bene. Pe' chesto cadette 
'npucundria e s'assettale a la seggia de bronzo. 'E ffiglie 
lu vedèttero, e 'nti*a de loro dicèliero, uh! papà sta 'ncu- 
ielalo, va trova che sarrà ? Una d' esse dicetle a 'n' àula 
sora, ch'era 'a chiù piccerella, va a dimmaimà' a papà 
pecche sta 'ncujetalo ; chesta , che se metteva 'na brutta 
paura, dicette: va tu ca si' 'a chiù grossa. Chesta 'nfatte 
se presentale 'nnanz'a 'o paté, e l' addimmannaie pecche 
steva assettato a la seggia 'e bronzo. '0 paté le rispun- 
nette: Figlia mia, voglio sape' da vuie chi me vo' chiù 
bene. — E pe' chesto ve 'ncuietato ? — Ebbe, dicetle 'o 
re, lu boglio sentì' da vuiea un'a una.— Gumm'infalte, se pre- 
seni' 'a chiù grossa , e 'o re l'addimmannaie : Figlia mia 
quanto me vuò' bene ? 'a figlia rispunnette : Pe' quanta 
stelle stanno 'nciclo. Allora 'o re lutto cuntento 'a facelte 
passa' dinlo 'a stanza appriesso. — Se presentale po' 'a si* 



conna figlia, e 'o re l'addimannaie : Figlia mia, quanto me 
vuò' bene? 'a figlia rispunnette: Pe' quanta so' li pisce dinio 
a lu mare. '0 re chiù cuntento fece passa' 'a figlia dinto 
'a stanza appriesso , a do' steva V àula. — Se presentale 
'nfine lurdema figlia, th' era 'a chiù bella, e 'o re 1' ad- 
dimmannaie : Figlia mia, quanto me vuò' bene ? 'a figlia 
rispunnette: Pe' quanta sale sta 'ncoppa a lu.ìnunDO. — 
A chesta risposta 'o re se 'nfuriaie. Dicetle ca 'sta figlia 
nun le vuleva bene e pe' chesto nun meritava chiù de sia' 
dinto 'a casa d' 'o re. Sùbeto chiammaie 'a rougliera le 
dicette tutto cosa e po' urdinaie ca 'sta figlia 'ngrata ave- 
va èssere iettale a mare. 'A regina accuminciaìe a persua- 
de' a 'o marito. L' àuti ddoie sore se iettarono é piere 
d' 'o pale a chiàgnere e fa' priere p' 'a sora chiù pic- 
cerella. 

Ma nun ce furono chianle e ptlcre, 'o re 'ncucciaie pec- 
che 'a figlia se fosse iettata a mare. 

'A regina cunusceva 'o marito, sapeva ca era 'nzurfa- 
riello quanno nun se faceva chello ai isso vuleva, e pen- 
zaie de fa' fare 'na cascia 'e cristallo tutta 'ndurata e cu' 
li llastre opache, aggio nun ze fosse visto chello che nc'e- 
ra dinto. Po' fece vesti' la figlia cu' la chiù bella e \a chiù 
ricca veste ca teneva; le mettetle 'e chiù belle gioie; J'ac- 
cunciaie 'a capa tutta chiena de perle e brillante; la met- 
tetle dinto a la cascia, nce mettetle pure quacche cosa pe' 
le là' mangia', e po' la mannaie a ghiellà' a mare. 'A ca- 
scia pesava e tulle quante credevano oi fosse iuta 'nf un- 
no. 'A cascia però nu' ghiette 'nfunno, 'nvece rimanette a 
galla e cumminciaie ad asci' fora. Tulle quante chiagnen- 
no guardavano cu' maraviglia 'slu caso, mente 'a cascia 
ieva fora fora. — Ma lassammo cà 'o re e 'a famiglia de 
'sta pòvera figlia, e ghiammo appriess' à cascia. 

Cumm' avite 'ntiso 'a cascia ieva fora fora, e arrìvaie lun- 
tano luntano a do' apparteneva a 'n àuto re. 

Nu juorno 'o figlio de chisto re steva affaccialo a 'o 
barcone, e e' 'o cannucchiale steva guardanno 'o mare. 

Avenno visto chella cascia, accussi bella, chiammaie 'o 
paté e le dicetle ca isso 'a vuleva. '0 ve nun lu pulelle 
persuade', e fuie custretto a chiammà' duie marenare pe' fa' 
piglia' chella cascia. Chisii la purtàieno 'ncoppa 'a casa 
d' 'o re, e i serviiure la metlètteno dinlo 'a stanza a do' se 
mangiava. 'A cascia però era chiusa e nun se poteva ara- 
pi', e 'o figlio d' 'o re nun la vuletle fa' scassa' I Quanno fuie 
a sera chisto figlio d' 'o re ielle 6 tiatro, e i serviiure le 
preparàieno 'a cena. Ma 'a figlia d' 'o re, che steva chiusa 
dinlo 'a cascia — trip-irap — l'apre, esce, se mangia lut- 
t' 'a cena d' 'o figlio d' 'o re, e po' se chiudette, 'n' àula voùi 
dinto 'a cascia. 

'0 figlio d"o re se ritirale da 'o tiatro e nim truvaie 
cena. Quanno fuie la malina se lagnale e' 'a mamma e 
cu' tuli' i serviiure. Chisli dicètlero ch'avevano priparalo 'a 
cena; 'a regina dicetle forse 'a galla s'ha mangiati 'a cena. 
'A sera 'o figlio d"o re ielle 'n'àula vota 'o tiatro; i serviiure 
le preparàieno 'a cena. Ma 'a figlia d' 'o re, che sleva chiusa 
dinlo 'a cascia — trip-trap — l'apre, esce, se mangia tut- 
t' 'a cena d"o figlio do re, e po' se chiudette cumm' 'a sera 
'nnanze. '0 tìglio d'orese riliraie e nun truvaie 'a cena. 
Quanno fuie 'a malina facelte chiù chiasso d' 'o juorno 
'nnanze. I serviiure dicèliero ca loro avevano pri parala 
'a cena , ma nun sapevano chi s' aveva mangiala. 

Allora 'o figlio d' 'o re dicette e' 'a sera nun ghieva a 'o 
tiatro pe' fa' 'a spia e vede' chi se mangiava 'a cena soia; 
ca isso 'o vuleva spara'. 

Cumm' infalte 'a sera se mellelte a fa' *a spia da dinto 
'a stanza appriesso , e i serviiure avevano appriparale 'a 
cena. Tutto 'nzieme 'o figlio d' 'o re sente T2! —trip-trap. — 
S' apre 'a cascia e n' ascelle 'a figlia d' '0 re. Chesta se 
mangiale 'a cena e po' se chiudette 'n' àula vota dinlo 'a 
cascia. 

'0 figlio d' '0 re vedette chella bella figliola tutta chiena 
de gioie , cu' la capa zeppa zeppa de perle e brillante e 
cu' 'na vesta ricca ricca , currelle a do' steva 'a mamma , 
e p'àllegria dicette C4i se vuleva spusà' 'a cascia. 'A regina, 
'0 re e tutte quante se meltèltono a ridere ; ma '0 figlio 
d"o re 'ncucciaie ca isso vuleva 'a cascia pe' sposa, e oun 



46 



diceva chello c'aveva visio. '0 re pe' fàrelo cuntenlo man- 
naie a chiamroà' nu prèvele, e chisio 'nnanze 'a cascia , 
mentre tulle redèvano, dicelle: Cascia, vuoie per tuo sposo 
'o figlio d' 'o re ? — 'A cascia rispiinnelle: Si. Allora tulle 
quaiiie se facètiero 'e chiù grosse maraviglie. A prèliono 'a 
cascia e nce iruvàrono chella bella figliola. Cummlncìano 
a dimmaìinarle chi era, ecumme seiruvava dintoa chella 
cascia, e cumm'era venula pe' mare. 'A figlia d''o re dicet- 
te tulio cosa. Allora 'o re urdinaie ca se fosse fatta 'na 
gran festa , e mannaie a 'mmità' pure 'o i-e, eh' era pale 
d' 'a figliola, senza mannarle a dlcere niente. Chisto 'ntatte 
venelie e purtaie pure 'a regina e Tàuli ddoie figlie. Gum- 
m' 'a sposa ascelle vesluta cu' li panni cumm' 'a mamma 
l'aveva posta dinlo *a cascia: 'e ssore e 'a regina e pure' o 
re dicèlieno chesta pare 'a figlia nosla, 'a sora nosta, e 
stèvano tulle addulurale de recordarsé 'a figlia e 'a sora 
mentre guardavano 'a vsposa. — Fùieno chiammate a tàvola, 
e 'a sposa s' assettale vicin' 6 pale suio , senza farse ca- 
nòscere. 

'Ntanto '0 pale d' 'o spa<w aveva urdinaio che a 'o re 
'mmitato , se fosse dato tulio senza sale. Cumm' infaite.'e 
cuoche cuceuàrono apposta senza sale pe' lu re 'mmitalo , 
e chisto cumminciaie a mangia'. 

Ma lu mangiare senza sale cumminciaie a disturbarlo. 
Tulle se n'avvedètlero e l'addimmannàieno 'o pecche. Isso 
nun lu buleva dlcere ; ma le venetle nu svenimento e al- 
lora diceite ca dinlo a 'o mangiare nun ce steva sale. 'A 
sposa allora le dicette : e nun ve ricordate che ve 'ncuie- 
làsteve tanto quanno i' ve dicette de vulerve bene pe' quantu 
sale cc'era 'ncoppa a 'o munno? '0 re a chesii pparole conu- 
scette che chella era 'a figlia ; se ieltaie è piere e le cer- 
cale perduono. 'A festa conlmuaie chiù allegra, ma 'o re 
pe' lu dolore se ne murene. 

Raccolse in Napoli Francesco Bojano 

Sulla poesia popolare savojarda 

Lettere 

Ignazio Billò, savoiardo, volle rimaner Italiano, quando 
la Savoja fu annessa alla Francia; ed è morto, a Firenze, 
impiegato nel ministero de' Lavori pubblici. Io non lo co- 
nosceva, personalmente, quando egli, nel 1867, mi scri- 
veva alcuno lettere , sulla poesia popolare savojarda , a 
richiesta del comune amico, comm. Francesco Lacheital 
d'Ugine, allora, consigliere d'appello a Casale, anch' egli 
uno de' molti savojardi rimasti fedele alla Dinastia ed al- 
l'Italia; e poi defunto, in Torino, il 24 Novembre 187(5. 

Vittorio Imbriani 
I. 
Chiarissimo SignorCy 

Ora, finalmente, posso occuparmi delle poesie Savojano. 
Per ciò, Y. S. non ha che fare di scienliliche disquisizio- 
ni ; ma soltanto di pochi schiarimenti, per un ralTronlo 
colla poesia delle lingue vive d' Italia. Altronde, non ho 
punto la capacità sufficiente per fare su queslo proposito 
cosa alcuna, che somigli a letteratura comparata. Anni, 
dieci anni sono , avevo inlrapresa dal tedesco una versio 
ne, per uso mio, della Grammatica sanscriita del Bopp; 
ma giunto, mi pare, alla 6(f pagina, certe disgrazie di fa- 
miglia, disgusti allenenti air impiego, poi un'oftalmia, tut- 
tora perseverante, infine quel noto trasferimento, che, dis- 
sestando i miei interessi, m' obbliga a rifarla da mercante 
di partefici nelle poche ore di hberlà, sono grimpedimentì, 
che si collegarono, per farmi lasciar 11 6 grammatica e 
Rìg-Veda. 

Ciò dovevo premeltere per rendere piii gradita la pre- 
ghiera, che fo alla S. ,V. di voler, con buona pazienza, ac- 
contentarsi di quelle meschine osservazioni che vo sten- 
dendo qua e là, frammezzo ai pochissimi lesti che vennero 
posti a mia disposizione. Scrivo non da uomo versato 
nelle relative teoriche, non essendo da tanto; ma da senn 
plice amateur. 



li 



Gli scarsi documenti di cui sto , per intrattenerla , fu- 
rono, la maggior parte di essi, dati alle stampe, per mezzo 
d' un giornaletto pubblicato a cura della Socie fé fior imen- 
tane i' Annecy. I^ maggior parte di essi pure di- 
mostra come nel 13® secolo , ed anche dopo, il Savojano 
serltasse ancora non poche attinenze con quelle lingue vive 
d'Italia del fiore delle quali Dante si valse per comporre 
il *^uo poema singolare e bello Dal più antico di quei do- 
cumenti scelgo la seguente frase, la quale voriei lene, 
che fosse dagli intendenti messi a riscontro di tante con- 
simili, cui agevolmente si può rintracciar nei libri sacri 
come neir odierno pio favellare di quei cristiani detti Val- 
desi , che abitano paeselli ameni tra il Monte Ginepro ed 
il Monte Viso. 

(( Celle Greatora per graci de Nostro Seignor , aveyt 
(( escript en son cor la scinta via que Deus ihesu-Christ 
(( menai en terra et ses bons exemplos et sa bona doc- 
« trina. » 

In Piemontese questa frase si sarebbe tradotta, a un di- 
presso, cosi, nello sieste 13^ secolo: 

« Sta creatura per grassia dh nostro Sgnour , a V avia 
c( scritt ant so choeur la santa vita che Dio Gesu-Crist 
« menava an terra e li so bon esempi e soa bona dou- 
« trina. » 

Poche sono le differenze. Ma donde mai quella similitu- 
dine e queste differenze? 

L'esame di una buona topografia della linea, che segue 
il rapido, lo strarapidissimo Rodano, dall' uscita dal Lago 
di Ginevra, fino alla confinen a deir Iscra dimostrerà age- 
volmente a ctiiunqiie di ciò pratico, non ceda a passioni 
politiche come, per via di questa fiumana, (che non si può 
guadare , su cui fu azzardalo un ristrettissimo novero di 
ponti e che per le barche d'allora era un ostacolo quasi 
insuperabile), gli Allobrogi fossero una gente più divisa dal 
rimanente delle Gallie occitaniche che non dall' Italia eri- 
danica con cui l'inverno, rigido, soltanto, e durante due o 
tre mesi luti' al più, troncava le altrimenti continue comu- 
nicazioni. La Savoja, di tre secoli fa, rappresentava il cu re 
dell' Allobrogia. Quesio nome di Savoja gli viene, (come 
quelli di Savoula e Soperga) dai l/Ongol)ardi che diedero 
pure alla Mariana il sub nome , dalla Mauringia ove 
essi aveano soggiornato, lungamente, in mez/.o a que' popoli 
che s' illustraron poscia sotto i nomi d'Angli e di Sassoni. 
La frequenza, l'abitudine di relazioni cogli Eridanici spiega 
la rass imigliaoza delle favelle degli Allobrogi e degli Iia- 
'liani boreali. 

Le differenze provengono dalla progressiva infiuenza della 
lingua dml. Questa influenza, che finì per trionfare, quasi 
npl IG*" secolo, dovea essere ben potente, poiché Raimondo 
Vaqiieras, trovatore, già credeva fare un grande elogio ad 
uno dei aprimi principi di Savoja, se non a Beroldo stesso, 
lodandolo di ben parlare la lingua romana , al che io lu- 
ceva discreta allusione in un articoletlo dato in ischiari- 
raenio alla Gazzetta di Firenze , nel n.** 165 del Giu- 
gno 1866. 

Ma il trionfo della lingua d' oìl non fu mai completo , 
poiché mi é dato di poterle trascrivere , qui , una stanza 
notevole, da una canzonetta del 17® secolo. Dettata in ^ei-a 
lingua del popolo, trovo la sua genuinità, in quesli segni 
manifesti : naturalezza di costruzione, andamento spedito in 
tult' i membri di frase. Non sembra imputabile a qualche 
autore, che non facesse uso costante dell'idioma volgare, 
per essere stato educato in Francia. Essa accusa un ritorno 
al romanzo o romano. In ogni modo, Taffralellanza coirila- 
liano riesce evidente in quesli vocaboli prettamente Suvoiani. 

No consaryin an Savoi 

Not conseroiamo in Saooja 

Lafieur de neutra volaille, 

// Jìor di no4ro pollame 

Pe' VO poita, Genevoi; 

Per a coi portar^ Gineorìni; 

Y é pé payi neutre taille. 

Egli è pjr pagare nostre taglie (tasse erariali) 

Sevegni, Sevegni, sevegni-vo 
Soooenile soooenile'oi 



47 



De levro, grive e polaille, 

Delle lepri, dei tordi e del pollaggio 

Sevegni etc — vo 

Soocenile, ecc. — ^i 

Que vos y bin avoi no 

Che coi aoete beouto con noi 

D'op innanzi, non metterò più la traduzione sotto alle pa- 
role, che tanto somigliano airilaliano, od al latino, da es- 
sere, subito, intese da chi conosce queste due lingue. 

Ora mi permetterò alcune postille. 

Savoiy in Sayojano, si pronunzia come un italiano legges- 
se Samè: bisognerebbe però raddolcire m tantino Tè. 
Lo stesso dicasi di Genevoi , e di ami. Avoi (avuè) tra- 
duce \'appo italiano, come il prova basic volmentc la locu- 
zione proverbiale E qu* apoè (E cosa con ciò ? e con tutto 
eiò?) di questo verso, famoso in Savoja , che tolgo da 
una canzone eroi-comica del dottore Béard, sulla quale mi 
soflermerò piii tardi : 

Mai n'tro borzuè dziro e qu*apoè 

Ma nostri [n'tro per nétroy per noutro) borghesi dissero.... 

È codesto VEi après ? cosi imbarazzante di Napoleone 
primo. Apoè sai^ebbe, dunque, nel Savojano, la forma ormai 
antiquata &Avoi, 

U u si pronuncia, sempre, stretto, come in francese, w. 

ai:=zé: mai; pron. me. L'è è un 6 debole, non atTatto iden- 

, tica sùVe muta dei Francesi, e senza riscoulco in italiano. 

Ho tradotto ^rive per tordi , per non impiegare il voc. 
piemontese Grtve, più esatto; ma menò italiano. 

Qui finisco la mia prima lettera, dovendo cedere il pia- 
cere di scriverle, alle esigenze legittime dell' Uffizio. Domani 
posdomane riprenderò questo carteggio, che, probibilmente 
non oltrepassera sei o sotte leileracce. 

Intanto, sono rispettosamente 

Firenze, addi 26 settembre, 1867. 

suo dev.* servitore 
Ignazio Billò 

II. 

Chiarissimo Signore, 

Proseguo, senza complimenti, e lo dico questa volta per 
tutte. 

Noterò, di passaggio, come in una poesia contemporanea 
a questa; (ma sulla quale non mi soffermo più che tanto, 
per trattarsi d'un componimento tutto artificiate, ed in cui 
il popolo non ebbe mano , benché i modi suoi e la sua 
lingua propria virtuosamente vi siano imitati), si possa ri- 
levare una espressione, prettamente, italiana e dantesca ezian- 
dio, a cui Bembo fece l'onore d' una avvertenza lunghetta, 
ragionando del Volgare eloquio: 

« Ma cuche est arranda le ley. » 

mio letti ci no è a randa il tetto. 

Di parecchi secoli più antica sarebbe una canzone, che 
un letterato Savoino inserì, t**enfanni fìì, in wu'Esquisse de 
la Savoie, nel medio evo. La riferisco, senza farmi garante 
della sua autenticità, benché la si debba ad un paleografo 
distintissimo ed archeologo. Ma la dò per saggio di vec- 
chia lingua e poesia Savojana , e cosi Y accetti pure con 
fiducia : 

Di bassa Tarantesa, 

Du pays (1) d'ieu de sey, 

del paese da dooe io sono 

Son tre zenti zomo^ 

gentil uomini 

Que son amoèreu de mei: 

amorosi 

Yon é le fi don Confe, 

rimo ^figlio Conte 

Teutro e' le fi d'on prinse, 

prence 

On entro è le fi d'on re. 



(1) Si pronunzi! pois» 



Et véra, véra, véra! (??) 

Su ! ctc. . . . su ! 

que d'amor per me! 

Osserverete queir on e queir entro tanto rassomiglianti 
airone ed Mìeither inglesi. 

Se v' ha in Savoja un genere di poesie, nel quale, me- 
glio, che in alcun altro ramo, spicchi Tingegno del popolo 
(il quale è colà assai religioso ed alla pietà sincera e mite 
congiunge nondimeno mollo acume di spirito, credo siano 
quelle pio-buffe che denominavansi Nocls. Caulavansi que- 
sti nóeìs durante quelle rappresenUzioni lealrico-pastorali 
della nascila di Gesù, tanto in uso al di là dei monti due 
secoli fa. Noyé noyé! (Noel , noèl) era quasi festa nazio- 
nale in un paese che ebbe antichissimamente riti religiosi 
comuni con quelli delle finitime regioni , ove suonava il 
druidico Eguiìlané, eh' io credo ortografar si debba E gui 
de Van ìiay, 

(CVst le gui de Pan né ossia nouveau) 
È il viso dell'an novello. 

1 fanciulli piemontesi oggidì ancora menano del Natale 
allegra festa nelle pareti domestiche, mentre, pubblicamente, 
non si celebra più fuor di Chiesa, se non in remoti villaggi 
alpestri. 

Son divenute irreperibili, in commercio, le stampe di que- 
ste bucoliche presepiali del 16® secolo. Si narra, che talune 
conlenevan perfino la notazion musicale. Un erudito com- 
mentatore (nella sagacia del quale puossi aver piena fede) 
dice di alcune di quelle poesie che sono vergate in fram^ese 
poter esse, con onore, sostenere il paragone colle produzioni 
di Ronsard e dei poeti della così detta Plèiade, Il che 
ammetto tanto più prontamenìe, che non si può obbliare 
che dalla Savoja sono usciti questi valentuomini che allora, 
in Franca, divennero tali, da illustrare i nomi di Buttet, Bal- 
zac, Voitui-e, Yaugelas, Favi'e, Saint-Réal , ecc. 

Lascio alla S. V. la cura di emettere un giudizio sul 
merito dei versi Savojani di queste pio-bucoliche , pren- 
dendo norma dagli estratti seguenti , che ho scelti fra dì- 
versi Noèls. 

Ou'einteint-on su qles montagnés? 

Ck* intendC'Si sa quelle 

Bon diù! qu'éton bin arrevà? 

è mai arrivato (succeduto) 

De né sai pa se d'y ai révà 

7b non so — se io oc abbia sognato 

U beìn se d'ai cheintu on auge 

O bene se io abbia sentito 

De né sai pa se d'y ai révà 
Achetin - no per y écotà. 

SediamO'Ci vi ascoltare 

L'impiego della co-negativa subordinata pa (pas) dimo- 
stra, essendo un gallicismo, che la poesia non é delle più 
antiche. Il eh del vocabolo Cheintu si pronunzia se, come 
lo se di scemare. 

Los bardiei's folatavon 

f pastori folleggiavan 

D' ne sai 

lo non so 
Quinta nay 

In chente notte 

a Bethléem, 

A coc-malà zoyevon 

a seggO'Si^ggo bene giuocavano 

Dray pé passa leu. teìn 

Propriamente per passare il loro tenxpo 

On ange intra 

entrò 

Qfie leu degea : 

che loro diceva 

Allin ménia, 

Andiamo (mia nidiata) masnada, 

Tou pa preu folata? 

Non avete, dunque abbastanza folleggiato? 



4S 




Veni vai le Messie 

Venite cedere 

Ou' è venu u mondo sia nay, 

venuto al notte 

Le peiiou de Marie 

picciotto 

Pleya dedien de play. 

Piegato in dentro di Jasce 

Qualche cenno spiegali vo. 

Bardiers puzza mollo di francese (bergers). 

Dray, (drillo) vale, appunto, giusto. 

3f ^ma, vale, miei figliuoli; nià = nidiala, progemtura. 

Tou m è un Savoianismo pretto; vale il fìorenlino. 
« Che è ? » che vi gettano inierrogalivamenle benché non 
abbiano nessun dubbio. Nìm, nonne ì lo renderebbero in 

latino. , 

L'italiano interlinealo non è punto cruscante, (nernmeno 
il resto) ; ma non pretendo cosi se non tradurre più let- 
teralmente possibile. . 

Come Krode ebbe intercellato il passaggio ai re Magi , 
pei quali v' ha un noèl speciale, cosi li ammoni, per so- 
spetto : 
Quant vos Tarey, dil Hi rode, 

Vaorele 

Troua fide mi oz sauey 

Trovato fate mj lo {hoc) sapere 

E fusseto bin a Rhodez 

fopsc questi ben a (Visola di) Rodi 

le chouserey me garandes 

io calzerei mie uose 

Et lez ie Tadorerey. 

ti io adorerei 

Ma torniamo ai hardiers. Se agghiacciato era il cam- 
mino vivo era Tumore dei viandanti; sicchè,.pmduna pa- 
storella, ebbe a sdrucciolare strada facendo, informata della 
causa delle bolle che taluna portava in fronte, la vergine 
rimproverò Y arcangelo Michele dell'aver cosi mal guidato 
la comitiva per gli aspri sentieri ; al che Vangiolo risponde 
corriìccialo : 

Oh ! escosà, 

scusate 

D'ai preu creià. 

lo ho hastevolmenie gridato 

^ Teni vo ben, né tomba pa... 

Tenete-vi non cadete 

Mai q'Iè babeliardè 

Ma quelle ciarliere 

Ctomben que de créiavo grou 

Quantunque io gridasse (gros.o) alto 

Mai qlé babeliardè 

Ma .*.. 

Rigévon io leu sou 

Rìdevan a più non poso. 

Veramente to leu sou, vuol dire a tutto il loro sazia- 

mento. 
Prossimamente, una terza lettera. 

Firenze, 27 settembre, 1867. ^ ^ , 

Vostro dev.mo servo 

(continue^ Ignazio Billò 



NOTIZIE 

Nel fascicolo del 15 aprile della Nuova Antologia, l^n^ 
rico Castelnuovo ha pubblicato un lungo e buon articolo 
sX SrrerriacoJa veneziana. Si trattiene pr.ma un 
poco sulla letteratura popolare che diremo spontanea , e 
Sa Sochi cenni sulle Vilòte , sulle Furlane , ^in Nu (in- 
Mari), citando anche delle canzonette molto graziose. 
Kf parla delle otta che ""a volta can- 

lavano i gondolieri, alternandone i versi ; "J^ « adesso 
soggiunse V autore , un barcajuolo che canti il Tasso è 
raro come le mosche bianche. » , ^^,««2. «« 

La maagior parte dell'articolo e consacrata, com è na- 

turale alla letteratura vernacola che può diinsi individua- 

e Sàntunc^^e la schiera degli scrittori fja ben nunrierosa, 

e fra essi ce ne siano a parecchi dotati di singolari fa- 



coltà poetiche , ce ne siauj alcuni in cui queste facoltà 
paiono anzi raggiungere quel grado da cui risulta il gran 
poeta, eppure... il gran poeta non e* è. Non ce n* è uno 
a cui , per consentimento quasi unanime , possa spettar 
questo titolo che si dà per esempio al milanese Porta e 
al romano Belli. » 

Nel 1845. sulle tracce d'un lavoro di Bartolommeo Gani- 
ba , fu pubblicata a Venezia una raccolta dei componi- 
menti di circa una quarantina d'autori. Fra questi rAu- 
tore sceglie i principali e vi si ferma abbastanza lunga- 
mente : r arcivescovo Maffeo Veniero (1550-1586) , il più 
antico ; Giorgio Baffo (1694-1769) , il quale « ama la lai- 
dezza per la laidezza e vi si ravvoltola beatamente, e cerca 
le parole più sboccate per esprimer le cose più sconcie »; 
Francesco Gritti (1740-Ì811) scrittore di favole, « ammi- 
rabile per l'arguzia spontanea, per la mite ironia di filo- 
sofo, per l'evidenza delle descrizioni, per l'efficacia della 
frase, per V arte sopraffina con cui sa dar un colore di 
novità anche a ciò che toglie o imita dagli antichi e dai 
moderni »; Antonio Lamberti (1757-1832). il quale haotsqui; 
sito il sentimento della natura, eh' egli , a differenza di 
multi accordi, ama d* affetto sincero, preferendo, per go- 
derne la calma ristoratrice, il soggiorno campestre al con- 
tadino » ; e Pietro Buratti (1773-1832), « il più vigoroso , 
il più fecondo, il più veramente satirico dei poeti verna- 
coli veneziani. » Cosi noi abbiamo innanzi un bel quadro 
della letteratura dialettale veneziana, e possiamo formar- 
cene un' idea giusta, per quanto è possibile. 

M. Benfey , nel Magane in far die Literatur des In-und 
Ausiandes (19. V. 83) fa onorevole ed indulgente menzione 
delle « Quattro novelline pop. livornesi ce. ec. pubblicate 
da Stanislao Prato (Spoleto, Tip. Bassoni) » tenendo conto, 
che l'autore ha voluto tentare un lavoro nuovo, per dare 
ad altri l'esempio a far medio, secondo si esprime lo stesso 
Prato, nella prefazione del suo libretto. 

Il nostro collaboratore prof. Mario Mandalari, il giorno 
13 maggio, tenne una conferenza al nostro Circolo filolo- 
gico « Inno alla plebe ». Parlò prima dell'importanza della 
plebe nella storia dell'umanità, dell istruzione ed educa- 
zione delle masse , e dei costumi signorili in città ed in 
campagna; di poi, in una seconda parte parlò dell' amore 
e volle dimostrare come solamente la plebe sappia fare 
all'amore sul serio; parlò della borghesia e della plebe di 
Reggio di Calabria, ed infine venne alla poesia popolare. 
Lesse e recitò parecchi canti reggini, e li cementò, traen; 
done alcune conseguenze per V arte moderna. « In quei 
canti — egli dice — e' è il verismo più schietto,' l' ispira- 
zione sempre vergine, e la fantasia sempre poetica ». CJon- 
chiuse dicendo. « Non vi pare che ora la poesia aulica, 
la grande poesìa, debba trarre le sue più belle ispirazioni 
dalla poesia della plebe ? » 

Il sig. Giuseppe Branca ha pubblicato sul Preludio del 
16 maggio, anno VII, numero 9, un Saggio di canti mar- 
chigiani campestri. , ,. . 

Sono otto canti estratti però da una raccolta di cinque- 
cento inediti, che il Branca ne conserva. Notiamo che il 
Il canto ha riscontro in un canto napoletano ( Cfr. Moli- 
naio Del Chiaro, ca/i^i del pop.nap.,pa^. 273, canto 496: — 
canti pop. teramani, pag. 13, canto XXT: — canti del pop. 
di Meta, pag. 27, canto 62). 



rosta econoinica 

Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

83. Porrazzi Prof. Luigi - Napoli. 

84. Wcsselofsky Prof. Alexandre - Petroburgo (Russia). 

85. Meoli Cav. Vincenzo - Napoli. 

80. De Gennaro Luigi - Napoli. ^ „ ,, ^^ .. 

87. Mastromattei Padre Angelo de C R. M. - Napoli. 

88. Martini Prof, Emidio - Napoli. 

89. De Angelis Enrico - Napoli. 

90. Andreana Dott. Luigi - Napoli. 




Tipi Fratelli Carluccio, Lsrgo Coslanlinopoli, V 89. 



ANNO I. 



Napoli, 15 Luglio 1883. 



NJM. 1. 



9 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ASBONAHSKTO ASHTITO 



Per r Itali» L. 4 — Estero L. •• 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Bi comunichi 11 cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L. HOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

I. KAHDALARI, I. SGHERILLO, L. CORRERÀ» 

e. AIAin, T. DILU SALAt V. 8II0IGELU 

Itadittori 



AT7EBTSNZS 



Indirizzare vaglia, lettere o rnsAoscritti 
ai Direttore liUlgl IMollnaro Ilei 
ChlAro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la iettoratùrà popolare, che saranno 
mandato in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione; Calata Capodi- 
chino, 56. 



ttOnillABlO : — Sulla poesia popolare savoiarda, Lettere 
(I. BiLLÒ) -Canti popolari raccolti in'Pomigliano d'Arco 
(V. iMBRiANi) — Stornelli del popolo toscano (P. Papa) 
— U lupo e 'a vorpa, faoola (B. Croce) — Canti del po- 
polo di Giugliano in C ampatiia (L. Taglialatela) - Il 
pianto della vedova di Scanno (V. Simoncelli) — Fa- 
ccino a nasconne' e *A mazza e 'u piuzo ( E. Melillo) — 
Cut e Tabù fC. Ma^saroli) — Canti del popolo di Pa- 
gognano (L. de Gennaro) — Necrologia di Alto Vannuc- 
ci ( L. Mllinaro Del Chiaro ) — Notizie — Posta eco- 
nomica. 



Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le ti^a- 
duzioni. 



Sulla poesia popolare savoiarda 

Lettere 

(Continuasi, vedi n. 6) 
III. 
Chiarissimo Signore^ 

Impegnato nel iramufamento delle mie masserizie da un 
quartiere ad un nuovo , non lio potuto riscrivere più pre- 
sto alla S. V. Prendo i vojstri elogi per un incoraggia- 
mento a meritarli e dichiarandole , in coscienza , die non 
mi sento un dotto ed in fatti che non sono dovizioso , la 
prevengo : 1.* che non ho mai avuto in idea di scrivere , 
per le stampe, questo commentino intrapreso per ubbidire 
a Lachenal, mio primogenito in amicizia, come per rispon- 
dere alla cortesia di lei; 2."* che tutla la mia fortuna, con- 
sistendo nel mio stipendio, non potrei provvedere alle oc- 
correnti spese di stampa. Altronde aspetti V. S. l' ultima 
pagina; sin allora potrà cambiare di parere; ma sin d'ora, 
se le fa d' uopo di pubblicare alcuna cosa neir interesse 
dell'opera sua sulla Poesia popolare, faccia pure. 

Proseguo le mie analisi : 

In un altra bucolica-presepiale 1 pastori non paghi dì 
rimirar da lontano il neonato, cosi ne parlano fra di loro: 

Ven Vei, Pierro lo genti I 

Vieni vedere^ Pietro^ lo gentile 

Gom* è sont a 2heneu devant lui! 

Come e? si sono ginocchioni 

Ahi i faut bein qu'è couneichon 

ei bisogna bene ch'esH conoscano 

Qiù saie caque rein de gran: 

Ch'egli sia qualche (res) cosa di grande 

1 ne fàron pa tant de gógne 
Essi non farcbbono tanto di smorjlo 



S' é n' étai qu'on paisan 

S*ei non fosse che un contadino {paesano). 

La voce gógne la suppongo derivata dal greco, poiché 
vuol dire aifeitazione donrciìey puerilità. 

Se i Re majri portano doni magnitìci al bambino, i pa- 
stori d( Ile Alpi lo presentano essi secondo le proprie forze. 
Veramente paie che avesse bisogno di tutto , questo Re 
dell' Universo : 

Cy dieu adorablo 

Quesito Dio adorabile 

Ay mal entrivà 

È niale arrivato 

Gom' on misera blo 

Come 

No V avin trouva, 

A'ot tabb'iimo trooaio 

Din r aytablo a vache 

Dentro la stalla da fiacche 

Su pailly cuscha 

Su 'paglia coricato^ fra il Bue e TAsino , tra la forea 
utile e r umiltà servizievole, cnirambe pazienti. Entrivà^ 
vi rappre«senta Tesempio ognor più raro nei dialetti gallici 
deirenclitica Germanica eìit. Entrivà^ vuol di-e: arrivato 
internamente^ cioè inaspettato nel luogo dove capita. 

LV altra slanza relativa ai bisogni del neonato mi per- 
mette (li far parsiire sotto gli occhi suoi intendenti, alcuni 
pomi di cose domestiche, i quali forse non saranno senza 
riscontro in codeste parti opposte d' Italia : 

No portin de pan, de vin 

Noi portiamo 

De liù, de por, de ràve. 

Dei caooli, porri, rape 

'Na fricacha de bodin, 

Una (eh francese) fricassea di sanguinaccio 

De résoulè ^ ben brave, 

degV incotti di carne d'agnello belli 

De bourro, de bons ouas frai 

Del butirro (burro) uooa fresche 

De dìau e de rezùle 

delle salsicce e rosolate 

Qu' an le fenne die' leu ^ panie 

ch'han le femmine dentro i loro panieri 

To plin de bonne eh use. 

Tante buone cose. 

Die' pour dien (dedans, dentro] alla fiorentina. 

To pìin (tutto pieno) , pieno zeppo, non si riferisce as- 
solutamente a panièri ; è un modo di dire riepilogando, 
equivalente a : Portiamo una quantità, un mondo di lec- 
cornie, insomma. 

Laonde se bisogna dar retta ai NoèJs, 

Gy motel plouràve 
Questo infante (muto, infans; Si pronun^^ia mute) plorava 

Quand non sin parti : 
noi siamo partiti 



so 



Mai'gol lo flatlàve 

Ghtta blandi oa 

£t dit: mon peli, 

No vo vendran veire 

noi vi verremo a vedere 

E dein nostron cour ^ 

dentro cuore 

Vo pouvi ben creire 

potete credere 

Que sari tozour. 

Sarete sempre {toujours). 

Qualche dubbio mi rimane , ancora sulla aulenticirà 
della specie d' antologia dalla quale vo desumendo questi 
esempi , ben inteso sulla vauteniicilà loro comej^o^^ ve- 
ramente popolari. Pertanto ho limitato le mie citazioni a 
quei soli frammenti, che mi offrivano un più genuino ca- 
rattere di naturalezza. I Savojani non ebbero a tempo ve- 
run Mac Pherson. Ora, più che mai, il parlalivo savojaiiO 
se n'andrà sotto la irresistibile e magica pressione del bel 
francese. Sarebbe oramai tempo, che si scrivesse una ve- 
race stona di Savoja , che si formasse un' intelligente e 
scrupolosa raccolta dei poemi cantali da quegli Alpigiani 
e per anco si facesse un vocabolario puro di quell'origi- 
nale e quanto mai vivace idiòma ; altrimenti lo si vedrà 
sparire del tutto, come un secolo fa si spense quel celtico, 
ossia guelico a cui il Savojano serviva di mezzo nelle 
sue relazioni certamente frequenti col latino rustico. Con- 
tinuando a raccogliere il mio bottino fra questi appassiti 
fiori dell'Alpi nostre, deggio soffermarmi più che tanto sur 
una canzonetta la quale mi pare abbia la sua analoga fra 
quelle raccolte dal Gav. Nigra ? La riferirò soltanto con 
una version mia in piemontese , poscia che molti anni fa 
mi fu dato soltanto di leggere alcune delle canzoni rac- 
colte e maestrevolmente commentate dal sig. Nigra ; ma 
non di possiederle. 

In piemontese mìo 

Nos étien tray Sirollottay I ero tre sorellette 

eraoam tre sorelle 

A la riva d'on le; An sh la riva d*un lagh ; 

lago 

Ce son dit 1 ouna a l'atra I sh souma disse Tun'a Taota 

Ci Siam detto 

Allin no bapola Douma a bagnesse ; 

Andiamo noi a bagnarci 

Se le fidu re vegney a passay Selhfieuldourevéniss'apassè 

figlio venisse passare 

I nos inméneray. A nh ménéria via. 

Egli ci memrebbe via 

La pie petioula a répoudu : La pi pcita a Tha respondu: 

più piccioita 

Voui pa me bagnolay; Veuj neinbagnéme; 

Voglio no ...mi) bagnar(... 

Oh ! de me garderai les ròbe. 0! i mh ghverneren la roba. 

io mi veste 

Gens d'armes doit passe. Cavajer a deiv passe. 

I Ta pris par sa main bianche, A Tha piala per soa man bianca 

Sur Grison Ta monte; Sul cavai gris a Tha aussàlu ; 

(nome equino) albata 

Après Ta menée en Franche Dop l'ha menala an Franssa , 



Tant ava qui pouvay. 

avanti poteva 



Tant an giù ch'a podia. 



Sirollettay. I Toscani di Firenze non direbbero mo 
sire' -ietta per sirocchielta ? 

Lé^ vuol dire lago, pretto allobrogiamo. Leman ognun 
sa che significa il lago di Ginevra. E L€menc (Lago meno, 
lacus minor), chiamansi alle rupi dei pressi di Chambéry, 
le quali formavano parte delle rive deir antico letto del- 
l' attuale lago d'Altacomba. 

L'antichità di questa canzone e la sua savojanilà, lo di- 
mostra l'energico vuoi pa (voglio io no). 

Le canzoni recenti cadono nel gallicismo ne..pa {ne..pas) 

Ma una vera figlia del popolo credo io ravvisarla in 
questa canzoncina sulla Lodoletta, che troverà nella 4* 



lettera che sto per mandarvi. Se la memoria non mi tra- 
disce, credo pure che abbia dessa il suo riscontro fra le 
piemontesi raccolte dal prelodato Gav. Nigra. Che sia ve- 
nuta dall'Italia o dalla Provenza in Savoja, valga a dimo- 
strarlo il vocabolo brandouliva (branca (per Baino) d'ulivo) 
branche d' olivie. L' ulivo è pianta che non mette in Sa- 
voja. Osservo di passaggio, che branca (ramo) è ortogra- 
fato branthe negli stampati, che ho a mia disposizione. 

Firenze, addi 1 ottobre, 1867. 



(continua) 



Suo dev.ino servo 
Ignazio Billò 



CANTI POPOLARI 

raccolti in Pomigliano d' Arco 

Raccolsi e preparavo, per la stampa, questi 
canti, da dieci janni fa. Poi, interruppi e smisi 
il lavoro; ed intesi ad altro. E Tessere, ormai, 
divenuto quasi estranio a siffatti studi e le mie 
condizioni presenti di salute, mi tolgono di com- 
pierne, ora, ammodo r illustrazione. Pure non 
ho saputo nefrarmi al desiderio d^l signor Luigi 
Molinaro Del Chiaro, premuroso di pubblicarli. 

Vittorio Imbriani 

I. — Aceniello de pepe carrecato! 
'Rammaglieitello, fatt* a voglia mmia ! 
Quannò te crire, ca t' hagge lassato. 
Voglio cchiù bene a te, eh' a mamma mmia. 

Nel primo verso, deve, evidentemente, leggersi aroeriello 
e non aceniello , giacché un gran di pepe non può esser 
caricato, né sarebbe indicata la cosa, di cui si troverebbe 
carico. La locuzione proverbiale aceniello de pepe, ha ori- 
gmata la corruzione del verso. — 'Rammaglieitello, dimi- 
nutive di Grammaglietlo o 'Rammaglieéto : — « mazzetti 
«di fiori, che, per lo più, son doni d* amanti, » — come 
dice il Gahani. 1 itta Valentino, nel Proemio de Lo Vasciel^ 
lo de l'Arbascia: 

Serze noi; sse sdegnaje, da *no pacchiano, 
Piglia' 'no poco d acqua pe' defrisco; 
E Cesare azzettaje, da 'no vellano, 
'No grammaglietto, fatto de ientìsco. 

Questo bel vocabolo venne italianizzato da quattrocento 
anni or sono dallo autore della Arcadia, nella sua Farsa 
per la presa di Granata (1492), e, poi, dall'autore del Ven- 
demmiatore e delle Lagrime di San Pietro : 

A ciò, che ad ogni senso dia diletto. 
Il pie*, che 'l regge, e '1 vase, ov' entra 'l vino, 
A guisa fatti son di ramaglietto. 

Vedi : Capitoli I Giocosi e Satirici \ di \ Luigi Tansillo 
I Editi ed inediti | con note | di | Scipione Volpicella II 
Naooli I Libreria di Dura | 1870. 
^un proverbio dice, bisticciando: 

Amatores 
Amant fiores ; 
Amatrices 
Amant radices. 

Ma pure, nel canto popolare, ed uomini e donne asso- 
migliano l'amor loro solo ai fiori; nò mai innamorata 
osò paragonare il suo vago ad un rafanelld od ad una pa- 
tata. 

II. — Fruoffece, fruò ! ca taglie tanto panno. 
Pecche non tagli' a tanta male lengue? 
'Int' a 'stu vico ce ne stanno tante; 
Sant' Antonio mmio, liberamenne ! 

Fruoffece , metatesi di fuorfece , forbice. Vedi La \ 
Fuorfece i overo i L OmmopraCteco \ co li diece quatre I 
de la Galleria d* Apollo \ Òpere | de \ Biaso Valentino \ 



u 



AddedeccUa ' a lo llustrissimo signore I Acocaio, | Signore 
! D. Giuseppa Maria I De Lecce, Patri sto de la Veld de 
^cera.\\A Napole, MDCCXLVUL i Nella Stamperìa di 
reltce Carlo Manca I Con licenzia de' Superiori. Il settimo 
quadro è intitolato La mala lengua; e comincia : 

La mala lengua è comm' arma dannata, 
Lo murmuro le stace sempo 'mmocca, 
Pecche sempe ne staco desperata, 
Sempe 'ntaglia e rentaglia e mai sse stocca. 

Le si rimproverano mille colpe: 

La mala lengua fa veni* la risse, 
La mata lengua fa veni' la gu^ra; 
La mala lengua fa lo serra serra. 
La mala lengua sempe tagliarisse 
La mala lengua, cancaro V afferra. 
La mala lengua è causa d*ogni male, 
La mala lengua è stragge onevcrzale. 

S' invocano tutti gli elementi contro i mormoratori. 

Pozzano ave' la corda co' li butte 
Da lo boja, eh' è pratteco ministe. 
Co* 'n* abballata 'ncoppa de le spalle, 
Restanno appise, da casecavalle, 

* 

Fra le molte ottave di questo quadro, noto la seguente: 

La Vecchìareìla stace a* lo pontone 
Co' la corona 'mmnno e mormoreja, 
Quanno to cride, ca fa 'razione, 
Sfatte ne* cierto ca te la ferreja. 
Pare devota, e pevo de scorzone 
Tanno puro li Sante te stropp'^ja, 
Pe' no' pavà* la parte soja a l'oste. 
Leva la fama e dice piternoste. 

In un opuscoletto, da me pubblicato. Per iVo^'^e | Nis- 
fiim U Ancona, (com'è detto nell; c^hio) e contenente XLV 
Canti popolari ' de* dintorni di Marigliano ' (Tf*rra di 
Lrrroro I Napoli ! MDCCCLXXl ( come dal frontispizio ) 
Edisrionn di soli duecento esemplari I de* quali cinquanta 
in carta ros^a, se^^'^anta I in carta violacea, trenta in carta 
pialla, ' ironia in carta verde e trenta in carta color ecce. 
Fuori commercio (come è stampato, nella sedicesima ed 
ultima paginetta) ho riferito il seguente canto: 

La vecchia, quanno stace a lu puntone, 
Cu 'la corona 'mmano, e murmulea, 
Tu te cri re, che fa l'orazione, 
Chella piglia li santi e li stnippea. 

Sarebbe fors»* disperato il ricercare, se Biagio Valentino 
abbia preso dal canto popolare o se il canto popolare si 
sìa arricchito di versi del Valentino. 

Frfioffeet^ fruò ! I dialetti napoletani hanno una forma 
speciale peì vocativo: consiste nelTapocope di quanto se- 
prue la lettera accentata. Per esempio. Pie ! vale o Pietro! 
Terè ! vale: o T'^resa! e via dicendo. Fruò ! vale, dun- 
que, o forbice ! Spesso, nel vocativo s' usa la reduplica- 
zione : ed , allora , la prima parola é integra la seconda 
smozzicata: Teresa, Terè ! — Lo stesso accade nell* impe- 
rativo : Butta 'o pede , bà ! (affrettati) — Magna , md ! 
{mnnqia). 

Libberamènne , liberamene. In Napoletano , quando un 
verbo ha due suffissi, l'accento si trasferisce sul primo : 
Ubbera, lìbbnrame e libberamènne. E, di fatti, ci vuole un. 
buon polmone, per pronunziare , ammodo , un vocabolo, 
che abbia l'accento sulla quintultima. 

Cajo Baldassarre Olympo de Sasso ferrato ha scritta una 
operetta, intitolata // Linguaccio : • « Avendo io onesta 
« mia bassa e rozza operetta composta, per essere, al pre- 
« sente, ogni città piena, c|uasi, de pestifere lingue e col- 
« ma de pessimi detrattori » 

Dòmine, labia mea et os aperies 
Che de tal lingua possa dir gì' inganni ; 
Le qual peggiore in mando non reperies. 
Da por discordia negli eterni scanni ; 
Assai più ch'io non dico ancora inoeniesy 
Che a dir sua falsità voglion due anni. 
Però gli occhi, signore, ad te leoaoi ; 
Cum tribularer^ Xortiier^ clamaci. 

Se la p'glia, acremente, contro colui- « Che, da natura, 
« all'abbasare è prono, » — e si compiace della maldicenza: 

El porco, sempre, brama star nel loto ; 
Brama star la ranocchia nel pantano; 



i 



El negro corvo, augello a tutti noto, 

Desidra la carogna esposta al piano : 

Cosi questo linguaccio ha fatto vfìto 

Dir, sempre, mal d'altrui, parlando in vano, 

E proprio fa come lo scarrafone. 

Che dove più ce puzza, li, se pone. 

Cerca di mostrar le cattive conseguenze che lo sparlare 
ha, tanto perchè sparla ( — a Ch* il foco piglia in man, la 
man gli coce » — ) quanto per coloro, di cui si sparla: 

Quante vaghe, modeste damigelle, 
Per un dir tristo, perden lor ventura! 

La maldicenza è segno di malvagità: 

Se conosce l'argento, al paragone; 
Se conosce el soldato, ne la guerra ; 
Se conosce, al parlar, uno sebi avene ; 
Se conosce el bifolco, arando in terra; 
Se conosce, a viltade, un, ch*ò poltrone; 
Al piede del cavai, quel, che ben ferra ; 
Se conosce, gustando, un dolce pomo: 
Cosi, al dir mal, se conosce un trist'uomo 

Il maldicente vede la festuca negli occhi altrui e non 
la trave nel proprio: 

Quel, che non sa dir ben, sempre, bisogna 
Che dica mal, poiché gliel dà natura; 
Se mangia, beve, dorme, pensa e sogna. 
Sol de dir male e sol de quello ha cura, 
E non vedo che, in dosso, ha tanta rogna. 
Che di grattarla metterla paura. 

Questi ultimi versi sono, però, tolti non àsiì Linguaccio 
anzi dair ArdHia di Olympo. Si noterà, che tutti questi 
versi hanno assolutamente il fare de* versi popolari e li 
rammentano. 

(Continua) 



Stornelli del popolo toscano 

Era in mente mia di presentare ai lettori 
del Basile una manciatella di stornelli tal qimle 
il popolo toscano li canta , con le sue oscenità 
e con le sue sentimentalità , e mostrare cosi 
ancora una volta che nel raccogliere lo pro- 
duzioni popolari bisogna spogliarsi di certi pre- 
giudizi rancidi e di certe scrqpolosità malintese. 
Però più matura considerazione mi ha indotto a 
sopprimere tutto ciò che su d' un giornale po- 
tesse troppo vivamente ferire la delicatezza dei 
lettori, riserbandomi quando che sia, di. fare dei 
canti soppressi una piccola pubblicazione a 
parte. 

Pasquale Papa 

. (Garmignano) 

1. Fior d'erba a strisce: 

s' eramo 'nuamorati nelle fasce, 

ora avessi a lasciar me ne rincresce. 

2. Bella bellissima, 

piglia uno siioppo e picchia quella passera, 
e se lu non la coi, brava bravissima.* 

3. Bella ragazza, 

li donere' il cavallo e la carrozza, 
li donere' il mio cuor per gentilezza. 

4. A san Barondo e' è le legna secche, 

a Cantagrillo di belle ragazze, 
le paian marliuicche da carrozza. 

5. Quanto mi garba Terba ricciolina, 

quella che fa 'n su i' campanìl di Siena, 
il sol va sotto e l'amor s'avvicina. 

6. E ti vorre' vede 'uvetta uno stile (1) 

e ciondoloni come un animale, 
venlicaltr' ore a vedetti patire. 



32 



7. E io de^li storn-'Hì ne so mille, 

me Tha 'nsegnati la mi' zia da Colie, 
quella che fa le creste alle farfalle. 

8. ragazzina che n' avete tanta, 

badate di non fa' couie la menta : 
la maggior parie secca 'n sulla pianta. 

9« Fior di granato, 

non ti posso piglia, perchè ho marito, 
piglia la mi' sorella e vìen cognato. 

10. Te lo sie' fatto il vestitino a strisce, 

te Io sie' guadagnato per le fosse, 
a forza di stiafTini e gote rosse. 

11. Te lo sie' fatto il vesliiino nero, 

che ci manca la borsa per in mano, 
per metterci le bucce del pan nero. 

12. E me ne voglio «ndare 'n via doirerba, 

r ho trova una rafrnzza che mi gnrba, 
ma mi rincresce, V ha fatja la serva. 

13. E .0 delti stornelli ne so sette, 

e la mi' dama V ho vista 'n ciabatte, 
era colore delle mele colte. 

14. Se l'acqua dello mare fusse vino, 

vorre' lavare il viso a lo mi' damo, 
e po' lo chiamerei bello, bellino. 

(Bivigliano) 

15. Quando passi di qui, passi di notte, 

tu fai pe' non vede ragnzze brutte 
e la più bella l' ha le gambe torte. 

16. Fior di limone, 

r aghero 1' ho spremuto 'nnel bicchiere, 
la buccia Y ho donata alle musone. 

17. Fiorin di canna, 

e gli uomini piccini 'un trovan donna, 
vanno a sona lo zufolo *n montagna. 

18. Io me ne voglio andà 'nverso Scandicci, 
• 'n dove le donne le tendano lacci, 

le chiappano gli uccelli piii massicci. 

19. Fior di sermento, 

la vostra mamma v' ha fatto 'n un campo, 
a farvi le bellezze non fu a tempo. 

20. Fior di granato,' 

pigliatelo, pigliatelo marito, . 
il can del macellaro è preparato. 

21. Io me ne voglio andà giù fosso fosso, 

se trovo lo mi' damo lo confesso, 
lo voglio convertì se fosse uu masso. 

22. Quando ti veggo sulla cantonata, 

rimbrigidì (2) mi fai tutta la vita, 
e pe' fammi mori, bella siei nata. 

( Golognole ) 

23. S'io credessi, bimba, di nun t'avere 

. l'arte d' i' marinar vorrei 'mparare, 
e i tuoi capelli servan per le vele. 

24. Fior di ciliegio, 

la va pianino, pare un orologio, 
e chi ti piglierà, sanguino regio ! 

25. Fior di carole, 

nun te l' ho date delle stil Iettate, 
l' ho dato de' bacini 'usuilo gole. 

( Borgo S. Lorenzo ) 

26. Fior di lenticchia 

le troie come te stanno alla macchia, 
le vim^^on tutte a i' suono della nicchia. 

27. Fior di mortella, 

avea una ciuca, mi mori alla stalla 
così devi far te, ragazza bella. 

( Scarperia ) 



28. A la finestra che ci state a fare 

le braccia vi verranno a 'ntormentire, 
faresti meglio andare a lavorare. 

29. Radicchio trito, 

e per la dama mi son rovinato, 
io era rossellin, sono ingiallito. 

( Capraia ) 

30. Gli ho seminato un sacco d'accidenti, 

io prego Dio che mi vengbino avanti: 
ce n'ho per te, per tutti i tuoi parenti. 

31. E quando sarò morta e seppellita, 

vieni alla tomba e dammela un' occhiata 
rendimi i baci, eh' io t' ho dato in vita. 

32. Avanti eh' io ti sposi, o ragaf.zina, 

deve vola la rondine romana, 

e di Livorno ha da volare a Siena. 

( Panzane ) 

33. Fior di cammei. 

Né ville, né poderi tu non hai, 
né figlia d' un marchese tu non sei. 

34. r pino di badìa l' è senza buccia, 

le ragazze a Panzano 1' è robaccia, 

r hanno di molta chuìcchiera e dote punta. 

35. 'N in questa via e' è un lampione spento, 

e' è una ragazza che mi garba tanto, 
i' boia di su' pa' nun è contento. 



(1) A Vicchio in Mugello cantano cosi : 

Ti potessi vede 'nvetta a uno stile, 
A drincoloni come un animale: 
Io ti vo* fa' mori dalla passione. 

(2) RimhrigidirB è rabbrividire, come hrigidìo per bri- 
vidio. A questo stornello corrisponde un altro di Rubbia- 
no umbro : 

Benedico lo fiore di sola (suola) : 
cjuanno ti vedo la mia vita trema 
ir core mi diveuta 'na viola. 



^U LUPO E 'A VORPA 



Ce steva 'na vota nu lupo e 'na vorpa; se cbiammà- 
vano due cumpare ; 'u cummaro e 'a eummara. 'U lupo 
appurale 'na mandra 'i pècore ; ricette 'nfaccia à vorpa : 
« Gummà , i' vac' a bere' , ca ce sta 'na bella mandra 1 
pècore » e , tramenne , se jette a piglia' i pècore , e se 
ne pigliale una sola ; e mente fuieva cu' 'a pecoi'a 'mraoc- 
ca, avette 'na bona mazzìata — 'U lupo s' a meiteile ap- 
pesa int' 'a cemminera, 'a pècora, pe' nun 'a dà' a chella 
pòvera vorpa, eh' era 'a eummara. Ogni vota ca jeva chella 
pòvera vorpa, riceva: « Cummà, lassa sta', cà i' nun me 
firo d' 'a r a piglia'. » — 'A vorpa po' ricette : « Ah! mo 
i' acconc' i' ! T'aggi' a fa' nu rispietto, t' aggi' a fa'. » 

'A vorpa appuraie 'na macchia 'i mele, ca l' èvano at- 
terrata i cuntrabanniere — Essa se vutaie: Cummà, aggio 
appurata 'na macchia 'i mele ; 'na cosa troppo bella I oa 
vota 'i cheste, vulimm' ì' a bere'. ». 'A vorpa se partette 
e ghielte e truyaie 'u mele : 'u pruvaìe é ricette : « Ah ! 
che bella cosa !- » 'U lupo faceva : « Cummà , e quanno 
iammo a bere' chella macchia 'i mele? d «Ih! Cummaro 
mio, che buò' da me ? Chella sta tanto luntana ! » Isso se 
vutaie e ricette: Neh! cummà, e tu a do' si'ghiuta, ca 
si' stata tanto tiempo — Essa se vutaie e ricette: Cummà, 
i' so' ghiuta a 'Ngignàtóla. 

'U juoruo appriesso, 'u lupo, ch'aveva femuto 'u pecu- 
riello addimannaie 'n' ata vola :,« Cummà, vulimm' i'?» 
E 'a vorpa ricette : « Uh ! Cummaro mio, che buò' da me? 
Chrila sta tanto luntana I » 'U lupo addimannaie : Neh ! 
cummà, e tu a do' sì' ghiuta, ca si' stata tanto tiempo?» 
« Ah ! Cummaro mio, i' sto tutt' accisa ; i' so' ghiuta a nu 
paese chiaramato 'a Pruvàtola. ». 



$3 



Tf pòvero lupo lurnaic a di' 'u juomo appriesso : « Cum- 
mà, vulimm' ì* a bere' ?» E 'a vorpa ricelte: <r Dummane (1) 
ce iammo. » Ma 'u juorno apprie<«o parterie essa sola, jelie 
là , e se macmaie tutte cose. 'U lupo se lagnava ancora , 
pecche aveva avuto tutte chelle mazzate quanno jelte a 
piplià' 'a pècora, e d' allora sleva sempe malato chiìlo pn- 
verìello ! Esvsa se vutaie e ricette : « Cummà, si vulirarao, 
dummane jaramo a nu paese Innlano; si vuò' veni' cu' 
miro; se chiamma 'a FemòtoJa, Partettero tuli' e duie, 
e jettero a 'stu paese d' 'a FernùioJa, Essa ricette : « Cum- 
mà, appetta loco, a 'stu pizzo; ca i' vaco primm' io a bere' 
a do' sta 'u mele, ca tu nun te tiri, ca ci' avessero a fa' 
quacche mazziata. ». 

Quanno vonelte (jelte a bere' p' accerta rese si era prò- 
pio ferniito 'u mele, ma rhella già 'u sapeva) ricette: <r Va 
tu, ca io faccio 'a posta (2); ca chi sa venesse qiiaccuno, 
ca si no ci avessero a vàlfere. Se vutaie ; jette chillo pò- 
vero lupo; ma chilìi, i patrone, avevano verutoca nun ce 
steva chìii 'u mt^le , e slèvano facenn' 'a posta , pe* verè^ 
chi s* Aveva piglialo. 'A vorpa apposta 'u facette, p' 'u fa' 
abbuscà'. Chillo nnn 'u sapeva, e mento ca se steva alleo- 
canno 'e ccrastulelle, chillo pòvero lupo, de chillo mele ca 
nun aveva Inivaio, le facètteoo 'na bona mazziata, 'u dis- 
sussàieno buono buono. 'A vorpa da ristante guardava ca 
'u lupo avev' 'i mraazzate ; ma se n* era jula da n' ata 
parte, rislante assale. Quanno 'u pòvero lupo se ne fujette 
e ca 'ncuntrai 'a vorpa, s' allamennava, se jeva lagnanno 
pe' sfrata — 'A vorpa se vutaie « Uh ! cnmmaro mio, ch'è 
slato? » « C'immà , nun biri a m' hanno acciso 'i maz- 
zate ? » « E i' pui'e , cummaro mio , nun me flr' 'i cam- 
inenà' : comme mo me ne vaco ? » 

Tramenne ca jèvano tuli' e duie p' 'a strafa , 'a vorpa 
riceva ca essa nun se flrava. Essa faceva accussl: <c V nun 
me flro ! I' nun me fìro ! Cummaro mio, pòrtame nu poco 
a uoglio ». Chello nun era 'o vero; 'u faceva pe' levàrese 
rhella 'ngiùria, ca isso s' era magnato 'u piècòro; essa steva 
bona, essa s' èva magnato 'u mele. Mente cammenava se 
mettette a cavallo ó lupo; 'u pòvero lupo 'a purtava a uoglio, 
ca essa faceva a bere' ca nun se firava. Faceva : « Nddra, 
ndàra, nddra, e 'u rutto porta 'u sano. » « Cummà , 
pecche cani' accussl ? » « Eh , cummaro mio, è canzone : 'u 
faccio pe' me spassa' nu poco. 

Arrivàieno à casa. 'D lupo se menale pe"muorlo p' 'i 
mmazzate eh' aveva avuto, e p' ave' purtat' 'a vorpa a uo- 
plio; se menale pròpio pe' muorto. 'A vorpa 'u serrale a rimo, 
e se ne jelte, e là dinto 'u fhcette muri ! 

Cuccuricii, e nun ce ne sta chiù ! 

Baccolfa sul Villaggio del Vomero da 
Benedetto Croce 



(1) dummane^ domani. 

(2) faccio 'a posia^ fo la spia. 



Canti del popolo di Giugliano in Campania 

(Continuajsioney vedi n.® 4 e 5) 

22. 

Aggiu saputo ca te vuò' 'nzurane, 
'Na nera mala sciorta puozz' avene, 
'Sta faccia verde che le vuò' pigliane, 
T 'a puozza truvà' mort' accani' a tene. 
Quanno nce jate 'nchièsia a spusane 
Lu parrucchiano pozza veni' meno, 
L'acquasantera pozza sprufunnane, 
Viente re terra stùtenc' 'i ccannene 
Quanne nce jate a tàvul' a mangiane, , 

liU primmo muorzo puozza penzà' a mene, 

guanno nce jate a lietto a repusane, 
' àsteco 'ncuollo ve pozza carene. 
Seti' anne puozza sta' a lietto pirciafo, 
Lu riesto che campate 'ngalera 'ovita (1). 



23. 

Màmmeta in' ha chiamroat' affattucchiara, 
Rice che t' aggiu fatta 1' affattura. 
Fusse lu Diu ca la sapesse fare, 
La faciarria a màmmel' e a te pure (2). 

24. 

Nenn' a la casa toja nce so' stato, 
r nei lu sacciò comme ste' (3) guamula: 
Tiene 'na casa tutl' affummecata 
lii quatruscielle stanno tutt' annerute, 
Nu lettecciullo che pare spelale 
'Na casciulella che pare favule. 

25. 

Anetra storta, cammin' adderitto, 
Chlste songo Tincunlre che m' he' fatto: 
Cussi succere chi ama 'na guitta, 
Nce perde le fatiche e quant' ha fatto. 

26. 

Afiàccet' a 'sta fenesta e nun si' fufla» 
Tiene la faccia re la sarda fritta. 
Tutta la via re N.^pule ne' è strutta 
Pe tutte le gabelle nce ste' scritta 
Lu ciardeniello Injo nu' mena frutte. 
Ha perzo 'u parzùnale e chi V affitta. 
Fallino mo nu vesietiellc 'e liftto 
fair 'u succanniello e po' t' 'o milte. 

27. 

Nu juorno m' affltlaje 'na funtann, 
Beva l'acqua a chi nun la vuleva. 
Chi cu' renare e chi senza renare, 
A tutt' 'a bona ràzia nce facevo. 
Nu juorno jelte pe' la mesurare, 
Calaje lu sicchio e nce venette arena. 
Chi vo' l'aqua, che porta renare, 
L' acqua nun zorge chiù comme surgeva. 



28. 



Fu^. 



|e, ca nun te pozzo chiù verene, 
benlire nun te pozzo annummenane. 
Nce s' è miso lu sdegno 'nira me e tene 
Là ne' è caruto l' Orio murtale. 
r lantu faccio pe' nun te verene, 
Sempe pe' 'nnanze a l'uocchie me vuò' stane, 
r quanno penzo eh' aggi' amat' a tene, 
Cu' lu curiiello te vurria scannane (4). 

29. 

Quanno nascieltu i', nasciett* a mare, 
Nascietlu 'nfra li Turche, 'nfra l'Abbrieje. 
'Na zènghera me vulette annevenare 
Rice eh' avev' asciare nu freserò, 
r bardasciello me mise a scavare, 
Nun putiett' ascia' n' argiento nun oro. 
Zènghera, nun zapiste annevenare. 
Chi nasce affritto, scunzulato more ! 

30. 

Quanno nascisle, ciocco re curona, 
A Roma nce sunàrono 'i còampane. 
Fere nei ascette Ip Papa^'mperzona, 
Risse: — Abbatteatillo'cu'li ttqie mane. 
Santu Luca eh' era nu pittore, 
Sùbeto la petiura nce furmaje. 
San Pieto po' eh' era piscatòre, 
Lu pesce nce runò cu' li ssoje mane. 

3i. 

Nu juorno jevo spierto pe' lu mare, 
Perdiette lu miu core 'nfra l'arena, 
r lu spiaje a tanta marenare, 
Rìceno ca l'èveno visto 'mpiett' a tene. 
Core re cane, comnìe lu pua Cane, 
r senza core e tu rujQ ne tiene? 



54 



r so' benulo si cagno vuò' fané, 
Ramme lu tujo e lu mìo le liene (5). 

32. 

Nu juorno fuje chiammalo giurecatore, 
Pe' giurecà' 'na chioppa re zelelle. 
Un' era jawca e 'n' àuf era vruna. 
Quale re chesle s' èva la chiù bella. 
Là nce venèiieno prlncepe e signure, 
Sempe ricenno ca la vruna è bella. 
La vruna me runò nu maccaturo, 
La janca 'na laltuca tennerella. 
Meglio avere nu vaso da 'sta vruna, 
Ga ciento ra 'sia faccia janchiatella. (6) 

33. 

Che uocchie re rèmmonio so' chiste, 
'^' ora ca nun le vero me trapasse, 
M' haje menato a lu prufunno abbisso. 
Privo m' he' fallo re gusle e re spasse. 
Saccio che a 'n alo ninno parie spisso, 
Muorlo me può' iruvà' sì lu me lasse. 

34. 

Cielo quanto so' belle l'uocchie luoje, 
Quanto pàreno belle a chisti mie. 
Tiene 'sta faccia che pare 'na gioja 
M' he' sbalestralo lu penziero mio. 
Nenna, 'ncopp' a sic vracce me nei appojo 
Te rico ca le voglio e nun t' annejo. 
Tanno le perdo le speranze tojc, 
Quanno si' moria e lu sciumme t' anneja. 

35. 

Jelt' a lu 'nflemo ca nce fuje mannato, 
Pe' grazia re Diu nun nce capetle 
For' a li pporle nce scuntaje Pilato, 
Me fice largo, ca me canuscette. 
'Ncapo chiù 'nnante la mia 'nnammurata, 
Rint' a 'na caurara, comme vulleva! 
Nce lu cercaje 'ngràzia a Pilato : 
Lèvence 'sta nenna e mlitenci a mene! 
Isso ricette: — Nun lu pozzo fare, 
Chi ha fatto li peccale, pag' 'a pena. (7) 

(Continua) 

Baccoìse Luigi Taglialatela 



Scanno); Il quale m'auguro si metta di proposito a sludi a- 
re e ad illustrare que' sili come meritano. 



Vincenzo Simongelu 



1. 



(1) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop,, nap. pag. 
119, canto 20. 

(2) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canU del pop., nap- pag 
216, canto 330. 

(3) ste\ stai. 

(4) Cfr. Moìinaro Del Chiaro , canti del pop, nap. pag. 
232, canto 378. 

(5) Cfr. Molinaro Del Chiaro, canti del pop> nap., pag. 

235, canto 386. . , 

(6) Cfr. Molinaro del Chiaro, canti del pop. nap. , pag. 
234, canto 384. 

(7) Cfr. Molinaro Del Chiaro , Un canto del popolo na- 
poletano. Napoli, Argenio, 1881. 



n pianto della vedova di Scanno 

Offro a' lettori del Giambattista Basile una canzone 
di Scanno, villaggio presso la Majella, strano specialmente 
pel singolare vestito delle donne. Sono come in uno eter- 
no lutto: hanno le gonne nere, arliflciosamente pieghettale; 
avvolgono attorno alla lesta un panno bruno a guisa di 
turbante, attorcigliandolo poi dietro colle trecce dei ca- 
pelli, uniti con lacci di vari colori. 

Quanto al dialetto, ho sapulo che si prepara lì un Les- 
sicoy il quale forse darà mollo da fare a' fonologi. 

Questa canzone e questi pochi particolari li debbo alla 
cortesia dell' amico Giovanni Oraziani di Villetta ( presso 



Scura maja (1), scura maja ! 
Te si' muori' e chigna (2) facce ? 
Mo me stracco trecce e facce, 
Mo me jalte 'ngoj' a taja (3): 
Scura maja, scura maja! 

2. 

Primma tenea 'na casarella, 
Mo 'nlieng' chiù recielle. 
Senza fuoche e senza licite. 
Senza pane e cumpanaja (4): 
Scura maja, scura maja ! 

3. 

M'ha lasciata 'na famija 
Scàuza e nuda , appetitosa ; 
E la notte ci sgeveja (5) 
Vùne (6) ju pane e i' ne' 1' aja (7): 
Scura maja, scura maja ! 

4. 

Ieri jeje a ju cumpare, 
A cerche la caritè. 
Me faceje' 'na strellota (8) 
Me menaje 'na staja (9) : 
Scura maja, scura maja ! 

5. 

Sci' mmajit' (10), sci' mmajtt', 
Quanno bene eh' 'ni' aje fatte ! 
Pe' lu scianghe (11) de la iatta 
Pròpia straja m' aj' a faja (12) 
Scura maja, scura maja I 

6. 

E la notte a l' impruvisa, ~ 
Quann' durme, a 1' ensapirta , 
Aja 'ntrà' pe' la cauta (13), 
Tuli' le scianghe me l' aja vaja (14): 
ScMra maja, scura maja ! 

7. 

Stava grassa chinta (15) a 'n' grsa, 
Me so' falla scecca scecca (16) 
'Ne' è nu cone (17) che me lecca. 
Chi me scaccia e chi m'abbaja : 
Scura maja, scura maja ! 

8. 

A ju ciel' che 'nei aje fall' ? 
A ju munne puverella , 
So' remasla vudovella, 
Mo m' arraja, mo m' arraja (18) : 
Scura maja, scura maja ! 

9. 

Oh ! ju ciele, famm' asci, 
Pe' mari te nu struppone (19) 
C-\ se n' aje ju muntone. 
La cacciuna sempre abbaia : 
Scura maja , scura maja ! 



1) Scura maja, povera me. 

2) chiana» come. 

3) jaCte "ngof a taja, gitto in collo a te. 

4) cumpanaja^ companatico. 

5) ci sgeoeja, si sveglia. 

6) Vùne, vogliono. 

7) ne' Vaja, non V ho. 

8) strellota, sgridata. 

9) Me menaje 'na staja. Mi battè con u a stanga. 
.10) Sci' mmajU\ sii maledetto. 
;ll) scianghe, sangue 
[12) Pròpia straja m' a/ a faja, Proprio strega ro lio 

a fare. 



5S 



(13) Aja 'nira pe* la cauta , Ho da entrare pel buco 
delia porta. * 

(14) t* aja vaja, ti ho da bere. 

(15) cfùnia, quanto. 

(16) sceccat secca. 

(17) cone, cane. 

(18) arrajan arrabbio. 

(19) strupponCf accres. di sterpo; sterpone. 



Fàcemo a nasconne' e 'A mazza e pluzo 

(Giuochi fanoiullesohi) 

Al Direllore del 

« GiambaUi^a Basile ». 

I. 

Leggo nel N"* 6 del Giambattista Basile uno spiritoso 
articoieilo del sig. Francesco Festa su di un giuoco fan- 
ciullesco mollo in uso in Matera. L' A. crede che simile 
giuocheilo sia proprio dei materani, importato dalla Poli- 
nesia in tempi antichissimi, fra le tante usanze, costumi e 
tradizioni che i popoli d'oggi vanno ripetendo e fanno pro- 
prie. Ma non è compito mio indagare quali degU stranieri 
introdussero l' uso del giuoco che il Festa chiatna Tabù, 
\\t di attaccare polemica su questione di poco o niuna im- 
portanza. iNoto solo che il giuocare a rimpiattino è molto 
in uso andie in altre contrade dell Italia meridionale, mas- 
sime ne' paeselli della mia provincia. A Campobasso, per 
esempio , i bimbi lo fauno in tutte T ore e dicono : /a- 
cenio a nasconne' : uno di essi si mette pure con la fac- 
cia su di una sedia o contro il muro, senza servii si della 
benda, ma delle palme delle mani. Gli altri che corrono a 
nascondersi dove loro più aggrada non ripetono la voce 
Tabùi ma ognuno a sua volta pronunzia dal suo nascon- 
diglio, ad alta voce, Cucù^ quasi per beffare il fanciullo 
celato. 1 nostri bimbi però quando sfuggono dall'esser toc- 
cati dal compagno che dà la caccia e giungono a toccare 
la seggiola o il muro, gridano : a V assinga , che, letle- 
raliDcute, vuol dire, al segno, o, in senso più largo, sono 
al mio posto , libero ; e tu non puoi pigliarmi. Prima di 
cominciar la gara, vien designato anche lo spazio da per- 
correre nella corsa: chi lo oltrepassa, si dichiara vinto, e 
piglia il posto del cacciatore; e il giuoco continua fin quan- 
do i fanciulli sono stanchi. 

E giacché parlo di giuochi , non so se questo che an-- 
drò qui appresso a descrivere sia in uso soltanto a Garn- 
pobasso anche in altre contrade. Lo fanno pure i bimbi, 
in numero non più di due, e si chiama : 

IL 

Mazza e pìuzo. 

Comincia col solilo e indispensabile tocco ; il designalo 
piglia con sé un piccolo bastone ( 'a mazza ) e un altro 
pezzo di legno lungo mezzo palmo {'u pìuzo) e terminante 
in punta da ambo le estremità ; e adattando il secondo su 
d'una pietra in modo che una metà resti quasi in bilico, dà 
con la mazza un forte colpo sui pìuzo, 11 quale viene cosi 
spinto a certa distanza. Il compagno corre a raccoglierlo e 
mettendosi in quinta avanti , senza muovere uno dei piedi 
dal punto in cui è caduto il pìuzo, lo spinge sulla mazza, 
che il suo competitore ha situato lungo l'estremità laterale 
della pietra , di fronte all' altro. Se colpisce la mazza, il 
giuoco passa nelle mani del secondo; se no, il primo batte 
tre volle sul pìuzo, sbalzandolo, se sa ben fare, lungi dai- 
V assinga] poi misura quante volte entra il pìuzo fra il 
punto in cui questo si trova e 1' assinga e comincia da 
capo. Se il pìuzo non vien colpito la prima delle tre volte 
stabilite , o rimane molto vicino alla pietra , in modo da 
non guadagnare la lunghezza della mazza , ciò che vuot 
^Ire non far punti, il giuoco jpassa pure al compagno. Chi 



dei due raggiunge un numero di punti convenuti, vien por- 
tato 'ngaliune, ossia a cavalluccio dal vinto, per una di- 
stanza già antecedentemente stabilita. 

Campobasso, 17 giupo 1883. 

Dev.mo 
Enrico Melillo 



a ^ 



CUT E TABÙ 



(*) 



Nel Giambattista Basile, trovo un articoletto di Fran- 
cesco Testa intorno ad un giuoco fanciullesco , che non è 
materano né ravegnano ma di tutti i paesi. Quando si fa, 
e' si dice giocare a rimpiattino o a niseondere e in Ro- 
magna a cuta. 

In Romagna, il designate o i designali dalla sorte, quando 
il giuoco si fa in luogo vasto, sta o stanno fermi al posto 
fissato. E questo si dice sfar sotto. Gli altri compagni 
vanno a nascondersi, ove meglio credono; e, quando tutti 
sono nascosti, s'ode un suono, come di lontano, a cadenza 
monotona e prolungata, che dice Cut, 

Chi sta fermo al posto fissato, si mette allora in moto, 
cercando scavare i nascosti ed afferrarne almeno uno. Se 
vi riesce, gli afferrati vanno al posto fisso, gli altri a na- 
scondersi, e così il giuoco continua. 

Ora veniamo al Cut. 

— « Chud vocabolo ebraico. Lai. : enigma proponere. 
Qui enìm dicit Om^ enigma proponit: — « Indovina ove sono, 
dove sia ino. » — 

I fanciulli materani, mentre vanno a nascondersi, dicono 
e ripetono a voce alta, e con cadenza prolungata nel suono: 
Tabù, Tabù. 

— « Tabù vocabolo ebraico. Lai. fixus fuit Qui enim 
vocitat Tabù dicit: Firmus sis, Fixus esto, ne moveas loco.»— 
Come Ella vede , nelf uno e nell' altro caso, le parole di 
quelli, che vanno, sono rivolte al compagno o a' compagni, 
che sta o stanno sotto. 

La spiegazione di un buacciol di Romagna varrà mollo 
meno di quella del Festa ; ma da cosa nasce cosa , e chi 
sa che un giorno non si giunga ad imberciare il segno ? 

Proviamoci , 

Sarà quel che sarà. 

Di Bagnacavallo, il di 1 Luglio 1883. 

Cmo Massarou 



(*) Pubblichiamo, con piacere, questa arguta lettera di 
Ciro Massaroli. Dobbiamo, però, fare le nostre riserve su 
queste pretese etimologie ebraiche. Per affermare che un 
vocabolo italiano o di sdcun dialetto italiano vien dall'ebrai- 
co non basta la somiglianza accidentale dei suoni: bisogna 
dimostrare storicamente la filiazione. N. d. D. 



Canti del popolo di Fagognano 

(Continuazione, vedi N.^ 5) 

XXI. 

Parie (29) parte, che boglio partire 
Co' no vasciello che spacca lo mare ; 

• Quanno simmo a li pparte re Messina. 
Poggia, patrone, me voglio tornare 
Li marenare a dlcere se mèlteno : 
« Che t' he' scordato, che te vuò' tornare ? » 
— « M'aggio scoi'dato Rafaéle mio, 
« Tene H cchiave re 'sto core 'mmano ». 

XXU. 



Chi vo' li pisce, va a la marina ; 
Chi vo' li rrose, va a la montagna ; 
Chi vo' renare, va a d' 'o re de Spagi 



na; 



56 



i> ». 



Chi vo' bellizze, va a d o ninno mio. 
Renare no' ne lene 'o re de Spagna: 
Sule bellizze tene ninno mio I 

XXIII. 

Quanno la bella mia se va a 'nzagnare, 
'A fora caccia chillo janco pere ; 
Quanno se vere lo sangue cacciare, 
Subbelamente cagna re colore. 
Risse (30) « nenna tuia non dubitare, 
« Tu te nzagne la vena e i' lo core ». 

XXIV. 

Enne scomputo e ghiute e li bbenute, 
Enne scomputo li sische e li cchiammate. 
Enne scomputo li Facche re farina, 
Non se fauno le ppizze chid 'nfornate. 
E lene, 'o mare e lene, 
'0 vi' lànne (31) sotto 'o ponte mo (se né) vene (32), 

XXV. 

Egge (33) sapule, che la morte vene, 

Tulle li bbelle se li bo' pigliare ; 

Tu -che si' bella, mièitele 'mpensiere 

Tania bellizze a chi li buò' lassare ? 

<c Meglio li lassarrie allo terreno, 

« Che lassàrele a le, core re Ciine » 

Core re cane e bi', e core 'e arene ! 

Li guaie so' li luie si pierJ' a mene. 
^ Ga si tu pierd' a me tu pierd' assale, 

E i' si porgo a te non pergo nieule (34). 

XXVI. 

Tutte rlceno a me, cà i' so' nera : 
'A lena nera se sèmmina rano. 
Guardate a lo caròfeno eh' è niro, 
'A meglia signorina 'o porta 'mmano. 
'0 mare e hi' I e 'o core 'e arene ! 
Ciento n' abbannonaie p' amare a tene (35). 

XXVII. 

Va vallinne, mèrola re macchie, 
No' scereale chiù tanto sapone, 
Non sèreve che faie lo saghe e scinne 
Pe' le, non te fe luce 'sta lenterna (36). 

XXVIU. 

Fegliole, ratte vota a 'na vevata, (37) 
E co' 'na fonecella astrigne e bole. 
Te ha' fa' nera comme a 'na fornace ; 
'Sto sirùnmielo (38). pe* te roce' e non bota. 

XXIX. 

Blatte zitte, fegliola, eh' baie tuorlo. 
Non me rà' 'ccaseone (39) re parlare ; 
Vuie sem menale lama spine a Tuono, 
Vene no iuomo e te nce pognarraie. 
Tu le crire 'e IrasT rinto a so puorlo, 
Vaie re chiatto e te nce scassaraie. 

(Cont) Raccolse Luigi de Gennaro 



(29) Nel dialetto pagognaneso la vocale finale è muta in 
tutte le parole. 

(30) Risse y dissi. 

(31) Idnne^ là, in quel luogo, une desi nenza dialettale. 

(32) Cfr. MoLiNARo Del Chiaro , Canti del pop, nap, 
pag. 259. cant. 4r.8. 

(33) pergo, perdo. 

(34) Egge^ ho: bo\ vuole: Cfr. Molinaro Del Chiaro, 
Canti del pop, nap*, pag. 117, canto 14. 

(35) Terra nera. Nelle selve si fanno cunnuU di legna- 
me che vengon coverti di frasche e terreno; cosi preser- 
vati dal contatto atmosferico, si bruciano, diventano car- 
boni. La terra sottostante annerita riesce fertilissima, (per 
abbondanza di sali alcalini) onde vi si semina grano; per- 
chè la messe sìa più copiosa. 

Cfr. Molinaro Del Chiaro, Canti del pop, nap^t pagi- 
na 230, canto 373* 



(36) Merola re macchia, uccello di color nero; Zool. fa- 
miglia ael Paneracei : nidifica nei cespugli. Qui si para- 
gona la persona al color dell'uccello. 

(37) Veoala^ vivaia , arbusti che vegetano nelle selve ; 
per segnare i confini ira proprietà limitrofe. 

(38) A proposito dello, s/ràmmeZo, v§di T illustrazione nel 
Voi. I, cap. I, del DE Bourcard, Ust e costumi di Napoli 
e contorni descritti e dipinti, 

(39) 'ccaseone, occasione. 



ATTO VANNUCCI 

Necrologia 

L'insigne storico e lelleralo, l'egregio biblioiècario della 
Magliabecchiana , Atto Vannucci, non è più. Egli nacque 
a Tobbìana in quel di Pistoia , il ciorno uno dicembre 
1808, e mori in Firenze il 9 giugno 1883. 

Le dolle e svariale sue opere gli acquistarono fiima ed 
amici, fra i quali ci piace ricordare il Niccolini e il Giu- 
sti. Non è nosli-o compilo discorrere a lungo della vita e 
deir ingegno di lui ; ma ricordiamo solo che ^li fu solerle 
raccoglitore ed illustratore dei Proverbi latiniy pubblicali 
in ire volumi dairedilore A. Brigola di Milano. 

L. Molinaro Del Churo 



NOTIZIE 

Il nuovo Giornale storico della letteratura italiana^ che 
non ha molto ha comincialo le sue pubblicazioni in To- 
rino , editore il Loescher , nel fascicolo 29 fa un largo e 
lusinghiero riassunto dei primi tre numeri del nostro gior- 
nale. Crediamo imporlanie di riferire quanlo vi si dice a 
proposito dell'aiiicolo del prof. Rocco (N.** 2): « Notiamo 
il primo di questi canti popolari napoletani , che è una 
varietà del conti-asto fra lu madre e la figlia che vuol pi- 
gliar marito, cosi comune nella nostra poesia antica Cfr. 
per la letteratura dell' argomento Carducci , Cantilene e 
Dallato, p. 43; Bartoli , Storio, voi. li, p. 97; Ferr\ri, 
Biblioteca della lett* pop., p. 333 escgg. ; Casini, Un re* 
pertorio giullaresco del sec. xi\ ». 

Quanto poi alla lettera del dottor Ive , a proposito dei 
Poeti napoletani nella Nazionale di Parigi, vi si dice: 
a Dalta lettera del si^. Ive appare che il Libro di Fiora- 
frante, di cui, a proposito di una receiitt: pubblicazione del 
Raynaud, fu parlato nel nostro 1** fu^c., p. 150, è scritto, 
secondo lui, a in un dialetto del mezxodi dell'Italia ». Ciò 
non è esatto. 11 dialetto del cod Parig. ìt. 1647 è bensi 
misto, ma vi predomina su tutti gli altri il veneto. Il che 
si spiega, del resto, quando si pensi che il ms. fu finito 
di scrivere il 10 settembre 1467 « in la rocha de ponte 
Vigo », che è una terra suirOgiio, a poche miglia da Bre- 
scia. Né il Raynaud né l' Ive avvertirono che di quebto 
codice fu dato un lungo saggio dai Darmesteter , De 
Floooante vetusiiore gallico poemaie et de meromngo cyclo, 
Parigi, 1877, p. 174 190. » 



Postai economica* 

Abbiamo ricevuto il prezzo d* abbonamento 
dai signori: 

91. Nannarelli Comm, Fabio — Roma. 

92. De Luise Aoo. Nicola — Napoli. 

93. Colaprìsco Giuseppe — Napoli. 

94. Giordano Cae. Federico — Napoli. 

95. Avolio Prof. Corrado - Nott) {Sicilia), 

96. Teza Comm. Emilio — Pisa. 

97. Graf Prof, Arturo — Torini. 

98. Jaccahno Comm. Domenico — Napoli. 

99. Rinaldo Dott, Hfihler — Weimar {Germania), 

100. Lonzi Michele — Bagnoli Irpina. 

101. Di Martino Prof. Mattia — Noto (Sicilia) 



Gaetano Molinaro — Responsabile 

Tipi Fmtelli Carlucfio, Largo Cosfootinopoli, V 89. 



Amo I. 



Napoli, IS Agoslo 1883. 



NUM. 8. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ASBOITAUSITTO AHltUO 

Per rilalla L. 4— Ealer» L. •. 

Un aumero separato ceateslmt 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoBoritti noa si restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di re- 
■ideoie. 



SSC9 il 15 d'ogni mese 
l. HOLUfARO DEL CHrARO, Diretkra 

I, UHDlIitl, 1, SCBEEILLO, L, COBUU, 
B. AIULFI, T. DELU SILI, T. SUONCELU 

Ktdtttorl 



ATVE&TENZS 

Indirizzare vaglia, Imiterà e muosc ritti 
al Direttore Lnlfl Mvllaaru Ilei 
(Chiara. 

Si terrà parola delie opere riguardanti 
la lettoratitra popolare, che saranno 
mani!. Ile io dono, in doppio csem- 
piare, ulia Uìrezionei Calata Capodi- 
Èhino, 56. 



»MMAKlO: — La cacc>a al bufalo (G.'Gattinj) — A prO| esito di Atn.-c maccibra (G. Amalfi) - Riscontri alta fiaba 
rooigneae El Foùliso e 'I Padùcio (R. Kf.liler) — Canti popolari raccolti in Momigliano d" Arco (V. ImbriaNi ) — 
Canli del popolo di Casamicciola (L. Molinaro Del Chiaro)— Pubblicazioni in dialetto pervenuteci in dono — 
Notizie — Posta economica. 



LA CACCIA AL BUFALO IN SCAFATI 




Molli de' nostri paesi lian degli usi , die ra!;somiglÌano, 
per.avventiii'a , ad nlcuni speciali di allre nazioni; ma l»l- 
vòlla vi si trovano ingentiliti, e latalira mutati in vere pa- 
rodie. 'A questi nllimi si appartiene la cacda al bufalo , 
clic mi Tu data vedere pai'ecchi anni or sono io ScaTaii per 
genlile invilo del IJonle De la Ville. 

Kra il 28 otloiiie 18 . . e quantunque il mattino si 
annunziasse piovoso , pure all' ora stabilita si era in quel 
comune, posio stil Sanio, che corte al mare animando dei 
mulini, e ira l'altro quelli del suddclio mio amico; innanzi 
a' quali cvvi uno -spazzo, clie per non esser selcialo venia 
prescelto per la caccia in parola , imiiazione meii nobile 
della notissima (kl toro in Ispagna, — Ivi infatli scendono 
in mezzo all'arena, in ricco abiio tutto seta ed oro, de'valorosi 
matadores, gentiluomini dal loro sangue azzurro, i quali 
con la spada in mano toreando con galanteria alla piii vez- 
zosa, clic brilla fra le dame in qualche palclielio di quel 
bcnratto steccalo , soglton dedicare il colpo die sono per 



£ire. Qui nulla di ciò : una piazza serrala da un lato da 
rozze (avole, e dall'altro, da un;i infilata di carrelli, da es- 
sere al tempo istesso e ripari e palchetti, afTolIali dirò con 
Dante da 



similmente stiv.ite a tulle le finestre, a tulle le terrazze 
a luU' i letti delle case circostanti. 

Dietro quei parapetti, intanto, de'villanzoiii piii coraggiosi 
con ferretti in mano, ossia lunghi bastoni terminali da agu- 
iniuaia e ferrea punta erano sempi'C pronti, otide non vi si 
accostasse, a punzecchiar il bufalo, che, uscito da una stalla, 
destramente aperta, ora mugghiando, e sbiilTando, correva 
per la piazza, ora, scavando I' arena co' pie", andava furi- 
bondo con la cervice minacciando. Ad aizzar poi l'animale, 
in cambio della muleta , drappo bellissimo di scarlatto, 
serviva un muccaturo o moccichino di color rosso; Invece 



^s 



del picador , eh' è colui che corre più pericolo, vi si ve- 
deva una mezza botte , che portala attorno nella sfrenata 
corsa, a poco a poco, si sfasciava; ed in luogo Aé'cìurlos 
e bànderilleroSy o toreadori minori, e' era de' fuochi arli- 
iìziah, ossia 

• : . ccìie non sonano 

Dinf a le rrecchie — 

Son^o fetecchie. 
,Chille che ffanno quarche boUecella 

sia che sparano 

AbboccJie e abbacche 

So itricche-tracche » 
E cchille pò die ffanno fracasso — 

Senm spiegareve 

Lo cche e lo ccomme — 

Songo le bbomme (*) ! 

Da ultimo sostituiva il torero, ch'è il re della festa, un 
fantoccio della grandezza naturale, assicurato ad una corda, 
e quando il bufalo, caccialo da tulle parti da' ferretti, ve- 
niva a spuntar la rabbia contro di esso, correndo col capo 
basso investendo or con la fronte or con le corna, destra- 
mente tiratolo su, ogni colpo andava fallito. Era un nuovo 
supplizio di Tantalo : averlo innanzi , quasi raggiungerlo , 
e non poterlo toccarci Cosi agli sconci movimenti del fan- 
toccio, che faceva salti da disgradarne gli Arabi di Beni- 
Zoug-ZDug (ch'allor davano spettacolo in Napoli), al furore 
ognor crescente della bestia, ed air incalzar della pioggia, 
che venia giù a sprazzalc, la folla scoppiava in risa, in 
grida , in urli , ed in applausi. — La bestia alla perfine 
trafelata , lacera , insanguinata , cieca , zoppa, prostrata al 
suolo , che n' avea abbastanza da' cani , da' ferretti , dagli 
spari e via ; e per soprassello bagnala e brulla di fango, 
né buona ad altro eh' ad essere uccisa, fu tirala sovr' un 
carretto, e con lungo codazzo di monelli vocianti portata 
al macello e scannata , poiché dicono : La carne strapaz- 
zala addivien tenera ! 

Conte G. Gattini 



(*) Luigi Cassitto , Lo Sparatorio de lo Mandracchio , 
Napoli, Lombardi,* 18^2. Pag. 3. 



A PROPOSITO DI DANZE MACABRE 

Permettete , miei ipotetici lettori , eh' io, sta- 
volta, cominci con un presupposto. Presuppon- 
go, che vi ricordiate del cosiddetto Stambalone 
pubblicato da Luigi Correrà , nel terzo numero 
di questo giornale. Vedete, una tale supposizio- 
ne, fa tre cose buone: a voi risparmia il fasti- 
dio d'udirvi ripetere le stessissime cose ; al no- 
stro direttore fa scansare un bis in idem ed a 
me scema la noja di farvi delle inutili citazioni. 

Ed ora passiamo a qualche osservazioncella, 
che ho. in mente di presentarvi ; anzi comincio, 
trascrivendovi una variante di quei tali versi... 
la quale mi è riuscita raccogliere dalla viva 
voce d'una popolana analfabeta. 

'A morte e 'o cavaliere 

— Nu juorno jevo a spasso e' 'o (mio) valletto , 
Truvaje V ombra 'mmiezo de la via. 

Tanto era brutta che m'appauraje. 

— « r te scongiuro p' 'a pane de Dio, 
«E dimme chi tu sei into a 'su loco! » 

— « Songo la Morte che m' ha fallo Dio, 
« Nu' cunosco né amico ; né parienle ; 

« Songo venuto pe' me te pigliare! » 

— « r te dongo semllia ducale, 

4< Basta eh' à Corta mia nu' nce viene. » 



— « Doppo, che (me) daje setlemllia e tante, 
« Tu pure imo a 'sii mmane haje da venire >^ 

— <( r me faiTaggio fu' nu ciardinelto 
« 'E mura d' oro me larraggio fare, 

« Dai labardieri i' me farò guardare. » 

« Dimme (Morte) pe' quala via puoje entrare ? » 

— La Morte ride e li mostra li denti, 
Se fece smòrfia de lu suo parlare. 
Subbetamenie nu dolor, de testa, 
Poriàlelo a la casa prestamente,. 
Mannàlele ire^mièreche a cliiammare, 

Uno le risse : « Chesla è 'na (gran) tempesta ! » — 
'N alo risse: « Facltelo cunfessare ! 
'N alo risse: — « Dimane ne' è la festa ! » 
« 'Siu giovinetto se vo' suiterrare. » — 

— La Morte steva 6 scianco d' 'o suo letto, 
Senieva 'stu culle^io re parlare. 

« Tu jeri chiir ommo tanto valente, 
« Addò so' 'e prove, che vulive fare ? » — 
« La mano 'ramocca nu' la pozzo alzare ! 
« Tengo 'e piere e nu' pozzo cammenare; 
« Tengo la vocca e nu' pozzo parlare, 
« Tengo 1' uocchie e nu' li pozzo aprire; 
« Viènece, Morte, si nce vuò venire. » 

— « cavaliere, i' nu' nce corpo a niente 

(( Chisto è nu Dio che te manna a chiammare ! » 

La lezione, parmi , un po' migliore di quel- 
la . data dal nostro Correrà: chi la trascrisse 
nel codice, forse, non fece altro, se non racco- 
glierla, imperfettamente, dal popolo. L'indole di 
questi versi, l'intonazione è popolare e, non pare 
esatto ritenerli, come sembrò ad altri, fatti, solo, 
ad imitazione del popolo. Il concetto predomi- 
nante , — che la Morte vince tutto e che nulla 
può resisterle, — è un concetto antico e diffuso, 
modificato , più o meno , dal nuovo ambiente ; 
dalle nuove condizioni de' tempi. . 

Anche gli antichi pensavano alla Morte ; e 
ognuno nota la relazione de' versi surriferiti , 
con questi, che vanno sotto il nome di Anacreon- 
te (1), e che io mi permetto tradurre, in prosa, 
non senza chiedere scusa al lettore della pro- 
fanazione : 

« Se la ricchezza dell'oro prorogasse la vita ai 
mortali, lo custodirei gelosamente, affinchè, ve- 
nendo la Morte , ne prendesse e andasse via. 
Ma, se è impossibile a' mortali comprar la vita, 
a che sospiro invano ? Perchè movo lamenti ? 
So si deve morire, che mi giova l'oro? » 

È la serena e fredda rassegnazione ; ed ogni 
colto lettore ricorderà lo scheletrino d' argen- 
to (2), con gli articoli e le vertebre n;iobili, pre- 
sentato alla cena di Trimalcione, per indicar la 
vanità delle cose umane e che, presto, tutto passa 
e che bisogna divertirsi e godere il presente... 

Son pensieri consueti negli scrittori greci e 
latini ; e, per es., chi non rammemora de'versi 
mirabili d' Orazio ? Ma lasciamo questa facile 
erudizione! Mi basta accennare, che questa idea 
della Morte trionfatrice , che nulla rispetta , è 
un' idea vecchissima e che conta una storia. E, 
qui, permettetemi, che io faccia qualche riscon- 
tro con produzioni popolari , se non totalmente 
del popolo. 

Cominciamo. In primis V Istoria J del ca Va- 
lter I Turchino ec. Sulla prima pagina vi è de- 
signato uno scheletro, rappresentante la Morte. 
Ha la falce sulle spalle e dialogizza col cav. 
Turchino, il quale ha tutta l'aria d'un ipocrito 



59 



compunto. Seguon decersi molto mediocri, stam- 
pati assai scorrettamente, suppergiù come certe 
edizioni critiche d' oggigiorno ! 

È la Morte , che turba la pace del Cava- 
liere, col pretesto, di essere giunto il tempo di 
andarsene. 

— « Meni in ordine, e, tu, non più lardare, 

« Che abbiamo da fare un lungo cammino, 
« E l' ho da questo mondo da levare. » 

— Resta turbalo il cavalier Turchino : 

« Io son la Morte e porlo lo falcione ; 
i( E tronco da lontano e da vicino. » 

— « Morte, uscite dì senso e di ragione, 

« Vuoi che comandi a qualche mio servo ; 
« E li farò pigliare col bastone. 

— « Io son quel Cavalier uso air armata, 

« Ch' oggi possedo una donna assai bella ; 
« Son sette mesi, che me V ho sposata. » 

— « Io sono la Morie e non ho pain-a, 

« Ognuno appresso mi deve venire, 
<( Non serve contro me fare bravura. » 

— c( Senti, ch'io li vo'dire, o vecchierella, 

« Ya per la strada dove sei venuto, 
« Non mi portare a me tale novella. ».... 

La Morte, invece, risponde d'essere lì lì per 
tòrio di vita ; e gli lascia solo un po' di tempo 
per confessarsi. Invano, egli minaccia di pun- 
tarle una spada in gola ; invano le chiede 
pietà... 

«Morte, dammi di 'tempo quatU'O mesi, 
« Acciò la donna mia non sia turbala, 
« Ti vo' dare una salma di tornesi. » 

No! Essa non ha mai risparmiato alcuno: non 
Cardinali , non Imperatori , non gran signori. 
Non fu pietose con un Re, cho, di fresco, ave- 
va sposato una nobile Regina ; non con quanti 
son nati ; né con quanti nasceranno ; noi fu, 
neppure, col Salvatore del mondo. (Cfr. El Bal- 
lo DELLA Morte, pubblicato da Pietro Vigo) (3). 

Il Cavalier Turchino risponde , posseder dei 
palagi, in cui anela condurre, a diporto, la sposa 
essendovi d'està 

Alberi per goder della frescura, 

mentre gli augelli cantano soavemente. 

— « cavalier, mutar pensier procura , 

« Vi troverai, se tu cerchi e domandi, 
« Quello, che dice la Sacra Scrittura. » 

Chi muore in peccato, va all'inferno. .. e, qui, 
una descrizione di questo luogo. Il cavalier Tur- 
chino ripiglia : 

— « Morte, voglio portar l'argenteria 
« Con altri diecimila sacchi d'oro, 

c( Per farmi buone spese per la via. 
« Morte, vi stanno panni di valore, 
<( Per farmi ricamare atìche un vestilo, 
« Alla mia bella donna, di valore. 

mi voglio portare. .... 

« Quattro paja pur di carte ammazzate (4), 
« Per divertirmi con le altre genti. .... 
Così continua ; ma, la Morte lo rimprovera, 
sclamando : — ^< Povero pazzo ; non vedi , che 
(t sei dannato ? Pensa, piuttosto , a pentirti ! » 
Allora, ei confessa le sue peccata e muore, da 
buon cristiano. Si finisce con questi du* versi : 

Donato il Beniardo Cittadino, 
L' istoria fé' del cavalier Turcliino. 



Chi non s' avvede, che la posizione di questo 
Cavaliere, è, suppergiù, la stessa di quella della 
persona de* versi, riportati di sopita? 

Anche la forma scelta {il dialogo), non è ca- 
pricciosa, immotivata ; anzi logica, necessaria: 
si scorge il contrasto fra l'uomo e la Morte. 

Il concetto, come dicevamo, è comunissimo; 
e, ad esso, per es. , si rannoda anche quello 
del Contrasto | che fa un ignorante | sempli- 
cista I CON LA I Morte | credendosi , che (sic! ) 
con li suoi semplici medicamenti di non morir 
mai. 

Vi è, sulla prima pagina, la solita figura della 
Morte. Il semplicista pretende di vincere ogni 
morbo con la sola virtù delle erbe e di non 
aver paura, neppure, della Morte. 

* 

Mor, Chi è 'sto pazzo ignorante, poco accorto. 

Che non teme l'ombra del mio valore. 

Che dove passo, davanti le porle 

Tremano i polenti di terrore ? 

E questo vote vincere la Morte, 

Con l'erbe, e non conosce lo valore. 

Che Io ferisco in lesta, tanto forte, 

Che lo faccio morire di dolore. 
Semp, Di queste parole io non ho timore, 

Se mi spartisse la lesta per mezzo, 

Con unguento, capital di valore 

Con maire silvia, rosa, mirra e incenso 

Me la voglio sanare in sedici ore, 

A tuo dispetto romperli Io senso. 

La Morte lo minaccia ; ed e' mette, di nuovo, 
in mezzo i suoi rimedi. La Morte se ne beffa 
e continuano, così, per un pezzo, facendo, come 
suol dirsi» botta e risposta. La Morte, comun- 
que, vanta, sempre , la sua onnipotenza, e gli 
dice : 

Com' hai la lingua, fossi tu valente, 
Mi portarrisse appeso alla cintura ; 
Ma lo fiume che gridi, non fa niente, 
Tu troppo parli, hai 'na mala natura, 
Che ti servono l' erbe, sughi e unguenti, 
Con me, che non ti mori di paura ? 
Che, se ti mando un dolore di denti, 

Ti faccio dar la testa per le mura. 

• 

Anche Giacomo Marnili , uno dei nostri mo- 
derni verseggiatori in vernacolo, in un opusco- 
letto, uscito, appunto, in questi giorni, dice : 

Se fermaje chella vecchia fattucchìara , 
E guardanno pe' V aria : «*(]he vò dire 
Chella luce, scramaje, si bella e cai'a ? 

'Na voce allora disse: « Tant' ardire, 
Chi le dace, birbania ? Chi te face 
Dinto a 'sta casa torbeda a trasire? » 

Ed essa : « Vengo, pecche ccà me piace 
D'esercitare U'arte mia, spezzanno 
Chella vita 

Ma torniamo a bomba, come suol dirsi. 
Il semplicista continua le sue spavalderie ; 
e la Morte replica: 

Vih I ca troppo l' innalzi e t' incavalli 
Tu le ne pentirai 



lo ti mando un dolor dentro le spalle, 
Con passioni, colica di fianco. 

Così tirano oltre: e, finalmefite, la Morte di- 
ce : — « Vedremo, quando è l'ora, se sarai tale. 
« E si che questo è il momento più importante 
« della vita e, secondo il Montaigne: La mori 



6b 



« qui est sans doute la plus remarquahle action 
(c de la vie humaine. » 

Il semplicista sostiene, non aver paura, finché 
è in pace con Dio ; e , quindi , si lasciano da 
buoni annici. Qui la chiusa, conie si vede, è un 
po' diversa dalle ordinarie. 

Ed ora, si potrebbero istituire degli opportuni 
confronti col Contrastu di la Morti e lu Gnu- 
ranti di Iacopo Pittureri di cui discorre Giuseppe 
Pitrè nei suoi studi di Poes. Pop. (Palermo, 1872) 
pàg. 52 e 25G-9. La Morte lo sorprende in un 
bosco e lo costringe a confessarsi, avvertendo- 
lo, che bisogna, sempre, star pronto alla chia- 
mata, e lo minaccia, continuamente. Anche qui 
la chiusa è lieta e il povero ignorante, alla fine, 
mormora : 

; u , puvirellu, ceriu mi critlia 
)i gualchi modu la Moni accurdari , 
:)i tanti cosi chi ci promillia 
Non volsi roba né raancu dinari. 

E ristesso Pitrè ci avverte, che: a Alcune delle 
ultime ottave di questo contrasto hanno riscon- 
tro con un altro, nel quale l'ignorante si duole 
che la Morte gli abbia rapilo il padre. » 

a Altri contrasti, — egli continua, — fra Tigno- 
a rante e la Morte conosce il nostro popolo. In 
« uno di essi, che è fra gl'inediti , V ignorante 
si fa forte, con dire, che egli se ne impipa delle 
« malattie, della Morte, perchè quante malattie 
(( vi sono , tanti rimedi ( vide supra ! ) egli sa 
a trovare ; ma , al far de' conti , è costretto a 
« confessare , che contro la morte non ve n' è 

« uno.^ In un altro la Morte convince l'igno- 

« rante con dirgli, che nessuno s'è potuto sot- 
« trarre, finora, alla mano inesorabile di lei: e 
• qui fa la rassegna de' personaggi più celebri 
« del Vecchio e del Nuovo Testamento (p. 258,9)». 

E, a tutto questo, mi piace aggiungere un dia- 
logo anche fra la Morte e Z' ignorante , edito 
dallo stesso benemerito Pitrè (V. Canti pop. sic. 
Voi. II , pag. 423-5) La Morte si gloria , che 
tutto è soggetto ad essa e continua : 

Pi roianun ce' è furlini, pò ce' è porti , 
Trasu ogni banna, comu tu ben sai; 
Ogni citali, ed ogni cumminticuìu . 
Sugna prisenti a la disgrazia e priculu. 

Poi la MortCj richiesta, risponde, essere for- 
mata d'ombra, di vento, Di pena, di tirruri e di 
spàventu e che finisce il travaglio e l'affanno, 
solo, quando lu ^nteru munnu ad un mumeniu 
I Di sta vita lu passi alVautra vita 

Il Pitrè avverte, che, con Tistesso « titolo corre 
« un lunghissimo componimento, di cui una co- 
« pia esiste nella biblioteca comunale di Paler- 
« mo, ed è di quelli, che Pico Foriano, fiorenti- 
« no, traduceva in toscano e facea spacciare 
« anche per suoi ». 

E altri raffronti si potrebbero fare con qual- 
che conto riguardante la Morte ; e io , per es. 
prego il lettore di leggere il capitoletto della 
Morte in viaggio (Légendes Chrétiennes de la 
Basse Bretagne par F. M. Luzel, — Paris, 1881 
Tom. I, par. IV), dove vi sono anche parecchi 
riscontri. E , forse , anche alle danse macabre 
si rapporta, (se è esatto ciò che mi dice un amico; 
ma non oserei affermarlo, perchè non ho potuto 



vederlo), un orologio d'avorio, con ornamenti dì 
argento, del sec. XVI, posseduto dalla princi- 
pessa d'Angri e, riportato, imperfettamente, se- 
condo mi SF assevera, nel catalogo generale del- 
l' Esposizione \ delV Arte antica nap. | In Na- 
poli^ 1877, pag. 87, n.° 18. Mi sì dice esservì 
rappresentata la Morte, metà scheletro e metà, 
donna, armata di falce e in atto, di rapire dite 
'giovanotte. 

Potrei continuare; ma a che prò? S<>n pago 
d'aver provato essere comunissimo e diffuso il 
contrasto d'un vivente con la Morte. E, qui-, par- 
mi, d'aver accennato alla risoluzione d'una qui* 
stione. 

I versi, di cui, sopra, ho dato la variante, si 
collegano a questo concetto : e si rannodano « 
solo per l'idea generale, a ciò che rappresenta 
la lapide di S. Pietro Martire (5). Non credo 
perciò, accettabile l'opinione, ch'essi siano fatti, 
per ritrarre quelle figure: basta leggerli, atten- 
tamente, e paragonarli. È questa opinione ra- 
dicata nel volgo, l' ho udito dire anch' io; ma, 
certo, il popolo si è lasciato indurre in errore 
da una vaga e sommaria somiglianza dell'idea 
predominante. 

Io dicevo, basta paragonare i versi al mar- 
mo; e, a proposito di questa lapide , ora , vo- 
glio indugiarmi un pochino. Essa è interessante 
per più versi : ci dà l'esemplo d una iscrizione 
volgare, nel 1361; ìjì rappresenta una danza ma- 
cabra, eccetera, eccetera. 

Al presente, non si trova più presso la chiesa 
di S. Pietro Martire ; anzi , nel Museo di San 
Martino; ed ho dovuto durar fatica a saperlo, 
tanto è lo studio e la conoscenza delle cose 
nostre ! 

(Persone, che si ricordano di questo marmo, 
tolto, da poco tempo, da quel posto, mi raccon- 
tano, che, allora , volendo fare una burla a chi 
chiedeva quattrini, in prestito, si diceva: — «An- 
ce diamo da uno che ve li dà senza interesse ; 
« e, così, si conduceva innanzi alla figura, mo- 
a strando i danari, che uscivano dal sacchetto ». 
Più d'uno, in buonafede ci si lasciava condurre, e 
la cosa, ordinariamente, finiva con una risatina). 
Entrando nel chiostro, il marmo sì trova a sini- 
stra, attaccato al muro. Ha due figure principali. 
A destra di chi guarda, si vede, una persona, in 
piedi, con un sacchetto in mano, dalla cui bocca 
escono delle monete, che cadono sopra una spe- 
cie di POGGETTo o ARE. comc parve al de Ritis 
DESCO, come dice il Fusco. — A sinistra v'è uno 
scheletro, con due corone in testa, rappresentante 
la Morte. Tiene nella destra, un lorum o logoro o 
loiro, secondo il de Ritis, (6) che diventa un arco 
pel Sigismondi (7), e wn flagello pel Galante, e, 
nella sinistra, un uccello (falcone o sparviere, se- 
condo i più), non un anello, come dice il Vigo (7), 
il quale ne parla e riferisce le iscrizioni, imper- 
fettamente, quantunque ci asseveri d'averle fatte 
riscontrare a bella posta. 

La Morte calpesta tredici, {undici^ secondo il 
Celano), cadaveri di persone di qualche conto; 
vi sono vescovi, prelati, ec, secondo appare dalle 
insegne. Dalla bocca dell'uomo esce un cartello, 
con questa iscrizione: 

TVTO. TE VOIJO. DARE. SE ME LASI. SCAMPARE 



éi 



E dalla bocca della Morte un altro , con la 
seguente risposta : 

SE TV ME POTISSE. DARE. QVANTO. SE POTB. ADE- 
MANDAtlE. NO TE SCAMPARE. LA MORTE. SE TE VENE. 
LA SORTE 

Il Vigo , ( o chi per lui ), ha letto potissU do- 
mandare, lasi, ec: non poche iqesaltezze si tro- 
vano anche negli altri, che han riferito queste 
scritte. Le mutazioni son , sempre, arbitrarie , 
perchè, qui, non si tratta di correggere o modi- 
ficare; ma di riferire, fedelissimamente, ciò che 
sta scritto. 

Nella pietra di mezzo , a guisa di poggetto 
o di ara, si legge : 

EO so LA MORTE CHI GHACIO 

SOPERA. VOI JENTE. MVNEDANA 

LA MALATA È LA SANA 

DIE. NOTE LA PERGHÀCIO 

NO FVGIA NESVNO IN ETANA 

P. SCAMPARE DA LO MIO LACZIO 

CHE TVCTO Lo MVNDO ABRACZIO 

E TVCTA. LA GENTE VMANA. 

PER. CHE. NESSVNO. SE, CONFORTA 

MA. PRENDA. SPAVENTO. 

CHEO. PjER. COMANDAMENTO 

DE. PRENDERE. A CHI VEN. LA SORTE 

SI A VE. CASTIG AMENTO 

QVESTA. FEGVRA. DE. MORTE 

E PENSA VIE. DE. FARE. FORTE 

IN VIA. DE. SALVAMENTO 



di questa fatta, fino ad un certo punto, sa- 
i inutile ed alieno dairindole di questo gìor- 



Non riferisco tutte le varianti, perchè un la- 
voro 

rebbe _ ^ 

naie. Mi giova solo ricordare, che V iscrizioni, 
quantunque riportate inesattamente dal Celano, 
secondo osserva il Vigo, sono, sempre, meno 
inesatte di quello che non abbia fatto lui, dopo 
tanti anni, con la pretesa di correggerlo. 

Alla parte di sopra della lapide è scritto : 

MILLE. LAVDE. FACZIO. A DIO. PATRE. 

A destra poi di chi guarda: 

E A LA. SANTA. TRINITATE. CHE. DVE. VOLTE. 
ME. AVENO. SCAMPATO. E TVCTI. LI ATRI. FORO 

Il Vigo modifica alla, Trinitade, nCanno (sic!), 
tutti, gli, eccetera, eccetera. — Di sotto si legge: 

ANNEGATE. FRANCISCHINO FVI. DE. BRIGNALE 

Il Vigo modernizza : Ffanceschino, e travisa 
Brigncde in Frignale. Ma, neppure in questo, 
è originale, perchè, prima di lui, anche altri, 
erano cascati in quest'errore. 

Nulla, per ora, sappiamo di Franceschino; e, 
malamente, (come usa il de Ritis) si cita il Celano 
ed il Sumiiionte (9), i quali non fanno altro, se 
non lavorar di fantasia , sulle iscrizioni. Meno 
male pel buon Celano ; ma il Summonte , uno 
storico ! E si che ne era , storicamente , infor- 
mato , fino al punto da scambiare Brignale in 
Frignale ! 

Ma lasciamo questa roba! È importante notare, 
che il Vigo, riferendo Tiscrizione di mezzo, ri- 
porta MONDANA, invece di munedana; spovento; 



invece di spavento ; siane per sìave (^ siavi , 
Celano); de fare torto, invece, dì fare forte (co- 
me esattamente legge, pure, il buon canonico), sen- 
z' avvedersi il prof. Vigo, che secondo legge lui, 
la rima va perduta. 

Tralascio di notare altre piccole inesattezze, 
come de passato in del. Non nego, che il Celano , 
abbia anche lui, talvolta , modificata la gra- 
fìa; ma lo fece deliberatamente, secondo un siste- 
ma sbagliato, se volete, ma, pure, in voga, al 
suo tempo ; non ne faceva un mistero : ned 
aveva la pretesa della esatta riproduzione ! 

Del resto, nell'ediz. da me citata del Celano, 
(a differenza di quella del M.DCC.XCII), il Ghia- 
rini ci ha rimediato, riportandone, integralmente 
le iscrizioni, con alcuni schiarimenti, presi adlìte- 
ram , (come pare), dal I Voi. Di Napoli \'e \i 
luoghi celebri \ delle sue vicinanze (Napoli, 1845) 
pag. 345-6, lavoro pubblicato in occasione del 
VII Congresso degli Scenziati. ^ 

Finalmente, a sinistra, di chi guarda : 

feci. fare. QVESTA. MEMORIA. A LE. M.CCC.LXI. 
DE. LO MESE. DE. AGVSTO. XUII INDICCIONIS 

Il Vigo varia augusto, indictionis, e diminui- 
sce il quattordici d'una unità, facendolo tredici ! 

Il Canonico Andrea de Jorio, in appendice al 
suo libro : Guida j per le Catacombe \di \ S. 
Gennaro de* Foveri | Napoli \ Tip. del Vesuoio 
i839 I nella tavola VI, ha riprodotto, con suffi- 
ciente esattezza, questo marmo, e, nello stèsso 
anno, Giuseppe Fusco ne pubblicava V interpe- 
trazione in un opuscoletto intitolato : Dichia- 
rassioni] di \ alcune iscrizioni \ pertinenti \ alle 
catacombe \ di \ S. Gennaro dei Foveri \ con un 
appendice \ di altre iscrizioni a Miseno rinoe" 
nute I Napoli. \ Tip. di Raffaele Miranda, man- 
dando, pel restò, al lavoro del de Ritis che , a 
quanto pare, fu il primo che pubblicasse Tiscri- 
zione con maggior diligenza. Quantunque il 
Fusco, sia fra quelli, che l'abbiano meglio letta, 
pure non ha saputo causare alcune poche ine- 
sattezze. Per es., modifica, in qualche parte, la 
grafia, elegge so\o fugla dove si dice non fu- 
già. (10) E, qui, non voglio mancar di riferire an- 
che questa scritta , nello stesso carattere, che, 
anche ora, si legge nella faccia orizzontale che 
poggia sul basso-rilieifo, siccome ci riferiva pu- 
re il Fusco. 

HOC. OPVS. FIERI. FEciT. DOMINVS. lACOBVS. CA- 
PANVS. DE ROCCA CILEnTI. MILES. MAGNE REGIE CV- 
RIE. (11) 

magister. racionalis. ad ohonorem. dei. et 
ejvs matris. ac santi petri martiris. anno 
dni. m.ccc.xlvu. imd. xv. 

Al Museo di S. Martino la lapide e le scritte 
son comprese rotto i numeri 2497 e 2498. 

L'aver, quasi tutti, pubblicato, inesattatnente 
queste interessanti iscrizioni , mi ha spinto a 
ristamparla, secondo meglio, per me si poteva. 
Ora , potrei continuare a parlar, per un pezzo 
delle aanze macabre ; ma ho paura che il let- 
tore, si sia già seccato; e perciò, se non vi di- 
spiace, rimandiamo la cosa ad un'altra volta. 
Solo non so resistere alla tentazione di riferire 
un periodetto di Gian Alesio Abbatiitis, id est..i 
Giovan Battista Basile, in cui, pare, si dovesse 
alludere a qualche danza macabra. Egli dice ; 



62 



« Le masche erano cossi rezucate , che pareva 
la morte (12) de Sorr lento..., (Pent. Gìor. IV. 
Trat. II). E di questa morte de Sorriento si parla 
nel 20^ canto di Giugliano, dal signor Taglialatela 
pubblicato nel numero 5 di questo stesso giorna- 
le. Una volta questa Morte dovea esser molto 
nota, perchè se ne servivano come paragone; 
ma, al presente, se ne è perduta, (almeno così 
debbo supporre), ogni memoria, perchè, per quan- 
te ricerche io abbia fatto, non ho potuto saper, 
precisamente, di che si trattasse. Qualcuno mi 
ha -detto, come ipotesi, potersi alludere all'usan- 
za, divulgatiSsima in quelle parti; che, nel giorno 
dei morti, nella terra santa, si mettevano in mo- 
stra alcuni scheletri meglio conservati, tutti ve- 
stiti a nuovo; ma, francamente, non mi contenta, 
essendo questo un uso punto locale ; anzi dif- 
fuso nel napoletano. I più, interrogati da me al 
proposito, non mi hanno saputo dir nulla; anche 
quelli che, con amore, si occupano della storia 
sorrentina. Finisco con un voto. Possa altri es- 
sere più fortunato di me e darci la vera spiega- 
zione della Morte di Sorrento ! 

Gaetano Amalfi 



(1) V. Anacreontis Carmina curante C H. Weise. lÀp- 
8iae, 1828, p. U. Eig tòvttXoOtov. 

(2) V. Caput. X — T. Petronii Arbitri Satyricon. 

(3) V. p. 125-50 Le I Danze Macabre 1 in Italia I studi 
I di \. Pietro Vigo I Alunno della R. Scuola Normale Su' 

periore \ di Pisa || In Livorno \ coi tipi di Francesco Vigo, 
editore | 1878 | (In trentaduesimo, di pag. 150, più due bian- 
che e innum erate). 

(4) Quattro mazzi di carte da giuoco. 

(5) « Presso la porta, dalla parte dell* evangelo, vedesi 
« un curiosissimo marmo, che prima stava dentro di una 
« cappella , che, in detto luogo , stava eretta ecc ecc. » 
Cosi nelle: Notizie i del Bello, dell'Antico* e del Cu- 
rioso 1 Della Città di Napoli ' raccolte • dal Can.^ Carlo 
Celano I ec. ec. per cura 1 del cao^ Giovanni Battista Chia- 
rini \ Napoli, 1859 | . — Gior. IV. pag. 260 ec. 

(6) I metri arabi I memoria ' letta \ nelV Accmlemia Pon- 
ianianaW Napoli \ Nella Tip. Reale \ 1833 | (Fu letta dal- 
l' accademico residente Vincenzo de Ritis , nella tornata 
del 23 Agosto 1829). V. pag. 331-4 , più la tavola, iij. in 
cui si dà un disegno della lapide. Le iscrizioni furono an- 
che pubblicate nella prefazione del Vocab. Napoletano , 
(M.CCC.XLV) opera, dolorosamente, restata incompiuta, 
alla parola magnare. Curiosa è la ragione che egli trova 
per cui si sia adoperato tuto, invece di tucto o tutto; asse- 
vera derivare indubitatamente (sic !) dal poco spazio dei 
cartocci ! # 

(7) V. Sigismondo Descriz. della città di Napoli, ec tomo 
II, paK. 196. (Fratelli Terres, 1788.) 

(8) Ibid. p. 50. 

(9) V. Dell' Historia | della città e regno I di Napoli \ 
Giov. Antonio Summonte \ ec. ec. I In Napoli Vanno santo, 
M.DC.LXXV, I Tom. II, p. 443, ec. Vi si riportano an- 
che, imperfettamente, le iscrizioni. Esse erano state rife- 
rite anche prima nella Napoli Sacra di Z). Cesare D'En- 
genio (In Napoli, per Ottavio Beltrano, M.DCXXIV) pa- 
gina 455-6. • 

(10) V. Guida Sacra \ della città \ di Napoli I per 1 Gen- 
naro As Dreno Galante ec. • Napoli , 1873 pag. 316 7. 

( Pubblicò anche 1* iscrizione, con qualche sbaglio; basti 
notare V errore succitato, di fugia per no fngia ec.) 

(11) Riferisco le finali di c^ueste tre parole senza dittongo, 
secondo si usava allora, e si trovano anche nella iscrizione. 

(12) La Morte , alias la Zannuta e nera , secondo la 
chiama Giacomo Marulli, é rappresentata dalla figura di 
uno scheletro spolpato ; e , a questo proposito , ho udito 
dire, suppergiù: — a Essa è magra , perché mandata so- 
ie pra un alto monte a scavare, con un ago , un vermic- 
<f ciuohiccio, (essendole difficilissimo, tanto, cho non l' ha 
a ancora trovato), non si dette più carico di prendersi un 
« boccone , in guisa da farsi secca secca ». Altro che il 
dottor Tanner, di felice memoria ! La Morte, del resto suol 
chiamarsi la Secca per antonomasia ; ed ha , anche altri 
nomi , come questi : 'a Sen^a-naso , 'a Cummara ec. ec 



Riscontri alla fiaba rovlénese El Poùliso e 1 Padiioio 

In Nr. 5 hat Antonio Jve zu der von ihm miigerhe- 
ilien fiaha rovlgmse ElPoulisoe 'l Padùcio auf andere 
Màrchenhingewiesen, die jedoch fast sammllìch niir in der 
Form, nicht im Inhalt àhnlich sìnd. V^irkliche Parallelen der 
fiaba rovignese sind d'e fol^enden : 

D. G. Bernoni, Tradizioni popolari veneziane, pg. 81 . 

Antonio. Gianandrea, NovelUm e fiabe popolari mar- 
chigiane, N."* IL 

Vittorio Imbrtani, XII Conti poniiglianesi, pg. 244 ^N.** 
XI); 250 und 252 (varianti leccesi )\ 271 , (variante 
milanese). 

Gherardo NERrcci, CinreJJe da bamUni, N.^ Vili. 

Giovanni Papanti, Novelline livornesi, N.° IV. 

Giuseppe Pitrc^, Fiabe, novelle e racconti popolari si- 
ciliani, N.* CXXXIV. 

, F. Gaballero, Cantos , oracioìtes , adivinas y refror- 
nes poptilares ^ infanfiles, ppc. iì. 

Ein von F. Ma^^pons v Lahròs in der Barcelonaer Zeit- 
s(!hnft: Lo Gay Saber\ 1878, 15 lanuar, mitgetheiltes 
Marchen. 
Mdrchen. 

A. GoELHO, Contos populares portuguezes. N.® I. 

E CosQuiN , Contes populaires lorrains , N."* XVIIi 
und LXXIV. 

Milusine, Voi. I, ppj. 424 ( conte dii Pavs messin ). 

P. Sebillot, Contes populaires de la ffante-Bretagne, 

La lifterature orale de la Hanf^-Bretagne pae:. 232. 

F. G. VON Hahn, Gricchische und albanische Mdrchen 
N.^ 56. 

M. Kremnitz, Rumànische Mdrchen, N.** 15 (aus der 
rumànischen Sammhwg von F. M. Arsente ubersetzt). 

Brììder Grimm, Kinder und Bausmarchen, N.* 30. 

P. Chr. Asbjòrnsen, NorsJce Frelce-Eveatyr, ny Sani- 
ling, N.* 103. 

Alle diese Marchen sind nur verschìcken Versionen eines 
und desselben Miirchens, dessen Inhalt ist : ein Thier (Laus, 
Floh , Maus , Ratte , Hahn ) oder cine salsiccia oder ein 
ausserordentlich kleines Kind fiiìlt in einen Kochlopf (pen- 
tola) oder in einen Kessel (caldaja) und kòmmt darin um. 
Scine Frau oder Miitter oder Aellern oder sein Hanspe- 
nosse kla}2;t und weint dariìber, und verschìedene Imìebte 
und unbelebte Wissen und Geprenstande , z.B., Thiir, 
Fenster, Baum, Vo^el, Brunnen, Macrd, die davon Kunde 
erhalten, geben in eigenthiimlicher Weise ihr Mitgefùhl zu 
erkennen. 

Reinhold Kòiiler 



CANTI POPOLARI 

raccolti in Pomigliano d' Arco 

(Continuazione, vedi w.° 7) 

III. — <c Auciello, che biène d' 'a Francia, 
<( Rimme: L' ammore, comme ss' accumenza ? » 
— « Ss' accumenza, cu' suoni e cu' cante; 
« E sse finisce, cu' pene e truraenle. » — 

Auciello, uccello. Nunziante Pagano, nella Batracomioma- 
chia tradotta. 

Li deie e TOmmo e l'auciello pennuto 
Sanno de mmia streppegna le scogliette. 

Cu' suoni e cu* canti. Il distico di Fedro (Lib.iv. Fav. xxiv) 

Splendebat hilare poculis conmmum; 
Magno apparata lacta resonabat domu<; 

è parafrasato, cosi, da Carlo Mormile : 

No' boglio dire, mo* , che sse magnaie , 
Che porchette arrostute e che pollanche, 
Che lasagne, che sfuoglie ss' allopaje, 
La gente, che crepava pe* li scianche. 
Ognuno a mazzecà* sse 'raraortalaje. 
Le mascelle e li diente erano stanche ; 
E ghieva, sempe, attuorno lo trommone 
De vino, co* li cante e co* li suone. 



63 



Del resto , questo canto, come credo aver dimostrato, 
altrove, dev'essere avanzo d'una canzone, allusiva a quella 
buona lana di fra Girolamo Savonarola, che demagogheff- 
gió. in Firenze , come tutti sanno, verso la fine del Xv 
secolo. O, almeno, essendo più antico, fu adottato al ce- 
lebre impostore da Ferrara , cominciando , p. e. alcune 
varianti cosi : ^ ^ 

A Santo Marco nce fuje ninno mmio 
Vidde chiagnere tutte e susperare. 

Ed invece òeW uccello, che vicn di Franfia, interrogan- 
do visi un predicaéor che predica in Firenze, 

IV. — Auciello, che pizzica la fica, 
Sempe, nce tene 'o musso 'nzuccarato ! 
'Ccussì 'na nenna: quanno sse marila: 
Sempe, nce penza ò primrao 'nnammurato: 

Pizzica, vale tanto pizzicare, quanto (come qui) bez^ 
zicare, parlandosi d'uccelli. La fica, il fico, frutto. Dice 
Tarlarono a Fimpa, innamorata d'un' incognito, che, poi, 
SI scopre donna : 

Tu non canusce Taglio da la fico, 
Kita, chesta, che bidè, è comm' a tene. 
Ss* ammore vuosto non bà manco sale, 
Si 'no tierzo e 'no quarto no' nce vene. 
Senza lanza la tareca non vale. 
Vacca co' bacca maje sse vole bene; 
Si ca non ponno fa' luce la notte, 
Si doje lanterne n' hanno cannelotte. 

'O contrazione di a'o^ cioè a lo: alk). 

V. — Bella figliola 'ncopp'a 'sta fenesta, 
Chiunque passa li piecche mellite: 

Chi è zuoppo e chi è scancellalo ; 

Là piecche vuosle non 'e cuniscite. 

Vuje parile 'na campana scassata; • 

Manco lu battaglio vui lenite. 

* Ncoppa, sopra, e regge il dativo. Si narra della moglie 

del contrammiraglio C , la quale, giocando a tressette 

( in Ancona , dove il marito aveva un comando ) con 
alcuni ajutanti di esso marito, disse ad un tale: — a Scom- 
« metto, che avete l'asso di sopra » — « L'asso di sopra? 
« Non so, che vogliate dire. » — Alla fine, di fatti, l'ufficiale 
giocò l asso di coppe. — « Non ve l'avevo detto, che aveva- 
te « l'asso di sopra ?» — « Dì sopra ? io lo chiamo di cop- 
c( pa. » — « Oh come parlate male! I" buona lingua si dice 
<< sopra e non coppa » — Li pie echi me tute , trovate da 
biasinpare, da riprendere, in chiunque passa, gli affibbiate 
difetti e mende, pecche. * 

Scancellato, storpio. 

• VI. — « Bella vasinicò' rint' a 'sta testa ! 
« Mm' 'a vularria fa*, 'na fronn' a posta ! » — 
— « Non serve, ca mme sische, ca fora i' esco, 
« Ninnr, ca no' nce songh' 'a para vosla. 
« Para vosla non songhe, ossignoria, 
« Manco nce venarraggio 'ncasa vosta. » — 

Vasinicola, basilico, Ocijmum hasilicum, pianta aroma- 
tica, motto adoperata , e fresca e secca nella cucina na- 
poletana, solita a coltivarsi su' davanzali delle finestre e 
celebre per una cantilena popolare, conservataci dal Boc- 
caccio , Fa 'na fronna , Cogliere una fronda , .un ramu- 
scello. 

Sische, fischi, ossia chiami col fischio. 

VII. — Chesta è la chiazza de la mmia speranza, 
'I, notte e ghiuorno , semp' a vuje penzo. 
Mm' haje ferito 'slu core cu' 'na lanza, 
'Sta Nenna vegli' ammaro re putienza. 
Fino a la morte nce haggio la speranza, 
Doppo muorti nce dammo licienza. 

Cfr. canto IX, che incomincia: Ckisto è lu meo della si' 
curanza. La parola chiazza (piazza) significa, ne' dialetti 
napoletani, propriamente, mercato; e, per indicare la piazza 
Italiana, si dice largo, lario. Il che ignorando il Goelhe e 
dovendo, com'era uso, parlar di tutto, hascritto, nel suoViag- 
gio in Italia, indatadelvenzei Febbrajo M.DCC.LXXXVfl: 

— « Presso il gran Castello, ch'è vicino al mare» —intende 
Castelnuovo— « si stende un grande spazzo, il quale, seb- 
« ben circondato di case da' quattro Iati , non vien chia- 
« malo piazza, anzi largo, probabilmente, fin da' tempi an- 
« tichi, quando era un campo, non ristretto da fabbriche! » 

— Eppure, avrebbe dovuto riflettere, che tutte le piazze di 



Napoli, che non erano addette ad uso di mercato, si ad- 
dimandavan larghi. Ci avevamo, per esempio, il largo della 
Carità e la piazza della Carità. O il Goethe non era «in 
obbligo di conoscere il vernacolo napoli tanol Gnorsi: ma, 
non conoscendolo, poteva dispensarsi dal ricercare l'etimo- 
logie de' nomi delle strade di Napoli. Il Goethe sapeva 
molto male r.Italiano ; traduce denari assai per Geld gli 
nug (imbrogliandosi con Vassez francese) ed i percossi vale 
del Manzoni per geschlagene Thdler. 

Vili. — - Che t' haggio fallo lu boglio sapere ? 
Sènlere non mme può' cchiù annummenare ! 
r te so' stato 'n ammanie firele, 
Cu' romice te putivo cunfessare. 

Séntere^ sentire. 

IX. — Chisto è lu vico de la sicuranza, 
Chi manna pe' 'sta Nenna, che nce penza. 
Fino a la morte tengo la speranza : 
Doppo morto, ve donche licienza. 

Cfr. col canto VII, che incomincia: Chesta è la chiazza 
de la mmia speranza , del quale il presente può conside- 
rarsi come una variante. 

Vtco, Vicolo, chiasso. 

Mme 'mpizzo a 'na portella, eh' havea 1' escila 
A 'n auto vico. {Biagio Valentino). 

X. — - Cielo, quanl' è bella 'si' arrivata ! 
Comm' arrivalo avesse 'mparaviso. 
Comme arrivo, le mane ve vaso , 
Azzò ca mm' 'o facile nu pizzo a riso. 
Si nce arriva a veni' 'stu giovane 'ncasa, 
Mme pare 'o stennardiello r' 'o paraviso. 

*Nu pizzo a riso — <c dinota il sorriso, perchè, nel farlo, 
«e si aguzzano i labbri — 1> Cosi» il Galiam. Santillo Nova 
ha scritto : 

All'uso calavrese 'jastemmiaje 
Li muojrte ssuoje e chi 1' avea figliato; 
E, se be' sotta voce lo decotte, 
'No pizzo a riso ognuno sse facette. 

(Sporchda de lo bene V.) 

Come ognun vede la lezione di questo canto è molto 
guasta. E può , generalmente , considerarsi come monco 
o storpio ogni canto, che abbia meno di otto versi. 

XI. — Cielo, quanto so' belle 'sii doje sere! 
Una è luresca e 'n' àulra e 'laliana. 
Una lu porta, lu zuccaro 'mmocca; 
'N' àula porla li bellizzi 'romano. 
Una leva lu 'mpiso ra la forca, 
'N' àuta la justlzia fa Iremmare. 

Turesca, tedesca. 
*Taliana^ italiana. 
'Mmocca, in bocca. Dice Andrea Ferruccio. 

« 

'Mmocca a la gatta, comm' a sorecillo 

Jette, ne cchiù po' faro lo masardo {Agn. zeff. V,) 

*Mmimo, in mano. Dice Biagio Valentino, nella sua Vita: 

Ed arrivale a 'no puorto de Scozia. 
Nce vedde 'na valauza 'n equilibbrio 
E steva 'romano ad uno e parea couzuolo. 
Che avea 'na vesta longa senatoria, 
E co' 'no multo sotto che dicovace : 
Addò piace a mme la faccio scennere, 

'Mpiso, impiccato, Agnano Zeffonnalo, Canto II : 

Comme a chi\lo restaje, che sente nova 

Che lo poscraie deve essere 'mpiso, 

E 'ntra lo core già dolore prova. 

Fallose giallo e scoloruto 'nviso. 
Quel vicolo, che , ora , chiamasi ufiìcialmente * Nilo p 
chiamavasi, universalmente, quando io era fanciullo, hisi\ 
corruzione, appunto, di *mpisi. 

Ne Lo Vernacchio, Resposta a lo Dialetto Napoletano 
(opuscolo scritto contro all'opera del Galianij pnoblicata 
nel MDCCLXXIX) si legge: — o Le caròle noste so* la 
« tarantella; e nce sta 'na canzona, che sse canta da che 
<f lo munno è munno e accomenza accessi : Quant* abbai' 
a ìano bello sie doje sore* \ Una è tedesca e l* àutra è 'la- 
« liana 1 ecc. » — 



XII. — Cupinto, ca si' giudice r' ammore, 
Sciògliami nu rùbbio da 'siu core* 



64 




Voglio sdpè\ quaVè cchìù addolore, 
ÌJ ommo che parte o la ronna che resta ? 
• — (( L' ommo, nzocc' a do' va, ssi piglia 'usto, 
« La pòvera ronna scunzulata resta. » — 

CujdntOf Cupido. Vediloricordato, anche, nel Canto XLV, 
che iDcomincia. Qnanno nasciste tu, gentile ronna. Dicesi, 
più corrottamente, Cuccopinto, Quest* allusione-mitologica 
e pruova esuberante , il canto esser d' origine letteraria, 
per quanto abbia potuto popolarizzarsi , col volger degli 
anni e, forse, de* secoli. Spesso, a Cupinto; trovasi sosti- 
tuito un nome proprio, P. es. Tortilo (Salvatorello). 

Addoloro, dolore. Molti vocaboli, in Napoletano, pren- 
dono questa a iniziale. 

Nxocc* a do\ Nzo do\ dovunque. 

'Usto, gusto. 

{Conttmià) Vittorio Imbriam 

. CANTI DEL POPOLO DI CASAMICCIOLA 

Dopo il disastro , essendoci per affari di fa- 
miglia, recati alla sventurata isola, abbiamo rac- 
colti, dalla bocca di uno di quegli infelici, que- 
sti pochi canti. Sono come reco di quelle scia- 
gure ineffabili! 

Casamiccida, 31 luglio 1883. 

L. MoLiNARo Del Chiaro 

I. 

P me ne pano. Né, te lasso, addio, 
Tolte li fatte nrieie t' arraccumanno. 
Me parto cu' lulore, e lu ssacc' io, 
, Ca 'st' uocchie mieie nu gruosso chiauio fonoo. 
r quanno arrivo a 'stu paese mio, 
'Na lèttera te faccio e te U manne. 
Limo e' è scrino: — Sto prianno a Dio, 
Pe' fa' retuorno, ma nun zaccio quanno ! 

n. 

Me si' benuto 'n òlio raurtale. 
Manco lu nomme tuie pozzo sentire. 
Malato (e vurri' a lu spitale, 
Cu' 'na freva malegna e ghiettecia. 
E t' avarria lu mièlico urdinare, 
Lu sputo mio pe' te fa' guarire. 
Gient anne me starrìa senza sputare, 
'Nfl' che de pena te fs^rria murire. 

III. 

'Mmiezo a lu mare e' è nato nu sciore, 
'Mponia le spate lu siann' a ghiucare. 
Ce sta 'na cemmeiella de buon core, 
Viato chi pò 'sta nenna 'nnammurare. 
Marchise ce so' ghiut' e 'mperaiore, 
E nu mercante cu' li suole lenare. 
Mo ce iarria i', nu piscatore, 
Lu vinciarraggio cu' lu mio cantare. 

IV. 

Mo che me parto, arrevelerci, addio, 
Nun te scurdare de chi tanto t'amma. 
Nun te scurdare de lu nomme mio, 
Mo che la sciorta luntano me chiamma. 
Si nova vene d' àutro ammore mio, 
Nu' la crèlere, bella, eh' è nu 'nganno. 
Te lassarraggio schitlamente io, 
'Stu core spila terra, ancora V a 

V. 



amma. 



Passa lu bene mio, passa 1' ammore, 
Nu' me trummenta chiù la gelusia. 
Fanne quante ne vuò' contr' a 'stu core, 
Ca m' annammora chiù 'sta tirannia. 
Vene nu iuomo e sentarrai lelore, 
E te farrà piata chest' arma mia. 
Quanno a te, ninno, venarrà Y ammore, 
A me me venaìTà l' appucundria. 



VI. 



Sei'a velette la Furluna a mare, 
'Ncopp' a nu bellu scuoglio ca chiagneva. 
r le licette : — Furluna, chel' baie ? 
puramente chiagnisse pe' mene ? 
"Na lèttera teneva a chelli mmane, 
* chella lèttera accussl liceva: — 
Chi tene 'nnaramurate, tenga caro, 
Si no, 4' aitocc' a chiague' cumm' a mene ! 



