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Full text of "Giobbe : serena concezione"

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Presented  to  the 

LIBRARY  ofthe 

UNIVERSITY  OF  TORONTO 

from 

the  estate  of 

GIORGIO  BANDINI 


SEKKXA  CitXCEZTdXE 


MARCO  BALOSSARDl 


Seconda  edizione. 


NELLA  TERRA  DI  HUS 
a  spese  della  C'oìonìn  Avendicn  Simetei 


MDCCCr,XXXII. 


XX  x'//'' 


GIOBBE. 


"Ì'!É 


C3-  I  O  B  B  E! 


SERENA  CONCEZIONE 


MARCO  BALOZ^Aimi 


Seconda  Edizione. 


^^(S^ 


NELLA  TERRA  DI  HUS 

>t  spese  della  Colonia  arcadica  Slineten 

MDCCCLXXXII. 


l'ItOl'lJIKTA     I.KTTKKAHIA. 


'J  il  il  i    )    (lirUli     r  i  sr  r  r  <i  I  i ■ 


]\]il;mo    -  Tip.  (lei  Fi'atclli  Ii'Cmcs. 


ITALIANI 
CHE.  LARGITE.  LAVEO.  TRIONFALE. 

AD.  OGNI.  GIULLARE. 

ONORATENE.  ALTRESÌ.  QUESTO.  POEMA. 

AI.  MANI.  CONSACRATO. 

DI.  BARABALLO. 


Cui  tanl'ùiita  la  so  carru  tent, 
Tan'u  cchih  presiti  lu  pinnlnu  pùjcjhia. 
Fror.  calati. 


À 

CAMILLO    QVEENO 

MONOPOLITANO 
ARCHIPOETA 


EFISTOLA. 


Firenze,  la  notte  dell'Epifania  del  1SS2. 

Perchè  in  nitida  forma  alfln  prorompa 
Dai  ferrei  torchi,  e  terra  e  ciel  non  tema 
Questo  del  mio  pensier  figlio  diletto 
Cui  sta  sul  fronte  il  glorioso  nome 
Scritto  di  Lui  che  t'emulò  nel  santo 
Riso  e  nel  cor  del  decimo  Leone, 
Temer  degg'io  che  di  livido  ingegno 
E  d'anima  superba  tu  m'accusi"? 
Prima  ascolta  gli  auguri.  A  questa  cara 
Madre,  l'Italia,  mancherà  ben  presto 
D'un  suo  Aglio  l'amor.  Candide  nevi 
Già  mi  pio V ver  sul  crine.  Il  corpo  stanco 
Tragge  al  riposo  della  tomba  e  forse 
L'ultima  è  questa  alata  voce  ond'io 


X  EPISTOLA. 

De  la  mia  vita  un  segno  al  bel  j)aese 
Che  mi  fu  culla,  do.  L'ultima  è  questa 
Parola  di  dolor  che  mi  prorompe 
Dal  cor  disingannato  !  Io  ti  sognai, 

0  cara  madre  mia,  nel  glorioso 
Tuo  seggio  assisa  e  ti  facean  corona 

1  liberi  poeti  ed  i  pensosi 

Soft  e  i  gran  capitani  e  i  bene  accorti 
Che  la  ragion  di  Stato  e  la  tua  gloiia 
Studiano  insieme.  Ti  sognai  tornata 
Eegina  e  grande...  ma  la  morte  omai 
Presso  mi  sta,  nò  il  caro  sogno  è  vero! 
Odi  l'augurio  che  dal  cor  profondo 
Il  canuto  ti  manda,  o  j)atria  cara: 
Possa,  deh,  su  la  tomba  ov'io  non  reco 
Eredità  d'affetti  e,  dei  chiamati 
Col  nome  mio,  discendo  ultimo  e  solo, 
L'oblio  posar  perennemente!  0  possa 
Il  mio  sonno  turbar  la  maledetta 
E  sacrilega  man  di  ladro  infame; 
Possa,  il  mio  nome  bestemmiato,  ai  tardi 
Nepoti  nostri  ricordar  soltanto 
Memorie  di  vergogna  e  vitupero. 
Ma  tu  levarti  alfin  da  questo  brago 
Dove  la  vii  mediocrità  ti  tiene! 

T'auguro  questo. 

Le  discordi  voci 
Nel  bel  paese  gracidanti,  assieme 


EPISTOLA.  XI 

S'uniran  per  fischiarmi:  io  non  le  curo. 
Fama  non  cerco  e  l'iagiuria  disprezzo. 
Io  non  distesi  già  l'audace  mano 
Sull'onor  di  nessuno  e  rispettai 
In  tutti  l'uomo.  Non  indussi  il  volgo 
Nei  domestici  lari  o  ne  le  chiuse 
Coscienze.  Ma  stimai  come  mi  parve 
Quel  che  ciascun  del  pubblico  al  giudizio 
Espose.  Anch'io  son  pubblico  ed  anch'io 
Giudico  come  tale.  0  voi,  che  nulla 
Contraria  voce  sopportate  e  grandi 
Per  forza  esser  volete,  ecco  le  pietre 
Per  lapidarmi  se  il  potete.  Io  sprezzo. 

Sprezzo:  ma  se  de  la  mia  vita  il  breve 
Stame  non  cessi  pria  del  tempo,  io  sj)ero 
Eagunar  tutte  le  pietre  scagliate 
Indarno  contro  me,  per  farne  un  alto 
Monumento  ed  eterno,  ove  si  legga 
La  mia  vendetta  e  la  miseria  vostra. 

E  tu  che  il  lido  di  Catania  estremo 
De  le  tue  ciance  assordi  e  i  compiacenti 
Tuoi  scolaretti  a  l'infantil  tumulto 
In  tuo  favor  commovi,  inutilmente 
Ti  dorrai  del  mio  canto  e  doloroso, 
Sdegno  e  pietà  mendicherai  mostrando 
I  meritati  lividi.  Tu  solo 
L'hai  voluto.  Non  è  come  tu  fai 


XII  EPISTOLA. 

Che  s'è  grati  del  bene.  Hai  ridestato 
Le  vecchie  gliene  del  Filelfo,  i  vecchi 
Odi  del  Caro,  le  vergogne  antiche 
Del  Miirtola  tra  noi;  parato  dunque 
Ai  colpi  esser  tu  devi.  Hai  morsicato 
La  man  che  pria  baciavi,  or  non  dolerti 
Se  quella  mano  ti  percuote.  È  tuo 
Questo  scandalo.  Invan  ne  la  superba 
Anima  tu  guai  sci.  È  la  corona 
Questa  che  ti  si  deve  e  che  ti  cingo. 

L'odio  già  sento  che  il  velen  m'avventa 
Sibilando,  e  l'amor  de  le  migliori 
Amistà  via  fuggir;  ma  non  mi  cale. 
Solo  starò  come  solingo  sasso 
A  cui  rigido  bora  e  il  ciel  maligno 
Nullo  consente  onor  d'erbe  e  di  rami: 
Si  dilungan  da  lui  greggi  e  pastori, 
Ti  dilunghi  tu  stesso,  Archipoeta, 
Cui  l'epistola  è  sacra:  impauriti 
Passan  lungi  gli  augelli  ;  egli  co'  nembi 
Pugna  indefesso,  infin  che  una  nemica 
Forza  lo  schianti  o  il  suol  natio  l'inghiotta. 


PROLOGO 


IN    CIELO. 


Ecce  universa  qum  /laOet  hi  imoia  tua  sant. 
Joii  I.  12. 


ARGOMENTO. 

Il  cielo  —  Il  riposo  dell'Eterno  —  La  pace  del  Paradiso  —  Inno 
conviviale — Il   convito  —  Voce  dalle  sfere  —  Voce  dalle  nubi 

—  Voce  dalle  cucine  —  Voce  nel  naso  —  Il  chilo  —  Le  danze 

—  Avvento  di  Lucifero  —  Sue  proteste  —  Risposte  dell'Eterno 

—  Notizie  su  Gigi  Alberti  e  il  seppellimento  di  Pio  ìX  —  Giu- 
stizia resa  —  Notizie  di  Giosuà  Cr.rdncci  —  Notizie  di  Giobbe 

—  Giobbe  concesso  a  Lucifero  —  Voce  dei  Santi  —  Voce  dello 

Vergini  —  Voce  degli  Angeli  —  Voce  degli  imbecilli. 


GIOBBE 


Sta  nella  luce  dell'azzurro  immenso,. 
Sta  nella  gloria  immobile  ed  eterna 
L'Onnij)ossente.  Intorno  a  lui  le  sfere 
Eotan  cantando  e  danzano  le  stelle, 
Scintillano  i  pianeti,  e,  l'ondeggiante 
Giuba  movendo,  l'orride  comete 
Paion  domate  dall'eterna  possa 
Come  belve  soggette  al  domatore. 
Nubi  dell'infinito,  iridescenti 
Parvenze  del  creato,  in  alto  in  alto 
Passan  le  nebnlose.  Esce  da  loro 
Una  misteriosa  sinfonia. 


4  PROLOGO. 

Esce  UQ  coro  dolcissimo  che  narra 
Le  glorie  del  Signor  che  tutto  move, 
La  potenza  del  Dio  che  crea  dal  nixUa. 

Sta  sull'eccelso  trono  il  Padre.  Gusta 
L'ozio  del  pomeriggio,  e  ne'  socchiusi 
Occhi  del  digerir  pare  il  lavoro. 
Dell'ambrosia  celeste  e  del  divino 
Nettare  a  lui  da'  chèrubi  recato 
E  tracannato  dalla  immensa  gola, 
Compie  il  chilo  santissimo,  nell'ampio 
Trono  distese  le  possenti  membra. 
Nella  canuta  barba  si  riposa 
La  man  che  move  i  mondi,  e  le  celesti 
Labbra  curvate  ad  un  sorriso  eterno 
Emettono  i  sospiri  a  cui  l'immane 
Pondo  del  cibo  è  causa  e  cui  le  dolci 
Armonie  del  russar  sono  vicine. 

E  russa.  Tace  allor  tutta  l'immensa 
Corte  del  cielo  j  tacciono  le  sante, 
Taccion  fino  i  poeti  a  cui  le  j)orte 
Furon  del  cielo  per  isbaglio  aperte. 
Russa,  e  dal  naso  eterno  esce  un  fragore 


GIOBBE. 

CoTiic  di  tuono,  e  tremano  atterrite 
Le  sfere  e  1  mondi.  I  cherubini  intanto 
Movendo  l'ale  lentamente,  come 
Giovinetta  gentil  move  il  ventaglio, 
Einfrescan  l'aria  intorno  al  santo  capo, 
Caccian  le  mosche  dall'eterno  naso. 

E  russa.  Come  chi  vede  il  suo  prossimo 
Spalancar  le  mascelle  allo  sbadiglio 
E  sente  tosto  rilasciarrsi  i  muscoli 
E  salir  lo  sbadiglio  per  le  fauci, 
Così  la  corte  de'  celesti  al  tuono 
Del  russar  sacrosanto  è  come  presa 
Da  fulmineo  contagio,  ed  imitando 
Il  dormente  Fattor  della  natura 
Cade  in  letargo  e  al  suo  russar  fa  coro. 

Paissano  tutti.  Chi  disteso  a  terra 

Con  le  mani  incrociate  in  sulla  j)ancia, 
Chi  col  ventre  sul  soffice  ta'pj)eto. 
Chi  rannicchiato,  chi  seduto  a  gambo 
Larghe.  I  beati,  le  beate,  i  santi, 
Le  sante,  i  cherubini,  le  angiolessc, 
A  mucchi,  a  strati,  mescolatij  colle 


6  PKOLOGO. 

Braccia  intrecciate,  colle  gamlie  all'aria, 
Di  qua,  di  là,  di  su,  di  giìi,  uiiscliiati, 
Confusi,  aggrovigliati  in  mille  guise. 
Dormono,  e  dalle  sacre  bocche  un  largo 
E  profondo  russar  levasi  insieme. 
Sembra  l'Olimpo  nell'atto  secondo 
Della  vecchia  operetta  Orfeo  aW Inferno. 

Trecent'anni  russar  profondamento 
Come  lettori  di  poemi  odierni 
In  versi  sciolti:  e  russerebber  sempre. 
Se  un  suon  di  tube  e  di  campane  e  sistri 
Sorto  non  fosse  ad  annunziar  la  cena. 

Si  destan  tutti  sussultando.  Il  Padre 
Eisbadiglia,  il  Figliuolo  alza  le  braccia 
Stirandosi,  e  lo  Spirito  svolazza, 
Ancor  mal  desto,  sull'altre  Persone, 
Si  destan  tutti  e  uno  sbadiglio  corro 
Di  bocca  in  bocca.  Un  grido  indi  si  leva, 
Uno  stentoreo  grido  :  a  cena  !  a  cena  ! 


GIOBBE. 

Per  due  !  Per  quattro  !  Segnate  il  passo 
Su  per  la  strada  santa  e  serena: 
Oggi  è  domenica,  mangiam  di  grasso, 

A  cena,  a  cena  ! 
0  quante  salse  !   Quante  vivande  ! 
Di  quanti  piatti  la  mensa  è  piena  ! 
Oh,  di  tartuti  che  odor  si  spande  ! 

A  cena,  a  cena  ! 
Quante  candele  nei  candelieri! 
Che  luce  intorno  chiara  balena  ! 
Quante  bottiglie  !  Quanti  bicchieri  ! 

A  cena,  a  cena  ! 
In  questa  cena  straordinaria 
Un  fiasco  aspetti  quell'altro  appena! 
Ecco  1  turaccioli  saltan  per  aria  ! 

A  cena,  a  cena  ! 
Sia  benedetta  la  pingue  e  bella 
Terra  del  Chianti  vicino  a  Siena! 
Viva  la  fertile  Val  Policella  ! 

A  cena,  a  cena  ! 
Viva  Borgogna,  Zucco,  Xebiolo, 
Vino  di  Capri,  vin  di  Bibbiena, 
Bordò,  Vernaccia,  Peno,  Barolo!... 

A  cena,  a  cena  ! 


8  PROLOGO. 

Per  due  !  Per  quattro  !  Dobbiam  cioncare 
Fino  che  in  corpo  duri  la  lena! 
Stelle;  che  sbornia  s'ha  da  pigliare! 

A  cena,  a  cena  ! 
Tanti  salixii  da  parte  mia, 
Scienza  solenne,  santa  ed  amena, 
Tanti  saluti.  Teologia  ! 

A  cena,  a  cena  ! 


Va  cantando  così  la  sacra  turba, 
E  l'Eterno  sorride.  È  sterminata 
La  sala  ove  s'accoglie  il  popol  misto 
Degli  eletti.  Dall'alto  risplendenti 
Pendono  mille  stelle,  e  il  sole  in  mezzo 
Brucia  senza  fetor  di  moccolaia. 
Sono  colonne  i  monti,  e  il  mar  bacino 
Per  tei'gersi  le  dita.  Ardono  mille 
Vulcani  giù  in  cucina,  e  mille,  e  mille 
Bei  cherubini  apportan  le  vivande. 
Volan  pernici  cotte  ed  a  ciascuna 
Al  collo  pende  la  salsiera  piena. 
Cotti  su  per  la  mensa  i  porcelletti 
Di  latte  vanno,  e  come  ammaestrati 


GIOBBE.  0 

Seggono  in  faccia  a'bancliettanti  e  attendono 
Che  una  fetta  di  lor  tagli  chi  vuole  ; 
Poi  vanno  altrove  a  chieder  tagli  nuovi 
Guizzano  i  pesci  fritti,  e  van  le  triglie 
Cotte  alla  livornese  intorno  intorno 
A  cercar  le  forchette  ;  e  le  galline 
Arrosto  fanno  su  pei  piatti  Po  va 
Fritte,  al  tegame,  al  guscio,  od  in  frittata 
Compiacenti  al  desio  di  lor  signori. 
Piove  manna  dal  ciel,  ma  tutti  quanti 
Gru  stano  meglio  gli  spaghetti  al  sugo. 

Poiché  della  minestra  i  larghi  tondi 
Ebber  vuotato,  si  levò  confuso 
Delle  voci  il  clamor. 

—  Dammi  da  bere  !  — 

—  Ti  piaceva  il  risotto?  —  Ehi,  signorino, 
Tenga  le  mani  a  casa.  —  Oh,  oh!  —  Da  bere  ! 
—  Quantineabbiamdel  mese? — A  me  non  piace 
Col  zafferano.  —  Non  ho  fatto  apposta,  — 
Son  di  Norcia  i  tartufi  ?  —  Un  po'  di  salsa  !  — 
Da  bere!  —  Tante  grazie!  —  Ah  sudicione. 
Dove  ha  imparato  a  far  sconcezze  a  tavola  ?  — 
Ma  le  pare?  —  Da  bere!  —  Ah,  ah,  ci  soffro 


10  PROLOGO. 

Il  solletico  !  —  È  meglio  lo  storione.  — 
Da  bere!  —  L'ha  con  me?  —  Ti  prendo  a,  scMaffi, 
Lasciala  stare  —  No  —  Canaglia  !  —  Infame  !  — 
Ti  tiro  labottiglia  —  Ahi!  —  Fermi!  —  Zitti!  — 
Fate  la  pace,  via  !  —  Basta  !  —  Da  bere  ' 
Prende  tabacco  lei  ?  —  G  razie  —  Da  bere  ! 
Ho  sete  !  —  Ho  sete  anch'io  !  —  Presto,  da  bere  '. 


GIOBBE.  IX 

YOCE  DALLE  SFEHE. 

die  bel  gusto  giiar  come  arcolai 
Nel  giorno  cliiaro  e  nella  notte  oscura; 
Senza  fermarsi  mai, 
E  senza   mai  cangiar  di  seccatura! 
Noi  domandiamo,  clie  bisogno  c'era 
Di  questi  nostri  sempiterni  giri? 
Non  poteva  restar  ferma  ogni  sf^ra 
Ad  ascoltar  gli  sciolti  ed  i  sospiri . 
Delle  ragazze  affette  d'isteria 
E  dei  i)oeti  senza  prosodia? 

Voce  dalle  nubi. 

Possa  venire  un  cancliero  nel  core 
A  quel  somaro  c'ba  inventato  il  vento, 
Che  va  sempre  in  furore 
E  fermar  non  ci  lascia  un  sol  momento  ! 
Accidempoli  a  chi  ci  ha  messo  al  mondo 
Per  dar  gusto  al  villan  che  vuol  la  piova, 
Per  farci  correr  sempre  in  lungo  e  iu  tondo 
Guastando  il  tempo  ad  ogni  luna  nova! 
Siam  condannate  a  non  fermarci  mai 
Per  dar  da  guadagnare  agli  ombrellai! 


12  PROLOGO. 

Voce  dalle  cucine. 

Lo  strutto  non  è  buono,  il  burro  ò  caro, 
Costano  i  polli  un  occhio  della  testa, 
Ed  il  Padrone  avaro 

Vuol  spender  poco  e  sempre  stare  a  festa. 
La  sera  poi,  quando  facciamo  i  conti. 
Lesina  i  soldi  e  ci  tratta  di  ladri  ! 
Muti  cuoco  il  Signor,  che  noi  slam  pronti 
A  cedere  il  grembiule  ai  Santi  Padri, 
E  lo  scMdion  del  resto  al  Sant'Uffizio, 
E  ci  lasci,  perdio,  mutar  servizio. 

Voce  nel  naso. 

Ascoltate,  Signori,  il  triste  canto 
D'un  povero  poeta  raffreddato 
E  digiuno   da  tanto 

Tempo,  magro,  stecchito,  allampanato! 
Dalla  mensa  santissima  porgete 
Almen  un  osso  al  povero  poeta  ! 
Fatelo  professor,  se  non  l'avete. 
Che  de'  poemi  suoi  questa  è  la  meta  ! 
Fate  che  vocin  gli  scolari  stolti: 
a  Abbasso  Senofonte  e  viva  i  sciolti  !  » 


GIOBBE.  13 


Tacquer  le  voci  e  tutto  fu  silenzio. 

Dio  tacca  da  gran  tempo.  Ai  consueti 
Balli  moveano  in  ciel  gli  astri,  e  con  dura 
Infallibile  norma  albe  ed  occasi 
Il  monotono  Sol  dava  a  la  terra. 
IJeddian  le  nevi  a  biancheggiar  le  spalle 
Del  tremante  dicembre,  aprii  venia 
Col  suo  manto  di  fiori;  arida  e  stanca 
Movea  la  bionda  està  (bella  parola  !) 
Movea  la  bionda  està  giù  da'  falciati 
Campi  a  cercar  le  vive  onde  marine 
(Per  farne  che,  non  lo  sa  poi  nessuno), 
E  coronato  il  crin  d'edra...  Che  brutte 
Parolacce,  mio  Dio!  Cambiam  registro. 

Dunque  il  Signor  tacea.  Ma  non  taceva 
Se  non  perchè  non  avea  nulla  a  dire  ; 
E  tutti  rispettando  il  suo  solenne 
Silenzio,  avcan  l'americana  foglia, 
Ossia  tabacco,  co'  zolfini  accesa  5 
E  chi  quella  ricchissima  d'Avana, 
Chi  la  turca  odorosa  e  chi  la  sozza 


14  PROLOGO. 

E  puzzolente  che  l'Italia  appesta, 
0  in  sigari  contorta  o  nelle  varie 
Pipe  stipata,  con  piacer  fumava. 
Lo  stesso  Padre  col  pipin  di  gesso 
Annerito  dal  fumo  e  dalla  eterna 
•     Sporcizia,  come  vaporiera  in  alto 
Sbufifixva  ed  appuzzava  i  suoi  vicini. 
Fujiiava  il  Figlio  un  sigaro  toscano 
E  il  celeste  Picciou  la  sigaretta. 

Al  fumo  delle  pipe  il  suo  me^cea 
Acuto  aroma  l'araba  bevanda. 
Ma  quasi  tutti  prcieriano  a  lei 
La  grappa  piemontese  o  l'acquavite. 
Rosseggiavano  i  nasi  benedetti 
Come  le  fraghe  tra  le  foglie.  Molti, 
Stesa  la  schiena  su  le  sedie,  i  i)iedi 
Sulle  mense  teneau  ;  molti  caduti 
Erano  a  terra  e  digerian  russando 
Senza  veder  le  offese  al  buon  costume 
C(;late  dalla  comi^lice  tovaglia. 

Ad  un  tratto  s'udì  molle  un  concento 
Di  tamburi,  di  timpani  e  tromboni 


GIOBBE.  15 

E  (li  gran  cassa.  Unanimi  levarsi 

I  benedetti  spiriti,  e  succinte 

Le  vesti,  incominciar  le  sacre  danze 

Che  di  cancan  il  nome  han  tra  i  mortali. 

Oh,  come  i  lombi  dimenavan  lesti 

I  confessori,  oh  come  in  alto  il  piede 

Scagliavano  le  vergini  !  Non  solo 

Le  giarrettiere  seriche  far  viste, 

Ma  sin  le  sx^alle  apparvero  e  la  gola. 

L'Eterno  sorridea  centellinando 
L'ampia  tazza  di  Moka,  e  le  carole 
S'annodavan  jiiù.  fitte  e  più  gioconde; 
Quando  alla  porta  d'adamante  un  busso 
Energico  sonò,  che  per  la  sala 
Kimbombò  fortemente.  Ognun  rii^tette 
Come  attonito,  chi  col  piò  Tpev  aria, 
Chi  del  salto  a  metà,  chi  a  mezzo  abbraccio. 
Ma  l'Eterno  fé'   un  cenno,  e  lestamente 
Corse  alla  joorta  il  santo  portinaio 
E  chino  al  buco  della  serratura 
Chiese  —  chi  bussa?  — 

Una  possente  voce, 
Alquanto  roca  per  aver  parlato 


16  PROLOGO. 

Troppo  in  versi  scioltissimi,  ma  cupa 
Qual  di  basso  profondo,  a  lui  rispose  : 

—  Aj)ri,  imbecille.  Satana  son  io.  — 

Tremaron  tutti  e  quatti  quatti  intorno 
Al  Padre  si  serrar  confusamente, 
Al  Padre  che  tacea,  solenne  in  volto, 
Benché  il  pipino  gli  tremasse  in  bocca. 

—  Apri,  gridò  l'Eterno.  —  Il  portinaio 
Colla  tremante  man  volse  la  chiave, 

E  cigolando  la  porta  diesante 
Si  spalancò  sui  cardini  mal  unti. 

Eitto  sull'alta  soglia  apparve  un  bruno 
Giovane.  Il  guardo  suo  fisse  nel  Padre 
Com'aquila  nel  sole,  e  nel  profondo 
Occhio  guizzava  una  terribil  fiamma. 
Era  il  vestito  suo  come  or  si  dice 
Di  società,  nero,  a  due  code,  e  neri 
I  calzoni;  ma  candida  sul  petto 
La  camicia  stendeasi  inamidata. 
Volse  l'occhio  d'intorno  lentamente, 
E  lentamente  il  cappello  a  cilindro 
Trasse  dal  capo,  e  la  gran  fronte   apparve. 


GIOBBE.  17 

M'ha  detto  non  so  chi,  che  osciire  e  frodile 
Stri  scia  van  sulla  sita  fronte  immortale 
Strane  larve  di  stingi  e  di  chimere  ; 
Ma  queste  scioccherie  son  troppo  grosse 
E  non  lo  credo. 

Nella  sala  immensa 
Si  sparse  un  acre  odor  come  di  zolfo, 
Tale  che  ognun  chiedeva  al  suo  vicino: 

—  Ti  si  bruciano  in  tasca  i  zolfanelli?  — 
Ma  il  celeste  Piccion  cui  tutto  è  noto, 
Disse  —  Zitti,  perdio!  Non  v'accorgete 
Che  questo  è  il  puzzo  dell'inferno  e  addosso 
L'ha  il  diavolo?  —  Stupiti  ammirar  tutti 
La  sapienza  profonda  del  piccione. 

Nel  silenzio  Lucifero  fé'  un  passo 
Avanti  e  colla  voce  profondissima 
Volto  all'Eterno  —  Come  stai?  —  gli  cliicse. 

—  Puh  !  Non  c'è  male  —  gli  rispose  il  Padre  — 
E  tu  stai  bene?  —  Starei  meglio  —  disse 
Lucifero  —  se  tu  non  permettessi 

Ai  poeti  per  ridere,  di  darmi 

La  berta  in  versi  sciolti.  Io  meritava 

L'inferno  e  mi  ci  hai  messo  j  ma  il  peccato 


18  PROLOGO. 

Mio  non  fa  tale  da  sofifiiv  la  peua 
Immeritata  di  quindici  canti 
Sciolti,  arcisciolti,  stampati  a  Milano.... 
Io  me  ne  appello  alla  .giustizia  tna  ! 
Perchè  perseguitarmi  a  questo  modo? 
Perchè  inasprir  la  pena?  Ah,  quanto  meylio 
Fora  per  me  s'io  fossi  condannato 
A  la  galera  nel  mio  dolce  regno 
D'Italia,  dove  i  rei  sono  trattati 
Meglio  assai  de'  soldati  e  de'  maestri  ! 
Almeno  a  lor  non  scagliano  poemi, 
Come  a  me,  tra  le  spalle,  ed  io  protesto  !  — 

—  Ma  credi  tu,  —  rispose  il  Padre  —  crcui 
Ch'io  pur  non  soffra  di  poemi'?  Ormai 
Non  c'è  scolaro  di  liceo  che  stufo 
Di  studiar  la  lezione,  a  me  non  scagli 
Elzevire  insolenze  e  vituperi 
In  odi  barbarissime  e  sbagliate! 
Non  sai  tu  le  bestemmie  e  gli  aggettivi 
Cui  si  accoi")pia  il  mio  nome,  specialmente 
Nella  gentil  Toscana?  Ivi  birbone, 
Cane,  carogna  e  peggio  son  chiamato; 
E  tu  ti  duoli  per  sei  mila  versi 


GIOUBE.  19 

Scaraventati  malamente  !   Almeno 

Quei  versi  fan  dormir,  ma  le  bestemmie; 

Caro  Satana  mio,  levano  il  pelo  !  — 

-  Alle  faccende  tue  —  disse  Lucifero  — 
Pensa  da  te.  Se  in  terra  li  bestemmiano 
Pensaci  tu  ;  ma  questo  non  giustifica , 
Questo  non  scusa  la  novella  ingiuria 

Che  a  me  fu  fatta.  Non  puoi  tu  difenderti  ? 
Non  hai  per  te  la  Civiltà  Gibitolica, 
JJ Ateneo  Bomagnolo  e  i  j)er'iodici 
Che  in  ciascuna  città  stampano  i  vescovi  ? 
Non  li  legge  nessun  perchè  son  stupidi, 
Son  cretini,  lo  so  ;  ma  pur  si  stampano. 
Io  non  ho  che  il  Carducci  col  suo  Satana, 
Tu  centomila  preti  e  frati  e  monaclie: 
I  cónti  non  son  pari.  Io  vo'  giustizia 
E  tu  me  la  farai,  corpo  del  diavolo  !  — 

-  Calmati  —  disse  il  Padre  —  Io  giusto  sono, 
Ed  ho  capito  che  poi  non  hai  torto. 

Io  ti  debbo  nn  compenso  e  tu  l'avrai. 
Poiché  nn  jioema  t'ha  seccato,  è  giusto 
Che  gli  avversari  tuoi  siano  seccati 


20  PROLOGO. 

Anch'essi  da  un  poema.  Io  sono  giusto, 

E  te  lo  farò  fare  in  versi  sciolti. 

Occhio  per  occliio  i3a  così  pagato, 

Seccatura  così  per  seccatura. 

Vuoi  dei  versi  noiosi?  E  tu  li  avrai! 

Mai  carestia  non  fu  nella  mia  cara 

Terra  d'Italia  di  versi  noiosi 

E  di  poeti  concilianti  il  sonno. 

Lucifero  non  vuoi?  Prenditi  il  Giobbe.  — 

IJabbrividiron  tutti  alla  minaccia 
E  Lucifero  cadde  inginocchioni. 
—  No,  per  amor  di  Dio,  Padre!  Risparmia 
Al  flagellato  mondo,  alla  percossa 
Umana  schiatta  un  tal  mar  tòro.  Uccidi 
Colle  guerre,  le  pesti,  e  le  Regìe, 
Ma  non  infligger  ai  dolenti  un  nuovo,  ' 
Un  tremendo  poema  in  versi  sciolti  ! 
Pietà,  pietà  per  la  straziata  stirpe 
D'Eva  !  Pietà  pei  miseri  redenti 
Invano  dal  tuo  Cristo!  In  me  punisci 
D'un  poeta  l'error:  ficcami  ancora 
Nel  zolfo  liquefatto  e  nella  pece, 
Fa  di  me  quel  che  vuoi....  ma,  deh,  risparmia 


GIOBBE.  21 

Il  poema  di  Giobbe  al  mondo  ! . . . 

Scosse 
La  chioma  bianca  il  Padre  e  tutto  intorno 
Il  ciel  tremò: 

—  L'ho  detto  e  lo  mantengo, 
E  sillaba  di  Dio  non  si  cancella,  — 

l'ianse  Satàno  e  sulle  negre  guancie 

Le  lacrime  parean  goccie  di  foco, 

Quando  il  Padre  gridò  —  Parliamo  d'altro. 
Hai  tu  visto  il  mio  servo  Gigi  Alberti 

Che  mi  difende  sempre  in  verso  e  in  prosa  ? 

Che  ne  pensi  di  lui  ?  — 

—  Nulla,  o  Signore, 

Se  non  che  il  peso  suo  passa  di  molto 

Quello  delle  piramidi  d'Egitto, 

E  l'ho  visto  piangente.  — 

—  0  perchè  piange^/ 


22 .  PROLOGO. 

Pria  che  il  passo  volgessi  all'infecondo 
Gaudio  di  questo  tuo  pallido  regno, 
Le  diverse  cercai  parti  del  mondo. 

Dove  dell'Orsa  l'angoloso  segno 
Preme  dal  cielo  l'iperborea  terra, 
Vidi  percosso  dal  possente  sdegno 

D'una  1)1  ebe  fatai,  cui  non  atterra 
Terror  di  studiati  atri  martiri, 
L'Autocrata  che  indisse  a'  suoi  la  guerra. 

Non  men  rispose  a'  miei  giusti  desiri 
Roma  agitata  sulla  bara  bruna 
D'un  reo  che  la  straziò  co'  suoi  deliri. 

Profonda  era  la  notte:  in  ciel  la  luna 
I  raggi  diifondea,  gliignando  ai  vati 
C'hanno  la  pancia  e  la  Musa  digiuna, 

Allor  che  salmeggiando  uscir  schierati 
In  lunga  fila  fuor  del  Vaticano 
E  bacchettoni  e  suore  e  preti  e  frati. 

Ben  mille  e  mille  torcie  aveano  in  mano. 
Onde  le  torri  e  le  superbe  mura 
Sul  ciel  corusche  si  vedean  lontano. 

Il  ciociaro  guardando  alla  pianura 
Rammenta  il  fiero  incendio  di  Nerone 
E  gli  si  stringe  il  cor  dalla  paura. 


GIOBBE.  23 

Giungea  frattanto  la  processione 
In  piazza  Eusticucci,  allor  die  lieta 
Da  uu  cafi'ò  udissi  una  volgar  canzone. 

Chi  mai  del  venerabile  profeta 
Osa  folle  insultar  la  salma  antica  ? 
E  degli  afflitti  svizzeri  la  pietà? 

Oltre  il  rogo  non  vive  ira  nemica  ; 
S'egli  fu  un  sacco  di  letame,  basta 
Che  nel  suo  libro  il  padre  Curci  il  dica. 

Ma  lasciate  passar  la  negra  casta  ; 
Lasciate  pur,  lasciate  pur  che  iiianga; 
Un  più  duro  castigo  a  lei  sovrasta! 

Dai  fischi  e  dalle  grida  ognun  rimanga. 
Oh!  qui  non  serve  Addio  mia  bella,  addio 
Per  castigarli  ben,  ci  vuol  la  stanga  !  — 

Così  pensava  allor  nel  capo  mio. 
Quando  il  popol  capì  la  grande  offesa 
E  incominciò  un  orrendo  tramestìo. 

Volau  le  torcie  nella  mischia  accesa, 
E  sotto  ai  pugni  dei  profani  cade 
L'oscena  turba  della  santa  Chiesa. 

Come  torrente  che  la  messe  invade 
Dai  sette  colli  il  popolo  romano 
Scende  ed  innonda  le  sonanti  strade. 


24  PKOLOGO. 

Io  seduto  sull'alto  Vaticauo, 
Incitava  a  la  pugna  i  miei  seguaci 
Cui  di  vindici  pietre  armai  la  mano. 

Sui  caccialepri  si  scagliar  gli  audaci, 
Che  non  trovar  ne' molti  birri  intoppo 
E  colle  stanghe  spensero  le  faci. 

Ma  i  preti  tuoi  non  si  fermaron   troppo 
Ad  aspettar  le  nostre  bastonate 
E  il  feretro  scappò  via  di  galoj)po. 

Così  il  vicario  tuo  tra  le  tìschiate 
E  tra  gli  scherni  nel  sepolcro  scese 
E  i  tuoi  devoti  fur  presi  a  sassate. 

Per  questo  Gigi  tuo  va  per  le  chiese, 
Correndo  ad  ogni  squillo  di  campana, 
Impetrando  mercè  per  queste  offese, 

E  piange  sempre  come  una  fontana  ! 


GIOBBE.  25. 

—  Bella  forza  I  —  rispose  il  Pailre  —  Bella 
Forza  picchiar  quei  santi  caccialepri 
Che  cantavano  i  salmi  !  Ah,  ma  giustizia 
Aucor  morta  non  è  nel  basso  mondo 
E  il  Tribunal  gli  ha  condannati  tutti, 
In  persona  di  pochi,  i  tuoi  buzzurri  I 
Pa,2,hia  la  multa  di  cinquanta  lire 
Per  l'offesa  a  me  fatta!  Oh,   Dio  non  pagii 
TI  sabato,  ma  porge  al  Tribunale 
La  sua  brava  querela.  Hanno  guastato 
I  connotati  ai  giovani  cattolici  ? 
Bene!  Cinquanta  lire!  È  prezzo  fisso. 

Parlami  dunque,  Spirito  maligno, 
Parlami  dunque  un  po'  del  tuo  Carducci  1 
Che  fa,  lo  scellerato  ?  Insulta  ancora 
La  veneranda  mia  barba  coi  tetri 
Carmi?  Che  fa?  Paventi  la  vendetta 
Mia  che  comincia  ad  infierir  su  lui. 
Non  è  pentito  ancor  dopo  eh'  io  '1  feci 
Per  sua  vergogna  far  commendatore  ?  — 

Levò  il  capo  Satàn,  sorrise  e  disse  — 


26  rKOLOGO. 

