=10
-CSI
=in
-CSI
|o
ito
"r^
io
./f /^'
^P^
iff.
/
Presented to the
LIBRARY ofthe
UNIVERSITY OF TORONTO
from
the estate of
GIORGIO BANDINI
SEKKXA CitXCEZTdXE
MARCO BALOSSARDl
Seconda edizione.
NELLA TERRA DI HUS
a spese della C'oìonìn Avendicn Simetei
MDCCCr,XXXII.
XX x'//''
GIOBBE.
"Ì'!É
C3- I O B B E!
SERENA CONCEZIONE
MARCO BALOZ^Aimi
Seconda Edizione.
^^(S^
NELLA TERRA DI HUS
>t spese della Colonia arcadica Slineten
MDCCCLXXXII.
l'ItOl'lJIKTA I.KTTKKAHIA.
'J il il i ) (lirUli r i sr r r <i I i ■
]\]il;mo - Tip. (lei Fi'atclli Ii'Cmcs.
ITALIANI
CHE. LARGITE. LAVEO. TRIONFALE.
AD. OGNI. GIULLARE.
ONORATENE. ALTRESÌ. QUESTO. POEMA.
AI. MANI. CONSACRATO.
DI. BARABALLO.
Cui tanl'ùiita la so carru tent,
Tan'u cchih presiti lu pinnlnu pùjcjhia.
Fror. calati.
À
CAMILLO QVEENO
MONOPOLITANO
ARCHIPOETA
EFISTOLA.
Firenze, la notte dell'Epifania del 1SS2.
Perchè in nitida forma alfln prorompa
Dai ferrei torchi, e terra e ciel non tema
Questo del mio pensier figlio diletto
Cui sta sul fronte il glorioso nome
Scritto di Lui che t'emulò nel santo
Riso e nel cor del decimo Leone,
Temer degg'io che di livido ingegno
E d'anima superba tu m'accusi"?
Prima ascolta gli auguri. A questa cara
Madre, l'Italia, mancherà ben presto
D'un suo Aglio l'amor. Candide nevi
Già mi pio V ver sul crine. Il corpo stanco
Tragge al riposo della tomba e forse
L'ultima è questa alata voce ond'io
X EPISTOLA.
De la mia vita un segno al bel j)aese
Che mi fu culla, do. L'ultima è questa
Parola di dolor che mi prorompe
Dal cor disingannato ! Io ti sognai,
0 cara madre mia, nel glorioso
Tuo seggio assisa e ti facean corona
1 liberi poeti ed i pensosi
Soft e i gran capitani e i bene accorti
Che la ragion di Stato e la tua gloiia
Studiano insieme. Ti sognai tornata
Eegina e grande... ma la morte omai
Presso mi sta, nò il caro sogno è vero!
Odi l'augurio che dal cor profondo
Il canuto ti manda, o j)atria cara:
Possa, deh, su la tomba ov'io non reco
Eredità d'affetti e, dei chiamati
Col nome mio, discendo ultimo e solo,
L'oblio posar perennemente! 0 possa
Il mio sonno turbar la maledetta
E sacrilega man di ladro infame;
Possa, il mio nome bestemmiato, ai tardi
Nepoti nostri ricordar soltanto
Memorie di vergogna e vitupero.
Ma tu levarti alfin da questo brago
Dove la vii mediocrità ti tiene!
T'auguro questo.
Le discordi voci
Nel bel paese gracidanti, assieme
EPISTOLA. XI
S'uniran per fischiarmi: io non le curo.
Fama non cerco e l'iagiuria disprezzo.
Io non distesi già l'audace mano
Sull'onor di nessuno e rispettai
In tutti l'uomo. Non indussi il volgo
Nei domestici lari o ne le chiuse
Coscienze. Ma stimai come mi parve
Quel che ciascun del pubblico al giudizio
Espose. Anch'io son pubblico ed anch'io
Giudico come tale. 0 voi, che nulla
Contraria voce sopportate e grandi
Per forza esser volete, ecco le pietre
Per lapidarmi se il potete. Io sprezzo.
Sprezzo: ma se de la mia vita il breve
Stame non cessi pria del tempo, io sj)ero
Eagunar tutte le pietre scagliate
Indarno contro me, per farne un alto
Monumento ed eterno, ove si legga
La mia vendetta e la miseria vostra.
E tu che il lido di Catania estremo
De le tue ciance assordi e i compiacenti
Tuoi scolaretti a l'infantil tumulto
In tuo favor commovi, inutilmente
Ti dorrai del mio canto e doloroso,
Sdegno e pietà mendicherai mostrando
I meritati lividi. Tu solo
L'hai voluto. Non è come tu fai
XII EPISTOLA.
Che s'è grati del bene. Hai ridestato
Le vecchie gliene del Filelfo, i vecchi
Odi del Caro, le vergogne antiche
Del Miirtola tra noi; parato dunque
Ai colpi esser tu devi. Hai morsicato
La man che pria baciavi, or non dolerti
Se quella mano ti percuote. È tuo
Questo scandalo. Invan ne la superba
Anima tu guai sci. È la corona
Questa che ti si deve e che ti cingo.
L'odio già sento che il velen m'avventa
Sibilando, e l'amor de le migliori
Amistà via fuggir; ma non mi cale.
Solo starò come solingo sasso
A cui rigido bora e il ciel maligno
Nullo consente onor d'erbe e di rami:
Si dilungan da lui greggi e pastori,
Ti dilunghi tu stesso, Archipoeta,
Cui l'epistola è sacra: impauriti
Passan lungi gli augelli ; egli co' nembi
Pugna indefesso, infin che una nemica
Forza lo schianti o il suol natio l'inghiotta.
PROLOGO
IN CIELO.
Ecce universa qum /laOet hi imoia tua sant.
Joii I. 12.
ARGOMENTO.
Il cielo — Il riposo dell'Eterno — La pace del Paradiso — Inno
conviviale — Il convito — Voce dalle sfere — Voce dalle nubi
— Voce dalle cucine — Voce nel naso — Il chilo — Le danze
— Avvento di Lucifero — Sue proteste — Risposte dell'Eterno
— Notizie su Gigi Alberti e il seppellimento di Pio ìX — Giu-
stizia resa — Notizie di Giosuà Cr.rdncci — Notizie di Giobbe
— Giobbe concesso a Lucifero — Voce dei Santi — Voce dello
Vergini — Voce degli Angeli — Voce degli imbecilli.
GIOBBE
Sta nella luce dell'azzurro immenso,.
Sta nella gloria immobile ed eterna
L'Onnij)ossente. Intorno a lui le sfere
Eotan cantando e danzano le stelle,
Scintillano i pianeti, e, l'ondeggiante
Giuba movendo, l'orride comete
Paion domate dall'eterna possa
Come belve soggette al domatore.
Nubi dell'infinito, iridescenti
Parvenze del creato, in alto in alto
Passan le nebnlose. Esce da loro
Una misteriosa sinfonia.
4 PROLOGO.
Esce UQ coro dolcissimo che narra
Le glorie del Signor che tutto move,
La potenza del Dio che crea dal nixUa.
Sta sull'eccelso trono il Padre. Gusta
L'ozio del pomeriggio, e ne' socchiusi
Occhi del digerir pare il lavoro.
Dell'ambrosia celeste e del divino
Nettare a lui da' chèrubi recato
E tracannato dalla immensa gola,
Compie il chilo santissimo, nell'ampio
Trono distese le possenti membra.
Nella canuta barba si riposa
La man che move i mondi, e le celesti
Labbra curvate ad un sorriso eterno
Emettono i sospiri a cui l'immane
Pondo del cibo è causa e cui le dolci
Armonie del russar sono vicine.
E russa. Tace allor tutta l'immensa
Corte del cielo j tacciono le sante,
Taccion fino i poeti a cui le j)orte
Furon del cielo per isbaglio aperte.
Russa, e dal naso eterno esce un fragore
GIOBBE.
CoTiic di tuono, e tremano atterrite
Le sfere e 1 mondi. I cherubini intanto
Movendo l'ale lentamente, come
Giovinetta gentil move il ventaglio,
Einfrescan l'aria intorno al santo capo,
Caccian le mosche dall'eterno naso.
E russa. Come chi vede il suo prossimo
Spalancar le mascelle allo sbadiglio
E sente tosto rilasciarrsi i muscoli
E salir lo sbadiglio per le fauci,
Così la corte de' celesti al tuono
Del russar sacrosanto è come presa
Da fulmineo contagio, ed imitando
Il dormente Fattor della natura
Cade in letargo e al suo russar fa coro.
Paissano tutti. Chi disteso a terra
Con le mani incrociate in sulla j)ancia,
Chi col ventre sul soffice ta'pj)eto.
Chi rannicchiato, chi seduto a gambo
Larghe. I beati, le beate, i santi,
Le sante, i cherubini, le angiolessc,
A mucchi, a strati, mescolatij colle
6 PKOLOGO.
Braccia intrecciate, colle gamlie all'aria,
Di qua, di là, di su, di giìi, uiiscliiati,
Confusi, aggrovigliati in mille guise.
Dormono, e dalle sacre bocche un largo
E profondo russar levasi insieme.
Sembra l'Olimpo nell'atto secondo
Della vecchia operetta Orfeo aW Inferno.
Trecent'anni russar profondamento
Come lettori di poemi odierni
In versi sciolti: e russerebber sempre.
Se un suon di tube e di campane e sistri
Sorto non fosse ad annunziar la cena.
Si destan tutti sussultando. Il Padre
Eisbadiglia, il Figliuolo alza le braccia
Stirandosi, e lo Spirito svolazza,
Ancor mal desto, sull'altre Persone,
Si destan tutti e uno sbadiglio corro
Di bocca in bocca. Un grido indi si leva,
Uno stentoreo grido : a cena ! a cena !
GIOBBE.
Per due ! Per quattro ! Segnate il passo
Su per la strada santa e serena:
Oggi è domenica, mangiam di grasso,
A cena, a cena !
0 quante salse ! Quante vivande !
Di quanti piatti la mensa è piena !
Oh, di tartuti che odor si spande !
A cena, a cena !
Quante candele nei candelieri!
Che luce intorno chiara balena !
Quante bottiglie ! Quanti bicchieri !
A cena, a cena !
In questa cena straordinaria
Un fiasco aspetti quell'altro appena!
Ecco 1 turaccioli saltan per aria !
A cena, a cena !
Sia benedetta la pingue e bella
Terra del Chianti vicino a Siena!
Viva la fertile Val Policella !
A cena, a cena !
Viva Borgogna, Zucco, Xebiolo,
Vino di Capri, vin di Bibbiena,
Bordò, Vernaccia, Peno, Barolo!...
A cena, a cena !
8 PROLOGO.
Per due ! Per quattro ! Dobbiam cioncare
Fino che in corpo duri la lena!
Stelle; che sbornia s'ha da pigliare!
A cena, a cena !
Tanti salixii da parte mia,
Scienza solenne, santa ed amena,
Tanti saluti. Teologia !
A cena, a cena !
Va cantando così la sacra turba,
E l'Eterno sorride. È sterminata
La sala ove s'accoglie il popol misto
Degli eletti. Dall'alto risplendenti
Pendono mille stelle, e il sole in mezzo
Brucia senza fetor di moccolaia.
Sono colonne i monti, e il mar bacino
Per tei'gersi le dita. Ardono mille
Vulcani giù in cucina, e mille, e mille
Bei cherubini apportan le vivande.
Volan pernici cotte ed a ciascuna
Al collo pende la salsiera piena.
Cotti su per la mensa i porcelletti
Di latte vanno, e come ammaestrati
GIOBBE. 0
Seggono in faccia a'bancliettanti e attendono
Che una fetta di lor tagli chi vuole ;
Poi vanno altrove a chieder tagli nuovi
Guizzano i pesci fritti, e van le triglie
Cotte alla livornese intorno intorno
A cercar le forchette ; e le galline
Arrosto fanno su pei piatti Po va
Fritte, al tegame, al guscio, od in frittata
Compiacenti al desio di lor signori.
Piove manna dal ciel, ma tutti quanti
Gru stano meglio gli spaghetti al sugo.
Poiché della minestra i larghi tondi
Ebber vuotato, si levò confuso
Delle voci il clamor.
— Dammi da bere ! —
— Ti piaceva il risotto? — Ehi, signorino,
Tenga le mani a casa. — Oh, oh! — Da bere !
— Quantineabbiamdel mese? — A me non piace
Col zafferano. — Non ho fatto apposta, —
Son di Norcia i tartufi ? — Un po' di salsa ! —
Da bere! — Tante grazie! — Ah sudicione.
Dove ha imparato a far sconcezze a tavola ? —
Ma le pare? — Da bere! — Ah, ah, ci soffro
10 PROLOGO.
Il solletico ! — È meglio lo storione. —
Da bere! — L'ha con me? — Ti prendo a, scMaffi,
Lasciala stare — No — Canaglia ! — Infame ! —
Ti tiro labottiglia — Ahi! — Fermi! — Zitti! —
Fate la pace, via ! — Basta ! — Da bere '
Prende tabacco lei ? — G razie — Da bere !
Ho sete ! — Ho sete anch'io ! — Presto, da bere '.
GIOBBE. IX
YOCE DALLE SFEHE.
die bel gusto giiar come arcolai
Nel giorno cliiaro e nella notte oscura;
Senza fermarsi mai,
E senza mai cangiar di seccatura!
Noi domandiamo, clie bisogno c'era
Di questi nostri sempiterni giri?
Non poteva restar ferma ogni sf^ra
Ad ascoltar gli sciolti ed i sospiri .
Delle ragazze affette d'isteria
E dei i)oeti senza prosodia?
Voce dalle nubi.
Possa venire un cancliero nel core
A quel somaro c'ba inventato il vento,
Che va sempre in furore
E fermar non ci lascia un sol momento !
Accidempoli a chi ci ha messo al mondo
Per dar gusto al villan che vuol la piova,
Per farci correr sempre in lungo e iu tondo
Guastando il tempo ad ogni luna nova!
Siam condannate a non fermarci mai
Per dar da guadagnare agli ombrellai!
12 PROLOGO.
Voce dalle cucine.
Lo strutto non è buono, il burro ò caro,
Costano i polli un occhio della testa,
Ed il Padrone avaro
Vuol spender poco e sempre stare a festa.
La sera poi, quando facciamo i conti.
Lesina i soldi e ci tratta di ladri !
Muti cuoco il Signor, che noi slam pronti
A cedere il grembiule ai Santi Padri,
E lo scMdion del resto al Sant'Uffizio,
E ci lasci, perdio, mutar servizio.
Voce nel naso.
Ascoltate, Signori, il triste canto
D'un povero poeta raffreddato
E digiuno da tanto
Tempo, magro, stecchito, allampanato!
Dalla mensa santissima porgete
Almen un osso al povero poeta !
Fatelo professor, se non l'avete.
Che de' poemi suoi questa è la meta !
Fate che vocin gli scolari stolti:
a Abbasso Senofonte e viva i sciolti ! »
GIOBBE. 13
Tacquer le voci e tutto fu silenzio.
Dio tacca da gran tempo. Ai consueti
Balli moveano in ciel gli astri, e con dura
Infallibile norma albe ed occasi
Il monotono Sol dava a la terra.
IJeddian le nevi a biancheggiar le spalle
Del tremante dicembre, aprii venia
Col suo manto di fiori; arida e stanca
Movea la bionda està (bella parola !)
Movea la bionda està giù da' falciati
Campi a cercar le vive onde marine
(Per farne che, non lo sa poi nessuno),
E coronato il crin d'edra... Che brutte
Parolacce, mio Dio! Cambiam registro.
Dunque il Signor tacea. Ma non taceva
Se non perchè non avea nulla a dire ;
E tutti rispettando il suo solenne
Silenzio, avcan l'americana foglia,
Ossia tabacco, co' zolfini accesa 5
E chi quella ricchissima d'Avana,
Chi la turca odorosa e chi la sozza
14 PROLOGO.
E puzzolente che l'Italia appesta,
0 in sigari contorta o nelle varie
Pipe stipata, con piacer fumava.
Lo stesso Padre col pipin di gesso
Annerito dal fumo e dalla eterna
• Sporcizia, come vaporiera in alto
Sbufifixva ed appuzzava i suoi vicini.
Fujiiava il Figlio un sigaro toscano
E il celeste Picciou la sigaretta.
Al fumo delle pipe il suo me^cea
Acuto aroma l'araba bevanda.
Ma quasi tutti prcieriano a lei
La grappa piemontese o l'acquavite.
Rosseggiavano i nasi benedetti
Come le fraghe tra le foglie. Molti,
Stesa la schiena su le sedie, i i)iedi
Sulle mense teneau ; molti caduti
Erano a terra e digerian russando
Senza veder le offese al buon costume
C(;late dalla comi^lice tovaglia.
Ad un tratto s'udì molle un concento
Di tamburi, di timpani e tromboni
GIOBBE. 15
E (li gran cassa. Unanimi levarsi
I benedetti spiriti, e succinte
Le vesti, incominciar le sacre danze
Che di cancan il nome han tra i mortali.
Oh, come i lombi dimenavan lesti
I confessori, oh come in alto il piede
Scagliavano le vergini ! Non solo
Le giarrettiere seriche far viste,
Ma sin le sx^alle apparvero e la gola.
L'Eterno sorridea centellinando
L'ampia tazza di Moka, e le carole
S'annodavan jiiù. fitte e più gioconde;
Quando alla porta d'adamante un busso
Energico sonò, che per la sala
Kimbombò fortemente. Ognun rii^tette
Come attonito, chi col piò Tpev aria,
Chi del salto a metà, chi a mezzo abbraccio.
Ma l'Eterno fé' un cenno, e lestamente
Corse alla joorta il santo portinaio
E chino al buco della serratura
Chiese — chi bussa? —
Una possente voce,
Alquanto roca per aver parlato
16 PROLOGO.
Troppo in versi scioltissimi, ma cupa
Qual di basso profondo, a lui rispose :
— Aj)ri, imbecille. Satana son io. —
Tremaron tutti e quatti quatti intorno
Al Padre si serrar confusamente,
Al Padre che tacea, solenne in volto,
Benché il pipino gli tremasse in bocca.
— Apri, gridò l'Eterno. — Il portinaio
Colla tremante man volse la chiave,
E cigolando la porta diesante
Si spalancò sui cardini mal unti.
Eitto sull'alta soglia apparve un bruno
Giovane. Il guardo suo fisse nel Padre
Com'aquila nel sole, e nel profondo
Occhio guizzava una terribil fiamma.
Era il vestito suo come or si dice
Di società, nero, a due code, e neri
I calzoni; ma candida sul petto
La camicia stendeasi inamidata.
Volse l'occhio d'intorno lentamente,
E lentamente il cappello a cilindro
Trasse dal capo, e la gran fronte apparve.
GIOBBE. 17
M'ha detto non so chi, che osciire e frodile
Stri scia van sulla sita fronte immortale
Strane larve di stingi e di chimere ;
Ma queste scioccherie son troppo grosse
E non lo credo.
Nella sala immensa
Si sparse un acre odor come di zolfo,
Tale che ognun chiedeva al suo vicino:
— Ti si bruciano in tasca i zolfanelli? —
Ma il celeste Piccion cui tutto è noto,
Disse — Zitti, perdio! Non v'accorgete
Che questo è il puzzo dell'inferno e addosso
L'ha il diavolo? — Stupiti ammirar tutti
La sapienza profonda del piccione.
Nel silenzio Lucifero fé' un passo
Avanti e colla voce profondissima
Volto all'Eterno — Come stai? — gli cliicse.
— Puh ! Non c'è male — gli rispose il Padre —
E tu stai bene? — Starei meglio — disse
Lucifero — se tu non permettessi
Ai poeti per ridere, di darmi
La berta in versi sciolti. Io meritava
L'inferno e mi ci hai messo j ma il peccato
18 PROLOGO.
Mio non fa tale da sofifiiv la peua
Immeritata di quindici canti
Sciolti, arcisciolti, stampati a Milano....
Io me ne appello alla .giustizia tna !
Perchè perseguitarmi a questo modo?
Perchè inasprir la pena? Ah, quanto meylio
Fora per me s'io fossi condannato
A la galera nel mio dolce regno
D'Italia, dove i rei sono trattati
Meglio assai de' soldati e de' maestri !
Almeno a lor non scagliano poemi,
Come a me, tra le spalle, ed io protesto ! —
— Ma credi tu, — rispose il Padre — crcui
Ch'io pur non soffra di poemi'? Ormai
Non c'è scolaro di liceo che stufo
Di studiar la lezione, a me non scagli
Elzevire insolenze e vituperi
In odi barbarissime e sbagliate!
Non sai tu le bestemmie e gli aggettivi
Cui si accoi")pia il mio nome, specialmente
Nella gentil Toscana? Ivi birbone,
Cane, carogna e peggio son chiamato;
E tu ti duoli per sei mila versi
GIOUBE. 19
Scaraventati malamente ! Almeno
Quei versi fan dormir, ma le bestemmie;
Caro Satana mio, levano il pelo ! —
- Alle faccende tue — disse Lucifero —
Pensa da te. Se in terra li bestemmiano
Pensaci tu ; ma questo non giustifica ,
Questo non scusa la novella ingiuria
Che a me fu fatta. Non puoi tu difenderti ?
Non hai per te la Civiltà Gibitolica,
JJ Ateneo Bomagnolo e i j)er'iodici
Che in ciascuna città stampano i vescovi ?
Non li legge nessun perchè son stupidi,
Son cretini, lo so ; ma pur si stampano.
Io non ho che il Carducci col suo Satana,
Tu centomila preti e frati e monaclie:
I cónti non son pari. Io vo' giustizia
E tu me la farai, corpo del diavolo ! —
- Calmati — disse il Padre — Io giusto sono,
Ed ho capito che poi non hai torto.
Io ti debbo nn compenso e tu l'avrai.
Poiché nn jioema t'ha seccato, è giusto
Che gli avversari tuoi siano seccati
20 PROLOGO.
Anch'essi da un poema. Io sono giusto,
E te lo farò fare in versi sciolti.
Occhio per occliio i3a così pagato,
Seccatura così per seccatura.
Vuoi dei versi noiosi? E tu li avrai!
Mai carestia non fu nella mia cara
Terra d'Italia di versi noiosi
E di poeti concilianti il sonno.
Lucifero non vuoi? Prenditi il Giobbe. —
IJabbrividiron tutti alla minaccia
E Lucifero cadde inginocchioni.
— No, per amor di Dio, Padre! Risparmia
Al flagellato mondo, alla percossa
Umana schiatta un tal mar tòro. Uccidi
Colle guerre, le pesti, e le Regìe,
Ma non infligger ai dolenti un nuovo, '
Un tremendo poema in versi sciolti !
Pietà, pietà per la straziata stirpe
D'Eva ! Pietà pei miseri redenti
Invano dal tuo Cristo! In me punisci
D'un poeta l'error: ficcami ancora
Nel zolfo liquefatto e nella pece,
Fa di me quel che vuoi.... ma, deh, risparmia
GIOBBE. 21
Il poema di Giobbe al mondo ! . . .
Scosse
La chioma bianca il Padre e tutto intorno
Il ciel tremò:
— L'ho detto e lo mantengo,
E sillaba di Dio non si cancella, —
l'ianse Satàno e sulle negre guancie
Le lacrime parean goccie di foco,
Quando il Padre gridò — Parliamo d'altro.
Hai tu visto il mio servo Gigi Alberti
Che mi difende sempre in verso e in prosa ?
Che ne pensi di lui ? —
— Nulla, o Signore,
Se non che il peso suo passa di molto
Quello delle piramidi d'Egitto,
E l'ho visto piangente. —
— 0 perchè piange^/
22 . PROLOGO.
Pria che il passo volgessi all'infecondo
Gaudio di questo tuo pallido regno,
Le diverse cercai parti del mondo.
Dove dell'Orsa l'angoloso segno
Preme dal cielo l'iperborea terra,
Vidi percosso dal possente sdegno
D'una 1)1 ebe fatai, cui non atterra
Terror di studiati atri martiri,
L'Autocrata che indisse a' suoi la guerra.
Non men rispose a' miei giusti desiri
Roma agitata sulla bara bruna
D'un reo che la straziò co' suoi deliri.
Profonda era la notte: in ciel la luna
I raggi diifondea, gliignando ai vati
C'hanno la pancia e la Musa digiuna,
Allor che salmeggiando uscir schierati
In lunga fila fuor del Vaticano
E bacchettoni e suore e preti e frati.
Ben mille e mille torcie aveano in mano.
Onde le torri e le superbe mura
Sul ciel corusche si vedean lontano.
Il ciociaro guardando alla pianura
Rammenta il fiero incendio di Nerone
E gli si stringe il cor dalla paura.
GIOBBE. 23
Giungea frattanto la processione
In piazza Eusticucci, allor die lieta
Da uu cafi'ò udissi una volgar canzone.
Chi mai del venerabile profeta
Osa folle insultar la salma antica ?
E degli afflitti svizzeri la pietà?
Oltre il rogo non vive ira nemica ;
S'egli fu un sacco di letame, basta
Che nel suo libro il padre Curci il dica.
Ma lasciate passar la negra casta ;
Lasciate pur, lasciate pur che iiianga;
Un più duro castigo a lei sovrasta!
Dai fischi e dalle grida ognun rimanga.
Oh! qui non serve Addio mia bella, addio
Per castigarli ben, ci vuol la stanga ! —
Così pensava allor nel capo mio.
Quando il popol capì la grande offesa
E incominciò un orrendo tramestìo.
Volau le torcie nella mischia accesa,
E sotto ai pugni dei profani cade
L'oscena turba della santa Chiesa.
Come torrente che la messe invade
Dai sette colli il popolo romano
Scende ed innonda le sonanti strade.
24 PKOLOGO.
Io seduto sull'alto Vaticauo,
Incitava a la pugna i miei seguaci
Cui di vindici pietre armai la mano.
Sui caccialepri si scagliar gli audaci,
Che non trovar ne' molti birri intoppo
E colle stanghe spensero le faci.
Ma i preti tuoi non si fermaron troppo
Ad aspettar le nostre bastonate
E il feretro scappò via di galoj)po.
Così il vicario tuo tra le tìschiate
E tra gli scherni nel sepolcro scese
E i tuoi devoti fur presi a sassate.
Per questo Gigi tuo va per le chiese,
Correndo ad ogni squillo di campana,
Impetrando mercè per queste offese,
E piange sempre come una fontana !
GIOBBE. 25.
— Bella forza I — rispose il Pailre — Bella
Forza picchiar quei santi caccialepri
Che cantavano i salmi ! Ah, ma giustizia
Aucor morta non è nel basso mondo
E il Tribunal gli ha condannati tutti,
In persona di pochi, i tuoi buzzurri I
Pa,2,hia la multa di cinquanta lire
Per l'offesa a me fatta! Oh, Dio non pagii
TI sabato, ma porge al Tribunale
La sua brava querela. Hanno guastato
I connotati ai giovani cattolici ?
Bene! Cinquanta lire! È prezzo fisso.
Parlami dunque, Spirito maligno,
Parlami dunque un po' del tuo Carducci 1
Che fa, lo scellerato ? Insulta ancora
La veneranda mia barba coi tetri
Carmi? Che fa? Paventi la vendetta
Mia che comincia ad infierir su lui.
Non è pentito ancor dopo eh' io '1 feci
Per sua vergogna far commendatore ? —
Levò il capo Satàn, sorrise e disse —
26 rKOLOGO.
Cupo, aggrondato, per le felsinee
strade cercando del suo Cillario,
Enotrio procede, strappando
da' 1 bruno mento la barba rada
e mulinando ruvidi esametri,
sognando l'arte aristocratica,
maledice i giornali e per loro
affila i giambi e pensa e scrive,
e dio nervoso, nume irritabile,
china lo sguardo da la sua gloria
s'abbassa a' percoter gl'insetti
ck'a le sue piante giungono appena.