»« - , 



Pnbblicauoni in dialetjto pervmuteoi w dono 

1. Il Dante popolare I o j la divina commedia \ in dialetto 
napolitano | per ) Domenico Jaccarino | col testo italiano 
a fronte ! e con | note, allegorie e dichiarazioni | scritte 
dallo stesso traduttore | in italiano e napolitano | setti- 
ma edizione | Fatta a cure e spese della Scuoia dante- 
sca napolitana | approvata da S. E. il Ministro della P. 
Istruzione Comm. doppino | (7 agosto 1867} | fascicolo se- 
condo I Napoli | Tipografìa del Dante popolare | Largo 
Avellino, 14 | 1883. Pag. 131-290. 

2. Vocabolario | del l dialetto napolitano | compilato ; da | 
Emmanuele Rocco | (Proprietà Letteraria) fascicolo 29 \ 
Napoli I Bernardino Ciao, Editore-librajo 1 1883. Pag. 145- 

304. 

3. A lo segnore j don Ciccio Cangiano | ommo addotto e 
vertoluso e paglietta co le cciappe | de chille de la ma- 
glia antica ) e appassionato pe ghi aunanno tutte T an- 
tecaglie ! paiesane l Alterezza de li Napolitaue v^dennolo 
fa le ffiche | a Gnolella | Napoli | da la stamparla de li 
fratelli Tornese | San Geronimo a Ji Monache | 1883. 
PafiCfiT. 7. 

4. A io* papà do li violiniste napolitano | don Sarvatore 
f^into I pe lo iuomo de lo nomróe sujo | (6 Austo 1883) l 
Vierze ae Giovanni Gagliardi | Recitate da lo scolariello 
de lo Collegio 1 de San Pietro a Majella | Alfredo Livi- 
gni I Napoli I Stab. Tip. di V. Posole e G. Rusconi j Via 
S. Sebastiano, 3 II 883. Pagg. 16. 

5. Roberto Guiscardi , lettera critica sul vocabolario del 
dialetto napoletano del Prof. Emmanuele Rocco. Pagg. 7. 

6. Raffaele Ragione 1 Sciure de passione I caute 1 Napoli j 
R. Stabilimento del Comm. G. De Angelis e Figlio | 
Portamedina alla Piguasecca, 44 j 1883. Pagg. 131. 



NOTIZIE 

Era già stampato il 7^ numero, (quando ci pervenne la 
seguente notizia , la quale rettifica quel cenni biografici 
da noi pubblicati del compianto Atto VannuccL Li ave- 
vamo attinti dal Dlsionario biografico del De Gubematis, 
non senza rincrescimento; e ci siamo accorti che era giu- 
stifìcatissimo I Purtroppo ci siamo dovuti convincere che 
il non credere a nessuno è una mrtù, anziché un msio! 

« Atto Vannucci nacque in S. Michele a Tobbiana, Co' 
mune del Montale, Provincia di Firenze, ai 30 dicembre 
del 1810, da Giuseppe , agrimensore , e Maria Domenica 
Bartoletti ». 

L. MoLiNARO Del Chiaro 

Nell'ilrc/w'oeo storico per le promnce (sic) napoletane (au* 
no Vili, fascicolo II), il dotto istoriografo, Sopraintendente 
del Grande Archivio, ha pubblicato uno studio 5a//a poe- 
sia popolare in Napoli, importante specialmente per quanto 
riguarda i poeti popolari della nostra città, di cui ci hanno 
lasciato ricordo i cronisti e gli scrittori in vernacolo. 



Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

102. Capezzoli Prof. Raffaele — Napoli. 

103. Picchia Prof. Giovanni — Torino. 

104. Tancredi Gaetano — Torino. 

105. Caridei Gaetano — Napoli. 

Gaetano Holinaro — Responsabile 

Tipi Carlocfio, De Biasio k G. — Largo Cosbuiliiiopoli , N."" 89. 



ANNO I. 



Napoli, 15 Settembre 1883. 



NUM. 9. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBOHilOKTO ANNUO 



Per l'Italia L. 4 — Estera L. •• 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esoe il 16 d'ogni mese 

L MOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

I. lANDALARI , I. 8GHSBILL0 , L. CORRERÀ , 
6. AIALn, ¥• DKLU SALA, V. SUOICELU 

Redattori 



A7VEBTENZB 



Indirizzare vaglia, lettere o maaoscritti 
al Direttore liiilffl Moltiiaro Del 
Chiare. 

Si terrà paróla delie opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



ffOHHABlO t — Sulla poesia popolare savoiarda. Lettere 
(I. fìiLLò) — Proverbii trimembri napoletani (B. Croce) 

— Mazza e piuzo (C. Massaroli) — 'A fattura (L. CJor- 
rbra) — 'A Morte *e Surriento (G. Ganzano) — Canti po- 
polari raccolti in Pomigliano d' Arco (V. Imbriani) — 
Pubblicazioni in dialetto pervenuteci in dono — Notizie 

— Posta economica. 

Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



Sulla poesia popolare savojarda 



(Continuai, cedi n, 6 e 7) 

IV. 

Difalti, Chiarissimo signore, accade, in qualclie provincia 
della Savoja ( Ce rocker aride — secondo Y ora duca di 
Persigny — fu diviso, da Carlo Magno lui stesso, in selle 
Provincie , mirabilmente osservale le spartizioni naturali ) 
che si dia al eh francese (scé) un'articolazione^ che di molto 
ne ravvicina la pronunzia tra quella del th inglese e del 
dei Greci. Forse, quella lieve aspirazione cosi esisteva, 
nei primordi dello attuale francese. 

Ho senliio, una volta soltanto, cantare la Lodóletta. Ero 
in Savoja e chi la cantava V avea fallo precedere da una 
specie di ranz des vaches (rana = rancio ?) quasi, quasi 
alla stessa foggia, ma del quale non ho serbato in mente 
altrb fuor che questo frammento piccino : 

L« s5nXltr« Le vacche dal tinti nnabolo 

YiJn le pr^^mtr^, Vanno prime 
LS I5le nterg Le tutte negre (niere per mire (nere), 
V^n 15 d«^rfr«. le ultime (/e5 dernières); in Piemontese 

trovasi dare (dietro, da retro). 

Si appoggia alquantasculamente suir e finale) che si 
accosta così un •tantino air e desinente in Italiano.) e mol- 
tissimo suir !, che è talmente acuto da ferir 1 orecchio 
d' un estraneo sugli alpestri pendii echeggiane d' iìi lun- 
ghi, lungamente. 

Ma, bando alle digressioni. Gli è tempo, ch'io le trascri- 
va questa singolarissima canzoncina della Lodóletta, 

— La beiréluetta maiin s'est leva 

[lodóletta) (alzata) . 

Matin s'è... martlartri, lon, lon, là màrilalà 
Matin s'est leva. 

— Su 'na brandouliva s'est alla posa 

(contrazione di branthe (branca^ branche) e diouliva)- 

Alla posa {andata a posare) 

S'est alla.... marilarìri ecc. ut supra. 
S'est alla posa. 



— La branthe fu sella, Teigeó (1) Test tomba 

(ramo) (asciutto,) (Vaugel è caduto) 

L'eigeó rè... mari, ecc. ecc. 
L'eigeó l'est tomba 

— Oèseau, bel eigeft fes tou ben fé ma 

(uccello) (helVugeUin) (ti sei tu) (fatto male) 

T'es tou ben... mart, ecc. ecc. 
Tes tou ben fé ma, 

— De m'si rontù Tàla, d'ai le cou dénouà 

(io mi son) rotto l'ala, io ho il collo snodato) 

D'ai le cou... mart ecc. ecc. 

D'ai le cou dénouà. 

(pron: denudj rapidamente) 

Quei marìlaririy lon, lon, là marilalà, secondo alcuni, 
sarebbero onomatopee prive di significato , se non se per 
rappresentare il canto della Lodóletta (2). Può darsi molto 
ragionevolmente. Però, mi rimane qualche cosa da osser- 
vare, su questo proposito. 

Rifletto, che 1 origine di questa canzonetta, vecchia oltre 
ogni dire, non è savojana; e che, eziandio, una parola im- 
portantisssima in questa canzone , cioè il vocabolo bran- 
douliva, ci obbliga di riputarla oriunda d'Italia e di Pro- 
venza. 

Siamo dunque autorizzati a cercare in Italia , per stare 
vicini, e nell'etimologia italiana il senso di quelle onoma- 
topee, incomprensibili in Savoja, od almeno incomprensive 
oggi. Se troviamo nei vocaboli italiani un senso naturale a 
quei marilarìri, diremo, che il paese, dove questi vocaboli 
esistono, può essere tenuto pel paese d'origine di tal ritor- 
nello e pertanto di tutta la canzoncina stessa. 

Ora, se non abbiamo più marrire nella lingua italiana, 
vi resta in uso grandissimo tuttora il verbo smarrire. Il 
suo senso è errare. Da tal senso, proviamo di dedurre (Ve- 
rulamico modo) l'opposto andare dritto; perchè, se esiste 
smarrire, per legge etimologica, vi dovea essere una volta, 
in italiano, un verbo marrire; e questo, differendo da smar- 
rire per la MietSi privativa /S- soltanto, dovea differirne 
pure , relativamente al senso , pel dovizioso contrasto. In 
quanto al lari , è un vocabolo significante monte e più 
precisamente il punto di separazione delle acque. Indi, mi 
arbitrerei ad interpretare cosi quegli onomatopei : 

mari lariri lon, lon; 
attribuendo loro il significato di 

pattila in alto (o verso : monti) lungi, lungi... 

Il che è proprio del volo ascendente della lodóletta. Che 
vi piaccia ! Comunque, vel do alla Montaigne, Non cam- 
me bon, mais camme mien. Se poi ho smarrito il filo qui, 
non importa. 

Come la satira fu appo i Romani, secondo l'osservazione 
di V. S., un genere di poesìe direste nazionale , fu anche 
indigena in Savoja. I savojani, gente presso cui la mente 
giudiziosa acumina Io spirito, tennero sempre la satira sve- 
glia sotto tutte le forme. Fra allre poesie di tale genere, 
le accenno, con raccomandazione di fare il possibile per 
procurarsela, una assai recente satirica odissea di girova* 



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ghi mercatanti , ove spiccano tutte le ricchezze forse dei 

Jnoderno Savojano, tutti i proverbi! forse di quest idioma. 
!: davvero che mi rincresce di non essere in grado da po- 
ter nulla citarne , non avendo quelle satire né nella mia 
memoria, né possedendone veruna copia. 

Trovasi in quel di Rumilly, eletto paese di Savoja, «m 
medico di campagna , poeta di lingua Savojana , il quale 
sarebbe ovunque onorato quale raro e brillante ingegno, se 
le sue poesie di lingua viva fossero stamoate. Mi duole di 
non potermi ricordare , nella sua integrità , di una can- 
zone di lui, la quale ha alcunché d*epico ei ha tratto ad 
una innocente rivalità di campanile fra le due eccellenti borh 
nes villes d'Annecy e di Rumilly. Non monta. Mi proverò 
a trascrivere dalla memoria questi couplets della famo- 
sissima canzone dei Vairons. Essa fu pubblicata, or saran- 
no venti e più anni, in una Rivista di Grazianopoli , che 
intitolavasi idXi' Allobroge, 

Yon qu'u Tordre de né pa busi (bouger) 

Un ch'ebbe non muoì>ersi 

Quant i le mettro de sanlinella, 

essi lo mettessero 

Dsivé a soa mare de le moschi ; (moucJ^) 

diceva madre di pulirgli il naso 

Pruva qu'al étai garda fidella. 

Prova ch*egU era 

Yon d' Eunissi n* u pa fé sé... (Obbliato il rimanente) 

Annecy non avrebbe fatto questo 

De dzor der pont de la Gordy, 

Dal dissopra del ponte 

Tot le nay no vjivo de rénòllye 

Tutte nota noi vedevamo ranocchi 

Qu' aliavo pe dye' n'tro corti 

andavano per dentro nostri cortili 

Gàtà lo por. Io tib, le fóllye: 

Guastare i porri cavoli foglie 

Avoé de bàton forra pé lo bet 

Con ferrati punta . 

Nos ein be' tua quele craplote: 

abbiamo bene ammassate quelle (pron. qle) rospotle 

Se r poé d'Eunssi se troviss' itie 

Se porco trovasse qui (hicce) 

Ren qu' avoé le grué le médgìsse tote. 

Soltanto (rien) col muso (groin) mangiava tutte 

U capiténo de lou Vairon, 

Al capitano de li 

Qlle vorrei passa magra la garda, 

voleva mxUgrado • 

Dsive deinss' on tsaquin luron 

Diceva cosi un (quidam) temi nulla 

Que vjiye arma d' on' alabarda : 

vegliava 

Se t' avansse de t' accrosso, t' amnio ; 

Vavanxi io V imbrocco ti traggo a me 

S' t' arcui d' tè cliontr' a la moraille, 

se rinculi io V inchiodo al muro 

E se té rest' itiet d' té médgio 

tu resti qui io ti mangio 

Cene v'tron poé a méd^a n'tra possnaìlle. 

Come il vostro porco ha m^mgiato la nostra carota 

Osserviamo se^ per sen (questo), dyè per dyen (dentro) 
e le' per ben ed m questo vocabolo la stessa soppressione 
di n che avviene a Firenze. 

Poe é da pronunziarsi puèhè , come quando certi insu- 
lari dell'Oceania, volendo tradurre in canti e gesti i costu- 
mi e fatti del porco, dicono: Facciamo un comumus poti- 
haihay la festa comica del porco. 

Faenze, addi 2 ottobre, 1867. 

Suo dev.mo servo 

(continua) Ignazio Bmò 

t , ■ 

(1) Si pronunzii t éjó , col j francese. Come i Toscani, 
press'a poco, pronunzierebbero, se fosse scritto egiò, 

(2) Sallustio Du Bartas, volendo rappresentare il canto 
della lodola» scrisse i quattro famosi versi onomatopeici: 

La gentille alouette cri e son tire-lire • 
Tire-lire d lire et tire tire en lire^ 
Vers la voute du ciel; puis, son voi vers ce lieu 
Yire et desire dire: Adieu Dieu^ adieu Dieu/ 






i 



PROTERBII MHEMBRI MPOLETÀlil 

Da un zibaldone manoscritto , nel quale un 
tal Luca Auriemma trascrisse numerosi pro- 
verbii e modi proverbiali italiani, latini e napo* 
letani, ricavo la presente raccoltina di proverbii, 
non inutili forse ad un futuro raccoglitore. Sono 
curiosi per più rispetti , e, fra 1' altro , perchè 
hanno il carattere comune di contenere, non già 
ciascun proverbio un' idea, ma ciascuno tre idee 
che vanno a braccetto e s' incontrano poi in 
una sola. 

Benedetto Croce 

1. Né ameclzia reconciliata , né menestra scarfata , né 

vaiassa retornata. 

2. Ixwa : mano spisso, piede a raro, capo maie. 

3. Pane de nu iuorno, farina de nu mese, vino de 'n anno. 

4. Primmo penza a te, po' a li tuoie, po' a chi puoie. 

5. Tanto lampa affi che trona; tanto trona affi che chiove; 

tanto chiove affi che schiove. 

6. Né pane senza pena, né carne senz'uosso, né vino senza 

feccia. 

7. Lo viento non trase addò non ne pò ascire; lo sospetto 

addò trase 'na vota, non esce cchiù ; Tenore da dove 
esce 'na vota non nce trase cchiù. 

8. L' àseno é buono vivo e non muorto; lo puorco é buono 

muorto e non vivo ; lo voie é buono vivo e muorto. 

9. Né fèmmena senza piecco, né cavallo senza mi^co, né 

puorco senza sterco. 

10. Non dlcere quanto saie ; non fare quanto puoie ; non te 

magna' quant' baie. 

11. Né nozze senza canto, né muorto senza pianto, né vi- 

gilia senza santo. 

12. L'uoglio de coppa, lo vino de miezo, lo mele de funno. 

13. Ghi non cammina, non vede; chi non vede, non sape; 

chi non sape é 'n àseno. 

14. Da tre arràsate : da mònaco ammantato ; da Giudeo 

accusato, da soldato affamato. 

15. AJranno smorto Tuorto ; a lo stuorto stuorto, la capra 

e r uorto ; alT anno stuorto, e restuorto stuorto, la 
capra, T uorto e '1 puorco. 

16. Ghi ama la maretata, la vita soia la tene prestata; chi 

ama la donzella, la vita soia la mena m pena; chi 
ama la védova, la vita la tene sicura. 

17. De la gallina é meglio la nera ; de la pàpara la par- 

diglia ; de la fèmmena la piccola. 

18. Tre centenara so' stimate : 100 miglia lontano da pa- 

riente, 100 anno de salute, 100 mllia docate. 

19. Tre cose a li viecchie fanno guerra : catarro , caduta, 

cacarella. 

20. Tre F. cacciano Tommo dalla casa: fummo, fleto, fèm- 

mena marvasa. 

21. Tre P. so' patrone de lo munno : pazze , presentuse , 

pressarule. 

22. Tre &cce tene lo miédeco: d'ommo, quando abbesogna : 

d' àgnolo, quando no' e' é necessetate ; de demmò- 
nio, quando è fernuta la malattia. 

23. Tre cose de Tària de Massa ; li malate fa sane, li dotte 

'ngnorante, bricche pòvere. 

24. Tre cose non seponno annascònnere : Le fusa int' a no 

sacco; le fèmmene 'nchiuse a la casa ; la paglia into 
a le scarpe. 

25. Tre cose mancano e tre créscono a li viecchie. Manca 

la forza , e cresce la volontà. Manca Y appetito , e 
cresce la sete. Manca cripriano e cresce la guàllara. 

26. Ti*e cose non se devono 'mprestare : libbre , mogUere, 

danarCi 

27. Tre cose mantene V amico : 'na vette de vino, no cap- 

piello, no quinterno de carta da scrìvere V anno. 

28. Tre cose stanno male a lo munno: Aucielle 'mmano a 

peccerille, becchiere 'mmano a Todische, zite 'mmano 
a viecchie. 



f 



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29. Tre cose abbesògnano a chi stace a Nàpole: vrubcco- 

le, zuòccole, tràpole. 

30. Tre cose conzumano ogni luoco : fuoco , iuoco, cuoco. 

31. Tre se mantene 'na Bagascia, corrive, belle giuvene, 

smargiasse. 

32. Tre cose de lo sbirro: abbislare, seguitare, acciappare. 

33. Tre cose de no roffiano : gran chiàcchiare, gran core, 

poco vregogna. 

34. Tre cose deve foire la fénomena : denaro, vino, feneste. 

35. Tre cose chi n' ave assaie ne b. sca&ccio : de denaro, 

sanciate, lebertate. 

36. Tre so' li lenguagge de li muònace: damme^ vamme^ 

famme. 

37. Tre cose abbesogna sbriga' sùbbeto: fiche ammatur^, 

pesce muorto, e zetelle de marilo. 

38. Tre so' frale carnale: avesse^ vorria^ macaro. 

39. Tre so' le cose de gran soddisfazione : vóvere, magnare, 

cacare. 

40. Tre cose ha d' ave' 'na zetella de marilo : musso de 

porciello, arecchie d'aseniello, ventre de pecoriello. 

41. Tre cose stanno sempe 'nguerra: maro de fora e viento 

de terra ; vescuolto e lemmoncella ; no viecchio e 'na 
zetella. 

42. Tre cose fanno sta' l' ommo 'nguàrdia: vigna a lo prùb- 

beco , casliello a le frontere ; 'na bella mogliera. 

43. Tre cose de 'na bella mònaca : paraviso dell' nocchie, 

porgatorio de la vorza ; 'nfierno dell' ànema. 

44. Dio te guardo da coscienza de treòloche , da dejuno 

de cuoche, da irreverenza de sagrestane. 

45. Tre cose noe vonno a peccerille : mazze, zizze, carizze. 



MAZZA E PIUZO (•) 

Quel giocare a Mazza e PìuzOy di che discorre il Me- 
lino nel numero 7 di questo giornale, mi fa sciorre da capo 
lo scilinguagnolo, e dire le mie sillabe come un Tullio. A 
Campobasso lo chiaman così, ma è giuoco comune in altre 
contrade ; e a Firenze è fare o giocare ad avS buse , a 
Milano a la velia, a Venezia a mazza e ^ndolo^ a Faenza 
a e giarén , e appresso a' buoni alla Itppa ; onde 11 co- 
mun proverbio faentino Va a giocare atta lippa, quando 
uno è cattivo giocatore a carte , a scacchi , a dadi , e via 
dicendo , o non riesce in cosa alla quale si era dato con 
certa presunzione ; e l'altro di raro uso ValF a dire a quei 
che giocano alla Iwpa, adoperato dal piacevolissimo Ca- 
porali nella Vita 6u Mecenate : 

Gli disse : Io vo\ che rinunzi una trippa: 
Chi ti ha messo in maVora in questo trotto ? 
Va a dirlo a quei, che giocano alla Lippa. 

Né il giuoco , come vedesi , è nuovo. Quel maltacchion 
letterato che fu Tomaso Garzoni , nel discorso sessantesi- 
monono della sua Piazza Universale che, com'è vero la 
morte santa ! è la prima opera di enciclopedia stampata in 
Europa , discorrendo De' Giocatori in universale et in 
particolare, dice cosi : I nostri moderni giuochi si divi- 
dono in giughi fanciulleschi, et in giuochi* da huomini. 
I giuochi da fanciullo sono giocare alla polvere , alle 
girelle , al castelletto, alla fossetta, al ptrlo, al girlo, 
alla schiba, alla lippa, al pàndolo, alla capra, cu pai 
di Roma, a Cicerlanda, a tiralunga, al melone, alla 
facca, alla sémola, alla huschetta, apisso e passo, alle 
scondaruole , alla gatta cieca , a primo e secondo , al 
tocco , alla corregiu/ola , al pari e dìspari , alla pisa , 
alle comari , al gioco della scona , al hai rotondo , a 
buon compagno son sta' ferito, alU scudelle, alla galea, 
et simili. Quei da grandi e' han pur del fanciullesco in 
parte , usati nelle veglie , sono ti giocare alla civetta , 
alla scarpaccia, al bai delle botte , al ballo tofido, al 
becco mai guardato , alla rana , far le proposte , dar 
luogo al compagno, a tre cappon M. V Abbate, alla mia 
pàssera è nel miglio, a commandella, ai Re, alla Ti- 
sbina, a tigner chi falla^ et altri tali. 



£ dacché sono in vena di spettegolare , mi si lasci , di 
grazia, scudellar gìb anche questa. In quanto al mio giu- 
dizio, il giiloco della lippa usava nell'uno; imperocché, co- 
me sopra ho detto , i fanciulli faentini dicono gia^'én , e 
questo é da ghiaia, e vale ghiarotto o ghiaiòltolo; a quellst 
guisa che giaréna in lingua loro è ghiaiuzza, e appresso 
i buoni ghtarone è grosso sassuol di ghiaia. Nel Torrac- 
chion desolato si trova : 

E prese agV inimici a da/r risposta 
Con sassi, e con ghiaron di questa posta. 

Al tempo dunque che passarono i Mori fu la lippa di 
sasso, siccome quella che natura pose prima sott' occhi; e 
questo é quanto. 

Ripiglio fiato, e continuo. Pi'ego il lettore che non m'in- 
segni la creanza colla granata, die quello non è il balsa- 
mo della Maddalena ; del resto , se ne stiantano di cosi 
grosse a questi tempucciacci scuri, che una la potrò sbal- 
lare anch' io. Antonio Morri che fu da Faenza , nel suo 
Manuale domestico edito in Persicelo il 1863, alla voce 
giarén dice che, Zughér a e giarén è il medesimo che 
Fa/re o giocare alla lippa, ad ave buse, o a mazzascu- 
do. Ma Giovan Cervoni da Colle; nella sua Descrizione 
delle pompe e feste fatte nella nobile città di Pisa , 
nella venuta della serenissima Madama CrisUema de 
V Oreno Gran Duchessa di Toscana , scrive cosi : La 
battaglia del Ponte di Pisa è un giuoco antichissimo, 
il quale... ebbe principio sin al tempo d' Elio Adriano 
imperatore... il quale , venendo e fermandosi in Pisa , 
dicono che ordinò questo giuoco, che poi fu detto il CHuo* 
co di Mazzascudo : e questo si diceva cosi , perchè si 
combatteva con una mazza e con uno scudo. Ora , se 
Giovanni ha ragione, Antonio ha preso un granchio senza 
andare a marina. Dico bene? 

E qui metto tanto di spranga alla bottega , e spengo il 
lume. Era tempo! 

Di Bagnacavallo, 10 Agosto 1883. 
Crao Massàroli 

(') Mando una tiratina d'orecchi al proto che, in quella 
ineziuola di mezzo luglio , mi ha fatto scavare anzi che 
scovare i liascosti , e più a basso dire Tabù innanzi che 
TaJbd^ vocabolo ebraico^ come veramente ho scritto. Quanto 
alle spiegazioni, com* è vero le zucche ! non ci tengo di 
molto. Ho detto la mia perchè altri dica la sua, e stiavi 
padroni. C. M. 



'A FATTURA 

Il villaggio era tutto maravigliato, e le buone 
comari quando lo sentivano raccontare si segna- 
vano spaventate. Si trattava nientemeno di una 
fattura, e dì quella specie: non se ne potevano 
dar proprio pace ! 

Tra due famiglie di contadini si erano sta- 
biliti degli- sponsali , con (][uanto contento degli 
sposi lascio a voi immagmarlo : lui un giova- 
notto tarchiato , con un aria da gradasso , da 
farsi mostrare a dito da tutte le fanciulle del 
paese, e lei con due fila di denti che sembra- 
vano perle, ed oltre alla sua bellezza, ne avea 
pure di parecchia roba spasa al sole , come 
dicevano i terrazzani. Il mogliazzo doveva av- 
venire fra breve, si era stato finanche dal par- 
roco jt>e' /a' sprubbecà\ e lo sposo, la vigilia di 
Pasqua norita, era andato a cantar la serenata 
alla sua bella, alla quale piaceva molto il canto 
^ fronti!^ e limone. Quando che è, che non è il 
padre della fanciulla non ne volle più sapere 
delle nozze. La povera ragazza ebbe un bel 
gridare e piangere , strapparsi i capelli : tutto 



6S 



fu inutile, il giovanotto fu messo alla porta , e 
gli s'impose di non riporre più il piede in quella 
casa. Egli andò via giurando una vendetta in 
cuor suo. 

Una sera nel colmo della notte si sente un 
rumore in casa della fanciulla, sì guarda, e si 
vede un topo che scorrazzava, con certi occhi 
proprio torvi, e che faceva un fracasso d'inferno. 
Si comincia ad inseguirlo con mazze, ma i colpi 
andavano a vuoto ed il sorcio pareva che ri- 
desse; e' era proprio da disperarsi. 

Qualche sera tirava le coltri dal letto , e 
qualche altra volta mandava in pezzi le imma- 
gini dei santi che si trovavano in casa. Senza 
dubbio il sorcio era indemoniato, e si trattava 
di una, fattura. 

Si ricorse ad un frate di un vicino convento, 
gli si propose il caso , e questi rispose che al 
postutto non era difficile che fosse una^a^-^^ra, 
perchè egli, lo ricordava bene , quando fece i 
suoi studii di dritto canonico, nelle Decretali si 
era imbattuto in un titolo de malefieiatit , una 
specie di ^nciarmo^ disse ai contadini , per far 
loro comprendere, sebbene questi restassero a 
bocca aperta, e non ne capissero una iota. 

Propose pure molti rimedi!: preghiere, esor- 
cismi, acqua santa, ma il sorcio era sempre là 
e pareva che ridesse. La fattura era fatta in 
piena regola, e ci voleva molto per scioglierla. 
E d* altra parte, in quel paese, se ne verifica- 
vano diversi di questi casi, perchè in fondo al 

vico vi erano parecchie maliarde. Ad un 

tratto si trovava in una casa un limone pieno 
pieno di spilli e di chiodi; si era fatta la fattu- 
ra, una volta, me lo narrava lo stesso frate, si 
trovò a mare, da certi pescatori, uno di auc iti 
limoni . la cui virtù magica faceva sì che le 
reti restassero sempre vuote. 

E se ne raccontavano delle belle. Un'altra 
volta una povera madre perdette ad un tratto il 
latte, ed il suo banAino strillava e non trovava 
più pace, anche essa era stata stregata. 

Le si proposero moltissimi rimedii , di far 
mangiare del pane ad una capra all' insaputa 
del capraio, di mangiar finocchi e giurgiolèa^ 
sempre invano, perchè chissà come le avevano 
rubato il latte. Era stato un fatto quasi simile a 
quello del topo, dico quasi simile, perchè que- 
st'ultimo avea fatto epoca ; e quando lo senti- 
vano raccontare si segnavano spaventate. 

Che brutta fattura ! 

Luigi Correrà 



'A MORTE E SURRIENTO 

Gentile Sig, Amalfi, 

La smania di ottenere la spiegazione della morte di 
Sorrento , mxì mi ha dato pace, e, dopo tante ricerche, 
ecco ciò che mi è riuscito appurare. Vi comunico il rac- 
conto, tal quale mi è stato riferito ; non intendo guarentir- 
velo , perchè son fatti che poggiano unicamente sulla tra- 
dizione orale, e fa mestieri accettarli o respingerli tutti di 
un colpo. Ne farete quel conto che crederete, ed ove tutto 
manca, lo aggiungerete alle varie ipotesi sull'oggetto. 

Fino agli ultimi anni dello scorso secolo, serbavasi, in 
una rimessa deirantico palazzo Mastrogiudìoe, un gigante- 



sco scheletro, di le<2:no e cartone , armato della sua felce, 
rappresentante la Morte, e serviva al seguente uso. 

Per antica costumanza si eseguiva dai popolani di Sor- 
rento, neiruliima notte di Carnevale, una specie di panto- 
mima, una specie di commedia Atei lana. Si personificavano 
il Carnevale e la Quaresima. Un grosso fantoccio , fornito 
di enorme ventraja, circondato di tutti i cibi più succolenti, 
fra 1 quali dominavano tutti i prodotti del porco, sdrajato 
su di un carro, rappresentava Carnevale. Una vecchia lunga 
lunga, scarna, lurida, avendo all' intorno, salacche, baccalà, 
legumi e tutti gli altri emblemi del rnagro , assisa su di 
un altro carro , e , « volgendo alla rocca la chioma » , 
rappresentava Quaresima. 

Muoveva Carnevale da Sorrento e si avviava verso la 
porta (abbattuta nel 1863) , in atto di uscire , mentre che 
Quaresima dal lato del Borgo , dirìgevasi alla m^esima 
porta , in atto di entrare in Città. Proprio , allo squillare 
della mezzanotte dovevano incontrarsi, Carnevale e Quare- 
sima, sotto la suddetta porta. Intanto, sotto Farco della me- 
desima , tenevasi truce , immobile il gigantesco scheletro , 
rappresentante la Morte, ed allo giungere di Carnevale, ro- 
tava la sua inesorabile falce e ne mieteva la vita. Qui urli, 
fischi, schiamazzi. La plebe si scagliava furente sull'ucciso 
Carnevale , ne dilaniava le membra , e finiva la baldoria, 
con un ftran falò , a cui erano dannati i resti delF estinto 
Carnevale, mentre Ouarp.<;ima entrava trionfante in Città. 

Finita la scena, la Morte veniva gelosamente custodita, 
per servire allo stesso ufficio , ogni anno. Accorrevano a 
questo spettacolo, non solo tutti i Sorrentini, ma moltissi- 
mi dei contadi vicini, sicché la morte di Sorrento divenne 
pi'overbiale, ed ogni persona molto lunga, molto scarna era 
para(ronata alla morte di Sorrento. Mi assicurano, che un 
tale Cav. delle Noci, altissimo, spolpato^ morto verso il 1846, 
per la sua figura, nel suo vivente, ebbe il soprannome di 
morte di Sorrento. 

La descritta usanza si tenne in vigore fino al 1799. Alla 
venuta dei Francesi fu abolita o proibita , sia per progre- 
dita civiltà, sia per quel sospeUo, in cui, i nuovi governi, 
tenp:ono le riunioni notturne. 

Ciò che vi è di notevole nella mia scoperta è questo. Fin 
a quando chiesi della morte di Sorrento, pura e semplice, 
nessuno seppe darmene contezza ; quando poi procurai ap- 
profondire le ottenute notizie, qualche vecchio prete, vani 
vecchi coloni mi assicurarono averne inteso il racconto dai 
loro maggiori. Tanto è vero che per ricavare qualche no- 
tizia dal volgo, fu mestieri cambiar la natura della doman- 
da, e presentarla sotto diversi aspetti. 

Non vi pare, che tutto ciò, potesse avere qualche ana- 
logia colle vostre ricerche ? Sarei felicissimo se fosse cosi t 

Santagnello, 27 Agosto 1883. 

Gaetano Ganzano 



CANTI POPOLARI 

raccolti in Pomigliano d' Arco 

(Contintmzione, vedi n.7 edS) 

XIII. — Dici, ca te 'nzuri, ca te 'nzuri ! 
E maje i' te sento prubbicà\ 
Lloco si vere, ca si 'n oramo scuro, 
Ca la mugliera non la può' campa'. 

Al primo verso, manca una sillaba ; e certo, s' ha da 
integrare cosi : 

Tu dici, ca te 'nzuri, ca te 'nzuri ! 

*Nzurarse, prender moglie (Inuxorarsi). Titta Valentino 
ha seri Ito: 

Io non appe a lu munno maie mogliera, 
'Nnante mm' avarria fatto strangolarel 
Io pe' mme maje non appe 'sta chimmera, 
(Comra' a dicere mo*) de rame 'nzorare ; 
Mmeglio accordato mme sarria 'ngalera 
Pe' mente campo 'no rimmo a bocare. 

(Mezxacarma. Palmo I.) 



69 



Prubbicd*. Verbo non registrato né dal Galiani , né dal 
D'Ambra, nel senso che ha qui, equivalendo all'Italiano : 
dire in chiesa. • « Sicché, se volete.- oggi é giovedì... do- 
« menica, vi dico in chiesa; perché quel, che sé fatto, Tal- 
« tra volta , non conta più niente , dopo tanto tempo » - 
Promessi spoai^ Cap. Xa.XVIIL 

LLoco^ (avverbio, formato, come l* illieo latino, da in e 
loco* E ricordo ciò , perché rende ragione della sua tras* 
formazione, da avverbio di luogo, in avverbio di tempo) 
vuol dir propriamente: costd\ e poi, anche, allora^ in queuaf 
in questa: e qui da ciò, 

'ScurOf infelice, sventurato e (soprattutto) misero. Titta 
Valentino, ne la Galloria secreta d'Apollo^ Stanza II : 

Perché no' a tutte sciorte de perzone 

E conciesso sape' cierte scerete 

Ma schitto a chi é de bona 'ntenzione , 
Si be' non so' fenisseme Poeto ; 
Sianose comm' a rome, 'scure, sciaurate, 
Ma siano amico de la Verbtate. 

XIV. — Doje ruselle 'ocopp' a *na pianta , 
Facile murire a chi ve tene mente; 
Facile murire cavalieri e conti; 

Facile murìre a rome, pover' ammanto. 
Si Du' rome faje 'slu core coDteoto, 
Non ti perdona Dio e m^cU' 'e Sante. 

Ruselle^ diminutivo di Ro8a% manca nel D'Ambra. 
Tene' niente^ guardare. Vedi l'anno «azione al canto XXI, 
che incomincia Jette a lu *nJlerno pe* senti' nò canto. 

XV. — Falle *na taverna accani' 6 Passo , 
LIoco nce alluogge peccirìlle e ^ruosse. 
Slive a padrone e mo' 5tai a vajasso, 

Tu nce hai mangiai' 'a porpa e spònlachi Tuosse. 

Mo' ca ne' he' fatta 'sta 'rossa spesa, 

Te r hai accattata 'sta toppa jummenta. 

Tu le crerivf, ca era de presa, 

E chella nce 'a tene 'a sìàgata à cossa. 

Lu speziale, 'o lenite a mese; 

La miricina, ve la fonn' a posta. 

*0 Passo, Taverna in Pomigliano; e cosi chiamavansi 
generalmente i luoghi di Dogana , presso a' quali e* era 
sempre qualche taverna, per comodo de' carrattieri. 

Vajasso, domestico, familiare. 

Porpa, polpa. 

Sidgatay sciatica e non già Zia Agata o Signora Agaia 
(Zi* Agata o Si' Agata. 

XVL — Fenesta cu' 'sta nova gelosia, 

Sta martellala co' cenlrelle r' oro. 

Si v' haggio scummìtato mm' 'o decite, 

Ca lu stesso bene fa gran cosa. 

Si v' haggio scetato da lu suonn' ammuruse, 

Téccot' suonno mmio e vaile riposa. 

Gelosia « sorta di graticcio da finestra o simile , detto 
da' Latini : transenna. 
Centrelle, piccoli chiodi, bullette. 

ScummiioJtOy scomodato, incomodato. 

Scetato, desto, da scetd', svesiiare , dal latino excitare. 
Capasso, traducendo il primo dell' Iliade : 

Ma la Ma j està {Giunone), che de chi la 'scota 
Non ha besuogno e sta sempe vegliantOf 
E che ss' era addonata de l'aggjhàjtto. 
Seduto appena Giove, armaje 'no chiàjeto. 

Ed in un sonetto a Vincenzo d* Ippolito, presidente del 
S. R. C. , contro Niccolò Amenta : 

Chi piglia la conserva de papagno 
Puro sse scota, Cienzo, a no gra' 'mpegno : 
Tòccote, eccoti, déccoti. 

XVIL — Fìdiola, ca nce tiesse, cianciusella, 
'Stu telarieUo di rosa marina, 
Ce date chelli botte graziose e belle 
Per non fa' sèntere a li bicine. 
Si non avite chi ve fa le cannelle. 
Si ci sta 'o gusto tuoje, ci vengh' io. 
Si n' avite chi ve mena li raslella, 
Dinceir a màmmela, nce vengh' io. 



Cianciusellai{àitù\n\xi\vo di cianciosa, vezzosa) vezzosetta. 

Votatose po' a Pimpa : - « Haje tu golto » - 

Disse - « de mm' azzettà' pe* maretìello T » - 

. a Voglio » - essa respose cianci osella, 

E lenze de premmone la faccella. {Agn. teff. VI). 

Graziose e belle, probabilmente, dovrebbe leggersi gra- 
sioselle, per salvare, almeno, in parte (giacché ^cueosel^^ 
é pentasillabo) la prosodia. 

Cannelle, que'cannuoli intorno a' quali si avvolge il filo 
e si mettono nella spola per tessere. 

Rastella, pettine. 

XVin. — Figliola, cu' 'sta prèvola a 'sta Onesta, 
Da luongo mme la mina la frescura. 
Tu le mange 1' uva, quanno è aresta; 
r no' 'a pozzo vere', quanno è matura. 

Prèoela, pergola. — « Ingraticolato di pali, di stecconi, 
« o d'altro a foggia di palco o di volta, sopra il quale si 
« mandano le viti. » — 

Da luongo, di lontano. 

Mange , mangi. I Pomiglianesl darebbero , sprezzante- 
mente, del Napoletano, a chi dicesse: magne. 

XIX. — Fresca funlana, ferame nu fevore , 
Fresca funlana, ca me lo può' ft'. 
Teccalillo, chislu bello fiore, 

Miltelo 'mpietto a chi ven' a lava'. 
Vurrla ca nce venesse Nenna mmla, 
Abbàgnala tutta e folla canià'. 
Fresca fumana, le so servitore. 
Notte e ghiuomo mme può' commannà'. 

TeccaJtillo, éccotelo V. Canto XVI , che incomincia Fe- 
nesta cu* 'sta nooa gelosia. 
Abbagnd\ bagnare. 
Canta', arrabbiare. 
Ghiuomo, giorno. 

XX. — Ih ! Aramore mmio, comme lu può' là' , 
Ogne cienl' anne, nce vieni 'na vota. 

Stissi cu' li catene 'ncalenato, 
Pure le spezzarisse, pe' 'na vola. 

Amore, cosi si chiama l'amato o l'amata. 

XXI. — Jette a lu 'nfiemo pe' sentì' nu canto , 
Non canlaje pe' tenere mente. 

Steva 'na Nenna, era bella tanto , 

Nce combatteva cu' lo fuoco ardente. 

L' addimannai comme, quindi e quando, 

Gomme sonche li pene de lu 'nfiemo. 

lessa ssi vola, cu' 1' nocchie a lu pianto : 

^ <c Non haggio fello 1' aramore contento » — 

L' inferno come é qui concepito ha molto dell' arie- 

sbosco 

Tenere mente. Guardare. V. Canto XIV, che incomincia: 
Doje ruselle 'ncopp' a 'na pianta. Nel III Canto de L'Agna- 
no teffonnato, Tarlarono, che viene rapito da* barbareschi: 

La terra tene mente e «so sta zitto 
Ma cchiù sospira quanto cchiù ss* arrassa. 
E Ciommo guarda le sculture del palagio di Nettuno : 

Ciommo le storie steva a tene mente 
E le ghieva mostanno ali* aula gente. 

XXIL — I' t' haggi' ammala quanl' a 'na nucella, 
Manco lu fuoco sapive allummà'. 
Mo ca si' fatili bella quanl' a 'na stella , 
Màmmela toja non mme le vo' dà'. 
Pe' slulà' Io fuoco nce vo 1' acqua, 
Pe' nce spartire a nui nce vo' la morte. 
Tanno te lasso a le, Nennella mmia, 
Quanno la morte nce ha curlute i passi. 

Quanf a 'na nucella. Letteralmente; quant'una nocciuo- 
la ; allorché eri piccola quant'una nocciuola. Nella versio- 
ne della Batracomiomacnia J' Omero, fatta da Nunziante 
Pagano. Sfraitaf recole, (psicharpax) dice che la madre : 

A *no pagliare de *na massaria 

Mme fece, e mme notreva co* li frutte, 



70 



E cive d'ogne sQÌorte e cose duce, 
' E castagne e nocelle e fica e nuce. 

AUumma accendere. Non sapevi neppure accendere il 
fuoco. 

Mdmmeia toja% pleonasmo. 
Sparti' separare. 

XXIII. — L' haggio saputo ca te ne vuò' X\ 
Ghiòvere e male liempo pozza fa'. 

Da chelle parte ca te ne vuò' ì', 
Le funtanelle pòzzano siccà'. 
Non puozze truvà' Ietto pe' dormì', 
Manco lu pane pe' te lo mangia'. 
Nisciuna renna le pozz' appiacè'^ 
Semp' a li grazie mmeje puozze tumà'. 

r, ^ire, andare, lo stesso che ghV 
Chiòoeref piovere. 

Non facette seje jttorne auto che chióvere 

E a butte, a fuste, a barile, a lancelle [Ang, Zeff.Vì). 

Appiacè\ piacere. 

XXIV. — Lo sèpalo sse chiarama allera-core, 
Pe' chi la tene a la bella mugliera. 

Chi 'a teae bruita, le 'scura lu core; 
Le despìace 'o sàpalo e quanno vene. 

Sàpato sabato. Biagio Valentino ci informa d'esser nato 

Ne lo mille e sejeciento ottantottessemo, 

No lo mese lo scorpione domena 

Lo primmo de lo stisso e fu de sapato. 

Allera-core, AUegracore, perchè ha tutta la domenica 
da passar con la moglie, né deve lasciarla presto la mat- 
tina per correre al lavoro. 

'Scura' ' « Mme se 'scura lo core » - letteralmente: mi si 
oscura il cuore ; - « vale, mi sento affogare dal dispiacere, 
« una nera tetraggine mi opprime » - Cosi il Galiani. 

XXV. — Lu cielo sse vuarnisce cu' le stelle, 
La terra sse vuarnisce cu' le fiure. 

Napoli lu vuarnisce le castella 

Li palazzi con tante signurì. 

Lu mare lu vuarnisce li vascielle, 

Le marinari cu' le piscaturi. 

'Sta Nenna la vuarnisce 1' nocchie bello, 

Lu petto ghianco e la bella statura. 

Vuarnisce^ adorna, fregia. 

Castella. Quattro erano i Castelli di Napoli; il CaHello 
del Carmine, CastelnuoDO, Castel dell'Uovo e Cosici 5an- 
i'Elmo, 

Ghianco , bianco , per eufonia premettendo la palatina 
al j : da janco , ghianco. Andrea Ferruccio nel V de TA- 
gnano zeffonaio: 

Chesta è essa, gnorsi, ca Pimpa è chesta, 
È chella, che lo core t' ha sciccato, 
Chella che ghìanca è cchiù de la rapesta, 
Ch* a le masche cchiù rosse de scartato 

Vedi il reto dell'Ottava in nota al Canto XXXIV: Non 
mme piace Vària de l'Acerra. 

XXVL — Luce la luna e no' nce luce tonna: 
Pure li stelle cuntràrie mme vanno ! 
Cbiammo a Ninno mmio e no' mme risponne; 
Li mariolo arrubbalo mme 1' hanno. 

Nò' nce luce tonna, non è luna piena. 

Mariole, plur. di Mariuolo ladro. Vocabolo di cui fa uso 
frequente il Bruno nel Candelajo. Giulio Cesare Cortese, 
nel III Canto della Vajasseide : 

'No mariuolo 'nchesta co* doje deta 

A chella folla, ne zeppolejaje 

Da 'na vajassa 'na vorza de seta... 

Il Puoti : - € È da avvertire che Mariuolo in toscanoCsic/^ 
« propriamente vale Colui che commette frodi nel giuoco, 
« e dicesi anche ad o^ni sorta di rei e malvagi uomini 
« che ingannano e facciano frode. » - M. Biagio Valentino 
parlando del falso amico, che non vuol restituire il denaro 
prestatogli: 

Non sse po' di' ca chlsto è truffa juolo, 
Pecche le cerca [li denare) co' la confedenza; 



Manco lo può* chiammare marjuolo 
Ca non sse *spone a la vita 'mperdenza ; 
No' le può* dire eh' è 'no posta j nolo, 
Che p' arrobbare nce usa delecenza : 
Ma può' di' eh' a la moda è 'no briccone, 
'No latro, 'n assassino, mariolone. 

XXVII. —• 'Mmiez' a 'na preta è nata 'na viola, 
Caro mmio bene, le voglio parlare. 

Da luonghe ne' è venuto 'nu traritore, 
A forza rame te vo' fa' lasciare. 
Si nce venesse lo papa 'mperzona, 
Manco lo tuo core t' abbandona. 

'Mmiezo , in mezzo. Andrea Perruccio V Agnano Zef 
fonnato C IV : 

Ne' era 'mmiezo 'no largo, co* grannezza 
Maravegliosa, comm' a torrejone 
Tunno 'no gran palazzo fravecato 
Co* porfeto e co' marmerà aornato. 

Preta, pietra. Il Cavallo della favola III, libro IV di Fe- 
dro (appo il Mormile): 

corze a rompecuollo, addò' sapeva, 

Che da sott' a 'no monte, da *na preta. 

Sorgeva 'n acqua e 'no lago faceva. 

♦ 

XXVIII. — 'Mmiezo a 'sta chiazza ne' è nato nu puzzo, 
Sse nce vanno a mena' l' àneme perze. 

Nce sta 'na nenna, ca chiagnc a sulluzzo: 
Teneva 'o 'nnammuralo e mo l' ha perzo. 

Chiagne a ^elluzxo, piange assinghiozzatamente. La Vol- 

§e della XXVIII favola del primo libro di Fedro, tradotto 
al Mormile, che ridomandava i volpastri all'Aquila: 

dapò che bedde eh' era vano 

Lo chiagnere a selluzzo e lo sciabbaccoA 
A la forza la Vorpa mese mano. 

XXIX. — Nce haggio mangiato, fiore de cardella, 
Nce haggio rurmito 'nziemmo cu' Viola. 

Nce haggio fallo l' amraoi'e cu' la primma, 
E la 'reta de còllera ne more, 
r no' mme 'nzoro ssi no' mme pigli' 'a primma, 
Cu' lu cortiello mme taglio lo core. 

Fiore de cardella, probabilmente, lo stesso che fiore di 
cardillo, erba selvatica che si n^angia in insalata e fa un 
bel fiore giallognolo. 

La '.reta, l'ultima, la sozza j a, quella, che vien poi. Vedi 
Nunziante Pagano nel II Canto della Batracomiomachia: 

Tre belle mascolune, scura sciorte ! 
La morte mme levaje 'mmanco de 'n anno : 
Lo primmo l'aggranfaje e le die morte 
'No brutto gatto mente jea arrobbanno ; 
L* aotro perdi ette e (quanto T appe a forte l ) 
Dinto de 'no mastrillo co' 'no 'nganno ; 
'NtuorzaguoÉFo (physignathos) lo reto lo cacciaje 
Dinto de 'no pantano e l* affocaje. 

XXX. — Nenna, ca i' parto, ca i' parto! 
Non saccio se ritomo vivo o muorto. 

Se da chelli parte vengo murenno, 
Nova cchiù de rame nun avarraje. 
r pe' 'nzignale te lascio 'na stella: 
Quanno la stalla scura, tu chiangiarraje. 

Cf. col canto seguente che incomincia, con ristesse di- 
stico. 
Murenne, morendo. Vengo murenno, ven^o a morire. 
Aoarraje, avrai. Chiangiarraje, piangerai. 
Pe* 'nzignale, per segnale. 

XXXI. — « Nenna ca i^ parto, ca i' parlò, 
« Non saccio, se tuorno vivo o muorto. 

a Quanno te crire, ca io rae trovo a chelli parte, 
« Tanno rarae trovo arret' a la tua porta. » — 

— « Parti, Ninnino ramio, parti cuntento, 
« Ca io non parlo cu' nisciuno ammante. 

« Non sta' a senti' le chiàcchere 'e la gente, 
« Ca vanno tutte cu' lo fauzonganno. » — 

— « T' haggio dato la fede forte e custanle : 
« La morte pò guasta' lo giuramento. 



li 



« Tanno la vita minia dormo cuntento, 

« Quanno tu mme si' sposa e i' te so' ammante. » — 

Arreto, dietro. 

Fauzongarmo. Parola composta (che manca nel D'Am- 
bra) ^2LjausOy falso e '/Iranno, inganno, vale tradimento. 
Nunziante Pagano 1' ha adoperata in rima con "ngonno ; 
dunque s' ha da scrivere unito : 

Li surece ve 'ntimano la guerra» 
E ve sfidano a morte, ca mbè' sanno 
Ca 'NiuorzaguoiTo ne levaje da terra 
Sfrattafrecole nuosto co' 'no 'nganno ; 
E che porzine 'sta Ranonchia perra 
L' aggia affocato co' 'no fauzoganno. 
Tanno,., quanno; allora... quando. 

XXXII. Nennella, morirò, non dubita', 

Non cchiù la sentirai 'st' affritta voce, 

Da poco tiempo lo sienti sunà' 

'Nu tocco re campan' a àuta voce. 

I)a poco tiempo mme viri passa', 

Cu' r uocchie 'ncielo e li mane a la croce, 

Ss' allaccia 'na nennella per pietà: 

— <c E muorto 1' ammante mmio, e chest' è la 'roce. 

Ora, è vietato il trasporto de' defunti in bare scoperte ; 
e quindi non sarebbe più legalmente possibile la creazione 
d'un canto simile. Ma la legge è continuamente ed impu- 
nemente violata nei comuni rurali. 



{Conimua) 



"VrrroRio Imbruni 



PubMioazioiii in dialetto pervenuteci in dono 



7. Raccolta | di | canzoni amorose | napolitano | colle ul- 
time pubblicate fin' oggi | Edizione corretta | Napoli I 
Libreria editrice fìideri | 9 — Via Università — 9 i 1883. 
Pagg. 80 ( Prezzo L. 2 ). 

A pagina 63-64 , leggesi il brano del notissimo canto 
popolare: 

Fenesta che lucive e mo non luce. 

8. Guglielmo Mery | Casamicciola | Albo | Scrittori — Ara- 
bia V. — Bardare ;L. E. — Buffa G. | Capezzoli R. — 
Carcano G. — Carducci Q. — Caso F. | Chiurazzi L. — 
Guèrdile C. — Guerrini 0. 1 Pagliara R. E. — Prisco 

N Rapisardi M. | Volpe-Rinonapoli L. l Pubblicazione 

a beneficio | dei superstiti del tremuoto d'Ischia | (28 Lu- 
glio 1883) I Mapoli i Libreria editrice dell'Iride | 13. Piaz- 
za Cavour, 13 i 1883. Pagg. VI-168. (Prezzo L. 2,00). 

A pag^ 164-165 leggonsi delle sestine in dialetto na- 
poletano del signor Luigi Ghiuraszi , dal titolo : — Ca- 
samicciola (La sera de li 28 Luglio 1883.) 



NOTIZIE 

Giuseppe Pitrè, uno dei più benemeriti cultori del 
Folk'Lore italiano, ha pubblicato il XIII volume della 
sua stupenda Biblioteca delle tradizioni popolari sici- 
liane. Contiene i Giuochi fanciulleschi ; e propriamente 
dugentotrentatrè sono veri e proprii Giuochi, trentanove 
Divertimenti. Passatempi, Esercizi, e quarantatre Gio- 
cattoli e Baiocchi. 

« È la prima volta — dice con soddisfazione V illustre 
« autore — che in Italia da un solo e con intendimento 
« scientifico si mettono insieme fanti trastulli popolari del- 
<c la infanzia e della fanciullezza quanti mi è, per awen- 
« tura, concesso di dame ora alla luce Da tredici an- 
ce ni — egli continua — le mie ricerche in questo campo 
« sono state continue e indefesse. Per esse non ho rìspar- 
« miato a spese, a viaggi per la Sicilia, a fatiche d' ogni 
« maniera.» 

Si pub quasi dire che al lavoro non manchi nulla, per- 
chè sia un' opera completa. Precede un' Avvertenza molto 
interessante, per farcì conoscere il metodo seguito del rac- 
coglitore per la pubblicazione. S^ue un altro capitolo 
Dei giuochi fanciulleschi, in cui si discorre dei giuochi 
infantili presso i Romani antichi e presso le altre nazioni, 
si rìsale ad investigare le origine comuni dei varii giuo* 



chi , ed i giudizi! sono coonestati con larghe ed ampie 
comparazioni. Vien doi)o una copiosa Bibliografia dei 

fiuochi fanciulleschi in Italia; indi un catalogo dei 
aesi nei quali i giuochi furono raccolti; delle Regole ed 
Avvertenze generali sui giuochi; e delle Canzonette e Fila- 
strocche dei fanciulli per contarsi. In fine del volume è 
aggiunto un Glossario. 

Il lavoro è fatto anche più bello ed interessante da die- 
ci graziose tavole a fototipia, le quali, meglio di qualun- 
que altra descrizione, ci danno una completa idea del 
giuoco; quattro a litografia pei Giocattoli e Baiocchi; ed 
una a stampa. 

Oltreché per i Folk-Loristi, questo volume a noi pare 
che possa riuscire di lettura molto gradita anche ai pro- 
fani in questi studii, magari anche a quelli che vogliono 
solamente fare una lettura di diletto ! Che il Pitrè, per 
quanto sia paziente ed accurato ricercatore, sa condire con 
tanta grazia e sapore quelle sil6 descrizioni e raccontini, 
da rendere i suoi libri piacevoli come la conversazione dì 
certi vecchietti. 

Un libro che, pare, sia sfuggito al valoroso raccoglitore, 
è la Vajasseide del Cortese, a cui il « gran » Basile premise 
la lettera alVuneco shiammeagiante che pò* rompere no 
bicchiero co le Muse, dove dà una lunga nota di giuochi 
popolari napoletani. Noi la riferiamo qui : 

1 — Xnola trapela 
Spizza fontànola. 

2 — È notte o iuomo. 

3 — Viato le co la catena, 
3 — Commare, lo culo te pare. 

Lassa parere eh' è bello bedere. 

5 — Anca nicola 
Si bella e si bona. 

6 — A la lampa a la lampa. 

7 — Lo viecchio n' è benuto. 

8 — A lo juoco de lo scarpone. 

9 — A le norchie. 

10 — Apere le porte 
Ca forcone vole ntrare. (Cfr.Galiani , Del dial. 
nap. p. 120) 

1 1 — Accosta cavallo. 

12 — Li forasciute. 

13 — Li selle fratielle. 
14 — A hanno e comannamiento. 

15 — Ben venga lo mastro. 

16 — Bèccome. 

17 — Viènela viènela, cuccipannella. 

18 — A covalera. 

19 — Compagno mio ferule s6. 

20 — Chioppa separa. 

21 — Cucco viento. 

22 — A la castella. 

23 — • Chi ne' è suso T 

— Lo zelluso. 

— Di che scenga 

— Non se pò 
Zella vò, zolla vò. 

24 — A la colonna. 

25 — 1^0 gallinelle. 

26 — A gatta cecata. 

27 — A guarda mogliere. 

28 — A gabba compagno. 

29 — A la mmorra. 

30 — A mazza e pluzo. 

31 — Messere sta ncellevriello. 

32 — A nzecca muro. 

33 — A paro o sparo. 

34 — A capo croce. 

35 — A preta usino 

36 — A pesce marino ncàsnalo 
Piglia la preta e shiaccalo, 

37 — A pne càudo. 

38 — A la pàssara muta. 

39 — A Re mazziere. 



n 



40 — RentÌDOla mìa reminola. 

41 — A la rota de li càuce. 
42— A la, rota a la rota 

Sant'Angelo nce joca. (Gfr. Galiani, op. di. p. 118.) 

43 — A rociolare lo lòlaro. 

44 — Stienne mia cortina. 

45 — Seca molleca. 

46 — A sàuta parma. 

47 — A li sbriglie. 

48 — A spacca stròramola. 

49 — A scàrreca varrile. 

50 — A la sagli pènnola. 

51 —A tire e molla. 

52 — A tàfora e tammurro. 

53 — A lo luocco. 

54 — Tagliazèppole sarvo e sarvo. 

55 — A tozzare co Tova pente. 

56 — A le cetrangolede. 



Epomeo è il titolo d'una delle tante strenne fatte per i 
danneRgiati d' Ischia. È un volumetto in ottavo di pagg. 
112, ed è compilato dai signori V. Della Sala, nostro colla- 
boratore, F. Pontillo-Mineo, eG. Trudi. Fra' varii lavori 
ivi pubblicati, noteremo quelli che son dell' indole del no- 
stro Archivio. — Un uso popolare nell* isola cT Ischia di 
Gaetano Amalfi : cioè la festa della vendemmia. Son ri- 
portati molti canti dell'isola. — De li bagni napolitani de 
Puzolo et de Ischia di L. Correrà, ove si accenna a quanto 
si riferisce a quei bagni nella Cronica de Parthenope. — 
Un bellissimo sonetto in vernacolo di A. Fiordelisi , La 
Nutriccia ; un altro di M. Capaldo ; ed una poco felice 
blonna-nonna di R. Bracco ; — ed un articolo di F. Tor- 
raca, molto importante, Usi e credenze napoletane del se^ 
colo XY, Da una composizione inedita del Sannazaro è 
riferita l'enumerazione di molte pietanze della cucina na- 
poletana del XV secpto ; da un' altra scrittura di autore 
incerto, anche inedita , son tratti alcuni particolari rela- 
tivi alle mattinate ; e dalla forza dello Imagico^ che all' A. 
è riuscita trovare intera, son riferite parecchie notizie in- 
torno alle credenze superstiziose del nostro popolino. 



Per la tip. Befani di Roma, il prof. Francesco Sabatini 
ha pubblicato un«>puscoletto , in trentaduesimo, di 48 p., 
dal titolo Polemica romanesca in occasione di alcuni ar- 
ticoli di Raffaello Giovagnoli, Vi si occupa del dialetto 
romanesco , confutando alcune opinioni del Giovagnoli 
a strenuo difensore di A. Marini, poeta vernacolo ».— Ecco 
l'idea predominante. Volendo esser poeta popolare, bisogna 
tenersi, fedelmente, al popolo e cercare dfi scrivere corret- 
tamente il proprio vernacolo, senza lasciarsi imporre dal- 
l' autorità ai altri , che , pure, essendo scrittori di grido, 
talvolta, cadono in qualche erroruzzo. Come conseguenza, 
poi, di questa premessa, prende a dimostrare, con molte- 
plici esempii, non avere il Marini molta conoscenza del ro- 
manesco ; e scambiare, spesso, parole e locuzioni, che son 
tutt'altro, che di questo dialetto. 

11 Sabatini mostra molta perizia e molta attitudine a 
trattare il suo tema: e si rivela fornito di studii filologici, 
cosa non comune, fra gli empirici cultori dei vernacoli. 



Il dottor Albino Zenatti ha pubblicato , prima nell' Ar- 
chilo storico Der Trieste, C Istria e il Trentino , (Roma, 
1883; voi. 11, fase. 2-3) e poi per estratto, un importante 
studio sulle Rappresentazioni sacre nel Trentino, 

È lavoro fatto con molta coscienza e con piena compe- 
tenza. Qui, per i limiti impostici, non possiamo darne un 
sunto né farne un esame ; ma, il nostro collaboratore si- 
gnor Michele Scherillo, se ne occuperà di proposito, quanto 
prima. Intanto non vogliamo tralasciare d'indicare a quanti 
si sono interessati all'articolo del nostro Amalfi sulle Danze 
macabre, le pasg. 35 e 36 dell'estratto, dove si accenna a 
quelle famose danze. 

Prima ne' fascìcoli 3«. 5«, 6<>, 7«, 8^ e Qo dell' anno XIII 
(1883) della Rimsta Minima , e poi per estratto ( Milano , 
A. Brigola et C. Editori) il nostro Gaetano Amalfi ha pub- 
blicato dugentoventidue Canti del popolo di Piano di Sor» 
renio , con note e varianti. Neil' estratto sono state fatte 
delle importanti correzioni ; come a pag. 60 , dove sono 



stati uniti in un sol cauto cinque frammenti pubblicati nel 
fascicolo 6^ della Riìiista. 



RocHs Arthur , Usber den Veilcuen-Roman uno die 
Wanderung der Enriut-Sage. Inaugurai' Disserlation. 
Halle, lb82, 43 S. 8.® 

A questo proposito, il dotto bibliotecario di Weimar, Ri- 
naldo Kòhler, ha pubblicato un articolo, piccolo di mole, 
ma molto interessante , specialmente per i copiosi raf- 
fronti. 

Nei numeri 218 e 224 dell' anno XI del Corriere del 
Mattino (Napoli, 9 e 14 Agosto 1883), il dottor Tommaso 
Cigliano, ha scritto sulla : Topografia, origine, treminoti, 
abitanti e dialetti delVisola d'Ischia, Ma, con nostro ram- 
marico, dobbiamo confessare che di tutto si discorre fuor- 
ché dei dialetti I 

Nel numero unico dell' Ofanto-Casamicciola , pubbli- 
cato il 26 agosto in Cerignola , il sìg. M. Siniscalchi vi 
ha inserito un grazioso conto popolare, tradotto in lingua 
italiana, dal titolo : Petrosinella, È una variante di quelli 
editi dairimbriani nei n XII conti ponùglianesi, » 

L'egregio nostro amico, prof. Mattia Di Martino, ci ha 
fatto tenere un bello estratto dtiìV Archivio per le tra- 
dizioni popolari , contenente due inediti e molto interes- 
santi Contrasti popolari siciliani di Noto, Il primo ó in* 
titolato: A Sorti ccu Ninu; e il secondo: I MaUmaritaU. 

Nel n.^ 7 (27 Agosto 1883) del periodico triestino Mente e 
Cuore, si è pubblicata la fine d' un lungo articolo di F. 
Dojmo Karaman sopra Marco Kraljemù, i'eroo della poesia 
popolare slava. 



Riceviamo e pubblichiamo: 

Montale, 26 agosto 1883. 
C.« Sig.re 

Aveva scritto bene sulla nascita di Atto Vannucci pi- 
gliando la notizia esattissima dal Diz.^ del De Gubernatis 
dame fornita; ora fa una erronea correzione. La trascri- 
vo ad literam tolta dal registro della Parrocchia. 

^ Parrocchia di Totbiana (dedicata a S, Michele), Co- 
munità del Montale zs A di 1,^ Xbre 1808 — Atto figlio 
del fu Atto Vannucci , carbonaio, (e non perito agrimen- 
sore^ e della Maria Domenica Éartoletti sua legittima con- 
sorte, nato alle ore 5 di mattina del di i.® Xbre sudto, fa 
battezzato dal Pte Onorato Fini cappellano tdle ore 12 lf2 
del 1,^ dto , e nel battesimo gli fa imposto il sopradetto 
nome,^z 

Perito agrimensore è il fratello Ferdinando, il solo su- 
perstite di quattro: due eran frati ; uno missionario mori 
a Pistoja nelrOspedale, l'altro era parroco a Madras nel- 
r Indie e lo conosceva anche mio cogoato , che è inglese 
e stette là 20 anni Ufiziale di Stato maggiore nell'esercito 
della Regina. 

Suo 

G. NERUca 



Abbiamo ricevuto il prezzo d* abbonamento 
dai signori: 

106. Guiscardi Barone Roberto — Trani. 

107. Baragiola Dr. Aristide — Strasburgo (Alsazia). 

108. Fienga Prof. Antonino — Napoli. 

109. Biblioteca Reale di Parma — Pafrma. 

110. Righi iloo. Ettore Scipione — Verona. 
Ili; Torraca Prof, Francesco — Roma. 



Gaetano Holinaro — Responsabile 



Tipi Cariaccio, De Biasio & C. — Largo CosUDlinopoli, V 89. 



ANNO I. 



Napoli, 15 Ottobre 1883. 



NUM. 10. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABSOHilOKTO AKIIVO 



Per ritmila L. 4 — Balere L. •• 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non ai restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esoe il 16 d'ogni mese 



f 



L MOLINARO DEL CHIiRO, Direttore 

■» lAHDALARI, 1. 8GHBRILL0, L. COBIERA. 
6. AIALn, V. SXLU SALA» V. 8II0IGILU 

Kadittori 



▲VTSBTSHZS 



Indirizzare vaglia» lettere e maaoscritti 
al Direttore liiilfft Holtuare Del 
Chiere. 

Si terrà parola delie opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
piare, alla Direzione: Calata Gapodi* 
chino, 56. 



liOflUiABlO t — Sulla poesia popolare savoiarda, Lettere 
(I. fìiLLò) — Canti popolari raccolti in Pomigliano d'Ar- 
co (V. iMBRiANi) — A proposito di un canto (G. Amalfi) 
— 'O cunto de rauciello verde (V. Della Sala) — Canti 
del popolo di Pagognano (L. db Gennaro) — Notizie— 
Posta economica. 



Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



Sulla poesia popolare savojarda 



(Continuarsi, e fine, V. n» 6,7 e 9) 

V. 

Chiarissimo Signore^ 

Lo dico francamente : ignoro, se abbiamo mai avuto un 
romatèt in vero Savojano o poesie epiciie. Conosco alcune 
canzoni, che s'aggirano su argopenti storici, ma satirica- 
mente , non epicamente , procedendo. Ripigliando i miei 
estratti, per questo genere d'epo-satire, il primo a capitar- 
mi sptt'occhi, secondo l'ordine cronologico si importante in 
tale mio lavoruccio, è un frammento a una specie di poe- 
ma, il quale, a dir vero, merita poca stima, parlando della 
genuinità della composizione, poscia che, in vece d'un'opera 
volgare, risulta essere il fatto d'un insegnante , e d'un in- 
segnante di rettorica. Ma qualsiasi il valore documentario 
dello squarcio, in esso v' è contenuta una perla lilologica 
ed è per tanto che me ne occuperò. 

Sapete, perfettamente, come lungo tempo i duchi di Sa- 
voja anelassero al ricupero d'un antico loro comitale retag- 
gio , la Città di Ginevra. Vi fu una volta un tentativo di 
sorprenderla per via d'un coup de main, il buon esilo del 
quale tenne ad un nonnulla. Questa giornata , festeggiata 
sempre dai Ginevrini, si denomina tuttora dell' Escalade. 

h poema dal quale estraggo l'anzidetto frammento versa 
appunto su l'argomento di guella Scalata. 

Gontre lo gros loup ravajut 

(decastatore) 

Y faut dono prendre corrajut 
J' appelut gros loup ravajut 
Geiau maitrit Genevens 

Qadll borghesi Ginevrini 

Qu' on brula tant de vìllajut 

Che luna bruciato (oillaggeCti) 

Du mijour et da Levante 

(mezzogiorno) 



Y sorteissons ben sovent 

Essi Cfanno sortite) 

Et la ney y vont bravent 

(notte) (canno facendo i braoi) 

£n comportant lo pilisgut 

(ColV esport ire quel che han pigliato in Baccheggiando) 

Mais i faut prendre corrajut. 

Pronunziate a un dipresso come corajeu in francese. 

La sillaba ut corrisponde fonicamente quasi all' e muta 
dei Francesi : sì la sentire uu pò più di questa, il t rima- 
nendo sordo. 

Ora dichiaro il motivo di quella citazione, benché V.S. 
già se r abbia indovinato. Come si è il cuore , tdtimum 
marienSf che somministra all' uomo la forza di resistere alle 
fortune contrarie, ella troverà giusta questa bella etimolo- 
gia, che risulta in termini ancora tanto italiani , ma romanci 
certamente, da quel Savojano vocabolo corr ajut. 

Più popolare e di gran lunga mi si af&ccia altra canzone 
sullo stesso argomento e coetanea ai fatti, nella quale trovo 
da fare poche ma energiche citazioni. Debbo per altro porre 
la S. V. in avvertenza riguardo a qualche espressione fran- 
cese che dinota nell'autore, bensì un popolano, ma un popo- 
lano già corrotto probabilmente nella sua favella dall' essersi 
abituato in Ginevra nei pressi di Ginevra all'uso del bel 
francese. 

I Ginevrini ugonotti han fatto prigioni molti gentiluomini 
Savojani. L'ora del supplizio s' avvicina per quei disgraziati 
i quali son passati in rivista da un certo Tabazan esecutore 
di giustizia suprema. 

Tabazan vin a gran maniOssance 

(oenne) 

E i leu ti a toz la riverance; 

(egli loro fece tutti) 

I ténive le sape a la man 

(Egli teneoa capello (chapeau, thapeo^ sape) 

Misericordia etc. 

— Que venia — vo fere ice, galan ? 

venivate (ìùcce) {valentuomini) 

— No vegnivon pai fare santa messa 

noi venioamò per cantare (chauter, thantai^ Sttntd) 

A San — Pii*ou le pje yo de la velia 

(St, Pierre Gran tempio di Ginevra) il pia alto (viUe-ct^tó) 

A San-Zarvai et poi a San-Zarman; 
(St.'Gervais) (e poi) (St.-Germain) 

Guai, ' san failli, monsu de Tabazan. 

(Si, già) eenxa fallo (Sig.re — come in piemontese). 

Passa dcvan ze vo la darai bella 

(Oaliicismo, Paeeex deoant io (je) ve la darò bella (Ve 

(la menerò buona, ironicamente 

Quam vo sari uè sonzon de Tétiella, 

sarete al sommo vertice scala (écheUe) 

U ben peton y sarà lou corbai; 

Ove Ben più tosto vi saran li corvi 

Vade — vo pas qu 'i vos attandon lai ì 
Vedete — voi no essi (attendono) (lassù) 



74 



Questo boja che mostra ai supplizìandi i nervi impazieoti 
che libransi sopra le scale, la è codesta un' iromaginey che, 
a cognizion mia , non ha nemmeno il suo riscontro nella 
celebre canzon di morte di quel Recnar Lodbroga delle 
saghe islandiche. Che le ne pare, sig. Professore f 

£lla troverà assai naturale che questo fatto della scalata 
data a Ginevra possa aver ispirato non pochi poeti in paesi 
già così briosi, cosi poetici essi stessi come lo sono ed il 
pittorico Ciablese , e le terre opulenti di quel d^Annecy e 
sopra tutte V incantevole Ginevra. Mi sembra perciò che 
io mancherei pur troppo, troppo a quanto da me Y. S. si 
aspetta lusinghevolmente, se non le dessi dei docomeuti che 
ho sott' occhi due estratti ancora , i quali più genuini mi 
piyono che non certi altri. 

Voissia ce zeur d' Escalade, 

(Vedete hicce Voici) quesU) giorno (zeus) 

Y no fau ben diverti ; 

(Bali a noi bisogna molto divertirci) 

Mezin la bouna salada ; 

Mangiamo buona insalata 

Effayin-no, nìonz ami ; 

(Rauegrianv<i miei amici) 

Le verrin-no rev^ì 

Vedremo-noi riunire 

Geli bau zeur d' Escalada ? 

Quel bel 

Le verrin-no revegnì 
Geli zeur que fii plaisi ? 



fa piacere 

Y annunzii 



Ma nel porre Y annunziata fine a queste dtazioni sulla 
Guerra di Ginevra , richiamo tutta la di lei attenzione di 
critico e di filologo sul s^uente squarcio. Ghi lo produsse 
lo dà per estratto da un hbricciuolo stampato in Cfiamberì, 
nel 1603; in Cìamberl, cioè in una città distinta che sem- 
pre fu la più francìmana fra tutte quelle della Savoja ; ove 
il francese si parla sin dalle iàsce e da tutti: nobiU, arti- 
giani, poveri, plebei; ove sì parla correttamente, con garbo 
e con una pronunzia che non si trova in Parigi ; in Ciam- 
beri ove, per il fin qui detto, il Savojano più che altrove 
rimase soffocalo dalla lingua nobile del paese. 

Or bene , un trombettiere {tromteiro) va a portare ai Gi- 
nevrini quest' ingiunzione d' arrendersi ; sentite com' egli 
parla: 

Depoi lo gran lolb Gesar... 

Ho ne passa prìnfio meillou 

Odunque {principe) (migliore) 

Ne pie bardi que Monsiffnou... 

né più {Monsignor duca di Saooja) 

Se vo ne li rendi sa terra 
I vo fochi a fua et san 

Egli m ficca a fuoco e sangue 

Avan que passere demi an... 

Avanti che passerete mezzo anno 

Rendi-vo don de par Di! 

Rendele-vi dunque da per D(o 

L'arteleri, poi lo canon 

Va fochi bas votre maison; 

ficcar abbasso 

Bailli-me vito votron volei 

{balite-nU presUxitó) vostro volere 

Afin que dré je m'en alci... 

(dritto to me ne vada) 

Ma la Gasa di Savoja grandeggiava per altri destini. A 
voce d^un frammento dello scettro de' re Burgundi, Tantico 
suo Fato la volea raccoglitrice dei fasci romani. Se non che 
per meglio assicurare Y impero di essa sulle terre ausoni- 
che, volle mantenuto fra le sue mani, ad onta di molteplici 
vicende, queiroccitanico bastion deir Italia, ora per Tltalia 
perduto ed al quale fu accortamente conservato il nobile 
nome di Sayoja. 

Firenze, addi 4 ottobre, 1867. 

Nuovamente della S. V. 
VOhh,mo devjmo servitore 
Ignazio Billò 



VL 

Chiarissimo Signore^ 

La circostanza del ritomo colà di quei principi dopo la 
caduta del 1.^ impero, ispirò forse più canzoni che non la 
Guerra di Ginevra. Ma chi le fece, se interpretò veramente 
i sensi del popolo , a questo ceto però non apparteneva 
guari. Due stanze nella loro briosa- semplicità mi sembrano 
meritevoli di venir sottoposte al giudizio di Lei. Il fo per- 
chè sono convinto esser queste non altro che la messa in 
rime di ciò che esultanti dicevano quei buoni Alpigiani, i 
quali anni prima mormoravan fra di loro , parlando som- 
messanse&te dei proprii coscritti : 

Tos modon avoè la Fran^, 

Tutu partono con 

Pa yon tf è revenu 

Non imo riéomaCo. 

Après dix ans d' speranza, 
E los crayon perdu. 

li credon perduti. 

Era dunque naturale che il PopolOi stanco dì troppi sa- 
crifizii, la pensasse proprio come il buon vegliardo die 
sdama: 

D' ai mo quatre-vein-doze ans, 

lo ho ma (forse) 92 

Mais VO né sarià creyre 

voi non sapreste credere 

Gombien d'ai mi de bon san 

fatto di sangue 

Dey qu' i n' y a pie de guerre 

Da che egli non vi ha più guerra 

Et que no sein sheur d*avey 

noi siamo sicuri (sihuri a Firenze) a;o$re 

Tolafé noutron vrai rey Què Vive 1... Evviva 

Tutt' afiatto nostro. — Pare che fosse tradizione antica 
appo i Savojani quella di riputare il loro paese come unito 
ali Italia ; perciò Y Imperatore Napoleone P era per loro 
Re più che Imperatore dopo che si assunse il titolo di Re 
d' Italia. Facevano poi quell'altra differenza, die gli era uà 
re t«9tirpaft>re , mentre al. duca di Savoja ripristinante , il 
suo vrat rey (re vero) dicevano. 



gran teln 

tempo 



No n^aveins u dey 

noi non abbiamo avuto da 

'Na se bona novella (1) 

Una . 

Que cela que sta matin 

quella 

On a balia ein velia; 

Essi hanno data in città 

Le vau de gron pesan d'or: 

Ella vale grossi bisonti 

Nos ein noutnm rey Victor. 

abbiamo 



Que Vive! 



Tutte le famiglie nobili antiche di Savoja andarono in 
Palestina e con esse i vassalli si crociarono, volentieri emi- 
grando da un paese in generale non ubertoso. Indi l'espres- 
sione pesan a or (che dovea ortogra(ai*si hezarC^ è rimasta 
nei proverbii Savojani. 

Ora che la Savoja trovasi nuovamente staccata dai Prin-^ 
cipi al riavere dei quali essa fecea sincero plauso cinquan- 
t' anni addietro, il Savojano già quasi morente allora spa- 
rirà afiatto dal discorso. Pria che arrivi questo monento, 
utile cosa per molti ed a tutti gradevole forebbe colui che, 
suffldentemente addentratosi nello studio delle lingue anti- 
che e nella ragione di quelle che o consorelle o figlie sem- 
brano del latino i se ne andasse nelle mille valli repote 
della ospitale Savoja, e nelle borgate o dttà le più disco- 
ste dalle maestre vie , massime in fra gli alti pastoragj^i 
raccogliendo con scrupolo e diligenza tradizioni e proverbii, 
poemi e canzonette. 

Ho qualche fiduda che il risultato di tali ricerche non 



75 



si allontanerebbe cotanto da queste conclusioni che dedurre 
poirebbonsi dall' esame degli squarci precedenti. 

Quando le invasioni del così detti Barbari ebbero sciolto 
appo gli Àllobrogi (2) vinti, sottomessi mai, i legami che 
Roma aveva loro imposti ; essi più presto dei Galli lipri- 
stinaron Y antico idioma , conservandovi nondimeno quelle 
forme ed espressioni latine che meglio confàcevansi al loro 
ingegno o corrispondevano ai loro bisogni. Siccome poi 
questi naturalmente dovettero esser slati ampliati dalla ci- 
viltà romana , Y innesto latino potè essere copioso. Perciò 
la lingua de^li Alpigiani moltissime attinenze mantenne con 

3ueir altra lingua c^e subentrando gradatamente al latino 
e of^cUs era intesa ovunque neir Italia , dal mar Siculo 
al Lago di Ginevra, dal Varo alla Narenia. Il Piemontese — 
che non volle diventar ìmguaj perchè avess' egli benanco 
trovato un Gamoéns, i suoi testardi parlatori Tavrebbe man- 
tenuto dialeito per amore air Unità italiana, — - il Piemon- 
tese fu anch' esso un idioma di transizione fi*a Gallia ed 
Italia ; però con tendenze sin dairorìgine evidentemente ita- 
liane, talché tanto si avvicina a quel latino rustico di cui 
trovo nel Sardo e nel Yalacco i rappresentanti pur troppo 
aflBevoliti. Fuvvi un tempo che fra il Piemontese ed il Sa* 
vojano degli altipiani correva, come dagli squarci prodotti 
può rilevarsi agevolmente, una rassomiglianza tale che nem- 
meno adesso Tuguale potrebbe vantarsi fra il Savoiano del 
centro ed i patoè dei dipartimenti oltreconflnanti. Dico oh 
ireoanfinanti perchè i aipartimenti i più limitrofi air at- 
tuale davoja già ne fecero parte integrante. La relazione 
anzidetta cominciò a venir meno allorché, per opera delle 
successive brecce che la Francia fece alla Savoja dopo 
aver redato il Delfinato, dopo la caduta deirultimo ducato 
di Borgogna e tanto prima che dopo la riunione dell' Ài- 
sazia, s' introdusse il predominio della lìngua d'o^l nel par- 
lar Savojano, rendendolo vie più dissimile dal suo germano 
il Piemontese. 

Eppure i soldati Piemontesi venuti a stanziare da guar- 
nigione in Savoja e vicendevolmente quelli di Savoja pre- 
stanti servizio a Torino se V intendevano presto col popo- 
lino con cui avean rispettivamente da fare, ciaschedun par- 
lando il proprio dialetto. Cosa questa che nessun ignora , 
che neir ultimo quarto di secolo abbia fermato dimora di 
parecchi anni a uiamberi od a Torino. Laonde, come alla 
confluenza mirabile delFArve nel Rodano, sotto all'ameno 
poggio della Bàthie di Garouge, nei pressi di Ginevra, ve- 
donsi le due acque per un lungo tratto fuggir insieme nello 
slesso letto, senza confondersi ma gettandosi soventi volte 
un braccio amico nel sen Tuna delFaltra ; parimente quasi 
vedrebbonsi nei frammenti surriferiti il francese e T italiano, 
la lingtéa cPoUl e la romanza o romana in gara a chi me- 
glio esternerà l'idea del poeta. E veda come ciò avviene in 
quest'epigramma che sarà l'ultima delle mie citazioni: 

In Savojano : In Piemontese : 

De bailleri ben I darla ben 

io d irei (ed anche balirei) 

Qn cartan de Sàtagne Un quintal (?) db castagne 

quarto castagne 

Per TAisse candii Per TAisse cangia 

(fiunUcello di Ciamberi) cang. 

Éin pur vin de Sdtagne ; An pur vin db Sdtagne ; 

in Cnautagne (Vigneti celebri) 

De me cuss'ri dzo Tpont I mh congierìa sout a Ih pont 

io coricherei sotto 

To de mon long Tutt db me longh 

lutto di mia lun^hefza 

Et de derie à TAisse : E i dirla a TAisse : 

io direi 

Que le bon Diot te craisse ! Che Ih bon Diù th chérsa! 

cresca» ^. 

Soggiungerò per finire che le differenze che ora sorgono 
tra il Piemontese ed il Savojano debbono per buona parte 
imputarsi alla influenza dei Longobardi. Simpatici molto 
agli abitatori guerreschi e ruvidi dei colli delle Dorè e delle 
Sture, essi' lasciarono nel piemontese idioma una^opia di 
forme e di voci più grande che non li si immaginerebbe 
di subito. Indi la ragione di molte rassomiglianze cogl'In- 



glesi non soltanto nell'indole, ma bensì nella lingua. Que- 
st' influenza non potè esercitarsi in Savoja , ove i Longo- 
I^rdi non fecero stabilimenti, eccezione fatta della Moriana, 
di qualche sito della Tarentasia e siccome ho letto non so 
più dove, nei paesi di Magland e dei Gets (corruzione que- 
sto di Gepidi) nel Falcignì. Infetti , essi traversarono sol- 
tanto, quasi, la Savoja sia per andare a guerreggiare contro 
i Burgundi fin sulle ripe della Schelda , sia per andare a 
prestare contro gli Arabi a Carlo Martello un soccorso che 
un altro Cartone ripagò, la Storia, dice il come..... 

Permetta eh' io faccia punto dopo sì dolorosa ricordanza. 

Gradisca dunque tal quale esso si è , questo meschino 
lavoro. Per me, il più bel pregio che gli possa trovare la 
S. V. sarebbe di non esserle dispiaciuto. Presumerei troppo 
confidando, che esso possa giovare molto agli studj mercè 
cui Ella rileva la critica italiana, onoran:!(pne ad un tempo 
le Lettere nostre, sagrificate alla mercatura ed all' industria. 

E con questi sensi, ed aspettando l'onore di fare, in per- 
sona, la sua preziosa conoscenza sono cordialmente 

Firenze, 5 ottobre 1867. 

Suo JDevAfno óbh.mo servitore 
Ignazio Billò 

P.S. In precedente ho tradotto, neli' aringa dell' araldo 
Savojano ai Ginevrini , Vito per presto — citè , meglio 
sarebbe subito (Su...bito...Vito). 



(1) Il grido araldico ed eroico di Savoja era: Saooie 
bonne nouoelle , che non si deve separare dal Fert , vo- 
lendo spiegare queste come Y ho fatto. Basta leggere il 
nostro eminente Cibrario per convincersi che ab antiquo 
Casa Savoja sperava di realizzare per l'Italia le profezie 
d'Isaia e di Gabriele. 

(2) Quante spiegazioni singolari si dieder mai di questo 
vocabolo, mentre, cercando nelle lingue vive di Savoja e 
di Piemonte, eredi» degli antichi idiomi locali , sarebbesi 
trovato uno schiarimento più naturale. L' etimologia è 
svolgitrice di Storia. Ritengo per fermo che il bergo fran- 
cese ha lo stesso radicale che la voce tedesca berg monte. 
Da questo radicale ci rimangono 6er<y6 in francese , che 
suona ripa più presto alta ; in piemontese brich , monte 
acuminato, ed in italiano bricca che suona baUe , in cui 
potrebbe dirsi che la l tiene eufonicamente il luogo della 
liquida corrispondente r. Ciò premesso, propongo sempli- 
cemente qdeste etimologie : la 1.* Savojana » piemontese 
l'altra: (1® a lou bardite, che suona, in piemontese di mon- 
tagna: a lo bèrgè, (al pastore); — (2® a taot brich fall' alta 
bricca ). Di queste due versioni la vera avrà trovato nel 
latino rustico ad illos etc, etc. , una lezione la quale in 
latino ciceroniano si sarà cosi togata: Allobroges. E non 
son pochi gli esempii analoghi per confermare questa in- 
duzione. 



CANTI POPOLARI 

raccolti in Pcmigliano d' Arco 

(Coniinuamne, vedi n.7 8 e9) 

XXXm. — 'Ncopp' a *sti trezze nu mièrolo r' oro , 

Trentatrè onze a iàrele pisare. 

Po* si venesse lu masto re V oro, 

Yulesse 'sta catena scannagliare, 

Votati, nonna, cu' li belli modi 

Zuccaro 'mmocca e lu curtiello 'mmano. 

Mièrolo^ merlo. 

Trentalré onxe^ che pesa trentatrè once d'oro. 

Lu masto re Poro. Il saggiatore; colui che saggia il ti- 
tolo deli' oro e dell' argento per apporre agli oggetti il 
marchio le^le. 

Scannaghd* , scannagUare ( propriamente scandagliare ) 
esaminare, investigare, qui, trattandosi d'oro, saggiare. 

'Mmocca e * mmano vedi il Canto che incomincia: Cielo ^ 
quanto so* belle *sti doje sore l 

XXXIV. — Ninnino mmio è àuto e dilicato, 
Nce assumigUa a nu laccio re seta, 



76 



Quanno sse mette 'mmiezo a chìilì frate, 
Mme pare 'n aniello r' oro 'mmiez' 'e rete. 

ÀutOf alto. Retet diti. 

XXXV. — Non mme piace V ària de V Acerra, 
E manco V ària de le Massarìe, 

A me mme piace Pomigliano bello, 
A do' so' nato Uà voglio morire. 

L' Acerra j Acerra. Molti sono i nomi di paese, che nei 
vernacoli napolitani prendon 1* articolo , il che dà spesso 
luogo ed occasione ad aferizzarii, trovandosi scritto p. e. 
L' A corra e la Corra, la Matrice e l'Anaatrice, ecc. Andrea 
Ferruccio ha detto in un'ottava^ della quale ho citato il 
primo tetrastico in nota al Canto XXV che incomincia : 
IM cielo sse guarnisce cu* le stelle: 

Comm' a Jpa mummia Tartarone resta, 
Comme a 'n ommo de paglia 'mmottonato. 
Parla, spapura, pezzo de 'n Anchione, 
Ca de la Corra pare *no pacione. 

Un canto di Taverna-Nova, casale di Pomigliano d'Arco 
sulla consolare, cho conduce a Napoli, comincia: 

Taverna-Nova, ària gentile , 

A chi no masto e a chi 'uà 'nnammorata. 

• 

Quanno la mano 'qq pi etto mme calaste, 
V te dicetti : fa cììello^ ohe buoje 

Per obbedire a li cumanne tuoje. 

XXXVI. — 'Nu juorno tu mm' ammave, e i' t'ammava: 
Séramo fatte duje core aunite, 

Mo eh' haggio saputo ca tu parìi cu' 'n àuto, 
r no' ne' 'e boglio perdere 'e fatiche. 
Mme lu voglio vedere a curtellate 
Voglio virè' chi li porta tanta ferite. 
Mo tra mme e buje ci nasce 'na lite : 
Che matassella 'e seta 'mbiccicata ! 
Mo eh' haggio saputo ca tu ti marito, 
Tu pierde 'a vita e i' 'a libbertà. 
Tu quanno viri a mme, mme vuot' 'e spalle ; 
r quanno vero a te, vero Tunfierno. 

Sèrafno^ eravamo, e vedremo ^eoa, per era. 
'Mbiccicate, arruffata. 
Libbertd, libertà. 

XXXVU. — Nu juorno viddi la Calavresella, 

'Ncopp' a lu puzzo la rangella 'ngneva. 

r nce hi dissi: — « Addio, Calavresella; 

« 'Na vèppeta 'e chess' aci|ua mme faciarria » — 

Essa sse vota aggraziata e bella : 

— a Non sulo r acqua, ma la perzona mmia. 
i< Accorto ca non rumpe 'sta rangella ; 

« Ih quanta mazza mme dà mammella mmia. » — 

— « Si te la rompo, (e la faccio nova 

« Cu' li donare de la borza mmia. » — 

Calacresella^ Calabresctta, calabresina. 

Rangella (o langella, e lancella più comunemente) broc- 
ca, mezzina. Il Galiani dice : - « Viene chiaramente dalla 
« parola latina Lagena » - La Langella è di cretaglia ed ìia 
due manichi , e serve di solito per i* acqua. Titta Valen- 
tino, nel Vasciello de Varbascia: 

Cacciaieno fora pò* tante lancelle, 
Cho de latte de crapa erano chiene 
Quale emo grosso e quale peccerclle, 
IMa stcvano appelate muto bene. 

*Ngneea da èngnere, empiere. 
Vèppeta^ bevuta. Da bibita, certo. 

Passo rOceano Occidentale Atlanteco, 
Ed arrivo ne l'Isole Canarie 
, Lia mme fece 'na vèppeta d'Asprinia 
Ed era doce assaje ccnìù de lo zuccaro. 
'Nfacci' a 'na volta lesse 'sta sentenzia : 
La 'mbriàchezia è mamma d'ogne bisio. 

Come vèppeta da ooere, si deriva chiòppeùa da chiònere. 
Una lezione più compiuta intercala due versi fra il 
quinto ed il sesto : 

Ora se vota, aggraziata e bella : 

— « Acqua non se pò dare pe' la via ; 



« Vieni stasera a la mia cammarella , 
a Non sola l'acqua, la perzona mia » — 

XXXVin. — 'Nzorate, Ninno mmio, puozze là' bene, 
Puozz' accucchiare Toro, cu' la pala, ^ 
Puozze pigliare chi piace a tene ! 
'Sta Nenna, ca te pozz' accuitare. 

Accucchid\ accucchiare f (propriamente accoppiare) met- 
tere insieme. 

XXXIX. — Palazzo ca di fierro site guarnito, 

Da' rinte no' nce ponno cannunate. 

Lu voglio schianià' cu' nu sturnuto, 

Si no' mme date 'sta nenna, eh' haggio ammalo. 

Da liuto sienti fa' : — « Ajuto, ajulo ! 

<c Chi è 'stu giuviniello, che ha armato ?» — 

Schianid'y atterrare, spianare. Nel primo verso andreb- 
be scritto si' guamuto e nel quarto : si no* mme date 'a 
nenna; 

XL. — Palomma, che d'argento ne puorte l'ale, 
Ferma, ammente^te dico doie parole, 
Amnoente te tiro 'na penna da chess' ale, 
• Pe' fa' 'na leitricella a lu mmio ammore. 
Tutta de sanghe la voglio abbagnare 
E pe' sigillo ci metto 'stu core. 

Ammente. mentre. 

Sanghe^ sango, sangue. Agnano Zeffonnato, Canto IV: 

Ma lo maro Tavea proffedejuso 
Sbattuto a chille scuoglie tanta vote. 
Tanto, che, d'acqua e sango tutto 'nfuso. 
Manco da terra sosere sse potè ; 
Ma lo cielo, ch'a nuje sempe è piatuso 
E dà soccurzo a le gente devote, 
Tanta forza le deze e tanto ardire, 
Che chiane chiane sse potie sosire. 

XLL — Quanno la zita è fresca maritata 
Non sse ne sosse 'ntlno a mìeziuorno. 
Va la socra con la cainata: 

— « Sussite, nenna mmia, eh' è ghiuomo chiaro. » — 

Zita, sposa. 

Sàsse^ sùssite; alzare, alzati. 

Miesiuorno, mezzogiorno (trissillabo). 

Socra^ suocera. 

Cainata^ cognata. 

Ghiuomo, per eufonia, invece di juorno. 

XUI. — Quanno lo giuviniello sta 'mmalato, 
La mamma se lu mira cu' doje canneté. 
Po' sse va a chiammà' la 'onammurata : 

— « Gomme non mieni figliarne a birè' ? 
« Te le boglie pavare le ghiumate ; 

« N' 'o voglio fa' muri' penzanno a le. » — 

GiuoiniellOf giovanotto. 

Non mieni , non vieni ; mutato il o iniziale in m , per 
amore della nasale che precede. 

Figliarne, mio figlio. 

Ghiuomate , per eufonia , come ghiuomo , ghiurica , 
ghianco, 

N* 'o, non lo. 



(Continua) 



VnroRio Imbruni 



A proposito di un canto 

Una delle cose più diffìcili, nello studio della poesia po- 
polare, è il determinare, con precisione, Torigine di ciascun 
canto. Le parvenze ingannano;; e, spesso, un nome, un'al- 
lusione ci iraggono in errore. E, per questo, eh' io non tra- 
scuro, mai, di riferir ciò che riguarda ciascun canto, per- 
chè talvolta, a furia d'ipotesi e di congetture, si giunge ad 
avere la vera spiegazione, la sicura origine. Ed è per que- 
sto, che, ora, voglio trascrivervi un brano d'una lettera del 
Come Giuseppe Gattini, (l'autore della Storia di Matera), 
riguardanèe un canto che segna il n."" Gii , ne^ miei del 
Piano di Sorrento , e che comincia : Quanto fa nu gio- 
vene po' 'na ronna ce. ec. 



77 



Egli mi scrive : « Non vi sarà sgradilo, pertanto, se di 
« esso, di cui dite esservi una variante napolilana, poco dis- 
« simile, vi trascriva, qui, altra variante di Fratta Maggio- 
<c RE, avvertendo, che la nutrice del mio bambino reclami 
« la priorità pel suo paese. Essa si chiama Peppina Ca- 
« passo, casato degno d'esser preposto alla Direzione di un 
« Grande Archivio, epperò le si potrebbe aggiustar piena 
« fede. Ad ogni modo, eccovi il canto con una introduzio- 
« ne storica, e col titolo, eh' io scrissi nel mio taccuino : 

PURZÌ MORENNO I 

Era 'na flglij de locannera e voleva no Aglio de Veflce, 
La mamma de chisto no' nce la voleva dà' , e dicette : 

« Figlio, io muorto te veco , e 'nzurato no I » Chillo overa- 

mente morette e nascette 'sta canzona : 

Che te fa 'sto giòvene p' 'a 'nnammorata, 
De passione ne care malato, 
La 'nnammorata ca 'o bbene sapenno, 
'Ncoppa lo lietto lo bbene a trova'. 
Isso se trova votanno p' 'o licito, 
« Mamma, chi è 'sta nenna a 'sto mio canto ? » 
« Figlio, chesl' è la tua 'nnammorata, 
« Ghella ca tento bene te voleva. » 

« Oie ! mamma, pavancelle le jurnale, 
Lassamella sta' dn' juorne co' mico. » 
« Figlio, a te lo puzo t' è mancato ; 
Lo compissore a scianco t' è benuto ; 
L' uoglio santo purzl sta apparecchiato, 
E li chiuove pe' te 'nchiuvà' 'o tanto ; 
Le sore toie stanno scapigliate, 
Dicenno : Frate mio t' ammo perduto ! » 

Nella variante di Fiano di Sorrento ci sono questi 
quattro versi di più, che io mi permetto trascrivere : 

*A *na mano le purtaje doje ranate, 
A 'n au'a mano 'na mela gentile , 
- « Ref peschete, rtfreschete, malate, 
Nu* boglio ca pe* me avesse a muri*. — 

Banato, vale granata, melagranata : e, certo, nessun 
lettore si troverebbe nel caso di scambiare granata con 
la granata (scopa) come quel tale, che traduceva dal fran- 
cese cibarsi Proserpina un « piatto di scope ». Ma non ci 
perdiamo in queste inezie ! 

Voglio, solo, notare, che nella variante pianese, ci manca 
la prima parte del dialogo, fra la madre ed il figlio. Fra 
le altre varianti, ne conosòo anche una ischitana, quasi con 
le sole differenze dialettali ; e ve ne saranno in altri ver- 
nacoli, che io non conosco. 

Tornando all' origine del canto è cosa ordinaria , che 
ogni paese se ne voglia assegnare il brevetto d' invenzione; 
ma è ben difficile, ordinariamente, venirne a capo. E, forse, 
per ciò, dovevo astenermi di riferire questo , che , se non 
dà la risoluzione della quistione, può, certo, agevolarne la 
via? 

Piano di Sorrento, 12. X. 83. 

Gaetano Amàlr 



IX. 



'O CUNTO DE L' AUCIELLO VERDE 

Nce steva 'na vola nu re. Chistu re teneva 'na bella fi- 
glia. Nu juomo, meni' 'a cammarera 'a slevjppettenanno, 
trasette p' 'a fenesta 'n auciello verde, e se pigliaie 'a fet- 
tuccia, ca serveva p' attacca' 'e capille d' 'a regginella, e 'o 
péttene, e se ne fuiette. 

'A regginella rummanette tutta penzarosa e 'nguttosa. 
Chili' auciello nun turnaie chiù , e 'a regginella penzava 
sempe a isso, che s'aveva arrubbato 'o pèttene e 'a fet- 
tuccia soia. '0 pale eh* 'a vereva tutta rispiaciuta, e ca nun 
ze sapeva spiega' niente, P addimmannava sempe pecche 
essa steva accuss), ma essa nun le riceva maie niente. 



'0 pale nu iuorno chiammaie cunziglio 'e menistre, pe' 
sape' che puteva fa' pe' là' ridere 'a figlia. Fra l'ati me- 
nistre ce ne stette uno ca ricette: 

— Maislà, facile cumme ve dich'io. Facile 'na fumana 
'e vino. Tutte quante se 'mbriacarranno e 'a rigginella allora 
ridarrà. 

'0 re accussl facette là'. 'A fumana se faceite 80tt"o 
palazzo riale. Chi se leva a ghiènghere nu perettiello, chi 
n arciulo, chi nu bucale, chi nu calo 'e vino, e tutte se 
'mbriacàvano e se menavano pe' terra cumm' a tanta 
muorte. E chi cantava e chi pazzì'ava e chi redeva : tutte 
stèvano altere e cuntente. Eppure cu' tutto chesto, 'a rìg- 
ginella manco rereva, e steva a guarda' cumm' a 'n'aline- 
cuta. 

'0 paté, verenno ca nun aveva attenuto 'o scopo suio, 
tutto rispiaciuto, chiammaie 'n'ata vota 'ncunziglio 'e me- 
nistre. Uno de chiste le ricette : 

— Maistà , facite 'na fumana d' uoglio, ca sarrà chiù 
beli' a bedè', doppo che sarrà fenutò l'uoglio, tutte chelli 
ggente ca venarranno àzzuppà' chellu poco d' uoglio ca 
sarrà rummaso p€^ terra. 

'0 re cummannaie ca se facesse 'a funtana d' uoglio, e 
accussl fuie fatto. 

Tutta quant' 'a gent' 'e chillu paese se leva a piglia' 
l'uoglio, e quanno l'uoglio fernette, 'na vicchiarella s'ap- 
presentaie cu 'na langella 'mmano e cu' 'na spegna p' àz- 
zuppà' tutto cheli' uoglio ca steva pe' terra, spremmeva 'a 
spogna rint' a chella langella. Facette chesto pe' chiù de 
doi ore e se inghett' 'a langella. Quanno se ne steva ienno, 
'a cammarera d' 'a regginella le menale 'na prela e le 
rumpelte 'a langella, e l' uoglio carette tutto pe' terra. 

'A rigginella se meltett' a rìdere comm' a 'na pazza. 

Chella vecchia, verenno ca essa rereva, se sentette tantu 
currivo, ca le dicette e' 'o sang' a l'uocchie : 

— Puozz' l' sperta p' 'auciello verde. 

'A rigginella allora chiammaie 'o paté e le ricette : 

— Papà , faclleme chiammà' chella vecchia, ca m' ha 
fatto rìdere doppo tanto tierapo ca i' nu redeva. Le voglio 
fa' nu rialo. 

— SI, figlia mia, ricette 'o paté, e mannaie a chiammà' 
chella vecchia. 

Quanno a vecchia traseite rint' à càmmera d' 'a riggi- 
nella, chesta le ricette: 
-^ Faclleme nu piacere , che cosa è 'st'auciello verde T 
'A vecchia le ricette: 

— Venite cu' me, ca v' 'o faccio vede'. Spugliàteve de 
'sti panne vuoste e mettlteve 'e micie. 

'A rigginella se spugliaie d' 'e paime suole e se meltette 
chilli d' 'a vicchiarella, e ascette d' 'o palazzo suio anna- 
scuso d"o paté. 

Cammina cammina, truvàieno nu ciardino. 'A vecchia 
s' accustaie vicin' a 'na cappuccia, e 'a tirale. Ascette da 
là sotto 'na bella gradiata 'e màrmulo. Cummenzàieno a 
scènnere. Quanno fùieno, a nu cierto punto, truvàieno 'na 
porta. 'A vecchia arapett' 'a porta e 'a rigginella se tru- 
vaie rint' a nu beli' appartamento. Int* a 'na stanza ce steva 
'na tàvula apparicchiata pe' doie perzone, cu' piatte fine, 
piatanze squisite, e ogne sort' 'e ben' 'e Dio. Inf a 'n'àn- 
gulo d' 'a stanza ce steva 'na congela cbiena 'e latte, e 
'n'ata chiena d'acqua. 

'A rigginella guardava tutto 'sta robba e' 'a voce' aper- 
ta, e nun teneva curaggio de di' doie parole. 

Mente stèvano accusi, 'a vecchia ricette 'nfacci' à rig- 
ginella : 

— Annascunnlteve sotto 'o lietto. 

'A rigginella, senza sciata' nimmeno, accussl facette. 

Tutt' a nu tratto, se spaparanzale 'o barcone e trasette 
'n auciello verde. Se menale rint' à còngol' 'e latte , e po' 
rint' a chella d'acqua: n' ascette nu bellu giòvene. S'asset- 
tale a tàvula , cacciai 'o pèttene e 'a fettuccia , eh' aveva 
arrubbata à rigginella , e se mettette a chiàgnere cumm' a 
nu guaglione, ricenno: 

— 'A fettuccia 'a veco, 'o pèttene 'o veco, e 'a riggi- 
nella nun 'a veco chiù. 

E chiagneva chiagneva. 



7$ 



'0 primmo 'o siconno e 'ò terzo iuorno se passaie ac- 
cussi* * 

'À matin' appriesso, quaon' 'o giòvene se menaie prìmma 
rinf 'a còngola 'e latte e po' rint' 'a còngola d'acqua pe* 
turoà' a deventà' audello verde, 'a rigginella se ce menaie 
'dcuoIIo e rablN*acciaie. 

Isso le ricette pe' tutta risposta : 

— Ah, eh' he' fatto I eh' he*^ fatto ! 
Mente riceva accussì, ascètten' 'e ffate, 'o 'ncatenàieno 

e s' 'o purtàieno. 
*0 gióvane, allora, ricette 'nfiicci' à rigginella. 

— S veramente me vuò' bene, m' baie da aspetta' sette 
anne, sette mise, e sette iuorne fino a quanno femesce 'a 
sventura mia. 

E fuie purtato a d' 'e Me. 

k pòvera rigginella rummanette a chiàgnere e a la- 
mentàrese. 
'A vicchiarella le ricette: 

— Siente, pg^nè', si tu faie chello che stale facenno , 
i* nun t'aiuto chiù, te lasso e me ne vaco a do' so' venuto. 

*A rigginella nun chiagnette chiù, ma/ummanette pen- 
zarosa penzarosa. Nun ze lavava chiù , nun ze pettenava , 
e nun mceva ata cosa che penzà' sempe a chiàpere quan- 
n' 'a vecchia nun ce steva. S' era fatta bruna, ca nun ze 
ricunusceva chiù. 

I^ssàieno 'nfraitanto 'e sett'anne, sette mise e sette iuor- 
ne. '0 re, cumm' aveva prummiso turnaie. Arrivalo sotl' 'a 
fenesta , nce vedette affacciata 'na fèmmena brutta brutta , 
ca pareva 'na scigna. '0 re rummanette alleccuio, e, p' 'o 
schifo, le sputale 'nfaccia, ricènnole: Puh , e pe"n ommo 
te si' arreddutta accussl. Avutale 'e spalle e se ne lette, 
Gbella pòvera figliola a chiàgnere e a disperàrese: l' noc- 
chie suoie parèveno role funtane. 'Ntramente se smaniava 
'e chesta manera, passàieno 'e ffate. Una de cbeste se fer- 
male e le ricette : 

— Puozz' addeventà' chiù bella 'e chella eh' ive. 
'N' ata le ricette : 

— Puozz' addeventà' chiù gióvane 'e chella eh' ive. 
L' ata le rette 'n aniello e le ricette : 

— Tutto chello che buò' , addimmàjanelo a 'st' aniello , 
ca l'avarraie. 

E se ne lèttere. 

'A rigginella 'ntramente pulizzava ftniello , sentette dì- 

cere: 

— Gumanna maistà. 
•r- Yurria nu palazzo tutt' a ponte 'e diamante chiù belle 

ca ce stanno 6 munuo , rimpett' ò palazzo d' 'o re verde. 
Voglio truvarme vesluta cumm' a 'na rigglna 'nzieme cu' 
Catarina. 

'A rigginella nun aveva manco fenuto 'e dV chesto , ca 
rint' a niente se truvale rinto a nu bello palazzo, tutte de 
pont' 'e diamante 'nzieme cu' Catarina. 

'A matina appriesso, 'o re, cumme se scetaie, e ghiette 
p' affacciàrese 6 barcone , tanto d' 'o sprendore ca le lette 
rlnto a 1' nocchie , ca rummanette cumme a cecato, e nun 
poteva tenì' V nocchi' apierte. 

lette a d' 'a mamma e le ricette : 

— Mammà , 'e chi è 'stu palazzo che sta rimpetto 6 
nuosto ? 

A mamma le ricette : 

— Tu t' he' sunnato stanotte ? 
Tu che palazzo me vaie cuntanno ! Si fino a ieressera 

nun e' era niente I 

-— Mammà, i' nun m' aggio sunnato niente. Venite a ve- ' 
de' e po' parlate. 

'A mamma pe' fàrcia cuntenta , ascelle for' 'o barcone , 
ma rummanette 'ncantata. 

— Chisto è nu palazzo male visto. 
Mente sloveno fore 6 barcone, ascelte ad affacciàrese fo- 

r' a nu barcone d' 'o palazzo 'e rimpetto, 'na giòvene de'na 
bellezza rara. 

Quanno 'a mamm e 'o figlio verètteno chella bellezza 
rara nun ze sapèttero dà' chiù pace e volèveno sape' pe' 
forza chi era. A chiunchc addimmannàvano , nisciuno ne 
sapeva niente- 



'0 re ricette 'nfaccia à mamma:. 

— Mammà, le voglio manna' nu rialo. 

— Mànnelo 'o manliello tuie. 

'0 re accussi facelte, e le mannaie a rialà' 'o manliello 
ca isso se metteva quanno teneva ricevimento. 

'0 metlette 'ncopp' a 'na bella guantiera d'oro, e 'o man- 
naie pe' duie pagge. 

'E pagge tuzzuliàrono 'a porta d' 'o palazzo 'e rimpetto. 
Ascelle 'a signora. 

— Che bulite ? 

— '0 re ca sta rimpetto v' ha mannat' a rialà' 'o man- 
to sulo. 

— Catarina, Catarina, ce stanno róapplne rint' à cucina? 

— No. 

— Embè, piglia chesta cà. 

Stracciai 'o manto e 'o mannaie rint' à cucina. 
Quanno fuie ritto chesto 'o re , se meitette a chiàgnere 
cumm' a nu picccerillo. 
'0 iuorno appriesso ricette 'nfaccia à mamma : 

— Le voglio manna' 'a spala mia. 

'A metlette rint' a 'na guantiera d' oro, e ci 'ji mannaie. 

— Catarina , Catarina ricette 'a rigginella , ce sta spilo 
rint' à cucina ? 

— No. 

— E piglia chesta eh' è bona pe' spilo. 
Chesto fuie rapportai' 6 re. 

Roppo d' ave' chìagnuto tanto, ricetl' à mamma, ca va- 
leva lenta' 'n' ata prova, e roannàrele 'n alo rialo. 

— r nun tengo eh' 'a curona , e ci 'a voglio manna' 
rimane. 

'A matin' appriesso, pigliai 'a curona e ci 'a mannaie. 

— Catarina, Catarina, he' rat' a magna' 'e ggaUine T 

— No. 

— Embè, piglia cà e dall' a magna'! Spùlleca 'stu granu- 
rìnio 'e ggalline. 

Ricenno chesto, facette carè"e brillante d"a curona, e 
'e dell' a li ggalline. Quanno d! 'a curona catterò tutte 'e 
brillante, ricette 'nfaccia a Catarina: 

— Porla 'slu trèbbeto rint' à cucina. 

'0 re , quanno ricevette chesta 'mmasciata , tanto d' 'o 
dulore, se mettette rint' 'o lietio; 'a mamma, visto e' 'o fi- 
glio nun puteva sta' chiù buono, le mannaie a di' 'ntltol' 'e 
carità, si volev' ì' a fa' 'na vìset' 6 figlio. 

— F venarraggio a d' 'u isso, si d' 'o barcone mìo a 'o 
barcone suio se farrà 'na barcunat' 'e cristallo, e nun d ha 
da sta' manco 'na pagliuca 'ncoppa, e nun ha da canta' ni- 
sciuno gallo. Si canta nu gallo , me ne lom' arreio 'n' ala 
vota. 

'0 re caccìaie 'n òrdene ca s' accerèsseno tutt' 'e galle, e 
accussi fuie fallo. Catarina se n' annascunnette uno , e 
quanno fuie mezanotte e 'a rigginella ascelle fora ò bar- 
cone pe' ghl' a d' 'o re , Catarina facette canta' 'o gallo, e 
'a rigginella se ne turnaie rint' 'e stanze soie. 

'0 re mannaie verenno chi teneva 'o gallo ; ma Catari^ 
na l'aveva già accise. Isso turnaie 'n' ata vota tutto malin- 
cunuso, e chiagneva chiagneva. 

'A riggina 'a matin' appriesso le mannaie a dì' cu' che 
core poteva fa' tanta dispietto 6 re , ca se ne mureva pe' 
r amore ca le portava : fosse luto a truvario, ammeno pe' 
nu mumento! 

— r tanno iarraggìo a vederio, quanno 'o re se fingiarrà 
muorto, 'e ccampane sunarrann' a muorto , tutta 'a cita se 
meilarrà a lutto , e 'o re passarrà pe' soit' ò barcone mio 
rint' a nu tavuto scupierto , e tanno i' venarraggio a tra* 
vario. 

'0 re accuid facette. P' 'a cita se spargett' 'a nutlzia ca 
'o re ei*a muorto , 'a cita se meltett' a lutto , 'e ccampane 
sunàien' a muorto , e 'o re passaie pe' soli' 6 barcone d' 'a 
rigginella. 

Arrivato soli' à barcunata , 'a rigginella ca stev' affac- 
ciata, 'o sputaie 'nfaccia e ricette: 

— Sdù, e pe' 'na fèmmena he' fatto tutto chesto. 

'0 re , cumme sentette chesto , capette sùbbelo chi era 
chella fèmmena ca le faceva tanta rispiette. Facette se^no 
a 'e facchini ca fbsseno turnate arreio e cumn^e turnai a 



y& 



mm 



E alazzo , se vestette d' 'e panne suoie da re , e le lette a 
i' vlseta 'naperzona, e le rìceile si s' 'o voleva spusà'. 'A 
rigginella 'o perdunaie, mannaie a dì' 6 paté suio ca essa 
era viva, le cercale 'o perìness' 'e spusà^e se facèttero 'e 
festine, e fiiìeno, roppo tanta guaio, e dìspiacìrì, nnarite e 
mugliere. 

JRaccólse m Napoli YmcENzo Della Sala 

Canti del popolo di Fagognano 

(Contini e fine vedi n."" 6 e 7) 

Bella fogliò, che tanto te pretienne, 
Te crìre re pigliare quacche canto. 
Tu saie ca non si' figlia 'e cavaliere. 
Manco la prencepessa Satriano, 
Parete (40) faceva lo chianchiere, 
E màmmeta faceva 'a tavernara. 
Quanno te crìre re saglire 'ncielo, 
Rinto a lo miezo se spezza la scala. 
Quanno te crìre 'e vèvere ini', 'o bècchierc, 
rassitte 'nterra e bive ini' 'o pantano (41). 

XXXI. 

Tenffo lo bello mio se chianmia Yecienzo, 
E Samroicienzo lo pozza aiotare ; 
Voglio accattare no cuoppo re 'ncienzo 
Rommèneca lo voglio 'ncenzeare. 
Si ne' esce quaccheruno e bo' a Becienzo, 
Piglio 'o cortiello e lo core re (aglio. 
'0 naare e 'ncienzo, 'o mare e 'ncienzo ! 
Sé 'nrora a Posetano bello Vecienzo (42). 

XXXII. 

Re Nàpole bello ne vorria 'na casa, 
Fore Salierno chillo bianco rìso, (43) 
Re Gastiellammare la tela che trasa, (44) 
Pe' me la fare la fina cammisa. 
Re Vico ne vorria quatto cei^ase, (45) 
Re Sorriento li flQche paraviso, (46) 
Ra nenna mia ne vorria no vaso ; 
Acciò vavo 'intera e non so' 'mpiso. 
-^ « Bello fc^liulo, non parlate e vaso, 
« A chisto vico se noe more 'mpiso. 

xxxni. 

Int' a 'sto vico non nce sta speranza. 
Cara figliola ^ e' 'a vesta licenza : 
'A me non 'ite avuta 'na mancanza, 
Manco no rammazziello re spartenza, 
r sempe nce mantengo la speranza, 
E quanno moro a te cerco licenza. 

XXXIV. 

r saecio 'na canzona re li ttoie. 

Si te la rìco còllera te piglio, 
«. E si la rico a la signora toia 

Che te venga malanno e che te piglia. 

'0 mare e be', 'o core e lene, 

Bella, p' amar' a te, ietto 'ngalera ! 

lette '«galera, bella, pe' t' amare, 

Ciento n' abbannonaie p' amar' a tene I 

XXXV. 

Rosa rosolia, spampanato fiore, 
Comm' a la rosa 'miezo a lo ciardino : 
Cosi 'a mortella quanno mette 'nfiore. 
Leva la potenzia a li bbiole. 
Così è la renna quanno fa l'ammore, 
Tene ciento bellizze e chiù ne volo. 

XXXVI. 

Licenzia, licenzia v' addimmanno, 
Ca 'sii figliule ire se ne vonno ; 
S' enno sosuti (47) la luna allarbanno, 
'0 siénte lo rilorgio sta sonanno : 



Chisto è lo vero segno ca fa iuomo. 
Licenzia, licenzia v^ addimmanno. 

xxxvn. 

'Sta nDtte, a meza notte, oh maro mene (48) ! 
Fuie chiammato ra 'na bella renna. 
— (c Figlio, me ne vengo vascio vasdo, 
A do' sento àddore r' 'a spicandossa (49). 

XXXVUL 

Rint' a 'sto pielto avite role fontane, 
Senza la neve l' acqua fresca vene. 
'St' acqua fresca li malate sana. 
Pur' a li cieche la vista re vene, 
r vac' ascianno l' acqua fresca e bella, 
Chella eh' avite vuie rìnt' a 'sti ggiarre. 

XXXIX. 

Fegliola, vuie quanta site bella, 
Che state semp' accanto re manna ; 
Chess' acqua fresca ve mantene bella^ 
Comm' a 'na rosa 'nriezo a Io ciardino* 
Lo cielo v' è crìata accessi bella, 
Quant' è ricco e beato che ve piglia. 

XL. 

La vìa re Mojano (50) a mana mancs^, 
Là ne' è 'na nenna che me fa morire. 
Tene la Caccia re la rosa ianca, 
Lo musso accianciusiello quanno rire, 
r chiammo, chiammo, la vaco speamio: 
Si te ne vuò' venir' à casa mia. 
Chella me rice aspètteme 'n at* anno, 
Quanto me la content' a mamma mia. 
Sule 'e palumme 'e hanno roccheanno (51)^ 
Fore se ne vanno re lo Divo (52). 

XU. 

Mo si' passato e mo tuom' a passai*e, 
Struic (53) li scarpe e nce pierde lo tiempo. 
Mamma nria a te non me te vo' rare, 
Rice ca tu si' cuorpo de buontiempo (54) 
Yatlinn' à forca ca tu si* pacchiano. 
Co' tico voglio pèrdere lo tiempo. 

XLU. 

Cielo, (manto so' belle 'sto de' sere, 
Into Palermo non nee so' li ppare. 
Stann' im' 6 paorto e aspettano fore 
Che lo buon tiempo h pe' savicare. 
La mercanzia sia re seta e oro, 
Li mercantielle so' Napolitano ; 
r mescheniello oce songo ra fore: 
Noe potesse trs^' pe' noarenaro 1 

XLIU. 

Piccolo è lo sole e dà sprennore» 
Piccola è la hma e è stralncente, 
Piccolo è lo caròfeno eh' adderà. 
Piccola è la rosa e adderà tanto. 
Pìccolo è lo penniello e dà colore, 
Piccolo è lo pettore e petta tanto. 
Piccolo è ninno mio e fa Fammore, 
Chili piccolo è 'sto core e t' ama Unto. 
T' ama tanto e bì ! sto cà, paoso loco : 
Nce venarria I 

XLIV. 

A Casa Cafiero (55) ne' è nato no lavoro (56), 
Nce vanno a spasso marevizze e mèrole (57) : 
Nce sta 'a Cepolla (58) comm' a 'na reàvola, 
Vo' maretà' 'e ffiglie e non e' è remmèrìo. 

XLV. 

Tre fegliole alla fontana. 
Una scèrea (59) e 'n' ata lava. 
'N' ata prea a Santo Vito (60)» 
Che le manne buon marito* 



80 



Buon marito sta 'ncastiello, 
Che prea Y aucielle. 
L'auciello sta 'ncaìola... 
Uh che bella f^liola (61) I 

XLVI. 

Jesce sole, jesce sole, 
Jesce, jesce, jesce rao. 
Tu quanno jesce T tanno spanno f62), 
Tu si' meglio r* 'o sciultapanno (63). 
'0 sciultapanno e anno, 
Peppeniè, te tengo 'ncanna (64). 

Eaccoìse Luigi de Gennaro 



(40) Parete, tuo padre. 




stello 

abbellì a^w.^w — , - -v, 

stello fu ereditato da Giovanna IL* Nel XV secolo passò 
ai Baroni. Da questi a Matteo di Capua dei prìncipi di 
Conca, il quale da un casino lo trasformò in castello Del- 
l'anno 1610. (Summonte, Capaccio, Ab. Parascandolo). 

Estinti i principi Conca, venne in potere dei Ravaschie- 
ri principi di Satriano fino al cadere dello scorso secolo. 
Fu rifatto nel XVII secolo da Ettore Filangieri generale 
di Filippo IV di Spagna. Nel 1807, i principi Satriano lo 
vendettero a Casa Reale ; questa a Nicola Amalfi , e da 
costui finalmente nel 1822 passò al Duca Luigi Giusso , 
padre dell'ex sindaco di Napoli, conte Girolamo Giusso. 

A chi ora lo visita sembra di trovarsi nei giardini di 
Armida. In esso Gaetano Filangieri , soggiornando molli 
anni, scrisse l'immortale Scienza della Legislazione. 

Cfr. questo canto con la raccolta di Amalfi , Canti del 
pop. di Serrara d'Ischia, N.° XXXIV. 

(42) Sammecienzo , S. Vincenzo. Vi è una variante in 
dialetto nap. Posetano^ Positano , comune della prov. di 

Salerno. . . , , 

(43) Saliemo, Salerno città del mezzogiorno, capoluogo 

di prov. 

(44) Castiellammaref Castellammare di Sabia, provincia di 

Napoli. «^ 

(45) Vico , Vico Equense. SuU' origine del suo nome e 
topografia, leggi TAbb. Gaetano Parascandolo, Monogra- 
fia di Vico Equense (Napoli 1858). 

(46) Sorrento, detto dalle Sirene , città a poca distanza 
da Pagognano; Surrentum cum promontorio MinervaeSi- 
renum quondam sedes, Plinio. 11 promontorio di Minerva 
era cosi detto da un tempio (Delubrum) ivi edificato a que- 
sta Dea, ed oggi in quelle vicinanze sorge Massa Lubrense 
(Delubrensis). Sull'origine del nome di Sorrento leggi An- 
tonio Siila (La fondanone di Partenope, p. 72, Napoli 1769). 

(47) sosutif alzati. 

(48) maro mene ! povero me. 

(49) spicandossa^ spis;anardo, bot. Lavandula spica. 

(50) Mojano^ (Mons-lani) contrada poco distante da Pa- 
gognano , e dello slesso comune di vico Equense. Fu la 
terra natale dell' illustre Filippo Cavolino, verso la metà 
dei XVIII secolo. Egli fu giurista criminale e naturalista. 
Ebbe la cattedra di Giurisprudenza. Scovri due generi di 
gorgonie^ e scrisse un'opera sui pesci. Le sue scoverte e 
1 suoi studi sono stati commentati dal chiaro prof. Trin- 
chese. Mori nel 1808 e fu sepolto in S. Michele a piazza 
Dante in Napoli. 

(51) roccheannOf tubando. 

(52) Cfr. MoLiNARo Del Chiaro , canti del pop. nap. , 
pag. 115, canto 5.® 

(53) Struie^ consumi. 

(54) cuorpo de buontiempOy buontempone. 

(55) Casa Cajiero, gruppetto di case in Pagognano. 

(56) Idooroj lauro (laurus nobilis). 

(57) marer>izze, tordi : mèrole fem. di merli. 

(58) Cepolla, nome di donna, noto a cosa Cafiero. 

(59) scérea, strofina. 

(60) Santo Vito, si venera in un villaggio poco distante 
da Pagognano. 

(61) Cfr. MoLiNARo Del Chiaro , canti del pop, nap, , 
pag. 40, canto 31.^ 

(62) spanno, spandere il bucato al sole. 
(S3) sciuttaparmo, trabiccolo. 

(64) Cfr. MoLiNARO Del Chiaro , canti del pop, nap, , 
pagg. 80-81, canti l3.o e 14.o 



NOTIZIE 

Il Professore Stanislao Marchiano ha pubblicato in Na- 
poli un grosso volume di pagine 151+105 , in 8® grande , 
di Sttidii filologici svolti con la lingua pelasgo-albanese. 
Quale sia lo scopo dell'autore, apparisce da queste parole 
della prefazione: «mosso...— egli dice— da naturale risenti- 
« mento nazionale in vedere questa primitiva lingua po- 
« sta nell'abbiettezza di un dialetto, fui spinto a scrivere 
a queste pagine , che ti presento qual saggio filologico , 
« per dimostrare che i linguistici, forse poco versati neU 
« i idioma albanese, non ebbero tutta la ragione del mon- 
« do , giudicandolo dialetto corrotto della lingua greca j» 

Nella seconda parte del volume,' è un QUadro sinottico 
di vocaboli della lingua primitiva pelasgo-albanese confronr- 
tati con gli altri i^ofoni ed isosomi delle lingue: greca, la- 
tina, francese, tedesca^ inglese^ slava e Dialetto napolitano. 
Ma, in veritàr, questo è un dialetto napoletano, che noi 
sentiamo parlare per la prima volta : Chiatro per ghiac- 
cio. Comma per chioma. Centra per piccolo chiodo,.. Acro 
per burbero, Ngòtola per miscellanea. Ruzza per ruggi- 
ne, ecc. ecc. ecc. 

Dalla casa editrice Ricordi di Milano , in isplendidissi- 
ma edizione , sono stati pubblicati dal maestro F. Paolo 
Frontini Cinquanta canti popolari siciliani con interpreta» 

zione italiana. . , . 

Sono dedicati al Dottor Giuseppe Pitrè; ed invero, queste 
cinquanta melodie completano la grande raccolta, per cosi 
dire letteraria, fatta dal Pitrò dei canti dell' Isola. 

Il signor Vittorio Caravelli , nel N. 16 , Anno VII del 
Preludio (Ancona, 30 Agosto 1883) ha pubblicato , dal ti- 
tolo : Tradizioni drammatiche popolari, una variante cala- 
brese della rappresentazione « 1 dodici mesi » edita nei 
N.<> 5 dello stesso periodico dal nostro collaboratore, av- 
vocato Vincenzo Simoncelli. 

Nel numero 41 dell' anno V ( Eloma , 14 ottobre 1883 ) 
del Fanfulla della domenica, in un articolo del signor G. 
Salvadori , intitolato Canzoni e storie son riportate due 
canzonette popolari : Ho una barchetta nel mezzo al ma- 
re; ecc. e la Cecilia: Si mise il grembio bianco ecc. 

Karolo Krolm ha testé compiuto un viaggio nella Esto- 
nia , allo scopo di raccogliervi i canti popolari. Si dice 
che ne abbia raccolti più di mille* 

Riceviamo e pubblichiamo: 

Egregio Signor Direttore, 

Sarà bene avvertire che la canzone dialettale, riportata 
nel num. 7. del Giambattista Basile, col titolo: — Ilpimto 
della vedova di Scanno — non è né esatta né Inter». Essa 
consta, non già di nove strofe, ma di 17. Fu scruta dal- 
l'arguto Sebastiano Mascetta di CoUedimàcine, poco dopo 

il 1830. , . , 

Si vede dunque che, chi con lodevole pensiero la conau- 
nicò air operoso Simoncelli, dovè raccoglierla dalla viva 
vpce di qualche popolano di memoria labile. 



Sulmona, 28 settembre 1883. 



Suo devotissimo 
Aktooto De Nino 



Abbiamo ricevuto il prezzo d* abbonamento 
dai signori: 

112. Rosa Prof, Ugo — Susa. ^. ^^ ^. 

113. Biblioteca della Regia Università di Napoli. 



Gaetano Holinaro — Responsabile 



i 



Tipi Carlnccio, De Biagio & C — Largo CostoalÌDopoli, V SI. 



I ^ 



ANNO I. 



Napoli, 15 Novembre 1883. 



NUM. Il* 



GIAMBATTISTA 




ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



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Un numero separato centerimi IO. 
Arretrato centeaiiEii ¥1 
1 manoscritfci non ai restituisoono» 
61 eomunicbi \ì cambiamento di re- 
sidenza. 



Esco il 15 d' ogoì mese 

L. HOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

i. lAKDiLAKI, I. 8GHBRILL0, L. COSREBA, 
«. AIAJin» T, DELU SALA, V. SnONGZLU 

Kedatteri 



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Indirizzare yafrlia, lettere e miftoderitti 
al Direttore Ii«iipl HellttAri» Bel 
ChlAro. 

6i terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, cèe saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
ohino, 56. 



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SOJHHABIOt — Canti popolari raccolti in Pomigliano 
d'Arco (V. Imbriani) — 'O cuoto d' * vecohiarella (B. 
Croce) — A propòsito di una pubblieozione del Papanti 
(E. GiANTURCo) — 'O cunto d' 'a coppuccia (F. Bojanó) 
— Storie popolari napoletane (V, Della Sala) — No- 
tizie — Posta economica — Errata-corrige. 



ESS 



Per tutti gli articoli ò riservaU la praprietà 
letteraria e seno vietate le riprodmioni e le tra- 
duzioni. 

CANTI POPOLARI 

raccolti in Pouigliaao d'Artoo 

(Continuazione e finCy vedi n. 7^ 8, 9 € 10) 

XLIII. — Ouanno mme fece chella cara mamma, 
,Mme disse: — « FigHe, non ammare a donne. » — 
L.a primraa eh' ammala seva 'na tiranna, 
L' àula appresso mm' arrubbava 'o core. 
N' haggio ammala ima 'e q«inffici anne; 
Pensanno a essa la notle nu'^iormo. 
Ss' avesse 'illeso a cheBa cara mamma, 
Slaria dinl' a lo Hello a fa' la^umna. 

Seoa^ era; e cosi eèeamo vale eravamo. 
Cfr. questo canto coi versi seguenti do V Agnato Zef- 
fonnato : 

O mamma toja 

Primmo t' avesse fatto mori' nfoce, 
Accise meglio t* avesse Io Boja ; 
Cbe sta* soggetto ad Ammore feroce. 
Ammore non sa òà.* eh' affanno e annoja ; 
Non dà contiento maje, ma sempe noce» 

XLiV. — Quanno nascisle,' pìccola donzella, 
r slevo a pazziare 'ncopp' a Tonna. 
Era fancinllo e mme n' annammuraje, 

Cu' t' nocchie nire e li capilli biondi 

Binirice sempe l'ore e l'aiiw) 

Capilli r' oro e capilli adunnali, 
Nenna, che bionda trezza vuie Unite. 

Pazziare^ scherzare. Abbiamo qui un intarsio composto 
da frammenti di più canti. 

XLV. — Ouanno nascisle lu, gemila ronna, 

Fuie lo primmo a dane lu core: 

Lo pepe te renavo la fortezza, 

Jja cannella lo dece sapore ; 

La rosa te renavo la bellezza, 

Gupindo le renavo 'n arco d' ammore; 

La luna le ronaje la hìanchezea 

Lo sole te ronaje li suoi sbìandori. 

La Regina te ronaie H ssoje trezze, 

Lu Re te vo' ronà la ssua curona. 



r le ronaje 'stu «coi*e comm' era ; 
Tu traduto mme 1' haje e si' irarllora. 

Doce^ dolce. Il Mormile, parafrasando là VII ù^vokt del 
IV libro di Fedro: 

De 'no' ferrai'o dinto a *oa poteca, 
'Na vipera trasette, e Uà cercanno 
Da mangiare, la famma ecco la ceca 
A mozzecà' 'na limma» che trovanno 
Tennera e dece comm' a la manteca 
N' appe lo bemmenuto e lo buon arme, 
Pecca Uà 'nfaccia noe restaje li diente.^... 

XLVL — Quanto site bella e quanto site benegnal 

Chi ve r ha rate 'ssi bellizze eterne ? 

Senza lu fuoco appicciate le legna 

Cu' 'ss' nocchie bèlli spaccai' 'e mmuntagne. 

Per parla' cu' 'sfa Neona nce vo' lu 'nf^pegno, 

Nce vo' nu scrivaniello de campagna. 

Il primo verso , evidentemente , deve leggersi : Quanto 
si* bella e quanto &V bcnegna. 
Appiccia t accendere. 
*M pegno, impegno. 
'iVa scrloaniello re campagna. Un secretarlo coinunale (?) 

XL VII. — QiiaUuòrdeoe e quatluòrdece .tono vinlotto ; 
Ninni', si vuò' a rame, voglio fa' 'o palio : 
Ogne malina 'na rallìna cotta ; 
Ninni', si nu' la tiene, mme l'accatte. 

Rallina, gallina. Il primo versoi perchè torm, s' ha da 
pronunziare: Qualtuòrdece e quattao' fcbM>o tyintoUo. 

XLVIII. — Rafaela, campanieHo d' oro, 
Tu mm' amavo e i' niente sapeva. 
Mo ca lu ssaccio, le ronco lu core 
La mmia perzonceUa 'mperzona a le. 

CampanieHo, vale campanello e campànula (fiore) Parici* 
comm* a oampaniello cT ar giunto, e parlare faconda , per- 
suasiva e concludentemente; e m* immagino che iKaà'aella 
parlasse facondissima, persuadi vissima e concludentissima- 
mente, poiché Toro è tanto superiore in valore all'argento. 
Forse invece di 'mperzona, nell'ultimo verso, s'hada leg- 
gere *nipresone, in prigione. 

XLIX. — Rimmòllala, rimmolta 'sta catena, 

Core de e»ne, na' la lira' tanto. 

'Si' nocchie mmieje chiàngiano comm' a bita, 

Non le pozzo stulare ra lo chìanto. 

Vavo a la Chiesa e non trovo cannela, 

Miracolo non fanno cchiù li Sante. 

Tu uocchie-bella, si non te pigli a mme, 

Virilo puozzi sta' tramenti campi. 

Rimmolld*, raUentare, o com* ora dicono, mollare* 
Comm* a bita* Come i capi delle viti, quando sono mal 
tagliate e fuori tempo. 

Vario, vado, vo. 
Virilo, vedovo. 



82 



L. — Schiocca d' arrula e fronna de muriella, 
Chisto è lu vico re le donne belle. 
Nce sta 'na nenna, sse chianoma 'Ngiulella, 
VirV aramore mmio, quanto si' bello ! 
Quanno sse fa 'a capa 'sta piccirella 
Pe' Tarla 'e fa vulà' le ziarelle 
Quanno nce va a messa *sta Ninnella, 
Àpprìesso nce fa 'ngantà' V uòmmene beili. 

Piccirella^ bimba. 

Ziarelle, nastri ; e la parola si ritrova già, ne' diplomi 
degli Angioini: latinizzala, s' indende. 
Uòmmeine , plurale d' ommo. 

LI. — Schiocca d' arruta mnoia, a do' si* sagliuta, 
'Ncimma a 'sta lenesiella nce si' arrivala, 
Dinlo nce sta Nenna mmia addurmuta, 
Schiocca d'aruta mmia, non la scetare. 

Sagliuto ^ sagh'tita, participio dì sagli, saglire, salire 
Cfr. Agnano Zefformaio^ Canto IL 

Micco teneva 'mmano na bannera 
Ed era sopra la torra sagli uto. 

'Ncimma a (in cima a) fino a. 

Aidorniuta* addormentata da addòrmero o addorme* 

LII. — Sicco e luongo quanto a 'na sciuscella, 
Addirizzali ca fai lu scartiello. 
Tieni 'ssi ccosce mme parano stelle, 
Quanno cammini fai lu sega e molla. 
Si' sottile comra' a 'na sciuscella. 
Si' saporito comra' a 'na fogliamolla. 

Sciuscella, Carrubba. 

Scartiello , scrigno , gobba. Il Mormile nella Fav. VII. 
Libro 111 di Fedro 

Ma la famma a lo lupo poveriello 
L* aveva fatt* asci 'nfl* a lo scartiello. 

ed annota: — «t Scartiello. Dall' écarter de' Francesi sarà 
« venuta una tal voce. Vedi il Richelet nel suo Vocabo- 
« lario all'espressione écart d'os. » — 
Stelle, con 1* è larga, ceppo ( da hastula ? ) 
Fai lu sega e molla, vai innanzi ed indietro, come i se- 
gatori di legname. 
FogìiantoTla, Le Ranocchie appo Nunziante Pagano 

Li vrocchiere de foglia sse facero 
Li giacche de vorracce e fogliamone. 

LUI. — Signore accìllentìssimo riale. 
La casata vesta è 'Mmanuele. 
Vuje nce lenite li bbalanze 'mmano 
Giusto nei pesate comm' a San Michele. 
Vuje ce scinnìle da sanghe riale, 
Parente site à Bigina d' 'o cielo, 
Famme 'na 'ràzia che mme la puoje fare, 
Levami chistu Cerro da lu pero. 

Accìllentìssimo, eccellentissimo. 
Casata, cognome, casato. 

LIV. — Si t' haje da 'nzurà', pigliala bella, 
Nu' tanta bella ca li fa murire ; 
Pigliatella nu poco vrunetlella, 
Basta eh' è accunciulella re statura, 
Si r haje a fare quarche vistitiello, 
Sparagne robba, sei' e cusetura ; 
Si r haje a &re quarche 'mmraccìatella, 
Comm' abbracciasse nu mazzo de sciure. 

Vrunettella , suddìminutivo di vruna, Cfr. il canto , che 
incomincia Nu juorno fui chiammato juricatore. 

Accunciulella diminutivo di acconcia» Il dialetto napole- 
tano fa più largo uso de' dim nutivi per gli aggettivi, che 
non la Imgna aulica. 

* Mmraccìatella piccola abbracciata. 

LV. — Te voglio bene, sanghe mmio riale, 
Si pure faje chello ca rico io. 
Nun boglio cchiìi ca cu' 1' acqua vi lavale, 
Ca pure cu' 1' acqua tengo gelosia, 
Quanno 'sta bella faccia le vuò' lavare, 
Piglia lu sanghe da li bbene mmie. 



LVI. — Uòmmene 'ngannature senza fede 
Nisciuna verità cu' loro truove. 
Fanno abberè' ca li vanno firde 
E chille 'o ffanno pe' te scannagliare. 
La renna puverella sse Io crere 
'Rrap' a lu petto e le dona lu core. 
Fallo eh' ha 'vuto lu core 'mputere 
La puverella renna a do' sse retrova ! 

Scanaglia*, scannagliare (scandagliare) scrutare, mettere 
alla prova. 

LVII. — Vengo a canta' 'ncopp 'a 'sta canionera, 

Poco rìscuosto da la casa toja. 

Nce sta 'na Nenna che' porta bannera, 

Nce mena 'o stennardiello re Tammore, 

Quanno sse slrezza chella capellera. 

Mme pare 'a figlia re lo 'mperalore. 

Cienlo rucate ronghe a chi le 'ntrezza. 

Mille e rucienio a chi le porta 'ncapo. 

Cantonera, cantonata. 
Strezxa, scioglie le trecce. 
Capellera, capellatura. 

LVIII. — Ver© 'na varca da luongo venire. 
Quanto mme pare bella ra tentano I 
Dinlo ce vace la Nennella mmia, 
Ti prece taniu bella falla lurnare. 
Quanno è turnata, l' abbraccio e la vaso ; 
— ^c Mme purtava tanto amraore e mo mm' he lassato. » 

VasòH, baciare. 

LIX. — Viri r anamore che nce ha latto fare, 
Nce ha fallo spàriere rui felici core, 
Tu pe' dinari rame si' ghiuio a lassare 
Pe' le piglia' 'sta brutta senza core. ' 
Si fa la fera e non la può' purlare 
Viri le belle e t' abbruscia lu core/ 
Mo che nce baie avuto 'sii bbellizze 'mmano, 
AflFàcciaii cà e biri corame ssi more. 

Ghiuto (per eufonia da juto) andato. 

LX. — Voglio mina' 'na varca 'mmiez' 6 raare 
'JS' ala 'a mench' a 'o ponte 'à Matalena. 
'Ncoppa nce voglio quatto, marinare, 
Nce voglio Francisco, Pascale e Nicola, 
Si vuò* sapere qual' è cchìù carnale, 
Pascariello rara' ha 'nehiuvato 'o core. 

MincL, menche; gettare, varare ; getto, varo. 
Ponte *à Matalena, ponte della Maddalena sul Sebeto fra 
Napoli e San Giovanni a Teduccio. 
Carnale, caro, diietto. 

'Nchiuoato, inchiodato. 

LXI. •— Vurria addiventà' 'na ruslina, 
'Mmiez' a 'sta chiazza rame vurria pianta'. 
Vurria ca passass' 'o Nihnillo mraio 
Comm' a ruslina d'oro 'o vorria afferra'. 
Isso sse vota e rice : — « Bene mmio, 
<c 'Sta verda-spina non mme vo' lassi'. » — 
— « Tanno te lasso a te, Ninnillo mmio, 
« Quanno iaramo a la chiesa a spusà'. » — 

Rustina, Pianta spinosa, che suole adoperarsi a Natale, 
per adornare i presepi. 

LXII. — Vurria saglire 'ncielo, si potesse, 
Cu' 'na scalcila de secienti passe. 
Quanno fosse alla cimma sse rurapesse, 
'Mraraccio a Nenna mmia mme truvasse. 

'Mmraccio, in braccio. 

LXIII. — Vurria sapere e vurria 'ddivinare. 
Quanta miglia fa lu sole 1' ora. 
Quanta gocce r' acqua stanno a mare, 
Quanta surdati lene 'o battaglione. 
Quanta ne tene Napoli, Spagna e Roma. 