Cupo,  aggrondato,  per  le  felsinee 
strade  cercando  del  suo  Cillario, 
Enotrio  procede,  strappando 
da'  1  bruno  mento  la  barba  rada 
e  mulinando  ruvidi  esametri, 
sognando  l'arte  aristocratica, 
maledice  i  giornali  e  per  loro 
affila  i  giambi  e  pensa  e  scrive, 
e  dio  nervoso,  nume  irritabile, 
china  lo  sguardo  da  la  sua  gloria 
s'abbassa  a'  percoter  gl'insetti 
ck'a  le  sue  piante  giungono  appena. 
Ob  grande  in  questo  che  la  calunnia 
non  lo  distolse  da  le  abitudini, 
né  prese  le  muse  in  dispetto, 
ed  ama  sempre  gli  amici  e  Bromio. 
Cerca,  o  Signore,  tra  i  tuoi  proseliti 
un  gesuita  clie  sappia  scrivere. 
Se  tu,  cbe  noi  credo,  lo  trovi, 
te  lo  prometto,  mi  faccio  frate. 
Possono  farti  cento  Luciferi 
ed  un  milione  di  Falingenesi, 
ma  l'inno  di  Satana,  credi 
credimi,  almeno  non  fa  dormire. 


GIOBBE. 

Ali;  se  il  CarcTucci  meno  polemiche 
scrivesse  e  invece  più  odi  barbare, 
babbO;  i  tuoi  cento  poetastri 
starebbe!'  tutti  cheti  com'  olio 

e  gli  Stecchetti  puzzolentissimi 
ed  i  Panzacchi  ed  i  d'Annunzio 
ti  romx^erebbero  di  meno, 
Eterno  Padre,  le  sacre  tasche. 


-  Basta  !  —  il  Padre  gridò  —  basta  perdio  ! 
Se  ancora  in  versi  barbari,  mi  parli. 
Ti  ricaccio  all'inferno  ed  il  poema 
Finisce  innanzi  tempo.  Animo  dunque, 
E  cambiamo  discorso.  Hai  tu  veduto 
Giobbe,  il  buon  servo  mio,  quel  eh'  è  citato 
Anche  in  proverbio  come  il  non  plus  ultra 
Della  pazienza  ?  — 

—  L'ho  veduto  —  disse 
Lucifero  —  ma  certo  egli  fa  poca 
Fatica  a  non  impazientirsi  mai. 
A  lui  ricchezze,  a  lui  salute,  vino 
Eccellente,  bellissime  fanciulle. 
Figli,  commende  e  iDiefetture  hai  dato. 


28  puor.oGO. 

Egli  è  felice  e  non  è  meraviglia 

Se  t'è  fedele  e  non  s'adira  mai. 

Lascia  ch'io '1  tocchi  nello  scrigno,  lascia 

Ch'io  nelle  carni  lo  percota  e  allora 

Vedrai  se  non  si  volge  a  te  con  tutti 

I  moccoli  dei  beceri  toscani. 

Vuoi  scommetter  con  me?  Scommetto  l'alma 

Del  feroce  Ezelin  contro  la  casta 

Alma  del  tuo  santissimo  Antonelli 

Che  s'io  lo  tocco,  ei  peccherà.  Scommetti!  — 

—  Ed  io  scommetto  —  gli  rispose  il  Padre  — 
Egli  è  in  tua  man.  Di  lui  fa  quel  che  vuoi 
Strazialo  come  vuoi,  purché  la  vita 

Gli  salvi  e  l'intelletto.  Io  t'interdico 
D'ucciderlo  e  di  fargli  in  ogni  modo 
Leggere  gli  elzevir  del  Zanichelli.  — 

—  Accetto  —  replicò  tosto  Satano  — 
Dammi  la  mano  e  la  scommessa  tiene  !  — 
Si  strinsero  le  destre  e  il  ciel  tremò 
Alla  scena  curiosa.  Indi  s'aperse 

Un  trabocchetto  e  il  diavolo  scomparve 
In  uu  acre  fetor  di  pece  greca. 


GIOBBE.  29 

Ripresero  le  sfere  il  consueto 

Giro  e  tutto  tornò  com'era  prima. 

Raccese  il  Padre  il  suo  pipin  di  gesso. 

Tornaro  i  santi  alle  divine  danze 

E  vada  un  po'  a  veder  chi  non  lo  crede. 


Voce  dei  Santi. 

Chi  non  anela  a  voi,  notti  stellate 
Del  basso  mondo,  non  capisce  nulla. 
Noi  accechiamo  in  queste  illuminate 
Sfere  del  ciel  ch'eternamente  frulla. 

Poi  che  le  carte  fur  da  Dio  tassate 
Nessun  giuoco  oramai  più  ci  trastulla 
E  in  queste  seccantissime  serate 
Non  ci  resta  che  leggere  il  Fanfidla. 

Quel  giornal  moderato  e  riverito 
Il  sangue  ci  rinnova  nelle  vene 
Con  la  prosa  di  zucchero  candito. 

Talor  d'errori  ha  le  colonne  piene, 
Ma  in  Paradiso  manca  un  erudito 
E  il  capitan  Fracassa  non  ci  viene. 


30  PROLOGO. 


Voce  delle  Vergini. 


Afferaaa  un  vecchio  proverbio  che  tutte 
Le  disgrazie  non  vengon  per  far  male  : 
Noi  Siam  beate  perchè  fummo  brutte, 
Perchè  tali  ci  fece  Iddio  immortale. 

Lasciammo  il  mondo  presso  che  distrutte 
Dal  fiele,  da  un  isterico  idealv;, 
E  da  l'invidia  per  le  belle  putte 
Che  dier  un  calcio  ai  santi  e  alla  morale. 

In  questa  sempiterna  melodia 

Delle  sfere  azzurrine  e  dei  pianeti 
Noi  leggiamo  la  Nuova  Antologia. 

La  noia  è  molta  —  ma  i  sensi  stau  cheti. 
E,  come  fan  le  Figlie  di  Maria, 
Non  deliriamo  nell'amor  de'preti! 


GIOBBE,  31 


Voce  degli  Angeli. 


Altliiamo  al  collo  una  cvavatta  d'ale 
E  siamo  bianchi,  rossi  e  ricciolini  ; 
Ma  Dio,  perchè  non  ci  tentasse  il  male, 
Xon  ci  dio  che  la  testa  d'anyiolini. 

Mii  per  comiienso  ci  abbonò  al  giornale 
All'ottimo  Giornale  dei  bambini, 
Opera  nuova,  splendida,  morale. 
Dell' Obleight,  del  FanfuUa  e  del  Martini 

I\d,  color  che  scrivon  dappertutto, 
Sopra  i  vecchi  cliché  de'  fogli  inglesi 
Eifriggon  Scavia  e  parlano  di  tutto: 

E  noi,  bambini  di  questi  paesi. 
Troviamo  che  il  giornal  non  è  poi  brutto.. 
Sol  delle  scioccherie  siamo  soipresi. 


32  PROLOGO, 


Voce  d'imbecii.i.i. 


Siam  l'imbecillità  santifleata, 
Siamo  il  zenith  della  cretineria, 
Abbiamo  il  gozzo,  la  paralitsia 
Ooll'idiotismo  e  la  demenza  innata. 

Il  che  ci  meritò  questa  beata 
Arcibenedettissima  allegria, 
Gloria  in  eterno  all'ebetismo  sia. 
Al  Padre,  al  Figlio  e  a  tutta  la  brigata. 

Al  nostro  cervellaccio  da  somaro 
CercMamo  d'ajìprestar  cibo  asinino, 
La  gramigna  più  scelta,  il  fien  più.  raro, 

E  per  questo  leggiamo  ogni  mattino 
La  traduzione  di  Lucrezio  Caro, 
Il  Lucifero,  il  Giobhe  e  Bertoldino. 


CANTO   PRIMO 

lOB. 


Testa  saniem  radebat,  sedens  in  sterquilinio. 

lOB    II.    8. 


ARGOMENTO. 

Notte  —  La  cena  di  Giobbe  —  L'inno  del  poeta  —  Il  giorna- 
lista —  La  pioggia  di  fuoco  e  la  distruzione  degli  armenti  — 
I  Sabei  rapiscono  i  buoi  e  i  Caldei  i  cammelli  —  Ozi  di  Giobbe 
—  Gli  giungono  le  notizie  —  Satana  gli  distrugge  la  casa  e  la  fa- 
miglia e  lo  copre  di  ulceri  —  Lamento  di  Giobbe  sullo  sterqui- 
linio —  La  moglie  di  Giobbe  chiede  consiglio  per  divorziare  — 
Dimostrazione  delle  dbnne  di  Hhs. 


CANTO   I.  35 


Alta  è  la  notte.  Una  solenne  pace 
Su  l'erma  terra  dalle  stelle  piove. 
Tacciono  l'opre  e  i  venti.  Non  del  mare 
Un  gemito  lontan  su  le  petrose 
Coste  Gerrèe  risuona  e  la  superba 
Chioma  de  le  foreste  al  viandante 
Coll'urlo  lungo  non  agghiaccia  il  core. 
Tutto  riposa. 

Chi  oserà  l'immensa 
Turbar  quiete  del  creato*?  Iddio 
Vuol  che  nel  sonno  le  languenti  membra 
Ristorino  gli  schiavi,  onde  col  sole 


36  GIOBBE. 

Escan  più  forti  del  signore  al  cenno 
D'Idume  a  coltivar  l'arena  ingrata. 
Maledetto  colui  che  il  sonno  rompe 
Del  servo  stanco  ;  maledetto  cento 
Volte,  se  col  rumor  di  danze  o  grida 
Eccitate  dal  vin,  desta  l'ilota 
Nel  suo  duro  canil.  Meglio  che  gli  occhi 
Non  apra  e  sogni.  Alle  rosate  larve 
Visitatrici  del  giocondo  sonno 
Il  misero  lasciar  giova.  Non  fate, 
Non  fate,  no,  che  con  l'orecchio  teso 
Al  suon  degl'inni  vostri,  al  tintinnio 
Delle  tazze  che  s'urtano,  ricordi 
Il  digiuno  del  dì.  Non  fate  mai 
Che  sui  cubiti  ritto,  a  notte  chiusa, 
Mentre  cenate  voi,  pensi  alla  fame  ! 

Giobbe  questo  non  sa,  Giobbe,  il  felice 
Signor  di  mille  campi  e  mille  armenti  ! 
Egli  siede  al  convito  e  già  vicino 
È  il  dì  novello;  già  roseo  traluce 
Per  le  tenui  cortine  il  primo  riso 
Dell'aurora  che  sorge.  A  lui  d'intorno 
Ebbri  stan  sette  figli  e  cento  amici. 


CANTO   I.  37 

Nei  turiboli  d'or  fuman  le  gomme 
Del  benzoino,  il  cinnamomo,  il  nardo, 
E  sovra  i  lini  della  mensa  i  gigli 
D'Engaddi,  misti  a  le  purpuree  rose 
Di  Gerico,  son  sparsi.  Ai  convitati 
Pendon  ghirlande  da  le  chiome  e  bende 
Festive.  Cento  giovanette,  appena 
Dai  procaci  di  Coo  veli  coperte, 
Recan  intorno  l'anfore  d'argento 
Mescendo  il  vino  e  concedendo  i  baci. 
S'udian  sonar  le  tazze  d'oro  e  l'alte 
Risa  ed  i  canti.  Fervea  l'orgia,  quando 
Ecco  mal  fermo  sovra  i  pie,  rubizzo 
In  volto,  move  dall'estremo  letto 
Del  concavo  triclinio,  un  poetuccio 
Che  alimentò  di  sé  cento  giornali, 
Tutti  falliti,  e  che  imitando  scrisse 
Molti  enormi  elsevir  di  versi  matti. 
Mise  gli  occhiali  sul  gran  naso  e,  presa 
In  man  la  cetra,  incominciò  a  cantare. 


38  GIOBBE. 


Giobbe  sei  grande.  —  L'umile  tuo  cuore 
Chiamò  dal  nostro  Iddio  tanta  fortuna. 
Se  tu  soccorri  il  povero 
Vate  che  prega,  ei  ti  l'ara  signore 
Di  tutto  l'oro  eh' è  sotto  la  luna. 

Giobbe  sei  grande  —  ed  io  cui  tanto  attrista 
La  vecchia  tabe  del  corrotto  mondo, 
Voglio  la  vita  scorrere 
Da  castigato  puro  idealista, 
Inteso  sempre  al  tuo  saper  profondo. 

E  se  nell'orgia  dei  conviti,  i  baci 
Tu  muterai  con  qualche  giovinetta. 
Io  canterò  a  Più  splendida 
Nel  gran  desìo  del  bello  tu  mi  piaci, 
0  natura  d'amor  semplice  e  schietta  !  » 

L'accarezzar  ne  le  segrete  alcove 
Le  vinte  mogli  degli  amici  imbelli, 
Colpa  per  noi  non  stimasi  j 
L'infamia  è  pubblicarlo  ne  le  nuove 
Forme  degli  elsevir  di  Zanichelli. 

Quando,  parce  sepulto,  il  reverendo 
Padre  Ceresa  inculcò  la  morale 
Ai  fanciulletti  teneri. 


CANTO  I.  a9 

Le  apparenze  salvò  certo  tacendo, 
Clii  in  piazza  lo  portò  fu  il  tribunale. 

Sian  nascoste  le  colpe.  —  I  cupi  orrori 
Dell'Averno  son  fiabe  dei  minchioni; 
E  poi,  s'anclie  ci  fossero, 
Mancano  forse  al  tempio  i  confessori 
Con  le  indulgenze  e  con  le  assoluzioni  ? 


Giobbe  sorrise.  Allor  d'applauso  un  grido 
ce  Lieto  s'alzò  dai  convitati  petti.  » 
Giammai  riscosse  tanto  plauso  il  Giovine 
Ufficiai  di  Paolo  Ferrari 
Su  i  sapienti  italici  teatri! 
Un  giornalista  contraffatto  snrse 
Da  la  fenicia  porpora  del  toro; 
Un  giornalista  che  Dio  ve  ne  scampi 
Se  foste  figli  mai  dell' Antonelli! 
E  dopo  un  cupo  rantolo,  gettando 
Le  braccia  al  collo  del  poeta  ansante: 
<r  Te  beato,  gridò,  per  le  felici 
Strofe  piene  d'amore  e  pei  concetti 
Castigati,  limati,  inzuccherati, 
Onde  il  miglior  fra  tanti  imitatori 


40  GIOBBE. 

Tenuto  sei  dalla  felice  Ausonia  ! 
Nei.  riveduti  articoli  di  fondo 
Mai  fia  disciolto  il  nome  tuo  da  quello 
Santissimo  di  Giobbe  e  del  Ministro 
Che  su  l'Interno  siede!  » 

Intanto  i  rosei 
Destrieri  aggioga  all'indorato  carro 
(Per  favellarvi  ormai  di  cose  nuove, 
Come  disse  Gian  Carlo  Passeroni 
E  va  facendo   Mario  Eapisardi) 
La  bella  Aurora,  ed  abbandona  il  vecchio 
Titon  pei  baci  adulteri  d'Apollo, 
Che  desioso  le  vien  dietro.  Chiazze 
Di  porpora  si  stendono  su  i  monti 
Color  de  la  viola  e  di  lontano 
Tremola  il  mare  azzurro,  a  Un  invisibile 
a.  Spirto,  qual  di  canora  aura  fremea 
a  Per  le  fibre  del  mondo  (oh  che  sciocchezza  !) 
E  da  le  selve  susurrando,  uscia 
Per  le  città  dell' Idumea  frequenti. 

Ecco  un  raggio  di  sol  s'' insinuando 
(Non  è  parola  mia)  nell'ampia  sala, 
Illuminò  i  bicchieri  e  le  botticrlie. 


CANTO   I.  41 

Il  Patriarca  Giobbe  alla  finestra, 
Ciondolon  ciondoloni,  il  piede  trasse 
E  —  Finalmente  —  disse  —  finalmente 
Torna  il  bel  tempo  !  Ma  chi  sa  che  danni 
Fatto  avrà  la  tempesta  che  sentimmo 
Euggire  in  ciel,  sono  tre  giorni  !  I  campi 
Se  d'altri  disertò,  poco  m'importa; 
Solo,  perdio,  mi  seccherebbe  assai 
Che  sovra  i  campi  miei  fosse  caduta 
Poiché  non  sono  assicurato.  Un'altra 
Volta  bramo  sentir  dalla  Fondiaria.... 

Mentre  così  dicea,  sovra  i  suoi  campi 
La  tremenda  sventura  era  caduta! 
^Misero  lui! 

Tre  giorni  prima  il  cielo 
S'ottenebrò.  Dalle  fosche  montagne 
Calarono  le  nubi  brontolando 
Su  le  sue  terre  sconfinate  e  un  brivido 
Gelido  corse  per  gli  umani  petti 
E  per  le  bionde  messi.  La  natura 
Indi  si  tacque,  come  moribondo 
Che  pria  di  chiuder  le  pupille  al  sole 


42  GIOBBE. 

Tutta  col  suo  pensier  scorra  la  vita. 
Euppe  il  silenzio  un  fulmine  clie  cadde 
Sul  campanile  d' un'antica  chiesa; 
Innalzata  già  un  dì  dal  padre  Adamo 
(Come  si  sa  dall'opera  sulVArte 
Cristiana  del  Garrucci,  un  gesuita 
Dotto  e  pesante,  che  le  pietre  guaste 
Cerca,  raccoglie,  copia,  studia  e  stampa, 
Per  dimostrar  che  sopra  Dio  c'è  il  papa.) 
E  l'uragano  imperversò.  —  Dal  cielo 
Piovver  di  foco  dilatate  falde 
Tre  dì  e  tre  notti,  e  già  le  oppresse  genti 
Temean  eterna  quella  notte,  quando 
All'oriente  ricomparve  il  sole 
Che  illuminò  ben  piìi  funesto  scempio. 
Le  sette  mila  pecore  di  Giobbe, 
Allora  dato  a  banchettar  coi  tìgli 
Coi  giornalisti  e  coi  grami  poeti, 
Periron  tutte  nel  divino  arrosto. 
Indi  trascorse  il  nembo  e  si  distese 
Su  le  deserte  case  de'  Sabei. 

Perchè  non  ride  al  povero  poeta 
Autor  di  questo  biblico  poema 


CANTO    I.  43 

La  forte  Musa  che,  trascorso  il  mondo, 

Altri  de'  baci  suoi  non  trovò  degno 

Che  un  picciol  figlio  de  la  terra  etnea? 

A  descriver  l'orror  de  l'atterrita 

Orda  e  il  fragor  del  ciel  non  basterebbe 

L'ottava  famosissima  del  Tasso 

a.  Chiama  gli  abitator  dell'ombre  eterne  » 

Pochi  son  gli  erre:  anzi  Torquato,  quando 

La  scrisse  forse  era  briaco  e  aveva 

Col  vin  bevuta  la  nervosa  lettera. 

Udite  un  po'  come  prepara  ai  retori 

Barbogi  un  bell'esempio  d'armonia 

Imitativa  in  questi  versi  il  Vate: 

a  Al  novo  grido  del  pensier  ribelle 

<i  Tremai*  con  l'are  i  troni  e  giti  dai  troni 

a  Precipitar  scettri  puri)urei  e  teste 

a  Coronate  di  re!  »  Ma  qui  sostiamo: 

Cogli  erre  altrui,  c'è  gusto  a  lacerare 

I  ben  costrutti  orecchi  dei  lettori? 

Ritorniamo  a'  Sabei  che,  spaventati 
Dal  turbo,  lascian  la  natia  dimora. 
Come  quando  nel  mio  regno  d'Italia 
Spiega  qualcuno  il  tricolor  vessillo. 


44  GIOBBE. 

0  smunto  grida  d'aver  fame,  un'orda 
Di  delegati,  di  carabinieri, 
Di  spie,  di  poliziotti  e  di  sbirraglia 
Gli  si  riversa  orribilmente  addosso, 
Cosi  su  i  prati  fertili  di  Giobbe, 
Che  l'uragano  non  avea  jiercosso, 
Essi  calaron  depredando  i  buoi 
Stretti  all'aratro  e  l'agili  somare 
Intese  a  pascolar  jìlacidamente. 
La  nuova  dell'orribile  sventura 
Prima  che  a  Giobbe  pervenisse,  tutti 
Girò  i  paesi  de  l'ardente  Arabia, 
Passò  i  confini  e  fra  l'orde  rapaci 
Si  stese  de'  Caldei. 

Sapeano  questi 
Che  poco  lungi  tra  difese  mura, 
Tre  mila  s'accogliean  curvi  camelli 
Del  Patriarca.  Senza  alcun  indugio 
Prese  l'irte  zagaglie  e  i  giavelotti, 
Colla  rapidità  della  saetta 
Compier  di  Giobbe  la  total  mina. 

Dall'aereo  balcone  intanto  il  guardo 
Egli  volgea  d'intorno,  il  ciel  turchino 


CANTO   I.  45 

Non  macchiato  da  nube  contemplando 
E  i  verdi  colli  e'  1  mar  che  riposava 
Come  il  suo  cor  tranquillo.  Ahi  duro  fato 
Dell'uomo  !  Quando  ei  più  remota  crede 
La  rea  sciagura  a  punto  allor  gli  piomba 
Tremenda  in  capo  e  lo  distende  a  terra  !  — 

Allo  squillar  del  campanel  di  strada 
Giobbe  si  scosse  e  sbadigliando  disse 
«  Ecco  la  posta!  ».  Poco  dopo  in  fatti 
Un  servo  entrò  con  un  enorme  fascio 
Di  lettere,  di  libri  e  di  giornali. 
Aperto  tosto  il  capitan  Fracassa 
Lesse  la  storia  dell'Oca  novella. 
E  il  vate  intanto  dischiuso  il  Fanfulla 
Domenicale  (ciò  serve  alla  storia 
Per  stabilire  che  quel  dì  fu  un  sabato!) 
Il  suo  nome  cercò  fra  le  dogmatiche 
Bibliografie  ;  ma  noi  trovando  a  —  Come  — 
Sclamò —  è  noioso!  d  e  guardò  un  libro  enorme 
Che  nel  titolo  avea  Giohbe  —  Poema 
Di  Mario  Bapisardi  e  in  manoscritto 
Al  dotto  e  nohil  Patriarca,  tenue 
Ricordo  deWautore.  Aperto  a  caso 


46  GIOBBE. 

E  letti  pochi  versi,  il  cortigiano 

Eestò  di  sasso  e  alzando  al  ciel  le  mani; 

«  —  Misericordia,  —  disse,  —  che  morale  ! 

Il  poema  ti  dedica  e  poi  scrive 

Corna  de' fatti  tuoi,  povero  Giobbe!  —  » 

Questi  si  strinse  nelle  spalle  e  senza 
Adirarsi  pigliò  quel  libro  in  mano 
Malinconicamente.  —  «  È  questo,  —  disse, 
Indizio  certo  d'una  gran  sciagura  !  —  » 
E  lesse  a  lungo,  e  sconsolato  pianse: 


CANTO  I.  47 


0  Padre  nostro,  che  ne'  cieli  stai 
Per  puro  amore  del  superno  coro, 
Una  cappella  in  duomo  io  t'innalzai 
llicca  di  marmi,  di  scolture  e  d'oro, 
Dove,  come  saprai,  ti  faccio  dire 
Dodici  messe  al  dì  per  cinque  lire. 

Una  lampada  a  spese  mie  si  tiene 
Che  brucia  sempre  come  fa  un  vulcano 
E  sciupa  molte  botti  d'olio  piene, 
Forse  perchè  ne  ruba  il  sacrestano... 
E  se  tu  non  dicessi  :  —  Perdonate  — 
A  quest'ora  l'avrei  preso  a  pedate. 

Se  della  fede  mia  certo  tu  sei, 
Perchè  adunque  permetti  un  tal  poema? 
Se  vuoi  ch'io  non  protegga  i  Farisei 
E  che  non  ti  rinneghi  all'ora  estrema. 
Deh,  fa,  gran  Dio,  che  il  piccolo  cantore 
Non  trovi  d'ora  innanzi  un  editore! 


48  GIOBBE. 

Così  disse  pregando.  Indi  riprese 
A  frugar  dentro  ai  vergini  giornali 
E  ritrovò  una  lettera  —  «Mi  sembra,  - 
Disse  guardando  a  l'umile  indirizzo,  — 
Carattere  di  Tonio,  il  mio  fattore.  »  — 
Kuppe  la  bianca  busta  e  aperto  lesse 
La  inesorata  triplice  sventura. 
Come  la  tigre  che  tornando  al  caro 
Antro,  bramosa  di  lambir  le  svelte 
Membra  de'  suoi  nati,  più  non  li  trova 
Perchè  da  industre  cacciator  rubati, 
Eitorna  fuori  all'infuocato  sole 
Kuggendo,  e  corre  per  le  sabbie  ardenti 
Dietro  lasciando  una  bava  sanguigna, 
Tal  balzò  Giobbe  dal  purpureo  toro 
E  forsennato  uscì  per  Hus  marmorea, 
Tutte  assordando  di  strazianti  grida 
Le  popolose  vie. 

Quando  il  poeta 
E  il  giornalista  videro  vicina 
La  miseria  di  Giobbe,  incontanente 
Senza  dir  grazie  infìlaron  la  porta. 


CANTO    I.  49 

A  qiiel  fracasso  dal  profondo  Avevno 
Satana  uscì,  feroce  sghignazzando, 
E  in  sembianza  di  povero  tapino 
Venne  alla  porta  del  palazzo  a  chiedere 
Con  Anta  fame  e  ironici  lamenti 
La  caritade  per  l'amor  di  Dio. 
Quando  reggendo  i  colonnati  d'oro 
Dell'atrio,  fresco  per  leggiadre  fonti, 
—  a  Capperi  —  disse  —  che  edilizio  ha  il  nostro 
Buon  Patriarca  !  Troppo  s'assomiglia 
Alla  prigione  del  roman  Pontefice 
Li\,  in  Vaticano.  Non  vorrei  che  ora 
L'affittasse  o  vendesse  e  in  tal  maniera, 
La  mia  sconfitta  a  preparar,  mettesse 
Insieme  un  nuovo  capitale.  Or  bene 
Assicuriamci  della  sua  disfatta  !  »   — 
Disse  e  protese  le  pelose  braccia. 


50  GIOBBE. 

Come  da  orrendo  terremoto  scossa 
L'immensa  casa  minò,  schiacciando 
Sotto  i  fumanti  ruderi,  i  figliuoli 
Innocenti  di  Giobbe  ed  i  suoi  servi.  — 
Solo  (o  del  fato  profonda  ironia!) 
La  moglie  si  salvò,  perch'era  andata 
Nel  monastero  dei  Camaldolesi 
A  raccontare  al  padre  confessore 
Tutti  gl'intrighi  delle  sue  vicine. 

Era  dunque  in  bolletta  il  Patriarca 
Giobbe,  e  pensava  già  di  far  l'istanza 
Corredata  di  tutti  i  documenti 
Per  essere  impiegato  al  Ministero, 
Quando  il  Maligno,  visto  che  nessuna 
Era  bestemmia  dal  suo  labbro  uscita, 
Si  servì  del  permesso  del  Signore 
E  colpi  nella  carne  il  poveretto. 

Avea  cenato  Giobbe  con  un  tozzo 
Di  pan  duro  accattato,  e  un  cetriolo 
Eubato  all'ortolan  che  già  fu  suo, 
Quando  nel  coricarsi  sulla  paglia 
Sentì  caldo  alla  pancia  e  forte  peso 


CANTO   I.  51 

AU'inguiue.  La  notte  una  gran  febbre 
Addosso  gli  saltò.  Corse  la  moglie 
I  medici  a  cercar,  ma  non  ne  venne 
Alcuno  quando  seppero  clie  Giobbe 
Non  poteva  pagar.  Cbi  disse:  —  a  ne 
Non  spetta;  —  chi — non  posso;  — cbi  rispose — 
Andatevi  a  far  friggere.  —  La  mesta 
Donna  recossi  dal  veterinario 
Che  dal  continuo  frequentar  le  bestie 
Era  fatto  de'  medici  più  umano. 


Venne  costui,  vide  il  malato  e  scosse 
La  saggia  testa,  mormorando:    —  «  Fructus 
Belli,  mio  caro;  frutto  delle  belle! 
Non  è  roba  per  me.  Cercate  nella 
Pagina  degli  annunzi  ne'  giornali 
Un  rimedio  per  voi:  felice  notte,  d  — 

Restò  d'ebano  Giobbe!  Il  guardo  fisse 
Neil' ulceri  sbocciate  e  amaramente 
Pianse,  pensando  ai  ferri  del  chirurgo. 


52  GIOBBE. 

Lamento  di  Giobbe. 

Ahi,  Genovese  improvvido, 
Che  delle  Ispane  navi 
Le  prue  su  l'onde  incognite 
Dell' Oceàn  guidavi, 
E  de  le  strane  Americhe 
Aprivi  il  reo  cammino 
A  Florio,  Rubattino 
Ed  altre  società. 

Non  sai  di  quanti  spasimi 
Crebbe  l'uman  dolore 
Poi  che  recasti  il  tossico 
Che  ci  guastò  l'amore'? 
Non  sai  che  notti  orribili 
Passiam,  che  giorni  grami 
E  che  bevande  infami 
,  Il  medico  ci  da'? 

Invano,  invan  negli  umidi 
Prati  la  malva  alligna 
E  pei  malati  e  gli  asini 
Vegeta  la  gramigna, 
Invan  l'amaro  balsamo 
Dall'Oriente  viene j 


CANTO   I.  53 

Chi  la  pigliò  la  tiene, 
E  chi  non  l'ha  l'avrà. 
Ma  Giobbe  in  odio  agli  uomini, 
Al  cielo,  alla  natura, 
Perchè  non  ha  un  centesimo 
Non  potrà  far  la  cura; 
Ei  non  avrà  cerusico, 
E  non  bagni  a  vapore: 
Eòso  dal  suo  malore, 
Pover  a  lui,  morrà. 


Così  piangeva  il  Patriarca.  Intanto 
La  moglie  in  sé  volgea  rabbiosi  sensi  : 
—  ce  Ah,  dunque  ei  mi  tradì  ?  Dunque  non  basta 
Ch'ei  m'abbia  colla  sua  sostanza  ancora 
La  mia  dote  perduta,  ed  in  miseria 
Cacciata  !  Come  1  Io  che  facea  la  prima 
Figura  in  Hus,  io  che  dettava  legge 
In  materia  di  mode  e  i  più  eleganti 
Cappelli  inalberava  e  le  migliori 
Vesti  della  Giobergia  e  della  Bossi  ; 
Io  che  alla  messa  ed  al  teatro  ed  alle 
Feste  di  ballo  solea  far  furore, 


54  GIOBBE. 

Aliì  lassa  !  dunque  non  avrò  più  un  cencio 
Da  coprirmi  le  spalle  ed  una  treccia 
Da  coronarmi  il  capo  1  Ali  non  fìa  mai 
Ch'  io  rinunzi  alla  polvere  di  Cipro, 
Ai  guanti  da  quattordici  bottoni, 
Alla  tintura  Zempt  eh'  è  la  migliore 
Benché  costi  al  flacon  quattro  e  cinquanta  ! 
Io  protesto  !  d  — 

Ciò  detto,  incontanente 
Kecossi  all'avvocato. ...  un  avvocato 
Che  nominar  non  voglio.  Il  buon  lettore 
L'indovini  da  sé.  Ma,  come  tutti 
I  suoi  colleghi  di  garbuglio,  avea 
Costui  trovato  cinquecento  bestie 
Che  l'avevan  mandato  in  Parlamento, 
Ed  in  quel  punto  alla  Camera  stava 
Confabulando  col  Guardasigilli 
Cui  prometteva  il  voto  se  mettesse 
In  riposo  un  tal  Giudice  che  osato 
Avea  di  fargli  perdere  una  causa. 
Era  in  casa  però  l'avvocatessa 
Cui  del  marito  la  malizia  un  poco 
S'era  attaccata  e  che  scriveva  in  versi 
E  in  prosa  sui  giornali,  combattendo 


CANTO    I.  55 

In  favor  del  divorzio  e  dei  diritti 
E  del  primato  feminil. 

La  donna 
Del  Patriarca  le  contò  il  suo  caso, 
Indi  le  chiese  quanto  si  spendesse 
Per  far  divorzio. 

—  «  Ahimè,  disse  la  vecchia 
Letterata,  la  legge  fu  proposta 
Dall'ex-ministro  Villa,  un  avvocato 
Che  la  sa  lunga!  INIa  fu  indarno!  Dorme 
Quella  provvida  legge  in  Parlamento, 
Dorme  a  vergogna  nostra  !  E  tu  meschina, 
Fin  che  il  viver  ti  duri,  alla  carogna 
Del  Patriarca  tuo  sei  catenata  ! 
Non  han  pietà  di  noi,  povere  schiave, 
Questi  maschi  tiranni,  e  non  sappiamo 
Imitar  noi  l'alto  consiglio  dato 
Dall'attico  Aristofane  alle  donne. 
La  Lisistrata  leggi  e  il  duro  patto 
Cui  si  legar  le  greche  a  piegar  l'alma 
De'  mariti  alla  pace.  Ahi,  che  pur  troppo 
La  greca  forza  non  è  in  noi  !  Siam  tutte 
Deboli,  siamo  fragili,  comare, 
E  vano  è  iiuel  consiglio.  Il  meglio  fora 


56  GIOBBE. 

Scendere  in  piazza  insieme,  e  le  bandiere 
Spiegando  ai  venti  far  dimostrazioni, 
Meeting,  letture,  conferenze  e  caldi 
Discorsi  pel  divorzio.  Ma  ci  manca 
Un  capo.... 

—  «  Io  lo  sarò  !  »  —  disse  la  moglie 
Del  Santo  Patriarca,  e  scintillando 
Sacro  furor  dagli  occhi,  in  mezzo  a  cento 
Varie  bandiere  ad  ogni  evento  pronte, 
Una  ne  tolse,  ed  infilò  le  scale. 

L'avvocatessa  la  seguì  cogli  occhi, 
E  con  la  gialla  man  di  dotto  inchiostro 
Largamente  macchiata,  alle  fluenti 
Chiome  fe'una  carezza  e  disse:  —  a  Quante, 
Quante  cause  novelle  a  mio  marito  !  »  — 


CANTO   I.  57 

Era  un  giorno  di  sabato.  11  mercato 
Ad  Hus  in  piazza  si  tenea  qiiel  giorno 
Ed  in  città  per  questo  era  calato 
Il  popol  fìtto  de'  villani  intorno. 
Chi  galline  vendea,  chi  mandorlato, 
E  chi  semi  di  zucca  a  suon  di  corno; 
Fervevano  i  contratti  ed  il  rumore 
Sotto  il  sol,  tra  la  polve  e  nel  fetore, 


Quando  si  rovesciò  nella  gran  piazza 
Un  ululante  popol  di  megere, 
Una  turba  furente,  un'orda  pazza, 
Con  tamburi  scordati  e  con  bandiere; 
Che  se  le  Furie  avesser  fatto  razza, 
Queste  matte  sarian  lor  figlie  vere. 
De  le  belle  ce  n'erano  parecchie, 
Ma  quattro  quinti  eran  bagascie  vecchie. 


Dice  il  proverbio  :  con  due  donne  e  un'oca 
Il  mercato  è  già  fatto.  Ora  pensate 
Che  mercato  facesse  questa  poca 
Caterva  di  pettegole  adirate! 


58  GIOBBE. 


Non  ce  n'era  una  che  non  fosse  roca, 

E  tutte  quante,  rosse  e  scapigliate, 

Urlavan  clie  i)arevano  il  demonio 

a  Viva  il  divorzio,  abbasso  il  matrimonio  !  d 


Scottava  il  sole,  le  megere  urlavano 
Levando  in  alto  un  fitto  polverone, 
Scappavan  l'oche,  gli  asini  ragliavano 
E  tiravano  calci  a  le  persone: 
Le  Guardie  di  Questura  bastonavano 
Chi  non  vedeva  la  dimostrazione.... 
Era  Hna  cagnaraccia  tanto  acuta 
Che  pareva  la  Camera  in  seduta. 

Inanzi  a  l'altre,  colle  vesti  a  strappi, 
Discapigliata  come  una  befana, 
E  colle  calze  in  gamba  a  cavatappi, 
Madonna  Giobbe  procedea  in  sottana. 
Delle  bandiere  sui  luridi  drappi 
Stava  scritta  la  massima  romana 
oc  Chi  vento  seminò  tempesta  coglie. 
Chi  le  corna  non  vuol  non  i3renda  moglie.  y> 


CANTO    I.  59 


Corse  il  Prefetto  coi  carabinieri, 
Ma  il  Sindaco  mancò  perch'era  morto. 
Era  il  Prefetto  assai  sopra  pensieri 
Perchè  aveva  paura  d'aver  torto  ; 
E  se  aveva  ragione,  i  gazzettieri 
Ad  ogni  modo  avrian  tagliato  corto 
E  l'avrebbero  tanto  tartassato 
Che  il  Ministro  l'avrebbe  giubilato. 


Salì  il  Prefetto  sopra  un  muricciuolo 
E  alle  donne  di  là  parlar  voleva. 
Ma  1'  urlo  immenso  del  femineo  stuolo 
La  fioca  voce  del  poter  vincea. 
Parean  le  turbe  scaturir  dal  suolo 
Né  già  la  piazza  più  le  contenea. 
Quando  la  moglie  del  Prefetto  venne, 
Mostrò  le  gonne  e  un  po'  di  calma  ottenne. 