Ob grande in questo che la calunnia
non lo distolse da le abitudini,
né prese le muse in dispetto,
ed ama sempre gli amici e Bromio.
Cerca, o Signore, tra i tuoi proseliti
un gesuita clie sappia scrivere.
Se tu, cbe noi credo, lo trovi,
te lo prometto, mi faccio frate.
Possono farti cento Luciferi
ed un milione di Falingenesi,
ma l'inno di Satana, credi
credimi, almeno non fa dormire.
GIOBBE.
Ali; se il CarcTucci meno polemiche
scrivesse e invece più odi barbare,
babbO; i tuoi cento poetastri
starebbe!' tutti cheti com' olio
e gli Stecchetti puzzolentissimi
ed i Panzacchi ed i d'Annunzio
ti romx^erebbero di meno,
Eterno Padre, le sacre tasche.
- Basta ! — il Padre gridò — basta perdio !
Se ancora in versi barbari, mi parli.
Ti ricaccio all'inferno ed il poema
Finisce innanzi tempo. Animo dunque,
E cambiamo discorso. Hai tu veduto
Giobbe, il buon servo mio, quel eh' è citato
Anche in proverbio come il non plus ultra
Della pazienza ? —
— L'ho veduto — disse
Lucifero — ma certo egli fa poca
Fatica a non impazientirsi mai.
A lui ricchezze, a lui salute, vino
Eccellente, bellissime fanciulle.
Figli, commende e iDiefetture hai dato.
28 puor.oGO.
Egli è felice e non è meraviglia
Se t'è fedele e non s'adira mai.
Lascia ch'io '1 tocchi nello scrigno, lascia
Ch'io nelle carni lo percota e allora
Vedrai se non si volge a te con tutti
I moccoli dei beceri toscani.
Vuoi scommetter con me? Scommetto l'alma
Del feroce Ezelin contro la casta
Alma del tuo santissimo Antonelli
Che s'io lo tocco, ei peccherà. Scommetti! —
— Ed io scommetto — gli rispose il Padre —
Egli è in tua man. Di lui fa quel che vuoi
Strazialo come vuoi, purché la vita
Gli salvi e l'intelletto. Io t'interdico
D'ucciderlo e di fargli in ogni modo
Leggere gli elzevir del Zanichelli. —
— Accetto — replicò tosto Satano —
Dammi la mano e la scommessa tiene ! —
Si strinsero le destre e il ciel tremò
Alla scena curiosa. Indi s'aperse
Un trabocchetto e il diavolo scomparve
In uu acre fetor di pece greca.
GIOBBE. 29
Ripresero le sfere il consueto
Giro e tutto tornò com'era prima.
Raccese il Padre il suo pipin di gesso.
Tornaro i santi alle divine danze
E vada un po' a veder chi non lo crede.
Voce dei Santi.
Chi non anela a voi, notti stellate
Del basso mondo, non capisce nulla.
Noi accechiamo in queste illuminate
Sfere del ciel ch'eternamente frulla.
Poi che le carte fur da Dio tassate
Nessun giuoco oramai più ci trastulla
E in queste seccantissime serate
Non ci resta che leggere il Fanfidla.
Quel giornal moderato e riverito
Il sangue ci rinnova nelle vene
Con la prosa di zucchero candito.
Talor d'errori ha le colonne piene,
Ma in Paradiso manca un erudito
E il capitan Fracassa non ci viene.
30 PROLOGO.
Voce delle Vergini.
Afferaaa un vecchio proverbio che tutte
Le disgrazie non vengon per far male :
Noi Siam beate perchè fummo brutte,
Perchè tali ci fece Iddio immortale.
Lasciammo il mondo presso che distrutte
Dal fiele, da un isterico idealv;,
E da l'invidia per le belle putte
Che dier un calcio ai santi e alla morale.
In questa sempiterna melodia
Delle sfere azzurrine e dei pianeti
Noi leggiamo la Nuova Antologia.
La noia è molta — ma i sensi stau cheti.
E, come fan le Figlie di Maria,
Non deliriamo nell'amor de'preti!
GIOBBE, 31
Voce degli Angeli.
Altliiamo al collo una cvavatta d'ale
E siamo bianchi, rossi e ricciolini ;
Ma Dio, perchè non ci tentasse il male,
Xon ci dio che la testa d'anyiolini.
Mii per comiienso ci abbonò al giornale
All'ottimo Giornale dei bambini,
Opera nuova, splendida, morale.
Dell' Obleight, del FanfuUa e del Martini
I\d, color che scrivon dappertutto,
Sopra i vecchi cliché de' fogli inglesi
Eifriggon Scavia e parlano di tutto:
E noi, bambini di questi paesi.
Troviamo che il giornal non è poi brutto..
Sol delle scioccherie siamo soipresi.
32 PROLOGO,
Voce d'imbecii.i.i.
Siam l'imbecillità santifleata,
Siamo il zenith della cretineria,
Abbiamo il gozzo, la paralitsia
Ooll'idiotismo e la demenza innata.
Il che ci meritò questa beata
Arcibenedettissima allegria,
Gloria in eterno all'ebetismo sia.
Al Padre, al Figlio e a tutta la brigata.
Al nostro cervellaccio da somaro
CercMamo d'ajìprestar cibo asinino,
La gramigna più scelta, il fien più. raro,
E per questo leggiamo ogni mattino
La traduzione di Lucrezio Caro,
Il Lucifero, il Giobhe e Bertoldino.
CANTO PRIMO
lOB.
Testa saniem radebat, sedens in sterquilinio.
lOB II. 8.
ARGOMENTO.
Notte — La cena di Giobbe — L'inno del poeta — Il giorna-
lista — La pioggia di fuoco e la distruzione degli armenti —
I Sabei rapiscono i buoi e i Caldei i cammelli — Ozi di Giobbe
— Gli giungono le notizie — Satana gli distrugge la casa e la fa-
miglia e lo copre di ulceri — Lamento di Giobbe sullo sterqui-
linio — La moglie di Giobbe chiede consiglio per divorziare —
Dimostrazione delle dbnne di Hhs.
CANTO I. 35
Alta è la notte. Una solenne pace
Su l'erma terra dalle stelle piove.
Tacciono l'opre e i venti. Non del mare
Un gemito lontan su le petrose
Coste Gerrèe risuona e la superba
Chioma de le foreste al viandante
Coll'urlo lungo non agghiaccia il core.
Tutto riposa.
Chi oserà l'immensa
Turbar quiete del creato*? Iddio
Vuol che nel sonno le languenti membra
Ristorino gli schiavi, onde col sole
36 GIOBBE.
Escan più forti del signore al cenno
D'Idume a coltivar l'arena ingrata.
Maledetto colui che il sonno rompe
Del servo stanco ; maledetto cento
Volte, se col rumor di danze o grida
Eccitate dal vin, desta l'ilota
Nel suo duro canil. Meglio che gli occhi
Non apra e sogni. Alle rosate larve
Visitatrici del giocondo sonno
Il misero lasciar giova. Non fate,
Non fate, no, che con l'orecchio teso
Al suon degl'inni vostri, al tintinnio
Delle tazze che s'urtano, ricordi
Il digiuno del dì. Non fate mai
Che sui cubiti ritto, a notte chiusa,
Mentre cenate voi, pensi alla fame !
Giobbe questo non sa, Giobbe, il felice
Signor di mille campi e mille armenti !
Egli siede al convito e già vicino
È il dì novello; già roseo traluce
Per le tenui cortine il primo riso
Dell'aurora che sorge. A lui d'intorno
Ebbri stan sette figli e cento amici.
CANTO I. 37
Nei turiboli d'or fuman le gomme
Del benzoino, il cinnamomo, il nardo,
E sovra i lini della mensa i gigli
D'Engaddi, misti a le purpuree rose
Di Gerico, son sparsi. Ai convitati
Pendon ghirlande da le chiome e bende
Festive. Cento giovanette, appena
Dai procaci di Coo veli coperte,
Recan intorno l'anfore d'argento
Mescendo il vino e concedendo i baci.
S'udian sonar le tazze d'oro e l'alte
Risa ed i canti. Fervea l'orgia, quando
Ecco mal fermo sovra i pie, rubizzo
In volto, move dall'estremo letto
Del concavo triclinio, un poetuccio
Che alimentò di sé cento giornali,
Tutti falliti, e che imitando scrisse
Molti enormi elsevir di versi matti.
Mise gli occhiali sul gran naso e, presa
In man la cetra, incominciò a cantare.
38 GIOBBE.
Giobbe sei grande. — L'umile tuo cuore
Chiamò dal nostro Iddio tanta fortuna.
Se tu soccorri il povero
Vate che prega, ei ti l'ara signore
Di tutto l'oro eh' è sotto la luna.
Giobbe sei grande — ed io cui tanto attrista
La vecchia tabe del corrotto mondo,
Voglio la vita scorrere
Da castigato puro idealista,
Inteso sempre al tuo saper profondo.
E se nell'orgia dei conviti, i baci
Tu muterai con qualche giovinetta.
Io canterò a Più splendida
Nel gran desìo del bello tu mi piaci,
0 natura d'amor semplice e schietta ! »
L'accarezzar ne le segrete alcove
Le vinte mogli degli amici imbelli,
Colpa per noi non stimasi j
L'infamia è pubblicarlo ne le nuove
Forme degli elsevir di Zanichelli.
Quando, parce sepulto, il reverendo
Padre Ceresa inculcò la morale
Ai fanciulletti teneri.
CANTO I. a9
Le apparenze salvò certo tacendo,
Clii in piazza lo portò fu il tribunale.
Sian nascoste le colpe. — I cupi orrori
Dell'Averno son fiabe dei minchioni;
E poi, s'anclie ci fossero,
Mancano forse al tempio i confessori
Con le indulgenze e con le assoluzioni ?
Giobbe sorrise. Allor d'applauso un grido
ce Lieto s'alzò dai convitati petti. »
Giammai riscosse tanto plauso il Giovine
Ufficiai di Paolo Ferrari
Su i sapienti italici teatri!
Un giornalista contraffatto snrse
Da la fenicia porpora del toro;
Un giornalista che Dio ve ne scampi
Se foste figli mai dell' Antonelli!
E dopo un cupo rantolo, gettando
Le braccia al collo del poeta ansante:
<r Te beato, gridò, per le felici
Strofe piene d'amore e pei concetti
Castigati, limati, inzuccherati,
Onde il miglior fra tanti imitatori
40 GIOBBE.
Tenuto sei dalla felice Ausonia !
Nei. riveduti articoli di fondo
Mai fia disciolto il nome tuo da quello
Santissimo di Giobbe e del Ministro
Che su l'Interno siede! »
Intanto i rosei
Destrieri aggioga all'indorato carro
(Per favellarvi ormai di cose nuove,
Come disse Gian Carlo Passeroni
E va facendo Mario Eapisardi)
La bella Aurora, ed abbandona il vecchio
Titon pei baci adulteri d'Apollo,
Che desioso le vien dietro. Chiazze
Di porpora si stendono su i monti
Color de la viola e di lontano
Tremola il mare azzurro, a Un invisibile
a. Spirto, qual di canora aura fremea
a Per le fibre del mondo (oh che sciocchezza !)
E da le selve susurrando, uscia
Per le città dell' Idumea frequenti.
Ecco un raggio di sol s'' insinuando
(Non è parola mia) nell'ampia sala,
Illuminò i bicchieri e le botticrlie.
CANTO I. 41
Il Patriarca Giobbe alla finestra,
Ciondolon ciondoloni, il piede trasse
E — Finalmente — disse — finalmente
Torna il bel tempo ! Ma chi sa che danni
Fatto avrà la tempesta che sentimmo
Euggire in ciel, sono tre giorni ! I campi
Se d'altri disertò, poco m'importa;
Solo, perdio, mi seccherebbe assai
Che sovra i campi miei fosse caduta
Poiché non sono assicurato. Un'altra
Volta bramo sentir dalla Fondiaria....
Mentre così dicea, sovra i suoi campi
La tremenda sventura era caduta!
^Misero lui!
Tre giorni prima il cielo
S'ottenebrò. Dalle fosche montagne
Calarono le nubi brontolando
Su le sue terre sconfinate e un brivido
Gelido corse per gli umani petti
E per le bionde messi. La natura
Indi si tacque, come moribondo
Che pria di chiuder le pupille al sole
42 GIOBBE.
Tutta col suo pensier scorra la vita.
Euppe il silenzio un fulmine clie cadde
Sul campanile d' un'antica chiesa;
Innalzata già un dì dal padre Adamo
(Come si sa dall'opera sulVArte
Cristiana del Garrucci, un gesuita
Dotto e pesante, che le pietre guaste
Cerca, raccoglie, copia, studia e stampa,
Per dimostrar che sopra Dio c'è il papa.)
E l'uragano imperversò. — Dal cielo
Piovver di foco dilatate falde
Tre dì e tre notti, e già le oppresse genti
Temean eterna quella notte, quando
All'oriente ricomparve il sole
Che illuminò ben piìi funesto scempio.
Le sette mila pecore di Giobbe,
Allora dato a banchettar coi tìgli
Coi giornalisti e coi grami poeti,
Periron tutte nel divino arrosto.
Indi trascorse il nembo e si distese
Su le deserte case de' Sabei.
Perchè non ride al povero poeta
Autor di questo biblico poema
CANTO I. 43
La forte Musa che, trascorso il mondo,
Altri de' baci suoi non trovò degno
Che un picciol figlio de la terra etnea?
A descriver l'orror de l'atterrita
Orda e il fragor del ciel non basterebbe
L'ottava famosissima del Tasso
a. Chiama gli abitator dell'ombre eterne »
Pochi son gli erre: anzi Torquato, quando
La scrisse forse era briaco e aveva
Col vin bevuta la nervosa lettera.
Udite un po' come prepara ai retori
Barbogi un bell'esempio d'armonia
Imitativa in questi versi il Vate:
a Al novo grido del pensier ribelle
<i Tremai* con l'are i troni e giti dai troni
a Precipitar scettri puri)urei e teste
a Coronate di re! » Ma qui sostiamo:
Cogli erre altrui, c'è gusto a lacerare
I ben costrutti orecchi dei lettori?
Ritorniamo a' Sabei che, spaventati
Dal turbo, lascian la natia dimora.
Come quando nel mio regno d'Italia
Spiega qualcuno il tricolor vessillo.
44 GIOBBE.
0 smunto grida d'aver fame, un'orda
Di delegati, di carabinieri,
Di spie, di poliziotti e di sbirraglia
Gli si riversa orribilmente addosso,
Cosi su i prati fertili di Giobbe,
Che l'uragano non avea jiercosso,
Essi calaron depredando i buoi
Stretti all'aratro e l'agili somare
Intese a pascolar jìlacidamente.
La nuova dell'orribile sventura
Prima che a Giobbe pervenisse, tutti
Girò i paesi de l'ardente Arabia,
Passò i confini e fra l'orde rapaci
Si stese de' Caldei.
Sapeano questi
Che poco lungi tra difese mura,
Tre mila s'accogliean curvi camelli
Del Patriarca. Senza alcun indugio
Prese l'irte zagaglie e i giavelotti,
Colla rapidità della saetta
Compier di Giobbe la total mina.
Dall'aereo balcone intanto il guardo
Egli volgea d'intorno, il ciel turchino
CANTO I. 45
Non macchiato da nube contemplando
E i verdi colli e' 1 mar che riposava
Come il suo cor tranquillo. Ahi duro fato
Dell'uomo ! Quando ei più remota crede
La rea sciagura a punto allor gli piomba
Tremenda in capo e lo distende a terra ! —
Allo squillar del campanel di strada
Giobbe si scosse e sbadigliando disse
« Ecco la posta! ». Poco dopo in fatti
Un servo entrò con un enorme fascio
Di lettere, di libri e di giornali.
Aperto tosto il capitan Fracassa
Lesse la storia dell'Oca novella.
E il vate intanto dischiuso il Fanfulla
Domenicale (ciò serve alla storia
Per stabilire che quel dì fu un sabato!)
Il suo nome cercò fra le dogmatiche
Bibliografie ; ma noi trovando a — Come —
Sclamò — è noioso! d e guardò un libro enorme
Che nel titolo avea Giohbe — Poema
Di Mario Bapisardi e in manoscritto
Al dotto e nohil Patriarca, tenue
Ricordo deWautore. Aperto a caso
46 GIOBBE.
E letti pochi versi, il cortigiano
Eestò di sasso e alzando al ciel le mani;
« — Misericordia, — disse, — che morale !
Il poema ti dedica e poi scrive
Corna de' fatti tuoi, povero Giobbe! — »
Questi si strinse nelle spalle e senza
Adirarsi pigliò quel libro in mano
Malinconicamente. — « È questo, — disse,
Indizio certo d'una gran sciagura ! — »
E lesse a lungo, e sconsolato pianse:
CANTO I. 47
0 Padre nostro, che ne' cieli stai
Per puro amore del superno coro,
Una cappella in duomo io t'innalzai
llicca di marmi, di scolture e d'oro,
Dove, come saprai, ti faccio dire
Dodici messe al dì per cinque lire.
Una lampada a spese mie si tiene
Che brucia sempre come fa un vulcano
E sciupa molte botti d'olio piene,
Forse perchè ne ruba il sacrestano...
E se tu non dicessi : — Perdonate —
A quest'ora l'avrei preso a pedate.
Se della fede mia certo tu sei,
Perchè adunque permetti un tal poema?
Se vuoi ch'io non protegga i Farisei
E che non ti rinneghi all'ora estrema.
Deh, fa, gran Dio, che il piccolo cantore
Non trovi d'ora innanzi un editore!
48 GIOBBE.
Così disse pregando. Indi riprese
A frugar dentro ai vergini giornali
E ritrovò una lettera — «Mi sembra, -
Disse guardando a l'umile indirizzo, —
Carattere di Tonio, il mio fattore. » —
Kuppe la bianca busta e aperto lesse
La inesorata triplice sventura.
Come la tigre che tornando al caro
Antro, bramosa di lambir le svelte
Membra de' suoi nati, più non li trova
Perchè da industre cacciator rubati,
Eitorna fuori all'infuocato sole
Kuggendo, e corre per le sabbie ardenti
Dietro lasciando una bava sanguigna,
Tal balzò Giobbe dal purpureo toro
E forsennato uscì per Hus marmorea,
Tutte assordando di strazianti grida
Le popolose vie.
Quando il poeta
E il giornalista videro vicina
La miseria di Giobbe, incontanente
Senza dir grazie infìlaron la porta.
CANTO I. 49
A qiiel fracasso dal profondo Avevno
Satana uscì, feroce sghignazzando,
E in sembianza di povero tapino
Venne alla porta del palazzo a chiedere
Con Anta fame e ironici lamenti
La caritade per l'amor di Dio.
Quando reggendo i colonnati d'oro
Dell'atrio, fresco per leggiadre fonti,
— a Capperi — disse — che edilizio ha il nostro
Buon Patriarca ! Troppo s'assomiglia
Alla prigione del roman Pontefice
Li\, in Vaticano. Non vorrei che ora
L'affittasse o vendesse e in tal maniera,
La mia sconfitta a preparar, mettesse
Insieme un nuovo capitale. Or bene
Assicuriamci della sua disfatta ! » —
Disse e protese le pelose braccia.
50 GIOBBE.
Come da orrendo terremoto scossa
L'immensa casa minò, schiacciando
Sotto i fumanti ruderi, i figliuoli
Innocenti di Giobbe ed i suoi servi. —
Solo (o del fato profonda ironia!)
La moglie si salvò, perch'era andata
Nel monastero dei Camaldolesi
A raccontare al padre confessore
Tutti gl'intrighi delle sue vicine.
Era dunque in bolletta il Patriarca
Giobbe, e pensava già di far l'istanza
Corredata di tutti i documenti
Per essere impiegato al Ministero,
Quando il Maligno, visto che nessuna
Era bestemmia dal suo labbro uscita,
Si servì del permesso del Signore
E colpi nella carne il poveretto.
Avea cenato Giobbe con un tozzo
Di pan duro accattato, e un cetriolo
Eubato all'ortolan che già fu suo,
Quando nel coricarsi sulla paglia
Sentì caldo alla pancia e forte peso
CANTO I. 51
AU'inguiue. La notte una gran febbre
Addosso gli saltò. Corse la moglie
I medici a cercar, ma non ne venne
Alcuno quando seppero clie Giobbe
Non poteva pagar. Cbi disse: — a ne
Non spetta; — chi — non posso; — cbi rispose —
Andatevi a far friggere. — La mesta
Donna recossi dal veterinario
Che dal continuo frequentar le bestie
Era fatto de' medici più umano.
Venne costui, vide il malato e scosse
La saggia testa, mormorando: — « Fructus
Belli, mio caro; frutto delle belle!
Non è roba per me. Cercate nella
Pagina degli annunzi ne' giornali
Un rimedio per voi: felice notte, d —
Restò d'ebano Giobbe! Il guardo fisse
Neil' ulceri sbocciate e amaramente
Pianse, pensando ai ferri del chirurgo.
52 GIOBBE.
Lamento di Giobbe.
Ahi, Genovese improvvido,
Che delle Ispane navi
Le prue su l'onde incognite
Dell' Oceàn guidavi,
E de le strane Americhe
Aprivi il reo cammino
A Florio, Rubattino
Ed altre società.
Non sai di quanti spasimi
Crebbe l'uman dolore
Poi che recasti il tossico
Che ci guastò l'amore'?
Non sai che notti orribili
Passiam, che giorni grami
E che bevande infami
, Il medico ci da'?
Invano, invan negli umidi
Prati la malva alligna
E pei malati e gli asini
Vegeta la gramigna,
Invan l'amaro balsamo
Dall'Oriente viene j
CANTO I. 53
Chi la pigliò la tiene,
E chi non l'ha l'avrà.
Ma Giobbe in odio agli uomini,
Al cielo, alla natura,
Perchè non ha un centesimo
Non potrà far la cura;
Ei non avrà cerusico,
E non bagni a vapore:
Eòso dal suo malore,
Pover a lui, morrà.
Così piangeva il Patriarca. Intanto
La moglie in sé volgea rabbiosi sensi :
— ce Ah, dunque ei mi tradì ? Dunque non basta
Ch'ei m'abbia colla sua sostanza ancora
La mia dote perduta, ed in miseria
Cacciata ! Come 1 Io che facea la prima
Figura in Hus, io che dettava legge
In materia di mode e i più eleganti
Cappelli inalberava e le migliori
Vesti della Giobergia e della Bossi ;
Io che alla messa ed al teatro ed alle
Feste di ballo solea far furore,
54 GIOBBE.
Aliì lassa ! dunque non avrò più un cencio
Da coprirmi le spalle ed una treccia
Da coronarmi il capo 1 Ali non fìa mai
Ch' io rinunzi alla polvere di Cipro,
Ai guanti da quattordici bottoni,
Alla tintura Zempt eh' è la migliore
Benché costi al flacon quattro e cinquanta !
Io protesto ! d —
Ciò detto, incontanente
Kecossi all'avvocato. ... un avvocato
Che nominar non voglio. Il buon lettore
L'indovini da sé. Ma, come tutti
I suoi colleghi di garbuglio, avea
Costui trovato cinquecento bestie
Che l'avevan mandato in Parlamento,
Ed in quel punto alla Camera stava
Confabulando col Guardasigilli
Cui prometteva il voto se mettesse
In riposo un tal Giudice che osato
Avea di fargli perdere una causa.
Era in casa però l'avvocatessa
Cui del marito la malizia un poco
S'era attaccata e che scriveva in versi
E in prosa sui giornali, combattendo
CANTO I. 55
In favor del divorzio e dei diritti
E del primato feminil.
La donna
Del Patriarca le contò il suo caso,
Indi le chiese quanto si spendesse
Per far divorzio.
— « Ahimè, disse la vecchia
Letterata, la legge fu proposta
Dall'ex-ministro Villa, un avvocato
Che la sa lunga! INIa fu indarno! Dorme
Quella provvida legge in Parlamento,
Dorme a vergogna nostra ! E tu meschina,
Fin che il viver ti duri, alla carogna
Del Patriarca tuo sei catenata !
Non han pietà di noi, povere schiave,
Questi maschi tiranni, e non sappiamo
Imitar noi l'alto consiglio dato
Dall'attico Aristofane alle donne.
La Lisistrata leggi e il duro patto
Cui si legar le greche a piegar l'alma
De' mariti alla pace. Ahi, che pur troppo
La greca forza non è in noi ! Siam tutte
Deboli, siamo fragili, comare,
E vano è iiuel consiglio. Il meglio fora
56 GIOBBE.
Scendere in piazza insieme, e le bandiere
Spiegando ai venti far dimostrazioni,
Meeting, letture, conferenze e caldi
Discorsi pel divorzio. Ma ci manca
Un capo....
— « Io lo sarò ! » — disse la moglie
Del Santo Patriarca, e scintillando
Sacro furor dagli occhi, in mezzo a cento
Varie bandiere ad ogni evento pronte,
Una ne tolse, ed infilò le scale.
L'avvocatessa la seguì cogli occhi,
E con la gialla man di dotto inchiostro
Largamente macchiata, alle fluenti
Chiome fe'una carezza e disse: — a Quante,
Quante cause novelle a mio marito ! » —
CANTO I. 57
Era un giorno di sabato. 11 mercato
Ad Hus in piazza si tenea qiiel giorno
Ed in città per questo era calato
Il popol fìtto de' villani intorno.
Chi galline vendea, chi mandorlato,
E chi semi di zucca a suon di corno;
Fervevano i contratti ed il rumore
Sotto il sol, tra la polve e nel fetore,
Quando si rovesciò nella gran piazza
Un ululante popol di megere,
Una turba furente, un'orda pazza,
Con tamburi scordati e con bandiere;
Che se le Furie avesser fatto razza,
Queste matte sarian lor figlie vere.
De le belle ce n'erano parecchie,
Ma quattro quinti eran bagascie vecchie.
Dice il proverbio : con due donne e un'oca
Il mercato è già fatto. Ora pensate
Che mercato facesse questa poca
Caterva di pettegole adirate!
58 GIOBBE.
Non ce n'era una che non fosse roca,
E tutte quante, rosse e scapigliate,
Urlavan clie i)arevano il demonio
a Viva il divorzio, abbasso il matrimonio ! d
Scottava il sole, le megere urlavano
Levando in alto un fitto polverone,
Scappavan l'oche, gli asini ragliavano
E tiravano calci a le persone:
Le Guardie di Questura bastonavano
Chi non vedeva la dimostrazione....
Era Hna cagnaraccia tanto acuta
Che pareva la Camera in seduta.
Inanzi a l'altre, colle vesti a strappi,
Discapigliata come una befana,
E colle calze in gamba a cavatappi,
Madonna Giobbe procedea in sottana.
Delle bandiere sui luridi drappi
Stava scritta la massima romana
oc Chi vento seminò tempesta coglie.
Chi le corna non vuol non i3renda moglie. y>
CANTO I. 59
Corse il Prefetto coi carabinieri,
Ma il Sindaco mancò perch'era morto.
Era il Prefetto assai sopra pensieri
Perchè aveva paura d'aver torto ;
E se aveva ragione, i gazzettieri
Ad ogni modo avrian tagliato corto
E l'avrebbero tanto tartassato
Che il Ministro l'avrebbe giubilato.
Salì il Prefetto sopra un muricciuolo
E alle donne di là parlar voleva.
Ma 1' urlo immenso del femineo stuolo
La fioca voce del poter vincea.
Parean le turbe scaturir dal suolo
Né già la piazza più le contenea.
Quando la moglie del Prefetto venne,
Mostrò le gonne e un po' di calma ottenne.
— a 0 colleghe di sesso, o giovinette.