Buttaglione, plurale : hattagliune^ come il più dei nomi 
in one 

Olà ghiettate hanno pe' sse tèrre 
Ca voglio aunite ccà li battagliune ; 



83 



Su priesto, che ss* allesleno le sferre 

Ca tutte avite a fare a costeiune. 

Caude caude vonno essere le guerre 

Gomme zeppole magne e mac^arune. (Ai^g*^0ff* V.j 

Le dimande che fa il popolo in aneslo canto, salvo quella 
che riguarda il numero delle stillo d'acqua comprese nel 
mare, non sono poi tanto indiscreto , ned è difficile il ri- 
spondervi. 

Vittorio Imbriaot 



■ . I . 



X. 

'O CUNTO D' 'A VECCHIARELLA (*> 

Ce steva 'na vecchiarella piccerella piccerella, teneva 'na 
scupella piccerella piccerella; allasciai (1) nu treccallucclo 
piccèrillo pìccerillo (2). Ricette accMissi : Si mo me n' ac- 
catto pane , me scappano 'i mmiillechelle; si me n' accatto 
caso pure me scappano 'i mmullerhcllo; mo me n' accatto 
ianco e russo , e m' 'u sserogno (3) pe' luti' 'u musso. Se 
metletle fora à fenesla; passale nu C4ine: « Gomme staio hella, 
vecchiarella mìa!» «l'sto bella, ca m' àorpri'^^ ^are- 
tà' » Vuò' a me ? Vuò' a me ? « E comme fai 'a noita ? » 
« Bà'hìi Mi » Scinn' abbascio , ca i* me metto appaura. 
Passaie nu ciuccio: « Commara mia, comme siale bella sla- 
mafina ! » « Eh ! sto bella , ca m' ajrgi' 'a marelà* ? » 
« Viiò' a me ? Vuò' a me ?» « E comme fai \n netta ? » 
« ì'òì'òìd » « Scino' abbascio, scin?i' abbascìo, ca me metto 
appaura ». Passaie nu puorco : « Commara mia , comme 
staie bella stamatina. » « Slo Mh ca m' aggi' 'a marelà' » 
« Vuò' a me ? Vuò' a me ? » « Comme fai 'a nella ? » 
« ù-ù'ti » « Scino' abbascio, scino' abbascio, ca me metto 
appaura. » 

JPassaìe nu siirecillo : « Cummara mia, comme stale bella 
stamatina ! » «Sto bella, ca m' aggi' 'a marelà' » « Vuò' a 
me ? Vuò' a me ? » « Comme fai 'a netta? » « Zi'ù-zì'ù'Zì'ù, 
marito mio , Zìù-eìù-jgìii , marito mio. » « Uh ! sagli 
'ncoppa, ca le voglio. » 

'A Vecchiarella aveva i' à messa; meitelte a bùllere 'u 
pignato cu' 'i ccòtene (4). Ricette : r Sureci , nu' glii' a 
pruvà', ca tu vaie dinto, sa'?» 'Q sorecilìo ielle a pruvà' 
'na vota. Ricette: «Ah! comme so'sapurite; i' mo me 
ne mangio 'n' ata, ce ne stipo quatto a màmmema. » lette 
'n' ala vola , e se ne magnaie 'n' ala , i' mo ce ne stipo 
tre a màmmema ». 'A terza vola lumai a ghì' a pruvà', e 
ghielle rimo, 'u sòrece; 'u pòvero surecillo. Venelte 'a vec- 
chia e nun 'ii iruvaie ; jeile verenno pe' tutte parte , nun 
'n truvaie. Chiagneva 'a pòvera vecchia e nun trovaie chiù 
'u surecillo. 

Felice, cunlente e tuculiate, 

E nui ce iruvammo cà assettale. 

Benedetto Croce 



(•) Ecco un conio , raccolto in Napoli sul villaggio del 
Vomere , che ognuno ricorderà di aver udito ripetere le 
mille volte da ciualche fantesca come una cantilena man- 
data a mente ea invariabile. Appartiene a queP gpncrc di 
produzione popolare, in cui il contenuto è insignificante , 
e la forma , ricca di rime e di assonanze ; è tutto. Non 
v'apparisce un fine satirico, non una burla; è un seguito 
di stramberie mal connesse, fatto, direi quasi, più pe^ l'u- 
dito che per la fantasia. 

B. C. 

(1) allasciai^ trovò. 

(2) Intorno a queste* ripetizioni. Cfr. Imbria.ni La No- 
nelìala fiorentina- — La donna piccina piccina piccina 
picciò. e 'A \ icchiarella t nei XII conti pomiglianesi , 
pag. 244. 

(3) serogno, ungo. 

(4) catene, cotenna, cótica. 



A PROPOSITO DI UM PUBBLICAZIONE DEL PAPANTI ^'^ 

or Italiani, rigenerali nel r unificazione politica della* pa- 
tria, hanno saputo escogitare tulli i mezzi di rendere onore 
a quei loro antichi padri, che col senno politico, coir in- 
gegno e colla mano contribuirono alla gloria del paese e 
all'incremento della libertà ed indipendenza nazionale. Fe- 
ste letterarie, per cominciare dai collegi, commemorazioni, 
pellegrinaggi, centenarii ; che quasi tutti sono andati a fi* 
nire o in un volume di versi rettoricì, di prose gonfie o 
simili, in un monumento. — L'anno 1875 in questa pompa 
non si è mostralo meno ricco dei suoi 14 confratelli ; e ne 
fanno fede il Centenario di Michelangiolo, le Feste a Do- 
nizetti e Meyer, Alberigo Gentili supposto morto e poi ri- 
suscitato dal Prof. Sbarbam, il Centenario di Boccaccio, e 
da ultimo le feste commemorative preparate a Bartolomeo 
Crostofori , inventore del Pianoforte , al grande Bellini e, 
perfino a Pietro Paolo Parzanese. Pare insomma che gli 
Italiani abbiano voluto larghissimamente compensare l'oblio 
e la noncuranza di sette secoli. 

La mia avversione a questi rumori della giornata , il 
CUI ultimo effetto è di sperdere; anzi sprecare quella poca 
nostra energia presente, che sarebbe meglio serbare a certi 
tempi quando ci sarà tanto necessaria , è giustificata da 
molli fatti, e godo di trovarmi d'accordo coli' insigne Prof. 
Augusto Pierantoni. — Ma, per entrare in materia, se tutte 
queste feste e commemorazioni dovessero arricchire il pa- 
trimonio della nostra letteratura e porgere mezzo a nuovi 
ed utili studii , come il libro del Papanti , io sarei il più 
scapato festaiuolo, e un giorno senza una simile festa ceilo 
che non saprei passario. — Il Boccaccio ha avuto miglior 
fortuna di tanti altri suoi confratelli , perchè meglio ono- 
ralo non poteva essere : — di versi , di prose di occasione 
ne abbiamo già troppi ; di discorsi accademici speriamo di 
non averne più per V avvenire. L' ottimo mezzo adunque 
di far più bella la festa era di dar modo ai pazienti filo- 
logi di tesvser la storia di quella lingua che il Certaldese 
seppe così bene adoperare, a continuare nel secolo XIV la 
rivoluzione del pensiero colle vivaci pittune di costumi .e 
di caratteri. 

L' idea del Papanti era nuova in Italia non solo; ma in 
quasi tutte le nazioni d' Europa, le condizioni storiche op- 
porlunissime, che, se più si fosse protratto un tale lavoro, 
non saremmo slati in tempo; l'attuazione del progetto pronta 
e vigorosa, come di uomo di affari e ben provvisto di mez- 
zi. — Ci piace riferire le parole del Papanti stesso : « Pu-. 
blicando una delle 100 novelle del Decameron, voltala in 
quel maggior numero che per me si poteva di dialetti e 
vernacoli d' Italia, e non soltanto dell' Italia in oggi costi- 
tuita nazione sotto lo scettro del Re Vittorio Emanuele, ma 
proprio deiritalia nei suoi confini naturali; mi parve il più 
splendido e in pari tempo il più degno modo di rendere 
onoranza al Padre della nostra prosa neir occasione del 
quinto suo centenario. — Mi parve insomma di scorgervi 
come un saluto universale che dalle città consorelle innal- 
zerebbesi al Boccaccio in quella solenne giornata e vie più 
ancora una dimostrazione nazionale. — Né mi sfuggiva la 
utilità che in cerio modo sarebbe stala per derivarne, vuoi 
per le nuove e profonde investigazioni filologiche alle quali 
avrebbe dato luogo , vuoi agevolando la storia dei dialellr 
in ciò che si riferisca singolarmente all' intima indole di 
ciascuno per sé e al ceppo dal quale derivano ; vuoi an- 
cora per r aiuto che recar poteva a risolvere la quislione 
sollevata dal Manzoni snir unità della lingua. 

Altra considerazione dava pure alla mia mente un'altis- 
sima importanza a siffatta raccolta di pariari italiani, e si 
fu quella che buona parie di essi van perdendo ogni giorno 
terreno e si spengono per l' avanzarsi che fa , ( sia pure a 
passi di lumaca), la lingua nazionale; sicché riunirii e pu- 
blicarli lutti insieme , sembrommi cosa ben decorosa per 
r Italia , che nel mio libro avrebbe avuto uno dei più bei 
monumenii , che mai nazione vantasse eretto al proprio 
idioma. 

Concepito il disegno , mi posi tosto all' opera affine di 



84 



dargli esecuzione, e per prima cosa andai studiando quale 
fosse la Novella, che maggiormenle si prestasse al mio di- 
visamento ; né mi fu tarda la scella , che tale io reputai 
la 9* della Giornata T, non mena per esserne onesto e mo- 
rale il soggetto, che per averla in ìì dialetti italiani già 
publicala il Salviati negli Avvertimenti della lingua; sicché 
questi servir potevano come d* introdurione e di confronto 
ai S(iggi moderni che sarei andato procurandomi ». 

Il nostro buono e caro Papanti non h;i voluto dare al- 
r opera sua queir importanza cl>e realmente eir ha ; che 
non è solo la storia dei dialetti che si gioverà dei mate- 
riali apprestati dair intelligente sua cura; ma aacora la sto- 
ria dei comuni italiani nelle vicende a cui andarono sog- 
getti nei secoli di mexzo. — Così il Dott. Giuseppe Terra- 
nova ^Aidone) ricorda la venuta e dimora di cetonie lom- 
barde in Sicilia, e ne trova traccia e documento nella ras- 
somiglianza di questo dialetto con quello del ramo lom- 
bardo-piemontese e , specialmente, della provincia di B»*l- 
luno. Cosi ancora io attenderò da altri lavori i mezzi 
di dimostrare le relazioni passate fra la Toscana e la 
Lucania ; i*eIazioni di cui mi fanno sospettare alcune 
fornoe indicanti rapporti particolari della vita, e certe can- 
zoni popolari (1), che non si canlano nelle Provincie fram- 
messe fra queste due regioni. — Quest' importanza storica 
del lavoro del Papanti è degna di essere presa in molta 
considerazione , perchè se è vero che molte città italiane 
hanno una biblioteca di cronache paesane, non è men vero 
che rooltissinoe ne mancano assolutamente , cosicché tutto 
quello che si sa delle loro vicende non passa la memoria 
conservataci dai più vecchi'; menaoria il piii delle volte 
inconophita e infedele. 

A questa importanza slorica se annette una di ordine 
psicologico, di quella psicologia che oggi si costituisce come 
scienza di osservazione, adiutrice non parte della filosofia, 
se pure un giorno non le porgerà quel fondamento.di cer- 
tezza e verità che ora le manca. 

Ma r importanza filologica è quella che primeggia nel 
lavoro deir illustre livoinfiese: la fliologi», finora, ha stu- 
diato le trasformai ioni fonetiche in moito compiuto e mara- 
vigìioso, cosi da ridurre a poche radicali il linguaggio di 
stirpi fra loro diversissime ; ma le forme cbe ella ha esa- 
minate sono quelle già compiute ed elaborate, entrate nel 
patrinrK)nìo della lingua patrizia. Altri stodir , benché pid 
minuziosi , piik« protone)! restano schiusi da queste versioni 
in dialetto : noi studiamo il sanscrito co( greco , e questo 
col Ialino, e tutti insien)e; ma chi non vede che fra que- 
sti parlari vi sono delle lunghissime catene intermedie dal- 
l' India alla Grecia e dalla Grecia a Roma ? — Lo studio 
di questa catena linguistica intermediaria porta alla vera 
stoiia delle trasformazioni fonetiche dal loro elemento, che 
é la pronuncia fino a quello delle consonanti più dure, di 
gruppi di consonanti con tutto quel che segue. 

Per quello, poi, che riguarda la quistione deirorigine della 
lingua iialiana, io credo di poter asserire con verità che, 
se tale importante quesito non avesse ancora ricevuto la sua 
risposta pei* le opere specialmente delfillustre Federico Diez, 
r opinione del toscano Leonardo Bruni Aretino troverebbe 
ora la sua conferma per le cure e la liberalità del toscano 
Papanti. — In lutte le versioni in dialetto dei paesi abitati 
già da Romani o da figli di Romani le forme del romano 
rt/^tóo sono coslanti ; vero é che talora riesce difficile rin- 
tracciarle e dislingiierìe per la facilissima trasformazione 
dei linguaggi parlati e non scritti ; in cui in'ollre gli ele- 
menti eterogenei hanno facile accesso specialmente, se di 
luoghi posti in pianura o presso il mare, atto ai commerci 
slato commcrcianfe. — i dialeni dei montanari sono più 
genuini ; ritengono ancora f impronta del linguaggio che 
parlarono gli antichi pastori. — Questo é quanto io posso 
dire, perché la mancanza del tem()o non mi ha permesso 
di applicar l'animo a studii speciali, cosi da rassegnare ai 
cultori della filologia alcuna delle conseguenze dedotte dai 
materiali apprestatici dal Papanti. 

Ma se, come é facile inlendere, lo scopo del Papanti non 
é stalo quello di fare un'opera a sé, ma di porgere mezzo 
agli studiosi di iniziai'e nuove ricerche, é utile vedere se 



e come egli abbia raggiunto il suo scopo^ e come e quanto 
abbiano concorso con lui i letterati, i semi-4ett6ratt e i se- 
dicenti letterati italiani. 

La scelta del tema della versione , per la difficoltà di 
trovare in Boccaccio una Novella di cui fosse onesto il sog- 
getto, e (quando non si chiude in quel suo benedetto lati- 
nismo) atta a porgere occasione di dichiarare forme dia- 
lettali importanti a conoscere , non poteva esser migliore ; 
anzi, avuto riguardo aifeconomia del libro ed alla brevità 
deV tempo, altra non poteva accettarsi. La Novella di Gi- 
selda, mi diceva un amico, avrebbe risposto alle esigenze 
della filologia molto meglio di questa ; ma , poste quelle 
condizioni, non era possibile fare altra scelta, -r- L' insigne 
Papanti non ha badato a spese per fare che Topera fosse 
degna di lui e del Boccaccio e delf Italia intera ; e mi si 
permetta di dubitare che altri avrebbe fatto o potuto far 
quanto egli ha con tanto onore compiuto. 

Il libro si divide in 4 parli; alla J* va premesso un fac- 
simile, un ritrailo possibilmente veridico del Boccaccio, uà 
avvertimento del Papanti, la vita del Boccaccio scritta da 
Filippo Villani, il testo della Novella IX della giornata 1% 
recante in nota la Novella LI delle Cento Antiche^ dalla 
quale trasse la sua il Boccaccio, e la riduzione in ottava 
rima, che di quesf ultijia faceva il Brugiantino, e la tra- 
duzione della stessa novella in 12 dialetti, fatta compilare 
dal Salvialì (con ben altro scopo , s' intende) : documento 
però quantunque ti^nue, prezioso, perché forma la base di 
confronti importanti, malgrado la poca attenzione che nel 
compilarle vi ponessero gli amici di Messer Leonardo. — 
Io credo del resio che le correzioni apportale al lesto Sal- 
viatesco abbiano a considerarsi piuttosto come termini di 
confronto, checché ne dica il sig. Prof. Ab. Giovanni Moise 
(autore della nuova traduzione in dialetto istriano) il quale 
pare la giudichi come cosa fatta ieri una versione che conia 
ben lunga età. 

Il Max Mi'iller paragona i dialetti all'acqua velocissima- 
mente corrente sono la superficie levigata ; ma dura e 
fredda di un fiume, che rappresentasse la lingua scritta e 
letteraria. Si é verificato il caso, che due missionaril, aveado 
compilato Hii dizionario della lingua parlata da alcune sel- 
vagge Iribù deirAmerica, ritornati presso di esse dopo soli 
dodici anni , trovarono che a nulla più poteva servir loro 
r opera poco innanzi recata a termine. E vero che le leg^i 
nazionali , le pubbliche adui^nze, i vincoli religiosi e, più 
di tulio la lingua àcritla, aiTcstano in certo nwdo il rapido 
progresso del linguaggio , e rendono slabili alcune forane 
grammaticali, che senza colali influenze avrebbero goduto 
vita efimera ; ma lo spazio di tre secoli Ita potuto benis- 
simo eludere Y influenza di queste cause arrestanti. — Né 
sarebbe valido sostegno di contrario argomento la diffor- 
miià di certi modi di dire, di cerle locuzioni locali, le quali 
sono fra le più durature ; perché anche queste (come spesso 
ho pollilo io stesso verificare) o per opera del commercio, 
d' influenza provinciale più potente da altre possono venir 
sostituite. 

Chieggo scusa per essermi permesso questa digressione 
e continuo. La T parte, la più importante, contiene le 700 
versioni procurateci dal Papanti ; la 2* parte risulta da al- 
cuni saggi in dialetti di popolazioni non facienti parte del 
regno ; la 3* di versioni in linguaggi stranieri parlati in 
Italia, cioè f albanese^ il grecanico, f arabo di Malta, il 
rumanO'slavo , lo slavo e il tedesco. Da ultimo un' Ap- 
pendice contiene una versione in Ialino del Vallauri e pa- 
recchi saggi neolatini , cioè francese antico^ provengale ^ 
amico e moderno, romanico catalano, letterario ed orien- 
tale , portoghese antico e moderno , vallone del Belgio , 
daco-rumano , maced^y-rumano e, da ultimo, le parlate 
savoiarde. 

E (jui che la disposizione delfopera dà luogo a molte e 
varie osservazioni, che il Papanti ha preveduto benissimo; 
ed a cercalo di scusarsi colla buona ragione di essere un 
uomo di affari. — La disposizione delle versioni per ordine 
alfabetico è destituita di ogni criterio scientifico; e, poiché 
la divisione per gruppi richiedeva il sussidio di studii an- 
teriori che li avessero già determinali , il Papanti , a mio 



8^ 



credere, avrebbe potuto passarla liscia, usando un metodo 
facile e spedilo; poco esalto, gii è vero; ma nelle presenli 
deficienze è meglio contentarsi del poco. — L' influenza cli- 
malologica sul linguaggio è un fatto riconosciuto da tutti; 
e il Papanti avrebbe potuto dare alle traduzioni T ordine 
desunto dalla posizione geografica dei luoghi dove si par- 
lano quei dialeiU, o valendosi dei gradi di latitudine e lon- 
gitudine^ 0, meglio -forse, della divisione per versanti, giac- 
ché , quando le strade ferrale non aprivano largo campo 
aìla dilTusione delle idee e perfino delle forme grammati- 
cali, differenze notevoli si veriQcavano nei linguaggi parlati 
nei due versanti delfalto Appennino, frapposto, quasi pro- 
fonda barriera, allo scambio ed air assimilazione. 

Ma lasciamo il Papanti, il quale, per quello che gU dob- 
biamo, noerila gli si perdoni proprio lutto; e, come ho pro- 
messo, vewamo a guardare più da vicino queste versioni; 
e nel medesimo tempo ad investigare le condizioni delta 
fiFotogia in Italia; perchè^ quesla libro può considerarsi 
come lo specchio^ in ciii si ridette la troppo povera scienza 
filologica italiana. — È amara la verità ; ma , qualora al 
male si può portar rimedio, è opportuno , anzi necessario 
apertamente dichiararlo. 

Fi*a noi manca la perizia di questi studi); e, se da dieci 
dodici anni in qua da tutti e dovunque vi sentite par- 
lare di temi e radicali e fonologia e morfologia, gli è perchè 
i giovani per otlenere quella tale scartoflìa che serve di pas- 
saporto air Università, sono costretti ad imparare delle cose 
che [(A lasciano sulla soglia del liceo:— gli è perchè i vecchi 
Professori questo hanno dovuto impararlo anche essi per ne- 
cessità; e della vera scienza hanno compreso solamente la 
parte formale, quanto basia per gli scolari — Le versioni 
difettose per Toriografia, e più ancora le note, sono dei tri- 
sti moniti (2). 'Trarne non molte eccezioni , queste ultime 
sono troppo lunghe, o troppo corte; le prime di chi vuole 
sfoggiare la sua erudizione, dovunque^ malgrado non sia né 
il tempo, né il luogo (è facile intendere come vanno clas- 
sificati costoro); le seconde, troppo corte, di chi o non sa- 
peva che dire, o più focilmente aveva paura di dir nmle, 
e a queste , c^me alle versioni senza note , si è supplito 
opportunanf>ente con dichiarazioni di Ascoli , di Canmrda , 
di Falcucci, di Vittorio Imbriani (3) ecc. Le versioni senza 
note poi (e non son poche) sono di quelli che hanno avuto 
paura di comparire autori di qualche periodo, di qualche 
sentenza o dichiarazione filologica che potesse essere sot- 
toposta a censura. — Ma quello che più dispiace è che ta- 
luno non ha inteso né V importanza del lavoro dell' iufati« 
abile Papanti, né delle lingue orali ; onde vi dice sc.^.... 

storpiatura della voce italiana se Pel filologo non vi 

sono altre storpiature se non quelle delFebro che ingoia le 
parole, e degli annotatori che fraintendono la natura delle 
lingue e le divine bellezze dei dialetti. — Oh , quante di 
queste cose V illustre livornese avrebbe forse voluto soppri- 
mere ; ma egli , oltre air essere letterato , è fior di genti- 
hiorao; ed ha ri.speltato perfino l'ignoranza di coloro che 
gli hanno reso un servigio. 

Ora, giacché la mia città natale , Aviglìano , non è nel 
novero di quelle, che hanno prestalo materie al libro del 
Papanti, mi si pernnetta , prima di parlare di alcune ver* 
sioni in dialetti, che io conosco, come quelli della Calabria 
di Cfire alcuni confronti di forme consacrate nell' opera di 
cui ci occupiamo con fornae del dialetto aviglianese; il quale, 
come in A vigliano , ha mollo di caratteristico. — In Pa- 
tena (pag. 57' dicesi manche sale — proprio niente per 
esprimere Y importanza del sale nelP economia della vita. 
In Città S. Angelo (pag. 6Q) e in Avigliano si riscontrano 
prùbbete e propete , antiquato presso di noi. In Aquila 
(pag. 77) dicesi scine e none {si e no) , come in Firenze 
sie e noe, e in Avigliano sine e none per quella marcata 
tendenza del popolo al riposo e al prolungamento delle pa- 
role tronche. A Moliterno ( Basilicata ) ( pag. 109 ) dicesi 
'rUim-'ntam di un uomo melenso , buono a nulla ; e fra 
noi 'ntontarò. In Villa S. Maria (pag. 58) si usa come au- 
siliario il verbo avere perfino col participio stato , ave 
statarsi è stato; lo stesso si osserva in Ruoti, grossa bor- | 
gala alla vista e distante soli due Kìl. dalla mia patria, i 



È notevole una forma usata in Castelli (59) me home dice 
ca te home fa = on me dit qu'on te ra.it , forma che, se 
non vado errato , anch' essa trova riscontro In un dìaferto 
di BasiRcata. 

Fra le versioni in dialetti parlati nella provincia di Reg- 
gio-Calabro quella che a me par fatta con più garbo à 
accuratezza appartiene a Francesco Mario Mandalari , gio- 
vane conosciuto in Napoli per una raccolta di proverbii ca- 
labresi che in parte fu publìcata nel fu periodico, la Stuoia 
Italica. I modi di dire sono proprio quelli del «paese, rac- 
colti dalla bocca dei più vecchi , e rrascritll in buona or- 
tografia; le note sobrie, e come le voleva l'occorreoKav di* 
lucidazioni al testo , non iuutile ingombro pel libro. Sol") 
mi permetto, di osservare che nella Crase « pi na mia sud- 
disfazioni vi pregu mi im diciti » nou pare che il t^ mi 
valga che e il T a $ne ;■ perchè nel dialetto calabrese il 
che eongiunsione si sopprime sempre in questi casi ; e il 
nri mi ( osato in questo senso anche presso altri dialètti ) 
ha un valore intensivo, e, per cosi dire , iterativo. È ntile 
inoltre l'avvertire che sceccu = buriccus nel Romano ru- 
stico = buricco (Alessandria d' Egitto) in origine significa 
asino^ e di qui poi valse babbeo. * 

La va'sione dèi Canon. Pasqjiiale d'Amico (Reggio*Cala* 
bro) dà luogo a varie osservazioni; e, dapprima, avr^i de- 
siderato che le due d palatine df iddu , dha , beddhu le 
avesse contrassegnate e distinte dalle due d comuni^ con un 
h; che, se veramente non ci è segno grafico equivalente a 
quel suono paiticolarissimo, è opportuno accostarsegli colla 
ortografia il più che si pub; notisi che di due l in due d 
palatine, e questa trasformazione fonetica nel dialetto reg- 
gino è costante, tranne per alcune parole che il popolo ha 
ricevute dal di fuori, e nuindi non ha ancora trasformate; 
rx)sl villa, omhreUlo. — Ecco poi come il nostro Reverendo 
fa Vesordio alle sue note (4). « Siccome ogni lingua ha la 
sua fisonomia che dalle altre la distingue, cosi anche per 
rispetto alla lingua ogni dialetto ha i suoi lineamenti par- 
ticolari e propri, improntati all'indole degli abitanti, ai co- 
stumi, agli usi, alle consiietudini del paese. — (Mille gra- 
zie, non s' incomodi ). — È per questo che la Novella del 
Boccacdo, recata in Calabrmnon potevi pen*efsi più fe- 
delmente senza attenersi agi* idiotismi tutti propri. » La- 
sciando stare la poo-a^ chiarezza dei concetti, si vede che il 
sig. Canonico ha la stessa malattia del Betfti, Il quale , per 
correffsere un punto in un punto e virgola nel testo del 
De Officiis , comincia a parlare a lungo nientemeno che 
del merito del De Officiis ! (5) — Le altre versioni in dia- 
letti della provincia di Reggio-Calabro (Bovalino, Calanna, 
Palmi e Paracorio) non hanno note; il testo cosù cosi. 

E qui, per non uscire dai limiti concessi ad una Biblio- 
grafia , to^ierb V incomodo a quelli che hanno avuto \a 
pazienza di leggermi , col fare una lavata di capo a du e 
razze di gente , cui io nutro particolare antipatia. — Agli 
aristocratici for6 osservare che, anche senza Tingegno e le 
svariale coenizioiù del Papanti , si può far cosa utile ed 
acquistar dritto alla ricordanza dei nepoti solo che si vo- 
glia indirizzare ad utile scopo quel denaro , che , non sa- 
ppndo come spendere*, si sciupa in mille peJtegolezzi. — 
Ai dottrinarli politica, peste di ogni staio, come li chia- 
mava Pietro Colleiia, a quei tali che stanno II con un palmo 
dì muso a predicare teorie le quali non appi*odano a nulla; 
dirò che è cosa molto più profittevole migliorare il pre- 
sente , per quanto umavMmente si può , pei*ché le le^i 
della stoiMa e del progresso non si pÒnno violare. E badino 
essi che in parole hanno tanto a cuore il bene del paese, 
che alle tante altre non ci si aggiunga anche la vergogna 
di vedere iw giorno o l'altro un Tedesco coi tesori del Pa- 
nanti venirci ad imparare la storia e le leggi della nostra 
lingua, — Sapienti panca ! 

Napoli, 1 marzo 1876w 

Emanuele 6iAi?ruiiG0 

La bibliografia , che qui sopra pubblichiamo 
e che risponde in buona parte all' indole del 
nostro giornale , ci fu gentilmente favorita fin 



j 



86 



dal 1876 dal signor Emmanuele Gianturco , 
ora professore di Dritto Civile nella nostra R. 
Università degli Studii. 

L. MoLiNARo Del Chiaro 



(•) I parlari italiani in Certaldo alla festa del V cente- 
nario di Messer Giovanni Boccaccio — Omaggio di Gio- 
Danni Papanti -Viv orno coi tipi di Francesco Vigo, 1875. 

(t) Cosi, per dirne una, presso Siena e in Bernalda can- 
tasi una bellissima canzone che satireggia la superbietta 
di una moglie dì pastore. Non cito i due testi originali , 
perchè non mi trovo sott'occhio i Racconti del Gradì, che 
riporta Torigìnale toscano. 

(2) Non parliamo di coloro che si sono negati a man- 
dare le versioni nel linguaggio del loro paese nativo , o 
perchè lo credono di poca importanza, o perchè discosto 
dalle forme del parlar civile, per modo che, dandone sag- 
gio, sì esporrebbe al ridicolo. Come anello di una catena 
linguistica, ogni dialetto pel filologo è sempre importante; 
e guai a colui il quale si vergogna della lingua parlata 
dalla mamma sua. ... 

(3) L'illustre prof. Vittorio Imbriani f^a le sue note alla 
versione nel dialetto di Paracorio spi^g^^ \q, frase mu vai 
e mu ricurri — di andare e di ricorr^p^ . q poco appres- 
so , sostituendo incognita ad incogm^^^ ^ ^\f^Q \\ fj^^ cala- 
brese corrispondere al cu leccese. T^ie. spiegazione, mi 
scusi il prof. Imbriani, è inesatta; — il mu calabrese equi- 
vale al dativo etico dei greci «i (O '^Ihvov , ^f] pépvjxev 

'JjjJLtV 6 ^évog K (0 figlia, {ci) andò via dunque l'ospite?) 

t( yàp Tiaxi^p jjLot Tcpéa^vg èv 86|Jioiat 8p^; ( che (mi ) 

fa a casa il vecchio padre). — Tracce di questo dativo si 
trovano in latino e in italiano; e non sarà difficile tro- 
varne esempii che io per brevità tralascio. 

(4) La spiegazione mu vai e mu ricurru:szd\ andare e di 
ricorrere, come abbiamo già notato, è inesatta; potrebbe 
darsi che di qui l' avesse tolta Vittorio Imbriani. 

(5) Bonghi. Lettere critiche. 



XI. 

^O CUNTO D' 'A CAPPUCCIA 

Nce steva 'na vota 'na mamma cu' tre fBglie : èrano 
puverelle , e 'a chiù piccei*ella non era figlia a essa , ma 
figliasta. 'k matina pe' potè' mangia' 'a mamma feceva. 
ascV 'sti tre ffiglie : chi leva pé' legne , chi ieva pe' me- 
nesta e chi cercanno quacche granfilo pe' s' accatta' lu 
ppane. 

'Na matina, ritirànnose 'a figlia chiù grossa, dicetle 'nflac- 
cia à mamma e à sora che, facenno 'a manesla, aveva tru- 
vato 'na cappnccia grossa grossa, che 'a vuleva tira' e nun 
la putette. L' àuta sora dicette : dimane te feccia abbedè' 
si nu' n 'a tiro io ?! 

'Nfatle 'a matina appriesso iette a fa' 'a menesta, truvaie 
'a cappuccia, tenlaie de li?'àrela, e nemmeno nce riuscelte. 
Turnai à casa tutta chiena de scuomo , pecche lu juorno 
'nnanic p' 'a sfessa cosa aveva fatta % cucca à sora chiù 
grossa, e dicette chello che 1' era accanito. Allora 'a sora 
chiù piccerella , eh' era 'a figliasta d' 'a mamma , dicette 
che 'a matina appriesso nce valeva 'ire essa. 

'Nfatte quanno 'a matina appriasso fece juorno , chesla 
ascelte pe' bedè' si poteva scippa' 'a cappuccia , che 'e 
ssore non avevano potuto scippa'. Arrivai a do' sleva 'a 
cappuccia, e cumme nce meltctte 'ì mmane, chesla sùbbeto 
se ne venette; e , a do' steva chiantata , nce rimanelte nu 
purtuso gruosso gruosso. 

Luisella, eh' accussi se chiammava 'a figliasta , vulette 
guarda' dinto, e verette che nce steva 'na scalcila. Luisella 
era curiosa, e vulette scènnere. Scìnne, scinne, scinne; ar- 
rivale, dinto a nu sac^o de stanze , a do' nce stèvano nu 
munno de belle figliole: chi scupava, chi luvava 'a pòvere, 
chi cucenava, 'nzomma tutte quante stèvano accupàte. Lui- 
sella allora addimmannaie ch'era là bascio e che faceva- 
no ; e, 'ntramente una de 'sii fHgliole le diceva ca là era 
'a casa d' 'o figlio d' 'o re, eccole ca esce nu bello gióva- 



ne, àuto àuto, cu' li capilli ricce ricce, era russo e ghian- 
co , era pròprio bello , pecche teneva 1' nocchie ca chiac- 
chiariàvano. 

Chisto cumme vedette Luisella, se noe accustai e 1' ad- 
dimmannaie si se vuleva stare cu' isso. Luisella dicette ca 
no , e vuleva scappa' ; ma 'a cappuccia aveva 'nzerrato 
n' àuta vola 'o purtuso, e Luisella avette da rimmanè'. 

'0 figlio d' 'o re le vuleva nu sacco ^e bene, e Luisella 
pure chiane chiane accummenciai a vulèrelo bene. Allora 
^0 figlio d' 'o re le facette lavurà' 'na bella vesta de seta 
e le mettelte 'ncuollo nu sacco de brillante , perle e àule 
gioie. 

Mo, vuie ca me state- a senti', certo vulite'sapè' cum- 
m' era eh' 'o figlio d' 'o re se iruvava là bascio ? Ebbe 
avite da sape' che 'slu figlio d' 'o re aveva fatto 'na grossa 
n\ancanza , e 'o re pe' caslicàrelo , urdinaie che 'o figlio 
'nflno a qnanno nun fosse arrivato a ventun'anno fosse stato 
carcerato. Però penzanno ca era > figlio, e sapènnose ciò 
sarria stato nu scuorno ; 'o re cunusceva nu mago, e vu- 
lette addimmannà' a chisto a dò' puteva 'nzerrare 'o figlio. 
'0 mago dicette : stanotte mannàtelo a me , pecche io 'o 
melto dinto à casa d' 'e ffate. '0 re accussi facette , ed 
ecco corame 'o figlio se truvava là bascio, a do' 'e ITate 
po' r avevano aflatato. 

Ma tumammo a 'o fatto. Cummo avito 'ntiso 'o figlio 
d' 'o re aveva folto 'na bella vesta a Luisella , e V aveva 
dunato tanta gioie, e chesla pareva già 'na regina. 

Passarono paricchie juorno, e 'a matrea nun avenno vi- 
sto turnare chiù Luisella , addimmanijaie a ttut' i paisane 
si avevano visto 'a figliasta. Chi diceva forse è morta, chi 

diceva s' avranno magnate i lupi e chi tanta cose. A 

chisiu parla' 'a matrea tìngeva d' adduluràrese, ma 'ncuorpo 
a essa nce steva 'n' allegria, pecche, essenno» Luisella 'na 
figliasta , poco le 'mpurtava , anze s' aveva luvalo nu lu- 
tano da 'nnanze e nu pisimo da 'ncopp' ò stòmmaco. 

'Ntanto nu juorno truvànnose 'ncam'pagna , e poco lun- 
tano da 'o pizzo a do' sleva 'a cappuccia, vedette 'nterra 
'na fenestella ; se nei affacciaie , e cunuscette 'a figliasta 
che steva là bascio , assettata a 'na seggia de velluto e 
tutte tappete sotto i piedi. Avvènnola vista che steva vu- 
stuta accussi ricca , e penzanno , ca li fflglie pròprie nun 
avevano che mangia' , e nun tenevano 'na vrènzola pe' se 
mettere "ncuollo , pigliaie giulusia. Allora la chiammai e 
r addimmannaie che faceva là bascio. 
. Luisella le raccontaie tutte cose. E 'a matrea ca nun 'a 
puteva vede' , pe' (àrele pèrdere 'sta furtuna , ca li fflglie 
pròprie nun avevano avuto , le cunzigliaie che quanno 'a 
sera 'o figlio d' 'o re s' addurmeva, pròprio a mezanotle, 
avesse pigliato 'a chiavetella che chisto teneva dima 'a 
sacca, l'avesse spuntata 'a cammisa, e 'mpietto avria iru- 
vala 'na mascatura; cu' chella chiavetella avesse apierlo, e 
avria avuto 'na bella surpresa. 

Tutto chesto 'a matrea de Luisella lu ssapeva , pecche 
'na vota essa pure era stala affatala. 
^ Luisella cumm' infaite quanno fui 'a sera che 'o figlio 
d' 'o re s' addurmetie, piglia 'a chiavetella, sponta 'a cam- 
misa de chisto, trova 'a mascatura, cumm' 'a mati'ea l'avea 
dillo, apre e trova nu cammarone gruosso gruosso, a do' 
nce stèvano nu munno de belle figliole, che cusèvano cam- 
meselle, fasce, fasciature e tutte 1' àuli cose , che servono 
pe' fascia' 'na criatui-a. Luisella allora addimmannaie pe' 
chi serveva tutta chella robba, e una de chelli fflgliole le 
dicetle che serveva p' 'o figlio d' 'o figlio d' 'o i-e. Doppo 
Luisella se n' ascelle , e mentre steva chiudenno 'n' àula 
vota , 'o figlio d' 'o re se scolai e facette 'na grossa can- 
cariata a Luisella pe' chello ch'aveva fatto, e le cumman- 
naie de non fàrelo chiù. 

'N' àuto juorno Luisella steva assettala a lu slesso pizzo, 
a do' r aveva vista 'a matrea; e mentre steva là assettata 
e se sciuscià va, sentelte 'a voce d' 'a matreii, che l'addim- 
manaie si aveva fatto chello eh' essa V aveva dillo. Lui- 
sella le dicetle tutto cosa e le dicetle pure eh' 'o figlio 
d' 'o re s' era 'ncnietato. Nun le n' incarricà' , rispunnelte 
'a matrea : si lu lu (fai 'n' àuta vola , 'o tìgho d' 'o re le 
vorrà chiù bene. 



87 



Tulio cliesto già 'a mairea lu faceva pe' fa' pèrdere 'a 
fortuna à tigliasla, pecche uce teneva 'mmiria. 

'N falle Luisella quawno fui 'a sera che 'o figlio d' *o re 
s' adrturmelte, piglia a chiavelella, sponl' 'a cainmisa, apre, 
trase 'n' àula vota dinlo a chillo cammarone , guardale 
tutte chelli belle figliole, che faticavano e po' se n' ascelte; 
e mente sleva chiudenno , 'o figlio d' 'o re se scelai , e , 
chiù 'ncuielato d' 'a primma votii, dicette a Luisella : si lu 
ÌTaie n' àula vota, io le ne caccio. 

A cheslo parla' Luisella rimanelte tutta appaurata ; ma 
'n' àuto juomo che steva assettata a lu stesso pizzo, e paz- 
zi'ava cu' 'na gatta , 'a matrea da coppa la chiammaie e 
l'addimmannaie si aveva fatto cliello eh essa 1' aveva dillo. 
Luisella le dicette de si , e le dicelle pure che 'o figlio 
d' 'o re r aveva minacciala de cacciàrola si 'n' àula vola 
r avesse fatto. — Va , valle , piezze de scema , dicette 'a 
mairea chillo accussl fa, pecche le vo' bene; ma si tu lu 
flai 'n' àula vola chillo le vorrà chiù bene. Luisella avea 
paura, ma 'a matrea la 'ncuraggiai a fàrelo. 

'Nfalte quanno fui 'a sera che 'o figlio d' 'o re s' ad- 
durmeite, Luisella piglia 'a chiavelella, sponla 'a cammisa, 
apre 'mpielto, trase dinto a chillo cammarone, se fa 'n' àula 
chiacchiariala cu' chelli figliole, e po' se n' ascelle ; e men- 
te sleva rJiiudenno 'o figlio d' 'o re se sCelai , e , 'ncuietato 
assai, dicette : Tu nun m' baie voluto senti', e mo te n' baie 
da ire. Luisella chiagneva, diceva ca essa nun lu vvuleva 
fa', ma che 'a matrea ce 1' aveva cunzigliaio. Ma 'o figlio 
d' re 'ncucciaie, e vulette che Luisella se ne fosse iuta. 
Sulamenle le dette mi gliuòmmero de filo , e le dicelle : 

Mo che iesce da cà, accummenza a sgravuglià' 'slu gliuòm- 
mero, e a do' lenesce tu là cerca 'a carità. 

Cumm' infatie, Luisella, chiagnenno chiagnenno, se n* a- 
scelle e accumminciai a sgravuglià' 'o gliuòmmero. Cam- 
mina, canimina e 'o gliuòmmero fenetie pròprio 'nnanze 'a 
casa d' 'o re. Là se fermale Luisella e accummìnciaie a 
cerca' 'a carità. 

Pe' cumbinazione se truvai affacciata à fenesta 'a figlia 
d' 'o re, e avenno visto chella figliola, che cercava 'a ca- 
rità, e eh' era accussl bella, e po' era pure grossa prena, 
corre a d' 'a mamma, le dicette che abtescìo ne' era chella 
bella figliola, che, grossa prena, cercava 'a carità ; e pre- 
gai 'a mamma de fòrela sagli' e de darete 'na cammarella 
a do' fàrcia sta'. 'A regina, pecche 'o re era muorlo, a lu 
parla' d' 'a figlia, e pecche le vuleva bene, urdinaie eh' a- 
vèssero fatto sagli' chella figliola, che cercava 'a carità, e 
l'assignaie 'na cammarella a l'estremità d' 'o palazzo e che 
currispunneva 'ncopp' a li ccàrcere. 

Doppo poco liempo Luisella figliale e facelle nu bello 
piccerillo. A re^na e 'a figlia lu vulèltero vede', e cum- 
roe lu vedèltero, a coro dicòttero ca era tanto bello e che 
rassumigliava 'o figlio a 'o pale. 

Quanno fuie 'a primma notte, che Luisella s' era sgra- 
vata, pròprio a mezanotle, chesta sentette spalanca' 'a fene- 
sta , e nce trasette 'o figlio d' 'o re. Chislo s' avvicinai a 
la cònnola, a do' steva o figlio, e le carnale : 

Fa la nonna, figlio mio. 
Fa la nonna, gioia 'e papà ; 
Ca si vava lu ssapesse, 
Cònnola d'oro le vucarrìa, 
Fascia d' oro te 'nfasciarria ; 
Ca si gallo nun cantasse 
E si campana nun zunasse. 
Tutta 'a notte starna accussi. 

Po' dette nu vaso a 'o figlio, nu schiaffo à mugliera, e 
scappale pe' do' era trasulo. 

'A notte appriesso facelle 'o slesso. Accussi pure l'aula 
notte , e pure 1' àula. Succedette ca i carcerale da sotto 
senlèvano 'slu lamiento ogni noti' , e se lagnàieno ca loro 
nun puievano durmi', raccuutanno tutto ciò che senlèvano. 
Fuie ditto 'sta cosa & regina, e chesta quanno fui 'a notte, 
p' appura' chi era che traseva, se meiiette vicino 'a porta 
d' 'a cammareUa d' 'e Luisella e aspettava. 



'Nfalte a meeanotte pròprio se sentette spalanca' 'a fene- 
sta, se seutelle trasi' uno, eh' accumminciai a cantare: 

Fa la nonna, figlio mio. 
Fa la nonna, gioia 'e papà ; 
Ca si vava lu ssapesse, 
Cònnola d' oro te vucarria. 
Fascia d' oro te 'nfasciarria; 
Ca si gallo nun cantasse 
E si campana nun zunasse, 
Tutta 'a notte siarria accussl. 

'A regina cunuscetie 'a voce d' *o figlio, capette de che 
se trattava, e, quanno 'o figlio, rato 'o vaso, à crialura , 
sleva pe' dà' 'o schiaffo à mugliera. spaparanza 'a porta, 
e, stalle ; le dicette. Chesta l' è mugliera e tu 1' baie da 
rispetta' cumme sarà rispettata da tulle quante p' 'a mu- 
gliera d' 'o figlio d' 'o re. 

'Nfatte 'a regina aggrazziai 'o figlio ; facelle prepara' 
nu scicco appartamiento pe' Luisella, eh' aveva da èssere 
'a regina ; le facelle lavurà' nu sacco de veste de velluto 
e de seta , e nu sacco d' oggetle de brillante e d' oro , e 
po' dette 'na grossa festa p' annunzia' a lu pòpulo ca 'o 
figlio d' 'o re s' era 'nzurato cu' Luisella, e eh aveva avuto 
pure nu figlio. 

'A gioia de 'si' avvenimento fuie grossa, cumme grossa 
fuie la festa ca se facelle pe' luti' 'o paese e luti' 'o regno; 
ma 'a matrea 'e Luisella, cumme lu ssenleile, pe' lu dulore 
se ne morette. 

BaccoUe in Napoli Francesco Bojano 



STORIE POPOLARI NAPOLETANE 



SANTU NICOLA 

Che bellu Santo ch'è santu Nicola ! 
Facette un miracolo a Gioia. 
Na juorno nu guaglione lagrimava.^ 
Disse nu turco: Cn'haie tu, guaglione? 

— Ogge è lu juorno de sanUi Nicola, 
Che bella festa fa lu gnore mio. 

— r'n'ata vota ca t' 'o sent' *e dire, 
Pe' la fenesta te voglio menare. 

Si fosse vera Santu comme dice 
Da man'a nuie te verria a levare ! 

Santu Nicola a la taverna ieva (1) 
Era vigilia e nun ze cammarava. 
Disse a lu tavernaro: — Avite niente ^ 
È ora tarda e vulimmo mag are. 

— Tengo nu barilotto de tonnina, 
Tanto ch'è bella, nun ze po' guardare. 
Santu Nicola ce fece la croce; 

E a tre guagliune fece risuscitare. 
E che bello Santu ch'è santu Nicola 
Ch'ha fatto 'stu miracolo a Gioia 

Santu Nicol'a la taverna ieva. 
Era vigìlia e nun ze cammarava; 
Disse a lù tavernaro: avite niente ? 
Ca l' or' è tarda e bulimmo magnare. 

— Tengo nu varrichiello de tunnìna, 
Tanto ch'è bello nun ze po' magnare. 

— Lassatelo stare, ca nio lu beco io, 
r so' benuto cà pe' t'aiutare. 

Face la croce 'ncopp' a lu varrile, 
E tre guagliune fa resurzetare. 
Ebbiva Dio, e po' Santu Nicola, 
Che fanno 'sti miràcule de gioia. 



S8 



■■w^PPiW 



Ì*MH^&wA^ 



Ebbiva Dio, e pò* tutte li sante 
Che fanno 'sti miràcule galante. 

Raccolse in Napoli 
Vincenzo Della Sala 



(1) Di questa seconda parte c'è una variante nei Canti \ 
del popolo napoletano di Luigi 'Mòlinaro Del Chiaro , a ; 
pagina 301. , 

NOTIZIE 

L'editore Francesco Vigo di Livorno ha pubblicato un 

f rosso volume di Sùudi cU storia letteraria napoletana , 
el professor Francesco Torraca. Il volume di 470 pagine 
in lo contiene i seguenti scritti : 

Satire Tajipn^entazioni del Napoleéano — P. A. Carao 
dolo — Le Farse Cavatole — La patria di Pier della Vi- 
ffjia — Il conte di PoliCa3$ro — Una leggenda napoletana 
•€ r -epopea icarolingia — Fra Roberto da Lecce — Luigi 
Tansillo — lUrici napoletani del secolo XIV — Farse na- 
poletane del Quattrocento — L'orazione del Fontano a Car* 
lo Vili — Reliquie del dramma Sacro. Neil' Appendice 
sono stampati dei testi inediti: Il Trionfo della fama dei 
Sannazaro -^ Lo Magioé e La Ricevuta dello Imperatore 
alla Cava (farze). 

L* importanza di questo volume è grandissima sia per 
le cose di cui tratta, sia ye\ modo come ne tratta, li Tor- 
raca ha dato larga prova del suo ingegno e della sua cul- 
tura. Qui non si ripetono cose viete e stantie , in ogni 
questione letteraria il Torraca cerca di far la luce , © ci 
riesce, setnpre. Più di un punto controverso della nostra 
storia letteraria, è stato, vittoriosamente, dichiarato, con 
gran corredo di erudizione, tutta di prima mano, con arte, 
che ravviva, sempre , la materia , talvolta grave. Contri- 
buto importante alla storia letteraria d'Italia, questo vo- 
lume, cne si aggira, in gran parte, sul Quattrocento, ri- 
compone, saremmo per dire, tutta quanta la vita letterarfa 
di quel tempo, in Napoli. 

tino dei molti pregi del Torraca è la ricerca paziente, 
accorata , circospetta ; ejgli procede cauto in tutte le sue 
ricerche, e quairao vi da il risultato di esso, potete con- 
tarci su. 

Importanti tulti , Importantissimo è lo studio stille Re- 
liquie del dramma sacro, in cui il Torraca è riuscito, dopo 
non poche fatiche , a dare una larga notizie dei drammi 
sacri, che si rappresentano, tuttora, in diverse occasioni, 
nelle nostre provmcie. Né egli si è fermato qui; ma, aven- 
do potuto raccogliere una larga messe di certe produzioni 
poetiche popolari, che, facilmente, si possono riannodare 
con i primissimi ero2Zi saggi della drammatica popolare, 
tramandatisi con poche trasfonnazioni attraverso i secoli, 
egli le ordina , e ne dà una notizia larga , parlando del 
contenuto di esse, riportandone dei brani, paragonandole 
con altre di altre provincie. L'ultima parte di questo stu- 
dio, che ha trovato già dei continuatori in altre parti d'I- 
talia (1), è dedicato OAir autore per dare notizia dei pochi 
drammi sacri, stampati o manoscritti, ohe gli è riuscito 
di procurarsi. In essi come osserva l'A. e* è quasi niente 
di popolare, ma sono una prova indiretta della diffusione 
e della persktenza della drammatica religiosa , nelle no- 
stre ppovincie. 

Non vogliamo terminar questo annunzio, senza far cenno 
di un*co(ìice che 1* A. ha potuto consultare. Esso appar- 
tiene alla Biblioteca di Monaco di Baviera , ed insieme 
alle rime di parecchi scrittori napoletani, contiene cinque 
farse inedite: El Trionfo della Fama la Farsa delVantba- 
sceria del Soldano explicata per lo interprete del Sanna- 
zaro, ed altre composizioni di lui; la farza del Magico del 
Caracciolo , una Farza e due conàpoàieioni di un Giosuè 
Capasse dei sedile di Portanova , e la quinta anonima e 
senza titolo. 

Pei -tipi air insegna -di S. Francesco , in S. Agnel lo d 
Sorrento , ha tisto la luce im volumetto , in sedicesimo, 
di pag; ^0^ dal titolo u Leggende popolari sorrentine 
per Gaetano Cansano-Avarna* L' Autore é andato racco- 
gliendo dalla bocca del popolo alcune tradizioni, come gli 
spiriti della Villa PoUio, la fata di C($sa Mastrogiudice^ 

(1) Per es. lo Zenatti , che , neil' Archivio storico delle 
province ha pcubbiicaito un lavoro sui residui del dram- 
ma sacro nelle provincie italiane. 



mmmmmmm mmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmtimmammmm 

^^^^^^^^^t^l,L.BLJ.LJLI- .ì f '■,■.,,, , , . ,T ,r II,-- --■ ...ir i.ii ^— ^^^^— 

il tesoro deUa Conca il cUaeolo di casa Boccia ec, ed ha 
cercato illustrarle alla meglio. È curioso, mentre alcune 
di queste sembrano tradizioni puramente locali, in sostan- 
za non sono «e non ©ose che si raccontano anche altrove 
e ohe qui sono state applicate a quei dati luoghi e a quelle 
determuiate persone. Da questo lato il libro offre campo 
a curiosi e diciamolo pure a copiosi raffronti ; e mentre 
sembra destinato ad illustrare semplicemente quelle tra- 
dizioni locali, è d' interesse molto più generale, riguar^ 
dando gli studiì di letteratura popolare. 

In questi giorni è venuta alla luce la Storia letteraria 
dell'Opera buffa napolitana dalle origini fino al principio 
del Secolo XIX, scritta dal nostro collaboratore Michele 
Scherillo. È un grosso volume in 4*», di 889 pagine; ed ha 
in fine , come Appendice , Alcune canzonette popòtri e- 
stratte dai libretu d'Opera buffa , già edite nei primi tre 
numeri del presente periodico - t^uesio lavoro vinse il 
premio nel concorso 1879-80 della R. Accademia di Ar- 
cheologia, Lettere e Belle aiti di Napoli; ed è pubblicato 
negli Alti ed a spese dell* Accademia. A parte ne sono 
stati tirati solamente Cento esem^ylarii di cui pocliissimi 
sono stati messi in ^commercio. 

Nel N.o 297, anno XI (Napoli, venerdì, 26 Ottobre 1883) 
del Corriere del Mattino, il signor Nicola Misasi ha scritto 
un articolo dal titolo: — Canti d'amore, col quale annun- 
zia la prossima pubblicazione d'una raccolta di canti po- 
polari calabresi, fatta dal signor Dome»ioo Bianchi. Per 
farne pregustare la bellezza ai lettorii ne riporta sei, tra- 
dotti in prosa italiana. 

Nel N. 5 -6 deir Ateneo Italiano ^\nm VII f Forlì-Na- 
poli 1-15 Settembre 1883), il sigapr Gaetano Amalfi, in 
un brevissimo articolo intitolato: ^ Dissapprooazio^e pò, 
polare, ha descritte le curiose scene, ^^^ sogliono accom, 
pagnare il matrimonio dei vecchi a Meta di Sorrento , 
Vico Eguense, Massa Lobrense ed altri paesi. 

Il signor Alfonso Perrella, in un elegante opnscolctio, 
dal titolo — Di Casùropignano e «we otcmonstf, schisai tO' 
pografici e storici ( Napoli, CaHuocio , de Biasio e C.^ , 
1883), a pag. 13, riporta un canto popoihire toscano, pub- 
blicato in parte dal Tigri. 

In uà' altra strenna pei danneggiati di Casamicciola , 
V Ateneo^ il nostro egregio collaboratore, signor Gaetano 
Amalfi, ba pubblicato un altro Uso popolare dell'isola, la 
festa che si fa per la battitura d'un terrazzo. Vi sono ri- 
portati molti canti popolari. 

Il nostro collaboratore , avvocalo Michele Scherillo, ha 
pubblicato nel Preludio, Anno VII, N* 19 e 20 (Ancona, 
16 e 30 Ottobre 1883 ) un articolo intitolato : — Napoli 
vioeregnale « dove riporta un antico canto popolare napo- 
letano : 



« Bella, che €o' sse trezze m' atlacaste » 



ì^m 



I ll ll l ll ' 



Abbiamo ricevuto il preszo d' abbonamento 
dai signori: 

114. Caravelli Prof. Vittorio — Oasoria. 

115. Padre Bonaveotaira da Sorrento — S. Agnello di 

Sorrento. 

116. Zincone Aoo, Enrico — Isola del Liri. 



ERRATA CORRIGE 

Riscontri alla fiaba rooigajese ( N.^ 8 ) Oontos , leggi 
cuentos; Milusine, Mélunne; Mante, Haute; Grioohiscne, 
Griechieche; Albanische, Albanesiche; Feeke, folke; Evea- 
tyr, Eoentgr: Verschicken, versc/iiedene\ Wissen^ Wessen 
ec. ec. 

Gaetano Holinaro — Responsabile 

Tipi Garluccio, De Biagio & C/ — kjo Co^tinopoU, N. 89. 



Amo I. 



Napoli , 15 Dicembre 



NUM. 12. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBOITAHSÌTTO AMVO 



Per l'Italia L. 4 — Estero L. e. 

Un ouQicro separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
1 manoscritti non si restituiscono. 
Si coniiiniclH 11 cambiamento di 
sidenza. 



Esce il 15 d'ogni mese 

L. HOLINARO DEL CHIARO, Direttore 

I, lAHDALARI, I. 8GHEIULI.0» L. CORRERÀ, 
0. AIALFI, V. DBLU SALA, V. 8II0NGSLU 

Redattori 



AWEBTEirZB 



Indirizzare raprlia, Ietterà o mMoscritti 
al Direttore liulgl Holliiaro Ilei 
Chiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in dop\)io esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



SOnuULBIOt— Tradizioni drammatiche popolari (M. Sche- 
RiLLa) —'0 cunto d' *o saluto d' 'e tre cafune (V. Della 
Sala) ^ Canti popolari napoletani raccolti sul Villaggio 
del Vomero (B. Croce] — Gruzzolo d'indovinelli leccesi 
(G. Congedo) — Pubblicazioni in dialetto pervenuteci in 
dono — Notizie — Posta economica. 



Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni . e le tra- 
duzioni. 



TRADIZIONI DRAIflMATICHE POPOLARI 

« / dodici mesi » 
I. 

U egregio mio amico Vincenzo Simoncelli , 
nei marzo di quest'anno, pubblicò nel Preludio 
di Ancona (n.° 5) una rappresentazione popolare 
carnevalesca, da lui raccolta a Sora, ed intito- 
lata « / dodici mesi ». Un artigiano, camuffato 
da vecchio e con una specie di scettro in mano, 
raffigura Tanno; e si fa venire innanzi Tun dopo 
r altro i figli, i mesi, e a ciascuno domanda il 
nome e le attribuzioni proprie. 

Il Simoncelli inviava, con lettera aperta, quella 
pubblicazione a me , perchè gli pareva che 
potesse servire di riconferma ad una mia vec- 
chia ipotesi sulla commedia dell'arte. « Non cre- 
do — io avevo detto (1) — che la tradizione del- 
la commedia delV arte viva esclusivamente a 
Napoli. Forse , ricercando, noi la troveremmo 
molto viva in fondo alle nostre provincie , fra 
quelle forme primitive di drammi , a cui ap- 
partengono pure i ditti di Monte Corvino ecc. » 
Ed il Simoncelli, modestamente, metteva fuo- 
ri la supposizione che forse la rappresenta- 
zione di Sora poteva avere a delle relazioni 
con quella forma poetica , di cui troviamo 
un esempio nella Corona de' dodici sonetti 
su' mesi dell' anno di Folgore da San Gemi- 
gnano »; ma, aggiungeva, di mancargli il tem- 
po per fare le ricercne opportune. 

Ora al Simoncelli ha replicato il prof. D'An- 
cona, con un lungo articolo dì più di trenta pa- 
gine, per dimostrare come la rappresentazione 
sorana non abbia nulla a fare con la comme* 
dia deW arte, uè con la Corona di Folgore, E 



dapprima egli raffronta il testo del Simonceili 
con altri documenti di vario genere , più o 
meno popolari , e così della parola come del- 
l'arte rappresentativa ». A Benevento (2) trova 
un componimento molto simile al sorano; in Si- 
cilia I il carattere drammatico è andato a con- 
fondersi col narrativo , ed è il cantore che 
narra le prerogative di ciascun mese (3); a Ve- 
nezia, lo trova sotto forma di canzonetta in versi 
ottonari (4) ; nell' Istria, con una forma religiosa, 
ricordando ogni mese, anzi che le faccende ru- 
sticali proprie, come fanno in altre parti, le ri- 
correnze ael calendario religioso (5). 

Il D' Ancona quindi, pur lodando il Simoncelli 
dell' opportuno ricordo della Corona di Folgore, 
osserva che le relazioni di somiglianza fra' due 
componimenti non si estendono oltre il soggetto, 
a La Corona dei sonetti di Folgore — egli dice 
-— come 1* altra serie che riguarda i giorni della 
settimana, si riferisce ad usanze ben diverse da 
quelle a cui questi testi si riferiscono : descri- 
vono il modo col quale una società eletta e spe- 
ciale spende anzi dissipa 1' operosità propria , 
separandosi al possibile dal volgo, dal maggior 
numero, e trovando nel variar delle stagioni la 
soddisfazione di piaceri fittizj e lo sfogo di ar- 
tificiose inclinazioni. Quelle poesie invece ap- 
partengono alla gnomica popolare, e registrano, 
quasi in forma d' ammaestramento , ciò che la 
natura stessa consiglia. » Il D'Ancona passa poi 
a rassegna i vari documenti ches ci avanzano 
del Medio Evo, e che si riferiscno al soggetto 
della diversità di occupazioni e di prodotti, se- 
condo la diversità dei mesi. E prima quattro 
versi latini , pubblicati da Wrig^t e Hallivell 
nelle Reliquiae antiquae (II, 40); poi un sunto 
della Questione fra ser Zenere et li altri XI 
mesi di Bonvesin da Riva , la quale in molte 
parti è simile alla rappresentazione de' Dodici 
mesi; quindi pubblica una canzonetta mano* 
scritta in un cod. Laurenz. (X, e, 96). E come 
i documenti letterari , così il D* Ancona passa 
a rassegna anche gli antichi disegni e bas- 
sorilievi, che raffigurano i dodici mesi, ciascuno 
in una forma differente. 

Il lungo, paziente e scrupoloso lavoro dell'il- 
lustre professore , lo mena a concludere che 
nella poesia di Sora non si può vedere , come 
supponeva il Simoncelli , un avanzo della com'^ 
meàia delVarte\ ma invece essa, come tutte iè 



90 



altre rappresentazioni e canzoni affini delle va- 
rie regioni italiane, si collega « a quello spon- 
taneo modo di rappresentare vivamente le pro- 
prietà opposte delle cose, onde fra le plebi cri- 
stiane dell'età media ottenne tanlQ generale ag- 
gradimento la forma del Contrasto ». E termina 
invocando l'aiuto dei demopsicologi, perchè fac- 
ciano ricerche presso gli altri popoli , per rin- 
venire anche colà documenti simili a cotesti 
pubblicati in Italia. 

Intanto , contemporaneamente al lavoro del 
prof. D' Ancona, sul Preludio^ compariva Una 
variante calabrese della rappresentazione « / 
Dodici mesi », pubblicata, con un po' di cemen- 
to, dal sig. Vittorio Caravelli. Il quale è invece 
della opinione del Simoncelli , e crede che la 
rappresentazione dei Mesi delV anno sia una 
delle reliquie viventi, già da me accennate, della 
Commedia delV arte. « In parecchi villaggi ca- 
labresi—- egli aggiunge — la reminiscenza della 
Commedia aeWarte è ancor viva, sebbene, con 
la introduzione delle nuove costumanze , delle 
nuove idee, di tutto, insomma, il gran complesso 
di fatti della invadente civiltà, essa inchini len- 
tamente a morire » (6). 

IL 

Io ringrazio i due valorosi miei amici , Si- 
moncelli e Caravelli , delle parole gentili dette 
per me; ma, io credo, col prof. D'Ancona, che 
la rappresentazione de' Dodici mesi non possa 
collegarsi alla Commedia dell'arie. Però non mi 
finisco di persuadere nemmeno che essa sia da 
ricongiungere con i Contrasti^ siccome vorrebbe 
il D'Ancona. Metto avanti un' ipotesi. 

Nel saggio storico su Pulcinella prima del 
sec. XIX (7), dicevo che non si può parlare di 
discendenza diretta e continua della commedia 
delVarte dall' antica Atellana, se prima non sì 
provi che cosa sia avvenuto della vecchia farsa 
osca attraverso quindici secoli. Il prof. Vincenzo 
de Amicis , in un suo saggio , pubblicato nel 
giugno 1882, prometteva di dare coteste prove, 
« in tempo non lontano » , le quali avrebbero 
dimostrato , senza render più possibile il dub- 
bio , che la a rassomiglianza che esiste fra la 
commedia delVarte e la commedia popolare la- 
tina non sia fortuita , e che 1' una derivi vera- 
mente dall' altra » (8). Finora però — e siamo 
al dicembre del 1883 — quelle prove non sono 
state ancor Hate! 

Ora , le rappresentazioni carnevalesche ', che 
noi troviamo ancora in fondo alle nostre Pro- 
vincie , non potrebbero essere appunto le reli- 
qu'e ancora viventi àeWAtellana ? Non potreb- 
bero coteste forme primitive di drammi, salvate 
da ogni , influenza letteraria dalla lontananza 
delle grandi città, indicarci quale sia stata, ge- 
neralmente , la commedia popolare del Medio- 
evo? Nel popolo, specialmente in campagna, la 
tradizione è mantenuta fedele ; e molte di co- 
deste forme drammatiche contadinesche potreb- 
bero essere la ripetizione di un' antica farsa 
osca, passata attraverso a' secoli di mezzo. La 
commedia delVarte potrebbe essere stata gene- 
rata appunto da coteste farse r usti cali. Si sa 



che Pulcinella era un villano di Acerra: niente 
di strano che sia stato un villano dotato di una 
vena comica e satirica felice , ma a cui il la* 
voro del contadino piaceva meno delle sue buf- 
fonerie ; il quale sia venuto in città , e si sia 
guadagnata la vìta^ destando il buonumore delle 
iantesche e dei facchini di piazza Pendino . 
Niente di strano che egli , lusingato dal buon 
successo, abbia attirati attorno a sé quegli altri 
villani, con cui, in provincia, aveva rappresen- 
tate quelle farse contadinesche , che avevano 
ricevute per tradizione; e che le abbiano ripe- 
tute in Napoli fra le grosse risate del popolino. 
Ciascuno di quei contadini-attori, a poco a poco» 
dovette pigliare a rappresentare costantemente 
un determinato carattere ridicolo; e furono così 
creati i tipi fissi. I quali poi, di mano in mano, 
per opera degli attori successivi, d'una cultura 
meno rudimentale, furono ricoloriti, e, in fine, 
ri modellati sui classici originali di Plauto o di 
Terenzio. 

Ma questa mia non è che una ipotesi. Nello 
stato attuale delle cose — mi giova ripeterlo — 
se non una temerità, è sempre una supposizione 
soggettiva, l'ammettere una continuità e unax^on- 
nessione fra la commedia delVarte e la vecchia 
Atellana: mancano le tracce per mille e cin- 
quecento anni ! Mi pare però , che sia possi- 
bile ritrovarle , studiando le tradizioni popolari 
drammatiche delle nostre provinole. Oh se i 

miei amici volessero continuare nelle loro ri- 
cerche ! 



1 Dicembre 1883. 



Michele Scherillo 



(1) V. Preludio^ 30 maggio 1881 in una rivista agli Sce- 
nari del Bartoli. 

(2) In CoRAzziNi — Componimenti minori della leti, pò- 
poi. italiana, Benevento, De Gennaro, pag. 375. 

(3) In L. Vigo — Raccolta ampliss., p. 741. Il Vigo, a- 
vendo trovato nella cronaca di Iacopo d* Aqui che Pier 
della Vigna compose una poesia de XII mensibus et de 
proprietatibui eorum , crede che la canzone siciliana sia 
un* imitazione di quella ! 

(4) D» G. Bernoni , Tradii' pop. veneziane. Venezia , 
Antonelli , 1875. Pag. 45. 

(5) IvE, Canti pop. istriani. P. 379. 

(6) Ai raffronti fatti dal d' Ancona , si può aggiungere 
anche il co/i^o abruzzese, raccolto dal De Nino : / dodici 
mesi. Vedi Usi e costumi abruzzesi. Fiabe descritte da 
Antonio de Nino. Voi. HI. Firenze, Barbèra, 18b3. Pag. 
184-189. 

(7) Ancona, Ciyelli, 1880. 

(8) La Commedia popolare latina e la commedia delVarte. 
Napoli, 1882. 

— - 

'O CUNTO D' 'O SALUTE 
D' 'E TRE CAFUNE 

Tre cafune nu iuoruo cammenàvano pe' 'na campagna. 

Mente cammenàvano, nu signore ca passava, se fermale, 
e 'e ssalutaie. 

Quanno 'e tre cafune 'o perdèller' *e vista , uno *e loro 
dicelle : 

— Chiirommo ha salutai' a me. 
'N alo ricelle : 

— No, ha salutalo a me. 
E 'o terzo ricette: 

— Valle, chìlio ha salutai' a me. 



91 



Da 'na parola passàieno a 'n' ala e da chcsto se 'nzur- 
fàìeno tanto, ca se rètteoo cienr e una mazzata. 

Cierti gguàrdie ca se truvàrono pe' sc;)sua)ità a passa' 
r arreslàieiio tutte e tre e, 'e purlàiono 'nnauz' 6 giùrice. 
Ognuno facetle quarela contro a Tato pecche s'era appru- 
priato nu saluto ca nun era diretto a isso. 

giùrice, pe' rirere, ricette : 

— laievenne nao, turnale 'n' ata vota e i' dicidarraggìQ 
a chi era diretto chillu saluto. 

'E cafune se ne ietterò. 

'A malin' appriesso uno d' 'e tre , p' ave' 'a sentenzia 
favnrèvole a isso, ienghetle 'na sarma d' 'o ciuccio 'e pre- 
sotto e casecavalle, e 'a purtaie a do' giùrice , dicènnole : 

— Faclleme 'o piacere e di' ca 'o sahito veneva a me. 
Poco doppo venette 'o sicunno cafone cu' n' 'ala sarm' 'e 

robba, e doppo d' isso venette chili' alo, prianno pure loro 
'o giùrice pecche l'avesse dalo ragione. 

Quanno fuie 'o juorno d' 'a sentenza, 'o giùrice ca nun za- 
peva a chi aveva da dà' ragione, farcite 'na pcnzala, e dicetle : 

— Figliule micie, pe'quanio avesse puluto sturià' notte e 
ghiurno , i' nun aggio pututo accapezza' niente e mo nun 
ve pozzo dìcere a chi ieva chillu saluto. Sulo ve pozzo dà' 
nu mezzo p>' arriva' a sape' cu' certezza 'sta cosa. Sentite a 
me, e po' rispunnlteme. 

Ognuno 'e vuie in vita soia ha' fatto quacche scemila. 
r ponzo ca 'o saluto ieva a chillo ca T ha fallo chiù grossa. 
Accummenza tu a parla', e musiaie unod"e tre. 

— Signò , ricette chillo doppo d' ave' penzaio nu poco , 
i' faceva àmmore. 'Na sera, sicunno 'o ssòlelo, me meltetie 
sotto 'a fenesta d' 'a 'nnammurata mia, e parlavo cu' essa. 
Pe"ntramenle steva chiacchierianno , veneile a chiòvere, e 
essa, pe' nun ze 'nfònnere, se ne irasetle rimo. 

— Émbè, ricelle 'o giùrice, tu le ne isti ? 
Gnomo, signore iòdico, i' rummanette là sotto. 

— E quanno veriste ca se faceva tardo e seguelava a 
chiòvere te ne iste ? 

— Gnomo, anze sentile che me succerelte. Verz' 'o nardo 
*a 'nnammurata mia apretle 'o barconciello, i' aizaie l'uocchie 
e le verette 'mmano 'o rinaie. 

— E te scustaste ? 

— No, signurino mio, me stette a do' steva. Essa, ca nun 
m' aveva visto, iettaie 'o rinaie abbascio, e me menaie tutto 
cosa 'ncuollo, e me 'nfunnelte d'*a cap' 6 pere. F pe' nun 'a 
dà' dispiacere rummanette là fino à matina appi'iesso. 

— Ah , ricette 'o giùrice , chesla cà fuie na bestialilà 
grossa. 

E chi ha pututo fa' chiù grossa ? '0 saluto venarrà cer- 
tamente a le. 

—- Signò, rispunnetle 1' atu cafone, i' 1' aggio falla chiù 
grossa d' isso. Vulile senti' 'a mia ? 

— Di', ca te sto a sentore. 

— Avite da sape' ca f facev' 'o servitore. '0 signore mio 
me purlava a fa' 'a spesa cu' isso. Nu iuorno 'o patrone 
me purtaie accatta 'e fflche troiane. Mente ièvemo à casa, 
me venette *o gènio 'e me ne magna' una. Mettette 'a mana 
rint' 'o pannro, e, senza ca 'o patrone se ne fosse addunalo, 

' me ne 'mmuccaie una. '0 patrone s' avutale d' 'a parte mia 
tutto 'nzieme, e i' pe' nun le fa' abbedè' ca teneva 'a fica 
'mmocca, me mettette àlluccà': ah, ah, ah ! 

— Che malora tiene ? ricette 'o patrone. 

E i' cu' tuli' 'a fica 'mmocca, le dicetle cumme puteva. 

— Tengo dulore 'e mole. 
Ricelle 'o patrone : 

— lamm' à casa ca le facci' abbedè' da nu mièdeco. 

— E doppo te magnasi' 'a fica ? 

— No, signore mio, si no quanno veneva 'o mièdeco i' 
me truvavo busciardo. 

— Bravo, tu si' 'n omm' 'e 'ngegno. 

— Signò, vui avite da fenl' 'e seniore. 

— Quanno venette 'o mièdeco, ricelle: 

— Gà s' ha da taglia' 'a faccia. 

— E tu nun diciste niente ? 

— Cumme site curioso ! I' po' me trovavo busciardo. 

— Ha ragione. 'A scemila loia nun è piccerella. E quanno 
venette 'o mièdeco che succedette ? 



— Cacciale 'na langelta , appriparaie cierii sfilo e pò 
s' accusiaie a me e me lagliaie 'a faccia, comme avea ditto 
D' 'a faccia n' ascelle 'a fica , ca i' nun m' aveva pututo 
magna'. 

— Aggio appaura ca 'o saluto veneva a te. Ma sentim- 
mo a chist' aio. 

— Signò , ricette tutto alloro 'o terzo cafone , 'a mia è 
chiù grossa 'e Hate. I' me 'nzuraie. Doppo fatte 'e festine 
me iett' a cucca' 'nzieme cu' muglièrema. Tanta d' 'a 'nfu- 
sca e d' àmmuina, me scurdaie 'e 'nzerrà' 'a porla. Stanno 
rint' 'o licito, me n' addunaie, e dicetle a muglièrema: 

— Va chiur' 'a porla. 

— E pe' chi m' he pigliata, rispunnetle muglièrema. 
'A porta r baie da chiùdere tu ca si' ommo. 

— No, tu si' 'a fèmmena, e m' baie da servi'. Va chiu- 
r' 'a porta. 

— E i"a porta nun 'a voglio 'nchiùrere. 

— E i' mo lev' àccasione. Facimmo nu patto ; chi de 
nuie duie padani p' 'o primmo, chillo iarrà a 'nchiùrere 
'a porla. 

È niscuno 'e nuie parìaie chiù. 
Doppo chiù de 'n' ora, irasèileno quatto mariuole rint' a 
casa mia. 

— E tu che dicisle ? 

— Niente! Ch' avev' a di'. 1' si parlav' avea chiùrere 'a 
porla ! 'E quatto mariuole arapètteno tuli' 'e tteraiore d' 'e 
cummò , ne cacciàieno luti' 'a robba da rimo, e se ne fa- 
cètteno tanta grosse mappate e se ne iètteno. 

— E tu nun diciste manco niente ? 

— Gnornò. Doppo'n atu poco, 'e mariuole turnàieno, s'accu- 
slàieno 'nfacci' 'o licito, aizai*ano 'a cuperla e s"a purtàino. 

— E tu quanno vediste ca le luvavano 'a cuperla da 
cuoUo manco parlaste. 

— Che parìa' e parla'. 1' po' si parlava aveva da chiù- 
rere 'a porta. 

— E manlenisie 'a parola ! 

— Ma comme! E sentite noo che succerelte. Doppo ca 
'e mariuole se purtàrono 'a cuperla, turuàrono 'n' 'ata vota, 
se pigliàieno a muglièrema da rint' 'o Hello, e s' 'a purlaie- 
no cu' loro. Doppo nu poco 'a turnàieno a purtà' 1 Quan- 
n' essa 'traselle 'n' ala vota ini' 'a casa, ricelle : 

— '0 bi' eh he fatto ? T' he fall* arrubbà lutt' 'a robba. 

— Ya , chiud' 'a porla , tu he partalo p' 'a primma le 
rispunnetle i' e essa l'avelie da chiùrere. 

. — Bravo, fusto ommo 'e parole. 

Figliule micie, 'o saluto, sentile a me, ieva a chislo cà. 
Chisio si che n' ha fatto una chiù grossa d' 'e scemila 
vosie. 

'E cafune nun zapètleno che rispònnere e se ne iètteno 
cuntenle pecche accussì 'a ponzavano loro pure. (1) 

Raccolse in Napoli Vincenzo Della Sala. 



(1) Cfr. questo oaMo con la poesia giocosa dì A. Gua- 
dagnoli: La lingua di una donna alla prova» 



Canti popolari raccolti in ITapoli 

SUL VILLAGGIO DEL VOMERO 

Questi p^ch' e nti. raccolti sul Vomero, che 
o presento ai ett ri del Giambattista Basile , 
«Oli sono contenuti nella bella raccolta del Mo- 
li aro Del Chiaro, né in atra, che io mi sip- 
pia. E qu ^sto non essere afifatto comuni, ovvero 
Virianti e ripetizioni di canti conosciuti, è già 
un certo merito da non disprezzarsi, del quale 
i lettori ne t rranno conto. 

Benedetto Croce 



92 



1. 

Caro Cupìndo, famme nu favore, 
Gai'o Cupindo, ca me lu può' fare; 
Vièstete 'nguisa de nu cunfessore, 
Vamme cunfessa chella core 'i cana. 
Tu va, e dincello cu' chi fa Y ammore, 
Che core ha Vuto de m' abbandunare ; 
Nun ce la rare V assuluzione, 
Si Dun le dice ca pace vo' fare. 

Core 'i canai cuor di cane cioè crudele. 

Cupindo, Cupido. Ora Cupido è diventato un personag- 
gio del mondo popolare, e il trovarlo nominato nei canti 
non è sempre indizio di origino letteraria. E perchè? Per- 
chè il popolo crede in buona fede che Cupindo sia stato 
un valekite compositore di canzoni. La popolana , che mi 
dettava c^uesto canto, soggiungeva, per pruova, che, quan- 
do, lei giovanetta , guai»tava le canzoni , nel cantarle, la 
madre le s:grìdava col dirle : « Eh Cupindo ci ha faticato 
tanto per farle, e tu le guasti! » 

2. 

Tutto de fuoco me viddi allumato 
Quanuo te li mirai 'sii bbionne trezze. 
Dici , ca munacella le vuò' fare ; 
Pecche me la vuò* rà' 'sia scuntentezza ? 
Si mònaca te fai, chiù fuoco atlìzze ; 
r vengo de notte, e le scasso la cella. 

3. 

Siénlelo, mamma, ca passa canlanno 
Lu guappetiello de lu core mio ; 
Cu' 'na calasciuncella va sunanno, 
Crìremo, mamma, ca me fa murire ; 
ÀflSicciati à fenesta e va lu chiamme, 
Dincello si cà 'ncoppa vo' saglire. 

Guappetiello, È il giovi no tto napolitano spavaldo, attil- 
lato nel vestire, col cappello alla s^herra, con un*aria di 
sfida, nel modo di parlare , di gestire , di camminare ; e 
per tutte queste coso fortunato in amore. 

Calasciuncella. Calascione istrumento di musica con 
molte corde , che si suona colla penna. É in uso molto 
plesso gli innammorati. Un canto della raccolta del Mo- 
Hnaro Del Chiaro (Pag. 157 e. 140) dice : 

Calasciunciello mio, calasciunciello , 
Gomme te voglio rompere e scassare ! 
Da stamattina ca 'ucuollo te porto 
Niscuna nenna m* ho* fatf affacciare. 
Calasciunciello mio se vota e dice : 
— Miètteme 'ncorda ca voglio sunare : 
Tanto che boglio fa* nu suon' affritto. 
La nenna ca tu vuò* facci' affacciare ! 

4. 

Quanno nasciste tu. Rosa marina. 
Ce fece fesla la luna e lu sole ; 
Ce fece festa Palermo e Messina, 
Ai te ti batliai lu papa a Roma ; 
Pe' cummarella fuie la regina, 
Pe' cummariello nu re de curona. 
Pe' nome te messe Angiula Maria, 
Ija notte site luna e 'o juorno sole. 

È un canto comune a tutte le provinole, ed in ciascuna 
assume tre, quattro, cinque forme differenti. Vedi tra gli 
astri il Tigri Canti popolari toscani. Pag. 25. e. 88, 89, §3. 
Eccone anche una variante inedita, raccolta a Mugnano: 

Quanno nasciste, gentile figliola, 
A Roma ti sunàrono i ccampane ; 
T' abbattezzai lu papa 'mperzona, 
Nji véscovo cu' tremila cardinali. 
Festa, faceva Palermo e Messina, 
Sant'Èrmeno sparai lu cannone. 



5. 

Voglio sape' chi ha 'vuto lant' ardire, 
Cu' nenna mia bella è gtiiulo a parlare ; 
r credo che s' 'ii ssonna de murire. 
Che 'n fleto 1' è venuto lu campare; 
Nzo do' lu trovo lu piglio e l'acciro, 
Manco a la Chièsia lu faccio atterrare ; 
N' aggio appaura de li gguapparie. 
Campane a morte voglio fa' sunare. 

8* *u ssonna de murire, cioè ha pensiero, intenzione di 
morire, JnJieCo in odio, in uggia, nzo do\ dovunque. 

E curioso paragonare questo canto di gelosia con quelli 
toscani. Nei toscani si prega , si lamenta, si piange la 
mala sorte e le male lingue; in questo si minaccia: versi 
tanto energici in bocca suppongono dei coltelli in mano. 

6. 

Cuntièneti, cuntièneti ca si' bella ; 
Dimmello appriesso a le chi nei fa folla : 
Ouanno cammini, pare 'n' anairella, 
Quanno t' assielti, pare fica molla ; 
Tanno se marita 'sta quatroscia, 
Quanno 'u papa a Roma fa 'u masturascio. 

Cunièneti^ crediti , stimati , quatroscia squarquoia ma^ 
siurascio falegname, cioè masto r* af^cia. 

Lo spirito satirico del popolo è molto limitato, e dififi- 
cilmente deride altro che non sia la bruttezza delle for- 
me; onde di canti nel genere di questo ne trovi molti. 
Li chiamano piecchi. 

7. 

r quanf è bello lu ssapè' sunare, 
Massemamente lu cantare pure; 
Quanno 'na nenna nun la può' parlare, 
'Ncanzone le può' ri' chello che vuoie. 
Alla fenesla la fai afEacciare, 
Po' le la vuoti cu' li mori luoie. 

Cfr. Molinaro Del Chiaro. Canti del pop. nap. , Pag. 
206, canto 299. 

8. 

M' ha mannato a chiama' 'na munacella, 
Doie parole me vuleva dire. 
Me risse : Ninno, si te vuò' accasare, 
r nce la jetlo la tònaca fora ; 
'Nchiusa cà dinlo nun ce pozzo stare, 
r palesco de pàrpeto de core ; 
lastemmarria chi m' ammunacaie. 
Me sarria marciata, e starria bona. 

E la parte obbligata, che spetta alle monache sia nella 
novellistica come nelle poesie e nelle altre produzioni pò* 
polari : lamentarci del monastero e sospirare 1' amore- 
Ricordo quel canto carnascialesco, che comincia : 

Deh guardate le parole 
D' este povere figliole. 
Non prendete ammirazione 
Se siam fuor del monastero ; 
Non fu mai nostra intenzione 
Di portar questo vel nero. 
Vorremmo esser maritate, 
Questo è quel che più ci duole. 

Maledico il padre mio, 
Che cosi tener mi vuole. 

Vedi Canti Carnascialeschi, trionfi, carri e Mascherate. 
Cosmopoli 1750. 

9. 

Quanno 'na nenna s' ha da maretare, 
'Mpoppa se mette come 'na vallena, 
Rice ca sape tèssere e filare, 
Sape là' pizzìlle 'e tutte manere : 
Po' arrivalo ca s' è marciala. 



93 



Nu zape fa' nu lucipo alla luromerà, 
Pòvero giuvaniello, ca s' è 'nzuralo , 
Meglio si jeva a scrivere 'ngalera, 
Chi se 'nzora se mette intM guaio 
'U chiappo 'ocaoDa e' u fieiTO d pere. 

vallùnat balena. 

pusille, lavori di trapunto, merletti e simili. 



10. 



DIÀLOGO TRA LA MADRE E LA FIGLIA 



Figlia: Mamma, i' moro, mamma, i' moro 

Pe' una cosa for' all'uono, sia, 
Madre: Là nce stanno i rafanielle, 

Va vance alfuorlo e batliir a fa'. 
Figlia: Mamma, ca no, mamma, ca no , 

I rafanielle sana' nun me po\ 

Mamma, I' moro; mamma, i' moro 

Pe' una cosa for' air uorto sta. 
Madre: Là nce stanno i l' accetielle. 

Va vance all' uorto e battiir a fa'. 
Figlia: Mamma, ca no, mamma, ca no, 

I Faccetielli sana' nun me pò. 

Mamma, i' moro, mamma, i' moro 

Pe' una cosa for' air uorto sia 
Madre: Là nce sta 'o finucchiello, 

Va vance all' uorto e battili' a fò. 
Figlia: Mamma, ca no, mamma, ca no, 

'U finucchiello sana' nun me pò. 

Mamma, i' moro, mamma, i' moro 

Pe* una cosa for' alluorlo sta. 
Madre: Là nce sta 'u mullunciello. 

Va vance all'uorln e baltiir a fa'. 
Figlia: Mamma, ca no, mamma ca no, 

'U mullunciello sana' nun me pò. 

Mamma, i' moro, mamma, i' moro. 

Pe' una cosa for' air uorto sta. 
Madre: Là nce sta 'u parulaniello, 

Va vance all' uorto e battili' a piglia'. 
Figlia: Mamma ca si , mamma ca sì , 

E a 'u parulaniello voleva i'. 

Il dialogo, cui diceva la dettatrice, si suppone avvenuto 
nelle paludi tra una madre e sua figlia, che era innamo- 
rala di un parulaniello (coltivatore delle palu li). 

hattilV a fd\ vatteli a prendere. 
rafaniclU^ radi celti. 
accetielle, sedani, acci. 



GRUZZOLO 

JV ISDOVWEUJL LECCESI C) 



I. 

Signura, ci tantu sai, V àrveru senz i fluru 
e frutta dae? 



II. 

Gentil cinquanta 
Subr' a na banca. 
La dita è berde, 
La capu è lanca. 



(Fico) 



li come il h ora stia pel p italiano come in subra 
t, ora pel v come in herae. Viceversa il h italiano 



Si noti 
e banca, 

si muta spesso nel leccese in altre consonanti ; p. es. in 
m come smirciare per sbirciare, in v come in erva per 
erba. 



III. 

Cinque su lì cumpunenti ( mano ) ; una è le 

[)ungente (penna); lu campu è ìancu (carta); e 
a semenza è niura {lettere deiralfabeto, scritte 
con inchiostro nero). 

IV. 

Ci lu face lu face pe bundere; ci lu inde nu 
li serve; e a ci li serve nu lu ite. 

(Cassa mortuaria. In dialetto: chiaàtu) 

V. 

Mare mariscia, 
Mare nun è; 
Sìtule porta, 
Puercu nun è. 

(Grano) 

Mariscia, mareggia. Difatli. il grano in un campo pare 
che ondeggi, agitato dal vento. 

VI. 

Nu cumpassu, nu ancu a tre pieti, 
Cu na spera, nu r e nu e. 
Bedda cosa a lu mundu ca ete 1 

(i4-m-o-r-e) 
VII. 



Scinde retendu, 
Sale chiangendu. 

VIIL 



(Secchia) 



Tegnu na pizzichica, na pizzicoca , na pizzi- 
russa, ci facenu centu pizzichiche, pizzicoche e 
pi zzi russe. 

(Aglio) 

IX. 

Fusci fuscendu , 
Ficca ficcandu. 
Fa quidda cosa , 
Po' se riposa. 

(Chiave) 

Il popolo salentìno , quasi sempre pudico , difficilmente 

cade nello scurrile ; e di vero non ha canti pornografici. 

Ingegnoso com' è, si diletta talora dell'equivoco, ma sem- 

' pre finisce colla spiegazione orlesla; ciò che osservasi nel 

riportato indovinello ed in qualche altro che segue. 

X. 

Pila sutta e pilu susu , 
Mmienzu stae lu cuntenusu. 



(Cipolla) 



St4su, bella ripetizione del su italiano. 



(Occhio) 



94 



XI. 

Mappa sotta e pìticone sobbra. 

{Scopa) 

Quest' iodovinello è proprìameote di Mesagne , dove si 
dice sotta e sobìyra invece di sutta e suòira, come a Lecce. 
Piiiconey asta lunga. 

XII. 

Tegnu nu scattiddu , 

Lu dau a quistu e a quiddu ; 
Lu dau a ci ogghiu ìeu, 
Lu scattiddu è sempre min. 

{Lieoito) 

I versi lasciano molto a desiderare , e ciò è proprio di 
quasi tulli griDdovinelli. 

XIII. 

Tegnu n'arveru de viscigghiu 
Cu trecentu caalieri 
E na coppula privitìna. 
lat'a qniddu ci la nduina ! 



(Ghianda) 



È pure deir arguto popolo mesagnese. 
Viscigghiu, quercia. 
CcMÌieri qui sono i porci I 
Cofpul^y berretto 
Prtviiinaj pretina. 

XIV. 

Tundu e ritundu, 

Bicchieri senza fundn; 
Bicchieri nun è 
Nduina che d' è. 



(Anello) 



XV. 

Ci la porta lunga, 
Ci la porta curta; 
Ci la porta ncannulata, 
Com'a quidda de lu tata. 

(Barba) 

Ncatmuìatay da càtmuluy cannello; e parlandosi di bar- 
ba: inanellata. 

XVI. 

Tegnu nu lanzulu pezze pezze , e nu tegnu 
azza cu lu cusu. 



XVIII. 

Jeu tegnu nu purcieddii, 
Ttaccatu a mangani eddu; 
E nu mangia e nu bie, 
È cchiù rassu de mie. 

(Mellone) 

Purciedduy porcello. La trasformazione dei due l in due 
d è prediletta e costante nelle voci leccesi; e ne distingue 
il dialetto da qualunque altro, bensì da quello dei Siciliani, 
che non pronunziano allo stesso modo i loro d fraMenti. 

TtaccatUj legato. 

XIX. 

Ci ete quidd*animale, ci se nfaccia ìntr' a Tu- 
renale ? 

{Medico) 

XX. 

Jeu tegnu nu paru de rubini; 

Nu sacclu ci su d'oru e ci su fini. 
Lu mesciu, ci V ha fatti, 
Nu se troa a quiste parti. 

(Occhi) 

MesciUj maestro, artefice. In questo luogo è Dio. 

XXI. 

Barbarussa de Magghe te saluta, e ha ditta, 
ca ddu te scancau mo fa 1' annu , te scanca 
quannu. 

{Fuoco) 

A Maglie esiste una (amiglia Barbarossa^ ed io questo 
cognome è Tallusione al rosso bagUor del fuoco. 
ScancaUy apri le gambe ; da anca, gamba, b parte pel 

tjJttO. 

QuannUf quest'anno. 






XXII. 

Do lucenti, 
Do pungenti, 
Quattru zocculi, 
Nu scuparu. 



XXIII. 



(occhi) 
{corna) 
(zampe) 
(coda) 



(Bove) 



(Pergola) 



Asfzaj accia da cucire. 



XVII. 



Marituma me ole tantu bene, 
Ca me face le cose a la curcata. 
Me mbrazza, po'me pizzica e me tene, 
Po*me face na bona scutulata. ^ 

(Lasagna e stanga per farla) 
Marituma, mio marito. La lasagna paria della stanga. 



— E tu, ci si pueta e tantu sai, 

A troame nerva ci nu sicca mai. — 

— E tu, ci si puela e puetuzzu. 

L'erva, ci nu mai sicca , stae a lu puzzu. 

(Capeloenere) 

— E tu, ci si puete e puetese, 

E troame na ecchia de nu mese. 

— Ca tu, ci sì minnale de natura, 

La ecchia de nu mese n* è la luna ? 

Curioso questo dare una cosa ad indovinare, ed un'altra 
indovinarne da sèi 
Minnàle, minchione. 

XXIV. 

Pendinguli pindanguli mpondia, 
Nnculu na cosa russa li sbattia. 

{Caldaia sul fuoco) 



95 



Nnculu. La preposizione m davanli a parole, che co- 
mineiano da consoDanle, si suol comporre con esse, eliden- 
dosi Yi. P. es.: ncapuy in capo, nterruy in terra. 

Bussa y rossa. 

XXV, 

Tegnu nu casceltinu, 
De do culuri chimi. 
Se tie me lu ndeini, 
Nd* ài nu cucchiarinu. 



( Uooo) 



XXVI; 



Entre cu bentre, e la manu nculu sempre. 

[Chitarra) 

XXVII. 

Jeu nu su Turca, e su chiamata Turca ; 
Né li parienti mei su de Turchia. 
Me isciu carcerata comu Turca, 
E se fumisce cquai la- ila mia. 

{Turchina, pietra preziosa) 

XXVIII. 

Cu lu iti, uh c*è bruttu! 
Cu lu ndueri, uh ce fete! 
Cu lu pruei, sa' comu ete ? 

{Formaggio) 
XXIX. 

Tegnu nu monecu, chiattu e tundu; 
Ae gerandu tuttu lu mundu; 
Ae de cquai, ae de ddai, 
Sempre a na parte stae. 

{Lievito) 

Cquai e ddai, qua e là. A Lecce non si hanno monosil- 
labi tronchi. Invece di è dicesi €te\ di ha dicesi àe ecc. 

XXX. 

Tegnu tritici cavalieri, 
Tutti tritici a cavallu. 
Quando spiccianu lu ballu. 
Tutti tritici a cavallu. 

{Cannelli del telaio) 

Cavallu è adoperato per il verso, ma il cavallo chia- 
masi caddu. Famosa è quella poesia del d'Amelio, il Meli 
leccese: 

BonzUf salute a nuij lu caddu è muertu ecc. 

XXXI. 

De sira me foi rrecalatu nu capune. Me lu 
nnettai, me lu mangiai, foi escilia e nu ncam- 
merai. 

{Mela) 

Capune^ cappone; ma qui per traslato è la mela. 

Escilia, vigilia. 

Nu ncammeraij non mangiai carne in giorno proibito. 



XXXII. 

Jeu su becchiu e su fumusu ; 
Quando me nchiananu, su fetusu; 
Su sciardinu sen^a fìuri; 
Cacci u frutti de tutti sapuri. 

{Mare) 

Fumusu, borioso. 

Quando me nchiananu , quando mi salta il ticchio. 
Ncnianare alla leltera indica salire ; e siccome a dit 
s'irrita monta il sangue alla testa, cosi passa a significare 
irritarsi. 

Fetusuy irritabile. Dicesi anche ncazeusu. 

XXXIII. 

Na cosa àula quantu nu casti eddu, e face la 
furma quantu nu carrinieddu ! 

( Canna) 

Carrinieddu, diminutivo di carlino, antica moneta na- 
poletana. 

XXXIV. 

La mamma de Miniminòs nu porta nu carne» 
nu pelle, nu pili e nu ossu. Ma nu la figghia de 
Miniminòs: porta carne, pelle, pili e ossu. 

(La capra e la pecora) 

XXXV. 

Tegnu na cosa, ch'è tanta, ch*è tanta; 
Tene nu pilu comu na manta. 

(In dialetto: cucummero, specie di citriolo, co- 
comero tenero e peloso) 

Manta è il dossiere, perchè serve ad ammantarmi, a 
nascondervisi sotto, stando a giacere. 

XXXVI. 

Arai e nquatrai, 

Nquatrinculi menai. 
Arata e nquatrata, 
Nquatrinculi tagghiata. 

{Lasagna) 

Davvero si fa come se si arasse, alla vustrofedon. 

XXXVII. 

Luengu luengu su ieu, quantu nu parmu; 
Suttamanu de donne me nne egnu. 
Jeu egnu pe li mari nnaecandu; 
Jeu trasu ssuttu, e lacremandu egnu. 

{Maccherone) 

Egnu, vengo. Strana trasposizione di lettere. 
Trasu, entro. Trasire, entrare. 
Ssuttu, asciutto. 

XXXVIII. 

Misericordia! Quistu ce bete? 
Finge li muri e pittore nu bete ; 
Porta le come e bove nun ete. 
Misericordia 1 Quistu ce bete ? 

( In dialetto : moniceddu, specie 
di chiocciola ) 

XXXIX. 

Quantu più va, più pinta si fa. 

{Moccichino, salvietta o consimile pez- 
zuola, che, più usaudone, più si lordi) 



96 



XL. 

Tegnu n'arveru de zampogna, 
Quandu pigna e (}uandu mpogna. 
Quandu ra li belli fìuri, 
Ànnu a ntaula a li signurì. 

{Fior dt fichi) 

In dialetto sarebbe face , non fa ; beddi , non belli. 
pel verso o per diletto il popolo alle volte parla la buona 
lingua, 

XLL 

Lu fundu è de crita, lu cuperchiu è de carne, 
e gnutte sangunazzi. 

(Cantaro) 

XLII. 

Cu nu ranu s' ae pastu. nantì pasta , erva a 
lu ciuccia , e tre caddi de ri està. 

{Pastinache) 

Banu e caddi, RanUj grano, era una moneta napoleta- 
na. Caddu, cavallo, era la dodicesima parte del grano. 

XLIIL 

Ci ole azy.e, ci ole azze; 
' A tre caddi la Uiatùra. 

Te pendenu le sciazze', 

Te pare la signara. 

( Uoa) 
Azge, I sermenti sono paragonati airaccia. 
Lliatùray matassa di cotone. Le vili s'intrecciano vera- 
mente come questa. 
SciazzCf stracci, cenci. 

XLIV. 

Ae e bene, e nii se nnoe nu passa; parla cu 
tutti, e cu nisciunu faedda. Uei me dici ce cosa 
è quidda? 

{Campana) 

Girolamo Congedo. 



(•) Siamo tenuti alla cortesia dell'avv. Girolamo Conge- 
do per questo gruzzolo d'indovinelli del Salento, vaga re- 
gione poco o punto illustrata fin ora. 

Egli ha inediti molti e preziosi lavori sulla sua terra 
e sul dialetto natale. Ha una grammatica, un vocabolario 
e ricche collezioni di proverbi, frasi e modi proverbiali, 
voci di paragone, scherzi» motteggi e canti popolari. 

Air amico non auguriamo già che l' anno venturo sce- 
mino le cure della professione, le quali tani'onoie edutile 
gii danno, anzi che aumentino a cento doppii, e gli soprav- 
vengano le cure parlamentari pel bene del paese, riuscen- 
do nella sua candidatura a Caserta; ma eh ei voglia tro- 
vare un po'di tempo ad occuparsi pure di noi. 1 lettori 
del Basile ne prendano atto come ai una promessa. 

N, d. D, 



Pubblioazioiìi in dialetto pervenuteoi in dono 

9. La guerra | ntra | li Surece e le Granogne | de 1 Omero 
I stravestuta a la napoletana | da lo professore | Raifaele 

Capozzoli I Stampata pe la seconna vota i reoista e sce- 
riatu I Napoli | Stamparla de Vecienzo Morano (Chiaz- 
zetta'Casanova n. 3. i 1883. i Pagg. 48. Prezzo 10 sorde. 
Se venne a la lebbraria de \ Lovigio Chiurazzi i Chiazza 
Cavour n.<> 47. | 

10. Il primo passo alla lingua italiana | ossia | nomencla- 
tura napolitana ed italiana | per uso | della 1* e 2* clas- 
se elementcìre i dettata per lezioni | da Ferdinando Di 
Domenico ; Prete del Clero di Napoli | Napoli | Dome- 
nico De Feo Li brajo- Editore | Strada S. Biagio dei Li- 
brai, 76 I 1883 I Prezzò 0,40 Pagg. 44. 



NOTIZIE 

L'egregio demopsicologo Antonio de Nino ha pubblicato* 
per gU elegantissimi tipi del Barbèra di Firenze, il II- 
volumc degli Usi e costumi ahruzzeH. Contiene una brel 
ve prefazione, e 75 novellette popolari, tradotte in italia- 
no. Senza dubbio, per lo scopo scientifico , sarebbe stato 
meglio che fossero pubblicate in dialetto , come furono 
raccolte; ma il De Nino, a questo proposito, osserva nella 
prefazione: a Quando sono scritte in dialetto, restano quasi 
esclusivo patrimonio dei fìlologi. E a me, invece, premeva 
e preme cne gli usi e i costumi degli Abruzzi escano dalla 
ristretta cerctiia filologica, e si diffondano, il più general- 
mente che si può» negli altri paesi d' Italia; onde nei ri- 
scontri, qua e là, delle stesse habe, sia meglio conosciuta 
la ragione intima, non pure della fratellanza de* vari po- 

Coli italiani , ma altresì la ragione della fratellanza, non 
en palese, delle varie nazioni fra loro. » 
11 De Nino intende fare pei suoi Abruzzi quello che T il- 
lustre Pitrè ha fatto cosi bene per la Sicilia. Noi gii au- 
guriamo, pel bene della scienza ed anche dell* arte popo- 
lare , di tutto cuore , costanza ed abnegazione » che pur 
troppo, nei -nostri studi, sono tanto necessarie! 

Nel p riodìco:— La nuóna Prooincia di Molise (anno III, 
Numero 46), il signor Angelico Tosti ha inserito, tradotta 
in italiano, una fiaba popolare dal titolo: — Gatta Cene» 
ventola. 

Riceviamo e pubblichiamo : 

Napoli, 27 novembre 1883. 
Egregio Sig. Direttore 

Con molta mia sorpresa leggo neir* ultimo numero del 
Basile una mia recensione sul libro publicaio dal Papanli 
in occasione del Ceoienario di Boccaccio. La ringrazio dél- 
Tospitalità, che, a mia insaputa, Ella ha voluto concedere 
a quel mio scriitarello: ma debbo dall'altro canto dichia- 
rare a Lei ed ai lettori del Basile , che io lo reputo del 
tutto immeritevole delFonore, che gli è stato fatto. Richie- 
stone, io non avrei mai consentito fosse publicata nella for- 
ma , in cui fu scritta a diciotto anni una recensione , che 
contiene giudizii filologici e storici in gran parte inesatti, 
e che ha perduto finanche quel pregio dell' attualità , che 
le veniva dairoccasione, per la quale fu scritta. 

Accetti, signor Direttore questa sincera dichiarazione da 
chi , non essendo mai suito letterato , non avrebbe ardito 
di trattare da dilettante un argomento di . letteratura dia- 
lettale oggi , che tali studii hanno avuto in Italia un cosi 
rapido e notevole incremento. 

Continui a volermi bene e a credermi 

Di Lei Dev.mo 
Prof. Emmanuele Gianturco 



Posta, economica» 

Abbiamo ricevuto il prezzo . d* abbonamento 
dai signori: 

117. Bonavita Vincenzo — Modena. 

118. De Petra Cao. Giulio — Napoli. 

119. Cagna/zi Giovanni — Napoli. 

120. Palumbo Ernesto — Firenze. 

121. Correrà Aoo. Luigi -- Napoli. 

122. Scherillo Ao^. Michele — Napoli. 

123. Mandatari Aoo. Mario — Napoli. 

124. Amalfi Aeo. Gaetano — Napoli. 

125. Della Sala Vincenzo — Napoli. 

126. Simoncelli .4co. Vincenzo — Napoli. 

127. Molinaro Del Chiaro Luigi ~ Napoli. 

Il Cassiere ed Amministratore per Tanno 1883 

Ernesto Vitale 

Gaetano Holinaro — Responsabile 



Tipi Cariacelo, k Biasio & C.' — Largo CostanÉopoliJ.S). 



I^rezzo Lire Si^OO 



ANNO II.- 1884 



GIAMBATTISTA BASILE 



AECHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



N A PO U I, 

DIREZIONE ED AHUINISTRAZIONE, 

Calata Gapodichino, n." SÌ6, 

issi. 



PROPRIETÀ LETTERARIA 



Stabilimento Tipografico di Vincenzo Pesole, 

Strada S. Sebastiano, n.** 3. 



INDICE 



hà\ (titiiesli 




m\ mmn 




♦" 



Amalfi G. L' ortografia del dialetto napo- 
letano Pag. 3 

„ Scaccinopoli da Sorrento ... „ 25 
„ A proposito dell'ortografia del 

dialetto napoletano „ 49 

„ '0 cunto 'e Àceno 'e fuoco . . „ 63 

„ '0 cunto d'amica ferole ... „ 86 

'0 cunto d' a Bella Viola. . . „ 92 
Anonimo. Cenni storici e filologici intorno 

a Canosa e al dialetto Canosino 65,77,81 
Brandileone. F. Come si maritano le ve- 
* dove, Lettera al Direttore. . „ 11 
APASSO B. Credenze e costumanze napole- 
tane, ora dismesso (III) ... ,,41 
Capone G. L* ortografia del dialetto napo- 
letano » 33 

Garavelu V. Tradizioni drammatiche po- 
polari „ 20 

„ Conti popolari calabresi, *A ru- 

rumanza d' H tri bistiti . . „ 51 

„ 'A rumanza d^^a Scala H sita „ 93 
Congedo G. Alcuni canti popolari di Calvi 

Risorta, Lettera al Direttore. „ 27 

„ Poesie nel dialetto di Trepuzzi. „ 68 

Correrà L. *0 cunto d' 'e duie cumpare . „ 44 

„ Il vico Pensieri » 58 

Croce B. Canti popolari raccolti a San Ci- 
priano Picentino „ 12 

Del Gaizo M. Scienza nel popolo .... „ 5 
Della Sala V. '0 cunto d* *a Furtuna. . „ 6 
Demitry a. Canti popolari raccolti in Ve- 
glie 10 

ERRATA-CORRIGE 24,32 

Gattini G. Necrologia di Pietrantonio 

Rìdola „ 48 

GuiscARDi R. No miracplo de Sant'Antonio „ 5 

Imbriani V. Lu cunto d' 'a Bella del Mondo „ 28 



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Julia A. di Vincenzo. Saggio di alcuni 
studii sul popolo calabrese . . 

LE TRADIZIONI POPOLARI 

LETTERE APERTE. Roberto Guiscardi . 

P. G 

Amalfi 

Emilio Ber tini 

Mandalari M. Una colonia provenzale nel- 

r Italia meridionale 

Melillo E. Canti del popolo di Campobasso 
Molinaro Del Chiaro L. Giambattista Ba- 
sile 

„ Una rettifica 

NOTIZIE. . . . 7,16,24,31,40,47,56,64,72,80,88,96 
Ordine L. Canti popolari lucani .... „ 13 
„ Paesaggi meridionali, Vibonati „ 36 
Pascal C. Una canzonetta popolare avel- 
linese 

„ Il libro Del dialetto napolitano 
di Ferdinando Galiani. . . . 

POSTA ECONOMICA 8,24^2,56 

PUBBLICAZIONI IN DIALETTO PERVE- 
NUTECI IN DONO .... 7,31,80,96 
Sabatini F. Saggio del dialetto palestri- 

nese „ 57 

ScHERiLLo M. Storia di Campriano contadino „ 83 

„ Farse rusticali « 89 

SiMONCELLi V. Canti popolari sorani 14,29, 

40,45,55,58,70,74,87,94 

Taglialatela L. Canti del popolo di Giu- 
gliano in Campania (Continua- 
zione e fine^ Vedi anno 1, nu- 
meri 4y 5 e 7) ,41 

„ 'U cunte r' 'e ggatte meccose . „ 54 
Tancredi M. PoUanchella, Leggenda Ru- 
mena di Carmen Sylva ... „ 9 



», 



72 



73 



ANNO II. 



j r r V • "J**^ • ^^ ' 
Napoli , 15 Gennaio 1884. 



NUM. 1. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



APSOHAUSKTO ÀimUO 



Per r Italia L. 4 — Rstero L. 6* 

Un numero separalo centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
1 manoscritti non si restituiscono. 
8i comunichi il cambiamento di re-_ 
sidenza. 



Esce il 1 5 d'ogm mese 



AVVESTSHZE 



J 



DIRETTORE 



L. MOLINARO BEL CHIARO 



Indirizzare vaglia, ietterd o maaoscriUi 
al Direttore liWigt M ollnaro liei 
<'hÌiiro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la lettora^tura popolare^ che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Capodi- 
chino. ó6. 



fMIHMABlO • — Una colonia provenzale neir Italia meri- 
dionale (M. Mandalari) - L'ortografìa dei dialetto na- 
poletano (G. Amalfi) — No miracolo de Sant* Antonio 
(R. Guiscardo — Scienza nel popolo (M. del Gaizo) — 
'O cunto d' *a Fortuna (V. Della Sala) — Pubblicazioni 
in dialetto pervenuteci in dono - Notizie — Posta eco- 
nemica. 

Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni . 

SBBBBSBSSiSBBsaBSBsssasa^BsssBSiSBaassasasaBSiSis 

UNA COLONIA PROVENZALE 

nell' Italia meridionale 

Nella storia genei*ale del regno di Napoli, c'è un' epoca 
storica, che interessa, molto da vicino, gli studi, ora fio- 
renti, di dialettologia meridionale. Già, è inutile dirlo, tutta 
la storia dell' ex-Reame è fatta dagli stranleii , da' Nor- 
manni a' Tedeschi ; e per questo andare e venire di po- 
poli e di dominatori , i dialetti meridionali hanno in gran 
parte una fisonomia varia , che sfugge spesso alle regole 
generali , e , spessissimo alle redole più sicure e determi- 
nate. Nondimeno, in certi comuni, la flsonomia del vivente 
linguaggio è abbastanza spiccata ; e può , il dialettologo , 
studiando bene, nella storia generale del regno, la partico- 
lare del comune, trovare, senza molta fatica, le prime fonti 
del vernacolo, e le seguite variazioni. È vero che F antico 
dialetto indigeno è scomparso; ma tutte le epoche storiche, 
succedute alla corruzione del latino, sono evidenti nella parte 
più comune de' dialetti meridionali. 

Permettano i lettori che io parli brevemente d' un pae- 
setto , appena appena noto a' cultori della geografia gene- 
rale, forse non ancora registrato nette carte geografiche d'I- 
talia, d'un comune della provincia di Foggia, circondario 
di Bovino, mandamento di Troja. Si chiama « Faeio » ed 
ha appena cjuattromila abitanti. 

Pero, frananti dialetti della bassa Italia, quello di Facto 
ha una nota particolare, per la quale è degno dell' atten- 
zione dello studioso. 

E non è inutile fare un po' di stoiia, esumandola dalle 
notizie generali del Regno. I lettori vedranno che ne vale 
la pena. 

X 

La storia di Facto , come quella di tanti altri comun 



meridionali, si perde, non entro le antiche leggende, ddle 
quali spesso si occupano i nostri istoriografi; ma nella ero* 
naca d un antico convento di PP. Benedettini. Il papa Lu* 
ciò III con una Bolla del 1185 , conferisce vari privilegi 
al Monistero del SS. Salvatore di Fatto. 

E un altro papa. Clemente III, nell' anno 1187, confer- 
ma con un altra Bolla, i detti ffmìegì ni àeiio Monistero, 
allora soggetto a quello di santo Nicola di Troja. 

L'una e I altra Eolia sono ora conservate nello archivio 
della cattedrale di Troja. 

Con tutto questo , Faeto non ha ancora la sua st orla 
questo comune deve la sua origine, a' Provenzali, venuti nella 
bassa Italia con Carlo L d'Àngiò. Ed è notevole che quei 
quattromila abitanti si sono conservanti Provenzali sempre, 
fino a questo momento, negli usi, ne' costumi, nel dialetto. 

Di Faeto, eh' io mi sappia , non ha parlato finora nes- 
sun dialettologo. P^aeto non aóparisce nemmeno nello stu- 
pendo volume de' parlari itaìtani, venuto fuori per l' in- 
faticabile opera di Giovanni Papanti. È bene , dunque » 
riempire questa lacuna della nostra dialettologia. 



X 



Dopo la battaglia di Benevento , 1266 , uno dei primi 
pensieri del « figlio del re di Francia » ( cosi è chiamato 
TÀngioino dall'A. del chronicon caverne) fu quello di os- 
soggettare i Saraceni di Lucerà. Quella fortezza, infotti, 
dopo le prime avvisaglie , si arrese ; e, a quanto pare, ^e 
condizioni furono onorevoli. La vedova imperatrice di (xUh 
vanni Ducas di Nicea, fatta prigioniei'a , ebbe la libertà, 
Ma furono, poi, demolite le mura di fortificazione è riem- 
piuti i fossati. I Saraceni poterono conservare le loro leggi, 
i loro usi e la loro religione; ma a due patti, purché pa- 
gassero un annuo tributo , ed udissero , davvero come i 
Turchi alla prèdica, « praedicationem verbi Dei ». 

Ma sia che le condizioni della pace non piacessero al 
papa Clemente IV, il quale voleva la distruzione completa 
dell' unico centro ghibellino della bassa Italia ; sia che la 
praedicatio verbi Dei non piacesse a' Saraceni , i quali 
vedevano nel frate predicatore un oltraggio permanente al 
Profeta ; sia che, e questa mi pare la cosa più probabile, 
i Saraceni indovinassero , o sapessero , il prossimo arrivo 
di Corradino , nell' anno 1267, Lucerà tumultuò contro la 
dominazione francese. 

Il « Chronicon cavense » cosi dice : Anno 1267. Sexto 
februarii, Saraceni Luceriae, et multi alii perfidi cbristiani 
centra illustrissimum Dominum Carolum filium regis Fran- 
ciae Regem Siciliae , rebetlionis spiritam assumpserunt » 
habentes spem in Conradino filìo regis Conradi , qui ab 
Àlemannia cum Duce Àustriae et pluribus Theutooicis re- 
cesserat et venerat Veronam etc. » 

L'abate di Montecassino (Bernardo I Ayglerio) ebbe or- 
dine di andare contro i ribelli e ci andò, armato fino ai 
denti, alla testa di dugento soldati di cavalleria e noa so 






di quanti pedoni. Ci andò anclie Guglielmo di Willhar- 
doQiQ y principe di Morea, allealo di Carlo, con altre truppe. 
Ma la fortezza di Lucerà non fu sottomessa, li vessillo 
degli Eobensiaufen j tanto caro a' Saraceni, sventolava su 
quelle mura. 

Il papa ne fu spaventalo. L'arrivo di Corradino, V anti- 
patìa de* Siciliani contro i Francesi ( il vespro ha i suoi 
pcecedeati ne' primi anni della dominazione angioina) e la 
resistenza de' JSai'aceni ei'ano un fatto grave , ai quale bi- 
sognava provveder subito. Il papa scrisse a Carlo, c6e er^ 
a Viterbo , ordinandogli di correre subilo in Puglia e de- 
bellare, una volta pei* sempre, i Saraceni di Lucerà. 

Questa lettera è de' 12 aprile 1268. Nei primo giorno 
di maggio l'esercito angioino, comandalo dallo stesso Carlo, 
pone i assedio alla fortezza. 

Intanto Corradino , persuaso , come dice il L^ Farina, 
che Carlo lo attenderebbe a san Uermano, entro negfi 
Abruzzi col disegno di avvicinarsi a Lucerà ed ingrossare 
H suo esercito con quello de' Saraceni. Fece, a questo fine, 
JCìBuUica' m Valeria e giunse a Ta^liacozzo. Il re angioino, 
avvisato a tempo dc^gli amici di Bomay abbandonò l'as- 
sedio di Lucerà ed andò subito iocootro allo Svevo , cbe 
iMMì.sé lo ajspettava. Alcuni vedono la questa manovra stra- 
tegica de' Fraoceai la vera cagione della disfatta di Corra- 
-diiAO. Là battjiglia avvenne nel giorno 23 agosto, jne' Piani 
,pftleotlm, verso Aquila, fra Alba e Tagliacozzo. 

Nel mese di febbraio del seguente anno, il re angioino, 
i^ecogliè a Trcti^ un grande esercito e riprende le ostilità 
contro Lucerà. 

Questo as&edio memorando durò sei mesi , tino al mese 
di agosto. 

l Saraceni « sic^t be&Uae herbis pascebaniur r> Ma, al- 

J'uUifflo, dovettero aprir le porte, li re perdonò a' Sarace- 

.fti ;ima « chrìstianos rebelles qui U^ansfugejant ad Saracenos 

et persuasione su^ ^s iirmaver^ in pertinacia rcbellanti, 

gladio inlerfecit. » 



X 



In questi sei ntesi di assedio Carlo pubblicò molti editti. 

Uno, foi'se il piìi importante, riguarda la storia di Facto. 

Spedi nel giorno 8 luglio dugento soldati provenzali a 

' Crepacore , perchè restaurassero quel castello e tenessero 

fronte a' Saraceni, nel caso essi volessero , di là, recargli 

ìmoti^tie nella Puglia. 

' ' Vinti i Saraceni , a questi dugento soldati provenzali 

concesse il castello di Ùrepacore , ed una gran parte di 

quel territorio, già feudo de' cavalieri gerosoloraitani 

^ Il castello di Crepacore , ora interamente distrutto , era 

nel territorio di Troja ed ha pure la sua storia, raccontata 

-brevemente dal de Meo (Annali, voi. 12, pag. 225). 

Nell'anno 1272, i dugento soldati provenzali si uniscono 
alle loro &nridie, venute apposta dalla Provenza in Italia. 
La colonia e formata. 

Ha nell'anno 1345, p^er le frequenti incursioni de' Sara- 
ceni nella via Appia Trajana, queste duecento famipclie pro- 
venzali prendono la determinazione di abbandonare il ter- 
ritoiio di Crepacore, troppo vicino alla grande strada, e di 
occupare, invece, il vicino cenobio de' PP. Benedettini, sotto 
• il nome del SS. Salvatore di FaitOy avente la forma de- 
gli antichi edifizi badiali. Era un castello-convento , con 
torri, merletti, guardiole, chiostro e campanile. ^ ' 

Nacque cosi un borgo , abitato da Provenzali , il quale 
'dal nome del monisteroy Ai chiamato Fatto. 



X 



. Un piccololsaggio di parole e locuzioni iaetane : e poi 
un canto di quel popolo.. Devo questa piccola ed interes- 
i$ante raccolta alla cortesia del sig. Pasquale Peiilti (si noli 
il cognome del raccoglitore) di Facto, alunno della scuola 
normale patteggiata di Foggia. 
Badino i lettori che I'e in fine di parola è sempre muta. 






Carla 

Penna 

Uva 

InchiosU*o 

Danaro 

Oro 

Spina 

Amico 

Nemico 

Spada 

Coltello 

Cucina 

Madre 

Padre 

Zio 

Suoopro 

Fiore 

Fratello 

Nipote 

Sorella 

Casa (Case) 

Chiesa 
Prete 
Monaco 
Servitore 



Caritè 
Piummle 
Riscin 
Gnosire 
Tumerai 
Uori 
Spinne 
Ammicch 
Nimmich 
Spada 
Cuttei 
Cucine 
Mare 
Fai 
Unchie 
Snurjpgne 
Fiuri 
Frari 
Nii 
Sirau 

Ciunnu {casa 
mia 
Ghisi 
Freute 
Moniche 
Sirvittau 



Fazzoletto 

Scarpa 

Cappello 

Pettine 

Forbici 

Specchio 

Seggiola 

Carrozza 

Giardino 

Conlento 

Sincero 

Occupato 

Rispettato 

Timido 

Coraggioso 

Amabile 

Tranquillo 

Costante 

Studioso 

Curioso 

Tiranno 

Pigro 

Dotto 

Maialo 



MuccaruU 

Scaripa 

Ciappei 

Piene 

Tagliau 

Sperichie 

Segg 

Carrozz 

Giardin 

Ctmtent 

Sincii 

Amtpà 

Biscpitane 

Timidi 

Curaagiau 

Amaole 

TranqwiU 

Gustante 

Studiau 

Tirann 
Fi^re 
Ihttau 
Malad 



I 



Vi prego, Sipore, volermi bene. 

Givi prasiy Signau, di vulairimi bin. 

Vorrei che il mio amico difierisse il viaggio per il 
Messico. 

Gì vuliri chi Vammich miuch i diffiriss la viaci pi 
lu Messiche. 

Vorresti tu avere la bontà di dirmi il nome della bam- 
bina ? 

Ti vuliri Unu avairi la buntckin di nUdirri fu^^tim 
di Un fan ? 

Quanti sono in Napoli ^li uomini dotti f 
(Jan osunt à Napp lo sinnuen dittau ? 

Io sono contento lassai delia mia famiglia. 

Gin mei nammmr cunten di la famiglia miann. 

Quando partirai ? 
Dicchirr ti parile ? 

Sono tutti gli uomini amanti della loro opinione. 
Osunt tutte lo sinnunuen^ chi iammunt ìa laupiniun. 

Noi abbiamo creduto che voi eravate in Roma. 
Nus navan criiu chi vi stavane a Rome. 

Le mosche non entrano in bocca chiusa. 
Li moci i intrunti pani a buccia barra. 

LO ALAITTOME KOTE 

Lo alanlome note ch'il sunt bei, 

Slavs a riarda toh iant sei, 

Sant mai na piumles a carili 

Nghiocc a lu ciappei spacca cumni un chii. 

Sii gni vants a trai e do 

E si richitiunt ijgiocc e di so. 

Si gni vant pi la ciarriera, pio gliiocc M punt, 

Cumm tutti quant si zichitiunt. 

E i purtunt apprei dA bel scudii, 
Giuvan Girolamo e sunfrari du cancillii 
Signi vants a trai e do 
E si zichitiunt nghiocc e di so. 

lori signi vint Don Ciccillo do lu trippun divnng 
Vung a carili e nate chi lu va ciantan 
Lu miltunt dignen la saccoccia dau dau 
Cumm fis un marz de finauo. 



Versione letterarie. 

I galaDtuomini nostri quanto son belli, 
State a guardar cosa hanno fatto, 
Si 800 messi una piuma a lato 
Sopra il cappello spaccato come il ano 

Se ne vanno a tre e due 

E si dondolano sopra e sotto, 

Se ne vanno per la piazza, sopra il ponte, 

B come tutti quanti si dondolano ! 

E portano appresso due belli scudieri, 
Giovanni Girolamo ed il fratello del cancelliere 
Se ne vanno a tre e due ; 
E si dondolano sopra e sotto. 

Adesso se ne viene Don Gicdllo colla pancia innanzi 
Ono a lato, e l'altro che lo va cantando : 
Lo mettono in tasca dolce dolce 
Come fosse un mazzo dì fìnocchi. 

Intorno agli usi e costumi di Facto ho potuio fare le 
seguenti osservazioni: 

A) Nel gioi'no precedente al matrimonio, i parenti dello 
sposo. vanno a salutare la sposa, che offre a' visitatori una 
buona colazione. E fa vedere tulio il corredo nuziale. Poi, 
nello stesso giorno , i parenti dello sposo e quelli della 
sposa vanno a salutare lo sposo, il quale, avanti a' visita- 
tori , fa con le sue stesse mani il lello coniugale. Quindi 
una seconda colazione. 

Nel giorno seguente , che è quello degli sponsali , tutti 
gr invitati muovono dalla casa della sposa verso la chièsa 
parrocchiale. Dalla chiesa si va poi alla casa destinata ai 
nuovi coniugi. Ma sulla soglia di essa sì trovano due don- 
ne, strette in parentela col marito. Queste due donne por- 
tano un piatto, una pagnotta, scemata, ed un fiasco di vi- 
no. La sposa non può entrare in casa , se prima non ha 
mangiato quel pane e bevuto quel vino. Una delle due 
donne, rompendo il piatto, invita la sposa ad entrare. 

Otto giorni dopo il matrimonio , tutte le invitate vanno 
a salutare la sposa, cui ciascuna fa il dono d'un biscotto, 
piociìJiater. 

B) Quando la puerpera s' è levata e può darei a' lavori 
' domestici, manda in dono alle amiche un biscotto. 

O Ne' funerali non e' è costume caratteristico. Si tra- 
sporta il cadavere in chiesa e poi al cimitero. 1 parenti 
del morto f fatto che Jifficilnìente si riscontra ne' costumi 
meridionali) vanno appresso al cadavere, piangendo a voce 
alta. 

D) E molto diffusa la credenza che i morti parlino e 
che le anime loro si avvicinino, di notte, alle case, e do- 
mandino, dal sagrato della chiesa , dove si radunano, suf- 
fragi e messe. Molle donne guadagnano del danaro in viiiù 
di questa superstizione. Spesso la limosina per la messa 
non si dà al prete , ma a una di queste donne , ( dette 
« Sognatrici od Indovina-morti ») la quale afferma che 
dà del tu a san Lorenzo ; che entra , quando vuole , nel 
Purgatorio ; che è amica del Padre Eterno ; che sorride 
agli angeli, eòi quali è in una grande intimità; che spesso 
riceve delle commissioni da santa Lmia e da santo Bocco. 

X 

Il Faetano è « d' indole altera, non curante dì chicches- 
« sia , pretensioso ed umile , quando abbisogna di favori , 
(c poco grato dopo Y intento avuto. Irritato , o mostra (le- 
ce rezza, o tinge ; la sua vendetta è tarda, e se non la piiote 
((disfogare all'aperto, o credesi più debole , la dispiega 
(( contro il bestiame contro il p(^esso rurale dell'avver- 
(( sario...... » 

Queste parole , come i lettori hanno veduto , non sono 
mie ; ma di Pietro Gallucci, scolopio, al quale lascio in- 
tera la responsabilità del giudizio. 






Ma è bene che i dialettologi lo tengano presente, se vo- 
gliono classiQcare questo dialetto importante della bassa 
Italia, 

Mario Mandauiu 



L' ortografia del dialetto napoletano 

Miei onorandissimi x, y e z.^ 

Lor Signori,, leggendo qualche inezia, in dialetto, dà me 
raccolta e pubblicata, più d'una volta, m'han chiesto:-^ 
« Perchè Ella adopera questa ortograiia e non Taltra, usala 
« dai nostri antichi scrittori ed anche da parecchi , oggi- 
« giorno ? » 

Simile domanda richiedeva lunga risposta ; ed io , per 
non parere scortese, avrei dovuto scombiccherare, addirit- 
tura, un letterone e spedirne una copia a ciascun di J^oro. 
Ma il ricopiar mi secca, orribilmente; né io son tale, Ó^ 
potermi permettere il lusso d*un segretario. Preferisco, in^ 
vece, chiedere un po' di posto, nel Basilb al oostro Mo-, 
linaro e spero, che, così, la cosa vada agevolmente. 

Questa mia avrà tutta l'aria d'una confessione. Non iscii^ 
però parole, per ispiegare, io che consista l'altro metodf. 
Lor Signori ne saranno informati, m^lio d'ogni altro. Ac- 
cenno le ragioni , che m' inducono a &r come fo ; e , se , 
Loro, mi vdnno condannare, mi lascino, prima, parlare; é, 
poi, mi condannino pure ; son qui ! 

I requisiti necessail d' un'ortografia, nello stretto senso 
della parola, a parer mio, si ponno ridurre a tre: 

.j. Rendere, possibilmente, nel modo, più safuplice e» 
più perfetto, i suoni delle parole e le tracce delle trasfor- 
mazioni ; 

.ij. Serbar roHgine, (se non asta al rappresentar la pro- 
nunzia\ accostando il dialetto, per quanto sia possibile, al- 
l'italiano ; 

.iij. Togliere le ambiguità e gli equivoci. 

Ed ora , per intenderci meglio , mi permettano Lor Si- 
gnori, d'aggiungere qualche parola di commento. 

Regola fondafnentale dell'ortogratia dev'esser la pronun* 
zia, almeno per le lingue, che, da principio, si sqn tenute 
a questa norma, come è accaduto per l'italiano. Altri idio- 
mi, (l'inglese, esempligrazia), han cercato di rendere l'ori- 
gine, e, di giorno in giorno, trasformandosi e variaodo kr 
pronunzia, sempre maggiore si è fatto il distacco fra que* 
sta e le forme grafiche. E ciò che si dice delle lingue, va 
ripetuto anche pei dialetti e, in ìspecie, pel napoletano, di 
cui, ora, specialmente, ci occupiamo. 

Certo, non è da dissimularcelo. L'alfabeto italiano, (come 
altri , del resto ) , è ancora incompleto ed insufficiente ai 
nostri bisogni , e, se non altro, basterebbe a provarcelo il 
bisogno inteso, più volte, d' introdurvi lettere nuove. Nelle 
presenti condizioni, trascrivendo il dialetto , dobbiamo £ire, 
come suol ditesi, di necessità virtù ed ajutarci alla meglio. 
Ci varremo, miei osservandissimi x, y e z, degli apostrofi, 
degli accenti e cose simili, per rendere, meno imperfetta- ' 
mente, la pronunzia, intendiamoci bene! Non è mica da 
credere, che sì debba rendere piucchearcifedelissiftìamente 
la pronunzia , come uno scimiotteggia il suo prototipo , o 
Tullimo figurino di moda, venuto da Parigi, o che so io ! 
Gnornò! Sarebbe un pretender troppo: forse, non v'ha 
alfabeto da tanto; e si moltiplicherebbero le difficoltà, inu- 
tilmente , mentre la pronunzia , spesso, varia, non solo da 
luogo a luo^o ; anzi, da persona a persona. 

Dunque, ripetiamo: — k la nostra ortografia è, strettamente, 
«connessa alla pronunzia; — » e, perciò, doveva fallire il 
tentativo del Gherardìni , di ridurre ogni parola alla sua 
origine. Non nego, che, talvolta, possa riuscire utile serbar 
la derivazione d un vocabolo ; ma, difficilmente ed in po- 
chissime parole , si può conciliar l' etimologia con la pro- 
nunzia. E fa d'uopo anche notare, non aver la cosa punto 
valore per alcune vod, avendo , esse , preso un significalo 
diversissimo dal primitivo. 



Più importante è questo. Molti vocaboli, passando da una 
in un'altra lìngua o dialetto, (poniamo dal latino, dal greco, 
dal tedesco in italiano, o in partenopeo), soffrono una tras- 
furmazione, trasformazione, che forma compito precipuo dei 
cultori della lilologia romanza. 

E più importante ancora, (in ispecie, per chi fa il verna- 
colo solo oggetto di studio), Y indicar le tracce delle mo- 
diflcazioni, delle apocopi, delle aferesi, anche perchè, così, 
ci si presenta più facile il paragone di molti vocaboli del 
dialetto coi corrispondenti italiani , di cui il vernacolo , in 
parte, potrebbe ritenersi una corruzione. (2) Che neiristesso 
dialetto vi sia una certa tendenza d' accostarsi alla lingua 
italiana, non v' ha alcuno , ch^ìo creda , che la revochi in 
dubbio. Essa più che ne'conti, è manifesta ne' canti de* no- 
stri volghi, i quali, spesso, con lieve mutazione, si ridurreb- 
bero benissimo in italiano, Tideale linguistico, che splende 
innanzi alla mente del nostro popolo. 

Ma lasciamo questo discorso, che ci porterebbe fuori del 
nostro tema. Noto solo, esser d*uopo, far di tutto, per evitar 
le ambiguità e gli equivoci. Sed è gran pregio la chiarezza 
delle idee e la precisione nello stile, è, del pari, grande e 
principale sfuggire , ortograficanoente , lo scambiamento di 
du' parole di signiflcato differente; e, perciò, alcuni voca* 
boK diversificano, nella forma grafica, da certi altri. 

Ed ora , dopo queste poche considerazioni , credo poter 
tracciare il seguente specchietto , punto invariabile però e 
ch^ non comprende tutte le parolo: intendiamoci bene ! 

E un semplice accenno, non altro ; ed invece di perder- 
mi in chiacchiere, preferisco dar le norme, perchè uno possa 
vedere , immediatamente , come vada scritta una parola. À 
me pare, che, in queste cose, debba prevaler T utilità pra- 
tica, e, perciò, cerco di tenermi, nel modo più razionale, ad 
un metodo già adoperato: e lascio le riforme fondamentali, 
cui ciascuno sr sente tirato, e che, se non altro, per la no- 
vità, riuscirebbero più difficili. Cominciamo ! 

I. — Ogni parola, aferizzata ^ s' indica con un apostrofo, 
spirito dolce de' Gred, (come ebbe a dire il Settembrini, 
se mal non mi ricordo) e si colloca , a sinistra , a fianco 
della vocale o della consonante. Forse, filologicamente, (giac- 
ché si è tirato in mezzo un po' di grecherello) sarebbe stato 
preferibile lo spirito aspro ; ma , via ! non la facciamo da 
riformatori e veniamo agli esempi: 

'a (la); 'o (il e lo); 'e (gli e le); nu, 'no 'na (un, uno, una); 
'sta (que-sla); 'e (di e de). . 

Intendiamoci bene : in partenopeo, oltre 'a ed 'o, abbiamo 
anche la e lu e, raramente, lo ; e, queste forme, si ado- 
perano, in ispecie, se la parola seguente cominci per vo- 
cale, par delle regole infallibili del dialetto, è una strana 
pretesa , essendo esso si vario ed incostante ; e basterebbe 
citar questo fatto. Parecchi versi de' canti popolari , tra- 
scritti, non tornano, mentre il popolo, quando li canta , li 
sa, talmente, modificare, da farli riuscire esattissimi. Per- 
ciò, trascrivendo produzioni popolari, preferisco trascriverle 
tal quale , per maggior fedeltà ; ci vorrebbe tanto poco 
a raffazzonarle! 

Ma non usciamo di tema. Dico solo , che V 'o, come è 
segnato di sopra si distingue da 'o, (ovvero) lat. autj o, vo- 
cativo ec. e da ò (al); ma di questo, dopo. Veramente, per 
'e (di' ci vorrebbe un altro segno, per non confonderlo con 'e 
plurale dell' articolo. Per me proporrei una di queste for- 
me 'e, 'e "e ; (3) ma non ispero d'avere il beneplacito di 
Lor Signori. 

IL — E, a questo, mi piace rannodare il ,raddoppiamento, 
DELLE consonanti, IN PRINCIPIO DI PAROLA. Esso scmbra 
messo, a bella posta , per annaspar la vista, senz' alcun 
prò. Anche in molte parole italiane, si pronunzia doppia- 
mente la consonante iniziale, e, per questo, curiamo foi*s3 
di trascriverla? Nemmeno per ideal Che bisogno ci è, 
dunque, del raddoppiamento in una parola dialettale ? 

Pure, ci può essere il caso, in cui esso indichi uno afe- 
rizzamento , come llogo per in loco ; ed allora , a parer 
mio, si potrebbe benissimo ricorrere alla regola indicata di 
sopra ; ma alcuni han preferito, in questo caso, raddoppiar 
la consonante > e , forse , si potrebbe lasciar correre, cosi, 



la cosa, per non fare innovazione. Certo, indicar Vaferia- 
eamenio è il metodo più logico e da adottarsi assoluta- 
mente, quando vi sono due consonanti, come, per esempio 
'ncimma^ 'nzieme , 'ncapo, 'ngiùria ec. per indicare che 
la n ha perduto la i (in). In altre parole, come 'mmaseiata 
(imbasciata); ^mmitato (invitato) non è peccato mortale 
adoperare il raddoppiamento. 

III. — Le parole apocopate si segnano, in fine, con uno 
di quei soliti apostrofi, per indicar la perdita d'una sillaba 
o d una lettera. Abbiamo quindi: 

co', cu' (con); i (io); so' (sono>; pe' (per) ;nu' (non) ec. 

Vi sono compresi anche gl'infiniti, i quali hanno, pure, 
un accenio, per indicar, che la parola è tronca, com^ : 

ama' (amare); vere' (vedere); sentV (sentire), V (i-re) 
eccetera, eccetera. 

E queiraccento vale pure a distinguere gì' infiniti dagli 
imperativi, che han perduto una sillaba e che si segnano col 
solo apostrofo, quando sono monosillabi, come : te' (tieni) ; 
siè' (senti); ma non cosi: 

flwpè' (aspetta). 

Anche la forma del vocativo , (che manca in italiano e 
eh' è proprio del dialetto), riceve 1' apostrofo e l' accento. 

Esempio : jpadrÒ' (padrone); signò' (signore); LuV (Luigi) 
eccetera. 

IV. — Le parole contratte, per modo di dire, vengono 
segnale con due virgolette, in alto, in questa guisa : 

e' 'o (con lo); c''a (con la); j)"o (per lo); cF'a (de la) p"* 
(per le) ; d"o (de lo) ; n"c (non li) ; «"o (se lo) ; «"e (se li) 
re (te li) ec. 

Altre, invece , si segnano con un apostrofo, a principio, 
più un accento circonflesso, come: 

'6 (allo); 'à (alla); 'é (alle). 

Queste vocali vanno pronunziate lunghe, perchè son con- 
trazione di a-f-o; a+«; a-^-e. 

E si adopera il doppio segno, appunto, per non fer con- 
fusione con ò (al) ; à (all'). 

V. -— Parole , che prendono un' altra forma , per evitar 
confusione; in ossequio alla chiarezza, insomma. Ho citato 
già parecchi esempi, di sopra: ora aggiungo questi alai: 

ca (che) per distinguerla da ccà o cà (qua e qui) ; 

he (hai) per non confonderio con è ; 

sse sé (sé) per non far confusione con se (si) ; 

VI. — Sarebbe anche buono indicare con un puntino sopra 
la e muta : come in pane; coré^ rienté, nasé ec. ec 

Del resto, foiose, se ne potrebbe fare anche a meno. 

Loro si saranno annojaii ed hanno ragione ; ma io nep- 
pure ho torto : se vi ha colpa, diamola tutta all'ortografia, 
e tiriamo oltre, per risolvere qualche altra quistioncella 

Più d'una volta, Lor Signori, mi hanno obiettato, « che 
« leggono , più facilmente , il dialetto scritto all' antica e , 
« che, anche, per questo non amano delle innovazioni. »■— 
Innanzi tutto, potrei rispondere, che il Ésicile non è sempre 
il migliore ; ma , anche questo, è inutile. Posso citar 1 e- 
scmplo di molti, che trovano minor difiicoltà a leggere col 
nuovo, che col vecchio metodo, solo perohè han cominciato 
prima da quello, che da questo. È, quindi, quislion d'abi- 
tudine inveterata più che altro ed i più, per certa inerzia 
intellettuale , preferiscono la via vecchia alla nuova. Il ti- 
rare, poi, in ballo l'autorità degli antichi è un mero giuoco 
di prestigio, perchè 1' ortografia conta una storia, ed oggi 
riuscirebbe ridicolo chi volesse scrivucchiai'e, inital. per es. 
httomo, anchora, e simili vecchiumi, col solo pretesto, che, 
cosi si scriveva m temporibus illis. Né, qui, facciam qui- 
siione d' autorità ; ma cerchiamo di trovare il vero al- 
meno pario per conto mio ! 

Ormai, è tempo di far punto: non è cosi? Ripetiamolo 
anche un'ultima volta. La pronunzia è la norma principale, 
che, (come nell' italiano), dev'essere di guida ali ortografia 



del nostro vernacolo, che la divisione in dialeilo scritto e 
dialeno parlalo giova solo.... a produrre confusione! 

lo non pretendo all'infallibile;... anzi credo, che molle 
delle cose da me dette, potranno, e, forse, dovranno esser 
modificate ; ma sarò lieto , se non si terrà inesatto il cri- 
terio fondamentale, che mi è slato di guida Comunque, 

se ho scelto una via piuttosto, che un'altra, Tho fatto de- 
liberatamente, dopo maturo esame. 

E, Lor Signori, mi perdonino le chiacchiere e mi serbino 
Fusata benevolenza. 



Napoli, il primo dell'anno 1884. 



Dev.fno 
Gaetano Aìiaui 



(1) Napolitano^ certo, sarebbe più corretto ; ma V altra 
forma ha, per sé, la sanzione deli' uso , che , in fatto di 
lingua, non è poco. 

(2) Non facciamo confusione : io voglio dire, che molti 
vocaboli del dialetto, etimologicamente, hanno i corrispon- 
denti in italiano meno qualche lieve alterazione e qualche 
sroozzicatura — Son giunto a farmi intendere? 

(3) Non parmi, che questi due segni facciano annaspar 
la vista : con poca varietà li troviamo anche in greco e 
non ci confondono. 



NO MIRACOLO DE SANT' ANTONIO (*) 



C'èrano duje compare 

Ricche e barune e co tanta donare. 

Na matina da lo compare se n*annaje 

Bonnl, signor compare. 

No favore m'avite da fere 

Ducate seiciento m'avite a mprestare. 

Signorsì ve li boglio mprestare : 

pe la morte o pe la vita 

L'obbricanza me ferrite. 
La matina nce li mprestaje, 

La sera seguente nce li itornajc. 

Bonasera, signor compaj'e : 

Ecco ccà li vostre donare : 

F pe grazia de Dio 

Àggio fatto bona mercanzia : 

Accattava e benneva, 

£ Sant'Antonio dengraziava 

De la summa de sti denaro. 

Chesta non è ora de notare. 

Dimane a la cùria me faccio trovare. 

Co la vocca ce lo ddiceva 

Co lo core ce lo ti rade va: 

Lo itradeva co feuze nganne 

Pe ngannà lo San Giovanne. 
Sonanno sei l'ore de notte 

Le vene na mprovisa morte. 

Chiagnile amico e compare, 

Ch'è muorto senza confessare: 

Chiagnile amice e parente 

Ch'è muorto senza sacramente : 

E li figlie tutte contente 

Avimmo d'avere ducate seicientd. 
La matina le pai^e milVanne 

De j\ a trova lo San Giovanne. 