—  a  0  colleghe  di  sesso,  o  giovinette. 
Poiché  Siam  tutte  giovani  e  siam  belle, 
Perchè  lasciaste  i  ferri  e  le  calzette 
E  qui  veniste  ad  arrischiar  la  pelle  ì 


60  GIOBBE. 


Eivolgetevì  a  me  ficlenti  e  scliiette, 
Dite  quel  clie  cliiedete,  o  mie  sorelle; 
Ed  ogni  vostra  voglia,  ogni  prurito, 
Dirò  al  Commendatore  mio  marito,  »  - 


Sì  fé'  silenzio,  per  quanto  si  possa 
Far  silenzio  da  tante  chiaccherone, 
E  così  tra  il  tumulto  e  la  sommossa 
Si  fece  in  fretta  una  deputazione 
Che  colla  brava  sua  bandiera  rossa 
Andasse  a  dire  la  comun  ragione  ; 
E  voi  sapete  senza  eh'  io  l'esprima 
Che  la  signora  Giobbe  era  la  prima. 

Salirono  al  palazzo  del  Governo 
Queste  deputatesse  pettorute. 
Mentre  rumoreggiava  dall'esterno 
L'  irato  armento  delle  prostitute. 
Da  un  magro  cavaliere  siabalterno 
Furono  poi  condotte,  e  ricevute 
Da  Sua  Eccellenza  e  furono  servite 
Di  gelati  5  ma  vollero  acquavite. 


CANTO   I.  61 

E  quand'ebbe!'  bevuto  a  modo  loro, 
Chiese  il  Comiucndator   quel  che  volessero  ; 
E  le  dei^utatesse  tutte  in  coro 
Il  desiderio  del  divorzio  espressero. 
Parevano  ghiandaie  a  concistoro 
0  pur  gatte  in  amor  che  contendessero  ; 
Ma  poi  che  ognuna  il  proprio  error  conobbe, 
Lasciarono  parlar  madonna  Giobbe. 

<r  Signor  Prefetto  —  incominciò  madonna  — 
Signor  Prefetto,  come  lei  ci  vede, 
Siamo  femine  tutte  colla  gonna 
E  può  verificarlo  se  noi  crede. 
Siam  qui  per  i  diritti  della  donna. 
Tutte  soldate  della  nuova  fede  : 
Vogliam  essere  tutte  emancipate, 
Divorziate,  e  se  occorre  anche  impiegate. 

(!   Scriva  dunque  al  Ministro  che  dall'alto 
Delle  nostre  interiori  convinzioni, 
Noi  protestiamo  contro  il  vecchio  appalto 
Che  de  le  gonne  tengono  i  calzoni; 


62  GIOBBE. 

Noi  ci  leviamo  ad  un  novello  assalto 
Contro  i  sistemi  vecchi  e  le  opinioni  : 
Scriva  al  Ministro  suo,  cignor  Prefetto, 
Che  tutte  quante  protestiamo  !  Ho  detto,  d  — 

Lentamente  s'alzò  il  Commendatore 
Con  un  soave  risolino  in  bocca, 
E  disse:  a  Belle  donne,  è  un  grande  onore 
Che  in  questo  lieto  dì,  per  voi  mi  tocca. 
State  certe,  certissime,  o  signore, 
Che  nell'  ufficio  mio  non  si  balocca 
E  immantinenti,  dentro  a  la  giornata, 
Fia  la  pratica  vostra  evacuata. 


a  Farò,  dirò,  vedrò,  state  sicure. 
Scriverò,  parlerò,  non  dubitate: 
Tranquillatevi  dunque,  andate  pure, 
Che  tra  poco  sarete  contentate. 
Questa  è  la  meglio  delle  prefetture 
Per  ottener  le  cose  domandate. 
State  buonine,  andatevi  con  Dio, 
Che  a  farvi  contentar  ci  penso  io.  »  — 


CANTO    I.  63 


E  detto  ciò,  la  prefettizia  mano 
Ficcò  nello  sparato  del  panciotto, 
Levando  il  capo  come  un  Artabano, 
Stringendo  gli  occM  e  guardandole  in  sotto. 
Tutta  la  maestà  del  suo  Sovrano, 
L'oratoria  ci  vii  del  quarantotto, 
L'autorità,  la  legge  e  lo  stipendio 
Sopra  il  suo  viso  apparvero  in  compendio. 

Le  dimostranti,  meglio  persuase 
Dalla  mimica  sua  che  dal  discorso, 
Furon  convinte  di  studiar  la  base 
D'  un  progetto  di  schema  di  ricorso 
E  di  tornar  tranquille  a  le  lor  case, 
Così  troncando  all'  ire  nove  il  corso. 
Ma  voller  la  parola  del  Prefetto, 
Che  mantenuto  avrìa  quel  che  avea  detto. 


E  dopo  molti  giuramenti  e  molte 
Strette  di  mano  e  nobili  promesse, 
Eisventolando  le  bandiere  sciolte 
S'accomiataron  le  deputatesse, 


G4  GIOBBE. 


E  nella  piazza  giù  furono  accolte 
Come  in  trionfo  da  quell'altre  ossesse. 
Reser  conto  di  quel  clie  avevan  fatto 
Ed  il  sinedrio  immenso  fu  disfatto. 


Ritornarono  tutte  a  casa  loro 
Del  divorzio  sicure  e  d'altre  cose  ; 
Novo  ai  mariti  e  più  crudel  martoro, 
Insolenti,  maligne  e  scandalose. 
Ai  maschi  fecer  obbligo  il  lavoro 
E  voller  dritto  a  sé  di  stare  oziose, 
Tal  che  la  sera  stessa  il  parapiglia 
Era  stato  normal  d'ogni  famiglia. 


I  mariti  dovettero  chinare 

•    Il  capo  ed  accettar  questa  disdetta, 
E  le  mogli  li  fecero  filare,        • 
Tessere,  cucinar,  far  la  calzetta; 
E  li  avrebbero  fatti  anche  allattare 
Se  avessero  trovata  la  ricetta. 
In  conclusione  delle  conclusioni, 
Gettar  le  gonne  e  vollero  i  calzoni. 


CANTO    I.  65 

Ma  il  Prefetto  vegliava.  Appena  via 
Fu  andato  il  sole,  mise  in  giro  tutti 
I  micheletti  della  polizia, 
Le  spie,  le  circolari  e  i  farabutti. 
Hus  piena  fu  di  quella  porcheria, 
Di  facce  da  galera  e  ceffi  brutti 
Che  sfoderando  rivoltelle  e  spade 
Aggredivan  la  gente  per  le  strade. 


Come  in  Italia,  quando  è  proibito 
Di  gridar  viva  il  Re,  prorompe  fuori 
Di  canaglia  un  esercito  infinito 
Camuffato  da  guardie  e  da  questori 
Che  aggrediscono  e  picchian  l'aggredito, 
Gli  prendon  l'orologio  ed  i  valori, 
E  se  per  caso  un  sol  lamento  emette 
Zitto  lo  fanno  star  colle  manette; 

Così  per  la  città  fu  sguinzagliata 
Quanta  maggior  canaglia  si  potesse 
Ed  immediatamente  fu  mandata 
Ad  arrestare  le  deputatesse. 


66  GIOBBE. 


Madonna  Giobbe  fu  tosto  arrestata 
Del  Prefetto  in  omaggio  alle  promesse, 
E  poi  che  protestò  contro  al  i^otere 
Le  risposero  a  calci  nel  sedere. 


Poco  tempo  passò  che  dal  Prefetto 
Fu  presa  una  solenne  decisione. 
A  donna  Giobbe  regalò  il  Libretto 
Accompagnato  dall'ammonizione. 
Ebbero  l'altre  in  pegno  del  suo  affetto 
Un  regalo  di  multa  e  di  prigione. 
Fece  così  che  tutto  si  quietasse 
E  lo  promosser  subito  di  classe. 


Questo  v'  insegni,  donne  mie  garbate, 
A  far  le  cose  con  maggior  giudizio, 
Poiché  vedete  come  le  piazzate 
Conducan  le  faccende  a  precipizio. 
A  far  così  sarete  bastonate. 
Sarete  prese  a  calci  in  quel  servizio  ; 
Basta....  quel  che  successe  a  Giobbe  intanto 
Lo  potrete  sentir  nell'altro  canto. 


CANTO    SECONDO 
ELIPHAZ. 


Eliphaz  Themanita  dixit: 

Si  ccejìerimuj  loqul  tibi,  Jorsitan  moleste  accipie 
ÙOò  IV.  1.:;. 


ARGOMENTO. 

Orribile  stato  del  Patriarca  Giobbe  —  È  portato  allo  sterquili- 
nio —  Apostrofe  della  moglie  —  I  tre  amici  —  Elipbaz  corca 
persuadere  Giobbe  che  la  causa  de'  suoi  mali  sono  gli  errori  po- 
litici —  Kega  il  Patriarca  e  parla  da  socialista  —  Voce  di  po- 
liziotti —  Voce  di  Prefetti  —  Voce  di  Ministri  —  Tentativo  di 
Elipbaz  per  convertir  Giobbe  al  clericalismo  —  Ira  del  paziente 
—  Voce  di  frati  —  Voce  di  preti  —  Parlano  i  moderati  —  i  pro- 
gressisti —  i  repubblicani  —  i  socialisti  —  1  trasformisti  — 
Dubbi  di  Giobbe  —  I  gruppi  —  La  tenzone  bucolica  tra  Eliphaz 
e  Giobbe  —  Gli  Dei  minori  della  Destra  —  Gli  Dei  minori  della 
Sinistra  —  Gli  Dei  niiiggiori  della  Destra  —  Gli  Dei  maggiori 
della  Sinisti-a  —  I  giornalisti  —  Notte  —  Voce  nel  buio. 


CANTO   II.  gg 


Nudo,  coperto  d'ulceri,  di  piaghe 
E  di  schifosi  guidaleschi,  il;  santo 
Patriarca  giacca  là  dove  un  tempo 
Il  suo  palagio  s'innalzava.  Steso 
Sulle  macerie,  ai  passeggeri  offria 
Spettacol  turpe  di  se  stesso  e  i  mille 
Monelli  d'Hus  (età  spietata  !)  intorno 
Gli  si  affollavan  a  schernirlo,  e  in  capo 
Gli  scagliavan  sozzure  e  pietre,  urlando. 

Un  prete  che  abitava  in  quei  dintorni 
E  che  spesso  di  Giobbe  a  mensa  stette, 


70  GIOBBE. 

Volle  toglier  d'accanto  a  la  sua  casa 

Lo .  spettacolo  infame  e  fé'  ricorso 

Al  Municipio. 

Il  Sindaco  alle  Guardie 

Grli  ordini  diede. 

A  mezzodì,  nel  punto 
Che'l  sol  più  scotta  e  più  feroci  al  pasto 
Orrendo  traggon  ronzando  le  mosche 
Ed  i  tafani  sulle  membra  oscene 
Del  Patriarca  santo,  ecco  le  Guardie 
Con  un  carretto,  di  quelli  che  servono 
L'immondizie  a  portar  municipali. 
Da  molti  scioperati  e  dai  monelli 
Seguite,  a  Giobbe  vennero:  —  a  Ehi,  carogna  ! 
Levati  e  vien  con  noi!  »  —  dissero.  Giobbe 
Non  mosse  labbro  né  piegò  sua  costa, 
Tanto  la  piena  del  dolor  vincea 
Ogni  forza  del  corpo.  —  a  Alzati  dunque, 
Ritratto  dello  schifo,  o  noi  sapremo 
Farti  levar  di  lì!  »  —  Ma  Giobbe  tacque. 

Nessun  volea  toccar  del  Patriarca 
Le  purulenti  membra  ed  alle  Guardie 
Chiamar  convenne  il  beccamorti.  L'orrida 


CANTO   II.  71 

Carcassa  fu  gettata  in  sul  carretto, 
E  tra  le  grida,  i  fisclii  e  le  sassate, 
Fuor  di  porta  condotta  ai  letamai 
Pubblici.  Là  tra  le  carogne,  il  puzzo, 
E  gli  escrementi  de  la  città  intera, 
Scaraventate  fur  le  sante  membra 
Malvive  e  sozze  di  Giobbe.  Il  Nemico 
Su  di  lui  fatto  aveva  ogni  sua  possa  ! 

Qual  tronco  annoso  dal  furor  schiantato 
Del  possente  uragan,  da  l'alto  monte 
Precipitando  a  valle,  in  sua  mina 
Trae  gli  arboscelli  a  lui  propinqui  e  grave 
Pondo  di  terra,  di  macerie  e  sassi  j 
Fincliè  nel  fondo  del  burron  si  ferma 
E  gigantesco  sta  con  le  divelto 
Radici  al  sole,  immobili  le  chiome 
Già  pur  virenti  or  gialle ,  industre  nido 
D'  innumeri  formiche  o  di  civette  ; 
Tal  stette  il  Patriarca,  infame  peso 
Al  letamaio  vii,  nido  di  fitte 
Turbe  d'insetti,  di  puzzo  e  di  tabe! 
Stette  immobil  qual  tronco,  e  sol  di  quando 
In  quando  con  un  coccio  a  le  prurienti 


72  GIOBBE. 

Membra  dava  conforto  e  via  radendo 
La  sanie   andava  e  si. gratta  va. 

Il  calice 
Amarissimo    ancor  non  era  pieno  ! 
Venne  la  moglie,  e  innanzi  a  lui  rotando 
Le  luci  di  megera  e  le  canenti 
Chiome  squassando,  gli  mostrò  il  libretto 
Che  la  Questura  le  largì,  e  puntate 
Le  man  sui  fianchi,  ad  ingiuriarlo  prese. 

—  a:  Ci  ho  gusto,  brutto  porco,  brutta  carogna  infame, 
Ci  ho  gusto  che  tu  crepi  sopra  questo  letame  ! 
Che  ti  valser  le  preci  innalzate  al  Signore, 
L'esser  chiamato  sempre  a  Signor  Commendatore  ? 
L'aver  comprato  i  voti  per  esser  consigliere 
Comunale,  esser  pio,  onesto  e  fabbricere? 
Dimmi  dov'è  il  tuo  Dio?  Ah,  come  hai  bene  spesa 
Una  somma  a  tenergli  tante  lampade  in  chiesa  ! 
Corri  dal  tuo  Governo,  e  fatti  tor  via  il  male 
E  salutami  tanto  la  Costituzionale  ! 
E  ti  sta  bene.  Hai  sempre  fatto  l'opposizione 
Alle  mie  sante  idee  sopra  l'abolizione 
Che  il  Bertani  propugna  ;  volesti  a  mio  dispetto 
Mantenuta  la  visita,  mantenuto  il  libretto! 


CANTO   II.  73 

A  che  t'hanno  giovato  le  leggi  restrittive 
E  le  tue  strombazzate  garanzie  preventivo? 
Ora  tu  l'hai  nell'ossa.  Fattela  levar  via 
Da'  tuoi  Regolamenti  e  dalla  polizia  ! 
Marcisci  nel  letame,  crepa  nella  vergogna, 
Retrogrado,  consorte,  animale,  carogna!  »  — 

Ma  Giobbe  tacque.  Alfin  levando  il  manco 
Braccio,  col  pugno  chiuso,  in  alto  il  mosse 
E  colla  destra  aperta  un  picciol  colpo 
Diessi  là  dove  suol  punger  la  vena 
Il  flebotomo  esperto,  e  quindi  stette 
Qualche  tempo  così  movendo  il  cubito. 
Risposta  unica  e  degna  a  la  pettegola. 

Poiché  la  donna  fu  partita,  vennero 
Tre  onorande  persone  a  cercar  Giobbe. 
Eliphaz  Themanita  che  politico 
Era,  Baldad  Subita  gran  filosofo, 
E  Sojihar  Naamanita  letterato. 
Del  Patriarca  amici  vecchi;  i  quali 
A  lui  mangiato  avean  di  molti  pranzi 
E  s'eran  fatti  far  di  molte  firme 
Nelle  cambiali,  e  Giobbe  avea  pagato. 


74  GIOBBE, 

Venner  d'animo  grato  esempio  raro, 
Per  riveder  l'amico  e  consolarsi 
Veggendolo  soffrir,  che  non  v'ha  cosa 
Agli  amici  che  stanno  in  sulla  riva 
Piii  grata  del  veder  la  fragil  nave 
Dove  gli  amici  lor  varcano  il  mare, 
In  preda  ai  venti  e  dai  marosi  rotta. 
Vennero  e  giunti  al  letamaio,  tutti 
Inorridir  veggendo  il  mostruoso 
Mucchio  di  tabe,  di  carne  e  di  piaghe 
Che  un  dì  fu  Giobbe,  cui  solo  la  lingua 
Era  sana  rimasta  per  dolersi. 
Finsero  di  strapparsi  i  vestimenti, 
Finsero  di  buttarsi  sulle  calve 
Teste  la  polve,  poi  sedetter  colle 
Gambe  incrociate  sulla  nuda  terra, 
E  sette  giorni  e  sette  notti  tacquero, 
Finch' Eliphaz  discorse  a  questo  modo: 


CANTO    II.  75 

Conosci  tu  il  paese  ove  fioriscono 

Grli  aranci  d'or  sotto  le  brune  foglio? 
Dove  chi  s'impacciò  della  politica 
Accuse  in  premio  e  vituperi  coglie'? 
Dove  i  ministri  vecchi  prendon  moglie 
E  più  servono  a  lei  che  non  al  Ee? 

Conosci  tu  il  paese  ove  governano 
Le  vanità  che  sembrano  persone, 
Buone  solo  a  pranzare  ed  a  far  brindisi 
Da  canzonare  il  popolo  minchione 
Che  in  piazza,  in  folla,  sta  sotto  al  balcone, 
Sperando  di  veder  non  si  sa  che? 

Là  di  menzogna  il  gran  Deprctis  fodera 
L'antica  lealtà  del  suo  Sovrano, 
Là  l'indeciso  Zanardelli  dondola 
Tra  il  credo  regio  e  tra  il  repubblicano, 
E  il  Mancini  da  buon  napoletano 
Chiacchera,  dorme  ed  in  campagna  sta. 

Cento  leggi  in  un  dì  laggiù  si  formano, 
Ma  il  bea  più  s'allontana  e'  1  mal  sovrasta, 
Dove  Spaventa  errò  Berti  s'impapera, 


76  GIOBBE. 

Dove  Bonghi  sfondò  Baccelli  guasta, 
Tutto  è  un  pasticcio  della  stessa  pasta 
Da  chi  vien,  rovinato,  e  da  chi  va. 

Ma  in  codesta  Babel  que'  che  guadagnano 
Son  quegli  uncinatissimi  avvocati 
Che,  messe  l'ugne  nell'aver  del  prossimo, 
Diventan  cavalieri  e  deputati. 
Rivendono  le  grazie  ai  condannati, 
Le  ferrovie,  gl'impieghi  e  l'onestà. 

Così  lo  Stato  in  una  vigna  mutasi 
Vendemmiata  dai  furbi  e  dai  bricconi, 
Dove  si  tratta  come  servo  il  pubblico 
E  gl'impiegati  fanno  da  padroni, 
E  tra  pratiche,  incarti  e  posizioni. 
Nessun  di  loro  sa  quel  che  si  fa. 

Di  chi  la  colpa?  Son  le  leggi  o  gli  uomini, 
Son  le  costituzioni  od  i  ministri? 
Ma  che  vai  che  le  prime  il  mal  sanciscano 
0  che  dagli  altri  peggio  s'amministri? 
Il  fatto  sta  che  i  destri  ed  i  sinistn 
Van  gareggiando  di  bestialità. 


CANTO    II.  n 

Di  chi  la  colp-al  La  risposta  è  facile: 
Tutta  la  colpa  è  dell' ottantano ve. 
La  colpa  è  delle  idee  false  e  massoniche, 
Delle  vecchie  follie  che  sembran  nuove. 
E  Dio  ti  sottopone  a  tante  prove 
Perchè  credesti  nella  libertà. 

Per  questo,  Giobbe  mio,  d'un  amarissimo 
Pianto  tu  versi  innanzi  a  noi  le  stille. 
Per  questo,  Giobbe  mio,  tolti  ti  furono 
L'oro,  le  mandre,  il  credito  e  le  ville. 
Per  questo,  Giobbe,  j)overo  imbecille. 
Giaci  nella  sozzura  e  ben  ti  sta. 

Muta  pensiero,  e  muta  la  politica: 
Al  Papa  credi,  e  credi  al  Gius  divino. 
Battiti  il  petto  peccator  ;  confessati. 
Prendi  le  specie  del  pane  e  del  vino. 
Credi  alla  donazion  di  Costantino, 
E  la  fortuna  tua  si  cambierà. 


78  GIOBBE. 

ff  Taci  —  interruppe  il  Patriarca  —  e  poni 
Fine  a  discorsi  che  non  han  né  capo, 
Né  coda.  Tu  fai  presto,  Themanita, 
A  canzonar  la  libertà,  tu  fai 
Presto  a  bandir  come  rimedio  solo 
D'ogni  male,  il  ritorno  al  Medio  Evo  ! 
Sei  papalino  più.  del  Papa  e  più 
Del  Fanfulla!  Tu  leggi  senza  dubbio 
Il  faceto  giornal  dove  alla  corda 
E  al  boia  un  inno  d'inesausto  amore 
Ogni  giorno  si  manda,  e  dove  parve 
Poco  adorar  l'autorità  d'un  solo, 
Tal  che  due  se  n'adoran  umilmente; 
Quella  del  Papa  e  quella  del  Sovrano. 
Deh,  se  mischiarle  a  lui  fosse  concesso. 
Come  l'udresti  nei  Giorno  •per  giorno 
Scioglier  inni  pindarici  e  bruciare 
Profumi  e  genuflettersi  divoto 
Innanzi  a  un  Papa-re,  pur  che  una  stilla 
Di  sangue  savoiardo  in  lui  ci  fosse  ! 

Io  no  —  Quando  la  vita  a  me  ridea 
Lieta  di  gioie  e  di  ricchezze,  sempre 
Lessi  La:  Lega  e  il  capitan  Fracassa. 


CANTO   II.  79 

M'annoiava  il  Diritto,  il  Bersagliere 
Mi  sconvolgeva  i  nervi,  la  Riforma 
Mi  faceva  dormir  profondamente 
E  il  Popolo  Eoman  mi  facea  recere. 

Tunisi?  Figlio  mio,  vorrei  che  in  mano 
Fosse  il  timon  del  regno  al  piìi  possente, 
Al  più  grande  cervel  del  mondo  intero, 
Magari  al  Eapisardi,  e  poi  vedresti 
In  che  mare  d'imbrogli  ed  in  che  secche 
Ci  condurrebbe. 

Nei  tuguri  dove 
Il  sol  non  entra  mal,  ne'' fondi  oscuri 
Geme  un  popol  di  miseri,  che  appena 
Apre  le  luci  :  un  popolo  di  vinti 
Cui  la  forza  dell'oro  onnipossente 
E  il  terror  delle  carceri  e  la  truce 
Minaccia  de'  gaudenti  e  piìi  la  forca 
AI  silenzio  ridusse.  A  poco  a  poco 
In  quell'oscurità  portiam  la  luce 
Noi  stessi.  Noi  di  scuole  e  di  sonanti 
Prediche  a  lor  siam  larghi  e  di  diritti 
Parliamo!  A  lor  l'armi  porgiamo,  ed  essi 
Le  affllan  di  nascosto.  Un  giorno,  uhi  presto  ! 


80  GIOBBE. 

Ci  desterem  tra  il  fumo  e  le  scintille. 

La  casa  brucierà  per  colpa  nostra. 

Sulle  vie  sorgeran  le  barricate 

Per  colpa  nostra.  Crollerà  nel  sangue 

La  vecchia  società  :  sciolta  nel  vizio 

Perirà  la  famiglia  e  un  evo  orrendo, 

Una  fiumana  torbida,  di  nuovo 

Dall'Alpi  scenderà,  dai  trivi  nostri 

Zampillerà,  per  allagar  la  bella 

La  dolce  Italia  mia...  per  colpa  nostra! 

E  che  facciamo  noi?  Chi  mai  provvede 
All'urgente  ruina?  Ecco  Bisanzio 
In  Senato  cavilla  ed  il  nemico 
Rompe  le  porte!  Ascolta,  o  Themanita, 
Ascolta  pur  le  voci  sciocche,  ascolta 
Chi  provveder  dovrìa  come  favella. 


CANTO   II.  81 


Voce  di  poliziotti. 


Da  le  nevate  cime 
De  l'Alpe  sino  all'ultima  Catania, 
Di  gloria  e  di  dolor  magion  sul)liir.o, 
Da  chi  dolce  riposa 
Per  noi  sicuro,  oh  coinè  si  dilania 
Ingratissimamente  il  nostro  nome  ! 
Nel  laconismo  d'una  falsa  prosa 
Lieto  il  prefetto  ci  affida  il  paese  ; 
Ma  quando  ai  colpi  siamo  ed  all'offese, 
Scarica  tutto  sulle  nostre  some. 

Quest'arte  prefettizia, 
A  dirla  schietta,  non  ci  garba  affatto. 
Questa  non  è  politica,  è  malizia; 
È  un  cavar  la  castagna 
Dal  foco  ardente  col  zampin  del  ga^to. 
Oh,  lo  chiamino  pur  machiavellismo 
Necessario  in  Sicilia  ed  in  Romagna 
Per  sostener  V autorità  lahente: 
Ma  noi  con  frase  un  poco  più  evidente 
L'abbiamo  battezzato  depretismo. 


82  GIOBBE. 

Spesso  tra  gli  arrestati 
Che  dalla  piazza  a  le  natie  prigioni 
Noi  trasportiam,  ci  son  degli  avvocati 
Che  con  parole  ostili 
Spiagean  la  plebe  a  le  dimostrazioni 
E  ci  chiamavan  fondi  di  galera, 
Servi  di  servi,  stii^endiati  e  vili. 
Però  il  prefetto  allor  taglia  di  corto, 
Rilascia  gli  avvocati  e  ci  dà  il  torto. 
Senza  ascoltar  ragione,  né  preghiera. 

Siamo  stanchi  di  tale 
Barcamenar  continuo  a  nostro  danno. 
Non  basta  che  vegghiamo  a  l'invernale 
Bufera,  a  tarda  notte. 
Pel  bisogno,  esecrabile  tiranno, 
Acqua  fredda  sfidando  e  nevo  e  venti 
Con  gli  occhi  stanchi  e  con  le  gambe  rotte 
Perchè  mai  questo  pan  secco  ed  ingrato 
Ce  lo  volete  dare  avvelenato 
Dalle  vostre  ingiustizie  prepotenti? 


CANTO    II.  83 


Voce  di  prefetti. 

Oh,  che  brutto  mestiere 
È  mai  fare  il  prefetto  ! 
Ci  tocca  di  tenere 
Il  popolo  soggetto 
Per  mezzo  d'una  schiera 
Terribile  e  bestiale 
Che  più  del  tribunale 
Ricorda  la  galera! 

Noi  che  vogliam  la  pace 
De  le  città  sorelle 
E  che  intanto  ci  piace 
Di  custodir  la  pelle, 
Quando  il  fragor  rimbomba 
Di  qualche  agitazione. 
Diamo  disposizione 
Di  suonare  la  tromba. 

Ma  quella  turba  trista, 
Con  astuto  pensiero, 
Ci  mette  in  mala  vista 
Del  nostro  ministero 


84  GIOBBE. 

Lavorando  di  mano, 
Di  calci,  di  saette, 
Di  daghe  e  di  manette 
Sul  popolo  sovrano. 
Allora  dai  giornali 
Sopra  la  nostra  testa 
D'articoli  triviali 
Ci  piomba  una  tempesta 
Da  cui  non  v'ha  difesa... 
In  fine  i  deputati 
Si  mischiano  all'impresa 
E  noi  Siam...  traslocati! 


CAMTO  II.  80 


Voce  di  ministri. 

Ahimè  Ministri, 

Destri  o  Sinistri, 

Sempre  tutti  meniam  vita  infelice! 

Sebben  facciamo 

Quel  che  possiamo. 

a  Piove  j  Governo  ladro  !  »  ognun  ci  dico. 

Diamo  le  croci 

Come  le  noci 

A  quintali  per  poco  a  chi  le  vuole; 

Abbiam  creati 

Tanti  impiegati, 

Tanti  maestri  nuovi  per  le  scuole: 

Mettemmo  fuori 

Commendatori 

Ufficiali,  gran  croci  e  gran  cordoni, 

E  pur  gl'ingrati 

Amministrati 

Ci  chiamano  imbecilli  o  pur  birboni! 


86  GIOBBE. 

Se  avrà  energia 

La  polizia, 

Vi  daran  dell'  autocrata  inumano  : 

Ma  se  lasciate 

Far  due  chiassate 

Tutti  vi  grideran  repubblicano, 

Ed  i  prefetti 

Furbi  od  inetti 

D'ogni  cosa  dan  colpa  al  ministero! 

Non  muove  foglia. 

Voglia  o  non  voglia, 

Che  non  sia  colpa  nostra,  e  non  è  vero. 

Se  un  poliziotto 

Scaglia  un  cazzotto 

Nei  denti  a  un  ladro  che  non  ha  pazienza^ 

Sino  i  giornali 

Ministeriali 

Danno  tutta  la  colpa  a  Sua  Eccellenza. 

Ogni  bel  gioco 

Vuol  durar  poco 

E  queste  storie  ormai  ci  hanno  seccato. 


CANTO    II.  87; 

Il  mondo  vada 

Per  la  sua  strada 

E  vada  pure  come  è  sempre  andato, 

Che  noi  Ministri, 

Destri  o  Sinistri, 

Siam  stanchi  di  passar  per  farabutti. 

Strillino  i  matti 

Che  a  conti  fatti 

Noi  pranziam  bene  e  abbiamo  in  tasca  tutti. 


Mentre  le  voci  de'  Ministri  lente 
Vanian  per  l'aria,  come  in  sulla  sera 
Per  le  campagne  snon  cVave-maria, 
Lieto  Eliphaz  sorrise,  la  bestemmia 
Da  lo  sdegno  di  Giobbe  ornai  credendo 
Vicina.  Ed  incalzò:  —  oc  Credi  che  tutta 
Questa  povera  gente  che  sospira, 
Sotto  lo  scettro  del  roman  pontefice 
Non  riposasse  più  contenta?  Quando 
Sul  Temporale  comandava  il  prete 
Poco  di  sgherri  e  tribunali  e  carceri 
Facea  bisogno,  che  a  sfamarsi  allora 


GIOBBE. 

Non  occorreva  di  rubar,  nò  al  bosco 
Profugo  infame  trascinar  la  vita; 
Bastava  bazzicar  ne  la  penombra 
De  lo  chiese  e  condur  le  proprie  donne 
Ne  l'episcopio...  Percbò  arricci  il  naso, 
0  Santo  Giobbe?  Credi  tu  che  sotto 
A  un  governo  di  Destra  o  di  Sinistra 
Le  mogli  non  coronino  ugualmente 
D'aguzzi  serti  dei  mariti  il  capo? 
Ma  mentre  allora  un  monsignor  portava 
Figli  e  quattrini  nelle  case,  adesso 
Chi  vi  ruba  l'onor  ruba  i  quattrini. 
Tu  fingi  d'ignorar  come  gran  parte 
De  la  tua  angoscia  e  de  la  tua  miseria 
Ti  sia  venuta  da  la  donna  ;  come 
Col  tuo  bel  patrimonio  a  centinaia 
Abbian  sfoggiato  nerboruti  servi 
Tolti  a  le  glebe  ed  umili  staffieri  ? 
Tua  moglie,  caro  mio... 

—  ce  Taci  —  riprese 
Rabbioso  urlando  il  Patriarca,  —  Taci... 
Non  ti  basta  veder  come  il  malore 
Mi  distrugga  la  carne  a  poco  a  poco 
Che  tu  vieni  a  straziar  l'anima  mia  ! 


CANTO    II.  89 

Forse  perchè  dal  Vatican  tu  senti 

Aleggiar  di  speranza  un'  aura  dolce, 

Forse  perchè  Bismarck  viene  a  Canossa, 

E  accorron  pellegrini,  e  nuovi  santi 

Oman  gli  altari,  e  nell'Italia  stessa 

Levano  i  vinti  le  superbe  corna 

Mal  mascherati  da  Conservatori, 

Credi  ch'io  segua  il  mal  esempio  e  aiuti 

La  lima  sorda  dei  reazionari  'i 

Stolto  !  Per  loro  è  nome  vano  Amore, 

E  celando  il  pugnai  sotto  il  mantello 

Concupiscenti  preci  alzano  a  Dio 

Che  negli  iniqui  cor  legge  la  brama 

Di  guerra  e  d'odio  disperata.  --  Ascolta. 


90  GIOBBE. 


Voce  di  frati. 


Perchè  nati  non  siani  cent'anni  prima, 
Quando  ai  nostri  conventi 
Coll'obolo  venian  l'amor,  la  stima, 
De  le  povere  genti? 

Le  chiavi  sacre  conduceano  illese 
Al  bene  corporale, 
Al  talamo  gentil  de  le  marchese, 
A  la  mensa  regale. 

Ed  or  Siam  disperati  —  Il  nostro  pane 
È  di  farina  nera  : 
E  a  Sodoma  che  sola  ci  rfmane 
Incombe  la  galera. 

Satana,  vieni  —  Noi  siamo  affamati 
Di  donne,  d'or,  di  gare... 
0  maledetto  Iddio:  gli  allampanati 
Son  stanchi  di  pregare! 


CANTO    il.  91 


Voce  di  preti. 


Muore  la  grande  civiltà  che,  nata 
Ne  le  povere  celle  de'  conventi, 
Lungamente  temuta  e  venerata 
Crebbe  al  caldo  dei  roglii  ed  ai  tormenti. 
Per  lei  fu  l'eresia  solo  schiacciata 
E  mostrò  Arrigo  quarto  al  ghiaccio  e  ai  venti, 
Sotto  il  sogghigno  della  gran  Contessa 
E  d'Ildebrando,  l'anima  dimessa. 


A  quei  che  regge  la  romana  chiesa 
È  il  nome  di  Leone  un'ironia. 
Se  non  ha  core  per  la  gran  contesa 
Torni  a  legger  l'uffìzio  in  sacrestia. 
Lungi  il  giorno  non  è  che  vilipesa 
Vedrem  la  sacrosanta  gerarchia 
Per  l'animo  rimesso  d'un  Sovrano 
Condannato  a  marcir  nel  A^aticano. 


92  GIOBBE. 


Sperammo,  allor  che  nel  sepolcro  scese 
La  matta  ballerina  marchegiana 
Che  credè  vendicar  l'itale  ofiese 
Colla  piccola  strage  di  Mentana, 
Si  richiamasse  un  general  francese 
A  disertar  la  terra  italiana. 
Stolta  speranza,  invece  d'un  leone 
Fu  fatto  papa  un  povero  minchione. 

Ei  non  seppe  schiacciar,  mistico  agnello, 
Le  calunnie  d'un  ruvido  avvocato 
Onde  il  corpo  di  Pio,  dentro  l'avello 
Turpemente  si  chiuse  invendicato. 
Il  canonico  Enrico  di  Campello 
Il  coro  di  San  Pietro  ha  già  lasciato 
Fingendo  amor  di  patria,  ma  per  bile 
D'esser  soggetto  a  un  jia^Da  così  umile. 

Vogliam  don  Albertario,  il  qual  fé'  tanto 
Per  la  fede  cattolica  e  romana, 
Quando  chiamato  lo  Spirito  Santo, 
Dal  ciel  lo  fece  scendere  a  Viadana, 


CANTO    II.  93 


Dove  col  suo  divino  soffio,  il  pianto 
Terse  a  una  giovinetta  parroccliiana 
Che  dopo  quella  visita  gradita 
Consolata  rimase  e  concepita. 

Vogliamdon  Albertario.  In  men  d'un  anno 
Egli  racquisterà  l'antico  regno, 
E  patiboli  e  forche  torneranno 
Del  perdono  di  Dio  placido  segno. 
I  timorosi  dello  scorso  affanno 
Tremino  al  nostro  religioso  sdegno 
Onde  avverrà  che  a  noi  restino  sole, 
Le  loro  mogli  con  le  lor  figlinole  ! 


-  Non  ti  curar  —  rispose  il  Themanita 
Al  Patriarca  —  delle  voci  inani 
Che  il  Nemico  di  Dio  per  l'aure  gitta. 
Il  sacerdozio  è  santo  e  le  parole 
Che  son  contro  di  lui,  son  contro  Dio. 
Chiedilo  al  deputato  Bortolucci, 
Chiedilo  al  Toscanelli,  benché  questi, 


94  GIOBBE. 

Come  Noè,  dal  mal  digesto  sugo 

De  le  sue  vigne,  ciurli  un  po'  nel  manico. 

È  pessimo  il  suo  vino,  e  son  cattive 

Anche  spesso  l'idee  che  attinge  in  quello. 

Chiedilo  ad  Alli-Maccarani,  a  tutti 

I  Lucumoni  tuoi  che  tengon  cento 

Coccarde  in  tasca  e  gli  Scolopi  in  core. 

Te  lo  diranno  lor,  quanto  il  rispetto 

Al  sacerdozio  necessario  sia 

A  l'anime  ben  fatte,  a  la  politica 

Compensatrice,  comoda  e  fruttifera. 

Chiudi  dunque  l'orecchio  a  l'empie  voci, 
Chiudi  a  Satana  il  core.  Altre,  ben  altre 
Son  le  voci  del  ver  che  per  l'immensa 
Etra  narran  le  infamie  e  le  vergogne 
De"  liberali  tuoi.  Son  voci  orrende 
Che  fan  rizzar  le  chiome  in  capo  ai  calvi  ! 
Aguzza,  Giobbe,  il  piirulento  orecchio; 
Ascoltale  parlar,  giudica  e  taci. 