Poiché Siam tutte giovani e siam belle,
Perchè lasciaste i ferri e le calzette
E qui veniste ad arrischiar la pelle ì
60 GIOBBE.
Eivolgetevì a me ficlenti e scliiette,
Dite quel clie cliiedete, o mie sorelle;
Ed ogni vostra voglia, ogni prurito,
Dirò al Commendatore mio marito, » -
Sì fé' silenzio, per quanto si possa
Far silenzio da tante chiaccherone,
E così tra il tumulto e la sommossa
Si fece in fretta una deputazione
Che colla brava sua bandiera rossa
Andasse a dire la comun ragione ;
E voi sapete senza eh' io l'esprima
Che la signora Giobbe era la prima.
Salirono al palazzo del Governo
Queste deputatesse pettorute.
Mentre rumoreggiava dall'esterno
L' irato armento delle prostitute.
Da un magro cavaliere siabalterno
Furono poi condotte, e ricevute
Da Sua Eccellenza e furono servite
Di gelati 5 ma vollero acquavite.
CANTO I. 61
E quand'ebbe!' bevuto a modo loro,
Chiese il Comiucndator quel che volessero ;
E le dei^utatesse tutte in coro
Il desiderio del divorzio espressero.
Parevano ghiandaie a concistoro
0 pur gatte in amor che contendessero ;
Ma poi che ognuna il proprio error conobbe,
Lasciarono parlar madonna Giobbe.
<r Signor Prefetto — incominciò madonna —
Signor Prefetto, come lei ci vede,
Siamo femine tutte colla gonna
E può verificarlo se noi crede.
Siam qui per i diritti della donna.
Tutte soldate della nuova fede :
Vogliam essere tutte emancipate,
Divorziate, e se occorre anche impiegate.
(! Scriva dunque al Ministro che dall'alto
Delle nostre interiori convinzioni,
Noi protestiamo contro il vecchio appalto
Che de le gonne tengono i calzoni;
62 GIOBBE.
Noi ci leviamo ad un novello assalto
Contro i sistemi vecchi e le opinioni :
Scriva al Ministro suo, cignor Prefetto,
Che tutte quante protestiamo ! Ho detto, d —
Lentamente s'alzò il Commendatore
Con un soave risolino in bocca,
E disse: a Belle donne, è un grande onore
Che in questo lieto dì, per voi mi tocca.
State certe, certissime, o signore,
Che nell' ufficio mio non si balocca
E immantinenti, dentro a la giornata,
Fia la pratica vostra evacuata.
a Farò, dirò, vedrò, state sicure.
Scriverò, parlerò, non dubitate:
Tranquillatevi dunque, andate pure,
Che tra poco sarete contentate.
Questa è la meglio delle prefetture
Per ottener le cose domandate.
State buonine, andatevi con Dio,
Che a farvi contentar ci penso io. » —
CANTO I. 63
E detto ciò, la prefettizia mano
Ficcò nello sparato del panciotto,
Levando il capo come un Artabano,
Stringendo gli occM e guardandole in sotto.
Tutta la maestà del suo Sovrano,
L'oratoria ci vii del quarantotto,
L'autorità, la legge e lo stipendio
Sopra il suo viso apparvero in compendio.
Le dimostranti, meglio persuase
Dalla mimica sua che dal discorso,
Furon convinte di studiar la base
D' un progetto di schema di ricorso
E di tornar tranquille a le lor case,
Così troncando all' ire nove il corso.
Ma voller la parola del Prefetto,
Che mantenuto avrìa quel che avea detto.
E dopo molti giuramenti e molte
Strette di mano e nobili promesse,
Eisventolando le bandiere sciolte
S'accomiataron le deputatesse,
G4 GIOBBE.
E nella piazza giù furono accolte
Come in trionfo da quell'altre ossesse.
Reser conto di quel clie avevan fatto
Ed il sinedrio immenso fu disfatto.
Ritornarono tutte a casa loro
Del divorzio sicure e d'altre cose ;
Novo ai mariti e più crudel martoro,
Insolenti, maligne e scandalose.
Ai maschi fecer obbligo il lavoro
E voller dritto a sé di stare oziose,
Tal che la sera stessa il parapiglia
Era stato normal d'ogni famiglia.
I mariti dovettero chinare
• Il capo ed accettar questa disdetta,
E le mogli li fecero filare, •
Tessere, cucinar, far la calzetta;
E li avrebbero fatti anche allattare
Se avessero trovata la ricetta.
In conclusione delle conclusioni,
Gettar le gonne e vollero i calzoni.
CANTO I. 65
Ma il Prefetto vegliava. Appena via
Fu andato il sole, mise in giro tutti
I micheletti della polizia,
Le spie, le circolari e i farabutti.
Hus piena fu di quella porcheria,
Di facce da galera e ceffi brutti
Che sfoderando rivoltelle e spade
Aggredivan la gente per le strade.
Come in Italia, quando è proibito
Di gridar viva il Re, prorompe fuori
Di canaglia un esercito infinito
Camuffato da guardie e da questori
Che aggrediscono e picchian l'aggredito,
Gli prendon l'orologio ed i valori,
E se per caso un sol lamento emette
Zitto lo fanno star colle manette;
Così per la città fu sguinzagliata
Quanta maggior canaglia si potesse
Ed immediatamente fu mandata
Ad arrestare le deputatesse.
66 GIOBBE.
Madonna Giobbe fu tosto arrestata
Del Prefetto in omaggio alle promesse,
E poi che protestò contro al i^otere
Le risposero a calci nel sedere.
Poco tempo passò che dal Prefetto
Fu presa una solenne decisione.
A donna Giobbe regalò il Libretto
Accompagnato dall'ammonizione.
Ebbero l'altre in pegno del suo affetto
Un regalo di multa e di prigione.
Fece così che tutto si quietasse
E lo promosser subito di classe.
Questo v' insegni, donne mie garbate,
A far le cose con maggior giudizio,
Poiché vedete come le piazzate
Conducan le faccende a precipizio.
A far così sarete bastonate.
Sarete prese a calci in quel servizio ;
Basta.... quel che successe a Giobbe intanto
Lo potrete sentir nell'altro canto.
CANTO SECONDO
ELIPHAZ.
Eliphaz Themanita dixit:
Si ccejìerimuj loqul tibi, Jorsitan moleste accipie
ÙOò IV. 1.:;.
ARGOMENTO.
Orribile stato del Patriarca Giobbe — È portato allo sterquili-
nio — Apostrofe della moglie — I tre amici — Elipbaz corca
persuadere Giobbe che la causa de' suoi mali sono gli errori po-
litici — Kega il Patriarca e parla da socialista — Voce di po-
liziotti — Voce di Prefetti — Voce di Ministri — Tentativo di
Elipbaz per convertir Giobbe al clericalismo — Ira del paziente
— Voce di frati — Voce di preti — Parlano i moderati — i pro-
gressisti — i repubblicani — i socialisti — 1 trasformisti —
Dubbi di Giobbe — I gruppi — La tenzone bucolica tra Eliphaz
e Giobbe — Gli Dei minori della Destra — Gli Dei minori della
Sinistra — Gli Dei niiiggiori della Destra — Gli Dei maggiori
della Sinisti-a — I giornalisti — Notte — Voce nel buio.
CANTO II. gg
Nudo, coperto d'ulceri, di piaghe
E di schifosi guidaleschi, il; santo
Patriarca giacca là dove un tempo
Il suo palagio s'innalzava. Steso
Sulle macerie, ai passeggeri offria
Spettacol turpe di se stesso e i mille
Monelli d'Hus (età spietata !) intorno
Gli si affollavan a schernirlo, e in capo
Gli scagliavan sozzure e pietre, urlando.
Un prete che abitava in quei dintorni
E che spesso di Giobbe a mensa stette,
70 GIOBBE.
Volle toglier d'accanto a la sua casa
Lo . spettacolo infame e fé' ricorso
Al Municipio.
Il Sindaco alle Guardie
Grli ordini diede.
A mezzodì, nel punto
Che'l sol più scotta e più feroci al pasto
Orrendo traggon ronzando le mosche
Ed i tafani sulle membra oscene
Del Patriarca santo, ecco le Guardie
Con un carretto, di quelli che servono
L'immondizie a portar municipali.
Da molti scioperati e dai monelli
Seguite, a Giobbe vennero: — a Ehi, carogna !
Levati e vien con noi! » — dissero. Giobbe
Non mosse labbro né piegò sua costa,
Tanto la piena del dolor vincea
Ogni forza del corpo. — a Alzati dunque,
Ritratto dello schifo, o noi sapremo
Farti levar di lì! » — Ma Giobbe tacque.
Nessun volea toccar del Patriarca
Le purulenti membra ed alle Guardie
Chiamar convenne il beccamorti. L'orrida
CANTO II. 71
Carcassa fu gettata in sul carretto,
E tra le grida, i fisclii e le sassate,
Fuor di porta condotta ai letamai
Pubblici. Là tra le carogne, il puzzo,
E gli escrementi de la città intera,
Scaraventate fur le sante membra
Malvive e sozze di Giobbe. Il Nemico
Su di lui fatto aveva ogni sua possa !
Qual tronco annoso dal furor schiantato
Del possente uragan, da l'alto monte
Precipitando a valle, in sua mina
Trae gli arboscelli a lui propinqui e grave
Pondo di terra, di macerie e sassi j
Fincliè nel fondo del burron si ferma
E gigantesco sta con le divelto
Radici al sole, immobili le chiome
Già pur virenti or gialle , industre nido
D' innumeri formiche o di civette ;
Tal stette il Patriarca, infame peso
Al letamaio vii, nido di fitte
Turbe d'insetti, di puzzo e di tabe!
Stette immobil qual tronco, e sol di quando
In quando con un coccio a le prurienti
72 GIOBBE.
Membra dava conforto e via radendo
La sanie andava e si. gratta va.
Il calice
Amarissimo ancor non era pieno !
Venne la moglie, e innanzi a lui rotando
Le luci di megera e le canenti
Chiome squassando, gli mostrò il libretto
Che la Questura le largì, e puntate
Le man sui fianchi, ad ingiuriarlo prese.
— a: Ci ho gusto, brutto porco, brutta carogna infame,
Ci ho gusto che tu crepi sopra questo letame !
Che ti valser le preci innalzate al Signore,
L'esser chiamato sempre a Signor Commendatore ?
L'aver comprato i voti per esser consigliere
Comunale, esser pio, onesto e fabbricere?
Dimmi dov'è il tuo Dio? Ah, come hai bene spesa
Una somma a tenergli tante lampade in chiesa !
Corri dal tuo Governo, e fatti tor via il male
E salutami tanto la Costituzionale !
E ti sta bene. Hai sempre fatto l'opposizione
Alle mie sante idee sopra l'abolizione
Che il Bertani propugna ; volesti a mio dispetto
Mantenuta la visita, mantenuto il libretto!
CANTO II. 73
A che t'hanno giovato le leggi restrittive
E le tue strombazzate garanzie preventivo?
Ora tu l'hai nell'ossa. Fattela levar via
Da' tuoi Regolamenti e dalla polizia !
Marcisci nel letame, crepa nella vergogna,
Retrogrado, consorte, animale, carogna! » —
Ma Giobbe tacque. Alfin levando il manco
Braccio, col pugno chiuso, in alto il mosse
E colla destra aperta un picciol colpo
Diessi là dove suol punger la vena
Il flebotomo esperto, e quindi stette
Qualche tempo così movendo il cubito.
Risposta unica e degna a la pettegola.
Poiché la donna fu partita, vennero
Tre onorande persone a cercar Giobbe.
Eliphaz Themanita che politico
Era, Baldad Subita gran filosofo,
E Sojihar Naamanita letterato.
Del Patriarca amici vecchi; i quali
A lui mangiato avean di molti pranzi
E s'eran fatti far di molte firme
Nelle cambiali, e Giobbe avea pagato.
74 GIOBBE,
Venner d'animo grato esempio raro,
Per riveder l'amico e consolarsi
Veggendolo soffrir, che non v'ha cosa
Agli amici che stanno in sulla riva
Piii grata del veder la fragil nave
Dove gli amici lor varcano il mare,
In preda ai venti e dai marosi rotta.
Vennero e giunti al letamaio, tutti
Inorridir veggendo il mostruoso
Mucchio di tabe, di carne e di piaghe
Che un dì fu Giobbe, cui solo la lingua
Era sana rimasta per dolersi.
Finsero di strapparsi i vestimenti,
Finsero di buttarsi sulle calve
Teste la polve, poi sedetter colle
Gambe incrociate sulla nuda terra,
E sette giorni e sette notti tacquero,
Finch' Eliphaz discorse a questo modo:
CANTO II. 75
Conosci tu il paese ove fioriscono
Grli aranci d'or sotto le brune foglio?
Dove chi s'impacciò della politica
Accuse in premio e vituperi coglie'?
Dove i ministri vecchi prendon moglie
E più servono a lei che non al Ee?
Conosci tu il paese ove governano
Le vanità che sembrano persone,
Buone solo a pranzare ed a far brindisi
Da canzonare il popolo minchione
Che in piazza, in folla, sta sotto al balcone,
Sperando di veder non si sa che?
Là di menzogna il gran Deprctis fodera
L'antica lealtà del suo Sovrano,
Là l'indeciso Zanardelli dondola
Tra il credo regio e tra il repubblicano,
E il Mancini da buon napoletano
Chiacchera, dorme ed in campagna sta.
Cento leggi in un dì laggiù si formano,
Ma il bea più s'allontana e' 1 mal sovrasta,
Dove Spaventa errò Berti s'impapera,
76 GIOBBE.
Dove Bonghi sfondò Baccelli guasta,
Tutto è un pasticcio della stessa pasta
Da chi vien, rovinato, e da chi va.
Ma in codesta Babel que' che guadagnano
Son quegli uncinatissimi avvocati
Che, messe l'ugne nell'aver del prossimo,
Diventan cavalieri e deputati.
Rivendono le grazie ai condannati,
Le ferrovie, gl'impieghi e l'onestà.
Così lo Stato in una vigna mutasi
Vendemmiata dai furbi e dai bricconi,
Dove si tratta come servo il pubblico
E gl'impiegati fanno da padroni,
E tra pratiche, incarti e posizioni.
Nessun di loro sa quel che si fa.
Di chi la colpa? Son le leggi o gli uomini,
Son le costituzioni od i ministri?
Ma che vai che le prime il mal sanciscano
0 che dagli altri peggio s'amministri?
Il fatto sta che i destri ed i sinistn
Van gareggiando di bestialità.
CANTO II. n
Di chi la colp-al La risposta è facile:
Tutta la colpa è dell' ottantano ve.
La colpa è delle idee false e massoniche,
Delle vecchie follie che sembran nuove.
E Dio ti sottopone a tante prove
Perchè credesti nella libertà.
Per questo, Giobbe mio, d'un amarissimo
Pianto tu versi innanzi a noi le stille.
Per questo, Giobbe mio, tolti ti furono
L'oro, le mandre, il credito e le ville.
Per questo, Giobbe, j)overo imbecille.
Giaci nella sozzura e ben ti sta.
Muta pensiero, e muta la politica:
Al Papa credi, e credi al Gius divino.
Battiti il petto peccator ; confessati.
Prendi le specie del pane e del vino.
Credi alla donazion di Costantino,
E la fortuna tua si cambierà.
78 GIOBBE.
ff Taci — interruppe il Patriarca — e poni
Fine a discorsi che non han né capo,
Né coda. Tu fai presto, Themanita,
A canzonar la libertà, tu fai
Presto a bandir come rimedio solo
D'ogni male, il ritorno al Medio Evo !
Sei papalino più. del Papa e più
Del Fanfulla! Tu leggi senza dubbio
Il faceto giornal dove alla corda
E al boia un inno d'inesausto amore
Ogni giorno si manda, e dove parve
Poco adorar l'autorità d'un solo,
Tal che due se n'adoran umilmente;
Quella del Papa e quella del Sovrano.
Deh, se mischiarle a lui fosse concesso.
Come l'udresti nei Giorno •per giorno
Scioglier inni pindarici e bruciare
Profumi e genuflettersi divoto
Innanzi a un Papa-re, pur che una stilla
Di sangue savoiardo in lui ci fosse !
Io no — Quando la vita a me ridea
Lieta di gioie e di ricchezze, sempre
Lessi La: Lega e il capitan Fracassa.
CANTO II. 79
M'annoiava il Diritto, il Bersagliere
Mi sconvolgeva i nervi, la Riforma
Mi faceva dormir profondamente
E il Popolo Eoman mi facea recere.
Tunisi? Figlio mio, vorrei che in mano
Fosse il timon del regno al piìi possente,
Al più grande cervel del mondo intero,
Magari al Eapisardi, e poi vedresti
In che mare d'imbrogli ed in che secche
Ci condurrebbe.
Nei tuguri dove
Il sol non entra mal, ne'' fondi oscuri
Geme un popol di miseri, che appena
Apre le luci : un popolo di vinti
Cui la forza dell'oro onnipossente
E il terror delle carceri e la truce
Minaccia de' gaudenti e piìi la forca
AI silenzio ridusse. A poco a poco
In quell'oscurità portiam la luce
Noi stessi. Noi di scuole e di sonanti
Prediche a lor siam larghi e di diritti
Parliamo! A lor l'armi porgiamo, ed essi
Le affllan di nascosto. Un giorno, uhi presto !
80 GIOBBE.
Ci desterem tra il fumo e le scintille.
La casa brucierà per colpa nostra.
Sulle vie sorgeran le barricate
Per colpa nostra. Crollerà nel sangue
La vecchia società : sciolta nel vizio
Perirà la famiglia e un evo orrendo,
Una fiumana torbida, di nuovo
Dall'Alpi scenderà, dai trivi nostri
Zampillerà, per allagar la bella
La dolce Italia mia... per colpa nostra!
E che facciamo noi? Chi mai provvede
All'urgente ruina? Ecco Bisanzio
In Senato cavilla ed il nemico
Rompe le porte! Ascolta, o Themanita,
Ascolta pur le voci sciocche, ascolta
Chi provveder dovrìa come favella.
CANTO II. 81
Voce di poliziotti.
Da le nevate cime
De l'Alpe sino all'ultima Catania,
Di gloria e di dolor magion sul)liir.o,
Da chi dolce riposa
Per noi sicuro, oh coinè si dilania
Ingratissimamente il nostro nome !
Nel laconismo d'una falsa prosa
Lieto il prefetto ci affida il paese ;
Ma quando ai colpi siamo ed all'offese,
Scarica tutto sulle nostre some.
Quest'arte prefettizia,
A dirla schietta, non ci garba affatto.
Questa non è politica, è malizia;
È un cavar la castagna
Dal foco ardente col zampin del ga^to.
Oh, lo chiamino pur machiavellismo
Necessario in Sicilia ed in Romagna
Per sostener V autorità lahente:
Ma noi con frase un poco più evidente
L'abbiamo battezzato depretismo.
82 GIOBBE.
Spesso tra gli arrestati
Che dalla piazza a le natie prigioni
Noi trasportiam, ci son degli avvocati
Che con parole ostili
Spiagean la plebe a le dimostrazioni
E ci chiamavan fondi di galera,
Servi di servi, stii^endiati e vili.
Però il prefetto allor taglia di corto,
Rilascia gli avvocati e ci dà il torto.
Senza ascoltar ragione, né preghiera.
Siamo stanchi di tale
Barcamenar continuo a nostro danno.
Non basta che vegghiamo a l'invernale
Bufera, a tarda notte.
Pel bisogno, esecrabile tiranno,
Acqua fredda sfidando e nevo e venti
Con gli occhi stanchi e con le gambe rotte
Perchè mai questo pan secco ed ingrato
Ce lo volete dare avvelenato
Dalle vostre ingiustizie prepotenti?
CANTO II. 83
Voce di prefetti.
Oh, che brutto mestiere
È mai fare il prefetto !
Ci tocca di tenere
Il popolo soggetto
Per mezzo d'una schiera
Terribile e bestiale
Che più del tribunale
Ricorda la galera!
Noi che vogliam la pace
De le città sorelle
E che intanto ci piace
Di custodir la pelle,
Quando il fragor rimbomba
Di qualche agitazione.
Diamo disposizione
Di suonare la tromba.
Ma quella turba trista,
Con astuto pensiero,
Ci mette in mala vista
Del nostro ministero
84 GIOBBE.
Lavorando di mano,
Di calci, di saette,
Di daghe e di manette
Sul popolo sovrano.
Allora dai giornali
Sopra la nostra testa
D'articoli triviali
Ci piomba una tempesta
Da cui non v'ha difesa...
In fine i deputati
Si mischiano all'impresa
E noi Siam... traslocati!
CAMTO II. 80
Voce di ministri.
Ahimè Ministri,
Destri o Sinistri,
Sempre tutti meniam vita infelice!
Sebben facciamo
Quel che possiamo.
a Piove j Governo ladro ! » ognun ci dico.
Diamo le croci
Come le noci
A quintali per poco a chi le vuole;
Abbiam creati
Tanti impiegati,
Tanti maestri nuovi per le scuole:
Mettemmo fuori
Commendatori
Ufficiali, gran croci e gran cordoni,
E pur gl'ingrati
Amministrati
Ci chiamano imbecilli o pur birboni!
86 GIOBBE.
Se avrà energia
La polizia,
Vi daran dell' autocrata inumano :
Ma se lasciate
Far due chiassate
Tutti vi grideran repubblicano,
Ed i prefetti
Furbi od inetti
D'ogni cosa dan colpa al ministero!
Non muove foglia.
Voglia o non voglia,
Che non sia colpa nostra, e non è vero.
Se un poliziotto
Scaglia un cazzotto
Nei denti a un ladro che non ha pazienza^
Sino i giornali
Ministeriali
Danno tutta la colpa a Sua Eccellenza.
Ogni bel gioco
Vuol durar poco
E queste storie ormai ci hanno seccato.
CANTO II. 87;
Il mondo vada
Per la sua strada
E vada pure come è sempre andato,
Che noi Ministri,
Destri o Sinistri,
Siam stanchi di passar per farabutti.
Strillino i matti
Che a conti fatti
Noi pranziam bene e abbiamo in tasca tutti.
Mentre le voci de' Ministri lente
Vanian per l'aria, come in sulla sera
Per le campagne snon cVave-maria,
Lieto Eliphaz sorrise, la bestemmia
Da lo sdegno di Giobbe ornai credendo
Vicina. Ed incalzò: — oc Credi che tutta
Questa povera gente che sospira,
Sotto lo scettro del roman pontefice
Non riposasse più contenta? Quando
Sul Temporale comandava il prete
Poco di sgherri e tribunali e carceri
Facea bisogno, che a sfamarsi allora
GIOBBE.
Non occorreva di rubar, nò al bosco
Profugo infame trascinar la vita;
Bastava bazzicar ne la penombra
De lo chiese e condur le proprie donne
Ne l'episcopio... Percbò arricci il naso,
0 Santo Giobbe? Credi tu che sotto
A un governo di Destra o di Sinistra
Le mogli non coronino ugualmente
D'aguzzi serti dei mariti il capo?
Ma mentre allora un monsignor portava
Figli e quattrini nelle case, adesso
Chi vi ruba l'onor ruba i quattrini.
Tu fingi d'ignorar come gran parte
De la tua angoscia e de la tua miseria
Ti sia venuta da la donna ; come
Col tuo bel patrimonio a centinaia
Abbian sfoggiato nerboruti servi
Tolti a le glebe ed umili staffieri ?
Tua moglie, caro mio...
— ce Taci — riprese
Rabbioso urlando il Patriarca, — Taci...
Non ti basta veder come il malore
Mi distrugga la carne a poco a poco
Che tu vieni a straziar l'anima mia !
CANTO II. 89
Forse perchè dal Vatican tu senti
Aleggiar di speranza un' aura dolce,
Forse perchè Bismarck viene a Canossa,
E accorron pellegrini, e nuovi santi
Oman gli altari, e nell'Italia stessa
Levano i vinti le superbe corna
Mal mascherati da Conservatori,
Credi ch'io segua il mal esempio e aiuti
La lima sorda dei reazionari 'i
Stolto ! Per loro è nome vano Amore,
E celando il pugnai sotto il mantello
Concupiscenti preci alzano a Dio
Che negli iniqui cor legge la brama
Di guerra e d'odio disperata. -- Ascolta.
90 GIOBBE.
Voce di frati.
Perchè nati non siani cent'anni prima,
Quando ai nostri conventi
Coll'obolo venian l'amor, la stima,
De le povere genti?
Le chiavi sacre conduceano illese
Al bene corporale,
Al talamo gentil de le marchese,
A la mensa regale.
Ed or Siam disperati — Il nostro pane
È di farina nera :
E a Sodoma che sola ci rfmane
Incombe la galera.
Satana, vieni — Noi siamo affamati
Di donne, d'or, di gare...
0 maledetto Iddio: gli allampanati
Son stanchi di pregare!
CANTO il. 91
Voce di preti.
Muore la grande civiltà che, nata
Ne le povere celle de' conventi,
Lungamente temuta e venerata
Crebbe al caldo dei roglii ed ai tormenti.
Per lei fu l'eresia solo schiacciata
E mostrò Arrigo quarto al ghiaccio e ai venti,
Sotto il sogghigno della gran Contessa
E d'Ildebrando, l'anima dimessa.
A quei che regge la romana chiesa
È il nome di Leone un'ironia.
Se non ha core per la gran contesa
Torni a legger l'uffìzio in sacrestia.
Lungi il giorno non è che vilipesa
Vedrem la sacrosanta gerarchia
Per l'animo rimesso d'un Sovrano
Condannato a marcir nel A^aticano.
92 GIOBBE.
Sperammo, allor che nel sepolcro scese
La matta ballerina marchegiana
Che credè vendicar l'itale ofiese
Colla piccola strage di Mentana,
Si richiamasse un general francese
A disertar la terra italiana.
Stolta speranza, invece d'un leone
Fu fatto papa un povero minchione.
Ei non seppe schiacciar, mistico agnello,
Le calunnie d'un ruvido avvocato
Onde il corpo di Pio, dentro l'avello
Turpemente si chiuse invendicato.
Il canonico Enrico di Campello
Il coro di San Pietro ha già lasciato
Fingendo amor di patria, ma per bile
D'esser soggetto a un jia^Da così umile.
Vogliam don Albertario, il qual fé' tanto
Per la fede cattolica e romana,
Quando chiamato lo Spirito Santo,
Dal ciel lo fece scendere a Viadana,
CANTO II. 93
Dove col suo divino soffio, il pianto
Terse a una giovinetta parroccliiana
Che dopo quella visita gradita
Consolata rimase e concepita.
Vogliamdon Albertario. In men d'un anno
Egli racquisterà l'antico regno,
E patiboli e forche torneranno
Del perdono di Dio placido segno.
I timorosi dello scorso affanno
Tremino al nostro religioso sdegno
Onde avverrà che a noi restino sole,
Le loro mogli con le lor figlinole !
- Non ti curar — rispose il Themanita
Al Patriarca — delle voci inani
Che il Nemico di Dio per l'aure gitta.
Il sacerdozio è santo e le parole
Che son contro di lui, son contro Dio.
Chiedilo al deputato Bortolucci,
Chiedilo al Toscanelli, benché questi,
94 GIOBBE.
Come Noè, dal mal digesto sugo
De le sue vigne, ciurli un po' nel manico.
È pessimo il suo vino, e son cattive
Anche spesso l'idee che attinge in quello.
Chiedilo ad Alli-Maccarani, a tutti
I Lucumoni tuoi che tengon cento
Coccarde in tasca e gli Scolopi in core.
Te lo diranno lor, quanto il rispetto
Al sacerdozio necessario sia
A l'anime ben fatte, a la politica
Compensatrice, comoda e fruttifera.
Chiudi dunque l'orecchio a l'empie voci,
Chiudi a Satana il core. Altre, ben altre
Son le voci del ver che per l'immensa
Etra narran le infamie e le vergogne
De" liberali tuoi. Son voci orrende
Che fan rizzar le chiome in capo ai calvi !
Aguzza, Giobbe, il piirulento orecchio;
Ascoltale parlar, giudica e taci.
CANTO II. 95
Parlano i jiodeuati.