Bonnl, signor compare, 

Ducate seiciento nce avite da dare. 

Corome! non ve ricordate 

Quann* era vivo vostro patre ? 

Ncopp' a lo lietto ce Tho contate. 

Ora non serve a scusare, 

Ora conlàtece li donare. 
Si li donare l'avlsscvo date, 

L'obbricanza sarrìa scassata. 



Lo mercante se n'annaje. 
Moglie e figlie abbannonaje: 
A ogne passo ch'isso deva 
No pasto de pianto se faceva. 
Cammenanno no poco cchiù avante, 
Le compare no monaco nnante. 
Ched'haje, mercante mìo, che tanto piangi ? 
Eh, ch'ajuto me puoje dare, 
Monaco mio, me vuoje burlare. 
Pe la mano Io pigliaje, 
A na montagna lo portaje: 
Lia nce steva n'ommo armato: 
Chillo n'era n'ommo armato, 
Era Lodfero scatenato. 
Eh! anema dannata. 
Va a Tinferno senza timore 
Cacciarne ll'anema de lo barone. 
L'anema de lo barone fuje cacciata, 
A na seggia de lierro fuje assettata, 
De fuoco stev'allommata, 
E de serpiente steva zucata. 
Sì benuto da cheste pparte 
Addò no nc'è non penna e non carta. 
Sant'Antonio pe li suoje ritratte 
Mese mano a lo manecone, 
E ne cacciaje no gran cartone. 
Penna e carta fuje cacciala, 
L'obbricanza fuje scassata. 
Dicite accossì a li mieje figlie, 
Che pe lassa a loro ricche e contente 
Io sto a paté Tinferno alernamente. 

Roberto Guisgardi 
RaceoUe 



(*) Il raccoglitore ci scrìve, che il titolo è stato aggiunto 
da lui : e noi che stampando questi versi, abbiamo ser- 
bata la grafia del manoscritto. 

N. della R. 



SCIENZA NEL POPOLO 

Gentilissnw Signor Direttore, 

A primo udirla, a me, cultore della Fisica , sembrò 
strana la vostra domanda , con la quale mi invitavate a 
scrivere qualche articolo per il vostro Archivio di lette- 
ratura popolare. Meditando però suir indole del vostro 
giornale, ho scorto di poi un mondo di analogie tra i vo- 
stri studii e quelli del naturalista , in guisa da rimaner 
convinto sia possibile scambiarci i risul lamenti delle no- 
stre ricerche, per averle come di segreto, di ragione e di 
guida nei rispetti vi nostri lavori. 

Nel moderno naturalismo, perla via indicata ed ampia- 
mente percorsa da Virchow, gloria dell' anatomia aleman- 
na, la fenomenia della vita è non solo studiata neh' uomo 
in questo od in quello animale, ma negli animali e ve- 
getali tutti, e non solo nel tempo di loro completo orga- 
nizzamento, ma in ciascuno stadio della loro genesi e del 
loro sviluppo; e sopra tutto è studiata neli' organismo che 
ammala. Il disordine non è che apparenle; la patologia è 
divenula oggi un capitolo della tisiologia. Il naturalista 
trova l'ordine perfino nei mostri , in guisa da averei uno 
stupendo iralialo dell'insigne GeoìTrey St.Hilaire sulle leggi 
delle mostruosità. 

Similmente per la lingua di nn popolo; senza lo studio 
dei dialetti, dell'organismo linguistico si avrebbe una cono- 
scenza parziale e mollo limitala nel modo stesso che non 
avreipmo una completa scienza biologica, senza il potente 
sussidio della patologia. 

Vi conlenterò dunque, procurando di illustrare, col lume 
della Fisica, proverbii, giuochi ed altre usanze del nostro 



popolo, in cui si ritrova un vero tesoro di osservazioni e 
di esperienze, le quali , conae vi è noto, vennero la prima 
volta chiamate in onoranza da un uomo nato in un borgo 
del Valdarno, nel castello di Vinci; da un uomo, che non 
usd dalle scuole, non apprese Vourte magna di Lullo, né 
fu realista o nominalist ', die cotiobbe per nome Platone 
eA Aristotile, che apprese di matematica quanto bastò 
perchè se ne desiasse in lui Tintuito. ... che fu però som- 
mo artefice ed ebbe a maestra la semplice e mera espe- 
rienza. 

Al qual proposito eccovi un mio ricordo. Vi ha chi si 
è occupato di precisare il nome delF inventore del sifone ; 
come, a spiegare il fluire di un liquido in questo apparec- 
chio, SI è più volte disputato e massimamente sorse due 
anni sono, una lotta vivace tra alcuni fisici italiani. Ebbene, 
nell'agosto del 1882, io fui stordito un di, vedendo in campa- 
gna due fanciulli, figliuoli di contadini, seminudi, procurarsi 
dell'acqua, attingendola dalla fonte, mercé un vero sifone fatto 
con un fusto di ' zucca. Mi parve il sifoiìe , apparecchio , 
per quanto semplice, altrettanto utilissimo, per quanto umile, 
altrettanto celeberrimo nella stona della scienza (1), anzi- 
ché essere stato dalla scuola indicato al popolo, invece es- 
sere stato da questo suggerito agli scienziati. 

Oggi vi ha una vera mania per dare popolarità alla 
scienza: questa un di c)sl austera, accigliata, aristocratica, 
oggi invece , per così dire , si é essa buttata alla piazza. 
Il quale nuovo andazzo ha però recato e reca ninna utilità 
al nostro popolo, precipuamente perchè si vuole educare 
il popolo senza conoscerne i proprii bisogni, senza averne 
studiata particolarmente la vita; perché si vuole applicare 
ad un popolo di una nazione quel che si è applicalo ad 
un altro popolo diverso per indole, per tradizione, per co- 
stume. 

Non è ridicolo, come già dimostrò il Settembrini, Y uso 
del pallottoliere nel nostro paese, dove a conquistare Tidea 
del numero, concorrono tanti giuochi e tante birberie, per le 
quali aguzza cosi squisitamente la sua Sagacia il nostro po-^ 
polo ? Si educhi il popolo invitandolo però a meditare su 
quanto egli inconsapevolmente sa fare e riesce a noi d'i- 
struzione (2). 

Vi rinnovo dunque 1^ promessa fattavi, e comincerò col 
presentare ai vostri lettori la ricca copia di fatti scienti- 
fici, apprendibili collo studio di alcuni giuochi tra noi co- 
munissimi : la fionda , la mazza^pìve^o , lo scopparulo 
e^ la umHe trottola , dalla quale un sommo fisico , Leone 
Fouciiult, seppe elevarsi a comprendere i fenomeni cui dan- 
no luogo il moto rotatorio e rivoluti vo del nostro pianeta. 

Vi riverisco. 



Napoli, gennaio 1884. 



MOWESTINO del' GaIZO 



(1) G. B. Baliani genovese» dai fenomeni verifìcatist in 
uno speciale sifone, scopri, nel 1630, la pressione atmosfe- 
rica (V. Gooi — Atti dell' Accademia delle scienze di To- 
rino; 1867). 

(2) Un libro, tra i più preziosi per la gioventù e per il 
popoto italiano, è anello dello Stoppani « Il bel paese » — 
L' Utostre autore chiude la prefazione di questo 4ibro con 
le seguenti belle parole : ^ « Se queste pagine avranno la 
fortuna pur troppo rara, di uscire dalle mura della scuola 
di città, per diffondersi nelle campagne, in seno all'Alpi, 
nelle montagne dell' Appennino , al piede del Vesuvio e 
dell Etna , insegneranno agli abitanti di quelle contrade 
ad appre2zare un po' meglio le riprese , di cui la natura 
non fu avara alle diverse provincie d* Italia » — Il Prof. 

toppani, nella prefazione di questo libro, mette in rilievo 
qual debba esser un libro che si possa dire di vera scienza 
popolare. 



ffrf 



'O CUNTO D' 'A FURTUNA 

Nce steva 'na vola nu pòvero ommo ca faceva 'o servitore. 

Ma steva assale disperato pecche 'o patrone le passava 
prco 'o mese e po' nun teneva furluna. Tutto chello ca 
faceva le ieva 'nlravierzo. Era, curarne se dice, perzeque- 



tato d''a furtuna, ca si se jeva pe' fa' 'a croce, se cecava Fuoc- 

chic. 

pòver'ommochiagneva sempe, p' 'a trista sciortó soia. 

Non juorno, mente chiagneva, nu signore, amico d' 'o pa- 
trone suio, Taddimmannaie: 

— Tu pecche chiagne? 

— Signore mio, che vulite sape' da me! Si sapìssevo ! 
Ma già vuie min putite sape' niente, pecche 'e fatte d' 'a pi- 
guata 'e ssape 'a cucchiara. 

— Ma che t'è succieso? 

— Avite da sape' ca i' nun tengo sciorta, e da che so 
nato niente me va pe' deritio. 

'0 signore 'o steva a sèntere pe'vedè isso a do' ieva a sbàt- 
tere. 

'Nfraitanto, 'o servitore cuntinuava 'e lamtent' e 'e picce 
suie. Chello eh' abbuscava nu l' avastava pe' niente, teneva 
nu munn"e figlie ca vulèvano magna' cumm' a tanta lupe, 
e isso aveva da Y sempe cumm' a nu pezzente, desideranno 
sempe 'na tòzzol' 'e pance nu cazone ca nun fosse arrepezzate. 

Doppo ca isso aveva fernuto de piccia', chillo signore le 
dicetle: 

— Vuò' ave' furtuna? 

— E corame 'a pozzo ave' ! 

— Fa chello che te dich'io e vedarraie eh' avarraie fur- 
tuna. 

'0 signore mettette raan' à sacca, cacciai e 'na cincugrana, e 
'a dette 'ramano 6 servitore. 

— - Pigliate 'sta cincugrana e fa marenna pe le mettere 
'nforza. ì^o' chiù tardo viene a du me, che t' aggi' a d.à' 'na 

lÀMapo "Va 

'0 servitore, doppo d' ave' fatto marenna, tomaie a d' 'o 

signore. 

— Signurì, me vulite dà' chella lèttera? 

— Pigliatella. 
E ci 'a dette. 

— Siente mo eh' aie da fa', e nun te scurdà' niente. Va 
'ncopp"o Campo, e cammina cammina 'nfln' a che truvar- 
raie 'na bella figliola. Tu le darraìe 'a lèttera , dicènnole: 

— Che.sta v' 'a manna 'o sìgnurino, e ve dice ca isso de- 
„ nare nun ne vo' chiù, pecche nun lene a do' métterle, e ve 
► prega si me vulite dà' quacche co^a pure a me. 

'0 servitore accussl faceue. Se mettette 'nca ramino e ar- 
rivate 'ncoppa 6 Campo. • 
Truvaie 'na figliuola bella quant' 'o sole vestula cumm a 

'na reggina. 

— Che buò' da me? , ^., 

— €à me manna 'o signore mio e ve dice ca nun vo ehm 
denaro da vuie pecche nun tene a do' 'e méttere, 

— Ma ch'è pazzo 'o patrone mio. Va, dineelloca i' tanno 
nun le darraggio chiù denaro, quann'isso n'avrà chino nu 

puzzo. 

— '0 servitore, sentenno chesso, tutto 'ncuraggiato, di- 

cette* 

— Bella figliola mia , dàteme quacche cosa pur' a me , 
che sto rinf à crema d' 'a sfraniuraraazione. 

— r nun aggio che le fa', pecche nun zoiig' 'a furtuna toia. 
Va a du essa, e vide che te dice. 

—E curara'agjjfi'a fò' pe' sape' a do' se trova. 

— Te', chisto è nu gliuòramer' 'e cuttone. Attacca o capo 
vicin' a 'st'àrbo.re, e cammina sempe, 'nfi'ca 'stu gliuòraero 
s'è sgravugliato lutto quanio. Tu tanno te Urmari-aie e dir- 

raie i 
—Furtuna mia, furtuna mia , viene cà. '0 servitore se 

ne ielle. ,. ^ , , , 

Cammina cammina, chillu gliuòmmero nun ze fernev e 
sgravugiià' maie. Quando se fernell' 'e sgravuglà', 'o servi- 
tore se mettette a strilla' : 
—Furtuna rala, furtuna mia. ^ 

Dopo nu poco, ascelte 'na vecchia brutta quanta 1 acci- 
dente , tutta stracciala , cu' tanto nu scartiello , ca faceva 
paura. 
—Che vuò' da me che rae stale chiammanno ? 
— V'aggio chiamraata p' addiraannarve quacclie cosa : i' 
sto tanto disperalo ! 
— Vatlenne , valtenne nun me secca. Nun te voglio dà 



niente. Haie ragione ca steva durmenno quanno 'o palrone 
mio le reité chelli ccincurana, si no, manco chelle le faceva 
abbuscà' . 

Dicenno chesto, sparette, e 'o pòvero servitore avelie voglia 
d' 'a chiamala', ca essa nun ze faceile chiù abbe(]è\ 

'0 sei'vilore, tutt'adduUurato e dispiaciuto e arraggialo, 
-ìastenrimanno contr' a la sciorta soia , se ne turnaie 'n' ala 
^ola 9 d' 'a furtuna d' 'o patrone suio e le cunlaie lutto chello 
ca Fera succieso, chiaguenno e lepecchianno ca faceva com- 
passione pur* è prete d 'a via. 

—Bella furtuna d' 'o patrone mio, aiiilame tu, damme quac- 
che cosa pe' carità. 

£ tanto facette e tanto dicette, ca Qnarmeote chesta, sec- 
cata da tuli' 'e cchiàcchiere ca isso le diceva , e da tuif'e 
guaie ca le cuntava, le deite 'n aniello e le dicette : 

— Siènteme buono. Chisio è 'n aniello : pigliatillo ; ma 
DUD le può' addimmanà' cchiù de tre ccose sole. Quanno 
avraie avute 'e tire cose ca lavarraie addimmannate, chi- 
si' aniello se ne turnarrà a du me 'n' ala vota e tu nun 
puiaitaie ave' nienl' alo. 

'0 sirvilore nun zapeva cumm'aveva da ringrazia' 'a fur- 
tuna d' 'o signore suio. Scappaie sùbbet' à casa pecche nun 
le pareva vera ca fìnarmenle 'a sciorta s' era mòppeia a 
cvmpassione d' isso. 

Cumm' arrivale à casa, ricette 'nfacci' à mugliera. 

— Chisso è 'n aniello alTatalo ; guardalo buono e nun 
l'addimmannà' maie niente Wa che vengh'i'. Tmo vaco 

• a d' 'o palrone pe' pigliàreme liciènzia, e curarne torno, nun 
avimm' abbisuogn' e nisciuno chiù. 

'A mugliera le pi'umeltette 'e fa' chello ca isso aveva ditto, 
e'o marito se ne iettè tutto cuntento e fiducìuso. 

Doppo I u poc' 'e liempo , passale p' 'a straia nu mene- 
staro, ca ieva dann' 'a voce. 

— Pasienach' 'e Nucera, pastenache. 

'E figlie d' 'o servitore, cumm' 'e bedètlero, se metlètten' a 
fa' caso-diavulo. Gbiagnèveno e strellàvano cummesiquac- 
cheduno l'avesse fatto 'na batteria. 

— Oi ma, oi ma, accàiiace 'e ppaslenache. 

'A mamma pe' nun 'e sènlere chiù , e pe' s' 'e leva' da 
tuorno, cumme nun teneva manco nu sordo 'n Cristo , pi- 
giiaie àniello, e 'o sceriaie nu poco. 

— Gummanna, maislà. 

. *A pòvera fèramen' 'a sentirese chiammà' maislà rimma- 
nette luti' alluccuta e nun zapeva eh' aveva da di' 

— Gummanna, maislà, rebbricaie àjiiello. 
• — Vurria quatto pasienach' 'e Nucera, 

Nun aveva manco fenuto 'e parla', che 'a casa soia era 
chiena chiena 'e pastenache. Gè n' èrano cert' 'e fora me- 
sura che pesavano chiù de diece rotola : grosse quanto a 
nu trave. 

'E figlie se menàieno ca capa sotto e se rignèlleno 'a 
panza bona bona 'e pastenache, tanto ca nun ze putèvano 
movere chiù. 

Gummc turnaie 'o marito 'e bedelle tulle chelli ppaslena- 
che, addìmmannaie à mugliera, tutto maravigliato. 

— Gin l' ha purtalo tulle chesti ppaslenache? 

'A mugliera le cunlaie 'o fallo , e isso, tutto 'nfurialo , 
pecche 'a muglicr' aveva fatto luti' 'o ccuntrario'e chello ca 
isso l'aveva ritto, arraggialo cumme a nu demmònio, cum- 
mannaie a 'na pastenaca che irasesse, 'ncuorpo à mugliera. 

'A mugliera, cumme se senlelle cheli' ànema 'e pastenaca 
'ncuorpo, accuminciaie a strilla' ca faceva pietà. Se lurceva 
pe' terra che pareva 'na serpa. 

'0 marito, doppo chella sfuriala, lumaio 'nzè, e se dispia- 
celle 'e tutto chello eh' aveva, fatto, e ce vuleva purlà' rem- 
mèdio. 

Ghiammaie quanta mièdece putette, ma nisciuno putette 
e sapone fa' niente. Ghella pòvera fèmmena steva chiù da 
là, ca da cà. L'ùrdemo mièdeco ch"a vedette, quanno 'o 
marito le cunlaie tutto cosa, dicette : 

— Siente, si tu vuò' fa' sta' bona a muglièrela haie da 
fa' Chello ca te dich' io. Si no, muglièrela more. 

'0 pòvero marito cumme sentette ca nu remmèdio pe' 
sarvà' 'a mugliera ce sleva, tull'allero, dicelle: 

—Faccio chello che me decite vuie. 



—Haie da cummannà' a l'aniello ca te sarvass'a mtigliè- 
reta, e non penzà' ad àula cosa. 

Cumm' infalle accussì facette, e 'a pastenaca se n' ascette 
da cuorp' à mugliera soia, e chesta turnaie nae^lio 'e prlm- 
ma. Ma cumm' a pastenaca asoette da cuorp à mugliera 
d' 'o servitore , àniello nun ze trovaie chiù, pecche $c ne 
turnaie a do' n' era venuto e 'o servitore rufnoaanette chiù 
puveriello 'e chello ch'era primma. 

Raccolse in Napoli 
Vincenzo Dblla Sala 



PubbUcauoni in dialetto pervenuteci in dono 



Resurge ! Albo le iterarlo 'artistico raccolto e pubblicato 
dall'artista A, Mando , a beneficio delle famiglie più 
danneggiate di Casanilcciola. Vi è stampata una poesia dal 
titolo : Pe lo Re nnuosto aur'uiso Sua Maestà Umberto 
I. No N napolitano de III qquartiere oascie. 

Calcndarli - In quello edito dal Chiù razzi, ri è una poe- 
sìa su Casamicclola, scritta in vernacolo napolitano dello 
stesso Luigi Chiurazzi. -^ In un altro pubblicato per cura 
di Generoso Curato , leggesi un sonetto di un anonimo , 
dal titolo : Aoùrlo pe Vanno 1884, 

NOTIZIE 

Riceviamo o pubblichiamo : 

Trani, 14 Dicembre 1883. 
Carissimo Sig. MolinarOy 

La edizione della mia lettera al prof. Rocco venne scor- 
retta nella 7" pagina, avendo io in fretta ed in furia nella 
tipografìa mutato il Lei in Voi , essendomi ricordato che 
nella pag. 1* si era già stampato vostro vocabolario — 
Ritengo però che non fu scorretta la critica. 

Or avendo io letto nel n.'* 10 del suo Basile la lettera 
del Sig. de Nino circa il Pianio della vedova di ScannOy 
mi permetto pregarla di una conrìmile rettificazione della 
Cannone a dialogo , putd^ieata nel n* 2, udita a cantare 
dallo stesso prof. Rocco. Nella prima strofe manca un verso, 
si è fatto perdere una rima, e la età della figlia è Mutata. 
La canzone dice così: 

« Mamma mia, so fatta granne 
Tengo cchiù de vintoti anne, 
E non saccio comme fa 
Pe poterme mmarìtà ». 

Consideri Lei quanto risponda meglio al concetto della 
jcanzone la eia di anni 28. A 15 anni la giovinetta scherza 
ed ha lungo cammino a percorrere. A 2o per contro non 
è lontana dallo antipatico trenta^ che ravvicina alla classe 
delle zitellone; di qui la idea di non saper come fare per 
maritarsi. 

« Li leggenda di Santo Nicola, a me nota con qualche 
« variante , mi ha richiamato alla memoria una consimile 
« narrazione di un miracolo di Sani* Antonio — Gliela feto- 
« ciò tenere — Parrai che possa trovar posto nel suo pe- 
ce riodicft. Il titolo è stato aggiunto da me. Vi apponga Ella 
« quello che crederà più opportuno ». 

Le osservazioni del sig. de Nino mi spingono a fare un 
osservazione sopra id cunto de Fcrmzsolo — Il nome 
è sialo scambiato dal narratore , che .ritengo doveva es$er 
giovine (Il Nel Pentamerone G. B. Basile ci racconta le 
bestialità di Terumto , eh' era un maierialone. Nella mia 
fanciullezza una vecchia signora circa il 1830 affibbiò il 

nomignolo di Pironto a D. Francesco Ma (vivente^ il 

quale a 28 anni era un gofl^o noioso. La vecchia D.* Kar 
chele, che sessagenaria conosceva Peruonio del Basile, in* 
gentili il nome per D. Giccillo II narratore moderno, igno- 
rando Peruonto, e conoscendo lo peruòzzólo de le ssegge^ 
ha chiamaio^ìVwo^grxroZo, quello che doveva essere invece 
Peruonto. 

È necessario che i narratori siano napolitani di quattro 
quarti — Nel n,® 6 del Basile lessi — 'o curato d' 'a cascia 



8 



^e cristallo — La preposizione di nel dialetto si scrive de^ 
noa si pronunzia i (2). — Un napolitano puro sangue di- 
rebbe case' V cristallo— QììélìdL 'e rivela il contado, la pro- 
vincia — In niolti processi di questo Distretto delle ire Pu- 
glie, di frequente trovo scritto quìndeci, sèdeci, dòdeci — 
E la mia vecchia perpetua, nativa di Bari, or son più gior- 
ni , noi parlava di un omicidio avvenuto qui uel palazzo 
'e cristallo — (la Suburra)* 

Tolleri , egregio signore, quesle noterelle, le quali par- 
tono da un empirico cultore del dialetto. 

Mi creda con tutta slima 

di Lei devotissimo 
Roberto Guiscardi 



(1) Non sembra un errore , perchè ì nomi , come i rac- 
conti, spesso, vaHano di bocca in bocca; anzi Peruòssolo 
è più usitato ; ed il nome stesso si adatta bene al prota- 
gonista. 

(2) D' *a, secondo l'ortografia da noi adottata, non cor- 
risponde lì, de o di : KiìZi a^ de la; né ci persuade dovere 
scrivere in un modo e pronunziare in un altro: significhe- 
rebbe accrescere le dinicoltà, senza scopo. 

N, d. D, 

Nel secondo volume di Critica letteraria di Felice Ro- 
mani, messo in luce qualche mese' prima di morire dalla 
vedova del poeta, signora Emilia Branca , dalla pag. 237 
alla pag. 244, è un articolo sulla Poesia popolare, che per 
la prima volta comparve nella Gazzetta v fiiciale piemon- 
tese del 1847. il Romani nega all'Italia la poesia popolare. 
« I canti — egli dice —, per essere popolari nel vero senso 
« che vuoisi dai critici e dai filosofi, esser devono nazio- 
« nali, vale a dire, comuni a tutta quanta la nazione; de* 
« vono suonare sul labbro degli uomini ed essere inlesi 
« egualmente dall'Alpi al mare, dal Varo al Sebeto ; de- 
« vono essere cantati nel linguaggio universale d' Italia, 
« e non nei dialetti di tutte le frazioni della medesima ; 
« devono, ed è quel che più importa, avere un' impronta 
« della fisonomia Italiana , recare una rimembranza dei 
« tempi trascorsi , sian sereni sian torbidi , un prospetto 
e del presente, sia tristo o sia lieto , presentare , in una 
« parola , una pittura dei nostri costumi e dei nostri in- 
e teressi comuni, una scuola di virtù domestiche e di cit- 
.< ladine, uno scopo qualunque a cui tendere e a cui per- 
« venire. » — È chiaro che il Romani non s'era fatto un 
concetto esatto di ciò che veramente fosse la poesia po- 
polare italiana; ma fantasticava sui come avrebbe dovuto 
essere ! 

Nel Calendario e Strenna della Tip. Comm. F. 
Giannini e figli, anno bisestile 1884, vi sono alcuni lavori 
riguardanti i nostri studi i. 

!.• Un interessante articoletto di Giacomo Racioppì, in- 
titolato Minuzzoli. Si accenna a parecchi iisi nuziali in 
Terra di Bari, facendo d.egli opportuni raffronti con anti- 
che usanze, solo in parte modificate. 

2.** Un soneito, in vernacolo napoletano, di Alfonso Fior- 
delisi, dal titolo: Povera nenna!.,. È affettuoso ed ha molta 
naturalezza. 

3.® Usi e costumi napoletani andati in disuso di 
Emm. Rocco di M. Spiega V uso di rompere il bicchiere, 
e cita al proposito un passo del Cortese ed uji altro del 
Basile ( PenCamerone , Trat. III. Gtor. I). Parla ancora 
di matti; e e' informa, che essi erano curati al T^spcdale 
degr Incuràbili , e che vi erano portati in bussola, e che 
chi li portava aveva un regalo di cento uova. A questo 
alludono parecchi scrittori nostri e basterebbe citare i 
versi del Capasso } . 

Si tornasse a lomunno masto Giorgio 
Co* le cienéèooa, la rota e le masse, 

4.^ La Capoanella di R. d'Ambra. Citiamo, per essere 
imparziali, questi yersi , perchè non ne francano il fasti- 
dio, essendo di iiessunissi mo pregio. La forma è sguaiata 
ed i versi sono quasi vuoti di senso. 

5.** Una Serenata di Giacomo Bugni. I versi non 
sono cattivi , ma il metro non sembra schiettamente po- 
polare. 

6.® E finalmente La coda de IV anno e de lo libro di M. 
Capaldo. Son dei versi graziosi scritti con molto brio; ma 
non possiamo andar d'accordo con T autore riguardo alla 
ortografia da lui adottata... ma, per ora acqua in bocca! 



Il sig. Pietro Cassandrich ha pubblicato a Zara , dalla 
tipografìa S- Artale una versione metrica de* Qanti popò- 
lari epici serbi. 

Già il Goethe fece un tentativo di riprodurre uno di qaei 
canti in tedesco, con un metro rispondente airori^inale ; 
e seguirono il suo esempio il Grimm, il Talvi ed il Kap- 
per. Ed il Cassandrich, per accostarsi all'originale, « ha 
procurato di rendere l'armonia dei verso serbo col far ca* 
aere, ad imitazione de'traduttori tedeschi, una sillaba ac- 
centata in q^uei luoghi, dove nell'originale cade un* arsi ; 
ma per togliere la soverchia monotonia del ritmo, osservò 

f»referentemente (sic) le arsi principali, trascurando talora 
e secondarie, specialmente quelle del secondo ^emistichio 
in modo da dare al verso un movimento dattilico. » — Lo 
stesso autore prepara una versione de'Con^t popolari epici 
Croati, con uno studio sull'Epopea nazionale serba e croata. 

Nel n.<> 51 dell'anno ^ àeW llluslrasione italiana (23 di- 
cembre 1883) Michele Scherillo ha pubblicato un artico- 
letto col titolo Nigra , in cui parla delle fanciii le bruno 
nella poesia popolare e delle pitture rappresentanti le Ma- 
donne coi viso abbronzato. Vi si riportano molti canti po- 
polari. 



Nel numero 352 , anno XI del Corriere del Mattino 
(Napoli, giovedì 20 Dicembre 1883) si sono pubblicati CHri 
amori di un colletto , i quali , se non andiamo errati « ci 
sembrano imitazione d' un racconto popolare. 

Nella strenna: — Per Natale e Capodanno , edita dal 
giornale V Occkialetto , anno XI. num 38-39«40 (Napoli* 
31 Dicembre 1883) il signor Vincenzo Della Sala, ha l'ub- 
blicato un conto popolare, tradotto in italiano , dal titolo: — 
Il Fglio del Re. 



Riceviamo e pubblichiamo : 

Prato Toscano, 23 Dicembre 1883. 
Pregiatissimo Sig* Direttore, 

Ieri parlai col sig. Ferdinando Vannucci fratello del Se- 
natore Atto e chiestogli come avesse nome suo padre, mi 
rispose: Giuseppe. Allora gli esposi che una tale domanda 
gliel' avevo fatta per assicurarmi in modo certo ed asso- 
luto di chi fosse figlio il Senatore Atto, perchè il signor 
Gherardo Nerucci producendo la fede di nascita rilasciata 
dal Parroco di Tobbianella. asseriva che il periodico — 
Giambattista Basile — di Napoli aveva sbagliato scri- 
vendo che il Senatore Atto Vannucci nasceva da Giuseppe 
Vannucci ; invece, secondo quella fede, il padre del Se- 
natore pi;edetto avrebbe avuto nome Atto. Il Sig. Ferdi- 
nando mi disse allora: Atto era il mio nonno, il quale 
nacque da Atto Vannucci: e siccome nacque dopo la morte 
del padre, gli posero il nome paterno per memoria, come 
alcune volte si suol fare. Il mio bisuoimo si chiamava 
Atto , ed Atto pure il nonno, e il padre fnio iuseppe e 
la madre Domenica Bartoletti. 

Ecco chiarito ogni cosa. E se vuole maggior conferma, 
vada all'Archivio dello Stato Civile toscano sotto gli Ufizì 
lunghi e al Registro de* nati del Comune del Montale in 
data 28 o 29 Dicembre 1810 troverà; Atto di Giuseppa 
Vannucci e di Domenica Bartoletti. 

E questo sia sugg^el che ogni uomo sganni. 
Mi creda con stima 

Suo Dee,mo 
Emiuo Bertini 



Posta, economica, 

Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

128. Massaroli Prof. Ciro - Bagnaca vallo. 

129. Lenci Aoo, Gaetano — Napoli. 

Gaetano Holinaro — Responsabile 

Tipi CariDccio, dol Biasio & V — Largo Costantinopoli, N. 89. 



ANNO II. 



Napoli , 15 Febbraio 1884. 



NUM. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



Pm riU»"» h .f - .«iMe" Lr •• 
Un numero eeparato cent^umi 30-, 
A^rotrjifa ceatfeeimi iO. 
I manoscritti non b1 rosi ituls cono. 
§1 comuoi9lii ti cambki^enlo di re- 
■idem^i. 



Esce il 15 d'ogni mese 

.DIBETTOBE 

L.HOLINARO DEL CHIARO 



ladlrlizare vaplìu, lettera omHoscrtUi | 
ul Direttore IjulKlMollnÉrv-ìlél \ 
fbtmro. ' 

Si torri parola dolla opera riguarduiti ' 
la lo [taratura popolare, cbe sarunao | 
mandalo in dono, in doppÌ6 esem- 
plare, alla Direilonel CaUta Copodi- 
china, 5«. 



MHIIUMf9f - Pdllarwliells. l^isaenda ruptma di Carmen 
Silva (M. Tancredi) — Canti popolari racocilli ìn Veglie 
del Leccese (A. Demitkv) — Come si mariinno le ve- 
dove, fellera bl Direttore ( F. Brakdjleoke) — Canti 
popolari raccolti a San Cipriano l'iceutino (B. Croce) — 
Calibi popolari lucani (L. Ordine) ~ Canti popolari so rani 
tv. SiHONC^LLiJ — Noiizie. 

Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e souQ vietate le riproduzioni e le tra- 
d^zitpi. 



POLLANCHELLA 



<■) 



Leggenda Rumena di Carmen Silva (1) 

i, Nce sMva na vola a gto gi'uos.so munno na femmena 
grannezzosa e tibella. Fata de la lena se chiamniava ; e 
era la mamma de (anta llglie mascole e femmene guappe 
e potiente ; e pe cclieslo sbariava sempe comm' aveva da 
Et pe li f^ cIdìi felice. Essa rialaje a uno pei- oiio no dar- 
dino Ci) e na lengiia invena l'una da U'auira. 

% Li mascole e le Oemioene chjù gniosse aveltero li 
ciardine cttiii guasche e cbiii grasse , arreparale da le 
pparme e assolale. 

3. Mperò li mascole e le ffemmene mprorecajeno, aomen- 
tajeno, e a ppoc' a la vola se ne jeliero sempe cliiii ncoppa, 
da la parie addò se cucca lo 8ole, e scioscia la feleppina, 
addò lo Sole non se vede, maje , né scai-ra la ggeiite , e 
rommo-:flve*a lia faiecà assaje chiù. E succedette ca cierle 
avellerò li ciurdìne ncopp' a le mmonlagoe, cierle 'mmiez' a 
la neve sempiietna, e ciert' aulie ini' a l'isole, semmenale 
pe Ut mare. Ma nisciuno era propcle conleaio de la parie 
soja ; e pocca la mamma, die nesciitno'potcva Ciipè, aveva 
dato a ognuno de lloro no dejoma, li frale no nse potevano 
ntennei-e nfra de loro. Pe consecuenzia appicceclie e mma^- 
zate, onne lo piedo de !a mamma fuje ctiJne de lo sanghe 
de li figlie. 

4. Appriesso mpe^, doppo tulli cliilli figlie, la fata fa- 



(') 11 Comm. MiclielaoRelo Tancredi, Iradultore di que- 
sta leggenda , ci sorìve di aver dovuto seguire l'ortogra- 
fia , cne impropriamente è detta classica; e lion (jueTla , 
che, più avvicinandosi al dialètto parlato, sarebbe stata, 
per questa parte, meno inteiligibile agli stranieri. 

ti- d. D. 

(1] Versione napoletana fatta su quella italiana della 
sig.* Grazia Pierauloni Mancini. 

(2) Avrei preferito dire masseria, e cosi anche sempre 
in seguito ; ma questa veraiùne dovendo servire a studi! 
comparati filologici, ho dovuto in tutto il lavoro scegliere 
■einpr« , — ^r quanto poteva — parole che pift si acco- 
stassero air Italiano. 



celle na peccerella aggranfiata as-^aje , co cjert' uocohie 
gruosse e nnii-e, co cciertc parpeiole longhe longhe, co txierto. 
cciglìa fitte lille , co no fascio de capille nire, co ccierte 
dieniizzulle ca parevano margarite da dereto a no mussillo 
a cceiasiello, co oa vitella che sartia passata mi' a u' a- 
nieljo, e co cciciie piedezzuile che, quaiifio al:^llava leggìa 
leggia, pareva comme sì volasse, loccantio appena la larra. 

5. La mamma 'ncopp' a Itulio voleva apparecchia na 
bbona sciorla a ccliesia crejalura, la cliììi peccerella de le 
itiglie soie. E («rzò le dette ho Giardino cliiìi ppeccarillo, 
seiovalo mmie/.' a li ciardine cliiii granne de li frate suoje 
potiente, aizó ellisse potessero a l'accorrenzia essere li pro- 
teilure suoje. 

6. Lo ciai-deniello era propele bello: sleva nfi-a le mmon- 
lagoe, lo sciumme e lo mare : lo Sole lo scarfava, la chiop- 
peia l'adacquava, e la neve lo refrescava ; teneva, sciuoa- 
metielle scuinmuse,campc.d'erba verde, e vignale Kferzuse. 

7. La maipi^ pe rrerosa le dette na lengua doo: , che 
te fiiceva scevoli. comm' a na musàca. Quaiino chella cìaa- 
ciosa de l'ullaiiciietia ?& metteva a abhall.^, co na coi'Qivi 
de sciure russe iiiL' a li capille ricca, lo cielo e la terra, 
lo soje e la campagna se pi'ejavano e facevano lo pini» 'a 
rriso ; lulie 1' ar&ei'e crescevauo e sciurevaoo da pe liorp 
nnanz' a. la i-egenella , e pe ccheslo le mmanelle scge non 
avevano abbesuogno de fatecà troppo, 

8. Li fiate cliiìi gruosse ntra de lanlo accommenzajeno 
a guarda co uocctiìe chine de mmidia la si|uasiati PoUàn- 
chella , ca eia lo core de la mamma soja. 'Mberelà la 
mamma .se ncariecava sulo de Pollancliella , e faceva lo 
mpo.ssil)bele pe Ile fa là na bbonà viia; senza pehzà cà 
'mmiez' a 11 llglie suoje non ce arrigoava la pac«, e ca li 
frate de cliella povera peccerella non poievanó essere pe 



va, la cancariava e Ja vallava- 



to 



Pollanchella era arrevata a non se lo Bk passa chiù pe 
la capa , quanno li frate venevano a fià a ffecozze dint' a 
lo ciardino. Nisciuno se ncarrecava d' essa ; promettevano 
de lebberarla, e pò se scordavano de la prommessa, e la 
lassavano neatenata comm' a pprimma. 

12. No juorno Pollanchella sleva coccala 'mmiez' a li 
sciure, e dornoeva co la capa appujata 'ncopp' a le bbrac- 
da e a le ccatene. Gbelle cciglia longhe erano chiene de 
lacreme, e ogne ttanto Tasceva da la vocca no sospiro che 
se ne jeva jappe jappe nziem' a lo sprofummo de li sciure 
pe lo cielo sprofumnoato. 

13. Tutto nzienoe se sentette la voce de la fata da ir ab- 
bìsso ; apprimma chiano chiano , comm' a no ventariello , 
pò ccbiù fforte, comm* a no truono che fa tremnoà tutte le 
ccose» e la gua^liona se scetaje. 

14. Pollanchella — le decette la manìma — non te de- 
sperà 1 Siente le pparole meje e ntienneme. La notte, quanno 
tutto sta cojetOy susete, e chiano chiano co na limma seca 
le ccatene toje. Statte attienta mperò, e non te fa a bbedè 
da nisciuno , e non te (à senti da nisciuno , e aspetta lo 
Dzegnale mio, e tanno le gbiettarraje I 

15. Pollanchella nce meitette paricchie notte a allemmà 
le ccatene soje ; ma sta fatica cana la faceva addeventà chiù 
fforte e anemosa, pocca le ccatene erano fatte a ciammiello 
e de bbona tempra ; nce voleva forza assaje a allemmarle, 
e essa non lo poteva fa che a poc' a la vota e co jodizio 
pe non ne fil addonà a nisciuno. 

16. Na vota lo frate sentette ca Pollanchella alleramava, 
e Ile mottetto le ccatene chiù grosse e ccbiù pesante de 
prìmma. 

17. Finarmente la facenna fuje scomputa, e Pollanchella 
steva 'ncimm' a na montagnella e aspettava; ma la voce 
de la mamma non se faceva sentì ancora. Pollanchella non 
ne poteva ccbiù; sbatteva li piede, se mozzecava le ttrezze 
lucente co li dientezzulle de margarita. Essa s' allecordava 
buono chello che era la lebbertà, e tremmanno allancava. 

18. Tanno accommenzaje n' antro frantancbete. Uno de 
li frate attraverzaje lo ciardino de Pollanchella, e zumpaje 
'ncuollo a ir auto frate che teneva schiava la sora. Chisto 
aspettava pedàso e arresoluto. Ne nascette na potecarella 
terribbele nfra li duje frate, e chillo ch'era stato lo primmo, 
stette là là pe se ne 1 a ir auto munno. 

19. Pollanchella non se moveva e guardava. Po aizaje 
le bbraccia e facette sona legge legge le ccatene. Tanno 
se sentette comm' a no truono da Ilo profunno : <x mo è 
bbenuto lo tiempo I » 

20. Co no strillo de gioja Pollanchella scotolejaje le 
bbraccia e s' allebberaje. Le ccatene cadetlero 'nterra, e co 
na forza ca no nce steva 'ncalannario, afferraje no scuoglio 
e lo jettaje ncopp' a lo frate, che l'aveva fatta nfelice, sfran- 
tummannole tutto lo cuorpo. 

21. Pollanchella, all' erta ncopp' a la montagna , nfaccia 
a la luce de lo sole , luceva 'ntutto lo sbrannore de la 
bbellezza soja. Essa guardaje le ccatene che stevano 'nlerra; 
e chiù nillà lo frate e' aveva avuto lo castico; pò guardaje 
co ppassione lo ciardino che tanno , pe la primma vota , 
poteva dicere eh' era lo sujo, e facette lo pizzo a rriso. 

22. La terra , nfi' a ddint' a le pprofuune viscere soje , 
sentette no triemmolo de prejezza a bbedè chella bbella 
peccereila ; e tanno no ventariello aggrazejato che bbeneva 
da lo mare, pazzejanno ntra li capille de la nonna, e smo- 
venno li rame de lo vuosco, cantaje na canzone de prejezza. 

23. Ma li frate non se potevano fa capace, e restajeno 
de stucco. No ppotevano credere che Pollanchella, la gua- 
gliona smiozella e accoppata, fosse chella eh' aveva jeitato 
chillo gruosso scuoglio. JNcopp' a cchesso, paricchie de lloro 
erano grannemente afTese , e perzò abbiajeno da capo a 
amraenacciarla e a cancariarla. 

24 — Tu, tu aje scaraazzato chillo frate mio caro, caro! 

— Tu nce aje scombinata la vista de chesta ddia de 
potecarella. . ^ ^ 

— Pecche te si' mpizzata addò no nce avive che la 

niente? ^^ , 

— Non te ne poti ve sta a lo pizzo tujo a guarda comm 

apprimma? 



25. Pollanchella se steva zitto , e se tastiava solamente 
le bbraccia che erano state pe tanto tiempo ncatenate. 

26. Li frate nfra de tanto non se potevano dà pace che 
essa se fosse scetata. Lo frate" vitturiuso s' acchiappaje na 
parte de lo ciardino de chella , dicenoo : — Tu no If aje 
cordevato. 

27. Chillo eh' aveva abbuscato, mbece le dette n' autra 
porzione de terra , dicenno : — Io no noe aggio cacciato 
niente, prova tu mo! 

28. E accessi tutte li frate accommenzajeno a mettere» 
le mmaoo int' a lo ciardino , a farle cancariate mo pe na 
cosa, mo pe n' autra, e a pretennere eh* avesse btte tutto 
io ncontrario de chello che bboleva. 

29. Pollanchella responneva arraggiata : — Pecche vuje 
ve ntrecate de lo ciardino mio ? 

Ma U frate la pegliajeno pe le bbraccia, la strascenajeno 
da ccà e da Uà e de Stratone a Stratone, e la costregnet- 
tei a Cordova lo ciardino comme piaceva a lloro , e uo 
d' aula manera. 

30. La povera peccereila ncrespava la fronte ; lacreme 
de collera le jenchevano ¥ uocchie, ma no ne' era che (&. 

31. Li frate chiù gruosse volevano ammacca chella Sr- 
bascla ; la tenevano co na mano de fierro , e 1' ammenac- 
davano co lo rommore de le ccatene. 

32. Ma feneite purzi chisto tormieqto nfernuso. Pollaa- 
chella se lebberaje , e filetto dini' a He mmontagne , addò 
nisciuno la poteva vede. Arrivata là , se jettage co la /ac- 
cia pe tteira, chiagnenno. 

33. — Oh , mamma, mamma, — alluccaje : — tu te ne 
si' scordala 'multo de me ! M' aje data n' anema de fuoco, 
penziere uobbele, e no bbello ciardino, ma no cuorpo smlozo! 
Dolore e mortefecazione so' la sciorta mia ! Si me volive 
morta, pecche m' aje fatta nascere ? — 

34. Tanno tronaje n' auti'a vota dint' a lo profunno de 
la terra , e la mamma responnette co na vociona forte e 
grossa: 

35. — Non t' aggio spallejaia nfin' a mmo ? Non senza 
pecche t' aggio fatta ricca d' ogne bbene ; non senza pec- 
che t' aggio data la bbellezza, co na lengua tanto doce, e 
co ppenziere de fuoco. Campa addonca, mprofecheja cbiena 
de forza e degnetate pe ppi*ejà a itutto lo munnO co 11' ab- 
bonnanzia de li frutte a ccofane. 

36. Tanno Pollanchella s' ajezaje a H' erta e ^[uardaje 
lonuno lontano. Stette penzarosa, e dint' a 11' uoccbie suoje 
se specchiaje la vesione de n' abbenire grannezzuso. 

Michelangelo Tancredi 



CANTI POPOLARI 

raccolti in Veglie del Leccese 

I. 

Arannu arannu cantu nu sunettu, (1) 
Arannu arannu mi pusse lu sule ; (2) 
Passau na gioine cu lu jancu piettu, 
E mi disse : Gcè stai barn lauratore ? 
lou li dissi : sta passu lu tiempu, 
Stau cantannu pi lu tu' amore 
Idda (3) rispuse pi ffare dispìettu : 
No so carusa ^i) di fere l' amore. 

U. 

Egnu a cantare piatusu piatusu, 
Pi ffare nu llamientu mpassiunatu ; 
Sai ccè ti dicu, flnescia (5) di susu 7 (6) 
Li dici a lu mia bene ca so passatu, 
Ci ti dice pircè nu so trasutu, 
Dine e' alla tumata passu e trasu ; 
Ci alla tumata passu e trou chiusu, 
Quistu è lu segnu ca m' ha bandunatu. 



11 



in. 

Passai di nu sciardinu quasi quasi, H) 
E quasi quasi si ni scfu tutl' osce ; (8) 
Issiu (9) na giuluetta e disse : Trasi, 
Trasi, gioioe mia, ca ti rripuesi 
Mi cummitaii a li mile e li cirase, 
lou pi uardare idda mancu ni uesi (10) j 
Poca (11) non buei (12) no mile e no cirase, 
Iti (13) a mpiettu mìa ca ncè do rose. 

IV. 

A sutta frunna d'amore n'arviru scersu, (14) 
A ddai nei le minai la ita mìa ; (15) 
A punta la frunna ncera n' antatu auceddu, 
Duermì, rrìposa, amore mi dida. 
Quannu mi rìspijai ddu suennu beddu, 
A mbrazze (lo) mi truai ninella mia. 
lou pi r amore tua mi fici auceddu, 
Puru (17) rriposu na notte cu tia. 

V. 

Bedda sta strittuledda (18) no ssapia, 

E mo la sacciu (19) ca so nnamuratu ; 

Intra (20) sta casa ncè ninella mia. 

Ci mi tene lu core ncatinatu. 

Si (21) uecchi ^2) nfura (23) comu V aulia, (24) 

Li ciglio rizzo (25), e lu nasu nfilatu ; 

E ci no mi piju tie, ninella mia. 

La pa' (26) mi piju e mi fazzu surdatu. 

VI. 

Olla (27) cu aggiu l' arte ci afa Irgiliu, (28) 
Annanti li i)orte tue nnucia (29) lu mare, 
E di li pisci mi iingu pupiddu, (30) 
Mmienzu a li riti tue egnu ccappare, 
E di li auceddi mi fingu cardillu 
Mmienzu a lu piettu tua lu nitu a fore 
Sutta r umbra di lì tua beddi capiddi, (31) 
Ddai egnu la notte a rripusare. 

VIL 

Bedda f amu e bedda ti prilennu, 
Bedda t' ama stu core e no ncè ngannu, 
Bedda, pi V amore tua iou au (32j a lu nfiernu, 
Bedda mi chiami e staru a lu tua cumannu. 
Ti preu, (33) rosa, li nfacci equa fore, 
Quantu t' ìsciu di la porta ssìre ^34) ; 
Chiangennu ti li dìcu do parole, 
Bedda, la notte no mi bei durmìre. 

Vili. 

Aprite porta ci stai sempre chiusa. 
Aprite porta lu friscu nei trasa (35) 
Aprite qnantu itìmu sta carusa, 
Quidda ci dae lu spiandore (36)- a la casa. 
A la sua casa non ci ole lumera ; (37) 
Lucune (38) li uecchi sua na chiara luna* 
A la sua canna (39) non ci ole catina, (40) 
Li r ha pusta di perle la furluna ; 
Ae ragione sua mamma si la mmira. 
Ci la mise e paraggiu (41) di la luna. 

Baccolse 
Attilio Demitry 



(1) Sunettu si chiama ordinariamente in dialetto qua- 
lunque canzone, prescindendo afTatto dai famosi quattor- 
dici versi. 

(2) mi tramontò il sole. 

(3) Il doppio dd si legge dr, 

(4) zitella. 

(5) finestra. 

(6) ripetizione bellissima dell' italiano su» 

(7) Ordinariamente l'espressione: quasi quasi si adopera 
per significare per ischerxo; quindi la frase: sciucamu di 
quasi-quasi , per dire : giuochiamo per scìicrzo ; ma nel 



caso presente si deve intendere cosi : andando a zonzo ; 
non sapendo che mi fare; bighellonando; oziando. 

(8) Se ne andò tutt'oggi. 

(9) usci. 

(10) neppure ne volli. 

(11) poiché. 

(12) non vuoi. 

(13) vedi. 

(14) albero incolto. 

(15) passai la mia vita. 

(16) fra le braccia. 

(17) perchè, affinchè. 

(18) vicoletto. 

(19) la so, la conosco. 

(20) Conservata la forma latina, dentro. 

(21) sei. 

(22) occhi. , 

(23) nera. 

(24) come l'oliva. 

(25) ricciute 

(26) paga. 

(27) vorrei. 

(28) Che avessi l'arte che avea Virgilio. 

(29) infinito nnàcire; portare trasportare. 

(30) Specie di piccolo pesce che si pesca nel golfo di 
Taranto. 

(31) capelli. 

(32) vado. 

(33) ti prego. 

(34) uscire. 

(35) affinchè ci entri il fresco. 

(36) splendore. 

(37) lumiere. 

(38) risplendono. 

(39) gola. 

(40) collana d'oro. 

(41) Mettere di paraggiu o a paraggiu è frase molto 
usata nel senso di paragonare ^ uguagliare . 



Come si maritano le vedove 

Lettera al Direttore 

Buonabitacolo, 5 febbraio 1884. 
Mio caro Molinaro , 

Il nome del mio paese non è nuovo sulle co- 
lonne del tuo giornale ; già da me e da Sche- 
rillo vi furono pubblicati parecchi canti buona- 
bitacolesi ; i quali , a quanto tu stesso me ne 
dicevi, non dispiacquero ai lettori del Giambat- 
tista Basile. Ora per mantenere la promessa , 
che ti feci costà , di procurarti qualche cosa ; 
lascia che ti narri di un uso paesano. Non so, 
né posso vedere qui, se abbia antecedenti sto- 
rici, riscontri in altre contrade. 

Qui, come in parecchi altri paesi circostanti, 
la sera che precede l' Epifania, si costuma da 
tempo antichissimo di andar maritando le ve- 
dove. Verso le otto pom., una brigata di giova- 
notti, pastori i più e contadini, si mette in girò 
per il paese. Alcuni di essi suonano la tòfa, 
strumento molto primitivo , consistente in una 
zucca lunga , disseccata e vuota , con due a- 
perture alle due estremità. Alla più stretta si 
accostano le labbra , e , soffiandovi dentro , si 
produce un certo suono cupo e canzonatorio , 
un po' prolungato, dal quale lo strumento prese 
la sua denominazione. 

Come la brigata giunge sotto la finestra di 
una qualche vedova, la chiama prima per no- 
me , e le dice di prendere per marito il tal 
di tale, un altro vedovo del paese, perchè può 
a lei convenire per la tale e tal* altra ragione. 



12 



Il vedovo è per lo più nominato con un sopran- 
nome ben noto a tutti, e la ragione è espressa 
con un versetto improvvisato là là , che rima 
col soprannome medesimo. Questa ragione nou 
è che lina impertinenza, o un lazzo plebeo, al- 
lusivo d' ordinario a qualche difetto d'uno dei 



cala dei versi fescennini e delle vecchie atei- 



due sposi; e tale, da ricordare la licenza sboc 

, dei 
lane. 

Detto il versetto da colui che ha chiamato la 
vedova, tutti gli altri delta bi'igata, approvando 
il marito proposto, bòciano in coro : é buono , 
è buono ! E qui tre o quattro battute di tòfa. 
Indi procedono oltre, e cosi passano in rivista 
tutte, o almeno la maggior parte delle vedove 
del paese. Lo stesso fanno con i vedovi, a cui, 
dopo di averli chiamati, dicono di prendere in 
moglie la tale, assegnandovi anche la sua bra- 
va ragione . accompagnata dalie concordi ap- 
provazioni del coro e dai rispettivi suoni di 
tòfa. 

I pili strani accoppiamenti si fanno ia questa 
notte, e spesso , quanto più gli sposi , per dir 
cosi, sono vecchi ed inetti al matrinionio, d'al- 
trettanto il motto riesce arguto e piccante. S) 
che da noi queste unioni sono passate in pro- 
verbio ; e quando fra le comari si chiacchiera 
d' un matrimonio , che per una ragione od un 
altra non può aver luogo , si suol dire , quasi 
per intercalare, alluiendo allo sposo: è buono, 
è buono, a li sei de jcnnaro ! ; perchè appunto 
in questo giorno suol cadere V Epifania. 

Un tempo, mi raccontano i vecchi, s' era in 
molti a prendere parte al giuoco, al quale tutto 
il paese si apparecchiava come ad una festa , 
in mezzo alla generale allegria. Anzi, mi dico- 
no, le vedovelle tenessero pronti i tradizionali 
li dolciume della forma di 
èie e farina, per regalarli 
essere state maritate, 
sei chilometri da noi, ho 
tuma anche oggi ; ma qui 
into non si fa più ; ma e 
jlie signorili non sono più 
i volta erano maritate tutte 
1 giuoco in generale viene 
idifferénza e la noncuran- 
muta generale per queste 
fradizionali costumanze. Anzi questi medesimi 
pochi giovanotti-, che ora, mentre scrivo, vanno 
girando il paese, mi hanno più 1' aria di mec 
canici ripetitori di usi , che hanno inteso rac- 
contare, che di persone, le qiia'i in essi sentano 
di vivere una part-i della loro vita. 

Non ho presenti i motti , che anticamente si 
dicevano, per poterli confrontare con gli nttudli; 
ma , se mi è lecito di tirare in mezzo la mia 
breve esperenza , io ricordo che , quando ero 
ragazzo, te risate di questa sera erano sincere 
e generali. Mentre oggi non veggo che indiffe- 
renza: alcuni anzi parmi s'incomincino a dirittura 
n disgustare di questa costumanza; segno evi- 
dente che 1' anima , la quale le ravvivava , è 
morta per sempre e che il mondo di giorno in 
giorno si sta facendo serio , serio , ed anclie, 
bisogna convenirne, noioso, noioso. 

Non è certo questo il luogo di discorrere le 
cause, che hanno potuto indurre questa tras- 



forniazione ; ma non voglio neanche tralasciar 
di dire , come , avendo appunto dimandato a 
qualche vecchio, che con ineffàbile rammarico 
ricordava il buon tèmpo antico , perchè oggi 
non si faccia più tutto quello, che essi una vblla 
facevano , ne ho ricevuto delle risposte , dalle 
quali ho potuto capire, che l'Agente delle lasse 
e la lunga lista di balzelli , che gravano sui 
contribuenti italiani, e schiacciano segnatamente 
i piccoli proprietari! campagnuoli , sono stati i 
becchini della vita allegra e spensierata dei 
nostri nonni. 

Scfwne Welt, too bist du ? Kehre wieder . . . 
Dove sei tu andato , o bel móndo ? Ritorna di 
nuovo . . . 

Così voglio conchiudere anch' io, con questo 
verso dello Schiller , pensando che , se tutt' i 
vantaggi, che la civiltà ed i progressi ci hanno 
arrecato , sono delle cose bellissime , un pft di 
buon umore non solo non guasta , ma è un 
elemento necessario e degno di essere anche 
preso in considerazione dagli statisti , àlrtiéno 
indirettamente, procurando di migliorare le con- 
dizioni materiali dei popoli, in mezzo alle quali 
soltanto esso si sviluppa per abbellirne la vita. 
Credimi in tanto 

tuo aff.iho 
Francesco Brandileonb 



CAUTI POPOLARI RACCOLTI A SAN CIPRIAKO PICEITII 
1. 

Quanno la verulella fa lu lietlo, 
Cu' li suspire vola le lenzola ; 
Po' se mena la mano pe' lo piello: 
— Carne genlile, come duorme Sola ? 
2. 



Cheslo II] dico a te, facda gialluta; 
r ine marito e (u muori dannato. 



II Cheslo lu dico a le, lu mare e sette; 

Tu vai a fa' 'u surdalo, e i' 1' aspello. 
IH. Cheslo lu cciinio a le, flunllo d'erba: 

Chi t' ama piii de me, lu liempo perde. 
IV. Alfàccialì ft fenesin, amante caro; 

Te voglio fa' vede' coinme se more. 
3. 

I. Fronn' 'i viola. 

Cai' 'u panare, ca ce meli' 'ti core. 
E nun te ne 'ncarrecà'. 

II. Fronn' 'i nucella. 

'A luna lieni 'mpielto e 'nfronle *a stella. 
E nun te ne 'ncarrecà'. 

III. Fronn' 'i scarola. 

lammo da 'u parrucchiano a dà' parola. 
E nun te ne 'ncarrecà . 
4. ' 
Amore mio, 'na lÈIlera ve mando, 
l^eggitevella vuie segrelamenle : 
l)in(o ce Iruverai suspiri e pianti ; 
L suggellala cu' li miei lamenli, 



Quani' acqua mena 'slu sciummo (l) segreto 
So' lulle làci-eme meie che so' ghieltate. 
Tièneme 'n core, e liènemi 'n secreto ; 
Nun me fa' 1' pe' cliest' annumminata. (2) 



iSl 



tìhi ve r ha ditto ca nun tengo amanti ? (3) 
Treie ne lengo a lu cotnanno naio : 
Uno à Salierno e' n' avuto a la Cava, 
Chillo che tengo a lu paese mìo. 
Chillo de Cava me cava stu core, 
Chillo ì Salierno me nce fa murìre. 
Ltt vuole sapere quàr è lu chiù caro ? 
Chillo che tengo a lu paese mio. 
Chillo che téqgo me lu tengo caro, 
Conio 'na testa de vasenicola; (4) 
Vasenìcola, me laccio la chiave, 
àuto nintiitlo ttìio ikccio padrone. 

7, 

Yiddi 'na donna da 'u sciummo cadere, 
Subitamente l' aiuto chiamava ; 
Lu siilo amante, ca vicino steva. 
Gomme lu. pesce, a Tonde se menava, 
Cu* chélla bionda trezza Y afferrava, 
Ciento bace d' amore le dunava, 

8. 

Vorrei vedere che potenza avite, 

Che arma prevenuta (5) vuie purtate 

Furiate nu doieboUe (b) ben guarnito 

Cu' doie palle d' oro caricato. 

Maie menate ca vuie nun culpite 

La vena de *s!u core m' hai tuccato. 

Lu sangue, quann* è asciuto 'a *sta ferita, 

Dinlo a nu carrafino è cunzervalo. 

'Ncapo de Vanno lu iammo a vere': 

Sangue d' 'u primmo ammore, m' hai 'ngannato. 

9. 

Quanno lu bello mio se riparliva, 
Prima licenza me venne a cercare : 
r le dicette : Parie, e va cun Dio, 
Nun li scordare di chi tanto t* ama. 
La mano pe' lu pietio se menùVa, 
IjSl chiave de lu core me runava ; 
Scennelte abbascio pe' serra' la porta ; 
Me venne a conzolà' la mia vicina. 

10. 

'Mmiezo a chiazza (7) e' è 'n àrbero flurilo, 
À do' vanno a spasso li 'nnammurale; 
Ce sta *na mamma cu' tre figlie zite, (8) 
Pàreno tre ruselle spampanate. 
La prinm è la seconda chiù pulite. 
La rela (9) 'stu mio core ha 'ncatenato. 
Dincello a mamma loia ca te marite, 
Nuu me facesse sia' chiù 'ncatcnato. 

Eaccolse Benedetto Croce 



(1) Sciummo^ fiume. 

(2) Son due versi, che ricorrono frequentemente nei canti 
popolari: Cosi in questo, da me raccolto, a Mugnano: 

Faccia de 'n aniello a una preta, 
Sulo cu* tico me so* regalala. 
Tièneme 'ncore e tièneme *n secreto, 
Nun me fa* i' pe* chest* annumminata. 

(3) La forma di questo canto è comune a molte Pro- 
vincie, e soltanto varia 1* enumerazione dei luoghi, in cui 
stanno gì* innamorati. Cfr. Molinaro Del Chiaro, Canti 
del pop. di Meta. Napoli, Raimondi, 1879. Canto 13. 

(4) Testay testo, vaso da fiori. Vasenicola^ basilico. 

(5) Arma preoenuéa, arma proibita. 

(6) Doiehotte o ribotto è un fucile a due canne molto in 
uso fra i contadini. È curioso vedere come qui si sia tras- 
formata r allegoria dei dardi d'Amore ; il contadino (più 
savio di certi letterati , che cantano le frecce e le ferite 
di Cupido, quando non si crede più a Cupido, né si usano 
più le frecce ) accomoda 1* immagino al suo ambiente , e 
mette la potenza d* innamorare sotto la forma allegorica 
del dolcbotté ben guurnito Cu' doie palle d*oro caricato.-^ 



Cfr. Motìnàro Del Chiaro, Canti del ^opò\6 hàt^tetano, 
iJ&g. 141, C. 89. 

Bella, ca l' uocchie tuoie so' di' scùppette, 
Mèneno scuppiettate iuorn' e notte, 
Me n* he' menata un' int* a 'stu pieitto. 
Fatta. nce 1' haie *na ferii' a morie. 
Si nu' me cride, spàccheme lu pietto, 
Dinto ce truvarraie lu tuio ritratto. 

(7) ChiaMga^ piazza. 

(8) Zite, zitelle. 

(9) Reta, V ultima. 



Canti popolari lucani 

Egregio Direttore, 

Yi mando pochi canti del mìo pae^e , giaóchè ve V ho 
promessi da pareccchio. Sono potihi, torse raccolti da altri, 
fors' anco brutti per qualcuno ; ma io ve li matfdo perchè 
veramente d'una bellezza straordinaria. 

Eccoli. 

Uocohi nigurielli (1) chiù di 'na castagna, 
Site chiù janca vui ca nu palummo; 
E da quannu ti Qci vosta mamma 
Nun si trova la para pi 'ssu munno : 
Quannu cammini la lerra cummanni, 
Cu' 'ssu bellu parlar l'aria confunni. 

1. 

Vurria sapiri chi pinzieri aviti 
Quannu m' incunlri vui arrussicate : 
Chiù russa site e chiù bella parile, 
Ca chiù a lu pieitu miu pena ini rate. 

— 'Nmienzu a 'ssn piettu avite dui ferite, 
Ch' ura pi ura vonnu rinnuvate. 

— Tannu si sanari-an' li mei ferite 
Quannu tutt" uno rormu a latu a iaiuw 

2. 

facci janca cMti di nu bìcchiei-n, 
nocchi pinti 'chiù di 'na viola, 
Fai lu cammina' lailtu liggiefu, 
Pàorti 1! stivaletti ad una soia. 
Pari la Agita di nu cavalieru, 
Pari 'na rundinella quannu vola : 
Tieni li carni toi tantu gentili, « 
Chi si curca eu' ti si gi consola^ 

3. 

Uocchi ni^ridli, (1) calàMta e gioia. 
Còmi ùun pieuzi ca mi fai murila? 
Tu m' hai l^atu cu' dui fila d' oro, 
Sempi appriessu di ti mi fai venire; 
Tu m' hai ligatu di manu e di braccia 
Cu' dui capilli oiunni di 'ssa trizzà : 
Si due ruselle che tibite *nfaccid. 
Sempi 'ncore mi sta la ba billizza. 

4. 

Cangia, cangia pinzieri e cangia vogHe, 
cilindrana mia, cllindi*anella, 
Ca mo si su' scuperte li toi 'mbroglie, 
Supi*a la tua pirsuna sì favella. 
Di ti parlan li àlburi e li ffo^lie, 
Parla la teiTa 'rtchista parte e ^nchella. 
Torna cilindranella a li toi soglie, 
À chi hai dàlu la pu^pa dai la polla. 

E basta cosi,- perchè potrebbe arrossirne quella cara fi- 
glia del popolò, che cantò queste strofe nella vastità mula 
della campagna verde. Essa cantava per divertir la menle 
dal lavoro che compiva con le bi-accia, senza pensare che 
un giorno chi V ascoltava avrebbe potuto mettere le sue 
canzoni e il suo nome in faccia all'Italia. — In (fuetti po« 
chi versi , come vedete , e' è un po' del verismo ofltemo , 



14 



che dispiacerà a qualcuno, e pel quale arrossiva, sorriden- 
do, la buona Carmela nel dellarli. Ma ciò è appunto che 
li rende più belli e iniportanti, perchè mostrano ancora una 
volta che il verismo è nel popolo , nella vita , non è già 
una creazione di Guerrini o Carducci , come ben disse il 
mio carissinto amico Mandatari nella conferenza: Inno alla 
plebe. 

E strano, ma è vero : le labbra che gustano la cipolla 
e il granoturco, cantano con più verità e dolcezza di una 
penna che scrive le strofe misurate di un cervello dotto. 

Il popolo è r etemo giovane Omero. 

Luigi Ordine 



(1) Lascio correre il verso con una sillaba di più, come 
mi fu dettato, per non cangiare la parola del popolo, ch'è 
niguri in neri. Il lettore poi non si meravigli del rapido^ 
passaggio dal voi al iu, e viceversa: è costume del popolo 
di Vibonati (Salerno) come pure di parecchi altri paesi , 
di usare le tre persone senza distinzione. 



CANTI POPOLARI SGRANI 

Questi non sono fiori di stufa 
ma naturali e spontanei ; 
felice la terra che li produce. 

Giusti 

Eccovi i a Fiondi Seloa ». La contrada che 
mi porse in massima parte queste canzoni è una 
frazione di Sora (1) per la sua postura e colti- 
vazione denominata Selva , nota pel brigantag- 
gio di Chiavone nei 1860. Non le dò tutte per 
originali : le ho raccolte dalla bocca di quei 
buoni villici, e sono andato poi aggiungendo ad 
esse quante più varianti ho potuto , perchè ne 
traesse qualche prò' la scienza comparativa dei 
canti popolari: metodo tenuto dall'egregio amico 
ScheriUo, e da lui stesso a me gentilmente sug- 
gerito. Questo ci pare sotto ogni rispetto il più 
profìcuo : le raccolte fatte sic et simpliciter sono 
lavori incompleti , i canti sono il materiale di 
uno studio, non sono lo studio. 

Esaminando la raccolta dei canti popolari 
meridionali Gasetti-Imbriani, in fuori di alcune 
canzoni di Mondragone , Maddaloni e Sessa , 
null'altro ho trovato per la Provincia di Terra 
di Lavoro. Sora è all' estremità di questa Pro- 
vincia, e confina al nord con la valle di Roveto; 
epperò i suoi canti sentono più dell' abruzzese 
che del napoletano. 

Facilmente si conoscono quelli di origine let- 
teraria, e dal contenuto e dalla lingua letterata 
che spunta sotto le forme dialettali. In generale 
si trova questo: che tutti presentano un mede- 
simo frasario erotico ; a volte lo stesso verso, 
lo stesso distico comparisce in più canzoni ; le 
appellazioni, le similitudini sempre le stesse, e 
questa specie di linguaggio poetico è invalso 
tanto che i nostri contadini , aprendo la bocca 
a cantare, e creando nuove canzoni, non pos- 
sono fare a meno di ficcarci la palma d^ amore ^ 
le triceefine , glie colore della rosa , la ghian- 
chezza della neoCy le dui! fontane *n pette , glie 
pome (T argentc : frasi che sono le stesse nel 
Toscano, nel Napolitano, nel Siciliano, dapper- 
tutto ; anzi talvolta ricordano solo le rime di 



(1) Capoluogo di Circondario , Provincia di Terra di 
Lavoro. j 



qualche canto toscano , e su d' esse fanno uno 
strano e nuovo componimento , come si potrà 
osservare; il che conforma l'opinione, che cioè 
questi contadini hanno piuttosto l'aria di raffaz- 
zonatori anziché di creatori. 

Per l'ortografia mi sono attenuto alla promm- 
zia, adossando per le vocali o ed e gli accenti 
francesi, e per l'apocope e l'aferesi, l'apostrofe. 
L'è senza' accento è muta, e l'o pure senz'ac- 
cento ha il suono di oe nasale e tali suoni han- 
no sempre queste due vocali quando non cade 
su di esse l' accento tonico della parola ; la s 
innanzi a < ha suono forte ; la d per lo più non 
si pronunzia, massime quando è iniziale, e la 
vocarte che vi fa sillab i ha un suono come se 
preceduta da h aspirata; cosi dicesi hamme per 
damme (dammi). L'articolo maschile è glie, che 
innanzi a consonante s'affievolisce in ie sfuggi- 
to , non accentuato , che allora si darebbe nel 
dialetto arpinate ; trovasi raramente le per il , 
come le pane. La o è sempre vocalizzata, pro- 
nunziandosi uoleua per voleva, chiauette per chia- 
vette ecc.. ed io 1 1 scriverò v per non rendere 
ancora più inintelligibili questi canti. 

I. Faccia de parais' addo' si' nata ? 
Tante bellizz' addo' le si' comprise ? 
Mammet' èra propia 'na vera fata, 
T' è fatta ghianca, rosela e collorita. 
'Mpetto ce tè' du' rose 'ncarnate, 

E conzemà' me vo' chesta mia vita ; 
Quanne scarterà la nostra croce 
'lam' alla chiesia allora 'nsanta pace. 

II. Auzasse glie occhie 'ncele, vedde 'na stella, 
'Mmane me cala', comra' a 'na palla ; 
Facce glie amore 'neh' (1) 'na vaglionella, 
Neh' glie occhie me saluta e n' (2) me parla. 
Té' du' beglie colur' alle mascelle, 

Glie adderà chella vocca quanne parla. 
Ma vite che te vod' ice (3), o peccerella 
Bada aglie fatte te ca n la sbaglie. 

(\) da con si fa nco o co, e poi tic* o c'. 

(2) da non si fa no" e poi n\ 

(3) Vogl* ice, voglio dire. 

III. Auzaite glie occhie 'ncele vedde 'na stella , 
Reverenza d' amore ! comm' era bella ! 
Quanne m' abbecennatt' a chella stella, 

Che sblandore me de' la donna bella ! 
Sott 'a 'ne sei tramuta 'na stella. 
Glie nome ce se chiama Rosa bella, 
E le parole sé so' menutelle , 
De 'ste contorne tu si' la chiù bella. 

Trovasi in Tigri, Canti Toscani , il primo verso : stor- 
nello N.<> 30 pag. 331. M' è riuscito impossibile spiegarmi 
il quinto verso. 

IV. Tu si' chiù bella assai che l'ore fine, 
Quanne cammine fa' glie passe chiane; 
Tu si' comm' alla rosa deglie giardine, 
Quanne te còglie m' adderà la mane. 
Già che 'mpozze (1) parlarte da vecine. 
Te manne 'ne salme da lontane ; 

Se glie amore nostre 'n è destine, 
È meglie che la morte ce se chiama. 

(1) Qua il non subisce un* aferesì e l *n che ne resta si 
appoggia tutta sulla consonante della parola seguente as- 
similandosi con r m , e cambiandosi in m innanzi al />. 

V. Donna , se vó' vede' quanta si' bella, 
Arrfzzele 'nnante jurne la matina, 

Ca prima T alba ce cala 'na stella , 
'Ncima a 'sse (1) pette té se posa e 'nchina. 



13 



Ogaiin' ognune dice : ave , eh' è chella ? 
— È la bellezza deglìe sole quanne canamina. 
'la chìglie non è sole, non è stella , 
la grazia Uà se si' bona figlia. 

(1) cotesto, da chisse sì fa *s^e 

Vedi l'analogo canta di Airola (Provincia di Benevento) 
ili Cas-lmbr., voi. I, pag. 112, canzone N.^ XXIX. 



ì 



VI. Bella, che te si* téle chisle core, 
Chessa voccuccia adderà de viola ; 
rosa, che non perde ma' colore, 

T' nrrassomiglie a 'na palomma d' ore. 
Sule 'neh' te i' voglie fa' glie amore, 
Ca 'nsi mancata maie de parola ; 
Quanne siroe arrevate alla sani' ora 
Spira r anema mia 'ncima a 'sse core. 

II terzo verso trovasi in un canto di Buonabitacolo 
( Provincia di Salerno) ed in un altro di Campagna, pub- 
blicati da Michele Scherillo. nella Rivista Minima l'uno, 
al Numero di Novembre 1880 e riportato a) N.<> 38; e nel 
Movimento letterario italiano V altro, N.** 14 , 15 Agosto 
1880 e riportato al N,® 7. 

VII. Si' chili bella tu che 'ne fiore de raunne, 
Tante lontane fa' parti' glie amante ; 

Tu fa' ferma' glie sole quanne spenta, 
E la luna ce apparisce alle novanta. (1) 
E 'mpette té' du rose congionte, 
La pena che sòflr' i' povr' amante !.. 
Àglie gerate, pensa , tutte glie muone , 
Gara, tu si' chiù bella de tutte quante. 

(1) Poi se: a levante. 

Vili. €omme se pò' fa' jume la matina 
Se non t'arrizze tu, palma d'amore? 
Quanne t' arrizze glie sole se 'nchina, 
'Mmes' a 'sse peite manna glie sblandore. 
'Mmes' a 'sse petle se legge e se scrive , 
'Sse capegliucce so' de file d' ore ; 
£ po' té' du' mascelle ghìaoche e fine, 
Chi prima le baciarrà contente more. 

IX. Me so' partule da Napol' a posta, 
E de femmene ne porla 'na lista ; 
S6' cammenate le chian'e la costa, 

'Na femmeoa comm' a te n' la s6' bista ; 

Gare compagne, non te dubbelà', 

Ga delle donne non è carastia, 

Ca n' è sbarcala 'na barca pe' mare, 

Tutle 'sse femmene fdcitele veni'. 

11 primo verso trovasi in un canto di Pomigliano d'Ar- 
co (Prov. di Napoli) — Vedi Gas. Imbr., IT, 252, IX. Leggi 
pure la variante napolitana raccolta dal Molinaro Del 
Chiaro ne' suoi « Canti del popolo napoletano » pag. 260, 
canzone N.^ 461. 

X. Auzatte glie occhio 'ncele e védde a voi. 
Glie cele de bellezza remerai ; 

Gomme me piace a me glie vostre nome, 
Gh' entre aglio petto me stampata stai ; 
Amasse 'n' aula e non amasse a voi, 
Sarrja contrarie al cele, non sarrà mai ; 
Già che la mente mia s' è ferma a voi , 
Scià (1) benedetta 1' ora che t' amai. 

(i) Sia. 

XI. À cbiste contome se trova glie solOi 
La luna semp' ecche me fa torna' ; 

Ce sta 'uà gìovenelta de bon core, 
So' resoluie de voleri' ama'. 
'Neh' nesciutf auta so' fatte glie amore, 
'Neh' te, camccla, ce glie voglie fa' ; 
Se 'nsò' contente glie nostre genetore. 
Glie facce capace colie beghe parla'. 

XII. Palazzo frabbecate de bellizze, 
Ente ce dorme la mia 'nnammorata ; 



Ce dorme 'neh' glie sole e neh' le stelle, 
'Neh' quatte stelle d' ore accompagnata. 
De chelle quatte una ne voiTia, 
Chella che tè' glie petto 'ngelesate. 
Che glie tè' 'ngelesaie 'nnanze a Dio, 
Gara brenetta mia, me fai morì'. 

Vedi il cauto di Gessapalena (Abbruzzo Citeriore) In 
Gas. Imbr. I , pag. 38 N.<> XXll ; e T altro a pag. $23 
N.o XXVII con le varianti di Nardo (Terra di Otranto). 
Vedi pure in Molinaro le varianti al N.<* 397 e. 396 pag. 
239, con le quali questo canto ha comuue li primo verso; 
nonché in Tommaseo, Canti toscani, corsi, illirici e greci 
il canto a pag. 44, N.** 7, voi. 1.® 

XIII. Gara, glie stuarde tuoi tn' ève ferite, 
A 'sse capiglie bionde me si' attaccate ; 
Le dolce parla' té m' è aggradite. 

Me sonno de tenérle seoip' aliale. 
'Ste canto mie tu, bella, pure sente, 
La voce deglie povr' amante appassionate, 
Se a chiste canto, bella, n' acconsente. 
Gara, pe' le i' more desperate. 

XI V. Gentile pastorella addò' si nata. 
Stai agile leti' e sente matetine ; 

Ohe beghe cammino che fa la pecorella 
Ya alla montagna e trova l' erva fina ; 
Che beglie volo che fa la rondenella 
Quanne sta 'ncima alla fiorita spina, 
Che beglie core che tè' la donna bella 
Quanne la donna bella s' abbecina. 

Vedi una variante in Molinaro, pag. 164 N.** 160. 

XV. Rosa , rosetta , collorita e bella , 
Rosa, che non perde ma' colore , 
Fuste chiamala 'mmes' a du' spenelle , 

E fuste còla (1) agile giardino d' amore. 
Biat' a chi se piglia ie primm' addore , 
Se m' alioccasse a 'ssa sorte bella 
Felice me chiamerà (1) a tutle l' ore, 

(1) colta. 

(2) chiamerei. 

XVI. 'Ne jorne spasseggènne aglio giardino 
Trovo la bella mia a còglie ie Aure, 

. Ne tòglie 'ne mattucce e glie addoratte, 
S' arrassomeglia propia a 'sse colure. 
Tenesse 'na belancia addò' pesa'. 
Pesarla a una 1' or' all' auta a voi : 
Se m' atloccass' a me, bella, a capa. 
Lassarla 1' or' e pigliarla a voi. 

Vedi in Gas. Imbr., voi. 11 pag. 128 la variante di Lecce 
e Caballino che comincia : 

a Quantu si bcdd' ha ca lu sole passi... » 
e le altre seguenti. 

, XVII. Ma 'uarda che so* fall' alla fortuna, 
'Mpozze trova' 'na femmena che m' ama, 
Voglie trova' 'ne mastre de petlura. 
Che me ne depinge una de legname. 

Acciò che me responne quanne la chiame. 
La voglie meli' a cap' aglio lette mie 
Se cacchedune addommanne: ave, eh' è chessa? 
—Chessa è la statua de brunetta mia. 

XVIII. Auta lu si', tu sì' aula soprana. 
Ce avete le bellezze della luna ; 
Ce avete la vostra iriccia alla romana. 
Addò' 'ncunlre glie amante glie affatturo. 
A 'sse petle ce slave du' fumane, 
Rial' a chi ce bev' alla deiune. 
Ce beve glie ammalai' e se resana 
Resùsceta glie morte 'nsepolctura. 

Vedi le varianti di Baculi (Prov. di Napoli) Cas. Imbr. 
L 136 , VII ; di Bonabitacolo , Scherillo , Rivista Minima 
N.** di Nov., segnata al N.^ 10 e di Napoli, Molinaro, pag. 
141 N.® 87 col settimo ed ottavo verso analoghi. 



(continua) 



Vincenzo Simongelu 



te 



NOTIZIE 

n. asavo bzlxx fate 

« C er& un& yqlta uq povero diavolo chs aveva fatto 
tutti i mestieri é non era riuscito in nessuno. — Un gior- 
no gli venne l' idea di andare attorno, a raccontare fiabe 
si hamblnì. Gli pareva un mestiere facile, da divertìroisi 
InctM lui- Perciò si mise in viaggio e, la prima città che 
ìhoioittrA, oòminció a gridare per le vie: — Fiabe, bambi- 
li), fiabét Oli vuol sentir le fiabel — 1 bambini accorsero 
da tutte ta parti e gli feoera ressa attorno. > Lui comìn- 
ciÀ ta fiaba della Bella addormanltda nel bosco i ma i bam- 
bini gridarono; — La sappiamo, la sappiamo I ^ E lui co- 
minciò la Ceneranfofa ; ma i tiambini gridarono:— La 
sappiamo , 1^ s.appìamo '. « E visto che era buono a rac- 
contare soltanto nabe vecchie, gli voltaroiio le spalle, e lo 
Eiantarono come un grullo. ■ Kgli successe cosi in tutte 
> città, in cui andò per spacciar fiabe. Si trovO, per caso, 
ad una fiera di fate . e lui , timoroso , andò a domandar 
fiabe; ma ne ebbe iijt risposta: — Fiabe nuove non ce n' è 
più ; se n' è perduto lo siampo. — Ma una delle Fate gli 
consigliò d'andaie dal mago Tre-PÌ che n' ha pièni i ma- 
gazzini. E lui cammina cammina , trova il mago Tre-PÌ 
e gli domanda fiabe nuove ; ma il mago gli risponde : — 
Fiabe nuove non ce n'è più. se n'è perduto lo stampo. Di 
quelle cl^ bo io tii non sapresti che fartene- E poi , ser- 
vono a me, per conservarle imbalsamate-.. Le nuove forse 
le sa unavecchia fata, Fata Fantasia; ma non vaol dirle 
a nessuno. Vive sola in una grotta e bisognerebbe andarci 
in compagnia della Bella addormentata nel bosco, di Cap- 
puccetto rosso, di Cenerentola, dì Felosina, di fulcettino 
e simil gente. Prova : fero ti dico cl^e è fatica sprecata. 
Ma lui andò , è pregò colle lagrime la fata , e ne ebbe 
tante cose strane; una focaccia, un'arancia d'oro, un uovo 

" ■" e, tenendo uno di que- 

di raccontare u'ia fiaba 
[a passò poco, e le fiabe 
fempre ; Spera di sole , 
bromo, Serpentina, Te- 
ieccaro e gridarono : — 
liei — Lui pensò quindi 
di regalare quable sue niiove fiabe al mago Tre-Pi, e andò 
a vederlo. 

— Ah, sciocco, sciocco I rispose il mago. Non vedi che 
cosa bai in manoT— Il racconta- fiabe guardò: aveva in 
mano un pu{ •■ - ' ■ " (ornò addietro scornato, e 
di fiabe non e. * Perciò si conchiude: — 

Fiabe nuov^ n'è perduto Io slampol-» 

È 1' ultima Capuana raccouta nel suo 

recente libro fc, edito elegantemente dal 

Morelli di A callo di bromo , Testa-di- 

rospo , La I» lucalo sono le nuove fiabe 

che gli ha n_ sia. e che egU ci viene a 

ivcconlare con ini' elegante semplicità dì forma, con una 
trasnarenz^ e lucidità iperavigliose, e con intonazione tanto 
fidpolare che incanta. E noi non gli rispondiamo come il 
mago Tre-Pi : non sono mosche quelle che gli restano 1» 
pugno! 

E fiabe ci racconta anche Cordelia, in una edizione il- 
lustrata splendidamente del Treves di Milano: Nel regno 
delle/ale ; e n^llaslrenoa N.alaie e Capodanno delio stesso 
editore c'6 la fi«b» Rospino raccontata anche da Cordelia. 



Il prof. AlesBimdro d' Ancona , pe)la strenna Natale e 
Co^doi^o, ha stampato un articolo: CaUndarj monumen- 
tau'delteiddi tnes-io, dove accenna nuovamente alla tra- 
dizione drammatica popolare dei Dodici mesi , di cui fu 
oggetto il Muo lungo articolo pubblicato d&W Archioio del 
Pitrè, e di cai il nostro Basite a' occupò nell'ultiino nu- 
mero dell'anno scorso. 

La strenna dei foSfi ^iXa. Ab. Pellinis Leopoldo Spinelli), 
contiene molte cose scritte in dialetto napoletano: Isso 
ed essa, duetto, (Musciomatteo); A no caoaìiere de carta, 
che toleea essere fatto Deputato. MvlUetlc [L. Chiù razzi], 
Pe diapietlo (N. Prisco), Mamma schiaoona (Pellìnis). 

Lo Cuprpo de Napoie e lo Sebelo è il tìtolo d'un piccolo 
giornale scritto in dialetto na[)Oletano, diretto dal nòtissi- 
mo scrittore Ernesto Del Preite. Il primo numero si è 
put>Ui<}ato il 12 feb^isio 1884. 



L'egregio scrittore, signor Tommaso Ruffa, badato alla 
luce un nuovo giornale dal titolo — Il Como, 

Il primo numero, scrìtto in dialetlo napoletano e lìngua 
italiana , si è pubblicato il 15 Febbraio 1884. 



Riceviamo e pubbIÌchi,amo: 

Trani, 9 febbraio 1884. 

Preg.mo Signor Molàtara, 

Debbo fare ancora uà' osservazione al prof. Rocco. Nel 

Calendario-Strenna è incorso in un errore. ^ 11> -^ Matti. 

E verissimo che in antico i pazzi venivano portati io 

bussola all'ospedale degli locnraDili , nel quale allóra era 
compresa il manicomio. E poiché la bussola in dialetto sì 
chiama seggio, sì irova usato seggio, seggia per indicare 
un pazzo , cosa da maniramio , appunto come (wgi si 
d ce Averza Averza. Quindi nel dramma sacro. Il Fet- 
nal dell' Empirò. (S. Uomoaldo). Alio III , se. 14, Ver- 
naccbio in un simile rincontro esclama a Eilà; tiemè; 8Ì 
pazzo; seggia seggia ». Cosi si spiega aiicoia il molteg- 
gia nel)' ultimo legalo che fa D. Unofno tìaleoia col suo 
Testamenio Politico. Lascia due sedie a Mioicbiello , che 
canta Rinaldo al Largo del Castello , aCQucbè i^uaudo ta- 
luno degli ascollalori domanda lu seggia, subito gli si dia, 
e seggia seggia si iraspoi'ii al luogo destinalo. 

È imo spi-oposito scrivere elle cui portava il pazzo agli 
Incurabili aveva im regalo di cento tfova, A parte la 
stranezza di fare un i-egalo a chi portava un pazzo, e più 
ancora del regalare cento uova , il prot Rocco flon si è 
accorto che la citazione del Lorenzi , da lui falla , gli sta 
contro. « Me lo ssonno Che cient'ova, e la seggia io nce 
refonno ». Chi cosi parla teme di ref'onnere le cento uova 
che darà, non di avetle in regalo. Il sonelio ad Gapasso. 
u Si tornasse a lo murmo Mosto Giorgio Co le ccient'ova, 
la rota, e U mmazee », doveva fargli comprendere che le 
cento uova cnlravano nel metodo del ^migeraio Masto 
Gioi^io. Forse questi credeva che la pazzia derivasse da 
iodebolimeuto del cervello, e per corroborarlo faceva man- 
giare al pazzo cento uova col pericolo di larlo crepare. Se 
il pazzo apparteneva a famigba agiata, questa doveva for- 
nire le cento uova. Ai poveri le somministrava l'ospedale. 
Tutto ciò si trova minutamente narrato da Biase Valentino 
nella sua Vita, premessa alfa Fmrfece [pag. 26 ediz. del 
Porcelli). Ubbriaco da ogiio santo egli l\i lascialo dai suoi 
amici alla porta ù\ sua casa : colà fu derubato, e rimasto 
sotto la pioggia nudo come Adamo. Fu creduto pazzo. 
Prosegue co'à il racconto: 

n Mezanotle era già, passaje la Guardia, 

e Co dqie detella bello pii^ecannome, 

«E me poriaje deriito a l'incorabele, 

« fi no vestilo janco me mciterono: 

« Ma quanno me scetaje fu ccliiù da rìdere, 

« Ca de li farenare paiea Cuonzolo. 

« Votaje la rota connm' a Itulie J aule, 

« Me magjnfùe le ccienl' ova comm' È ssolelo, 

«l.a poi'zione avelie de le bacoie». 
Ho sci-itio tutta questa dissertazione non volendo io 
stampare un'altra lauera, ed aoquistarou il tiulo, p il nome 
di JRoccon^astiae. 

SUQ 

Roberto Guiscuutf 

Rivolgiamo pregliler» al signori abbo- 
nati, Gbe baiino ritenuto li PRIMO maniero 
del lecondo anno del nostro periodico , di 
volerci spedire ti prezzo dell'abbonamento. 
L' A-onuinistr^^sione 

Gaetano Holinaro — Responsabile 

Tjpi Ctrlnccìo, dil Blu» & V — Largo OhUiéhpoIì, R. S9. 



ANNO II. 



Napoli , 15 Marzo 1884. 



NUM. 3* 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



•n^ 



ABB0NAHE17T0 ANNUO 



Per nulla L. 4 — Estero h. O. 

Un numero separato contesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
SI comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 1 5 d'ogm mese 



DIRETTOnE 



L. MOLINARO DEL CHIARO 



A7VEBTEìr2B 



Indirizzare vapli a, lettere^ o mwioscritti 
al Direttore IìhI^I Mollftaro Bel 
i^hiaro. 

Si terrà parola dello opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandato in dono, in doppio esem- 
plare, alia Direzione; Calau Capodi- 
chino, 56. 



HOmiAaiOt — Giambattista Basile t ( L. Molinaro Del 

Chiaro) — Tradizioni drammatiche popoìari ( V. Ca- 

. RA VELLI) — Notizie— Posta economica - Errata-corrige. 



Per tutti gli articoli è riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riproduzioni e le tra- 
duzioni. 



GIAMBATTISTA BASILE 



Più d uno, leggendo il titolo del nostro perio- 
dico, ha come don Abbondio, nei Promessi Sposi 
esclamato : — « Chi era Giambattista Basile ? » 
E ci abbiamo , più volte, udito ripetere Tinter- 
rogazio«e; e vi è sl^to chi, sul serio, è giunto 
a chiederci, se sì trattasse di un errore di stam* 
pa, e non si dovesse, invece, leggere: Brasile. 

La cosa ha deirincredibile, specialmente trat- 
tandosi di Napoletani ; ma pure è vero! Finché 
fossero solo delle donne o delle genti ignoranti... 
meno male; ma vi è nel bel numero fin qualche 
professore universitario! E questo mi- ha indotto 
non a fare uno studio (intendiamoci bene!) sul- 
l'autore del Pentamerone ; ma si bene a mette- 
re insieme queste poche notizie , se non altro, 
per non esser più costretto a rispondere a Ti- 
zio e a Caio o per risparmiare a questi signori 
il fastidio di cercare altri libri. 

E qui, chiedo scusa ai cultori di questi frut- 
tuosi stupii di poesia popolare , d' essermi al- 
lontanato, per questa volta, un pochino dallMn- 
dole del giornale ; ed incomincio. 

Non è sicuro 1' anno preciso della nascita e 
della ijiorte del Basile; anzi, per quanto io sap- 
pia , adkuc sub judice lis est. Anche riguardo 
al luogo, che gli dette i natali, non tutti vanno 
d' accordo ; ed in tanta diversità di opinioni , 
credo opportuno riportare, qui appresso, le varie 
indicazioni, che mi è riuscito rinvenire in parec- 
chi scrittori , nella speranza, che altri, più for- 
tunato di me, riesca, una volta per sempre, a 
derimere la quistione. 

In primis ^ Agostino Basile (1) lo ascrive fra 



(1) Memorie isteriche ! della terra di Giugliano | rac-» 
colte, e da^e alla luce | dal reverendo | D. Agostino Basi- j 



gli uomini illustri della terra di Giugliano, sènza 
assegnare però, nessuna ragione. 

Ed anche Lorenzo Giustiniani c'informa essere 
il nostro autore — a nato in Giugliano, in Terra 
<c di Lavoro, diocesi di Aversa, cinque miglia 
« distante da Napoli (2). • 

Il compianto Minieri Riccio scriveva : — 
« Basile (Gio. Battista) n. a Napoli , di nobile 
« famiglia, nella seconda metà del secolo XVI, 
a e fu ,conte di Torone e conte palatino. Datosi 
<c al mestiere delle armi , fu capitano di fanti , 
« nel reame di Napoli, da dove, sul principiare 
« del secolo XVIJ, dovè fuggire e riparare nel- 
« r isola dì Creta, ove fu bene accolto da' Ve- 
a neziani , che. per la sua dottrina, lo vollero a 
« socio della loro accademia degli Stravaganti. 
« Dopo aver percorso la Grecia e visitatine t 
« monumenti , passò in Calabria , poi, a Napoli i 
* e, finalmente, nella sua terra di Zungoli , in 
« Principato Ultra, dove il 20 di febbraio 1617r 
a dedicava la parte terza de'suoi Madrigali ed 
a Odi al Marchese di Trevico Cecco di Loflfre- 
« do. Ma, poiché sua sorella Adriana, celebre 
« cantatrice , era stata , fin dal 1610, chiamata 
f nella sua Corte da Vincenzo , duca di Man- 
ce tova, e tenuta in grande favore, tanto da quel 
t duca , che dal suo successore Ferdinando, lo 
a accolse onorevolmente e lo creò suo gentiluo- 
« mo. Alla fine si morì nel gennaio o nel feb- 
« braio del 1635. Fu accademico Ozioso col no- 
a me di Pigro (3). • 

Il Mazzuchelli scrìve : — « Ne' frontispìzi di 
« alcune Opere lo veggìamo intitolato Cavaliere^ 
« Conte Palatino, e Gentiluomo delVAltezjia di 
t Mantova , nelle Accademie degli Stravaganti 



le, 1 dedicate | all' eccellentìssimo signore | D. Andrea Co- 
lonna I Principe di Stigliano , ed Allianò , | Marchese di 
Castel Nuovo, | utile Signore di detta | terra Ec. Ec. | In 
Napoli MDCCC. I Nella stamperia Simoniana. | Con licen- 
za do' Superiori. | (Vedi pag, 151.) 

(2) Dizionario | geogran co-ragionato | del | regno di Na- 
poli ) di Lorenzo Giustiniani | a Sua Maestà ! Ferdinando 
IV. I re delle Due Sicilie | Napoli j 1797-1802-3 4-5. \ Volu- 
mi X. (Vedi Volume V, pagina 96). 

(3) Notizie i biografiche e biblioijrafiche | degli scrittori 
napoletani | fioriti nel secolo XVIl 1 l cognomi dei quali 
cominciano con la lettera B l per » Camillo Minieri Riccio 

I Napoli I tipografia di Raffaele Rinaldi e Giuseppe Sei- 
litto I Vico Ss. Filippo e Giacomo , n.*> 21 1 1877. | Pagg. 
XII-50. 



18 



« di Greti e degli Oziosi di Napoli il Pigro (4). » 
Aggiunge che si dilettò assai di poesia volgare 
e delle lettere aihene ; e lo loda, specialmente, 
per aver date, oltre V opere sue, alcune buone 
edizioni delle rime del Bembo, del Casa e del 
Tarsia — Riporta il catalogo delle opere di lui, 
e ne conta quattordici^ indicando pure le prin- 
cipali edizioni. Loda di esattezza specialmente 
r edizione delle Rime del Casa ecc. 

Il Quadrio lo dice — <r di chiarissimo sangue, 
« di gentilissimo tratto e d' ingegno amenissi- 
e mo (5). » Aggiunge altre poche notizie di poco 
conto, non senza qualche inesattezza. 

Il Nicodemo si ferma, particolarmente, ad in- 
dicarne le edizioni più belle e, poi, continua: — 
« non si dee tralasciare quel galantissimo ed 
ff amenissimo libretto intitolato, Vanto de li Can- 
« ti ecc. (6). » 

Il Toppi lo chiama — t Napolitano, Cavaliere, 
« Poeta, e Conte di Torone (7). » 

L' abate Galiani, dando di lui un giudizio, che 
ad altri sembrerà severo , come a me è parso 
ingiusto, scrive: — « Giovan Battista Basile Ca- 
« valiere, Conte di Torrone, e Conte Palatino, 
« e Gentiluomo a servizio di Ferdinando Duca 
« di Mantova, fu uomo di qualche letteratura , 
« e mediocre poeta Italiano (8) » eccetera, ecce- 
tera. Ma non vai la pena riierirlo per intero. 
Chi vuol leggerlo, riscontri pag. 123 — (Ediz. 
ci t. del lib. Del dialetto Napoletano. E , come 
antitodo, si legga ciò che rispose il Serio, pag. 
24,neiropuscoTetto: Lo Vemacchio. (9) 

Il Crescimbeni citando il Toppi, il Nicodemo 
e gli altri , dice solo che — « tra V altre cose 
€ pubblicò il Teagene Poema Eroico tratto dal- 
« r Istoria Etiopica d'Eliodoro (10). » 

... fc 

(4) Gli 1 scrittori d' Italia 1 cioè 1 notizie storiche , e cri* 
tiche l intomo i alle vite, e agli scritti i dei letterati italia- 
ni l del conte Giammaria Mazzuchelli bresciano. 1 In Bre* 
scia CIoIoCCLVIlI. i Presso a Giambattista Bossi ni i Colla 
Permissione de'Superiori. (Vedi voi. II, parte I, pag. 518). 

(5) Della storia 1 e della ragione 1 d'ogni poesia 1 di Fran- 
cesco Saverio Quadrio 1 della compagnia di Gesù 1 Dove 
le cose a ciascuna comuni sono comprese. I Alla serenis- 
sima altezza 1 dì 1 Francesco III. i Duca di Modana, Reg- 

fio, I Mirandola etc. 1 In Bologna, MDCCXXIX. 1 Per Fer- 
inando Pisarri , all' Insegna di S. Antonio. Con licenza 
de' Superiori. (Volumi 5. vedi il I voi., pag. 213). 

(6) Addizioni 1 copiose 1 di 1 Lionardo 1 Nicodemo 1 alla 1 
Biblioteca 1 napoletana I del 1 dottor Niccolo Toppi. 1 In 
Napoli, Per Sai vatorCastaldo Regio Stamp. MDCLXXXIIL 
1 A spese di Giacomo Raillard. ICon licenza di Superiori. 
(Vedi pag. 111). ^ 

(7) biblioteca | napoletana, | et apparato | a gli hvomini 
illvstri in lettere ! Di Napoli, e del Regno | delle famiglie, 
terre , città , | e religioni , che sono nello stesso regno. | 
Dalle loro origini,, per tutto l'anno 1678. i opera | del dottor 
Nicolò Toppi I patritio di Chìeti , j Archivarìo per S. M. 
Cattolica nel Grande Archivio ; della Regia Camera della 
Summaria. | Divisa in dve parti. | Nelle quali vengono 
molte Famiglie Forastiere lodate, e varij Autori illustrati, 
e emendati i In Napoli, Appresso Antonio Bulifon All'In- 
segna della Sirena. A sue spese | Anno CIolpLXXVIII. | 
Con licenza de'Superiori, e Privilegio. (Vedi pagina 130.) 

g) Del I dialetto I napoletano | Deus nobis haec otta fedi 
. apoli MDCCLXXIX. | Per Vincenzo Mazzola-Vocola | 
Impressore di Sua Maestà (D. G.) | Con Permissione, j 
Pagg. 184. 
(9j Lo I Vemacchio \ resposta \ alo \ dialetto Napoletano. 
(10) Cementar] 1 del canonico 1 Gio. Mario Crescimbeni 1 
custode d'Arcadia, 1 intorno alla sua istoria 1 della 1 volgar 
poesia. 1 Pubblicato d'ordine della Generale Adunanza de- 



" 






In una nota aggiunge qualche altra notizia, e 
lo ritiene benemerito della nostra letteratura , 
per le illustrazioni al Bembo, e per aver rac- 
colte e pubblicate le Rime di Galeazzo di Tar- 
sia (Napoli, 1598), che prima — • era presso che 
e sepolto nella dimenticanza. » 

Il D' Afflitto dice che il Basile è napoletano, 
ne tesse la vita è riporta un elenco di quasi 
tutte le sue opere (11). 

Il Martorana (12), da ultimo, riferisce: — e n 
« Cavaliere Gioambattista Basile, Conte di Tor- 
V rone, Conte Palatino , e gentiluomo al servi- 
« zio del Duca di Mantova, fiori in Napoli verso 
« la fine del 1500 • — e morì — « prima del 
« 1637. . 

Alcuni anni fa , trattando la questione della 
nascita il professor Vittorio Imbriani (che Dio 
conservi lungamente al bene delle lettere ed ai 
suoi cari), questi negò ogni fede al Giustiniani, 
ad Agostino Basile , e agli altri , e sostenne » 
con gran copia d'argute congetture, l'opinione 
che il Basile fosse nato in Napoli (13). 

Ed ai prof. Imbriani, però rispose Michele 
Scherilio (14), ritenendo esser Giugliano la pa- 
tria deir autore del Canto de li Canti. 

« La famiglia Basile — egli dice — è una delle 
< più antiche di Giugliano , ed in essa si sono 
e segnalati, oltre a Giovanbattista , un tal Mat- 
« teo, che fu arcivescovo di Palermo e che co- 
« ronò Carlo III , molti parrochi, ed anche una 
« donna, sorella al nostro Giovanbattista, chia- 
« mata Andreana , celebre cantatrice di quei 
i tempi. Il chiaro Vittorio Imbriani — aggiunge 
« lo Scherilio — nega che Giugliano ne sia stata 
e la patria, spinto a ciò dal non vedere in nes* 
e suna delle opere di lui nominato quel viliag- 
« gio ; e , poiché Napo i vi è nominato spesso 
« e molto affettuosamente I vorrebbe inferirne 
« che questa sia la vera patria del Basile. Ma 
€ nato in un villaggio così vicino a Napoli, non 
■ poteva credersi in tutto napolitano? » 

La questione rimase 11 ; se non che in un li- 
bro, a bastanza raro , che si conserva nell' Ar« 
chivio di San Pietro a Majella , ho rilevato 
un nuovo particolare; il quale a me sembra (se 
non m'inganno) di non lieve interesse, per la bio- 
grafia del nostro scrittore. 




rafa 1 duca di Mataluna etc. etc.) l In Venezia MDCCXXX. 
1 Presso Lorenzo Basegio. 1 Con licenza de' superiori , e 
privilegio. (Vedi voi. IV , pag. 145). 

(11) Memorie l degli scrittori 1 del regno di Napoli l rac» 
colte e distese 1 da Eustachio D' Afflitto 1 Domenicano, i 
Custode del Museo, e della Galleria de' quadri 1 che sono 
nel R. Palazzo di Capodimonte. 1 In Napoli MDCCXXXII. l 
Stamperia Simoniana 1 Con licenza de' superiori. ( Vedi 
tomo II, pajg. 68-72). 

(12) Notizie I biografiche e bibliografiche | degli scrittori 
I del dialetto napolitano | compilate | da Pietro Martora* 

na I Napoli | presso Chiurazzi editore | Piazza Cavour 47. 
I 1874 I (Vedi pag. 20). 

(13) Giornale napoletano 1 di filosofìa e lettere, 1 scienze 
morali e politiche l diretto l da Francesco Fiorentino 1 Pro- 
fessore all'Università di Napoli 1 Deputato al Parlamento 
1 compilato l dal prof. C. M. Tallarigo 1 Napoli 1 presso 
Riccardo Marghieri di Gius, editore 1 Via Roma (già To* 
ledo) 140. 1 1875. (Vedi volumeprimo, pag. 23-55+335-366 
e volume secondo, pag. 194-220). 

(14) Sageio I sulla storia letteraria | del Dialetto Napoli- 
tano I . Nel giornale letterario 11 Giovcme Scrittore, anno 1, 
num. 3# 4, 6, 7, 9. Napoli 15 Gennaio, 30 Gennaio, 28 Feb- 
braio y 15 Marzo , 15 Aprile 1878. 



19 



Questo libro tratta di Canto fermo ed è scritto 
da un tal Fabio Sebastiano Santoro (15). Dopo 
dì aver discorso della città di Giugliano, a pa- 
gina 92, vi è detto — « Quindi siccome in ogni 
« tempo viene questo Tempio — {parla della 
« chiesa di S. Sofia di Giugliano in Campania)^ 
• con grandissimo decoro frequentato per assi- 
« stere à divini offizii/così i principali di que- 
« sta Terra amano dopò morte farvi sepelire i 
« di loro corpi, che per non fastidirvi nel nu- 
« merarne le persone più illustri, dirò solamente 
« ( per lasciarlo alla memoria de' posteri ) che 
« Giovan Battista Basile, il quale compose cossi 
€ accorta, e facetamente il libro intitolato: Canto 
« deìli Cunti, giace sotto il Pulpito del medesi- 
« mo Tempio sepolto. » . , . 

Figuratevi con che piacere accolsi 1 assicu- 
razione del Santoro! Avendo determinato il luo- 
go della sepoltura del Basile, speravo trovarci 
una lapida , con qualche iscrizione, molto inte- 
ressante pel fatto nostro. Ma, recatomi, con ogni 
sollecitudine, nella chiesa di S.* Sofia di Giuglia- 
no , fui grandemente maravigliato e dispiaciuto 
di non rinvenire il minimo indizio di tale se- 
poltura. Sólo, giunsi a sapere, dai più vecchi di 
quel Comune, essere stata essa collocata sotto 
il pergamo (proprio come assicurava il Santoro) 
e che, in seguito, nel 1876. sindaco il Cavaliere 
Aniello Palumbo , dovendosi rifare a nuovo il 
pavimento della chiesa, senza alcuna discrezio- 
ne, fu tolta la lapida e buttata alla rinfusa con 
molte altre, nel giardino conliguo alla sagrestia; 
né mi è venuto fatto di rinvenirne i frantumi 
fra i moltissimi che ivi stanno. 

Pure, quest'atto vandalico non mi fé' desiste- 
re da ulteriori ricerche; almeno, ritornato in quel 
paese, potetti, in parte confortarmi della perdita 
rilevando l'epoca della morte del nostro Basile, 
dal seguente documento che ora, per primo, vede 
la luce : 

Estratto dal libro primo dei defunti della Par- 
rocchia di Sanf Anna di Giugliano in Campa- 
nia, al foglio 172: 

ANNO DOMINI 1632, DIE 23 FEBRUARII : 

Dominus Joannes Baptista Basilis ( vulgo il 
Cavalier Basile) gubernator Juliani, vitam cum 
morte permutaoit sine sacramentis , et sine eie- 
elione sepulturae; tamen de licentia RR, Capi- 
tuli Aversani, quae apud me seroatur, ejus cor- 
pus fuit sepultum in ecclesia S. Sofiae loco de- 
positi cun magna pompa funerali. 

E, qui, potrei pur dire altre coserelle ; ma è 
meglio finirla, per questa volta. Parmi , invece, 



(15) Scola I di 1 canto fermo | In cui s' insegnano faci- 
lissima, e chiare regole per ben | Cantare , e Componere , 
non meno utile, che ne- 1 cessarla ad ogni Ecclesiastico. | 
Divisa in tre libri- 1 Dal Sacerdote I b. Fabio Sebastiano 
Santoro \ Della Terradi Giugliano ; Maestro di Canto, Pre- 
fetto nel Coro della Vener. Chiesa I di S. Sofia, e Econo- 
mo della Parrocchiale di i S. Nicolò della medesima Ter- 
ra. 1 Dedicata A' i Maria | sempre Vergine I Assenta. | Con 
infine le considerazioni do Novissimi, ed altre I cose utili 
àchi spera il Paradiso | In Napoli MDCCXV. Nella Stam- 
paria di Novello de Bonls Stampatore Arcivescovale 1 Con 
licenza de* Superiori | . 



più opportuno offrire ai nostri lettori il seguente 
elenco delle opere del Basile, non senza aggiun* 
gere d'aver visto il libro del Pentamerone^ tra- 
dotto in tedesco (16); inglese, da John Edward 
Taylor (London 1848); in italiano (17) enei dia- 
letto bolognese dal celebre Eustasione per una 
delle due sorelle Chio Manfredi, che la pubblicò • 
nel 1742 sotto il titolo La Ciaqidira de la Ban- 
sola. 

Napoli, febbraio 1884. 

L. MoLiNARO Del Chiaro 

1. Le Àvventvrose | disanventvre | favola maritima I di 
Gio. Battista | Basile il pigro; j Academico slrauagante | di 
Creta. | Con licenza de' Superiori , e Priuilegio. | In Vene- 
tia, M DC XII. I Appresso Sebastiano Gombì. | 

In 12<>, pagg. 132. 

Esiste nella Biblioteca dei Girolomini con segnatura 34. 
3. 9. 

2. La Venere | addolorata I Fauola Tragica | Da rappre- 
sentarsi in Musica. | Et l'Egloghe amorose, e lugubri. | di 
Gio. Battista Basile j il Pigro. | In questa seconda Impres- 
sione aggìun- I toui vn'altra Egloga dello stesso. | In Man- 
tova , I Presso i fratelli Osanni, Stsp. Ducali. 1613. | Con 
licenza de' Superiori, j 

In 12.0, pagg^ 60 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 103. 
A. 53. 

3. Dalli I Madriprali, | et ode j di | Gio. Battista Basile | 
il Pigro I . Parte Prima. | In questa seconda Impressione in 
molti Ino- 1 ghi dal medesimo Autore emendati. | In Mane 
tova, I Per Aurelio, e Lodouico Osanni fratelli Stam. | pa- 
tori Ducali., M. DG. XIII. | Con licenza de' Superiori. | 

In 12.<>,pagg. 84. ' 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 103. 

A. oo* , 

4. Delli I Madrigali , | et Ode j di | Gio. Battista | Basile 
, il Pigro. I Parte seconda. | Mantova , | Presso i fratelli 

Osanni , Sisp. Ducali. 1613. | Con licenza de' Superiori, j 

In 12.*, pagg. 80. . _ 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 103. 

A. 53. 

5. De' I Madrigali | et delle Ode 1 del | Cavalier | Gio: 
Battista Basile | Conte Palatino | et Gentilhuomo dell' Al- 
tezza di I Mantova. | Parte Terza. | In Napoli, per Costan- 
tino Vitale 1617. | Con licenza de'Superiori. 

6. n Pianto I della ] Vergine , | di | Gio. Battista Basile 
I il Pigro I In questa seconda Impressione dal mede- 1 

Simo Autore emendata, j In Mantova, | Per Aurelio, e Lo- 
douico Osanni fratelli Stam- | palori Ducali. M. DC. XIII. 
I Con licenza de' Superiori. | 

In 12.^ pagg. 48. 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 79. 

B. 74. 

7. Rime | di | M. Pietro Bembo | de gli errori | di tvtte 
l'altre | impressioni | pvrgate. | Aggiuntoui Tosseruationi, la 
varietà di tvtte le desinenze | delle Rime. | Dal Cavalier 
Gio. Battista Basile | nell'Accademia de gli 1 Stravaganti di 
Greti , I e de gli Oliosi di Napoli | il Pigro. | In Napoli , 



(16) Der 1 Pentamerone 1 oder: 1 Das Màrcben aller Màr- 
schen l von 1 Griambattista Basile. 1 Aus dem Neapolitani- 
schen ùbertragen 1 von 1 Felix Liebrecbt 1 Nebst einer Vor- 
rede von Jacob Grimm. 1 Erster Band l Breslau l im Ver- 
lage bei Josef Max und Komp. 1 1846 ( in 16<> di XXVIIi- 
411 pag.) e Zweiter Band (di VI e 338 pagg. più duo di 
Giunte ed Errata-Corrige , Zusàtze und Verbesserungen , 

in fine al volume). ,.,.,,« 

(17) Il 1 conto 1 de* conti 1 trattenimento a fanciulli 1 Tra- 
sportato dalla Napolitana 1 air Italiana favella, ed ador- 1 
nato di bellissime Figure Un Napoli MDCCLXXXl VI, 
Presso Gennaro Migliaccio 1 Con licenza do' Superiori, 



20 



per CoslantìDo Vilale. MDGXVI | con Licenza de' Supe- 
riori. I 

In 8«, pagp. 150. 

A questo libro fa seguito là: 

8. Tavola | di tvtle le | desinenze delle rime | di Pietro 
Bembo. | Conversi intieri sotto le lettere vocali raccoUe già 
da I Tomaso Porcacchi. | Or in miglior ordine disposte dal 
Caualier Gio. Batti- 1 sta Basile. | In Napoli, | Per Costan- 
tino Vitale. M. DC. XVlI. \ Superiorum permissu. | 

In S^, pa^g. da 151 a 260. 

Esiste nella Biblioteca dei Girolomini con segnatura 

9. Rime | di | Galeazzo di Tarsia | Nobile Cosentino. | 
RaccoUe dal Cavalier Basile | NeirAccademia degli Otiosi 

I il Pigro. I In Napoli 1617. | Per Gio. Domenico Ronca- 
gliolo. I Con licenza de'Superiori. 

10. Rime I di M. Giovanni | della Casa. ( Riscontrate co' 
miglio- I ri originali, e ricorrette. | dal Cavalier j Gio: Batti- 
sta Basile I In Napoli, | Per Costantino Vilale. M. DG. XYUI. 

j Con licenza de Superiori. | 

In 8^, pagg. 102. 

Esiste nella Bibfioteca dei Girolomini con segnatura 34. 
4. 51. 

li. Osservationi j intorno alle rime ] del Bembo , e del 
Casa. I con la tavola delle desinenze | delle Rime, e con la 
varietà de' testi nelle \ Rime del Bembo | di | Gio: Ballista 
Basile 1 Caualiero , Come Palatino. | Et gentilbvomo deir 
Altezza di Manloua. | NeirAccademia de gli strauaganli di 
Greti. I Et de gli Otiosi di Napoli | il Pigro. | In Napoli , 
I Nella Stamperia di Costantino Vitale, MDGXVIII | Con 
licenza de' Supei'iori. | 

In 8*^, pagg. 512 con 6 pagine avanti e 4 dopo innu- 
mera te. 

Esiste nella Biblioteca dei Girolomini con segnatura 
344-51). 

12. Imagini | delle piv belle | Dame | napoletane. | Ri- 
tratte da lor propi Nomi | in tanti Anagrammi. | Dal Ca- 
valiero Gio : Battista | Basile | Conte di Torone | Accad. 
Otioso. In Mantova 1624 | Con licenza de' Superiori. | 

In 12.*, pagg. 94. 

Fa seguito a questo libretto: 

13. Anagrammi | del medesimo | fatti a diversi. | 

Senza frontespizio, di pagg. 50. 

Esistono nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 
80-A.26. 

14. Ode I del Cavalier | Gio. Ballista Basile 1 Come d 
Torone, e Gentil | huomo dell'Altezza di | Mantoua. | All' 
Illustriss. e Eccellenliss, Signore, I il Signor D. Antonio | 
Alvares | di Toledo, e Beaumonte, | Duca d'Alba, e d'Hue- 
sca, Conte | di Lerin e di Saluaterra, | Marchese di Coria, 

I Caualier dell'Ordine del Toson | d^Oro, del Consiglia di 
Stato, I Viceré, Luogolenenle, e Capitan 1 Generale nel Re- 
gno di Nap. I In Napoli, Per Gio. Dtiico Roncagliolo | Con 
licenza de Superiori. 1627. | 

In 12.0, pagg. 224. 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segaatura 
8l)-A-26. 

15. Sacri I sospiri | Madrigali | del cavalier j Gio. Bat- 
tista I Basile I Conte di Torone , | et capitan di fanti | nel 
regno di Nap. [ In Mantova, | Per Ludouico, e Aurelio 0- 
sanna [Stampatori Ducali. 1630 1 Conlicenza de' Superiori. | 

In 12.^ pagg. f»0. 

Esiste nella Biblioteca Brancacciana con segnatura 
SO-À. 26. 

16. Epitalamio | Alla M. Sereniss. | di | D. Maria d'Av- 
stria [ Reina dTngaria. | del.| Cau. Gio. Battista Basile | 
Conte di Torone. j 

In 8.** Sono 28 pagg. senza numerazione. 
Esiste nella Biblioteca Nazionale di Napoli con segna- 
tura 112-M.lO. ^ ,. . XT , - 

17. Monte Parnaso | mascarata | da Caualien Napoleta- 
ni I Ali M Sereniss: | D. Maria D'Avstria | Reina d' Voga- 
ria. 1 Rappreseniata 1 In Napoli | 1630. | 

Esiste nella Biblioteca Nazionale di Napoli, con segna- 
tura 112-1\M0. , . ^ rw, ,. n 

In fine al libro vi h legge: Imprimatur. F. Tamborellus 

V. ò. 

Il nome del Basile leggesi in principio dell' opera. 

Sono 30 pagg. senza numerazione. In 8.^ 



i 



18. Teagene, | poema | del cavalier Gio. Battista Basile | 
napolitano, conte di Torone. | Ali. EminStmo | et Rev.mo 
Sig.re I II Sig.r Card.le | Antonio | Barberino | In Ronoa 
Appresso Pietro Antonio | Facciotti. Con licenza de' Supe- 
riori I L'anno MDCXXXVII. 

In 4.^, pagg. 406 e 14 ionumerate avanti , con ritratto 
bellissimo. 

Esiste nella Biblioteca dei Girolomini con segnatura 
(34-6 28). 

19. a) Il Pentameronc | Del Caualier I Glovan Battista Ba- 
sile, I Ouero j Lo cvnto de li cvnte | Trattenlmiento de li 
Peccerille | di Gian Alesio Abbattvtis | Nouamente restanì- 
pato, e co tutte | le zeremonie corrietto 1 Air Illustrissimo 
Sig. e Padron. Oss. | il signor | Pietro Emilio Gvaschi | 
Dottore delle leggi , e degnissimo 1 Eletto del Popolo j 
Della Fedelissima città di Napoli- | In Napoli. Ad istanza 
di I Antonio Bvlifon Librara| All' Insegna della Sirena 
M. DC. LXXIV. I ('on licenza de' Supeiwi, Priuilegio | 

In 12.^ Comincia la numerazione a pag. 7 e termina a 
pag. 634 con 18 avanti e 2 dietimo innumeratc. 

Esiste nella Biblioteca Nazionale di Napoli con segna- 
tura XLl. E. 124. 

b) Il Penlamerone | Del Caualier | Giovan Battista Ba- 
sile I Ouero I Lo cvnto de li cvnte | Trattenemiento de li 
Peccerille | di Gian Alesio Abbattvtis | Nouamenle restam- 
pato, e co tutte I le zeremonie corrietto | Al Illustrissimo 
Sig. e Padron. Coli. | il signor | Givseppe Spada | In Ro- 
ma, M. DC. LXXIX I Nella stamperia di Bartolomeo Lu- 
pardi I Siampator Camerale, i Con Licenza dé'Soperiori. | 

In 12®, pagg. 633 e 10 avanti e 3 dietro Innumerate pos- 
seduto da me. 

e) Il Pentamerone | del cavalier | Giovan Battista Ba- 
sile I overo I Lo Cunto de li cunte | Trattenemiento de li 
Peccerille i di Gian Alesio Abbattutis. | Tomo I. | Napoli 
MDCCLXXXVIII. j Presso Giuseppe-Maria Porcelli | Con 
licenza de' Superiori. 

In 12». i^agg. 371 il 1» volume, e il 2® di pagg. 348. 
Posseduto da me. 

d) Il I Pentamerone | del Cavalier 1 Giovan Battista Ba- 
sile, I Overo I Lo Cunto de li cunte j Trattenemiento de li 
Peccerille j di | Gian Alesio Abbattutis. | Novamen'e re- 
stampato , e co tutte 1 le zeremonie corrietto. | A Napole 
MDCCXXVIII. I A spese di Jennaro Muzio. | Co Lecienzia 
de li Superiure. | 

In 12.» Comincia la numerazione a palg. 5 e termina a 
pag. 510, con 8 pag. avanti e 3 dietro innumerate. 

Esiste nella Biblioteca Nazionale di Napoli con segna- 
tura XLL E. 123. 

e) n I Penlamerone | del cavalier | Giovan Battista Ba- 
sile , I overo I Lo Cunto | de li cunle | trattenemiento | de 
li peccerille | de | Gian Alesio Abbattutis | Nchesta utema 
'mpressione , corrietto 1 co tutto lo jodizio. | A Napole 
MDCCXLIX. I A la Stamparia Muzejana | co la licienzia 
de li superiure. 



In 12.^, Comincia la numera/ ione delle pagg. a pagina 5 e 
termina a pag. 453. don 16 pagine innumerato avanti. 

Esiste nella Biblioteca Nazionale di Napoli con segna- 
tura XLI. E. 122. 



TRADIZIONI DRAMMATICHE POPOLARI 

I. 

Non è per fare della polemica con l'insigne prof. D'An- 
cona , tanto profondo in siffatti studi di drammatica e let- 
teratura popolare, o col chiarissimo e cortese dott. Michele 
Scherilio, che negli stessi studi va dando prove non dubbie di 
non comune valore. Dio mi guardi! Se ardisco prender la 
penna e replicare al noto articolo del primo (1) e all'altro 
più recente e benevolo del secondo, inserito nel n* 12, a. I. 
di questo periodico , gli è per rimettere la quistione alle 
sue origini e per fare , a un tempo , qualche ipotetica os- 
servazione alle ipotetiche opinioni messe fuori da loro. 



2i 



Lo Scherillo, dunque , più di due anni fa (2) , scriveva 
che « la Commedia dell' arie vive ancora quasi integral- 
nienle a Napoli » ; ^ i dopo aver domandalo se la coinci- 
denza d'uno scenario di Flaminio della Scala con una scena 
da lui osservala sulla via nella detta città, « potrebbe mo- 
strare una tradizione ancor viva nel popolo napolitano di 
alcuni'degli scenarii che più dovettero piacere », soggiun- 
geva : « E non credo che questa tradizione viva esclusiva- 
mente a Napoli. Forse, ricercando, noi la troveremmo ancor 
viva in fondo alle nostre provincie, ecc. » — Badiamo che 
si trattava della Commedia leirarte integralmente esistente 
in Napoli, e poi della tradizione di alcuni scenarii nel po- 
polo napoletano propriamente detto e in quello delle nostre 
Provincie. Ne avvenne che il Simoncelli cercò e trovò, io 
cercai e trovai, e pubblicammo così due varianti della rap- 

[)resentazione carnevalesca I dodici Mesi (3), egli in dia- 
etlo sorano, in calabrese io, per convalidare coi documenti 
l' ipotesi del nostro egregio amico. Successe il patatrac. 
Il Professore di Pisa, da quel riccone sfondolato che è, ci 
scaraventò addosso* come si conosce, un dotto articolo della 
bellezza di 32 pagine, con tutti i raffronti possibili a quei 
nostri modestissimi Dodici Mesi , venendo a conchiudere 
(ohimè, come allungammo il naso!) che il documento da 
Boi pubblicalo e altri di simil genere, « più che colla Com- 
media dell' arte y vanno essi ricongiunti colla drammatica 
plateale e più specialmente colla foKina molto diffusa tra 
le plebi del Conti-asto ». 

Tutto ciò sarà verissimo, ma non è superfluo ricordare 
che noi intendevamo parlare d'una tradizione della Com- 
media deir arte, d' un' abitudine conservala dal popolo , il 
quale sempre imperfetto nelle sue cose, non avrebbe potuto, 
poiché quella forma di drammatica nazionale era morta , 
seguitarne gV intendimenti e Tesecuzione rigorosa. 1 nostri 
attori sono bifolchi, contadini, operai, che lasciano il vin- 
castro, la marra e il piccone per camuffarsi semel in anno 
con cenci rossi e gialli e fare pei chiassuoli la loro pap- 
polata. Sono forse degli attori regolari, gente, come si dice, 
del mestiere, capace d'improvvisare sopra un intreccio sta- 
bilito, sopra uno scenario? — Guardiamo che fanno i bam- 
bini con le marionette. Essi s' ingegnano di riprodurre ciò 
che hanno visto e inteso al teatro , restando a loro arbi- 
trio di modificare ogni cosa come il capriccio delta sul 
momento, né più né meno come accade nelle rappresenta- 
zioni di cui si discorre , nelle quali ogni pei^sonaggio , a 
seconda del proprio spirito, aggiunge o toglie qualcosa alle 
parole imparate e gestisce a suo talento. Se ciò non avve- 
nisse, non si saprebbero forse spiegare le differenze tra una 
i*appresentazione e l'altra, e in questa dei Dodici Mesi, a 
proposito, non si comprenderebbe perché le molte varianti 
del Vigo, del Bernoni, dell* Ive, del Corazzini, del Simon- 
celli e la mia , pur serbando una somiglianza di fondo, 
differiscano negli accessorii, nel ritmo e nel metro, pedino. 

U illustre autore delle Origini del Teatro in Italia 
afferma, Y abbiamo visto, che tali componimenti si ricon- 
giungono con la drammatica plateale e con la forma del 
Contrasto. Io non so se la drammatica plateale sia una 
cosa a parte o non debba piuttosto considerarsi — e lo 
dicono quelli che si occuparono delle origini delle rappre- 
sentazioni — come la forma più rudimentale di tutta la 
drammatica ; poiché , in questo caso , rientrando la tradi- 
zione di cui intendo parlare nel campo permanente della 
drammatica plateale, né l'egregio Sicnoncelli né io avrem- 
mo detto, a esser giusti, un'eresia allorché, per sostenere 
l'opinione del disertore Scherillo, affermammo doversi scor- 
gere nella rappresentazione dei Dodici Mesi una remini- 
scenza della Conjmedia dell'arte. Quanto poi al Contrasto, 
al quale si mostra avverso anche lo Scherillo, mi permetto 
osservare che nei documenti in parola non si nota, se ben 
vedo, nemmeno l' intenzione « di rappresentar le proprietà 
opposte delle cose » ; poiché tra i Slesi non v' é contrasto 
di sorta , ma semplice enumerazione delle qualità e delle 
attitudini personali nella prosopea assunta da ciascuno. 

Pare, dunque, che al 13' Ancona , per dimostrare il suo 
asserto, bisognino ragioni ben più serie e convincenti che 



non siano quelle contenute nel suo eruditissimo e pregevole 
lavoro. Il quale si chiude senza toccare — e con intenzione 
determinata , si vede — la quistione proposta dallo Sche- 
rillo e accarezzata dal Simoncelli e da nte , e con un ac- 
cenno alle grandi difficoltà di provare « quanta eÌBcacia la 
rozza drammatica dei trivj, anche risalendo dietro alle A- 
tellane possa aver avuto alla formazione della Commedia 
dell'arte. » 

li. 

Venghiamo al doti. Scherillo. 

Egli ora, lasciando noi nelle peste, « crede, col prof. 
D' Ancona , che la rappresentazione de' Dodici Mesi non 
possa collegarsi alla Commedia dell'atte », e mette avanti 
una ipolesi che chiediamo permesso di riportare per intero. 

Dopo aver notato che il prof. V. De Amicis non ha fin. 
oggi dato le prove promesse per dimostrare la derivazione 
della Commedia dell' arte della commedia popolare lati- 
na (4), si domanda : « Ora , le rappresentazioni carnevale- 
sche, che noi troviamo ancora in fondo alle nostre Provin- 
cie , non potrebbero essere appunto la reliquie ancora vi- 
venti ùé\y Atellarui ? Non potrebbero coleste forme primi- 
tive di drammi , salvale da ogni influenza letteraria dalla 
lontananza delle grandi città , indicarci quale sia stata , 
generalmente, la commedia popolare. del Medioevo? Nel 
popolo, specialmente in campagna, la tradizione è mante- 
nula fedele; e molte di codeste forme drammatiche conta 
d inesche potrebbero essere la ripetizione d'un' antica (arsa 
osca, passata attraverso a' secoli di mezzo. La commedia 
delVarte potrete essere stala generata appunto da coleste 
farse rusiicali. » 

L' ipolesi , non v'é che dire, é acuta e ingegnosa ; però 
non mi sembra affatto invulnerabile. 

Per ciò che riguarda il De Amicis e le prove messe in 
dubbio, non fo che copiare alcuni brani d' una importante 
leltera del 13 gennaio che il chiarissimo professore si be- 
nignò mandarmi in risposta a una mia, direttagli giorni 
prima. Mi dispiace di non poter inserire tutta la lettera : 
la mancimza dello spazio e la natura di questo scritto non 
me Io permettono. « ... In un altro lavoro — cosi scrive — 
vorrei dimostrare che le tradizioni di questa commedia 
popolare ( la latina ) non sono state mai interrotte , e che 
sello varie forme continuò durante il M. E. — sicché non 
debba sembrare cosa strana il vederìa poi risorgere sotto 
altra foggia nella commedia dell'arte. In una parola, io credo 
che la commedia popolare, o, per meglio dire, quelle spe- 
cie informe di rappresentazione drammatica che e' era nel 
M. E. , sìa stata una continuazione o trasformazione , che 
dir si voglia, dei Mirai e delle AteHane. Questa mia affer- 
mazione non potrà essere certamente convalidata con do- 
cumenti uffiQiali , ma con prove , per dir cosi , indizia- 

rie — Ho cercalo di' raccogliere tutte le notizie che si 

hanno intorno alle rappresentazioni popolari nel M. E«, agli 
istrioni medievali, saltimbaYhchi ecc. , gli accenni che se 
ne fanno dai diversi scrittori sìa profani , sia religiosi , e 
specialmente quel che ne dicono i decreti dei concilii e i 
Padri della Chiesa nelle loro invettiva contro il le: tro. Ora 
dal modo come in tutte queste opere se ne parla, a me par 
chiaro che quelle rappresentazioni erano una continuazione 
della commedia popolare latina conservatasi per tradizione 
nei suoi caratteri principali... —Io non pretendo punto so- 
stenere che le atellane ed i mimi esistevano nel M. E* 
tali e quali erano in Roma ai tempi di Augusto , ma che 
qualche traccia se ne conservò sempre nel M. E., qualche 
carattere di essi rimase nelle informi rappresentazioni o 
farse medievali , dalle quali si sviluppò poi la commedia 
dell'arte... » — 

Quesia risposta chiara ed esplicita, che ben può andare 
senza comenlo e per quanto riguarda chi la, scrisse e per 
quanto dirò io in seguito , mi fu poi riconfermata e am- 
pliata col vivo della voce dal cortesissimo e modesto prof. 
De Amicis, il quale si compiacque mostrarmi perfino le sue 
notizie, i suoi appunti, e leggermene qualcbeduno. D'altronde 



22 



il lavoro, a cui s'allude nelle prime parole riportate, vedrà 
la luce, come mi ha scritto e ripetuto, nel corso deiranno; 
e allora vedrenfò dimostrate le cose di cui ora egli fa 
cenoo. 

Per copto mio , ecco ciò che osservo alla ipolesi dello 
Scherillo. 

Se è vero che una drammatica plateale, presa nel senso 

Eiù largo della parola , sia sempre esistita da' tempi più 
ui della storia e della storia letteraria fino ai giorni no- 
stri ; (5) se è vero ctie essa, secondo l'indole dei divedi po- 
poli e gli stadi diversi del proprio cammino , abbia costi- 
tuito la base delle forme drammatiche letterarie più cono- 
sciute , mi sembra non si possa negare la influenza delle 
dette forme sulla graa massa del popolo, autore, attore e 
spettatore delle rozze primitive rappresentazioni e delle suc- 
cessive. Mi servo d'un accenno storico. Dalle feste Bacchi- 
che, Dionisiache si passa ai fescennini e alle sature^ le 
quali, da persone che se ne interessano di proposito, ven- 
gono mescolate coi ludi scenici e poi modificate all' uso 
greco che si smetterà poco dopo. Subentrano le AtellanCf 
poi i Mimi; e il popolo che aveva, da diversi paesi, for- 
nito tali nuovi generi, viene a ricevere, attraverso il succes- 
sivo e regolato svolgimento delle diverse forme , per la 
chiara influenza del grande sul piccolo, del nobile sul vol- 
gare, delle continue modificazioni ai vecchi usi drammatici. 

Ciò che dico è cosi evidente e costante nei fatti umani 
che jion e' è bisogno, parrai, d' altre parole per convalidar- 
lo. È legge di progresso. In ogni cosa , il fondo rimane , 
anche poco visibile, sempre quello : ciò va da sé; ma gli 
accessorii variano col tempo e si modificano neir ambiente, 
nella drammatica in modo specialissimo, che riproduce co- 
me specchio gli u^, i costumi, la vita, insomma, del tempo 
e de' luoghi in cui si svolge. 

Or, domandiamo, come poteva VAtellana serbarsi quasi 
intatta lungo il cammino di tanti secoli burrascosi, e arri- 
vare fino ai giorni nostri senza risentire l' influenza del 
dramma religioso e poi della Commedia dell' arte ? 

Se questa fosse stata una cosa aulica, aristocratica, meno 
male. E , a questo proposito , mi fa meraviglia come il 
D' Ancona , nel più volte citato lavoro , asseveri che se la 
Commedia dell'arte « può dirsi forma nazionale del teatro, 
non può però defluirsi forma popolare, almeno nel suo pieno 
svolgimento quando ebbe codesto nome e lo portò glorioso 
sulle scene di tutta Europa. » Mi perdoni l' illustre uomo 
con la benignità d' un maestro verso il proprio discepolo , 
ma io non comprendo quest' hoc , ergo propter hoc. Che 
e' importa a noi che la Commedia dell' arte si dica nazio- 
nale nel suo pieno svolgimento, se , come e' insegnano lui 
e gli altri valorosi che ne hanno tessuto la storia , quelle 
speciali compagnie di attori intelligenti che la coltivarono 
e la resero tanto celebre in Italia e fuori, l'avevano preso 
appunto dal popolo , vecchio e geloso custode della più 
schietta forma drammatica (6)? Era o non era popolare e na- 
zionale, come vuol dirsi, se, con la sola guida del po^lo, 
ha a riannodarsi alla commedia osca e risalire su su flno 
al contrasto? 

La quistione è soltanto nel nome : 1' aggiunto dell' arte 
si diede alla vecchia commedia quando passò nelle mani 
degli attori di mestiere, i quali, allargandola, modificandola 
e creando nuovi caratteri , ne fecero un artificio e ne ri- 
produssero più volte le stesse scene. Ma era tanto popolare 
che è risaputo com' ella si svolgesse non curata , disprez- 
zata, accanto alla commedia classica fino ad avere il jpre- 
dommio e generare l'opera in musica , l'opera bulTa (7) e 
la commedia Goldoniana. Il popolo, dunque, qualche cosa 
doveva saperne, e certo n^ divertimenti carnevaleschi, al- 
lorché essa decadde o sparve del tutto, si dovè pi'ovare a 
riprodurre alcune rappresentazioni più facili e applaudite , 
le quali, con processo contrario a quello degli attori rego- 
lari, venivano ridotte, modificate e deturpate con espressioni 
sconce e lubriche addirittura, più di quello che per avven- 
tura non fossero. 

Io non mi so persuadere come , pubblicato quel povero 
documento — I dodici Mesi sotto l' aspetto di semplice 
tradizione della Commedia dell'arte, si sia voluto sollevare 



^wm 



una quistione, lasciatemela dire, bizantina, sebbene feconda 
indirettamente d' ottimi risultati. Un critico dell' acutezza , 
della serietà, della dottrina del D'Ancona ti mette innanzi 
la forma primissima della drammatica, il contrasto (8), e un 

S;iovane del valore dello Scherillo ti stabilisce la perpetuità 
eWAtellana , senza volere por mente alla forma ultima, 
tanto vicina e tanto accetta al popolo , la Commedia del- 
l' arte , che racchiude in germe il contrasto e si ripiega 
snWÀtellana e sui Mmi. 

D' altra parte , che la nostra contrastata opinione sulla 
tradizione nelle Provincie meridionali della Commedia del- 
l'arte, possa ancora esser sostenuta da qualche prova non 
leggiera , lo affermo pubblicando qui appresso un docuT 
mento originale raccolto da me in Rogiano, comune della 

Srovincia di Cosenza, patria, vedete il caso, di Giavincenzo 
fravina , il fiero bersagliatore del teatro classico de' suoi 
tempi , colui che piacevolmente esortava gli autori a glo- 
riarsi <c per aver saputo inventar commedie senza rìso , e 
tragedie senza dolore (9). » 

III. 

Siamo di carnevale. Da una casettina a uscio e tetto, da 
una stalla qualunque , intorno a cui fanno ressa i monelli 
del paese, sbuca tutto saltellante al suono della zampogna 
un Pulcinella , che si trae dietro, a coppie, diciotto o venti 
persone, vestite goffamente da uomo e da donna con abiti 
a colori vivaci e di divei'se fogge, chi con maschera e chi 
impiastricciato di nero o di bianco , con barbe posticce e 
parrucche stranissime. Quelli mascherati da donna portano 
ordinariamente un ^ejo bianco sulla faccia. La comitiva in- 
cede maestosa per le vie , pe' vicoli , in mezzo alle grasse 
risate, e ai motteggi dei curiosi terrazzani e delle femmine 
ammucchiate su per le scale, pei pianerottoli, per le fine- 
stre. Come giungono a una piazzetta, il Pulcinella descrive 
con la mano in aria torno torno un cerchio. La gentuccia 
accorsa si dispone in giro, e s'assiepa e si pigia e si schiac- 
cia oer lasciar libero lo spazio alle persone mascherate , 
ai frazzanti (10), rimasti fuori del cerchio, i quali debbono 
recitare 'a cumwmdia, 

'A farsa d' 'u Capitanu e SabiUina (li) 

I personaggi , di cui faremo subito la personale cono- 
scenza , sono : 1 . il Capitano * 2. un Sergente ; 3. una 
Vecchia contadina ' 4. Isabellina, figlia di lei; 5. un 
Merciajuolo ; 6. Elia , pastore , fratello d'Isabellina ; 
7. un Medico ; 8. uno btovigliaio ; 9. uno Speziale . 
10. una Zingara; otto o dieci comparse. Sono tutti ca'. 
muffati stranamente, ciascuno secondo il proprio mestiere.* 
Il Merciajuolo regge la sua cesta di merceria , il Medico 
porta un librone, lo Stovigliaio due pitali {càntari in dia- 
letto, e perciò lo Stovigliaio mastru Cantararu), lo Spe- 
ziale un mortaio di bronzo col pestello , la Zingara una 
gi^ticola, una mestola e uno spiedo. Gli attori entrano a 
volta a volta da una parte del cerchio a recitare la loro 
parte abbastanza pornografica. 

Ecco intanto genuine genuine le parole della rappresen- 
tazione dettatemi da un contadino col nomignolo di Zirru^ 
uno dei meglio informati di cose carnevalesche , il quale 
avrebbe messo le mani nel fuoco per assicurarmi che <c ssi 
farsi li fadanu V antinati nuostri ». 

Capitanu 

{si presenta da par suo, con la testa eretta, il petto spor- 
gente^ il passo grave. Volge attorno V occhio minaccioso 
e grida:) 

Tutti quanti trimati e stati attienti ! 
Lu nuovu Capitanu è in chistu statu, 
Chi tiegnu surdati, ministri e sargenti: 
Tutti ccu duppii mi l' haju cumpirati. 

Sargentu 

(si fa innanzi con le mani indietro, cincischiante , con 
taria di chi ne ha conchiuso una guappa davvero.) 

B ppi rìgalu a mia nu nei sta nenti? 



23 



Gapitanu 
Te', cbisia è 'na burza (12) di dinara. 

Sargentu 

{prende la bùrsa^ s'inchina, e accenna alT entrata.) 
Sulu la Vecchia ti veni a prigarì. 

Vecchia. 
(s'avanga tutta inchmi e salamelecchi.) 
BoDiruvatu, signuru Gapitanu. 

Gapitanu 

Bonavinuta, zia vecchia mia. 

Vecchia 

Avia 'na figliulina cumu *d' uovu (13): 
Avia ra via larga e mo* Y ha strilla (14), 
Avia ra gunnella longa e mo' la curta. 

Gapitanu 

Impurmazioni non puozzu pìgliarì, 

Si no' ra maoni a mia quantu ia pruovu. 

Vecchia. — {acconsente e s'inchina) 

Stativi buonii, signuru Gapitanu. {esce,) 

Gapftanu 
Stativi bona, zia vecchia mia.-, 

Sabillina 

{s' avanza ritrosa con tante smancerie.) 
Buonu truvato, signuru Gapitanu 
Mamma si cridia chi buliasi, 
E mi vQlia mannari di stanotti. 

Gapftanu 
Bonavinuta, Sabillina mia : 

{avvicinandosi ad accarezzarla) 
Gcu ttia stanotti vulera guduri. 

Sabillina. — {come sopra) 

Sta cosa no' ra fazzu, mara mìa (15) ! 
Ca ccu ri manu mia pigliu la morti. 
Tiegnu 'nu fl*ati chi si chiama Alla, 
Di mia e di tia ni h cientu stozza (16). 

Gapitanu. — {motteggiando) 

Nua ci facimu 'na maglia ccu fraschi, 
Fraschi d'alivi e frunni di finuocchiu. 
Lu facimu passari supra ad illa (17), 
E nua ccussì ni gudimu ogni notti. 

Sabillina 

Dunami ticienza, signuru Gapitanu : 
Haju iassatu la chiavi a ra porta 

{Fa per uscire, ma si sofferma alle voci allegre e romorose 

del Merciajuolo che s'avvicina) 

I 

Marciarulo 

Azza ! spinguli ! zigarelli ! (18) 
E acura spuntati 
Ppi ri fimmini maritati! 
Azza! spinguli I... 

Sabillina 

Marciarulo i marciarulo ! 
Ghi merciaria aviti ? 

Marciarulo. — {entrando:) 
Tutti li cosi chi cumannati, signura mia. 

Sabillina 
Quantu luma (19) mi d^i ppi tri grana ? 



Maroarulo 
Ppi quantu m' avvìcinu stu virguni (20j. 

Sabiluna. — {cotne spiritata) 

Alia ! Alla ! Alla ! • 

Arranca (21), Alla, ca m' ha sbrigugnatu 

Siu marciarulo sbrigugnatu... 