CANTO   II.  95 


Parlano  i  jiodeuati. 


Noi  moderati  siam  se  torna  il  conto, 
Ma  se  non  torna  furibondi  siamo. 
Eredi  di  Cavour  ci  predichiamo 
E  chi  dice  di  no,  ci  fa  un  affronto. 

Di  Sella  al  cenno  ognun,  di  noi  già  pronto 
Scendeva  come  augel  per  suo  richiamo; 
Ora  in  un  gran  pasticcio  ci  troviamo, 
E  Babilonia  è  vinta  nel  confronto. 

Ma  che  c'importa?  Mutino  i  balordi, 
Noi  no.  Un  partito  della  nostra  sorte 
Non  si  piega  nemmeno  a  giusti  accordi. 

Saremo  in  uggia  al  popolo,  alla  Corte, 
Sarem  convinti  d'esser  vecchi  e  sordi, 
Ma  sarem  moderati  inflno  a  morte. 


96  GIOBBE. 


Parlano  i  progressisti. 


Siam  progressisti  ma  così  per  dire, 
Percliè  tra  noi  ce  n'è  di  piìi  colori, 
Però  ci  puoi  conoscere  e  capire 
Dall'esser  tutti  noi  commendatori. 

Ci  siamo  accorti,  ahimè,  clie  vuol  finire 
Questa  cuccagna  d'impieghi  e  d'onori; 
Ma  non  sappiamo  a  chi  rivolger  l' ire. 
Non  sappiamo  a  chi  oflrir  novelli  amori. 

Ma  dopo  tutto,  nasca  quel  che  nasca, 
Vengano  presto  o  tardino  i  congedi, 
Ci  siamo  messi  la  fortuna  in  tasca. 

Non  conosciamo  ancora  i  nostri  eredi, 
Ma  se  dobbiam  cascar,  che  già  si  casca. 
Noi  cercheremo  di  cadere  in  piedi. 


CANTO   H.  97 


Parlano  i  repubblicani. 


0  Repubblica,  deh,  spiega  il  tuo  volo 
E  vieni  presto  a  noi,  vieni  domani, 
Che  Siam  ridotti  in  cento  capitani 
E  non  abbiamo  un  fantaccino  solo  ! 

Che  se  non  vieni  presto  a  questo  suolo. 
Non  ci  saranno  più  repubblicani. 
Cresce  il  bisogno  d'allungar  le  mani, 
E  cala  tutti  i  giorni  il  nostro  stuolo. 

Intanto  del  poter  l'empio  sicario 
Caricando  su  noi  condanne  nuove. 
Sa  che  gli  crescon  merito  e  salario. 

Ma  non  finiscon  mai  le  nostre  prove? 
Siam  all' ottantadue,  dice  il  lunario, 
E  nulla  annunzia  ancor  l'ottantanove. 


98  (IHOBBE. 


Parlano  i  socialisti. 


Con  lieto  volto  e  con  mendaci  accenti 
Chi  mai  d'amor,  di  pace  e  di  pietate, 
Osa  parlare  ai  miseri  languenti 
Ne  le  soffitte  o  su  le  terre  arate? 

Oh,  non  è  lunge  il  dì  che  consigliate 
Da  l'atra  fame  sorgeran  le  genti, 
E  in  fatali  di  guerra  armi  affilate 
Trasformeranno  i  rustici  strumenti  ! 

Tutto  allor  tremerà.  La  dama  istessa 
Sui  morbidi  cuscini  ove  si  corca 
Ci  attenda.  È  cosa  dei  violenti  anch'essa. 

Tremi,  o  borghesi,  in  voi  l'anima  sporca  ! 
L'ora  del  sangue  e  del  furor  s'appressa.. 
È  nostro  l'avvenir,  vostra  la  forca  ! 


CANTO    H.  99 


Parlano  i  trasformisti. 


Folle  colui  che  irato  ai  disinganni 
Che  seco  porta  quest'insulsa  vita, 
Con  gli  atti  audaci  e  la  parola  ardita 
Aumenta  il  carco  dei  comuni  affanni. 

La  vita  è  breve  e  se  ai  frequenti  danni 
L'uman  consorzio  non  ci  reca  aita, 
È  inutile  tacciar  di  gesuita, 
Chi  si  procura  il  bene  con  gl'inganni. 

Giusta  cosa  non  è  forse  che  i  vari 
Partiti,  in  mezzo  ai  tempestosi  flutti, 
Cerchin  lo  scampo  in  danno  agli  avversari? 

Perchè  adunque  ci  dan  dei  farabutti 
Se,  moribondi  naufraghi  del  pari, 
Noi  per  salvarci  la  teniam  da  tutti? 


100  GIOBBE. 

Chinò  pensoso  il  capo  il  santo  Giobbe, 
Come  sgomento,  e  sussurrò  —  <r  Pur  troppo 
Le  faccende  non  vanno  a  modo  mio, 
Per  quanto  tutti  i  giorni  il  Ministero 
Ci  sostenga  il  contrario  nei  quintali 
Di  cartaccia  che  stampa  !  Oh,  quella  carta, 
Di  statistiche  sporca,  ove  si  trova 
Per  esempio  che  i  nasi  in  su  rivolti 
Son  cinquecento  mila  e  quattro  decimi, 
E  che  in  Italia  c'è  dieci  milioni 
Cinquecentoseimilatrentasette 
E  cinque  ottavi  di  zucche  pelate  ! 
Mi  farebbero  perder  la  i)azienza 
Se  pur  Giobbe  non  fossi!  E  per  cotesto 
Si  mantengon  migliaia  d'impiegati 
E  si  pagan  milioni!  Brava  gente 
Sicuro,  ma  pedante!...  Un  de'  più  cari 
Era  il  Rezasco  che  fu  già  il  sultano 
Dell'istruzione  per  molti  anni,  e  celebre 
Era  creduto,  ed  egli  lo  credeva. 
Per  certo  Dizionario  burocratico 
Che  comincia  a  stampar  soltanto  adesso 
Dopo  averlo  ponzato  quarant'  anni, 
Godendone  la  fama!  Oh,  fortunate 


CANTO    II.  101 

Le  scuole  di  pittura  ed  i  Musei 
A  lui  soggetti  !  Oh,  le  Biblioteche, 
Piene  di  ladri,  come  stetter  bene 
Sotto  il  suo  regno,  allor  che  si  fregava 
Le  mani  nel  sentir  che  freddo  infame 
Regnasse  di  Gennaio  in  quelle  sale. 
a  Meglio  così:  non  ci  Terrà  nessuno,  b 
Disse  una  volta,  e  lo  ritrovi  tutto 
Lo  czar  dell'  Istruzione  in  quella  frase  ! 

Le  faccende  non  vanno  a  modo  mio, 
Massime  poi  da  che  le  vecchie  parti 
In  gruppi  omeopatici  divise 
Si  mordono  tra  lor  sì  come  cani, 
Per  baciarsi  il  di  dopo.  Anzi,  mio  dolce 
Eliphaz,  ti  confesso  che  ne  l'ozio 
Di  questo  sterquilinio,  alcuni  versi 
Ho  schiccherato  giù  su  quest'affare. 
È  una  sciocchezza  ve'!  Bada,  non  credo 
D'aver  fatto  un  Lucifero;  ti  pare! 
Non  discendo  fin  là.  Questa  è  soltanto 
Un  umil  canzonetta  che  si  canta 
Sull'aria  del  Girella,  o  press'a  poco. 


102  GIOBBE. 

Gruppino,  bindolo 
E  birro  smesso, 
Cbe  alzava  il  gomito 
Più  del  permesso, 
Andò  alla  Camera 
Tutto  agghindato. 
Colla  medaglia 
Da  Deputato 
E  visto  il  pubblico 
Di  buona  luna, 
Entrò  nell'aula, 
Montò  in  tribuna 
E  col  vocione 
Vinolento,  mugliò  questa  canzone; 

Dite,  onore v^oli 
Dei  due  partiti, 
Non  è  ridicolo 
Lo  stare  uniti, 
Scusando  un  vincolo 
Di  soggezione 
Col  bene  pubblico 
Che  ce  lo  impone  ì 
Sembriam  le  pecore 


CANTO   II.  103 

Del  mio  fattore 

Che  non  san  pascere 

Senza  pastore, 

E  in  Parlamento 

Noi  veniamo  a  stabbiar,  docile  armento. 

Come  alla  Camera 

Tanti  avvocati 

Rimaner  possono 

Disciplinati  ì 
■    Via  non  facciamoci 

Più  comj)atire 

Che  questo  scandalo 

S'  ha  da  finire  ! 

Le  cose  semplici 

Son  da  imbecilli, 

I  grandi  e  gli  abili 

Crescon  tranquilli 

Dentro  ai  viluppi. 

Qui  bisogna  imbrogliar.  Facciamo  i  gruppi-. 

Se  pur  vuol  essere 
Ancora  eletto, 
Ogni  onorevole 


104  GIOBBE. 

Faccia  un  gruppetto. 

In  dieci  o  dodici 

Si  fa  un  partito; 

Dunque  sia  il  numero 

Prestabilito 

Di  quattro  al  maximum 

Per  fare  un  gruppo. 

Così  la  Camera 

Sarà  un  viluppo 

Dove  la  gente 

S'accorgerà  di  non  capir  più  niente. 

Sarà  più  facile 
In  tal  maniera 
Quando  fa  comodo 
Mutar  bandiera, 
Ottener  ciondoli, 
Goder  favori, 
Le  liti  vincere 
Degli  elettori. 
Sussidi  attingere 
Dal  Ministero, 
Impaurendolo 
D'  un  voto  nero, 


CANTO   II.  105 

E  farsi  un  pregio 

D'aver  di  ferrovie  pieno  il  Collegio. 

Così  Nicotera 
Può  andar  con  Sella, 
A  Crispi  arrendersi 
L'  uom  di  Stradella, 
Massari  assidersi 
Presso  Mancini, 
Pinzi  il  solletico 
Fare  a  Mordini, 
E  Lanza  pronubo, 
Con  Zanardelli, 
Condurre  al  talamo 

Bonghi  e  Baccelli,  * 

E  per  procura 
Altre  nozze  compor  contro  natura. 

0  gruppi,  o  splendida, 
Somma  invenzione, 
Che  unite  all'  utile 
La  convinzione. 
Verrete  al  pettine  1 
Chi  sa  !  Può  darsi, 


106  GIOBBE. 

Specie  se  il  popolo 

"Venga  a  destarsi; 

Ma  intanto  è  compito 

Dei  Deputati 

Far  gruppi  e  prendere 

Da  tutti  i  lati 

Fincliè  sian  stanchi.... 

(Applauso  general  da  tutti  i  hanckì). 


Eliphaz  scosse  il  capo  e  così  disse  : 
—  Ah,  santo  Giobbe,  di  che  ritmo  vecchio 
Ancor  bamboleggiando  ti  compiaci  ! 
Seduti  come  Titiro  e  Menalca, 
'  Non  sotto  un  faggio,  ma  sopra  il  letame, 
Noi  canterem  come  ne  le  Bucoliche 
Grareggiarido  fra  noi  d'alte  e  di  voce. 
Io  di  più  nuovi  metri  e  di  più  dotti 
T'assorderò  le  grandi  orecchie.  Ascolta. 


CANTO   II.  107 

I  Numi  de  le  genti  minori  mostrarti  m'è  caro 
che  in  Parlamento  fanno  da  cliiericlietti  agli  altri. 


A  destra  son  pochi,  son  male  d'accordo  tra  loro 
siccome  quelli  de'l  ponte  di  Rifredi. 

Va  le  fedine  Biancheri  movendo  da  Sella  a  Minghettì, 
fedine  spioventi  quasi  per  lungo  lutto, 

perchè  gli  ritorna  ne'l  cor  sanguinante  il  ricordo 
del  dolce  tempo  quand'era  Presidente. 

Adesso  Farini  tormenta  co'l  pugno  nervoso 
il  campanello  istesso  eh'  egli  più  mite  scosse, 

e  sente  ogni  rintocco  ferirlo  ne'l  vivo  de'l  core.... 
oh  gloria  umana  come  trapassi  presto  ! 

E  intanto  il  fiero  Pinzi  che  pare  non  possa  star  fermo 
aborre  la  Sinistra  come  aborrì  i  tedeschi, 

là  dove  Cavalletto  più  calmo,  da  vero  decano 
de  la  sfasciata  Destra,  parla  sei  volte  al  giorno 


|108  GIOBBE. 

in  i>uro  dialetto  di  Padova,  come  Peruzzì 
parla  una  volta  a  l'anno  nel  gergo  de  i  Bechi  e  de  i  Bobi. 

Afiina  Lioy  la  bile  temprandone  acute  quadrella, 
E  Fano  ghigna  né  perde  l'appetito. 

Teano  lungo  lungo,  ma  corto  ne'  1  resto,  non  giunge 
a  la  statura  di  Sambuy  gigante 

cui  solo  tolse  il  vanto  d'altissimo  tra  i  Deputati 
il  buon  Pandóla  rimasto  ne  la  tromba. 

Arbib  tentenna  e  forse  ricorda  la  sua  gloriosa 
camicia  rossa  de'  1  giorno  di  Milazzo, 

stanco  di  starsi  vicino  a  i  suoi  conterrani,  a  gli  etruschi 
facili  lucumoni  che  voltano  casacca. 

Chimirri  si  strugge  di  giungere  in  alto,  Codronchi 
si  duole  invece  d'esser  caduto  in  basso. 

Posa  De  Zerbi  intanto,  scrivendo  di  tutto,  parlando 
di  tutto.  Posa  Guiccioli  su'l  suo  banco. 


CANTO  II.  109 

Quanti  ne  mancan  purtroppo!  Ahimè  dove  son  gli  scrittori 
di  Destra?  Dove  Bersezio  con  Barrili'? 

Guerzoni  almen  s'  è  fatto  il  nido  e  riposa  e  non  scrive 
più  quei  suoi  libri  zeppi  di  tanti  errori. 

Broglio  dov'  è  ?  Contende  pe  '1  suo  Federico  Secondo 
co 'l'editore?  Vive  ancora  D'Ondes  Reggio  ? 

Amicarelli  pure  portò  di  qui  fuori  la  coda 
e  Cantù  indarno  si  strugge  pe'l  Senato 

dove  sonnecchiano  Bembo,  Giorgini,   Finali,  Brioschi, 
dove  con  Massarani  sonnecchia  Bellinzaghi, 

dove  Saracco  cerca  il  pelo  no'l  ovo  e  combatte 
strenuamente  co'l  suo  fido  Lampertico. 

La  Destra,  ahimè,  la  Destra  è  morta  !  Falangi  compatto 
le  minoranze  stanno,  e  frangonsi  ne  '1  giorno 

de  la  vittoria.  Invece  la  Destra,  da  '1  giorno  fatalo 
de  la  caduta,  quando  mancolle  il  dolce 


110  GIOBBE. 

vincolo  che  stringeva  ciascun  de'  consorti  alla  mensa 
spezzossi  come  vaso  di  fragil  vetro. 

Addio,  degenerati  nepoti  de'l  Grande  che  dorme 
a  Sàntena,  felice  d'essere  a  tempo  morto  ! 

Addio,  memorie  forti,  se  non  grandi.  Passano  gli  anni 
e  portano  seco  con  gli  uomini  l' idee. 

Ecco  il  tuo  vecchio  plettro,  Prati  ;  ne  desta  le  corde 
e  canta  l'epicedio  de  la  defunta  Destra. 

a  Visse  felice  fino  che  liete  le  arriser  le  sorti 
ma  debole  fu  ne  la  sventura.  Dite  un  Beqiiiem.  d 


No  —  disse  Giobbe  —  questi  maledetti 
Esametri  e  pentametri  mi  sono 
Duri  da  digerir.  Ma  poiché  siamo 
In  via  di  metri  barbari,  provare 
Mi  voglio  anch'  io.  Gli  Dei  delle  Minori 
Genti  Sinistre  canterò.  M'ascolta. 


CANTO   II.  IH 

Saffica  Musa,  a  '1  Carbonelli  togli 
l'arguto  eloquio  piscatorio  e  dimmi 
se  meglio  scrive  l'osco  Petrucelli 

De  la  Gattina, 

o  non  piuttosto  Lazzaro  ne'l  Boma. 
Dimmi  se  il  limbo  più  noiosi  accoglie 
cMaccheratori  di  Melchiorre,  ovvero 

de'l  Pierantoni. 

Ecco  i  padroni  nostri  !  Il  farmacista 
Asperti,  esperto  a  fabbricar  cerotti, 
i  due  Basetti,  Gian  Lorenzo  e  1'  altro, 
medici  entrambi. 

La  Porta  smania  dietro  a  '1  portafoglio. 
La  Cava  è  giunto  ad  esser  segretario  ; 
dell,  perchè  quella  Porta  in  quella  Cava 
non  cade  aitine  ? 

Oh,  il  bel  Pianciani,  il  Sindaco  leggiadro, 
come  sta  bene  accanto  a  San  Donato, 
Sindaco  sfatto  che  tornar  vorrebbe 

Sindaco  ancora  ! 


112  GIOBBE. 

Oli,  quanti  abati  mal  disabatati  ! 
Ecco  Abignente  che  la  Storia  insegna 
Sacra  ne  l'aule  cbe  Pessina  onora, 

ecco  Merzario  ! 

e  il  trasformista  Billia  ed  il  Morana 
che  per  un  giorno  fornicò  con  Sella, 
e  Della  Rocca  fido  a  '1  suo  barone 
salernitano. 

E  il  Baratieri  che  da  Trento  viene, 
l'arguto  Mussi  ed  il  baron  de  Renzis 
caro  ai  proverbi,  e  l'Adamoli  cosa 

sacra  a  Cairoli. 

Odi,  là  in  alto  la  montagna  freme 
d'aver  perduto  il  medico  Bertani, 
ma  Cavallotti  ancor  le  resta  e  Bovio 
da  la  gran  voce. 

E  quanti  ancora  mancano  a  la  manca  ! 
Dov'  è  il  Puccini  transfuga,  che  fece 
due  relazioni,  una  contraria  a  l'altra, 

ne'l  giorno  stesso? 


CANTO    II.  113 

Dov'è  il  Ricciardi  tolto  a  l'allegria 
de  i  Deputati,  cui  riinan  soltanto 
il  Mazzarella  per  fiorir  di  risa 

ogni  verbale  ? 

E  il  Maiorana  che  co'  1  Doda  ai  tardi 
sonni  si  diede  del  Senato,  lascia 
Amadei  solo  a  protegger  le  viti 

contro  gì'  insetti  ! 

Ci  reggon  questi  e  fan  sereno  e  pioggia, 
a  lor  talento  e  votano  milioni 
allegramente,  e  Pantalon  che  paga 

li  ciba  ancora  ; 

Poiché  non  havvi  deputato  gramo 
che  non  si  faccia  offrire  un  pranzo  in  gala 
e  poi  non  paghi  subito  lo  scotto 

con  un  discorso. 

È  questo  il  regno  de'  mediocri  ;  spesso 
regno  de'  nulli  o  peggio.  Ma  il  paese, 
dicono  i  saggi,  ha  sempre  quel  governo 
che  gli  sta  bene. 


114 


-  «  Bada,  son  brutti  vèrsi  —  al  Patriarca 
Elipliaz  disse:    —  Tu  cantavi  meglio 
Ne'  vecchi  ritmi  e  non  è  pan  per  tutti 
Il  novo  ritmo  barbaro.  Ti  voglio 
Infligger  la  canzon  de'  Dii  Maggiori 
Della  Destra,  infilata  in  metro  barbaro. 


Salute  a~  i  vinti  che  si  divisero 
quando  più.  grave  premea  il  pericolo, 
a  i  vinti  che  lasciano  il  campo 
g-ittando  a  terra  la  vecchia  insegna  ! 

Salute  a  i  vinti  che  si  rassegnano 
ad  una  muta  parte  di  vittima, 
a  quelli  che  vanno  a  '1  nemico, 
a  i  disertori  de  la  bandiera  ! 

A  te  salute,  Minghetti  roseo, 
già  nominato  l'eterno  pargolo, 
che  muti  il  color  de  la  pelle 
come  fa  il  vario  camaleonte  j 


CANTO   II.  115 

Oggi  smanioso  di  forme  libere 
e  di  riforme  tutte  britanniche, 
domani  abbracciato  a  '1  Cantelli, 
invidiando  lo  Czar  a  i  russi! 

0  Sella,  vedi,  corrono  i  transfughi 
a  '1  tuo  rivale,  solo  lasciandoti 
co  '1  guercio  Coppino  e  Grimaldi 
sommo  ne  '1  arte  di  svesciar  ciarle  ! 

Tra  i  Lincei  fuggi,  tra  le  academiche 
baie  i  capaci  fiaschi  dimentica, 
tra  il  credulo  armento  de  i  dotti 
che,  quanto  a  fiaschi,  sono  indulgenti. 

T'aborre  Lanza,  i'  ingenuo  medico, 
t'odian  Spaventa  duro  ed  energico 
e  il  bene  azzimato  Codronchi, 
ed  il  poeta  cesareo  Prati. 

Eudini  il  tardo,  parla  lentissimo, 
ma  non  di  meno  te  pur  vitupera. 
Saint-Bon  ne  '1  suo  franco-italiano 
anch'ei  ne  dice  d'ogni  colore, 


116  GIOBBE. 

ed  il  brillante  Massari  sfodera 
le  barzellette  sue  più  ridicole. 
Visconti- Venosta  fa  il  morto, 
ma  anch' ei  ti  tratta  male  parecchio. 

Ahi,  Sella  !  in  odio  a  '1  cielo  a  gli  uomini, 
morso  da  '1  Bonghi  co  '1  dente  assiduo, 
da  tutti  respinto,  spiacente 
tanto  a  '1  Signore  che  a'  suoi  nimici, 

dove  il  rossore  vuoi  tu  nascondere, 
tu,  micidiale,  che  desti  1'  ultima 
strappata  di  laccio  a  la  Destra 
cui  fé'  Minghetti  da  tirapiedi  1 

Kitorna  a  Biella  !.  Guarda  le  patrie 
montagne  immense  che  a'I  cielo  s'ergono. 
Un  dì  ti  parranno  quei  monti 
de  '1  tuo  rimorso  men  gravi  assai. 


CANTO   II.  117 

-  Non  e'  è  maluccio  per  un  moderato  — 
Replicò  il  Patriarca  —  e  queste  strofe 
Han  migliore  armonia  de'  tuoi  pentametri. 
Ma  tuttavia  non  son  pane  ai  miei  denti 
E  di  barbari  versi  ormai  son  stanco. 
Io  ti  voglio  cantar  gli  Dei  Maggiori 
Della  Sinistra,  e  come  tu  con  Sella 
Io  mi  sbizzarrirò  contro  11  Depretis. 
Metteiò  mano  alle  terzine.  Un  ritmo 
Più  venerabil  non  saprei  trovare. 


Tutto  rovina  in  questo  mondo  orribile: 
Fino  il  giudice  ormai  mancar  si  sente 
Di  sotto  la  ciambella  inamovibile. 

Ma  il  vecchio  di  Stradella  impenitente 
Sta  duro  ancora  come  fosse  eterno 
E  inganna  tutti  quanti  allegramente. 

Egli  è  pur  giunto  dalla  etate  al  verno 
E  spera  di  veder  quest'altra  estate  • 
Maturar  le  bugìe  del  suo  governo. 


118  GIOBBE. 

Spera  veder  le  turbe  minchionate 
Creder  die  sotto  ai  candidi  capelli 
Gli  germoglino  idee,  non  busclierate  ; 

Pronto  a  buttar  nel  fiume  Zanardelli, 
Acton  se  occorre,  Berti,  Baccar/ni, 
Magliani  insieme  a  Ferrerò  e  Baccelli  : 

Pronto  a  buttar  nel  fiume  anche  Mancini, 
Benché  le  ciarle  lo  terranno  a  galla 
Come  le  zucche  tengono  i  bambini. 

Ai  venturieri  egli  darà  di  spalla 
Pur  di  star  ritto,  e  farà  il  Ministero 
Più  sozzo  che  non  fu  d'Augìa  la  stalla. 

0  buon  Cairoli,  o  povero  sìncero, 
Che  ìmpossibil  credevi  ogni  mendacio 
E  avesti  fede  in  chi  mai  disse  il  vero, 

Con  lui  vivevi  come  pane  e  cacio; 
Ma  quando  egli  a  Gethsemani  ti  vide. 
Coi  birri,  a  notte,  venne  a  darti  il  bacio. 


CANTO   II.  119 

Indarno  Crispi  furibondo  stride 
Perchè  lo  tien  di  tavola  lontano, 
Ch'ei  gii  ammicca,  l'inganna  e  gli  sorrido; 

Ed  al  baron  Nicotera  la  mano 
Sotto  il  tavolo  tende  e  per  disopra 
Ambizioso  lo  dice  e  ciarlatano. 

Ora  Correnti  ora  Cialdini  adopra, 
Poi  li  rinnega  come  nnlla  fosse 
E  non  gii  cai  se  la  bugìa  si  scopra. 

Nessun  dire  o  disdir  mai  lo  commosse. 
E  se  lo  sa  De  Sanctis,  poveretto. 
Che  ne  conserva  ancor  le  guancie  rosse  ; 

Egli  che  nel  Diritto  aveva  detto 
Che  all'onestà  tornar  facea  mestieri, 
Ai  costumi  di  Sparta  ed  al  brodetto  ! 

E  pur,  cogli  occhi  grifagni  e  severi, 
Sull'onorando  seggiolon  seduto, 
Farini  guarda  e  conta  gii  adulteri. 


120  GIOBBE. 

Ma  quando  il  vecchio  è  per  un  dì  caduto 
E  corion  tutti  a  lui  gridando  aita, 
Rinnova  incontanente  il  gran  rifiuto. 

Sdegna  abbassar  1'  intemerata  vita 
In  questo  fango  di  mediocri  inganni 
E  la  volgare  furberia  l' irrita. 

Passan  così  di  male  in  peggio  gli  anni, 
Di  bassezza  in  bassezza,  e  crescon  solo 
Ad  ogni  nuovo  sole  i  nostri  danni. 

Credevam  di  levare  in  alto  il  volo 
A  l'aquile  superbe  emuli  e  pari, 
Ed  invece  strisciam  rasente  al  suolo 

Come  lumache  sudicie  e  volgari. 


CANTO    II.  221 

-a  Tu  te  la  cavi  meglio,  o  Santo  Giobbe  — 
Eliphaz  disse  —  te  la  cavi  meglio 
Con  questi  versi  che  cogli  altri.  Io  pure 
Provar  mi  voglio  ai  vecchi  ritmi  e  dirti 
In  rima  le  virtù  dei  giornalisti. 


Benedetto  sia  tu,  quarto  potere 

Degli  Stati  moderni, 
Che  infrangi  le  corone  a  tuo  piacere 

E  fabbrichi  governi. 
Non  per  servir  principii  o  sentimenti. 
Ma  sol  per  aumentar  gli  abbonamenti. 


E  se  dei  vaglia  la  raccolta  sia 

Alqxianto  dimagrata. 
Non  sdegni  un  poco  di  pornografia 

Magari  anche  illustrata  ; 
Salvo  però  a  stampar  nell'altra  carta 
Che  ci  bisognan  le  virtìi  di  Sparta. 


122 


Forse  il  fior  di  virtìi  straordinario 
Del  Chauvet  (con  licenza), 

Ovvero  di  don  Davide  Albertario 
La  santa  continenza, 

0  l'onestà  incorrotta  dei  signori....! 

(Badate  che  ne  lascio  e  dei  migliori) 


Eppure  in  mezzo  a  tanto  sudiciume 
Ce  n'  è  qualcun  de'  buoni  j 

Parecchi  anzi,  che  fuggono  il  costume 
De'  colleghi  birboni 

E  per  danari  non  scendono  a  patti, 

E  tanto  meno  poi  fanno  ricatti. 


Non  posso  enumerar  tutti  gli  onesti, 
E  mi  scuso  umilmente 

Se  mi  fermo  a  parlar  solo  di  questi 
Che  mi  vengono  in  mente  ; 

E  così  non  s'offendano  gii  esclusi 

Come  se  tralasciandoli  li  accusi. 


CANTO    II.  123 

E  prima  all'editor  scioglier  conviene 

Un  inno  di  onoranza, 
Che  questo  Giobbe  mi  La  stampato  bene 

E  pagato  abbastanza  ; 
Ma  la  lode  dev'esser  riservata 
Perchè  non  abbia  l'aria  di  stoccata. 


E  il  cranio  di  D'Arcais  lucido  e  schietto, 

Terso  come  un  ginocchio, 
Notiamo,  ed  il  Pancrazi  poveretto 

Un  po'  losco  da  un  occhio. 
Che  a  dire  il  vero  ha  fatto  assai  ciarlare.... 
Ma  un  occhio  chiuderò.  Lasciamo  andare. 


Oh,  l'Avanzini  !  È  proprio  un  gran  peccato 

Che  un  gentiluomo  tale, 
Di  cui  non  si  può  dare  il  più  garbato. 

Sia  quasi  clericale, 
E,  come  al  rosso  infuriano  i  torelli, 
Perda  la  vista  a  ricordar  Baccelli  ! 


124  GIOBBE. 

Perde  il  Fanftdla  i  suoi  lettor  piìi  eletti 

Attratti  dal  Fracassa 
Colla  cara  invonzion  de'  pupazzetti 

E  i  colpi  di  gran  cassa  : 
Questi  per  direttor  Vassallo  prese 
E  indovinò  scegliendo  un  genovese. 


Arbib  nel  foglio  suo  va  tentennando, 
E  Lazzaro  sgrammatica. 

Il  Diritto  divenne  venerando 
E  i  Ministeri  pratica. 

Il  Bersagliere  commenta  il  Barone. 

E  la  Riforma  secca  con  Baconet 


Pesa  un  quintale  la  Perseveranza 

Su  cui  Platone  incombe. 
Bottero  di  veder  nutre  speranza 

Di  preti  un  ecatombe, 
Ma  Don  Margotti,  che  scordò  il  randello, 
Coll'obol  va  ingrassandosi  bel  bello. 


CANTO    II.  125 

Mario,  beffiindo  il  povero  Laviui, 

Calmi  tramonti  attende; 
Obleigt  sorride  a  tutti  e  fa  quattrini 

Poiché  l'annunzio  rende, 
E  la  JSassegna  frigge  nel  suo  grasso, 
Senza  salire  e  senza  cader  basso. 

Intanto  tutti  corron  dai  giornali 

Per  avere  un  soffietto, 
Usando  furberie  fenomenali 

Per  un  articoletto  ; 
Facendo  ancora  qualche  figuraccia 
Per  una  sola  riga  di  prosaccia. 

I  giornali  così,  Destri  o  Sinistri, 

Diventan  potentati. 
I  direttori  diventan  Ministri 

E  gli  altri  Deputati.... 
Benedetto  sia  tu  quarto  potere, 
Che  fai  pioggia  e  sereno  a  tuo  piacerò  ! 


126 


Era  già  sceso  il  sole  all'orizzonte 
Rosso  e,  come  dorate,  ancor  le  cime 
De'  monti  azzurri  di  Caldea  l'estremo 
Bacio  dell'astro  raccogliean.  Più.  grave 
L'aria  era  fatta  ed  un  silenzio  immane, 
Precursor  della  notte,  ogni  premea 
Cosa  d'  intorno.  Eaccoglieano  il  volo 
Gli  augei  sui  noti  nidi  e  dai  silenti 
Campi  redian  gli  agricoltori  al  dolce 
Focolare.  La  calma  e  la  solenne 
Pace  crepuscolar  stendean  le  molli 
Piume  sul  mondo.  La  città  vicina 
Più  di  clamori  non  sonava  e  solo 
Un  indistinto  murmure  mandava 
Come  d'  un  alvear  che  s'addormenti. 
0  dolcemente  mesta  ora,  che  inviti 
Il  pensiero  ai  ricordi  e  il  core  al  pianto^ 
Che  vuoi  tu  dagli  afflitti  ?  A  lor  non  rise 
Il  fiammante  meriggio  e  tu  la  greve 
Melanconia  su  loro  incomber  fai. 
Ora  triste  ai  dolenti  !  All'occidente 
Muor  la  vita  del  dì,  salgono  folte 
Consigliatrici  di  delitti  e  d'  ira 
Le  tenebre  notturne.  Ah,  dunque  è  vero 


CANTO   II.  127 

Che  ai  maledetti  da  la  sorte,  un  giorno 
Un  ora  sol,  non  v'  ha  di  pace  ?  0  sole, 
Perchè  ritorni,  splendida  ironia 
Del  cielo,  ai  maledetti?  Oh,  se  la  notte, 
L'eterna  notte,  del  sepolcro,  senza 
Riso  di  stelle  o  di  mattin  speranza, 
Involgesse  la  terra  !  Ai  maledetti 
Più  del  sereno  dì  grata  sarebbe. 


Alla  melanconia  lenta  dell'ora 

Cedendo  i  saggi  e  il  Patriarca,  in  lungo 
Silenzio  tacquer  tutti.  Eran  seduti 
Al  letamaio  accanto  i  tre,  che  a  Giobbe 
Davan  conforto  di  parole  e  i  gomiti 
Puntati  sui  ginocchi,  entro  le  palme 
Posavano  le  guance,  al  suol  tenendo 
Le  luci  fisse.  Sul  concime  intanto 
Giobbe  adagiò  le  puzzolenti  membra 
Quasi  attendendo  il  sonno,  ed  i  tre  saggi 
Che  come  tutti  i  saggi  eran  deserti 
D'ogni  moneta,  stavano  pensando 
Dove  dormir  senza  pagare.  In  cielo 
Salìa  la  notte  sempre  più,  la  notte 


128  GIOBBE. 

Che  nel  suo  vel  nasconde  assai  benigna 
Molti  rossor,  molte  vergogne  e  peggio. 

Eliphaz  disse  —  Amici,  ove  dormiamo"? 
Molte  cliiacchere  sciocche  oggi  abbiam  fatto 
E  più  farne  dobbiam  domani  a  giorno 
Per  compirne  un  poema.  Io  proporrei 
Che  per  destarci  presto  domattina 
Si  dormisse  con  Giobbe  sopra  questo 
Morbido  sterquilinio,  che  mi  i)are 
Non  puta  molto.  Così  appena  il  sole 
Domani  spunterà,  riprenderemo 
Gli' interrotti  discorsi.  — 

Gli  altri  due 
Finsero  un  po'  d'inorridir,  ma  poi 
Adducendo  che  alzarsi  era  mestieri 
All'indomani  j)resto,  al  Themanita 
Assentirono  al  fin.  Ma  la  ragione 
Unica  fu  che  non  avean  quattrini. 

Sonnecchiavan  distesi  in  sul  letame 
I  saggi  e  il  Patriarca,  e  nella  mente 
Assonnata  tornavano  indistinte 
Le  chiacchiere  del  dì,  l'eco  lontana 
Delle  canzoni  recitate,  i  lunghi 


CANTO    II.  129 

Discorsi  di  politica  e  i  compianti 
Per  la  patria  scaduta,  allor  che  un  tardo 
Passegger  per  la  via,  tornando  a  casa, 
Cantò  questo  sonetto  a  cui  bordone 
Tenner  russando  il  Patriarca  e  i  saggi. 


Voce  nel  buio. 

0  cara  madre  mia,  terra  che  adoro 
Come  il  fedele  del  suo  Dio  la  madre, 
0  patria  de'  miei  figli  e  di  mio  padre, 
Perchè  sciolta  ti  sei  la  stola  d'oro 

E  all'ombra  j)igra  del  tuo  vecchio  alloro 
Torni  a  posar  le  nudità  leggiadre. 
Sonnolenta  così  che  le  man  ladre 
Tentan,  mal  contrastate,  il  tuo  tesoro? 

Ti  potessi  affondar  dentro  ai  capegli 
La  man  che  verga  questo  inutil  carme 
E  scuoterti  finché  non  ti  risvegli  ! 

Salgono  i  Galli  al  Campidoglio  in  arme, 
Mentre  al  varco  non  sta  Manlio  che  vegli, 
E  non  c'è  Kapisardi  a  dar  l'allarme! 


CANTO   TERZO 

BALDAD. 


Bttldad  Suliitts  i.ixit: 

Memoria  illius  pereat  de  terra  <■(  non  cetebretur   numeri    eitis   in 
piateli 

Joiì.  XVIII  1.  17. 


ARGOME^'TO. 