Noi moderati siam se torna il conto,
Ma se non torna furibondi siamo.
Eredi di Cavour ci predichiamo
E chi dice di no, ci fa un affronto.
Di Sella al cenno ognun, di noi già pronto
Scendeva come augel per suo richiamo;
Ora in un gran pasticcio ci troviamo,
E Babilonia è vinta nel confronto.
Ma che c'importa? Mutino i balordi,
Noi no. Un partito della nostra sorte
Non si piega nemmeno a giusti accordi.
Saremo in uggia al popolo, alla Corte,
Sarem convinti d'esser vecchi e sordi,
Ma sarem moderati inflno a morte.
96 GIOBBE.
Parlano i progressisti.
Siam progressisti ma così per dire,
Percliè tra noi ce n'è di piìi colori,
Però ci puoi conoscere e capire
Dall'esser tutti noi commendatori.
Ci siamo accorti, ahimè, clie vuol finire
Questa cuccagna d'impieghi e d'onori;
Ma non sappiamo a chi rivolger l' ire.
Non sappiamo a chi oflrir novelli amori.
Ma dopo tutto, nasca quel che nasca,
Vengano presto o tardino i congedi,
Ci siamo messi la fortuna in tasca.
Non conosciamo ancora i nostri eredi,
Ma se dobbiam cascar, che già si casca.
Noi cercheremo di cadere in piedi.
CANTO H. 97
Parlano i repubblicani.
0 Repubblica, deh, spiega il tuo volo
E vieni presto a noi, vieni domani,
Che Siam ridotti in cento capitani
E non abbiamo un fantaccino solo !
Che se non vieni presto a questo suolo.
Non ci saranno più repubblicani.
Cresce il bisogno d'allungar le mani,
E cala tutti i giorni il nostro stuolo.
Intanto del poter l'empio sicario
Caricando su noi condanne nuove.
Sa che gli crescon merito e salario.
Ma non finiscon mai le nostre prove?
Siam all' ottantadue, dice il lunario,
E nulla annunzia ancor l'ottantanove.
98 (IHOBBE.
Parlano i socialisti.
Con lieto volto e con mendaci accenti
Chi mai d'amor, di pace e di pietate,
Osa parlare ai miseri languenti
Ne le soffitte o su le terre arate?
Oh, non è lunge il dì che consigliate
Da l'atra fame sorgeran le genti,
E in fatali di guerra armi affilate
Trasformeranno i rustici strumenti !
Tutto allor tremerà. La dama istessa
Sui morbidi cuscini ove si corca
Ci attenda. È cosa dei violenti anch'essa.
Tremi, o borghesi, in voi l'anima sporca !
L'ora del sangue e del furor s'appressa..
È nostro l'avvenir, vostra la forca !
CANTO H. 99
Parlano i trasformisti.
Folle colui che irato ai disinganni
Che seco porta quest'insulsa vita,
Con gli atti audaci e la parola ardita
Aumenta il carco dei comuni affanni.
La vita è breve e se ai frequenti danni
L'uman consorzio non ci reca aita,
È inutile tacciar di gesuita,
Chi si procura il bene con gl'inganni.
Giusta cosa non è forse che i vari
Partiti, in mezzo ai tempestosi flutti,
Cerchin lo scampo in danno agli avversari?
Perchè adunque ci dan dei farabutti
Se, moribondi naufraghi del pari,
Noi per salvarci la teniam da tutti?
100 GIOBBE.
Chinò pensoso il capo il santo Giobbe,
Come sgomento, e sussurrò — <r Pur troppo
Le faccende non vanno a modo mio,
Per quanto tutti i giorni il Ministero
Ci sostenga il contrario nei quintali
Di cartaccia che stampa ! Oh, quella carta,
Di statistiche sporca, ove si trova
Per esempio che i nasi in su rivolti
Son cinquecento mila e quattro decimi,
E che in Italia c'è dieci milioni
Cinquecentoseimilatrentasette
E cinque ottavi di zucche pelate !
Mi farebbero perder la i)azienza
Se pur Giobbe non fossi! E per cotesto
Si mantengon migliaia d'impiegati
E si pagan milioni! Brava gente
Sicuro, ma pedante!... Un de' più cari
Era il Rezasco che fu già il sultano
Dell'istruzione per molti anni, e celebre
Era creduto, ed egli lo credeva.
Per certo Dizionario burocratico
Che comincia a stampar soltanto adesso
Dopo averlo ponzato quarant' anni,
Godendone la fama! Oh, fortunate
CANTO II. 101
Le scuole di pittura ed i Musei
A lui soggetti ! Oh, le Biblioteche,
Piene di ladri, come stetter bene
Sotto il suo regno, allor che si fregava
Le mani nel sentir che freddo infame
Regnasse di Gennaio in quelle sale.
a Meglio così: non ci Terrà nessuno, b
Disse una volta, e lo ritrovi tutto
Lo czar dell' Istruzione in quella frase !
Le faccende non vanno a modo mio,
Massime poi da che le vecchie parti
In gruppi omeopatici divise
Si mordono tra lor sì come cani,
Per baciarsi il di dopo. Anzi, mio dolce
Eliphaz, ti confesso che ne l'ozio
Di questo sterquilinio, alcuni versi
Ho schiccherato giù su quest'affare.
È una sciocchezza ve'! Bada, non credo
D'aver fatto un Lucifero; ti pare!
Non discendo fin là. Questa è soltanto
Un umil canzonetta che si canta
Sull'aria del Girella, o press'a poco.
102 GIOBBE.
Gruppino, bindolo
E birro smesso,
Cbe alzava il gomito
Più del permesso,
Andò alla Camera
Tutto agghindato.
Colla medaglia
Da Deputato
E visto il pubblico
Di buona luna,
Entrò nell'aula,
Montò in tribuna
E col vocione
Vinolento, mugliò questa canzone;
Dite, onore v^oli
Dei due partiti,
Non è ridicolo
Lo stare uniti,
Scusando un vincolo
Di soggezione
Col bene pubblico
Che ce lo impone ì
Sembriam le pecore
CANTO II. 103
Del mio fattore
Che non san pascere
Senza pastore,
E in Parlamento
Noi veniamo a stabbiar, docile armento.
Come alla Camera
Tanti avvocati
Rimaner possono
Disciplinati ì
■ Via non facciamoci
Più comj)atire
Che questo scandalo
S' ha da finire !
Le cose semplici
Son da imbecilli,
I grandi e gli abili
Crescon tranquilli
Dentro ai viluppi.
Qui bisogna imbrogliar. Facciamo i gruppi-.
Se pur vuol essere
Ancora eletto,
Ogni onorevole
104 GIOBBE.
Faccia un gruppetto.
In dieci o dodici
Si fa un partito;
Dunque sia il numero
Prestabilito
Di quattro al maximum
Per fare un gruppo.
Così la Camera
Sarà un viluppo
Dove la gente
S'accorgerà di non capir più niente.
Sarà più facile
In tal maniera
Quando fa comodo
Mutar bandiera,
Ottener ciondoli,
Goder favori,
Le liti vincere
Degli elettori.
Sussidi attingere
Dal Ministero,
Impaurendolo
D' un voto nero,
CANTO II. 105
E farsi un pregio
D'aver di ferrovie pieno il Collegio.
Così Nicotera
Può andar con Sella,
A Crispi arrendersi
L' uom di Stradella,
Massari assidersi
Presso Mancini,
Pinzi il solletico
Fare a Mordini,
E Lanza pronubo,
Con Zanardelli,
Condurre al talamo
Bonghi e Baccelli, *
E per procura
Altre nozze compor contro natura.
0 gruppi, o splendida,
Somma invenzione,
Che unite all' utile
La convinzione.
Verrete al pettine 1
Chi sa ! Può darsi,
106 GIOBBE.
Specie se il popolo
"Venga a destarsi;
Ma intanto è compito
Dei Deputati
Far gruppi e prendere
Da tutti i lati
Fincliè sian stanchi....
(Applauso general da tutti i hanckì).
Eliphaz scosse il capo e così disse :
— Ah, santo Giobbe, di che ritmo vecchio
Ancor bamboleggiando ti compiaci !
Seduti come Titiro e Menalca,
' Non sotto un faggio, ma sopra il letame,
Noi canterem come ne le Bucoliche
Grareggiarido fra noi d'alte e di voce.
Io di più nuovi metri e di più dotti
T'assorderò le grandi orecchie. Ascolta.
CANTO II. 107
I Numi de le genti minori mostrarti m'è caro
che in Parlamento fanno da cliiericlietti agli altri.
A destra son pochi, son male d'accordo tra loro
siccome quelli de'l ponte di Rifredi.
Va le fedine Biancheri movendo da Sella a Minghettì,
fedine spioventi quasi per lungo lutto,
perchè gli ritorna ne'l cor sanguinante il ricordo
del dolce tempo quand'era Presidente.
Adesso Farini tormenta co'l pugno nervoso
il campanello istesso eh' egli più mite scosse,
e sente ogni rintocco ferirlo ne'l vivo de'l core....
oh gloria umana come trapassi presto !
E intanto il fiero Pinzi che pare non possa star fermo
aborre la Sinistra come aborrì i tedeschi,
là dove Cavalletto più calmo, da vero decano
de la sfasciata Destra, parla sei volte al giorno
|108 GIOBBE.
in i>uro dialetto di Padova, come Peruzzì
parla una volta a l'anno nel gergo de i Bechi e de i Bobi.
Afiina Lioy la bile temprandone acute quadrella,
E Fano ghigna né perde l'appetito.
Teano lungo lungo, ma corto ne' 1 resto, non giunge
a la statura di Sambuy gigante
cui solo tolse il vanto d'altissimo tra i Deputati
il buon Pandóla rimasto ne la tromba.
Arbib tentenna e forse ricorda la sua gloriosa
camicia rossa de' 1 giorno di Milazzo,
stanco di starsi vicino a i suoi conterrani, a gli etruschi
facili lucumoni che voltano casacca.
Chimirri si strugge di giungere in alto, Codronchi
si duole invece d'esser caduto in basso.
Posa De Zerbi intanto, scrivendo di tutto, parlando
di tutto. Posa Guiccioli su'l suo banco.
CANTO II. 109
Quanti ne mancan purtroppo! Ahimè dove son gli scrittori
di Destra? Dove Bersezio con Barrili'?
Guerzoni almen s' è fatto il nido e riposa e non scrive
più quei suoi libri zeppi di tanti errori.
Broglio dov' è ? Contende pe '1 suo Federico Secondo
co 'l'editore? Vive ancora D'Ondes Reggio ?
Amicarelli pure portò di qui fuori la coda
e Cantù indarno si strugge pe'l Senato
dove sonnecchiano Bembo, Giorgini, Finali, Brioschi,
dove con Massarani sonnecchia Bellinzaghi,
dove Saracco cerca il pelo no'l ovo e combatte
strenuamente co'l suo fido Lampertico.
La Destra, ahimè, la Destra è morta ! Falangi compatto
le minoranze stanno, e frangonsi ne '1 giorno
de la vittoria. Invece la Destra, da '1 giorno fatalo
de la caduta, quando mancolle il dolce
110 GIOBBE.
vincolo che stringeva ciascun de' consorti alla mensa
spezzossi come vaso di fragil vetro.
Addio, degenerati nepoti de'l Grande che dorme
a Sàntena, felice d'essere a tempo morto !
Addio, memorie forti, se non grandi. Passano gli anni
e portano seco con gli uomini l' idee.
Ecco il tuo vecchio plettro, Prati ; ne desta le corde
e canta l'epicedio de la defunta Destra.
a Visse felice fino che liete le arriser le sorti
ma debole fu ne la sventura. Dite un Beqiiiem. d
No — disse Giobbe — questi maledetti
Esametri e pentametri mi sono
Duri da digerir. Ma poiché siamo
In via di metri barbari, provare
Mi voglio anch' io. Gli Dei delle Minori
Genti Sinistre canterò. M'ascolta.
CANTO II. IH
Saffica Musa, a '1 Carbonelli togli
l'arguto eloquio piscatorio e dimmi
se meglio scrive l'osco Petrucelli
De la Gattina,
o non piuttosto Lazzaro ne'l Boma.
Dimmi se il limbo più noiosi accoglie
cMaccheratori di Melchiorre, ovvero
de'l Pierantoni.
Ecco i padroni nostri ! Il farmacista
Asperti, esperto a fabbricar cerotti,
i due Basetti, Gian Lorenzo e 1' altro,
medici entrambi.
La Porta smania dietro a '1 portafoglio.
La Cava è giunto ad esser segretario ;
dell, perchè quella Porta in quella Cava
non cade aitine ?
Oh, il bel Pianciani, il Sindaco leggiadro,
come sta bene accanto a San Donato,
Sindaco sfatto che tornar vorrebbe
Sindaco ancora !
112 GIOBBE.
Oli, quanti abati mal disabatati !
Ecco Abignente che la Storia insegna
Sacra ne l'aule cbe Pessina onora,
ecco Merzario !
e il trasformista Billia ed il Morana
che per un giorno fornicò con Sella,
e Della Rocca fido a '1 suo barone
salernitano.
E il Baratieri che da Trento viene,
l'arguto Mussi ed il baron de Renzis
caro ai proverbi, e l'Adamoli cosa
sacra a Cairoli.
Odi, là in alto la montagna freme
d'aver perduto il medico Bertani,
ma Cavallotti ancor le resta e Bovio
da la gran voce.
E quanti ancora mancano a la manca !
Dov' è il Puccini transfuga, che fece
due relazioni, una contraria a l'altra,
ne'l giorno stesso?
CANTO II. 113
Dov'è il Ricciardi tolto a l'allegria
de i Deputati, cui riinan soltanto
il Mazzarella per fiorir di risa
ogni verbale ?
E il Maiorana che co' 1 Doda ai tardi
sonni si diede del Senato, lascia
Amadei solo a protegger le viti
contro gì' insetti !
Ci reggon questi e fan sereno e pioggia,
a lor talento e votano milioni
allegramente, e Pantalon che paga
li ciba ancora ;
Poiché non havvi deputato gramo
che non si faccia offrire un pranzo in gala
e poi non paghi subito lo scotto
con un discorso.
È questo il regno de' mediocri ; spesso
regno de' nulli o peggio. Ma il paese,
dicono i saggi, ha sempre quel governo
che gli sta bene.
114
- « Bada, son brutti vèrsi — al Patriarca
Elipliaz disse: — Tu cantavi meglio
Ne' vecchi ritmi e non è pan per tutti
Il novo ritmo barbaro. Ti voglio
Infligger la canzon de' Dii Maggiori
Della Destra, infilata in metro barbaro.
Salute a~ i vinti che si divisero
quando più. grave premea il pericolo,
a i vinti che lasciano il campo
g-ittando a terra la vecchia insegna !
Salute a i vinti che si rassegnano
ad una muta parte di vittima,
a quelli che vanno a '1 nemico,
a i disertori de la bandiera !
A te salute, Minghetti roseo,
già nominato l'eterno pargolo,
che muti il color de la pelle
come fa il vario camaleonte j
CANTO II. 115
Oggi smanioso di forme libere
e di riforme tutte britanniche,
domani abbracciato a '1 Cantelli,
invidiando lo Czar a i russi!
0 Sella, vedi, corrono i transfughi
a '1 tuo rivale, solo lasciandoti
co '1 guercio Coppino e Grimaldi
sommo ne '1 arte di svesciar ciarle !
Tra i Lincei fuggi, tra le academiche
baie i capaci fiaschi dimentica,
tra il credulo armento de i dotti
che, quanto a fiaschi, sono indulgenti.
T'aborre Lanza, i' ingenuo medico,
t'odian Spaventa duro ed energico
e il bene azzimato Codronchi,
ed il poeta cesareo Prati.
Eudini il tardo, parla lentissimo,
ma non di meno te pur vitupera.
Saint-Bon ne '1 suo franco-italiano
anch'ei ne dice d'ogni colore,
116 GIOBBE.
ed il brillante Massari sfodera
le barzellette sue più ridicole.
Visconti- Venosta fa il morto,
ma anch' ei ti tratta male parecchio.
Ahi, Sella ! in odio a '1 cielo a gli uomini,
morso da '1 Bonghi co '1 dente assiduo,
da tutti respinto, spiacente
tanto a '1 Signore che a' suoi nimici,
dove il rossore vuoi tu nascondere,
tu, micidiale, che desti 1' ultima
strappata di laccio a la Destra
cui fé' Minghetti da tirapiedi 1
Kitorna a Biella !. Guarda le patrie
montagne immense che a'I cielo s'ergono.
Un dì ti parranno quei monti
de '1 tuo rimorso men gravi assai.
CANTO II. 117
- Non e' è maluccio per un moderato —
Replicò il Patriarca — e queste strofe
Han migliore armonia de' tuoi pentametri.
Ma tuttavia non son pane ai miei denti
E di barbari versi ormai son stanco.
Io ti voglio cantar gli Dei Maggiori
Della Sinistra, e come tu con Sella
Io mi sbizzarrirò contro 11 Depretis.
Metteiò mano alle terzine. Un ritmo
Più venerabil non saprei trovare.
Tutto rovina in questo mondo orribile:
Fino il giudice ormai mancar si sente
Di sotto la ciambella inamovibile.
Ma il vecchio di Stradella impenitente
Sta duro ancora come fosse eterno
E inganna tutti quanti allegramente.
Egli è pur giunto dalla etate al verno
E spera di veder quest'altra estate •
Maturar le bugìe del suo governo.
118 GIOBBE.
Spera veder le turbe minchionate
Creder die sotto ai candidi capelli
Gli germoglino idee, non busclierate ;
Pronto a buttar nel fiume Zanardelli,
Acton se occorre, Berti, Baccar/ni,
Magliani insieme a Ferrerò e Baccelli :
Pronto a buttar nel fiume anche Mancini,
Benché le ciarle lo terranno a galla
Come le zucche tengono i bambini.
Ai venturieri egli darà di spalla
Pur di star ritto, e farà il Ministero
Più sozzo che non fu d'Augìa la stalla.
0 buon Cairoli, o povero sìncero,
Che ìmpossibil credevi ogni mendacio
E avesti fede in chi mai disse il vero,
Con lui vivevi come pane e cacio;
Ma quando egli a Gethsemani ti vide.
Coi birri, a notte, venne a darti il bacio.
CANTO II. 119
Indarno Crispi furibondo stride
Perchè lo tien di tavola lontano,
Ch'ei gii ammicca, l'inganna e gli sorrido;
Ed al baron Nicotera la mano
Sotto il tavolo tende e per disopra
Ambizioso lo dice e ciarlatano.
Ora Correnti ora Cialdini adopra,
Poi li rinnega come nnlla fosse
E non gii cai se la bugìa si scopra.
Nessun dire o disdir mai lo commosse.
E se lo sa De Sanctis, poveretto.
Che ne conserva ancor le guancie rosse ;
Egli che nel Diritto aveva detto
Che all'onestà tornar facea mestieri,
Ai costumi di Sparta ed al brodetto !
E pur, cogli occhi grifagni e severi,
Sull'onorando seggiolon seduto,
Farini guarda e conta gii adulteri.
120 GIOBBE.
Ma quando il vecchio è per un dì caduto
E corion tutti a lui gridando aita,
Rinnova incontanente il gran rifiuto.
Sdegna abbassar 1' intemerata vita
In questo fango di mediocri inganni
E la volgare furberia l' irrita.
Passan così di male in peggio gli anni,
Di bassezza in bassezza, e crescon solo
Ad ogni nuovo sole i nostri danni.
Credevam di levare in alto il volo
A l'aquile superbe emuli e pari,
Ed invece strisciam rasente al suolo
Come lumache sudicie e volgari.
CANTO II. 221
-a Tu te la cavi meglio, o Santo Giobbe —
Eliphaz disse — te la cavi meglio
Con questi versi che cogli altri. Io pure
Provar mi voglio ai vecchi ritmi e dirti
In rima le virtù dei giornalisti.
Benedetto sia tu, quarto potere
Degli Stati moderni,
Che infrangi le corone a tuo piacere
E fabbrichi governi.
Non per servir principii o sentimenti.
Ma sol per aumentar gli abbonamenti.
E se dei vaglia la raccolta sia
Alqxianto dimagrata.
Non sdegni un poco di pornografia
Magari anche illustrata ;
Salvo però a stampar nell'altra carta
Che ci bisognan le virtìi di Sparta.
122
Forse il fior di virtìi straordinario
Del Chauvet (con licenza),
Ovvero di don Davide Albertario
La santa continenza,
0 l'onestà incorrotta dei signori....!
(Badate che ne lascio e dei migliori)
Eppure in mezzo a tanto sudiciume
Ce n' è qualcun de' buoni j
Parecchi anzi, che fuggono il costume
De' colleghi birboni
E per danari non scendono a patti,
E tanto meno poi fanno ricatti.
Non posso enumerar tutti gli onesti,
E mi scuso umilmente
Se mi fermo a parlar solo di questi
Che mi vengono in mente ;
E così non s'offendano gii esclusi
Come se tralasciandoli li accusi.
CANTO II. 123
E prima all'editor scioglier conviene
Un inno di onoranza,
Che questo Giobbe mi La stampato bene
E pagato abbastanza ;
Ma la lode dev'esser riservata
Perchè non abbia l'aria di stoccata.
E il cranio di D'Arcais lucido e schietto,
Terso come un ginocchio,
Notiamo, ed il Pancrazi poveretto
Un po' losco da un occhio.
Che a dire il vero ha fatto assai ciarlare....
Ma un occhio chiuderò. Lasciamo andare.
Oh, l'Avanzini ! È proprio un gran peccato
Che un gentiluomo tale,
Di cui non si può dare il più garbato.
Sia quasi clericale,
E, come al rosso infuriano i torelli,
Perda la vista a ricordar Baccelli !
124 GIOBBE.
Perde il Fanftdla i suoi lettor piìi eletti
Attratti dal Fracassa
Colla cara invonzion de' pupazzetti
E i colpi di gran cassa :
Questi per direttor Vassallo prese
E indovinò scegliendo un genovese.
Arbib nel foglio suo va tentennando,
E Lazzaro sgrammatica.
Il Diritto divenne venerando
E i Ministeri pratica.
Il Bersagliere commenta il Barone.
E la Riforma secca con Baconet
Pesa un quintale la Perseveranza
Su cui Platone incombe.
Bottero di veder nutre speranza
Di preti un ecatombe,
Ma Don Margotti, che scordò il randello,
Coll'obol va ingrassandosi bel bello.
CANTO II. 125
Mario, beffiindo il povero Laviui,
Calmi tramonti attende;
Obleigt sorride a tutti e fa quattrini
Poiché l'annunzio rende,
E la JSassegna frigge nel suo grasso,
Senza salire e senza cader basso.
Intanto tutti corron dai giornali
Per avere un soffietto,
Usando furberie fenomenali
Per un articoletto ;
Facendo ancora qualche figuraccia
Per una sola riga di prosaccia.
I giornali così, Destri o Sinistri,
Diventan potentati.
I direttori diventan Ministri
E gli altri Deputati....
Benedetto sia tu quarto potere,
Che fai pioggia e sereno a tuo piacerò !
126
Era già sceso il sole all'orizzonte
Rosso e, come dorate, ancor le cime
De' monti azzurri di Caldea l'estremo
Bacio dell'astro raccogliean. Più. grave
L'aria era fatta ed un silenzio immane,
Precursor della notte, ogni premea
Cosa d' intorno. Eaccoglieano il volo
Gli augei sui noti nidi e dai silenti
Campi redian gli agricoltori al dolce
Focolare. La calma e la solenne
Pace crepuscolar stendean le molli
Piume sul mondo. La città vicina
Più di clamori non sonava e solo
Un indistinto murmure mandava
Come d' un alvear che s'addormenti.
0 dolcemente mesta ora, che inviti
Il pensiero ai ricordi e il core al pianto^
Che vuoi tu dagli afflitti ? A lor non rise
Il fiammante meriggio e tu la greve
Melanconia su loro incomber fai.
Ora triste ai dolenti ! All'occidente
Muor la vita del dì, salgono folte
Consigliatrici di delitti e d' ira
Le tenebre notturne. Ah, dunque è vero
CANTO II. 127
Che ai maledetti da la sorte, un giorno
Un ora sol, non v' ha di pace ? 0 sole,
Perchè ritorni, splendida ironia
Del cielo, ai maledetti? Oh, se la notte,
L'eterna notte, del sepolcro, senza
Riso di stelle o di mattin speranza,
Involgesse la terra ! Ai maledetti
Più del sereno dì grata sarebbe.
Alla melanconia lenta dell'ora
Cedendo i saggi e il Patriarca, in lungo
Silenzio tacquer tutti. Eran seduti
Al letamaio accanto i tre, che a Giobbe
Davan conforto di parole e i gomiti
Puntati sui ginocchi, entro le palme
Posavano le guance, al suol tenendo
Le luci fisse. Sul concime intanto
Giobbe adagiò le puzzolenti membra
Quasi attendendo il sonno, ed i tre saggi
Che come tutti i saggi eran deserti
D'ogni moneta, stavano pensando
Dove dormir senza pagare. In cielo
Salìa la notte sempre più, la notte
128 GIOBBE.
Che nel suo vel nasconde assai benigna
Molti rossor, molte vergogne e peggio.
Eliphaz disse — Amici, ove dormiamo"?
Molte cliiacchere sciocche oggi abbiam fatto
E più farne dobbiam domani a giorno
Per compirne un poema. Io proporrei
Che per destarci presto domattina
Si dormisse con Giobbe sopra questo
Morbido sterquilinio, che mi i)are
Non puta molto. Così appena il sole
Domani spunterà, riprenderemo
Gli' interrotti discorsi. —
Gli altri due
Finsero un po' d'inorridir, ma poi
Adducendo che alzarsi era mestieri
All'indomani j)resto, al Themanita
Assentirono al fin. Ma la ragione
Unica fu che non avean quattrini.
Sonnecchiavan distesi in sul letame
I saggi e il Patriarca, e nella mente
Assonnata tornavano indistinte
Le chiacchiere del dì, l'eco lontana
Delle canzoni recitate, i lunghi
CANTO II. 129
Discorsi di politica e i compianti
Per la patria scaduta, allor che un tardo
Passegger per la via, tornando a casa,
Cantò questo sonetto a cui bordone
Tenner russando il Patriarca e i saggi.
Voce nel buio.
0 cara madre mia, terra che adoro
Come il fedele del suo Dio la madre,
0 patria de' miei figli e di mio padre,
Perchè sciolta ti sei la stola d'oro
E all'ombra j)igra del tuo vecchio alloro
Torni a posar le nudità leggiadre.
Sonnolenta così che le man ladre
Tentan, mal contrastate, il tuo tesoro?
Ti potessi affondar dentro ai capegli
La man che verga questo inutil carme
E scuoterti finché non ti risvegli !
Salgono i Galli al Campidoglio in arme,
Mentre al varco non sta Manlio che vegli,
E non c'è Kapisardi a dar l'allarme!
CANTO TERZO
BALDAD.
Bttldad Suliitts i.ixit:
Memoria illius pereat de terra <■( non cetebretur numeri eitis in
piateli
Joiì. XVIII 1. 17.
ARGOME^'TO.
Biildad filosofo e suoi fstudii — Tenta di persuadere Giobbe a
cercare consolazioni nella filosofia — Risposta di Giobbe — I
filosofi de' Licei — Esodo dei filosofi meridionali — I filosofi
delle Università — La critica — L'anacreontica del giunco —
La medicina e lo Aoo'ifimio — Voce dai Manicomi —
CANTO III. 133
Baldad Suhita, cui sublime in petto
Di filosofo un cor palpita e freme.
L'occhio in Giobbe fissò, l'occhio benigno
Dove il saver sorride. Ai dolci clivi
De la patria fuggendo adolescente,
A Xinive volò cercando il dolce
Miei di filosofia; le giovanili
Forze a lo studio date ei non permise
Sollievo al corpo mai. Per le gioconde
Vie de l'Assira capitale, invano
Gli sorridean le crestaine belle
E, sollevando de la veste il lembo,
Lo snello piede, l'attillata calza,
134 GIOUBE.
Come per caso gli facean vedere.