Alta 

(irrompe furiosamente e picchia col vincastro 

il Merciajuolo.) 

. A ra mia surella ?... A ra mia surella ?... 

Marciarulo. — (aitastandosi e lamentandosi.) 

Arrancati, mjedici e artiscìanì, 

Ga chissu 'o' m' ha Iassatu n' uossu sanu. 

(accorrono tutti.) 

Miedigu 

In sugnu mìedicu e artiscianu : 

Ugnunuchi leni 'a guallara (22), ci la puozzu sanarì. 

Gantararu. — (acclusa.) 

In siiguu mastru cantararu, 
Saccìu fari li càntari fini ; 
E ognuno chi non po' cacari 
Gì mintimu la midicina. 

Speziali 
(percotendo col pestello U mortaio.) 

Tiegnu' na radichella 'ntra 'sti manu, 
L' haju truvata a ru munti Pullinu (23), 
Adduvi tocca lì donni li sana, 
Grisci la ventra e si gumpia ru sinu. 

Zingara 

lu sugnu zingarella di Livantl 
Viegnu a sbattiri a ru Punenti: 
Sbattu li piedi 'nterru e guardu la luna, 
Ti sacciù dì' quant' anni ana campar!. 
Si vo' fattunearchistribituni (24), 
'Nu cantàru di fierru ana purtari. 

Dopo queste parole , i diversi personaggi , éhe si sa^ 
ranno disposti in cerchio , si pigliano per le mani e 
ballano la carola al stwno della zampogna. Il Capi- 
tano e Sabillina fanno, in mezzo, u salterello nello 
stesso tempo che zi Pulcinella li attornia gesticolando. 
Poi cessa il ballo, e Sabillina resta sola a danzare e 
a cantare i seguenti versi: 

Sabillina 

lu tantu chi sugnu bella, 
Sugnu figlia a massaru 'Ndria, 
Lu Gapitanu vo' dormi ccu mia, 
Lu Gapitanu vo' dormi ccu mia. 

Così la rappresentazione ha termine. Il Capitano 
dà il ììraccio a Sabillina, il Medico alla Vecchia^ lo 
Speziale alla Zingara, gli altri alle altre, e la singo- 
lare compaania st dirige a un altro punto con gli urli 
e fischi de monelli, in mezzo ai pigia pigia dei popo- 
lino soddisfatto. 

Vi. ^ 

Qui posso un po' respirare , invocando sulla importanza 
del riportato documento tutta V attenzione dei cultori della 
storia drammatica e della letteratura popolare in genere, e 
i soliti benevoli che avranno avuto la pazienza di seguirmi. 

Il dott. Schermo implorava per la quasi vergine tras- 
missione deìl' Atellana « la lontananza delle grandi città », 
laddove un villaggio , e della Galabria , badate , conserva 
una rappresentazione, ricchissima di personaggi ^ con vero 



24 



intreccio drammatico e con la riproduzione dei tipi fissi e 
degli altri cai^atieri della Commedia deir arte. Secondo la 
sua ipotesi, avremmo dovuto trovar qualche cosa di simile 
a Macco , a Pappo, a Dossenno, e invece troviamo il Ca- 
pitano, il Sergente , lo Speziale , lo spavaldo e il Dottore, 
non essendo il Medico che una filiazione del noto tipo. Il 
Pulcinella v' è : se non entra nella rappresentazione, si ri- 
serba la sua parte di zanni , e aggiunge qualche motto e 
provoca coi gesti il riso mentre gli altri parlano e agisco- 
no. V'è la scurrilità (25), vi sono le bastonate, e (26), in fine la 
danza e il canto, specialità anch'esse della Commedia del- 
Farte. 

Che altro d vuole ? Forse si ripeterà V obiezione che, 
trattandosi di versi stabili e rimati (27), non si può mettere 
avanti la celebre commedia ad improvviso. Ma non posso 
ora, minacciando questo articolo di diventare etemo, dare 
allre ragioni e altre prove per dimostrar meglio quel che 
mi sono proposto. Se.nomche mi sia lecito notare l'inevi- 
tabile influenza che sulle rappresentazioni popolari dovette 
esercitare negli ultimi tempi la drammatica letteraria , ad 
imitazione della quale alcun poeta vernacolo avrà fatto i 
versi a un dato scenario. Cosi si dimostrerebbe, una volta 
di più , quanto possano sulf esagerato spirito conservatore 
del popolo certe idee e certe forme prevalenti. 

Torno a ricordare, ora che conchiudo, di aver parlato non 
della Commedia delV arte nel vero e storico senso della 
parola, ma d'una reminiscenza d'una tradizione di essa 
nelle noslre Provincie, contrariamente alla opinione del 
Bartoli (28) e della Paget (29) i quali sembra non ne ammettono 
la esistenza; e prego, ex imo corde, l'insigne prof. D'Ancona 
e il mìo lobato amico Scherillo di dimostrarmi, perdonan- 
domi le osservazioni loro mosse, che la rappresentazione 
d' ' TJ Capitanu e Sabillina debba ricongiungersi col con- 
trasto con la vecchia Atellana. 

VmoRio Caratelli 

(1) Archimo per le tradizioni pop. voi. II , 1880, pag. 
239-270- 

(2) Preludio, a. V, '81, n. 10. 

(3) Preludio, a, VII, '83, n. 5 e 16. 

(4) La comm. pop. lat. e la comm. dell* arte , pag. 85. 
Napoli, 1882. 

(5) Non sono forse inopportune queste parole: «... Vuomo 
è siffatto che può esaltarsi per le cose inoisibili e a lui 
superiori, ma non porre amore eioo, continuo, gagliardo, so 
non a quelle nelle quali vede riprodotto se stc^^sb e la propria 
natura. » D'Ancona , Origini del Teatro in It. , Le Mon- 
nier, tS77, v. 1 , e. VI , p. 57. E altrove : « ... é proprio 
della natura umana il volere esternamente e materialmente 
rappresentarsi tutto ciò che muove l^ immaginazione ed ec- 
cita l'affetto. » €• li» p. 15. Leggi poi ciò che, parlando 
della farsa , scrive a p. 249 e 250 del v. IL Cfr. anche 
De Amici s V. , L' imjitaz. lat. nella comm. itaL del XVI 
«eco/o, Pisa, Nistri, 1871, p. 38 e 68. 

(6) De Amicis, Vimit. lat., ecc., p. 27 e 28. 

(7) Cfr. anche, a proposito dell'Opera buffa* la recente 
e bellissima Storia letteraria dell'Opera Buffa Napolitana 
del dott. Schedilo, Napoli, '83. e. I e II. 

(8) V. ciò che ne scrive il De Amicis, La comm. pop. ec, 
p. 17 e segg. — li D'Ancona ne fa, come si sa, una cosa 
a parte, e vi consacra il e. XXXII della stupenda op. cìt., 
V. II, p. 26-38. 

(9) Della Tragedia, e. XX, in Op. se. it. di G. V. Gr. 
Milano, Silvestri, M.DCCC.XXVII, p. 281. 

(10) Noto che i mascherati, in generale, nel dialetto Ro- 

gianese si dicono f razzanti , parola , come ben si vede, 
^ivata dà farsa. Ciò ricorderebbe le rappresentazioni car- 
nevalesche eseguite in altri tempi da tutti coloro che ve- 
stiva nst in maschera. 

(11) È bene ricordare 11 Capitano Comedia della gior- 
nata XI, p. 33 di Flaminio Scala, e il nome tabella che 
si trova costantemente negli scenari dello stesso autore : 
Venetia, Appresso Gio: Battista Pulciani. M. DC. XL 

(12) La 6 iniziale in alcune parole, e la o costantemente 
in tutte, iniziale o no, si pronunzia come i^ greco. 

(13) Sott. piccolina^ pienotta,.. 

(14) Iif questo verso e in altri simili a doppio senso e 
osceni, che formano la parte principale del componimen* 
io, mi sembra superflua ogni spiegazione. 

(15) Mara con i' afèresi dell'* : mta, me : amara me I di- 
sj;raziata me 1 



(16) Brani. 

(17) È, credo, impossibile dare un* idea della pronunzia 
delle due l nel dialetto Rogianese. Si pronunziano con 
un sibilo molto particolare. 

(18) Accia, spilli, nastri. 

(19) Allume. 

(20) Ricordo la nota 13. Virguni stgnifìca... grossa verga... 

(21) Arrancare, nel senso di correre in fretta^ accorrere, 
come r usò il Pulci , in tre luoghi del morg. Magg. : e. 
IX , 81 , 8 n Gano a Parigi subito arrancava » , 

e. XI, 108, 3 : « Ricciardetto era a Ganellone a'fianchi, 
E col cavai lo seguia a tutta briglia ; 
Dunque convien che '1 traditore arranchi »; 

e. XXII, 154, 3 : a Gan» come questo sentiva 41 fellone, 
Subito verso Pontieri arrancava »; 

(22) Ernia. 

(23) Il Pollino , neir Appennino meridionale, conosciuto 
per le sue erbe e piante medicinali. 

(24) « Qualche grosso treppiede ». Il treppiede si dice 
tribiUi e anche trlpudu e tripódo in altri luoghi del Co- 
sentino, chiara derivazione del tripes-èdis o tripus-Òdis. 

(25) Cfr. Bartoli A., Scenari ined. della Comm. dell'Arte, 
Firenze , Sansoni , 'bO : Introd. , p. XIII e seg. ; Vcmon 
Lee , Il settecento in It, , Milano , Dumolard , '82, v. 1I« 
p. 210 e 227; e JDe Amicis, La comm. ecc., p. 75. 

(26) Bartoli, op. cit., p. LXXXIX; De Amicis, op. cit., 
p. 70. 

(27) La C. d. A. fu , in princìpio, alcuna volta, scritta. 
V. anche in Bartoli, op. cit., p. LIX-LXX, e in Lee, op. 
cit., V. II, p. 216. 

(28) Op. cit., p. XLVIII e LIV. 

(29) Lee, op. e voi. cit., pag. 230. 



NOTIZIE 

Nel fascicolo XII dell'anno XIII (dicembre 1883) della 
Rivista Minima , Gaetano Amalfi pubblicò uno studio su 
Camillo Paturzo , Un povero dimenticato. Il Paturzo, na- 
tivo di Meta di Sorrento, è l'autore di varie fra le più po- 
polari canzoni napoletane , cosi della poesia come della 
musica. 

Quelle che più si accostano alla poesia popolare sone - : 
Chi è che tozzola — Lo singariello — La Rosa — Lo viec' 
chio che se va' 'nsura. 

Nel numero 34 dell'anno XII, del Corriere del Mattino 
(Domenica 3 febbraio 1884) , è pubblicato un articolo del 
signor Federigo Casa , dal titolo Poesia dialettale. L* au- 
tore passa a rassegna varie poesie in dialetto napoletano 
del signor Enrico Bonadia, e ne riporta tre davvero bel- 
lissime. 

In data del 2-3 Febbraio 1881, ha visto la luce in Napoli, 
il I numero dell* anno I di un nuovo periodico dal titolo 
San Carlino , scritto in dialetto napoletano ed in lingua 
italiana. Questo giornale, che si pubblica ogni domenica, 
vien diretto dall'egregio sig. Leopoldo Spinelli (Pellinis). 



PostA eoononxica^ 



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130. Gaudiosi Cav. Gennaro — Napoli. 

131. De Lorenzo Prof. Antonio — Reggio di CaKbria. 

Errata-Gorrige. Nel numero passato, a pag. 4, quelle 
tre e, in (ilza , andavano scriue con segni distinti. L'Amalfi, 
per maggior chiarezza, proponeva sostituire una di quelle 
forme, ad 'e (di). Del resto. Terrore tipografico è manife- 
sto anche a chi solo legga attentamente quel brano. 

Gaetano Holinaro — Responsabile 

Tipi Cariuccio, del Biasio & G."" — Largo Costaotiuopoii, N. 89. 



ANNO II. 



Napoli , 15 Aprile 1884. 



NUDI. 4. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAMEITTO àSmO 



Peni' Italia L. 4 — Galero L. B. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



ATVEBTSVZS 



DIRETTORE 



L.MOLINARO DEL CHIARO 



Indirizzare raglia, Ietterò o maaoscritti 
al Direttore liUigl Mollfiar«i Del 
l'hiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Ga podi- 
chino, 56. 



ftOMMABIOt — Scaccinopoli da Sorrento (G. Amalfi) ^ 
Alcuni canti popolari di CaKi Risorta (G. Congedo) — 
Lu cunto d* 'a Bella del Mondo (V. Imbriani) ~ Canti 
popolari sorani (V. Simoncelli) — Pubblicazioni in dia- 
letto pervenuteci in dono — Notizie. — Lettera aperta — 
Posta economica— Errata corrige. 



Per tutti gli articoli ò riservata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riprodazioni e le tra- 
dazioni . 



SCACCINOPOLI DA SORRENTO 

Che volete! Io, prediligo Je ricerche minuziose e ti^a- 
scurate da altri, perchè vorrei , che nulla passasse inosser- 
valo; nulla senza una spiegazione razionale. Almeno per 
conto mio , mi ci provo ; né m' impensierisco della più o 
meno probabilità di riuscita. Ricerco di buona fede, e, pur 
non risolvendo la benché minima cosa, si può riuscire utile, 
occasionando ad altri Toccuparsene, o agevolandogli il com- 
pito. E questo mi ha indotto ad investigar chi sia Scac- 
cinopoli da Sorrento, menzionato in un' epistola attribuita (1) 
al Boccacci,....; ma ecco, come stanno le cose. 

In un volume edito, in Firenze, nel M.DCC.XXIII , jt>ey 
Oio. Gaetano Tartini e Santi franchi intitolato: Prose 
I di I Dante \ Alighieri \ e di inesser \ Gùk Boccacci , 
vide la luce questa pistola, in lingtéa napoletana, scritta 
a nome di lannetta (2) de Parise della Ruoccia e diretta a 
Francisco delli Bardi dalla quale ricopio, fedelmente , il 
brano, che fa al caso nostro : -r 

« E chillo me dice Indice Barillo, cha isso sape quanta 
K lu demone , e chiù cha non seppe Scaccìnopole da Sur- 
<c riento. 7> 

La lettera porta la data di Napoli , lo juorno de santo 
Aniello; ma, senza millesimo. L'edizione fu curata dal Ca- 
nonico Anton Maria Biscioni, il quale, ci avverte, di essersi 
valso di due manoscritti della Laurenziana e d un terzo , 
appartenente all'abate Anton Maria Saivini. 

Il conte Giammaria Mazzuchelli, bresciano, nel Voi. II, 
parte terza de-cu | scrtitori d' ftalu ec. ec. ( In Bresua 
GloIoGCLXII) a pag. 136U, accennando a questa pistola, 
in una nota, dà qualche altro schiarimento, intorno a' ma- 
noscritti. — 

Ferdinando Galìani, nel suo libro: Del | dialetto \ napo- 
letano I , non solo ripubblicò quest' epistola sulla edizione 
del Biscioni; ma, tirando ad indovinare, v'aggiunse, in una 
seconda colonna, la : « correzione, secondo roriografia e la 
« vera lingua di quel tempo »... td est, (per via di suppo- 
sizione, s'intende bene!) del tempo del Boccacci. E, final- 
mente, ne dette anche la traduzione «nel linguaggio e nel- 
l'ortografia corrente. » 

Se tutto questo abbia valore non giudico. Certo é inutile, 



cercando la vera lezione del brano succitato; e, perciò mi 
taccio anche della ristampa della connata epistola, fatta dà 
Vincenzo de Ritis. Pel mio scopo , la sola edìz. Biscioni 
può aver qualche valore , benché sia minimo > quando si 
pdnno riscontrare, o far riscontrare i manoscritti. 

A questo ultimo partito mi sono appigliato; e debbo la 
accurata collazione alla cortesia di Pasquale Papa, il quale 
cosi mi scrìve da Firenze : « Eccoti il risultato delle mie 
« ricerche nei codd. fiorentini. I codd. riccardiani lì trove- 
« rai notati col numero moderno , sostituito all' antica nu- 
« merazione: solamente mancherà la lezione del cod. 1074, 
a corrispondente nella tua indicazione al R. lU. 12, dacché 
« in esso esìste , in due redazioni anzi , la lettera a F.co 
(( de' Bardi ; ma di essa soltanto la parte italiana , che in 
« tutt' i codd., se ben ricordo, precede, sempre, la dialettale. 

c( Il codd. Salviniano non ho potuto riscontrare, perchè 
« non m' è riuscito di sapere dove diavolo sia andato a fi- 
« nire: avevo ragion di credere, che fosse in Marucelliana, 
« dove furono trasferiti molti mss. del Salvini; ma non e' è. 
« Ne trovai, quivi invece un altro, OuadagnìanOy nel quale 
« però, come nel Rice. 1074, era una parte sola della epi- 
« stola boccaccesca. 

« In compenso però troverai la lezione di due stimabili mss. 
« Magliabechiani, Siroz0iano Tuno, Gaddiatw l'altro » 

Ed ora alle diverse lezioni del brano : — 

« Rice. 1133. — Et chillo ma dice Judice barillo cha ipso 
« sape chiù chalodemone et chiù cha ns sape schaccinopole 
« da Surriento. 

« Rice. 2278. — Et chillo mi dicie ludicie barillo cha 
« ipso sape quanto lu demone, et chiù cha n^ sape sebac- 
ei cinopole de Soriente. 

« Rice. 2313. — Et chillo me dicie iudicie barillo cha 
« ipso sape quanto lu demone et chiù can<$ sappe scacci 
« nopole da Surriento. 

« Laurenz. Plot. xun. con. 26. — Et chillo me dice iu- 
<c dice barillo chaisso sappe qu^ta lu demone et chiù chen<» 
« sappe scacci nopole da burienio. 

« Laur. Plu. xLii. con. 10. — Et chillo me dice Indice 
« barillo cha ipso sape quanta lu demone et chiù chan» 
« sappe Scaccinopole da surriento. 

« Magliab. Strozz. cl. vui. con. 1373. — Et chillo mi 
« dicie indice barello cha ipso sape quanta lu demone et 
« chiù cha non sape scacciopole de surriento. 

« Magliab. Gadd. cl. viu. 2.1271, della fine del sec. xv.—- 
« et chillo me dice indice barillo chaisso sappe quanta lu 
« demone et chiù chenonsappe schaccinopole da suriento.— 

E, poi, in altra lettera, il Papa mi scriveva: — « In que- 
« sti ultimi giorni mi è riuscito di trovare in un vecchio 
« Zibaldone del Marmi (1705) una copia della lettera in 
« vernacolo. Questa copia rappresenta un ms. di Mon^^ignor 
« Francesco Maria Arrighi decano della Metropolitana e Yi- 
« cario Gausarum di Monsignor della Gberardesca Àrcive- 
« scovo di Firenze. Il Marmi non dice di che secolo sia 
« questo ms. però lo chiama antico. La lezione é la solita; 
« eccola : — 



26 



« et chillo me dice ludiee bariilo cba ipso sape quanta 
« lu demone et chiù cha non sappe scaccìnopole dassur- 
« riento. » 

<c II zibaldone del Marmi è in Magliabechiana ed è se- 
« gnalo cosi : Clas. Vili. 8. 1 5 ». 

Suppergiù, la lezione non diversifica, se non in cosa di 
lievissimo momento. Questo, almeno, per ora, mi dispensa 
dairesaminare la maggiore o minore autorità de' vari ma- 
noscriiu. « Ma, a che un esame si minuto? » mi par d' u- 
dire sclamare il lettore. Abbiate la cortesia di prestarmi un 
altro pochino la vostra benevolenza e ne vedrete la ragione. — 

li defunto canonico , sorrentino , don Simone Uargiulo 
possedeva, fra gU altri manoscritti di storia patria, copia 
d'un documento illustratore, nella presente ricerca. Ma, sven- 
turatamente, come accade (secondo mi han detto; ogni cosa, 
alla sua morte, è andata a iìnire nel botteghino del tabac- 
cbisgo, per supina incuria de' parenti. 

Ma, per caso, di questo documento, (Gn dal xiij. IX. 59), 
aveva tratto copia il cav. Gaetano Ganzano, e debbo a lui, 
se, ora, per la prima volta, posso darlo alla luce. 

Eccolo, irascriilo, fedelmente. — 

(( A lo secolo VII de la fruttifera incarnatione Rodoaldo 
« Duca di Benevento melteite lo assedio a la Giltà di Sor- 
« renio. Li Longobardi feceno 'na sortila contro la città 
(c et afFerrsgono cattivo lo villano Felice , chiamato da lo 
a popolo élcaccianespole et lo strascinavano a lo campo 
« per lo scannare, come lo villano passaie sopra lo ponte, 
a per scampare da la morte, se precipitale da sotto lo vallone 
a alto 300 braccia, fiyenno da mano a li soldati. Ognuno 
(c credette che fusse morto , quatino co' maraviglia di tutti 
« passaje sano et salvo a la banna di rimpetto , da dove 
« lece le fiche a li nemici. Gomme lo popolo vedette lo 
c( portento, lo nomme de Scaccianespole addivenlaje famo- 
« so et chi lo credeva un gran santo et si ci raccomannava 
a et chi un gran diavolo et lo fojeva, pure a li tiempi pre- 
ce senti, quanno riesce cosa difficile a riuscire a li huomini 
« si Aìce-tu tieni più abilità et ne sai pm di Scacciar 
« nespole 

Foi-se, il brano dell' epistola, attribuita al Boccacci, non 
indica , che Scaccinopoli doveva esser superaiore d' imprese 
difficili ? Ghe scaltreggiava, nelle astuzie ? Basterebbe rileg- 
gerlo; ma io mi affido alla vostra buona memoria. — 

Cosi, il GaUani, parte spiegando le stesse parole, parte 
fantasticando, glossava: « Nome favoloso d'un antico mago 
«celebre tra' Sorrentini al pari del Barliario de' Salernitani. » 

A proposito di Barliario, rimando il lettore ad un arti- 
colo del d' Ancona (3) ; ma di questo antico mago, non 
ha potuto aver nessuna contezza... neppure dalla ira- 
dizion popolare. Almeno, parlo per conto mio, il che non 
toglie che , domani, altri possa esser più fortunato di me, 
in simile ricerca ; e , fhmcamente , ne sarei lieto , perchè 
io amo la verità, non le ambizioncelle personaU. 

Pure, sospetto, che, qui, il Galiani somigli a certi anno- 
tatori i quaU spiegano le cose che tutti intendono ; e tra- 
scurano le inintelligibili, sprecando della facile sapienza ;... 
ma torniamo al nostro argomento ! 

Il fatto di Scaccianespole , con la sola mutazione del 
nome in Felice , si racconta , pure , in uno scriltarello 
latino, laudativo di S. Renato e di San Valerio, e, va com- 
preso nel numero de' miracoli. Il primo a pubblicarlo , a 
quanto pare, fu V Ughelli , traendolo da un codice mano- 
scritto della Chiesa sorrentina ; ma via.. ! non vo' ricopiar 
questo brano; et introdurre un lungo squarcio di latino, in 
un giornale di letteratura popolare ! 

Se vi punge vaghezza di leggerlo, (cosa che io stento a 
credere ! j riscontrate del succennato autore : Italia sacra 
eccetera. Editio secunda eccetera. Fenctó*5,J.jpMd Sebastia- 
num CoUti, M.DGC.XX — Tom. VI, pag. 600-602 {Aga- 
pitus). Anzi, riuscendovi difficile o incomodo, consultar ([ue- 
sti volumi, in folio, dell'Ughelli, potreste leggere, a p. 212-16 
delle Memorie storiche \ della \ chiesa sorrentina \ com- 
pilate I da I Bartolommeo Capasso (Napoli, 1854), dove 
se ne trova una ristampa. — 

lo non ho avuto agio di veder questo codice, e vi tra- 
scrivo dò che ne scrisse il Capasso : « H cod. è cartaceo, », 



t 



« e fu, se pur non e' incanniamo, U'ascrìtto da altro codice 
« più antico nel sec. XVI, forse, in due epoche, certamente 
« da mani diverse. Nel principio e nella Une del medesimo 
« sono state in seguito aggiunte altre carte , anche di di- 
ce verso carattere ; ma più recente... (Op. cit. p. 8) ». E, se 
qualcuno non ha dimestichezza col latino, (cosa possibile 
oggi, una volta , che , è lecito esser poco esperto, fin nel 
retto uso delle declinazioni e delle conjugazioni ed aspi- 
rare a cattedre di letteratura latina! ) può legger la parafrasi 
dell'accaduto, che Gaetano Ganzano ha introdotto, nella leg - 
genda : La prima Cattedrale di Sorrento (V. Leg. Pop, 
Sor. ec. — S. Agnello, 1883, p. 19-21). 

L'aver fatto, per così dire, la genesi di questo fatterello 
dà maggior valore al documento, parmi! 

Ed ora , dopo questa rapida esposizione, mi permettete 
qualche congettura ? 

Se, io, avessi per la verità, il zelo di certi illustri, che 
mirano, unicamente, a provar, comunque, la loro tesi, avrei 
con lievissime mutazioni fatto diventar Scaccianespole, Scac- 
ciì%opole\ ed ogni disputa sarebbe finita. Ma, io, espongo, 
fedelmente, il risultato delle mie ricerche ; né mi euro, se 
il mio arlicoletto riesca sconclusionato. 

Nel caso nostro, le note caratteristiche delle due persone 

s'identificano e tutta la grave quìsiione si riduce ad una 

consonante {esse) e a due vocali [a e)... no, sbaglio ad una 

sola vocale, perchè T a si potrebne scacciare agevolmente. 

Chi non sa, che si scrive: Scaccianespole e Scaccinespoléì 

Stando , così , la cosa , lutto si potrebbe ridurre a poco 

iù che un o, malamente scritto. Che disparità straordinaria ! 

~n lapsus calami , e nulla più ; e quanti strafalcioni non 

sogliono commettere i menanti ! 

Ciò mi ha indotto a far riscontrare , esattamente, i ma- 
noscritti, e lutti, (4) concordemente, hanno la lezione: Scac- 
cinopole. In queste condizioni. Terrore dovrebbe essere nel 
documento riportato da me; e, la cosa è fra i possibili. Ma 
ci è da obiettare : « Non potrebbe , anche, essere, che, in 
« bocca toscana , Scaccianespole sia diventato Scaccino' 
« pole, qualcosa di più ringentilito o di simile ? » Di que- 
ste lieve trasformazioni abbiamo esempli, in ispecie, quan- 
do uno non indigeno ripete un vocabolo pecuharmente lo- 
cale; ma, come vedete , la mia è una mera congettura. 

Anzi, debbo confessarvi tutto. Ho chiesto a parecchi la 
etimologia, il significato di Scaccinopoli; e nessuno ha sa- 
puto dirmi qualche cosa anche, lontanamente, accennante 
air idea che rappresenta. Il contrario , mi è accaduto di 
Scaccianespole. Alla prima dimanda mi si è risposto: « ^e- 
« spola al plurale, ha, talvolta, metaforicamente, il senso di 
« pericolo, fastidio , mazzate ; e , comunemente, si dice : 
(( Che brutte nespule chisf anno , volendo dire, che << le 
« cose vanno male » Scaccianespole, quindi, vorrebbe sigui- 
« ficare: scacdapericolo, od un quissimile...! (5). 

Vedete, io riferisco, non giudico... Lascio queste quisqui- 
glie etimologiche, per non tórre la privativa a qualcuno, 
che la pretende ad uomo magno, per un po' del Diez, che, 
malamente, va sminuzzando alla scolaresca. 

Gonchiudo. Mi pare, che il luogo della epistola attribuita 
al Boccacci ed il documento siano in istrelta correlazione. 
« Ma i nomi diversificano un tantino ! » mi si risponde. 

Sicuro ! La gran differenza si riduce a veJere, se nella 
parola ci debba essere o in luogo di e ed 5, o vicevei'sa ; 
e, tutto questo non potrebbe essere un errore dei copisti ! 
È un' ipotesi, che faccio : intendiamoci bene 1 

Gaetano Amalh 



(1) È molto discutibile, se se ne possa attribuìp la pa- 
ternità al Boccacci; ma occuparsi, qui, del prò e del 
conira sarebbe fuor di luogo. 

(2) Il Galiani vuole che si tratti d'un uomo ( dicendosi, 
nel corpo della lettera, a mene medicmmo) e che, quindi, 
si debba correggere: lannetto. 

(3) Un filosofo e un mago (Pietro Abelardo e Pietro 
Barliario) - Milano, Treves. 1883. 

(4) Lasciamo stare, che potrei classificarli ed escludere 
le copie di copie; ma non m* è parso necessario. 

(5) Scaccinespole potrebbe anche essere una routazio- 



27 



ne del copista o raffazzonatore del documento. E, forse, 
Scaccinopole era il soprannome originario; e venne sosti- 
tuito o facilitato racconciato (massimamente perchè ci vo- 
leva tanto poco) da chi ne trovano duro il significato. 0, 
forse , anche a quel Felice del sec. VII venne affibbiato 
il soprannome d'un personaggio posteriore; son conget- 
ture, congetture» 

Questo solo è certo. Chi scrisse questa epistola aveva 
poca pratica del nostro vernacolo; se non altro, cel pro- 
vano I suoi parecchi strafalcioni. 



Alcuni canti popolari 

di Calvi Risorta 

Carissimo sig. Molinaro^ 

Reduce da Calvi Risorta, l'antica Cales ricor- 
data da Orazio» la tripartita città della Campa- 
nia felix, v'invio le seguenti poesie del popolo. 

Le ho sentite in una gara di canto fra vispe 
contadine, che, ad alleviar la fatica, cantavano 
a squarciagola per tutte le ore del giorno, curve 
verso terra a scellecà la grano, accese in volto 
e fino a perdere la voce. Chi più forte gridava, 
e più resisteva al canto, e trovava canzoni più 
belle, riportava vittoria; solo premio l'onore di 
vincere. 

Una vaga Teresina, dalle chiome nere coinè 
le pupille ful^gidissime, dal viso livido e madido 
pel troppo vociare, fu dichiarata vittrice. Fu ella, 
che dimandò la gloria di dettarmi i canti ese- 
guiti, e cominciò, sorridente da uno, che allu- 
deva a sé stessa, la vanitosa! 

Qualche verso, qualche rima zoppicano. Non 
ho voluto correggerli, né potei collaiuto della sa- 
putella cantatrice. che non consentiva modifica 
di una sillaba sola e non ammetteva regola di 
metrologia. Il popolo è poeta ribelle ; segue gli 
slanci dell' immaginazione , e non si cura della 
pedanteria delle forme. Esso è la base della re- 
pubblica letteraria. 

Napoli, 17 marzo 1884. 

Girolamo Congedo 

I. 

. Palazzu fravecaiu re (1) bellizzì , 
Rintu ci stannu roi colonne r' oru : 
Una se ciama fonte re bellizzi , 
L' àula Teresina re slu core. 
Chi se piglia a bui , fonf 'e bellizzi , 
Lu fate sta' cuntientu tutte ir ore. 
Taniu vale nu capigliu re 'sie irezze , 
Pe' quantu vale Spagna, Francia e Roma. 

IL 

Palazzu fravecatu re bellizzi , 
Nisciuna preta sconcia nei sta posta. 
Sta fravecatu de zùccaru e de lattu , 
De mustaccioli songu le finestre. 
Ninna mia quannu ce s' affaccia , 
Sciarisce juomu sì è mezzanotte. 

III. 

So' funute le jute e le venute , 
So' funute li frischi (2) e le cciammale , 
So' funute chelle irementute (3), 
Chelie ca me facii gì' iannu passalo. 
S' è funutu citello bene anticu ; 
Garu te ce lenea , com' a nu frale. 



Mo , se ci vieni , truoi le porle ciuse;^ 
La ciavitella è fàusa , e nun te rape. 
Tengu nu core tanlu resolutu ! 
Tòzzula quantu vuoi , ca nun te rapu. 

IV. 

'Ngopp' a 'se trezze nu mièrulu (4) r' ora , 
Ngopp' a 'se trezze lu faria cantane (5). 
E ncanna a bui 'na catena r' oru; 
Trentatrè onze la faria pesane. 
Mo ce venisse lu mastra re X oru , 
Ghiglio che ffece la stella riale I... 
La stella riale nun se trova; 
Viri 'mpiettu a 'sa nenna , ca ci stane. 

V. 

Me so' partutu re la casa mìa 
Cu' la 'ntenzione re me fa' surdalu. 
Lu capitàniu quannu vidde a mene : 

— « Ddove ci ate , giòvene aggarbatu ? 
Si vo' venìne a la guerra cu* mene , 
Te facciu capitàniu re X armata ». 

— « Si' (6) capitàniu, si me ce vulite, 
La spala mia a da esse' 'nnargentiita. 
(^ientu rucalì è lu vestilu miu, 
Cìentu cinquanta la nocca 'ncarnata. 
Si' capitàniu, mo me ne vogliu ine; 
'Ncora a la casa mia non ci so' statu. 
Si mamma e patre se scorda re mene , 
Nun se ne scordirai la 'nnamurata ». 

VI. 

Aggiu sapulu ca ti vuoi partine. 
Luce de 1' occi mei, me vuoi lasciane. 
Quannu te parli, sapimèllu a dice'; 
Re làcreme te vogliu accumpagnane. 
Vurrei ci dicissi : « Amore miu ». 
Parti cuntentu, e nu m' abbandonane. 

VII. 

Finestrella tutta rentagliata . 

Comm' a la fronna de In giesumminu. 

La notle aperta, e lu giornu serrala ; 

Lu fai, finestra, pe' me fa' murine. 
Te preu, finestra, avàsciate nu pocu, 

Mentre che parlu cu' la nenna mia. 

Finestra , te vogliu àrdere de focu ; 

Commu 'nciusa la tieni nenna mia? 

vm. 

Me menasti 'nt' a lu focu, e poi ftiìsti. 
Commu prieslu re me te ne scurdasti? 
Pigliasti lu miu core, e lu feristi. 
Doppu ferutu me 1' abbandunasti. 

IX. 

ìu me parlu, e me ne vavu a Roma. 
Pe' cumpagnia me ni portu trea (7): 
lu me portu la luna e lu sole ; 

{*ocu ciù appriessu ve' chi 'o' (8) bene a mene, 
u pe' llicordu te restu 'na crftna , 
E le la tieni pe' licordu miu. 
Bella, si mora, ìu me mora a Roma. 
Tu me la dici pe' l' àlima mia (9). 

X. 

Facciu lu cantu de lu rescignuòlu (10). 

Quannu canta, conta pene e guai. 

Che fossi muortu quannu era figliuolu !... 

Che conosciuta nun t'avessi mai!... 
Tu me lai puoslu nu ciuòvu (11) a lu core; 

Piaga s' è fatta, e nun se po' sanane. 

Sulu tu, ninna mia, sana' la puoi 

Cu' l'acqua fresca de la (oa fumana. 

L'acqua fresca li n)alali sana, 

(faccia li muorli da la seboltura. 



28 



XI. 

Facci de 'oa palomma ricciulina, 
La fere e la speranza tengo a bui. 
Ognuna nasce cu' lu suou restinu ; 
Restinatu son io pe' amare a bui. 
liU carru triunfanie, e che ciardinu !... ^12) 
Quannu ci jammu a messa tutti dui ì (13) 

xn. 

Tu, facci bianca, nu me dici niente. 
A dove è giulu chellu ragioniane? (14) 
Dove so* giuti chilli juramienti, 
Quannu dicivi: « Nun tu lascu mai ? » 
Mo m' hai lasciatu pe* finn de niente. 
Tu, facci bianca mia, pecche lu fai ? 
Si m* hai da (are cacche mancamentu , 
Penz' a lu nostru bene, e nu* lu fané. 

XIII. 

Tu, che si' puostu 'ntruòttulu (15), uagliuòle (16), 
'Ssa muntagnella nu* la puoi sagrme (17), 
Cu* chessa, che si' puostu a fa' Tammore, 
Ghissu ressignu (18) nun te po' riuscine. 

XIV. 

Ci jetti a spassu nu juornu de festa 
'Mmiez' a lu pianu de Santa Maria (19). 
Truvai 'na ninna 'ngopp' a 'na finestra; 
Ce steva a coglie rose e giesummini. 
r ce lu dissi : a Menarne nu mazzettu ». 
Chella se vota : « Vieni a lu ciardinu ». 
Chella ci seenne cu* doi rose 'mpietlu : 
— « Pigliate quale vuoi, ninnigliu raiu. 
Si te pigli *na rosa da *stu pettu. 
Tieni pe' certu ca tu si' lu miu ». 

XV. 

Tu roalatella, che malata stai ? 
r la conoscu la tua malatia. 
Chessa nun è fireve e nun quartana , 
È ramusciellu de malancunia (20). 
Si vuoi, malatella, che te sani, 
Vienitènne a la cftmmcra mia. 
'Ncapu de ottu juorni e nun te sani, 
Malatella si* tu, e mièdicu iu. 

XVI. 

Donna, che stai 'ngoppa a 'sa finestra, 
Famme na razia, e nun te ne trasìne: 
Mèname nu capigliu de 'se trezze; 
Scìnnilu a bascìu, ca vogliu sagiine. 
Quannu ci semmu *ngoppa a *ssa finestra, 
Pigliamo 'mbracce, e portarne a durmine. 
Quannu ci semmu 'ngoppa a chiglìu lettu, 
Mannaggia ràiim* 'e chi vo* durmine !... 






(\) re per de. — La freouenza di mutamento della den- 
tale nella liquida consonante r contribuisce moltissimo alla 
dolcezza di questo dialetto. 

(2) /rischi, fischi. 

(3) trementiUe, gjuardate.— Cfr. Molinaro Del Chiaro, Canti 
del pop. nap., pag. 259, canto 458. 

(4) mièrutu, merlo. 
(5ì ccuìtanc. cantare —Oltre la trasformazione della den- 




toerafia e suono, che i francesi direbbero mouillc , sosti- 
tuito agli /, cosi capigliu in luogo di capello. Senza que- 
ste note, il dialetto di Calvi Risorta si confonderebbe con 
quasi tutti gli altri delle proyincie meridionali. Il diale! 
tologo dee rilevarle, l'educatóre del popolo adusare a di- 
smetterle, perchè uno scopo principale di questi studi i è 
la fusione aei dialetti per ottenere l'unità della lingua. 

(6) Si\ signor. 

(7) trea, tre. 



(8) oe\ viene; V, vuol. 

(9) Tu me la dici, cioè: mi dici la cróna, o, meglio, il 
rosario. — VcUima è Valma dei poeti. 

(10) rescignuòlu, usignuolo, uccello di cui abbondano 
quei luoghi pittoreschi. 

ni) ciuóou, chiodo. 

(12) Vuol dire, che le nozze saranno festegg;iate con un 
carro trionfale, ornato di fiori a mo di giardino. 

(13) La messa, che sogliono sentire gli sposi. 

(14) chellu ragioniane, quel ragionar fra noi. 

(15) Tu, che sV puostu ntruòttulu , tu che ti arrovelli , 
in senso dispregiativo. 

(16) uagliuòle, ragazzo. A Napoli si dice: guaglione. 

(17) 'Ssa muntagnella, questa picco'a montagna. È chia- 
mata cosi, metaforicamente, la donna più ricca, vana aspi- 
razione dell' infido amante , cui è rivolto questo canto « 
nomato a dispetto, L' ambiente, nel anale vive il popolo, 
gl'ispira le immagini: le tre frazioni ai Calvi Risona sono 
in pianura, coronate di monti, di faticoso accesso. 

(18) ressignu^ disegno. 

(19) È la bella citta di Santa Maria Capua Vetere, poco 
lunsji da Calvi Risorta. 

(20) Il lettore avrà gustato la delicatezza della frase. Pa- 
rimenti si dice in italiano : ramo di pax zia. 



LU CUNTO D' 'A BELLA DEL MONDO 

(In vernacolo di Bagnoli Irpina) 

*Na vota ng' era 'ou Re e tinia *nu figlio mupo (1). 'Na 
juorno, 'nanzi a la casa, a 'na fèmmena, avìa caruto e s'avìa 
rolla 'na fugina (2) r' uoglio. *Ssa pòvera vecchia si stia 
accQglienno r' uop:lio into a 'nu pignatìello : hi figlio re lo 
Re, ra 'ngoppa (3) a lu barcone, li minavo.'na preta, e li 
rumpivo lu pignaliello. Quella vecchia li risse: — Puoeeiire 
tmto spierto, chi puozzi ire a truvare la Bella del 
Mondo. Ricenne 'sii parole, li venne la parola a lu mupo, 
che era lu figlio ri 'slu Re. Quisto qua, visto accussl risse 
a lu patre: Bammi 'na summa ri rinari , ca In Bella 
del Mondo haggio (4) ire a iruvqre, Lu patre gi ri divo, 
e si ni ivo. La prima sera, ivo a* stare a la casa ri vìento 
ri terra . e V addum manna vo : Mi putisse rà' nova (5) 
ri la Bella del Mondo ? Rispose viento ri terra : Pr 
gi ire, f hai ra accattare (6) 'na votta ri vino e nu 
fumo ri pane. Quislo qua s' accattavo la volta ri vino e 
lu fumo ri pane ; e si ni ivo into a nu voscu sterno (7) , 
chi g' èrano tutti li animali feroci. 

Isso, ogni animale , che trovava , li ria nu poco ri pane, 
e li ria a beve; e ogni animale, chi ria a mangia' e a beve, 
ognuno ri quilli, li ria 'na penna. Arrivavo a 'na parte e 
truvavo 'n' àquila , chi chiangia ; e la facia chiangi* 'nu 
serpo, ca si la vulia mangiare. Quisto qua pigliavo , acci- 
rivo lu serpo, e hberavo l'aquila. L'aquila li risse: Tu 
m'hai fatta scampa' ra vita; e io ti voglio fare tro^ 
vare la Bella del Mondo. Avièvini ra passare 'na mon- 
tagna ri fuoco: e l'aquila si lu pigliavo, 'ngimraa a r' ascel- 
le (8) , e lu passavo. Arrivati là , truvaro lu Patre re la 
Bella del Mondo , che era uorco , e la mamma , che era 
orca. L' uorco li risse : Se tu ti vìmì pigliare fìgliema, 
tu Ila' ra fare nu quaggio (9) co' ine. E li risse : Se 
tu ti firi ri mangiare nu fumu ri panelle, tu ti la 
spusarai. Lu serravo sulo into a la stanza adduv' era lu 
fumo; e isso nun sapia cumme fare. Pigliavo lu mazzo ri 
penne , chi 1' avièvini rato quilli animali ; e risse : Ani- 
malucci mii, si mi vuliti ajutà\ miniti (10) qua a man- 
gia'. Subito, asciero ; e si mangiare lu fumo ri panelle. 
Quanno fo a la matina apprìesso , s' alzavo l'uorco; e bi- 
rivo lu fumo mangiato Risse a la mogliera: Quisto è 
diavolo! s' Jia avuto ra mangiare nu fumo ri pane, e 
nun fo niente. 

Li risse , 'n' ala vota , a quillo gióvane : 'N aio guag- 
gio ra fa; si tu lu fai, ti spusi a fìglhna. — Sini, risse 
quillo. Li risse V uorco : Tu t' ha' ra vevo 'na cantina 
ri vino. Lu serravo imo a la cantina. Chiamavo 'n' ata 
vota li stessi animali ; e tutta la notte si la vivìèrino. 
I Quanno fu a la matina, s'azavo l'uorco, e virivo la can- 
I tina tutta sfrattata. Tutto s' arrabbiava e tìoìa intenzione 



29 



ri nun gi la rare a quillo là , la Bella del Mondo ; e» pi' 
paura, chi nun si ni (ossero fujuti, ogni mezz'ora la chia- 
mavo. Ouillo gióvane risse a la 'nana murata : Into Que- 
sta mezz' ùra^nuigi n'avimmo ra ire.— Bini, risse, yac- 
coDzavo tutto; e l'aquila la pigliavo 'ngoppa r' ascelle e ne 
ro portavo. L' uorco , co' lu libro , chi cumandavo , tanno 
r arrivavo, vicino a la montagna ri fuoco; ma l'aquila evo 
vicino a 1' uorco, lu urtavo e li fece care' lu libro into a 
ri fuoco e si ardivo. L' uorco nun putivo chiù passare ; e 
loro passaro e si ni iero a sposare 'ngrazia ri Dio. 




(t) mupo^ sordo-muto. 

(2) fuginat grosso recipiente di creta, coppo che, a Na- 
poli, idi cesi ^Iro. 

(3) *ngoppa, sopra. 

(4) haggio ire, debbo andare, h> da andare. 

(5) wooà, novella. 

(6) accattare, comprare. 

(7) stemo , intrafficato , impervio. Da extemu^ , nel si- 
gnificato di straniero, forastiero. 

(8) 'ngimma a r'ascelle, sopra Tali. Ascelle, come il cor- 
rispondente scelte napoletano , da axilla , quindi con 1* e 
stretta. 

(9) guaggio, pegno, scommessa. Dante, Par. VI. 118-120. 

Bifa, nel commensurar do* nostri gaggi. 
Col merto, è parte di nostra letizia, 
Perchè non li vedem minor né maggi. 

(10) miniti j venite. 



JEOBOOlSTrrRX 

L'esordio della presente novella è comunissimo; e basti 
citare l'introduzione al Cunto de li Curde , CCfr., anche, con 
'O canto de Caucleìlo rscrde^ pubblicato da Vincenzo Della 
Sala, nel Giambattifita Basile, Anno I. Nnmero 10). 

pel p'trì, frequenti sono, nelle fiabe, i benefizi, resi ad 
animali, die, poi, si mostrano riconoscenti e campano il 
benefattore da gravi pericoli o lo assistono nel fare opere 
'* ni possi bili, che un mago, un orco, una mamraadraga. una 
fata, lina strega ecc. ecc., impone loro (Cfr. col mito di 
Psiche). Basti citare la Favola IV della III delle Tredici 
picfceiyoli notti di Giovanfrancesco Straparola da Caravag- 
gio: — « Fortunio, per una ricevuta ingiuria, dal padre e 
« dalla madre si parte; e, vagabondo, capita in uno bosco, 
« dovft trova tre animali, dai quali , per sua sentenzia, è 
« g^idardonato. Indi , entrato in Polonia , giostra; et, in 
« premio, Doralìce, figliuola del Re, in moglie ottiene. » — 

Quanto, poi, alla parte della novella» che riguard al' a- 
cquisto della Bella del Mondo, per non difTondermi troppo, 
in noto e riscontri , mi basterà rimandare allo Esempi 
d'on Re, fiaba popolare crennese, da me pubblicato nel vo- 
lume secondo dell* Archivio per lo studio delle Tradizio- 
ni popolari (PsAevmo, 1883). Eccone il sommario: -« Un Re, 
« per ringiovnnire. ha bisogno d'un pomo del giardino del 
•e Leon dèlia Francia. Manda il figliuolo Giovanni, apren- 
te derlo ; il quale, catacolto dal Mago padrone, deve pro- 
« mettere di ritornare tra un anno. Ringiovanisce il Re 
« vecchio ; ed il giovane si mette in cammino per andar 
« dal mago. Ma il giardino è spostato e dissimulato. Chie- 
« de, nel deserto , la vìa ad un vecchio mago , che lo ri- 
« manda, da suo padre, più in là; e, cosi, via discorrendo, 
'( fùio al settimo, che gì insegna come trovare il giardino 
« e salvarsi. Trova la Maria , figliuola del Mago , che si 
« bagna, con due altre persone, al fonte; e le ruba il vo- 
te stito; e non gliel restituisce, se non quand' ella ha pre- 
ce messo di salvarlo. Il Mago lo aspettava; ed il bistratta 
<c e gli assegna compiti impossibili. Ma, con Tajuto della 
« Maria, il giovane sta bene e compie ogni lavoro asse- 
<f gnatogli. Onde il Mago, stimandolo più valente di sé, 
« gli dà la Maria in moglie. I due sposi rubano tre eg- 
ee getti incantati e fuggono. Inseguiti dal Mago, li ^tta- 
« no, Tun dopo l'altro, per terra; e sorgono ostacoli, che 
« ritardano il Mago; sicché, riesce loro salvarsi. La Maria 
« rimane in un .albergo; morto il marito, va da' genitori; 
« un bacio della madre gli fa dimenticare la sposa ; che, 
« poi, fingendosi cortigiana e, beffando il cognato, facendo- 
« gli passare una nottata a richiuder, sempre, una finestra, 
<f che, sempre, si riapre, si fa riconoscere, dal marito. » ~ 

La presente versione di Bagnoli -Irpina , bastantemente 
scarna ed impoverita, come ognun vede, mi fu, gentilmente, 
data, con parecchie altre, novelle, forse più di due lustri or 
sono, dallo egregio pittore Michele Lonzi , ora , sindaco , 



V. I. 



I 



CINTI POPOLARI SORtNI 

(ConUnuamne, Vedi n.* 2) 

Xlx. Anta tu si', auta comm 'a 'na canna 
E lavorai' a penna de pavone ; 
Ghianca comm 'a neve de montagna, 
Roscia comm' a sangue de dracene ; 
Chesse bellizze véve (1) dalla Spagna, 
Da chella parte addò' cala glie sole, 
Mammeta t' è fatta (anta bella, 
E i' 'nsò' degne de parla' con voi. 

(1) vengono. 

Vedi Tommaseo, voi. I, pag. 75, N.® 5. 

XX. Assai chiù roscia si* che 'na geracia 
E 'mpelle te retrove du' belle rose ; 
Quanne cammiue fa* trema* la casa, 
Povr' amante té comme reposa ? 

A pàtete ce 1* oglie (1) manna' a dice 
Se me vo' dà* la figlia a me pe' sposa ; 
Quarn' arrevata si' dent' alla casa, 
Te vòglie mantené* comm* a 'na rosa. 

(1) lo voglio. 

XXI. Brunetta, te criàrono tutl' i sante, 
Brunetta, te criatte propria Di*, 
Brunetta, che pe' te mórono tutte, 
Brunetta, che pe' te mòre pur' i'. 
Delle brune ne vòglie la stampa, 

Pe' nieltemeir a cap' aglio mie lette. 

Se ce venesse caco' aut' amante, 

— Chesta è la stampa della mia brenetta. 

Si trova una variante del primo tetrastico in un canto 
di Campagna. V. Mov. lett. it. N.*> 14 . 15 Agosto. Sche- 
rillo, canto N. 9. 

XXII. Gomme si* bella me pare 'na Dea, 
Aglio occhie me me pare 'n 'angelina, 
E mo' eh' è revenuta premavera, 
'Nfaccia aglirf petto te fiorisce Abrile. 
Ce nàscene glie fiur' ogne matina, 
Garofone, viol' e gelesemmine ; 

Alla fenestra mia ce ne sta 'na rama 
Rènne sblandore a tutte glie vecine. 

XXIII. Te veng' a revedè', amala rosa, 
Me si' arrebbate glie core alla 'mprevisa, 
Ghiss' occhie m' ève levale glie repose, 
Pe' sempe revuardà' glie beglie vise. 

Me ce 'uarde 'ne' chiss' occhie amoruse. 
Le sangue daglie petto va aglie vise ; 
Quanne te more tu. Caccia amorosa, 
Ama' nu' ce voi ime 'mparadise. 

XXIV. Assai tu si' chiù bella de 'na palomma ; 
Tu si' chiù tonna pure de 'na palla ; 

Ce fa' la cammenata a tarantella, 
Quanne cammino glie petto te balla. 
Volesse DI' i' reventasse poco, 
Pe' Irasi' 'rames' a ellisse petto beglie, 
Pe' sucarme' sse sanguucce doce 
Comm' all' uva fresca moscatella. 

XXV. Tu té' glie capegliucce ricce e fine, 
Sule pe' chesse me t ammèr 'ama' (Il 

E tè' glie occhie che parene da' lampine, 
Tante lontane mànnene sblandore. 
E po' tè' la voccuccia peccolina, 
Che quanne parìe me jètta 'ne fiore 



3» 



Tè' 'na vetuccia bella, curia e flna 
Che chi r abbraccia 'mparaise va. 

(1) ti dovrei amare. 

XXVI. Gli' arbole che s' è sicché 'ufC alla cima 
Non e' è remasa *na fronoa pe' rame, 

G* ève remaste du* rosette 'ncima, 

De chelle du' non sacce quale m' amà\ 

Tutte me diceoe eh' amasse la prima, 

E la seconda chiù bella se fa; 

Ghella ce porta glie ocehie bianch' è nire 

L* auta glie sole mpette tè' 'ncatenate. 

Vedi Ca». Imbr. 1, 1-8; II, 36, il canto di Chieti N.XXIX. 
11,49. la variante di Lecce e Caballino segnato alla lettera e* 

XXVII. Ferite s6' da du' delizie rare, 
Da du' stelle che jèttano sblandore ; 
Una jètta fulmene 'ne' le parla', 

L' auta 'mima morte 'ne' furore ; 
Se i' n' ame una, apò' che diciarrà 
L' auta che juratte tant' amore ? 
Dia, povr' a me comm' aglia 'a fa' ? 
M' ammera spartì' 'mmese chiste core. 

Vedi le varianti della precedente. Di questa ho inteso 
cantare anche Torìginale eh' é letterario ed appartenente 
Torse alle solite raccolte pseudonime di cui in Gas, Imbr. 
si fa spesso menzione. Eccolo. 

Ferito son da due delizie rare, 
Da due stelle che gettano splendore; 
Una mi getta fulmin col parlare, 
E Taltra intima morte con furore; 
S* io ne amo una come potrò amare 
Poi Taltra che giurommi tant'amore. 
Oh Dio! povero me, come ho da fare? 
Dovrei spartire in mezzo questo cuore. 

XXVIII. Tu si' chiù auf assai che 'na canna, 
Me te vorria appoia', forte colonna, 

Té' tutte le bel lizze de Sant' Anna, 
Pare che l' è depenla la Madonna. 
A chesse vraccìa ce sta zuccher' e manna, 
Non se trova aglio munne 'n auta donna; 
Dunche, bene me care, a te 1' aspette, 
Non me fa' mori' pe' 'n ante 'ggelie. 

Vedi in Tigri pag. 331 , Stornello N. 32 una variante 
del quinto verso ; in Gas. Imbr. II. 141 , N. II, neir ana- 
loga di Mondragone , ed in Scherillo , Rivis. Min. N. di 
Nov/ 80 in un canto di Buonabitacoio al N. 18, il terzo 
verso. V. pure in Vigo, Canti siciliani, a pag. 127 la can- 
zone N. 65. 

XXIX. A chisse loche ce sta 'na pontonera. 
Poche descoste dalla casa mia, 

Ce sta 'na femmena che porta biandera, 
Col sole e colle stelle e' è lult' une. 
Quanne se cóleca non cerca lumiera, 
'Neh' chelle bianche carn' essa s' alluma, 
Tu si' chella femmena de premavera, 
Ogne fedel' amante se consuma. 

Vedi Tommaseo, voi. P, pag. 132 canto N. 1. V. Vigo 
una variante di Catania pag. 193, canto N. 27. Tigri canto 
N. 438. Cas. Imbr. II , pag. 432 e 433 la variante di Ba- 
gnoli Irpino che comincia: 

Voglio canta' accanto a 'sta cantoniera. 

XXX. Tu si' chella stella chiù serena, 
Ghella che ce va 'nnanz' alla luna, 

Tu si' chella che m' 'a (1) tanta pena, 
De conte notte non ne dorme (2) una. 
A^lie coglie (3) me iettaste 'na catena, 
r jetti (4) pe stoccarla oh Dia ! eh' è dura ! 
Le sangue mie col tu' è tutta 'na vena 
r non te lasse ma', staile secura. 

(1) mi da\ effetto del d che non si pronuncia. 

(2) Il suono aperto dell' e distingue la 1* e la 3* persona 
dalla 2*, che lo ha stretto. 

(3) collo; ogni voce di genere maschile col doppio l pren- 
de la forma del glie. 



(4) andai. V. il canto Casalvierano pubblicato dal mio 
amico Zincone nel Preludio, N. U , Anno IV. e Fiori di 
Campo ». 

XXXI. Chiù te remire e chiù me pare bella, 
Pe' troppe remerà' cresce glie amore ; 

Me pare de remerà' lucente stella. 
La luna cercondata de sblandore. 
Alla stella riala tu si' sorella, 
E me si' còte chiste beghe fiore ; 
Quanne rerair' a te, gentile donzella, 
'Mparadiso me porta glie sblandore. 

XXXII. Angela se pò' dice che site voi, 
Angela daghe cele calata sei ; 

Glie angele daghe cele glie ragge tuoi, 
E si' levata la luce daghe occhio miei 
r de nesciune me pozze feda', 
Nesciune me commènce (1) sol che lei ; 
Avàntete, bella mia, te pò' avantà', 
De chisse loche la chiù bella sei. 

(l) convince, persuade, va a garbo. 

XXXIII. Me so' partite da lontane tante, 
So' cammenate la notte e glie iorne, 
Mo' che so' revenut' a cheste banne, 
Gomme me pare beglie 'ste coniorne ! 
Sta 'na femmena eh' è bella tante, 
Porta la palma de chiste contorno ; 
Non ce ne stavo e non ce nasciarranne, 
Se Cristo 'nce rennova 'n auto munne. 

XXXIV. Bella, che nasciste 'nsan Giovanne, 
De 'razia e de bellizze me compunne ; 
Chisse petucce té addò' glie manne 

Ce nàscene viole, giglio e frunne. 
Quanta t' è fatta bella chessa mamma', 
'N' auta comm' a le 'nce sta a 'ste munne ; 
r part' e me ne vaghe (1) e pens' a tO; 
Tu chisse core 'nfa' addormì' pe' me. 

(\) vado. 

XXXV. luce la iuna ma non luce tante, 
Ce iuce glie sole quanne fa bon tempo, 
Ma iuce sempe 'sse petto galante, 
'Mmese ce so' du' pome d' argente ; 
Che chi glie tocca ce deventa sante. 
Che chi glie bacia è felice pe' sempe ; 
Se m' aiioccass' a me povr' amante, 
Saria felic' e morarria contente. 

Vedi Tommaseo voi. 1.® pag. 373, N. 10. Cas. Imbr. 
36, N. XXI di Gessopalena e seguenti. 

XXXVI. Bella, fra 1' auto donne vagheggiante 
Tu fuste sule '1 mie fedel' amore ; 

Sule da te, mia cara, me 'nnammoratte. 
De te non se ne trova de nesciune colore. 
Scià benedetta mammola che se maretatte. 
Che t' è depenla a te de 'sse colore, 
r me ne vaglie e tu 'nle ne scorda', 
Recordele de me, mio car' amore. 

XXXVII. Bella, che si' nat' aglio giardino, 
E noli' e ghiorne ghianca e rosela state. 
'Manche (1) se te adorasse cacche rurbine, (2) 
Te vede bella de 'mniern' e d' estate. 

De tutte r auto site chiù gentile. 
Ogni vota che me vite, non me parlate: 
'Manche che ce fusse 'ne romite, 
Quanne me velile me scacciale. 

(1) Nemmanco. 
(2^ Cherubino. 

XXXVIII. Quanta si' bella, penna de paone, 
Te potess' a mammet' arrobbà' ! 

I II vostre patre e' era cacche pettore, 

II Che t' è depenta tante bella assai. 



M 



'Ni' è tlepenla né bella né bruna, 
Ma s' è depenla a penna de paone. 

Vedi Tonrimaseo voi. 1.®, pag. 372» la variante N. 7, e 
lo altre in Gas. Imbr. I» Tuna di Spinoso a pag. 211, che 
comincia : 

« Quanta si bella, figlia de nutaro » 

e Taltra di Napoli a pag. 224 che comincia: 

« Quanno la mamma vostra fece a buie » 

XXXIX. Chisle è glie vecolelie delle belle, 
Àddónna ce spasseggene le fate ; 
Ce sta 'na gióna 'ne glie beghe vise, 
E che fa glie vuttun' arracamate ; 
lètlamenne quatt' a 'sta cammicia, 
Ca te glie paie ducente ducate. 
Me responne 'ne' 'na vocca risa : 
So vussune d' amore, stave paiute. 

Vedi Tommaseo , una variante del 1.® verso , pag. 44 , 
voi. 1<>, canto N. 6; ed in Tigri lo stornello N, 29 a pag.3.31. 

XL. 'Ne jorne me chiamarne pe' giudecatore, 
Pe' giudecà' 'na cocchia de sorelle ; 
Pe' giudecà' la ghianca e la bruna, 
De chelle du' qual' era la chiù beila. 
Ija ghianca me pareva 'ne campe de fiure, 
La bruna 'na latiuca tenerella ; 
Commalte ce vorria ne la fortuna, 
Tutte decènne ca la bruna è chiù bella. 

Vedi in Gas. Imbr. 11/53, VI la variante di Grottami- 
narda ( Principato Ulteriore ). 11 medesimo contrasto , in 
un' analoga di Aci (Sicilia) , vedi lu Vigo pag. 156 N. 5. 

XLI. Fiore, che te meratle sull' aurora 
Leggiadra donna e de beltà repiena ; 
Tu arrobb' i ragge al sol' e 'nse scolora 
Dimme se si' ceiesi' oppur terrena. 
Se la luna le sguarda essa l' adora, 
Pe' remerò' la tua faccia serena. 
Tu pe' madre d' amore ne sei signora, 
De queste iìde core sei la catena. 

Questa come chiaro si vede , è d* origine letteraria. 



1! 



(continua) 



Vincenzo SimOncelu 



Pubblioazioni in dialetto peryenuteei in dono 



Lo commannatore Floremo I e U' archivio | de lo Collegio 
de museca | vierze | de | Giovanne Gagliardi | Napoli i 
Stab. Tip. di Vincenzo Pesole | Via S. Sebastiano , 3 1 
1884. In 8.^ pagg. 20. 



NOTIZIE 

Il Corriere del Mattino, del venerdi, 28 marzo 1884, 
pubblicava, nella Par^ leUerarla, un racconto intitolato: 
li- PoRCAJo, e preteso tradotto dallo Anderssen. 

Diciamo preteso , giacché non ci par far torto alle co- 
gnizioni poliglotte di quel periodico, se rechiamo in dub- 
bio, che la traduzione sia ratta, direttamente, dallo origi- 
nalo danese. Quel, che, però, c'importa di rilevare, si è che, 
il tema di essa novella non può dirsi , punto , invenzione 
dello Anderssen. È, invece, un racconto popolare e, come 
pare, d'origine, appunto, italiana. 

lìPorcajo non è, in fondo, se non la celebre novella della 
figliuola del Conte di Tolosa, scritta da Luigi Alamanni. 
La ritroviamo, in forma meno alterata dalle pretese let- 
terarie . nel Conto II della Giornata IV del Cunte de li 
Cunte del nostro Giambattista Basile: — « Lo Re di Bello 
_« paese, disprezzato da Cinziella, figlia de lo Re de Suor- 
« coluongo , dapò che n* happe fatta 'na gran mennetta, 
« reducennola a male termine, se la piglia pe'mogliera.» — 



nu me- 



sone varianti popolari di questa fiaba : 

I. La RiginoUa sgninjignusa di Erico, pag. 374-81, 
,, ro CU, voi. II. PiTRÉ. 

II. Die GedemiUhigte KOnigsiochter N^ XVIII , de' Sicil 
Màrchen della Gonzenbach. 



1 



IH. Iji Principessa Salimbecca e il Principe Carbonajo, 
versione senese, nella Vigìlia di Pa-^qua di Ceppo del 
Gradi. 

IV. DcrKitnigsFohn ah Bdcker, n. IX degli Italien. Wolcks- 
màrclien del Knust. Versione di Livorno , molto di- 
fettosa, specialmente delle umiliazioni inflitte alla fi- 
gliola del Re di Parigi. 

V. Il Magnano o pelo torto in harha^ n. XXII, delle Sos- 

santa Nocelle popolari Montatesi del Nerucci. 

VI. Brièla in barba delle novelle popolari bolognesi della 
Coroned|-Berti. 

Anche i Tedeschi hanno questa fiaba, che chiamano la 
fiaba del Re Barba di lordo (Urosselbart). Federico Roeber, 
nel ricavarne un dramma, tre anni fa, riconosceva , one- 
stamente, di dovere quanto vi ora di bello, non alla fiaba 
popolare tedesca, bensì alla veisione dello Alamanni. 

Una o«iitiirla di prov^rbli trentliil 

È Questo il titolo d*un opuscoletto pubblicato daAlbiuo 
e Oddone Zenatti e tirato a solo quarantacinque esem- 
plari. 

Già, prima, Giovan Pietro Beltrami aveva dato in luce 
un manipolo di proverbii trentini nei suoi Cenio proverbi 
volgari. Alcuni altri si trovano nel Vocabolario vernacolo 
del? Azzolini, comjgendiato da G. Bertanza e nell' ottavo 
Annuario della Società degli Alpinisti dovuti a N. Bolo- 
gnini. 

E bisogna notare anche qui che si trovano nella Rac- 
colta di proverbi veneti del Pasqualigo , cui li spedirono 
Antonio Emmerti e il dott. G. B. BorufTaldi; -ma veniamo 
airopuscolo in parola. 

In poche righe di prefazione si ricordano i predecessori 
e si avverte, che nuesti proverbii si sono raccolti alla Chiz- 
zola, villaggio delta Val Lagarina sulla destra dell* Adige, 
alle falde del Baldo. 

Al solito alcuni pochi sembrano proverbii locali , come 
questi : A Belùm no triga nessàm; e A Brentim né pam, né 
vim; A Rivolta i béchi salta ec. Ma i più si ripetono, co- 
me è naturale nelle diverse parti d'Italia, come: Aquapas- 
soda no fa nar molim, che corrisponde a questo napol.: 
Acqua passata nu* màcina chiù mulino ; come : Chi ga soldi 
da trar via, meta òpere- e no ghe stia,... chi ha denar da 
gettar via, cominci l'opera e non vi s^/a... proverbio com- 
preso nella raccoltina di proverbii toscani, che va sotto il 
nome del Giusti. 

È stato buono il pensiero di disporli alfabeticamente , 
solo, forse «sarebbe stato meglio aggiungere ad ogni pro- 
verbio qualche illustrazione; e, talvolta anche il corrispon- 
dente in altri vernacoli. 

Forse sarebbe stato anche opportuno nelfortografia non 
tenersi ad « una via di mezzo fra la comune e la scien- 
tifica»; ma adottare quest'ultima senza altro; e per ès. sa- 
sebbe stato buono indicar con un'apostrofe Tapocopamen- 
to di no, NON, napoletano nu; ma queste son cose , che 
non iscemano punto pregio alla raccoltina. Anzi ci piace 
qui, conchiudere citando un altro di questi proverbii: — 
« Zinque cosse me si bòrni fighi, pèrseghiy e melóni, Vocio 
« del caoréto e Vaia del capam, » 

Pei tipi della tipografìa Conti di Matera, Francesco Fe- 
sta ha pubblicato un volumetto di 64 pagine dal titolo : 
Nuove poesie e prosa in dialetto maierano ec Veramente, 
in prosa vi è solo un conto : U llioni e upuddici , di cui 
non mancano raffronti in altri vernacoli, vi sono anche 
cinque traduzioni, fra le quali quelle del : Dies irae.,.. e 
de' versi attribuiti al Giusti : Il Creatore e il suo mondo. 
Vi sono altri componimenti; ma la maggior parte non di 
indole schiettamente popolare; anzi dei versi, solo, scritti 
in dialetto. E trattandosi d'un vernacolo poco studiato, 
anche queste produzioni hanno certo interesse benchò non 
uguaglino quelle di altre comprese nell- opuscolo e che 
vanno sotto il nome di canti sul tamburello nel ballo della 
tarantella, canti delle donne presso la culla dei bambini ec. 

La maggior parte di quest' ultimi»' come ci avverte ri- 
stesse Festa, furono annotati e pubblicati da Luisi Moli* 
naro Del Chiaro (Napoli, 1882). È forse avrebbe fatto bene 
a riportare anche le poche note e ad aggiungere dei ri- 
scontri in altri dialetti , e ad adottare un ortografia più 
comunemente accettata . In una parola il Festa più che 
avere una mira scientifica , ha cercato di divulgare del* 
le composizioni nel dialetto materano , ed anche da que- 
sto punto di vista, il suo lavoro è interessante por- 
gendfo un materiale utile ai cultori degli studii di lette- 
ratura popolare. 



32 



Il dottor Giuseppe Pitrè, tanto benemerito pei suoi studi! 
di letteratura popolare, in questi giorni ha pubblicato un 
elegante opuscoletto dal titolo: La JcUcUura ed il Mal'oC' 
chio in Sicilia^ in sedicesimo di pag. 12, edito a Kolo^svdr 
(Clausemburgo) 18S4. In questo pregevole lavoro tirato a 
solo cento esemplari, l'autore si occupa minutamente del 
fascino e del malocchio ( che in Napoli diciamo , 'e ma- 
luoccMe ì di cui il nostro Nicola Valletta è stato « il più 
serio illustratore», secondo giudica lo stesso Pitrè. Co- 
gì amo quest'occasione per ricordare un opuscoletto quasi 
affatto sconosciuto, intitolato: u Antidoto \ al fascino \ detto 
volgarmente | Jettaiura \ per servire d'appendice alla cica" 
lata I di I Iticela Valletta | con risposta alle tredici qui- 
stioni proposte dallo stesso in fine della sita opera j da \ 
AntomoSchioppa | Napoli \ Per le stampe del Fierro | 1830, 
in trentaduesimo, oltre una di errata-corrige e cinque bian- 
che innumerate 

Ricordiamo pure i : « Capricci \ sulla \ dettatura \ di \ 
Gian^Leonardo Marugj \ Pastore Arcade di Numero i Na- 
poli I Dalla Tipografia di Luigi Nobile | MDCCCXV. [ (In 
sedicesimo, pagg. VII M40, oltre due bianche e innumerate). 
La prima ediz. venne fatta nel 1788 un anno dopo la pubbli- 
cazione della cicalata del Valletta. Aggiungiamo, da ulti- 
mo» a questi due libri un manoscritto, in trentaduesimo , 
posseduto dal sig. Molinaro, dal titolo: La | Jettatura | A— 
Fenicio Pimene , Dedicata \ Cicalata del Caoalier Carducci 
di Taranto. Dì questo poemetto parecchie sestine son ri- 
portate nei lavoro del Valletta, li mss. è di pag. 74, oltre 
poche altre bianche ed inuumerate. In tine vi sono alcuni 
scrittarelli di altri autori. Non riferiamo, poi, il titolo di 
una memoria stampata di Michele Ardito, per non averla 
sott'occhi. 

La morte di P. E, Tulelli, professore ordinario dililo- 
«otia morale ne^^& nostra Università , del quale si sono 
occupati i diari* cittadini, ci porge il destro per ricordare 
un opuscolo dì lui, poco conosciuto e tirato a pochi esem- 
plari, mtitolato: — oacro mistero | ossia \ Rappresentai io- 
ne \ Drammatica \ in. onore ' di San Pancrazio l protettore 
<U Zagarise, e Vescovo di Taormina i Napoli \ Tip- della 
-«• Umversitd \ nel già Collegio del Saldatore ( 1882 ). ( In 
ouavo piccolo di pag. 32 ). E una rappresentazione po- 
polare « che conta almeno due secoli di antichità e se- 
** condo la tradizione -fu composta dal patrizio Pancrazio, 

* i^*®J." ^ fu ridotta alla presente forma ed estensione 

* da Diego Nicastro... » 

Il compianto prof. Tulelli, poi, cedendo alle insistenze 
"1 qualche amico, fu il primo a pubblicarla per le stau pe. 



Anni sono, un nostro collaboratore, nel raccogliere fa- 
cezie p(n>olari, stretto dal tempo, si notò d'un racconto, 
solo, il dialogo maccheronico, riserbandosi a stender, poi, 
la novella a oeir agio. Quindi, dimenticò o^ni cosa ; ed, 
ora, ha ritrovato, in un quaderno d'appunti, il dialoghetto 
notato; ma non ha potuto ritrovare, nella sua memoria, la 
novelletta cui esse irasi maccheroniche si riferiscono. Le 

?[ualì, qui, si stampano pregando chiunque conoscesse la 
acezia, alla quale appartengono, di benignarsi a comuni. 
caria al GiambcUtisla Basile, 

— Ubi est corpus Sancii Januarii ? 

- Subibus abascibus in cafocchiellum locai. 

L'interessante cod. della Nazionale di Parigi, N.o 1035, 
di cui si è fatto cenno nel \9 ^^n, del nostro periodico, 
contenente parecchi Strambocti in dialetto napoletano, sa- 
rà pubblicato nel prossimo numero del Gior, Nap. di Fi- 
losofia e Lettere^ diretto dal prof. Fiorentino, con note e 
schiarimenti del nostro amico e e Uaboratore prof. Mario 
Mandalari e Giuseppe Mazzatinti. Sarà una puhblicazioiie 
di grande importanza pei cultori della letteratura popolare. 

La Nuova Provincia di Molise {Campobasso): nel n.^ 
9, ^nno IV leggesi un* articolo del nostro collaboratore 
Gaetano, Amalfi , dal titolo : — ■ Mimica popolare. 

Nel N.® 10, anno IV , è inserito sotto la rubrica Lette- 
r^itura popolare , il Conto del Re dei sette veli , raccolto 
in Piano di Sorrento e tradotto, da quel dialetto, in lin- 
gua italiana, dallo stesso Amalfi. 

Nel N.« 12. Emilio Pittarelli pubblica XV canti del po- 
polo, raccolti in Campochiaro. Questi XV canti, che ap- 
partenf^ono ad un* ampia raccolta ancora inedita , sono 
privi di note e di confronti. E, se ci siamo persuasi che 



queir E di carattere corsivo, si debba pronunziar muta, 
di certe maiuscole poi , messe in principio di molte pa- 
role, non abbiamo saputo comprenderne J' uso. Un'avver- 
tenza sarebbe tornata indispensabile. 

Per le nozze — Pado^an- Masso pust — il signor Giu- 
seppe Mazzatinti , ha pubblicato un elegante opuscoletto 
conienente nove serenale umbre, tipi di u lovanni Marengo 
Alba, 1883. 

Una variante calabrese dijUa rappresentazione « I dodici 
mesi del prof. Vittorio Caravelli (la stessa edita dal /^re- 
ludiOf Anno VII, N". 16) è stata riprodotta dall' Archivio 
per lo studio delle tradizioni popolari del Pitrè. 

Dal quale Arctuvio^ il Caraveiu ne ha fatto estrarre 25 
esemplari, ed uno di essi ci ha gentilmente mandato m 
dono. 

Nei fas. 16, 17, 20, 21 della Nuova Antologia, la signora 
Caterina Pigoniii-Beri ha pubblicato uu pregevole lavorw, 
dal titolo In Calabria, in cui ri pòrta alcuni canti del po- 
polo calabrese inediti ed aUri tolti dalla raccolta del prof. 
Mandalari. 

11 primo numero (Napoli, 16 marzo 1884) del nuovo gior- 
nale « Giovinezza » contiene un sonetto in dialetto na- 
poletano dal tiioio: Ncanciello, del sig. Ferdinando Kuaaso. 

Il Giusti (Lecce) : Anno I , Num. *Z e 3 . Febbraio e 
Marzo 1884, contengono : Poesie popolari leccesi^ raccolte 
da e. A. senza nessunissimo conironto con cauli di alii*e 
Provincie. 



Riceviamo e pubblichiaipo : 

Napoli, 24 Febbraio 1884. 
Stimatissimo signor Direttore^ 

Fiducioso che V. S. voglia pubblicare la presente, mi 
permeilo y per bene degli stuan dialettali , ai lare umu- 
mente un'osservazione aii egregio i'rui. x:iiumauuele Hocco, 
circa il rompere it oicchiere. 

Il passo dei PetUamerone significa che il re poteva non 
soiamente restare ajjranzo; ma j^assare la notte ancora 
in quel sontuoso palagio, i^, se u preioilato Proi. Hocco 
si losse preso il lastiuiu di consultare i principali nostri 
scrittori in dialetto, voglio dire il Cortese , u Fagano , il 
Piccinni e lo bgruttendio , ne avrebbe tiovata per lermo 
la spiegazione* 

E, saiutandola distiiUamenie mi dicbiaro 

il suo aòbonato 
F. ti. 



Abbiamo ricevuto il prezzo d' abbonamento 
dai signori: 

132. Giusso Conte Girolamo — Napoli. 
13'^. Ordine Luigi — Napoli. 

134. Pansio Vincenzo fu Scipione — Kogliano. 

135. Pellegrini Prof. Astorre - L.ivonio. 

136. bresciani Pru/, Renalo — Foggia. 



Errata Corrige : Nella leggenda rumena, traduzio- 
ne del tioaim. Micuoiaugelo Tancredi, pubblicala nel iN. 2 
del presente periodico, nei ^ 5' e b" invece di propetE, , 
leggi propetOy e nel ^ VZ"^ sprofumato in luogo di stwo- 
fuìiìiato. 



Gaetano Molinaro — Responsabile 



Tipi Carluccio, de Bbsio & C^ _ Largo Costantinopoli, N. ^^ 



ANNO IL 



Napoli , 15 Maggio 18S4. 



NUM. 5. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBOKAICEMTO ANUVO 



Per r Itali A L. 4 — Ester» L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di 
•idenza. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



A77EBTSKZE 



DIBETTORE 



L. HOUNABO DEL CHI ABO 



Indirizzare raglia Jettero o mamoscrìtti 
al Direttore Eiuigl IMollfiaro Ilei 
I Chiaro. 

Si terrà parola delie opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino. 56. 



SOflnUARie: — La ortografia del dialetto napoletano (G. 
Capone) — Saggio dì alcuni studi i sul popolo calabrese 
(A. Julia di Vincenzo) - Paesaggi meridionali (L. Or- 
dine) — Statuto della Società per lo studio delle tradi- 
zioni popolari in Italia — Canti popolari sorani (V. Si- 

MONCELLl) — Notizie. 



Per tutti gli articoli ò riserrata la proprietà 
letteraria e sono vietate le riprodazioni e le tra- 
duzioni. 



l' ORTOGRAFIA BEI DIALEnO NAPOLETANO 

In un articolo pubblicato nel Numero i , Anno II. del 
Giambattista Basile , ii sig. Gaetano Àmaltì trattò bre- 
vemente della Ortografia del Dialetto Napoletano, pro- 
ponendo alcuni segni di trascrizione. Egli intanto dimenticò 
parecchi casi nei quali la trascrizione usata comunemente 
della parola napoletana è poco fedele ; io quindi ripiglio 
queir argomento , col proposito di esporre i criteri orto- 
grafici del Prof. Imbriani (1) , di farci qualche osserva- 
zione, e poi, riunendo le cose dette da lui a quelle esposte 
dairAmalfi, di dare un elenco possibilmente compiuto dei 
punti in cui la grafia del Dialetto napoletano ha bisogno 
di esser corretta o modificata. 

L' Imbriani dunque comincia col dire , che ha a tentalo 
<c di rendere esattamente la pronuncia » (2) ; poi aggiunge : 
« Considerando... ogni vocabolo vernacolo come alterazione 
« della voce etimologicamente corrispondente nello Italiano 
« aulico, indico con un apostrofo ogni aferesi ed ogni apo- 
« cope, ancorché il vocabolo nel dialetto esista solo in quella 
(c forma apocopata od aferizzata. Mi sembra , che , in tal 
c( modo, ne sia facilitata V intelligenza al lettore e si otten- 
<x ga di distinguere parole, che suonano press'a poco iden- 
« ticamente , sebbene diversissime di significato , esemph- 
c< grazia 'no (uno , articolo indeterminato) , no (no) e no' 
« (non) ; 'sse (queste) e sse (sé) ; 'sta (questa) e sta' (sta- 
« re) eccetera » (3). 

Quanto alle lettere doppie iniziali, T Imbriani le esclude 
quasi assolutamente : « Le consonami iniziali di molti vo- 
u caboli si pronunziano, appunto come in Italiano, quando 
a scempie e quando doppie, secondo il valore tonico della 
a sillatei precedente. Alcuni, anzi i più scrittori in dialetto 
<c han quindi stimato opportuno di raddoppiarle talvolta, con- 
ce suetudine acerbamente ripresa dal Galiani. Conoscendo per 
« pruova, quanto cosilTatti raddoppiamenti perturbinola vista 
(c e confondano la mente, li abbiamo soppressi ; reputando, 
« non essercene maggior bisogno ed utile nello scrivere il 
K dialetto, di quel, che ce ne sia nello scrivere Io Italiano 



(( comune ; e conservando il raddoppiamento iniziale, solo 
(c nelle parole, in cui é costante per ragioni etimologiche od 
« altre, come in lloco, (là) che viene da in loco » (4). 

Infine V Imbriani avverte, che sarebbe da trascrivere il 
suono che il s ha in certi casi, somigliante al sh inglese, 
eh francese e sch tedesco ; ma poiché converrebbe usare 
qualche strano nesso o introdurre un nuovo segno , prefe- 
risce trascurarlo (5) 

10 accetto , senza alcuna restrizione , il principio della 
trascrizione esatta, che l' Imbriani stabilisce, ma non posso 
ammettere, né V uso degli apostrofi , né V esclusione delle 
doppie iniziali. Perciò, chiedendo mille volte scuse, a lui 
mio venerato Maestro, di doverlo contraddire, passo ad*e^ 
sporre le obbiezioni. 

L'uso degli apostrofi poggia tutto su un principio etimo- 
logico molto discutibile. Glottologicamente parlando, non é 
giusto far rimontare la forma vernacola alla forma aulica, 
perché questa non é preesistente, ma coesistente^ anzi in 
molti casi posteriore. V intelligenza della parola vernacola 
non é gran che facilitata dall'apostrofo; e lo stesso fine si 
raggiunge con note, lessici, traduzioni ecc. Quanto alla pro- 
nunzia, é chiaro che l'apostrofo non l'agevola, non fa anzi 
che imbrogliarla. Si aggiunga inoltre, che Tuso di quel bene- 
detto apostrofo é sp^o incerto , dipendendo dal criterio 
etimologico dello scrittore; co^ marammé, che Tlmbriani 
rifensce ad un amaro-me e scrive quindi 'marammé, più 
probabilmente sarà un male-a-me {amaro-me non spiega il 
raddoppiamento del m, che diventa naturalissimo quando 
si tratti .di un male-ad-rney maram-mè ) : cosi janco é 
scrìtto 'janco sebbene non ci sia neanche per ombra afe- 
resi di 6 , perché bl - iniziale a Napoli si risolve con j 
[janghe, junne, jastémma ecc.) (6). 

Ad onta di tutte queste ragioni gli apostrofi potrebbero 
alla fine esser tollerati perché se non fanno bene , almeno 
gran male non fanno: quel che non può andare assolutamente 
é r esclusione delle doppie iniziali. La colpa di questo o- 
stracismo é tutta del Galiani, il quale non trova parole ab- 
bastanza energiche per riprovare la trascrizione delle dop- 
pie iniziali, e adduce le stesse precise ragioni che abbiamo 
visto poco fa (7). Al Galiani però, rispose spiritosamente 
Luigi Serio nel suo Vemacchto (8) dicendo: « Ve site pi- 
« gliate collera co Io Fasano, e lo Lommardo , eh* hanno 
« scritto cca bbedivCy ceke cchiammanno ecc. Lo tti*oppo 
« é troppo ; ma vuje , che bolite leva de peccato lo dia- 
« letto nuosto, patite de lesena, arrassosia. Li Taliane par- 
te lano comme scriveno, e perzò s' bave da dare quaccosa 
<r a lo suono de le parole. Lo Toscano , pe no paraone , 
« dice due fichi e t fichi, e pronunzia d'una manera 1' f; 
« ma nuje decimmo doje fi>co , e le ffico. Sta defierenzia 
« l'avìmmo da fa vede pure co lo scritto, e pò quanno se 
« tratta, ca s'ajutano accossì li frostiere a leggere meglio, 
(c te scippano fuorze qua mmola, quanno addoppejano le 
<c cconzonanle. » 

11 Serio altrove risponde a un' altra sciocca pretensione 
del Galiani (9)i che cioé^ sebbene a Napoli alcune parola 



34 






si pronunziino ora con h ed ora con v ( nna vota , tré 
hhòte ecc. ) , si debba scrivere sempre con h quelle che 
nella corrispondente Ilaliana hanno 6, e così con r, quelle 
che in Italiano hanno v. Per questa parte Galiani ha avuto 
lorto ; tutti sono d'accordo a scrivere voh secondo occoitc, 
e r Imbriani nota specificatamente, che il rinforzo di i; in 6 
è di regola , e che, se certe volte non si trova segnato, è 
per trascuratezza (10). Or bene il raddoppiamento della 
consonante iniziale ed il passaggio di t; in o sono la stes- 
sissima cosa , per modo che accettato questo, non si può 
lasciar da parte quello. Mi spiego. Nel dialetto napoletano 
(come in altri) , ci sono parole che hanno la proprietà di 
legarsi alla parola successiva cominciante da consonante, 
per causa dell' accento o per altre ragioni che sarebbe 
inutile accennare (11). In questi casi, la consonante iniziale 
si lega alla parola precedente, rinforzandosi ; e si rinforza 
raddoppiandosi semplicemente (oppane^ iffémmene ecc.), 
passando in un altra consonante alfine che si raddoppia 
alla sua volta {'a varca, tré bbarche, janghCy è gghianche 
ecc.). Non c'è, si può dire, lingua o dialetto che non abbia 
i suoi casi di raddoppiamento, ma le norme di questo fe- 
nomeno variano moltissimo lino tra i dialetti di una stessa 
regione (12), e sono oggetto di continuo studio da parte dei 
glottologi, i quali perciò non si farebbero scrupolo di scri- 
ver doppie tutte quelle lettere che la pronunzia fa sentir 
forti. Né vale il dire che anche in italiano, in certi casi 
si pronunzia doppia la consonante scritta scempia; mi me- 
mviglio anzi come anche l'Amalfi abbia ripetuto questo 
sciocco argomento messo innanzi dal Galiani (13), senza ri- 
«lordarsi che tra una Ungim e la sua ortografia, e un dia- 
letto e la sua trascrizione ci corre un abisso. L' Italiano 
oggi non scrive le doppie iniziali, ma negU antichi mano- 
scritti si trovano frequentissimamente , ed anche noi usia- 
mo accanto [ad-canio), altrettanto [altr'et-tanto) soprat» 
tutto (sopr'ad'tutto) ecc. in cui la doppia è rimasta (14). 

Se ci l'osse bisogno di più ragioni per dimostrare una 
cosa tanto semplice ed evidente, troverei un argomento as- 
sai valido nel fatto, che quelU stessi i quali escludono le 
doppie iniziali, sono slati costretti a usarle in parecchi casi ; 
il Galiani, T Imbriani, T Amalfi, fanno delle eccezioni (15), 
le quali, scarse che siano, bastano a mostrare la opportu- 
nità di quel sistema di trascrizione. 

in quei casi il raddoppiamento è stalo ammesso, perchè 
la ragione ne era piii visibile, ma quando si sarà capito (e 
non ci vuol molto), che una ragione fonetica c'è sempre, 
non ci sarà più motivo di fare esclusioni. 



Ed ora, pigliando per ordine T alfabeto, riunirò in breve 
tutti gU appunti che riguardano la trascrizione del Dialetto 
Napoletano. 

I. VOCALI 

Prima defi'Amalfi (nell'Articolo citato), meno i glottologi 
nessuno ha tenuto conto dell' e muta, che pure è una delle 
caratteristiche del Dialetto Napoletano. Trascurando di no- 
tare questa Vocale, il dialetto assume un aspetto assai si- 
mile a quello di altre parlate, in cui T e muta non si trova; 
come può vedersi paragonando , per es., i Ganti di Mon- 
tella pubblicati dall' Imbriani (16) colle loro varianti na- 
poletane. 

È necessario anche segnare accuratamente le vocali strette 
e larghe ; essendo per il glottologo cosa di sommo inte- 
resse sapere come si è continuata una vocale latina. 

Sarebbe anche buono notare la lunghezza o la brevità 
delle vocali , e far vedere, anche all' occhio, la differenza 
che passa tra Va di pane, e la seconda di càngàre, pas- 
sare ecc. (17). 

L' i accentato in iato si pronunzia sempre propagginando 
un j {vija, mije, ggelusìja ecc.) (18); e t]uesto i deve esser 
trascritto. Del resto l' uso della semivocale j è necessario 
in molli casi, per es. quando si tratta di indicare che in 
cchjièsija, Taccento poggia tutto sufi' ie e non sull'i (Gfr. 
chi era ecc.). 

Infine i due dittonghi ie no hanno da esser trascritti in 



maniera da mostrare come essi differiscano dagli equiva- 
lenti toscani. 

n. CONSONANTI 

CONSONANTI CONTINUE 

S 

a 

La grafia comune confonde in un solo nesso [se) due 
suoni perfettamente distinti: quello che si sente in casciay 
muscCy ascevoK ecc. ; e l' altro, che si trova in musciUej 
sciore ecc. e che risponde precisamente ai e palatale fio- 
rentino tra vocali (19). 

Quel suono che T Imbriani (20) , come s' è visto , nota 
nel s in certi casi , e che non è punto un difetto di pro- 
nunzia, è lo slesso s di cascia ecc. (continua sorda lin- 
guale). 

N, M 

Nulla di particolare e' è a dire sulla pronunzia o trascri- 
zìone di queste nasali , ma sono importantissime le muta- 
zioni, che esse fanno subire alle consonanti cui precedono. 

Infatti : Ogni consonante muta (e, gw, ^, p, s), prece- 
duta da una nasale (n, m). passa nella sonora corri- 
spondente (gr, gu d, 6, 0). 

Così: ne diviene ng; nqu, ngu; nt, nd; np ed mp^mb 
(qui oltre al passaggio in sonora del t, la nasale dentale 
n, si è assimilata al b labiale, dicendosi m)\ ns, nss. 

Questa regola è assolutamente invariabile non solo a Na- 
poli, ma in gran parte della Bassa Italia; pure i trascrit- 
tori del dialetto nosu*o non se ne sono quasi accorti (21). 



Deve esser distinto accuratamente il a dolce dal z aspro. 

CONSONANTI ESPLOSIVE 
G, B 

Il g palatale (cioè schiacciato , dinanzi ad «, i) ed il & 
si pronunciano sempre forti, sia in principio che in inezzo 
di parola {ggelate, raggicne, bbotta, libbre, bbrave ecc.). E 
questo è uno dei tanti casi in cui V apostrofo non serve e 
invece la doppia iniziale è indispensabile (22). 

Ed ora la mia chiacchierata è finita, perchè, quanto ai 
segni di trascrizione, rimando il lettore a quelli proposti 
dal Prof. Ascoli neir Archivio Glottologico, e adoperati, con 
piccole modificazioni , dagli scrittori dello stesso Archivio 
e da parecchi altri (23). 

Giulio Capone 



(1) V. Canti Popolari Delle Provincie Meridionali Rac- 
colti da Antonio Casetti e Vittorio Imbriani — Torino , 
Loescher, 1871, 2 voi.— voi. I pa^g. V-VIII: XII Conti Po, 
miglìanesi con varianti Avefiinesi , Montellesi , Bagnole- 
si, Milanesi , Toscane , ecc. Napoli , Detken e RochoU , 
M.DCCC.LXXVl. Pagg .XVIIl-XXl e poi, pagg. 10-12 no- 
ta 5; pagg. 18-19 note 7, 10, 12 ecc. 

(2) XII Conti ecc. pag. XVIII. 

(3) XII Conti ecc. pagg. XVIII-XIX e Canti Popolari 
ecc. pag. VI. 

(4) XII Conti ecc. pag. XIX, Canti Popolari ecc. pagg. 
Vl-VIl. 

(5) XII Conti ecc. pagg. XIX-XX, e Canti Popolari ecc. 
pagg. VII-VIII. In quest' ultimo libro (pag. Vili) V Im- 
briani propone di adoperare il nesso sh, usato giada al- 
cuni antichi scrittori napoletani. 

(6) Noto , a proposito del b , che il D* Ambra , nel suo 
Dizionario Napolitano-Toscano , ha scoperto che questa 
lettera « è tramutata.... spesso in j (janco, jonna) (?) Op. 
cit. pag. 79, colonna 1* Lettera B. 

(7) Del Dialetto Napoletano Napelli MDCCLXXIX , 

per Vincenzo Mazzola-Vòcola, pagg. 43-44. Potrà far me- 
raviglia, che io trattando dell'Ortografia napoletana , ab* 



35 



bìa lascialo da parte Topera del Galiani, in cui e è un in- 
tepo capitolo consacrato a quest argomento (pagg. 39-46), 
ma se mi fossi posto a confuUre gli .errori innumerevoli 
che ci si trovano non Tavrei finita più. 

(B) Di questo graziosissiroo opuscolo non ho potuto aver 
a mano fa prima edizione (pubblicata, secondo il Marte 
ra^aTanno^nSO): citò quindi l'edizione del Porcelli (Na- 
poli, 1789) pagg. 17-18. 

(ft) Dialetto Napoletano, pagg. 44-45; Vernacchio pagg. 
12-13. 

(10) XTI Conti Pomiglianesi ecc. pag. 18. Nota 7. 

(11) Chi volesse saperne di più cir(*a il raddoppiamento 
inÌTiale può consultare: D'Ovidio: Di ?,^^""^,^*''?l!',^^^^^ 
nella pronunzia Toscana Producono »^^ ^«^.^^PP^*^^^^^^^ 
della cnnsonnntr^ inizi-lp della pnrola ^Wiep*?' "«^'l^.P^: 
ff^ator/ \nno 50 Disn. T. pas?jr. 64 76: D'Ovidio: Fonetica 
dl^l Sto di Cpmrobas.'>: Archivio T.lottolopjico: IV 14^ 
1R4 V mw. 177-^8^ -Rnina: Osservazioni fonologiche 
l^'ro^sWì un manoscritto dena >>i ^^oteca M. .babec- 
chiauJ». Propugnatore. Anno 5<> Disp. I» pagg. 29-(5.i. v. 
pair?- 41-56. 

(12) Cosi npl dialotto d? Gìovìnazzo (Provincia di Bari) 
il n raddoppia in ot5 Ks. e vvedaije (e vedere^ e«c. 

(13) Del Dialetto Napoletano, pagg. 22; 44-45. 
fl4) V. Rajna articolo citato: Propugnatore, ecc. 

(15) Galiani, Dialetto NnpoÌAt<*no, pasrsr. 43-44. Tnìbrìani 
ranti Popolari, najr. VII; XH Conti Pomiglianesi, naor. 
XIX. Amalfi, articolo citato: G. B Basile. Anno li. N*» 1 
pajc. 4. 

(16) Canti Popolari ecc. Voi. IT, pagg. 295-318. 

(17) A Napoli esistono a rìj?or di termine tre ar una bre- 
vissima, che rasentn Vn. muta {cdnqàm), una media {pane, 
cave), e una lunga (« capa^=a a ca'^a^jHa casa), trascritta 
ordinnriamPntA ppr d. Per Va breve V. D Ovidio. Fone- 
tica dpl d'nl. di Camnobasso ecc., pag. 156. 

(18) V. D'Ovidio. Fonetica ecc. pag. 160. 

(19) Si son fatti parecchi tentativi per render questi due 
«noni: Basile p Cortese li trascrissero jyev .s/i. Scoppa r>^r 
X, Mattia del Piano per 5^r (dinanzi « consonante) V. D« Ki- 
tis: VocnbolflHo Lpssisrrafico ecc. Napoh. Stamperia Kea- 
le. MDCCCXLV. Articolo Artografia, e Voi. I, pag. iv. a, 

(20) Xll Conti Pomiglianesi. pagg. XIX-XX. Canti Po- 
polari , pagg. ViI-VIII. 

(21) Il Prof. Imbriani ha già notato il pas.sagffio di « in 
s asnro per effetto dell'/», in due n^e apposte alla versio- 
ne Avellinese della Novella di Boccaccio , Papanti , l 
Parlari Italiani in Certaldo : Livorno, Vigo, 1875 , papcg. 
369. 370. note 2, 4: « la n. egli dice, .9uole nel dialetto mu- 
« tare in sf a^pra la ?, tanto nel corpo della parolay.-'y 
« guanto eoentuaJI mente nììorchò un vocabolo che terinina in 
V n ne urta uno che nrlncipia conia ^». V. anche XII Conti 
ecc. pag. 48, Nota 5. Negli stes.si XH Conti ecc. trovo 
T^assìm: pa^. 246 *n^ai (non sai), nzerrd' . n^mm ecc. pag- 
247, romhere, cumhd ecc. Non sarebbe difficile raccoglier 
molti esempii simili in cui quella regola è stata applicata 
senza che il trascrittore si rendesse conto della sua am- 
piezza. 

(22) Anche questo fenomeno come il precedente è stato 
nnalche volta notato: così Fasano scrive Gieru<ialemnie 
Lihheraia ecc. 

(23) Archivio Glottologico, Diretto da G. I. Ascoli. An- 
no I (1873), pagg. XLTI-XLVII. V. La Versione Romane- 
sca della novella di Boccaccio fatto da G. Navone ; in 
Papanti : I Parlari ecc. pag. 400 : - La Grammatica e il 
Lessico del Dialetto Teramano. Due Saggi di Giuseppe 
Savini, Torino, Loescher, 1881. 



SAGGI DI ALCUNI STUDII 

SUL POPOLO CALABRESE 

Ricca di alti pensieri e spesse volle abbondante di lor- 
dure è la poesia calabrese. Con essa il popolo scaccia ogni 
triste turbamenlo deiranima, e la bruna contadina esprime 
il segreto del suo cuore, all'ombra d'una quercia, ai raggi 
della luna, e nelle ore vespertine. 



Diversi soggetti tratta la poesia calabrese : amore, lon- 
tananza, ricordi, affetti e tanti altri di simil tenore. 

Oh! quanto affetto, quante meste ricordanze, quanto do- 
lore esprime questa canzone: 

La tua partenza mi dezi la morti, fi) 

Quannu dicisfi, bella: addiu, addiu; 
Nu 'ni' haiu potutu rennari risposta, 

Gh' é chiantu s' abbagnaru V uocxìhi mia ; 
Mi ni jvi intra, e mi chiusi la porta. 

Pici nu chiantu a la furtuna mia, 
I vicini : Chi ha' ca chiangi forti ? 

L' arma si parti de lu piettu mia...! 

(1) La tua partenza mi d«ede la morte, allorché, o bella, 
mi dicesti: addio, addio. Non ho potuto risponderti , che 
gli occhi mi si bagnarono dì pianto. Andai a casa, serrai 
la porta e piansi contro la mia fortuna. I vicini: Che hai 
che piangi si dirottamente? L'anima si parte dal mio petto. 
Osserviamo Tultimo verso : L* arma si parti de lu piettu 
mia ! e troveremo vive ed efficaci espressioni. 

La poesia calabrese ci fa andare proprio in estasi, spe- 
cialmente nelle sere estive, in cui si odono delle bellissi- 
me canzoni. 

Il magro contadino , turbato dalle amarezze della vita, 
ricordandosi d* un amor perduto e quasi vedendoselo in- 
nanzi, gli esprime cosi i suoi sentimenti: 

Barbara, tu si la causa chi peniu, (2) 

lu notti e juornu nu ripuosu mai, 
Haiu persu lu suonnu e lu disiu, , 

Ctmsideralla tu la pena, cara ; 
Bella, quannu mi scuonti ppè la via, 

lu schiuoppu' inginocchiuni e 'nterra caju. 

(2) Barbara , tu mi fai soffrire. Io notte e giorno più 
non riposo , non dormo più ; ho perduto ogni desiderio ; 
considera la mia pena, o cara. Bella, quando m' incontri 
per via, mi prostro innanzi a te e cado a terra. 

Terribili canzoni canta poi il calabrese nel vedersi tra- 
dito, e si abbandona a so stesso. Imprecazioni , vendette 
e morte invadono il cor suo. Non ha pace più e Timma- 
gine traditrice di colei che amava gli sta fissa nella mente, 
quasi volesse aumentargli il tormento. Egli vorrebbe scac- 
ciarla, ma ciò non potendo, il suo petto manda fuori prv 
fondi sospiri e nel silenzio notturno, allorché il suo cuore 
batte più forte e la sua fantasia chi sa^ dove si perde , 
canta i suoi feroci ed appassionati versi: 

Quannu tu va a la chiesia a t' affldari, (3) 

Ci vu truvari milli 'mpedimenti ; 
A chilla casa chi tu é jri a stari 

Si vo' sciollari de li pedamenti; 
A chillu liettu chi t' ha' de curcari 

Ci vu truvari li spini pungenti, 
E chilla vucca chi t' ha de parrari 

Ci vuonu esciari lipari e serpenti ; 
Ca chilli vrazza chi t' han' é abbrazzari, 

Vuonu siccari cumu li sarmenti...! 

(3) Quando ti sposerai che mille impedimenti possano 
vietarti il matrimonio ; la casa in cui dovrai abitare vo- 
glia cadere dalle fondamenta; in quel letto in cui dovrai 
dormire possa rinvenirci spine pungenti; da quella bocca 
che dovrà parlarti vogliano uscirne vipere e serpi, e quelle 
braccia che dovranno abbracciarti, possano seccare come 
I tralci delle viti. 

I desiderii del popolo calabrese escono facili e schietti 
dal cuore, nobili e sentimentali; e in un momento di di- 
vina contemplazione, va modulando i seguenti versi : 

Chi durci suonnu chi facerra 'nsinu, (4) 

S' intra li vrazza tua tu mi tenerra 
Senza catarra e senza mennulinu 

Supra lu sinu tua m' addormiscerra : 
Pensa s' a ninna lu facissi a mia, 

lu ppè cent'anni nù mi risbiglierra...! 
Ma stari n'ura sula 'mbrazza a Uà 

Fussi na gioia chi mai si spiccerra. 

(4) Che dolce sonno eh' io farei in seno a te, se mi te 
nessi fra lo tue braccia senza chitarra e senza mandolino 



36 



sopra il tuo petto mi addornienterei. Pensa se tu mi nirf 
Ttassi io per cento anni non mi sveglìerei. Ma stare una 
ora sola fra le tue braccia, sarebbe una firioia infinita. 

Il disprezzo del calabrese contiene il ridicolo e il serio, 
non curando nessuno . specialmente quando si vede indi- 
spettito da un altro. Ciò Io dimostrano i seguenti versi: 

Mo chi st maritata, gialla pinta (5) 
A mia nù m' ha' volutu pped' amanti ; 

Ca t* ha' pigliatu ssu mazzuni tintu, 
Su gammi-stiiortu e ssu ppdi-raganti. 

Mififfliu si ti va jetti de na timpa. 
Ti cacci sta mal* umbra a tia d'avanti. 

(5) Ora se* maritata, orrido mostro, e non mi hai voluto 
amare. Hai sposato questo sudicio, storpio di gambe e di 
piedi. Meglio a gittarti da una rupe , e non avresti più 
questo spettro innanzi. 

La gelosia lo domina fortemente, e lega il suo cuore a 
quello delFobbietto amato, come può vedersi dalla seguente 
canzone : 






Vidi chi gelusia chi tiegnu ed haiu, 
Chi mi susu de notti e biegnu spiu; 

'Nnanti la porta tua m' assiettn e sfaiu, 
Sientu r alTannu de lu tua dormiri, 

Pua sona menzannotti e mi ni vaju 
L'uocchi li lassù a tia, ed iu uù biju. 

(6) Vedi come mi domina la gelosia , che la notte mi 
levo e vengo a farti la spia al limitare de' la porta, e sento 
1* affanno del tuo dormire. Poi suona mezzanotte , e me 
ne vado, gli oc^hi restan teco, ed io non veggo. 

Studiando in fondo il cuore del Calabrese, lo troveremo 
fortemente innamorato, palpitante, crudele e sincero. Esso 
nutre un affetto quasi selvaggio per la famiglia, e per la 
patria ; e si sono riscontrati moltissimi casi , in cui gio- 
vani, abbandonando ogni cosa, consacrarono la loro vita 
per essa. E poi chi può aver l'espressioni del popolo ca- 
labrese? Parliamo un poco con un contadino e costui in- 
tromette nel suo parlare un monte di frasi. 

Vogliamo riportarne qualcheduna e confrontarla coll'i- 
taliano. 

Si ni veni biellu, biellu — Se ne viene bel bello. 

Ordari magari] — Ordir cabale. 

Guardar! culla cuda 'e l'uocchiu — Guardare con la coda 
dell'occhio. 

M intari a' ncuhu intr' u manicuottu — Mettere qualcuno 
nel sacco. 

Restari a bucca aperta cumu nu* ncantatu — Rimanere 
a bocca aperta come incantato. 

'Ntroppicari ad ugne passu — Incespicare ad ogni passo. 

Restare culla capu rutta — Rimanere col capo rotto. 

Dari 'ncuna cosa cumu cumpietti — Dare una cosa co- 
me confetti ; e tante altre che, andremmo per le lunghe 
un poco, se volessimo enumerarle, ad una, ad una. 

É questa la Calabria ; selvaggia ed indomata terra, in 
cui SI è manifestato sempre il bri^^antaggio, e che si ri. 
tiene ancora incorre^^gibile ne* suoi costumi. Dunque an- 
cora non siamo civili ?... Leggiamo nel cuore d*un Cala- 
brese, e lo troveremo leale e sincero; ma se una volta la 
scintilla della ferocia lo assalisse , allora diventa tigre 
addirittura, e sitit>ondo di sangue , col cuore tempestato 
dalla vendetta. Si, che siamo rudi e selvaggi, ma almeno 
un qualche sentimento, generoso, ce l'abbiamo nel nostro 
petto! 

Venghiamo ora ai pregiudizii. Ce ne sono tanti , e poi 
tanti che ne potrei stilare una corona , e poi tornare da 
capo. Ci sono alcuni scrittori che hanno composto libri 
interi su questo argomento, e ne hanno mostrato la ridi- 
cola falsità. 

Entriamo, per esempio, nella casa di una donnicciuola; 
e so noi la spingiamo a parlarci de' pregi udì zìi, non la fi- 
nisce più. Incomincia a aìrci : che se si versa del vino 
sulla tavola, è segno d'allegrezza; se si rovescia la saliera, 
guardiamoci bene, è l'annunzio di un malanno ; cade un 
poco di olio, peggio, qualche sciagura è pronta a mani- 
festarsi, e ci narra all'uopo qualche fatterello; che non è 
buono, infine, intraprendere Qualche affare, viaggio o ma- 
trimonio, nòdi martedì, né ai venerdì: onde il motto 

Né de oennarif né de morii, 
iVa nsi spusay né si parti. 

Andiamo a trovarne un'altra, perchè la prima non ci ha 
forse persuasi tanto , e se quella ce ne. ha detto quattro. 



l'altra ce ne dirà dieci. Che se sul tetto di una casa abi- 
tata canta la Civetta, è segno certo che qualcuno di essa 
casa dovrà morire; che se nel camposanto si veggono 
fiammelle che sembra e* inseguano, la paura e* invade, poi- 
ché quelle tali fiammelle sono le anime de' trapassati; » 
trovano per terra due fusti di albero incrocichiati, subito 
si guasta la croce, causa certo di triste presagio; sei quan- 
do un giovine prende moglie, suonano casualmente le cam- 
pane di una chiesa , oh 1 disgrazie accadranno al povero 
giovine; che non è buono vestirsi a nero, quando non si 
è di lutto; che chi ha le sopracciglia degli occhi unite, è 
un uomo calunniatore; si vede una cometa, qualche scia- 
gura sta per manifestarsi; qualche guerra dovrà scoppia- 
re ; che non è mai buono tagliarsi le ugne di martedì , 
mercoledì e venerdì, cioè quei giorni della settimana, in 
cui trovasi un r; se uno parla, e l'eco ne ripete le parole, 
sono le anime dei morti non I* eco ; e finalmente, che se 
una gallina imita il canto del gallo, è segno infallibile di 
prossima sciagura. 

Le femmine sono piene d' infiniti pregiudizii , e fanta- 
stiche per eccellenza. Esse con la loro stupida ed esage- 
rata fantasia creano un nuovo mondo di cose, e tengono 
per vero tutto ciò che vogliono darci a credere. 

Io amo assai la bruzia terra da cui escono ed usciran- 
no i più vivaci ingegni, i più gloriosi martiri della liber- 
tà, ed i j)\ii forti caratteri; ed è peccato vederla vilipesa 
da omicciattoli, che sprecano la loro vita nelle lordure e 
ne* cafFè , e non comprendono la nobiltà , e la grandezza 
delie nostre tradizioni , la poesia delle nostre -montagne • 
la bellezza dei nostri usi, e dei nostri costumi. E qui fi- 
nisce il mio povero saggio a cui mi ha spento l' amore 
eh' io nutro per la mia selvaggia ed indomata Calabria , 
amore che non si spegnerà giammai entro il mio petto 

Cosenza, 27 Dicembre 1883 

Antonio Juuà di Vincenzo 



PAESAGGI MERIDIONALI 



«^^^^^^^^^^^V^^^V^'V^'^'^ 



L 



VI BORATI 



È un brutto paese, stretto, contorto e lungo, sopra una 
collina , come un' immensa serpe stesa al sole. Al vederlo 
da lontano, con due torrenti ai flanchi, circondato da altu- 
re, sembra un gran misantropo solitario , ritto , a meditar 
nello spazio. 

Ma diciamo qualche cosa degli abitanti. 

Gli uomini emigrano in America, di qualunque età, di 
qualunque condizione; poi ritornano in patria, e ripartono, 
spesso conducendo con loro le mogli o tutta la famiglia , 
attirati da quella terra nuova, nella quale rimangono. Ma 
le donne che restano nel paese , strette dalla necessità , si 
adattano a tult' i lavori ; zappano fìnanco, e portano su la 
testa enormi pesi per lungo tratto di via. E questo lavoro 
le rende fortissime, con un rigoglio di salute stupenda. Ve- 
stono in modo singolare, che abbellisce le belle, e rattrista 
le donne brutte : una gonna lunga , di panno pieghettato , 
con un cuscinetto ai lombi , e sotto di esso una graziosa 
attaccatura con laccio rosso. Poi, un corpetto di castorìno 
nero o caffi^ , che copre le spalle e i lati , lasciando a- 
perta la parte anteriore del petto: qui v*è la sola camicia, 
molto scollacciata , con un largo merìetto trapunto , e un 
nastro intrecciato, che unisce gli estremi del corpetto. 

Su la testa, un panno di lana verde o un fazzoletto co- 
lorato. 

Tutto il giorno si va a lavoro. Nella campagna, a volle 
compare nudo un lembo di terra rossiccia e cretacea , a 
volle una fitta distesa di ulivi o di querce, dalla chioma 
folta di un bellissimo verde. Là , sotto queir ombra , tra 
quei rami ammicca la faccia bianca di una casetta, o lì, 
in faccia al sole , sul cacume del colle , sta un capanno 
dagli empricì rossi, come un soldato ritto a far la senti- 
nella. Ma tra quella campagna, che a vederla è cosi tri- 
ste, tra lo stridore delle zappe cadenti su terreno sassoso 



37 



e il zirlare delle cicale, spunta spesso una voce argentina, 
che canta, o chianaa qualcuno lontano, così : 

— Oh! la mammay aùuuue 

E queste parole, con un lungo strascico su Vu, passano 
per la campagna vasta, e vanno alforecchio di chi, in lon- 
tananza, conoscendo la voce, risponde: 

— Mua^ muuu, ... 

Poi si fanno altre domande, ed altre risposte ritornano 
lunghe, confuse, come voce di un' eco lontana. E quando 
la sera quei lavoranti, di cui il maggior numero è di don- 
ne, rincasano stanchi, accalorati, è bello sentire come sa- 
lutano il gentiluomo che va a spasso, l'uno dopo T altro. 
^ E curioso vedere le donne quando piangono un morto. 
Si lacerano i capelli, si mettono le mani alla faccia, pian 
gender, gridando. Il cadavere è portato su la bara scoverta, 
ed esse, dopo averlo abbracciato per Y ultima volta , sono 
condotte a forza nelle case, ove , sbattendo continuamente 
palma contro palma, dicono, ad alta voce e con tono che 
§embra di sentire ima canzone, tutta la storia del morto. 
E una storia di affetti, che registra tutti i più piccoli par- 
ticolari, e commove; ma quel cantarla sbattendo le mani, 
che danno il suono delle nacchere , desta il riso a chi la 
sente per la prima volta. 

E piangono cosi anche quando vanno in America i loro 
cari. Chi .le vedesse piangere e. sbatacchiare le mani , in 
quel modo, su l'arena, direbbe che gli uomini sono troppo 
cnideli per potersi separare da quelle donne affezionate. 
Eppure , a scavare in fondo , si saprà che la sposa pian- 
gente, sin dal tempo della scritta, decretò la partenza del 
marito, e portò per dote il denaro che doveva servire pel 
viaggio. tempora, o mores!,.. Al ritorno, poi, esse cor- 
rono giulive alla marina , tutte parate a festa , in mezzo 
alle amiche, e aspettano. Viene il vapore, approda la barca, 
e compare un viso bruno, invecchiato, con la barba folta 
e lunghissima. Si stenta a riconoscerlo ; ma è lui , il gio- 
vane sposo di dieci anni addietro, il padre che lasciò i fi- 
gliuoli nella culla. 

Quando si fa un prete nuovo, la scena si cangia. Ogni 
Simiglia si sforza a fare un prete del proprio figliuolo, anche 
se fosse unico, meno per sentimento religioso che pel deside- 
rio di assorgere alla nobiltà. Quei cafoni, che col viaggio in 
America hanno acquistato maggiori conoscenze e un po' di 
quattrini, si sentono male in corpo quando i popolani , ai 
quali essi appartengono , non li chiamano col « don » co- 
me i gentiluomini. E per ciò mandano al Seminario il gio- 
vane, che alfine diventa prete, e la famiglia fa f^sta. Si va 
ad incontrarlo a due o tre miglia di distanza, a cavallo, e 
quando compare il nuovo unto del Signore, si spara in aria, 
si gettano soldi e confetti per le vie, in segno di giubilo. 
Poi, a casa, il prete novello fa un convito di tutto il clero 
del paese, e per rito si ammazza un castrato... (i maligni 
vi trovano analogia... Chi sa!...) 

Quando è vigilia di capo-d'anno , a notte avanzata , un 
crocchio di popolani , con uno che suona la cornamusa , 
va chiamando pel paese. In che consiste questo chiama- 
re ? Camminano per tutte le vie, si fermano sotto di ogni 
casa , ed uno della brigata , che ha voce chiara e lingua 
spedita, dice, gridando, tutti i nomi dei maschi di quella 
famiglia, e all' ultimo nome accompagna queste parole: — 
Crammaiina mi fai la strina. La mattina seguente vi 
danno gli augurii e vi chiedono la strenna. 

Nei giorni piovosi le popolane si riparano dall'acqua con 
un panno di lana grossa, che copre la testa e la schiena, 
e si elevano la gonna sin sopra i ginocchi, per non impil- 
laccherarsi nel fango. Allora i monelli scavano dei fossetti 
su la via, li faimo riempire di acqua, e poi, sbattendovi su 
la pianta del piede, la sghizzano su i passanti; mentre dal- 
l' alto di qualche finestra si sente venire questo canto di 
voci fanciullesche: 

Ohi, Madonna, nun fò'chiovi 
Ca mo puati è jutu fora, 
E jutu sulu e senza 'mbrello, 
Senza coppula e cappiello... 
Ohi, Madonna, nun fò'chiovi. 



Un altro gioco fanciullesco, è quando si mette sul capo 
di* qualcuno un oggetto leggiero , di cui non si possa ac* 
corgere, e gli gridano la baia, cosi : 

Ciucciu miu valente. 

Porta la sarma e nun si ni sente; 

oppure con quest'altro: 

Zi monacu Sarapulla 
la 'ncavallu a la cipulla ; 
'A cipulla nu' 'u putiva 
E zi monacu s'acciriva, 
S'acciria cu'nu piscuni. 

Il terzo comandamento del decalogo è sacramentalmente 
rispettato da quel popolino. La domenica e le altre feste 
comandate si va ad ascoltar la messa, con gli abiti di ca- 
storo e le camice bianche di bucato. Dopo , i maschi si 
sperdono nelle cantine per giocare, o si riuniscono a grup- 
petti su la piazza o su l'arco di un ponte, mentre le don- 
ne, col gonnellino nuovo e i bianchi merletti inamidati, con 
le scarpe pulite , che portano di rado , si vanno a sedere 
su i gradini di una porta , insieme alle amiche; e lì, con 
le braccia su le ginocchia, osservano a vicenda le loro ve- 
sti, pariando dei parenti lontani, delle cose più segrete de- 
gli altri e dei ricolti delle campagne. Nei giorni festivi non 
si fa nulla, o, se vi è qualche lavoro urgente da compiere, 
non faticano mai più di mezza giornata; e per ciò il sabato 
suole cantarsi questa strofetta : 

Crai è la festa, 
E lu surici s' infesta ; 
Si cangia la cammisa, 
Si mitt'a la finesta, 
E si scatta di la risa. 

In questo caso, mi pare che i topi sarebbero essi stessi, 
perchè fanno tale e quale. 

Il dialetto è brutto, molto sguaiato. Vi sono parecchie 
radici latine, e voci che sono esclusivamente de! paese, giac- 
ché, andando a Saprì, a due miglia di distanza, si trovano 
parole diverse per lo stesso concetto. Non cito per non 
annoiare i lettori ; ma , tanto per mostrare la verità delle 
mie asserzioni, ecco due parole. A Yibonati si dice: ma 
atcamma , mo ptcati ; a Sapri : ma mamma , mo patre. 
La diflerenza, come vedete, è grandissima ; nei canti, però, 
specialmente in quelli di amore, tali parole sguaiate scom- 
pariscono , e resta 1' espressione calda di un sentimento 
profondo e gentile, il suono armonico di un cuore vercrine, 
cosi bello e caro nella sua selvatichezza meridionale (1). 

Ed ora due usanze strane che pure si riscontrano in quasi 
tutti i luoghi, ma che là assumono proporzioni più vaste. In 
quel paese le persone non si chiamano con i proprìi nomi, 
ma con nomignoli. Il popolano non capisce chi si vuole 
indicare , se non gli si dice : — Piutissimu, VAlgirinu, 
Milaniy PiricuottUy Cincu-manu, Quattu-sacchetti ecc. 
tutti pseudonimi che il popolo ha dato a tanta buona gente, 
pigliando occasione da qualche fatto particolare e caratte- 
ristico. 

E r altro è Y uso stragrande del compcmsmo. Chi , in 
vita sua, ha avuta la sventura di fare da padrino a qual- 
cuno, è compare di dritto; ma questo egli tramanda ai fi- 
gli, e poi ai figli dei figli , fino alla settima generazione. 
Per esempio, io, che non ho tenuto alcuno a battesimo, e 
che non ho in paese i miei padrini, sono salutato compare 
da più di millanta persone: figurarsi che piacere!.... 

Dopo il tramonto sono tutti in casa. Una frotta di fan- 
ciulli sgambetta ancora per le vie , cantando alla luna 
nascente : 

Luna, luna nova, 
Nun l'aggiu vist' ancora, 
E mo chi t' aggiu vlstu 
Salutammi a Gesù Crìstu. 



38 



Ma quei fanciulli sono diianaati con lunghi gridi dalle 
marame per mangiar la minestra ; poi si recita il rosario 
le litanie, sempre col tono di voce cantanle, e poi... si- 
lenzio nella notte. 

Dormono. 



Napoli, 22 febbraio 1884. 



Luigi Ordine 



(1) Ciò proviene dall'indole del popolo, che sempre cerca 
di accostare il suo dialetto alla lingua italiana. A tal pro- 
posito si rilegga: L' ortografia del dialetto napoletano del 
mio egregio amico Gaetano Amalfi. Basile, Anno II, N. I« 



LE TRADIZIONI POPOLARI 



Da un pezzo a questa parte la Sicilia, e Pa- 
lermo in ispecie, tendono a divenire un centro 
dì non piccìol conto per gli studii della lettera- 
tura popolare. Dopo l'esempio iniziato neiritalia 
Meridionale segnatamente dal prof. Imbriani , 
parecchi si applicarono con grande alacrità a 
questi studii, prima avuti in non cale: e dei Si- 
ciliani non si possono dimenticare in particolare 
i nomi del Vigo , Salomone-Marino ; e più di 
tutti quello del Dottor Giuseppe Pitrè, fondatore 
della Biblioteca delle tradizioni popolari sicilia- 
ne, di cui, fino al momento , sono usciti tredici 
bei volumi. E si deve anche ai due ultimi l'aver 
pubblicato un Archivio al proposito, una rivista 
di cui esce ogni tre mesi un grosso fascicolo e 
che conta già il terzo anno di vita rigogliosa. 

Ecco, per esempio, il sommario del 1*' fasci- 
colo di questo anno: 

Bibliografia delle, tradizioni popolari in Italia. IH : Usi , 
Costumi, Credenze Supei*slizioni. (G. Pitrè), 

Tradizioni popolari abruzzesi. T tesori. {G. Finamore). 

Storie e Cantari , Ninoe-rjanne e Indovinelli del Monta- 
le. (G. Nerucd), 

Scongiuri popolari siciliani di Noto. (M. Di Martino), 

Le dodici parole della verità nella Svezia. (A. Bamm). 

Tre novelline pugliesi di Cerignola. (N. ZingarelU), 

La bona fia, fiaba veneziana.* (A, Delmedicd). 

Monubilis. (6r. Lumbrosó). 

La bacchetta divinatoria, amica superstizione pop. redi- 
viva. (G. Nerucci). 

Due miracoli. {G, Amalfi). 

Aneddoti, Proverbi e Molleggi illustrati da novellette pop. 
sic. (S. Salomone-Marino). 

Sur quelgues hisioriettes d'Etienne de Bourbon. (Th. 
de Puymaigre). 

Il riso nelle solennità marchigiane. {C. Pigorini-Beri) 

Advinhas poctuguezas recolhidas na provincia do Alera- 
tejo {A. T. Pires). 

Juegos infantiles sicilianos y espanoles (A. Machado Y. 
Alvareg). 

Miscellanea: Società per lo studio delle tradizioni popo- 
lari in Italia.— Perchè si dice: Bipenni chi quagghi pas- 
sanu {G. Pitrè). — Bazin , Legende populaire wallonne. 
{J. JDejardin). — La canzonetta della lumaca (E, Marti- 
nenao' Cesar esco). — Le muavis oeil chez les Arabes. {H. 
Mettzl de Lomnitz). 

Rivista Bibliografica. Dorsa, La tradizione greco-latina 
negli usi e nelle Credenze pop. della Calabria Cil. {G. Pi- 
ire), — Braga, Contos tradicionSes do povo portuguez. {N. 
ZingarelU). — Braunholt, Die erste nichtchrislliche Para- 
bel des Barlaam und Josaphat. {N. ZingarelU). — Jan 



Urban Jarnik , Prispevky ku poznàni nàred albàosk^di. 
(G. Meyer). 

Bullettino Bibliografico. (Vi si parla di recenti pubbli- 
cazioni di C. Pigorini-Beri, E. Caetani-Lovatelli, P. Pelliz- 
zari, L Capuana, A. Zenatti, E. Rolland, C. V. de Va- 
lenciano, F. A. Coelho, J. L. de Vasconcellos, H. Gerìng, 
P. C. Asbjornsen e J. Moe). 

Recenti Pubblicazioni. 
• Sommario del Giornali. {G. Pitrè). 

Notizie varie. (G. P). 

Statuto della Società per lo Studio delle tradizioni popo- 
lari in Italia. 

Accennare all' importanza e ali* utilità di sif- 
fatti studii, sarebbe un fuor d'opera, riconoscen- 
dosi ormai di leggieri da ogni persona coita ed 
amante del vero sapere, non dei paroloni alto- 
tonanti e sconclusionati. 

Invece sarà più opportuno accennare alla fon- 
dazione di una Società per lo studio di dette 
tradizioni, un pensiero vagheggiato da parecchi 
anni e che ora semplicemente ha potuto esser 
tradotto in effetto. Si è prescelto il nome ita- 
liano di Società invece dell'altro Folk-Lore^ più 
usato e che vuol dire sapere popolare , e che 
più comunemente va inteso per la scienza delle 
tradizioni. 

Per essere giusti, in tutto questo movimento 
di studii, la parte migliore (se non altro come 
iniziatore) va attribuita al benemerito Pitrè, che 
non lascia nessuna circostanza per illustrare il 
nostro paese. Un simile studio era necessario 
per emulare anche in queste altre nazioni. Ma 
zitto...! Il meglio è ristampare integralmente lo 
Statuto. Eccolo : 



i 



Della società per lo stadio delle tradiidoni 

popolari in Italia 

1. — Scopo e Sede della Società 

Art. 1. La Società ha per fine la raccolta, la pubblica- 
zione e lo studio delle tradizioni popolari in Italia: canti, 
melodie, leggende, fiabe novelle, racconti, indovinelli, usi, 
costumi, cerimonie, spettacoli, feste, credenze , superstizio- 
ni, miti, giuochi e canzonette fanciullesche, proverbi, modi 
di dire, formolo, sciogli-lingua, scongiuri, nomi di animali, 
di piante, di pietre, di luoghi, e tutto ciò che si conserva 
nella tradizione orale e nei documenti scritti rispetto alla 
vita presente e passata del popolo italiano. 

Art. 2. La Società ha sede in Palermo. 

II. — ORGANAMEPm) DELLA SoCIETÀ 

Art. 3. La Società ha un Presidente, un Vice-Presidente, 
un Spretano , un Bibliotecario , un Cassiere e sei Consi- 
glieri, i quali compongono il Consiglio Direttivo. 

La Società potrà eleggere Presidenti onorari in Palermo 
e fuori. 

Art. 4. Il Presidente rappresenta la Società, regola te 
discussioni e fa tutte le proposte che crede utili allo scopo 
sociale. Nei casi d' impedimento o di assenza sarà sup- 
plito dal Yice-Presidente o dal Consigliere maggiore di età. 

Art. 5. Il Segretario scrive i processi verbali delle tor- 
nate, tiene la corrispondenza , le carte e la contabilità. lu 
caso d'impedimento o di assenza di lui ne farà le veci uno 
del Consiglio invitato dal Presidente. 

Art. 6. E ufficio del Bibliotecario tenere apposito cata- 
logo de' libri che la Società riceverà in dono o verrà a. 



39 



ccpiistando , e adempiere tutte le prescrizioci che saranno 
date in uno speciale regolamento. 

Art. 7. È ufficio del Cassiere riscuotere le somme do- 
vute dai sod , rilasciar le ricjevute , eseguire i pagamenti 
su mandati sottoscritti dal Presidente e dai Segretario o, 
invece di questo, da un Consigliere delegalo dal Consiglio; 
e presentare i suoi conti al Consiglio in ogni chiusura di 

di esercizio* 

Art. 8. 11 Consiglio Direttivo delibera a scrutinio segreto 
deir accettazione degli scritti, delle raccolte e delle comu- 
nicazioni da inserirsi negli Atti della Società, fa il conto 
consuntivo dell'anno compiuto ed il bilancio preventivo, e 
li presenta per Tapprovazione alla adunanza generale, prov- 
vede a tutto ciò che giovi al buon andamento ed aliam 
rainistrazione della Società , prende in esame le proposte 
che interessano agli studi che le son propri, e pei* mezzo 
del Presidente, ne riferisce nelle adunanze generali. 

Art. 9. Il Consiglio Direttivo è costituito in numero le- 

fale quando v'intervengano almeno sei de'suoi componenti. 
Isso si aduna per invito del Presidente una volta al mese 
in seduta ordinaria, e straordinariamente quante altre volle 
Io richieda il bisogno , o quando sarà domandato da tre 
membri del Consiglio. 

Art. 10. Il Consiglio provvede alla nomina di un impie- 
gato per tutto ciò che possa occorrere alla direzione ed 
amministrazione della Società : distribuzione e spedizione 
di stampe, di lettere, d'inviti, esazione delle quote dovute 
dai soci. 

Art. 11. H Consiglio Direttivo è eletto fra' soci in adu- 
nanza generale a scrutinio segreto e con votazioni distinte 
per ciascun ufficio. Il Presidente, il Vice Presidente, il Se- 
gretario , il Bibliotecario ed il Cassiere durano in ufficio 
tre anni. Dei sei Consiglieri se ne rinnovano due ogni anno. 
Per ciascuno dei primi due anni due Consiglieri cesse- 
ranno d'ufficio per sorteggio ; negli anni seguenti per an- 
zianità. 
Tutti i componenti del Consiglio possono essere rieletti. 

III. — Dei Sod 

Art. 12. I soci si distinguono in ordinari e benemeriti. 
Sono ordinari quelli che pagano una quota annuale di hre 
cinque; sono benemeriti qiìeWi che pagano una somma non 
minore dì lire cinquanta Tanno. 

La quota si paga al principio di ogni anno. 

I soci nuovi , pel primo anno pagheranno la quota al 
momento della loro entrata. 

L' anno sociale termina sempre per ciascuno con la fine 
di Dicembre, qualunque sia il tempo deirammissione. 

Art. 13. Un Municipio , una Provincia , od altro ente 
morale che sia socio potrà farsi rappresentare nella Società 
dal suo capo o da uno dei soci. 

Art. 14. Ogni socio ha diritto ad un esemplare degli 
Atti della Società, di cui all'art. 26 § a, e ad un esem- 
plare di qualunque altra pubblicazione di essa , pagando 
solo la metà del prezzo di vendita. 11 socio benemerito ha 
diritto a un esemplare di tutte le pubblicazioni. 

Art. 15 Fa parte della Società chiunque , sulla presen- 
tazione di due soci consentita dal Consiglio , sia accettato 
a maggioranza di voti dai soci presenti riuniti in adunan- 
za. La votazione sarà fatta a scrutinio segreto. 

Art. 16. Chi è ammesso come socio ne riceve comuni- 
cazione con lettera accompagnata dal presente Statuto. 
Previo il pagamento della quota annuale , egli riceverà il 
diploma, col quale acquisterà i diritti competenti. 

Art. 17. Ogni socio ha diritto dì eliggere e di essere 
eletto agli uffid della Società, d' intervenire alle adunanze 
di prender parte alle discussioni, di consultare i libri e le 
stampe della Società, di leggere o far leggere in adu- 
nanza i suoi lavori , che potrannno anche essere inseriti 
negli Atti a norma dell'art. 8. 

Art. 18. L'obbligo del socio dura tre anni. 

II sodo che allo scadere del triennio non dichiari per 
iscritto di volersi ritirare dalla Società , si riterrà confer- 
mato per l'anno seguente; e così di anno in anno. 



Art. 19. S' intende dimissionario il socio che alla fine 
deir anno non abbia pagata la sua quota. Egli non avrà 
più nessun diritto e non ricomparirà più nell'albo de' sod. 

IV. — Delle adunanze della Società 

Art. 20. La Società si riunisce ordinariamente ogni due 
mesi, nell'ultima domenica di Febbraio , Aprile , Giugno , 
Agosto, Ottobre, Dicembre; straordinariamente ogni wlià 
che lo stimi necessario il ConsigUo Direttivo. 

Delie adunanze sarà sempre dato avviso nei giornali di 
Palermo. Per le adunanze straordinarie i sod saranno con- 
vocati a domicilio con apposito invito del Segretario, d'or- 
dine del Presidenie. 

Art. 21. L' invito pubblico o personale per le adunanze 
porterà l'indicazione delle cose da trattarsi. 

Art. 22. L'adunanza s' intende costituita in numero le- 
gale con Ja presenza di quindici sod. 

Art. 23. Le deUberazioni vanno prese a maggioranza di 
voti tra' presenti. 

Art. 24. Le adunanze saranno pubbliche solo quando 
lo stabilisca il Consiglio Direttivo. 

Art. 25. Neir ultima adunanza dell' anno si approva il 
bilancio preventivo dell'anno seguente; e si nominano due 
Revisori del conto consuntivo dell' anno che si chiude. 
Inoltre si eleggono gli ufficiali della Società, che entreranno 
in carica alla prima adunanza dell'anno nuovo. 

Nella prima adunanza dell'anno sarà approvato il conto 
consuntivo dell'anno antecedente ; ed il Sejgretario leggerà 
la relazione dei lavori compiuti dalla Società e dell'anda- 
mento di essa neh' anno già passato. 

V. — Atti della Società. 

Art. 26. Gli atti della SocieU\ sono: 

a) Un volume annuale contenente i processi verbali 
delle adunanze della Società, la relazione di cui all'art. 25, 
approvata dal Consiglio Direttivo, il bilancio , la lista dei 
sod e quelle brevi memorie e comunicazioni lette dai soct, 
le quali saranno state approvate per la stampa. 

Può in ogni caso il consiglio deliberare che questo vo- 
lume di Atti sia diviso e pubblicato periodicamente in fa- 
scicoli da distribuirsi ai soct, 

b) Uno più volumi di studt e memorie originali , 
ovvero di documenti popolari. Entrano tra' documenti non 
solo i testi dialettali, le raccolte e descrizioni di usi, cre- 
denze ecc. di cui all' art. 1, ma anche le opere inedite e 
rai*e che il Consiglio, a proposta di uno o più soct, avrà 
stimate utili al suo istituto. 

Art. 27 Ciascun volume edito- dalla Società porterà so- 
pra il titolo speciale di esso , il titolo generale: Società 
per lo studio delle Tradizioni popola/ri in Italia, tAìì 
numero progresssivo della collezione. 

Art. 2S Gli autori delle memorie, gli editori ed illustra- 
tori di testi e documenti popolari inseriti negli Atti, come 
all' art. 26, §§ a, 6, hanno diritto a 30 esemplari dd la- 
vori con frontespizio e numerazione propria. Oltre al detto 
numero essi potranno farne stampare altri esemplari a lor 
cura e spesa. Non potranno averne nessun esemplare prima 
della pubblicazione del volume, nel quale siano stati inseriti. 

Art. 29. Gli autori, de' quali all'art. 28, avranno la pro- 
prietà dei loro lavori. 

Disposizione finale 

Art. 30* A proposta di cinque sod almeno, letta in una 
prima achmanza e votata in altra susseguente la Società 
potrà fare modificazioni al presente Statuto. La ddibera- 
zione dev'esser presa con la maggioranza di due terzi dei 
sod presenti ali adunanza. 

Disposizione transitoria 

Art. 31. La Società comincerà la stampa dei suoi Atti 
(articolo 26), appena abbia i fondi necessari. Intanto, come 



40 



organo officiale, per la pubblicazione de' suoi processi ver- 
bali ed atti, sci^lie Y Archivio per h sttdio delle Tra- 
dimni popolari, rivista trimestrale di Palermo. 

Palermo, Febbraio 1884 

H Comitato Promotore 
Prof. Vittore Bellio 
Prof. Vincenzo Di Giovanni 
Prof. Fausto Gherardo Fumi 

Prof. GUCOMO LUMBROSO 

Prof. Giovanni Mestica 
Dott. Giuseppe Pitré 
Prof. Felice Ramorino 
Dott. Salv. Salomone-Marino 
Bar. Raffaele Starrarra. 



CANTI POPOLARI SORANI 

(Continuazione, Vedi n.° 4) 

XLII. Tu clie ce nascisté 'nchella valle, 
Nasce' la rosa de molte colore, 
Nasce' la gliva e te dona' la palma, 
Nasce' le 'ngenz' e te dona' gli' addore, 
Nasce' la perla fina tra le coraglia. 
Nasce' la spera tra la gliuna e glie sole, 
Nascisté, rosa, veniste 'ne' tanta calma 
E te si' irate tutte 'ste mie core. 

Vedi Tommaseo , voi. 1^ pag. 57 le varianti N. 3 e 4, 
ed a pag. 74 quello N. 1. In Gas. Imbr. tutte le analoghe 
e varianti, 1, d8 e 69. 

XLIII. Palomma che nascisté all'aria fina, 
'Sse palazze tu' è ricche trasore ; 
Le mura ce so' fatte de marmo fine. 
Le porte d' argenl' e glie titte d' ore. 
Ce sta 'na scala de conte gradine, 
'Nnanze che la saglie 'ddia ! me more ! 
Ga ritta 'ncima ce sta 'n' angelina, 
Chella è la spranza mia 'nfì' che more. 

XLIV. Quanne nascisté tu, o rosa gloria, 
Fu fatta festa 'ncele, 'nterra e 'n aria ; 
Glie nome té se chiama Vettoria, 
Ca tra le belle tu porte la palma. 
Se glie volime fa 'ste matremonie, 
Ce ammèra (1) da gerà' tutta le 'talia ; 
Quanne ce sime a chella cambra bella, 
r ce porte glie fiore e tu la palma. 

(1) dovremmo: questa voce invari abile con le particeli 
mi, ^i, si, ci, vi corrisponde al condizionale presente di 
dovere. V. Tommaseo voi. P pag. 58 N. 7; in Vigo, pag. 
125, N. 50 , il canto di Termini in cui si trova il quarto 
verso; e pag. 130, N. 8 l'altro canto di Termini con una 
variante del secondo verso; in Molinaro, pag. 141, canto 
N. 87, una variante del quarto verso. 

XLV. Quanne nascisté tu, gentile rosa, 
Le campane sonavano sole sole ; 
Nascisi' appunto 'nchella bella aurora. 
Addò' spuntaste t' adoratte '1 sole. 
Glie sole se ferma' pe' 'ne quarte d'ora. 
Non cammenava chiù s' abbrovognava 
Dal cele me cala' 'na bella nova, 
Ca sive nata tu, faccia lucente. 

Vedi in Gas. Imbr. Il , 41, nel canto di Spinoso che co- 
mincia : 

a Quanno nascisté, fonte ri bellizze » 

il secondo verso; ed il quarto in Vigo a pag. 130 nel canto 
N. 7 di Aci. 

XLYL Quanne nascisté tu, donna Costanza, 
Nascisté fra glie lamp' e gliuce sempe ; 
Gliuce glie zenalucce che té' 'nnanze, 
Rènne sblendore la faccia lucente. 



Ce va alla chiesia e fa' 'nclenà' glie sante. 

Alle rescl' tu fa' mori' la gente. 

Me fa' mori' a me povr' aniante, 

Quanne tu ne' chiss' occhio me tremmènte (1) 

(1) tieni mente. Vedi in Gas. Imbr. l, 15 la variante di 
Lecce e Cabaliino che comincia : 

O vecchirizza, core de 'n amante. 

XLVIL Quanne nascisté tu, gentil colonna. 
Gli' angele sonavano la tromba, 
A vattià' ce venette Sanf Anna, 
Pe' nome ce mette' Bianca palomma. 
Tutte te porlan' or» ed argento, 
E prete preziose de diamante, 
r povre meschine 'ntenghe niente. 
Te veng' a roveri' 'ne 'glie dolce canto. 

Vedi in Gas. Imbr. il 3® e 4® verso nella canzone di Ci- 
vitella del Tronto che comincia: 

«( Quando nascisti tu, gentil signora 9. 1, 70. 

XLVIII. Quanne nascisté, gentile figliola. 
Mammola partoré' senza dolore ; 
La Maddalena te dona' la triccìa. 
Santa Leda glie beghe occhio suole. 
La neve te donatte la gliianchezza 
La rosa te donatte glie colore, 
Le ferro te donatte la fortezza 
Glie Pince (1) le 'mparall' a fò' glie amore. 

{continua) Vincenzo Simoncelu 

(1) Le varianti dicono «Cupidoi» e cosi dev'essere: questo 
1 mostra più evidentemente estranea Torigine di tal canto. 

V. Tommaseo voi. P, pag. 56 N® 1 e 2; in Vigo, il can- 
to di Catania a pag* 125 N^55, dove si riscontrano il 3®, 
5*> e 6^ verso, e l'altro di Aci a pag. 130 N<* 7, col 2® ver- 
so ; in Cas-lmbr., il canto di Cahmera a pag. 146, voi. 1®, 
che comincia: 

« Lo giorno a Santo Luca voglio ire » e l' altro di Spi- 
noso « Quanno nascisti, fonte ri bellizze i> a pag. 41, voi. 2^; 
in Tigri l'analoga al N® 1171, col 6® verso, e lo stornello 
N<> 42 a pag. 332 col 5<> verso. 



CI 



NOTIZIE 

Nella Cronaca Partenopea (Napoli, Anno I, Num. 3, 
30 Marzo 1884 , leggonsi tre bellissimL sonetti in dialetto 
napoletano del sig. Alfonso Fiordelisi, dal titolo: 'Nnam' 
murate. 

Estratte dall' Archivio per lo studio delle tradizio- 
ni POPOLARI, abbiamo ricevute le seguenti pubblicazioni: 

I. Giuseppe Ferraro — Poesie popolari ferraresi in un 
manoscritto del secolo XVIII. 

II. Caterina Pigor ini Beri — La Cenerentola a Parma 
e a Camerino. 

III. G. Finamore — Venti giuochi fanciulleschi Abruz- 
zesi. 

IV. V. Dorsa — La tradizione greco latina negli usi e 
nelle credenze popolari della Calabria Citeriore. 

V. M. Di Martino — Scongiuri popolari siciliaui di 
Noto. 

VI. Pitrè G. — Bibliografìa delle tradizioni popolari in 
Italia. 



AVVISO 

Son pregati coloro che non hanno finora 
8oddi8&tto il prezzo dell'abbonamento a quo* 
ito giornale pel volgente anno , di metterli 
in regola con l' Amminiitrazione per evitare 
l a loipeniione o il ritar do dell' invio. 