Biildad  filosofo  e  suoi  fstudii  —  Tenta  di  persuadere  Giobbe  a 
cercare  consolazioni  nella  filosofia  —  Risposta  di  Giobbe  —  I 
filosofi  de'  Licei  —  Esodo  dei  filosofi  meridionali  —  I  filosofi 
delle  Università  —  La  critica  —  L'anacreontica  del  giunco  — 
La  medicina  e  lo  Aoo'ifimio  —  Voce  dai  Manicomi  — 


CANTO  III.  133 


Baldad  Suhita,  cui  sublime  in  petto 
Di  filosofo  un  cor  palpita  e  freme. 
L'occhio  in  Giobbe  fissò,  l'occhio  benigno 
Dove  il  saver  sorride.  Ai  dolci  clivi 
De  la  patria  fuggendo  adolescente, 
A  Xinive  volò  cercando  il  dolce 
Miei  di  filosofia;  le  giovanili 
Forze  a  lo  studio  date  ei  non  permise 
Sollievo  al  corpo  mai.  Per  le  gioconde 
Vie  de  l'Assira  capitale,  invano 
Gli  sorridean  le  crestaine  belle 
E,  sollevando  de  la  veste  il  lembo, 
Lo  snello  piede,  l'attillata  calza, 


134  GIOUBE. 

Come  per  caso  gli  facean  vedere. 
Egli  spregiava  ogni  mondan  diletto. 
Macerando  la  carne  in  lunghe  veglie 
Sui  volumi  de'  Sofi.  Ah,  non  per  lui 
Corser  l'eburnee  palle  il  panno  verde 
A  rovesciar  gli  ometti:  ah,  non  per  lui 
Saltare  in  alto  i  sugheri  sonanti, 
Frisser  le  costolotte,  o  i  gallinacci 
Di  tartufi  imbottì  l'industre  cuoco! 
Studiò,  studiò  tenacemente,  e  quando 
Del  lauro  dottorai  cinse  la  chioma, 
Parve  un  portento  a'  suoi  maestri,  e  parve 
A  chi  ben  se  ne  intende. 

Sublime  ed  immortai  filosofia,  incretinito. 
Così  tu  conci  i  tuoi  fedeli!  Ai  pochi 
Che  de'  misteri  tuoi  tengon  la  chiave 
Ogni  catena  material  disciogli 
E  ai  regni  oltremondani  alto  li  guidi. 
Così  poi  che  la  mente  al  vero  eterno 
Volgono  speculando  e  fisi  stanno 
A  contemplar  la  psiclie  e  l'infinito, 
Scordan  la  terra  e  prendono  l'aspetto, 
E  qualche  cosa  più,  di  scimuniti. 


CANTO    III.  135 

Bcaldad  Subita  fisse  l'occhio  in  Giobbe 
E  di  tasca  traendo  una  tornita 
Teca,  un  pizzico  andò  d'americana 
Polve  annusando,  fin  che  alzossi  e  disse: 


0  Patriarca,  porgi  l'orecchio 
A  chi  ti  parla  la  verità. 
Sono  un  filosofo  vecchio,  stravecchio, 
E  la  saggezza  dentro  mi  sta. 


Ascoltami.  Un  fato  tremendo  ti  opprime, 
Ti  sforza  a  giacere  su  questo  concime, 
Ti  strazia  le  carni,  ti  lacera  il  cor; 

E  tu  miserello,  mal  vivo  e  mal  morto. 
Non  hai  piìi  speranza,  non  trovi  un  conforto, 
E  il  mal  ti  soggioga,  ti  vince  il  dolor. 


136  GIOBBE. 

E  pur  e'  è  un  sollievo,  c'è  un  balsamo  ai  mali, 
Che  allevia  le  pene  de'  tristi  mortali. 
Che  giova  i  tormenti  del  mondo  a  scordar  ; 

La  scienza  sublime  del  divo  Platone, 
La  scienza  di  Critia,  di  Gorgia  e  Zenone, 
La  scienza  che  insegna  la  carne  a  domar. 


Ti  dolgono  l'ossa  nel  virus  marcite? 
E  tu  fa  un  dilemma,  combina  un  sorite, 
E  tosto  avrà  fine  l'atroce  soffrir. 

L'  antitesi  calma  lo  spasimo  ai  denti. 
La  tesi  guarisce  le  pance  dolenti, 
Ed  il  sillogismo  concilia  il  dormir. 


Deh,  sia  benedetta  la  filosofia 
Che  i  veri  contiene  dell'Ontologia, 
La  Logica  industre,  la  santa  Moral: 

Che  inebbriai  digiuni,  che  sgombra  i  briachi, 
Che  libera  i  bimbi  trafitti  dai  bachi, 
Che  purga,  ristora,  guarisce  ogni  mal  ! 


CANTO    III.  137 

Ce  n'  è  d'ogni  gusto,  da  Grate  a  Mauiiaiii  ; 
Se  Kant  non  ti  piace,  ci  son  gli  hegeliani  ; 
Se  l'Hartmann  ti  secca,  puoi  darti  a  Littrè. 
C'è  i  neri,  c'è  i bianchi,  c'è  i  grigi,  i  turchini, 
Credenti,  ateisti,  tomisti,  cretini  ; 
Domanda,  domanda:  per  tutti  ce  n'è. 


E  tutti  a  lor  modo  conoscono  il  vero. 
Ciascuno  a  sua  posta  ti  spiega  il  mistero, 
Rischiara  la  notte  o  scuro  fa  il  dì. 

Ognuno  la  pensa  secondo  gli  frulla. 
Ci  si  sono  per  fino  i  devoti  del  Nulla 
Che  in  loro  sermone  favellan  così: 


oc  Al  Nulla  sia  gloria  che  impera  sovrano: 
Gran  padre  de'  Numi,  terribile  arcano 
Cli'  è  prima  del  Prima  che  primo  regnò. 
Al  Nulla  sia  gloria  che  senza  mai  fino 
Al  Qualche  minaccia  l'estreme  mine, 
E  il  iSÌ  nel  suo  seno  fa  identico  al  No, 


138  GIOBBE. 

o:  Tu  popoli  e  regi,  tu  secoli  e  Numi, 
Concentri  nel  vuoto  e  il  Panto  consuini 
Per  forza  segreta  che  forza  non  fu. 

Non  sei,  ma  ti  pensa  l'umana  natura, 
E  in  te,  Nulla  immenso,  la  vile  creatura 
Si  sente  nel  meno,  maggiore  del  più.  » 


Tu  vedi  che  dunque  ce  n'è  d'ogni  gusto. 
C'è  il  brutto  e'  è  il  bollo,  e'  è  il  giusto  e  l'ingiusto. 
Adotta  un  sistema,  comincia  a  pensar. 

Soltanto  la  scienza  del  bene  e  del  brutto, 
L'immenso  pasticcio  del  Nulla  e  del  Tutto, 
Al  duol  che  t'opprime  conforto  può  dar. 


0  Patriarca,  porgi  l'orecchio 
A  chi  ti  parla  la  verità. 
Sono  un  filosofo  vecchio,  stravecchio, 
E  la  saggezza  dentro  mi  sta. 


CANTO    III.  139 

-  Puh  !  Tutte  buffonate  !  —  il  santo  Giobbe 
A  Baldad  replicò.  —  Tu  vuoi  ch'io  cerchi 
Nella  filosofia  qualche  sollievo 
A'  mali  miei,  ma  l'uso  e  le  calate 
Facoltà  de  la  mente  hanno  i  tuoi  sensi 
Imbecillito  sì  che  ignori  come 
Questo  sapere  tuo,  questo  rimedio, 
Del  male  sia  peggior.  Tu  ignori  dunque 
Come  intontisca  la  filosofia 
E  come  pesi,  incomportabil  pondo, 
Ad  un  ben  nato  stomaco  1  Non  sai 
Che  il  Governo  vietò  severamente 
Il  Platone  del  Bonghi  in  ferrovia 
Per  paura  che  i  ponti  a  tante  note 
Cedesser  rovinando?  Ignori  forse 
Che  la  filosofia  conduce  dritto 
Al  Manicomio  od  al  profess  )rato. 
Secondo  che  s'è  in  buona  o  in  mala   fede? 
Se  un  filosofo  gratti,  troverai 
Un  imbecille  o.... 

—  Basta  —  l'interruppe 
Baldad  Subita  —  basta!  Inutilmente 
L'onta  e  l'ingiuria  tu  rovesci  ai  saggi 
Sul  capo.  Un  solo  esempio  ti  convinca. 


140  GIOBBE. 

Guarda  i  nostri  Licei.  Sono  imbecilli 
Quei  mille  professor  che  ai  giovinetti 
Spezzano  il  i^ane  dell'Ontologia'? 
Non  li  conosci  tu'?  Spesso  le  corte 
E  negre  calze  conservar,  coprendo 
Il  capo  tuttavia  di  negra  tuba  5 
Ma  più  spesso  vestir  lunglie  le  brache, 
Crescer  lasciar on  l'interdetta  barba, 
E  invece  del  collare  hanno  il  colletto. 
Sono  imbecilli  forse? 

—  Ah  no,  —  rispose 
Giobbe  —  tali  non  son,  ma...  viceversa. 
Io  li  vidi  una  volta,  il  capo  ascoso 
Dal  nicchio  venerando  o  dal  cappuccio; 
Io  li  sentii  dal  pergamo  saette 
Contro  la  libertà  scagliar  furenti. 
Li  conobbi  codini  e  in  un  momento 
In  giobertiani  tramutarsi!  Tristi 
Ibridi;  mostri  dall'accoppiamento 
Procreati  tra  il  vizio  e  l'ignoranza! 

0  i  giobertiani  mal  spretati,  o  i  cari 
Metafisici  tuoi  sfratati  peggio. 

Come  ben  li  conosco  !  Hanno  nel  core 

1  pregiudizi  vecchi  e  i  vizi  jiuovi, 


CANTO    III.  141 

La  serva  e  il  __bigottisino  !  Plauno  l'amore 
Della  paga  e  di  Dio  nel  tempo  istesso, 
Nella  stessa  misura.  Io  li  conosco 
Questi  mal  niasclierati  e  ti  concedo 
CJie  possano  servir  di  medicina 
Quando  occorre  l'emetico;  ma  intanto 
C'è  cM  li  paga  e  c'è  chi  va  per  forza 
Da  loro  a  scuola.  Ahi,  che  pietà  !  M'accresce 
Non  mi  scema  lo  strazio  un  tal  pensiero! 

Scosse  Baldad  la  testa  e  bene  intese 
D'aver  sbagliato  via,  che  l'argomento 
Irritava  il  paziente  Patriarca 
A  buon  dritto.  Annusò  tabacco  ancora, 
E  riprese  : 

^  Sta  ben.   Non  ti  contrasto 
Che  questi  metafisici  sfratati 
Che  pendon  tra  il  Gioberti  e  il  Bellarmino 
Sono  poco  di  buon:  non  ti  contrasto 
Ch'a  la  filosofìa  recan  vergogna. 
Lupi  nel  bell'ovil,  maiali  in  chiesa. 
Ma  più  su  de'  tristissimi  Licei, 
Ne  l'Università  ce  n'è  dei  buoni. 


142 


Giobbe  un  poco  ghignò,  quasi  dicesse: 
Maschera,  ti  conosco;  indi  rispose, 
Grattandosi  col  cocciO;  in  questi  accenti: 


—  Oh,  se  tu  mi  trovassi 

Due  filosofi  sol  che  sian  d'accordo, 

Un  soldo  ti  darei  quando  l'avessi; 

Quando  da  l'Apennino 

In  Toscana  discendi  e  alfin  t'appressi 

A  la  bella  Fiorenza  in  ferrovia, 

Una  stazion  tu  vedi 

E  grida  il  conduttor  Ponte  a  Bifredi. 

Una  antica  leggenda 

Dice  che  a  far  quel  ponte 

Fur  pochi  e  mal  d'accordo. 

I  filosofi  son  simili  a  quelli; 

Sono  pochi  e  si  prendon  pei  capelli. 
Laggiù  dove  il  Vesevo  al  ciel  turchino 

Lancia  boando  la  sulfurea  vampa, 

Dove  sorride  il  mare,  e  dove  il  vento 

Degli  aranci  l'odor  toglie  a  Sorrento, 

Scherzo  de  la  natura, 

Hegel  stanza  secura 


CANTO    III.  143 

Ora  trovò,  mentre  Spaventa  e  \'cra 
Se  ne  fer  sacerdoti  e  turcimanni. 
Filosofo  beato,  ei  che  già  disse 
Di  non  capir  sé  stesso, 
Ha  ritrovato  adesso 
Chi  pretende  capirlo  e  chi  lo  spiega  ! 
Strano  !  S'avvolgon  in  tedesche  nebbie 
Del  caldo  mezzodì  gli  ardenti  figli; 
Fino  il  senso  comun  rovina  in  basso; 
Dove  Vico  pensò  scrive  Galasso! 
È  ver  che  tuttavia 

Anche  il  rovescio  c'è  della  medaglia 

E  la  filosofìa 

Come  le  giubbe  ha  il  suo  rovescio  anch'essa. 

(Tanto  è  ver  che  i  filosofi  son  noti 

Per  voltar  giubba  spesso.) 

Come  percote  ben  su  gli  avversari 

Le  mistiche  vesciche  il  gran  Fornari! 

0  gloria  della  Chiesa, 

0  decoro  di  Roma, 

Dimmi,  quando  scrivevi 

Quelle  tue  pappolate  in  quinci  e  quindi 

Se  allo  specchio  vedevi 

La  cara  l'accia  tua,  di'  non  ritk-vi'i 


114  GIOBIiK. 

La  tua  Vita  di  Cristo 
Vinse  Strauss,  Kcnan,  vinse  la  prova 
Contro  Germania  tutta. 
Un  libro  come  il  tuo  mai  non  si  vide 
E  clii  se  lo  ricorda  ancor  ne  ride. 
0  dolce  terra,  dove 
Crescon  gli  aranci  sotto  il  sol  fiammante, 
Perchè  tanti  filosofi  produci? 
Ti  vendiclii  di  noi?  Glie  t'abbiam  fatto 
Che  tanti  pazzi  tu  ci  mandi  a  un  tratto? 
Non  ci  son  Manicomi  e  non  prigioni 
Di  là  del  Garigliano 
Per  questi  vizi  del  cervello  umano? 
Mandaci  quel  che  vuoi,  per  tutti  i  Santi, 
Ma  filosofi  no.  Meglio  i  briganti. 


—  0  Giobbe,  Giobbe,  tu  ciurli  nel  manico  — 
Il  Subita  riprese  in  versi  sdruccioli. 
—  Tu  che  pel  mondo  vai  lodato  e  celebre 
Per  la  tua  sofferenza  pazientissima, 
Tal  che  potresti  dar  de'  punti  all'asino, 
Invece  quando  parli  de'  filosofi 
Velenoso  ti  fai  come  una  vipera  ! 


CANTO   III.  145 

Che  t'hanno  fatto?  Se  tua  moglie  torsero 
Dal  diritto  cammin,  tu  sai  benissimo 
Che  ponno  in  questo  somigliar  la  gocciola 
Che  il  mar  non  fa  calare  e  non  fa  crescere. 
Se,  parassiti,  a'  pranzi  tuoi  papparono 
Come  affamati  e  grazie  non  ti  resero, 
Se  si  fecero  dar  quattrini  a  prestito 
E  di  restituir  dimenticarono, 
Se  dopo  averti  dedicato  articoli 
Libri,  trattati,  scritture  ed  opuscoli 
Per  cavarti  un  regalo,  ora  ti  lasciano. 
Anzi  ti  fuggon  come  cane  idrofobo. 
Non  accusarli,  no,  d'ingratitudine. 
Questa  si  chiama  indipendenza  d'animo  : 
La  più  bella  virtù  d'ogni  filosofo  ! 
Deh,  non  pensare,  non  pensare  agli  uomini 
Che  per  natura  lor  son  tutti  fragili, 
Ma  rivolgi  il  pensier  piuttosto  a  l'opere 
Per  cui   son  fatti  giustamente  celebri. 
Pensa  alla  fama  di  color  che  insegnano 
Nelle  Università,  fama  che  il  merito 
Agguaglia,  e  gli  stranier  quindi  c'invidiano 
Questa  illustre  falange  di  filosofi. 
Cinque  o  sei  mila  lire  essi  riscuotono 


146  GIOBBE. 

Dal  Governo,  ed  è  poco  se  consideri 
Che  sperticato  onor  fanno  a  la  patria. 

Baldad  così  parlò.  Giobbe  rispose  : 


—  Li  conosco  anche  questi, 
E  davver  sono  senza  fine  illustri  ! 
0  gran  celebrità  dei  Bertinaria, 
Dei  Corico,  dei  Eagnisco, 
Bobba,  Salterio,  Allievo,  Paganini, 
D'Ercole,  Lazzarini, 
Che  levi  in  alto  i  vanni  ! 
0  gran  celebrità  dei  Bonatelli 
Ovver  del  sacerdote  Di  Giovanni! 
0  Cameadi  sublimi 
Chi  mai  di  voi  parlar  sentì,  due  passi 
Fuor  de  la  scola  *?  Confessar  conviene 
Che  il  pubblico  denaro  è  speso  bene! 
0  quanta  brava  gente 
Che  il  meglio  che  facesse 
Fu  di  non  far  niente! 


CANTO   III.  147 

Bàrbera  almeno  coi  volumi  grossi 
Il  calcolo  raddrizza 
E  rivede  il  latino 
A  Lagrangia  ed  Eulero, 
Segno  di  plauso  altissimo  e  sincero. 
Ed  il  buon  Fiorentino  calabrese 
Lascia  di  specular  l'ente  e  l'idea 
Per  far  de'  libri  storici,  migliori 
De  le  panzane  degli  altri  signori. 
E  il  Passaglia  che  fa?  Transfuga  odiato 
Da  tutti,  pensa  a  le  solinghe  stanze 
Del  Gesù  dove  crebbe  ed  ha  sporcata 
Tanta  cartaccia  per  l'Immacolata. 
Pensa  che  se  all' o vii  fosse  rimaso, 
Restando  gesuita  e  clericale, 
A  quest'ora  sarebbe  cardinale, 
E  si  morde  le  pugna.  —  Il  Siciliani 
Scrive,  scrive,  riscrive, 
E  presiede  congressi, 
Conferenze,  adunanze  e  commissioni  ; 
Da  Vico,  ad  Hegel,  ed  a  Darwin  passa 
Ed  i  sonagli  dello  Spencer  squassa. 


148  GIOBBE. 

Mamiani  intanto  la  decrepitezza 

Onoranda  trastulla  al  Tebro  in  riva 

Pontificando  maestosamente 

E  amministrando  i  sacramenti  ai  mille 

Filosofastri  de'  Licei.  Battezza 

Sul  sacro  fonte  deìV Antologìa, 

Cresima  nei  concorsi, 

Lega  e  discioglie,  anatemizza  o  loda; 

E  il  chierichetto  Ferri 

Gli  dà  l'incenso  e  gli  tien  su  la  coda. 

Bonavino  a  Milano 

Scordò  l'attività  d'Ausonio  Franchi 

Ed  i  ginocchi  stanchi 

Gli  van  tremando  già,  quasi  piegarsi 

Volessero  davanti  al  vecchio  altare; 

A  quest' aitar  cui  sale 

La  prece  clericale 

Mal  mascherata  di  conservatrice  ; 

A  queir  aitar  cui  cerca  Augusto  Conti 

Catecumeni  invano  e  sacerdoti. 

Arciconsolo  illustre,  o  non  vi  basta 

Il  duchista  Frullone, 

Non  vi  bastan  la  Crusca  e  il  Dizionario 


CANTO    111.  149 

Per  favv'i  canzonar  da  le  persone? 
Alle  guagnele,  non  vi  contentate 
D'ammaestrarci  nel  sermon  toscano, 
Di  stacciar  le  parole 
Sqnasimodeo,  introcque  e  a  fusone, 
A  cafisso  e  a  busso  e  a  la  ramata, 
Garabullaudo  in  confrediglia  a  bacchio, 
Rozza  petarda.  Lapi,  Nuti,  Cinti, 
Non  son  mincioltì  perchè  sien  zenibuti, 
Gioie  che  l'otta  non  corbava  a  raffio 
Ed  altre  amenità  tolte  al  Pataflìo  ? 
Cercate  un  poco  tra  i  conservatori 
Gli  sciocchi  per  le  vostre  pappolate, 
Che,  madiesì,  che  a  noi  non  ce  la  fate. 

Quando    jl  dottor  Baccelli 

Trasse  don  Ardigò  da  la  scoletta 

Per  farne  un  spaventacchio  agl'imbecilli, 

Salirò  al  ciel  gli  strilli 

Del  platonico  Bonghi  e  compagnia  ; 

E  parea  (ma  pur  troppo  non  fu  vero!) 

Che  fosse  morta  la  fìlosotìa. 

Che  filosofo  il  Bonghi  I 

Così  piccino  e  così  picu  di  tutto! 


150  GIOBBE. 

Bibliografia,  morale, 

Politica,  finanza,  agricoltura. 

Diritto,  guerra,  storia  universale, 

Medicina,  idrostatica,  dinamica, 

Teologìa,  ceramica, 

Lingue  morte,  eloquenza  e  lingue  vive, 

Egli  parla  di  tutto  e  tutto  scrive. 

Ma  il  Bonghi  almeno,  almeno, 

Leggendo  e  rileggendo, 

Cercando  il  verbo  in  fondo  alla  facciata. 

Tra  gl'incidenti  lunghi  come  bisce. 

Press'  a  poco,  alla  meglio,  si  capisce  : 

Ma  chi  capisce  il  Trezza 

Con  quel  linguaggio  suo  particolare. 

Se  sull'Arno  si  fa  così  a  cantare? 


CANTO    III.  151 


a  Or  che  i  vecchi  archimandriti, 
Nel  carnaio 
Seppelliti 

Dell'antico  polipaio, 

Sou  ribelli  alla  gioconda 
Chiarentana 
Che  circonda 

L'immanenza  spinoziana, 

Noi  dall'organo  sociale, 
Esplicato 
L'integrale 

Del  romantico  latrato, 

Distruggiam  l'aspro  salterio 
Metaforico, 
Del  pomerio. 

Einforzando  il  clima  storico. 


152  GioniJK. 


Così  cada  la  chimera 

Che  sostiene, 
Lusinghiera, 

Le  platoniche  cancrene 

E  ritorni  alla  coscienza 
La  divina 
Conoscenza 

Dell'ignota  disciplina! 

O  signori,  starà  fresca 
L'eresia 
Loiolesca 

Coll'olimpica  ironia 

De'  balordi  archimandriti, 
Nel  carnaio 
Seppelliti 

Dell'antico  polipaio!  » 


CANTO    III.  153 

Bella  roba,  per  Dio  !  Son  questi  dunque 
Gl'illustri  filosofici  campioni 
Che  tengon  alto  il  nome 
Nostro  in  faccia  agli  estrani*? 
Non  torcerti  le  mani,  ' 

Filosofo  Suhia,  innanzi  a  questa  » 

Mediocrità,  e  sorridi. 
Sai  la  massima  mia 
Appunto  circa  la  filosofia  ? 
Quanti  meno  i  filosofi  saranno, 
E  tanto  meglio  le  faccende  andranno. 


—  Odio  —  disse  Baldad  —  terribil  odio, 
È  quel  che  nutrì  tu  contro  la  bella 
Filosofia,  contro  la  quintessenza 
D'ogni  umano  saver  !  Tu  dunque  ignori 
Quel  che  dobbiamo  a  lei?  Pur  le  dobbiamo 
L'ottantanove,  cui  spianò  la  strada 
La  critica.  Dobbiamo  esser  ben  grati 
Agli  encicloi)edisti  e  a  tutti  quanti 
I  critici  d'allora.  I  pregiudizi 
Sotto  i  lor  colpi  caddero  e  le  mille 
Catene  de'  tiranni!  Oh.  benedetta 


154  GIOBBE. 

La  critica  che  insegna  il  bene  e  il  male, 
Che  ci  addita  la  via  della  salute 
E  della  verità! 

—  Cara  la  critica  !  — 
Giobbe  ghignò  —  Non  sai  che  per  apprenderla 
Non  c'è  fra  noi  che  un  sol  trattato?  Quello 
Dell'onorevol  Mazzarella,  il  serio 
Pastor  de'  protestanti  e  l'allegrissimo 
Interruttor  de' Deputati?  A  lui 
Ricorri  e  ti  dirà  quanto  ci  vuole 
Per  sconvolgerti  in  capo  ogni  pensiero 
Ed  apparir  mattoide  in  sul  suo  taglio. 
Scienza  non  è  la  critica,  ma  meglio 
La  p^^oi  dir  l'arte  di  spacciar  sciocchezze, 
Verità,  birberie,  come  ti  pare. 
Cercando  di  piacer.  L'ottantanove 
Non  lo  fece  Voltèr.  Giacca  l'Europa 
In  un  brago  di  sangue  e  di  vergogne, 
E  il  prete  e  il  nobil,  torturando  i  loro 
Schiavi,  ne  spremean  l'oro  e  la  pazienza. 
La  Du  Barry  fu  di  Marat  la  madre, 
E  nel  Parco  de' Cervi  il  legno  crebbe 
Al  gibetto  del  Ee.  Non  le  roventi 
Pagine  di  Rousseau  bruciar  le  porte 


CANTO   III.  155 

De  la  Bastiglia,  ma  l'ultimo  tizzo 

De'  focolari  de  la  plebe.  0  dove, 

Dove  stava  la  critica  ne'  giorni 

De  la  vendetta?  Prorompean  le  turbo 

Ne  le  vie,  ne  le  piazze,  e  le  campane 

Suonavano  a  martello  ed  i  tamburi 

Rullavan  cupamente  in  mezzo  a  un  fiume 

D'armi,  d'armati  e  di  bandiere  al  vento. 

Un  urlo  immenso  per  le  vie  sonava 

E  il  rombo  del  oannon,  le  grida  e  il  fumo, 

Saliano  al  cielo.  Rovinava  un  mondo.... 

E,  dimmi,  allor  la  critica  dov'era? 

Se  vuoi  veder  la  critica  che  sia 
Guardala  dove  meglio  regna.  Guarda 
Come  all'arte  s'avvinghia,  edera  ghiotta 
Che  uccide  il  tronco  che  la  regge.  Alcuni 
L'arte  ne  fanno  d'adular,  ma  gli  altri 
Quella  di  calunniar,  tutti  poi  quella 
Di  sciorinar  corbellerie  giganti 
A  un  pubblico  di  sciocchi.  Oh,  santa  cosa 
La  critica  è  di  certo  se  ciascuno 
Come  la  Bibbia  a  modo  suo  la  tira! 
Credi  al  Molmenti?  a  Carlo  Raffaello 


15G  GIOBBE. 

Barbiera?  al  Capuana?  0  credi  forse   . 
Al  critico  maggior  di  tutti  i  critici, 
AU'Amostante,  al  gran  Cuccù,  all'  immenso 
De'  critici  Taicùn,  al  Eapisardi? 


ce  Sol  soletto  a  la  gioconda 
Fresca  brezza  del  mattin, 
Trema  un   giunco  su  la  sponda 
D'un  argenteo  ruscellin.  » 

(Questa  strofa  scellerata 
Tra  l'Arcadia  e  il  rococò, 
Non  son  io  che  l'ha  rimata, 
Rapisardi  la  stampò.) 

Trema  il  giunco  quando  sente 
Al  suo  piò  l'onda  passar 
E  si  piega  docilmente 
D'ogni  auretta  a  lo  spirar. 


CANTO   III.  157 


Or  s'abbassa  ed  or  s'innalza, 
Si  rivolta  qua  e  là, 
Si  rannicliia  e  poi  rimbalza, 
Né  un  istante  fermo  sta. 

Era  notte  ed  io  sedevo 
Sulla  sponda  al  rusccllin, 
Aspettando  se  vedevo 
Star  quel  giunco  fermo  allin. 

<r  Su  quell'onda  all'aer  nero 
Un  pietoso  astro  brillò; 
Venne  all'alba  un  capinero 
E  così  così  cantò:  » 

(Questo  è  un  pezzo  troppo  bc>llo 
Per  tacer  chi  '1  concepì. 
È  il  gran  Mario  che  l'uccello 
Fa  cantar  così  così.) 


158  GIOBBE. 


Disse  duuque  l'uccellino: 
—  Giunco,  stanimi  ad  ascoltar: 
Tu  che  in  mezzo  al  ruscellino 
Non  fai  altro  che  piegar, 

Tu  somigli  tale  e  quale 
Alla  critica  del  dì, 
Che  si  volta  al  bene  e  al  male, 
Oggi  al  no,  domani  al  si. 

Tu  somigli  a  Rapisardi 
Ch'oggi  loda  e  doman  no, 
E  scompiscia  presto  o  tardi 
Chi  la  man  non  gli  negò. 


CANTO   III.  .159 

-  Ahimè  —  disse  Baldad  —  mio  Patriarca, 
Hai  perduto  le  staffe  e  vai  cantando 

In  metro  sciocco  le  sciocchezze  altrui! 

Ma  se  nell'arte  fé'  mediocre  prova 

La  critica,  tu  sai  come  si  debba 

A  lei  della  scienza  ogni  progresso. 

Tu  sai  quali  conquiste  a  noi  concesse 

Su  l'inerte  natura.  Oh  medicina, 

Fin  dove  non  giungesti  ?  A  te  la  palma 

Del  progredir  fia  data.  E  non  stupisci, 

Santo  Giobbe,  in  veder  quanta  grandezza 

Oggi  la  salutare  arte  raggiunse? 

-  Grazie,  —  riprese  Giobbe  —  oh,  tante  grazie 
A  l'arte  salutar!  Pria  che  da  Coo 
Ippocrate  scrivesse  i  suoi  trattati, 

Tutti  stavan  più  sani.  Or  son  passate 
Ventitré  giuste  centinaia  d'anni, 
E  i  medici  guarir  non  sanno  ancora 
Una  pi^iìta  o  un  mal  di  denti.  È  vero 
Che  i  bacilli  trovar  nel  sangue  umano 
Da  la  malaria  guasto,  e  i  vibrioni. 
Le  cellule  minute  e  il  protoplasma: 
Ma  come  al  tempo  di  Galen  si  crcpa. 


ICO  GIOBBE. 

Che  importa  a  noi  se  un  magistero  industro 
Di  combinate  lenti  e  di  specchietti 
Ingrandisce  ogni  cosa  e  ci  rivela 
Di  che  mali  moriam?  Meglio  sarebbe 
Le  malattie  guarir  che  andar  cercando 
Le  parvenze  del  mal  nel  ventre  ai  morti. 

0  Mantegazza,  igienico  maestro, 
Lirico  de  la  scienza,  a  che  ti  giova 

1  crani  misurar,  saper  di  quanti 
Millimetri  il  tuo  naso  d'europeo 

È  d'un  naso  zulù  più  stretto  o  lungo, 
Mentre  se  ti  tormenta  un  callo  al  piede 
Tu  non  lo  puoi  guarir?  Che  importa  i  cani 
Vivi  sparar  se  se  ne  impara  solo 
Quanto  l'odio  è  mortai  de  le  beghine 
Fiorentine  ed  inglesi,  a  cui  le  rughe 
Più  non  consenton  dei  lacchè  l'amore  ? 

E  j)ur  l'umana  asinità  di  mille 
Academie  fa  pomjia,  ove  si  sdraia 
La  birberia  volgar  de'ciarlatani. 
La  poesia  che  agl'istrioni  è  madre 
Benigna  tanto,  vergognossi  pure 
De  le  Academie  sue,  de  le  sue  mille 


CANTO    III.  161 

E  ridicole  Arcadie.  Era  destino 
Che  le  sciocchezze  dei  poeti  avessero 
Eredi  quelli  che  la  poesia 
Stiman  arte  ridicola  ed  inane! 
Quante  mediche  Arcadie,  ove  imbecilli 
Cavadenti  si  trattan  di  chiarissimi, 
E  tra  gl'incensi  mutui  fan  pompa 
De  la  lor  vanità  che  par  persona  ! 
Quante  Memorie  sopra  un  patereccio 
Mal  guarito  !  Che  Note  profondissime 
Per  dimostrare  che  i  purganti  in  genere 
Han  virtù  purgativa,  e  render  chiara 
L'influenza  civil  dei  lavativi! 

E  pur  c'è  chi  ci  crede!  Hanno  trovato 
I  bacilli  nel  sangue,  io  non  lo  nego, 
Ma  più  imbecilli  hanno  trovato  ancora. 

Oh,  le  Academie  !  La  commedia  disse, 
Le  Academie  si  fanno  o  non  si  ftmno, 
E  sbagliò,  che  pur  troppo  se  ne  fanno 
Ogni  giorno  di  nuove,  e  delle  vecchie 
Non  ne  crepa  nessuna.  Ecco  i  Lincei 
A  vicenda  grattarsi  !  0,  della  triste 

11 


162 


Academia  francese  inutil  copia 

Chi  de'tuoi  calvi  e  piccioletti  soft 

Osa  occupar  di  Galileo  la  scranna  1 

Dov'è  la  gloria  de'tuoi  primi,  e  il  forte 

Amor  di  verità  che  li  movea 

A  interrogare  il  ciel  sotto  i  grifagni 

Occhi  del  Bellarmino  ?  Invan  di  croci 

Questi  son  carchi  e  di  salari  ;   invano 

Pontifica  tra  lor  Sella,  e  l'augusta 

Gentilezza  regal  sfida  la  noia 

D'una  eterna  seduta.  Avanti  sempre 

Pe' radiosi  tramiti  del  vero 

Procede  l'uom  cui  l'ale  impenna  al  dorso 

La  santa  Libertà  ;  procede  a  novi 

Mondi,  a  vittorie  nove....  e  voi  che  fate 

Piccioletti  Lincei,  disputatori 

Di  strani  cocci  e  d'orinali  anticlii? 

Dormite  al  suon  de  le  discorse  vostre. 


CANTO    III.  1G3 

Già  il  Patiiiirca  la  dolente  voce 
Cheta  ancor  non  avea,  che  in  alto  udissi, 
In  alto,  un  inno  risonar.  Fu  questo. 


Voce  dai  manico.^ii- 


Giobbe,  che  prova  vuoi 
Migliore  a  giudicar  la  medicina 
Della  schifosa  lue  che  t'assassina, 
De'  guidaleschi  tuoi  ? 
Da  Roma,  da  Bologna, 
Da  Padova,  da  Pisa  e  da  Torino, 
Chiama  gl'illustri  a  veder  da  vicino 
Cotesta  tua  carogna, 
E  se  i  lor  maledetti  beveroni 
Ti  guariranno,  chiamaci  bufi'oni. 


164  GIOBBE. 


Ci  dicon  sventurati, 
Dicon  clie  abbiamo  un  baco  nel  cervello, 
E  con  tal  scusa  a  doppio  chiavistello 
Ci  tengono  serrati. 
Ma  chi  ci  guarda  poi? 
Certi  babbei  che  van  per  la  maggiore, 
Certi  dottor  che  sono,  sissignore, 
Matti  peggio  di  noi. 
Qualcun  dei  nostri  risanar  vedrai. 
Ma  quei  signori  non  guariscon  mai. 

Ci  danno  a  goccia  a  goccia 
Oppio,  bromuro  ed  altre  porcherie, 
Studiano  sopra  noi  le  teorie 
E  ci  danno  la  doccia. 
Poi,  se  il  dolor  ci  sforza 
A  gridare  ed  a  jierder  la  pazienza, 
Ci  sentiamo  ordinar  per  penitenza, 
La  camicia  di  forza, 

E  buon  per  noi  se  un  infermier  birbone 
Non  ci  spiana  la  gobba  col  bastone. 


CANTO    III.  165 


Eppur  questi  dottori 

Son  gli  stessi  periti  criminali 

Che  vanno  tuttodì  pei  tribunali 

A  far  da  professori, 

E  colla  sicumera 

Delle  parole  più  straordinarie, 

Nevrosi  almanaccando  ereditarie, 

Salvan  da  la  galera, 

Per  poco  che  il  giurato  in  lor  si  fidi, 

I  ladri,  gli  assassini  e  1  parricidi. 

0  sublime  Lombroso, 

I  galeotti  sono  pur  canaglia 

Che  non  t'hanno  coniato  una  medaglia  ! 

Ma  non  di  men  famoso 

Meritamente  vai 

Per  tutti  i  bagni  ch'ogni  giorno  illustri, 

Sogno  d'invidia  a' tuoi  compagni  industri 

Pei  guadagni  che  fai. 

Per  le  cause  chiassose,  ed  i  felici 

Libri  die  scrivi  e  le  bugie  che  dici. 


166"  GIOBBE. 


O  Patriarca,  vuoi 

Sapere  alfìn  dov'è  la  scienza  vera, 

E  la  filosofia  la  più  sincera  ? 

Te  lo  diremo  noi! 

No,  la  scienza  presente 

Nell'Università  panciuta  e   grave 

Più  non  sta,  ma  con  noi,  qui,  sotto  chiave. 

Credilo,  inutilmente 

Vendon  le  Facoltà  tanti  diplomi.... 

Sta  la  Filosofia  ne'  Manicomi. 


CANTO    QUARTO 

SOPHAE. 

Sophar  Xaamaniles  dixit: 

Hoc  scio  a  principio.... 

Quod  laus  impiorum  brevis  sit  et  gaudium   hijpocritae  ad  imtar 

pandi 

Job.  XX.  1.  4.  5. 


ARGOMENTO. 

Mattino  —  Sophai-  Naaraanita  invita  Giobbe  a  cercare  conforti 
nella  letteratura  —  Parole  di  Giobbe  —  Voce  dai  Licei  — 
Voce  dai  Ginnasi  —  Voce  dagli  Asili  —  Rimedio  del  roman- 
ticismo —   I  metri  difficili  —    Rimedio    cattolico  —   educativo 

—  patriottico  —  I  poeti  romani  —  Coro  di  ciociari  —  Un 
Grande  che  rimane  —  I  poeti  lombardi  —  I  poeti   piemontesi 

—  Medio  Evo  —  I  poeti  toscani  e  bolognesi  —  I  poeti  meri- 
dionali —  Gli  storici,  gli  eruditi  e  i  filologi  —  I  dantofili  — 
Parla  Dante  —  Gli  educatori  —  Le  scrittrici  —  Il  teatro  —  I 

prosatori  —  Sophar  prende  la  parola. 