Egli spregiava ogni mondan diletto.
Macerando la carne in lunghe veglie
Sui volumi de' Sofi. Ah, non per lui
Corser l'eburnee palle il panno verde
A rovesciar gli ometti: ah, non per lui
Saltare in alto i sugheri sonanti,
Frisser le costolotte, o i gallinacci
Di tartufi imbottì l'industre cuoco!
Studiò, studiò tenacemente, e quando
Del lauro dottorai cinse la chioma,
Parve un portento a' suoi maestri, e parve
A chi ben se ne intende.
Sublime ed immortai filosofia, incretinito.
Così tu conci i tuoi fedeli! Ai pochi
Che de' misteri tuoi tengon la chiave
Ogni catena material disciogli
E ai regni oltremondani alto li guidi.
Così poi che la mente al vero eterno
Volgono speculando e fisi stanno
A contemplar la psiclie e l'infinito,
Scordan la terra e prendono l'aspetto,
E qualche cosa più, di scimuniti.
CANTO III. 135
Bcaldad Subita fisse l'occhio in Giobbe
E di tasca traendo una tornita
Teca, un pizzico andò d'americana
Polve annusando, fin che alzossi e disse:
0 Patriarca, porgi l'orecchio
A chi ti parla la verità.
Sono un filosofo vecchio, stravecchio,
E la saggezza dentro mi sta.
Ascoltami. Un fato tremendo ti opprime,
Ti sforza a giacere su questo concime,
Ti strazia le carni, ti lacera il cor;
E tu miserello, mal vivo e mal morto.
Non hai piìi speranza, non trovi un conforto,
E il mal ti soggioga, ti vince il dolor.
136 GIOBBE.
E pur e' è un sollievo, c'è un balsamo ai mali,
Che allevia le pene de' tristi mortali.
Che giova i tormenti del mondo a scordar ;
La scienza sublime del divo Platone,
La scienza di Critia, di Gorgia e Zenone,
La scienza che insegna la carne a domar.
Ti dolgono l'ossa nel virus marcite?
E tu fa un dilemma, combina un sorite,
E tosto avrà fine l'atroce soffrir.
L' antitesi calma lo spasimo ai denti.
La tesi guarisce le pance dolenti,
Ed il sillogismo concilia il dormir.
Deh, sia benedetta la filosofia
Che i veri contiene dell'Ontologia,
La Logica industre, la santa Moral:
Che inebbriai digiuni, che sgombra i briachi,
Che libera i bimbi trafitti dai bachi,
Che purga, ristora, guarisce ogni mal !
CANTO III. 137
Ce n' è d'ogni gusto, da Grate a Mauiiaiii ;
Se Kant non ti piace, ci son gli hegeliani ;
Se l'Hartmann ti secca, puoi darti a Littrè.
C'è i neri, c'è i bianchi, c'è i grigi, i turchini,
Credenti, ateisti, tomisti, cretini ;
Domanda, domanda: per tutti ce n'è.
E tutti a lor modo conoscono il vero.
Ciascuno a sua posta ti spiega il mistero,
Rischiara la notte o scuro fa il dì.
Ognuno la pensa secondo gli frulla.
Ci si sono per fino i devoti del Nulla
Che in loro sermone favellan così:
oc Al Nulla sia gloria che impera sovrano:
Gran padre de' Numi, terribile arcano
Cli' è prima del Prima che primo regnò.
Al Nulla sia gloria che senza mai fino
Al Qualche minaccia l'estreme mine,
E il iSÌ nel suo seno fa identico al No,
138 GIOBBE.
o: Tu popoli e regi, tu secoli e Numi,
Concentri nel vuoto e il Panto consuini
Per forza segreta che forza non fu.
Non sei, ma ti pensa l'umana natura,
E in te, Nulla immenso, la vile creatura
Si sente nel meno, maggiore del più. »
Tu vedi che dunque ce n'è d'ogni gusto.
C'è il brutto e' è il bollo, e' è il giusto e l'ingiusto.
Adotta un sistema, comincia a pensar.
Soltanto la scienza del bene e del brutto,
L'immenso pasticcio del Nulla e del Tutto,
Al duol che t'opprime conforto può dar.
0 Patriarca, porgi l'orecchio
A chi ti parla la verità.
Sono un filosofo vecchio, stravecchio,
E la saggezza dentro mi sta.
CANTO III. 139
- Puh ! Tutte buffonate ! — il santo Giobbe
A Baldad replicò. — Tu vuoi ch'io cerchi
Nella filosofia qualche sollievo
A' mali miei, ma l'uso e le calate
Facoltà de la mente hanno i tuoi sensi
Imbecillito sì che ignori come
Questo sapere tuo, questo rimedio,
Del male sia peggior. Tu ignori dunque
Come intontisca la filosofia
E come pesi, incomportabil pondo,
Ad un ben nato stomaco 1 Non sai
Che il Governo vietò severamente
Il Platone del Bonghi in ferrovia
Per paura che i ponti a tante note
Cedesser rovinando? Ignori forse
Che la filosofia conduce dritto
Al Manicomio od al profess )rato.
Secondo che s'è in buona o in mala fede?
Se un filosofo gratti, troverai
Un imbecille o....
— Basta — l'interruppe
Baldad Subita — basta! Inutilmente
L'onta e l'ingiuria tu rovesci ai saggi
Sul capo. Un solo esempio ti convinca.
140 GIOBBE.
Guarda i nostri Licei. Sono imbecilli
Quei mille professor che ai giovinetti
Spezzano il i^ane dell'Ontologia'?
Non li conosci tu'? Spesso le corte
E negre calze conservar, coprendo
Il capo tuttavia di negra tuba 5
Ma più spesso vestir lunglie le brache,
Crescer lasciar on l'interdetta barba,
E invece del collare hanno il colletto.
Sono imbecilli forse?
— Ah no, — rispose
Giobbe — tali non son, ma... viceversa.
Io li vidi una volta, il capo ascoso
Dal nicchio venerando o dal cappuccio;
Io li sentii dal pergamo saette
Contro la libertà scagliar furenti.
Li conobbi codini e in un momento
In giobertiani tramutarsi! Tristi
Ibridi; mostri dall'accoppiamento
Procreati tra il vizio e l'ignoranza!
0 i giobertiani mal spretati, o i cari
Metafisici tuoi sfratati peggio.
Come ben li conosco ! Hanno nel core
1 pregiudizi vecchi e i vizi jiuovi,
CANTO III. 141
La serva e il __bigottisino ! Plauno l'amore
Della paga e di Dio nel tempo istesso,
Nella stessa misura. Io li conosco
Questi mal niasclierati e ti concedo
CJie possano servir di medicina
Quando occorre l'emetico; ma intanto
C'è cM li paga e c'è chi va per forza
Da loro a scuola. Ahi, che pietà ! M'accresce
Non mi scema lo strazio un tal pensiero!
Scosse Baldad la testa e bene intese
D'aver sbagliato via, che l'argomento
Irritava il paziente Patriarca
A buon dritto. Annusò tabacco ancora,
E riprese :
^ Sta ben. Non ti contrasto
Che questi metafisici sfratati
Che pendon tra il Gioberti e il Bellarmino
Sono poco di buon: non ti contrasto
Ch'a la filosofìa recan vergogna.
Lupi nel bell'ovil, maiali in chiesa.
Ma più su de' tristissimi Licei,
Ne l'Università ce n'è dei buoni.
142
Giobbe un poco ghignò, quasi dicesse:
Maschera, ti conosco; indi rispose,
Grattandosi col cocciO; in questi accenti:
— Oh, se tu mi trovassi
Due filosofi sol che sian d'accordo,
Un soldo ti darei quando l'avessi;
Quando da l'Apennino
In Toscana discendi e alfin t'appressi
A la bella Fiorenza in ferrovia,
Una stazion tu vedi
E grida il conduttor Ponte a Bifredi.
Una antica leggenda
Dice che a far quel ponte
Fur pochi e mal d'accordo.
I filosofi son simili a quelli;
Sono pochi e si prendon pei capelli.
Laggiù dove il Vesevo al ciel turchino
Lancia boando la sulfurea vampa,
Dove sorride il mare, e dove il vento
Degli aranci l'odor toglie a Sorrento,
Scherzo de la natura,
Hegel stanza secura
CANTO III. 143
Ora trovò, mentre Spaventa e \'cra
Se ne fer sacerdoti e turcimanni.
Filosofo beato, ei che già disse
Di non capir sé stesso,
Ha ritrovato adesso
Chi pretende capirlo e chi lo spiega !
Strano ! S'avvolgon in tedesche nebbie
Del caldo mezzodì gli ardenti figli;
Fino il senso comun rovina in basso;
Dove Vico pensò scrive Galasso!
È ver che tuttavia
Anche il rovescio c'è della medaglia
E la filosofìa
Come le giubbe ha il suo rovescio anch'essa.
(Tanto è ver che i filosofi son noti
Per voltar giubba spesso.)
Come percote ben su gli avversari
Le mistiche vesciche il gran Fornari!
0 gloria della Chiesa,
0 decoro di Roma,
Dimmi, quando scrivevi
Quelle tue pappolate in quinci e quindi
Se allo specchio vedevi
La cara l'accia tua, di' non ritk-vi'i
114 GIOBIiK.
La tua Vita di Cristo
Vinse Strauss, Kcnan, vinse la prova
Contro Germania tutta.
Un libro come il tuo mai non si vide
E clii se lo ricorda ancor ne ride.
0 dolce terra, dove
Crescon gli aranci sotto il sol fiammante,
Perchè tanti filosofi produci?
Ti vendiclii di noi? Glie t'abbiam fatto
Che tanti pazzi tu ci mandi a un tratto?
Non ci son Manicomi e non prigioni
Di là del Garigliano
Per questi vizi del cervello umano?
Mandaci quel che vuoi, per tutti i Santi,
Ma filosofi no. Meglio i briganti.
— 0 Giobbe, Giobbe, tu ciurli nel manico —
Il Subita riprese in versi sdruccioli.
— Tu che pel mondo vai lodato e celebre
Per la tua sofferenza pazientissima,
Tal che potresti dar de' punti all'asino,
Invece quando parli de' filosofi
Velenoso ti fai come una vipera !
CANTO III. 145
Che t'hanno fatto? Se tua moglie torsero
Dal diritto cammin, tu sai benissimo
Che ponno in questo somigliar la gocciola
Che il mar non fa calare e non fa crescere.
Se, parassiti, a' pranzi tuoi papparono
Come affamati e grazie non ti resero,
Se si fecero dar quattrini a prestito
E di restituir dimenticarono,
Se dopo averti dedicato articoli
Libri, trattati, scritture ed opuscoli
Per cavarti un regalo, ora ti lasciano.
Anzi ti fuggon come cane idrofobo.
Non accusarli, no, d'ingratitudine.
Questa si chiama indipendenza d'animo :
La più bella virtù d'ogni filosofo !
Deh, non pensare, non pensare agli uomini
Che per natura lor son tutti fragili,
Ma rivolgi il pensier piuttosto a l'opere
Per cui son fatti giustamente celebri.
Pensa alla fama di color che insegnano
Nelle Università, fama che il merito
Agguaglia, e gli stranier quindi c'invidiano
Questa illustre falange di filosofi.
Cinque o sei mila lire essi riscuotono
146 GIOBBE.
Dal Governo, ed è poco se consideri
Che sperticato onor fanno a la patria.
Baldad così parlò. Giobbe rispose :
— Li conosco anche questi,
E davver sono senza fine illustri !
0 gran celebrità dei Bertinaria,
Dei Corico, dei Eagnisco,
Bobba, Salterio, Allievo, Paganini,
D'Ercole, Lazzarini,
Che levi in alto i vanni !
0 gran celebrità dei Bonatelli
Ovver del sacerdote Di Giovanni!
0 Cameadi sublimi
Chi mai di voi parlar sentì, due passi
Fuor de la scola *? Confessar conviene
Che il pubblico denaro è speso bene!
0 quanta brava gente
Che il meglio che facesse
Fu di non far niente!
CANTO III. 147
Bàrbera almeno coi volumi grossi
Il calcolo raddrizza
E rivede il latino
A Lagrangia ed Eulero,
Segno di plauso altissimo e sincero.
Ed il buon Fiorentino calabrese
Lascia di specular l'ente e l'idea
Per far de' libri storici, migliori
De le panzane degli altri signori.
E il Passaglia che fa? Transfuga odiato
Da tutti, pensa a le solinghe stanze
Del Gesù dove crebbe ed ha sporcata
Tanta cartaccia per l'Immacolata.
Pensa che se all' o vii fosse rimaso,
Restando gesuita e clericale,
A quest'ora sarebbe cardinale,
E si morde le pugna. — Il Siciliani
Scrive, scrive, riscrive,
E presiede congressi,
Conferenze, adunanze e commissioni ;
Da Vico, ad Hegel, ed a Darwin passa
Ed i sonagli dello Spencer squassa.
148 GIOBBE.
Mamiani intanto la decrepitezza
Onoranda trastulla al Tebro in riva
Pontificando maestosamente
E amministrando i sacramenti ai mille
Filosofastri de' Licei. Battezza
Sul sacro fonte deìV Antologìa,
Cresima nei concorsi,
Lega e discioglie, anatemizza o loda;
E il chierichetto Ferri
Gli dà l'incenso e gli tien su la coda.
Bonavino a Milano
Scordò l'attività d'Ausonio Franchi
Ed i ginocchi stanchi
Gli van tremando già, quasi piegarsi
Volessero davanti al vecchio altare;
A quest' aitar cui sale
La prece clericale
Mal mascherata di conservatrice ;
A queir aitar cui cerca Augusto Conti
Catecumeni invano e sacerdoti.
Arciconsolo illustre, o non vi basta
Il duchista Frullone,
Non vi bastan la Crusca e il Dizionario
CANTO 111. 149
Per favv'i canzonar da le persone?
Alle guagnele, non vi contentate
D'ammaestrarci nel sermon toscano,
Di stacciar le parole
Sqnasimodeo, introcque e a fusone,
A cafisso e a busso e a la ramata,
Garabullaudo in confrediglia a bacchio,
Rozza petarda. Lapi, Nuti, Cinti,
Non son mincioltì perchè sien zenibuti,
Gioie che l'otta non corbava a raffio
Ed altre amenità tolte al Pataflìo ?
Cercate un poco tra i conservatori
Gli sciocchi per le vostre pappolate,
Che, madiesì, che a noi non ce la fate.
Quando jl dottor Baccelli
Trasse don Ardigò da la scoletta
Per farne un spaventacchio agl'imbecilli,
Salirò al ciel gli strilli
Del platonico Bonghi e compagnia ;
E parea (ma pur troppo non fu vero!)
Che fosse morta la fìlosotìa.
Che filosofo il Bonghi I
Così piccino e così picu di tutto!
150 GIOBBE.
Bibliografia, morale,
Politica, finanza, agricoltura.
Diritto, guerra, storia universale,
Medicina, idrostatica, dinamica,
Teologìa, ceramica,
Lingue morte, eloquenza e lingue vive,
Egli parla di tutto e tutto scrive.
Ma il Bonghi almeno, almeno,
Leggendo e rileggendo,
Cercando il verbo in fondo alla facciata.
Tra gl'incidenti lunghi come bisce.
Press' a poco, alla meglio, si capisce :
Ma chi capisce il Trezza
Con quel linguaggio suo particolare.
Se sull'Arno si fa così a cantare?
CANTO III. 151
a Or che i vecchi archimandriti,
Nel carnaio
Seppelliti
Dell'antico polipaio,
Sou ribelli alla gioconda
Chiarentana
Che circonda
L'immanenza spinoziana,
Noi dall'organo sociale,
Esplicato
L'integrale
Del romantico latrato,
Distruggiam l'aspro salterio
Metaforico,
Del pomerio.
Einforzando il clima storico.
152 GioniJK.
Così cada la chimera
Che sostiene,
Lusinghiera,
Le platoniche cancrene
E ritorni alla coscienza
La divina
Conoscenza
Dell'ignota disciplina!
O signori, starà fresca
L'eresia
Loiolesca
Coll'olimpica ironia
De' balordi archimandriti,
Nel carnaio
Seppelliti
Dell'antico polipaio! »
CANTO III. 153
Bella roba, per Dio ! Son questi dunque
Gl'illustri filosofici campioni
Che tengon alto il nome
Nostro in faccia agli estrani*?
Non torcerti le mani, '
Filosofo Suhia, innanzi a questa »
Mediocrità, e sorridi.
Sai la massima mia
Appunto circa la filosofia ?
Quanti meno i filosofi saranno,
E tanto meglio le faccende andranno.
— Odio — disse Baldad — terribil odio,
È quel che nutrì tu contro la bella
Filosofia, contro la quintessenza
D'ogni umano saver ! Tu dunque ignori
Quel che dobbiamo a lei? Pur le dobbiamo
L'ottantanove, cui spianò la strada
La critica. Dobbiamo esser ben grati
Agli encicloi)edisti e a tutti quanti
I critici d'allora. I pregiudizi
Sotto i lor colpi caddero e le mille
Catene de' tiranni! Oh. benedetta
154 GIOBBE.
La critica che insegna il bene e il male,
Che ci addita la via della salute
E della verità!
— Cara la critica ! —
Giobbe ghignò — Non sai che per apprenderla
Non c'è fra noi che un sol trattato? Quello
Dell'onorevol Mazzarella, il serio
Pastor de' protestanti e l'allegrissimo
Interruttor de' Deputati? A lui
Ricorri e ti dirà quanto ci vuole
Per sconvolgerti in capo ogni pensiero
Ed apparir mattoide in sul suo taglio.
Scienza non è la critica, ma meglio
La p^^oi dir l'arte di spacciar sciocchezze,
Verità, birberie, come ti pare.
Cercando di piacer. L'ottantanove
Non lo fece Voltèr. Giacca l'Europa
In un brago di sangue e di vergogne,
E il prete e il nobil, torturando i loro
Schiavi, ne spremean l'oro e la pazienza.
La Du Barry fu di Marat la madre,
E nel Parco de' Cervi il legno crebbe
Al gibetto del Ee. Non le roventi
Pagine di Rousseau bruciar le porte
CANTO III. 155
De la Bastiglia, ma l'ultimo tizzo
De' focolari de la plebe. 0 dove,
Dove stava la critica ne' giorni
De la vendetta? Prorompean le turbo
Ne le vie, ne le piazze, e le campane
Suonavano a martello ed i tamburi
Rullavan cupamente in mezzo a un fiume
D'armi, d'armati e di bandiere al vento.
Un urlo immenso per le vie sonava
E il rombo del oannon, le grida e il fumo,
Saliano al cielo. Rovinava un mondo....
E, dimmi, allor la critica dov'era?
Se vuoi veder la critica che sia
Guardala dove meglio regna. Guarda
Come all'arte s'avvinghia, edera ghiotta
Che uccide il tronco che la regge. Alcuni
L'arte ne fanno d'adular, ma gli altri
Quella di calunniar, tutti poi quella
Di sciorinar corbellerie giganti
A un pubblico di sciocchi. Oh, santa cosa
La critica è di certo se ciascuno
Come la Bibbia a modo suo la tira!
Credi al Molmenti? a Carlo Raffaello
15G GIOBBE.
Barbiera? al Capuana? 0 credi forse .
Al critico maggior di tutti i critici,
AU'Amostante, al gran Cuccù, all' immenso
De' critici Taicùn, al Eapisardi?
ce Sol soletto a la gioconda
Fresca brezza del mattin,
Trema un giunco su la sponda
D'un argenteo ruscellin. »
(Questa strofa scellerata
Tra l'Arcadia e il rococò,
Non son io che l'ha rimata,
Rapisardi la stampò.)
Trema il giunco quando sente
Al suo piò l'onda passar
E si piega docilmente
D'ogni auretta a lo spirar.
CANTO III. 157
Or s'abbassa ed or s'innalza,
Si rivolta qua e là,
Si rannicliia e poi rimbalza,
Né un istante fermo sta.
Era notte ed io sedevo
Sulla sponda al rusccllin,
Aspettando se vedevo
Star quel giunco fermo allin.
<r Su quell'onda all'aer nero
Un pietoso astro brillò;
Venne all'alba un capinero
E così così cantò: »
(Questo è un pezzo troppo bc>llo
Per tacer chi '1 concepì.
È il gran Mario che l'uccello
Fa cantar così così.)
158 GIOBBE.
Disse duuque l'uccellino:
— Giunco, stanimi ad ascoltar:
Tu che in mezzo al ruscellino
Non fai altro che piegar,
Tu somigli tale e quale
Alla critica del dì,
Che si volta al bene e al male,
Oggi al no, domani al si.
Tu somigli a Rapisardi
Ch'oggi loda e doman no,
E scompiscia presto o tardi
Chi la man non gli negò.
CANTO III. .159
- Ahimè — disse Baldad — mio Patriarca,
Hai perduto le staffe e vai cantando
In metro sciocco le sciocchezze altrui!
Ma se nell'arte fé' mediocre prova
La critica, tu sai come si debba
A lei della scienza ogni progresso.
Tu sai quali conquiste a noi concesse
Su l'inerte natura. Oh medicina,
Fin dove non giungesti ? A te la palma
Del progredir fia data. E non stupisci,
Santo Giobbe, in veder quanta grandezza
Oggi la salutare arte raggiunse?
- Grazie, — riprese Giobbe — oh, tante grazie
A l'arte salutar! Pria che da Coo
Ippocrate scrivesse i suoi trattati,
Tutti stavan più sani. Or son passate
Ventitré giuste centinaia d'anni,
E i medici guarir non sanno ancora
Una pi^iìta o un mal di denti. È vero
Che i bacilli trovar nel sangue umano
Da la malaria guasto, e i vibrioni.
Le cellule minute e il protoplasma:
Ma come al tempo di Galen si crcpa.
ICO GIOBBE.
Che importa a noi se un magistero industro
Di combinate lenti e di specchietti
Ingrandisce ogni cosa e ci rivela
Di che mali moriam? Meglio sarebbe
Le malattie guarir che andar cercando
Le parvenze del mal nel ventre ai morti.
0 Mantegazza, igienico maestro,
Lirico de la scienza, a che ti giova
1 crani misurar, saper di quanti
Millimetri il tuo naso d'europeo
È d'un naso zulù più stretto o lungo,
Mentre se ti tormenta un callo al piede
Tu non lo puoi guarir? Che importa i cani
Vivi sparar se se ne impara solo
Quanto l'odio è mortai de le beghine
Fiorentine ed inglesi, a cui le rughe
Più non consenton dei lacchè l'amore ?
E j)ur l'umana asinità di mille
Academie fa pomjia, ove si sdraia
La birberia volgar de'ciarlatani.
La poesia che agl'istrioni è madre
Benigna tanto, vergognossi pure
De le Academie sue, de le sue mille
CANTO III. 161
E ridicole Arcadie. Era destino
Che le sciocchezze dei poeti avessero
Eredi quelli che la poesia
Stiman arte ridicola ed inane!
Quante mediche Arcadie, ove imbecilli
Cavadenti si trattan di chiarissimi,
E tra gl'incensi mutui fan pompa
De la lor vanità che par persona !
Quante Memorie sopra un patereccio
Mal guarito ! Che Note profondissime
Per dimostrare che i purganti in genere
Han virtù purgativa, e render chiara
L'influenza civil dei lavativi!
E pur c'è chi ci crede! Hanno trovato
I bacilli nel sangue, io non lo nego,
Ma più imbecilli hanno trovato ancora.
Oh, le Academie ! La commedia disse,
Le Academie si fanno o non si ftmno,
E sbagliò, che pur troppo se ne fanno
Ogni giorno di nuove, e delle vecchie
Non ne crepa nessuna. Ecco i Lincei
A vicenda grattarsi ! 0, della triste
11
162
Academia francese inutil copia
Chi de'tuoi calvi e piccioletti soft
Osa occupar di Galileo la scranna 1
Dov'è la gloria de'tuoi primi, e il forte
Amor di verità che li movea
A interrogare il ciel sotto i grifagni
Occhi del Bellarmino ? Invan di croci
Questi son carchi e di salari ; invano
Pontifica tra lor Sella, e l'augusta
Gentilezza regal sfida la noia
D'una eterna seduta. Avanti sempre
Pe' radiosi tramiti del vero
Procede l'uom cui l'ale impenna al dorso
La santa Libertà ; procede a novi
Mondi, a vittorie nove.... e voi che fate
Piccioletti Lincei, disputatori
Di strani cocci e d'orinali anticlii?
Dormite al suon de le discorse vostre.
CANTO III. 1G3
Già il Patiiiirca la dolente voce
Cheta ancor non avea, che in alto udissi,
In alto, un inno risonar. Fu questo.
Voce dai manico.^ii-
Giobbe, che prova vuoi
Migliore a giudicar la medicina
Della schifosa lue che t'assassina,
De' guidaleschi tuoi ?
Da Roma, da Bologna,
Da Padova, da Pisa e da Torino,
Chiama gl'illustri a veder da vicino
Cotesta tua carogna,
E se i lor maledetti beveroni
Ti guariranno, chiamaci bufi'oni.
164 GIOBBE.
Ci dicon sventurati,
Dicon clie abbiamo un baco nel cervello,
E con tal scusa a doppio chiavistello
Ci tengono serrati.
Ma chi ci guarda poi?
Certi babbei che van per la maggiore,
Certi dottor che sono, sissignore,
Matti peggio di noi.
Qualcun dei nostri risanar vedrai.
Ma quei signori non guariscon mai.
Ci danno a goccia a goccia
Oppio, bromuro ed altre porcherie,
Studiano sopra noi le teorie
E ci danno la doccia.
Poi, se il dolor ci sforza
A gridare ed a jierder la pazienza,
Ci sentiamo ordinar per penitenza,
La camicia di forza,
E buon per noi se un infermier birbone
Non ci spiana la gobba col bastone.
CANTO III. 165
Eppur questi dottori
Son gli stessi periti criminali
Che vanno tuttodì pei tribunali
A far da professori,
E colla sicumera
Delle parole più straordinarie,
Nevrosi almanaccando ereditarie,
Salvan da la galera,
Per poco che il giurato in lor si fidi,
I ladri, gli assassini e 1 parricidi.
0 sublime Lombroso,
I galeotti sono pur canaglia
Che non t'hanno coniato una medaglia !
Ma non di men famoso
Meritamente vai
Per tutti i bagni ch'ogni giorno illustri,
Sogno d'invidia a' tuoi compagni industri
Pei guadagni che fai.
Per le cause chiassose, ed i felici
Libri die scrivi e le bugie che dici.
166" GIOBBE.
O Patriarca, vuoi
Sapere alfìn dov'è la scienza vera,
E la filosofia la più sincera ?
Te lo diremo noi!
No, la scienza presente
Nell'Università panciuta e grave
Più non sta, ma con noi, qui, sotto chiave.
Credilo, inutilmente
Vendon le Facoltà tanti diplomi....
Sta la Filosofia ne' Manicomi.
CANTO QUARTO
SOPHAE.
Sophar Xaamaniles dixit:
Hoc scio a principio....
Quod laus impiorum brevis sit et gaudium hijpocritae ad imtar
pandi
Job. XX. 1. 4. 5.
ARGOMENTO.
Mattino — Sophai- Naaraanita invita Giobbe a cercare conforti
nella letteratura — Parole di Giobbe — Voce dai Licei —
Voce dai Ginnasi — Voce dagli Asili — Rimedio del roman-
ticismo — I metri difficili — Rimedio cattolico — educativo
— patriottico — I poeti romani — Coro di ciociari — Un
Grande che rimane — I poeti lombardi — I poeti piemontesi
— Medio Evo — I poeti toscani e bolognesi — I poeti meri-
dionali — Gli storici, gli eruditi e i filologi — I dantofili —
Parla Dante — Gli educatori — Le scrittrici — Il teatro — I
prosatori — Sophar prende la parola.