Gaetano Molinaro — Elesponsabile 

Tipi Carluccio, de Biasio & C.*" — Largo Cosbolinopoli, N. 89. 



ANNO II. 



Napoli , 15 Giugno 1884. 



NtJM. ^. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBOHAMIINTO AÌTimO 

Per r Italia L. 4— Estero L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



A7VEETENZB 



Per tutti gli articoli è riservata 
la proprietà letteraria e sono vie- 
tate le riproduzioni e le traduzioni. 



Indirizzare ▼aprlia, lettera o m«*osf ritti 
ul Direttore liuli^l Molltiaro Ilei 
t'hiaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Capodi- 
chino, 56. 



SOMAlARltl t — Credenze e costumanze napoletane ora 
dismesse (B. Gap asso) — Canti del popolo di Giugliano 
in Campania (L. Taglialatela) — Canti popolari di 
Campobasso (E. Melillo; — *0 cunto d* *e duie cumpare 
(L. Correrà) — Canti popolari sorani (V. Simoncelli) 
—Una rettifica (L. Molinaro Del Chiaro) — Notizie- 
Necrologia di Pietraìitonio Ridola (G. Gattini). 



m. 
CREDENZE E mmW NAPOLETANE ORA DISMESSE 

Nel secondo volume delle Disceptationes farenses di 
Giulio liapone, nolo giureconsulto del secolo XVll , a 
pagina 1>^5, ieggesi un'allegazione in difesa di alcuni che 
erano stali accusati di aver tatto uso di mezzi supersti- 
ziosi per conoscere gli ignoU autori di un furto, il fatto 
avvenne in un convento ui Napoli (che il Capone, per de- 
gni rispeiti, non uomina), e la causa si faceva innanzi al 
Tribunale Ecclesiastico ael Santo UìUcio. 

1 rei si presentavano spontaneamente e dichiaravano 
che il frate jS. N. (il Capone tace anche i nomi), per fare 
la divinazione, aveva preso uno staccio (in nap.: sctella]^ 
cui aveva appiccata una forbice e, due altri itali , con le 
estremità Oelle dita, tenevano questa pei manico. 

Preparato il sorulegio, il frale N. JS., prolleriva a bassa 
voce le seguenti parole : — Santo Fietro , Santo Faolo 
e San Giovanni Battista, per la tìia verginità et pur 
rità, fatemi vedere la verità. E, poscia , nominava va- 
rie persone. Al nome di alcune ha esse, lo staccio si era 
mosso due o tre volte e cosi venivasi a cognizione che 
quelle tah persone erano gli autori appunto del furto com- 
messo. 

La superstizione che il frate N. N. confessò di aver ap- 
presa da alcune donnicciuoie del volgo è durata lino ai 
tempi nostri e , dicevasi comunemente : — 'O iuoco d' 'a 
setella. Altre fattucchiere invece dello staccio , usavano il 
bacile coti una forbice, e questo forse era il rito più an- 
tico; poiché, per la testimonianza di Plinio il vecchio {Hist. 
Natur. XXX, 5), esso era uuo dei modi più usitati nelle 
magiche arti, introdotte dai Caldei in Roma, e praticate in 
Napoh e nei paesi vicim, ove Canidia faceva incanti , con 
tanto spirito narrati da Orazio {Carm. J^^od. e. 5). 

Un altro modo di divinazione 6 indicato pure dallo stesso 
giureconsulto Capone : si usava lo specchio e la candela, 
dicendo queste parole : — Angelo bianco , angelo santo, 
per la tua santità, per la mia verginità, mostrami chi 
fia rubata la tal cosa ; ed il ladro compariva nello specchio. 

Bartolommgo Gapàsso 



Canti del popolo di Giugliano in Campania 

(Cmtinuaz. e fine. Vedi Anno I, n.i 4,5 e 7) 

36. 

M' aggi' abbuscato 'na spiga re Spagna, 
Nenna, lu bene nuosto mo s' accummenza ; 
Lu fuoc' è forte, e la lampa s' avanza, 
La morte po' veni' pe' la sparlenza. 
'Mmano nei avite curtieir e velanza, 
Taglio 'sta cama mia, tagli' e dispenza. 
Li ccurtellale vann' 'i primmu lanzo 
M' aggi' a pighà' 'sta nenna pe' putenza. 

37. 

Ronna, ste' (1) fatto pe' tre punte 'e zero, 
Tanno te crero, quanno chiagn' e ghiure ; 
Tanno rice che m' ame, e me vuò' bene, 
Quanno nei 'a tengo la vorza sicura ; 
Ouanno la vorza s'è fatta leggera, 
Sùbbeto 'n' àul' amante le precure ! 

(1) sic\ stai. 

38. 

Rosa, rusella, a quala chianta (2) site nata? 
Tanta bellizze a buie (3) chi ve mantene? 
Nei avite tre fenest accani' ó mare, 
E r aiiciell' a canta' pure nce vene ; 
E po' nei avite pure roje (4) fumane : 
« Senza la néve 1' acqua freta vene ! » 

(2) chiarita, pianta. 

(3) buje, voi. 

(4) roje^ due. 

39. 

M' aggi' abbuscato nu maccaturo (5) re vulluto, 
Nun r agge mis' ancor' a la culaia, f6| 
De quanta squarciuncielle (7) che so solute (8) 
Tutte vonn' a me pe' 'nnammurata, 
r nun vogir a le, faccia gialluta. 
Ma vogli' a ninnu mio, che m' ha 'mala (9). 

(5) maccaturo, fazzoletto. 

(6) culaia^ bucato. 

(7) squarciuncielle, giovani effeminati. 

(8) * scinte y usciti. 

(9) che rtV ha *mata; che mi ha amata. 

40. 

Veng' a cantare a 'stu palazzo santo, 
r nce saluto primm' 'e peramenta, 
luste cà dinlo ne' è 'na mòneca santa 
Gh' ora pe' ora li ggràzie spenza. 
r puveriello nei allummaje 'na lampa, 
Pecche 'sta mòneca me leness' a mente ; 
Si le priore mie nun so' bastante, 
Me ne vag' 6 campusanlo, e la cuntento. 



42 



41. 

Nu palazz' 'i case 'maglie 'maglie, 
E nu fasceliell' 'i carte 'nfoglie 'nfoglie, 
Facimm' 'i cunle, e scavamm' 'i taglie (10), 
Tròvet' a 'nzurà', ca nun te voglio. 

(10) taglie , sono quei segni che le persone analfabete 
fanno col gesso o con carbonella sul muro per indicare 
la somma del debito. 

42. 

Vofflio sapere, ronna, a che penzate, 
1 sielle stanno 'ncielo, e buje rurmite; 
Vuie quann' è la matina che v' arzate, 
Rglial 'u buslicieir e ve vestite ; 
Pigliai' 'u vacelieir e ve lavate, 
'U ^bianco (11) luvate e'u rrusso mettile; 
Pigbai' 'u specchielieir e ve 'mmerate; 
Senza che ve 'mmerate, bella site! 

(11) ghianco, bianco. 

43. 

Fenesta cu' 'sta nova gelosia, 
T he' (12) martellata cu' centrelle r' oro (13) 
Rinto nce sta 'nzerrata nenna mia, 
Lassàteme vere', se no i' moro ; 
Yac' a la chièsia e nun pozzo trasire. 
Me piglio Tacquasant' e ghiesco (14) fore; 
Vagh' a lu licito, e nun pozzo rurmire, 
M' he' falle V affattura, e i' mo moro. 
Si me r è fatta tu, nenna, rimmello (15) 
Si me r ha falla màmmela, i' me ne vaco I 

(12) T he\ ti sei. 

(13) r* oro, d'oro. 

(14) ghiesco. esco. 

(15) rimmello, dimmelo. 

Cfr. MoLiNARO Del Chiaro, canti delpop.nap., par. 193, 
e 257. x- /- r » r o » 

44. 

Nu juorno me jett' a 'mparà' susamellaro, 
Lu masto me nce mis' a fii' turrone ; 
leti' a pruvare lu doce e 1' amaro; 
Lu masto me chiavaje nu scuppulone ; 
lette a la casa, pe' lu ghì' a cuntare, 
Mamma me seculaje cu lu frione (16); 
Vago a lu lietto, pe' me l' a cuccare, 
Màmmema mette fuoc' a lu paglione; 
Ielle a la seggia (17) pe' me i' a 'sseltare, 
Sciùho e bago (18) 'ncuollo a doje figUole ! 

(16) /rione , arnese di legno per muovere il fuoco nel 
forno. 

(17) seggia, sedia. 

(18) bago , vado. Nel dialetto giuglianese sostituiscono 
sempre la b al'a o; come alla d sempre la r. 

45. 

Caròfeno r' ammore sempe canto. 
Parlale nun nce simmo a lantu tiempo ; 
Te voglio là' 'na lèttera re pianto, 
N' àula re suspire e re lammiente : 
Si trovo nu curriere i' le la manno ; 
Si no i' te la manno pe' lu viento; 
Si po' lu viento nun cammina tanto. 
Tu suspire ra loco, e i' te sento. 

Cfr. MoLiNARo Del Chiaro, canti del pop.nap., pag. 162, 
e. 155. 

46. 
Vocca r' argiento, funucchiello r' oro. 
Si si' nata pe' me, nun mancaraje. 
Rusella spanpanata r' ogne fiore , 
r so' lu prìmmo ammore che t' amaje. 
Quanto chiù criscite, bella site, 
R' 'o core me ne vene la pietate, 
Tanno i' lasc' a te, nennella bella, 
Quanno nce moro, e bago 'nsebbelura : 
Roppo che nce so' ghiuto 'nsebbelura 
ttenna, ra soli' 'a terra pure t' amo. 



'1 



47. 

Musso re puorco, e cèccele re crapa, (19) 
La crap' è bella, e buje bruito nce site; 
Quann' a la fenestella v' affacciate ; 
Tutte li piecche (20) a X uòmmene mellite : 
Chi è stuorlo, e chi è scancellate, 
Lu piecco vuoslo nun ve lo verile ; 
Vuje me parile 'na can' arraggiata ; 
Perzò (21) maje !u marito nun avite ! 

(19) cèccele re crapa, sono i peli di fronte della capra. 

(20) piecche, difetti. 

(21) perso, perciò. 

48. 

Pahzzo fravecato re furtezze, 
Altuorno attuorno nei avite roje fiumare ; 
Me songo (22) annammuralo re 'sle irezze , (23; 
Màmmela cana nun me le vo' rare (24). 
Me faccio avanle cu' 'sta mia furtezza. 
Spacco lu sciume (25) e te veng' a parlare. 
Nenna, si n' è cu' migo (26) 'sia parentezza, 
Mango cu' 'n àulo ninno 'a facciu farei 

(22) songo, sono. 

(23) tresze, trecce. 

(24) rare, dare. 

(25) sciume, fiume. 

(26) migo, me. 

Cfr» Molinaro Del Chiaro, canti del pop, nap. pag. 23f^, 
e, 398. 

49. 

Chest' è la chiazza (27) re la mia speranza 
mangi', o vevo, o rormo, i' a te penzo ; 
r m' aggi' a ià' 'na spala cu' 'na lanza, 
Me t' bann' a rà' pe' forza, o pe' pulenza I 

(27) chiazza, piazza. 

lia^icólse 
Luigi Tagualàtela 







L 

rósa róscia, culuril' e bèlla, 
Chi jàute (1) core me te vo' luà'? (2) 
Repìnce' (3) vularrìa chélla rusélla, 
Sèmpe che miéco (4) la vurria purlà'. 

Tutte me recévano : — U' quant' è bella ! ; 
D's te r a' falla 'sa (5) caccia rijàle? 
— Me r àje (6) fati' a ru (7) vosco r' Avèlla 
Adds' (8) ru (9) principe nen ce po' 'ntrà' (10). 

(1) Xute: altro. Al femminile fa àuta : per il plurale 
d'ambo i generi si usa la voce àute. 

(2) LuV per togliere, strappare, rubare, ecc. 

(3) Re PINCE* : dipingere, 
<4) Sémpe che miéco...: Sempre con me È però più 

comune la voce me invece di miéco. 

(5) 'Sa : codesta. Si usa anche la voce chéssa che ha il 
medesimo*signifìcato. 

(6) Me V kje...: me l'ho... 

(7) A RU : al, 

(8) Add5* o soltanto Do* (V. verso 6®) o A do*: dote. 

(9) Hu: il. Spesso si usa anche u in luogo deirarticolo 
il, come rilevasi dalla variante dell' 8** verso. 

(10) 'Ntrà' : entrare. Variante : Manco u principe o u 
re nen ce pò* 'nird. 

Per le varianti della 1' parte Cfr. Molinaro Canti del 
Pop. Na/). p. 124-125.; Marcoaldi, p.89, No60.; Imbriani; 
I Voi. I. p. lX-2. -Amalfi. Canti Serraresi, N<>XIV, Canti 
del Piano di Sorrento, N® XCVl.— I primi quattro versi 
appartengono ad un altro canto, di cui non mancano va- 
rianti anche in Napoletano. 



43 



li. 

Tu n^n la siénle chiù sf afflitta vóce, (1) 
Rumane muórte song', (2) nen dubeià: 
Tré tuócche (3) re campane ad àuta (4) vóce (5) 
A mézanòtte sentarr^e sunà. 
r àuze (6) la malin' e dici: Chi è muórle? 
-r Muórte è l'amante tuo; èsse (7) la croce (8). 

(1) Var.:^ Nen la sentite chiù st* afflitta voce, 

(2) Song*: sono. Invece di Rumane si scrive anche Da- 
mane, ma è poco in uso; e non è altro; so non una cor- 
ruzione. 

(3) TuòccHE : tocchi. 

(4) AUTA, a^- cUta, acuta. 

(5) Vap.e: TrE tuòcchE te campanE a me za ooce. 

(6) T'Auze - ti alzi. 

(7) Èsse : eccola là. 

(8) Var. : Ru NNAMMURATe è MUÒRTe; Èsse la croce. 

Con pochissima differenza , vi è anche una variante na- 
poletana in MoLiNARO DEL Chiaro , contc del pop. nap., 
pfig. 205, e. 295. 

Ili. 

Funtana fresca, famme nu faòure, (1) 
Sjicce (2) re cèrte ca me ru può' fa' : 
Mmiez' a 'sa (3) fonte e' è nu bèllu sciòure, 
Milluru (4) mpiétt' a chi ce ve' a lava. 

Se ce menisse po' cacche (5) zetèlla, 
Ru sciòure è vérd' e Y acqua chiar' e bèlla : 

Se ce menisse cacche maretata, 
Ru sciòure è sicch' e V acqua ndruverata : (6) 

Se ce menisse cacche 'nnammurata, 
Ru sciòur' è verd' e Tacqua reschiarata (7) . 

(1) Faòure —si dice Sinché f aere : favorQ, grazia, pia 
cere et similia. 

(2) Soccer so. 

(3) *Mmie^*a 'sa,..: in naezzo a codesta... 

(4) Mitturu: pónilo, méttilo. 

(5) Cacche: qualche. 

(6) Ndruverata : torbida. 

fi) Rischiarata: limpida, chiara. 

Vi è una var. nel dialetto di Piano di Sorrento. 

IV. 

Fegliola, che sta' fatta che (1) la penna 
E mesurata che la méza canna, 
Sacce, nu giuvéniélle che t'azzénna. 
E t' ama re bón core' e nen ce manna. (2) 

E nen ce manna ca (3) sci (4) péccérélla, 
'Ncór' a' ra fenl le quinnice anne ; 
Reccéir (5) a mammeta che 'nte mmarile, (6) 
Ca sposo m' a' ra èsse (7) a qua 'n' al' anne. 

(1) Che: con. Si adopera pure e spessissimo come pro- 
nome congiuntivo : Vedi il 3** e 7® verso di questo mede- 
simo canto. 

(2) Nen ce manna : Non ci manda : e vale : Non fa la 
richiesta di matrimonio. 

(3) Ca come pEcché. Le due voci hanno eguale signifi- 
cato; perchè. 

(4) Sci: sei (voce del verbo essere). 

(5) R^xcéir a: dillo a; parlane a... 

(6) Variante: Recciir a mamma tua che 'ntc mmarite. 
*Nte qui vale non sii. 

(7) M' a' ra èsse a qua 'n' aV anne : sposa mi devi essere 
dopo un anno. 'Èsse na il significato di essere, e viene 
adoperata anche in luogo di Eccola là : V. Canto II nota 7.' 

V. 

Róce (1) speranza mèja', ama chi l' ama, 
Ama la vita mèja, n' ave' paure : 
Le male lénghe l' avém' (2j a megliare, 
La vita mèja poche ze ne cure. 

Rape (3) 'su piélte tuo che pén' e spéra, 
Rénlre ce iruvarraje la mia féura, (4) 
Sé tu nen me vuò' dà' po' cacche jure (5) 
Voglie murire sott' a le lue mure. 

(l) Róce, si dico anche Dócet vale dolce. 



(2) Lénghe, femm. di lénga : vale lingue. L aoém *a, lo 
abbiamo a... 

(3) Rape 'su piétte.>'9 apri cotesto petto. 

(4) La mia féura, la mia immagine. La voce mia è me- 
no comune dell'altra, più in uso, mèja : V. il 1®, 2* e 4** 
verso di questo canto. La voce mèja però non va confusa 
col l'altra mèja, la quale, benché abbia le stesse lettere e 
sillabe della prima, ha diverso significato. P..e.: la mèja 
cosa, ru méje luòco, e simili, valgono: la miglior cosa, 
il miglior luogo... La differenza sta nella pronunzia dolce 
della / nella voce mèja (mia), e forse nell'altra. 

(5) Var.e : Rònna, (donna) $e nen me ddje cacche jure. 

VI. 

Se passa pe' 'su viche e pe' 'sa strara 
r facce front' a te, Rusetta cara. 
Quanne v' alla chièsa cuscl (1) pronta 
Che du' retélle (2) pigile l' acquasanta. (3) 
Ze (4) métt' a quille pizz' avant' avante , 
E 'n' uócchie mén' a Dlje, 1' àut' a r' amante. 

(1) Cuscl, così. 

(2) Du' retélle, due di ti ne. 

(3) Il verso non fa rhna con l'altro antecedente : si sa, 
il popolo è poeta ribelle , come ben dico il Congedo (V. 
Giambattista Basile, Anno II, n9 4, p. 27), ed io ho voluto 
lasciar correre perchè il verso succitato vien cosi detto e 
cantato da tutti, nò esiste alcuna variante per quanto io 
sappia. 

(4) Ze, si. 

VIL 

Le capili' àje ricc' e bionne, 
La vuccucci' a cerascèlle, 
Pe' 'su piélte lunn' e bèlle 
Tu ra' àje fette 'nnammurò'. 

vm. 

— E z' è funiia ra ferruvia 
E za purtate ru ninne mìje; 
La luntananz' ! — Addij' addije, 
Quann' arrive te scriverò. 

IX. 

La mamm' è la cucina 
La figli 'a 'u ballecone, (1) 
Passa ru prim' amore; 
— Saghe se vuò saglì'. (2) 

La mamm' è a la funèstra 
La figli' a dà' cunsiglie, 
Chi la lass' e (3) chi la pigile. 
Chi la pori' a passejà'. 

(t) Ballecone, balcone. 

(2) SagUe, sajjliWoQi del verbo salire: l'una è 2* pers. 
sing. del pres. ind.; la 2' è inf. pres. 

(3) Lasse, lascia, abbandona. 

X. 

Ru 'nnammurale miéj' è jut' a Fogge (1) 
E à pèrsa (2) la catén' e ru rélogge: (3) 
E mo revé, (4) mo 'n' arrevè 
Nen ce puozz' arrev' a meni' (5). 

(1) L' innamorato mio è andato a Foggia. 

(2) Pèrza, perduta. 

(3) Relogge, orologio. 
(4) 

(5) Meni', venire. Neppure qui i due ultimi versi fanno 
rima , come nel 2^ e 3^ della prima strofa del canto IX; 
ma ho creduto trascriverli anche qui come li ho intesi 
dalla bocca del popolo, senza modificarli arbitrariamente. 

XI. 

k la 'nzalale ce vó' la ruchétta, 
A fa' r amore ce vó' Giuliétta (1). 

(1) Al nome di Giulietta il popolo sostituisce spesso al- 
tri uomi, come Manetta, Lisetta, Concetta, eco. 



44 



XII. 

Le capille d^ CunceUèlla 
Ze so' missc miéz' a la chiazze (1) ; 
Nénna méja, tu sci 'na pazze, 
Te le rich' (2) en (3) verità. 

(1) Tutto il secondo verso vuol dire che il nome , ì di- 
fetti, r onore di Cunceitèlla vanno di bocca in bocca e le 
sue scappatelle son risapute da tutti. Chiazze^ piazza, via. 

(2) Te Iq rlche, te lo dico. 

(3) en o pure 'n lasciando V e muta alla voce antece- 
dente, j)er in, 

XIII. 

— rennenèlla che vàj' pe' ru naare, 
Ritnme : (1) la bèlla méja è viv' o morte ? 

— lér' séra r àje visi' enlr' a ru Métte 
Che 'uà ran (2) febbre cunnannal' a morte. 
La mamma la chiagnév' a vracci' (3) aperte : 
Figlie, quant' ire (4) bèlla e mo sci morte. 

(1) Rimme^ dimmi, raccontami,... 

(2) Hon, grande. 

(3) Vracce, braccia. 

(4) loe, eri. 

Cfr. MoLiNARO Del Chiaro , canti del pop. nap. , pag. 

138, c; 79. 

XIV. 

r r àje ritte (1) tanta vote : 
Sci frastiére mauritte (2), 
Che te venga 'na sajétte, 
Ru suldate tu àje ra fa'. 

(1) Ritte, detto. 

(2) Frastiére, mauritte, estraneo, maledetto. 

Raccolse ed annoiò 
Enrico Melillo 



'O CUNTO D' 'E DUIE CUMPARE 

'Na vola nce slèveno duie cumpare e ghièveno vennenno 
Tuoglio , e decèiteno accussi : cumpà i' sempe rico chi fa 
bene aspetta bene, e chi fa male aspetta male, 

'lecito chillo : nonzignore ; chi fa male aspetta bene , 
e chi fa bene aspetta male, chille ricètte: nonzignore che 
te vuò' iucà' 'a capetània che puorle ? E se scuntiero nu 
remmònio pe' denante; e chille che nce crereva ricette: chi 
fa buone eh' aspetta ? 

E chillo respunnette aspette male. 'lecite chillo: hai visto, 
eh' avevo ragione i' ; 'icette chili' alo; no cumpà i' sempe ag- 
gio ragione i'; 'icette chili' alo, e te vuò' iucà' 'u ciuccia- 
riello cu' tutto 'u trainieìlo? 'icelle chillo: si. E se scun- 
tiero pure 'u stesso pe' denante , ( chillo nce ieva sempe 
'nnante ) e diciero : Nhe ! cumpà chi fa male eh' aspetta ? 
buono. Cumpà, nun avimmo che nce iucà' chiù, 'icette chillo: 
cumpà, le vuò' iucà' 'a vista 'e 1' nocchie ? Chillo che nce 
crereva, 'icette si, e se scuntiero *n' ata vola 'u stesso pe' 
denante e chillo 'icette : cumpà, chi fa buono eh' aspetta, 
e chillo 'icette male, e chi fa male aspetta buono. Allora 
nce cacciava 1 uocchie — E chille nun ze ne puteva i' à 
casa r' 'a mugliera e se ne ìette 'into a nu bosco. Quanno 
faceva notte isso se ne iva 'ncopp' a 'na cèrcula 'a sera, 
veniero quatto capudfere, e se metliero là sotto, e se stie- 
ro — 'U capo ricielte 'nfaccia a uno 'i chille : rimme 'na 
cosa , tu che stai facenno ? e chillo le risse : i' me stonco 
piglianno Y ànima re nu Re ; chillo lene una figlia e lene 
'na malalia che nisciuno ci addevina ; i mièrece nisciuno 
nce rà speranza, e chillo iastemma, e i' perciò me stonco 
piglianno l' ànema soia. 

'Icette 'nfaccia a 'n alo: e tu che stai facenno? Dice : i' 
me stonco piglianno V ànima 'i nu mulinai'O chillo fa 'u 
mulino e i' 'u sfràvuco, chillo iastemma e i' me stonco pi- 
glianno r ànema soia. 'Icette 'nfaccia 'a chili' alo : tu che 



stai facenno ? T me stonco piglianno 1' ànema 'i duie cam- 
pare; uno nce crere, e 'n alo no, i' ronco ragione sempe 
a chillo che nu' nce crere, e me stonco piglianno V ànema, 
soia, e chillo che steva 'ncoppa 'a cèrcola ausuliava e zitto. 
Po' riciva chillo r' 'a figlia 'ù Re 'nfaccia ù capo : pe' 
sarvà' chella malatia r' 'u figlio 'ft re che nce vo? e chillo 
le risse: nce vonno role l'àreche 'i chesta cèrcula, se bolle 
into a'na caurera r' acqua, po' se ne repe 'na butti^lia , 
se rà a bèvere à figlia 'ù re, e chella sta bona. E dicelte 
chili' alo ; e pe' sarvà' chillo mulino a chillo mulinaro che 
nce vo' ? e chille le risse : nce vonno tre prete 'i chesta 
cèrcula, se ne mette una a nu cantone, una a 'n alo can- 
tone ; e una a n' alo cantone e 'u mulino s' aiza e nun ze 
scassa chiù — E dicelte chiir alo ; e pe' sana' 1' uocchie a 
chillo puverìello che nce vo' ? e chillo le rispose ; nce vo' 
nu poco 'i porve 'i chesta cèrcula, nce se 'mbruscina 'nfac- 
cia a 1' uocchie e sta buono. Chisto eh' avusuliava, quanno 
fu 'a matina scenniva ; 'u primmo che faciva se scerecava 
1' uocchie 'nfaccia 'a cèrcula, e stiva buono po' se pigliava 
tre pretelle 'i chella cè!*cula , e s 'i melliva into 'a sacca , 
se pigliava 'na ràreca 'i chella cèrcula , s' 'a meltiva into 
a cheli' ata sacca se vestiva 'a miereco, e ghiva a d' 'u 
re ; 'u guaiMlaporte- n' 'u vuleva fa sagli' : 'ice valtenne nce 
so' state tanta mièrece , mo tu si' nu straccione , vulive 
sarvà' 'a figlia r' 'u Re : isso austinato : ricite a 'u Re ca 
i' songo nu ruttore , i' sarva 'a figlia soia, e vuliva sagli' 
a forza. 

E u Re ricette accussi: e va chisà fosse quarche santo 
ca nu' bulesse 'st' ànema mìa perza. Comme 'nfatte accussi 
fu : vullivo chella ràreca into a l'acqua , r^niva 'na but- 
liglìa, rette a beve à riginella. 'A rigìnella se guariva per- 
fettamente bene. 

Disse 'nfaccia ù pale : papà chisto sarrà mio sposo, per- 
chè m' ha sarvata la vita e 'u patre le risse : si , figlia 
mia , cu' tutto piacere. E isso ricette : no, Su' Maiestà, i* 
sono ammugliato e tengo i figli e debb' andare in casa mia. 
E 'u Re nce carrecava doie sarme 'i renare e n' 'u man- 
nava. A là se ne ielle a d' 'u chillo mulinaro e dioette 
accussi : patrò, che cosa avite ca stale accussi sdegnalo ? 
Chillo ricelle e che buò' sape' i fatte miei, che buò' sape' 
tu— E chillo ricette riciteme, ve pozzo rà', quarche aiuto, 
e chillo recelte che t' ajrgi* a ri' , tengo nu mulino ca io 
'u fràveco e chillo se sfràveca, e chillo pigliava chelli tre 
prete 'e mittiva una a nu canto , una a nu canto , e una 
a 'n aio canto, e 'u mulino camminava sulo. Chisto patro- 
ne, tutto- priato, nun 'u vuleva chiù mannare, pe' paura 
eh' 'u mulino se turnava a scassa'. E isso ricette patrò nu' 
dubitate ca chisso rura pe' 'n aterno, pecche i' me n' aggi' 
a i', ca tengo moglie e figlie, ca me stanno aspetlenno. E 
chillo nce carrecava 'n' ale doie sarme 'i renare, chili' alo 
pure, e se ne iva. 'A mugliera quanno 'u veriva cu* i fi- 
gli , tutta priata ca nu' 1' aveva visto 'a tant' anne, e 'stu 
cumpare che diceva male aveva arredutte ca nu' puteva i' 
chiù p' 'a via, e se faciva maraveglia: corame, va chisso, 
i' nce cecai l' uocchie e mo lene 1' uocchie , se feciva cu- 
raggio e ghiva a dimannà' : cumpà, comme va ca vuie nun 
tenèvevc 1' uocchie e mo lenite 1' uocchie e v' avite fatto 
tanta renare? E chillo respose sempe cu' 'na bella vuluntà: 
cumpare, i' v' 'u diceva sempe ca chi fa buono aspetta buo- 
no , e chi fa male aspeita male : quanno vuie me cecaste 
l'uocchie, i' me ne lette into a nu bosco (e le cunlaie tutto 
'u fallo) — 'U cumpare iva pure isso e vuleva fa' pure 'u 
stesso ; comme intatte 'a notte iero pure chilli ; ma però 
roppo cunlaie tanta fatte ca isso ausuliaìe , se recurdiero 
ca chelle cose eh' avevano ritte avevano stale già successe, 
e se dimannaro 1' uno cu' 1' ato : tu 1» avisso ritto? No — 
Tu r avisse fatto ? no, e loro riderò : verimmo 'ncoppa a 
sta cèrcula nce slesse quarcheruno, che ci ausuliasse i fatte 
nuoste ; iero a bere' 'ncoppa a chella cèrcula , e nce tru- 
varo 'stu cumpare maligno, eie reciero: tu iero che ghive 
ausui ianno i fatte nuoste e po' 'i ghive facenno ? 'D vul- 
nero 'a coppa a bascio, e àbbultiero 'i catenale ca nu' ze 
puteva movere chiù 'a terra — Isso po' se ne iva chiano 
chiane à casa seva, e diciva : cumpare , vuie m' avite in- 
gannato, e chillo respose; no, cumpare, i' nu' v' aggio 'ngan- 



45 



nato , i' v' 'u dicevo sempe e accussì ghie ca chi faceva 
buono aspettava buono, e chi faceva male aspettava male: 
vuie m' avite fatto male a male, e tstesso Dio ha fatto suc- 
cere' chesso e i' nun aggio che ve fà\ 

Luigi Correrà 

Raccolse da una contadina di S, Felice a Cancello 

presso Arienj^o, 



CANTI POPOLARI SORANI 

(Cantìn. Vedi n. 2, 4 e 5) 

XLIX. Ouanne nasciste tu, gentile figliola, 
Nommenata tu fuste p' ogne banna ; 
Ogne stella del cele 'sceva fore, 
E 'sci' tu me facisie daglie panne, 
Te prèie non tradirme chiste core ; 
Chiss* occhio tuoie sosperà' me fanne, 
r te remir' a te pecche si' bella, 
Non me tradì', cara mia donzella. 

L. Veng' a canta' a chiste loc' adorne, 
Addò' ce stave le bellizz' eteme ; 
Addò' ce sta tu e' è sempe iome, 
Fiorisce prèmavera, e, stat' e 'mmeme. 
S' i' non te ved' a te 'na vota '1 giorne, 
Tenghe chest' alma 'nfra le pen' eterne ; 
Pe' te stòng' a soffrì', pe' te ce more, 
Pe' te paté gran pena chiste core. 

LI. Cara Spranzuccia mia, piena d' affette. 
Sta' 'n còllera e' me, che te so' fatte? 
T aglie portate semp' amor e respette, 
'Nt' aglie commisse ma' cattive tratte ; 
Toglie la chiav' e rape chiste pelte, 
Loche trove le male che te so' latte ; 
Po' se' ce trove cacche sospette. 
Tòglie 'ste cor* e fenne ducente parte. 

LII. Sospir' e a sospira' so' mese morte. 
La notte veng' a remerà' 'sse mura, 
Ente ce sta renchiusa tu, mia consorte, 
La gentil' e chiù nobele criatura. 
Mantélte, bella mia, costant' e forte, 
Mentre 'ste core fedeltà te giura ; 
Costante te sarò fin' alla morte, 
Ama' te voglie 'nfi' che glie munne dura. 

Vedi Tommaseo voi. \^ pag. 156 , canto N. 8, dove ri- 
scontrasi rultimo verso. — V. iw Tigri lo stornello N. 28 
a pag. 330. - V, in Gas. Imbr. la variante di Chieti CAb- 
bruzzo Citeriore) nel voi. II, pag. 4, N<> II, con V origine 
letteraria. — V. Molinaro, il canto N. 65, a pag. 134, dove 
si trova il 5** e 7* verso. 

LUI. Non pò' sape', rosa, pe' comm' i' t' ame ; 
Quann' i' leva a spass' a 'sse giardino 
Ce steva 'na chianta de verde rame, 
Menava 'ne frutte nobel' e gentile. 
r ce decotte : damménne 'na rame, 
E chella decette : tras' a 'ste giardine, 
Ma 'n avisse 'a là' comrae fece Adame, 
Pe' 'ne mile perdette glie giardine. 

Vedi in Gas. Imbr. il canto di Montella (Principato Ul- 
teriore) a pag. 312, voi. 2^, canto N. XVII, e le varianti 
seguenti. 

LIV. 'Uarda, nerella mia, 'ne' glie occhio basse. 
Me si' arrobbate glie cor' e 'nte confesse. 
'Ne' 'sse manucce le zuccher' ammasse, 
E famme 'ne cariocce de 'sse confette. 
'Mmes' a 'sse petto ce stave du' frutte, 
Strempaie so' 'ne' zuccher' e latte, 



I so' glie giardenere de 'sse frutte, 
E tu si' la palomma de 'ste parte. 

Vedi in Tommaseo nel canto N. 11 a paj?. 187, voi. V^ 
il pensiero del secondo verso; lo stesso in Vigo nel canto 
di Novara a pag. 135 N. 5, e di Termini a pag. 242 N. 15. 
ed in Tigri i canti N. 505. 641 e 810 — V. pure in Tom- 
maseo, voi. Ili, pag. 452, un canto greco con una variante 

del e» verso : ZaxapO^YJfiCOfiévY] JiOU , JieXt Jiè TY]V 
Y^oxla ; che si traduce : O mia impastata di zucchero, 
miele di tutta dolcezza. 

LV. Ogge, bellezza mia, mentre screveva 
L' anema da 'ste pette se staccava. 
Ce deva 'na pennata e po' chiagneva. 
La carta chiena de lacreme bagnava. 
Mentre le vraccia mie se stenneva, 
La penna dalle deta me cascava ; 
Fegiirete, bene me, che pen' aveva, 
Sule pensènn' a te i' lacremava. 

Vedi Gas. Imbr. II, 26, XVI il canto di Chieti , di ori- 
gine letteraria. 

LVI. Non chiagne, amore me, ca i' 'nte lasse, 
Aglie giardine delle rose te porte: 
Le so' amate piccol' e bardasce (1\ 
E de lassar!' a te me ne rencresce. 
Toglimeciglie 'n aute 'ccone (2) spasse 
Acciò che la vita nostra arriva a cresce, 
Andannc (3) fenisc' i' de venirt' appresso, 
Quanne la vita mìa 'ncele trapassa. 

(1) giovinette. 

(2) da boccone fanno * ccone ; 'ne 'ccone vale un bocco^ 
we, un poco, 

(3) allora. 

LVII. Che te so' fatt' a te, matte de Aure? 
Quanne me 'ncuntre non me parie maie. 
Abbasso Rlie occhio 'nterra e m' abbandune, 
M' uote (1) le spalle 'nfaccia e te ne vaie. 
Non vide ca so' perze glie colore, 
Pe' glie troppe desturbe che me daie ? 
Se me glie vó' fa' remette glie colore, 
Gomènza 'n' anta vota a là' glie amore. 

(1) Mi voUL 

Vedi Gas. Imbr. II, 223 , XIV e varianti , di Pietraca- 
stara (Principato Ulteriore). 

LA^III. Chi te r e' 'itte, amore, ca i"n te voglie T 
Chi te r è messa 'ssa pena aglie core T 
Chi t' ama a te se non t' amasse io? 
Chi m' ama a me se non m' amate voi ? 
Nu' sime chelle du' mele 'ncima a 'na rama. 
Tutte du' 'nsembra (1) glie amore facime, 
Tira glie vent' e nu* 'noe ne cascame, 
Tant' è le troppe bene che ce voli me. 

(1) insieme* 

Vedi Tommaseo, voi P, pag. 147, N. 9 col 3* e 4® verso 
analoghi , e pag. 286, N. 7 col 1<> e 2<> verso — V. Tigri 
nel canto N. 456 e 489 col 3® e 4^ verso analoghi. 

LIX. Tutte le cose me' contraria vanno, 
L' acqua m' assuca e glie sole me 'nfonne ; 
Glie aute fave glie amore tutte glie anne, 
'N' ora che ghe face' i' se fina ie munno. 
Glie aute iettano le chiumm' e vave natènne, 
r ietto la paglia e vaglie aglie funne ; 
A cosci vave le cose de 'ste munne, 
Glie aute fave le mal' e i' le chiagne. 

Vedi Tommaseo voi. i^ , pag. 239 N. 9 ; Cas. Imbr. I , 
227, XIV e varianti di Sturno; II, 430-1; II, 152, IV,. canto 
di Calimena dove si riscontra il 6® verso; Vigo pag. 261 
N. 6, variante di Palermo. 

LX. Tu me lassasi' e i' t' abbandonatte, 
Contente fuste tu, contente fu' i' ; 



46 



Subete 'n' aula bella te trovaste, 
E 'n auto amante me trovatte pur' i\ 
Gomme vav' aglie accorde 'ste du' cerveglie! 
À te 'nte mancano tovaglie (1), a me cappeglie ; 
Vr (2) cómme se combinano glie amoi^e, 
Tu 'mme (3) vo' ben' a me, i manche a voi. 

(1) Quel pannolino ricamato agli orli onde le donne si 
coprono la testa. 

(2) Vedi. 

Vedi Gas. Imbr. l, 95 la variante di Napoli che comincia: 

a 'Nu juorne tu m' animasti e io t' ammai ». 
Molinaro , pag. 235 N. 387 ; Vigo, V analogo di Pietra- 
perzia, pag. 25T N. 9. 

(3) 'Mme^'nme s: non me, È la solita assimilazione 
dell' /i. 

LXI. Belluccia, che me si' affatturata, 
Partire me facile da 'ste loche; 
Addò' che me commanne i' me ne vaglie, 
Sem[)e la mente mia recorre loche. 
Me si' jettata 'na forte catena, 
Strett' attaccata che ce arde glie foche ; 
Quanne 'ne' 'ssa voccuccia tu me vace, 
Le sangue me le tir' a poc' a poche. 

LXn. Morire, morerò, non dubbetà', 
Mai chili la senlarrà' 'st' afflitta voce: 
All' alba, all' alba sentarrà' sona', 
'Na campanella 'ne' 'n' afflitta voce. 
Tu, donna, pe' pietà t' affacciarrà', 
— È morte glie amante me, ecche la croce. (1) 
Verrà' alla sepolalura a lacreraà' : 
Ghist' è morte pe' me, ecche la croce. (2) 

(1) La croce della congrega che passa. 
(2) La croce della tomba. 

Vedi Gas. Imbr. II, 316 il canto di Lecce: 

« Murire, murirò; nu* 'ddubitare » e seguenti ; 

Vigo pag. 266 N. 5 il canto di Raffadali; Scherillo, Mov. 
leti. it. N. 14, 15 Agosto 1880, canto N. 31 di Campagna; 
Tigri, canti N. 1144, 1145 e 1162. 

LXIIL Gare, pens' aglie amore che i' te porte, 
Pens' alla fedeltà che so' giurata ; 
Sule p' ama' a te so' mese morte, 
E soffr' i' pe' te troment' e 'naie. 
Tu me fa' chiagn' e sospeià' a torte, 
Tu, bene mie, de me pietà non ha'. 
Te prèie, amore, a darme cacche conforte, 
Gonsola chiste core che te dona'. 

LXIY. La turdera eh' è perza la compagna 
Tutte glie jorne va malenguenosa. 
Addò' che trova l' acqua ce se bagna, 
E se la beve tutta 'ntorbetosa. 
Gè se va a mett' a 'na rava de montagna, 
E chiama la compapa a anta voce; 
Gè se va a mett' a 'ne rame de castagne, 
E se va mett' a fa' 'ne cant' amuruse. 

Vedi Gas. Imbr. II , 287 , X e variante , di Morciano ; 
Molinaro, pag. 210 N. 313; Tommaseo I, 193 N. 14, 15 
e 16; Vigo, pag. 233, N. 9 e 10 canti analoghi di Pietra- 
perzia, e pag. 236, N. 30, variante di Aci ; Tigri, canti 
N. 565, 651 e 652. 

LXY. Gh' è fatte, bella mia ? non lagremà', 
Ga pe' nu' 'n è fenile glie munn' ancora ; 
'N' anta vota che le vede sosperà' 
Pensa ca pe' te feniscene l' ore. 
'Ne' 'ssa voccuccia ha me po' parla', 
E porta' me ce pò' 'n sepoletura ; 
Rape, bella mia, rape la porta, 
Ga dentro vò' trasl' 'ste tue consorte. 

Vedi Gas. Imbr. I, 57, la variante di Airola (Benevento): 
Ch* e* fatto, amore mio, che staje afFritto? 



( Continua] 



Vincenzo Simoncelli 



UNA RETTIFICA 

Da parecchi giornali sono stati riportati, coi 
più curiosi commenti , alcuni versi in dialetto 
calabresi attribuiti al Misdea ; e tutti li hanno 
ritenuti interessanti , sia come manifestazione 
della fantasia poetica del condannato, sia come 
documento psicologico , facendo spreco cosi di 
una erudizione tolta dal libro del Lombroso : 
Uuomo delinquente. Per tal guisa poco è man- 
cato che dell'infelice soldato non si fosse a di- 
rittura fatto un emulo del Capasso, del Meli e 
d* altri. 

Quei canti non sono altri che eminentemente 
popolari, e chi per poco fosse vissuto nelle Ca- 
labrie, ne avrebbe intesi spesso di simiglianti e 
di migliori ; tanto più che essi fanno già parte 
delle raccolte, a cui intendono oggidì con tanto 
amore, i cultori della letteratura popolare. 

A prova di questa nostra non gratuita asser- 
zione, ci piace riportare qui appresso prima i 
versi qjuali, attribuiti al Misdea , furono ripor- 
tati dai diarii, e poi le diverse varianti , tolte 
dalle relative raccolte. 

VERSI ATTRIBUrri AL MISDEA 

A Rinusza 

Rinuzaa, una littera tìmandUy 
Ti la fici a li carcere ciangendu ; 
Ciancendo ti Vho fatta, e iacrimanduy 
Sapendu ca ppe mia non c'è cchiù mundu. 
Li giudici mi stannu cundannanduy 
La morte fu mprowisa a liperfundi. 
Mentre lu male miu fu tantu rande, 
Binu^za ni vidimo a V atru mundu. 

( Dal Napoli, anno I, Numero 30 ). 

Nacqui infelici au mundu e tal restai 
Sempe infelici e sbenturato fui 
Nun ieppi iurni d'allegrizza mai 
Allura finiratmu li mie gu^i 
Quannu me canteranno requiam fui. 
Chiddu pazzu me chiammau 
Ma si4gnu sbenturatu... 
Sbenturato de stu munno 
E si n'esco da li guai 
Ne cantamm' u de prufunni. 
(Dal Soma , anno XXIII , Numeri 150 e 158; e II 
Piccolo, anno XVIU, N. 150 ). 

Ed ecco ora le varianti già stampate parec- 
chi anni fa. 

Casetti-Imbriani, canti popolari delle prooin- 
eie meridionali (Torino 1871), voi. I., pag. 209, 
variante di Lecce: 

Lieggi, beddha 'sta lettre ci te mandu, 

Jeu Taggiu scritta a 'nu mare prufundu; 

L'aggiu scritta de core lacreraandu, 

A 'na carcere scura e senza fundu; 

Gli dutturi pe' mmic 'anu sludiandu, 

E dicenu pe'mraie persu lu mundu. 

Beddha, 'ste do' parole 'ogghiu te mandu: 

Àmamuni li doi fenca ne' è mundu. 

Variante di Neritina: 

'Mbre, pighia 'sta leltra ci ti mandu, 
Ca l'aggiu fatta alli parti de mundu; 
L'aggiu fatta cu' Tuecchie lagrimandu, 
E li lagrime mmia 'nu mare bìundu. 
'Intra carcire scure e senza sonnu, 
Li dutturi pi' mmie stenu studiandu ; 
E ci li nostri amori ndi vedrannu, 
Anzieme nd' imu a stare notte e ghiornu. 



47 



Ed una variante napoletana : 

Leggitela 'sta lettera che ve manno: 
Piccerl , mo' che la liegge te confonne. 
L' haggio scritta piangenno e lacrimanno, 
Cumm' a lu mmare quaiiDO bade Tonna. 
Àmmice e parente abbannonato mm'hanno; 
Dicono cca ppe' mme non c'è cchiù monno. 
Già che la vita miezzo va mancanno, 
Piccerì", nuje nce verimmo all' àuto monno. 

Variante di Pietracastagnara (pag. 210) : 

Prenditi 'sta lettera eh' io te manno, 
Nenno mmio, faggio scritto a li profondi. 
T' haggio scritto piangendo e lacrimanno, 
Ninno mmio, se 'a legge, tu le confonde. 
Àmmice e parente abbannonato mm'hanno; 
E dicono cca ppe' mme non e' è cchiù- monno, 
Tu si non mme sposi denl' a sfanno, 
Te saluto e nce vedimmo a 1' altro monno. 

AvoLio; canti popolari dì Noto^ (Noto 1875) , 
pag. 308, canto G34; 

Va lègghtli sta Ultra ca ti mannu ; 
lu r hagghlu fattn nla 'n forti pirfunnu. 
L' hagghìu fattu cu st'uocci lacrimannu; 
Ga iu slissu, a ligghtlla, mi cunfunnu. 
L'agghienti ca ri mia vanu parrannu, 
Vannu ricenu ca pi mia 'un c'è munnu. 
Ma su pi sorti' a libirtati tornu, 
L'uocci c'hanu arriruio, ciancirrannu. 

MoLiNARO Del Chiaro, canti del popolo napo- 
letano (Napoli, 1880), pag. 248, canto 407. 

Pigliàleve 'sta letlra ca ve manno, 
Ca io l'aggio scritl' 'a li prefunne ; 
L'aggio scritta cu' 'st' uocchie lacrimanno, 
E dice ca i)e' me nun e' è chiù munno. 
Àmie' e pariente abbannunato m' hanno, 
Nu'bonno ca ce parlo chiù cu' buie. 
Già die li fforze mele vann' ammancanno, 
Nennella, a rivederci a 1' àuto munno ! 

MoLiNARO Del Chiaro, canti popolari di Terra 
d Otranto (Vedi: — Archivio per lo studio delle 
tradizioni popolari (Palermo 1884), pag. 283, 
canto 40): 

Pìggliiatela, sta lettera te niandu, 
Ca Taggiu fatta alli mari brifondi. 
L' aggiu faltu culi' uecchi lacremandu 
Intra carcere scure e senza fondi. 
Lì dutturi pe nui hannu studiandu, 
Decendu ca pe nui nu ne' è cchiù mondi ; 
E ci la sorte nu ni porta a scomu, 
Nui doi nnimu gudìre n'autru giurnu. 

Or giudichi il lettore, se avevamo ragione. 
Napoli, 12 giugno 1884. 

L. MoLiNARO Del Chiaro. 



NOTIZIE 

La Direzione ringrazia vivamente l'ono- 
revole Deputazione Provinciale per avere 
con flellberazione del giorno tO ma^^io 
ultimo, assegnato un sussidio annuo di lire 
cinquanta ai periodico GlAllBATTIti^Tià 
BASTILE, a titolo d' Incoraggiamento. 



li 



Canti | popolari umbri \ raccolti a Gubbio \ e illustrati da | 
Giuseppe Massatinti \ Dottore in lettere \ Bologna \ Ni- 
cola Zanichelli \ MDCCCLXXXIII. | ( In sedicesimo di 
pagine 3807. 

Certo è da saper grado a clii porta anche un granello 
di arena al grande edifizio; ma, altro è il pubblicare, illu- 
strandoli alla meglio, pochi canti, ed altro pretendere ad 
una edizione critica, fatta con tutti i criteri i scientifici , 
come ó nella specie pel dottor Mazzatinti. Molte conces- 
sioni ed attenuanti, date nel primo caso , diventano una 
colpa nel secondo ; e, se questo volume non potesse en- 
trare nel numero dei lavori delia seconda specie, sarebbe 
davvero , difficile determinarne il valore, perchè il Maz- 
zatinti, secondo ci fa travedere anche lui e, secondo si os* 
serva nel fatto, ha inserito nel suo lavoro molteplici canti 
stampati precedentemente , solo raffazzonandoli e rimet* 
tendoci la forma vernacola, cosa che si può fare benissi- 
mo, interrogando una persona qualunque , o, avendo un 
po' di pratica del dialetto, senza consultare alcuno. 

Gii farei , quindi , un torto (che dtniguardil) se giudi- 
cassi con altri criterii questo libro : non esco da oio che 
egli ha voluto. 

Prima d'ogni altro, una volta che ha fatto tanto spreco 
di citazioni, forse, non sarebbe stato inopportuno spende * 
re una parola intorno al tipo metrico fondamentale e ca 
ratteristico di questi canti, che chi noi sapesse altriment i- 
di facilmente ci si raccapezzerebbe. 

£^ cosi, fa una strana impressione veder messo, ad al- 
cuni canti, una serie, forse, soverchia di riscontri , men-* 
tre altri non ne hanno neppure uno: basterebbe dare una 
occhiata al libro per convincersene. Involontariamente^ mi 
son ricordato di quel tale , che , in ogni tema, ci faceva 
entrar la predica di S. Giuseppe , perchè non sapeva al. 
tro... insomma il Mazzatinti fa e, spesso, ripete le cita- 
zioni che gli vengono sotto mano e non bada gran fatto 
alla proporzione del lavoro; all' eguaglianza delie parti. 

Cosi acc&de che, qua e là, si pónno fare dei copiosi ri- 
scontri; ma non voglio prendermi questo fastidio, se non 
per un solo esempio. 

Prendiamo il canto, che cominciar Passa e ripassa e 
la finestra è chiusa ec. (p. 210) e aggingo qualche altro 
raffronto a quelli del Mazzatinti; ma cosi alla buona , e 
senza neppure alzarmi dallo scrittoio. 

Marcoaldi, Can. Pop. Umbri, N® 51, pag. 58; id. Can* 
Pop. Piceni, N.* 62, pag. 114; Imbriani, Canti Popolari , 
rispetti, liinne-nanne, canzonette -di Gessopolena (Abruz- 
zo Citeriore) I Per le fauste nozze di Wagener-Heyroth | Col 
nob. Ajassa di Rombello l pag. 20-XIa ; id XV canzoni 
pop. in dialetto titano [Propugnatore , Voi. VI, parte I 
pag. 338 primo canto ; Finamore, Can, Pop, abruzzesi 
273-74 ~ XlII;-PiTRÉ, Cant. Pop. sio. voi, 11 pag. 143-55 
N.® 918; Viòo, Can. Pop. sic. pag. 24, (!• edizione): An- 
DRBOLi N^ XVII, dei Con. Pop. uose, pag. 22-23; Dalmb- 
Dico, N^ IV, Can. del Pop. di Chioggia, Tommaseo, Can. 
Pop. tos. Voi. I p, 26-27; eccetera... eccetera e basti. Po- 
trei continuare per un pezzo; ma a che prò? Mi limito 
a rimandare il lettore ad | Un canto del pop. nap. ec. del 
Molinaro Del Chiaro (Napoli, Argenio, 1881). 

Cosi, quasi in ogni pagina» non vi manca qualche ine- 
sattezza. Mi spiego. 

A pag. 31, in un canto vi sono questi versi : 

...Vo' dire 'na canzona lesta lesta, 
Saluto la patrona e la canesta (?)... 

Mettendoci un interrogativo , fra parentesi , vuol dire 
che non ha capito, e pure la cosa è facilissima. Si tratta 
di una persona che va in casa di un' altra e saluta la pa* 
trona e la canestra coi donativi ( cfr. un mio articolino 
inserito nella strenna per Casamicciola dell' Ateneo Gali' 
1*0 Galilei). 

Cosi, a; pag. 90; dà imperfettamente questo canto, che 
è cosi in una var. nap. Amore, Amore che m'haje fatto fa- 
re? \ De auinnece anne m'aje fatto mpazzire \ 'O pater- 
nosto m' he* folto scardare ^ \ *A terza parte de l' aoema- 
ria. La lezione data dal Mazzatinti è di soli tre versi 1 

E , del pari , a pag. 151 rimanda il lettore ad un opu* 
scolo deirimbriani ed erra nel citare il titolo, il quale ò 
questo : La Pulce I saggio \ di \ zoologia Letterariat | Ca- 
tanzaro I Tip. delV Orfanotrofio \ MDCCCLXXV (In sedi- 
cesimo di pag. 16). « La pulce considerata letterariamen- 
te, » non fa parte del frontespizio, come vorrebbe farci cre- 
dere il Mazzatinti. 

Potrei continuare; ma non ne franca il fastidio, quando 
egli fin dal bel principio comincia con delle inesattezze , 
asseverando , che i canti del Marcoaldi slan dedicati a 



48 



Carlo Troya, mentre si tratta del cav. Vincenzo Troya. 
Che razza di confusione non dev' essere nella mente di 
chi confonde questi due nome eli cita inesattamente. 

E cosi, si mettono insieme dei libri , che la pretendono a 
libri seri I 

Gaetano Amalfi 

XXVI Maagio, MDCCCLXXXIV. \ Nozze \ Canali^ 
Sbardella I Pelestrina (Prov. di Roma), Tipografia Lucio 
Lena^ 1884, Edizione di soli 100 esemplari fuori com- 
mercio. 

È un elegante opuscoletto di 8 pagine , senza numera- 
zione, in cui il folk'lorisùa per le tradizioni del Lazio, 
prof. Francesco Sabatini , pubblica in dialetto romano , 
dieci stornelli d' indole amorosa, ai quali ha dato il tito- 
lo: - Er sor Ckecco a la sor* Arsilia. 

Rimandiamo, intanto, chi fosse vago di riscontri , alle 
opere sotto citate : 

Cfr. De Nino, canti del pop. sabinesi , pag. 15. — - Mo- 
LiNARO Del Chiaro, canti del pop, teramano (2* edizione), 
pag. 12, e. XVII. —"Tommaseo, canti pop. tose , voi. I, 
pag. 52, e. 4. - Lizio-Bruno, canti pop. delle isole eolie, 
paff. 168, e. LXIII, verso 2^ (Per lo stornello IV). 

Cfr. Nannarelli, studio comp. sui canti pop. di Ar- 
teria, pag. 42, e. 10. (Per lo stornello VII). 

Nel N^ 17 anno IV del Cola Capasse , sotto la rubrica 
di: — Vuce de Porta^apuana, R. D'Ambra pubblica quat- 
tro canti che hanno la sola pretesa di essere canti popò' 
lari. Diciamo sola pretesa, perchè il d*Ambra (come an- 
che qualche altro empirico cultore dei dialetto^ non inten- 
dendo il valore di simili studii non si contenta di pubbli- 
care i canti secondo li ha raccolti ; ma li raffazzona, li 
racconcia, li guasta a modo proprio in guisa da cavarne 
un orribile impasto non sai se di dialetto o d'italiano, se 
di prosa o di verso. Specialmente V ortografìa è barbara 
e sarebbe ormai tempo da smetterla una volta che se ne 
è provata V irrajgionevolezza e V assurdità. Pure V argo- 
mento delle voci dei venditori sarebbe interessante, e ri- 
mandiamo il lettore ad un capitoletto di questo titolo nel- 
la Guida Pratica del dialetto napolitano di G^iacomo Ma- 
rulli e Vincenzo Livigni; ed ai XLIII altri esempii, che 
si trovano a pagina 72-75 , dei XII Conti Pomiglianesi 
dell' Imbriani. 

Ecco il racconto di un fatterello che si rannoda alla do- 
manda proposta nel numero 4 del nostro giornale : 

«Narrasi che due inglesi, andati a Salerno per vedervi 
la storica cattedrale, ed il corpo dell'apostolo S. Matteo, 
s'imbatterono nello scaccino, il quale spazzava in sulla por- 
ta, e avendolo veduto in abito talare, credettero che que 
sti intendesse un po' di latino , onde gli domandarono : 
ubi est corpus dim Matthaei, e quegli mostrato il succor- 
pò, senza smuoversi rispose: — scinne locus abbassus, onde 
I messeri ripigliarono: — hic barbare loquitur». 

Estratti dall' Archivio per lo studio delle tradizioni 
POPOLARI, abbiamo ricevuti i seguenti opuscoli : 

I. PiTRÉ G. — Proverbi napoletani. 

II. Luigi Molinaro Del Chiaro Luigi — Con^t popola- 
ri di Terra d'Otranto. 

Col giorno 11 Maggio 1884, ha veduta la luce in Napoli 
il primo numero dei giornale umoristico: — Il nuovo Cola 
Capasse. 

È un grazioso giornaletto, redatto da egregi scrittori e 
cultori del dialetto partenopeo. 

Nel N.^ 8. Anno I del periodico: ^Cronaca Partenopea 
(Napoli, 8 Giugno 1884). il Prof. Emmanuele Rocco pub- 
blica una brevissima nota fìlologica — Fra* Paolo, nome 
col quale i Napoletani intendono il sonno. 

Nel libro : — Lagune di Dino Mantovani (edito dal Som- 
maruga, 1883), vi è un lunghissimo capitolo dal titolo : — 
Musa Palustre, in cui si discorre della poesia vernacola ve- 
neziana (da pag. 91-305). 

La Nuova Provincia di Molise (Campoba^^o, 28 mag- 
gio 1884^, Anno IV. Numero 22, pubblica un articolo del 
siffnor Enrico Melino, dal titolo: — Pellegrini (Scene po- 
polari). 



Il Giusti (Lecce, Maggio, 1884), Anno I, Num. 5, con 
tiene : — Poesie Popolari Leccesi. È un sol canto senza 
confronti. 



FIETBANTONIO BÌDOLA 

n giorno 18 maggio ; corrente anno , finiva in Matera 
V egregio cav. avvocalo Pietra atonie Rldola. Nato fra doì 
il 22 ottobre 1802 dalPavvocaio Domenico e dalla signora 
Bufioa Gufali , e quivi educato , espletò poi gli sludt in 
Napoli, dalla cui illustre Università venne, a 3 luglio 1822, 
laureato in dritto civile e canonico, ed abilitato allo inse- 
gnamento privato delle medesime scienze. 

Uomo dotato di colto ingegno, non tardò a vedersi no- 
minatOy con regio Decreto del 14 novembre 1827, supplente 
al regio Giudicato della stessa sua patria ; e con altro del 
6 gennaio 1839 , passato a Giudice di Circondario e nel 
contempo elevato a Presidente del Consiglio Distrettuale, 
co' decreti del 19 mai'zo 1834, 14 detto 1836, e 3 aprile 
del 1843. Ma, per una protesta ch'ebbe luogo in Matera 
in seguito agli avvenimenti politici del 1848 , caduto in 
disgrazia del Governo Borbonico, dovè ritirarsi fra le do- 
mestiche mura, dove attese a rivedere i suoi scritti giuri- 
dici già pubblicati, e ad elaborarne de' nuovi storici e let- 
terari, elencati nelle mie Note Storiche su questa citlà (*). 

Non è dà meravigliar quindi se lo si vide jpoi ricercalo 
a gara dalle Redazioni del Regno di Napoli illustrato , 
del Poliorama Pittoresco , della Strenna Lucarha , del 
Supplemento dell' Enciclopedia Popolare, del Dizionario 
Corografico, del Museo di famiglia di Milano, e dello 
Annotatore di Roma. È nella prima di queste pubblica- 
zioni che egli , intravedendo Y importanza degli studi dia- 
lettali e popolari , ne diede un piccolo saggio ad incita- 
mento d^li studiosi. (**} 

Pertanto, a'9 marzo 1864, fu nominalo socio corrispon- 
dente della Società Economica di Basilicata ; con mini- 
steriale de! 17 aprile 1867, Regio Delegato Scolastico; 
con diploma del 10 gennaio 1872, socio corrispondente della 
Società Italiana di Storia ed Arclieologia; e con altro 
del 21 gennaio 1874, socio fondatore della Società Dida- 
scalica Italiana, che, a' 30 luglio 1876, gli coiifaiva la 
medaglia d'oro, mentre il Governo, con decreto del 6 gen- 
naio 1874, lo aveva insignito della Corona dltalia, a pro- 
posta del Ministero di Pubblica Istruzione. 

La sua patria intanto, che con rammarico vede spegnersi 
i migliori suoi, non mancava Tindomani della morte a tri- 
butargli dovuti contrassegni di stima e di lutto , con ac- 
compagnarne la salma all' ultima dimora, ed inviare pub- 
bliche condoglianze alla vedova, signora M." Giuseppe De 
Ruggieri, ed ai molti suoi egregi figliuoli. 

A tanta pubblica e sincera manifestazione di affetto io 
caldo ammiratore deir estinto , non potei prendere parte , 
perchè, lontano di Matera , vi giungevo la sera stessa. Di 
che dolentissimo , mi associo ora al generale compianto e 
rendo questo modesto tributo alla santa memoria deiramico 
carissimo. 

Conte Giuseppe Gattini 



(*) G. Gattini | Notizie storiche della città di Matera 1 
Napoli I 1882. 

(••) Vedi: Il I Regno delle Due Sicilie | descritto ed il- 
lustrato l ovvero I descrizione topografica, storica , monu- 
mentale, industriale, artistica , economica e commerciale 

I delle Provincie poste al di qua e al di là del Faro i e 
di ogni sìngolo paese di esse I Opera dedicata alla Maestà 

I di 1 Ferdmando II. i Napoli ] Stabilimento tipografico di 
Gaetano Nobile | Vicoletto Salata a' Ventaglieri n.^ 14 1 
1853. 



Gaetano Molinaro — Responsabile 

Tipi Carluccio, de Biasio k V — Largo Costantìiiopoli , N. 89. 



ANNO II. 



Napoli , 15 Luglio'1884. 



NUM. 7. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ASBOU AIBKTO AHOTO 






Per ritAlU L. 4 — Estero L. •• 

Un nuinero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
8i comunichi il cambiamento di re- 
sidenxa. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



AVVESTENZB 



Per tutti gli articoli è riservata 
la proprietà letteraria a sono vie- 
tate le riproduzioni e le traduzioni. 



Indirizzare Taglia, letterj o manoscritti 
al Direttore liulgl Molimiro Del 

Si terrà paroia delle opere riguardanti 
la letteratura, popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



B 



•OHMARIO • ^ À proposito dell' ortografia del dialetto 
napoletano (G. Amalfi) — Conti popolari calabresi (V. 
Cara velli) — *U canto r' 'e gatte meccoso (L. Taglia- 
tatela) — Canti popolari sorani (V. Simoncelli) — No- 
tizie — Posta economica. 



i PROPOsno mi' ortogrìi u de diaiìtto napoletano 

li signor Giulio Capone, in un articoletto, in- 
serito nel passato (*) numero del Basile, togliendo 
argomento da ciò che io scrissi, in precedenza, 
& alcune osservazioni , riguardo all' ortografia 
del dialetto partenopeo. Per me , se , da una 
parte, godo di trovarmi di accordo con lui, nel 
concettò generale de'criterl ortografici; dall'al- 
tra , mi duole , doverlo , in alcune cosette con- 
traddire ; ma la verità innanzi tutto 1 

Cominciamo. — Egli m'accusa d'aver : — « d/- 
« menticato parecchi casi ne' quali la trascrizio- 
«, ne usata comunemente della parola napole- 
« tana è poco fedele » — ; e non è vero. Invece, 
io, dichiaravo, esplicitamente, di dare uno spec- 
chietto — « punto invariabile, però, e che non 
« comprende tutte le parole 1 » 

Dunque, se in questo vi ha colpa, — mei per- 
metta il signor Capone, — è tutta sua; che, o non 
ha letto, prima d'accusarmi; o, com'è più facile, 
ha dimenticato ciò che aveva letto. E la cosa è na- 
turalissima! Io non volli dare un elenco di tutte 
le forme, che, talvolta, variano pure; anzi solo, 
accennare ai criteri , che ci devono esser di 
guida e mostrar, col fatto, a'seguaci d'un vieto 
andazzo , la faciltà e la razionalità del nuovo 
metodo. Accennai, perciò, incidentalmente, alle 
inesattezze della trascrizione del nostro verna- 
colo; inesattezze che, in buona parte, ha comuni 
con l'ortografia della lingua italiana e, che po- 
tranno sparir, solo, aggiungendo nuove lettere 
air alfabeto, quistione messa bene dal Trissino; 
ma sbagliata, nell'applicazione. Volere o non vo- 
lere , ricorrere agli accenti , alle virgolette e* 
che so io! è, sempre, un mezzuccio, perchè non 
possiamo disporre di nulla di meglio , al mo- 
mento. 



(*) Per difetto di spailo, siamo stati costretti a pubbli- 
care oon un numero di ritardo questo scritto (N. D« R.) 



Per questo, mi astenni dal parlare d' una ri- 
forma fondamentale ; e limitai, quasi esclusiva- 
mente , il mio tema a rendermi conto del me- 
todo adoperato , con lievissime modificazioni , 
cercando di causare le difficoltà tipografiche. Per- 
ciò, le cose che ci viene a ripetere il signor Ca- 
pone, riguardo alla zeta dolce ed as{)ra, eccetera, 
oltre che son vecchie , escono dai limiti della 
nostra discussione; e, qui, non ci è smania di 
dir molto sull'argomento; anzi solo il necessario. 

Noto, anche di sbieco, che , pel nostro uso , 
non parmi adottabile, punto , il metodo di tra- 
scrizione proposto dall'Ascoli, perchè altro é in- 
dicare, filologicamente, il valor delle parole ed 
altro servirsene, per rutilila pratica. Non sareb- 
be, per esemplo, strana la pretesa, ristampando 
un volume, puta caso, di Cicerone o di Ovidio, 
dì dover, d'ogni parola, segnar la quantità e di- 
staccar la radice dalla terminazione, eccetera? 

Se diverso è lo scopo, diverso dev' essere il 
metodo; e, non di rado, ciò che è utile in ìscjo- 
la, in pratica, aumenta, inutilmente, le difficoltà; 
e, poi, tutto questo non si costuma con nessima 
altra lingua, e neppure con l'italiano, la cui or- 
tografia bisogna tener d' occhio, a parer mio, 
per non adoprar due pesi e due misure. 

Il signor Capone continua: — « Prima dell' A- 
a malfi , meno i glottologi , nessuno ha tenuto 
« conto dell' e muto ( correggi, muta, ) — » e 
non è esatto. Unicuique suum : altri , prima di 
me e non glottologi, ne han tenuto conto. Basti, 
fra i parecchi , citar Ferdinando di Domenico , 
che, nella sua nomenclatura napolitana ed ita- 
liana, la segna , diligentemente , sovrapponen- 
dovi un puntino (1). 

Queste e simili osservazioni si potrebbero far, 
rileggendo lo scritto del sig. Capone ; ma, come 
dicevo , tutto ciò non tocca , direttamente , la 
nostra discussione, che può riassumersi in due 
punti principali: 

1.° E utile l'uso degli apostrofi? 

2.^ Va raddoppiata la stessa consonante , a 

principio? 

In questo, naturalmente, non sìam d'accordo^ 
non perchè, io, abbia delle tenerezze per l'uno 
o l'altro metodo; anzi ! Seguo ciò che mi sem- 
bra più ragionevole , tenendo d' occhio V utilità 
pratica... questo, a scanso d'equivoci ! 

Il sig. Capone, combattendo V uso degli ap o 



^0 



strofi, viene alle seguenti conclusioni : — « Ad 
« onta di tutte queste ragioni, gli apostrofi po« 
t trebberò, alla fine, esser tollerati, perchè, se 
« non fanno bene, almeno gran male non fanno». 
Accettiamo questa piccola concessione e venia- 
mo alle.... ragioni I 

« L' uso degli apostrofi poggia tutto su un 
t principio etimologico, molto discutibile. Glot- 
fc tologicamente parlando , non è giusto far ri- 
« montare la forma vernacola alla ìforma aulica, 
« perchè questa non è preesistente ; ma coesi^ 
«e stente \ anzi, in molti casi, posteriore ». 

Veramente, avrebbe potuto risparmiarsi di ri- 
peterci questo po' di lezione, una volta che que* 
sto non vi ha che fare ed è innegabile , che 
della maggior parte deVocaboli del dialetto, si 
rinviene, in italiano, il corrispondente aferizzato 
o^ apocopato. Anche, dato e non concesso, che 
si trattasse , solo , d* un presupposto , sarebbe 
una di quelle felici ipotesi , cne giovano alla 
chiarezza e alla faciltà , se non altro , come 
nello studio d'una lingua straniera, il trovare, 
o credere di scorgere l'affinità fra un vocabolo 
e l'altro della lingua a noi nota. Ecco un pri- 
mo vantaggio! 

Se, poi, il Capone pretende doversi segnar fin 
la quantità delle vocali, a che non indicar l'apo- 
cope e l'aferesi, che facilitano lo studio del dia- 
letto, facendoci trovare il corrispondente italiano? 

È quistion di logica, a mio modo di vedere. 
Ma gli apostrofi giovano, pure, alla chiarezza, 
distinguendo due parole, che, quantunque risul- 
tanti d'un istesso numero di lettere, nondimeno, 
hanno un significato differente, esempio no' (non) 
e 'no (lino). E si che a l'intelligenza della parola 
« vernacola non è gran che facilitata dall' apo- 
« strofo ! » 

Il signor Capone continua : « Lo stesso fine 
« sì raggiunge con note, lessici, traduzioni, ec. 
« Quanto alla pronunzia è chiaro che l'apostro- 
« fo non l'agevola, non fa anzi che imbrogliarla, 
«e Si aggiunga inoltre , che 1' uso di quel bene- 
«r detto apostrofo è spesso incerto ». 

In primis^ 1' uso incerto non è una ragione, 
perchè potrebbe derivare, anche da imperizia 
propria, o da altra causa ; ed il signor Capone 
dovrebbe sapere , che : Inducere inconveniens , 
non est solvere argumentum. 

Dir, poi , che gli apostrofi non giovino alla 
pronunzia , è dir nulla , perchè non tutto mira 
ad un solo scopo; e, per l' istessa ragione, per 
esempio, in greco, si dovrebbe smettere lo spi- 
rito lene, perchè non si fa sentir, pronunziando. 
Ma, nella specie, non è cosi. Quell'apostrofo, che 
sembra inutile al signor Capone, serve, anche, 
ad indicare una lieve diversità di pronunzia , 
per esempio , fra no' e 'no ; e , se egli non se 
ne avvede, vuol dire, che pronunzia male il dia- 
letto, non altro I 

Ma che dico ? Egli riconosce , pienamente , 
questo valore, quando assevera, che si potreb- 
be ottener lo stesso con note , con lessici ecc. 
(VroE supra). Perchè ricorrere a queste strade 
tortuose, quando ci è la via dritta? Francamen- 
te , per me , scelgo quest' ultima , non avendo 
tempo da perdere. Vecriture est la peinture de 
la voixi plus elle est ressemblante, meilleure eUe 






est, scriveva il Voltaire. Ecco l'ideale, cui dob- 
biamo mirare.». • Ma, quasi senza accorgerme* 
ne, m'avvedo, che non avanza neppure una più 
delle ragioni addotte dal signor Capone; e, per- 
ciò, passo alla seconda parte, al raddoppiamento 
delia consonante, in principio di parola.— 

« Quel che non può andare, assolutamente«— 
« scrive il sig. Capone , — è 1' esclusione de^ie 
« doppie iniziali. La colpa di questo ostracismo 
e è tutta del Galiani, il quale non trova parole 
« abbastanjsa energiche^ per riprovare la trascri- 
c zione delle doj>pie invitali, e adduce le stesse 
a precise ragioni, che abbiamo visto poco fa ». 

Se non che, precedentemente, non ha punto 
recato le ragioni del Galiani... ; se non che le 
parole, abbastanza energiche, non vanno dirette, 
in buona parte , al raddoppie^mento ; ann alla- 
grafia barbara e a quello: — t impegno strano 
a di esprimere, con l'ortografia, tutte, anche le 
e più insensibili forze date alle consonanti ; tutte 
a le elisioni delle vocali ; tutti raddolcimenti, o 
« suoni incerti di sillabe, che l'uomo più gros- 
« solano del volgo nostro avrebbe fatti, se fusse 
ce stato obbligato a pronunziar quei suoi versi 
€ (cioè del Fasano). Ne risultò un cosi spaven- 
« tevole accozzamento di consonanti doppie, di 
€ apostrofi , di accenti circonflessi , e di lettere 
a sovrabbondanti, che, quasi, non restò parola 
« che paresse Italiana ». 

Ecco: parte dell'esagerazione comincia ad an- 
dar via; e '1 Galiani non avea tutt'i torti, quan- 
do riprovava questo sistema grafico. Udite ciò 
che dice, poi, del raddoppiamento: — « A quasi 
« tutte le parole il Fasano , imitato dal Lom- 
« bardo, raddoppia la prima consonante... Che 
ce capriccio strano sia stato questo, non si corn- 
ee prende. È vero, che, talvolta, si pronunzia, 
«e con qualche forz^, questa prima consonante; 
« ma, oltreachè questo aumento di forza è quasi 
a inoipercettibile, può dirsi con sincerità, che ed,, 
« i Toscani e tutti gì' Italiani 1' abbiano anche 
« essi nel pronunziar qualunque voce , che sia 
e preceduta da vocale. Ognuno oonfesserà, sulla 
d testimonianza de' suoi orecchi , che pronun- 
ce ziando le voci a canto , si profferiscono ac- 
« canto, ed infatti cosi si scrivono , allorohò il 
« segnacaso, si congiunge alla parola. Ma non 
e è venuto in testa ai maestri della nostra or- 
« tografia ordinar quest'insipido e sfigurato rad- 
e doppiamento di consonanti , e farci scrivere 
e a ccanto... » 

E, poi, continuando, vuol che si raddoppi solo 
emme ed enne, per indicar l'apocopamentp d'una 
intera sillaba, come mmeperuto, nnaazato\ e e 
in ccà (qua) ed esse in ssi (questi). Ecco , sup- 
pergiù, ciò che dice il Galiani, in una forma ab- 
bastanza temperata. — 

U prof. Imbriani , poi , ha ripreso la teorica 
del Galiani e 1' ha meglio spiegata e completatat 
facendo, specialmente, un largo uso degli apo^ 
strofi. In generale esclude il raddoppiamento 
iniziale e lo conserva: — « solo nelle parole in 
« cui è costante , per ragioni etiihologiche od . 
« altro ». 

Finalmente, nel mìo articolino, io accennavo- 
all'esclusione completa di questo raddoppiamen- 
to; né, finora, le ragioni del signor Capone mii 



51 



han persuaso in contrario. Proviamooi, in altra 
guisa, a rifar l'i stesso ragionamento. 

Che si obbietta ? 

Egli riferisce uno squarcetto del Vernacchio 
del' Serio» le cui ragioni si pònno ridurre a que- 
ste — Gritaliani parlano, come scrivono; e, per- 
ciò, bisogna dar qualcosa al suon delle parole; 
e notar la differenza, per ajutare i forestieri a 
leggere meglio.-^ 

Ion€U32Ì tutto , sembra inopportuno tirare in 
l>allo i forestieri, i quali, più rari delle mosche 
bianche, studiano il nostro vernacolo ; e, quindi, 
han poco da vedere coi fatti di casa nostra. 

Secondo. Dna scrittura, perequante perfetta, 
non può render mai, fedelissimamente, la pro- 
nunzia,, fin ne' più minuti particolari. 

Terzo. A che altro serve il raddoppiamento, 
se non ad indicare la pronunzia , un poco più 
forte delia eoneonante? E, se esse a si pronun- 
ce ziano, appunto, come in Italiano, (adopero le 
« parole del prof. Imbriani) quando scempie e 
« quando doppie, secondo il valore tonico della 
* sillaba precedente » — non è sufficiente, forse, 
• ricordarsi ' della regola generale? 

< Nessuna lettera consonante , — osserva il 
€ Nocito, — si potrà mai duplicare, se non sia 
.« preceduta da una vocale , che faccia parte 
n 'della parola medesima » e non vi è ragione 
per non tenersi a auesta regola, trascrivendo il 
dialetto ; né vale 1' esemplo, in contrario, degli 
antichi manoscritti. In diebut illis ^ lo scrivere 
era ancora rozzo: e staremmo freschi, soci vo- 
lessimo tenere a quella grafia : negheremmo 
.tutto il progresso fatto finora! 

Dunque, ricorrere all'analogia non era inop- 
portuno; né parmi, che meriti l'epiteto di sciocco^ 
« Fargomento messo innanzi dal Galiani », mas- 
simamente, quando non s'adducono delle ragie- 
ti\ migliori. 

Comunque , la quistione si riduce a questo. 
Se nella pronunzia non si fa sentire la doppia 
consonante, tanto meglio, sarebbe . inesatto tra- 
.dùrla nella scrittura. Se, poi, si, basta ricorrere 
alla regola generale , senza farci annaspar la 
vista eoo un apparato inutile. 

E, di qui , ne deriva , che è anche inutile il 
raddoppiamento, quando serve ad indicar la per- 
dita di qualche sillaba ; in questo caso , basta 
ricordarsi delle norme dell' aferizzamento. 

In un sol caso, potrebbe introdursi la doppia 
consonante, quando servisse a distinguere i oue 
«ignifìcati, o il genere diverso d'uno stesso vo- 
cabolo, come: ^E ceriature; 'e criature; 'o pano 
(di siigna) e 'o ppane (il pane). Comunque , si 
potrebbe ricorrere a qualche altro segno , tra- 
fasciando il raddoppiamento. 

E, qui, finisco, chiedendo scusa al lettore di 
averlo annodato , con queste quisquiglie ; e , se 
qualcuno mi chiederà, perchè io mi sia indù* 
giato a discutere e a contraddire , risponderò, 
con le parole del Voltaire: — « Cesi parce que 
nouM aimon la verità à la quelle nous devons 
ies premiert égard I 

Napoli, 3. VI. 84. 

Gaetano Amalfi 

(1) AMhe PletM Paolo Talpe, nel sao focabolario Nap. I 



IL ec. scrive: «Ed essendovi presso i Napolitani il mal 
« vezzo di non far sentire Tultima sillaba, vengono le stesse 
« desinenze, rimpiazzate da una b muta- » Mi spiace, al 
momento, di non poter riscontrare il de Ritis; ma, certo, 
non vi è da insistere , quando fin nel Galiani, troviamo 
queste precise parole : Generalmente la finale e delle ^oci 
$i elidey o si lascia sentire appena , come fanno i Fran» 
ce-ii (Del Dial. Nap. ediz. Porcelli, pag. 3). 



Conti popolarì calabresi 

Comincio a pubblicare alcune rumanzi cala- 
bresi, raccolte in Rogiano-Gravina, antichissimo 
villaggio nella provincia di Cosenza. La stretta 
relazione del dialetto Rogianese e del calabrese 
in generale con la lingna comune, mi dispensa 
dairaggi ungere molte spiegazioni. Ciò che, pel 
dialetto siciliano, osservava TEmiliani-Giudici in 
una nota alla pag. 71, voi. I, della sua Storia 
della Letteratura Italiana^ si può benissimo ri- 
petere anche qui pel dialetto calabrese. Voglio 
dire che le espressioni e i vocaboli calabresi , 
con poca alterazione, diventano italiani, e spesso 
basta mutare le sole desinenze. 

Per la pronunzia v' è poco da dire. Quasi 
tutte le parole si pronunziano come sono scritte. 
La la V ha sempre il valore di p, e spesso an- 
che la 6 iniziale. Le due l, che, in quasi tutta 
la Calabria , si pronunziano regolarmente , nel 
dialetto Rogianese invece , come notai altra 
volta su questo giornale, si pronuziano con un 
sibilo molto particolare , di cui difficilmente si 
può dare un'idea. Ecco: si osservi in gpa. Quel 

sibilo leggiero, insensibile, che nasce dalla fu- 
sione del suono liquido p con a dev'essere ben 
marcato e raddoppiato per avere approssima 
tivamente il valore fonico delle due L 

Bastano per ora queste piccole osservazioni. 
Quando raccoglierò in un volume i conti che 
andrò, a mano a mano, pubblicando e annotan- 
do, dirò qualche cosa di Rogiano-Gravina e del 
suo dialetto , e farò i necessarii raffronti tra 
questi conti calabresi e quelli delle altre prò* 
vincie finora conosciuti. 

Vittorio Caravblu 



rf»»M^ W «< ><W<X»»»MM»^<W» 



'A RUMANZA D' 'I TRI BISTITI 

'Na vota, cumu dicissi , cc'éradi 'n' omu chi si chiamà- 
vadi don ^rafinu. 'Ssu don Zarafiou s' era 'nzuratu , e , 
ppi sbintura sua, la muglìera li stava muriennu. È juta (1) 
ssa muglìera , s' ha chiamatu don Zarafinu e ir ha dit^i 
addaccussì: — Sienti, Zarafinu mia: te' 'ss* anielUi: è pro- 
pria chillu chi mi hai purtatu pp'arricuordu. Tu mo, 'ssV 
niellu, taonu t' ana 'nzurari , quannu hai truvatu a chi Ili 
va buonu, ca ppicchl ccussì nun ci po' stari ca tieni 'ssa 
figlia e ra casa è sula. 

Finalmenti è morta 'a mugliera. Don Zarafinu s' è am- 
mazzata tuttii: cci— hanu iàttu tutta la pompa, s'è tiouta 
lu luttu , e doppu tria o quattru misi, ha dittu : — Mo 
m'haja 'nzuradi ppicchl addaccussì m' ha cunsigliatu mu- 
glierma (2). — Ha &ttu vtdi a tanti giuvìnelli ppi btdi si 
li jia buonu ranidlu:a echi Ili jia largu, a echi Ili jia «trittu, 
a cebi no' Hi jia di nenti. 'D don Zarafinu T ha stipata, e 
non ci. {Musava echib. 

Va 'nu juomu. Maria 'Ntonia di Gencia , chi 1' era vi- 
cina, ha ditta a ra figlia di don Zarafinu, chi d chiamava 



^2 



Maria Liivisa , ha dillu: — Ohi donna Luvi' , tieni tanti 
casci, e, a tantu tiempu chi t'è morta màramata, non ha' 
vistu echi ce' èdi. 

— Diveru — ha dittu 'a Maria Luvisa : ha pigliala M 
chiavi e s' è misa a scaìiari (3). Ed una era china di si- 
rivielti (4), a V autra c'eranu luvagii (5) , a 'n' autra lin- 
zola : a bonsensu , éranu tulH chini (6). A *n' autra cci ha 
truvatu 'na cannìstra d'oru. È juta sugna (7) Maria 'Nto- 
nia, ha dittu: — Ohi donna Luvi', tieni tantn oru , e mai 
ti minti 'n' anilluzza di chissi. Opira propriu di tantazio- 
ni (8) - Veramenti - ha diltu donna Luvisa. Ha piglialu, e 
scarta (9) di cca , scigli di Uà, ha 'ncappatu propriu chil- 
r aqiellu chi cci avia lassalu di lu jiditu di la mamma: ha 
pigliatu ppì s'ha cacciar!, ma non s'ha pulutu Cacciari 'a 
biuidilta aniellu. Ha diilu : — Fuocu mia! fuocu miai 
sciuollu (10) mia! Mo si ricoglì (11) papà e m'ammazza, 
cà mi trova ccu r' aiiielhi , — Ha pigliatu e si cci — ha 
misu 'na fascitella a chini iidttu ppi no' ru vidi lu papà. 

S' è riliratu veramenti lu papà, e ha dittu : — Bella di 
papà, Maria Luvisa di papà, ha cuotlu ca pnri 'a tavola ca 
mangiamu? — Sini, papà haju cuottu. — È juta ppi pa- 
rari la lavula, e ha bistu don Zaraflnulu jiditu 'nfasciatu : 
ha dittu; — Maria Luvi', tu echi cci tieni a 'ssu jiditu?— 
Nenti, nenti, papà : mi cci sugnu tagliata , ma è cosa di 
nenti, no' scantrari (12). — 'Ù vuogliu vidi, cà lesta lestu 
vaju chiamu lu miédicu. — 'A poverella è morta quannu 
ha 'ntisu lu patri, chi ppi 'ssa figlia ni jia muriennu. Cou 
tuftu ehissu, non s'ha fatta vidi la jiditu. 

E passatu 'nu juornu e tria e quattru , e non è cosa 
bona cchiii ! Ha pigliatu don Zarafinu , a forza cci - ha 
strappata la pezza. Prima di cci hastrappari, ha dittu:— 
Papà , 'u vo' sapiri ? 'Nu juornu V haju vulutu vidi echi 
ccosa m' avia lassatu mamma : haju scaliatu li casci, haju 
vistu , na cannisira d' oru , haju pigliatu e m' haju misu 
'n' anilluzza. — Appena don Zarafinu ha bistu chir' anilluz- 
za, tuttu s' è cunsulalu e ha diltu : — E tu sarai la mia 
spusa. — Sciullu mia! fuocu mia! Papà, chi cosa dici, cà 
si ti siéntinu li genti, li piglianu ppi pazzu, e ti fanu ar- 
ristari. — pazzu o sediu, ehissu pàssadi. Haju caminatu 
tantu, non haju potutu truvari ad una chi Ili fussi juta 
bona. A Uia è juta bona , tu hana èsseri la mia spusa. 
Accussl m' ha lassatu dittu roàmmata. — Sciuliu mia ! fuocu 
mia ! fuocu mia ! mamma mia, chi m' ha fatlu I Ha' vistu 
mai, papà, 'na figlia di si pigliari lu patri ? No, 'ssa cosa 
non pod' éssiri ! — Ed iu ti dieu ca 'ssa cosa ha da éssiri! 

La figlia s' èdi ammazzata (13). S' ha chiamalu , e' ha- 
viadi , la mamma di latti , e cei-ha euntatu tutta la scia- 
gura. Ha pigliatu , ha dittu: — Mamma mia , cunsigliami, 
cà, si no, m*ammazzu — È juta la mamma, ha dittu: — 
Figlia mia di latti , non tinni 'nearicari : quannu si rieo- 
glimo, hana diri : papà, in sugnu pronta, ma piròm'hana 
m viniri 'n' abita chi fussi tuttu culannu d' oru, e ppi di 
duvi pàssadi cci -ha da rimani' 'na striscia di Y oru, e ara 
storta (14) fussi di pila di cunigliu. — 'A povarella s'è 
tutta eunfurtata, e' ha dittu : ehissu no' ru po' truvari, ed 
accussl li passa ra fantasia. 

Diveru, s' è rieuolu lu patri , ha dittu : — Tu ti 1' ha' 
pinsata ? — SI , papà ; ma pirò m' hana jidi a pigliari 'n' 
abbitu chi fussi tuttu culannu d'oru, e ppi di dduvì passa 
cei-ha da rimani' la striscia di 1' oru , ed ara storta fussi 
di pilu dì cunigliu. — Oh quantu ni va' iruvannu ! Mo mi 

f)artu, e si 'u puozzu truvari , bonavintura (15) ; si no, ti 
' hana fa' passari 'ssa fantasia. — Diveru, don Zarafinu s'è 
pariulu e s' è misu , camina camina , èdi arrivatu a 'na 
ntrata (16) , e si dispìràvadi : — Oh sbinturatu mia I Chi 
sciorla d' abbitu chi vòdiìAdduvi cci lu vaju a piglia? — 
L' è cumparulu 'nu bellu giuvini e ha dittu : — Don Za- 
rafinu, chi cosa aviti chi hi dispirati tantu ? — Non ti fari 
cuntari li mia peni ! M' era 'nzuratu ppi ri càncari mia, e 
m' è morta la mia mugliera ; e quannu stavu murìamu ha 
dittu : Zarafinu , tu doppu la mia morti t' hana 'nzurari e 
t' hana pigliari a ehi va bona 'st' aniellu eh' illa m' ha 
datu. Haju mannatu a bidi adduvi tanti giuvinelli, a nis- 
suna r ha pututu jrrì bona. 'Nu journu mi ricuogliu, e 
^raovu r unica mia figlia ccu 'nu jiditu 'nfasciatu , piglia ^ 



ppi ci la vidi , no' usa bulutu fai vidi , cà m' ha dittu ca 
s' era tagliata. Doppu setti o gottu juorni , V haju vuloM 
propriu vidi , e, parti di truva' la (agliarìoa , haju truvafa 
l'aniellu. Iu appena chi l' haju vista, mi sqgnu oonsulatu» 
ca illa ha da éssiri la mia spusa. Mo vòdi 'n' abbitu chi 
culassi d' ora e ppi duvi passu cci -ha da rimani la stri- 
scia, ed ara storta fussi di pila di cunigliu. Adduvi cci lu 
vaju a pigliari accussl ? Sbinturata mia I — Ha rispusa 
ehillu, chi era la tantazioni, ha dittu : — Don Zarafinu mia^ 
statti allegru, e' aru nigoziu mia cci tiegnu chiri chi vòdi. 
— Si r ha misu 'ncavallu, ha jittata 'na carcagnata 'nterra 
e si sa' travati 'atra 'na patiga ricca di ogni qualitati. Cci 
ha pigliata l'abbila e cci l'ha parlata:— Yaog^uvtdi<** 
ha ditta — si ti sta cantenta. 

Lassama l' abbila e pigliama ara figlia. 

Cchiii scantenta di prima, è jata addavi la mamma di 
latti. Ha ditta: — Mamma mia, cc'haj^i patutu ca m'ha 
purtatu r abbitu. — Stati' allegra — ha dittu 'a mamma di 
latti : — cercaccinni 'n' autru, e fussi culuri d'aria, cca ra 
suli, la luna e ri stilli d' ora attaoma. 

Qaanna 'a patri cci -ha ditta : — Sta contenta? Mo mo 
n' ama sposa. - No , papà , — ha rispusa illa — mi nn' hana 
parlari n' aatra , culuri d' aria , cca ra luna*, ki suli e ri 
stilli d'oru atluomn. — S' è dispiratu, pu' s' è partutu, ed 
è jata 'n' atra vota a chini stessa laoca. L' è campani* 
la (17) 'n' atra vota, si l' ha misa V atra vola 'ocuolla, 
ha jittata 'na carcagnata 'nterra e r' ha parlata ara pati- 
ga. Gi-ha pigliata V abbila e ha ditta: — Qaalancbi 
cosa t' abbisogna, vieni adduvi mia, e no' stano nenti. 

Tutt' allegru 'a don Zarafinu si nni vadi , e dici : — 
L' haju cuntìntata. — E juta la figlia adduvi 'a mamma di 
latti e s' èdi ammazzala. — Non l' ammazzarì, figlia, stadi 
cantenta : cercaci 'n' aatra abbila e' ha da ^^ri a culuri 
di mari cca ri pisci d' ora attaorna. — Veramente si nn'è 
juta e ha diltu : — Papà, ppi spusari iu, m*hana jiri a pi- 
gliari 'n' air' abbitu, culuri di mari, ccu ri pisci d'ora at* 
tuornu. — Oh quanti disiderii ti vieninu ! Ni tieni dua chi 
no' ir ha nissunu ! — E si va' a mmia 'ss' autru m* hana 
jr a pigliari ; si no, a mmia no' mi spdsi. 

Cca latta chissà , don Zarafina s' è parlata , è jutti 'n' 
atra vota ara laogha assignata, V è curoparsu 1' amica, si 
r ha pigliata sapra li spalli, e 'n' atra vota la carcagnata 
'nterra, abbasciù. Pigliana l'abbila ehi non aviasi chi guar- 
dari'e ci lu purtadi. Figurativi la scuntintezza di la figlia. 
Subbi tu si vuliadi ammazzarì. E jota udduvi 'a mamma 
di latti , e cei-ha euntutu tuttu. È juta 'a mamma di 
latti ha dittu • — Tu cci-hana circari njo 'na caggia (18) 
d' oru, ppi cci vulari dintra la chiesia. E juta la figlia, ha 
ditta : — Papà, ancora non sugna cantenta. M' hana jiri a 
pigliari 'na caggia d' oru chi cci capissi 'nu baguglia (19) 
e na littina: accussl mi minta 'nta la caggia, viissuria va' 
ara chiesia, e li genti non lieoinu luocu a parlari calo patri 
*>iglia *na figlia : no' mi vidina e non puotinu parlan. -^ 
' è partala don Zarafina, è jutu aru luocu assignatu, ed' 
isciutu r amieu, si l' ha purtatu abbasciù, e subbitu hanu 
pigliatu la caggia. Cci l' ha purtata tutta cuntentu don Za- 
rafinu, e ha dittu : — Vi', mo ni putimu spasari. — Bini, 
vassaria 'ncigna (20) a jiri ara chiesia , ca ia mi viestu 
'ntramenti (21), mi minta 'nta la caggia e biegna. 

Veramente don 2^raflna è jata ara chiesia, la figlia ho' 
jla cehìù. Lassama a don Zarafina mo e pigliamo la figlia* 

La figlia s' è misa 'atra la caggia ed è balata. Davi si 
firmàvadi , Uà s' avia da sctnni ppi travari patroni. S' è 
pusata avanti palazzu riali, ed afTacciata 'na damig^a ed 
ha bistu Uà chira giuvina ccu ra vesta di pilu dì cuniglu, 
ca chili' abbitu si l'avia sbutalu (22). Ha dittu : — Chi ba* 
faciehnu tii ? — Vaju tnivannu pairtmi. — 'Nchiana, 'nchia* 
na (23). È 'nchianata, e l' hanu misa ppi gallinara (24). 

Giustu chira sira , lu figliu d' 'a re avia da jiri a £ari 
fistinu adduvi la zita, 'n' ata figlia di re, ppi cumbinari lu 
matrimoniu. Su' juti adduvi la gaìlinara li pirsuni di sir- 
vizia, ed hana ditta ara gullinara: — Si non érasi cca 'ssa 
vesta tanta brutta, nua ti ci purtàvamu. — Su' juti la sira 
aru fistinu : è juta la gaìlinara s' ha sbutalu lu vìstìtu chi 
culava. d'oru, è juta avanU lu figliu 'u re e ha fottìi rive- 



I 



Kà 



renza. È jutu 'u figlia d' 'u re, è jutu a fori 'nu giru di 
balla ccu chira dama. Mentre ch'abballava, è jutu e ccì-ha 
jiitata 'inpiettu la gioja eh' avia da jittari alla sua zita. 
Dopptt ballatu, fa rìvìreuza ani figliu a 'u re e si ni vadù 
'Il flgliu d* 'a re non ha bulutu cchiù fistinu. — Mi vno- 
glio rii\Tk\ mi vuogliu rìtirari ! — Parti di guardari la sua 
2ita, non ci ha mustratu cuofidenza, tantu eh' era rimastu 
maravigliatu ccu chilla. La zita era rimasta tantu murtifi- 
cata quannu ha bistu a cbilla chi diciadi: — Ssa purcella 
sicciavissi ruttu 'na gamma I Ti cci avissinu ammazzatu, 
cà ppi r' arouri sua no guàrdadi a mia ! — S' è rìtiratn iu 



vj|^iiaiiy v« la limila oiia nu «itii«c»** iw*n wu ■« tiom* om- 

bagliata. Su' juti li sintinelli ed banu dittu : — Rial Mai- 
slà 9 si domani a sira non fa rimani tuttu chili' oru , nua 
facimu tutti l' impossibili ppi putirla pigliar! ; si no, la no- 
stra testa paga la pena. 

'D figliu 'u re, diciennu chi facia notte l'arma si sintfadi 
éscirì. Su' juti pirsuni di sìrviziu adduvi 'a gallinara , ed 
banu dittu: — Povarella tia ! Si e' erasi vinuta chi bidlasi ! 
È biouta 'na giuvina , e tanta chi era beila e' ha fattu 
'mpazzfrì lu figliu 'u re. Avia 'nu vistitu chi culava d'oru, 
e 'na striscia d'oru ha fattu rimani adduvi è passata. Hadi 
abballatu ccu ni figliu di Rial Maistà, e ci ha jittatu la 
gioja eh' avia da jittari ara zita sua. Mo la Rial Maistà 
ha dato ordini di ci pigliari a chissà, si ci veni stasira, a 
pena di testa. Si non avfasi 'ssa vesta tanta bruita , ti ci 

Girtàvamu, ed aviasi chi btdi. — • Mi nn' haja leji iu (25) I 
i sugnu saziata di suonnu Jati vua chi vi cci abba- 

cadi (26). 

So' juti tutti priatì (27). Appena èrano priparati li stru- 
'meoti, aviano esci a balla' 'o zitu e ra zita. 'U figliu 'u 
ire ogni momento chi passava li paria n'annu. Tutt' a 'nna 
vota, si prisenta la gallinara ccu l'abitu ccu ra luna e ru 
suli e ri stilli attuorau. Fa rivlrenza aru figliu 'u re. Tuttu 
' cuntientu Iu figliu *u re, s' aza e balla ccu cliilla. Pigliadi 
*a collana eh' avia da jittari ara zita e ra jetta 'mpiettu 
ad illa. La zita è rimasta ccu dua panna di nasu: — S'a- 
vissi felfu 'na gamma a tri stozza I S' avissi fattu 'nu mun- 
riello (28) ! 'Ssa scrofe, 'ssa viéstia !... 

Lo figlio 'o re si l' ha bista 'n' atra vota vulà' davanti. 
Stava contientu ca e' eranu II sintinelli. E currutu ppi bi- 
diri si r avfano pigiata : su' rospusi li sintinelli ed hanu 
ditto: — Maislà, la testa nostra paga tultu. Si viditi quanti 
pìezzl di dudici carrini sunu 'nterra ? E a chi ha flrutn 
*n' nocchio, a chi ha finito la testa. Non àmu avulu echi 
fari. — Sinni su' joti: ha goastatu lu fistino: ha daiu or- 
dini ppi Vautra sira ccu ra spiranza di la vita. Li pirsuni 
di sir\izìu su' juti 'n' atra vota dduvi 'a gallinara : — 
gàlKnara mia, si e' érasi, echi bidlasi! 'N'atra vota chilla 
eco 'n 'abitu ccu ru suli, la luna e ri stilli attuornu hadi 
abballato sulu eco ru figliu 'u re, ha fattu rivlrenza e sin- 
n* è juta. 1 sintinelli no' l' hanu potuta pigliari; ma quantu 
non cci-ha piglianu stasira , cci fa tagliari la capu a tutti 
li sintinelli. 

Finalmenti la sira su' juti aru fistino. Mentri chf stavanu 
tutti approntiti, e ni figliu d' 'u re no' bulla guardari cchiù 
la zita di prima, si prisenta ra gallinara ccu I' abiiu culur 
di mari eco ri pisci attoorao. Fa rivirenza aru figliu d' 'u 
re : 'u figliu d' 'u re tuttu cuntientu s' aza e balla ccu ra 

Sallinara, e mentri e' abballavanu , fa rivirenza aro flgliu 
' 'u re e bùladi. 'U figliu d' 'u re cadi sbinutu (juannu 
si r ha bista pàrtiri, i sintinelli no' 1' hanu pututa pigliar!, 
tanti di li dinari chi cii jittavadi. S' è goastatu lu fistimi. 
'D figliu d' 'u re supra 'na portantina, muoriu, sbinutu. La 
zita è rimasta cumu hi putiti 'mmagffinari. 

Sfava malalu lu figliu d' 'u re. Li nirsuni di sirviziu 
so' joti a contari ara gallinarai ca, ppi r amori di chilla, 
'o figlio d' 'o re stava muriennu. Cumu difaiti éradi. Slava 
di mali 'mpeggio. Tanti di la cólara , e' avia pigliato la 
Kttida. Tutti li miedici 1' avianu licinziatu , cà non e' era 
cchib rimediu, e e' eranu li priéviti chi li raccumannavanu 
I' anima. No' mangiava nissuna picca di cibbu, mai mai ; 
chi si no' moria di scantro, moria di paora ; si no' moria 



di malatia , moria di la dijunanza. È juta la riggina , ha 
dittu aru cuocu:— Sa' chi bulimu fa'. Fadmuci pripararì 
ancona picca mangiari di chira gallinara chi sta 'ntra lo 
purtuni , cà chi sa, tramutissimu mano , e si la mangiassi 
ancuna cosa. 

Su' juti a fhiamari la gallinara, e cci-hanu ditto echi co- 
mannavanu. È jota la gallinara e ha dittu : — A bua bi 
grava, piénzica (29), la vita mia chi mi jati cuntanno toUi 
'ssi pastocchi (30). — In ogni modo, ha priparatu lu man- 
giari 'nsàvutu 'nsàvulu (31) , arringa arringa (32) , e din- 
tra la zuppiera cci-ha calatu la gioia. Qoanna aro figlio 
d' 'o re cci-hano purtatu chiru mangiari , appena ha vi- 
stu , s' è rìsturatu. Ha pigliatu ppi rìminan la pasta e 
quannu ha bistu la gioia : — Mamma, gioia mia, iu sogno 
sanatu... Chi m' ha priparatu 'ssu mangiari? Ati tramutato 
stamatina ? Quanto e galanti I Io sogno sanato I... — La 
gioia si V hadi ammocciata (33). — Mammà, io ÌA dognn 
'n' ordini ca chi m' ha priparatu lu mangiari statiia^tina , 
mi r ha da priparari sempri. 

'A gallinara si stava piriculusa ca dicladi : — Cd tro- 
vanu ancuna pilu di la vesta, e m' ammazzanu. — L' autra 
matina , toma cci-ha priparatu lu mangiari , e dintra la 
zup[)iera ci-ha calatu la cullana. Lo figlio d' 'u re, cdiià 
cuntientu , s' ha pigliatu la cullana e si 1' ha stipata : ha 
chiamatu la mamma e ha dittu : — Chi m' ha pqjparato 
lu mangiari ? La vuogliu purtata nella itala cammara a 
chissà chi m' ha sanatu. — Su juti adduvi la gallinara: — 
Corri, corri ca ti vo' bidi lo figlio d' 'o re eco tanta con- 
Untizza, cà è sanatu. — 0' b' avia dittu, sduollu mia ! ca 
m' aviati fe' ammazzadi ; e mentri e' haja jiri adduvi lu 
figlio d' 'o re... — s' è juta a béstiri. 

Appena è juta adduvi 'u figliu d' 'u re, s' èdi azatu: — 
Mammà, sugnu sanatu. Chissà era chi mi facia muridi.— 
Si r ha pigliata ppi bracciu e : — Manmià — * ha dittu —, 
chissà è mia spusa. — Hanu chiamatu papa e cardinali, e 
si su' spusati, e gudianu ccu' festa e pompa. 

Lassamu mo la figlia e pigliamo lu patri. 
. Lu patri ha saputo chi s' avia pigliatu lu figliu d' 'u re. 
E jutu r amicu e ci-ha datu tanti vitrini d' oru , ed ha 
dittu : — Pensa tu cumu hana tari : oh càspita ! tu ha' fetta 
la festa e 1' àutri si la guódinu a figliata. -~ E jutu sutt' 'u 
Palazzo: — Chi vo' 1' oro noovo ! Chi vo' l'oro noovo!— 
É jutu lu re, ha dittu ara spusa : — T' haja cumprari 'no 
mio ricuordu. — Ha dittu la spusa : — No, ca ni tiegno*— 
E ha fatto chiamari 1' arifid. Appena 1' ha bisto, sobbito 
s' ha pigliato 'n' anillozza e si nn' è fojota , cà ha- cano- 
sdutu lu patri. E' juti 1' arifid ed ha dittu: — Rial Mai- 
stà, m' hana fa' la finizza, m' hana fa dormi ccà stanotti. 
— 'U re ha rispusu di sì, e chillu ha dittu : — Già e' ha- 
vutu 'ssa buntà, m' hana fa caminari tuttu lu palazzu. — 
E' jutu lu re, e Y ha fattu camminari tutti li càmmari. Ha 
pigliatu, e cci badi ammnpiatu (34) tutti li càmmari e tutti 
fi pirsuni, e subbitu cadianu assunnati. 




gliatu a pizzulari (35) lu maritu la povarella, e chi si ri- 
sbigliava T Diu 7 '0 patri ha fatto can^iari (36) ooglio, ed 
ha fatto mtnti 'na qoadara aro fuocu ca ci l'avia da calarì. 
Ogni mumentu 'a sbinturata jiadi dduvi lu maritu, adduvi 
li damicelli. L' urtima vota, pua, 1' ha pigliatu ppi capilli 
ed è caduta la cartillina di 1' ammupiatura e s* è risbi- 
gliatu. — Sciullo mia, ca iu staju jiennu ara morti, ca 
chiru Uà è pàtrima!... 

Su' curruti tutta la curti e sintinelli, e ìnveci di la figlia 
cci-hanu calatu lu pafri 'ntra f uogliu bullenti. 

Chilli pu' si su goduti 'rnpad e beni , e nua eco 'na 
spina aro pedi : 

Cacda, caccia e' ancora ce* èdi. 
Fronna larga e fìronna stritta, 
Did la toa e' 'a mia è ditta. 



(t) JutOf con prononzia molto dora oomeggMuia* ÈJ91Ì9» 



u 



fui pigli/tiu sono intercalari contiuui per dimostrare prin- 
cìpio d'azione. 

(2) Muglierma , mugtieri con ma (mia) enclitica , mia 
nOKlie. 

(3) Saaliari, frugare, rifrustare. 

(4) Sirieletli, salviette. 
(5} TutHMU. scìugam&ni. 

(6) Chini, ripiene. Ch sì pron. come in chiaro. 

J7) Sugna, signora. Donna si dà alle signore delle fami- 
glie civili, sugna alle donne della classe media. 

(8) Optra propriu di lantatioai I Opera proprio di ten- 
taiione.l 

m Scarta, scegli. 

(10) SciaoUu, rovina, sciagura: deriva, foree, dasoetus. 

(11) Si ricagli, ai ritira, torna a casa. 

(12] Scanirari, iottmorirsi, spaventarsi. La e ha un pri- 
mo Buono palatale fuso con s, e poi 1' altro regolarmente 
guttnrale con la vocale forte a. 

(13) Amma**arù si dice delle donne quando, per dolore 
« rabbia, si picchiano e graffano la faccia e si strappano 
i capslli. 

(14) Storta, rovescio. 

(15) Bonaoinlura. buona ventura. 

(16) 'Ntrata, viottola remota e non molto stretta incas- 
sata tra due folte siepi. 

taciuto è diavolo- li popolo, per ribrezzo, 

sioare, oppure lo chiama amicu. 

ibbia. 

baule. 

àà 'ncignari, incignare, incominciare, 
o 'ntanimma, frattanto, da interim. 

k sbtUari, svoltare, mettere al rovescio. 

sali. 

galiinaia. 

a leji ili / ne ne deblM curare io I 

la oNMCari , vacare , nel senso d' esser 

e- 

orijari, godere, essere allegro. 
[mj jytuarteiia, mucchio. 
' (29) Piènrica , forse , credo , penso che ... : da piensu 
(penso) e ca (che). 

(30) Pa«foccA(, pastocchie, fandonie. 

(31) 'Ntàouiu 'màtata, in fretta e senza cura. 
(33) Atringa arringa, in modo ordinario. 

(33) Ammucciaia. da cunnutcciari, nascondere. E il senso 
molto allargato del mucci che si trova al v. 127 del e. 
XXIV dell' Inferno. L' usano anche negli Abruzzi. 

(34) Ammupiatu, alloppiato. 
135) Pi*»utari, dar pizzicotti. 

(38} Carriari, da carreggiare, trasportare. 



V CUNTE R' 'E GGATTE MECCOSE (1) 

Nce sleva 'na vota 'na mamma, che teneva 'na figlia e 
'oa figliasta ; jev' a 'mpazzja p' 'a prìmma , e nun puieva 
alleggerì 'a secoona, taoto che nce faceva passa' clielJo r' 'i 
cane , facènoele fa' i survlzìe chiù 'utruppecust: (2) ! Nu 
juorno , speranno re Iuvare.se]l' 'a 'noantc, a chiammaje, e 
iocii!!8) nce rìcetle: « Sienle, Ruseoella mia, [accussl se 
chiammava 'a figliasia) , tu aj' a W3) , a truvà' i ggalle 
mecoose ; e t' aj' a tà' rà' nu ruòtel e miezo 'i crlsceto {^; 
corre e viene a 'mpressa ». Rusenella , che era 'na bona 
figliola, ubbérelle subbeto à malreja, e gbietl' a d' 'e gatte 
meccose ; tuzzeliaje 'a porta, e quanno trasetie, vereue lauta 
gaue, che stbveuo arricantanuo (5), malameote assaje; pec- 
diè seva {&], 'na figliol' accrianzala , roppo ca 'i salulaje, 
nce ricette : « Quanto arricamate bello, me facile veni' 'u 
vulijo (1) 'i me £i' cà a 'mparà' I. lia ritto accusa ma- 
ina (8}, teulssene nu ruòtel' e miezo 'i crìsceto po' net 'u 
ioannà''? n Gbelle galle meccose, creròunese chelte lore (9) 
tulle cuntente respunnèttere: « Velame, velaiiae, cammina 
^iù 'nruauil » lette chili 'jmaaze, e Iruvaje àute galle, 
die Btèveno fiicenn' 'u pane tutte scbefetuse ; allora Ruse- 
nella accummeiizaje : « Comm' 'u fiiciie saporite 'slu pane, 
me ne vularrìa mangia' pròprio mi poco, . ha ritto ac- 
cussl mama, tenlsseve au ruòtel' e miezo 'i crlseelo pe' nei 

'il manna' T » « Veìaruse , velame , oammina chiù 

'tinangef » Ielle chiìi 'nnanze. e iruvaje spaso (10) 'uterr' a 
rurml' nu beli' uatlo {11} maimone, che pareva 'u Re r' 'i 



A pòvera Busen^a bud sapeva cbelto eh' avev' a fik' ; 
nce s accuslaje vidne, e alUsciiBiiulo riceva : « Quanto pi- 
rìie bello , comme rurmile sapurib) , vtdarrìa sta' seape 
vicin' a bujel.... ha rìlt' aoeussl mama, tenlsseve du nn- 
tel' e miezo 'ì crlsceto pe' nei 'u maaoà'T 'U uatlo maiiBODc 
se scetaje, 'a tenelle mente, e UiUo csoUeato rìoelle: « Soma 
'sUt campanielio / » Tutta tranramao 'a Qglìasla sìtBMJit 
'a campanielio, e ascètteoo tanta galle brulle brutte cu' nn 
parmo i muslacce alluccanno {12J : « Vita o Morte ? » 
a Vita » respunnelte ehella pòvera Ruseoella, e lecusd'j 
bcètlero sagll' 'ocoppa (13). Assetlàtese : « Ha ritto aecuid 
mania teola»ve ou ruotelo e miezo 'i erìsceio pe' nei 'a 
manna' ? » 

— Aspetie nu poco I... K tu che buò' 'na vesta r' aro (14) 
'a vuò 'i stoppa T 

— 'À voglio i stoj^, ca ehella r' oro oest' «Esaje. 
E nce meitòttero 'na bdla vesta r' oro. 

— Che buò' nu cappelletto e i scarpe r' oro , o 'i bq6' 
'i stoppa f 

— r boglio 'i stoppa I.... 

E chelte galle meccose nce rèiteno (15) tutte cose r* oro, 
po' fiat' a su saverietto pulito pulito oee mettèUero du niò- 
lei' e mieto 'i ciisceto , e acoompagiiànoola fio' a Cw' 'a 
porla, quann' 'a lasciàreoo, nce ricéttwo : « 'Mmu' 'é aeor 
mate nun te scurdà' 'i guarda' 'natelo I » Ruseoella se 
vasaje cu' tutte quante , e 'mmiez' é scale nce carette 
'nlronle 'na bella siella r'oro. Quann' arrevaj' a baseio, se 
metteite rial* à carroitza, e se ne jelte A casa r' 'a ualnval 

Fijuràleve quann' 'a matreja veraUe RtiseoeUa die ae-M 
jetie Cu' tulle chelle ricchezze quant' arraggia (16) s' ett' a 
semi' 'ncuorpo I Se chiammaj' a nascuso a CamMnella. 'a 
Sglia soja, e 'a 'ocuraggelt' a brìa V pitr' a essa. Garme- 
nella, eh' era 'na figliola scuslumat' e supeitiiuta , .qvHHO 
jelte a truvà' dielle gatte meccose, respreuaje tutte cose, 
tanto chelle pòvere mtisoe (17) se murteléoàroao Wie 
quante. 

Roppo sunato 'u campanielio , pecche essa vuleva tutte 
cose r' oro , 'a vestèltero 'i stoppa , a rasoagnjureiio (18) 
tutta quanta, nce rètleno riot' a na roappina nu niòtdo < 
miezo 'i farenetla, e n' 'a mannàreno. 'Umieio é scattnale 
nce carette 'na cora (19) 'i ciuccio 'afroale, e essa, po' sle» 
rint' a nu carruòccelo, cerato 'a nije cane nire nire, fio' a 
die non arrevaje & casa soja , jelle riceono p' 'a -via : 
« Mamma mia, lu tiri 'mòò, mamma mia, Itt tiri 'mbi, 
tagliamella tutta mò! p lett' a casa, e a mamma se mei- 
tette a chiàgnere, e a slrellà' (20) verenn'' 'a figlia UiUa 
struppiata ; nce rummaiinavo tasta ceae, e a pòvera fit^is 
rispunneva sempe : a Mamma mia, U* tiri mòd, tagUO' 
mella tutta md! • k mamma tagliava, e a cora erasoefe, 
e ehella : « Tagliamella tutta mòli » 

— ' dbist' è 'u cunlo, cneuricit, si 'u gaje meglio, ciialeto tn. 

Baecolae in OituUano in Campania 

LdICI TaSUiUTBLA 



(t) meccose, cespose. 

(2) 'ntruppecuse, difBcoltosi. 

(3) r, andare. 

(4) crieceto, lievito. 

(5) arricantanno, ricamando, 
(è) seoa, era. 

(7) eulijo, desiderio. 

(8) mama, mamma mia. 

(9) lore, lodi. 

(10) spaso, disteso. 

(11) uaito, gatto. 

(12) allaocaano, gridando. 

(13) 'ncoppa, sopra. 

(14) r'oro, d'oro. 

(15) réltono, dettero. 

(16) arraggia, rabbia. 

(17) musce, gatte. 

(18) rascagndreno, graffiarono. 

(19) cara, oòda. 

(20) stretta', gridare- 



^ 



CANTI POPOLARI SORAflI 

(Contm. Vedi n. 2,4, 5 e 6) 

LXVI. Povere pelte rné tulle 'mpiaguate- 
Chiss* occhie nire le me gli' ève frite, 
Pace non trove da nesdune late, 
IT ève ^sle core me tutte 'mpazzite. 
'^o' 'ssa bionda tricda 'nseiecata 
De nott' e jorne sempe m apparisce^ 
Se me vó* coasolà' tu, bene amate, 
Tu che le pò\ le male me 'uarisoe. 

LXVII. N' 'roporta ca sto lontano da 'sse sieno, 
Non dubbeià' de me ca sempe t' amo, 
Se vò' eh' i' f amo sempe senza meno. 
Voglie che da 'n aut' amante t' allontaoe, 
r gire sempe 'ntom' a chisse sieno, 
Ciomme ali ape che gira 'ntorn' al fiore ; 
La notte me te sonn' e venghe meno. 
Me sbeglie chiagnenn' e chiame 'sse nome. 

LXVIII. So' resolute de farme romito, 
Già che da tutte song' abbandonato ; 
Glie campaneglìe me glie appènn' aglio dito, 
Porta pe porta pète (i) la caretate. 
Glie abete me glie facce de cerile. 
De coixloncino d' oro traforato, 
Tulle' me dioene : chi si tu, romito ? 
-^ r sònghe chiglie amant' abbandonato. 

V* Molmero, peg. 222, N. 347. 
(1) chiedo, dal lai. pelere, 

LXIX. Sò' resoluto monaceglie me fa', 
Ammannite la loneca e glie cordone, 
Mes' a 'ne bosco me ne voglie andà', 
Addò' ce slave tigre, serpe e liune. 
M' aglia 'a maona' pe' fome 1' erua amara, 
Pe* beve bevarrò glie stesse sudore, 
'Ne mare (1) penetenza m' attocca fa', 
Pe* non conosce c}iiù donna d' amore. 

(1) *Ne mare, tm mare per molto, e cosi sempre: dlcesi 
anche 'ne movìone^ 

IXX. So' resoluto da 'na cosa fa', 
De 'ndà' (1) chiù guadagn' aglie barbere. 
La barba longa me voglio fa fò\ 
Fin 'a che arriva all' ogoa deglie pète. 
La gente me ce ammatteno (2) alla via. 

— A 'uarda chiglie gióne che barba tè ? 
r ce responne 'ne' du' parol' accorte: 

Chi lassa glie prim' astore 'sta barba porta. 

(1) Non dare« 

(2) mi d imbailono cioè s* imbattono in me. 

V. CiM. Imbr. \\, 835, XITI^ il canto di Martano (Terra 
di Otranto). Molinaro, la variante a pag. 200 N. 462. 

LXXI. Qfianne la bella mia se vb' 'nzorà' 
Subete mostra '1 sue bianche pette ; * 
Quanne se vede la lancia feccà', 
Subete se tramuta de colore ; 
Quanne se vede le sangue appari' : 
-^ Aiuta, amere me, ca mo' me more, 

— Zitta^ baHa mia, n' m' afOigd', 

Ca tu te 'nsagne (i) 'mpett' e i aglie core. 

(1) Salassi. 

LXXH. Bella, che te more de paura. 
De me non te potive 'nnamnoorà', 
Quanne me parie, me parie 'mpaura, 
'Manche che stiss' alla macchia a roba' ; 
Qqanne parie 'ne' gì' aule parie 'nsecure, 
Gemme se sdss' atti ehie^ a spesa' ; 



Gomm' alla rosa 'mpetie te so' portata, 
Gomm' a 'n amore secreto te so tenuta, 
Amore, che 'ntàvesse ma' parlate 
E 'manche che 'nt' avesse conosciuta ! 

LXXin^ r non pozzo canta', me chiagne glie core, 
Sb' bist' aglie munne cose storte fa^. 
So' biste glie amore me de là' glie amore, 
'Ne 'una pogge de me steva a parla'. 
'Nsacce se se 'nnammora deglie panne, 
puramente ca la dot' è longa: 
Ghella ce fa la tela deglie ragne. 
La cammenata della catalogna ; 
Sul che 'na cosa t' oglie abbesà', compagne, 
'Nte la portass' a fianche eh' è brevogna. 

LXXIV. Tutte t' avànten' e dicene ca si' bella, 
r che le sente me more de pena : 
A te 'nte passa manche pe' la polla, 
r chiagne pe' te, tu a 'n aule vò' bene. 
Pe' te se trova zuccher' e mèle, 
Pe' me se trova le velen' amare ; 
Pe' te ce fiorisce prenaavera, 
Pe' me s' è secca T erva aglie prato. 

Vedi in Cas-Imbr. 1 , 191 , IV la vartante di Castellano 
(Terra di Bari). 

LXXV. Miser' a me che sb^ cascat' a sciume (1) 
£ contra voglia m' ammèra nata' ; 
L' acqua me s' abbonda, non vede chiù luce, 
Le forze me comènzen' a manca'. 
Chest' è la profezia de San Bruno, 
Che de cent' affocale se ne salva uno. 

(1) fiume. 

LXXVL Oh Dial che pena, che dolore me sento^ 
Vederi' e non te pózzo ma' parla' ; 
De levart' a te a chesla mente, 
De 'lì ante non me pózze 'nnammora'. 
Chi te r è 'i!te, amore, ca i* 'nce pisnze f 
r more quanne te sente nommenà', 
Verrà 'ne jorne che la sorte vó'. 
Allora desoorrerem', amante me. 

LXXVII. Sott' a 'na prete e' è nata 'na vioh. 
Care mie bene, te vorria parla', 
E te le vorria 'ice du' parole, 
Ca 'ncore non le pózzo chiù porla'. 
C ève venute mult' ammasciature, 
E da 'sto core te vote leva' ; 
Ce venesse glie re 'ne' la sua crona, 
'Manche 'sto core me pò' contenta'. 

LXXVllI. Amore me staio lontan' e vocine me siisse, 
'Ne' chesse mane 'ssc core me toccasse, 
Vorria che 'na cosa me decisse 
Comm' a tante pene te trovasse, 
Me trove tra le pen' e glie nabisse, 
Care amore, tu me ce levasse, 
Sule che 'na vota te le 'isso. 
Caro amore, de me 'nte ne scordasse. 

LXXIX. Car' amore me, chiù non tardale, 
Respùnneme chiù preste che potete. 
So' venule a 'sle loch' e 'mme parlate, 
D' ama' chiste core non ne volete ; 
'Ne' chessa voce tia non me chiamate. 
Signe ca le vraccia tè non me potete ; 
r me ne vaglie e voi non m' ascoltate, 
'Na sola vocca risa 'mme farete. 

LXXX. Come de me te si' scordate tante f 
'Manche che propia non te fuss' amante ; 
Revótet' a me 'na vota ogni tante, 
Ogn' ora te Yorria tene' daccanto. 



^ 



Me soDDe la notte d* averte chiamate ; 
r te salme 'do' cbiste cante^ 
La notte te salut' e me resbeglie 
La compagnia tia chiù non trovando. 

LXXXL Gh' è fatt' anoore me, che sta' pensosa 7 
Te cride ca de te me so' scordate? 
Pe' te ce la faria 'oa morie 'ncroce, 
Pe' 'nte vede' chiù tant' appassionata. 
Sopportela, sopportela 'sta croce, 
Ca i' te so' fedele 'nnammorato; 
Quanne ce scurtarrà la nosti*a crocei 
Tu vedarrà' ca i' 'n te so' 'ngannata. 

LXXXIL Gh' è fatte, bella mìa, che sta pensosa 7 
Gacdìe mala lengua t' è parlate : 
'Ssa mala lengua è fatte quaol' è potute, 
Che i' me t' avess' allontanato : 
So' latte sempe 'nfenta ca 'nsò sentute, 
Semp' è cresciuta amore, non è mancato;* 
Auzatte glie occhio 'ncel' e fece glie vute, 
Chi sant' a me me sarà avvocato ! 

V. Scherillo . Hiv. Min. , N. di Nov. 1880 . il canto di 
Bonabitacolo N. 27. 

LXXXIU. rondenella, che 'ngabbia canto 
r so' 'ne 'coglie che me lamento ; 
Tu col dolce canto chiame glie amante. 
Le stesse fan*ò i' col mie lamento ; 
La lontananza tia deviene chianto, 
Considera 'sto core me che pena sente ; 
M' ammèra sta' con voi, amante, 
Pe' recontarte tutte '1 mio lamento. 

V. Tommaseo, l'analogo a pag. 1G9, voi. I, canto N. 7. 

LXXXIV. Che core che pòtte ave' la tortorella 
Quanne se védde 'mman' al cacciatore; 
Che core che pòtte ave' il pesciatello 
Quanne se védde 'mmana' al pescatore ; 
Che core che pòtte ave' la donna bella 
Quanne se védde 'mman' al prim' amore! 

V. Tommaseo a pag. 87 voi* I, le analoghe ai N. 8 e 9* 
Cas-Imbr. , II , 42d , aUI , il canto di Lecce e Caballino 
(Terra d'Otranto). 

LXXXV. Glie occhio miei e glie suoi furono consente, 
Velisti eh' i' t' amasse e i' t' amaie; 
r p' amar' a te paté tremmente, 
E tu p' amar' a me tremment' e 'naie. 

V* Vi|^, pag. 134, N. 6, il canto di Modica ; Cas-Imbr. 
Il, 268, li canto di Morciano: « L'occhi toi e li mmei fora 
eonaienti... » e i*origine letteraria. 

LXXXVL Tu preta si', comm 'a preta te 'nvoco , 
La preta 'mme responne quanne la chiamo, 
La preta è sorda e tu 'manche poco ; 
Sentite la mia voce e v' addormite ; 
La preta se destrugge 'mmes' aglio foco, 
Ma vu' nel mie petto chiù v' accendete. 

LXXXVII. Da quanto tempo che te scrivo scrivo!.... 
Ce s' ève saziate glie scrivane, 
E glie mercante chiù carta non téve (1), 
Te vorria scrive 'ne' le mie mane, 
Te vorria dire: amore, pecche non viene? 

(1) tengono. ' 

LXXXVIII« Rondenella, che vai pe' glie mare, 
Férmeie ca i' ogiie 'ice du' parole. 
Te voglie cava' 'na penna da 'ne late, 
Pe' scrivere 'na lettra aglie amore. 
Doppo che la so' scritta e suggellata, 
Tu, rondenella, poriel' aglie amore. 
Se gUe trov' a uvola a magna', 
Da parte portamicce 'ne bon prò' ; 



Se glie trov' aglie lette a reposà', 

Di' che non dormo chiù senza glie amore. 

V. Tommaseo voi. I, pag. 201 N. 6» 7, & 9, 10, 11 e 12; 
Tigri , canti N. 678 e 681 ; Cas-Imbr. I, 28 33, II, 24-95 ; 
Scherillo , Mov. lett. it. N. 14, 15 Agosto 1880, il canto 
N. 25 e Taltro di Soccavo. 

Vigo, pag. 180, i canti di Montemagsiore e Itala, N. 9 
e 10; Molinaro, pag. 135 N. 69. Schermo , Riv. Min. N. 
di Nov. 1880, il canto N. 26 di Buonabitacolo. 

LXXXIX. L' anta notte mentre che dormeva. 
Care, me sonno a té che me parlavo ; 
'Mmes' aglie petto 'na mano me mettiate, 
'Ne' 'n 'aula me stregnist' e me baciaste ; 
'Ne' 'ssa voccuccia tia me le decive 
Ca me volive ben' e 'mme lassavo ; 
'Ntante me sbeglie e che coragge a viste? 
Sparist' e a me a chiagne me lassaste. 

V. Cas-Imbr., II, 34, XVIII e variante, di Chieti; Vigo, 
pag. 183, i canti di Termini e Novara ai N.i 7 e 8. 

XC. Arbele d' amore, mo' te chianto, 
Nu' de parla' 'noe avime multe tempo; 
Te voglie scrive 'na lettera de pianto, 
E 'n ^uta de sospir' e de lamento; 
Se trove glie correre te la manno, 
pure se la manne po' glie vento ; 
£ se glie vento non cammina tanto, 
lètteme 'ne sospiro ca i' te sento. 

V. Cas-Imt>r. 1 , 79 » il canto di Bagnoli Irpino ; id. II, 
329, Vn, il canto di Martano (Terra d'Otranto). 

{Ccniinua) Vincenzo Sdumicelu 



NOTIZIE 

L'editore Ermanno Loescher di Torino in questi giorni 
pubblicherà un nuovo volume del nostro amico Michele 
Scherillo , intitolato : La commedia delC arie in IkUia , 
siudi e proJiU. 

Il sommario del volume è il seguente : — 1. Inlrodu* 
jiìone , dove si discorre di ciò che sia la Commedia del- 
r arte , e quali ne siano le reliquie viventi ; 2. Pulcinella 
prima del secolo XI X^ suddiviso in tre capitoli dal titolo: 
La cronaca di Pulcinella , Pulcinella a' suoi bei di , Ge- 
nealogia di Pulcinella; — 3. Le inna/noraie di Pulcinella^ 
dove si parla di Colombina, di Pasqualla, di Zeza , ecc. ; 

— 4. Don Fastidio de Fa^tidiis ; — 5* Capitan Fracassa ; 

— 6. Gli scenari di GiambaUista della Porta , in cai si 
dimostra che davvero il della Porta scrisse scenarii, del che 
dubitò il Fiorentino, e si fa la genesi di un soggetto ela- 
borato prima da Plauto , poi dal della Porta in iscenario 
ed in commedia erudita ; — 7. San Carlo Borromeo e la 
commedia dell'arie^ contributo alia storia delle relazioni 
della Chiesa col teatro. 

Il volume sarà in gran formato in 8.^ , di circa 200 
pagine e costerà lire tre. 

Estratti dal Giambattista Basile , abbiamo ricevuti i 
seguenti opuscoli : 

I. Vittorio Caravblli -- Tradisioni drammatiche po^ 
polari. Dall'anno lì, Num. 3. (Esemplari 150, fuori eom* 
mercio). 

II. Giulio Caponb — L' ortografia del dialetto napaU' 
tano. Dall'anno II, Num. 5. (E:>emplari 100 , dei quali 10 
in carta colorata, fuori commercio;. 

Ili. Luiqi Correrà — 'O canto d' 'e duie cumparé. Dal* 
r anno li , Num. 6. (Edizione di soli 20 esemplari nume^ 
rati). 



Abbiamo ricevuto il prezzo d* abbonamento 
dai signori: 

137. Julia Prof. Antonio (di Vincenzo) — Acrié 

138. de Torres Acevedo Luis — Napoli. 



■CEMB 



Gaetano Molinaro — Responsabile 

Tip (Mieti», ds Blaiìo & 0.V— Largo CMtulinitoli. H. 89. 



DEC^Jioii'» 



Amo II. 



Napoli , 15 Agosto 18S4. 



NUM. S. 



GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAUSHTO ASmO 



Per r Italia L. 4 — Ester» L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato ceu lesimi 40. 
I manoscritti non 8Ì restituiscono. 
81 comunichi il cambiamento di re« 
sidensa. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



AVTSBTBNZfi 



Per tutti gli articoli ò riservata 
la proprietà letteraria e sono vie- 
tate le riprodazioni e le traduzioni. 



Indirizzare vap^lia, lettere e m«»os«ritti 
al Direttore liuigl Mollnaro Uel 
t'hiur». 

Si terrà parola delie opere riguardanti 
la lelteratura popolare, che saranno 
mandalo in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



SonniARlO t — Saggio del dialetto palestrineso (F. Sa- 
batini) — 11 Vico Pensieri (L. Correrà) -- Canti po- 
polari sorani ( V. Simoncelli ) — O* cunto 'e àceno 'e 
fuoco ( G. Amalfi ) — Notizie. 



SÀGGIO DE DIETIO PMRIME 

All' E^egio Sig. Luigi Molinaio Bel Chiaro^ 
direttore del "* Giamballisia Basile 



;; 



Egregio Signore, 

Vorrà perdonarmi se io, povero cultore degli 
studi dialettali in Italia , vengo un po' tardi a 
contribuire colla mia meschina opera alle pre- 
gevoli raccolte che si van pubblicando nel suo 
Arehioio; e se non le offro per ora che un bre- 
ve saggio del dialetto di Palestrina, che credo 
non sia stato ancora istudiato , benché il eh. 
Prof. E. Monaci ne abbia raccolto materiali , 
non so se coli' intenzione di trattarne partico- 
larmente o di servirsene a prò di altri studi nel 
suo Giornale di filologia romanza. 

Dunque, qui in Palestrina, dove mi trovo per 
ragioni d'ufficio, io cercai con molta insistenza, 
mu senza niun frutto canti e novelle popolari. 
Tanto quelli che queste vi s' importarono dalle 
Provincie del sud o da Roma e mantengono il 
linguaggio e le trasformazioni locali. Di vero 
palestrinese non vi sono che le poesie verna- 
cole del mio amico Can. D. Luigi; Bernardini; lo 
quali sorgono come i funghi adegui sposalizio, 
ad ogni battesimo o in qualunque altra occa- 
sione che si offra alla musa , sempre satirica , 
del nostro poeta. Ecco due sonetti ch'egli gen- 
tihmente mi offri e che io pubblico illustrandoli 
con qualche notarella linguistica. Il primo è in 
dialetto palestrinese, ed il secondo in quello di 
Castel S. Pietro, paesello che si trova sulla cima 
del monte alle cui falde giace Palestrina (1). 



Commare méa (1), no* rame fa' pena' ppiii, 
Sò' Vasi (2) quattro di (3) che slo a ppeusà' 



(1) Per notizie storiche intomo a Palestrina, consultare: 
SuARESius, PracneHcs aniiaua, 1655 ; Cecconi, Storia di 
PaleHrinaf 1756; Petrini, Mcmorio pnnc9tinef 1795. 



>. 



E 'n saccio (4) quar offerta me te £a. 
Che tte varia (5) più a ggenio Dillo tu 1 ? 

Dirai : « li comprìmenti fai tra nu' ? (6) 
Ma, llii»a via (7), che ra' ha' da dà' 'n se sa ! » 
Qua' ccuósa (8) ^gna (9) 'e (10) Uè dia, comm' 'u' (11) 
Credesse de 'mpegnamme lo soriii (12). 

Vorésti (13) fa' passa' la festa tèa 
Senza che tte desse 'na saetta (14) 
Ah, 'n ce staila la convenienza méal 

Tu bbasta che me dici : « 'uóglio chésto (15) )> 
Che, sebbè' non se trova, pe' ccrissélta (16), 
Oggi pe' tti (17) lo faccio nasce lesto (18). 

(1) Mia* Si noti il ravvicinamento della è alla i , cho 
non si trova più nella moderna pronuncia del lat. méa. 
Nella canzone : « Poiché ti piace, Amore » di Federigo II 
si trova: « Dato aggio lo meo core ». La forma mia non 
si rinviene nel dialetto come pur non si trovano le altre 
tld e aia (tua e sua) già provenzali (Nannucci, Saggio dei 
prospetto generaJe di tutti i verbi anomali e difettioiy p, 207, 
n. 2) e poi italiane {Framm. Stor, rom, 513: « Torna alla 
Ha Roma. Curala de tanta infermitate. Sinne signore »). 
Non si trova che il maschile: tio e sio (tuo e suo). 

(2) Quasi. Coi cangiamento della u in o , come nel pi- 
sano. Il Fucini (Poesiey son. XXXII, v. 1) dice : « Se si 
pensa a* gastighi di *vest" anno ». La caduta delle qu si 
nota anche in 'esto (romanesco *sto) per questo. 

(3) Giorni. La voce di in palestrinese è femminile, per 
cui si dice : *na di sana (un giorno intero), e cosi la usò 
il B. Jacoponb (lib. IV, e. xi, 5) nel verso: « Ne la di dì 
estremi tate ». 

(4) iVo/i so. La voce saccio si trova nella canz.: «Audi- 
te forte cosa che m' avvene « d' Inghilfrbdl siciliano al 
verso: 

a Saccio eh* i' amo e sono amato bene ». 

(5) Andrebbe. La forma ì>aria è contrazione di vaderia 
( per oaderebbe ) dalla radice oad- che si trova nel verbo 
composto in-oadere, 

(6j Noi, Si osservi il ravvicinamento delta u coird ita- 
liana {nói) e Vou frane, {nous); discosto sempre dall'attuale 
pi*onuncia del lat. nòs, 

(7) Va' là, ^odo che si trova anche in romanesco. 

(8) Qualche cosa. Qua è contrazione di quache^ in cui 
è caduta la l , come pure si osserva in atro (o aro) per 
altro. Lo sviluppo della o tonica in dittongo ha esempi 
ne ir ital. cuòre (da core) , muore (da mòre) ecc. ; si noli 
nel palestrinese il cangiamento della flessione avendosi 
cuòsa da còsa. 

(9) Bisogna. In romanesco Ugna, 

(10) Che, li suono è tenuissimo. 

(11) Vuoi. 

(12) Soprabito, Voce formata dal frane, sur-tout. 

(13) Vorresti. È naturale al dialetto palestr. lo sdoppia* 
mento delia r; cosi si ha guera e ter a per guerra o ter-^ 
ra, come in romanesco. 

(14) Senjsa eh' io ti donassi qualche piccola cosa. Modo 
usato anche in romanesco. 

(15) Questo, Dal lat. iste, come chillo da ille. 

(16) Modo di dire per ovviare una bestemmia. 

(17) Te. 

(18) Lo faccio sorgere subito. 



58 



IL 

Io jjròpio (i) no' Ilo saccio, sòre miène (2), 
Quassù 'sto prete eh' è vvenut' a fiane ; 
Sor a vvedeflo se capisce bbene 
Che tè' (3) 'n suónno e 'n casale (4) che 'n se sane. 

Sopr' alle spalle 'na cappaccia tene 
Tutta rotta e panónta (5), e dde cantane 
'Na vòrta (6) sola, se lo vuó' vedene 
Ah, sòre miène, te ne pò' scordane. 

Ferm' a Ilo posto 'n ce se sa tenene, 
Se sta continuamente a ccotolane (7) 
Quando sta ritto (8) e quando sta a ssedene. 

Chillo mòvese sempre che sarane? 
Io dico che ssò' ppuci (9), e la Uoslne (10) 
Perchè a 'ratiasse (11) a 'n prete 'n ce sta bene. 

(1) Propio. Cosi in romanesco; in palestr.: pròpo. 

(2) Sorella mia. Sore dal lat. soror; in abruzzese sora. 
Miène ipev méa. 

(3) Tiene per ha. Il verbo tenére è adoperato per dooe- 
re ; cosi si dice: tengo de *i* e tengo de fa* per debbo an- 
dare e debbo fare. 

(4) Fiaxic/icgza, Voce gergotica adoperata anche in ro- 
manesco. 

(5) Unta por ogni parte. Comune al roman. 
<6) Volta. 

(7) Dimenarsi. 

(8) Diritto, Dal lat. recÌMs. 

(9) Pulci. La caduta della / innanzi alla e è caratteri- 
stica in alcuni dial. merid.; cosi: dóce per dolce. 

(10) In quel modo. L'avverbio cosi ha tre forme: Cosi, 
sosi e co.«? (forse dal lat. ille-sic, ipse-sic, hic-sic) e si a- 
dopra il primo quando il termine di paragone è lontano , 
il secondo quando è vicino a quello a cui si parla ed il 
terzo quando è presso a colui che parla. Da ciò le voci 
èllolOf ossolo, eccolo. 

(11) Grattarsi. Le medie labiali e gutturali cadono avanti 
alla r, e cosi si ha 'rdccio e 'ruósso per braccio e grosso. 

Faccia quel conto che crede di queste note 
malconnesse e incomplete, e mi continui la sua 
stima e il suo affetto. 



Palestrina, 28 Luglio 84. 



Sempre suo 

Francesco Sabatini 



n. VICO FEirSIEEI 

A ridosso dell'Archivio di Stato oggi, ed una volta mo- 
nastero di Sanseverino e Sossio , evvi un lurido ed oscuro 
vicoletlo, il vicoletto Pensieri. Qualche volta che son pas- 
sato di là ha richiamato sempre la mia attenzione la de- 
nominazione di Chiaezuìlo, che porla uno di que' fondaci, 
perchè mi rammentava un detto popolare: ìia fatto revutà 
'u chiagjsuiloy usato per indicare un uomo che ha messo 
a soqquadro mezzo mondo. 11 caso però mi fece imbatterò 
in una curiosa iscrizione, che forse può spiegarci il perchè 
quel vicolo si chiama Pensieri. 

Camminava un giorno per quella vìa, e guardava in arìa, 
quando ecco ad un tratto, sul basso segnato col numero ci- 
vico li veggo una statuetta ed una piccola iscrizione in 
marmo : mi fermai e cercai di leggerla, ed aiutato da un 
amico, lessi le seguenti parole: 

Povero Penziero 
Me fu arrobato 

Pe NO LE FARE LE SPESE 

Mela Tornata 

Restai quasi estatico : la statuetta rappresentava il pen- 
siero e r iscrizione che cosa indicava ? Era una storia di 
amore, ricordava un delitto, ovvero qualche scoverta scien- 
tifica ? Io guardava sempre , quella pietra annerita, e due 



vispe fanciulle, ridendo e canzonandomi mi dissero: « Signò 
chillo è penziero ». Allora mi scossi , e domandai se sa- 
pessero niente di quella statua, di quella scrìtta : si strin- 
sero nelle spalle, e ridendo sempre, tornarono a dire: cliilìo 
è penziero. Una donna, uscita dalla casa, per ascoltare que- 
sto strano dialogo, disse alla sua volta : sta là da iiempo 
antico ; ma è perchè diceva io, oh dicono..*., dicono, ripi- 
gliai io per aiutarla a dire, ricene^ mi susurrò airorecchio, 
ca nce sta 'u tesoro, ah!, feci io, e me ne andai. 

L. Correrà 



CANTI POPOLARI SORANI 

(Cmtìn. r. n. 2, 4,5,6 e 7) 

XCI. Afliaccet' a 'ssa fenestra, palomma d* oro, 
Ca ce voi ime 'ne 'ccone parla' ; 
C ève venute glie angele de Dio, 
Che 'mparaise te s' óte porta'. 
Pe' compagnia ce voglie veni' le, 
E mamma e patre voglia abbandona' ; 
Non me ne cure della robba perduta, 
Chesse bellizze n' «ibbandone ma'. 

XCII. Zetella, che non fai maie arore. 
Ce canto sci, ma 'noe caute pe' le ; 
E me ce fa canta' glie vostr amore, 
Èccoglie écche presente 'nnanz'a me. 
Isse (1) non ce canta pe' dolore, 
E pe le troppe bene che te vò' ; 
'Nce canta 'manche pe' n 'anta cosa, 
Pe' 'n èsse' dalla voce conosciute. 