CANTO  IV.  169 


Poiché  tacqiier  le  voci,  in  lungo  anch'essi 
Silenzio  assorti,  stettero  i  tre  saggi 
E  il  Patriarca. 

Si  levava  il  sole 
De  l'Eufrate  al  di  là,  di  là  dai  monti 
D'Elam  azzurri.  Oh,  del  mattino  amica 
Ora,  quanto  sei  bella!  Un  aura  molle, 
Piena  di  freschi  odor,  movea  le  brune 
Chiome  de  l'alte  palme  e  dai  fioriti 
Cespugli  e  da' rosai  rapidamente 
Si  lanciavan  gli  augei  verso  il  turchino 
Firmamento  cantando.  A  poco  a  poco, 


170  GIOBBE. 

La  città  si  destava  e  un  mormorio 
Lungo  e  profondo  di  lontane  voci 
Dalle  mura  salìa,  misto  ai  rumori 
Delle  industri  officine  e  delle  incudi 
Dai  martelli  percosse  e  delle  grida 
De'  mercati.  La  vita  al  nuovo  giorno 
Redìa  nel  mondo  dei  viventi,  e  novo 
Desìo  di  ragionar  persuadeva 
Ai  saggi  e  novi  al  Patriarca  afiiinni 
Seco  portava. 

Sopliar  Naamanita 
Che  per  due  giorni  avea  taciuto,  ruppe 
Il  sapiente  silenzio.  Era  costui 
Letterato  e  poeta,  e  più  volumi 
Di  ben  laudate  liriche  composti 
Avea,  col  bravo  titolo  in  latino. 
Ne'  giornali  scrivea  bibliografie 
Critiche,  dove  malmenava  tutti 
E  sé  stesso  lodava:  onde  tenuto 
Era  il  sommo  poeta  dei  Caldei. 

fi  Giobbe,  —  così  Sophar  parlò  —  vedesti 
L'inanità  della  filosofia 
E  l'inutilità  della  politica, 


CANTO    IV.  171 

Tal  elle  già  sei  convinto  e  persuaso 

Che  conforto  al  tuo  mal  non  posson  darti. 

Ma  poi  ch'io  veggo  che  tu  pur  di  versi 

Non  sei  digiuno  e  le  bellezze  intondi 

Degli  accenti,  dei  metri  e  della  rima, 

Lascia  ch'io  tenti  di  persuaderti 

A  cercare  un  conforto,  una  speranza, 

Nella  letteratura.  A  te  son  note 

Di  Ciceron  le  belle  frasi:  Haec  studia 

Adolescentiam  alimi,  ei  ci  disse, 

ISenectutem  delectant,  nientemeno! 

Con  quel  che  segue;  e  l'orator  d'Arpino 

Non  può  aver  torto.  Avrai  provato  sjxisso 

Le  possenti  virtù  di  certi  libri. 

Spesso  la  noia  e  la  malinconia, 

L'insonnia  spesso,  ti  stan  sopra.  Alloia 

Tu  prendi  un  libro,  un  romanzo,  un  poema. 

Un  Giobbe,  e  leggi!...  Oh  voluttà!  Pei  nervi 

Irritati  e  vibranti  un  dolce  passa 

Senso  di  calma  clie  discende  al  core. 

Si  rallentano  i  muscoli,  una  molle 

Bonaccia  a  le  tempeste  del  cervello 

Succede,  e  spesso  sovra  gli  occhi  scende 

Il  bciicfico  sonno.  Oh,  quanti  e  dolci 


172  GIOBBE. 

Sono  i  conforti  che  agli  afflitti  arreca 
Questa  figlia  di  Dio,  letteratura  !  » 

—  Sarà  —  Giobbe  rispose  —  io  non  lo  nego, 
Anzi  t'accordo  che  all'insonnia  spesso 
Griovino  certi  libri.  Ma  d'altronde 
Ti  confesso  però,  Naamanita, 
Che  molte  volte  inducono  nell'alma 
Una  melanconia  leopardiana, 
Un'amarezza,  un  tedio  della  vita, 
Che  consolar  non  giova.  Oggi  i  poeti 
Non  trovan  nulla  a-  modo  lor.  Le  donne 
Son  tutte  traditrici  oppur  bagascie. 
Gli  uomini  ladri,  scellerati  e  peggio, 
E  non  si  stampa  un  povero  sonetto 
Dove  non  sia  provato  che  non  vale 
La  pena  d'esser  nati  a  questa  vita 
Dolorosa  e  sciupata.  Infìn  dai  banchi 
De  le  scolette  la  malinconia 
Attossica  i  poeti  e  tu  mi  dici 
Che  consolar  mi  può  la  poesia  ! 


CANTO    IV.  173 


Voce  dai  licei. 


S'oscura  Ausonia  il  tuo  cielo,  ed  il  mite 

Eaggio  del  tuo  bel  sole; 
Cessa  l'Autunno  d'indorar  la  vite, 

L'aprii  non  ha  viole. 

La  nebbia  o  la  malaria  ornai  t'ingombra 

Dai  faggi  agli  aranceti, 
Ma  noi  perduti  nel  fango  e  nell'ombra 

Siamo  tutti  poeti. 

E  chi  al  mattino  cantò  :  a  Benedetto 
Sia  Cristo  in  Sacramento!  » 

Dopo  pranzo  declama:  <r  A  me  un  berretto 
Frigio,  ch'oggi  mi  sento 


174  GIOBBE. 


Di  rinnovare  il  popolo  latino 

E  Bruto  sottomano  : 
Ira  dateci  e  canti  e  molto  vino... 

Viva  il  mondo  jiagano  !  » 

Un  altro  canta:  «  Poi  che  il  Padre  Eterno 

M'iia  negato  un  milione, 
Cantiam  l'ovgie  dell'utero  materno, 

Le  ragazze,  il  lenone, 

E  il  vin  elio  non  si  beve  e  le  marchese 

Che  si  finge  d'amare. 
La  noia  femmiuil  che  segna  il  mese.... 

Cantiam  pur  di  cantare.  » 

a  Ecco  —  vocia  la  turba  —  ecco  di  fronte 

L'ideai  col  reale  ! 
Su,  fuori  i  lumi,  abbasso  Senofonte, 

E  il  corso  liceale!  » 


CANTO   IV.  175 


Satto  gli  occhiali  dell'Arcadia  mite 

Sorridono  i  vecchietti. 
Viva  l'antonomasia  ed  il  sorite, 

Zefiro  e  i  ruscelletti. 

Sotto  al  riso  divin  del  nostro  cielo 

L'Arcadia  è  rifiorita. 
I  ragazzi  che  han  messo  il  primo  pelo 

Son  stanchi  delia  vita. 


176  GIOBBE. 


Voce  dai  ginnasi. 


Ogni  vigor  di  vita  in  noi  vien  manco, 
E  il  giovinetto  fianco 
Nel  tedio  ognun  di  noi  vinto  abbandona! 
Là  nel  funereo  piano 
Poserem  la  tristissima  persona. 
Come  lieta  sarà  l'ora  di  morte 
A  noi  che  staTichi  del  fragor  mondano 
Malediciam  la  sorte  ! 

Sia  trista  l'ora,  o  genitori  ingrati, 
Che  cedeste  abbracciati 
A  le  bugiarde  illecebre  d'amore, 
Di  quanto  pentimento 
A  voi  fonte,  ed  a  noi  di  che  dolore! 
Sia  così  maledetto  il  sen  materno 
Che  degli  esami  ci  crebbe  al  tormento, 
Maledetto  in  eterno  ! 


CANTO    IV.  Itt 

Sui  mari  e '1  pian,  sui  monti  lusingluova 
Torna  la  primavera, 

Tornano  i  fiori  al  prato,  al  ciel  gli  augelli, 
E  dai  colli  ridenti 
Precipitando  cantano  i  ruscelli  ; 
Luminoso  è  il  mattin,  molle  la  sera, 
Recano  intorno  i  lor  profumi  i  venti... 
Ecco  la  primavera! 

Ma  freddo  è  il  nostro  cor,  freddo  in  un  verno 
Eigido  e  sempiterno, 
E  la  vita  per  noi  non  ha  che  aflFanni.  — 
A  noi  che  amammo  tanto 
E  Siam  stanchi  del  mondo  a  dodici  anni, 
Vano  è  il  sorriso  di  gentil  fanciulla!... 
Sol  nel  sepolcro  cesserem  dal  pianto. 
Riposerem  nel  Nulla! 


178  GHOBBE. 


Voce  dagli  asili. 


Da  elle  fuggì  l'amore 

Non  trovò  più  conforto 

Il  nostro  arido  core, 

E  il  suo  palpito  è  morto! 

Nei  teneri  cervelli 

Muor  l'ultimo  pensiero... 
Aprite  nuovi  avelli 
Nel  triste  cimitero! 

Causa  del  nostro  pianto, 

Tu  pur  sei  morta,  o  Speme  ! 
Andiamo  al  Camposanto 
A  riposare  insieme  ! 


CANTO    IV.  179 

-  Poveri  sciagurati  !  —  il  Patriarca 
Esclamò  spaventato  —  E  chi  di  sciocche 
Idee  li  rimpinzò,  così  che  il  latte 
Hanno  dimenticato  ed  il  lattime 
Che  ancor  fiorisce  sulle  ingenue  zucche? 
Sono  stanchi  del  mondo?  0  che  ne  han  visto 
Loro  dai  banchi  de  la  scola,  dove 
Portano  ancor  le  brache  fesse  e  pendalo 
Di  camicia  non  bianca  un  lungo  lembo  ? 
Poveri  bimbi  !  Essi  credono  ancora 
Che  si  distinguan  gli  uomini  e  le  donne 
Dalle  sottane  e  dalle  brache  solo, 
E  son  già  sazi  dell'amor  !  Non  era 
Questo  a'  miei  tempi  do'  bambini  il  vezzo. 
Si  giocava  a  buchette  o  a  mosca  cieca, 
Si  rubavan  le  chicche  e  qualche  volta 
Si  ricevean  le  sculacciate.  Appena 
Qualche  barlume  a  noi  di  poesia 
Del  Fusinato  discendea  coi  versi 
Mestamente  romantici.  Ricordo, 
Che  l'imitavo  allor.  Sophar,  m'ascolta. 


180  GIOBI',E. 


Sotto  il  raggio  della  luna, 
Per  un  tacito  sentier, 
Una  scliiera  bruna  bruna 
Reca  un  morto  al  cimiter. 

Sovra  un  panno  tetro  tetro, 
Cinto  il  crin  di  vaghi  fior, 
Dorme  Estella  sul  feretro, 
Dorme  uccisa  dall'amor. 

Quando  Ugon  vestì  la  maglia 
E  a  combatter  se  ne  andò, 
Tra  il  rumor  de  la  battaglia 
Un  nemico  l'ammazzò. 

Mentre  un  dì  pregava  Estella 
La  gran  Madre  del  Signor, 
Gliene  giunse  la  novella 
E  morì  di  crepacuor. 


CANTO   IV.  181 


0  fiinciulle  lusinghiere 
Clie  ascoltate  il  trovator, 
Non  amate  un  cavaliere, 
Fosse  pur  coiumendator, 

Perchè  al  raggio  della  luna, 
Per  un  tacito  sentier. 
Una  schiera  bruna  bruna 
Reca  Estella  al  cimiter  ! 


Oh  benedetto,  Sophar  mio,  l'ameno 
Romanticismo  de'  verd'  anni  miei! 
Che  belle  idee!  Che  metri!  Ahimè,  che  cosa 
Sono  al  confronto  quei  versacci  orrendi 
Che  giustamente  barbari  son  detti  ? 
Ricordi  tu  ^  a  Va  per  la  selva  bruna 
Solingo  il  Trovatore  »  =  Sopra  quel  ritmo 
Quante  romanze  anch'io  scrissi,  al  soave 
Lume  di  luna,  vaneggiando  elmetti 
Dame,  liuti,  brocchieri,  tornei 
E  turchi  del  color  di  cioccolata  ! 


182  GIOBBE. 


Triste,  di  lito  in  lito, 
Orbo  d'argento  e  d'or, 
Chiuso  nel  suo  dolor 

Va  l'ammonito. 
Ahi,  che  in  un'  ora  trista, 
Spinto  dal  reo  destin, 
Rubava  il  moccichin 

D'un  farmacista! 
Invano  ha  protestato 
Che  non  pensava  a  mal  : 
Il  sordo  tribunal 

L'ha  condannato. 
L'han  messo  in  una  strana 
Carrozza  cellular, 
Lo  vogliono  portar 

A  Favignana. 
Così  di  lito  in  lito, 
Oibo  d'argento  e  d'or, 
Chiuso  nel  suo  dolor 

Va  l'ammonito  ! 


CANTO    IV.  183 

Questi  son  metri!  La  sonora  rima 
Ne  la  sua  maestà  le  mende  vela 
De  l'argomento.  A  che  tesser  sudate 
Strofe  a  la  greca,  rinnegando  il  gusto 
Dell'Evo  medio  cui  la  rima  piacque? 
Ed  anzi,  a  clie  cercar  di  strane  rime 
E  di  versi  bisbetici  un  garbuglio 
Per  parer  stravaganti  e  come  Boito 
Infilar  versi  strambi  come  questi? 


Se  tu  chiedi 
Rime  strane 
Di  due  piedi 
Tronche  o  piane, 
Non  si  scusa 
L'usa 
Musa, 
E 
Te 
Ne 
Dà. 


i84  Giounii, 

L'arte  fina 
Stava  ascosa 
Nella  China 
Portentosa, 
Ma  trovata 
Grata, 
Data 
Più 
Su 
Fu 
Già. 

Solo  Giobbe 
Di  quest'arto 
Riconobbe 
Ogni  parte. 
Voi  che  udite, 
Dite, 
Dite, 
Chi 
Va 
Di 
Là? 


CANTO    IV.  185 

Rime  balzane!  Eppur  sou  rime  aueU'esse! 
Povera  poesia,  quante  nel  seno 
Omai  storile  tuo  son  da  recarsi 
Nove  riforme  ritornando  al  vecchio  ! 
Gemono  i  pargoletti  in  versi  lunga- 
mente dolenti  le  sventure  loro, 
I  geloni  ed  i  bachi!  Udisti  il  pianto 
Senza  conforto  de'  bambocci  sazi 
Del  viver  prima  ancor  d'aver  vissuto! 
Ma  i  babbi  lor  che  fanno?  A' tempi  mici 
Che  scappellotti  sarebber  piovuti  ! 
Mancano  i  pedagoghi  in  poesia, 
Che  un  giovinastro  baccellon   non  j)ossa 
Imparare  a  rimar  quattro   scioccluizze 
Senza  pianger  da  burla  o  senza  dire 
Vituperi  alle  donne?  Eppur  ci  sono 
Casti  poeti  ancor  su  questa  terra  ; 
Casti  di  forma  e  di  sostanza.  Vive 
Qualche  prete  quaggiù  che  canta  bene 
In  canto  fermo.  Imparino  da  lui. 


186  GIOBBE. 

La  vita  dei  giovani 
Cessò  d'esser  bella, 
Ma  c'è  per  correggerla 
L'abate  Zanella 
Coi  nimbi,  cogli  angeli, 
Con  tutti  i  trovati 
Dei  preti  spretati. 

Di  nenie  britanniche, 
Di  sacro  concime, 
Di  baie  scientifiche 
Gonfiando  le  rime, 
Largisce  ai  proseliti 
Del  proprio  Vangelo 
Papaveri  in  gelo. 

Ai  cento  Lampertico 
Del  veneto  suolo 
Gettò  sovr'al  talamo 
Di  versi  un  lenzuolo  j 
Pudica  abitudine 
Che  piace  alla  sposa, 
Ma  molto  noiosa. 


CANTO   IV.  187 


E  solo  in  lui  trovasi 
La  santa  pienezza 
Dei  dogmi  cattolici 
Derisi  dal  Trezza. 
Al  mondo  ed  a  Satana 
Che  sacre  pedate 
Disferra  l'abate! 

Tornate  a  Don  Giacomo, 
Ragazzi  sciupati, 
E  sotto  la  ferula 
Sarete  beati. 
Si  vive  lietissimi 
La  vita  dei  ciuchi 
Facendosi  eunuchi. 


188  GIOBBE. 

Sembra  che  parli  lui,  con  quei  senari 
Saltellanti,  affannosi  ed  antipatici! 
II  Eizzi  almeno  scrive  meglio,  e  salvo 
Quella  sdolcinatura  manzoniana 
Che  affligge  tutti  i  fedeli  seguaci 
Del  gran  Lombardo,  lavora  i  sonetti 
Per  bene.  Nocque  a  lui  chiudersi  stretto 
In  una  scuola  senza  luce  ed  aria, 
Che  se  fortuna  gli  avesse  concesso 
Pari  all'animo  i  doni,  egli  sarebbe 
Forse  primo  tra  i  primi.  Invece  appena 
Produce  pochi  sonetti  in  un  anno, 
Caro  a  chi  lo  conosce  da  vicino. 
Satirizzato  a  torto  da  chi  vide, 
a  Come  falso  veder  bestia  quand'ombra,  » 
Un  nemico  implacabile  nel  mite 
Suo  genio.  Ascolta  un  suo  sonetto  inedito. 


CANTO   IV.  189 


0  colombelle  bianche  come  neve 
Che  vi  posate  sovra  il  tetto  i^iio, 
Pure  siccome  gli  angeli  di  Dio 
0  della  Scuola  Siiperior  le  allieve, 

Bianche  colombe,  deh,  non  vi  sia  greve 
Far  pienamente  pago  il  mio  desio 
Ed  a  me  rivelar  qual  culto  pio 
A  questa  vostra  purità  si  deve. 

Deh,  colombelle  mie,  perchè  tubate 
Rincorrendovi  a  coppie  sovra  i  tetti? 
Per  carità,  per  carità,  non  fate  ! 

Basta,  basta,  lascivi  animaletti! 
Basta,  colombe!...  Voi  siete  passate 
Di  certo  sul  giardiii  dello  Stecchetti. 


190  GIOBBE. 

Mancano  dunque,  mancano  i  poeti 
Che  possan  dare  ai  giovanetti  un  filo 
Nel  labirinto  della  Poesia 
Moderna?  Deh,  perchè  seguir  Carducci, 
Vituperando  la  patria  comune 
E  chiamandola  vile  in  duri  versi. 
Mentre  v'ha  pur  chi  di  mertate  laudi 
A  lei  porge  l'incenso  in  dolci  carmi 
Dove  la  melodia  regna  e  governa  ì 
Vìen  da  l'eterna  Roma  un  suon  di  voci 
Innocenti  che  cantan  la  canzone 
Del  Placidi.  Porgete,  itale  Muse, 
L'orecchio  al  suon  del  patrio  verso.  Udite. 


CANTO   IV.  191 


Viva  Umberto,  il  nostro  Rege 
Per  la  cui  virtù  preclara 
Sortì  Roma  dalla  bara, 
E  l'impero  della  lege 
Sovra  noi  stende  l'imper. 

Viva,  viva  Margherita, 
Prediletta  sua  consorte, 
Benefizio  della  sorte 
Che  lodiam  con  voce  unita 
Al  mattino  ed  alla  ser. 

Ecco  scoppiano  i  foclietti 
Che  festeggian  lo  Statuto  ! 
Niun  di  noi  rimanga  muto 
Ma  cantiamo,  o  fanciulletti, 
La  mia  bella  canzoncin. 

Benedetto  sia  il  destino 
Che  fé'  libera  l'Italia 
Dall'oltralpica  canalia  ! 
Viva,  viva  il  principino, 
Viva  Umberto  e  la  Rcgin! 


192  GIOBBE. 

Mancan  diinqiie  poeti  ai  giovinetti 
Quando  la  bella  ancor  Scuola  Romana 
Vegeta,  e  madre  generosa  accoglie 
Tra  le  classiche  braccia  i  peregrini 
Che  d'ogni  parte  a  lei  piovono  in  seno'? 

Di  là  dal  Foro,  nel  chiaror  velato 
Che  piove  da  le  stelle  a  tarda  notte, 
Nereggia  immensa  una  mina,  il  Circo 
De'  Flavi.  Lungo  i  muti  intercolonni 
Da  l'eriche  vestiti,  un  soffio  passa 
Come  fremito  d'ala.  Oh,  siete  voi 
Antichi  spirti  che  tornate  al  mondo 
A  veder  l'opre  de'  nepoti  ?  È  forse 
Quest'aura  mossa  dal  mite  fantasma 
Del  Mantovano,  ovver  la  bianca  toga 
Passa  d'Orazio  epicureo  pei  cupi 
Vomitori,  cercaudo  il  podio  sacro 
Dove  le  sacre  Vergini  di  Vesta 
Sedean  ne' veli  avvolte?  Oh  non  vedeste. 
Ombre  divine,  per  l'arena  urlando 
Saltar  le  tigri  e  sbranar  de'  cristiani 
Lo  carni  palpitanti  !  Oh  non  vedeste, 
Voi  morti  al  tempo  del  divino  Augusto, 


CAXTO   IV.  193 

Germogliar  da  quel  sangue  un  età  nova 
E  la  nostra  viltà!  Siam  Galilei 
Dove  voi  foste  cittaclin  Eomani, 
Soffrire  e  perdonar  la  nova  legge 
Ci  comanda.  Di  là  dal  biondo  fiume 
Non  vedete  salir  fino  alle  stelle 
Il  cacume  d'un  tempio?  Il  novo  Dio 
Ivi  d'oro  e  di  preci  un  culto  accoglie, 
Il  novo  Dio  che  rovesciò  gli  altari 
Degl'indigeti  Numi!  A  l'ombra  nera 
Del  tempio  immenso,  fabbrica  gl'inganni 
E  tesse  i  lacci  ai  malaccorti  un  cupo 
Sacerdote,  che  d'oro  avido,  sogna 
La  tiara  infame  ed  il  cruento  regno 
De'  Medici  e  de'  Borgia.  Un  dì,  riscossa 
Questa  Italia  dal  sonno,  al  capo  imbelle 
Del  suo  predecessor  levò  la  mano, 
Gli  strappò  la  corona  e  gliela  infranse 
Tra  gli  occhi.  Da  quel  dì  la  lunga  guerra 
Divampò  più  feroce  e  alla  vendetta 
Nostra  mancan  omai  pur  troppo  i  forti. 
E   pochi  sono  ad  animar  le  schiere 
Gli  aspettati  Tirtei.  Veglia  il  nemico 
Dal  Valicano  e  noi  lenti  in  Senato 


194  GIOBBE. 

Sofistichiam  quando  Sagunto  cade. 
0  poeti  di  Eoma,  il  vostro  carme 
Dov'è?  Clii  mai  può  de  le  glorie  antiche 
Vantarsi  erede"?  Tra  i  ruderi  immani 
Del  i)auroso  Colosseo,  la  notte 
Passan  l'ombre  de'  grandi  e  de'  poeti, 
Mentre  a  vergogna  nostra  a  pie  del  clivo 
Capitolin,  gonfiando  la  zampogna, 
Ballano  intorno  e  cantano  i  ciociari. 


CANTO   IV.  lOÓ 


Canto  di  ciociari. 


Noi  Siam  venuti  ad  alternar  coi  canti 
I  lieti  balli,  poiché  il  ciel  s'imbruna, 
Tra  l'erme  torri  e  i  colonnati  infranti 
Scesi  dal  monte  al  lume  della  luna. 

Ecco  di  squille  un  tremulo  concento 
Dal  Lateran  saluta  il  dì  che  muore. 
Dolce  è  la  sera  e  mena  intorno  il  vento 
Di  mille  fiori  un  indistinto  odore. 

Voi  che  i  sepolcri  antichi,  i  templi  e  l'are 
Interrogate,  postumi  profeti, 
Voi  cui  la  notte  ed  il  sonante  mare 
E  il  ciel  confìdan  tutti  i  lor  segreti, 

Cile  non  venite  a  queste  fosche  mura 
L'eco  a  destar  dai  minati  marmi? 
Parlano  qui  la  storia  e  la  natura, 
E  le  stelle  dal  ciel  dettano  i  carmi. 


196  GIOBBE. 

Piangi,  alma  Roma  !  —  Degli  antichi  vati, 
De'  cantor  più  che  umani  è  il  seme  spento. 
I  tuoi  poeti  ora  cantan  sdraiati 
Nel  piccolo  Caffè  del  Parlamento. 

Vedi  tu  là  quel  che  la  chioma  nera 
Sospirando  accarezza  leggermente  "? 
De  la  temuta  Erinni  petroliera 
Amante  un  dì  lo  conoscemmo  ardente 

Ed  oggi,  come  pallido  giacinto 

Che  il  turbine  schiantò,  mesto  riposa, 
E  va  così  di  nova  fede  cinto 
Cantando  versi  che  son  vera  prosa. 

Udiam  —  Comincia  distendendo  il  braccio: 
ff  Io  m'alzo  la  mattina  di  buon'ora, 
«  Mi  lavo  il  viso  ed  al  bai  con  m'affiiccio, 
ff  Veggo  i  monti  che  il  sol  d'auro  colora.  » 

Qui  posa  un  poco,  poi  guardando  in  giro  : 
a  Mi  stropiccio  le  mani  allegramente, 
a  Empio  la  pipa,  la  prim'aura  spiro 
«  A  dujilici  polmoni  avidamente.  » 


CANTO    IV.  197 

Plaudono  iutanto  i  facili  scolari 
Venuti  al  Parlamento  in  turba  fitta 
Col  bardo  che  trasfuse  i  lìcfrattari 
Del  Vallés  negli  Eroi  della  Soffitta. 

Questi  col  capo  accenna  e  l'odorata 
Ambrosia  piove  da  la  bruna  chioma. 
Freme  convulsa  allor  la  fortunata 
Schiera  ascoltando  il  tuo  poeta,  o  Roma. 

Ei  balza  in  piedi  e  sovra  i  capi  appare 
Dei  seduti  d'un  dito  aj^pena  appena  j 
Indi  de'carmi  suoi  prende  a  versare 
L'inzuccherata  inesauribil  vena. 

a  In  mezzo  a  un  gregge  eternamente  privo 
a  De  la  luce  immortai  de  l'intelletto, 
a  Miseramente,  in  mezzo  a  un  gregge  vivo, 
oc  Senza  gloria,  senz'arte  e  senza  affetto. 

E  via  continua  in  questo  offese  ai  lieti 
Figli  d'Apollo  che  gli  corron  dietro, 
Alzando  canti  e  incensi  come  1  preti 
Usano  al  successor  del  sommo  Pietro. 


198  GIOBBE. 

E  che  direm  di  Fabio  Nannarelli 
Che  si  pon  quinto  tra  i  romani  vati  ? 
E  che  diremo  d'Ettore  Novelli 
Coi  suoi  versi  cromati  e  biscromatì  'ì 

Deh,  basti  a  Fabio  l'encomio  lunatico 
Di  Paolo  Emilio  Castagnola,  ah  basti  !  — 
Sul  traditore  di  Museo  Grammatico, 
Dai  concettini  attillatuzzi  e  casti, 

Getti  ben  altra  laude  il  Bersagliere, 

Che  su  Virgilio  e  sovra  Enotrio  il  pone 

Nelle  sgrammaticate  tiritere 

Patte  ad  imagin  del  suo  buon  padrone. 

Eoma  piange  perchè  mira  —  e  ne  geme  — 
Monaci  Ernesto  colle  sue  pretese 
D'esser  linguista,  ei  che  confonde  insieme 
Col  veneto  dialetto,  il  ferrarese. 

Piange  che  il  solo  a  cui  largì  la  sorte 
La  sacra  fiamma,  le  si  fa  infedele.... 
Povero  Gnoli  condannato  a  morte 
Nel  caos  de  la  Vittorio  Emanuele! 


CANTO    IV.  199 

Deb,  chi  consola  de  la  Musa  i  crucci 
Poiché  il  Governo  le  ha  rubato  il  Gnoli? 
Le  frasche  forse  del  vuoto  Narducci 
0  le  prolissità  del  Giovagnoli  ? 

0  i  sonetti  del  Eevere  più  duri 
De  la  carne  di  bufola  senile, 
Pieni  di  zeppe  e  di  viluppi  oscuri, 
Dove  di  qua  e  di  là  schizza  la  bile? 

È  ver  che  a  Eoma  venne  il  gran  Coppino 
Di  cui  prima  nessun  faceva  motto; 
Ma,  dopo  il  Minister,  parve  divino 
Nel  suonare  il  trombon  del  quarantotto. 

C'è  il  Massarani  co' sermoni  suoi 
Pregni  dell'oppio  dell'Antologia.... 
De' poeti  ce  n'è  quanti  ne  vuoi, 
Ma  son  di  quelli  che  fan  scappar  via. 

Ahi  che  ti  giova,  o  Roma,  il  saper  quanti 
Sono  i  mediocri  che  ti  die'  fortuna  ì 
Torniamo  ai  nostri  balli,  ai  nostri  canti, 
Innamorati  de  la  bianca  luna, 


200  GIOIiUE. 

Mentre  dal  Lateran  dolce  un  lamento 
Di  campane  saluta  il  dì  che  muore 
E  tutto  intorno  va  recando  il  vento 
Di  mille  fiori  un  indistinto  odore. 


Giobbe  parlava  ancor  che  il  Naamanita, 
Dimenando  le  lacche  in  sul  letame 
Siccome  quei  che  d'impazienza  è  preso, 
Dava  già  segno  di  voler  parlare, 
Quando  una  voce  misera  e  nasale 
Qual  di  prete  che  miagoli  la  messa, 
Lentamente  suonò  dal  ciel  sereno: 


RUGIT   LEO 

a  Fiancute  Nohis  boni  CathoUci, plaudite  Nobis 
Eugit  Leofortis,  cìocis  iiidutus  adhuc. 

Cui  macaroiiica  regna  cretini  donarunt 
Cantare  decet  Carmen  niacaronicum.  » 


CANTO    IV.  201 

I  tre  saggi  con  Giobbe,  una  risata 
Sonorissima  dier.  Ma  il  Naamanita, 
Dopo  riso  cogli  altri  un  quarto  d'ora, 
—  0  Patriarca,  il  mal  che  ti  divora 
La  carne  e  l'ossa  —  disse  finalmente  — 
Ti  rabbuia  il  giudizio  e  d'atrabile 
Te  lo  intorbida.  Dunque  a  tuo  parere 
Nessun  poeta  è  in  Roma  ! 

—  Naamanita 
Questo  non  dissi  già  —  riprese  Giobbe  — 
Che  avrei  detto  bugia.  Ve  n'iia  sol  uno, 
Vecchio  pur  troppo,  ma  giovane  sempre 
Dell'intelletto;  ma  non  è  romano. 
Vive  il  cantor  d'Edmenegarda  e  canta: 


202  GIOBBE. 

Ahi  che  s'appressa  l'ultimo 
Giorno  del  viver  mio, 
Che  le  mie  chiome  imbiancano 
E  mi  ricordo  Iddio  ! 
Un  nuovo  gel  mi  serra 
Il  core  antico,  e  squallida 
Mi  pare  omai  la  terra. 

0  mia  diletta  patria 
Che  senza  fine  amai, 
0  madre  mia  dolcissima, 
Che  piansi  e  che  cantai, 
Chino  le  bianche  chiome 
Sul  sen  materno,  e  sembrami 
Che  non  morrà  il  mio  nome. 

Ne'  miei  pensier  che  trepido. 
Diffuso  aere  sereno  ! 
Che  piena,  indefinibile 
Onda  di  vita  al  seno  ! 
Sugli  occhi  miei  che  presto 
Ire  e  redir  d'immagini!... 
Io  son  poeta  e  resto. 


CAKTO  IV.  803 


Io  resto  ne  le  memori 
Pagine  della  storia, 
E  tra  color  non  ultimo 
Che  incoronò  la  gloria. 
Vivrò,  madre  mia  bella, 
Fin  che  il  parlar  degli  angeli 
Sarà  la  tua  favella! 


E  dice  il  ver.  Poeta,  veramente 
Poeta,  egli  già  fu,  di  cor,  d'ingegno, 
Ai  mal  cresciuti  epigoni  vergogna 
Per  la  costanza  del  pensier,  per  l'alto 
Intelletto  e  gl'intenti  e  le  canzoni. 
Stanco,  posò  la  combattuta  vita 
A  l'ombra  molle  di  quella  corona 
Che  profetò.  Non  l'insultate!  A  lui 
Altro  sogno  miglior  non  sorridea, 
E  seduto  al  tuo  pie,  candida  croce, 
Il  ìiiine  dimittis  sussurrò,  beato 
Che  il  suo  caro  ideal  sia  fatto  vero. 
Onorate  il  poeta!  Innanzi  a  lui 
Questa  superba  satira  s'inchini. 


204  GIOBBE. 

0  poeti  lombardi  e  piemontesi, 
A  voi  toccava  continuar  la  scola 
Del  poeta  sublime.  Invece  appena 
Il  Cavallotti  approssimarlo  tenta 
Ritornando  al  Berchet.  Perchè  le  calde 
Voci  del  cor,  di  meno  inculte  frasi 
Ei  non  adorna,  poi  che  il  verso  suo 
Sembra  sempre  cantato  all'improvviso  ? 
Ed  il  Fontana  cui  di  largo  ingegno 
Fornì  natura,  perchè  di  prolisse 
Francescherie  lardella  il  verso  strano  1 


CANTO    IV.  205 


Infine  giustizia 
M'è  stato  renduto! 
Voilato  di  nebbie 
Parigi  lio  apper<;uto 
E  la  siloetta 
Che  il  domo  del  Pautron 
Nel  cielo  progetta. 

Promenasi  il  pojiolo 
Francese  la  notte; 
Nel  fango  pietinano 
Gommosi  e  cocotte, 
Guardati  dai  mille, 
Col  sabre  nel  fodero, 
Sergenti  di  ville. 

Le  figlie  dell'Opera 
Eevando  regardo 
Che  al  riso  mi  movono 
Col  naso  camardo 
E  le  sciagurate 
Suivanti  di  Venere 
Che  son  maquigliate! 


206  GIOBBE. 

E  penso  alle  pallide 
Bellezze  natie, 
Naife,  che  ignorano 
Coteste  lubie; 
E  penso  ai  valloni 
Là  dove  fioriscono 
Oranffi  e  citroni. 


Chi  dunque,  là  dove  il  Manzoni  sciolse 
Gl'inni  eterni,  redo  dal  gran  poeta 
Una  sacra  scintilla  ?  Io  ti  nomai 
Già  il  Massarani  e  il  Kizzi  e  il  feci  a  torto, 
Poiché  ciascun  di  lor  se  si  ricrea 
Talvolta  a  tesser  versi  o  bene  o  male, 
Non  professa  quell'arte,  o  sol  la  tiene 
Qual  passatempo  cui  recar  non  giova 
D'ogni  possa  vital  lo  sforzo  intero. 
Già  il  Baravalle  fu,  valido  arnese 
Da  fronteggiar  tedeschi,  ornai  dal  tempo 
Fatto  invecchiato  e  inutil  tronco.  Un  giorno 
Si  provò  l'Arnaboldi  e  il  tepidetto 
Carme  agghiacciossi  ne  l'indifferente 


CANTO    IV.  207 

Orecchio  dì  pochissimi.   Ricorda 
Alcuno  forse  le  romanze  antiche 
Scritte  nel  gusto  del  tempo  che  Berta 
Filava,  in  cui  fu  Carcano  maestro, 
Ei  che  tradusse  piìi  che  non  intese? 
Oh,  le  romanze  brodose  e  sciapite 
Del  beato  Cantù,  chi  le  ricorda? 
E  pur  cedendo  a  la  malìa  di  questi 
Vecchi  orpelli,  cercò  nel  Medio  Ev.o 
E  ne' fantasmi  con  tanto  di  barba, 
Anche  Boito  la  fama!  Antri  Abduani 
Romantici  ancor  siete,  e  il  gran  Parini 
Invan  cantò,  dove  traduce  ancora 
E  traduce,  traduce  e  ritraduce 
Il  frigido  MafiFei  ;  dove  pur  tenta 
Rammodernarsi  il  Betteloni  !  Oblia 
L'antica  gloria,  i  benedetti  giorni 
Quando  bandivi  il  verbo,  oblia,  Milano, 
I  romantici  tuoi,  morti  cui  bene 
Non  furon  chiusi  gli  occhi,  e  tornerai 
La  città  dei  poeti  e  dell'ingegno! 

E  più  colpevol  se',  tarda  Milano, 
Che  per  l'influsso  tuo  Torino  ancora 


208  GIOBBE. 

In  romantiche  fole  bamboleggia. 

De  le  sue  ciarle  improvvisate  ancora 

L'assorda  il  buon  Regaldi,  a  cui  natura 

Florida  die  la  gioventù  del  corpo 

Altre  volte,  non  mai  quella  dell'estro. 

Solo  vi  tenta  Corradino  alzarsi 

Ad  altri  cieli,  ma  sovrano  regna 

A  pie  de  l'Alpi  col  Griacosa,  il  vecchio 

Tempo  de'  trovatori  e  dei  baroni. 