CANTO IV. 169
Poiché tacqiier le voci, in lungo anch'essi
Silenzio assorti, stettero i tre saggi
E il Patriarca.
Si levava il sole
De l'Eufrate al di là, di là dai monti
D'Elam azzurri. Oh, del mattino amica
Ora, quanto sei bella! Un aura molle,
Piena di freschi odor, movea le brune
Chiome de l'alte palme e dai fioriti
Cespugli e da' rosai rapidamente
Si lanciavan gli augei verso il turchino
Firmamento cantando. A poco a poco,
170 GIOBBE.
La città si destava e un mormorio
Lungo e profondo di lontane voci
Dalle mura salìa, misto ai rumori
Delle industri officine e delle incudi
Dai martelli percosse e delle grida
De' mercati. La vita al nuovo giorno
Redìa nel mondo dei viventi, e novo
Desìo di ragionar persuadeva
Ai saggi e novi al Patriarca afiiinni
Seco portava.
Sopliar Naamanita
Che per due giorni avea taciuto, ruppe
Il sapiente silenzio. Era costui
Letterato e poeta, e più volumi
Di ben laudate liriche composti
Avea, col bravo titolo in latino.
Ne' giornali scrivea bibliografie
Critiche, dove malmenava tutti
E sé stesso lodava: onde tenuto
Era il sommo poeta dei Caldei.
fi Giobbe, — così Sophar parlò — vedesti
L'inanità della filosofia
E l'inutilità della politica,
CANTO IV. 171
Tal elle già sei convinto e persuaso
Che conforto al tuo mal non posson darti.
Ma poi ch'io veggo che tu pur di versi
Non sei digiuno e le bellezze intondi
Degli accenti, dei metri e della rima,
Lascia ch'io tenti di persuaderti
A cercare un conforto, una speranza,
Nella letteratura. A te son note
Di Ciceron le belle frasi: Haec studia
Adolescentiam alimi, ei ci disse,
ISenectutem delectant, nientemeno!
Con quel che segue; e l'orator d'Arpino
Non può aver torto. Avrai provato sjxisso
Le possenti virtù di certi libri.
Spesso la noia e la malinconia,
L'insonnia spesso, ti stan sopra. Alloia
Tu prendi un libro, un romanzo, un poema.
Un Giobbe, e leggi!... Oh voluttà! Pei nervi
Irritati e vibranti un dolce passa
Senso di calma clie discende al core.
Si rallentano i muscoli, una molle
Bonaccia a le tempeste del cervello
Succede, e spesso sovra gli occhi scende
Il bciicfico sonno. Oh, quanti e dolci
172 GIOBBE.
Sono i conforti che agli afflitti arreca
Questa figlia di Dio, letteratura ! »
— Sarà — Giobbe rispose — io non lo nego,
Anzi t'accordo che all'insonnia spesso
Griovino certi libri. Ma d'altronde
Ti confesso però, Naamanita,
Che molte volte inducono nell'alma
Una melanconia leopardiana,
Un'amarezza, un tedio della vita,
Che consolar non giova. Oggi i poeti
Non trovan nulla a- modo lor. Le donne
Son tutte traditrici oppur bagascie.
Gli uomini ladri, scellerati e peggio,
E non si stampa un povero sonetto
Dove non sia provato che non vale
La pena d'esser nati a questa vita
Dolorosa e sciupata. Infìn dai banchi
De le scolette la malinconia
Attossica i poeti e tu mi dici
Che consolar mi può la poesia !
CANTO IV. 173
Voce dai licei.
S'oscura Ausonia il tuo cielo, ed il mite
Eaggio del tuo bel sole;
Cessa l'Autunno d'indorar la vite,
L'aprii non ha viole.
La nebbia o la malaria ornai t'ingombra
Dai faggi agli aranceti,
Ma noi perduti nel fango e nell'ombra
Siamo tutti poeti.
E chi al mattino cantò : a Benedetto
Sia Cristo in Sacramento! »
Dopo pranzo declama: <r A me un berretto
Frigio, ch'oggi mi sento
174 GIOBBE.
Di rinnovare il popolo latino
E Bruto sottomano :
Ira dateci e canti e molto vino...
Viva il mondo jiagano ! »
Un altro canta: « Poi che il Padre Eterno
M'iia negato un milione,
Cantiam l'ovgie dell'utero materno,
Le ragazze, il lenone,
E il vin elio non si beve e le marchese
Che si finge d'amare.
La noia femmiuil che segna il mese....
Cantiam pur di cantare. »
a Ecco — vocia la turba — ecco di fronte
L'ideai col reale !
Su, fuori i lumi, abbasso Senofonte,
E il corso liceale! »
CANTO IV. 175
Satto gli occhiali dell'Arcadia mite
Sorridono i vecchietti.
Viva l'antonomasia ed il sorite,
Zefiro e i ruscelletti.
Sotto al riso divin del nostro cielo
L'Arcadia è rifiorita.
I ragazzi che han messo il primo pelo
Son stanchi delia vita.
176 GIOBBE.
Voce dai ginnasi.
Ogni vigor di vita in noi vien manco,
E il giovinetto fianco
Nel tedio ognun di noi vinto abbandona!
Là nel funereo piano
Poserem la tristissima persona.
Come lieta sarà l'ora di morte
A noi che staTichi del fragor mondano
Malediciam la sorte !
Sia trista l'ora, o genitori ingrati,
Che cedeste abbracciati
A le bugiarde illecebre d'amore,
Di quanto pentimento
A voi fonte, ed a noi di che dolore!
Sia così maledetto il sen materno
Che degli esami ci crebbe al tormento,
Maledetto in eterno !
CANTO IV. Itt
Sui mari e '1 pian, sui monti lusingluova
Torna la primavera,
Tornano i fiori al prato, al ciel gli augelli,
E dai colli ridenti
Precipitando cantano i ruscelli ;
Luminoso è il mattin, molle la sera,
Recano intorno i lor profumi i venti...
Ecco la primavera!
Ma freddo è il nostro cor, freddo in un verno
Eigido e sempiterno,
E la vita per noi non ha che aflFanni. —
A noi che amammo tanto
E Siam stanchi del mondo a dodici anni,
Vano è il sorriso di gentil fanciulla!...
Sol nel sepolcro cesserem dal pianto.
Riposerem nel Nulla!
178 GHOBBE.
Voce dagli asili.
Da elle fuggì l'amore
Non trovò più conforto
Il nostro arido core,
E il suo palpito è morto!
Nei teneri cervelli
Muor l'ultimo pensiero...
Aprite nuovi avelli
Nel triste cimitero!
Causa del nostro pianto,
Tu pur sei morta, o Speme !
Andiamo al Camposanto
A riposare insieme !
CANTO IV. 179
- Poveri sciagurati ! — il Patriarca
Esclamò spaventato — E chi di sciocche
Idee li rimpinzò, così che il latte
Hanno dimenticato ed il lattime
Che ancor fiorisce sulle ingenue zucche?
Sono stanchi del mondo? 0 che ne han visto
Loro dai banchi de la scola, dove
Portano ancor le brache fesse e pendalo
Di camicia non bianca un lungo lembo ?
Poveri bimbi ! Essi credono ancora
Che si distinguan gli uomini e le donne
Dalle sottane e dalle brache solo,
E son già sazi dell'amor ! Non era
Questo a' miei tempi do' bambini il vezzo.
Si giocava a buchette o a mosca cieca,
Si rubavan le chicche e qualche volta
Si ricevean le sculacciate. Appena
Qualche barlume a noi di poesia
Del Fusinato discendea coi versi
Mestamente romantici. Ricordo,
Che l'imitavo allor. Sophar, m'ascolta.
180 GIOBI',E.
Sotto il raggio della luna,
Per un tacito sentier,
Una scliiera bruna bruna
Reca un morto al cimiter.
Sovra un panno tetro tetro,
Cinto il crin di vaghi fior,
Dorme Estella sul feretro,
Dorme uccisa dall'amor.
Quando Ugon vestì la maglia
E a combatter se ne andò,
Tra il rumor de la battaglia
Un nemico l'ammazzò.
Mentre un dì pregava Estella
La gran Madre del Signor,
Gliene giunse la novella
E morì di crepacuor.
CANTO IV. 181
0 fiinciulle lusinghiere
Clie ascoltate il trovator,
Non amate un cavaliere,
Fosse pur coiumendator,
Perchè al raggio della luna,
Per un tacito sentier.
Una schiera bruna bruna
Reca Estella al cimiter !
Oh benedetto, Sophar mio, l'ameno
Romanticismo de' verd' anni miei!
Che belle idee! Che metri! Ahimè, che cosa
Sono al confronto quei versacci orrendi
Che giustamente barbari son detti ?
Ricordi tu ^ a Va per la selva bruna
Solingo il Trovatore » = Sopra quel ritmo
Quante romanze anch'io scrissi, al soave
Lume di luna, vaneggiando elmetti
Dame, liuti, brocchieri, tornei
E turchi del color di cioccolata !
182 GIOBBE.
Triste, di lito in lito,
Orbo d'argento e d'or,
Chiuso nel suo dolor
Va l'ammonito.
Ahi, che in un' ora trista,
Spinto dal reo destin,
Rubava il moccichin
D'un farmacista!
Invano ha protestato
Che non pensava a mal :
Il sordo tribunal
L'ha condannato.
L'han messo in una strana
Carrozza cellular,
Lo vogliono portar
A Favignana.
Così di lito in lito,
Oibo d'argento e d'or,
Chiuso nel suo dolor
Va l'ammonito !
CANTO IV. 183
Questi son metri! La sonora rima
Ne la sua maestà le mende vela
De l'argomento. A che tesser sudate
Strofe a la greca, rinnegando il gusto
Dell'Evo medio cui la rima piacque?
Ed anzi, a clie cercar di strane rime
E di versi bisbetici un garbuglio
Per parer stravaganti e come Boito
Infilar versi strambi come questi?
Se tu chiedi
Rime strane
Di due piedi
Tronche o piane,
Non si scusa
L'usa
Musa,
E
Te
Ne
Dà.
i84 Giounii,
L'arte fina
Stava ascosa
Nella China
Portentosa,
Ma trovata
Grata,
Data
Più
Su
Fu
Già.
Solo Giobbe
Di quest'arto
Riconobbe
Ogni parte.
Voi che udite,
Dite,
Dite,
Chi
Va
Di
Là?
CANTO IV. 185
Rime balzane! Eppur sou rime aueU'esse!
Povera poesia, quante nel seno
Omai storile tuo son da recarsi
Nove riforme ritornando al vecchio !
Gemono i pargoletti in versi lunga-
mente dolenti le sventure loro,
I geloni ed i bachi! Udisti il pianto
Senza conforto de' bambocci sazi
Del viver prima ancor d'aver vissuto!
Ma i babbi lor che fanno? A' tempi mici
Che scappellotti sarebber piovuti !
Mancano i pedagoghi in poesia,
Che un giovinastro baccellon non j)ossa
Imparare a rimar quattro scioccluizze
Senza pianger da burla o senza dire
Vituperi alle donne? Eppur ci sono
Casti poeti ancor su questa terra ;
Casti di forma e di sostanza. Vive
Qualche prete quaggiù che canta bene
In canto fermo. Imparino da lui.
186 GIOBBE.
La vita dei giovani
Cessò d'esser bella,
Ma c'è per correggerla
L'abate Zanella
Coi nimbi, cogli angeli,
Con tutti i trovati
Dei preti spretati.
Di nenie britanniche,
Di sacro concime,
Di baie scientifiche
Gonfiando le rime,
Largisce ai proseliti
Del proprio Vangelo
Papaveri in gelo.
Ai cento Lampertico
Del veneto suolo
Gettò sovr'al talamo
Di versi un lenzuolo j
Pudica abitudine
Che piace alla sposa,
Ma molto noiosa.
CANTO IV. 187
E solo in lui trovasi
La santa pienezza
Dei dogmi cattolici
Derisi dal Trezza.
Al mondo ed a Satana
Che sacre pedate
Disferra l'abate!
Tornate a Don Giacomo,
Ragazzi sciupati,
E sotto la ferula
Sarete beati.
Si vive lietissimi
La vita dei ciuchi
Facendosi eunuchi.
188 GIOBBE.
Sembra che parli lui, con quei senari
Saltellanti, affannosi ed antipatici!
II Eizzi almeno scrive meglio, e salvo
Quella sdolcinatura manzoniana
Che affligge tutti i fedeli seguaci
Del gran Lombardo, lavora i sonetti
Per bene. Nocque a lui chiudersi stretto
In una scuola senza luce ed aria,
Che se fortuna gli avesse concesso
Pari all'animo i doni, egli sarebbe
Forse primo tra i primi. Invece appena
Produce pochi sonetti in un anno,
Caro a chi lo conosce da vicino.
Satirizzato a torto da chi vide,
a Come falso veder bestia quand'ombra, »
Un nemico implacabile nel mite
Suo genio. Ascolta un suo sonetto inedito.
CANTO IV. 189
0 colombelle bianche come neve
Che vi posate sovra il tetto i^iio,
Pure siccome gli angeli di Dio
0 della Scuola Siiperior le allieve,
Bianche colombe, deh, non vi sia greve
Far pienamente pago il mio desio
Ed a me rivelar qual culto pio
A questa vostra purità si deve.
Deh, colombelle mie, perchè tubate
Rincorrendovi a coppie sovra i tetti?
Per carità, per carità, non fate !
Basta, basta, lascivi animaletti!
Basta, colombe!... Voi siete passate
Di certo sul giardiii dello Stecchetti.
190 GIOBBE.
Mancano dunque, mancano i poeti
Che possan dare ai giovanetti un filo
Nel labirinto della Poesia
Moderna? Deh, perchè seguir Carducci,
Vituperando la patria comune
E chiamandola vile in duri versi.
Mentre v'ha pur chi di mertate laudi
A lei porge l'incenso in dolci carmi
Dove la melodia regna e governa ì
Vìen da l'eterna Roma un suon di voci
Innocenti che cantan la canzone
Del Placidi. Porgete, itale Muse,
L'orecchio al suon del patrio verso. Udite.
CANTO IV. 191
Viva Umberto, il nostro Rege
Per la cui virtù preclara
Sortì Roma dalla bara,
E l'impero della lege
Sovra noi stende l'imper.
Viva, viva Margherita,
Prediletta sua consorte,
Benefizio della sorte
Che lodiam con voce unita
Al mattino ed alla ser.
Ecco scoppiano i foclietti
Che festeggian lo Statuto !
Niun di noi rimanga muto
Ma cantiamo, o fanciulletti,
La mia bella canzoncin.
Benedetto sia il destino
Che fé' libera l'Italia
Dall'oltralpica canalia !
Viva, viva il principino,
Viva Umberto e la Rcgin!
192 GIOBBE.
Mancan diinqiie poeti ai giovinetti
Quando la bella ancor Scuola Romana
Vegeta, e madre generosa accoglie
Tra le classiche braccia i peregrini
Che d'ogni parte a lei piovono in seno'?
Di là dal Foro, nel chiaror velato
Che piove da le stelle a tarda notte,
Nereggia immensa una mina, il Circo
De' Flavi. Lungo i muti intercolonni
Da l'eriche vestiti, un soffio passa
Come fremito d'ala. Oh, siete voi
Antichi spirti che tornate al mondo
A veder l'opre de' nepoti ? È forse
Quest'aura mossa dal mite fantasma
Del Mantovano, ovver la bianca toga
Passa d'Orazio epicureo pei cupi
Vomitori, cercaudo il podio sacro
Dove le sacre Vergini di Vesta
Sedean ne' veli avvolte? Oh non vedeste.
Ombre divine, per l'arena urlando
Saltar le tigri e sbranar de' cristiani
Lo carni palpitanti ! Oh non vedeste,
Voi morti al tempo del divino Augusto,
CAXTO IV. 193
Germogliar da quel sangue un età nova
E la nostra viltà! Siam Galilei
Dove voi foste cittaclin Eomani,
Soffrire e perdonar la nova legge
Ci comanda. Di là dal biondo fiume
Non vedete salir fino alle stelle
Il cacume d'un tempio? Il novo Dio
Ivi d'oro e di preci un culto accoglie,
Il novo Dio che rovesciò gli altari
Degl'indigeti Numi! A l'ombra nera
Del tempio immenso, fabbrica gl'inganni
E tesse i lacci ai malaccorti un cupo
Sacerdote, che d'oro avido, sogna
La tiara infame ed il cruento regno
De' Medici e de' Borgia. Un dì, riscossa
Questa Italia dal sonno, al capo imbelle
Del suo predecessor levò la mano,
Gli strappò la corona e gliela infranse
Tra gli occhi. Da quel dì la lunga guerra
Divampò più feroce e alla vendetta
Nostra mancan omai pur troppo i forti.
E pochi sono ad animar le schiere
Gli aspettati Tirtei. Veglia il nemico
Dal Valicano e noi lenti in Senato
194 GIOBBE.
Sofistichiam quando Sagunto cade.
0 poeti di Eoma, il vostro carme
Dov'è? Clii mai può de le glorie antiche
Vantarsi erede"? Tra i ruderi immani
Del i)auroso Colosseo, la notte
Passan l'ombre de' grandi e de' poeti,
Mentre a vergogna nostra a pie del clivo
Capitolin, gonfiando la zampogna,
Ballano intorno e cantano i ciociari.
CANTO IV. lOÓ
Canto di ciociari.
Noi Siam venuti ad alternar coi canti
I lieti balli, poiché il ciel s'imbruna,
Tra l'erme torri e i colonnati infranti
Scesi dal monte al lume della luna.
Ecco di squille un tremulo concento
Dal Lateran saluta il dì che muore.
Dolce è la sera e mena intorno il vento
Di mille fiori un indistinto odore.
Voi che i sepolcri antichi, i templi e l'are
Interrogate, postumi profeti,
Voi cui la notte ed il sonante mare
E il ciel confìdan tutti i lor segreti,
Cile non venite a queste fosche mura
L'eco a destar dai minati marmi?
Parlano qui la storia e la natura,
E le stelle dal ciel dettano i carmi.
196 GIOBBE.
Piangi, alma Roma ! — Degli antichi vati,
De' cantor più che umani è il seme spento.
I tuoi poeti ora cantan sdraiati
Nel piccolo Caffè del Parlamento.
Vedi tu là quel che la chioma nera
Sospirando accarezza leggermente "?
De la temuta Erinni petroliera
Amante un dì lo conoscemmo ardente
Ed oggi, come pallido giacinto
Che il turbine schiantò, mesto riposa,
E va così di nova fede cinto
Cantando versi che son vera prosa.
Udiam — Comincia distendendo il braccio:
ff Io m'alzo la mattina di buon'ora,
« Mi lavo il viso ed al bai con m'affiiccio,
ff Veggo i monti che il sol d'auro colora. »
Qui posa un poco, poi guardando in giro :
a Mi stropiccio le mani allegramente,
a Empio la pipa, la prim'aura spiro
« A dujilici polmoni avidamente. »
CANTO IV. 197
Plaudono iutanto i facili scolari
Venuti al Parlamento in turba fitta
Col bardo che trasfuse i lìcfrattari
Del Vallés negli Eroi della Soffitta.
Questi col capo accenna e l'odorata
Ambrosia piove da la bruna chioma.
Freme convulsa allor la fortunata
Schiera ascoltando il tuo poeta, o Roma.
Ei balza in piedi e sovra i capi appare
Dei seduti d'un dito aj^pena appena j
Indi de'carmi suoi prende a versare
L'inzuccherata inesauribil vena.
a In mezzo a un gregge eternamente privo
a De la luce immortai de l'intelletto,
a Miseramente, in mezzo a un gregge vivo,
oc Senza gloria, senz'arte e senza affetto.
E via continua in questo offese ai lieti
Figli d'Apollo che gli corron dietro,
Alzando canti e incensi come 1 preti
Usano al successor del sommo Pietro.
198 GIOBBE.
E che direm di Fabio Nannarelli
Che si pon quinto tra i romani vati ?
E che diremo d'Ettore Novelli
Coi suoi versi cromati e biscromatì 'ì
Deh, basti a Fabio l'encomio lunatico
Di Paolo Emilio Castagnola, ah basti ! —
Sul traditore di Museo Grammatico,
Dai concettini attillatuzzi e casti,
Getti ben altra laude il Bersagliere,
Che su Virgilio e sovra Enotrio il pone
Nelle sgrammaticate tiritere
Patte ad imagin del suo buon padrone.
Eoma piange perchè mira — e ne geme —
Monaci Ernesto colle sue pretese
D'esser linguista, ei che confonde insieme
Col veneto dialetto, il ferrarese.
Piange che il solo a cui largì la sorte
La sacra fiamma, le si fa infedele....
Povero Gnoli condannato a morte
Nel caos de la Vittorio Emanuele!
CANTO IV. 199
Deb, chi consola de la Musa i crucci
Poiché il Governo le ha rubato il Gnoli?
Le frasche forse del vuoto Narducci
0 le prolissità del Giovagnoli ?
0 i sonetti del Eevere più duri
De la carne di bufola senile,
Pieni di zeppe e di viluppi oscuri,
Dove di qua e di là schizza la bile?
È ver che a Eoma venne il gran Coppino
Di cui prima nessun faceva motto;
Ma, dopo il Minister, parve divino
Nel suonare il trombon del quarantotto.
C'è il Massarani co' sermoni suoi
Pregni dell'oppio dell'Antologia....
De' poeti ce n'è quanti ne vuoi,
Ma son di quelli che fan scappar via.
Ahi che ti giova, o Roma, il saper quanti
Sono i mediocri che ti die' fortuna ì
Torniamo ai nostri balli, ai nostri canti,
Innamorati de la bianca luna,
200 GIOIiUE.
Mentre dal Lateran dolce un lamento
Di campane saluta il dì che muore
E tutto intorno va recando il vento
Di mille fiori un indistinto odore.
Giobbe parlava ancor che il Naamanita,
Dimenando le lacche in sul letame
Siccome quei che d'impazienza è preso,
Dava già segno di voler parlare,
Quando una voce misera e nasale
Qual di prete che miagoli la messa,
Lentamente suonò dal ciel sereno:
RUGIT LEO
a Fiancute Nohis boni CathoUci, plaudite Nobis
Eugit Leofortis, cìocis iiidutus adhuc.
Cui macaroiiica regna cretini donarunt
Cantare decet Carmen niacaronicum. »
CANTO IV. 201
I tre saggi con Giobbe, una risata
Sonorissima dier. Ma il Naamanita,
Dopo riso cogli altri un quarto d'ora,
— 0 Patriarca, il mal che ti divora
La carne e l'ossa — disse finalmente —
Ti rabbuia il giudizio e d'atrabile
Te lo intorbida. Dunque a tuo parere
Nessun poeta è in Roma !
— Naamanita
Questo non dissi già — riprese Giobbe —
Che avrei detto bugia. Ve n'iia sol uno,
Vecchio pur troppo, ma giovane sempre
Dell'intelletto; ma non è romano.
Vive il cantor d'Edmenegarda e canta:
202 GIOBBE.
Ahi che s'appressa l'ultimo
Giorno del viver mio,
Che le mie chiome imbiancano
E mi ricordo Iddio !
Un nuovo gel mi serra
Il core antico, e squallida
Mi pare omai la terra.
0 mia diletta patria
Che senza fine amai,
0 madre mia dolcissima,
Che piansi e che cantai,
Chino le bianche chiome
Sul sen materno, e sembrami
Che non morrà il mio nome.
Ne' miei pensier che trepido.
Diffuso aere sereno !
Che piena, indefinibile
Onda di vita al seno !
Sugli occhi miei che presto
Ire e redir d'immagini!...
Io son poeta e resto.
CAKTO IV. 803
Io resto ne le memori
Pagine della storia,
E tra color non ultimo
Che incoronò la gloria.
Vivrò, madre mia bella,
Fin che il parlar degli angeli
Sarà la tua favella!
E dice il ver. Poeta, veramente
Poeta, egli già fu, di cor, d'ingegno,
Ai mal cresciuti epigoni vergogna
Per la costanza del pensier, per l'alto
Intelletto e gl'intenti e le canzoni.
Stanco, posò la combattuta vita
A l'ombra molle di quella corona
Che profetò. Non l'insultate! A lui
Altro sogno miglior non sorridea,
E seduto al tuo pie, candida croce,
Il ìiiine dimittis sussurrò, beato
Che il suo caro ideal sia fatto vero.
Onorate il poeta! Innanzi a lui
Questa superba satira s'inchini.
204 GIOBBE.
0 poeti lombardi e piemontesi,
A voi toccava continuar la scola
Del poeta sublime. Invece appena
Il Cavallotti approssimarlo tenta
Ritornando al Berchet. Perchè le calde
Voci del cor, di meno inculte frasi
Ei non adorna, poi che il verso suo
Sembra sempre cantato all'improvviso ?
Ed il Fontana cui di largo ingegno
Fornì natura, perchè di prolisse
Francescherie lardella il verso strano 1
CANTO IV. 205
Infine giustizia
M'è stato renduto!
Voilato di nebbie
Parigi lio apper<;uto
E la siloetta
Che il domo del Pautron
Nel cielo progetta.
Promenasi il pojiolo
Francese la notte;
Nel fango pietinano
Gommosi e cocotte,
Guardati dai mille,
Col sabre nel fodero,
Sergenti di ville.
Le figlie dell'Opera
Eevando regardo
Che al riso mi movono
Col naso camardo
E le sciagurate
Suivanti di Venere
Che son maquigliate!
206 GIOBBE.
E penso alle pallide
Bellezze natie,
Naife, che ignorano
Coteste lubie;
E penso ai valloni
Là dove fioriscono
Oranffi e citroni.
Chi dunque, là dove il Manzoni sciolse
Gl'inni eterni, redo dal gran poeta
Una sacra scintilla ? Io ti nomai
Già il Massarani e il Kizzi e il feci a torto,
Poiché ciascun di lor se si ricrea
Talvolta a tesser versi o bene o male,
Non professa quell'arte, o sol la tiene
Qual passatempo cui recar non giova
D'ogni possa vital lo sforzo intero.
Già il Baravalle fu, valido arnese
Da fronteggiar tedeschi, ornai dal tempo
Fatto invecchiato e inutil tronco. Un giorno
Si provò l'Arnaboldi e il tepidetto
Carme agghiacciossi ne l'indifferente
CANTO IV. 207
Orecchio dì pochissimi. Ricorda
Alcuno forse le romanze antiche
Scritte nel gusto del tempo che Berta
Filava, in cui fu Carcano maestro,
Ei che tradusse piìi che non intese?
Oh, le romanze brodose e sciapite
Del beato Cantù, chi le ricorda?
E pur cedendo a la malìa di questi
Vecchi orpelli, cercò nel Medio Ev.o
E ne' fantasmi con tanto di barba,
Anche Boito la fama! Antri Abduani
Romantici ancor siete, e il gran Parini
Invan cantò, dove traduce ancora
E traduce, traduce e ritraduce
Il frigido MafiFei ; dove pur tenta
Rammodernarsi il Betteloni ! Oblia
L'antica gloria, i benedetti giorni
Quando bandivi il verbo, oblia, Milano,
I romantici tuoi, morti cui bene
Non furon chiusi gli occhi, e tornerai
La città dei poeti e dell'ingegno!
E più colpevol se', tarda Milano,
Che per l'influsso tuo Torino ancora
208 GIOBBE.
In romantiche fole bamboleggia.
De le sue ciarle improvvisate ancora
L'assorda il buon Regaldi, a cui natura
Florida die la gioventù del corpo
Altre volte, non mai quella dell'estro.
Solo vi tenta Corradino alzarsi
Ad altri cieli, ma sovrano regna
A pie de l'Alpi col Griacosa, il vecchio
Tempo de' trovatori e dei baroni.
Da più che quattro secoli la civiltà latina
Sull'itala contrada giacca vasta mina.