(1) esso. 

Vigo, pag. 197, la variante di Palermo al N® 54. 

XGIII. Aflfaceci^ èsse (1), patrona, che sente. 
Qua foro canta glie fedel' amante ; 
Affaccet' a 'ssa fenestra, attecchia e sente. 
La pena mia e la tia forma 'ne gran chiame. 
Faccia de gelesemmine, rosa addorente. 
Consumatore d' ogne fedel' amante ; 
Se t' ó 'mparà' a fa' glie amore contente, 
Préia de vere core glie Spirde Sante. 

(1) costà. 

XCIV. Aflfaccel' alla fenestra, o pommaòra, 
Ca le vò' saluta 'ste peparole. 
Affaccet' alla fenestra tutta quanta. 
Figlia de carvonara tutta lènta. 
Ecco la vita deglie carvonare: 
Glie 'slate stenla e glie 'mmerne reposa. 

XCV. Cara fenestra, fammélle sape', 
La bella donna se dorme o pure che fa, 
Se sta addormita fammèlla dormi'. 
Se sta resbeglia fammeli' affaccia'. 
Sule 'na cosa glie vorria 'ice ; 
'Atie (1) glie core a chi glie si' apprommisse. 
Se glie si' apprommiss' a me, prommisse sia. 
Se glie si' apprommiss' aglie aute , 'aglio a chisse. 

(1) dane, dà ; V. Gas. Imbr. I, 129-130 ; Scherillo, Riv. 
Min., N.o di Nov. 1880 , il canto N. 22. 

XCVL Veng' a canta' a 'sle loche, tu, bella, sènterae, 
E se sta' air addormita preste resbègliete ; 
Chiappa glie panne, càuzete e vésleie, 
Rape la fenestrella e po' affàccele. 
Cala a terra e la porla ràpeme, 
'Ne' 'ne becchiere d' acqua renfréscheme, 
Chelle eh' avim' 'a fa', preste fadmele, 
Prima che more chesi' alma consòleme. 



59 



XCVII. Chest' è la prima vola che ce canle, 
BoDa voce mia jettata aglìe vente ! 
Ce sta 'na femmena eh' è bella tante. 
Se la potess' ama' saria contente. 
La mamma se la té' costretta tante, 
Non me ce vò' fa' parla' pe' niente ; 
Te prèie, bella mia, te preie tante, 
Te prèie, chisse corre faglie contente. 

XGVIII. Ràpeme, bella mia, se m' ó l'api', 
Ca non se vede 'n 'anema passa' ; 
A chisse lette i' ce voglie veni' 
Sule pe' 'na mes' ora a reposà'. 
Te giure, bella mia, farle dormì', 
E te promette de non te tocca'. 
Sule ne vace d' amore e po' sparì', 
E tu, bella, la porta a ranserra'. 

XCIX. Sente, bene me, 'ne beglie sonette, 
Tu se glie sente 'mpotarra' dormì'. 
Caccia 'ssa bella mane daglie lette. 
Chiappa glie stracc' e mittel' a besli'. 
E se màmmeta piglia cacche sospette, 
Diccene ca so' pud e 'mpò' dorrai' ; 
Vene, cara mia bella, ca i' t' aspelie, 
Dimme sci o no se vò' veni'. 

C. Dorme, bella mia, dorme contenta, 
Ca chi vò' bene a te sta vecelante ; 
A Criste glie menarono glie trademente, 
Cosd ce fav' a nu' povr' amante. 
Pe' le ce facce tante patemente,' 
Pe' le jètte sospir' e sempe chiante ; 
Non chiagne, bella mia, sta allegramente, 
Venarii 'ne jorne che fenarrà glie chiame. 

CI. Soli' a 'ssa fenestra m'^ asseti' e tace. 
Tu, iuna de lennare, damme luce. 
Ce sta 'na gióna eh' assai me piace, 
Nesciun' amante 1' è potuta vence ; 
M' abbasta glie alme de farla capace. 
Col buon parla', colie parole doce : 
E quanne la so' fatta bella capace 
Gli aut' amante ce farrave la croce. 

V. Scherillo, Rivis. Min., il N^ di Nov. 1880, il canto 
N. 29. 

CU. ÀfTaccete, bella mia, alla fenestra, 
Sente glie amante té che te vò' 'ice ; 
Se po' 'nte vò' affaccia' da te ne resta, 
E sempe ce sarrà la chiù 'nfelice. 
La fedeltà tia già se prolesta, 
Tu sì' chiù rosela de 'na pernice; 
I me ne vaglie propia 'nchisse jorne, 
E tu già n' aviss' ave' scorno. 

CHI. Bella pe' dirle le vere non pózze capì', 
Quanne ce sente se dolce parla'. 
Con un amante 'nce vò' compari', 
Co' cento te ce fai vede' parla'. 
Torna, bella mia, pe' 1' avvenl' 
'Ne' le mosche 'ramane te trovarrà* ; 
Verrà 'ne jorne che te vò' peniì', 
'Ste core me' allora non trovarrà'. 

V. Gas. imbr. I, 235, una delle misopoliandriche segnato 
alla lettera a. 

CIV. So' state lanle tempo pe' 'uardiane 
Pe' resguardà' a te, palma d' amore. 
Te so' uardata 'ne' la spada 'raraane. 
Me t' ònne (I) fa' lassa' senza cagione. 
C è 'scile 'n aule amante chiù lontane. 
Me le s' ò god' a te, palma d' araore : 
Forte, bella mia, 'nte fa' 'ngannà'. 
Di' che vò' ama' sempe ie prira' araore. 

(1) il ooglìono^ il conno. 

V. Schermo, Riv. Min., N« di Nov. 1880 il canto N. 38. i 



CV. Forre assai dure 'ne' 'na forte tenaglia 
Glie mastr' a 'ccon' a 'ccone glie assottiglia ; 
Le nespra ce se feve fra la paglia. 
Glie can' e '1 cacciatore glie lepre piglia; 
'Ne capelane de forte battaglia 
A 'ccon' a 'ccone la cela se piglia, 
Vence la vogl' i' chesla battaglia 
E sposa' me la voglie chesla figlia. 

evi. Ragazza, commaltute è fra gli' amante 
'Ne' 'na lancia chisse core pungente; 
Tutte 'sse brave che se facisser 'avante, 
Ca ce iròvene chist' écche presente ; 
E lempe glie voglie dà', tre pass' avanle. 
Fin' a che esce la stella jucente: 
All' alba chiara se sente 'ne mare chiante, 
A cacche parte so' fatte glie 'nuocente. (1) 

(1) Se ali* alba chiara senti un mare di pianto, significa 
che io a qualche parte ho fatta la strage aegl' Innocenti. 

CVII. Chi è chiglie gióne eh' è avute tant' ai'dire. 
Pure alla sposa mìa è volute manna' ? 
Ce venesse glie re 'ne' la sua crona, 
'Manche glie Papa ce facce parla'. 
Fratant' è biva chest' anema mia, 
Nesciun' amante ce facce accosta', 
Quanne so' mori 'e seppellite ie. 
Allora ce manna chi ce vò' manna'. 

V. Cas. Imbr. I, 24, XV di Gessopalena. 

CVIII. Oh Die del ciele che peccai' ho fatte. 
Contro de me se sente 'ne gran fracasso; 
So' la gente che te véve a mal' ammette. 
Acciò che i' da le m' allontanasse 
Ma i' te so' giurale etern' affette 
E seguetà' te voglie a pass' a passe. 

CIX. Bella tenghe 'ne core prute prute (1) 
E 'n aule chine de sangue jelate, 

Émava 'na giovanelta, mo' s' è pentuta, 
poche tempe che s' è 'llontanata. 
Essa se crede e' a me m' è spiaciute, 
r ce aglio 'uste e me so' rallegrate; 
Me so' capata 'n 'aula giovanelta, 
Ch' è chiù bella de te e chiù 'norata. 

(1) putrido: domandai perchè quest'aggettivo, mi si ri- 
spose: pe' la tropp' angustia remessa. 

V. Cas. Imbr. 1, 17, IX di Gessopalena ; II, 445, XXXVI, 
dì Lecce e Caballino. 

ex. Voleva fa' glie amore 'ne' 'ne brunette, 
C la 'menzione de volerglie ama' ; 
Po' glie vedde Irascorre ne' du' fraschette, 
'Mmes' alla mente andanne me se leva'. 
Po' se ne venne 'ne' 'na faboletla, 
Eni' a 'sto core voleva renlrà' ; 
Ma 'sle core sta fatte a du' chiavette, 
Ome eh' è scile 'nce retrase ma'. 

V. Cas. Imbr. 1 , 127 , il canto di Roma che comincia : 
« Mi misi a far l'amor col bel moretto».. » 

CXI. Ce messe 'n ann' a frabbecà' 'ne palazzo 
Pe' farrae chiammà' appresso castellane; 
E dopp' averglie fatte rann' e beglie 
Me togliene le chiave dalla mane.. 
Rimase comm'' al peltor senza pennèglie, 
Comm' a 'ne cacciatore senz' arme 'ramane: 
Chesle suca^d' a me senza cor veglie, 
A méttem' a fa' glie amore tante lontane. 

V. Tommaseo voi. 1®, pag. 329 N.i 8 e 9; Tigri, canto 
N. 1167; Scherillo, Riv. Min.; N, di Nov. 1880, canto N. 13. 

ex II. Teneva 'n arbeluoce tante care 

E glie annacquane 'ne' tante sudore ; 

Prima 'nnacqua' la cima e po' la raraa, 
. Le frunne se cagnavaiie de colore. 



60 



Glie frutte doce reventavene amare, 
Addonn 'è ile chiglie gran sapore ? 
Se le sapeva quanne se potava, 
Taglia' rae glie voleva a peiecone. 

V. Cas. Imbr. II, 91, I di Bagnoli Irpino, e tutti gli al- 
tri canti in cui si parla d'amore sotto rallegoria d*un al- 
bero ; Molinaro, pag. 135, N. 70, la variante di Posilipo. 

GXIII. Amore, tu te credive che i' l' amasse, 
Ma 'nte le crede ca 'n.è vere none; 
Quanne ce so' venule pe' parlarle 
So' venule pe' spass' e no p' amore ; 
Quanne me ce si' bisf appassionale 
So' fatte pe' scropi' chessa 'nienzion*?, 
Pe' brulla aglìe munne i' ce so' nata, 
Brulle tutte glie amante comm' a voi. 

CXIV. Te le credive, flore de conocchia, 
Amarme 'ne jorn' e po' lassarm' i' (1) 
Tu te credive eh' i' nte tenesse d' occhie, 
La tua fauzetà p' arrevà' a scropi*. 
Tenghe 'ne libre de cenquanla foglie, 
Ogne facciata me piglie cosiglie, 
Se n' m' addonava tutte 'sic 'mbroglie 
'Ncappata e' era comm' a 'iia vaglionella. 

(1) Andare, da ire, 

CXV. Tu va' decènne ca me dune dune, 
Qual' è la roba che me si' donala ? 
Se le recorde la feria che fu, 
Quanne Iacee e fettucce l' accatta, 
Te glie capaste 'ne' le mane tè, 
Povre meschine ! m' allocca paia'. 
Glie Iacee che me disle s' è stoccate. 
Glie annute che ce steva già s' è sciote, 
Glie arbele eh' era verde s' è seccate, 
La fronna eh' era larìa s* è stregnuta, 
Le bene che ce steva s' è passate, 
E r amecizia nostra è già fenita. 

V, Cas. Imbr. I, 232, la variante di Napoli che comincia: 
a Attrassete demmo, Nennillo ingrato ». 

CXVI. r sò' sapute ca te vò' 'nzorà', 
'Nzórete, amore mie, ca sò' contente 
Quanne ce va alla cliiesia a sposa' 
Pózza veni' 'na schiera d' acqua e beute; 
Quanne la mane ce sta' pe' tocca' 
Pózze tocca' 'na spina pungechente ; 
Quanne ce va' a tavola a magna' 
Pózze magna' vipere e serpente; 
Quanne ce va' aglie Ielle a reposà', 
Le lenzola reveniassere da foche ardente. 

V. Tigri, il canto N. 1061; Cas. Imbr. II, 296-3 1, II di 
Montella e varianti ; Vigo, a pag. 245, il canto di Aci , 
N. 1 ; Molinaro, pag. 119 N. 20. 

CXYIL Belluccia, che t' amatte vaglionella, 
'Manche la croce te sàpive fa' ; 
Mo' che te si' fatta roscia, ranna e bella, 
Mo' sò' sapute ca me vò' lassa'. 
Vòglie sape' chi le vò' chiù bene, 
mammeta che t' è fatta o i' che t' ame ; 
Mammeta che t' è fatta t' abbandona, 
E i' che t' ame 'nt' abbandone ma'. 

V. Cas. Imbr. I , 119 , il canto di Bagnoli Irpino che 
comincia : 

« Tu rosa rossa colorita e bella ». 
Scherillo, Mov. lett. it., il canto N. 22* 

CXVIII. Ècche me ferme, ècche fenisce amore, 
Bene me care, me voglie lecenzià' 
La gente de càscia fav' assai remore, 
'N aule chiù ricche de me le vote dà'. 



Tu sep;nela, bene 'me, a fa* glie amore 
Ca 'ne' la libertà mia me voglie slà\ 

V. Tommaseo voi. 1^, pag. 360 , le analoghe ai N.i 15. 
16, 17 ; Tigri, il canto N. 876. 

CXIX. La lontananza tia assai me piace, 
Acciò la gente 'n àu (I) chiù che dice; 
Tu parla *nc' chi vó', 'ne' chi le piace, 
Ca i' senza de te campe felice. 
Ve' 'ne jorne che cercarrà* la pace, 
Pace non sarrà ma', guerra *nfenila. 
De retrà' 'na parola 'n sò' capace 
Non le rechiame 'manche se m' accite. 

(1) Non hanno. 

V. Tomm. pag. 309, N. 30, voi. IJ^ 

GXX. Ce sta 'ne giovene eh' è tante confuse, 
Vò' là' glie amore co' me, non vò' sta' 'ntise; 
Vò' fa' glie amore, e' tutte glie munne. 
Se crede de 'ngannà', ma isse se 'nganna. 
Ce sia 'n albre sicché senza frunne, 
Comm' a 'na vigna slrulla senza canne ; 
Se crede ca pe' me è fenile glie munne, 
r sto provvisto pe' regn' e pe' campagna. 

GXXI. Crópele, cele, 'ntelebruse mante, 
Ràpete, terra, a chisle gran lamente, 
Tu, sole, no' chiù sblandore tante, 
L' aria fulmena foche e jèlta venie. 
Addò' è ita la bella mia ch'amava tanle? 
La perde' non la trovo e non la sente. 

V. Tommaseo, voi. 1®, pag. 339 N 13. 

CXXII. Cara brenella, volime fa' 'sse cunle, 
Chelle che te sò' amate me ne pente ; 
Tutte le cose tè le sacce a mente 
E facce 'nfenda de 'nsapé' niente, 
r sònghe comm' a ne cacciatore, 
Tire la botta e apo' me n' allonlane ; 
Sule t' arraccommanne, miltece repare. 
Se nò remane 'ne' le mosche 'mmane. 

CXXIII. Misera me che sto 'ncase desprate. 
Me trovo daghe spuse abbandonata; 
Senza farglie mancanza m' è iradila, 
Tenghe 'na serpa 'ncore tuli' attaccata ; 
Senza cacciare sangue glie cor' è frite. 
La piagna dent' aglie pelle s' è sanala, 
E r aula eni' aglie core s' è 'nari la; 
Le catene d'amore se sò' spezzale, 
Patrone chiù non si' de chesta vita; 
Saria meglie che non fusse nato, 
A èsse lanl' amata e po' tradita! 

CXXIV. 'Carda i qualrine eh' ève fette fa', 
Ève« fatte sparti' du' felice core, 
Ma tenghe 'ne corteglie a du' relaglie 
Pe' farle 'ntenerl' chisse core ; 
Prima le taglie de punta e po' de laglie 
'Nfl' che se sò' strutte chisse core. 

V. Cas. Imbr. 1 , 95 il canto di Palermo — « Viri che 
fanno fare 'sti ri nari » ; II, 127 , il canto dì Paracorio — 
« Oh quanti cosi fannu li dinari » — e di Catania — « Briit- 
tu di nani chi facisti fari I... » — ; Scherillo, Mov. lett. it. 
N. 14, 15 Agosto, il canto di Campagna al N. 35. 

CXXV. Te vcng' a reverì', fiorita santa, 
S' ó fa' glie amore e' me faglie contente; 
Se glie vó' fa e' me, non glie fa' e' tante. 
Bella, ca ce remine de coscienza, 
r sò' 'rie giovenitle de crianza. 
Le cose me le toglie 'ne' pacenza ; 
Se la sò' fatta cacche mancanza, 
Pure la voglie fa' la peneienza. 



61 



CXXVl. M' ève mannate 'na lettera de pace, 
Pace no' voglie fi', sempe nemiche ; 
IjSì leiire ce le 'ice: pace, pace, 
Pace no' voglie fa', sempe nemiche ; 
Quanne l'acqua deglie mare deventa doce, 
Quanne la sloppa doventa bammace, 
Quanne glie Turche abbraccene la croce, 
Àndanne, bella mia, facime pace. 

V. Gas. 1 , 232 , le varianti di Lecce e Caballino e se- 
guenti; II, 111, XL e l'altre seguenti; Tigri, lo stornello 
N. 404, pag. 377; Vigo, a pag. 181, N. 7, la variante di 
Palermo; Molinaro, pag. 286, N. 526. 

GXXVII. SO' revenuf a chesta patreca antica, 
Rape le vraccia se me vó' abbraccia', 
Te sb' portata 'na palma fiorila, 
La so' portata se pace vó' fa'. 
Crìste ce perdonatte aprlie nemice, 
'Ne' 'na sani' umelfà, 'ne' santa pace ; 
E tu perdone a me glie arror che fece, 
Ogni 'uerra d' amore retoma 'mpace. 

V. Tommaseo voi. l^ 261, N. 2; Vigo. pag. 176, N. 4 e 
nota, le variami di Termini e Catania. 

CXXVIII. E rècche (1) chiglie amante, eh' era morie, 
Ròcche glie amore che 'mpò' ma' scurlà' ; 
r so' cheli' erva che ca cresce aglio orte, 
So' chiglie flore che 'mme secche ma' ; 
Gheste le scrisse glie profeta dòtte, 
Ca glie bone correre non more male ; 
Tocca (2), fortuna mia, e famme torte, 
E damme quanta vo' tremment' e 'naie. 

(1) riecco, ecco di nuovo. 

(2) cammina, va ; 

GXXIX. Me so' partite assai de lontane, 
Pe' venirt' a reveri' faccia de juna; 
Pe' notte scura i' sònp:he cammenale, 
Chiss' occhie té me rénnene sblandore. 
'Mmes 'a 'sse petto vódde d' alba chiara, 
'Ncima a 'na fronna pure 'ne beglie fiore; 
Quanne 'ne' 'ssa voccnccia tu me parie, 
Ogne parola me jètta 'n .addore. 

CXXX. Me so' partite tante da lontane 
A 'ste vecoletie pe' reverirte, o rosa, 

— Vorria sape', amore, che sì' portale? 

— 'Na carrafina de sangue amoruse. 

— Vorria sape', amore, addò' le si' cavate ; 

— A chella parte addò' batte glie core. 

— Amore, 'mme la da' chiù tanta pena 
Ca pe' glie tropp' amore io mo' me more. 

CXXXI. Me so' partite dalla cela d' Aquine, 
Costa pe' cosui pe' San Geremane (I), 
'Nle parie no' tedesche no' latine, 
Te 'ice la verdà te parie chiare. 
Donna, non dubbetà 4el tuo destine, 
La sorte t' è venuta da lontane. 

(1) S. Germano Cassino in Terra di Lavoro, dov'è puro 
Aquino. 

GXXXII. Me 5Ò' partite da lontane fante, 
So' cammellate la notte e glie iorne ; 
Mo' che so' revenut' a chesle banne, 
CiOmme me pare beglie 'ste contorno. 
Sta 'na donna eh' è bella tanto. 
Porta la palma de chiste contomc ; 
Non ce ne slave e non ce nasciarranne, 
Se Cristo 'nce rennova 'n aule munne. 

CXXXIII. So' state 'n anno e deciotte mise, 
C a chiste loche 'ne' era chiù cantate, 



C era cantal' a 'n ante paese, 
E de te, cara mia, m* era scordale. 
Se caco' amante tu avisse tenute, 
Daglie lecenzìa ca so' revenute ; 
Se cacche casa glie avisse data, 
Fattélla rènne eh' è tutte perdute. 

CXXXIV. r me la voglie coglie da 'sta terra (1), 
Pe' fa' contenta la 'nnammorata mia, 
Non vaglie né pe' mare né pe' terra, 
Nesciune pò' sape' addò' vagì' ie ; 
Pe' compagnia me ponte 'na stella, 
Me dà sblandore addò' che pass' fé. 
Ma quanne s' è scurita chella stella 
Allora chiagnite ca so' morte io. 

(1) Frase comune agli Abbruzzesi: io mi voglio partire 
da questa terra. 

GXXXV. So' resolute de volé' parti', 
G' 'na barchetta glie mare passa'. 
Quanne fu 'mmes' a mare me penti', 

— marenare, me voglie retomà', 
Glie marenare le vòlte sape' : 
Qual' è la causa che le vò' torna' ? 
Ce aglio lassata 'na pima fiorita. 
Paura che s' avesse a mareià'. 

V. Cas. fmbr. II, 10, il canto di Spinoso (Basilicata) 
« Beila, ca i' mmi parto a ben partire » 

CXXXVI. r me la voglie còglie pe' despraie, 
'Mmes' a 'ne bosche morse po' la sete. 
Ammatte la bella mia rosela 'ncarnata : 
'Amme 'na véveta d'acqua se l'avete. 
Me disse : bivece a 'sta cannata (1), 
Renfréschete 'sse core quanta volete. 

— r le ne reste tante obblecate. 

Ce basta 'ssa 'raziuccia che ce avete. 

(\) brocca; dicono anche roncella e maltatora dal lat. 
maéeo. 

CXXXVII. r part' e me ne vaglie 'mmes' a mare, 
Me parte ne glie fause lacremante; 
'Manche te sacce 'ice quanne revenghe, 
Non sacce se so' jom' o mis' o anne. 
Se la morte venesse cacche jorne, 
Rènne l'anema a Die, glie core te manne; 
Pure la morte m' aggradisce allora, 
Quanne chest' alma 'n chesse braccia spira. 

GXXXVIII. Eccome, bella mia, addomane parte, 
Pe' compagnia glie sospiro me porte, 
E de 'sto core ne facce du' parte. 
Dna ne lass' a te, 'n' auto me porte. 
Mantettélla a decunte chessa parte, 
Ga la mia e' é condannat' a morte. 
Se non ce revedìme da 'sto parte 
Ce revedime 'mparaise morte. 

V. Cas. Imbr. 1, 18, X, il canto di Gessapolena con cui 
ha comuni le rime e l'ultimo distico; Scherillo, Riv. Min. 
N. di Nov. 1880 , il canto N. 35 dove riscontransi il 3® e 
4® verso. 

CXXXIX. Bella, m' è venuta 'na cartella, 
E pe' soldate m' ammèra marcia' ; 
Petlà' le voglie sropa alla cartella, 
Pè tutte ie mimne te voglie porla'. 
Quanne ce sònghe denr' alla casella 
'Ncima a 'ne marme te voglie retraltà'. 
E se m' allocca fa' la sentenella, 
Comm' a 'na santa te voglie adora. 

V. Cas. Imbr. I, 8*9, II di Gessopalena e seguenti. 

GXL. Oh Dia ! che dura partenza voglie fa' ! 
Trist' a chi parie 'ne 'mala 'menzione! 



ez 



1 



Ce parte comm' a 'ne 'ceglie senza 'scelle, 
Pense ca lass' a te, lasse 'sle core, 
r parte, sper' a Die de relornà', 
Ma se la sorte mia non me consola, 
Bella, i' parte, de me non te scorda', 
Cheste sarave V ùteme parole. 

CXLI. 'Ne jo rne la Morte me voletle ice : 
Lassa glie amante té che tante t' ama ; 
r glie decette : 'nte pózze servì', 
Pecxhè alia fede mia 'mpozze manca'. 
Chella me decette : te ne facce pentì' ; 
Ma de che pentì' la Morte me pò' fa' ? 
La Morte me pò' fa sul che morì'. 
De morì' sei, ma no' glie amore lassa'. 

CXLII. Dimme, tu dimm' a me, bella vocetta, 
A chessa morte chi ce se trova' ? 
Chisse beglie occhie chi te glie chiudette? 
Chessa voccuccia chi te la serra' ? 
A chessa cassa chi le ce mettette ? 
Alla chiesia chi te ce porta' ? 
r daghe Campesante me ne jette, 
Pe' 'me vede' alla fossa cala'. 

V. Gas. Imbr. I, 34, XX di Gessopalena. 

CXLIIL La vedovella quanne refà glie lette, 
De lagreme le 'nfonne le lenzola ; 
Po' remira tulle glie bianche pelle: 
'Nsò' carne chesle de dormì' chiù sole. 

V. Tommaseo , voi. 1<* , pag. 384 , N. 23 dove si trova 
intera; Tigri N.i 652 e 553 ; Gas. Imbr. II , 211 , VII di 
Pietracastagnara (Abbruzzo Ulteriore). 

CXLIV. Giovene, che va' e ve' da Caserta, 
Sapisse glie amore me s' è biv 'o morte ? 
— Glie so' viste 'nciraa a 'ne ghianche Ielle, 
Era fatta la céra deglie morte; 
A 'na mane teneva glie confette, 
A 'n 'aula la croce de morte, 
E la mamma 'ne' le vraccia aperte: 
figlie bone me, sì' propria morte!... 

V. Gas* Imbr. II, 159 la variante di Spinoso: 
« O tu ca vai e bieni a ra Caserta » ; 
Molinaro, pag. 138, N. 79. 

GXLV. La rosa 'nciraa a chella chianl' ardita 
Sponl' aglie sole p' èsse reuardala, 
E 'mmes' a tante frunne sta cecità, 
'Ncima a 'na spina ce sta cercondala. 
Ma doppe còla apo' ve' 'mpalledila. 
Perde glie addore e venarrà jettata. 
Cosci la femmena della 'nnammorosa viUi, 
Da tulle glie amanl' è abbandonala. 

V. Tommaseo, voi 1^ pag. 281, N. 1; Gas. Imbr. 1, 288, 
la variante della Gampagna di Roma — « La vaga rosa a 
l'amanti gradita...» — 

CXLVL Sónghe le sèrpe e trovene recelte, 
E i' povreglie non glie trove maie; 
Pe passione me mette aglie lette, 
E le lenzola me dicene : cosa ce baie ? 
E la coperta apò pe' chiù despelle 
Dò' che me vote non me cròpe maie ; 
Responne glie cuscine deglie lette : 
Porta la bella lia ca dormarraie. 

V. Gas. Imbr. Il, 211 la variante di Paracorio: 

« Puru la serpi trova lu rigettu... »; 
Vigo, pag. 156 N. 12, la variante di Piazza. 

C^VII. Din 'aglie cele corame pózze fa', 
Ecche glie 'mraern' e sto senza moglieia ; 
A casema 'nce pózze propria andà', 
Ca mogUema 'noe irov' e me despère. 



'Mane' aglie Ielle me ce pózze sta', 
Dò' che me vote le fridde me ve' ; 
Ma mo' coraenciaria a jastemà' : 
Mannaggia pure la moglie e chi la tè'. 

CXLVIIL Bella, me ne venghe chiane chiane, 
'Nanze alla casa tia m' abbecine, 
Trove la porta aperta e me ne trase, 
Trove la seggia a spass' e me repose. 
S' afibccia la patrona della casa : 
Che va facenne, gighe, fra 'sse rose ? 
— r so' ne povre giòne sbenturate, 
'N' ora non pózze sta' senza le rose. 

CXLIX. Glie affare della vezzoca a chiste raunne, 
r ve r approve eh' è 'ne vere 'nganne : 
Vav' alla chiesia e girene glie occhie ntome, 
Soli' aglie vele, addò slave glie amante. 
A 'nna cambra se serrarne tutte ie jorne, 
E pe' non fatici' 'razione fave ; 
La mamma che ce crida tutte ìe iorne, 
Loc' aglie lore crapicce se ne slave. 

CL. La femmena a prima botta 'n 'ice ma' : t' ame 
E glie óm' a prima frila ma' non more: 
Alla femmena glie va pe' svizie le parla , 
La prima vola 'ice sempe ca no. 
Po' se va a mette a 'ne Ice' a penzà', 
Chiagne: misera me, so' fall' arore; 
Se la fortuna glie fa relornà'. 
Pózza morì' se glie 'ice ca no. 

V. Gas. I, 280, X di Saponara (Basilicata). 

CLL L' aria serena daglie cel' è calata aglie mare, 
Se coslregne '1 mie nov' amore ; 
'Nlutte 'ne tempo sentarrà' tonare, 
'N' ora de spavent' e de terrore ; 
Se glie venie me porla a naugà' 
Le cose me jarrau' a mie favore ; 
Se 'sta barasca i' arriv' a scampa' , 
'Mme fide chiù deglie mare tradetore. 

CLII. 'Nnanze che more ve le lasse 'ilte, 
Non seppellite a me fra glie aule morte, 
'Na sepolelura cica, curia e stretta, 
Abbasla che ce cape 'sle misere corpe. 
Facìieme la cassa de cace fritte, 
E glie coperchie de ghianca recotla, 
Pe' cannel' appecciàleme le sacicce, 
Pe' capezzale le cagline colle. 

V. Gas. Imbr. II, 369, la variante napolitanesca 
a Bella, si moro, te lo lusso ditto », 
e la romana 

a Prima eh' io moro voglio lascia'... » 

CLIII. 'Ncele vorria saghe se potesse 
'Ne' 'na scaletta d' ore tremila passe, 
A mesa resta apo' me se rompesse, 
E fra 'sse vraccia tè me ne cascasse, 
E 'mpelt' a le 'na fontana ce sfesse, 
r ce venesse pe' bev' e le baciasse. 

V. Gas. Imbr. II, 75, la variante di Spino : 

« Vurria saglie a lu cielo si putessi: » ; 

lo stesso II, 239f la variante napoletana : 

a Vorria saglire 'n cielo si polisse... » 

e seguenti di Lanciano e di Bomba ; Vigo, pag. 223, N. 15 

di Termini. 

CLIV. FraHaglia, che va e ve', gerènne campe, 
La pena mia alla lia s' arrassomeglia. 
Gire e regire lu 'nlorn' alla vampa, 
r screzze sempe 'nlorn' aglie occhie beghe. 
Tu arde pe' natura e muto stale, 
r ardo pe' destin' e fecce arore, 






63 



Cede, fraffaglia, ced' a ehiste 'uaie, 
Se more ardènne tu, bruciai' i' more. 

V. Gas. Irobr. II, 419, Vili di Lecce e Caballino; Tigri, 
N.i 505, 641 e 810: eecone Torigine letteraria raccolta da 
chi rha potuta leggere in qualche libro: 
Farfalla, che girando vieni, e vai, 
Alle tue pene mi somiglio anch' io ; 
Tu giri intorno a a uè cocenti rai, 
Io scherzo agli occhi del beli' idol mio. 
Tu ardi per natura e muto stai, 
Io ardo per destin fallace e rio } 
Cedi, cedi, farfalla, ai miei guai, 
Se muori ardendo tu, bruciar vogl* io. 

CLV. So' gìovenott' e me la vaglio spassènne, 
Vaglie cerchènne la fortuna mia, 
Porterà e fenestre vaglie scassènne, 
Ma alle giovene 'noe facce teraonia. 
S' a cacchedun' apo' glie desse^ danne 
Leva la casa sia mmes' alla vìa. 

V. Tigri, N.i 779 e 801, Tultimo verso. Questo canto è 
appunto di guelli raffazzonati o creali sopra rime e con- 
cetti mal ricordati di altri canti sentiti recitare , e im- 
portati. 

GLVl. Cara mammuccia, 'mme manna' chiù sola, 
So' cecanella e sònghe reuardala : 
Ce sta 'ne giovenitie va alla scola, 
M' è fatte 'ice ca me vò' bacia'. 

— Scine, figlia mia, fatte bacia', 
Ca e' 'ne bace non se perde amore. 

— mamma, mamma, qual' è chiù brevogna, 
Sentì' 'na femmena baciata 'a 'n òme ? 

— figlia, figlia, qual è chiù peccale 
De vede' 'n amante desperate ? 

V. Tigri, stornello N. 147 , pag. 345; Gas. Imbr. I, 203 
l'analoga Napoletana : 

« Quante vote Faggio ditto a mamma... »; 

Vigo, a pag. 161, N. 14 di Mineo, ed a pag. 217 N. XII, 
di Giarre. 

GLVII. Me basta glie alme se le voglie fa', 
De fa' 'ne 'ngegne pe' 'ncappà' glie sole ; 
'Na torre 'mmes' a mare voglie fa' 
E 'nlorniala a penna de paone. 
Le mura le voglie fò' de marme fine, 
Le porle d' argento 'nsembra e' glie balcone ; 
Quanne t' aflfacce lu, donna naia, 
'Nfaccia agile pette ce sponla glie sole. 

V. Gas. Imbr. II, 39, XXXllI di Ghieti, e varianti i lo 
stesso, li, 348, simili millanterie di Sambatello : 

« Mi basta Tarma mi 'ttaccu lu suli — ... » 

GLVIII. Ghist' è glie vecolelte delle Fate, 
Ce sia 'na chianta 'ne' tre belle rose ; 
Una è roscia e l' aula è chiù 'ncarnata, 
La terza apo' ce cresce a poc' a poche. 
'Ne jorne ce le decotte prppia aglio patre, 
Se me la vò' là' capa' la meglio rosa; 
Glie patre responnetle ; adage, adage, 
Facitele fiorì' pe' 'n ante 'ccone. 

CLIX. Segnerà sposa. Di' te beneica, 
Si' apparenlata 'ne casa Colonna, 
E quatte figlie maschie pózze fa', 
E tutte quatte de casa Colonna : 
Glie prime Papa e ghe auto Cardenale, 
E glie terz' Arcevescove de Bologna, 
Glie quarte pò?z' ave' tanta potenza 
Che togliesse la crona al re de Spagna. 

CLX. Glie òme che se sposa e tòglie la moglie 
'Manche se jess' aglio anno sant a Roma ; 
La prima sera ce manca la cena, 

— Ce sime comenciat' alla bon' ora. 

— Zitte ! moglie mia, pe' chesla sera, 
Tu són 'e i' la cante 'na canzone. 



— Me sòne 'na scarangia (1) che te scria (2), 
Gomme cante e 'n so' cenai^ ancora ? 

(1) fulmine. 

(2) distrugga. 

CLXl. Mamma, che m' avisse fatta morta 
'Nnante che tu m'avisse marciata; 
Me si' date 'ne marite cecaneglie, 
Che cacche notte me glie affoc' aliate. 
Glie so' mannat' aglio orlo pe' centriglie. 
La ciammaruca me glie è spaventate ; 
Glie so' misse all'arca 'mmes' alle miglio 
E 'manche se conosce fra le vaca (1). 

(1) granelli. 

CLXIL Segnora sposa, Di' te le perdona. 
Che furia si' tenui' a maretarte! 
Te glie si' tòte 'né spaccamelone (1) 
Che 'manche du' carizze le sa fa'. 
Aglio lette me ce pare 'ne sperteloncone, 
'Ne' le lenzola tu glie ha' 'a revolà' ; 
E mitteciglie 'mmane 'ne siaione 
'None de cocommere mànneglic a 'uardà'. 

(1) Una delle strane voci solite tra il popolo che espri- 
me con esse de' propri concetti ; cosi ho inteso dire per 
libraccione, bastenacolo^ e ricordo come un radazzo chia- 
mava una donna grassa , regia parnassi^ e Titi Lim^ un 
fanciullo smilzo ed esile: appunto pel suono del vocaboli 
che hanno cosi co concetti una certa corrispondenza. 

GLXUI. Yì che croppelle m' è mannaie Cola, 

E m' è mannat' a pasce la mula, 
. M' è fatta 'na frettata de quarant' ova, 

Quanta $ó' meglio quaranta frettate! 

Comm' è bella la moglie e chi la trova I 

Tropp' è chiù meglio chi la l' è trovata. 

GLXIV. 'Na dònna m' è promessa 'na iridoce rana, 
E me r è 'ine che me la togliesse ; 
r me ce 'oglie accana' tanta lana, 
De chella lana propria che t' è essa. 
Po' me ce facce 'ne catamplane, 
Me glie mette de jorne, vaglie alla Messa ; 
Ognune me diciarrà : aué (1) ! eh' h chesse? 
— Glie catamplane de Matre Badessa. 

(1) ohe! ; V. Gas. Imbr. I, 213, VI di Sturno (Abbruzzo 
Ulteriore). 



[Cmtinua) 



Vincenzo Simoncelu 



'O CUNTO 'E ÀCENE E FUOCO 

Nce stova 'nu surdato, che nu' buleva là' servizio dinto 
6 corpo, e se risonava sempe. 'Nu juorno 'o chiammaje *o 

superiore e le receite : , . . , v, . 

« Nu' te resartà' chiù, si no te faccio fucelà I » 
Ora, isso, maje pe' u-e pensiero le passaje po' cape, 'e 
chello che le recette 'o superiore che o faceva fucelà', pi- 
glia 'a via ; e se risarta. Teneva seje rane 'nzacca , e se 
n' accattaje pippe e tabacco. Piglia, pe' tramenio steva cam- 
menanno, arrecapetaje dinto a nu bosco. Se careca 'a pip- 
pa; ietto po' s' appeccià' e nu' truvaje fiammifero. Po' tra- 
mente camraenava, vere 'n acene 'e fuoco 'nterra, s'accosta 
e s' 'o vuleva piglia'. Le responne 1' acene 'e fuoco ; e le 
rice : » Nu' me toccjV I » Responne isso : « Pecche ? » 
E r acene 'e fuoco : « Tanno me può piglia' pe' me met- 
c( tere 'ncoppa à pippa, quanno cu' 'sta mazza, che tiene 
a mano, chiave tante mazzate, che te stracque». 

Pe' tramente nce chiavaje 'e mazzate^ s'addormette 'nter- 
ra Avenne 'e mazzate, l'acene 'e fuoco se risbegliaje e de- 
ventaje Re : se pegliaje 'o surdato à terra e 'o purtaje à 

casa soJa« 
'A malina, jette *a serva 'nfaccia 6 lietto e nce purtaje 



64 



'o caie e i vescuUine. Recelte 'o surdato 'nfuccia à serva: 
i< laievenae, chesta nun è robba mia ». Se vota 'a serva : 
« No! È vosfra ». Pigliaje isso; e s' 'o piglia. Se pigliale 'o 
cafò ; se pigliaje 'e viscutiini e s' appicce 'nu sicario. 

A là, nce jetie 'o Re e le rice : « Me cunusce ? » Ri- 
cette isso : « No ! » — « Basta, — recette 'o Re, — i 'ag- 
gio obbrecazione a te 'e fa' 'o Re 'a' ala vota ». Piglia e 
dice *o Re, 'nfaccla 'o surdato : — v( Che grazia vuò : e tu 
cercarne ». Recelte 'o surdato: — « Dateme chello che bu- 
lite, pure, che nu' faccio chiù *o surdato ». lette 'o Re; e 
Dce rette 'nu cavallo e *du cappotto e 'na sciabola. Doppo 
recette 'o Re 'nfiiccia 6 surdato : — » Andate ; e ozocche 
volite, vuje avite ! » 

Piglia 'o surdatO) se mette a cavallo ; e se ne jette. Pe' 
tramente cammenave, arrevsge dinto a 'na cetà. Trova 'na 
guerra, piglia e se mette a cummattere. Dimannaje doppo 
cummattuto: — « Gos' è? » Receitene 'e eente: — « Ghi- 
sto è 'o figlio d' 'o Granturco , che bó ^a figlia 'e 'slu 
Regnante, che sta qui. Piglìsge isso, sequetaje a combattere 
e pigliaje 'stu Granturco prigioniero, e zompa 'ncoppa 
addò Re. '0 Re quanno 'o verelte, dicetle : — « Che bello 
giovine! Gerto sarà figlio 'e Suvrane». 

'A figlia d' 'o Re, quanno' 'o veretle , verette 'a tenta- 
zione. Piglia 'o surdato: e remanette 'ncorte d' 'o Re. Essa 
'a figlia d' 'o Re se sfeziava e' 'o Turco rimo à prigione. 
'Nu juorno risse 'o Turco 'nfaccia à figlia d' 'o Re : — 
« Vuje v' avite à fa' amice e' 'o surdato , ( pecche chella 
n' 'o reva retta) e 1' avite à demannà', che virtù lene pec- 
che isso n' 'a poteva vencere 'sta guerra». '0 surdato a- 
scette ro giorno ; piglia essa, à sopa ó barcone, le fece 'nu 
baciamano. Recette o surdato : — « S' è fatta capace ! » 
I^a ntramente 'o surdato arrivaje solfò palazzo, essa se mena 
'a 'coppa : e 'o jette 'ncontro , rime à rariata ; nce rette 
'a mano, s'abbracdajono, e se vasarono. Sagliono 'ncoppa: 
e 'o patre tutto cuntento , pecche teneva 'nu jennero Re- 
gnante. Pigliaje essa, quanno fige ra sera, rice: — « Papà, 
già ca immo à essere marita e mugliera, 'stasera me vo- 
glio reterà' 'ncamera mia». Pigliano, e mettono 'n ordeno 'o 
letto dinto à stanza ra figlia. Ra notte, 'a fidia d' 'o Re 
accummenza a dimannà': — « Vuje chi site ? E ro site ? » 
lette 'o surdate ; e ne* accommenza a dicere tutte cose; ca 
isso teneva 'nu cappotto ca vereva e n' era visto , e 'na 
sciabola che diceva : Sciabola fa tuì e 'a sciabola com- 
batteva a pe' essa. A la fine» essa se vola e rice: — « Aim- 
me parlato murde assai : nce pulimmo addurml ! » 

Quann' essa veretie, che 1' amico s' era addurmentato, se 
mena r' 'o lietto : e va 'nfaccia 6 cappotto e 'a sciabola e 
s' 'e pigliaje : e nce mettette 'n alo cappotto e 'n' ala scia- 
bola. Pigliaje 'o cappotto e 'a sciabola r' 'o surdato ; e 'e 
purtcìje ò Granturco, rinte à carcere. 

Quanno fuje r' 'o juorno, che 'o surdato ascelte à pas- 
seggiata , quanno se reieraje , 1' amica nu' nce facette 'o 
baciamano. Ricette 'o surdato : — « Nu' manche starà ma- 
lata! »Quanno jette p' entra' rint' ó palazzo, truvaje 'o Tur- 
che, che passeggiava : ricette 'o surdato 'nfaccia 6 Turche: 

— « Ghi i' ha cacciato ? » Ricette 'o Turche: — « Dimme, 
che morte vuò fa' » Ricette 'o surdato 'nfaccia à sciabola: 

— « Sciabola fa tu I » 'A sciabola nu' se movelte ; e man- 
che 'o cappotto « Isso verelte accossl e decelie : « Oimè, 
m' ha fatto 'ngannamento. Già eh' aggio à muri,'— dicette 
'nfaccia ó Turche, •— ammazzame e mietteme plezze piezze 
dinto à 'nu sacco; e attaccarne sott' à panza d' 'o cavallo 
mio « Aroppe, pigliaje 'o cavallo ; e n' o mannaje. '0 ca- 
vallo, ascenne r' 'o portone se schiara a fui' e va diretto 
à casa d' 'o patrone sujo. Quanno 'o patrone vede 'o ca- 
vallo , rice : — « Ghe piezzo de bestia ! '0 cavallo era 'o 
meglio; e isso n"a mannaie». Seenne abbascio ; arape 'o 
portone e trasette 'o cavallo. Vere 'o sacco sott' à panza 
r' 'o cavallo e rice : — a Ghe piezzo de bestia, ha raiso 'a 
biave sott' à panza r' o cavallo; e'o cavallo, comme s' 'o 
mangiava 7 « Piglia; ascìoglie 'o sacco ; e vere ca 'a rime 
era isso. Rice: — « Oh ! che piezzo de bestiai» Rice. Sulo 

— « Dio 'o puteva leva' 'a vita , e issa s' 'a fatta leva' 
& uno comme isso ». Piglio , 'o mette 'nterra , a piezzo 
a piezzo ; pigUe e 'o rì^rgc. Quann' era lisuscetato , ri* 



. 
celle isso : — « E che piezze 'e ciuccione ! Gònteme, com- 
me he recapitate a questo ? Te vuò revendicà' de cbesto 
che t' è succieso ? » Ricetto 'o surdato : <c Si ! » Respun- 
nclte 'o Re : — « Va , qualunque sciorie re cose vuò ad- 
deventà', addevientel » 

'0 surdato pigliaje e se ne jette; e arriva 6 paese addò 
isso aveva fatto a guerra. Pe' irameule isso Steve passeg- 
gianno, quando 'a figlia d' 'o Re, s' ève spusato 'o Turche 
e sleve affacciala, lette isso e addeveota 'nu bello caval- 
luccio 'e tutte culure. Rice 'a figlia d' 'o Re: — « Quant' è 
bello ! Pigliatelo ! Trasiteio dinlo à sondarla c< Piglia e seen- 
ne à coppa, e, tramente essa scennetie, venne 'a rami^elia 
e 'o jette a bere*. 'Niramenie essa 'o teneva mente jette 
'o cavallo, e chiammaje 'a ramicella e decelle : — <c Sim- 
me ferole, e sarai 'a sposa mia. Mo' cala 'a Regina ft 
» coppa e me vene a vere . Pe' iramenie essa m' accarizza, 
» i' m 'alzo a l'erta; e le chiave due ciampate 'mpietto. 
» 'A Regina me manna acclrere ; e tu parla co' chillo che 
» m' accire ; piglia 'na carrafina 'e primmo sangue , che 
» ghicsce ; denchia 'a carrafina; e doppo che è ghincuta , 
» vallo a mena' dinto ò vasolo, 'nante Palazzo; e s' adde- 
» venta n' arbore cu* tutte sciorte 'e fruite ncoppe e tutte 
» qualità. 'A matina s' affaccia 'o Turche e me vede, pi- 
» glie, trase rinto, piglia 'a mugliera e 'a porta fore d 
» barcone e rice : Oh ! mugliera mia, che belVarhere 'e 
» tuW 'e sciorte 'e frutte ». 

» Pe' tramente 'a Regeneila me guardo, i me schianto 
» 'nu ramme e ^a sfracassa, sana sana. Quella, subbeie, rice: 
» Tagliate 'sf arbero ra cà! — 'A primma aschia che 
» zompa, piglia e ba menala dini' à peschiera d* 'o Re, e 
» nu' nce penzà' chiù a me ». 

'A ramigella stuello tutte cose. 'A matina, quanno *a 
Regeneila steva rimo d licito sfracassata , rice 'nfaccia d 
Turche: Stammatina voglio 'r^u poco 'e pesce (f 'e toje 
mane/ '0 Tui'che mo' chillo cappotto e chella sciabola, 
nu' ze levavo chiù à cuoi lo: jette a pesca' cu' tuli' 'a scia- 
bola e 'o cappotto. Pe' trameuie sieve pescanno, quando 
assummaje 'nu bellu pesce 'ncoppa a 1' acqua. lette 'o Tur- 



che e menaje 'a lanza; e 'o pesce, auanno s' accustava vo- 
cino à lanza , faceva cape sotto a 1' acqua e fujeva à 
cheli' ala parte. '0 Turche curreva à cà e à là. Se leva a 
sciabola e 'o cappotto, e o mette 'morra. '0 pesce fa 'uu 
capo sotto e ghiotte asd' 'addò sleva 'a «sciabola e'o cap- 
potto ; là addevenia crestiane e s' ancappa 'a sciabola e o 
cappotto. lette vocino ò Turche e disse : — « Ghe morte 
vuò fa'? » Rice'o Turche:— «Faciteme fa* a morte, che 
v' aggio fatto là' a buje ». surdato piglia 'o Turche; 'o 
porla soli 'ò palazzo, i' accire, 'o fa piezze piezze ; 'o mette 
rinto à 'nu sacco e 'o mette sott' à panza d' 'o cavallo e 
n' 'o noanna.A là, saghe 'ncoppa; e ghìettea truvà' prim- 
me 'o Re che quanno 'o vere , dice:— « Gaspite ! Ghisie è 
« crestiano I » Rispoime 'o surdate : — « Addò sia vostm 
figlia ? » — (( Sta a letto ». 'A piglia , e 'a mette sott' 6 
palazzo vive ; e 'nce reva 'na fella 'e pane e 'nu bicchiere 
r' acqua, e tutte chille, che iraseveae rinto ò palazzo, nce 
'aveano spula' 'nfaccia. 

Isso se spose 'a ramicella; e 'a ramicella faceva 'a Re- 
gina ; e isso faceva 'o Re. 

Baccohe in Piano di Sorrento 
Gaetai^o Amalfi 



NOTIZIE 

La Nuova Provincia di Molise (Campobasso , 22 Lu- 
glio 1884), Anno IV, Numei*o 29, pubblica un articolo del 
signor Enrico Moiiilo, dal titolo: — Ma^jfamauricUo, elio 
è lo stesso del — Munaciello napoletano. 



Gaetano Molinaro — Responsabile 



II 



Tipi Carhiccio, de Biasio & V ^ Lv^o Co^taatìnopolì, l S9. 



ANNO II. 



J..;.24:0ÓJ 

Napoli , n Settembre 1884. 




NUM. 9. 



^. . •* 



1^ ^^1 ipfc ■■ - ^" 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



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■I 



ABBONAMSiraO àMJJO 



Per l'Italia L. 4 — Ester» L. e. 

tJn numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restitiàsoono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il ISd^ognimese 



AVTEBTEHZa 



Per tatti gli articoli è riservata 
la proprietà letteraria e sono vie- 
tate le riprodazioni e le traduzioni. 



Indirizzare vafrlia, lettere o mtftoscritti 
ai Direttore Ijulgi Mollnaro Uel 
C^hlaro. 

Si terrà parola delle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodl- 
chino. 56. 



SOnURlOt — Cenni storici e filologici intorno a Cauosa 
e al dialetto Canosino (Anonimo) — Poesie nel dialetto 
di Trepuzzi (G. Congedo) -- Canti popolari sorani (V. 
SiMoNCELLi) — Una canzone popolare avellinese (C Pa- 
scal) — Notizie. 



CENNI STORICI E FILOLOGICI 

Zntomo a Canosa e dialetto Canosino 

I. 

^ Molto si è disputato su le origini de' popoli della Japi 
già e della Puglia e ancor dubbio resta la lite per man- 
canza di argomenti istorici. Ora io costretto dal soggetto 
debbo alquanto parlare non della etimologia de' vocaboli 
lapygia o Apulia che , secondo il Niebhur , valgono la 
medesima cosa, perchè neir Osco la desinenza latina icus 
si contrae in ix {apix^ apictis), ma della origine de'popoli 
che tal nome dettero alle nosti*e terre e donde questi ven- 
nero, se pur vennei'O da luoghi estrani. 

Non pochi scrittori anno sciolta la quistione seguendo 
questo queir altro autore, che, sebbene antico, certamente 
ne sapeva quanto i nostri moderai, o anche e senza dub- 
bio , assai meno , non essendoci in quei tempi tanti docu- 
menti auanti ne anno preparato molti anni d indefesso stu- 
dio in Filologia, in Archeologia e storia. Per la quale ra- 
gione non si può fidare più nella parola àetlo Strabone, 
di Pomponio , di Dionisio o di altro , quando parlano di 
tempi molto anteriori a* propriì , che nelle dotte ricerche 
de', nostri indefessi storici di lingue e di popoli antichi. 

Il vero si è che i Greci distinguevano nella Puglia tre 
popoli diversi Messapi, Pemeti, Danni. 1 primi occupavano 
quel tratto di paese che forma la penisola air oriente di 
Taranto ; i secondi il littorale da Brindisi a Bail ; i Dauni 
in fine da Bari fino al Gargano (1). De' Messapi e de' Pe- 
meti non farò motto, perchè uscirei fuor del mio proposito: 
accennerò solo qualcosa intorno a' Dauni per venire a pro- 
babili congetture sulla lingua che essi parlavano e quinci 
poi alle vicende delta' lingua, o meglio, del dialetto del po- 
polo Canosino ( nelle varie epoche e sotto le molteplici e 
diverse dominazioni), come quello che dimora nel territorio 
da' Daunii anticamente posseduto. Strabone, Nicandro poeta 
di Bet*gamo ed altri poeticamente fanno venire dal mare 
Jonio Peucezio , Japigìo e Danno fratelli con un' aiinata 
composta in gran parte da gente Illirica. Ma avverte giu- 
stamente il Niebuhr : « Se tutte queste opinioni sono do- 
vute ai poeti ed a tradizioni , è più che verisitnile che si 
intenda parlare di Liburni che d' Illirici, perchè questi abi- 
tavano da una parte il Piceno e dall' altra Gorcira .... (2) 
Argirìppo e Sìponto danno col loro nome altri indizii in- 
tomo alle prime popolazioni del sud-est dell' Italia » — Di 



fatti Argo (3) è al pari di Larissa nome di una città Pe- 
lasgica : come pure i campi Diomede! , te Isole Diomedee, 
la tradizione e' inducono a credere che la Daunia fosse abi- 
tata, dopo espulsine i Dauni , dagli Appuli primitivi , che 
noi conosciamo chiaramente da Strabone (Vi pag. 285} 
Questi cacciandone i principi Dauni non potettero del tutto 
cancellare dalla mente de' popoli le memorie antiche , né 
imporre nome nuovo a citta che già l' avevano. Ed in si- 
mil modo i nomi delle città e de' luoghi, le tradizioni, poi 
finalmente le antichità, le monete della Daunia ed altri mo- 
numenti ci additano la origine, se non pinma, almeno delle 
prime, sulla quale in qualche guisa possiam poggiare la 
nostra fede. 

La storia tace del governo della Daunia e solo nel quinto 
secolo di Roma ci è dato averne qualche interessante no-^ 
tizia — Già r aquila Romana dominava nella estrema parte 
della pepisela Italiana e la Daunia forte e potente , auto- 
noma, indipendente da sé reggevasì, da cpxel che pare, eoo 
governo democratico. Le città principali della repubblica , 
repubbliche Danne, erano Arpi, considerevole per popolo 
e per territorio , e Canosa , emula della prima , potente e 
forte dalle sue gagliarde mura, visibili fin a tempo dell'im- 
pero e basso impero. 

Ma oi*a ti*alasciando la Daunia, m' è d' uopo parlare di 
Ganosa. Non credo opera vana aver discorso brevemente 
di quella, che tali cenni m'erano necessariì per dilucidare 
r apparentemente favolosa origine di questa , non che per 
portare qualche lume nei lontani tempi troppo oscuri e per 
vedere in fine s' è possibile ammettere in tutto o in parte 
la tradizione popolare, che in alcuni fatti può e dev'essere 
documento isterico. 

1.® Ganosa (Koìfódtop) giace ai confini della provincia 
di Bari e quasi ne segna il limite, perchè guarda lontano 
appena due chilometri 1' Ofanto ( Aufidus ) , che divide 
quella di Bari dalla p. di Gapitanala (xaroBroj/ora} (4). 
Sebbene essa non sia una grande città, pure é vaga e di- 
lettevole a vedei:si per la sua posizione. Viene a ponente 
allietata dal serpeggiante fiume : ad oriente le fan corona 
amenissime colline ornate da ogni sorta piante ed alberi , 
precipuamente da viti e da ulivi ; di modo che l'occhio si 
pasce e si diletta all'aspetto di ubertosa pianura e di aprici 
colli. Anzi la città in gt*an parte è sita sulle spalle di una 
collina ed in parte leggermente chinandosi per le &lde 
scende giù e si distende per una vallata , ov' è maggior 
vita e risiede la gente civile. La popolazione numera scalici 
mila anime o in quel tomo. Tra i cittadini laboriosi ed 
agricoltori sorride l'agiatezza e se con opportuni provvedi- 
menti s' immiglioi*asse 1' agricoltura , s' ingentilissero i co- 
stumi e dirozzassero i coloni con estendere fino ad essi la 
istruzione, Ganosa non sarebbe l' ultima tra le più impor- 
tanti città della Terra di Bari. Vien circondata quasi alla 
medesiaia distanza da città limitrofe considerabili » quali 



6e 



Barletta, Andria, Minervino, Gerignola, Trinilapoli e da bor- 
ghi che descrivono quasi una periferia intorno ad assa che 
ne segna il centro. Per la qual cosa non manca di traRìco 

specialmente per lo smercio de' suoi varii generi vino, 
oglio, cotone, mandorle ed altro. Ma qualunque essa siasi 
a vederla oggi non più desta la idea della grandezza che 
una volta vantò; non è più la città dalle molteplici porte, 
non la città dalle forti mura, non più la regina della po- 
tente Daunìa; ma allo spettatore dà di so vista di una 
donna bellissima in gioventù e robusta, che il peso della 
età è fatta scarna irrigidita e che si accoscia sui pie per 
debolezza ! Se però si miri per poco la sua campagna ric- 
chissima; se si osservino ì suoi negletti e preziosi sepol- 
cri , avanzi di antichità ; se attentamente guardinsi i suoi 
vasi, le sue monete, che ad Tognh pie sospinto s'incontrano, 
si è costretti ad esclamare: son queste al eerto le reliquie 
di una città antichissima , potente , agricola , meritamente 
rinomata per pastorizia e nobiltà. 

?.• Alcuni scrittori anno creduto e credono non senza 
plausibili ragioni che Canosa apparteneva alla Peucezia e 
non alla Daunia (5). Ma dietro la guida del Niebuhr e del 
(lorcìa a pensare diversamente m'induce la tradizione e la 
medesima topografm. Certamente Canosa estese le sue mura 
fino alla destra sponda del fiume e fu una città commer- 
ciante e sebbene Inntana dal mare è probabile che per 
mezzo deirOfanto con appositi battelli o zattere trasportasse 
ed importasse le sue e le straniere derrate. Dovè avere il 
suo porto e l'acqua del fiume molto abbondante e di alto 
corso più che non è oggi : né ciò fa meraviglia conoscen- 
dosi dalla storia molti fiumi una volta grandi, ora appena 
esistenti o affatto spariti. Che TAufido sia slato molto più 
profondo e pericoloso lo rilevo da T. Livio, da Strabone, 
da (juglielmo Apuliense e da altri molti. Orazio poi non 
avrebbe detto senza iporbele : 

Sic iauriformis volvitur Aufidus^ 
Qui regna Danni praefluit Appuli 
Cum saevit horrenaafnque cuttis 
Diluviem meditatar agrls. 

Argomentando poi da' fatti neir osservare ghiaja, lapilli, 
strati arenosi e simili ìndizii in luoghi lontani dal letto del 
fiume , Siam di credere che questo si avesse prima corso 
più ampio e più largo alveo e che lambisse le mura dol- 
r antica città. Lo splendore e la ricchezza de' Canosini de- 
cantata da' Romani provano il loro commercio marittimo 
e il fiume navigabile. Con ciò non voglio escludei*e , quel 
che oraii)ai è innegabile, che nelle vicinanze di Barictta o 
propriamente Barletta fosse stato l' emporio di Canosa. Ma 
sia vero o no il fin qui detto, è ceno però che essendo Canosa 
situala sul fiume apparteneva o alla Daunia o alla Poncezia. 

3.* Dalla pastorizia (6) Canosina fiorentissima e di gran 
nome presso gli anfichi, specialmente per le lane, arguire 
si può che la parte maggiore dell' agro lenimento fbsse a 
sinistra dell' Aufìdo. ove la campagna sì presta in singoiar 
modo alla cultura delle pecore, bovi ed altri armenti , es- 
sendovi più rigogliosi gli erbaggi e migliori per la pastura 

1 terreni ; mentre a sinistra incontransi spesso colline che 
pochissima erba prestano alle greggi. Ma alla fin delle fini 
che monta l'essere stata Canosa a destra dell'Ofanto? Forse 
che r Ofanto era una linea matematica ? e non potea ap- 
partenere alla Daunia ? Ma essa apparteneva e n è prova 
polente lo stesso nome Kapù^iov. È ben vero che Servio 
asserisce prima la si dicesse Cinegetico a cagione della 
caccia che quivi Diomede soleva fare ; ma ciò diceva da 
grammatico facendo derivare Cammam da canis e non per 
i Mgione storica. E ben argomenta il Concia che essa si ebbe 
tal nome da xiin^g cesta o Cf>rba , che si fanno di giun- 
chi spontanei e spessi in luoghi bagnati da fiume. Ma la 
massima delle ragioni a questo proposilo è la tradizione, 
non quella del volgo, che pure ce ne assicura , ma quella 
principalmente degli scrittori (7) , che tutti concordano ad 
assegnarle origine greca e noi diremo coi migliori Pclasgi- 
cn^ Il popolo Canosino e moltissimi autori asseriscono che 
Canosa fosse stata edificata da Diomede e, togliendo le ori- 



i 

gini mitologiche, da' Pelasgi : dunque appartenne alla Dau- 
nìa e non alla Peucezia , che altrimenti la tradizione , ia 
storia , le antichità sarebbero documenti contraddittorii e 
cozzanti tra loro. Moltissime monete accennano a Diomede ; 
moltissime alla credenza mitologica Pelasgica. Ma qui mi 
si potrebbe domandare : Di qual Diomede si parla T — Le 
tradizioni del Diomede di Eteolia si confusero con quelle 
Il del Diomede di Tracia e confermarono le origini del culto 
I di Diomede nella Daunia ed in Canosa. Il Diomede fu un 
Dio prima della distruzione di IVoja, poi divenne un eroe 
e con)e tale si- descrisse nel!' epoca della Repubblica Ro- 
mana e nei tempi posteriori fino a' nostri dì. 

Il detto basti per conchiudere che Canosa fu edificata 
parecchi secoli prima di Roma ; né questa asserzione mi 
valga a la taccia di esegerare per amor patrio. Gr indizii, 
che ne restano, ci assicurano della grandezza della città 
e la tradizione porta che essa occupasse sette colline; e da 
ciò la chiamarono la piccola Roma. Le tracce delle mura, 
che si veggono ora sulle circostanti colline, fanno argomen- 
tare l'antica periferia di circa 33 chilometri a contare dal- 
l' arco (che dicono i cittadini senza ragione isterica Arco 
Trionfale e che con molta giustezza ritiensi per una delle 
P'ccoìe porte della città ) fino a unti gli adiacenti colli : i 
.sepolcri antichi (nei quali grandi tesori si son trovati, ru- 
batici dalla prepotenza e venduti agli stranieri ) di epoca 
anteriore di molto a quella de' Romani ; le medaglie , le 
monete, le rovine di antichi palagi ci portano nella cer- 
tezza e della magnificenza e della vetustissima antichità di 
Canosa. Lo confermano eziandio le tante iscrizioni, le tante 
statue, i ruderi dell' anfiteatro, gli aquedoUi, i bagni pub- 
blici , le cekbri colonne di granito, le tombe di Lamapo 
puli e i nomi stessi di alcune contrade. 

V Questa città poi cominciò a decadere fin da' primi 
tempi di Roma e propriamente circa il 316 {ab urbe con- 
ditaly quando i suoi campi, come quelli di Teano 'Città della 
Peucezia, vennero saccheggiali, i suoi armenti distrutti, in 
somma da repubblica fiorentissima divenne soggetta a Ro- 
mani e cosi di mano in mano sempre minore. Ciò non o- 
stante a' di della celebre battaglia di Canne dopo la di- 
sfatta de' Romani fu benemerita del popolo Quirite, al pari 
di Venosa, per aver dato ricovero a fuggiaschi ; anzi una 
sola donna Canosina di nome Busa (8) ricchissima e iiobi- 
fissima matrona, die a vivere dal suo a parecchie migliaja 
di soldati, avanzo dell'esercito Romano scampato dalla san- 
guinosa strage. — Fu fedele a' Romani , abbenchè tentala 
da Annibale e ciò abbastanza indica la forza della città e 
la robustezza delle sue mura tale da non far temere a' rin- 
chiusi del vincitore Cartaginese. Ma dopo, memore dell'an- 
tica libertà ed indipendenza, ribellossi e fé' parte della con- 
federazione Italica. Fu assediata da Cosconio , poi liberata 
da Trebazio comandante de' Sanniti , i quali vinti alla lor 
volta da' Romani rifuggirono a salvamei\to in Canosa — Da 
allora in poi anche di più si mutò in peggio ia sorte di 
Canosa sia per l' esercito Punico e Romano e per quello 
de' Sanniti aggirantisi per la fertile campagna e per l'asse- 
dio per molto tempo sostenuto , sia infine per i gravi tri- 
buti e pesi che dovè pagare al vincitore. E tanto a poco 
a poco si diradò il popolo , tanto si mutò l'aspetto e la 
condizione d^lia pria iJellissima e ridentissima Canosa, che 
a tempo di Orazio già facea pietà a vederla. Ma se erano 
distrutte le bellezze e i commodi della città , conservava 
però un titolo incontrastabile, quasi segno di affetto alla 
memoria de' progenitori, dico la lingua greca ancor fiorente 
nel popolo, che contemporaneamente parlava quella del La- 
zio e quello deli' antica Daunia. Ma alla lìae anche questo 
tesoro a mano a mano si andò sperdendo per la legge delle 
umane cose per cui tutto va a modificarsi. 

ò.*" Canosa era stata prima municipio indipendente , au- 
tonomo sebben tributario della Repubblica Romana (9); ma 
ne' tempi dell'Impero e del Basso Impero, essendo sialo i 
campi Canosini assegnati da Augusto a' suoi soldati, o con 
più verosimiglianza, da Marco Aurelio ed Antonino (come 
appare da una iscrizione tuttora esistente) diventò colonia. 
Acquistò gloria col sangue Romano, ma perde molto nella 
lingua originaria la quale, se non disparve del tutto, fu al* 



è7 



topaia e predominata dalla nobile lingua Latina , avendo i 
naturali ammesso nel loro parlare le robuste parole del co- 
lono Romano. Da questo fatto argomentare si può come 
venga la metamorfosi di ima lingua; ma a dispetto del nuovo 
e variato dominio resta l'elemento primo, sebbene in mini- 
ma parte che palesa la origine lonlana del popolo. Trala- 
scio per ora le osservazioni sulla lingua (di che a suo luogo) 
e rilorno a' cenni siorici interessantissimi per poter parlare 
del dialetto Canosino. 

6.® Ne' tempi posteriori Canosa fu protetta da Adriano 
e Trajano, e i cittadini ne furono molto onorali. Ma quinci 
innanzi , a mo' che le sorti d' liaha si resero più tristi e 
quasi si spense la gloria del nome Romano, parimenti scura 
si fé' la storia della patria mia. A confortarla dalla sven- 
tura il già propagatosi Cristianesimo le apportò colla buona 
Novella insigni onori episcopali. Essa dopo esser stata sog- 
giogata da' Romani , divenula colonia, passala le peripezie 
dell' Impero e basso Impero, dopo essere ritornala alla do- 
minazione greca, venne dal Longobardi saccheggiata e di- 
slrutla dalle fondamenta. Il che infinito danno arrecò ai 
cittadini che piansero beni e patria, alla storia che insieme 
colle mura tanti antichi documenti deplorò, ed infine alla 
scienza archeologica che memorie antiche, monumenti, va- 
sto campo di studio, perde iireparabil mente. Fu questa la 
fortuna di tutta Italia, che venne spogliata de' suoi tesori, 
arsa, calpestala da orde di barbare genti, in gran parte del 
Nord che ora la vince per potenza ma non per civiltà ! 

?.• Dopo tanti anni di nobile esistenza cade Canosa doma 
dal furore de' Longobardi (10). Ma Tamor del luogo natio 
ben tosto richiama gli abitanti sulle rovine della spenta 
città: ogni cittadino innalza su quel caro suolo la propria 
casa : rinasce dalle rovine la piccolina rediviva città ; sor- 
gono anche le mura per la difesa. Ma invano. Non bastò 
che la Italia fosse slata invasa dai popoli boreali : vide an- 
cora il Saracena nelle più belle sue province e le più ric- 
che I Questa gente crudele s' inpadronì di Canosa dopo a- 
verla in gran parte distrutta e per lungo tempo vi dimorò 
fino a quando \ Normanni, che doveano essere la salvezza 
e r onore di Canosa, riducendola sotto il proprio dominio 
ne discacciarono Tabborrito invasore. Nell'anno 1054 " Nor- 
manni in Apulia ceperunt Tranum^ Canusium et alias 
civilateSy expulsanies Graecos et Saracenos qui domina- 
bantur eis „ . (Romualdo Salernitano). Giustiniani soggiuu; 
gè — « Discacciati i Saracini ed incomincialo a riedificarsi 
Canosa, la sua chiesa per mancanza di Arcivescovo veniva 
governala dal preposto, il quale assunse poi la giurisdizione 
episcopale. Pascale lì si portò a benedir la chiesa nel 1102 
e la dichiarò cappella de' Principi Normanni e vi tenne 
concilio , come da iscrizione in detta chiesa » — Mentre 
prima lo stesso papa tenendo concilio in Melfi ad istanza 
di Ruggiero e Boemondo assegnò ad Elia Arcivescovo di 
Bari la Diocesi di Trani, Bilonto, Bltetto, Canne e Canosa 
(Protespota an. 1089) (11). 

8.* Dal tempo adunque de' principi Normanni cominciò 
a sorgere la moderna Canosa come surse la moderna Chiesa 
di S. Sabino. E se questo fu dono prezioso , prezioso an- 
cora fu ed è il sepolcro dell' eroe delle Crociale decantato 
dal Tasso , guerriero audacissimo , principe di Antiochia , 
Boemondo, di cui la storia molfissime gloriose pagine ei 
conserva. Le sue ceneri furono trasportate da Smirne nella 
Chiesa di Canosa secondo la volontà dell' illustre cavalie- 
re (12). Mi resta ad aggiungere che la Chiesa di S. Sa 
bino parecchi doni si ebbe dal duca di Puglia Guglielmo, 
come apparisce dal diploma del 1118 e da altri sovrani 
ancora e specialmente da Ferdinando d' Aragona. Corsero 
gli anni e i secoli in tante e si varie vicende che a poco 
a poco scancellarono la fisonomia del popolo ; si rinnova- 
rono costumi politici, modi di reggei*si, credenze e religione. 
Venne finalmente il Francese e lo Spagnuolo che a palmo 
a palmo con varia fortnna e diverse guerre conquistarono 
ed usurparono queste nostre province. Ma nel commune av- 
vilimento de' petti Italiani qualche lampo di valore fiinlvo 
si manifestò : basta ricordare' la Disfida dei Tredici. Poco 
prima di questo memorabile fatto d'armi anche Canosa 
fece forte resistenza contro degli Dngheri (13), perchè era 



forte città e murata e sostenne molto tempo l' assedio dei 
Francesi, a' quali poi si arrese per non avere potuto ottener 
soccorso del celebre Consalvo di Coixiova. Ma la sventu- 
rata ad altri avvilimenti e pianti fu soggetta ne' tempi po- 
steriori. 

Nel 1300 circa Carlo I d' Angiò la concesse a Carlo de 
Lagonessa milite e siniscalco del regno — Nel 1457 il Re 
Alfonso investi Alessandro Orsini di varie città di Puglia 
e con queste di Canosa : ne fu confermata la investitura 
da Ferrante e Re Federico — Nel 1532 Carlo V la die ad 
Onorato Grimaldi, méntre due anni prima Tavea data a Fi- 
liberto Lhalòn — Nel 1643 Filippo Aftaitati di Barletta la 
comprò dal Fisco per la contumacia di Onorato Grimaldi 
principe di Monaco. Finalmente ad istanza de' creditori de- 
gli Atfailati si vendè sub lista a Fahricio Capece-Minutolo 
per ducati 48000! — La celebre Kai/àrioi/ , uria volta 
capitale e regina della Daunia, questa terra che sollevò] e 
speranze di Roma, che non temè di Annibale fu ridotta in 
mano de'Greci, distrutta da' Longobardi, abitata e distrutta 
da' Saraceni; assediala da' Normanni, da' Francesi, alla fine 
restò preda di tirannotti, di Marchesi, di principi crudeli e 
gente vile. Venne venduta per quarantotto mila ducati! (14) 
Ed ora ? Ora benigno il cielo sorrida al suo avvenire. Se 
il suo popolo perfezionando l'agricoltura, unito, concorde 
cercherà il bene della patria ; se gli amministratori solerli 
invigileranno sulla educazione del popolo ingegnoso poma- 
tura ; se la industria de' suoi olii, vini, cereali ed altre der- 
rate sarò ajutata e protetta con opportuni provvedimenti , 
potrà, non dico ritornare alla prisca grandezza degli avi , 
ma almeno essere una delle più importanti città della Pro- 
vincia di Bnri. 

(continua) Anonimo 



(t) Strabone lib. VI cap. III. 

(2) Traduco dal detto Strabone — « Da Bari insino al fiu- 
me Aufido presso il quale giace l'emporio de* Canosini 
(ora Barletta) corrono quaranta stadii : da parte di mare 
poi tra l'emporio e la foce del fiume sei stadii di naviga- 
zione. Non lontano da (|uesta è Salapia, porto dei;li Ar- 
girippini (tiÌi; *ApyuplT«^JWi/ tfchuoy)' Perocché 'nollc 
vicinanze del mare nella pianura son situate dud città Ca- 
nosa ed Argirippo, una volta le maggiori tra lo. Italiche 
ed ora son ritenute tra le minori. Quella che ora è Arpi 
in prima fu detta Argo Ippio CApyoC "iTriw) ed ora Ar- 

gìrippa. 

(3) Euripide in Archelao dice nel prologo: 

^Oìfoò^ rtifTìixOPra Ou^aréfcoy zanip 

(4) Bojano Catapanus g^oueci Imoeratoris ^ cum jamdu- 
dum Trojam in capite ApuUae consùruxisset^ Draconariam 
quoque et FloreaUnum ac Cioitaiefn et rellquà municipio 
quae oulgo capitanata dìcuntur aedijlcamt et ex circumpQ- 
sitis terri^ ìiabitatores conoocans, deincepa habitari consti- 
tuit. Vulgo Capitanala cum prò certo ab ufficio catapani 
qui eafn fecity catapanata deoeat appellari, 

(5) Da Plinio si vede che fosse stata città considerata— 
Dauniorum,praeler supradicta^ Coloniae Luceriaffi V^nu- 
sta, oppida Canusii, Arpi.^. — (Plinio lib, 3, hist. cap." aJ). 

(6) Vedi Plinio histor. natur. libro 8 cap. 48 — Lib. 3^, 
cap. 6. 

(7) F Ortis qui locus Diomede est conditus olim (Orazio). ' 

(8) Riporto qui le parole di T. Livio : « Eos qui Canm- 
sium perfugerant , miilier Apula (secondo alcuni Paula) 
nomine Éusa , genere dora ac divitiis , móenibus tantum 
tectisque a Canusinis acceptis^ frumento, oet^te, inatico e- 
liam juoit: prò quaei munijicentla postea^ bello perfeòto, 
ab senatu honorem kabiti sunt, E poi dice che i Venosini 
emularono tanta generosità: certatumque ne a muliere Ca- 
nusinae populus Venusinus officiti vincerentur, Sed gru- 
oius onus Busae multitudo faciebajt et jam ad decem mil- 
lla hominum erant. Quanto ricca fu questa Matrona Ca- 
nosina f E poi parla della forza della città — Varrò ipse 
Canusium copias traduxit et jam aliqua specie$ con$ularl$ 
cxcrciius erat: moenlbusque se certe^ si non armis, ab ho- 
ste oidcbatur difensuri* 



68 



(9) La tavola di bronzo de' magistrati Can. trovata nel 
1675 ora è in Venezia : su di essa fé' commenti Teodoro 
Damadema(t. IX, part. 5 Thesaur. antiqui : et hist Iteti . 
dei Giovio). 

(10) Assemanni, de reb. Neapolit. t. 1, cap. 9. 

(11) Vedi Ughelli Ital. Sacr. de Archiep, Barens. t. 7 — 
Beatilio Fioria di S. Sabino — Francesco Nicolai ; Volpi 
nella cronologia de' Vescovi Pestani. 

(12) Romualdo Salernitano presso Murat. S. R. I. tom. 
VII col 180, pag. n. 8 ad Baronium ad an. IV g 45. 

(13) Costanzo Storia pag. 183. 

(14) Regest. 1300. 1301, lettera A fo. 28 - Quint. 5, fol 
160-2 fog. 478, 481. 




Con questa pubblicazionoella intendo d'inviare 
un affettuoso saiuto alla patria del defunto mio 
avo materno, a tutti quei cari amici trepuzzini, 
a quella intelligente e laboriosa popolazione. 

A chi non sappia Trepuzzi fo noto, eh' è un 
comune poco lungo da Lecce, capoluogo della 
Terra d* Otranto. Il suo nome forse deriva da 
tre vetusti pozzi, dove il popolo va ad attignere 
Tacqua, in una gran piazza nell'abitato. Questo 
comune si è giovato molto della civiltà e del 

1)rogresso. Attorno all' antico , principesco, pa- 
azzo dei Petrucci Cito, famiglia di mia madre, 
ha elevato eleganti palazzine di stile moderno. 
Ha belle e nettissime le vie ; ha liete passeg- 

fiate al rezzo di alberi; ha la ferrovia, che di 
'repuzzi fa quasi un grande sobborgo di Lecce, 
agevolandone lo scambio dei prodotti. 

Oltre un saggio di canti, raccolti dal popolo, 
vo' pubblicarne alcuni di Francesco Perrone, che 
me li donò il 1873. Allora inediti, son divenuti 
postumi, perchè l'amato Perrone non è più! 

n popolo, io penso, si può studiare anche ne- 
gli autori popolari i in (quelli , che si siano im- 
medesimati nelle sue idee e tradizioni e cre- 
denze, ne' suoi costumi, nel suo idioma. Altri- 
menti qual merito avrebbero e Capasso e Meli 
e Belli e d'Amelio? 

Francesco Perrone era quasi unusquisque de 
populo ; era un farmacista, lu Spezialicchiu di 
Trepuzzi per antonomasia. Mi par di vedere 
quell' ometto simpatico , dagli occhi brillanti e 
con due baffettini neri, colorito e vivace come 
un fanciullo. Verseggiava ridendo fra gli amici, 
verseggiava fra una ricetta e l'altra, verseggia- 
va come farmaco morale del dolore, che il suo 
animo provava alla vista di tanti mali dell'uma- 
nità. Le principali ricorrenze dell' anno , uno 
scarso ricolto , un' epidemia , la guerra , tutto 
destava la sua Musa. Pel Natale avrà dato fuori 
centinaia di versi. Pel colera, credo , del 1856 
scrisse un capolavoro di poesia, che oggi, ahi- 
mè!, sarebbe di occasione, ma che non ho rin- 
venuto fra le mie carte. 

Li4 SpeaialicchiUf tanto modesto, difficilmente 
stampava i suoi versi. Sollecitato, ne dava co- 
pia manoscritta a qualche amico ; e subito li 
sentiva di bocca in oocca pel popolo, che li fa- 
ceva suoi come propria fattura. Se mai si fa- 
cevano ripetere dallo stesso Perrone , le molte 
varianti li rendevano già diversi dai primi. 

Ciò premesso, ecco i 









CANTI DEL POPOLO 

I. 

Na lancia d'ora te vulia menare ; 
mmenzu ddu pettu te vulla ferire; 
doppu ferita te vulla bagiare... 
Core de Tarma mia, me fai murire. 

Cosi tradotti, pubblicai questi versi nel Preludio di Gre ' 
mona il 15 dicembre 1875 con altri « Rispetti leccesi » : 
D* oro una lancia ti vorrei scagliare ; 
in mezzo al petto ti vorrei ferire ; 
dopo ferita io ti vorrei baciare... 
Core dell' alma mia, mi fai morire. 

IL 

Su do* zitelle : è lu partune chiusa. 
Lu des^eriu miu c'era cu trasu. 
La ranne disse: — Beddu slu carasu ! — 
La menza: — Na — me disse — ulìa lu vasu — 

La piccula me disse : — Sali susu ; 
vidi ca Irei lu letlu cunzatu, 
bultita d* oru e cudda de villutu... 
No rrìpuesi no no, miu nnamuratu.— 

Mentre si comincia a parlar di due donzelle, se ne met- 
tono tre in i scena. 

Si noti il costrutto: era cu trasu, era di entrare. ~ Tra- 
8ire^ quasi trans-ire. 

Carusu, giovane. 

Pure tradotto, pubblicai nel Preludio auesto canto: 
Son tre donzelle: lor portone cniuso. 

L' ardente brama mia era d' entrare. 

— Bello 1 — mi disse, la mag^or, di suso. 

E la media: — Quant' il vorrei baciare I — 
La piccola mi disse: — Ben venuto ; 

monta su ; trovi il letto racconciato, 

coperta d'oro e coltre di velluto. 

Non riposi no no, mio innamorato. 

m. 

Gara Nìnella, te scorda de mie; 
te lu fanne lu cuntu ca su mortu ; 
che la to' mamma no mprìtende mie, 
dice, che nun sun lu lu paru vostra. 
Te a ba pi^gbia chi te vole dare, 
ca n V patire pe' T amore mia. 



Fanne. — L'accento su questa parola, che andrebbe pro- 
nunciata senza, corrisponde alla cadenza del motivo, che 
I sentii, di questo canto; la quale osservazione si ripeta nei 
casi simili, che più giù sono frequenti. 
Mpritendere ò proprio Tamar chi si vuole sposare. 

IV. 



mia cu pozzu e cu putisse fere!... 
Cu la mia oella nisciunu a* parlare. 
Li fa' nu castelluzzu a mmienzu 'mmare, 
nturnesciatù de pinne de baone. 
Lu palazzù se chiama bella frante^ 
la patrunà de intra focu ardente. 

Nturnesciatu, attorniato, circondato. 

V. 

— bella, bella, quanf ulla te bagiu I 
La paletta te pigghia e bai a lu focu. 
Ci tice la to' mamma e' a' ntardata, 
dine ca n' a' pututu cchìare focu. 
Ci le vide lu labbra rrussecatu, 
dine e' a' stata l' ampa di lu focu.— 
— Ca r ampa di lu focu nun è stata ; 
scarche figghiù de manuna t' à bagiata. 



6# 



lu maledìcu ogoe figshiu de mamma, 
Du quiddu, ci bagiau la figgbia mia. — - 

— Tàcite, mamma, e nu lu maledire ; 
è siatu DU giovioettu pam miu. 

Parla prima l'amante alla sua beila ; poi la madre alia 
figliuola, cbe le risponde. Il senso spiega il laconismo. 

È costume popolare , cbe la madre , occupata in casa , 
mandi attorno una sua figliuola, colla paletta in mano, a 
procurar dalla vicina un pò* di brace, cbe attizzi il fuoco 
per gli usi domestici. Con questa poesia si suppone, e non 
e strano, cbe la fanciulla s* imbatta nell'amante e gli con- 
ceda un bacio. È molto poetica la scusa di far credere il 
labbro arrossito dalla vampa del fuoco, non dell'amore; ed 
è molto naturale V intuitiva divinazione della madre. 

Rrussecatu^ arrossito. 

Scarche^ qualcbe. 

VI. 

— Quantu si' bianca, nu nei rria la neve, 
capelli rìccia ccbiui de nu baone. 
Ragione la to' mamma cu te v vanta, 
ca de le belle tu si' la maggiore. 
Tieni la facce de 'na rosa bianca ; 
de le strade ci passi mini ardore. 
Su celusu de tie ieu tantu tantu, 
celusu de lu sule e de li veotu. 

— Mo ci sacciii ca si' celusu tantu, 
nu parlu cu nissunu, e ti cuttentu. — 

Rria, arriva. 

Ragione ecc. — Si sottintende il verbo ha. 

Ardore , odore. È curioso cbe il significato della voce 
dialettale sia tanto diverso da quello della stessa voce in 
italiano. 

VII. 

Àggiù saputu ca te nn' hai da scire : 
prumu d oru mia, no' me 1' a' fare. 
G 'a' quiddu locu, tu ci hai da scire, 
pòzzanu zzaccarire le funtane, 
acqua nu puezzl truare pe' bei re, 
ca mancu tàula cu puezzl mangiare. 
Lu liettìceddu cu fussè de spine, 
lu capetale de petrefucare. 
Ga mmienzu cu ci sia nu stile, 
cu te trapassa 1' arma e po' lu core. 

Mia traduzione , pubblicata nella Strenna dello Stente- 
rello pel 1876, anno IX. con altri a Rimbrotti popolari di 
Terra d'Otranto » : 

r ho saputo cbe ten vuoi partire : 
mio pomo d' oro, non me V hai da fare. 
Che in quel loco, ove tu dici d' andare, 
possano le fontane, ivi, insecchire. 

Che non possa trovar acqua né sale, 
e tavola neppure per mangiare. 
Che il picciol letto sia di spine amare, ' 

e di pietre focaie il capezzale. 

E uno stile ci sia fra i materassi, 
che l'alma e il core infido ti trapassi. 

VUL 

A' ci nu passu de 'sta strata mara; 
de cce se mmaretau Ninella mia. 
Quannu a la chiesa matre la purtara, 
lu lettu me curcai pe' Csintasia. 

Quannu l' acqua santa iddà pigghiava, 
ncora la bucca a risu idda facia. 
Quannu la su' boccuzza disse : sine^ 
cbiangltì, uecchi mei ; nu cchiù speranze ! 

A* ci, è tanto tempo che. — Esempio: Sa* quant" ae? Sai 
da quanto tempo è ? 

Svne, si ; none, no. In quasi tutt'i comuni della provin- 
cia non si amano i monosillabi tronchi o accentati. GiÀ 
notsùmmo : susu per su , cquai e ddai per qua e là , face 



per fa (V. « Gruzzolo d'indovinelli leccesi » in questo gior* 
naie. Anno I, n. 12). 

a. 

bruttu bruttu, stemmularu tisu, 
facci de 'na camìsa rrepezzata, 
ci te vedisse a le furcbie mpisu, 
cu tre parmi de sàula strascenatu !... 
A ncapu de n' annu cu t' egnu bisciu 
ntra dde scure carcere squaggbiatu I... 

Di questo canto pur feci una traduzione , che pubblicò 
la Strenna dello Stenterello pel 1877 , anno X. , con altri 
« Accenti leccesi (dal popolo) » : 

O brutto brutto, come pungol ritto, 
viso d' una camicia rappezzata, 
s' io ti vedessi a la forca fitto, 
con tre palmi di fune strascinata!... 

O a vedere io ti venga in capo a un anno 
in quelle buie carceri in affanno I... 

A Trepuzzi sentii anche questa imprecazione: 
O* ci 8i' bruttai Te vegna la bestia! 
De ragna te ne oegna *na catasta l*.. 



POESIE DI PEBBONE 

I. 

SUNETTU 

subbra llu macenare de le ulìe alla maehena tràuleea 

de don Peppinu> 

{Don Peppinu è il noto cav. Giuseppe d' Elia, il quale, 
per molire le ulive più presto che al proprio frantoio, le 
portò ad un frantoio forestiero, e ne fu danneggiato). 

Peppu, me pare a mie ca 1' a' ccappata. 
Se ne pari' all' umperu de la Cina 
de quidda suUennissìma minchiata, 
ca 'nvece d' uegghiu crescisti sentina. 

De asUme te facisti 'na entrecata. 
Quannu te sci nfaccìasti ntra la tina. 
— Nu me burli — decisli — n' àutra fiata — 
e te diesli nu cuerpu alla mancina. 

Tannu foi ci smersasti l' uecchi ncelu, 
reslannu pe' nu piezzu sbalurditu, 
cu nu sudure friddu comu scelu, 

seguu de malaiia periculosa. 
Ma ci siècuti a scire a ddu trappitu, 
tie te ne mueri cu' 'na perniciosa. 

Variante del terzo verso : « A Francia , a Roma, alla 
BaselecaCa ». ' 

In un altro manoscritto il sonetto ha questa coda: 
Tra quacche giomu poi, cu n*dutra metru, 

rmnu de macenare s* è funulu, 
Balsamu te parie e papa Pietra . 
Ma non ho questi altri versi promessi, e solo posso dire, 
che Balsamo sia un ricco negoziante di olio a Lecce , e 
papa Pietra il sacerdote Conte di Trepuzzi, ove si dà del 
papa a tutt' i preti, e cosi a Lecce e dintorni. 



Ora alcune spiegazioni 
L* a' ccappata, 1 hai ca 



letterali del sonetto : 
capitata, sei caduto nel cappio. 

Minchidìà, canzonatura. Minchia significa sciocco. 

Uegghiu» olio. 

De astime *na enireeata, di bestemmie una corpacciata. 
Entrecata da entre. — Briosa la frase per dire, che il cav. 
d' Elia si sfogava in bestemmie» se ne cavava la voglia I 

Quannu te sci nfaccìasti, quando ti andasti ad affacciare. 
Scire , andare , quasi composto di s (dis) ed ire. — Bella 
poi l'immagine aell' affacciarsi, invece del guardare, nella 
tina dell'olio. 

Cuerpu qui significa colpo. Nel dialetto vale anche corpo. 



70 



Smeraasti, arrovesciasti, riversasti. Sembrami che nello 
smersare sia la parola mera (a dda mera^ a quella parte), 
come in riversare è verso o volta. 

II. 

8UNETTV 

a lu mamminu intru la rutta 

Mamminieddu ! Currennu su benuiu, 
cu te fazzu la soleta cantata. 
W amici m' anu dìttu te salutu, 
ma cu pienzi de moi pe' n' autra 'ntrata. 

De ranu e mustu foi 'na trista 'nnata. 
L' ulle se ne cadera delessale ; 
cieddi pigghiau pe' fore 'na cazzala, 
e ni restara a casa mmuntunate. 

L' uegghiu n' issiu culla sentina unitu ; 
simu mpacciuti pe' lu macenare, 
ca nu' ci foi pe' nui nnddu trappilu. 

Ma lie, ca sempre sai quiddu ci a' fai'e, 
nu' ci ole nienti, mo ci m' a' capiiu, 
cu bueti a uegghiu V acqua de lu mare. 

A mie dammene cchiui, ca ne' è besuegnu ; 
a V àutri faune pòzzanu terare. 
E poi tiènime V àsciu a l'autru regou. 

Anche questo colla coda I II caldo ingegno di Perrone 
non sapeva contenersi nel letto di Procuste dei quattordici 
versi. Neppure il popolo usa troppo il sonetto. 

Mamminu^ bambino, dalla parola mamma. 

Ruttap grotta. 

Delessate^ lesse, ma qui vuol dire , per metafora , arse 
dal sole, troppo mature. 

Cieddi, nessuno, indeclinabilmente. 

Pe* fore^ per portarle fuori paese, forse anche per l'e- 
stero. 

'Na oa^aata è C|uel1a quantità di ulive, che ca^jsa o 
schiaccia il frantóio con un giro di macina. 

Mmuntunate , ammassate , ammonticchiate. Muntuni 
(perchè a forma di monti) sono i mucchi o cumuli di chec- 
chessia. 

Terare, trarre innanzi la vita. 

Atcitt, posto, luogo. 

III. 
Ssuta de quartu alla trepueeina 

Mamminieddu, a T annu giustu 
me presenlu a nnanzi tie, 
Fiaccu ranu, tilu mustu 
imu fattu, e picca ulie. 

Ca cce foi, mamminu miu, 
ci te muesci cussi maru ? 
A 'stu mundu nun e' è briu 
quandu manca lu denaru. 

L* annu scursu le preai, 
e te dissi tante fiate : 
— Fanne cessanu li uai ; 
cconza presiu quiste 'nnale. — 

E semi ca foi cchiu pesciu, 
ca lu cbianlu è generale. 
Nu tenimu nuddu rièsciu, 
e nu' stamu e' 'a Natale. 

Mo cunsìdera 'sii misi, 
ci nun imu nudda 'nlrata !... 
A du sciamu pe' tumisi, 
ci nu' a lie, ca si' lu tata? 

Ssignuria si' tata nuescìu, 
e sai tie quiddu e' a' fare ; 
ca sapimu ca si' mesciu 
de la leri-a e de lu mare. 

leu su' cerlu e su' securu, 
ca ci pienzi e ca ni scusi, 



e ca faci l' annu enluru 
caricare li lefusi. 

Poi te preu pe' li llaiiri 
notte, giornu, ogne malina; 
fanne ccessa la resina 

subbr' a l' uà, subr' alle fiche 
e statòteche e meluni ; 
e lu pòeru fanne ddica : 
— Tegnu a casa li muntuni... — 

T' aggiu nnuttu pe' 'sta notte, 
cu te faci 'na mangiata, 
do pelusi, do recolte; 
e ne V puru 'na sciuncata. 

Mangia e bì', e' à fattu scelu, 
e lu tiempu slae a la nie. 
Quannu stai cu tuerni a ncelu, 
poi recordate de mie. 

Famme santu, e damme sorte 
e turnisi cu Ili pisu. 
Poi te preu, pe' doppu morte, 
cu me pucrti a mparaisu 

Bellissima poesia per ispontaneità di sentimento , per 
naturalezza d' immagini popolari, per semplicità di forma. 
l'^ra ben destinata a dirsi da un bambino davanti al pre- 
> pe, come si suo'e, la sera del Natale. 

Ssuta de quartu , uscita dei gangheri , del perno o del 
sogno. Spiritoso titolo! 

Filu, avverbio, che, come punto e mica, talora sta in- 
vece di alcun che, qualche poco (p. e.: rC a utifilu?)\ tal 
altra, come qui, esprime nulla, niente. 

Picca, aggettivo indeclinabile, poc^*. Si usa ancora corno 
avverbio, 

Maru , letteralmente vale amaro , ed in questo luogo : 
corrucciato. 

Cchiù pesciu , più peggio , sgrammaticatura comune a 
a varii dialetti. 

Nuddu (dal latino nullus), niuno. I due d stanno spesso 
i>ci due / del latino o dell* italiano. 

Rièsciu^ arnese, utensile. 

Turnisi alla lettera eauivarrebbte a tornesi , antica mo- 
neta napoletana, ma indica danaro in genere, ed in que- 
sto senso si usa sempre nel plurale. 

Tata, padre. 

Ca sapimu ecc. -^ Quel ca è il car dei Francesi, il quia 
dei Latini, non mai nolle proposizioni interrogative. 

Te/usi o edusi (dal latino edere, mangiare) diconsi quei 
virgulti, che sbucciano dal tronco degli alberi, e che, non 
recisi a tempo, mangiano l'albero, cioè non lo fanno più 
vegetare. 

Fiche, fichi. Singolare : ^a, fico. 

Statòteche son i prodotti della state , come le ortaglie, 
la bambagia, il tabacco ecc. 

Nnuttu (dal latino dactu^)^ portato. A Lecce si dice me- 
glio: nduttu, infinito nducere, 

Pelusi son gli ortaggi pelosi, come una specie di coco- 
mero, la quale in provincia di Lecce nomasi mx^runceddo. 

Sciuncaia , giuncata , perchè racchiusa in sciunchi o 
giunchi. 



Napoli, 11 settembre 1884. 



GmoLAMO Congedo 



CANTI POPOLARI SORANI 

(Cont r. n. 2, 4, 5,6,7 e 8) 

CLXIV. Poce, che mannaggia glie morte tuoi. 
Tu e' le femmene grand amecizia ce hai ; 
Ce porle le barbette de romite, 
Ce dorme fra le femmen' aggarbate. 
La vita lia la fa' comm 'a bannite, 
'Mmes' a Ila gente comm' a 'ne desprale ; 
Allora la femmena se sputa aglie 'ite : 
Férmete, poce me, te so' chiappale. 
— Non me despiace tante ca m' accite 
Quante cllbe'uttorta che me date. 



li 



GLXV. 'Ne jorne fu' sequetalo da 'ne pelucchie 
Strili 'a jeltarm 'a 'ne macchione ; 
Cen(ocenquantan)ila aglie borzelline, 
Senza chiglie che stévano agile cebbone. 
Ce steva glie capelane alla canoimicia, 
Che commannava tulle glie battaglione: 

— Forte, amice me, morire ammógna (1) 
Sim' arrevat 'alla piazza dell' ogna. 

1) abbisogna, bisogna. 

CLXVI. Quanne me 'nzorà' i' fece capitele, 
La dote de mogliema spaccali 'a taglie, 
Teneva 'n acne rolla 'ne' 'na spinguela, 
'Na fressorella rotta senza màneche. 
Teneva 'ne saccone chine de cimmece, 
Puc' e pelucchie facevane baccanarie ; 
Se vota glie cimmece chiù 'mpertenente : 
'lam 'a magna' ca dorme glie pezzente* 

Perdonino i lettori ai poeti il verismo di queste tre ul- 
time canzoni: noi, semplici raccoglitori , ce ne laviamo 
le mani, tanto più che altri ci ha dato l'esempio di canti 
anche di peggior lega. 

CLXVII. Chi vò' sape' glie secreto della donna 
Quann' i mariie fore se ne vave ? 
Glie fuse 'ne' la rocca 'nierra dorme. 
Glie maccarune ghianche se glie fave; 
E quanne apo' revè' glie marito, 
Se fa irovà' aglie lette 'nabbessala. 
Glie povre raariie se le crete 
Acchiappa 'na caglina e ce la pela. 

GLVIU. La donna che vò' fa glie amore secreto 
Se tòglie la palella e va pe' foche; 
Se la mamma ghe dice: si' tardata. 
Dice e' alla fecina 'nce sleva gli foche ; 
Se la mamma reconosce cacche baco, 
Dice ca so' glie scrizze daglie foche. 

V. Gas. Imbr. II , 169 , il canto di Lecce e Caballino 
analogo : 

« Cce spetti , beddha, mme duni lu cori ?... » 
Tommaseo , voi. 2**, canti Greci , pag. 273 in nota , il 
verso che si traduce : 

Prendi la tua rocca, e vieni rasente la siepe. 

GLXIX. viduella, quanta si' durace. 
Se tiglieta 'mm' ó' (1) dà', non e' é che dice, 
Àddonna le la 'ncontre te la baco 
£ la remano' a caseta 'nfelice. 
r te le dice : mille glie ass' alla porta ; 
r le parie pe' bene, non pari' a torte. 
Se tu alla corte va', alla corte venghe: . 
'Ne' le beglie parla' s' accordane glie amìce. 

(1) non mi vuoi. 

V. Gas. Imbr. 1, 114-132, XXXll, di Airola (Provìncia 
di Benevento) e varianti. 

CLXX. Glie jorne dell' Ascenzia benedetta 
La bella mia se sleva a remmutà'; 
Se steva a mette glie ghianche merletto, 
E la mamma la steva a sdellaccià': 

— flglia, che pózz' esse benedetta, 
Falla bella onesta la cammenata, 

E s' ammattisse cacche giovenitte 
'Manche 'nfaccia aglie occhio glie 'uardate. 

CLXXI. Care compagne me, 'iam 'a caccia 
<]a la so' bista 'na bella slrellozza, 
r la so' bista 'mmes' a 'na macchia : 
Curro, compare me, mitiele 'mposta ; 
Quanne tu vide ca glie can' allaccia, 
AndannO; compare roé, mira la botta; 



E quanne vide ca la botta 'mpatta. 
Allora, compare me, spara la botta 



■ 



botta. 

CLXXII. Vedde 'na torre che tant' auta era 
Po' ce la revedde 'morra chiane ; 
Vedde 'na serpa che tante veleno teneva 
Po' la revedde 'mman' a 'ne ciarialane, 
E 'ne cavaglie che tante glie pile glie luceva 
Po' glie revedde all' ara a tresca' le rane ; 
'Na femmepa che tant' auta se teneva, 
Po' la revedde 'mman' a 'ne scardalane. 

V. Tommaseo, voi. 1» , pag. 282 , N. 4 ; Tigri N.i 91S 
e 914. 

CLXXIII. lettatie 'na fava 'mmes' a du' pecciune, 
Une magnava e 'n aule tremmenteva ; (1) 
'Na cannella che po' fa' du' lampe 
Le fa bensì ma non le fa jucente ; 
'Na sorgente che po' là' du' fonte 
Le fa bensì ma non le fa cori*ente; 
Cosci è la donna che tè' du' amante. 
Glie ama bensì ma non glie ama contenta. 

(1) Teneva mente: dall'infinito tener mente fanno treni' 
mèute e poi da questo le altre flessioni. 

V. Tommaseo voi. P pag. 291, N. 3; Tigri N. 846; Gas. 
Imbr. Il, 205, li di Pietracastagnara (Àbbruzzo Ulteriore) 
e varianti seguenti. 

CLXXIV. Sapesse addò' passa il mio Amore 
La via ce la farla de matonaia, 
De ros' e Aure la vorria cropire, 
« D' acqua rosata la vorrìa bagnare. 

V. Tommaseo voi. 1, pag. 134, N. 10. 

CLXXV Mille piagu' al pelle voi me fate, 
Quanne e' glie aure glie amore facile, 
Voglie che e' glie aule non pariate 
Franante chisle core 'mpin 'avite, 
lorne pe' jorne la morte me date, 
Ogn'ora, ogoe momenle m'accoreie, 
^oi alla pena mia non ce ponzate, 
Verrà 'ne jorne che me chiagnarrcle. 

V. Tigri canto N. 758; Gas. Imbr. I, 273 la variante di 
Morciano : 

« Mille stuccate allu mmiu core hai dati..* » 

CLXXVI. Màramema me volelte monacheglie, 
Compolite non era quinece anno ; 
La prima sera che jette 'ncommente 
Passa la bella mia, jeva cantènne. 
S' affaccia ì patrabbate 'e glie commente : 
Ch' è fatte, giovene me, che tante chiagne ? 
So' fatte 'ne malanno che le venga. 
Non sente la bella mia ohe va cantènne? 

V. Gas. Imbr. I, 96 il canto di Ghieti : 

a Mamm' mi volse far' munachell*... » 
e l'altre varianti successive; Molinaro pag. 412 N. 414. 

CLXXVII. 'Ne jorne jeva a caccia a palommelle 
'Mmes' alle larie de Santa Maria, 
Ne trovo una eh' era la chiù bella, 
Senza spara' la botta 1' aglie fri la. 
La mamma sia s' affaccia alla fenestra : 

— Chi me r è frita chella figlia mia ? 

— Te r è ferita io cacciatore riale, 
Chiglie chiamate glie amante maggiore. 

CLXXVIIL 'Ne jorne leva a spass' a Monteriale, • 
La via roventa' lutla de tìure. 
Ce ìévan 'a spasse tante 'ffeggialOi 
levane capènne luti' ì meglio fiure. 



72 



-Sa-* 



La rosa rosela se vòlte avantà' 

Ca era la oblìi bdla deglìe fiiire; 

La rosa ghianca non vòlte parla' 

Ga oe mancava glie maglie dottore. 



{ContìfHéa) 



Vincenzo Simoncelli 



ÌA CAli POPOLARE AEllllESB 

Ecco qui : una canzone popolare. E raccolta 
nelle campagne dell' avellinese ; gli agricoltori, 
zappando, sbuffando, sudando, si rinfrancano 
col cantarla. Anzi essi T han fatta, e la conti- 
nuano ogni giorno , ma un momento dopo han 
già dimenticato le strofe create e cantate un 
momento prima. Ma queste strofe che di riporto 
non mancano mai: una burla alla soverchia in- 
dulgenza di un vecchio zio verso V innamorato 
nepote, un sospiro all'innamorata, un desiderio 
di vederla ricca e bella , e con una splendida 
pejsjse re piette^ ornamento favorito dalle conta- 
dine di quelle compagne. — Ecco qui senz'altro 
le quattro strofe , col loro insignificante ritor- 
nello , che riesce peraltro armoniosissimo ne 
canto : 

LI ei 11 
Sciarapagnone lo zito mi'. 
E pe' la sciampagneria 
Ave fatta la ciucciaria. 
tri — na — na, 
tri — na — na, 
na — ni — nera, 
na — ni — nà. 

LI ei 11 
La pezze re pielte re cinche 11 
La pezze re pìette è bella, 
L' ave 'ngignata la gunnella 
tri — na — na, ecc. 

LI ei II 
r ti voglio, bella mi' 
r ti voglio ricca e bella 
Gomme na luna 'nmiezo a le stelle 

tri — na — na, ecc. 

LI ei 11 
r li voglio, bella mi' 

1 ti voglio ricca e chiara 
Gomme na luna 'nmiezo a lu mare. 
tri — na — na, ecc. 

Gàrlo Pascal 



NOTIZIE 

La couimedia dell'arte I in Italia \ studii e profili \ del \ 
Dott, M. Sckerillo. Torino Ermanno Loesclier , 1884 , 

(p. Xh ie2h 

Della commedia dell' Arte che il Gozri chiamava un 
pregio d'Italia ed il Ferrucci una specialità dei comici 
italiani pochi ssiipi critici italiani , francesi e tedeschi si 
sono occupati. Per contò mio, dice 1* egregjio A., ho vo- 
luto tracciare la biografìa di alcuni fra' tipi fissi più fa- 
voriti , indagando come nacquero, come crebbero, come 
disparvero. 

Ecco il diseguo dell'opera; esaminiamo un pò* qnestl 
profili. 

Chi era Pulcinella? A molti sembra"^ strana questa] do- 
manda, perchè questo nomo è noto in guisa da non pro- 



durre in alcuno 1' effetto che Garneade produceva a Don 
Abbondio. Ma se tutti conoscono Pulcinella , ben pochi 
ne conoscono la storia. Pulcinella è nato in Napoli sai 
cadere del Cinquecento e con lui hacquèro Gian Farina, 
RazzuUo Cucurucu, e tanti e tanti altri, tna non tutti son 
d'accordo in questa genealogia di Pulcinella e non pochi 
lo vorrebbero far discendere in linea retta dagli antichi 
attori delle favole atellane , allegando , in sostegno della 
loro tesi, pitture e sculture di Pompei , le quali poi non 
provano proprio tutto quello che loro si vorrebbe far pro- 
vare; Per lo Scherillo, invece. Pulcinella è nato al 1500, 
e canzoni popolari, scenarii, e scrittori confortano onesta 
sua opinione. Il Cerlone , un povero artigiano di Napoli, 
che visse nella seconda metà del secolo scorso, fu il poeta 
geniale di Pulcinella. E se la sua immortalità è assicu- 
rata, se noi adesso non sappiamo immaginarci un cristia- 
no che ignori il nome di Pulcinella , è tutto merito del 

Cerlone* 

Ma la storia di Pulcinella deve comprendere anche 
quella dei suoi amori, ed ecco uscire ih campo Colombi- 
na^ tipo delle servette della commedia dell'arte: la ^ajas- 
sella napoletana. 

Colombina fini per esser la moglie di Pulcinella , ma 
quei capo ameno, prima di decidersi a sposarla V ha fatta 
piangere parecchie volte per gelosia , voleva far gli oc- 
chietti a tutte le fanciulle, oh povera Colombina 1 

A fianco a Pulcinella vi sono due altre interessanti fi- 
gure : Don Fastidio de Fastidiis, ed il Capitan Fracassa. 
il tipo di Don Fastidio non prese parte ai trionfi della 
commedia dell' arte in Italia; venne troppo tardi , e fu 
tutto individuale. La sua vita , dice 1' a. , fu breve , ma 
bella, si potrebbe dire con frase poetica» fu una meteora 
luminosa. Don Fastidio de Fastidiis è il tipo di un pc^ 
glietta melenso ed imbroglione , e dicono che l' idea di 
quel tipo fu di Giuseppe Pasquale Cirillo , avvocato na- 
politano, ed il comico fu un Francesco Massaro, parruc- 
chiere il quale , lasciati i pettini , cominciò a fare il co- 
mico. Il Capitan Fracassa poi è il tipo del soldataccio 
spagnoleggiante che poscia diviene il camorrista napoli- 
tano ; e nel castello del burattinaio questo tipo è ancor 
vivo, soltanto da capitano è diventato un caporale « Co- 
poral Fasulo »• E uno di quei tali che : 

Nel sembiante Ciclopi aspri e feroci, 

Polifemi alle voci, 

E nelle mani cotanti Briarei. 

Chiudono questo bel volumetto due studii V uno sulla 
elaborazione della commedia plautina per opera di^Giam- 
battista della Porta, e TaUpo sulle relazioni tra S.. Carlo 
Borromeo e la Commedia dell'Arte. E auest* ultimo è di 
un grande interesse, perch,è una storia delle relazioni tra 
la Chiesa ed il teatro manca: potrebbe essere oggetto di 
uno studio bellissimo ed importantissimo tutta la guerra 
combattuta da S. Carlo contro ogni maniera di spettacoli. 

Il libro dello >cherillo è scritto alla buona, senza troppo 
citazioni, e senza il fare pesante che purtroppo affettano 
certi pseudo-eruditi: vi è un brio che attira li lettore, il 
quale giunto alla fine può dire di avere imparato qualche 
cosa senza essersi annoiato : e vi par poco ? 



La Nuova Provincia di Molise (Campobasso, 4 settem- 
bre 1884 ) Anno IV, Numero 35 , contiene un bellissimo 
saggiQ di un volume, che i signori Enrico Melillo ed Emi- 
lio Pittarelli, pubblicheranno guanto prima, dal titoto :— 
Delle tradizioni popolari molisane, 



La voce dbx. popolo (Rio Janeiro, 13 settembre 1884 — 
Anno IV — N. 161), pubblica un breve articoletto — Co- 
stumi chinesi — di anonimo autore. 



Neil* Ateneo Italiano (Milano, 15 agosto 1884. An Vili— 
serie seconda — Num. 4, vi è un articolo di Attilio Si- 
gnori su — La letteratura in vernacolo e Carlo Porta. 



as— -^jB 



Gaetano Molinaro — Responsabile 



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Tipi OarlacciO) de Biasio & V — Largo CoatantinopiiD, N; S9« 



ANNO II. 



Napoli , 15 Ottobre 1884- 






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GIAMBATTISTA BASILE 

ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



àSBClSàMSTO ASY(JJO 



Per l'Italia L. 4 — Esiero L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di re- 
sidenza. 



Esce il 1 5 d'ogni mese 



AWE&TSNZS 



Per tutti gli articoli è riservata 
la proprietà letteraria e sono vie- 
tate le riproduzioni e le traduzioni. 



Indirizzare vaglia, lettere o masoscrittl 
al Direttore Mdnìgi JMolinaro liek r. 
Ih laro. 

Si terrà parola delie opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino, 56. 



SOMnAmo t — li libro del dialetto napolitano di Ferdi- 
nando Galiani (C. Pascal)-- Canti popolari sorani (V. 
SiMONCELLi)- Cenni storici e filologici intorno a Canosa o 
al dialetto Canosino (Anonimo) — Notizie. — Pubblica- 
zioni in dialetto pervenuteci in dono. 



Ili 







di Ferdinando Galiani 



Questo abate , questo petit coqnin , come lo 
chiamava D'Alembert, avea disprezzato Napoli, 
avea detto che ivi egli non aveva che invidiosi 
e sciocchi , avea dichiarato rabbiosamente che 
Parigi era la sua patria ; ma ora, dopo qualche 
tempo dalla sua venuta egli era ridiventato na- 
poletano ; se voi riguardate questo libro sul 
Dialetto vi troverete detto che tra tutti gli amo- 
ri terreni niuno certamente è più lodeoole , più 
onesto quanto quel della Patria; e che se è per- 
messo tra questi doverosi amori far parallelo , 
niuna Patria ne pare tanto meriteoole quanto 
Napoli per chiunque ebbe in sorte il nascerai cit- 
tadino. E varrebbe la pena che fosse più letta 
quella bellissima pagina in cni Galiani rimpian- 
ge le sventure della sua Napoli , e 1 mali del 
governo vicereale, e lo fa senza vane declama- 
zioni, senza esclamazioni e punti ammirativi. 

Galiani, come al solito, non si nomina. Finge 
che sia un libro fatto da quattro Accademici 
amici della Patria (Filopatrici). Ciò egli fa non 
per modestia (come dubita II Diodati) — né vor- 
rebbe egli far pompa di una virtù che con/ina 
colla sepolta inerzia ; ma perchè non sapendo 
quale accoglienjia farà il pubblico ingombrato 
ai prevenzioni contro il dialetto napolitano alla 
sua intrapresa e temendone rossore e mortifica- 
sione invece di applauso ^ non ha avuto il corag- 
gio di nominarsi. In secondo luogo, non si no- 
mina per non sciupare molte copie per regali 
agli amici ! In questo poi ha avuto ed avrà po- 
chi imitatori 1 

Ebbene, la nera invidia malignò su quest' o- 
pera. Galiani col mettere in mezzo lo scherzo 
degli Accademici Filopatrici dette facile appi- 
glio ai suoi denigratori , che non riconobbero 
per suo questo libro. Ma la loro voce fu accolta 
con freddo silenzio, e tutti continuarono ad am« 



mirare nel Galiani l'autore di quel libro che avea 
rivendicato Toriginaria importanza al patrio dia- 
letto. Basta leggerlo per vedere che è del Ga- 
liani. Basta por mente alle molte , alle troppe 
citazioni di Orazio , e non di altro quasi che di 
Orazio. Ma se questo non basta, io rammente- 
rò una prova ineluttabile. 

In questo libro rammenta l'Autore un Dizio- 
nario del Dialetto Napoletano eh' egli sta per 
compilare; ne parla pure in una lettera a D'E- 
pinay: « Io ho intrapreso un Dizionario del Dia- 
letto Napoletano con le ricerche etimologiche e 
storiche sulle parole speciali del nostro dialetto 
(Correspondence. T. II.) ». 

Ebbene questo Dizionario rimase inedito, ma 
si trovò dopo la morte ed era pure intitolato : 
« Dizionario del dialetto napolitano composto da- 
gli Accademici Filopatrici. y Ed un'altra prova 
anche più forte è che nel libro del Serio inti- 
tolato : Ammonizione caritativa air autore de- 
libro intitolato : « Del Dialetto napoletano » — si 
attacca personalmente il Galiani, come poi vel 
dremo. 

Importa dare un brevissimo cenno di questa 
opera. L' autore comincia col darvi le regole 
della Pronunzia. Il più delle volte coglie nel 
segno ; ma altre volte tace o diffalca una re- 
gola. Ne darò un esempio. — Quando dice che 
nel dialetto napolitano il pi innanzi a vocale si 
pronunzia cA/, come cAtò, più; c/iiooe, piove, ecc. 
manca di dire che ciò avviene solo in quelle 
parole in cui l'accento sta sulla vocale che se- 
gue il pi^ o nelle derivate da esse; ma siccome 
nella parola pietà^ l'accento non cade suU' e se- 
guente al p/, il popolo non pronunzia chietà. E 
si potrebbe anche aggiungere che alcuna volta 
il semplice p si pronunzia e , come nella voce 
Posillico invece di Posillipo. 

È curiosò poi , ma è anche giusto , vederlo 
sbizzarifsi contro coloro che obbligano i loi-o 
Agli e discepoli a pronunziare fiorentinamente, 
quasiché , egli dice , fosse un demerito ad uno 
nato in Napoli il non saper pronunziare fioren- 
tinamente , e non fosse questo impegno tanto 
ridicolo ed assurdo quanto se un Fiorentino si 
affìigesse che i suoi ragazzi non parlino bene il 
Napoletano. — Della pronunzia poi conchiude 
che a il suono della nostra favella ha una certa 
temperatura e moderazione tra le sibianti a*" 



n 



sprezze dell'italiano e dei suoi dialetti Bologne- 
se, Lombardo, Genovese, e le languide dolcezze 
del Francese. I suoni riescono più articolati per 
l'elisione di molte vocali, che lasciano così me- 
glio spiccar le consonanti; niun dittongo chiuso, 
niuna gutturale , niun contorcimento di labbra 
per pronunziare turbano il parlare pieno , spa- 
zioso , sonoro. » E in quanto all' esser /)/^no , 
spazioso, sonoro^ niuno potrà dubitarne quando 
avrà visto una sola volta quelle boccacce aperte 
sciorinanti grossi moccoli l Ma non so come que- 
sta sonorità si possa accordare con quella tem- 
peratura e morfera^/one tra le asprezze dell'ita- 
liano e le dolcezze del Francese ; e non so se 
si possa sostenere che V italiano abbia davvero 
sibilanti asprezze. Ben so però che quella parola 
languide applicata alle dolcezze del Francese , 
è insuperabile. 

Il grande abate è sempre prevenuto contro il 
dialetto Fiorentino. Come la nobiltà delle fami- 
glie si accresce eoirantichità, egli par quasi che 
voglia assicurare la nobiltà del dialetto Napo- 
litano, dimostrando ehe è più antico del Fioren- 
tino. E dice che il dialetto napoletano ai tempi 
di Dante non era in uso non solo nel mezzogiorno, 
ma in tutta Italia, e in tutti gli scrittori Fioren- 
tini, che poi la Crusca citò, e perfino in Dante, 
si trovano neapolitanismi. 

Quando non ancora Firenze poteva vantare 
una cronaca scritta nel suo dialetto, Napoli già 
ne aveva. E dice inoltre che il nostro dialetto 
conserva più del Toscano, inalterate le voci del 
latino perchè fraudare e laudare, chisto e cM- 
lo , ecc. sono più vicini al latino che frodare , 
lodare, questo, quello. Ciò si può ammettere in 
parte anche senza ricorrere, com'egli fa a Mat- 
teo Spinelli da Giovinazzo per trovare il puro 
nostro dialetto, ed innoltrarci quindi nell'oscura 
questione dell' autenticità di quella Cronaca, ai 
nostri tempi discussa. 

E come dunque il Toscano divenne lingua ? 
Galiani risponde: fu una destrezza , una soper- 
chieria. Gli scrittori toscani ci superarono nello 
zelo di scriver nel loro dialetto ; e si essi che 
r Accademia della Crusca cacciarono via tutte 
Quelle voci che non s' accostavano troppo al lor 
dialetto. Ma nel napoletano continuarono a scri- 
vere uomini eminejiti: e dopo Giovanni Villani 
e Boccaccio vi scrissero Sannazzaro , Fontano,- 
Panormita, Del Tuppo, Capasso, Metastasio,ecc. 

Poi comincia l'esame di tutti gli scrittori del 
dialetto. Ma oltremodo esageralo è il giudizio 
che egli dà di Giambattista Basile. Lo piglia 
per un miserabile imitatore del Boccaccio, che 
non avendo ingegno e facoltà d'inventare altro 
non seppe fare che accozzare racconti di fate, 
e di Orco, dei quali perfino gli Arabi, inventori 
di questo depravatissimo gusto , avrebbero ar- 
rossito. Consento però con lui che il Basile sia 
pieno delle metaforacce del suo secolo. Così 
per dire : apparve giorno, dice: « La notte per 
avere fatta spalla a li marejuole ave l'ausilio e 
bà raccogliendo le sarcinole de li Crepuscoli da 
lo Cielo » — per dire: Un nobil fonte, dice : Na 
fontana che pe vederese dinto no cremmenale 
de porfedo chìagneva a lagrime de cristallo. 

Questo libro ebbe molte critiche. Un tal Mi- 



chele Barcone fece un' Ammonizione Caritativa 
all'autore, in cui par quasi che prometta di as- 
salirlo anche per l'altra opera della Moneta, che 
egli dichiara « mostruoso parto di una triplice 
alleanza ». 

La massima parte del libro è impiegata a con- 
futare quella bellissima pagina del Uraliani sul 
governo vicereale. La critica è piena d' insulti, 
ed è quindi tutt'altro che urbana^ come vorreb- 
be il P. Errico. 

E Luigi Serio , o secondo altri il marchese 
Berlo di Salsa pubblicò Lo Vernacchio , rispo- 
sta a lo dialetto napoletano. — E Galiani non 
rispose ; le critiche morirono e il suo libro ri- 
mane. 

Cjmlo Pascal 



CANTI POPOLARI SORANi 

(Coni. V.n.2,4,5, 6, 7,8 e 9) 

CLXXIX. Quanne Gesù se volse parli 
'Ne' la sua Madre se mess' a parla' ; 

— Dicendo : care flglie, addò' vò' i' ? 

— 'Ngelesalemme addò' la pasqua fa'. 

— Dicende : care liglie, non ce \\ 
Ca glie Cedei te vònne fragellà'. 

— Mamnoa, mamma, me ce ammèra i', 
Chesla è 'na morte me X ammèra fa'. 

— Chessa è 'na morie i' la sapeva certa, 
Quanne ce andav' a fa' 'razion' all' orte. 
A chesta casa glie Angele ce canta, 

La pózza beneice glie Spirde Sante. 
Ecche la palma se vò' là' la pace, 
Noi ce n' audiam' e voi restale 'mpace. 

GLXXX. Verbe devine, daglie cele calaste; 
Al Siene de Maria tu reposie 
Ce stiste nove mis' e po' nasciste ; 
La Vergine com' era la lassaste, 
Trentatrè anno pe' glie munne iste ; 
Comm' a glie bo' ladrone perdonaste. 
Cosci perdona a me che so' 'na trista. 
A chesla casa glie Angele ce canta. 
La pózza beneice glie Spirde Sante. 
Ecche la palma se vò' fa' la pace, 
Noi ce n' andiam' e voi restate 'mpace. 

CLXXXI. La prima mercanzia che faceti' (e, 
Chiappane la formica e la scanzatie ; 
Po' me passatte pure pe' fantacia, 
Racchiappe la formica e la scannatte. 
La peliu la porlatte 'nconciaiia, 
Centocenquanta scute ce cacciatte, 
La carne la portati' a casa mia 
Tutte le donne belle ce 'mmeiatte. 

CLXXXII. Clie aute jorne me successe 'ne case 
Te voglie recouià' 'ne fatte curìuse, 
Arrevà' 'na vecchia e me dette 'ne bace 
Me tocca 'ne' chiglie dente velenuse; 
E pe' quant' era longhe chiglie nase 
Alla mascella me fece 'ne buce 
Se libero ilesce da 'sie case 
De bacia' le vecchie non ne fàcce use. 

CLXXXIII. Quanne fu che recnava glie re Pepine 
Le tartarughe armavane la uerra, 
Clie ranghe era glie cape tammurrìne. 
La ranocchia portava la bandiera; 
La mosca eh' ène sempe freccechina, 
Levatte la pace e comenzà' la 'uerra, 



75 



Glie scarrafone eh' era chiù dolie 
Faceva la pali' e carecave glie schioppe. 

CLXXXIV. È nata 'na i^osa roscia 'mmes' a mare, 
E 'n òme senza vraccia la coglieva, 
'Ne slruppie ce faceva 'ne gran canamenare, 
'Ne ceca te da lontane la vedeva. 
'Ne mute ce faceva 'ne gran parlare, 
E 'ne surde da lontane glie senteva ; 
'Uarda aglie mare qnanne ce fa V onna, 
Glie mute crida e glie surde responne. 

GLXXXV. Marllem'a Quacquaraquaglia (1) è ite p'ova 
Masséra pózza ave' la mala nova. 

— Compare, te le dicelt' a glie tale moline 
Prest' ammannisce glie trenta carrine, 

— Me sa meli' anne che se faccia notte 
Pe' godermet' a te con bona sorte. 

— Ammannisce, moglie, amraanniscete leste, 
Quann' è domane te facce la testa. 

(1) Nome di paese inventato. . . 

Questa è una farsetta: eccone razione, Due compari si 
trovarono insieme ad un mulino, Tuno manifestò all'altro 
non so qual pratica della moglie di lui con un tale , e 
scommise trenta carlini sul fatto che la sera avrebbe toc- 
cato con mano la cosa. Dopo ciò avviene la scena della 
canzone fra i due compari, la moglie ed il drudo; il com- 
pare incoronato è in un sacco che si finge pieno di farina 
tratta dal grano macinato il mattino, e recato dall altro 
compare che tiene il candeliere ai due amanti. 

CLXXXYI. La prima vota che me 'mparà' ferrare 
Faceva catenacc' e serrature ; 
Yenne 'na donna 'ne' 'na tridece rana, 

— Mille 'ne catenacce a 'sta serratura. 
r ce decette: donna, tu che dice? 
Non me paie' manche la manefatlura ; 
'Ste catenacce me è de tutte acciaro, 
Addò' glie mille pò' dormi' secura. 

GLXXXVII. La prima vota che me confessatte 
Me confessati' a 'ne patre predecatore, 
La prima cosa clie m' addomandatte : 
Da quanta lempe non si' fatt' amore ? 
Sule 'na cosa ie glie responnalte : 
Non sarrà 'manche 'ne quarto d' ora. 
Ctiiglie allora me le decette : 
Acchiappatella mille vote 1' ora. 

V. Molinaro, l'analoga a pag. 204, N. 293. 

GLXXXVin. Quanne glie lepre azzeccalt' aglie gerace 
Cascatt' alla reverza e se rompe' glie musse ; 
Glie lupe se schiattatte pe' la risa ; 
Glie sorge ce glie ficca glie file all' aone, 
La iatta ce arrappezza la cammicia, 
La zincara ce fa glie maccarune 
E glie figlie ce ratto le cace. 

GLXXXIX. 'Ne jome ieva a spass' accani' aglie mare, 
Trova' 'na conacella ch'era nova, 
Steva 'ne patre sante predecatore 
E predecava le cose d' amore, 
l'ce le disse: patre sante mie, 
Gomme se prencipia a fa' glie amore ? 

— Ce se prencipia 'ne' glie sene e 'ne' glie cante, 
E se fenisce 'ne' glie ammasciatore 

V. Cas. Imbr. I, 42 ; Molinaro, pag. 269. N. 486. 

GXG. Quanne vedette la calabresella 
Che tutta 'nfossa dall'acqua veneva, 
r ce decette : cara mia bresella, 
Damme 'na bévela d' acqua, anema mia, 

— Vettenne dentr' alla mia cambrella, 
Ca te do 1' acqua e la perzona mia. 
Ma non me rompe la mia breccolella. 
Se no me dà le botte mamma mia. 



— Se te la rompe te la facce chiù bella 
'Ne' glie quatrine della saccoccia mia. 

V. Cas. Imbr. I, 317. la variante di Napoli : 
« Sera la viddi la calavreseila... » ; 
Molinaro, pag. 157, N. 139. 

CXGI. Fermete, fenenle, e' la penna, 
Non me la scriv' a morie la condanna ; 
Voi ce avete carta calaraar' e penna, 
r ce aglie pról' e pali' al mio commanne ; 
Voi ce siete mercante deglie regno, 
r sònghe pecoraio della terra. 

CXGIL 'Uarda che successe 1' aula sera ; 
Dette la bona sera a 'na fornara, 
E ce decette : appicceme 'sia cannela. 
Essa me sequela' 'ne' la panura. 
Se pózza spalla' glie cele daghe furne 
E solle ce capotasse la fornara. 

GXCIIL Donne, che te ne contò' tante tante. 
Non so' d' ore chiss' avantamente, 
Port' a 'sse dite 'ne beglie diamante, 
Te cride d' ore, è fause d' argenie. 
Vigna. non tè' e rane non seménte, 
'Manche si' bella pe' quante t' avanle ; 
r le sante 'ice dalla gente 
Ca brullata tu sì' da tutte quante. 

V. Tigri al N. 1021, canto analogo. 

CXGIV. Vorria sapè\ donna, e' chi 1' avete, 
Quanne la calzetta voi la terate; (l) 
Non site donna de porta' catena. 
Né fazzolette, né 'uante alla mane, 
Ma tu si' femmena de i' (2) pe' lena, 
E revenl' careca comm' a ne somare. 

(1) Quando, cioè, arrabbiata, passando io, voi strapaz- 
zate la calzetta : cosi mi spiegarono questo verso. 

(2) andare. 

GXCV. Ch' è fatte, femmena, che sia 'nquietala ? 
Mo' che non macena chiù chessa melina 
Prestamélla a me 'na settemmana 
Ca la rebalt' e remette 'ncammine, 
Ce dònghe quatte bott' a 'ssa canala 
La facce cèrn' a tommola la farina. 

V. Gas. Imbr. L 226, la canzone di Saponara (Basilicata): 
« Mulinarella mmia, mulinarella... » e seguenti. 

CXCVL Che va facènne 'ste vappitl' amante ? 
Non te' qualrin' e se va 'nnammorénne ; 
Ce porta 'ne croppeite de scariatle 
'Ne' glie verziglie chine de s-»etle. 
Ma cerchete 'sse cape petucchiuse, 
Ch' ogne petucchie pare 'na cecala ; 
E stùvete 'sse naso mucchuse 
Ch' ogne fraffata accunce 'na 'nzalata. 

CXCVIL Ohe serve ca me fa' tante carizze ? 
Si troppe brutta, povera ragazza, 
Pe' me te stime comm' a 'na menozza. 
Te vorria saluta' sempe 'ne' 'na mazza. 

CXCVIIL Musse de 'na scigna, cure pelate, 
Léngua de 'na vipera 'mmelenosa. 
Te va' vanténne ca me sì' lassate, 
K i' m' avante pe' 'n 'aula cosa: 
Te so' mésse le mane 'mpette e te so' baciata, 
Aglie giardino té ce so' lassata 'na rosa, 
Aglie giardino té ce sta 'ne spenace 
E la sementa de chesla radice. 

V. Cas. Imbr. Il, 103; Tommaseo, voi. P, N. 9, pag. 299. 

CXCIX. Se vò' fa' glie amore e' me, donna sehbéteca , 
Aglie amante 'mportà' tanta politeca, 



76 




r la so' studiala la grammateca 
La so' trovala 'na cosa relricola (1). 
Quanne la femmena se ralla la naleca 
È signe ca glie mócceca la ralricola, 
Te pózza moccecà' glie scardaface 
Chiglie che gira la notte senza iuce. 

(1) ridicola. 

ce. Donna, che te mócceca glie poce 
Yen' ecc' a me, ca i' te glie accile ; 
Té' 'sse cauzett' e i' pure te 1' affoce, 
Chiappàme chiglie poce faccia d' accise. 
Po' ce ne 'iam 'a 'na parte nascosa, 
Lòche ce cercarne la cammicia, 
E quanne vite 'sle pelle pel use 
Allora tu te schiatte pe' la risa. 

CGL Che va facènna ste cocu^ze prule? 
Tròvel' a 'nzorà' ca i' so' marciata; 
Vatlénne soit' acqua e sotto prule 
Vàltece a 'nzorà' alla Lenziala. 
Lòche ce la trove 'na'mula prula, 
Pe' dote ce glie trove cenle ducale, 
Ca i' cento ne tenghe de salute, 
Centocenquanla de bona naramurata. • 

CGIL Mosse de quafrine senza 

Sci' buzzaraia a te e chi te protegge; 
Prime ce sive 'na segnora de seggia, 
Mo' ce si' 'na somara de Magge : 
'Na cosa sola tè' da vaotagge, 
Ca glie diavore è bruii' e tu si' pegge. 

GCIIL Tenghe 'n albere de trecento frunne, 
Ogn' anno me careca de glianna ; 

òme 'ncammenà' tante de punta, 
Ca la bellezze lia non è tanta. 

Te si' fatte le scarpett' a dietro punte 
Me pare 'ne cornute della Francia. 

CCIV. r so' sapile ca te v6' 'nzorà' 
Tante lontane da chiste paese, 
E chessa donna che te vò' piglia' 
'Nsacce s* è turca o s' è francese ; 
Pòrlal' a Roccasecca aglie mercale, 
Dàlia pe' tre caglio e 'ne tornese ; 
E se po' propia non la trov'a.benne, 
Càgnela pe' cocozza genovese. 

CCV. Faccia de carofene gialletle, 
Quanne me vile mute de colore ; 
r so' comm' a 'na fraula roscetla, 
Non sònghe comm' a te 'ne tradetore ; 
De 'nnammorale ce sto provvista 
Se ce vò' veni' pe' servetore...., 
lid 'nsalata e' è de trecente mischie 
Falla magna' alla parraggia vostra. 
Fornisce '1 mie canta', fiore de foche, 
Ma p' abbraccia' a te, alma dannata* 

CCVL Donna, che ce avole 'I puzze cupe, 
'À quanta tempo non glie si spelate? 
L' acqua che sta dènte sa de fumé. 
Chi sta pe' dènte ce casca ammalate ; 

1 ce jelte pe' farme 'na bevuta, 
Stette nov' anno 'ne' glie prete a cape. 

V. Gas. Imbr. II, 247, IV, il canto di Pomigliano d'Arco 
(Prov. di Napoli). 

CCVII. Ce so' chiù doce 1' che glie confette. 
So' 'mmelenalo comm' a fèle prule ; 
So' de creslaglie e. 'manche me spezze. 
La 'ngulona è de ferro, i' so' d' acciaro ; 
So' comm' a chiglie albere senza frunne 
Cacche bente tira, i' me repare. 



ce Vili. M' è fatta 'na bravata 'sto bause, 
Che non passasse chiù 'nnanz' alla casa; 
Le come le tè' chiene 'na caula, 
Quanne le caccia fa trema' la casa. 
S' è falla 'na sciabola de forre prute, 
'Ne cor teglie de corno de crapa ; 
S' è fatta 'na peslola de sammuche, 
'Nse fila d' ammazza' 'manche 'na crapa. 

CGIX. Aglie giardino tè i' ce so' state 
Torno lorne glie sònghe requetute (1), 
Tutte glie meglio frutte me so' magnate 
Seconde glie appetite che so' tenute. 
C ève remaste chiglie magagnate 
E se glie magna chi tard' è venute; 
Ce so' lassate glie vale sparate, 
Chi vò' trasl' che trase ca i' so' scinto. 

(1) ricercato — dal lai — requìro. 

V. Gas. Imbr. Il, 101. VII e seguenti; Vigo pag. 248, 
N. i, il canto di Raffadali ; Molinaro, pag. 143 N. 93, il 
canto di Posili pò. 

CCX. Ecche 'nnanzo ce sta 'ne potè de laure, 
Ce vév' a pezzecà' turd' e meijilie; 
Ce sta 'na femmena data al diavolo, 
E che se vò' marelà' non e* è remedie. 
Se te vò' marcia' falle glie panne, 
Ca nesciune 'ceglie vola senza penne ; 
Quanne se veste pare 'na sciacquaraaula. 
Pare che e' è rescita 'aglio cemeterio. 

V. Gas. Imbr. I , 199 il frammento del* canto di Moli- 
terno, alla lettera e, e la variante di Montella (Principato 
Ulteriore) : 

<c 'Bbascio fontana ne* è nato 'no lauro... » 

CCXL M' è stato diti' e, m' è stat' abbesate 
Che 'noe cantasse chiù po' chiste loche, 
Ma i' ce canto comm' a 'ne desprale 
Ca la vita mia la prezzo poche. 
Ogne pontone stesse 'na 'uardia armata, 
Ogiie fenestra 'ne voccone de foche, 
E 'ne snidate 'ne' 'na spada 'n mane 
Non partarria ma' da chiste loche. 

V. Tommaseo vgl. I, pag. 267, N. 10 ; Tigri al N. 731 
il 5<> verso, e tutta al N. "^4 ; Gas. Imbr. I, 14-16 , VI e 
seguenti; II, 147, l'anaioga di Santa Croce di Morcone : 

« Passe la sera e passe la matina... » ; 
lo stesso, II, 410, I nel canto di Lecce e Caballino i quat 
tro ultimi versi. 

CGXII. A chiste loche 'noe se pò canta' 
Ca e' è rescila 'na zelella nova ; 
La mamma la vorria marcia'. 
Glie vorria dà' 'ne brave calantome. 
La mamma ce glie vò' dà' ne notare 
Acciò che ce la fa' 'na croce d' oi*e, 
Alla fine no' 'ncappa 'manche ne crapare 
Che glie darà martirio e crepacore. 

CCXIII. Sta 'ne giovenille che tante se la batte, 
A curie tempo glie voglie dà' la morte ; 
'Ne' ne cor teli ucce glie core glie spacche 
Veglie faciarrò vede' 'ne' glie occhio vostre, 
r me la còglie apo' da cheste parte. 
Meglio vad' a piglia' 'ne casteglie forte ; 
Quanne i' ce revenghe da 'sto parte, 
I passegge a 'sto fin' e tu si' morte. 

CCXIV. Faccia de canaglia senza briglia. 
Tè' chessa faccia me pare 'na maglia; 
Té' 'sse naso sca rei fole longhe 'na miglia 
E me pare 'na ciuccia quann' ammaglia (1). 
Non cammenà' 'ne' tanta superbia, figlia, 
C appresso te glie fave glie contraslaglie ; 
Se tu sapisse propia a chi si figlia. 
Foche ce faciarrisse 'ne' la paglia. 

(1) quando va in amoroé 



77 




CGXV. Avanle ! Chi le vò' sape' le saccìa, 
C a chisle loche i' voglie ben' a una ; 
Ce sia 'na donna che glie core nie caccia, 
Glie voglie bene 'nfi' che glie munne dura 
Ce sta glie frate pure che noe menaccia, 
Se crede ca la lasse pe' paura ; 
r 'nsò' conom' aglie lepre che ce scappa, 
'Man(^e la piglie cacche macchia scura. 

Tutte queste canzoni , dal N. CXCllI in giù , sono le 
cosi dette cannoni a dispetto , 

CCXVI. r sacce 'na canzon' alla revezza, 
Alla revezza la voglie canta' : 
Sagliell' a 'ne gerac' e po' fu cerqua, 
Me fece 'na magnata de crugnale ; 
S' affaccia la patrona delle nèspra : 
Che glie coglie a fa' 'sse felacciane (1)? 

(1) ficoni. 

Di simili canzoni , dalla stranezza del loro contenuto , 
dette alla reoersa \* ha un esempio analogo in Tigri 
; V. N. 53, il cjiuto detto alla mancina. 

CGXVII. Ce fu ballnte da cente teranne 
Cristo che fu legai'' a 'na queloniia; 
'Mmane ce fu messa 'na canna 
Pe' darglie chiù dolor' alla Madonna. 
Glie chiù dolore e 'à^ Maria glie desse 
Quanne deciste: consomatum est. 
A chesta casa glie An<^ele ce canta 
La pózza beneice glie Spirde sante. 
Ecche la palma se vò' fa' la pace, 
Noi ce n' andiam' e voi restate 'mpace. 

CCXVIII. Ce fu battute da cente teranne, 
Per queste Siene (1) ce piance la Madonna. 
Non piangere, Maria, povera donna, 
Ca '1 tuo figlie è andate 'ncasa d' Anna. 
A questa casa glie Angele ce canta, 
La pózza beneice glie Spirde sante. 
Ecche la palma se v6' là' la pace 
Noi ce n' andiam 'e voi restate 'mpace. 

(1) per questo segno, per quest'ogoretto. 

V. Tommaseo voi. !<*, pag. 260 , N. 2 , qualche verso ; 
Tigri N.i 813 e 814. Queste quattro ultime canzoni le can- 
tano nella Domenica delle Palme le giovanette popolane 
andando unite a due a tre di casa in casa con una conoc- 
chia carica e rivestita di nastri, corone , quadretti , im- 
magini e palme: il loro augurio di pace vien compensato 
con delie uova. 

CCXIX. Quando Gesù sta 'ncroc 'e moribonda 
Maria ce sta sott' a 'ne gran piante ; 
Mentre spira il suo fìglioi gioconde, 
Maria mezza morta va parlando: 

Gioia de mamma, figli che mal' hai fatte ? 
Oh! che pózz' esse sempe benedittel 
Tu me portasi' un male de rescatte, 
Srop' a 'na croce te vede trafitte. 

Dop' avute 'ne schiaffo 'ncasa d' Anna, 
Battul' e fraggellal' a 'na quelonna ; 
Poi glie fu messa 'na gran fune 'ncanna (1) 
'Ncroce lo vidde messe la Madonna. 

Oh cari miei! Giuda Iradetore, 
Non tanta canilà pe' caritate, • 
Non tante strazii al mie figliol farete. 
Ca tante spad 'al core voi me date. 
Curro, Giovanne, fratello mie care, 
Consola chessa Mamma che sospira ; 
Cosi dic<»nd' e con sospir 'amare, 
'Nclina la test 'e volge glie occhio al Padre ; 

Muore Gesù 'mpunt 'a ventunore, 
Se scura 1' aria e se trubò le mare. 
Ancora le piètre sentirono '1 dolore 
Della mone de Gesù, oh piani' amare! 

Se scara l' aria, se serrano le porte, 
Il %lie de Maria sta 'ncroc 'e morte ; 



Calano Gesù dal tronco della Croce, 
E 'mbraccio a Maria 1' hanno date. 

La Maddalena c^lla treccia d' ore. 
Ce va piangendo luti' afflili 'e scura : 
Chi avesse visi' il care mie trascino ? 
— E morto, lo vuo' ? sta 'nseppeltura. 
Cosi te prego, Vergen 'addolorata, 
Qual peccalor 'a pie' le so' venute ; 
In vii 'e 'mmorte vojrli 'ess 'aiutate 
Gomme da Gesù Crisfe 1' hai sapute. 

De più te preg' o Yergenella pia, 
Chiamame 'ncel' e non me fa' dannare. 

Gesù e Maria. 

(1) con una gran fune e canna. 