Da  più  che  quattro  secoli  la  civiltà  latina 
Sull'itala  contrada  giacca  vasta  mina. 
La  polvere  de'  morti  e  de'  vulcani  spenti 
Avea  d'Ausonia  tutta  coperti  i  monumenti 
E  sovi'a  le  sepolte  città  la  capra  errava 
E  più  negra  e  pungente  l'ortica  vegetava, 
Quando  un  giorno  d'autunno,  il  sole  era  all'occaso 
Non  so  se  per  volere  del  cielo  oppur  del  caso, 
Un  giovinetto  pallido,   pensoso,   vagabondo, 
Che  avea  lo  sguardo  azzurro  e  come  il  ciel  profondo 
Incontrò  una  sottile  e  mite  verginella 
Della  camelia  bianca  più  tenera  e  più  bella. 
Come  agli  angeli  il  nimbo,  intorno  al  suo  bel  volte 
lu  lunghe  treccie  d'oro  il  crin  piovea  disciolto. 


CAvro  IV.  209 

Il  molle  venticello  che  il  profumo  dei  monti 
Coll'ala  sua  rapiva,  il  rumor  delle  fonti, 
Lo  scintillar  degli  astri,  il  languido  chiarore 
Del  crepuscolo...  tutto  favellava  d'amore. 
S'accostaron  tremanti,  spinti  da  un  senso  arcano; 
Egli  gettò  il  mantello  e  presala  per  mano 
Le  susurrò  —  Piìi  dolce  dell' orezza,  o  mia  bella. 
Se  ondeggian  sul  mio  viso,  son  le  tue  bionde  anella  ; 
Più  soave  del  murmure  delle  fonti  è  il  tuo  detto. 
Pili  del  raggio  degli  astri ,  fanciulla,  m'  ò  diletto 
Quello  degli  occhi  tuoi;  più  del  mesto  chiarore 
Del  cadente  crepuscolo  è  bello  il  tuo  rossore!  -— 
La  giovinetta  tenera  vinta,  al  parlar  gentile, 
Così  gli  rispondeva  con  grazia  femminile: 
0  mio  dolce  signore,  sulla  tua  fronte  bruna 
Leggo  che  tu  sai  vincere  la  nemica  fortuna, 
Leggo  che  tu  sei  forte,  e,  ben  che  sia  scudiere, 
Tu  sei  già  degno  d'essere  promosso  cavaliere. 
Sento  nel  cor  che  palpita  sensi  d'amor  novelli, 
E  ti  guardo  negli  occhi  che  sono  tanto  belli  !  — 
i  strinsero  la  mano,  sedetter  sovra  un  letto 
Di  muschi  e  di  viole,  in  riva  a  un  ruscelletto 
Ove  placidamente  corre van  latte  e  miele. 
E  mentre  il  rosignolo  tlautava  le  querele, 

li 


210  GIOBBE. 

Un  gelsomino  bianco  velò  i  soavi  amori. 
Un  quarto  d'ora  dopo,  senza  troppi  dolori 
L'avventurata  sposa  partoriva  un  bambino 
Come  quel  della  fiaba  candido  e  ricciolino. 
Cresciuto  un  po',  coi  frati  seguiva  le  lezioni 
Del  trivio  e  del  quadrivio  ed  altre  purgazioni. 
Di  Marenco  e  Giacosa  ora  è  lodato  allievo, 
Conosciuto  col  caro  nome  di  Medio  Evo. 


Così  di  nenie  e  di  lattiginosi 
Idilli  è  pieno  il  suol  cbe  già  sonava 
De'  ferrei  carmi  tuoi,  forte  astigiano  ! 
Dove  son,  dove  son  gli  eredi,  i  figli 
Dell'Alfieri?  Chi  può  ne'  risonanti 
Patriottici  rel}us  del  Bertoldi 
Trovar  la  rude,  ma  virile  impronta 
De'  tuoi  geni,  o  Piemonte  1  Ai  pochi  sciolti 
Del  profumato  ambasciator  che  l'arte, 
Le  dame  e  la  politica,  del  pari, 
A  Parigi  studiava  e  a  Pietroburgo, 
Eicorrer  t'è  mestieri.  Almen  que'  pochi 
Versi  potranno  sollevarti  dalla 
Proflavie  sterminata  onde  ti  coprono 


CANTO   IV.  211 

Due  generazion  di  Siloiata! 

Ah,  che  d'Alfieri  voi  non  siete  i  figlia 

Ma  del  muliebre  PelUco  i  nepoti! 

Ed  ora  a  voi,  toscani  e  bolognesi, 
Intolleranti  nella  breve  chiesa 
Da  voi  mal  fabbricata!  Invan,  profeta 
Dell'irritabil  Giosuè,  il  Chiarini 
Al  barbaro  evangel  scrive  le  chiose, 
Che  il  novo  Giosuè  non  ferma  il  solo. 
0  che?  Lungi  dall'Arno,  ovver  dal  Reno, 
Più  non  si  fanno  versi  giusti?  0  forse 
L'arte  di  piluccar  dieresi  e  sdruccioli 
È  privativa  vostra,  o  cacciatori 
Dì  versi  zoppi?  E  pur  questo  poema 
Vi  potrebbe  insegnar  che  non  è  vero. 

Eccoti,  o  gran  Stecchetti,  coi  bugiardi 
Tuoi  vizi,  imitaziou  d'imitazione. 
Che  devi  la  tua  fama  a  un  falso  morto. 
Non  è  verismo  il  tuo,  ma  vitupero. 


212  GIOBBE. 


Tu  nelle  carni  marce  o  sanguinanti, 
Fingendoti  vampiro,  affondi  l'ugna 
E  ti  compiaci  de'  solinghi  amanti 
Descriver  tutta  la  nascosta  pugna. 

Celebrar  le  baldracche  ed  i  birlianti 
Alla  tua  sporca  Musa  non  ripugna, 
E  Dio  bestemmi  e  fai  le  fiche  ai  santi 
Pien  di  birra  e  di  vin  come  una  spugna. 

Ti  fingi  virtuoso  e  ti   presumi 

Che  del  pubblico  Tocchio  temerario 
Ad  indagar  non  giunga  i  tuoi  costumi, 

E  velando  col  tuo  riso  bonario 
L'avidità  per  cui  tu  ti  consumi, 
Cerchi  di  diventar  bibliotecario. 


CANTO   IV.  213 

Passiam,  turando  le  narici. 

0  dolce 
Cantator  di  romanze  e  laudatore 
Di  prime  donne,  cantami  Panzacclii, 
Cantami,  deh,  la  tua  miglior  romanza. 


Quando  le  pioggie  di  novembre  e  i  venti 
Batteano  ai  vetri  del  tuo  ostel  romito, 
Che  mai  dicevi  alle  foglie  cadenti 
Dai  platani  del  parco  intisichito  1 

Coll'animo  tremante  ed  angosciato. 
Pensavi  al  nostro  amore  sfortunato? 

0  pur,  soffusa  di  gentil  rossore. 
Pensavi  al  nostro  sventurato  amore  ? 

Noi  so;  ma  certo  la  tua  cara  voce, 
Irresistibilmente  lusinghiera, 
A  me  pel  cielo  tornava  veloce 
Come  un  notturno  di  Chopin,  leggera:    . 

E  susurrava:  a  II  parco  mio  negletto 
Getta  la  spoglia  ed  io  non  muto  affetto; 

Il  parco  verde  le  foglie  ha  perduto, 
Ma  il  tempo  può  mutar,  ch'io  non  mi  muto.  » 


214 


GIOBBE. 


Come  l'imitator  di  tutti  quanti, 
Il  piccolo  Milelli,  anche  codesti 
Non  imitò?  Toscani  e  bolognesi, 
Passò  la  vostra  primavera,  e  stucchi 
Siamo  de'  vostri  velenosi  fiori. 
Tutti  cadrete  nell'oblio  che  copre 

I  clamori  d'un  giorno.  Un  sol  di  voi 
Vivrà.  Vivrà  colui  che  non  stimate 
Griungervi  alla  caviglia;  il  più  modesto, 

II  migliore  tra  voi.  Vivrà  il  Fucini. 


Sophar  timidamente  il  magno  sfogo 
Interruppe  di  Giobbe,  e  a  bassa  voce 

—  E  Gigi  Alberti?  —  domandò.  La  bocca 
Per  un  metro  quadrato  il  Patriarca 
Spalancò  sgangherata  e  forte  rise. 

Incoraggiato  allor  Sophar  riprese: 

—  E  al  mezzodì  non  v'ha  poeta  alcuno?  — 

—  Molti:  troppi!  —  rispose  il  Patriarca  — 
Lizio  Bruno,  i  Linguiti  e  l'Ardissone, 

E  mille  e  mille...  Ma  scompaion  tutti 
Come  la  nebbia  innanzi  al  Rapisardi. 


CANTO  IV.  215 

-  Ah  no  —  Sophar  riprese  —  Ah  no,  paziente 
Giobbe,  non  mi  seccare  un'altra  volta 
Con  questo  eterno  Rapisardi!  In  bocca 
L'hai  sempre  e  contro  lui  sempre  ti  scagli! 
Cambia  discorso  e  lascia  de'  poeti 
La  filatessa  in  pace  !  Agli  eruditi, 
Agli  storici,  volgi  il  tuo  pensiero. 
Ai  filologi,  a  quei  che  dell'inane 
Vanto  de'  carmi  non  sanno  che  farsi. 
La  lingua  tua  maledica,  su  loro 
Esercita,  gran  Giobbe.  Udir  ci  è  grato. 


—  E  ben,  Sophar,  tu  fai  —  rispose  Giobbe 
E  ben,  Sophar,  tu  fai 
Movendomi  a  parlare, 
Che  cose  grandi  e  rare 
Poche,  ma  molte  piccole  saprai. 

Molti  babbi  ha  la  Storia, 
Come  spesso  han  le  figlie 
De  le  belle  signore.  Il  babbo  grande, 
Il  babbo  sommo,  l'avo  forse,  è  certo 
Quel  Cesare  Cautù  che  t'ho  già  detto. 


216  GIOBBE. 

Cara  quella  badiale 
Sua  Storia  Universale, 
Dove  gli  error  foriuicolan  più  spessi 
Che  le  formiclie  dentro  al  formicaio! 
E  benedetta  poi 

La  bella  Cronistoria  che  fa  il  paio, 
Dove  abbondan  calunnie  e  vituperi 
A  questa  patria  nostra 
Dov'ei  beve  iiacifico  e  manduca 
Gorgogliando  gli  evviva  all'Arciduca! 
Ma,  se  Dio  vuol,  vedremo 
L'istoriografo  santo  del  Concilio 
A  magno  nostro  onore 
Diventar  Senatore. 


0  meglio,  meglio  assai 
Il  buon  Padre  Marchese 
Che  glorifica  i  suoi  domenicani, 
0  il  matto  Leonetti 
Che  dei  Borgia  tentò  l'apologia! 
Meglio  le  astruserie  degli  hegeliani 
Cucinate  nei  facili  volumi 
Dell'illustre  Marselli, 


CAXTO  IV.  217 

0  le  ingenuità  bipedi  e  implumi 

Dell'allegro  Massari, 

Storico  de' più  nuovi  e  de'  più  rari. 


Un  giorno  io  mi  sedea 
Ne'  posti  di  platea 
Del  teatro  Corea, 

Quando  al  suon  de  le  trombe  alto  stuonauti 
Un  atleta  comparve.  A  quel  teatro 
L'equestre  compagnia  del  Suhr  ci  dava 
Spettacoli  curiosi  e  guadagnava. 


Mostrò  l'atleta  in  giro 
I  muscoli  superbi  e  come  piuma 
Colla  destra  levò,  tesa,  parecchi 
Enormi  pesi.  Sollevò  del  Broglio 
La  storia  j  sollevò,  ma  con  fatica, 
Del  cruschevol  Del  Lungo  il  magno  Uino 
E  del  Eaina  le  Fonti  dell'Orlando, 
Sollevò  pur,  sudando, 
I  libri  del  Carutti, 
Del  Vallauri  il  latino, 


218  GIOBBE. 

Del  veneto  Fulin  i  documenti. 
Provò,  con  molti  stenti, 
Di  levar  quelli  poi  del  Bertolotti 
E  quei  dell' Ademollo, 
Ma,  sciagurato  !  si  provò  pur  troppo 
D'alzar  da  terra  un  dito 
Di  Sbarbaro  un  volume  e  fu  servito. 
Restò  schiacciato  come  una  frittata 
E  all'ospedal  morì  nella  giornata. 


Scende  ai  lettori  stanchi 
Sovra  '1  petto  com'incubo  notturno 
Lo  zibaldon  di  Nicomede  Bianchi, 
Ed  i  lettori  casti 

Quando  voglion  dormir  per  non  peccare, 
Leggono  i  libri  frigidi  del  Guasti. 
A  stento  poi  riescon  a  destarsi 
Col  Villari  e  col  Berti, 
Galvanizzati  un  po'  dal  Maramaldo 
Dell' Alvisi,  o  dal  caldo 
Vivo  dell'isteria  dell' Imbriani 
Che  brucia  sino  all'osso 
Il  pastor  Scartazzini  ed  il  Giuliani. 


CANTO    IV.  219 

Dantolìli,  dantisti  e  chiosatori, 
Ben  avete  la  faccia  di  granito 
A  spararle  sì  grosse 
Ed  a  far  parlar  Dante  a  vostro  modo  ! 
Stanco  di  vostra  ciarla 
Udite  il  Sommo  che  così  vi  parla. 


220  GIOBBE. 

Sia  maledetto  il  dì  che  posi  mano 
A  frugar  dentro  le  segrete  cose 
Per  cavarne  il  poema  sovrumano  ! 

Se  il  mondo  crede  a  le  bugiarde  chiose 
Che  una  turba  di  poveri  menanti 
Stende,  altercando  in  tisicuzze  prose, 

Mai  pivi  ritornerà  ne'  palpitanti 
Petti  l'antico  italico  vigore 
Che  vive  intero  ne'  miei  cento  canti. 

Fiorenza,  madre  di  ben  poco  amore. 

Me  un  giorno  spinse  a  mendicar  la  vita 
Fuori  dal  beli' o vii,  qual  traditore , 

Né  dopo  tanti  secoli  contrita 

Farmi  l'ingrata,  poi  che  l'insolenza 
D'un  sacerdote  non  è  in  lei  punita. 

Ostenta  al  mondo  l'ottima  scienza 

Del  mio  poema  e  ne  rafferma  il  testo 
Sì  che  a  me  negheiia  varia  sentenza. 


CANTO   IV.  231 

Era  il  poema  mio  serbato  a  questo 

Che  lo  frugasse!  Terrazzi  e  G-iuliani, 
Vano  il  secondo  ed  il  primo  indigesto. 

Né  men  pesa  colui  clie  tra  i  Germani, 
Eretico  pastor,  superbo  sfida 
I  dardi  licambei  de  l'Imbriani; 

De  l'Imbriani  che  contento  snida 

Mille  diatribe  sul  mio  nascimento 

E  vaneggia,  e  cavilla,  e  sogna,  e  grida, 

Sciupando  l'irritabile  talento 

A  por  le  corna  sovra  il  capo  mio. 
Ed  a  vestirmi  d'irta  barba  il  mento, 

Tal  che  Boccaccio  ed  il  Villani  ed  io 

E  il  Pucci  e  il  cardinale  del  Poggetto 
Facciam  ne  ie  sue  carte  un  buscherìo  ! 

Sia  tristo  il  gondolier  che  fé' mal  getto 

Per  me  del  remo,  e  il  vecchio  modanese 
Col  suo  drama  corretto  e  ricorretto. 


222  GIOBBE. 

Sia  tristo  l'istrione  forlivese 

Che  mi  fa  scioccamente  delirare 
In  una  lingua  di  nessun  paese, 

E  favoleggia  d'un  turpe  giullare 

Che  la  mia  figlia  insulta  e  me  grottesco 
Apparir  fa  nel  suo  matto  cantare. 

Sia  tristo  il  gregge  elvetico,  tedesco, 

Russo,  spagnuolo,  francese  e  krumiro. 
Croato,  turco,  svedese  e  moresco... 

Ah,  s'io  li  veggo  dal  superno  giro 

Costor,  domando  un  accidente  a  Dio 
E  gli  faccio  la  punta  e  glielo  tiro. 

Kazza  di  scellerati,  armento  rio 

Gonfio  di  mille  impertinenti  fole. 
Che  sì,  che  sì,  ne  pagherete  il  floj 

E  il  Marietti  anche  lui,  che  nella  mole 
Del  mio  poema  numera  con  cura 
Le  virgole,  gli  accenti  e  le  parole! 


CANTO  IV.  233 

Picchierò  poi  sovra  la  testa  dura 
Del  catanese  che  l'onor  mi  scema 
Mostrandomi  di  stupido  in  figura, 

E  trulla  in  nome  mio  dentro  un  poema 
Trogolo  enorme  ripieno  di  bile, 
Di  malva,  di  papavero  e  di  crema. 

E  punirò  la  chiaccliiera  scurrile 

Di  chi  mi  fa  cantar,  come  sentite, 
Peggio  d'un  mascalzon  rustico  e  vile. 

Poi  quando  tante  chiose  scimunite 
Di  tante  razze  e  di  tante  favelle 
Avrò  veduto  tutte  incenerite, 

Tornerò  in  cielo  a  riveder  le  stelle. 


"234  GIOliliB. 

Così  mi  par  clie  l'anima  sdegnosa 
Favelli,  divampando 
Contro  i  commentator  che  l'iian  tradito, 
Gli  storici  frattanto  al  gran   lavoro 
Di  contraddirsi  sempre  tra  di  loro 
Vanno  pur  faticando. 
Spingono  su  per  l'erta 
Di  Sisifo  lo  scoglio  a  le  meschine 
Forze  troppo  gran  peso.  A  la  fatica 
Vedi  il  vecchio  Eicotti, 
L'anglo  Cavalcasene  ed  il  Franchetti, 
Vannucci  il  venerando  e  Comparetti. 
Sudano  il  Gozzadini, 
L'Amari,  il  Bertolini 
E  lo  prefetto  Zini. 

Se  la  storia  civil  ò  un  gran  pasticcio, 
Dite  che  sarà  poi  la  letteraria 
Messa  tutta  per  aria 
Dall'Ascoli  glottologo  giudeo, 
Dal  semita  d'Ancona  e  dal  Biondelli 
Cattolico  romano,  e  dal  Malfatti 
Che  poco  crede,  e  dal  Gorresio  prete, 
Dai  dogmi  vecchi  e  dai  sogni  novelli? 


CANTO  IV.  225 

E  dite  innanzi  tutto 

In  che  lingua  parliamo  ? 

Ha  ragione  il  G  elmetti  od  il  Morandi, 

0  il  D'Ovidio  ha  ragione? 

S'abbaruffano  i  dotti  per  sapere 

Come  parlar  dobbiamo, 

E  intanto  son  sei  secoli  precisi 

Che  si  parla  italiano  in  barba  ai  dotti, 

E  si  parla  benone. 

Suda  il  Bartoli  intanto  e  suda  il  mite 
Canello,  e  il  solitario 
Zumbini,  e  Caix  e  Graf;  sudano  tutti, 
Teza,  Monaci,  Occioni, 
Minghetti,  Fornaciari  ed  altri  cento 
Tal  che  la  testa  agli  studiosi  gira 
Come  un  mulino  a  vento. 
Ogni  scrittorellastro 
Impasta  un  polpetton  come  i  De  Castro 
E  sopra  tutti  veglia 
Il  fiero  difensor  della  morale, 
Coi  grandi  occhi  severi, 
Il  puro  Baccio  Emanuel  Maineri. 


226  GIOBBE. 

Ahimè  che  baraonda 
Menan  la  storia,  la  filologia, 
I  critici,  i  dantisti  ed  i  pedanti  I 
Kiddano  tutti  quanti 
Confusi  scapigliati  e  barcollanti. 
Tal  che  chi  guarda  un  poco  da  vicino 
Ad  un  veglion  ripensa  del  Quirino, 
E,  l'occhio  al  ciel  converso. 
Dolente  grida  :=  oh  quanto  tempo  perso  !  = 

Né  l'avvenir  migliori  a  noi  prepara 
Gl'ingegni,  poi  che  del  futuro  nostro 
Son  padroni  gli  Scavia  ed  i  Parato, 
I  Berrini,  i  Mottura  e  tal  maestri 
Cui  della  scola  ancor   saria  bisogno. 
Nò  d'ingegni  men  forti  educa  un  sacro 
Stuolo  la  furberia  degli  Scolopi 
Toscani,  o  il  Dazzi,  cui  la  Crusca  in  seno 
Volle  pei  libri  dolciastri  e  le  sciatte 
Tavolette  pei  bimbi,  o  il  padre  Ricci, 
0  l'Alfani,  o  quel  Tigri  a  cui  Selvaggia 
Tanti  fischi  costò.  Dal  Eigutini 
E  dal  Tortoli  copto  e  dal  Cerquetti 
Vagliator  di  parole,  e  dal  Chinazzi 


CANTO    IV.  227 

Cattolico,  apostolico  e  romano, 
0  ilal  Bagatta  o  alila  dal  Biioiiazia 
Che  discepoli  avremo  ì  Oh,  quante  ciarle 
Pedagogiche  e  matte  assordan  l'aria  ! 
Non  studiò  Garibaldi  agli  Scolopi, 
Né  Dante  apprese  il  verbo  a  la  scoletta 
Piena  dei  vostri  metodi  minchioni  ! 
Voi  ci  darete  un  pojìolo  di  donne 
Dove  il  miglior  poeta  appena  giunga 
Alla  Bonacci-Brunamonti,  o  appena 
Segua  la  Colombini  o  la  Ferrari, 
0  la  Mancini  e  l'altre  poetesse. 
Anzi  le  gonne  vinceran  le  brache 
Se  non  le  vincon  già  nelle  novelle 
Leggere  e  brevi  dell'Albini,  della 
Sperani,  di  Cordelia  e  di  Neera. 
Chi  più  forte  scrittor  della  Serao, 
De  la  Percoto,  o  della  Pigorini 
Doman  potrà  vantarsi  ?  0  chi  di  dolci 
Idiotismi  toscani  i  suoi  bozzetti 
Potrà  spalmar  come  la  Siciliani, 
0  dei  romanzi  giudiziari  il  nodo 
Della  Saredo  scioglier  meglio  ?  Prima 
In  archeologia  la  Lovatelli 


228  GIOBBE. 

Doman  sarà,  come  sarà  la  prima 
Scrittrice  nostra  la  Colombi.  A  questo 
I  pedagoghi  alfin  ci  condurranno. 
Al  teatro  !  al  teatro  !  Ivi  una  schiera 
Di  grandi  segue  Paolo  Ferrari, 
L'Aristofane  nostro,  a  cui  non  ride 
Più  la  fortuna  giovenil  de'  primi 
Suoi  passi,  poi  che  le  serene  arguzie 
Per  le  tesi  lasciò.  Torelli  tenta 
Riafferrar  la  fronda  benedetta 
Dell'alloro,  negato  dopo  tante 
Speranze.  Un  popol  di  fantasmi  sciocchi 
Che  persona  non  son,  Marenco  evoca, 
Amaramente  ricordando  i  cari 
Tempi  della  Celeste,  in  cui  la  plebe 
Dal  facile  loggion  si  sdilinquiva. 
Chiuso  nel  suo  Castel  del  Medio  Evo 
Cesellando  Giacosa  i  martelliani, 
Stanca  la  mano  industre,  ora  che  in  pace 
Ci  lascian  finalmente  i  proverbisti 
Incipriati,  De  Eenzis,  Martini, 
Che  con  due  soli  personaggi  un  atto 
Lungo  facean  :  il  Conte  e  la  Marchesa. 
Chiaves  riposa,  Costetti  riposa. 


CANTO    IV.  229 

Fortis  riposa,  Pietracqua  riposa, 
E  Giacometti  per  forza  riposa. 
Se  il  Muratori  tepido  lavora, 
Bersezio,  spento  l'inno  del  trionfo, 
Più  non  ne  azzecca  e  diluisce  in  lunghi 
Komanzi,  ahi  troppo  lunghi!  il  bell'ingegno. 
Il  Carrera  sonnecchia  e  Gigi  Alberti 
Fa  il  polemista  letterario.  Stanco 
Il  Castelvecchio  posa  e  il  Castelnovo 
Ai  proverbi  si  ferma.  Or  chi  ci  resta  ? 
Chi  degnamente  di  Plauto  ai  nepoti 
Il  miei  porge  dell'arte  e  non  si  caccia 
Per  altre  vie,  tentando  altri  ideali  ? 
Due  solo  :  il  Ferravilla  ed  il  Barbieri. 
Il  resto  dorme  perchè  vuol  dormire  ; 
Ma  nei  nostri  teatri  anche  si  dorme.  — 


230  GIOBBE. 

Sophar,  a  bocca  spalancata,  stava 
AscoltaTido  le  chiacchere  di  Giobbe 
Pazientemente,  allor  cbe  a  questo  punto 
Dalla  bile  fu  vinto  ed  interruppe. 
—  Basta,  basta,  pettegolo  maligno  ! 
Non  ti  par  tempo  di  tacer?  Dal  nome 
Mio  va  fregiato  questo  quarto  canto 
Del  poema.  Dovrei  parlar  sol  io. 
Esser  protagonista,  orator  solo, 
E  ancor  non  m'hai  lasciato  a\)vìv  la  bocca^ 
Che  maledetta  sia  la  levatrice 
Che  un  dì  lo  scilinguagnolo  ti  ruppe  ! 
Lasciami  favellar  che  ho  tante  belle 
Cose  da  dire.  — 

—  Parla  pur  —  rispose 
Il  Patriarca  —  parla.  Io  non  avrei 
Nulla  da  dirti  più,  fuor  che  talune 
Cosuccie  intorno  a  i^arecchi  scrittori. 


CANTO    IV.  231 


Ma  non  te  lo  dirò.  Vorrei  parlarti 
Di  tutti  quanti  i  nostri  prosatori 
E  mettere  in  un  mazzo  coi  migliori 

I  mediocri,  i  piccini  e  fin  gli  scarti  ; 
Ma  dissi  mal  di  tanti, 

Che  non  mi  salverian  neppur  i  santi. 

Il  De  Amicis  che  fa  1  Più  s'attendea 
Da  lui,  tenero  sì,  ma  bravo  almeno. 
Dunque  s'addormentò  lieto  e  sereno 
Nel  dolce  nido  che  si  componea, 
0  tace  pel  rimorso 
D'aver  aperto  ai  bozzettisti  il  corso? 

Che  dì  beato,  non  è  vero,  Edmondo  ? 
Che  dì  fu  quello,  allor  che  ti  cantammo 

II  trionfai  peana  e  ti  levammo 

Su  gli  scudi  sonanti,  in  faccia  al  mondo 

Primo  tra  i  gloriosi 

Nostri  campioni.  Ed  or  perchè  riposi  ? 


232  GIOBBK. 


Guarda  il  pali  De  Gnbernatis,  come 
Non  scoraggiato  da  fatiche  immani, 
Non  spaventato  da  latrar  di  cani, 
Manda  al  futuro,  lavorando,  il  nome  ; 
Esempio  agli  scrittori 
Nostri  che  russan  sui  facili  allori. 

Lavorate,  perdio,  ma  lavorate, 
Boito  (Camillo),  Fortis,  Capuana 
Che  un  libro  noi  vogliam  per  settimana, 
Ed  i  poeti  d'imitar  tentate 
Che  per  nostro  malanno 
Almeno  figlian  un  poema  all'anno. 

0  Medoro  Savini  !  Almen  ci  davi, 
A'tempi  vecchi,  un  tuo  romanzo  al  mese 
E  sui  giornali  del  mio  bel  paese 
Appendici  parecchie  insiem  stampavi. 
Eri  tu  dunque  il  solo 
Scrittor  fecondo  in  questo  nostro  suolo? 


CANTO  IV.  233 


Ma  ci  resta  il  Barrili,  anch'ei  fecondo 
Scrittor  di  libri  se  ce  n'è  mai  stato, 
E  il  Petruccelli  che  non  ha  cessato, 
Benigno  Giove,  di  piover  sul  mondo 
Articoli,  riviste, 
Storie  e  romanzi  in  lingue  mai  più  viste. 

Deh,  Jorick,  segui  ancora  a  farci  ridere, 
E  tu  Sbarbaro  caro  ad  annoiarci! 
Jack  la  Bolina,  seguita  a  portarci 
Sovra  quel  mar  che  non  possiam  conquidere, 
E  tu  buon  Filopanti 
Levaci  ancora  sulle  stelle  erranti. 

Col  De  Sanctis  partiam  pe'  cento  mondi 
Che  in  ogni  scritto  suo  nuovi  discopre  : 
Studiam  col  Curci  le  terribil  opre 
Ch'egli  ci  svela  de'  zelanti  immondi, 
Mentre  il  Filippi  adesca 
Le  platee  colla  musica  tedesca. 


234  GIOBBE. 


E  reverenti  salvitìam  la  vera 
La  viva  gloria  di  Catania,  il  Verga, 
In  cui  l'ingegno  più  virile  alberga 
Di  tutta  questa  Italia  romanziera. 
Non  può  la  mia  malizia 
Altro  mordere  in  lui  che  la  pigrizia. 

I  tre  C  salutiamo.  Il  Castelnuovo, 
Caccianiga,  Capranica  e....  vediamo, 
Chi  più  ci  resta?...  Non  dimentichiamo 
La  Serao  che  in  memoria  ancor  mi  trovo, 

E  poi....  pensiamo!  e  poi 

Io  non  ne  trovo  più.  Cercate  voi. 

E  si  conclude  ?  Adagio  :  andìam  coi  guanti 
Per  non  offender  le  riputazioni. 
Si  conclude  che  pochi  sono  i  buoni 
E  molti,  ahimè  !  moltissimi  i  calanti. 
Leggiam  poco,  diranno  j 
Ma  quanti  son  che  leggere  si  fanno  1 


CANTO    IV.  2'Ó5 

—  Ahi  —  Sophar  disse  —  Percliè  Dio  le  membra 
Tutte  t'imputridì  fuor  che  la  liugua  ? 
Che  figura  farò  presso  i  lettori 
Che  s'aspettan  da  me  sì  belle  cose 
E  tu  sempre  mi  togli  la  parola  *? 
Sono  critico  anch'io,  giudico  e  mando 
Anch'io  secondo  avvinghio  con  la  coda. 
Or  ti  risponderò.  Tutte  le  sciocche 
Impertinenze  ricacciarti  in  gola 
Facile  mi  sarà.  Sai,  Patriarca, 
Ch'io  sono  illetterato  e  me  ne  vanto, 
Ma  son  critico  pur  de'  più  stimati, 
Ed  in  cento  giornali  la  mia  prosa 
Detta  la  legge.  Ti  farò  un  discorso 
In  sei  parti  diviso,  e  nella  prima 
Ti  mostrerò..,. 

Giobbe  le  spalle  scosse, 
E  taci  —  disse  —  Il  canto  è  troppo  lungo  ! 


EPILOGO 

IN   TERRA. 

Dominus  aulem  benedixit  novissimìs  Job,  magis  quam  principio 

eius. 

loB.  XLII.  12. 

Et  aperuit  puleum  abyssi. 

Apoc.  IX.  2. 


ARGOMENTO. 

Giubbe  è  trovato  giusto  e  risana  —  Dio  lo  annunzia  ai  ce- 
lesti —  Feste  in  Hus  —  I  giornali  letterari  —  Satana  vola 
incielo  —  Propone  la  pace  a  Dio  purché  il  mondo  sia  distrutto 
—  Dio  acconsente  —  L'asino  è  sellato,  e  scendono  in  terra  — 
Lamento  di  Dio  —  Il  finimoodo  —  Canto  finale. 


GioJJiìE.  239 


Vestitevi  di  rose,  aride  arene 
De  l'ardente  Caldea!  L'ira  d'inferno 
Lascia  la  carne  de  l'orante  Giobbe. 

Eliphaz  Temanita  e  l'adirato 
Sophar  con  Baldad  tornano  piangendo 
Ad  Hus,  curiosa  de  la  gran  novella. 
Col  lungo  tedio  de  le  discussioni 
Politico-morali-letterarie 
E  col  terror  de  la  vicina  morte 
Non  far  possenti  a  sollevar  la  candida, 
Contro  il  sommo  fattore,  alma  di  Giobbe. 
Vestitevi  di  rose,  aride  arene 
De  l'ardente  Caldea,  che  la  bestemmia 
Mai  del  tentato  Patriarca  al  labbro 
Non  è  salita,  ed  il  Signor  perdona. 

Quando  il  Guerzoni  che  vagava  ai  prati 
Solingamente,  vide  i  dolorosi 


240  EPILOGO. 

Filosofi  tornar,  capì  a  l'istante 

Che  si  trattava  d'un  rinascimento, 

E  accorse  tosto  a  darne  avviso  al  Sindaco 

Che  al  Cardinale  lo  comunicò.  — 

Intanto  Iddio  da  le  superne  sfere, 

Avuto  un  telegramma  dal  Prefetto 

Che  l'avvisava  de  la  gran  vittoria, 

Lieto  saltò  dal  letto  e  ordinò  tosto 

A  le  fanfare  di  suonar  la  veglia. 

Balzano  in  piedi  i  santi  ed  1  beati 
Sonoramente  sbadigliando,  e  corrono 
Tosto  a  lavarsi  ne  la  fonte  gli  occhi. 
Patta  così  una  rapida  teletta, 
Tranquilli  posan  su  le  molle  nubi 
Al  divin  verbo  dolcemente  attenti. 
Il  Padre  Eterno  gongolò  contento, 
Sputò  due  volte  sopra  un  piatto  antico 
Di  mastro  Giorgio  che  costò  al  Corona 
Molte  ricerche,  e  dopo  aver  pregato 
San  Pietro  a  non  fischiarlo  con  le  chiavi 
E  San  Tomaso  a  credergli  in  parola, 
La  destra  alzando  incominciò  a  parlare. 


GIOUCE.  241 


Poicliò  a  l'alto  mio  seggio  un  audace 
Scagliò  incontro  un  insulto  pagano 
Da  le  plaghe  del  facile  piano 
Dove  il  popolo  Etrusco  fiorì, 

Dall' Averno  coll'ascia  e  la  face 
Levò  il  braccio  l'eterno  Nemico 
E,  tornato  con  gli  anni  impudico, 
A  insultarmi  nel  cielo  salì. 

Non  giovò  che  tentassi  coi  canti 
D'un  poema  dettato  in  suo  onore 
D'ammansar  quel  terribile  core 
Che  Lombroso  può  solo  scusar, 

Non  giovò  che  il  mio  buon  Filopanti 
S'agitasse  col  Dio  liberale.... 
Ahi!  lo  Spirito  iniquo  del  male 
Non  giungemmo  nessuno  a  calmar. 

Dalle  lande  cui  preme  Boote, 
Dal  superbo  cervello  del  mondo, 
E  dal  suolo  di  Koma  ingiocondo 
Già  si  vede  il  suo  truce  baiilior. 


16 


242  EPILOGO. 


Dove  passa  la  terra  si  scuote, 
Trema  il  cielo  ed  il  pelago  rugge, 
Ei  solleva,  sprofonda,  distrugge, 
Seminando  la  morte  e  il  terror. 

Ma  più  certa  dei  premi  divini 
Pur  .non  cede  l'umana  coscienza 
E  pili  fida  alla  nostra  clemenza 
S'inginocchia  nei  giorni  del  mal.... 
E  per  questo  dai  cieli  azzurrini 
Come  pioggia  di  candide  rose, 
Scenderà  sovra  l'alme  pietose 
Il  conforto  d'un  bene  immortai . 

Non  prevalgon  le  porte  d'inferno, 
E  il  Nemico  lo  vide  e  il  conobbe 
Quando  il  corpo  e  gli  averi  di  Giobbe 
Vanamente  43ercosse  e  guastò. 

Che  il  paziente,  fidato  all'Eterno, 
Sollevando  il  suo  cor  dalla  terra 
Superata  ha  l'orribile  guerra.... 
Questa  bella  notizia  vi  do. 


GIOBBE.  243 

Come  fan  l'acque  d'un  laghetto,  quanilo 
È  in  lor  gittata  una  pietruzza,  in  ceiclii 
Luminosi  da  Dio  mossero  gli  Angeli 
E  girando  ne  l'iride  divino 
Con  dolci  note  presero  a  cantare. 
Il  Padre  Eterno  con  San  Pietro  intanto 
Fecero  un  vaglia  di  dugentomila 
Lire  per  Giobbe,  che  in  quell'ora  appunto 
Kinovellato  di  novella  carne, 
Sano,  ringiovanito  e  rimbiondito, 
Scendea  trinciando  capriole  e  salti, 
Per  miracol  di  Dio,  dal  suo  letame. 