La polvere de' morti e de' vulcani spenti
Avea d'Ausonia tutta coperti i monumenti
E sovi'a le sepolte città la capra errava
E più negra e pungente l'ortica vegetava,
Quando un giorno d'autunno, il sole era all'occaso
Non so se per volere del cielo oppur del caso,
Un giovinetto pallido, pensoso, vagabondo,
Che avea lo sguardo azzurro e come il ciel profondo
Incontrò una sottile e mite verginella
Della camelia bianca più tenera e più bella.
Come agli angeli il nimbo, intorno al suo bel volte
lu lunghe treccie d'oro il crin piovea disciolto.
CAvro IV. 209
Il molle venticello che il profumo dei monti
Coll'ala sua rapiva, il rumor delle fonti,
Lo scintillar degli astri, il languido chiarore
Del crepuscolo... tutto favellava d'amore.
S'accostaron tremanti, spinti da un senso arcano;
Egli gettò il mantello e presala per mano
Le susurrò — Piìi dolce dell' orezza, o mia bella.
Se ondeggian sul mio viso, son le tue bionde anella ;
Più soave del murmure delle fonti è il tuo detto.
Pili del raggio degli astri , fanciulla, m' ò diletto
Quello degli occhi tuoi; più del mesto chiarore
Del cadente crepuscolo è bello il tuo rossore! -—
La giovinetta tenera vinta, al parlar gentile,
Così gli rispondeva con grazia femminile:
0 mio dolce signore, sulla tua fronte bruna
Leggo che tu sai vincere la nemica fortuna,
Leggo che tu sei forte, e, ben che sia scudiere,
Tu sei già degno d'essere promosso cavaliere.
Sento nel cor che palpita sensi d'amor novelli,
E ti guardo negli occhi che sono tanto belli ! —
i strinsero la mano, sedetter sovra un letto
Di muschi e di viole, in riva a un ruscelletto
Ove placidamente corre van latte e miele.
E mentre il rosignolo tlautava le querele,
li
210 GIOBBE.
Un gelsomino bianco velò i soavi amori.
Un quarto d'ora dopo, senza troppi dolori
L'avventurata sposa partoriva un bambino
Come quel della fiaba candido e ricciolino.
Cresciuto un po', coi frati seguiva le lezioni
Del trivio e del quadrivio ed altre purgazioni.
Di Marenco e Giacosa ora è lodato allievo,
Conosciuto col caro nome di Medio Evo.
Così di nenie e di lattiginosi
Idilli è pieno il suol cbe già sonava
De' ferrei carmi tuoi, forte astigiano !
Dove son, dove son gli eredi, i figli
Dell'Alfieri? Chi può ne' risonanti
Patriottici rel}us del Bertoldi
Trovar la rude, ma virile impronta
De' tuoi geni, o Piemonte 1 Ai pochi sciolti
Del profumato ambasciator che l'arte,
Le dame e la politica, del pari,
A Parigi studiava e a Pietroburgo,
Eicorrer t'è mestieri. Almen que' pochi
Versi potranno sollevarti dalla
Proflavie sterminata onde ti coprono
CANTO IV. 211
Due generazion di Siloiata!
Ah, che d'Alfieri voi non siete i figlia
Ma del muliebre PelUco i nepoti!
Ed ora a voi, toscani e bolognesi,
Intolleranti nella breve chiesa
Da voi mal fabbricata! Invan, profeta
Dell'irritabil Giosuè, il Chiarini
Al barbaro evangel scrive le chiose,
Che il novo Giosuè non ferma il solo.
0 che? Lungi dall'Arno, ovver dal Reno,
Più non si fanno versi giusti? 0 forse
L'arte di piluccar dieresi e sdruccioli
È privativa vostra, o cacciatori
Dì versi zoppi? E pur questo poema
Vi potrebbe insegnar che non è vero.
Eccoti, o gran Stecchetti, coi bugiardi
Tuoi vizi, imitaziou d'imitazione.
Che devi la tua fama a un falso morto.
Non è verismo il tuo, ma vitupero.
212 GIOBBE.
Tu nelle carni marce o sanguinanti,
Fingendoti vampiro, affondi l'ugna
E ti compiaci de' solinghi amanti
Descriver tutta la nascosta pugna.
Celebrar le baldracche ed i birlianti
Alla tua sporca Musa non ripugna,
E Dio bestemmi e fai le fiche ai santi
Pien di birra e di vin come una spugna.
Ti fingi virtuoso e ti presumi
Che del pubblico Tocchio temerario
Ad indagar non giunga i tuoi costumi,
E velando col tuo riso bonario
L'avidità per cui tu ti consumi,
Cerchi di diventar bibliotecario.
CANTO IV. 213
Passiam, turando le narici.
0 dolce
Cantator di romanze e laudatore
Di prime donne, cantami Panzacclii,
Cantami, deh, la tua miglior romanza.
Quando le pioggie di novembre e i venti
Batteano ai vetri del tuo ostel romito,
Che mai dicevi alle foglie cadenti
Dai platani del parco intisichito 1
Coll'animo tremante ed angosciato.
Pensavi al nostro amore sfortunato?
0 pur, soffusa di gentil rossore.
Pensavi al nostro sventurato amore ?
Noi so; ma certo la tua cara voce,
Irresistibilmente lusinghiera,
A me pel cielo tornava veloce
Come un notturno di Chopin, leggera: .
E susurrava: a II parco mio negletto
Getta la spoglia ed io non muto affetto;
Il parco verde le foglie ha perduto,
Ma il tempo può mutar, ch'io non mi muto. »
214
GIOBBE.
Come l'imitator di tutti quanti,
Il piccolo Milelli, anche codesti
Non imitò? Toscani e bolognesi,
Passò la vostra primavera, e stucchi
Siamo de' vostri velenosi fiori.
Tutti cadrete nell'oblio che copre
I clamori d'un giorno. Un sol di voi
Vivrà. Vivrà colui che non stimate
Griungervi alla caviglia; il più modesto,
II migliore tra voi. Vivrà il Fucini.
Sophar timidamente il magno sfogo
Interruppe di Giobbe, e a bassa voce
— E Gigi Alberti? — domandò. La bocca
Per un metro quadrato il Patriarca
Spalancò sgangherata e forte rise.
Incoraggiato allor Sophar riprese:
— E al mezzodì non v'ha poeta alcuno? —
— Molti: troppi! — rispose il Patriarca —
Lizio Bruno, i Linguiti e l'Ardissone,
E mille e mille... Ma scompaion tutti
Come la nebbia innanzi al Rapisardi.
CANTO IV. 215
- Ah no — Sophar riprese — Ah no, paziente
Giobbe, non mi seccare un'altra volta
Con questo eterno Rapisardi! In bocca
L'hai sempre e contro lui sempre ti scagli!
Cambia discorso e lascia de' poeti
La filatessa in pace ! Agli eruditi,
Agli storici, volgi il tuo pensiero.
Ai filologi, a quei che dell'inane
Vanto de' carmi non sanno che farsi.
La lingua tua maledica, su loro
Esercita, gran Giobbe. Udir ci è grato.
— E ben, Sophar, tu fai — rispose Giobbe
E ben, Sophar, tu fai
Movendomi a parlare,
Che cose grandi e rare
Poche, ma molte piccole saprai.
Molti babbi ha la Storia,
Come spesso han le figlie
De le belle signore. Il babbo grande,
Il babbo sommo, l'avo forse, è certo
Quel Cesare Cautù che t'ho già detto.
216 GIOBBE.
Cara quella badiale
Sua Storia Universale,
Dove gli error foriuicolan più spessi
Che le formiclie dentro al formicaio!
E benedetta poi
La bella Cronistoria che fa il paio,
Dove abbondan calunnie e vituperi
A questa patria nostra
Dov'ei beve iiacifico e manduca
Gorgogliando gli evviva all'Arciduca!
Ma, se Dio vuol, vedremo
L'istoriografo santo del Concilio
A magno nostro onore
Diventar Senatore.
0 meglio, meglio assai
Il buon Padre Marchese
Che glorifica i suoi domenicani,
0 il matto Leonetti
Che dei Borgia tentò l'apologia!
Meglio le astruserie degli hegeliani
Cucinate nei facili volumi
Dell'illustre Marselli,
CAXTO IV. 217
0 le ingenuità bipedi e implumi
Dell'allegro Massari,
Storico de' più nuovi e de' più rari.
Un giorno io mi sedea
Ne' posti di platea
Del teatro Corea,
Quando al suon de le trombe alto stuonauti
Un atleta comparve. A quel teatro
L'equestre compagnia del Suhr ci dava
Spettacoli curiosi e guadagnava.
Mostrò l'atleta in giro
I muscoli superbi e come piuma
Colla destra levò, tesa, parecchi
Enormi pesi. Sollevò del Broglio
La storia j sollevò, ma con fatica,
Del cruschevol Del Lungo il magno Uino
E del Eaina le Fonti dell'Orlando,
Sollevò pur, sudando,
I libri del Carutti,
Del Vallauri il latino,
218 GIOBBE.
Del veneto Fulin i documenti.
Provò, con molti stenti,
Di levar quelli poi del Bertolotti
E quei dell' Ademollo,
Ma, sciagurato ! si provò pur troppo
D'alzar da terra un dito
Di Sbarbaro un volume e fu servito.
Restò schiacciato come una frittata
E all'ospedal morì nella giornata.
Scende ai lettori stanchi
Sovra '1 petto com'incubo notturno
Lo zibaldon di Nicomede Bianchi,
Ed i lettori casti
Quando voglion dormir per non peccare,
Leggono i libri frigidi del Guasti.
A stento poi riescon a destarsi
Col Villari e col Berti,
Galvanizzati un po' dal Maramaldo
Dell' Alvisi, o dal caldo
Vivo dell'isteria dell' Imbriani
Che brucia sino all'osso
Il pastor Scartazzini ed il Giuliani.
CANTO IV. 219
Dantolìli, dantisti e chiosatori,
Ben avete la faccia di granito
A spararle sì grosse
Ed a far parlar Dante a vostro modo !
Stanco di vostra ciarla
Udite il Sommo che così vi parla.
220 GIOBBE.
Sia maledetto il dì che posi mano
A frugar dentro le segrete cose
Per cavarne il poema sovrumano !
Se il mondo crede a le bugiarde chiose
Che una turba di poveri menanti
Stende, altercando in tisicuzze prose,
Mai pivi ritornerà ne' palpitanti
Petti l'antico italico vigore
Che vive intero ne' miei cento canti.
Fiorenza, madre di ben poco amore.
Me un giorno spinse a mendicar la vita
Fuori dal beli' o vii, qual traditore ,
Né dopo tanti secoli contrita
Farmi l'ingrata, poi che l'insolenza
D'un sacerdote non è in lei punita.
Ostenta al mondo l'ottima scienza
Del mio poema e ne rafferma il testo
Sì che a me negheiia varia sentenza.
CANTO IV. 231
Era il poema mio serbato a questo
Che lo frugasse! Terrazzi e G-iuliani,
Vano il secondo ed il primo indigesto.
Né men pesa colui clie tra i Germani,
Eretico pastor, superbo sfida
I dardi licambei de l'Imbriani;
De l'Imbriani che contento snida
Mille diatribe sul mio nascimento
E vaneggia, e cavilla, e sogna, e grida,
Sciupando l'irritabile talento
A por le corna sovra il capo mio.
Ed a vestirmi d'irta barba il mento,
Tal che Boccaccio ed il Villani ed io
E il Pucci e il cardinale del Poggetto
Facciam ne ie sue carte un buscherìo !
Sia tristo il gondolier che fé' mal getto
Per me del remo, e il vecchio modanese
Col suo drama corretto e ricorretto.
222 GIOBBE.
Sia tristo l'istrione forlivese
Che mi fa scioccamente delirare
In una lingua di nessun paese,
E favoleggia d'un turpe giullare
Che la mia figlia insulta e me grottesco
Apparir fa nel suo matto cantare.
Sia tristo il gregge elvetico, tedesco,
Russo, spagnuolo, francese e krumiro.
Croato, turco, svedese e moresco...
Ah, s'io li veggo dal superno giro
Costor, domando un accidente a Dio
E gli faccio la punta e glielo tiro.
Kazza di scellerati, armento rio
Gonfio di mille impertinenti fole.
Che sì, che sì, ne pagherete il floj
E il Marietti anche lui, che nella mole
Del mio poema numera con cura
Le virgole, gli accenti e le parole!
CANTO IV. 233
Picchierò poi sovra la testa dura
Del catanese che l'onor mi scema
Mostrandomi di stupido in figura,
E trulla in nome mio dentro un poema
Trogolo enorme ripieno di bile,
Di malva, di papavero e di crema.
E punirò la chiaccliiera scurrile
Di chi mi fa cantar, come sentite,
Peggio d'un mascalzon rustico e vile.
Poi quando tante chiose scimunite
Di tante razze e di tante favelle
Avrò veduto tutte incenerite,
Tornerò in cielo a riveder le stelle.
"234 GIOliliB.
Così mi par clie l'anima sdegnosa
Favelli, divampando
Contro i commentator che l'iian tradito,
Gli storici frattanto al gran lavoro
Di contraddirsi sempre tra di loro
Vanno pur faticando.
Spingono su per l'erta
Di Sisifo lo scoglio a le meschine
Forze troppo gran peso. A la fatica
Vedi il vecchio Eicotti,
L'anglo Cavalcasene ed il Franchetti,
Vannucci il venerando e Comparetti.
Sudano il Gozzadini,
L'Amari, il Bertolini
E lo prefetto Zini.
Se la storia civil ò un gran pasticcio,
Dite che sarà poi la letteraria
Messa tutta per aria
Dall'Ascoli glottologo giudeo,
Dal semita d'Ancona e dal Biondelli
Cattolico romano, e dal Malfatti
Che poco crede, e dal Gorresio prete,
Dai dogmi vecchi e dai sogni novelli?
CANTO IV. 225
E dite innanzi tutto
In che lingua parliamo ?
Ha ragione il G elmetti od il Morandi,
0 il D'Ovidio ha ragione?
S'abbaruffano i dotti per sapere
Come parlar dobbiamo,
E intanto son sei secoli precisi
Che si parla italiano in barba ai dotti,
E si parla benone.
Suda il Bartoli intanto e suda il mite
Canello, e il solitario
Zumbini, e Caix e Graf; sudano tutti,
Teza, Monaci, Occioni,
Minghetti, Fornaciari ed altri cento
Tal che la testa agli studiosi gira
Come un mulino a vento.
Ogni scrittorellastro
Impasta un polpetton come i De Castro
E sopra tutti veglia
Il fiero difensor della morale,
Coi grandi occhi severi,
Il puro Baccio Emanuel Maineri.
226 GIOBBE.
Ahimè che baraonda
Menan la storia, la filologia,
I critici, i dantisti ed i pedanti I
Kiddano tutti quanti
Confusi scapigliati e barcollanti.
Tal che chi guarda un poco da vicino
Ad un veglion ripensa del Quirino,
E, l'occhio al ciel converso.
Dolente grida := oh quanto tempo perso ! =
Né l'avvenir migliori a noi prepara
Gl'ingegni, poi che del futuro nostro
Son padroni gli Scavia ed i Parato,
I Berrini, i Mottura e tal maestri
Cui della scola ancor saria bisogno.
Nò d'ingegni men forti educa un sacro
Stuolo la furberia degli Scolopi
Toscani, o il Dazzi, cui la Crusca in seno
Volle pei libri dolciastri e le sciatte
Tavolette pei bimbi, o il padre Ricci,
0 l'Alfani, o quel Tigri a cui Selvaggia
Tanti fischi costò. Dal Eigutini
E dal Tortoli copto e dal Cerquetti
Vagliator di parole, e dal Chinazzi
CANTO IV. 227
Cattolico, apostolico e romano,
0 ilal Bagatta o alila dal Biioiiazia
Che discepoli avremo ì Oh, quante ciarle
Pedagogiche e matte assordan l'aria !
Non studiò Garibaldi agli Scolopi,
Né Dante apprese il verbo a la scoletta
Piena dei vostri metodi minchioni !
Voi ci darete un pojìolo di donne
Dove il miglior poeta appena giunga
Alla Bonacci-Brunamonti, o appena
Segua la Colombini o la Ferrari,
0 la Mancini e l'altre poetesse.
Anzi le gonne vinceran le brache
Se non le vincon già nelle novelle
Leggere e brevi dell'Albini, della
Sperani, di Cordelia e di Neera.
Chi più forte scrittor della Serao,
De la Percoto, o della Pigorini
Doman potrà vantarsi ? 0 chi di dolci
Idiotismi toscani i suoi bozzetti
Potrà spalmar come la Siciliani,
0 dei romanzi giudiziari il nodo
Della Saredo scioglier meglio ? Prima
In archeologia la Lovatelli
228 GIOBBE.
Doman sarà, come sarà la prima
Scrittrice nostra la Colombi. A questo
I pedagoghi alfin ci condurranno.
Al teatro ! al teatro ! Ivi una schiera
Di grandi segue Paolo Ferrari,
L'Aristofane nostro, a cui non ride
Più la fortuna giovenil de' primi
Suoi passi, poi che le serene arguzie
Per le tesi lasciò. Torelli tenta
Riafferrar la fronda benedetta
Dell'alloro, negato dopo tante
Speranze. Un popol di fantasmi sciocchi
Che persona non son, Marenco evoca,
Amaramente ricordando i cari
Tempi della Celeste, in cui la plebe
Dal facile loggion si sdilinquiva.
Chiuso nel suo Castel del Medio Evo
Cesellando Giacosa i martelliani,
Stanca la mano industre, ora che in pace
Ci lascian finalmente i proverbisti
Incipriati, De Eenzis, Martini,
Che con due soli personaggi un atto
Lungo facean : il Conte e la Marchesa.
Chiaves riposa, Costetti riposa.
CANTO IV. 229
Fortis riposa, Pietracqua riposa,
E Giacometti per forza riposa.
Se il Muratori tepido lavora,
Bersezio, spento l'inno del trionfo,
Più non ne azzecca e diluisce in lunghi
Komanzi, ahi troppo lunghi! il bell'ingegno.
Il Carrera sonnecchia e Gigi Alberti
Fa il polemista letterario. Stanco
Il Castelvecchio posa e il Castelnovo
Ai proverbi si ferma. Or chi ci resta ?
Chi degnamente di Plauto ai nepoti
Il miei porge dell'arte e non si caccia
Per altre vie, tentando altri ideali ?
Due solo : il Ferravilla ed il Barbieri.
Il resto dorme perchè vuol dormire ;
Ma nei nostri teatri anche si dorme. —
230 GIOBBE.
Sophar, a bocca spalancata, stava
AscoltaTido le chiacchere di Giobbe
Pazientemente, allor cbe a questo punto
Dalla bile fu vinto ed interruppe.
— Basta, basta, pettegolo maligno !
Non ti par tempo di tacer? Dal nome
Mio va fregiato questo quarto canto
Del poema. Dovrei parlar sol io.
Esser protagonista, orator solo,
E ancor non m'hai lasciato a\)vìv la bocca^
Che maledetta sia la levatrice
Che un dì lo scilinguagnolo ti ruppe !
Lasciami favellar che ho tante belle
Cose da dire. —
— Parla pur — rispose
Il Patriarca — parla. Io non avrei
Nulla da dirti più, fuor che talune
Cosuccie intorno a i^arecchi scrittori.
CANTO IV. 231
Ma non te lo dirò. Vorrei parlarti
Di tutti quanti i nostri prosatori
E mettere in un mazzo coi migliori
I mediocri, i piccini e fin gli scarti ;
Ma dissi mal di tanti,
Che non mi salverian neppur i santi.
Il De Amicis che fa 1 Più s'attendea
Da lui, tenero sì, ma bravo almeno.
Dunque s'addormentò lieto e sereno
Nel dolce nido che si componea,
0 tace pel rimorso
D'aver aperto ai bozzettisti il corso?
Che dì beato, non è vero, Edmondo ?
Che dì fu quello, allor che ti cantammo
II trionfai peana e ti levammo
Su gli scudi sonanti, in faccia al mondo
Primo tra i gloriosi
Nostri campioni. Ed or perchè riposi ?
232 GIOBBK.
Guarda il pali De Gnbernatis, come
Non scoraggiato da fatiche immani,
Non spaventato da latrar di cani,
Manda al futuro, lavorando, il nome ;
Esempio agli scrittori
Nostri che russan sui facili allori.
Lavorate, perdio, ma lavorate,
Boito (Camillo), Fortis, Capuana
Che un libro noi vogliam per settimana,
Ed i poeti d'imitar tentate
Che per nostro malanno
Almeno figlian un poema all'anno.
0 Medoro Savini ! Almen ci davi,
A'tempi vecchi, un tuo romanzo al mese
E sui giornali del mio bel paese
Appendici parecchie insiem stampavi.
Eri tu dunque il solo
Scrittor fecondo in questo nostro suolo?
CANTO IV. 233
Ma ci resta il Barrili, anch'ei fecondo
Scrittor di libri se ce n'è mai stato,
E il Petruccelli che non ha cessato,
Benigno Giove, di piover sul mondo
Articoli, riviste,
Storie e romanzi in lingue mai più viste.
Deh, Jorick, segui ancora a farci ridere,
E tu Sbarbaro caro ad annoiarci!
Jack la Bolina, seguita a portarci
Sovra quel mar che non possiam conquidere,
E tu buon Filopanti
Levaci ancora sulle stelle erranti.
Col De Sanctis partiam pe' cento mondi
Che in ogni scritto suo nuovi discopre :
Studiam col Curci le terribil opre
Ch'egli ci svela de' zelanti immondi,
Mentre il Filippi adesca
Le platee colla musica tedesca.
234 GIOBBE.
E reverenti salvitìam la vera
La viva gloria di Catania, il Verga,
In cui l'ingegno più virile alberga
Di tutta questa Italia romanziera.
Non può la mia malizia
Altro mordere in lui che la pigrizia.
I tre C salutiamo. Il Castelnuovo,
Caccianiga, Capranica e.... vediamo,
Chi più ci resta?... Non dimentichiamo
La Serao che in memoria ancor mi trovo,
E poi.... pensiamo! e poi
Io non ne trovo più. Cercate voi.
E si conclude ? Adagio : andìam coi guanti
Per non offender le riputazioni.
Si conclude che pochi sono i buoni
E molti, ahimè ! moltissimi i calanti.
Leggiam poco, diranno j
Ma quanti son che leggere si fanno 1
CANTO IV. 2'Ó5
— Ahi — Sophar disse — Percliè Dio le membra
Tutte t'imputridì fuor che la liugua ?
Che figura farò presso i lettori
Che s'aspettan da me sì belle cose
E tu sempre mi togli la parola *?
Sono critico anch'io, giudico e mando
Anch'io secondo avvinghio con la coda.
Or ti risponderò. Tutte le sciocche
Impertinenze ricacciarti in gola
Facile mi sarà. Sai, Patriarca,
Ch'io sono illetterato e me ne vanto,
Ma son critico pur de' più stimati,
Ed in cento giornali la mia prosa
Detta la legge. Ti farò un discorso
In sei parti diviso, e nella prima
Ti mostrerò..,.
Giobbe le spalle scosse,
E taci — disse — Il canto è troppo lungo !
EPILOGO
IN TERRA.
Dominus aulem benedixit novissimìs Job, magis quam principio
eius.
loB. XLII. 12.
Et aperuit puleum abyssi.
Apoc. IX. 2.
ARGOMENTO.
Giubbe è trovato giusto e risana — Dio lo annunzia ai ce-
lesti — Feste in Hus — I giornali letterari — Satana vola
incielo — Propone la pace a Dio purché il mondo sia distrutto
— Dio acconsente — L'asino è sellato, e scendono in terra —
Lamento di Dio — Il finimoodo — Canto finale.
GioJJiìE. 239
Vestitevi di rose, aride arene
De l'ardente Caldea! L'ira d'inferno
Lascia la carne de l'orante Giobbe.
Eliphaz Temanita e l'adirato
Sophar con Baldad tornano piangendo
Ad Hus, curiosa de la gran novella.
Col lungo tedio de le discussioni
Politico-morali-letterarie
E col terror de la vicina morte
Non far possenti a sollevar la candida,
Contro il sommo fattore, alma di Giobbe.
Vestitevi di rose, aride arene
De l'ardente Caldea, che la bestemmia
Mai del tentato Patriarca al labbro
Non è salita, ed il Signor perdona.
Quando il Guerzoni che vagava ai prati
Solingamente, vide i dolorosi
240 EPILOGO.
Filosofi tornar, capì a l'istante
Che si trattava d'un rinascimento,
E accorse tosto a darne avviso al Sindaco
Che al Cardinale lo comunicò. —
Intanto Iddio da le superne sfere,
Avuto un telegramma dal Prefetto
Che l'avvisava de la gran vittoria,
Lieto saltò dal letto e ordinò tosto
A le fanfare di suonar la veglia.
Balzano in piedi i santi ed 1 beati
Sonoramente sbadigliando, e corrono
Tosto a lavarsi ne la fonte gli occhi.
Patta così una rapida teletta,
Tranquilli posan su le molle nubi
Al divin verbo dolcemente attenti.
Il Padre Eterno gongolò contento,
Sputò due volte sopra un piatto antico
Di mastro Giorgio che costò al Corona
Molte ricerche, e dopo aver pregato
San Pietro a non fischiarlo con le chiavi
E San Tomaso a credergli in parola,
La destra alzando incominciò a parlare.
GIOUCE. 241
Poicliò a l'alto mio seggio un audace
Scagliò incontro un insulto pagano
Da le plaghe del facile piano
Dove il popolo Etrusco fiorì,
Dall' Averno coll'ascia e la face
Levò il braccio l'eterno Nemico
E, tornato con gli anni impudico,
A insultarmi nel cielo salì.
Non giovò che tentassi coi canti
D'un poema dettato in suo onore
D'ammansar quel terribile core
Che Lombroso può solo scusar,
Non giovò che il mio buon Filopanti
S'agitasse col Dio liberale....
Ahi! lo Spirito iniquo del male
Non giungemmo nessuno a calmar.
Dalle lande cui preme Boote,
Dal superbo cervello del mondo,
E dal suolo di Koma ingiocondo
Già si vede il suo truce baiilior.
16
242 EPILOGO.
Dove passa la terra si scuote,
Trema il cielo ed il pelago rugge,
Ei solleva, sprofonda, distrugge,
Seminando la morte e il terror.
Ma più certa dei premi divini
Pur .non cede l'umana coscienza
E pili fida alla nostra clemenza
S'inginocchia nei giorni del mal....
E per questo dai cieli azzurrini
Come pioggia di candide rose,
Scenderà sovra l'alme pietose
Il conforto d'un bene immortai .
Non prevalgon le porte d'inferno,
E il Nemico lo vide e il conobbe
Quando il corpo e gli averi di Giobbe
Vanamente 43ercosse e guastò.
Che il paziente, fidato all'Eterno,
Sollevando il suo cor dalla terra
Superata ha l'orribile guerra....
Questa bella notizia vi do.
GIOBBE. 243
Come fan l'acque d'un laghetto, quanilo
È in lor gittata una pietruzza, in ceiclii
Luminosi da Dio mossero gli Angeli
E girando ne l'iride divino
Con dolci note presero a cantare.
Il Padre Eterno con San Pietro intanto
Fecero un vaglia di dugentomila
Lire per Giobbe, che in quell'ora appunto
Kinovellato di novella carne,
Sano, ringiovanito e rimbiondito,
Scendea trinciando capriole e salti,
Per miracol di Dio, dal suo letame.
I due primi che a lui mossero incoutro
Fui il poeta e il giornalista, i servi
Devoti ed umilissimi di Giobbe
Quando fortuna gli arrideva. — Il clero
Indi seguiva e in mezzo il cardinale
Gastaldi, a cui tenean de la pianeta
Alte le falde due conservatori.