Questo lamento mi sì è detto sia venuto da una fami- 
glia plebea esistente nel paese e soprannominata i Zingre 
(i Zingari) forse dalla loro provenienza: in quanto a que- 
sto vendo come compro, pel rimanente poi son di credere 
che, quantunque v'abbia il solito colore letterario , esso 
sia di origine popolare, composto chi sa da qualche buon 
bigotto letterato uso ad aver tra mani canzoncine^'e ver- 
setti. Infatti le rime or mancano ed or sono assolianti : 
trovasi nella prima strofa piante rimasto con parlande^ e 
nella quinta il sof^pira cui corrisponde poi paare; inoltre 
abbiamo questo segno manifesto: il trafisse della seconda 
strofa rima con benedisse eh' è voce appunto popolare. Fu 
stampato or son pochi anni in Sora, raccolto dalla bocca 
delle giovinette cne lo vanno cantando alle porte delle 
case nelle sere della settimana di Passione; e che sia cosi 
si accerta dal modo come è stato stampato. Le nostre ra- 
gazze lo cantano spezzando la strofa e lasciando sospeso 
il senso, e fanno: 

Quande Gesù sta 'ncroc* e moribonda 
Maria ce sta sott' a 'ne gran piante 
Mentre spira 

Il suo fìgliol gioconde. 

Maria mezza morta va parlando 

Gioia de mamma 



Figlie che mal' hai fatte? ecc. 



Cosi appunto trovasi stampato. Il metro è a quartine 
come tutti gli altri canti popolari, ed intanto il tipografo 
raccoglitore ne ha fatto strofe di tre versi ciascuna , dei 
quali il secondo è endecasillabo ed il primo e il terzo sono 
o dovrebbero esser l'uno settenario l'altro quinario; il che 
non potè fare con la prima strofa in cui il « Quande Gesù » 
è preso in aria cantando; né ci contradice il quinario ul- 
timo a Gsfiù e Maria » : quest' è la chiusa di tutti i canti 
sacri popolari della settimana di Passione, con la sola dif- 
ferenza che in questo lamento per V opportunità del mo- 
tivo è cantata, e negli altri è detta appena finito il canto- 

{Continua) Yingenzo Simongelu 



CENNI STORICI E FILOLOGICI 

Intorno a Canosa e dialetto Canosino 

(Continuag. Vedi n." 9) 
III. 

Dai cenni storici premevi credo potersi inferii*e che la 
prima lingua parlata nella Daunia fosse stata quella delle 
genti che dall' oriente vennero a popolar le nostre terre. 
Quale sia stata senza cadere in errori o falsi giudizii non 
si può certamente stabilire. 

1.® Ebbe no Y Italia la sua lingua universale per tutti 
i varii luoghi che noi come i Latini diciamo province ? No, 
se non vuoisi dare per vera una supposizione ed una as- 
serzione da non potersi corroborare con buoni argomenti. 
Alcuni sostengono che gli antichi siculi si ebbero la loro 
tutta propria e con la trasmigrazione la importarono sul 
continente. Ma a questo proposito si potrebbe dubitare se 
i primi abitatori delle nostre terre fossero venuti di Sicilia 
I che al contrario da noi fossero passati nell' isola. Altra 



78 



scuola pretende che la Etrusca fosse vìssuta la prima io 
Italia. Senza dubbio essa risuonò da renoolissimo tempo 
sulle spiagge del Tirreno ; ma non si può con ragione as- 
serire che fosse stata anco nella Peucezia e nella Daunia 
senza dar di pie nel solito errore , cioè di far derivare 
tutto che si vuole da un sistema prestabilito e non fondato 
sulla storia de' popoli. E ben vero che negli scavi e se- 
polcri di Ganosa, Kuvo ed Egnazia presso Monopoli si son 
trovati e tuttavia si trovano de' vasi btruschi : ma qui cade 
Jn acconcio fare una domanda. Non potrebb' essere che co- 
lonie diverse provenienti dalle medesime regioni (probabil- 
mente Asiatiche) e del (15) medesimo ceppo , e in tempi 
consecutivi avessero occupato le varie parti d' Italia ? 

Così senza venire ad ipotesi strane , si può ammettere 
che i primi popolatori d' Italia siano venuti dalla medesima 
famiglia anche in tempi diversi, e spiegare come tanti po- 
poli tra loro lontani e di diverse regioni abbiano avuto le 
medesime credenze, quasi il medesimo parlare, i medesimi 
costumi con qualche leggiera modificazione. Ma mi si ob- 
bietterebbc: Non è piii probabile che dalla Etruria e dalla 
Sicilia siano venuti I primi abitatori della Daunia anziché 
dall' Oriente ? 

Ma non potrebb' essere che le nostre province fossero 
slate per le prime abitate da' popoli emigrati e che questi 
si fossero a mano a mano eslesi per tutta Italia ? A cre- 
dere ciò sarei tentato e dalla posizione geografica della Pu- 
glia posta di rimpeito alla Grecia e all' arcipelago Greco, 
e dalla stessa parola lapygia (16). Anche tra i latini correva 
la credenza simile alla biblica sulla parola laphet, abben- 
che divenuto nome mitologico. L' amax lapeti genus di 
Orazio ce lo attesta. Ma lungi le vaticinazioni. Il vero si è, 
più probabile , che la lingua Etrusca , la Sicula antica, 
quella della Daunia dovevano essere sorelle e, come credo, 
anche della primitiva greca, siccome oggi sono le neolatine. 
Or come queste sono nate dalle medesime circostanze e 
quasi ne' medesimi tempi, cosi quelle nacquero e dovettero 
essere sorelle con varie fisonomie , ma figlie dello stesso 
seme. Quindi pare che V arrabbattarsi de* letterati e delle 
varie scuole andrà nell' ultima sentenza cioè che le lingue 
che si parlavano all' epoca anteomerica , sebben diflferenti 
negli accidenti tutte però dovevano aver la medesima so- 
stanza con qualche modificazione. 

Cagione di altre metamorfosi della lingua ne' tempi po- 
steriori fu il clima, la fertilità dell'agro, il commercio, la 
potenza, ì costumi e la educazione politica ; a mo' che tutte 
queste cose si modificarono così tutte le lingue si trasfor- 
marono. Esse furono e sono il segno del carattere delle 
nazioni e la immagine della civiltà de' popoli. 

Detto ciò mi rifò alla Daunia. Si assicura da antichissi- 
mi scrittori che nella lapigia e suoi dintorni si pariavssero 
cinque lingue, ma è giusto incendere dialetti modificati e 
varii come anche or sono quelli della Puglia, passando 
molta dìfTerenza dal dolce pariar Leccese allo sgraziato dia- 
letto Barese, sebben non vi corra grande distanza tra i ter- 
ritorii de' due popoli. Ritenendo adunque la prima favella 
della Daunia d' origine immediatamente orientale, possiam 
credere che essa non dovè modificargli gran fatto da quella 
che era pria, alla venuta de' Pelasgi, essendo la Pelasgica 
d' origine orientale. Ma in Canosa quale fu la prima ? La 
Pelasgica o la Dauno-Pelasgica , ma più probabilmente la 
prima, essendo stata Canosa, da qnel che si è detto, con 
certezza (quanta se ne può avere in quei tempi lontani) e- 
dificata da' Pelasgi , come da medaglie ed oggetti antichi 
rilevasi. 

2.*^ Dopo la caduta di Troja i fuggitivi vennero a rico- 
vrarsi nella Peucezia e Daunia, ove sapevano ricoverati al- 
tri Pelasgi e similmente andarono in Sicilia, nella Etruria 
e al Tevere, su di che pare non cada dubbio dopo averci 
ragionato tanto il Niebuhr. 

Ma i Trojani , 1' Enea , il Diomede pariavano la lingua 
d' Omero, ovvero quella di Omero fu germana alla loro ? 
Nel caso poi fossero stale le due lingue ^ ònsone od una 
medesima cosa , più facilmente si potrebbe congetturare 
sulla storia universale del linguaggio, vederne i rapporti, 
la maternità , la figliolanza ; quindi decidere della origine. 



E concesso che gli Omerici eroi, 1' Achille e l'Ettore aves- 
sero usata la medesima favella, di quanta antichità non è 
essa la Greca ? Quanti secoli non visse prima della caduta 
d' Dione ? Chi le potrebbe impugnare il vanto dell* anzia- 
nità? Grandi studii dunque sono necessari! su di essa,studu 
severi, scrutatori, investigatori dell' etimologia de' vocaboli 
che la compongono, e della loro discendenza. Quando tali 
studii saranno fatti accuratamente e con sodisfacenti risul- 
tati, giungerenfK) a bu^n porto e forse al miglior punto della 
storia delle lingue. Probabilmente gli Omerici eroi si av- 
valsero della greca e con pochissime differenze cagionate 
dal tempo : conchiuderemo che essi la importarono nella 
Daunia alberandone la esistente , che dovea essere molto 
simile alla Pelasgica, essendone gli abitanti, come si è detto, 
oriundi Pelasgi. Ma in qualunque modo vada la cosa , le 
due lingue affini o madre o figlia , si ricongiunsero nella 
Daunia. La Ganosina toccò il secondo periodo innestandosi 
alla Greca. Quindi il Diomede Iracio da essa adorato quale 
Dio, ritenne quale eroe ; gli assegnò i suoi campi , campi 
Diomedei, lo disse suo edificatore, giusta la tradizione nata 
dair amor del popolo memore del passato {Tito Livio su 
Diomede). 

3."* Da questo punto sì può riguardare la lingua Gano- 
sina come greca-pelasgica , idea confermata dalla storia e 
dalle antichità, che in gran parte sono greche con miti e 
parole dell' antica Grecia ma miste con elementi d'origine 
Pelasgica. Per molti secoli visse nella Daunia ed in Ganosa 
e quando autonoma si mantenne e governò da sé e quando 
fu sommessa a' potenti Romani. Si pariò poi la Latina che 
il conquistatore per legge imponeva ai popoli soggetti e la 
introdusse con i suoi magistrati coi suoi statuti, col lungo 
dominio : ma però non si estingue quella de' coloni e del 
popolo eh' era greco-pelasgica. La prima fioriva nel foro, 
negli editti , nella vita ed ordini civili , nelle nuove istitu- 
zioni : questa si riserbò nel popolo e specialmente tra gli 
agricoltori, per chiamare ed additare tutto che serviva alla 
famiglia, alla pastorizia, alla coltura de' campi , rose vec- 
chie e che però si avevano nomi vecchi. Onde ben si viene 
ad intendere il tanto nolo Oraziano : « Canosini more &f- 
lingues > 

Per ciò possiamo fin da ora assegnare al Dialetto Ca- 
nosino tre periodi principali, il primo orientale (Pelasgico), 
il secondo Pelasgico-greco, il terzo Greco -latino. L' ultimo 
cominciando dalla conquista de'Romani durò fino a quando 
Canosa divenne colonia Romana sotto Aurelio Antonino Pio. 
Quinc'innanzi il linguaggio di Ganosa prese aspetto diverso, 
tutto Latino, che i coloni Romani disseminarono e sparsero 
ia propria lingua già conosciuta tra' naturali del luogo, ma 
non ancora universale, non però in modo che qualche pa- 
rola, qualche motto e le reliquie della greca non soprav- 
vivessero, specialmente tra' pastori ed agricoltori. La Latina 
regnò probabilmente fino al mille circa, epoca in cui dalla 
corrotta lingua del Lazio o meglio da quella volgare , se- 
condo altri, naque la Italiana, ora vivente. Nella Peucezia 
allora Puglia (a cui poi appartfiune Ganosa) surse la Ila- 
liana nel medesimo tempo che surse in Toscana, in Sicilia 
ed altrove ; anzi fu scritta tra' primi da Matteo Spinelli da 
Giovinazzo in Puglia: opora non nobile certamente, ma ve- 
neranda per la stia canizie e che da sé fa prova che quella 
lingua per essere scritta aveva dovuto contare parecchi se- 
Voli di esistenza. In Canosa appartenente alla Daunia e poi 
a Bari come Giovinazzo, similmente la si parlava nel dello 
tempo come in tutte le altre parti d' Italia , se non che 
aveva una fisonoraia più latina ed una reminiscenza, seb- 
ben minima , del Greco come in tutta la Puglia. Di falli 
in tutto il Barese e terra d'Otranto specialmente (ove anche. 
oggi sono borghi che partano l'Albanese) grandi vestigia 
elleniche si osservano. Perchè dalla decadenza dell'Impero 
Romano e precisamente dopo che la sede imperiale passò 
in Bisanzio, sempre nella Puglia vi fu dominazione greca, 
sempre vi furono eserciti e presidii venuti da Costantino- 
poli , leggi greche, cd/apam (17) (governatori greci) fino 
all'epoca di Roberto Guiscardo Duca, che totalmente ne la 
liberò, rendendosela soggetta. Veix) tutto questo come inne- 
gabile che la Puglia fosse una parte importante della Ma- 



19 



glia Grecia. Ma non vi furono i Longobardi , i Saraceni , 
gli Unni , i Goli , i Visigoti e lulla la infame genia degli 
invasori delle nostre terre? SI vi fiiron tutti per nostra 
sventura, aia da barbare genti distruggendo, rubando, as- 
sassinando e non mai unendosi con vincoli d'amore e con 
equità di leggi a' naturali. La dilTerenza delle leggi de'co- 
stumi, di religione e la influenza greca fecero si che tutti 
questi barbari temuti e disprezzali non avessero mai do- 
minio vero, fermo, stabile, duraturo su' Pugliesi, ma eser- 
citassero un potere violento su d'una o due città e mentre 
altre aggredivano, quelle si ribellavano. Possiamo dunque 
asserire dì usi non mai abbiano posseduta la Puglia se per 
possesso non vogliamo intendere uno stato d'assedio ed una 
permanenza accompagnala da furti , stupri ed oppressione. 
Il medesimo avvenne peri conquistatori Normanni ne tempi 
di Melo, ma dopo Argiro (figliuol di Melo) il duca Ro- 
berto tutta a sé ridusse la Puglia ( lasciandovi per ogni 
città conti e nobili per signori) e tranquilla la trasmise in 
retaggio al suo figliuolo , toltene alcune terre destinate a 
Boemondo. Nella lingua del Pugliese adunque non possia- 
mo ritrovare in gran quantità ( come da altri si pretende) 
parole Àrabe , o di qualunque barbaro e nomade conaui- 
tatore; né troveremo vestigia considerevoli di quella de' Nor- 
manni. Poiché costoro, come sappiamo dalla storia, furon 
pochi rispetto a' naturali del luogo e sebbene mutarono o 
meglio modificarono le leggi de' popoli vinti, non potettero 
imporre la loro lingua ; anzi da varii autori si rileva che 
usassero quale lìngua ufficiale (18) la Latina e coi feudatarìi 
e vassalli parlassero quella del volgo, come coloro che con 
Tarmi e col senno cercavano conquistare per conservare, di 
maniera che da quel tempo ne venne il titolo di Ducato 
e poi di Regno di Puglia. Nel Dialetto Canosino si debbo 
parimenti molto sudare per rinvenire parole Àrabe, Longo- 
barde, Normanne e sotto questo aspetto e per le medesi- 
me ragioni, parole Francesi, Spagnuole ed Austriache. Tutti 
questi stranieri dominarono per brutta sorte dlialia in tutte 
le nostre province ; ma o poco vi regnarono, o molto e in 
questo caso usarono la nostra lingua. Da ciò non vo' con- 
chiudere che ne' nostri dialetti non vi siano delle voci bar- 
bare; che qualche parola, quasi segno del dominio e della 
perduta libertà e del mutato e rimutato giogo , non resti 
ancora; cosi non fosse! 

Volere però scervellarsi per far vedere come nei nostri 
dialetti tutte o quasi tutte le parole vengano dall' Àrabo 
(con strane radicali ed etimologie arbiti*arie) o dalla lingua 
Tedesca a parer mio é opera da pazzi. La parentela della 
nostra colla lingua latina é già cono.^ciuta , e la influenza 
della Greca sulla Latina (specialmente nel secolo d'oro) è 
cosa già nota. Bisogna con diurna e notturna mano svol- 
gere i documenti delle lingue veramente antiche per venire 
alla conoscenza della storia di esse. Tanto meno si trove- 
ranno le sudeiie voci in quella quantità che si pretende nei 
dialetti Pugliesi e specialmente nel Canosino. Perchè questo 
ad ogni pie sospinto ci darà voce latina modificata e meno 
Greca e quasi niente di barbaro linguaggio. Questo é quanto 
vedo coi miei loschi occhi nel dialetto patrio, se non ò le 
traveggole. Scendo al particolare. 

4.* Stabilito che il dialetto Canosino riconosca in sé molto 
elemento latino, poco del greco, pochissimo di altre lingue, 
mi par ben fatto il provare brevemente il mio assunto. Ed 
in prima è necessario far delle osservazioni generali e delle 
distinzioni opportune sul dialetto canosino, il quale non é, 
né si può studiare sulle labbra della gente eulta, la quale 
per quanto si sforzi di parlarlo non lo potrà senza mischiar- 
vi delle parole apprese o da' proprii studii o nel conversare. 
In essa vi à, non dico la lingua, ma molte parole Tosca- 
ne Italiane. La seconda classe de' ciitadini cioè la media 
composta di artigiani o gente di commercio , non parla il 
vero dialetto, ma lo parla misto con voci corrotte delia lin- 
gua Italiana e con vocaboli del mestiere, tecnicismi e bar- 
barisjfni in gran parte francesi Pare dunque che per avere 
una idea adequata di esso, bisogni ascollarlo dalla bocca 
del colono, del pastore e della gente rustica cioè del volgo. 
Questa é la norma per venire all'analisi d'un dialetto, e nel 
medesimo toscano si avvera che la purezza si trovi nel 



contado e non nel popolo cittadino, il quale é sempre espo- 
sto alla epidemia delle barbare voci introdotte dal com- 
mercio: con più ragione ciò avviene (precipuamente in que- 
sti tempi) tra le persone eulte le quali , volere o non vo- 
lere, àn dovuto apprendere molte parole e frasi della lìngua 
scritta Italiana comune. E nella greca e latina, e, credo (19), 
in tutte mone e viventi, à dovuto imperare questa legge 
che nasc« dalle circostanze della vita, comuni a tutti i po- 
poli. Altro è adunque il dire della classe civile, altro quello 
del ceto medio , altro quello del colono , che distinguo al- 
cune fiate dal volgo, nel quale vi à sempre delle voci cor- 
rotte. Dante fin dai suoi tempi osservò: ad minus qua- 
tuordecim vulgaribus sola videtur Italia variavi: quae 
omnia vulgaria in sese variantur ut puta Senenses et 
Aretini; in Lombardia Ferrarienses et Piacentini nec 
non in eadem civitate aliqualem varietatem perpendi- 
mvs. Per studiare un dialetto d'un popolo giova analizzarlo 
sulla bocca del contadino e con più ragione quando la classe 
principale sia questa, come in Canosa, la cui popolazione 
è composta in gran parte di coloni. Fra costoro lontani dal 
consorzio degli altri uomini e che da mane a sera sono sui 
campi, possono rinvenirsi di molte voci che conservano 
dell' antica impronta ed in varii modi possono additataci 
l'anello o la metamorfosi della lingua già morta nella mo- 
derna. E quel che si è detto riguardo alle voci s' intenda 
anche riguardo alla pronunzia che tanto distingue i popoli 
tra loro vicini e di comune linguaggio. 

Dell'lenfasì e della pronunzia è onninamente impossibile 
ragionare se non per le generali. Come lare ad esprimere 
con segni grafici le modulazioni varie, dolci, aspre, sonore, 
indeterminate della voce? Bisogna per sapere dell'enfasi di 
un dialetto essere giudice di presenza e ascoltatore del par- 
lare vivente. Ma pure dirò qualcosa della pronunzia. Ri- 
guardo alle vocali avviene come nella lingua Francese ed 
altre viventi delle quali le vocaU scritte non tutte sono di- 
stintamente pronunziate. Per designare chiaramente le re- 
gole necessarie ad intendere le varie consonanze , leggi e 
modi di pronunzia lunga opera far mi dovria, né l'indole 
di questo lavoro il comporterebbe ; ma dovendosi scrivere 
in dialetto sarebbe mestieri esprimere graficamente vocali 
sonore e pronunziatissime, vocali appena appena pronunziate 
che direi mule. Per esempio ^20) : io ti voglio bene più di 
me stesso , si tradurrebbe: i ti voglio bene chiH di me 
stesso, che a volerla pronunziare , per quanto più si può, 
alla Ganosina, si direbbe: 1 tvoghió bene chiù dmè stesso. 
L' io è pronunziato come il doppio i — ti voglio, ti voghìd 
pronunziato tutt' una parola sebbene vi sia l' i insensibilis- 
simo: il voglio non può pronunziarsi né vogghio, né vogh, 
ma tra l'uno e l'altro suono ecc. Finora (cosi ritengo) non 
si sono trovali segni corrispondenti ad esprimere le varie 
gradazioni delle modulazioni della lingua e delle modifica- 
zioni che dir si possono infinite. 

Che direni poi delle consonanti ? L' uso di esse a primo 
aspetio sembra anormale, perché spesso spessissimo s' in- 
contreranno congiunte incompatibilmente; ma se ben si ri- 
fletta , CIÒ non sta. Che in mezzo a queste consonanti in- 
tercedono delle vocali inesprimibili in carta ed appena esi- 
stenti sulle labbra. Dallo sciupinio delle consonanti molte 
parole sembrano aspre e non sono; anzi il dialetto pecca 
di languidezza effetto di rilasciata pronunzia: e questa con- 
tradizione apparente si spiega dalla mancanza di un sensi- 
bile conjugio delle consonanti colle vocali, molte volte di- 
vorale. 

Nella parola nascono sfugge Yo intermedio e ne viene 
a suo luogo r e muta e alla Canosina si dice nascénó ; 
cosi Ciirciofo scarcioff, birbante bribant, stupido stubd, 
ignorante agnurant. Mentre queste parole scritte colle vo- 
cali mute più SI accostano alla propria natura, come 'car- 
ciotfó — stubtdó — agnuranté. 

ò.^ Frequenti sono le permutazioni di vocali in altre vo- 
cali e da consonanti in altre consonanti. Per le vocali si 
avvera tale scambio che la stessa parola or si pronunzia 
con una ed ora con un'altra, come stavano e sté\éno; anzi 
alle volte e spessissimo non si può distinguere quale sia 
la pronunziata, come carnevale, carnevale tanta è l'aflQnità 



80 



tra queste vocali. 0"el eh' è più notevole è lo scambio 
delle consonanti ad ogni pie sospinto. Il h si cangia in 
molle voci in v — bestia vèsità, barile varillé, bove vové; 
ordinariamente il fi nelle parole venuteci dal greco si pro- 
nunzia V — Il b ili p — e viceversa come rishèndé, càmbd, 
camhàfò. II g in se, sciùtó per gito. L'j per i breve, dal mal 
vezzo di non pronunziare quasi mai le ultime vocali ed 
appoggiare la voce suir i e che però diventa doppio. Non 
trovasi mai 1' ^, né il A;, supplendo al primo l'aspirazione, 
al secondo il e. Ma non la finirei, se dovessi parlar di tutto 
minutamente. 

Basti dire che il popolo canosino come quasi tutti gli 
altri, cangia, disforma , abbrevia le parole , amando di e- 
sprimere la idea nella forma più breve: quelle dolci rende 
aspre, le lunghe accorcia, distruggendo quasi tutte le vo- 
cali, (c 11 popolo tende a contrarre, perchè paria per farsi 
intendere, non già per ben parlare » e quando le parole 
esprimono le idee, poco gli cale di articolarie bene e gram- 
maticalmente (ciò che non sa). L' uso confonderà i generi 
come La fica, il però (frutto) per il fico, la pera. Adoprerà 
pochissimo il congiuntivo e mollo T indicativo non dirà mai 
le sesquipedalia verba e i paroloni composti. Userà poco 
gli avverbii ed in nessun caso fcon pochissime eccezioni) 
premetterà particelle ai verbi ; ne insomma userà quel che 
è venuto dallo studio e dalla cura degli scrittori. Dirà: ù 
chiù migliòre, chiù piggiòré, chiù maggióre, per il mìglio- 
re, peggiore, maggiore. Scambierà Tessere per avere, 1 so 
stato , àggtò stalo ( uso che per alcune lingue viventi è 
legge, come per la francese: quale ne sarà la ragione ?) 

Tutto quel che si avvera nel Ganos'no nun si avvera re- 
lativamente in tutti i dialetti ? Non pare che sieno le me- 
desime leggi per il nobile dialetto Napolitano? Dialetto 
dolce ed ora aspro ; blando, cascante, ed ora severo, con- 
ciso e tutto fuoco; negletto ed ora poetico, come il cielo 
ridente e le spiagge improntate di bellezze eterne. Buono 
ad esprimere lutti i senlimenti dell' anima, ora più rapido 
d'una folgore ed ora patetico che ispira amore e voluttà: 
è il Proteo de' dialetti. 

Il dialetto Canosino à le sue declinazioni come la lingua 
Toscana; e qui sfugge la quistione se debba ammettersi 
neir idioma lialiano la vera declinazione , credo però che 
tale non sia nel nostro dialetto, come nel Latino e nel Gre- 
ao. Perchè non troveremo mai il nomen, inis, né II poeta, 
e; non avremo il Xai^zag, ttoSo^ o xepjcXìj , y^<^^ cioè 
né r aumento, né la differenza di finali , sebbene abbiamo 
la differenza de' casi. 

Per aver poi conoscenza de' verbi bisognerebbero volumi, 
essendo quasi tulli irregolari. Ma in generale molto si rasso- * 
migliano nell'essenza a quelli della lingua Italiana scritta. 
Sonvi aitivi e passivi , inti'ansitivi e neutri. Per ausiliarii 
c'|è r essere e Xavere che spesso si scambiano : alcune 
volle r addiventare. 

Si usa poco il congiuntivo , poco il modo infinitivo. La 
seconda e terza persona in molli casi simili. Nell'infinito 
non pronunziasi quasi mai il re finale, amare amà^ godere 
guàè^ sentire sentì, I verbi coli' ere breve si pronunziano 
non accentali, leggere Uscé^ correre carrè^ scegliereèc^^^Aìt?. 

Ma oramai stanco da tanta noja salto di pie pari ad al- 
cune idee di affinità che vi è li'a il vulgare latino e il dia- 
letto Canosino. 

6.* La lingua latina che veniva imposta ai vinti (S. Ago- 
stino: Cfera data est ut inperiosa civitas (Roma) non 
solum jugunij verum etiam linguam suam domitis gen- 
tibus societatis imponeret) ; che i magistrati Romani do- 
vevano usare cogli stranieri e veniva imposta anco negli 
editti del pretore (Trofonio Giure: dig: L. 48 de re jicdi- 
cata ) grandi avanzi e reliquie lasciò ne' nostri dialetti e 
specialmente in Canosa che fu , come si è detto , colonia 
Romana. Nata probabilmente dall' Indiana , sorella della 
Frigia, della Elrusca e della Greca, salita alla più grande 
bellezza nel secolo d' Augusto, alla ad esprimere la mae- 
stà del popolo Romano, forte, robusta, bellicosa, anch'essa 
cominciò a segnare la pat*abola di decadenza poco dopo il 
secolo d' oro. Anzi Cicerone lamentava: « confluxerunt in 
nane urbem multi inquinate loquentes ex divers^s ìocisn, 



Tanto più decadde sotto gì' imperatori per grand' uso di 
astraili, di grecismi, per senso nuovo dato a parole vec- 
chie per terminazioni differenti ed alterate costruzioni. In 
questa guisa nuovo aspetto essa prendeva e sempre più si 
trasformava e dechinava a ritornare al volgare Ialino ed a 
corrompere voci che possono indicare la metamorfosi da 
Latino in Italiano ( se pur dette voci non venivano prese 
dal volgo). Per esempio conversaUo, ^ratitudo et ingror- 
titudo, ligatura, adversitas , summitas, voracitas^ sol- 
vatoTy e gli aggettivi emanuensis , exsurdatus , famige- 
ratusy immaculatuSy spontaneus, visibilis e i verbi adu- 
nare ^ annodare, collaorare j confiscare ^ corrotundare y 
explantarcy molestarCy remediare, restaurare, parole tulle 
non esistenti prima almeno nella lingua scritta latina. E 
cosi questa^^precipilevolmente per l' età delf oro e argento 
venne a quella di ferro. Ancora nuovi verbi, nuovi agget- 
tivi, nuovi composti e tutto cambiato. Già il vulgare Ialino 
irasformavasi in Italiano sia per le parole, come per il con- 
cetto. Non nego che la lingua nostra in parie conviveva 
colla latina ; ma dalla corruzione di questa si ebbe altra 
forma ed altra vita. Quindi è che nel dialetto Canosino rin- 
vengo ora molle parole usate dai comici Ialini ed anco 
molte frasi. La bmca di Plauto la vòcci, il russusAi Ca- 
tullo ritssò, il letamen il litàmè. il puUtcinumy pullicìné 
e queir ixi ( pel qual vocabolo Augusto tolse il consolato 
ad un patrizio Romano) vive tuttora nel dialetto come in 
tutto il Barese ed altrove , issi, essi, ipsi. 



(Continua) 



Anonimo 



(15) Il che è certo e lo potrei dimostrare con Erodoto, 
Strabone Teodoro Siculo, avvalendomi della loro fede per 
quanto vale. Di questa opinione è il Niebuhr e il Cantù 
nel suo trattato di Àrclieologia. 

(16) Di fatti Brindisi e Taranto erano n te probabilmente 
a' Greci all' epoca di Omero, come la Sicilia , ma certa- 
mente a quella di Erodoto , die parla di Oria e di altri 
luoghi. 

(17) Guglielmo Apuliense : Quod catapan Graecì, noe ju- 
xta dlcimus ornne, Qaisquis apad Danaos oice fungilur 
hujus honoris. Di^poaitor popuùi parai omwe quod exp'dit, 
iUu Et juxta quod cuique dare deceù, onine ministrat. Di 
qua venuto Capitanata. 

(I8j Vi esistoiiO le leggi Normanne in lingua latina. , 

(19) Opinione poggiata sui fatti, ma che bisogna di una 
dissertazione. 

(20) 11 segno ^ (breve) per indicare che le vocali notate 
con esso sono appena pronunziate. 



NOTIZIE 

L'Abruzzo Letterario (Sulmona, 11 Ottobre 1884 ) 
Anno l. Num. 11, contiene un articolo di N. Mosca sul 
Giuoco campestre — Fare a pajjuc/iella» 



Nella Napoli Letteraria (Napoli , 28 Settembre 1884) 
Anno I, Num. 31, il nostro egregio collaboratore, signor 
Gaetano Amalfi, ha pubblicato un grazioso articolo di let- 
teratura popolare, dal titolo « Denominazioni locali ». 



Pubblicazioni in dialetto pervenuteci in dono : 

Giovanni Granata | Canzoniere | Versi italo-napoletani | 
Napoli I Stab. Tipografico dei fratelli Tornese i S. Gero-» 
nimo alle Monache i MDCCCLXXXIV. in-16.<> Pagine W. 
(Prezzo Cent. 30). 



Gaetano Molinaro — Responsabile 



Tipi Cirluccio, de Biasio & V -- Largo Costantin^poU, N. 89. 



ANf^O II. 



r::, 24 -Sto 

Napoli, 15 Novembre 1S84, 



Kum. ii. 



GIAMBATTISTA 




ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



iiSBONAMSNTO AN1TI70 



^s 



Per l'Italia L. 4 — fisterà L. e. 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi il cambiamento di 
tldtnza. 



Esce il 15 d'ogni mese 



AWE&TSlTZfi 



Per tutti gli articoli è riser- 
vata la proprietà letteraria e 
sono vietate le riproduzioni e 
le traduzioni. 



Indirizzare vafrli.i, lettere o ma&oscri^ti 
ul Direttore liul^l Moliiiaro liek 
Chiaro. 

Sì terrà p iroia delle opere riguardanti 
U leltoralura popolare, che Siiranao 
mauduie in dono, in doppiu esem- 
plare, alla Direzione: Calata Gapodi- 
chino. 56. 



Sominario:— Cenni storici e fdologici intorno a Gan sa e al dia- 
If^Uo Ganosino (anonimo) — Storia di Camprlano contadino (M. 
ScHERiLLo) — Canti del popolo di Campobasso (E. Melillo) -- 
'0 cunto d' 'amica ferole — ( G. Amalfi ) — Canti popolari so- 
rani (V. Simoncelli) — Notizie. 



CENNI STORICI E FILOLOGICI 

Intorno a Canosa e dialetto Canosino 

(Contin. e fine^ vedi n. 9 e iO) 

Cosi il granarium, ù aranàró, scopare, mor si- 
care, auca (oca) detti dal volgo e che dicevasi no- 
bilmente horreum, verrere, anser. Abbiamo il san- 
guisuga per hirudo , majale per verres, piccinnt 
per figli, piccini. Valerio Fiacco scrive: " Attampro 
reverenha cuilibet seni quasi cuni avi nomen ap- 
pellemus, quia tata est avi, idest pater ; „ e noi 
abbiamo attànó e tata entrambi per padre, ed un 
vecchio qualunque si chiama tataràn , ossia tata 
rari (tata grande) (21). In S. Girolamo : ,. Manni- 
bus quas vulgo buricos appellant ; il nostro vol- 
go dice indistintamente ù ciuccio, ù burricó. Da 
ciò e da quel che tralascio jper brevità, ben si ve- 
de quale affinità esiste tra l'antico volgare e i no- 
stri dialetti. 

E credo che argomento potentissimo sia il dimo- 
strare che moltissime voci usate nella infanzia della 
lingua Italiana, esistano tuttavia in questo dialet- 
to. Che, se non fallo, molte parole degli antichi scrit- 
tori Italiani, segnano il passaggio dalla lingua del 
Lazio alla nostra e, se non altro, almeno ci fan co- 
noscere la modificazione dell'antico volgare nel nuo- 
vo. E vengo prestamente a' fatti. Si usa dire ityné" 
ri (omeri) , penzà (pensa) , dovùnché (dovunque) , 
obltcó (obligo), fragèlló (fl dc^Q\\o),briviiegi6 (privi- 
legio), navicare (navigare, banno (vanno), grànné 
(grande;, mobólé (mobile), rimóré (rumore). Spesis- 
Simo l'articolo lo per il. Abbondano le desinenze in 
anza, in agaio. Talora con trasposizione di lettere 
ti avverrà di udire pr^tó per pietra, grre7/dnd^ per 
ghirlanda, frebé per febre; e con sottrazioni di let- 
tere come manèrà, maniera, lussùra per lussuria, 
sciuttfì (^asciutto), difìcio (edificio). Altre voci con 
accorciamenti strani, semmànà (settimana), vòlnó 
(vogliono), saràbbó (sarò), cacciò so, tue (tu). ^ le 
finali quasi tutte viziate, interesso, febra, adessa, 
nomo, giovano, communo. Si à il pantere, sèntere 
per pentire^ sentire. 



Tutte le suddette voci si trovano in Dante. Al- 
tre di Dante e suoi contemporanei sono (scritte a 
modo Canosino) : dissonò (dissero), sentétté, dicet- 
té, vìnsono , fràtimó , mògliémà , casta £ casata 
(casa tua). In oltre troveremo quei cambiamenti 
che i grammatici classificarono col nome di prota- 
si, aferesi, apentesi, metatesi ed altro. Farmi adun- 
que dal già detto riconoscere nel dialetto Canosi- 
no molto del volgare Latino (quindi della comune 
Italiana). 

F. Molte voci jpoi vennero direttamente dal Gre- 
co, su di che molto potrei distendermi a ragionare, 
ma mi contenterò di accennare quel tanto che basti 
al mio scopo. E prima di tutto il dialetto riserba 
alcune particelle, esclamazioni, interiezioni greche, 
cose che più d'ogni altro argomento servono a far 
chiara la origine d'una lingua e d'un dialetto. 

La mamma o la balia nel porgere alle labbra del 
suo bimbo un bicchiere, una tazza o altro, lo esor- 
ta a bere colla voce tutta greca: fa brù, bràm-- 

ppyv. 

Volendo intimorire un bambino la stessa dice bil, 
btì, nello stesso modo di pò 

La voce imitativa del suono dell'acqua o vino che 
scende dalla gola d' un fiasco o di una bottiglia 
nella gorga di chi beve , è tutta greca yoD o y w 
(suono imitativo). Ah! Ahi, voce con cui si sprona, 
s imita la bestia da soma a camminare forse da àV«. 

Dò , voce indicante: in questo luogo , in questa 
casa: 5io per apocope invece di ^oj/ua. 

Altre voci antichissime nei dialetti son quelle 
che indicano cose o mestiere agreste. 

Guatano, bifolco; custode di bovi, (WXavos. 

\ótin6\ un recipiente di legno destinato a ripor- 
VI del mosto o uva, preso per matafora dafioGdvòs. 

Voì^asciné, orba per pastura; po^ foraggio, pa- 
sxura. 

Vurvurà , 1* avvolgersi del porco nella broda , 
pó^po^<i fango. 

Gràsta, per testa di fiori da yaVrjKx per metafora 
ventre d'un vaso; il tutto per la parte. 

Aniaiiz, Pioggia minutissima, a guisa d'arena, 
da aiMQvìÀb da à|Aa9o?, arena. 

Amarasciuòlt , specie d' erba mangiabile , à\ki- 
yootos. 

Càccàvó , Caldaia per cuocere il latte o altro , 

xaxxo^os. 

Vucà la naviced , cullare forse da SovìuiXn^ , il 
canto che fa la balia per addormendare il fan- 
ciullo. 

Un vento nocivo lo dicono Alttnt da aiQiw. 

Ungìnó, oyxoivrj. 

Strùppóló, Gli antichi dicevono stroppos, o strop- 
polus,i^scìeL, legacela, involtino ed è ilnostro^^rw©- 
polo, eh' è uno straccio destinato a lavar piatti od 



.8t 



altro. E lo stesso Pesto ci avverte che strupan , 
Unum impolitum appellant Graeci Borii, 

Allòc, Parola che dlcesi ad un ribarabolito, istu- 
pidito; ci viene spiegato da Gellio '* Languidiim et 
semisomnum vel alucinatorem et nugarum amar 
torelli, sive halonem idest hestemo vino languen- 
tem quod eia^ov vocitant greci, 

T à fatto lu caruso , ti ài tosato o tagliato i 
capelli da xctjKjD o da xapa (indeclinabile) testa. 

Stài còme n' umpatùsó , come uno SBtk^narato» 

ifjwr(£9^ooS ovvero ^pwradii?. 

Vastdsó^ (facchino) parola comune tutti i dialetti 
Pugliesi da poorra^w portare, trasportare. 

Nu cirro di capìddt: ciufifo di capelli, da %t:fiw. 
Abinccà, divenir fioco , rauco , di gorga asciutta 

L'aggio fa ^na Vracchiàtà; cioè gliene darò tante 
e poi tante: da ppol^io o meglio da ^^Xnv, 
VramA, gridar© pyoyptós o meglio ^i\i.w. 
Ganascia, cattiva dofnna, Yàva 
Ambone , specie di pergamo dal quale si legge 
l'Evangelo: nello stesso senso di a^ftòv. 

Altre parole ritenute nel linguaggio toscano pro- 
nunziate alla canosima danno a veder chiaramente 
la loro origine. Agnuranté (ignorante) airvo€w ìb. 

Bomba, rimbomba (rimbombare) ^o^^^ gangt^e- 
nà (cancrena) yarypatva. Aniziayna (inezia) ««ourios. 

8. Ma lunga opera sarebbe e molto fatigosa se 
io volessi distenoermi a mostrare la origine di mi- 
gliaia di parole ; ma bastino questi cenni ( appena 
delle prime lettere alfabetiche ) , che mi riserbo 
parlarne altrove con più cura. Credo di avere al- 
meno additato gli argomenti sui quali poggiato dis- 
si che nel Dialetto (Janosino si trovano ampie ve- 
stigia del volgare latino e dell'antica lingua greca, 
dopo aver dimostrato storicamente la ragione di 
tale asserzione. Di altre voci barbare non manca 
l'uso, ma di quelle ammesse nella lingua Toscana 
e forse in minor numero. Ora mi accmgo a con- 
chiudere questo mio lavoro; ma prima mi sia lecito 
addurre alcuni proverbii in confronto di altri Sici- 
liani — Io non divido la opinione di coloro che vo- 
gliono proprietà esclusiva d'un popolo i proverbii, 
che sono, come gli assiomi in matematica , comuni 
a tutti i popoli , che àn ragione e sentimento. Mi 
perdonerà quindi il dotto cav. Agostino Longo, se, 
m qualche modo, contradirò alla sua opinione, pa- 
lesata nella introduzione ** ai proverbii e modo di 
„ dire siciliani » — Ei dice « Questa raccolta di pro- 
„ verbii e di taluni modi di dire... la credo suffi- 
„ cientemente a mostrare che il popolo Siciliano à 
„ da tempo immemorabile suoi apoftegmi e le spe- 
„ ciali sue frasi, di guisa che tanto il concetto che 
„ n'è la materia, quanto il tornio che n'è la forma 
„ gli siano cosi proprii da non ripeterne d'altronde 
„ l'origine e la provenienza „ — Non posso concedere 
al suUodato signor Longo che il concetto, ossia la 
materia, sia tutta Siciliana di maniera da non ri- 
pe terme d* altronde V origine e la provenienza. 
Primieramente potrei trovare in scritture molte 
più antiche dell'antichissimo dialetto Siciliano, come 
nella Bibia, alcuni riscontri (riguardo al concetto) 
de'proverbii e modi di dire da lui riportati ; ma 
parrai che molti di essi siano e siano stati comu- 
ni anche tra popoli vicendevolmente ignoti e di di- 
versa origine e civiltà — Le osservazioni su cose 
comuni all'uomo di qualunque nazione àn generato 
da simile idee simili proverbii e detti. Di fatti nel 
mio dialetto e in quelli della provincia di Bari in 
generale vi sono quasi tutti quelli scritti da detto 
Longo; se pur non voglia asserirsi che ci siano ve- 
nuti di Sicilia, cosa che a nessun costo posso mai 
concedere. Quindi credo far opera grate con darne 
qui un piccolissimo saggio e per convalidare l'ulti- 



ma mia idea e per far meglio intendere il dialetto 
Canosino. 

Siciliano A bonu Santu ti raccumandasti 
Canosino A buòno Santo ti raccumannàstt 

Sic. a cavaddu gastimatu coi luci lu pilu 

Oan. a cavàddò gastimàtò lucè u pilo 

Sic. Acqua passata 'un macina mulino 

Can. Acqua passata no macina mulinò 

Sic Ama lamico to cu lu viziu so 

Can. Ama l'amrcò tùù ucu vìzio sùù 

Sic. a mari vaja l'acqua salata 

Can. a mare va l'acqua salata 

Sic. Amuri un n'autru amuri si paga 

Can. Amóre con amore si paga 

Sic Ancora avi a durari stu rusicu di testa 

Can. Ancora av' a dura stu rumpamientò di 
capò 

Sic Annijarsi *ntr' na gotlu d'acqua 

Can. Annicàrsi int' a nu gotto d'acqua 

Sic. Ariu nettu *un à paura di trona 

Can. Aria netta non àvè paura di trùnt 

Sic Attacca Vasinu unni voli hi patrunì 

Can. Attacca u ciucciò a dò voi' u patrùnò 

Sic Cani c'ahbaja assà mozzica pocu 

Can. Cane eh* abbajà assà mozzica pòco 

Sic Circari lu pilu una V ovu 

Can. Circa u pilo int' a l'uòvo 

Sic Cui arrisica ar rosica 

Can. Ci risica rosica 



Sic 
Can. 



Cui cangia la via vecchia pri la nuo 
Li guai chi va scansannu prestu trova 



Sic Ci càngia la via vècchia e pìgghià a 

nova 

Can. Sape ci lassa e non sape ci trova 

E cosi di tutti gli altri tralasciati per brevità ; 
ma non già per mancanza di riscontro. 

Dopo avere errato per tante e sì diverse cose con- 
chiudo: Il Dialetto Canosino storicamente e noi fat- 
ti è figlio della lingua Pelasgica trasformata poi 
nella greca antica: questa venne. alterata e vinta 
dallaLatina.il popolo Canosino divenuto colonia Ro- 
mana acquistò il nuovo parlare, non dimenticando 
tutto il proprio antico dialetto. Da latino-greco si 
modificò in volgare Italiano e finalmente vernaco- 
lo Canosino con picciolissimo numero di barbare 
voci. 

Può aversi col tempo modificazione in meglio di que- 
sto dialetto e degli altri Italiani ? 

Può col tempo aversi unità di lingua in Italia ? 
Lo studio de' dialetti può indurre nella lingua scrit- 
ta ragionevoli riforme ? Si può venire con esso ad 
una esatta storia delle lingue (22) ? 

Anonimo 



(2!) Presso Plauto due servi sì rimbeccano— uno dico • redde 
cautionem veteri prò vino novam — e l'altro — Babà?, tatae, pr- 
paj — Parole tutt<) esistenti e nello stesso significato sulla boc- 
ca del popolo Italiano. 

(22) Se questo lavoro piacesse a'miei cittadini, fra non molto 
darei alla luce la Storia di Ganosa ; purché mi si concedessero 
lo spese di stampa. 



83 



STORH DI CHIIBRIIINO CONTADINO 



(1) 



Cambriano è il progenitore di Bertoldo. Egli era 
un povero contadino di Geno, che non possedeva 
so non cinque lire, un asiaollo, due conigli, sei fi- 
gliuole, due capponi , una moglie " grossa „ , una 
pentola ed una tromba arrugginita. Per vivere, ma- 
ritare le figliuole ed accogliere convenientemente 
il nascituro , non poteva fondare le sue speranze 
se non sull'asinelio, sull» cinque lire, sulla pento- 
la, sulla tromba, su' due conigli e su' due capponi ! 

E va al mercato, menandosi avanti l'asinelio, cui 
aveva cacciato in corpo le cinque monete di argen- 
to. Incontra alcuni mercanti , e facendo la via in- 
sieme, racconta di volere sbarazzarsi di quell'anima- 
le, che non faceva se non iti;?ombrargli la casa di 
monete di rame battuto e di argento. ~ L'asino, 
in questo frattempo, come per provare il detto del 
padrone, si libera di quattro di quelle monete, che 
il padrone gli aveva cacciate in corpo. 

— *' Ricogli la moneta, eh' egli ha fatta „ — dis- 
sero i mercanti meravigliati del caso. 

" Camprian gli rispose: — Oimè tapino, 
A ricorne cotanto son disfatto! 
r n' ho piena la casa et un gran tino ! „ 

I mercanti pensarono di fare il bello acquisto; e 
non parve lor vero che Campriano ne domandasse 
solamente cinquanta ducati ! 

A casa , l'asino depose 1' ultima delle monete di 
argento; ma , d' allora in poi , per quanti purganti 

f;li avessero fatto bere, depose... tutt' altro! I bur- 
ati mercatanti corrono dal contadino giuntatore ; 
ma questi si era preparato a riceverli. Se n'anda- 
va mogio mogio a zappare, e portava con sé anche 
r uno de' due conigli che possedeva. Quando vide 
i compari , li salutò g;arbatamente e li invitò a 
pranzo a casa sua , assicurandoli che volentieri a- 
vrebbe loro restituito il danaro, che gli avevan da- 
to per l'asino cacadenari. Poi spedi a casa il coni- 
glio, perchè avesse dato avviso alla moglie che c'e- 
rano invitati, che cuocesse i due capponi , l' uno a 
lesso l'altro arrosto, e che appareccniasse per tre. 

II coniglio scappò come una saetta a cercare 

la libertà eh' è si cara ! 

E Campriano e gli ospiti se ne vennero a casa 
lentamente, chiacchierando. Neil' entrare, trovaro- 
no in mezzo alla stanza la pentola che bolliva, sen- 
za fuoco ; ed il coniglio ( era l' altro ! ) cacciò II 
muso di sotto ad una panchetta. I mercanti resta- 
rono a bocca aperta per la doppia maraviglia, della 
pentola che bolliva senza fuoco e del coniglio mes- 
saggiere; e si affrettarono a comperare l' uno e l'al- 
tro per sessanta ducati ; e, contentoni, tornarono 
alle loro mogli. Ma il pezzo di bue , messo , il do- 
mani 'a bollire nella pentola maravigliosa , rimase 
duro com' era ; e il coniglio si dette in campagna 
alla prima commissione che gli fu aflidata! 

Giuntati per la seconda volta, i mercanti torna- 
no furiosi da Campriano; e questi, che s'attendeva 
r improvvisata , facendo cadere tutta la colpa del 
fatto sulla moglie , le caccia in petto un pugnale , 
e la fa cadere lunga distesa al suolo , in un lago 
di sangue. 

I mercanti si rammaricano del successo, sgrida- 
no Campriano, protestano; e questi, messa giù l'ira, 
dà di piglio alla tromba, e sonatala, fa rinvenire la 
donnn. Que' gonzi gridano al miracolo, e la donna 
racconta tutto ciò che le è accaduto a casa del dia- 
volo, in que' pochi momenti che v'era stata. 

1 mercanti comprano anche la tromba, per cin- 
quanta ducati. E, giunti a casa, per un nonnulla , 
ammazzano le mogli, e poi danno flato alla tromba 
di Campriano, e suonano suonano... fino a che co- 



noscono che stavolta il villano glie l'ha fatta grossa. 
Ora l'hanno da ammazzare, l'hanno. E, la mattina 
seguente, riescono ad averlo nelle mani, e lo chiu- 
dono in un sacco, per gettarlo nel fiume. 

Per via, vien loro voglia di b'^re; e, per andare 
a un pozzo, lasciano il sacco con Campriano in un 
viottolo solitario. Passa un capraio, e si avvicina, 
al sacco , donde sente venire un lamento e queste 
parole: 

« Io non la voglio! 

Che a me non sta bene una tal gemma ! » 

Il poveruomo domanda al rinchiuso cosa sia che 
non voglia. — La figlia del re di Spagna , che mi 
si vuol dare in moglie per forza. Una fortuna, ca- 
spita ! Ed. il capraio scioglie Campriano dal sacco, 
e vi si fa legar lui , donandogli dieci fiorini e la 
gregge. (2) 

Pochi giorni dopo, i mercanti, che oramai si cre- 
devano vendicati di quel furbo villano, se lo ve- 
dono innanzi, con una grossa mandra. 

— Vi ringrazio, dice Campriano, della vostra buo- 
n'azione; che in fondo al mare io ho trovato il pae- 
se della Cuccagua; e quella gente, nel congedarmi, 
mi ha voluto regalare di questa gregge. — Ren- 
di anche a noi lo stesso servizio! , pregano i mer- 
canti. — E Campriano lo fa di buon grado — libe- 
randosene per sempre. 



» • 



Questa istoria, non conosciuta finora quasi ge- 
neralmente se non dal riassunto fattone da Puc- 
cio Lamoni ( Paolo Minucci ) e corretto da Anton- 
maria Biscioni, è stata ora ripubblicata, con inap- 
puttabile diligenza, in uno de'volumetti della Scel- 
ta di Ctiriosttà letterarie del Romagnoli (voi. CC\ 
dall' egregio e valoroso cultore di studi popolari 
dottor Albino Zenatti. 

Lo Zenatti ha premessa al volume una larga in- 
troduzione , dove discute le ragioni della diversità 
del riassunto minucciano con quello del Biscioni , 
notando le inesattezze in che è incorso Olindo Guer- 
rini; il quale , anche faoendo dell' erudizione , non 
sa dimenticare di Lorenzo Steccheti e di Marco Ba- 
lossardi ; — prova come la storia di Campriano sia 
un'antica fiaba popolare, di cui la novella in otta- 
va rima è una delle tante redazioni; — aggiunge una 
minuta e, credo, completa noia delle edizioni a stam- 
pa di cotesta Historia poetica;— dimostra che Tigno- 
to autore ne sia dovuto essére un toscano; — parla 
della fortuna del poemetto , o , se non proprio di 
questo, della novella popolare, e ne trova un' imi- 
tazione nella Maccheronica VII di Merlin Cocai , 
e nella terza novella delle Piacevoli notti dello 
Straparola;— ed una delle fonti medievali della no- 
stra novella trova nella storia di Unibos, compo- 
sta in rozzo latino- da un chierico franco del secolo 
X , " per dilettare i pranzi di qualche grosso pre- 
lato „ ; e finalmente lo Zenatti studia comparativa- 
mente la sua fiab9., rilevando le diverse trasforma- 
zioni a cui andò soggetta , passando per la bocca 
de' diversi popoli. 

Oltre alla Storia di Campriano, ristampata eul- 
la edizione fiorentina del 1572 e corretta sulla ve- 
' neta del 1553 e sulla fiorentina del 1579, riprodu- 
cendone anche la grottesca incisione ; oltre alla 
Storia , sono ancora pubblicate in appendice : una 
novella popolare trentina, raccolta dall'A. alla Chiz- 
zola (Trentino), di cui il Giambattista Basile pub- 
blicherà, in uno dei prossimi numeri, una variante 
napolitana ; il Capitolo di Cuccagna ; il Trionfo 
de' Poltroni; e Le sette gramezze àell' Asino, estrat- 
te dal Cod. Corsiniano 44-B-7 del sec. XV. 



84 



L'amico Zenatti (p. LX) dice che " probabilmen- 
te „ il Capitolo di Cuccagna è opera di Giulio Ce- 
sare Croce; e ne conduce la ristampa sur una edi- 
zione di Siena del 1581. 

Invece, il direttore di questo periodico, Luigi Mo- 
linaro Del Chiaro, ne possiede una copia di edizio- 
ne napoli tana del 1715 , donde apparisce ( se pure 
il " posta in luce „ del frontespizio abbia ad in- 
terpretarsi come ** composta „ ) che l'autore ne sia 
Giovannino detto il Tranese. Questa edizione napo- 
litana differisce moltissimo da quella ristampata 
dallo Zenatti ; e forse, o senza forse , il più aelle 
varianti sono state introdotte dal signor Giuseppe 
la Barbera, che nel frontespizio dice di aver " no- 
vamente ricorretta „ la Piacevole historia. 

Ad ogni modo, io non credo possa riuscire disca- 
ro a* cultori di questi studi la ristampa anche di 
questa redazione napolitana; e la dò qui sotto, in- 
tegralmente. 

M. SCHERILLO. 



(1) Storia di Campriano contadino a cura di Albino Ze- 
natti. Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1884. — Edizione di 
soli 202 esemplari ordinatamente numerati. N." 174. — Pagg. 
LXII - 68. 

(2) Nella commedia per musica di Giambattista Lorenzi, inti- 
tolata Fra* due litiganti il terzo gode e rappresentata al tea- 
tro de'Fiorentini l'autunno del 1766, il protagonista Don An- 
chise Campanone fa ad un conte Pirolelti lo stesso scherzo che 
Oampriano al capraio; solo che il conte so la cava a miglior mer- 
cato, pigliandosi cioè solamente una carica di legnate. — Gfr. la 
mia monografia suir Cbera buffa napolitana^ Napoli, 1883, pa- 
gine 217 e 218. 

LA PIACEVOLE 

DI CVCCAGNA 

Posta in luce per Giouannino detto 

il Tranese 

Nov amente ricorretta da Gioseppe la Barbera. 

(Qui un disegno, rappresentante una gran tavo- 
la imbandita con sette persone d'attorno; dall'alto 
piovono pesci fritti e capponi.) 

In Napoli, Per Nicolò Monaco, 1715. 

Con licenza de* Superiori. 

Son stato in quelle parti di Cuccagna, 
belle vsanze ho visto in quei paesi, 
Quello che più dorme, più guadagna. 

Per arriuar, caminai sette mesi, 
Quattro per mare, e tré mesi per terra. 
Acciò potesse farmi buone spese. 

Et arriuato, trouai vn huomo di guerra 
Armato, come fusse vn Palladino, 
Che faceua la guardia à quella Terra. 

E Oliando m'accostai à lui vicino. 
Mi disse, se in Cuccagna vuoi entrare, 
Bi^^ogna che tu ossemi il mio latino. 

Che tu non parli mai di lauorare, 
Mii di mangiare, di bere, e di dormire. 
Andare à spasso, giocare, e ballare. 

Prometti questo, e ti farò trasire, 
E guarda non parlare mai di guerra. 
Nò di zappare, tessere, e cusire. 

Cosi promessi, & andai dentro la Terra, 
Trouai na fonte grande, & ornata 
! Greco, Trobiano, e Mangiaguerra. 



E caminando andai per vna strata, 
Che lo mure apparate erano quelli 
Di Salciccie, Tomacelle, e Gemellata. 

Li spiti erano pieni di Fecatelli, 
Chi ne volea, ne potea manj?iare. 
Capponi, Galli d'India, e Pollastrelli. 

Il grano non bisogna seminare, 
Perche nasce da sé dentro il terreno, 
E la Farina hai senza macinare. 

Né mai di nullo tempo vene meno, 
Ma se troua per terra, e per le strade. 
Come si fosse poluere, ò terreno. 

Là non si parla mai di pouertade. 
Ma tutti sono Conti, e gran Baroni, 
Né mai si troua nulla infermitade. 

Non senti freddo, né pioggia, né tuoni, 
Ma sempre par, che sia Prima nera, 
Con Cerase, Perocché, e buon Melloni. 

Et ogni giorno di mattina, e sera 
Non si parla altro, se non di mandare, 
E di giocare à' schiacchi, & k primera. 

Se alcuno parla di voler lauorare, 
Li son addosso di molte persone, 
E nelle Carcere 1q fanno serrare. 

Sapete di che son quelle priggioni, 
Di Caso Parmesciano son le mura, 
E le ferriate son di Salciccioni. 

Vi sono albori di bassa statura, 
Che fanno Scarpe, Calzette, e Cappelli 
Di tutte quante sorte di misura. 

E le Ciuette cacano mantelli 
Di panni fini, Velluto, e Imbroccati, 
Con fondi d'oro, e guarnitioni belli. 

E vi é vna Grotta piena di docate. 
Quando ne vuoi, te ne puoi pigliare 
Di giorno, e notte, di verno, e di state. 

Le Case belle vi voglio contare, 
Di Caso pecorino son le mura, 
E di Ricotte le fanno imbiancare. 

Et ogni Casa ha la sua intempiatura 
Di Salcicce, Presutto, e Mozzarelle, 
Che sono le paramenti delle mura. 

Vi sono Donne gratiose, e belle, 
Che tutto il giorno fan con tè l'amore. 
Senza donarli Gippone, e Gonnelle. 

Al tuo comando stanno tutte l'hore, 
Ogn'vno campa à la sua libertade, 
Con vestimenti ricchi di valore. 

Et hanno i loro letti profumati, 
Coperti di Velluto carmosino, . 
Per far dormir li loro Innamorati. 

Là vi si troua laghi di buon Vino, 
Di Greco né vedrai le fiumare. 
Che corrono per tutto lo confino. 

E quando à spasso tu vorrai andare. 
Vi sono Caualli con briglia, e con sella. 
Quando à te piace, li puoi caualcare. 

Per quelli piani son tante Porcella 
Cotte nei forno, fé ne voi mangiare, 
Non pagherai dogana, né gabbella. 

Tant'é la grassa, s'io la vò contare 
Di quel Paese, nobile, e aggarbato. 
Che ci andariano tutti ad habitare. 

Vi é vna Montagna de Caso grattato, 
E sopra quella bolle vn Caldarone, 
Clio getta Maccaroni d'ogni lato. 

E corrono pe '1 caso rozzolono, 
E quando sono a pie della montagna, 
Ne magia ogn'huomo séza discrettione. 



85 



Vi è Pruna, Pera, Nocelle, e Castagne, 
E quanta sorte di frutti si troua 
Per tutt'Italia, e nel Regno di Spagna. 

Ogni Gallina il di fa ducent'oua, 
E le Pecore cacano recotte. 
Calde le puoi mangiare à tutta prona. 

E li forni son grandi come grotte, 
Senapre son pieni di Pane, e Pastoni, 
Di Pizze stanno aperti il di, e la notte. 

E se vorrai mangiare buoni bocconi, 
Vi è vna Cucina, che coce Fasani, 
E dà à manciare a tutti li poltroni. 

Di Latte fresco ci son li pantani, 
E vi nascono intorno Prouature 
Grosse, che empion ambedue le mani. 

Di Zuccaro vedrai tutte le mura, 
A tomola ricogliono la Manna, 
E la mangion le bestie alla pastura. 

E le Camise di tela d'Olanda 
Le troni fatti senza comprare, 
Le cacano TVccelli ad ogni banda. 

Quando hai mandato, ti vuoi riposare. 
Li letti trouerai pieni d'odori, 
Ch'ogn' vno vi si puoi ini colcare. 

Coperti fono tutti di bei fiori. 
Di muschio, d'ambra, & ancor di zibetto 
Dirai, quest'è vna vita da Signori. 

E la mattina mentre stai nel letto, 
Sentirai Roscignuoli, & altri Vcelli 
Cantare per dare & te spasso, e diletto. 

Vi è vn Bosco pieno d'arboscelli. 
Che li frutti, che fanno son Confetti, 
Mendole inzuccarate, e Fusticelli. 

Pasta Reale, Pignoli, e Morzelletti, 
Copeta, Mostaccioli, e Sonsouerata 
Nascono sopra i coppi delli tetti. 

Orsù andiamo via cara brigata, 
E voi poltroni tutti quanti inulto. 
Che non vi satiate d'inzalata. 

Venga con me chi ha buono appetito. 
Andiamone in Cuccagna à satollare, 
Come di sopra hai tu bene vdito. 

Et al Romano voglio ringratiare. 
Ch'ha imparato si buon Paese, 
Andate là poltroni à trionfare. 
Che quanto ha detto, voi trouarete. 

Il fine. 




1 






{yeàx il n.' 6) 

XV. 



P(j' chèsta strara e' è passat' u lupe. 
Tutte le rònne (V) bèlle z' k (2) magnate: 
Ma e' è remaste mò' 'na lengacciute 
Ca pe la lènga sòje ne nze marite. 

La mamme pò' pregaite sand' Andònio 
Che le facess' truvà nu 'nnammurate, 
È u sante respunnètte resulute 
Facciuru tu re créta 'mpretanate (3). 

(1> Hònne: donne; al singolare è invariabile. 



XVL 



Né 'nzèrve (I) pò' ru passe è ru rapasse (2). 
Che vàje facenn' pe' 'su giglio re ròse 
r so' menute (3) pe'parlarte chiare 



casa 



Se me vuò' dà' a figlieta pe' spose. 
Prime la port' in chiès ' è po' a la 
Cumme 'na rose la vòglie tene'. 

(ì) 'Nzèrve: non serve; è inutile. 

(2) Tutto il verso vorrebbe diro: A che serve corbellarmi't 

(3) r so* menute: io son venuto. So* è lo stesso che song. 

xvn. . 

Rònne, che st* affacciai a 'sa funèstra, 
Famme 'na grazia, né 'nte ne trasci: 
Sciùppete (1) nu capille ra 'sa tèsta, 
Càlur' a (2) basce ca voglie sagli. 

Po' quanne séme (3) 'ncopp' a 'sa funèstra 
Piglieme 'mbraccj' é portem 'a rurmi; (4). 
È quanne séme ncopp a quille liétte, 
Mannéggia ru suònn' é chi vò rurmi. 

(1) Sciùppete: strappati. 

(2) Càlur* a basce: mandalo giù: fallo cader giù. 

(3) Seme: saremo. 

(1) Rurmi: dormire. 

xvin. 

U' mamma mamma, ca mo passe Péppe, 
Quann' arrepasse ru vogl' i' chiama. 
Z' à misse ru cullare (2) re merlètte. 
Sta trapuntate re punte r' amore. 

{\) Z* à misse: si è adornato; ha indossato. 

(2) Cullare: colletto. 

XIX. 

Tu ra' a' rubbat' u cor', 'u sanghe (I) ci esce 
Ru sang' ce pózza (2) sci ma nu' nte lasse (3). 



La voce nu* si usa spesso 




in luogo di ne' *n» (non). 



XX. 



l . 1 



: . iavemiciata. , 



La verevélla (1) quanne fa ru liétte (2) 
Che le suspire vota le lenzòle; 
Ze méne po' la mane pe' ru piette 
Né 'nzò (3) càrnucce de rurmi cchiù sole. 

Miez' a stu piètte mie (4) C è 'na capanne 
Ce véne Raffaele a fa'la nonne 
nòcchie neriir é core re diémante. 
Chi me te vò' luà' rènt' a (5) sta ménte. 

(1) Verevélla: vedovella. 

(2) Liétte: letto. 

(3) Ne* *Nzo*: non sono. 
^^4) Mie*: mio. 

(5) Rent' ai dentro a, in, nel. 

XXI. 

Te r aij' ritte tanta vote 
Ch' a 11' amor' ce vò'jurizie (1) 
Le frastier' tiènne pe' vizie 
De 'ngannà, (3) la juventù, (3) 

(1) Jurizie: giudizio. 

(2) 'Ngannà'. ingannare, burlare 
(%)Qiuveviiù: gioventù. 

xxu. 

Chi te la ritt'a tè ca ne' 'nte voglie ? 
r me te piglie pur' sèrza capille. 



S)$ 




xxin. 

A 'or, a ora sona ru relogge, 
Salùtem' a nènna mij' a do' z' alloggi (1). 

iw A dn' 3* alloaae: dove è alloggiata; a casa sua. 

9. VRr aSte!- ^Mem'a quille ninni a do' vtagge. 
I due veiS'cK^n^o queato piccolo canto vengono ripe- 
tuti colle mSesime varianTi in un altro canto. 

XXIV. 

'Aije (1) pèrz' 'a (2) nènna mij a, 
Né, la pozz' arretmà, (3) 



Se pe ccase la retrove 
Quanta vascte (4) l' àij' 



da dà*. 



(1) At;e:ho. 

(?) *A come Za ra: la. 

(3) Arr^rud'; ritrovare. . 

(4) Vascw; baci. Non cambia al singolare. 



Raccolse ed annotò 
Enrico Meullo. 



I. 

'O CUNTO D' 'AMICA FERELE 

Nce steva 'na vota 'nu Re e 'na Regina e nu* te- 
tevano figli. Doppo tanto tierapo 'a Regina facette 
'na peccerelle, è '0 Re 'a facette strulecà'. Dicette 
'0 stroloche: « Chesta cà, quanno se marita, adde- 
venta pecora, e ha da tk' V pecora pe"n anno». 

Decette 'o patre: « E corame s* avria a fa'? » E 
stroleche « Avrisseve à truvà' 'n* amica ferele, che 
„ 'a prhnma sera faciarrie le vece soje ; ma avria 
„ mantenè' 'stu secreto, ca si no, si se svela, che- 
„ sta rimano sempe pecora». 

'0 Re e' 'a Regina, chiagnevano, sempe, e diceva- 
no: € Avimmo fatto tanto g'avè* 'na peccerella, e, 
„ pò', quanno murimme nuje, '0 regno chi'o fa? E 
'o pò m essa sola?». 

'A peccerella mo' s' era fatta grussecella, e, sem- 
pe, che essa jeva vicino à mamma e ò patre , isse 
se mettevano a chiagnere. Deceva essa: « Mammà, 
pecche quanno vuje verite a me, ve mettite a chia- 
„ gneref » E essa: " Niente!, Niente!, „ " Mah', re- 
„ citemello. „ E tante nce ne decette à mamma, ca 
essa 'nu juomo disse: " Tu vuò sape' 'a verità? Nu- 
„ io favimmo fatto strolacà'; e ha itto 'o stroloco, 
„ ca quanno tu te faje grossa e spuse, 'a primma 
„ sera addeviente pecura,,. 

Pigliale essa e dicette: " Po' rimane sempre pe- 
„ cura?„ " No! figlia mia. Avisse a truvà' 'n amica 
„ ferele, che faciarrie pe' 'n anno 'e vece toje; ma 
„ nun avarria svela' 'stu secreto ó Re ; si no , tu 
„ faje 'a pecora pe' sempre „. ^ ^ 

Quanno morette 'a mamma e patre, tutt e fi- 
glie de Re screvevano à essa, che 'a vulevano. Es- 
sa nu'puteva fa' sola 'a Regina , e steva tutta ma- 
linconica e deceva: « Si le scrivo a chillo, i' adde- 
,; vento pecora, e comme faccio ?„. 

Nce steva 'na nutriccia int' a casa , che teneva 
'na figlia, e aveva allattato 'a figlia 'e chella, e se 
crescevano 'nzieme , e se vulevano tanto bene , e 
essa se chiamava Rusina. 

Diceva Rusina 'nfaccia à Regina: " Regenè, che 
„ è ? pecche state cosi malinconica? " Decette es^^a: 
„ Asseme i', Rusina; si sapisse a che penzo i' ? " De- 
„ cotte Rusina: " E pecche ? Che v' è succieso? " E 
„ essa: " Tu nu' saje niente. Papà , quanno i', era 
„ peccerella, me facette strolacà', e dicette 'o stro- 
„ leche, che, quanno spusavo , 'a primma sera ad- 
„ deventava pecura e avarria fa' 'a pecura pe' 'n 
p anno. " Dicette Rusina: „ E be', e che nce vular- 



„ ria? " Respunnete: „ Nce rularria 'n'amica ferele, 
„ che ne faciarrie le vece mie; e nu' s' avria pale- 
„ sa', niente ò Re de 'stu secreto. " Dice „ Ma chi 
„ è chella che ve pò fa', chesto? " Una fa pe' 'a an- 
„ no sulo 'a Regina; e po' 'nce torno 10; ma me pa- 
„ re 'na cosa impossibele ca una po' mantenè' 'stu 
„ secreto. Rosi, tu sola me putarrisse fa' 'stu pia- 
„ ciré. Tu me sarrisse amica ferele „. 

Dicette Rusina: "Si nu'dubitate, i* ve faccio tutto 
„ ciò che vulite vuje Stateve sicura, ca io ve fac- 
,. ciò 'stu piacire „. 

Dicette Essa: " E, allora, pozzo dicere ca si. Mo' 
„ te faccio fa' 'nu ritratto e nce manne '0 ritratto 
„ tujo. Ma tu me si' ferole? " Respose Rusina: "Nu", 
„ dubitate ! „. 

'A Regina facette fa' 'o ritratto 'e Rusina, e* 'o 
mannaje ò figlio d' '0 Re, e dicette, ca essa accet- 
tava 'a mana 'e , sposa ò Re le respunnette , ohe 
isso 'ncapo 'e ottojuome isso veniva a Napue, e 
che facesse truvà' *tutl* 'e cose preparai, ca quan- 
no veniva spulavano. 

'A Regina e Rusina erano tale e quale: solo Ru- 
sina era 'nu poco chiù bellella. Mannaje a chiam- 
mà' 'o sartore, '0 scarparo, e le facette fa', 'e veste, 
'e scarpe e tutt' 'e cose a 'sta Rosina. Essa steva 
vocino, e chiagneva, e diceva: ** Mo* 'essa s' ha da 
„ fa' 'tutte cose; ha da sta' 'int' 'e festine, e i' ag- 
„ gio d'arroventa' pecora. E chi sa, chesta nu' me 
„ mantenè '0 secreto! ,.. 

Diceva Rusina : ** Allegramente, Reginella , ca i* 
„ ve so' ferele. Chisto è 'n anno: subito passa, nu* 
„ dubitate : vuje sarrite sempe 'a Regina Statene 
„ sicura, ca i' ve so' ferele „ — ** Decette essa: „ Ebbe, 
„ allora quanno tu m' è prummiso, che me si'fere- 
„ le i' quanno addevento comme 'e primmo , i' te 
„ faccio spusà* '0 primmo cavaliere 'e Palazzo „. 

Venette '0 juomo, che aveva à veni' '0 Re. 'Sta 
Rusina se vestette cu' 'st' abete che s' aveva fatto 
e 'a Regina faceva à cammariera vecina à essa. Ve- 
nette '0 Re , e essa jette a ricevere 'o Re cu' 'sta 
Regina à fianco, che faceva 'a figura 'e cammarie- 
ra. Diceva 'o Re: " Comme 'a purtate, sempe, appries- 
„ so 'sta cammarera? " Diceva essa: " Eh! nujence 
„ simmo cresciute piccole e nce vulimmo 'nu bene 
„ pazzo,,. 

'A Regina che faceva 'a figura 'e cammarera e 
chiagneva e deceva: " Stasera, a^ìo addeventà' pe- 
cora! ,;. 

'A sera int' à 'na stanza, che currispundeva int'6 
Giardino, facettero fa' 'na scala 'e seta; ca pe' la, 
doveva scennere 'a pecurella,e 'nu bagno d'acqua, 
ca chella se nce vuttava là dinto e arroventava pe- 
cura 'A sera se vestette à sposa 'sta Rusina e 
jeva a spusà' cu' nomme e cognome d' 'a Regina e 
nu' ghieva a spusà' co' nomme e cugnome sujo. *A 
sera, prima 'e se vesti* , se jette a licenzia' cu' sta 
Regina e disse : " Stateve sicura , ca mantengo 'o 
„ secreto e nu' state 'e cattivo umore „. 

Dicette essa: " Ma i' tengo '0 pensiero ca tu nu'me 
„ mantiene 'su secreto! „. 

Se lecenziarono tutt' 'e doje e se ne jettero. Chel- 
la rimanette int' à stanza, e Rusina jette a spusà'. 
Essa mo' steva essa sola int' à stanza e aspettava 
r ora ca chella jeva 'ncoppa a 1' altare ; e a l'ora 




jpettava i orare, aeceva ncapa 
sa: ** Chella sta into a tante festine, passa 'n anno, 
fa 'a Regina; e pò 'chi e che se ne ricorda , neh? 
Si sarrie i' manco 'o faciarrie, e manche mantenar- 
rie 'stu secreto. V pe' me faciarrie 'a Regina enu' 
lu mantonarria, io ! .,. 

Finalmente, vcuettc l'ora precisa che chella (kv 
lette 'o nomme sujo 'ncoppa a l'altare. Essa se vut- 
taje int'a chell'acqua addeventaje 'na bella pecu- 



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rella. Se ne scennette pe' ehella scala 'e seta, e se 
ne jette info Giardino. E cominciaje a sospira': "Tu 
„ te staje c"oRe mio, e i' so' pecurella „. Pigliaje, 
venette Rusina, cercaje permesso de ierese affac- 
cia' e decette: ** *A vi' lai. „ e co' fazzoletto 'o sa- 
lutavo, dicenno : " *A vi' tól „ Ncà puteva parla*, 
se nu' sentevano dinto. Ascette fora 'n' ata vota; e 
dicette 'o Re; " Permettete, debbo primmo i' a di' 'e 
„ devuzione mie e po' entrate vuje,, — 

E se mettette là dinto affacciata ò barcone e mi- 
rava 'a pecurella. Passaje 'n'ora, doje ore e dicette 
'o Re: '' Chesta che ha da fa' dinto? " Aperte 'a por- 
ta e trasette dinto e truvaje assettata a Reggina. 

Appena 'o verette trasr,se 'ngenucchiaje é piere, e 
" decette: Maestà, grazie! M' avite à fa' na erazia „. 

Dice:." E che grazie vuò? E che significa onesto?,,. 

— "È 'nu secreto, che ha da passa' fra me e te!,,. 
„ E dimmelo. " Ma tu me lu devi mantenere se- 
creto e deve passare fra me e te. " E isso : " E 
dimmelo! Ti faccio 'stu piacere „ 

— r aggio fatto 'nu voto a la Madonna, ca quan- 
„ no doveva arriva' 'a vintuno anno, me doveva 
„ maretà' e tengo vinte anno e ha da passa' 'n ato 

anno Tutte quante me screvevano à cà e da 

là; e i 'n' 'o poteva svela' 'stu secreto e perciò so 
„ stata costretta a spusà*. Vuje ve state int' à stan- 
„ za vesta, ca io me sto à stanza appriesso. Quan- 
„ do po' è l'anno che vene , a chest'ora facimmo 'n 
„ ato festino; e nu* facimmo a sape' niente,,. 

Dicette 'o Re: *' Chesta è pazza; e pecche nu' m' 
„ 'o mannava a dicere, prlmma?,,. 

„ E i' nu' lu puteva ai' !„. 

" E, allora, facimmo 'sto sacreflzio,,. Se saluta- 
jeno e isso se stette int' à stanza; e essa se ne jet- 
te int' à stanza appriesso , dove av^va fatto appa- 
recchia' no lietto, che metteva int' 6 ciardino. 'A 
matina, primmo d"e caramarere, essa se faceva tru- 
và' dinto. '0 juorno 'o Re deceva: ** Vulimmo an- 
„ dà' a fk 'na passeggiata ? *' e essa deceva: " No! 
„ Voglio i 'a passeggia' int' ó ciardino,,— -Chella pe- 
curella appena à vedeva, le curreva 'ncuoUo e es- 
sa tutta r allisciava e le purtava 'e miglie car- 
tocce 'e dolce. Po' deceva int' à recchia d' 'a pecu- 
rella: " Quatto altre mise; tre altre mise „. E 'o Re 
deceva: *' Chesta parla e' 'a pecurella! Chesta è paz- 
„ za! Ma perchè tanto amore cu' 'na pecurella?,,. 

Essa respunnpva: " Tu haje da sape' che a me 
„ piaceno assaje 'e pecurelle ; i' nce vaco a 'mpaz- 
„ zire. " E isso: „ h pecche tu nu' te spusave a'nu 
„ piecuro, che t' he spusato a me? Into a 'stu ciar- 
„ dine nu' te faccio scennere chiù: " E essa:,. Noi 
„ tu vuò 'a morte mia. Almeno 'n 'ata vota me a 
„ fa' scennere into a 'stu ciardino. " Decette 'o Re:,, 
„ Sola 'n 'ata vota, e po' nu' te ncQ faccio scenne- 
„ re chiù. Si nò mo' le taglio 'a capa e faccio fini' 
„ 'e quistione „. 

*0 dimane come 'nfatte scennette a passeggia' int' 
ò ciardino, e 'a pecurella le currette 'ncuollo, e isso 




ipusata. I 

„ ne, fa l'anno. Vide, ricordate 'a prumessa. „ E es- 
sa: " Nu' te ne 'ncarricà' !„. 

'0 dimane 'a sera, facettero 'na bella festa. Essa 
preparaje ehella scala 'e seta, comme era scesa 'a 
pecora e n'ata vota 'o bagno , e quanno fuje me- 
zanotte 'sta pecurella sagliette, se menaje info ba- 
gno e addeventaie cristiana. 

Chesta Rusinella aspettava int'à stanza. Appena 
'a verette, decette: "Regina, ricordateve 'a parola 
„ che me facisteve; e capite ca i' tengo 'nu figlio!» 

'A Regina, che sente tte chesto, dicette arrangia- 
ta: < Va , bene ; po' se ne parlai • e se ne jette 



int'à stanza sqja e decette; « Chosto è 'o beneficio, 
„ ch'aggio fatto! » 

'Sta Reffina steva tutt' arraggiata cu* *stu Re, e 
nu' le parlava , pecche teneva gelusia 'e Rusina. 
Dicette 'o Re: " Chesto garrà pecche me decette, 
„ ch'aveva fatto vuto à Maronna e che doveva 
„ passa' 'n anno e mo'manche me dà retta. „ De- 
cette 'a Regina: ** Vuò vere ca chisto mo' 'vo fa' 
„ sta' Rusina pe' Regina; e a me me caccia à into 
„ à Corta mia. „ 'O juorno appriesso 'ncontraje 'o 
Re intoa'na porta, mentre steva pe'ghi* a caccia 
a Puortece. lenno 'o Re a caccia, Rusina steva af- 
facciata ò barcone, 'e verette à luntano e 'o chiam- 
majtì. *0 Re dicette:,, Chesta è pazza: è ghiuta 
,, primma 'e me! " Essa scennette e decette: „ Maestà 
i' faggio a di' 'na cosa „ — Dice : " Ched è mo' 'me 
„ chiamme Maestà ? „ — " Ebbe, comme v' aggio à 
„ chiammà'? Avite a sape ca nun è vero ca i so 'a 
„ moglie vosta.... „ E a cussi le raccuntaje tutf 'o 
fatto. 

Allora decette isso: " Ah! niente meno tu ha fatto 
„ tanto? r voleva dicere che nu'me pareva isso. Tu 
„ nu' te ne 'ncaricà' , viestete e viene cu' mico. „ 
'A mettette int 'à carrozza soia e s' 'a purtaje a 
palazzo. 'A Regina decette: " I decevo buono: tanto 
„ eh' ha fatto, è ghiuto pure a pigliarla. „ 

'0 Re sagliette, chiammaje ^ essa e disso: " Vie- 
„ ne cà'. Chesta è ehella che f 'a fatto tapto a 
„ 'stu tiempo, che tu si' stata pecura, Nce deciste, 
„ che quanno faceva V anno , le facive spusà' 'nu 
„ cavaliere 'e palazzo, e po' T he trattata 'e chesta 
„ manera, mentre essa fé stata ferole, fino a l' ur- 
„ demo. „ E, accussi, recenno le repetette 'o fatto. 
'A Regina, tutta mortificata, se pentette, le cercaje 
scuse e disse de farle spusà' 'nu cavaliere. Decet- 
te 'o Re: " Rusina pe' cnello che ha fatto nu' se 
*' merita nu' cavaliere ; ma 'nu Re. ,, Mannaie a 
chiammà' 'o fratello , eh' era Re 'e Purtugallo e 
ne' 'a facette sapusà', e 'a facette Regino, e furono 
cognate. 

Raccolse m Piano di Sùvrento 

Gaetano Amai^fi 

Sono comunissimi i conli, in cui si fanno delle previsieai; e di 
profeti importuni, ne abbiamo avuti , dovunque e spesso : ba- 
sterebbe ricordare gli oracoli e le sibille , presso gli antichi. 
Riscontra, a questo proposilo, nell'introduzion del libro di Fran- 
cesco Moria Aruet di Voltaire, il capitolo trigesimo secondo, in 
cui si parla delle Sibille appo i Greci e delta loro influenza 
sulle altre nazioni et passim; e nella Piazza universale ec. 
(li Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, il capitoletto d^<7/tMdo»tnt, 
eccetera, eccetera. Così, anche, nel Calloandro Fedele ùì Gianam- 
brosio Marini, si dice, che il Turcomano ci aveva una sorella.* 
« della quale, ancora in fasce, minacciarne gl'indovini infamia 
« alla stirpe ed allo stato distruzione , se ella prima arrivare 
« a'sedici anni avesse avuto, non sol pratica; ma vista degli uo- 
« mini ( Par. I, Lib. IL in fine ). Sono comuni, in altri conli, i 
« riscontri parziali. 



CANTI POPOLARI SORANI 

{Contintuizione vedi n. 2^ 4^ 5, 6,7, 8^9^ iO). 

STORNELLI 

1 . Une, du' e tre, chist' e' glie prime; 
Chist' e' glie molenare de ieressera, 
Che ghianca me la fece la farina. 

2. Une, du' e tre, chist' e' glie appresse; 
Tu rosa che si* nata 'mmes' ali acqua 
Sr nata pa' destrogge chiste pette. 

3. A sterenneglie me site 'mmetata, 
Voglio canta se me ce volito, 

Se no ve le chiave du' cortellate. 

4. De mett* a canta o* me non te ce voglie, 
Ca té' 'na ciocca pare 'na cavalla, 

E ce sta rotrattata 'ncampetoglie. 



86 



5. De stronneglie ne sacce 'na vena, 
De maccarune 'na callara chiena. 

6. De stronneglie ne sacce 'ne sacche, 
'Ne sacctie, 'na saccuta, na saccoccia, 
Se me la mette 'ncógiie non la pózze. 

V. Gas. Imbr. II, 64, la variante di Airola. 

7. Marluccia, 

Biate chi te strc^' e chi t' allaccia, 
Biate chi te bacia 'ssa yoccuccia. 

V. Tommaseo voi. I, pag. 374. N. 11; Tigri somello N. 97, pag 539* 

8. Marluccia, 

Té' chessa vonnella tutta 'n fiore, 
Chessa voccuccia adderà de vYola. 

9. Mariuccia, 

Te s' è 'ntostate le pane *n saccoccia, 
Te preie, bella mia, famme la zuppa. 

10. Mariuccia, 

Acchiappia la scoppetta e 'iam' a caccia, 

11. Marluccia, 

Chiappa la concolina e 'iam pr' acqua. 
Glie amore nostr' alla fontan' aspetta. 

12. Marluccia, 

La costa te V azzicche chiane chiane, 
'Ne* na mane te 'nf unne la faccia serena. 

13. Fior d'èllena, 

Ch' è fatte, amore me, sta' 'sci in collera? 
Te si* magnata la cecoria tènnera? 
U. Fiore d' èllena, 
Gomme me piace glie floritte gialle ! 
Glie amore me glie porta aglie cappeglie. 

15. Fiore de gesse. 

Tutta la pena mia te recontasse 

Sott' a 'na capannella, e apo' chiovosse! 

16. Fiore de gesse, 

Appiccia du cannele 'n cima a 'ne sasse. 
Alluma glie amore me che pass' adesse. 

17. Fiore de mela, 

Delle mela tu ne si' la rama. 

De 'ste core tu si* la chiù aggradita. 

18. Fiore d* uva. 

Non pózza ma' scurtà' pe' quanf è bona, 
Robba desiderata poche dura. 

19. Fiore d' ulme. 

Le male léngue Di' le condanna, 
E doppe condannate, agli proflfunne. 
30. Fiore de lenticchia. 
Quanta se sta glie pret' a dice la Messa, 
Sente glie amore, sta for' e me fischia. 

21. Fiore d' anglenne, 

Retirete glie Iacee agli mutanne, 
Ca r acqua va addo' la terra penne. 

22. Fiore de menta, 

La menta è peccolina e adderà tante. 
Glie amore sta lontan' e non me sente. 

23. Fiore, fioreglie. 

Tu, Sant' Antonie, te lamento tante. 
Signe ca t' èv' arrobbate glie campaneglie. 

24. Fiore de viola, 

Trascùrruce 'n e' mammeta massera. 
Se te vò' manna addomane fere. 

25. Fiore de violetta, 

Té' du' beglie colure rusco e ben fatte, 
Aglie giardino d'amore la frauletta. 

26. Fiore de viola, 

Mariteme sta mal' e non vò' 1' ova, 
So* cotta la caglina e non la prova, 
Diammena! che sta a fk' che non se more? 



NOTIZIE 

Pre^hlain» quel p^ehl abbinati Èt%mrmmé 
di mettersi, al più presta passibile, In 
sala eam l'AmiiiliiistraBiaite. 



NeirATBNKO Italiano (Milano . 1 Novembre 1884) Anno Vili. 
Num. 9. G. Giuseppe Pescatori , pubblica degli appunti sopra 
« Due parole d'orig ine tedesca nel dialetto parmigiano. 



L'egregio nostro amico, avv. Francesco Brandileone, nel Pre- 
ludio (Ancona, 16 ottobre 1884) anno VIIL N. 19, ha pubblicato 
una interessante lettera diretta al Dott. Michele Scherillo con- 
cernente la Commedia dell' Arte , « Sul tipo di Don Fastidio 
de Fastidiis •. 



P. E. Guamerio ha dato alle stampe, per le flaiuste nozze Vi- 
vante- Ascoli, una novellina popolare Saraa, scritta in dialetto di 

Luras in Galluria. 

Nel giornale II Piccolo (Napoli, 13 Ottobre 1884) Anno XVII, 
N 285 , leggesi un articoletto di anonimo autore, intitolato < / 

tribunali della Camorra •. 



Caro Molinaro, 

Tempo fa acquistai, legate, in un volume, parec- 
chie opericcìattolo di Nunziante Pagano; ma nella 
prima edizione. Fra queste , vi è un opuscolettino, 
(ignorato , anche da Pietro Martorana, nelle sue 
notizie biogr. e bibliografiche degli Scrittori na- 
politani,) il quale s'intitola: Lo Stierro \ deli \ Ino- 
che; e l'argomento è trattato in ventidue ottave, di 
cui permeitete, ch'io vi trascriva la prima, solo mu- 
tando la cacografia in ortografia. 

Lo juoco ditto è ghiuoco; ma n'è ghiuoco. 

Che è cosa seria: e mbò, se sa chi è isso. 
Né te feda' a lo nomme niente, o poco; 
Ca non è ghiuoco, no; ma vero abisso. 
È 'na mina; è 'nu sterminio; è fuoco, 
Che consumma e devora ogne marisso; 
E addove arriva, mara a chella casa, 
Ca 'mpoveresce, 'mpezzentesce, e scasa. 

Il solito gergo mezzo italiano ; e mezzo vemaco- 
colo, che, poi, non è; ned italiano ; né vernacolo... 
ma l'importante é di ricordare questo scritto , (a 
quanto pare), sconosciuto. 

E, qui colgo r occasione , per notare alcune ine- 
sattezze, in cui è caduto , nel passato numero, del 
Basile^ l'autore dell'articolino sul libro del Dialetto 
napolitano del Galiani. Il vocabolario nap. fu pub- 
blicato sotto il nome degli Accademici Filopatri' 
di: e non già Filopatrici. La Lettera terza, am- 
monizione caritativa oc. non è mica del Serio, 
come, forse per errore di stampa, si dice; anzi del 
noto Michele Sarcone , il quale era tutt'altro , che 
un tale. Basterebbe solo quest' opuscolo a mostrar- 
lo uomo colto: si può dissentire; ma negargli coltu- 
ra, non parmi esatto. Del resto, ho notato queste 
inezie , perché mi son cadute sotto la penna : e 
voi ; e il sijnor Pascal e i lettori mi scuserete, 
spero. 



(Continua) 



Vincenzo Sihoncblu 



Napoli, 10. XI. 84. 



Vostro 
Amalfi 






Gaetano Molinaro — Responsabile 



SUbilimento Tipognico di Vinceaso Pesole — Tia S. Sebutiuo ,3 



JiA X% iSrtf 



Anno II. 



Napoli, 15 Dicembre i8S4. 



Num. 12f. 



GIAMBATTISTA BASILE 



ARCHIVIO DI LETTERATURA POPOLARE 



ABBONAMENTO ANNUO 



Per r Italia L. 4 — ICstero L. •• 

Un numero separato centesimi 30. 
Arretrato centesimi 40. 
I manoscritti non si restituiscono. 
Si comunichi ilcambiamento di 
sidenia. 



Esce il 15 d'ogni mese 



AWESTSNZfi 



Per tiitti gli articoli è riser- 
vata la proprietà letteraria e 
sono vietate le riproduzioni 
e le traduzioni. 



Indirizzare vaKlia, lettera o uM^oscrìtti 
al Direttore Wjuigì Molliiarto Uek 
<*hlaro. 

Si terrà parola d»lle opere riguardanti 
la letteratura popolare, che saranno 
mandate in dono, in doppio esem- 
plare, alla Direnone: Calata Gapodi- 
chino. 56. 



h 



SOMMARIO: — Farse rustica li (M Schkbi^o) — O canto d' a 
Bella Viola (G. Amalfi) — Conti calabresi (V. Garavelli) — 
Ganti popolari sorani (V. Simoncklli) — Notizie — Pubblicazio- 
ni in dialetto pervenuteci in dono. . 



FARSE RUSTICALI 

Ancora lis sub judice est! 

Al mio articolo' sulle Tradizioni drammatiche 
popolari, pubblicato nel n. 12 dell'anno 1. di questo 
giornale, Tamico Garavelli replicò largamente nel 
n.° 2 dellanno llj ed il suo articolo, oltre ad una 
ristretta tiratura m opuscolo, fu anche ristampato 
neir Archivio per le tradizioni popolari diretto dal 
Pitrè. — Per conto mio , riproposi la mia ipotesi 
nel recente volume di studi e profili sulla Com- 
media delVarle in Italia (pag. 60-61; Torino, Loe- 
scher , 1884) ; ma anche il Garavelli è tornato 
alla carica, in una rivista, per me del resto molto 
lusinghiera , eh' egli fece del mio volume nel n.* 
40, an. XI dell' Illustrazione Italiana. 

Profitto d'un momento di tregua; e pubblico qui 
alcune farse rusticali carnevalesche, raccolte a So- 
lofra (provincia di Avellino), ed a me comunicate 
dalla cortesia dell' avv. comm. Luigi Landolfi , 
solofrano. Vanno tutte sotto il nome di « Zin- 
gare »; e su' manoscritti eh' io ho avuto fra mani 
e' è indicato il nome del poeta compositore e Tan- 
no in che ciascuna farsa fu composta. Le dò tal 
quali , senza pigliare nessuna responsabilità ! E , 
almeno per adesso, non aggiungo commenti. 

M. SCHERILLO 

ZINGHERA 

COMPOSTA DA 

ELEONARDO MOSCA 

1820. 

Personaggi : 

Zingara prima 
Zingara seconda 
Un Dottore 
Un Pulcinella. 

Zing. i.* — Fin dall'egizie arene 

Volarne al par del vento 
Mi spinse , oh gran portento ! , — il tuo 

[sembiante. 



Zing, 8^ — m fé' drizzar le piante 
Di tua beltà nomea, 
Oh* io fin di là tenea — quasi divina. 

Zing. /.* — A cui umil s' inchina 
Ogni amator più degno. 

Zing. 5.* — A cui stupisce a segno — ogni mortale. 

Zing. 1^ — Ti fan frejfio reale 
L' eroine più belle.... 

Zing. 2.* — T' influiscon le stelle— -ogni splendore 

Dott. — No 'me dice lo core 

Pe 'na lite meschina 

De ire 'n Tribunale — stammatina. 

Tiempo è de Carnevale, 

Senza lo capo Rota 

M' è perraisso 'sta vota — • de fa' festa. 

Pul. — Apre r uoccliie, e t' allesta 
Ca te nce puoi spassare 
Se cheste annevenare — se so' poste; 
E co' doie facce toste, 
Te diciarranno tutto 
Chi t amma, chi è lo frutto— e chi ti vole. 
Co quatto o sei parole 
Te sentarraie che aie, ncore, 
S'è fatto gruosso Ammore— opeccerillo; 
Se te spasse co chillo; 
Se ne' è quacch' avuto attuorno; 
Se isso è de sto contuorno — o sta lontano. 

Zing. i.* — Pria di svelar T arcano , 
Dèi tu, signora mia, 
Prodiga cortesia — a noi donare. 

Zing. 5.* — Siam pronte a palesare 

Chi del tuo amore è degno ; 
Chi t'ama, ed a quel segno, — in pochi 

[accenti. 
/.* — Si si spero gli argenti.... 
2.* — Anzi r oro sper' io.... 

- Che oro, core mio ! — Pane e presutto ! 
Vasto che 'ncegno, 'ntutto 
'Sto capone è sfrattato ! 
Ca so' proprio allancato — de la famma. 

Dott. — Curro e scuopre 'ste tramme 
Che se tèssono 'n corte : 
So perze e quasi morte — le parole. 
Nce pozza ire chi vole, 
Pe' me, 'ncoscienzia mia, 
Vorrla c'a Vecaria —cadesse 'n chiuramo! 

Pul. — La cucina fa fummo, 

Va curro a la respeusa; 



Zing. 
Zing. 
Pul' 



90 



' 'Igaice na credenza — e portancella. 
E po' da chesta, e chella 
Che te vorraie sentire, 
Quant' avarr.j ie da gioire — e "ngaudeare! 

Zing. i.* Ei per te solo amarvi 
Non ha pace o riposo. 

Zing, 2,^ — Il tuo bel cuore ansioso — disia amarlo. 

Zing. i.* — Ei da un penoso tarlo 

Ha roso il petto ognora. 

5/ — E voi penate ancora, — io lo dlscerno. 



Zing, 

Zing. 
Zing. 
A 8. 
Doti. 



i.* — Si passerà 1* inverno.... 
2.* — Verrà tempo felice.... 

— Che ad ambi goder lice — e gioia e pace. 

— Troppo ca me piace 

'Stu canto 'nzuccarato, 

'Sto viso aggraziato, —- ed oh che spasso! 

Nenna, co' lo compasso 

Si' fatta e co' misura : 

Non potea chiù natura — farte bella. 

Restata è schiavottella 

'St' arma de 'sta bellezza ; 

Te' me tira a capezza, — io sparpeteo ! 

Pul, — Buono ! Masto Chiafeo 

Nce voleva pe ghionta! 

E se io la piglio a ponta— -isso è speruto! 

Dott — Bella, tu m' aje feruto 

Co 'sf nocchio a zumpariello. 

Che spata,anze cortiello — me dà'mpietto. 

Io non trovo arricietto ; 

'Sto core è ghiuto 'n fiamma; 

Àmmami, bella, amami: — io non ti lascio. 

PuL — Né, siè Dottò', cca bascio 

Uscia nce ave che fare? 

Vide se puoi passare — a *n' àuto vico ! 

Io te parlo d' amico : 

Ca po' si sferro, e faccio , 

Subito te Io straccio — e la goniglia. 

Zing. i.* — Quanto a te somiglia 

Quel garzoncel che t' ama, 

E teco unirsi brama — in casto nodo. 

Zing. 2!" — Non trovo luògo , o modo 
Spiegarti il: grande ardore 
Cile ognor ti brucia il core — e lo con- 

[Buma. 

Zing i.* — Vorrei spiegar le piume 
Volando a te d' intorno. 

Zing. 2^ — Starei di notte e giorno — a te vicino. 

Zing. 1^—0 prende a far camino.... 

Zing. 2."^ — le contrade ci gira... 

A 2 — Sempre per te sospira — e per te pena. 

Dott. — E fornuta la scena, 

Son^h' io, eh' ogni tantillo 

Veco ca no zennillo — io mo vorria. 

Che dici, nenna mia, 

M' ami e vuoie pe sposo , 

Ca io pe te renonzo — Tante tutte? 

p,il^ — Cheste non te 1 asciutte ; 

Sfratta, ca nn' è pe buie ! 

Dott. —Tu che dice? franuie — nc'è l'apparato... 
Uno che ha studiato 
La legge dottorale : 
Non pò maje veni' male — a chi s' accoc- 

[chia. 
Te cridi ca è papocchia ? 



Bartolo Giustiniano 

Grozio, Ugone, Graziano, — anco Gravina, 

De sera e de mattina 

Studèo, po' corre 'ncorte 

E m'abbusco pe sciorte— li denare. 

Perzò cosa me pare 

Degna de me chella: 

Date niihi poella — e V avuto riesto. 

Pul. — Gride ca co' sto tiesto 

Aje fatto lo negozio? 
Tu saie che dice Grozio? — ^Oje cca nce ab- 

[busche ! 
E secunno le Crusche 
De frate Zoccolante: 
Se no puoie passa' 'nante — te ne vaje 

Dott, — Tu specie non me faie, 
vii fantacchinaccio ! 
Io po' sa' che te faccio? — Te stroppeio! 

Pul. — E vide ilo cchiù peo, 

Siò Dottore alla moda, 

E rieste co na coda — sette canne. 

Dott. — Fotta d* Apollo il granne, 
A me 'sto vituperio ? 
Voglio fa'nu streverio — a sango e fuoco. 

Pul. — Meglio se pe 'sto luoco 

Faie vuto de passare , 

Se haie gollo de campare — 'n* àu to j uomo! 

Dott. — E tu, facce de cuorno, 
Po' vieni nitto 'nfato, 
E me trase de chiatto — da dereto ! 
Se sbòtono decreto, 
Peto prò magna àurea, 
E te manno de furia.... — 

Pul. — Addo' ? 

Dott. — 'Ngalera ! 

Pul. — Troppo ce aie mala cera ! 
Ma se non te ne vaie. 
Guastare me farraie — li fatti miele ! 

Zing. i.*~T'aman del Ciel gli De-, 

T' aman gli uomini sovente: 

Amor per te già sento — ognor nel petto. 

Zing. 2."" — A si leggiadro aspetto. 
Beltà si pellegrina, 

Conviene ch'ognun s inchina — ognun che 

[t* ama 

Zing. i.* — So ben che saper brami 
In quale amica stella 
Sortiste, Dea più bella, — i tuoi natali. 

Zing. 2."" — E quanti siano, e quali 
Giorni felici e lieti 
Che nei proprii decreti — il Ciel destina. 

Zing. i.* — Si si, bella eroina.... 

Zing. 2.^ — Volto gradito e vago... 

A 2. — Sarà contento e pago — il tuo desio. 

Dott. — 'St'uocchie, sciorillo mio. 
Menano f rezze e strale, 
Pocca chiaia mortale — fanno n pietto. 

Pul. — Va tocca, pe 'sso nietto 
Non è pane pe buie ; 
Pocca sapimmo nuje — chi è l'ammico. 

Dott. — Si aggio chisto neramico 
Me guasta lo designo ; 
Le voglia da'jpe pigne — quarche cosa. 
Pocca dice la chic^sa: 



91 



Doti. — 



PuL — 



U amico sempe giova ; 

Facimmoae la prova, — a nuie, vedìmrno. 

Dello piacere inprimmo 

Piglia, sciale e mangia; 

Se la cosa s'accongia, — avraje lo riesto. 

PuL —Co nuje no nce vo' chesto ; 
Tutto è pe bontà vosta. 

Dott — Vasta ch'essa è disposta — so' lesto epronto. 

PuL — Io pe' me non me 'mponto 
Fàreie la 'minasela ta 

DotL — Fancella carrecata — e dille tutto. 
Songh' io r unico frutto 
De casa Parapaglia, 
Nobile air Anticaglia — de Pezzuole. 

PuL — Io te saccio allo Aiuolo, 

Co li scolare appriesso. 

DotL — Frate, non sulo chesso, — e 'mMecaria. 

PuL — E Uà po', 'n fede mia, 

Aje fatti li portiente. 

Pecca chi non sa niente — chiù guadagna. 

'N corte se sta *n coccagna : 

Faje le carte 'mbrojate, 

C* abbusche li denaro — e statte buono! 

'Nante te schiaflfa truono, 

Che vedere 'sto juorno: 

Pe certo oje co no cuorno — te 'mbottone! 

Zing. i.* — Stelle per te non buone 
Giammai furo, o Signora, 
Che rendono talora — oscuro il Cielo. 

Zing, 5.* — Lucida e senza velo 
La cara Cinasura 
Amante ti prooura—ogni gran bene. 

Zing. i.* — Saper ben ti conviene 

Che quel, che per te langue 

Germe è di nobil sangue — e d'avi degni. 

Zing, 5.* — Mon son Provincie o Regni 
Ove non giunge, o vanta 
Sua fama, e lo decanta — assai fedele. 

Zing, i.* — Non producan le vele 
Dell'Indie Orientali 
Tesori al pari uguali — a sue ricchezze. 

Zing, 5.* — Egli nelle fattezze 

T'jtto ti rassomiglia; 

Portento, oh meraviglia, — oh coppia bella! 

Embe\ siente, nennella, 
Songh* io nòbbele e ricco. 

Si, sta chiù de Cicco — lo vastaso ! 

Se me mine no vaso, 
Te farraggio patrona 
De tota et ommia bona — in casa mia 

Ha da sapere Usci a 

Ca chisso è no sfelenza : 

Vi' ca le cade a lenza — lo manticchio. 

Se Danubio e Resticchio 

Menasse acqua pe' 'n' anno, 

Maje votta' ne porranno — li trasori. 

Le ricchezze de' Mori, 

La nobiltà Romana, 

Pe* me se 'nforna e 'ntana — e se nasconde 

•Deh sciocco, vanne altronde, 
Non sei prescelto il vago; 
Altri è di quell'immago-— il possessore. 

Zing, 2," — Il sovran Facitore, 

Per quanto io ben discerno, 

Con suo decreto eter no — altri ha proscelto. 



DotL-- 

PuL — 
DotL — 

PuL — 

Dott,— 



Zing. i.* — Sebben sembrati svelto 

Dal petto l'alma e il core, 

Convien ceder l'onore — a chi è dovuto. 



Zing, i.* 



Zing. 5*. — 
Zing. 1\ — 
A 2 — 
DotL — 

PuL — 
DotL — 

PuL — 
Dott. — 

PuL — 
DotL— 

PuL — 

Dott.— 

PuL — 

Zing. i.* — 



Zing. 2." — 

Zing. i*. — 
Zing. -2.* — 
A 2 — 
DotL — 



PuL — 

DotL — 

PuL — 
DotL — 

IhcL — 
DotL — 

PuL — 

DotL — 

PuL — 
Zing. r 



Perciò tacito e muto.... 

Umil, pronto e chinato,... 

Vanne pur dove il Fato— oggi ti chiama. 

Comme, mia bella dama, 
l'i come voglio fare? 

Te' può' ire a derrupare; — e che nce faie? 

Tu 'sta pena me daie, 
Terzana doppia mia... ? 

Malan che Dio te dia — vaie 'na rapesta 

Bella resposta è chesta 
Proprio da paro vuosio. 

Se tu si' stato tuosto — aggi pacionzia! 

Crero ca na sentenza 
Peo non potea dare. 

Te puoje ire a derrupare: — e che nce 

[aspiette ? 

E comme ? li confette 
Io non te potea dare? 

Chesso che ne vuoje fare? — Va te 'm- 

[pienne ! 

Stolto chi al Ciel contende 
L' ordin dei suoi decreti ; 
Giorni aver non può lieti, — è sempre in 

[pene ! 

Perciò ben ti conviene 

Chinar al suol la fronte, 

E amar con voglia pronta — i suoi voleri. 

Bene alcuno non speri.... 

Sorte alcun non pretenda 

Se dal Ciel non discende, — e noi dispone. 

Me l'hanno, e co' raggione, 
Ditto, ma chiatto e tonzo 
Quanto me chiamo Fonzo—e no' faccio 

[àuto. 

Tu po' zompaste 'n àuto 

Cadiste chiù de botta. 

Come fa na Marmotta — a na Signora. 

Io marmotta? Malora! 
Don Crispo Parapaglia 
Non ci è chi l'eguagliar— *n tribbunale! 

Chiù priesto a no spitale 
Avrai fatto lo sguàttero! 

Mo te schiaflfo no pàccaro — e te 'mparo! 
Si, 'm Mecaria, comparo; 
No lo credere, sponza. 

Te piglia na caionza— e te Tagliutte. 

Darò percossi e rutti 
Tutti li pretendiente ! 

Te puoie spicca li diente : — non ne 

fpruove ! 

Tu co ste male nove 

Me farraie proprio morire! 

Contro non se po' ghiro— a lo destino ! 

Sin di Febo il camino 
Termina, o mia Signora; 
Deggio al mio dir per ora— anch' io por 

[fine! 



92 



Zing. 2.'^ — Pioggia di fredde brine 

Minaccia il Cielo adesso ; 

Dunque siaci permesso — alfin partire. 
Dott. — Ah!.... mi sento morire 

Pe la gran passione ! 

Mangiato lo permone — a sta partenza. 
PuL — Va, bella ; a la despenza 

Plgliace robba assaje ; 

Pecca, crero ca saie, — tengo la bramma ! 

DotL — Ed a me chella sciarama 

Ch'aveva d'amore 'mpietto, 

S' è botata in affetto — de mangiare ! 



PuL — 

DolL — 
Zing.reS 



DotL — 



PuL — 



DotL — 
PuL — 



DotL — 



PuL — 

DotL — 
A2 — 
DotL — 
PuL — 
DotL — 
PuL — 
A 2-^ 



Oh! mo la vuoje 'ncartare 
Pe na sciabola, e lesta. 

Quanno se fa la festa — io cà nce torno. 

* — Onde, nel far ritorno 
Al nostro suol natio, 
M* inchino, o bella. Addio, — rimanti in 

[pace. 

Troppo ca me dispiace ! 

Ma besogna partire. 

Saj e, che te voglio dire...- Aggeme a mente! 

E se t'accorre niente 

De lite, Vecaria,... 

Lite mo ? arrossosia ! — Va, va, a malora! 

Sempre festa ognora. 

Pace, gioia, allegrezza 

E tirare a capezza — ogue nemmico! 

Nce l'aggio ditto, amico, 
Pe farle na promessa. 

Frate 'n'è cosa chess^: —s tatto zitto! 
Ca nuje mo, mutto e zitto, 
Nce la jSlammo altrove 

Ah! ca chiù mo me truove, — core mio. 

Parlo, ma lo ssacc* io 

Co' che spina allo pietto ; 

Pecca, sempe V affetto — ne* è restato ! 

Vaco pe' monti e prato 
Facon no leverenzia. 

Io ti cerco licenzia. 

1 Addio... Fatella... 

Luna lucente e bella... 

Sole tutto sbrannore... 

Parto 

Ti tengo 'n core. ... 

Addio Addio. 

Fine. 



^O CUNTO D"A BELLA VIOLA 

Nce steva 'na vota 'na mamma, cu'tre iSglie: una se 
chiamraava Viola, 'n'ata Maria e 'n'ata Teresa (1). 
Una ricamava, Tata tesseva e 'n'ata filava. Viola 
era *na bella figliola. Quanno 'o figlio d' 'o Re 
passava, 'a matina, deceva: " Quant'è bella chella. 
., che cosa; | quant' è bella cholla che ricama; ( ma 
,, quant'è chiù bella chella che fila; | me fila 'stu 
,. core. I E bella Viola | e bella Viola. „ 

'E sore se 'ngelusettero e 'o juorno appriesso 'a 
metterò 'a ricamìi'. '0 figlio d* 'o Re passaje 'n' ata 
vota: ** Quanta è bella chella che fila ; J quant'è 
" bella chella che cosa | auaut'ò chiù bella chella 
' che ricama | me ricamo sto core | e bella Viola 
•' e bella Viola! „ 



'E sore, 'o juorno appriesso, se metterò 'ncurrivo 
e 'a metterò a coserò. Quanno passaje 'o figlio d' *o 
Re: *' Quanta è bella chella che fila; j (quanta è bella 
chella che ricama: | "ma quanto è chiù bella chella 
" che cosa | me cose stu core | e bella Viola | e bel- 
•' la Viola! „ 

'E sore decettero accussl: ''Mo' nu*ghiammo chiù 
„ buono! „ 'Nu juorno recettero 'nfaccia a Viola: 
" Nce ne vulimmo i' 'nu poco 'ncoppa a Tasteco: 
iammo a piglia' 'nu poco d' aria. " Nce jet toro , e 
na sera 'e chellj facette i* 'no gliuommere (2) ab- 
bascio int' 'a log^gia 'e TUorco e po'decette: " Ag-^io 
" fatto r 'o gliuommere abbascio: mo' corame fac- 
„ ciò? Vene mamma e me strillo; ,, — e se mettete 
a chiagnere. Decotte 'nfaccia a Viola. " *0 vuoi i* a 
" piglia* tu? Sino: mammà me strilla, stasera. „ 

Nce attaccarono 'na funa int' 'a vita e 'a calaje- 
no abbascio addò l'Uorco. Quanno fuje abbascia spez- 
zacene 'a funa e 'a rimanettero là ba^cio e se ne 
f ujettono 'e sore. .Viola se metteva paura e deceva. 
'' Mo 'vene l'Uorco, e me mangia! „ Se jette a na- 
sconnere sotto ò fuculanì.Venotto l'Uorco e accora'n- 
ciaje. " Che puzzo *e cristiano è chisto? (3) " LUte, 
tuorno tuorno, à casa e nu' truvaje nisciuno e de- 
ceva: " Nu 'nce sarrà niscuno ; sarrà 'o penziero 
mio, mo* ìiK» metto a cucenà' " e se metette a cu- 
" cena Tramente cuci^nava, le scappaje'nu p...... 

Essa, tanta fu 'a paura, decotte: ** mamma mia! 
" Rospunnette isso: Uh! aggio fatto 'na figlia, e 
'* decette: lesce, figlia mia, stiv(^ loco sotto! *' E 
ascett'i 'a là sotto e steva cu' 'l'Uorco. 

Rimpetto nce steva 'o palazzo d' 'o Re. Viola se 
mottetto a fatica' fora ò barcone. '0 Re, fora ò bar- 
cone, teneva 'nu pappavallo: quanno 'a vedeva, com- 
menzava: " Figlia 'e l'Uorco.» Figlia 'e l'Uorco! „ o 
'a cuffia va. Essa , quanno venette l' Uorco se mot- 
tetto a chiagnere e isso r ** Pecche chiagne ? „ — 
„ Nu' sapite niente? '0 pappavallo d' 'o Re quanno 
„ me vere dice: Figlia '« V Uorco, Figlia 'e r Uorco! 
„ e i' pe' chesto me so' miso a chiagnere. „ Decette 
l'Uorco : "Nu' te piglia' colh^ra. Tu quann*'o viro 
„ haje 'a di':— Pappagallo mio, pappagaUo, de toje 
„ penne me faccio 'nu voi taglio e de toje cai*nc 
„ me faccio *nu huccone^sarraggio moglie ó tuopa- 
„ irone!,, 'E servi ture d"o Re sentenno chesto ogni 
matina, jèttero a purtà' 'a spia 6 figlio d' 'o Re: — 
„ Vuje nu' sapite niente? Fora ò barcone, rimpetto, 
„ nce sta 'na bella figliola e 'o pappagallo 'a chiam- 
„ ma sempe : Figlia *e V Uorco, e essa se piglia col- 
„ lera e dice: Pappagallo, pappagallo de tue pen- 
„ ne me fo 'nu ventaglio , de tue carne uie fo 
„ 'nu boccone , serraggio moglie al tuo patrone, 
Decette 'o Re: " Quanno è dimane voglio senti' io!,, 
'A matina se mottetto a fa' 'a spia e vedette che 'e 
cose erano comme nce l'avevano ditto. Vedenno a 
Viola, decette: " Uh! Viola, tu staje loco e comme 
„ nce sì' venuta? *' Essa le cuntaje tutt' 'o fatto; e 
isso : " Te ne vuò veni' cu' mico? „ — " Si se n' ad- 
„ dona l'Uorco chillo me vatte. „ Nuje nce ne jam- 
„ mo e nu' lu facimmo accorgere, „ 

'A matina se vestettero e se mettettero int' a 
'na carrozza; e se ne st<'vano jenne. Dicette essa: 
„ Avòtate addereto, vi' chi vene! „ Uh ! nce è vicino 
„ rUorco ! „ 

" Nu' te mettere paura: tu addeviente massaria 
„ e i' pad ulano. „ 

Passaje l'Uorco e disse a 'o padulano: "Hai visto 
., j)assà' 'na carrozza cu' diije figliuli ? „ — " Che 
.. bulite'nzalatell-.lattugholìe, cicurielle, scarulel- 
„ le? ., — ** Maavisse visto passa' 'nu figliulo 'e 'uà 
„ figliola? „ — " Ma che vulìte, lattughelle, 'nzala- 
„ teìle, scarulelle? „ 

L'Uorco pigliaje e se ne ietto. Tramente isse cam- 
menavano, 'n'ata vota l'Uorco, dicette 'o figlio d' 'o 



93 



Re: ** E corame facimmo ? — " Nu' te piglia' paura. 
„ Tu arreviente chiesiella e i* parrucchianiello. „ 

Passaje T Uorco: " Avisse visto passa' 'nu figliulo 
„ e 'na figliula? Nili, ntlì^ *a messa mo' esce!,, 
„ Faceva isso ; " Tu avisse visto passa' 'au figliulo 
„ e 'na figliola ? „ — " Nili , ntlì ! 'A messa mo' 
„ esce ! „ 

L'Uorco facette 'o quarto e se ne jette. Torna- 
jeno a cammenà* 'n' ata vota, verette l'Ùorco e de- 
cotte isso: '* Mo* vene V Uorco adderete. „ Decotte 
essa: " Nu* te mettere paura. Tu addeviente fun- 
** tana e i' anguilla. „ lette l'Uorco e 'a vuleva ac- 
chiappa' e essa se ne sfujeva. L' Uorco se spacen- 
ziaje e decotte: *' Mo' te raenco 'na jastemma. Chi 
„ sto pozza i' 'à casa soja e pozza ave' 'nu vaso da 
„ 'na zia e se pozza scorda' *e te. „ 

E accussi accarette; ma po' isso se ne recurdaje 
e 'a jette a piglia' e 'a facette Regina. 

Raccolse in Piano di Sorrento 

Gaetano Amalfi 



(1) Meno il primo nome, gli altri due variano, secondo chi 
raconta; e, talvolta, anche, si tacciono , affatto. Così j più giù , 
diversiflcano, spesso , anche i lavori pertinenti a ciascuna di 
loro. 

(2) Gliuommeriy gomitoli. Questo fu anche 11 titolo di alcune 
farse composte da Iacopo Sannazaro, o San Nazario. 

(3) Una variante toscana, ha, in questo luo£[o, i seguenti verset- 
ti, — Mucci, mucci Sento odor di cristinucci | O ce n' è, o ce n' è 
stati, I ce n' ha de' rimpiattati. 

Gfr. negli Usi e costumi abruzzesi^ Fiabe^ descritte da A, de 
Nino Voi. Ili, (Firenze, 1883) il N. XXVI. Viva Viola 

Viola Trat, III. lor. II nel Pentameronb del Basile, alias Cun- 
To DE LI Conte, Trattenimento de li pbgcerille, di Gian Alesio 
Abbattutis. 

Nel libro della Gonzenbach; Sicilianische Mdrchen, la fiaba: 
Von der Schonen Anna. 

Nei XII Conti Pomiglianesi delllmbriani, N. IL 



OOFTI CALABRESI 

'A rumauB» d' 'a Seal» 'I alla 

(Vedi n." 7). 

*Na vota, cumu dicissi, eranu 'nu frati e 'na suo- 
ru, Chissu frati e 'ssa suoru l'eranu muorti lu pa- 
tri e ra mamma. Lu patri era mircanti. 

A capu di tanti tiempi ha dittu 'u frati: 

— Su(rt*u mia, mo m'haj alarti, ca, si no, ra pu- 
tiga sta sempri vacanta. 

Ara suoru l'è scuratu lu cori a chissà nu tizia. Ha 
dittu: 

— Frati mia , mo parti e ti scuordi di mia ? Ed 
iu, senza di tia, sacciu echi mi succèdi? — Ha dit- 
tu: — Frati mia , cangiàrauni lu nizzu , ca si tu ti 
scuordi di mia, lu nizzu si fa nfvuru: si iu mi scuor- 
du di tia, si fa nfvuru lu nizzu mia. 

È partutu, ed è arrivata, cumu dicissi , a Napo- 
li. Liia bistu lu re, ha dittu: 

— Cchi giùvini bellu! 
L'ha chiamatu,«ha dittu: 

— Statti ccàdi, ca iu ti tiegnu a palazzu riali. 
Veramenti s'è statu; s'è scurdatu di la suoru; s'è 

fattu capitanu di la truppa. 

Finalmenti s'è nzuratu, s'ha pigliatu na dama di 
curti. A capu di tanti tiempi, 'nu juornu s'è lava- 
tu, e, lava ccà lava Uà, 'o' ra finfa di si lavari. Si 
stricula forti lu nizzu: s'è fattu mali: l'ha guarda- 
tu, e s'è ricurdatu di la suoru, ca lu nizzu era nf- 
vuru. Ha gridatu: 

— Pirduti iu! Sbinturatu iu! 'Ssa cosano'mmila 
pirduna né Diu né ru munnu! 

S'èdi ammazzatu. La Muglieri non piitia sapiri 
cchi ccosa era successu. Ha dittu 'u maritu: 



— Cchiù di chissu avia da succèdi? 'Na suoru e 
no' cchiù, l'haju abbannunata a *na strania. 

S' ha pigliatu la sciabula , ca si vuHadi ammaz- 
zari. Cumu Diu ha bulutu, la muglieri l'ha pirsua- 
su. Ha ditto: 

— A mumenti, mi l'haju ii' a pi^liari. Aviara- 
giuni ca minni scurdava!... Ma mi dispiaci ca illa è 
troppu bella , e ru figlia d' u re si nn' innamùradi 
La puortu fi notti tioinpu, e ra tiegnu sempri chiu- 
sa.* non ci la fazzu mai vfdi. 

Edi arrivatu adduvi la suoru, ha dittu: 

— Suoru mia, pirdunami! 

— Non ti l'avia dittu ca tinnì scurdavasi? 
Su'partuti, su' arrivati di notti tiempu. 

La tinfa ritirata e chiusa quantu mai. 'Nu juor- 
nu ha dittu a ra canata: 

— Sugnu a tanti tiempi ccàdi, e non haju vistu 
la figliu di lu re. 

JUa dittu la canata: 
j. — 'Mara mia! ca si lu sa fràtita, n' ammazzadi. 

— 'On c'è cumpari 'ngalera! n'ammàzzadi o ni 
scànnadi, lu figliu di lu re haja vidi. 

E gghiutu lu frati, cci ha fattu 'nu vistitu chi 
culavad' oru, cumu chillu di la muglieri. Ha dittu: 

— Canata mia, fàmmilu vidi lu figliu d' 'u re. 
Ha rispusu la canata, ha dittu: 

— Ti piaci di lu vfdi di lu grupu di la chiavi? 

— Sini — ha dittu illa. 

Diveru s' è misa arrieti la porta, 1' ha spiatu lu 
figliu di lu re. Ha dittu: 

— Gioia mia, quantu è biellu! 

Non ha potutu pigliari cchiù paci da quannu l'ha 
bistu. 

'Na notti s*ha misu lu vistitu chi cci avria fattu 
lu frati, s'ha procuratu 'na scala di sita, ed è gghiu- 
ta da li ciararafli supru lu liettu di lu figliu di lu 
re. S'è spugliata e s'è curcata. E n'na notti ha fat- 
tu silenziu |u figliu d"u re. 'A sicunna notti, torna 
è gghiuta.. E gghiutu lu figliu di lu re s'è misu a 
griofari: 

— Mammà, papà! Pigliatela 'ssa giuvina, ca, si 
no, mi spara. 

Su' curruti li guardii e sintinelli , non hanu pu- 
tutu vidi a nissunu. 

La terza notti torua è gghiuta. Lu figliu d' 'u re 
ha fattu cchiù ribellu , ma nimminu hanu vistu 
nenti. 

La matina lu re ha chiamatu tuttu livcunsigiiu, 
ha dittu: 

— Cunsiffliu, cunsigliatimi. Miu figliu ogni notti 
fa 'nu ribellu, ca dici ca 'na giuvina vad'a durmi- 
ri ccud'iliu. Apena che miu figliu chiama genti, su- 
bitu si nni vùladi. 

Hanu rispusu li cunsiglieri, hanu dittu: 

— Maistà , sa cchi buliti fari ? Faciti fari tanti 
cannelli, e spanniti li a tutta la càmmara: quanuu 
illa vàdi si senti lu strusciu , e subitu la canu- 
sciti. 

Veramente la notti , ccu ra scala di sita , di li 
ciaramili cala dirittu supra lu liettu. 

S' è misu a gridari lu figliu d' 'u re. Appena chi 
su' gghiuti si nn'è bulata. 

Lu juornu, n'atra vota hanu chiamatu li consi- 
glieri: cci l'hanu cuntatu. Hanu dittu: 

— Maistà , vostro figliu è pazzu. Ma ccu tuttu 
chissu, sa cchi buliti fari? Stasira mintiti tuttala 
càmmara tutta di farina: si illa vàdi ci rimani la 
pidata. Si no vostra figliu è pazzu. 

La notti va a giuvina diritta supra lu liettu sen- 
za tuccari la farina. La matina, su gghiuti ppi tru- 
vari la pidata, e non e' èradi. Su' gghiuti li consi- 
glieri, hauu dittu: 

— Maistà, mintiti 'na quadara d'uogliu, faciti 'na 
seggia grupata. — Hanu dittu:— A quali pizzu si 
spogli adi? 



94 



— A latu diestru. 

— E Uà mintiti la quadara , ca quannu si spó- 

Sliadi cci ha da cadi ancuna cosa 'ntra la gua- 
ara. 

Hanu fatto 'na seggia, 'na guadara d'uoglia. e cci 
l'hanu misa. 

La notti la giuvina lestu lestu si spogliadi, e las- 
sa ri vistituri a ra seggia grupata. La matina pi- 
glia ppi si mtnti lu vestitu di lu frati: non e' éra- 
di. Subita si nn' è gghiuta. Tutta murtificata Tha 
cuntatu a ra canata chillu ch'avia patutu. Ha dittu 
la canata: 

— Mo sa echi bulimu fa' ? Quannu venis fràtita 
adduvi a mmia, cci grapu lu bagugliu ppi bfdi lu 
vistitu. Nuva facimu nu grupu a ru muru, 6 quan- 
nu vénidi adduvi a ttia, lestu testu ti lu pruoju. 

Ntramenti ch'illu girfadi, tu lu minti a ru bagu- 
gliu, e cci lu fa' vidi; si no, passi guai. Ca mo lu 
re lu fa bfdi a tuttu lu munnu ppi si lu eanùsci. 

Arabbunnusinnu, lu re accussi ha fattu. 

Tuttu Napoli e tuttu lu regnu hanu vistu lu vi- 
stitu. NuUu si l'ha canusciutu. L'ha bistu lu frati, 
ha dittu: 

— Sbinturatu mia! Cumu a chissu non ci nni te- 
ni cchiù di muglierma e suorma. Mi l'hanu saputa 

farli 

Si nn'è gghiutu lu povaru giùvini, ha dittu a ra 
muglieri: 

— Fammi vidi lu vistitu ; ca, a tanti tiempi chi 
ti l'haju fattu, nun sacciu cumu ti vadi. 

Ha rispusu la muglieri, ha dittu: 

— Cchi gulfu che t'è binutu! 

Had* apiertu lu bagugliu, l'ha bistu: ha dittu: 

— 'Ass' 'u sta mo,. ca tiegnu pressa. 

Lestu la canata, di lu buca di lu muro l'ha pru- 
jutu a ra canata. É gghiuto lu frati, ha dittu: 

— Suoru mia, a tanti tiempi chi t'haju fattu chi- 
ru vistitu, non sacciu mancu cumu ti vadi. 

— Non t'è binutu mai 'ssu disideriu ! Giusta moni! 
Aspetta ca mo mi lu mintu. 

Had' apiertu lu bagugliu. Appena chi l'ha bistu, 
ha dittu: 

— Lassalu stari mo, ca tiegnu pressa. 'N'atra vo- 
ta, ti lu vigu cumu ti vadi. 

Si nn' è gghiuto, ha dittu: 

— Staju cuntientu ca muglierma l'hadi, suorma 
l'hadi. Va trova di chin' èdi! 

È binutn e' ha parturutu la suoru. 
Ha pigliatu lu piccirillu, e r'ha gghiutu a p^r- 
tari a ru patri 'n atra vota ccu ra scala di sita. 

— Papà, papà, curri ti, ca m' è binuta a purtari 
lu piccirillu mia. 

Su' curruti tutti li sintiuelli, hanu cintiatu lu pa- 
lazzu : su' curruti tutti li truppi ppi ra putisri pi- 
gliari, ma cliilla si nn' è bulata ppi ri ciaramili. 

Lu piccirillu l'hanu fattu allattari, e si criscia 
bellu quanti! mai, 'nu juernu ppi dua. Lu figlia di 
Ju re isola pazzu, ca non putia sapirila mamma di j 
lu piccirillu. Hanu chiamata 'n' atra vota li cun- 
sigfieri. 'Ssi cunsiglieri cci hanu dittu. 

— Ammupiati lu piccirillu, e faciti spàrgi la no- 
va ca è muortu. Tutta la genti hana viniri a fari 
visita. Chi è ra mamma, 1 acciisadi a ra faccia si 
è dulenti. 

Daveru s'è sparsa la nova ca lu piccirillu dilu 
figlin d"u re era muortu. Tutti li genti, li signu- 
ri, lu jfano a basar i e si sidiano. 
È gghiuta la mamma di lu piccirillu, ha dittu: 

— Tuh aju jiri a bidi a figliuma, e ru sangu 
pozza jiri a lava. 

— Ti chiuri rugrassu ? — ha dittu la canata: — 
Mo fràtita t'ammazza! 

— Lassami ammazzari ! 'Na vota si móridi ! 



S' è bistu ta, ed è gghiuta. Appena eh' è d' arriva- 
ta, l'ha carricatu di vasi, e si è misa a diri: 

Gioia di la mamma bella, 
minti ri piedi supra li cannelli. 

Gioia di la mamma fina, (II) 
minti ri piedi supra la farina. 

Gioia di la mamma vana (?), 
minti la vesta dintra la quadara. 

— Già ca mi si muortu tu , mi vuoglio ammaz- 
zari puru lu. 

,,Hu ^piglia tu ppi s'ammazzari; è gghiutu lu figlia 

— Non t' ammazzari, ca nostru figliu non è muor- 
tu. L hamu ammupiatu ppi canusci la mamma tan- 
t aggraziata. 

S ha cacciata la curuna lu re e r' ha misa ad 
Illa. 

Lu frati s' è tantu consolatu e 11' hanu avanzata 
liinpiegu a ru frati. 

L:i suoni s* è gghiuta a sedi supra lu tronu ccu 
ru figlia di lu re. Si su' guduti 'mpaci e beni, 
e nua ccu 'na spina a-ru piedi: 
caccia, caccia, e ancora e' èdi. 

Raccolse in Rogi ano- Gratina (Cosenza). 

Vittorio Cara velli. 



I. Ni^2u anello, anello nuziale, da nubo, nuptum, forse. 

I. òtrìcuia, frega, strofina. 

s Strania, luogo lontano e deserto. 

4. Nuc e' ècumpari 'nyalera, avvenga che può. Nella ma ff- 
gior nurto de casi, il proverbio eiiuivale al nolo- Oanun ver 
sé e Iho per tutti. ^ '^ 

.'). Cattata, cognata. 

C Grupu. foro, buco, da euptum: è il sostantivo del verbo 
gruparx, forare. 

7. Ciaramili, tegola, t^tto. 

8. Cannelli, cannelli da spola- 

9. Arabunnusinna, veramente. 

10. Ti chiurx rugrassu^ te prude il grascio ? Hai desiderio 
di morire? 

II. Ftna.]?^r\VX[A, di tutta bellezza. Vedi Federico Secondo 
uuido Guinizelli e altri poeti dol primo secolo, in Nannucci^ 
Manuale della Lelt., ecc. ' 



CANTI POPOLARI SORANI 

{Contin. e fine, vedi n. 2, 4, 5, 6, 7, 8. 9, 10 e i i), 

27. Fiore de lemone. 

Me voglie 'nsanguenà' tutte le mane, 
Ca voglie fa' glie core de tre perzone. 

28. Fiore de lemone, 

Me si* fatte seleccà (1) tutte le deta, 

(l) Solcare 

Si ditte ca venivo e 'n sì' venute. 

29. Fiore de lemone, 

Lemone che se sprescia aglio becchiore. 
Le scorze se repunnen' aglie cavalere. 

30. Voglie accatta 'ne solde de cace fiore, 
Le voglie mette 'mpette alla commare. 
'Ne' chesta scusa ce voglie fa' glie amore. 

31. Voghe accatta 'ne solde de recotta 

La voglie mette 'mpette a 'sta regnoccola, 
Ca ce vò' fa' gli amore, e è 'na mammoccia 



% 



32. Glie amore me' ce se chiama. . chiama... 
Non me recorde che nome tè'... 

Se chiama gelesemmine la bella rama. 

V. Tommaseo voi. 1. pag. 94. N. H; Tigri, stornello N. 74 a p. 336 

33. Glie amore me' se chiam' Annibale, 
Non ce pozze parla pe' quant* è amabele; 
Vò' fa' glie amore e' me non e' è possibile. 

34. Glie amore mó se chiama Leborio, 
Porta glie cappellitte de Vecario; 
Quanne ce votane chelle brutte sborie 
Glie cappellitte glie donna (1) pe' 1' aria. 

(I) Fionda 

35. Glie amora me se chiama spaccone, 
Pe' bona sorte se mett' a spacca', 
Spacca le lena pe* mesa stagione. 

36. Glie amore ine è moratore, 
Veni teglie a vede,' se mura bone, 
Prima mette la cauc' e po' glie matone. 

37. Amore amante, 

So' fatta 'na cascata e me lamento. 
È meglio a farne una ca farne tante. 

38. Me ne voglie i' macchia pe' macchia, 
Pe retrovà' la sciaboletta mia, 

Che jetta la cianchetta storia. 

39. Me ne voglie i' valla pe' valla, 
Addonna glie amore me' glie aratre scioglie, 
Scioglie glie vov' e attacca glie cavaglie. 

40. Pe' la macchia glie sol' è calate, 
Ancora ève sonate vintun'ore: 

41. Glie amore me' se chiama Petrucce 
E 'itte ca la mamma non gli è fatte, 
È nate fra le frunne deglie cappucce. 

42. Glie amore me' se chiame Francische, 
Glie foche glie appecciame 'ne' la frasca; 
Amore, amore, non la vò'feni', 

Tanta amicizia non la vò' lassa'. 

43. A Roma, a Roma, 

Chi te la sona la gentile campana? 
Mo' te la son' i' che so' de Roma. 

44. A Roma, a Roma, 

Arrète, arrète tutte le vecchiazze. 
Glie amore è fatte pe' le giovenotte. 

45. A Roma ce se frije la polenda, 

A Piazza Montanara ce ne sta tanta 
Che glie amore me la dà 'ncredenza. 

46. A Roma ce se frijeno le scodelle, 

Te ne voglie frije una 'ncima alle spalle. 
Te voglie f à' cammenà' e' le stampelle. 

47. So' ite a Roma e ce voglie rei', 
Ce le so' viste le belle cose de fa', 
Ce la so' vista la crapa felà', 

Ce glie so' viste glie sorge 'ncucina. 



48. So' ite a Roma p' accatta' 'na jatta, 
Me le credeva che portasse 'ngroppa. 
Ce porta 'ne malanno che te scrocca. 

49. So' ite a Roma p' accatta' 'ne riglie. 
Me le credeva che portasse briglia, 
Ce porta 'n accedente che te piglia. 

50. Te piglia 'n accedente canta canta.... 
'N'aute te ne venga sopraddente, 

'Nte pózze magna' le pane 'ntremente campe. 

51. Gomme si' brutta, te venga 'na pesta, 
De rogna te ne venga 'na catasta, 

E sette malatie dolor de testa. 

52. Gomme si' nera che pozz'esse accisa, 
Diccèll'a mammeta che te lavasse, 

Co' l'acqua e saponetta smorza le nire. 

53. All'alba chiara tu fusse sparata. 
Alla mezanotte 'nfelata aglio spi te; 
Glie Avezzanese so' tutte mammalucche, 
Le sagne so credevano glie gnocchere. 

54. A me a Avezzane non me ce piace, 
Alla Cevetella non ce sta nisciune, 

Glie gire non se chiame chiù glie gire, (1) 
Se chiama glie spassegge deglie amore. 

(1) il circuito del lago Fucino, ora prosciugato. 

55. Fiore de ruta, 

Tutta la pasta a mammeta si' arrobbata, 
Te la si' messa 'mpette, è recresciuta. 

56. Fiore de ruta, 

Chi non vo' ben' a me, che sangue sputa. 

57. Fiore de ruta. 

Tu te recorde quanne iste 'ncampagna, 
Mo' te le vò' nejà' porca baflFuta. 

58. Fiore de nocchia, 

Se t'ammatte (1) sola pe' la macchia. 
Te facce fa' glie canto della ranocchia. 

(1) L'incontro. 

59. Gnora Irena, 

La volpe sotte terra fa la tana, 
• 'Mmes'aglie petto te' ce sta la rena 

60. Gnora Gubbia, 

Te voglie reserrà' dent'a 'na cabbia, 
E pungola' te voglie 'ne' 'na sugghia. 

61. Gnora Lorenza, 

Te voglie reserrà' alla despenza. 
Te la voglie. fa fa' la penetenza. 

62. Gnora Lorita, 

Te voglie reserrà' dent'a 'ne stipe 
E farte soppecà' sempe paniche. 



96 



63. Fiore de faciore, 

Glie òme è birb'e tradetore, 
T'è'na faccia sola e mille core. 

V. Tigri, stornello n.° 458 a pag. 313. 

64. Fiore cucuzze, 

Aglio auto voglie bene, a te manche pe' puzza. 

65. Fiore de melacotegna, 

T'è remasta rabbia, tigna e rogna. 

66. Fiore d'erba terrestre, 

La robba se ne va e l'arte resta. 

67. Fiore de canna, 

Chi vò' la canna che vaglia alla vigna. 
Chi vò' la figlia che vaglia alla mamma. 

68. Fiore de canna, 

La cannti è peccolina e tenerella, 
• E a cosci si' tu, cicia de mamma. 

69. Fiore di canna, 

Glie circhie alla sottana te fa chiumme, 
La faccia de segnerà non te manca. 

70. Fioritte beghe, 

Quanne glie Papa va a Mon teca vaglie, 
A dà' la benedizione, spara casteglie. 

71. 'Mmes'a mare ce sta 'ne palazze, 
Tutte contornate de fenestre, " ' * 
Loche la bella mia sempe s'aifaccia. 

72. E 'mmess'a mare ce sta 'na cocozza 
Tutta contornata de lampazzo. 

Chi tè' la lengua longa se la menozza; 
Se l'acqua deglie mare fusse pasta, 
'Nse trovarriene chiù femmene juste. 

73. E 'mmes'a mare ce sta 'na lanterna, 
Meracole de Di' che non s'affonna, 

E ce cintene glie requiam materne. 

74. 'Mmes'a mare ce se passa e ce se veve. 
Ce passen' i pecciune 'ne* le pàpere. 

Glie pappaialle che ce porta a beve. 

75. Fiore de muschio. 

Chi canta è uapp'e chi parla ce abbusca. 

76. Voglie accatta' 'ne soldo de maccarune. 
Glie voglie còce a tridece callare, 

Pe' dà' a magoà' a tutte 'ste vuccacciune. 

77. So' ite a fatià' a Sante Francische, 
Oh Dia glie quatrine che ce s'abbusca. 
Ce magne nove paolo e fa ne scudo. 

78. Quanta me so* abbuscat'a spacca' prete. 
Tutte me le spreca* e* 'na jocata. 

79. Uffa!.... 

Senza cappotte che fridde che fa 



80. Chi perde 'ne cappott'e trova *n amante, 
Perde sci, ma non perde tante: 

Quando l' una non ha pronto lo stornello l'altra cosi la ài- 
sprezza; 

81. Ma che me canto tu pecora ammosciai 
Lassa canta' 'sta rosa ghianca e rosela. 

Se qualche compagna suggerisce alla sconfitta, la vincitrice 
le dil addosso così: 

82. Ma che pò' fa' la povera ragazza?... 
La ruffiana la porta pe' capezza. 

E se qualche altra stizzita prende a cantare invoce della 
vinta, l'altra vittoriosa-ci?8ì finisce la sfida. 

83. Glie àsene che responn' a 'sta canzone 
'Ne ciucce è comm* a te, ce dò la biava. 

Vincenzo Simonoelll 



NOTIZIE 

Nell'elegante perioflico napoletano, la Cronaca Sibarita (a I 
"• ^\ leggiamo uni novelletta del signor G. Mezzanotte, col ti- 
tolo: Il fatto delle due galline. Quale np sia il valore non è nel- 
1 indole del Bande di giudicarne: diciamo solamente che il fatto 
che quivi si racconta è tratto da uno degli episodii del Bertol- 
dinoj nonostante che il Mezzanotte io taccia. 

Ma nou ce ne scandalizziamo. Tutt' altro ! Nello stesso perio- 
dico, un redivivo Coluto Tebano rivendica a sé un poemetto che 
il sig. D. Milelli aveva pubblicalo col suo nome e cognome nella 
Cronaca Bizantina; e poco tempo fa un altro sig. G. d'Annun- 
zio imbandiva come produzione della sua famosa penna n'entc- 
meno che la novella di Calandrino del Boccacci ! 

La Nuova libreria Intcrriazionale di Lisboaa ha pubblicato in 
due grossi volumi , con musica e note esplicative del poeta 
portoghese Theophilo Braga, i Canios popufares do BrajsiL rsLC- 
colti dal Dottor Sylvie Romèro. 

Non sappiamo ehe cosa si sia proposto il sig. Augusto Guido 
Bianchi, col suo articoluccio di 69 versi « La I^rsa » pubblicato 
nel n** 10, a Vili dell' Ateneo italiano di Milano. Se ne valesse 
a pena, lo domandaremmo « all'amico carissimo, compagno del- 
1 infanzia » dell' A. , signor Riccardo Rapazzini: a cui auei 69 
versi son dedicati ! 

Uno de' tre premiati con medaglia d'oro alla Esposizione Na- 
zionale di Torino, ò stato il dottor Giuseppe Pitrè, il tanto be- 
nemerito raccoglitore delle produzioni popolari siciliane e il 
direttore dell* Ai chimo. É stato uu vero onore al merito, di cui 
ci congratulianit col Pitrò di vero cuore. 



Estratti dairAucBivio per lo studio delle tradizioni popò 
LARI, abbiamo ricevuti i seguenti opuscoli : 

I. G. Nerucci — / ire maghi ovverosia II merlo bianco no- 
vella popolare montalese. 

IL G. PiTRÉ — Il Colera nelle credenjie popolari d' Italia. 



PUBBLICAZIONI IN DLLLETTO PERVENUTECI IN DONO 



A Fiordelisi, ! Sonetti | napoletani 1 Napoli | Luigi Pierre , e- 
ditore | Piazj^a ranien.76 \ MDCCCLXXMV. (Finiti di stam- 
pare 1 il di XXV Novembre MDCCCLXXXIV | nella Tipo- 
grafia Car luccio, de Biasio e Comp. \ in Napoli). Pagg. 45 
Centesimi sessanta. 



Gaetano Molinaro — Responsabile 



Stabilimento Tipografico di Vincenzo Penoie — Via 8. Sebasliano, %