I  due  primi  che  a  lui  mossero  incoutro 
Fui  il  poeta  e  il  giornalista,  i  servi 
Devoti  ed  umilissimi  di  Giobbe 
Quando  fortuna  gli  arrideva.  —  Il  clero 
Indi  seguiva  e  in  mezzo  il  cardinale 
Gastaldi,  a  cui  tenean  de  la  pianeta 
Alte  le  falde  due  conservatori. 
Dopo  di  lui,  lunghissima  di  frati 
Di  suore,  d'educande  e  di  beghino 
Salmodiava  variopinta  schiera. 
I  consiglieri  del  comune  d'Hus 
Venivan  poi  col  sindaco  Peruzzi, 


244  EPILOGO. 

Che,  con  applauso  unanime,  a  la  nuova 
Città  il  felice  di  Firenze  stato 
Infaticabilmente  procurava. 
Ma  per  quanto  lavori  il  buon  lettore 
Di  fantasia,  né  pure  un  quarto  forse 
Può  imaginar  del  popolo  festante 
Che  per  le  vie,  pei  floridi  balconi, 
Per  le  finestre  e  i  tetti  e  i  campanili, 
A  la  sferza  del  sol  volto  a  l'occaso , 
Il  ritorno  attendea  del  Patriarca.  — 

Un  colpo  di  cannone  e  al  ciel  turchino 
L'allegro  suon  de  le  campane  sciolto 
Nunzio  che  Giobbe  dentro  a  la  cittade 
Entrava.  —  Come  ne  l'estate  ondeggia 
Solenne  al  vento  il  già  maturo  grano, 
La  folla  accorsa  s'agitò,  di  gaudio 
Levando  al  cielo  un  risonante  grido. 
Indi  (trascorso  lentamente  Giobbe 
Sotto  una  pioggia  continua  di  fiori) 
Si  riversò  cantando  per  le  strade 
E  per  le  piazze,  ove  più  bande,  al  lume 
Di  numerosi  lampadari  elettrici, 
Care  tedesche  melodie  mutavano . 
Intanto  Giobbe  de  la  sua  pazienza 


GIOBBE.  245 

Coglieva  i  frutti  a  pranzo  del  Prefetto, 
Dal  quale  apprese  che  la  sua  consorte 
Era  morta  di  tabe  a  l'ospedale. 
Ei  non  ne  pianse  :  se  ogni  gaudio  Iddio 
Gli  avea  serbato  in  quel  giorno  felice, 
La  fine  de  la  trista  a  lui  dal  Ciclo 
Era  mandata  certamente  a  bene. 


246  .  EPILOGO. 


Il  caso,  de'più  strani  e  de' più  rari, 
Fece  tosto  moltissimo  rumore 
Ed  in  tutti  i  giornali  letterari 
Si  lesser  molti  articoli  ad  onoro 
Del  Patriarca,  cui  davano  il  vanto 
Di  saggio,  di  magnifico  e  di  santo. 

Primo  tra  gli  altri  lo  cantò  il  Fan/ alla 
Domenicale  in  un'alcaica  adorna, 
E  tutti  quei  che  non  capiron   nulla 
Si  credetter  tenuti  a  dirne  corna, 
Tal  che  il  povero  foglio  vilipeso 
Calò  di  fama  ed  aumentò  di  peso. 

Ma  tardò  poco  a  superar  gl'intoppi 
Con  le  riviste  sue  piene  di  pratica, 
Dove  conta  col  dito  i  versi  zoppi 
E  gli  errori  di  lingua  e  di  grammatica, 
E  dove  espone  i  giovani  al  dileggio 
Di  tutti  i  calvi  che  scrivono  peggio. 


GIOBBE.  247 


Al  Fanfulla  seguì  V Illustrazione 
Con  quattro  schizzi  grandi  e  due  schizzetti, 
E  in  mezzo,  una  bellissima  incisione 
Fatta  sopra  un  disegno  del  Michetti 
Che  vi  mostrava  sopra  un  foglio  intero 
Lo  sterquilinio  copiato  dal  vero. 

E  il  Supplemento  della  Piemontese 
Sostenne  a  spada  tratta  e  spron  battuto 
Che  Giobbe  era  un  baron  saggio  e  cortese 
Dal  più  bel  Medio  Evo  a  noi  venuto; 
Ma  la  Farfalla  di  Milano  invece, 
Bohème  il  disse  della  miglior  spece. 

Classico  il  disse  il  Preludio  d'Ancona, 
E  la  Oronaca  immensa  Bizantina 
Paragonollo  in  una  colonnona 
Alla  Nerina  ed  alla  Teresina, 
Mentre  il  Costanzo  nella  sua  Fiammetta 
Gli  dedicò  di  versi  una  pol^ìetta. 


248  EPILOGO. 


L'' Ateneo  Bomagnolo  sfoderò 
Mezzo  quaderno  di  volgarità 
Adulatrici,  ed  in  ballo  tirò 
La  donna,  l'ideai,  l'umanità, 
E  finalmente  il  Direttor  si  dio 
Del  sublime  poeta  da  per  sé. 

Lo  cantò  poi  benissimo  V Alceo, 
Il  Faust  gli  dedicò  quasi  un  opuscolo, 
Lo  laudar  la  Libellula,  il  Torneo, 
Il  Prometeo,  la  Donna  ed  il  Crepuscolo, 
Il  Fan/ani,  il  BorgMni  ed  altrettali 
Bellissimi  ed  incogniti  giornali. 

Lo  stesso  Don  Chisciotte  di  Catania 
Per  cui  soltanto  Rapisardi  è  Dio, 
Ad  un  tratto  fu  preso  dalla  smania 
Di  lodar  Giobbe  e  fece  un  buscherìo 
E  un  fracasso  così  straordinari. 
Che  giunse  ad  esitar  quattro  esemplari. 


GioiìUE.  249 


E  V Opinion  del  Giovedì  coll'avia 
Grave  che  le  sta  ben,  si  prese  gioco 
Della  fredda  Gazzetta  letteraria 
Di  Firenze,  che  avea  lodato  poco  ; 
E  la  riprese  come  si  conviene  ; 
Ma  il  Fieramosca  la  difese  bene. 

Tutti  insomma  i  giornali  letterari 
Furon  pieni  d'elogi  e  di  sonetti, 
Dall'organ  magno  del  Protonotari 
Giù,  giù,  fino  all'anodino  Barctti  ; 
E  nel  Travaso  fin,  versi  divini 
Intonò  Tito  Livio  Cianchettini. 

E  siccome  sbagliar  può  in  cento  modi 
Anche  l'uom  meno  credulo  e  più  saggio, 
Il  Patriarca  si  succhiò  le  lodi 
Come  un  dovuto  e  meritato  omaggio  ; 
Ma  il  fatto  sta  che  ognun  l'avea  lodato 
Per  veder  di  cavarne  un  abbonato. 


250  EPILOGO. 

Avea  dunque  il  Signor  vinto  la  grande 
Scommessa,  che  nel  Prologo  leggeste, 
Contro  al  Nemico.  Egli  scommesso  avea, 
Se  il  ricordate  ben,  che  dal  devoto 
Labbro  del  Patriarca  un  solo  accento 
Bestemmiator,  mai  non  sarebbe  uscito, 
Per  quanto  grave  nell'aver  iattura 
Colpisse  Giobbe,  o  le  fiorenti  carni 
Gli  torturasse  orribilmente.  Indarno 
Satana  lo  colpì.  Vennero  indarno 
Gli  amici  a  tormentarlo.  Appena,  appena 
Gli  scappò  qualche  piccolo  perdìo, 
Interiezione  non  maligna.  Fermo 
Nella  sua  fede  stette  e  finalmente 
Colla  pazienza  superò  l'orrenda 
Ira  d'abisso. 

Iddio  la  gran  scommessa 
Contro  il  Nemico  vinto  avea....  Nel  cielo 
Ed  in  terra  per  ciò  si  facea  festa. 

Stanco  però  di  quegli  allegri  canti 
E  dispettoso  de  l'altrui  fortuna, 
Da  l'Inferno,  scuotendo  i  fiammeggianti 
Vanni,  Satàn  saltò  sopra  la  luna. 


GIOBBE.  251 

Fisse  lo  sguardo  ne  le  stelle  erranti 
Per  la  volta  del  elei  tacita  e  bruna, 
E  volgendolo  giù.  verso  il  profondo, 
A  pena  scorse  il  piccioletto  mondo. 


a.  Folle  natura  de  la  schiatta  umana 
Che  l'esistenza  di  per  sé  peggiora  ! 
Stolti  nati  da  Dio  —  disse  Satana 
Malignamente  sogghignando  allora  — 
Se  di  quassù  vedeste  la  lontana 
Vostra  microscopissima  dimora, 
Riconoscendo  forse  i  scerpelloni 
Esclamereste  :  a  Come  siam  buffoni  !  » 

a  E  forse  (oh  sorte  !  benché  sia  già  tardi 
Per  il  buon  gusto  e  la  letteratura) 
Dai  poemi  di  Mario  Rapisardi 
La  società  potrebbe  andar  sicura, 
Non  vedrebbe  così  senza  riguardi 
Intitolarmi  una  sbrodolatura 
Da  chi,  se  la  superbia  mia  conobbe, 
Ignora  certo  l'umiltà  di  Giobbe.  » 


252  EPILOGO. 


Qui  tacque  e  il  guardo  all'alto  ciel  rivolto 
Un  riso  die  superbataente  altero 
Che  l'aspetto  gli  fé' truce  e  stravolto. 
Indi,  come  colui  eh' è  in  gran  pensiero 
Tutto  ad  un  tratto  ottenebrossi  iu  volto, 
Aperse  l'ali  e  s'innalzò  leggiero 
Ver  la  plaga  gentil  del  Paradiso 
Eapidissimamente.  —  Avea  deciso. 

Nel  tempo  che  tu  leggi  due  parole 
Ei  del  Dio  ladro  traversò  il  pianeta  j 
Baciò  Ciprigna  e  si  scaldò  nel  sole, 
E  visto  Marte  da  la  faccia  inquieta 
E  Giove  con  le  sue  bianche  figliuole, 
La  cerchiata  guardò  massa  incompleta 
Del  Dio  che  instrusse  le  romane  squadre. 
Si  mangiò  i  figli  e  smascolò  suo  padre = 

Giunto  in  tal  modo  al  tempio  eccelso  e  pio, 
Somigliante  a  una  gran  coppa  di  vetro, 
Sorpreso  a  tanto  femminil  vocìo 
Pensò  più  volte  di  tornare  indietro: 


GIOBBE.  253 


Ma  risoluto  di  parlar  con  Dio 
Bussò  alla  porta  e  comparì  San  Pietro, 
Il  quale,  intimorito  a  la  feroce 
Vista,  si  fece  il  segno  della  croce. 

Satana  rise  e  stesagli  la  mano 
Domandò  tosto:  a  È  in  casa  il  Tadie  Eterno?  -o 
Ripreso  fiato  il  santo  guardiano, 
Mandò  a  cercarlo  per  un  subalterno, 
Tanto  per  avvisarlo  sottomano 
Ch'era  venuto  il  sire  dell'Inferno 
E  che  pria  di  venire  in  parlatorio 
S'armasse  d'acqua  santa  e  d'aspersorio. 

Quando,  temente  dì  novel  martoro, 
Smorto  il  messaggio  traversò  le  sfere 
Piene  di  lieti  cherubini  d'oro 
E  d'odorose  nuvole  leggiere, 
S'agitò  tutto  il  santo  concistoro 
E  gli  si  strinse  adesso  per  sapere 
Qual  tristo  caso  mai  fosse  accaduto 
Ch'egli  era  così  pallido  o  abbattuto. 


254  EPILOGO. 


a  Kagazzi  miei,  rispose,  stamattina 
Quando  ci  siamo  tutti  radixnati 
Allo  squillar  della  tromba  divina, 
La  Somma  Verità  ci  ha  canzonati! 
Di  Lucifero  è  falsa  la  ruina 
E  i  trionfi  di  Dio  sono  inventati:  ' 

Il  fatto  è  fatto;  il  Diavolo  è  a  le  porte 
Ed  hanno  le  bugie  le  gambe  corte.  » 

A  le  parole  de  l'ambasciatore 
Fu  tanta  la  sorpresa  e  lo  sgomento 
Onde  agghiacciossi  agli  altri  spirti  il  core, 
Che  il  Paradiso  fu  tutto  un  lamento. 
Non  può  paragonarsi  un  tal  rumore 
Che  un'altra  volta  al  nostro  Parlamento 
Quando,  concluso  che  concluderanno, 
S'alzano  i  deputati  e  se  ne  vanno. 

Il  Padre  Eterno  che  su  l'aureo  trono 
Leggendo  il  Giobbe  s'era  addormentato, 
Scosso  da  quell'orribile  frastuono 
Balzando  in  piedi  come  trasognato, 


GIOBBE.  255 


Si  fregò  gli  occhi  ed  esclamò:  a.  Dio  buono, 
Perchè  tanto  rumor?  Che  cosa  ò  stato? 
Forse  l'adagio  conferman  col  fatto, 
Ballano  i  sorci  quando  dorme  il  gatto?  » 

Dolente  allora  il  messaggier  divino 
Gli  si  accostò  con  lagrimoso  ciglio. 
Fatta  la  smorfia  solita  e  l'inchino 
De  l'imminente  l'avvisò  periglio 
Che  con  Sat.ana  prevedea  vicino; 
Gli  suggerì  di  San  Pietro  il  consiglio 
D'armarsi  d'acqua  santa  o  de  la  paglia 
Su  cui  morì  il  prigion  da  Sinigaglia. 

A  la  dura  novella  il  glorioso 
Padre  fu  per  cascar  subitamente. 
A  San  Luigi  s'appoggiò  pensoso 
Figgendo  gli  occhi  su  la  mesta  gente. 
Ma  poi  di  tanta  sua  viltà  sdegnoso, 
Alzando  il  pugno  coraggiosamente, 
Sclamò  con  voce  ferma  al  famigliare: 
a  È  venuto  Satàn  ?  Fatelo  entrare.  » 


251)  EPILOGO. 


Come  quando  a  calmar  l'estiva  arsura 
S'avanza  il  temporal  gravido  e  lento 
E  tacita  riposa  la  natura, 
Né  s'ode  voce,  ne  sospira  vento, 
A  questa  decision  pronta  e  sicura 
S'acquetarono  i  santi  in  un  momento; 
Però  tremanti  ne  l'incerta  attesa 
D'un  gran  perdono  o  d'una  grande  offesa. 

Satana,  avuta  la  risposta,  mosse 
Verso  il  trono  di  Dio  sdegnoso  e  fiero. 
Bench'egli  avesse  come  fiamma  rosse 
Le  pupille  e  peloso  il  corpo  nero, 
Trasaliron  le  vergini  commosse 
Al  suo  robusto  portamento  altero. 
Egli  avanzossi  e  contro  al  re  dei  Santi 
Queste  fiere  avventò  voci  tonanti  : 


GIOBBE.  257 


Dio  del  mondo, 
Se  improvviso 
Nel  giocondo 
Paradiso, 
Dal  profondo 
Del  Oocito 
Son  salito 
Senz'invito, 

Bassicura 
Le  tue  schiere, 
E  una  dura 
Non  temere 
Disventura. 
Già  l'Audace 
Si  compiace 
De  la  pace  ! 

Se  a  trattare 
Vengo  franco. 
Non  pensare 
Che  sia  stanco 
Di  pugnare, 


17 


258  EPILOGO. 

Che  al  tuo  stuolo 
Magricciuolo 
Basto  io  solo, 


Ma,  o  collega, 
Per  dar  j)osa 
A  la  bega 
Vergognosa 
Che  ci  niega 
Ogni  aita 
Ne  la  vita 
Eimbambita, 


Lo  strumento 

De  la  pace 

Ti  presento 

Con  verace 

Pentimento, 
Ma  col  patto 
Che  sia  fatto 
Tal  contratto: 


GIOBBE.  259 


Darti  in  dono 
Mi  compiaccio 
Con  Pio  nono 
Gregoriaccio, 
T'abbandono 
Quel  monello 
Del  ribello 
Don  Campello, 

Ma  tu  sire 

Con  gii  squilli 

Del  Dies  ire 

I  pusilli 

Dei  punire, 
Caccia  il  mondo 
Nel  profondo 
Finimondo. 

Se  a  trattare 
Vengo  franco, 
Non  pensare 
Che  sia  stanco 
Di  pugnare, 


2G0  EPILOGO. 

Che  al  tuo  stuolo 
Magricciuolo 
Basto  io  solo, 

Ma,  o  collega, 
Vo'  dar  posa 
A  la  bega 
Vergognosa 
Che  ci  niega 
Ogni  aita 
Ne  la  vita 
Eimbambita  ! 


GIOBBE.  261 

Il  Maligno  così  dava  promessa 
D'eterna  pace  a  Dio,  pur  che  la  terra 
Fosse  distrutta  e  il  giorno  del  Giudizio 
Fosse  de  la  tenzon  l'ultimo  giorno  ! 
Gli  angeli  e  i  santi,  i  quali  a  la  proposta 
Dolcissima  di  pace  a  poco  a  poco 
S'eran  venuti  rallegrando,  aliìnc 
Uscirò  in  grida  d'entusiasmo. 

Troppo, 
A  certi  santi  moderati,   audace 
La  domanda  parca,  né  clie  tal  fosse 
La  colpa  umana  da  troncar  col  iìero 
Giudizio  estremo.  Ma  il  pensier  che  dopo 
Quel  sacrificio,  la  serena  gioia 
Del  Paradiso  dagli  avversi  spirti 
Non  verrebbe  turbata  in  sempiterno, 
Il  moto  vinse  di  pietà  che  prima 
Alcuni  petti  avea  commosso.  —  Il  Sommo 
Padre  col  campanel  piìi  volto  indarno 
Al  silenzio  chiamò  la  saltellante 
Turba,  che  tacque  solo  allor  che  Sàtana 
Fischiò  col  medio  e  l'indice  fra  i  denti. 
Iddio  sorrise  a  l'atto  grazioso, 
In  piedi  alzossi  e  cominciò  a  i^arlare  : 


2G2  EPILOGO. 


Se  da  lo  siiiagge  dove  Aclieronto 
Volge  furioso  le  fosche  areno 
Tu  mi  promotti  l'audace  fronte 
Verso  le  plaghe  del  ciel  serene 

Di  non  alzar; 
In  questo  istante  sul  mio  asinelio 
Nel  basso  mondo  scendo  bel  bollo 
Per  giudicar. 

Con  questo  patto  l'antico  amoro 
Forse  in  eterno  confermeremo; 
Messo  da  parte  l'odio  e  il  rancore 
Gli  anni  in  tranquilla  trascorreremo 
Felicità. 
Mettete  il  basto  su'l  mio  asinelio 
Che  ora  nel  basso  mondo,  bel  bello 
Si  calerà. 


GIOBBE.  2G3 

Tutto  d'intorno  s'agitò  il  Concilio 

D'una  sol  voce  confermando  1  detti 

Del  Padre  Eterno,  che  i  quinari  snelli 

Avea  trattati  per  non  star  di  sotto 

A  Satana.  —  Di  poi  bene  iniitaudo 

Il  podestà  di  Sinigaglia,  al  massimo 

Dei  presepi  del  ciel  cheto  avviossi. 

A  questo  punto  narra  il  Vate,  come 

«  Ivi,  poiché  dì  Giosuè  la  verga, 

Del  sole  il  cocchio  a  mezzo  il  ciel  sostenne, 

E  impietriti  restar  di  sotto  al  giogo 

I  fulminei  cavalli,  una  falange 

D'umili  sì  ma  intelligenti  onagri 

Pasce  in  greppie  d'argento  orzi  ed  avene 

Di  tal  virtìi,  che  nel  lor  sangue  infonde 

Gaio  tripudio  e  giovinezza  eterna. 

Non  appena  sentir  sopra  la  soglia 

La  presenza  del  Dio,  tutti  in  un  punto 

Drizzare  i  colli  ed  aftilàr  le  orecchie 

Lievemente  anelando  ;  e  a  lui  rivolti 

Con  dolci  e  riverenti  occhi,  la  voce 

Del  comando  attendean.  Videli  il  Nume 

Lucidi  e  belli  e  ne  gioì  ;  ma  il  cenno 

Che  tutto  può,  valse  a  te  solo,  illustre 


264  EPILOGO. 

Asin  di  Betelemme,  a  cui  su'l  dorso  — 
Premio  dell'ojjra  onde  immortai  tu  vivi  — 
Crescon  due  luminose  ali,  per  cui, 
Pregio  da  tutti  invidiato,  e  solo 
Da  Dio  concesso  a  le  beate  essenze, 
Varchi  il  cielo  senz'orme  e  l'aer  fendi,  b 
Satana  rise  pel  grottesco  aspetto 
Del  Nume  e  del  somaro.  Indi  pensoso 
Si  tacque  forse  per  virtude  arcana 
Antileggendo  quel  che  il  Vate  aggiunge: 
«  Tu  presentisti  il  divin  cenno,  ed  ambe 
Le  ginocchia  piegando,  appo  la  ferma 
Con  chiovi  adamantini  aurea  predella, 
Offeristi  umilmente  il  dorso  alato. 
Fé'  forza  il  Nume  e  vi  montò  ;  si  attenne 
Con  ambe  mani  a  le  i^ietose  orecchie 
Del  diletto  onigrifo;  ai  ben  pasciuti 
Fianchi  gli  strinse  le  ginocchia  inferme, 
Gli  occhi  serrò,  diede  la  voce,  e  via 
Lascia  il  cielo.  »  Satàn  dischiusi  i  vanni 
Dietro  gli  venne  e  in  un  minuto  appena 
Scesero  insiem  su  l'Etna  fiammeggiante 
Dove,  de'  versi  ch'io  v'ho  detto,  ancora 
Eipetea  l'eco  le  trullanti  voci. 


i 


265 


Era  il  mattino  e  il  sol  da  le  tranquille 
Onde  dell'Ionio  mar  salìa,  celando 
La  faccia  d'oro  tra  le  nebbie,  quasi 
Presago  dell'orribile  sciagura. 
Satana  allor  rivolto  a  Dio:  —  M'aspetta, 
Sclamò,  su  questo  vertice  nevoso 
Mentre  ch'io  scendo  pel  cratere  al  fosco 
Mio  regno  a  sollevar  l'orde  seguaci. 
Quando  sui  Monti  Bossi  e  la  Buina 
Vedrai  di  fumo  sollevarsi  al  cielo 
Un   orrido  pennacchio,  allor  col  cenno 
Dagli  angeli  che  già  calan  da  l'alto 
Invoca  il  grido  mistico  ed  i  sette 
Tuoni  con  la  fanfara  de  la  Morte.  — 
Disse  e  tuffossi  nella  Cisternazza. 

Il  Padre  Eterno  si  guardò  d'intorno 
E  quando  ascosa  fra  i  vapori  scorse 
Appena  appena  la  vocal  Catania, 
Dal  divin  petto  un  ^ran  sospiro  all'aere 
Mandò  esclamando:  —  0  povero  figliolo 
(Forse  in  quest'ora  di  già  curvo  sulle 
Sudate  carte  del  tuo  Giobbe  !)  ascolta. 
Se  fra  poco  l'umil  tetto  campestre, 

"i8 


266  EPILOGO. 

Picciol  peso  a  la  terra,  e  ad  esso  in  giro 
Di  contro  a  Mongibel  le  brevi  aiuole, 
Caro  asil  de'tuoi  sogni  ed  ara  insieme 
Ove  talor  sagriflchi  a  le  Muse, 
Saranno  invase  da  l'ardente  lava, 
Non  creder  già  che  men  clemente  e  giusto 
Iddio  sia  teco.  Una  maligna  forza 
M'astringe  a  tanto  onde  aver  pace  in  cielo. 
Però  non  disperar,  che  fra  i  beati 
Un  aureo  seggio  non  saprò  negarti. 
Da  quando  bimbo  a  la  romita  pieve 
Col  cuor  gonfio  di  preci  e  di  paixre 
Movevi,  ai  giorni  che  proruppe  in  nitide 
Forme  dai  torchi  il  soliloquio  estremo 
Del  primo  che  per  la  cristiana  fede 
Morì  schiacciato  da  profane  selci 
Con  simpatico  sguardo  io  ti  seguiva. 
De  la  tua  Palingenesi  ì  vocali 
Papaveri  gustai  che  t'han  fruttato 
Laudi  dall'Hugo  che  il  tuo  idioma  ignora. 
Il  giulebbe  gustai  de'catulliani 
Tuoi  tradimenti  e  ia  travestitura 
Di  Lucrezio  e  le  care  Bicordanze 
Così  piene  di  zucchero  e  di  brodo. 


GIOBBE.  207 

Mi  canzonasti  un  po' nel  tuo  Lucifero, 
Ma  poi  ch'io  so  come  d'un  core  ingrato 
Ti  feci  dono,  non  me  n'ebbi  a  male. 
È  tutta  colpa  mia.  Stavi  facendo 
La  tua  serena  concezion  del  Giobbe, 
Quand'ecco  stretto  da  promessa  e  vago 
Di  finir  ne  la  pace  i  vecchi  giorni, 
Sto  per  frangere  il  mondo.  Oh,  poveretto, 
Chi  ti  darà  l'applauso  e  le  corone 
Che  omai  ti  promettevi?  Addio  corone. 
Cattedra  addio,  scolari  buonanotte  ! 


2G8  EriLouo. 


Eri  superbo  ;  il  so.  Tu  ti  credevi 

Il  primo,  il  solo  vate, 
Ed  orgogliosamento  sorridevi 

A  le  turbe  prostrate. 

Davi  il  bìblico  crine  in  proda  al  vento, 

Il  tuo  crin  di  Sansone; 
Portavi  il  capo  come  il  Sacramento 

Quando  va  in  processione, 

Meravigliando  nel  superbo  orgoglio 

Di  non  veder  persona 
Che  venisse  a  condurti  al  Campidoglio 

Per  cinger  la  corona. 

E  sorridevi  amaramente  a  questo 

Secoletto  birbante 
Che  non  conobbe  in  te,  troppo   modesto, 

Il  vincitor  di  Dante. 


GIOBBE.  2G9 


Insuperbivi  in  te  d'aver  domato 
L'empio  Enotrio  Romano 

Con  un  solo  tuo  cenno,  accompagnato 
Da  un  sonetto  sovrano. 

Insuperbivi,  e  ben  ti  si  conviene, 

D'avergli  steso  accanto 
De  Gubernatis,  che  ti  fé' del  bene 

Senza  menarne  vanto. 

Eri  forte,  eri  grande,  eri  sublimo, 

0  mio  figlio  diletto, 
E  i  gravi  sciolti  e  le  stitiche  rime 

Ti  prorompean  dal  petto. 

E  i  critici  toscani  ed  i  lombardi. 

Vinti  dallo  spavento, 
Sottoscrivean  per  te,  mio  Rapisardi, 

Per  farti  un  monumento. 


270  EPILOGO. 


E  colà  dove  l'Arno  al  mar  dicliina 

Tra  una  gente  civile, 
Lambendo  il  pie  della  città  regina 

D'ogni  arte  più  gentile, 

Tal  si  trovò  che  su  le  Sacre  Carte 

Piegò  la  testa  scema, 
E  per  tua  gloria  e  per  l'onor  de  l'arte, 

Figliò  questo  poema. 

Non  ti  doler  se  ti  par  fotto  male 

E  con  ritmi  diversi  ; 
Pensa  che  il  nome  tuo  sarà  immortale 

Solo  per  questi  versi. 

Rovineran  de' sciolti  tuoi  le  some 

Del  muto  oblio  nel  fondo. 
Ma  in  questo  Giobbe  durerà  il  tuo  nome 

Malgrado  il  finimondo  ! 


CIOIiRE.  271 

Ed  ecco  udissi  ne'  crateri  un  rombo, 
Indi  un  tremuoto  orribilmente  scosse 
Da  le  radici  il  monte.  —  Intorno,  intorno 
Dai  pili  remoti  abissi  de  la  terra 
Di  ceneri,  di  pomici  e  di  eassi 
Scagliata  al  ciel  profondo  una  rovina 
Velò  la  luce  de  l'estremo  sole.  — 
Negli  ardui  templi,  per  le  vie,  pei  fóri 
Già  illuminati  dal  baglior  d'Averuo 
Corron  piangendo  forsennato  turbe 
Di  poverelli  ad  invocar  dal  cielo 
Di  non  commesse  crudeltà  perdono. 
Tutto  sordido  il  crin,  squallido  il  viso, 
Chi  un  giorno  bestemmiò,  giace  tremante 
A  piò  dell'ara  ove  sorride  immota 
L'imagine  di  Dio.  —  Qualche  poeta 
Che  un  dì  la  penna  nei  sereni  gorghi 
De  le  pagane  correntie  deterse 
Impreca  a  Giove  e  all'ora  che  su  l'orme 
Il  piede  mise  de'ribelli  eterni. 


272  EPILOGO. 

Seduti  intanto  il  Sommo  Padre  e  Satana 
Sopra  le  lave  de  l'etnèo  cacume 
Col  telescopio  si  godean  l'orrenda 
Vista  ridendo  a  crepapelle,  tanto 
Che  il  fiero  Sire  avea  negli  occhi  lacrime 
Di  fuoco  ardenti  e  profumate  l'altro 
Goccie  di  purgativa  Zoedóne. 
Certo  men  lieti  su  la  stessa  cima 
Non  si  posaro  gli  alpinisti,  dopo 
L'aspra  salita  e  il  pranzo  onde  il  Comune 
Si  dissestò  di  Biancavilla. 

Il  settimo 
Sigillo  apriva  del  misterioso  : 

Libro  l'Agnello  su  nel  ciel.  —  D'intorno 
Tacque  lo  spazio  per  mezz'ora,  mentre 
Calar  d'innanzi  al  Padre  e  al  suo  nemico 
I  sette  spirti  con  le  sette  trombe. 
Un  altro  venne  e  si  fermò  d'appresso 
Col  turibolo  d'or  pieno  di  mirra; 
E  dolio  averlo  ripetutamente 
Dondolato,  gittollo  sulla  terra 
Tra  una  furiosa  chioma  di  saette. 


GIOBBE.  273 

Addio,  sereno  de  le  muse  albergo, 
Culla  de  l'Arte  e  figlia  prediletta 
De  la  Natura,  moribonda  Esperia, 
Già  l'angelo  fatai  porta  a  le  labbra 
La  prima  tuba  e  sulla  terra  lascia 
Cader  frammiste  a  una  pioggia  di  sangue 
Falde  di  fuoco  che  distruggon  tutte 
Le  florid'erbe  e  gli  alberi.  —  Diviene 
Denso  qual  siero  e  rubicondo  il  mare 
All'altro  squillo  —  al  terzo  si  tramutano 
E  i  fiumi  e  i  laghi  e  le  fontane  e  i  pozzi 
In  puro  assenzio,  onde  briachi  cadono 
(0  degna  fine  a  l'ambizione  umana!) 
Molti  mortali  per  le  terre  — 

Agli  ultimi 
Suoni,  fioccando  come  neve  in- alpe, 
Si  sciolsero  stridendo  i  rai  dorati 
Del  sole  e  i  bianchi  de  la  luna  ;  e  apris 
lUna  vorago  a  vomitar  locuste 
Colla  corona  su  la  testa  d'uomo, 
I  capei  lunghi,  i  denti  di  leone. 
Coverto  il  seno  femminil  d'usberghi, 
E  di  scorpion  la  coda.  —  Estremi  mossero 
I  quattro  fidi  da  l'Eufrate,  innanzi 


274  EPILOGO. 

Ai  furiosi  (lestrier  spiranti  in  negro 
Fumo  sulfuree  vampe  ed  agitanti 
Le  pendale  ceraste,  onde  percossa 
Giacque  l'umanità. 

Così  fur  pieni 
I  patti  che  il  Signor  fe'col  Nemico 
E  le  scioccliezze  de  l'Apocalisse. 


Cantan  gli  spirti  sovra  le  ruine 
Dove  Catania  fu,  dove  fu  il  mondo, 
E  dicon  quel  che  segue  in  lor  favella 


GIOBBE.  275 


COEO    FIXALE. 


T;rcx,ptTÒv  A£ju.r|T£p 

licci  Zsvq  VTìióy  ì.svx'^i 

"Ayicq  Uèrsp 

Bxì.wc,  ^a).w^ 

liizw. 
Tov  j3apa>.:ffT3v  (Jàptov 

Maxàptsv  Màptov 
Mapa/iao), 


FlXE. 


INDIO  E 


DEDICA Pag.    VII 

EPISTOLA D         IX 

PROLOGO   IX   CIELO. 


Il  cielo  —  Il  riposo  dell'  Eterno  —  La  pace  del  Paradiso 

—  Inno  conviviale  —  Il  convito  —  Voce  dalle  sfere  — 
Voce  dalle  nubi  —  Voce  dalle  cucine  —  Voce   nel  naso 

—  Il  chilo  —  Le  danze  —  Avvento  di  Lucifero  —  Sue 
proteste —  Risposte  dell'Eterno  —  Xotizie  su  Gigi  Al- 
berti e  il  seppellimento  di  Pio  IX  —  Giustizia  resa  — 
Notizie  di  Giosuè  Carducci  —  Notizie  di  Giobbe  —  Giobbe 
concesso  a  Lucifero  —  Voce  dei  Santi.  —  Voce  delle 
Vergini  —  Voce  degli  Angeli  —  Voce  degli  imbe- 
cilli         „ 


CANTO   PRIMO 
lOB. 

Notte  —  La  cena  di  Giobbe  —  L'inno  del  poi>ta  —  il  gior- 
nalista —  La  pioggia  di  fuoco  e  la  distruzione  degli  ar- 
menti —  I  Sabei  rapiscono  i  buoi  e  i  Caldei  i  cammelli 
—  Ozi  di  Giobbe  —  Gli  giungono  le    notizie  —  Satana 


278  INDICE. 


gli  distrugge  la  casa  e  la  famiglia  e  lo    copre   di   ulceri 

—  Lamento  di  Giobbe  sullo  sterquilinio  —  La  moglie  di 
Giobbe  chiede  consiglio  per  divorziare  —  Dimostrazione 
delle  donne  di  Hus Pag.    33 

CANTO   SECONDO 

ELIPHAZ. 

Orribile  stato  del  Patriarca  Giobbe  —  È  portato  allo  ster- 
quilinio —  Apostrofe  della  moglie  —  I  tre  amici  —  Eli- 
phaz  cerca  persuadere  Giobbe  che  la  causa  de'suoi  mali 
sono  gli  errori  politici  —  Nega  il  Patriarca  e  parla  da  so- 
cialista —  Voce  di  poliziotti  —  Voce  di  Prefetti  —  Voca 
di  Ministri  -r-  Tentativo  di  Eliphaz  per  convertir  Giobbe 
al  clericalismo  —  Ira  del  paziente  —  Voce  di  frati  — 
Voce  di  preti  —  Parlano  i  moderati  —  i  progressisti  — 
i  repubblicani  —  i  socialisti  —  1  trasformisti  —  Dubbi 
di  Giobbe  —  I  gruppi  —  La  tenzone  bucolica  tra  Eliphaz 
e  Giobbe  —  Gli  Dei  minori  della  Destra  —  Gli  Dei  mi- 
nori della  Sinistra  —  Gli  Dei  maggiori  della  Destra  — 
Gli  Dei  maggiori  della  Sinistra  —  I  giornalisti  —  Notte 

—  Voce  nel  buio „      67 


CANTO   TERZO 

BALDAD. 

Baldad  filosofo  e  suoi  studii  —  Tenta  di  persuadere  Giobbe 
a  cercare  consolazioni  nella  filosofia  —  Risposta  di  Giobbe 
—  I  filosofi  de'Licei  —  Esodo  dei  filosofi  meridionali  — 
I  filosofi  delle  Università  —  La  critica  —  L'anacreontica 
del  giunco  —  La  medicina  e  le  Academie  —  Voce  dai 
Mauicomi.    .         „    131 


INPICE,  279 

CANTO    QUARTO 

SOPHAR. 

Mattino  —  Sopliar  Naanianita  invita  Giobbe  a  ccrcam  con- 
forti nella  letteratura  —  Parole  di  Giobbe  —  Voce  dai 
Licei  —  Voce  dai  Ginnasi  —  Voce  dagli  Asili  —  Rime- 
dio del  romanticismo  —  I  metri  difficili  —  Rimedio  cat- 
tolico —  educativo  —  patriottico  —  I  poeti  romani  — 
Coro  di  ciociari  —  Un  Grande  clie  rimane  —  I  poeti 
lombardi  —  I  poeti  piemontesi  —  Medio  Evo  —  I  poeti 
toscani  e  bolognesi  —  I  poeti  meridionali  —  Gli  storici, 
gli  eruditi  e  i  filologi  —  I  dantofili  —  Parla  Dante  — 
Gli  educatori  —  Le  scrittrici  —  Il  teatro  —  I  prosatori 
—  Scphar  prende  la  parola Pag.  1G7 

EPILOGO   IN   TERRA. 


Giobbe  è  trovato  giusto  e  risana  —  Dio  lo  annunzia  ai 
celesti  —  Feste  di  Hus  —  I  giornali  letterari  —  Satana 
vola  in  cielo  —  Propone  la  pace  a  Dio  purché  il  mondo 
sia  distrutto  —  Dio  acconsente  —  L'asino  è  sellato,  e 
scendono  in  terra  —  Lamento  di  Di'j  —  Il  flnimondo  — 
Canto  fiuale „     237 


Finito  di  stampare 

il  giorno  XV  del  MDCCOLXXXII 

alle  ore  XI  e  minuti  LIX  antimerid.  precisi 

mentre  passavano  sotto  le  finestre 

un  cane  ed  un  poeta 

sensa  museruola. 


Lire   Quattro^