Dopo di lui, lunghissima di frati
Di suore, d'educande e di beghino
Salmodiava variopinta schiera.
I consiglieri del comune d'Hus
Venivan poi col sindaco Peruzzi,
244 EPILOGO.
Che, con applauso unanime, a la nuova
Città il felice di Firenze stato
Infaticabilmente procurava.
Ma per quanto lavori il buon lettore
Di fantasia, né pure un quarto forse
Può imaginar del popolo festante
Che per le vie, pei floridi balconi,
Per le finestre e i tetti e i campanili,
A la sferza del sol volto a l'occaso ,
Il ritorno attendea del Patriarca. —
Un colpo di cannone e al ciel turchino
L'allegro suon de le campane sciolto
Nunzio che Giobbe dentro a la cittade
Entrava. — Come ne l'estate ondeggia
Solenne al vento il già maturo grano,
La folla accorsa s'agitò, di gaudio
Levando al cielo un risonante grido.
Indi (trascorso lentamente Giobbe
Sotto una pioggia continua di fiori)
Si riversò cantando per le strade
E per le piazze, ove più bande, al lume
Di numerosi lampadari elettrici,
Care tedesche melodie mutavano .
Intanto Giobbe de la sua pazienza
GIOBBE. 245
Coglieva i frutti a pranzo del Prefetto,
Dal quale apprese che la sua consorte
Era morta di tabe a l'ospedale.
Ei non ne pianse : se ogni gaudio Iddio
Gli avea serbato in quel giorno felice,
La fine de la trista a lui dal Ciclo
Era mandata certamente a bene.
246 . EPILOGO.
Il caso, de'più strani e de' più rari,
Fece tosto moltissimo rumore
Ed in tutti i giornali letterari
Si lesser molti articoli ad onoro
Del Patriarca, cui davano il vanto
Di saggio, di magnifico e di santo.
Primo tra gli altri lo cantò il Fan/ alla
Domenicale in un'alcaica adorna,
E tutti quei che non capiron nulla
Si credetter tenuti a dirne corna,
Tal che il povero foglio vilipeso
Calò di fama ed aumentò di peso.
Ma tardò poco a superar gl'intoppi
Con le riviste sue piene di pratica,
Dove conta col dito i versi zoppi
E gli errori di lingua e di grammatica,
E dove espone i giovani al dileggio
Di tutti i calvi che scrivono peggio.
GIOBBE. 247
Al Fanfulla seguì V Illustrazione
Con quattro schizzi grandi e due schizzetti,
E in mezzo, una bellissima incisione
Fatta sopra un disegno del Michetti
Che vi mostrava sopra un foglio intero
Lo sterquilinio copiato dal vero.
E il Supplemento della Piemontese
Sostenne a spada tratta e spron battuto
Che Giobbe era un baron saggio e cortese
Dal più bel Medio Evo a noi venuto;
Ma la Farfalla di Milano invece,
Bohème il disse della miglior spece.
Classico il disse il Preludio d'Ancona,
E la Oronaca immensa Bizantina
Paragonollo in una colonnona
Alla Nerina ed alla Teresina,
Mentre il Costanzo nella sua Fiammetta
Gli dedicò di versi una pol^ìetta.
248 EPILOGO.
L'' Ateneo Bomagnolo sfoderò
Mezzo quaderno di volgarità
Adulatrici, ed in ballo tirò
La donna, l'ideai, l'umanità,
E finalmente il Direttor si dio
Del sublime poeta da per sé.
Lo cantò poi benissimo V Alceo,
Il Faust gli dedicò quasi un opuscolo,
Lo laudar la Libellula, il Torneo,
Il Prometeo, la Donna ed il Crepuscolo,
Il Fan/ani, il BorgMni ed altrettali
Bellissimi ed incogniti giornali.
Lo stesso Don Chisciotte di Catania
Per cui soltanto Rapisardi è Dio,
Ad un tratto fu preso dalla smania
Di lodar Giobbe e fece un buscherìo
E un fracasso così straordinari.
Che giunse ad esitar quattro esemplari.
GioiìUE. 249
E V Opinion del Giovedì coll'avia
Grave che le sta ben, si prese gioco
Della fredda Gazzetta letteraria
Di Firenze, che avea lodato poco ;
E la riprese come si conviene ;
Ma il Fieramosca la difese bene.
Tutti insomma i giornali letterari
Furon pieni d'elogi e di sonetti,
Dall'organ magno del Protonotari
Giù, giù, fino all'anodino Barctti ;
E nel Travaso fin, versi divini
Intonò Tito Livio Cianchettini.
E siccome sbagliar può in cento modi
Anche l'uom meno credulo e più saggio,
Il Patriarca si succhiò le lodi
Come un dovuto e meritato omaggio ;
Ma il fatto sta che ognun l'avea lodato
Per veder di cavarne un abbonato.
250 EPILOGO.
Avea dunque il Signor vinto la grande
Scommessa, che nel Prologo leggeste,
Contro al Nemico. Egli scommesso avea,
Se il ricordate ben, che dal devoto
Labbro del Patriarca un solo accento
Bestemmiator, mai non sarebbe uscito,
Per quanto grave nell'aver iattura
Colpisse Giobbe, o le fiorenti carni
Gli torturasse orribilmente. Indarno
Satana lo colpì. Vennero indarno
Gli amici a tormentarlo. Appena, appena
Gli scappò qualche piccolo perdìo,
Interiezione non maligna. Fermo
Nella sua fede stette e finalmente
Colla pazienza superò l'orrenda
Ira d'abisso.
Iddio la gran scommessa
Contro il Nemico vinto avea.... Nel cielo
Ed in terra per ciò si facea festa.
Stanco però di quegli allegri canti
E dispettoso de l'altrui fortuna,
Da l'Inferno, scuotendo i fiammeggianti
Vanni, Satàn saltò sopra la luna.
GIOBBE. 251
Fisse lo sguardo ne le stelle erranti
Per la volta del elei tacita e bruna,
E volgendolo giù. verso il profondo,
A pena scorse il piccioletto mondo.
a. Folle natura de la schiatta umana
Che l'esistenza di per sé peggiora !
Stolti nati da Dio — disse Satana
Malignamente sogghignando allora —
Se di quassù vedeste la lontana
Vostra microscopissima dimora,
Riconoscendo forse i scerpelloni
Esclamereste : a Come siam buffoni ! »
a E forse (oh sorte ! benché sia già tardi
Per il buon gusto e la letteratura)
Dai poemi di Mario Rapisardi
La società potrebbe andar sicura,
Non vedrebbe così senza riguardi
Intitolarmi una sbrodolatura
Da chi, se la superbia mia conobbe,
Ignora certo l'umiltà di Giobbe. »
252 EPILOGO.
Qui tacque e il guardo all'alto ciel rivolto
Un riso die superbataente altero
Che l'aspetto gli fé' truce e stravolto.
Indi, come colui eh' è in gran pensiero
Tutto ad un tratto ottenebrossi iu volto,
Aperse l'ali e s'innalzò leggiero
Ver la plaga gentil del Paradiso
Eapidissimamente. — Avea deciso.
Nel tempo che tu leggi due parole
Ei del Dio ladro traversò il pianeta j
Baciò Ciprigna e si scaldò nel sole,
E visto Marte da la faccia inquieta
E Giove con le sue bianche figliuole,
La cerchiata guardò massa incompleta
Del Dio che instrusse le romane squadre.
Si mangiò i figli e smascolò suo padre =
Giunto in tal modo al tempio eccelso e pio,
Somigliante a una gran coppa di vetro,
Sorpreso a tanto femminil vocìo
Pensò più volte di tornare indietro:
GIOBBE. 253
Ma risoluto di parlar con Dio
Bussò alla porta e comparì San Pietro,
Il quale, intimorito a la feroce
Vista, si fece il segno della croce.
Satana rise e stesagli la mano
Domandò tosto: a È in casa il Tadie Eterno? -o
Ripreso fiato il santo guardiano,
Mandò a cercarlo per un subalterno,
Tanto per avvisarlo sottomano
Ch'era venuto il sire dell'Inferno
E che pria di venire in parlatorio
S'armasse d'acqua santa e d'aspersorio.
Quando, temente dì novel martoro,
Smorto il messaggio traversò le sfere
Piene di lieti cherubini d'oro
E d'odorose nuvole leggiere,
S'agitò tutto il santo concistoro
E gli si strinse adesso per sapere
Qual tristo caso mai fosse accaduto
Ch'egli era così pallido o abbattuto.
254 EPILOGO.
a Kagazzi miei, rispose, stamattina
Quando ci siamo tutti radixnati
Allo squillar della tromba divina,
La Somma Verità ci ha canzonati!
Di Lucifero è falsa la ruina
E i trionfi di Dio sono inventati: '
Il fatto è fatto; il Diavolo è a le porte
Ed hanno le bugie le gambe corte. »
A le parole de l'ambasciatore
Fu tanta la sorpresa e lo sgomento
Onde agghiacciossi agli altri spirti il core,
Che il Paradiso fu tutto un lamento.
Non può paragonarsi un tal rumore
Che un'altra volta al nostro Parlamento
Quando, concluso che concluderanno,
S'alzano i deputati e se ne vanno.
Il Padre Eterno che su l'aureo trono
Leggendo il Giobbe s'era addormentato,
Scosso da quell'orribile frastuono
Balzando in piedi come trasognato,
GIOBBE. 255
Si fregò gli occhi ed esclamò: a. Dio buono,
Perchè tanto rumor? Che cosa ò stato?
Forse l'adagio conferman col fatto,
Ballano i sorci quando dorme il gatto? »
Dolente allora il messaggier divino
Gli si accostò con lagrimoso ciglio.
Fatta la smorfia solita e l'inchino
De l'imminente l'avvisò periglio
Che con Sat.ana prevedea vicino;
Gli suggerì di San Pietro il consiglio
D'armarsi d'acqua santa o de la paglia
Su cui morì il prigion da Sinigaglia.
A la dura novella il glorioso
Padre fu per cascar subitamente.
A San Luigi s'appoggiò pensoso
Figgendo gli occhi su la mesta gente.
Ma poi di tanta sua viltà sdegnoso,
Alzando il pugno coraggiosamente,
Sclamò con voce ferma al famigliare:
a È venuto Satàn ? Fatelo entrare. »
251) EPILOGO.
Come quando a calmar l'estiva arsura
S'avanza il temporal gravido e lento
E tacita riposa la natura,
Né s'ode voce, ne sospira vento,
A questa decision pronta e sicura
S'acquetarono i santi in un momento;
Però tremanti ne l'incerta attesa
D'un gran perdono o d'una grande offesa.
Satana, avuta la risposta, mosse
Verso il trono di Dio sdegnoso e fiero.
Bench'egli avesse come fiamma rosse
Le pupille e peloso il corpo nero,
Trasaliron le vergini commosse
Al suo robusto portamento altero.
Egli avanzossi e contro al re dei Santi
Queste fiere avventò voci tonanti :
GIOBBE. 257
Dio del mondo,
Se improvviso
Nel giocondo
Paradiso,
Dal profondo
Del Oocito
Son salito
Senz'invito,
Bassicura
Le tue schiere,
E una dura
Non temere
Disventura.
Già l'Audace
Si compiace
De la pace !
Se a trattare
Vengo franco.
Non pensare
Che sia stanco
Di pugnare,
17
258 EPILOGO.
Che al tuo stuolo
Magricciuolo
Basto io solo,
Ma, o collega,
Per dar j)osa
A la bega
Vergognosa
Che ci niega
Ogni aita
Ne la vita
Eimbambita,
Lo strumento
De la pace
Ti presento
Con verace
Pentimento,
Ma col patto
Che sia fatto
Tal contratto:
GIOBBE. 259
Darti in dono
Mi compiaccio
Con Pio nono
Gregoriaccio,
T'abbandono
Quel monello
Del ribello
Don Campello,
Ma tu sire
Con gii squilli
Del Dies ire
I pusilli
Dei punire,
Caccia il mondo
Nel profondo
Finimondo.
Se a trattare
Vengo franco,
Non pensare
Che sia stanco
Di pugnare,
2G0 EPILOGO.
Che al tuo stuolo
Magricciuolo
Basto io solo,
Ma, o collega,
Vo' dar posa
A la bega
Vergognosa
Che ci niega
Ogni aita
Ne la vita
Eimbambita !
GIOBBE. 261
Il Maligno così dava promessa
D'eterna pace a Dio, pur che la terra
Fosse distrutta e il giorno del Giudizio
Fosse de la tenzon l'ultimo giorno !
Gli angeli e i santi, i quali a la proposta
Dolcissima di pace a poco a poco
S'eran venuti rallegrando, aliìnc
Uscirò in grida d'entusiasmo.
Troppo,
A certi santi moderati, audace
La domanda parca, né clie tal fosse
La colpa umana da troncar col iìero
Giudizio estremo. Ma il pensier che dopo
Quel sacrificio, la serena gioia
Del Paradiso dagli avversi spirti
Non verrebbe turbata in sempiterno,
Il moto vinse di pietà che prima
Alcuni petti avea commosso. — Il Sommo
Padre col campanel piìi volto indarno
Al silenzio chiamò la saltellante
Turba, che tacque solo allor che Sàtana
Fischiò col medio e l'indice fra i denti.
Iddio sorrise a l'atto grazioso,
In piedi alzossi e cominciò a i^arlare :
2G2 EPILOGO.
Se da lo siiiagge dove Aclieronto
Volge furioso le fosche areno
Tu mi promotti l'audace fronte
Verso le plaghe del ciel serene
Di non alzar;
In questo istante sul mio asinelio
Nel basso mondo scendo bel bollo
Per giudicar.
Con questo patto l'antico amoro
Forse in eterno confermeremo;
Messo da parte l'odio e il rancore
Gli anni in tranquilla trascorreremo
Felicità.
Mettete il basto su'l mio asinelio
Che ora nel basso mondo, bel bello
Si calerà.
GIOBBE. 2G3
Tutto d'intorno s'agitò il Concilio
D'una sol voce confermando 1 detti
Del Padre Eterno, che i quinari snelli
Avea trattati per non star di sotto
A Satana. — Di poi bene iniitaudo
Il podestà di Sinigaglia, al massimo
Dei presepi del ciel cheto avviossi.
A questo punto narra il Vate, come
« Ivi, poiché dì Giosuè la verga,
Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne,
E impietriti restar di sotto al giogo
I fulminei cavalli, una falange
D'umili sì ma intelligenti onagri
Pasce in greppie d'argento orzi ed avene
Di tal virtìi, che nel lor sangue infonde
Gaio tripudio e giovinezza eterna.
Non appena sentir sopra la soglia
La presenza del Dio, tutti in un punto
Drizzare i colli ed aftilàr le orecchie
Lievemente anelando ; e a lui rivolti
Con dolci e riverenti occhi, la voce
Del comando attendean. Videli il Nume
Lucidi e belli e ne gioì ; ma il cenno
Che tutto può, valse a te solo, illustre
264 EPILOGO.
Asin di Betelemme, a cui su'l dorso —
Premio dell'ojjra onde immortai tu vivi —
Crescon due luminose ali, per cui,
Pregio da tutti invidiato, e solo
Da Dio concesso a le beate essenze,
Varchi il cielo senz'orme e l'aer fendi, b
Satana rise pel grottesco aspetto
Del Nume e del somaro. Indi pensoso
Si tacque forse per virtude arcana
Antileggendo quel che il Vate aggiunge:
« Tu presentisti il divin cenno, ed ambe
Le ginocchia piegando, appo la ferma
Con chiovi adamantini aurea predella,
Offeristi umilmente il dorso alato.
Fé' forza il Nume e vi montò ; si attenne
Con ambe mani a le i^ietose orecchie
Del diletto onigrifo; ai ben pasciuti
Fianchi gli strinse le ginocchia inferme,
Gli occhi serrò, diede la voce, e via
Lascia il cielo. » Satàn dischiusi i vanni
Dietro gli venne e in un minuto appena
Scesero insiem su l'Etna fiammeggiante
Dove, de' versi ch'io v'ho detto, ancora
Eipetea l'eco le trullanti voci.
i
265
Era il mattino e il sol da le tranquille
Onde dell'Ionio mar salìa, celando
La faccia d'oro tra le nebbie, quasi
Presago dell'orribile sciagura.
Satana allor rivolto a Dio: — M'aspetta,
Sclamò, su questo vertice nevoso
Mentre ch'io scendo pel cratere al fosco
Mio regno a sollevar l'orde seguaci.
Quando sui Monti Bossi e la Buina
Vedrai di fumo sollevarsi al cielo
Un orrido pennacchio, allor col cenno
Dagli angeli che già calan da l'alto
Invoca il grido mistico ed i sette
Tuoni con la fanfara de la Morte. —
Disse e tuffossi nella Cisternazza.
Il Padre Eterno si guardò d'intorno
E quando ascosa fra i vapori scorse
Appena appena la vocal Catania,
Dal divin petto un ^ran sospiro all'aere
Mandò esclamando: — 0 povero figliolo
(Forse in quest'ora di già curvo sulle
Sudate carte del tuo Giobbe !) ascolta.
Se fra poco l'umil tetto campestre,
"i8
266 EPILOGO.
Picciol peso a la terra, e ad esso in giro
Di contro a Mongibel le brevi aiuole,
Caro asil de'tuoi sogni ed ara insieme
Ove talor sagriflchi a le Muse,
Saranno invase da l'ardente lava,
Non creder già che men clemente e giusto
Iddio sia teco. Una maligna forza
M'astringe a tanto onde aver pace in cielo.
Però non disperar, che fra i beati
Un aureo seggio non saprò negarti.
Da quando bimbo a la romita pieve
Col cuor gonfio di preci e di paixre
Movevi, ai giorni che proruppe in nitide
Forme dai torchi il soliloquio estremo
Del primo che per la cristiana fede
Morì schiacciato da profane selci
Con simpatico sguardo io ti seguiva.
De la tua Palingenesi ì vocali
Papaveri gustai che t'han fruttato
Laudi dall'Hugo che il tuo idioma ignora.
Il giulebbe gustai de'catulliani
Tuoi tradimenti e ia travestitura
Di Lucrezio e le care Bicordanze
Così piene di zucchero e di brodo.
GIOBBE. 207
Mi canzonasti un po' nel tuo Lucifero,
Ma poi ch'io so come d'un core ingrato
Ti feci dono, non me n'ebbi a male.
È tutta colpa mia. Stavi facendo
La tua serena concezion del Giobbe,
Quand'ecco stretto da promessa e vago
Di finir ne la pace i vecchi giorni,
Sto per frangere il mondo. Oh, poveretto,
Chi ti darà l'applauso e le corone
Che omai ti promettevi? Addio corone.
Cattedra addio, scolari buonanotte !
2G8 EriLouo.
Eri superbo ; il so. Tu ti credevi
Il primo, il solo vate,
Ed orgogliosamento sorridevi
A le turbe prostrate.
Davi il bìblico crine in proda al vento,
Il tuo crin di Sansone;
Portavi il capo come il Sacramento
Quando va in processione,
Meravigliando nel superbo orgoglio
Di non veder persona
Che venisse a condurti al Campidoglio
Per cinger la corona.
E sorridevi amaramente a questo
Secoletto birbante
Che non conobbe in te, troppo modesto,
Il vincitor di Dante.
GIOBBE. 2G9
Insuperbivi in te d'aver domato
L'empio Enotrio Romano
Con un solo tuo cenno, accompagnato
Da un sonetto sovrano.
Insuperbivi, e ben ti si conviene,
D'avergli steso accanto
De Gubernatis, che ti fé' del bene
Senza menarne vanto.
Eri forte, eri grande, eri sublimo,
0 mio figlio diletto,
E i gravi sciolti e le stitiche rime
Ti prorompean dal petto.
E i critici toscani ed i lombardi.
Vinti dallo spavento,
Sottoscrivean per te, mio Rapisardi,
Per farti un monumento.
270 EPILOGO.
E colà dove l'Arno al mar dicliina
Tra una gente civile,
Lambendo il pie della città regina
D'ogni arte più gentile,
Tal si trovò che su le Sacre Carte
Piegò la testa scema,
E per tua gloria e per l'onor de l'arte,
Figliò questo poema.
Non ti doler se ti par fotto male
E con ritmi diversi ;
Pensa che il nome tuo sarà immortale
Solo per questi versi.
Rovineran de' sciolti tuoi le some
Del muto oblio nel fondo.
Ma in questo Giobbe durerà il tuo nome
Malgrado il finimondo !
CIOIiRE. 271
Ed ecco udissi ne' crateri un rombo,
Indi un tremuoto orribilmente scosse
Da le radici il monte. — Intorno, intorno
Dai pili remoti abissi de la terra
Di ceneri, di pomici e di eassi
Scagliata al ciel profondo una rovina
Velò la luce de l'estremo sole. —
Negli ardui templi, per le vie, pei fóri
Già illuminati dal baglior d'Averuo
Corron piangendo forsennato turbe
Di poverelli ad invocar dal cielo
Di non commesse crudeltà perdono.
Tutto sordido il crin, squallido il viso,
Chi un giorno bestemmiò, giace tremante
A piò dell'ara ove sorride immota
L'imagine di Dio. — Qualche poeta
Che un dì la penna nei sereni gorghi
De le pagane correntie deterse
Impreca a Giove e all'ora che su l'orme
Il piede mise de'ribelli eterni.
272 EPILOGO.
Seduti intanto il Sommo Padre e Satana
Sopra le lave de l'etnèo cacume
Col telescopio si godean l'orrenda
Vista ridendo a crepapelle, tanto
Che il fiero Sire avea negli occhi lacrime
Di fuoco ardenti e profumate l'altro
Goccie di purgativa Zoedóne.
Certo men lieti su la stessa cima
Non si posaro gli alpinisti, dopo
L'aspra salita e il pranzo onde il Comune
Si dissestò di Biancavilla.
Il settimo
Sigillo apriva del misterioso :
Libro l'Agnello su nel ciel. — D'intorno
Tacque lo spazio per mezz'ora, mentre
Calar d'innanzi al Padre e al suo nemico
I sette spirti con le sette trombe.
Un altro venne e si fermò d'appresso
Col turibolo d'or pieno di mirra;
E dolio averlo ripetutamente
Dondolato, gittollo sulla terra
Tra una furiosa chioma di saette.
GIOBBE. 273
Addio, sereno de le muse albergo,
Culla de l'Arte e figlia prediletta
De la Natura, moribonda Esperia,
Già l'angelo fatai porta a le labbra
La prima tuba e sulla terra lascia
Cader frammiste a una pioggia di sangue
Falde di fuoco che distruggon tutte
Le florid'erbe e gli alberi. — Diviene
Denso qual siero e rubicondo il mare
All'altro squillo — al terzo si tramutano
E i fiumi e i laghi e le fontane e i pozzi
In puro assenzio, onde briachi cadono
(0 degna fine a l'ambizione umana!)
Molti mortali per le terre —
Agli ultimi
Suoni, fioccando come neve in- alpe,
Si sciolsero stridendo i rai dorati
Del sole e i bianchi de la luna ; e apris
lUna vorago a vomitar locuste
Colla corona su la testa d'uomo,
I capei lunghi, i denti di leone.
Coverto il seno femminil d'usberghi,
E di scorpion la coda. — Estremi mossero
I quattro fidi da l'Eufrate, innanzi
274 EPILOGO.
Ai furiosi (lestrier spiranti in negro
Fumo sulfuree vampe ed agitanti
Le pendale ceraste, onde percossa
Giacque l'umanità.
Così fur pieni
I patti che il Signor fe'col Nemico
E le scioccliezze de l'Apocalisse.
Cantan gli spirti sovra le ruine
Dove Catania fu, dove fu il mondo,
E dicon quel che segue in lor favella
GIOBBE. 275
COEO FIXALE.
T;rcx,ptTÒv A£ju.r|T£p
licci Zsvq VTìióy ì.svx'^i
"Ayicq Uèrsp
Bxì.wc, ^a).w^
liizw.
Tov j3apa>.:ffT3v (Jàptov
Maxàptsv Màptov
Mapa/iao),
FlXE.
INDIO E
DEDICA Pag. VII
EPISTOLA D IX
PROLOGO IX CIELO.
Il cielo — Il riposo dell' Eterno — La pace del Paradiso
— Inno conviviale — Il convito — Voce dalle sfere —
Voce dalle nubi — Voce dalle cucine — Voce nel naso
— Il chilo — Le danze — Avvento di Lucifero — Sue
proteste — Risposte dell'Eterno — Xotizie su Gigi Al-
berti e il seppellimento di Pio IX — Giustizia resa —
Notizie di Giosuè Carducci — Notizie di Giobbe — Giobbe
concesso a Lucifero — Voce dei Santi. — Voce delle
Vergini — Voce degli Angeli — Voce degli imbe-
cilli „
CANTO PRIMO
lOB.
Notte — La cena di Giobbe — L'inno del poi>ta — il gior-
nalista — La pioggia di fuoco e la distruzione degli ar-
menti — I Sabei rapiscono i buoi e i Caldei i cammelli
— Ozi di Giobbe — Gli giungono le notizie — Satana
278 INDICE.
gli distrugge la casa e la famiglia e lo copre di ulceri
— Lamento di Giobbe sullo sterquilinio — La moglie di
Giobbe chiede consiglio per divorziare — Dimostrazione
delle donne di Hus Pag. 33
CANTO SECONDO
ELIPHAZ.
Orribile stato del Patriarca Giobbe — È portato allo ster-
quilinio — Apostrofe della moglie — I tre amici — Eli-
phaz cerca persuadere Giobbe che la causa de'suoi mali
sono gli errori politici — Nega il Patriarca e parla da so-
cialista — Voce di poliziotti — Voce di Prefetti — Voca
di Ministri -r- Tentativo di Eliphaz per convertir Giobbe
al clericalismo — Ira del paziente — Voce di frati —
Voce di preti — Parlano i moderati — i progressisti —
i repubblicani — i socialisti — 1 trasformisti — Dubbi
di Giobbe — I gruppi — La tenzone bucolica tra Eliphaz
e Giobbe — Gli Dei minori della Destra — Gli Dei mi-
nori della Sinistra — Gli Dei maggiori della Destra —
Gli Dei maggiori della Sinistra — I giornalisti — Notte
— Voce nel buio „ 67
CANTO TERZO
BALDAD.
Baldad filosofo e suoi studii — Tenta di persuadere Giobbe
a cercare consolazioni nella filosofia — Risposta di Giobbe
— I filosofi de'Licei — Esodo dei filosofi meridionali —
I filosofi delle Università — La critica — L'anacreontica
del giunco — La medicina e le Academie — Voce dai
Mauicomi. . „ 131
INPICE, 279
CANTO QUARTO
SOPHAR.
Mattino — Sopliar Naanianita invita Giobbe a ccrcam con-
forti nella letteratura — Parole di Giobbe — Voce dai
Licei — Voce dai Ginnasi — Voce dagli Asili — Rime-
dio del romanticismo — I metri difficili — Rimedio cat-
tolico — educativo — patriottico — I poeti romani —
Coro di ciociari — Un Grande clie rimane — I poeti
lombardi — I poeti piemontesi — Medio Evo — I poeti
toscani e bolognesi — I poeti meridionali — Gli storici,
gli eruditi e i filologi — I dantofili — Parla Dante —
Gli educatori — Le scrittrici — Il teatro — I prosatori
— Scphar prende la parola Pag. 1G7
EPILOGO IN TERRA.
Giobbe è trovato giusto e risana — Dio lo annunzia ai
celesti — Feste di Hus — I giornali letterari — Satana
vola in cielo — Propone la pace a Dio purché il mondo
sia distrutto — Dio acconsente — L'asino è sellato, e
scendono in terra — Lamento di Di'j — Il flnimondo —
Canto fiuale „ 237
Finito di stampare
il giorno XV del MDCCOLXXXII
alle ore XI e minuti LIX antimerid. precisi
mentre passavano sotto le finestre
un cane ed un poeta
sensa museruola.
Lire Quattro^